CATHERINE L. MOORE JIREL DI JOIRY (Jirel of Joiry, 1969) INDICE C.L. Moore di Sam Moskowitz Il bacio del Dio nero L'ombr...
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CATHERINE L. MOORE JIREL DI JOIRY (Jirel of Joiry, 1969) INDICE C.L. Moore di Sam Moskowitz Il bacio del Dio nero L'ombra del Dio nero Jirel e la magia La cerca della pietra stellare Il paese delle tenebre Hellsgarde C.L. MOORE di Sam Moskowitz E. Hoffman Price, che scriveva per le riviste «pulp» degli Anni Trenta, non si stanca mai di raccontare aneddoti sullo straordinario Farnsworth Wright, direttore di Weird Tales, che scoprì un terzo degli attuali grandi della fantasy, o li aiutò ad affermarsi. Wright, invariabilmente «frugava nella scrivania e mi mostrava un manoscritto», ricorda Price. «I discorsi che faceva avrebbero indotto un ipotetico osservatore marziano a credere che io fossi il possibile acquirente, e Farnsworth l'agente dell'autore!» «Ma il culmine» continua Price, «fu raggiunto nel 1933, quando mi porse il manoscritto di un certo C.L. Moore. «Restai senza fiato. "Santo cielo, Plato (era il mio soprannome), chi è C.L. Moore? Lui, lei, o chiunque sia, è colossale!" Quella fu l'unica volta in cui il mio entusiasmo risultò eguale a quello di Farnsworth. Piantò il lavoro e proclamammo che quello era il Giorno di C.L. Moore. » Shambleau, il racconto al quale si dovette quella vacanza direttoriale, uscì nel novembre 1933 su Weird Tales. Wright lo pubblicò in apertura della rivista e l'effetto che fece sui lettori fu gigantesco com'era nelle previsioni. Una delle reazioni più entusiastiche uscì dalla penna dell'uomo che Wright chiamava «il decano degli scrittori del fantastico», H.P. Lovecraft, il quale scrisse: «Shambleau è grande. Comincia magnificamente, con l'esatta nota di terrore, e con tenebrose anticipazioni dell'ignoto. La sottile malvagità dell'Entità, suggerita dall'orrore inspiegato della gente, è
estremamente poderosa...e la descrizione della Cosa, quando è smascherata, non delude. Ha atmosfera e tensione... meriti rari nella tradizione dei "pulp" caratterizzata da una prosa sbrigativa e allegra e da personaggi e immagini privi di vita. L'unico grosso difetto è la convenzionale ambientazione planetaria. » Shambleau era un trionfo della fantasia, ma a parte questo era un «primo» racconto così straordinario da collocare la sua autrice tra i maggiori autori specializzati del periodo, che includevano H.P. Lovecraft, Robert E. Howard, Clark Ashton Smith e A. Merritt. Presentava Northwest Smith, uno sfregiato fuorilegge dello spazio, svelto nel maneggiare il disintegratore quanto lo erano stati i suoi prototipi del vecchio West nel maneggiare la pistola a sei colpi. Smith era un uomo sulla quarantina, dai freddi occhi incolori, l'istinto omicida, e una durezza psicologica che aveva resistito agli orrori più devastanti. Northwest Smith salva una strana ragazza bruna da un'orda di marziani e la porta nel suo alloggio. Quando lei si scioglie il turbante, le ricade fino ai piedi non già una chioma, bensì una cascata di tentacoli simili a vermi. Nonostante la ripugnanza, lui è sedotto dal suo fascino e, sepolto nelle spire medusee dell'orrore, conosce una sensualità che minaccia la sua energia vitale. L'intervento del suo amico venusiano, Yarol, lo salva dall'oblio estatico. Il ritmo, la caratterizzazione dei personaggi, la ricchezza del linguaggio e delle immagini e i provocanti sottintesi sessuali, tutti trattati in modo superbo, indicavano un talento di altissimo ordine. Lovecraft aveva torto, quando affermava che l'ambientazione interplanetaria dava fastidio. Al contrario, in Shambleau, come in molti altri racconti successivi che avevano per protagonista Northwest Smith, l'ambientazione su Marte e su Venere rendeva gli eventi straordinari assai più tollerabili che se si fossero svolti sulla Terra. Lo stesso Lovecraft, in seguito, finì per propendere in modo più deciso verso la fantascienza, per conferire realtà alla sua tematica dell'orrore. La Moore fu all'avanguardia di una forma ibrida di letteratura, conosciuta come «science-fantasy», resa popolare sulle pagine di Weird Tales da Lovecraft, Clark Ashton Smith, Nictzin Dyhalis e Frank Belknap Long, che faceva qualche concessione più alla scienza che al sovrannaturale nell'esporre ciò che era, altrimenti, la fantasy più sbrigliata. Richiedeva uno stile ricco e colorito, che C.L. Moore possedeva non meno degli altri maestri di questo genere di letteratura fantastica. Il fatto che C.L. Moore era una donna fu tenuto scrupolosamente nasco-
sto ai lettori di Weird Tales. Farnsworth Wright se ne era reso conto, o forse no, poiché il racconto era stato inviato senza commenti. Il vero sesso di C.L. Moore venne rivelato da due autori fan, Julius Schwartz e Mort Weisinger, nel numero di The Fantasy Fan del maggio 1934. Poiché The Fantasy Fan non tirava più di sessanta copie, la notizia impiegò diverso tempo per diffondersi. Ma spesso i direttori delle riviste usavano il termine «l'autore», quando parlavano di C.L. Moore, e questo sembra indicare che sapessero che era una donna ma preferissero non rivelarlo. Sebbene vi fossero state molte brillanti scrittrici nel campo del sovrannaturale - tra le altre, Mary E. Wilkins Freeman, May Sinclair, Gertrude Atherton, Elizabeth Bowen ed Edith Wharton - C.L. Moore era destinata a diventare la più importante autrice di fantascienza, da quando Mary Wollstonecraft Shelley aveva scritto Frankenstein. Nata il 24 febbraio 1911 a Indianapolis, Catherine Lucilie Moore afferma che cominciò a prepararsi alla carriera di scrittrice fin da quando fu in grado di comunicare. «Appena imparai a parlare» ricorda, «cominciai a raccontare lunghe storie confuse a tutti coloro che riuscivo a intrappolare. Quando imparai a scrivere le scrissi, e da allora non ho più smesso... «Fui allevata con una dieta a base di mitologia greca, di libri di Oz e di Edgar Rice Burroughs e quindi, come vedete, non avevo scampo. «Niente poteva frustrare la mia ambizione infantile. Scrivevo di cowboy e di re, di Robin Hood e di Lancillotto e di Tarzan, appena velati sotto altri nomi. Continuò così per anni e anni fino a quando, un pomeriggio piovoso del 1931, cedetti a una vecchia tentazione e acquistai una rivista che si chiamava Amazing Stories e che mostrava, in copertina, uomini con sei braccia impegnati in una battaglia mortale (Awlo of Ulm del capitano S.P. Meek, settembre 1931). Da quel momento mi convertii. Un campo letterario interamente nuovo si schiuse davanti al mio sguardo ammirato, e l'impulso di imitarlo divenne irresistibile.» Entrambi i genitori di C.L. Moore appartenevano a famiglie insediate nel nostro paese prima ancora della Rivoluzione americana, ed erano di estrazione scozzese-irlandese-gallese, con un tocco di francese aggiunto nelle generazioni più recenti. Uno sfondo scozzese-gaelico viene dato a James Douglas, eroe di There Shall Be Darkness (Astounding ScienceFiction, febbraio 1942), oltre a una passione per le ballate scozzesi suonate su un 'arpa marziana al ritmo di melodie venusiane. Il nonno materno era un ministro metodista, quello paterno un medico.
Il padre era progettista e fabbricante di macchine utensili, una vocazione tuttora seguita a Indianapolis dall'unico fratello di C.L. Moore, che nella sua professione ha tenuto il passo con la complessità di esigenze tecnologiche quasifanta-scientifiche. Le malattie afflissero un'infanzia che altrimenti sarebbe stata felice, interrompendo drasticamente gli studi di C.L. Moore in diverse occasioni, tanto che fu necessario ricorrere all'insegnamento privato. Per tutta l'adolescenza fu di salute delicata, e questo le impedì di avere una vita sociale, e la spinse a cercar rifugio nei libri e a creare sulla carta i suoi personali mondi di sogno. Quando la sua salute migliorò, Catherine, una bruna di statura media e dalla bellezza drammatica, si iscrisse all'Indiana University e scoprì di essere molto apprezzata dagli uomini. I balli erano il suo svago preferito e il chow mein rappresentava il culmine della delizia gastronomica. A quei tempi, come disse Forrest J. Ackerman, corrispondente abituale ed ex collaboratore di Weird Tales, i giovani dovevano vederla così: «Catherine la Grande, l'orgoglio di Weird Tales, è due persone! Una, una donna austera, introspettiva, enigmatica; l'altra, una ragazza incantevole, disarmante, gaia.» La depressione economica la costrinse ad abbandonare l'università dopo un anno e mezzo e, nel 1930, fu assunta come segretaria presso una banca di Indianapolis. Dopo l'ora di chiusura, restava seduta nella galleria affacciata sul salone, per nulla turbata dalla silenziosa solennità di quell'istituzione, e scriveva. Il suo primo tentativo come professionista fu rivolto ad Amazing Stories, secondo una notizia apparsa in Weird Whisperings (una rubrica di Mort Weisinger e Julius Schwartz) nel numero del settembre 1934 di The Fantasy Fan, e fu rifiutato dal direttore, T. O'Conor Sloane. Weisinger e Schwartz riferirono che Catherine aveva ammesso che il racconto meritava quel rifiuto: finì nei suoi archivi e non ne uscì mai più. Northwest Smith, il famoso protagonista di Shambleau, cominciò a prender forma nella mente di C.L. Moore come un pistolero western d'un ranch chiamato Bar-Nothing («senza esclusione di colpi»). Catherine racconta di aver composto un poema epico su Northwest Smith nella sua incarnazione spaziale prima ancora di scrivere il primo racconto. Incominciava così: Northwest Smith era un tipo duro,
pugno di ferro ed occhio sicuro... Anche questo poema è finito nel limbo, benché sia possibile che i brani poetici apparsi nei racconti di Northwest Smith siano tratti da quella ballata. Il passare degli anni ha un po' annebbiato i ricordi della Moore per quanto riguarda la storia del primo racconto di Northwest Smith, Shambleau. Tuttavia, c'è una notizia così precisa nella rubrica di Mort Weisinger, The Ether Vibrates (Fantasy Magazine, settembre 1934) che merita d'essere presa in considerazione. Diceva: «C.L. Moore presentò per la prima volta i suoi racconti su Northwest Smith a Wonder Stories l'8 giugno 1933. Furono rifiutati sei giorni dopo... solo a causa della tematica fantastica.» Catherine aveva soltanto ventidue anni quando Farnsworth Wright accettò e pubblicò Shambleau. La perfezione stilistica di quel primo racconto non permette di dubitare della sua affermazione, secondo cui quindici anni trascorsi a scrivere per il proprio piacere avevano sviluppato le qualità artistiche alle quali dovette l'immediato successo. La Moore ricorda che Farnsworth Wright le rifiutò un solo racconto, quello che presentò per secondo. È possibile che fosse Werewoman, una storia della serie di Northwest Smith che non è mai apparsa su una rivista professionale. Fu pubblicata nel numero d'inverno 1938-39 di Leaves, una fanzina ciclostilata edita da R.H. Barlow, un giovane poeta più noto come accolito di H.P. Lovecraft. Ne furono tirate solo sessanta copie da The Futile Press di Lakeport, California. Diversamente da tutti gli altri racconti di Northwest Smith, non è fantascienza né science-fantasy, bensì una autentica fantasia del bizzarro, ambientata in una terra inesistente. Su un mondo innominato, Northwest Smith, ferito, mentre fugge da assalitori imprecisati, viene circondato da un branco di lupe mannare. La «regina» prova per lui un'affinità spirituale e lo salva dalla morte, quando il branco lo minaccia. In episodi di pura fantasia onirica i due spaziano al difuori del tempo in una valle dove un popolo dimenticato, legato da un'antica maledizione, vive ancora un'esistenza spettrale. Northwest Smith distrugge una pietra tombale dalla quale esalano i vapori che assoggettano la valle a un incantesimo e ritorna nel mondo reale, tra il grande stupore degli uomini che lo trovano. Il racconto è scritto in modo eccellente; la sua debolezza sta nella trama inadeguata e nel fatto che esula completamente dallo spirito della serie di
Northwest Smith. Il secondo racconto pubblicato con Northwest Smith protagonista, Black Thirst, apparso su Weird Tales nell'aprile 1934, delinea le caratteristiche del personaggio ancor più nettamente che Shambleau. Le sue reazioni alla minaccia rappresentata dal castello di Minga su Venere, dove le fanciulle vengono allevate selettivamente per la loro bellezza, e la convinzione che il suo disintegratore possa avere la meglio su ogni forza sovrannaturale - una convinzione giustificata, quando alla fine riesce ad annientare Alendar, ultimo esemplare di un'antica razza che si nutre di bellezza illuminano chiaramente le sue particolari qualità. Un accenno al fatto che l'autore potrebbe essere una donna s'incontra quando Alendar, rivolgendosi a Northwest Smith, dice: «Allora compresi da quanto tempo non assaporavo la bellezza dell'uomo. È così rara, così diversa dalla bellezza femminile, che quasi ne avevo dimenticato l'esistenza. E tu la possiedi, sottilmente, in un modo crudo e aspro... dietro il tuo involucro di autodifesa vi sono gli abissi di forza che nutrono le radici della bellezza maschile. » Scarlet Dream, che seguì (Weird Tales, maggio 1934), è in effetti una fantasia onirica, ma la rappresentazione di una terra dove l'erba succhia vampirescamente i piedi di coloro che vi camminano, dove l'unico cibo è un liquido che sa di sangue e che viene bevuto alle fontane di un tempio, e l'unico scopo della popolazione è attendere l'orrore interdimensionale che domina quel bizzarro luogo e che verrà a nutrirsi dei suoi abitanti, ne fanno uno dei racconti più memorabili della serie. Dust of the Gods (Weird Tales, agosto 1934) ci riporta a una forma di science fiction più pura: Northwest Smith e Yarol, il suo amico venusiano, frugano nei labirinti marziani per scoprire i segreti degli antichi «dèi» che fuggirono su Marte quando il loro mondo esplose. Tutti questi racconti, tranne l'ultimo, ottennero il primo posto, secondo i lettori di Weird Tales, in concorrenza con le opere superbe di Robert E. Howard, Clark Ashton Smith, E. Hoffman Price, Jack Williamson, Frank Belknap Long ed Edmond Hamilton, costringendo Farnsworth Wright ad alzare la mira nel «cappello» di presentazione per The Black God's Kiss (Weird Tales, ottobre 1934) e a classificare la Moore insieme ad «Algernon Blackwood, Arthur Machen e H.P. Lovecraft». The Black God's Kiss presentava Jirel di Joiry, una regina guerriera del secolo decimoquinto che, catturata e umiliata dal conquistatore Guillaume, entra in una terra d'orrore di un'altra dimensione per baciare una statua nera e, trasmettendo quel bacio a Guillaune, che causa per vendetta la
morte. Quando lo vede cadavere, Jirel comprende che «l'inebriante violenza» che la prendeva al pensiero di lui era ispirata dall'amore e non dall'odio e, vendicandosi, ha pagato un prezzo molto amaro. A modo suo, il racconto è efficace quanto quelli di Northwest Smith. L'abile caratterizzazione della Moore lanciò questo nuovo personaggio in una serie parallela a quella di Northwest Smith e quasi altrettanto popolare. C.L. Moore fu introdotta nelle riviste di science fiction per invito di un giovane e brillante direttore, F. Orlin Tremaine, il quale aveva assunto la cura di Astounding Stories e in un solo anno l'aveva portata al primo posto nel suo campo. Tremaine pescava i migliori autori nelle altre riviste e s'era già fatto prestare da Weird Tales Frank Belknap Long, Clark Ashton Smith, Howard Wandrei e Donald Wandrei. Alla fine sarebbe riuscito a ottenere anche H.P. Lovecraft; ma per il momento la presentazione di Bright Illusion, un romanzo breve di C.L. Moore nel numero di ottobre del 1934, fu un colpo sensazionale. In Bright Illusion, un terrestre viene trasportato in un altro mondo da un'intelligenza potentissima per sconfiggere un'entità che si atteggia a dio. Per permettere al terrestre di agire, la sua mente viene offuscata da un'illusione che gli fa apparire gli esseri e le strutture di quel mondo in forme a lui familiari. Il terrestre s'innamora dell'equivalente aliena di una donna, e questo amore continua anche quando entrambi sono consapevoli del loro vero aspetto. Alla fine scelgono la morte quale unica via d'uscita da quella situazione disperata. Sebbene il racconto sia più science fantasy che science fiction, affascinò i lettori di Astounding Stories quanto bastava per dare una nuova reputazione all'autrice anche in quella rivista. Negli anni successivi Greater Glories e Tryst in Time, scritti nella stessa vena, furono accolti dai lettori con grande favore. I trionfi letterari continuarono anche in Weird Tales: C.L. Moore inviava Northwest Smith a opporre il suo coraggio alle entità allucinanti dei vicini pianeti, mentre Jirel di Joiry, con indomabile ardore, giostrava con i terrori sovrannaturali del medioevo. La successione di racconti - Black God's Shadow, Julhi, Jirel Meets Magic e The Cold Gray God - erano arazzi letterari meravigliosamente intessuti, ma avevano anche qualche debolezza. Il culmine di ogni vicenda trovava Northwest Smith o Jirel di Joiry nella nebbia informe della battaglia spirituale con l'ignoto. Raramente le situazioni venivano risolte da una logica sequenza di eventi; di solito la soluzione era dovuta a una raffica d'ipnotismo retorico. Un rac-
conto che incominciava come science fiction logica precipitava nella fantasia perché quella era la via d'uscita più semplice da una situazione difficile. Una vicenda che incominciava come una fantasia dichiarata veniva puntellata dalla scienza quando non era più possibile sostenere una «voluta sospensione dell'incredulità». La battaglia si svolgeva sempre contro il male, ma la causa della luce era difesa da un eroe o da un'eroina che erano a loro volta macchiati dalle colpe dell'umanità. In nóme di questa onestà della caratterizzazione si potevano perdonare molte cose. Un racconto di Jirel di Joiry, The Dark Land (Weird Tales, gennaio 1936), era illustrato dalla stessa C.L. Moore. Ufficialmente mostrava Pav di Romne, principe delle tenebre, che desidera fare di Jirel la sua regina, ma in realtà il disegno era stato eseguito molti anni prima ed era servito come modello per il temerario Guillaume di The Black God's Kiss. Northwest Smith e Jirel di Joiry avevano spesso romanzi sentimentali, sempre strani e bizzarri. Qualcosa del genere stava per capitare alla stessa C.L. Moore. Nel marzo 1936, Weird Tales pubblicò un racconto sconvolgente, The Graveyard Rats, di un fan della fantascienza che si chiamava Henry Kuttner. Kuttner ammirava moltissimo l'opera di C.L. Moore ma, timido com'era, non aveva avuto il coraggio di intavolare una corrispondenza. Quando H.P. Lovecraft gli chiese di restituire a C.L. Moore certi libri dopo averli letti, Kuttner approfittò dell'occasione; inviò una lettera a Weird Tales con la preghiera di inoltrarla a Mr. C.L. Moore. La risposta di Miss Catherine Moore fu per lui un'enorme sorpresa. Kuttner, che era nato a Los Angeles, viveva allora a New York con la speranza di diventare scrittore a tempo pieno, ma faceva frequenti viaggi in macchina fino alla Costa Occidentale. S'incontrarono per la prima volta nel 1938, quando la Moore andò in vacanza in California. Si videro in tutto cinque volte in due anni, quando Henry Kuttner andava avanti e indietro in macchina tra New York e la California: il resto del loro fidanzamento si svolse per posta. «Le sue lettere erano deliziose» ricorda la Moore. «Le ho conservate tutte.» Da uno di questi incontri spuntò l'idea di una collaborazione, un racconto che mettesse insieme Northwest Smith e Jirel di Joiry. C.L. Moore aveva già scritto un lavoro in collaborazione, e precisamente Nymph of Darkness, insieme a Forrest J. Ackerman, un racconto della serie di Northwest Smith pubblicato su Fantasy Magazine nell'aprile del 1935: oggi è un pezzo da amatori, perché era illustrato dalla stessa Moore. In quella
precedente collaborazione, Ackerman aveva fornito l'idea di una ragazza invisibile che chiede l'aiuto di Smith, e la Moore aveva scritto il racconto. Nella nuova collaborazione, la Moore e Kuttner decisero di mettere in comune la trama e la redazione. Il risultato uscì con il titolo di Quest of the Star Stone su Weird Tales del novembre 1937. Sebbene ottenesse il primo posto in classifica per quel numero, non era un gran bel racconto, poiché i consueti difetti erano più vistosi che mai. Per mezzo della necromanzia, un mago riconduce Northwest Smith e il suo amico venusiano, Yarol, nel secolo decimoquinto, per strappare a Jirel una pietra stellare che porta al collo. Era memorabile il preludio all'avventura, quando Northwest Smith, con «una voce baritonale sorprendentemente bella» esprime la nostalgia dell'esilio cantando The Green Hills of Earth (Le verdi colline della Terra), che incomincia così: Aldilà dei mari di tenebra rifulge la verde Terra... Oh, stella che eri la mia patria, brilla su di me stanotte... e finisce: ... e conta le perdite che val la pena di subire per veder nella tenebra le verdi colline della Terra... Quando Robert Heinlein lesse il racconto, non dimenticò più la frase, che divenne il titolo di uno dei suoi racconti più famosi e di una raccolta, The Green Hills of Earth. C.L. Moore e Henry Kuttner armonizzarono fin dal primo momento, ma il loro non fu un romanzo turbinoso. Henry non aveva l'aspetto di Northwest Smith. Era magro e aveva un viso comune e un carattere riservato. Economicamente, la situazione non era favorevole. Henry stava appena incominciando la sua attività di scrittore e il paese era in uno stato di acuta depressione. Tuttavia, ogni volta che viaggiava tra Los Angeles e New York, Henry Kuttner si fermava a Indianapolis. Alla fine, C.L. Moore concluse che «sarebbe stato molto noioso essere sposata a un uomo come Northwest Smith. Henry Kuttner, come mostrano i suoi scritti e come potevano testimoniare
i suoi amici, era meravigliosamente acuto e ricco di risorse, aveva una mentalità fresca ed era molto, molto divertente. Credo sia il suo spirito, ciò che molti di noi ricordano con maggiore nitidezza. Ma aveva anche quella forza tranquilla e quella disciplina che ho notato in pochissime altre persone e che mi ispirano un enorme rispetto. In questo campo, credo, si può trovare una somiglianza tra l'uomo vero e il personaggio letterario.» Si sposarono il 7 giugno 1940 a New York e vissero per circa un anno in quella città prima di trasferirsi a Laguna Beach, in California. Quando scoppiò la guerra, Henry Kuttner, al quale un soffio al cuore impedì di venire assegnato in servizio oltremare, entrò nella Sanità e fu inviato a Fort Monmouth, nel New Jersey. E dal 1942 al 1945, Catherine visse nei pressi, a Red Bank. Dopo il loro primo incontro, erano apparsi pochi racconti nuovi di C.L. Moore. Dopo la collaborazione, Quest of the Star Stone, apparve un solo racconto di Jirel, Hellsgarde (Weird Tales, aprile 1939); e un breve frammento, Song in Minor Key, sulla fanzine Scienti-snaps (febbraio 1940) sul ritorno di Northwest Smith alla Terra, calò il sipario su questo personaggio. Per C.L. Moore si stava concludendo un'era. Vi sarebbero stati alcuni racconti di transizione, ma il romanzesco allo stato puro era finito. La svolta si ebbe indubbiamente con Greater than Gods, pubblicato su Astounding Science-Fiction nel luglio 1939. C'è un contatto con un uomo proveniente da due probabili mondi futuri, che deve scegliere la strada destinata ad assicurare la loro realtà. Il tema è maturo e commovente, la scrittura forte e diretta. La vitalità della trama sta nel conflitto emotivo, che non viene sminuito dal finale, nel quale il protagonista sceglie una terza strada e annulla le possibilità di entrambi i due «mondi del se». Qualunque fosse la ragione della scarsità della sua produzione tra il 1936 e il 1940, la rarità dell'apparizione del nome della Moore dopo la fine del decennio fu dovuta alla collaborazione nata tra lei e il marito. Un aneddoto che si racconta di loro illustra chiaramente il metodo. Henry Kuttner, che diventava quasi un recluso quando si metteva a scrivere, s'era addormentato, stanchissimo, senza finire un racconto sul quale stava lavorando. Catherine entrò nella stanza, lesse il manoscritto e quando Henry si svegliò trovò il racconto ultimato sulla scrivania. Lui era forte negli inizi, lei era poderosa nei finali, e si sviluppò così una specializzazione nella quale ognuno compensava le debolezze dell'altro. Usarono qualcosa come diciannove pseudonimi, tra cui Lawrence O-
'Donnell, Lewis Padgett, C.H. Liddell e Kelvin Kent. Le collaborazioni erano così complicate che dopo un po' i due interessati non sapevano più dire dove finiva uno e incominciava l'altra. Uscivano tuttavia, di tanto in tanto, alcuni racconti che erano di C.L. Moore quasi al cento per cento. There Shall Be Darkness, pubblicato su Astounding Science-Fiction nel febbraio 1942, era appunto uno di questi racconti, scritto in uno stile che segnava un ritorno alla Moore di Northwest Smith. Nella vicenda appare la potente bevanda venusiana, il whiskey-segir, e la storia è un parallelo della caduta dell'Impero Romano, con la Terra che abbandona le sue ultime colonie per affrontare l'assalto dei barbari interplanetari. La Moore fu una delle prime ad adottare una tendenza che pochi mesi dopo avrebbe visto nuovi scrittori importanti come A.E. van Vogt e Isaac Asimov divulgare il concetto di imperi interplanetari e interstellari. La storia di transizione più drammatica e potente della Moore fu senza dubbio il romanzo breve Judgement Night, pubblicato in due puntate da Astounding Science-Fiction a partire dal numero dell'agosto 1943. Un impero galattico comincia a sfasciarsi, e una principessa del regno dominante cerca l'amore e la morte su un satellite artificiale in orbita intorno al suo mondo. La descrizione dell'attività di questo «satellite del piacere», Cyrille, è veramente ispirata. La vicenda è composta con una ricchezza d'immagini che ricorda Jirel di Joiry e la trama è affidata all'azione, ma introduce un messaggio contro la guerra carico di nobile efficacia e presenta un essere alieno, l'Ilar, con l'abilità di un Weinbaum. A partire da quel momento, sarebbero stati pochissimi i racconti che non portassero nella loro composizione almeno una traccia della personalità di Henry Kuttner. Tuttavia, tra quelli che C.L. Moore potrebbe chiamare più suoi, Children's Hour, pubblicato con lo pseudonimo di Lawrence O'Donnell (Astounding Science-Fiction, marzo 1944), e che parla di un uomo il quale scopre che la fidanzata è la figlia di una razza incommensurabilmente superiore, mentre lui è soltanto un compagno di gioco educativo da abbandonare al momento opportuno, è un capolavoro di sensibilità nella trattazione e memorabile per l'originalità. Pochi racconti, nella fantascienza moderna, gli sono superiori. Poco dopo, apparve No Woman Born, storia dell'adattamento mentale di una bellissima diva della televisione, rimasta quasi cremata da un incendio, alla lucente macchina metallica che costituisce il suo nuovo corpo (Astounding Science-Fiction, dicembre 1944); il racconto rappresentò un
tentativo molto difficile che, sebbene non riuscisse completamente, è a tutt'oggi il più ambizioso imperniato su questo tema. Tanto Children's Hour quanto No Woman Born eliminavano l'azione fisica quale metodo fondamentale per sviluppare la trama. Alla fine della guerra, i Kuttner decisero di acquistare una casa a Hastings-on-Hudson, New York. Sebbene avessero soltanto 50 dollari tra tutti e due, si misero al lavoro e in un mese scrissero abbastanza per guadagnare 1000 dollari e pagare l'anticipo. Fu a Hastings-on-Hudson che fu composto il racconto considerato da molti come il più bello di C.L. Moore e uno dei più geniali della fantascienza moderna, Vintage Season. Quando fu pubblicato sotto lo pseudonimo di Lawrence O'Donnell su Astounding Science-Fiction del settembre 1946, fu un trionfo. In Vintage Season, i turisti del futuro tornano in incognito in determinati periodi del passato, prima che accadano certi grandi eventi. Uno di questi gruppi prende in affitto una casa negli Stati Uniti, ma il suo scopo viene scoperto dal proprietario. Rendendosi conto che sta per accadere un evento importante, e forse una tragedia, il proprietario fa di tutto per indurlo a modificare gli avvenimenti, ma invano. Uno degli osservatori, Cenbe, è un genio creativo del futuro, che vuol riportare nel suo tempo le impressioni per una grande sinfonia, mescolando immagini e suoni. La trama fondamentale di questo racconto superbo è stata ripetutamente imitata fin dalla sua prima apparizione. Grazie a racconti come Children's Hour e Vintage Season, «Lawrence O'Donnell» veniva classificato tra i nuovi giganti della fantascienza insieme a Robert A. Heinlein, A.E. van Vogt, Theodore Sturgeon e Fritz Leiber. Era in ascesa anche il nome di Lewis Padgett, la cui opera era prevalentemente di Kuttner. La rivelazione delle vere identità che si celavano dietro questi nomi appena diventati famosi elevò Henry Kuttner al pantheon, perché aveva dato prova del suo valore; ma tutti davano per scontato il fatto che C.L. Moore sapesse scrivere magnificamente. Quindi, al di fuori della cerchia degli intenditori, la Moore subì una perdita netta di portata incalcolabile. Il nome di C.L. Moore, usato così poco, ormai era noto quasi soltanto ai lettori veterani. Lawrence O'Donnell non era in circolazione da un tempo sufficiente per crearsi una reputazione paragonabile e, inoltre, era un nome che lei adottava solo per una parte della sua produzione. La malattia di cuore di Henry Kuttner li costrinse a trasferirsi nel clima più mite di Laguna Beach, in California, nel 1948. Nel 1950, avvalendosi
della legge che favoriva gli ex militari, Kuttner decise di conseguire la laurea che desiderava. Poiché non poteva godere di un simile finanziamento, Catherine impiegò più tempo, e si diplomò nel 1956. Henry stava terminando gli studi e doveva soltanto completare la tesi quando il suo cuore cedette, il 4 febbraio 1958, e Catherine rimase sola. Erano entrati entrambi nella confraternita Phi Beta Kappa e Catherine si era laureata magna cum laude, ma ormai quei titoli le sembravano inutili. Verso la fine, avevano deciso di presentare esattamente i loro racconti come opera dell'uno o dell'altra o come collaborazioni. Tuttavia, la fantascienza era già un campo che non rendeva più. Verso la fine degli Anni Cinquanta, avevano scritto quattro romanzi su un detective psicanalista; Henry scriveva la prima stesura e Catherine quella definitiva. Dopo la morte di Henry, C.L. Moore aveva pubblicato il romanzo, già ultimato, sulla strana tirannia sociologica dell'America d'un prossimo futuro, Doomsday Morning (scritto nello stile di un «duro»), che fu stampato dalla Doubleday in edizione rilegata; ma ormai lavorava soprattutto per la televisione. Scrisse copioni per western e gialli e per serie famose come Maverick e 77 Sunset Strip. Prese il posto di Henry come insegnante presso l'University of California, in un corso per aspiranti scrittori, e per quattro anni insegnò due mattine alla settimana. I suoi studenti, in gran parte, probabilmente non si resero mai conto della vera statura della loro professoressa nel campo che si era scelta tanto presto. La ragazza che si era conquistata la fama da un giorno all'altro grazie a Northwest Smith era maturata, diventando uno degli artisti più sensibili del mondo fantascientifico. Forse perché aveva portato in quel campo una rara intuizione femminile, il suo contributo fu unico, e arricchì il genere letterario anche se i suoi scritti furono relativamente poco numerosi. Per lei, i diciotto anni del suo matrimonio, benché più strani di tanta fantascienza, erano stati felici. Le sue doti di scrittrice le avevano aperto una carriera promettente. Commentando le vie bizzarre che talvolta prende la vita, diceva: «No, in realtà non ho mai aspirato a diventare una scrittrice a tempo pieno. Non so come sia accaduto». IL BACIO DEL DIO NERO Black God's Kiss Weird Tales, ottobre 1934
Trascinarono dentro l'alto comandante di Joiry: questi si dibatteva furiosamente tra i due armigeri che stringevano con forza le corde che legavano le braccia celate dall'armatura del prigioniero. Si aprirono la strada tra montagne di cadaveri, attraversando il grande salone, verso il trono su cui sedeva il vincitore, e per due volte scivolarono sul sangue che bagnava il pavimento. E quando si fermarono davanti alla figura in armatura che sedeva sul trono, il comandante di Joiry respirava affannosamente, e la voce che risonava cupa e soffocata sotto gli angusti confini dell'elmo era rauca per la collera e la disperazione. Guillaume il conquistatore si appoggiò alla sua possente spada, tenendo le mani incrociate sull'elsa, sorridendo, da quell'altezza, al prigioniero furibondo che gli stava davanti. Era un uomo alto e possente, Guillaume, e appariva ancora più grande, nella sua armatura sporca di sangue. C'era del sangue sul suo volto duro, segnato da molte cicatrici, e il suo sorriso pareva dividere la corta barba ricciuta. Aveva un aspetto splendido e pericoloso, appoggiato così, sulla sua grande spada, mentre sogghignava sulla disfatta del signore di Joiry, che lottava ancora, tra i due solidi armigeri. — Togliete il guscio a questa aragosta — disse Guillaume, con la sua voce pigra e profonda. — Vedremo finalmente il volto dell'uomo che ci ha dato una simile battaglia. Ehi, voi, toglietegli l'elmo. Ma dovette accorrere un terzo armigero, per tagliare le cinghie di cuoio che tenevano chiuso l'elmo di ferro, giacché la lotta e la resistenza opposte dal comandante di Joiry erano troppo feroci, anche con le braccia legate, perché una o l'altra delle due guardie potesse allentare la stretta. Ci fu un momento di lotta ancor più violenta; poi le cinghie si aprirono, e l'elmo cadde, rotolando con un cupo clangore sulle pietre. I bianchi denti di Guillaume si strinsero, soffocando un'imprecazione oscena. Spalancò gli occhi. La signora di Joiry sostenne il suo sguardo, stretta dai suoi catturatoli, con il capo eretto, i capelli rossi scarmigliati, gli occhi gialli, da leonessa, che mandavano lampi come un uragano vicino. — Che Iddio ti maledica! — ringhiò la signora di Joiry, tra i denti. — Che Dio faccia scoppiare il tuo cuore nero! Guillaume non la udì neppure. Stava ancora fissando a occhi sbarrati quella visione, come facevano quasi tutti gli uomini quando per la prima volta posavano lo sguardo su Jirel di Joiry. Era alta come un uomo, ed era selvaggia come il più feroce degli uomini, e la caduta di Joiry era abbastanza amara da spezzarle il cuore, mentre lei si ergeva orgogliosa e sprezzante, coprendo di maledizioni il suo alto vincitore. Il volto che si ergeva
sopra l'armatura forse non sarebbe stato bellissimo, sopra un lungo abito da gran sera, ma nell'armatura metallica possedeva una bellezza feroce, affilata e scintillante come la lama di una spada. I capelli rossi erano corti, e il volto era arrogante e altero, e lo splendore giallo dei suoi occhi era come il materializzarsi della furia del fuoco. Lo sguardo attonito di Guillaume si sciolse lentamente in un sorriso. Una scintilla di divertimento apparve dietro i suoi occhi, insieme all'ammirazione, mentre valutava i lineamenti forti e nobili di Jirel, con uno sguardo esperto. Il sorriso si accentuò, e d'un tratto Guillaume esplose in una risata aperta, un profondo ruggito di divertimento e di piacere. — Per i Sacri Chiodi! — ruggì. — Questo è un benvenuto degno di un guerriero! E quale ricompensa offri, bellezza, in cambio della vita? Jirel gli lanciò una maledizione rovente. — Davvero? Parole fuori luogo per una bocca così bella, mia signora. Be', non neghiamo che tu abbia combattuto valorosamente. Nessun uomo avrebbe potuto fare di meglio, e molti avrebbero certo fatto peggio. Ma contro Guillaume... — Gonfiò lo splendido petto, e le sorrise, dai recessi della sua barba ricciuta. — Vieni da me, bellezza — le ordinò. — Scommetto che la tua bocca è più dolce delle tue parole. Jirel affondò lo sperone del suo calzare negli stinchi di una guardia, e si sottrasse alla sua stretta, mentre l'uomo ululava; nello stesso tempo, sollevò il ginocchio, e colpì all'addome l'altra guardia. Era riuscita a sfuggire ai suoi catturatori, e aveva già compiuto tre lunghi balzi verso la porta, prima che Guillaume fosse riuscito a prenderla. Sentì le braccia del vincitore stringersi intorno a lei, da dietro, e scalciò, con entrambi i calzari dai tremendi speroni, in un futile attacco all'armatura dell'uomo, dibattendosi come una pazza, lottando con le ginocchia e con gli speroni, cercando inutilmente di spezzare le corde che le serravano le braccia. Guillaume rise, e la fece girare su se stessa, sorridendo, e fissando senza timore il fuoco divampante nei suoi occhi gialli. Poi, deliberatamente, appoggiò il pugno sotto il mento di Jirel, e le fece sollevare il viso, e rivolgere le labbra a lui. Ci fu per un momento silenzio, e la fiumana delle maledizioni scurrili che lei continuava a lanciare si interruppe. — Perdio, è come baciare la lama di una spada — disse Guillaume, sollevando infine il volto. Jirel esclamò qualcosa, in tono soffocato, qualcosa che venne pietosamente attutito dal movimento istantaneo, rabbioso del suo capo, che si girò come quello di un serpente; Jirel affondò i denti nel collo dell'uomo, man-
cando la vena giugulare per un millimetro. Guillaume non disse niente, allora. Le cercò il capo, con mano ferma, lo trovò, malgrado lei si dibattesse, e affondò dita d'acciaio nella bocca di lei, forzando i denti ad aprirsi, senza pietà né dolcezza. Quando si fu liberato da quell'orribile morso, guardò per un istante gli occhi gialli di Jirel. La fiamma furente che essi contenevano era sufficiente a bruciare il suo volto segnato da molte cicatrici. Allora Guillaume, sorrise, sollevò la mano priva del guanto di ferro dell'armatura, e con un solo, violento schiaffo ih pieno volto, la mandò a cadere al centro della sala. E lei giacque immobile sulle pietre. Jirel aprì i suoi occhi gialli su un Iago di tenebre. Giacque immobile per qualche tempo, raccogliendo i suoi pensieri sparsi e sconvolti dagli avvenimenti. Gradualmente, i ricordi le ritornarono alla mente, e lei soffocò contro il braccio un suono che era per metà bestemmia, e per metà singhiozzo. Joiry era caduta. Per molto tempo giacque rigida nel buio, sforzandosi di accettarne quella realtà. Il suono di piedi che si muovevano sulla nuda pietra, vicino a lei, la fece uscire da quello stato di umiliazione e sconfitta. Si rialzò a sedere, cautamente, agitando le braccia a tentoni, per capire in quale parte di Joiry fosse stata rinchiusa, prigioniera, la Signora di Joiry. Capiva che il rumore udito doveva essere stato prodotto da una sentinella, e dal sentore di umidità che permaeva le tenebre si rendeva conto di trovarsi sottoterra. In una delle piccole celle delle segrete, naturalmente. Rapida e silenziosa, allora si alzò in piedi, mormorando una maledizione, quando la sua testa parve vorticare per un istante, per poi cominciare a pulsare sordamente. Nella completa oscurità, cercò intórno a sé, alla cieca. Dopo qualche istante giunse a un piccolo sgabello di legno, in un angolo, e fu soddisfatta. Afferrò una delle gambe dello sgabello, con dita sicure, e girò intorno alle pareti, silenziosamente, fino a quando non ebbe trovato la porta. La sentinella poté ricordare, molto tempo dopo, di aver udito il più selvaggio grido di aiuto che mai avesse lacerato i suoi timpani, e ricordò di avere tolto i pesanti catenacci della porta. Di quanto accadde dopo, fino a quando non lo trovarono disteso nella cella, con il cranio malridotto, non poté ricordare nulla. Jirel salì quasi strisciando le scale tenebrose della torre di tramontana, con il cuore gonfio di morte e di collera. Nella sua vita aveva riconosciuto molti piccoli odii, ma una furia così rabbiosa le era stata ignorata fino a
quel giorno. Davanti ai suoi occhi, nella notte, poteva vedere il volto sprezzante, irridente di Guillaume, con le sue cicatrici, e la barbetta a punta schiusa sul biancheggiare della sua allegria. Sulla bocca sentiva il ricordo del peso delle sue labbra, intorno al corpo la stretta ferrea delle sue braccia. E una terribile vampa di collera cieca la travolse, una fiamma così orribile da farla barcollare, per un momento, e costringerla ad appoggiarsi all'umida parete, per non essere travolta. Continuò a salire, avvolta da una rosseggiante nebbia d'ira, e con qualcosa di molto simile alla follia che le bruciava nella mente, mentre una risoluzione prendeva forma pian piano dal nero caos del suo odio. Quando quel pensiero le soggiunse, lei si fermò di nuovo, con un piede a mezz'aria, senza toccare il gradino, e si rese conto che qualcosa di gelido, come un vento inesplicabile, stava alitando sopra di lei. Poi il gelo svanì, e lei rabbrividì un poco; scosse le spalle e continuò a salire, col sogghigno di un lupo assassino dipinto sulle labbra. Le stelle, che poteva vedere dalle feritoie della parete, le dissero che era quasi mezzanotte. Continuò a salire silenziosamente la scala, e non incontrò nessuno. La sua piccola stanza, alla sommità della torre, era vuota. Anche il pagliericcio sul quale dormiva la sua serva non era stato usato, quella notte. Jirel uscì dall'armatura da sola, senza aiuto, in qualche modo, dopo molti sforzi e dopo molte contorsioni del corpo. La sua tunica di daino era pregna di sudore e macchiata di sangue. La gettò sdegnosamente in un angolo. La furia, nei suoi occhi, si era raggelata, rimanendo come una fiamma velata e segreta. Sorrise tra sé, quando infilò un'altra tunica di daino, e sopra una corta cotta di maglia di ferro. Affibbiò, chinandosi, i camgali che erano appartenuti a qualche legionario dimenticato, ed erano rimasti come vestigia dei tempi non troppo lontani quando Roma governava ancora il mondo. Infilò un pugnale alla cintura, e prese la sua lunga spada tagliente. Poi scese di nuovo le scale. Sapeva che nel grande salone, quella notte, dovevano esserci festini e banchetti, e dal silenzio che incombeva così pesantemente su ogni cosa ricavò la certezza che gran parte dei suoi nemici giacevano addormentati nei fumi del vino, e per un momento si rammaricò per i molti galloni del suo prezioso vino francese che erano andati sprecati a quel modo. E pensò per un attimo che una donna decisa a tutto, con una spada affilata, avrebbe potuto arrecare molti danni tra i dormienti, prima di venire sopraffatta. Ma poi accantonò l'idea, perché Guillaume doveva avere certamente messo delle sentinelle che non avevano partecipato al festino, e lei non avrebbe dovuto rivelare la sua libertà rinnovata in modo così infruttuoso.
In silenzio scese l'angusta scala della torre di tramontana, e attraversò un angolo del grande salone centrale nella cui oscurità si celavano certo i vincitori addormentati dal vino e dalle donne, e di là penetrò nell'oscurità meno fitta della semplice, piccola cappella che era l'orgoglio di Joiry. Era stata certa di trovare là Padre Gervase, e non si era sbagliata. L'uomo abbandonò la sua posizione di preghiera in ginocchio davanti all'altare e si alzò, nero nel suo lungo saio, mentre la luce delle stelle che penetrava dalle finestre strette pareva scintillare sulla sua ampia chierica. — Figlia mia! — bisbigliò il frate. — Figlia mia! Come sei riuscita a fuggire? Devo trovarti una cavalcatura? Se riuscirai a superare le sentinelle, potrai raggiungere il castello di tuo cugino prima dell'alba. Jirel sollevò una mano, per farlo tacere. — No — disse. — Non è fuori che andrò questa notte. Ho un viaggio ben più pericoloso da compiere. Devo confessarmi, padre. Il frate la fissò, attonito. — Che cosa dici? Jirel cadde stille ginocchia, davanti a lui, e afferrò la stoffa ruvida del saio, con dita ansiose. — Confessatemi, vi dico! Perché stanotte scenderò all'inferno, per supplicare il diavolo di darmi un'arma, e forse non ritornerò. Gervase si chinò, e le afferrò le spalle con mani che tremavano. — Guardami! — ordinò. — Ti rendi conto di quello che dici? Vuoi andare... — Laggiù! — disse lei, con fermezza. — Soltanto voi e io conosciamo quel passaggio, padre... e neppure noi possiamo conoscere con certezza ciò che si trova al di là. Ma per ottenere un'arma contro quell'uomo, sarei pronta a sfidare pericoli infinitamente peggiori di quello. — Se pensassi anche per un istante che tu stai parlando sul serio — bisbigliò il frate. — Correrei io stesso a svegliare Guillaume, per consegnarti nelle sue mani. Sarebbe un destino infinitamente migliore, figlia mia. — È per evitare quel destino che io sarei pronta ad attraversare l'inferno — rispose lei, in un fiero bisbiglio. — Non capite? Oh, Dio sa che io non sono innocente, per ciò che riguarda l'amore libero... ma essere posseduta da un uomo, per suo capriccio, per una o due notti, prima che lui mi spezzi il collo, oppure mi venda come schiava... e, sopra ogni altra cosa, se quell'uomo fosse Guillaume... oh, padre, non capite? — Sì, sarebbe un'infanzia e un'onta tremenda — annuì Gervase. — Ma
pensaci Jirel! Per quest'onta ci sono penitenze e assoluzione, e per quella morte le porte del Paradiso si spalancano. Ma l'altra cosa... Jirel, mai più, per tutta l'eternità, potrai uscire di là, anima o corpo, se ti avventurerai... laggiù! Lei scrollò le spalle: — Per vendicarmi di Guillaume sarei pronta ad andare, pur sapendo di essere condannata ad ardere per tutta l'eternità tra le fiamme dell'inferno. — Ma... Jirel, non credo che tu capisca. Questa è una sorte peggiore degli abissi più tenebrosi degli Inferni. Questo è... è oltre tutti i limiti dell'Inferno che noi conosciamo. E io credo che le fiamme più roventi di Satana siano brezze paradisiache, in confronto a ciò che può capitarti là. — Lo so. Credete che oserei scendere, se non fossi sicura? Dove altrimenti potrei trovare un'arma come quella che mi occorre, se non al di fuori del regno di Dio? — Jirel, non lo farai! — Gervase, io vado! Volete confessarmi, padre? — Gli occhi gialli e ardenti fissarono fieramente il frate, scintillanti nel chiarore delle stelle. Dopo un lungo momento, Gervase chinò il capo. — Tu sei la mia signora, perciò ti darò la benedizione di Nostro Signore, ma questa non ti servirà... laggiù. Jirel discese di nuovo nelle segrete. Scese per molto, molto tempo, giù nell'oscurità più densa e assoluta, calpestando pietre che erano viscide e odorose d'umidità, attraverso anfratti tenebrosi che mai avevano conosciuto il chiarore del giorno. In altre circostanze avrebbe provato un po' di paura, ma l'ardente fiamma dell'odio che bruciava dietro i suoi occhi era una torcia che le illuminava la strada, e lei non riusciva a cancellare dalla memoria il ricordo delle braccia di Guillaume intorno al suo corpo, la sprezzante pressione di quelle labbra sulla sua bocca. Singhiozzava un poco, singhiozzi soffocati e attutiti dalla vergogna e dal silenzio, e roventi vampate di odio le attraversavano il corpo. In quel solido muro d'oscurità giunse infine a un muro ancora più solido, e con le mani cominciò a spostare le pietre già smosse, e fece questo con una sola mano, perché per nulla al mondo avrebbe voluto posare la spada. Quelle pietre non erano mai state poste nella calcina, e venivano via facilmente. Quando il varco fu aperto, mosse un passo sicuro, e il suo piede si trovò su una rampa inclinata di pietra levigata, che scendeva negli abissi. Allora tolse il pietrisco dalla breccia nel muro, allargandola di quel tanto
che avrebbe permesso un passaggio rapido; perché quando sarebbe ritornata per quella stessa strada... se fosse ritornata... non era improbabile che fosse costretta a procedere con estrema fretta. Giunta in fondo al pendio, s'inginocchiò, sul freddo pavimento umido, e cercò intorno a tentoni. Le sue dita seguirono i contorni di un circolo, una fessura quasi impercettibile nella pietra. Cercò ancora, fino a quando non trovò l'anello che si trovava al centro del circolo. L'anello era del metallo più freddo che avesse mai toccato, e certamente del più levigato. Non avrebbe saputo dargli un nome. La luce del giorno non aveva mai brillato su un metallo simile. Jirel tirò. La pietra era riluttante, e infine lei prese la spada tra i denti, e usò entrambe le mani per tirare. Anche così, questo le costò uno sforzo terribile, e lei era più forte di gran parte degli uomini. Ma infine la pietra si alzò, con uno strano suono, una specie di sospiro, e in quel momento un brivido le percorse il corpo. Subito riprese la spada in mano, e s'inginocchiò sul bordo dell'invisibile oscurità sottostante. Aveva seguito quella strada già una volta, e una volta soltanto, e non aveva mai pensato di incontrare, nella vita, una necessità così imperiosa e tremenda da costringerla a scendere di nuovo. La strada era la più strana e aliena che mai avesse conosciuto. Non esisteva, così pensava, nessun passaggio del genere in tutto il mondo, se non là. Non era stato costruito per reggere passi umani. Era un pozzo angusto, levigato, che scendeva a vite, intorno, intorno. Un serpente avrebbe potuto strisciarvi dentro, e scivolare, e scendere precipitosamente, irrefrenabilmente, giù per quell'imbuto, in circoli rapidissimi, tali da far ondeggiare la mente e togliere il respiro... ma nessun serpente, sulla terra, era così grande da riempire quel condotto. Nessun viaggiatore umano aveva consumato i lati della spirale in quel modo, e lei non voleva tentare d'indovinare quali creature avessero levigato così il cunicolo, nel corso di chissà quante ère di passaggi continui. E lei non avrebbe potuto compiere quella prima discesa, né alcuno avrebbe potuto compierla dopo di lei, se qualche ignoto umano non avesse scavato gli incavi che rendevano possibile una lenta discesa; cioè, lei pensava che fosse stato un essere umano a farlo. In ogni modo, gli incavi erano intagliati rozzamente per mani e piedi, e distanziati non troppo tra loro; ma chi e come e quando, lei non poteva neppure tentare d'indovinarlo. In quanto alle creature che avevano costruito quel pozzo, in epoche immemorabili e remote... bene, prima dell'uomo c'erano stati demoni sulla Terra, e
il mondo era molto, molto antico. Jirel si sdraiò sul pavimento, e scivolò, prima con i piedi e poi con il resto del corpo, nel cunicolo curvo. Quella prima volta, lei e Gervase erano discesi raggelati dal terrore di ciò che poteva trovarsi laggiù, e con i demoni alle calcagna. Ma ora lei scivolava con sicurezza, senza cercare sostegni per i piedi, ma scendendo rapida giù per le lunghe spirali, usando solo le mani per rallentare la discesa, quando si faceva troppo veloce. Intorno e intorno e intorno, intorno e intorno e intorno. Era una lunga, lunghissima discesa. Prima che avesse potuto percorrere molta strada, la curiosa sensazione che già aveva conosciuto la riprese: uno stordimento inesplicabile, che non era prodotto soltanto dal veloce spiraleggiare, ma da un'instabilità più profonda, atomica, come se non soltanto lei, ma anche le sostanze intorno a lei stessero scendendo e mutando. C'era qualcosa di strano nelle angolazioni di quelle curve. Jirel non era una studiosa di geometria, né di altre discipline, ma l'intuito le diceva che la curvatura e l'inclinazione del cunicolo che stava percorrendo erano, in qualche modo, totalmente al di fuori di ogni ordine di curve e di inclinazioni che lei aveva conosciuto nel mondo degli umani. La conducevano nell'ignoto è nelle tenebre, ma le sembrava, oscuramente, che la conducessero in tenebre e misteri più densi di quelli soltanto fisici, come se (anche se Jirel non era in grado di formulare il pensiero con chiarezza), le linee esatte e bizzarre del cunicolo fossero state tracciate con ogni cura, per condurre attraverso uno spazio polidimensionale, oltre che nelle viscere della terra... forse anche attraverso il tempo. Lei non sapeva di pensare queste cose; ma tutt'intorno a lei c'era uno stordimento ronzante, mentre il suo corpo scendeva spiraleggiando, e capiva che quel cunicolo la stava conducendo in un viaggio più strano di tutte le altre peregrinazioni nelle quali s'era mai avventurata. Giù, sempre più giù. Stava scivolando veloce, ma sapeva quanto sarebbe durato. In quel primo viaggio, lei e Gervase si erano spaventati, vedendo che il passaggio spiraleggiava apparentemente all'infinito, e il pensiero delle difficoltà del ritorno e della risalita li aveva indotti a fermarsi, prima che fosse stato troppo tardi. E avevano scoperto che fermarsi era impossibile. Una volta partiti, non c'era possibilità di fermarsi. Lei aveva tentato, ed era stata subito assalita da ondate così violente di stordimento e di nausea, che per poco non era svenuta. Era come se avesse tentato di arrestare qualche arcano processo della natura, ancora incompiuto. La natura poteva soltanto procedere. E loro avevano potuto soltanto continuare. Gli stessi atomi dei
loro corpi avevano vibrato di paura, di rivolta, alla semplice idea di un'inversione del mutamento. E la risalita, quando erano tornati indietro, non era stata difficile. Avevano avuto inquietanti visioni di un'ascesa orribile, di interminabili, erte curve, ma ancora una volta si era manifestata chiaramente la soprannaturale diversità di quelle angolazioni, che non erano quelle del mondo al quale loro erano stati abituati. Singolarmente, quelle curve e quell'inclinazione sfidavano la forza di gravità, o forse conducevano per una strada che si sottraeva ai poteri della gravità. Loro erano stati sconvolti e nauseati e storditi, durante il ritorno, come nella discesa, ma attraverso le nubi di quella confusione era loro sembrato di scivolare facilmente, risalendo il condotto, come avevano percorso la via della discesa; o forse, una volta entrati nel cunicolo, non esistevano più alto e basso, giù e su, discesa e ascesa. Gradualmente, il passaggio si fece meno ripido, l'inclinazione — vera o presunta — cominciò a diminuire. Era quella la parte peggiore del viaggio, per un essere umano, benché il suo scopo forse era stato quello di rallentare la discesa degli esseri, quali che fossero, per cui il cunicolo era stato creato. Era troppo angusto perché lei potesse voltarsi, e dovette appiattirsi, bocconi, con i piedi in avanti, lungo la levigata distesa piana del fondo, spingendo con le mani. Jirel tirò un sospiro di sollievo quando infine i suoi talloni trovarono uno spazio aperto, e lei scivolò fuori dall'imboccatura del cunicolo, e si alzò in piedi, nelle tenebre. Decise di sostare un poco, per riposare dopo la discesa, e per orientarsi. Sì, era quello l'inizio del lungo passaggio che lei e Padre Gervase avevano percorso in quel vecchio viaggio di esplorazione. Per puro caso avevano trovato il posto, e solo una bravata incosciente, una sfida irriverente all'ignoto e alla stessa paura, li avevano portati fin laggiù. Lui aveva percorso una distanza maggiore di lei, si era spinto più avanti... allora Jirel era stata più giovane, e meno restia a piegarsi all'autorità... ed era tornato indietro pallido come un cadavere, livido nel chiarore fumoso della torcia, e l'aveva esortata disperatamente a risalire nel cunicolo. Cominciò ad avanzare, cautamente, cercando la strada a tentoni, ricordando ciò che lei stessa aveva visto nell'oscurità, un poco più lontano, domandandosi, suo malgrado, e con una fuggevole stretta al cuore, che cosa avesse indotto Padre Gervase a ritornare così frettolosamente indietro. Non era mai stata completamente soddisfatta dalle spiegazioni del frate. Era sta-
to in quel punto... o un poco più avanti? Il silenzio assoluto era come un ruggito, nelle sue orecchie. Poi, davanti a lei, la tenebra si smosse. Fu soltanto questo... uno spostamento vasto, imponderabile, della solida oscurità. Gesù! Questa era una cosa mai vista! Con una mano, strinse la croce che portava al collo, e con l'altra serrò con forza ancora maggiore l'elsa della spada. Poi fu su di lei, violento come un uragano, e la scagliò contro la parete, e le ruggì nelle orecchie, come mille venti demoniaci... un folle ciclone delle tenebre che la tempestava spietatamente, e pareva volerle strappare i capelli, e le urlava nelle orecchie, con la miriade di voci di tutte le cose perdute che piangono nella notte. Le voci muovevano il cuore a pietà, per il loro terrore e la loro solitudine. Gli occhi le si riempirono di lacrime, mentre il suo corpo rabbrividiva, scosso da un tremito inesplicabile, perché quel vortice di vento era vivo e pervaso da un istinto orrendo: era una cosa animata che passava attraverso le tenebre del mondo sotterraneo, aggirandosi odiosa, solitaria, terribile; una cosa empia, che le raggelava la pelle, anche se le stringeva il cuore per l'infinita pietà ispirata da quelle piccole, derelitte voci che gemevano nel vento, là dove non era possibile l'esistenza di nessun vento. E poi passò. In un lampo fuggevole di colpo svanì, senza lasciare nessun bisbiglio a commemorare il suo passaggio. Solo nel suo cuore si potevano udire le tristi, piccole voci che gemevano, nell'ululato terribile del vento. Jirel si ritrovò in piedi, stordita, con la spada ancora stretta futilmente in pugno, e le lacrime che scendevano copiose sulle sue guance. Povere, piccole voci perdute, che gemevano nel vento. Si asciugò le lacrime, con mano tremante, e strinse forte i denti, per reagire alla debolezza che la reazione aveva lasciato in lei. Eppure ci vollero cinque minuti buoni, prima che lei riuscisse a procedere. Dopo qualche passo, infine, le sue ginocchia smisero di tremare. Il pavimento era asciutto e levigato, sotto di lei. Aveva un lievissimo pendio, e lei si domandò in quali abissi incommensurabili fosse ormai discesa. Il silenzio era ricaduto di nuovo come una pesantissima cappa, e lei scoprì di tendere l'orecchio, ansiosamente, cercando di captare qualche rumore che non fosse quello, monotono, dei suoi passi. Poi il suo piede scivolò su qualcosa di viscido e umido. Si chinò, esplorando il terreno a tentoni, provando l'impressione, senza nessun vero motivo, che quel bagnato sarebbe stato rosso, se avessepotuto vederlo alla luce. Ma le sue dita scoprirono l'immensa forma di un'impronta... l'impronta di un piede con tre dita, come quello di un rospo, ma infinitamente più grande. Era un'impron-
ta fresca. All'istante, un ricordo le balenò nella mente, come un lampo... il ricordo della cosa che aveva intravisto nel fumigante chiarore della torcia, durante quel primo viaggio. Ma allora lei aveva avuto una luce, mentre adesso era cieca nel buio, e le tenebre erano l'habitat naturale della creatura... Per un momento, lei non fu Jirel di Joiry, una furia vendicatrice partita alla ricerca di un'arma demoniaca, ma una donna spaventata, sola in un'oscurità orrenda. Quel ricordo era stato così vivido... Poi rivide il volto sprezzante, irridente di Guillaume, con la barbetta a punta che segnava il contorno del mento forte e deciso, i denti bianchi che scintillavano nella risata; e qualcosa di rovente parve rinfocolarsi in lei, dandole la forza di andare avanti, allontanando la paura di quelle tenebre, e lei fu di nuovo Jirel, la Signora caduta di Joiry, in cerca della sua vendetta. Proseguì con maggiore lentezza, muovendo a semicerchio la spada a ogni tre passi, in modo da non venire sorpresa troppo subitaneamente da qualche mostro d'incubo, pronto a ghermirla con braccia viscide e avide. Ma la schiena indifesa era raggelata da un presentimento di morte. Il passaggio pareva continuare all'infinito. Poteva sentire, allungando la mano, le fredde pareti, ai suoi lati, e tendendo la spada riusciva a toccare il soffitto. Era come strisciare in un cunicolo per vermi, ciecamente, sotto tonnellate e tonnellate di terra. Sentiva la pressione di quella terra sopra e intorno a lei, terribile, e pregò in cuor suo che quel cunicolo finisse presto, qualunque cosa avesse potuto aspettarla all'uscita. Ma quando la fine del cunicolo giunse, fu qualcosa di infinitamente più strano anche del più audace dei suoi sogni. All'improvviso sentì svanire quel senso terribile, immenso, imponderabile di oppressione. Non avvertiva più il peso di quelle tonnellate e tonnellate di terra intorno e sopra. Le pareti non c'erano più, e d'un tratto il suo piede calpestò terriccio e ghiaia, invece che un pavimento liscio. Ma l'oscurità che le aveva bendato gli occhi era cambiata anch'essa, in maniera indescrivibile. Non era più oscurità, ma vuoto; non era un'assenza di luce, ma, semplicemente, il nulla. Grandi abissi si aprivano intorno a Jirel, eppure lei non poteva vedere niente. Sapeva soltanto di trovarsi sulla soglia di qualche spazio immenso, e avvertiva intorno a lei la presenza d'innominabili cose, e combatteva inutilmente contro quel nulla che era tutto ciò che i suoi occhi potevano vedere. E intorno al suo collo, c'era qualcosa che la stringeva, soffocante, doloroso. Sollevò la mano, e trovò la catena del suo crocifisso tesa e vibrante, in-
torno al suo collo. Scoprendo questo sorrise, un breve, amaro sorriso, perché cominciava a capire. Il crocifisso. Scoprì che la sua mano stava tremando, in maniera incontrollabile, ma riuscì a trovare la forza di sfibbiare la borchia della catena, e posò delicatamente sul terreno la croce. Poi sbalordì. Tutt'intorno a lei, improvviso come il risvegliarsi da un sogno, il nulla si era aperto, schiudendo distanze incredibili. Lei era in piedi, sulla sommità di una collina, sotto un cielo spruzzato di strane stelle. Sotto di lei poté cogliere fuggevoli visioni di pianure nebbiose e di valli brumose, mentre grandi picchi montuosi svettavano lontano. Ai suoi piedi un circolo avido di piccole creature cieche e bavose saltellava, con un gran stridore di piccoli denti. Erano creature oscene, ed era difficile distinguerle sullo sfondo oscuro del fianco della collina, e il rumore che facevano era rivoltante. La sua spada pareva animata da una volontà propria, quasi, mentre lei menava grandi fendenti tra i piccoli orrori neri che balzavano intorno alle sue gambe. Le creature morivano orribilmente, come sacche di putridume calpestato, spruzzando le sue gambe nude di qualcosa di disgustoso che non era sangue, e quando alcune furono morte silenziosamente sotto la lama, le altre fuggirono via nelle tenebre, con ansiti rapidi, spaventati, e le loro zampe produssero un bizzarro rumore viscido e gorgogliante sulle pietre. Jirel raccolse una manciata dell'erba ruvida e tagliente che cresceva in quel luogo, e pulì le sue gambe da quegli schizzi osceni, guardandosi intorno, ansimando, osservando quella landa, così empia e diabolica che chiunque portasse una croce non poteva neppure vederla. In quel luogo, più che in qualsiasi altro, sarebbe stato possibile trovare un'arma quale lei cercava, se un'arma simile esisteva. Dietro di lei, sul fianco della collina, c'era la bassa apertura della galleria da cui era uscita. Sopra il suo capo, le strane stelle splendevano. Non riuscì a riconoscere neppure una costellazione, e se le scintille più luminose erano dei pianeti, certamente si trattava di mondi stranieri, sfumati di violetto e di verde e di giallo. Uno era di un rosso intenso, vivido, come una punta di fuoco. Lontano, lontano, oltre la landa ondulata, poté discernere una possente colonna di luce. Non ardeva, né illuminava l'oscurità, intorno. Non proiettava ombre. Semplicemente, si trattava di una grande colonna di luminosità che torreggiava alta nella notte. Pareva artificiale... forse creata da mani umane, anche se lei non osava certo sperare d'incontrare degli uomini, in quel luogo. Si era aspettata in parte, malgrado le sue parole coraggiose, di uscire so-
pra il fantasticato e familiare lastrico rovente dell'inferno, e quella landa piacevole, rischiarata da un gran scintillare di stelle, la sorprendeva, e la rendeva ancor più prudente. Le creature che avevano costruito il cunicolo non potevano essere state umane. Lei non aveva nessun motivo di attendersi delle presenze umane, là. Era un po' stordita, nel trovare un cielo aperto così profondamente nelle viscere della terra, anche se era abbastanza intelligente da capire che, comunque ci fosse giunta, ora non si trovava più sottoterra. Nessuna cavità della Terra avrebbe potuto contenere quell'immenso cielo stellato. Jirel apparteneva a un'epoca ove uomini e donne credevano nel soprannaturale e nell'inesplicabile, e accettava ciò che la circondava senza troppi interrogativi, pur provando, in verità, una certa delusione, per il piacevole, quieto aspetto di quella landa brumosa, rischiarata dalle stelle. Le fiammeggianti strade dell'inferno sarebbero state un luogo più adatto a soddisfare la sua esigenza di un'arma con cui combattere Guillaume. Quando ebbe pulito la sua spada sull'erba, e si fu asciugata le gambe, si voltò, lentamente, e cominciò a discendere dalla collina. La distante colonna pareva ammiccare e chiamarla, e dopo un momento d'indecisione lei s'incamminò in quella direzione. Non aveva tempo da perdere, e quello era il luogo più probabile in cui trovare ciò che cercava. L'erba ruvida le sfiorava le gambe e bisbigliava intorno ai suoi piedi. Di quando in quando incespicava sul pietrisco, poiché la collina era ripida, ma raggiunse il fondo senza cadere, e avanzò attraverso la prateria verso quell'ardore di lontana luminosità. Le parve di camminare più facilmente, per qualche oscuro motivo; le parve che i suoi passi fossero più leggeri. L'erba si curvava appena sotto i suoi piedi, e lei scoprì di poter procedere a lunghi balzi, che la portavano nell'aria e la facevano volare per qualche metro, prima di posarsi di nuovo a terra... come se avesse avuto un paio d'ali ai piedi. Le pareva di camminare in un sogno. La gravità di quel luogo doveva essere minore di quella a cui era abituata, ma lei sapeva soltanto di poter scivolare sul terreno con sorprendente velocità. Così viaggiando, passò attraverso i prati, sopra l'erba strana e ruvida, balzando sopra un torrente che parlava eternamente tra sé, in una curiosa lingua che era quasi un discorso umano, di certo non il consueto gorgoglio dell'acqua corrente della terra. Poi un altro torrente, che mormorava nella stessa lingua. Una volta s'imbatté in una macchia di oscurità, che pareva una sacca di vuoto nell'aria, e lottò, ansando e battendo le palpebre sofferenti. Cominciava a comprendere che quella landa non era così innocente e
normale come sembrava. E andò avanti, e avanti, a quella velocità sorprendente, mentre le praterie passavano veloci sotto di lei, e gradualmente la luce si faceva sempre più vicina. Ora vedeva che si trattava di una torre rotonda di luminosità, come se pareti di solida fiamma si levassero diritte dal terreno. Eppure pareva ferma, e non proiettava nessun riverbero o chiarore nel cielo. Non ci volle molto, con quella levità di movimenti che pareva distinguere quel mondo crepuscolare, perché Jirel giungesse vicina alla sua mèta. Il terreno si stava facendo paludoso, e gradualmente l'odore putrescente delle paludi aumentò, nelle sue narici. Dalla luce la divideva ora una cintura di terreno instabile, chiazzato da ciuffi di nere erbe palustri. Qua e là le parve di scorgere delle chiazze bianche in movimento. Potevano essere animali, oppure soltanto volute di nebbia. La luce delle stelle non serviva a illuminare molto il paesaggio. Cominciò a scegliere la strada molto cautamente, attraverso l'acquitrinio nero e cangiante, balzando da una macchia erbosa all'altra con l'ormai consueta levità prodigiosa, cosicché i suoi piedi sfioravano appena la nera fanghiglia. Qua e là, vide alcune bolle salire in superficie, e rompersi con cupi gorgoglii. Quel luogo era orrendo. A metà dell'acquitrinio, Jirel vide una delle chiazze bianche avvicinarsi a lei, con movimenti lenti, irregolari. Pareva ballonzolare come un oggetto inanimato, e dapprima lei credette che non fosse vivo, tanto il suo avvicinarsi era indiretto e irregolare. Poi ballonzolò ancor più vicino, con quel bizzarro moto rimbalzante, producendo nella fanghiglia strani rumori, come di risucchio, e sollevando spruzzi. Nel chiarore delle stelle Jirel vide improvvisamente che cosa era, e per un istante il suo cuore si fermò, e un'ondata di nausea le salì irrefrenabile alla gola. Era una donna... una bella donna, il cui bianco corpo ignudo possedeva le curve e la bellezza di una statua di marmo. Ma era rannicchiata come un rospo, e mentre Jirel guardava, stupefatta, lei allungò improvvisamente le gambe, e saltò, come salta un rospo, solo in modo ancora più goffo, cadendo più avanti, nella melma, vicino all'altra donna che la stava osservando. Apparentemente, non vide Jirel. Il volto sporco di fango era privo di espressione. Continuò a procedere ciecamente nella palude, con lunghi, strani balzi goffi. Jirel guardò, fino a quando la donna non fu che una bianca chiazza vagante nell'oscurità, e ancor più dello choc prodotto da quella visione, in lei stava crescendo un senso di pietà, e un risentimento privo di comprensione per qualunque cosa
avesse ridotto una creatura così bella in quello stato... vagabondare balzando come un rospo senza mèta nella fanghiglia, con mente vuota e occhi fissi e ciechi. Per la seconda volta in quella notte Jirel conobbe il bruciore di lacrime per lei inconsuete, procedendo nel suo viaggio. La visione, però, l'aveva in un certo senso rassicurata. La forma umana non era sconosciuta in quel luogo. Potevano esserci diavoli con zoccoli caprini e corna, come tuttora lei si aspettava inconsciamente, ma non sarebbe stata sola nella sua umanità; benché se tutte le creature umane di quel luogo fossero state pietosamente insensate come quella che aveva visto... non seguì fino in fondo quel pensiero. Era troppo sgradevole. Provò un grande sollievo, quando raggiunse il limitare dell'acquitrinio, sapendo di poter lasciare alle spalle la spiacevole visione di quelle forme bianche che procedevano a balzi nell'oscurità. S'incamminò per l'angusto spazio che si stendeva tra lei e la torre. Ora poteva vedere che si trattava di un edificio, e che la luce lo componeva. Non poteva comprendere ciò che vedeva, ma era così. Pareti e colonne disegnavano la torre, solide lastre di luce con limiti ben distinti, non radianti. Avvicinandosi ancora, Jirel vide che era in movimento, e pareva sgorgare da qualche sorgente sotterranea, come se la luce avesse illuminato pareti d'acqua che salivano in alto per una forte pressione. Eppure lei avvertiva confusamente, intuitivamente, che non si trattava di acqua, ma di luce materializzata. Si fece avanti, esitando, stringendo più forte la spada. L'area che circondava l'immane colonna era lastricata con una sostanza nera e levigata che non rifletteva la luce. Da questa sostanza sgorgava l'alta sorgente di luminosità, con le sue pareti dai contorni delimitati. L'immensità della cosa pareva ridurre Jirel alle dimensioni di un microbo. Lei guardò in alto, con occhi che non erano abbagliati, cercando di comprendere. Se al mondo, in qualsiasi mondo, poteva esistere una sostanza composta di luce solida e non radiante, ebbene, lei si trovava di fronte a un fenomeno del genere. Era già vicinissima, sotto la possente torre, quando riuscì a distinguere, finalmente, i particolari dell'edificio, con una certa chiarezza. Erano strani, per lei e per il suo mondo... grandi colonne e arcate intorno alla base, e uno stupendo portale, tutti ricavati dalla luce impetuosa e prigioniera. Si volse verso quell'apertura, dopo un momento, perché la luce aveva un aspetto tangibile. Non credeva possibile attraversare quelle pareti di luce, anche se avesse osato farlo.
