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STEVE MARTINI INFLUENZA INDEBITA (Undue Influence, 1994) Per Leah e Meg E il sangue sarà per voi un segno sulle case nelle quali siete: vedrò il sangue e vi oltrepasserò... Esodo 12,13 PROLOGO Una speciale lucidità di pensiero, una capacità di mettere pienamente a fuoco le idee, è concessa a chi scaccia ogni paura e timore, a chi guarda la morte diritto negli occhi, a chi lascia questo mondo dettando le proprie condizioni. Fu questa lucidità di pensiero a conferire a Nikki, in quegli ultimi giorni, una forza di volontà superiore alla mia; e io non seppi oppormi. Era sospesa sul precipizio della morte, e io mi ritrovai incapace di rifiutarle qualsiasi cosa. Le bastava chiedere, ed era come se avesse lanciato un indefinibile incantesimo. Riuscivo a dire soltanto di sì. Fluttuando in un etere di smisurato coraggio, in un mare di lenzuola e cuscini bianchi, negli ultimi giorni Nikki riuscì finalmente a esercitare la sua forma d'influenza indebita su di me. I medici dissero che quello di Nikki era un ceppo virulento. Parlavano di «micronodulo». Prima che potessero rimuoverlo, era entrato in metastasi, migrando dai polmoni a una dozzina di altri organi. Nelle settimane dopo il funerale, quando riuscii finalmente a mettere al guinzaglio l'autocommiserazione, continuai a pensare soprattutto all'ironia della cosa. Al fatto che Nikki, che non aveva mai toccato una sigaretta in vita sua, che non appena fiutava il minimo odore di fumo girava sui tacchi e usciva dal più affollato dei ristoranti, che riteneva ogni e qualunque uso di tabacco il più schifoso dei vizi, sia morta di cancro al polmone. Tra diagnosi e morte sono trascorsi soltanto undici mesi. Quel periodo è diventato l'immagine speculare di un incubo al quale si accede a mente lucida. Ormai trovo pace dalla morte di Nikki solo quando riesco a dormire. E, a quanto sembra, sono condannato all'insonnia. L'avvocato dentro di me esige qualche spiegazione, qualche causa alla
quale poter attribuire la colpa; non per le solite ragioni di risarcimento dei danni materiali, ma per dare un senso alla situazione, per conferire alla nostra esistenza una simmetria, un disegno razionale. La mia mente di avvocato, anche nei rari momenti di sonno, si agita nella ricerca di un motivo, di una spiegazione logica per questa perdita che divido con mia figlia Sarah, che oggi ha sette anni. Ma in quanto al perché, pare non esistano risposte. Quando ho detto che Nikki non aveva mai fumato, sia il medico di famiglia sia l'oncologo mi hanno guardato con aria scettica. Era il classico caso di cancro del fumatore, hanno commentato. E con le loro espressioni, con gli sguardi che si sono scambiati alla luce smorzata delle radiografie appoggiate sul pannello luminoso, hanno materializzato e deposto su di me il beneficio del loro dubbio, per quanto inconsistente fosse. I nostri diciotto anni di matrimonio sono stati tumultuosi nel migliore dei casi, più per colpa mia che sua. Una relazione dopo la nostra separazione, qualche anno fa; la pressione continua della mia attività legale, la donna sempre gelosa. Ognuno di questi fattori ha scatenato in Nikki una sua forma di angoscia. Oggi leggo con foga sempre maggiore gli articoli di divulgazione spicciola che collegano il cancro allo stress, e mi chiedo in quale misura sia stato io ad abbreviare la vita di Nikki. L'analista dal quale, su consiglio del mio medico, mi sono recato per settimane dopo la morte di Nikki mi ha spiegato che la fase del senso di colpa è normale. Mi dice che poi arriverà il disprezzo per la mia moglie morta, l'odio per chi mi ha lasciato a lottare da solo. Entrambe le cose, sostiene, sono un aspetto attraverso il quale devo passare: due portali della vita. Prima, quando dividevo con Nikki il trauma della morte imminente, era più facile. Dopo la diagnosi, siamo entrati insieme nella fase del rifiuto. Gli esami erano sbagliati. Nikki era sana e giovane. A conti fatti, i medici, con tutta la loro scienza, non potevano sottoporre a test, o misurare, la sua voglia di vivere. Avremmo sconfitto insieme quella cosa, sottomesso il demone all'interno del suo corpo con la pura forza di volontà, se necessario. Le mie conversazioni con Nikki erano intrise di spacconeria, anche se, ai miei stessi orecchi, le parole che pronunciavo troppo spesso risuonavano venate di paura. Alla fine, è stata Nikki ad accettare per prima la verità, lasciandomi alle prese con le immagini smarrite della nuda speranza, coi miei sogni di cure miracolose dell'ultimo minuto uscite dagli scaffali della scienza. Verso la fine, ho addirittura cercato di patteggiare, in silenzio, con un essere superiore con il quale negli anni non ho avuto rapporti di familiarità.
Quando sono riuscito a placare il mio panico, ho raggiunto Nikki nella serenità della sua accettazione. Un pomeriggio lei mi ha preso per mano e, nella luce screziata del nostro cortile, mi ha detto di avere due desideri: morire tranquilla con la sua famiglia a casa sua, libera dalle macchine della medicina moderna, e un altro più personale che adesso esaudisco. 1. «Per ultimo, era una madre incapace.» Melanie Vega, la nuova moglie di Jack, parla di Laurel al passato, come se fosse morta. In questo, sospetto, c'è un'indicazione su come Jack e Melanie vedano il loro caso: blue chips in un mercato al rialzo. Per due giorni il loro avvocato ha sminuzzato il passato di Laurel. L'ha messa in fricassea e fritta; ha aggiunto le spezie dell'indiscrezione, e l'ha servita sempre nello stesso modo, cioè marinata nel liquore. Nelle valli che sono state la vita di Laurel, è un tema ricorrente, anche se per tutto questo periodo non ho visto traccia di bottiglie. «Chiedo la cancellazione. Non pertinente.» Gail Hemple, l'avvocato di Laurel, sta incollata a Melanie - che è sul banco dei testimoni - come la senape al pane di segale. Il giudice ordina allo stenografo di cancellare l'ultima frase del testimone. Alex Hastings, sullo scanno, ha un'espressione di eterna irritazione scavata sul volto, come una maschera mortuaria. La causa sta andando troppo per le lunghe. Laurel è l'ex moglie di Jack Vega, la sorella di Nikki, e il motivo per cui io sono qui è che ho giurato di prendermi cura di lei. È stata l'ultima richiesta di Nikki, per parecchi motivi. I nostri figli si frequentano. Sarah è più giovane, ma ha una passione per i due cugini. Credo che per Nikki, in sostanza, si sia trattato di un impulso naturale: l'occhio della sorella maggiore che veglia sulla sorella minore. Nikki aveva tre anni più di Laurel. Anche se all'inizio temevo di pentirmi del mio coinvolgimento, in realtà la causa di Laurel mi ha preso sempre più. E ciò potrebbe essere semplicemente dovuto al fatto che Jack, il mio ex cognato, è un egoista di prima categoria. Il fatto che i suoi esperti e avvocati stiano facendo a pezzi Laurel dimostra quanto sia vero il detto secondo il quale la giustizia, dentro un'aula di tribunale o fuori di essa, semplicemente non esiste. Ho trascorso il tempo qui, nel tribunale della famiglia, come un ficcanaso, solo per offrire il mio sostegno a Laurel. Un altro avvocato, una donna,
si sta occupando di lei. Laurel ha trentasei anni. È alta un paio di centimetri più di me. Capelli biondo sabbia, occhi verdi, e fossette che sembrano fori di punzone sotto gli alti zigomi. Quando si prende cura del proprio aspetto, è una donna attraente. Negli anni in cui le nostre famiglie si sono ritrovate per le feste, e per una breve vacanza, Laurel ha sempre avuto l'aspetto di chi può spendere soldi per tenersi in forma. Ma i massaggi al viso da due ore sono ormai ricordi sbiaditi, come la sua abbronzatura da salone di bellezza. Negli ultimi mesi, è stata costretta a provvedere per sé e per i figli. Fornita di un diploma in arti figurative, dopo il divorzio si è trovata priva di capacità o esperienze professionali sfruttabili. Per aggiungere qualcosa agli scarni alimenti che Jack le fa avere col contagocce, ha accettato un lavoro nella palestra della quale era socia. Insegna aerobica e nuoto. Di sera frequenta l'università: vuole diventare un'insegnante, ottenere una qualifica che le offra un futuro migliore. La caduta di Laurel dal cielo dell'opulenza si può misurare con la stessa precisione del bombardamento di Pearl Harbor. È avvenuta un mattino con la notificazione degli atti processuali, le carte per il divorzio, lasciate sui gradini di casa; e, come una granata in una polveriera, ha mandato in frantumi la sua vita. Una persona razionale forse non parlerebbe di un attacco a tradimento. Nel corso degli anni, Laurel ha saputo o sospettato delle infedeltà di Jack. Si presentavano con la regolarità delle stagioni, prevedibili come i boccioli in primavera. Il livello di testosterone di Jack si è sempre alzato con l'accorciarsi delle gonne nella stagione calda. E Jack ha fatto ben poco per nascondere quei momenti di passione illecita. Se non fosse troppo doloroso, sono certo che si sarebbe intagliato tacche sull'uccello per commemorare le sue conquiste. Jack è un sostenitore del nobile punto di vista che l'adulterio sia semplicemente un'applicazione della democrazia all'amore. Lo considera soltanto come un altro atto di abilità politica. E qualcuno potrebbe insinuare che questa è la cultura politica nella capitale del nostro Stato, in cui Jack, da dodici anni, occupa una poltrona nella Camera dei rappresentanti. Comunque, Laurel è rimasta stupefatta quando il matrimonio è finito, come si rimane stupefatti quando un borseggiatore privo di tatto uccide la sua vittima. Oggi, la tensione sul suo viso è tanto evidente che pare disegnata. È questo aspetto che indica la somiglianza più forte con Nikki. Laurel e lei erano non soltanto sorelle, ma anche novizie dell'Ordine delle sorelle della
preoccupazione. I due figli di Laurel, Danny, quindici anni, e Julie, la sorella minore di lui, vagano nel corridoio esterno come soldati feriti in battaglia, sotto shock dopo un bombardamento, storditi, esclusi da questo carnaio di famiglia in virtù della salomonica saggezza della Corte. Durante la malattia di Nikki e più tardi, dopo la sua morte, i figli di Laurel hanno trascorso parecchio tempo a casa mia. È stato il posto in cui rifugiarsi mentre la madre cercava di rimettere insieme le loro esistenze. Laurel siede direttamente di fronte a me, appena dietro la transenna in legno, al tavolo della difesa. «Il teste risponda alla domanda», dice Hastings. «Ha capito?» Melanie annuisce. «Parli», ordina il giudice. «Sì.» Melanie Vega è una donna che si esalta nell'occhio del ciclone, dotata di un carattere che si alimenta di animosità come un reattore al quale siano state tolte le barre di carbonio. Rivolge al giudice un sorriso a metà fra la timidezza e la confusione, come se fosse possibile dimenticare l'ultima domanda della Hemple: se lei avesse già scopato con Jack quando lui era ancora sposato con Laurel. Le sottigliezze del diritto di famiglia. Uno dei motivi per i quali non esercito in questa sede. «Non ricorda la domanda, signora Vega?» Il giudice la guarda dall'alto. Lei fa una smorfia, un sorriso vacuo, come a dire che forse è meglio che gliela ripetano. «Forse l'avvocato della difesa può ripetere la domanda», sospira il giudice. La Hemple annuisce, fin troppo contenta di obbedire. «Le ho chiesto se aveva rapporti carnali con Jack Vega nel periodo in cui lui era sposato con, e viveva con, Laurel Vega.» Al termine «rapporti carnali» le sopracciglia di Melanie si sollevano fino a metà della fronte. È un'espressione che dice tutto, e cioè: limitiamo il verbo «fottere» a ciò che gli avvocati si fanno l'un l'altra, e fanno ai loro clienti. «Rapporti carnali?» ripete Melanie. «Esatto», conferma la Hemple. «Rapporti sessuali. Così va meglio?» Dal punto di vista di Melanie - quello di una donna che se la fa col marito di un'altra - non si direbbe proprio. «Può darsi», risponde.
«Sì o no? Lei andava a letto col ricorrente mentre era ancora sposato e viveva con la convenuta?» La Hemple comincia a stancarsi dei giochetti verbali. Una lieve scrollata di spalle, una concessione del testimone. «E se anche fosse? Adulti consenzienti», risponde. Alza gli occhi sul giudice e sorride. Mossa astuta, ma è sempre adulterio. La Hemple si porta di fronte al banco dei testimoni, tenendosi alla distanza giusta per non essere accusata d'intimidire il teste. «Mentre praticava tutte queste attività consensuali col signor Vega, le è mai successo di praticarle nella casa di famiglia dei Vega, magari nei periodi in cui Laurel Vega non c'era?» «Può darsi. Non tenevo il calendario degli incontri», risponde Melanie. «Può darsi?» «Una volta o due», ammette Melanie. Un'ammissione a denti stretti. Fissa il giudice diritto negli occhi, sfacciatamente, e scrolla le spalle come per dire: dato che la moglie di Jack non usava il letto, poteva usarlo qualcun'altra, no? Tutto ciò che ottiene da Hastings sono profonde rughe sopra le folte sopracciglia. «Capisco. Quindi lei faceva solo il suo dovere? Rendeva un servizio al marito di un'altra donna?» «Obiezione.» L'avvocato di Jack è in piedi. «Ritiro la domanda», afferma la Hemple. Hastings scuote la testa, come per dire che la Hemple, dopo aver segnato un punto, sta rovinando tutto. «Allora mi permetta di farle un'altra domanda», riprende poi l'avvocato. «I figli dei Vega erano in casa quando lei andava a letto col padre, in assenza della madre?» Gli occhi di Melanie guizzano. Manda giù un po' di saliva. Finalmente capisce l'antifona, ma è tardi. Alla Hemple non interessano le conquiste sessuali di Melanie; le interessa la scarsa serietà di Jack come padre. Guardo Laurel. Un po' di sbieco sulla sua sedia, mi scruta per leggermi in faccia, per stabilire l'impatto di quest'ultima palata di fango. Posso immaginare da dove venga l'informazione. I ragazzi - Julie e Danny Vega hanno parlato. L'unica consolazione di Laurel, in una battaglia per la custodia globalmente disastrosa, è che i figli hanno preso le sue parti. Il padre, Jack, appartiene alla classe politica del sud dello Stato. Per un decennio ha vissuto come un nobiluomo dei bei tempi andati. I politici
suoi colleghi sono convinti di avere inventato il concetto di privilegio e di detenerne ancora il brevetto. Se i soldi sono il latte materno della politica, Jack ha succhiato sino a farsi diventare viola le labbra. Stando ai dati della campagna elettorale, negli ultimi sei mesi ha ingurgitato dalle tette di svariate fonti più di mezzo milione di dollari. Sono soldi che senza dubbio intende mettersi in tasca. I termini di rieleggibilità di questo Stato stanno spingendo i politici a divorare i loro padri. Jack deve candidarsi per il Congresso, mettersi in concorrenza con un altro principe del clientelismo più gravato d'impegni di lui, oppure trovarsi un altro lavoro. Adesso parla della «gente» con un'acida amarezza; non capisce perché la «gente» abbia deciso di far deragliare il treno dei suoi soldi facili. Ho sentito dire che sta elaborando piani per diventare un lobbista influente a Washington, dove molti suoi colleghi dell'arena politica sono già emigrati: il grande Walhalla politico sul Potomac. Non è del tutto chiaro quali siano i motivi di Jack per questa azione legale. D'altra parte, la maggioranza delle cause legate a problemi familiari nasce più dal veleno che dalla ragione. Ha sguinzagliato una colonia d'investigatori e psicoterapeuti profumatamente pagati, un mare di formiche che si sono messe a rosicchiare le radici del carattere di Laurel per dimostrare che è inadatta a crescere i propri figli. La mia opinione è che Jack si trovi a un bivio. Se si trasferisce a est, deve ottenere la custodia e portare i figli con sé, oppure continuare a pagare gli alimenti a Laurel. E gli alimenti hanno massicciamente dissanguato il suo stipendio di legislatore; un'emorragia terminale per un uomo che ama bersi il pranzo al Sutter Club e andare in vacanza a Cabo San Lucas. Diversi mesi fa, Jack è rimasto in arretrato con gli alimenti per i figli. Laurel, tramite il suo avvocato, lo ha querelato; dopo di che ha affondato un po' più la lancia, trasmettendo copie della querela ai mass media del distretto elettorale di Jack. È successo poco prima delle ultime elezioni. Ricordo un comunicato stampa che sbandierava un titolo suggerito da lei: LEGISLATORE PARASSITA AFFAMA LA FAMIGLIA. Alla fine, per non andare in galera, Jack è stato costretto a prendere soldi in prestito dal suo fondo segreto. Ha vinto le elezioni grazie a una manciata di voti arrivati per corrispondenza, spediti prima che Laurel lo trafiggesse col suo giavellotto giornalistico. Ma Jack non si è mai lasciato sfuggire un'occasione di vendetta. La possibilità gli si è presentata tre mesi fa, quando Danny, che ha quindici anni, è stato arrestato con accuse che hanno sollevato il problema della negli-
genza dei genitori e messo a rischio l'affidamento dei figli a Laurel. Il ragazzo è stato trovato con tre amici a bordo di un'auto rubata. Uno degli altri ragazzi aveva una fedina penale più lunga della faccia di Melanie sul banco dei testimoni. «La domanda è molto semplice», insiste la Hemple. «Lei è andata a letto col signor Vega nella casa di famiglia quando i figli erano presenti?» «Be', non erano in camera», ribatte Melanie. «Me ne sarei accorta.» Risate dai pochi habitués del tribunale, e da un reporter in prima fila, un corrispondente del quotidiano del vecchio distretto elettorale di Jack, in cerca di qualche spunto ameno. Il giudice batte il martelletto e le risate si spengono. «Non le ho chiesto questo», riprende la Hemple. «Le ho chiesto se i figli erano presenti in casa.» Questa volta c'è una sfumatura tagliente nella voce. «Non lo so.» «Chi si occupava dei figli, allora?» «Non io», dichiara Melanie. Questo provoca altre risate, e un sorriso dell'ufficiale giudiziario che tiene gli occhi incollati sul vestito di Melanie, molto più sobrio del solito. Al di fuori del tribunale, l'ho vista in un prendisole di raso rosso teso come una pelle di tamburo sul petto. Melanie Vega non è una donna abbondante, se non nelle regioni superiori. Mi dicono che faccia sollevamento pesi per mantenere inalterata la situazione, un regime che dà un significato del tutto nuovo ai princìpi della fisica. Ha la carnagione di una pesca matura, vellutata, morbida come una fotografia scattata col velatino sull'obiettivo. È il tipo di donna per il quale sono state inventate le battute sulle bionde. Avendo lei ventisei anni, Jack potrebbe essergli padre. I due sono sposati ormai da cinque mesi, e Jack comincia a mostrare lievi segni di stanchezza. In aula continua a sbadigliare, il che mi fa pensare che Melanie e lui, la sera, non si limitino a discutere di strategie processuali. Con l'abilità del pescatore che lancia una mosca artificiale, Melanie piega la testa e spinge indietro, sulle spalle, i boccoli biondi che le sono scesi su un occhio. La Hemple sta controllando alcuni documenti. Un veloce consulto con Laurel, la mano intorno a un orecchio; un dialogo tra cliente e avvocato. Al tavolo col proprio avvocato, Jack lancia un sorriso d'incoraggiamento alla giovane moglie, come se lei stesse recitando. La Hemple torna dal testimone.
«In precedenza lei ha dichiarato che la signora Vega aveva problemi con l'alcool?» «Sono io la signora Vega», dice Melanie. La Hemple la guarda. «La prima signora Vega», precisa. L'avvocato di Laurel rifiuta di concedere il punto. «È esatto? La signora Vega, Laurel Vega, aveva problemi con l'alcool?» Gli occhi di Melanie sono fessure colme di cattiveria. «C'era dentro fino al collo», dice. «Se non sbaglio, le sue parole sono state: 'Aveva sempre la testa in una bottiglia'. È questo che ha detto?» «È quello che ho detto.» «E che significa esattamente?» «È un modo di dire», risponde Melanie. «Capisco.» La Hemple, per fare effetto, passeggia un po' davanti al banco dei testimoni. «Allora non intendeva dire che infilasse realmente la testa in una bottiglia.» Un'espressione sofferente da parte di Melanie, del tipo: be', non esageriamo... «Intendevo dire che era sempre ubriaca», è la risposta «Sempre ubriaca?» La Hemple si tuffa a pesce. Una smorfia di Melanie. Se agli avvocati piace tanto quella risposta, forse è meglio cambiarla. La Hemple non gliene dà l'occasione. La prima regola di un'aula di tribunale: mai parlare per assoluti. «Allora, se era 'sempre ubriaca", dobbiamo dedurre che, su tutte le volte che lei ha visto Laurel Vega, non ce n'è stata una sola in cui l'abbia vista sobria?» «Non ho detto questo.» «Ha appena detto che era sempre ubriaca.» «Quasi sempre.» «Ah. Allora non era sempre ubriaca, ma solo quasi sempre?» infierisce la Hemple. «Sì.» «Quindi siamo passati da qualcuno che 'aveva sempre la testa in una bottiglia' a qualcuno che è sempre ubriaco, fino a qualcuno che è ubriaco solo quasi sempre.» La Hemple accenna due passi di danza davanti al banco dei testimoni. «Sembrerebbe il ritratto di un alcolista che sta guarendo dal vi-
zio», commenta. Non c'è risposta da Melanie. Hastings sta dormicchiando sullo scanno. Buon punto, ma la vittoria è ancora lontana. La Hemple passa a un party natalizio dello scorso anno, durante il quale Jack scomparve con Melanie, lasciando Laurel in compagnia di un suo assistente. «Qualcuno che l'abbia vista bere a quel party potrebbe dire che lei avesse la testa in una bottiglia?» chiede la Hemple. «Io non cadevo per terra ubriaca marcia», fa Melanie. «E invece la signora Vega sì?» «Sì.» La Hemple scuote la testa, come per dire: dobbiamo proprio rifare la stessa strada un'altra volta? «Bene. E quante volte ha visto cadere la signora Vega a quel party?» Esasperazione da parte di Melanie; uno sguardo che grida: ma quanto sei pignola! «Okay, non l'ho vista cadere.» «Capisco. Un'altra licenza di linguaggio?» gorgheggia la Hemple. «La chiami come vuole. La signora era un'ubriacona. Col culo per terra.» «Un altro dei suoi modi di dire?» s'informa la Hemple. Nel timore di dover specificare dettagli anatomici o posizioni particolari, Melanie non risponde. «Lei andava a letto col signor Vega all'epoca del party natalizio?» «Non ricordo.» «Perché? Perché non era un episodio memorabile o perché a quel punto lei aveva avuto col ricorrente rapporti così frequenti da non riuscire più a tenere il conto?» «Obiezione, vostro onore.» «Ritiro la domanda.» Un'occhiata donchisciottesca da Melanie, un lampo di luce negli occhi, poi un'espressione che potrebbe uccidere. «Faceva anche uso di droga», sibila. Questo regalino viene aggiunto alla sua deposizione come l'ultima cucchiaiata di glassa su una torta preparata da mani inesperte. «Obiezione, vostro onore.» Adesso è la Hemple a esibirsi nel ritornello. «È una bugia, e lo sai!» Laurel è quasi schizzata via dalla sedia. «Non ho mai fatto uso di droga.» «Certa gente la chiama una malattia.» Melanie la ignora; sorride di fron-
te all'ira crescente dipinta sul viso di Laurel. Quest'ultima aggiunta dovrebbe servire a conferire credibilità all'affermazione. «E tu sei pratica di malattie, giusto?» dice Laurel. «Mio marito ti ha presa a un cocktail party come un'infezione.» «Il tuo ex marito», precisa Melanie. Il giudice impone il silenzio. Laurel si rimette a sedere e si gira verso di me. Sul suo volto c'è un'ira che non ho mai visto in passato. Forse è un metro di misura, la sua valutazione su come sta procedendo la causa. Mi sporgo sulla transenna e le mormoro di calmarsi. È ovvio che in questo momento sta procurando danni a se stessa: dà credibilità agli strizzacervelli di Jack e alle loro insinuanti parole sulla sua instabilità. «E lei ha assistito personalmente a questo... uso di droga da parte della mia cliente?» chiede la Hemple. Gli occhi di Melanie si chiedono se sia possibile rispondere di sì e farla franca. Ma i particolari? Dove e quando? Chi c'era? E che cosa facevano gli altri, mentre Laurel si drogava? «No. Non ho mai visto niente di persona. Ma ne ho sentito parlare tanto spesso da sapere che è vero.» Al che Melanie guarda Jack, seduto col loro avvocato all'altro tavolo. Il sorriso che corre fra i due elimina ogni dubbio sulla fonte di quell'informazione. «Chiedo la cancellazione, vostro onore.» La Hemple reagisce. Non che possa servire a molto. Jack ripeterà le stesse cose, lo stesso fango sull'alcool e sulla droga, quando verrà il suo turno. Anche se è indubbio che qualunque cosa Laurel possa avere inghiottito o fiutato deve essere stata comperata da Jack, e probabilmente usata anche da lui. «Lo stenografo cancelli l'ultima risposta», ordina il giudice. «Ora», attacca la Hemple, come se si fosse finalmente decisa a venire al punto, «le chiedo... Nei cinque mesi del suo matrimonio con Jack Vega, e nel periodo precedente in cui voi due eravate così indaffarati nelle vostre attività di adulti consenzienti... In tutto questo tempo, quante volte ha effettivamente visto o incontrato Laurel Vega?» «Ci siamo incontrate...» Melanie riflette un attimo. «Quattro... No, tre volte.» «Tutto qui?» «È stato sufficiente», assicura lei. «Non ha trovato gradevoli questi incontri?» «No.» «Non riesco a immaginare perché», dice la Hemple.
