RAMSEY CAMPBELL INFLUSSI MALIGNI (The Influence, 1988) RINGRAZIAMENTI Alcune persone estremamente gentili mi hanno aiuta...
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RAMSEY CAMPBELL INFLUSSI MALIGNI (The Influence, 1988) RINGRAZIAMENTI Alcune persone estremamente gentili mi hanno aiutato a scrivere questo romanzo. Mentre mi accingevo a iniziarlo, Dennis Etchison mi ha condotto nella Dark Country, dove Tony Mendoza mi ha comprato una penna a Ensenada perché potessi lavorare sui miei appunti. Durante la stesura del romanzo, ho approfittato della squisita ospitalità di Tom e Barbara Doherty nel Connecticut e Doug e Lynne Winter a Washington, per non parlare della World Fantasy Convention di Providence. Vorrei ringraziare in particolare Howard Kaylan, Mark Volman e Joe Stefko dei Turtles. Inoltre, come sempre, mia moglie Jenny, ottima assistente, e i nostri figli Tamsin e Matty, che hanno reso possibile la nascita di questo romanzo. A Catherine e J.K. Potter, che mi hanno aiutato a rischiarare le tenebre. («L'ultimo sogno rivela sempre la verità», ha detto Guilda Kent.) 1 Quando l'autobus appena fuori Liverpool passò sul cavalcavia, fu investito dal temporale della notte che proveniva dal Galles attraverso la baia. Alison Faraday, che non riusciva a vedere nient'altro che pioggia e luci sfocate sulle banchine e nel porticciolo di Seaforth, provò una sensazione di soffocamento. Alla fine del cavalcavia, le grandi case georgiane di Waterloo sembravano blocchi di fango. Sotto il monumento di Five Lamps, un angelo di pietra circondato da cinque lampioni, un treno scivolò come un'anguilla attraverso il ponte. Passata la stazione, l'autobus procedette fra le pozzanghere superando Thompson Boot Repairers e dirigendosi verso Mount Pleasant, dove le finestre degli edifici più alti rimpicciolivano verso i tetti, mentre Alison si stava già trascinando lungo il corridoio traballante, verso l'uscita. Il palo di cemento fradicio della fermata dell'autobus scivolò sotto le sue dita mentre imboccava la strada laterale e affrontava il temporale di ago-
sto. L'impermeabile e la divisa da infermiera le si incollavano addosso mentre camminava faticosamente lungo il vicolo, passando sotto i lampioni sgocciolanti. Nella strada immersa nell'oscurità, le finestre sembravano sospese nel vuoto, come se la casa di Queenie stesse fluttuando nell'aria, non più trattenuta dalle fondamenta. Era come una nave che naviga oltre le dune, una mole scura che torreggiava imponente sopra le case vicine. Lassù, fra comignoli e pareti di ardesia, la finestra di Queenie mandava una striscia di luce sulla baia. Giunta alla fine della strada Alison sentì lo stomaco stringersi mentre cercava il cancello a tentoni, sotto l'acquazzone. Il vialetto che attraversava il giardino era scivoloso. Alison si piegò sulla borsa per proteggerla dalla pioggia mentre vi rovistava in cerca delle chiavi, poi le aiuole soffocate dalle erbacce furono illuminate dalla luce dell'anticamera. Hermione aveva spalancato la porta. «Derek è uscito per lavoro e lei sta gridando perché vuole Rowan.» Hermione doveva essere corsa alla porta quando aveva sentito il cancello sfregare sul selciato. I suoi lineamenti delicati sembravano perdersi in mezzo alla faccia paffuta; le occhiaie larghe quanto un pollice sembravano più profonde che mai. «Sono rimasta con Rowan per essere sicura che continuasse a dormire.» Alison strinse dolcemente il braccio della sorella e chiuse la porta dietro di loro con il piede. «Adesso va tutto bene, sono qua.» «Sei inzuppata fino alle ossa», proruppe Hermione, con l'aria protettiva della sorella maggiore. «Ti preparo qualcosa mentre ti cambi. Adesso stai tranquilla. È inutile che tu vada di sopra.» «Voglio solo vedere come sta.» Hermione si ravviò i capelli spettinati che stavano ormai ingrigendo e si strofinò la fronte come per cancellarne le rughe. «Penso che tu abbia ragione», riconobbe stancamente. «Capirà che sei arrivata.» L'anticamera lunga quindici metri era abbastanza larga perché ci potesse passare una macchina. L'intonaco caduto sulla lampada di vetro colorato creava ombre dalle strane sagome sulla tappezzeria. Tremando a causa del freddo che regnava nella stanza, Alison salì la scala dai gradini sconnessi. Al primo piano i tre corridoi bui formavano una T. Camminò in punta di piedi lungo il corridoio centrale ed entrò nella camera di Rowan. I mobili bianchi di Rowan, il letto, il cassettone e il guardaroba sembravano perdersi sul grande tappeto logoro circondato dalle pareti rosa pallido. Rowan dormiva con la guancia sul palmo della mano, i lunghi capelli rossi scompigliati sul viso. Quando Alison glieli scostò dagli occhi, la
bambina si girò sulla schiena, borbottando: «Giù, in cantina», benché la casa ne fosse sprovvista. A occhi chiusi assomigliava sempre di più a una versione addolcita di Derek a otto anni: il naso lungo non molto affilato, le tenere labbra corrucciate, l'ampia fronte e il mento squadrato. Alison la baciò sulle lunghe ciglia e le rimboccò le coperte, poi si avviò stanca e inzuppata nella stanza adiacente, che divideva con Derek. Il letto, i mobili della camera e i tre pezzi del salotto del loro appartamento di Liverpool stavano tutti comodamente in quella stanza che aveva così assunto l'aspetto di un monolocale. Si tolse i vestiti e mentre si infilava una vestaglia la porta si aprì e si udirono dei passi lenti. Era Hermione che portava una tazza colma di caffè. Guardò con approvazione Alison che lo beveva e indugiò quando lo ebbe finito. «Vuoi che salga con te?» «Posso farcela da sola», rispose Alison. Poi aggiunse precipitosamente: «Hai già fatto più di quanto dovevi». Le diede la tazza e si avviò verso le scale senza esitare. La seconda rampa era ancora più ripida e Alison si aggrappò alla balaustra malferma. A metà scala sfiorò il muro posteriore della casa e sentì l'intonaco sgretolarsi sotto la tappezzeria annerita. In cima, la scala si ramificava in tre corridoi. I due sullo stesso lato erano immersi nel buio, e nell'oscurità si sentiva il temporale minaccioso. Due lampade pendevano davanti a lei in un gran groviglio di fili e la più lontana era spenta. Appena Alison ebbe superata la prima, la sua ombra riempì il corridoio, coperto da numerosi strati di tappeto che emanavano un odore stantio dovuto all'umidità. Il silenzio permeava le stanze buie oltre le porte che ormai non si incastravano più negli stipiti incrinati. In fondo al corridoio, dove c'era la camera di Queenie, l'oscurità sembrava ancora più profonda. Alison raggiunse la maniglia che pendeva di traverso e aprì la porta. Anche vista dal corridoio buio, la grande stanza appariva avvolta nelle tenebre. I libri, ammassati contro il muro ovunque ci fosse uno spazio libero, sembravano essersi concentrati nella pesante luce grigiastra. In mezzo alle file di libri, le cassapanche e gli armadi neri assorbivano la luce, che arrivava fioca agli angoli della stanza. Tra la porta e la parete opposta, davanti alla grande finestra, Queenie giaceva nel suo letto. Forse aveva guardato il temporale o le luci distanti del Galles, poiché le tende di velluto erano scostate, ma ora sembrava stesse dormendo, con la mano su un libro aperto appoggiato sul petto. Alison ebbe un sussulto. Non aveva mai visto la zia con l'aspetto così rilassato e giovane: il lungo profilo aguzzo con il mento volitivo e i lineamenti che invadevano metà del viso,
come se le strette labbra sottili rivendicassero il proprio spazio, la facevano sembrare più giovane dei suoi ottant'anni. Forse non era semplicemente addormentata? La stanza emanava un odore di disinfettante e di vecchie carte mentre Alison si avvicinava in punta di piedi, trattenendo di colpo il respiro con la paura infantile che Queenie potesse alzarsi improvvisamente con il suo metro e novanta di altezza. Era abbastanza vicina da poter leggere il titolo del libro sotto la mano avvizzita di Queenie: L'educazione del bambino. Poi la vecchia parlò. «Sembri sorpresa, mia cara.» La sua voce era sottile come le sue labbra e tagliente come il suo viso. Doveva aver osservato tutto con gli occhi semichiusi, si rese conto Alison, arrabbiata con il suo cuore che batteva furiosamente. «Sono contenta che tu abbia un interesse.» «Qualcuno dovrebbe averlo in questa casa. La mia piccola è nel suo letto tranquilla, spero, e non sta giocando con i suoi sporchi amici o con quell'elettricista da quattro soldi.» «È mio marito e suo padre», precisò Alison con calma. «E spero gli permetterai di fare qualcosa per l'elettricità qua di sopra.» «Lo farà quando glielo dirò io.» Queenie si mise a sedere appoggiandosi sui gomiti, facendo scivolare il lungo corpo rigido sotto le coperte grigie e puntò il suo pallido sguardo su Alison. «In fondo, dovresti essermi grata per averlo ospitato dopo che l'hai voluto sposare malgrado appartenesse a una classe inferiore, proprio come tuo padre. Tu dirai che è stato per amore», sibilò, sottolineando le ultime parole, poi rabbrividì e la voce si fece più dura. «Vedo che non mi hai ancora portato quelle maschere.» «Queenie, ti ho già detto che non posso portarle via dall'ospedale. Se le infezioni ti preoccupano tanto...» «Non pensarci nemmeno. Rimarrò dove ho sempre vissuto e guai a coloro che cercheranno di portarmi via di qui.» Queenie abbassò il sopracciglio destro, alterando la simmetria del viso, poi lo rialzò con un tale sforzo che fu obbligata a scoprire i denti. Si sedette appoggiandosi al cuscino, con gli occhi chiusi. «Pettinami. Non voglio sembrare una strega.» Era soltanto una donna anziana, sola e inasprita che cercava di non farsi mettere da parte, ripetè Alison a se stessa. Andò alla toeletta vicino alla finestra che tremava nell'oscurità e prese la spazzola e i pettinini. L'alone di luce intorno al letto appariva più debole che mai. Appoggiò i pettinini sulla vecchia trapunta patchwork e spazzolò i lunghi capelli grigi di Queenie all'indietro, liberandole la fronte raggrinzita. Improvvisamente Queenie esclamò: «Non stare lì come una stupida, dimmi che cos'hai fatto oggi».
Alison le raccontò del bambino che avevano circonciso il giorno prima, i cui genitori non erano ancora andati a trovarlo; del bambino di quattro anni che continuava a ripetere: «Sta scappando», a un'allieva infermiera che aveva pensato si riferisse al suo orsacchiotto e l'aveva portato in bagno troppo tardi; del bambino di sei anni che era andato in sala operatoria con il suo mostriciattolo perché fosse operato insieme con lui... Queenie faceva una smorfia ogni volta che la spazzola le tirava i capelli e sembrò disgustata dall'aneddoto del bambino di quattro anni. Da bambina Alison si era sempre sentita prosciugata dalle sue continue domande e ora anche il silenzio sembrava esigere delle risposte. Quando Alison ebbe esaurito il racconto della sua giornata passata in corsia, Queenie la scrutò con l'occhio destro socchiuso. «Mi hai detto molto più di quanto tu creda, mia cara. Mi hai fatto capire quanto sei insoddisfatta della tua vita.» «Non della mia vita, ma solo del sistema, qualche volta. Non ho mai pensato che fare l'infermiera fosse facile e la vita non sempre va come vorresti.» Queenie fece un respiro che scoprì ancora di più i suoi denti. «Mio padre mi ha insegnato che bisogna pretendere il meglio e non accontentarsi mai. Se le persone si rifiutassero di abbandonare gli ideali con i quali sono state educate, il mondo sarebbe migliore.» Si irrigidì quando Alison le puntò i pettinini sopra le orecchie. «Se vuoi il mio parere, dovresti passare meno tempo a curare i bambini degli altri e concentrarti su tua figlia.» Alison abbassò la voce per mantenersi calma. «Rowan ha due genitori ed entrambi...» «Non sto dicendo niente contro la bambina. È quasi perfetta. Assomiglia a me quando avevo la sua età», le spiegò Queenie e guardò Alison per essere sicura che si rendesse conto del grande complimento che le stava rivolgendo. «Soprattutto per il fatto che ama sedersi da sola, a leggere.» Ma tutte le tue letture non ti sono servite a molto, pensò Alison, proprio mentre Queenie continuava: «Stai pensando che avrei potuto fare miglior uso delle mie letture. Mio padre diceva sempre che il nostro dovere nella vita è quello di migliorarci, senza cercare di cambiare il mondo. Ma ora ti sorprenderò ancora una volta. Portami la bambina, e ti farò vedere come posso migliorare le sue letture.» Forse stava perdendo la nozione del tempo. «Magari domani, Queenie. Sta dormendo, ora.» «Tua sorella ha detto la stessa cosa ore fa e io ho lasciato dormire la bambina fino a quando sei arrivata. Non credere di poter fare ciò che vuoi
in casa mia, solo perché non posso muovermi di qui. Tua sorella l'ha capito e dovresti capirlo anche tu.» Alison lasciò cadere la spazzola sulla toeletta e si domandò se non si stesse comportando in modo irragionevole: quanto tempo rimaneva all'anziana donna da passare con la bambina? Rowan non avrebbe iniziato la scuola prima di una settimana, dopotutto. Prima che se ne rendesse conto, Alison stava dirigendosi verso la porta. «È così che si fa: portamela», la esortò Queenie. Alison esitò in piedi fra la finestra e il cerchio di luce attorno al letto. L'impazienza di Queenie l'aveva messa in guardia e l'aveva fatta riflettere. A volte sembrava che Queenie parlasse solo perché la famiglia si sottomettesse a lei, ma come aveva potuto pensare di svegliare la bambina a quell'ora? Si voltò verso Queenie per rifiutare il più gentilmente possibile e la vecchia donna si levò, aggrappata con i pugni alla trapunta, con gli occhi slavati pieni di furia. Un attimo più tardi la porta sbattè. Queenie si sporse in avanti, con le braccia sottili che tremavano sotto il peso del corpo, e protese il mento verso Alison. «Ora mi dai la tua parola che vai immediatamente giù a prenderla.» «Non a quest'ora», replicò Alison e si avviò in fretta verso la porta. Doveva averla fatta sbattere un colpo di vento che non aveva sentito, si disse e, ad ogni modo, non si era mai chiusa bene. Poi si accorse che il colpo l'aveva bloccata. Afferrò la maniglia con entrambe le mani e la tirò fino a quando non sentì la serratura girare a vuoto. Qualsiasi cosa fosse successa, non si sarebbe arresa alle paure della sua infanzia che sentiva crescere di nuovo in lei: Queenie era soltanto una vecchia irascibile e non l'avrebbe pregata di aprire la porta come aveva fatto una volta Hermione. Lasciò andare la maniglia e si voltò verso il letto. «Sembra che dovremo aspettare Hermione o Derek per uscire di qua.» Le labbra di Queenie si contrassero in una smorfia così feroce da sembrare sul punto di spaccarsi. «O mi porti la bambina o ve ne andate da casa mia questa notte stessa, tutti voi. Ricordati che non potresti approfittare della mia ospitalità se non ci fosse lei, e che quindi non è il caso di volerla tenere tutta per te.» «Ti siamo grati, Queenie, ma mi sembravi contenta di avere un'infermiera in casa.» Queenie s'irrigidì: il collo contratto, le braccia ossute come pilastri, gli occhi di ghiaccio. «Pensi che non ce la possa fare, vero? Ti farò vedere io. Porterò qui la bambina io stessa», ringhiò con voce bassa e potente come il
vento prima di spingersi fuori dal letto. Intendeva aprire la porta. Alison si mosse per fermarla, poiché il suo istinto da infermiera le diceva che lo sforzo poteva essere eccessivo per Queenie, il cui viso stava già diventando scuro. O forse era la luce, che si era abbassata improvvisamente, un'oscurità che Alison avrebbe voluto spazzare via come una ragnatela dalla sua faccia o far scomparire con un battito di ciglia. Si chinò verso Queenie, tendendo le braccia, e qualcosa di scuro, grande e soffocante uscì dal letto e si gettò su di lei, buttandola a terra. Erano soltanto le coperte, la trapunta e le lenzuola. Sembrava che volessero avvolgerla mentre cercava di liberarsene, soffocata dall'odore di stoffe vecchie, del corpo malato, di libri consunti, di disinfettante. Nel tentativo frenetico di rialzarsi, s'intrappolava sempre di più. Alla fine riuscì a liberare una mano e a trascinarsi sul tappeto sdrucito fino a districarsi dal groviglio di coperte. Si spinse indietro sulle cosce, si alzò in piedi e si girò verso il letto. Queenie era distesa sulla schiena, sopra il materasso scolorito, e respirava affannosamente. Tutto il corpo sembrava stesse facendo uno sforzo per emettere un suono. Le braccia erano tese lungo i fianchi, le mani stringevano così forte la camicia da notte rosa da mettere in evidenza le costole. I suoi occhi fissavano ciechi e senza colore qualcosa nell'oscurità che solo lei riusciva a vedere. Con una convulsione feroce simile a quella che doveva aver gettato le coperte, sollevò di peso il corpo sui gomiti e sui talloni e riuscì a balbettare: «Papà», come in una preghiera disperata; poi gli anni le inondarono il viso e gli occhi si voltarono all'insù, senza vita. Nell'attimo in cui il mento si abbassò e la bocca si spalancò la luce scomparve con un rumore sordo, come se qualcosa avesse colpito la lampada, e il buio avvolse la stanza. 2 La coppia di anziani coniugi che viveva vicino alla riserva degli scoiattoli vicino a Freshfield insisté perché Derek prendesse la metà delle vivande contenute nel freezer che aveva riparato. Gli spiegarono che non avrebbero potuto mangiare tutto da soli prima che andasse a male, ma insistettero anche per pagarlo a tariffa piena. Il temporale continuava a imperversare sul Galles quando ritornò sulla strada di Southport. A Hightown, dove le piante erano cresciute quasi parallele al terreno, un elicottero di soccorso
sorvolò il mare ronzando. La campagna piatta era immobile, a eccezione delle luci del semaforo che squarciavano l'oscurità con un fascio di luce rossastra. Le costolette di maiale e le bistecche congelate scivolavano nella borsa accanto a lui a causa delle curve e Derek pensò che avrebbe potuto mettersi in proprio se ci fossero state altre persone come quelle. Doveva decidersi e un anno prima aveva pensato di potercela fare, dal momento che il suo datore di lavoro era fallito. A ogni modo, avrebbe voluto lavorare in proprio sin da quando aveva incontrato Alison, ai tempi in cui lavorava al pensionato per allieve infermiere; Alison stava facendo tirocinio per ottenere la qualifica e lui avrebbe dovuto fare altrettanto. Molti dei clienti del suo datore di lavoro avevano conosciuto Derek e avevano dimostrato di apprezzare la sua meticolosità e alcuni si erano dichiarati disposti ad aiutarlo. E fino a un certo punto avevano mantenuto la parola: normalmente fino a quando Derek presentava loro il conto. I piccoli lavori venivano pagati regolarmente; erano le grandi società che lo facevano aspettare e potevano anche usarlo per evitare la bancarotta, ma se non fosse stato per loro, non avrebbe avuto abbastanza lavoro. Aveva più bisogno di soldi di quanto non ne avesse avuto un anno prima. Allora erano stati necessari per trasferirsi da Liverpool, ma ora erano indispensabili per allontanare la famiglia dalla casa di Queenie. Erano rimasti nel misero appartamento di Liverpool fino a quando si erano sentiti sicuri. Gli incendi dolosi avevano colpito gli altri quartieri e gli scontri sulle strade si erano fermati a tre isolati di distanza. Ma quando Rowan aveva iniziato la scuola, si erano resi conto che il Fronte Nazionale si aggirava nei pressi dei cancelli della scuola con volantini razzisti e che i bambini di dieci anni fumavano spinelli nei negozi abbandonati. All'inizio dell'anno un camioncino della polizia, diretto a sedare un possibile tumulto, aveva demolito i pilastri del cancello della casa dove spesso Rowan si soffermava a guardare la strada. Avevano cominciato a lavorare a più non posso, disperatamente, per riuscire a versare l'anticipo per una casa, dopo che i loro risparmi si erano assottigliati in seguito alla nascita inaspettata di Rowan. Era stato allora che Queenie aveva offerto loro di andare ad abitare con lei. Appena si erano trasferiti, Queenie aveva cominciato a passare sempre più tempo a letto. Leggeva tutto il giorno ed esigeva che Alison fosse a sua completa disposizione quando era a casa. Dopo alcune settimane era stata costretta a letto e ciò l'aveva resa ancora più esigente, come se volesse di-
mostrare che il potere era ancora in mano sua. Derek aveva pensato di aiutare Alison nel prendersi cura della zia, ma Queenie gli aveva fatto chiaramente capire quanto lo disprezzasse. Era costretto a contare su di lei e a sperare che parlasse sul serio quando accennava alla possibilità di lasciare la casa ad Alison: questo lo spaventava almeno quanto il potere che lei aveva sulla moglie, e il pensiero che avrebbe potuto esercitare la stessa influenza anche su Rowan. Premette il piede sull'acceleratore fino alla periferia. Superata Crosby e raggiunta Waterloo, le case si ammassavano, squallide e desolate. Mentre svoltava nella strada laterale, udì lo sbattere di una boa oltre le dune che si trovavano di fronte alla casa di cura. Fuori del porticciolo il radar della guardia costiera individuava i movimenti della notte. Derek parcheggiò vicino alla casa di Queenie, sotto l'ultimo lampione. La strada era immersa nel silenzio a eccezione dell'acqua che colava da una grondaia e dello sciabordio soffocato delle onde del mare. Aprì il cancello del vialetto ormai rovinato ed entrò in casa, dirigendosi verso il soggiorno, con la finestra illuminata. Ma l'unico segno di vita nella tetra stanza con l'enorme camino spento era un romanzo di Lisa Alther, appoggiato sul divano in pelle. Doveva essere uno dei libri di Hermione, che sembrava affascinata da quel genere di narrativa. Era giunta dal Galles per tenere compagnia ad Alison. Derek passò accanto alle scale e si diresse verso la cucina. Non c'era nessuno nemmeno nella stanza con il pavimento di pietra e la cucina in metallo annerito. Mise la carne nel frigorifero di Alison e ritornò in anticamera, aprendo tutte le porte che rivelarono solo stanze buie: la sala da pranzo con il lampadario polveroso che oscillava leggermente, la stanza da lavoro piena di macchine coperte da teli, il soggiorno con i quadri, il pianoforte e le fotografie ingiallite. Sperò che le donne di casa stessero dormendo, per un meritato riposo. Salì le scale malridotte nel profondo silenzio nel quale la casa sembrava essere sprofondata dopo il temporale. Rowan stava mormorando qualcosa senza senso nel sonno. Derek si fermò fuori della stanza, assaporando quell'attimo di spontaneità, poi aprì la porta. Hermione sedeva sul letto, con un braccio disteso lungo la testata e il capo chinato verso la bambina. La porta scricchiolò ed Hermione alzò lo sguardo di scatto, brandendo il bastone che aveva tra le mani. «Sono io, Hermione», le sussurrò. «Derek.» La donna strinse gli occhi nella penombra, poi sorrise. «Non so che cosa stavo pensando. Sono venuta qui perché ho sentito Rowan che si agitava e
devo essermi appisolata.» «Dov'è Ali?» «Di sopra. È salita...» Diede un'occhiata al piccolo orologio d'oro e i suoi lineamenti si contrassero. «Più di un'ora fa.» «Non sentirti in colpa. Vado a vedere perché ci mette tanto. Nel frattempo, che cosa ne diresti di prepararti una bella tazza di tè fumante?» «Prepararne una per te, vuoi dire?» «Se Ali sapesse leggere nel mio pensiero come fai tu, sarei ancora scapolo», la stuzzicò Derek. Pensava di averla rincuorata ma poi notò lo sguardo di panico che gli lanciò mentre saliva le scale. Aveva rifatto l'impianto elettrico dei piani inferiori senza dirlo a Queenie, in modo che la casa risultasse meno pericolosa, ma il piano superiore era più buio che mai. Un'unica lampada illuminava i muri storti del piano avvolti nell'oscurità, dove si trovava la camera di Queenie. Guardò attentamente e si accorse che nessuna luce filtrava da sotto la porta. Procedette velocemente ma con attenzione lungo il corridoio. Vide che la porta era incastrata. Bussò lievemente sul pannello superiore, pieno di incrinature, per assicurarsi che Queenie stesse dormendo. Fu Alison che rispose. «C'è qualcuno lì? Sei tu, Derek?» Aveva parlato con voce bassa e tesa, e sembrava appoggiata contro la porta. «Sì, sono io», la tranquillizzò. «Spostati, mentre cerco di smuoverla.» Appena la sentì allontanarsi, afferrò entrambi gli stipiti della porta conficcando le dita nel legno, e sferrò un calcio alla serratura. La porta si aprì di colpo, la maniglia rovinò l'intonaco della parete interna e Alison uscì di corsa dalla stanza, cercando la luce nel corridoio e bisbigliando: «Chiudi la porta». Derek non riuscì a vedere nulla nella stanza se non il buio, che sembrò investirlo come una folata di vento che faceva vibrare i vetri delle finestre. «Che cosa?...» Alison si voltò mentre raggiungeva l'interruttore. «Se n'è andata. Le ho misurato il polso.» Derek si rese conto che Alison stava cercando di soffocare ciò che sentiva dentro. Chiuse la porta e corse da lei, le mise un braccio intorno alle spalle e le sollevò il grazioso visino dagli zigomi pronunciati che lasciavano intravedere una determinazione simile a quella della zia, pur non possedendo i lineamenti distorti che caratterizzavano il suo volto. Il sorriso appena accennato fece nascere in lui la voglia di abbracciarla e di accarez-
zare i capelli neri che arrivavano alle spalle, per ricordarle quanto l'amava e la stimava. Rendendosi conto che lei non avrebbe potuto resistere ulteriormente la condusse al piano inferiore e poi non poté fare a meno di chiederle: «Per quanto tempo è stata via la luce, Ali?» «Pochi minuti. Forse mezz'ora. Non potevo aprire la porta, e non volevo urlare per non svegliare Rowan.» «Mio Dio, perché non sono rimasto qui?» Non osava immaginare come doveva essersi sentita e voleva che lei parlasse per poterla aiutare in qualche modo. La stava portando verso la loro camera, dove sperava potesse sdraiarsi per un po' mentre lui pregava Hermione di non disturbarli, ma proprio in quel momento arrivò di corsa la cognata. «Il tè è pronto», esclamò, ma la voce e il viso si misero a tremare. «Che cosa c'è che non va?» «La zia è morta», rispose Derek. Hermione guardò in alto, più nervosa che mai. «Voglio vederla.» «La luce non funziona, di sopra.» «Puoi cambiare la lampadina, no?» Sembrava vicina a una crisi isterica e Derek non sapeva come tenerla lontana da Alison. «Toglierò la corrente dall'ultimo piano. È un miracolo che abbia continuato a funzionare così a lungo.» «È successo quando lei era ancora viva. Dammi la tua torcia, voglio andare a vedere.» «Andremo su insieme mentre lui toglie la corrente», replicò Alison. Il tono sembrava rassicurante, anche se molto probabilmente era la prima ad aver bisogno di essere tranquillizzata. «Lasciami staccare i fusibili», la pregò. «E poi accompagnerò io Hermione, se proprio non può aspettare.» Ma i fusibili sembravano incollati nel polveroso contatore sotto la scala. Derek stava ancora cercando di smuoverli quando le due donne presero la pila dalla sua macchina. Prima che potesse fermarle, erano ormai salite al piano di sopra. Era riuscito a sbloccare un fusibile e poi l'altro quando udì un grido soffocato. Gettò il fusibile rotto nella pattumiera e corse verso le scale. Il silenzio che regnava là sopra gli piaceva ancora meno di quanto gli fosse piaciuto l'urlo. La poca luce dell'ultimo piano era concentrata nella camera di Queenie. Derek distinse le due donne, in piedi davanti alla porta, con i profili delineati dal fascio di luce della torcia. Per un attimo la luce fu diretta verso di lui che si avvicinava con cautela sulle assi schiodate, poi ritornò a illumi-
nare la camera. Sul materasso spoglio giaceva una donna anziana. La morte l'aveva afferrata per il mento, facendola rimanere con la bocca spalancata e le aveva spinto in dentro le guance. Ma non era difficile riconoscere Queenie, anche solo per il fatto che la lunga camicia da notte rosa non arrivava a coprire le gambe magre segnate dalle vene, ma sembrava più vecchia di quanto sarebbe mai potuto apparire un essere umano. Non c'era da meravigliarsi che le due donne fossero quasi ipnotizzate da quella visione; dopo un attimo Alison mormorò: «Vai a vedere, se vuoi, Hermione». Hermione fece un passo all'indietro, incassando il collo nelle spalle e scuotendo la testa violentemente. «Be', allora», proseguì Alison, «reggi la torcia mentre la copro.» Hermione fece quasi cadere la torcia. La luce del corridoio oscillò verso di loro, aprendo la stessa bocca che aveva inghiottito Queenie. Derek fece per afferrare la torcia ma si rese conto che Alison stava cercando in tutti i modi di tenere occupata la sorella. Poi Hermione si sforzò di dirigere la luce sul letto, mentre Alison chiudeva gli occhi che fissavano, privi di vita, due punti opposti della stanza. Quando si allungò per raccogliere le coperte, la luce iniziò a tremare. «Stai attenta!» urlò Hermione. Derek pensò che si fosse rivolta a lui. Corse nella stanza e afferrò le coperte, aiutando Alison a stenderle sopra il cadavere. Alison prestò la massima cura nel rimboccarle sotto il materasso e sotto il mento di Queenie, prima di uscire dalla camera, nonostante la luce tremasse così violentemente da dare l'impressione che il pavimento si muovesse sotto i piedi. «Che cosa stavi dicendo, Hermione?» chiese dolcemente Alison quando oltrepassò la soglia della stanza. «Non l'hai vista muoversi? Sta solo fingendo. È un altro dei suoi orribili scherzi.» «Probabilmente era la luce, cara. È morta. Riposa in pace, ora.» «La conosci bene, no?» Hermione si piegò sulla torcia come per proteggerla. «Guardala», sussurrò. «Ci sta ascoltando, non lo vedi? Dio aiutaci, sta sorridendo...» Afferrò la torcia con entrambe le mani e diresse il raggio di luce verso la faccia della morta. Ora che Alison le aveva chiuso la bocca e rimboccato la trapunta sotto il mento, il cadavere sembrava stesse sorridendo, come se fosse sul punto di proferire parola e non osasse ancora farlo. «Sta architettando qualcosa», gridò Hermione, prima di precipitarsi in preda al panico giù dalle scale, quasi sbattendo la torcia contro la parete.
Qualcosa si mosse in fondo al corridoio. I muri vacillarono e il pavimento scricchiolò. A quel punto Derek prese la torcia e diresse il fascio di luce verso il corridoio, individuando Rowan, che sbadigliava e si stropicciava gli occhi. «Mamma, perché siete tutti qua? E perché Hermione stava gridando?» Derek diede la torcia ad Alison e le chiese: «Era ancora accesa la luce da Jo ed Eddie quando sei andata alla macchina?» «Credo di sì, ma...» Ma Derek non voleva che Rowan potesse vedere che cosa c'era nella camera di Queenie o fosse influenzata dal panico di Hermione. Condusse in fretta Rowan nella sua stanza e vide dalla finestra che c'era ancora qualcuno alzato in casa di Jo ed Eddie, tre case più avanti, sull'altro lato della strada. «Infilati il cappotto e le scarpe e andiamo a vedere se puoi dormire con i tuoi amici, per questa notte», le spiegò. «C'è qualcosa che non va, papà?» Fu colpito dal suo sguardo serio, dal suo desiderio di rendersi utile e di dimostrarsi grande. «La vecchia signora è morta questa notte e la notizia ha sconvolto Hermione.» Rowan si strinse il bavero al collo quando uscirono sulla veranda. Il vento che soffiava dal mare era così freddo che sembrava far sobbalzare le stelle. Jo ed Eddie stavano guardando una videocassetta, ma spensero la televisione quando videro Rowan. «Puoi dormire nel letto di Mary, così le farai una sorpresa quando si sveglierà domani mattina», propose Jo, invitando Rowan ad andare di sopra senza nemmeno chiedere a Derek quale fosse il problema. Raccontò a Eddie della morte di Queenie e declinò l'offerta di un whisky. «È meglio che torni a casa a vedere come stanno», si giustificò, preparandosi a calmare Hermione per permettere ad Alison di dare sfogo ai suoi sentimenti. Ma quando entrò in casa, ebbe la sensazione che la notte si fosse infiltrata attraverso il tetto; trovò le donne nel soggiorno che stavano bevendo tranquillamente da grandi bicchieri, con una bottiglia di gin e una di acqua tonica sul pavimento in mezzo a loro. Avrebbe potuto pensare che il peggio fosse ormai passato se non avesse notato il modo in cui Hermione aveva fissato la porta per vedere chi stava entrando. Sembrava quasi che fosse decisamente più terrorizzata ora da Queenie di quanto non lo fosse quando la vecchia era ancora in vita. 3
Il giorno del funerale, appena il sole sorse sopra il Galles, la foschia notturna si ritirò oltre le montagne. Rowan si trovava nel piccolo giardino di Hermione che degradava verso la valle e il lago artificiale e guardava il mare attraverso le colline della penisola di Wirral, verso Waterloo. Alla fine Derek decise di portarla in paese per comperarle un telescopio. Alison sapeva che se ne stava andando con la bambina perché i membri della famiglia potessero parlare. Aveva sperato che non ne sentisse il bisogno. Non era solo il fatto che fosse lenta a fare amicizia, come quando si erano conosciuti e aveva dovuto aspettare che si incrociassero tre volte davanti al pensionato prima che le chiedesse di uscire con lui. Forse era ancora convinto che la vita familiare non fosse molto adatta a un tipo come lui, o forse, ed era quello che sperava, riteneva semplicemente che la casa fosse troppo affollata ora che la famiglia si era riunita. Hermione era in cucina con sua madre, Edith, e preparava panini al prosciutto per il dopo funerale. Alison si trovava nel soggiorno, che era grande la metà di qualsiasi camera da letto della casa di Queenie. Le piante erano in fiore sul davanzale della finestra, sulla pietra grezza del camino, sulle mensole delle bianche pareti dall'intonaco trascurato. Il padre, Keith, era seduto vicino alla finestra, con lo sguardo tranquillo rivolto al cielo, e si accarezzava il mento, quel mento di famiglia che aveva tanto caratterizzato Queenie. Quando fece un cenno in direzione della poltrona di fianco a lui, Alison si sedette e gli appoggiò la testa sulla spalla. Rimasero immobili, in silenzio, condividendo ricordi che sentivano assopiti dentro di loro come durante gli interminabili pomeriggi estivi dell'infanzia fino a quando lui prese la pipa e lei si rimise a sedere. «Sarai contenta del testamento», cominciò. «In fondo Queenie non era poi tanto cattiva.» «Non credi che fosse proprio così? Non era cattiva, si sentiva sola.» «La cattiveria e la solitudine erano strettamente collegate, ma non chiedermi che cosa venisse prima», replicò con uno strano sguardo assente. «Spero solo che la sua casa vi renda la vita più facile.» «Sono sicura di sì. Solo che continuo ad avere la sensazione che sia capitato proprio al momento giusto, la sua morte voglio dire, come se... l'avessi aiutata ad andarsene.» Suo padre si raddrizzò e cercò di apparire severo. «Che cosa ti fa pensare una simile stupidaggine? Su, dillo a papà.» «Mi sembra di averla resa più debole, permettendole di dipendere esclu-
sivamente da me, e tutto così all'improvviso. Se l'è sempre cavata bene da sola ed ecco che non faccio in tempo ad arrivare e lei muore.» «Se è questo che ti preoccupa, potevi dirmelo prima. Non avrebbe mai voluto dipendere da nessuno, a meno che non fosse stato assolutamente necessario. Credimi, deve aver cominciato a contare i suoi giorni quando ti ha chiesto di trasferirti da lei.» Hermione uscì dalla cucina con la madre, sbocconcellando un panino con l'aria colpevole. «Alzati e lascia sedere Hermione», ordinò Edith a Keith con un tono di rimprovero, come se lui avesse dovuto mostrarsi più preoccupato nei confronti della figlia. Mentre si alzava, Alison non poté fare a meno di pensare con una punta di risentimento che era lei a essere rimasta intrappolata nell'oscurità. Si era sentita in trappola per ore. Se avesse cercato di aprire la porta, avrebbe soltanto rotto la maniglia e così era rimasta lì in silenzio, aspettando di sentire qualcuno, chiunque, che salisse da lei. Aveva cercato di non guardare dietro di sé, specialmente quando lo sbatacchiare delle finestre sembrava provocare un movimento sul materasso dove giaceva la morta, ma ogni tanto aveva avuto la sensazione che Queenie si fosse alzata furtivamente dal letto, avvicinandosi a lei a piedi nudi e abbassando la faccia con gli occhi spenti rivolti in direzioni opposte, così da trovarsi all'altezza di Alison quando lei si fosse girata a guardare. Ogni volta che Alison si era voltata, aveva visto Queenie sdraiata sul letto, ed erano solo i lampi attraverso la pioggia che batteva sulla finestra a dare l'impressione che lei tendesse i muscoli, pronta ad alzarsi sul materasso. Alison si era sentita intrappolata in una versione da incubo del gioco che faceva a scuola, nel quale ci si doveva girare velocemente per scoprire chi si stesse muovendo. Forse era successo qualcosa del genere a Hermione, da bambina; non era più stata la stessa dal giorno in cui era corsa fuori dalla camera della zia, singhiozzando. Una ragione in più per non risentirsi del modo in cui sua madre si preoccupava per Hermione, ripetè Alison fra sé. «Derek ha portato Rowan a fare qualche compera», spiegò. «Non dovrebbero stare via molto.» Edith abbassò la testa e la guardò come attraverso un paio di occhiali invisibili, con la larga faccia rubiconda incassata nel collo. «Non vediamo l'ora di abbracciare la nostra piccolina. Speravamo che tu venissi un po' più spesso, ora che non abitiamo più tanto lontano.» Vivevano a Cardiff, a un giorno di macchina su strade che non erano mai così diritte o così tranquille come loro le vedevano sulla cartina. «Ver-
remo sicuramente, appena sarò di nuovo motorizzata», la rassicurò Alison. «La mia vecchia auto ha esalato l'ultimo respiro quando ci siamo trasferiti da Queenie.» «Anche quando avevi la macchina, non è che ti abbiamo visto molto. Hermione riesce sempre a venire, anche se deve chiudere il negozio e prendere il treno.» Il fatto che avessero quindici anni meno di Qùeenie non significava che gliene rimanessero ancora quindici per godersi la nipotina, rammentò Alison, mentre Hermione cercava di giustificarla. «I bambini di Ali hanno più bisogno di lei che il mio negozio di me.» «Spero che ti apprezzino quanto noi», borbottò Edith. «Ricordatevi solo che sarete sempre le benvenute, ogni volta che vorrete compagnia.» «Per me non c'è bisogno che vi preoccupiate», replicò Hermione con voce così stridula da dimostrare esattamente il contrario. «Be', lo sai meglio di me», borbottò sua madre in un tono che riuscì a combinare speranze e risentimento, poi allungò il collo per guardare fuori della finestra. «Ecco Derek con la nostra piccola e un'altra persona.» «Sarà mio fratello», disse Keith. «No, non è Richard. Santo cielo, credo sia suo figlio. » «Potrebbe essere lui: so che l'hanno dimesso dall'ospedale», ammise Keith. «Immagino che sotto quella barba ci possa proprio essere Lance.» In effetti si trattava proprio di Lance, che Alison non vedeva da anni. Lei ed Hermione avevano sempre avuto un po' paura di lui. Aveva vent'anni e lavorava come impiegato statale quando le due sorelle ne avevano cinque e otto, ma non erano mai andate con lui sulla spiaggia di Waterloo per scoprire il suo segreto, anche se questo le avrebbe condotte lontano da Qùeenie. Per quanto ne sapesse Alison, non aveva mai fatto del male a nessuno, ma la consapevolezza delle sue tendenze sessuali anomale doveva essere stata per lui un vergognoso e insopportabile peso perché quando suo padre aveva scoperto il suo deposito segreto di riviste la sua mente aveva ceduto: non solo aveva negato che fosse suo, ma aveva iniziato a negare anche di essere Lance. Hermione lo fece entrare ed esclamò vivacemente: «Ciao, Lance. Non ti aspettavamo, ma siamo contenti di vederti». Alison pensò che Lance era una delle paure dell'infanzia che Hermione riusciva ad affrontare. Il cugino era diventato completamente calvo, con la testa rossa come la faccia e le guance nascoste da una folta barba rossiccia. Indossava il classico abito grigio da impiegato statale, ma consunto come quelli forniti dalla previdenza sociale. «Così tuo padre non viene?» chiese Edith. «Avevamo capito il contra-
rio.» «Ha detto che sarebbe venuto.» Lance si soffermò un attimo, aprendo leggermente le pallide labbra come se facesse fatica a respirare attraverso la barba. «E poi ha spiegato che era stato costretto ad andare via di casa per colpa della zia Qùeenie e non voleva che lei pensasse che l'aveva perdonata solo perché era morta.» «Entrambi ce ne siamo andati appena siamo stati in grado di condurre la nostra vita», precisò Keith. «Mi spiace solo che i nostri genitori non siano riusciti a fare altrettanto.» «Così Richard ha mandato te», lo aggredì Edith. «Sono stato io a voler venire», rispose Lance, più lentamente di prima. Alison si rese conto che la sua strana indolenza era il risultato delle cure cui lo avevano sottoposto all'ospedale. «Ho pensato che qualcuno dovesse venire e io avevo voglia di vedervi. Spero che non vi dia fastidio.» «Siamo contenti che tu l'abbia fatto», assicurò Hermione. «Allora non pensate che sia stato sfacciato a venire a portare le mie condoglianze? Ho sempre avuto un po' paura della zia Queenie. Avevo la sensazione che riuscisse a capire qualsiasi cosa avessi in mente.» Hermione si girò di scatto verso la finestra. «Sono pronte le macchine?» chiese. Le limousine sarebbero dovute arrivare nel giro di mezz'ora. Derek rimase fuori con Rowan, lontano da Lance, e la piccola continuò a osservare la baia, brontolando perché il telescopio, troppo costoso, non le era stato comprato. Ogni tanto Derek lanciava un'occhiata ad Alison attraverso la finestra, facendole l'occhiolino o una smorfia, come se stesse ingoiando per sbaglio una fetta di limone o se cercasse di allontanare dagli occhi l'immagine della famiglia riunita. Alison gli tirava fuori la lingua quando nessuno la guardava: non aveva mai detto che la vita familiare non prevedesse lati negativi. Continuarono a conversare per quanto possibile, evitando di parlare di Queenie per riguardo a Hermione e prestando attenzione ogni volta che Lance voleva dire qualcosa. L'arrivo delle limousine fu una liberazione. Derek, Rowan e le due sorelle salirono sulla prima macchina grigia; Lance e gli altri li seguirono sull'altra. Gli anziani delle fabbriche sulla strada costiera rimasero in piedi in segno di rispetto e guardarono passare le limousine. Un treno, sulla ferrovia che costeggiava la spiaggia, superò le macchine a Glan-y-don, un altro le raggiunse a Ffynnongroew, poi le auto voltarono a Talacre e la fila si raggruppò vicino al vecchio faro ormai in
disuso, salendo da Gronant fino alla chiesa. Queenie e i suoi genitori avevano affittato un cottage per la stagione estiva a Gronant. Quando la madre era morta, il padre di Queenie aveva voluto che fosse sepolta vicino al posto che amavano di più. Si era poi trasferito in una camera all'ultimo piano della casa di Waterloo in modo da poter vedere la tomba dove un giorno si sarebbe ricongiunto alla moglie. In una giornata come quella, con il sole splendente, avrebbe potuto vedere ben poco. La baia si era trasformata in una distesa di diamanti luccicanti, e la costa sabbiosa vicino alla casa di Queenie irradiava fasci di luce. Il vicario li aspettava all'entrata della cappella, una costruzione tozza dai muri bianchi, e li guidò all'interno, dove finestre decorate con figure di santi riflettevano la luce sulle panche di legno. Tutto era calmo e Alison sperava che anche la sorella lo fosse. Ma Hermione puntò lo sguardo sulla bara, nella navata laterale. «Chi ha voluto lasciarla scoperta?» Si guardarono perplessi l'un l'altro. «Dirò loro di chiuderla», mormorò Keith. «Prima dovremo salutarla», esclamò Hermione spavalda, incamminandosi verso la bara. Alison la seguì, con la sensazione grottesca di poter improvvisamente vedere il mento di Queenie spuntare dalla bara. Gli impresari delle pompe funebri avevano addolcito i suoi lineamenti e conferito alle guance una freschezza che ricordava ad Alison quella degli ultimi giorni, quando sembrava che Queenie riuscisse ad apparire più giovane grazie all'incrollabile fede in se stessa. In fondo, appariva molto più serena di quanto l'avesse mai vista Alison. Ma Hermione barcollò in avanti, le braccia tremanti lungo i fianchi e guardò fisso dentro la bara. «Chi gliel'ha dato?» proruppe, quasi urlando. 4 Non avrebbe dovuto portare Rowan, pensò Derek con rabbia. Aveva temuto che Hermione perdesse il controllo, ma questo era peggio di quanto avesse potuto immaginare. Qualsiasi cosa avesse visto nella bara, sembrava intenzionata ad andare a prenderlo a qualsiasi costo. Cercò di portare via Rowan per non farla assistere a quello spettacolo, ma la bambina continuò a voltare la testa mentre la conduceva verso il portico. C'era confusione nella cappella. Edith aveva afferrato il braccio di Keith mentre cercava di allontanarsi dagli impresari di pompe funebri. Lance se ne stava in piedi, triste, in mezzo alla stretta navata laterale e il vicario sbirciava dietro
di lui. Derek spinse Rowan vicino al vicario. «Le dia un'occhiata mentre vedo che cosa sta succedendo», mormorò e, facendosi largo fra gli astanti, raggiunse l'entrata della cappella. Hermione e Alison stavano guardando dentro la bara e Alison cercava di trattenere la sorella per un braccio. Derek si affrettò, sforzandosi di attutire il rumore dei passi sul pavimento irregolare di pietra. Non notò niente di strano. Il viso dell'anziana donna era truccato dolcemente, le mani erano appoggiate sul petto e gli impresari delle pompe funebri avevano trovato un vestito bianco abbastanza lungo da coprirle le caviglie. «Che cosa succede?» bisbigliò. Hermione lo fissò come se avesse paura di parlare. «Ci stiamo chiedendo come mai Queenie abbia indosso quel medaglione», lo informò Alison. L'aveva già notato, un medaglione d'oro a forma di cuore infilato in una catena d'oro appoggiato sul petto della donna. «Non è un medaglione qualsiasi», protestò Hermione, abbassando la voce quando Derek le lanciò un'occhiata di disapprovazione. «Alison sa che cosa vuol dire.» «Vuol dire», spiegò Alison, «che conteneva i capelli di Rowan. E suppongo che siano ancora lì dentro.» Queenie aveva chiesto una ciocca dei capelli di Rowan in occasione del primo taglio, e Derek non aveva mai capito perché Alison avesse esitato. «Ti ho detto che avresti dovuto riprenderteli», piagnucolò Hermione, alzando la voce. «Non avresti dovuto darle niente di Rowan.» Se Hermione aveva intenzione di coinvolgere Rowan in quella scenata, avrebbe portato la bambina a fare una passeggiata. Ma la navata era di nuovo bloccata dagli impresari di pompe funebri. «Mi hanno spiegato che lasciano sempre la bara scoperta, a meno che non gli si dica di fare diversamente», intervenne Keith, «così tutti possono porgere l'estremo saluto. Comunque poi la chiuderanno.» La famiglia si avvicinò prima che Derek potesse portare fuori Rowan. Quando riuscì finalmente ad avanzare lentamente, con discrezione, verso di lei, gli uomini delle pompe funebri sollevarono il coperchio. «Non dobbiamo lasciare il medaglione», gridò Hermione. «Cerca di controllarti, Hermione», la invitò la madre, con voce bassa e tagliente. «Mostra un po' di rispetto per la morta. Probabilmente desiderava tanto portarlo e questa è l'unica cosa che ci deve interessare.» Hermione si guardò attorno, disperatamente. A parte Lance, che le lanciò uno sguardo vuoto e ritornò a fatica alla panca, tutti gli altri sembravano suggerirle un certo controllo. Alison la guidò al suo posto, sussur-
randole: «Non hai motivo di preoccuparti, cara. Fai come me.» Ma le spalle di Hermione si misero a tremare convulsamente quando udì il tonfo sordo del coperchio e il quasi impercettibile cigolio delle viti. Durante il funerale, Derek continuò ad avvertire le occhiate nervose di Hermione in direzione di Rowan. Il vicario ricordò che la loro sorella, ormai nelle mani di Dio, era stata una donna di rara cultura e un punto fermo per coloro che l'avevano conosciuta, qualità che si riscontravano sempre più raramente nelle persone. Derek, appena gli fu possibile, portò Rowan fuori dalla cappella, raggiungendo gli addetti delle pompe funebri che sgranocchiavano biscotti in una delle limousine, tenendo una mano a coppa sotto il mento per raccogliere le briciole. Anche Rowan sparse una manciata di terra sulla bara, come Alison e i suoi genitori. Sulla via del ritorno, Rowan volle sapere da dove provenisse quell'usanza, ma nessuno sembrava ricordarlo. Hermione fissò le sue mani vuote, come se si fosse pentita di non aver gettato la terra, in modo da placare Queenie o aiutare a riempire la tomba. Giunta al cottage, Rowan capì che gli adulti volevano parlare fra di loro e perciò uscì in giardino con alcuni panini e un bicchiere di succo d'arancia. Ma la conversazione sfiorò soltanto l'argomento del funerale. «Almeno ora riposa dove aveva sempre desiderato», esordì Edith, e negli occhi di Hermione si dipinse un'espressione di paura. Derek non riuscì più a sopportare il tono timoroso della conversazione. «Con suo padre, vuoi dire», esclamò. «Le ha fatto credere di essere la persona più importante del mondo», intervenne Lance e lo stomaco di Derek si contrasse per la lentezza delle sue parole: la cura sembrava essere stata dolorosa quanto la malattia. «Voleva tenerla sempre vicino a sé, anche da morto.» «Questa era solo una stupida storia con cui voi bambini amavate spaventarvi», precisò Edith a Hermione. «È facile per te liquidare la cosa in questo modo, mamma, ma tu stessa non eri mai così nervosa come quando venivi lasciata sola con lei.» Derek cercò di venirle in aiuto. «Perché avevate così paura di lei? A me sembrava solo una povera vecchia. Che cos'era tutto quel trambusto per Rowan e il medaglione?» «Aveva l'abitudine di terrorizzare Hermione quando eravamo piccole», spiegò Alison, «e la paura non scompare di colpo, solo perché adesso lei se n'è andata.» «Ti rivelerò una cosa, Derek, che ti aiuterà a capire», disse Hermione,
mentre lui apriva la bocca per richiuderla immediatamente. «Quando ero ancora una bambina, le diedero uno dei miei primi dentini, e vuoi sapere che cosa mi ha detto quando sono stata abbastanza grande per capire? Mi ha detto che se avessi fatto qualcosa che a lei non fosse piaciuto o detto qualcosa contro di lei, mi avrebbe fatto sentire come se mi avessero strappato quel dente. Saresti contento se qualcuno parlasse in questo modo a Rowan?» «Che cosa ne pensi?» «È la prima volta che ne sento parlare», dichiarò Edith. «Mamma, ho cercato di dirtelo, ma mi hai sempre risposto esattamente come adesso: per te erano tutte sciocchezze. Ma ho notato che non le hai mai dato un dente di Alison.» L'avvicinarsi di una lite familiare fece sentire a disagio Derek, che cercò di prevenirla. «Non mi meraviglio che non vi piacesse, ma dovete esservi accorte che non avrebbe mai potuto mettere in pratica le sue minacce.» Hermione non sapeva dove guardare, poi lanciò a Derek un'occhiata di sfida. «Invece l'ha fatto.» «Cosa? Vuoi dire che lei?...» «Ogni volta che dicevo qualcosa su di lei che pensavo non le piacesse, il dente che era cresciuto al posto dell'altro cominciava a farmi male. Questo dente», precisò, picchiettando con un dito tozzo la gengiva inferiore nella parte sinistra della bocca. «Povera piccola. Grazie a Dio siamo tutti cresciuti. Da quanto tempo avevi la sensazione che fosse lei la causa del tuo mal di denti?» «Dalla notte in cui morì.» Derek non sapeva che cosa dire. Percepì quella fitta dolorosa allo stomaco che aveva già provato quando aveva incontrato Lance. «A ogni modo, ora è morta, Hermione», la tranquillizzò suo padre. «Non hai alcun motivo di preoccuparti per te o per Rowan.» «Possa riposare in pace», mormorò Hermione, «cosa che non ha lasciato fare a tuo padre.» Fissò con ansia Rowan, che stava gettando la testa all'indietro per bere l'ultima goccia di aranciata. «Volevo chiedervi di lasciarmi Rowan per il fine settimana, mentre sistemavate la casa di Queenie, ma ora che avete visto come sono paranoica credo che preferirete portarla via con voi.» Derek lanciò un'occhiata ad Alison, che lasciò decidere a lui. «Rimarremo qui anche noi», aggiunse Edith. «Rowan può fermarsi qui, se lo desidera», rispose Derek. Poi uscì a
chiederglielo e Rowan saltellò per la gioia: Derek si rese conto che era stato ingiusto con Hermione. Avrebbe dovuto sapere, come tutti, d'altra parte, che non era facile dimenticare ciò che si vive da bambini. Rowan sarebbe stata bene, ripetè a se stesso, con tre adulti che avrebbero avuto cura di lei. Chiuse gli occhi, alzò il viso verso il sole e sorrise alle sue paure: sicuramente lì non c'era niente che avrebbe potuto fare del male a Rowan. 5 «Caro diario, stamattina ho pulito la stanza, ma Hermione non mi ha fatto usare l'aspirapolvere anche se a casa l'ha passo sempre, ma ieri avevo aiutato in negozzio perché la nonna mi aveva detto di aiutare Hermione a sceglere quelo che piaceva ai bambini, poi siamo andati tutti quanti a fare una passegiata nel posto che preferisco, giù nella vallata di Greenfield, piena di vechie industrie e tutto il resto...» Quella domenica mattina Rowan si era sistemata su una sedia nel giardino del cottage di Hermione. Là fuori, scrivere aveva un sapore diverso: aveva la sensazione di fondersi nell'atmosfera settembrina, con il suono delle campane che oltrepassava le colline, incessante come lo sciabordio del mare in lontananza. Di tanto in tanto, lembi d'erba simili a folate di fumo sventolavano verso di lei e la brezza le si riversava sul viso con la dolcezza di una crema di latte. Quando depose il diario sul prato, un lettore invisibile iniziò a sfogliarlo. Rowan volse lo sguardo sulla baia in direzione di Waterloo e iniziò a immaginare come le sarebbe apparsa la casa della prozia da quel momento in poi. La casa era cambiata dalla notte in cui Queenie era morta, ma non riusciva bene a capire come. Forse era soltanto più vuota. Era stato il senso di vuoto e l'impressione che qualcuno la stesse chiamando a indurla a salire le scale quella notte, ancora semiaddormentata. Era infelice e non le era stata nemmeno data l'opportunità di salutarla per l'ultima volta. È triste quando muore qualcuno anche se in vita era un personaggio capace di incutere timore. Per quanto spaziosa fosse la camera di Queenie, Rowan si era sempre sentita soffocare dalla sua stessa ampiezza, dall'odore dei libri e dei disinfettanti e dalle tendine a rete che ricamavano il mondo esterno in una fantasia sbiadita. Queenie voleva sempre sapere che cosa faceva durante la giornata, ponendo domande su domande, ed era peggio che stare a scuola, dal momento che, inoltre, aveva sempre dato l'impressione di conoscere
perfettamente ogni risposta. Si era sempre sentita inghiottire da quegli interrogatori. Una volta Rowan si era spaventata proprio come Hermione, anche se la zia aveva sempre cercato di nasconderlo. Ogni sera doveva dare la buonanotte alla prozia, scalando il suo letto simile a un mucchio di polvere, per andare ad abbracciare le spalle ossute della vecchia. Rowan chiudeva gli occhi allungando il collo per andare a baciare quelle labbra secche come il becco di un uccellino. Li riapriva solo quando scendeva dal letto, ma una volta, qualche sera prima della sua morte, Rowan era rimasta agghiacciata dallo sguardo sgomento che aveva notato negli occhi della vecchia prozia. Era stata solo un'interruzione momentanea di corrente, ma se Queenie aveva paura del buio, perché non aveva permesso che papà le aggiustasse l'impianto elettrico? Le aveva detto che non avrebbe mai funzionato in quelle condizioni. Nonostante la luce del sole, Rowan si sentì percorrere da un brivido e si mise a osservare gli uccelli che si andavano raggruppando sui rami di un alberello davanti a lei, finché la nonna non la chiamò dalla finestra della cucina. «Vieni qui un attimo, tesoro. Ti piacerebbe accompagnare il nonno a fare una passeggiata mentre noi prepariamo da mangiare?» «Possiamo sempre prendere la macchina se vuoi risparmiare i muscoli delle gambe», fece eco lui dalla finestra del salotto. «Questa è un'idea grandiosa», urlò Rowan precipitandosi immediatamente in bagno prima che qualcuno le ordinasse di farlo. Poi tornò di corsa dal nonno. «Per favore, potremmo andare a Talacre?» «Nel paese della cuccagna, eh? Va bene, puoi scegliere tu, dal momento che è la tua ultima giornata.» La bambina sorrise davanti a tanto entusiasmo. «Non intendevo dire proprio Talacre. Mi piacerebbe fare una passeggiata fino al faro.» «Non hai paura di Virginia Woolf? No, forse non sei ancora in grado di capire la battutina.» «Invece sì. So che è una scrittrice. La prozia aveva uno dei suoi libri in camera sua. Quando sarò grande voglio scrivere anch'io libri che tutti possano leggere. Ci sto già provando, ma le storie non mi vengono lunghe abbastanza.» «Sei una signorinella piuttosto all'antica, lo sai? Ma non ti cambieremmo mai per un modello nuovo.» «A me piacciono le cose vecchie.» «Allora è per questo che vuoi uscire con me. Bene, andiamo subito sulla
spiaggia prima che le tribù degli Homo Transistorus inizino con il loro rito delle bottiglie in frantumi», concluse, sospingendola verso la sua bagnarola. Con i freni tirati al massimo, si diressero giù per la collina, verso la vallata. Lungo la strada costiera gli alberi avvolsero l'auto in un tunnel grigio cupo interrotto qua e là da archi di luce; poi la strada si appiattì ai piedi della collina stracolma di fogliame. In men che non si dica, svoltarono verso il mare aperto. Oltre la sopraelevata sulla ferrovia c'era Talacre, con le sue case, simili a tante roulotte senza ruote, ammassate al riparo delle dune erbose scintillanti. Di fronte, dall'altra parte della strada, c'era una sfilata di capanne in mattoni che ospitavano sale giochi, negozi di souvenir, ricevitorie per scommesse e tavole calde, per non parlare della Boathouse Bingo che distribuiva ricchi premi e cotillons. Il nonno posteggiò vicino alla fotografia di un pirata con sacco e occhio bendato di fronte allo Smugglers Inn, una capanna con archi di mattoni bianchi incastonati nella facciata, e insieme si recarono in spiaggia. Alle spalle delle case, un sentiero pieno di rovi si districava tra le dune. Tra i cespugli, sulla spiaggia, sporgevano le rovine di vecchie costruzioni: qui un frammento di parete, là un pezzo di camino, dal quale, di tanto in tanto, spiccava il volo qualche corvo. Mentre la sabbia si faceva sempre più soffice sotto i loro piedi, il nonno iniziò a sudare e ad asciugarsi la fronte con un fazzoletto gigantesco. A fatica si arrampicò sull'ultima duna e si lasciò andare su uno spiazzo circondato da un prato ispido. «Vai avanti tu, ma resta dove ti posso vedere, da brava. Fai attenzione ai cavalli che ci sono sulla spiaggia.» Rowan corse alla volta del faro che si ergeva su un panettone di cemento a strapiombo sul mare, circondato dalle rovine di mura ormai semicrollate. All'inizio la sabbia era un unico pastone fangoso che lanciava luccichii metallici e che si trasformava gradualmente in granelli veri e propri intercalati da ciottoli, sempre più grossi nei pressi delle macerie. Due tronconi di mura avvolti da un filo metallico erano rimasti in piedi per dividere il niente dal nulla. Accomodati al riparo delle dune c'erano gruppi di famiglie, ma l'unica persona che si era avvicinata alle macerie era una vecchia grassona con un vestito a fiori, la faccia carnosa, un mento appena distinguibile e un colletto sigillato da un fiocco a farfalla. Il nonno la salutò in lontananza e si distese sulla duna, mentre Rowan proseguiva in direzione del faro. Le piaceva Talacre dove i videogiochi la trasportavano in qualche bel
viaggetto nello spazio. Ma il faro era ancora meglio: era più vecchio, più solitario. Sperava di riuscire a raggiungere la balconata che circondava la lanterna ormai in frantumi per fare una sorpresa al nonno. Ma, anche se le finestre sul fusto bianco del faro erano aperte, la porta d'ingresso era stata murata con mattoni. Si sedette contro il muro del faro e si mise a guardare il mare. All'orizzonte della distesa d'acqua tremolavano chiazze di colore dorate e biancastre. Hermione le aveva spiegato che quando faceva bel tempo si riusciva a vedere la loro casa di Waterloo. Secondo Rowan, tutte le giornate erano belle, ma lei non era mai riuscita ad avvistare casa sua. Stava strabuzzando gli occhi quando udì una voce chiederle: «Che cosa stai cercando?» Non era la grassona. Rowan si parò gli occhi con una mano e guardò in direzione del muro, dove notò una ragazzina più o meno della sua età con indosso un lungo vestito bianco, ormai fuori moda. La ragazza si stava tenendo il mento, come fosse chissà quale lanterna magica, e la stava fissando pallidamente. «Stavo cercando di vedere casa mia», le rispose Rowan. «Là in fondo? Anch'io abito da quelle parti.» La ragazzina si avvicinò ma, al pensiero di sedersi sul cemento, arricciò il naso. «Pensavo che volessi salire sul faro. » Suonava come un invito. «Non si può entrare», ribattè Rowan. «Credo che sia pericoloso.» «Io ci sono stata con mio padre e sono riuscita a vedere casa mia.» «Come avete fatto? Tuo padre lavora qui?» «Intendi dire se fa il guardiano del faro?» La ragazzina le lanciò un'occhiata tanto penetrante quanto tagliente. «Niente di così meschino. Che lavoro fa tuo padre?» «L'elettricista. A sentir lui, fa faville.» Un sorriso ironico increspò le labbra della ragazzina. «Non prendermi per una snob. Mio padre mi ha insegnato a salutare tutti, persino i commercianti, per tenere tutti al proprio posto.» Deve abitare a Crosby e forse frequenta una scuola privata, ne dedusse Rowan. Poi proseguì, con rabbia: «Tutti sostengono che è il migliore. A volte mi porta con sé e ho visto con i miei occhi quanto è bravo». «Ti ha mai chiesto di aiutarlo?» Rowan stava per scoppiare, ma fu trattenuta da un luccichio negli occhi pallidi della ragazzina. «No.» «Spero che non te lo chieda mai. Sarebbe illegale. Finirebbe in prigione se tu lavorassi persino senza che lui lo sappia. E poi potresti anche farti
male.» Non sono affari tuoi, pensò Rowan provando un senso di vulnerabilità e di responsabilità nei confronti di suo padre. «Sei qui con tuo padre, vero?» le chiese. La ragazza si impettì rigida e volse lo sguardo verso il sole, proiettando la sua ombra su Rowan, quasi che la sua tristezza si fosse resa tangibile. «Non so dove sia.» Rowan avrebbe voluto esprimere la sua comprensione se non fosse stato per il fatto che, sotto quelle parole, percepì il covare di emozioni più forti. La grassona stava per essere trascinata lungo la spiaggia da una bambina con la bocca sporca di lecca lecca verde e da un bambino con un cappello da cowboy. «Sei qui con tua madre allora?» provò Rowan. «È lei?» «La donna con quei due schifosi bambini? Spero che tu stia scherzando.» Suonava minacciosa, pur continuando a tenere lo sguardo fisso verso il sole. «Che scuola frequenti?» le chiese Rowan tanto per dire qualcosa. «Non ho bisogno di andare a scuola. Mio padre potrebbe fare da insegnante a qualsiasi maestro del mondo.» Rowan si rese conto che qualsiasi tentativo di sarcasmo avrebbe potuto avere conseguenze pericolose. «Adesso devo andare. Mio nonno mi ha raccomandato di restare in un posto da cui lui potesse vedermi.» La ragazzina si voltò per fissarla. Aveva gli occhi luminosi e privi di colore, come il sole che aveva appena finito di contemplare. «Non c'è bisogno che te ne vada così alla svelta. Resta un po' con me.» «No, non posso.» Rowan puntò le mani sul cemento bollente e cercò di rimettersi in piedi, ma la luminosità degli occhi della ragazzina le aveva indebolito le membra. Il luccichio della catena d'oro, che dal collo le spariva nel vestito, sembrava bruciare gli occhi di Rowan che cercò di distogliere lo sguardo. Si sforzò di alzarsi ma ricadde sul cemento. Si sentiva la testa leggera come una bolla di sapone e le gambe tremanti, mentre le dune si allontanavano inesorabilmente dal faro. È solo il caldo, cercò di convincersi, il nonno saprà come fare per farmi sentire meglio. Sollevò un piede in avanti per mantenere l'equilibrio. «Va bene, se devi proprio», rispose infine la ragazzina mentre Rowan tendeva una mano per appoggiarsi alla gigantesca struttura del faro che sembrava lontana decine di chilometri. Premette il palmo contro l'intonaco caldo e il mondo tornò in sé, le dune si riavvicinarono. Con prudenza ripercorse la strada sul cemento e notò che la ragazzina la stava osservando
con espressione indefinibile: sorpresa, forse, ma non solo. «Resterai mia amica anche quando saremo a casa?» le chiese. Rowan si sentì attraversare da un senso di solitudine, simile a un'ombra. «Se ti incontrerò, sì», rispose. «Non temere, ci rivedremo. Ti porterò qualcosa che ti piacerà moltissimo.» Rowan scese dalla piattaforma di cemento sulla spiaggia soffice. «Comunque, come ti chiami?» «Vicky», rispose la ragazzina con aria assente, alzando lo sguardo oltre le dune su cui si era sdraiato il nonno. Rowan si voltò a guardare se stava facendole per caso dei segnali, ma notò che era ancora disteso. Sentendola avvicinare, si svegliò sbattendo gli occhi. «Da brava, resta dove ti possa vedere», bofonchiò e tornò ad appisolarsi. Rowan si mise allora alla ricerca di qualche ciottolo adatto a decorare il giardino di Waterloo una volta che il nonno avesse terminato di sistemarlo. Non si era accorta che Vicky si era allontanata, ma evidentemente la ragazzina si era tolta il vestito, perché sulla spiaggia non si vedeva nulla di bianco per chilometri e chilometri. Quando il nonno si risvegliò, le disse che era ora di tornare a casa per il pranzo. Al cottage Rowan venne a sapere che suo padre era stato trattenuto dal lavoro e che non sarebbe passato a prenderla che a pomeriggio inoltrato. Dopo pranzo si mise a leggere uno dei libri che le avevano regalato i nonni e le restò anche il tempo per fare merenda prima che arrivasse l'auto di papà. Questi la sollevò da terra e l'abbracciò. «Ha fatto la brava? Puoi tenerla con te, se ti va, Hermione», scherzò, rendendosi subito conto di aver detto una sciocchezza. Rowan prese la valigia e la borsa con i ciottoli, poi si avviò alla macchina insieme con il padre. Al volante, Derek non fu molto loquace ma a lei piaceva anche solo restargli accanto, guardando le case rossastre e gli alberi che luccicavano contro il tramonto. Tutt'a un tratto, il pensiero di non potergli più stare vicino al lavoro la rattristò. Ogni tanto era lei che gli portava gli attrezzi del mestiere e i fili, ma l'idea che potesse finire in prigione per colpa sua le tolse persino il coraggio di guardarlo in faccia. Mentre il sole sprofondava dietro le colline, l'automobile imboccò l'autostrada. Le macchine lampeggiavano con gli abbaglianti contro le auto con i fari ancora spenti. Al termine dell'autostrada, il Mersey Tunnel era illuminato come la corsia di un ospedale. A metà galleria, Rowan si ritrovò a pensare alle barche che veleggiavano in superficie. A Liverpool l'auto
svoltò nella strada del porto, costeggiato dai lunghi magazzini pieni di finestre buie. Il papà borbottava a ogni buca sull'asfalto. Rowan adorava andare in giro a quell'ora tarda: anche le strade più familiari apparivano completamente nuove e misteriose. Non vedeva l'ora di tornare a casa, dopo tutte quelle ore di assenza. Ma quando scorse il cartello appeso alla porta d'ingresso si sentì agghiacciare da un'ondata di freddo polare e la mente parve sprofondare nelle tenebre. La casa era stata messa in vendita. 6 «Derek e Alison Faraday non sono in casa in questo momento. Se volete lasciare il vostro nome, numero di telefono e scopo della telefonata, verrete richiamati al più presto...» Quando erano tornati dal funerale, c'erano numerosi messaggi ad aspettarli. L'agente immobiliare, per cui Derek aveva lavorato rifacendo l'impianto elettrico in molte proprietà, voleva essere richiamato, così come Robin Ormond, il commercialista di famiglia: «Vorrei controllare che abbiate tenuto aggiornati i registri. Se non sento notizie, richiamerò sabato mattina». «Non so quello che è successo», commentò Alison. «È come un robot, quello lì. Non pensa ad altro che alle cifre», ribattè Derek, mentre la voce rimbombava nel trascuratissimo ingresso. «Aggiornerò i registri solo se avrò tempo, altrimenti quell'idiota potrà anche aspettare. Sarà meglio andare subito di sopra a vedere che cosa c'è da fare.» «Comincia tu, io intanto preparo la cena.» Gli prese il viso fra le mani gelate prima di lasciarlo andare. «Non preoccuparti tanto per la nostra situazione finanziaria, ormai il peggio è passato, ne sono sicura.» Lui le fece scivolare una mano fra i capelli e andò e serrarle il collo per baciarla, sfiorandole appena la punta della lingua. «Ti aspetto di sopra», le disse con una strizzatina d'occhio. Per la prima volta da quando si erano trasferiti, non si sentiva inibito. Quel posto era solo una vecchia casa, un po' troppo grande, ma niente di sgradevole. Era un sollievo non avere più il pensiero di sentirsi un intruso; oltrepassò le scale e andò ad aprire le finestre per far uscire l'aria stantia. Sfiorò il lampadario e lo fece tintinnare, fece scorrere le dita sulla tastiera del pianoforte e poi si diresse al piano di sopra. L'aria era ammuffita più che mai. Il fetore delle tenebre, pensò. Aprì le
porte nella speranza di ottenere un po' di luce, ma la maggior parte delle finestre sudicie erano coperte di drappi, come il resto degli oggetti delle stanze. Eppure doveva esserci un lucernario, da qualche parte, sul tetto della casa. A tastoni si portò nella zona frontale, dove spalancò la porta della stanza di Queenie. Il puzzo di libri vecchi era talmente pesante che sembrava oscurare le ultime luci del giorno. Fu consolante constatare che l'odore di disinfettante era sparito. Stava fissando il materasso a righe, che tanto somigliava all'interno di una bara, quando si accorse di comportarsi come se qualcuno gli avesse proibito l'ingresso in quella stanza. Allora entrò e, a grandi passi, si diresse verso la finestra; l'aprì e si mise a respirare profonde boccate d'aria salmastra, mentre con lo sguardo sorvolava la baia del Galles. Pensando a Rowan, tornò con lo sguardo sui libri. Non era mai stato un grande lettore. Al massimo, si concedeva qualche pubblicazione specializzata oltre al giornale che sfogliava durante le varie pause per il caffè. Sapeva quali erano i libri preferiti di Rowan. L'aveva osservata spesso mentre leggeva con gli occhi sgranati sulle pagine, come se volesse divorare tutti i libri esistenti al mondo. Era orgoglioso della sua passione per la lettura e voleva trovare i libri che Queenie avrebbe desiderato farle leggere. Passò da una pila all'altra, augurandosi di non dover sfilare i libri da sotto mucchi più alti di lui. La sua ombra fluttuava intorno come se i mobili fuligginosi emanassero figure. Trovò i libri per bambini ammucchiati accanto al letto. Non sarebbe stato possibile trovare nei negozi libri come quelli, con le alte coste piene di scritte e immagini. Mise una mano sulla pila e l'altra in basso per sollevare i libri. Stava per dirigersi verso la porta quando dal mucchio schizzarono alcune pagine, come succede alla polpa della frutta ormai marcia, e la pila di libri si rovesciò sul letto. Con cautela, prese un libro che in copertina riportava la figura di un santo. Cercò di separarne i fogli, ma questi si spezzarono come pane fradicio. Tutti i libri per bambini e quelli che parlavano di fede e volontà si trovavano nello stesso stato. Lei parlava spesso di fede e volontà e all'inizio lui aveva pensato che la considerasse una coppia amica. C'erano anche libri in francese, tedesco e altre lingue irriconoscibili. «Guarda in che stato sono ridotti», disse ad Alison appena lo raggiunse di sopra. «Dev'essere stata davvero una donna straordinaria se è riuscita a leggerli.» «Non sono tutti così.» Alison aprì il libro che stava in cima alla pila accanto al letto e si mise a esaminarlo. «Non riesco a capire. Stava leggendo
questo la notte in cui è morta.» I caratteri stampati erano illeggibili, le pagine erano quasi incollate. «Forse era un altro», suggerì Derek ad alta voce, nel tentativo di scuoterla dall'incredulità. «Comunque, non credo che valga la pena tenerli. Andiamo a prendere le casse del tè.» Avevano tenuto quelle cassette fin dal trasloco da Liverpool. All'inizio Alison esaminò ogni singolo libro, ma, dopo averne visti troppi in stato indecente, iniziò a gettarli via a manciate. «Finisco io qui, tu inizia a fare la cernita dei vestiti», propose Derek. Arricciò il naso appena aprì il primo cassetto colmo di biancheria ingiallita e piena di ragnatele, come se non fosse stata usata per anni. C'erano altri due cassetti colmi di vestiti impastati con uova di ragno e gli altri contenevano solo libri dalle pagine incollate. «È come se la sua anima se ne fosse andata da questa stanza», mormorò Alison, rialzandosi dalla cassettiera. Andò ad aprire il guardaroba nero e lo fece con tanta forza da farlo vacillare. Un lungo abito bianco ondeggiò verso di lei e Derek lo vide disintegrarsi, mentre frammenti di tessuto colpivano il viso di Alison. La colpa era delle tarme che svolazzarono subito fuori della finestra. «Credo che lascerò tutto così fino a domani», concluse lei. Dopo aver messo tutti i libri nelle cassette, sulle pareti comparvero macchie scure che si allargavano con l'avvicinarsi della sera. Il duro lavoro che li aspettava depresse Derek. «Questa stanza ha bisogno di essere completamente smantellata», commentò. «So io di che cosa c'è bisogno.» Alison gli afferrò la mano e fece scorrere dolcemente un pollice sul palmo. Poi lo accompagnò nella loro stanza al piano di sotto. Andarono a sedersi sul letto e si spogliarono. Si studiarono i corpi a vicenda con le mani e con le labbra. Alison chiuse le gambe, lunghe e calde, attorno ai fianchi di Derek che scivolava tranquillo dentro di lei. I suoi movimenti ondeggianti lo risucchiarono più a fondo, poi lui si gonfiò ed esplose con tale violenza che entrambi restarono senza fiato. Godendo, Derek percepì la presenza di Queenie al piano di sopra, come una grande macchia scura. Dopo cena si concentrò sui registri. Fortunatamente Ken, il costruttore edile per il quale aveva rifatto l'impianto elettrico nelle case ristrutturate, gli aveva liquidato quasi tremila sterline. Ma avrebbe potuto incassare l'assegno solo di lì a una settimana. A mezzanotte era ancora alle prese con i libri mastri, sforzandosi di scrivere piccolo per restare nelle righe. Si sentiva soffocare dai debiti e dalle stanze vuote.