Quando quell'immenso portale fu un grande arco sopra di lei, Jirel guardò dentro, intimorita dalle stesse dimensioni del luogo. Le parve di udire il sibilo e il gorgoglio della luce che saliva in alto. All'interno, scoprì di guardare in un immenso globo, un salone foggiato come l'interno di una bolla, benché la curva fosse così ampia che era difficile percepirne il contorno. E al centro esatto della bolla galleggiava una luce. Jirel batté le palpebre. Una luce, che abitava in una bolla di luce. Splendeva là, a mezz'aria, con una fiamma pallida e costante, che era, chissà come, viva e animata, e più luminosa della serena illuminazione dell'edificio, perché guardarla direttamente faceva dolere gli occhi. Ristette sulla soglia, e guardò attonita, senza trovare il coraggio di avventurarsi all'interno. E mentre lei esitava, qualcosa mutò nella luce. Un lampo rosato colorò il suo pallore. Il color rosa si accentuò, e s'incupì, fino a quando non assunse il colore del sangue. E la forma subì strane metamorfosi. Si allungò, si restrinse, si divise, in fondo, in due rami, e fece uscire due tentacoli alla sommità. Il rosso sangue impallidì di nuovo, e la luce perse in parte il suo fulgore, recedendo nelle profondità della cosa che si stava formando. Jirel strinse l'elsa della spada, e dimenticò perfino di respirare, intimorita e affascinata da quel prodigio. La luce stava assumendo la forma di un essere umano... di una donna... di una donna alta, rivestita di maglia di ferro, con i rossi capelli corti, e gli occhi sbarrati, fissi sugli occhi uguali che guardavano dal portale... — Benvenuta — disse la Jirel sospesa al centro del globo, con voce profonda e risonante e chiara, malgrado la distanza che le divideva. Jirel, sulla soglia, trattenne il respiro, impaurita e meravigliata. Quella figura era la sua... era lei, in ogni particolare, una Jirel riflessa come in uno specchio... era così, una Jirel riflessa su una superficie che divampava e ardeva di luce appena repressa, tanto che gli occhi rilucevano di quell'ardore, e l'intera figura pareva mantenere la forma in virtù di uno sforzo; e solo quello sforzo le impediva di dissolversi di nuovo in una fiammata di luce informe e pura. Ma la voce non era quella di Jirel. Vibrava e risonava di una sapienza aliena come le mura di luce. Pareva schernirla, irriderla. Disse: — Benvenuta! Entra nei portali, donna! Jirel sollevò lo sguardo, timorosa, e osservò il continuo salire delle pareti di luce, intorno a lei. Istintivamente, fece un passo indietro. — Entra, entra! — la esortò la voce irridente che usciva dalle sue labbra riflesse. E in quella voce c'era una nota che non le piacque affatto. — Entra! — gridò di nuovo la voce, e questa volta era un ordine.
Jirel socchiuse gli occhi. Un istinto incomprensibile la indusse a fare un altro passo indietro; l'intuito le diceva di non muoversi, eppure... prese il pugnale che aveva infilato alla cintura, e, con un gesto fulmineo, lo lanciò nel grande salone a forma di globo. Il pugnale urtò il pavimento senza produrre nessun suono, e una luce brillantissima gli divampò subito intorno, una luce così insostenibile da impedire a Jirel di vedere quel che stava accadendo; tuttavia le parve, confusamente, che il pugnale si espandesse, dilatandosi, diventasse grande e nebuloso, circondato da un anello di luce sfolgorante. In men che non si dica, quel pugnale era svanito, come se gli stessi atomi di cui era composto si fossero divisi e dispersi nel chiarore dorato di quella titanica bolla. Il lampo diminuì e svanì insieme al pugnale, lasciando Jirel stordita, con gli occhi fissi su un pavimento vuoto. L'altra Jirel rise, una risata vibrante, calda, fatta di disprezzo e malizia. — Rimani fuori, allora — disse la voce. — Possiedi più intelligenza di quanto pensassi. Ebbene, che cosa vuoi, qui? Jirel ritrovò la voce, con uno sforzo. — Cerco un'arma — rispose. — Un'arma contro un uomo che odio a tal punto che, sulla terra, non ne esiste nessuna così terribile da soddisfare il mio bisogno. — A questo punto lo odii, eh? — disse la voce, in tono pensieroso. — Con tutto il mio cuore! — Con tutto il tuo cuore! — fece eco la voce, e c'era una nota strisciante di malizia e irrisione che Jirel non riuscì a comprendere. Gli echi di quella sotterranea allegria si rincorsero per tutte le pareti dell'immenso globo. Jirel sentì che le gote le si imporporavano di risentimento contro qualche implicazione, in quella derisione, alla quale lei non riusciva a dare un nome. Quando i riverberi della risata furono svaniti nel silenzio, la voce disse, in tono indifferente: — Dai all'uomo quello che troverai nel tempio nero del lago. Te ne faccio dono. Le labbra che erano quelle di Jirel si curvarono in una risata di purissimo scherno; poi tutto, intorno a quella figura che era così perfettamente la sua, parve accendersi di luce sfolgorante. Jirel vide i contorni fondersi, fluidi, e poi dovette distogliere lo sguardo abbagliato. Prima che gli echi di quella derisione si fossero spenti, una luce accecante e informe aveva ricominciato ad ardere al centro della bolla. Jirel si voltò, e si allontanò, barcollando, sotto la poderosa colonna della
torre, tenendo una mano sugli occhi abbacinati. Fino a quando non ebbe raggiunto il limitare del circolo nero e opaco che lastricava il terreno intorno alla colonna, non si rese conto di non sapere affatto come trovare il lago ove si trovava l'arma. E soltanto allora ricordò quanto fosse fatale, a detta di tutti, accettare un dono da un demone. Comprarlo, conquistarlo, guadagnarlo... tutto, ma non accettare mai il dono. Ebbene... si strinse nelle spalle, e s'incamminò sull'erba, oltre la torre. Certamente ormai lei doveva essere dannata, perché si era avventurata di sua volontà in quel luogo alieno e strano, per uno scopo così crudele. E l'anima poteva essere perduta soltanto una volta. Sollevò il volto verso le stelle straniere, e si domandò quale direzione avrebbe dovuto prendere. Il cielo la guardava inespressivo dall'alto, con la sua miriade di occhi fissi e alieni. Una stella cadde, mentre lei osservava, e il suo animo superstizioso accettò quel fenomeno celeste come un auspicio. Così Jirel si avviò con determinazione, sui prati tenebrosi, nella direzione ove la scia brillante si era spenta. Non c'erano paludi a proteggere la mèta, in quella direzione, e ben presto lei scivolò veloce sull'erba, con la leggerezza danzante e strana che quella landa le donava. E, così andando, Jirel ricordava - come se il ricordo appartenesse a un passato molto remoto, e a un altro mondo molto lontano - la risata arrogante di un uomo, e la pressione della sua bocca su quella di lei. L'odio ribolliva rovente dentro di lei, e le sfuggiva dalle labbra, in una breve, selvaggia risata di anticipazione. Quale orribile cosa la stava aspettando nel tempio del lago, quale punizione dell'Inferno che le sue mani avrebbero potuto scagliare contro Guillaume? E benché la sua anima fosse il prezzo da pagare per quell'arma, lei avrebbe considerato il prezzo equo, se avesse potuto ricacciare quella risata sprezzante nella gola dell'uomo, e se avesse potuto portare il terrore in quegli occhi che la schernivano. Questi pensieri, ed altri simili a questi, le tennero compagnia per molto tempo, occupando una gran parte del viaggio. Lei non pensò di essere sola o impaurita nella spettrale oscurità su cui non cadeva nessuna ombra da quella possente colonna che s'innalzava ormai alle sue spalle. Le praterie immutabili sfuggivano sotto i suoi passi leggeri, e l'erba era fuggevole e uguale come la prateria di un sogno. Le pareva quasi che fosse il terreno a muoversi, invece che lei, tanto procedeva senza sforzo. Era sicura, adesso, di procedere nella direzione giusta, perché altre due stelle erano cadute, solcando il cielo secondo lo stesso arco. Quelle praterie non erano abbandonate. A volte Jirel avvertiva delle pre-
senze vicino a lei, nell'oscurità, e una volta cadde, alla fine di un balzo, in un nido di piccoli orrori uguali a quelli incontrati alla sommità della collina. Le piccole mostruosità balzarono intorno a lei, battendo orribilmente i denti, folli di cieca ferocia, e lei mulinò la spada in circoli frenetici, nauseata dal rumore immondo che producevano spiaccicandosi nell'erba e insozzando la sua spada con la loro morte. Se ne liberò, e procedette, lottando contro il disgusto che la pervadeva, perché non aveva mai conosciuto nulla di così nauseante, come quei piccoli esseri immondi. Jirel attraversò un ruscello che mormorava tra sé nell'oscurità, con quello strano mormorio che somigliava a una voce, e dopo pochi passi si fermò, bruscamente, sentendo tremare il suolo per il tuonare di zoccoli che si avvicinavano. Rimase immobile, cercando di vedere qualcosa nel buio, ansiosa, e dopo qualche tempo il battito d'uragano si fece più violento, e lei vide un'amplissima scia biancheggiante muoversi nell'oscurità, alla sua sinistra, e il rumore degli zoccoli si fece quasi intollerabile. Poi dal grembo della notte uscirono al galoppo molti cavalli bianchi come la neve. Galoppavano stupendamente, con le criniere al vento, le code che fluivano come cascate di seta, gli zoccoli che battevano il suolo, in un ritmico, maestoso, regolare rullare di tamburi viventi. Jirel trattenne il respiro, di fronte alla bellezza maestosa del loro movimento. I cavalli passarono a poca distanza, con le testé diritte, battendo il terreno con zoccoli sprezzanti. Ma quando le furono accanto, Jirel vide che uno di loro pareva incespicare, urtando il vicino, e che l'altro scuoteva la gran testa bianca, con espressione stordita; e d'un tratto lei comprese che erano ciechi... correvano tutti così splendidamente attraverso tenebre molto più fitte di quelle che lei stava visitando. E vide anche che i loro mantelli erano sudati, e che molta schiuma cadeva dalle loro labbra, e che le narici orgogliose erano ansanti aperture scarlatte. Di quando in quando, uno di loro cadeva, esausto, sfinito. Eppure continuavano a galoppare, freneticamente, ciecamente, nelle tenebre, spinti da qualcosa che sfuggiva alla loro comprensione. E quando l'ultimo bianco componente del branco le passò davanti, incrostato di sudore e barcollante, Jirel lo vide sollevare in alto il capo, spruzzando schiuma tutt'intorno dalle fauci riarse, e lanciare uno stridulo nitrito alle stelle. E le parve che quel suono fosse bizzarramente articolato. Le parve quasi di udire l'eco di un nome... «Julienne! Julienne!»... in quell'alto suono disperato. E l'assurdità della cosa, l'amara disperazione, l'orrore, le strinsero così crudelmente il cuore che, per la terza volta nel corso di quella notte, lei conobbe l'amaro bruciore delle lacrime.
La spaventosa umanità di quel grido echeggiò nei suoi orecchi, mentre il tuono del branco spariva in lontananza. Jirel andò avanti, ricacciando indietro le lacrime che voleva versare per quella meravigliosa creatura cieca, barcollante per la stanchezza, che invocava disperatamente un nome di fanciulla con la gola di una bestia in quella vuota, deserta oscurità dove si sarebbe perso per l'eternità. Poi un'altra stella cadde, attraversando il cielo con la sua scia fulgida, e lei accelerò ancora il passo, chiudendo ostinatamente i suoi pensieri e la sua mente a quello strano, incomprensibile dolore che creava un sottofondo di lacrime all'oscurità stellata di quella landa. E nella sua mente si stava facendo sempre più forte l'idea che, anche se non era caduta nel pozzo di zolfo ove diavoli cornuti danzavano sulle fiamme agitando puntuti forconi, dopotutto lei stava correndo per le strane plaghe di una specie d'inferno. Dopo qualche tempo, in lontananza, Jirel colse lo scintillio di qualcosa di luminoso. Il terreno formava però un avallamento, subito dopo, e così perse di vista lo scintillio, e corse veloce in una cavità ove pallide cose si scostavano da lei, ondeggiando, rifugiandosi in un'oscurità più profonda. Non seppe mai che cosa fossero, e ne fu felice. Quando risalì su un terreno più elevato poté vedere lo scintillio più chiaramente, come una distesa di fievole luminosità. Sperò che fosse un lago, e corse più veloce. Era un lago... un lago quale mai avrebbe potuto esistere all'infuori che in un inferno oscuro come quello. Rimase sull'orlo di quel lago, dubbiosa, domandandosi se, fosse quello il luogo di cui aveva parlato il demone di luce. Acque nere, lucide, si stendevano davanti a lei, muovendosi dolcemente con un moto dissimile da qualsiasi movimento avesse mai visto in un lago. E nelle profondità di quel lago, come lucciole prigioniere del ghiaccio, scintillavano miriadi di piccole luci. Erano fissate là, inamovibili, e non si muovevano con l'agitarsi delle acque. Mentre Jirel guardava, qualcosa sibilò sopra di lei, e una striscia di luce solcò l'aria oscura. Jirel sollevò lo sguardo in tempo per vedere qualcosa di lucente descrivere una curva attraverso il cielo, cadendo senza produrre spruzzi né suoni nell'acqua. Piccole ondate di fosforescenza si diffusero pigramente verso la riva, dove s'infransero ai suoi piedi con uno strano bisbiglio, come se ogni increspatura dell'acqua, frangendosi, avesse pronunciato le sillabe di una parola. Jirel sollevò lo sguardo, cercando di localizzare l'origine delle luci cadenti, ma le strane stelle continuarono a fissarla dall'alto, indifferenti e immobili. Lei si curvò, e guardò in basso, verso il centro delle increspature bisbiglianti, e dove era caduta la cosa luminosa le parve di veder scintillare
una nuova luce, attraverso l'acqua. Non riuscì a determinare di che si trattasse, e dopo un momento di curiosità rinunciò a porsi la domanda, e cominciò a cercare il tempio di cui aveva parlato il demone di luce. Dopo un istante le parve di vedere qualcosa di scuro al centro del lago, e quando ebbe fissato quel punto per alcuni minuti, la visione si fece gradualmente più nitida, un arco di oscurità sullo sfondo stellato dell'acqua. Poteva trattarsi di un tempio. Jirel camminò lentamente lungo l'orlo del lago, cercando di avere una più chiara visione, perché la cosa non era altro che tenebra sullo sfondo delle minuscole luci, come un punto vuoto, nel cielo, ove non brillassero stelle. Dopo un po' incespicò in qualcosa che si trovava nell'erba. Abbassò lo sguardo, sorpresa, e vide una strana oscurità indistinguibile. Era solida al tatto, ma quasi indiscernibile all'occhio, perché Jirel non riusciva, per chissà quale motivo, a mettere bene a fuoco la vista. Era come cercare di vedere qualcosa che non esisteva, se non come un vuoto, come un'oscurità più accentuata tra l'erba. Aveva la forma di un gradino, e quando lei seguì quella sagoma indefinita con lo sguardo, vide che si trattava dell'inizio di un indistinguibile ponte che sorgeva sopra il lago, stretto e curvo e fatto di nulla. Pareva non avere superficie, e i suoi contorni erano difficili da distinguere dall'oscurità minore dell'aria che lo circondava. Ma la cosa era tangibile... un'arcata ricavata dalla solida oscurità... e portava nella direzione che lei desiderava seguire. Perché Jirel era ingenuamente sicura, ora, che la macchia indistinta al centro del lago fosse il tempio che stava cercando. Le stelle cadenti l'avevano guidata, e lei non avrebbe potuto perdersi. Così strinse i denti, e impugnò più forte l'elsa della spada, e posò il piede sul ponte. Era solido come roccia, sotto di lei, ma era largo meno di trenta centimetri, e non aveva parapetto. Quando ebbe percorso un paio di passi sul ponte, cominciò ad avvertire una specie di vertigine; perché sotto di lei l'acqua si muoveva stranamente, si alzava e abbassava, facendole girare la testa, e le stelle scintillavano soprannaturali e misteriose nelle profondità del lago. Non osava distogliere lo sguardo, per timore di mettere un piede in fallo, o di cadere da quell'angusta arcata di oscurità e di nulla. Era come percorrere un ponte costruito su un abisso orrendo, con le stelle sotto i piedi e nulla, all'infuori di un instabile nastro di oscurità, a sostenerla. A metà strada, il movimento delle acque e l'illusione di immensi spazi stellati sotto di lei, e l'aspetto del ponte, che pareva condurre a uno spazio vuoto, ed essere sospeso nel vuoto, si unirono nel farle girare la testa e vacillare il pas-
so; e mentre lei procedeva barcollando, il ponte pareva barcollare con lei, ondeggiando gigantesco attraverso il vuoto stellato sul quale sorgeva. Ora Jirel poteva vedere il tempio più da vicino, anche se non molto più chiaramente di quanto l'avesse visto dalla riva. Pareva una semplice forma dai contorni indistinti, una forma fatta di vuoto sullo sfondo del chiarore stellato che sorgeva tutt'intorno, con archi e colonne di oscurità sospese sulle acque scintillanti. Il ponte discendeva, con un'ampia, indistinta curva, fino alla soglia del tempio. Jirel percorse gli ultimi metri correndo, senza più curarsi del pericolo, e si fermò, ansante, sotto la grande arcata che formava l'indistinta soglia del tempio. Rimase là, ansimando forte, e guardandosi intorno a occhi socchiusi, brandendo la spada. Perché quel luogo era deserto e silenzioso, molto silenzioso, ma lei avvertiva ugualmente una presenza... l'aveva avvertita nel momento stesso in cui aveva raggiunto quella soglia. Stava fissando un angusto spazio di oscurità nel lago stellato. Non pareva esserci altro. Poteva vedere le mura e le colonne, là dove i loro contorni si stagliavano contro le acque, e dove formavano macchie di oscurità nel cielo stellato, ma nei. punti dove c'era solo il buio, alle loro spalle, era impossibile vedere. Era un luogo piccolo, non più di pochi metri quadrati di vuoto sulla faccia del lago scintillante. E al suo centro sorgeva un'immagine. Jirel la fissò in silenzio, avvertendo dentro di sé una strana compulsione, che aumentava a ogni istante, simile a un confuso comando che veniva da qualcosa che non si trovava in lei. L'immagine era di una sostanza nera, indefinibile, dissimile dal materiale che formava l'edificio, perché anche nell'oscurità le era possibile distinguerla chiaramente. Si trattava di una figura semiumana, accovacciata, con la testa protesa in avanti, asessuata e bizzarra. Il suo unico occhio era chiuso, come per qualche oscura estasi, e la bocca era protesa in un bacio. E benché non fosse che una statua, senza nessuna sia pur vaga parvenza di vita, lei avvertiva inconfondibilmente la presenza di qualcosa di vivo in quel tempio, qualcosa di così alieno e innominabile da riempirla di orrore, e l'istinto la spingeva a ritirarsi. Jirel rimase là, immobile, per un minuto intero, riluttante a entrare nel luogo ove albergava un essere così alieno, in parte consapevole di quella muta compulsione che cresceva dentro di lei. E lentamente si accorse che tutte le linee e gli angoli di quell'indistinto edificio erano disposti in modo da avere, come centro e punto focale, la statua semiumana. Lo stesso lungo
arco del ponte seguiva quel disegno. E guardando, le parve che, attraverso le colonne e le arcate, perfino le stelle del lago e del cielo fossero raggruppate in disegni che avevano come punto focale l'immagine aliena. Ogni linea e ogni curva di quel mondo oscuro parevano ruotare intorno a quella cosa che stava accovacciata davanti a lei, con l'occhio chiuso e la bocca protesa. Gradualmente, la disposizione universale delle linee e delle curve verso quel centro focale cominciò a esercitare il suo influsso anche su Jirel. Esitando, lei mosse un primo passo avanti, senza neppure accorgersi del movimento. Ma quel passo era stato l'unica cosa che l'ordine dormiente dentro di lei aveva chiesto per risvegliarsi in tutta la sua forza. Con quel solo moto in avanti, la compulsione l'afferrò, con l'impeto di un uragano. Ormai impotente, Jirel si accorse di avanzare, mentre con una piccola parte ancora lucida della sua mente si rendeva conto della pazzia che la stava afferrando, della necessità cieca, irresistibile di fare ciò che ogni linea distinguibile nella costruzione del tempio pareva creata per indurre a compiere. Con le stelle che sciamavano intorno a lei, Jirel avanzò sul pavimento e posò la mano sulle spalle rotonde della statua... la spada, dimenticata, pareva un tributo offerto al collo ricurvo dell'immagine... poi sollevò la testa dai rossi capelli e posò ciecamente le labbra sulle labbra protese della statua. Come in un sogno, Jirel accettò quel bacio. In un sogno fatto di stordimento e di confusione parve sentire quelle labbra fredde come il ferro muoversi, sotto le sue. E attraverso l'unione di quel bacio... donna di sangue e carne, calda e viva, con l'immagine di pietra senza nome... attraverso l'incontro tra le loro bocche, qualcosa entrò nell'anima stessa di Jirel; qualcosa di freddo e paralizzante; qualcosa di alieno, al di là di qualsiasi descrizione, al di là di ogni parola. Si posò sulla sua anima tremante come un gelido peso venuto dall'abisso più vuoto e deserto, una bolla che conteneva qualcosa di infinitamente alieno e orribile. Poteva avvertire il peso di quella cosa, su una parte intangibile del suo essere che si sottraeva disperatamente al contatto. Era come il peso del rimorso o della disperazione, solo che era molto più gelido e più strano e... oscuramente... infinitamente più minaccioso, come se quel peso non fosse altro che l'uovo che, schiudendosi, avrebbe rivelato cose troppo orribili perfino per entrare fuggevolmente nei pensieri. Forse il momento del bacio non durò più del tempo di un respiro, ma per lei fu un'eternità. Come in un sogno, Jirel avvertì quella compulsione so-
prannaturale ritirarsi infine da lei. Come in un fievole, indistinto dormiveglia, le sue mani ricaddero dalle spalle della statua, trovarono la spada, pesante e solida, e i suoi occhi fissarono l'arma per un lungo momento; prima che un po' di lucidità ritornasse nella sua mente annebbiata. Quando ritornò completamente in sé, si accorse di essere in piedi, con il corpo stanco e la testa china, di fronte all'immagine cieca e voluttuosa, e quel peso morto che aveva sul cuore era orribile come un antico dolore, e più freddamente minaccioso di qualsiasi cosa lei potesse immaginare o descrivere. E con il ritorno della lucidità, un terrore immenso, allucinante, piombò sopra di lei, rapido e improvviso... terrore dell'immagine e del tempio di oscurità, e del lago dal freddo scintillare, e dall'intero mondo oscuro, immenso, spaventoso e triste che la circondava. Disperatamente, allora desiderò di ritornare a casa, anche alla rossa furia dell'odio, e alla pressione della bocca di Guillaume, e all'ardente arroganza dei suoi occhi. Tutto, tutto, all'infuori di questo che stava vivendo. Scoprì di essersi messa a correre forsennatamente, senza saperne il perché. I suoi piedi percorsero veloci e leggeri l'angusto ponte, come l'ala di un gabbiano può sfiorare il pelo delle acque. In un breve istante, l'abisso stellato del lago passò sotto di lei, e la solida terra della riva fu sotto i suoi piedi. Vide la grande colonna di luce ergersi lontano, oltre la nera distesa della prateria, e ancor più lontano la collina che sorgeva sullo sfondo delle stelle. E continuò a correre. Corse con il terrore alle calcagna e mille demoni che ululavano nel vento smosso dal suo stesso passare. Fuggiva dal suo stesso corpo, che era adesso stranamente alieno, pesante per il peso di una condanna inesplicabile, di una dannazione ancora peggiore di quella dell'anima. Attraversò la cavità ove pallide cose indefinite si scostarono tremolando, fuggì sopra le praterie diseguali in una frenesia di orrore e di terrore. Corse e corse disperatamente, con quei lunghi balzi leggeri che la minore gravità le permetteva, più veloce di una gazzella; il panico le chiudeva la gola, e quel peso che gravava sulla sua anima era troppo spaventoso anche per permetterle lo sfogo delle lacrime. Correva per sfuggire a quel peso, e non poteva; e la fatale certezza di portare con sé qualcosa di troppo spaventoso anche soltanto per essere pensato cresceva e cresceva, e lei non poteva arrestarla. Corse così per molto tempo sull'erba, piccola figura solitaria nella pianura, instancabile, con le ali ai piedi, e i rossi capelli che si muovevano nel vento. Il panico diminuì, dopo qualche tempo, ma la sensazione di un disastro incombente non si allentò. Sentiva, confusamente, che le lacrime sarebbero state uno sfogo, ma qualcosa, nella gelida oscurità della sua anima,
raggelava le lacrime nel ghiaccio di quel freddo grigio e alieno. E gradualmente, attraverso le tenebre interiori, una feroce anticipazione prese forma nella sua mente. Vendetta, vendetta su Guillaume! Lei aveva preso dal tempio soltanto un bacio, così era un bacio che lei ora doveva dare a Guillaume. E selvaggiamente, rabbiosamente, Jirel esultò al pensiero di ciò che avrebbe scatenato quel bacio sull'uomo inconsapevole. Non sapeva di che cosa si sarebbe trattato, ma immaginarlo, ora, la riempiva di gioia crudele. Aveva già oltrepassato la colonna, e la palude dove le forme bianche e cieche balzavano ancora goffamente tra i vapori e l'acquitrino, e stava attraversando la distesa d'erba ruvida verso la collina che si avvicinava sempre più, quando il cielo cominciò a impallidire, all'orizzonte. E con quel pallore un nuovo terrore s'impadronì di lei, un folle terrore della luce del giorno in quella landa maledetta. Non sapeva se fosse stata l'idea della luce a incuterle un terrore così innominabile, o piuttosto ciò che la luce avrebbe rivelato nelle distese oscure che lei aveva attraversato così ciecamente... chissà quali ignoti orrori lei aveva sfiorato nella notte. Ma sapeva, istintivamente, che se la sua ragione le era ancora cara, doveva andarsene prima che la luce del giorno avesse illuminato quella landa. E così aumentò ancora i suoi sforzi, costringendo il suo corpo già stanco a correre ancor più velocemente. Ma il tempo era un nemico inesorabile, perché già le stelle stavano impallidendo, e una macchia di uno strano colore verde si stava allargando nel cielo, e intorno a lei l'aria si faceva di un grigio vago e sgradevole. Salì lungo il pendio della collina, ansando. Quando fu a metà del pendio, la sua ombra cominciò a formarsi sulle rocce, ed era diversa, e spaventosamente indicativa di qualcosa che lei non riusciva a comprendere. Distolse lo sguardo da quell'ombra, temendo che, in qualsiasi momento, il significato che era appena al di là della sua comprensione potesse rivelarsi, facendole perdere per sempre la ragione. Poteva vedere la sommità della collina, sopra di lei, nera sullo sfondo pallido del cielo, e salì il pendio con una frenesia angosciata, stringendo la spada e provando la certezza che, se avesse dovuto guardare in piena luce gli orribili, immondi piccoli mostri che avevano danzato avidi intorno ai suoi piedi, quando era emersa dal passaggio, avrebbe cominciato a urlare, e non avrebbe più saputo interrompersi. L'imboccatura della caverna si spalancava davanti a lei, invitante, nella
sua oscurità rassicurante, un rifugio contro la luce che aumentava sempre più nell'alba, dietro di lei. Provò un desiderio quasi irresistibile di voltarsi, e di guardare, da quel punto elevato, la landa che aveva attraversato, e allora strinse con forza ancora maggiore la sua spada, per dominare quel perverso desiderio. Ci fu un movimento nelle rocce, ai suoi piedi, e lei strinse i denti e si morse il labbro, e mulinò la spada, rabbiosamente, davanti a sé, senza guardare in basso. Udì dei suoni brevi, degli squittii osceni, e i suoni viscidi, fangosi, di piedi sulle rocce, come fango caduto da una grande altezza, come... non volle pensare, e la spada colpì due, tre volte qualcosa che era in parte solido, e in parte no, e il rumore di qualcosa che si spiaccicava orribilmente le ferì gli orecchi, insieme al rumore di denti piccoli e crudeli che si chiudevano. E poi gli orrori immondi fuggirono giù per la collina, e lei avanzò, barcollando, soffocando l'urlo che chiedeva così imperiosamente di sfuggirle dalle labbra. Combatté contro quel desiderio crescente fino a quando non raggiunse l'imboccatura della caverna, perché sapeva che, se avesse ceduto, quel grido non sarebbe terminato se non con la rigidità della morte. Quando raggiunse l'imboccatura della caverna, dalle labbra le scendeva un rivoletto di sangue...: si era dovuta mordere le labbra crudelmente, per soffocare quel grido. E là, sulle pietre, scintillava qualcosa di piccolo, e lucente, qualcosa di amato e di familiare. Con un singhiozzo d'infinito sollievo Jirel si curvò e raccolse il crocifisso che si era strappata dal collo, quando era uscita in quella landa. E quando le sue dita si chiusero sull'oggetto, una immensa oscurità protettrice si distese sopra di lei. Ansando per il sollievo, Jirel cercò a tentoni la caverna, percorrendo ciecamente gli ultimi passi. L'oscurità era come una coltre impenetrabile sui suoi occhi, e lei l'accoglieva con gioia, ricordando in qual modo la sua ombra si era posata orribilmente sulle rocce della collina, quando era salita, ricordando i primi raggi di selvaggia, orribile luce solare, che'erano caduti sulle sue spalle. Avanzò incespicando nell'oscurità, riprendendo pian piano il controllo del suo corpo tremante, ritrovando un respiro meno affannoso, quietando lentamente il panico che l'albeggiare del giorno aveva destato così inesplicabilmente dentro di lei. E con il dissolversi di quel terrore, il peso cupo che gravava sul suo spirito si fece di nuovo più forte. L'aveva quasi dimenticato, nell'ondata di panico, ma ora l'incombente premonizione di orrori innominabili e di sventure si faceva più pesante e più opprimente nell'oscurità di quel cunicolo sotterraneo. Andò avanti a tentoni, sotto il peso di quel-
la desolazione, lentamente, china sotto il peso dello strano destino che portava dentro di sé. Nulla le sbarrò la strada. In quello stato di attonito stupore non se ne meravigliò neppure, né pensò che qualcuno degli indescrivibili orrori che potevano popolare quello strano mondo potesse, da un istante all'altro, sbarrarle la strada dell'uscita. Deserta, vuota e priva di minaccia, la via dell'uscita si stendeva davanti ai suoi piedi che incespicavano, guidati da occhi che non vedevano altro che tenebre. Solo una volta udì il suono di un'altra presenza... un rauco, frusciante respiro, e lo stridere di pelle squamosa sulla pietra... ma doveva trattarsi di qualcosa che si muoveva fuori della sua portata, perché non incontrò nulla. Quando giunse alla fine del cunicolo, e una fredda parete si levò davanti a lei, fu solo un'abitudine meccanica a indurla a cercare a tentoni, fino a trovare l'imboccatura del pozzo spiraleggiante. Saliva, con un pendio lieve, verso tenebre ancora più fitte. Jirel entrò, strisciando, trascinando la spada, fino a quando l'inclinazione crescente e il soffitto sempre più basso la costrinsero a distendersi bocconi. Poi, con le mani e i piedi, cominciò a issarsi su per la spirale infida e scivolosa. Prima di avere percorso molta strada, cominciò ad avanzare senza sforzo, rendendosi a malapena conto di muoversi contro la forza di gravità. Il curioso stordimento, la bizzarra vertigine, erano piombati nuovamente su di lei. Ancora una volta provò la curiosa sensazione di un cambiamento nella sostanza stessa del suo corpo, e attraverso quelle nubi di confusione e stordimento sentì di scivolare in circoli veloci, lungo la spirale, senza il minimo sforzo. Ancora una volta, oscuramente, ebbe la sensazione che gli angoli strani di quella spirale non avessero direzione, e che là non esistesse né l'alto, né il basso. E per molto tempo quello spiraleggiare continuò. Quando infine giunse al termine del cunicolo, e le sue dita si aggrapparono al bordo di quell'apertura che si trovava sotto il pavimento delle più profonde segrete di Joiry, si sollevò, faticosamente, e giacque per qualche tempo sul pavimento freddo e umido. A poco a poco le nubi di stordimento si dissiparono nella sua mente, lasciando solo quel minaccioso peso interiore. Quando l'oscurità ebbe cessato di roteare intorno a lei, e il pavimento fu di nuovo stabile, Jirel si alzò, stancamente, e calò di nuovo il coperchio sull'apertura, con le mani tremanti per il contatto con il freddo anello liscio che non aveva mai conosciuto i raggi del sole. Quando ebbe terminato quel compito, e si fu rialzata, si accorse del mo-
tivo dell'allentarsi delle tenebre intorno a lei. Una luce tremolante rischiarava il buco nel muro, là dove lei aveva rimosso le pietre... era stato un secolo prima? Quel bagliore l'accecò, per un momento, dopo il lungo soggiorno nelle tenebre più dense, e lei rimase là per qualche tempo, barcollando, con una mano sugli occhi, prima di avviarsi verso la familiare luce delle torce che, lo sapeva ormai, la stavano aspettando fuori. Era Padre Gervase, certamente, che stava attendendo con ansia il suo ritorno. Ma neppure lui aveva osato seguirla attraverso la breccia nel muro, giù, fino all'orlo del pozzo. Confusamente, Jirel sentiva che avrebbe dovuto essere esultante e sollevata, per essere ritornata sana e salva all'umanità del suo essere, alla casa che conosceva. Ma risalendo il pendio, incespicando spesso, verso la luce e la salvezza, avvertiva soltanto un cupo stordimento e un'oppressione fosca, perché un orrore senza nome pesava ancora sul suo spirito impaurito. Passò attraverso la breccia nella parete, e si ritrovò nel chiarore delle torce che l'aspettavano, ricordando, con un vago sorriso amaro, come avesse allargato di proposito quella breccia, pensando di ritornare fuggendo da chissà quale orrore, di avere chissà quali demoni alle calcagna. Ebbene, non c'era fuga possibile dall'orrore che lei portava dentro di sé. Le pareva che anche il suo cuore stesse rallentando i battiti, vacillando come qualcuno che abbia corso per molto tempo, e sia esausto. Uscì nel chiarore fumigante delle torce, esausta, con la bocca scarlatta per il sangue delle labbra che aveva morso per non gridare, e con le gambe nude, e i gambali, e la nuda lama della spada, immondi per la sudicia morte di quei piccoli orrori che sciamavano intorno all'uscita della caverna. I capelli rossi erano scarmigliati, e nel suo viso gli occhi avevano un'espressione vuota, gelida, allucinata, l'espressione di chi ha visto orrori innominabili. La bellezza forte, selvaggia, pulita come la lama di una spada, quella bellezza che era stata sua, ora appariva opaca e sporca, come la lama della spada; e vedendo l'espressione dei suoi occhi, Padre Gervase rabbrividì, e si fece il segno della croce. La stavano aspettando, in un gruppetto inquieto... il frate, nero e ansioso, Guillaume, splendido nel riverbero delle torce, alto e arrogante, e un manipolo di armigeri che brandivano le torce fumose, e spostavano il loro peso, nervosamente, da un piede all'altro. Quando vide Guillaume, la luce che si accese negli occhi di Jirel cancellò per un momento l'orrore senza nome che si celava dietro di essi, e il suo cuore ormai lento balzò, come un cavallo che abbia sentito gli speroni, facendo scorrere il sangue più forte nel-
le vene. Guillaume, splendido nella sua armatura, appoggiato alla spada, che la fissava dall'alto della sua figura superba, con la barbetta sporgente, immagine stessa del disprezzo e della vittoria. Guillaume, di fronte al quale Joiry era caduta. Guillaume. Ciò che lei portava nel più riposto nucleo del suo essere era più pesante di qualsiasi peso al mondo, così pesante che solo con uno sforzo poderoso lei poteva impedire alle sue ginocchia di piegarsi, così pesante che il cuore faticava in maniera terribile sotto il suo peso. Quasi irresistibilmente Jirel desiderava di cedere sotto quel peso, di affondare e affondare sotto quel carico troppo grave, di giacere, prona e sconfitta, nel luogo spoglio, grigio e freddo, del quale si rendeva conto così confusamente, come se lo vedesse attraverso nubi di bruma che sorgevano fitte e spesse intorno a lei. Ma c'era Guillaume, minaccioso e sorridente, e lei lo odiava così amaramente... doveva compiere l'ultimo sforzo. Doveva farlo, a ogni costo, perché ora sapeva che la morte era pronta ad accoglierla, se lei avesse portato per troppo tempo quel fardello, che lei aveva trovato un'arma a doppia lama, capace di colpire chi la brandiva, se il colpo mortale ritardava troppo. Questo lo seppe, attraverso le dense volute di nebbia che s'infittivano vieppiù nel suo cervello, e così mise tutte le sue forze nell'immenso sforzo che le costava attraversare lo spazio che la divideva da lui. Incespicò, e mosse un passo esitante, e poi un altro, e lasciò cadere la spada, con un cupo clangore, e sollevò le braccia verso di lui. Guillaume la strinse con forza, in un abbraccio sicuro, caldo, e lei lo udì ridere, trionfante e odioso, mentre abbassava il capo per accogliere il bacio che lei gli offriva, porgendogli la bocca. Doveva avere visto, in quell'ultimo momento prima che le labbra s'incontrassero, il lampo selvaggio di vittoria negli occhi di lei, e doveva esserne rimasto sorpreso. Ma non esitò. La sua bocca era imperiosa e pesante, sulle labbra di Jirel. Fu un lungo bacio. Lei sentì che l'uomo s'irrigidiva, tra le sue braccia. Sentì il freddo entrare nelle labbra che erano sopra le sue, e lentamente il peso tenebroso di ciò che lei portava si alleviò, si sollevò, si dissipò portando con sé i vapori che offuscavano la sua mente. La forza ritornò a fluire in lei. L'intero mondo ritornò vivo per lei, ancora una volta. Dopo qualche tempo, Jirel si liberò dalle braccia inerti di Guillaume, e fece un passo indietro, guardando il volto dell'uomo con occhi che brillavano di feroce, crudele trionfo. Vide che il colorito del suo volto si ritirava, e la rigidità della pietra copriva i suoi lineamenti sicuri e le cicatrici di molte battaglie. Solo i suoi
occhi rimanevano vivi, e c'era tormento in essi, e comprensione. Lei fu felice... aveva voluto che lui capisse qual era il prezzo che si pagava, per avere rubato un bacio alla Signora di Joiry. Sorrise, un debole sorriso, guardando quegli occhi torturati, aspettando. E allora vide qualcosa di gelido e di alieno insinuarsi in lui, permearlo lentamente, con un'emozione senza nome che nessun uomo avrebbe mai potuto sopportare, e che nessun uomo doveva mai avere provato in passato. Non poté darle un nome, ma la vide nei suoi occhi... un'emozione orribile, che carne e sangue non erano stati creati per sopportare, una disperazione infinita che solo un essere inimmaginabile, venuto da un abisso grigio e informe, poteva avere provato in passato... qualcosa di troppo orribilmente alieno per essere sopportato da una creatura umana. Lei stessa rabbrividì, di fronte a quel vuoto spaventoso e freddo che la fissava dagli occhi di Guillaume, e capì, guardando, che dovevano esistere molte emozioni e molte paure e molte gioie troppo lontane dalla comprensione dell'uomo per essere sopportate da una creatura di carne e di sangue, per essere sopportate senza scivolare nella più orribile delle morti. Vide l'orrore grigio insinuarsi lentamente in tutto il corpo dell'uomo, e sotto quel peso tremendo la stessa sostanza del suo corpo parve tremare. E ora si stava verificando un cambiamento visibile, fisico. Osservando, Jirel provò un orrore indicibile al pensiero che nel suo corpo e nella sua anima lei aveva portato il seme di quel mostruoso fiorire, e capì perché il suo cuore aveva esitato, sotto quel peso insopportabile. Guillaume era in piedi, rigido, con le braccia piegate, nella stessa posizione che aveva avuto quando Jirel si era liberata dal suo abbraccio. E ora il suo corpo cominciava a essere scosso da grandi brividi, come se lui stesse ondeggiando con il bagliore delle torce, come una grigia fiamma vacillante in armatura, con il tormento negli occhi. Jirel vide la sua fronte coprirsi di sudore. Vide scorrere dalla sua bocca un rivoletto di sangue, come se si fosse morso il labbro, per vincere l'agonia di questa nuova, incomprensibile emozione. Poi un ultimo tremito lo scosse violentemente, e lui rizzò di scatto il capo; la barba si puntò verso il soffitto, e i muscoli della sua gola forte si tesero, sporgendo come corde, e dalle sue labbra uscì un basso, lungo gemito così orribilmente inumano, così totalmente strano e alieno, che Jirel si sentì pervadere da un senso di gelo e di orrore, e si portò le mani agli orecchi, per non sentire. Aveva un significato... esprimeva qualche orribile emozione che non era né dolore né disperazione né collera, ma era infinitamente aliena e infinitamente triste. Poi le lunghe gambe di Guillaume si piega-
rono alle ginocchia, e lui cadde, con un clangore cupo di armatura, e giacque immobile sul pavimento di pietra. Capirono tutti che era morto. Non c'era possibilità di errore, nel modo in cui giaceva. Jirel rimase immobile, guardando il corpo caduto, e stranamente, le parve che tutte le luci del mondo si fossero spente di colpo. Un momento prima lui era stato così grande e vitale, così magnifico nel balenare rosso delle torce... poteva ancora sentire il suo bacio sulle labbra, e la forza e il calore delle sue braccia... Improvvisamente, con una forza accecante, Jirel capì quello che aveva fatto. Adesso sapeva perché una violenza così terribile l'aveva inondata, ogni volta che aveva pensato a lui... adesso capiva perché il demone di luce, assumendo la sua forma, aveva riso con tanta maligna derisione... adesso conosceva il prezzo che doveva pagare, per avere accettato un dono da un demone. Sapeva che non esisteva più luce per lei nel mondo, in nessun luogo, ora che Guillaume se ne era andato. Padre Gervase le prese il braccio, con gentilezza. Jirel si sottrasse a quel contatto, scrollando impazientemente il corpo, e s'inginocchiò accanto al corpo di Guillaume, chinando il capo, affinché i rossi capelli le cadessero sul viso per nascondere le sue lacrime. L'OMBRA DEL DIO NERO Black God's Shadow Weird Tales, dicembre 1934 Nei sogni di Jirel, una voce sottile e lontana continuava a gemere. Aprì gli occhi dorati nelle tenebre, e giacque immobile per un po' domandandosi cosa mai l'avesse destata, e fissando le ombre della sua stanza nella torre, ascoltando i familiari rumori notturni: la sentinella che si muoveva sul bastione, poco più in alto, il cigolare dell'armatura e il sommesso fruscio dei piedi che calpestavano la paglia, sparsa sulla pietra perché il rumore dei passi venisse attutito, e la Signora di Joiry potesse riposare tranquilla. E mentre se ne stava immobile là, nelle tenebre, d'un tratto la vecchia illusione l'assalì di nuovo. Avvertì la pressione di braccia forti, rivestite di maglia di ferro, e sentì il peso di una bocca barbuta che la baciava, insolente, e allora lei serrò le labbra per soffocare un'imprecazione contro la propria debolezza, e avvertì di nuovo il bruciore delle lacrime dietro le palpebre.