«Obiezione.» L'avvocato di Jack è di nuovo in piedi. «Accolta. Venga al punto, avvocato.» «La prima volta che l'ha incontrata, la signora Vega era ubriaca?» «Non ricordo.» «Ricorda la prima volta che l'ha incontrata?» Un lungo sospiro di Melanie. «Sì.» «Può riferire alla Corte le circostanze di quell'incontro?» «È stato a casa di Jack...» «La casa che lui allora divideva con sua moglie, Laurel, e coi figli?» La Hemple vorrebbe dipingere l'immagine idilliaca di due bambinetti che corrono sul prato di casa coi libri di scuola sotto il braccio, mentre al piano di sopra Melanie, a letto, si spupazza il loro paparino. «Sì. È stato a casa sua.» Melanie guarda la Hemple. Il lampo nei suoi occhi la informa: brutta puttana, vorrei proprio incontrarti nel vicolo dietro il tribunale, dopo l'udienza... L'avvocato è tutto dolcezza e sorrisi. «E vuole per favore raccontare alla Corte che cosa stava facendo la prima volta che ha incontrato Melanie Vega a casa sua?» Uno sguardo di Melanie, a mezza strada fra l'ira e il dolore di un cerbiatto investito da un treno. «Noi, ah... Eravamo in soggiorno...» «Noi chi?» «Jack e io», spiega Melanie. «Poi è arrivata lei.» E annuisce in direzione di Laurel al tavolo della difesa. «Intende la signora Vega, la donna che all'epoca era la moglie di Jack?» «Laurel, o come preferisce chiamarla», sbotta Melanie. «Allora la chiameremo 'la moglie del signor Vega', per lo meno in riferimento a quel periodo.» «Benissimo.» «E che cosa stavate facendo, Jack e lei, quando è entrata la moglie del signor Vega?» «Hmm.» Melanie sta prendendo tempo. C'è parecchia ansia nei suoi occhi. Si esibisce in diverse false partenze. Poi, d'un tratto, un sorriso. La decisione le è scesa addosso come un carro celeste. «Stavamo pomiciando», risponde. «Sì, pomiciando.» Si appoggia allo schienale della sedia, soddisfatta. «Pomiciando», ripete la Hemple, e annuisce come se capisse perfettamente. «Può descriverci questo 'pomiciare', o è solo un altro dei suoi modi di dire?»
«Ci baciavamo», chiarisce Melanie. «Vi baciavate?» «E ci tenevamo abbracciati», aggiunge. «Vi baciavate e vi tenevate abbracciati.» Il comprensivo avvocato riprende ad annuire. «E può descrivere alla Corte il suo abbigliamento? Com'era vestita mentre baciava e teneva abbracciato Jack?» «Non capisco la domanda.» «È vero che la prima volta che ha incontrato Laurel Vega lei era completamente nuda sul tappeto del suo soggiorno, e che lei e il marito di Laurel eravate impegnati in un rapporto sessuale more uxorio, per usare la lingua dei padri del diritto?» Molta indignazione forzata nell'espressione di Melanie. Una improvvisa rigidità che dice no a caratteri cubitali. «No. Non è vero», mormora. «Posso asserire categoricamente, con assoluta certezza, che non è vero... Perché a Jack non piace farlo con la bocca.» C'è un secondo di silenzio assoluto. Poi giungono aperte risate dal pubblico, quando viene capito l'equivoco. Jack si prende la testa fra le mani. Melanie si guarda intorno a occhi sgranati. È chiaro che ha frainteso qualcosa. «Chi glielo ha detto?» chiede. Molta eccitazione e dinieghi, come scrive Shakespeare di chi protesta la propria innocenza. Con un tono venato di un'incertezza quasi impercettibile: «A Jack non piace», ripete Melanie, come se questo potesse dissipare ogni equivoco. Un'altra marea di risate. Il martelletto del giudice la smorza: diventa un'onda di risatine soffocate, di sogghigni e di colpi di tosse. «Non lo abbiamo mai fatto.» Questa volta Melanie dà alla sua voce un'intonazione di dirittura morale; ma non è chiaro se i due non abbiano consumato il rapporto sessuale, o se abbiano semplicemente saltato la parte orale. Gli occhi di Melanie mi svelano che lei non ha ancora capito che cosa abbia frainteso. «Grazie del chiarimento», dice la Hemple. E si accinge a procedere. Su punti del genere non s'insiste. Questi due giorni di udienze per la custodia dei figli sono stati, per la maggior parte, una specie di pestaggio sancito dalle procedure legali. È improbabile che Hastings conceda molto credito a testimoni del calibro di Melanie, però stormi di esperti pagati da Jack hanno picchiato a sangue
Laurel col loro gergo professionale, caricandola di una tale quantità di sindromi di dipendenza da creare seri problemi alla sua causa. Hastings è davvero incerto sull'affidamento dei figli all'uno o all'altra. «Per quanto tempo dovrà continuare con questo testimone?» Hastings interrompe la Hemple. L'avvocato chiede un paio di secondi per conferire con la sua cliente. La Hemple torna al tavolo, parla con Laurel. È chiaro che sono preoccupate per l'ultima rivelazione sull'uso di droga. La Hemple sarà costretta a fare a pezzi Jack sul banco dei testimoni, se vuole ristabilire un minimo di equilibrio. «Un'ora», dice. «Forse più.» L'espressione di Melanie diventa quella di un bassotto. «E quanti altri testimoni deve chiamare?» «Uno solo», risponde la Hemple. Si gira a guardare Vega. Sembra volergli dire che forse stanotte gli converrà mettere a marinare qualche parte della propria anatomia, in previsione della cottura a fuoco lento che lo aspetta domattina. «In questo caso, la Corte si aggiorna. E domani concluderemo», afferma il giudice. «È chiaro?» L'avvocato di Jack si alza, annuisce. Prima si finisce, meglio sarà. Con Jack a deporre, la stampa si presenterà a frotte. «Vostro onore, solo un'altra cosa», dice. «Vorremmo una riunione nel suo studio con l'avvocato della difesa, dopo l'aggiornamento.» Hastings batte il martelletto e scende dallo scanno. Si dirige al suo studio, seguito a ruota dagli avvocati. Fuori dell'aula, sono chino a bere sulla fontanella quando lui mi arriva alle spalle. «Mi sa che abbiamo visto giorni migliori tutti e due», esordisce. La voce di Jack Vega ha il suono di un raschietto per il legno passato sul coperchio di una lattina: lo strascico vocale dei sigari e dell'alcool. Mi ha seguito in questo piccolo corridoio per poi mettermi alle corde tra la fontanella e i gabinetti. Probabilmente lui lo considera un buon posto per un incontro. Quando mi giro, lui sorride. Se ne sta lì a mano tesa, con un'espressione scema sul viso. Per chi non sia mai stato sposato con lui - o concepito da lui -, Jack è probabilmente innocuo. «Che posso dirti, cognato?» Continua a chiamarmi «cognato», anche se
non lo sono più da un po' di tempo. Un momento imbarazzante. Non gli rispondo. Resto a guardare la mano tesa finché lui non la abbassa, abbandonandola lungo il fianco. Mi accorgo che Laurel mi guarda. Mi tiene lo sguardo puntato addosso. Sta parlando con la Hemple a una quindicina di metri di distanza. Quello che è successo nello studio del giudice le ha rese nervose. L'avvocato non la che gesticolare; conversazione manuale. Ma sono certo che, al momento, Laurel non ascolta affatto. Si sta chiedendo come io possa scambiare con Jack qualcosa di diverso da raffiche d'insulti. Dopo il mio rifiuto di stringergli la mano, Jack si prepara alla difesa. Dispone i carri in cerchio intorno al suo ego. I suoi capelli sono meno grigi: rispetto al nostro ultimo incontro in famiglia, un anno fa, hanno una tinta diversa. Se non mi sbaglio, Melanie ha fatto abituare Jack a un altro tipo di bottiglia. Sulla sommità del suo cranio c'è una chierica larga come una pizzetta, circondata da ciuffi e peluzzi che tendono all'arancio. Comunque rimane un uomo avvenente, come può essere avvenente un uomo di mezza età dai tratti austeri. Somiglia a quasi tutti i politici che ho conosciuto: un aspirante statista abbassatosi a fare il mercante di tappeti. Con gli anni è riuscito ad acquistare un po' di stile, e adesso lo indossa come l'abito da mille dollari che incornicia il suo corpo spigoloso. Le lentiggini sparse sul viso come cacche di mosca sembrano più pronunciate, gli conferiscono l'aspetto di chi vive all'aria aperta. Jack è stato al sole. Vive per il golf, soprattutto per i campi popolati da celebrità, quelli in cui a ogni buca ti aspetta il carretto dei cocktail ghiacciati. Mi fa qualche complimento. Dice che mi trova in forma, che si vede che la vita mi tratta bene. Questo nonostante il fatto che mia moglie sia morta da poco, un particolare su cui Jack preferisce sorvolare. Sta cercando argomenti più gradevoli, qualunque cosa possa portare a una certa cordialità. E intanto continua a muoversi e sussultare, a spostare il peso del corpo da un piede all'altro. È un tic nervoso che Jack non ha mai saputo tenere sotto controllo. A Washington, fra i lobbisti che fanno il loro mestiere baciando culi importanti e giocando a braccio di ferro, Jack Vega è noto come «il Ballerino», almeno quando è girato di spalle. Come i suoi risultati elettorali, il corpo di Vega sembra in costante migrazione verso l'epicentro del caos. «Se non altro, sono contento che non sia tu a difenderla», dice. «Sai, in ricordo dei vecchi tempi.»
Sta saltellando in punta di piedi davanti a me come un bambino assillato da un bisogno urgente. Un movimento che, per chi conosce Jack, ha un preciso significato: l'ansia sta crescendo. «Divorzi e scannamenti familiari non sono pane per i miei denti», lo informo. «Capisco», mormora. «Però se fossi rimasto un po' più neutrale...» «Volevi che mi sedessi nella fila al centro?» chiedo. Ride un po' troppo, poi mi guarda. Ha il sorrisetto teso che ho visto sulla faccia di certa gente che sta per dare dello stronzo a qualcuno che non c'è. Distolgo lo sguardo. Il figlio di Jack, Danny, seduto su una panca in fondo alla stanza, studia la madre e l'avvocato. È ovvio che si sente sperso in quest'ambiente; sembra un disegno umoristico, la caricatura di un adolescente. Nonostante il metro e ottanta di altezza, deve ancora crescere. Vive per lo sport, soprattutto il baseball e il basket. Gioca e va allo stadio, e riempie uno stomaco sempre affamato con sei pasti al giorno. Sua sorella, Julie, è a qualche metro da lui. Aspetta l'occasione per avvicinarsi alla madre. Julie non vorrebbe essere qui. L'ha costretta la madre a venire. Julie preferiva restare a casa con le amiche, a divertirsi e chiacchierare come se nulla fosse successo. Laurel pensa che sia viziata. Secondo me si tratta solo di un meccanismo di autodifesa. «Tutto okay», mi dice Jack. «Un dovere è un dovere.» «Ti riferisci alla mia presenza qui, con Laurel?» «Sì.» «Guarda che non è lavoro. È amore», gli comunico. Lui annuisce come se capisse. Si forma una sua interpretazione favorevole. Ma in realtà non afferra. I legami di famiglia, il fatto che Nikki e Laurel fossero sorelle, c'entrano solo in parte. Oggi io sto dalla parte di Laurel e dei suoi figli, nell'angolo opposto a quello di quest'uomo, per lo stesso motivo per cui schiaccerei con l'auto un serpente a sonagli sulla strada davanti a casa mia. «Capisco», annuisce. «La famiglia. La storia del sangue e dell'acqua.» Io penso agli squali. Lui pensa ai legami di famiglia. Jack mi sta concedendo la sua assoluzione, il suo perdono per il cattivo gusto di essermi messo dalla parte di mia cognata. E intanto fa un numero alla Bubsy Berkeley, in punta di piedi. Mi porge le condoglianze per Nikki. Non ricordo di averlo visto al funerale. Glielo dico.
Qualche falsa partenza, poi chiede scusa. «Non sapevo se sarei stato ben accetto», mormora. Io faccio una smorfia, lo lascio nell'incertezza. Chiede di Sarah. Gli rispondo che sta bene. Alla nostra destra, con perfetto tempismo, Melanie emerge dalla toilette per signore. Mi chiedo se sia rimasta ad ascoltare dietro la porta del bagno. Ci raggiunge, e si esibisce nei suoi passi di danza, molto meno vivaci di quelli del marito. «Conosci mia moglie?» chiede Jack. Io guardo Laurel. Non sono certo che sia il momento giusto per una presentazione. Però Jack la fa lo stesso. Annuisco e sorrido. Melanie mi scruta come un negoziante che mi sospetti di avere rubato qualcosa da uno scaffale. Resta in silenzio per diversi secondi mentre Jack e io scambiamo chiacchiere innocue, poi guarda il marito e dice: «Glielo hai chiesto?» Per Melanie, la distanza più breve fra due punti è un attacco diretto. «Dammi tempo.» Un'occhiata di Vega alla giovane moglie. Lei però non si smonta. «Jack deve parlarti di qualcosa», annuncia. Lui tossisce, si schiarisce la gola, mi sorride come per dire: eh, che fretta, le donne... Il suo surplace prende un ritmo da galoppo «Ci chiedevamo...» esordisce. Si gira a guardare Melanie. «Ci chiedevamo se magari tu non possa parlarle.» Fa un vago cenno in direzione di Laurel, sull'altro lato del corridoio. Gli scocco un'occhiata interrogativa. «Magari riesci a farla ragionare. Questa storia sta facendo del male ai ragazzi», prosegue lui. Si riferisce allo spargimento di sangue verbale in aula. «E poi che diavolo vuole, fra l'altro?» chiede. Lo fisso, allibito da quell'assalto frontale così privo di tatto. «Be', tu lo sai che non sono mai riuscito a capirla», riprende lui. «Forse è per questo che il nostro matrimonio è crollato. Incomunicabilità», chiosa. Questo, e le decine di amanti di Jack. «Perché non leggi le sue dichiarazioni?» ribatto. «Mi sembrano piuttosto chiare. Vuole i figli.» «Sicuro», fa lui. «Ma mi capisci, no? Che cosa vuole realmente?» Lo guardo, incredulo all'idea che quell'uomo sia così ottuso. La risposta è scritta nei suoi occhi. Jack è in cerca di un volgare accordo economico, del prezzo giusto per poter comprare i figli dalla madre. Per la prima volta,
ho il sospetto che Jack nutra qualche dubbio sul suo successo. «Secondo te vuole qualcos'altro?» Sono perplesso. «Sicuro», annuisce lui. «Parlale. Ti darà ascolto. Siamo persone ragionevoli.» Scuoto la testa, non per dire no, bensì per l'incredulità. «Vuoi che te lo dica a chiare lettere? Laurel vuole una sola cosa. I suoi figli.» Alzo la voce. Calcolo che metà delle persone in corridoio possano sentirmi. Ma Jack, quando vuole qualcosa, è implacabile, e se ne frega dell'imbarazzo. «Non è in grado di badare ai ragazzi», ribatte. «Al diavolo, le ho offerto l'estate.» Guarda Melanie, e annuiscono tutti e due, come se fosse un affare d'oro. Sei settimane in estate, una a Natale. «Le porterò io i ragazzi e li andrò a riprendere. In aereo.» Aggiunge quest'ultima offerta come l'argomento che taglia la testa al toro nella vendita di un'automobile. Melanie continua ad annuire e batte le ciglia, quasi a sottolineare il peso di tanta generosità. «Non è esattamente come avere i ragazzi, no, Jack?» Lo guardo. «Be', secondo te come accidenti mi sento io? Sono anche figli miei.» «Laurel non li porterà fuori dello Stato», gli ricordo. «Che cosa vuoi che faccia? Devo pur guadagnarmi da vivere.» Dal tono di Jack, sembrerebbe che la vita di lussi di un lobbista sia identica all'esistenza di sacrifici di un operaio. «E poi, i ragazzi crescono», interviene Melanie. «Danny ha cominciato a mettersi nei guai. Si è scelto le compagnie sbagliate», m'informa. «Noi pensiamo di poter fare di meglio.» «Non sapevo che tu traboccassi d'istinto materno», commento. Lei mi scruta di sbieco, liscia la gonna passando le mani sui fianchi, come per dire: secondo te, a che servirebbe questo corpo? Jack s'intromette prima che sua moglie possa attaccare lite con me. «Hai visto il rapporto della polizia?» chiede. «Su Danny?» «L'ho visto. Che posso dirti? I ragazzi si cacciano nei guai», gli rispondo. «Andiamo, Paul.» Mi regala un sorriso radioso, poi ingrana la marcia dei rapporti personali. Mi mette una mano sulla spalla. Il senso di fratellanza virile. «Tu e io», declama, «conosciamo la realtà. Laurel vive in un mondo di sogno. Ha sempre avuto un'esistenza troppo protetta.» Da come lo dice, pare che negli anni di matrimonio lui lavorasse come uno schiavo, mentre Laurel mangiava bonbon.
«Andava benissimo quando era una ragazza e a pagare i conti pensava suo padre, quando vivevamo insieme e ai soldi provvedevo io.» «E qualcuno», gli faccio notare, «potrebbe sostenere che all'epoca Laurel si prendeva cura di tre figli.» Jack ignora il commento, però il sorriso svanisce e il suo tono diventa più franco. «Non è in grado di provvedere a Danny e a Julie come potremmo fare noi, e lo sa. E lo sappiamo anche tu e io. Per la miseria, se ci sono problemi possiamo farli assistere da professionisti, metterli in scuole private. Lei se lo può permettere?» «Magari potresti chiedere alla Corte di aumentare gli alimenti che versi per lei e per i tuoi figli», suggerisco. Mi guarda diritto negli occhi. «Credevo che noi due potessimo ragionare... Nei guai ci sono tua nipote e tuo nipote», m'informa. «E io mi preoccupo per loro», replico. «Oggi come oggi, sono figli di una famiglia spezzata, con tutti i relativi problemi.» Gli scaravento addosso questo peso, il divorzio e tutta la sua eredità. Melanie mi lancia un'occhiata sulla difensiva, come non fosse giusto spostare il discorso sul problema dei rovinafamiglie. «Sembri uno strizzacervelli da baraccone», borbotta Jack. Di colpo, tutta la splendida assistenza terapeutica che lui potrebbe offrire ai ragazzi pare un lavoro da ciarlatani. «Gli hai parlato?» chiedo. Vega mi guarda, ottenebrato. Il senso della domanda gli sfugge. «A Danny. Dopo l'arresto, hai parlato con lui?» «Sicuro. Gli ho fatto un culo così.» «Ma gli hai parlato?» «E di che dovrei parlargli? Il ragazzo ha bisogno di un po' di disciplina.» «Una cosa che soltanto un padre può dare a un figlio.» Melanie abbassa e rialza la testa, vigorosamente. Pare che ascolti il Vangelo direttamente dalla fonte divina. «I ragazzi stanno crescendo», riprende Jack, «e lei non è in grado di controllarli.» Poi si mette a parlare di Laurel e della bottiglia. Adesso mi stanno dando addosso. Sparano tutti e due. «Beveva», dico. «Verbo al passato. Non ha più assaggiato un goccio da quando è cominciata questa storia, a dispetto di tutta la merda che le hanno gettato addosso i vostri testimoni.» «Già. Fino alla prossima volta», sibila Melanie. «È stato un piacere.» Comincio a spostarmi di lato per aggirarli. La no-
stra conversazione è diventata troppo chiassosa, troppo evidente. Laurel sta manovrando per staccarsi dall'avvocato e da Julie. «Ah, sì? Be', le cose peggioreranno, e parecchio», rincara Melanie. «A meno che lei non sia disposta a essere più ragionevole.» Salterellando in surplace, spostando di continuo il peso del corpo, Jack le lancia un'occhiata da incenerirla. Hanno già concluso. Hanno presentato tutte le prove, tutti i testimoni. Mi chiedo a che cosa alluda Melanie. Indugio un attimo; un invito ad aprire bocca, magari a sbottonarsi sul serio. Ma Jack la prende per mano, le stringe le dita sino a far diventare bianche le punte. «Parlale», insiste lui. «Convincila a essere ragionevole.» Fanno per andarsene. All'improvviso, dietro i due, vedo arrivare Laurel: sembra una locomotiva a un passaggio a livello, con gli occhi infuocati come due carboni ardenti. Alza la borsetta sopra una spalla con entrambe le mani, nell'imitazione di un lanciatore di martello, dalla mira un po' incerta. Un chilo abbondante di borsetta piomba sulla spalla di Jack. La testa di Melanie la scampa per qualche centimetro, però c'è l'impatto con la borsetta che lei tiene sotto il braccio, una cosa minuscola coperta di perline. Le due borsette finiscono sul pavimento, schizzano via. Rossetto, portacipria e portafogli sono sparsi da per tutto. Scivolano e rotolano sul mosaico in stile palladiano: gli oggetti che le donne portano sempre con sé vengono esposti agli occhi del mondo. Una spazzola di plastica rimbalza sul pavimento e va a sbattere contro la scarpa lucida di un ufficiale giudiziario, davanti all'aula 14. Prima che io possa muovermi, Laurel parte all'attacco con la tracolla sradicata della sua borsetta. Impugna la striscia di pelle a mo' di garrotta e la stringe al collo di Melanie. Per qualche motivo, il veleno si riversa non su Jack, bensì su Melanie Vega. L'afferro per un braccio prima che riesca a fare qualcosa. Jack è in mezzo alle due donne. Ha alzato mani e braccia a proteggere la testa, come un pugile chiuso nell'angolo. Dalle parti dell'inguine, un fazzoletto di pizzo nero è rimasto attaccato alla peluria lanuginosa del vestito. L'ufficiale giudiziario sta venendo verso di noi. Afferro Laurel per un braccio e mi metto davanti a lei, bloccandola. Possiede un notevole vigore, una sensuale agilità. Quando mi appoggio a lei, resto stupito dalla massa di muscoli nelle braccia. Le gambe sembrano molle pronte a scattare.