La mattina dopo, a sorpresa, arrivò Tony dell'agenzia immobiliare, per fare una prima valutazione della casa. «Si dice che vogliono rifare l'impianto elettrico della scuola di tua figlia. Se fossi in te, mi farei conoscere», lo informò, mentre Derek lo seguiva nelle varie stanze. La casa non frutterà mai più di diecimila sterline, pensò con il terrore di sentirselo confermare. Tony esaminò la casa, facendo tintinnare le monetine che teneva in tasca: diede un'occhiata ai soffitti, battè contro le pareti che si sbriciolavano sotto il suo tocco, e si grattò il testone irsuto. Continuava a fischiettare sommessamente, ma non proferì parola finché non si trovarono con Alison sul vialetto incolto. A quel punto la testa di Derek sembrava scoppiargli per la tensione. «Io chiederei una cifra più alta di quella che potremmo aspettarci. Ci saranno comunque richieste», commentò Tony. «Immagino che non impugnerete il testamento, quindi la metterei in offerta a un prezzo di vendita di ventitremila sterline.» Poteva significare un guadagno di ventimila. Ventimila sterline avrebbero risolto tutti i loro problemi, avrebbero garantito loro la possibilità di prendersi una vacanza dopo tanti anni e avrebbero assicurato l'acquisto della casa che sognavano senza doversi sobbarcare un mutuo più impegnativo di quanto potessero permettersi. Derek strinse la mano a Tony, poi ad Alison e le sorrise radiosamente mentre Tony si allontanava promettendo loro di mandare qualcuno che valutasse i mobili. Derek riuscì persino a sorridere alla vista della Mini di Robin Ormond che parcheggiava lungo il marciapiede davanti al cancello. Il commercialista era alto come Alison ma era il doppio di stazza. Indossava un vestito estivo azzurrino e guardò con sospetto la sedia che Derek gli offrì per sedersi al tavolo da pranzo. «Vuole per favore fornire a quella piccola donna uno strofinaccio prima che arrivi qualcuno a vedere la casa?» suggerì prima di infilarsi gli occhialini che sembravano costantemente sul punto di scivolargli sul faccione piatto. «Presumo che questi siano i registri. Bene, vediamo che cos'è possibile fare.» Sfogliò lentamente i libri mastri, sfregando gli angoli delle pagine fra pollice e indice. «Povero me. Ma, non penso proprio. Oh, ma davvero?» rifletté prima di perdere la pazienza. «Non c'è ricevuta per questo? Non si riesce a decifrare questa parola. Caro mio, non è così che si scrive 'calcolare'.» All'ultima pagina alzò le braccia. «Non si accettano mai assegni postdatati.» «Ho la sua parola che lo coprirà. Se non altro significa che ho ottenuto una scadenza di pagamento.»
Il commercialista chiuse gli occhi e scosse la testa. «Avrebbe dovuto fargli causa o minacciare di trascinarlo davanti alla legge. O meglio ancora, non dovrebbe lavorare con questo genere di persone.» «Se non lavorassi con questo genere di persone, non otterrei mai nessun lavoro importante.» «Sta imboccando una brutta strada», esclamò il commercialista in tono d'accusa. «Suppongo che dovrò rivedere tutti i registri, ma ci sarà bisogno di prendere in considerazione qualche modo per razionalizzare il suo lavoro. Potrebbe ritrovarsi in gravi crisi di liquidità. Se non paga tutti questi debiti, potrebbe non avere il capitale necessario per far fronte alle tasse di Natale.» Derek fu sul punto di riferirgli quello che Tony gli aveva detto, se non fosse stato per il fatto che avrebbe messo in dubbio anche quello. Forse era meglio raccontargli tutto con i soldi in tasca, per vedere che faccia avrebbe fatto. Più tardi, Tony tornò a fotografare gli esterni e la prospettiva della vendita gli tenne su il morale per tutto il fine settimana, mentre aiutava Alison a pulire la casa. Programmarono di andare a riprendere Rowan con comodo, fermandosi a pranzare in una trattoria con giardino lungo la strada. Ma domenica mattina Derek venne chiamato in una delle case di cura oltre le dune. Alison restò in casa a preparare la cena in attesa di Rowan, e illuminò il vialetto d'ingresso per dare il benvenuto alla piccola che scendeva dall'auto. Le aveva preparato il suo stufato preferito, quello che Rowan aveva assaggiato per la prima volta da Jo, ma la ragazzina lo toccò appena. «Mi spiace, mamma, ma Hermione mi ha offerto qualche tramezzino a merenda.» «Tipico di mia sorella. Non preoccuparti, piccola, la cena non andrà a male, se è di questo che hai paura.» Rowan non parlò finché non si trovò immersa nella gigantesca vasca da bagno, mentre Alison le lavava la schiena e Derek aspettava con l'asciugamano in mano all'altro capo del bagno piastrellato. Rowan sollevò un piede e rimase a osservare le bollicine che svanivano tra le dita. Poi disse: «Ma dobbiamo proprio andarcene di qui?» «Sbrigati, Rowan, è già passata l'ora di andare a letto», rispose Alison. «La casa è troppo grande per tre persone soltanto, tesoro.» «Non pensavamo che la cosa ti importasse tanto», aggiunse Derek, mentre Rowan affondava nell'asciugamano. Quando lei gli rispose con un'occhiata risentita, riprese dicendo: «Coraggio, dicci quello che preferiresti fa-
re». «A me piace tutto, qui», rispose Rowan con le stesse parole dei libri che leggeva. «Mi piace ascoltare il mare e il vento mentre sono a letto, e le barche che mi danno la buonanotte, come mi avevate detto voi la prima sera che abbiamo dormito qui. Mi piace uscire e andare subito in spiaggia e ormai pensavo di poter invitare a casa anche i miei amici per giocare. Mi sarebbe davvero piaciuto continuare a vivere qui, più di ogni altra cosa.» «Andiamo a letto adesso, sei molto stanca», suggerì Alison. Mentre la piccola lottava con la camicia da notte, indugiando per nascondere il viso, Alison le prese la mano. «Non possiamo permetterci di restare, Rowan. Forse non andremo molto lontano. Non abbiamo ancora iniziato a cercare un'altra casa. Comunque sceglieremo un posto che piaccia anche a te.» Il visino di Rowan sbucò faticosamente dal collo della camicia. Tratteneva a stento le lacrime. «Perché le persone che devono dare i soldi a papà non lo pagano?» sbottò e poi assunse subito un'espressione mortificata. «Cercherò di non stare troppo male quando ce ne andremo», aggiunse con un filo di voce. Il commercialista non era riuscito a inculcare un senso di colpa a Derek, ma Rowan sì: la colpa e la sensazione di approfittare di lei. Era stata Queenie a convincerla che quella sarebbe stata la sua casa? Più tardi, mentre Alison preparava tutto per riuscire a svegliarsi in tempo e prendere il primo autobus per Liverpool, Derek restò sdraiato nel letto, con la mente affollata di cifre, come se ci fosse la possibilità di trovare un tesoro nascosto fra tutti quei calcoli: per quanto Rowan cercasse di rassegnarsi, sapeva che si sarebbe aspettata una magia da parte sua. Sfortunatamente, nemmeno lei era riuscita a convincere il funzionario di banca con cui, ultimamente, Derek conferiva sempre più spesso e freddamente. Stava per sprofondare nel sonno, quando le cifre, che si accavallavano nel suo cervello, diventarono rosse. Nel bel mezzo della notte venne svegliato dalla voce di Rowan. Sembrava che stesse parlando al telefono in sogno, facendo frequenti pause per aspettare le risposte. Rimase in ascolto, anche se non riusciva a distinguere le parole; poi gli venne il sospetto che si fosse messa a parlare nel sonno per l'immensa tristezza che provava. Allora scivolò assonnato fuori dal letto e imboccò il corridoio. La stanza era buia. Quando spinse delicatamente la porta, notò che la luce che si apriva a ventaglio sul tappeto non riusciva a raggiungere il letto. Probabilmente la luce l'aveva tranquillizzata, pensò Derek, mentre gli oc-
chi mettevano a fuoco l'interno della camera. Vide che il letto era vuoto e contemporaneamente udì di nuovo la sua voce. Era al piano di sopra. Salì le scale deformate e sprofondò nelle tenebre. Appena appoggiò i piedi nudi sul tappeto umido e irregolare, svanì qualsiasi traccia di sonno. Sentiva Rowan davanti a sé. Procedette a tastoni lungo la parete, appoggiandosi alla tappezzeria che sembrava fondersi e alle porte fredde e scivolose, fino a raggiungere un rettangolo grigiastro, molto simile a una lastra di ghiaccio. Strabuzzò gli occhi e lo oltrepassò, riuscendo a scorgere in modo confuso la camera di Queenie. Mentre metteva a fuoco le varie sagome all'interno della stanza, notò una figura bianca distesa sul letto. Rowan era rannicchiata sul materasso spoglio e teneva un braccio teso; le dita si muovevano leggermente, come se cercassero la mano che stringevano durante il sonno. «Sì, sulla spiaggia», mormorò. Derek la prese in braccio senza svegliarla e s'incamminò verso il piano inferiore, cercando di rimanere al centro del corridoio buio. La rimise a letto, le rimboccò le coperte e si assicurò che dormisse tranquilla, prima di scivolare nuovamente accanto ad Alison. Probabilmente non era completamente sveglio quando si era infilato in quella camera, decise, avvertendo di nuovo la sonnolenza. Per un attimo, mentre sollevava Rowan, gli era parso che ci fosse qualcun altro nell'enorme stanza buia. 7 Appena i genitori se ne furono andati, Hermione iniziò a togliere le erbacce dal giardino. Da una finestra aperta proveniva la voce di un comico che raccontava barzellette in gallese alla televisione, e una falciatrice ronzava su un prato in lontananza: per il resto, la collina sopra Holywell appariva tranquilla mentre la sera calava sulle montagne. Cumuli di nuvole dello stesso colore dei piccioni e dei colombi si radunavano sulla lontana striscia di mare, muovendosi lentamente. Tutt'intorno i giardini, i cottage e i campi stavano restituendo le ore di luce al pallido cielo del crepuscolo. Avrebbe potuto sedersi a osservare il paesaggio che sembrava rinascere sotto le nuove luci, ma aveva bisogno di lavorare quasi quanto il giardino aveva bisogno di essere ripulito. Prima che i genitori ritornassero a Waterloo aveva preparato un'abbondante cena, e se ne era servita con troppa generosità. Il giardinaggio le avrebbe impedito di sedersi all'interno della villetta, sgranocchiando cibo in continuazione, come un roditore dal muso paffuto rinchiuso in una dispen-
sa. Sapeva di mangiare ogni volta che era nervosa, ma che scusa poteva accampare in quel momento? Queenie era morta, e con lei i fantasmi della sua infanzia, e forse era giunta l'ora di ricordare, fra la preoccupazione per i genitori in viaggio e l'idea che Alison e Derek potessero essersela presa troppo. Anche se Queenie aveva trasformato la sua infanzia in un incubo, non c'era ragione per cui quel terrore dovesse governare il resto della sua vita. Quella considerazione rappresentava il primo passo verso la libertà. Se fosse riuscita a incolpare Queenie senza sussultare, forse sarebbe stata anche in grado di perdonarla; forse, come aveva fatto in apparenza Alison, avrebbe potuto accettare la giustificazione che Queenie era una povera zitella sola e inacidita, senza molta dimestichezza con i bambini. «Cerca di stare dove posso tenerti d'occhio», le aveva ordinato Queenie quando Hermione si era trasferita nel cottage. Hermione scoppiò a ridere fragorosamente, pensando che una simile frase era riuscita a renderla nervosa persino all'età di trent'anni. Ormai era troppo vecchia per farsi spaventare da Queenie, pensò fra sé e sé, quando il telefono squillò nel cottage. Si precipitò all'interno con tale irruenza che la vista le si annebbiò per un attimo, lasciandola completamente al buio mentre afferrava il ricevitore. «Pronto!» urlò. La foga con cui aveva risposto lo lasciò di stucco, incapace di parlare per qualche secondo. «Sono Lance.» «Sei tu, davvero?» chiese Hermione, tranquillizzandosi. «Che cosa posso fare per te?» Lance rispose in un soffio e lei dovette chiedergli di ripetere. «Il numero di Alison», bisbigliò, come se la donna gli stesse volutamente rendendo tutto più difficile. «Sì, che cosa c'è?» Aveva assunto l'atteggiamento protettivo che usava quando consigliava Alison di non andare in spiaggia con lui. «È piuttosto occupata in questo periodo, Lance. Che cosa volevi dirle?» «Parlarle della ragazzina.» Hermione respirò profondamente, scegliendo le parole più adatte. «Non credo che al marito di Alison farebbe piacere il tuo interessamento. Se hai voglia di parlare con qualcuno, puoi sempre farlo con me.» «Non è come pensi.» Doveva aver premuto il ricevitore contro la faccia a causa del senso di frustrazione legato alla donna e alla propria lentezza, perché la voce si fece sempre più vicina, anche se più varia e indistinta. «Stavo pensando alla vecchia.»
«A Queenie? A che cosa, in particolare?» «Al testamento. Volevo discuterne con Alison. Mi risulta piuttosto difficile parlare.» «Le dirò che stai cercando di contattarla e magari sarà lei a chiamarti. È la cosa migliore, non ti pare?» «Spero che sia così», borbottò in modo tanto indistinto da costringerla ad aspettare il seguito. «Potresti ricordarle che non ho mai fatto del male a nessuno.» Tranne a te stesso, pensò Hermione. Si era rinchiuso nelle sue fantasie, facendosi lacerare dai sensi di colpa e quando depose il ricevitore non riuscì a provare altro che un profondo senso di pietà. Se era davvero convinto che Queenie sapesse leggere nella sua mente, forse doveva essere ancora più terrorizzato di lei. Si chiese se per caso Lance non avesse contribuito ad accrescere le sue stesse paure. Era quello che avevano fatto i suoi genitori. Le visite alla zia le incutevano timore soprattutto perché i suoi stessi genitori sembravano impauriti, anche se facevano finta di niente quando venivano invitati. La cosa peggiore era mangiare di fronte a Queenie: bastava che qualcuno lasciasse cadere un pezzetto di cibo sulla tovaglia oppure per terra perché subito la zia battesse con le nocche sul tavolo e si mettesse a urlare: «Guardate che cos'ha combinato la mocciosa». Era capace di far sentire chiunque come un animale seduto a tavola, come se i presenti non facessero altro che sbavare o sporcarsi, o come se il rumore delle mandibole fosse assolutamente insopportabile. Quando alla fine riceveva il permesso di alzarsi da tavola, la situazione non migliorava di certo: era come se l'intera casa si rendesse conto della presenza di Hermione, come se gli oggetti attendessero con ansia che la bambina toccasse qualcosa che non avrebbe nemmeno dovuto sfiorare, oppure che facesse cadere un soprammobile o che sbirciasse in una delle numerose stanze nelle quali i bambini non potevano entrare. Molto tempo prima di andarsene, Hermione si sentiva pervasa dalla strana sensazione di essere costantemente osservata. Iniziava a provare rabbia e non più paura; era inutile continuare a fingere che Queenie non fosse cattiva. Hermione conficcò la forca nell'aiuola di fiori, ripensando alla notte successiva alla sepoltura del padre di Queenie. La zia non era mai stata crudele come in quell'occasione, quando Hermione si era azzardata a mostrarsi comprensiva con lei. Aveva sei anni e un'idea ancora confusa del mondo degli adulti. L'intera famiglia si era riunita nella casa di Waterloo quando fu chiaro che il vec-
chio stava per morire. Lui e Queenie erano vissuti da soli per molti anni. Hermione se lo ricordava vagamente: un uomo ossuto con un viso esageratamente grande e buono e una massa di capelli grigi arruffati, che sedeva curvo a capotavola e che di tanto in tanto rivolgeva domande che Hermione non riusciva a capire e che sembravano sfuggire anche al vecchio. Probabilmente cercava solo di rivivere il ruolo che aveva rivestito come professore a Liverpool. Hermione non si era accorta che stava morendo fino a quando Lance era entrato nella stanza che divideva con Alison per informarle che se n'era andato. A quel punto le due bambine si erano rannicchiate sul letto di Hermione, dove Alison aveva cercato rifugio alle grida della zia, urla penetranti e colme di disperazione che sembravano provenire da ogni angolo della casa. Il pavimento aveva iniziato a tremare mentre i familiari si precipitavano di sopra e Keith aveva ordinato alle due bambine di non muoversi dalla stanza. Le grida si erano fatte intermittenti e le ragazzine non avevano osato respirare, in attesa dell'urlo che sarebbe certamente risuonato. Il mormorio degli adulti sopra le loro teste era parso incredibilmente lontano, due corridoi e una scalinata più in là. Quando Lance si era affacciato alla porta con aria furtiva, per informarle che il nonno era morto, Hermione gli aveva ordinato di andarsene immediatamente, anche se, trattandosi di chiunque altro, lo avrebbe implorato di rimanere a far loro compagnia. Durante la notte, Queenie si era calmata ma si era comunque rifiutata di lasciare la stanza del padre. Hermione l'aveva appreso al mattino quando Richard, il padre di Lance, li aveva condotti a fare una passeggiata sulla spiaggia gelata. Fino al momento del funerale, i bambini erano stati tenuti il più possibile lontani dalla casa, ed Hermione si era convinta che neppure il dottore era riuscito a far allontanare la zia dal letto del padre. I familiari avevano dovuto somministrarle un sedativo a sua insaputa per permettere agli impresari delle pompe funebri di prelevare il cadavere. Quando si era svegliata accanto al letto vuoto, non aveva aperto bocca, rifiutandosi di parlare con chiunque e senza nemmeno chiedere dove avessero portato il corpo del padre. Nessuna meraviglia che la casa assomigliasse sempre più a una trappola pronta a scattare. E logico che Edith decidesse di tenere le bambine in fondo alla chiesa durante il funerale. Le panche erano occupate da file di professori dai capelli grigi e la chiesa profumava di alloro e di abiti riposti nella naftalina. Edith aveva allungato il collo per osservare Queenie oltre le teste brizzolate ed Hermione aveva notato le nocche esangui che afferravano saldamente la panca di
fronte. Improvvisamente la commemorazione era stata pervasa da un mormorio, quando Queenie si era alzata e, respingendo Richard che cercava di trattenerla per un braccio, si era messa a correre verso la bara con le gambe rigide e le braccia tese in avanti, come se avesse voluto sollevare di peso il cadavere. Edith aveva subito condotto le ragazzine fuori della chiesa così che Hermione non ebbe modo di vedere quello che stava succedendo, con il prete e gli altri uomini stretti attorno a Queenie che li fissava con sguardo furioso. Keith e Richard poi l'avevano accompagnata dietro la bara, ma la donna sembrava ignorare la cerimonia: era rimasta in piedi accanto al feretro, con lo sguardo fisso al cielo e un sorriso amaro e misterioso sulle labbra, come se fosse in grado di cogliere qualcosa che agli altri non era dato di conoscere. Al termine del funerale, l'intera famiglia era tornata a Waterloo e Queenie se n'era andata direttamente nella stanza del padre, stendendosi sul letto. Aveva rifiutato di parlare con i familiari e anche solo di guardarli e nessuno si era sentito di lasciarla in casa da sola, nel caso avesse tentato di togliersi la vita. Hermione aveva appreso tutto ciò da Lance. Le era dispiaciuto davvero per la zia, soprattutto quando Lance le aveva raccontato ciò che la donna aveva urlato prima di svenire davanti alla bara: «Si è mosso, si è mosso!» Al termine del bagno, mentre Alison continuava a giocare, Hermione era corsa di nascosto al piano di sopra. Forse, se avesse consolato un po' la zia, avrebbe smesso di avere paura dei suoi stessi pensieri che potevano risultare sgraditi a Queenie. All'inizio aveva bussato molto timidamente, con un solo dito. L'enorme corridoio immerso nell'oscurità aveva reso quel suono incredibilmente flebile e la lontananza dal resto della casa aveva contribuito a renderla nervosa. Aveva bussato con maggior forza, senza ottenere risposta, e questo non aveva fatto che accrescere la tensione. Alla fine aveva deciso di aprire la porta, seppure con una certa riluttanza, spingendola con un dito fino a quando si era spalancata davanti a lei. La zia era distesa sul letto, con il viso rivolto verso l'alto. Aveva gli occhi chiusi e le mani giunte sul petto. Il mento era proteso in avanti in posizione talmente rigida che Hermione ebbe la certezza che fosse morta. Una nave aveva lanciato un gemito oltre la linea dell'orizzonte e le voci degli adulti al piano di sotto risuonavano sempre più lontane. Hermione aveva desiderato con tutta se stessa, fino a sentirsi la testa girare, che da basso si accorgessero della sua mancanza e la chiamassero, per poter correre da loro. Ma nessuno aveva pronunciato il suo nome e si era ritrovata a cam-
minare faticosamente nella camera dove i mobili assomigliavano a ombre più consistenti, fino ad arrivare alla figura immobile che giaceva nel letto. Era dovuta giungere abbastanza vicina alla zia da poterla toccare, prima di accorgersi che il torace piatto si alzava e abbassava quasi impercettibilmente, sotto le dita intrecciate. Aveva dovuto deglutire per riuscire a parlare. «Zia, stai per morire?» aveva sussurrato colma di pietà, augurandosi immediatamente che Queenie non avesse sentito. Gli occhi di Queenie si erano aperti lentamente, rivelando un lampo maligno. Erano l'unica cosa che si muovesse in quel lungo viso sciupato. La prima occhiata aveva paralizzato Hermione: riusciva solo a fissarla tremando, mentre la zia le rivolgeva uno sguardo gelido pieno di ribrezzo. Alla fine Queenie aveva dischiuso le labbra, rivelando una fila di denti aguzzi che si scostavano appena per permetterle di parlare. «È questo quello che speri, vero maialina mia?» Nel suo tono di cortesia non c'era la benché minima traccia di emozione, ed Hermione aveva capito di essere troppo spaventata per poter replicare. «No, zia, volevo solo...» «Vuoi che ti dica una cosa, anche se non ti farà molto piacere? Io non morirò mai. Mai, quindi è inutile che tu perda tempo in attesa del giorno in cui riuscirai a sbarazzarti di me. Avrebbe dovuto ascoltarmi», aveva proseguito, come se improvvisamente si fosse dimenticata chi era il suo interlocutore. «Non c'è bisogno di morire, a meno che tu non decida di farlo, e nessuno sceglierebbe la morte se non fosse costretto a invecchiare. È tutto frutto di un'illusione: la malattia, la vecchiaia e la morte. Basta la volontà per non lasciarsi trarre in inganno.» Gli occhi si erano infiammati per la collera quando aveva notato la presenza di Hermione. «E tu hai osato chiedermi se sto per morire. Meriti proprio di vedere che cosa significa morire.» Di certo non sarebbe accaduto nulla se Hermione le avesse spiegato che le spiaceva, se l'avesse pregata di non fare ciò che le si leggeva negli occhi scintillanti. Oppure, nel caso in cui non fosse riuscita a calmare Queenie, avrebbe sempre potuto chiamare i suoi genitori: non doveva far altro che aprire la bocca. In quel momento aveva udito la porta chiudersi di colpo alle sue spalle. Probabilmente era stata la corrente a farla sbattere, ma Queenie aveva sorriso come se fosse stata opera sua, senza nemmeno alzarsi dal letto. Hermione avrebbe potuto precipitarsi verso la porta se, sotto lo sguardo di Queenie, non si fosse paralizzata dal terrore prima ancora di rendersene
conto. Ma alla fine ne fu consapevole e avrebbe nascosto il viso fra le mani se solo fosse riuscita a muoversi, per non essere costretta a vedere quello che Queenie aveva in serbo per lei. Qualcosa si era mosso in un angolo della stanza, accanto alla finestra e lontano dalla pallida luce del giorno che indugiava ancora sul mare, ed Hermione era stata obbligata ad alzare la testa per vedere che cosa fosse. Aveva cercato di convincere se stessa che la massa grigiastra che occupava l'angolo dal pavimento al soffitto era solo un'ombra, ma poi quella strana sostanza si era mossa di nuovo, mentre un ragno grande come il palmo della mano era andato a nascondersi oltre il cornicione, lasciando la preda che si dibatteva al centro della ragnatela. Era come se i suoi occhi non riuscissero a staccarsi da quella scena, per la paura di dover volgere lo sguardo verso il resto della stanza. Quel locale era orribilmente vecchio, quelle crepe simili ad artigli che ricoprivano le pareti fino al soffitto, la tappezzeria ormai marcia che si gonfiava, i mobili storti protesi in avanti e le ante degli armadi spalancate come ali di pipistrello, pronte a richiudersi sopra di lei. Aveva iniziato a singhiozzare senza lacrime, poi Queenie si era messa a sedere, proprio all'estremità del suo campo visivo: una lunga sagoma sottile e pallida. Hermione aveva sentito un grido che le stava salendo alle labbra sigillate, mentre si girava per osservare la scena. Queenie non era invecchiata e neppure il letto, appariva addirittura più giovane, rinvigorita dal potere che riusciva a esercitare sulla nipote. Sembrava che sapesse esattamente quello che Hermione aveva davanti agli occhi e si era messa a ridere con un ghigno spettrale. «Guardati un po'», le aveva sussurrato, quasi teneramente. Forse si stava solo prendendo gioco di lei; forse non le stava chiedendo di obbedirle alla lettera. A ogni modo, la bambina avrebbe preferito correre alla finestra e gettarsi di sotto piuttosto che guardarsi allo specchio. Queenie era parsa stanca di lei: aveva chiuso gli occhi e l'aveva allontanata con un gesto, come se fosse stata una mosca impertinente. O forse si era trattato solo di un ultimo scherzo crudele per far credere a Hermione di essere al sicuro? Mentre si avvicinava tremante alla porta, cercando il pomello, la bambina si era vista la mano, una mano chiazzata, completamente scarna e decisamente troppo grande. Era la mano di una vecchia. Aveva stretto gli occhi fino a sentirli bruciare e pulsare, poi aveva afferrato il pomello e l'aveva tirato con forza, facendo vacillare la porta. Aveva sentito che qualcosa cedeva, anche se lo stipite non si era mosso minimamente. Era corsa lungo il corridoio, ed era caduta sulla prima rampa di sca-
le, ferendosi alle gambe. Era scesa a gattoni al piano inferiore, continuando a singhiozzare, poi le era andato incontro suo padre, chiedendole che cosa fosse successo. Quando si era resa conto che non aveva notato nulla di strano in lei, aveva avuto anche il coraggio di guardarsi le mani: piccole, rosa e completamente familiari. Si era aggrappata disperatamente al padre per nascondere il viso contro il suo petto. «Un ragno, un ragno», aveva balbettato. «Non potevo più uscire dalla stanza.» Non aveva pensato neppure per un attimo che il padre avesse capito che si riferiva alla camera di Queenie, ma non sarebbe andata a letto se non le avesse promesso di rimanere seduto accanto a lei per tutta la notte. Dopo essersi finalmente addormentata, si era svegliata di soprassalto e, accorgendosi che il padre se n'era andato, si era messa a urlare, svegliando Alison e costringendolo ad accorrere presso di lei. Anche quando erano tornati a casa, a Liverpool, quell'incubo non l'aveva abbandonata, perseguitandola nel sonno per anni e anni. Nell'incubo immaginava di svegliarsi: aprendo gli occhi si ritrovava vecchia come si era sentita nella stanza di Queenie. Strappò un'erbaccia dal giardino e rise delle sue paure, sforzandosi di scacciarle. Che cosa c'era di strano nel sognare di diventare vecchi quando, in realtà, le cose stavano davvero così? Queenie le aveva fatto credere che gli oggetti nella stanza fossero invecchiati, tutto qui: non era stata una grande prodezza, considerato che la sua vittima era solo una ragazzina. Queenie era riuscita a farla rimanere bambina fino a quando era rimasta in vita, e sembrava aver ottenuto il suo più grande successo il giorno del funerale, quando Hermione aveva fatto tanto chiasso per il medaglione. Probabilmente Queenie lo portava al collo la notte in cui era morta e avevano deciso di lasciarglielo anche nella tomba. Stava cercando di convincersi che era quella la spiegazione più logica, quando squillò il telefono. Era sua madre, che la chiamava da Waterloo. «Staremo qui un paio di giorni e poi andremo a casa, qualora avessi bisogno di noi.» «Sono sicura che non ce ne sarà bisogno, mamma. Ti dispiace dire ad Alison che ha chiamato Lance? Gli ho detto che forse l'avrebbe richiamato lei, ma non gliel'ho assicurato.» «Che cosa voleva?» «Voleva parlarle di Rowan e ha accennato al testamento. » «È meglio che stia alla larga da Rowan. Non mi importa se ormai dicono che è guarito e Dio lo aiuti se sta cercando di creare qualche problema ad Alison. Era l'ultima persona a cui Queenie avrebbe lasciato qualcosa, a lui
e a suo padre, e anche se l'avesse fatto, di certo Richard non avrebbe mai accettato nulla.» Hermione salutò la madre e uscì a riprendere gli attrezzi: ormai era troppo buio per occuparsi del giardino. Si lavò le mani sporche di terra e s'incamminò lentamente verso il negozio. Le strade piene di negozi di Holywell erano corte e sistemate a casaccio, come se fossero franate dalla collina in modo disordinato. Non era facile individuare le vetrine dei diversi negozi ed era per questo che aveva collocato l'insegna ZIA HERMIONE all'angolo della strada. Quando entrò nel negozio, il lampione si accese tremolante, stagliandosi contro il cielo ormai scuro. Nell'ingresso, tirò il cordone provvisto di nappe e il locale fu invaso dalla luce, che mise in mostra gli abiti per bambini e i giocattoli artigianali. Quando aveva pensato di trasferirsi nel Galles, vicino ai fantasmi della sua infanzia, le era parso naturale dedicarsi all'insegnamento, ma mentre si era trovata benissimo lavorando in un college, l'esperienza in una delle peggiori scuole cattoliche vicino a Liverpool le aveva quasi procurato un esaurimento nervoso. Non si sarebbe mai aspettata che gli abiti per bambini, che si era messa a confezionare per cercare di rilassarsi, riscuotessero un tale successo, permettendole addirittura di affittare il cottage e il negozio. Ogni anno aggiungeva qualche nuova linea, anche se questo non bastava per soddisfare Rowan, pensò amaramente. L'idea di ordinare uno scatolone di maschere di Halloween era stata della bambina. Quando Hermione aprì la scatola e tolse i fogli di carta, una faccia da strega la fissò con un ghigno beffardo. Era grigia e coperta di rughe e sembrava modellata nella creta. L'afferrò per il mento aguzzo e l'appese in vetrina, poi continuò a scartare le altre maschere di cartone: facce verdastre con un solo occhio, grandi il doppio delle altre e teschi con rassicuranti denti finti. Stava contemplando quel vasto assortimento quando notò una bambina che guardava la vetrina. Hermione le lanciò una rapida occhiata, senza osservarla attentamente. Una bambina non avrebbe dovuto essere in giro a quell'ora, soprattutto indossando solo un vestitino bianco, proprio quando la nebbia iniziava ad avvolgere le montagne. Scelse tre maschere e le appese per l'elastico, poi si rese conto che la ragazzina non si era mossa. Si girò per gridarle che il negozio era chiuso e strinse con tale forza i pugni che l'elastico di una maschera si ruppe.
Per un attimo ebbe l'impressione che quella figura non appartenesse a una bambina, ma a una nana con il viso affilato di una vecchia. Era solo il riflesso della maschera da strega che nascondeva il volto della piccola, ma fu sufficiente a far indietreggiare Hermione, perché la bambina sembrava osservarla attraverso le orbite vuote. Poi la piccola corse via, scomparendo nell'oscurità oltre il lampione. Hermione si diresse con passo esitante verso la porta e la spalancò. La strada era deserta. Corse fino all'angolo, ma non c'erano tracce della ragazzina. Ritornò al negozio e chiuse la porta a chiave. Non poteva aver visto davvero quello che le era parso di vedere, ripetè a se stessa, cercando di calmarsi per poter uscire dal negozio prima che diventasse troppo buio. Sapeva che i bambini amavano fare le smorfie, ma nessun bambino avrebbe mai potuto assumere quell'aspetto. Un attimo prima che la piccola si sottraesse alla sua vista, gli occhi che la fissavano attraverso l'immagine riflessa nella vetrina sembravano essere balzati fuori, concentrandosi su due punti diversi, ai lati della maschera. 8 Il treno da Prestatyn a Chester era affollato, e all'inizio Lance dovette rimanere in piedi. I passeggeri erano ammassati l'uno contro l'altro, e lo spingevano sempre più verso il fondo della carrozza, fino a che si trovò aggrappato a una maniglia vicino a due ragazzine di circa dieci anni. Quando lo sballottamento del treno lo fece ondeggiare verso di loro, la madre disse a una delle due di alzarsi, fece sedere l'altra sulle sue ginocchia e fissò Lance finché lui si decise a sedersi. Si sentiva appiccicaticcio e senza fiato e le due bambine lo facevano sentire a disagio, come se fosse stato circondato da due fiamme. I dottori dovevano avergli tolto quel vizio, ma anche se da tempo non aveva più provato il desiderio di toccare le ragazzine, continuava ad avere la sensazione che tutti intorno a lui lo pensassero capace di una cosa simile. Chiuse gli occhi e cercò di dimenticare il luogo in cui si trovava, ma la sua mano venne sfiorata dall'orlo della gonna della ragazzina che stava in piedi e la coscia nuda lo toccò inavvertitamente. Giunto a Chester, se ne stette lì a spalle curve finché la carrozza non si vuotò, poi si trascinò fuori della stazione, a capo chino. Attraversò la strada dirigendosi verso la città vecchia, passò attraverso il cancello delle mura e passeggiò davanti alle vetrine dei portici, sotto gli edifici in stile Tu-
dor. Passeggiare non gli fu di grande aiuto: non riusciva a ricordarsi ciò che aveva notato al funerale. Da quando era uscito dall'ospedale, la memoria lo abbandonava spesso. A volte, gli sarebbe piaciuto sapere quanto di se stesso fosse andato perduto, anche se non sembrava avere molta importanza. Ma era sicuro che quel particolare fosse importante, perché ricordava di averlo definito come tale. Al funerale di Queenie aveva visto o udito per caso qualcosa che gli aveva acceso come una lampadina in testa. Bighellonò in riva al fiume, dirigendosi verso casa, ma la vista dei lampioni accesi sul ponte che si riflettevano sull'acqua non l'aiutarono a ricordare. Quando infine arrivò a casa, suo padre lo stava aspettando. Appena Lance entrò nel piccolo appartamento che dava quasi sul fiume, suo padre si alzò in piedi, aggrappandosi con le mani colpite dall'artrite ai braccioli della sedia girata verso la finestra, da dove aveva scorto il figlio. Voltò bruscamente la sedia verso la stanza e vi si sedette con prudenza, poi guardò con attenzione Lance, con la sua faccia quadrata e priva di espressione, a eccezione di un lieve corrugamento della fronte. «Mangia pure qualcosa, se non hai ancora cenato», lo invitò alla fine. «Io non ho fame.» Stava facendo sentire Lance in colpa, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato e se ne fosse dimenticato. Lance prese una mela dal cestino della frutta vicino ai libri su Chester, tra i soldatini romani sulla credenza, e la sgranocchiò mentre suo padre scriveva una lettera al museo dove aveva lavorato fino all'età della pensione. L'uomo fissava la punta della penna che si era soffermata sul foglio formando una macchia, poi sollevò di scatto la testa, buttando indietro i capelli grigi. «Allora, come stanno mio fratello e sua moglie? Che cos'hanno detto di me?» Lance si aspettava di venire rimproverato per l'angoscia che si impossessava del padre ogni volta che sfuggiva al suo diretto controllo. Mentre cercava di trovare una risposta, suo padre continuava a osservarlo, come se già la conoscesse. «Keith mi ha detto che gli dispiaceva che non ci fossi», borbottò Lance deciso, «Edith sperava di poter riunire la famiglia.» «Ti sei ricordato di dire che ero ammalato?» Lance si chiuse la bocca con la mano, premendola sulla barba. «Oh no, me ne sono dimenticato.» «Stupendo, ecco un'altra cosa che mi rinfacceranno. Mio fratello mi ha persino criticato per essermene andato di casa, fino a quando non si è reso conto che era meglio seguire il mio esempio. Non capisco proprio perché tu ci sia andato. O forse speravi che qualcuno di loro fosse contento di ve-
derti.» Lance sapeva che le accuse del padre erano rivolte più a se stesso che al figlio. «Volevo vedere zia Queenie sepolta in pace», obiettò. «Posso immaginare come deve averti confuso. Se l'avessimo frequentata di più, probabilmente non saresti diventato quello che sei.» «Papà, non possiamo semplicemente parlare? Vorrei chiederti una cosa.» Suo padre fece cadere sul pavimento il blocco su cui stava scrivendo e lo fissò con sguardo assente. «Non credi che mi piacerebbe poter chiacchierare con te come facevamo un tempo? Pensavo che avremmo avuto più tempo da passare insieme dopo essere andato in pensione. Non vedevo l'ora di passeggiare in riva al fiume con te, in serate come queste. Forse non ti sei reso conto che le schifezze che ho trovato nella tua stanza mi hanno fatto perdere la fiducia in te. Grazie a Dio tua madre era già morta e non ha mai saputo che cosa stavi nascondendo.» Lance aveva sempre pensato che la madre nutrisse più sospetti su di lui di quanto avesse mai ammesso: l'aveva sempre controllato per il suo bene. Un ricordo illuminò gli occhi del padre, che sbattè rapidamente le palpebre e proseguì: «No, questo non è giusto. Non dovremmo trascorrere gli ultimi anni insieme in questo modo. Tu non saresti finito così se ci fossimo presi cura di te come avremmo dovuto. Che cosa volevi chiedermi?» Lance se n'era ormai dimenticato, ma il padre aveva la tendenza a comportarsi come se lo facesse di proposito, specialmente per quanto riguardava i ricordi più recenti. Gli venne in mente invece qualcos'altro che lo stava preoccupando. «È vero che il nonno è diventato pazzo prima di morire?» «Tu non stai diventando pazzo. I vuoti di memoria sono il prezzo che devi pagare, e cerca di renderti conto che poteva anche andarti peggio.» «Va bene, ma è diventato pazzo o no?» «Chi te l'ha detto? Che cosa ti hanno raccontato?» «Il marito di Alison diceva che doveva essere diventato matto.» «Che cosa diavolo ne sa lui? Non c'era nemmeno, e non fa neppure parte della famiglia. Mio padre non era pazzo, ha perso la moglie ed è come se gli avessero strappato una parte di sé. Forse, quando il marito di tua cugina perderà qualcuno che ama, non avrà più voglia di denigrare il dolore altrui.» «Anch'io sento la mancanza della mamma», sospirò Lance, con un lieve imbarazzo.