Giacque in silenzio, ricordando. Guillaume... così odioso e splendido nella bellissima armatura, che la fissava sorridendo dall'alto del trono... il trono di Jirel, nel salone del castello di Jirel, con i cadaveri dei soldati di Jirel disseminati intorno, sulle bandiere insanguinate. Guillaume... le sue braccia così forti intorno a lei, la sua bocca così pesante sulla sua. Perfino adesso la collera divampava come un fuoco nei suoi ricordi, rispondendo all'arroganza e al disprezzo del bacio del conquistatore. Eppure... era davvero collera?... era davvero odio? E come avrebbe potuto sapere lei, prima di averlo visto morto ai suoi piedi, come non era stato l'odio il sentimento che l'aveva animata di un fuoco così violento al ricordo delle sue braccia, e al ricordo che lui, solo lui aveva sconfitto i suoi uomini e vinto l'invincibile Joiry? Come avrebbe potuto saperlo, prima del momento ultimo, quello della vendetta? Perché lei era stata la condottiera della fortezza più inespugnabile del regno, e non aveva mai chiamato nessun uomo padrone, e il suo massimo vanto era stato quello di proclamare che Joiry non poteva cadere, e che nessun uomo avrebbe potuto toccarla senza l'invito del suo sorriso. No, non era stato l'odio, ciò che aveva risposto alla travolgente arroganza di Guillaume. Non l'odio, anche se il fuoco e la furia di quel sentimento avevano percorso tutto il suo essere come un'onda di pazzia. Tanti amori avevano debolmente rischiarato gli anni della sua vita, come deboli fiammelle pronte a spegnersi al primo soffio di vento... come avrebbe potuto, lei, riconoscere quell'impeto di violenza inebriante per ciò che era realmente, come avrebbe potuto farlo prima del momento ultimo... quando ormai era stato troppo tardi? Ebbene, ormai era finito. Jirel era discesa per il passaggio segreto noto solo a lei e a un'altra persona, giù in quell'oscuro inferno senza nome proibito a chiunque portasse una croce, là dove il regno di Dio terminava alle porte, e nessuno poteva dire quali strani e terribili dèi lo dominassero. Ne ricordò l'oscurità stellata, e le voci che piangevano e gridavano nel vento, e i cupi pericoli che lei non aveva saputo comprendere. Niente altro che la fiamma del suo... odio?... avrebbe potuto condurla laggiù, e niente altro che la sua violenza avrebbe potuto sostenerla lungo le strade tenebrose che aveva percorso alla ricerca di un'arma capace di uccidere Guillaume. Bene, lei aveva trovato quell'arma. Aveva raccolto il bacio del dio nero. Pesante e gelido sulla sua anima, lo aveva portato con sé, per la strada del ritorno, ne aveva avvertito il peso terribile su un angolo impalpabile del suo essere, che aveva tremato e aveva cercato di sottrarsi a quel contatto
senza nome. Quel fardello le aveva sporcato l'anima, ma lei non aveva sospettato quale terribile potenza vi fosse nascosta... come il germoglio di un seme di una pianta infernale, nato per uccidere l'uomo che lei amava. Quell'arma era stata potente. Sorrise, amaramente, al ricordo... al ricordo del suo ritorno, e dello sguardo di trionfo con cui lui aveva accettato quel bacio venuto dall'inferno, senza comprendere... E le parve di rivedere il frutto spaventoso della vendetta, quando il gelo nella sua anima si era spostato, attraverso il contatto delle labbra, per affliggere l'anima di Guillaume. Vide di nuovo il diffondersi di quell'emozione senza nome venuta di Là attraverso il corpo tremante di Guillaume, una disperazione terribile che né il sangue, né la carne, erano in grado di sopportare. Sì, un'arma potente. Lei avrebbe messo a repentaglio la propria anima per cercarla, e l'aveva ucciso col bacio di un dio maledetto, e aveva compreso troppo tardi che non avrebbe mai potuto amare un altro uomo. Guillaume... alto e splendido nella sua armatura, con la corta barba nera divisa dal biancheggiare del suo sorriso, e l'arroganza sul volto sprezzante e altero e segnato dalle cicatrici di molte battaglie. Guillaume... il cui bacio l'avrebbe ossessionata per tutte le notti della sua vita. Guillaume... che era morto. Nel buio nascose il volto nelle braccia piegate, e i capelli rossi caddero in avanti, per soffocare i suoi singhiozzi. Jirel non si accorse del momento in cui scivolò di nuovo nel sonno. Ma dopo qualche tempo, si ritrovò sola in un luogo fioco e indistinto, attraverso le cui nebbie la voce lontana gemeva in modo straziante. Era una voce familiare, con una strana nota di supplica... una vocina triste e perduta, che gemeva nel buio. — Oh, Jirel — gemeva, sottile come un giunco, un filo esilissimo di suono. — Oh, Jirel... tu che mi hai ucciso... E nel sogno il suo cuore si raggelò, e... benché lei non avesse ucciso un solo uomo, ma molti... le sembrò di riconoscere quella voce, pur così esile e sottile nell'oscurità incorporea del suo sonno. E allora trattenne il fiato, ascoltando. E ritornò, la voce: — Oh, Jirel... è Guillaume che ti chiama! Guillaume, che tu hai ucciso. Non c'è dunque fine alla tua vendetta? Abbi pietà, tu che mi hai ucciso! Libera la mia anima dal tormento del dio nero. Oh, Jirel... Jirel... imploro la tua misericordia! Jirel si destò, con gli occhi pieni di lacrime, e rimase immobile, fissando l'oscurità, ricordando quel debole, pietoso lamento che un tempo era stato la voce profonda, risonante di Guillaume. Rimase a guardare il buio... e a pensare. Il dio nero? Sì, Guillaume era morto impreparato, con tutti i pec-
cati ancora su di lui, e per questo lei aveva pensato che la sua anima sarebbe precipitata nelle profondità dell'inferno. Eppure... poteva essere così? In virtù del potere di quel bacio infernale, che lei si era procurata come arma contro Guillaume sfidando quello strano luogo oscuro e sotterraneo... quel bacio così totalmente alieno, insieme alla morte aliena che aveva ghermito l'uomo, forse avevano condotto la sua anima nuda in luoghi sconosciuti, a vagare sperduta e sola, attraverso quell'inferno senza nome rischiarato da strane stelle, dove i fantasmi si muovevano in forme bizzarre attraverso il buio. E lui aveva invocato pietà... Guillaume, che in tutta la vita non aveva chiesto pietà a nessuna creatura vivente. Jirel udì il cambio della guardia sui bastioni, in alto, e ricadde in quel torpore inquieto, e di nuovo entrò nel luogo indistinto ove la vocetta sottile piangeva nella nebbia, chiedendole misericordia, per la sua vendetta. Guillaume... il fiero Guillaume, con la voce profonda e gli occhi indomiti e sprezzanti. L'anima perduta di Guillaume che gemeva e piangeva nei suoi sogni... — Abbi pietà di me, tu che mi hai ucciso! — ... e di nuovo Jirel si ridestò con il pianto negli occhi, e si mise a sedere, guardando intorno a sé, nelle tenebre, con occhi dilatati dall'angoscia, convinta di udire ancora l'eco di quella vocina smarrita che piangeva. E quando il suono svanì dai suoi orecchi, seppe che doveva discendere ancora una volta laggiú. Per molto tempo rimase immobile, tremando un poco, e costringendosi ad accettare quel pensiero. Jirel era una donna coraggiosa, e una guerriera implacabile, e tra tutti i suoi armigeri; lei era il soldato più audace e indomabile. Non c'era uomo, per chilometri e chilometri intorno, che non temesse e rispettasse la Signora di Joiry... la sua bellezza tagliente come una spada, e il suo coraggio, e il suo valore in battaglia. Ma al pensiero di ciò che avrebbe dovuto fare per salvare l'anima di Guillaume, il vento gelido del terrore si mise a soffiare intorno a lei, e il suo cuore palpitò, scosso da un cupo presentimento. Scendere di nuovo là... là, in quel buio pericoloso, rischiarato da strane stelle, tra pericoli ancor più spaventosi di quanto lei potesse immaginare o descrivere... osava farlo? Aveva il coraggio di andare? Finalmente si alzò, maledicendo la propria debolezza. Le stelle, attraverso la finestra alta e stretta, la videro indossare la tunica di daino, e sopra un'altra corta tunica di maglia di ferro. Infilò i gambali di un legionario romano scomparso ormai da molto tempo, affibbiandoli intorno alle gambe
forti e snelle, e, come in quella notte indimenticabile e vicina, in cui si era vestita allo stesso modo per compiere lo stesso viaggio, prese la lunga spada a doppia lama, tenendola per l'elsa sguainata. Poi si avviò, scendendo per i meandri notturni del castello addormentato. Le segrete di Joiry sono profonde, e lei discese per molto tempo attraverso i corridoi umidi e sgocciolanti, passando davanti alle celle dove le ossa dei nemici di Joiry marciavano, ancora prigioniere di catene dimenticate. E lei, che non temeva uomo vivo, ebbe paura in quell'oscurità sussurrante, e strinse a sé la spada, e toccò la croce che portava al collo con dita nervose. Il silenzio le faceva dolere le orecchie con il suo peso incorporeo, e il buio era come una benda sui suoi occhi ansiosi. Alla fine dell'ultimo passaggio, dalle pareti che trasudavano umidità, nelle profondità delle segrete, giunse davanti a una parete. Con la mano libera, si mise al lavoro, per rimuovere le pietre libere dai loro posti, fino a formare un'apertura sufficiente a permettere il passaggio del suo corpo... cercando di non pensare che in quello stesso luogo, alla fine di quella spaventosa notte, Guillaume era morto, con il bacio del dio nero ardente sulle labbra, e un tormento senza nome negli occhi, proprio lì, su quelle pietre. Attraverso l'oscurità i suoi occhi potevano vedere, vivida, quella scena rischiarata dalle torce fumose, e il lungo corpo di Guillaume, rivestito dalla maglia di ferro, disteso sul pavimento umido. Non avrebbe mai dimenticato quel momento. Forse, anche dopo la morte, lei avrebbe ricordato l'odore acre, fumoso delle torce, e il gelo delle pietre sotto le sue ginocchia nude, quando si era inginocchiata accanto al corpo dell'uomo che aveva ucciso; il senso orribile di soffocamento in gola, e il tocco dei capelli rossi sulle guance, capelli che scendevano per nascondere le lacrime agli occhi degli armigeri silenziosi e attenti. E Guillaume... Guillaume... Strinse le labbra, risoluta, e dedicò la mente al lavoro necessario per rimuovere le pietre. Dopo qualche tempo, ci fu un'apertura abbastanza ampia per il suo corpo snello, e lei avanzò, immergendosi nell'oscurità solida che si stendeva più avanti. I suoi piedi furono su di una rampa inclinata, e lei avanzò cautamente, esplorando il terreno con le dita, prima di appoggiarvi tutto il peso del corpo. Quando il fondo si livellò, Jirel s'inginocchiò, e cercò intorno a tentoni, alla ricerca del cerchio che ricordava così bene. Lo trovò, insieme a quel curioso anello freddo che si trovava al centro, fatto di un metallo senza nome sul quale, la luce del giorno non aveva mai brillato: un metallo così liscio e freddo e strano che le sue dita rabbrividirono, quando lo strinsero, facendo forza. La pietra era pesante. Come l'al-
tra volta, dovette tenere la spada tra i denti, perché non osava posarla al suolo, e usare entrambe le mani, per sollevare quel strano circolo di pietra. E finalmente la pietra si alzò, con uno strano suono che somigliava a un riluttante sospiro, come se qualcosa avesse allentato la stretta, dal basso... Jirel rimase seduta sul bordo, per un momento, con i piedi sull'apertura, raccogliendo tutto il proprio coraggio per lanciarsi nel buio più profondo. Quando infine non osò più attendere, per timore che un altro istante di esitazione non le avrebbe più permesso di discendere, respirò profondamente, strinse forte la spada, e si calò nel buio. Quella doveva essere la più strana discesa che il mondo avesse mai conosciuto: non un pozzo, ma una. spirale sinuosa che discendeva in una serie di nodi avvitati, continui: una spirale che non era stata creata per venire percorsa da creature umane, ma dove, in qualche era insondabile, un essere umano aveva scavato appigli per le mani e i piedi, così che Jirel poté discendere più lentamente di quanto avrebbe dovuto se la caduta fosse stata libera. Come l'altra volta discese la spirale, con dolcezza, limitandosi a frenare la velocità solo in qualche occasione, quando le pareva di scendere troppo rapidamente. E dopo qualche tempo, il malessere già noto la prese: quello stordimento interiore, inesplicabile, come se la spirale la stesse portando non solo attraverso lo spazio, ma anche attraverso le dimensioni, e la struttura stessa del suo corpo si alterasse e cambiasse nel mutevole spiraleggiare. E pareva anche che la discesa fosse più lenta di quanto sarebbe stata normale in qualsiasi altro pozzo. Quello non era un libero scivolare verso il basso... anzi, non c'era neppure l'impressione della caduta. Nella spirale non esistevano né alto, né basso, e il malessere s'intensificò, fino a quando, nel vorticare di nodi e anelli, e nello stordimento intenso, Jirel perse ogni cognizione del tempo e della distanza, e si limitò a scivolare attraverso le tenebre in uno strano torpore. E infine, dopo un tempo incalcolabile, la spirale si raddrizzò, e il declivio si fece meno ripido, e lei capì di essere ormai vicina alla fine del passaggio. Fu difficile procedere, allora, spingendo il proprio corpo lungo il pendio appena accentuato con la forza delle mani e delle ginocchia, e quando infine uscì all'aperto, sempre nell'oscurità, si alzò in piedi, e rimase ansante, con la spada in mano, tendendo i sensi e lo sguardo nell'impenetrabile oscurità di quel luogo che non doveva aveva l'uguale in nessun punto del mondo, o al di fuori. C'erano pericoli, là, ma Jirel non ci pensò nep-
pure, incamminandosi nelle tenebre, perché la sua mente era fissa sui più grandi pericoli che si trovavano più oltre. Ciò nonostante, avanzò con prudenza, muovendo la spada continuamente davanti a sé, per non correre il rischio di scontrarsi inconsapevole con qualche orrore invisibile. Era una sensazione spiacevolissima, quell'avanzare a tentoni nell'oscurità, avvertendo lo sguardo di occhi invisibili fissi su di lei, sentendo molte oscure presenze intorno a lei, vigili, intente. Per due volte, udì un respiro rauco, e a un certo punto sentì l'impatto di grandi piedi viscidi sulla pietra, ma nulla la toccò, né tentò di impedirle il passaggio. Malgrado ciò, stava tremando per la tensione e il terrore, quando infine raggiunse la fine del passaggio. Non c'erano segni visibili ad avvertirla della fine di quel passaggio, ma, come l'altra volta, improvvisamente Jirel avvertì l'allentarsi dell'oppressione di quelle indescrivibili masse di terra sopra e intorno a lei. Era in piedi sulla soglia di un vuoto immenso e strano. L'oscurità stessa aveva una qualità diversa... e qualcosa cominciò a stringerle la gola, dandole un senso di oppressione diverso e insostenibile. Jirel impugnò la spada con forza maggiore, e cercò il crocifisso che portava al collo... lo trovò... e sollevò la catenella, facendola passare sopra la testa. Istantaneamente, un'esplosione di luce accecante colpì i suoi occhi, abituati all'oscurità, con più violenza di un impatto fisico. Era in piedi sull'imboccatura di una caverna, situata in alto, sul fianco di una collina, e guardava il giorno più abbagliante che avesse mai visto. Luce e calore sfavillavano nel riverbero: una luce dai colori strani, una nebbia di calore che danzava e tremava. Il giorno, sopra una landa spaventosa. Jirel lanciò un grido inarticolato, e mise una mano sugli occhi feriti, indietreggiando alla cieca, un passo dopo l'altro, nel buio protettore della caverna. La notte in quella landa era già abbastanza terribile, ma il giorno... no, lei non osava guardare quello strano inferno se non quando l'oscurità notturna l'avesse velato. Ricordava bene quell'altro viaggio, quando aveva salito precipitosamente la collina, tremando, distogliendo lo sguardo dal terrore della sua stessa ombra deforme che si formava sulle pietre. No, doveva aspettare, per tutto il tempo che sarebbe stato necessario; perché, anche se era stato di notte che lei era partita dal mondo esterno, in quel luogo era giorno pieno, e forse il giorno in quella landa aveva durata diversa da quello che lei conosceva. Indietreggiò ancora, nel profondo della caverna, finché quel giorno pau-
roso non fu altro che un vago chiarore nelle tenebre, e sedette, appoggiando la schiena alla roccia, e tenendo la spada sulle ginocchia nude, in attesa. Quella luce indistinta sulle pareti aveva sfumature strane, colori che lei non aveva mai visto nella luce del giorno terrena. Le pareva un continuo, mutevole scintillare... una luce che impallidiva e si accentuava e impallidiva di nuovo, come se l'illuminazione non fosse stata costante, fissa, ma... diversa. Nel suo fluttuare, quella luce aveva quasi la stessa qualità del chiarore proiettato dal fuoco, o dalle torce. Molte volte, qualcosa parve passare davanti all'imboccatura della caverna, nascondendo per un istante la luce, e una volta lei vide una grande ombra curva disegnarsi sulla parete rocciosa, come se qualcuno si fosse fermato a scrutare l'interno della caverna. E al pensiero di ciò che poteva aggirarsi in quella landa nel chiarore del giorno, Jirel tremò, come se un vento gelido si fosse messo a spirare intorno, e cercò con dita tremanti il suo crocifisso, prima di ricordare che non lo avrebbe comunque sopportato. Aspettò a lungo, stringendosi le ginocchia con dita raggelate, osservando quel riverbero sulle pareti con una mescolanza di trepida attesa e di paura. Dopo qualche tempo, dovette appisolarsi brevemente: il sonno leggero e inquieto di chi è pronto a svegliarsi al minimo cenno di suono o movimento. Le parve che trascorressero mille eternità, prima che la luce cominciasse a impallidire sulle pareti della caverna. Jirel vide scemare quel chiarore. Non si muoveva attraverso la parete, come avrebbe dovuto fare la luce del sole. Il chiarore restava immobile, affievolendosi gradualmente, perdendo le sue sfumature di colori ultraterreni, acquistando l'azzurro della sera. Jirel si alzò, e cominciò a camminare avanti e indietro, per ridare un po' di vita al suo corpo intorpidito. Ma solo quando quel chiarore fu diventato un'ombra quasi impercettibile, e la pietra ritornò oscura quasi quanto la notte, lei osò avventurarsi di nuovo verso l'imboccatura della caverna. Ancora una volta, si ritrovò in piedi sul fianco della collina, e guardò una landa rischiarata da strane costellazioni che si stendevano attraverso i cieli formando disegni dai contorni incomprensibili, che però avevano una strana, angosciosa familiarità. E, guardando quel distendersi di forme ignote nei cieli, Jirel provò ancora una volta la certezza di non trovarsi in una caverna sotterranea, neppure di dimensioni colossali; quella landa si trovava altrove, perché era aria aperta quella che lei respirava, ed erano stelle nel vuoto celeste quelle che lei vedeva, e qualunque fosse stata la strada seguita per giungere là, era sicura di non trovarsi sotto la superficie della
terra. Sotto di lei, si stendeva l'oscura contrada indistinta nel chiarore stellare. E non si trattava dello stesso paesaggio che aveva visto in quell'altro viaggio. In lontananza, nessuna possente colonna di luce priva d'ombra spaziava verso il cielo. Jirel colse lo scintillare di un grande fiume là dove la prima volta non c'era stato nessun fiume, e il suolo, qua e là, era come una scacchiera di luminescenza pallida, come una successione di campi luminosi disposti in ordine sul regno delle tenebre. Cominciò a scendere dalla collina lentamente, pronta a subire l'attacco di quei piccoli orrori che guaivano, che già una volta avevano infuriato intorno alle sue ginocchia. Ma le creature non vennero. Sorpresa, sperando contro ogni speranza di potersi risparmiare quella lotta nauseante, lei continuò il cammino. La discesa fu più lunga di quanto ricordasse. Sassi rotolavano sotto i suoi piedi, e l'erba dura e ruvida le graffiava le ginocchia. Scendendo, si domandava da quale punto avrebbe dovuto iniziare la ricerca, perché in tutta quella landa oscura e mutevole non vedeva nulla che potesse guidarla, e la voce di Guillaume non era altro che il ricordo pallido di un sogno. Non era neppure in grado di ritrovare la strada per raggiungere il lago del dio nero, perché l'intero paesaggio era cambiato, a tal punto da esserle completamente irriconoscibile. Così quando, senza venire molestata, giunse ai piedi della collina, si avviò verso una direzione scelta a caso, sulla terra nera, correndo come l'altra volta grazie alla strana, danzante leggerezza del corpo, come se la forza di gravità in quel luogo fosse stata minore che nel mondo dal quale lei veniva: e la terra pareva scivolare sotto i suoi piedi veloci, che la sfioravano appena. Era come un sogno, quello scivolare senza sforzo attraverso le tenebre, leggera come il vento. Dopo qualche tempo, cominciò ad avvicinarsi a una di quelle macchie luminose che sembravano campi, e allora vide che si trattava veramente di una specie di giardino. La luminosità veniva da miriadi di piccole luci guizzanti, piantate in ogni filare, e quando si avvicinò ancor più vide che le luci erano piccoli insetti, più grossi delle lucciole, e con ali luminose che le creature battevano vanamente nell'aria, guizzando di qua e di là nel futile tentativo di liberarsi. Perché ognuna delle creature era attaccata al suo minuscolo stelo, come piante spuntate già vive e luminose dal suolo. Ce n'erano filari e filari, che tracciavano regolari disegni nell'oscurità. Jirel non si chiese neppure chi avesse piantato quello strano seme in quel
luogo, o per quale strano fine. Correndo, attraversò un angolo del campo, e passando ruppe alcuni steli, liberando i piccoli prigionieri lucenti. Ronzarono in uno sciame irato intorno a lei, allora, furiosi come api, e là dove un'ala luminosa toccava la sua pelle, produceva un bruciore intenso. Dopo qualche tempo, Jirel riuscì a liberarsi di quel nugolo luminoso, e continuò a correre, cercando però di aggirare gli altri campi, resa prudente dall'esperienza. Attraversò un torrente che parlava tra sé nel buio, con uno strano suono bisbigliante, così simile a una voce umana da farla arrestare per un momento ad ascoltare; poi le parve di avere colto qualche parola, dal significato così spaventoso da indurla a correre via di nuovo, dubbiosa sul fatto che fosse stata solo un'illusione. Una brezza si levò, e sollevò i capelli rossi dai suoi orecchi, e le parve di udire, in quella brezza, il riverbero remoto di un lamento. Si fermò, allora, ad ascoltare, e anche la brezza si fermò. Ma era sicura di avere udito di nuovo quella voce, e dopo un istante di esitazione si voltò nella direzione da cui era venuta la brezza. Portava verso il fiume. Il terreno si fece più accidentato, e Jirel cominciò a udire il rumore di acqua corrente, un suono sommesso e impetuoso, e dopo qualche tempo di nuovo la brezza le sfiorò il volto. Ancora una volta, le parve di udire la remotissima eco della voce che aveva invocato aiuto nei suoi sogni. Quando giunse sul ciglio dell'acqua, si fermò per un momento a guardare in basso, là dove il fiume scorreva veloce tra gli argini ripidi. L'acqua aveva un aspetto sottilmente diverso da quella dei fiumi che Jirel conosceva... sembrava più densa, pur scorrendo così veloce. Quando si sporse per vedere meglio, il suo viso apparve orribilmente riflesso su quella superficie increspata, in un modo quale nessun'acqua terrena avrebbe potuto riflettere, e quando l'immagine fu ben delineata, l'acqua si aprì, violentemente, balzando verso l'alto e ricadendo, come se d'un tratto una grande roccia si fosse sollevata dal suo letto. C'era un'orribile avidità, in quel sorgere d'acqua, come se l'acqua fosse famelica di raggiungerla, sollevandosi in lunghi balzi avidi verso gli argini rocciosi per ricadere rumorosamente nel fiume. E ad ogni balzo saliva più in alto, verso la sommità dell'argine, e Jirel indietreggiò, provando un senso di allarme, una cupa inquietudine che ingigantiva dentro di lei al pensiero di cosa sarebbe potuto accadere se l'acqua fosse arrivata abbastanza in alto.
Quando lei indietreggiò, subito il tumulo dell'acqua si quietò, e dopo qualche istante lei capì, dal suono, che il fiume aveva ripreso a scorrere normalmente. Rabbrividendo un poco, Jirel continuò a risalire il corso della corrente, verso il punto dal quale era venuta la brezza. A un certo punto, cadde in una macchia di tenebra assoluta, e l'attraversò alla cieca, piena di terrore al pensiero di cadere nel fiume; ma riuscì a liberarsi da quella curiosa sacca nera senza incidenti. E, più avanti, il terreno sotto i suoi piedi veloci parve ammorbidirsi come gelatina, e percorrendo quella sezione instabile lei riuscì a stento a conservare l'equilibrio. Ma la brezza leggera soffiava, e si spegneva, e tornava a soffiare, e le parve che quella remota eco di un grido fosse sempre più chiara. Le parve, quasi, di cogliere il remoto suono di «Jirel» portato dal vento, e subito affrettò il passo. Da qualche tempo, ormai, Jirel notava un crescente pallore all'orizzonte, e si domandava inquieta se per caso la notte fosse così breve, in quella landa... e l'alba ormai vicina. Ma no... non era possibile, perché ricordava bene quell'altra alba terribile, dalla quale lei era fuggita così disperatamente... quell'alba aveva circondato come un anello l'intero orizzonte, come se il giorno fosse sorto in un solo, vasto circolo intorno a quella landa senza nome. Ora soltanto un punto, ai confini del cielo, mostrava quella luminosità inquietante. L'alone era colorato di verde, una sfumatura che si accentuò, gradualmente, e dopo qualche tempo sopra le lontane colline si alzò il bordo di una grande luna verde. Le stelle impallidirono, tutt'intorno. Una nube passò galleggiando davanti alla sua faccia verdastra, parve torcersi per un istante, come in un impeto di celestiale agonia, quindi svanire in uno sbuffo di nebbia, lasciando di nuovo limpida la luna verde. Ed era la faccia butterata di una luna bizzarra, attraverso cui cose indistinte si muovevano lentamente. Pareva quasi che la luna avesse un'atmosfera propria, con nuvole scure che vi galleggiavano pigre; e in questo caso, doveva produrre essa stessa la sua luce, perché quelle grandi masse lente rendevano fievole e indistinta la superficie, oscurandola, e la luna proiettava una luce debole, rispetto alla sua massa. Ma c'era luce sufficiente a riempire di grandi ombre la vasta landa dove Jirel correva, grandi ombre che. si torcevano e si muovevano mano a mano che le nubi lunari oscuravano o rivelavano la superficie verde, e l'intera scena notturna era più sconcertante e irreale di un sogno. E c'era qualcosa, in quell'irradiazione verde, che faceva dolere gli occhi di Jirel. Correndo, ora, lei viaggiava in un regno di ombre, ombre mostruose, or-
ribilmente diverse dalle cose che le proiettavano, e non c'erano due ombre uguali tra loro, anche se i corpi che davano loro vita erano identici. Lei non guardò più la propria ombra, che la seguiva sul terreno, dopo averle lanciato un primo, fuggevole sguardo, e aver provato un nuovo senso di sgomento e di paura. C'era qualcosa di così innaturale, in quell'ombra, eppure... eppure era simile a lei, una somiglianza terribile che non riusciva a capire. E più di una volta, Jirel vide grandi ombre spostarsi maestosamente sul terreno, senza che nessun oggetto visibile le producesse... nulla, solo quelle macchie dalle forme enigmatiche che scivolavano silenziose accanto a lei, e si scioglievano nell'oscurità più lontana. E quell'oscurità più lontana era la cosa più terribile. Jirel continuò a correre, lieve come il vento, verso l'origine del vento, tendendo l'udito per sentire ancora quell'invocazione lontana, passando ai margini delle ombre, cercando di evitarle, e tremando ogni volta che una vasta macchia oscura passava scivolando silenziosa sulla sua strada. La luna saliva lentamente nel cielo, tingendola notte di un verde livido, facendone una sola distesa viva di ombre mobili. A volte, le oscurità che si muovevano lente sulla sua faccia butterata si riunivano, e oscuravano interamente il grande disco, e lei correva per qualche tempo nell'oscurità totale, provando un senso di sollievo infinito, prima che le nubi lunari si dividessero di nuovo, e il verde volto morto tornasse a fissarla ciecamente dall'alto, percorso dalle nubi che si muovevano come la decomposizione sulla faccia di un cadavere. Durante una di quelle parentesi di oscurità, qualcosa si avventò ferocemente contro le sue gambe, e lei sentì lo stridore di denti furiosi sul gambale che indossava. Quando la luna apparve di nuovo, lei vide un lungo segno lucente sul metallo, e una goccia di veleno fosforescente che scivolava verso il terreno. Jirel raccolse una manciata d'erba, per asciugare quella goccia prima che giungesse al piede scoperto, e l'erba si ragrinzì tra le sue dita, non appena il veleno la toccò. E intanto, il fiume scorreva accanto a lei, perdendosi lontano, e gradualmente il suo alveo si restringeva, e l'impeto diminuiva; e così, lei comprese che ormai si stava avvicinando alla sorgente che lo generava. Quando il vento si alzava, ora, non c'era più dubbio che una voce invocasse il suo nome: una voce debole e lontana, un lamento fievole formulato da quella che era stata un tempo la voce roboante e altera di Guillaume. Poi il terreno cominciò a salire, e giù per il pendio che lei stava salendo, il fiume
cadeva tintinnando, un rivoletto d'acqua non più grande di un torrente. Il tintinnio era quasi articolato, ora. L'impeto del fiume non era stato altro che un ruggito minaccioso, ma la voce del torrente era deliberatamente chiara: una serie di brevi, argentine note che parevano sillabe, e parlavano di cose maligne. Lei cercò di non ascoltare, per paura di comprendere. La collina si faceva più ripida, e la voce del torrente si faceva più chiara e più forte, e cantava delicatamente, con i suoi toni d'argento velenoso, e sopra di lei, sullo sfondo delle stelle, Jirel cominciò a distinguere qualcosa di torreggiante sulla cima della collina: qualcosa che pareva una torva figura immobile come la collina che incoronava. Strinse più forte la spada e rallentò il passo, accostandosi timorosa alla cosa oscura che aspettava sulla cima della collina. Ma quando fu abbastanza vicina per distinguerla nel verde chiarore lunare, si accorse che era solo un'immagine rannicchiata là: una statua, forse, nera come le tenebre, che rifletteva uno scintillare cupo là dove la luce livida della luna toccava la sua superficie tenebrosa. La sua ombra si muoveva inquieta sul terreno. Il vento che l'aveva guidata si era spento, ora, e la notte era immobile e silenziosa. Jirel. rimase immobile, in quel silenzio carico d'attesa, davanti all'immagine, e le stelle tessevano i loro disegni bizzarri nel cielo, e la luce torva della luna ruscellava su di lei, e nulla si muoveva, in nessun luogo, tranne quelle enigmatiche ombre che non conoscevano quiete. L'immagine aveva la forma di una cosa nera e cadente, con la testa piccola incassata tra le spalle, e grandi braccia pendule, che giungevano a toccare il terreno. Ma qualcosa, in quella visione, qualcosa d'indefinibile e osceno, le ricordava Guillaume. C'era qualcosa, nelle linee e negli angoli dell'immagine, che era una parodia mostruosa del corpo forte e perfetto di Guillaume, della posa della sua testa orgogliosa, dell'arroganza del mento, Jirel non riuscì a individuare una somiglianza ben distinta, ma c'era... senza dubbio. Ed era tutto ciò che di brutto esisteva in Guillame... lo capì, in quel momento, fissando l'immagine. Tutta la sua crudeltà, e l'arroganza, e la forza bruta. L'immagine poteva essere la raffigurazione dei peccati di Guillaume, e delle sue virtù erano rimaste solo le più deboli tracce, sufficienti a rendere ancora più orribili e detestabili i peccati. Per un istante, le parve di riuscire a vedere, dietro quella nera parodia, sollevandosi da essa e irrevocabilmente parte di essa, il nebuloso contorno del Guillaume che lei non aveva mai conosciuto, con il volto arrogante sconvolto dalla disperazione, lo splendido corpo che tentava inutilmente di
liberarsi da quella cosa oscena che era lui stesso... l'anima di Guillaume, che affondava profondamente le sue radici in quella cosa orribile che l'immagine raffigurava. E lei comprese la punizione... così giusta, eppure così infinitamente ingiusta. E quale sottile tormento il bacio del dio nero aveva preparato per lui! Vivere nella piena, spaventosa comprensione dei propri peccati, incatenato alla loro, manifestazione concreta, soffrendo per l'eternità nella forma oscena che innegabilmente era la sua... la parte peggiore e più bassa di lui. In un certo senso, era giusto. Guillaume era stato un uomo duro e crudele, in vita. Ma il fatto stesso che quella punizione gli provocava tanto tormento era la prova indiscutibile dell'esistenza di una parte più elevata e nobile del suo essere: qualcosa di buono e di nobile che si dibatteva, cercando di liberarsi da quell'orrore senza nome, La stessa parte migliore del suo animo era lo strumento che lo torturava, un'arma contro di lui, come i suoi peccati. Lei comprese tutto questo, nel lungo periodo senza tempo nel quale rimase là, con gli occhi fissi sulla figura torva della statua, assorbendo il significato del senso di orrore che le dava. E qualcosa si gonfiò, nella sua gola, un nodo soffocante, e il bruciore delle lacrime le fece dolere gli occhi. Rabbiosamente, lottò contro la debolezza, disperatamente decisa a scoprire un modo per riparare a ciò che aveva fatto a Guillaume, senza saperlo. E poi, tutt'intorno a lei, qualcosa di terribile e intangibile cominciò a formarsi. Una presenza ferrea che si manifestava solo con la forza oscura che Jirel avvertiva addensarsi su di lei, sempre più forte. Qualcosa di freddamente ostile a ogni cosa umana. La presenza del dio nero. Il dio nero, venuto per difendere la sua vittima contro una creatura totalmente aliena alla sua oscurità... una creatura che piangeva e tremava, ed era piena d'amore e di dolore, e disperata. Avvertì lo stringersi di quella forza inesorabile intorno a lei, sentì raggelare le sue lacrime, sentì che il calore e la tenerezza si trasformavano in ghiaccio grigio, e le parve di avere messo radici nel terreno, condannata a una rigida immobilità. L'aria parve scolorirsi intorno a lei, grigia di freddo, immobile per la totale presenza di morte dell'inumana entità che era il dio nero. Riuscì a scorgere fuggevolmente il luogo dove il dio la stava attirando: un luogo crepuscolare e immoto, pervaso da un gelido senso di morte, e che pure non ospitava la morte, ma qualcosa d'infinitamente più freddo e terribile. E un immenso peso la stava schiacciando. Il ghiaccio si
formava sulla sua anima, e la terribile, ferrea disperazione, che non aveva posto tra le emozioni umane, lentamente s'insinuò nelle fibre della sua anima. Si accorse che ormai il suo essere si trasformava in qualcosa di freddo e oscuro e rigido: una nera immagine del suo essere, un'immagine nera, torva, grottesca, per imprigionare la scintilla di conoscenza che ardeva ancora. Poi, come percorrendo un'infinita strada, da un altro tempo e da un altro mondo, venne la memoria delle braccia di Guillaume intorno a lei, e della pressione arrogante delle labbra dell'uomo sulle sue. Non era accaduto a lei. Era accaduto a un'altra persona, viva e umana, in un luogo lontano. Ma la memoria passò come fuoco attraverso il suo corpo rigido, quel corpo che lei aveva quasi dimenticato di possedere, tanto era freddo e immobile... la memoria di quella bizzarra, divampante febbre che era, insieme, odio e amore. Quel calore ruppe la crosta di ghiaccio che la teneva prigioniera, solo per un momento, e in quel momento lei cadde in ginocchio ai piedi della statua nera, e scoppiò in singhiozzi impetuosi, e le lacrime erano come fuoco per sciogliere il gelo della sua anima. Lentamente, quel disgelo soprannaturale avvenne. Lentamente, il ghiaccio si sciolse, e la rigidità si dileguò, e l'orribile peso della disperazione che non era un'emozione umana si sollevò, gradualmente. Le lacrime scorrevano calde tra le sue dita dischiuse. Mai tutt'intorno a lei avvertiva, tangibile come un contatto fisico, l'immanenza del dio nero, in attesa. E lei conobbe la propria umanità, la propria debolezza, la propria transigenza, e quell'eterna, distaccata attesa priva di passioni era qualcosa cui lei non avrebbe mai potuto resistere. Le sue lacrime si sarebbero consumate... e poi... Continuò a singhiozzare, sapendosi impegnata in una vasta lotta contro l'immensità della morte e dell'oblio, una lieve scintilla di calore e di vita che lottava vanamente contro l'oscurità che l'avvolgeva: la scintilla mortale, che lottava contro l'inevitabile estinzione. Perché il dio nero era soltanto il nulla e la morte, e le potenze dalle quali attingeva erano senza limite... e l'unica arma che lei possedeva per combatterlo era la scintilla debole che lei chiamava vita. Ma d'un tratto, nelle profondità della sua disperazione, Jirel avvertì un movimento. Un lungo, confuso stordimento si avventò su di lei, e un'altra ondata, e un'altra ancora, e le emozioni più strane passarono nella sua mente, e svanirono. Risa e allegria, dolore e lacrime e disperazione, amore, in-
vidia, odio. In qualche modo, avvertì che l'opprimente pericolo si allentava, intorno a lei, e sollevò il volto dalle mani, per guardare. Intorno alla nera immagine, una nebbia stava danzando. Era tenue e indistinta, e solo a tratti pareva reale, ma gradualmente Jirel cominciò a distinguere un anello di figure... figure di ragazze, più irreali di una visione... ragazze che danzavano, e circondavano la statua grottesca con piedi leggeri e capelli nel vento... ragazze che rivolgevano a Jirel il suo stesso volto, ma con tutti gli umori che potevano attraversare la mente e lo spirito di una ragazza. Jirel che rideva, Jirel che piangeva, Jirel sconvolta dall'ira, Jirel dolce come il miele con un nuovo amante. Sempre più veloci giravano danzando intorno alla statua: un tumulto di braccia e gambe mobili e snelle, un caos di lacrime e di gioia e di tutti i mutevoli umori del genere umano. L'aria danzava scintillando, piena di loro, a ondate abbaglianti, e la landa pareva offuscata dietro di loro, e l'immagine pareva tremare, scossa da un lungo brivido interiore. E Jirel sentì quelle ondate di calore e di umanità battere con insistenza contro il gelo incombente che era la presenza del dio nero. Vita e calore, che combattevano la loro battaglia contro il nulla oscuro che lei aveva creduto invincibile. Lo sentì ondeggiare, intorno a lei, come un telo ondeggia nel vento. E, lentamente, lo sentì sciogliersi. Piano, molto piano, quel nulla oscuro e gelido si sollevò e si dissipò, mentre le selvagge figure di allegria e dolore e di emozioni affini giravano e giravano intorno alla statua, e il pulsare della loro vita fluttuava nell'aria, come una lunga serie di ondate di caldo violento contro il grigiore del freddo nato dal dio nero. E qualcosa, in Jirel, comprese con un senso di calore ed esultanza che l'immagine della vita come una scintilla fievole che guizzava per spegnersi in un'oscurità infinita era un'immagine falsa... che senza la luce non potevano esistere le tenebre... che la morte e la vita erano interdipendenti, una sull'altra. E che lei, vestita della corazza del calore della vita, era uguale al dio nero, come forza, e ne era una degna avversaria. Era una lotta ad armi pari. Jirel chiamò a raccolta le forze della vita, dentro di lei; sentì che si scagliavano audaci contro le tenebre, pulsando con forza nel freddo e nel silenzio dell'oblio. La forza scorreva dentro di lei, e lei capì di essere immortale, per il potere della vita. Non seppe mai per quanto tempo durò quella battaglia. Ma sentì la vittoria pulsare come vino inebriante nelle sue vene, ancor prima che la cappa gelida si sollevasse. E quella cappa si sollevò subitamente. In un sospiro,
senza preavviso, la presenza del dio nero svanì. In quello stesso respiro, le fanciulle che danzavano nella notte svanirono anch'esse, e la notte rimase vuota, intorno a lei, e la canzone della vittoria risuonò con forza in tutto il suo essere. Ma l'immagine... l'immagine! Su quella statua nera, stava sopraggiungendo il più bizzarro dei cambiamenti. I contorni neri e osceni erano instabili come nebbia. Tremavano e fluttuavano, e si univano, e parevano sciogliersi... La luna verde si nascose il volto con il suo velo di nubi, in quel momento, e quando la luce ritornò l'immagine non fu altro che un'ombra oscura che correva fluida sul terreno; un'ombra che aveva i lineamenti di Guillaume... o di ciò che avrebbe potuto essere Guillaume. Le ombre lunari si muovevano su quel disco livido, e l'ombra sul terreno si muoveva anch'essa. Era un'ombra mostruosa, latente delle implicazioni degli orrori dormienti nell'essere che proiettava l'ombra, cose paurose che Guillaume avrebbe potuto fare, o avrebbe potuto essere. Jirel capì, allora, perché quelle ombre deformi erano così mostruose. Erano l'indizio indistinto, confuso, di ciò che avrebbe potuto essere... di ciò che ancora poteva essere... indizi terribili del male dormiente in ogni essere umano. E i suggerimenti folli che davano erano ancora più terribili perché, pur sembrando impossibili al di là di ogni incubo, la mente riusciva a intuirne la verità... Una brezza leggera nacque d'un tratto dall'alba, e l'ombra si mosse, scivolando sulle pietre senza produrre nessun suono. Jirel cominciò a seguirla, con gambe che si piegavano per la fatica, perché lo sforzo della battaglia con il dio nero l'aveva privata di tutta la forza. Ma l'ombra scivolava più veloce, ora, e lei non osava perderla di vista. I suoi contorni mutavano continuamente seguendo strani disegni. E ogni disegno era più ricco di tremendi significati del precedente. Lei seguì l'ombra, incespicando, benché in quel luogo i suoi piedi fossero così leggeri, e la spada era un peso morto nella sua mano, e i capelli rossi le scendevano intorno al capo, pesanti anch'essi. Dopo cinque minuti, smarrì ogni senso di direzione. Al di là della vetta della collina, il fiume cessava. La luce mobile della luna confondeva il paesaggio, e le stelle tracciavano strani disegni nel cielo, e non davano nessun riferimento. La luna era proprio sopra di lei, ora, e negli intervalli durante i quali le nubi oscuravano la superficie, e la notte era nera intorno a Jirel, l'ombra deforme di Guillaume svaniva insieme alle altre, e lei soffriva agonie d'apprensione prima che ritornasse la luce, e la caccia ricomin-
ciasse. La macchia oscura si stava muovendo, ora, sopra una prateria ondulata dove spuntavano alberi dalla forma bizzarra. L'erba su cui Jirel correva era morbida come il velluto, e lei coglieva sbuffi di profumo qua e là, dagli alberi che si stagliavano pieni di pallidi boccioli nel livido chiarore lunare. L'ombra fluttuante, davanti a lei, avanzò, per oltrepassare un alto albero che sorgeva un po' in disparte rispetto agli altri, con i rami che scendevano in lunghi viluppi ondeggianti dalla corona centrale. Jirel vide la forma oscura sul terreno fermarsi, avvicinandosi all'albero, e tremare brevemente, per poi sciogliersi impercettibilmente nell'ombra proiettata dai rami. Quell'ombra dell'albero, fino a quando Guillaume non l'aveva toccata, aveva avuto la forma di un mostro dai brulicanti tentacoli e dalla testa appiattita e protesa, ma nel momento della congiunzione le due ombre si fusero in una sola: tutti i tentacoli balzarono avanti per ghermire il nuovo venuto, e le due ombre si unirono in una cosa innominabile, un'espressione di pura malvagità, che giaceva sul terreno e pareva gonfiarsi e pulsare di una propria, spaventosa vita. Jirel si fermò ai bordi dell'ombra, guardando il suolo, impotente. Non voleva sfiorare neppure con la punta del piede il bordo di quell'orribile forma nera, anche se l'intuito le diceva che l'ombra non avrebbe potuto farle del male. Le due ombre unite erano vive, pulsanti di minaccia e malvagità, ma solo per le cose che esistevano sul loro piano di esistenza. Jirel esitò, sotto l'albero, chiedendosi invano come avrebbe potuto dividere l'ombra del suo amato dalla cosa che l'aveva ghermita. Intuiva, stranamente, che l'ombra di Guillaume non si era unita all'altra di propria volontà. Era come se l'istinto malvagio della forma-albero si fosse proteso per raggiungere il male esistente in Guillaume, e lo trattenesse in virtù di quel male, malgrado la resistenza della parte buona che esisteva in lui. Poi qualcosa le sfiorò gentilmente la spalla, e guizzò intorno al suo braccio, e Jirel indietreggiò, impaurita... troppo tardi. I rami dondolanti dell'albero si erano avvicinati, protendendosi verso di lei, e uno si era già attorcigliato intorno al suo corpo. Quell'ombra sul terreno era stato un chiaro avvertimento del pericolo che si celava nell'albero, se soltanto lei fosse stata capace di rendersene conto subito... un mostro tentacolato, fermo in agguato. La spada di Jirel balenò veloce, riflettendo il verde chiarore della luna, e lei sentì che il ramo che la stringeva cedeva come gomma, sotto il colpo. Cedette, sorprendentemente, e poi ritornò nella posizione di partenza, scattando con una violenza che per poco non la fece cadere. Jirel mulinò di-
speratamente la spada, cercando di recidere quel ramo elastico, prima che anche gli altri rami potessero attorcigliarsi intorno al suo corpo. Uno era già arrivato vicino al suo braccio, e stava per vibrare il suo attacco, quando finalmente la lama affondò nella superficie gommosa. Allora, scosso da un profondo brivido, l'albero allentò la presa, e molti dei suoi tentacoli caddero sul terreno, torcendosi orribilmente. Dalla ferita grondava linfa nera e densa. E tutti i rami pendevano immobili, ora, ma sul terreno l'ombra agitava selvaggiamente i suoi tentacoli, e da quella stretta allentata l'ombra di Guillaume balzò via, scivolando sull'erba. Tremando per la reazione, Jirel seguì l'ombra. Dedicò maggiore attenzione agli alberi vicino ai quali passavano, ora. C'era un piccolo arbusto le cui foglie erano perennemente agitate da sussulti, anche quando non c'era un alito di vento, e la sua ombra era quella di una piccola cosa che balzava, scagliandosi sempre contro qualche invisibile barriera, per ricadere, e poi balzare di nuovo, in preda a un terrore panico. E un albero sottile, privo di foglie, si torceva sullo sfondo delle stelle, con un moto incessante e lento. Non produceva suono, ma i suoi rami si attorcevano e sussultavano e si tendevano in una continua agonia più eloquente di qualsiasi lamento. Pareva contorcere i suoi arti in preda alla sofferenza, a una lenta angoscia che non si spegneva mai. E la sua ombra, confusamente, era l'ombra di una donna che si torceva nella notte. E un albero, un miracolo di fioritura nel chiarore lunare, faceva ondeggiare i suoi rami ornati in modo seducente, mandando ondate e ondate di profumo inebriante, e producendo un ronzio sommesso, delizioso, che pareva un concerto di api. E la sua ombra, sul terreno, era quella di un serpente attorcigliato, che sollevava la testa per colpire. Jirel fu lieta quando abbandonarono la regione degli alberi, e descrissero una curva verso sinistra, discendendo il pendio lungo e dolce di una collina, dove altre ombre informi, si muovevano incessantemente, senza che nulla le producesse. Passavano e passavano silenziose, come nubi portate dal vento. In mezzo a loro, Jirel perse di vista la forma che seguiva; poi la ritrovò e la perse di nuovo, e dopo qualche tempo si sentì stordita e confusa, per lo sforzo necessario a procedere su un terreno che tremava e mutava per quelle ombre vaganti... tanto che lei non sapeva mai dove stesse posando il piede, e la cosa indistinta che seguiva era un'entità fatta di nulla che tesseva la sua strada tra quel gioco d'ombre, entrandovi e uscendone in maniera che sconcertava gli occhi e la mente. Ormai Jirel si era fatta l'idea che l'ombra del suo amato fosse diretta ver-
so una meta ben definita. C'era un proposito, in quel fioco scivolare, e lei guardava in avanti, cercando qualche indicazione del luogo verso cui l'ombra viaggiava. Ai piedi della collina, la landa si stendeva informe verso l'orizzonte, chiazzata di nubi nella livida luce lunare. Piccole forme di nebbia l'oscuravano qua e là, e c'erano ampie zone buie, e pallide macchie nella notte, e qua e là un torrente strisciava attraverso quelle tenebre. Ormai Jirel era completamente smarrita, perché il fiume era svanito già da tempo, e lei non vedeva più nessuna collina che potesse essere quella da cui era emersa. Attraversarono un'altra cintura di terra tremante, e l'ombra acquistò un certo vantaggio su Jirel, costretta a barcollare più volte sulla superficie infida come gelatina. Raggiunsero un pallido ruscello, attraverso il quale l'ombra passò scivolando, senza un momento di esitazione. Era un ruscello stretto e veloce, le cui acque ridacchiavano sommessamente nel buio. Una grossa pietra rompeva la superficie delle acque, al centro del ruscello: Jirel trattenne il respirò e spiccò un balzo verso quella roccia, senza avere il coraggio di rallentare il passo. La pietra cedette sotto i suoi piedi come carne viva, e le parve di udire un grugnito, ma era riuscita ad arrivare all'altra riva, e non si fermò a guardare. Poi corsero giù per un altro pendio, e l'ombra era più veloce, ora, e più decisa. E il pendio continuava e continuava, ripido, e infine diventò il fianco di un crepaccio profondo, e le rocce cominciarono a muoversi sotto i piedi di Jirel, e il terreno si fece sempre più franoso. La ragazza vide l'ombra fuggiasca scivolare oltre un costone di roccia, e discendere un argine ripidissimo, e poi tuffarsi nell'oscurità che si stendeva come acqua cupa sul fondo del crepaccio; e allora Jirel lanciò un breve grido di disperazione, perché capì di aver perduto l'ombra. Ma poi si fece coraggio, e si lanciò a sua volta nelle tenebre che salirono a inghiottirla. Era come affondare sempre di più in un tangibile oblio. L'oscurità si chiuse sopra la sua testa, e lei avanzò a tentoni, nella solida notte. Quelle tenebre riempivano come una densa fiumana il fondo del crepaccio, e là, nel profondo, non le era possibile neppure vedere il riverbero delle stelle. Ci fu un lungo momento di quella cecità totale, di quel procedere a tentoni, e poi si levò la luna. Come una grande faccia lebbrosa, la luna apparve sull'orlo del crepaccio, con le nubi che strisciavano sulla sua faccia. E quella luce verde era un'agonia per i suoi occhi, un terrore doloroso e oscuro. Non era un chiaro di luna terreno. Pareva impregnato di una qualità velenosa, che era, essen-
zialmente, parte dell'irradiazione, e quella luce ultraterrena, inesplicabile, produceva uno strano effetto sulla liquida oscurità che si trovava sul fondo del crepaccio: un effetto che nessuna luce lunare terrena avrebbe mai potuto avere. Quel chiarore penetrava nell'oscurità, la frangeva in miriadi di ombre ribelli, che non rimanevano piatte sul terreno, come tutte le ombre, ma si drizzavano e apparivano in tre dimensioni e danzavano intorno a lei in una sconvolgente ribellione di forme nate dal nulla. Le passavano accanto, quelle ombre viventi, e passavano attraverso il suo corpo, senza incontrare nessun ostacolo, perché malgrado l'apparente solidità, non erano altro che ombre, prive di sostanza. Tra di loro danzava la forma di Guillaume, e i suoi contorni fecero tremare Jirel di terrore, tanto erano simili... e orribilmente dissimili... da quelli del Guillaume che lei aveva conosciuto, tanto suggerivano ironicamente il male che viveva in lui, e tutto il male potenziale che si celava nel profondo di tutta l'umanità. Anche le altre forme erano orribili, ma erano le immagini di cose di cui lei non conosceva l'aspetto reale, e almeno non poteva comprendere le mille implicazioni di quelle manifestazioni. Ma lei ricordava così bene Guillaume che comprendeva ogni sottile sfumatura di allusione, apprezzava pienamente tutti gli orrori che quei contorni manifestavano, e la sua mente vacillava di fronte a tutto ciò che suggeriva quell'ombra. — Guillaume... — sentì che la sua voce singhiozzava. — Guillaume! — e comprese che erano quelli i primi suoni articolati che le uscivano dalle labbra, dal momento in cui era entrata in quello strano inferno. Nell'udire la sua voce, l'ombra danzante rallentò un poco, ed esitò, e poi, con estrema riluttanza, cominciò a scivolare verso di lei, attraverso il vorticare delle ombre. E allora, senza preavviso, qualcosa d'incommensurabilmente gelido e immobile si chiuse intorno a lei: la presenza del dio nero. Di nuovo, Jirel sentì il suo corpo e il suo animo congelarsi, nelle fibre più profonde, mentre il ghiaccio del nulla eterno si faceva spesso intorno alla sua anima; e il luogo grigio, indistinto e informe che ricordava prendeva forma intorno a lei, e il peso immenso di quella disperazione ferrea discendeva sul suo spirito tremante. Se avesse avuto un attimo di preavviso, avrebbe potuto lottare, ma il dio nero era venuto così repentinamente che, prima ancora di poter radunare le forze per l'attacco, Jirel scoprì di essere raggelata dal brivido ineluttabile di tutto ciò che non era umano: il suo corpo non le apparteneva più, e lei si trasformava lentamente in una nera ombra che danzava
tra altre ombre in un vuoto terribile e glauco... Tagliente come una lama, in quell'immensità vuota, guizzò la memoria ardente che l'aveva ridestata anche la prima volta: il peso della bocca barbuta dell'uomo sulle sue labbra, la stretta delle braccia rivestite di maglia di ferro. E, ancora una volta, Jirel conobbe il lampo di violenza che poteva essere odio oppure amore, e il calore tornò a scorrere nel suo corpo, un'ondata di calore che le dava forza e vita. E poté lottare. Attingendo a tutte le profondità del calore e dell'umanità che si trovavano in lei, poté lottare, usando tutta la violenza delle emozioni per combattere quell'apatia terribile che l'aveva serrata già una volta, e ora avanzava di nuovo, per ghermirle l'anima. Non fu una vittoria facile. Ci furono momenti nei quali il gelo riuscì quasi a sconfiggerla, e momenti nei quali lei si sentì trascinata da una forza irresistibile fuori del corpo raggelato che era il suo, verso le altre ombre che danzavano intorno... e quella che veniva trascinata fuori era una cosa fievole, indistinta, la cui forma appena abbozzata indicava possibilità indescrivibili, un'ombra con forma e profondità, ma senza realtà. Riuscì a cogliere frammenti dei palpiti dell'insana armonia al cui ritmo danzavano le altre ombre, e le parve di smarrire l'anima, e la sua ombra irreale si mise a danzare con le altre ombre. Condivise il loro tormento per lunghi minuti. Ma riuscì a liberarsi. Riuscì a ritornare, in qualche modo, nel corpo incrostato di ghiaccio, e a riscuotersi dalla fredda apatia che lo teneva prigioniero, e a scagliare le sue armi di vita e vitalità contro la presenza raggelante del dio nero. E nel momento stesso in cui capì che avrebbe potuto vincere, un'ombra sottile di dubbio s'insinuò nella sua mente, e vi rimase. Lei poteva respingere il dio, costringerlo ad allontanarsi, ma non avrebbe mai potuto distruggerlo. Sarebbe sempre ritornato. Perché lei non osava distruggerlo... nella sua mente ritornò una visione dell'immagine che aveva visto la prima volta, il pensiero della piccola scintilla di vita che ardeva nell'oscurità eterna. E benché senza la luce non potesse esistere l'oscurità, era vero anche il contrario, e se il potere da cui attingeva le sue forze il dio nero fosse stato distrutto... se le tenebre fossero state dissipate, non ci sarebbe stata più luce. Né vita. Era necessaria l'interdipendenza, e la continua lotta... Lei comprendeva tutto questo con una parte remota della sua mente, mentre tutto il resto del suo spirito combatteva la battaglia. Lo comprendeva in maniera molto vaga, perché la sua mente non era stata istruita per si-
mili astrazioni. Con la parte cosciente del suo essere lei richiamava tutti i ricordi d'amore e d'odio e di terrore, l'esultanza della battaglia, l'esaltazione della gioia. Gettava contro il gelo del dio nero tutto ciò che era vivo e pulsante e caldo, e sentiva questi pensieri ergersi come una muraglia protettiva intorno al suo essere, per chiudere fuori ogni minaccia. La vittoria, come prima, giunse repentina come l'attacco. Senza preavviso, un lampo di luce balenò intorno a lei. La presenza oscura si dissolse nel nulla. In quel chiarore improvviso Jirel chiuse gli occhi abbagliati, e quando li riaprì la luce familiare della luna riempiva di nuovo il crepaccio. L'oscurità fluida era svanita, le ombre non danzavano più. Quella luce le aveva cancellate dall'esistenza, e mentre il lampo moriva Jirel si guardò intorno, cercando la cosa che era tutto ciò che lei aveva visto di Guillaume. Era andata, con tutte le altre. L'oscurità tangibile che aveva riempito il fondo del crepaccio era completamente scomparsa. Nessun'ombra si muoveva intorno. Ma il vento che soffiava nel canalone portava una voce lamentosa. E così, ancora una volta, quella caccia estenuante riprese. Ma lei aveva ancor meno di prima, come traccia: solo un gemito lontano nel buio. — Jirel... — era il richiamo, — Jirel... Jirel... — e lei seguiva quel richiamo. Non poteva vedere niente. Guillaume non era niente più che una voce, ora, e poteva seguirlo solo con l'udito. Vuoto, il paesaggio si stendeva davanti a lei. Era uscita dall'estremità della gola, per ritrovarsi su un ampio declivio a ventaglio, che scendeva verso le tenebre. Dell'acqua cadeva, vicino, ma lei non poteva vederla. Corse alla cieca, con gli orecchi tesi per udire quel gemito lontano. Il suono la guidò giù per il pendio, e intorno a una collina, e davanti a un luogo dove l'acqua cadeva in una sottile cascata giù per un dirupo, e cadendo bisbigliava tra sé cose malvage. Il suono oscurava il gemito che Jirel seguiva, e quando fu passata davanti alla cascata, dovette fermarsi, e ascoltare per molto tempo, con il cuore che batteva forte. La landa, intorno a lei, brulicava di suoni minuscoli e inesplicabili. Poi, infine, riuscì a cogliere di nuovo l'invocazione lontana, — Jirel... Jirel... S'incamminò allora nella direzione da cui giungeva il suono, e dopo qualche tempo poté udirlo più chiaramente, — Jirel! Jirel, tu che mi hai ucciso! Era una strada spaventosa, quella che Jirel doveva percorrere, correndo leggera con un gemito lontano a guidarla, e pericoli ignoti in agguato tutt'intorno, nelle tenebre, e il corpo e l'anima così stanchi, così svuotati di
forza da quella seconda lotta contro il dio nero, da far danzare davanti ai suoi occhi l'oscurità nebbiosa come un velo, e da rendere più pesante il suo corpo, tanto che la terra pareva venirle incontro per attirare i suoi piedi. Una volta cadde, e giacque immobile per un secondo, per riprendere fiato. Ma le parve che il terreno, sotto il suo corpo, fosse troppo tiepido, e che si muovesse gentilmente, come per un quieto respiro. Così balzò in piedi di nuovo, allarmata, e continuò a scivolare a quella velocità di sogno sopra l'erba oscura. Le sembrò che, come l'ombra che aveva inseguito era fuggita attraverso luoghi d'ombre nei quali Jirel l'aveva smarrita più volte, ora la voce fuggitiva la conduceva attraverso luoghi pieni di rumori, dove era difficile distinguerla tra il chiacchierare dei ruscelli e l'impeto delle cascate e lo spirare del vento. Udì suoni che non aveva mai sentito in vita sua: piccole, tenui voci mormoranti nel vento, e il bisbigliare dell'erba che narrava storie strane nella sua lingua mormorante, e lo stridere sommesso degli insetti che volavano intorno a lei, e che parevano dire cose appena intuibili, in un linguaggio che era quasi umano. Non aveva udito nessun richiamo di uccelli in quel luogo, benché a un certo punto una creatura enorme, oscura e informe fosse passata nell'aria, con un lento battito d'ali, a poca distanza da lei. Ma c'erano i richiami gracidanti dei rospi che venivano dalle paludi vicino alle quali lei passava, e udendo quei richiami ricordò ciò che aveva incontrato nella palude, durante il suo primo viaggio, e un brivido le percorse il corpo. In ogni suono che udiva, era percepibile la trama della malvagità, intrecciata indissolubilmente a una trama di pura disperazione... una disperazione umana, anche nel frusciare dell'erba e nel mormorio del vento... voci che gemevano con tanta disperazione che, più di una volta, Jirel avvertì il bruciore delle lacrime negli occhi, pur non riuscendo a comprendere appieno il senso di quella canzone di lamenti. E sempre, attraverso la canzone dei lamenti, scorreva l'onda beffarda della malvagità, di crudeltà che non avevano nome nella lingua degli uomini. E assieme a tutti quei suoni, Jirel ne udì molti altri, che non avevano senso per lei, e sulla cui origine non osava neppure fare supposizioni. In questo concerto di rumori incomprensibili, Jirel seguì il debole, tenue lamento lontano che aveva un significato per lei. Quel richiamo la condusse per un lungo arco, attraverso un terreno ondulato, sopra ruscelli mormoranti che parlavano morbosamente nel buio. Dopo qualche tempo, cominciò a cogliere strani frammenti di una musica bizzarra. Non aveva la quali-
tà di una composizione, e neppure possedeva unità, ma pareva consistere di singoli gruppi di note, come spruzzi di musica, e ogni spruzzo non aveva relazione con il resto, come se migliaia di creature invisibili modulassero brevi, primitive armonie, e ciascuna di quelle creature fosse stata sorda alle canzoni delle sue compagne. Il suono si fece più forte, a mano a mano che Jirel avanzava, e a un certo punto lei si accorse di avvicinarsi a una larga chiazza luminosa sul terreno oscuro. Quando raggiunse il limitare di quella chiazza, si arrestò, colma di meraviglia. La musica saliva dalla terra, e saliva visibilmente. Jirel poteva realmente vedere le linee separate di melodia salire ondeggiando nell'aria immobile. Non avrebbe mai potuto descrivere ciò che vedeva, perché l'aspetto di quella musica visibile era al di là di ogni parola umana. Pallidamente, le note si alzavano, e ciascuna cantava la sua minuscola, semplice melodia. Non parevano esserci stonature, benché i suoni non possedessero unità. Follemente, Jirel fantasticò di vedere un campo di musica, musica che cresceva... pensò che, se lo avesse desiderato, avrebbe potuto camminare come una mietitrice tra i filari di armonie, e raccogliere grandi covoni di suono... forse preziosi grappoli di suono che, se lei avesse saputo sceglierli con cura, si sarebbero uniti, facendole udire una singola, complessa melodia. Ma non osava ascoltare troppo a lungo quella musica. C'era una strana, minuscola nota irridente, qualcosa di tanto sottile e incomprensibile da sfiorarle solo una parte della mente... eppure, mentre lei rimaneva là, quel suono parve intensificarsi, e scorrerle attraverso il cervello in brevi, ridenti sfumature, e d'un tratto Jirel si accorse di ridere insensatamente senza motivo. Poi si frenò, e cercò di ascoltare, per individuare la voce che apparteneva a Guillaume. E scoprì con terrore che quella voce veniva dal centro stesso di quei brevi suoni di scherno. La voce diventò più forte, più profonda e soffocò tutti i suoni minori, e l'intero campo si trasformò in un grande ruggito di risa demenziali, tuoni che le colpivano la mente in una serie di ondate intollerabili... una risata di scherno che minacciava di sconvolgerle il cervello, che la faceva tremare in tutto il corpo, che le riempiva gli occhi di lacrime anche mentre le sue labbra ridevano. — Guillaume — chiamò di nuovo, nel cuore della sua agonia. — Oh, Guillaume! — e al suono della sua voce tutte le risate cessarono, e un vasto, ansioso silenzio calò come una cappa opprimente su tutto quel mondo oscuro. Attraverso il silenzio, quel debolissimo lamento si fece udire, fluttuante come la canna di un giunco nella brezza. — Jirel... — Gli altri suo-
ni, allora, ripresero vita, e il vento cominciò a soffiare, e il lamento si allontanò verso sconosciuti orizzonti. E la caccia riprese. Ormai il volto morto e livido della luna era calato fin quasi sull'orizzonte, e le ombre si stendevano in lunghi disegni sul terreno. Le parve che, intorno al vasto anello dell'orizzonte, un lento pallore si stesse manifestando. Nella disperazione e nella stanchezza che la pervadevano, Jirel non si curò di questo, pur sapendo che se il giorno l'avesse colta in quel luogo, per lei ci sarebbe stata una morte più terribile di qualsiasi morte umana sulla terra, e, forse, un'eternità di tormenti in una delle molte forme che aveva visto, e riconosciuto, come gli spiriti dei dannati. Forse lei sarebbe stata prigioniera di un albero che si torceva nella notte... o forse di un'immagine oscena e rivelatrice, come Guillaume... o forse sarebbe diventata, per sempre, nulla di più di un lamento smarrito nel vento. Era troppo stanca per curarsi di questo. Continuò ad avanzare vacillando, senza speranza, e la voce che gridava il suo nome si faceva sempre più fievole e sempre più lontana, nella notte ormai morente. La fine della lunga caccia venne quasi all'improvviso. Jirel giunse a un torrente che scorreva quieto sotto l'arco di un basso ponte nero, e attraversò il ponte, guardando il suo volto riflesso nell'acqua, un volto che formava follemente grida mute e insensate, benché le sue labbra fossero serrate. Incontrò i suoi occhi riflessi, e vi lesse un avvertimento, e disperazione, e la più profonda agonia, e vide il proprio volto trasformato in una maschera quasi irriconoscibile, distorto dall'orrore e dalla disperazione. Era una visione terrificante, ma lei vi prestò poca attenzione, e continuò a correre senza curarsi dell'immagine nell'acqua né del paesaggio che la circondava, e neppure dell'alba che si allargava intorno all'orizzonte. Poi, da un punto poco lontano da lei, giunse la voce sottile che lei seguiva, e Jirel si riscosse da quel bizzarro sopore, e si guardò intorno. Quel ponte non era terminato sull'altra riva del torrente: stranamente, i suoi lati si erano alzati ad arco, e il fondo si era allargato, ed era diventato un tempio oscuro, intorno alle cui pareti sorgeva una scultura bestiale, più orribile di quanto si potesse immaginare anche nel più grottesco degli incubi. Là, in quella costruzione scolpita e dalle alte colonne, c'era l'epitomo di tutto quell'inferno fioco attraverso cui Jirel aveva corso. Là, in quelle sculture, lei poteva leggere tutte le cose orrende che le ombre le avevano fatto solo intuire, tutto il dolore umano, la disperazione e la desolazione che lei aveva udito nel grido del vento, tutto il beffardo concentrato di malvagità che
le acque avevano pronunciato con la loro voce sottile. Nei bassorilievi, lei poteva seguire le anime imprigionate degli uomini e degli ammali, tormentate in molti modi... alcuni che lei aveva già visto, molti che non aveva visto, e che, pietosamente, non poteva comprendere. Non era chiaro il motivo per cui venivano puniti, all'infuori del fatto che la tortura era così sottilmente sfumata di giustizia da apparire ancor più orrendamente ingiusta, per l'esagerazione della pena rispetto al peccato. Jirel chiuse gli occhi, e rimase così, vacillando un poco, avvertendo la malvagità trionfante del tempio pulsare intorno a lei, troppo stordita e sconvolta perfino per domandarsi che cosa avrebbe potuto accadere. Poi la voce debole cominciò a martellare intorno alla sua testa. Le parve quasi di sentire il battito disperato delle ali, come se un uccello piccolo e frenetico stesse volando sul suo volto. — Jirel... Jirel! — gridava, in preda alla più atroce agonia: un ultimo, disperato appello. E lei non sapeva che fare. Impotente, rimase là, sentendo quel suono battere l'aria intorno a lei, avvertendo l'osceno trionfo del tempio sbocciare dentro di lei. E senza preavviso, per la terza volta la presenza del dio nero si chiuse come un mantello intorno a lei. Jirel l'accolse quasi con un senso di sollievo. Era qualcosa che già sapeva come combattere. Udì la voce sottile riecheggiare, sempre più sommessa, come se giungesse da distanze incommensurabili, e il gelido crepuscolo cresceva dentro di lei, e il ghiaccio grigio le copriva l'anima. Chiamò a raccolta i ricordi di odio e amore e collera, per lanciarli contro la presenza oscura, pensando, così facendo, che forse una persona che avesse vissuto meno violentemente di lei, e avesse avuto minori riserve di passione cui attingere, non sarebbe mai stata in grado di combattere il gelo di morte del dio. Ricordò l'allegria, e le canzoni, e la gloria... ricordò i massacri e il sangue e lo scontro risonante delle armature... ricordò i baci nel buio, e la stretta forte delle braccia maschili intorno al suo corpo. Ma era stanca, e l'alba si mostrava terribile intorno al cielo, e la potenza del dio nero affondava le sue radici in un oblio immutabile che non aveva mai debolezze. I ricordi che Jirel usava non avevano potere contro il grigio incantesimo di quel luogo oscuro dove egli albergava, e lei avvertì l'insinuarsi di quella ferrea disperazione nella sua mente. Gradualmente, la volontà di lottare si congelò, nel gelo del suo corpo, e lei non fu più una creatura calda e vitale fatta di carne e sangue, ma qualcosa di rigido, incrostata di ghiaccio, che albergava a sua volta, incorporea, nel crepuscolo eterno. C'era una piccola scintilla, in lei, che il dio non poteva raggelare. Sentì
che il dio l'assaliva. Sentì che la costringeva a uscire dalla cosa fredda che era stata il suo corpo, spingendola inesorabilmente. Lei era un lamento sottile e disperato nel vento. Incapace di resistere, si sentì mossa da correnti che non aveva mai conosciuto in passato, si sentì portare contro ostacoli senza nome, dai quali ricadeva gemendo e piangendo senza parole. Non aveva sostanza, e il mondo era svanito intorno a lei. Si accorgeva di altre cose... fievoli, vaghe, come pulsazioni sommesse, portate come foglie nel vento attraverso le tenebre, piccole cose perdute come lei, senza corpo e senza difesa, alla mercé di ogni corrente; piccole cose gementi, che mulinavano nella notte. Poi una delle minuscole cose indistinte fu portata vicino a lei dalla corrente, le alitò accanto, e l'attraversò, e nell'istante del suo passaggio Jirel colse la debole vibrazione del suo nome, e capì che era quella la voce che l'aveva chiamata nei suoi sogni e che lei aveva seguito così a lungo: Guillaume. E con quell'unione di un istante, qualcosa forte come la vita balenò prodigiosamente in lei: una scintilla luminosa che ingrandiva e cresceva e splendeva, e... Jirel fu di nuovo nel suo corpo, tra i bassorilievi bestiali del tempio: un corpo che si sgelava, si riscaldava, dal quale cadevano le catene del silenzio di gelo, e quell'ardore luminoso continuava a crescere, fino a quando tutto il suo corpo non ne fu soffuso, non pulsò del suo calore, e la gelida cappa di tenebre si sciolse, scacciata irresistibilmente da quella fiamma calda e trionfante che viveva in lei. Nella sua estasi di travolgente calore, si rese a malapena conto della sua vittoria. Non se ne curava molto. Qualcosa di splendido stava accadendo..... Poi l'aria tremò, e tutt'intorno a lei suoni sottili e fievoli salirono vibrando verso l'alto, come se filamenti di alte grida si agitassero intorno a lei su uno sfondo di silenzio. L'ardore che era dentro di lei impallidì, lentamente, impercettibilmente, e smorì, e la pace del vuoto totale inondò la sua anima. Jirel si voltò, stanca e stremata, e attraversò di nuovo il ponte. Alle sue spalle, il tempio sorgeva immerso in una calma mortale. Il male che aveva pulsato così forte al suo interno era stato quietato, per il momento, da qualcosa di incredibilmente splendido, che non aveva posto in quell'inferno stellato; qualcosa che era vivo e umano, qualcosa fatto d'amore e nostalgia, di pentimento e sacrificio e trionfo. Jirel non si rese conto della profondità del silenzio che si lasciava alle
spalle, né capì, con molta chiarezza, ciò che aveva fatto. Sopra di lei, sullo sfondo del cielo sempre più pallido, vide la vetta di una collina conosciuta, e capì confusamente che in tutta quella lunga notte di corsa sulle pianure aveva sempre girato attorno al punto di partenza. Ma era troppo stanca per curarsene. Era al di là del sollievo o della sorpresa. Cominciò a salire, con il cuore svuotato di ogni passione, senza provare nessun senso di trionfò per la vittòria che ormai sapeva sua. Perché lei aveva scacciato Guillaume dalla statua nell'ombra, e dall'ombra nella voce, e dalla voce nella... nella morte, forse: una morte onesta e pulita. Non lo sapeva. Ma lui aveva trovato la pace, perché le sue insistenze non battevano più alle porte della sua coscienza. E lei era contenta. Sopra di lei, l'imboccatura della caverna era vicina, aperta sull'aurora. Jirel arrancò lungo il pendio, trascinando stancamente la spada, sfinita anche nell'anima, ma calmissima, pervasa ormai da una pace che andava al di là di ogni comprensione. JIREL E LA MAGIA Jirel Meets Magic Weird Tales, luglio 1935 Sul ponte levatoio abbassato di Guischard si avventò tonando la signora guerriera di Joiry, brandendo la spada e lanciando grida roche attraverso l'elmo. Il pennacchio scarlatto del suo cimiero ondeggiava al vento. Si gettò tra i difensori ammassati alla porta, trascinata dall'impetuosità della carica, mentre il peso del cavallo poderoso apriva un varco che gli uomini al suo seguito avrebbero allargato. Per qualche tempo vi fu un tumulto inenarrabile sotto l'arcata, le grida dei combattenti e il clangore degli usberghi e le strida dei feriti. Jirel di Joiry era un'urlante macchina da guerra, di fronte alla quale gli uomini di Guischard arretravano in una confusione sanguinosa mentre lei mulinava la spada e colpiva e uccideva nello spazio ristretto della porta, e gli zoccoli ferrei del suo grande stallone erano armi potenti quanto la sua lama sibilante. Nell'armatura completa, era invincibile per i fanti, e le piastre che corazzavano il cavallo lo proteggevano dalle spade vendicative; e quindi avrebbe potuto, quasi da sola, conquistare la porta. Con l'impeto e l'ardore portò la battaglia attraverso i difensori asserragliati sotto l'arcata, che indietreggiarono davanti al possente destriero e alla guerriera urlante. La spada turbinosa di Jirel e le zampe dello stallone aprirono una breccia agli uomini di
Joiry, e finalmente nel cortile di Guischard si riversarono le orde dei vincitori. Gli occhi di Jirel brillavano gialli e assetati di sangue dietro la visiera dell'elmo, e la sua voce echeggiava selvaggiamente dalla gabbia d'acciaio che la racchiudeva: — Giraud! Portatemi Giraud! Un pezzo d'oro per l'uomo che mi porterà Giraud il mago! Attese impaziente nel cortile, guidando il destriero eccitato in cerchi zampettanti sulle lastre di pietra, incapace di smontare da sola nell'armatura pesante, spregiando la possibile minaccia dei balestrieri forse nascosti dietro le feritoie delle torve mura grige di Guischard. Un colpo di balestra era la sola cosa che poteva temere, nella sua armatura inespugnabile. Attese con crescente impazienza, una figura formidabile nella corazza insanguinata, la grande spada appoggiata di traverso sulla sella e la voce irosa che usciva echeggiando rauca dall'elmo. — Giraud! Affrettatevi, cialtroni! Portatemi Giraud! C'era una tale sete di sangue in quella voce tonante che gli uomini, ritornati dopo aver frugato il castello, esitarono attraversando il cortile per raggiungere la loro signora, a gruppi di due e di tre, con l'insuccesso scritto con eloquenza sui loro volti. — Come! — urlò furiosa Jirel. — Tu, Giles! Mi hai portato Giraud? Watkin? Dov'è Giraud, il mago? Rispondetemi, ho detto! — Abbiamo frugato tutto il castello, mia signora — disse intimorito uno degli uomini, quando la voce irata tacque. — Il mago è scomparso. — Che Dio mi protegga! — gemette la signora di Joiry. — Dio aiuti una povera donna servita da sciocchi! Avete cercato tra i morti? — Abbiamo cercato dovunque, Madonna Jirel. Giraud ci è sfuggito. Jirel invocò di nuovo il Creatore con voce blasfema. — Allora aiutatemi a scendere, infingardi generati dall'inferno! — sibilò. — Lo troverò io stessa. Deve essere qui! Con difficoltà, la calarono dal cavallo che scartava. Ci vollero due uomini per farla scendere, e un terzo per tenere il destriero. E mentre quelli lottavano con cinghie e fibbie, lei li malediceva con voce cupa, uscendo membro a membro dall'involucro d'acciaio e bestemmiando con la disinvoltura di un soldataccio. Alla fine si ritrovò libera sulle pietre insanguinate: una donna snella ed eretta, diritta come una spada, con i capelli rossi che sembravano una fiamma, ardente quanto la fiamma dei suoi occhi gialli. Sotto l'armatura portava una tunica di maglia metallica proveniente dalla Terrasanta, morbida come seta e quasi altrettanto leggera, e una camicia
di pelle di daino che proteggeva il candore latteo della pelle. Era una creatura paradossale, la dama guerriera di Joiry, ardente come le braci, fredda come l'acciaio, con un corpo di raso e un'anima di ferro. Il taglio del mento era saldo, ma la bocca tradiva una tenerezza che lei non avrebbe ammesso neppure a prezzo della sua vita. Ma in quel momento era furiosa. — Allora seguitemi, sciocchi! — gridò. — Troverò io quel mago maledetto da Dio e gli spaccherò la testa con questa spada, dovessi cercarlo fino al giorno della mia morte. Lo giuro. Gli insegnerò che cosa costa tendere un'imboscata agli uomini di Jirel. Per il cielo, pagherà con la sua vita i dieci caduti al guado di Massy la settimana scorsa. Quell'immondo incantatore! Imparerà che cosa significa sfidare Joiry! Mormorando minacce e maledizioni, attraversò a grandi passi il cortile, mentre i suoi uomini la seguivano riluttanti e lanciavano sguardi inquieti alle torri grige di Guischard. Aveva sempre avuto una pessima nomea, il tenebroso castello del mago Giraud, un luogo dove accadevano cose strane, dove nessuno entrava senza essere invitato e nessun prigioniero riusciva mai a fuggire, sebbene le urla delle torture echeggiassero spesso tra le sue mura. Gli uomini di Jirel sarebbero stati pronti a seguirla anche all'inferno, ma avevano espugnato Guischard con il terrore nei cuori e senza speranza di vittoria. Lei sola sembrava non aver paura dell'incantatore tenebroso. Forse perché aveva conosciuto cose tanto spaventose che i pericoli mortali non le incutevano terrore... a Joiry si bisbigliava di cose cui nessun uomo osava pensare. Ma quando Guischard era caduto, e i difensori del mago erano fuggiti davanti al poderoso stallone di Jirel e all'assalto dei guerrieri di Joiry, questi avevano ripreso coraggio, pensando che forse i cupi racconti su Giraud erano soltanto pettegolezzi, poiché il castello era caduto come sarebbe caduto il maniero di un comune signore. Ma adesso... c'erano di nuovo mormorii, e occhiate nervose alle spalle, e gli uomini si raggruppavano per rientrare in Guischard alle calcagna della loro signora. Un castello dal quale un mago poteva svanire, quando tutte le. vie d'uscita erano sorvegliate, doveva essere un luogo infestato, che era meglio incendiare e dimenticare. Seguivano Jirel con riluttanza, vergognandosi un po' della propria paura. Nel cuore tempestoso di Jirel non c'era posto per il terrore, mentre si avventava oltre l'arcata buia che si apriva sulla grande sala centrale di Gui-
schard. La collera accesa dal pensiero che quell'uomo le fosse sfuggito era una torcia che le illuminava la via; si soffermò sulla soglia, impaziente, scrutando con un'occhiata la sala piena di cadaveri, cercando una traccia che potesse spiegare com'era sparita la sua preda. — Non può essere fuggito — si disse, sicura di sé. — Non vi sono vie d'uscita. Deve essere qui, da qualche parte. — Entrò nella sala, girando con il piede noncurante i cadaveri per assicurarsi che la morte non l'avesse privata della vendetta. Un'ora dopo, mentre perquisivano l'ultima torre, Jirel continuava a dirsi che il mago non poteva essersene andato a sua insaputa. Aveva preso tutte le possibili precauzioni. C'era un passaggio segreto che portava al fiume, ma l'aveva fatto sorvegliare. E una porta si apriva sott'acqua, nel fossato; ma Giraud non avrebbe potuto passare di là senza incontrare i suoi uomini. Lei aveva scoperto i sentieri segreti e no, e aveva piazzato una guardia su ciascuno, e Giraud non aveva lasciato il castello passando da una delle porte. Salì stancamente le scale dell'ultima torre; la sua sicurezza era un po' scossa. Una porta di quercia fasciata di ferro chiudeva la scala, in alto, e Jirel si trasse in disparte mentre i suoi uomini sollevavano le pesanti sbarre e l'aprivano. Non era stata chiusa dall'interno. Jirel entrò nella piccola stanza rotonda, e le sue speranze si dileguarono completamente quando vide che anche quella era vuota: c'era soltanto il corpo di un giovane paggio, steso sul pavimento nudo. Il sangue formava una pozza quasi coagulata intorno a lui, e quando Jirel guardò vide qualcosa che riaccese le sue speranze sopite. Due piedi erano passati su quel sangue... non i piedi calzati di maglia di ferro di un uomo armato, ma le informi scarpe di stoffa che soltanto Giraud avrebbe indossato mentre il castello assediato stava per cadere ed era necessario l'aiuto di tutti gli uomini. Le tracce insanguinate attraversavano la stanza in direzione del muro... e in quel muro si apriva una finestra. Jirel sgranò gli occhi. Per lei, una finestra era una stretta fenditura nella pietra, fatta per scagliare le frecce, che non veniva mai coperta, se non nei più freddi giorni d'inverno. Ma quella finestra era larga e bassa, e anziché essere chiusa come al solito dal vello di un animale, c'era una tenda di velluto purpureo, aperta, che mostrava le imposte scolpite in una sostanza che poteva essere avorio, se fosse esistito un animale tanto enorme da fornire quelle intatte lastre candide. Le imposte erano leggermente socchiuse, e Jirel vi scorse una traccia di dita insanguinate. Con un piccolo grido di trionfo, avanzò. Quella, dunque, era la segreta
via di fuga di Giraud. Non riusciva a immaginare che cosa stesse al di là della finestra. Forse un passaggio insospettato, o una stanza segreta. Con una risata esultante, spalancò le imposte d'avorio. Gli uomini dietro di lei proruppero in esclamazioni soffocate. Jirel non le udì. Rimase immobile a guardare, incredula. Perché le imposte d'avorio non si erano aperte su un nascondiglio di pietra scura o su una galleria segreta. Non mostravano neppure il cielo pomeridiano e non lasciavano entrare le grida dei suoi uomini che combattevano contro gli ultimi difensori nel cortile sottostante. Jirel stava guardando, invece, una verde terra boscosa su cui incombeva un giorno violetto, quale non aveva mai visto prima. Paralizzata dallo sbalordimento, guardò in basso, e vide, non già le pietre insanguinate del cortile, ma un tappeto di muschio al livello del pavimento. E su quel muschio scorse le tracce dei piedi insanguinati. Quella finestra era magica, e si apriva su terre sconosciute: ma di lì era passato l'uomo che aveva giurato di uccidere, e lei doveva seguirlo. Jirel alzò gli occhi dal muschio calpestato e guardò di nuovo nella penombra, sotto gli alberi. Era una terra bellissima, più bella dei sogni; così bella che Jirel si sentì stringere il cuore da un incanto ultraterreno... boschi verdi e silenti, nel giorno violetto. Lì c'era una promessa di pace e d'oblio e di riposo. All'improvviso il mondo rauco e urlante e rumoroso che stava dietro di lei sembrò lontano e gelido. Jirel avanzò e posò la mano sulle imposte d'avorio, guardando fuori. Lo scalpiccio degli uomini impauriti, dietro di lei, strappò Jirel all'incantesimo che l'aveva presa. Si voltò. La magia sognante del bosco perse il suo fascino quando fronteggiò di nuovo i guerrieri, ma il ricordo rimase. Scrollò lievemente la testa fulva, incontrando i loro occhi spaventati. Indicò con un cenno la finestra aperta. — Giraud è passato di lì — disse. — Dammi il tuo pugnale, Giles. Questa spada è troppo pesante per portarla a lungo. — Ma, signora... signora Jirel... cara signora... non puoi andare là... santa Guilda, proteggici! Signora Jirel! La voce secca e decisa di Jirel stroncò il vocio di protesta. — Il tuo pugnale, Giles. Ho giurato di uccidere Giraud, e lo ucciderò, in qualunque terra si nasconda. Giles! L'armigero si avvicinò, distogliendo gli occhi, e le porse il pugnale. Lei gli consegnò la spada, e infilò il coltello a lama lunga nella cintura. Si voltò di nuovo verso la finestra. Verde, fresco e incantevole, il bosco attende-
va. Quando posò il ginocchio sul davanzale, pensò che avrebbe esplorato quella calma violetta anche se non fosse stata spinta dal suo giuramento; perché quel luogo aveva un incanto che l'attirava irresistibilmente. Sollevò l'altro ginocchio e spiccò un balzo. Il suolo muscoso l'accolse senza scosse. Per qualche istante Jirel restò immobile, guardando e ascoltando. Intorno a lei, a intermittenza, trillavano gli uccelli, e la brezza faceva stormire le fronde. Da lontano le parve di percepire gli echi di una canzone portata dal vento, e c'era qualcosa d'irritante nella semplice melodia che sembrava altalenare all'infinito su due note. Fu lieta quando il vento cadde e il canto non le giunse più agli orecchi. Pensò che, prima di allontanarsi, avrebbe dovuto segnare la finestra dalla quale era entrata, e si voltò incuriosita, chiedendosi che aspetto aveva, da quella parte. Ciò che vide le fece scorrere lungo la schiena un lieve brivido inesplicabile. Dietro di lei c'era un mucchio di rovine coperte di muschio, sgretolate e fatiscenti. Il fuoco aveva annerito le pietre in un'epoca lontana. Si capiva che doveva essere stato un castello, perché non aveva ancora perduto le linee di un tempo. Ma ormai restava in piedi soltanto un muro basso, e lì si apriva la finestra da cui era entrata. C'era qualcosa di ossessivamente, familiare nelle linee di quelle pietre muscose, e lei girò la testa con un vago senso di disagio, senza comprenderne il perché. Un sentiero si snodava tra gli alberi dai rami bassi, e Jirel si avviò lentamente, cercando con gli occhi le tracce del passaggio di Giraud. Gli uccelli trillavano assonnati fra le fronde, e i loro canti erano strani, irriconoscibili, diversi da tutti quelli quelli che conosceva. La luce violetta era calma e dolce intorno a lei. Aveva ormai camminato per molti minuti nel silenzio interrotto dal canto degli uccelli quando scoprì il primo accenno che contrastava con quella pace perfetta. Una zaffata di fumo di legna le arrivò alle narici, portata da una. brezza vagabonda. Appena superò un'altra curva del sentiero, vide che cosa l'aveva causata. Un albero giaceva attraverso la via, in un tremito di foglie e di rami. Jirel sapeva che doveva aggirarlo, perché i rami erano troppo aggrovigliati per penetrarvi, e abbandonò il sentiero, seguendo il tronco verso la base tranciata. Aveva percorso solo pochi passi quando uno strano singhiozzo le giunse all'orecchio. Era come l'ansito di un respiro soffocato, e lei aveva udito troppo spesso suoni simili per non capire che si stava avvicinando alla morte. Portò la mano all'impugnatura del coltello e avanzò senza far rumore.