«Che succede qui?» chiede l'ufficiale giudiziario, nel suo tono più imperioso. Mi riconosce e annuisce. «Solo un piccolo dissapore», gli rispondo. «Piccolo dissapore, un cazzo.» Jack sta uscendo dal suo angolo. «Questa puttana ha tentato di colpire mia moglie con la borsetta», dice. Laurel non ha un filo di grasso in corpo, i fianchi sono snelli e rotondi. La tengo per le braccia e penso che per Jack è una fortuna che non gli abbia assestato un gancio al mento. Adesso sarebbe steso per terra, fuori gioco. «Potete usare la sala riunioni degli avvocati.» L'ufficiale pare interessato a evitare guai, a impedire una denuncia formale che significherebbe un sacco di lavoro. Con due dita, Melanie stacca dai calzoni del marito il fazzoletto da donna e lo lascia cadere sul pavimento. Scocca un'occhiata imperiosa all'ufficiale giudiziario, come per dirgli che dovrebbe fare qualcosa di più. E lui obbedisce. Si china a raccogliere il fazzoletto e lo porge a Melanie. «È suo?» chiede. Mai vista una donna arrivare tanto vicina a sputare. La Hemple ha raccolto la borsetta di Laurel. Prendo il fazzoletto dalle mani dell'ufficiale e lo infilo nella borsetta. Tutti stanno raccogliendo qualcosa da terra. «Puttana. Stai lontana dai miei figli.» Laurel sta di nuovo sprizzando veleno: la seconda scarica. «Mi sarebbe piaciuto che fosse una fottuta mazza.» Tiene la borsetta per un lembo della tracolla spezzata. La spingo via. L'ufficiale giudiziario ci scruta con aria dubbiosa. Forse ci ha ripensato, forse sarebbe meglio chiedere alla vittima se vuole sporgere denuncia. «Chiedile che cosa ha fatto.» Laurel mi si pianta davanti. Io la blocco col petto e la indirizzo verso la sala riunioni. «E tu», dice. Adesso se la prende con Jack. «Non te ne importa niente se lei distrugge i tuoi figli.» Chiama Melanie «bugiarda», e aggiunge un assortimento di altri insulti più acidi. Non ho idea di che cosa stia parlando, ma il mio istinto di avvocato mi dice che un corridoio aperto al pubblico non è il posto adatto per sfoghi del genere. La Hemple ci ha raggiunti. Spinge Laurel da dietro, come un rimorchio agganciato alla poppa di una nave. Melanie sta parlando con l'ufficiale giudiziario. È tutta un agitarsi di mani, un susseguirsi di espressioni facciali, quasi volesse convincerlo a ti-
rare fuori le manette. Lui la guarda, comprensivo e ambiguo. Intanto, continua a indietreggiare verso l'aula. Raccoglie oggetti da terra, li offre a Melanie per la sua borsetta. Quanto gli piacerebbe avere guardato da un'altra parte, al momento dell'inizio della scenata. In sala riunioni, dietro tende tirate e divisori di vetro, la Hemple mi racconta le novità. Laurel è ancora troppo arrabbiata per parlare. «È la scuola di Julie», spiega l'avvocato. «Hanno trovato una ragazzina con la droga. Sostiene di averla avuta da Julie.» Nella misura in cui qualcosa che abbia a che fare con gli adolescenti può sorprendermi, resto stupefatto. Da quanto mi risulta, l'unico narcotico di cui faccia uso mia nipote è l'adulazione delle amiche. Una dipendenza formidabile. Chissà se ha portato a sostanze più pesanti. «Crack», precisa la Hemple. «La ragazzina, l'amica di Julie, ne aveva solo per uso personale, non per spacciare.» Sia lodato Iddio per le piccole consolazioni. «Vogliono perseguirla?» chiedo. La Hemple fa una smorfia. Non è sicura. «È successo tre giorni fa. Stanno ancora indagando.» «E come ha fatto Jack a scoprirlo così in fretta?» «È quello che mi chiedo», risponde la Hemple. Evidentemente teme che ci sia sotto qualcosa, che Jack e Melanie si siano impegnati in un fai-da-te molto creativo. Una ragazzina colta in flagrante potrebbe essere disposta a inventare una storia, a incriminare un'innocente, per il prezzo giusto. Le regole del commercio. Jack non sarebbe tanto maldisposto a considerare i problemi sociali della scuola dei figli come un oceano di occasioni, un posto con più sostanze stupefacenti di una normale farmacia. «E c'è di peggio», prosegue la Hemple. «È una bugia», interviene Laurel. Mi guarda gelida, con una punta di cattiveria negli occhi. Abbiamo raggiunto il fondo; il nostro ascensore è sceso nel seminterrato. Per Laurel, questa asserzione è una cosa fondamentale, un dato basilare al quale devo assolutamente credere. Ma i dinieghi sono il pane quotidiano degli avvocati, più frequenti delle chiacchiere sul clima, e la Hemple la ignora. «Stando all'altra», dice, «Julie avrebbe fatto ammissioni.» «Che tipo di ammissioni?» «La ragazzina sostiene che Julie le ha raccontato che il crack veniva da
casa. Roba di sua madre. E, quel che è peggio, Melanie lo ha confermato. Dice che Julie ha raccontato la stessa cosa a lei. Le ha detto che sua madre fa uso di droga.» «Non è vero», protesta Laurel. «È una puttana bugiarda.» Potrei aspettarmi di vederla crollare, ricacciare indietro le lacrime, abbattersi contro il vetro sotto il peso dell'accusa. Invece resta in piedi, a testa eretta, spalle diritte. Scuote la testa, e in un linguaggio perfettamente chiaro ci dice che sono tutte stronzate. Laurel si è avvicinata al divorzio con una fiducia da scolaretta nella giustizia dei tribunali. La sua fede è stata scossa dalla lenta percezione del fatto che la voce dei soldi è forte qui come in ogni altro luogo. Se le credo - e le credo -, adesso si sta rendendo conto per la prima volta, da cinica dilettante, che per alterare l'equilibrio della bilancia della giustizia basta una buona dose di false testimonianze. Mi alzo, la studio. Lei è all'estremità opposta del piccolo tavolo, sotto il bagliore delle luci fluorescenti. Una fredda consapevolezza, come una nube scura, passa sul suo viso. «Perderò i miei figli», mormora. «Non è vero?» 2. «Svegliati, piccola.» Sussurro all'orecchio di mia figlia, non tanto forte da strapparla al sonno. Lo schermo del televisore è bianco di neve: una stazione locale che chiude le trasmissioni all'ora delle streghe. Sarah è vestita come una principessa delle favole; stasera c'è stata la festa per Halloween, con qualche compagna di scuola. Sono sdraiato sulla poltrona reclinabile, in soggiorno, coi talloni sul poggiapiedi. Sarah mi è coricata addosso. Ci siamo addormentati. È la terza sera che succede. Adesso che non c'è Nikki a imporre un regime alle nostre vite, andiamo alla deriva, senza un'àncora, senza abitudini sane. Mi muovo sulla poltrona e Sarah si stringe a me. Le sue piccole dita affondano nella mia camicia come le unghie di un gattino. Io mi sposto e lei emette un gemito fioco, poi vaghi miagolii. Guardo l'orologio. L'una passata. Impossibile svegliarla. La sollevo, un peso morto fra le mie braccia, e la porto nella sua camera da letto. Stanotte dormirà nello chiffon del sangue blu fasullo. Si cambierà domattina, prima di andare a scuola.
Ultimamente, mi chiedo che cosa pensano l'insegnante o qualcuna delle altre madri, vedendo mia figlia. Ha i vestiti puliti, ma non stirati. Probabilmente è una fortuna che Sarah, un'indossatrice nata, non avverta più il fascino delle cose femminili dopo la scomparsa della madre. Gli abiti che indossava prima, le crinoline che erano l'orgoglio di Nikki, restano appesi nell'armadio di Sarah come spettri irrequieti. La mia capacità di accostare i colori non è mai stata nemmeno all'altezza delle mie cravatte. Avverto un senso di dolore fisico, quando tento di esercitarla sulle coloratissime calzemaglia e sulle camicette di una bambina. Le trecce e le splendide code di cavallo che a Nikki richiedevano cinque minuti sconfiggono le mie dita troppo grosse, per cui i capelli di Sarah, quasi tutte le mattine, somigliano a un covone di fieno in una tempesta di vento. In questo periodo, quando giochiamo insieme, non si tratta del salto della corda o di nascondino: ci dedichiamo al baseball, oppure al lancio dei cerchietti in cortile; io la prendo in braccio, e lei può esibirsi nella sua versione di un lancio con l'effetto. Ogni giorno, quando si avvia a scuola con lo zaino che le ballonzola sulle spalle scarne, mi chiedo se mia figlia non abbia commesso un errore colossale, consacrando il suo affetto a un padre vedovo; se non si sia condannata all'esistenza del maschiaccio. Le tolgo le calze, la copro. Un bacetto sulla guancia, poi accendo la luce notturna. Dall'altra parte del corridoio, nella mia stanza, la sento respirare nel sorvegliabambini che ho sul comodino. Ho frugato in una decina di scatoloni in garage per trovare questo aggeggio. Nikki l'ha messo via dopo che Sarah ha compiuto tre anni, quando il timore di una morte improvvisa nel sonno e altre paranoie materne e paterne si sono placate. Tuttavia, nelle settimane dopo la morte di Nikki, Sarah ha sofferto di crisi di pianto che mi hanno straziato l'anima. Correvo da lei, la stringevo a me, la cullavo, e lei faceva domande alle quali non sapevo rispondere. Perché suo padre, che sa fare tutto, non era capace di riportare indietro la mamma? Dov'era andata la mamma? L'avremmo mai rivista? Fissando quei grandi occhi rotondi verde oliva, la calmavo con una litania di certezze («Mamma è con Dio, è felice, dalle nuvole in cielo veglia sulla sua bambina...»), e le ripetevo che un giorno saremmo stati di nuovo insieme, per sempre. E con tutto, tutto me stesso, al di là di quello che so, speravo fosse vero. E Sarah si riaddormentava, tranquillizzata da promesse paterne che erano solo semplici desideri. Mezzo assonnato, m'infilo nella vasca per una doccia. L'acqua fredda mi
lambisce i piedi. Ore fa, stavo preparando il bagno per Sarah, ma poi l'avevo dimenticato. Tolgo il tappo e sento squillare il telefono sul mio comodino. Allacciandomi una salvietta intorno alla vita, corro a rispondere, nel timore che gli squilli possano svegliare Sarah. Chi diavolo chiama a quest'ora? Non possono essere buone notizie. «Signor Madriani?» «Sì.» «Sono Gail Hemple.» «Che c'è?» «Sono a casa di Jack Vega», risponde lei. «È meglio che lei venga qui appena può.» «Che cos'è successo?» «C'è la polizia», dice. «Mi ha chiamato l'avvocato dei Vega un'ora fa.» Una pugnalata. Non al cuore, ma al cinico centro del mio cervello di avvocato: Laurel e il suo caratteraccio. Avrà fatto qualche idiozia: rotto una finestra, fracassato una persiana, inciso le proprie iniziali con una chiave sulla vernice della Lexus di Jack, ottantamila dollari che lo Stato gli ha messo a disposizione. Dopo l'accusa di uso di droga, avrei dovuto portarla a casa mia per la notte. Prima di cena, ho trascorso due ore a torchiare Julie e la madre. Tutte e due hanno negato senza la minima esitazione. «Che cosa ha fatto?» chiedo. La Hemple balbetta qualcosa, poi si riprende. Sa benissimo di chi sto parlando. È ovvio che la sua cliente ha fatto qualcosa. «Adesso non posso parlare», bisbiglia. «Non aggiunga altro. Sono in auto. La sto chiamando col cellulare. Risponda a una sola domanda. È con lei, in questo momento?» «Laurel?» chiedo. «Solo sì o no.» «No. Probabilmente sarà a casa sua.» «Non c'è», dice la Hemple. «Dove sono i ragazzi?» chiedo. «Che diavolo sta succedendo?» «Non posso parlare. Venga qui. Subito.» «Sarah dorme», spiego. «Dovrò trovare qualcuno che badi a lei.» «Lo trovi.» E riappende. Forse la signora Bailey, la mia vicina di casa, non mi perdonerà mai. Una telefonata nel cuore della notte, un'altra richiesta urgente di aiuto. Lei è il prototipo della nonna. Sessantadue anni, austera, e sola. Assidua fre-
quentazione della chiesa, tendenze conservatrici. Vive, nell'ordine, per il benessere dei bambini e per le sue lezioni settimanali di catechismo. Temo di avere approfittato del suo debole per i bambini. È stata la mia eterna stampella, la fedele baby-sitter dopo la morte di Nikki. Non accetta soldi, così io aspetto che il vento abbatta la staccionata del suo cortile, o che una mattina la sua automobile non parta; qualunque cosa, pur di ripagare la sua gentilezza con un lavoro da uomo. Sino a oggi, tutto ciò che lei possiede è in perfetto stato e funziona senza perdere un colpo, cosa che non posso certo dire di me, al momento. Guido con le mani incollate al volante, cercando di spazzare via il sonno dagli occhi. Jack e Melanie Vega vivono in fondo a un cul-de-sac che parte dalla Quarantaduesima, in una grossa villa coloniale. Colonne bianche su uno sfondo di prati più grandi di certi parchi pubblici. Arrivo a due isolati dalla casa, e scorgo un bagliore etereo nel cielo notturno, tra i vapori nebbiosi del primo autunno: un guizzare spettrale di blu, ambra, e rosso. Due auto della polizia bloccano l'incrocio che porta alla villa di Jack, l'unica via d'accesso o di uscita. Mento a uno degli agenti all'incrocio. Dico che sono un parente. Lui mi lascia passare e mi consiglia di parcheggiare all'altro lato della strada. A fianco del marciapiede, proprio di fronte alla casa di Jack, c'è un'autopompa. Il motore diesel ronza monotono. Una breve perplessità. Laurel non mi ha mai dato l'impressione di avere un debole per gli incendi. Poi scarto l'idea. Di questi tempi, se tuo figlio ingoia qualche verme da pesca, ti mandano un'autopompa. Il veicolo ideale per ogni emergenza. Sul marciapiede, sul mio lato della strada, si sta radunando una folla di passanti curiosi e di vicini di casa. Qualche anima audace si è spostata dall'altra parte, più vicino alla villa, e rompe le scatole a polizia e pompieri per avere informazioni. Cerco con gli occhi Gail Hemple, ma di lei non c'è traccia. Parcheggio e scendo. Mi mischio ai vicini, quasi tutti in accappatoio e ciabatte. C'è un tizio coi calzoni, giubbotto con la cerniera chiusa sotto il collo, mocassini, niente calze. Ha il bavero rialzato per proteggersi dal freddo. Sta facendo il terzo grado a una vecchia per scoprire quali siano le ultime voci corse tra la folla, che cosa abbia visto o sentito lei. La vecchia continua a scrollare le spalle. «Uno dei poliziotti ha parlato di una vittima in casa», dice.
Un nodo improvviso allo stomaco, sudore freddo sulla mia fronte. La voce della Hemple al telefono, il suo tono non erano segnali di una vaga preoccupazione per una vendetta da due soldi. Il passo carraio, unica interruzione nel cancello in ferro battuto alto un paio di metri che recinta la casa, è sbarrato dal nastro giallo della polizia. Agenti in borghese vanno avanti e indietro tra la villa e le auto parcheggiate; hanno in mano i sacchetti tipici della medicina legale. Il portico di Jack pare una replica in miniatura di quello della Casa Bianca. Mancano solo la guardia d'onore e il Servizio Segreto. Jack vive per fare colpo sul mondo. Ho una visuale molto chiara dell'ingresso. La porta è spalancata. Luci da albero di Natale, colonne corinzie su ogni lato. Tutto questo trasmette un messaggio: una vittima senza il bisogno di corse affannose di ambulanze. Il pensiero, le limitate possibilità mi danno un brivido. Lungo la strada, ho tentato per quattro volte di chiamare Laurel a casa sua, col cellulare. Non c'è stata risposta. I ragazzi devono essere con lei. «Signor Madriani.» Sento una voce dolce alle mie spalle e mi volto. Gail Hemple. Sta con un gruppetto di persone a cinque o sei metri da me: un'altra donna e una coppia che si tiene a braccetto, vicino ai cespugli sui lati del sentiero d'accesso a una casa. La donna che sta con la Hemple mi sembra vagamente familiare, una faccia che riconosco, ma alla quale non so dare nome; qualcuno spuntato da una vita passata. La coppia, un uomo e una donna giovani, tremanti di freddo, non accende lampadine nel mio cervello. Mi avvio, e la Hemple mi viene incontro a mezza strada. Un breve colloquio al sicuro da altri orecchi. «Che cos'è successo?» chiedo. Un lungo sospiro dell'avvocato. «Brutte notizie», mi sussurra. «Lì dentro hanno sparato.» Capisce dalla mia espressione che la cosa non mi sorprende, dopo il mio tuffo nel mare di voci mormorate in giro. Resto ad aspettare la battuta conclusiva. Lei mi legge nel pensiero. «Melanie Vega è morta», dice. Rimango senza fiato. La mia mente galoppa. «Dov'è Laurel?» «Me lo dica lei.» «E Jack?» Fa una smorfia, un punto interrogativo.
Mi occorre un po' per assorbire il tutto, le implicazioni. «Un furto?» chiedo, speranzoso. La Hemple scuote la testa. Non ha idea. «La polizia non parla», m'informa. Dal suo sguardo, però, intuisco che sta pensando a un'altra versione dei fatti. «Ho telefonato a Laurel non appena mi ha chiamato l'avvocato dei Vega», dice. E ha ottenuto i miei stessi risultati. «I ragazzi?» Mani alzate, scrollata di spalle. Non ne ha idea. «Fantastico.» Mentre parliamo, la donna dal viso familiare, quella che prima parlava con Gail, le arriva alle spalle. È bella. Capelli castano chiaro, tuta da jogging: la prima cosa trovata nell'armadio quando sono scattate le sirene. Forse vuole parlare con la Hemple. Invece mi guarda, sorride, e dice: «Paul. Che piacere rivederti. Mi spiace che debba succedere in simili circostanze». Adesso si bea della mia espressione vacua, goffamente mascherata da un sorriso idiota. Annuisco, cerco di farle capire che brancolo nel buio più totale. Lei ride. «Dana Colby», spiega. «La facoltà di legge.» Un piccolo guizzo di vivacità nella sua voce. «È passato tanto tempo. Ero indietro di un anno rispetto a te.» «Ah, sì. Ricordo.» Ma la mia voce è colma di sfiducia nei poteri della mia memoria. Il gioco dei nomi e delle facce non è mai stato il mio forte. Restiamo lì a parlare, e i ricordi arrivano come i brividi prima di un'influenza. Vaghe rimembranze di essere stato preso a calci in culo da questa donna in un'aula di tribunale. Non la vedo da diversi anni. Era una delle poche studentesse di legge, prima che le donne invadessero le università. Se ricordo bene, era quella che tutti quanti noi uomini sognavamo di portare a letto. Un metro e settantacinque, capelli castano chiaro, occhi brillanti come ametista, un viso da angelo, un corpo che solo Dio potrebbe avere creato. Non è cambiata. In quanto a patrimonio genetico, è l'immagine che ogni donna evoca quando pensa alle ingiustizie della vita. Al momento, l'unica cosa che desideri è appartarmi con la Hemple a parlare. La coppia che sembra in compagnia della Colby si è leggermente spostata. Un uomo e una donna sui trentacinque anni. Paiono attaccati alla Colby come all'ombra del grande Pan. Dana Colby mi guarda, esita per un attimo. «Vi presenterei», dice ai due,
«ma temo di non conoscere i vostri nomi.» «George Merlow. Mia moglie, Kathy.» L'uomo annuisce alla Colby e sorride. Gli stringo la mano. «Abitiamo qui», chiarisce lui. «Una cosa molto seccante. Ci siamo appena trasferiti.» Kathy Merlow ha un viso lungo e olivastro, capelli biondo sporco, e l'aria di chi è rimasto a letto per una malattia. È minuscola. Il braccio è intrecciato a quello del marito e la mano si perde nella tasca del soprabito di tweed di George; il bavero dell'uomo è rialzato intorno a un vago accenno di barba. La capigliatura è scura. Quando si china a sussurrare all'orecchio della moglie, scopro che i capelli, non troppo folti, terminano in un codino. Ha l'aspetto trasandato della celebrità in vacanza. La sua voce possiede un vago accento, direi di un posto a est di Omaha, magari il Massachusetts o New York; però è un accento poco saldo, provvisorio, come se questo tizio non avesse radici, come se si fosse mosso parecchio. Lo guardo, e nei suoi occhi c'è molta agitazione, molto nervosismo. Siamo in strada, aspettiamo che arrivi il furgone del coroner; attribuisco l'ansia agli eventi della serata. Il nostro gruppetto è unanime. «È mostruoso.» Le prime parole di Kathy Merlow. «Da quando siamo arrivati, tutte le sere i telegiornali parlano di sparatorie. Una città violenta», dice. A quanto pare, Capital City non ha fatto una buona impressione. Magari questi due vengono da Mayberry. Ho una visione di ragazzini che fischiettano mentre vanno a pescare. «Cammini per strada, e sei già un bersaglio», completa l'uomo. «Come in tutte le altre grandi città.» La Colby fa coro alla coppia. «Comunque, avremmo potuto sperare in un carro di benvenuto migliore.» Sta guardando il furgone del medico legale, che ha appena superato il passo carraio della casa di Jack. Due agenti rimettono a posto il nastro giallo. La Hemple mi lancia un'occhiata tipo: speriamo che anche la polizia pensi a un episodio di violenza casuale. Io prego che Laurel abbia un alibi. Che sia andata ad assistere alla messa di mezzanotte con le Sorelle della Misericordia. Dopo il divorzio, con Laurel non si sa mai. Una notte si è presentata a casa nostra con un sacerdote cattolico. Nikki stava vomitando aggrappata al water, dopo la seduta di chemioterapia. Mi sono trovato a intrattenere Laurel e sua eminenza in pigiama, alle due del mattino. Il fatto è che quella sera Laurel si sentiva più peccatrice del solito. Si è messa in fila per la confessione, dopo di che, con un'amica, ha invitato a cena il giovane prete. Recitata la penitenza tra un
cocktail e l'altro, è riuscita a scaricare l'amica e a convincere l'uomo in nero a togliersi il colletto bianco e a fare qualche passo di danza con lei sulla pista da ballo. Quando sono arrivati a casa mia, nonostante la loro imperturbabile faccia di bronzo, Laurel si stava dando da fare per sottoporre alla più drastica delle prove il voto di castità del sacerdote. Certe volte mia cognata è un vero demonio. Comunque, non ho mai pensato che possa uccidere. «Tu sei un parente, vero?» chiede la Colby. Mi guarda, annuisce in direzione della villa dietro il nastro giallo, illuminatissima. Guardo la Hemple. Lei mi risponde con un'espressione tipo: già, lo so, sono una chiacchierona. «Ex cognato», rispondo. «Oggi non più.» «Oh.» Silenzio, come se la Colby fosse inciampata in un peccatuccio di gioventù di un vecchio zio. «Vivi nei paraggi?» le chiedo. «A qualche isolato da qui.» Un cenno vago della testa, un posto indefinito alle sue spalle. Gli anni sono stati benevoli con lei. «E tu?» chiede. «Passavo.» Mentre la risposta mi esce dalle labbra, penso che, alle due del mattino, la Colby si chiederà da quale bar io sia appena uscito. Però non ho fretta di riconoscere che sono qui per lavoro, all'inseguimento dell'imprevedibile Laurel, o di far sospettare che mia cognata abbia un qualche ruolo in quello che sta accadendo dentro casa. A quanto sembra, le due signore, la Hemple e la Colby, hanno frequentato insieme il Queen's Bench, un club locale di avvocati di sesso femminile, dove si sono tenute d'occhio a vicenda nelle rispettive carriere; un posto assolutamente indispensabile per intrecciare rapporti e migliorare la propria posizione. «Dana lavora nell'ufficio del procuratore degli Stati Uniti», dichiara la Hemple. «Unità colletti bianchi.» Il suo tono è enfatico, quasi volesse appendere un cartello: PUBBLICA ACCUSA PRESENTE. «Ah.» Di colpo, ricordo. Ricordo dove la Colby e io ci siamo dati battaglia. Una causa penale in Corte Federale, quando lavoravo ancora con lo studio. Dana Colby mi ha stracciato. Il giudice distrettuale federale, un'altra donna, probabilmente una del loro clan, ha sbattuto dentro il mio cliente per un'intera era glaciale. Nemmeno la dose più massiccia di buona condotta è servita a farlo scarcerare. «Lei ha freddo.» La Colby sta parlando con Kathy Merlow.