Suo padre strinse con forza le mani e fissò le nocche esangui. «Lo so. Mi dispiace per quello che ho detto prima. Sono sicuro che se fosse stata qui avrebbe fatto da paciere fra noi.» La loro conversazione naufragò nell'imbarazzo. Lance si ritirò in camera sua, una stanza senza finestre, nella quale i mobili bianchi come i muri si ammassavano attorno al letto. Da quando era uscito dall'ospedale, aveva notato spesso che i ricordi riaffioravano quando stava per addormentarsi, ma l'immagine del nonno non avrebbe lasciato spazio a nient'altro. Nonostante le affermazioni del padre, Lance era convinto che l'anziano uomo non fosse semplicemente addolorato. Durante i suoi ultimi mesi aveva accusato Queenie di non permettergli di raggiungere la moglie, di tenerlo in vita solo perché non sopportava di rimanere senza di lui. Richard e Keith gli avevano spiegato dolcemente che un giorno si sarebbe ricongiunto con sua moglie, ma Lance sapeva che persino loro erano stati colti di sorpresa quando il padre aveva tirato avanti per settimane in quello che il medico aveva definito il suo letto di morte. Una notte Lance l'aveva sentito gridare così forte da convincersi che fosse giunta la fine, ed era corso nella camera del letto, trovandolo riverso sul letto, con le gambe raggrinzite l'una vicina all'altra e gli occhi aperti senza vita. Poi il corpo avvizzito aveva sobbalzato come un pazzo o come qualcuno che si agita in preda a un incubo. «Lasciami andare, lasciami andare», aveva cominciato a ripetere l'anziano uomo e quel lamento era continuato per giorni e giorni, fino a quando era morto. Queenie non l'aveva lasciato riposare in pace neanche allora. La famiglia e gli impresari delle pompe funebri erano riusciti a portare via di nascosto la salma per imbalsamarla, ma quando Queenie si era accorta che stavano per chiudere la bara per la sepoltura, era corsa davanti alla chiesa, con le braccia tese, gridando: «Si è mosso!» E infatti si era mosso: la bocca si era aperta come in un'ultima, silenziosa protesta nei confronti di chi non voleva farlo riposare in pace. I passi di Queenie dovevano aver fatto vibrare la bara e la bocca si era socchiusa, ripetè Lance a se stesso, sperando di poter dimenticare l'episodio e non solo perché avrebbe potuto bloccare la sua memoria. Quel fine settimana era andato a fare una passeggiata sul fiume, dapprima con suo padre, innervosito dal suo ostinato silenzio, e poi da solo. Sabato una fanfara aveva suonato sulla riva del fiume e domenica un gruppo di canoisti aveva sfidato la corrente, ma tutto questo era servito solo a distrarlo. Qualunque cosa stesse cercando di ricordare, non aveva forse a che
fare con Alison? Se avesse potuto aiutarla, forse lei avrebbe riacquistato fiducia; forse si sarebbe persino resa conto che non c'era ragione di nutrire tanta diffidenza nei suoi confronti. Quando era ritornato a casa, si era accorto che il padre lo guardava con aria interrogativa, chiedendosi come mai avesse voluto uscire da solo. Lunedì era riuscito a rimanere solo, al lavoro. Prima dell'esaurimento nervoso, aveva fatto l'impiegato, ma in seguito aveva ripreso a lavorare come archivista. Poche donne sposate osavano parlare con lui, e la maggior parte degli uomini lo teneva a debita distanza, come se la sua lentezza e la sua scarsa memoria fossero contagiose. Aveva il compito di mettere in ordine tutti gli archivi inattivi, decine di migliaia di schedari posti nel lungo seminterrato, pieno di scaffali che si estendevano sull'intera parete fino a toccare il basso soffitto scarsamente illuminato. Alcune lampadine nude oscillavano lungo i corridoi polverosi, così stretti da non permettere il passaggio di due persone neppure pigiate l'una contro l'altra, anche se Lance trascorreva da solo la maggior parte del tempo. Era contento di non essere al piano di sopra, dove probabilmente avrebbe dovuto rispondere al telefono; da quando era stato in ospedale aveva perso l'abitudine di parlare con qualcuno che non vedeva. Ma allora, come avrebbe fatto a telefonare ad Alison? E non riusciva ancora a ricordarsi perché avrebbe dovuto chiamarla. La sua incapacità di rimanere aggrappato a un ricordo sembrava rendere la sua mente ancora più fredda e limitata. Era qualcosa che riguardava Alison o qualcuno vicino a lei? Rimase fermo in piedi, con un pacco di schedari in parte appoggiato sullo scaffale, cercando di smuovere i suoi pensieri paralizzati, poi si rimise a lavorare, sentendosi un po' in colpa e si allontanò per lasciare libero il passaggio. Ma nessuno lo stava osservando, doveva esserselo immaginato, non solo per il fatto che, se qualcuno fosse passato di lì per raggiungere il seminterrato, l'avrebbe sicuramente sentito, ma anche perché la figura che aveva pensato di intravedere era alta la metà di lui. I dottori non erano riusciti a reprimere completamente le sue fantasie, come avevano creduto, pensò turbato, quasi soffocando per l'odore di carta vecchia. Eppure era stata la vista di una bambina che l'aveva tenuto sveglio quella notte, quando si era reso conto che ciò che intendeva dire ad Alison riguardava sua figlia. Aveva capito che era qualcosa di importante, ma neppure la sensazione di urgenza era riuscita a liberare la sua mente annebbiata. Forse si sarebbe ricordato quando fosse riuscito a procurarsi il numero
di Alison. Non potendo chiederlo a suo padre, aveva dovuto aspettare che andasse a farsi una doccia, prima di chiamare Hermione. Gli risultava così difficile parlare che alla fine si era lasciato sfuggire qualcosa di troppo. In questo modo Hermione era venuta a sapere che voleva contattare Alison per una faccenda che riguardava sua figlia. Aveva cercato di farle intendere che volesse parlare di qualcos'altro, qualcosa che riguardava Queenie e il suo testamento. Sicuramente, questo avrebbe indotto Alison a chiamarlo e per allora si sarebbe ricordato la ragione che l'aveva spinto a cercarla. La sua nipotina aveva bisogno di aiuto: ne era assolutamente sicuro. In attesa della telefonata di Alison era diventato nervoso, incapace di dare una forma ai suoi ricordi. Persino al lavoro, il giorno seguente, aveva la sensazione che qualcuno lo stesse osservando dal fondo buio del seminterrato, ogni volta che i ricordi gli affioravano alla mente. La folla che se ne tornava a casa era giunta come una liberazione dopo le ore passate fra la carta stantia. Ma quando arrivò a casa, trovò il padre che lo stava aspettando, con il viso corrucciato. «Così hai ricominciato con i tuoi vecchi trucchi», lo rimproverò. «Non so di che cosa stai parlando.» «Non cercare di farmi credere che hai dimenticato anche questo. Quei ciarlatani mi avevano assicurato che eri guarito, ma secondo me sei solo peggiorato.» Lance sentì le parole morirgli in gola e riuscì solo a bisbigliare: «Non ho mai fatto niente». «Né lo farai fino a quando sarò in grado di impedirtelo. Non mi hai avvertito che tua cugina avrebbe potuto chiamare mentre non ero in casa, vero? Se davvero non sapeva che cosa volevi dirle a proposito della bambina, è pazza esattamente quanto te. Avrei dovuto ricordarglielo e consigliarle di avvisare la polizia.» A Lance parve che gli eventi avessero organizzato un complotto contro di lui per impedirgli di parlare ad Alison e quella sensazione fece crescere in lui un'ansia tale nei confronti della bambina da indurlo quasi a ricordare. «Qual è il suo numero di telefono?» chiese al padre che gli lanciò un'occhiata incredula. «Devo parlarle. Puoi ascoltare anche tu.» «Tu non le parlerai dal mio telefono», sbottò suo padre, alzando la voce, «o da nessun altro finché vivrai sotto il mio tetto. Lo giuro sulla tomba di tua madre.» Lance ebbe la sensazione che suo padre lo stesse allontanando sempre
più da ciò che doveva assolutamente ricordare. «Allora andrò da lei.» «Non muoverti di qui altrimenti ti farò mettere sotto sorveglianza.» Quando Lance si alzò, suo padre scattò in avanti per afferrarlo, ma ricadde sulla sedia, ansimando. «Non provare a lasciare l'appartamento. Non osare toccare quella porta!» Si mise a urlare: «Torna qui!» mentre Lance scendeva in fretta le scale. Che cosa sarebbe successo se avesse chiamato la polizia? Lance si impose di camminare attraverso la folla e di non mettersi a correre, rimanendo rasente ai muri per non rischiare di andare a sbattere contro qualcuno attirando l'attenzione su di sé. Quando vide la sua immagine riflessa nella vetrina di un negozio per bambini, con la barba che sporgeva dalla faccia come una caricatura del mento, ebbe la tentazione di coprirsi il viso con le mani. La stazione ferroviaria era affollata. Lance si sedette con la schiena appoggiata al finestrino della carrozza, alzando le spalle per tenere in ombra la faccia, finché si accorse che le donne sedute di fronte a lui stavano bisbigliando qualcosa sul suo conto. Si aspettava di vedere da un momento all'altro dei poliziotti avanzare sulla banchina, per cercarlo sul treno, così stipato di gente da trasformare la sua abituale lentezza nell'immobilità più totale. Alla fine il treno si mosse, ma questo non provocò alcun cambiamento nella sua mente. Aveva sperato di potersi concentrare sui propri ricordi, ora che non aveva più l'assillo del telefono. Dovette cambiare il treno a Hooton. Camminò rapidamente attraverso la piccola stazione e trovò un giornale dietro cui nascondersi. Fino a Liverpool si sentì relativamente al sicuro, poiché il treno era quasi completamente a sua disposizione. Ma quando cambiò binario nella sotterranea, notò che la banchina del treno per Waterloo era deserta. Camminò fino alla fine della banchina, dove il tunnel si restringeva e rimase a guardarsi attorno. Oltre il punto dove i binari si confondevano con il buio, vide un faro circondato da scuri pezzi di mattone. Si sentiva come se stesse sfuggendo alla città di Liverpool che pulsava sopra di lui, al suono della macchina della polizia che sfrecciava a tutta velocità, al camion dei pompieri, al rumore di una bottiglia gettata dalla scala mobile. Si appoggiò al muro sopra la discesa che conduceva alle fauci dell'oscurità e tese le orecchie per sentire il treno. Si sarebbe sentito più sicuro non appena si fosse trovato nei pressi della casa di Queenie. Ma adesso non era più la casa di Queenie, era di Alison. Come poteva dimenticare che lei era morta, quando assistere al suo funerale era stato tanto difficile per lui? O-
gni volta che si era avvicinato a Rowan aveva avuto l'impressione che tutti lo tenessero d'occhio. La famiglia nutriva ancora dei sospetti su di lui. Non poteva biasimarli, ma non sarebbe stato il caso di nutrire dei dubbi anche su Queenie? Nessuno sembrava interessarsi del perché Queenie avesse fatto tanto per Rowan, nonostante detestasse i bambini. Trattenne il respiro come se qualcuno l'avesse afferrato per una spalla. È questo che intendeva dire dopo il funerale. Non capiva perché fosse tanto importante, ma era sicuro che lo fosse. Forse era abbastanza importante per potersi riscattare. Doveva cercare di non pensare ad altro, altrimenti quel concetto gli sarebbe sfuggito di nuovo. Qualcuno ne avrebbe colto il valore se lui ne avesse parlato. Stava concentrandosi su quello, quando si accorse di essere osservato. Dovevano permettergli di chiamare Alison. Aveva diritto a una telefonata. Si voltò con riluttanza e sentì la mente che si irrigidiva, come se volesse impedire alle parole di uscire dalla bocca. Ma non c'era nessun poliziotto. Il binario era deserto, a eccezione di una ragazzina dell'età di Rowan, che lo stava fissando. I suoi occhi vacui erano privi di espressione, eppure quando lo sguardo della bambina incrociò il suo, sentì lo stomaco contrarsi. Ebbe la sensazione che lei lo conoscesse perfettamente e che sapesse che un tempo avrebbe desiderato toccarla. Come se questo non bastasse, sentì l'antica fantasia che si stava risvegliando. I dottori non avevano rimosso completamente quelle fantasie, e non le avevano neppure sotterrate troppo profondamente. Sul lungo viso della ragazzina si stava dipingendo un sorriso malizioso, come se la fanciulla sapesse esattamente ciò che gli stava passando per la mente. Le dita accarezzarono il vestito bianco lungo fino alle caviglie, quasi volessero sollevarlo per stuzzicarlo e Lance ne fu terrorizzato. Avrebbe voluto passarle vicino, superandola velocemente per poi scomparire, ma non riusciva a sopportare l'idea di toccarla. Si girò e appoggiò la faccia contro il muro, lottando per ricacciare i sentimenti nella zona più remota della sua coscienza e per non dimenticare ciò che doveva dire ad Alison. Cominciò a sentire nelle orecchie un rumore assordante, dovuto alla pressione del sangue nella testa. Le piastrelle del muro gli schiacciavano la fronte, anche se avrebbero potuto essere lontane chilometri. Nonostante gli occhi chiusi, riusciva a vedere la ragazzina, le sue lunghe gambe nascoste e il suo sorriso scaltro. Il rumore sembrò dileguarsi, lasciandolo in uno stato confusionale che gli impediva di capire dove si trovasse. Si allontanò dal muro e si voltò stordito. Doveva andare oltre quella ragazzina, non im-
portava come. Aveva chiuso gli occhi con una tale forza che per qualche secondo non fu in grado di vedere nulla. La vista migliorò appena mise il piede destro nel vuoto. Il rumore non era dovuto solo al sangue che si agitava nel cervello. Mentre cadeva dalla banchina pochi istanti prima che sopraggiungesse un treno vide allargarsi un sorriso di gioiosa soddisfazione sul viso della ragazzina. Scivolando nel vuoto, Lance cercò di aggrapparsi sul pavimento e la punta delle dita picchiò sul bordo. Sentì il polso che si rompeva e provò una fitta che dal braccio salì fino alla spalla. Ma era riuscito a non cadere lungo e disteso sui binari; aveva mantenuto l'equilibrio appoggiando i piedi sulle rotaie. Si strinse il polso rotto al petto, immaginando il dolore che avrebbe provato quando l'avessero trasportato all'ospedale, e incespicò, scivolando all'indietro a gambe aperte, mentre il treno avanzava stridendo verso di lui. I freni l'avrebbero salvato, disse fra sé e sé. Quel pensiero gli apparve chiaro come il suo dolore. Dalla tensione dipinta sul viso rigido del macchinista terrorizzato riuscì a immaginare con quanta forza stesse azionando i freni. Persino quando vide il treno torreggiare sopra di lui come il muro di una casa che sta per crollare continuò a pensare che ce l'avrebbe fatta. Quando il treno lo colpì al petto sembrò farlo con decisione ma anche con incredibile gentilezza, trascinandolo nel tunnel a una velocità che i suoi piedi riuscivano ancora a tollerare. Poi, i piedi si impigliarono in una traversina, e Lance cadde all'indietro sbattendo con la schiena sulle rotaie. Prima che riuscisse a gettarsi di lato, le ruote del treno lo investirono tranciandogli la calotta del cranio. Subito sopraggiunse un parossismo di dolore. Lance ebbe la sensazione di essersi trasformato in un'enorme ferita che si allargava a dismisura, mettendo in mostra la carne viva e dilatandosi sempre più. Ma stava entrando nell'oscurità e mentre la bocca della galleria si restringeva, l'agonia cominciò a sfumare. Avrebbe dovuto abbandonare i propri pensieri segreti dietro di sé e il suo corpo disteso all'inizio del tunnel: si rese conto che finalmente avrebbe trovato la pace. Poi, poco prima che la luce scivolasse via e scomparisse per sempre, la ragazzina si sporse verso il tunnel e lo guardò con aria spietata, ricordandogli le sue peggiori fantasie e il senso di colpa che gli avevano procurato, e abbandonandolo nell'oscurità con quel pesante fardello. 9
Una bimbetta di tre anni stava piangendo perché non riusciva a grattarsi il braccio sotto il gesso, quando Derek chiamò il reparto. «Il lavoro a Southport sta andando per le lunghe. Non credo di arrivare prima delle nove. Jo ha detto che passerà a prendere Rowan e l'accompagnerà a casa.» «D'accordo, tesoro», esclamò Alison, mentre la bimbetta scoppiava di nuovo a piangere. «Vi spiacerebbe vedere che cosa c'è che non va?» suggerì Alison alle allieve infermiere intente a fumarsi una sigaretta di nascosto nel corridoio. Le due ragazze la fissarono. «Sarà la solita storia, come l'altra volta», bofonchiò Libby. «Dovrà abituarsi a stare qui senza la sua mamma.» Alison depose il ricevitore con calma, senza riuscire a trovare le parole adatte. Una certa dose di indifferenza faceva parte del normale processo a cui era necessario sottoporsi per diventare infermieri; bisognava abituarsi alla sofferenza, soprattutto a quella degli altri; se qualcuno avesse provato esattamente quello che provavano quei bambini, non sarebbe stato in grado di aiutarli. Ma Libby e Jasmine sembravano apatiche, più che distaccate. Sapeva che, anche se si fossero diplomate, avrebbero potuto finire disoccupate; ma come facevano a restare tanto indifferenti? Doveva ammettere che la caporeparto non rappresentava un grande modello da seguire, visto che non faceva altro che affinare la propria irascibilità e indolenza per quando sarebbe andata in pensione, cinque anni più tardi; era felice che i genitori rimanessero con i propri figli a condizione che dessero un'occhiata anche agli altri bambini del reparto. Almeno le infermiere ausiliarie avevano figli e cercavano di trattare i pazienti come se fossero state creature loro; Alison si augurò, se mai Rowan fosse dovuta andare in ospedale, che non capitasse in quel reparto. Bisognava stare attenti che il sistema non ti infettasse con la sua freddezza e che l'enorme ospedale con il misero personale non ti sopraffacesse. Gli ideali per i quali un giovane iniziava a lavorare lasciavano presto il posto alla realtà, ma era sicuramente meglio che seguire l'esempio di Queenie, ritirandosi dal mondo compiaciuti per aver mantenuto i propri ideali. Probabilmente un'infermiera non avrebbe potuto cambiare il mondo, ma lavorando al meglio era sicuramente possibile migliorarne una parte. Una delle ausiliarie stava calmando la piccina di tre anni raccontandole una favola. Alison s'incamminò lungo le corsie, scrisse sulle cartelle cliniche, strinse le manine dei pazienti, ascoltò i loro segreti e mormorò parole di conforto. Riservò il sorriso più ampio per il ragazzino i cui genitori se
n'erano andati al pub, lasciandolo chiuso in casa con un televisore che aveva preso fuoco. Troppi genitori trattavano i figli come oggetti di loro proprietà e ben pochi vicini erano disposti a intervenire. L'idea dell'intervento fece riemergere il dubbio che agitava i suoi pensieri: si stava chiedendo che cosa potesse volere Lance da sua figlia. Nel testamento Rowan non era stata menzionata. Forse Hermione aveva capito male, visto che solitamente Lance bofonchiava parole senza senso fra la barba lunga. Alison gli aveva telefonato ma lui era fuori e aveva risposto il padre. Era pentita di aver raccontato tutto quanto a Richard: le era parso di non aver fatto altro che confermare le sue paure. Se Lance avesse avuto qualche strano progetto relativo a Rowan, di certo non avrebbe cercato di contattare Alison, ma che cosa poteva essere così importante da fargli superare la sua naturale timidezza? Quando finì il suo turno, c'erano così tanti bambini che volevano salutarla che dovette correre alla fermata dell'autobus. Forse Lance le aveva lasciato un messaggio, pensò, ma la segreteria telefonica riportava solo chiamate per Derek. Le voci contratte sembravano riecheggiare nella casa, ora che i suoi genitori erano tornati a casa. Non doveva prendersela se avevano trascorso più tempo con Hermione che con lei: Hermione aveva decisamente più bisogno di loro, così come avvertiva la necessità di assumere un atteggiamento protettivo nei confronti di Alison per scacciare le sue stesse paure. Alison l'aveva sempre saputo. Sarebbero tornati per Natale, poiché difficilmente sarebbero riusciti a vendere la casa prima di allora e forse avrebbero ricompensato Rowan per non essersi fermati più a lungo. Jo stava sfogliando un catalogo di vendita per corrispondenza, guardando una soap opera alla televisione. «Le ho detto che poteva fermarsi per il tè, se voleva. Patty le ha accompagnate sulla spiaggia.» Patty era la figlia adolescente di Jo. «Volevo solo avvisare Rowan che sono a casa», spiegò Alison, avviandosi verso la spiaggia. La brezza le accarezzava il viso e faceva muovere l'erba aguzza che ricopriva le dune, mentre le imbarcazioni dondolavano nel porticciolo, vicino alle banchine e alla stazione radar. Proseguì sul vialetto in cemento oltre le dune e vide che i tre figli di Jo erano le uniche persone presenti sulla stretta striscia di spiaggia. Scese di corsa i gradini che terminavano sulla sabbia. I due bambini mormorarono qualcosa, richiamando l'attenzione di Patty. «Dov'è Rowan?» chiese Alison. Patty si voltò con aria insolente, con gli orecchini che tintinnavano e le
sopracciglia truccate alzate in tono di provocazione. «La sua amichetta se l'è portata via», sbottò. 10 «Caro diario, mi piace la nuova scuola, perché sono tutti simpattici e la maestra è gentile. Ogni tanto posiamo scrivere quello che voliamo, come ad esempio il nostro diario. La classe sta organizzando una recita per i genitori e io sarò una vechia signora, un po' come quando abitavamo nella grande casa e...» Rowan mordicchiò l'estremità della matita. Aveva quasi scritto che le sarebbe piaciuto vivere in quella casa per sempre. Anche per la mamma e il papà doveva essere dura trasferirsi di nuovo, ma ora che quel signore si era deciso a dare al papà i soldi che gli spettavano, non avrebbero potuto rimanere in quella casa? Sentiva la mancanza degli amici di Liverpool, ma forse i suoi genitori avrebbero trovato un po' di tempo per accompagnarla a salutarli. Disegnò la casa con le finestre illuminate e le navi che partivano alla luce della luna, come le aveva sempre immaginate nel suo lettino, poi colorò le persiane: un colore diverso per ogni stanza. Mentre disegnava l'ultimo piano, ripensò a quando ci era salita da sonnambula. La mamma le aveva spiegato che probabilmente era dovuto alla tensione di quei giorni, ma se le cose stavano davvero così, non sarebbe stato meglio evitarle un'altra tensione con un nuovo trasferimento? No, si stava comportando da egoista. La mamma e il papà avevano già troppi problemi. Doveva cercare di aiutarli agendo da persona adulta. Terminate le lezioni, corse nel cortile della scuola, decisa a non rivelare al padre il suo grande desiderio, ma non ebbe bisogno di fingere: c'era Jo che l'attendeva. «Tuo padre era occupato, piccola. Dovrai venire a casa con me e vedremo se sono avanzate delle caramelle.» «Però non ne darai più a lei che a me, come hai fatto l'ultima volta», protestò Mary, che era in classe con Rowan anche se sembrava più piccola. Paul, il fratellino di Mary, esclamò: «Caramelle, mmm!» Si mise a correre verso casa fino a quando Jo, stanca di stargli dietro, gli diede un ceffone. Il piccolo stava ancora piagnucolando quando giunsero a casa di Jo, e quel gemito risuonava triste quasi quanto il cartello In Vendita posto fuori della grande casa, che aveva l'aria sconsolata, secondo Rowan, come un bambino un po' goffo con il quale nessuno vuole giocare. Jo fece entrare in casa i
tre bambini e ripose le cartelle prima di chiamarli in cucina. «Vediamo un po' che cosa ho di buono per i bambini che non mi fanno arrabbiare.» Paul smise immediatamente di piangere e Mary borbottò: «Non dargliene più che a me». «Se vuoi, puoi anche tenertele», la rimbeccò Rowan. «Non avrete nulla se iniziate a litigare.» Jo si affrettò verso la scala, sbatacchiando i sandali. «Patty, dovresti accompagnarli sulla spiaggia fino all'ora della merenda. Non fanno che discutere per le caramelle e mi sta venendo mal di testa.» Patty scese le scale con aria riluttante e con un filo di fumo che le usciva dal naso. «Non mi sento troppo bene, mamma, e poi devo fare i compiti.» «Puoi finirli anche dopo, no? Se hai le tue cose, vuol dire che non puoi andare a ballare. Portali fuori solo per un'oretta, come hai sempre fatto, e stai attenta che non si caccino nei pasticci.» Patty afferrò la scatola delle caramelle dalla credenza. «Cercate di fare i bravi, altrimenti non ve ne darò neanche una.» Ma Rowan non aveva voglia di caramelle; le sarebbe piaciuto arrivare fino al porticciolo per osservare le imbarcazioni addormentate, ma Patty non se la sentiva di allontanarsi troppo da casa, nel timore che Paul potesse cadere in acqua. Paul e Mary bisticciarono sui secchielli di plastica, e visto che Mary insisteva nell'affermare che quello rosso era suo, il fratellino le distrusse il castello di sabbia. Rowan si offrì di accompagnare Paul in riva al mare per insegnargli a scavare un canale, ma Patty le intimò di non allontanarsi. Sentendosi piccola e poco desiderata, Rowan si staccò dal gruppetto e si mise a contemplare la baia. La costa del Galles stava tremando per effetto del caldo. Sembrava concentrarsi per poi fluttuare nella baia luminosa. Spesso Rowan chiudeva gli occhi per poterli poi riaprire e trovarsi di fronte a uno spettacolo nuovo, ma in quel momento fu costretta a stringerli per evitare che la luce le riempisse la testa. Li aprì di colpo e si rese conto di aver fissato qualcuno senza riuscire a capire chi fosse a causa del riverbero: era una figura in bianco. Per un attimo non colse nient'altro, in mezzo a un nulla troppo abbagliante per i suoi occhi. Non riusciva neppure a sentire le onde del mare. Non mi piace questa sensazione, pensò, chiedendosi che cosa mai le stesse combinando il caldo. Poi quella figura si voltò verso di lei e il rumore delle onde le riempì le orecchie, mentre la baia, il cielo e la spiaggia tornavano a fuoco e una ragazzina le andava incontro. Era Vicky, la ragazza che aveva incontrato nel Galles. Attorno al collo,
appoggiato sul vestito che appariva identico a quello indossato allora, portava un vecchio binocolo. Si fermò a pochi passi dall'acqua e i suoi occhi pallidi e la piccola bocca sorridente sembravano invitare Rowan ad andare verso di lei. «Ti avevo promesso che ci saremmo riviste, ricordi? Ti ho osservato anche quando tu non potevi vedermi. Ti avevo portato questo, ma non pensavo che fossi in compagnia di quei bambini sudici. Non voglio che sporchino le lenti.» «Sono dovuta venire con Patty perché la mamma e il papà stanno lavorando. È solo che non posso allontanarmi.» «Vedrai meglio stando sopra le dune», le spiegò Vicky, togliendosi la cinghia dal collo e porgendole il binocolo. Rowan stava cercando di mettere a fuoco quando Paul arrivò sgambettando. «Voglio vedere anch'io», farfugliò. «Sei troppo piccolo, Paul. Potresti romperlo», intervenne Rowan. Paul iniziò immediatamente a piagnucolare e Patty si avvicinò zoppicando e mugugnando. «Stava giocando tanto tranquillo e poi si è messo a strillare: si può sapere che cosa gli hai detto? E questo dove l'hai trovato?» «Me l'ha dato una mia amica», rispose Rowan, stizzita, dal momento che Patty voleva farla passare per una ladra. «E gli ho solo spiegato che era ancora troppo piccolo.» «Quale amica?» sbottò Patty, senza preoccuparsi di aspettare la risposta. «Lasciagli solo dare un'occhiata. Farò in modo che non te lo distrugga. Mi sta venendo il mal di testa, su, fai la brava. Se non la smetti di stuzzicarlo, lo dirò a tua madre.» Mary corse verso di loro, scostando i calzoncini che le si erano appiccicati alle gambe. «Anch'io voglio dare un'occhiata.» Paul si pulì il naso con il dorso della mano, che sfregò poi sui pantaloni, e Rowan si vergognò terribilmente di farsi vedere con lui e le sue sorelle. Cercò con gli occhi Vicky e notò che la stava osservando dal lato estremo delle dune. Fece un cenno in direzione del binocolo, indicandole di prestarlo a Paul. Sorrideva con aria così malvagia che Rowan esitò per un attimo, fino a quando udì Mary squittire: «È un'egoista, è solo perché abita in una casa lussuosa». Rowan si tolse la cinghia dal collo, sentendosi eccitata, anche se leggermente in colpa, e porse il binocolo a Paul. «Tienilo stretto, hai capito?» gli urlò Patty quando il fratellino iniziò a lamentarsi per il peso. Paul si guardò i piedi attraverso il binocolo e quasi cadde in avanti, poi scrutò la baia inondata dal sole ed esclamò: «Oh!» prima di girarsi in direzione della ca-
sa. Improvvisamente lanciò in aria il binocolo con tale forza che Rowan temette si fosse rotta la cinghia e si rifugiò fra le braccia di Patty. «Ridammelo», lo aggredì Rowan. «Avresti potuto romperlo!» Il bambino quasi le gettò il binocolo. «C'era una ragazza con la faccia lunga che mi ha spaventato», piagnucolò. «Aveva degli occhi orribili!» Rowan stava correndo verso le dune cercando di non ridere, mentre Patty strillava: «Non puoi andare là in fondo! Mia madre ha detto che devi rimanere sempre con me!» «No, non è vero», precisò Rowan. «Ha detto solo di non cacciarsi nei pasticci, e questa è una cosa che sapevo già, ti ringrazio. Voglio solo andare sulle dune per vedere il panorama.» «Tu starai dove dico io», ordinò Patty, con la voce rauca per le troppe sigarette, avanzando con difficoltà verso di lei. Rowan salì di corsa i gradini e oltrepassò la passeggiata sul mare, poi udì Vicky che mormorava: «Di qua». Mentre Rowan si arrampicava in cima alla duna, Patty arrivò fino ai gradini, con il viso colmo di angoscia. «Non ci troveranno», la rassicurò Vicky. Rowan si rannicchiò, accaldata e innervosita, con il cuore che le batteva all'impazzata. Sentì Patty che si avvicinava, urlando frasi minacciose con la sua voce stridula per farla uscire dal nascondiglio e poi le proteste dei due fratellini che venivano trascinati lungo le dune. «Ti avevo promesso che ti avrei nascosto», la tranquillizzò Vicky. «Puoi fidarti di me.» A Rowan sarebbe piaciuto assomigliare a lei, con il vestito bianco immacolato, i piedi nudi luccicanti sulla sabbia dorata, il viso affilato levigato come il marmo e i lineamenti delicati che Rowan notò essere perfettamente simmetrici. Sembrava completamente diversa da Patty e da tutti gli altri, sotto ogni aspetto. Patty lanciò un grido rauco e poi rimase solo il silenzio, senza neppure il brontolio delle onde. Rowan rivolse a Vicky un sorriso di disappunto, per sottolineare che Patty non aveva nulla a che vedere con loro, ma Vicky non sembrò notarlo. «Fra non molto sarai uguale a lei.» «Non è vero», si difese Rowan, con tono indignato. «Che cosa vuoi dire?» Il viso di Vicky si contrasse per il disgusto e la voce si abbassò. «Perde sangue.» «È una cosa normale per tutte le donne e le ragazze», spiegò Rowan, sentendosi di colpo più grande.
«Non ne sarai così orgogliosa quando succederà a te. Ti sentirai malata e sporca e ti vergognerai moltissimo. Vedi anche tu che aspetto ha quella ragazza.» «Mia madre dice che è naturale, quando si diventa grandi.» «Più la gente invecchia, più bugie racconta.» «La mia mamma non dice le bugie, quindi stai attenta a come parli.» «Ne sei proprio sicura? Ho visto che la vostra casa è in vendita. Ti ha forse fatto credere che ora la casa appartiene a voi?» «Anche se lo avesse fatto, non ha mentito», replicò Rowan, anche se non ne era troppo convinta. «E tuo padre ha promesso di comprarti un telescopio, ma hai dovuto aspettare che fossi io a portarti questo binocolo.» «E che cosa mi dici di tuo padre? Anche lui racconta le bugie?» Improvvisamente gli occhi pallidi divennero grigi, come vecchie monete, e così luccicanti che Rowan ebbe paura di parlare. Deglutì e sfiorò il binocolo. «L'hai portato apposta per me?» Lo sguardo di Vicky perse gradualmente l'intensità luminosa, e Rowan udì il sussurro della sabbia attraverso l'erba rada. «Te l'ho appena detto, o no?» la rimproverò Vicky. «Non dico bugie, io. Vai in cima e goditi il panorama.» Mentre Rowan raggiungeva la cima della duna, vide Patty sui gradini, che si trascinava dietro Paul e Mary, diretti verso i secchielli. Per un attimo parve che la stesse osservando, ma doveva avere il sole negli occhi. La sua testa sobbalzava a ogni gradino e poi rimase solo Vicky, con il suo vestitino bianco che si stagliava contro la duna assolata, intenta a guardare Rowan che sollevava il binocolo all'altezza degli occhi. Le piacevano gli oggetti antichi, ma forse quello era un po' troppo vecchio. Non si vedeva altro che un'immagine sfuocata oltre l'oscurità a forma di otto supino. Il senso di oppressione le fece girare la testa. Cercò con la mano la manopola della messa a fuoco, ma non la trovò. «Lasciagli il tempo di funzionare», mormorò Vicky. E improvvisamente, il binocolo si mise a compiere il suo dovere. Il panorama si spalancò davanti a Rowan in modo così rapido e nitido da lasciarla senza fiato. Stava guardando l'acqua al centro della baia e persino il rumore delle onde sembrava più vicino. Mentre fissava l'enorme distesa tranquilla, l'acqua si fece più scura e poi più trasparente, come se volesse prometterle che sarebbe stata in grado di scrutarne le profondità, e il tunnel buio che le impediva la vista, svanì come per incanto. «Più lo usi e più di-
venta potente», mormorò Vicky. «Dai un'occhiata a dove eravamo.» Rowan alzò il binocolo verso il Galles. Così facendo, le sembrò di volare sul mare, e quasi le venne a mancare il fiato. La spiaggia di Talacre si stagliava fuori delle onde e Rowan rimase senza parole quando si rese conto della moltitudine di cose che riusciva a scorgere: cani che si rincorrevano sollevando la sabbia, tre bagnanti distesi su altrettanti asciugamani, simili a una bandiera tricolore, bambini che scavavano in riva al mare. Le grida dei bambini che giungevano alle sue orecchie dovevano provenire dalla spiaggia di Waterloo. «Dalla cima della tua casa potresti vedere molto di più», sottolineò Vicky. Rowan fece scorrere lo sguardo lungo la strada costiera da Talacre alla Greenfield Valley. Nei pressi dei pendii di Holywell i bacini idrici scintillavano fra le fabbriche ormai in rovina. Le file di casette lasciarono il posto a strade piene di negozi e di gente e Rowan si ritrovò davanti al cottage della zia. Hermione era in giardino, curva su un'aiuola di fiori. Rowan osservò affascinata la zia che strappava le erbacce. Riuscì a vedere la sua mano che si premeva sulle reni e notò il vecchio paio di guanti che portava; le parve quasi di sentire il brontolio di trionfo con cui la donna strappava le erbacce, spargendo terra dappertutto. La zia si raddrizzò e la fissò. Rowan quasi scomparve oltre la duna: Hermione sembrava incredibilmente vicina. Si sentì eccitata e leggermente in colpa e quasi si dimenticò del binocolo. Era impaurita dalla sua stessa capacità di vedere tanto lontano. Osservò Hermione che spostava il secchio pieno di erbacce e non riuscì a staccare lo sguardo. Non si rese conto di quanto tempo avesse trascorso in quella posizione, ma improvvisamente udì qualcuno che la chiamava per nome. All'inizio la voce sembrava così lontana da risultare irriconoscibile. Poi fu colpita dal tono preoccupato di sua madre e cercò di individuare la spiaggia. Dovette chiudere gli occhi mentre la vista spaziava sulla baia. Quando li riaprì, tenne ben fermo il binocolo e si ritrovò davanti il viso colmo di angoscia della madre. Il binocolo non poteva funzionare a una tale distanza: sua madre sembrava ancora più lontana di quanto fosse stata Hermione, in fondo a un lungo tunnel nero. Cercò di abbassare il binocolo, ma anche le sue mani parevano incredibilmente lontane. Mentre stringeva il binocolo, si rese conto di non potersi muovere senza rischiare di cadere. Poi sua madre alzò lo sguardo verso di lei senza tuttavia riuscire a vederla e si allontanò velocemente lungo la spiaggia.
«Mamma!» gridò Rowan, strappandosi il binocolo dal collo. Il cielo parve inclinarsi e le dune si gonfiarono sotto di lei. Probabilmente non aveva urlato tanto forte come aveva creduto perché sua madre non si era neppure voltata. Rowan inciampò lungo il pendio sabbioso a causa del binocolo che sembrava trascinarla verso il basso, e si arrampicò con fatica sulla passeggiata, con la sabbia che le franava sotto i piedi e si infilava sotto le unghie. Vicky rimase in cima, in attesa. La testa oscurava il sole, ma il viso era comunque scintillante, anche se privo di espressione a eccezione della luce negli occhi. Quando Rowan raggiunse faticosamente la cima, Vicky le si avvicinò e allungò le mani. Voleva forse il binocolo? Rowan fece per togliersi la cinghia dal collo, ma Vicky la fermò. «Ormai è tuo.» Rowan non era sicura di volerlo veramente, ma poi, ricordando a quale distanza era riuscita a vedere, decise di tenerlo. «Sarà mio per sempre?» «Fino a quando vivrai in quella casa. Se rimarrai sempre là, potrai tenerlo per sempre, d'accordo? Forse ci riuscirai.» Pronunciò quelle parole come se fosse sul punto di rivelare a Rowan il sistema per farcela. Rowan si sarebbe fermata volentieri, ma sentì la madre che la chiamava. «Ora devo andare.» Vicky la fissò. Parecchie onde si infransero e si ritirarono lentamente sulla spiaggia prima che Vicky decidesse di spostarsi. «Verrò a trovarti di nuovo e molto presto», la tranquillizzò. Rowan attraversò di corsa il viale, scendendo i gradini coperti di sabbia. Sua madre arrivò trafelata dal porticciolo, con l'ansia dipinta sul viso. «Mamma, sono qui», urlò Rowan. «Sono solo andata sulle dune e Patty non ha voluto venire con me. Mi spiace.» L'espressione preoccupata della madre si trasformò in collera, per poi cedere il posto a un'espressione di sollievo. «Non hai sentito che ti stavo chiamando? Non devi farlo più, Rowan. Pensavo di potermi fidare di te e sai bene che non voglio che tu vada in giro da sola.» «Ero con Vicky», protestò Rowan. «L'ho conosciuta quando ero da Hermione. Non ci siamo allontanate.» «Be', spero che abbia più cervello di Patty. Ed è quasi impossibile che sia peggio di lei.» Lo sguardo della madre di Rowan cadde dubbioso sul binocolo. «Te l'ha prestato lei?» «Ha detto che potevo tenerlo. È vecchio. Sono sicura che è davvero suo.» «Ma certo tesoro, non ti sto accusando di niente.» La madre la strinse a
sé con una tale forza che Rowan si rese conto di quanto doveva essersi preoccupata. «Vieni, andiamo da Jo prima che Patty la convinca a chiamare la polizia. Mi presenterai la tua amica strada facendo.» Ma quando salirono i gradini e corsero verso casa mano nella mano le dune erano completamente deserte, a eccezione della sabbia e dei ciuffi d'erba. «Potrai invitarla a casa un'altra volta. È stata gentile a regalarti il binocolo. Dovrai ricambiare in qualche modo», le suggerì la madre, e per un attimo, mentre avanzava nella sabbia, Rowan si chiese che cos'avrebbe potuto volere Vicky da lei. Si augurò che non le chiedesse troppo. 11 Sabato mattina c'erano due lettere sullo zerbino. Una era la classica lettera che Rowan scriveva abitualmente ai genitori. «Cari mamma e papà, non mimporta dove abito, l'importante è che sia con voi. Volio stare con voi per sempre, perché vi volio tanto bene e sono felice che mi abiate lasciato tenere il binocolo. Spero che posiate conoscere presto la mia nuova ammica...» Le diedero un bacio e la mandarono a giocare nella sua giungla, il giardino sul retro, mentre loro osservavano l'altra lettera. Veniva dalla banca. «Aprila tu», disse Derek. «Forse ci porterà fortuna.» Guardò Alison mentre girava la busta, sollevava un angolo con l'unghia, faceva scivolare un dito sotto la linguetta e l'apriva; estrasse il foglio di carta intestata, lo spiegò e lo girò per il verso giusto. Forse la banca aveva scritto per comunicare che finalmente il loro conto era in attivo, pensò Derek, finché vide Alison impallidire e porgergli la lettera. L'assegno era stato respinto. Sentì le tremila sterline svanire nel nulla. Derek vide tutti i loro progetti sciogliersi uno a uno come neve al sole: imbiancare la casa per venderla più facilmente, la vacanza che avrebbero voluto fare alla fine del primo quadrimestre di Rowan, una nuova macchina per Alison, dato che non valeva la pena far riparare quella vecchia... Gli sembrò che la casa gli crollasse addosso, un peso morto di cui non si sarebbero mai liberati, squallida, brutta e fredda. Quando si diresse con passo pesante verso il telefono, riecheggiarono in tutta la casa scricchiolii e cigolii. «Cerca di mantenere la calma», gli raccomandò Alison. Udì dei bambini che stavano litigando e una voce di donna che cercava
di zittirli, mentre un disc jockey ciarlava alla radio. «Sì?» rispose una voce. «Non ti sprechi, eh?» abbaiò Derek. «Che cosa?» «C'è Ken?» «Chi lo vuole?» «Passamelo e basta.» Chiunque fosse dei figli di Ken se ne andò borbottando e poi tornò al telefono. «Non è in casa. Ha detto di lasciare un messaggio.» Derek sentiva Ken fischiettare una canzone dei Beatles in mezzo a quel frastuono. «Non importa», rispose, e mise giù la cornetta dicendo ad Alison: «Vado da lui». Alison scese rapidamente le scale portando una montagna di lenzuola piegate. «Non sarebbe meglio che gli scrivesse l'avvocato?» «Sarebbe meglio, ma andrebbe troppo per le lunghe, e probabilmente alla fine ci ritroveremo tutti in mezzo alla strada. Ascolta, voglio solo provare a fargli capire in che guai siamo», spiegò Derek, e le mise una mano sulle labbra. Sentiva ancora il suo respiro umido sulla mano mentre correva verso la macchina. Attraversò Everton, strade con vecchi negozi e cinema trasformati in locali per giocare al Bingo e salì sulle colline dov'erano sorti grandi condomini. Oltre Everton sorgeva Toxteth, dove i giovani di colore si pavoneggiavano per le strade in stile vittoriano e i ragazzi bianchi giravano in macchina alla ricerca delle donne. La finestra del vecchio appartamento dei Faraday era in frantumi ed era stata rattoppata con del cartone. Ken viveva dall'altra parte di Toxteth, a Aigburth, alla fine di una strada sopra i Festival Gardens. In mezzo al giardino, sulla riva del Mersey, il Festival Hall scintillava debolmente, simile a uno Zeppelin mezzo sommerso. Contro la porta di vetro della casa di Ken c'era una macchinina a pedali. Derek suonò il campanello posto sotto un lampioncino e sentì delle voci urlare ai bambini di tacere. Le tende di velluto rosso delle finestre vennero scostate e apparve Ken, con indosso una vestaglia orientale. Il suo viso tondo cercava di essere inespressivo. «Salve, Derek. Sei venuto a rivedere la tua vecchia tana? In questo momento c'è un po' di confusione in casa.» «Non mi dà nessun fastidio. Non vorrai che urli attraverso il vetro.» Ken uscì, mettendosi a posto i capelli spettinati. «Non ho dimenticato che ti ho promesso di rimettere a posto la casa, se questo è il problema.»
«Il problema è il tuo assegno, amico.» «Non hai cercato di versarlo, vero? Non aveva la data della fine della prossima settimana? Mi sono sbagliato. Ho tante di quelle cose a cui pensare, che sai anche tu come va a finire. Aspetta un attimo e te ne faccio un altro.» «Non possiamo permetterci di aspettare ancora, Ken. Abbiamo bisogno dei soldi, subito.» «Non penserai che sia così pazzo da tenermi in casa una somma simile, con tutti i ladri che girano da queste parti, vero? Se la tua banca insiste, dille che i soldi ti stanno per arrivare. Che cosa vuoi che facciano se non paghi, pensi che ti possano rapire la figlia?» «La tua banca è aperta di sabato. Potresti vestirti e andare a prendere il contante.» «Non posso, amico. Ho problemi di liquidità per colpa di alcuni imbecilli per cui lavoro, sai come vanno queste cose. Non fare una scenata, okay? Qui abita gente civile, non litighiamo per strada. Allora, te lo faccio l'assegno? Deciditi in fretta, perché devo dare da mangiare ai conigli.» Si diresse verso un lato della casa, stringendosi nella vestaglia. Derek lo raggiunse appena emerse dalla cucina con in mano della lattuga avvizzita. «Non me ne vado finché non mi avrai dato le tremila sterline che mi devi», lo minacciò Derek, con un tono così alto da far correre i conigli dentro la gabbia in fondo al giardino. «Sei sempre attaccato ai soldi, eh? Per il momento dovrai accontentarti di questa.» Lanciò la lattuga a Derek, che l'afferrò istintivamente mentre Ken apriva il cancelletto della gabbia. «Allora, vuoi fare la persona ragionevole? I miei ragazzi ti imbiancheranno la casa la prossima settimana, se non ti dà fastidio che lavorino di sera, non è vero figlioli?» Derek si girò. I due robusti figli di Ken erano dietro di lui. «Sì», disse uno, mentre quello più taciturno si limitò ad annuire con la testa. «Se ne andranno fuori dai piedi prima di mezzanotte», gli assicurò Ken. Come avrebbe potuto Derek lasciarli entrare in casa sua quando si rendeva conto che erano pronti a minacciarlo? «Voglio i miei soldi», sbottò. Ken prese la lattuga che Derek aveva in mano e aprì il cancellerò, scuotendo desolatamente la testa. «Dategli quello che vuole.» Derek indietreggiò sul vialetto e urtò il bidone della spazzatura. Per poco non si ritrovò disteso per terra. I ragazzi sghignazzarono, ma smisero di ridere mentre gli si avvicinavano. Derek si rialzò e le sue dita toccarono il collo di una bottiglia che era rotolata fuori del bidone. Picchiò la bottiglia
contro il muro del vialetto con una tale violenza che i figli di Ken fecero un passo indietro. Derek sentì una scheggia di vetro nella mano e il dolore lo eccitò e per un attimo desiderò colpire i due ragazzi. Poi pensò a Rowan e immaginò la sua espressione nel vedere il padre comportarsi in quel modo. Gettò via la bottiglia e si girò, voltando le spalle ai due giovani. Questi lo schernirono e gli buttarono addosso l'immondizia, mentre Derek si dirigeva lentamente verso la macchina. Aveva mantenuto il rispetto verso se stesso, ma a che prezzo? Ora avrebbe dovuto rivolgersi a un avvocato e spendere ancora di più per mettere a posto la casa. Ritornò verso Waterloo, sempre più insoddisfatto di se stesso e della notizia che avrebbe dovuto dare ad Alison. Quando la trovò, al secondo piano, intenta a osservare vecchie fotografie, gli sembrò così distrutta che non ebbe quasi il coraggio di chiederle che cosa fosse successo. «Lance si è ucciso», mormorò Alison. «No! Quando?» «Qualche giorno fa, ma Richard ha appena chiamato i miei genitori. Hermione potrà dirci di più quando arriverà. Non ti spiace se si ferma a dormire da noi, vero? Mi è sembrata molto scossa.» «Come preferisci, Ali. A ogni modo, da Ken non ho ottenuto niente. Non sono quasi riuscito ad avvicinarmi. I figli lo proteggevano.» «Sopravviveremo finché le cose non andranno meglio.» Lo abbracciò e quel gesto affettuoso contribuì ad accrescere il suo imbarazzo: Alison si era resa conto che non le aveva detto tutta la verità. Derek fu felice quando squillò il telefono. «Mi hanno chiamato per un lavoro a Bootle», riferì Derek. «Porto Rowan con me.» Rowan era sul retro della casa che sbirciava verso la baia, oltre la fitta siepe. «Metterai le radici se resti lì ancora un po'», la canzonò il padre. «Devo sbrigare un lavoro. Ti andrebbe di venire a darmi una mano?» «Preferirei di no, papà. La mia amica Vicky potrebbe venire a giocare qui e io voglio essere in casa.» Derek non si era aspettato di essere così colpito dal suo rifiuto. Forse la bambina pensava che ormai una signorina non potesse più portare la borsa degli attrezzi. Sarebbe venuto il giorno in cui non l'avrebbe più capita del tutto. L'idea non gli piaceva e dovette fare uno sforzo per concentrarsi e lavorare sull'impianto elettrico nella casa di una coppia di sposini di Bootle. Quando tornò a Waterloo, Hermione era già arrivata. Era in giardino e tagliava l'erba con delle cesoie. «Sono di nuovo qua, Derek. Comincerai a pensare che sia impossibile liberarsi di me.»
«Ti prego, non dire così. Sai che sei sempre la benvenuta.» «Davvero? Non mi pare. Non mi riferisco a te, ma alla casa.» Si guardò intorno, come se si aspettasse di vedere qualcuno che li osservava. «E tu? Ti senti a tuo agio qui?» «Rowan sì.» «Non sono sicura che sia un fatto positivo.» Tolse dell'erba dalla lama delle cesoie. «Penserai che la tua nevrotica cognata peggiora sempre più.» «Hai semplicemente bisogno di tempo per riprenderti. Ma i brutti ricordi del tuo passato sono ormai morti, no? Prima Queenie e ora Lance.» Derek pensò di essere stato troppo duro, ma Hermione annuì lentamente, come se stesse cercando di convincersi. «Lance, già. Non ci sono dubbi su di lui. È stato falciato da un treno. Il macchinista ha riferito che ha guardato il treno e poi si è gettato sotto. Come si può fare una cosa simile, Derek?» «Forse non riusciva più a vivere con se stesso, a sopportare la vergogna e le cattiverie della gente.» «È quello che pensa suo padre. Ma Lance stava venendo qua, Derek.» «E allora?» rispose Derek, sentendosi misteriosamente minacciato. «Doveva pur andare da qualche parte.» «Ma perché avrebbe dovuto fare tutta quella strada per poi suicidarsi?» «Aveva parlato di Rowan, vero? Forse quando è arrivato da queste parti non è più riuscito a sopportare l'idea di ciò che voleva fare a Rowan.» Quella chiacchierata lo stava innervosendo, così come il ricordo dell'incontro con Lance e la sensazione che la sua mente fosse come una profonda voragine nella quale chi si avvicinava troppo poteva cadere. «Ti rendi conto che non sapremo mai quello che voleva dire ad Alison?» proseguì Hermione. Derek stava per risponderle che non importava, quando arrivò Rowan. «Dov'è la mamma? Oh, ciao», disse a Derek, «non sapevo fossi tornato. Per piacere, posso andare sulle dune, a cercare la mia amica? Non mi allontano troppo.» «Eccomi qua, Rowan.» Alison apparve alla porta d'ingresso, con un raschietto di carta da parati in mano. «Che cosa c'è?» Si stava rivolgendo a Hermione, che continuava a fissare la bambina. Hermione si schiarì nervosamente la voce. «Glielo avete dato voi quel binocolo?» «No, gliel'ha regalato una sua amica», spiegò Derek. «Puoi provare a usarlo, se vuoi», offrì Rowan, mentre cominciava a sfi-
larlo dal collo. «No, no, voglio solo dargli un'occhiata», la bloccò Hermione precipitosamente. Osservò il binocolo, con la fronte aggrottata. «Mi piacerebbe prenderlo in mano un attimo.» Il suo tentativo di sembrare disinvolta insospettì Rowan. «La mia amica ha detto che posso tenerlo per tutto il tempo che vivrò qua.» Derek mostrò segni di impazienza. «Qual è il problema, Hermione?» «È il suo.» Hermione si rivolse ad Alison, con tono quasi implorante. «L'ho visto nella sua stanza, te lo giuro. Non vedi com'è vecchio?» «Ascolta, se qualcuno non...» «Si riferisce a Queenie, Derek. Aveva un binocolo come questo. Non c'era nella stanza quando l'abbiamo messa a posto. Rowan, tesoro, la mamma non si arrabbia se l'hai fatto, ma hai per caso preso quel binocolo dalla stanza della vecchia zia?» «No, mamma», sbottò Rowan con le lacrime agli occhi. «Dopo la morte di suo padre, si sedeva sempre davanti alla finestra con quel binocolo», spiegò Hermione a Derek nel tentativo di convincerlo. «Trascorreva intere ore con lo sguardo fisso sulla tomba.» «È di Vicky. Me l'ha dato Vicky», urlò Rowan. Hermione strinse il braccio di Derek così forte da farlo sobbalzare. «Come hai detto che si chiama?» «Vicky. La mia nuova amica. L'ho conosciuta quando stavo da te.» «Oh», gemette Hermione, vacillando verso Derek. L'uomo si liberò il braccio, afferrò la donna per le spalle e la guardò negli occhi. «Hermione, se non la smetti spaventerai la bambina. Che cosa ti sta succedendo?» «Va tutto bene, Derek. Mi occupo io di lei.» Alison mise un braccio intorno alle spalle della sorella. «È solo una coincidenza, Hermione.» «Che tipo di coincidenza?» domandò Derek. Alison guardò Rowan e lanciò un'occhiata torva al marito. «E solo una coincidenza», ripetè con maggior convinzione. «Sta pensando a Queenie, ecco tutto. La chiamavamo Queenie solo perché il nonno diceva che lei era la sua regina. Il suo vero nome era Victoria.» 12 Su di loro cadde un silenzio carico di tensione. Poi lo stridio di un gabbiano sembrò lacerare l'aria, facendo tremare Rowan. Derek borbottò qual-
cosa sottovoce ed Hermione si allontanò da Alison. «Rowan», esordì con un tono che avrebbe dovuto essere casuale, «com'è la tua nuova amica?» «È simpatica. Legge molto e le piacciono le cose vecchie. Non dice mai le bugie ed è terribilmente pulita. L'ha allevata il suo papà, ma adesso lei non sa più dove sia.» Tutto quello che diceva sembrava agitare sempre più Hermione. «Hai detto che l'hai incontrata vicino a casa mia?» sussurrò Hermione. «Sulla spiaggia, quando ci sono andata con il nonno. Ma mi aveva detto che abitava qui vicino.» «Molto vicino», commentò Hermione deglutendo. «Rowan, mi prometti una cosa?» «Che cosa?» «Fallo per me, mi prometti di non giocare più con questa Vicky?» «Facci un favore, Hermione», intervenne Derek. «Ha già pochi amici da queste parti, e non vorrei che si ritrovasse completamente sola.» «E allora faccela almeno conoscere. Non ti diverti con i bambini che abitano qui di fronte?» «Mary e Paul? Non mi piacciono più. Sono sempre sporchi. Insudiciano anche me.» «È lei», gemette Hermione. «È una delle sue espressioni. Mio Dio, parla come lei.» Rowan si sentì improvvisamente cattiva, come le era sembrata Vicky quando aveva fulminato con lo sguardo Paul che voleva giocare con il binocolo; tanto cattiva da voltare offesa le spalle a Hermione, per colpa della quale la mamma le aveva dato della bugiarda. Si ricordò un'espressione di Queenie ed esclamò: «Sono dei bambini così insulsi». Forse aveva esagerato. Hermione cominciò a tremare. «Sono solo parole che ha imparato dai libri che legge, Hermione», insisté Derek. «E forse dalla vecchia zia prima che morisse.» «È nell'età in cui assimila tutto», assicurò Alison. «È meglio che ti ci abitui, Hermione, potrebbe peggiorare quando sarà un'adolescente.» «Non è quello, non capite? Potrebbe esserci Queenie di fronte a noi. Per carità, tenetela d'occhio, finché potete.» «Non sei tu che mi devi insegnare come mi devo comportare con mia figlia», sbottò Derek. «È anche mia figlia», sottolineò Alison. «Non ho mai detto il contrario. Spero che ciò significhi che non hai pre-
stato attenzione alle stupidaggini dette da tua sorella.» Si girò come se avesse detto troppo. Rowan si vergognava per aver causato quella discussione e per averli spinti a parlare in quel modo. «Scusami, zietta, stavo solo scherzando. Il papà ha ragione. Quelle frasi le ho imparate dai libri.» «Così va bene», affermò il padre. «Adesso vai, ma non allontanarti troppo.» Hermione si offrì di accompagnarla, ma Alison le assicurò che non era necessario. Rowan corse sulle dune. Che cosa c'era di strano se assomigliava sempre più a Queenie? Forse era attratta da Vicky proprio perché gliela ricordava, senza però procurarle quel senso di paura che suscitava in lei la vecchia zia. Parlarle sarebbe servito a dissipare tutti i dubbi di Rowan, sebbene non sapesse quali, domande rivolgerle. Ma non c'era segno di Vicky sulle dune o sulla spiaggia. Quando Rowan tornò a casa, gli adulti erano tornati gentili gli uni con gli altri. Durante la cena, anche la più piccola osservazione alla bambina sembrava diretta a uno degli adulti. Rowan fu contenta quando fu l'ora di andare a letto, e lo fu anche quando i grandi andarono uno alla volta a darle il bacio della buonanotte, per esprimerle ciò che non riuscivano a dire con le parole. Domenica Hermione sembrò decidersi a essere ragionevole: lavorò per tutta la mattina in giardino e poi propose di vedere che cosa si potesse eliminare dall'ultimo piano. Salì come se non avesse mai avuto paura a farlo. Il suo coraggio non durò a lungo. Non le piacevano le forme che s'intravedevano nella stanza vicino a quella di Queenie, mani sulle ginocchia sotto le lenzuola impolverate. Ben presto tutte le sedie vennero scoperte, tranne una, sulla quale sembrava che qualcuno fosse seduto immobile sotto il lenzuolo. Questa impressione era data semplicemente da un paio di cuscini: dall'odore dovevano essere marci. Quando Hermione cercò di spostare una sedia, il tessuto si strappò e le sue dita affondarono nella vecchia imbottitura dei braccioli. «Metterai a posto questo piano subito, vero?» pregò Hermione. «Prima sarà vivibile e prima potrete andarvene da qui.» Quella sera Derek accompagnò a casa Hermione in macchina. Quando tornò, Rowan era a letto, da dove cercava di ascoltare con apprensione i discorsi che i genitori sembrava facessero solo quando erano soli. Ma si addormentò prima di riuscire a sentire qualcosa. Durante la colazione nessuno parlò, e Derek si limitò a fissare una lettera buttata vicino alla brocca del latte. Alla fine si decise a spiegarle di che cosa si trattava. «Se qualcu-
no dovesse chiedertelo, sappi che mi è stato tolto il lavoro alla tua scuola. Forse pensavi che il fatto che tu frequentavi quella scuola potesse essere utile, ma un tizio ha fatto un preventivo di cinquanta sterline inferiore al mio.» «Allora non potremo più rimanere qui?» «E come diavolo facciamo a mantenere questa casa?» ringhiò, rimanendo scioccato dalla sua stessa reazione. «Scusami, tesoro, non volevo urlare.» Rowan era troppo offesa per andare da lui e Derek ritornò a guardare la lettera. «Cinquanta sporche sterline», mormorò. «Lascia stare il papà, Rowan. Sbrigati, altrimenti arriverai tardi a scuola.» La mamma l'accompagnò in bagno a lavarsi i denti. Quando Rowan tentò di infilarsi in soggiorno per salutare il padre, la mamma la fece andare oltre. Ma era troppo tardi. Rowan aveva già sentito uno dei suoni più terribili che si possano immaginare: il pianto del padre. 13 Lunedì, all'ora di pranzo, molti bambini si presentarono al negozio. Hermione sporse la testa dalla stanza sul retro quando sentì suonare il campanello. Due ragazzine dell'età di Rowan stavano ammirando gli abiti esposti, mentre alcune loro compagne si accalcavano davanti alla vetrine, oscurando l'interno del negozio. La campanella continuò a suonare, mentre le ragazzine sciamavano oltre la porta ed Hermione non riuscì neppure a contarle, né a riconoscere quei visini trafelati. Il locale assomigliava a una scatola chiusa e senz'aria, ed Hermione inciampò nei suoi stessi piedi. «Alcuni di voi dovranno uscire. Quelli che non devono comperare niente. E non piazzatevi davanti alla vetrina. Lasciate respirare anche gli altri.» I bambini la guardarono stupiti, come se fosse stata una vecchia pazza. Una ragazzina che aveva appena aperto il borsellino lo chiuse con aria sdegnata e s'incamminò impettita come una contessa fuori del negozio, seguita da tutti gli altri. La campanella continuò a suonare senza sosta e alla fine il negozio rimase deserto, a eccezione di Gwen ed Elspeth, le due donne che costruivano i giocattoli e che stavano bisbigliando fra di loro in gallese. «Stavamo pensando», spiegò Gwen, «che se vuole andare a casa per non essere disturbata, potremmo rimanere noi in negozio.» «Non posso chiedervi tanto. Anche se probabilmente la gente sarebbe felice dello scambio.» Nemmeno il tentativo di apparire spiritosa riusciva a nascondere il suo nervosismo. «Se volete rimanere, mi farete felice. Me ne
starò nel retro, così non rischierò di spaventare altri clienti», esclamò, ritornando al mucchio di volantini pubblicitari non richiesti. Nel giro di pochi minuti, i cataloghi luccicanti che decantavano i giocattoli di plastica finirono nel cestino della carta straccia, accanto alla piccola scrivania di quercia. Gwen ed Elspeth continuarono a parlottare in gallese, lanciandole rapide occhiate quando credevano di non essere viste: i loro visi pallidi e appuntiti erano colmi di preoccupazione. Dopo anni e anni trascorsi insieme sembravano quasi due gemelle. Non poteva biasimarle per l'apprensione che dimostravano nei suoi confronti. In quello stato sarebbe stata di ben poco aiuto per Rowan. Aveva iniziato a sentirsi così quando aveva notato quella bambina che sbirciava attraverso la vetrina, in mezzo alle maschere appese. Da allora, aveva continuato a vedere la sua figuretta nelle stradine tortuose e ogni volta che apriva il negozio aveva l'impressione che in vetrina ci fossero troppi volti immobili. Poi l'aveva chiamata sua madre, per informarla che Lance si era suicidato prima di riuscire a parlare con Alison ed Hermione si era ricordata delle parole di Lance: «La ragazzina». Forse non si stava riferendo a Rowan. Era andata a Waterloo perché sentiva di poter essere utile. Ma la vista della casa, con le finestre opache del sottotetto, simili agli occhi di un vecchio ragno gonfio, l'aveva resa troppo nervosa per permetterle di riflettere. Le due sorelle avevano parlato della morte di Lance, ma con molta cautela, ed Hermione non se l'era sentita di rivelare ciò che le stava a cuore. Aveva deciso di sistemare il giardino in modo che i possibili acquirenti non fossero scoraggiati dal suo aspetto trascurato, e poi era arrivata Rowan con il binocolo della zia morta. All'inizio, Hermione aveva pensato che la sagoma scura fosse attaccata al petto della bambina. Le era parso di vedere un pipistrello, ma aveva cercato di convincersi che fosse solo un gattino. E se fosse stato il binocolo di Queenie? Era molto probabile che la bambina avesse trovato il binocolo in casa, ma perché aveva tanto insistito, sostenendo che le era stato regalato da un'amica? Rowan l'aveva guardata con aria innocente, spiegandole che aveva conosciuto la nuova amichetta mentre era ospite della zia Hermione: e quella bambina si chiamava come Queenie. Eppure nessuno sembrava essersene preoccupato. Quando Rowan si era allontanata verso le dune, i genitori si erano messi a parlare con Hermione. Rowan era già abbastanza scossa per via del trasferimento e non ritenevano fosse il caso di fare tanto baccano per un vecchio binocolo. Derek si era
persino lamentato perché quel dannato aggeggio non serviva praticamente a niente: aveva provato a darci un'occhiata, ma le lenti sembravano semplici pezzi di vetro. Hermione si era sforzata di mantenersi calma, fino a quando non avesse trovato le parole più giuste. Una notte di sonno era riuscita a farla sentire meglio, permettendole persino di avventurarsi all'ultimo piano, quello di Queenie, per dimostrare ad Alison e Derek che le sue nevrosi erano ormai scomparse e che quindi potevano crederle. Ma quelle stanze l'avevano terrorizzata perché sembravano ancora pervase dalla morte di Queenie. Aveva preso alcuni album di fotografie di famiglia per poterci dare un'occhiata, e non aveva mai desiderato tanto starsene alla larga dalla casa di Queenie. E ora che era giunta al punto in cui poteva rendersi utile, perdeva tempo a dare fastidio ai clienti invece di cercare di aiutare Rowan. Il ritardo avrebbe solo aggravato le sue paure, e comunque era necessario che affrontasse ciò da cui non poteva più fuggire. Si alzò, sentendosi inaspettatamente più leggera e agile, e le due donne le sorrisero, come se si fosse ripresa dopo una lunga malattia. «Se vi fermate fino all'ora di chiusura, potreste darmi un passaggio fino alla chiesa?» domandò. Le due donne apparvero sollevate e desiderose di aiutarla. «Quando vuole andare a pregare sulla tomba», esclamò Elspeth, «non deve far altro che dircelo.» Quando i bambini passarono davanti al negozio, al ritorno da scuola, Hermione si avvicinò per scusarsi. «Mi spiace di aver alzato la voce. Vedete, ho avuto qualche problema in famiglia.» «Siamo entrati in troppi e tutti insieme. Torneremo domani», bisbigliò una vocina ed Hermione provò l'impulso di offrire un regalo a ognuno dei bambini. Chiuse il negozio alle cinque e mezzo, mentre Elspeth andava a prendere la Renault al parcheggio. Durante il tragitto sul fianco della collina, verso Gronant, avvertirono un vento freddo che preannunciava l'autunno, proveniente dai campi dove le foglie stavano già ingiallendo. Quando giunsero al cimitero, Elspeth disse: «Allora accompagno Gwen a casa», come se non vivessero neppure insieme, pensò Hermione, senza tuttavia farci troppo caso: addirittura invidiava le due donne per quello che erano riuscite a ottenere. Rimase a osservare la Renault che si allontanava oltre la collina e poi entrò nel silenzioso cimitero. Era piccolo e ordinato e per metà ombreggiato dalla cappella massiccia.
Hermione si incamminò sul tappeto erboso, fra i fiori nascosti in mezzo alle lapidi grigie; sopra una tomba, un angelo di pietra protendeva il braccio ormai monco, quasi fosse stata una pistola grottesca. Al centro del cimitero, un salice piangente gettava la sua ombra su un piccolo appezzamento inviolabile e inaccessibile: lì c'era la tomba di famiglia. Il nome appena inciso scintillava sulla colonna di marmo posta sopra il tumulo, ricoperto da un tappeto d'erba. ALLA NOSTRA AMATA FIGLIA VICTORIA, FINALMENTE NELLE BRACCIA DEL PADRE. Doveva essere stata Queenie a coniare quella frase, altrimenti avrebbero sicuramente citato anche la madre. Hermione avvertì un brivido all'idea di farsi abbracciare sotto terra, poi si ricordò della parole di Rowan, secondo cui la ragazzina di nome Vicky non sapeva che fine avesse fatto il padre. Se Queenie aveva trovato solo il nulla, era ovvio che avesse deciso di tornare. Hermione era convinta che, dopo la morte, le persone raggiungessero la condizione che più desideravano. Ma se avessero trovato solo ciò che erano riuscite a creare, consciamente o in altro modo? Forse Queenie aveva scoperto che sarebbe rimasta sola con se stessa per l'eternità, dal momento che non aveva mai creato niente, tranne la perfetta immagine di se stessa. Hermione aveva sempre creduto che il concetto di inferno presupponesse l'esistenza di Dio, ma forse l'inferno era il ritrovarsi con se stessi dopo la morte; forse, al momento della morte, ogni individuo veniva giudicato da quella parte di sé a cui è impossibile mentire, quella parte che conosce perfettamente quello che è stato detto o fatto nel corso della vita. Ogni individuo nasconde dentro di sé il proprio critico più severo, che solo la morte riesce a liberare dalle costrizioni della vita, permettendogli di decidere qual è la sorte a noi destinata per l'eternità. Hermione serrò la mascella, ma solo perché quei pensieri le facevano battere i denti. Sembrava che a Queenie non interessasse più farle del male in quel modo. Anche il fatto che l'ultimo piano della sua casa fosse quasi completamente marcito poteva riflettere una mancanza di interesse. Ma certo non aveva perso l'interesse nei confronti di Rowan: si era persino assicurata di essere seppellita assieme a una ciocca di capelli della bambina. Hermione si guardò attorno. Il salice nascondeva la tomba dalla strada e le case più vicine erano oltre la collina, fuori del campo visivo. Il suo piano era comunque assurdo: innanzitutto non disponeva neppure degli attrezzi necessari, e inoltre non avrebbe potuto aiutare la famiglia se l'avessero rinchiusa in un manicomio per aver profanato una tomba. Sicuramente esistevano metodi più ortodossi e legali per recuperare il medaglione.
Era forse il sollievo di non avere con sé gli attrezzi che le dava l'impressione di essere osservata con sommo disprezzo? Dalla tomba si levava un puzzo gelido di marcio e a Hermione parve che il suo osservatore stesse trattenendo il fiato. Non hai più fiato da trattenere, pensò con una tale rabbia che riuscì a rinvigorirle la mente. Hai ucciso Lance perché avrebbe raccontato ad Alison la ragione che ti aveva spinto a fare un testamento simile: volevi che Rowan rimanesse dove avevi deciso tu. Non hai cercato di uccidere anche me perché sai benissimo che nessuno presta attenzione a quello che dico: tutti sono convinti che io sia proprio come mi hai fatto tu, una bambina nevrotica che tu hai terrorizzato per impedirle di crescere. L'atmosfera era così immobile e opprimente che persino respirare le risultava difficile. Il salice sembrava di pietra, come le lapidi e la chiesa. Voltò le spalle alla tomba, colta dall'urgente desiderio di sfidare il misterioso osservatore, affinchè non si limitasse a guardarla ma azzardasse qualcosa di più. Forse fu proprio quell'invito a provocare la sua reazione. Risuonò una risatina soffocata, non certo infantile quanto decisamente da vecchio, che esprimeva una malvagità incontrollabile. Hermione cercò di convincersi che era solo frutto della sua immaginazione, dal momento che non poteva certo provenire dal punto in cui sembrava essere nata. Poi una voce fornì la risposta ai suoi interrogativi relativi a Queenie e a se stessa, una voce talmente camuffata da sembrare appassita. Hermione si allontanò velocemente, quasi correndo, scostando i rami del salice per affrettarsi verso l'uscita. «È vero», aveva esclamato la voce in tono allegro, dalle profondità del tumulo. 14 «Caro diario, Hermione dice di aver trovato una fotografia della zia Queenie con addosso il medalione; sulla foto cera scritto che dopo la sua morte voleva che il medalione andasse alla più giovane della familia. Così adesso Hermione vorrebe far prendere il cadavere...» Rowan sperava che ciò non accadesse: era una cosa che le faceva accapponare la pelle. Non voleva scrivere niente di quella faccenda e neppure del fatto che aveva sentito piangere il papà. Afferrò la penna come se stesse ancora scrivendo e si guardò intorno nella classe. Mary stava rosicchiando la matita e scosse la testa come un cagnolino quando ne sentì il sapore sulla lingua. Qualcuno scoreggiò, provocando risatine sommesse
nel resto della classe. Rowan ormai odiava quella scuola che aveva ridotto alle lacrime suo padre. Si mise a fissare la parete, con le foto e le descrizioni di quelli che i suoi compagni avevano definito i loro migliori amici, prima ancora che lei arrivasse, quando si rese conto che Kelly stava parlando con lei. «Rowan?» «Che cosa vuoi?» «Non c'è bisogno che tu mi morda. Volevo solo chiederti se ti farebbe piacere venire da me un pomeriggio a prendere il tè.» Kelly era una ragazzona robusta che aveva cercato di diventare sua amica fin dal primo giorno, quando le aveva regalato un sacchetto di caramelle. A Rowan era simpatica, ma ora non aveva alcuna voglia di accettare il suo invito. Non se la sentiva di andare a casa di nessuno, a eccezione di Vicky, ovunque vivesse la sua nuova amichetta. Prima che potesse risponderle, Mary sibilò: «È inutile perdere tempo con lei, crede di essere chissà chi». La risposta di Rowan era troppo tagliente perché la labbra riuscissero a fermarla. «Non sono affari tuoi, piccola maiala sudicia.» I bambini attorno a Mary iniziarono a prenderla in giro, come se avesse colto nel segno. «Magari pensate che suo padre sia un duca o roba del genere», sibilò Mary, «invece è solo un elettricista che non riesce neppure a trovare lavoro.» La signorina Frith alzò gli occhi dal giornale che stava leggendo, seduta alla cattedra. «Dunque, Mary, non eravamo forse tutti d'accordo sul fatto che non sempre le persone sono da biasimare solo perché non trovano lavoro? Uno dei motivi per cui impariamo a leggere, è per evitare di annoiarci quando non abbiamo lavoro e metterci così nei guai.» Mary e i suoi compagni si calmarono, ma non per molto. Poi Mary mormorò, in modo che Rowan potesse udirla: «Lei, la sua mamma e il suo papà vivevano con una vecchia pazza che credeva di essere la regina di Inghilterra». Quando suonò la campanella, si udì la voce tagliente di Rowan. «Preferirei assomigliare alla zia Queenie piuttosto che a ognuno di voi.» Non era sua intenzione includere Kelly, ma la ragazzina scappò via, in una nuvola di profumo di cioccolato e menta. Mentre Rowan metteva i libri nella cartella, la signorina Frith la chiamò alla cattedra. «Rowan, sappiamo che sei una ragazzina intelligente e che leggi molto bene per la tua età, ma la scuola non è solo questo. Vogliamo aiutarti a crescere. Saremmo molto più contenti se tu imparassi a socializzare di più con i tuoi coetanei,
in questo caso con i tuoi compagni di classe.» La crescente avversione di Rowan nei confronti della scuola si focalizzò sull'insegnante. «Mia zia diceva che lei non è qui per pontificare», obiettò. Il viso della signorina Frith si irrigidì. «Aspetta fuori», le ordinò, alzando la voce e facendo un cenno con la testa. «Potrei parlarle un attimo?» Rowan si girò, sperando che fosse uno dei suoi genitori, ma vide che era Jo. L'insegnante chiuse la porta, lasciandola nel corridoio con Paul e Mary che si cacciavano le dita nel naso e facevano le boccacce, mente Rowan cercava di ascoltare quello che stavano dicendo sul suo conto. Udì Jo che spiegava: «Non avevano in programma un figlio e con lei sono iniziati i problemi economici». Mary aspettò fino a quando s'incamminarono verso casa, poi, rimanendo a debita distanza da Jo, chiese: «Perché i genitori di Rowan l'hanno avuta se non la volevano?» «Non ho mai detto una cosa del genere, e tu non avresti dovuto origliare.» Jo evitò di guardare Rowan finché giunsero all'enorme casa, quindi suonò il campanello e attese che Derek aprisse la porta. «La signorina Frith vuole parlare con te e Alison dei problemi scolastici di Rowan», gli riferì subito. «Non ho mai saputo che ne avesse.» Sembrava preoccupato e nervoso, e si rivolse a Rowan cercando di apparire comprensivo. «Ci racconterai tutto appena torna la mamma, d'accordo, tesoro?» propose, apprestandosi a chiudere la porta. «Non posso entrare?» lo pregò Rowan. «Non puoi stare fuori un po' a giocare con i tuoi amici?» Vide che la bambina non era d'accordo e trasse un profondo sospiro. «Entra pure se proprio vuoi, ma stai tranquilla fino a quando te lo dico io. Mi sto occupando di una faccenda importante.» Mentre Rowan saliva le scale, lungo l'ampia parete scrostata, che sembrava preannunciare un mondo di avventure, il padre tornò in sala da pranzo, dove il signor Ormond guardava con aria accigliata il tavolo coperto di fatture e registri. «L'unica cosa che posso dire è che è proprio un bel pasticcio», lo rimproverò il commercialista. Rowan salì esitante i tre gradini, trattenendo il fiato mentre il signor Ormond proseguiva: «Immagino non serva a molto ricordarle che l'avevo avvisata». «Serve esattamente come il resto delle sue chiacchiere, amico. Mi sembra che potrebbe anche avere un po' di rispetto per i poveri diavoli come
me che contribuiscono al suo stipendio. Forse non sarò istruito come lei, ma questo non le dà il diritto di farmi il culo a questo modo.» «Stia calmo, non serve usare quel linguaggio.» «Servirà un'ambulanza per te, piccolo stronzo, se non la smetti di farmi incazzare.» Quando Rowan sentì i passi nervosi del commercialista che si avviava rapidamente verso la porta, corse nella sua stanza. Poi la macchina si allontanò e il padre la chiamò. «Ora va tutto bene, tesoro.» Ma non era vero: in sala da pranzo le era parso brutale e volgare, come se fosse un'altra persona, qualcuno che non conosceva e le faceva paura. A cena il papà si pentì di aver perso la pazienza con il signor Ormond e la mamma sembrava preoccupata per un tale Julius, affetto da una malattia incurabile. Di solito Rowan era disposta a condividere con i genitori le loro preoccupazioni, ma quella frase pronunciata da Jo le aveva fatto pensare che forse non desideravano la sua presenza. Alla fine, la mamma le chiese: «Allora, Rowan, che cosa c'è che non va a scuola?» «Il papà non ha ottenuto il lavoro», bofonchiò. «È tutto qui, tesoro?» grugnì il padre. «Non devi perdere il sonno per una cosa del genere. Ce la faremo lo stesso. Dobbiamo farcela, no?» «È davvero tutto qui?» insisté Alison. Rowan avrebbe voluto correre di sopra a nascondersi, ma era bloccata dal desiderio di dare una risposta all'interrogativo che la stava tormentando. «Tu e il papà non mi volevate?» «Chi ti ha detto una cosa simile? Ma certo che ti volevamo. Per noi sei la cosa più importante del mondo.» «La mamma ha dannatamente ragione», grugnì il padre. «Voglio solo sapere chi te l'ha detto per fargli rimangiare tutto.» «Non è stato nessuno», proseguì Rowan, temendo che potesse insultare Jo come aveva fatto con il commercialista. «Stavamo solo parlando con la signorina Frith dei bambini abbandonati e degli orfani.» Alison non sembrò soddisfatta della risposta. «Non è possibile che ci voglia parlare solo per questo.» Il silenzio di Rowan dimostrava che la bambina era d'accordo con lei. Come aveva potuto pensare che non l'avessero voluta? I genitori non le parlarono quasi durante la cena, e la cosa era piuttosto comprensibile, anche se in quel modo la facevano sentire un'estranea, una persona che non meritava di stare lì. A letto, rimase a rimuginare sulla scuola e la signorina Frith che probabilmente avrebbe riferito ai suoi genitori le parole di Jo.