Il tronco dell'albero era stato tranciato da un calore fortissimo, perché il moncone era carbonizzato e fumava ancora. Al di là di quel troncone si svolgeva una scena stranissima e Jirel si fermò di colpo, scrutando tra le foglie. Sul muschio giaceva una ragazza nuda, che ansimava esalando la vita tra le mani che le coprivano il viso. Era impossibile non riconoscere il suono della morte in quel respiro che si spegneva, sebbene il corpo non mostrasse nessun segno. I capelli di uno strano pallore verdeoro scendevano sul corpo nudo, e dalla fragilità e dalla delicatezza di quelle membra Jirel comprese che non poteva essere completamente umana. Accanto alla ragazza morente stava ritta una donna alta. Quella donna attirò gli occhi affascinati di Jirel. Aveva curve generose e occhi assonnati. I capelli neri le cingevano la testa, e la sua pelle era un velluto color panna. Una veste violetta l'avvolgeva, lasciando scoperte le braccia e una spalla tornita, e la cintura era un serpente che sembrava di vetro purpureo. Pareva ricavata da una gemma enorme, se non fosse stato per le dimensioni e l'intatta trasparenza. I piedi nudi erano calzati di sandali argentei. Ma fu il volto della donna ad attirare gli occhi gialli di Jirel. Gli occhi assonnati, sotto le palpebre pesanti, erano purpurei come gemme, e la bocca, di un cremisi scuro, era incurvata in un sorriso così odioso che il furore invase il cuore di Jirel. Il pigro sguardo purpureo indugiava distaccato sulla ragazza che ansimava sul muschio. La donna stava dicendo, con una voce morbida e profonda come un drappo di velluto: — ...e nessun'altra driade oserà operare magie proibite nei miei boschi, per molto, molto tempo. Il tuo fato sarà loro d'esempio, Irsla. Hai osato troppo. Chi sfida Jarisme non sopravvive. Ascoltami, Irsla! Il respiro singhiozzante era rallentato mentre la donna parlava, come se la vita stesse abbandonando in fretta la driade giacente sul muschio; e quando se ne accorse, la donna alzò il braccio e un guizzo di fuoco bianco scaturì dalla mano protesa, trafiggendo il corpo disteso ai suoi piedi. Irsla sussultò, come richiamata improvvisamente alla vita. — Ascoltami, driade! E che la tua fine sia un monito per... Il respiro affrettato rallentò di nuovo quando il fulgore bianco abbandonò la ragazza, e la donna alzò la mano, scagliando ancora la lama di luce. La driade gemette, dietro le mani che le nascondevano il volto. — Oh, pietà, pietà, Jarisme! Lasciami morire! — Quando avrò finito. Non prima. Qui io dispongo della vita e della
morte, e non ho ancora finito con te. Tu hai rubato la magia... La donna s'interruppe, perché Irsla s'era accasciata di nuovo sul muschio, respirando appena. Quando Jarisme levò la mano per la terza volta, Jirel scattò. In parte era l'odio istintivo per la donna dagli occhi sonnolenti, in parte la ripugnanza per quel gioco spietato che aveva come vittima una fanciulla morente. Scostò i rami con il braccio e gridò con voce forte e chiara: — Finiscila, donna! Lasciala morire in pace. Lentamente, Jarisme alzò gli occhi purpurei verso gli ardenti occhi gialli di Jirel. Quel primo incontro di sguardi ebbe una violenza quasi fisica, e l'odio divampò subito tra loro, come un cozzo di lame... l'odio istintivo di due nemiche nate. Ognuna s'irrigidì sottilmente, come i felini nell'istante prima del combattimento. Ma Jirel credette di scorgere in quegli occhi purpurei, dietro la collera, una vaga inquietudine, un'incertezza senza nome. — Chi sei? — chiese Jarisme, con voce bassa e carica di minaccia. Qualcosa, nell'insicurezza che stava dietro gli occhi irosi, spinse Jirel a rispondere arditamente. — Jirel di Joiry. Cerco il mago Giraud, che è fuggito qui. Finiscila di tormentare questa sventurata fanciulla e dimmi dove posso trovarlo. Posso ricompensarti. Il suo tono era imperioso, e dietro le palpebre abbassate di Jarisme balenò un lampo di collera che quasi sommerse il vago disagio. — Tu non mi conosci — disse la donna, con voce gentile. — Io sono la maga Jarisme, sovrana di questa terra. Credi di potermi comprare, donna della Terra? Jirel sfoggiò il suo sorriso più dolce e velenoso. — Perdonami — mormorò soavemente. — A prima vista non credevo che il tuo prezzo potesse essere elevato... Una malizia stizzosa le aveva ispirato quelle parole, e Jirel se ne pentì appena le ebbe pronunciate, perché sapeva che il disprezzo lampeggiante negli occhi di Jarisme era giustificato. La maga fece un gesto noncurante. — Non sprecherò altro tempo qui — disse. — Ritorna alle tue piccole terre, Jirel di Joiry, e non tentarmi oltre. Gli occhi purpurei si posarono per un attimo sulla driade immobile, sfiorarono gli occhi roventi di Jirel con uno sguardo di disprezzo che tuttavia non nascondeva ancora la strana incertezza. Jarisme si passò una mano dietro le spalle, come se cercasse la serratura d'una porta, nel vuoto. Poi in-
torno a lei danzò come il riflesso dell'aria surriscaldata, e in un istante la donna sparì. Jirel batté le palpebre. Gli orecchi l'avevano ingannata non meno della vista, pensò, perché quando la maga era sparita una porta s'era chiusa dolcemente, chissà dove. Eppure, per quanto guardasse, la radura verde era deserta, l'aria violetta era imperturbata. Jarisme non c'era... e non c'erano porte. Dopo un momento, Jirel scrollò le spalle, scacciando lo sbalordimento. Aveva incontrato altre volte la magia. Un suono emesso dalla ragazza che giaceva sul muschio attirò la sua attenzione. Si lasciò cadere in ginocchio accanto alla driade morente. Non aveva lividi né ferite, eppure Jirel comprese che la morte era lontana solo pochi istanti. E ricordò vagamente la leggenda: uno spirito dei boschi non sopravviveva mai alla morte del suo albero. Girò delicatamente la ragazza, chiedendosi se avesse potuto aiutarla. Al contatto di quelle mani gentili, le palpebre della driade fremettero e si sollevarono. Gli occhi bruni come l'acqua di un ruscello fissarono Jirel: avevano un riflesso verde, come il rispecchiarsi delle fronde in uno stagno. — Ti ringrazio — balbettò la ragazza in un mormorio spettrale. — Ma ora ritorna a casa tua... prima che la collera di Jarisme ti uccida. Jirel scrollò ostinatamente la testa fulva. — Prima devo trovare Giraud e ucciderlo. L'ho giurato. Ma aspetterò. Posso fare qualcosa per te? Gli occhi dai riflessi verdi cercarono per un momento i suoi. La driade dovette leggervi la decisione, perché scosse appena il capo. — Io devo morire... con il mio albero. Ma se sei decisa... ascoltami. Ho un debito... con te. C'è un talismano... intrecciato nei miei capelli. Quando sarò... morta... prendilo. È il segno di Jarisme. Tutti i suoi sudditi lo portano. Ti guiderà a lei... e a Giraud. Le sta sempre accanto. Lo so. Credo sia stata la sua collera verso di te... che le ha fatto dimenticare di prendermi il talismano, dopo avermi dato la morte. Ma perché non abbia ucciso anche te... non lo so. Jarisme è pronta... a uccidere. Comunque... ascoltami. Se vuoi raggiungere Giraud... dovrai correre un rischio che nessuno qui... ha mai affrontato... prima. Spezza il talismano... ai piedi di Jarisme. Non so... cosa accadrà allora. Qualcosa... di terribile. Libera forze... che neppure lei può dominare... Forse annienterà... anche te. Ma... è... un rischio. Ti auguro... ogni... bene... La voce fievole si spezzò. Jirel, chinando la testa, colse soltanto mormo-
rii inintelliggibili che si spensero nel nulla. La testa verdeoro ricadde improvvisamente in avanti sul braccio che la sorreggeva. Tutto intorno, nella foresta, si sentì un lungo sospiro tremulo, come se una brezza intangibile frusciasse tra gli alberi. Eppure non si muoveva neppure una foglia. Jirel si chinò, baciò la driade sulla fronte, poi la riadagiò delicatamente sul muschio. E in quel momento la sua mano, tra la massa di capelli dallo strano colore, incontrò un oggetto duro e aguzzo. Rammentò il talismano. Le tintinnò tra le dita quando lo estrasse: uno strano, piccolo cristallo dentellato che scintillava della strana vita irradiata dal fuoco che ardeva nel suo cuore. Quando si fu rialzata, lasciando la driade morta sul muschio che sembrava il suo giaciglio perfetto, Jirel vide il fulgore interno in quella forma a cuneo formare una punta tremula che indicava in avanti e verso destra. Irsla aveva detto che l'avrebbe guidata. Jirel provò a girare la mano verso sinistra. Sì, la luce tremula si spostava all'interno del cristallo, puntando sempre verso destra, verso Jarisme. Rivolse un ultimo sguardo alla driade giacente. Poi riprese il cammino lungo il sentiero, e il minuscolo oggetto magico le pungeva la mano. E intanto, Jirel rifletteva. L'odio fortissimo divampato istintivamente tra lei e la maga era abbastanza rovente da consumare ogni traccia di paura nella sua mente; e ricordava l'espressione incerta negli occhi purpurei che l'avevano fissata con tanto astio. Perché? Perché non era stata uccisa com'era stata uccisa Irsla, per aver sfidato la sovrana di quella strana terra? Per un poco proseguì senza badare a nulla, sotto gli alberi. Poi all'improvviso la vegetazione si diradò, e davanti a lei apparve un grande prato, verdissimo nel limpido giorno violetto. Oltre il prato si ergeva la struttura sottile di una torre d'un candore abbagliante, e il talismano magico indicava quella direzione. Da molto lontano, Jirel ebbe la sensazione di udire ancora gli echi del canto, quando spirava il vento, un suono irritante e monotono che le faceva dolere gli orecchi. Fu lieta quando il vento cadde e il suono non le giunse più. Si avviò attraverso il prato. In distanza, scorgeva all'orizzonte montagne purpuree simili a nubi basse e, qua e là, altri boschi costellavano le praterie. Jirel camminava più svelta, adesso, perché era sicura che quella torre ospitasse Jarisme, e con lei Giraud. E doveva procedere ancora più velocemente di quanto credesse, perché la torre lucente si avvicinava con magica rapidità.
Jirel vide l'arco della porta che lasciava trasparire un viola azzurrino all'interno. La sommità della torre era cinta da un bastione, e lei scorse macchie di colore tra i merli, come se vi fossero ammassati fiori che riversavano le loro corolle contro il biancore dell'edificio. La musica cantilenante era più forte che mai, e molto più vicina. Il cuore di Jirel batté un poco più forte mentre avanzava chiedendosi Che sorta di maga potesse essere Jarisme, quali pericoli erano in agguato sulla via che doveva portarla a realizzare il suo giuramento. Ora la torre bianca si ergeva sopra di lei, e Jirel attraversò il piccolo spiazzo davanti alla porta, scrutando dubbiosa l'interno. Non vide altro che la semioscurità e la nebbia violetta. Posò la mano sul pugnale, trasse un profondo respiro e passò arditamente sotto l'arco. Nell'istante in cui i suoi piedi lasciarono la terra solida, vide che la nebbia violetta riempiva interamente l'interno della torre, e che non c'era un pavimento. Il vuoto l'avvolse e la realtà svanì. Stava precipitando tra nubi violette, ma senza una direzione riconoscibile. Poteva muoversi verso l'alto o il basso, o forse lateralmente, chissà. Tutto era svanito nel nulla violetto. Provò un interminabile momento di vertigine e una sensazione di moto turbinante; e poi il vuoto svanì in un soffio, e lei si trovò, ansimante di stupore, sul tetto della torre di Jarisme. Sapeva dov'era, grazie ai merli bianchi che la circondavano, orlati da strani fiori dai colori smorzati. Al centro del pavimento marmoreo c'era un divano basso di velluto giallo, tra mucchi di pellicce. Due persone sedevano fianco a fianco su quel divano. Uno era Giraud. Vestito di scuro, scuro di carnagione, fissò Jirel con un lampo d'inquietudine negli occhietti opachi e non disse nulla. Jirel lo degnò appena d'uno sguardo, quasi senza rendersi conto della sua presenza. Perché Jarisme s'era scostata dalle labbra un lungo flauto d'argento. Jirel si rese conto che la strana musica esasperante doveva venire dallo strumento, perché ora non le echeggiava più negli orecchi. Jarisme teneva il flauto a mezz'aria, e guardava Jirel con gli occhi purpurei, un po' pensierosi e un po' apprensivi, sebbene vi brillasse anche la collera. — Dunque — disse con la sua voce lenta e profonda, — mi sfidi per la seconda volta. A queste parole Giraud girò bruscamente la testa e fissò il profilo impassibile della maga. Lei non ricambiò lo sguardo, ma dopo un attimo Giraud si volse di nuovo verso Jirel, e anche nei suoi occhi lei lesse quel guizzo di allarme e una sorta d'impaurito rispetto. Si sentì sconcertata, e quella sen-
sazione non le piaceva. Ansimando leggermente, replicò a Jarisme: — Sì, se vuoi, consegnami quel sordido incantatore che ti sta accanto e fammi ridiscendere fuori da questa torre ingannevole. Sono venuta a uccidere il tuo stregone, che ha commesso un tradimento contro di me nel mio mondo, e non ha osato restare ad affrontarmi. Le sue parole perentorie aleggiarono nell'aria come gli echi di un gong. Per un po' nessuno disse nulla. Jarisme sorrise più sottilmente di prima: un lento sorriso insolente che fece battere il cuore di Jirel per il desiderio di ricacciarlo nella gola morbida della donna. Infine Jarisme disse, con voce morbida e profonda come il velluto: — Parole ardenti, parole ardenti, soldatessa! Davvero credi che le vostre beghe terrene interessino Jarisme? — Ciò che interessa Jarisme conta ben poco per me — ribatté sprezzante Jirel. — Voglio soltanto quel vigliacco, che ho giurato di uccidere. Il lento sorriso di Jarisme era esasperante. — Lo pretendi da me... da Jarisme? — chiese la maga, con divertita incredulità. — Soltanto gli sciocchi mi offendono, donna, e lo fanno una volta soltanto. Nessuno mi dà ordini. Dovrai impararlo. Jirel sorrise a labbra strette. — A che prezzo, allora, valuti quel tuo cane bastardo? Giraud si alzò a mezzo dal divano a quest'ultimo insulto, e il suo volto scuro si incupì in un'ondata di rabbia. Jarisme lo respinse pigramente con la mano. — Questo riguarda il tuo... amico... e me — disse. — Non credo, soldatessa — continuò, trasformando quella parola nell'insulto più mortale, con il tono in cui la pronunciò, — che il prezzo che potresti offrirmi mi interesserebbe. — Eppure il tuo interesse si desta facilmente. — Jirel lanciò un'occhiata sprezzante a Giraud, che si agitava irrequieto, trattenuto dalla mano della maga. — Non provocarmi troppo, terrestre. Gli occhi gialli di Jirel la sfidarono. — Io non ho paura. Lo sguardo dell'incantatrice la squadrò lentamente. Quando Jarisme riprese a parlare, una sfumatura di riluttante ammirazione alleggerì il lento disprezzo nella sua voce. — No... tu non hai paura. E sei sciocca, se non l'hai. Gli sciocchi mi irritano, Jirel di Joiry. Posò il flauto sulle ginocchia e alzò pigramente una mano. Adesso nei
suoi occhi brillava la collera, che cancellava ogni traccia di paura. Ma Giraud afferrò quella mano, si chinò, mormorò parole concitate al suo orecchio. Jirel afferrò una parte di ciò che diceva: — ...ciò che accade a coloro che modificano il proprio destino... — Vide la collera svanire dal volto della maga, mentre si rafforzava di nuovo l'apprensione. Jarisme rivolse a Jirel un lungo sguardo duro e scrollò le spalle ampie. — Sì — mormorò. — Sì, Giraud. Così è più saggio. — Poi, rivolgendosi a Jirel: — Dunque vivi, terrestre. Ritrova la strada per ritornare alla tua terra, se puoi: ma ti avverto, non infastidirmi più. Non frenerò la mia mano se le nostre strade dovessero incrociarsi di nuovo in futuro. Batté bruscamente le mani candide. E a quel suono il tetto e il cielo e i fiori turbinarono intorno a Jirel in una confusione vertiginosa. Da lontano, udì quel battito perentorio che echeggiava ancora; ma le pareva che i grandi fiori dai colori fumosi stessero subendo una trasformazione inspiegabile. Fremevano e si allargavano e si protendevano verso l'alto dai bordi della torre, inarcandosi sopra la sua testa. Sotto i suoi piedi c'era il suolo muscoso, e intorno a lei salivano i dolci odori di un giardino. Sbattendo le palpebre, Jirel si guardò intorno mentre il mondo riacquistava lentamente la sua solidità. Non era più sul tetto della torre. Fin dove giungeva il suo sguardo attraverso gli steli intrecciati, grandi piante fiorite scaturivano in una strana foresta incantata. Era completamente sommersa dalla vegetazione, e l'illusione di trovarsi sott'acqua le riempiva gli occhi, perché la luce violetta che filtrava tra le foglie veniva diffusa e spezzata in una penombra sottomarina. Incerta, cominciò ad avanzare brancolando, guardandosi intorno per vedere quale sorta di miracolo l'aveva avviluppata. Era un pergolato in una terra incantata. Era giunta in un giardino tropicale di grandi corolle smorzate e di silenzi. Nella luce diffusa i fiori ondeggiavano sonnolenti tra le fronde, ipnoticamente belli, ipnoticamente soporiferi con i loro colori dolci e il loro movimento incessante. La fragranza la sopraffaceva. Proseguì lentamente, camminando sul muschio che attutiva i suoi passi. Lì, sotto il baldacchino di foglie c'era un piccolo mondo isolato di colore e di silenzio e di profumi. Sognante, Jirel procedette tra i fiori. La fragranza era così dolce e così forte che le dava alla testa, e lei camminava come in un sogno. A causa della bizzarra trance profumata in cui si muoveva, non ebbe mai la certezza di aver scorto davvero quel movimento tra il fogliame; guardò più da vicino e distinse un enorme, incredibile ser-
pente violetto e trasparente, una copia gigantesca di quello che cingeva la vita di Jarisme, ma miracolosamente vivo, miracolosamente agile e in movimento, silenzioso tra i fiori. E la fissava con gli impassibili occhi purpurei. Mentre il serpente guizzava accanto a lei, Jirel ebbe altre strane visioni, e non riuscì mai a ricordare esattamente quali fossero, o perché trovasse qualcosa di familiare nelle minuscole facce ridenti che la sbirciavano, perché credesse alle assurde cose impossibili che le bisbigliavano, sfiorandole gli orecchi con le bocche mentre si curvavano tra i fiori. Infine i rami cominciarono a diradarsi, quando Jirel si avvicinò al limitare del luogo incantato. Camminava lentamente, vagamente consapevole del grande serpe traslucido simile a una gemma viva che strisciava silenzioso al suo fianco, con la mente appena turbata nel sogno dal ricordo semisbiadito di ciò che le avevano detto le piccole voci gaie. Quando giunse al bordo della giungla ed eruppe di nuovo nella luce chiara del giorno, si arrestò stordita, guardandosi intorno nella luce più viva mentre i profumi svanivano pian piano, liberandole la mente. La ragione e la lucidità ritornarono. Jirel scrollò sorpresa la testa fulva e si guardò intorno, quasi aspettandosi di vedere il grande serpente strisciare tra l'erba. Ma non c'era nulla. Aveva sognato, era ovvio. Quelle piccole voci ridenti non le avevano detto che... che... Jirel cercò di afferrarsi ai brandelli dei ricordi che si dileguavano e non ci riuscì. Rise, malinconicamente, e scacciò quei pensieri, guardandosi intorno per vedere dov'era. Era sulla cresta d'una collinetta. Sotto di lei ondeggiava la giungla di fiori fragranti, un manto di vegetazione incantata che copriva le pendici dell'altura. Più oltre si estendevano prati verdi, fino alla linea lontana della foresta, che le parve quella dove aveva incontrato Jarisme per la prima volta. Ma la torre bianca in mezzo alla prateria era magicamente scomparsa. Al suo posto si stendeva l'erba ininterrotta, sotto il chiarore violetto del cielo. Mentre si guardava intorno sconcertata, sentì una leggera puntura nel palmo della mano, e abbassò lo sguardo, rammentando il talismano che teneva stretto. La luce tremula puntava in un lungo cuneo dietro di lei. Jirel si voltò. Era ai piedi delle montagne purpuree che aveva intravvisto dal limitare della foresta. Alte e scintillanti, torreggiavano sopra di lei; e confusa nelle onde di calore che danzavano intorno alle vette, Jirel scorse la torre. Jirel gemette. I picchi erano ripidi e rocciosi. Bene, non c'era nulla da fare. Doveva scalarle. Borbottò un'imprecazione soldatesca e si girò stanca-
mente verso i pendii. Erano accidentati e squarciati da burroni. Il calore violetto si rifletteva sulle rocce e minuscoli esseri coloratissimi fuggivano lontano da lei: lucertole arancioni e scorpioni rossi come il corallo e serpentelli simili a gemme azzurre. Le parve che, mentre saliva tra le pietre spezzate, anche la torre salisse. Ogni volta riduceva le distanze, e ogni volta alzava gli occhi, dopo una faticosa lotta su per le ripe scoscese, e l'irridente bagliore bianco era ancora lassù, alto e irraggiungibile su una vetta lontana. Aveva la nebulosità dell'irreale, e se il talismano non avesse puntato costantemente verso l'alto, Jirel avrebbe creduto che fosse un'illusione per farle smarrire la strada. Ma dopo quelle che le parvero ore e ore di fatica, venne il momento in cui, alzando gli occhi, vide la torre sulla vetta più alta, bianca come la neve contro il limpido cielo violetto. Poi la torre non si spostò più. Jirel si rianimò, perché finalmente sembrava che guadagnasse terreno. Ogni passo laborioso la portava più vicina all'edificio sulla cima più alta delle montagne. Dopo un po', Jirel si soffermò, guardando verso l'alto e asciugandosi il sudore che le faceva aderire alla fronte i riccioli fulvi. Qualcosa si mosse tra le rocce, e dal riparo d'un macigno uscì un lungo felino acquattato. Era diverso da ogni bestia che Jirel avesse mai visto. Il manto lucido era favolosamente dorato, broccato di strane chiazze d'oro più scuro, e dalle pesanti mascelle s'incurvavano verso il basso due zanne più bianche dell'avorio. Con la grazia fluida dell'acqua scendeva il burrone verso di lei. Jirel si sentì stringere il cuore. Si trovò in mano l'impugnatura del coltello, sebbene non ricordasse di averlo sguainato. Fissava il bellissimo e terribile felino, cercando di comprendere perché gli occhi le sembravano stranamente familiari. Erano purpurei e simili a gemme. Lentamente, lei comprese. Aveva già visto quegli occhi purpurei, insolenti sotto le palpebre pesanti. Gli occhi di Jarisme. Sì, e anche il serpente del sogno l'aveva scrutata con occhi purpurei. Jarisme? Strinse la mano intorno al cristallo, sapendo che doveva nascondere alla maga la sua unica arma terribile, attendendo il momento di usarla contro la sua creatrice. Mosse il pugnale, e la luce guizzò lungo la lama. Rimasero immoti per un momento, la donna dagli occhi gialli e il favoloso felino dagli occhi purpurei, guardandosi con un'ostilità eloquente. Jirel strinse il pugnale, scrutando guardinga le zampe dagli artigli d'acciaio. Avrebbero potuto dilaniarla prima che il pugnale arrivasse a segno.
Jirel vide una strana espressione passare negli occhi purpurei che la fissavano, e il felino bellissimo si acquattò un poco, agitando la coda, aggricciando le labbra per scoprire le lucide zanne. Stava per balzare. Per un momento interminabile, lei attese che quella morte dorata si avventasse su di lei, tesa, rigida, con il coltello saldo nel pugno... Il felino balzò. Jirel si lasciò cadere su un ginocchio nello stesso attimo, nascondendo istintivamente il cristallo, e alzò la lama per difendersi. La grande belva le passò sopra la testa; in quell'istante una risata squillante e beffarda le echeggiò negli orecchi, e Jirel sentì chiaramente il suono d'una porta che sbatteva. Si rialzò, voltandosi di scatto in un unico movimento. La gola era deserta, nella luce violetta. Non c'erano porte. Jarisme era sparita. Un po' scossa, Jirel rinfoderò il pugnale. Non aveva paura. La collera bruciò ogni traccia di paura quando rammentò il suono sprezzante di quella risata. Riprese a salire verso la torre, pallida e risoluta, senza voltarsi indietro. La torre si avvicinava di nuovo. Jirel continuò a salire. Jarisme non dava più segni della sua presenza, ma lei si sentiva addosso gli occhi purpurei, sprezzanti e assonnati. Vedeva la torre chiaramente, sulla cresta della vetta più alta, alla sommità di un lungo arco di ripidi gradini. Erano gradini molto antichi, così consunti che molti erano soltanto irregolarità della pietra. Jirel si chiese quali piedi li avevano consumati così, e a quale porta avevano condotto un tempo. Ansimava, quando arrivò in cima e scrutò sotto l'arco della porta. Con sua sorpresa, si trovò a guardare un ampio atrio semicircolare, fiancheggiato da innumerevoli porte. Ricordò il nulla violetto in cui era entrata l'ultima volta che aveva varcato la soglia e mentre tendeva incerta il piede si chiese se l'atrio era un'illusione, se stava per piombare ancora una volta nell'abisso nebuloso. Ma il pavimento era solido. Entrò e indugiò, guardandosi intorno sorpresa, chiedendosi cosa doveva fare. Sentiva nell'aria odore di pericolo. Le sembrava di percepire il sapore della magia che aleggiava come una nebbia su quel luogo incantato. Lievi brividi ammonitori le scorrevano lungo la schiena mentre avanzava in punta di piedi e apriva una di quelle innumerevoli porte. Vide una galleria che si estendeva per miglia e miglia, perdendosi nella foschia. Era diritta come una freccia e gli archi del soffitto si succedevano interminabilmente e svanivano in lontananza. E mentre guardava quella prospettiva lontana, qualcosa, come uno sbuffo di fumo, le oscurò la visuale per un istante... un fu-
mo che si gonfiò e ondeggiò e defluì dalla forma del felino dorato scomparso nel burrone. Veniva lentamente verso di lei, elegante e magnifico, con i muscoli guizzanti sotto l'aureo manto broccato e gli occhi purpurei fissi in uno sguardo sprezzante. Jirel si portò la mano al coltello, soffocata dall'odio nel vedere gli occhi purpurei. Ma nel corridoio echeggiò una voce sommessa, la voce di Jarisme. — Dunque c'è guerra tra noi, Jirel di Joiry. Perché tu hai sfidato la mia misericordia e devi essere punita. Io ho scelto la tua punizione... la più semplice e la più sottile, e la più terribile di tutte, la peggiore che possa accadere a una creatura umana. Riesci a immaginarla? No? E allora chieditelo per un po', perché io non sono ancora pronta ad agire... o devo ucciderti subito? Eh-h-h...? Quello strano suono interrogativo si mutò in un ringhio, e il felino aggricciò le labbra, mentre un lampo di luce sanguinaria si accendeva negli occhi purpurei. Aveva continuato ad avvicinarsi, mentre la voce echeggiava nell'aria. Ora il ruggito crebbe in un tuono scrosciante che riverberava dalle pareti, e la molla d'acciaio del corpo aureo si contrasse per balzare alla gola di Jirel. A una decina di passi, lei lo vide acquattarsi, teso; vide il corpo poderoso fremere... e scattare. Presa da un panico istintivo, Jirel balzò indietro e gli sbatté la porta sul muso. Una risata beffarda risuonò nell'aria. Una nube di fumo sottile filtrò attraverso la fessura della porta e le alitò in faccia con l'insolenza di uno schiaffo. Poi l'aria ridivenne limpida. La nebbia rossa della furia offuscò la vista di Jirel. Accecata dalla rabbia, ansimante, spalancò di nuovo la porta, sguainando il pugnale. Attraverso la nebbia del furore, guardò nel corridoio. Era deserto. Chiuse una seconda volta la porta e vi si appoggiò, tremando d'ira, fino a quando la nebbia si dileguò e Jirel riuscì a controllare la mano tremante quanto bastava per rinfoderare il pugnale. Quando si fu un po' calmata si voltò a scrutare l'atrio, chiedendosi che cosa doveva fare. E vide che adesso non avrebbe potuto uscire, neppure se l'avesse voluto, perché la porta dalla quale era entrata adesso era scomparsa. Intorno a lei si estendevano le pareti fiancheggiate dalle porte enigmatiche, e l'imprigionavano. E la loro stessa presenza era un insulto: indicavano che Jarisme aveva temuto che lei fuggisse se la porta fosse rimasta aperta. Jirel s'impose la calma. Non aveva paura, ma sapeva d'essere in mortale pericolo. Rimuginava sulla minaccia della maga mentre si guardava intorno alla
ricerca di qualcosa che guidasse i suoi passi. La più semplice e la più sottile e terribile delle punizioni... quale poteva essere? Jirel conosceva bene i metodi della tortura, e le sue segrete erano macchiate di sangue quanto quelle dei suoi vicini; ma sapeva anche che Jarisme non si era riferita soltanto alla sofferenza fisica. C'era una minaccia più sottile nelle sue parole. Sarebbe stata una vendetta femminea, e più terribile di quelle che potevano infliggere il ferro e il fuoco. Lo sapeva. Sapeva anche che nessuna delle porte che avrebbe potuto aprire l'avrebbe condotta alla libertà, ma non poteva attendere nell'inazione. Guardò la fila di porte scure e identiche. Potevano nascondere qualunque cosa, qualunque creazione della magia. Di fronte a un pericolo più esiziale della morte, non seppe resistere alla tentazione di aprire la più vicina e di affacciarsi. Una raffica di vento le soffiò in faccia e squassò la porta. Il vento era carico di polvere, freddo e pungente. Attraverso una grata di ferro che bloccava il passaggio, vide un bagliore bianco, come sole sulla neve, un istante prima di chiudere energicamente la porta. Ma quell'episodio aveva aguzzato la sua curiosità. Proseguì lungo la parete e apri un'altra porta. Questa volta, attraverso un'altra grata chiusa, scorse un fumo grigio screziato di fiamme. L'odore di bruciato le salì alle narici; e sentì, come da una distanza immensa, un suono di gemiti e un'eco tremula di grida. Rabbrividendo, chiuse anche quella porta. Quando aprì la successiva, trattenne il respiro e sgranò gli occhi. Una lastra di cristallo la separava da un abisso senza fondo. Premette il volto contro il vetro freddo e guardò in basso. Davanti a lei c'era il nulla. Tenebra e silenzio e lo sfolgorio delle stelle. Fuori dalla torre era giorno, ma lei stava guardando una notte senza fine. E in quel momento, una lunga scia di fiamma passò lampeggiando attraverso la tenebra e sparì. Non era una stella cadente. Aguzzando gli occhi, Jirel scorse qualcosa di simile a una sottile scheggia d'argento che attraversava l'oscurità, con una coda fiammeggiante che svaniva nel cielo. Quella visione le diede un'improvvisa vertigine. Il vuoto senza fondo turbinò intorno a lei. Jirel arretrò nel corridoio, sbattendo la porta su quell'apparizione terrificante del nulla stellato. Dopo parecchi minuti si riprese e decise di aprire un'altra porta. Quando la spalancò, timorosamente, percepì la dolcezza familiare del profumo dei fiori e attraverso la grata di ferro scorse la giungla di corolle e di aromi e di silenzio che aveva attraversato ai piedi della montagna.. Un'ondata di ricordi la investì. Per un istante udì di nuovo le sottili voci ridenti, e sentì la presenza del grande serpente al suo fianco, e i folli segreti delle vocine
grige le echeggiarono negli orecchi. Poi si riscosse, e il ricordo svanì come svaniscono i sogni, senza lasciare altro che frammenti inquietanti di segreti dimenticati che le aleggiavano nella mente. Sapeva che sarebbe ritornata in quella terra incantata, se le sbarre si fossero aperte. Ma non c'erano vie d'uscita da quel luogo magico, anche se attraverso le porte lei poteva vedere terre lontane e vicine. Stava incominciando a comprendere il significato di quell'atrio. Doveva essere da lì che Jarisme, grazie alla sua conoscenza della magia, partiva per raggiungere altre terre e altri tempi e altri mondi, varcando le porte che mettevano in comunicazione il suo dominio con quegli strani luoghi. Forse là aveva amici tra gli incantatori, e faceva loro visita per acquisire maggiori conoscenze, passando da un mondo all'altro, da un secolo all'altro, attraverso le porte stregate. Jirel era certa che una di quelle aperture enigmatiche dava sul passo montano dove le era balzato addosso il felino aureo dagli occhi di porpora, subito scomparendo, mentre la porta si chiudeva; e che un'altra conduceva alla radura nel bosco, dov'era morta la driade. Ma sapeva che le sbarre le avrebbero bloccato l'accesso a quei luoghi, anche se li avesse trovati. Continuò a esplorare. Una porta dava su una fumante foresta di felci gigantesche dalla quale saliva un intenso odore di rettili e giungeva il suono lontano di muggiti cavernosi. Un'altra dava su un deserto grigio, piatto e senza vita, pallido sotto la luce di un fioco sole rosa. Ma infine giunse a una porta che si apriva, non già su terre aliene, bensì su una scalinata che scendeva tortuosamente nella roccia solida. Le pareti portavano i segni degli utensili che le avevano scavate. Dalla scala non giungeva il minimo suono, e c'era una luce grigia, scura. Jirel scrutò, cercando invano di vedere cosa c'era laggiù. Ma alla fine, poiché l'inattività la faceva smaniare e sapeva che tutte le strade per fuggire erano bloccate, varcò la soglia e cominciò a scendere lentamente. Pensò che forse laggiù avrebbe trovato Jarisme, impegnata in qualche tenebrosa magia: ed era ansiosa di trovarsi faccia a faccia con la sua nemica. La luce si offuscò mentre scendeva, e alla fine dovette muoversi brancolando a tentoni nell'oscurità, lungo la scala tortuosa. Quando i gradini finirono, a una profondità che Jirel non sapeva immaginare, capì di essere giunta in un basso corridoio, tastando le pareti e il soffitto. Vi regnava l'oscurità più fitta. Avanzò lentamente per quel corridoio di pietra che si attorceva e svoltava e scendeva ad angoli imprevedibili, fino a farle perdere del tutto il senso dell'orientamento. Ma sapeva di aver percorso molta stra-
da, quando scorse davanti a sé un barlume di luce. Poi incominciò a sentire il suono lontano di una canzone... la piccola, monotona melodia del flauto di Jarisme, su due note, ed ebbe la certezza che l'intuizione non l'aveva ingannata, che la maga era laggiù. Sguainò il pugnale nell'oscurità e procedette ancora più cautamente. Al termine del corridoio c'era un'arcata e, più oltre, un fulgore danzante di luminescenza bianca. Jirel si soffermò, battendo gli occhi e cercando di comprendere in quale strano luogo stava entrando. La sala che le stava davanti era piena dei brillii sconcertanti e dei miraggi di superfici riflettenti, e lei non riusciva a comprendere che cosa fosse reale e cosa fosse uno specchio e cosa fosse una luce. Il fulgore l'abbagliava, si affievoliva, brillava di nuovo via via che gli specchi si spostavano. Piccole correnti di tenebra tremolavano nel caos e ridiventavano scintillii bianchi. La musica monotona le giungeva attraverso le luci vibranti e i riflessi, ora più forte, ora più debole e in lontananza. Quel luogo era un caos di luce e di confusione. Jirel non riusciva a comprendere se era grande o piccolo, una caverna o la sala di un palazzo. Riflessi bizzarri danzavano attraverso il bagliore. Scorgeva la propria immagine che la guardava da dodici, venti, cento piani mobili, distorcendosi bizzarramente e scomparendo con uno scintillio abbagliante. Stordita, sbatté le palpebre in quel vortice di superfici. Poi scorse Jarisme, nella veste violetta, intenta a osservarla da cento giacigli d'oro identici, riflessa da cento specchi. La figura teneva un flauto accostato alle labbra, e la musica ne usciva al ritmo delle pulsazioni della gola bianca della maga. Jirel girò lo sguardo confuso sulla miriade di Jarisme che suonavano l'interminabile melodia monotona. Cento volti sensuali e sognanti si girarono verso di lei, cento braccia bianche si abbassarono mentre il flauto si staccava da cento bocche rosse, perché Jarisme potesse sorridere d'un sorriso ironico benvenuto, cento volte più sprezzante nella sua molteplicità. Quando la musica cessò, il bagliore lampeggiante si acquietò di colpo. Jirel sbatté le palpebre mentre il caos si risolveva in un ordine luccicante, e le cento Jarisme si fondevano in un'unica donna dagli occhi assonnati, adagiata sul divano d'oro in un'immensa sala di cristallo, semicircolare e sovrastata da una cupola. Dietro il divano, un velo di vapori violetti formava una cortina che nascondeva l'altra metà della sala circolare. — Entra — disse la maga, con la grazia di chi si sente padrona della si-
tuazione. — Immaginavo che avresti trovato la strada per giungere fin qui. Sto preparando una cerimonia che ti riguarda intimamente. Forse vorresti assistere? Dev'essere un esperimento, e per questa ragione sarà per te l'onore più grande: perché coloro che sto radunando per assistere alla tua punizione sono più illustri di quanto tu possa comprendere. Vieni qui, entro il cerchio. Jirel avanzò, con il coltello ancora stretto in pugno, e l'altra mano serrata intorno al frammento di cristallo. Vide che il divano stava al centro di un cerchio intarsiato nel pavimento con bizzarri simboli cabalistici. Più indietro, la nebulosa cortina violetta ondeggiava come un'immensa muraglia di nebbia. Dubbiosa, Jirel entrò nel cerchio e si fermò a fissare Jarisme, con gli occhi gialli ardenti d'emozione repressa e fatica. Jarisme sorrise e si portò di nuovo il flauto alle labbra. Quando le due note ricominciarono la fastidiosa melodia altalenante, Jirel vide accadere qualcosa di sorprendente. Sapeva che il flauto era magico, e che era magico anche il canto. Le note assumevano una forma che travalicava i confini del suono e giungevano inspiegabilmente a tutti gli altri sensi. Jirel le sentiva con il tatto, il gusto, l'olfatto, la vista. Erano bizzarramente visibili, mentre si riversavano a due a due dal flauto e sfrecciavano come piccoli aghi di luce. Le pareti le riflettevano, e quei riflessi diventavano più rapidi e luminosi e numerosi, fino a riempire l'aria di schegge volanti di luce argentea. E tra quei riflessi cominciarono a danzare nuovi scintillii, e riprese lo sconvolgente ondeggiare di piani specchianti. Ancora una volta i riflessi s'incrociarono e si moltiplicarono nell'aria splendente, mentre il flauto versava le sue doppie note lampeggianti. Jirel dimenticò la maga che stava accanto a lei, la musica che le strideva sui nervi, persino il pericolo, mentre guardava le immagini che tremulavano e svanivano nelle superfici specchianti. Intravvide scene che aveva scorto attraverso le porte del corridoio di Jarisme. Vide luoghi anche più strani passare fuggevolmente sui piani argentei. Vide montagne nere e dentate dietro le quali sorgevano aurore purpuree e stelle che formavano costellazioni sconosciute nei cieli neri; vide mari grigi e immobili sotto nubi grige; vide praterie ondulate che si estendevano fino all'orizzonte sotto il fulgore di soli doppi. Tutte quelle visioni e molte altre si destavano alla magia del flauto di Jarisme, e si disperdevano per lasciare posto ad altre. Mentre la musica continuava, Jirel ebbe la strana sensazione che si potesse udire nelle terre le cui immagini passavano fuggevolmente sullo sfondo delle sue note visibili. Sembrava penetrare a distanza incommensu-
rabili, risuonare sui mari nuvolosi, echeggiare sotto i soli doppi, chiamare con insistenza in terre strane e luoghi lontani e sconosciuti e deserti e montagne che l'uomo non aveva mai visitato, altri mondi e altri tempi, e piangere la sua monotonia di due note attraverso la tenebra dello spazio interstellare. Per Jirel, tutto questo era soltanto una sensazione vaga. Per lei non significava nulla: il suo mondo era piatto, sovrastato dalla volta del cielo. Magia, si disse, e rinunciò a capire. Poi il tempo della musica cambiò. Erano le stesse due note, ma non era più uno squillo che echeggiava al di là dei confini di strani mondi. Era più lento e solenne. E le note d'argento visibile che prima sfrecciavano pazzamente contro le pareti di cristallo e riverberavano, assunsero un ordine che le allineò in un unico piano lucente. Su quel piano, Jirel vide prendere lentamente forma i contorni di una scena nota. Il grande atrio fiancheggiato dalle porte si rispecchiò, davanti ai suoi occhi. La musica continuò immutata. E mentre Jirel guardava, una delle innumerevoli porte tremolò. Lei trattenne il respiro. Si aprì lentamente sul deserto grigio sotto il sole russo che lei aveva veduto prima di richiudere in fretta il pannello. Guardò di nuovo, sopraffatta da un senso di desolazione e di stanchezza di fronte allo squallore della scena. La porta era spalancata, e la grata non l'ostruiva più, e mentre la musica continuava Jirel scorse un bagliore, come una folgore, che cominciava a prender forma nell'apertura. La luce si rafforzò. La vide fremere una volta, due volte, e poi avventarsi con rapidità accecante attraverso il varco. E mentre cercava di seguirla con gli occhi un'altra porta si aprì, distraendola. Questa volta apparve ìa fumante foresta di felci. Ma sulla soglia stava qualcosa di tanto spaventoso che Jirel si portò la mano alle labbra mentre un urlo le saliva dalla gola. Era nero... informe e nero e viscido. Era vivo. Come un mucchio di lucida gelatina putrescente, si sollevò oltre la soglia e cominciò a fluire sul pavimento, muovendosi come un'enorme ameba cieca. Ma Jirel capì d'istinto che era orribilmente sapiente e orribilmente vecchio. E lasciava una nera traccia di bava sul pavimento. Jirel rabbrividì e distolse gli occhi. Un'altra porta si stava aprendo. Scorse un luogo che prima non aveva veduto, un territorio di nude pietre rosse sparse sotto un cielo così blu che sembrava nero, e le stelle che vi brillavano erano più nitide di quelle della terra. Su quell'accidentato deserto rosso avanzava a grandi passi un essere che poteva essere soltanto una creazione
magica: era così alto, così esile, così grottescamente umano nonostante la testa tonda e il petto enorme. Jirel non riuscì a scorgerlo con chiarezza, perché era avvolto in un velo di luce accecante come in una veste. Con quelle gambe incredibilmente lunghe ed esili l'essere varcò la soglia, si drappeggiò nell'indumento abbacinante e avanzò. Quando si avvicinò, la luce divenne così intensa che Jirel non poté più fissarla. Distolse gli occhi e scorse il movimento di una quarta porta. Questa volta vide il burrone fiorito, nella luce diffusa che creava l'illusione d'una scena sottomarina. Dai fiori uscì strisciando il grande serpente, non di cristallo traslucido come l'aveva veduto nel sogno, ma coperto di squame iridescenti. E non era del tutto un serpente, perché dal grosso collo spuntava una testa che non si poteva definire del tutto inumana. L'essere aveva il portamento maestoso di un cobra, e mentre fluiva oltre la soglia, il suo unico occhio sfacettato incontrò in un riflesso lo sguardo di Jirel. L'occhio lanciò un lampo abbagliante, e lei arretrò, inorridita: la violenza di quello sguardo le bruciava nelle vene come un fuoco. Quando riprese l'autocontrollo molte altre porte si erano aperte su scene note e sconosciute. Mentre lei era rimasta stordita, altri abitanti di quegli strani mondi dovevano essere entrati al richiamo del magico flauto. Ebbe appena il tempo di scorgere un essere assolutamente indescrivibile entrare svolazzando nel corridoio da un mondo che le aggredì gli occhi e che intravvide appena, prima di alzare le mani per non guardarlo. Non le riabbassò fino a quando la voce divertita di Jarisme disse: — Guarda il tuo pubblico, Jirel di Joiry. — E Jirel si accorse che la musica era cessata e s'era fatto un immane silenzio. Guardò, e trasse un lungo respiro. Ormai era incapace di stupirsi e d'inorridire: guardò incredula, con la certezza di vivere un incubo. Schierato all'esterno del cerchio che racchiudeva le due donne stava senza dubbio il più strano assortimento di esseri che si fosse mai visto. Erano raggruppati con una bizzarra irregolarità che, sebbene per Jirel non avesse significato, dava l'impressione di uno scopo preciso. C'era una simmetria così spiccata che, sebbene sfuggisse alla sua comprensione, non poteva fare a meno di percepirla. C'era l'abitatore del deserto rosso, nella sua veste di luce, e c'era la massa informe di gelatina nera che si sollevava delicatamente sul pavimento di cristallo. Jirel scorse altri esseri che aveva veduto entrare, e molti altri. C'era una femmina la cui veste, iridescente come il piumaggio del pavone, si spiegava dalle spalle in grandi ali cadenti e l'avvolgeva come il manto co-
riaceo di un pipistrello. E accanto stava una grassa limaccia grigia di dimensioni mostruose che palpitava incessantemente. Uno dei presenti sembrava un alto giglio bianco che ondeggiava su un pallido stelo d'argento; ma dal suo calice s'irradiava una luce così minacciosa che Jirel rabbrividì e distolse gli occhi. Jarisme s'era alzata dal divano; alta e regale nella veste violetta, si stagliava contro lo sfondo di vapori che nascondeva l'altra metà della sala. Quando alzò le braccia, gli incredibili spettatori si voltarono verso di lei, ansiosi. Jirel rabbrividì. Poi il flauto della maga parlò sommessamente. Era una musica diversa dal richiamo che li aveva radunati, dalla melodia maestosa che li aveva salutati quando avevano varcato le porte. Tuttavia arpeggiava ancora sulle due note altalenanti, con suoni bassi e ondulati, così diversi che Jirel si stupì della gamma che la maga sapeva trarre. Per qualche istante, mentre la melodia continuava, non accadde nulla. Poi un movimento, alle spalle di Jarisme, attirò lo sguardo di Jirel. La cortina di vapori violetti ondeggiava. La musica l'aggrediva, la faceva fremere a tempo. La cortina tremò, impallidì e si diradò, lasciando trasparire una luce. Poi, l'ultimo suono basso e monotono si dissipò del tutto, e Jirel vide un immenso globo di luce fremente che giganteggiava sotto l'arco dell'altra metà della sala. Quando le ultime nubi si dissolsero, Jirel vide che era un'enorme sfera di cristallo, eretta sulle spirali di una base purpurea e traslucida a forma di serpe. E nel cuore del globo bruciava una fiamma immota, viva, animata, pervasa da una vita così aliena che Jirel spalancò gli occhi sbalordita. Sapeva che era viva... e tuttavia sapeva che non poteva essere viva. Ma, anche nello stordimento dell'incomprensione, intuì che era in rapporto con il minuscolo frammento di cristallo stretto nella sua mano. Anche in quello ardeva la fiamma, immobile, e le pungeva lievemente la mano, come per ricordarle che possedeva un'arma capace di annientare Jarisme, sebbene potesse annientare anche chi la usava. Quel pensiero le diede una sorta di disperato coraggio. Jarisme non badava a lei. S'era rivolta verso il grande globo, con le mani levate e la testa splendente rovesciata all'indietro. Dalle sue labbra uscì un suono dolce e penetrante, tra il mormorio e il sibilo. Jirel ebbe l'assurda sensazione di vedere quel suono che sfrecciava nel cuore dell'immensa sfera che li sovrastava tutti. E nel cuore di quella fiamma viva e immobile cominciò a fremere un piccolo bagliore rosso. Nell'aria vibrante echeggiò un secondo suono. Con la coda dell'occhio,
Jirel scorse una figura tenebrosa che era avanzata nel cerchio cadendo in ginocchio a fianco della maga. Era Giraud. Come due spade, le note fremettero nel silenzio totale che gravava sull'assemblea, e all'interno del globo il bagliore rosso si fece più intenso. Una a una, altre voci si unirono al coro: alcuni erano suoni stranissimi, usciti da gole non plasmate per la favella. Non c'erano due voci che si armonizzassero: era un coro di note isolate e irrelate. E via via che ogni voce colpiva il globo, il fuoco ardeva più cremisi: alla fine, il pallore immoto venne interamente inondato di rosso. Il suono acuto della voce di Jarisme dominava su tutto. Quando levava le braccia più in alto, le voci rispondevano salendo. Quando le abbassava, la musica simile a una lama scendeva in un arco quasi visibile verso un tono più basso. Jirel aveva la sensazione di vedere le note sfrecciare da ogni cantore all'immensa sfera che giganteggiava su tutti. Non c'era una melodia, ma un disegno nettamente definito, alieno e inconfondibile come la simmetria della loro disposizione nella sala. E quando Jarisme alzava le braccia, e le voci si facevano più forti, la fiamma ardeva di un rosso più intenso, e impallidiva di nuovo quando le voci si abbassavano. Per tre volte la maestosa figura vestita di violetto gesticolò con le braccia levate; per tre volte la fiamma vivente si intensificò e impallidì. Poi la voce di Jarisma divenne un acuto grido trionfante. La maga si voltò, allargando le braccia, rivolgendosi agli spettatori. Tutte le voci tacquero. Il silenzio discese come una mazzata. Jarisme non era più una sacerdotessa, bensì una dea, mentre li fronteggiava nel silenzio di tomba con il volto radioso e gli occhi sfolgoranti. E all'unisono, tutti s'inchinarono come grano che si piega al vento. Esseri alieni, mostri informi, senza faccia, senza occhi, creature irriconoscibili d'inconoscibile dimensioni, si prosternarono sul pavimento di cristallo davanti allo splendore degli occhi di Jarisme. Per un momento, nel silenzio assoluto, tutti restarono immobili. Poi la maga lasciò ricadere le braccia. Con un movimento ondulante, gli spettatori si alzarono. Al di là di Jarisme, l'enorme globo era impallidito di nuovo nella viva fiamma immota di aureo pallore. Immensa, vivente, la fiamma torreggiava sopra di loro. Nel silenzio si levò la voce bassa di Jarisme. Parlava nella lingua di Jirel, ma l'aria tremolava di onde di suono, modulate per organi diversi dagli orecchi umani. Ogni parola che lasciava le sue labbra creava una nuova onda nell'aria densa. Gli spettatori, in quel chiarore spezzato, mandavano barbagli
come un prato sotto le vibrazioni del calore. — Adoratori della Luce! — disse dolcemente Jarisme. — O voi che siete venuti da dimore lontane, siate i benvenuti alla presenza della Fiamma. Noi che le serviamo vi abbiamo chiamato ad adorarla; ma prima che ritorniate ai vostri luoghi, si dovrà compiere un'altra cerimonia, che pensiamo interesserà voi tutti. Perché l'abbiamo definita la più semplice e sottile e terribile punizione per una creatura umana. «È nostra intenzione tentare un'inversione dell'io fisico e mentale di questa donna, in modo da far sì che il suo corpo rimanga rigido e immobile, mentre la sua mente, la sua anima, guarderà in eterno a ritroso lungo la via che ha percorso. Voi che siete umani o avete conosciuto l'umanità, comprenderete quale tortura mortale può essere. Perché nessuna creatura umana, secondo le leggi che la governano, può avere vissuto una vita il cui intimo riesame non dia sofferenza. Essere prigioniero tra eterni riflessi, rivedere tutta l'inutilità e la sofferenza della vita, tutta l'angoscia che gli atti involontari o intenzionali hanno causato ad altri, e tutte le conseguenze di ogni azione... Questo, per un anno, è il più terribile dei tormenti. Nel silenzio che seguì, Giraud posò una mano sul braccio di Jarisme. Jirel, vide il terrore negli occhi del mago. — Ricorda — mormorò lui. — Ricorda, — a coloro che alterano il proprio destino conosciuto può accadere una cosa più tremenda di... Jarisme si svincolò con impazienza e si rivolse a Jirel. — Sappilo, terrestre — disse con voce stranamente forzata. — Nei libri del futuro è scritto che Jarisme l'incantatrice deve morire per mano di una creatura umana che la sfiderà tre volte... e anche quella creatura umana è una donna. Per due volte sono stata debole, e ti ho risparmiata. Una volta nella foresta, e una volta sul tetto della torre, tu mi hai gettato in faccia la tua sfida meschina, e io ho frenato la mia mano per timore di ciò che è scritto. Ma la terza volta non verrà. Anche se tu fossi destinata a uccidermi, non mi ucciderai. Con la mia magia, io spezzo la sequenza del Fato, ora... e vedremo! Dal fulgore degli occhi purpurei, Jirel comprese che era venuto il momento. Si preparò, serrando le dita intorno al frammento di cristallo, incerta, esitante, chiedendosi se era venuto l'attimo per spezzare il talismano ai piedi della maga. Esitò troppo a lungo, sebbene la sua attesa durasse soltanto un secondo. Perché la magia di Jarisme era supremamente semplice, assai più di quanto Jirel avrebbe potuto immaginare. L'incantatrice rivolse su di lei l'ardente sguardo purpureo e schioccò le dita davanti al volto della
donna terrestre. A quel suono, il mondo di Jirel si capovolse. Era un tormento fisico. Tutto svanì, nel compiersi in quel mutamento terribile. Sentì il proprio corpo inesplicabilmente scagliato in un'inversione che nessun altro essere vivente doveva aver mai provato. Era un brusco volgersi in una direzione che non poteva essere esistita fino a quell'istante. Jirel ne percepì la stranezza un momento prima che la visione le apparisse... un presente silenzioso e nuovo di cui lei era la prima abitatrice, creato simultaneamente al nuovo piano dell'essere, Poi quella visione pervenne alla sua coscienza. Ciò che le stava davanti era così immane che Jirel avrebbe urlato, se avesse posseduto un corpo animato. Tutta la vita era schiusa al suo sguardo. Era una vista troppo incommensurabile perché riuscisse ad afferrarla pienamente... troppo sconfinata perché la sua coscienza umana riuscisse a vedere qualcosa di più di immagini fuggevoli, prive di relazioni e di significato. In ciò che le stava davanti esistevano simultaneamente il moto e l'immobilità. Un'attività interminabile che si intesseva... e tuttavia l'immane panorama era paralizzato in una calma al di fuori del tempo, attraverso la quale scorreva un disegno totalmente possente e immenso da incutere terrore alla sua anima. E in quel panorama si snodava a ritroso il sentiero della sua vita. Mentre lo guardava, torrenti di contrastanti emozioni l'inondavano, e non riusciva a scorgere nulla con chiarezza; ma insisteva rabbiosamente, rivolgendosi alla propria coscienza, che non avrebbe, non avrebbe guardato indietro... non osava, non poteva... e intanto il suo sguardo scorreva attraverso i giorni e le settimane, lungo la via inesorabilmente diretta all'unica scena a cui non poteva pensare. Vagamente, mentre la sua vista conscia ripercorreva la via a ritroso, Jirel scoprì i piani sovrapposti d'esistenza, nella distesa di attività illimitate che le stava davanti. Forme non umane, scene che per lei non avevano significato, vibravano e si trasmutavano e ribollivano di vita cangiante... e tuttavia restavano immote nel possente disegno. Jirel quasi non vi badava. Per lei, in tutta quell'impossibilità una scena soltanto aveva significato... quella verso cui ora stava correndo la sua vita, per quanto lei cercasse di evitarlo... la scena che sapeva di non poter rivedere. Tuttavia, quando la sua vista raggiunse quel luogo, la sofferenza non ebbe subito inizio. Jirel guardò quasi con calma quel breve intervallo di tenebra e di luce abbagliante, il chiarore delle torce che illuminava la fulva testa china d'una giovane donna e il corpo di un uomo steso immobile su un
pavimento di pietra. Guardò, nell'immobilità assoluta. Non sentiva l'impulso di guardare oltre, nel passato al di là di quella scena. Quello era il momento supremo, il centro di tutta la sua vita... quell'attimo rischiarato dalle torce. Vividamente, Jirel ritornò nel passato, sentì le fredde, dure lastre di pietra sotto le sue ginocchia, e il gelo nel cuore mentre fissava il viso del morto. Indugiò per un tempo interminabile su quella lontana sofferenza, e dentro di lei un'ondata salì, insopportabilmente. Era un'emozione troppo grande per avere un nome, troppo complessa nella mescolanza della sofferenza e dell'angoscia e dell'odio e dell'amore... e della ribellione; così forte che tutto il resto della visione incredibile si offuscò nella crescente tempesta della sua coscienza. Non sentiva altro che quell'emozione soverchiante, che ribolliva in una grande, intollerabile esplosione di violenza, in cui la rabbia predominava su tutto. Rabbia contro la vita che permetteva un simile tormento. Rabbia contro Jarisme perché la costringeva a ricordare. Una rabbia così colossale che davanti ad essa tutto tremava e si fondeva nell'ardore della ribellione... E qualcosa si spezzò. Il panorama vorticò e tremò e crollò nella tenebra che era quasi oblio. Tra le nubi della consapevolezza parziale, la sofferenza del mutamento la trafisse. Quasi senza comprendere, Jirel l'accolse con gioia, sebbene la tortura penetrante di quell'inversione fosse tanto forte da trascinarla fuori dallo stordimento, stritolandola ancora una volta nel tormento della metamorfosi che sfidava tutte le leggi naturali. Frastornata e impaziente, attese che la sofferenza passasse. L'esultanza cresceva in lei, perché sapeva che la sua violenza aveva sciolto l'incantesimo con cui la teneva imprigionata Jarisme. Sapeva che cosa avrebbe dovuto fare quando fosse stata di nuovo libera, e una forza consapevole fluiva inebriante nelle sue vene. Jirel aprì gli occhi. Stava in piedi, rigida, davanti al grande globo infuocato. I bizzarri ospiti erano raggruppati intorno a lei, intenti, e Jarisme, che le stava di fronte, aveva mosso un passo in avanti, rabbiosa e incredula nel vedere spezzato il proprio incantesimo. Gli occhi gialli e ardenti di Jirel si schiusero su questa scena: rise con torva esultanza e alzò il braccio. La luce violetta scintillò sul cristallo. In quell'istante Jarisme comprese ciò che stava per fare, e un terrore convulso cancellò dal suo viso ogni espressione. Un grido inarticolato si levò tonando dalla folla immobile. Giraud si fece avanti, tendendo freneticamente le mani. — No, no! — urlò Jarisme. — Aspetta! Era troppo tardi. li cristallo saettò dalla mano violentemente abbassata di