«È appena uscita da un'influenza», precisa il marito. «Dovrebbe portarla a casa», consiglia la Colby. Questo scambio di battute passa sopra la testa di Kathy. Il suo sguardo è incollato sulla villa di Jack. «Pensate che la porteranno fuori presto?» Per un attimo, non so esattamente di chi stia parlando. Poi afferro. Kathy Merlow è in preda a una curiosità morbosa. Vuole vedere il corpo di Melanie Vega avvolto nel sudario. «La conosceva?» le chiedo. Lei mi guarda per la prima volta, a occhi sgranati. «Oh, no. No. Non ci siamo mai incontrate.» È addirittura enfatica. «Non conoscevamo nessuno dei due. Siamo qui da troppo poco tempo. Non conosciamo proprio nessuno», insiste, scrutandomi con grandi occhi rotondi. Sembra sollevata all'idea che i Merlow e i Vega siano estranei. Pensa forse che la violenza sia contagiosa, e la distanza funga da vaccino immunitario? «Forse dovremmo tornare a casa.» George guarda la moglie, preoccupato che tutto questo sia troppo per lei. Scruta la Colby, poi le sussurra qualcosa all'orecchio. Lei annuisce, ma non sorride. Immagino che lui si stia scusando perché vuole portar via la moglie. «Dai, andiamo», la sprona. Spinge Kathy verso la strada. «Lieto di averla conosciuta», mi dice. «Vorrei fosse successo in circostanze migliori.» Poi i due si avviano. «Simpatica coppia», chiosa la Colby. «Già.» Li guardo percorrere il cul-de-sac e incamminarsi sul sentiero d'accesso alla loro casa. «Però devono essere dei reclusi», rifletto. «Perché?» «Non conoscono i Vega, e vivono alla porta accanto.» Lei mi guarda, perplessa. «Hai ragione», dice. All'improvviso, la mia attenzione si concentra sul «prato sud», sul portico che nella fantasia di Jack è animato da elicotteri per grandiosi viaggi ufficiali. Sul portico c'è movimento. Vedo uscire Vega e un altro uomo. Jack sta scrutando la folla davanti a casa. Anche da questa distanza, si capisce che è distrutto. Il viso è stanco; sotto gli occhi ha borse grosse come dirigibili. Ma il mio sguardo è puntato sull'uomo alle sue spalle. Mi si gela il sangue alla vista di Jimmy Lama, il poliziotto uscito diritto dall'inferno. Lama e io abbiamo una lunga storia. Anni fa, l'ho conciato per le feste accusandolo di abuso di forza nell'arresto di un mio cliente. Più recente-
mente, ci siamo scontrati durante il processo a Talia Potter: Lama, violando l'ordine di silenzio stampa della Corte, ha trasmesso ai giornali informazioni che mi danneggiavano perché collegavano me all'omicidio del marito di Talia, Ben Potter, socio anziano dello studio dove un tempo lavoravo. Purtroppo, Talia e io avevamo avuto una breve relazione nel periodo in cui ero diviso da Nikki. Tuttavia gli sforzi di Lama per implicarmi nell'omicidio di Ben sono andati in fumo quando Talia è stata assolta e si sono scoperti il vero colpevole e il vero movente. Al momento, sono ancora in vantaggio su Lama. Jimmy è stato punito per avere violato l'ordine della Corte: una sospensione dal servizio senza stipendio... e la degradazione. Vega fruga tra la folla, guarda, si scherma gli occhi dal bagliore delle luci. Ci sono veicoli della polizia sul sentiero di accesso alla sua villa; le barre luminose ruotano, proiettando in sincrono lampi colorati. Poi, all'improvviso, Vega tende un braccio, punta l'indice a mo' di pistola. Alle sue spalle, Jimmy Lama prende la mira; e al centro del mirino ci sono io. «Avvocato. Che gioia vederti», dice. «E io che pensavo che la vita fosse troppo corta.» Il sorriso di Jimmy Lama è minaccioso e basta. La caratteristica più saliente di Lama è il suo fisico, che pare tagliato nella pietra. Quest'uomo è un quadrato, dall'angolo della mascella a ciò che resta della capigliatura, sulla sommità del cranio. I capelli hanno un taglio da praticello appena rasato che richiama subito la passata appartenenza all'esercito del loro proprietario. Qualcuno mi ha detto che Lama faceva parte della polizia militare di un'ambasciata dietro la cortina di ferro. Mi sono chiesto spesso per quale parte lavorasse. Lama e io abbiamo alle spalle una lunga e sfortunata storia: il nostro grado di odio farebbe invidia a quello tra arabi e israeliani. I nostri rispettivi bunker sono stati le aule di tribunale e gli uffici di polizia di questa città. Lama è alto un metro e settantacinque, anche se la sua statura morale è un tantino inferiore. È ambizioso all'eccesso e corrotto come sono corrotte quasi tutte le persone che mirano in alto: non tanto al denaro quanto all'inseguimento di mete superiori. Il nostro ultimo scontro ha dato un colpo non indifferente alla sua carriera. Lama ha trascorso gli ultimi tre anni a recuperare terreno, dopo l'azione disciplinare di cui mi ritiene responsabile. Stanotte la porto sul petto come una medaglia all'onore. Arriva un giovane agente, quello che mi ha lasciato passare all'incrocio, e mi presenta Lama come se non lo conoscessi.
«Ah, di nuovo tenente», commento. «Questo spiega il rumore, il vecchio familiare suono.» «Sarebbe?» chiede Lama. «Il rumore della mano che gratta il fondo del barile della polizia.» Gli occhi di Lama diventano due fessure cattive. Borbotta oscenità, una frase che si conclude col suo culo, e mi manda a quel paese. Lo dice fra i denti, a bassa voce, in modo che la Hemple e gli altri poliziotti non sentano. Forse è vero che con la vecchiaia si migliora. Jimmy Lama ha imparato un po' di autocontrollo. Dieci anni fa, con le stesse parole mi sarei guadagnato un nuovo look: una graziosa serie di contusioni lasciate dalla torcia elettrica che lui impugna. Lama è sprofondato in una poltrona in pelle davanti al camino Mordicchia uno stuzzicadenti, il tranquillante che usa da qualche anno, da quando ha smesso di fumare. Gail Hemple è entrata con me in casa di Jack, anche se non è stata invitata. Credo abbia in mente di giocare all'avvocato con Lama, tirare in ballo privilegi e immunità per la sua cliente, e tutto ciò per sottrarmi al fuoco del poliziotto. Potrei farlo anch'io, ma a Lama basterebbero un'ora e un paio di telefonate per scoprire che non mi sono presentato in aula una sola volta come difensore di Laurel. Poi mi sistemerebbe il culo colandoci sopra del catrame bollente e ricoprendolo di piume. «Dov'è la signora?» chiede. Si è rivolto a me. «Hai perso qualcuno?» dico. «Tua cognata, stronzo.» Scuote la testa, sorride intorno allo stuzzicadenti. «Rendici la vita facile. Dicci dov'è.» «Potresti provare al suo appartamento. Vive lì.» «Non c'è nessuno.» «Sul serio?» A furia di masticare, Lama sta facendo una punta nuova allo stuzzicadenti. Jack ci ha raggiunti in soggiorno. Mentre io entravo, il medico legale e un suo assistente stavano portando via il cadavere allungato su una barella. Jack li seguiva a ruota. Mi ha guardato di sbieco, con l'aria di chi ha voglia di vendicarsi. Adesso, nel rivedermi, i suoi occhi s'infiammano. E io capisco che la sua non è una semplice crisi di dolore. Vega ha cercato conforto in una bottiglia. Ne vuole ancora. Si dirige al carrello dei liquori, in un angolo. A
mezza strada si ferma. È stato colpito da un'idea che non riesce a soffocare. «Figlio di puttana», sibila. «Te lo avevo detto. Ti avevo avvertito.» Il suo indice trema davanti al mio naso. «Laurel aveva saltato il fosso e tu lo sapevi.» Parla come se tutti i fatti fossero già accertati, l'inchiesta conclusa, il caso chiuso. Adesso gli resta solo da acchiappare Laurel. È imbarazzante dover litigare col vedovo. Guardo Lama. Lui sorride. Nessun sostegno da quel lato. Alla fine faccio le mie condoglianze a Jack, gli dico che mi spiace per quello che è successo, ma che lui sta dando troppe cose per scontate, sta saltando alle conclusioni. «Stronzate.» Vega mi assale verbalmente. Gli ho dato quello che voleva: un bersaglio, una difesa di Laurel. «Quella puttana ha ucciso Melanie», ruggisce. «Ha qualche rotella fuori posto. L'hai vista in tribunale. Minacce e violenza. In corridoio si è lanciata su Melanie come una belva.» Adesso sta cercando di convincermi. «Era un po' sovreccitata», spiego. «Una piccola discussione, tutto qui.» «Una piccola discussione!» esclama Jack. L'ira gli appanna lo sguardo. «Che cosa vuoi, una foto?» dice. «Lo vuoi vedere a colori? La videocassetta di Laurel che preme il grilletto?» Una pausa. «Oh, ci sguazzeresti», riprende, sarcastico. «Da buon avvocato, dissezioneresti il nastro. Un sacco di fermo immagine e bugie per poter accusare Melanie di essersi trovata sulla traiettoria di una pallottola. Be', in questo caso non succederà. Laurel la pagherà», m'informa. «Dovessi mettere in moto ogni fottuta leva dello Stato.» Resta lì per diversi secondi. Aspetta di vedere se voglio offrirgli un altro spunto di riflessione. Vorrei chiedergli dove era lui stasera, se abbia visto qualcosa, se davvero esista una videocassetta dell'accaduto, o se siano solo chiacchiere rabbiose partorite dalla sua immaginazione. Però la discrezione ha la meglio sul mio spirito d'avvocato. Mantengo il silenzio. Vega borbotta qualcosa sottovoce. Finalmente una vittoria in una brutta giornata. Passa alle mie spalle. Dopo un po' sento il tintinnio dei cubetti di ghiaccio in un bicchiere, il bourbon che viene versato. Gli chiederei da bere, ma ho paura che mi tiri la bottiglia. Lama è in attesa di vedere se Jack può sputarmi addosso ancora un po' di bile. Spargere dolore è una delle gioie dell'esistenza di Jimmy. Poi intuisce che Jack ha finito. «Avete fotografie? Nastri?» Mi rivolgo a Lama.
«Tu devi rispondere alle domande», ribatte lui. «A farle ci penso io.» «Non abbiamo niente da dire», interviene la Hemple. «Chi l'ha invitata?» chiede Jimmy. «Sono l'avvocato di Laurel Vega.» La Hemple estrae un biglietto da visita dalla tasca della giacca. Lo passa a Lama. Lui lo guarda, sorride, poi comincia a pulirsi i denti con un angolo del biglietto. «Bene, bene», dice. «Allora lei può dirci dove si trova la sua cliente?» «Non lo so», risponde la Hemple. «A verbale», ordina Lama. «L'avvocato della sospettata non ha idea di dove si trovi la sua cliente.» Un altro detective, al lato opposto della stanza, scarabocchia su un taccuino. «Forse sa dove si trovasse qualche ora fa, verso le undici e mezzo?» s'informa Lama. Silenzio dalla Hemple. «Pare non lo sappia. Scrivi», ingiunge Lama. «Ha qualche altra cosa che vuole dirci?» chiede. Sulla sua faccia c'è un sorriso da stronzo soddisfatto. La Hemple non risponde. «Ehi, grazie di essere venuta.» Sorride, Mister Duplicità, poi fa un cenno a uno degli agenti in uniforme, che scorta la Hemple alla porta. Lama riprende a sputare veleno su di me. «E dov'eri tu alle undici e mezzo?» «Gesù, Jimmy, ho bisogno di un avvocato?» «No, a meno che tu non sappia qualcosa che noi ignoriamo.» «Può trascriverlo?» Lo dico allo sbirro all'altro lato della stanza, che emette una risata a singhiozzo. «Il solito intelligentone», commenta Lama. «Mi risulta che hai fatto da angelo custode a tua cognata. Mi sa che stasera ti è andata buca.» Non gli rispondo. «Immagino che tu la conosca meglio di tanti altri.» Un barlume di concessione nei miei occhi. «Allora probabilmente saprai se ha una pistola.» Un lampo nel mio sguardo, come se avesse fatto centro. «Di che tipo?» gli chiedo. «Nove millimetri, semiautomatica.» «Non ne ho la più pallida idea», dico. Lama mi lancia un ringhio. Mi ha dato informazioni senza ottenere nulla in cambio. La mia ipotesi è che la pistola sia scomparsa. In caso contrario, Lama avrebbe precisato marca e modello. Suppongo abbiano frammenti
del rivestimento e tutto ciò che resta di una pallottola quando il piombo penetra nei tessuti o rimbalza su un osso. «Quando l'hai vista per l'ultima volta?» ringhia. Adesso è incazzato «Chi?» chiedo. Mi scocca un'occhiata tipo: non prendermi per il culo, spezza in due lo stuzzicadenti, lo sputa sul pavimento. Io faccio una smorfia, rifletto un paio di secondi, come se fosse uno sforzo tornare così indietro nel passato. «Oggi pomeriggio. In tribunale.» «E da allora non l'hai più vista?» Scuoto la testa. Il poliziotto col taccuino sta prendendo appunti. «Allora non hai idea di dove siano i ragazzi?» «Presumo con la madre.» Un dono di Dio, penso. Due piccoli alibi che camminano e respirano, per quello che possono valere. «Porcaccia miseria», farfuglia Jack. Trema tutto. La mano col bicchiere è tesa in avanti; il liquore si è rovesciato sul pavimento. «Ha ucciso mia moglie, e adesso è scappata coi miei figli. Che diavolo state aspettando, voialtri?» Finché Jack si attaccava al mio culo, era un conto; ma adesso sta cercando di mordere quello di Lama. Un cenno di Jimmy, e Vega viene condotto fuori della stanza, seppure con molta calma. Ha tutta la comprensione del poliziotto, ma deve uscire. Procedure ufficiali. Sulla soglia, Vega si gira a guardarmi. «Sarà meglio che li lasci andare», sibila. Parla dei ragazzi. Ha visioni di Laurel a Rio de Janeiro. Io la so più lunga di lui. Laurel non ha soldi. «Apri bene gli orecchi», mi avverte. «Non lascerò nulla d'intentato.» Lo dice come se credesse sul serio che io possa riferire il messaggio. Poi esce dalla porta, si gira a darmi un'ultima occhiata sopra le spalle del poliziotto, e scompare. Lama sorride, infila in bocca un altro stuzzicadenti. «Tipo incazzoso», commenta. «Non vorrei che si arrabbiasse con me.» «Una delle battaglie della vita», lo informo. «Già. A proposito di battaglie, so che oggi pomeriggio hai dato un taglio a una bella litigata, in tribunale.» «Io?» «Già. Laurel Vega ha aggredito la vittima. La deceduta.» Molta enfasi sull'ultima parola. «Come dicevo, una piccola discussione. Problemi di custodia dei figli. Una situazione difficile. Laurel si è un po' lasciata prendere la mano dal-
l'emotività. Io non parlerei di un'aggressione.» «Gesù. Sbaglio, o ha colpito la vittima con una fottuta borsetta?» chiede Lama. Schiocca le dita un paio di volte, e il suo collega col taccuino sfoglia le pagine, trova quello che cercava. «Laurel Vega ha affermato che le sarebbe piaciuto fosse una mazza», legge dai suoi appunti. «Forse ha trovato qualcosa di meglio di una mazza», riflette Lama. «Osservazione raffinata», commento io. «Però se quello che hai è tutto qui, forse voialtri dovreste alzare le chiappe e mettervi in cerca del vero assassino di Melanie Vega.» «Oh, credo proprio che lo stiamo facendo», annuisce lui. Mastica quello che resta dello stuzzicadenti, poi se ne esce con un sorriso perfido. «Abbiamo finito?» «Per il momento», risponde. Si alza dalla poltrona come se volesse scortarmi di persona alla porta. Mi tocca sul gomito. Quasi sobbalzo al contatto. Lama mi guarda. Non lo conoscessi meglio, direi che si è offeso. «Se la vedessi, ce lo diresti, vero?» «Sicuro. Puoi scommetterci.» So che non sarà necessario. Vega mi farà pedinare dai suoi tirapiedi. «Apprezziamo lo spirito di collaborazione», dice Lama. Sta quasi ridacchiando fra sé. Sento crescere in lui la gioia nata dalla consapevolezza che io sono impegolato in questo casino. Arriviamo alla porta. Mi accompagna sul portico. Scende dallo zerbino. I suoi piedi finiscono su un mucchietto di sporcizia: terriccio, e frammenti di terracotta. Porta stivali neri a tacco basso, i cosiddetti «stivali alla Wellington», con piccole cerniere sui lati. Li ho visti ai piedi degli agenti della polizia stradale californiana e di qualche sergente istruttore. I suoi eroi. Pulisce gli stivali sul bordo dello zerbino. «Pare che qualcuno abbia combinato un disastro», considera. C'è una scia nera sul rivestimento in legno a lato della porta. Lama alza la testa. I miei occhi seguono il suo sguardo. «Gesù. Qualcuno l'ha proprio scassata», osserva Jimmy. Sotto il soffitto del portico, a tre metri d'altezza, c'è una videocamera di sicurezza, puntata sull'ingresso. La lente è sporca di terriccio; il corpo di plastica è crepato come un guscio d'uovo. Lui sorride. Jimmy Lama mi sta trasmettendo un messaggio: un filmato vale una risma intera di parole.
3. «Zio Paul.» Danny Vega mi aspetta a casa mia, con un'espressione da cane bastonato sotto la visiera di un berretto dei Giants. Tiene i gomiti sulle ginocchia, nella postura tipica dei giovani, adatta per spingere all'insù il mento quando si sta seduti, com'è seduto lui sul mio portico. Sono quasi le quattro del mattino, e lui è l'ultima persona che mi sarei aspettato di vedere. «Danny?» Legge il punto interrogativo nella mia voce. «La baby-sitter ha detto che potevamo venire da te. Ho messo la mia roba e lo scooter in garage», spiega. Mi guarda, sgranando gli occhi castani. «Tutto a posto, eh?» Lo chiede come se io potessi formulare l'intenzione di sbatterlo sulla strada. «Sicuro.» Gli offro un sorriso, forse l'unica espressione dolce che un adulto gli regali da giorni. Vedo la piccola Vespa accanto al mio tavolo da lavoro: quello scooter è il passaporto di Danny in un mondo con un solo genitore. Vicino ci sono un casco rosso e uno zainetto. Laurel e io gli abbiamo regalato la Vespa per il suo ultimo compleanno. Danny ha costruito una scatoletta di legno e l'ha sistemata sulla parte posteriore del veicolo; e lì dentro, sotto catena e lucchetto, tiene i mistici oggetti che solleticano la fantasia di un quindicenne. «Dov'è tua madre? Perché non ti ha portato lei?» Lui abbassa le spalle e scuote la testa, quel tanto che la posizione glielo permette. «Credevo che fosse con te», sospira. Danny non ha la più pallida idea di dove sia Laurel. Il mio corpo è percorso da brividi, un misto di mancanza di sonno e preoccupazione per Laurel. Dove può essere, a quest'ora? Danny è del tutto indifferente. È apatico come lo sono spesso i teenager. Per scuoterlo ci vorrebbe un attacco nucleare, e solo il bagliore delle esplosioni lo ecciterebbe davvero. Nonostante la disperata situazione familiare, sul suo viso è dipinta un'espressione d'irresponsabile innocenza. Dà spesso l'impressione di trasmettere su un'altra frequenza. Nei suoi momenti di più profonda riflessione, si potrebbero perdere anche le mutande a scommettere su che cosa gli passi per il cervello. Conversando con
lui, capita di dover sprecare mezza giornata per arrivare a capire di che stia parlando; e se fai dieci ipotesi, poco ma sicuro che nove saranno sbagliate. Danny è perso in uno stupore adolescenziale, intrappolato a mezza strada fra la pubertà e la zona ai confini della realtà. Non somiglia affatto a Jack. Nei capelli, negli occhi, nella forma della bocca, è figlio di sua madre. E si è accorto, sì, che esiste un altro sesso, ma non ha ancora fatto seri tentativi per superare l'abisso che lo divide dalle ragazze. Non ha amiche intime, anche se io stesso ho visto qualche ragazza sbattere le ciglia nella sua direzione, a mo' di pigliamosche di Venere. A modo suo, pur non essendo effeminato, Danny è più grazioso di loro. I contorcimenti che si vedono su MTV non esercitano su di lui alcun fascino apparente. Non l'ho mai visto all'aria aperta senza un berretto da baseball abbassato sugli orecchi, a immagine degli idoli ritratti sulle figurine degli anni '50. Da quanto posso capire, ha evitato il disordine sociale della gioventù americana, la malattia del «look giusto». Però l'ha pagata cara. Danny soffre costantemente perché non è uno del branco. Il suo unico tentativo di socializzare, una corsa su un'auto rubata con qualche ragazzo, ha avuto come carburante ad alto grado di combustibilità la pura e semplice pressione dei suoi coetanei. E si è concluso con un brutto ritorno di fiamma: le luci ruotanti di un veicolo della polizia, e le parole dure di un padre che è stato assente per quasi tutta la sua vita. A conti fatti, credo che Danny Vega sarebbe stato più felice se fosse nato in una fattoria, tra campi verdi; nel secolo scorso, magari. «Ha detto che tu sei andato da papà, che è successo qualcosa.» Suppongo stia parlando della signora Bailey, che mi ha fatto da segreteria telefonica vivente. La lingua di Danny è un groviglio di pensieri sconnessi. «Julie è dentro», m'informa poi, senza che io abbia chiesto. «Credo che dorma», conclude. Non domanda che cosa sia successo a casa del padre. Parte su un'altra lunghezza d'onda. Si mette a parlare di cera e di un modellino che deve preparare. Un lavoro per la scuola, dice. Sono le quattro del mattino, e io cambio binario mentale. Cera. «Tua zia la usava per i barattoli delle conserve. Ce ne dovrebbe essere un po' in garage», rifletto. «Possiamo aspettare fino al mattino?» Mi esibisco in un poderoso sbadiglio. «Okay.» «Quand'è che hai visto tua madre per l'ultima volta?» Aggrotta la fronte, pensa. «Le tre, o giù di lì. Forse erano le quattro.»