Forse fu proprio quella lunga riflessione che le fece sognare la scuola. Iniziò con il rumore di un trapano, talmente perforante che dapprima sembrò provenire da uno dei suoi denti. No, era troppo distante, e poi, comunque, perché avrebbe dovuto preoccuparsi. Era fuori della finestra, dalle parti della scuola. Quando si rese conto che poteva venire dall'intèrno della scuola, scese dal letto per controllare. Vide una petroliera che procedeva in assoluto silenzio. Le tende l'avvolsero in un morbido abbraccio quando si mise a osservare le case. La sala delle riunioni della scuola era illuminata. Finalmente si rese conto del perché quel rumore le era sembrato doloroso quanto il trapano del dentista: rappresentava la sconfitta di suo padre. Il rumore lasciò il posto al silenzio più assoluto e poco dopo un uomo con una scala attraversò la sala illuminata. Rowan stava per distogliere lo sguardo dall'uomo che aveva preso il posto del padre, quando notò qualcosa che si muoveva dall'altra parte della sala. Non avrebbe dovuto lavorare da solo? Doveva essere così, altrimenti non avrebbe potuto fare un prezzo così basso. Rowan afferrò il binocolo da un angolo buio della stanza. Osservò la scena attraverso le lenti ed ebbe l'impressione di sognare: anche se quell'uomo con le orecchie enormi e i capelli ricci sembrava più vicino, Rowan si sentiva incredibilmente lontana. Vide che si fermava a metà scala, per scrutare con attenzione al di là della sala, riparandosi gli occhi con una mano, prima di riprendere a salire. Doveva aver notato quello che Rowan aveva solo intravisto. E, chiunque fosse, chiaramente non era con lui. Dalla sua stanza non riusciva a vedere il corridoio che quell'uomo aveva osservato con tanta cura, ma sicuramente l'avrebbe notato dall'ultimo piano. Quel sogno era fin troppo particolareggiato. Quando scivolò fuori della stanza, sentì le voci che provenivano dalla televisione: era un vecchio concerto dei Beatles che i suoi genitori sembravano apprezzare ancora. Salì furtivamente di sopra, con il binocolo che le sobbalzava sul petto, come un bimbo appeso al collo della madre. Sogno o non sogno, Rowan avrebbe tanto voluto avere ai piedi le pantofole. A mano a mano che saliva, il tappeto si faceva sempre più umido e freddo, fino a quando, giunta all'ultimo piano, non le sembrò minaccioso come oscure sabbie mobili. Fortunatamente, era una sensazione molto vaga, come se non si trovasse davvero in quel posto. Procedette a tastoni lungo la parete sporca, fino alla stanza ingombra di mobili ammuffiti, poi avanzò lentamente fra le sagome indistinte e si avvicinò alla finestra.
Il telaio della finestra sbatteva, producendo un rumore sordo simile al battito del cuore. Le lenti oculari si adattavano talmente bene ai suoi occhi che sembravano non esistere. L'elettricista si era spostato nella sala, per fissare un cavo lungo la scanalatura della parete, ed era quasi arrivato al corridoio sulla destra. Rowan fece scorrere lo sguardo verso quello, sull'altro lato della sala, ma non notò nulla, a eccezione dei quadri appesi accanto alle aule dell'asilo. Poi ripensò al corridoio che l'uomo aveva quasi raggiunto. Era buio. La luce della sala illuminava il muro fino alla prima finestra, conferendogli una luce gelida, ma la parete sfumava poi dal grigio al nero, fino ad apparire coperta di fuliggine all'altezza della terza finestra. Non era sicura che il movimento che aveva notato provenisse dalla zona in cui la penombra lasciava il posto all'oscurità più completa, simile a un ragno che si nascondesse al riparo delle tenebre. Ma quando l'uomo scese dalla scala, sentì crescere dentro di sé una forte tensione. L'uomo appoggiò la scala all'imboccatura del corridoio e controllò che fosse ben salda. Quando si piegò in direzione del corridoio, Rowan pensò che avesse udito qualcosa, ma l'uomo si limitò a chinarsi per raccogliere le scatole delle canaline coprifili e dei chiodi. Poi salì sulla scala facendo molta attenzione, appoggiò le scatole, si sistemò bene sul penultimo gradino e coprì il cavo con una canalina, spostando il martello per piantare il chiodo. Improvvisamente, con una velocità che fece quasi scoppiare a ridere Rowan, il martello gli sfuggì di mano. Fu per la sorpresa che alzò di colpo il braccio, mollando la presa: la sorpresa per ciò che vide sbucare dal corridoio e scagliarsi contro di lui. Forse fu per quella sorpresa che fece cadere la scala: quella figurina minuta che Rowan aveva appena intravisto non avrebbe certo potuto togliergli la scala da sotto i piedi. E fu certamente la sorpresa che lo spinse ad appigliarsi in modo sconsiderato all'unica cosa a portata di mano: il filo della corrente posto sopra la sua testa. Rowan vide la bocca dell'uomo contorcersi e spalancarsi a tal punto che temette potesse rompersi la mandibola, poi il corpo iniziò ad agitarsi. La canalina che avrebbe dovuto ricoprire il filo penzolava dal soffitto. Un cavo lungo parecchi metri ruppe l'intonaco e cadde a terra, trascinando con sé l'uomo che stringeva il filo con entrambe le mani, senza riuscire a staccarsi. Rowan spostò il binocolo e distolse lo sguardo quando l'uomo iniziò a ballare in modo convulso, con le mani avvinte intorno ai cavi. Nonostante la distanza, vide che il suo viso stava diventando nero. Era
ridotto a pelle e ossa, e si contorceva ormai in agonia. Rowan si girò, sentendosi svuotata ed esausta. Avrebbe potuto rannicchiarsi sul pavimento, naturalmente se non fosse già stata addormentata nel suo lettino. A ogni modo, comunque, dovette sognare di ripercorrere in punta di piedi le scale gelide, di rimettere il binocolo nell'angolo della stanza e di infilarsi di nuovo nel letto prima che il sogno potesse avere fine. 15 La cosa che tormentava maggiormente Alison riguardo a Julius era il fatto che il letto appariva fin troppo grande per lui. Passava lì la maggior parte del tempo, scrutando attentamente con gli occhi arrossati chiunque entrasse nella sua stanza. Il calvo cuoio capelluto lasciava trasparire i vasi sanguigni, le vene blu formavano un reticolato sulla pelle sottile come carta velina. Quando si era messo il pigiama, Alison aveva notato che aveva un pene microscopico. Le sue arterie si stavano indurendo e soffriva di un disturbo cardiaco. Aveva nove anni. Sembrava che ne avesse almeno sessanta. Era stato sistemato in una camera laterale, lontano dalla corsia in modo che gli altri bambini non lo guardassero con aria stupita quando aspettava la visita dello specialista, ma anche se la porta era tenuta chiusa, il personale era costantemente all'erta. Quel bimbo aveva commosso entrambe le allieve infermiere: Jasmine gli aveva portato una scatola di cioccolatini e dei fiori raccolti sul suo terrazzo al diciassettesimo piano e Libby continuava a sbirciare nella camera nel caso avesse bisogno di qualcosa e non osasse disturbare le infermiere. Poco dopo le dieci, Libby andò da Alison e, con un cenno della testa, le fece capire di volerle parlare nel corridoio. Quindi le sussurrò insistentemente: «Che cos'ha quel bambino?» «Chi, Julius? Progeria, invecchiamento precoce. Quella che viene definita sindrome di Hutchinson-Gilford quando colpisce soggetti così giovani.» «Che cosa possiamo fare per aiutarlo?» «Curare i sintomi nel miglior modo possibile e alleviare il dolore. A dire la verità, non è un gran che. Probabilmente non arriverà ai vent'anni», spiegò Alison il più delicatamente possibile. «Se non possiamo fare altro, perché è qui allora?» «Perché così i dottori lo possono tenere sotto osservazione, Libby. È una malattia rara e vogliono impararne il più possibile.» «Ma è orribile.» Con mani tremanti, Libby tolse una sigaretta dal pac-
chetto e poi ce la rimise in modo così violento che il filtro si staccò. «È come usarlo per la vivisezione. È soltanto un bambino. Non è in grado neppure di scegliere.» Secondo Alison era in grado di farlo. Benché nessuno gli avesse mai detto quanto a lungo avrebbe potuto vivere, istintivamente lo sapeva. Forse questo spiegava la sua calma, che spesso si poteva interpretare come tristezza. Si riteneva che i bambini afflitti da questa malattia non fossero mentalmente più avanzati dei loro coetanei, ma Alison aveva la sensazione che lui fosse più maturo. O forse era lei che lo voleva vedere come si augurava che fosse, come se la natura l'avesse ricompensato per la sua breve vita? Non si sentiva abbastanza sicura per dare una risposta a Libby, che si voltò bruscamente, come se Alison chiudesse gli occhi davanti a quella crudeltà nei confronti di Julius, ed entrò nella sua stanza per leggergli qualcosa. Poco dopo, la caporeparto la mandò a occuparsi di altri bambini ma si soffermò lei stessa a chiacchierare con il bimbo in un tono burbero che non riuscì a mascherare la sua pietà, come invece avrebbe voluto. Jasmine e Libby ora stavano diventando più premurose con gli altri bambini. Entrambe erano impegnate quando fu il momento di registrare i dati orari sulla cartella clinica di Julius, e la caporeparto era stata richiamata da un'altra parte. Alison guardò attraverso il vetro della stanza di Julius. Stava giocando con il computer che gli avevano portato i genitori. La caporeparto doveva aver sistemato la tastiera e il monitor sul tavolino, poiché Julius non ce l'avrebbe mai fatta a sollevare il monitor da solo. Un luccichio riflesso dal video danzava nei suoi occhi e le sue labbra erano attraversate da un timido sorriso di soddisfazione. Alison entrò quando vide il sorriso farsi più ampio, dopo che Julius aveva superato il proprio record. La osservò mentre prendeva nota della sua situazione e registrava i dati sulla cartella ai piedi del letto, e Alison ebbe improvvisamente paura che fosse sul punto di domandarle se stava migliorando. Ma quando alzò lo sguardo, i grandi occhi sul viso da vecchio erano calmi, così calmi che ebbe la sensazione di essere l'unica a scorgervi tracce di tristezza. «Vuoi che stia qui con te a parlare per un po'?» gli chiese. «Non preoccuparti, stavo giocando», esclamò, e poi, con un sorriso appena accennato: «Sei più utile agli altri bambini. Puoi aiutarli a guarire». Vedendolo giocare con i videogiochi, aveva pensato che stesse perdendo minuti preziosi della sua breve vita, ma si accorse di essere stata irrazionale: aveva il diritto di giocare come un bambino qualsiasi, se questo lo face-
va sentire meglio. Nessuno avrebbe dovuto interferire se Julius era in pace con se stesso e si rese conto che probabilmente i genitori si erano ormai rassegnati. «Be'», rispose un po' imbarazzata, «sono qui, sei hai bisogno di me.» Il suo sorriso così disarmante la colpì nel profondo del cuore. Sembrava volesse dire qualcosa, ma poi lanciò un'occhiata dietro di lei. La porta si era aperta, permettendo all'odore di disinfettante dell'ospedale di invadere la stanza. Quando Julius aggrottò le sopracciglia, Alison si accorse che nella camera era entrato un bambino. Si voltò per condurlo fuori e improvvisamente si sentì mancare. Sulla porta, come paralizzata dallo sgomento per l'aspetto di Julius, c'era Rowan. 16 Quella mattina Rowan si svegliò presto, sentendosi felice e pimpante. Sbadigliò e si stiracchiò finché le lenzuola scivolarono via, e poi si avviò in punta di piedi alla finestra. Le sembrava che la madre avesse tirato le tende la sera precedente, ma ora erano leggermente scostate. Lunghe matasse di nuvole si dipanavano nel cielo azzurro, e una petroliera avanzava nella baia in mezzo a due rimorchiatori. Lo sguardo di Rowan si spostò lentamente sul mare e si soffermò sulla scuola. Fu a quel punto che si ricordò dell'orribile sogno. Aprì la finestra e lasciò che la brezza proveniente dal mare le colpisse il viso finché suo padre non entrò di corsa nella stanza. «Avanti, non stare lì a sognare, abbiamo dormito fin troppo. Dovresti già essere a scuola e io dovrei già avere iniziato a lavorare.» Le portò una tazza di cereali da mangiare mentre si lavava e si vestiva. Avviandosi di corsa lungo il corridoio sporco, Rowan vide Jo e i suoi bambini uscire da casa. «Ti spiacerebbe andare con loro?» chiese suo padre. «Mi faresti un favore. Ho un sacco di cose da fare oggi.» Non poteva rifiutarsi quando glielo domandava così. Lo baciò attraverso il finestrino aperto della macchina e attraversò la strada mentre lui partiva. «Per favore, mi daresti un passaggio a scuola?» «Certamente, piccola, sai che ci fa sempre piacere averti con noi», rispose Jo con un calore volto a smentire qualsiasi cosa avesse udito Rowan il giorno prima. Ma Rowan intuì che Paul e Mary non vedevano l'ora di raccontarlo ai loro amici. Avrebbe voluto essere come Vicky, che non aveva bisogno di andare a scuola. Non era importante, si disse: qualsiasi cosa avessero detto su di lei, sapeva che i suoi genitori le volevano bene e gliene
avrebbero sempre voluto. Erano già sulla strada principale quando cominciò a vedere molti bambini che tornavano da scuola invece che andarci. Jo non poteva chiedere ai genitori che cosa stesse succedendo, poiché erano dall'altra parte della strada, bloccati dal traffico impaziente. Rowan si sentì a disagio, come se la notte e il sogno si stessero risvegliando il lei. Arrivarono davanti alla scuola e Rowan notò che il cortile e l'edificio erano deserti. La scena le riempì gli occhi nella sua orrenda chiarezza. Il suo sogno si era avverato prima che lei arrivasse lì, alla luce del sole, e temette di scorgere un pupazzo nero contorcersi aggrappato ai fili. Jo la spinse in fretta nel cortile. Se avesse visto ora quella figura, sarebbe stata in grado di distinguere ogni dettaglio del suo viso. Ma la sala delle riunioni era vuota. Si sentì così sollevata che in un primo momento non fece caso a ciò che una madre disse a Jo uscendo dalla scuola. «Non c'è scuola oggi. C'è stato un incidente la scorsa notte. L'elettricista si è fulminato con la corrente.» «Forse non era molto esperto in questo genere di lavoro. Peccato che non abbiano chiamato il papà di Rowan», sbottò Jo, guardando Rowan con espressione corrucciata. «Perché adesso fai quella faccia?» Rowan si stava sforzando di capire come avrebbe dovuto sentirsi. «Ho sognato che sarebbe successo», confessò. «Succede ogni tanto, così almeno dicono in televisione. Sarebbe successo in ogni caso, piccola.» Ma era stato solo un sogno? A ogni modo, era davvero così importante, visto che ne aveva tutta l'aria? Rowan attese con apprensione che l'orrore di ciò che aveva visto prendesse forma in lei, fino a quando si rese conto che non sarebbe accaduto niente del genere. Probabilmente la notte precedente aveva distolto lo sguardo al momento giusto. Il sollievo lasciò il posto alla speranza. Prima informava il padre dell'accaduto e meglio era. Quando giunse in vista dell'enorme casa, attraversò la strada di corsa e vide la porta aperta. Si precipitò nell'ingresso e si sentì avvolgere dall'oscurità, rischiando di cadere in avanti. Dal buio emerse qualcuno che l'afferrò appena in tempo, con una tempestività tale che a Rowan parve di cadere dentro uno specchio. Quella persona indossava un lungo vestito bianco. «Hai lasciato la porta aperta?» le chiese Vicky. Rowan pensò che probabilmente era successo quando suo padre le aveva fatto fretta. Avrebbe dovuto prendersela con Vicky, che era entrata in casa senza essere invitata, ma provò una rabbia maggiore nei confronti di Jo,
che aveva spalancato la porta, sbattendo gli occhi nell'oscurità. «C'è qualcuno con te, Rowan? Tua madre non vuole che ti lasci qui tutta sola.» L'idea che Jo fosse rimasta abbagliata dalla luce e non riuscisse quindi a vedere Vicky sembrò divertire Rowan, che non poté fare a meno di trattenere un'aria sprezzante, simile a quella dell'amica. «Non sono sola», protestò. «Non fare la furba, Rowan. Esci a giocare con Mary e Paul, in modo che possa tenerti d'occhio.» «Non dico le bugie, io. Non sono sola», insisté, e aggiunse, con la cattiveria che era tipica di Vicky: «Se vogliono, possono venire qui loro a giocare». Jo la fissò e sporse il labbro inferiore. «Mi devi avvisare se esci dal cancello, mi sono spiegata?» Spedì i bambini dall'altra parte della strada e sbattè la porta. Sul giardino che odorava della terra rimossa da Hermione calò il silenzio. «Non m'importa, tanto volevo rimanere qui», borbottò Rowan. Quando si voltò, vide Vicky che la fissava con gli occhi pallidi che sembrava non sbattesse mai. «È un po' che non ti vedo», la rimproverò Rowan. «Ma io ho visto te. Sono stata molto occupata, ma avrei potuto venire se tu davvero l'avessi voluto.» Era una strana ragazzina, pensò Rowan, ma c'era un modo per scoprire qualcosa in più sul suo conto. «Possiamo andare a casa tua?» «Non c'è motivo per cui dobbiamo uscire dal cancello.» «Tu sei stata a casa mia e ora io voglio vedere la tua.» «Non devi preoccuparti per questo, mia cara.» Non suonava esattamente come una minaccia, ma non era neppure una promessa. «Quando?» le chiese Rowan. «Vedrai dove abito appena sarai pronta.» Rowan avrebbe voluto ribattere che era già pronta, ma probabilmente avrebbe ottenuto soltanto un'ennesima risposta ambigua. Decise di aspettare fino a quando avrebbe potuto raccontare a uno dei suoi genitori che stava andando a casa di Vicky. «Allora farò qualche lavoretto per la mamma. Se vuoi, puoi aiutarmi.» Il viso di Vicky assunse un'espressione piena di disgusto. «Non sei una cameriera, giusto? Perché invece non facciamo una sorpresa a tua madre e andiamo a trovarla dove lavora?» Era una cosa che Rowan voleva fare da tempo, ma la mamma le aveva sempre detto di aspettare fino a quando fosse stata un po' più grande. Deci-
se di compiere quell'impresa, rendendosi conto che Vicky aveva il coraggio di lanciarsi in avventure che lei non aveva mai osato provare. «Va bene, andiamo. Aspetta solo un attimo, devo lasciare un messaggio a mio padre.» Si sedette sotto il lampadario e si mise a scrivere: «Caro papà, sono tornatta da squola perché l'elletricista ha avuto un incidente e quindi ora forse dameranno te. Sto andando con la mia amica Vichi a trovare la mamma allo spedale...» Si bloccò, perché il rumore secco che pensava provenisse dal lampadario si rivelò essere in realtà una risatina ironica. «Che cosa c'è di tanto divertente?» sbottò. «Credevo che alla tua età non facessi tanti errori di ortografia. Solo i bambinetti scrivono in quel modo.» Rowan concluse con un «ti voglio bene, tua Rowan», poi tornò a fissare Vicky. «Forse credi di essere più brava di me.» «Se vuoi, posso scrivere al tuo posto.» «Non mi va. Non voglio che tu scriva le mie lettere.» Aggiunse una fila di cuoricini e si alzò. «Vado a dire a Jo che sto uscendo.» «Non serve. Voleva solo mettere il naso. Io non...» Gli occhi di Vicky si fecero opachi. «Adesso andiamo.» «Che cosa stavi dicendo?» «Niente che ti riguardi. Non vuoi vedere dove lavora tua madre?» «Ci stiamo andando, no? Perché tanta fretta?» Vicky alzò le braccia e il viso di Rowan si ritrovò in ombra. «Quanto tempo credi che resti qui ad aspettare?» Improvvisamente la stanza si fece buia, opprimente e terribilmente fredda. A Rowan non piaceva molto l'atteggiamento impaziente di Vicky, soprattutto quando sentì le gambe che le tremavano. Poi Vicky si allontanò e Rowan la seguì barcollando fuori della casa, con la testa che le girava. La luce del sole sembrò farla riprendere, quando suonò il rumoroso campanello di Jo. «Andiamo dalla mamma», le spiegò. Jo si strinse nelle spalle. «Poi te la vedrai con lei», bofonchiò, prima di richiudere la porta. Nell'aria riecheggiò il rumore della porta. Il vestito bianco di Vicky sembrò scintillare quando la ragazzina attraversò la strada facendo le boccacce in direzione della casa di Jo. «Non ti piacerebbe poter andare dove
vuoi?» «Come te, vuoi dire?» «Mi hai letto nella mente», sussurrò Vicky, con uno sguardo eloquente. Il solo fatto di salire sull'autobus senza un adulto rappresentava già una grande avventura. Le strade erano affollate di gente che altrimenti non avrebbe mai conosciuto e le case nascondevano segreti che non avrebbe mai avuto modo di scoprire. Un uomo stava srotolando un tappeto in una stradina laterale, mentre un altro stava attaccando un manifesto pubblicitario raffigurante un enorme occhio. Rowan notò una macchina con il parafango ricoperto di adesivi colorati. A Liverpool, nella strada che conduceva all'ospedale, gli ubriachi sembravano divertirsi con uno strano gioco, che consisteva nel toccare i vari lampioni disseminati lungo il marciapiede. Fu Vicky che si fece largo nell'ospedale dall'aria umida e pesante. «Credo che la mamma sia di sopra», mormorò Rowan. Nessuno sembrò far caso alle due ragazzine che correvano su per le scale di pietra, passando davanti a una sedia a rotelle ripiegata. Quando giunsero in vista del cartello che indicava il reparto nel quale lavorava sua madre, Rowan era completamente sudata. Vicky, al contrario, appariva assolutamente fresca e spinse la doppia porta: Rowan scorse la madre all'interno di una stanza. Aprì delicatamente la porta, assaporando il gusto della sorpresa che stava per farle. Ebbe un attimo di esitazione. Nel letto c'era un vecchio, un vecchietto minuscolo e pelato con le mani deformi. Sembrava che la pelle si fosse ristretta e fosse sul punto di spaccarsi. Che cosa ci faceva lì? Non avrebbe dovuto trovarsi nel reparto per bambini. Poi incrociò i suoi grandi occhi tristi e si rese conto che era un bambino. Avrebbe voluto scappare, fuggire dall'ospedale prima che sua madre la scoprisse. Era quello che stava cercando di fare, quando la madre si girò e si diresse verso di lei con aria severa. L'afferrò per una spalla con determinazione, come se volesse mostrarle il proprio disappunto, e la condusse fuori della stanza. «Torno subito», disse al ragazzino avvizzito, mentre chiudeva la porta e spingeva Rowan verso il corridoio. «Si può sapere che cosa diavolo stai facendo qui?» «Oggi non c'era scuola», balbettò Rowan, cercando Vicky con gli occhi. «L'elettricista ha avuto un incidente e ora il papà può avere quel lavoro.» «D'accordo, ma ti rendi conto che il ragazzo con cui stavo parlando è molto malato? Non potevi fare a meno di disturbarlo?» Rowan sentì le labbra che iniziavano a tremare, mentre gli occhi le si
riempivano di lacrime. «Volevo vedere dove lavoravi, volevo solo farti una sorpresa.» «Be', ci sei riuscita.» La madre le diede un buffetto non troppo gentile sulla guancia. «E ora, signorina, non metterti a piangere. Non ho tempo da perdere con tutti questi bambini che hanno bisogno di me. Perché non sei rimasta con Jo?» Rowan si sentiva come se non esistesse più come persona, come se fosse solo una palla al piede per la madre, soprattutto quando questa sospirò e le disse: «E adesso che cosa facciamo? Ti farei leggere qualcosa ai pazienti più piccoli, ma la caporeparto non fa entrare i bambini. Gli ospedali sono sempre stati così, anche quando Hermione doveva essere ricoverata e neppure allora fecero un'eccezione per me. Aspettami qui.» Ricomparve dopo pochi minuti, chiudendo la borsetta. «Ecco qua la tua paghetta in anticipo. Scendi al negozio e comprati qualcosa da leggere. Dovrai rimanere nella stanza del personale fino a quando finisco il turno.» Rowan prese le monete, che le parvero fredde come l'indifferenza, e percorse lentamente il lungo corridoio. Quando iniziò a scendere le scale, Vicky comparve al suo fianco. «Non hai l'aria molto contenta, ti ha forse mandato via?» Rowan non l'avrebbe mai ammesso, neppure con Vicky. «Sono triste per quel ragazzo. Non vorrei mai diventare come lui.» «E allora non lo diventerai. Non è normale essere così.» Quelle parole non suonarono rassicuranti come avrebbero dovuto. Significava solo che Rowan avrebbe impiegato più tempo ad avvizzire, ma comunque gli arti si sarebbero fatti scarni e fragili e le mani e i piedi si sarebbero stortati fino a trasformarsi in inutili artigli: sarebbe diventata una bambola di pezza e l'avrebbero trattata come un bambino, portandola a spasso su una sedia a rotelle. «E non voglio neppure diventare vecchia», sbottò, tremando nell'aria afosa. Il pianto di un bambino riecheggiò nel corridoio, un altoparlante chiamò un medico e un telefono squillò in lontananza. Quando l'eco di tutti quei rumori svanì, Vicky la stava ancora fissando. «Forse non dovrai farlo», sentenziò. 17 Giovedì sera, Derek ed Eddie tappezzarono il corridoio dell'ingresso. Rowan ammirò l'abilità di Eddie nel rivestire i muri senza lasciare scoperto
un centimetro, ma scosse la testa quando le chiesero se voleva aiutarli. Anche nella stanza da lavoro, dove la mamma stava togliendo la carta da parati, Rowan non fu di molto aiuto. Derek si rese conto che non voleva stare da sola. Fu contento quando la bambina andò a letto addormentandosi con incredibile velocità. Quando scese, l'ingresso era finito. Lui e Alison avevano scelto una tappezzeria con delle foglioline argentate in rilievo; in questo modo l'occhio veniva attirato dai riflessi della luce sull'argento, piuttosto che dalle irregolarità delle pareti sottostanti. Derek prese la mano di Alison quando Eddie entrò con una grande lanterna cinese bianca. «Adesso potete liberarvi di quello vecchio», disse Eddie e si arrampicò sulla scala per togliere il lampadario di vetro colorato. Quando accesero la lanterna nella stanza si rifletterono dozzine di tonalità d'argento. «Adesso, perlomeno, chi verrà a vedere la casa non si scoraggerà subito dopo averci messo piede», affermò Eddie. «Almeno quella dobbiamo pagartela», protestò Alison. «Non se ne parla nemmeno. Consideratela come il regalo che non vi abbiamo fatto quando vi siete trasferiti qui. Se vuoi mostrarmi la tua riconoscenza, devi lasciar venire questo povero lavoratore a bere qualcosa con me.» Derek sapeva che gli voleva parlare di Rowan, ma la moglie gli lasciò spontaneamente la mano. «Non ha mai avuto bisogno del mio permesso.» «Se vuoi rimango a casa, amore.» «Vai, ti meriti qualcosa da bere. Vai pure fuori e cerca di rilassarti.» Era forse un rimprovero? Eddie doveva averlo inteso così perché, quando furono nel fumoso pub, serviti da una donna che Derek aveva visto a scuola, ma che ora sembrava non voler essere riconosciuta, gli domandò: «C'è qualche problema a casa?» «Niente di cui valga la pena parlare. Ma perché me lo chiedi?» «È solo che mi è sembrato ci fosse una certa tensione.» «Dipenderà dal fatto che non sappiamo come comportarci dopo quello che è successo a scuola. Voglio dire, mi hanno chiesto se volevo il lavoro e sarei stato pazzo se avessi rifiutato, ma avrei preferito ottenerlo in un altro modo.» «Non doveva essere molto bravo come elettricista. È meglio che sia capitato a lui piuttosto che mettere in pericolo i bambini a scuola.» «Questo sicuramente», ammise Derek. Trovarono un tavolo d'angolo ed Eddie chiese: «Nessuno ha mostrato interesse per la casa?»
«Se qualcuno l'ha fatto, non me l'hanno detto.» «Ho visto una coppia che la guardava, ma qualcosa deve averli scoraggiati. Probabilmente le dimensioni. Sai che cosa dovreste fare, secondo me e Jo? Cercate di ottenere il permesso per trasformarla in una casa di riposo. Provate a sentire che cosa ne pensa il vostro agente immobiliare.» «Potrebbe essere una buona idea», rispose Derek, immaginando la casa piena di gente e di luce e ogni camera da letto trasformata in un piccolo appartamento. «Se fosse grande la metà, ti farei un'offerta anch'io. Avremmo bisogno di più spazio adesso che i bambini stanno diventando grandi. Cominciamo a darci fastidio l'un l'altro.» «Oh, sì, ti capisco.» «Puoi considerarti fortunato ad avere solo Rowan. Ma ci credi che Mary vuole una camera tutta sua perché non vuole che Paul la veda spogliarsi? E non può dividere la stanza con sua sorella perché Patty guarda la televisione dopo che Mary è andata a letto. E così adesso c'è Jo che pur definendo Patty una terribile egoista non fa altro che continuare a insistere perché io cerchi una casa più grande. Ma tu pensi che lei alzi il culo e ne cerchi una, mentre io sono fuori tutto il giorno a lavorare? Pensi che quella si dia da fare? È troppo impegnata a invitare i vicini per il tè, nella speranza che le ordinino qualcosa dai suoi cataloghi per ricevere gratis un'altra caffettiera o qualche altra scemenza. E poi si lamenta dicendo che non mi vede mai perché sono sempre fuori a lavorare. Non apprezzano i nostri sacrifici, non trovi?» «Forse siamo noi che non apprezziamo i loro.» «Ma che cosa dici? Da che parte stai? Sei con uno come te adesso, amico, puoi parlare liberamente. Finisci il bicchiere, che te ne offro un altro. Forse dopo dirai cose più sensate.» Questo era un aspetto dei pub che a Derek non interessava: uscire per un drink per mettere a nudo i propri problemi familiari. A volte era già abbastanza difficile parlarne con Alison. Raccontò a Eddie di come avesse insultato il commercialista e della causa che avrebbe intentato contro Ken. Eddie continuò ad annuire, ma non sembrò soddisfatto. «Volevo dirti che quella lanterna è una specie di calumet della pace da parte di Jo», spiegò infine, urlando, dato che il pub era stracolmo. «Sarebbe venuta lei stessa, ma stava cercando di dividere le pesti. Voleva che tu e Alison sapeste che le dispiace aver parlato troppo in presenza di Rowan.» «Quando è successo?» «Non ve l'ha detto Rowan? Allora forse non è importante.» Proseguì riluttante: «Jo pensa che la bambina abbia sentito lei e la maestra dire che
non era, insomma, lo sai, programmata». «Chi te l'ha detto?» «Non urlare, amico. Io non c'ero. Immagino che l'abbia detto tua moglie.» Alison non avrebbe dovuto farlo, pensò Derek, eppure l'aveva fatto. Mentre lui cercava di fare del suo meglio per mantenere i loro segreti, lei non si preoccupava neanche di tenerli in famiglia. Quando il pub chiuse lui ed Eddie si incamminarono faticosamente verso casa, combattendo contro il forte vento che soffiava dal mare. «Ci vediamo da te domenica?» urlò Eddie dall'altra parte della strada, mentre Derek entrava in casa. L'odore della tappezzeria bagnata e dell'intonaco proveniente dalla stanza da lavoro gli ricordò i libri marci di Queenie. Alison era stesa sul divano in soggiorno, con in mano una tazza di cioccolata. Il suo sorriso addormentato cominciò a svanire quando vide l'espressione del marito. «Ho scoperto qual è il problema di Rowan a scuola», le disse Derek. «Non è niente di serio, vero? Non si è ancora completamente ripresa dopo aver visto Julius all'ospedale.» «È qualcosa di peggio.» «Oh, mio Dio, che cos'è successo ancora?» «Ha sentito Jo e la maestra dire che non la volevamo. Pensavo che l'avremmo tenuto per noi. Se avessi immaginato che l'avresti detto a qualcuno, ti avrei fatto promettere di mantenere il segreto.» «Avresti potuto chiedermelo, ma certamente non avresti potuto obbligarmi. L'ho detto a Jo in via confidenziale. Pensava di essere incinta e ne era abbattuta perché non rientrava nei loro programmi e io le ho solo detto di quanto eravamo felici di aver avuto Rowan, anche se per sbaglio.» «E che cosa mi dici del fatto che avevi quasi dovuto cercare un secondo lavoro perché mantenere Rowan costava troppo?» «Probabilmente Jo ha capito che quelli sono stati tempi duri per noi, e io mi sono limitata ad annuire. Questo è tutto.» «Non le hai per caso raccontato anche che avevamo pensato di farla adottare?» «Ma cosa dici? Vorrei ricordarti che quella era stata una tua idea che io non avevo mai preso neppure in considerazione. E sono convinta che nemmeno tu ci abbia mai pensato seriamente. Se non ricordo male, quella sera dovevi aver bevuto troppo, come devi aver fatto anche adesso.» «Ubriaco o no, non vado in giro a raccontare ai quattro venti che non abbiamo voluto Rowan.»
«Abbassa la voce. Vuoi che ti senta? Domani mattina parlerò immediatamente con Jo. Vorrei non averglielo mai detto, credimi.» «Non raccontarlo più a nessun altro.» «Pensi che lo farei? Povero tesoro, non ammetterebbe mai di aver sentito Jo e la signorina Frith. Penso che abbia creduto a quello che le abbiamo detto, non credi?» «Spero di sì.» «È sicuramente così.» Ciononostante, rabbrividì. «Perché non mi abbracci? So di aver sbagliato. Non so perché la signorina Frith vuole vederci, ma io voglio parlarle per porre fine a questa faccenda.» Derek si sedette sul divano accanto a lei e le mise un braccio intorno alle spalle. Alison appoggiò il viso sul petto del marito. «Non dobbiamo farci del male a vicenda», mormorò. «Non farei mai del male a voi due. Siete tutto quello che ho, lo sai.» A parte il resto della tua famiglia, pensò Derek, e quel pensiero insinuò in lui una serie di dubbi. Appoggiò la guancia sui capelli di Alison, che gli mise la mano sul petto. «Sarà meglio non dire nient'altro a Rowan», si raccomandò Derek. «Le parleremo solo nel caso in cui lei dubitasse dei nostri sentimenti nei suoi confronti. Forza, adesso andiamo a letto.» E Rowan, che era stata svegliata da un bisbiglio nell'orecchio o da una carezza sulla guancia che pensava di aver sognato, fuggì dai piedi delle scale per tornare nella sua stanza. Non sapeva come riusciva a camminare così silenziosamente, quando si sentiva così stanca e svuotata, ma forse la paura che i genitori scoprissero che li aveva sentiti la stava aiutando. Era scivolata di sotto in cerca di compagnia, quando era rientrato il padre. Sembrava così arrabbiato che si era nascosta e aveva sentito tutto. Vicky aveva ragione: le avevano mentito. Avevano mentito sulla cosa più importante del mondo. Poteva fidarsi solo di Vicky. S'infilò a letto senza dormire, troppo sconvolta anche per piangere. «Non voglio più vivere», mormorò e per un attimo si sentì meno sola. Era come se qualcuno, nel buio, le avesse sorriso. 18 Quando il telefono la svegliò, Hermione pensò che qualcuno la stesse chiamando per via del messaggio sulla fotografia. Stropicciandosi gli occhi con una mano, riuscì a tentoni ad aprire la porta della camera. Doveva aver dormito più del solito, perché il pianerottolo e le scale erano più luminosi
di quanto si aspettasse. La luce del sole le fece sbattere gli occhi, lo squillo del telefono le impedì di pensare coerentemente e così si dimenticò di fare attenzione. Aveva solo appoggiato la mano sulla balaustra, senza quindi tenerla ben stretta, quando calpestò la piccola figura pallida. Sotto il piede nudo la sentì morbida e fredda. Forse era da lì che proveniva l'odore di marcio e di disinfettante. Non sapeva se quella cosa si fosse mossa o no, ma sicuramente lei si spaventò così violentemente da perdere l'equilibrio. Non riuscì ad afferrare la balaustra e le sue unghie graffiarono solo il legno lucido. Con l'altra mano cercò di aggrapparsi alla finestra vicino alla scala, rovesciando un vaso e facendo finire della terra su una miniatura di un paesaggio gallese appeso sopra le scale. Ma era riuscita ad afferrare il bordo. Cercò a tentoni la balaustra, ritrovò l'equilibrio e si girò per vedere che cos'aveva calpestato. Era una vecchia bambola di pezza con un vestito di pizzo bianco. Le aveva calpestato il viso, staccandole quasi un occhio. Ora la faccia scolorita stava riprendendo forma, la guancia si stava rigonfiando, la bocca era tornata a essere un'innocente linea retta. «Doveva sembrare un incidente, vero?» sbraitò furiosa Hermione, mentre scendeva faticosamente le scale per andare a rispondere al telefono. Alison stava già parlando. «Ci vorrà un secondo, sto solo provando a... Eccoti, Hermione. Come vanno le cose? Come stai?» Che cosa poteva rispondere? Scossa e debole, ma viva, arrabbiata con se stessa per non aver fatto attenzione e sempre più decisa, dopo che il tentativo di farla inciampare le aveva confermato che era sulla strada giusta... «Meglio di ieri, grazie. Voi come state?» «Rowan, be', a dire la verità è per lei che ti ho chiamato. Se non puoi, dimmelo subito, ma voleva che ti chiedessi se può passare con te il fine settimana.» Perlomeno Hermione avrebbe potuto tenerla sott'occhio. Non pensava che Rowan fosse in pericolo fisicamente, o che lo sarebbe stata. Guardò su per le scale e trattenne il fiato. La bambola era sparita. «Va bene», mormorò come fosse una sfida. E poi, rivolgendosi ad Alison: «Mi piacerebbe molto averla con me. Quando me la porti?» «Può accompagnarla da te Derek, oggi, dopo la scuola? Così non sarà da queste parti mentre mettiamo a posto la casa. Grazie, Hermione, sei un tesoro di sorella. Un paio di giorni in campagna dovrebbero farle bene», aggiunse Alison come se cercasse di convincere se stessa. «Non ti preoccupare per lei», assicurò Hermione, chiedendosi che cosa
Alison avesse lasciato in sospeso. «La curerò come se fosse mia figlia.» «Ma è anche tua.» Hermione riattaccò la cornetta, poi, sebbene il cuore le battesse ancora per la caduta sulle scale, salì al piano superiore per controllare le stanze. Non c'era traccia della bambola e tutto sembrava a posto. Stava andando al negozio mangiucchiando un grosso panino, quando si rese conto di come le erano sembrate malinconiche le ultime parole di Alison. Forse Alison ci era rimasta male perché Rowan aveva voluto tornare da lei così presto. Gli occhi vuoti sul retro delle maschere nella vetrina divennero più bui con il passare delle ore, ma non era lo sguardo delle maschere che Hermione sentiva su di sé. I tentativi di farle del male e di spaventarla le sembravano allo stesso tempo puerili e senili, ma erano anche l'indice che Rowan non correva pericoli, ripetè fra sé e sé. Mentre si dirigeva verso casa, le montagne diventavano più scure e le pietre ingoiavano l'erba. Il cancello di una casa scattò come una trappola per far entrare una macchina. Hermione stava affrettandosi, quando vide che la macchina di Derek non era ancora davanti a casa, poi si mise a correre: stava suonando il telefono. Dopo qualche tentativo riuscì a infilare la chiave nella serratura e per la fretta fece quasi cadere il telefono. «Hermione? Sei tu, Hermione? Hermione, sei lì?» «A meno che io non sia un ladro, mamma. Come stai?» «Oh, si tira avanti. Mi sto abituando all'idea di invecchiare. Pensa, mi hanno chiesto di diventare la segretaria dell'Associazione Donne e già tre socie vogliono che tuo padre si occupi del loro giardino. Perlomeno ho il tempo di sedermi a pensare.» «Brava mamma, è così che si fa.» «Ho pensato molto a te.» «Ah, sì?» «Non fare quel tono sorpreso. Se ti può consolare, adesso vorrei che Alison non avesse mai dato i riccioli di Rowan a tua zia. Sicuramente non c'è niente di male, però ha creato troppa confusione. Ma Hermione, ormai sono tutte cose del passato. Non vuoi cercare di accettarlo per la tua tranquillità e quella degli altri?» «Credimi, ci ho provato.» «Provaci ancora, ti prego.» «Allora non se ne farà niente», commentò Hermione in tono piatto. «Togliti quell'idea dalla testa, bambina, e se non ci riesci, fai quattro chiacchiere con il tuo medico. Queenie era quasi riuscita a dividere la no-
stra famiglia, e non dobbiamo permetterglielo adesso. Lasciala riposare, è tutto quello che ti chiedo.» Si stavano salutando quando arrivò la macchina di Derek. Hermione, che stava cominciando a pensare di rimandare Rowan a casa, non poté impedirsi di provare un moto di felicità nel rivederla. Quando Hermione aprì la porta, la bambina corse verso di lei, con il binocolo che sballottava sul petto. Il suo abbraccio fu inaspettatamente intenso. «Qualcosa mi dice che è molto felice di vederti», esclamò Derek, prendendo la valigetta dalla macchina. Mentre Hermione preparava il caffè, Derek le raccontò che dopotutto aveva ottenuto il lavoro alla scuola e le spiegò anche come. «Fai la brava con Hermione», raccomandò a Rowan, che stava disfando la valigia. Era già alla macchina quando la bambina lo raggiunse per dargli un bacio, scivolandogli via dalle braccia quando lui cercò di abbracciarla. Mentre la macchina di Derek si allontanava, Hermione vide Rowan alla finestra della camera, con il viso nascosto dal binocolo, le cui lenti riflettevano le nuvole, mentre si abbassavano per seguire la macchina. Mangiarono a lume di candela. Quando il crepuscolo trasformò le colline in mucchi di cenere, il lungo viso della bambina sembrò irrigidirsi sotto la morbida luce. Sicuramente c'era qualcosa che la preoccupava, ma Hermione non riuscì a capire quali degli argomenti da lei sollevati potesse essere la causa: la scuola, l'opportunità del padre di lavorarci, la casa di Waterloo? Erano in cucina a lavare i piatti, quando Rowan esclamò di impulso: «Siamo andate a vedere dove lavora la mamma». «Tu e il papà?» Rowan scosse la testa. Hermione si irrigidì. «È stata un'idea tua o della tua amica?» «Perché ce l'hai con Vicky? È una mia amica, l'unica che ho. Perché non la lasci in pace?» «Rowan, non mi devi parlare così.» Perlomeno adesso Hermione sapeva che era stata un'idea di Vicky, ma la reazione violenta di Rowan l'aveva sorpresa. «Non sono anch'io tua amica? E che cosa pensi che siano i tuoi genitori?» Rowan si girò verso il lavandino, e un viso lungo e pallido apparve alla finestra. Era la sua immagine riflessa, impenetrabile come una maschera. «Rowan», cominciò Hermione, «qualsiasi cosa sia successa all'ospedale, parlarne potrebbe servirti.» La bambina tremò. «Ho visto un bambino che sembrava più vecchio del-
la prozia», mormorò. «Sono casi molto rari, tesoro. Sarà molto difficile che tu veda ancora qualcosa del genere», la rassicurò Hermione. Giocarono a scacchi finché Rowan fu abbastanza stanca da andare a letto. Anche Hermione andò a letto, ma rimase sveglia. Se l'incontro all'ospedale faceva parte di un piano, che cosa significava l'incidente a scuola? Quando riuscì ad appisolarsi, venne svegliata due volte dalla voce di Rowan, che parlava nel sonno. La seconda volta le sembrò di sentire un bisbiglio risponderle e dovette incespicare fino alla stanza della bambina, alla luce dell'alba, per assicurarsi che fosse sola. Continuò a dormire finché Rowan non le portò una tazza di tè. Non avendo dormito, in negozio si sentì stanca, con la testa pesante e gli occhi che le bruciavano. Era felice che Rowan mostrasse ai clienti dove si trovavano i vari articoli. A volte la bambina sembrava essere contemporaneamente in due posti, soprattutto quando in negozio erano sole. All'ora della chiusura il cartello che diceva ZIA HERMIONE rotolò per strada, ma era solo colpa del forte vento. Rowan stava giocando con una palla che le aveva regalato la zia. «Adesso che cosa facciamo?» domandò Hermione. «Possiamo fare una passeggiata per la valle, per favore?» «Adesso?» Hermione non aveva ancora preparato la cena, ma l'impazienza di Rowan di tornare in quei luoghi che tanto amava sembrava rassicurante. «Forse ci aiuterà a schiarirci le idee.» Oltre al parcheggio non asfaltato vicino alla strada principale di Holywell, un sentiero di ghiaia portava giù alla valle. Sotto Saint Winifred Well, un santuario normanno il cui negozio di souvenir vendeva statuine di Cristo e di diversi santi, gli alberi si elevavano sopra il sentiero, fremendo dolcemente. L'erba, le felci e le spinose piante rampicanti spuntavano in mezzo alla ghiaia e ben presto il piccolo sentiero si trasformò in un tunnel nel verde, che odorava di foglie bagnate ed era fresco come l'autunno. «Non allontanarti, tesoro», raccomandò Hermione a Rowan, che correva dietro la palla. La bambina raccolse la palla da un cespuglio di more e lanciò alla zia uno sguardo spento. Un colpo di vento la investì attraverso le fronde degli alberi. Mentre si toglieva i capelli dagli occhi con la mano che teneva la palla e si tirava giù la gonna con l'altra, sembrava più vecchia dei suoi anni, eppure appariva incredibilmente vulnerabile, così circondata dagli alberi. Hermione le prese velocemente la mano. «Passeggiamo per un po', in
modo che la tua vecchia zia possa starti dietro.» Dovette lasciarla quando il sentiero divenne più stretto e sinuoso. La vegetazione era così fitta da oscurare la strada. Il sentiero, coperto di muschio bagnato, scendeva ripido nell'oscurità ed emergeva sotto il cielo sempre più buio, alla fine della strada che fiancheggiava il primo lago artificiale. Una ciminiera alta come una casa si ergeva accanto al sentiero, rivelando un passaggio ad arco che era sempre stato un polo d'attrazione per le esplorazioni di Rowan. Hermione fu sollevata nel constatare che la bambina pareva ormai sentirsi troppo grande per quel tipo di divertimento. Dalla parte della strada, oltre il laghetto, c'era una ripida discesa che portava a una fabbrica in rovina. Pezzi di muro ricoperti d'erba erano sparsi sulle fondamenta grigie. Su alcune pareti, i rami sottili e secchi di piante rampicanti si piegavano al vento. Hermione voleva chiedere a Rowan di darle la palla per paura che potesse rimbalzare sul ciglio della strada, ma non poteva rischiare che la bambina se la prendesse con lei, proprio quando aveva bisogno della sua fiducia. Non riuscì ad afferrare Rowan, quando, mentre attraversavano la strada, la bambina le lasciò la mano. Rowan si diresse verso la ringhiera sopra il laghetto così velocemente che Hermione sobbalzò per la paura. A qualche metro dal muro c'era l'apertura attraverso la quale il laghetto defluiva, un foro rotondo di almeno tre metri di diametro. Solo un quarto dell'acqua ne sgorgava incanalata, il resto sgocciolava nell'oscurità, sull'erba e sulle stalattiti di muschio che crescevano sul muro interno. Rowan si sporse dalla ringhiera. «Pensi che morire sia così?» «Mio Dio, tesoro, non saprei. Non sono ancora così decrepita, non trovi?» Hermione sapeva di essere troppo studiatamente gioviale, ma la bambina l'aveva presa alla sprovvista. Pensava che morire fosse qualcosa di molto simile al cadere in una profonda oscurità. Anche se si trovava quello che ci si aspettava, che ruolo potevano avere le altre persone? E se Queenie non fosse riuscita a trovare il padre, perché lui era troppo impegnato nella sua vita dell'aldilà? Forse la vita dopo la morte era un solitario sogno senza fine, e non importava che durasse solo per l'attimo della morte o per l'eternità: la durata non avrebbe avuto niente a che fare con la vita dei vivi, anche se una avrebbe invaso l'altra. I suoi pensieri sembravano tuffarsi nell'oscurità della sera. «Andiamo, va bene?» propose appena si sentì in grado di camminare. Ripassarono davanti alla ciminiera e seguirono il sentiero che scendeva tra finestre vuote circondate da erbacce. Un muro, chiazzato come il cielo,
s'innalzava ai lati del sentiero nella vegetazione rigogliosa. I rami dell'albero che si ergeva accanto al muro raschiando l'intonaco vi avevano inciso una linea arcuata. Rowan precedeva Hermione nel crepuscolo, facendo rimbalzare la palla. «Non andare così in fretta», ansimò la donna, maledicendo il suo corpo pesante e il sudore che l'inzuppava mentre cercava di correre nel vento. Rowan scomparve oltre un edificio che ricordava un immenso dente marcio. Hermione accelerò il passo, con le gambe doloranti. Si appoggiò all'angolo coperto di muschio dell'edificio e gli girò intorno per poter vedere l'altro tratto di sentiero. Improvvisamente si bloccò tremando e si aggrappò al muro cadente: la palla di Rowan era rotolata in una macchia d'erba, al centro del sentiero, e la bambina si stava piegando per riprenderla. Era come se non si rendesse conto di ciò che la circondava, di Hermione e degli alberi che ondeggiavano sopra di lei come un mare in tempesta. Sembrava anche non aver notato la figura che le era accanto, una ragazzina con un lungo vestito bianco. Rowan si alzò e proseguì facendo rimbalzare la palla sulla ghiaia stridente, l'altra la seguì, luccicando come una pietra tombale sotto un cielo senza sole. Quando Hermione si scostò faticosamente dal muro, notò che sebbene il vento stesse facendo cadere le foglie dagli alberi e la spingesse indietro, a Rowan ciò non dava alcun fastidio. Era come se la bambina e la sua amica camminassero sotto una campana di vetro: i loro capelli e i vestiti erano assolutamente immobili. Erano quasi arrivate alla curva successiva, dopo la quale il sentiero scompariva alla vista. Hermione si catapultò dietro di loro e il cuore le batteva così forte che si sentiva la testa vuota. Poi, proprio quando Rowan raggiunse la curva, la sua amica si voltò verso Hermione e le sorrise. Quel sorriso le raggelò il sangue. Fu terribile riconoscere quel lungo viso pallido, quel viso troppo spaventosamente somigliante a quello di Rowan. Gli occhi pallidi la fissarono e le palpebre rimasero immobili: forse quella bambina non era in grado di battere le ciglia. Il sorriso le stava dicendo che non c'era niente che lei potesse fare, nonostante tutto quello che sapeva. L'intensità di quello sguardo carico di disprezzo colpì Hermione al punto tale che ormai non avvertiva, né sentiva più il vento. Poi Rowan scomparve dietro gli alberi ondeggianti, dall'altra parte del sentiero; l'altra ragazzina si girò come una bambola di un carillon e la seguì. Improvvisamente il vento gettò quasi a terra Hermione. La donna s'incamminò controvento, spaventata dal fatto che un elemento così inconsistente potesse essere tanto difficile da fronteggiare. Quando
riuscì a svoltare l'angolo, affondando le unghie sulla scarpata fangosa, Rowan era sola sul sentiero. «Rowan», chiamò debolmente, ma la bambina non si girò. Hermione temeva che la stesse ignorando o che fosse in qualche modo tagliata fuori dal mondo, ma poi si rese conto che il vento faceva alzare l'abito di Rowan e disperdeva la sua voce. Fece un respiro che le riempì la gola di umidità. «Rowan!» urlò, «torniamo a casa.» La piccola la raggiunse, facendo rimbalzare la palla. Appena le fu vicina, Hermione la prese per mano. Ora il vento era alle spalle, ma Hermione avrebbe desiderato riuscire a camminare ancora più in fretta lungo il ripido sentiero. Ogni volta che le foglie dei cespugli ondeggiavano, temeva di vedere di fronte a sé una figurina pallida. Quando le nuvole cominciarono a rompersi, i frammenti di luce sul sentiero e poi sulle strade deserte di Holywell erano anch'essi pallide figure. Hermione sbattè la porta d'ingresso, fece sedere Rowan in cucina con un bicchiere di aranciata mentre ispezionava il cottage, per poi fermarsi in soggiorno a sfogliare l'album di fotografie che aveva portato da Waterloo. Trovò una foto della zia di quando aveva l'età di Rowan e osservò attraverso la lente con l'ostinazione che era sopravvissuta a quegli anni di soggiogamento. Tolse la foto dall'album e la portò in cucina. «Rowan», l'apostrofò in tono del tutto casuale, «sai chi è questa?» La bimba alzò gli occhi, leccandosi le labbra sporche di aranciata. Guardò la fotografia e il suo viso assunse improvvisamente un'espressione innocente. «Non saprei, zietta.» Hermione si girò precipitosamente, ritornò in soggiorno e quasi strappò la foto cercando di rimetterla nell'album. Il viso della bambina dietro Rowan sul sentiero era persino più simmetrico, un'immagine perfezionata dell'infanzia stessa. Non era l'averlo riconosciuto la cosa che più la sgomentava, ma l'accortezza con la quale Rowan aveva evitato la verità. Le era sembrata proprio come Queenie, solo il viso era diverso. Solo il viso era diverso... «Dio ci aiuti», sussurrò Hermione e si sedette rapidamente per paura di perdere l'equilibrio. Adesso, finalmente sapeva perché Rowan doveva assomigliare a Queenie. «In modo che nessuno ti noti», mormorò e aspettò di sentire quel bisbiglio di scherno che le diceva che aveva ragione ma che non poteva fare niente. Non udì nessuna voce, solo un silenzio profondo e seppe che doveva muoversi ora, finché poteva. Doveva fare ciò che le riusciva difficile anche solo pensare. 19
Appena tornò da Holywell, Derek si mise a strappare la tappezzeria dal muro della scala. Salì all'ultimo piano e decise di iniziare da lì, mentre c'era ancora luce sufficiente. Stava strappando la prima striscia quando l'intonaco ormai decrepito crollò. Pezzi di muro caddero contro la base metallica della scala, che sussultò sotto i piedi di Derek, mentre la polvere lo accecava. Si tenne stretto alla scala fino a quando fu in grado di distinguere gli oggetti attorno a sé, poi, continuando a tossire, scoppiò a ridere. Sotto l'intonaco malconcio, i mattoni apparivano ben saldi e asciutti. «Ci hai provato, eh, vecchio bastardo», sibilò Derek, insultando il muro, prima di scendere due gradini per afferrare un'altra striscia di carta. Era già a metà lavoro quando arrivò Alison per dare un'occhiata. Fece una smorfia per l'incredibile confusione creata dal marito e gli diede un bacio, sporcandosi la bocca e il viso di polvere. Dopo cena lo aiutò a strappare la tappezzeria rimasta sulle pareti della scala. Alla fine portarono da basso gli scatoloni pieni di tappezzeria vecchia, fecero un bagno caldo e poi si ritrovarono a fare l'amore, con estrema calma. Alla fine Alison rimase sdraiata, con gli occhi fissi al soffitto. «Adesso mi sembra così vuota», mormorò. «È come se fosse in attesa dei nuovi inquilini.» Si addormentò prima ancora che potessero cominciare a parlare di Rowan. Il mattino seguente, Derek dovette alzarsi presto per rifare l'impianto elettrico dell'ultimo piano, dal momento che per il resto della settimana sarebbe stato occupato a scuola. Aveva appena sollevato le assi del pavimento per mettere a nudo le viscere polverose della casa, quando telefonò Tony, dell'agenzia immobiliare. Secondo il suo conoscente che lavorava al dipartimento di urbanistica, non ci sarebbero stati problemi per creare una nuova casa di riposo e un imprenditore edile a cui Tony aveva fatto parecchi lavori aveva accettato di rimettere in ordine la casa a prezzo di costo. Derek si sentì decisamente sollevato, come non gli accadeva da mesi, forse da anni. Stava facendo alcuni buchi con il trapano, quando il telefono squillò per la seconda volta. Si augurò che fosse Rowan perché ciò avrebbe significato che aveva superato la crisi che l'aveva resa così taciturna, come durante il tragitto verso il Galles. Ma Alison gli riferì che era solo sua madre. A metà pomeriggio, Derek aveva già finito di far passare i fili all'ultimo piano e decise quindi di farli scendere lungo il muro della scala. Poco prima di cena urlò ad Alison di accendere l'interruttore. Quando l'intero piano si illuminò attorno a lui, rimpianse la mancanza di Rowan, che sarebbe sta-
ta sicuramente felice del suo trionfo. Si sentiva come se avesse finalmente conquistato quella casa. Alison aveva portato a casa un giornale con varie proposte immobiliari e durante la cena volle mostrargli alcune fotografie. Derek si trovò d'accordo con la maggior parte di quelle che aveva scelto la moglie, ma alla fine, sbottò: «Che cosa voleva tua madre?» Alison puntò un dito verso le labbra, facendogli capire che non poteva parlare con la bocca piena. Sembrò indugiare a lungo prima di inghiottire il boccone. «Sarai felice di sapere che non ci sarà nessuna riesumazione.» «È proprio quello che speravo, dannazione. Te l'ha detto tua madre, giusto?» «Sì.» «È tutto?» Alison aggrottò le sopracciglia di fronte alla sua insistenza. «No, non esattamente.» «Non disturbarti a raccontarmelo, se è un segreto di famiglia.» Alison gli afferrò la mano appoggiata sul tavolo. «Perché parli in questo modo, Derek?» «È che a volte non mi sento a mio agio con loro. Ma non devi preoccuparti.» «Invece sì, lo sai bene. Non so che cos'altro potremmo fare.» «Forse fate un po' troppo. Avrei potuto fare benissimo a meno di una riunione di famiglia per decidere che nome dare a Rowan.» «Ci tengo a coinvolgerli ogni tanto. Sai che è l'unica nipotina che hanno. Non credevo che ti dessero tanto fastidio.» «Non sto dicendo questo. Ma vorrei evitare di dover discutere con loro qualsiasi decisione debba prendere. Abbiamo persino organizzato una riunione per decidere che cosa fare di questa casa! Santo cielo, come se non fossimo capaci di arrivarci da soli.» Si stupì del suo stesso atteggiamento: mettersi a discutere a quel modo proprio ora che le cose si stavano sistemando, ma non riuscì a trattenersi. «Ho notato che continui a definirla la tua famiglia.» «Ti va bene, la nostra famiglia?» I suoi occhi inziarono a luccicare sotto la luce del lampadario, e Alison dovette sfregarli per cacciare le lacrime. «Non hai motivo di sentirti escluso e lo sai bene. Sono la mia famiglia e lo sono da sempre. Non li cambierei per nulla al mondo, ma ricordati che io ho scelto te.» «Però non mi hai ancora detto che cosa voleva tua madre.»
«Lo sai benissimo, Derek. Mi ha spiegato che è stata Hermione a scrivere la frase sulla fotografia.» Derek pensò a Rowan, che correva incontro a Hermione. «So che è tua sorella, ma vorrei che Rowan non fosse mai andata da lei per il fine settimana.» «Santo cielo, Derek, che cosa pensi possa farle Hermione? Ha scritto quel messaggio solo perché tiene tanto a Rowan.» «È un modo un po' bizzarro di tenere a una persona.» La voce di Alison si fece tagliente. «Che cosa vuoi dire, Derek?» «Senti, non ce l'ho con te o con i tuoi, ma devi ammettere che gli altri membri della vostra famiglia sono un po' strani.» «Non c'è bisogno di usare mezzi termini con me.» Sembrava veramente inferocita. «Di' quello che stai pensando!» sbottò. «Hai ragione», rispose, con aria distratta, fissando il Galles che sprofondava nell'oscurità e chiedendosi quando Rowan si sarebbe decisa a chiamare. «Credo ci sia un ramo di pazzia nella tua famiglia, che ha risparmiato te e tuo padre. Sono cose che succedono, non è vero? Dovresti saperlo, dopotutto sei un'infermiera.» «Non cercare di farmi accettare le tue opinioni, tanto non ci riuscirai.» «Non credo che ce ne sia bisogno. Non dirmi che non te ne sei già accorta da sola.» Quando Alison lo fissò a denti stretti, Derek esplose: «Tuo nonno era convinto che tua zia lo tenesse in vita anche quando sarebbe dovuto essere morto e poi, lascia che te lo dica, lei sosteneva che non sarebbe mai morta. E tuo cugino che si butta sotto il treno. Secondo te è tutto normale?» «Hai in mente anche qualcun altro, Derek?» «Te l'ho già detto, tu non c'entri. Ma se stai pensando a tua sorella, be', hai ragione. Tutto quel chiasso per il suo dente, poi per quel dannato medaglione e alla fine anche per l'amichetta di Rowan. Una bambina, santo cielo! So che ha avuto un'infanzia infelice, ma neanche la mia è stata molto tranquilla, con mia madre che mi scaricava dai suoi ogni volta che aveva voglia di un uomo mentre mio padre era lontano, imbarcato su qualche nave. E i suoi mi trattavano come se fosse tutta colpa mia. Una volta mi sono quasi buttato giù da un ponte. Non te l'avevo mai raccontato, vero? Ma non puoi usare l'infanzia per giustificare il resto della tua vita.» «Derek, se credi davvero che... no, lasciamo perdere.» Ma Derek aveva capito benissimo, e divenne furente. «Ti dirò una cosa: non avrei certo lasciato andare Rowan da lei se non mi fossi dispiaciuto
per la discussione avuta con tua sorella. Come se non fosse stata colpa sua, che continuava con la storia di Vicky, del binocolo e di tutte le altre scemenze.» Alison si sporse con tanta violenza da far oscillare il lampadario. «Tu non avresti lasciato andare Rowan da mia sorella? Vorrei farti notare che ha due genitori.» «Lo so. Non stavamo discutendo di quello.» Vide che Alison era sul punto di chiarire che non spettava a lui decidere l'argomento della conversazione, e quindi proseguì, sentendosi a disagio: «Voglio solo tenere te e Rowan al riparo da tutte queste pazzie». Lo sguardo di Alison si addolcì leggermente, ma rimase comunque accigliato. «Derek, so che ti preoccupi per il nostro bene, ma non devi cercare di rovinare i rapporti che ho da quando sono nata. Queenie ha quasi diviso la nostra famiglia. Per il bene del nostro matrimonio, spero che tu non voglia fare lo stesso. E visto che stiamo parlando di comportamenti irrazionali, vorrei ricordarti di quando giocavi a fare il delinquente insieme con Ken, e ne andavi anche orgoglioso.» «Ascolta, non voglio biasimare nessuno. Se qualcuno è responsabile del modo di comportarsi di Rowan, io mi assumo le mie responsabilità. Vorrei avere più tempo da dedicarle. Appena potrò, cercherò di recuperare il tempo perduto, sempre che lei lo voglia.» «Che cosa vuol dire 'il suo modo di comportarsi'? Vorresti dire che è psicologicamente disturbata?» «Voglio solo dire che è molto sola, proprio come me quando ero ragazzo.» Si rifiutò di prendere anche solo in considerazione le parole di Alison, e avrebbe preferito che non le avesse nemmeno pronunciate. «Facciamo che sia la fine del primo round e torniamocene nei nostri angoli. Voglio chiamare Rowan prima che vada a letto per vedere come sta.» «Mi prometti che parlerai a Hermione senza metterla in agitazione?» «Ci sono riuscito anche ieri. Puoi telefonarle anche tu se pensi di doverla proteggere da me, ma io voglio parlare con Rowan.» Quando Alison si voltò per contemplare la baia, Derek si diresse verso l'ingresso, passando davanti al muro coperto di foglioline d'argento. La discussione era nata per colpa di Hermione, pensò. Dovette aspettare che la rabbia sbollisse prima di comporre il numero. Dopo un attimo, rifece il numero più lentamente, per essere sicuro di non sbagliare, e rimase con l'orecchio contro la cornetta e lo sguardo fisso in direzione delle scale immerse nell'oscurità. Attese più a lungo che poté, poi tornò da Alison. Era ora di andare a letto per Ro-
wan, ma al cottage non rispondeva nessuno. 20 «Caro diario, alla televisione riescono ha fare sembrare vechie le immagini, quindi credo che lo posano fare anche con le fotoggrafie. Hermione me ne a fatta vedere una che sembra di Vicky, però è più vechia...» Rowan lasciò cadere la penna. Non aveva scritto quello che sentiva veramente. Fuori della finestra le tenebre stavano calando sulla baia come una massa di fango. Le prime luci si accesero a Waterloo e apparvero lontane come le stelle. Normalmente, quel panorama le avrebbe fatto provare nostalgia di casa, ma ora le ricordava che i suoi genitori non l'avevano voluta, e che per loro era solo un peso. Le sembrava di non appartenere a nessun posto. L'unica persona con cui poteva confidarsi era Vicky, ma ora Hermione era riuscita a metterla in cattiva luce. Alla zia, Vicky non era mai piaciuta, anche se non l'aveva mai conosciuta, e tutto per colpa del binocolo. Ma Hermione spesso si comportava in modo strano e magari aveva strofinato qualcosa sulla foto per farla apparire più vecchia. Ma dove aveva preso la foto di Vicky e come faceva a sapere che aspetto avesse? Rowan preferiva chiederlo a Vicky piuttosto che alla zia, perché la sua amica non diceva mai le bugie. Stava osservando le luci che si moltiplicavano al di là della baia quando suonarono alla porta. Corse alla finestra, ma troppo tardi per vedere chi entrasse nel cottage. Udì un mormorio provenire dal piano inferiore, ma non riuscì a distinguere le voci, fino a quando la zia la chiamò. «Rowan, tesoro, ti spiace infilarti il cappotto e scendere?» Rowan prese il cappotto dall'armadio ed esitò un attimo in cima alle scale, mentre Hermione proseguiva: «Spero non sia un disturbo, ma mi ha detto che potevo rivolgermi a lei nel caso fossi dovuta andare a Gronant.» «Ma si figuri. È la bambina che sta scendendo?» Rowan riconobbe la voce della donna che apparve nell'ingresso e la fissò, ma non riuscì a identificarla con esattezza. La donna aveva il viso affilato ma delicato come la porcellana, e gli occhi sembravano dipinti con la china. «Eccola.» Hermione si avvicinò e le abbottonò velocemente il cappotto. «Rowan, ti ricordi di Elspeth? Lei e Gwen fabbricano i giocattoli per il negozio. Dovrai stare da lei per un po' perché ho una faccenda da sbrigare.»