Jirel, sfolgorando di luce. Con uno spicinio rumoroso urtò il pavimento davanti ai piedi della maga e volò in frammenti scintillanti. Per un attimo non accadde nulla. Jirel trattenne il respiro, attendendo. Giraud s'era gettato bocconi sul pavimento lucente, tendendosi verso di lei in un ultimo sforzo disperato. Allungò le mani per afferrarla, e incontrò soltanto le caviglie di Jirel. Si aggrappò con dita convulse, nascondendo il volto tra le braccia. Jarisme era immobile, con le braccia levate intorno alla testa, come se cercasse di nascondersi. La folla eterogenea degli spettatori era irrigidita in una calma fatalista. Attendevano, in un silenzio teso. Poi nel grande globo che torreggiava sopra di loro la fiamma pallida palpitò. Il respiro affannoso di Jarisme risuonò nel silenzio totale. La fiamma tremò di nuovo. E ancora una volta. Poi si spense bruscamente. Per un momento, la tenebra li stordì; quindi dal silenzio emerse un rombo sordo, che divenne sempre più profondo e più forte, serrando insopportabilmente gli orecchi e la testa di Jirel in una grande, dolorosa ondata di suono. Al di sopra del rombo venne un rumore secco e crepitante, e le pareti cristalline della sala tremarono, ondeggiarono vertiginosamente... si spaccarono in lunghi squarci seghettati attraverso i quali la luce violetta del giorno insinuava le sue dita. Il rombo delle mura che crollavano era più forte. La torre magica di Jarisme si stava sgretolando intorno a loro. Attraverso le lunghe crepe tremule delle pareti il pallido giorno violetto si riversava più forte, sereno nel caos. In quella luce chiara, Jirel scorse un movimento tra la folla. Jarisme era eretta in tutta la sua statura. Jirel vide la lucente testa nera alzarsi in una strana, disperata posa di sfida, e nel tumulto sconvolgente udì la voce della maga urlare: — Urda! Urda-sla! Tra lo schianto delle mura che precipitavano, si fece per un istante brevissimo un silenzio di morte. E da quel silenzio, come in risposta al grido dell'incantatrice, venne un suono, indescrivibile, insopportabile, come lo scroscio di un tuono ciclopico. E all'improvviso nel cielo, sopra di loro, visibile attraverso le pareti di cristallo in sfacelo, si aprì un lungo cuneo nero. Era come una fascia della notte più tenebrosa che squarciasse il giorno violetto, una notte in cui le stelle brillavano insopportabilmente vicine e insopportabilmente fulgide. Jirel alzò gli occhi, ammutolita dallo stupore, e fissò quella striscia di notte stellata che fendeva il cielo diurno. Jarisme era irrigidita, con le braccia protese, e fronteggiava in atteggiamento di sfida la tenebra tonante, il
cui vertice si avvicinava e si avvicinava, scendendo come un'immensa lancia. Non si mosse quando la tenebra raggiunse la torre. Jirel vide l'oscurità avventarsi come un'ombra fulminea. Poi fu sopra di loro, e la terra tremò sotto i suoi piedi: e da lontano, da molto lontano, udì l'urlo di Jarisme. Quando riprese i sensi, Jirel si sollevò a sedere, faticosamente, e si guardò intorno. Era sull'erba verde, ammaccata e dolorante, ma illesa. Il giorno violetto era di nuovo sereno e intatto. Le vette purpuree erano sparite. Non era più tra le montagne. Intorno a lei si stendeva la verde prateria dove aveva visto per la prima volta la torre di Jarisme. Nel dissolversi, doveva essere ritornata alla sua ubicazione originaria, sfrecciando per le vie magiche che aveva percorso allo spezzarsi della magia dell'incantatrice. Anche la torre, infatti, era sparita. A poca distanza, Jirel scorse un mucchio di blocchi di marmo che delimitavano un rozzo cerchio, là dove prima sorgeva la torre bianca. Ma le pietre erano corrose e screpolate come quelle di un'antica rovina. Continuò a guardare per lunghi minuti, cercando di concentrare la mente confusa sul significato di quel fatto, prima che il suono del gemito, ormai protratto da qualche tempo, giungesse alla sua coscienza. Si voltò. A poca distanza, Giraud giaceva nelle lacere vesti nere. Di Jarisme e degli altri non c'era traccia. Jirel si alzò a fatica e si avvicinò barcollando al mago, lo girò sdegnosamente con un piede. Giraud aprì gli occhi e la fissò con occhi annebbiati in cui spuntò a poco a poco la comprensione. — Sei ferito? — chiese Jirel. Il mago si sollevò a sedere e fletté gli arti. Alla fine scosse la testa, rispondendo più a se stesso che alla domanda di lei, e si alzò lentamente in piedi. Jirel fissò l'arma che Giraud portava al fianco. — Ora ti ucciderò — gli disse con calma. — Sguaina la spada, mago. Gli occhietti opachi la fissarono in volto, spalancandosi. Ciò che vide in quegli occhi gialli dovette convincere il mago che Jirel intendeva fare ciò che aveva detto. Ma non estrasse la spada e non indietreggiò. Un sorriso forzato gli piegò le labbra; sollevò le braccia nelle ampie maniche nere. Jirel vide quel gesto e lo seguì automaticamente con lo sguardo. Le mani salirono, salirono. E allora, stranamente, Jirel non riuscì a dominare il proprio sguardo, che continuò a seguire la linea invisibile, verso il cielo, fino a un punto fisso e invisibile, dove s'incrociavano le linee immaginarie delle braccia di Giraud, a una distanza smisurata. Inspiegabilmente, Jirel vedeva quel punto e non riusciva a distogliersene. Stretta dalla magia di quelle
braccia levate, rimase irrigidita, senza comprendere ciò che era accaduto, incapace di pensare, paralizzata dalla magia di Giraud. Da una distanza incommensurabile le giunse la risata beffarda del mago. — Uccidermi? — disse la voce esultante. — Uccidere me, Giraud? Ma tu mi hai salvato, Joiry! Perché mi sarei aggrappato così forte alle tue caviglie, altrimenti? Perché sapevo che, quando la Luce fosse morta, l'unica che poteva sperare di sopravvivere era colei che l'aveva uccisa... e non era neppure certo. Ma ho corso il rischio, e ho fatto bene, altrimenti ora sarei con Jarisme, nella tenebra da cui ha evocato il non-dio del vuoto per salvarmi dall'oblio. L'avevo avvertita di ciò che sarebbe accaduto se avesse alterato il Fato. E preferisco essere qui, in questa piacevole terra violetta, che ora governerò da solo. Grazie a te, Joiry! Uccidermi, eh? Non credo! Quella risata sarcastica le giungeva da lontano e penetrava nella sua mente immobilizzata dalla magia. Echeggiò a lungo, prima che Jirel comprendesse che cosa significava. Ma alla fine ricordò, e la sua mente si ridestò in parte dall'inerzia; la pervase una collera tanto grande da divenire fisicamente dolorosa. Giraud, il mago fuggiasco, che rideva di Joiry! Teneva Jirel di Joiry prigioniera di un incantesimo! Si faceva beffe di lei! Ciecamente, attaccò i vincoli magici, ciecamente impose al suo corpo di muoversi. Non vedeva altro che il punto inesistente dove si sarebbero incrociate le braccia legate dell'incantatore, a distanza smisurata; ma sentì l'elsa del pugnale nella sua mano e si avventò nell'invisibilità, e non si accorse neppure quando la lama affondò. La vista ritornò in un torrente, stordendola. Jirel si soffregò gli occhi e si scosse e si guardò intorno, e vide il prato verde nel giorno violetto, ma senza comprendere ciò che vedeva, perché la sua mente non era ancora completamente ridestata. Ricordò soltanto quando abbassò lo sguardo. Lì giaceva Giraud. Le vesti nere erano avvolte come ali sul corpo immobile, ma un fiotto rosso dilagava sull'erba, e tra gli indumenti spiccava l'elsa del pugnale. Jirel lo fissò, impassibile, ancora quasi intorpidita dal potere della magia del morto. Non provava neppure un senso di trionfo. Automaticamente svelse il pugnale e pulì la lama sulle vesti del mago. Poi sedette sull'erba e appoggiò la testa sulle mani, cercando di svegliarsi. Infine alzò di nuovo la testa e la solita luce ardente riapparve nei suoi occhi, la vita riaffluì nel suo viso. Scrollandosi di dosso gli ultimi residui del sortilegio, si alzò in piedi e rinfoderò il pugnale. Intorno a lei i prati velati dalla nebbia violetta erano silenziosi. Non si scorgeva una sola creatura vivente. Gli alberi erano immoti nell'aria egualmente immota. E al di là
delle rovine della torre marmorea, Jirel scorse l'apertura nel bosco da dove era uscita, molto tempo prima. Jirel raddrizzò le spalle e voltò le spalle al giuramento mantenuto; e senza voltarsi neppure una volta s'incamminò sull'erba, verso le rovine nascoste tra gli alberi che nascondevano la porta del suo mondo. LA CERCA DELLA PIETRA STELLARE Quest for the Starstone di C.L. Moore e H. Kuttner Weird Tales, novembre 1937 Jirel di Joiry cavalca con venti uomini alle spalle perché nessuno è al sicuro dal suo branco di fuorilegge; le cripte del mago son colme, e chiuse da chiavi d'oro, e Jirel dichiara: «Se ha tanto, dividerlo deve con me!» E i fuochi ardono alti all'altare dei covi stregati, e la magia vi lampeggia e il nome di Jirel tra il fumo vien sussurrato, ma nulla è più forte della magia di Jirel: lo schianto di uno spadone che vibra contro le ossa e il sangue che sprizza tra i denti d'un mago soffoca il sortilegio, sebbene si levi rovente dalle braci del fondo d'Inferno! La porta di quercia tempestata di borchie si spalancò, schiantandosi sotto lo slancio delle picche, i cui echi tonanti rimbalzavano ancora sulle pareti della piccola camera di pietra rivelata dalla caduta della porta. Jirel, la fanciulla guerriera di Joiry, balzò fra i rottami, scostandosi dagli occhi i capelli fulvi, sogghignando per lo sforzo e impugnando lo spadone a doppio taglio. Ma si soffermò sui rottami della porta. Gli uomini che la seguivano, chiusi, negli usberghi di maglia metallica, la circondarono come un'ondata di acciaio azzurrino, e poi anch'essi si fermarono, sbarrando gli occhi. Franga, il mago, era inginocchiato nella sua cappella, e vedere Franga in ginocchio era come vedere il diavolo recitare il paternoster. Ma lo stregone non era genuflesso davanti a un santo altare. La pietra nera torreggiava nella minuscola stanza nuda che echeggiava ancora del frastuono della battaglia, e nel secondo trascorso tra il crollo della porta e l'ingresso tumultuoso di Jirel, Franga s'era accovacciato in un ultimo tentativo disperato... perché? Sotto la ricca veste nera, le spalle ossute si sollevarono in un movimento
convulso, mentre toccava le piccole borchie nere che cingevano il blocco dell'altare. Una lastra laterale si spalancò all'improvviso, e il mago, rendendosi conto che la sua nemica era ormai vicina, si voltò di scatto e si acquattò come una belva. Una luce sfolgorante, fredda e ultraterrena, eruppe dall'apertura dell'altare. — Dunque è lì che l'hai nascosta! — disse Jirel rabbiosamente, senza alzare la voce. Franga ringhiò, aggricciando le labbra pallide sui denti giallastri. Fisicamente aveva terrore di lei, e quel terrore lo paralizzava. Lei lo vide esitare, evidentemente diviso tra il desiderio di mettere al sicuro ciò che era nascosto nell'altare, e la paura della spada di Jirel che faceva sgocciolare il sangue sulle pietre. Jirel risolse a modo suo quell'indecisione. — Diavolo nero! — urlò, e si avventò come una folgore, roteando nell'aria la spada sibilante. Franga lanciò un grido rauco, gettandosi a lato per sfuggire alla lama che colpì l'altare con un urto violentissimo. Con il braccio intorpidito, Jirel proruppe in un suono che era per metà un singulto di dolore e di furia e per metà una bestemmia, mentre il mago si trascinava come un granchio in un angolo, avvolto nella veste nera che gli conferiva un aspetto stranamente amorfo. Riprendendosi, Jirel lo seguì, massaggiandosi il braccio intorpidito ma stringendo con fermezza la grande spada insanguinata: una luce omicida brillava ancora nei suoi occhi gialli. Il mago si appiattì contro il muro, protendendo le braccia scarne. — Werhi-yu-io! — urlò disperatamente. — Wehri! Wehri-yu! — Cosa diavolo stai farfugliando, cane? — chiese rabbiosa Jirel. — Ti... Tacque all'improvviso, ma le sue labbra rosse rimasero socchiuse. Fissò il muro alle spalle del mago, e qualcosa di simile alla reverenza attenuò nei suoi occhi la sete di sangue. Perché sull'angolo dove stava acquattato Franga s'era stesa un'ombra, come una cortina. — Werhi! — urlò di nuovo lo stregone, con voce incrinata e... com'era possibile che lei non avesse veduto, prima, la porta contro la quale Franga si appoggiava, tendendo una mano all'indietro per aprirla sull'oscurità? Quella era magia nera, era opera del diavolo. Jirel sgranò gli occhi, dubbiosa, abbassando la spada. Senza accorgersene, si segnò con la mano libera per proteggersi da male. La porta cigolò leggermente, poi si spalancò. La tenebra, all'interno, era abbacinante quanto è abbacinante la luce eccessiva... un'oscurità dalla quale Jirel si distolse,
sbattendo le palpebre. Intravvide per l'ultima volta la faccia pallida e scarna di Franga, sogghignante, sfigurata dall'odio. Poi la porta si chiuse scricchiolando. La trance che s'era impadronita di Jirel si spezzò a quel suono. La furia ritornò, sulla scia dello sbalordimento. Sibilando bestemmie soldatesche, balzò verso la porta brandendo a due mani la spada, sprizzando odio e preparandosi allo schianto della pesante lama sui pannelli di quercia misteriosamente velati dall'ombra che incombeva in quell'angolo. La lama urtò la pietra, con un tremulo clangore. Per la seconda volta, l'urto tormentoso dell'acciaio contro la roccia massiccia si trasmise lungo la lama e straziò le spalle di Jirel. La porta era scomparsa. Lasciò cadere la spada dalle mani snervate e arretrò dall'angolo deserto, singultando di furia e di dolore. — V-vigliacco! — gridò, rivolta alla pietra muta. — E allora resta nascosto nella tua tana, figlio del demonio, e guardami mentre prendo la Pietra Stellare! E si voltò di scatto verso l'altare. Gli uomini s'erano ritirati, raggruppandosi al di là della porta sfondata, e seguivano la loro signora con occhi colmi di timore superstizioso. — Pavide donnicciole! — inveì Jirel, girando appena la testa mentre s'inginocchiava dove s'era genuflesso il mago poco prima. — Donnicciole, ho detto? Ah! Non meritate un complimento simile! Dovrò fare tutto da sola? E allora guardate... eccola! Affondò la mano nuda dentro l'apertura dell'altare da dove usciva quella pallida luce ultraterrena, si lasciò sfuggire un'esclamazione subito repressa, ed estrasse qualcosa che sembrava un frammento di fiamma viva. Lo tenne nella mano nuda, restando inginocchiata, e per vari minuti nessuno si mosse. La Pietra Stellare era pallida, fredda eppure accesa da un fuoco che non era di questa terra, sfaccettata e tuttavia non scintillante. Jirel pensò al crepuscolo sull'oceano, quando la terraferma si oscura e le acque tranquille raccolgono in superficie tutta la luce tremula del mare e del cielo. Così brillava la grande pietra, raccogliendo sulla propria superficie pallida tutta la luce della cappella, cosìcché questa appariva buia, per contrasto, e la rifletteva trasmutandola in un freddo, fermo splendore. Jirel scrutò nelle profondità traslucide così vicine al suo viso. Vedeva le proprie dita, che tenevano la gemma, distorte come se le guardasse attraverso l'acqua... e tuttavia c'era una specie di movimento tra la sua mano e la superficie superiore della pietra. Era come guardare in un'acqua nelle cui
profondità fremesse un'ombra... un'ombra vivente, una forma irrequieta che batteva contro le mura della sua prigione e faceva palpitare il freddo fulgore biancazzurro della luce. Era... No, era la Pietra Stellare, null'altro. Ma avere la Pietra Stellare! Tenerla finalmente tra le mani, dopo settimane d'assedio, settimane di combattimenti disperati! Era il trionfo stesso che lei teneva nel palmo. Dalla sua gola eruppe all'improvviso una risata estatica; balzò in piedi, mostrando la grande gemma verso l'angolo vuoto dove il mago era sparito tra il muro. — Ah! Guardala! — urlò alla pietra muta. — Figlio del demonio, guardala! La fortuna della Pietra stellare è mia: qualcuno che valeva più di te l'ha presa! Riconosci che Joiry è meglio di te, diabolico ingannatore! Osa mostrare la tua faccia! Su, osa! L'ombra passò di nuovo sull'angolo vuoto, apparendo spaventosamente dal nulla. Nell'oscurità improvvisa scricchiolarono i cardini di una porta e la voce del mago chiamò, soffocata dal furore. — La maledizione di Bel su di te, Joiry! Non credere di aver trionfato su di me! La riavrò, anche se dovessi... se dovessi... — Se... che cosa? Pensi forse che io ti tema, stregone generato dall'inferno? Se... che cosa? — Forse non hai paura di me, Joiry — disse la voce del mago, tremante di furore. — Ma per Set e Bubastis, troverò chi ti domerà, dovessi spingermi fino ai confini dello spazio per trovarlo... ai confini del tempo! E allora... stai in guardia! — Conduci qui il tuo campione! — La risata di Jirel vibrava di disprezzo. — Fruga nell'inferno e porta qui il più potente dei diavoli! Gli staccherò la testa dalle spalle come avrei staccato la tua con un solo fendente, se non fossi fuggito! Ma l'unica risposta fu lo scricchiolio di una porta che si chiudeva nelle profondità di quell'ombra. Poi l'ombra stessa svanì di nuovo, e ancora una volta Jirel si trovò di fronte agli enigmatici muri vuoti. Stringendo la Pietra Stellare che, così diceva la leggenda, donava fortuna e ricchezza al di là di ogni fantasia del suo possessore, Jirel scrollò le spalle e si girò di scatto verso i suoi soldati. — Bene, perché restate lì a bocca aperta? — esclamò. — Per il cielo, qui io sono l'uomo più valoroso! Fuori... fuori... saccheggiate il castello... c'è il ricco bottino di Franga, quel servitore del diavolo! Che cosa aspettate? — E li cacciò dalla cappella a piattonate.
— Per Pharol, Smith, non ti piace più il segir? Avrei creduto che fosse più facile veder spuntare le gambe al vecchio Marnak! La faccia cherubina di Yarol aveva un'espressione sconcertata, mentre faceva un cenno al cameriere che si aggirava svelto nella saletta privata di lucido acciaio nel retro della taverna marziana, posando altri bicchieri davanti ai due uomini, muovendo senza impaccio le gambe artificiali... quelle vere, dicevano certuni, le aveva perdute durante un'illecita scappata amorosa nelle tane proibite delle donne-ragno. Northwest Smith aggrottò la fronte, respingendo il bicchiere. Il viso scuro e sfregiato, illuminato dal pallore degli occhi d'acciaio, era cupo. Aspirò una lunga boccata della sigaretta marziana che fumigava tra le sue dita. — Sto per arruginirmi, Yarol — disse. — Sono stufo di tutto quanto. Perché non salta fuori qualcosa che valga davvero la fatica? Il contrabbando... il traffico d'armi... sono stufo, ti dico! Perfino il segir non ha più lo stesso sapore. — È la vecchiaia che si fa sentire — commentò Yarol, al disopra dell'orlo del bicchiere. — Te lo dico io di cos'hai bisogno, N.W.: una dose del verde liquore di Mingo che Mannark tiene sullo scaffale più alto. È distillato dalle bacche di pani, e basta un sorso per farti saltellare come un cucciolo. Aspetta un momento: vedrò che cosa posso fare. Smith si appoggiò sulle braccia incrociate e fissò la lucida parete d'acciaio dietro la sedia vuota di Yarol, mentre il piccolo venusiano usciva. Le ore come quelle erano il tormento degli esuli e dei fuorilegge. Anche per i più duri venivano i momenti in cui il pianeta patrio chiamava irresistibilmente attraverso il vuoto delle vie dello spazio, e tutti gli altri luoghi apparivano noiosi e insipidi. Era una nostalgia che non era disposto ad ammettere di fronte a nessuno; ma mentre stava lì, solo, fissando inquieto la sua immagine indistinta riflessa nella parete d'acciaio, si sorprese a canticchiare il vecchio, dolce canto di tutti i terrestri esuli, Verdi colline della Terra: Al di là del mare di tenebra, risplende la bella Terra verde... Oh, stella che eri la mia patria, brilla su di me stanotte... Le parole e la melodia erano banali; ma erano alonate da sentimenti tali che le voci che le cantavano diventavano più dolci e tenere mentre indu-
giavano sulle frasi note, sulle scene della patria, impresse nella memoria. La voce baritonale di Smith, sorprendentemente bella, assunse toni di dolcezza nostalgica, che non avrebbe ammesso neppure a costo della vita: Il mio cuore si volge alla mia patria al di là del vuoto, con desiderio. Sapere che al di là di quello spazio son verdi le colline della Terra... Che cosa non avrebbe dato in quel momento, pur di poter tornare di nuovo a casa? Senza una taglia sulla testa e con la libertà di vagare sui mari azzurri della Terra, sui caldi continenti-giardini del più bel pianeta del Sole? Canticchiò sommessamente tra sé: ... e contare le perdite che val la pena di subire per vedere attraverso la tenebra le verdi colline della Terra... Lasciò che le parole gli morissero sulle labbra, e socchiuse gli occhi color acciaio, fissando la parete lucida dove fino a un attimo prima aveva scorto la propria immagine riflessa. Ora si stava oscurando, e un'ombra tremolava sulle superfici lucenti, addensandosi, annebbiando il chiarore. E la parete... era metallo oppure... pietra? L'ombra era troppo fitta per comprenderlo; inconsciamente Smith si alzò in piedi, tendendosi attraverso il tavolo e portando una mano verso la pistola termica. Nella semioscurità una porta si aprì scricchiolando... una porta pesante, appena intravvista, che si schiudeva su una tenebra troppo nera... una tenebra e un volto. — Sei disposto a vendere i tuoi servigi, straniero? — chiese una voce incrinata in una lingua che fece battere più forte il cuore di Smith. Era francese, il francese della Terra, arcaico e appena intelligibile; ma incontestabilmente era una voce della sua patria. — A un buon prezzo — ammise Smith, stringendo le dita sulla pistola. — Chi sei e perché lo chiedi? E in nome del... — Sarà utile per te non fare domande — disse la voce incrinata e tremula. — Cerco un combattente dal carattere abbastanza forte per il mio scopo, e credo di averlo trovato. Guarda: questo ti tenta? Una mano adunca si protese dall'ombra, facendo dondolare un doppio filo di perle biancoazzurre quali Smith non aveva mai neppure sognato.
— Valgono il riscatto di un re — gracchiò la voce. — E saranno tue. Verrai con me? — Dove? — Sul pianeta Terra... in Francia... nell'anno 1500. Smith si aggrappò convulsamente al bordo del tavolo, chiedendosi se il segir che aveva bevuto lo aveva lanciato nel parossismo di un sogno. Non era assolutamente possibile che fossse lì, in quella saletta d'una taverna marziana, mentre da una porta che si apriva nella tenebra una voce incrinata lo chiamava nel passato. Stava sognando, naturalmente, e in un sogno non c'era nulla di male nello scostare la sedia, girare intorno al tavolo, avvicinarsi a quella porta incredibile avvolta nelle ombre, prendere la mano protesa da cui pendevano le perle lucenti... La stanza oscillò e turbinò nell'oscurità. Da lontano, Smith sentì la voce di Yarol che gridava freneticamente: — N.W.! Aspetta! N.W., dove vai... — E poi una notte troppo nera accecò gli occhi di Smith, abbagliati dalla tenebra, e un freddo inimmaginabile gli fiammeggiò nel cervello e... e... Era in cima a una collina verde, il cui dolce pendio digradava verso un campo dove un ruscello si snodava con un mormorio d'acqua corrente. Più oltre, su un'altura di roccia accidentata, torreggiava un grande castello grigio. Il cielo era meravigliosamente azzurro, l'aria fresca e pura, odorosa di vegetazione. E tutto intorno a lui si stendeva un altopiano ondulato. Smith trasse un profondo respiro. — Le Verdi Colline della Terra! — N.W. che cosa... per Pharol, io... per le fiamme dell'inferno, uomo, cos'è successo? — La voce sbalordita di Yarol lo strappò alla sua estasi. Smith si voltò. Il piccolo venusiano stava accanto a lui sull'erba tenera, con due bicchierini di liquore verdechiaro nelle mani e un'espressione di sbigottimento sul bel viso cherubico. — Sono tornato nella saletta con il succo di pani — stava borbottando, — e ti ho visto passare attraverso una porta che... maledizione, quando me ne sono andato non c'era! E quando ho cercato di tirarti indietro, io... io... bene, che cosa è successo? — Sei passato attraverso la Soglia... senza essere invitato — disse dietro di loro, minacciosamente una voce incrinata. I due uomini si voltarono di scatto, portando istintivamente le mani alle pistole. Per un attimo di stordimento, Smith aveva dimenticato la voce che l'aveva attirato nel passato. Ora, per la prima volta, vedeva il suo ospite: un uomo piccolo, grinzoso, bruno, curvo nella veste di ricco velluto nero come se il male che si rispecchiava sul volto segnato fosse troppo opprimente
per permettergli di tenersi eretto. Una sapienza tenebrosa brillava negli occhi che fissarono Yarol con malevolenza. — Che cosa sta dicendo, N.W.? — chiese il piccolo venusiano. — Francese... parla francese — borbottò distratto Smith, fissando la faccia malvagia del loro ospite. Poi, rivolgendosi al mago: — Qui êtes-vous, m'sieur? Pourquoi... — Io sono Franga — l'interruppe spazientito il vecchio. — Franga il mago. E sono irritato con questo straniero maldestro che ci ha seguiti al di là della porta. Il suo linguaggio è barbaro quanto i suoi modi. Se non fosse per la mia magia, non riuscirei a comprendere ciò che vuol dire. Non ha mai imparato una lingua civile? Ma non importa... non importa. «Ora ascoltatemi. Ti ho condotto qui per vendicare la sconfitta subita per mano della signora di Joiry; il castello che vedi su quella vetta è suo. Ha rubato la mia gemma magica, la Pietra Stellare, e ho giurato di trovare un uomo che sappia domarla, a costo di cercarlo al difuori del mio mondo e del mio tempo. Io sono troppo vecchio e troppo debole, ormai. Un tempo, quando ero giovane e forte come te, tolsi la gemma a un rivale nel modo in cui dev'essere fatto, sanguinosamente, in battaglia, altrimenti la sua magia è vana per il possessore. Inoltre, può essere donata liberamente e conservare il suo potere. Ma io non posso toglierla a Joiry né con l'uno né con l'altro metodo, perciò tu devi andare al castello e conquistare la pietra a modo tuo. «Posso aiutarti... un poco. Questo posso farlo: posso portarti al di là delle picche e delle spade degli uomini di Joiry.». Smith inarcò un sopracciglio e posò la mano sulla pistola termica. Una raffica di quell'arma avrebbe falciato un esercito alla carica come se fosse grano maturo. — Sono armato — disse bruscamente. Franga aggrottò la fronte. — Le tue armi non ti aiuterebbero contro una pugnalata alla schiena. No, devi fare come ti ho detto. Ho le mie ragioni. Devi andare... oltre la Soglia. Per un momento, gli occhi pallidi e freddi fissarono quelli velati del mago. Poi Smith annuì. — Non ha importanza... la mia pistola brucia in qualunque terra. Qual è il tuo piano? — Devi condurre la signora di Joiry oltre la Soglia... la stessa Soglia che hai varcato venendo qui. Ma ti porterà in un'altra terra, dove... dove... — Franga esitò. — Dove vi sono... potenze... favorevoli a me, e quindi a te.
Non commettere errori: non sarà facile strappare la Pietra Stellare a Joiry. Ha imparato molte cose della scienza tenebrosa. — Come apriremo la Soglia? Franga alzò la mano sinistra in un gesto rapido, stranamente arcaico. — Con questo segno... imparalo bene: così e così. La mano bruna di Smith, incallita dall'uso della pistola, imitò il bizzarro movimento. — Così? — Sì, ed è necessario apprendere anche l'incantesimo. — Franga mormorò una frase strana e ingarbugliata, che Smith ripeté faticosamente, perché erano le parole più inconsuete che avesse mai pronunciato. — Bene. — Il mago annuì, e di nuovo le strane sillabe uscirono incoerenti dalle labbra sottili; la sua mano si mosse ancora, conferendo ai gesti un ritmo bizzarramente cadenzato. — Quando pronuncerai di nuovo l'incantesimo, la Soglia si aprirà per te... come ora si apre per me! Un'ombra silenziosa passò su di loro, offuscando la collina assolata. Al centro, un rettangolo più nero si delineò all'improvviso, e risuonò lo scricchiolio di una porta, come da un'enorme distanza. — Conduci Joiry al di là della Soglia — bisbigliò il mago, mentre una luce maligna si insinuava nei suoi occhi gelidi. — E seguila. Allora potrai prendere la Pietra Stellare, perché le potenze di quella... di quell'altra terra lotteranno al tuo fianco. Ma non qui, non in Joiry. Devi seguirmi... in quanto a questo ometto che ha varcato la mia porta di tenebra... — È mio amico — dichiarò Smith. — Mi aiuterà. — Eh... bene, la sua vita sarà l'ostaggio del tuo successo. Procurami la gemma, e io frenerò la mia collera per la sua stupida intromissione. Ma ricorda... la spada della mia magia è puntata alla tua gola... Un'ombra fremette sulla figura nerovestita del mago. La sua immagine tremolò come riflessa in acque turbate, e all'improvviso l'ombra e l'uomo scomparvero. — Per il grande Pharol — mormorò Yarol in sillabe misurate. — Vuoi dirmi che cosa significa? Bevi... mi sembra che ne abbia bisogno. In quanto a me... — Mise un bicchierino nella mano di Smith e vuotò l'altro d'un fiato. — Se è tutto un sogno, mi auguro che almeno ci sia da bere. Ti dispiace spiegare... Smith buttò la testa all'indietro e trangugiò con sollievo il liquore di pani. Con frasi laconiche e decise espose la situazione, ma sebbene le sue parole fossero energiche, i suoi occhi indugiarono come una carezza sulle calde, profumate colline del suo mondo natale.
— Uhm — disse Yarol, quando l'altro ebbe terminato. — Bene, che cosa stiamo aspettando? Chissà, forse c'è una cantina piena di vino in quel castello lassù. — Si leccò pensosamente le labbra, assaporando l'ultima goccia del liquore verde. — Andiamo. Prima conosceremo quella donna e prima ci offrirà da bere. E così scesero il lungo pendio, calpestando con gli stivali da spaziale la soffice erba della Terra, mentre le calde brezze estive della Terra accarezzavano i loro volti bruciati da Marte. Joiry torreggiava grigio sopra i due amici, quando infine vi fu un movimento negli assolati silenzi meridiani di quel secolo perduto. Poi, sui bastioni, un uomo gridò; e poco dopo, con uno scalpiccio di zoccoli e un tintinnio di finimenti, due cavalieri attraversarono rumorosamente il ponte levatoio. Yarol portò la mano alla pistola termica, e un sorriso d'innocenza ineffabile gli spuntò sul volto. Il venusiano non somigliava mai a un cherubino raffaellesco più di quando la morte vibrava nel suo indice posato sul grilletto. Ma Smith lo trattenne posandogli una mano sul braccio. — Non ancora. I cavalieri vennero verso di loro, con le visiere abbassate. Per un momento Smith pensò che intendessero travolgerli, e accostò la mano alla pistola; ma i due fermarono i cavalli a pochi passi e uno di loro, scrutandoli minacciosamente attraverso le sbarre dell'elmo, ruggì una domanda. — Siamo stranieri — rispose Smith, dapprima con impaccio, e poi con crescente disinvoltura, via via che il ricordo della lingua francese riaffluiva nella sua memoria. — Veniamo da un'altra terra. E veniamo in pace. — Ben pochi vengono in pace a Joiry — ribatté l'uomo, stringendo l'elsa della spada. — E qui non amiamo gli stranieri. Forse... — chiese, mentre una luce avida accendeva gli occhi seminascosti dalla visiera, — avete oro? O gemme? — Questo potrà giudicarlo la tua signora, amico. — La voce di Smith era fredda come gli occhi grigio-acciaio che fissavano l'uomo con un'espressione improvvisamente feroce. — Portaci da lei. L'uomo esitò per un istante, con un'aria eloquente d'incertezza nello sguardo. Lo straniero era impolverato, a piedi, senza spada, disarmato... un individuo che gli uomini di Joiry avrebbero potuto travolgere senza neppure notarlo. Ma i suoi occhi erano... erano... non aveva mai visto occhi simili. E la voce fredda e secca aveva un tono di comando. Il soldato scrollò le spalle sotto l'usbergo di maglia e sibilò attraverso la visiera:
— Nelle segrete di Joiry c'è sempre posto per un briccone in più, se la nostra signora non ti trova gradito — disse filosoficamente. — Seguitemi, allora. Yarol, mentre attraversava il ponte levatoio, mormorò: — Stava parlando una lingua, N.W.... oppure ululava come un lupo? — Taci — borbottò Smith. — Mi sto sforzando di pensare. Dobbiamo preparare qualcosa di credibile da raccontare a questa... a questa amazzone. — Un donnone tutto muscoli con una faccia come una bistecca — sussurrò Yarol. E così entrarono in Joiry, varcando il ponte levatoio e passando sotto la saracinesca sollevata, nella grande sala dei banchetti annerita dal fumo, dove Jirel sedeva a tavola per il pasto di mezzogiorno. Socchiudendo gli occhi, nella penombra, Smith guardò il podio, in fondo al grande tavolo a forma di T, dove sedeva la signora di Joiry. La bocca rossa era lucida del grasso di un osso di montone appena spolpato, e i capelli le scendevano sulle spalle come una fiamma viva. Jirel guardò Smith negli occhi. Erano chiari e pallidi e freddi come l'acciaio, e gli occhi gialli di Joiry li incontrarono in un balenio, come il cozzo di due spade. Per un lungo istante tra loro vi fu silenzio, e una curiosa violenza divampò in quello sguardo. Un grosso mastino si avvicinò a Smith, con le zanne snudate, emettendo un profondo ringhio gutturale. Senza abbassare lo sguardo, Smith cercò con la mano la testa dell'animale, che fiutò per un momento e poi lasciò che l'uomo gli scompigliasse il pelame ruvido. Allora Jirel ruppe il silenzio. — Tigre..., ici! — La sua voce era forte, improvvisamente più profonda, come se in lei si destassero emozioni che non voleva riconoscere. Il mastino tornò accanto alla sua sedia e si accucciò, trovando un osso rosicchiato da stritolare. Ma gli occhi di Jirel erano ancora fissi in quelli di Smith, e un lieve rossore le stava salendo al volto. — Pierre, Voisin — disse Jirel. — Chi è? — Ti porto notizie di un tesoro. — esordì Smith, prima che i due uomini potessero rispondere. — Il mio nome è Smith e vengo da... da una terra lontana. — Smiit — mormorò lei. — Smiit... Bene, allora, questo tesoro? — Vorrei parlarne con te sola — rispose lui, guardingo. — Ci sono gemme e oro, custoditi da ladri ma maturi per il raccolto. E credo che
Joiry... sappia mietere bene. — Cest vrai. Con la fortuna della Pietra Stellare... — Jirel esitò, asciugandosi la bocca con il dorso della mano sottile. — Mi stai mentendo? Sei venuto qui vestito in modo bizzarro e parli la nostra lingua in modo egualmente bizzarro... sono sempre riuscita a leggere la menzogna negli occhi dell'uomo che la dice. Ma tu... All'improvviso, così rapidamente che Smith baggé le palpebre per lo stupore, Jirel s'era lanciata attraverso il tavolo, puntellandosi su un ginocchio mentre la lama sottile del pugnale lampeggiava nell'aria. Lo puntò contro la gola bruna di Smith, dove pulsava forte una vena. Lui la fissò senza cambiare espressione, senza muovere un muscolo. — Non riesco a leggere nei tuoi occhi... Smiit... Smiiit... Ma se mi stai mentendo... — La punta del pugnale premette contro la gola muscolosa. — Se mi stai mentendo, ti strapperò la pelle della carcassa nelle segrete di Joiry. Ricordalo! Abbassò la lama, lasciandola ricadere lungo il fianco. Qualcosa di umido e di viscoso colò lungo il collo di Smith, all'interno del colletto di cuoio. La lama era così affilata che non s'era accorto della scalfittura. Disse, freddamente: — Perché dovrei mentire? Non posso prendere da solo quel tesoro... tu puoi aiutarmi a conquistarlo. Sono venuto a chiedere il tuo aiuto. Senza sorridere, Jirel si tese verso di lui, rinfoderando il pugnale. Il suo corpo era un guizzo di grazia fluida e di forza, snello come la lama di una spada, mentre stava quasi inginocchiata sul tavolo. Gli occhi gialli erano annebbiati dal dubbio. — Credo che si tratti di qualcosa di più — replicò sottovoce. — Qualcosa che non hai detto. E ora ricordo un mago urlante che è sfuggito alla mia lama facendo certe... minacce. Gli occhi gialli erano freddi come mari polari. Finalmente Jirel scrollò le spalle e si alzò, guardando lungo la tavola dove uomini e donne dividevano la loro attenzione tra il banchetto e la scena che si svolgeva sotto i loro occhi. — Conducetelo nel mio appartamento — ordinò Jirel a quelli che avevano catturato Smith. — Voglio saperne di più su questo... tesoro. — Dobbiamo sorvegliarlo? Jirel increspò le labbra in una smorfia sprezzante. — C'è un uomo, qui, che possa vincermi con l'acciaio... o con qualunque altra arma? — chiese. — Sorvegliate voi stessi, vigliacchi! Se l'avete por-
tato qui senza buscarvi una pugnalata nel ventre, io posso parlare tranquillamente con lui nel cuore della roccaforte di Joiry. Bene, non state lì a guardare a bocca aperta... andate! Smith si svincolò dalla mano pesante che gli stringeva la spalla. — Un momento! — esclamò. — Quest'uomo viene con me. Gli occhi di Jirel scrutarono Yarol, vellutati e minacciosi. Gli occhi neri di Yarol ricambiarono eloquentemente lo sguardo. — Avevo detto un donnone muscoloso? — mormorò nelle cadenze liquide dell'alto venusiano. — Aie... le fanciulle di Minga non erano più affascinanti. Bacerei volentieri quella tua bella bocca prima di tornare nel mio tempo, signora! Io... — Che cosa sta dicendo? Gorgoglia come un ruscello! — l'interruppe spazientita Jirel. — È tuo amico? Allora portali tutti e due, Voisin. L'appartamento di Jirel era in cima alla più alta torre di Joiry, al termine di una tortuosa scala di pietra. Ornato a ricchi arazzi e di tappeti di pelliccia, quel luogo apparve a Smith alieno, e nel contempo familiare... una strana familiarità che riscaldava il cuore. Sebbene secoli polverosi lo separassero dal suo tempo, era terrestre, e sorgeva tra le colline verdi del pianeta che era la sua patria. — Avrei bisogno — disse cauto Yarol, — di un altro po' di liquore di minga. Hai visto come mi guardava quella gatta d'inferno? Per il nero Pharol, non so se preferirei baciarla o ucciderla! Quella strega sarebbe capace di piantarmi in gola la spada per capriccio... per il solo gusto di farlo. Smith rise, una risata gutturale. — È pericolosa. E... Dietro di lui la voce di Jirel disse, in tono sicuro: — Aspetta dietro la porta, Voisin. Può darsi che questi due stranieri debbano visitare le segrete. Il piccolo... come ti chiami? — Si chiama Yarol — rispose seccamente Smith. — Sì... Yarol. Bene, possiamo trovare il modo per farti diventare più alto, Yarol. Ti piacerebbe, eh? Abbiamo un ordigno... una scala che ho ricevuto dal conte di Görz quando mi ha fatto visita la scorsa estate... e il conte è abile in queste cose. — Non parla la tua lingua — l'interruppe Smith. — No? Non è strano... ha l'aria di venire da una terra davvero molto lontana. Non ho mai visto un uomo come lui. — Jirel aveva un'espressione perplessa. Quasi voltò loro le spalle, giocherellando con una spada che stava su un tavolo, e disse, senza alzare la testa: — Bene, sentiamo che cos'hai da dire. E... sì, ti offrirò ancora una possibilità di vivere... se menti,
vattene subito. Nessuno vi fermerà. Siete stranieri. Non conoscete Joiry... né la vendetta di Joiry. Girò la testa lanciando a Smith un'occhiata folgorante come un lampo. Vi ardevano i fuochi dell'inferno e, nonostante tutto, Smith fu scosso da un improvviso fremito di disagio. Yarol, sebbene non capisse le parole, fischiò tra i denti. Per un attimo, nessuno parlò. Poi una voce sommessa mormorò all'orecchio di Smith: — Lei ha la Pietra Stellare. Recita l'incantesimo della Soglia! Sbalordito, Smith si guardò intorno. Jirel non si mosse. I suoi occhi lionati lo stavano ancora fissando, ardenti. Yarol la guardava affascinato. E all'improvviso Smith si rese conto che lui solo aveva sentito l'ordine gracchiante... sì, la voce di Franga, il mago, che bisbigliava attraverso una porta socchiusa nell'infinito. Senza guardare Yarol disse, nei toni liquidi dell'alto venusiano: — Preparati... sorveglia la porta e non lasciarla uscire. Il viso di Jirel cambiò. Si voltò di scatto dal tavolo, con le sopracciglia aggrottate in una linea minacciosa. — Che cosa stai mormorando? Che opera del diavolo intendi compiere? Smith non le badò. Quasi involontariamente la sua mano sinistra si stava muovendo nello strano, rapido gesto del sortilegio. Le frasi della lingua ultraterrena che Franga gli aveva insegnato gli bruciarono sulle labbra con la scioltezza della sua madrelingua. La magia era intorno a lui e guidava la sua bocca e le sue mani. Una luce d'allarme si accese negli occhi gialli di Jirel. Un'imprecazione le salì alle labbra mentre si avventava, impugnando la spada. Yarol sogghignò. La pistola termica danzò nella sua mano, e una scarica incandescente tracciò una scia di fuoco sul tappeto ai piedi di Jirel. Lei chiuse le labbra rosse su una parola proferita a mezzo, e si girò, gettandosi prontamente all'indietro, atterrita da quel guizzo improvviso di fuoco infernale. Dietro di lei la porta si spalancò e gli uomini in armatura si precipitarono nella stanza, sguainando le spade. E poi... l'ombra scese nella stanza rumorosa. Come le ali dell'angelo della morte oscurò l'aria assolata, e il raggio della pistola di Yarol sfolgorò abbagliante nella semioscurità. Come nelle profondità nebulose di uno specchio Smith vide gli uomini sulla porta indietreggiare a bocca aperta e lasciar cadere le spade. Ma non badò a loro, perché nella parete di fronte, dove un momento prima una finestra alta e stretta si apriva sulla luce del sole e sulle verdi colline della Terra... c'era una porta. Lentamente, silen-
ziosamente, si stava aprendo, e al di là c'era il nero dell'infinito. — Hai... s'lelei... Smith! — gridò nel buio la voce ammonitrice di Yarol, e Smith si gettò all'indietro con un gran balzo, nello stesso istante in cui una spada gli sfiorava la spalla. Jirel proruppe in una furiosa bestemmia e si avventò, tendendo il braccio che reggeva la spada. Nella semioscurità Yarol mosse la pistola, e un sottile raggio incandescente bruciò, vivido. La spada di Jirel sibilò nell'aria, risplendette accecante, e ricadde in una pioggia di gocce roventi sul pavimento di pietra. Lo slancio trascinò la guerriera in avanti: stringeva ancora in pugno un troncone di lama lungo due spanne, e avventò contro l'ampio petto di Smith un affondo con quel frammento. L'uomo avvinghiò con le braccia quella furia che si divincolava e singultava imprecazioni rabbiose e si contorceva contro di lui come una tigre. Con un sogghigno, Smith strinse più forte le braccia fino a quando lei sentì il respiro esalarle dai polmoni compressi e le costole scricchiolare nella morsa. Poi Smith fu preso dalla vertigine. Vagamente, si accorse che la ragazza gli aveva cinto il collo con le braccia in una presa frenetica mentre la danza ondeggiava, s'inclinava pazzamente, sorprendentemente, ruotando su un asse gigantesco... come se gli abissi neri della Soglia si spalancassero sotto di lui... non comprese, e non avrebbe mai compreso, che cosa accadde in quell'istante fantastico, quando le leggi della natura furono alterate dalla strana magia. Il pavimento non era più solido sotto i suoi piedi. Vide Yarol contorcersi come un agile felino e cadere... cadere nell'oblio, tenendo ancora levata la mano che stringeva la pistola. Anche Smith stava cadendo, sprofondando tra abissi di tenebra, stringendo una giovane donna spaventata i cui capelli rossi si agitavano pazzamente nel vento della caduta. Intorno a loro vorticavano le stelle. Scendevano lentamente tra le stelle, mentre l'aria danzava abbagliante intorno a loro. Smith non ebbe il tempo di riprendere fiato e di flettere i muscoli della coscia per accertarsi della presenza del peso rassicurante della pistola, perché un suolo spugnoso li accolse dolcemente. Caddero come in un incubo, con estrema lentezza, senza scosse, sulla strana superficie indistinta della terra al di là della Soglia. Yarol atterrò in piedi, da quel felino che era, stringendo ancora la pistola, con gli occhi neri che sbattevano nell'oscurità stellata. Smith, intralciato nei movimenti dall'atterrita Jirel, cadde sul terreno e rimbalzò leggermente. L'urto sbalzò dalla mano della ragazza il troncone della spada, e Smith lo
lanciò lontano, nel barbaglio accecante delle stelle, prima di aiutarla a rialzarsi. Una volta tanto, Jirel era completamente domata. Vedere la sua spada liquefatta dal fuoco infernale mentre la stringeva in pugno, la sensazione di vertigine, la caduta nell'infinito le avevano temporaneamente tolto ogni capacità di reazione violenta; riusciva soltanto a girare gli occhi su quell'incredibile oscurità tempestata di stelle, con le labbra rosse socchiuse per lo sbalordimento. A perdita d'occhio, il pulviscolo di stelle fremeva e si addensava nell'aria buia: minuscoli punti luminosi che danzavano intorno a loro come migliaia di lucciole palpitanti. Semiaccecati da quel bizzarro chiarore, non riuscivano a scorgere colline o valli, ma solo quel suolo nero e spugnoso, quel fremito di stelle. Un movimento allontanò un poco il pulviscolo, e Jirel ringhiò quando la figura nerovestità di Franga avanzò tra le stelle, lasciandosele indietro nello svolazzare nel mantello. Il volto rugoso si contrasse in un sogghigno, quando vide i tre. — Ah, l'hai catturata! — gracchiò. — Bene, che cosa aspetti? Prendi la pietra! La porta addosso. Gli occhi pallidi di Smith incontrarono quelli del mago nella luce delle stelle, e le sue labbra si strinsero. C'era qualcosa che non andava. Lo sentiva inconfondibilmente... il pericolo bisbigliava nell'aria. Perché Franga li avrebbe portati lì se si trattava solo di strappare la gemma a una donna? No... doveva aver avuto un'altra ragione per precipitarli in quel buio stellato. A che cosa aveva alluso... a potenze che gli erano favorevoli? Un dio tenebroso e innominato che dimorava fra le stelle? Gli occhi del mago si volsero verso Jirel con un lampo omicida, e all'improvviso Smith comprese, in parte. Jirel doveva morire, quindi, quando la gemma non avrebbe più potuto proteggerla. Lì Franga poteva vendicarsi senza difficoltà, quando avesse avuto in mano la Pietra Stellare. Lì Jirel era sola e indifesa... e la fiamma d'odio negli occhi dello stregone poteva spegnersi soltanto nel sangue di lei. Smith si voltò a guardare Jirel, pallida e scossa, che tuttavia ringhiava contro il mago, con una furia invincibile; e inspiegabilmente quella furia gli toccò il cuore. All'improvviso, capì che non poteva consegnarla all'odio di Franga. Il cambiamento della scena aveva cambiato anche i loro rapporti; e i tre mortali - perché non poteva considerare Franga interamente umano - erano insieme contro il mago, la sua malvagità e i suoi poteri. No, non
poteva consegnare Jirel. Il suo sguardo incontrò quello di Yarol, trasmettendo un linguaggio fulmineo più eloquente di un grido d'avvertimento; e quell'occhiata fece scorrere un fremito gioioso nelle vene del piccolo venusiano. Con simultanea disinvoltura, i due uomini portarono la mano alle pistole. Smith disse: — Riportaci a Joiry e io ti prenderà la pietra. Qui... no. Il nero sguardo omicida deviò da Jirel a Smith, avvolgendolo in un'ondata d'odio. — Prendila subito... o morirai! Un suono soffocato, come il ringhio d'una belva infuriata, arrestò Smith mentre stava per afferrare istintivamente la pistola. Jirel si avventò, con i capelli fulvi tempestati di stelle, le dita protese, e si scagliò contro il mago. La rabbia aveva scacciato il momentaneo terrore, e bestemmie soldatesche le uscivano brucianti dalle labbra. Franga indietreggiò, mosse la mano in un gesto complicato e tra lui e la furia che l'inseguiva le stelle s'infittirono... si solidificarono come in una pesante lastra di vetro. Jirel l'urtò e fu scagliata indietro, come se si fosse scontrata con un muro di pietra. Il pulvìscolo argenteo della barriera si dissolse quando lei arretrò, ansimando di rabbia, e Franga proruppe in una risata stridula. — Ora sono nel mio territorio! — esclamò. — Qui non temo né te né alcun uomo. Rifiutare di obbedirmi è morire... morire sanguinosamente. Consegnami la pietra. — Ti farò a pezzi con le mie mani! — singultò Jirel. — Ti strapperò gli occhi, demonio! Ah... persino qui hai paura di me! Esci dal tuo bastione e lascia che ti uccida! — Consegnami la pietra! — La voce del mago era calma. — Riportaci tutti a Joiry e credo che lei ti prometterà di ridartela. — Smith fissò con aria significativa gli ardenti occhi gialli di Jirel. Lei scrollò le spalle, rifiutando il suggerimento. — Mai! Ah... aspetta! — La ragazza balzò al fianco di Yarol e, mentre lui si scostava innervosito, fissando con diffidenza le sue unghie aguzze, gli strappò dalla cintura il coltello. Si puntò la lama contro il seno colmo e rise in faccia a Franga. — E adesso... uccidimi, se puoi! — gridò in tono di sfida. — Cerca di uccidermi... e mi ucciderò io stessa. Così perderai per sempre la gemma! Franga si morse le labbra e la scrutò attraverso il pulviscolo di stelle con un'espressione furibonda. Jirel non avrebbe esitato, e lui lo sapeva. Avreb-
be messo in atto la minaccia e... — La pietra non ha potere, se non viene presa con la violenza o donata liberamente — ammise il mago. — Sottratta al corpo di un suicida, perderebbe tutto il valore. Negozierò con te, Jirel. — No! Mi libererai, o perderai per sempre la gemma. Franga girò gli occhi su Smith. — La perderò in ogni caso, perché una volta che fosse nella sua terra Jirel morirebbe pur di non cederla, come qui. Tu! Mantieni la promessa... prendimi la Pietra Stellare! Smith alzò le spalle. — La tua intromissione ha rovinato tutto, ormai. Posso fare ben poco. Gli occhi neri lo scrutarono per un lungo istante con aria malevola. Poi fissarono Yarol. I due uomini stavano sul suolo spugnoso, a gambe larghe, bilanciati con l'agile tensione che caratterizza i combattenti, le mani sulle armi, gli occhi decisi e minacciosi. Erano molto pericolosi, e Smith comprese che persino lì Franga non era disposto a correre rischi contro quelle strane armi. Dietro di loro, Jirel ringhiava come una tigre furiosa, flettendo istintivamente le dita. E all'improvviso il mago alzò le spalle. — E.allora restate qui a marcire! — scattò, facendo volteggiare il mantello, e le stelle turbinarono intorno a lui in una pioggia accecante. — Restate qui a soffrire la fame e la sete fino a quando vi arrenderete. Non mercanteggerò più con voi. Sbatterono le palpebre nel vortice improvviso del pulviscolo stellato, e quando la loro vista si schiarì la nera figura curva era sparita. Si guardarono, sbalorditi, fra le stelle. — E adesso? — disse Yarol. — Shar, se almeno potessi bere! Perché quello ha parlato di sete? Smith si guardò intorno nel fulgore turbinante. Una volta tanto, era completamente smarrito. Il mago aveva tutti i vantaggi su di loro in quella terra dove regnava supremo il suo dio. — Bene, che cosa abbiamo da perdere — dichiarò alla fine, alzando le spalle. — Non ha ancora finito con noi, ma non possiamo far nulla. Io direi di andare un po' a esplorare. Yarol aveva un'aria dubbiosa. — Non potremmo star peggio di così — ammise. — Comment? — chiese Jirel, guardandoli insospettita. Smith rispose laconicamente: — Andiamo a esplorare. Franga sta pensando a qualche trucco, secondo
noi. Saremmo sciocchi se attendessimo qui il suo ritorno. Noi... Oh, aspetta! — Schioccò le dita e si girò verso i due. La Soglia! Lui conosceva l'incantesimo che l'apriva... gliel'aveva insegnato Franga. Perché non pronunciare ora l'invocazione e vedere che cosa accadeva? Trasse un rapido respiro, aprì le labbra... e poi s'inceppò, con le parole che quasi gli svanivano dalla punta della lingua. Alzò fiaccamente le dita nei gesti complessi del sortilegio, inseguendo il ricordo sparito come se potesse strapparlo all'aria stellare. Inutile. La sua mente non serbava più il ricordo della formula. La magia di Franga era davvero efficiente. — Sei impazzito? — chiese Yarol, guardando con aria sbalordito l'amico esitante. Smith sogghignò con aria malinconica. — Credevo di avere un'idea — ammise. — Ma è inutile. Venite. Era tremendo camminare su quel terreno spugnoso. Inciampavano l'uno contro l'altro, imprecando in tutte le lingue che conoscevano contro l'aria accecante, il cammino difficile, l'incertezza che li costringeva a scrutare continuamente il pulviscolo abbagliante. Fu Jirel, la prima ad avvistare la cosa bruna e rattrappita. Anzi, quasi vi incespicò: era un corpo mummificato, raggomitolato sul fianco in modo che le ginocchia ossute toccavano la fronte bruna. Smith si voltò nel sentire la sua esclamazione, vide il corpo e si chinò a osservarlo. Non era uno spettacolo piacevole. La pelle, tesa sulla struttura ossea, era bruna come la pergamena, orrendamente ruvida, come se l'epidermide di una gigantesca lucertola fosse stata tesa sullo scheletro di un uomo. La faccia era nascosta, ma le mani erano esili e adunche, bianchicce in certi punti, dove la pelle granulosa era caduta dalle ossa. Ciuffi di capelli simili a paglia erano ancora attaccati alla cute corrugata. — Bene, proseguiamo — disse spazientito Yarol. — Di certo, lui non può aiutarci, e neppure farci male. Con un cenno silenzioso d'assenso, Smith girò sui tacchi. Ma un istinto, il sottile, fremente avvertimento del pericolo che sussurra a volte nella mente di uno spaziale, lo indusse a voltarsi. La posizione della figura giacente era cambiata. Aveva sollevato la testa e lo fissava con gli occhi gonfi e vitrei. L'essere doveva essere morto. Smith lo sapeva, con spaventosa certezza. La faccia era un teschio bruno, con un taglio vagamente canino, e il naso, sebbene in certi punti fosse corroso, sporgeva nelle linee che ricordava il muso di una belva. Le membra dell'orrore fremettero e si mossero lentamente, e il corpo
scheletrito si alzò. Si trascinò avanti nel pulviscolo di stelle, e Smith arretrò in una mossa istintiva. C'era qualcosa di indicibilmente orribile, nell'atteggiamento di famelica bramosia che spingeva in avanti la testa bestiale, e Smith si sentì prendere dalla nausea. Jirel si lasciò sfuggire un grido di ripugnanza, subito soffocato. — È meglio andarcene — disse Smith in tono aspro. Per un momento Yarol non parlò. Poi mormorò: — Ce ne sono altri, N.W. Vedi? Nascosti dal pulviscolo di stelle, gli esseri mostruosi dovevano essersi avvicinati con quella spaventosa lentezza, durante gli ultimi minuti. Avanzavano a decine, velati dalle stelle, con tremenda, decisa lentezza, e nessuno di loro stava eretto. Convergevano da ogni parte, e le stelle danzanti conferiva loro una curiosa irrealtà d'incubo, come mascheroni mostruosi intravvisti nella nebbia. Quasi tutti avanzavano carponi, con le facce scheletriche levate e gli occhi bulbosi fissi ciecamente sui tre. Smith ebbe la sensazione che fossero davvero ciechi: gli occhi sporgènti erano biancastri e non avevano pupilla. Non c'era nulla, in loro, che sapesse di vita, tranne la fame terribile espressa dai movimenti, resa doppiamente atroce dal fatto che quelle mascelle putride e quei ventri incartapecoriti non avrebbero mai potuto soddisfarla con mezzi normali. Alcuni aggricciavano i musi deformi, e Smith comprese bruscamente quale istinto li aveva condotti lì. A quanto pareva, cacciavano affidandosi all'olfatto. E il cerchio si stringeva: i tre umani, arretrando di fronte al loro avvicinarsi strisciante, adesso stavano spalla a spalla. Smith sentì la giovane donna rabbrividire e poi la vide lanciargli un rapido sguardo di sottecchi, furiosa di aver tradito la propria debolezza anche per un solo momento. Esitando, Smith estrasse la pistola termica. Era incongrua, l'idea di sparare a quegli esseri già morti. Ma si stavano avvicinando, e la prospettiva di un contatto con quei corpi bruni e scrostati era così ripugnante che il suo indice premette il grilletto quasi avesse una volontà propria. Uno degli orrori crollò, con il braccio sinistro staccato dal corpo. Poi riprese l'equilibrio e ricominciò ad avanzare muovendosi di traverso come un granchio, lasciandosi indietro il braccio trascinato con le dita scheletriche che si contraevano convulsamente. L'uomo non gridò, e neppure una goccia di sangue uscì dalla ferita. — Shar! — mormorò Yarol. — Non possono... morire? — La pistola
sparò, sobbalzando nella sua mano. La testa del mostro più vicino divenne un moncone annerito, ma quello non mostrò di sentire dolore. Continuò a strisciare lentamente, e un nimbo di stelle vorticanti formò un alone maligno intorno a ciò che restava della testa. — Yarol! — gridò Smith. — Energia doppia... ci apriremo un varco. Seguici, Jirel. — Senza attendere una risposta, spostò una levetta sulla canna della pistola termica, lanciando nell'oscurità il raggio bruciante. Le stelle danzarono più rapide, e Smith percepì una minaccia intangibile in quel movimento affrettato. Sembrava che qualcosa si fosse improvvisamente destato dal sonno per affrontare gli intrusi in quella strana terra. Tuttavia non accadde nulla; le stelle si scostavano dal raggio termico, ma i mostri striscianti non vi badavano, sebbene si carbonizzassero durante l'avanzata. L'orda continuava a procedere nella scia della pistola termica, e alcuni dei mostri si sgretolavano, bruciati... e venivano calpestati sotto i piedi degli umani, in frammenti che fremevano e si torcevano con un'animazione insopprimibile, troppo orrenda per chiamarla vita. Yerol, Smith e Jirel procedevano calpestando le fragili cose nere che ancora si muovevano e scricchiolavano e strisciavano sotto i loro piedi.Le due pistole termiche sibilavano sommessamente, aprendo un varco. Gli occhi gialli di Jirel erano fissi sul dorso ampio di Smith, e a un certo punto toccò il pugnale di Yarol che aveva infilato nella cintura. Ma non tentò gesti ostili. Finalmente si liberarono degli orrori mummificati, sebbene fino a quando l'addensarsi della nebbia di stelle li nascose, Smith continuasse a vedere l'orda d'incubo che li seguiva lenta e inesorabile. E le stelle continuavano a danzare nelle loro strane orbite e sembravano osservare con divertimento sardonico e distaccato, mentre i tre procedevano. Il pulviscolo luminoso s'infittiva a volte intorno a loro fino a che non riuscivano a vedere l'uno il volto dell'altro; a volte si diradava, e allora si scorgeva in lontananza... corridoi di vuoto che si allungavano fra le stelle. Lungo uno di quei varchi scorsero infine un rialzo del terreno, e si diressero da quella parte, sperando disperatamente di trovare una via di scampo. Il terreno spugnoso diventò più solido, fino a quando, giunti più in alto, si trovarono a camminare su rocce nere e scheggiate dalle quali una specie di montagna, velata dalle stelle, si ergeva nell'aria nebbiosa. Le stelle s'infittirono di nuovo intorno a loro; senza vedere più nulla, continuarono a salire il pendio accidentato, aggrappandosi alle rocce con le dita e aiutandosi l'un l'altro a passare di cornicione in cornicione.