Per Danny, il tempo è un articolo commerciabile. Al pari del grano o delle braciole di maiale, ogni ora della giornata si può barattare con un'altra a piacere. Non possiede un orologio. «È uscita. Ha detto che sarebbe tornata.» Lo guardo, come per chiedere: e poi? «Non si è più vista.» Il fatto che Danny sia qui a quest'ora non è usuale. Laurel può essere definita in molti modi, ma non è una madre alle prime armi. Si possono contare sulle dita di una mano le volte in cui ha trascinato una serata fino all'alba, includendo nel computo quella volta con il sacerdote. E tali sporadiche scappatelle si sono verificate solo quando i ragazzi erano affidati a qualcuno. Laurel non è il tipo da martirizzare i figli con intrusioni di amanti pescati nei bar o stalloni da una botta e via. Chiedo a Danny se ha mangiato. «Un po' di Froot Loops e una banana.» «Hai fame?» «Come no.» Lo faccio entrare, cerco negli armadietti della cucina qualche cracker e una minestra in scatola. Di questi tempi, non sono davvero il protagonista dei sogni erotici di una dietologa. La signora Bailey si è addormentata sul divano del mio salotto. La vedo dietro la porta aperta della cucina, e sento vibrare le assi del pavimento al ritmo del suo russare. «Dov'eri qualche ora fa? Ho chiamato casa vostra e non ha risposto nessuno.» Metto la lattina sotto l'apriscatole elettrico. Gira come una giostra finché il coperchio non viene squarciato. Danny alza gli occhi al cielo, mi lancia un sorriso da scemo. «Julie mi ha chiesto di portarla da un amico. Mi usa perché ho la Vespa. Non che mi dia fastidio», spiega. Ma capisco che lo imbarazza fare da autista alla sorella che ha due anni meno di lui, portarla dal suo amichetto. A differenza di quello del fratello, l'aereo sociale di Julie è pressurizzato, costruito per volare nella stratosfera. Esce con ragazzi più vecchi di Danny, tipi che non ci pensano due volte a chiamarla alle dieci di sera per un incontro alle undici. Julie ha i capelli biondo miele, occhi verdi, una bella ossatura, e forme femminili che stanno crescendo più in fretta della sua capacità di ragionare. Sta imparando troppo rapidamente che un bell'aspetto, più che un buon impiego, può spesso farci ottenere ciò che vogliamo. I lati negativi, le ten-
tazioni dell'eccesso e i prezzi che si devono pagare sfuggono ancora alla telemetria del suo radar. A tredici anni è l'equivalente sessuale di un infante alle prese con una testata nucleare. Fossi il padre di Julie, investirei parecchi soldi in un monastero. Metto la minestra davanti a Danny, direttamente in una fondina. L'ho scaldata col microonde. Mi siedo di fronte a lui. «Devo parlarti di una cosa.» Danny manda giù il brodo a cucchiaiate, mi guarda con occhi da cerbiatto. Per amore della buona educazione, si è tolto il berretto. Lo ha messo sul tavolo, vicino al piatto dei cracker. «Stasera c'è stato un incidente a casa di tuo padre. Un brutto incidente. Qualcuno ha sparato», esordisco. Toglie il cucchiaio di bocca, appoggia avambraccio e cucchiaio sul tavolo. La punta del cucchiaio trema. «Papà sta bene?» Mi guarda a occhi sgranati. Con tutte le angosce di una battaglia legale per la custodia dei figli, e le esplosioni d'ira di Jack col ragazzo, Danny si preoccupa ancora per il padre. «Papà sta benissimo.» Ricomincia a mangiare. «Ma Melanie è morta», dico. Si ferma un attimo e mi guarda, deglutisce. Non c'era troppo amore fra Danny e Melanie; i soliti attriti tra ragazzi e genitori adottivi. Eppure vedo che la notizia lo scuote. Per i giovani, la vita è un party infinito, interminabile. Anche per i ragazzi che, come Danny, vivono all'esterno della cerchia dei coetanei, la morte è una vagabonda che percorre sempre un'altra strada. L'ho osservato al funerale di Nikki. Per lui, il fatto di aver conosciuto, guardato e toccato una persona che non è più con noi era quasi surreale. «Com'è successo?» chiede. «Non lo sanno ancora. La polizia sta indagando.» «La polizia?» «Indaga su tutte le morti non naturali», lo informo. «Oh. Già, immagino.» Ha rimesso in azione il cucchiaio. Ma sono certo che c'è parecchia agitazione, sotto quella zazzera. «Papà sarà sconvolto.» «È ovvio.» Non gli dico che la polizia vuole interrogare sua madre. Lo scoprirà an-
che troppo presto. Posso sperare che, nel frattempo, le circostanze cospirino per discolparla. Non ha senso caricare Danny di preoccupazioni finché non ne saprò di più. «Tutto bene?» m'informo. Lo scruto mentre manda giù la notizia insieme alla minestra, e cerca di digerire. «La cera», borbotta. «È bianca? Chiara?» «Eh?» «Per il mio modellino», mi ricorda. «Ah. Già. È un blocco... Un blocco bianco, se non ricordo male.» «Domattina mi aiuti a cercarla subito?» chiede. «Sicuro. Adesso mangia e dormi un po'.» Pianeta Terra chiama Danny. Il ragazzo è partito su una frequenza tutta sua. Quello che resta della mia famiglia sta andando in frantumi, e Danny Vega si preoccupa per la cera. Stamattina mi carburo con l'adrenalina e con qualcosa che somiglia al carico della Exxon Valdez. Assaggio un sorso, e la mia lingua si arrotola su se stessa come una lumaca in agonia. Un'ora di sonno per notte può fare strane cose agli occhi. Mi chiedo se l'insegna sopra il chiosco sia ESSO, piuttosto che ESPRESSO. Quando arrivo, Harry Hinds è nel mio ufficio, e mi ha fregato il giornale del mattino. Harry ha un ufficio in fondo al corridoio. Condividiamo una biblioteca e i servizi di reception, e abbiamo parlato di metterci in società. Ne discutiamo, ne discutiamo, però nessuno dei due è disposto a fare la prima mossa. Come dice Harry: «Perché rovinare una bella amicizia col matrimonio?» Hinds ha quasi vent'anni più di me. È un pilastro della comunità legale della città. Dotato di un cranio quasi pelato e di un naso alla Karl Malden, ai suoi tempi ha lavorato sodo nel campo penale, e adesso non fa che dire di voler andare in pensione. Chi lo conosce bene mi racconta che Harry parla di pensione da quando si è iscritto all'ordine, quarant'anni fa. Non ho il minimo dubbio che, quando arriverà la fine, dovranno staccare a forza le dita di Harry dalla sua borsa, che lui riempie come un ufficio portatile. Per Harry, il futuro è troppo ricco di esaltanti battaglie per dare forfait. Adesso si nutre dei clienti che gli spedisco io, oltre a una dieta di clienti propri, e funge da mio secondo nei casi più rognosi. Stamattina è sul piede di guerra. Giornale in mano, scarpe sull'orlo del mio cestino della carta straccia, borbotta oscenità, sussurra volgarità frammiste a ciò che ai suoi occhi, quando si parla di politica, passa per lo-
gica. Harry odia tutto ciò che è ufficiale, con una predilezione particolare per i politici e i loro tirapiedi. Non è né repubblicano né democratico. Harry professa un'ideologia tutta sua, aderisce a un partito concepito sotto l'albero della sfiducia nel governo e alimentato dal fervido zelo di chi crede ciecamente in una causa. È quello che definirei un «bastian contrario sociale». In larga misura, Harry è contro tutto e tutti. Ultimamente si è dato al servizio ritagli. Appiccica articoli dei giornali del mattino su varie zone della mia scrivania. È la sua propaganda per arruolare un apatico come me. Tutti i giorni trovo un nuovo mucchio di ritagli, con le sue considerazioni scritte su foglietti autoadesivi per appunti: i dolori del mondo, tutte le cose per le quali Harry non può fare nulla, se non brontolare. I suoi interessi sono eclettici: il commercio mondiale; il debito nazionale (eccessivo) e le difese della nazione (insufficienti); l'ambiente, che è troppo salvaguardato, tranne il martedì e il giovedì, quando sembra che il buco nell'ozono abbia un certo effetto su di lui. In quei due giorni passa dalla parte degli ecologisti. Non sia mai detto che Harry si lasci sconfiggere dalle forze della coerenza logica. E in lui c'è sempre un lato che fluttua appena al di sopra del livello dell'umorismo, così non si sa mai se stia parlando sul serio o no. Senza nemmeno dire ciao, Harry si mette a leggere. Un servizio da Lexington, Kentucky. Pare che il governo federale abbia venduto due camionate di computer usati per quarantacinque dollari. Harry mugugna sul prezzo, sulla fregatura ai contribuenti; poi, procedendo, scopre che il governo rivuole indietro la merce. In un istante, in meno del tempo che occorre per premere un grilletto, Harry si è incatenato al parapetto della libera impresa, lanciando l'urlo di battaglia: «Fottuti imbroglioni!» Un altro paragrafo, e Harry scopre perché il governo ha fatto marcia indietro. Quei particolari computer contengono informazioni riservate, i nomi e gli indirizzi di centinaia di testimoni protetti dalle autorità federali, trasferiti per la loro stessa incolumità, informazioni che un tecnico del governo non ha cancellato per bene prima della vendita dei computer. Le questioni di teoria politica finiscono nel cestino della carta straccia, adesso che Harry ha trovato un'occasione grassa. «Ma riesci a immaginarti gli sforzi cerebrali di quegli stronzi?» Lo dice con un luccichio perfido negli occhi, come un ragazzino che abbia scoperto una mappa del tesoro. «Sai», continua, «questa notizia la dovremmo appendere nella bacheca del carcere di contea. Il vostro governo sta lavoran-
do per voi. Il peggior incubo di un informatore.» Poi ridacchia, sul tono di un tenore da strapazzo. Questo è l'Harry che conosco. Può andare contemporaneamente in tutte le direzioni, cambiare rotta solo per effetto dei venti creati da una buona occasione. L'idea di un procuratore distrettuale che vede andare in fumo il suo lavoro perché il suo testimone chiave ritrova di colpo l'uso delle gambe e taglia la corda, o magari viene assalito da un attacco di laringite terminale alla vigilia del processo: sono questi i pensieri destinati a catturare la fantasia di Harry. Detto questo, Harry rimane un difensore a denominazione di origine controllata, votato alla causa dei perdenti. Considera ogni dedizione ai processi intrinseci della legge una forma di tradimento. In aula, Harry non fa prigionieri. È pronto ad afferrare e stringere caparbiamente ogni appiglio che gli venga offerto dalle circostanze. È solo che l'idea di Harry di una circostanza favorevole può, a volte, essere leggermente distorta. Per il momento lo lascio al suo nirvana di negatività, intento a borbottare mantra sui sacri papiri. Alzo il telefono per chiamare Clem Olsen, un amico della centrale comunicazioni della polizia. Clem e io abbiamo frequentato le superiori insieme. È sempre stato corretto. Quando può, parla, profferendo risposte assai sintetiche, come l'oracolo di Delfi. Mi dice che cosa gira sulle lunghezze d'onda della polizia. Mi risponde dopo due squilli. «Clem», dico. «Ciao. Paul Madriani.» Tono lieve, da conversazione di cortesia. «Ehi, baby.» Clem chiama «baby» tutti quelli che conosce fin dalla terza media. Su nastro, l'ho sentito rispondere a telefonate di cittadini isterici, che avevano chiamato la polizia per urlare di sangue, pallottole e omicidi, con una voce che sembrava quella di Lon Chaney jr. quando fa l'Uomo Lupo. Clem non è mai arrivato all'università. Dopo aver mollato la scuola, si è messo a lavorare finché l'esercito non gli ha messo le mani addosso per spedirlo in Vietnam. Lì gli hanno insegnato a uccidere, e poi a usare le ricetrasmittenti. Dopo di che, Clem è riuscito a entrare nella polizia. «Vieni alla riunione?» chiede. Allude a un rito che si ripete ogni cinque anni. Per una fulgida serata, Clem ha l'occasione di salire a più alti livelli come maestro di cerimonie per la nostra classe. «Cercherò», rispondo.
«Ehi», fa lui, «ti ricordi quella ragazza, la bionda che stava nel nostro gruppo di studio l'ultimo anno, quella con le tette che sembravano due coni? Ti ricordi come si chiamava? Non riesco a trovarla sull'indirizzario.» Una ragazza conosciuta venticinque anni fa è qualcosa che Clem può incidersi nella mente come comandamenti scolpiti sulla pietra. Gli dico che non ricordo. Non infrango l'illusione. Non sottolineo che ormai la natura ha probabilmente fatto il suo corso, e la gravità ha senza dubbio imposto il proprio prezzo. Potrei consigliargli di dare un'occhiata alle sue chiappe, che adesso penzolano flaccide come due bisacce fradice d'acqua. Ma, per Clem, i ricordi del passato sono sempre più validi delle immagini del presente. «Devo chiederti un favore.» «Se posso», risponde lui. «Ieri sera hanno sparato. La moglie di un legislatore, nella zona est.» Non può essergli sfuggito. La morte di Melanie si è verificata troppo tardi per apparire sulla prima edizione dei quotidiani, però ne hanno parlato i notiziari del mattino, sia televisivi sia radiofonici, con tutta l'allegra dignità del giornalismo militante. Le telecamere hanno seguito il corpo fino all'interno del furgone del coroner. E i reporter dai capelli impomatati hanno fatto di tutto, tranne aprire il sacco col cadavere per vedere se Melanie portasse o no la camicia da notte. «Ho sentito», annuisce Clem. «Se puoi dirmelo, è stato emesso un mandato d'arresto? Vogliono qualcuno, magari per interrogarlo?» Una lunga pausa. Probabilmente Clem sa, ma non è sicuro di potermelo rivelare. «Per caso non avrai un cliente?» chiede. Clem è un amico, ma non mi è mai stato tanto vicino da arrampicarsi sul mio albero genealogico. Non ha idea della mia parentela con Laurel, e nemmeno del rapporto che esisteva tra lei e il legislatore dal cuore infranto. «Non al momento.» Non voglio mentirgli, ma smusso un tantino gli spigoli della verità. «Devo controllare le comunicazioni di stanotte», concede. «Posso richiamarti?» Clem vuole fare indagini discrete per decidere esattamente quanto può dirmi. «Ma certo. Resterò qui tutta la mattina.» Gli do il numero del mio interno, così potrà chiamarmi scavalcando la receptionist. Per una faccenda del
genere, Clem non vorrà intermediari. Harry sta intonando un altro canto magico, con più gusto adesso che non sono più al telefono. Scandisce la sua litania restando nascosto dietro la cortina della carta stampata. «La riforma sanitaria verrà fatta dalla stessa gente che ha fatto approvare la semplificazione fiscale», annuncia. «Perché non riesco a crederci?» Lo ignoro e spero che la pianti. «Sappiamo già che si regaleranno l'esonero dalle spese sanitarie», prosegue. Non so di chi stia parlando, e non voglio chiederglielo. Ma Harry offre spontaneamente lumi. «Quei fetenti del Congresso», dice. «Vogliono poter portare le loro chiappe al Bethesda al primo segno di raffreddore, col trattamento di lusso. Un appartamento privato con infermiere della Marina... Così potranno mettere le mani su un culo femminile e contemporaneamente ricevere il saluto militare.» Harry gira pagina e cerca altro grano da macinare. «Allora, non si sa niente di lei?» Lo dice con un tono diverso. Questa volta non posso fraintendere il soggetto della domanda. Sta parlando di Laurel. Harry sa che per me è una questione di famiglia. L'ho chiamato stamattina presto. L'ho buttato giù dal letto, gli ho raccontato della nottata a casa di Vega, dei tentativi di Jimmy Lama. «Niente», rispondo. «Si può sempre sperare», commenta. «Chi lo sa? Forse hanno rinunciato a lei. Hanno trovato un altro indiziato.» «Mi sentirei meglio se sapessi che cosa ha in mano la polizia.» «Forse no», riprende. «Forse è stata lei.» Tipico di Harry: un attimo prima ti calma con le sue sviolinate, e l'attimo dopo affonda il coltello nella ferita sanguinante. Lo guardo, stile: grazie per il consolante pensiero. «Be', insomma, succede», insiste. «Delitto passionale. L'intricato triangolo. Due donne che si danno battaglia per lo stesso uomo. L'ex gelosa e la bella moglie più giovane.» Corrugando la fronte, mi scruta da dietro l'orlo del giornale. «Vega ti adorerebbe per quest'idea», lo informo. «Le donne della vita di Jack pronte a uccidere per lui. Un'ipotesi ottima per gonfiare il suo ego.» La cupola del Campidoglio si alzerebbe di tre o quattro metri, se quest'idea raggiungesse il pubblico. Ma Harry ha ragione. È una teoria che un
pubblico ministero ansioso di vincere non lascerebbe perdere. «E dov'è andata?» Harry sta parlando di Laurel. «Tu credi sia solo una coincidenza?» chiede. «Per puro caso, scompare la sera in cui viene fatta fuori l'ultima conquista del suo ex. Non dice ai figli dove andrà. Si dilegua.» Harry sta giocando all'avvocato del diavolo. Nascosto dietro il giornale, cerca di alzare il livello della sua bile. «A dispetto dei tuoi sentimenti», continua, «secondo me devi ammettere che gli sbirri possono avere buone ragioni per sospettarla.» «Vuoi metterti con loro?» «Non ho i piedi abbastanza piatti», sospira. «Una cosa è certa», gli comunico. «Lama deve avere avuto l'impressione che le sue fantasie erotiche diventassero realtà quando ha scoperto che Laurel e io siamo parenti. Sangue, matrimonio, non importa. Va tutto bene, pur di affondare la lama.» «Me lo immagino», medita Harry. «E tu come ti senti?» Sprofonda un po' di più le chiappe nella poltroncina, come per darmi un suggerimento su quale parte del mio corpo Lama possa avere colpito. «Da quanto mi risulta», mormora, «quando Lama soffre, è il tuo nome che pronuncia invano.» Non gli rispondo. Il telefono sulla mia scrivania squilla. «Pronto.» «Clem.» «Non ci hai messo molto», dico. «Ehi, io sono un tipo che non delude mai.» Dalla voce si direbbe che qualcuno gli abbia sabbiato le corde vocali. «Devi essere chiarovedente.» La proprietà lessicale di Clem non è esattamente il risultato di buone letture. «Come dicevi tu, alle due e venti di stanotte è stato emesso un mandato d'arresto», m'informa. «La ricercata è una certa Laurel Jane Vega, età trentasei anni, altezza...» «Non mi occorre altro», lo interrompo. «Ed è anche un cattivo soggetto», prosegue lui. «Sarebbe a dire?» «Viene considerata potenzialmente armata e pericolosa.» Il che significa che Laurel, se la troveranno, verrà arrestata a pistola puntata. Un gesto stupido, una mano passata nei capelli, e la mia famiglia potrebbe perdere un altro componente. Ancora più scoraggiante è l'idea che i superiori abbiano autorizzato Clem a trasmettermi questa informazione.
Devono ritenere molto solidi gli elementi che collegano Laurel al delitto. 4. Puntuale come un orologio, tutti i giovedì a mezzogiorno vado in palestra, quella in cui lavorava Laurel prima di scomparire. Tra il mio ufficio e il Capital Club c'è una dozzina d'isolati. Alle dodici e un quarto, mentre sono sul campo da squash, m'informano che c'è una comunicazione urgente per me. Raggiungo uno dei telefoni bianchi nelle cabine dell'atrio. «Pronto?» «Paul.» Lei è senza fiato. Quando sento la voce, ho un'unica domanda: «Dove diavolo sei?» «Non ho molto tempo. Dove sono Julie e Danny?» La voce di Laurel è tesa, stanca. Come c'è da aspettarsi da chi è in fuga ormai da quasi due giorni. «Mezza America ti sta cercando.» «Lo so... Ma non sono stata io.» «Dove sei? Perché sei scappata?» «Non posso parlare.» «Dammi retta, costituisciti», le dico. «Ti considerano armata e pericolosa.» Nel sentir questo, ride. Una risatina nervosa. «Non è una battuta. I poliziotti sovraccarichi di adrenalina hanno il vizio di sparare.» «Andrà tutto bene. Hai tu i ragazzi?» In questo momento, la mente di Laurel è una monorotaia, e sul suo vagone ci sono soltanto i figli. «Sono stati da me fino a ieri. Jack li ha mandati a prendere a scuola da uno dei suoi assistenti.» Uno dei tirapiedi che fanno i lavori più umili per i legislatori. Un lacchè. «Porca miseria.» Silenzio sulla linea, mentre lei riflette. Riesco a fiutare le macchinazioni di un cervello in fuga; hanno l'odore del neoprene che brucia. Comunque, Laurel non ha del tutto perso la testa. Mi ha contattato nell'unico posto in cui è improbabile che Lama sia in ascolto. Con Jimmy, non ci si può fidare troppo delle formalità della magistratura, delle sorveglianze telefoniche autorizzate dai giudici. Ormai da giorni sospetto che il mio telefono si sia trasformato in una party line. «Puoi far avere loro un messaggio?» chiede. Ai figli, ovviamente.
«Perché?» «Voglio che se ne vadano da lì.» Secondo me le è andato in pappa il cervello. «Vuoi che scappino con te?» «No. No. Un'amica», spiega. «Nel Michigan.» «Al momento, non è questa la mia massima preoccupazione.» «Merda», esclama, e lascia il telefono: una voce sempre più fioca, che svanisce come nebbia in una giornata tiepida. «Pronto. Ci sei ancora?» Una serie d'immagini mi attraversa la mente: Laurel che si nasconde dietro un angolo, col filo del telefono teso al punto di spezzarsi. Poi il suo respiro torna più vicino. «Che cos'è successo?» «È entrata la polizia nel parcheggio», dice. «Tutto okay. Se ne sono andati. Probabilmente volevano solo bere un caffè... La mia fotografia è dappertutto. Anche quassù.» Potrei prendere una carta geografica e mettermi a giocare con gli spilli: venti ipotesi su dove sia quel «quassù». «Usa la testa», le consiglio. «Morta o in prigione, non servirai a molto ai tuoi figli. Torna a casa e vediamo di affrontare insieme la faccenda.» Cerco di farla parlare. Le chiedo dove fosse la sera della morte di Melanie. Spero in un alibi, in qualcosa da tramutare in un argomento a nostro favore, per convincerla a costituirsi. «Puoi far avere loro un messaggio?» chiede. Siamo di nuovo ai figli. «Stanno bene. Sei tu che sei nei guai», insisto. «Costituisciti. Vengo a prenderti io. Concluderò un accordo col procuratore distrettuale. Le cose si metteranno molto meglio al processo. Almeno avremo una speranza di ottenere la libertà su cauzione.» Ho più argomenti di un rivenditore di auto usate. E nemmeno uno che funzioni. «Non prima che i ragazzi se ne siano andati», ribatte lei. «Quando avranno lasciato la città, mi costituirò... Stammi a sentire, Paul: ho un'amica nel Michigan. Siamo state insieme al college. Ha accettato di prendere i ragazzi, tenerli con sé finché non sarà finita.» «I tuoi figli se la caveranno», replico. «Ci penso io a loro. Li terrò fuori di questa storia.» «No.» Il tono mi dice che Laurel è a mezzo soffio dal riappendere. Provo un'altra tattica per continuare a farla parlare. «Questa amica sa della tua situazione?» «L'ho informata. Non fa differenza. Te l'ho detto, è un'amica.»