Tutta quella fretta fece sorgere qualche perplessità in Rowan. «Posso chiamare a casa per avvisare dove sono?» «Ora non c'è tempo. Non staremo via molto, e, a ogni modo, dovremo tornare qui a dormire.» Come faceva Rowan a crederle quando Hermione fingeva di non essere neppure nervosa e la stessa Elspeth sembrava nutrire qualche sospetto? Ma la bambina fu condotta in tutta fretta fuori del cottage, lungo il sentiero fino alla rossa macchina francese. Mentre percorrevano le strade fiancheggiate da siepi sprofondate nell'oscurità, Hermione iniziò a chiacchierare. Di solito, quando era nervosa, continuava a mangiare, ma quello era ancora peggio. Voleva a tutti i costi mostrare il paesaggio a Rowan, che teneva gli occhi fissi sui lampioni accesi lungo la costa lontana mentre loro viaggiavano in mezzo ai campi immersi nel buio della notte. Hermione si fece silenziosa quando passarono davanti al cimitero, fuori Gronant, con le lapidi che baluginavano come nuvole davanti alla luna, poi riprese a parlare in modo confuso, all'improvviso. «Siamo arrivate, Rowan, ecco, quasi ci siamo. Farai la brava, vero? Forse Elspeth ti lascerà guardare la televisione. Tornerò appena possibile.» L'automobile proseguì costeggiando la strada verso Gronant e si fermò davanti a una casetta piuttosto recente, che costituiva l'angolo di una fila di piccoli cottage tutti uguali. «Accompagno dentro la bambina e poi la porto fino all'albergo», esclamò Elspeth. «Non si disturbi, Elspeth, mi farà bene camminare. Vengo dentro un attimo con Rowan e poi me ne vado subito.» Elspeth aggrottò le sopracciglia mentre Hermione scendeva a fatica dall'auto, e sembrò quasi innervosirsi quando la vide incamminarsi lungo il sentiero coperto di ciottoli, fino al battacchio d'ottone. Gwen aprì la porta. Aveva il viso affilato come quello di Elspeth, ma sembrò addolcirsi quando mise a fuoco i loro volti. «Può fermarsi per una tazza di tè, se vuole, Hermione», la invitò. Un unico locale con le pareti rivestite di legno lucido occupava la maggior parte del pianterreno. Il legno intagliato del divano e delle sedie sembrava impregnato dei sacchettini di lavanda che diffondevano la loro fragranza nell'aria. Hermione lanciò un'occhiata alla libreria che occupava un angolo della stanza. «Ecco, potresti far sentire a Gwen e a Elspeth come leggi bene.» Mentre Rowan passava in rassegna la collezione di fiabe alla ricerca di qualcosa che le piacesse, Hermione gridò: «Uno qualsiasi va bene. Vi leggerà una favola intera. Non è vero Rowan? Dovete proprio ascol-
tarla». Gwen si sedette sorridendo ed Elspeth fece altrettanto, seppure con un briciolo di riluttanza, sistemandosi dalla parte opposta della stanza. La favola raccontava la storia di due bambine, una delle quali fatta di bastoncini, anche se dalle illustrazioni sembravano più simili a ossa. Appena la fiaba entrò nel vivo, Hermione si avviò verso la porta. «Non c'è bisogno che mi accompagniate. Rowan, continua pure a leggere fino alla fine.» Rowan udì la porta che sbatteva, ma continuò a leggere, troppo imbarazzata per riuscire a sollevare la testa. Capiva a malapena quello che stava leggendo, anche se la voce suonava piuttosto sicura. Un cane si mise ad abbaiare dietro il cottage ed Elspeth fece per avviarsi verso la finestra della cucina, ma Gwen la bloccò con un impercettibile segno di diniego. Rowan finì di leggere la fiaba senza capire quale delle due ragazze fosse rimasta in vita. Quando sfogliò il libro per rileggere l'ultima parte, Elspeth protestò: «Basta ora, è meglio cenare, anche perché non possiamo fare colazione fino a domani mattina». «Sei stata bravissima, signorina. Quanti anni hai? Solo otto? Leggi molto bene per la tua età.» «Sei proprio in gamba, ma sai leggere anche in gallese?» «Solo qualche parola, quando assomigliano a quelle inglesi, ma si scrivono in modo sbagliato.» «Vuoi dire quando si scrivono correttamente in gallese», la rimproverò Elspeth. «Non andrai molto lontano da queste parti, se parli in questo modo.» «Suvvia, Ellie, è venuta solo a trovarci.» «E come mai, se è lecito chiedere? Dov'è andata tua zia, Rowan?» «Non lo so. Nessuno mi ha detto niente.» «È andata a trovare un'amica malata che alloggia in albergo, no?» replicò Gwen. Elspeth le lanciò un'occhiata furibonda e si diresse verso la cucina. La porta sul retro si aprì e il cane ricominciò ad abbaiare. Dopo un attimo, Elspeth tornò con l'aria contrariata per non aver trovato niente di interessante. Rowan si concentrò sul libro per non scatenare la sua ostilità. Gwen le portò un bicchiere di latte, ma la bambina si sentiva a disagio, soprattutto quando le due donne iniziarono a parlare fra loro in gallese. Non capiva neppure se stavano discutendo su di lei e questo la fece sentire ancora più fuori posto. Prima che Elspeth le rivolgesse di nuovo la parola dovette passare pa-
recchio tempo, perché Rowan riuscì a leggere quasi metà libro, anche se non ricordava praticamente nulla di tutte quelle fiabe. «Ora mettilo via, altrimenti tua zia ci accuserà di averti lasciato rovinare gli occhi. Gwen vuole insegnarti una cosa.» «Che cosa?» «Per una volta prova ad ascoltare», grugnì Elspeth, con aria impaziente, mentre Gwen intonava una canzoncina in gallese. Dopo qualche battuta, anche Elspeth si unì all'amica. A Rowan piaceva quella melodia, ma avrebbe preferito che le due donne cantassero con un braccio sulla spalla dell'altra, invece di rimanere ai due angoli opposti della stanza: era forse colpa sua se si comportavano così? La canzone terminò con un acuto estremamente dolce. «Allora, che cosa ne dici?» chiese Elspeth. «Carina», ammise Rowan, e poi, rendendosi conto che forse non èra sufficiente, aggiunse: «Mi è piaciuta moltissimo». «Vediamo quanto ti è piaciuta. Prova anche tu.» «Ascoltala di nuovo», suggerì Gwen, impietosita, prima di intonare le battute iniziali. Poi Rowan provò a cantare, ma sentì la lingua che le vibrava in bocca come le ali di un uccello. Le due donne proseguirono lentamente, ripetendo le battute, e Rowan fece del suo meglio per accompagnarle. Si sentì piuttosto orgogliosa, fino a quando Elspeth la guardò con aria accigliata, come se inavvertitamente avesse detto qualcosa di volgare in gallese. Come poteva cantare la canzone in modo esatto se non capiva neppure quello che diceva? Si sentì una perfetta estranea, come se neanche la voce le appartenesse più e provò il disperato bisogno di parlare con qualcuno che conoscesse. «Posso telefonare a casa?» sbottò. «Non serve, ti pare? Tua zia tornerà subito, almeno così ha detto.» «Perché vuoi chiamare, tesoro?» chiese Gwen. «È tutto il giorno che non parlo con la mamma e il papà. Voglio solo spiegare loro dove sono.» «Vuoi solo informarli che sei a casa mia fino a quando ritornerà tua zia?» «Casa nostra», puntualizzò Gwen con tono gentile. «Oh certo, la nostra casa, dillo a tutti», protestò Elspeth, rimettendosi a parlare in gallese. Rowan si rinchiuse in se stessa mentre le due donne iniziavano a litigare: sembrava che si stessero accusando con disprezzo. Non riusciva a capire
come la semplice richiesta di telefonare a casa potesse suscitare una tale reazione, ma aveva paura ad aprire bocca. Sperò ardentemente che Hermione tornasse subito a prenderla e in quel momento qualcuno bussò alla porta. «Dev'essere tua zia», la informò Gwen, avviandosi verso l'ingresso. Elspeth squadrò Rowan con aria minacciosa, fino a quando tornò Gwen, decisamente perplessa. «Rowan, c'è una bambina che afferma di essere una tua amica.» Quelle parole giunsero al momento giusto per salvarla. «Vicky!» esclamò Rowan. «Oh, la stai aspettando?» chiese Gwen in tono di rimprovero. «Vuole che tu vada a casa sua.» Gwen sembrava dubbiosa e si mise a bisbigliare qualcosa in gallese con Elspeth, mentre Rowan afferrava il cappotto e si precipitava verso l'ingresso. Vicky la stava aspettando oltre la soglia. Nel buio della notte, il vestito bianco e il lungo volto pallido apparivano ancora più luminosi della parete dell'anticamera. Quando vide arrivare Rowan i suoi occhi parvero diventare ancora più profondi e si colmarono della luce proveniente dalla casa. Vicky si girò di scatto e Rowan la seguì fino al cancello, quando udì le parole di Elspeth. «Dove credi di andare?» «È con me», la rassicurò Vicky, nascosta dietro il lampione. «Non starà via più della zia, glielo prometto.» Elspeth strizzò gli occhi nel buio e aggrottò la fronte, poi si strinse nelle spalle come se non fosse troppo felice che Rowan togliesse il disturbo. «Stai bene attenta a quello che fai», le intimò, prima di chiudere la porta. La notte era fredda e inquieta. Oltre al fascio di luce del lampione, le case non producevano alcun suono, ma gli alberi sembravano respirare con ritmo irregolare, allungandosi verso il cielo. Rowan rimase vicina al lampione mentre Vicky si lanciava un'occhiata dietro le spalle. «Come facevi a sapere dov'ero?» «Ti ho vista uscire in macchina e conoscevo l'indirizzo di quella signora.» «Vuoi dire che hai fatto tutta questa strada? E come?» «Be', ci sono gli autobus, anche se non sono molto frequenti. Comunque sono qui, non ti basta? O preferiresti tornare là dentro?» Rowan non voleva assolutamente inimicarsi Vicky. «Hai detto che potevamo andare a casa tua.» «Lascia che prima ti mostri una cosa.» Vicky si allontanò di un passo dal
lampione e alzò una mano. «Hai dimenticato questo.» Era il binocolo, con le lenti scintillanti come ghiaccio scuro. Rowan s'irrigidì. «Sei andata a casa di mia zia?» «Non ti ricordi che l'hai lasciato in giardino? Forse volevi rovinarlo anche se te l'avevo regalato io.» «Non essere sciocca, lo sai anche tu che non volevo. Non l'ho fatto apposta a dimenticarlo», si difese Rowan, incapace di ricordare dove l'avesse appoggiato. Vicky si era già allontanata a grandi passi e Rowan la seguì, attraverso la strada e lungo un viottolo in pietra, fra i giardini di due case fiancheggiate da alti alberi. Mentre le luci delle abitazioni sembravano perdersi fra le foglie vibranti, il vento gelido della notte investì Rowan, che si strinse nel cappotto. Quasi improvvisamente ebbe l'impressione di non avvertire più il vento o il sentiero sotto i piedi. Vicky le faceva strada nell'oscurità e rimase ad aspettarla su un piccolo spiazzo circondato da un'erba luccicante che si piegava sotto il vento impetuoso. In quel punto allungò il binocolo a Rowan e indicò la baia. «Guarda come funziona bene di notte», le suggerì. Oltre la penisola Wirral, un drago addormentato incatenato dalla fila di luci, i lampioni e le finestre della costa lontana assomigliavano a tanti insetti scintillanti che tremavano come se stessero preparandosi per sciamare nell'aria. Quella visione riempì di malinconia Rowan, che si sentì più rifiutata che mai. «Usa le lenti», le suggerì Vicky. Appena Rowan si portò il binocolo agli occhi, la notte sembrò chiudersi sopra di lei. Dovevano essere le lenti, ma era come se stesse attraversando la notte per dirigersi verso le luci. La penisola scivolò sotto di lei, che si ritrovò improvvisamente dall'altra parte della baia. C'erano i dock, la torre radar che scandagliava l'oscurità, le dune ammassate come un unico grappolo indistinto, la fila di case di riposo color pastello diventate ormai grigiastre. Rowan aveva l'impressione di scivolare insieme con quelle immagini e poi, dove l'imboccatura della strada si spalancava verso l'oscurità, vide la casa. L'ultimo piano era illuminato. Assomigliava a una corona o a un faro, ma non sembrava che fosse lì per lei. Lo sguardo cadde sulla stanza centrale, illuminata. Le tende erano tirate, ma non completamente. Sbirciando nella fessura, avrebbe potuto intravedere i suoi genitori. Per un attimo desiderò ardentemente vederli, come se fosse ormai via da molti mesi, poi si ricordò delle parole che aveva udito. Forse stavano parlando ancora di lei, e decise che era meglio non cercarli neppure. Lasciò cadere le braccia.
All'inizio pensò che la cinghia del binocolo fosse rimasta impigliata, perché l'immagine della casa rimase assolutamente identica, senza nemmeno rimpicciolirsi. Doveva essere un'immagine permanente, rimastale impressa nella mente. Strizzò gli occhi poi li riaprì. Il paesaggio notturno si ricostruì attorno a lei, seppure in modo sfuocato; i luccichii delle case si ricomposero confusamente fra gli alberi ondeggianti, ma tutto assunse un'aria appiattita, sotto i ventagli di luce. «Perché ti sei fermata?» le sibilò Vicky nell'orecchio. «Eri quasi arrivata.» Quel tono colmo di impazienza non fu sufficiente a far alzare il binocolo a Rowan. «Non ne ho più voglia. Hai promesso di farmi vedere dove abiti.» Il vento soffiava sulle colline e si insinuava fra l'erba. Gli alberi si flettevano sotto la luce, gettando misteriose ombre verso l'alto. Rowan si sentì improvvisamente più sola e più indifesa. «No, non voglio», balbettò, come se volesse proteggersi da ciò che la faceva sentire a disagio. «Preferisco vedere dov'è la zia Hermione.» Vicky rimase in silenzio fino a quando Rowan alzò lo sguardo verso di lei. Il luccichio negli occhi sembrava sempre più intenso. Iniziò a sorridere, con le labbra sigillate, mentre si girava per imboccare la strada che portava ai piedi della collina. «D'accordo, la vedrai», sentenziò. 21 Appena uscita di casa, Hermione si picchiò i pugni sulla fronte. Avrebbe dovuto gironzolare nelle vicinanze per aspettare che entrassero in casa invece di accompagnarle dentro. Era sicura che tutti si fossero accorti di com'era diventata nervosa; al solo pensiero che Elspeth insistesse per accompagnarla in albergo era stata presa dal panico. Ma ormai se n'era andata e le due donne stavano ascoltando Rowan, anche se Hermione non riusciva più a sentirla. Si affrettò lungo il vialetto di ciottoli, asciugandosi le mani sudate sul cappotto, e cercò di chiudere il cancello il più rumorosamente possibile. Poi, in punta di piedi, tornò sui propri passi e si diresse su un lato della casa. Da quel punto, il vialetto sembrava ricoperto da frammenti di ardesia. È una pavimentazione molto strana, pensò, e avanzò con passi talmente incerti da andare a sbattere contro il muro della casa. Si appoggiò allora alla parete intonacata e strisciò in direzione del giardino sul retro. L'illuminazione a riflettori dell'abitazione accanto gettava l'ombra della siepe sul
giardino, ma si riusciva comunque a distinguere il capanno degli attrezzi sulla parte opposta del prato. Era quello l'unico posto di Gronant dove fosse sicura di trovare un badile: Elspeth parlava sempre di quanto vangava in giardino. Si apprestò ad attraversare il praticello, quando un cane prese ad abbaiare. Hermione si appiattì contro il muro. Il cane si trovava nel raggio di luce del riflettore, accanto a un paio di portefinestre. Se in quel momento qualcuno avesse scostato le tende, l'avrebbe sicuramente notata. Gwen oppure Elspeth avrebbero potuto affacciarsi alla finestra della cucina. E allora che cosa sarebbe successo? Si sentì percorrere da un brivido e dovette conficcarsi i pugni fra le labbra per non lasciarsi scappare una risata isterica. Il cane si calmò. Non fece nemmeno in tempo a rimangiarsi lo scoppio di ilarità che già aveva attraversato il prato. Per tutto il tragitto fino al capanno, sentì la torcia che aveva in tasca rimbalzarle contro la coscia. Aprì il chiavistello della porta con dita gonfie e irrigidite. I cardini erano ben lubrificati e la porta si spalancò con più facilità del previsto. Il cane emise un ringhio sommesso. Lei si sporse in avanti e sbirciò nell'oscurità. Nell'angolo sinistro più lontano, intrappolato fra il forcone e il rastrello, c'era il badile. Non fece in tempo a mettere il piede nel capanno che gli attrezzi cominciarono a vibrare. Se fossero caduti il cane si sarebbe messo ad abbaiare come un matto. Si mosse rapidamente sulle assi del pavimento e andò ad afferrare gli attrezzi. Nuovamente sull'orlo dell'isteria, non riusciva a distinguere quale fosse il manico del badile. Allora tastò verso il basso finché trovò la pala che si trovava nel mezzo. Si stava apprestando a districare il forcone e il rastrello, sforzandosi di procedere con tutta calma, quando venne assalita da una sensazione glaciale: qualcuno la stava osservando. Si obbligò a voltarsi verso la casa. La finestra della cucina non era più illuminata e le tende delle portefinestre non erano state scostate. Sentì che, nell'oscurità, qualcuno la stava osservando attentamente, e tutto perché Hermione si era resa conto del pericolo che stava correndo Rowan. Liberò il badile, rischiando di urtare con il manico contro il soffitto. Poi, riattraversò in punta di piedi le assi scricchiolanti del pavimento, richiuse la porta, rimise il chiavistello, ripercorse il tragitto sul prato e andò a nascondersi di fianco alla casa, fuori della portata del riflettore della casa accanto. Nel frattempo pensò a dove avrebbe potuto nascondere il badile. Non c'era spazio sotto il cappotto. Si premette la pala contro il petto trattenendola con le mani incrociate. Riusciva a camminare, ma meno velo-
cemente di quanto avrebbe voluto. Camminò furtivamente lungo il vialetto e poi uscì dal cancello. Lanciò un'ultima occhiata nervosa in direzione della casa, augurandosi che Rowan stesse leggendo, poi prese il badile fra le braccia e si affrettò sulla strada principale. Gli alberi lanciavano ombre sui marciapiedi ripidi e alimentavano le tenebre dei giardini laterali, mentre lei percorreva la strada tortuosa, seguita da una calma glaciale piena di sussurri. Si avvicinò un'auto e dovette allontanarsi dal ciglio del marciapiede. Lance dev'essere caduto sotto il treno perché è stato colto di sorpresa, pensò. Arrancò fino alla cima della collina e affrontò la discesa in tutta fretta. Le luci di Gronant vennero offuscate dal dosso e si ritrovò sola in compagnia dell'illuminazione stradale. Ciononostante la vista del cimitero fu un vero sollievo. In quel luogo, a parte la paura, non c'era nient'altro che potesse minacciarla. Oltre il cancello, il vialetto grigio conduceva alla grande cappella immersa nell'oscurità che l'avrebbe protetta dai pericoli, almeno così si augurava. Fece scattare il lucchetto del cancello che poi richiuse alle sue spalle. Con il badile ben stretto contro di sé si avventurò sul prato. Le pietre tombali subivano strani giochi di chiaro scuro, i fiori nei vasi tremavano per il vento gelido. La veste di un angelo si agitava nel vento, come se qualcuno stesse sbirciando da sotto le pieghe di pietra. Il salice appariva taciturno e meno pacifico del solito, con il suo ombrello di rami intercalati da sprazzi di tenebre. Dovette raggiungerlo prima di riuscire a vedere la tomba di famiglia. Da quel punto nessuno avrebbe potuto scorgerla. Inciampò in avanti e prese il badile per il manico. La tomba giaceva all'ombra del salice. Dai rami filtrava la luce dei lampioni della strada, che mettevano in risalto squarci di parole iscritte sulla colonna di marmo: VICTORIA... NELLE... BRACCIA... Il manto erboso appoggiato sul terrapieno era ancora chiaramente diviso in zolle. Hermione infilò il badile nella prima e si sentì gelare le membra. La sua risolutezza l'aveva spinta fino a quel punto, ma non poteva più fare a meno di pensare al terrore che provava al solo pensiero di ciò che aveva in mente. Era per Rowan. Doveva farlo mentre Rowan era ancora Rowan. Ma il dubbio era forse più difficile da affrontare che non la paura: aveva veramente intenzione di scavare nella tomba di famiglia perché temeva che Rowan potesse assumere le sembianze di Queenie in modo che nessuno si accorgesse che Queenie aveva preso il suo posto? Messa in questi termini, con la notte che si agitava sul cimitero come un mare freddo e impalpabile,
l'idea sembrava troppo grottesca per essere presa in considerazione. Forse era solo la delusione di una donna troppo bramosa di trovare qualcuno di cui occuparsi, dal momento che la sua unica sorellina si era costruita una vita tutta sua. Ma lei aveva visto il volto dell'amica di Rowan. Aveva avuto ragione a proposito di Vicky: lei era stata l'unica a leggerle dentro e a capire il suo disegno. Si sforzò di rilassarsi. Il badile penetrò la zolla d'erba e la sollevò. Asportò tutte le zolle circostanti e le depositò fuori portata, poi girò attorno alla colonna di marmo per andare sul lato della tomba dal quale si riusciva a vedere la strada. Tirò un profondo respiro, sincero come una preghiera, e affondò il badile nel terreno. Questo sprofondò di colpo facendole quasi perdere l'equilibrio. Le venne in mente la poltrona molliccia in cui aveva affondato le mani, quasi che il fallimento della volontà di Queenie di continuare a vivere avesse riempito di marcio il piano superiore della casa. Strinse i denti e depositò la terra sul lato della tomba; continuò a scavare, spingendo con forza il badile e facendo attenzione a non colpire la bara sottostante. In ogni caso ci sarebbe stato il coperchio a evitare di urtare direttamente contro Queenie, rischiando magari di infierire sul suo cadavere. Pestò con tanta forza sul badile da farsi male al piede, ma nemmeno il dolore riuscì a zittirle i pensieri. Lo strato di terra successivo era più duro. Nonostante il vento gelido, cominciò a sudare e dovette appendere il cappotto alla colonna di marmo. Le maniche vuote cominciarono a sventolare mentre lei tornava a chinarsi sulla tomba, in posizione sempre più precaria. Stava cercando di rimandare il momento in cui sarebbe stata costretta a calarsi nella fossa scavata. Ma alla fine non ebbe scelta. Con una mano si appoggiò al badile e con l'altra alla colonna di marmo, poi discese nelle tenebre che sapevano di terra umidiccia. La terra sprofondò sotto il suo peso, ma non di molto. C'era un altro strato che la separava dalla bara. Allungò una mano verso il cappotto e riuscì a sfilare la torcia. L'appoggiò contro la colonna, rivolta verso la fossa scavata grossolanamente. La luce giallastra andò a illuminare i cumuli di terra sotto i suoi piedi. Lanciò un'occhiata in direzione della strada da dove non erano più passate automobili, e si mosse verso l'estremità della tomba. Voltò le spalle al salice. Ogni volta che le ombre sgattaiolavano sui mucchi di terra circostanti, le veniva il sospetto di essere spiata da qualcuno che sbirciava attraverso i rami, ma non riusciva a vedere nessuno. Se qualcuno la stava osservando, significava che sotto i suoi piedi non c'era
alcun pericolo, perché non si può essere in due posti contemporaneamente, no? Poco dopo si abituò e non fece più caso alle ombre: ormai doveva essere vicina alla bara, talmente vicina da iniziare ad aver paura di ogni passo che faceva, mentre procedeva con cautela per andare a spostare la torcia e dirigerla verso il basso. Ai piedi del salice il raggio di luce si apriva su tutta la tomba, ma era talmente fievole da produrre solo un debole luccichio sulla terra. A quel punto, indietreggiò stringendo tanto forte i denti da sentire male alla mascella. Affondando il badile nel terreno con prudenza, per non urtare violentemente contro la cassa di legno, venne colta da un attacco improvviso di fame. Non c'è come lavorare duramente per stimolare l'appetito, non poté fare a meno di pensare, e tornò a spingere con forza il badile. Sprofondò di qualche centimetro e poi si bloccò. Aveva raggiunto una superficie più solida della terra. Il contraccolpo del badile le attraversò il corpo e le agghiacciò la mente. Il salice incombeva su di lei, facendo sibilare e scuotere i suoi rami; sui mucchi di terra che la circondavano scorrevano le ombre della notte. Per Rowan, pensò, oscillando in avanti come se si stesse svegliando in quel momento. Per un istante aveva temuto che il coperchio della cassa sì fosse spostato, ma il badile si era limitato a scivolare sulla superficie. Con un misto di furia e paura iniziò a scagliare terra al di fuori della fossa. Non ci volle molto per liberare dalla terra il coperchio. Hermione lanciò un'occhiata alla notte, allo spaventapasseri decapitato che era il suo cappotto, al lampione che filtrava la sua luce attraverso i rami del salice e poi si decise a spazzare via gli ultimi granelli di terra dal coperchio lucido. Di tanto in tanto il badile tintinnava rumorosamente. Guardò la superficie del legno graffiata e sporca di terra, poi si diresse all'estremità più illuminata con l'intenzione di usare il badile come cacciavite. Quando si accorse del motivo per cui il badile faceva tanto rumore, si sentì attraversare da un brivido. Le viti del coperchio erano già state allentate. Afferrò la torcia, come se fosse l'unica ancora di salvezza in grado di portarla fuori della tomba, poi si costrinse a gettare la luce sulle viti. Sporgevano dal coperchio, quasi la stessero sfidando a toglierle del tutto e ad aprire la cassa. Pensò a Rowan, poi a se stessa e a come Queenie l'avesse terrorizzata quando aveva l'età di Rowan. Non stava forse facendo la stessa cosa, sfidandola con quelle viti per impedirle di sollevare il coperchio? «Ormai li conosco i tuoi trucchi», sussurrò Hermione e si avvicinò alla vite più prossima.
Era impastata di fango umidiccio. Dopo averla sfilata e depositata ai piedi della colonna, si sfregò le mani rabbrividendo. Fece lo stesso con tutte le altre viti. Cominciava a desiderare di aver scavato una fossa più ampia: anche se sulla sinistra c'era spazio sufficiente in cui rannicchiarsi, aveva il terrore di scivolare sul coperchio ora che era tenuto da poche viti. Scese sulla striscia di terreno libera e si curvò a togliere un'altra vite. Poi ancora una. E una terza. Ormai restava solo quella più vicina alla colonna e se in quel momento fosse caduta, il coperchio sarebbe scivolato sul perno della vite, facendola così precipitare nel cubicolo dove giaceva Queenie. È Queenie che mi risveglia certi pensieri, pensò, poi tolse l'ultima vite e la depose insieme con le altre. Prima di farsi bloccare da un'altra ondata di ansia, si accovacciò per terra stringendo la torcia tra le ginocchia tremanti. Poi infilò le dita sotto il coperchio. Al primo tentativo si sollevò con tale facilità da farle quasi perdere l'equilibrio. Andò a sbattere contro la parete più lontana della fossa, rovesciando spruzzi di terra all'interno della bara. Hermione si rialzò il più velocemente possibile tenendo la torcia con entrambe le mani. Avrebbe tanto voluto uscire dalla fossa per riprendersi dallo spavento di aver quasi perso l'equilibrio, ma temeva di non ritrovare più il coraggio di portare a termine il suo compito. Si appoggiò alla parete di terra, abbassò lo sguardo e gli occhi contratti delinearono la pallida figura che giaceva nella bara, oltre il raggio di luce della torcia. Per Rowan, pensò per farsi coraggio, e gettò il raggio di luce nella bara, finché non riuscì a fissarlo sull'oggetto. Strinse con tutta la forza la torcia che iniziò a tremare. La gola si chiuse. Si era aspettata un certo grado di decomposizione, ma non fino a quel punto. Il viso allungato di Queenie si era prosciugato intorno agli occhi ormai appassiti e anneriti, mentre la bocca esibiva la dentatura completa di gengive scure. I capelli erano scarmigliati. Sul viso era stampato un ghigno, un ghigno mortale con occhi piccoli che guardavano dal loro nido, in mezzo alla foresta di capelli grigi. Doveva allontanare gli occhi da quell'orrore per trovare il medaglione. Con uno sforzo spostò lo sguardo e anche la torcia benché le mani le tremassero. Il raggio di luce colpì più in là del previsto e sfiorò le mani conserte sul petto di Queenie. Ma quali mani? Erano rimasti solo poveri resti, sporchi della terra che il coperchio aveva sollevato. Hermione riportò la luce sul collo. Era grinzoso, come la scorza di un ramo, e anche incredibilmente sma-
grito. Strabuzzò gli occhi fino a farsi male, poi si appoggiò sull'orlo della tomba e si chinò nell'angusto spazio accanto alla bara. Senza staccare la presa dal suo sostegno, si sporse verso la bara, abbassando la torcia che andò a sfiorare la carne incartapecorita e morta. Non ci furono luccichii. Al collo di Queenie non c'erano collane. Hermione si sistemò meglio, appoggiando il ginocchio destro sull'orlo della bara. Con l'aiuto della torcia esaminò anche il torace sopra le mani conserte, nel caso in cui la catena si fosse rotta e il medaglione fosse andato a finire da qualche altra parte. Quando fu certa che il medaglione era sparito, cominciò a tastare il cadavere per dimostrare che sapeva di essere osservata, ma che non gliene importava nulla. Ormai aveva visto il peggio: non poteva farle alcun male, era soltanto disgustoso. Riusciva persino a immaginare mentalmente la persona che la stava osservando: una forma piccola e pallida scostata dalla tomba, sulla sinistra. Sul viso le si dipinse un'espressione di disgusto, talmente violenta e inaspettata da non riuscire a trattenersi; poi alzò lo sguardo e si voltò verso chi la stava osservando. La sua mano si contrasse sull'orlo della fossa strappando una manciata di terreno. La piccola figura che la stava fissando, aggrappata a una croce di granito dall'aria fragile, era Rowan. Era pronta a voltarsi e a scappare nel caso in cui lei le avesse rivolto la parola. Hermione si sentì sopraffare dalla vergogna e dal panico. Avrebbe potuto evitare di farsi vedere, se avesse avuto anche solo il sospetto che Rowan l'avesse riconosciuta. Queenie si era presa gioco di tutt'e due, realizzò con una furia che la fece oscillare: Queenie era Vicky e doveva essere la figura che si era immaginata nella sua mente. Ma Vicky aveva sbagliato i suoi calcoli, pensò Hermione mentre cercava di mettere a fuoco l'immagine mentale. Aveva attirato Hermione nel punto adatto al confronto, di fronte a Rowan, per tentare di dimostrarle la verità. Ma la figura che si muoveva non era Vicky e non era nemmeno Rowan. La figura era molto più vicina a Hermione ed era per questo motivo che non era riuscita a metterla bene a fuoco. Era una mano, una mano raggrinzita e chiazzata di terra. Sebbene si muovesse a scatti come la mano di una bambola, riuscì a serrare il collo a Hermione. Hermione si ritrasse con un moto convulso e cercò di emettere un urlo, come se ciò avrebbe potuto aiutarla a liberarsi dalla presa, ma un acuto dolore alle viscere le mozzò il fiato, facendola piegare su se stessa e cadere
nella bara. Stringeva ancora la torcia che illuminava il rivestimento della cassa, mettendo in risalto il ghigno di Queenie. La testa si stava alzando dal suo giaciglio di capelli. I capelli restarono attaccati alla bara. Si staccarono dallo scalpo grigiastro del cadavere che si rizzò a sedere rigidamente, come una bambola calva ghignante priva di occhi che meritassero di essere chiamati tali. Forse, al pari di una bambola, non era dotata di intelligenza, ma il ghigno scarno si spalancò in quello che poteva sembrare un muto urlo di trionfo, mentre le braccia si chiudevano attorno al corpo di Hermione in un abbraccio mortale. 22 Rowan non le rivolse nessuna domanda finché non raggiunsero la strada principale. Seguì Vicky giù per il sentiero, fra gli alberi che nascondevano la luce. Vicky aspettava Rowan vicino al cono di luce di un lampione, ma Rowan si soffermò nello spazio fra le siepi delle case illuminate. «Come fai a sapere dov'è mia zia?», chiese. Vicky si mise le mani sui fianchi e le lanciò un'occhiata inespressiva. «Pensavo ti fidassi di me.» «Infatti è così, ma ciononostante voglio sapere. Sembra che tu sia sempre nel posto giusto al momento giusto.» «E allora dovresti essermene grata, no?» «Ho promesso che sarei stata tua amica, ma non mi piace che tu sappia più cose di me.» Vicky la fissò con uno sguardo così duro che Rowan si nascose tra le siepi mosse dal vento. Per un attimo pensò che Vicky stesse per dirle: «Come osi parlarmi in questo modo?» o addirittura: «Non sai chi sono io?» Trattenne il respiro fino a quando si sentì scoppiare i polmoni, poi, improvvisamente, il viso di Vicky si addolcì e la sua voce diventò quasi carezzevole. «Potresti sapere tutto quello che so io, se ti fidassi di me.» «Ti ho già detto che mi fido di te.» «Non lo hai fatto proprio poco fa, quando eravamo sulla collina. Ci eri quasi arrivata, avresti dovuto accorgertene. Sarebbe stato così semplice proseguire, me ne sarei occupata io, ma tu invece hai voluto tornare indietro.» Rowan era confusa. Se l'intera faccenda era collegata al binocolo, cominciava a pensare che averlo fosse più una noia che un piacere. «Pensavo
volessi stare là per sempre», affermò Vicky. Quelle parole rattristarono ancora di più Rowan. «Prima lo volevo», mormorò per non essere sentita. «Prima di che cosa, Rowan?» La bambina si sentì come se non le fosse permesso nascondere qualcosa di cui si vergognava. «Prima che sentissi parlare la mamma e il papà. Non mi hanno mai voluta.» «Vuoi dire che sei nata perché loro non sono stati attenti.» «Penso di sì», rispose Rowan, ma gli occhi di Vicky le intimarono di continuare. «Mi sembra di aumentare molto i problemi che già hanno e penso che anche loro ne siano convinti.» Vicky la fece avvicinare, sotto la luce incerta e tremolante del lampione. «E se tu potessi stare sempre con loro, senza essere un peso?» Rowan si sentì tradita. Vicky non doveva farle pensare cose simili, soprattutto dopo che le aveva confidato i suoi segreti. «Immagino che a loro piacerebbe molto. » «E a te no? E se tu rimanessi sempre della stessa età e non dovessi mai lasciare la tua casa? Pensa se tu potessi vegliare sulla tua mamma e il tuo papà, essere là ad aspettarli quando tornano a casa e non costare loro un centesimo.» «Pensa se fossimo nel paese delle fate e i sogni diventassero realtà.» Rowan intendeva essere sarcastica, ma gli occhi di Vicky brillarono. «Finalmente realizzerai quello che da sempre sogni: sarà un sogno trasformato in realtà e senza fine.» I suoi occhi erano così luminosi da oscurare tutto ciò che la circondava; Rowan ne rimase abbagliata. Era come se non fosse in grado di staccare gli occhi dal binocolo. Era circondata dal buio, solo una luce brillava, ma il binocolo era al suo collo, nelle sue mani, mentre cercava qualcosa a cui aggrapparsi. «Quello è il biglietto», mormorò Vicky. «Torniamo dov'eravamo prima.» Parlava con tono così basso che le parole sarebbero potute entrare in testa a Rowan prima che lei si rendesse conto di averle sentite, se la bambina non si fosse resa conto di come Vicky stesse cercando di nascondere la sua impazienza. Perché era così importante per Vicky tornare immediatamente sulla collina? Rowan strinse gli occhi e li tenne chiusi finché trovò il coraggio di riaprirli. Si trovava sotto il lampione sulla strada deserta, dove il vento rumoreggiava come un oceano invisibile. Eppure era là, per quanto strano potesse sembrare. «Voglio andare da Hermione», dichiarò.
«Allora avrai quello che vuoi, mia cara.» Vicky le girò immediatamente le spalle e si diresse verso la collina. «Ha detto che andava all'albergo», protestò Rowan. «Può darsi di sì e può darsi di no. Non ti fidi ancora di me, ma tra poco cambierai idea.» Rowan si sentì come se avesse rifiutato qualcosa a cui Vicky teneva molto, anche se non aveva idea di che cosa potesse essere. Se era così, se n'era resa conto troppo tardi. Vicky stava dirigendosi decisa verso la collina, come un genitore che sfida il figlio a seguirlo, come la persona adulta alla quale assomigliava sempre più. Rowan s'incamminò dietro di lei perché se la zia non aveva detto la verità, era ancora più curiosa di scoprire dove si trovava. Doveva trottare, a volte persino correre, ma ciononostante non riusciva quasi a stare dietro a Vicky. Le ombre riempivano la strada deserta e Rowan promise a se stessa che se Vicky l'avesse fatta proseguire ancora per molto nell'oscurità, si sarebbe rifiutata di continuare finché non avesse saputo dove stavano andando. Ansimò per la salita e si sentì più tranquilla quando sotto vide la chiesa. E continuò a sentirsi così sicura finché Vicky si fermò con una mano sul cancello del cimitero. Aveva sperato che la zia fosse in chiesa, ma l'edificio era immerso nell'oscurità. Persino la chiesa le apparve meno rassicurante quando si ricordò dell'ultima volta che aveva visto lì la zia, con lo sguardo fisso all'interno della bara. Vicky si mise un dito sulle labbra inespressive e la sua bocca divenne persino più sottile mentre apriva il cancello. Rowan non sentì lo scatto della serratura. Tra tutti i cinque sensi, soltanto la vista sembrava continuare a funzionare. Il salice si agitava fra le tombe come un ragno che avverte la preda. Poi rimase immobile, come se fosse stato pietrificato dall'immobilità dei sassi. Rowan si sentì gelare, aveva visto qualcosa muoversi tra i rami. Una grande testa piatta su un collo sottile aveva ondeggiato prima di adagiarsi con un leggero tonfo per terra. È un serpente, pensò Rowan, un immenso serpente che è scivolato fuori dalla tomba e che sta strisciando nell'erba verso di me. Ma non si sentì completamente rassicurata neanche quando si rese conto di che cosa aveva effettivamente visto. Un badile. Qualcuno nascosto nell'oscurità stava scavando in una tomba. Sicuramente non era Hermione. Probabilmente Vicky le stava facendo uno scherzo perché Rowan aveva rifiutato quello che lei le offriva. Ma quando infine riuscì a distogliere lo sguardo, Vicky la guardava con fare
accusatorio e allo stesso tempo compassionevole. «Mi hai chiesto tu di portarti», le disse in tono piatto, spalancando il cancello. Rowan non poté far altro che inoltrarsi nel vialetto ghiaioso. I suoi passi avrebbero dovuto produrre un rumore sufficiente per mettere in guardia Hermione, dandole la possibilità di scappare prima che Rowan potesse vedere quello che stava facendo: ma persino la bambina riusciva a malapena a sentirne il rumore. Quando il salice fu tra lei e la buca, Rowan abbandonò il sentiero e cominciò a camminare nell'erba: ora i suoi passi non producevano più il minimo rumore. Si sentì umiliata, emarginata, inutile. Oltrepassò il salice e raggiunse una croce di granito, dietro la quale si nascose, aggrappandosi finché le sue mani sembrarono incollarsi a causa del gelo. Il binocolo si alzava seguendo i suoi respiri affannosi e Rowan strinse ancora più forte la croce in caso fosse stata tentata di usarlo. Riusciva a distinguere già troppo. Vide la zia chinarsi e raddrizzarsi velocemente per poi ripiegarsi sulla terra lucente. Tirava fuori degli oggetti dalla tomba e li deponeva accanto alla colonnina di marmo sulla quale aveva appoggiato il cappotto, quasi volesse sentirsi meno sola. Rowan ebbe l'impressione da incubo che la zia si stesse dedicando a lavori di giardinaggio, eliminando gli animali nocivi dalla tomba. Hermione depose il badile vicino alla colonna e prese la pila che aveva lasciato lì vicino. Il fascio di luce scomparve sotto la terra ed Hermione lo seguì. Quel silenzio sembrò pietrificare Rowan, poi improvvisamente la bambina sentì un tonfo attutito proveniente dalla tomba, e avvertì il ticchettio di una leggera pioggia di terra. Rowan si fece piccola piccola, con i sensi all'erta, ma incredibilmente indifesa. La luce della torcia ondeggiava come nebbia sulla tomba aperta. Quando i rami del salice si piegarono, ombre sottili si allungarono verso la tomba in modo così deciso che Rowan avrebbe voluto urlare per avvertire la zia. Poi il busto di Hermione emerse dalla fossa. Rowan comprese all'improvviso che la zia era alla ricerca del medaglione. La bambina ebbe l'improvviso e terribile sospetto che se Hermione l'avesse vista sarebbe corsa verso di lei con la catenina che aveva appena tolto dal cadavere e gliel'avrebbe messa al collo. Doveva scappare o almeno nascondersi dietro la croce, ma stava cercando di muovere il suo corpo impietrito, quando Hermione sollevò la testa e incontrò i suoi occhi. Rowan si sentì paralizzata, non solo perché la zia l'aveva scoperta, ma anche perché Hermione sembrava impietrita quanto lei. L'imbarazzo che fece arrossire Rowan era lo stesso che provava Hermione. Sembrava che
nessuna delle due dovesse più muoversi, entrambe sarebbero rimaste lì con le altre statue, mentre il vento soffiava tra l'erba. Infine, Hermione girò la testa e si passò una mano sul collo, in chiaro segno di imbarazzo. Un istante dopo sparì nella tomba. Il fascio di luce ondeggiò su un mucchio di terra e poi si fermò. Dalla fossa non proveniva alcun rumore. Le maniche del cappotto di Hermione sulla colonnina erano agitate dal vento. Rowan cercò di chiamare Hermione dicendole di smettere di nascondersi: era una cosa stupida e la spaventava. «Vieni fuori, ti ho visto», avrebbe voluto urlare, ma dalla sua gola non uscì neanche un sussurro. Per la rabbia e la paura chiuse le mani a pugno sulla croce. Si allontanò da quest'ultima dirigendosi vacillando verso la tomba. Vicky era scomparsa. Rowan era allo stesso tempo offesa, per essere stata lasciata sola, e felice, perché Vicky non aveva visto quello che stava facendo sua zia. Evitò il salice mentre attraversava il prato mosso dal vento e calpestò il mucchio di terra accanto alla tomba. Le sue scarpe affondarono nel terriccio quando si piegò in avanti per guardare nella fossa. Appena ebbe visto quello che c'era là dentro, si sentì precipitare nel buio. Hermione era sdraiata nella bara, il cui interno bianco era chiazzato e macchiato di terra, una massa di grasso bianco che ricordò a Rowan un enorme bruco. La torcia era accanto al viso di Hermione ed era puntata impietosamente sui suoi occhi sbarrati e sulla bocca spalancata. Rowan avrebbe voluto che la zia sbattesse gli occhi, lo desiderava e pregò che lo facesse, ma non poté fare a meno di notare quanto il viso di Hermione fosse immobile e spento. Hermione non si sarebbe mai sdraiata in quel posto di sua spontanea volontà. I suoi occhi erano privi di vita, così come lo era tutto il corpo. A quella vista, Rowan si sentì sopraffare dall'atmosfera che regnava nel cimitero. La morte era ovunque. Era circondata dalla morte e dall'oscurità. Quando aveva sentito parlare i suoi genitori, aveva deciso che non voleva più vivere, ma allora non aveva ancora capito che cosa significasse morire. La morte era il corpo di Hermione, vuoto, orribile e abbandonato: ormai non era nient'altro che un oggetto. Rowan si guardò intorno attentamente, come se stesse cercando Hermione, ma era Vicky che la guardava dall'altra parte della tomba. Rowan si raddrizzò, con i piedi che affondavano ancora di più nel mucchio di terra, e provò a parlare. Quando non le uscì la voce, indicò disperatamente la tomba. Vicky continuò a fissarla, con un'indifferenza così inten-
sa che sembrò la stesse accusando. «Ho cercato di renderti tutto più semplice», l'apostrofò Vicky. Rowan era sconcertata, si sentiva abbandonata e, cosa ancora peggiore, colpevole. Aveva in qualche modo provocato ciò che era accaduto a Hermione? Il pensiero era così terribile che la paralizzò. Poi un filo di speranza le permise di staccare gli occhi da Vicky e di guardare in basso. Aveva intravisto qualcosa muoversi sotto di lei. Hermione si stava muovendo: il suo viso si girò verso Rowan. Era sempre più spento. Il fascio di luce illuminava la terra caduta nella bocca aperta. La testa di Hermione si stava voltando, spinta da qualcosa sotto di lei. Rowan cercò di tirar fuori i piedi dal mucchio di terra scivolosa, quando nella tomba apparve una testa che spinse da parte il cadavere di Hermione. Era una testa pelata, con la nuca imbrattata di gelatina. Sotto gli occhi infossati e il filo di cartilagine che li univa la bocca si spalancò come una trappola. Le mani, ridotte praticamente a poche ossa ricoperte dalla pelle livida, si aggrapparono al bordo della bara per sollevare il corpo nascosto dal cadavere di Hermione. Rowan sapeva che era la morte, scarna e sghignazzante, che si trascinava centimetro dopo centimetro verso di lei, per afferrarla e trascinarla nella tomba. La bambina si buttò indietro, ma troppo velocemente. I piedi persero la presa sul terreno scivoloso, barcollò vistosamente verso la croce e cadde, sbattendo violentemente la testa contro la lapide di granito. L'ultima cosa che vide, mentre tutto intorno a lei svaniva, fu Vicky che la guardava trionfante. 23 Alle nove e trenta, Derek cercò uno spettacolo televisivo da guardare, più per Alison che per se stesso. Era colpa sua se si era preoccupato: dopotutto aveva attaccato la sua famiglia, facendola innervosire. Non l'avrebbe certamente fatto se avesse saputo che sarebbe stato tanto difficile mettersi in contatto con Hermione. Forse lei e Rowan erano andate a trovare qualcuno, o magari si erano fermate in negozio, dove non c'era il telefono: in ogni caso, che cosa poteva capitare loro a Holywell? Sarebbero tornate a casa presto, ripetè a se stesso per convincersi, e al termine dello spettacolo televisivo sarebbe riuscito a parlare con loro. Ma la televisione non aveva molto da offrire: tre ore di golf su un canale, l'ultima parte di un film su un altro, un politico e un gerontologo che discu-
tevano sul modo migliore di aiutare le persone anziane e una pausa di un incontro di cricket. Poi trovò inaspettatamente Shane, un film che aveva visto quando aveva l'età di Rowan, ma, mentre si preparava a godersi lo spettacolo, si accorse che era stato doppiato in gallese. Stava per cambiare nuovamente canale, quando Alison sbottò con aria irritata: «Cerca di deciderti, per l'amor del cielo. Ti informo che mi sarebbe piaciuto seguire il programma sulle persone anziane». Non era sicuro che stesse guardando la televisione, rannicchiata con in mano l'ultimo libro che stava leggendo Rowan. Aveva il viso più affilato del solito, oppresso dai troppi pensieri, e chiuso anche nei suoi confronti. Derek si sedette sul bracciolo della sedia, nonostante il suo aspetto fragile. «Ascolta, mi spiace aver detto quelle cose sul conto di tua sorella e degli altri.» Alison si allontapò da lui in modo quasi impercettibile. «Gli altri chi, Derek?» «Sai a chi mi riferisco. Intendevo proprio loro. Cerchiamo di non discuterne più. Volevo solo dirti che mi dispiace averti fatto arrabbiare.» Non era l'unica cosa che sentiva: temeva che il loro matrimonio potesse perdere il suo equilibrio, la sua capacità di far restare calmo uno dei due quando l'altro lo richiedeva, ma non era neppure sicuro che fosse effettivamente ciò di cui avevano bisogno in quel momento. «Mi spiace averti fatto arrabbiare», mormorò di nuovo goffamente. «Va bene, ho capito. Ora, se non ti spiace, vorrei continuare a guardare questo programma.» Derek cambiò canale e si accomodò sulla poltrona. Il medico e il politico stavano ancora discutendo. Non riuscì ad afferrare quello che stavano dicendo: quella discussione assomigliava molto al litigio che aveva avuto con Alison e gli fece venire il mal di testa. Le mani di Alison erano strette sul libro di Rowan, e i pollici strofinavano la copertina come se quel gesto magico potesse far avverare il suo desiderio. Derek chiuse gli occhi e pregò che Hermione li chiamasse, poi sentì la copertina di plastica che scricchiolava sotto la stretta di Alison. Si allontanò silenziosamente dalla stanza. Non doveva perdere la pazienza con Hermione. Avrebbe potuto farle un appunto per non aver detto loro che avrebbe portato Rowan da qualche parte, ma doveva sembrare un rimprovero scherzoso. Contò venti squilli, poi rifece il numero. Questa volta perse il conto dei trilli del telefono che suonavano monotoni, lontani e insignificanti. Vuoti come il cottage.