Mentre saliva, Smith si sentì pervadere dalla smania di esplorare, dimenticando il pericolo. Che cosa stava davanti a lui, quali vette inimmaginabili si ergevano tra le stelle, quali terre si estendevano al di là della montagna? Non l'avrebbe saputo... né allora, né mai. Il pendio era diventato più scosceso e accidentato a ogni passo. Non c'era altro da fare che salire faticosamente. E poi, quando Smith si appoggiò con la schiena contro una sporgenza rocciosa, sollevandosi in tutta la sua altezza per sostenere Yarol, che un momento prima aveva lasciato alle sue spalle, le sue braccia incontrarono uno strano ostacolo nella sovrastante nebbia di stelle. Ansioso di vedere che cosa c'era più oltre, impegnato dalla necessità di aiutare Yarol a raggiungere un appiglio, non vi badò, fino a quando l'ostacolo si addensò al punto di impedirgli, quasi, di muovere le mani. Poi il ricordo lo scosse, sconvolgendolo, quando ripensò alla muraglia di nebbia che si era solidificata fra Franga e Jirel. Si mosse fulmineamente per riabbassare le braccia, ma non fu abbastanza svelto. La nebbia era diventata acciaio intorno ai suoi polsi; e dopo aver lottato per un momento, con le vene che gli si gonfiavano sulla fronte e il sangue che gli rombava nelle orecchie, si abbandonò contro la pietra, dolorosamente teso, quasi appeso dai polsi imprigionati, e si guardò intorno nell'aria abbagliante, cercando Franga. Ora sapeva, con sconvolgente rammarico, che il pericolo non era mai stato lontano da loro, nella nebbia, più di quanto fossero lontani loro tre, l'uno dall'altro. Franga s'era mosso, invisibile, al loro fianco, attendendo con pazienza che gli uomini scostassero le mani dalle pistole quanto bastava perché i suoi ceppi potessero imprigionarli prima che fossero in grado d'impugnare le armi. E adesso li aveva catturati. In alto, la voce di Yarol, soffocata dalla nebbia di stelle, inveiva appassionatamente contro dèi e demoni. Smith sentì gli stivali battere con violenza sulla roccia e comprese che il piccolo venusiano stava lottando anche lui. E lui era inchiodato con le spalle alla montagna e la faccia rivolta verso il vuoto stellato, con gli stivali puntellati su un lungo pendio di pietra. Scorse la schiena di Jirel che indugiava più in basso sul pendio, attendendo che i due le annunciassero di aver raggiunto un altro cornicione. La chiamò, sottovoce: — Jirel! — E rispose al suo sguardo con un sogghigno malinconico. — Ebbene... cosa? — Jirel fu al suo fianco appena ebbe finito di parlare,
e un fuoco si accese nei suoi occhi gialli quando vide cos'era accaduto. Poi esclamò, rabbiosamente: — Bene! È quello che capita quando si traffica con gli stregoni! Ti auguro di restare lì appeso fino a marcire! — Ah! — risuonò dietro di lei una voce secca e irridente. — Lo farà, Jirel, se non obbedirà ai miei ordini! — Franga salì il pendio, uscendo dalla fitta nebbia di stelle, e scrutò con maligna soddisfazione gli uomini imprigionati. Dall'alto, la voce di Yarol lanciò un torrente di maledizioni venusiane sulla testa del mago noncurante. Jirel gli fece eco con una rabbiosa imprecazione in francese e si girò di scatto verso Franga. Con un sorriso sarcastico, quello arretrò, agitando le mani nell'aria. Ancora una volta la barriera si addensò, e con voce trionfante, Franga chiamò Smith: — Dunque, manterrai l'impegno e strapperai la gemma a Jirel? Smith appoggiò la testa alla rupe e rispose, stancamente: — No, se prima non ci riporterai a Joiry. Lo stregone lo fissò negli occhi e nel furore sconcertato che lesse sul suo volto lo spaziale credette di comprendere la vera ragione per cui li aveva portati lì. Franga non aveva alcuna intenzione di pagare il debito che aveva contratto, né di lasciar vivo nessuno dei tre. Appena avesse avuto la pietra, loro sarebbero morti lì, in qualche modo inimmaginabile, e le loro ossa sarebbero rimaste a sbiancare ai piedi della montagna fino al giorno del giudizio. L'unica speranza di salvezza stava nella possibilità di negoziare con Franga la cessione della Pietra Stellare. Perciò si trattenne dal rifiutare e spostò le spalle per alleviare il dolore alle braccia. Il peso della pistola, sulla sua gamba, era una tentazione quasi insopportabile... così vicino e così irreparabilmente lontano dalle sue mani bloccate. Franga disse: — Credo di poterti far cambiare idea. Mosse enigmaticamente le mani, dietro la barriera, e vi fu un movimento nelle stelle che danzavano tra lui e Smith. Si mossero come lucciole, intorno allo spaziale, vertiginosamente, accecanti, ed era impossibile seguire con lo sguardo il loro moto. Divennero scie di fiamma che turbinavano intorno a lui; e la più vicina gli sfiorò la guancia. A quel contatto, Smith sussultò, scostando la testa dalla fiamma. Il calore rovente era più doloroso dell'ustione d'una pistola termica. Sentì l'esclamazione soffocata di Yarol, e comprese che anche il venusiano stava soffrendo. Strinse i denti e attraverso il vortice fissò lo stregone con gli occhi pallidi e furiosi. Le fiamme si avvicinarono, sfiorandolo con decine di minuscole lingue. E a ogni contatto, la sofferenza incandescente lo trafig-
geva, fino a quando gli parve che ogni centimetro del suo corpo fiammeggiasse in un profondo tormento. Nel tormento e nell'accecante bagliore, la voce di Franga gracchiò: — Farai ciò che voglio? Ostinatamente, Smith scosse la testa, aggrappandosi, nonostante la tortura delle fiamme, alla disperata speranza che gli restava... finché Franga non avesse avuto la Pietra Stellare non avrebbe osato ucciderli. Smith aveva sopportato altre volte il dolore; e adesso avrebbe potuto sopportarlo ancora abbastanza a lungo per piegare Franca. E anche Yarol avrebbe dovuto sopportare per un po'. Il venusiano aveva una sorta di sfacciata spavalderia nei confronti del dolore fisico, per la semplice ragione che non riusciva a sopportarlo: sveniva, se doveva soffrire a lungo. Smith si augurò che arrivasse presto a quel punto. Disse: — No — seccamente, stringendo i denti, e premette la testa contro la roccia, mentre il sudore gli scorreva sulla fronte e le fiamme gli balenavano intorno, e ogni contatto accendeva un tormento profondo nella sua carne. Franga sghignazzò, e fece un gesto con una mano. Le stelle vorticanti incominciarono a saettare come coltelli davanti agli occhi di Smith. Se prima fiammeggiavano, adesso erano troppo abbaglianti per poterle seguire con lo sguardo. La tortura rovente rombava su di lui in una tempesta di dolore, e il tormento cancellò ogni pensiero di Franga e di Jirel e di Yarol: lasciò solo la sua carne straziata che fiammeggiava in quella sofferenza rovente. Non sapeva di aver stretto i pugni, non sapeva che i suoi muscoli erano contratti sulla mascella mentre si sforzava di non urlare. Il mondo era un inferno di tormento insopportabile che lo trascinava in una marea incandescente verso le profondità dell'oblio. Non sentì neppure la pressione sui polsi, quando le ginocchia gli mancarono. Jirel aveva assistito, in preda a emozioni contrastanti, mentre le stelle cominciavano a turbinare fiammeggianti intorno al suo nemico. Il sentimento più forte era il trionfo, come il risentimento e la furia avevano predominato fino a quel momento. Ma inspiegabilmente, sebbene avesse assistito impassibile a tante torture, adesso sentì una strana debolezza ardente, mentre le stelle diventavano fiamme e il sudore imperlava la fronte di Smith e i suoi pugni si stringevano contro la roccia. Poi la voce odiosa di Franga chiese a Smith di sottrarle la gemma con la violenza; e Jirel si tese involontariamente prima di udire il «No» torturato ma deciso di Smith. Lo fissò, sbalordita, chiedendosi la ragione di quel rifiuto. Un senso di riluttante ammirazione si insinuò nel suo risentimento.
Jirel era un'intenditrice in fatto di tortura, e non ricordava un uomo che l'avesse sopportata più risolutamente di Smith. E anche Yarol taceva, seminascosto nella nebbia stellata, sebbene le minuscole fiamme lampeggiassero anche lassù. Poi vide la tensione abbandonare il corpo straziato di Smith, quando le ginocchia si piegarono; lo vide accasciarsi contro la roccia, appeso per i polsi. E un improvviso slancio ardente l'invase, una sofferenza per la sofferenza di quell'uomo. Senza rendersi conto di come fosse accaduto, si sorprese a tempestare di pugni la barriera che la separava da Franga, e udì la propria voce gridare: — Basta! Basta! Lascialo libero... ti darò la Pietra Stellare! Nell'abisso dell'oblio fiammeggiante di dolore, Smith udì quel grido appassionato. Lo riportò al ricordo dell'esistenza di un mondo al difuori del cerchio bruciante del suo tormento, e con uno sforzo immane rialzò la testa, puntò i piedi sul pendio roccioso e lottò per riprendere conoscenza. Gridò con voce roca: — Jirel! Jirel, sciocca, non farlo! Ci ucciderà tutti! Jirel! Anche se lei lo udì, non gli diede ascólto. Con tutte e due le mani stava aprendo la tunica di daino affibbiata alla gola, e Franga, mentre la barriera si dissolveva, si chinava impaziente in avanti, protendendo le mani adunche. — No... Jirel, No! — urlò disperatamente Smith tra il bagliore tormentoso delle fiamme, e all'improvviso, accecante, la Pietra Stellare fiammeggiò nelle mani della giovane donna. Per un momento, persino il dolore rovente si cancellò dalla mente di Smith. Franga si tese, trattenendo il respiro, con gli occhi inchiodati sul grande fulgore pallido della gemma. In un silenzio assoluto, in quel luogo strano, la Pietra Stellare sfolgorava nella semioscurità, e il suo freddo pallore immobile si irradiava dalle dita di Jirel come un blocco di fiamma impietrita. Lei abbassò gli occhi, e ancora una volta vide le proprie dita distorte dalla trasparenza, vide quello strano guizzo, come se un'ombra si muovesse all'interno della gemma. Per un momento le parve che quelle superfici levigate strette fra le sue mani contenessero uno spazio immenso come il cielo. In un attimo d'improvvisa vertigine, ebbe la sensazione di scrutare un infinito nei cui silenzi si muoveva qualcosa che lo colmava da un'estremità all'altra. Era forse un mondo, quello, enorme nelle sue dimensioni quanto lo spazio stesso, sebbene fosse raccolto tra le sue mani? E non c'era un Abitatore in quell'im-
menso luogo lucente... un'ombra che... — Jirel! — La voce rauca di Smith la strappò allo stordimento sognante. Lei alzò la testa e si mosse verso di lui, a stento visibile nel vortice della tortura, reggendo la gemma come una lampada. — No! No! — implorò Smith, aggrappandosi disperatamente alla coscienza mentre le fiamme lo trafiggevano. — Liberalo! — Ordinò Jirel a Franga, con la gola inesplicabilmente stretta nel vedere la sofferenza incisa sul volto sfregiato di Smith. — Cedi volontariamente la pietra? — Gli occhi del mago erano fissi con uno sguardo avido sulle sue mani. Smith si sentì soffocare per la disperazione quando la vide porgere la gemma. Sapeva che doveva evitare a ogni costo che cadesse nelle grinfie di Franga, e nella sua mente intormentita gli pareva che vi fosse un solo modo per riuscirci. Non stette a pensare a cosa poteva servire: ma si abbandonò con tutto il suo peso sulle mani imprigionate, oscillando tra le stelle brucianti in un arco, sbalzando con un calcio la gemma dalle mani protese di Jirel. Lei gettò un'esclamazione; Franga urlò, un urlo acutissimo di terrore mentre la Pietra Stellare batteva contro le rocce accidentate della montagna. Poi uno spicinio, come di vetro infranto e... E poi un fulgore pallido e intenso investì i loro volti come se la luce racchiusa nella gemma erompesse dalla prigione infranta. Le stelle palpitanti furono inghiottite dal suo splendore, e l'aria fosca s'illuminò, e tutto il fianco della montagna fu inondato dalla calma gloria immobile che un momento prima brillava nell'interno della Pietra. Franga borbottava convulsamente, torcendo le mani in vani incantesimi, farfugliando con voce incrinata formule che non evocavano nessuna magia. Sembrava che tutto il suo potere si fosse dileguato insieme alle stelle, all'oscurità scomparsa, e ora lui stava, indifeso, nello splendore di quella luce aliena. Smith non gli badò. Perché quando quel grande splendore pallido salì verso di lui, il tormento delle stelle svanì come svanivano le loro fiamme, e la beatitudine della pace dopo la sofferenza lo lasciò così sfinito per il sollievo che, quando i ceppi si sciolsero intorno ai polsi, poté soltanto appoggiarsi contro la roccia, pervaso da ondate d'una sensazione simile all'oblio. Sopra di lui udì un suono, e la figura minuta di Yarol scivolò al suolo, ai suoi piedi, abbandonata nell'incoscienza. Nel silenzio, Smith respirò pro-
fondamente e lentamente, recuperando le forze, mentre Yarol cominciava a rinvenire, e Franga e Jirel si guardavano intorno nella luce sempre più intensa della Pietra Stellare. Poi intorno a loro scese qualcosa che si poteva definire soltanto un'ombra di luce... un fulgore più intenso nella gloria del giorno pallido che li circondava. Smith fissò quel cuore sfolgorante, sebbene non riuscisse a scorgere altro che i contorni indistinti di un essere che aleggiava sopra di loro, inumano, totalmente alieno... ma non terribile, non minaccioso. Una presenza tangibile come una fiamma... e altrettanto intangibile. E inspiegabilmente percepì uno sguardo sereno e impersonale, distaccato e intento che sembrava frugare nel profondo della sua mente e della sua anima. Aguzzò gli occhi, scrutando il cuore del bagliore bianco, cercando di scoprire la natura dell'essere che lo guardava. Era come l'elegante spirale di un nautilo... e tuttavia sentiva che i suoi occhi non potevano comprendere pienamente le curve e le spirali ultraterrene che seguivano un fantastico sistema non euclideo di una geometria aliena. Ma riconosceva la bellezza di quella cosa, e provava un senso di profonda reverenza, un senso di gioia sconfinata per la meraviglia e lo splendore dell'essere che stava guardando. Franga urlò con voce esile e roca, cadendo in ginocchio per ripararsi gli occhi. L'aria fremette, l'ombra di luce fremette, e un pensiero senza parole nacque nelle menti dei tre ai piedi della montagna. — Voi siamo grati per la Nostra liberazione — disse una voce che non era una voce profonda e muta e fiammeggiante come la luce che la rendeva manifesta. — Noi, che una potente magia imprigionò nella Pietra in ère lontane, vorremmo concedere un ultimo favore, prima di ritornare alla Nostra patria. Chiedete. — Oh, riportateci a casa! — ansimò Jirel, prima che Smith potesse rispondere. — Portateci via da questo luogo terribile, rimandateci a casa! All'improvviso, quasi istantaneamente, l'ombra di luce li avviluppò, accecante. La montagna sprofondò sotto di loro, e l'aria luminosa svanì nel nulla. Era come se intorno a loro si schiudessero le muraglie dello spazio e del tempo. Smith udì l'urlo disperato di Franga... vide il volto di Jirel passargli accanto con un messaggio disperato che ardeva negli occhi gialli, mentre i capelli fulvi ondeggiavano nel vento come una bandiera... e poi intorno a lui apparve la lucentezza smorzata delle pareti d'acciaio, e contro la guancia sentì una superficie fredda e levigata.
Alzò pesantemente la testa e guardò in silenzio Yarol, seduto di fronte a lui, nella saletta che aveva abbandonato un eone prima. In silenzio, il venusiano ricambiò la lunga occhiata. Poi Yarol si appoggiò alla spalliera e chiamò: — Marnak! Liquori... presto! — Si voltò e cominciò a ridere sommessamente, come un pazzo. Smith prese a tentoni il bicchiere di whisky-segir che aveva scostato quando s'era alzato da quel tavolo, millenni prima. Rovesciò la testa all'indietro e si versò il liquido in gola con un gesto svelto, chiudendo gli occhi mentre si sentiva pervadere dall'abituale calore. Dietro le palpebre abbassate balenò il ricordo di un volto pallido e intenso, con gli occhi sfolgoranti di un'improvvisa emozione violenta, un messaggio che lui non avrebbe mai conosciuto... i capelli fulvi come una bandiera nel vento. Il viso di una giovane donna morta duemila anni prima, lontana anni-luce, la cui polvere era ormai perduta sui venti luminosi della Terra. Smith alzò le spalle e vuotò il bicchiere. IL PAESE DELLE TENEBRE The Dark Land Weird Tales, gennaio 1936 Nel suo grande letto, nella stanza sulla torre del Castello di Joiry, Jirel di Joiry giaceva, vicinissima alla morte. I rossi capelli sembravano una lucente cascata sul cuscino su cui riposava il volto pallidissimo, e le ciglia erano abbassate sugli occhi di fiamma gialla. La vita era sgorgata in grandi fiotti scarlatti dalla profonda ferita della lancia che le aveva trafitto il fianco, e le donne mormoranti che si assiepavano alla porta stavano affermando tra loro in soffocanti sussurri che la signora Jirel aveva guidato l'assalto, durante la battaglia, per l'ultima volta. Non avrebbe mai più galoppato alla testa dei suoi uomini urlanti, roteando la spada con tutta la ferocia che aveva dato al suo nome tanta importanza tra i selvaggi baroni guerrieri le cui terre confinavano con la sua. Jirel di Joiry giaceva assolutamente immobile sul guanciale. La grande spada a doppio taglio che lei agitava con tanto furore nel calore della battaglia era appesa adesso alla parete, là dove i suoi occhi gialli avrebbero potuto vederla, se si fossero aperti, e la sua armatura segnata e ammaccata da mille battaglie si trovava in un angolo della stanza, nello stesso punto in cui le donne l'avevano gettata quando gli armigeri dai volti severi avevano trasportato il corpo immobile della loro signora su per le
scale, con grande clangore di armi. Nella stanza aleggiava il silenzio della morte. Al suo interno nulla si muoveva. Sul letto il pallido volto di Jirel giaceva immobile tra i cuscini. Dopo qualche tempo una delle donne si fece avanti e chiuse piano la porta, per escludere l'interno della stanza alla vista. — Non è decoroso guardare così — disse con aria di rimprovero alle altre, — la nostra signora non vorrebbe essere osservata in questo modo, fino a quando Padre Gervase non l'abbia assolta dai suoi peccati. E le teste incappucciate si piegarono a mo' di assenso, e si udì un fitto scambio di commenti mormorati a fior di labbra. Dopo qualche istante un movimento sulle scale attirò l'attenzione delle donne, che si fecero da parte per permettere il passaggio dell'ancella di Jirel, la quale premeva un fazzoletto sugli occhi arrossati di pianto, e precedeva Padre Gervase. Qualcuno aprì la porta davanti a loro, e le donne si fecero da parte. L'ancella avanzò alla cieca verso il letto, tenendo il fazzoletto sugli occhi. Dietro di lei, qualcosa di oscuramente sbagliato stava accadendo. Dopo un attimo si rese conto di che cosa si trattava. Un'immobilità assoluta aveva congelato la folla di donne che si trovavano dietro la porta. L'ancella guardò ansiosa alle sue spalle. Gervase stava fissando il letto con un'espressione di completo sbalordimento dipinta sul volto. — Figlia mia — ansimò, — dov'è la tua signora? Il capo dell'ancella si voltò di scatto in direzione del letto. Era vuoto. Le lenzuola erano nella stessa posizione in cui le dorme le avevano sistemate per coprire il corpo della signora di Joiry; non erano scostate, come accade quando qualcuno si alza. Tra le lenzuola ancora calde era ben visibile l'impronta lasciata dal corpo della donna ferita. Non c'era sangue fresco sul pavimento; ma della signora di Joiry non c'era segno. Le mani di Gervase si strinsero sul crocifisso d'argento che portava, e sotto la frangia di capelli argentei che gli cadevano sulla fronte, il suo volto assunse un'espressione addolorata. — La nostra amata signora si è occupata troppo spesso di cose proibite — mormorò tra sé, stringendo più forte il crocifisso — troppo spesso... Dietro di lui mani tremanti eseguirono il segno della croce, e la notizia cominciò a propagarsi, in mormorii pieni di reverente stupore, verso coloro che non avevano potuto vedere: — Il diavolo in persona ha trafugato l'anima e il corpo di Jirel di Joiry dal suo letto di morte.
Jirel ricordava le grida e i gemiti e il calore della battaglia, e il colpo al fianco che l'aveva stordita. Dopo di questo, nulla all'infuori di un crepuscolo in cui si muoveva un velo allucinante di dolore insopportabile, e in cui si udivano alcune voci mormorare qualcosa da una distanza infinita. Distaccata dal corpo, galleggiò in un mare di serenità e di pace infinito, mentre le voci e il dolore si ritiravano sempre più, e svanivano fino a cessare del tutto. Poi cominciò a splendere una luce, lontano. Lottò contro il ritorno della conoscenza, debolmente, perché la marea oscura la spingeva sempre più lontano, in una oceano di pace senza limiti, la cui completezza non poteva venire espressa dalle parole. Ma la luce non voleva permetterle di fuggire. Controvoglia, incerta, finalmente aprì gli occhi. Le ciglia obbedirono dopo qualche tempo, come se già avessero appreso la disobbedienza alla sua volontà. Ma infine riuscì a socchiuderle, e giacque immobile, a occhi semiaperti, mentre la vita ritornava a fluire lentamente nel corpo. La luce veniva da un anello di fiamma, che si alzava dorato contro uno sfondo oscuro. Per qualche tempo non riuscì a distinguere nulla, oltre alle fiamme. Pian piano i suoi occhi si riabituarono a registrare le immagini, e, con riluttanza, il corpo che era andato così vicino alla morte riprese a vivere. Jirel guardò con piena comprensione, e quando si rese conto di qual era l'oggetto dei suoi sguardi, nella sua mente intontita l'incredulità cominciò a combattere con lo stupore più completo. Di fronte a lei sedeva una grande immagine, mostruosa e maestosa, su di un trono. Trono e immagine erano neri e debolmente lucenti. La figura era quella di un uomo immenso, dalle ampie spalle, tremendo, molte volte superiore in altezza e proporzioni agli uomini più robusti che Jirel avesse mai visto. Il suo volto era barbuto, e dimostrava forza e selvaggia decisione, ed era regale, altezzoso come doveva essere stato il volto stesso di Lucifero. Sedeva su di un immenso trono nero, con gli occhi fissi con arroganza nel nulla. Le fiamme danzavano intorno alla sua testa. Jirel guardò ancora, incredula. Come aveva fatto a giungere in quel luogo? E quale luogo era, in quale mondo? A occhi spalancati, fissò quella corona fiammeggiante che circondava la testa immensa, danzando e abbassandosi e sprizzando nuovamente verso l'alto, proiettando ombre mutevoli sul volto maestoso dell'uomo. Senza sorpresa scopri di potersi muovere. Nell'incoscienza non si era resa conto della gravità della sua ferita, e non le sembrava quindi strano di potersi muovere senza provare dolore, né che il suo fianco squarciato fosse
di nuovo intatto sotto la leggerissima tunica di pelle d'antilope che rappresentava il suo unico indumento. Non sapeva neppure che la punta d'acciaio della lancia aveva conficcato la pelle di antilope della tunica così profondamente nella carne che le sue ancelle non avevano osato toglierle l'indumento nel timore che la ferita si riaprisse e lei spirasse prima di avere ricevuto l'assoluzione. Sapeva soltanto di essere seduta in quel luogo, nuda a eccezione della tunica di pelle d'antilope, con i piedi nudi che poggiavano su un tappeto e molti cuscini intorno. E tutto ciò era così strano e inesplicabile che non tentò neppure di comprendere. Il divano sul quale era seduta era basso, ampio e nero, e il tappeto soffice su cui poggiava i piedi era nero anch'esso, e più grande di qualsiasi pelle di animale, inimmaginabile a mente umana. Davanti a lei, su una distesa nera e splendente, la possente immagine torreggiava, incoronata di fiamma. Per il resto, quella grande sala nera e male illuminata era vuota. Le fiamme lanciavano strane ombre e strani riflessi sul pavimento lucente. Alzò gli occhi, e con un piccolo sobbalzo di sorpresa si accorse che non c'era soffitto. Le pareti si alzavano possenti intorno a lei, e terminavano d'un tratto, e sopra si vedeva un cielo nero, punteggiato dalla fioca luce delle stelle. Aveva visto e compreso tutto questo, quando uno strano barlume nell'aria di fronte all'immagine ricondusse là i suoi occhi ansiosi. Era un chiarore e una danza, come la danza dei granelli di polvere nell'aria dell'alba, solo che quelle particelle erano lucenti e danzavano nell'oscurità, ed erano di mille colori. E danzarono e danzarono di fronte ai suoi occhi sbalorditi, fino a quando la polvere non cominciò ad assumere una forma, e qualcosa apparve alla luce delle fiamme sulla testa dell'immagine. In mezzo a quell'arcobaleno di polvere si stava formando una figura. Una figura umana, un uomo dal volto scuro, alto e dalle ampie spalle, i cui lineamenti presero rapidamente forma nel turbine multicolore delle particelle impazzite, fino a quando, in un'ultima frenetica danza, l'arcobaleno si dissipò e fu completo, e fu un uomo in carne e ossa che si trovò davanti a Jirel, a gambe divaricate, con le mani sui fianchi, e con un sogghigno tenebroso rivolto alla sbalordita ragazza. Era l'immagine incoronata di fiamma. Solo che era in carne e ossa, grande come qualsiasi essere umano, mentre la statua era immensa e di pietra nera. Lo stesso volto duro, arrogante e maestoso si rivolse con un sorriso ironico verso Jirel. Sotto le sopracciglia foltissime due occhi luminosi si fissarono sulla donna. Jirel non riuscì a sostenere quello sguardo. Il mento
dell'uomo era incorniciato da una corta barba nera, e le labbra erano dischiuse sui denti di un candore incredibile. I lineamenti di quel volto si impressero nella mente intontita di Jirel, mentre lei trattenne il respiro, sedendo rigidamente tra i cuscini del divano, a occhi spalancati. Gli occhi neri dello straniero osservarono con interesse le linee aggraziate del suo corpo. Rosse scintille balenarono nelle profondità di quegli occhi, e il sorriso dell'uomo divenne più evidente. — Benvenuta — disse con una voce così profonda e modulata che le fibre più riposte del corpo di Jirel fremettero, — benvenuta a Romne, la terra delle tenebre. — Chi mi ha condotta qui? — Jirel riuscì finalmente a ritrovare la voce. — E perché? — Sono stato io — le rispose l'uomo, — io... Pav, re di Romne. Ringraziami per questo, Jirel di Joiry. Se non fosse stato per Pav, questa notte tu avresti riposato con i vermi. Ti ho presa dal tuo letto di morte, e soltanto il mio potere ha potuto rimarginare la ferita che ti squarciava il fianco, e ha potuto restituirti il sangue che hai perduto sul campo di battaglia di Tiste. Ringraziami, Jirel! Lei lo fissò decisa, e nei suoi occhi gialli balenò la fiamma dell'ira, quando vide l'allegria che brillava nello sguardo dello straniero. — Dimmi perché mi hai condotta qui. Nell'udire queste parole l'uomo rovesciò il capo all'indietro e rise forte, e fu una risata spaventosa, lo scoppio di un'allegria satanica che destò profonde eco nelle pareti, in un crescendo che ricordava il suono di un organo. La sala tremò della sua risata. Le fiamme che circondavano la testa dell'immagine danzarono con essa. — Per essere la mia sposa, Joiry! — ruggì. — Quello sguardo di sfida non ti si addice! Arrossisci, signora, di fronte al tuo sposo! L'immenso stupore della ragazza fu l'unica cosa che impedì l'esplodere della furia omicida che già premeva nel suo animo. Non poté fare altro che fissarlo, mentre lui rideva di lei, godendosi il suo sbalordimento. — Sì — disse infine Pav, — tu hai viaggiato troppo spesso nelle terre proibite, Jirel di Joiry, per essere ignorata da noi che in esse viviamo. E in te c'è una forza rovente e selvaggia che nessun'altra donna, nelle terre che io conosco, possiede. Una forza degna di sostenere la mia forza, Signora Jirel. Nessuna è degna di diventare la mia regina, all'infuori di te. E così ti ho presa per me. Jirel quasi soffocò per l'ira, poi riuscì a ritrovare la voce.
— Pazzo abitatore dell'inferno! — disse rabbiosa. — Bestia nera uscita da un incubo! Fammi destare da questo sogno folle! — Non è un sogno — sorrise lui con aria ironica, — mentre morivi nel Castello di Joiry ti ho presa dal tuo letto e ho fatto varcare al tuo corpo e alla tua anima quella curva dello spazio che separa questa terra dalla tua. Ti sei destata nel tuo regno delle tenebre, o Regina di Romne! — E si inchinò ironicamente, e i suoi denti splendevano in mezzo alla selva oscura della barba. — Con quale diritto... — ruggì Jirel. — Il diritto di chi ama — la motteggiò lui. — Non è meglio dividere con me Romne che regnare sui vermi, mia signora? Perché la morte ti ha sfiorata, poco fa. Io ho salvato la tua pelle delicata da un gelido letto, Jirel, e ho mantenuto nel tuo corpo la tua anima ardente. Non mi ringrazi per aver fatto questo? Una furia gialla lampeggiò negli occhi di lei. — Ti ringrazierei con la lama della spada, se ne avessi una — gridò, — pensi forse di prendere Joiry come qualsiasi ragazza contadina per appagare i tuoi desideri? Io sono Joiry, capisci? Tu devi essere pazzo. — E io sono Pav — le rispose duramente, e tutta l'allegria era svanita dalla sua voce profonda, — sono re di Romne e signore di tutti coloro che vi vivono. Ti ho prescelta per il tuo spirito selvaggio, ma non abusare troppo della mia pazienza, Signora Jirel! Jirel alzò gli occhi sul volto duro, selvaggio e barbuto dell'uomo che si trovava di fronte a lei, e a un tratto la cosa più simile alla paura per un essere umano, un sentimento che non aveva mai provato in vita sua, le strinse il cuore con una gelida morsa; era forse il timore di sapere che, se un uomo al mondo avesse potuto domare il suo spirito fiero, quell'uomo si trovava ora davanti a lei. Le scintille rosse erano sparite dal fondo dei suoi occhi, e qualcosa tremò nell'animo della donna di fronte a quello sguardo oscuro e immobile. Abbassò le ciglia sulla fiamma gialla dei suoi occhi e strinse le labbra, decisa a non cedere. — Chiamerò i tuoi servi — disse gravemente Pav. — Devi essere vestita come si conviene a una regina, e poi ti mostrerò Romne, la tua terra. Lei vide che gli occhi neri di Pav si rivolgevano altrove, come se cercassero qualcosa, e dopo un istante apparve intorno a lei, nell'aria vuota, il fenomeno più curioso che mai avesse visto. Uno strano velo azzurro luccicante cominciò a galleggiarle intorno, all'altezza delle spalle, azzurro e traslucido come un velo di fiamme roventi, e si muoveva proprio come le
fiamme. Non riuscì a vedere chiaramente le cose, ma il loro contatto con la sua epidermide fu identico a quello di fiamme che avessero perduto il loro calore; leggero, rapido, vellutato. Si mossero intorno a lei, troppo veloci per essere distinte da occhi umani; e su tutto il suo corpo corsero rapide carezze leggere. E mentre si muovevano Jirel si sentì stranamente stanca, come se ogni forza stesse fluendo via dal suo corpo man mano che progrediva la danza delle fiamme. Quando furono cessate le loro cure, anche lo strano senso di debolezza svanì, e Jirel, al massimo dello stupore, abbassò gli occhi sul suo corpo snello e flessuoso, vestito dall'abito di velluto più bello che mai fosse apparso nei suoi sogni. Era nero come una notte senza stelle, più morbido di una piuma, ampio e splendente, e modellava le curve della donna fissandole in una specie di meraviglia statuaria che mozzava il respiro. C'era un piacere sensuale nel contatto soffice dell'abito a ogni movimento, in quella carezza oscura contro la pelle, quando i suoi gesti le premevano contro quell'infinita morbidezza che la rivestiva. Per un attimo rimase perduta in una sensazione di pura estasi femminile. Ma fu soltanto un istante. Poi udì la voce profonda di Pav che le stava dicendo: — Guarda! — e lei alzò gli occhi e vide che le pareti della sala si confondevano e si allontanavano come se fossero state fatte di fumo. La grande immagine impallidì, il pavimento lucente e le strane pareti senza soffitto divennero trasparenti e nebulose, e attraverso quella superficie confusa cominciarono ad apparire montagne alte e possenti in lontananza, alberi neri e terra contorta e incolta. Prima che l'eco della voce profonda di Pav fosse svanita nel silenzio, la sala era scomparsa e loro due si trovarono in piedi, da soli, al centro dell'oscura terra di Romne. Era veramente una «oscura terra», un «paese delle tenebre». Fino a dove poteva giungere il suo sguardo, l'aria inghiottiva ogni traccia di colore, e il paesaggio era fatto di grigiore e di tenebra, a perdita d'occhio. Ma c'era una strana limpidezza nell'aria trasparente e tenebrosa. Poteva vedere le lontane montagne, oscure e distinte, dietro la cortina di alberi neri. Sempre dietro gli alberi, riuscì a cogliere il balenìo di acqua nera e immobile, e sotto i suoi piedi la terra era nera e rocciosa. E c'era qualcosa, in quel luogo, che dava una strana sensazione di limitatezza, di circoscrizione. Chissà perché, nel guardare si sentì confinata, perché l'orizzonte era più vicino di quanto doveva essere, e il suo cerchio nero stringeva il piccolo mondo di grigiore e di tenebra e di aria oscura e limpida in una maniera troppo sof-
focante per essere razionalmente giustificata. Si sentì prigioniera e il respiro le si. fece un po' affannoso, alla vista di quell'ampia terra che si stendeva così nitidamente, e così tenebrosa, intorno a lei. Forse era perché anche agli estremi confini del cielo tutto era chiarissimo nell'oscurità limpida dell'aria proprio come le rocce e i ciottoli che si trovavano ai suoi piedi, e di conseguenza ogni prospettiva (e ogni distanza) era annullata. Sì, era il paese delle tenebre: uno strano paese, misterioso, avvolto da un vago alone d'incubo, dall'atmosfera troppo limpida, dall'orizzonte troppo vicino e troppo nitido che segnava un circolo troppo esiguo intorno a loro. — Questa è la tua terra — disse Pav, accanto a lei, con la sua incredibile voce che faceva rabbrividire Jirel anche nelle fibre più riposte, — questa è Romne, o Regina! Una terra più grande di quanto sembri, un paese che ben si adatta alla tua forza e alla tua bellezza, mia Jirel. Uno strano paese, inoltre, secondo tutti i concetti umani. Più tardi imparerai quanto sia strano. L'illusione che... — Risparmia il fiato, Re di Romne — lo interruppe Jirel, — questo non è un paese per me, e l'unica cosa che mi interessi è il sistema per uscirne. Fammi vedere il passaggio che conduce al mio mondo, e sarò felice di non rivedere mai più né Romne né te. La grande mano di Pav si mosse velocissima e le afferrò una spalla. La fece girare di scatto, in un lampo di velluto e in una cascata di capelli color del fuoco, e il suo volto cupo e barbuto era stravolto dall'ira. Le piccole scintille rosse danzarono nei suoi occhi neri, fino a quando Jirel non fu più in grado di sostenere quello sguardo e dovette abbassare gli occhi, piena di rabbia impotente. — Tu sei mia! — le disse con una voce così profonda e vibrante che il suo intero corpo rabbrividì. — Ti ho sottratta a Joiry e al tuo letto di morte e al mondo che tu conoscevi, e da quel momento in poi tu sei stata mia, e mia soltanto. Potrai essere forte, ma mai quanto me, Jirel di Joiry, e quando io te lo ordino, tu devi obbedire! Accecata dall'ira, Jirel si liberò con uno strattone dal contatto di quella mano e cadde all'indietro. Rialzò subito il capo, e la sua voce fremente d'ira sembrò uno scoppio di fiamma, e le parole uscirono spezzate e quasi soffocate da quella furia selvaggia che divorava il suo cuore. — Non toccarmi più, nero abitatore dell'inferno! Davanti a Dio, giuro che non avresti mai osato se mi avessi lasciato un coltello con cui difendermi! Giuro che ti strapperò gli occhi dalla testa con le mie mani se oserai
sfiorarmi ancora una volta! Mi hai capita, lurido stregone? Non mi avrai mai... mai, a costo di morire per sfuggirti! Lo giuro sul mio nome! Tacque, non perché avesse esaurito le parole, ma perché la furia che la divorava le mozzò ogni suono in gola. I suoi occhi sprizzavano fiamme gialle e roventi, e le sue dita sembravano artigli desiderosi di affondare nel sangue. Il Re di Romne le sorrise, con i pollici infilati nella cintura e un'aria di derisione infinita. La barba incorniciava il suo sorriso, e le scintille rosse danzavano nei suoi occhi neri. — La pensi così, eh, Joiry! — la canzonò con la sua voce profonda. — Guarda che cosa potrei fare! Non mosse un solo muscolo, ma anche ottenebrata dalla cortina di furia e di sdegno, Jirel avvertì una nuova forza nascere in lui. Quegli occhi dai riflessi sanguigni erano fissi nei suoi, e con rabbia disperata Jirel si accorse ancora una volta di non poter sostenere quello sguardo. C'era qualcosa di spaventoso nella sua oscura immobilità, nella forza accecante e insopportabile che ne usciva imperiosamente. Era una forza troppo sproporzionata all'assoluta immobilità del corpo di lui, una forza che la costringeva a obbedire, con ansia intollerabile. Doveva obbedire... doveva... A un tratto, una nuova ondata di comando, rovente come il fuoco, si rovesciò sulla sua anima, accecante, terribile, con una violenza incredibile, che fece svanire nel nulla l'intera Romne e fece perdere alla donna ogni contatto con la realtà. Il terreno roccioso scivolò da una parte e svanì. Il mondo oscuro si dissolse intorno a lei. Non era più una donna di carne e di sangue ma una radiazione di ira allo stato puro. Attraverso il calore divorante di quel sentimento, come attraverso uno schermo di fiamme, vide il corpo dal quale la violenza della sua ira l'aveva fatta uscire. Era in piedi, rigido, avvolto nel suo abito di velluto nero, e fronteggiava con aria di sfida l'immobile figura di Pav. Ma mentre lei guardava, il corpo sembrò pervaso da una strana debolezza. La rigidità abbandonò i suoi lineamenti, il capo ritto e avvolto dalla fiammeggiante cascata dei rossi capelli si abbassò. Senza poter fare nulla Jirel osservò il suo stesso corpo muoversi in avanti, passo dopo passo, con riluttanza, come se la stessa carne che lei aveva appena abbandonato reagisse contro la violenza della costrizione. Vide che il suo corpo arrivava ai piedi di Pav. Vide il suo corpo avvolto nel velluto nero inchinarsi in un gesto di totale sottomissione, abbracciare le sue ginocchia con venerazione. Con una calma che ormai aveva superato il più scatenato parossismo di furia incarnata, vide se stessa umiliarsi davanti
a Pav, con il capo nella polvere, curvarsi in gesto di resa completa ai suoi piedi. Ed ebbe paura. Perché una forza sgorgata dal nulla stava attaccandola, una forza così immensa che perfino l'inferno della sua ira ne rimaneva annullato. L'obbedienza del suo corpo perse ogni significato, sotto la spinta di quella terribile forza. Avrebbe pensato che essa proveniva da Pav, se fosse stato possibile a qualsiasi creatura esistente concentrare un'ondata di forza così immensa, così superiore a qualsiasi possibilità di resistenza umana, e di cui avvertiva così crudelmente l'impatto. Per un brevissimo istante si rese conto della presenza di quella forza dappertutto intorno a lei, terrificante, tonante, allucinante. Era una forza troppo tremenda per essere sopportata nel suo stato di disincarnata vulnerabilità. La bruciava come un rogo di altissime fiamme. Ed ebbe paura... perché Pav era il centro di quella volontà infernale, e non poteva, un essere umano, irradiare una forza così infinita. Che cos'era quella creatura? Che cosa poteva essere? In quell'istante fu terribilmente spaventata... un'anima nuda nella fornace divorante di qualcosa di troppo tremendo... di troppo terribile... Poi il momento della separazione cessò. Con un'ondata e un bagliore si trovò di nuovo all'interno del suo corpo inginocchiato, e la consapevolezza di quella forza svanì pian piano intorno a lei e l'umiliazione di quella posa bruciò nuovamente, soffocante, nella sua gola. Come una molla scattò in piedi, facendosi indietro e affrontando irata il volto di Pav, sul quale aleggiava un'espressione di divertimento, con una furia che sembrò rendere incandescente tutto il suo corpo. Quell'istante di terrore era un carburante che alimentava le caldaie della sua furia, perché adesso non era più nuda, non era disincarnata e indifesa dalla forza che aveva avvertito per così poco tempo, e l'ira provocata in lei dal fatto di esservi stata esposta, di averne ricevuto una sensazione di terrore, si unì all'ira per la sua umiliazione di fronte a Pav. Rivolse gli occhi, abissi senza fondo dai quali saliva il fuoco divorante dalla rabbia, sul suo tormentatore. Ma, prima che potesse parlare, Pav la precedette, con voce in cui si udiva una strana nota di sorpresa, assolutamente inconsueta in lui: — Ammetto la tua forza — disse il Re di Romne, — posso conquistare il tuo corpo, ma soltanto togliendogli quella forza che è la tua presenza. Non ho mai conosciuto prima d'ora una creatura mortale la cui volontà sia stata in grado di combattere e resistere alla mia. Questo dimostra che tu sei una degna sposa per Pav di Romne. Ma sebbene possa costringerti a sotto-
stare ai miei voleri, non lo farò. Non desidero nessuna donna, contro la sua volontà. Tu sei una piccola cosa umana, Jirel, e la tua piena forza contro la mia è come il barlume di una candela nel sole... ma in questi ultimi minuti ho imparato a rispettarti. Vuoi venire a patti con me? — Preferirei venire a patti col Diavolo — esalò furiosa lei. — Vuoi lasciarmi andare, o dovrò morire per essere libera? Pav la guardò con espressione cupa. Il sorriso era svanito dalle sue labbra incorniciate dalla barba nera, e una oscura maestà si addensava sui suoi lineamenti. Non ci fu più nessun bagliore rosso nei suoi occhi. Quegli occhi erano adesso neri, di un nero che li faceva sembrare pozzi spalancati sull'abisso dello spazio che separava i mondi... due pozzi aperti sull'infinito. Fissarli provocò a Jirel un'esplicabile sensazione di vertigine. Senza ragione, nel guardare, parte della sua ira svanì. Si rese vagamente conto, per la seconda volta, di stare osservando una cosa inumana. Un brivido di spavento attraversò la barriera d'ira che circondava la sua anima. Una barriera che stava cadendo. E finalmente Pav parlò.. — Non rinuncio alla leggera a ciò che prendo. No, in te c'è una violenza passionale che io desidero, e non mi arrenderò. Ma non ti voglio avere contro la tua volontà. — Dammi una possibilità di fuga, allora — disse Jirel. La sua furia rovente era scomparsa quasi interamente, sotto quello sguardo cupo e misterioso, e al ricordo dell'istante in cui l'inferno stesso era sembrato abbattersi su di lei per ordine di quella straordinaria creatura. Ma in lei non era diminuita neanche di un infinitesimo la decisione assoluta di non cedere. Anzi, era più fortemente decisa a difendersi, dopo aver compreso che i poteri di Pav erano superiori a quelli umani... la cosa che aveva bruciato la sua nuda anima indifesa come in una fornace era troppo terribile, anche nel ricordo, per. non rafforzare la sua risoluzione di non arrendersi, a nessun costo. Disse con voce ferma: — Lasciami cercare, nella tua terra di Romne, la strada che conduce al mio mondo. Se non riuscirò a trovare il passaggio... — Non puoi riuscire. Non esistono passaggi attraverso i quali tu possa andartene. — Sono disarmata — insisté disperatamente, cercando di trovare una scusa per lasciarlo. — Mi hai presa in tuo potere, indifesa e disarmata, e io non mi arrenderò. Non fino a quando tu mi avrai dimostrato di poter essere il mio padrone... e non credo che tu possa farlo. Dammi un'arma e lascia che io faccia la prova! Pav le sorrise come può sorridere un adulto di fronte a un bambino ribel-
le. — Non hai idea di quanto domandi — le disse, — io non sono... — Esitò. — Forse non sono proprio quello che ti sembro. Per quanto tu possa essere abile e intelligente, non potrai prevalere su di me. — Allora lascia che trovi un'arma! — La voce le tremò lievemente per l'ansia di liberarsi di lui, di trovare, in qualche modo, una via di scampo dall'intollerabile oscurità dei suoi occhi, dalla forza della sua presenza. Perché, a ogni istante che passava, durante il quale quei terribili occhi la fissavano, sentiva le sue difese indebolirsi sempre di più: si era resa infine conto che se non se ne fosse andata al più presto il suo corpo si sarebbe inchinato di sua spontanea volontà davanti alla forza e alla grandezza di Pav. Per nascondere il suo terrore, gridò, con voce però appesantita: — Dammi un'arma! Non esiste uomo al mondo che non sia, in una maniera o nell'altra, vulnerabile. Scoprirò la tua debolezza, Pav di Romne, e per mezzo suo ti ucciderò. E se non riuscirò... allora potrai prendermi. Il sorriso abbandonò lentamente le labbra di Pav, incorniciate dalla barba. Rimase immobile e in silenzio, fissandola, e l'insondabile oscurità dei suoi occhi irradiò una forza così bruciante che Jirel dovette abbassare lo sguardo e fissare le rocce che la circondavano, per non cedere del tutto. Infine Pav disse: — Va', allora. Se questo può soddisfarti, cerca qualche mezzo per distruggermi. Ma quando avrai fallito, ricorda... hai promesso di riconoscere in me il tuo signore. — Se fallirò! — Il sollievo allentò la stretta della paura nella gola di Jirel. — Se fallirò! Pav sorrise brevemente ancora una volta, e poi un arcobaleno di particelle impazzite avvolse la sua possente figura, danzando intorno a lui. Jirel guardò, tra lo spavento e l'ammirazione, e vide il suo corpo solido pian piano scomparire nella nebbia, diventare trasparente e allontanarsi come fumo portato dal vento, un vento che non esisteva nell'aria oscura e limpida a un tempo di Romne. Poi ci furono soltanto gli arcobaleni, e poi il turbine di polvere si quietò e Jirel rimase sola. Respirò profondamente di sollievo quando anche l'ultimo arcobaleno fu svanito nel nulla. Era un sollievo paradisiaco non dover sopportare la possente presenza di Pav a ogni istante, non dover lottare in continuazione contro quella forza che affievoliva sempre di più la sua resistenza, e non doversi mantenere pericolosamente vicina al punto di rottura, con tutta la sua energia e il suo potenziale nervoso tesi al massimo.
Abbandonò con lo sguardo il punto in cui era sparito il corpo di Pav, e cominciò a guardarsi intorno, nella terra oscura di Romne, dicendosi risolutamente che se non fosse riuscita a trovare nessuna via di scampo e nessuna arma, la morte stessa allora avrebbe dovuto aprirle la strada della libertà. C'era qualcosa, nella forza di Pav, alla quale la sua natura umana si ribellava con ogni fibra. Nel momento in cui la sua anima nuda aveva fronteggiato l'assalto della furia demoniaca, aveva provato una sensazione del genere: aveva compreso che la sua natura umana non avrebbe mai potuto arrendersi, a costo della vita. L'inferno della cosa che era Pav, bruciante intorno alla sua nuda anima disincarnata, era stato il bruciore di una cosa tanto estranea alla natura umana, tanto demoniaca, che aveva deciso di preferire, se possibile, la morte alla resa. Il corpo di Pav era un corpo umano, ma il suo desiderio... se ne rendeva conto in modo vago e confuso... non era un desiderio semplicemente umano, e Jirel rifuggiva con orrore da ciò che nascondeva dietro agli occhi neri come l'infinito, dietro alla marea di desideri che si agitava sotto la pelle apparentemente umana del suo catturatore. Si guardò intorno, piena d'impotenza. Era in piedi tra le rocce, e il suo abito di velluto toccava terra e s'impigliava negli anfratti. Lontano, distingueva benissimo la linea contorta degli alberi. In mezzo a questi poteva vedere il riflesso dell'acqua nera, e sopra, lontano, dietro allo schermo ondeggiante delle loro cime, sorgevano le cupe montagne. Non c'era il minimo segno della grande sala in cui sorgeva l'immagine incoronata di fuoco. Non c'era nessun segno di vita, da nessuna parte, e si vedevano soltanto le rocce nere, le pianure vuote, gli alberi sui quali nessun uccello cantava. Lei fissava immobile un mondo di grigiore, di tenebra e di silenzio. E di nuovo avvertì quella sensazione di prigionia, datale dall'orizzonte troppo vicino. Era un paese curiosamente piccolo, questo Romne. Lo sentiva per intuizione, sebbene non ci fossero barriere a rinchiuderla, per lo meno barriere visibili. Nell'aria scura e limpida anche le cime lontane delle montagne erano distinte e cupe e nere. Le osservò meditabonda, chiedendosi a quale distanza si trovassero quelle cime. Un'idea disperata si stava facendo strada nella sua mente: se non fosse riuscita a trovare scampo altrimenti, soltanto le montagne avrebbero potuto aprirle la strada verso la morte, verso l'ultima via di scampo che aveva deciso di affrontare in caso di necessità. Avrebbe potuto gettarsi da uno di quei picchi... Non furono lacrime a confondere improvvisamente la vista delle cupe
vette. Jirel guardò, sbalordita. Sì, non c'era possibilità di errore: l'intero panorama di Romne, il paese delle tenebre, stava confondendosi davanti a lei, come una nube di nebbia. Gli alberi neri con il riflesso del lago dietro di loro, lo sfondo roccioso, tutto impallidiva e assumeva un colore fumoso e irreale, mentre attraverso quei contorni ormai confusi, le montagne sorgevano maestose e nere, chiaramente visibili e solenni. Senza comprendere Jirel scoprì di trovarsi in mezzo alle rocce contorte, proprio ai piedi delle montagne che fino a un attimo prima avevano torreggiato ai limiti dell'orizzonte. Pav aveva avuto davvero ragione... Romne era uno strano paese. Che cosa aveva detto... a proposito delle illusioni che vi si potevano trovare? Alzò lo sguardo, cercando di ricordare, e vide le nere montagne incurvarsi al disopra della sua testa. Molto in alto, su un costone sporgente, vide alcune piante secche e di colore grigio coprire la nuda roccia, e le cime di alberi altissimi. Continuò a fissare la montagna più vicina, chiedendosi che cosa poteva trovarsi oltre i confini di quella specie di piattaforma, là dove le piante avrebbero potuto nascondere l'apertura di una caverna, e... Il fianco della montagna divenne di colpo confuso, avvolto da una strana cortina di nebbia. Attraverso la nebbia, dopo qualche secondo, cominciò ad apparire una specie di piattaforma rocciosa, di rovi e coperta di piante rampicanti, e di folti alberi neri. Jirel si trovava proprio sul limitare della piattaforma, in alto, e il pendio della montagna scendeva ripido alle sue spalle. Non avrebbe potuto raggiungere quella strana estensione di terreno in nessun modo, e nessun sentiero era visibile tra quelle impervie montagne. Poté dare un'occhiata dall'alto della sua posizione alla terra oscura di Romne. Si stendeva sotto di lei fino all'orizzonte, in un circolo fatto di pietre e di rocce, di colline prive di colore e di alberi neri, nitidissima nell'aria scura e trasparente. Non si vedevano a perdita d'occhio che alberi, colline e rocce, chiare e distinte fino all'orizzonte nell'oscurità dell'aria che assorbiva ogni traccia di colore. Quel cupo paesaggio non era interrotto da nessun segno di presenza umana. Per quanto Jirel poteva vedere, la grande sala nera senza soffitto, nella quale l'immagine incoronata di fuoco si era levata, avrebbe potuto esistere soltanto nei suoi sogni. Si trovava in una prigione di rocce, ristretta dal circolo limitato del cielo. Un senso di inesplicabile urgenza attrasse allora la sua attenzione, interrompendo bruscamente il suo esame della terra che si stendeva sotto di lei.
Senza comprendere il perché, rispose all'impulso e si voltò. E quando si fu voltata il suo corpo si irrigidì, mentre la mano si fermava accanto al fianco in una futile ricerca di un coltello che non c'era; perché tra gli alberi una figura si stava avvicinando. Era una donna... ma lo era veramente? Bianca cóme la lebbra contro lo sfondo degli alberi, di un biancore che nessun'ombra sfiorava, e che la faceva sembrare una creatura uscita da un altro mondo, il cui pallido riflesso risaltava sullo sfondo della tenebra che tutto circondava. Era magra... mortalmente magra, avvolta in un abito bianco che sembrava un sudario. Avanzava a lenti passi. I capelli neri le scendevano sulle spalle come una pioggia di serpenti. Ma fu il suo volto che colpì Jirel e la fece rabbrividire di gelido terrore. Era il volto stesso della Morte, un teschio sul quale era tesa al massimo la pelle candida. Eppure non si poteva negare che l'apparizione, malgrado il suo aspetto cadaverico, avesse una certa grazia... quelle ossa sporgenti erano finemente modellate, e un fascino allucinante trasudava da quel volto. Non c'era traccia di colorito su quel volto. Con labbra esangui e occhi ombrati la creatura avanzava mentre l'abito bianco si muoveva sinuosamente e i capelli neri seguivano il ritmo del suo passo come serpenti vivi sulle sue spalle bianchissime. E più la... la donna?... si avvicinava, più sembrava distaccata dal mondo nel quale si trovava. Era candida, e soltanto le orbite degli occhi erano in ombra, e appariva completamente distaccata perfino dall'oscurità dell'aria. La purezza di quel candore non poteva venire neppure sfiorata da ciò che si trovava nell'atmosfera tenebrosa di Romne. Mentre si avvicinava, Jirel cercò di vedere gli occhi nascosti, che dovevano essere fissi su di lei, protetti da quei due pozzi d'ombra che erano l'unica traccia di oscurità in quel suo volto candido. Ma se gli occhi c'erano, lei non riuscì a vederli. Le orbite erano piene di oscurità, e non poteva vedere oltre... e così quel volto sembrava cieco e remoto... anzi, non veramente cieco, ma piuttosto astratto, come se i pensieri della creatura vagassero tanto lontano che gli occhi invisibili non avevano nulla da vedere nel paesaggio che lo circondava. La donna si fermò a pochi passi da Jirel e rimase in silenzio, immobile. Jirel ebbe la sensazione che, dietro quelle orbite oscure, là dove la tenebra si stendeva come una tela di ragno, uno sguardo attento e penetrante la stesse analizzando, valutando, dai capelli rossi ai piedi nascosti dall'abito di velluto nero. Finalmente le labbra esangui della creatura si socchiusero e
una voce cavernosa e gelida come una tomba raggiunse le orecchie di Jirel con uno strano suono echeggiante, come se la donna le stesse parlando da una distanza infinita, in una profondissima caverna sotterranea, e la voce fosse portata da migliaia di eoni che rimbalzavano negli abissi di cripte nascoste, sebbene l'aria intorno a lei fosse limpida e vuota. Come il suo candore le dava l'aspetto di un'immagine che si rifletteva da un altro mondo, così pure la voce sembrava giungere da distanze inimmaginabili. E quella voce allucinante disse, lentamente: — E così ecco la compagna scelta da Pav. Una rossa, eh? Rossa come la fiamma che è in lui. E che stai facendo qui, sposa, così lontano dalle braccia del tuo sposo? — Cerco un'arma per ucciderlo! — rispose con calore Jirel. — Non sono una donna che ami essere presa contro la sua volontà, e non ho affatto scelto Pav. Di nuovo dagli abissi delle orbite oscure avvertì quell'intento esame che tanto l'aveva sconvolta la prima volta. Quando la gelida voce tornò a farsi udire, Jirel vi scoprì una nota incredula che suonava evidente anche tra gli occhi cupi e profondi che rimbalzavano di tomba in tomba fino a raggiungere le orecchie della Signora di Joiry. — Sei forse pazza? Non sai che cosa è Pav? Cerchi davvero di distruggerlo? — O lui o me — disse irata Jirel. — So soltanto che non mi arrenderò mai a lui, qualsiasi cosa egli possa essere. — E sei venuta... qui. Perché? Come hai potuto sapere? Come hai potuto osare? — La voce tacque e l'eco mormorò rimbalzando sulla volta di mille caverne e penetrando in sepolcri sotterranei — ... hai potuto osare... hai potuto osare... potuto osare... osare... — Osare che cosa? — domandò a disagio Jirel. — Sono venuta qui perché... perché quando ho fissato le montagne, a un tratto il mondo si è dissolto intorno a me e mi sono... mi sono trovata qui. Questa volta fu del tutto sicura di essere esaminata a lungo, dalla testa ai piedi, e fissava negli occhi come se da lì l'apparizione avesse potuto ricavare i più riposti segreti dell'anima, sebbene i pozzi oscuri delle orbite della donna non rivelassero nulla. Quando si udì nuovamente il suono della sua voce, in essa c'era una strana mescolanza di sollievo e divertimento e selvaggia incredulità che giungeva dagli abissi infiniti, dai mille echi sotterranei.