Da come Laurel lo dice, mi viene da pensare che forse al momento io non ho le carte in regola per essere incluso nel gruppo. «Non posso parlare», ansima. «Devo scappare. Adesso devo riappendere.» All'improvviso, rumori frenetici sulla linea. «Ti richiamo più tardi...» «Laurel! Pronto? Pronto?» Quello che sento è un suono ritmico, un tonfo, uno sfregamento, un tonfo, uno sfregamento. Resto in ascolto per diversi secondi e alla fine capisco: all'altro capo della linea, il ricevitore si muove a pendolo. Laurel è scappata senza riagganciare. Quando rientro in ufficio, sulla mia scrivania c'è un mucchietto di messaggi. Li sfoglio in fretta. Una telefonata di Gail Hemple, poi le solite cose, chiamate per casi che sto trattando. L'ultimo messaggio attira la mia attenzione. Un foglietto rosa col nome e il numero di telefono di Jack Vega. Alzo il ricevitore e, per prima cosa, chiamo la Hemple. Gail mi avverte che Jack è sul sentiero di guerra. Ha chiesto al suo avvocato di spiegargli come mai lui sia ancora costretto a pagare gli alimenti a Laurel, dato che al momento lei è, per usare il suo termine, una fuggiasca. Chi ha detto che gli alimenti sono il prezzo del riscatto che un uomo felice deve pagare al diavolo non conosceva Jack Vega. Stando a Gail, Vega esige che il suo avvocato si ripresenti davanti alia Corte, faccia ricorso sulla base del fatto che le circostanze sono cambiate, che i figli sono abbandonati a se stessi, e chieda l'affidamento provvisorio al padre finché la posizione della madre non sarà stata chiarita. «Vega mi ha chiamato», le dico. «Ha idea di che cosa voglia?» Gail ha saputo qualcosa dall'avvocato di Jack. A quanto pare, il rapporto avvocato-cliente, nel caso del mio ex cognato, non è stato tutto rose e fiori. «Jack ha scoperto che Danny e Julie erano a casa sua, la sera dell'omicidio di Melanie», mi riferisce. Jack si è messo a recitare la parte del padre ferito, così da dare un taglio netto a ogni legame. Ha consegnato ai responsabili della scuola frequentata dai ragazzi una serie di minuziose istruzioni: in sintesi, non devono avere contatti con me. Vega ha un concetto antiquato dei teenager e del modo migliore per trattare con loro. In un'epoca in cui i ragazzi non vanno a scuola se non hanno le anfetamine in tasca e spaccano la testa col calcio di una pistola al primo insegnante che li guarda storto, Jack considera una nota scritta dal padre qualcosa d'importanza pari alla Grande Muraglia. «Quell'uomo non perde un colpo», mi dice Gail. «Dobbiamo presentarci
a un'udienza per l'affidamento temporaneo fra cinque giorni. Lei ha qualche idea?» Jack ha trovato il ventre molle. È improbabile che Laurel si presenti in aula, e la Hemple, essendosi già occupata della custodia dei figli, non potrà esimersi dall'incarico. Jack accuserà Laurel d'inadempimento; si prenderà i figli e smetterà di pagare gli alimenti, il tutto in una sola mossa. È la prima cosa che uno nota in Jack: non la sua sfolgorante intelligenza, ma la devozione alle regole dell'opportunismo. Pur dovendo affrontare il funerale di Melanie, e un dolore che non nego, nella sua operosa giornata riesce anche a trovare il filone d'oro nascosto nella morte della moglie. La Hemple è depressa, nella misura in cui ciò sia possibile in un avvocato. Jack non ha mai ritenuto un sacro dovere il prendersi cura della propria famiglia. Per un uomo con una donna in ogni stanza, gli alimenti per l'ex moglie e i figli sono considerati una sorta di esorbitante tassa che grava sulla sua attività da stallone. Lo dico a Gail. Lei non ride. Una nube scura, qualcosa d'inespresso, grava sulla nostra conversazione; ho idea che Gail stia per scaricarmi addosso qualcosa. Ci giriamo intorno in punta di piedi per diversi minuti. Ci dedichiamo a chiacchiere da avvocati, avventure nel regno dei divorzi, veloci incursioni in ogni possibile teoria, anche se nessuna ha un lieto fine. Infine lei mi serve la patata bollente. «Tanto vale che glielo dica. Non sono in grado di continuare a rappresentare Laurel.» «Ma che sta dicendo?» «Sto preparando l'istanza per essere esonerata dal ruolo di suo rappresentante legale», annuncia. Un avvocato che abbandona a metà una causa evoca l'immagine di Fletcher Christian che abbassa la lancia in acqua per scaricarti in mezzo al mare; in questo caso, data la mia limitata conoscenza delle procedure del diritto di famiglia, senza il beneficio di bussola o carte nautiche. Avverto una sensazione di nausea alla bocca del mio stomaco, una sensazione che non credo sia troppo diversa da quella che potrebbe provocare il rock'n'roll suonato da un oceano in tempesta. «Non può farlo», dico. Lei ha un milione di ragioni. In sostanza, si tratterebbe di uno spreco del suo tempo e dei soldi di Laurel. Mi sente incazzato all'altro capo della linea. Intuisce che cosa sto pensando: un avvocato non dovrebbe mai darsi alla macchia. Anche se in que-
sto caso, con Laurel in fuga, devo ammettere che è problematico decidere chi sia lo scaricato e chi lo scaricatore. «Senta, se è una questione di soldi...» «Non è per i soldi. Quelli sono finiti un mese fa. Laurel mi ha già rifilato due assegni scoperti», m'informa la Hemple. «Mi sono tornati indietro rimbalzando come sassi sulla superficie di uno stagno.» Sotto sotto, Gail e io siamo fratelli. A quanto pare, i bidoni sono all'ordine del giorno nei divorzi come nel campo penale. «Ho continuato ad andare avanti per il semplice motivo che un avvocato va sempre avanti... Non ero capace di dire di no.» La invito a mandarmi gli assegni a vuoto. Provvederò io a pagarla. «Spenderebbe soldi buoni per una cattiva causa», sbotta. «Non è soltanto il denaro. È la situazione che è impossibile. Come faccio a raccontare alla Corte che la mia cliente non ha abbandonato i figli? 'Vostro onore, è ricercata dalla giustizia, la polizia non riesce a trovarla, ma è una buona madre. Si prende cura dei figli. Solo che lo fa a distanza.' Non può reggere.» Mi mordo la lingua. Vorrei raccontarle della mia conversazione con Laurel, ma farlo avrebbe delle conseguenze. Per quanto assurdo possa sembrare, al momento Laurel potrebbe ancora sostenere di essersi messa in viaggio per qualcosa d'importante, ignorando di essere ricercata dalla polizia. Io sono l'unico ad avere saputo, dalle sue stesse labbra, che non è così. Devo tenere per me la rivelazione, almeno per ora. «Non le hanno ancora mosso una sola accusa», dico. «Che cosa succederebbe se si facesse viva? La sua scomparsa potrebbe avere una spiegazione logica.» Un laborioso ansimare all'altro capo del filo. Gail Hemple, per l'ennesima volta, sta cercando la forza di dire di no. «Vega si sta preparando a scatenare una tempesta cartacea», m'informa. «E per il momento ha il monopolio di tutte le macchine del vento. Se Laurel tornasse oggi, con una storia convincente, forse avrei il tempo di prepararmi. Da domani in poi, chiunque si presenti a difenderla è solo carne da macello. Non esisterebbe nemmeno la base per il minimo patteggiamento. In un certo senso, forse Laurel potrebbe cavarsela meglio senza un legale: se riesce a dimostrare che le accuse penali sono infondate, o se nessuno la incrimina per l'omicidio, la Corte che dovrà rivedere l'affidamento dei figli potrebbe essere più comprensiva.» Non ho risposte. «Se Laurel si fa viva con lei prima delle cinque, e se ne ha una buona...»
Gail intende una buona storia. «Mi chiami.» E riappende. Il palazzo del Campidoglio somiglia a una vetrina sfolgorante: a pianterreno, le sale d'importanza storica sono curate come se fossero musei; gli ascensori dorati, poi, hanno tanto di addetti alle manovre, per lo meno quando il corpo legislativo è in sessione. I centoventi fra uomini e donne ospitati qui vivono come rajah, con assistenti personali pronti a soddisfare ogni loro desiderio. Forse non ci sono soldi per scuole e ospedali, eppure qui nessuno conosce il significato della parola austerità. Nel nome della baldoria infinita, la dignità del popolo esige che i leader democraticamente eletti lavorino nell'opulenza. La classe politica di questo Stato è lontana dal contatto con la realtà più o meno quanto le teste coronate dei bei tempi andati, quelle che la ghigliottina ha fatto saltare. Per raggiungere l'ufficio di Jack passo sotto le forche caudine di una galleria dedicata alle canaglie: appesi alle pareti, ritratti a olio in cornice, all'incirca delle dimensioni di una piccola casa. Sono i volti di antichi amministratori, quasi tutti principi del furto del secolo scorso, gente che ha comperato la rispettabilità con la carica pubblica. Nel mazzo, i sorrisi inetti e untuosi di pochi contemporanei, buffoni figli della nobiltà politica; ritratti ufficiali di uomini che hanno invariabilmente un'aria stitica e tentano di spacciarsi per personaggi destinati a passare alla storia. Quando ho richiamato Jack, ho saputo che era impossibile discutere per telefono di ciò che gli sta a cuore. Così mi sono trasferito al suo ufficio in Campidoglio, più per curiosità che per altro, sollecitato dall'idea che ogni possibile informazione, anche il poco che Jack vorrà comunicarmi, sia meglio di niente. Nell'attesa, la sua segretaria mi offre un caffè e una sedia. Jack sta tenendo banco dietro la porta chiusa del suo ufficio. Mi giunge un borbottio di voci, risate grasse. Come presidente di una commissione permanente, Jack ha diritto a un ufficio degno della sua carica e a un battaglione di tirapiedi, quasi tutti giovani, stipendiati dai contribuenti. Ognuno di loro si sforza di apparire più importante dell'altro, e tutti insieme sono impegnati nell'indilazionabile missione di dare una raddrizzata all'universo mondo. Passano venti minuti, e alla fine la porta dell'ufficio di Vega si apre. Sento la voce di Jack, ma lui è perso nel nulla, dietro la mole di un uomo che riempie il vano della soglia. Il tizio mi gira le spalle. Non è grasso, è soltanto grosso. La stoffa del suo vestito basterebbe per ricoprire tutto il
Graf Zeppelin, e avanzerebbe pure qualcosa. Stringe la mano a Jack e parla nel gergo di questo posto: una proposta da far passare, un «disegno di legge in carne», il che significa che ci sono soldi da fare. Le meraviglie della politica nel mondo del libero mercato. L'uomo non può vedermi, e la visuale di Jack è bloccata dal corpo enorme che ha di fronte. Il tizio dice a Jack che è ora di andare a trovare il «governatore, nell'ufficio d'angolo. Non quello grosso sul davanti, quello piccolo sul retro, dove si concludono i veri affari». Jack gli augura buona fortuna. «Non c'è bisogno di fortuna quando sei in una botte di ferro», commenta l'uomo. Tutti i lobbisti vogliono convincerti di avere la mano infilata nel culo di qualche grosso papavero, e di essere quindi loro a far muovere la sua bocca. Clinton Brady è uno dei membri più noti della terza Camera, il ramo non ufficiale (ma, sosterrebbero molti, il più importante) del Congresso, del quale fanno parte i circa seicento lobbisti della nostra città. Assesta una pacca alla spalla di Jack e si volta per andarsene. Nell'abito di serge azzurra con le maniche troppo corte di un paio di centimetri, Brady somiglia al gigante sceso dalla pianta di fagioli. Si accorge che in giro ci sono estranei. Raddrizza le spalle e piega la testa, per non sbattere nell'architrave della porta di Jack. Brady rappresenta interessi assicurativi esattamente come il Führer rappresentava la Germania: guerre lampo e terra bruciata per chiunque gli si opponga. Grazie ai suoi contatti e alla sua notorietà, è diventato più importante degli interessi che rappresenta. È padrone d'intere commissioni e vende i propri servigi come la mafia vende protezione. Ormai ha imparato che dare soldi a Jack e compagni equivale a lanciare pesci alle foche. Corre voce che Jack sia uno dei fantocci di Brady ormai da un decennio. Al momento, il sorriso smagliante sulla faccia di Vega non servirebbe certo a smentire le dicerie. «Clint ha bisogno di qualche copia. Clint ha bisogno di fare una telefonata. Clint ha bisogno di questo. Clint ha bisogno di quello.» Jack è il tirapiedi di Clint; gli fa da tramite con la propria segretaria. Prende una pila di documenti da Brady e la passa alla sua segretaria, per le fotocopie. La donna reagisce a velocità fulminea, quasi che il suo posto di lavoro dipendesse dalla solerzia dimostrata. Poi Brady viene accompagnato in corridoio, nell'ufficio di un subalterno. Una deviazione per fare qualche telefonata prima
di andare a trovare il governatore; senza dubbio, dovrà chiedere ai suoi clienti di sganciare più soldi. I politici di questo Stato non accettano obiezioni logiche, e non accettano nemmeno l'American Express. Jack mi regala una scrollata di testa e nessun saluto. Lo seguo nel suo ufficio, e lui chiude la porta alle nostre spalle. Anche se il consumo di alcool all'interno del Campidoglio è malvisto, Jack tiene un carrello dei liquori in un armadio a muro. Un'orgia di vetro. «Un drink?» chiede. Rifiuto. Probabilmente mi farebbe arrestare. L'ufficio è caldo, dopo un'ora di trattative d'affari a porte chiuse. Mi tolgo la giacca, la sistemo sulle ginocchia, mi siedo davanti alla scrivania. Jack suda come un toro, ma tiene la giacca. Compensa la sudorazione con un bicchiere di scotch con ghiaccio e si dirige a passi elastici verso il lato padronale della scrivania. Alla fine atterra sulla pelle imbottita e si gira a guardarmi. «Ho parlato coi miei avvocati», esordisce. «Mi hanno detto di stare alla larga da te.» Il disprezzo per gli avvocati spinge Jack a ignorare i consigli dei suoi stessi legali. La parete alle sue spalle è tappezzata di pietre miliari della sua carriera politica: targhe e attestati di riconoscimento di pezzi grossi del suo distretto elettorale. Quasi tutta gente che vorrebbe arrivare al posto di Jack e pensa che leccargli un po' il culo non possa nuocere. Su una mensola al centro ci sono tre grossi trofei, forse premi che qualcun altro gli ha lasciato vincere: ometti di bronzo su piedistalli di marmo, con un braccio teso in avanti. Riesco a leggere il nome di Jack sulla targa alla base di uno dei trofei. Prende dal centro della scrivania alcune carte, formato lettera. Sembrano ricevute. «Le pompe funebri», spiega. «La bara dovrà essere chiusa.» Mi guarda, aspetta che io gli chieda perché. «La testa di Melanie», dice alla fine, scuotendo la propria. «Un colpo alla testa. Non hanno potuto fare molto.» L'idea di un colpo di pistola alla testa, un atto voluto, deliberato, non la reazione scomposta a una provocazione, ha un certo effetto su di me. «Sospetto che tu ignori parecchie cose... È stata una vera esecuzione. Ci sono le immagini», m'informa. Io penso alle fotografie del medico legale. Poi lui precisa: «Di Laurel, a casa mia». Non so resistere. «Mentre spara a Melanie?» chiedo.
Lui scuote la testa. «Non farebbe molta differenza. C'è la videocassetta di Laurel che litiga con Melanie sui gradini del portico. I vicini hanno sentito. La videocamera ha filmato tutto finché Laurel non ha rotto l'obiettivo con un vaso di fiori.» Da come lo dice, è chiaro che Jack attribuisce un certo metodo alla follia di Laurel, che vede uno scopo preciso nella distruzione dell'obiettivo. Un'idea che gli ha dato la polizia, se non è stato lui a farla nascere nei loro cervelli. «Tu dov'eri?» «In riunione. Sono rientrato a casa tardi.» È stato Jack a trovare il corpo di Melanie nel bagno padronale e a chiamare la polizia. A quanto mi racconta, il medico legale ritiene che siano passate tre ore fra la litigata sui gradini e l'omicidio. «Pensano che probabilmente Laurel si sia procurata una pistola, e che abbia dovuto rifletterci su un bel po' prima di trovare il coraggio di farlo.» Immagino che quel «pensano» si riferisca a Jimmy Lama, già impegnato a seminare sospetti di premeditazione in qualche scaltro cervello della procura distrettuale. «Come fai a sapere che è stata lei?» Un'espressione di costernata incredulità. «Tu non sai ancora dove si trovi?» mi chiede. «No», rispondo. «Non si è fatta viva con te?» «E se l'avessi sentita, lo racconterei a te?» Sorrido. «Touché», ammette lui. Jack riflette al di sopra del drink. Parla del funerale di Melanie, che sarà domani. Non mi aspettavo di vederlo in ufficio, in questo momento di dolore. Glielo dico. «È più facile tirare avanti, se mi tengo occupato», spiega. Jack dà l'impressione di avere avuto il tempo di pensare. L'immediata reazione di rabbia, così evidente quella notte a casa sua, è passata. Tipico di Vega. Jack non ha mai avuto i coglioni per restare arrabbiato a lungo. Parla dei figli, di che cosa fare per la madre. Non è facile. Non è una decisione sua, ma lui e i ragazzi dovranno imparare a convivere con quello che sarà il destino di Laurel. «Per amore loro, non posso vederla condannata a morte.» Pare che cominci a recuperare il bene dell'intelletto. Goccioline di sudore gli colano giù per il naso. Appoggia alla fronte il
bicchiere ghiacciato e asciuga il sudore con la manica della giacca. «La troveranno», dichiara. Ne è assolutamente certo. «Quello che voglio sapere è che cosa farai tu.» Lo guardo. «Quando la prenderanno. La rappresenterai?» «Non ci avevo pensato», gli rispondo. Sorride. Le balle sono la lingua madre di Jack. Per natura, non è portato ai confronti diretti. Manipolare gli altri è il suo dono speciale. Mi scruta con occhi penetranti da dietro la scrivania, in cerca di qualche appiglio. «Forse sarebbe logico che si facesse difendere da qualcuno che conosce bene la famiglia. Tutta la situazione. Sarebbe più facile per i ragazzi, per tutte le persone coinvolte, se si arrivasse a una soluzione rapida. E le prove sono inconfutabili», mormora. Si dilunga a spiegarmi che si creerebbe una certa simmetria, una certa logica, se fossi io a rappresentare Laurel. Se non altro, mi troverei nella posizione, per usare le sue parole, di «rendere le cose più facili alla famiglia». Mi sta facendo fare un giro turistico della sua bontà d'animo. Qualora non riuscisse a tenermi lontano dal caso, si sta già preparando a raccogliere tutte le pepite possibili. Vorrebbe usarmi come comodo strumento per convincere Laurel a dichiararsi colpevole. «Non la faremo entrare nel braccio della morte», dice. «E poi ci sono i ragazzi. Per loro sarà meglio.» È come se parlasse fra sé, se stesse riflettendo ad alta voce. «Ovviamente, dovresti conoscere a fondo le circostanze. Tutti i particolari. Come e perché lo abbia fatto.» Si ferma un attimo e mi guarda. Sembra quasi che io sappia già tutto e che adesso possa metterne a parte anche lui. Noi due non dovremmo avere questa conversazione. Non è soltanto prematura: è proprio ridicola. Glielo dico. «Basta che tu mantenga una certa apertura mentale.» «Potresti farlo anche tu», gli consiglio. «So che i ragazzi erano con te la notte in cui Melanie è stata uccisa», mi spiega. «Finché tutto questo non sarà finito, vorrei che tu stessi lontano da loro. Sono sicuro che capisci. Non voglio metterli in mezzo.» Detto dall'uomo che ha esposto i suoi due figli nel reparto sconti del supermarket dell'affidamento... «Come vuoi tu, Jack.» «Sapevo che avresti capito.» È tutto molto civile; come ci si può aspettare da Jack non appena abbia avuto il tempo di ritrovare l'autocontrollo e scoprire la direzione più vantaggiosa. Senza dubbio, se Laurel verrà arre-
stata e incriminata, lui cercherà di pianificare la difesa con me. Andrà bene qualunque tattica, purché sia veloce e indolore e prometta un lungo periodo di carcere. Spinge indietro la poltrona e si alza. Il bottone della giacca s'impiglia nell'orlo della scrivania. Provoca uno strappo nel tessuto e rotola nella stanza come un chiodo in un terremoto. «Porca miseria», esclama lui. Un sorriso stupido, tipo: guarda come si è rovinato il mio vestito da mille dollari. Non può farci niente. Scrolla le spalle e si protende sulla scrivania a stringermi la mano. La giacca si apre. Dal suo punto di vista, probabilmente, noi due abbiamo sepolto una mitica ascia di guerra. Se avesse a disposizione un calumet della pace, mi offrirebbe da fumare. Il suo sorriso è ampio, affabile. «Come dicevo l'altro giorno, un dovere è un dovere.» Mi accompagna alla porta, tenendomi una mano sulla spalla, e rinnova il giuramento di fratellanza. Un'ultima pacca, un ultimo saluto, e chiude la porta. Io vago nel labirinto di uffici come Mosè in cerca della Terra Promessa: qualunque strada è buona, purché porti all'uscita. A ogni passo, freneticamente, soppeso tutte le parole che ci siamo detti; ma è uno solo l'interrogativo che domina la mia mente. Perché Jack Vega aveva un microfono sotto la giacca? «Indovina chi c'è?» chiede. Sarah ha un grosso sorriso in faccia. Ha appena risposto alla porta, e sa che io non ho il minimo indizio per rispondere. «Danny.» Sarah è al settimo cielo. «Oh.» Mia figlia stravede per il cugino. Prova per lui tutto ciò che una bambina di sette anni può provare per un teenager, l'intera gamma dall'amore alla semplice fascinazione. Lo guarda con occhi sgranati e un sorriso fisso; s'impappina perché le parole non escono abbastanza in fretta. Lo sta tirando per una mano. Vuole trascinarlo a guardare un disegno che ha appena finito; blatera della scuola e di un libro che sta imparando a leggere. Ha in mente di bloccarlo in un angolo del divano, e intanto continua a combattere con le parole. «Zio Paul.» Danny ha il berretto in mano. Indossa una giacca nera dei Raiders che fa apparire più voluminoso del normale il suo corpo.
Io mi do da fare ai fornelli, mi esibisco in quella che, a casa mia, passa per arte culinaria. Chiedo a Danny se ha fame. Mai domanda fu più superflua. I suoi occhi scrutano la pentola che bolle. Nulla che lui possa riconoscere, ne sono certo, ma Danny è sempre disposto a correre rischi. «Tuo padre sa che sei qui?» chiedo. «Stasera sono uscito con Julie», risponde. «L'ho portata dal suo ragazzo. Devo andarla a riprendere fra un'ora.» Rabbrividisco. I piccoli astuti spermatozoi avranno tutto il tempo di risalire la corrente. In quel suo modo evasivo, Danny ha risposto alla mia domanda. Suo padre non sa che lui è qui. «Oggi Jack e io abbiamo fatto una lunga chiacchierata», lo informo. «Secondo tuo padre, è meglio che noi non ci vediamo, almeno per il momento.» «Così tu aiuti mamma», conclude lui. In quattro e quattr'otto, il ragazzo ha capito tutto. «Lo so. Me lo ha detto papà.» Scrolla le spalle. «Credevo che non ti dispiacesse.» Sarah è esasperata, sta per esplodere. Basta discorsi da grandi. Vuole che Danny si trasferisca nell'altra stanza, e non va troppo per il sottile. Lo tiene stretto per pollice e indice, strattona con tutto il suo peso; si prepara a trascinarlo via con la forza. Vuole fare un giro dell'isolato sulla Vespa di Danny, ma io pongo il veto. Sarah non ha il casco, e poi sta già facendo buio. Danny mi mette nei guai con la richiesta di fermarsi solo qualche minuto. Poi mi guarda con gli occhioni da cerbiatto. «Forse potrei aspettare Julie davanti alla casa del suo ragazzo.» Sospiro, e cedo. «Solo qualche minuto.» I due si dirigono in soggiorno. Io resto a tagliare carote da buttare in pentola. Nikki mi ha lasciato un piccolo ricettario, una parte della sua eredità d'amore. Nei giorni in cui stava morendo, ha trascorso ore intere a scrivere le ricette: cose che anch'io fossi in grado di preparare senza bruciare tutto. Stupefatto, l'ho guardata compilare queste pagine, una sorta di mappa nutrizionale per la sopravvivenza. Lo ha fatto istintivamente, per puro altruismo, come in altri tempi mi avrebbe riempito il freezer di piatti pronti prima di partire per una settimana di visita a sua madre. Mia moglie aveva una spiccata propensione per i lati pratici dell'amore. Nell'altra stanza, Sarah è un vulcano di parole. Danny, per autodifesa, ha acceso il televisore. Mi giungono i suoni sconnessi di uno zapping freneti-
co. Poi si ferma su qualcosa, una voce monotona che non riesco a decifrare. Altre carote, un po' di prezzemolo, un cucchiaino di burro, e mescolare. Qualcuno mi sta tirando l'orlo dei calzoni. Mi giro. È Sarah. Il suo viso è stravolto dall'agitazione. Piegando a uncino l'indice, m'invita a chinarmi perché deve confidarmi un segreto. «Danny sta piangendo», sussurra. Mi asciugo le mani e passo in soggiorno. Il ragazzo è raggomitolato in un angolo del divano, a ginocchia all'insù. Il massimo della posizione fetale per chi è alto un metro e ottanta. Fissa lo schermo, e le lacrime gli colano giù per le guance. Sul televisore, in uno splendore di colori, scorrono immagini di Laurel. Con le mani dietro la schiena, in manette, viene spinta verso un'auto della polizia. Il veicolo è bianco e nero, e sulla portiera c'è uno stemma che non riconosco. Un agente fa abbassare la testa a Laurel e la deposita sul sedile posteriore. Vedo solo la silhouette della sua testa dal finestrino posteriore, mentre l'auto si stacca dal marciapiede. Corro ai comandi del televisore e alzo il volume appena in tempo per sentire: «Qui Norman Kendal da Reno». Resto immobile, stordito, ipnotizzato dal puzzo di carote bruciate e dal pensiero che finalmente so dove sia «quassù». 5. È mezzogiorno appena passato, e la solita folla di gente sbrindellata staziona davanti alla prigione di contea, in attesa di amici o parenti che devono uscire su cauzione. Il Nevada ha concesso l'estradizione per Laurel. Lama e i suoi non hanno perso tempo nel riportarla a Capital City. Aspetto in una piccola sala per gli interrogatori, al pianterreno del carcere. A parte due figli minorenni, sono il parente più stretto, così mi sono impegnato a rappresentarla. I funzionari del carcere non ne sono stati contenti; non sapevano se concedermi il diritto di vederla. Da una finestra, vedo Laurel nel corridoio esterno. La stanno portando qui. Una donna poliziotto la tiene per un braccio. Laurel è senza trucco. Il viso è teso, stanco. Negli ultimi due anni è invecchiata di dieci. Mi viene in mente com'era nei primi - e idilliaci - anni del mio matrimonio. Era felice, sembrava sempre di corsa, coi suoi sandali col tacco di su-
ghero. Portava abiti larghi in vita e uno zainetto sulla schiena. Nello zaino c'era Danny in fasce; il ventre cominciava a mostrare il gonfiore di sua sorella. Era la fine degli anni 70. La mia generazione, impegnata a strisciare nella giungla del mondo del lavoro, cercava di schermare la propria coscienza sociale. L'emblema sul cofano della Mercedes aveva sostituito il simbolo della pace come icona del momento. Si dice che il tempismo sia tutto, nella vita. Laurel deve essere venuta al mondo sotto una cattiva stella: si è persa l'età dell'Acquario, ed era una hippy nata. Quando ha conosciuto Jack, era uscita da Berkeley da un anno. Lui era più anziano. Aveva i capelli lunghi fino a metà del culo, parlava in un gergo pieno di cretinate liberal che solleticavano i grilletti dell'altruismo. Jack, che all'epoca lavorava in Campidoglio come lacchè, stava affinando le doti che avrebbero fatto di lui un politico. Raccontava a Laurel quello che lei voleva sentire: il preludio a un matrimonio forgiato nell'inferno. Quando si discuteva delle questioni di maggior peso dei nostri tempi, la mia impressione era sempre che Laurel scavasse nella propria anima alla ricerca disperata di una verità definitiva, mentre Jack raccontava bugie, ripeteva i luoghi comuni che qualche prezzolato autore di discorsi aveva scritto in dieci minuti di lavoro. Era troppo preso a godersi i vantaggi della situazione per esaminare la coerenza del suo modo di agire. In casa e fuori, Jack ha sempre navigato sotto false bandiere. La mia idea è che si sia concesso l'approdo in altri porti sin dall'inizio. A Laurel è occorso un po' di tempo per capirlo, e un altro po' per affogare il problema in una bottiglia. Apparentemente, nell'arco di tutti questi eventi, l'unica costante della sua vita è stato l'istinto di proteggere i figli. In questo Laurel possiede gli stessi impulsi materni di una femmina di ghepardo con i cuccioli: artigli sempre snudati, e più lunghi dei tacchi a spillo delle scarpe di certe donne. La porta si apre. Laurel è in manette. Il luccichio del metallo, una catena che le circonda la vita, corre tra le sue ginocchia fino ai ceppi alle caviglie. Laurel avanza a passettini, come una contadina cinese, e la catena tintinna, paradossalmente evocando immagini natalizie. Indossa una tuta arancio di tre taglie più larga e scarpe di tela, e ciò significa che è già stata sottoposta alle infamie dell'ingresso in questo luogo: perquisizioni in cavità del corpo che solo il tuo medico dovrebbe vedere, e una doccia con un sapone antisettico tanto astringente da togliere la vernice al metallo.