All'improvviso si domandò perché doveva essere così preoccupato, proprio quando la fortuna sembrava finalmente sorridergli? Spaventato dal suo stesso egoismo, riagganciò la cornetta con violenza, e si precipitò nel soggiorno. «Non me ne frega niente se è tua sorella: avrebbe dovuto dirci dove andavano!» Alison si alzò di scatto, spense il televisore e si girò per guardarlo dritto negli occhi. «Non credi che stia pensando la stessa cosa?» Derek stava forse fingendo di essere l'unico a preoccuparsi per poter far credere di volerla proteggere? «Forse sono rimasto da solo così a lungo da non accorgermi più di avere qualcuno al mio fianco», si giustificò. Lei gli afferrò il braccio con entrambe le mani. «Hai ragione, non dovremmo litigare. Sarebbe un pessimo esempio per Rowan.» «Quando tornerà a casa.» «Cioè domani.» «Potrei andare a prenderla verso le cinque, ti pare? Diremo a Hermione di non prepararle la cena, così potremmo mangiare con lei. Mi piace molto mangiare insieme con voi due, soprattutto ora che Rowan sta diventando grande.» «Anche a me», mormorò Alison con un brivido. «La casa sembra vuota senza di lei.» «Comunque, non abbiamo motivo di preoccuparci, giusto? Hermione non permetterebbe mai che le accadesse qualcosa.» «Preferirebbe morire.» Lo condusse verso il divano e si sedette, fissando la tappezzeria ormai consumata. Respirò profondamente per qualche istante, e poi proruppe: «Quando hai provato a chiamare, ti è parso che il suo telefono potesse essere fuori uso?» «Sembrava fosse a posto, tesoro.» «Probabilmente si sono attardate da qualche parte. Comunque le farò un bel discorsetto, così almeno la prossima volta si ricorderà di dirci dove ha intenzione di portare Rowan. Che ore sono adesso?» «Quasi le dieci.» «Diamole ancora dieci minuti. Anzi, quindici. È probabile che ci chiami appena torna.» Alison si rannicchiò accanto al marito che le mise un braccio intorno alle spalle e appoggiò il viso contro la sua guancia. Una volta, quando Alison abitava ancora al pensionato per infermiere, si erano addormentati in quella posizione e si erano svegliati che era già buio. Derek aveva dovuto calarsi dalla sua finestra, alla chetichella, aspettandosi a ogni momento che
un urlo segnalasse la sua presenza. Ora lui e Alison potevano rimanere l'uno nelle braccia dell'altro a sognare finché volevano, a qualsiasi ora del giorno e della notte, ma fu proprio durante questa sonnacchiosa considerazione che il corpo di Alison s'irrigidì. «È inutile. Sento che c'è qualcosa che non va.» La stanza sembrò oscurarsi all'improvviso, mentre le ombre negli angoli superiori riempivano di chiazze le pareti. «In che senso?» chiese Derek. «Non lo so, ma non m'importa. Non osare dire che è un segno di pazzia, perché non potrei perdonartelo.» «Non ci penso nemmeno, Ali. Ma che cosa potrebbe essere? Se fosse accaduto qualcosa a tua sorella, penso che Rowan ci avrebbe chiamato, oppure sarebbe andata alla polizia e loro ci avrebbero avvisato. Sai che è una bambina giudiziosa.» Alison lo guardò con occhi talmente spenti che Derek non si rese conto che gli stava dando ragione. «Vuoi chiamare la polizia?» propose lui. «Aspettiamo ancora qualche minuto.» Ma si precipitò al telefono quasi immediatamente. Attese con la cornetta all'orecchio lasciandolo squillare più a lungo rispetto a Derek, con la mente che brulicava di pensieri che si accavallavano l'un l'altro: Hermione avrebbe chiamato se avesse visto che si stava facendo tardi, si sarebbe fermata per telefonare, li avrebbe avvisati, se avesse potuto... «Non credo che ci sia una stazione di polizia a Holywell», bofonchiò Alison. «Devono farli arrivare da non so dove.» «Magari non c'è neanche bisogno di loro. Perché non andiamo là direttamente?» «Non possiamo allontanarci tutt'e due. Uno di noi deve rimanere vicino al telefono.» Derek immaginò la moglie, esattamente in quella posizione, per ore e ore. «È meglio che vada io, d'accordo? Ti chiamo appena arrivo.» «Va bene, vai tu», gli disse, cercando di rendere la sua voce più ferma possibile. «Spero che tu vada là per niente», aggiunse baciandolo con foga aggrappata a lui, e poi lo scostò da sé. «Spero di essere irrazionale come mi consideri di solito tu.» Negli ultimi minuti Derek aveva smesso di pensare una cosa del genere, ma decise di non confessarlo alla moglie. Le strinse la mano fino a quando raggiunsero la porta. Alison rimase a guardarlo dall'ingresso illuminato. Oltre le dune, le luci del Galles tremavano. Almeno non sarebbe rimasto ad aspettare la telefonata senza far niente, almeno avrebbe potuto fare un tentativo: eppure, il solo pensiero della strada tortuosa che avrebbe dovuto
percorrere per raggiungere il Galles che si intravedeva in lontananza era riuscito a impensierirlo. Mise in moto la macchina e fece retromarcia. Alison alzò una mano a mo' di saluto, poi chiuse la porta e la casa la inghiottì. 24 Ci doveva essere un motivo per cui Rowan non voleva svegliarsi, se solo se lo fosse ricordato. Se avesse cercato di concentrarsi, si sarebbe svegliata prima ancora di accorgersene. Era meglio rimanere sdraiata nell'oscurità e rimettersi a dormire finché non fosse spuntata la luce del sole che avrebbe reso meno terribili i ricordi: per il momento era meglio starsene buona al buio, ignorando i propri guai, di qualsiasi genere fossero. Il corpo le faceva male in alcuni punti, ma forse sarebbe riuscita a mettersi comoda senza svegliarsi. Si mosse leggermente, solo per sgranchirsi le gambe e spostare le lenzuola. Non era nel suo letto. Era duro e troppo freddo, forse le coperte erano cadute. Stava per svegliarsi in un letto che non era il suo, pensò con timore, non avrebbe potuto correre dai suoi genitori per farsi coccolare. Ma allora doveva essere nel suo letto a casa di Hermione e poteva andare dalla zia: ma improvvisamente si ricordò l'incubo. Il pensiero di Hermione le riportò alla mente quella sensazione di angoscia e Rowan tentò di scacciarla, svegliandosi immediatamente. Poi cercò di rifugiarsi ancora nel buio, ma non le servì a cancellare ciò che aveva davanti agli occhi. Non era a letto, era sdraiata sull'erba gelata. Pochi metri più in là, un salice ondeggiava. Tra i suoi rami si intravedeva la luce proiettata da un lampione, che si trovava sul marciapiede oltre la cancellata. Sottili lingue di luce si riflettevano sull'erba, illuminando qua e là le croci e le lapidi, che davano l'impressione di essere le fonti della luce grigiastra. Rowan era nel cimitero. L'incubo era realtà. Voleva disperatamente nascondersi, anche se non si ricordava ancora da che cosa stesse fuggendo. Ma si sentì paralizzata dalla paura. Riuscì ad alzare gli occhi e accanto a lei intravide la croce di granito, contro la quale aveva sbattuto la testa perdendo conoscenza. Il ricordo di quello che era successo le fece sollevare una mano per toccarsi la fronte che, si rese conto, non era ferita come temeva. Improvvisamente si ricordò da che cosa stava fuggendo e si ritrasse, in preda al panico, raggomitolandosi all'ombra della croce. La tomba aperta davanti a lei non brillava più. Sottili ombre si allunga-
vano sul mucchio di terra ai piedi della fossa. Rowan indietreggiò prima di rendersi conto che quelle che vedeva non erano dita che strisciavano sull'orlo della tomba, ma solo i riflessi della luce di un lampione attraverso i rami del salice mossi dal vento. Eppure, prima, qualcosa là dentro si era mosso. E se fosse strisciato fuori mentre lei era svenuta e ora si trovasse più vicino a lei di quanto potesse pensare? Cercò a tentoni la croce, come se aggrappandosi a essa potesse trovare rifugio. Ma le mani affondarono nel terreno, terreno sotto il quale doveva esserci qualcosa simile a quel corpo raggrinzito che aveva visto dimenarsi. Si buttò in avanti, lontano dall'avida terra, verso la tomba aperta. Doveva vedere che cosa c'era là dentro. Era più forte di lei. Si bloccò proprio prima di calpestare il mucchio di terra davanti alla tomba e guardò verso l'interno. La luce della torcia era molto fioca. Rowan dovette sporgersi oltre il bordo della fossa trattenendosi a esso con le mani prima di essere sicura di ciò che aveva visto. Sperò di essersi sbagliata anche quando riconobbe il viso spento di Hermione, che fissava la torcia come in attesa che si consumasse del tutto. Ti prego, fa' che non sia morta, implorò Rowan, ti prego, Signore, fa' che non sia morta. Poi, improvvisamente, si rese conto di ciò che non aveva ancora realizzato a causa del dolore. Nella bara c'era solo il corpo di Hermione. Terrorizzata dall'idea di essere sul punto di gridare, svelando così la sua presenza al cimitero, Rowan fuggì verso il cancello. Mentre oltrepassava il salice e le tombe sbirciò timorosa dietro di sé, poi si ricordò che avrebbe dovuto aver paura anche di Vicky. Sicuramente Vicky sapeva che cosa sarebbe accaduto, ed era per quello che aveva portato là Rowan, assumendo quell'espressione di trionfo dopo averle mostrato quella terribile scena. Chiunque fosse Vicky, Hermione aveva avuto ragione e ora era morta. Il lampione non le era di grande aiuto. La luce era senza vita e illuminava in modo innaturale il cimitero, con le lapidi indefinite e l'erba pietrificata. Rowan uscì correndo dal cancello e cominciò a salire sulla collina, verso le case. Si sentiva leggera, forse perché non aveva più il binocolo. Doveva averlo preso Vicky. Vicky aveva detto che avrebbe cercato di renderle tutto più semplice, anche se probabilmente non era quella la sua vera intenzione. In cima alla salita gli alberi si piegarono verso di lei, come se volessero gettarla in pasto all'oscurità, sulla lingua sinuosa che era la strada. Ma più in basso; oltre il secondo lampione, c'erano delle case. Mentre si precipitava verso la luce, Rowan si sentiva così stanca da non riuscire qua-
si a capire da dove stesse prendendo l'energia per correre. Quando raggiunse le case, si sentì più sola che mai. Le luci dei portici trasformavano i giardini in ombre spaventose, e le case sembravano isole di luce che impedivano l'accesso a Rowan. Un cane ringhiò mentre la bambina correva silenziosamente giù per la collina. Sapeva che non bisognava rivolgersi agli sconosciuti e che non doveva neanche chiedere di telefonare ai genitori, come avrebbe tanto desiderato fare, ma in fin dei conti Gwen ed Elspeth non erano degli estranei. Sicuramente si stavano domandando dove fosse finita. Il solo pensiero la fece sentire così in colpa che si mise a correre ancora più velocemente. Ma davanti alla casa di Gwen ed Elspeth non c'era la macchina. Probabilmente la stavano cercando. Si spaventò nello scoprire che si sentiva meglio ora che non doveva raccontare che cos'era successo a Hermione; non poteva fare a meno di pensare che se avesse dato ascolto agli avvertimenti di Hermione su Vicky, forse la zia non sarebbe morta. Sicuramente non avrebbe dovuto raccontare immediatamente ai suoi genitori che cos'era successo a Hermione; dovevano essere molto preoccupati per lei e sarebbero stati felici di sentirla. Erano da qualche parte, in un punto illuminato dalla luce fioca che brillava nella baia e Rowan avrebbe potuto chiamarli dalla cabina telefonica di Gronant. Le siepi erano agitate dal vento, mentre Rowan si precipitava giù dalla collina, evitando le ombre minacciose. Dopo una curva, la bambina vide la cabina telefonica, situata fra la Gronant Inn e l'emporio, nelle cui vetrine erano esposti cibo per cani e detersivi. Le sembrava già di sentire la voce della mamma. Non importava se era arrabbiata, sollevata o entrambe le cose: lei e il papà ormai dovevano sentire la sua mancanza, nonostante quello che avevano detto quando non si erano accorti che lei li stava ascoltando. Ma a pochi metri dalla cabina si fermò di colpo. Dentro c'era già qualcuno. Le piccole finestrelle quadrate che componevano la cabina telefonica erano imbiancate dal gelo e dalla luce del lampione, ma Rowan riuscì a vedere che la figura all'interno era molto alta. Non doveva scappare soltanto perché, quando la porta si fosse aperta, si sarebbe trovata sola con uno sconosciuto nella strada deserta, o perché si sentiva osservata attraverso il vetro. Indietreggiò lungo la strada. La sottile e lunga macchia nera, che doveva essere la testa, seguì i suoi movimenti. Si accorse che la figura era alta quasi quanto la cabina. Pensò a come doveva sembrare la cabina deposta longitudinalmente sul marciapiede, a come doveva apparire la figura alta e sottile sdraiata lì dentro, pronta a sedersi per mostrare il viso. Improvvisa-
mente Rowan sussultò per il terrore e corse giù per la discesa. La strada divenne più ripida, le curve più strette. La via si snodava fra alte mura di giardini rigogliosi che impedivano alla luce delle case di raggiungere Rowan. La bambina si voltò indietro, terrorizzata dall'idea di vedere l'ombra di una figura allungarsi oltre una curva, ma raggiunse la strada costiera ai piedi della collina senza notare nessun movimento. La strada, immersa nell'oscurità, si diramava in due direzioni: da una parte le colline che si trasformavano in montagne e dall'altra i campi che digradavano verso il mare. Le luci della baia avevano cominciato a scomparire nella nebbia. Una folata di vento notturno la investì come un brivido che sembrava non dovesse mai finire. Rowan guardò, con gli occhi colmi di tristezza, il cartello stradale posto sull'altro lato della strada. Fflint era verso quelle luci lontane, ma lei doveva allontanarsi, doveva dirigersi verso Prestatyn. Là c'era la più vicina stazione ferroviaria. Si girò a guardare le luci di Gronant: aveva paura di allontanarsi, ma soprattutto di vedere un'ombra strisciare o correre verso di lei, giù per la collina. Vinse la paura e s'incamminò sulla strada costiera. Se solo avesse avuto ancora il binocolo avrebbe potuto scorgere il paese dov'era diretta mentre si allontanava. Immaginò le case affacciate sulla baia e per un attimo le sembrò si poterle vedere realmente, anche senza il binocolo. Si tolse quell'idea dalla mente e si inoltrò nell'oscurità. Dopo poco si ritrovò circondata dalle siepi, che fecero scomparire il luccichio fioco delle colline e dei campi. Ben presto si trovò immersa nella vegetazione; macchie di verde sovrastavano la strada come se il cielo nero volesse schiacciarla. Il fruscio delle foglie le ricordava il rumore di oggetti rotti che rotolavano in una scatola. Avrebbe voluto correre in mezzo alla strada, ma la mamma le aveva sempre raccomandato di non farlo. Finalmente le siepi vennero sostituite da alberi sullo spiazzo davanti a un albergo. L'hotel era immerso nel buio. Se le porte fossero state aperte e le luci accese avrebbe chiesto di poter telefonare. Si era resa conto solo in quel momento che forse Gwen era rimasta a casa mentre Elspeth era andata a cercarla. Non sarebbe stato meglio tornare indietro invece che proseguire fino a Prestatyn? Era indecisa e aveva paura di fare la scelta sbagliata, quando sentì arrivare una macchina. Non doveva provare a farsi dare un passaggio. Se la macchina si fosse fermata, non doveva avvicinarsi né tantomeno salirei. Si sentì sollevata quando vide che l'auto proveniva da Prestatyn. Si nascose sul vialetto d'ingresso dell'albergo mentre la macchina rallentava. L'uomo al volante non
l'aveva notata: aveva rallentato solo a causa dell'incrocio davanti all'hotel. Quando la macchina si allontanò dalla costa, la luce dei fari si diresse verso Gronant. Un attimo prima che tornasse il buio Rowan vide qualcosa muoversi sulla strada. Fu solo una visione fugace, ma bastò per terrorizzarla. I fari illuminarono una figura che stava strisciando verso di lei. Sembrava usasse una mano per trascinarsi lungo la strada mentre con l'altra teneva bloccato qualcosa di grigio sulla testa, come se fosse stata una parrucca. Ma, ciononostante, si stava avvicinando molto velocemente. Presa dal panico, Rowan sentì l'urlo che le moriva in gola, si allontanò precipitosamente dall'hotel, dove non pensava di trovare rifugio, e si inoltrò nel buio. Le sembrò di correre per ore verso le prime luci dell'alba e perse il conto del numero di volte che si girò per guardare dietro di sé. Le siepi si agitavano e si allungavano nell'aria come se cercassero di afferrarla, ma Rowan non vide nulla sulla strada. Le colline e i campi sembravano sempre più lontani, come se la notte silenziosa le impedisse di procedere. Il buio le parve persino più profondo quando il luccichio della città cominciò a colorare i campi. La strada girava infine verso un ponte sulla ferrovia. Si lanciò disperatamente sul ponte e si guardò alle spalle. La strada era ancora deserta e le luci della città erano ancora troppo lontane per farla sentire al sicuro. Alla sua sinistra, una strada fiancheggiata da diverse pensioni correva parallela alla ferrovia. A Rowan vennero in mente le passeggiate in città con Hermione, forse era quel ricordo che faceva apparire squallidi e freddi i piccoli alberghi nella luce implacabile. Si ricordava di aver visto molti cartelli stradali in inglese, ma ora erano tutti in gallese, e l'unico cartello che riusciva a decifrare — Y Ffrith, la spiaggia — non le serviva a niente. Se anche avesse trovato un albergo aperto, la gente probabilmente non l'avrebbe capita o si sarebbe addirittura rifiutata di farlo. Si sentiva abbandonata in un paese straniero, e le luci non facevano che aumentare il suo senso di disagio. Ma più avanti c'era un legame con il mondo a lei conosciuto: una cabina telefonica. Si stava frugando in tasca, cercando una monetina, quando si accorse che quel telefono funzionava solo con le schede. Disperata, controllò ancora nelle tasche. Avrebbe dovuto avere il denaro che il papà le aveva dato per il fine settimana, ma doveva averlo perso al cimitero. Non aveva soldi nemmeno per il treno. Non poteva fare altro che andare alla stazione. Sicuramente qualcuno del
personale le avrebbe permesso di telefonare a casa o lo avrebbe fatto al suo posto. Ci si poteva rivolgere agli sconosciuti se questi indossavano una divisa, perché si sapeva chi erano. Si affrettò lungo la strada deserta, dirigendosi verso il cavalcavia, accanto al negozio di scarpe. Era convinta che si chiamasse Cosyfeet Station Shop, ma adesso l'insegna era in gallese. Nella vetrina erano esposte delle pantofole sistemate in modo tale da ricordare gli occhi di Topolino. Rowan si girò, visibilmente agitata, e lesse le parole British Railways all'inzio del ponte. Si sentiva già quasi a casa, poi vide il cartello. Mae British Railways Board yn hysbysu drwy hyn nad eu cyfrifoldeb hwy yw'r llwybr hwn. Non voleva più parlare con qualcuno in uniforme: aveva paura che le facessero delle domande nella stessa lingua incomprensibile del cartello. Doveva cercare di arrampicarsi sul ponte traballante. Oltre quella costruzione, alcune vie fiancheggiate da casette e negozi conducevano verso un punto all'orizzonte dove il cielo buio si congiungeva con le montagne scure. Persino il parcheggio dei taxi davanti alla stazione era deserto. La strada principale era più illuminata della banchina della stazione, ma ormai Rowan si sentiva esausta. S'incamminò faticosamente verso il binario e guardò il cartello sopra la biglietteria. Caer non era forse Chester? Si sedette su una panchina accanto al binario del treno per Caer, voltando le spalle al cartellone con l'orario ferroviario scritto in gallese. Non sarebbe riuscita a dormire, anche se ci avesse provato. Doveva essere talmente stanca da non riuscire più a riposare. Avrebbe potuto guardare il binario sul quale sarebbe arrivato il treno, ma temeva che dall'altra parte potesse sbucare la figura che aveva visto strisciare sulla strada, con una mano appoggiata sulla testa quasi calva. Ogni volta che le catene delle altalene nel campo giochi tintinnavano Rowan si guardava attorno nervosamente, ma non c'erano tracce di Vicky. Cercò di immaginare come la mamma e il papà l'avrebbero abbracciata una volta tornata a casa, ma la notte sembrava non dovesse mai finire. Dovevano essere trascorse parecchie ore quando finalmente l'oscurità cominciò a dileguarsi, lasciando il posto a una luce pallida e fumosa che nascondeva i binari. Quando Rowan si rese conto che era nebbia, questa si era ormai fusa con l'alba, dando origine a una luce grigiastra che avvolse la città scendendo dalle montagne. Ben presto la nebbia fece scomparire la città, isolando Rowan sulla panchina e lasciando scoperti solo pochi metri di binari. Rowan non udiva nessun movimento provenire dalla strada. Se qualcuno o qualcosa si nascondeva dietro quel muro grigio, che sembrava
isolarla dal resto del mondo, Rowan l'avrebbe scoperto solo all'ultimo momento, e sarebbe stato troppo tardi. Infine sentì un suono, un debole respiro che si trasformò in un grido sempre più vicino. Non riuscì a capire da che parte provenisse finché l'immensa locomotiva di un treno non sbucò fuori della nebbia. Rowan si allontanò dalla biglietteria per paura che il macchinista la vedesse e si accoccolò vicino a un cartellone pubblicitario bagnato di rugiada. Ci fu uno stridio di freni, il treno si fermò e il silenzio avvolse nuovamente la stazione. Il treno sarebbe dovuto andare a Chester, ma come faceva a esserne sicura? Sarebbe dovuta andare dal macchinista e spiegargli quanto era accaduto, ma non riusciva a vincere la paura che provava nei confronti degli sconosciuti, anche quelli in divisa. Camminò in punta di piedi fino all'angolo dell'edificio e guardò verso la banchina: la porta di una carrozza a metà treno era aperta. I finestrini erano appannati e Rowan poté solo sperare che dentro non ci fosse nessuno. Si lanciò verso la porta aperta, saltò sul predellino e si nascose tra i sedili ammuffiti. 25 Derek non aveva mai guidato così velocemente: sull'autostrada sfiorò i centocinquanta chilometri l'ora. Rallentò a centoventi in prossimità del bivio per Queensferry e frenò quando raggiunse il piccolo villaggio situato fra Shotton e Flint. Passò davanti a numerose cabine del telefono ed ebbe la tentazione di provare a chiamare, ma si concentrò sulla guida per sentirsi più utile. Durante l'intero tragitto verso il Galles non vide una sola stazione di polizia né una pattuglia stradale. Dovette rallentare quando svoltò sulla strada costiera. Le rovine dei bacini idrici sembravano sprofondare sotto gli alberi maestosi e Derek si ricordò di quanto Rowan amasse passeggiare in quella vallata. L'avrebbe accompagnata lì appena avrebbe avuto un po' di tempo, si ripromise, e quell'idea riuscì ad allontanare un'ondata di panico. Cambiò marcia per affrontare con maggior grinta la salita tortuosa che conduceva a Holywell. Fuori del negozio di Hermione si sentì osservare da molte facce, ma erano solo le maschere appese in vetrina. Sotto la fredda luce proveniente dalla strada il negozio appariva polveroso, come se fosse rimasto chiuso per mesi. Gli abiti che piacevano tanto a Rowan penzolavano senza forma in vetrina. Gliene comprerò uno, si disse, mentre iniziava a salire la collina. Posteggiò di fronte al cottage e trasse un profondo sospiro quando intra-
vide una luce nella camera di Hermione. Sbattè la portiera e si raccomandò di mantenere la calma, prima di girarsi verso la casa. Ora la finestra di Hermione era buia. Anche se avesse dovuto buttarla giù dal letto, non sarebbe stata una cosa terribile: di certo non aveva avuto il tempo di addormentarsi. S'incamminò rapidamente verso il cottage e si rese conto che la luce non era altro che il riflesso del lampione. Suonò il campanello e rimase in attesa; poi lo pigiò con aria decisa, bussando furiosamente con l'altra mano. Quando si calmò, udì solo il rumore del vento gelido che soffiava. Si sentì le mani improvvisamente umide e ghiacciate e la bocca completamente arida. Avrebbe potuto chiedere ai vicini se per caso sapevano dove fosse finita Hermione, ma tutte le villette della zona erano immerse nell'oscurità, anche se non era ancora mezzanotte. Arrancò faticosamente fino alla finestra della cucina. Appoggiò il viso contro il vetro, che si appannò rapidamente: sopra il lavandino in acciaio, con il rubinetto che sgocciolava, erano state sistemate le pentole e le padelle luccicanti. Oltre il vetro, cadde una goccia silenziosa. Sentendosi completamente privo di idee su ciò che era meglio fare, Derek si avvicinò alla porta che dava sul retro. Era aperta. Hermione si era probabilmente dimenticata di chiuderla, ma allora dove stava andando con tanta fretta, insieme con Rowan. E se fosse crollata? Afferrò con forza la fredda maniglia di metallo e spalancò la porta. Cadde un'altra goccia, producendo un rumore sordo. Accese la luce al neon e la cucina s'illuminò come un immenso freezer. Si precipitò nella stanza principale e si sentì invadere da un odore di carta vecchia proveniente dall'oscurità. Cercò a tastoni l'interruttore e osservò l'interno del locale. Le piante reclinavano i pochi fiori appassiti sulle mensole del camino e sul davanzale delle finestre, mentre le ombre si proiettavano come enormi ragnatele, oscurando l'intonaco. L'odore proveniva da un vecchio album di fotografie appoggiato sulla credenza gallese. Si ricordò che Hermione aveva contraffatto la scritta sulla foto e sentì lo stomaco contrarsi mentre si precipitava su per le scale. Le stanze erano deserte. La camicia da notte di Rowan era appoggiata sul letto. Da ora in poi si sarebbe assicurato che Rowan si addormentasse, prima di andarsene, si ripromise, avviandosi con passo malfermo verso il telefono. Se avesse parlato con Alison, avrebbe dato sfogo alle paure che stava ancora cercando di nascondere. Poi l'occhio gli cadde sulla lavagnetta appesa sopra il telefono. Tra i numeri scritti nell'elegante calligrafia di
Hermione c'era anche quello di Gwen ed Elspeth. Forse Hermione aveva parlato loro dei suoi progetti per la serata? Afferrò la cornetta e compose il numero di Gronant. Il telefono non fece in tempo a squillare che qualcuno rispose, in gallese. Quella tempestività, unita all'impazienza del tono della donna, lo fece innervosire. «Parla inglese?» chiese, sperando di non averla offesa. «Voglio dire, mi scusi. Ho chiamato il numero giusto, vero? È lei che lavora per Hermione, no? Sono suo cognato. » «Quindi si tratta di Rowan.» «Esatto», esclamò, sentendosi invadere da una nuova ondata di panico. «È lì da lei?» «No. Perché?» «Lei è suo padre, non è così?» bofonchiò la donna, quasi in tono d'accusa. «E allora perché mi ha chiamato?» Non aveva intenzione di danneggiare la reputazione di Hermione, ma doveva sapere la verità. «Rowan doveva essere con Hermione, ma è tutto il giorno che non abbiamo notizie. Pensavo che lei potesse avere un'idea di dove siano finite.» «Erano qui da noi. A proposito, sono Gwen.» La donna rimase un attimo in silenzio, prima di proseguire. «Hermione ha lasciato Rowan da noi, perché doveva andare a trovare qualcuno in albergo. Ma laggiù non ne sanno niente, quindi presumo che non ci sia mai andata.» Derek ebbe paura a rivolgerle la domanda che doveva necessariamente seguire. «Dov'è Rowan?» «Conosce una sua amica di nome Vicky?» «Sì», mormorò, con la fronte improvvisamente imperlata di sudore. «Allora saprà anche dove abita», proseguì Gwen con aria sollevata. «Rowan è andata a casa sua.» «Le spiace spiegarsi meglio? Chi ce l'ha portata? Vicky abita dalle parti di Waterloo. Come ha fatto Rowan a fare tutta quella strada, e perché non è ancora tornata?» «No, Vicky abita qui vicino. Sono sicura perché me l'ha detto lei. È stata Rowan a voler andare a casa sua», continuò, cercando di difendersi. «Ha lasciato uscire Rowan di notte, con una bambina della sua età e non le ha neppure chiesto dove stavano andando?» «Mi spiace, so che non avrei dovuto farlo. Noi non abbiamo bambini. Elspeth le sta cercando da parecchie ore. Ha detto che avrebbe chiesto ai vicini.»
Derek si rese conto che la donna era davvero scossa, ma non voleva essere privato delle sensazioni che gli spettavano di diritto. «Avrebbe dovuto chiamare la polizia. Lo farò io.» «Dove la posso trovare, nel caso Rowan ritorni?» «Da Hermione.» «Rimarrà lì?» «Sì», disse, sentendosi intrappolato, poi si fece dare il suo indirizzo. Tolse la comunicazione e cercò il numero della polizia; lo compose con estrema cautela, come se volesse ritardare il momento in cui avrebbe dovuto parlare. L'agente che gli rispose doveva essere mezzo addormentato, perché gli rivolse le domande in modo incredibilmente lento. Era il padre della bambina? Come si chiamava la bambina? Qual era l'indirizzo della bambina? Da dove stava chiamando? Che cosa ci faceva lì? Qual era l'indirizzo della casa da cui era scomparsa la bambina? Chi gli aveva comunicato la scomparsa della bambina? Che motivi aveva per credere che fosse scomparsa? Aveva controllato a casa dell'amichetta? A ogni domanda Derek sentiva la testa scoppiare, invasa dal terrore. «Manderemo qualcuno appena possibile», concluse l'agente. A Derek non rimase altro che chiamare Alison. Il telefono squillò solo una volta nella casa di Waterloo. «Pronto?» La fretta della moglie lo colse di sorpresa. «Sono Derek, ti chiamo dalla casa di Hermione. Qui non ci sono. Sono andate a trovare le due donne che lavorano in negozio, poi tua sorella si è recata da qualche parte. Hanno lasciato che Rowan andasse con questa Vicky senza nemmeno farsi dare l'indirizzo. Ho già chiamato la polizia.» «Era proprio necessario?» «Forse sì, non credi? Insomma, tu che cos'avresti fatto? Solo... solo per stare tranquilli.» «Ma certo, anch'io avrei fatto lo stesso. Vicky ha dei parenti da quelle parti, no? Dev'essere così, perché è là che l'ha conosciuta Rowan. E ci sarà pure qualcuno che li conosce. Perché non rimani lì da Hermione, nel caso telefonasse qualcuno? Io resterò qui.» «Chiamami se ti senti sola.» «Non dire così, altrimenti mi sento già sola. Cerchiamo di telefonarci solo se ci sono novità, d'accordo? E lasciamo libera la linea.» «Allora buonanotte per adesso, Ali. Non...» Inghiottì l'avvertimento che gli stava sfuggendo dalle labbra e che l'avrebbe fatta sentire ancora peggio. «Ti amo», le sussurrò.
«Anch'io ti amo e Rowan ci vuole bene e sono sicura che quando diventerà grande rideremo ripensando a questa notte.» «Puoi ben dirlo», esclamò con aria decisa, cercando di controllarsi fino al termine della telefonata. Improvvisamente si chiese se Rowan non avesse per caso lasciato un messaggio, ma nella stanza trovò solo un diario. Sull'ultima pagina, corrispondente a quella giornata, aveva scritto che Hermione le aveva mostrato una fotografia che ricordava incredibilmente Vicky. Quell'idea alimentò il suo terrore e la vista di quelle poche righe ben ordinate gli fece quasi venire le lacrime agli occhi. Stava ancora frugando nel cottage, per evitare di continuare a tormentarsi, quando arrivò la polizia. La bambina e la sua amichetta erano già andate a spasso da sole prima di quella volta? Aveva forse qualche motivo per nutrire sospetti su Vicky o sui suoi famigliari? Aveva idea di dove potesse essere finita la zia della bambina? Poteva dare loro una foto di Rowan? Ce n'era una incorniciata nella stanza di Hermione. «Non si preoccupi, ci metteremo in contatto appena sapremo qualcosa», lo tranquillizzò l'agente al volante. Derek stava ancora fissando il punto in cui i fari della pattuglia avevano squarciato la notte, quando una donna di circa sessant'anni si affacciò dalla finestra del cottage vicino, stringendosi la cintura della vestaglia. «Lei è il cognato di Hermione, vero? È successo qualcosa?» «Ha portato mia figlia a Gronant ma nessuno sa dove siano finite», borbottò Derek, come se dover ripetere la stessa storia più volte lo facesse sentire ancora peggio. «Vuole entrare a bere qualcosa, o preferisce che venga io da lei? Tanto ormai sono sveglia. Mio marito deve andare a lavorare.» «Allora non le spiacerebbe rimanere qui per un po'? Sa, forse so dove può essere finita Hermione, ma non credo che valga la pena avvisare la polizia visto che posso andare a controllare da solo.» «Devo prima aspettare che mio marito se ne vada.» Derek chiamò Alison. «Non ci sono novità, tesoro. Ora se ne sta occupando la polizia. La vicina di Hermione rimarrà qui a casa mentre io vado a vedere se riesco a trovare tua sorella.» «Hai intenzione di dirmi dove stai andando?» «Ho l'impressione che sia andata a cercare quel medaglione», rispose con aria volutamente evasiva. Il silenzio di Alison fece nascere in lui il desiderio di stringerla fra le braccia anche se, così facendo, lei si sarebbe sicuramente accorta del terro-
re che lo attanagliava. «Forse hai ragione», ammise lei. «Cerca di metterci lo stretto indispensabile, d'accordo? La prossima volta presterò maggiore attenzione a quello che dirai su di lei.» «Non ti preoccupare, amore», sussurrò Derek, mandandole un bacio. La plastica della cornetta gli parve viscida a contatto con le labbra. Stava indugiando intorno al telefono quando arrivò il lattaio per informarlo che sua moglie sarebbe arrivata appena si fosse vestita. La donna si presentò poco dopo con un lavoro a maglia e Derek le diede il numero di Alison, nel caso ci fossero state novità. «Faccia pure con comodo, qui ci sono io», lo rassicurò. Il vento era cessato. Una leggera nebbiolina copriva i campi oltre la strada e sembrava attenderlo dove i fari non riuscivano a diffondere la loro luce. L'idea che Rowan potesse essere in giro in una notte come quella lo costrinse quasi a tornare a casa di Hermione: se la bambina avesse chiamato in cerca di aiuto, almeno avrebbe udito una voce familiare. Ma se Hermione aveva davvero una foto di Vicky, era probabile che avesse anche scoperto dove abitava. Mentre si dibatteva nel dubbio, continuò a guidare, pigiando il freno quando vide una figura minuscola ritirarsi verso il ciglio della strada. Ma era solo il paletto di un cancello che si perdeva nell'oscurità. La strada si arrampicò verso Gronant e, quando uscì dalla coltre di nebbia, Derek vide alcune luci che tremavano in cima alla salita, sotto le fronde degli alberi. Avevano iniziato a cercarle, pensò, sforzandosi di essere ottimista; poi vide che le luci appartenevano a una macchina della polizia e a un'ambulanza. Mentre continuava a salire, gli sembrò di essersi lasciato il cuore alle spalle. Dovette posteggiare prima di raggiungere gli altri veicoli, perché le mani non erano più in grado di controllare il volante. Poi vide due uomini che trasportavano una barella. S'incamminò faticosamente, mentre le lapidi sembravano ondeggiare colpite dal fascio di luce dell'ambulanza. Aveva quasi raggiunto l'entrata quando un agente con il viso tremolante sotto la luce bluastra gli sbarrò il passo, rivolgendogli la parola in gallese. Poi proseguì: «Posso fare qualcosa per lei, signore?» I due infermieri avevano appoggiato a terra la barella e si stavano avvicinando a una tomba. Stavano per deporre un corpo sulla barella, come se la vita fosse miracolosamente tornata a scorrere. «Che cos'è successo?» balbettò Derek. «Non sono autorizzato a dirglielo, signore. Per favore, si allontani.» «Devo vederla. Può darsi che la conosca.» Derek non riusciva quasi a
parlare e pregò il cielo che la figura distesa sulla barella non fosse Rowan. «Quella è la tomba della famiglia di mia moglie.» Arrivò un secondo agente e si mise a confabulare in gallese con il suo collega. Alla fine, quello che aveva bloccato Derek gli disse: «Forse è meglio che venga a vedere se è in grado di identificarla». Derek aveva già visto abbastanza e maledì l'ondata di sollievo che l'assalì. Il corpo che quegli uomini stavano estraendo dalla tomba non era sicuramente quello di Rowan. Attraversò di corsa il cimitero e la sua ombra bluastra si proiettò in avanti, fino ad arrestarsi nei pressi del salice. Hermione sembrava stesse urlando in un incubo dal quale non riusciva più a svegliarsi. Uno degli infermieri stava cercando di chiuderle la bocca e Derek temette che le rompesse la mascella, soprattutto quando ebbe l'impressione che si fosse mossa. Sarebbe caduto ai piedi del salice se un agente non l'avesse afferrato per un braccio. «È la sorella di mia moglie», bisbigliò. L'infermiere le coprì il volto con un lenzuolo e la barella fu sistemata sull'ambulanza. Mentre un agente portava alcune assi per coprire la fossa, Derek si avvicinò barcollando alla tomba e vi lanciò un'occhiata. Alla vista della sagoma calva e annerita, rannicchiata in un angolo biancastro della bara, Derek fece un salto indietro, visibilmente disgustato. Gli agenti chiusero la bara, sistemarono il coperchio improvvisato e, con grottesca burocrazia, appoggiarono i cartelli con la scritta «Divieto di Sosta» agli angoli opposti alla colonna di marmo. Derek fu colto da un'ondata di nausea e chiuse gli occhi fino a quando udì un agente che gli stava parlando. «Se vuole seguirci, appena è pronto, signore... dovrebbe presentare la sua deposizione alla stazione di polizia.» Derek si sforzò di aprire gli occhi. «Devo trovare mia figlia.» «Può raccontarci tutta la storia alla centrale, e forse saremo in grado di aiutarla. Ma la prego, non rimanga qui.» Com'era possibile che non sapessero nulla di Rowan? Forse erano stati chiamati al cimitero prima che Derek avvisasse la polizia? Lo aspettarono al cancello, bofonchiando qualcosa in gallese. Dovevano dargli la possibilità di rendersi conto di ciò che aveva visto, ma sembrava quasi che dubitassero di lui. Se Derek li avesse avvisati di averli già chiamati per la scomparsa di Rowan, sicuramente l'avrebbero lasciato andare. Derek sentiva la gola pulsare, come scossa da un conato di vomito e si girò verso il cancello, oltrepassando l'ombra del salice. L'albero sembrava inghiottire la luce dei lampioni e dei veicoli. L'oscurità lo avvolse completamente, come
una grande onda scura e una minuscola manina pallida l'afferrò per un braccio. 26 Appena la stazione si allontanò nella nebbia, Rowan si precipitò sul sedile più vicino. Chiunque avesse chiuso la porta dall'esterno, non avrebbe potuto vederla. Era sfuggita a Vicky e a qualsiasi altra cosa l'avesse inseguita da Gronant. Sarebbe stata al sicuro fino a Chester, poi avrebbe dovuto cambiare treno. I sedili marroni sbiaditi sembravano ondeggiare sotto là luce tetra che proveniva dai finestrini incrostati di sporcizia. Il treno puzzava di vecchio, di umido e di stantio. Per quanto ne sapeva, era sola, a eccezione del macchinista. Le automobili si rincorrevano oltre le porte che congiungevano le carrozze, come se si sforzassero di mettersi in fila e la fecero sentire ancora più a disagio. Poteva fidarsi del treno, ma avrebbe preferito vedere dove stava andando, e si augurò che la nebbia le consentisse perlomeno di scorgere casa sua. Cercò di ripulire i vetri sporchi, ma anche alitandoci sopra non riuscì a vedere assolutamente nulla. Lo sporco aveva ricoperto il lato esterno dei finestrini e oltre a questi si estendeva la nebbia. Ciuffi di erba bagnata spuntavano qua e là dalla coltre bagnata, delineando i prati e un campo da golf, poi, lungo la strada ferrata, apparve la baia che il treno costeggiò per parecchi chilometri. Normalmente sarebbe riuscita a vedere Waterloo, ma ora riusciva a individuare solo la striscia di mare, con le grandi onde grigie e lente che sembravano appiattite dalla fitta nebbia. Ebbe l'impressione che i nomi a lei tanto familiari, Waterloo, Crosby, Bootle, Seaforth e Litherland, fossero stati spazzati via da quel tempo orribile. Immediatamente i campi spinsero lontano il mare per essere inghiottiti a loro volta dalla nebbia. Il treno sembrava incredibilmente piatto, simile a una sagoma di cartone e quasi inconsistente, come sul punto di sgretolarsi. Rowan non si rendeva esattamente conto di dove si trovasse e aveva il terrore di non riuscire ad allontanare il ricordo di quella notte, l'angoscia di quell'incubo che doveva assolutamente dimenticare fino a quando non fosse giunta sana e salva a casa. Neppure i cespugli che spuntavano qua e là nella nebbia, con le foglie tendenti al giallo, all'arancio e al rosso, sembravano più reali di un film proiettato sullo schermo del finestrino. La prua di una nave si delineò
oltre il treno, con la chiglia in secca sull'erba umida. Era un ristorante, ed Hermione le aveva promesso che ce l'avrebbe portata quando sarebbe diventata un po' più grande. Ma un attimo più tardi la sagoma fu inghiottita dalla nebbia, come se non fosse mai esistita. Alcuni edifici facevano capolino tra la foschia, sul lato opposto al mare che si stava ritirando e i depositi scuri e privi di finestre spuntavano presuntuosi simili a immensi scatoloni. Oltre quelle costruzioni, Rowan intravide le luci della strada che il padre percorreva sempre per accompagnarla da Hermione, ma ben presto le case circondate da giardini bui come la notte e racchiusi da muri di mattoni, fecero sprofondare la strada nell'oscurità. Le finestre illuminate diffondevano immagini sfuocate, simili a programmi televisivi: un uomo si strofinava il viso appena rasato, una donna cullava un bambino fra le braccia e un vecchio si trascinava da un locale all'altro della casa accendendo le luci. Era troppo presto perché i bambini fossero già svegli, pensò Rowan, e probabilmente se fosse salito qualcuno sul treno per Flint si sarebbe chiesto che cosa ci facesse una ragazzina in giro a quell'ora. Il treno entrò in stazione e Rowan si stava chiedendo se non sarebbe stato meglio nascondersi in bagno quando si accorse che il treno non aveva rallentato. Proseguì a tutta velocità attraverso la stazione di gesso e si tuffò nella nebbia. Non importava sapere dove si fermava, a condizione che lo facesse a Chester. Il treno sfrecciò davanti a un vecchio scalo merci e una motocicletta parve osservarla dalle tenebre; gli alberi carichi di umidità autunnale s'innalzavano nella nebbia mentre gli edifici sembravano perdersi nel paesaggio offuscato. Il treno si avvicinò a Shotton, con le case raggruppate attorno alla ferrovia e fischiò in prossimità della stazione. Chester era l'unica cosa importante, si ripetè Rowan, ma se il treno non fosse stato adibito al trasporto dei passeggeri, a quell'ora del mattino? Se avesse cominciato il servizio regolare solo dopo aver superato la città di Chester? Premette il viso contro il finestrino mentre il treno continuava la sua corsa verso Shotton, e pregò che si fermasse alla stazione, solo per essere più sicura. Le case scivolarono via, lasciando il posto a una banchina dello stesso colore della nebbia. Il treno non rallentò: non c'era nessuno lungo il binario. Rowan si appoggiò al sedile, stropicciandosi la faccia per scacciare la spiacevole sensazione di freddo che le aveva trasmesso il finestrino, quando una figura si precipitò verso di lei, sbucando dalla banchina sommersa dalla nebbia. Mentre il treno sfrecciava, Rowan riuscì a vedere di sfuggita una figura
in divisa con i capelli grigi che le sfioravano le spalle. Era felice che il treno non avesse rallentato. Poi, quando la carrozza si infilò in una galleria al termine della banchina, Rowan udì una porta che sbatteva in fondo al treno. Nessuno sarebbe potuto salire a quella velocità, eppure in fondo al treno c'era qualcuno. Rowan si raggomitolò sul sedile e si guardò attorno, attraverso le porte che conducevano alle altre carrozze. La nebbia la sommerse da entrambi i lati, trascinando con sé i pali della luce e le zolle d'erba grigiastre. Oltre le porte non si muoveva nulla, a eccezione delle carrozze che sobbalzavano. Rowan si staccò dalla parete tappezzata che appariva flaccida e umida per incamminarsi lungo il corridoio, quando vide una figura che veniva verso di lei. Indossava una divisa scura e un berretto con la visiera. Dapprima Rowan non riuscì a distinguere altro, mentre cercava di scacciare la sensazione di panico, che le suggeriva di correre a nascondersi dopo aver osservato attentamente... correre a nascondersi... Le due carrozze poste fra lei e quella figura sembravano concentrarsi nella sua visione confusa, mentre si agitava freneticamente avanti e indietro. Doveva essere il macchinista, pensò Rowan, che non si era mai allontanato dal treno. Forse non le avrebbe permesso di telefonare a casa, ma sicuramente avrebbe chiamato lui stesso i genitori, che avrebbero provveduto a pagare il biglietto. Perché allora sentiva il terrore crescere dentro di sé, mentre la figura avanzava barcollando verso di lei, lungo la carrozza che appariva priva di luce e decisamente tetra? Si trascinava come una scimmia, aggrappandosi ai sedili su entrambi i lati e oscillando nel corridoio, con i lunghi capelli grigi che sfuggivano dal berretto. Arrivò fino alla prima porta e Rowan notò che dovette aggrapparsi con forza al vetro prima di riuscire ad aprirla. S'infilò nella carrozza adiacente a quella di Rowan e lei poté scorgere il suo viso nascosto dal berretto. Nonostante i capelli arruffati che sfioravano le spalle, aveva il volto paffuto di un bambino. Forse era talmente vecchio da assomigliare a un bambino, o forse dipendeva solo dal fatto che il viso, rotondo e pallido come la pancia di un serpente, appariva flaccido e decadente. L'unica cosa di cui Rowan era assolutamente certa era che quella figura racchiudeva in sé tutto ciò di cui aveva terrore. Rimase a osservarla assolutamente impotente, mentre si avvicinava dondolando. La figura alzò le gambe e Rowan notò le sottili caviglie nude, bianche e chiazzate, dalle quali penzolavano le scarpe che ogni volta che la gamba si sollevava, sembravano sul punto di cadere. Rowan vide
anche con quanta delicatezza doveva aggrapparsi ai sedili, poiché le unghie annerite erano lunghe quasi quanto le dita. Era a pochi sedili da lei, e decisamente troppo vicina perché la bambina potesse fuggire, ammesso che fosse riuscita a muoversi. Poi la figura la fissò con i suoi occhietti rosei, mentre un sorriso malvagio appariva sulla bocca sdentata. Rowan soffocò un grido e fuggì verso il fondo della carrozza, finendo quasi lunga e distesa. Si precipitò lungo il corridoio, cercando di non sbattere contro i sedili ed evitando persino di toccarli. Rischiò nuovamente di cadere mentre si allungava verso la porta che si collegava con l'altra carrozza. Il movimento del treno facilitò l'apertura della porta, e la bambina si voltò in preda al terrore per scoprire quale distanza avesse posto fra lei e chiunque la stesse inseguendo. Il fragore del treno doveva aver coperto il rumore delle porte, poiché il viso di quel bambino era talmente vicino da poterlo toccare; le stava sorridendo da sotto il berretto, appoggiato sui capelli arruffati, e la lingua gonfia e sporca di terra inumidiva le labbra rinsecchite. Questa volta non poté neppure gridare. Indietreggiò nel vano tra le due carrozze, barcollò sulla passerella mentre il treno procedeva sferragliando, scivolò attraverso lo spiraglio aperto e afferrò la maniglia interna con entrambe le mani, mentre la porta sbatteva, richiudendosi. Si appoggiò alla maniglia con tutta la forza che le era rimasta, per tenere chiusa la porta, ma aveva l'impressione che avrebbe potuto cedere da un momento all'altro. Pregò che la porta non si muovesse, sollevò la testa e si sforzò di guardare attraverso il vetro. Quel viso infantile era premuto contro il finestrino, dall'altra parte del vano che separava le due carrozze. La lingua annerita penzolava flaccida dalla bocca sorridente e si agitava contro il vetro. Il berretto era scivolato in avanti e nascondeva quasi gli occhi. Voleva solo spaventarla, si ripetè Rowan, cercando di convincersi, proprio come aveva fatto Vicky. Pensò di fuggire in qualche modo, abbandonando il treno come per magia, e si aggrappò disperatamente alla maniglia come se volesse allontanare da sé quella tentazione. Poi vide le lunghe unghie scheggiate e chiazzate strisciare attorno allo stipite dell'altra porta, un attimo prima che la carrozza sprofondasse nell'oscurità. Il treno era stato inghiottito da una galleria, le cui alte pareti erano ricoperte di muschio umido ed erbacce. Il treno continuava la sua corsa verso Chester. Se fosse riuscita a tenere chiusa la porta fino a Chester sarebbe stata salva: ma si era appena resa conto di ciò che l'aspettava fra la galleria
e la stazione. Rowan strinse gli occhi e afferrò la maniglia con tale forza da non riuscire a distinguere le proprie mani dalla sbarra di metallo. In mezzo al ruggito sordo del treno Rowan udì un rumore più sottile, e poi qualcosa di pallido le premette sul viso. Era la luce del giorno, e ciò significava che il treno era uscito dalla galleria o, perlomeno, dalla prima delle due gallerie. La seconda doveva essere decisamente più lunga, perché Rowan era ancora immersa nel buio quando la porta iniziò a schiudersi lentamente, sfuggendo alla sua stretta. La bambina cercò di usare tutta la forza che le era rimasta pregando di riuscire a resistere fino a quando il treno non fosse sulla banchina, ma la porta si stava lentamente schiudendo con un orribile cigolio, e Rowan sentì che non ce l'avrebbe fatta ancora per molto. Concentrò le forze per chiudere la porta sulle dita dalle unghie lunghissime che si stavano infilando nella fessura. Sarebbero state sicuramente in grado di afferrarla, tenendola ferma mentre quel bimbo dagli occhi rossastri appoggiava il viso contro il vetro, pronto a cingerla con le sue braccia. Improvvisamente ebbe la tentazione di mollare tutto, senza più preoccuparsi né della porta né di Vicky: avrebbe dato tutto l'oro del mondo per trovarsi da qualche altra parte, ma si rese conto di non avere nessun piano in testa. Poi la luce grigiastra si insinuò sotto le sue palpebre chiuse e la porta le sfuggì di mano. Rowan si sentì cadere all'indietro e si afferrò alla prima cosa che le capitò a portata di mano: era qualcosa di morbido, coperto di stoffa, pensò che non avrebbe mai avuto il coraggio di riaprire gli occhi, ma alla fine ci riuscì e vide che si era aggrappata a un sedile. Era di fronte alla porta, che si era chiusa di nuovo. Non c'era traccia del suo inseguitore, a eccezione di una macchia di saliva nel punto in cui aveva premuto le labbra contro il vetro. Corse alla porta più vicina che le avrebbe permesso di scendere... se il treno si fosse fermato. I furgoncini della posta luccicavano come se fossero stati appena dipinti, poi, finalmente, apparve la stazione. Il treno stava rallentando. Rowan pregò che si fermasse e la supplica era tanto disperata da risultare priva di parole. La nebbia aveva invaso le banchine, sulle quali si scorgevano a fatica sagome indistinte, perlopiù in divisa. Quella scena minacciava di paralizzarla. Appena il treno si avvicinò alla banchina, Rowan saltò. Dovette correre lungo il binario per non perdere l'equilibrio e le parve molto più sicuro continuare a correre piuttosto che fermarsi. Andò a sbattere contro parecchi uomini in divisa, ma non osò alzare lo sguardo su di lo-
ro, e questi non parvero neppure accorgersi di lei. All'uscita non c'era nessuno che controllasse i biglietti. Rowan passò davanti a una bancarella chiusa e si precipitò in strada, lanciando un'occhiata piena di terrore alle sue spalle per assicurarsi che nessuno l'avesse seguita. All'uscita della stazione, alcuni gradini conducevano direttamente sul cavalcavia sopra i binari e un cartello stradale luminoso indicava la direzione per Liverpool, dall'altra parte del ponte. Rowan corse in cima alla scala e fissò la strada deserta davanti alla stazione, prima di precipitarsi lungo il ponte. 27 Alison aveva finito di parlare con Derek da soli cinque minuti quando provò il desiderio di richiamarlo. Anche ammesso che fosse riuscito a trovare Hermione, che cosa avrebbe potuto fare, a parte accanirsi contro di lei per aver inseguito la propria ossessione invece di prendersi cura di Rowan? Non si stava comportando anche lui esattamente nello stesso modo? Doveva essere talmente convinto delle sue idee da prendere al volo l'opportunità offertagli dalla vicina che aveva accettato di rimanere a casa di Hermione. Alison appoggiò la caffettiera sul lavandino, chiuse il rubinetto dell'acqua e corse verso il telefono posto nell'ingresso. La donna che rispose ripetè il numero di telefono con una lentezza incredibile: probabilmente lo stava leggendo direttamente dall'apparecchio. «Mio marito è ancora lì?» chiese Alison. «Sono la sorella di Hermione.» «Non si preoccupi, cara, suo marito è uscito solo un attimo. Perché non cerca di dormire un po'? È inutile rimanere tutti svegli. La chiamerò appena ci saranno notizie.» «Grazie», borbottò Alison, cercando di allontanarsi dal telefono per sfuggire alla tentazione di chiamare i suoi genitori. La mancanza di sonno le aveva reso la testa vuota come la casa, con il cervello inutile come l'ultimo piano, ma dormire equivaleva a dimenticare Rowan. Riempì la caffettiera e aspettò che l'acqua bollisse, si versò una tazza di caffè e ne bevve un sorso che le ustionò le labbra, poi le parve di non avere più nulla da fare, tranne abbandonarsi ai pensieri più angosciosi. Si sentiva come se al mondo non esistesse altro se non il terrore che l'aveva svegliata più volte nel profondo della notte. Avrebbe dovuto insistere per conoscere Vicky quando le si era presentata l'opportunità. Avrebbe sicuramente scoperto molte più cose sul suo conto se non si fosse messa a discutere con Hermione dell'ossessione che provava nei confronti di quella
bambina. A ogni modo, Rowan non sarebbe potuta essere davvero da Vicky? Forse proprio in quel momento Rowan stava sognando beatamente, e con la luce del giorno sarebbe tornata a casa. Alison ingoiò il caffè rimasto e aprì le tende del soggiorno per osservare la casa di Jo. Le luci erano ovviamente spente a quell'ora del mattino. Se qualcuno avesse visto Alison in quel momento, l'avrebbe scambiata per una delle tante vecchiette che gironzolano per casa perché non riescono a prendere sonno. Fissò le case con le porte chiuse e vide l'auto di Eddie. Avrebbe potuto farsela prestare quando Eddie fosse andato da loro per continuare il lavoro, se non avesse ancora avuto notizie di Rowan. Non appena fosse spuntato il giorno sarebbe anche potuta andare a chiedere che uno di loro, a eccezione di Patty, rimanesse a casa sua. L'attesa si era fatta ancora più terribile, ora che doveva aspettare qualcosa di più concreto e reale. Si versò un'altra tazza di caffè e si trascinò dalla cucina al soggiorno buio e tetro. I programmi televisivi si erano ormai conclusi da ore e il giornale sembrava pieno di notizie riguardanti bambini che in qualche modo si erano fatti male. Ogni volta che pensava a Rowan, si sentiva attraversare da una fitta di dolore. Arrancò a fatica verso la camera della figlia, nonostante avesse paura a farlo e non osasse pensare al motivo che la spingeva a tanto. Avrebbe voluto distendersi sul letto, nella speranza di sentirsi più vicina a Rowan, ma c'era il rischio che si addormentasse. Fissò il manifesto dei Muppet che Rowan possedeva dall'età di tre anni e gli scaffali stracolmi di libri, sistemati a caso: toglierne uno voleva dire far cadere tutti gli altri. Vide il cassettone che si chiudeva da sempre a fatica, da cui spuntava la punta di un calzettone, e le bambole ricevute nel corso di otto anni, raggnippate nell'angolo vicino al letto. Improvvisamente la stanza le parve così vuota che le venne voglia di piangere e quasi non osò più guardare il letto. Poi notò qualcosa sotto le lenzuola, ben tese sopra il cuscino. Rowan doveva averlo dimenticato quando aveva rifatto il letto. Era un foglio piegato, preso dal blocco con la copertina a fiori che Hermione le aveva regalato per Natale. Era indirizzato «alla mia mamma e al mio papà», e Alison dovette chiudere gli occhi e respirare profondamente prima di trovare la forza di spiegare il foglio. «Cara mamma e caro papà, vi volio bene e non mimporta se non mi comprate molte cose perché non avete tanti soldi. Avreste dovuto racontarmi subito che Babbo Natale non esiste, così non avrei preteso così tanti
regali. Cercerò di non farvi spendere molti soldi e non dovete più darmi la mancia settimanale. Volio solo continuare a vivere insieme ha voi e non mimporta dove. Vi volio bene Rowan» Alison fissò la letterina e la fila di cuoricini disegnati in fondo, e si accorse di avere le mani fredde e irrigidite. Ripensò per un attimo a giovedì notte: qualcuno aveva ascoltato lei e Derek mentre discutevano e ora aveva la certezza che si era trattato di Rowan. Era per quello che aveva chiesto di andare da Hermione. Forse in quel momento non era con Vicky, forse era solo fuggita nella notte, convinta che nessuno le volesse bene. Alison si lasciò sfuggire un singhiozzo, che risuonò nella grande stanza vuota, e alzò gli occhi gonfi di pianto verso il soffitto. Avrebbe voluto pregare, ma sopra di lei c'erano solo le stanze di Queenie, squallide e desolate. Stava respirando a fatica, con il corpo scosso dai singhiozzi, quando squillò il telefono. Riuscì a lasciare andare la lettera, mentre si alzava tremando, con il cuore che batteva all'impazzata. Appoggiò il foglio sul cuscino di Rowan, prestando la massima attenzione. Il telefono era squillato due volte, e Alison si precipitò lungo il corridoio spoglio, aggrappandosi alla balaustra per evitare di cadere sulle scale rovinate. Sollevò il ricevitore e udì una serie di suoni brevi e acuti. Chiamavano da un telefono a gettoni. Doveva essere Rowan. Grazie a Dio stai bene, pensò: rimani dove sei e io verrò subito a prenderti, a costo di svegliare mezza città per farmi prestare una macchina. Udì il suono di un gettone che cadeva, poi la voce di Derek: «Pronto!» «Derek.» Il nome le uscì con un filo di voce. «Che cosa c'è? Dove sei?» «Alla stazione di polizia. Mi hanno suggerito di chiamarti dal telefono a gettoni per fare più in fretta. Ascolta, amore, mi spiace moltissimo. Cerca di stare calma. Hanno trovato Hermione. È morta.» Alison appoggiò la fronte contro le foglioline argentate della tappezzeria e proruppe in un singhiozzo disperato. «Come?» «Era come pensavo. Era andata al cimitero. A scavare, capisci. Dicono che probabilmente è stato un po' troppo per lei, per il suo cuore. Ma...» Cadde la linea. Alison immaginò il marito alla disperata ricerca di un altro gettone, mentre imprecava perdendo forse dei secondi preziosi. Strinse la mano in un pugno tremante e l'appoggiò tra la fronte e la parete, come se
quel gesto potesse aiutarla a mantenere il controllo. Strinse il ricevitore con tale forza contro il viso che il microfono le si conficcò nelle labbra. Il tono di voce del marito le aveva fatto capire che c'era dell'altro, ma che cosa? si chiese Alison terrorizzata. 28 La strada dietro il ponte della ferrovia era costeggiata da alberghi e da alberi semispogli. Ogni volta che Rowan abbassava lo sguardo, il marciapiede inzuppato le catturava la vista in una miriade di colori e disegni. Doveva essere l'ora della messa, perché dagli alberghi usciva senza sosta una fiumana di persone. Le voltavano tutti le spalle e non riuscì a vedere la faccia di nessuno. Di tanto in tanto si lanciava un'occhiata alle spalle, ma non scorgeva nessuno, nessun movimento, a parte la lenta caduta delle foglie morte mescolate alla nebbia che si stava dissolvendo. Correva, ma non si sentiva stanca. Forse non si muoveva tanto rapidamente come avrebbe voluto; e forse era proprio per questo che non riusciva a raggiungere la processione di gente che la precedeva. Comunque non era sicura di volerlo, in quel momento sarebbe fuggita terrorizzata anche davanti a un poliziotto. Gradualmente gli alberghi lasciarono il posto alle case di periferia, in fondo alle quali una rotonda ostruiva la strada. All'incrocio ebbe un'esitazione, poi decise di attraversare, mantenendosi a una buona distanza dalle persone che affollavano la strada immersa nella nebbiolina impalpabile. I vestiti, i capelli e quel poco che riusciva a distinguere della gente che le stava di fronte, luccicavano di bianco sotto la luce del sole che cercava di filtrare. Una seconda rotonda segnava l'inizio dell'autostrada per Liverpool. Fu a quel punto che la processione abbandonò la strada per scomparire lentamente in un campo debolmente illuminato dal sole. Per un istante provò il desiderio di seguirli, inspiegabilmente bramosa e ansiosa alla vista di quelle persone. Era come se s'illuminassero a ogni passo, finché diventarono un piccolo grappolo di luce che svanì nella nebbia. Doveva assolutamente tornare alla sicurezza e alle comodità di casa, dove finalmente avrebbe potuto dormire. Svoltò sulla rampa asfaltata di cemento e proseguì sul ciglio erboso. Era come camminare su una nuvola, su un arcobaleno di stelle luminosissime. L'erba era cosparsa di goccioline d'acqua limpide e cristalline. Se si fosse chinata avrebbe potuto penetrare il mondo intrinseco delle bollici-
ne, ma in questo modo non avrebbe potuto evitare di lasciarsi andare, come le aveva sempre suggerito Vicky. Fu quasi un sollievo quando vide il ciglio erboso che si assottigliava in una striscia sparuta destinata a dividere le due corsie dell'autostrada. Non si vedeva dove andava a finire. La nebbia stava per lasciare definitivamente il posto al sole, che andava a illuminare prati scintillanti e il cartello segnaletico che indicava la distanza da Liverpool: quaranta chilometri. Con l'auto di papà sarebbero stati sufficienti venti minuti, ma a piedi quanto ci sarebbe voluto? Non ha importanza, pensò. Alla fine sarebbe comunque arrivata a casa sana e salva e avrebbe potuto dormire. Lanciò un'occhiata in direzione della rampa per assicurarsi che nessuno la stesse inseguendo e poi si insinuò fra le barriere di divisione che le arrivavano all'altezza della vita, come anche alcuni ciuffi d'erba particolarmente alti. Doveva avere i piedi fradici per l'umidità, ma non si accorse di nulla; aveva camminato tanto a lungo da non sentirsi nemmeno più le gambe. L'unico segno di vita che arrivava fino a quello stretto passaggio era il suono delle campane di una chiesa lontana. Venne assalita dal terrore di rimanere intrappolata in quell'angusto sèntierino dal traffico quotidiano di macchine che sfrecciavano veloci e poco distanziate e si augurò di uscire dall'autostrada il più velocemente possibile, anche se ormai aveva perso tutte le speranze di riuscirci prima del calare della sera. Oltrepassò le colonne di cemento che sostenevano una sopraelevata e i paletti di un cartello di limite di velocità. Pensava di aver percorso solo un paio di chilometri quando si accorse che il sole era già arrivato allo zenit. Attorniata com'era dal cemento e dalle erbacce che le impedivano la vista dei campi circostanti, le pareva di girovagare su una strada ormai chiusa al traffico, dalla quale non sarebbe mai riuscita a uscire. La nebbia si dissolse completamente e il sole illuminò il passaggio con risolutezza, mentre le ombre delle erbacce si agitavano sul ciglio stradale, diventando sempre più scure e sinistre. Abbassò lo sguardo sull'asfalto e iniziò a correre. Nel punto in cui l'autostrada iniziava a inerpicarsi il sole si spostò da destra a sinistra. Dal punto più alto del dosso, riuscì a scorgere Ellesmere Port davanti ai suoi occhi: cilindri giganteschi, che lei supponeva pieni di sostanze chimiche, ammonticchiati come funghi, grigi e bianchi, fiancheggiavano la strada. Ogni cilindro era sovrastato dalla rispettiva ciminiera, più larga di quanto lei fosse alta, e dai comignoli metallici anneriti fuoruscivano fiammate arancioni. Da altri camini più tozzi esalavano spesse nubi di fumo che andavano a incollarsi saldamente sotto la volta del cielo. Il
panorama di metallo, cemento e fumo durava per miglia e miglia, ma agli occhi di Rowan fu un vero sollievo: quella era la costa del Mersey e quasi riusciva a scorgere casa sua. Iniziò a saltellare in direzione del punto più alto del dosso. Le cattedrali di Liverpool baluginavano distanti sull'altra sponda del fiume, sotto la coltre di fumo. Iniziò la discesa. Era immersa fra cilindri e comignoli, mentre le fiamme si scagliavano disperatamente verso l'alto nel tentativo di perforare la cappa di fumo. Nonostante l'ora, fra le ciminiere e i grandi serbatoi, s'intravedeva il bagliore di alcune luci giallognole. Sembrava un paesaggio abbandonato che sprigionava fumi e fiamme come una macchina gigantesca che cerca di assomigliare a un vulcano. Le sponde della strada ripresero a nascondere i camini. Al tramonto non era ancora uscita dal suo letto stradale. L'ombra della sponda di sinistra inondò quella della barriera contro cui camminava. Fu subito più freddo, ma la sensazione sembrava distante, quasi distaccata. Stava correndo per abbandonare quell'angusta striscia di terra prima che scendesse la notte. Percorse una curva, mentre il cielo a occidente diventava vitreo e accigliato. Poi vide un segnale. Indicava un incrocio sotto l'autostrada. Prima di raggiungerlo, riuscì a vedere oltre le sponde: alberi logori aspettavano di sfiorare il sole ormai basso che lanciava deboli raggi di luce sui campi. La strada che avrebbe preso all'incrocio l'avrebbe condotta a Birkenhead. Sarebbe stato più semplice strappare un passaggio clandestino sul ferry-boat piuttosto che sull'autobus che avrebbe dovuto prendere in fondo all'autostrada per attraversare il tunnel. Inoltre, per strada avrebbe incontrato qualche casa, chissà, forse persino qualcuno che tornava dalla messa serale. Si diresse verso la rampa di uscita e proseguì in tutta fretta. Sotto l'autostrada sostava una lunga automobile nera. Era talmente silenziosa che non era nemmeno sicura di averla vista davvero. Se non fosse stato per questa, la strada a doppio senso tra Birkenhead e Chester sarebbe stata completamente deserta. Gli alberi che fiancheggiavano i marciapiedi erano ridotti allo stato fossile dalla luce del cielo, i pali di cemento dei lampioni erano immersi nell'oscurità. In lontananza scorse case e negozi e il bagliore verde di un'insegna al neon di una tavola calda. Si accorse solo allora di non avere la benché minima fame, ma non ne fu sorpresa. I negozi erano più lontani di quanto sembrassero in realtà. Nemmeno dopo una camminata di un quarto d'ora si erano avvicinati. Molti erano ancora illuminati e e al di là si vedevano i fari delle automobili che sfreccia-
vano sulla strada. Tutto ciò la fece sentire in compagnia, ma aveva appena ripreso a correre quando le si parò di fronte un cartello segnaletico che la costrinse a bloccarsi di colpo. Era un segnale per Liverpool. Era piegato in direzione di una stradina laterale. Poteva essere il risultato di un atto vandalico, ma la direzione non era del tutto priva di logica: andava verso il fiume. Oltre la barriera di alberi, sul ciglio della strada, notò una serie di cottage bianchi illuminati che avevano un'aria invitante e rassicurante. Attraversò la strada e s'infilò fra gli alberi. Improvvisamente, il cielo sparì dalla vista. Gli alberi erano talmente aggrovigliati dall'edera che quasi non riusciva a vedere dove metteva i piedi. Le foglie pesanti e inumidite, cadendo, andavano a tappezzare il terreno. Rowan si lasciò scivolare mantenendo l'equilibrio con le braccia. In genere sarebbe stato divertente, ma in quel tunnel umido e buio, illuminato solo sul fondo, non era certo un gioco. Quando finalmente si fermò all'inizio della stradina illuminata si voltò. Da quel punto il tunnel sembrava ancora più lungo e ripido. Non riuscì nemmeno a scorgere la strada principale. Il tunnel le fece venire in mente la tomba, come se il mondo si fosse capovolto e la fossa stesse incombendo sulla sua testa, in attesa. Arretrò verso il primo lampione. I cottage bianchi si stendevano a perdita d'occhio su due schiere ininterrotte ai lati della strada, sotto la luce dei lampioni che sembravano identici ai lampadari che penzolavano dai soffitti delle case. Non c'erano giardini, né interstizi fra un cottage e l'altro, quindi non era possibile trovare un nascondiglio. Si mosse fiduciosa sul marciapiede lastricato di bianco. Anche le porte d'ingresso dei cottage, con le finestrelle coperte da piccole tendine, erano bianche e si affacciavano direttamente sulla strada. Mentre il cielo vitreo assumeva la sfumatura più scura della sera, la strada parve più luminosa, sottolineando le sagome dei tetti e dei camini. Rowan si rallegrò che la strada fosse deserta, ma non avrebbe dovuto esserci il rumore della gente che cenava o che guardava la televisione dietro qualcuna di quelle tendine tanto pulite? Passando davanti al primo cottage, riuscì a sbirciare in una stanza al pianterreno, tappezzata da una carta in cui si intrecciavano fate danzanti. Forse in quel cottage abitava un bambino incapace di salire le scale, però non c'erano mobili che indicassero a che cosa servisse in realtà quella stanza. Rowan passò davanti a un'altra decina di cottage, ma il silenzio incombente la spinse a voltarsi di nuovo. Il tunnel ammuffito era ormai scomparso dalla vista, ma come mai allora la strada illuminata non riusciva a in-
coraggiarla? Forse era a causa della completa assenza di segni di vita. Forse sarebbe riuscita a scorgere qualcuno dalle finestre senza tendine, prima o poi, da qualche parte; le sarebbe bastata anche una misera ombra umana. Stava procedendo con tanta velocità che temette di perdere il controllo e di non riuscire più a fermarsi. Istintivamente si appoggiò al muro del cottage più vicino per rallentare, ma la mano le affondò. Il muro era freddo e arenoso, eppure aveva l'impressione di toccare un pezzo di morbida carne. Si ritrasse immediatamente, cercando di non urlare, ma quella sensazione le restò aggrappata in modo quasi viscerale. Quando si accorse di aver lasciato l'impronta della mano sulla parete, venne sopraffatta dalla vergogna e dal desiderio di trovare un posto dove nascondersi. Si guardò nervosamente attorno per assicurarsi che nessuno avesse notato il suo misfatto e fu allora che si avvide delle impronte che aveva lasciato anche sul marciapiede deserto. Ebbe l'impressione che la strada le si stringesse attorno con le sue porte bianche che stava notando veramente soltanto in quel momento. Avevano l'aria di essere fatte con lo stesso materiale del cottage e del marciapiede in cui aveva lasciato le orme. Si allontanò dall'insidioso marciapiede che conduceva soltanto al tunnel ammuffito, poi girò sui tacchi e corse via. Si era quasi dimenticata della finestra priva di tende e quando giunse alla sua altezza si sentì attraversare da un brivido che sembrò scuotere anche la strada circostante. All'interno si vedeva la stanza di un bambino decorata con caroselli di fate danzanti dagli occhi vivaci. Lo stesso vide nella sala del cottage successivo, e poi ancora in quello dopo e così via. Era come se all'improvviso i cottage non avessero più bisogno di nascondersi, dal momento che ormai si era spinta troppo lontano per battere in ritirata. Il cielo ormai buio sottolineava il profilo dei tetti candidi che sembravano volersi curvare su di lei. Si domandò improvvisamente se era quello il posto in cui Vicky voleva farla finire. Per quanto l'idea si fosse presentata in modo dissociato, come nel mezzo di un incubo, si voltò di scatto per controllare che Vicky non fosse lì. Ma ciò che vide era anche peggio: lungo tutta la strada le porte d'ingresso di tutti i cottage erano spalancate. Non pensava che sarebbe riuscita a distogliere lo sguardo dalla scena. Continuò a fissare le porte spalancate come se il solo fatto di osservare potesse mantenere la strada deserta. Poi iniziò ad arretrare. E se sto andando verso una porta aperta, che cosa ci troverò dentro? si domandò. Si voltò di scatto e notò che le porte che le restavano davanti erano ancora chiuse. Si
sentì attanagliata dal panico, incapace di pensare. Non desiderava altro che andarsene da quella strada che assomigliava tanto a un sogno sul punto di trasformarsi in un incubo perenne. Ebbe la sensazione che il marciapiede molliccio si stesse indurendo sotto i suoi piedi. A quel punto si sentì accecare dal panico e non pensò ad altro che a scappare a gambe levate. Tutt'a un tratto, senza capire come c'era arrivata, si ritrovò immersa nell'oscurità. Fu come cadere in una tomba ed essere sepolti vivi. Si voltò con tale impeto che perse quasi del tutto il poco equilibrio che le era rimasto. Sull'altro lato di un campo, che baluginava debolmente, riuscì a distinguere i lampioni stradali in fondo alla serie di cottage bianchi. Si voltò e si sforzò di vedere qualcosa, qualsiasi cosa. Stava perdendo il senso della vista insieme con il resto delle forze quando una fiammata di luce rossastra illuminò il campo che si trovava in riva a un fiume. Alla vista di quella luce le vennero in mente i motori di un razzo che s'impenna verso il cielo, ma non poteva essere certo la Notte di Guy Fawkes; non era ancora novembre, anzi, non era neppure ottobre. Una vampata di luce verdastra attraversò l'acqua e delineò i contorni di alcune case, confermando quindi la presenza di un fiume che la separava dall'altra riva. Poi il paesaggio ripiombò nell'oscurità. Si sentì inghiottire: era la terra che stava sprofondando con l'intenzione di risucchiarla? Su un lato del prato notò un muro con in cima un'inferriata a cui potersi aggrappare. Spiccò un salto disperato e riuscì a saltarvi sopra. Le pietre non erano molto regolari, ma sufficientemente larghe da camminare senza problemi. Non dovette nemmeno aggrapparsi all'inferriata. Lanciò un'occhiata sul prato che appariva ancora più scuro con le luci delle case che arrivavano direttamente dall'altra riva del fiume. Iniziò a camminare il più rapidamente possibile lungo il muro scivoloso, sopra la superficie traboccante di acqua. Sul fiume stava calando la nebbia, che andava così ad attutire le luci che si ramificavano verso il cielo e i rumori circostanti. Dopo aver inghiottito la banchina opposta del fiume, la nebbia andò a stabilirsi soddisfatta al centro del corso d'acqua. Mentre Rowan si sforzava di vedere qualcosa, il prato oscuro venne sepolto sotto un manto di cemento che alla fine si rivelò essere un cimitero di montagne di macchine distrutte. A ogni folata di vento, il metallo arrugginito emetteva uno scricchiolio che la faceva sobbalzare per il terrore che qualcuno la seguisse di macchina in macchina. Infine il cimitero delle macchine lasciò il posto a un bacino portuale. Verso di lei sfilavano navi immerse nell'oscurità, con gli oblò che gronda-