— È astuzia o ignoranza questa, donna? Può dunque essere che tu non conosca neppure il segreto del paese di Romne, né perché, quando tu guardi le montagne, ti trovi subito qui? Certo neppure tu puoi aver creduto che Romne fosse... così come sembra. Ma hai davvero potuto venire qui sola e disarmata, proprio nelle mie montagne... nella mia dimora... proprio alla mia presenza? Hai detto che cerchi la distruzione? — mormorò la gelida voce, trasformandosi poi in una risata echeggiante dolcemente sulle pareti invisibili di caverne sempre più remote. Quando la donna riprese a parlare, le sue parole risposero all'eco della propria perversa allegria che svaniva lontano. — Come sei riuscita bene nel tuo intento! Qui c'è la morte per te... qui, nelle mie mani! Perché tu dovevi sapere che senza dubbio io ti avrei uccisa! Il cuore di Jirel le balzò in petto. Aveva cercato la morte, ma non la morte per mano di una creatura simile. Esitò cercando le parole, ma la curiosità fu anche più forte del suo istintivo terrore, e dopo un istante si limitò a chiedere, con voce assolutamente ferma e decisa: — Perché? Di nuovo subì il lungo esame da parte degli occhi invisibili. Jirel rabbrividì, subendolo, non osando distogliere lo sguardo da quel volto scheletrico e bianco come lebbra, sebbene quella vista le provocasse lunghi brividi di ripugnanza. Poi le labbra esangui si socchiusero di nuovo e la voce cavernosa e remota raggiunse le sue orecchie da una distanza infinita: — Non riesco quasi a credere che tu non sappia. Certamente Pav deve conoscere abbastanza le donne... perfino quelle come me... per indovinare ciò che accade quando due rivali si incontrano. No, Pav non vedrà più la sua sposa, e la strega bianca sarà ancora la regina. Sei pronta a morire, Jirel di Joiry? Le ultime parole rimasero sospese a lungo nell'aria, rimbalzando nelle infinite profondità dalle quali erano giunte. Lentamente le mani della creatura cadaverica si alzarono, e così pure le braccia, e la lunga veste bianca si allargò fino a formare due grandi ali bianche, e i capelli si mossero sulle sue spalle come disgustosi esseri viventi. Sembrò a Jirel che una luce cominciasse a splendere nelle orbite oscure che nascondevano gli occhi della creatura, e si rese disperatamente conto di non poter sostenere quello sguardo allucinante, neppure gettandosi nel vuoto. Con voce strozzata dal terrore, gridò: — Aspetta! Le braccia che sembravano candide ali esitarono; la luce che si stava ac-
cendendo nelle orbite oscure cessò per un attimo di splendere. Jirel continuò disperatamente: — Non c'è bisogno di uccidermi. Me ne andrei ben volentieri, se conoscessi il sistema per uscire da questo mondo. — No — giunse l'eco spaventosa della voce fredda e remota — ci sarebbe sempre il pericolo che tu costituisci, vivendo e restando in attesa. No, tu devi morire, oppure il mio regno finirà. — Io minaccio il tuo regno o l'amore di Pav, dunque? — domandò Jirel, e le parole le uscirono di bocca velocemente, nel timore che qualche sconosciuta magia potesse fermarla prima che avesse finito. La strega rise amaramente. — Non esiste una cosa chiamata amore — disse, — per esseri come me. — Allora — replicò in fretta Jirel, pervasa da una nuova e febbrile speranza che aveva ormai attraversato il muro di terrore che le ottenebrava la mente, — allora lascia che sia io a uccidere. Lascia che uccida Pav, come avevo progettato, in modo che questo paese rimanga senza re, e tu possa regnarvi da sola. Per un istante spaventoso le braccia della creatura che stava di fronte a lei con un aspetto tanto terribile rimasero sospese a mezz'aria; la luce che si nascondeva nelle sue orbite balenò lievemente. Poi, pian piano, le braccia dischiuse si abbassarono, gli occhi ritornarono a essere due pozzi scuri e impenetrabili. Quel volto scheletrico era di nuovo cieco e fisso su Jirel. E, chissà come, Jirel immaginò che nella mente che si nascondeva dietro quei lineamenti si stava formando un piano ricco di malizia, di calcolo e terribilmente pericoloso per lei. Poté avvertire il sapore del pericolo nell'aria... un pericolo più sottile della aperta minaccia di ucciderla. Eppure quando la strega bianca parlò nuovamente, nella sua voce non ci fu nulla di minaccioso. La voce giunse attraverso la miriade di echi, fredda e tranquilla come se un istante prima non avesse minacciato di ucciderla. — C'è soltanto un modo per distruggere Pav — disse lentamente, — è un sistema che non oso tentare, e che non oserebbe tentare nessuno che non si trovasse già all'ombra della morte. Penso che neppure Pav ne sia al corrente. Se tu... — La voce cavernosa esitò per una frazione di secondo, e Jirel sentì, come l'alito di un vento gelido sul suo volto, la certezza che di fronte a lei si presentava un pericolo più grande, in quell'offerta non ancora espressa, della magia omicida che per poco la strega non aveva messo in atto. La voce gelida continuò, con un pizzico di malizia nel suo cavernoso echeggiare:
— Se tu hai il coraggio di rischiare questo sistema per aprirmi la strada che porta al trono di Romne, puoi andartene, libera. Jirel esitò, tanto era stata forte quella sensazione di pericolo per i suoi sensi allenati ad avvertire anche la minima sfumatura. Non era un'offerta genuina... non era una vera via di scampo. Ne era certissima, sebbene non potesse individuare la trappola che intuiva così chiaramente. Ma sapeva di non avere scelta. — Accetto, di qualsiasi cosa si tratti — disse. — È la mia unica possibilità di ritornare nella mia terra. Qual era la cosa di cui mi stavi parlando? — La... la fiamma — rispose la strega, con una certa esitazione, e Jirel avvertì nuovamente l'esame degli occhi nascosti dalle orbite oscure, come se la donna non si aspettasse di essere creduta. — La fiamma che incorona l'immagine di Pav. Se si riesce a spegnerla, Pav... morirà. — E nel dirlo, stranamente, rise: una piccola esplosione gelida di perverso divertimento. Era qualcosa di simile a un colpo in pieno volto, e Jirel sentì che il sangue le saliva alle gote, come le sarebbe accaduto dopo un vero schiaffo. Perché sentiva che quella maligna allegria era diretta contro di lei, sebbene non riuscisse a capirne il perché. — Ma come? — chiese, cercando di non manifestare il suo stupore e la sua incredulità. — Con la fiamma — disse la strega bianca rapidamente. — Soltanto con la fiamma quella fiamma può essere spenta. Penso che Pav debba aver fatto uso almeno una volta di quelle fiammelle azzurre che danzano nell'aria intorno al tuo corpo. Le hai viste? Jirel annuì, senza parlare. — Sono la manifestazione della tua forza, fatta apparire da lui. Non posso spiegarti la cosa più chiaramente di così. Quando quelle fiammelle si sono mosse, tu devi aver provato una momentanea debolezza. Ma siccome sono essenzialmente una parte della tua violenza umana, qui, in questo paese di Romne, che è più strano e diverso dal tuo di quanto tu possa immaginare, quelle fiammelle hanno la capacità di spegnere la fiamma di Pav. Adesso non puoi comprendere. Ma quando accadrà, allora capirai perché. Io non posso dirtelo. «Devi ingannare Pav, in modo che lui faccia apparire la fiamma azzurra della tua forza, perché lui soltanto può farlo. E poi dovrai concentrare tutte le tue forze sulla fiamma che brucia intorno all'immagine. Una volta che siano apparse, tu puoi controllare le fiammelle azzurre, inviarle contro l'altra fiamma. Devi farlo. Lo farai? Lo farai?»
L'alta figura della strega si protese innanzi con ansia, e il suo volto dalle orbite oscure non riuscì a celare un'ansia divorante. E sebbene avesse spiegato il meccanismo che avrebbe dovuto distruggere la fiamma che teneva in vita Pav con accenti di aperta ironia, come se quell'affermazione non fosse altro che una sprezzante menzogna, la strega aveva parlato dello spegnimento della fiamma con un'intensità che dimostrava al di là di ogni dubbio la sincerità delle sue intenzioni. — Lo farai? — chiese ancora, con voce leggermente tremante, colma di un'incredibile violenza. Jirel osservò quel teschio sul quale la candida pelle era tesa al massimo, piena d'inquietudine. C'era un pericolo che poteva avvertire in maniera quasi tangibile. E chissà per quale oscuro motivo, era costruito intorno alla promessa che la strega cercava di strapparle. Ne era sempre più sicura, irrazionalmente. E in lei scoppiò a un tratto il fuoco della rivolta. Se doveva morire, allora che morisse subito, incontrando la morte faccia a faccia, e non manovrata da un'oscura stregoneria nel tentativo di procurare la distruzione di Pav. Non avrebbe promesso nulla. — No — udì la sua stessa voce rispondere con furia improvvisa. — No, non lo farò! Sul volto cadaverico della strega esplose un'ira travolgente. Era l'ira per la malizia inappagata, non per il piano fallito. La voce cavernosa ridacchiò, tra le labbra socchiuse, ma la strega alzò nuovamente le braccia come candide ali, e una luce infernale apparve tra le ombre delle occhiaie. Per un istante rimase immobile e torreggiante, bianca e terribile, sulla donna della Terra, su quel costolone di roccia, stagliata sullo sfondo degli alberi neri, bianca e incredibile nell'aria oscura di Romne, carica di una minaccia al di là di ogni descrizione, nello sforzo che precedeva l'esecuzione della magia. Poi Jirel, irrigidita dall'orrore provocatole dalla luce spaventevole che trapelava da quelle occhiaie buie, vide che il terrore appariva improvvisamente su quel volto contratto, e spegneva l'ira trasformandola in una gelida marea di terrore mortale. — Pav! — ansimò la voce cavernosa. — Arriva Pav! Jirel si voltò di scatto, e guardò verso l'orizzonte, cercando di scoprire ciò che aveva provocato tanto terrore su quel volto di un bianco lebbroso, e con un lieve ansito di sollievo vide la nera immagine del suo catturatore stagliarsi altissima contro la lontana linea dell'orizzonte. Attraverso l'aria cupa e limpidissima poté distinguere chiaramente l'uomo, con la stessa espressione di superba arroganza sul volto barbuto, e fu attraversata da un
brivido di disperata rivolta. Anche conoscendo i suoi poteri oscuri e terribili, la sua arroganza umana aggiungeva fuoco alla fornace della sua ira, e lei cominciò a bruciare di una rabbia che neppure la paura poteva affievolire, e neppure lo stupore per le incredibili dimensioni dell'apparizione. Perché Pav avanzava tra le cime degli alberi come un colosso, gigantesco, con le spalle che sfioravano il cielo, e attraversava il desolato panorama di quella terra oscura, e si dirigeva verso l'alto dove si trovavano le due donne. Si stava avvicinando a grandi passi, divorando la distanza, e sembrò a Jirel che la sua statura diminuisse con il diminuire dello spazio che li separava. Ora le cime degli alberi raggiungevano il suo fianco come una nera marea. Vide l'ira dipinta sul suo volto, e udì un breve ansito alle sue spalle. Si girò pervasa da un subitaneo terrore, perché ora la strega l'avrebbe uccisa senza ulteriori indugi, prima che Pav potesse avvicinarsi abbastanza da impedirlo. Ma quando si voltò, vide che la pallida creatura cadaverica l'aveva dimenticata nel disperato tentativo di salvare se stessa. E stava elaborando una magia che per un istante fece scordare alla mente di Jirel anche il pericolo che stava correndo, anche il miracoloso intervento di Pav. Si era messa sulla punta dei piedi, e dopo un istante, in un turbine bianco e di neri capelli serpentini, cominciò a girare su se stessa. Dapprima il procedimento fu faticoso, ma dopo qualche istante la sua frenetica rotazione diventò più facile e sempre più rapida, fino a essere eseguita senza sforzo, come se la strega utilizzasse una forza al di là delle possibilità di comprensione di Jirel, come se un gorgo invisibile la facesse girare sempre più veloce all'interno del suo vortice, finché non fu che un'immagine bianca e confusa, un alternarsi di biancore purissimo e di nere ombre, i capelli... finché non fu che una nebbia irreale sullo sfondo degli alberi... e non fu svanita del tutto. Poi, mentre Jirel osservava piena di stupore, un venticello penetrante che sembrava spirare da distanze inimmaginabili, da caverne sotterranee profondissime e inviolabili, le sfiorò lievemente la guancia, senza sollevarle neppure un capello. Non era un vento reale. E dall'aria vuota una mano ossuta la schiaffeggiò sul volto. Una voce incredibilmente debole e lontana cantò all'orecchio di Jirel, da un abisso incommensurabile di nulla: — Questo perché ti ricordi i miei incantesimi, rossa! E se non terrai fede al nostro patto, proverai cosa significhi la mia arte magica. Ricorda! Poi, con un turbine di vento e con un forte rumore di stivali che batteva-
no il suolo, Pav raggiunse Jirel sulla piattaforma rocciosa, e la ragazza vide che la sua altezza era normale, e che lui era nero, alto e bello come sempre, e irradiava forza e arroganza infinite. Pav la fissò con occhi fiammeggianti, occhi che vedevano da una profondità insondabile, e. quello sguardo si posò sul luogo occupato fino a pochi istanti prima dalla nebbia in cui era svanita la strega. Poi rise, con voce piena di disprezzo. — È abbastanza al sicuro... là — disse, — lasciamola stare. Non saresti dovuta venire quassù, Jirel di Joiry. — Io non sono venuta — ribatté lei con indignazione improvvisa e infantile, un'indignazione provocata da tutte le cose che non riusciva a capire, dalla voce insolente, dall'arroganza e dalla forza di lui, dal fatto di dovere a lui la salvezza dalla magia della strega. — Io non sono venuta. La... la montagna è venuta! Io mi sono limitata a guardarla, e improvvisamente era qui, e io... La risata prorompente di Pav la fece arrossire violentemente. — Devi apprendere il segreto della tua terra, di Romne — disse con aria indulgente. — Non segue gli schemi del tuo vecchio mondo. E solo a gradi, man mano che tu acquisterai pratica nelle magie che io ti insegnerò, potrai comprendere appieno la stranezza di Romne. Ora ti sia sufficiente sapere che la distanza, qui, viene misurata secondo un metro diverso da quello cui tu eri abituata. Lo spazio e la materia sono sottomessi al potere della mente, e così, quando tu desideri raggiungere un luogo, devi semplicemente concentrarti su di esso e il luogo apparirà intorno a te, sostituendo l'ambiente nel quale ti trovavi fino all'istante precedente. Fece una pausa, poi proseguì: — Più tardi potrai vedere Romne come è veramente, girare per Romne, il paese delle tenebre. Più tardi, quando tu sarai la mia regina. La vecchia ira soffocò le parole in gola a Jirel, in un ritorno di fiamma. Ma ora non aveva più tanta paura di lui, perché aveva tra le mani un'arma di cui neppure Pav sospettava l'esistenza. Conosceva il suo punto vulnerabile. Gridò, con voce carica di sfida: — Allora mai! Prima ti ucciderò. La risata ironica di Pav rispose a quella minaccia. — Non puoi farlo — le disse, con la sua voce profonda. — Ti ho già detto in precedenza che non esiste modo di uccidermi. Pensi che io possa sbagliarmi, a questo proposito? Gli occhi gialli della ragazza riversarono torrenti di fiamma sul volto irridente di Pav, e la rivelazione premette contro le sue labbra. Fu sul punto
di dirgli tutto, ma riuscì a trattenersi.. Soffocata dall'ira, distolse lo sguardo, per evitare la vista di quel volto ironico e possente. — Hai compiuto la tua ricerca dell'arma capace di uccidermi? — continuò lui, sempre con quel suo tono di sarcasmo misto ad arroganza e a condiscendenza. Jirel esitò per un istante. Doveva riuscire in qualche modo a fare ritornare entrambi in quella misteriosa sala in cui si ergeva la gigantesca immagine. Finalmente parlò, con voce tremante: — Sì. — Allora possiamo ritornare nel mio palazzo, a prepararci per la cerimonia che ti farà diventare la mia regina? La voce profonda faceva ancora vibrare le fibre più riposte del corpo di Jirel quando le montagne e il contorto paesaggio si confusero in una nube di nebbia, una specie di miraggio attraverso il quale, come d'incanto, una fiamma cominciò a splendere. La fiamma che circondava il capo di una statua... un'immagine gigantesca al centro di una grande sala nera le cui pareti senza soffitto si chiudevano intorno a loro con una rapidità che sapeva di magia. Jirel guardò, comprendendo con immenso stupore che senza muovere un passo si era ritrovata, chissà come, all'interno della sala dove si era risvegliata, la prima volta. Una sensazione di malessere la prese al ricordo della sua ferrea determinazione di preferire la morte al ritorno nelle mani di Pav, al centro del suo regno. Ma adesso era armata. Non doveva più avere paura. Si guardò intorno. Nera ed enorme, la cupa immagine torreggiava su di loro. Sollevò gli occhi pieni di rinnovato rispetto sulla fiamma che incoronava il volto che era il volto di Pav. Non capiva che cosa fosse necessario fare adesso, né perché dovesse farlo nel modo spiegatole dalla strega bianca, ma era fermamente risoluta ad agire, piuttosto che adagiarsi supinamente e obbedire alla volontà dell'uomo forte e impetuoso che le stava al fianco. E allora delle mani le strinsero pesantemente le spalle. Jirel si voltò di scatto, con un fruscio di velluto nero, tra le braccia di Pav, che la stringevano forte contro il suo ampio petto. Il suo respiro era caldo sul volto della ragazza, e gli occhi profondi come l'infinito splendevano della luce di mille soli lontani. E proprio come la violenza abbacinante del sole, lo splendore di quegli occhi era insostenibile. Singhiozzò per l'ira, mentre si appoggiava al petto contro il quale le braccia la stringevano, facendo disperatamente forza per svincolarsi da quell'odiato abbraccio. Pav la lasciò andare
senza lottare. Quel gesto subitaneo la fece barcollare per la sorpresa, ma subito dopo Pav le afferrò il polso in una stretta d'acciaio, e lo torse con furia selvaggia. Jirel gemette di dolore e cadde a terra, in ginocchio. Sopra di lei, la voce spaventosa e tonante del re di Romne proruppe in uno scoppio di selvaggia potenza che la scosse fino nel più profondo dell'animo: — Resistimi ancora e... qui accadranno cose troppo spaventose perché la tua mente possa sopportarle, anche se io ti avvertissi prima. Guardati da me, Jirel, perché l'ira di Pav è una cosa terrificante. Non hai trovato armi per vincermi, e ora devi sottostare al patto che tu stessa hai proposto. Sei pronta, Jirel di Joiry? Jirel piegò il capo, in modo che il suo bel volto risultasse celato, e le sue labbra piene si curvarono in un sorriso carico di speranza. — Sì — rispose piano. Poi, all'improvviso, in maniera soprendente, sul suo volto soffiò un vento gelido, che portava l'odore di tombe immerse in insondabili profondità, e le sue orecchie furono raggiunte dalla voce remota, sottile e fredda che ben conosceva, una voce che giungeva da caverne lontanissime e la cui eco rimbalzava attraverso l'infinito per scomparire in un sospiro. — Chiedigli di farti indossare l'abito da sposa. Chiediglielo! Chiediglielo adesso! Nella sua memoria lampeggiò un ricordo fatto di un volto ossuto e bianchissimo, dalle orbite oscure e misteriose, e dalla bocca esangue atteggiata a un sorriso ironico che l'incoraggiava a continuare nell'opera intrapresa. Ma lei non osava disobbedire, perché aveva basato ogni sua speranza sul patto che aveva stretto con la strega. Poteva essere molto pericoloso, ma c'era un rischiò maggiore che l'attendeva in quel luogo e in quel momento,lun pericolo che si nascondeva in agguato nelle insondabili profondità oscure degli occhi di Pav. La voce sottile e remota tacque, e il vento che portava con sé l'odore di mille sepolcri svanì e Jirel udì la sua stessa voce che diceva: — E va bene, allora... va bene, io sono pronta. Ma però... dovrò andare al mio matrimonio senza l'abito da sposa? Il nero, in effetti poco si addice a una sposa. Pav non poteva avere udito quella sottile voce remota che giungeva da un abisso insondabile, perché il suo volto oscuro non mutò d'espressione, e non ci fu la minima traccia di sospetto nei suoi occhi. La stretta ferrea delle sue dita si allentò. Jirel balzò con leggerezza in piedi e rimase immobile davanti a lui, a occhi bassi, senza avere il coraggio di rivelare la gialla
fiamma di trionfo che splendeva sotto le sue ciglia. — Il mio abito nuziale — gli ricordò, conservando un tono pacato. Pav rise, e i suoi occhi cercarono qualcosa nell'aria. Era il gesto di regale potenza più grande che si potesse concepire, quella ricerca sicura nell'aria immobile, la ricerca di qualcosa che si sarebbe materializzato di lì a pochi secondi, semplicemente per mezzo della volontà di quella incredibile creatura. E intorno a Jirel, obbedendo all'ordine lanciato dai profondi occhi di Pav, sprizzarono danzando le fiamme azzurre. Quando le fiammelle si disposero intorno al suo corpo, e Jirel sentì la loro lieve carezza sul suo corpo, fu colta da un'improvvisa debolezza: una debolezza mortale che aumentava di minuto in minuto, come se la vita stessa si fosse riversata in quelle fiamme fredde e azzurrine, abbandonando il suo corpo. Malgrado la debolezza Jirel tuttavia esultò, sapendo quanta fosse la forza che poteva materializzarsi dal suo corpo, una forza capace perfino di spegnere la fiamma di Pav. E c'era davvero bisogno di forza per alimentare quelle fiammelle... di tutta la sua forza. E allora il vento gelido la raggiunse, proveniente da un'incommensurabile teoria di tombe sotterranee, e insieme al suo soffio ghiacciato, di cui poteva sentire il contatto ma che non muoveva neppure un capello della sua chioma, Jirel udì la voce che rimbalzava sulle volte di mille e mille caverne sepolte, la voce della strega bianca. — Dirigile sulla Fiamma... adesso, adesso! Svelta! Ah... stupida! E l'eco spettrale di una risata, una risata gelida e lontana, piena di malizia, giunse da un abisso incommensurabile. Appesantita dalla debolezza, Jirel obbedì. La derisione contenuta in quella voce remota e maliziosa che la incitava fu come un pungolo per la Signora di Joiry, sebbene non riuscisse a farsi ragione di quella assurda e malefica allegria. Avvertì più forte di prima la premonizione del pericolo, ma la ignorò, sapendo che non avrebbe mai più trovato pace in vita sua se non avesse ucciso Pav, qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare. Immerse i denti aguzzi nelle labbra, e il dolore che ne derivò costituì il fulcro intorno al quale radunò tutte le sue forze, concentrandole poi sulla fiamma che splendeva intorno alla grande statua che raffigurava Pav. Non sapeva che cosa sarebbe accaduto, ma nella nebbia della sua debolezza, interrotta dal lancinante dolore alle labbra, lottò con tutte le sue forze per dirigere quelle fiammelle azzurrine che la cullavano come mani carezzevoli contro quel capo incoronato dal fuoco. E dopo qualche tempo, e dopo molti disperati tentativi, le mani carezze-
voli cominciarono a distogliere le loro attenzioni dalle curve flessuose del corpo di Jirel, e si protesero verso la statua. La debolezza intontì Jirel, mentre le sue energie uscivano dal corpo e si riversavano in un torrente di fiammelle azzurre contro la statua che torreggiava oscura e possente. Da una distanza infinita udì la voce profonda di Pav che gridava, in preda a un panico improvviso : — Jirel, Jirel! Oh, piccola stupida, non farlo! Le sembrò che quella fosse la voce di un uomo che temeva non per la sua vita, ma piuttosto per quella della donna amata. Ma ormai non poteva prestare più attenzione a quelle parole. Non c'era più nulla di reale, nulla all'infuori della disperata necessità di spegnere la fiamma che incoronava l'immagine, e riversò anche le sue ultime energie nel torrente azzurrino che stava raggiungendo l'obiettivo cui era destinato. — Jirel, Jirel! — la voce profonda di Pav gridava da molto lontano, al di là della nebbia provocata dalla sua infinita debolezza. — Fermati! Non sai... Un soffio di vento gelido coprì il resto della frase, e poi si udì il sibilo della voce della strega, vicinissima al suo orecchio: — Avanti! — la incitò. — Non ascoltarlo! Non lasciarti fermare da lui! Non può toccarti, mentre le fiammelle azzurre splendono! Avanti! Avanti! E lei continuò. Semisvenuta, ormai capace di distinguere soltanto quell'arco azzurrino che si allungava sempre più, lottò disperatamente. E lo splendore di quell'arco si accentuò, e Jirel riversò anche le più riposte stille di energia, fino a quando le fiamme azzurre non si unirono a quelle rosse, e la corona splendente cominciò a essere oscurata da una specie di nebbia. Da molto lontano, nell'abisso sconfinato della sua debolezza, la voce di Pav la raggiunse, piena di disperazione: — Oh, Jirel, Jirel! Che cosa hai fatto? L'esultanza s'impadronì della ragazza. Il calore della sua ira, la sua ultima riserva di energia, percorse le sue vene. In un'accecante esplosione di forza disperata, Jirel riversò tutta l'energia che ancora le rimaneva contro l'immagine incoronata di fiamma. Trionfante, vide che quella fiamma impallidiva. Ci fu un attimo in cui tutto fu immerso in una penombra crepuscolare; poi improvvisamente la luce si spense e sia le fiamme azzurrine che quelle rosse sparirono entrambe nello spazio di un respiro. La tenebra più assoluta, una cosa incredibilmente reale e materiale, si abbatté su di lei, con la forza di un tuono: era come se il cielo stesso le fosse caduto addosso.
Esaurito lo sforzo, la reazione inevitabile la fece afflosciare del tutto. Udiva lontanissima la voce di Pav, ma non riusciva a distinguere le parole. L'oscurità intorno a lei era pesante, gravosa, e in virtù di chissà quale magia il suo corpo doleva al contatto di quel buio assoluto, come se si fosse trovata nelle profondità marine. In quelle tenebre che la schiacciavano, era difficile anche comprendere che una voce stava gridando. Ma anche malgrado i suoi sensi ottenebrati, si rese conto che in quella voce c'era qualcosa di spaventosamente sbagliato. Con uno sforzo sovrumano riuscì a riacquistare conoscenza; cercò di ascoltare, di distinguere qualche parola. Sì... Pav stava cercando di parlare, di dirle qualcosa che era — lo intuiva inconsciamente — d'infinita importanza. Ma la voce di Pav assomigliava sempre meno a una voce umana, diventava sempre meno articolata, e pian piano cresceva in un rombo impossibile, il rombo della pura energia scatenata. Un uragano, forse, avrebbe potuto parlare con quella voce, o magari una dinamo più potente di quelle mai create dall'intelligenza umana. — Jirel... Jirel... perché hai... — Riuscì a distinguere soltanto questo nello spaventoso rombo di tuono che aumentava a ogni istante e che era la voce stessa dell'infinito. L'oscurità ne era piena... era fatta di quel tuono... una violenza intollerabile contro le sue orecchie... una pressione intollerabile del buio contro il suo corpo martoriato... Attraverso l'abisso urlante un vento sottile e tagliente soffiò, carico dell'odore di mille tombe. Jirel cercò di voltarsi nella direzione da cui spirava, ma scoprì di essere incapace di muoversi, di essere una cosa finita e sofferente in mezzo al fragore di un tuono nero il cui suono le tormentava il cervello, il cui peso schiacciava gli atomi di cui il suo corpo era composto, e in cui la sua personalità si stava spegnendo come la fiammella incerta di una candela. Ma non ci fu bisogno di voltarsi. Ogni direzione aveva cessato di esistere. Il vento sfiorò le sue guance, ma davanti a lei, come attraverso una porta aperta da cui spirava un gelido sentore fatto di nulla, vide una figura candida venire galleggiando in quel mare di tenebra. Una figura priva d'ombre, incredibilmente bianca, invulnerabile contro qualsiasi attacco dell'oscurità incalzante. Anche in mezzo al tuono spaventoso e possente delle tenebre assolute, la voce bassa e sottile della strega la raggiunse, attraverso l'eco di mille e mille caverne; anche nell'oscurità accecante il suo volto scheletrico apparve chiarissimo, con le orbite in cui splendeva però una luce malefica, che giungeva da un abisso senza fondo. E la strega stava ri-
dendo. — Stupida! — rise e rise di una risata maligna e cupa, portata dall'eco di mille caverne sotterranee. — Povera stupida presuntuosa! Hai pensato davvero di poter trattare con noi dei mondi esterni? Hai davvero creduto che Pav... Pav!... potesse morire? No... nel tuo piccolo umano, come avresti potuto immaginare che tutto ciò che vedevi di Romne era illusione, che il corpo umano di Pav non era una cosa reale? Cieca donna terrestre piena di passioni, con i tuoi miseri odi e le tue futili vendette, come avresti potuto regnare, regina, su Romne che è l'Oscurità stessa... come adesso tu la vedi? Perché questa notte ruggente che ti avvolge, senza dimensioni, senza forma, senza luce, primigenia... questa notte è Romne! E Romne è Pav. La terra che tu attraversavi, le montagne e le pianure che vedevi... tutto ciò era Pav, come lo era il corpo umano in cui si era incarnato. E la sua altezza e il suo volto barbuto e arrogante erano Pav come lo erano le rocce e gli alberi e le acque nere di Romne. Pav è Romne, e Romne è Pav... un tutto terribile da cui era stato creato tutto ciò che hai visto. «Sì, trema, e poi, quando avrò finito con te... muori. Perché nessuna cosa umana può vivere a Romne, nel Romne reale. Quando per la tua stupida vendetta hai spento la fiamma che bruciava intorno alla testa dell'immagine, hai segnato il tuo destino. Solo in virtù del potere della fiamma l'illusione della terra di Romne poteva restare stabilmente intorno a te. Soltanto quella fiamma, con la sua luce tangibile, faceva rivestire a Pav e a Romne le sembianze della realtà, a tuo esclusivo beneficio, e impediva al peso delle tenebre di schiacciare la tua anima presuntuosa all'interno di quel fragile e molle involucro di carne che tu chiami corpo. E ora questo avviene solo grazie alla mia voce. Quando smetterò di parlare, quando l'alito delle tombe cesserà di spirare intorno a te... allora morrai.» La voce gelida s'interruppe e scoppiò in una satanica risata, e l'oscurità si addensò intorno a Jirel, e il rombo le straziò il cervello. Era davvero la voce di ciò che era stato Pav? Poi la voce remota e sottile riprese a parlare: — Ma prima di morire, volevo che tu vedessi ciò che hai cercato di uccidere. Volevo che tu vedessi l'Oscurità che è Pav e Romne a un tempo, in maniera netta e chiara, in modo che tu comprendessi qual è veramente il mio amante. E tu pensavi di essermi rivale! Pensi, con il tuo incredibile orgoglio umano, di poter sopportare anche una sola occhiata all'inferno che è... Pav? Con quell'ultima parola il vento cessò di soffiare e la voce rimbalzò in mille echi sulle volte invisibili delle caverne sotterranee, passando di tom-
ba in tomba, e nell'oscurità, tenebra unita a tenebra, senza servirsi dei sensi umani, vista, udito o tatto, ma pure con orribile chiarezza, Jirel vide. Vide l'Oscurità. Era terribile, al di là dei poteri della comprensione umana, impossibile a sopportarsi per più del fugace istante durante il quale Jirel vide. Un'Oscurità tonante il cui rombo era più violento di qualsiasi suono. Quell'inferno era troppo rovente per essere sopportato Gli occhi di Pav, sotto forma umana, avevano lampeggiato come soli neri, in maniera intollerabile, ma era stato soltanto un riflesso di quell'infinito potere. Questa Oscurità era lo splendore incarnato, e la mente di Jirel tremò e si contorse in fremiti di agonia di fronte a essa. Pensò di non poterne sostenere la vista... pensò di non potere neppure esistere vicino a un'oscurità così atrocemente bruciante, e tuttavia non riusciva a chiudere gli occhi per evitare la visione, perché non erano gli occhi che le permettevano di vedere. Nell'attimo durante il quale Jirel vide... senza servirsi dei sensi, consapevole della spaventosa vicinanza di quell'inferno più atroce di ogni incubo... una vibrazione della grande Cosa che era al di là di ogni forma, grandezza e materia, attraversò ogni sua fibra con un calore troppo enorme per sfiorarle la pelle, ma che minacciò di annullare in un gorgo allucinante la sua anima. E in modo vago e confuso la sua mente ricevette ciò che la vibrazione tentava di dirle. — Mi dispiace... ti avrei amata... avrei potuto amarti... ma adesso va'... va' subito, prima che tu muoia... E in maniera inesplicabile, lasciando la sua mente allucinata di fronte all'immensa potenza che l'aveva sfiorata, quella forza infinita ora pretendeva l'obbedienza anche da quell'incredibile Oscurità. Perché l'Oscurità era Romne, e Romne era Pav, e l'ordine corse come un lampo di luce nera ovunque, e la gettò fuori da quel cupo inferno in un'esplosione di tenebra accecante. Istantaneamente, abbagliante nello scoppio di quella forza tonante, l'oscurità cessò di avvolgerla. La luce splendette intorno a lei, facendole chiudere gli occhi martoriati. Fu trascinata da forze così potenti che proprio la loro immensità le evitò di essere distrutta, come un insetto può passare indenne attraverso a un uragano. L'infinito roteava vorticosamente intorno a lei, sempre più in fretta, e... I ciottoli erano freddi e duri sotto ai suoi piedi nudi. Socchiuse gli occhi, incerta. Le pareti della cappella di Joiry sorgevano intorno a lei, nel loro
grigiore, familiari nella fioca luce dell'alba. Jirel rimase immobile, in piedi, vestita della sua tunica di pelle di antilope, coi ciottoli che premevano sotto i suoi talloni nudi, e respirò profondamente, guardandosi intorno con occhi incerti che indugiarono come amorevoli carezze sulle cose familiari della sua terra. HELLSGARDE Hellsgarde Weird Tales, aprile 1939 Jirel di Joiry tirò le redini sul limitare della collina e rimase a lungo in silenzio, guardandosi intorno con estrema attenzione. Così, questo era Hellsgarde. Lo aveva visto molte volte con gli occhi della fantasia, come lo vedeva ora dall'alto della collina, nella luce gialla del tramonto che trasformava ogni specchio di palude in uno splendore abbagliante. La lunga strada sopraelevata, che portava al castello, si stendeva tra paludi e canneti fino alla cupa e munita fortezza che sorgeva solitaria tra le sabbie mobili. Quello stesso castello circondato dalle paludi, visto al crepuscolo dall'alta vetta della collina, aveva occupato i suoi sogni per notti e notti. — Lo troverai soltanto al tramonto, mia signora — le aveva detto Guy di Garlot con un sorriso obliquo, — paludi e lande selvagge lo circondano, e c'è magia negli acquitrini intorno a Hellsgarde. Magia... e cose peggiori, se le leggende dicono il vero. Non riuscirai mai ad arrivarci, se non a sera. In sella al suo cavallo, in vetta alla collina, ricordò l'ironia evidente negli occhi neri dell'uomo, e imprecò sottovoce. C'era tanto silenzio in quel mondo immerso nella pace della sera, che non osava parlare a voce alta. Non osava? Non si trattava di un silenzio naturale. Non era interrotto dal canto degli uccelli, e non si udiva il fruscìo di una foglia. Si strinse lievemente nelle spalle, sotto alla tunica che indossava, e spinse il cavallo lungo la discesa. Guy di Garlot... Guy di Garlot! Gli zoccoli batterono al tempo di questo ritornello per tutta la discesa. Guy con i suoi sorrisi obliqui e i suoi occhi neri e infidi e la sua innaturale bellezza... innaturale perché Guy, interiormente, era brutto come il peccato. Non sembrava un disegno del buon Dio il fatto che l'animo corrotto di Guy fosse celato da un aspetto fisico così avvenente.
Il cavallo esitò all'inizio del sentiero che si stendeva tra le paludi in direzione di Hellsgarde. Jirel scosse impazientemente le redini e sorrise all'animale. — Sono riluttante quanto te — gli disse, — anch'io sono spinta dal pungolo degli speroni, mio caro. Ma devo andare, e tu con me. — E maledì ancora Guy, in un mormorio soffocato, mentre gli zoccoli del cavallo si facevano udire sul sentiero che portava al castello. Hellsgarde torreggiava più avanti, alto e oscuro contro il trionfo dei colori del crepuscolo. Intorno a Jirel si stendeva il mare giallo della luce della sera, nel cielo e nelle paludi dalle insidiosissime sabbie mobili. La donna si chiese chi fosse stato a percorrere quella strada abbandonata per l'ultima volta, quale cavaliere vi avesse galoppato nel giallo lucore del tramonto, e quale fosse stata la necessità che lo aveva spinto a tentare in quel modo la sorte. Perché nessuno cercava Hellsgarde per semplice divertimento. Era stato il bieco sorriso di Guy di Garlot che aveva spinto quella sera attraverso le insidiose paludi Jirel di Joiry... Guy, e il fatto di sapere che un manipolo dei suoi migliori uomini d'arme giacevano tremando nelle sue umide segrete, senza nessuna speranza di sopravvivere, a meno che la loro signora non fosse riuscita a riscattare in qualche modo la loro vita. E nessuna ricchezza poteva tentare Guy il Nero... neppure la bellezza di Jirel o il sorriso delle sue labbra piene. E il Castello di Garlot, maestoso sulla vetta della montagna che lo ospitava, era imprendibile, e avrebbe potuto resistere ai piani d'attacco più elaborati. Soltanto una cosa avrebbe potuto tentare il nero signore di Garlot, e si trattava di una cosa senza nome. — Si trova a Hellsgarde, mia signora — le aveva detto con quella sua odiosa gentilezza la cui falsità era dimostrata dal crudele sorriso che gli piegava le labbra, — e quel posto si trova invero sotto la protezione delle forze d'Averno. Andred di Hellsgarde è morto difendendolo più di duecento anni or sono, e io l'ho desiderato per tutta la vita, mia signora. Ma la vita mi è cara! Non oserei avventurarmi a Hellsgarde neppure per tutte le ricchezze della Cristianità! Se vorrai riavere i tuoi uomini sani e salvi, portami il tesoro per la cui salvezza è morto Andred. — Ma di che si tratta, vigliacco? Guy si era stretto nelle spalle. — Chi lo sa? Oggi nessuno può dire da dove è venuto, né di che si tratta. Tu conosci come me la leggenda, mia signora. Andred lo teneva chiuso in uno scrigno di cuoio che si apriva con una chiave di ferro. Quindi, deve
trattarsi di una cosa molto piccola... ma molto preziosa. Tanto preziosa che è morto per difenderla, alla fine... e io invece non desidero morire, mia signora! Tu me lo procurerai, e sarà questo il prezzo di venti vite. Jirel lo aveva chiamato codardo, ma, alla fine, aveva deciso di andare. Perché, dopotutto, lei era Joiry. I suoi uomini erano cose sue, che lei poteva comandare e minacciare e spaventare, ma per cui doveva anche morire, se necessario. Aveva paura, ma il ricordo dei suoi uomini chiusi nelle segrete di Garlot, con la minaccia di atroci torture e di un'orrida morte, l'aveva spinta ad andare. La via che portava al castello era interminabile. Il crepuscolo stava già stemperandosi in una tavolozza di colori più cupi negli specchi variopinti delle mortali paludi, e così Jirel poté alzare gli occhi sul castello senza venire accecata dal torrente di fuoco che il sole riversava nel cielo. Dalle acque stagnanti aveva cominciato ad alzarsi la nebbia, e l'odore che giungeva dai miasmi era terribilmente sgradevole. Hellsgarde... Hellsgarde e Andred. Jirel non voleva ricordare quell'orribile, antica leggenda, ma quella sera era incapace di pensare ad altro. Andred era stato un uomo grosso e violento, passionale e caparbio e crudele. Gli uomini l'avevano odiato, ma quando il racconto della sua morte si era sparso per il mondo, anche i nemici più acerrimi avevano provato compassione per Andred di Hellsgarde. Perché la notizia del tesoro aveva condotto infine sotto le mura di Hellsgarde un gruppo di assedianti che Andred non era stato capace di sopraffare. Le difese di Hellsgarde erano cadute, e i nobili predoni che si erano impadroniti del castello avevano cercato a lungo e invano il prezioso cofanetto che Andred aveva posseduto. La tortura non era riuscita a farlo parlare, sebbene i predoni avessero cercato in tutti i modi di convincerlo a rivelare la verità. Andred era stato un uomo potente, cocciuto e coraggioso. Aveva sopportato a lungo le torture, ma non aveva tradito il segreto del nascondiglio del suo tesoro. Alla fine i predoni lo avevano fatto a pezzi, e avevano gettato le membra del suo corpo nelle paludi, e se ne erano andati a mani vuote. Nessuno aveva mai trovato il tesoro di Andred. Da allora, Hellsgarde era rimasto vuoto per duecento anni. Si trattava di un luogo tetro, pieno di nebbia e di febbri delle paludi, e Andred non riposava in pace nelle sabbie mobili dove i suoi uccisori lo avevano gettato. Con il corpo a pezzi e disseminato nelle paludi, non riposava sereno, nel suo eterno sonno. Aveva portato per il suo misterioso te-
soro un amore più forte della morte, e la leggenda diceva che vagava per Hellsgarde deciso a difenderlo nella morte come aveva fatto in vita. Nel corso di quei duecento anni, molti cercatori erano andati a esplorare i vuoti saloni di Hellsgarde alla ricerca del cofanetto ... erano andati in quella landa macabra, e là erano svaniti. C'era magia nelle paludi, e un essere umano poteva raggiungere quel luogo soltanto al tramonto, e dopo il tramonto il battagliero fantasma di Andred usciva dalle sabbie mobili per sorvegliare il tesoro che aveva difeso a costo della vita. E per molte generazioni nessuno aveva avuto più il coraggio di percorrere la strada su cui Jirel stava ora galoppando.. Stava avvicinandosi al pesante portone del castello. Davanti c'era un'ampia piattaforma, subito dopo il luogo in cui il ponte levatoio di Andred aveva un tempo impedito l'accesso a Hellsgarde. Da molto tempo l'avallamento che interrompeva la strada che portava al castello era stato riempito con pietrisco dai cercatori del tesoro, i quali in questo modo avevano potuto raggiungere il castello a cavallo, e Jirel aveva pensato di passare la notte su quella piattaforma, che sorgeva proprio sotto all'arcata del portone, per potere essere pronta all'alba a iniziare le sue ricerche. Ma... la bruma tra lei e il castello si era fatta più fitta e forse i suoi occhi la ingannavano... ma quelle non erano forse le sagome di uomini allineati in una doppia fila davanti all'ingresso di Hellsgarde? Hellsgarde, che per duecento anni era rimasto disabitato e percorso dai fantasmi? Socchiudendo gli occhi, cercando di vedere meglio in quel paesaggio irreale, confuso dagli ultimi bagliori del sole e dall'infittirsi della bruma, Jirel spinse il cavallo al galoppo verso il portone del castello. Poteva sentire il tremito del quadrupede, sotto di lei, e la povera bestia a ogni passo diventava sempre più riluttante. Jirel strinse i denti e costrinse l'animale a procedere, e in questo modo la ragazza soffocò il terrore che l'aveva presa a sua volta. Si trattava davvero di sagome umane: due file di uomini, che attendevano immobili di fronte al portone. Ma anche attraverso la nebbia e i barbagli del sole, Jirel poté accorgersi che c'era qualcosa che non andava. Erano troppo immobili... fissi in una rigidità inumana. E il cavallo si impennava sotto di lei, tanto che Jirel riuscì a farlo procedere con estrema fatica. Vide cos'era che non andava quando fu vicinissima, sebbene si rendesse conto che lo spavento provocato da quelle figure immobili aumentava a dismisura. Ma ormai li aveva quasi raggiunti, quando si rese conto dell'origine di quel terrore. Erano tutti morti. Il capitano, che si trovava davanti a loro, era in piedi sostenuto dalla
grande alabarda che gli trapassava la gola e gli fuoriusciva dalla nuca, con il capo in avanti e la mascella che poggiava sulla stessa asta che lo aveva traffitto a morte. E così erano tutti gli altri, allineati dietro di lui in duplice fila, infilzati dalle alabarde che avevano loro squarciato il cuore, la gola o lo stomaco, e che li sostenevano come marionette, dando loro di lontano le sembianze della vita. E così quella compagnia di cadaveri montava la guardia alle porte di Hellsgarde. Non era fuori luogo... i morti montavano la guardia a un castello morto, nella mortale terra proibita delle paludi. Jirel rimase immobile, in sella al suo destriero, e fissò la compagnia dei cadaveri in un silenzio allucinato, mentre il sudore le imperlava là fronte e le inumidiva le mani. Per quanto ne sapeva, nessun'altra creatura vivente aveva percorso la strada che conduceva a Hellsgarde da molti decenni; senza dubbio, nessun vivo aveva abitato in quelle torri, da generazioni e generazioni. Eppure... davanti a lei c'erano quei cadaveri infilzati dalle alabarde che li avevano uccisi, ma che impedivano loro di cadere. Perché?... Come?... Quando?... La morte non era una cosa nuova, per Jirel. Lei stessa aveva ucciso troppi uomini per temerla. Ma la presenza inattesa e spaventosa di quelle guardie morte! Una cosa era armarsi di coraggio e penetrare in un edificio abbandonato e in rovina, un'altra era affrontare una doppia fila di cadaveri ritti in piedi, il cui sangue scorreva ancora in cupi rivoletti, umido, sulle pietre ai loro piedi. Ancora umido... allora erano morti quel giorno. Quel giorno, mentre lei percorreva imprecando la landa selvaggia, qualcosa li aveva uccisi, qualcuno aveva pensato a una beffa mortale, lasciandoli in piedi, sostenuti dalle alabarde, cadaveri con il volto fisso sulla via da cui la donna sarebbe giunta al tramonto. Quella cosa che li aveva uccisi, aveva forse aspettato l'arrivo della ragazza? Andred, seppure defunto, aveva forse saputo...? Con un rapido gesto, rientrò in sé, e si strinse nelle spalle, stringendo le dita sul pomo della sella, e deglutì. (Ricorda i tuoi uomini... ricorda Guy di Garlot... ricorda che tu sei Joiry!) Il ricordo di Guy, del suo volto gentile e perverso, pieno d'ironia, la fece decidere. Mormorò qualcosa tra i denti. Quegli uomini erano morti... non potevano, in ogni caso, sbarrarle la strada... C'era stato un movimento tra le guardie morte? Il cuore le balzò in petto; Jirel strinse forte le ginocchia, un gesto istintivo che fece rabbrividire il
cavallo. Sì, un uomo che si era trovato nella fila davanti a lei stava silenziosamente scivolando verso il selciato. L'impugnatura dell'alabarda era forse slittata sulle pietre bagnate di sangue? Il vento aveva forse rotto il precario equilibrio in cui si manteneva il cadavere? Non c'era vento. Ma con uno strano, breve sospiro provocato dai polmoni trafitti, l'uomo si piegò senza rumore in avanti, cadde in ginocchio, di fianco, bocconi sul selciato. E quando fu immobile un rivoletto di sangue uscì dalla sua bocca e cominciò a scorrere tra i ciottoli. Jirel rimase immobile, gelata dalla paura. Era un incubo. Solo negli incubi accadevano cose simili. Quel silenzio insopportabile nel crepuscolo che moriva, senza vento, senza il minimo movimento, senza il minimo suono. Neppure un fruscio delle acque che si stendevano come specchi dappertutto, intorno a lei, oltre il bordo della strada. La luce scompariva da quelle acque. Il cielo e le acque impallidivano pian piano, come se la vita stessa si ritirasse, intorno a Jirel, lasciandola sola sul cavallo tremante di fronte a quei cadaveri e al castello morto. Non osava quasi muoversi, nel timore che il tonfo degli zoccoli del quadrupede potesse rompere il precario equilibrio di un altro cadavere. E fu sicura di non poter sopportare ancora la vista di un movimento in quella doppia fila di cadaveri immobili. Non avrebbe potuto sopportarlo, no; eppure se qualcosa non avesse rotto al più presto l'incantesimo le grida che le premevano contro la gola secca e bruciante avrebbero infranto ogni barriera, e lei non avrebbe più cessato di urlare. Un rumore stridente si udì dietro le guardie morte. Il cuore della ragazza si fermò di colpo. E poi il sangue cominciò a tuonare nelle vene e il cuore cominciò a battere impetuosamente e sembrò che qualcosa dovesse schiantarsi nel suo petto. Perché, oltre i cadaveri, il grande portone di Hellsgarde si stava aprendo. Jirel strinse le ginocchia contro la sella, fino a quando i fianchi non cominciarono a dolere, e sul pomo le sue dita serrate erano bianche come l'avorio. Non cercò neppure di raggiungere l'elsa della grande spada che le pendeva al fianco. A che cosa poteva servire una spada, contro dei cadaveri? Ma non fu certo un cadavere a guardare fuori dal vano del portone aperto, curvo e rivestito da una tunica purpurea illuminata dalle luci che giungevano dall'interno del castello. C'era qualcosa di strano nel volto pallido e magro che la fissava al di là della doppia fila di cadaveri. Dopo un istante Jirel comprese di cosa si trattava... aveva il volto di un gobbo, ma non c'era nessuna deformità nelle sue spalle. Era un po' curvo, come se fosse preda
di una grande debolezza, ma non era gobbo. Eppure era proprio il volto di uno storpio, senza possibilità di errore. La sua schiena era normale, ma poteva dirsi lo stesso dell'anima? Il buon Dio avrebbe mai impresso il marchio della deformità sul volto di un uomo senza la minima ragione? Ma era umano... era reale. Jirel emise un profondo sospiro. — Buonasera a te, mia signora — disse il gobbo, (ma non era gobbo, doveva ricordarlo!) con la voce piana e ingraziante degli esseri deformi. — Questi... non l'hanno trovata affatto buona — ribatté brevemente Jirel, indicando i cadaveri. L'uomo sorrise. — È uno scherzo del mio padrone — disse. Jirel guardò di nuovo i cadaveri, e il cuore diminuì un poco i suoi battiti tumultuosi. Sì, qualcuno avrebbe potuto trovare una specie di macabro umorismo nella presenza di simili guardie davanti alla porta del suo castello. Se un essere vivente aveva fatto una cosa del genere, per una ragione comprensibile, allora spariva il terrore dell'ignoto. Ma quell'uomo... — Il tuo padrone? — ripeté Jirel. — Il mio signore Alaric di Hellsgarde... non lo sapevi? — Che cosa dovevo sapere? — domandò stancamente Jirel. Cominciava a detestare l'untuosità di quell'individuo infido. — Ebbene, che la famiglia del mio padrone ha preso residenza qui dopo molte generazioni. — Sir Alaric è un discendente di Andred? — Sì. Jirel si strinse nelle spalle, o meglio, fece mentalmente l'equivalente del gesto. Era una grazia del Signore sentire che il terrore dell'ignoto la stava lasciando, ma questo avrebbe complicato le cose. Non aveva mai sentito dire che Andred aveva lasciato dei discendenti, anche se la cosa era possibilissima. E se adesso vivevano in quel castello, allora sicuramente dovevano già avere rovistato tutti i saloni da cima a fondo alla ricerca del tesoro senza nome per cui Andred era morto e a cui ancora non aveva rinunciato, se le leggende popolari dicevano il vero. Quei discendenti avevano già trovato il tesoro? C'era un solo sistema per scoprirlo. — La notte mi ha sorpresa nelle paludi — disse con tutta la cortesia che riuscì a simulare. — Vorrà il tuo padrone offrirmi asilo fino a domattina? Gli occhi del gobbo... (ma non era gobbo, doveva smetterla di crederlo!)....i suoi occhi scivolarono molto rapidamente, ma con estrema attenzione, dal suo volto abbronzato e dalle labbra rosse al corpo formoso e dal-
le curve morbide messe bene in evidenza dall'aderente tunica di maglia di ferro, indugiando sulle ginocchia ben modellate e abbronzate e scoperte, terminando con le gambe ben tornite che indossavano i gambali d'acciaio. Quando parlò di nuovo la sua voce fu, se possibile, ancora più untuosa di quanto non lo fosse stata prima. — Il mio padrone ti accoglierà con gioia, signora. Entra. Jirel premette lievemente le ginocchia e incitò il cavallo, e la bestia ansimante e tremante passò nel varco tra le due file di cadaveri lasciato dal soldato caduto a terra. L'animale era abituato alla battaglia, e i cadaveri non gli erano nuovi; eppure rabbrividì violentemente, passando in mezzo a quell'allucinante compagnia. Il cortile interno era illuminato dalla luce di un grande falò che sorgeva proprio al centro. Intorno al fuoco un gruppo di rozzi individui che indossavano giustacuori di cuoio seguì con viva curiosità il suo ingresso. — Wat, Piers... avanti, uomini! — ordinò l'uomo dal volto da gobbo. — Prendete il cavallo della mia signora. Jirel esitò un istante, prima di smontare di sella, con gli occhi fissi sui volti che la circondavano, e con il cuore in preda ai dubbi. Fu sicura di non aver mai visto individui così brutali, e si domandò quale fosse il signore che aveva il coraggio di servirsi di loro. Neppure gli uomini di Jirel erano campioni di raffinatezza: erano gente dura, privi di scrupoli e di paura, ma per lo meno, erano uomini. Quella feccia intorno al fuoco era assolutamente bestiale; se l'ira o la cupidigia si fosse impadronita dei loro cuori, nessuna creatura al mondo sarebbe stata capace di fermarli. Si domandò quali terribili castighi minacciasse Sir Alaric per tenerli a freno, che razza di uomo fosse per assoldare le sue guardie tra gli autentici rifiuti della razza umana. I due che presero in custodia il suo cavallo la guardarono con gli occhi seminascosti dalle sopracciglia cispose. Jirel li gratificò di un'occhiata omicida, e si voltò per seguire il mantello purpureo della sua guida. Gli occhi di Jirel non perdevano il minimo particolare dell'ambiente che la circondava. Hellsgarde era stata una solida fortezza ai tempi di Andred; sotto Alaric era ben munita, ma le sembrò di avvertire un'atmosfera cupa e strana che aleggiava ovunque. Seguì la sua guida e attraversò il cortile, percorse un breve passaggio e passò al disotto di un'arcata che introduceva in un'ampia sala. Le ombre di duecento anni di fantasmi aleggiavano sotto l'alto soffitto. Faceva freddo, e l'umidità penetrava ovunque, giungendo dalle mefitiche
paludi che coprivano il terreno, all'esterno, e sembrava di respirare la polvere di due secoli di spaventose leggende e di un'orrenda tradizione di morte. Ma Alaric, davanti al fuoco, vestito della sua tunica scarlatta, sembrava del tutto a suo agio. Il grande fuoco che ruggiva nel camino, alimentato da ceppi enormi, ricacciava indietro il gelo e l'oscurità e l'umidità, lasciando un semicerchio simile a un'oasi calda in un mare di paura, e in questo semicerchio sedeva in silenzio un gruppo di persone dagli abiti vistosi, e tutti fissavano Jirel e la sua guida che percorrevano l'ampia sala, avvicinandosi. Era una scena piacevole, calda e luminosa e ricca di colori, ma anche da una certa distanza, si notava che c'era qualcosa che non andava... nell'atteggiamento di quelle persone, nell'espressione dei loro volti. Jirel si chiese, in un momento di dubbio pazzesco, se tutto questo era o meno reale. Stava davvero camminando all'interno di un castello disabitato da duecento anni? Quella gente era fatta di carne e di sangue, o si trattava semplicemente di vivide immagini create dalla sua immaginazione, per sovvenire al suo disperato bisogno di compagnia nella solitudine terrificante delle paludi? Ma no, non c'era alcunché d'illusorio in Alaric, seduto sulla sedia dall'alto schienale, col pallido volto ovale che non perdeva uno solo dei movimenti della ragazza. Un nano deforme guardava al disopra della spalla di Alaric, con le dita vicine alle corde del liuto che stringeva. Accanto al fuoco, su cuscini o su bassi panchetti sedevano alcune donne e ragazze, due ragazzi vestiti d'azzurro, e due levrieri i cui occhi riflettevano le fiamme del fuoco... e questa era tutta la compagnia. Gli occhi gialli di Jirel si strinsero e valutarono quel gruppo di persone. La ragazza attraversò la sala con passo sicuro. Sapeva che il suo corpo flessuoso, con l'aderente tunica che le giungeva molto sopra il ginocchio, e che metteva bene in evidenza le sue curve, era una visione su cui gli occhi di qualsiasi uomo si dovevano per forza soffermare. Le sue gambe nude, all'infuori dei gambali, la sua andatura fiera, la spada che le pendeva al fianco, la fiamma che le splendeva negli occhi... Alaric notò tutto questo. Deliberatamente, Jirel gettò il mantello nero che indossava dietro le spalle, lasciando che la luce del focolare giocasse sul suo magnifico corpo rivestito dalla maglia di ferro, e traesse rapidi barbagli dai gambali metallici. Non aveva mai amato rimandare l'inevitabile. Che Alaric vedesse al primo sguardo quale magnifica creatura era la signora di Joiry. E in quanto alle donne che stavano ai suoi piedi... ebbene, che lo sapessero anche loro.
Si fermò maestosa davanti ad Alaric, posando casualmente la mano sull'elsa della spada, ricacciando indietro il mantello che le era ricaduto davanti quando si era fermata. Il volto dell'uomo, seminascosto nell'ombra della sedia dall'alto schienale, si alzò su di lei. Quell'uomo non era lo stolido bruto che Jirel quasi si aspettava di trovare, dopo aver visto i suoi rozzi armigeri. Era di mezza età, e la vita aveva lasciato molti segni sul suo volto; aveva il naso aquilino e la bocca era una stretta fessura. E nei suoi lineamenti c'era qualcosa che non andava, uno strano aspetto che lo rendeva simile, in maniera inesplicabile eppure evidente, al cortigiano dalla tunica purpurea che si trovava alle spalle di Jirel, al buffone sogghignante il cui volto spuntava dietro allo schienale della sedia. Con un tuffo al cuore, Jirel capì di che cosa si trattava. Non si trattava di una somiglianza fisica tra padrone e servitori, in nessun lineamento, ma l'ombra della deformità era evidente sui tre volti nella stessa misura, sebbene soltanto il gobbo la portasse sinceramente. Guardando quei volti, si sarebbe potuto giurare che i tre uomini percorrevano zoppicando il sentiero della vita, sotto il peso della deformità che li puniva. Forse, pensò involontariamente Jirel, con un brivido quasi impercettibile, il padrone e il cortigiano, come pure il buffone, portavano davvero un peso, e se questa idea era esatta, la ragazza preferiva di gran lunga il peso sopportato dal buffone a quello sopportato dagli altri due uomini. Per lo meno, il buffone portava un peso evidente, fatto di carne. Ma quello dei due uomini doveva essere spirituale, perché, certamente, pensò di nuovo Jirel, Dio nella Sua saggezza non poteva senza ragione aver segnato il volto di uomini sani e normali con l'impronta inequivocabile della deformità. Gli occhi che sostenevano lo sguardo di Jirel lasciavano trasparire una deformità dell'anima. E siccome il pensiero la spaventava, la ragazza scosse le spalle per liberarsi dalla cappa, e gratificò l'uomo di un sorriso più sicuro e fiducioso di quanto si sentisse veramente. — Non devi amare troppo la compagnia degli stranieri, Sir Alaric... fuori della tua porta tieni un corpo di guardia davvero scoraggiante! Alaric non sorrise. — Gli onesti viaggiatori sono i benvenuti, qui — rispose con voce uniforme, — ma i prossimi predoni che percorreranno la nostra strada ci penseranno due volte prima di attaccare il portone. Non abbiamo patiboli ai quali appendere i ladri, ma penso che le guardie che si trovano davanti al mio castello saranno un avvertimento sufficiente per i prossimi predoni
che verranno. — Una forma di avvertimento assai sinistra — disse Jirel. E poi, con cortesia ben simulata. — Io sono Jirel di Joiry. Ho perduto la strada tra le paludi, stasera... ti sarò molto grata per l'ospitalità che vorrai concedermi. — E noi per la tua presenza, Signora Jirel. La voce di Alaric era gentile, ma gli occhi la scrutavano apertamente. Jirel sentì che altri occhi la esaminavano, alle sue spalle, e i capelli rossi furono percorsi da una elettricità istintiva, dovuta al disagio che quel tetro castello le provocava. — La corte di Hellsgarde non è molto numerosa — continuò Alaric. — Damara, Ettard, Isoud, Morgaine... tutte voi, salutate la nostra ospite, e che sia la benvenuta! Jirel si voltò di scatto, e il suo lungo mantello svolazzò intorno a lei; osservò le donne, chiedendosi per quale motivo Alaric aveva offeso la loro dignità, non curandosi di presentarle separatamente. Le sembrò che si fossero irrigidite, seppur lievemente, sulle basse panche accanto al fuoco; alzarono su di lei gli occhi, con uno strano effetto, come se il loro sguardo fosse stato pieno di paura: uno sguardo lanciato da occhi dalle ciglia semiabbassate. Era davvero strana questa sua sensazione, perché lo sguardo delle donne fu fermo e deciso. E anche sui loro volti era evidente quell'indefinibile espressione di deformità, che non era marcata come negli uomini, ma ugualmente visibile alla luce delle fiamme. Erano tutte creature esili dai grandi occhi le cui iridi erano circondate da un biancore troppo vasto e anormale. Gli zigomi sporgevano con uno strano effetto, nella luce ondeggiante del fuoco, e le fiamme gettavano su quei volti ombre inesplicabili e terrificanti. La donna che si era alzata quando Alaric aveva detto «Damara» era alta come Jirel, e sotto l'attillata veste verde si notava un fisico robusto; ma anche sul suo volto c'era quello strano gioco d'ombre, e il bianco dei suoi occhi era troppo grande, troppo strano. Disse con voce controllata: — Siediti accanto al fuoco e riscaldati, signora. Ceneremo tra pochi minuti. Jirel sedette sullo sgabello sormontato da cuscini, che la donna le aveva allungato, tenendosi pronta a balzare in piedi, lasciando libero il fianco cui era appesa la spada e la mano che avrebbe dovuto estrarla nel minore tempo possibile, in caso di pericolo. C'era qualcosa di terribilmente sbagliato, là dentro. Poteva sentirlo nell'aria. I due cani ringhiarono piano e si allontanarono da lei, scegliendosi un'altra posizione sul pavimento, e anche questo era... sbagliato. I cani le ave-
vano sempre dimostrato affetto... fino a ora. E le fiamme del focolare erano così rosse nei riflessi dei loro occhi... Distolse lo sguardo, perplessa e spaventata da quegli occhi così assurdamente rossi, e vide con chiarezza per la prima volta i lineamenti dei ragazzi, e il cuore le balzò in petto. Perché su quei giovani volti splendeva nuda l'immagine del male. Gli altri portavano quell'ombra di deformità in maniera elusiva; era una cosa che si avvertiva, piuttosto che vedere. Il male che aveva letto su quei volti avrebbe potuto anche essere stato uno scherzo della sua fantasia sovreccitata. Ma i due ragazzi avevano volti demoniaci: lunghi e ossuti con occhi obliqui e maligni. Jirel rabbrividì tra sé. In quale razza di gente si era imbattuta, gente che aveva ragazzi e cani che portavano con loro le fiamme dell'inferno? Sospirò profondamente e fissò il circolo di volti immobili che la scrutavano senza parlare, con un'intensità simile a quella di... di animali da preda. Il suo orgoglio si ribellò. Joiry era sempre la cacciatrice, mai la preda! Strinse i denti e disse con una ben studiata indifferenza: — Vivete da molto qui? Fu sicura che tutti gli astanti si erano scambiati uno sguardo d'intesa, divertito: lo sguardo di persone che dividono un segreto. Eppure, tutti gli occhi rimasero fissi su di lei. Soltanto di due ragazzi si avvicinarono un poco tra loro, e l'espressione maligna divenne più evidente sui loro giovani volti contorti. Alaric rispose, dopo una pausa quasi impercettibile: — Non da molto. E non rimarremo neppure a lungo... adesso. In quelle parole era avvertibile un'oscura minaccia, anche se Jirel non riusciva a comprendere il motivo di quella bizzarra sensazione. E l'intesa corse nuovamente come una scarica elettrica tra gli astanti, e sembrò quasi che nell'aria si fosse mossa una corrente di cupa allegria. Ma quei volti non si girarono e neppure mutarono espressione. Quegli occhi erano fissi ansiosamente... quasi avidamente... sul volto deciso e splendente di Jirel, sul quale le fiamme del focolare giocavano traendo barbagli rossastri dai suoi capelli, rifrangendosi sull'abbronzatura dorata del volto. Malgrado gli abiti multicolori di quella strana compagnia, Jirel ebbe l'impressione di essere circondata da abiti neri e volti neri e occhi neri, da una compagnia d'ombre proiettate dal fuoco. La conversazione era cessata del tutto; gli occhi non si distoglievano dal suo volto. Non riusciva a individuare il motivo di quello strano interesse, e poi, era strano che Alaric non le avesse domandato nulla, a proposito del suo inaspettato arrivo. Una donna sola nella landa selvaggia, di notte, era
un avvenimento abbastanza inconsueto, tale da destare l'interesse di chiunque, eppure nessuno sembrava intenzionato a domandarle per quale motivo fosse giunta fino a Hellsgarde. E allora, perché quella preoccupazione e quel profondo interesse che la sua vista aveva suscitato? Per soffocare il lieve tremito che aveva cominciato a percorrerle le membra, Jirel disse con voce sicura e decisa: — Hellsgarde delle Paludi ha una terribile reputazione, mio signore. Mi meraviglio che tu abbia il coraggio di vivere qui... o forse tu non conosci l'antica leggenda? Questa volta, il fremito di divertimento percorse la compagnia in maniera inequivocabile, sebbene tutti gli occhi rimanessero fissi su di lei. La voce di Alaric era secca, quando lui rispose: — Sì... sì, conosciamo quella storia. Noi non... non abbiamo paura. E improvvisamente Jirel si sentì sicurissima di un fatto molto strano. Qualcosa, nella voce e nelle parole di Alaric, le aveva fatto capire senza possibilità di equìvoco che loro non erano venuti sfidando l'antica leggenda, ma proprio a causa di questa. Nessuna persona normale avrebbe potuto scegliere come, abitazione di sua spontanea volontà, un castello in rovina, popolato di fantasmi e dalle mura che ancora grondavano sangue; eppure non era possibile negare che la ventata di cupa allegria suscitata dalle parole di Jirel in quella strana compagnia, e il tono della voce di Alaric, avevano lasciato adito a pochi dubbi. Jirel pensò ai cadaveri che montavano la guardia al portone. Quale individuo normale avrebbe potuto fare uno scherzo così macabro? No... no, questa compagnia era completamente anormale, come una compagnia di nani o di mostri. Non si poteva stare seduti vicino a loro, anche in silenzio, senza respirare questa allucinante sensazione nell'aria. L'espressione deforme dei loro volti non mentiva... senza dubbio era l'anima di quelle creature a essere turpe e corrotta e deforme. La conversazione era nuovamente cessata. Per interrompere quel silenzio che le straziava i nervi, Jirel disse, dopo qualche minuto: — Abbiamo udito molti strani racconti su Hellsgarde... — Sapeva di parlare troppo, ma non fu capace di fermarsi: qualsiasi cosa era meglio di quel terribile silenzio. — Racconti che parlavano di un tesoro, e... e... è vero che si può raggiungere il Castello di Hellsgarde soltanto al tramonto, come ho fatto io? Alaric fece una pausa deliberata prima di rispondere in un tono elusivo altrettanto deliberato.