Supera la soglia, e la prima cosa che vedo sono le sue mani tese verso di me. Sono di un rosso acceso, come se qualcuno le avesse cotte alla fiamma. «Che le è successo?» Punto uno sguardo accusatore sulla guardia. «Lo chieda alla sua cliente», mi risponde quella. «Va tutto bene», mormora Laurel. La guardia mi scocca il suo miglior ghigno da sbirro. «Glieli può togliere», dico. Sto parlando di manette e ceppi. «Se lo sogna», ribatte la donna. «Se vuole, possiamo chiamare il suo boss per discuterne», la informo. «La mia cliente ha il diritto di conferire col suo avvocato senza una tonnellata di metallo a mani e piedi.» «Non a pianterreno», spiega lei. Mi sta valutando. Fino a che punto può spingersi? È troppo pigra per tirare fuori le chiavi e usarle. La fisso negli occhi, e lei batte le palpebre. Mi avvio alla porta, determinato a rivolgermi a un'autorità superiore. «Fatti suoi», sbotta. Se si potesse sputare con lo sguardo... Si mette all'opera con le chiavi. Più serrature di una cintura di castità. Poi, trascinandosi dietro sei metri di catena, si mette in posizione, con la schiena rivolta a un muro a due metri da me. «Esca, se non le spiace», le dico. Venire in carcere per parlare con un cliente è come essere scaraventati in un'arena piena di tori inferociti. Non potendoti mordere, le guardie cercheranno come minimo di metterti i bastoni tra le ruote. Di solito si tratta di agenti che le autorità superiori non mandano in strada per il timore di provocare sommosse tra i cittadini dotati di buonsenso. Così, vengono lasciati qui e loro sviluppano un senso civico da Quasimodo. La guardia esce lemme lemme, seguita dalla catena. Laurel è stata formalmente incriminata di omicidio di primo grado. Domattina deve comparire davanti al giudice per la contestazione dei capi d'accusa, e per stabilire una data per la presentazione della sua dichiarazione d'innocenza o di colpevolezza. Penso che Harry avesse ragione. Sembra che ci sia poco da stare allegri con quello che la pubblica accusa ha in mano, anche se io non ne ho ancora visto nulla. Harry sta preparando un'istanza di presentazione. Da quanto ci risulta, la polizia, in base alle prove che ha raccolto, ritiene di avere un caso praticamente chiuso. Si vocifera di un testimone. Magari è qualcosa che vorrebbero farci credere. Laurel si accomoda di fronte a me. Ha un'espressione impietrita, ma non
ci sono lacrime, non c'è isteria. Altre donne di mia conoscenza fremerebbero d'orrore davanti a questo posto: guardie taurine e carcerate con atteggiamenti della durezza del diamante. Ma Laurel ha una sua dote particolare. È una di quelle persone che sembrano capaci di trovare un vento favorevole anche nelle condizioni più avverse. Intravedo in corridoio gli occhietti di Lama, dietro le tapparelle della finestra. Ha finalmente trovato un posto dove sentirsi a proprio agio. In compagnia di altri delinquenti, può spiare da una finestra una conversazione privata. Mi alzo e gli chiudo le tapparelle in faccia. Adesso siamo tranquilli, isolati, e, si spera, soli. «Stai bene?» chiedo. «Dove sono i ragazzi?» chiede lei. Di nuovo, la sua preoccupazione principale. «Stanno bene.» «Sanno che mi hanno arrestata?» «Danny lo sa», rispondo. Posso solo presumere che, a questo punto, qualcuno abbia informato Julie del destino della madre. Questa è la Laurel che conosco. Sempre pronta a guardare le cose con un certo distacco. Una donna che, solo qualche attimo fa, era in manette e catene, e che è accusata di omicidio di primo grado, eppure la sua massima preoccupazione rimane quella di tenere i figli all'oscuro di ciò che le sta accadendo. «Hai parlato con Gail Hemple? Riuscirà ad avere l'affidamento?» Allude a Jack, ai figli. «Di questo discuteremo più tardi», borbotto. «No. Adesso. Otterrà l'affidamento?» «I ragazzi devono pur vivere da qualche parte, in attesa che tu esca da questo casino», la informo. «Non con Jack», dichiara lei. «Puoi prenderli tu. Almeno temporaneamente.» Laurel si è girata a guardare dietro le proprie spalle. L'idea paranoica che qualcuno ci possa ascoltare. Qui, in questo posto, è un atteggiamento molto sano. Con la mano a coppa copre un lato della bocca. «Si chiama Maggie Sand», dice. «Scrivi.» Il mio sguardo è appannato. «Chi è Maggie Sand?» «La mia amica del college», spiega. «Te ne ho parlato al telefono. Vive
nel Michigan. È tutto sistemato.» Parla in fretta, prima che torni la guardia per riportarla in cella. «I biglietti sono già acquistati.» Mi dà il nome della compagnia aerea e il numero del volo. «Il cognome è Sand. Danny e Julie Sand.» Così Jack e la polizia non riusciranno a rintracciarli. «Tu devi solo metterli sull'aereo. Maggie li andrà a prendere a Detroit.» «Guarda che tu hai problemi più grossi», le rammento. Alza le mani e per un attimo vi seppellisce il volto. Riflette, senza piangere; solo qualche secondo di meditazione, come per fare un ultimo tentativo di rimettere insieme il quadro generale. «Che cos'è successo alle tue mani?» le chiedo. La sua pelle chiara è di un rosso acceso, peggio di un'ustione solare. «Non è niente», mormora. «Te ne parlerò dopo. Spero di avere fatto la cosa giusta.» Ha cambiato argomento. «Quando ho deciso di non opporre resistenza.» Il mio cuore perde un colpo. Immagino già ammissioni fatali. «Hai reso una dichiarazione?» chiedo. «Su che cosa?» Laurel è perplessa. Poi afferra. Sto parlando di una confessione. Le sue labbra accennano un sorriso beffardo, che rimane però severo agli angoli della bocca. «Pensi che sia stata io», mormora. «Pensi che io abbia ucciso Melanie.» Gira la testa, stringe i denti, come se volesse parlare con qualcuno sulla sedia vuota al suo fianco. «Be', il fatto è che se lo meritava», riflette. Quindi si volta, mi punta gli occhi addosso e aggiunge: «Però non sono stata io. E spero che tu lo creda, perché altrimenti avrò bisogno di un altro avvocato». Dal tono di voce si potrebbe pensare che l'abbia arrestata io. La smorfia che ha dipinta in volto in questo momento è molto deprimente. «Mi riferivo all'estradizione», mi spiega poi. «Ho rinunciato al mio diritto di essere ascoltata da un giudice. È stato un errore?» Come navi nella notte, ci siamo sfiorati senza incontrarci. «Ah.» Scuoto la testa. «Di certo, non un grosso errore.» Al massimo, un contenzioso per l'estradizione sarebbe stato una scaramuccia di confine, una battaglia che prima o poi avremmo perso e che l'accusa avrebbe inevitabilmente usato contro di noi in aula. Glielo dico. Non abbiamo molto tempo. Le guardie si stanno preparando in corridoio, ansiose di riportare Laurel in cella. Ho dovuto ungere tutte le ruote che conosco per non far rimandare a domattina questo colloquio. Le comunico istruzioni veloci, l'essenziale per sopravvivere alla notte.
Laurel è esausta, e io conosco bene Lama: non esiterà a metterla in cella con un'informatrice, nella speranza che mia cognata possa vuotare il sacco con una che, almeno in teoria, è nelle sue stesse condizioni e ha un atteggiamento amichevole. «Puoi tirarmi fuori di qui? Una cauzione?» chiede. Non sapendo di quali prove disponga l'accusa, presumo il peggio. Un'incriminazione per omicidio di primo grado con aggravanti. Il peggiore scenario possibile per un avvocato. Con un'imputazione che preveda la pena di morte, la cauzione può essere rifiutata. Cerco risposte evasive. Comunque, è inutile spaventarla coi miei timori prima di vedere i capi d'accusa. «Potrebbe essere difficile», spiego. «Hai già lasciato lo Stato. Potrebbero sostenere che rappresenti un rischio di fuga.» Dormirà meglio, se non dovrà pensare all'ipotesi della pena capitale. «Vedrò che posso fare.» «Vuoi sapere perché sono andata a Reno?» chiede. «Una buona spiegazione mi farebbe comodo. Ma per questo ci sarà tempo più avanti.» «Non posso dirtelo», mormora. «Dovrai fidarti di me. Tra un po' ti spiegherò tutto. Adesso no.» Fantastico. Lascerà il procuratore distrettuale libero di riempire i vuoti a suo piacere. «Sì. Tra un po'», le dico. «Ne parleremo allora.» Sospetto che Laurel abbia dormito ancora meno di me, e non è la condizione ideale per un resoconto lucido. È sempre meglio che il cliente racconti la sua storia quando il cervello funziona a pieno regime. Preferirei evitare piccoli sbagli, errori od omissioni di particolari, incongruenze che possano spingere me o una giuria a chiederci se Laurel stia dicendo la verità. È più facile mettere un imputato sul banco dei testimoni, se il suo avvocato ha fiducia in lui. E se Laurel mentirà, io non voglio saperlo. Preferisco sia una fandonia ben architettata e credibile. «E le tue mani? Hai bisogno di qualcosa?» chiedo. «Oh.» Laurel guarda le sue povere mani rosse e irritate. «È solo un solvente per bucato», dice. «Ha detto che mi farà avere qualcosa dall'infermeria.» Si riferisce a Madame Gulag, che adesso staziona davanti alla porta e fa tintinnare le chiavi. Corrugo la fronte in un punto interrogativo. «Stavo lavando un tappeto», dice Laurel. «Nella lavanderia automatica di Reno.» Non una parola su come mai, a duecento chilometri da casa, nel cuore della notte, stesse lavando un tappeto. Dall'espressione del suo viso,
però, deduco che per il momento questa è, per Laurel, una spiegazione completa. Se la sua storia non migliora, temo che avrà molto più tempo di quanto credessi da trascorrere in meditazione creativa. «Non hanno la pistola, né fumante in mano a Laurel, né in qualche altra salsa», dice. «A parte questo, non è che gli manchi molto.» E la tattica di Harry per informarmi che le prove ci mettono nei guai. Laurel è ancora in carcere. Dieci giorni fa le sono state lette le accuse stilate dal gran giurì: omicidio di primo grado con aggravanti. Stando ai capi d'imputazione, le prove sono sufficienti a dimostrare la premeditazione. Laurel non soltanto sarebbe entrata in casa di Jack ma anche andata in cerca della vittima prima di ucciderla. Se questo verrà dimostrato, l'accusa potrà chiedere la pena di morte. La richiesta di una cauzione dopo la contestazione dei capi d'accusa mi è costata un bel morso alle chiappe da parte dell'accusa, e molti colpi di martelletto del giudice. A meno che non riusciamo a scardinare l'imputazione o per lo meno a far cadere le aggravanti con un'istanza predibattimentale -, Laurel dovrà restare in galera fino al processo. Anche se questa potrebbe non essere la più grave delle nostre preoccupazioni. Stamattina Harry ricomincia da zero. Butta nel cestino della carta straccia quello che era stato un nostro sogno, un qualche appiglio per impugnare la causa ragionevole dell'arresto e restituire Laurel ai figli. Al massimo, ammesso di avere argomenti plausibili, riusciremmo solo a ottenere una dilazione fino a che il gran giurì non si riunisse di nuovo. «E se anche ce la facessimo, Laurel si è sottratta a questa giurisdizione la sera del delitto. Il giorno dopo doveva presentarsi in aula per l'affidamento dei figli. Non ha fornito spiegazioni per questo viaggio. Fatto assai sospetto, per le autorità», commenta Harry. Ha ragione. Potrebbero tenerla in carcere soltanto per questo. Il peggio è che Laurel non ha fornito a noi un resoconto più credibile. Sostiene di non avere ucciso Melanie, ma rifiuta di dirmi che cosa stesse facendo a Reno la notte dell'omicidio. Sostiene di aver avuto un ottimo motivo per il viaggio. Forse ce lo comunicherà prima di essere condannata. «Magari avrà pronta una spiegazione per domattina», dico a Harry. Quando la rivedrò in galera. «E come no», ridacchia lui. Sempre pronto a tirarmi su il morale. Harry ha già visto clienti del genere. Gente che non si decide a parlare col pro-
prio avvocato e finisce col confessare tutto per la prima volta sul banco dei testimoni. Rabbrividisco e scaccio il pensiero. Ho raccontato a Harry di Vega, del fatto che Jack aveva un microfono sotto la giacca. Secondo lui, Lama voleva incastrarmi; bastava lasciassi capire che sapevo dove fosse nascosta Laurel. Sarei diventato un favoreggiatore. Come minimo, l'ordine degli avvocati sarebbe venuto a indagare nel mio ufficio con la stessa velocità di un ordigno termonucleare. E Jimmy Lama, comunque, avrebbe avuto un orgasmo travolgente. Harry passa in rassegna i fogli sulla sua scrivania, le fotocopie che la polizia ci ha trasmesso dopo la sua istanza. A questo punto, con un'indagine ancora in corso, ci hanno fornito tutto, tranne i nomi e gli indirizzi dei testimoni, di quelli che, la sera del delitto, potrebbero aver visto qualcosa. Li terranno per sé finché le indagini non saranno chiuse. Lama non vuole che parliamo con questi tizi prima di avere ottenuto deposizioni a prova di bomba. Registrerà su nastro le loro dichiarazioni e farà firmare pacchi di verbali, in modo che nessuno possa avere ripensamenti o dubbi. «C'è il tappeto», borbotta Harry. «Quello che stava lavando quando l'hanno arrestata.» Una mia occhiata interrogativa. «Apri bene gli orecchi», dice. «Non era in un casinò, alle prese con le slot machines, quando l'hanno beccata.» Harry manda in fumo quella che, lo sa benissimo, era la mia migliore speranza di spiegare l'allontanamento di Laurel. C'è gente secondo la quale un volo lampo a Reno è un vero toccasana, la miglior cura per la malattia del gioco d'azzardo. «Era in una lavanderia, davanti a una lavatrice, quando è stata così rudemente interrotta», riprende lui. «Stava lavando un tappetino da bagno», ribadisce. Dalla sua occhiata, deduco che ritenga Laurel una svitata. E, come mi spiega lui, il peggio per noi è che quel particolare tappetino è stato identificato da Jack Vega come suo; una parte del bottino del divorzio. Jack ha spiegato alla polizia che il tappetino era a casa sua, la sera dell'omicidio. Stava sul pavimento del bagno in cui è stata rinvenuta Melanie. Come e perché Laurel si trovasse a duecento chilometri da casa, e stesse lavando un tappetino, non è chiaro. Harry scrolla le spalle. «La polizia ha trovato qualcosa sul tappeto? Sangue?» chiedo. Lui scuote la testa. «Immacolato. Laurel lo ha lavato in una macchina industriale, una di quelle coi solventi chimici.» «Sosterranno che lo abbia fatto per distruggere prove», medito. «Oh, lo stanno già sostenendo, e a tutto spiano», mi trafigge Harry. «Le
hanno fatto i test dei residui di polvere da sparo sulle mani. Negativi. Aveva infilato le mani nel solvente.» Rivedo le mani infiammate di Laurel. I test sui residui di polvere da sparo si fanno per determinare se il sospetto colpevole abbia usato un'arma da fuoco in tempi recenti. Le tracce degli elementi chimici lasciati dall'esplosione si possono individuare sulle mani e, nel caso di armi lunghe come un fucile, su altre parti del corpo. Mi siedo, inspiro. Ho l'impressione che mi abbiano tirato un pugno allo stomaco. L'idea che qualcuno abbia volontariamente distrutto una prova scatena la giusta indignazione delle giurie con una rapidità pressoché unica. «Anche ammesso che sia lei l'assassina, perché doveva portare con sé il tappetino? Se era sporco di sangue, perché non lasciarlo dov'era?» «Una scusa per ripulire le mani dai residui dell'esplosione.» Harry sta seguendo quella che senza dubbio sarà la linea di ragionamento dell'accusa. «Altra prova», continua. «Un portacipria d'oro, con le iniziali MLH. È stato trovato nella borsetta di Laurel al momento dell'arresto.» La cosa non significa niente, per me. «MLH, cioè Melanie Lee Hannan», m'illumina Harry. «Il nome da ragazza della vittima.» «Oh.» Dalla mia espressione, Harry capisce che sono scoraggiato. Le accuse di Lama a Laurel stanno cominciando a prendere consistenza. Mi guarda di sbieco, piegando la testa, come a dire: e chi lo sa? «Mai disporre i carri in cerchio troppo presto», sentenzia. Tutti e due stiamo cominciando a chiederci se per caso Jack non abbia ragione. Se non ci convenga cioè incontrarci col procuratore distrettuale prima che la situazione si faccia incandescente. «Poi ci sono le videocassette», incalza Harry. «Più di una?» Annuisce. Il più compromettente, m'informa, è il nastro della videocamera del portico, girato la sera dell'omicidio. Ora e data sono riportate nell'angolo in basso a sinistra. «Non l'ho visto», aggiunge. «Ne avremo copia fra qualche giorno. Ma la descrizione non mi piace.» Si mette a leggere da una pagina stilata da uno dei tecnici della scientifica. Le immagini sono mute. Riproducono quelli che vengono definiti «gesti rabbiosi e minacciosi» di Laurel all'indirizzo
della vittima, seguiti dalla distruzione della videocamera da parte di Laurel, dopo che la porta le viene chiusa in faccia. Stando al rapporto, a un certo punto Melanie, ferma sulla soglia, avrebbe minacciato di chiamare la polizia, se Laurel non se ne fosse andata. «Come fanno a saperlo, se non c'è l'audio?» chiedo. «Lettura delle labbra», risponde Harry. Si riferisce a esperti che, con un buon binocolo, sono in grado di leggere le labbra di qualcuno a un paio di chilometri di distanza. Gente che può portare a livelli del tutto insospettabili l'arte di far parlare i (film) muti. «Sanno che cosa dice Laurel?» «Se lo sanno, sul rapporto non c'è scritto», chiosa Harry. «Che ora riporta il nastro?» «Le venti e diciassette.» Diciassette minuti dopo le otto, la sera del delitto. «Ora della morte?» Sto prendendo appunti su un taccuino. Trascrivo gli elementi critici. «Ah.» Lui consulta i fogli. «Le ventitré e trenta.» È la stima più esatta del medico legale. Tra i due eventi sono trascorse un po' più di tre ore. «Hai detto che ci sono due nastri?» «Sì. Il tribunale, quel pomeriggio», spiega. «C'era una videocamera di sicurezza sul soffitto, e ha ripreso l'aggressione di Laurel a Melanie.» «Proprio quello che ci voleva», commento. Già era abbastanza brutto che ci fossero una dozzina di testimoni. Su cassetta, quello scontro assumerà un significato del tutto nuovo. Basterà un avvocato dell'accusa in gamba per dare un enorme risalto a quelle immagini, caricarle di significati. Il quadro della nostra situazione non è roseo. Una Laurel furibonda che si nutre di pensieri di vendetta per ore, e poi passa all'azione. Gli argomenti dell'accusa stanno prendendo forma, serviti su un vassoio d'argento: una faida all'ultimo sangue fra due donne, e una è morta. «Il lato più debole della loro tesi», riflette Harry, «sono le aggravanti.» Non crede che il procuratore possa dimostrare che l'assassino, uomo o donna che fosse, abbia teso un agguato alla vittima. «Nessuno si è nascosto in un angolo ad aspettare il momento buono», precisa. «Chiunque sia stato, è saltato addosso a Melanie d'istinto. E hanno lottato. Le prove raccolte in bagno dimostrano che c'è stata una zuffa. Non lo stanno gridando ai quattro venti, tuttavia le prove sono chiare. C'era un flacone di profumo in frantumi sul pavimento, come se Melanie avesse
tentato di colpire l'assassino. Parecchie cose del tavolo da trucco erano rovesciate per terra. La scena fa pensare a un atto di violenza improvvisa, non a qualcuno che si sia nascosto nell'ombra per far fuori la vittima con tutta calma.» Sarebbe il nostro primo spiraglio positivo in un caso tutto a favore dell'accusa. Forse potrò dire a Danny e a Julie Vega che se non altro la madre non andrà incontro alla pena di morte, anche se venisse riconosciuta colpevole. Stanotte faremo le ore piccole: la prima stesura di un'istanza predibattimentale per attaccare l'imputazione, per togliere di mezzo le aggravanti. Per la prima volta in una settimana, qualche nodo allo stomaco comincia a sciogliersi. «Che altro hanno?» chiedo. «Qualche cosuccia», risponde Harry. «Pochissimo sangue nella vasca, dove hanno trovato il corpo. È del gruppo della vittima... A Melanie hanno sparato nei pressi della vasca del bagno padronale. Era nuda. Probabilmente stava per fare il bagno. La polizia pensa che sia caduta nella vasca dopo essere stata colpita, oppure che l'assassino l'abbia raccolta e messa nella vasca. Stanno ancora studiando la coreografia.» «Bruciature da polvere da sparo?» Potrebbero fornirci qualche indicazione. «Boh», ribatte Harry. «I risultati non sono ancora arrivati.» La nostra contea ha un nuovo medico legale. E non è famoso per la sua velocità. «Hanno trovato dello sperma.» «Dove?» «Sulle lenzuola del letto», m'informa. «Secco. Poco. La scientifica lo ha esaminato. Un secretore.» Il sessanta per cento circa della popolazione è composto di quelli che chiamiamo «secretori». Persone che hanno nel sangue una sostanza specifica che permette di stabilire il gruppo sanguigno partendo da altre secrezioni del corpo: lacrime, sudore, saliva e, come in questo caso, sperma. «Il gruppo sanguigno corrisponde a quello del marito», annuncia Harry. Sta parlando di Jack Vega. «Comunque, mi piacerebbe controllare», gli dico. Nei casi di dispute di paternità, gli imbrogli sui gruppi sanguigni dedotti da un rapporto di sierologia sono un problema ricorrente. Basta spostare di poche cifre la virgola dei decimali, e le probabilità che il sangue appartenga all'una o all'altra persona, a esclusione di tutte le altre, possono variare
da una su mille a una su dieci milioni. Ho conosciuto tizi che volevano darsi alla pazza gioia, poveracci con un debole per il gentil sesso, che oggi sono incatenati ai ceppi dei diciotto anni di alimenti per la prole: cause per il riconoscimento della paternità intentate da donne con più amanti di un gruppo rock, con figli che sembrano il risultato del campionamento casuale di un pool genetico. È quello che può succedere in un laboratorio quando il candidato è senza fissa dimora e l'assistenza sociale dà una spintarella. Si basano sulle leggi della probabilità: se non è il padre di questo, senz'altro sarà il padre di un altro. È raro che questo rappresenti un problema in un caso d'omicidio, però chiedo a Harry di controllare sangue e sperma con un'analisi indipendente. Harry ha il nome di un buon laboratorio. Voglio sapere se Melanie si portasse a letto un amante. Magari una passione finita in fumo come movente per l'omicidio. «Secondo te se la faceva con qualcun altro?» Gli faccio una smorfia tipo: e chi lo sa? Harry prende un appunto per ricordarsi di provvedere. «Impronte?» «Nulla che ci abbiano rivelato», dice. In un caso del genere, le impronte rischiano di essere una lama a doppio taglio. L'assenza d'impronte che colleghino Laurel all'omicidio potrebbe, a prima vista, portare all'inesorabile conclusione che lei non fosse sul luogo del delitto. D'altro canto, se riescono a dimostrare con altri mezzi che Laurel si trovava a casa dei Vega la sera dell'omicidio (capelli o fibre, un testimone, i più lievi movimenti accettabili per una giuria sull'oui-ja dell'identificazione), l'assenza delle sue impronte nella casa potrebbe condurre a un'ipotesi impossibile da controbattere, cioè che portasse i guanti. Da lì all'idea della premeditazione, il salto è breve. Harry sta sfogliando altre pagine del mucchio che ha davanti. «Resta solo il rapporto balistico», sospira. «Un'unica pallottola da nove millimetri. Sottile rivestimento di rame. Terribilmente deformato dall'impatto con la testa. Bossolo di rame, Luger nove millimetri, con graffiature multiple.» «E questo come lo spiegano?» chiedo. Penso a qualcuno che prova la pistola senza sparare. Ho conosciuto appassionati di armi, soprattutto cacciatori, e tiratori scelti, che azionavano a mano il carrello di una semiautomatica carica per assicurarsi che la pistola non s'inceppasse al momento di sparare. Questo lascerebbe numerose graffiature sui bossoli, nei punti in
cui i denti di metallo dell'estrattore stringono la cerchiatura per l'espulsione. «Dicono che il bossolo era già stato sparato. Che è stato espanso e riportato a dimensioni normali», spiega Harry. «Una pallottola ricaricata?» «Così sembrerebbe.» «E perché diavolo Laurel dovrebbe comprare munizioni ricaricate?» La teoria dell'accusa comincia ad avere qualche falla. Harry mi guarda come per dire che si può solo tirare a indovinare. «È roba che si può comperare in certi poligoni. Alle mostre-mercato di armi», almanacca. Sta tamponando i buchi delle loro tesi. L'idea potrebbe reggere, ma poligoni e mostre-mercato di armi non sono luoghi in cui mi aspetterei di vedere Laurel. «E della pistola si sa qualcosa?» Scuote la testa. «La stanno ancora cercando. Rigature e solchi sulla pallottola indicano una rigatura destrorsa. Potrebbe essere uno qualunque di una dozzina di modelli presenti sul mercato. Ma c'è un dato interessante... Il loro laboratorio ha trovato alcune striature meno profonde dei solchi. Quattro, sull'estremità posteriore della pallottola. Ognuna è larga all'incirca quanto un frammento di fibra tessile ruvida.» «Azzardano un'ipotesi?» chiedo. «Senza un'altra pallottola sparata dalla stessa arma per un confronto, è dura», ammette lui. «Ma pensano che si tratti di un difetto della canna della pistola.» «Se la trovano, l'arma del delitto sarà più facile da identificare di una dentiera», commento. «Speriamo che non la trovino nell'appartamento di Laurel», dice Harry. 6. Stamattina Harry e io ci dedichiamo ai sondaggi d'opinione. Consumiamo le suole delle scarpe nel cul-de-sac dove Melanie è stata uccisa; passiamo in rassegna i vicini, in cerca di tutto quello che potrebbero avere visto o sentito quella sera. La polizia terrà per sé le deposizioni dei testimoni per un altro giorno, quindi a noi resta solo l'a porta a porta. Ci attende una battaglia in salita. Come dice Harry: «Chiunque abbia mai difeso un imputato d'omicidio sa che la merda scorre sempre in discesa». Ci stiamo dando da fare a scavare terriccio per costruire una diga.