vano di alghe cascanti. Enormi catene luccicanti di catrame le tenevano attraccate ai moli. Le macchie e la ruggine che baluginavano sugli scafi, le alghe apparentemente dragate dal mare, tutto contribuiva a farle pensare che quelle navi fossero state ripescate in seguito a un naufragio, specialmente quando udì lo sgocciolio proveniente dagli interni. All'imboccatura dei moli erano appoggiate passerelle dotate di corrimano afflosciati, che le permisero di passare fra le navi che s'impennavano verso il cielo buio e che si agitavano pesantemente e incessantemente nell'oscurità. Era come attraversare un labirinto fatto di mura che minacciavano di crollare da un momento all'altro. Era come se le navi non terminassero mai, quando all'improvviso notò uno spazio libero in lontananza. Ma quando raggiunse la cima di un muro che si affacciava sullo spazio aperto, si accorse che il molo di Birkenhead era ancora distante. Una sagoma luminosa delle dimensioni di un albergo si stava avvicinando alla banchina: era un ferry-boat affollato di passeggeri che cantavano e ballavano. Rowan si precipitò in direzione del pontile, lontano almeno un chilometro. Prima di arrivare sul posto, udì il tonfo dei pneumatici che andavano a urtare contro la parete del molo. I curiosi affollavano la banchina, ma, prima ancora di raggiungere i gabbiotti d'accesso, le luci si spensero davanti ai suoi occhi. Il ferry-boat aveva attraccato ed era piombato nell'oscurità. Non le restò altra scelta che aspettare l'indomani, rannicchiata nella gelida sala d'attesa di vetro. Per ore dalle strade di Birkenhead giunse il vociare di persone nottambule, poi restò solo lo sciacquio delle onde. Ma ormai era vicino a casa, dove avrebbe potuto finalmente riabbracciare i suoi genitori e dove avrebbe dormito per giornate intere. Un'altra sagoma scura che sbucava dalla nebbia la fece tornare di colpo alla realtà. Era un altro ferry-boat destinato al trasporto del personale da Birkenhead a Liverpool. Stando attenta a non farsi notare da nessuno, sgattaiolò sul ponte e andò a nascondersi dietro un fumaiolo, mentre la barca si muoveva in direzione di un'alba rosata dalle parti di Liverpool. Quando poi tutti i passeggeri furono sbarcati al terminal di Liverpool, Rowan percorse a tutta velocità la passerella di legno e si diresse alla volta della fermata dell'autobus di Pier Head. Su una panchina erano rannicchiati tre uomini con la faccia arrossata, troppo impegnati a bere da bottiglie nascoste in sacchetti marroni per notarla. Se non fosse stato per loro Pier Head sarebbe stata deserta, come anche i parcheggi numerati degli autobus. Tanto abbandono le procurò il ter-
rore che il mondo le stesse giocando qualche altro brutto scherzo, terrore acuito dai gesti e dalle frasi ripetitive dei tre uomini. In ogni caso doveva cercare la strada del porto. Era il percorso più diretto per giungere a casa, ma anche il più solitario, costeggiato per chilometri e chilometri da soli magazzini. Quando udì il vociare di bambini che giocavano su una strada dissestata dalle parti di un pub dalle finestre ricoperte di brina, dovette farsi forza per non andare alla ricerca di compagnia. Devo essere a Waterloo prima del sorgere del sole, si ripromise. Era quasi arrivata, ma il sole continuava a restare pericolosamente basso. Oltre il semaforo, in fondo alla strada del porto, notò la stazione radar con il suo riflettore parabolico che somigliava a un cieco mendicante e gli yacht addormentati nel porticciolo. Oltrepassò di corsa il cavalcavia silenzioso e l'angelo di pietra di Five Lamps e vide qualche famigliola che stava tornando a casa dalla messa. C'erano ragazzini che scorrazzavano su biciclette nuove fiammanti e che mostravano in giro i propri regali. Ormai era chiaro che giorno fosse e immediatamente capì anche le parole che si erano scambiati gli uomini con la faccia arrossata a Pier Head. Come aveva fatto a rimanere in giro così a lungo? Era stata Vicky a causare tutto questo? Che importanza aveva? Ormai era vicina a casa. La strada di fianco alla stazione luccicava di brina disciolta e la vista la riempì di calore. Si precipitò nella strada laterale e oltrepassò l'edificio con la scritta: Thompson Boot Repairers. Incontrò alcuni compagni di scuola che però non la degnarono di uno sguardo e corsero a casa: doveva essere ora di pranzo. Tra poco mangio anch'io, pensò domandandosi come avesse fatto a restare tanto tempo senza cibo e senza riposo. Imboccò la sua strada e passò davanti alle case dalle finestre allegramente illuminate. Sembrava tutto nuovo. Le facciate erano state ripassate con l'intonaco e si stagliavano contro le dune e la baia luccicante. C'era la macchina dei nonni parcheggiata in strada; forse il nonno era venuto a decorare il giardino con rocce e vialetti. Sul cartello IN VENDITA era stata incollata una seconda striscia: VENDUTA. Non gliene importava più niente. A condizione che ci fossero mamma e papà, la loro casa poteva essere ovunque, e l'avrebbe detto anche ai genitori. Oltrepassò il cancello d'ingresso e risalì il vialetto. Avevano cambiato la porta. La facciata era blu con fantasie floreali e un grande globo di carta di riso illuminava la sala. C'era molta gente in casa: il papà, la mamma, i genitori della mamma, Joe ed Eddie con i figli. Ro-
wan avrebbe preferito essere da sola con la sua famiglia, ma sicuramente se ne sarebbero andati tutti quando fosse entrata. I vicini e gli altri adulti che riuscì a scorgere stavano chiacchierando con una persona nascosta alla sua vista, mentre i bambini giocavano sotto l'albero di Natale. Rowan premette il naso contro la finestra e si mise a osservare: la vista dell'albero e dei suoi genitori la ripagò di tutto quello che aveva dovuto passare. Aspettò che qualcuno si girasse e la notasse, pregustando la gioia del momento in cui si sarebbe riunita ai suoi cari e soffocando una risatina alla sorpresa che avrebbe fatto a tutti quanti. L'attesa sembrava il gioco di Natale più bello di tutti con il dono più prezioso. Ma quando si accorse che era iniziato a piovere, picchiettò sul vetro della finestra. A quel punto la nonna allungò un pacco natalizio in direzione della persona con cui stavano parlando tutti, si sporse in avanti e disse: «Buon Natale, Rowan». 29 «Buon Natale, Rowan», esclamò Edith, seguita a ruota da Alison che bisbigliò lo stesso augurio, quasi fosse una preghiera. Sarebbe stato un bel Natale, avrebbero fatto di tutto perché fosse così. La famiglia si era riunita, o perlomeno i membri che erano sopravvissuti, ed era quella l'unica cosa che importava nel giorno di Natale. Derek, Alison e i suoi genitori avevano ricevuto il regalo più prezioso che potessero desiderare: avevano riavuto Rowan sana e salva. Soprattutto in un giorno come quello Rowan doveva rendersi assolutamente conto di quanto bene le volessero e di quello che sarebbero stati disposti a fare pur di riaverla, quando si era persa nel Galles, di notte. Non volevano che si sentisse poco amata, e Alison era disposta a dedicare tutta la vita per dimostrarle che le volevano bene. Edith sollevò un grande pacchetto, accuratamente confezionato, e la bambina si alzò dall'angolo in cui si era accucciata per scartare i libri di Dickens che aveva chiesto in dono ai genitori. I suoi movimenti lenti e aggraziati, eppure stranamente esitanti, uniti agli occhi abbassati dietro le ciglia incredibilmente lunghe, alle labbra leggermente corrucciate in un'espressione di costante disappunto e ai riccioli attaccati alle tempie, colpirono profondamente Alison, che provò l'impulso di abbracciarla, come aveva fatto la notte in cui Derek l'aveva riportata dal Galles; voleva abbracciarla per dimostrarle quanto la considerasse preziosa. Ma lo sguardo di Rowan non si fermò neppure su di lei, proseguendo in direzione della fine-
stra, dove aveva scorto qualcosa. Era ancora nervosa, pensò Alison agitata, e chi non lo sarebbe stato dopo lo spettacolo a cui aveva assistito pochi mesi prima? Si girò verso la finestra, ma non notò nulla, tranne il cielo uggioso e la pioggia che si stava trasformando in nevischio, che sbatteva sui vetri prima di sciogliersi in minuscole goccioline. Distolse lo sguardo mentre Rowan attraversava la stanza. «Grazie, nonna», mormorò la bambina. Sembrava proprio una bambina d'altri tempi, ma quello non significava che stava tornando a essere proprio lei? La osservarono mentre apriva il regalo e Alison si rese conto della tensione che serpeggiava all'interno della famiglia, il cui unico desiderio era quello di vedere Rowan felice. Derek offrì a Jo ed Eddie qualcosa da bere e poi si misero tutti a chiacchierare, con un entusiasmo esagerato. Eddie accettò un drink mentre Jo affermava che si erano fermati fin troppo. «Oh, che bel vestito», esclamò Rowan. «Grazie.» «Facci vedere come ti sta, tesoro», le suggerì Edith. Rowan afferrò la scatola con il vestito e si diresse verso la porta. «Non fare la timida, ragazzina, puoi anche spogliarti di fronte a noi», urlò Jo. Quella battuta le procurò un'occhiata di secco disprezzo e Jo si coprì la bocca, facendo una smorfia che non risultò sufficientemente divertente per nascondere l'imbarazzo. Rowan si avviò al piano superiore mentre Eddie bisbigliava a Jo: «Lasciala in pace, tesoro. Lasciale fare quello che vuole». Derek rivolse ad Alison un sorriso preoccupato, per dimostrarle che condivideva le sue speranze, le sue paure e il suo rimpianto, ancora mascherati dalla sensazione di sollievo. Riavere Rowan era l'unica cosa che si fossero potuti aspettare e forse era anche più di quanto si fossero meritati. Se Rowan non era più la bambina che sarebbe dovuta essere, certo era anche colpa loro, ma spesso Alison restava sveglia di notte, piangendo sommessamente e ripetendo quanto era stata fortunata a poterla riabbracciare. Quando udirono Rowan che scendeva le scale, tutti si voltarono verso la porta, a eccezione di Paul e Mary. Appena fece il suo ingresso, le donne iniziarono a commentare che appariva decisamente cresciuta ed elegante con il lungo vestito ricamato, e gli uomini annuirono, seppure con commenti meno azzeccati. Era davvero solenne, incredibilmente imponente, e ad Alison venne in mente Hermione, non solo perché quello era il genere di abiti che confezionava, ma anche perché le sembrava di sentire la voce costernata della sorella che le faceva notare quanto Rowan assomigliasse a Queenie. «Per Natale ha ricevuto solo dei libri e un vestito», protestò il
piccolo Paul. «È solo perché ha qualche anno più di te», spiegò Patty. «Ora, Mary, gioca un po' con lei e ricordati che ti ha regalato tutti i suoi giornaletti.» Patty sembrava incredibilmente meno matura di Rowan, soprattutto da quando aveva praticamente costretto le due bambine a giocare insieme: Mary era restia ad avvicinarsi a Rowan, che la considerava con aria sprezzante. «Sarà meglio andare», proruppe Jo vuotando il bicchiere. «Vi ho già fatto fare tardi per il pranzo.» Alison rimase a guardare lei, Eddie e i bambini che si avviavano verso casa, sotto il nevischio. Quando raggiunsero il portico, Alison fu invasa da un inaspettato senso di tristezza, così intenso da costringerla a fissare la strada e il giardino disordinato. Il freddo e l'idea di restare chiusa fuori la fecero tremare. Chiuse la porta precipitosamente e ritornò nell'ingresso. Derek e i suoi genitori stavano portando grandi ciotole piene di verdura dalla cucina alla sala da pranzo, Rowan se ne stava in. mezzo ai suoi libri, con aria impaziente e annoiata. Un tempo avrebbe aiutato ad apparecchiare la tavola, ma da quando era tornata dal Galles non aveva più mosso un dito. Avrebbero dovuto farle un discorsetto a proposito della sua indolenza, pensò Alison, ma quello non era certo il giorno adatto. «Forza, Rowan, vieni qua con noi.» Mentre Alison toglieva il tacchino dal forno e il calore dell'arrosto penetrava come una lama spuntata attraverso il guantone imbottito, gli altri adulti avevano stabilito i posti a tavola. Rowan aveva cercato di sedersi a capotavola, ma Edith l'aveva fatta spostare con una battuta scherzosa. La bambina se la prese e si offese anche di non essere la prima a essere servita quando Derek tagliò il tacchino. «Per me basta così, grazie», gli disse in modo talmente secco da meritarsi un'occhiata severa da parte di Edith, che evitò di riprenderla duramente solo perché era il giorno di Natale. Quando Keith le versò un dito di vino, la bambina lo lasciò di stucco esclamando: «Grazie, ma non bevo». «Se ben ricordo, una volta ti piaceva assaggiare un sorso di vino», proseguì Keith aggrottando le sopracciglia, e chiedendosi se la sua memoria stesse perdendo colpi o se quell'atteggiamento fosse una logica conseguenza di quello che aveva dovuto passare la bambina. «Perlomeno brinda con noi. Ricchezza e felicità per tutti noi negli anni che verranno!» «Ricchezza e felicità», ripeterono in coro gli adulti, facendo tintinnare i bicchieri che risuonarono sotto il lampadario. Rowan annuì, quasi in segno di gratitudine. «Ma ormai avete conquistato tutt'e due, no?» li punzecchiò
Edith. «Puoi ben dirlo», rispose Derek. «Grazie a Eddie che ci ha aiutato a tappezzare la casa e all'agente immobiliare che ci ha procurato un imprenditore edile molto ben disposto. E ho trovato un commercialista che è decisamente più in gamba dell'altro imbecille, scusate il termine. Infine Ken, che mi doveva un sacco di soldi e che mi ha pagato poco prima di finire in tribunale. Ma nessuno avrebbe preso in considerazione l'acquisto della casa se non fosse stato per il tuo giardino, Keith.» «Ho soltanto organizzato il lavoro, vecchio mio. Tu hai fatto la parte più faticosa.» «Avevo bisogno di rilassarmi un po' dopo essermi occupato di tutte quelle scartoffie. Sarà bello tornare a Liverpool e a te non importa cambiare scuola, vero tesoro?» Rowan alzò lo sguardo quando si rese conto che stava parlando con lei. «Non me ne importa niente. Tanto qui non ho amici.» «Be', stai pur sicura che a Liverpool ne troverai un mucchio», strillò Edith. Rowan la fissò con un'espressione vuota e non priva di ostilità, ed Edith distolse lo sguardo. «Forse le cose andranno meglio», disse, rivolgendosi ad Alison, «e io potrei ricominciare a lavorare a maglia, come quando aspettavi Rowan.» «Chissà, forse quando ci saremo sistemati.» «Mi piacerebbe avere una sorellina, mamma», borbottò Rowan. «Credo che sarebbe molto simile a me.» Perlomeno aveva ricominciato a rivolgersi ad Alison chiamandola mamma. Appena tornata dal Galles, si era comportata in modo estremamente formale, e non la si poteva certo biasimare, con tutto quello che aveva sentito dire su di lei. Poi aveva ripreso a chiamare i genitori «mamma» e «papà» con un tono velatamente divertito che ad Alison non era piaciuto per niente. Ma ora sembrava così inaspettatamente gentile che Alison si ritrovò confusa e perse il controllo. «Anche a me piaceva avere una sorella», mormorò con le lacrime agli occhi, senza rendersi conto di risvegliare in Rowan penosi ricordi. Pensò a Hermione, morta per essere stata troppo protettiva, che giaceva nella tomba aperta mentre il vento della notte s'impossessava di lei, e Derek le massaggiò le mani per calmarla. Dopo un attimo, Keith si schiarì la voce. «So che cosa stai aspettando, Rowan. Non vedi l'ora di giocare con me!» Rowan acconsentì, come se gli stesse facendo un enorme favore, e si mi-
se in testa la corona da regina. Alison osservò il viso espressivo sotto il copricapo di cartapesta e rimase sconvolta: Rowan le ricordava Julius, il bambino invecchiato precocemente che occupava una stanzetta dell'ospedale. Forse quello spettacolo aveva scosso anche Edith. «Non potremmo chiudere le tende?» sbottò. «Mi sta venendo freddo.» Il nevischio colpiva la finestra e si scioglieva appena si depositava sul vetro. Alison chiuse le tende e ritornò a tavola, dove la conversazione si era fatta volutamente gioviale. Rowan squadrò Keith che si asciugava il mento sporco di sugo e Derek che rosicchiava una coscia di tacchino: il suo disprezzo era quasi tangibile. Sembrava un monarca che si sforzava di tollerare i propri sudditi, pensò Alison visibilmente costernata: una regina con una corona di cartapesta. Terminato il dolce, Rowan aiutò a portare i piatti in cucina, dopo aver ricevuto l'esplicito invito da parte di Edith. Più tardi giocarono al Gioco dell'Oca sul tavolo della sala da pranzo. Ad Alison era sempre piaciuto prendere parte ai giochi di società insieme con i membri della sua famiglia, ma ora Rowan squadrava le mosse degli altri come se li volesse accusare di aver barato e reagiva con un risentimento esagerato ogni volta che era costretta a pagare un pedaggio. Alison si vergognò quasi della gioia che provò quando giunse per Rowan l'ora di fare il bagno. Quella giornata l'aveva letteralmente distrutta. Da quando Derek l'aveva riportata a casa, Rowan aveva insistito per essere lasciata sola in bagno. Edith increspò le labbra quando udì la bambina che chiudeva la porta a chiave, e si sentì visibilmente a disagio fino a quando Rowan scese con i capelli lucidi e ben pettinati. «Vorrei avere l'onore di essere io a leggerti la favola della buonanotte, questa sera», esclamò Keith. Appena il marito salì di sopra con Rowan, Edith chiuse la porta del soggiorno. «Non avete pensato di farla visitare da un medico?» «L'abbiamo fatto quando è tornata», rispose Derek. «Ed è rimasto sorpreso nel notare la velocità con cui si stava riprendendo.» «Evidentemente non l'ha conosciuta prima.» «A me sembra che stia bene.» «Ma come fai a dire una cosa del genere, Derek? Che cosa le sta succedendo? Mi rendo conto che sta crescendo, ma non avrei mai immaginato che un giorno potesse assomigliare tanto a...» «Deve crescere, mamma, hai perfettamente ragione», la interruppe Alison decisa. «Non possiamo costringerla a restare bambina per sempre. È
quello che Queenie ha cercato di fare con me e con Hermione e noi non vogliamo certo diventare come Queenie.» «Ma Rowan era una bambina spensierata. Puoi anche dire che sono esageratamente ansiosa, ma io non la lascerei chiusa in bagno da sola, soprattutto con qualcosa di affilato lì attorno.» «Edith, cara, quella è davvero l'ultima cosa di cui dobbiamo preoccuparci», la tranquillizzò Derek. «Deve ancora riprendersi completamente, ma ti assicuro che non ho mai visto nessuno che abbia più voglia di vivere di lei.» Certamente quella voglia di vivere poteva compensare tutti i suoi malumori e la sua indifferenza, si disse Alison, cercando di rassicurarsi. Oltretutto, a volte sembrava tornare a essere la bambina di un tempo, e questo poteva significare che stava dimenticando, anche se nessuno sapeva esattamente che cos'avrebbe dovuto dimenticare. Alison era d'accordo con i dottori: doveva essere Rowan a scegliere il momento giusto per raccontare l'accaduto. Quando Derek l'aveva trovata sotto il salice, con il binocolo rotto e arrugginito ai piedi, la bambina poteva essere nascosta in quel punto da parecchie ore. Forse aveva distrutto il binocolo in un impeto di rabbia nei confronti di Vicky, che l'aveva accompagnata in quel luogo o che forse l'aveva lasciata sola; Alison era comunque felice di non aver più sentito parlare della bambina da allora. E fece del suo meglio per convincere Edith di tutto ciò. «Cerca di non lasciarla sola, affinchè crescendo non si trasformi in qualcuno che non conosci», commentò Edith. «Non l'ho mai fatto, ti pare?» le ricordò Alison, sforzandosi di sorridere e girandosi quando arrivò Keith. «Si è addormentata mentre le stavo leggendo una fiaba», borbottò. «Anche a me capitava ogni tanto, ti ricordi?» esclamò Alison. Versò a tutti qualcosa da bere e poi salì al piano di sopra per assicurarsi che Rowan dormisse sonni tranquilli e senza incubi. Stranamente, da quando Derek l'aveva ricondotta a casa, il suo sonno si era fatto decisamente più pesante e non parlava neppure più. Anche in quel momento, sembrava profondamente addormentata, con il viso appoggiato sulla massa di capelli allargati sul cuscino, le lunghe ciglia che ombreggiavano le palpebre, le labbra leggermente dischiuse e le dita intrecciate sul lenzuolo all'altezza del petto. Alison le rimboccò le coperte e si chinò per darle un bacio. La notte bussò alla finestra con le sue dita tremolanti e Alison barcollò per un attimo, con le mani che affondavano sul cuscino, ai lati del viso di Rowan. Per un istante ebbe l'impressione che Rowan non stesse dormendo
o che, perlomeno, si fosse accorta della sua presenza. Come se ciò non bastasse, l'idea di baciare la bambina l'aveva riempita di brividi. Fissò quel viso morbido e immobile e si piegò come se una mano invisibile l'avesse afferrata per la collottola, poi stampò un bacio sulla fronte di Rowan. Le augurò la buonanotte in un soffio e scese lentamente le scale, timorosa di dover affrontare il resto della famiglia. Si era talmente preoccupata degli effetti che quella brutta esperienza avrebbe potuto avere su Rowan, da non prendere neppure in considerazione la tensione che quella faccenda le aveva procurato. Doveva stare attenta e controllare le proprie emozioni. Se continuava a immaginarsi strane cose sul conto di Rowan, forse sarebbe stato il caso di farsi curare. Ma avrebbe sopportato qualsiasi cosa pur di salvare Rowan. 30 «Buon Natale, Rowan», le augurò la nonna e la bambina si ripetè che la nonna stava solo fingendo di non vederla dalla finestra, per prolungare l'effetto della sorpresa che intendevano farle, girandosi di scatto e facendo finta di non essersi accorta della sua presenza, per correre fuori ad abbracciarla e accompagnarla dentro casa. Ma la nonna sollevò il pacchetto e fece scorrere lo sguardo per la stanza: nel giro di pochi secondi, che parvero comunque più lunghi dell'intero viaggio di ritorno, Rowan si rese conto che la nonna non si stava rivolgendo a lei. Si sentì svanire, come i raggi del sole inghiottiti dalle nubi, mentre vide se stessa fare un passo in avanti ed entrare nella stanza. Quella non sono io, cercò di urlare. Vi siete sbagliati tutti, c'è qualcuno che si sta prendendo gioco di noi. Mamma, guardami, perché non mi guardi? Non vedi che sono proprio io quella qua fuori? Poi il suo stesso corpo, che si muoveva più elegantemente di quanto non avesse mai fatto, la guardò dritta negli occhi. Fu solo una rapida occhiata, ma sembrò avvolgerla come un'enorme ragnatela, simile all'oscurità gelida di un cielo plumbeo, e in quel momento vide Vicky che la osservava con il viso di Rowan. Quell'occhiata stava a significare che forse Rowan non era neppure presente. Vicky aveva ottenuto quello che voleva. Rowan si rese conto troppo tardi che tutto quello che aveva fatto Vicky, compresa la caduta al cimitero, aveva minato la sua coscienza di sé. Si era fidata di Vicky, ma questa si era rivelata la più infida tra tutti i bugiardi: aveva fatto credere a Rowan che i suoi genitori sarebbero stati molto meglio senza di lei, quando il suo
unico scopo era prendere il suo posto. Rowan avrebbe voluto andare oltre quella finestra per trovarsi faccia a faccia con quell'impostora, ma aveva paura di aver perso la consistenza e il controllo di sé. Fu a quel punto che sua madre si girò e la guardò. Se c'era una cosa che poteva restituire a Rowan la propria identità, quella era sua madre. Rowan temeva che sua madre si sarebbe messa a urlare per l'incredulità, ma la bambina le avrebbe spiegato che era lei la vera Rowan e la sua famiglia avrebbe allontanato quell'impostora. Ma Rowan si rese perfettamente conto di ciò che era diventata: sua madre guardò dritto verso di lei e poi si girò verso la bambina che si allungava per prendere il pacchetto. La luce del sole svanì e iniziò a cadere un nevischio che colpì la bambina e i vetri delle finestre. Ma Rowan parve non accorgersene neppure. Così lei non era più nulla. Persino le sue sensazioni le parvero inafferrabili, scivolose e liquide come i cristalli senza forma del nevischio sul vetro. Dagli episodi del cimitero, gli avvenimenti sembravano prendersi gioco di lei. Non solo il mondo intorno a lei si era trasformato in un sogno molto simile a un incubo, ma addirittura lei stessa si era ridotta a poco più di una visione. Mentre prendeva coscienza di questo, si sentì improvvisamente esausta, spossata dopo l'interminabile viaggio verso casa e sfinita per essere stata derubata di se stessa dopo tanti sforzi e tanto tempo. Ma almeno era giunta a casa e quindi poteva riposarsi. Non sarebbe andata nella sua camera. Nessuno la voleva e non si sarebbe avvicinata al letto neppure se gliel'avessero offerto, dal momento che i suoi genitori l'avevano dato a qualcun altro. Si sarebbe nascosta nell'oscurità, dormendo e affondando nelle tenebre dell'ultimo piano per cercare di dimenticare ciò che era stata. Era trattenuta solo dal problema che non sapeva come entrare in casa, o forse era spaventata da quello che istintivamente sapeva. Guardò l'impostora che apriva il regalo e sollevava un vestito che un tempo Rowan avrebbe indossato con tanta gioia. Si stava dimenticando che cosa fosse l'invidia e forse quello era solo il primo passo: presto non avrebbe provato più nulla. Osservò il suo corpo che si allontanava dalla stanza con il vestito e indugiò con il viso contro la finestra. Il pensiero che, una volta nascosta nelle tenebre, non avrebbe mai più rivisto la mamma e il papà, la colmò di una tristezza remota. Si sarebbe messa a piangere, se solo ne fosse stata capace, ma si sarebbe sentita ancora più debole e vulnerabile. Il suo corpo scese le scale indossando il vestito nuovo e facendosi
ammirare da tutti. Poi Jo, Eddie e i bambini si avviarono alla porta. Mentre uscivano insieme dalla casa e correvano sotto il nevischio, Rowan indietreggiò. L'idea che potessero in qualche modo accorgersi della sua presenza la riempì di vergogna e quella sensazione le penetrò nelle ossa, come se il nevischio fosse in grado di trafiggerla. Quando la madre guardò fuori dal portico, sotto il cielo squarciato, Rowan si raggomitolò contro il muro fradicio della casa. Si sentiva come un'ombra coperta di nevischio, ma non osò muoversi finché sua madre non chiuse la porta. Le dune sembravano mucchi di fango. Il cielo e il mare erano un turbinio grigio di nevischio al quale le sembrava di essere sul punto di unirsi per essere poi dispersa dal vento in minuscoli frammenti. La bambina ritornò alla finestra, ma i volti dei suoi familiari erano resi confusi dal nevischio che si scioglieva colando lungo il vetro. Guardò i suoi cari e il suo corpo che mangiavano i piatti tipici del Natale e ascoltò le parole di ognuno di loro, che cercavano di far sentire a proprio agio il suo corpo: poi arrivò sua madre e tirò le tende, togliendole così la luce. La notte stava già calando con i suoi tetri coltelli di ghiaccio su quello che era uno dei giorni più corti dell'anno. Rowan seguì il percorso della luce dall'esterno della casa, da un locale all'altro, prima in cucina e poi nel soggiorno con le tende tirate. Alla fine le luci si fecero sempre più lontane, nel bagno e nella stanza che erano stati suoi. Quando la luce si spense nella stanza, Rowan capì che il suo corpo giaceva nel suo letto. Avrebbe sognato? Si chiese se l'incubo contro il quale aveva dovuto lottare per riuscire a tornare era stato suo oppure di Vicky, o magari di entrambe. Quel dubbio fece nascere in lei la paura di ritrovarsi in quell'incubo; si concentrò quindi sulla casa e obbligò se stessa a non pensare ad altro. Passarono le ore e il nevischio si tramutò in sottile pioggia ghiacciata. Le luci si accesero nelle camere al piano superiore, per spegnersi poco dopo: la casa sprofondò nell'oscurità, a eccezione delle lampade nei corridoi. Ora che tutta la famiglia si era addormentata, sembrava non ci fosse più nulla in quella casa a cui aggrapparsi. Avrebbe voluto essere fra quelle mura, e non fra le braccia della notte che rischiava di trasformarsi in un incubo. Si avvicinò alla porta della veranda e sbirciò attraverso i piccoli pannelli di vetro. Oltre a questi e alla porta interna, c'era l'atrio argentato, dove improvvisamente desiderò rifugiarsi. Il desiderio di entrare fu più forte della paura che l'attanagliava. Un attimo più tardi si ritrovò nell'atrio, con la stessa facilità con cui ci si muove nei sogni. Rimase scioccata nel sentire la puzza di vecchio e di stantio in una casa
che appariva nuova. La tappezzeria argentea su entrambe le pareti e l'intonaco fresco sul muro della scala non erano molto più convincenti dei pezzi di gesso che si stavano già staccando dai mattoni. Non le piaceva il modo in cui l'oscurità della casa sembrava allungarsi su di lei, oltrepassando i corridoi illuminati, ma aveva decisamente più paura della notte che l'attendeva fuori. Perlomeno quell'oscurità le era familiare. Si avvicinò senza fatica alle scale e iniziò a salire. Avrebbe apprezzato la mancanza di sforzo se fosse stata nel bel mezzo di un sogno, ma in quel momento la realtà le apparve scivolosa e lei si sentì molto simile alle ombre che giacevano sotto la nuova tappezzeria e il nuovo intonaco. Arrivò al primo pianerottolo e fissò il corridoio su cui si apriva la stanza dei suoi genitori. Si sentì invadere da un briciolo di emozione. Voleva vederli per l'ultima volta, per portare con sé la loro immagine nelle tenebre. Appena quell'idea le attraversò la mente, si ritrovò a percorrere il corridoio. Barcollò quando passò davanti alla stanza che era stata sua. Qualcuno, probabilmente sua madre, aveva lasciato la porta socchiusa. Un inutile risentimento unito al forte desiderio di vedere che aspetto avesse il suo nemico, quando dormiva, la spinsero verso quell'apertura. Era come vedersi da morta. Il viso immobile era appoggiato sul cuscino e rivolto verso l'alto e le coperte nascondevano le mani giunte. Solo il leggero movimento che faceva alzare e abbassare le lenzuola rivelava che quel corpo era vivo. Rowan rimase a fissarlo fino a quando si rese conto di non riuscire più a muoversi e si sentì intrappolata, come se qualcuno la stesse osservando. Era come se nel suo corpo si fosse accumulata tutta la vecchiaia di quella casa. Le ricordava quella cosa raggrinzita che aveva visto nella tomba e anche in seguito; sembrava quasi che si fosse talmente rinsecchita da potersi nascondere all'interno del suo corpo. Quell'idea la terrorizzò a tal punto da sbloccarla, permettendole così di fuggire verso la stanza dei genitori. Anche la loro porta era socchiusa. Rowan esitò un attimo sulla soglia: non si sentiva ancora autorizzata a entrare. I suoi genitori erano a letto e le voltavano le spalle. Sua madre era la più vicina alla porta, con un braccio sulla schiena del marito e il viso appoggiato sulla sua spalla. Rowan rimase a osservarli a lungo, sperando che i loro sogni fossero sereni. Li fissò fino a quando fu sicura di ricordare perfettamente com'erano un tempo, innamorati e senza grandi problemi. Forse sognarli nell'oscurità sarebbe equivalso a ritrovarsi con loro. Ma doveva proseguire verso l'ultimo piano,
mentre la vista dei genitori riusciva ancora a tranquillizzarla. Stava uscendo dalla stanza, indugiando per un attimo sulla porta, quando sua madre si agitò nel sonno. Si allontanò dal marito e si girò verso il corridoio. Per un attimo, Rowan ebbe l'impressione che la madre si fosse accorta di lei, che forse era riuscita a cogliere la sua presenza nel sonno. Si ritrasse rapidamente ma si rese conto che, nonostante si fosse mossa, sua madre era addormentata troppo profondamente per potersi accorgere di qualcosa. Pace in Terra, pensò Rowan con una vaga insoddisfazione, poi, notando il suo aspetto, provò una fitta di dolore. Da sveglia non le era parsa tanto vecchia, ma nel sonno non era possibile mentire. Era invecchiata mentre Rowan era stata via, ma sembrava fossero passati anni e non i mesi che Rowan aveva impiegato per fare ritorno a casa. Aveva il viso scarno, segnato e incredibilmente pallido, come se le preoccupazioni l'avessero scavato fino a consumarne la pelle. Rowan avrebbe voluto darle un bacio sulla fronte che potesse cancellare le rughe impresse ormai indelebilmente su quel volto, ma a che cosa serviva esprimere un desiderio? Almeno i suoi genitori potevano contare l'uno sull'altra, e si sarebbero aiutati a vicenda. Ma non sarebbero certo stati al sicuro se non sapevano neppure che la loro bambina non apparteneva più a loro. Proprio in quel momento suo padre si girò, cercando a tentoni la moglie e cingendola con un braccio. I due visi addormentati giacevano sui guanciali, inconsapevoli di tutto ciò che li circondava. I lineamenti di suo padre non erano tirati come quelli della mamma, ma apparivano entrambi incredibilmente vulnerabili, in balia di ciò che si nascondeva dentro il corpo di Rowan. Non sopportava l'idea di abbandonarli in quel modo, doveva riuscire a svegliarli. Immediatamente si ritrovò nella stanza, dopo essere scivolata attraverso la fessura tra la porta e lo stipite senza il minimo sforzo. Era quella la stanza nella quale si era intrufolata durante le prime nottate trascorse in quella casa, la stanza vuota e gelida che aveva turbato i suoi sogni. Di solito si rannicchiava fra i genitori per sfuggire alle tenebre. Gliel'avevano sempre permesso, evitando di spiegarle che era troppo grande per avere paura del buio, e quel ricordo la faceva sentire ancora più vicina ai genitori, seppure in modo doloroso. Avrebbe mai potuto raggiungerli, avvertendo quel genere di sensazioni? Si diresse verso il letto come una foglia trasportata dal vento. Era quasi arrivata quando notò lo specchio della toeletta. Lo specchio rifletteva il letto, i suoi genitori e un pezzo del tappeto che arrivava fino alla porta, ma non c'era traccia della sua immagine.
Quel particolare fece svanire ciò che restava della sua coscienza di esistere. Si stava restringendo come l'immagine sullo schermo di un televisore appena spento e veniva trascinata dal nulla verso un punto morto: diventava sempre più piccola e aveva sempre meno forze per opporre resistenza. Non c'era niente che potesse trattenerla, niente che potesse negare la sua assenza nell'immagine riflessa nello specchio: quell'immagine fredda come il ghiaccio che rappresentava la sua assenza eterna. I suoi genitori si mossero di nuovo, si girarono, finendo sulla schiena, con il viso rilassato. Sembravano ancora più indifesi, soli e abbandonati nel sonno. Lo sgomento che si era impadronito di lei era riuscito perlomeno a farla rimanere in quella stanza. Distolse lo sguardo dallo specchio, cancellando quell'immagine dalla sua consapevolezza e cercò di convincersi che era appoggiata al letto e che non ci stava affondando dentro, come un'entità priva del proprio corpo. Era talmente vicina alla madre da riuscire a scorgere le labbra secche e leggermente dischiuse che tremavano a ogni respiro. Notò anche le vene disegnate sulla fronte, sotto la pelle sottile e sciupata. Le lunghe ciglia nascondevano le palpebre arrossate e irrequiete per i sogni che stavano vivendo, e una goccia scintillava in un angolo dell'occhio. Rowan provò il disperato desiderio di stringerla e di farsi abbracciare. Senza pensare a quello che stava facendo, si chinò per baciare le labbra della madre. Si ritrasse appena in tempo, temendo di essere sul punto di cadere e di non riuscire più a fermarsi. Perché era rimasto così poco di lei, quando Vicky le era parsa così reale? Non doveva cedere alla sensazione di essere ormai rifiutata e privata del proprio corpo. Non doveva fare altro che convincere i suoi genitori della sua presenza: in quel modo si sarebbero resi conto che la creatura che avevano scambiato per lei era in realtà qualcun altro. , Ma quando cercò di chiamarli si accorse che neppure lei era in grado di udire la propria voce. Cercò di convincersi che si trovava di fianco al letto, e che non stava fluttuando a mezz'aria, nel caso avesse voluto allungare una mano, per toccarli, ma non servì a nulla: non riusciva neppure a capire a che distanza fosse. Se avesse sfiorato sua madre, sarebbe potuta affondare dentro di lei. Quell'idea le parve quasi insopportabilmente tranquilla e rassicurante, ma non sarebbe certo servita a salvare sua madre. Cercò di urlare qualcosa ai suoi genitori e alla sua inutilità, per tentare di svegliarli mentre era ancora lì con loro. Cercò di urlare, ma quel gesto non fece che confermare ciò che già te-
meva: non aveva più la bocca. Avvertì lo specchio che si allungava gelido verso di lei e il nulla alle sue spalle che cercava di inghiottirla. Si sforzò di aggrapparsi all'immagine della stanza illuminata che era sempre stata la sua ancora di salvezza. Si ricordò quando s'infilava sotto le coperte in mezzo ai genitori e mormorava all'orecchio della mamma, che era sempre la prima a svegliarsi: «Sono io mamma, posso dormire qui per questa notte? Là fuori è troppo buio e io ho paura». Quel ricordo era dolorosamente vivo, così intenso che udì la sua voce risuonarle nella testa, con quelle stesse parole che non udiva da tanto tempo. «Sono io, mamma. Sono io.» E poi il viso di sua madre si girò verso di lei, con gli occhi che si agitavano sotto le palpebre come se si sforzassero di guardare. Le mani della donna uscirono da sotto le coperte, brancolando goffamente verso di lei. «Oh, Rowan, sei tu, non è vero?» farfugliò con la voce impastata di sonno. «Credevo di impazzire.» 31 Il giorno di Santo Stefano tutta la famiglia andò a fare una passeggiata lungo la spiaggia. Era una giornata limpidissima. Le dune erano ancora butterate dal nevischio caduto il giorno precedente, ma il mare aveva inghiottito le pozzanghere lasciate sulla spiaggia dall'acquazzone. Un paio di navi ormeggiate al largo luccicavano sotto il cielo terso dal quale i gabbiani, come schegge di ghiaccio, si tuffavano in mare. Gli uomini e Rowan camminavano sulla passeggiata in cemento precedendo Edith che, tenendo Alison a braccetto, ricordava i bei tempi passati. Parlava dei giorni che lei e Keith avevano trascorso sul fiume a New Brighton, quando c'era il molo, la fiera e la torre, quando c'era il traghetto che li riportava a Liverpool e la sopraelevata dalla ferrovia. «Quelli erano giorni felici», sospirò e Alison annuì, mormorando qualche parola di assenso e fissando un punto davanti a lei: sentiva a malapena quello che le diceva la madre. Forse aveva avuto ragione, forse quello che si era detta la scorsa notte, quando non riusciva a dormire, corrispondeva alla verità. Forse stava davvero impazzendo. Guardò Rowan davanti a lei e cercò di scacciare per un attimo i suoi timori. La bambina indossava il vestitino lungo che Keith ed Edith le avevano regalato a Natale, l'orlo svolazzava spuntando dal cappotto di lana. La bambina camminava graziosamente tenendo per mano il padre e Keith. Quel tocco di eleganza unito alla fanciullezza commosse fino alle lacrime Alison, ma era giusto sentirsi così? E se Derek avesse avuto ragione e nella
famiglia ci fosse stata una pazzia latente che si era manifestata in lei quando non era riuscita a fronteggiare le sue paure, quando Rowan si era persa nel Galles? Forse era rimasta così sconvolta per il timore che Rowan fosse morta, da non riuscire a credere che la bambina fosse davvero tornata. Ma non esistevano scuse valide per i suoi sospetti nei confronti della figlia. Ciononostante, non riusciva a fare a meno di pensare a quello che le sembrava di aver udito la notte precedente e a quello che aveva sicuramente visto. Aveva sentito Rowan che la chiamava, era la voce della Rowan di sempre, la voce che non udiva ormai da mesi, e la bambina le era sembrata così vicina che Alison si era chiesta perché non riusciva a toccarla. Quella notte era stata colta da un'ondata di affetto, come quando aveva preso in braccio Rowan per la prima volta, e aveva mormorato alla sua bambina parole di benvenuto mentre si svegliava e apriva gli occhi. Era così convinta di aver sentito Rowan che la stanza deserta le era sembrata un sogno dal quale doveva ancora svegliarsi. Ma aveva scrutato così a lungo attorno a sé che gli occhi avevano cominciato a bruciarle e stava convincendosi di aver solo sognato la voce di Rowan, quando l'aveva sentita nuovamente. «Sono io, mamma. Sono io.» Forse faceva sempre parte del sogno? Trattenendo il fiato, era rimasta in attesa di sentire ancora quella voce, finché aveva avuto l'impressione che Rowan la stesse chiamando da dietro la porta. Silenziosamente, per non svegliare Derek, Alison era scivolata fuori del letto e in punta di piedi si era diretta verso la camera di Rowan. Aveva aperto la porta della stanza ed era pronta a sedersi sul letto della bambina per coccolarla e farla addormentare. Era la cosa che più di ogni altra avrebbe desiderato fare, poiché si era resa conto di ciò che le era mancato da quando la bambina era tornata: voleva che Rowan la considerasse ancora indispensabile. Ma Rowan era sdraiata immobile e dormiva tranquillamente; Alison non aveva capito subito perché quella vista l'avesse sgomentata. Poi si era resa conto di quello che stava vedendo e si era morsicata le mani per non urlare. La bambina era sdraiata esattamente nella stessa posizione che aveva assunto quando Alison le aveva rimboccato le coperte, qualche ora prima. Nessun bambino sarebbe rimasto così immobile nel sonno, e tanto meno Rowan. Era sdraiata come un cadavere... come il cadavere di Queenie. Alison si era aggrappata allo stipite della porta per non cadere, stringendolo così tanto da provare dolore. L'idea che la bambina nel letto non fosse Rowan, nonostante le somigliasse, riusciva a spiegare gli avvenimenti dei mesi precedenti con una chiarezza tale che Alison si era sentita scoppiare
la testa. Alla fine era riuscita ad allontanarsi dalla porta e trascinarsi a letto, come se così potesse sfuggire ai suoi pensieri, ripetendosi che solo il buio della notte poteva farle pensare cose che durante il giorno non avrebbe mai neppure immaginato. Ma in realtà il dubbio si era insinuato in lei e aveva osservato Rowan per tutto il giorno alla ricerca delle prove. Voleva dimostrare a se stessa di essersi sbagliata, si disse. Voleva che qualcuno la scuotesse, le chiedesse le ragioni del suo strano atteggiamento e la convincesse di quanto fossero assurde le sue paure. Le avrebbero detto che era peggio di Hermione a preoccuparsi tanto solo perché Rowan non voleva più che la vedessero nuda: non voleva forse che sua figlia crescesse? Rowan assomigliava sempre più a Queenie solo perché aveva dovuto ricorrere all'ostinazione ereditata dalla zia per affrontare quella notte nel Galles. Finalmente si erano liberati di Vicky, che Hermione aveva pensato fosse Queenie. Che cosa importava dove fosse andata a finire quella strana bambina? Che cosa stava macchinando la mente di Alison da non osare tradurlo in parole? Fuori, all'aria aperta, sotto la luce del sole, dove le ombre delle case si allungavano verso di lei, Alison si sentiva smascherata di fronte a se stessa. Rowan era lì davanti a lei e ogni altra idea era ridicola: in che altro posto pensava potesse essere la bambina? Forse in cielo, sulle dune butterate, nelle onde spumeggianti che bagnavano la spiaggia? Quell'idea la fece sentire sleale, crudele e più confusa che mai. Quando sua madre l'afferrò più saldamente per il braccio, Alison si irrigidì, aspettandosi che Edith le chiedesse che cosa la preoccupava. Ma la madre si limitò a proporle: «Aumentiamo il passo e raggiungiamoli. Facciamogli vedere chi siamo». Rowan e i due uomini avevano quasi raggiunto le case che segnavano la fine della passeggiata, da dove avrebbero dovuto tornare indietro o continuare sulla spiaggia. Improvvisamente, Alison pensò a come poteva dimostrare di essersi sbagliata e stava per parlarne a Edith quando, senza un motivo apparente, Rowan e i due uomini si bloccarono vicino alle case. Il tempo sembrò fermarsi intorno ad Alison, come in una fotografia spietatamente nitida e immobile. Era sicura di aver visto Rowan bloccare gli uomini. La bambina si era irrigidita come se avesse intuito, senza il bisogno di girarsi, che Alison stava per parlare, come se sapesse ciò che sua madre stava per dire. Alison deglutì e farfugliò: «A dire la verità, mi sta venendo mal di testa. Raggiungili tu, io me ne torno a casa». Parlò sottovoce in modo che solo Edith la sentisse e tenne gli occhi fissi sulla schiena di Rowan. Il cuore le saltò in gola quando vide Rowan che si
girava improvvisamente, con il viso inespressivo, mentre tirava la manica di Keith. «Che cosa c'è?» domandò l'uomo. «Alison torna a casa perché ha il mal di testa. Io farei volentieri due passi con voi se me ne date la possibilità.» «Torniamo tutti», esclamò Derek. Alison era sicura che Rowan gli stesse tirando la manica. «Avresti dovuto dirmelo che eri stanca, Edith. Non abbiamo più l'età di Rowan.» Il viso di Rowan rimase impassibile. Alison pensò a una maschera dietro la quale si nascondeva un burattinaio che manovrava gli uomini. Quell'idea era ancora più assurda delle altre, ma sicuramente significava che aveva bisogno di stare un po' lontano da Rowan per schiarirsi le idee. «La mamma non è stanca e vuole continuare, vero?» implorò Alison. «Non potrei rilassarmi sapendo di aver rovinato la vostra passeggiata, Derek. Perlomeno, fai fare ancora quattro passi a Rowan. Ha bisogno di un po' di moto, dopo essere stata al chiuso per tanto tempo.» «Andiamo avanti ancora un pochino», propose Edith. «Ti meriti un po' di riposo prima di tornare a lavorare.» Alison l'abbracciò e la lasciò andare immediatamente per paura che Edith avvertisse che qualcosa non andava. Mentre si girava verso casa, la testa cominciò a farle male. Fece pochi passi e si voltò. Gli altri stavano passeggiando lungo la spiaggia. Nel momento esatto in cui li guardò, Rowan si girò verso di lei. La bambina era troppo lontana per riuscire a vedere l'espressione del suo volto, ma Alison si sentì scoperta, con la vergogna dipinta in viso e più paranoica che mai. Si affrettò verso casa, quasi correndo. La passeggiata era deserta. Una brezza leggera soffiava tra le dune e spruzzava sabbia e nevischio sulle gambe di Alison. Increspature simili a crepacci si aprivano sulle onde del mare. Niente si muoveva attorno a lei. Si sentiva sola, delusa, derubata della sua bambina per colpa dei propri dubbi. Il riverbero del mare, della sabbia e dell'asfalto le trapanava il cervello, ma non doveva entrare in casa a sdraiarsi: era giunto il momento di scoprire la verità. Infilò la chiave nella toppa ed emise un respiro che le fece rimbombare la testa. Girò la chiave con le dita intorpidite e aprì la porta. Entrò in casa e si bloccò, aggrappandosi allo stipite. La casa non era vuota: c'era Rowan che lavava i piatti in cucina o metteva in ordine la sua stanza, che scriveva bigliettini ai suoi genitori o che leggeva così tranquillamente che non si sapeva mai dove fosse finché non
la si sentiva ridere. Se tutto quello era soltanto un ricordo, sembrava incredibilmente reale. Era come se Rowan le fosse stata vicino per tutta la passeggiata, sperando di essere notata quando erano sole. Alison chiuse la porta e si aggirò per la casa. La vista delle stanze vuote e l'odore dei libri ammuffiti che aleggiava per tutta la casa non la fecero sentire più vicina a Rowan. Ma c'era qualcosa che l'avrebbe aiutata. Corse di sopra nella sua stanza e rovistò nella borsetta alla ricerca delle letterina. «Cara mamma e caro papà, vi volio bene e non mimporta se non mi comprate molte cose percé non avete tanti soldi...» Era il suo ultimo legame con la Rowan di un tempo. Sbattè gli occhi cercando di trattenere le lacrime, mentre la vista le si annebbiava. Il bigliettino avrebbe potuto aiutarla a scoprire la verità. Era davanti alla porta della stanza di Rowan, quando ebbe la terribile sensazione che Rowan fosse già a casa e che l'aspettasse, la nuova Rowan, quella insolente e guardinga. Spalancò la porta ed entrò, terrorizzata dall'idea di avventurarsi in quella tana. Corse verso la finestra e spinse il traballante telaio scorrevole, sperando di sentire le voci dei famigliari quando fossero ritornati. Poi cominciò a cercare. Trovò il diario sotto una pila di libri. Tutti i dorsi dei volumi erano rivolti verso il muro. Era un modo astuto per nascondere il diario, senza darlo a vedere, nessuno l'avrebbe mai notato, pensò, e avvertì la sua ossessione simile a un sussurro stridulo che le trafiggeva la testa. Nonostante avesse desiderato tanto leggere ciò che Rowan aveva scritto sull'ultima notte trascorsa in Galles, non aveva mai chiesto di farlo; non avrebbe mai pensato di leggere il diario senza permesso, ma se ora poteva provare che si stava sbagliando, non doveva esitare. Si sedette sul letto, appoggiò il bigliettino di Rowan sulle gambe e scoprì di aver paura ad aprire il diario. La gola era secca per l'odore della carta stantia e le mani erano paralizzate dal terrore. Fece una promessa a se stessa: il diario le avrebbe rivelato la verità, e si sarebbe comportata di conseguenza; se avesse scoperto di essersi sbagliata, si sarebbe fatta curare mentre i suoi genitori erano ancora da lei. Aprì il diario, fece scorrere velocemente le pagine vuote finché trovò quella che cercava. Si sforzò di non chiudere gli occhi per poter leggere la verità. Era la descrizione del giorno
di Natale. «Oggi ho ricevuto tre libri di Dickens e un vestito nuovo. Poi abbiamo pranzato e ci siamo mascherati. Più tardi abbiamo fatto un gioco da oca. Naturalmente ho vinto, poi è giunta l'ora di andare a letto.» Alison sbattè gli occhi senza riuscire a capire esattamente quello che provava. Il tono del diario era incredibilmente freddo e non era stato nemmeno specificato da chi provenissero quei regali: ciononostante davanti ai suoi occhi c'era la prova che cercava. Quella pagina del diario e la letterina di Rowan erano stati scritti con la stessa calligrafia. Eccola finalmente: la verità. La bambina che aveva scritto l'ultima pagina del diario era ormai l'unica Rowan ed era questa la realtà che Alison non era riuscita ad affrontare, forse perché rimproverava se stessa per aver perso la bambina che aveva allevato e amato. Rowan stava crescendo, allontanandosi da lei, e Alison non poteva biasimarla. Per quanto riguardava lei stessa, forse la cura non sarebbe stata così drastica, dal momento che stava affrontando la verità. Chiuse la finestra, tremando per la brezza che sembrava aver congelato le sue speranze. Grazie a Dio, aveva notato l'esatta posizione del diario: Rowan doveva sentirsi già sufficientemente osservata. Alison diede un'ultima occhiata al diario e al bigliettino, come se tutto ciò potesse aiutarla a dimenticare il passato e ad accettare la nuova Rowan. Improvvisamente sussultò, come se un essere invisibile l'avesse afferrata. La sensazione svanì come un fiocco di neve, prima che Alison potesse rendersi conto di averla realmente provata. Ma quel tocco era stato caldo. Forse tutto ciò era stato causato dallo choc provato mentre si rendeva conto della verità, leggendo le pagine del diario. Alison emise un sospiro di sollievo o di disperazione. Non era ancora finita. Non si era quasi accorta di quello che le pagine rivelavano. . Si sedette così pesantemente che il letto scricchiolò. Cominciò a sfogliare il diario con dita tremanti. Trovò l'ultima considerazione che Rowan aveva scritto in Galles, riferendosi a una fotografia di Vicky che Hermione le aveva mostrato. C'erano le impressioni relative alla maggior parte dei giorni: quanto fosse felice di essere a casa, quanto la maggior parte dei libri della biblioteca della scuola non la interessassero, quanto la signorina Frith pretendesse di sapere più di quello che effettivamente sapeva... L'unica emozione espressa era l'impazienza, ed era l'impazienza che l'aveva
tradita. Nelle prime annotazioni gli errori di ortografia erano numerosi come sempre, ma dal giorno precedente Rowan era in grado di scrivere perfettamente mascherati, ho visto e a letto. Non era possibile. Sicuramente a Rowan piaceva leggere libri di Dickens, ma Alison avrebbe dovuto accorgersi che la bambina non poteva saper scrivere correttamente il nome dello scrittore inglese. Alison strinse rabbiosamente i pugni prima di riprendere a sfogliare il diario. Gli errori di ortografia diminuivano a mano a mano che ci si avvicinava al giorno di Natale. Il miglioramento avrebbe potuto essere convincente se non fosse stato così rapido, ma ora persino l'errore in gioco da oca risultava solo apparente. Chi scriveva si era stancato di fingere o forse non sopportava di dover fare tutti gli errori che faceva Rowan. Alison piegò la letterina e la infilò nel diario, che mise nella sua borsetta a tracolla. In quel momento provava solo una crescente sicurezza che la fece sentire più vicina a Rowan, la Rowan che aveva coccolato e amato, anche se non sempre nel modo più giusto, e che ora avrebbe rivoluto con sé. Aveva promesso a se stessa di scoprire la verità e di agire di conseguenza e nel profondo del suo cuore sapeva che c'era una sola spiegazione per i cambiamenti avvenuti nel diario e in Rowan. Ma se le sue supposizioni erano esatte, aveva ragione a essere sempre più nervosa. Si chiedeva perché la bambina che c'era là fuori, che sembrava sapere quello che Alison aveva in mente di fare, non avesse insistito per impedirle di tornare a casa. 32 Derek pensò che Alison fosse sul punto di parlare quando Edith entrò nel soggiorno, dicendo: «Rowan ti vuole, Derek». Alison piegò la testa verso la rivista di Edith e sprofondò nel silenzio. «Che cosa stavi dicendo, Ali?» le chiese Derek. «Posso aspettare. Vai di sopra e vedi che cosa vuole.» Aveva un tono troppo cinguettante, come una radio con il suono troppo acuto, e non gli piacque per niente. Per prima cosa doveva andare da Rowan. La bambina era a letto, le mani giunte appoggiate sulle coperte e la testa leggermente sollevata dal cuscino. Appena entrò nella stanza, i suoi occhi si girarono verso di lui e Derek ebbe la sconcertante impressione che forse avrebbe fatto meglio a bussare prima di entrare. «Che cosa c'è, tesoro?» le domandò. Rowan sembrò trovare quella battuta eccessivamente familiare. Anche
quando l'aveva trovata nel cimitero, si era comportata in modo distaccato e si era dimostrata riluttante nel farsi abbracciare. Da allora, Derek non ci aveva provato molto spesso. La bambina alzò le mani giunte, come se stesse pregando, e si sporse verso di lui con una tenerezza che Derek certo non si aspettava. «La nonna rimarrà qui?» «Ma certo, e anche la mamma. Sai che non ti lasceremmo mai da sola in casa.» «So che la mamma è qui. Ma vorrei anche la nonna.» «Te l'ho già detto. Perché me lo chiedi?» Lei lo fissò come se si aspettasse che conoscesse già la risposta. E la cosa peggiore era che lui credeva di conoscerla. «Adesso cerca di dormire, d'accordo? Ti vogliamo tutti bene», bofonchiò in tono imbarazzato, chinandosi per baciarla sulla fronte. Quando le labbra la sfiorarono, avvertirono la pelle fredda e raggrinzita. Le lanciò un'ultima occhiata dalla porta, ma la bambina aveva già chiuso gli occhi. Derek corse da basso, pieno di una rabbia protettiva, e pregò di non sentirsi mai più in quel modo. «Che cosa voleva?» chiese Alison con aria volutamente casuale. «Solo assicurarsi che non uscissimo tutti, come se potessimo fare una cosa simile. Che cosa volevi dirmi, prima?» «Volevo avvisarti di non far ubriacare troppo mio padre. Ricordati che dopodomani devono tornare a casa.» Derek avvertì che gli stava nascondendo qualcosa, proprio come lui. Sembrò la negazione di tutto quello che avevano condiviso e costruito insieme dal periodo ancora precedente al loro matrimonio. Sentì lo sgomento che si tramutava in parole, obbligandolo ad aprire la bocca, ma poi fu Keith a rompere il silenzio. «Coraggio, lascialo venire con me a bere qualcosa. Non siamo ancora riusciti a parlare da uomo a uomo.» Dopotutto, lei voleva che Derek si sentisse parte della sua famiglia. E lo desiderava anche lui, anche se forse non in quelle circostanze. Seguì Keith nella notte, con il vento gelido che soffiava, simile a una tempesta di neve. La baia oscura era tempestata di creste di schiuma che si agitavano in lontananza e le navi brillavano come tizzoni ardenti mentre beccheggiavano fra le onde. All'interno del pub, gli occhiali di Keith si appannarono immediatamente. Derek ordinò due birre e Keith si pulì le lenti, mormorando: «Spero che voi due non dobbiate più incontrare difficoltà». Un disco iniziò a diffondere God Rest Ye Merry Gentlemen attraverso gli altoparlanti disseminati in ogni angolo del bar. Keith si sedette accanto a una slot machine e brindò con Derek, facendo tintinnare il bicchiere. «Bene, è quasi finito
un altro anno e il mondo non è ancora crollato.» «E neppure la maggior parte di noi», proseguì Derek, cercando il modo più adatto per introdurre l'argomento di cui avrebbero dovuto parlare, quando si sentì afferrare per una spalla. «È una serata per soli uomini, giusto?» esclamò Eddie. Appoggiò il suo boccale e barcollò fra i tavoli vicini alla ricerca di una sedia. «A essere sincero, Eddie», gli spiegò Derek, «questa è una specie di riunione di famiglia.» «E gli altri dove sono finiti? Sono già sotto il tavolo? Pensavo non ne parlaste mai, troppo perfetti o qualcosa del genere. Non ti preoccupare, me ne vado subito. Non svelerò i tuoi segreti di fronte al tuo bravo giardiniere, anche se devi ammettere che eri felice di vedermi quando la tua casa doveva essere tappezzata.» Riprese il boccale e lo alzò con una dignità esagerata. «Non ci faccia caso», farfugliò rivolgendosi a Keith, come se a ogni parola dovesse togliersi una caramella gommosa dai denti. «Facciamo sempre così.» Quando si fu allontanato, barcollando, Keith proseguì: «È vero?» «Mi giunge nuova.» «Comunque poteva unirsi a noi, a meno che tu non voglia davvero parlarmi in privato; in tal caso dovrò fare la persona seria.» Aggrottò le sopracciglia con aria incoraggiante e bevve un sorso di birra. «Se io ed Edith ti possiamo aiutare in qualche modo, non devi fare altro che dircelo.» «Sei molto gentile, Keith. Sei un vero amico.» Ma era anche il padre di Alison e come avrebbe reagito a quello che stava per dirgli? «È per come ci stiamo comportando, da quando le cose si sono messe male. Il modo in cui ci siamo ridotti.» Trangugiò un sorso di birra per lavare la sensazione di inadeguatezza. «Forse l'hai notato anche tu.» «Bisogna sempre guardare avanti, vecchio mio. Credo che il vostro sia uno di quei matrimoni che si costruisce giorno per giorno, anche se a volte vi sembra di non riuscire più a sopportarvi. È questo il problema, vero? Proprio ieri notte, io ed Edith ci siamo accorti che ve la state cavando benissimo.» «Fino a ieri sarei stato d'accordo con voi.» «Capisco che tu faccia fatica a parlarne, figliolo, ma non posso aiutarti se non mi spieghi come stanno le cose.» Derek tracannò la birra. Attese che il calore dell'alcol si diffondesse anche alla testa, poi fece un cenno con la mano a Keith che stava per offrirgliene un'altra. «Aspetta, ti racconterò tutto. Si tratta di Alison. Credo che quello che è accaduto l'abbia
sconvolta più di quanto voglia lasciarci pensare.» «E molto probabile, non credi? Dopotutto, ha perso sua sorella e ha anche temuto di perdere la sua unica figlia.» Gli si appannarono gli occhi e fu costretto a sbatterli più volte per allontanare il ricordo di quel lutto recente. «Ma farebbe meglio a condividere il suo dolore con te. Se Edith e io non ci fossimo sorretti a vicenda dopo la morte di Hermione, non so dove saremmo finiti. Parlerò io con Alison, se credi che possa servire a qualcosa.» «Forse sarebbe meglio non dirle che abbiamo parlato di lei. È diventata piuttosto diffidente. Secondo me è convinta che Rowan in realtà non sia ancora tornata.» Keith apparve sconcertato e sollevato nello stesso tempo. «Che cosa ti fa pensare una cosa simile?» «Non hai notato come la guardava oggi?» «Forse sì, adesso che me lo fai notare. Lascia che ti riempia di nuovo il boccale. Ti posso dire che non è la prima volta che Alison si comporta così, quindi su con la vita.» Derek lo fissò mentre aspettava di essere servito al banco. Un omone calvo divorava un panino al tacchino e inseriva una monetina dopo l'altra nella slot machine, che cinguettava come un uccello vorace. Alla fine Keith ritornò, reggendo i due boccali. «Non è la prima volta», lo incalzò Derek con insistenza. «No. No, ne sono sicuro.» Keith appoggiò il boccale e poi si sedette con calma. «Quando Alison aveva tre anni, Hermione è stata ricoverata in ospedale e ovviamente Edith è rimasta con lei. A quei tempi era già difficile ottenere il permesso per la madre, quindi, ovviamente, vietarono l'ingresso ad Alison, probabilmente solo per una forma di ripicca. A ogni modo, quando tornarono a casa, Alison si mostrò alquanto diffidente nei confronti di Hermione, e direi anche con sua madre. Solo in seguito ne abbiamo scoperto la ragione: Alison credeva che quando una persona anestetizzata si risvegliava, poteva diventare qualcun altro. Hermione dovette convincerla, raccontandole tutto ciò che avevano fatto insieme. Secondo me era stata la lontananza dalla madre e da Hermione a farla sentire così, e sono sicuro che anche questa volta è la stessa cosa. Ma ne verrà fuori, non ne sei convinto?» «Ma non è più una bambina.» «Né più né meno come noi. E comunque, non hai ancora capito perché si sente tanto a disagio con Rowan? Rowan non è più la bambina di un tempo
e credo che sia anche comprensibile. Forse dovresti far sapere ad Alison che a volte anche tu provi le stesse sensazioni.» A Derek parve di dover demolire un muro che si era creato fra lui e Keith, senza nemmeno capire che funzione potesse avere. «Ma non è così», sbottò. «Non solo pensa che Rowan non sia più lei, ma è anche convinta che Rowan sia da qualche altra parte. E le parla anche quando non c'è, per l'amor del cielo!» «Sì, ma questo non significa...» «Non ti ho ancora raccontato che cos'è successo la scorsa notte. Mi sono svegliato e l'ho trovata seduta sul letto e poi si è messa a parlare. Ha mormorato: 'Rowan, sei tu', ma la stanza era vuota, capisci. Poi si è alzata e le ho lanciato un'occhiata: te l'assicuro era completamente sveglia. È andata fino alla stanza di Rowan e l'ho sentita fermarsi davanti alla porta. Credimi Keith, se fosse entrata sarei corso là in un batter d'occhio e proprio a causa del suo strano atteggiamento. Forse credi che io stia esagerando.» Ebbe un attimo di esitazione, sentendosi crudele nei confronti di quel vecchio. «Sai perché Rowan mi aveva chiamato di sopra, poco prima? Voleva assicurarsi che sua nonna rimanesse in casa. Aveva paura a rimanere sola con sua madre.» Non aveva ancora raccontato a Keith la cosa peggiore: aveva udito Alison mormorare che credeva di impazzire. Keith aggrottò le sopracciglia e si fissò le nocche della mano, prima di riprendere: «Vuoi che ci fermiamo ancora qualche giorno?» «Non credo che Rowan sia davvero in pericolo, non posso accettare una cosa simile.» «Vuoi dire che se cambiassimo i nostri programmi Alison potrebbe accorgersi che abbiamo parlato di lei.» Far parte della famiglia voleva dire anche questo: condividere i pensieri e le preoccupazioni degli altri. Aveva guadagnato un parente, ma che cosa rischiava di perdere? «Potreste portare Rowan con voi, mentre cerco di capirci qualcosa», proseguì Derek. «Può fermarsi da noi quanto vuole, lo sai bene. Ma mi chiedo che cos'hai in niente di fare con Alison.» Era esattamente ciò che Derek temeva di dover spiegare. «Forse potrebbe parlarne con un medico. Potrei farlo anch'io, se servisse a qualcosa. Magari potrebbe prescriverle dei farmaci, non sei d'accordo?» «Mi sembra una buona idea, figliolo», rispose Keith, ma quella ovvia affermazione non riuscì a rassicurare Derek. «Probabilmente tutta la faccen-
da è iniziata con la tragedia della povera Hermione. Forse il Natale ha peggiorato le cose perché Alison sente la mancanza della sorella.» «Non pensi che stia dando la colpa a Rowan per quanto è accaduto a Hermione?» «Dio solo sa quello che le può passare per la testa con tutte queste morti e queste angosce. Mi stavo chiedendo se non sarebbe il caso che le parlasse Edith.» «Devo essere io a farlo. Volevo solo discuterne con te prima.» «Sono contento che tu l'abbia fatto. Mi sembra di conoscerti un po' meglio e ciò mi fa piacere. Non ne parlerò a Edith finché non saremo a casa, altrimenti non riusciresti più a sbarazzarti di noi. Forse le cose miglioreranno quando ce ne saremo andati, perché Alison avrà più tempo da dedicare a Rowan. Ma nel caso avessi bisogno, in qualsiasi momento del giorno e della notte, non esitare a chiamarci. Uno di noi sarà sempre sveglio.» Derek finì la birra e si alzò per ordinarne un'altra. Era riuscito a confidarsi con qualcuno e si sentiva decisamente meglio di quanto avesse osato sperare. «Cerca solo di prenderti cura di tutt'e due, anche se non c'è bisogno di dirtelo», proseguì Keith, come se fosse fuori discussione proteggere una a discapito dell'altra. La folla che gremiva il pub si accalcò attorno a Derek e i loro respiri fumosi si condensarono davanti alle luci, rendendole opache. Derek pregò di non essere mai costretto a operare una tale scelta. 33 Lasciate sole, le donne iniziarono a parlare della loro famiglia. Edith avrebbe voluto che Richard si riunisse a loro per Natale, poiché riteneva che nessuno dovrebbe rimanere solo in un giorno simile, ma quando Alison l'aveva chiamato, lui aveva declinato l'invito con una calma che nascondeva un grande dolore. Richard non era andato al funerale di Hermione. Il cottage di Hermione era stato messo in vendita e il ricavato sarebbe stato diviso equamente fra la sorella e i genitori, come precisato nel testamento. Edith sosteneva che avrebbero dovuto spendere una parte dell'eredità per una vacanza in Spagna. «Almeno da questa tragedia ricaveremo qualcosa di positivo.» Alison mormorò poche parole il più gentilmente possibile, senza tuttavia impegnarsi per il futuro, visto che non sapeva neppure che cosa le riservasse il presente. Versò qualcosa da bere per entrambe, nonostante le proteste della madre, e fu felice quando Edith iniziò
a rivangare i ricordi dell'infanzia di Alison: perlomeno quel passato era ormai sepolto e non le faceva più paura. Dopo un po', iniziò a chiedersi se per caso sua madre non stesse volutamente evitando di parlare di Rowan. Continuava a nutrire gli stessi dubbi del giorno di Natale? Aveva avuto paura per Rowan, ma solo perché temeva che la bambina potesse farsi del male. Aveva suggerito di portare Rowan da un medico perché le era parsa troppo cambiata, troppo vecchia per la sua età e troppo simile a Queenie. Alison aveva cercato in tutti i modi di dissuadere la madre, ma ora sperava di non esserci riuscita. Era sicura di non essere l'unica a provare il desiderio di essere rassicurata. Stava cercando un pretesto per ritornare sull'argomento, quando Edith la precedette, facendo un cenno con il capo in direzione della porta. «Rowan è forse scesa?» Per un attimo Alison pensò che l'intrusa avesse deciso di impedirle di parlare a Edith, ma si accorse di non essere minimamente nervosa. «Hai sentito qualcosa?» chiese. «Non esattamente. Ho solo avuto l'impressione che ci fosse qualcuno qui. Può capitare, no?» «Certo, è possibile», esclamò Alison, augurandosi che fosse davvero così ricettiva. «Credo che tu abbia ragione. Vai pure a vedere.» Trattenne il respiro mentre la madre andava verso la porta. Edith sfiorò la maniglia e piegò la testa verso i pannelli superiori, poi spalancò la porta. Alison scorse qualcosa che si muoveva e il cuore le sobbalzò furiosamente, ma era solo il riflesso della porta sulla tappezzeria argentata. Edith controllò a destra e sinistra nell'atrio e assunse un'espressione soddisfatta. «Ero sicura che fosse qui. Aspetta un attimo, voglio vedere se è sgattaiolata di sopra.» «Vengo con te.» Edith le lanciò un'occhiata penetrante e si avviò verso le scale. Non riusciva ad avvertire quel desiderio ardente che sembrava riempire quella scala intonacata e che cercava di farsi notare? Esitò alla vista del piano superiore, poi scosse la testa, come se volesse convincersi che il corridoio era vuoto. Si avvicinò in punta di piedi alla porta della stanza di Rowan, lanciò un'occhiata all'interno e s'irrigidì. Alison le si affiancò immediatamente e vide quello che stava fissando: il corpo di Rowan giaceva supino sul letto, con le mani giunte sul petto, nella posizione che ormai assumeva sempre nel sonno. «Mio Dio», mormorò Edith, «assomiglia proprio a...» Era pronta per conoscere la verità. Era giunto il momento di mostrarle il
diario. Alison l'allontanò dalla porta, fingendo che l'occupante del letto non si fosse accorta di loro. Si mise un dito sulle labbra e condusse Edith fino alle scale, facendole capire che avrebbero potuto parlare in soggiorno. Ma non erano ancora arrivate da basso quando Alison si rese conto che non avrebbe potuto parlarne con sua madre. Lance aveva scoperto qualcosa ed era morto. Hermione sapeva molte cose ed era morta. Come poteva Alison far correre un simile pericolo a qualcuno, in particolar modo a sua madre? In quel momento, non voleva neppure pensare ai rischi che lei stessa stava correndo. Giunta nel soggiorno, sorrise amabilmente alla madre mentre recuperavano i bicchieri, ma Edith le chiese con voce allarmata: «Ma l'hai vista? Hai notato come dorme?» «L'ha sempre fatto, mamma.» Alison si sentiva sleale nei confronti sia della madre sia di Rowan. «O almeno, da quando era ancora in fasce.» «Be', io non l'avevo mai vista prima d'ora.» Sua madre increspò le labbra e appoggiò il bicchiere. «Perché non mi dici che cosa sta succedendo? Non siamo mai state capaci di tenerci nascosto qualcosa.» «Mamma, vorrei solo che la smettessi di preoccuparti senza motivo, tutto qui. Che cosa importa la posizione in cui dorme, purché riesca a farlo? È di nuovo con noi, no? Che cos'altro potremmo desiderare?» Sua madre la fissò a lungo. Alla fine, prese il bicchiere, se lo fece riempire e ricominciò a parlare del Galles e di Gwen ed Elspeth che avevano rilevato il negozio di Hermione. Ogni tanto lanciava qualche occhiata in direzione della porta e Alison sperò che si convincesse che quella sensazione era solo frutto della sua immaginazione. Si sentì sollevata quando tornarono Keith e Derek, ma il loro tono disinvolto le confermò che i due uomini avevano parlato di lei. Doveva convincerli che andava tutto bene, altrimenti non l'avrebbero mai lasciata sola con la bambina. Le sarebbe piaciuto affrontare insieme con loro l'intrusa, ma poteva essere troppo rischioso anche per l'intera famiglia, per quanto fosse ridicolo e avvilente avere tanta paura di una bambina. «Volete un caffè?» propose allegramente, dirigendosi in cucina. Ebbe la sensazione che fossero rimasti ad ascoltarla per controllare che non salisse nella stanza di Rowan, e provò l'impulso di ridere e piangere nello stesso tempo. Ora era a letto con Derek ed entrambi fingevano di dormire, quando Alison si rese conto che probabilmente il marito la notte precedente l'aveva sentita. Forse pensava che stesse diventando matta. Voleva abbracciarlo e
parlargli per fare in modo che le credesse e contemporaneamente voleva allontanarsi da lui, che aveva osato pensare una cosa simile sul suo conto. Ma per il bene di Derek, riuscì solo a rimanere immobile, maledicendo l'intrusa nella stanza accanto che l'aveva separata dal marito. Forse non era anche lei da biasimare per non aver dato retta a sua sorella? Ma qualcuno le stava dicendo che ormai non aveva più nessuna importanza, qualcuno che le era molto vicino, in quella stanza. Ancora più vicino se avesse chiuso gli occhi. Qualcuno l'amava per quello che era e con quel pensiero in testa si addormentò. Al mattino si spaventò all'idea di lasciare Rowan in quella casa poco ospitale, in compagnia dell'intrusa. «Vieni con me», mormorò quando nessuno poteva sentirla. Mentre andava in ospedale, continuò a guardare il sedile accanto al suo, sperando di scorgere quello che ormai avvertiva dentro di sé. A un certo punto, mentre un fascio di luce proveniente da una strada laterale inondava la macchina, le parve addirittura di intravedere il viso di Rowan che le sorrideva piena di desiderio. L'immagine svanì immediatamente, come una stella talmente lontana che nessuno può affermare di aver visto con certezza. In ospedale, tutti i bambini volevano mostrare ad Alison i regali ricevuti, e Rowan sembrò fondersi nell'atmosfera insistente creata dai piccoli pazienti. Durante il giorno Alison si distrasse spesso dai suoi pazienti, nel tentativo di avvertire la presenza di Rowan: non voleva accettare che si fosse persa nei corridoi che puzzavano come la stanza di Queenie. Ma non era giusto per i piccoli ammalati e nemmeno per Rowan. Non poteva andare avanti così. A casa, Derek e i nonni non vedevano l'ora di raccontarle che Rowan si era comportata proprio bene durante l'intera giornata. Alison fu felice di notare che non nutrivano sospetti, ma si rattristò di fronte alla determinazione con la quale cercavano di convincerla. «So che sei lì», rassicurò Rowan in silenzio, mentre gli occhi della bambina in quella casa le si piantavano addosso, vacui e trionfanti. Quella notte sognò di aver perso Rowan. Era a Liverpool per i saldi di fine stagione e lottava in mezzo alla folla che si accalcava nelle strade piene di negozi, trascinandosi pigramente da una vetrina all'altra e fermandosi davanti ai venditori ambulanti. Stava pensando che perlomeno Rowan non doveva correre per starle dietro, quando si rese conto che la bambina era scomparsa. Si guardò attorno disperatamente nel tentativo di scorgerla e allungò il collo per sbirciare al di sopra della massa di volti indifferenti,
simili a maschere; gridò più volte il nome della bambina e le parve quasi di udire la sua vocina oltre il mormorio indistinto della folla. Poi cercò di farsi largo in quella fiumana che sembrava non volesse lasciarla passare. Qualcuno si offrì di aiutarla per ritrovare la bambina scomparsa e quando Alison ammise di non riuscire più a vederla, la folla che gremiva la strada scoppiò a ridere in modo così crudele da farla allontanare di corsa. Alison si svegliò tremando e sudando freddo, ben sapendo che quel sogno non era molto lontano dalla verità. I genitori se ne andarono prima dell'alba per evitare il traffico. «Spero di vederti presto, Derek. E cerca di prenderti cura della nostra Alison: ormai ci è rimasta solo lei», lo salutò Edith con un mesto sorriso. «Fatti sentire», gli raccomandò Keith e fece per stringergli la mano quando Rowan apparve nell'atrio argentato. «Torna subito a letto», urlò Alison, infuriata perché il corpo di Rowan non riusciva più a dormire. «Saluta la nonna e il nonno e poi torna a letto fino a quando sarà ora di alzarsi.» Alison abbracciò i genitori con grande affetto, poi rimase a osservare i fari dell'auto che si assottigliavano e svanivano oltre la curva. La bambina rimase dietro di lei, sul marciapiede, con gli occhi fissi sulle stelle che l'alba stava iniziando a spegnere. Il suo respiro colorava di grigio l'aria circostante e riempì Alison di un profondo disgusto: quello non era il respiro di Rowan. «Ti ho detto di entrare in casa», le ordinò quasi urlando. «Cerca di dormire ancora un po', tesoro, anche se non ne senti il bisogno», mormorò Derek, spingendo gentilmente la bambina dentro casa. Rowan sembrò irrigidirsi quando il padre la sfiorò. «Non essere troppo dura con lei, Ali», le sussurrò, mentre la bambina saliva le scale. «Dev'essere stato molto difficile per lei, non dimenticarlo. So che anche tu hai sofferto molto, ma ormai è tornata e dobbiamo sforzarci di essere felici, d'accordo?» , «Hai ragione», mormorò Alison, lottando contro la tentazione di raccontargli la verità. Gli prese la mano e tornarono a letto per un'ora. Alison avrebbe voluto fare l'amore, per sentirsi più vicina al marito, ma si rese conto che non avrebbero potuto, dato che Rowan aveva trovato rifugio proprio nella loro stanza. Rimasero a letto abbracciati mentre l'alba colorava il cielo. Rowan contribuiva ad accentuare la sua calma, e si ergeva come un muro pronto a chiudere l'intrusa nell'altra stanza. Non poteva resistere a lungo, ma forse era una specie di promessa e Alison accarezzò quell'idea fino a quando la sveglia l'avvisò che era ora di andare a lavorare.