— Si raccontano cose anche più strane a proposito di Hellsgarde e chi può dire quanta verità ci sia in esse? Potrebbe esserci un tesoro, qui. In molti sono venuti a cercarlo... e sono rimasti qui, per sempre. Jirel ricordò i cadaveri che si trovavano davanti al portone, e lanciò ad Alaric uno sguardo che avrebbe cozzato come il metallo di una spada contro il suo... se lui lo avesse sostenuto. Ma lui stava guardando verso il soffitto, e un vago sorriso aleggiava sulle sue labbra sottili. Sospettava forse lo scopo della sua visita? Non aveva posto nessuna domanda... Jirel ricordò il sorriso di Guy di Garlot, quando l'aveva mandata a cercare il tesoro di Hellsgarde, e un dubbio mortale cominciò a prendere forma nella sua mente. E se Guy avesse saputo... se l'avesse esposta deliberatamente al pericolo... per un attimo Jirel si lasciò cullare dalla fantastica visione del sorriso obliquo dell'uomo spezzato per sempre dalla lama della sua spada... La stavano fissando. Ritornò in sé, sussultando, e disse a caso: — Come sono fredde le paludi dopo il tramonto! — E rabbrividì lievemente, perché fino a quel momento non si era resa conto di quanto fosse gelida quella grandissima sala del castello. — Lo troviamo... piacevole — mormorò Alaric, sempre fissandola. Anche gli altri la stavano fissando, e Jirel avvertì nuovamente quella crepitante ironia attraversare il circolo di persone che condividevano, ne era sicura, un oscuro segreto. Si trovavano in quel luogo per uno scopo ben definito. Se ne rese conto di colpo, con certezza, e quella certezza la fece sussultare nuovamente: avevano uno scopo oscuro, insondabile, che li legava uno all'altro, che li rendeva quasi una sola mente divisa in tanti corpi, e i loro pensieri sembravano fluire in silenzio da persona a persona; e in quello scopo lei adesso c'entrava, e in maniera niente affatto piacevole. Il pericolo era sospeso nell'aria, e lei era sola, di notte, tra le paludi deserte, in mezzo a quella strana gente anormale, che la fissava con avidità quasi famelica. Ebbene, lei aveva già conosciuto il pericolo, e lo aveva già affrontato e superato mille volte. Una giovane sguattera dall'aria sciatta, che indossava un camiciotto strappato, uscì dall'ombra e mormorò qualcosa all'orecchio di Damara, e quando la donna si volse per annuire, Jirel provò sollievo sentendo che almeno un paio d'occhi aveva smesso per un istante di fissarla intensamente. Lo sguardo di Jirel seguì i movimenti della giovane con aria di disprezzo. Quella gente aveva un personale assai bizzarro... stallieri e armigeri che assomigliavano a bestie, e ora questa sguattera volgare con una veste sudi-
cia e a brandelli. Neppure le cuciniere di Joiry indossavano abiti così sciatti. Damara si voltò nuovamente verso il fuoco: — È ora di cena, no? — domandò. Tutti i volti intorno al fuoco s'illuminarono come per magia, e Jirel sentì che un po' della sua tensione interna si allentava. Il semplice fatto che il pensiero del cibo li soddisfaceva, dava all'intero gruppo un aspetto di normalità. Eppure... se ne rese conto dopo un attimo... neppure questa era una soddisfazione normale. C'era qualcosa di spaventoso nella luce che splendeva negli occhi di tutti, nell'avida espressione famelica che si era dipinta su quei volti. Per un istante l'idea del cibo aveva sostituito Jirel, come oggetto d'interesse, e quell'allucinante batteria di sguardi spianata contro di lei si rivolse altrove. Fu come se un peso fisico le fosse stato tolto. Sospirò profondamente. Sguatteri puzzolenti e un paio di ragazze sporche stavano già portando nella sala le sedie e i trespoli per il tavolo, e sistemevano il tutto accanto al focolare. — Ceniamo da soli — spiegò Alaric mentre il gruppo di persone che si trovava accanto al fuoco si spostò per fare largo ai domestici. A Jirel sembrò una forma piuttosto assurda di schifiltosità, visto che si lasciavano servire da una simile masnada sporca e lurida di domestici. Nelle altre magioni tutti mangiavano insieme, dai signori ai più umili stallieri, nelle grandi tavole a forma di T dove nobiltà e servitù erano divise soltanto dall'uso del sale. Ma forse Alaric non osava permettere a quegli individui bestiali di godere neppure di quella familiarità. Jirel provò una leggera delusione all'idea che la compagnia di quegli strani volti fissi su di lei non sarebbe stata alleviata neppure dalla presenza di quei servi dai volti selvaggi e ottusi. Gli armigeri sembravano bestie e non uomini, ma il loro aspetto rozzo, per lo meno, era comprensibile e naturale; era una cosa che lei poteva accettare. Quando il tavolo fu pronto Alaric la fece sedere alla sua destra, accanto ai due giovani dal volto maligno, i quali erano innaturalmente immobili. Giovani di quell'età si sarebbero dovuti comportare in maniera ben più rumorosa e allegra a tavola, nelle compagnie che Jirel conosceva. Era un altro segno di stranezza in loro: si muovevano soltanto per prendere il cibo. Chi erano? Figli di Alaric? Paggi o cavalieri serventi, rampolli di qualche nobile famiglia? Lasciò errare lo sguardo sui volti che la circondavano, intorno al tavolo, piena di stupore, alla ricerca di qualche segno che per-
mettesse di individuare una parentela fra quella gente, ma l'unico tratto comune era costituito dall'espressione deforme di quei volti. Alaric non aveva neppure tentato di presentare quella gente, e così lei non poteva immaginare quale legame li unisse in quella misteriosa atmosfera di complicità e di assoluta comunione. Incontrò lo sguardo del nano, il cui volto spuntava dietro la spalla di Alaric, e distolse subito gli occhi, irritata dalla sua espressione di sardonica complicità. L'essere deforme la stava fissando. Non ci fu conversazione dopo che il pranzo venne servito. L'intera compagnia si gettò sulle vivande con una voracità famelica addirittura incredibile, tale da far pensare che nessuno di loro avesse mangiato da molte settimane. E neppure il cibo aveva un sapore giusto o normale. L'aspetto era abbastanza buono, ma l'odore era lievemente... stagionato, e Jirel strinse le labbra e posò il coltello dopo aver assaggiato il primo boccone... aveva quasi un sapore di decomposizione, una specie di bruciante amarezza alla quale era impossibile dare un nome, e che la ragazza avvertì nel palato anche molti minuti dopo aver inghiottito il boccone. Tutto aveva quel sapore: il pane, l'arrosto, le poche verdure, perfino l'aspro vino. Dopo uno sforzo coraggioso (dopotutto, aveva molta fame!) Jirel rinunciò e abbandonò del tutto l'idea di mangiare. Rimase seduta, stringendo le mani sul bordo del tavolo, con la mano destra vicinissima all'elsa della spada, e osservò la famelica compagnia che divorava quel cibo disgustoso. Non c'era da meravigliarsi, pensò a un tratto, che mangiassero da soli. Certo neppure il palato rozzo dei loro servitori avrebbe potuto accettare quel rivoltante cibo stagionato. Finalmente Alaric si appoggiò allo schienale della sedia, e pulì il coltello con un po' di mollica di pane. — Non hai fame, Signora Jirel? — chiese, dando un'occhiata al piatto ancora pieno. Lei non poté reprimere un'espressione di disgusto, quando fissò l'oggetto dell'attenzione di Alaric. — Non ora — disse, con amara ironia. Alaric non sorrise. Si chinò per raccogliere con la punta del coltello la fetta d'arrosto che si trovava nel piatto della ragazza, e la gettò verso il focolare. I due levrieri scattarono di sotto il tavolo e si gettarono famelici sulla carne, e Alaric guardò Jirel con una strana espressione, con l'ombra di un sorriso che aleggiava sulle sue labbra sottili, mentre puliva nuovamente il coltello e lo riponeva nel fodero. Se aveva voluto farle capire che anche i cani erano compresi nel suo
strano circolo chiuso, vi era riuscito in pieno. Era indubbio che in quell'atto e in quel sorriso c'era stato un messaggio. Quando il tavolo fu ripulito e l'ultima scintilla del tramonto ebbe abbandonato il cielo, e solo l'oscurità apparve attraverso le finestre alte e strette, un tipo lugubre vestito di rascia girò per la sala e accese le torce servendosi di un lungo palo. — Hai visitato Hellsgarde prima d'ora, mia signora? — chiese Alaric. E quando Jirel scosse il capo, aggiunse: — Allora permetti che ti mostri il salone, e le armi e le corazze dei miei antenati. Chissà?... può darsi che tu scopra perfino qualche tuo inquartamento tra gli emblemi dei nostri scudi. Jirel rabbrividì al pensiero di scoprire anche una remota parentela con gli abitanti di Hellsgarde, ma posò con riluttanza la mano sul braccio che lui le offriva, e si fece guidare lontano dal focolare, sotto le volte rimbombanti del salone dove le torce animavano l'oscurità. Il salone era come dovevano averlo lasciato gli uccisori di Andred, due secoli prima. Le corazze e le armi che non erano cadute erano piene di ruggine, provocata dall'aria umida delle paludi, e i tappeti e i vessilli avevano acquistato un colore uniforme che denotava il più completo abbandono. Ma Alaric sembrava godere dell'umidità e della desolazione come un uomo normale può godere del lusso. La guidò lentamente attraverso il salone, e Jirel poté avvertire gli sguardi dell'intera compagnia, che aveva ripreso le solite posizioni accanto al focolare, fissi su di lei. Il nano aveva ripreso in mano il liuto e traeva alcuni accordi, di quando in quando, nel silenzio echeggiante del salone, ma tranne questi accordi gli unici suoni che si udivano erano quelli dei loro passi sul pavimento e il mormorio della voce di Alaric che indicava le glorie svanite del Castello di Hellsgarde. Si fermarono nell'angolo del salone più lontano dal focolare, e Alaric disse con voce untuosa, con gli occhi fissi su Jirel: — In questo punto che ora noi occupiamo, signora, morì Andred di Hellsgarde, duecento anni or sono. Jirel abbassò involontariamente lo sguardo. I suoi piedi poggiavano sulla grande chiazza lasciata da qualcosa di scuro, che aveva approssimativamente i contorni di un animale con il muso sollevato e le zampe allungate. Era una chiazza molto ampia, nera ed evidente sul pavimento. Andred doveva essere stato un uomo molto grosso e robusto. E il suo corpo aveva sanguinato moltissimo in quel giorno di duecento anni prima.
Jirel avvertì gli occhi del suo ospite fissi sul suo volto con una strana anticipazione, e trattenne per un istante il respiro, decisa a parlare, ma prima di poter emettere parola, all'improvviso un turbine di vento si alzò intorno a lei, balzando fuori dal nulla con tale impeto che tutte le torce del salone si spensero insieme e l'oscurità più assoluta cadde pesantemente su tutto il castello. Nell'istante in cui l'oscurità fu completa, mentre tutta la grande sala era al buio e percorsa da quell'inesplicabile vento dal nulla, come se avesse atteso quell'istante per tutta la sera, la mano di un uomo afferrò Jirel e la strinse in un abbraccio violento come la morte, e una bocca si posò sulla sua nel bacio più selvaggio e voluttuoso che lei avesse mai conosciuto in vita sua. Tutto era accaduto così all'improvviso che tutte le sensazioni si confusero nella mente di Jirel ed esplosero in una sola ondata di sdegno furibondo nei confronti di Alaric, e lei cominciò a lottare disperatamente contro quelle braccia d'acciaio e quella bocca appassionata, mentre il vento tempestoso soffiava nell'oscurità. Non ci fu più nulla intorno a lei, all'infuori di quella bocca, di quel braccio, di quella mano avida. Non era stretta contro il corpo di un uomo, ma la forza di quel braccio la circondava come acciaio. E nello stesso istante in cui l'aveva afferrata, il braccio già la stava attirando sul pavimento con forza irresistibile, senza mai allentare la sua stretta d'acciaio, e il bacio con tutta la sua selvaggia violenza e rivoltante voluttà continuava contro la sua bocca serrata. Era come se il bacio, la stretta del braccio, la violenza della mano, l'ululato del vento e la forza che l'attirava selvaggiamente a sé non fossero che una sola manifestazione di incredibile potenza. Non durò, molto probabilmente, più di qualche secondo. Jirel sentì il contatto di grossi denti contro le sue labbra, e le sembrò che la strana violenza che l'aveva presa nel suo vortice non si manifestasse esclusivamente nel bacio o nel tentativo di attirarla lontano, trascinandola sul pavimento, ma fosse soltanto la manifestazione esteriore di una violenza ben più terribile che la minacciava come fuoco rovente. Soffocata dall'ira impotente, cercò di lottare, cercò di gridare. Ma non c'era nessun petto contro il quale spingere per liberarsi, non c'era nessun corpo da cui allontanarsi. Non poteva resistere. Poteva soltanto emettere grida strozzate e animalesche, e stringere le labbra contro la violenza tumultuosa di quella bocca. Ebbe poco tempo per pensare, tanto fu rapida la cosa.
Era troppo stordita dalla forza e dalla subitaneità dell'attacco, tanto stordita che non si stupì neppure dell'assenza di qualsiasi cosa all'infuori della bocca, del braccio e della mano. Ma ebbe la distinta impressione di pareti che si chiudevano intorno a lei, come se dall'ampio salone fosse stata attirata in un angusto salotto. Era come se la violenza che infuriava intorno a lei fosse limitata e resa più potente dalla presenza di pareti vicinissime. Tutto finì così rapidamente che nell'istante in cui sentiva l'oppressione di quelle pareti che la circondavano, udì le brevi grida di meraviglia degli altri per l'improvviso e contemporaneo spegnimento di tutte le torce. Era come se il tempo si fosse mosso più velocemente per lei che per gli altri. Dopo qualche istante qualcuno gettò un po' di legna secca nel focolare, almeno così pensò Jirel, perché nel camino il fuoco ruggì altissimo in un'esplosione di luce e di suono, ricacciando indietro per un istante l'oscurità che aveva regnato nel grande salone. E Jirel era immobile e ansimante al centro del salone. Nessuno le era vicino, sebbene lei avrebbe potuto giurare sull'elsa della sua spada che fino a pochi istanti prima una bocca impetuosa le aveva serrato le labbra. Ora era scomparsa, come se non fosse mai esistita. Non c'erano anguste pareti che la circondavano; non c'era vento, non c'era nessun suono nel grande salone. Alaric era in piedi sulla chiazza oscura lasciata dal sangue di Andred ucciso duecento anni prima, all'estremità opposta del salone. Jirel pensò di aver saputo, inconsciamente, sin dal primo momento, che non erano sue le labbra che avevano premuto con tanta furia selvaggia sulla sua bocca. Quella selvaggia violenza non era adatta a lui. No, sebbene fosse stato l'unico uomo vicino a lei, nell'istante in cui l'oscurità l'aveva avvolta, non era lui l'uomo il cui bacio oltraggioso ancora bruciava sulle labbra di Jirel. Sollevò una mano tremante e si toccò le labbra che ancora dolevano, e si guardò disperatamente intorno, cercando di respirare, e l'ira quasi la faceva singhiozzare. Gli altri erano ancora intorno al fuoco, dall'altra parte del salone. E quando la luce del focolare si alzò vivida, Jirel vide che l'espressione di momentanea sorpresa dei loro volti veniva sostituita da una fiamma di speranza che accomunò tutti per un brevissimo istante. Alaric la raggiunse correndo. Confusa, incapace di connettere, sentì che la mano di lui le stringeva il polso e la scuoteva, e la sua voce domandava in una lingua che
le era completamente sconosciuta: — G'hasta-est? Tai g'hasta? Tai g'hasta? Con ira, si liberò della sua stretta, mentre gli altri la raggiungevano a loro volta e le si facevano intorno, gridando insieme: — G'hasta tai? Est g'hasta? Alaric riuscì a riprendersi per primo. Con voce che tremava d'emozione — il primo segno di emozione che Jirel aveva notato in lui — domandò con ansia quasi disperata: — Cos'era? Che è accaduto? Era... era... Ma sembrò che non osasse nominare la cosa cui evidentemente pensava con tutte le sue forze, sebbene nella sua voce si potesse distinguere il tremito della speranza. Jirel riuscì a trattenersi, proprio un istante prima di rispondere. Deliberatamente, tacque e prese tempo per liberarsi della debolezza e della confusione che le erano rimaste dopo lo sconvolgente contatto, e abbassò le ciglia per nascondere la fiamma gialla che brillava nei suoi occhi. Per la prima volta aveva un vantaggio su quella gente misteriosa: Sapeva qualcosa che loro desideravano disperatamente conoscere, e doveva sfruttare al meglio quel «qualcosa», sebbene non si rendesse conto appieno della sua importanza e della sua stessa natura. — A... accaduto? — L'emozione che le faceva tremare la voce non era del tutto simulata... — C'è stato un... un vento, e buio... non so... è venuto tutto così in fretta. E alzò lo sguardo verso il soffitto avvolto nelle tenebre, con un terrore quasi autentico. Di qualsiasi cosa si fosse trattato... non era una cosa umana. Avrebbe potuto giurare che un istante prima che la luce del focolare si era levata vivissima a rischiarare il cupo salone, pareti strane e sorte all'improvviso si stavano chiudendo intorno a lei come le pareti di una tomba; eppure alla luce del fuoco erano svanite come volute di nebbia. Ma quella bocca sulla sua, quei grossi denti che avevano premuto contro le sue labbra, la stretta brutale del braccio... non avrebbe potuto pensare a nulla di più tangibile. Eppure c'erano stati soltanto il braccio, la bocca e la mano. Niente corpo... Con un brivido improvviso ricordò che Andred era stato fatto a pezzi prima di essere gettato nelle sabbie mobili... Sì... Andred... Non si era resa conto di aver pronunciato quel nome a voce alta, ma Alaric si era gettato disperatamente su quella sola parola che le era sfuggita dalle labbra.
— Andred? Era Andred? Jirel fece uno sforzo per controllarsi, e strinse i denti per impedir loro di battere. — Andred? È morto duecento anni or sono! — Non morirà mai fino a quando... — Uno dei giovani dal volto maligno pronunciò queste parole prima che Alaric gli dicesse con ira, eppure con una strana deferenza: — Silenzio! Aspetta!... Signora Jirel, mi hai chiesto se le leggende che riguardano Hellsgarde sono vere. Ora ti dico che la storia di Andred è vera. Crediamo che vaghi ancora nelle sale dove si trova nascosto il suo tesoro, e noi... noi. — Esitò, e Jirel vide una strana espressione calcolatrice nei suoi occhi. Poi Alaric continuò con voce decisa: — crediamo che ci sia soltanto un modo per trovare quel tesoro. Soltanto lo spettro di Andred può condurci dove è nascosto. E lo spettro di Andred è stato... elusivo, fino a ora. Avrebbe potuto giurare sul fatto che Alaric non aveva voluto dirle soltanto questo, quando aveva cominciato a parlare. Ne fu anche più sicura quando vide l'impercettibile ondata di complicità che attraversò il circolo di volti che le si chiudeva intorno. Divertimento per uno scherzo che lei non capiva... era dipinto su tutti i volti che la circondavano, e le facce smunte delle strane donne dagli occhi orlati di bianco splendevano, e i volti degli uomini si torcevano in smorfie che tentavano di celare quella segreta ilarità. Improvvisamente, Jirel si sentì oppressa da un'atmosfera di anormalità e di mistero, e da quel sottile, pericoloso divertimento senza ragione. Era stata sconvolta dalla sua terrificante esperienza più di quanto non volesse ammettere. Non ebbe bisogno di fingere stordimento quando si voltò per dirigersi verso il focolare, ansiosa di sfuggire a quella terribile compagnia anche se ciò significava la solitudine nelle tenebre. — Lasciatemi... riposare accanto al fuoco. Forse quello... lui non tornerà. — Ma deve ritornare! — Pensò che tutte le voci avessero parlato all'unisono, con una profondissima nota di convinzione quasi disperata. Anche i due cani si erano avvicinati, passando tra le gambe di quella piccola folla intorno a Jirel, e i loro occhi cupi, debolmente rilucenti del riflesso sanguigno del focolare, seguivano di volto in volto la conversazione, come se riuscissero a comprendere le parole. Il loro sguardo rossastro si rivolse subito ad Alaric, quando questi disse:
— Per molte notti abbiamo aspettato invano che lo spirito di Andred ci apparisse. Solo quando sei arrivata tu lui ha creato quel vortice che è... che è necessario, se vogliamo trovare il tesoro. — Di nuovo, a queste parole, Jirel credette di avvertire una crepitante corrente di divertimento che serpeggiava tra di loro. Alaric continuò con voce priva d'inflessioni. — Siamo stati fortunati ad avere trovato una persona capace di evocare a Hellsgarde lo spirito di Andred. Penso che in te esista una fierezza simile alla sua, che lui sente e desidera. Dobbiamo farlo uscire nuovamente dal regno delle tenebre... e dobbiamo far uso del tuo potere per ottenere questo risultato. Jirel si guardò intorno, incredula: — Vorreste chiamare... quella cosa... di nuovo? Gli occhi lampeggiarono, e stavolta non si trattava del riflesso del focolare. — Lo vogliamo davvero — mormorò il ragazzo dall'aria maligna che le si era fatto più vicino. — E non aspetteremo molto... — Ma... per l'amor di Dio! — esclamò Jirel. — Tutte le leggende sbagliano, dunque? Dicono che il fantasma di Andred colpisce con una morte terribile tutti coloro che osano violare il segreto di Hellsgarde. Perché voi parlate come se io sola potessi evocarlo? Volete morire così terribilmente? Io non voglio! Non sopporterò quello un'altra volta, neppure se mi ucciderete. Non voglio più ricevere i baci di Andred! Ci fu un attimo di silenzio intorno a lei. Ci fu un rapido scambio di occhiate di intesa. Poi Alaric riprese a parlare: — Andred sfoga la sua ira soltanto sugli stranieri che visitano Hellsgarde, non sui suoi discendenti e sui loro domestici. Inoltre, le leggende di cui tu parli sono molto antiche, e parlano di persone che violarono il segreto del castello molti e molti anni or sono. «Con il passare degli anni gli spiriti dei morti di morte violenta si allontanano sempre più dal luogo in cui vennero uccisi. Andred è morto da molto tempo, e con il trascorrere degli anni le sue visite a Hellsgarde si fanno meno frequenti, e il suo spirito di vendetta diminuisce. Ci siamo sforzati per molto tempo di far ritornare il suo fantasma al castello, ma tu sola ci sei riuscita. No, signora, dovrai ancora sopportare la violenza di Andred, oppure...» — Oppure cosa? — domandò Jirel con voce gelida, posando la mano sull'elsa della spada. — Non ci sono alternative — la voce di Alaric era inflessibile. — Noi siamo in molti e tu sei sola. Ti terremo qui fino a quando Andred non tor-
nerà a manifestarsi. Jirel rise. — Pensi che gli uomini di Joiry lasceranno svanire la loro signora nel nulla? Ci sarà tempesta sulle mura di Hellsgarde, e... — Non credo, signora. Quale soldato oserà seguirti, quando la più coraggiosa e la più abile di tutti è svanita senza lasciare traccia, a Hellsgarde? No, Joiry, i tuoi uomini non ti cercheranno qui. Tu... La spada di Jirel fiammeggiò alla luce del focolare, quando la ragazza la sguainò e la sollevò. La lama lampeggiò una volta... e poi braccia dure come l'acciaio la strinsero alle spalle. Per un attimo spaventoso Jirel credette che si trattasse delle braccia di Andred, e il cuore le balzò in petto. Ma Alaric sorrideva, e lei comprese. Era il nano che le era scivolato alle spalle, raccògliendo un ordine non pronunciato dal suo padrone, e se la sua schiena era deforme, le sue braccia erano dotate di una forza incredibile. La strinse con la forza di un orso e lei non riuscì a liberarsi. Dibattendosi, maledicendo, scalciando con i piedi e le gambe avvolte nei gambali d'acciaio, non riuscì a spezzare quella stretta. Intorno a lei ci fu un mormorio in quella lingua inesplicabile e ossessionante che aveva già udito: — L'vraista! Tai g'hasta vrai! El vraist' tai lau! E i due ragazzi dai volti maligni le afferrarono le caviglie. Strinsero maledettamente forte, e premettero i piedi della ragazza contro il pavimento. E Alaric si fece avanti per toglierle la spada di mano. Mormorò qualcosa nella sua strana lingua, e il gruppo si divise e cominciò ad agire in modo efficiente. Lottando disperatamente, Jirel non si rese conto delle loro intenzioni fino a quando non ebbero terminato. Ma udì l'improvviso rumore dell'acqua gettata sui ceppi fiammeggianti, e il tremendo sibilo del vapore provocato dal fuoco che si spegneva, e l'oscurità cadde come un sudario e avvolse il salone già pieno d'ombre. Il gruppo si era allontanato da lei: ciascun componente era sparito nelle tenebre, e la stretta alle caviglie cessò come d'incanto, e le braccia che l'avvincevano con tanta forza la allontanarono facendole compiere un lungo balzo. Soffocata dall'ira, cadde nel buio. Non c'era nulla a fermarla, e quelle braccia possenti le avevano dato una spinta notevole. Cadde e giacque, piena di rabbia impotente, sul nudo pavimento, avvolta da un sudario di tenebra, e i gambali e la guaina della spada, vuota, destarono eco profonde. Quando riuscì a fermarsi, ammaccata e dolorante e senza fiato, non fu in
grado di riprendere subito il controllo di se stessa, e si sentì troppo stordita anche per dare libero sfogo all'ira. — Rimani dove sei, Jirel di Joiry! — disse con calma la voce di Alaric, che giungeva dalle tenebre. — Non puoi fuggire da questa sala... sorvegliamo ogni uscita, con le spade sguainate. Rimani ferma... e aspetta. Jirel ritrovò la voce e cominciò a passare in rassegna gli antenati e i possibili discendenti di Alaric con una tale furia blasfema che il buio risuonò per diversi minuti della sua ira. Poi ricordò l'ipotesi fatta da Alaric, secondo cui la violenza della ragazza avrebbe potuto attrarre una violenza simile nello strano fantasma chiamato Andred, e allora smise di colpo, e il silenzio le riempì le orecchie. Era un silenzio pieno di attesa drammatica. Jirel riusciva quasi ad avvertire la pazienza e l'attesa che le giungeva dal circolo di invisibili carcerieri che la circondavano, e al pensiero di quello che aspettavano il suo sangue gelò. Alzò lo sguardo ciecamente verso il buio che si stendeva sopra di lei, sicura, per un lungo e spaventoso istante, che la familiare esplosione di vento di tempesta stava radunando le sue forze lassù, per squarciare le tenebre da cui sarebbe giunto il braccio forte come l'acciaio di Andred... Dopo qualche tempo disse, con voce che suonò stranamente sottile nell'oscurità: — P... potreste anche gettarmi un cuscino. Sono stanca di stare in piedi e il pavimento è freddo. Con sorpresa, udì un leggero rumore di passi che percorrevano con assoluta sicurezza il pavimento, e dopo un attimo un cuscino uscì dall'oscurità e le piombò ai piedi. Jirel vi si sedette sopra con un senso di gratitudine, per poi irrigidirsi dopo un istante e guardarsi intorno, nelle tenebre, con i capelli che le si rizzavano in testa. E così... potevano vedere anche al buio! Quei passi erano stati troppo sicuri e il lancio del cuscino era stato troppo perfetto per dare adito a dubbi di sorta. Si strinse lievemente nelle spalle, e cercò di non pensare più a nulla. L'oscurità era immensa, intorno a lei. Scorreva con infinita lentezza, unendo la sua tenebra alle tenebre dei secoli che erano passati e che ancora dovevano venire. C'era soltanto il suo respiro a rompere quel malefico silenzio pieno d'attesa che l'avvolgeva come la nebbia delle paludi. Il suo terrore aumentò. Immaginò che lo spaventoso vento di tempesta avesse attraversato nuovamente il salone; immaginò che il braccio senza corpo l'avesse afferrata, e che la bocca si fosse di nuovo posata sulle sue labbra... E
un brivido allucinante serpeggiò lungo la sua schiena. Sì, e se il fantasma fosse ritornato? Cosa avrebbe ottenuto, lei? Quegli esseri contorti e anormali che l'imprigionavano non avrebbero mai diviso con lei il tesoro che erano così ansiosi di scoprire... ansiosi al punto di osare di evocare dalla notte quel terrore, e di sfidare una morte che le leggende dicevano atroce, soltanto per ottenerlo. Ottenerlo... loro sapevano, dunque, di che si trattava? Che cosa si celava, nel cofanetto che Andred difendeva oltre la morte? Qual era la cosa tanto preziosa da far sfidare a degli esseri umani tutto questo per ottenerla? E lei, quali speranze aveva? Se la cosa mostruosa chiamata Andred non fosse venuta quella notte... sarebbe giunta, un'altra notte, prima o poi, e tutte le notti l'avrebbe trovata sola, esca per il mostro che vagava per i saloni di Hellsgarde. Aveva parlato senza speranza, quando aveva detto che i suoi uomini sarebbero venuti a salvarla. Erano uomini coraggiosi e l'amavano... ma amavano di più la vita. No, non c'era un solo uomo a Joiry che avrebbe osato andare là dove lei aveva fallito. Ricordò il volto di Guy Di Garlot, e per un istante si lasciò sopraffare dalla violenza. Quel bel vigliacco, che l'aveva spinta a fare tutto questo per ottenere la cosa senza nome che tanto desiderava... Ebbene, avrebbe rovinato il suo bel volto con la lama della sua spada... se fosse riuscita a sopravvivere. Se! Stava dimenticando... Lentamente le stelle apparvero nel vano delle alte finestre che si aprivano sull'abisso di tenebra esterno. Jirel sedette, con le ginocchia strette tra le mani, e le guardò. L'oscurità sospirava intorno a lei, ed erano sospiri lunghi e allucinanti, e ciascuno di quei sospiri avrebbe potuto trasformarsi nel ruggito di Andred che usciva dalla notte... Ebbene, i suoi catturatori avevano commesso un errore. Le sarebbe servito? Non lo sapeva, ma loro credevano di averla disarmata, e Jirel strinse ancora di più le sue gambe coperte dai pesanti gambali, nell'oscurità, e sorrise con aria maligna, pensando che invece non era affatto disarmata. Doveva essere già passata la mezzanotte. Jirel sonnecchiava, con il capo sulle ginocchia; a un tratto un lungo sospiro proveniente dall'oscurità la fece destare di scatto. La voce di Alaric, da cui traspariva la stanchezza e la delusione, parlò ancora nella sua lingua senza nome. Jirel meditò brevemente su questo problema: sebbene quella sembrasse la loro lingua madre (la parlavano quando erano sotto lo stimolo di una grande emozione), quando parlavano alla ragazza era impossibile cogliere qualsiasi accento straniero. Era strano... ma ormai da molto tempo
non era più capace di meravigliarsi, di fronte agli individui mostruosi che aveva incontrato in quel castello. Sentì dei passi che le si avvicinavano: passi sicuri. Jirel si scosse e riuscì a destarsi del tutto; si alzò, stirandosi le membra indolenzite. Delle mani le afferrarono entrambe le braccia... a colpo sicuro, senza esitare, sebbene neppure i suoi occhi, abituati all'oscurità, fossero in grado di distinguere nulla. Nessuno si preoccupò di tradurle quanto aveva detto Alaric, ma lei comprese ugualmente che avevano rinunciato alla loro attesa, per quella notte. Perfino il terrore che la pervadeva si era affievolito in un mare di stanchezza, con il trascorrere delle ore di quella notte interminabile. Si lasciò trascinare dai suoi catturatori, che la reggevano saldamente da entrambe le parti, senza compiere il minimo sforzo per resistere. Non era il momento di scoprire la sua arma nascosta, non di fronte a quelle creature che camminavano come gatti nell'oscurità. Avrebbe atteso che le possibilità favorevoli fossero maggiori. Nessuno si preoccupò di accendere una luce. Procedettero rapidamente e senza esitazione nell'oscurità, e quando sotto il piede di Jirel si levò inatteso un gradino, lei fu l'unica a inciampare. Salirono le scale, attraversarono una sala gelida e dalla volta echeggiante. Poi Jirel ricevette una spinta improvvisa che le fece perdere l'equilibrio. Una parete di pietra si alzò davanti a lei, e Jirel la colpì con il corpo, e una porta si chiuse alle sue spalle. Si girò, emise una violenta imprecazione normanna, e capì di essere rimasta sola. Brancolando nel buio, riuscì a delimitare gli angusti confini della sua prigione. Trovò una brandina, una brocca d'acqua, una rozza porta attraverso i cui interstizi cominciava a filtrare un po' di luce, mentre lei passava le dita sulla sua superficie. Si udì un breve scambio di frasi all'esterno, e dopo un istante lei comprese. Alaric aveva incaricato uno dei suoi scimmieschi armigeri di sorvegliarla mentre lui e i suoi degni compagni dormivano. Capì che si trattava di un armigero e non di un membro della compagnia di Alaric, perché l'uomo aveva portato con sé una lanterna. Si domandò se le guardie sapevano con quanta facilità i loro padroni giravano nelle tenebre... e se la cosa, in caso affermativo, aveva importanza per le loro menti primitive. Ma ormai non le sembrava più strano che Alaric osasse servirsi di simili bruti. Sapeva benissimo con quanta facilità lui poteva controllarli... con la sua presenza, con la sua vista notturna, e con la sua assoluta mancanza di paura. All'esterno cadde un profondo silenzio.
Jirel sorrise lievemente e andò nell'angolo più vicino, e sollevò il ginocchio. Il lungo pugnale dalla lama sottile che portava tra gambe e gambale uscì silenziosamente dalla sua guaina. Rimase in attesa con pazienza felina, con gli occhi fissi sulle fessure illuminate che segnavano i confini della porta. Le sembrò che fosse passato un secolo quando infine il guardiano smise di camminare senza soste avanti e indietro, sbadigliò forte, e si assicurò della solidità della sbarra che chiudeva la porta. Il vago sorriso di Jirel si accentuò. L'uomo grugnì e, come lei aveva sperato, si sdraiò sul pavimento, con la schiena appoggiata ai battenti della porta. Jirel capì che aveva deciso di dormire un poco, sicuro che la porta non si sarebbe aperta senza svegliarlo. Aveva sorpreso le sue stesse guardie a fare la stessa cosa troppe volte per non immaginare che sarebbe accaduta anche adesso. Rimase in attesa, immobile. Dopo qualche tempo il pesante respiro dell'uomo divenne regolare, e Jirel strinse le labbra e mormorò: — Buon Gesù, fa' che non indossi la maglia di ferro! Si chinò verso la porta. Il suo pugnale era sottile, e poteva scivolare facilmente nella fessura che si apriva tra i due battenti della porta... L'uomo non indossava armatura... e la lama era affilata come un rasoio. Probabilmente morì senza neppure accorgersene. Jirel sentì che il pugnale urtava contro l'osso, e lo girò con l'abilità dettata dall'esperienza per liberarlo dalla posizione in cui era rimasto imprigionato, e udì che l'uomo emetteva un profondo sospiro nel sonno, un lieve grugnito... Non si sarebbe mai destato. Dopo un attimo il sangue cominciò a sgorgare dalla fessura, e Jirel sorrise e ritirò la lama. Fu abbastanza semplice rimuovere la sbarra con quella lama sottile. Incontrò la prima vera difficoltà nell'aprire la porta, combattendo contro il peso morto dell'uomo che vi era ancora appoggiato ma ci riuscì ugualmente, senza provocare troppo rumore... e poi vide la luce invitante della lanterna e il salone vuoto e immenso, immerso nella semioscurità. Riuscì a vedere l'inizio della scalinata, e capì da quale parte avrebbe dovuto andare. E non esitò né si attardò. Aveva progettato tutto con estrema attenzione nel buio del salone, al piano di sotto, mentre era rimasta seduta con le ginocchia strette tra le mani, in attesa dello scatenato fantasma di Andred e del suo odioso amplesso. Non c'era via di scampo. Lo sapeva. Gli altri castelli avevano finestre e
posterie attraverso cui un fuggiasco poteva evadere, ma le sabbie mobili circondavano Hellsgarde e l'unica strada verso la libertà era costituita dalla via che le guardie di Alaric, quella notte, avrebbero sorvegliato. E solo nelle storie cantate dai menestrelli un avventuriero solitario riusciva a passare attraverso un cortile e un portone, entrambi sorvegliati da armigeri ben decisi. E poi, lei era venuta a Hellsgarde con uno scopo. Era suo dovere trovare quel cofanetto del tesoro, che costituiva l'unico mezzo per riscattare le vite di venti uomini. L'avrebbe fatto, oppure sarebbe morta nel tentativo. E forse, dopotutto, era stata fortunata a trovare il castello abitato e non deserto come si era aspettata. Senza Alaric, non le sarebbe mai venuto in mente di sfidare il potere del fantasma di Andred per raggiungere la sua mèta. Adesso si rendeva conto che quello forse era l'unico modo in cui avrebbe potuto riuscire. Troppi ricercatori, in passato, avevano frugato il Castello di Hellsgarde senza risultato, perché lei potesse nutrire qualche speranza, a meno che un enorme colpo di fortuna l'avesse aiutata. Ma Alaric l'aveva detto: c'era un sistema... un sistema terribile e mortale, ma si trattava pur sempre della sua unica speranza. E, dopotutto, che alternative aveva? Avrebbe forse dovuto rimanere passiva in attesa, esca indifesa, fino alla notte in cui lo spirito di Andred fosse disceso di nuovo su di lei... o non era mille volte meglio cercarlo di sua spontanea volontà, e sfidarlo a duello? Avrebbe raggiunto lo stesso risultato... avrebbe dovuto nuovamente sopportare la sua presenza. Ma quella notte aveva una remotissima possibilità di salvezza... avrebbe potuto, forse, fuggire con il cofanetto del tesoro, o magari avrebbe potuto semplicemente scoprirlo e, se fosse riuscita a celarlo, l'avrebbe offerto ad Alaric in cambio della libertà. Era una speranza vaga e aleatoria, e lei lo sapeva bene. Ma Jirel non era il tipo capace di aspettare supinamente la morte, e in questo modo c'era perlomeno una remotissima possibilità di successo. Strinse il pugnale sanguinante in una mano, e tenendo nell'altra la lanterna, discese la scalinata, silenziosa come un gatto e rapida come il fulmine. Il piccolo cerchio di luce proiettato dalla lanterna si muoveva con lei sulla nuda pietra, ma era una ben misera difesa contro le tenebre che l'avvolgevano da ogni parte. A ogni istante un gelido soffio avrebbe potuto travolgerla, spegnendo la debole fiamma della lanterna, e il fantasma di Andred le sarebbe piombato addosso dal suo regno di tenebra. E c'erano altri spiriti in quel castello, oltre a quello di Andred... piccole cose fredde che si
nascondevano nell'oscurità, appena oltre la luce della lanterna. Poteva avvertirne la presenza mentre attraversava il grande salone, sfiorando gli umidi ceppi che ancora si trovavano nel focolare, sfiorando ciò che rimaneva degli arazzi e delle armature e degli scudi, verso il punto ancora macchiato di sangue, dove era più sicura di riuscire a evocare l'innominabile presenza dal suo regno di tenebra. Non fu facile trovare la posizione. Andò avanti e indietro per diversi minuti, circondata dal suo debole alone, prima di scorgere alla fioca luce della lanterna i margini della macchia nera che andava cercando; una macchia a forma di animale, oscura come il delitto, sul pavimento imbrattato dal sangue di Andred, più di duecento anni prima. Già una volta lo spirito predatore era piombato su di lei lì; e se doveva tornare, sarebbe tornato certamente in quel luogo, tra mille che Jirel avrebbe potuto scegliere. La ragazza mordicchiò il labbro interno con i denti, e posò i piedi sulla macchia, e trattenne il respiro senza rendersene conto. Rimase almeno un minuto immobile, con la pelle percorsa da un brivido inarrestabile, prima di poter pensare chiaramente alla cosa che avrebbe dovuto fare subito dopo. Ma ormai si era spinta troppo innanzi per ritirarsi. Sospirò profondamente, e spense la lanterna. L'oscurità si abbatté su di lei con la violenza di un colpo fisico, e quasi la schiacciò, togliendole il respiro. E a un tratto l'ondata di paura scomparve e la familiare eccitazione che precedeva ogni battaglia pervase ogni fibra del suo corpo, e lei guardò con occhi carichi di sfida il mare di tenebra che l'avvolgeva, e gridò rivolta alla grande volta del soffitto: — Vieni fuori dall'Inferno, spirito di Andred! Vieni se ne hai il coraggio, Andred il Dannato! Vento... vento e tempesta e violenza! Le strappò le parole dalle labbra e il respiro dalla gola in un turbine allucinante che giunse dal nulla. E quando venne, mentre la sfida selvaggia ancora risuonava sulle labbra di lei, una bocca rapace scese a chiudere la sua, e un grande braccio le strinse le spalle, con una violenza incredibile, mentre dita d'acciaio le stringevano il braccio... Una violenza che la fece boccheggiare ma non cadere, perché la forza terribile di quel braccio la stava trascinando sul pavimento, con una velocità sempre più grande. Aveva voltanto il capo istintivamente quando aveva sentito che il braccio la stava afferrando, ma non era stata abbastanza veloce. La bocca rapace trovò la sua, e nuovamente quei grandi denti premettero fino a farle male contro le labbra, e la violenza di quel bacio mostruoso fece scorrere nel-
le sue vene un fiume d'ira, e lei lottò invano per liberarsi da quella stretta. Questa volta la cosa non la colse di sorpresa, e poté rendersi conto con maggiore chiarezza di quanto le stava accadendo. Come la prima volta, tutta la furia violenta dell'attacco era esplosa su di lei in un solo momento... la bocca si era posata sulla sua e al contempo il braccio l'aveva afferrata. Nello stesso istante la forza inarrestabile di quella stretta aveva cominciato ad attirarla e a trascinarla sul pavimento oscuro, e lei dovette lasciarsi trascinare, accecata dal buio, assordata dalla furia del vento, ammutolita e sconvolta dalla terribile veemenza della bocca e dal dolore provocatole dalla stretta d'acciaio del braccio. Ma riuscì a rendersi vagamente conto del fatto che le pareti si stavano chiudendo di nuovo, intorno a lei, sempre più vicine, come le pareti di una tomba. E come la prima volta, Jirel si rese conto della presenza di una forza spaventosa intorno a lei: un pulsare di violenza superiore a qualsiasi manifestazione esteriore che potesse assumere. Perché la bocca, la mano, il braccio, la forza stessa che la trascinava, erano semplicemente manifestazioni esteriori del vortice di violenza che l'aveva afferrata. Ed era davvero un vortice... girava vorticosamente e si restringeva sempre di più, come se tutta la potenza dello spirito di Andred si stesse concentrando in un unico uragano di violenza. Forse era quella sensazione di turbinio e restringimento che le faceva credere che le pareti si stessero richiudendo intorno a lei. Era tutto troppo vago per esprimerlo a parole, e nello stesso tempo era terribilmente reale. Jirel, senza fiato e indolenzita e intontita dal dolore e dalla violenza, si rese ugualmente conto che là, al centro del grande salone, delle pareti si stavano chiudendo sempre più intorno a lei. Selvaggiamente colpì alla cieca, in direzione del braccio che le circondava le spalle, delle dita d'acciaio che le stringevano il braccio fino all'osso. Ma l'angolazione era assurdamente strana, e lei era troppo sconvolta per comprendere se avesse colpito carne umana o se i suoi colpi fossero semplicemente passati attraverso una forza disincarnata. E la stretta non si allentò; la bocca rapace rimase sulla sua in un bacio così selvaggio e violento che la ragazza cominciò a singhiozzare in un parossismo d'ira impotente. Quelle pareti erano vicinissime... le sue ginocchia tremanti ne toccarono una. Alla cieca mosse la mano libera, e avvertì il contatto di mura umide, vicinissime a lei. Il movimento che l'aveva trascinata in avanti era cessato, e la forza che era Andred l'assalì con una violenza inaudita, che le mozzò il
respiro e fece accendere mille luci nell'oscurità che la circondava. Attraverso la nebbia dello stordimento si rese conto allora che quello doveva essere il luogo in cui Andred aveva voluto attirarla, un luogo fatto di pietra e di umidità e di oscurità, che si trovava da qualche parte, fuori... perché l'avevano raggiunto troppo in fretta, e non poteva trattarsi di un posto reale... eppure tangibile... Fredde pareti di pietra contro le sue mani, e cos'erano quelle cose rotonde che le scivolavano sotto i piedi?... cose che risuonavano contro la pietra, quando i suoi piedi le muovevano... ossa? Buon Dio, le ossa degli altri cercatori del tesoro, che avevano trovato quanto cercavano? Perché lei era sicura che il cofanetto del tesoro si trovava laggiù, se esisteva... laggiù, in quella tenebra irraggiungibile a chiunque, se non per mezzo di quella spettrale furia d'uragano che era Andred... I sensi le mancavano e il turbine che sembrava il turbine al centro di un uragano pareva creare un vuoto che attirava il suo spirito fuori dal corpo: uno spirito fragile e disperato che non aveva più forza per lottare... Il suo corpo era laggiù: molto, molto lontano, immobile sotto la stretta di quel braccio d'acciaio, col fiato mozzo a causa di un bacio che rendeva assurda la realtà intorno a lei, e tentava ancora di resistere debolmente alla violenza che la sopraffaceva in quello stretto luogo che sapeva di tomba e le cui pareti stillavano umidità e sul cui fondo scricchiolavano ossa... le ossa di coloro che erano venuti prima di lei... Ma lei non era laggiù. Era un debole spirito legato in maniera molto tenue e remota a quel corpo le cui energie stavano per venire meno: uno spirito che turbinava e turbinava al centro di un tornado che la spingeva sempre più lontano, più lontano, più lontano... L'oscurità scivolava accanto a lei... le pareti di pietra non erano più una prigione, perché lei stava risalendo nel cuore di quel turbine infernale che l'attirava fuori dal corpo che un tempo era stato il suo, in circoli che si andavano sempre più ampliando e allontanando in tenebrose distanze dove non esistevano né lo spazio né il tempo... Lontano, infinitamente lontano, un piede che non era il suo inciampò su qualcosa di piccolo e quadrato, e un corpo che non era il suo si inginocchiò tra ossa umide e scricciolanti, e un petto che non era il suo urtò lo spigolo di qualcosa di quadrato mentre il corpo senza anima cadeva in avanti, tra le ossa, su un umido pavimento di pietra. Ma percorrendo i circoli sempre più ampi del tornado, lo spirito che era Jirel si ribellò a quanto accadeva. Doveva tornare indietro... doveva ricordare... c'era qualcosa... qualcosa... Per un istante fugace si ritrovò nel suo corpo, caduto sulla pietra, con le
braccia strette intorno a una piccola cosa quadrata. Una scatola... un umido cofanetto di cuoio, coperto di muffa, con una serratura di ferro. Il cofanetto di Andred, il cofanetto al quale per duecento anni tanti cercatori avevano invano dato la caccia. Il cofanetto per cui era morto Andred e per cui sarebbe morta lei... per cui. stava morendo ora nelle tenebre e nell'oscurità, tra le ossa, mentre un'ondata di violenza scendeva per impadronirsi di nuovo di lei... Vagamente, quando perdette i sensi per la seconda volta, udì l'abbaiare di un cane, alto e isterico, proveniente dall'alto. E un altro cane rispose, e poi udì una voce d'uomo che gridava in una lingua che lei non conosceva: un grido selvaggio ed esultante, soffocato da un senso di immenso trionfo. Ma dopo questo l'uragano che la strappava dal suo corpo confuse ogni cosa, fino a che... fino a che... Stranamente, fu una musica assurda e selvaggia che la fece tornare indietro. Le corde di un liuto che suonavano come se la follia stessa le avesse attraversate. Il liuto del buffone nano, che emetteva una musica che l'attirava a sé dal nulla in cui era finito il suo spirito, che la faceva ritornare nel suo corpo caduto nell'oscurità e nell'umidità dove il duro spigolo del cofanetto le premeva contro il petto, facendole male. E il vento di tempesta si stava... allontanando... da lei. Le pareti si allontanarono, finché lei non sentì più il senso di prigionia causato dalla loro vicinanza, e l'odore di umidità e di putrefazione diminuì fino a scomparire. In un lampo istintivo che attraversò la sua mente ottenebrata, strinse a sé il cofanetto ammuffito e stillante umidità, prima che le pareti scomparissero del tutto, e poi si sollevò a metà nell'oscurità, socchiudendo gli occhi. L'uragano infuriava ancora intorno a lei, ma chissà come, stranamente, ora non la sfiorava. No, c'era qualcosa al difuori dell'uragano... una possente forza contro la quale questo combatteva... una forza che... che... Si trovava nuovamente nel salone oscuro. Se ne rese conto senza sapere perché. E la selvaggia musica del liuto si alzava possente e acuta, e in maniera inesplicabile. Jirel vide. Era buio, un buio incredibile... ma lei vide. Perché un bagliore luminoso stava apparendo come un anello intorno a lei, e alla sua luce spettrale Jirel si rese conto della presenza... si rese conto, perché la vista c'entrava pochissimo, con questa sua nuova percezione... della presenza di volti familiari intorno a lei, disposti in circolo. Una danza di streghe, intorno a lei... Il volto di Alaric apparve esultante, e gli occhi dal bianco troppo marcato di Damara si fissarono sulle tenebre. Vide passare i
due ragazzi, e sui loro volti splendeva la luce stessa dell'inferno. Si udì un abbaiare selvaggio, e uno dei levrieri le passò accanto, e i suoi occhi rilucevano di un fuoco che nessuna fiamma terrestre avrebbe potuto provocare, e la lingua penzolava all'apice di una felicità animalesca. Il folle girotondo continuò intorno a lei, in quell'alone luminoso che non era provocato da una vera luce, ma da qualcosa di più allucinante e spettrale. E sempre si udiva il grido, sì, il grido acuto e stridente della musica demoniaca, una musica che nessun liuto terrestre avrebbe potuto emettere, e si vedeva quella terribile gioia su ogni volto.. sì, anche sul muso dei cani... e quella gioia era più spaventosa della stessa presenza minacciosa di Andred. Andred... Andred... La potenza della sua forza vulcanica roteava sopra di lei, adesso, ed era così grande che i capelli rossi della ragazza si rizzarono sul suo corpo, e un turbine di vento si scatenò, un vento che portava l'altissimo grido delle corde del liuto. Ma non si trattava della forza che l'aveva sopraffatta. Perché quella folle danza che le vorticava intorno senza fine stava radunando un incredibile cumulo di energia che lei poteva avvertire, inginocchiata sul pavimento, con il cofanetto stretto al seno. Le sembrò che l'aria stessa fremesse per la tensione del momento e per la forza che vi si accumulava. Quel circolo si muoveva contrariamente al vortice sviluppato dallo spettro di Andred, e la forza del fantasma si stava indebolendo. Jirel poteva avvertire l'indebolimento dello spettro, sopra di lei. La musica crebbe d'intensità, e sopraffece del tutto il tuono del vento tempestoso, e la gioia spaventosa che si dipinse su tutti i volti che la circondavano ebbe una ragione. Chissà come, stavano sopraffacendo il fantasma. Qualcosa nella pazzesca musica del nano e nella demoniaca danza stava facendo cedere la forza della secolare violenza di Andred. Con il cofanetto stretto al seno, inginocchiata sul pavimento, Jirel sentiva che la potenza di Andred andava scemando. Eppure... quella gente stava forse lottando per quel prezioso cofanetto? Nessuno aveva degnato di uno sguardo la ragazza sul pavimento né il fardello che portava. Tutti i volti si contraevano con aria beata, tutti gli occhi fissavano l'oscurità sopra il capo di Jirel, come se la cosa che era Andred fosse visibile e... e infinitamente desiderabile. Era la brama per quella cosa innominabile che infuriava sul capo di Jirel che rendeva così viva la gioia su quei volti. La meraviglia aveva ormai sopraffatto la mente di Jirel, e lei cessò di porsi domande, limitandosi a registrare ciò che i suoi occhi increduli vedevano. La danza cessò, ma lei quasi non se ne accorse. Immersa in una specie di
trance dall'ossessionante movimento dei danzatori, giaceva in ginocchio al centro del circolo, con la mente sconvolta da quell'insopportabile girotondo... incapace ormai di registrare qualsiasi nozione all'infuori di quel turbine spaventoso. Ma i danzatori si stavano fermando... e con loro si fermava il turbine sopra il suo capo. Il vento non soffiava più nelle tenebre; ormai era un lento sospiro, che scemava ancora d'intensità man mano che il movimento dei danzatori si faceva più lento... E poi dall'oscurità giunse un lungo sospiro soffocato, e Jirel perdette i sensi... La luce del giorno allungò le sue dita abbaglianti attraverso le alte finestre e sfiorò gli occhi chiusi di Jirel. Si svegliò faticosamente, e ammiccò al contatto della luce. Ogni muscolo, ogni osso del suo corpo martoriato le doleva, a causa della furia selvaggia, che si era impadronita di lei durante la notte, e il pavimento gelido era duro sotto di lei. Si rialzò, cercando istintivamente con la mano il suo pugnale. Giaceva a poca distanza, e su di esso era visibile il sangue rappreso del guardiano che lei aveva ucciso durante la notte. E il cofanetto... il cofanetto!... La paura che l'aveva afferrata si quietò subito dopo, quando vide il prezioso oggetto sul pavimento, accanto a lei. Era piccolo, la serratura di ferro era arrugginita, il cuoio era umido e cosparso di muffa, cresciuta in un luogo senza nome nel corso di due secoli; ma era salvo, e nessuno lo aveva aperto. Jirel lo prese in mano, e provò a scuoterlo. E udì un movimento soffocato all'interno, e suono e peso le fecero pensare a farina finissima agitata delicatamente. Un fruscio e un sospiro alle sue spalle le fecero alzare il capo di scatto. Jirel si guardò intorno, nel salone pieno d'ombra. In un ampio circolo irregolare i corpi dei danzatori della notte precedente giacevano immobili. Morti? No, i loro corpi si muovevano piano, respiravano, seppur fievolmente, e sul volto del corpo più vicino... quello di Damara... c'era un'espressione di sazietà così completa che Jirel distolse gli occhi, disgustata. Ma l'espressione era comune a tutti. Aveva visto compagnie di gaudenti addormentati dopo una notte di baldoria e gozzoviglia, ma sui volti che ricordava non aveva visto neppure un decimo della soddisfazione quasi oscena che ora trovava nella compagine di Alaric, immersa in quel disgustoso torpore. Ricordando quella brama senza nome che aveva visto nel corso della notte sui loro volti, Jirel si chiese quale innominabile sazietà
fosse mai quella che avevano trovato nell'oscurità, dopo che lei aveva perduto i sensi. Si udì un rumore di passi alle sue spalle, sul pavimento, e lei fece un mezzo giro su se stessa, si sollevò su un ginocchio e alzò fermamente il coltello che teneva stretto in pugno. Era Alaric, un po' malfermo sulle gambe, che la fissava con una strana espressione distratta, come se la vedesse solo vagamente. La sua tunica scarlatta era polverosa e spiegazzata, come se ci avesse dormito sul pavimento tutta la notte, e si fosse appena alzato. L'uomo si passò una mano tra i capelli arruffati, e sbadigliò, e abbassò lo sguardo, fissandola con uno sforzo evidente per mettere a fuoco la vista. — Farò sellare il tuo cavallo — disse, e gli occhi scivolarono dal suo corpo con indifferenza, mentre parlava. — Adesso te ne puoi andare. Jirel lo fissò sbalordita, e socchiuse le labbra sui denti candidi. Non la stava guardando. I suoi occhi erano ormai immersi in chissà quale visione, in chissà quale delizioso ricordo di fronte al quale Jirel non esisteva neppure. E sul suo volto quell'espressione di sazietà quasi oscena ammorbidì i duri lineamenti. — M... ma... — Jirel sbatté le palpebre, e strinse il cofanetto per cui aveva rischiato la vita. Gli occhi di Alaric sembrarono accorgersi nuovamente della sua presenza, seppure con una certa difficoltà. — Oh... quella! Puoi tenerla — disse con aria svagata. — Tu... tu sai di che si tratta? Pensavo che tu volessi... Alaric si strinse nelle spalle. — Non avrei potuto spiegarti, la notte scorsa, che cosa volevo veramente di... Andred. E così ti ho detto che noi eravamo alla ricerca del tesoro... questo, tu potevi comprenderlo. Ma per quanto riguarda quella vecchia scatoletta marcita... non so che cosa vi sia dentro, e non me ne importa. Ho avuto... una cosa migliore... — E i suoi occhi scivolarono nuovamente nel regno dei ricordi, con aria di completa beatitudine. — Allora perché mi avete... salvata? — Salvata? — ribatté lui ridendo. — Non pensavamo affatto né a te né al tesoro quando... abbiamo fatto... quello che abbiamo fatto, stanotte. Tu hai fatto ciò che dovevi fare... e ora puoi andartene, libera. — Fatto... che cosa? Impazientemente, Alaric si sottrasse per un attimo del tutto al suo mondo di ricordi, e disse:
— Hai fatto quello che volevamo tu facessi... per questo ti abbiamo trattenuta... hai evocato con il tuo potere Andred. È stata una fortuna, per te, che i cani abbiano sentito ciò che accadeva, dopo che sei fuggita per sfidare da sola lo spettro. Ed è stata una fortuna anche per noi. Penso che Andred non sarebbe venuto, neppure per impadronirsi di te, se avesse avvertito la nostra presenza. Puoi esserne sicura... lui aveva paura di noi, e a ragione. Jirel lo fissò per un lungo istante, e un brivido le serpeggiò lungo la schiena; poi riuscì a mormorare, con aria sconvolta: — Che cosa... che cosa sei? — E per un istante sperò quasi che lui non le rispondesse. Ma Alaric sorrise, e l'espressione deforme divenne più evidente sul suo volto. — Un cacciatore di fantasmi — rispose piano. — Un bevitore di fantasmi, se riesco a trovarne... Io e la mia gente desideriamo ardentemente la forza oscura generata dagli spettri di coloro che ebbero morte violenta, e facciamo lunghi viaggi, a volte, tra... i banchetti. — I suoi occhi sfuggirono per un istante quelli di lei, e ritornarono nel passato. Sempre immerso nel suo sogno irreale continuò, con una voce che Jirel non gli aveva mai sentito prima. — Mi chiedo se un uomo che non abbia mai avuto questa esperienza possa immaginare l'estasi meravigliosa che si prova nel bere lo spirito di un fantasma forte... un fantasma forte come Andred... sentendo quella forza oscura riversarsi dentro di te in folate inebrianti mentre tu l'assorbi... una sete che aumenta mentre tu bevi.. si sente... l'oscurità... si diffonde in ogni vena ed è più dolce di qualsiasi vino, e ti dà un'ebbrezza superiore... Essere ubriaco di fantasmi... una gioia quasi insopportabile. Guardandolo, Jirel si rese conto del brivido che le partiva dalla bocca dello stomaco e le percorreva le membra, violento, insopportabile. Con uno sforzo sovrumano, distolse lo sguardo. L'estasi oscena dipinta negli occhi sognanti di Alaric era una cosa che non avrebbe mai voluto ricordare, che avrebbe desiderato cancellare dalla sua memoria. Riuscì ad alzarsi in piedi, faticosamente, e strinse il cofanetto di cuoio tra le mani, tenendo gli occhi fissi a terra. — Allora lasciami andare — disse a voce bassa, un po' imbarazzata, come se avesse involontariamente gettato uno sguardo su qualcosa d'indescrivibile. Alaric la guardò e sorrise.
— Sei libera di andartene — rispose, — ma non perdere tempo a tornare indietro con i tuoi uomini per vendicarti del trattamento che ti abbiamo riservato. — Il suo sorriso divenne più evidente, quando si accorse delle reazioni di Jirel di avere colto nel segno. — Ora nulla più ci trattiene a Hellsgarde. Ce ne andremo oggi e partiremo per... un'altra ricerca. Una cosa, prima che tu vada... abbiamo un debito con te, per aver evocato Andred, perché penso che senza di te lui non sarebbe mai venuto. Così porta con te un avvertimento, signora. — Di che si tratta? — Lo sguardo di Jirel incontrò nuovamente quello di Alaric, poi ricadde subito in basso. Non desiderava vedere quegli occhi, se poteva farne a meno. — Quale avvertimento? — Non aprire il cofanetto che porti con te. E prima che lei potesse trovare il fiato per rispondere, Alaric le aveva già sorriso e si era voltato, fischiando per chiamare i suoi uomini. Intorno a lei, sul pavimento, Jirel cominciò a udire sospiri e movimenti. I dormienti cominciavano a destarsi. Rimase immobile ancora per un istante, con lo sguardo allucinato fisso sul cofanetto che stringeva tra le mani, poi si voltò a sua volta e seguì Alaric all'esterno. La notte trascorsa a Hellsgarde era un ricordo, un incubo da dimenticare. Neppure i cadaveri sempre immobili nella loro allucinante vigilanza poterono attutire il senso di trionfo che si stava impadronendo di lei. Jirel percorse a cavallo la strada che la portava lontano da Hellsgarde, immersa nella luce del mattino: una visione simile a un miraggio tra l'azzurro del cielo e il riflesso azzurro delle acque stagnanti delle paludi. Dietro di lei, il Castello di Hellsgarde era una visione di sogno, confusa dal riverbero delle acque e dallo splendore del sole. E mentre cavalcava, Jirel ricordò. Il vortice di violenza al quale aveva sottratto quel cofanetto, la notte precedente... La forza e il terrore della cosa che l'aveva conservato così gelosamente e così a lungo... cosa c'era, all'interno del cofanetto? Qualcosa di simile ad... Andred? Alaric forse non sapeva, ma l'aveva immaginato... Il suo avvertimento risuonava ancora nelle orecchie della Signora di Joiry. Per un po' cavalcò con la fronte corrugata, ma dopo qualche tempo un sorriso maligno le aleggiò sulle labbra e le fece splendere gli occhi gialli. Ebbene... aveva sofferto molto a causa di Guy di Garlot, ma ora pensava che non avrebbe infierito sul suo bel volto sorridente con la lama della sua spada, come aveva sognato con tanta ricchezza d'immagini. No... la sua vendetta sarebbe stata migliore...
Gli avrebbe consegnato un piccolo cofanetto di cuoio dalla serratura di ferro. FINE