Si stava lavando i denti quando da basso squillò il telefono. Alison si precipitò a rispondere, ma era la scuola che voleva parlare con Derek. «Alcuni vandali hanno sabotato l'impianto elettrico. Credo che Rowan non avrà voglia di venire con me, quindi dovrà stare da Jo.» «Va bene», disse Alison, scacciando con rabbia i suoi pensieri e nascondendosi dietro una maschera gioviale. «Puoi accompagnarla tu? Io devo proprio scappare.» Alison raschiò le incrostazioni di ghiaccio dai finestrini dell'auto, pregando che si mettesse in moto. Mentre premeva sul pedale, con l'orecchio teso verso il motore sputacchiante, vide Derek che accompagnava di corsa la bambina da Jo. Finalmente la macchina si mise in moto con un rombo improvviso e si diresse verso la strada principale. Guidò per circa mezz'ora, senza meta, lungo le strade gelate, passando davanti alle auto parcheggiate e ai bambini che pattinavano sul marciapiede. Alla fine tornò verso casa. Quando giunse in prossimità del cavalcavia accanto alla baia, i raggi del sole invasero l'automobile. Nella luce accecante, al suo fianco, intravide il viso di Rowan: la bambina sembrava preoccupata, quasi impaurita. «Andrà tutto bene», la rassicurò con aria decisa, mentre l'immagine scompariva. Posteggiò davanti a casa e telefonò in ospedale per avvertire che non si sentiva bene e che non sarebbe andata a lavorare: era la prima volta che lo faceva in vita sua. Poi si diresse decisa verso la casa di Jo per riprendere la bambina. 34 I danni all'impianto elettrico erano meno gravi di quanto Derek avesse temuto, almeno per quanto riguardava il suo lavoro. Sistemare l'impianto elettrico della scuola era stato il compito più gravoso che gli fosse mai capitato, soprattutto perché aveva dovuto districare la miriade di cavi che i costruttori avevano sepolto sotto mucchi di intonaco. I responsabili della scuola non avevano voluto aspettare il periodo di vacanza, probabilmente perché desideravano tranquillizzare i genitori che i locali sarebbero tornati subito sicuri, dopo l'incidente accaduto. Così aveva dovuto sgobbare la sera e durante i fine settimana per un intero mese. Quell'incarico l'aveva reso popolare in tutta la zona e gli aveva procurato molti clienti, ma Derek si rese conto che l'aveva anche tenuto lontano da Alison e Rowan, proprio quando avrebbero avuto più bisogno di lui.
La vicepreside gli andò incontro nel cortile della scuola proprio mentre Derek scendeva dall'auto. Un vetraio stava riparando una finestra all'ingresso degli alunni. «La ringrazio di essere venuto subito», lo accolse la donna, nel suo completo color porpora. «Spero che non abbia dovuto modificare i suoi programmi per oggi.» «No, non c'è problema.» La seguì all'interno della scuola. Avevano strappato i disegni dei bambini dalle pareti e vi avevano appiccato fuoco usando un banco. «Che bastardi», bofonchiò. «Grazie al cielo esistono ancora ragazzi come i nostri. Non che la maggior parte sia cattiva, ma purtroppo ci sono sempre elementi di questo genere.» «Comunque Rowan si sta comportando bene, no?» La vicepreside fece un sorrisino, credendo che Derek stesse scherzando. «Direi molto più che bene, signor Faraday. La signorina Frith non vi ha detto che in questi ultimi mesi ha fatto progressi incredibili? Abbiamo solo paura che possa finire con l'annoiarsi.» «Ha saputo che cosa le è capitato? Forse la maestra sta chiudendo un occhio con lei.» «Secondo la signorina Frith non ce n'è bisogno. In tutta la mia carriera, non ho mai visto una ragazzina tanto matura. Se vuole il mio parere, non deve proprio preoccuparsi.» Si fece da parte quando giunsero nella sala riunioni. «Credo che dovrebbe dare un'occhiata qui.» Tutte le lampadine erano rotte e qualcuno aveva strappato un cavo e un pezzo di intonaco. Quell'atto assolutamente stupido e inutile lo lasciò senza parole. Rowan non farebbe mai una cosa del genere, pensò, mentre scopriva che i vandali avevano riempito le prese con la plastilina e gettato un secchio d'acqua sulla scatola dei fusibili. Forse, quando Alison avesse saputo quello che era successo, si sarebbe convinta che il modo migliore di crescere era quello di Rowan. Prese il vecchio asciugacapelli dall'auto e lo usò per asciugare la scatola prima di sostituire i fusibili, poi tolse le prese dal muro per eliminare la plastilina. Aveva già sostituito il cavo e stava rimettendo a posto gli attrezzi prima di preparare un po' di stucco, quando udì i passi frettolosi di una donna lungo il corridoio alle sue spalle. «Ho quasi finito», gridò. «Poteva anche andare peggio.» I passi si fermarono e il silenzio lo costrinse a girarsi, con il cavo rotto che gli penzolava in mano. La donna nel corridoio era Jo. Scattò in piedi in preda all'agitazione e inavvertitamente diede un calcio alla cassetta degli attrezzi. «Dov'è Rowan?»
«Alison è venuta a prenderla.» Derek sentì i muscoli che si irrigidivano e fece fatica a parlare. «Credevo fosse in ospedale. Dove sono andate?» «Sono tornate a casa.» Derek afferrò la cassetta degli attrezzi e si precipitò lungo il corridoio, facendo sobbalzare Jo. «È la madre di Rowan, non potevo impedirglielo», disse in tono di difesa, come se volesse negare la ragione che l'aveva spinta da lui. «Ho pensato che fosse giusto informarti, tutto qui.» 35 Quando Alison arrivò al cancello di Jo, i bambini piombarono nel più assoluto silenzio. Il vento fischiava nell'erba sulle dune, sotto il cielo grigio, e fece rabbrividire Alison che si sentì invadere da una determinazione talmente intensa da provare un briciolo di paura nei confronti di se stessa. Non avvertiva più la presenza di Rowan dietro di sé. Forse era stata costretta a nascondersi per paura della bambina che si trovava in casa di Jo. A quell'idea, Alison si sentì raggelare, e divenne rigida come una sbarra di metallo. Attraversò rapidamente il breve viottolo e suonò il campanello. Jo indossava una vestaglia e un paio di ciabatte. Socchiuse la porta bloccandola con un piede. «Ed ecco come si vestono le donne dell'alta borghesia quando non aspettano visite», recitò come una delle eroine dei romanzi sentimentali che amava tanto leggere. «Non sei in ospedale?» «Mi sono sbagliata. Sono venuta per portarla a casa.» Jo non si mosse. «Non ti spiace, vero?» cinguettò dolcemente Alison. «Posso entrare? Ti prometto che non rimarrò scioccata, qualunque sia lo spettacolo che mi si presenterà davanti agli occhi. Neppure se scoprirò che non hai ancora riordinato dopo il passaggio dei mostri.» «Entra pure a fare due chiacchiere e a bere qualcosa», la invitò Jo, arrossendo. «Ma sul serio, puoi lasciarla qui senza problemi, tanto stanno giocando.» «Mi è sembrato che stessero litigando.» Mentre percorreva il lungo corridoio che conduceva nel locale principale, Alison ebbe modo di trarre un profondo respiro che le strinse la gola e il petto. «Saluta i tuoi amici, signorina. Io e te dobbiamo fare un bel discorsetto.» La bambina era seduta al tavolo e Paul e Mary erano ai suoi piedi. Alzò la testa con estrema calma e fissò Alison. «Stavamo giocando all'impiccato.»
«Giocherai un'altra volta, d'accordo?» Alison si accorse che non si stava nemmeno prendendo la briga di assicurarsi che la sua aria innocente fosse convincente. «Ce la faranno anche senza di te», esclamò, stando attenta a non battere i denti. «Continua a dire che non siamo capaci di scrivere», si lamentò Mary. «È vero», replicò la bambina, «ed è per questo che sei finita impiccata.» Alison si avvicinò al tavolo, cosparso di disegni di impiccati, figure che danzavano appese su parole incomplete, e afferrò la spalla della bambina che s'irrigidì appena si sentì sfiorare. Era proprio come la spalla di Rowan, eppure Alison rabbrividì come se avesse toccato una massa informe piena di vermi. «Basta discutere», ordinò. «Che cos'ha combinato?» la interrogò Jo. Da quando aveva cominciato a lavorare come infermiera, Alison si era sempre augurata di non dover mai discutere con gli adulti che dividono i bambini in due grandi gruppi: le vittime e gli oggetti di proprietà. Ma in questo caso non aveva a che fare con una bambina, pensò spaventata. «Non c'è bisogno di spiegare», rispose, lasciando intendere a Jo che si era comportata come fanno quasi tutti i bambini. Jo stava fissando la sua mano, stretta sulla spalla della bambina. «Non vuoi bere nemmeno una tazza di tè per cercare di calmarti un attimo?» «Non potrei essere più calma, Jo, e vi abbiamo già dato abbastanza disturbo. Ora ce ne andiamo immediatamente a casa, hai capito signorina?» Forse la bambina si sarebbe finta spaventata e avrebbe cercato di far intervenire Jo? Al contrario, si limitò a scrollare le spalle e si alzò in piedi. Senza nemmeno guardare Alison, s'incamminò lungo il corridoio e uscì di casa. «Grazie per averla tenuta d'occhio», mormorò Alison seguendola. La bambina la stava fissando dal cancello di Queenie. Il suo sguardo leggermente sarcastico fece andare su tutte le furie Alison, soprattutto quando si accorse che Jo le stava osservando. Alison aprì la porta di casa e avrebbe spinto dentro la bambina se questa non l'avesse preceduta, camminando impettita e a testa alta. Alison la seguì nell'atrio e si appoggiò alla porta per chiuderla. «Mi sorprendi», sbottò, «cercare di approfittare della gente a cui dedichi così poco tempo», sbottò. La bambina si girò, mentre le foglioline parvero muoversi intorno a lei. «Perché, mamma? Pensavo che fossi tu a sentirti così dopo quello che lei ha detto su di me.» «Credi di essere molto intelligente, eh?» Alison capì dall'espressione della bambina che non avrebbe avuto bisogno neppure di alzare la voce.
«Di chi credi che stia parlando?» sibilò fra le labbra che sembravano paralizzate. «Immagino sia difficile per te dover dipendere da noi, almeno in parte.» «Vuoi dire perché vi ho sentiti mentre confessavate di non avermi voluta? Speravo che ora aveste cambiato idea. Pensavo che foste felici di avermi ritrovata.» La stava punzecchiando perché sapeva che Alison non avrebbe mai rischiato di farle del male, di fare del male al corpo di Rowan. O forse voleva solo provocarla, perché se Alison l'avesse picchiata, avrebbe potuto dimostrare che non era adatta a prendersi cura di una bambina e avrebbe avuto il pretesto per farla allontanare rimanendo nelle mani di chi credeva in lei. Alison doveva assolutamente cercare di controllarsi, non avrebbe raggiunto il suo scopo se non vi fosse riuscita. «Non osare più parlarmi in questo modo. Vai in camera tua e non osare dire una sola parola.» La bambina la guardò piena di risentimento. Nell'oscurità, i suoi occhi assomigliavano al cielo poco prima di una tempesta. Stava smettendo di fingere, pensò Alison, sentendosi attraversare da una vampata di timore simile a una scarica elettrica che mise in allarme la sua mente, pronta a cogliere la benché minima possibilità. Ma la bambina si limitò a sorridere debolmente e sarcasticamente prima di obbedire. Alison ascoltò il rumore dei passi che salivano le scale. Risuonavano decisi e tranquilli, come i passi del vero proprietario della casa. Alison la immaginò mentre si raggomitolava nel letto di Rowan, al sicuro, nel suo rifugio e felice di essere ancora viva. A quel pensiero si precipitò di sopra, come se l'avessero trafitta con un coltello affilato. La bambina era giunta al piano di sopra. Curvò le spalle quando sentì Alison che la raggiungeva, come se temesse di venire picchiata, ma Alison si convinse che la bambina sapeva benissimo quello che stava per accadere. Le balzò davanti e si parò di fronte alla porta della camera di Rowan. «Non cercare di entrare qui. Non è la tua camera.» «Ma insomma, mamma, di chi è allora?» «Della mia bambina. E tu non sei la mia bambina.» Ma era il viso di Rowan che la stava fissando con aria sconsolata. Alison si chiese se per caso non si fosse sbagliata, se non stesse davvero diventando pazza. Come poteva affermare una cosa del genere sapendo che Rowan era già scappata una volta perché si sentiva poco desiderata? Come poteva credere all'esistenza di una Rowan che non poteva neppure toccare e rifiutare invece ciò che i suoi occhi potevano testimoniare? Come poteva
negare che Rowan fosse lì, davanti a lei, con il visino rigido come una maschera, che non muoveva neppure per paura di scoppiare a piangere? Il corpo di Alison desiderava ardentemente fare un passo verso la sua bambina per abbracciarla e dimostrare così che era pur sempre Rowan e che aveva sempre bisogno di lei, nonostante le terribili parole appena pronunciate. Sentì i suoi muscoli tendersi per fare quel passo, il passo che l'avrebbe gettata nelle braccia della bambina. Poi avvertì la tristezza nella stanza di Rowan, una tristezza che stava per essere cacciata per sempre, e non dovette neppure guardare gli occhi della bambina ridotti a due fessure per capire dove si trovava davvero Rowan. «Tu non sei la mia bambina», ripetè con voce gelida e tagliente. «Ho letto il tuo diario e lo sai meglio di me. Non ne potevi più di commettere tutti quegli errori di ortografia, ma a me piaceva il modo in cui scriveva, perché era davvero lei.» «E non vuoi che cresca?» «Tu non sei cresciuta, hai fatto esattamente il contrario», urlò Alison con una risata velenosa. «Questa è la tua seconda infanzia.» «Non starò qui ad ascoltarti se hai intenzione di farmi paura. Voglio andare nella mia stanza.» «E chi te lo impedisce? Sai benissimo dov'è.» La bambina la fissò nell'oscurità che sembrava filtrare attraverso le pareti sbiadite. «Se non mi lasci passare me ne andrò di sopra. Mi piace guardare il mare.» Appena iniziò a salire le scale Alison la seguì, cercando di ignorare il puzzo di libri marci e di mattoni stantii che l'assalì, come se la casa avesse rinunciato ad apparire rinnovata. «Non potrai più usare il binocolo, vero? È scomparso esattamente come Vicky quando non hai più avuto bisogno di lei.» La bambina non si voltò neppure, continuò a salire nell'oscurità, senza nemmeno affrettarsi, nella piena padronanza di se stessa e della casa. Aveva smesso di fingere, dal momento che Alison sembrava incapace di farle del male. Non avrebbe dovuto mostrare il suo disprezzo in modo tanto evidente. Alison si precipitò di sopra, dietro di lei, con le braccia tese in avanti. Doveva vedere che cosa nascondeva la bambina, anche se era sicura di averlo già capito. Aveva sperato che fosse la bambina stessa a mostrarglielo, ma si rese conto che l'unico vantaggio che aveva su di lei era la maggior forza fisica. Era per questo che la stava seguendo, anche se immaginò subito lo spetta-
colo che si sarebbe presentato agli occhi di Derek, dei suoi genitori o di qualsiasi altro osservatore: una donna che si catapultava di sopra per attaccare la sua stessa creatura. Anche ammesso che fosse stato un segno di pazzia, perlomeno la faceva sentire più vicina a Rowan, come non le capitava ormai da mesi. Proseguì barcollando su per le scale, senza toccare le pareti, e si ritrovò nel tratto più buio. L'odore stantio di libri permeava l'oscurità e fu a quel punto che la bambina si girò verso di lei. Gli occhi che la fissavano erano decisamente troppo vecchi per appartenere a una bambina. Aveva aspettato a girarsi nel punto in cui una semplice spinta le avrebbe fatto ancora più male? Alison si scagliò contro la minuscola figura. «Vediamo un po' che cosa nascondi», sbottò affannosamente. Le mani della bambina si alzarono come se volesse ghermire il volto di Alison e l'oscurità dell'ultimo piano parve schiacciare la donna. Prese le mani della bambina e le spinse di lato, poi afferrò il colletto del lungo vestito che indossava. «Dovrai uccidermi per riuscire a fermarmi», gridò. La bambina non fece nulla di ciò che si sarebbe aspettata. Si sedette sulla scala e abbassò le mani nel tentativo di calmarsi. Alison fece altrettanto, continuando a stringere il vestito. Pazza, sei una pazza, le sussurrò una voce dentro di sé. Non c'è niente, proprio niente da vedere. Ma allora perché la bambina non aveva permesso che qualcuno la vedesse nuda da quando era tornata dal Galles? Alison strinse con tale violenza il colletto del vestito che il bottone saltò via. Il collo della bambina era nudo. Alison fissò i tendini che spuntavano attraverso la pelle sottile e pallida, sopra la clavicola, e slacciò un altro bottone. Ma non c'era nulla. Si stava disperando, stava per urlare che le spiaceva, stava per dire alla bambina di correre da Jo o da chiunque altro avesse potuto proteggerla dalla madre impazzita. Alzò lo sguardo, timorosa di vedere ciò che la bambina pensava di lei. Ma i suoi profondi occhi, permeati da un'incredibile innocenza, nascondevano un lampo di trionfo. «Non esserne così sicura», sussurrò Alison, allungando la mano verso la nuca, attraverso la massa di capelli. Trovò subito la catenina. La sollevò e apparve il medaglione, simile a un insetto che strisciava lungo le pieghe del vestito. Alison afferrò la catena allacciata al collo della bambina e la strappò con forza. Schizzò in piedi, stringendo il medaglione, e vide che il lampo di trionfo negli occhi della bambina si era fatto spudorato, come pure il tono della voce mentre bofonchiava: «Mi hai fatto male».
«Sei tu che l'hai fatto a me», urlò Alison, spaventata all'idea che quell'intrusa l'avesse costretta a fare una cosa del genere al collo di Rowan. «Credevi di poterlo mostrare a qualcuno, vero? Mi chiedo come potrai giustificarlo, ora.» La bambina aggrottò le sopracciglia. «Hermione voleva che lo tenessi io», spiegò. «Allora racconterai in giro che te l'ha dato al cimitero, giusto?» ringhiò con la voce che le raschiava la gola. Scese un gradino per mettersi a debita distanza dalla bambina, ma era comunque sufficientemente vicina per poterla colpire con la collana. Il ciuffo di capelli di Rowan le scintillava nella mano come fosse stato d'oro. All'intrusa non importava che l'avesse trovato, pensò Alison con aria sconfitta: forse lo indossava solo perché le apparteneva da moltissimi anni. Ora che era al sicuro nel corpo di Rowan, quel medaglione non aveva più nessuna importanza. Niente poteva toccarla, pensò Alison, ma subito si rese conto che non era così. Se l'intrusa era davvero sicura di essere in salvo, perché cercava di provocarla? Un movimento la costrinse ad alzare la testa. La bambina aveva ricominciato a salire nel buio. Il pensiero che potesse fuggire fece scattare Alison, che la inseguì su per le scale, dove si vedeva a malapena l'intonaco, freddo come il ghiaccio e pronto a frantumarsi sotto le sue dita. All'ultimo piano i tre corridoi sembravano interminabili a causa dell'oscurità. La piccola figura pallida aveva già raggiunto la porta della stanza di Queenie. «Di che cosa hai paura?» chiese Alison. La bambina si voltò, tenendo una mano sulla maniglia. Il suo viso, il viso di Rowan, aveva un'espressione triste. «Di te, mamma, se continui a comportarti così.» Sembrava proprio Rowan, e anche quel tono triste era il suo. Quell'impressione, unita alla vista di quella minuscola figura in mezzo al buio, fece nascere in Alison il desiderio di proteggere ciò che poteva vedere e toccare, rifuggendo da ciò che avvertiva soltanto. «No», mormorò. «Conosco la mia Rowan.» E poi la voce le uscì dalla gola, forte e stridula. «E che cosa mi dici di tuo padre? Che cosa dovrebbe pensare di te, adesso?» La bambina abbassò la maniglia, come se volesse eludere quella domanda, ma lo sguardo innocente si fece più duro. «Puoi chiederglielo quando torna a casa.» «Quando ritornerà il misero operaio? È così che lo consideri, no? Fai una fatica terribile a fingere di essere sua figlia. Mi stavo giusto chiedendo per quanto tempo riuscirai ancora a sopportarlo.» Stava parlando troppo e
rischiava di perdere il vantaggio che aveva: era evidente dal modo in cui la bambina aveva lasciato andare la porta. «Lo sappiamo benissimo tutt'e due cosa intendo dire. Può anche darsi che tu non sappia dov'è tuo padre, ma questo non significa che lui non possa vederti. Forse non vuole farsi trovare perché si vergogna di quello che hai fatto.» La bambina strinse i pugni. Improvvisamente gli occhi parvero gonfi di rabbia e più scuri del corridoio senza finestre. Alison era riuscita ad avvicinarla e ora si rendeva conto di quanto potesse essere pericolosa. I piani vuoti sotto di lei sembrarono tutt'a un tratto cavernosi, e parvero separarla dal resto del mondo. Aveva l'impressione che le assi del pavimento le si muovessero sotto i piedi, ma probabilmente era tutto dovuto ai suoi brividi involontari. Poi la bambina distolse lo sguardo, come se Alison non meritasse neppure una simile fatica. Aprì la porta ed entrò nella stanza di Queenie. Alison si lanciò in avanti e raggiunse la porta proprio nell'attimo in cui stava per richiudersi. La spinse con le due mani e si rese conto di aver buttato all'indietro la bambina. Poi la seguì dentro la stanza. Il pavimento nudo e le pareti appena imbiancate erano immerse nell'oscurità che si addensava sul Galles e che inondava la baia. L'aria era permeata dal puzzo stantio di libri e ad Alison parve che l'intera stanza fosse invasa da un'oscurità putrefatta. Ma la bambina era ferma in mezzo all'ampio locale, con le braccia conserte, e cercava di riprendersi dallo choc di essere stata spinta all'indietro. Forse fu proprio lo choc a farla parlare liberamente, o forse fu il profondo disprezzo che nutriva nei confronti di Alison. «Stai fuori di qui finché non ti autorizzo a entrare. Questa è la mia stanza.» «È la camera di tuo padre», precisò Alison, con aria decisa. «Se c'è un posto in cui può vederti, be', è questo.» «Non so di che cosa stai parlando. Secondo me stai diventando pazza, a giudicare da quello che stai dicendo. » Alison scoppiò a ridere. Per quanto risuonasse appena percettibile nell'oscurità, quella risata le parve uno sfogo liberatorio. «Rowan non parlerebbe mai così. E credo che nessun bambino della sua età lo farebbe. Puoi anche smetterla di fingere, Queenie. Sai che non puoi ingannarmi.» Il viso della bambina si raggrinzì per la rabbia. Era come se fosse invecchiata nel giro di un attimo, come se al centro della stanza ci fosse una vecchia incartapecorita con indosso l'abito di una bambina. Poi gli occhi iniziarono a scintillare come il carbone e sul viso apparve un ghigno beffardo che tramutò il sorriso di Rowan in una smorfia, alterando i suoi line-
amenti delicati. La porta sbattè alle spalle di Alison, sigillando l'oscurità. «Questo trucchetto non mi ha spaventato l'ultima volta, Queenie, e non ci riuscirà neppure adesso.» Alison ebbe un attimo di esitazione e poi decise di correre il rischio: doveva farlo. «Tutto qui quello che sai fare?» Le labbra della bambina tremarono. «Non osare sfidarmi», sibilò. Ad Alison parve di scorgere qualcosa oltre la semplice minaccia: una forma di ritegno nel caso il padre la stesse davvero osservando, o forse una limitazione al male che era pronta a fare? «Non è questo che m'interessa, Queenie, non lo capisci? Voglio solo riavere mia figlia.» «E l'hai riavuta. Dovresti ringraziare il Signore per questo. » La collera di Alison assomigliava a una carica che il corpo riusciva a contenere a malapena. «Dov'è il Signore in tutta questa storia? Se avessi visto davvero il Signore, non saresti tornata, non credi?» E improvvisamente le rivolse la domanda che non riusciva più a trattenere, per quanto sembrasse grottesco chiedere una cosa simile al volto di Rowan che scintillava nel buio. «Che cosa hai visto, Queenie?» La bambina spalancò gli occhi, per la gioia o per il terrore. Per un attimo parve proprio che la risposta giacesse proprio in quegli occhi od oltre a essi, in un buio profondo che conduceva in un luogo che Alison avrebbe preferito non conoscere mai. «So che non sei riuscita a trovare tuo padre», disse precipitosamente, cercando di convincersi che aveva intravisto solo una profonda solitudine. «Forse l'hai cercato nella direzione sbagliata. Devi provarci ancora. Ma devi renderti conto che non puoi andare avanti così.» Gli occhi della bambina continuavano a essere vacui, e il viso assomigliava a una maschera cupa. «Dovrai affrontare di nuovo tutto ciò che hai sempre detestato», proseguì Alison. «Dovrai avere le mestruazioni ogni mese e andare a scuola con ragazze molto simili a te. Poi sopraggiungerà la menopausa e tu invecchierai, con tutte le malattie che nel frattempo potresti prenderti. Chissà quali strani morbi potrei portare a casa dall'ospedale!» Si sentì pervadere dalla rabbia, mentre si ricordava di qualcosa che stava quasi per dimenticare. «Ed è meglio che tu ti metta in testa una cosa, Queenie, nel caso ci stessi ancora sperando. Non avrò mai un altro bambino da porre sotto la tua influenza. Piuttosto sarei disposta ad abortire.» Il minuscolo volto parve sconcertato. «Non uccideresti mai un bambino», protestò con vocetta stridula. «Che cosa credi di aver fatto a Rowan? Credimi, farei di tutto pur di non
avere un altro bambino, puoi starne certa.» Ma la sua collera si stava trasformando in tristezza, e in parte era la tristezza di Rowan, ovunque si trovasse la bambina in quell'oscurità crescente. Forse Queenie si era sentita talmente sola da essere costretta a tornare di nuovo bambina, con tutto l'egoismo che l'aveva caratterizzata in tutti quegli anni? Forse nella sua terribile solitudine aveva sentito il bisogno di aiutare l'unica bambina a cui avesse voluto bene, seppure in modo tanto egoista? «Queenie», mormorò Alison il più gentilmente possibile. «Ti volevo molto bene, anche se tu rendevi tutto estremamente difficile. Ma non posso volerti bene se fai una cosa del genere alla mia bambina.» Gli occhi erano tornati sprezzanti e traboccavano di incredulità. «Nessuno ti vorrà più bene se non la smetti di comportarti così», proseguì Alison, incredibilmente calma. «Nemmeno tuo padre.» «Piantala di parlare di mio padre», urlò la bambina. «Non sei neppure degna di pronunciare il suo nome!» «Allora parlerò di Rowan. Mi permetterai almeno di parlare di mia figlia, o no?» La sua voce era colma di tristezza, più ancora che di rabbia. «Forse non sei ancora convinta che noi ti volessimo bene, ma sai bene che lei te ne voleva. Lei ti amava e si sentiva più vicina a te di chiunque altro, ed è per questo che sei riuscita a ritornare, non per questo stupido medaglione. Lei ti voleva bene e tu in cambio le hai rubato la vita.» Per la prima volta da quando erano entrate nella stanza spoglia, lo sguardo della bambina parve vacillare. Per un momento sembrò vergognarsi e aveva davvero l'aspetto di una bambina, molto più di quella notte nel Galles. «È tutto qui quello che sai fare con la tua volontà?» chiese Alison. «Non potresti usarla per trovare tuo padre? Se si accorgesse che hai lasciato perdere Rowan, non credi che si farebbe trovare?» Aveva preteso troppo e troppo in fretta. Immediatamente, gli occhi tornarono impenetrabili, come le nuvole che avevano oscurato il cielo. Alison allungò una mano e pigiò l'interruttore della luce, per evitare che la bambina nascondesse i suoi pensieri nell'oscurità che stava invadendo la stanza, ma la lampadina si fulminò, producendo il rumore simile a quello di una campana lontana. La bambina fece una smorfia, mostrando i denti luccicanti, e Alison urlò: «Sei stata di nuovo, tu, vero? E ne sei anche orgogliosa? Vedo che ti piacciono sempre gli scherzi di una volta, ma dovresti fare qualcosa di più per riuscire a spaventarmi». Trasse un profondo respiro disgustata dal sapore di stantio e riprese il controllo. «O stai solo cercando di impressionare te stessa? Vuoi forse di-
menticare quello che non sei in grado di fare? Non potrai rimanere in vita a lungo, comportandoti così. Se continui in questo modo, dovrai morire di nuovo. E questa volta sai che cosa ti aspetta.» Era forse un lampo di paura quello che attraversò gli occhi della bambina? Ma si limitò a scrollare le spalle con un'aria di sfida infantile e senile nello stesso tempo; Alison si ,rese conto troppo tardi che quella paura l'avrebbe convinta ancora di più a rimanere dove si sentiva al sicuro. «Forse non è ancora giunto il momento di preoccuparsi, forse hai ancora tutta una vita davanti a te, ma è la vita di Rowan, non la tua», l'assalì Alison. «Prova a pensare un attimo a lei, a quella povera creatura a cui hai chiesto di rinunciare alla vita, e prova a domandarti se puoi sopportare l'idea di averla chiusa là fuori, nel buio, completamente sola.» La bambina scosse la testa, quasi in tono di rimprovero. «Non è necessario che rimanga sola, puoi tenerla sempre con te. E, ad ogni modo, avresti dovuto prenderti più cura di lei quando ne avevi la possibilità.» Forse, per la prima volta durante tutti quegli anni si rese conto di aver parlato troppo e si ritrasse verso la finestra, verso l'oscurità che avanzava. Non stava cercando di provocare Alison, aveva solo paura di ciò che un adulto poteva fare a un bambino. Quella paura spinse Alison ad avventarlesi contro con furiosa determinazione. Raggiunse la bambina, finalmente pronta a tutto pur di scacciare Queenie, poi quegli occhi vecchi le si piantarono addosso e l'afferrarono, mentre il pavimento scompariva. Svanì l'intera stanza, poi anche la casa. Sembrarono decomporsi in un attimo, per lasciar posto alle tenebre. Era come essere completamente ciechi, o forse ancora peggio: era un'ondata di putrefazione che aleggiava ovunque, rovinando l'immobilità assoluta, una putrefazione che si insinuava in ogni angolo, rivelando in modo spietato qualsiasi presenza. Ma era la parte più recondita dell'io, quell'io che era stato nascosto, escluso da quell'oasi di pace che era il confine con la condizione di non esistenza. Era questa la sensazione che aveva provato Queenie quando non era riuscita a trovare suo padre? O era forse per questo che non aveva osato continuare le ricerche, nel tentativo di raggiungerlo nelle tenebre? Quei dubbi furono sufficienti per illuminare la mente di Alison e per restituirle una visione più chiara: lei non era ancora morta e solo l'oscurità era in grado di sorreggerla. Le tenebre senza fine si concentrarono in quegli occhi appassiti e la stanza prese forma, seppure vagamente, nell'oscurità che non era poi altro che la condizione normale dell'inverno. Alison pensò di aver trovato finalmente le parole giuste.
«Queenie, neppure così riesci a spaventarmi, e non devi avere paura nemmeno tu. Ci deve essere qualcos'altro, oltre a questo. E sono sicura che possiedi ancora la forza sufficiente per scoprire che cos'è.» «No, non è vero.» La voce della bambina tremò per l'ostinazione, o forse per una paura segreta. «Nessuno può capirmi. E ringrazia il cielo perché poteva andare anche peggio.» Voleva dire che Rowan sarebbe stata capace di tornare, ma che ignorava la vulnerabilità di Rowan, di gran lunga superiore alla sua, nei confronti delle tenebre. In un attimo, Alison si sentì bruciare dall'orrore, dalla rabbia e dal dolore. «Vieni a prenderla. Tu l'hai allevata facendola diventare così», urlò all'oscurità, nel caso potesse sentirla, e scagliò il medaglione con tale violenza da mandare in mille pezzi la finestra. Quando afferrò la bambina, pensò di essere fin troppo gentile, mentre le mani si stringevano attorno al morbido collo sottile. 36 Dopo aver comunicato a Derek il suo messaggio, Jo non seppe più che cosa fare. Lo seguì, mentre Derek spiegava alla vicepreside che il lavoro era quasi finito e che sarebbe andato a casa solo per pochi minuti, poi andò con lui fino alla macchina. Derek buttò la cassetta degli attrezzi nel bagagliaio e si rese istintivamente conto che il motore in una giornata così fredda, sotto il cielo buio, non si sarebbe messo subito in moto. Avrebbe fatto più in fretta a correre per il lungomare. Il cielo cupo sembrò rischiararsi debolmente in prossimità della casa di riposo slanciata e pallida che sovrastava le dune. La maggior parte delle stanze erano illuminate, ma la luce non sembrava rischiarare molto attorno a sé. Sulle dune ammassate l'una contro l'altra, l'erba aguzza sembrava graffiare l'aria cupa. Derek ebbe l'impressione che il buio si fosse trasformato in fango, soprattutto perché Jo stava ansimando nel tentativo di stargli dietro e lui dovette rallentare per aspettarla. «Se c'è qualcosa che posso fare», boccheggiò lei. Doveva esserle grato, anche se quella proposta non sembrava un motivo sufficiente per rallentare. «Non lo so ancora, ti pare?» rispose, cercando di usare un tono piatto, come se ciò potesse dissipare i suoi timori. Vide davanti a sé la casa ed ebbe l'impressione che qualcosa non andasse in quell'enorme edificio, simile a una roccia coperta di ciottoli e di gusci di paras-
siti, e quasi fluttuante sotto il cielo scuro. «Che cosa potresti fare per esempio?» «Se vuoi riprendo Rowan per un po'. Alison la stava sgridando mentre la portava via.» «Anche a te capita di sgridare i tuoi figli, ogni tanto, no?» Ebbe la sensazione che la donna gli stesse nascondendo qualcosa, proprio come stava facendo lui, e diventò ancora più nervoso. «Non sei venuta a cercarmi per dirmi solo quello.» «Mi sembra che siano andate all'ultimo piano della casa.» «Per l'amor del cielo, Jo, se mi devi dire qualcosa...» Derek barcollò e avvertì il freddo del cemento che filtrava sotto le scarpe. E vide ciò che non andava in quella casa, ciò che Jo non gli aveva detto. «Mi è parso di sentirlo», gli disse. Uno dei vetri della finestra di Queenie era rotto. Alison e Rowan dovevano essere in quella stanza, oltre quella finestra che spuntava fra i camini e le decorazioni di pietra simili alle lapidi di un cimitero. Sotto il cielo uggioso, il rettangolo della finestra appariva nero come una fossa posta verticalmente. Era stato inutile rifare l'impianto elettrico, pensò, in preda a uno sgomento che aveva paura a definire. Abbandonò la passeggiata e si precipitò verso casa, attraversando le dune. La sabbia gli riempì le scarpe. Mentre si sforzava di procedere, i piedi sprofondavano sempre di più. Cercò di liberarsi afferrando i ciuffi d'erba e strappando un po' di erbacce. Alla fine, completamente sudato e in preda alla disperazione, raggiunse il marciapiede di cemento che sembrò spingerlo verso la casa. Derek stava infilando la chiave nella toppa quando arrivò anche Jo, con il viso arrossato e una mano sul petto. L'idea che potesse vedere quello che era successo contemporaneamente a lui, lo fece sobbalzare. «So dove trovarti in caso di bisogno», le urlò, praticamente ringhiando, prima di entrare in casa. Chiuse la porta con estrema delicatezza mentre teneva le orecchie tese nel tentativo di cogliere il minimo rumore. Ma la casa era sprofondata nell'oscurità e tutti i suoni sembravano strozzati. Si avventurò lungo le pareti che si stendevano buie al suo passaggio e stava aprendo la bocca per urlare il nome di Alison, che la rabbia e la paura avrebbero sicuramente distorto, quando udì la voce della moglie proveniente dall'ultimo piano. «Rowan», stava implorando. Derek respirò a fatica e richiuse la bocca. Alison sembrava davvero disperata e Derek aveva paura di conoscerne la ragione: non aveva mai avuto
tanta paura in vita sua. Arrivò alla fine del corridoio, alzò gli occhi e udì la voce di Alison che ripeteva il nome di Rowan quasi fosse una preghiera. Iniziò a salire le scale e avrebbe anche lui voluto mettersi a pregare, ma quasi non osava farlo, terrorizzato all'idea di quello che stava accadendo sopra di lui. Per raggiungere l'ultimo piano dovette procedere a tentoni lungo la parete intonacata, che risultò incredibilmente fredda e liscia e che gli procurò un acuto senso di disagio. L'oscurità aveva reso più vigili i suoi sensi, permettendogli di udire la minima sfumatura della voce incrinata di Alison che ripeteva il nome di Rowan. Anche se avesse osato urlare qualcosa in quel momento, la sua gola era talmente strozzata che non sarebbe riuscito a emettere alcun suono. Dovette farsi forza per percorrere l'ultimo corridoio. Era terrorizzato all'idea di scoprire perché Rowan non avesse prodotto nessun rumore da quando era entrato in casa. Una tavola scricchiolò sotto il suo peso. Derek fece un passo indietro e rimase paralizzato, con un piede sollevato da terra, mentre Alison, oltre la porta, implorava: «Rowan, coraggio». Nonostante tutto il rumore che aveva fatto salendo, la moglie sembrava troppo preoccupata per accorgersene. A Derek non rimase che avvicinarsi alla porta di Queenie e spalancarla. Alison era inginocchiata sul pavimento nudo vicino alla finestra. Teneva Rowan per le spalle e intanto le accarezzava la fronte, con lo sguardo fisso sugli occhi chiusi della bambina, nella debole luce che proveniva dall'esterno. Era tutto perfettamente immobile, a eccezione dei capelli di Alison e della bambina, appena mossi dalla brezza che si insinuava attraverso il vetro rotto. «Rowan?» sussurrò Alison in tono dolce e disperato, con la voce incrinata dalla tensione. «Rowan?» Derek entrò incespicando nella stanza. «Ali, che cosa... che cos'è successo?» Non era riuscito a chiederle che cos'avesse fatto, ma l'espressione della donna gli confermò che avrebbe anche potuto domandarlo direttamente. La bocca di Alison tremava senza emettere alcun suono e gli occhi erano gonfi di lacrime. Avrebbe dovuto preoccuparsi maggiormente di lei e di Rowan, pensò Derek quasi paralizzato: avrebbe dovuto accorgersi subito che fra loro le cose andavano male. Quando Derek fece per avvicinarsi, Alison strinse a sé la bambina, come se temesse che il marito potesse portargliela via. Derek cercò di convincerla con lo sguardo che poteva fidarsi di lui e che
non era necessario sfuggirgli come lui temeva che volesse fare... e intanto si rendeva conto che da un momento all'altro sarebbe potuto crollare. Era terrorizzato da tutto ciò che lo circondava, persino dal buio oltre la finestra che gli ricordava tanto l'ingresso di un tunnel. Cadde in ginocchio accanto ad Alison e allungò le mani verso di lei. Non doveva escluderlo in un momento del genere, sarebbe stata la cosa peggiore. Sicuramente gli avrebbe afferrato la mano oppure dato la bambina. E non poteva essersi sbagliata nella sua disperata certezza, anche se era un'infermiera? Alison non gli prese la mano, ma si appoggiò contro di lui, come se stesse cedendo sotto quel pesante fardello. L'avrebbe aiutata, qualsiasi cosa avesse fatto, giurò a se stesso, perché l'amava e perché in fondo era anche colpa sua. Non avrebbero mai dovuto trasferirsi in quella casa fredda e desolata: era riuscita solo ad allontanarli l'uno dall'altra. Poi Alison si allontanò da lui con uno strattone. «Coraggio, Ali», la supplicò, ma la donna non lo udì neppure. Stava fissando il volto di Rowan, mentre le sorreggeva la testa e le accarezzava i capelli che si muovevano per il vento gelido. Il tunnel il cui ingresso era rappresentato dalla finestra sembrava più lungo e più buio che mai. L'ombra indefinita che volteggiava sopra le loro teste doveva appartenere a un uccello, probabilmente a un avvoltoio, pensò Derek in preda all'angoscia. Ma non aveva tempo per controllare. Doveva occuparsi di Alison, anche se equivaleva a riconoscere che il movimento che la donna aveva creduto di avvertire non era altro che il vento fra i capelli di Rowan. «Ali», mormorò, «guardami, tesoro, sono qui.» Derek s'irrigidì quando vide che Alison non staccava gli occhi dal viso di Rowan, ancora più immobile che nel sonno. Doveva dare libero sfogo all'urlo che sentiva crescere dentro di sé, perché altrimenti avrebbe afferrato Rowan, nel disperato tentativo di rifiutare il peggio. Allungò di nuovo la mano, mentre le gambe gli tremavano. «È anche figlia mia», stava per gridare, senza rendersi conto di ciò che sarebbe accaduto se l'avesse fatto. Poi udì un sussurro: «Sto bene». Derek si sentì raggelare nonostante il dolore nelle gambe. Era la voce di Rowan. Derek pensò di averlo solo immaginato, anche quando Alison si chinò verso Rowan, le accarezzò la testa e le baciò gli occhi chiusi, ripetendo con urgenza il suo nome. «Ti prego, Ali», mormorò, cercando di farla smettere prima che il cuore gli scoppiasse di fronte a una speranza tanto vana. «Non vedi che...» E in quel momento Rowan sbattè le palpebre e strizzò gli occhi, come se non riuscisse a mettere a fuoco l'immagine della madre. «Sto
bene, mamma», sussurrò. Alison si raddrizzò, facendo quasi cadere la bambina. Si stava quasi tirando indietro, ma solo per essere sicura di aver visto bene. Fissò il sorriso incerto di Rowan e i suoi occhi appannati, poi l'abbracciò con tale impeto che Derek temette potesse farle del male. «Oh, Rowan», farfugliò tremando. «Non farmi mai più una cosa del genere.» «Stai tranquilla, mamma, non lo farò più», promise Rowan ed entrambe cominciarono a ridere e a piangere contemporaneamente, tenendosi strette a vicenda. Non sembrarono neppure far caso a Derek, che si stava rialzando a fatica, massaggiandosi le gambe. Derek non poté fare a meno di sentirsi irritato per aver dovuto sopportare una simile angoscia per un motivo apparentemente inesistente. O forse stavano solo cercando di convincerlo che non ce n'era motivo? Qualcosa si mosse accanto alla finestra e attirò la sua attenzione, proprio mentre una sagoma pallida scompariva alla vista, in fondo al tunnel che si rivelò essere semplicemente il cielo pieno di nuvole. Non avrebbe mai immaginato che un uccello potesse essere tanto veloce, ma la finestra rotta era decisamente più importante e aveva bisogno di una spiegazione. «Qualcuno mi vuole spiegare che cosa sta succedendo?» chiese. Alison e Rowan sollevarono lo sguardo verso di lui. Rowan si alzò in piedi a fatica, come se non ricordasse esattamente come si faceva, e allungò una mano per farsi aiutare dal padre. Poi chiuse gli occhi e si strinse a lui. Derek si rese conto che da mesi non si comportava più così e capì che anche la bambina stava pensando la stessa cosa. «Era Vicky», spiegò lentamente. «Ma ora se n'è andata e non tornerà mai più.» Derek fissò Alison che si stava rimettendo faticosamente in piedi. «Che cos'è successo?» «La finestra», proseguì Rowan. «L'ha rotta quando la mamma ha detto che non dovevo più vederla, e poi mi ha spinto forte e io ho picchiato la testa. Ma lei è scappata.» Derek aspettava che Alison gli spiegasse l'accaduto. «C'è qualcosa che non mi convince», borbottò. «Jo è venuta a chiamarmi, dicendo che eri andata a prendere Rowan. Non riuscivamo a capire perché fossi tornata a casa dall'ospedale.» Alison lanciò un'occhiata a Rowan e fra le due scoccò un lampo d'intesa che Derek riuscì solo a intravedere. Poi Alison guardò il marito. «Stavo andando in ospedale quando ho visto Vicky che gironzolava qui attorno. Sapevo che avrebbe cercato di avvicinarsi a Rowan e visto che neanche a
te risultava troppo simpatica, ho pensato di tornare a casa.» La voce suonava abbastanza tranquilla, come pure lo sguardo con il quale tentava di giustificarsi. «Oltretutto, era ora di farla finita una volta per tutte.» «E mentre stavamo parlando è arrivata Vicky e non se ne voleva andare. La mamma ha dovuto cacciarla», proseguì Rowan. «È per colpa sua che ero così antipatica nelle ultime settimane. Non mi lasciava mai in pace ma voi non lo sapevate. Ma ora sono rimasta solo io. E mi volete ancora bene, vero?» «Ma certo, tesoro.» E, nel frattempo, Derek sentiva che le domande che avrebbe voluto rivolgere stavano scivolando via nell'oscurità. «Dove vive quella piccola puttana?» «Non posso dirtelo papà. Non l'ho mai saputo. Ti avviserò nel caso dovessi incontrarla di nuovo, ma sono sicura che non accadrà più.» La bambina alzò il viso e lo fissò con gli occhioni spalancati. «Non coccoli un po' anche la mamma?» La testa gli brulicava di domande, ma ora che Rowan lo guardava in quel modo Derek quasi se ne vergognò. Respirò profondamente e decise di lasciar perdere. Era ovvio che Rowan si fidava della madre, e allora perché non fare altrettanto? Raggiunse Alison, quasi alla cieca. «Vieni qua, Ali, se ce la fai ancora a sopportarmi. Non so che cosa sia andato storto fra di noi.» «Era solo Vicky», rispose Alison con aria decisa. Poi si appoggiò contro di lui, come se fosse sul punto di svenire, e abbracciò sia lui sia Rowan. Rimasero a lungo in quella posizione, fino a quando uno spicchio di azzurro squarciò il cielo coperto di nubi. Mentre la stanza veniva illuminata, Derek abbassò lo sguardo su Rowan, per assicurarsi che non fosse ferita, e la bambina alzò il suo visetto. «Papà, vero che mi porterai ancora con te quando andrai a lavorare? Non è mica pericoloso, vero?» Quella frase, più di ogni altra cosa, lo convinse che Rowan era tornata a essere la sua bambina di sempre. «Non farei mai correre un pericolo a te o alla mamma.» «Quando avrai finito la scuola, c'è un altro lavoro che ti aspetta», intervenne Alison, stringendoli forte a sé. «Temo che sia partita di nuovo la luce di questo piano.» Poi iniziò a tremare e Derek si rese conto solo dopo un attimo che era scoppiata a ridere in modo convulso e che quasi non riusciva più a parlare. Il cielo si rischiarò sopra il mare e anche Rowan si mise a ridacchiare. La luce del pomeriggio parve brillare apposta per loro e Derek lasciò cadere anche l'ultima delle domande rimaste senza risposta.
Senza capire perché e senza preoccuparsene troppo, iniziò a ridere anche lui a crepapelle, fino alle lacrime. Epilogo Si trasferirono un sabato di maggio. Rowan si spinse fino alle dune per ammirare per l'ultima volta il panorama, mentre gli uomini caricavano i mobili sul camion. I caldi raggi del sole scaldavano la distesa d'acqua increspata, sotto il cielo terso. Il Galles si allungava oltre l'orizzonte, simile a un serpente verdastro coperto di cottage. Le navi sembravano muoversi a pochi metri dalle dune e i loro nomi rievocavano viaggi in paesi esotici: Tamathai, Knud Tholstrup, Essi Silje, Atlantic Compass. Una nave russa con il lungo nome che sembrava scritto al contrario, scivolò sull'acqua e Rowan ripensò all'interminabile notte trascorsa nel Galles, quando non riusciva più nemmeno a leggere. Ritornò di corsa dalla mamma e dal papà, allontanandosi dal mormorio delle onde e dalla sabbia sollevata dal vento. Dopotutto non le spiaceva andarsene. Gli altri bambini non giocavano molto con lei, probabilmente a causa del suo comportamento nel periodo precedente il Natale. La signorina Frith non era soddisfatta del suo rendimento e sosteneva che non si impegnava a sufficienza, visto che nei mesi precedenti aveva imparato a scrivere correttamente. La mamma conosceva la ragione di tutto questo e il papà era convinto che avesse a che fare con la sua brutta avventura: a ogni modo, aveva affermato che le voleva bene per quello che era anche se avesse dovuto imparare a scrivere da capo. Capivano che ce la stava mettendo tutta. Solo la mamma sapeva che aveva buttato via il diario dell'anno precedente, con tutte quelle frasi che sembravano scritte da una maestra impaziente di insegnarle l'ortografia, anche se la calligrafia era la sua. Rowan non era più sicura neppure di sapere a chi appartenesse quel diario. La mamma sapeva che cos'era successo. Forse era per quello che non ne parlavano mai, o forse la mamma aspettava che fosse abbastanza grande per farlo; forse era imbarazzata all'idea che la figlia avesse dovuto mentire per lei, anche se, secondo Rowan, un comportamento del genere era un segnale di crescita. Aveva avuto la sensazione di proteggere i suoi genitori. Comunque, era felice di essere ancora piccola e di dover contare su di loro, anche se sapeva che gli anni della fanciullezza sarebbero volati via in un batter d'occhio. Il camion era ormai carico. Suo padre aveva aiutato gli uomini che si oc-
cupavano del trasloco e ora si erano fermati per bere un caffè dal thermos. «La mamma sta controllando la casa, se vuoi darle un'ultima occhiata...» le disse. «Poi si parte.» La mamma stava scendendo le scale quando Rowan trotterellò nell'atrio dalla tappezzeria a foglioline argentate. «Pronta per la grande avventura?» le chiese con un grande sorriso che parve spegnersi quando allungò una mano, con estrema attenzione e quasi automaticamente, verso la gola della bambina. Non era ancora riuscita a perdonarselo, per quanto non le avesse fatto molto male. Rowan, invece, si era solo preoccupata che suo padre avesse notato che all'inizio le era risultato difficile parlare. Prese la mano della madre e la spostò dalla gola alla guancia. «Posso andare a salutare la mia camera?» «Ma certo.» Mentre passavano davanti alle scale, Alison aggiunse: «Non metterci troppo, altrimenti dovrò venire a cercarti». Rowan corse al primo piano e diede un'occhiata alla sua stanza da letto. Era vuota e le sembrava poco familiare e incredibilmente sudicia, ora che non c'erano più i mobili dietro i quali poteva annidarsi la polvere. Era rimasta solo la vista sulla baia e Rowan versò una lacrima prima di salire in punta di piedi al piano di sopra. Non sapeva esattamente perché provasse l'impulso di salire là in cima. Quando giunse nel corridoio centrale, si sentì invadere dalla paura, come nelle settimane che avevano seguito il Natale, quando addormentarsi era come scivolare fuori del proprio corpo per sprofondare nelle tenebre. Si era rifugiata nel letto dei genitori per parecchie settimane prima di trovare il coraggio di dormire da sola. Ma ormai era al sicuro: sua madre era da basso e all'occorrenza l'avrebbe sentita. Si avventurò lungo il corridoio stantio dove i raggi del sole non riuscivano ad arrivare e spalancò la porta di Queenie. Sembrava non ci fosse nulla di cui avere paura, nulla che potesse spiegare perché l'intero corpo si stesse stringendo attorno al cuore che si era messo a battere all'impazzata. La stanza era deserta e non si muoveva nulla, a eccezione di una nave cisterna e di alcuni gabbiani che seguivano la sua scia, oltre la finestra. Eppure si rese conto che tutto ciò avrebbe avuto breve durata e che sarebbe presto svanito; se si fosse soffermata a osservare la stanza, l'avrebbe vista trasformarsi nell'ingresso del tunnel che conduceva nelle tenebre. Strinse gli occhi, afferrò la maniglia e chiuse la porta. Era salita in quella stanza nella speranza di poter scoprire che cosa fosse accaduto l'ultima volta che ci era entrata, ma si sentiva più incerta che mai.
Sua madre era riuscita a cacciare Queenie perché la vecchia zia era tornata a essere bambina, o era stata Queenie che alla fine aveva ceduto, permettendo a Rowan di tornare? Se era andata di nuovo a cercare suo padre, forse sarebbe riuscita a trovarlo, o almeno avrebbe creduto di farlo, dal momento che in fin dei conti se lo meritava. L'unica cosa che Rowan ricordava era che quando la madre aveva lasciato la presa attorno alla gola, lei non aveva capito dove si trovasse: le era parso di sfuggire dal suo stesso corpo per scivolare nell'oscurità, in una caduta interminabile, ma alla fine si era ritrovata di nuovo nel suo corpo, un corpo a grandezza naturale a cui aveva insegnato a muoversi, a guardare e a parlare. Nell'attimo in cui era tornata, aveva sentito Queenie che si alzava in volo nell'oscurità. L'oscurità di Queenie. Rowan aveva impiegato mesi per capire che se quelle scarne tenebre appartenevano a Queenie, allora i luoghi che lei aveva attraversato nel tentativo di tornare a casa dovevano essere necessariamente suoi. Le cose possono cambiare, ripetè a se stessa. Presto la casa sarebbe stata trasformata in una casa di riposo e Rowan sperava che si sarebbero presi cura delle persone come Queenie, affinchè si sentissero meno sole. Iniziava anche a pensare che forse le sarebbe piaciuto svolgere un lavoro del genere. Qualsiasi cosa l'attendesse al termine della sua vita, sicuramente non sarebbe stato peggio di quello che aveva già dovuto sopportare. A meno che si fosse abbandonata alle sue paure. Aprì gli occhi e corse da basso, respirando con più tranquillità quando notò che gli oggetti attorno a lei apparivano meno scialbi e decisamente più reali. Mentre l'automobile della mamma svoltava all'ombra della casa di Queenie, l'enorme ombra parve creare come una profonda voragine sulla strada. Poi si ritrovarono illuminati dalla luce del sole, dietro il camion, mentre l'immagine di Jo e dei bambini che le auguravano buon viaggio svanì lentamente. Rowan smise di fare cenni di saluto e si strinse le mani una con l'altra con forza, per convincersi che poteva sempre far conto sulla mamma e sul papà. L'ultimo rumore che udì fu lo sciabordio delle onde oltre la casa, così lontano che le parve di sentirlo attraverso una conchiglia, la sottile conchiglia azzurra del cielo. Mentre l'auto lasciava la strada di Queenie, dirigendosi verso il futuro che li attendeva, Rowan bisbigliò: «Non tornerò mai più». FINE