Due giorni fa, il sindaco, Lama, e il procuratore distrettuale della contea di Capital, Duane Nelson, hanno tenuto una conferenza stampa congiunta sul caso di Laurel. Si sono ingraziati gli obiettivi delle telecamere, crogiolandosi nel bagliore dei riflettori neanche fossero su un'assolata spiaggia messicana. Nelson ha riferito alla stampa di avere in mano elementi solidi come l'acciaio, dopo di che è passato a fornire... nessun particolare. Nelson è un buon avvocato, e come politico è anche meglio. Per quanto non sopporti Lama, avendolo colto in flagrante una volta, quando lavorava come suo investigatore, ha riversato su Jimmy lodi immeritate per aver incastrato così in fretta l'imputata. L'evento è stato una di quelle feste che i politici adorano: il trionfo della legge, corone d'alloro per tutti. Una pietra miliare nella lotta al crimine. C'era sotto più di una leggera ipocrisia. Ieri Nelson mi ha telefonato per chiedere un rinvio alla presentazione della dichiarazione di Laurel. Un capovolgimento di ruoli. Di solito, un accusatore sicuro del fatto suo non vede l'ora di andare in tribunale. Ha farfugliato che vuole affidare il caso a un altro assistente procuratore nonché apportare qualche lieve modifica ai capi d'imputazione. Mi si sono rizzate le antenne. Qualcosa sta andando nel verso storto; per loro, speriamo. Gli ho concesso la proroga e gli ho detto che chiederò un ordine di silenzio stampa, se non la pianta con le buffonate. Lui ha riso di cuore e mi ha assicurato che non lo farà più. L'omicidio di Melanie ha scatenato particolari ansie in questa città dedita ai commerci politici. Qui il governo è un'industria in continua crescita, e l'idea che i legislatori e le loro famiglie non siano al sicuro fa male agli affari. Gente importante potrebbe andarsene, trasferirsi ai piedi delle colline. Le responsabili voci della leadership, la Camera di Commercio e il Consiglio Comunale, hanno ricamato a lungo sul concetto che si è trattato di un casuale atto di violenza, e non del primo anello di una catena destinata ad annientare in un bagno di sangue i grossi papaveri della politica. L'arresto di Laurel serve a uno scopo preciso. La città sta lavorando sodo sul messaggio che una ex moglie vendicativa, per quanto la stampa possa dipingerla come un mostro, non è Jack lo Squartatore. Il presidente della Camera può continuare ad andare a letto con le sue concubine e dormire sonni tranquilli. Premo il campanello e una donna si presenta alla porta. Un viso grade-
vole, forse sessantacinque anni, capelli bianchi come la nonnina sulle scatole di caramelle, ma con più stile. «Margaret Miller?» dico. Dove possibile, Harry ha rintracciato i nomi dalle liste elettorali. «Sì.» «Io mi chiamo Paul Madriani, e questo è il signor Harry Hinds. Vorremmo parlare con lei della morte della signora Vega.» Il sorriso scompare dalla faccia di Margaret Miller. «Siete della polizia?» «Siamo avvocati, signora Miller, e rappresentiamo Laurel Vega. Vorremmo parlare con lei, se ha un attimo di tempo.» «Oh.» L'espressione è quella che Margaret assumerebbe se la lebbra le fosse alle calcagna, arrivando dal nostro lato della porta. Sofferta indecisione. Preferirebbe non parlare, ma non vuole essere ingiusta. È l'atteggiamento che un avvocato della difesa incontra spesso nei bravi cittadini, nei testimoni estranei al caso. Da come ci studia, capisco che la signora Miller si sta chiedendo se il semplice fatto di parlarci sulla sua veranda non costituisca già la violazione di qualche legge. «Non so. Immagino di poterlo fare. Se va bene alla polizia», dice. «L'ultima volta che ho guardato, non avevano ancora abrogato il primo emendamento», le annuncia Harry. La donna gli scocca un'occhiata imperiosa. Io gli tiro una ginocchiata, di quelle sode, alla coscia. La signora Miller mi rivolge un sorriso. Toglie la catenella e spalanca la porta. Come un venditore di lucidatrici, sfoggio tutti i miei denti in una raffica di sorrisi goffi e le assicuro che la legge ci dà il permesso di parlare con lei. Harry, rimesso in riga, le offre un biglietto da visita e una porzione di allegre fesserie. «Fa parte del processo per arrivare alla verità», cinguetta. È una cosa per la quale Harry non ha mai mostrato il minimo interesse, se non quelle rare volte in cui la verità, in un'aula di tribunale, ha alzato il piede e lo ha preso a calci in culo. Da come ci guarda, è palese che la signora Miller pensa di commettere un errore, tuttavia c'invita a entrare. La sua casa non è un tugurio. Il soggiorno contiene più mobili di certi palazzi, e pezzi d'antiquariato che basterebbero a riempire un museo. È decorato da ninnoli che vengono dal mondo intero, figurine d'avorio, ma-
schere alla parete che profumano di Polinesia. La signora, ai suoi tempi, deve essere stata una globetrotter. Su un tavolo c'è una foto di lei, più giovane, con un uomo che le tiene il braccio intorno alla vita. I due sono in un posto esotico: un sacco di scalini in pietra, e liane modello giungla. Non esiste un signor Miller. O, se esiste, non vota. L'idea che Harry mi ha confidato prima, in strada, è che il signor Miller sia partito per il Grande CulDe-Sac del cielo. Lei ci indica il divano, poi esita. Non sa di preciso se siamo il tipo di ospiti ai quali dovrebbe offrire il caffè. Alla fine decide che il diritto di parlare non comprende i beveraggi. «Signora Miller, ci sono parecchie domande che vorremmo rivolgerle.» Cerco il tono di chi lavora sulla base di un questionario: un'indagine di mercato, una cosa pulita, asettica. Soltanto i fatti, signora. «Perché non si siede?» le chiedo. Le concedo prerogative in casa sua. Potrebbe buttarci fuori a calci e noi non avremmo appigli legali. Tranne in circostanze speciali, la legge non permette a un difensore di ottenere una deposizione o una qualunque dichiarazione giurata da un testimone, se tale testimone non è disposto a collaborare. Si accomoda sull'orlo di una sedia. Gli ultimi cinque centimetri sostengono solo la sua spina dorsale. La posa comunica senza ombra di dubbio che non ha intenzione di tirarla per le lunghe. «Ha parlato con la polizia dei fatti di quella sera?» Lei annuisce. «Posso chiederle quante volte?» Deve riflettere un attimo. Brutto segno. «Tre volte. Una qui. Due nei loro uffici», risponde. «Alla centrale di polizia?» chiedo. Lei annuisce. Lì vanno solo i clienti seri. «Li ha chiamati lei?» «Santo cielo, no! Si sono presentati loro. Hanno bussato alla porta. Come voi... Il mattino dopo che lei è stata...» Tenta di dire «assassinata», ma non ci riesce. Pensa forse che lo troveremmo offensivo? «Il mattino dopo che lei è morta», conclude. Tono dolce, da cantilena. Pare quasi che una perfida embolia si sia insinuata nel corpo di Melanie e l'abbia colta di sorpresa nel sonno. Una donna come Margaret ci farebbe comodo, in giuria. «Può riferirci che cosa ha detto alla polizia?»
«Non sono certa di poterlo fare.» «La polizia le ha detto di non parlare con noi?» Lei scuote la testa. «Perché, in ossequio alla legge, non glielo possono proibire. È vietato alla polizia dire a un testimone di non collaborare con gli avvocati difensori in una causa penale. È la legge», ribadisco. È anche un balzo quantico dalla deduzione che vorrei farle operare: che lei deve parlare con noi. «È così che si arriva alla verità», insisto. «Tutti che parlano con tutti gli altri.» Neanche fosse il tè delle cinque con le amiche. «Sono certo che lei intende collaborare.» «Oh, non voglio essere ostile.» «Certo che no. E gliene siamo grati. Adesso vuole riferirmi, al meglio possibile, ciò che ha detto alla polizia?» Il diavolo all'opera. «Probabilmente volete sapere della donna», esordisce. «Quale donna?» «Quella che si è presentata alla casa.» «Lei ha visto una donna recarsi a casa dei Vega la sera dell'omicidio?» «Sì.» Harry e io ci guardiamo. Bingo. Gli sbirri hanno il loro asso nella manica. Il primo vicino che abbia visto qualcosa. «Può dirci a che ora ha visto questa persona presentarsi alla casa dei Vega?» «In effetti, l'ho vista due volte. La prima, verso le otto o giù di lì. Un gran fracasso. Litigavano sul portico», c'informa. Dal tono, alla polizia non occorrerà un esperto di lettura delle labbra dar voce al nastro di Jack. «È riuscita a identificare questa donna?» Mi guarda. «Penso sia la vostra cliente», riflette. «Mi hanno fatto vedere una fotografia. Diverse foto, in realtà. Sono riuscita a identificarla. Difficile sbagliarsi. Ha fatto un gran trambusto e tutto il resto.» «E ha visto questa donna andarsene?» «Sì. Pochi minuti dopo.» «All'incirca a che ora?» «Mi sembra di aver detto alla polizia intorno alle otto e venti. È salita in auto ed è ripartita. Potrei anche sbagliarmi. Sull'ora, intendo. La polizia pensava che fossimo più vicini alle otto e trenta. Probabilmente hanno ragione.» «Perché?» «Non ho un grande senso del tempo», risponde. E perché lo ha detto la
polizia. Non me lo dice, ma dalla sua espressione è ovvio che la signora Miller, come ogni buon cittadino, è ansiosa di non contraddire le autorità. Affronto con cautela l'argomento successivo. Non ho una gran voglia d'insistere su una cosa che potrebbe risultare a nostro sfavore. «Ha detto che quella sera qualcuno si è presentato una seconda volta a casa dei Vega. È successo più tardi?» chiedo. «Esatto.» «Ha visto questa persona?» «Sì.» «E che ora era?» «Le undici circa. Forse qualche minuto dopo le undici. L'ho vista in strada.» «La persona è arrivata in automobile?» chiedo. «Intende la seconda volta?» «Sì.» «No. Non ho visto automobili.» «Ha visto da quale direzione sia arrivata, la seconda volta?» «No. Sembrava che stesse lì, vicino al sentiero di accesso alla casa. E si era cambiata.» «Cambiata?» «D'abito.» «Che cosa le fa pensare che fosse la stessa donna di qualche ora prima?» «Il fisico. Il modo di camminare. La faccia», aggiunge lei alla fine. «L'ha vista in faccia?» Annuisce, seria. Sa che per noi è una brutta notizia. «Che cosa indossava questa donna la seconda volta che l'ha vista?» «Una specie di felpa con un cappuccio. Mi è sembrata una tuta da corsa. Come se avesse fatto jogging, o si preparasse a farlo.» «Ma l'ha vista in faccia?» interviene Harry. «Piuttosto bene.» «Abbastanza per identificarla?» Lei riflette un attimo. La domanda essenziale. «Sì.» «È sicura che fosse la stessa donna che aveva visto qualche ora prima? Quella che aveva fatto quel trambusto sul portico dei Vega?» «Oh, sì. Lo abbiamo stabilito.» «Abbiamo?» interrogo. «La polizia e io.» Una vittoria di Jimmy Lama. Senza dubbio, avrà scolpito le asserzioni della signora Miller nella pietra.
«Ha firmato una deposizione?» Lo chiedo in tono disinvolto, come se fosse una cosuccia da niente, qualcosa che si può cambiare a piacere. «La settimana scorsa», risponde. «E hanno registrato su nastro la conversazione con lei.» Mi guarda come se non ne fosse sicura. Ma, conoscendo Lama, è una certezza. «La prima volta che questa donna si è presentata a casa dei Vega, ha visto che auto guidava?» Harry ha deciso di entrare in gioco. «Sì. Era verde, grande. Una Pontiac, credo.» La signora ha buon occhio per le automobili. Laurel possiede una Pontiac ultimo modello, verde metallizzato. «Però quella stessa sera, ore dopo, non ha più rivisto l'auto?» Harry sta cercando un punto a nostro favore. La signora Miller lo guarda di traverso. «Potrebbe avere parcheggiato dietro l'angolo», ipotizza. Nel gioco dello sbirro buono e dello sbirro cattivo, è chiaro chi riuscirà a ottenere la fiducia della signora. «Comunque lei non l'ha vista?» chiedo. «Esatto.» «Aveva mai visto l'automobile nei dintorni, in precedenza?» «No.» «Aveva mai visto la donna? Quella che ha identificato per la polizia?» «Che io ricordi, no.» «Però la seconda volta che ha visto qualcuno...» Harry non ammette che si trattasse di Laurel. «La seconda volta non c'era un'automobile.» «Ho detto che non ho visto un'automobile.» Harry sta solo controllando. L'ostilità è alle stelle. «Non le è parso strano che non ci fosse un veicolo?» Lei fa una smorfia. «Parecchia gente si sposta a piedi», catechizza. Cerchiamo un dato favorevole, qualunque concessione che lei sia disposta a regalarci. «Ha visto questa persona, la seconda... Ha visto questa persona entrare nella casa dei Vega?» «No. E l'ho detto alla polizia.» La signora annuisce, per ribadire la sua correttezza. «Grazie», dice Harry. Se lei ritrattasse l'identificazione di Laurel quella seconda volta, sarebbe disposto a baciarle il posteriore. «Conosceva bene Melanie Vega?» chiedo. «Non la conoscevo affatto. Non avevamo niente in comune.» Impossibi-
le equivocare. Una dichiarazione netta, fredda, come se Melanie e lei vivessero su pianeti diversi. Ho la sensazione che sotto la superficie si nasconda una certa disapprovazione, e che la signora Miller aspetti solo che io chieda. È come se fosse seduta sulle spine. «Non l'ha mai vista sul retro della casa, alla staccionata divisoria, magari mentre faceva giardinaggio?» «Non credo fosse capace di riconoscere una rosa nemmeno se si fosse punta», commenta lei. L'espressione è decisa. «Se c'incontravamo, non parlavamo. La signora Vega faceva una vita ritirata... A parte le sue amicizie.» «Amicizie?» «Ne aveva qualcuna.» «Donne del quartiere?» «Potevano anche essere del quartiere, però non erano donne, Per lo meno, non da quanto risulta a me.» Se ci fossero tè e pasticcini, la signora Miller comincerebbe a vuotare il sacco dei pettegolezzi spinti. Si agita un po', cerca le parole adatte. Poi dice: «La signora Vega riceveva visite». La guardo, perplesso. «In genere di sera, quando suo marito era via.» Mi scruta. Vuole vedere se sono disposto a rotolarmi in questo pagliaio con lei. Ma io sto prendendo appunti: il clinico spassionato. Lei passa sulla difensiva, un po' delusa. «Be', quando un uomo viene a trovarti di sera, di solito non è per vendere un aspirapolvere. Ho detto la stessa cosa alla polizia.» Guarda Harry, che sorride. Il mio socio sta ripensando a Melanie, all'idea che fosse una che se la spassava. «Io avrò la mia età, ma so come va il mondo.» «Oh, senza dubbio», dice Harry. Lei non sa bene come interpretare la frase, ma ci passa sopra. «Ha detto alla polizia che Melanie Vega riceveva visite maschili?» chiedo. «Ovviamente. Volevano sapere tutto, così li ho informati.» Annuisce decisa nella mia direzione, come a dire: ho fatto il mio dovere. Da qualche parte risuona un trillo. Un timer da forno. «Ci vorrà ancora molto? Ho alcune cose da fare», spiega lei. «Un altro paio di domande.» Potrei chiederle del cappuccio. Quanta parte del volto della donna fosse coperta. Quanto bene lei potesse vedere quel-
la sera. Quale fosse l'illuminazione stradale. Un milione di domande per scatenare dubbi. Ma se la signora Miller deve cadere in contraddizione, voglio che accada sul banco dei testimoni, davanti a una giuria. Sondare questi punti servirebbe solo a prepararla, magari ingrandire immagini già impiantate nella sua mente da Lama e dai suoi scagnozzi. Voglio tenerla il più possibile equidistante da entrambe le parti, rafforzare il concetto che il buon testimone non è schierato per l'uno o per l'altro. Penso che sia la cosa migliore che io possa fare con la signora Miller, almeno per il momento. Harry la torchia su un altro punto: che cosa abbia sentito quando le due donne litigavano sui gradini. Forse Lama sperava in qualcosa di più. A quanto pare, la Miller ha udito solo una valanga di urla con pochissime parole intellegibili, che in buona parte si rifiuta di ripetere. «Parolacce», riassume. Credo che sarebbe pronta a sbattere in carcere Laurel soltanto per questo. «Non potremmo sbrigarci?» chiede. «Devo fare una telefonata prima di uscire per ie commissioni.» Colgo al volo l'occasione. Un po' di tempo per prepararci, e un secondo colloquio. «Se lei ha fretta, forse potremmo continuare il discorso un'altra volta, con suo comodo.» «Sarebbe meglio», approva. Come il paziente che si è finalmente alzato dalla poltrona del dentista, adesso è tutta un sorriso. «Quando le andrebbe bene?» chiedo. «Perché non mi telefonate?» Ci dà il numero. Harry lo trascrive. Ci avviamo alla porta. Vedo grandi finestre in sala da pranzo. Danno direttamente sul portico dei Vega. La signora Miller non ha bisogno del binocolo per vedere chi si presenta a quella porta. «Un'altra domanda», dice Harry. «Quella sera, lei ha udito qualcosa che potrebbe somigliare a un colpo di pistola?» La signora scuote la testa, grave, come se ci avesse già pensato su. È sicurissima. La polizia deve averle fatto il terzo grado, su questo punto. «Nessuna esplosione?» chiede Harry. «No.» «Nessun pop smorzato?» «So che rumore fa una pistola», taglia corto lei. Harry mi guarda. Siamo già stati in tre delle cinque case del cul-de-sac. La signora Miller è la vicina della porta accanto dei Vega. Sull'altro lato vivono i Merlow. A parte Kathy e George Merlow, la coppia che ho cono-
sciuto quella notte e che siamo in procinto di visitare, la casa della signora Miller è la più vicina alla villa dei Vega. Quella sera c'è stata una zuffa nel bagno dei Vega, sono stati lanciati flaconi che si sono fracassati sul pavimento, è stato sparato un colpo di pistola, e, per il momento, nessuno ha sentito qualcosa. «Per caso lei ha problemi d'udito?» Harry non riesce a trattenersi. Lei si ferma, lo guarda. «Nessuno mi ha mai accusato di questo.» Se la portiamo sul banco dei testimoni, terrò Harry fuori dell'aula. La ringrazio, le dico che la richiamerò fra un giorno o due, e ripartiamo. Scendiamo i gradini, siamo sul marciapiede. La porta della signora Miller per poco non assesta una botta alle chiappe di Harry. «Brutte notizie per noi», riflette lui. «Potremmo farle controllare la vista. Chiedere l'acquisizione della cartella del suo oculista... Una stramaledetta tuta da jogging. E quella riesce a vedere sotto un cappuccio. Una vista migliore di quella di Superman. Perché diavolo non si è messa lei sulla traiettoria della pallottola? Ci avrebbe risparmiato la rogna del processo.» Harry non è troppo tenero coi testimoni che non vogliono collaborare, specialmente se pensa che esagerino quello che hanno visto a beneficio dei ragazzi in uniforme. Ed è esattamente ciò che pensa della signora Miller. «Secondo quella là», conclude, «se cammina e ha un distintivo, allora ha ragione.» Quattro vicini li abbiamo già visitati. Ci resta il quinto. Andiamo dai Merlow. Davanti alla loro casa c'è una distesa di quaranta metri di erba e fiori moribondi. George Merlow non ha il pollice verde. Oppure il suo giardiniere è finito dentro. Il prato non è stato rasato da un mese. È coperto da un tappeto di foglie, e le erbacce crescono nelle fioriere come tulipani in Olanda. Ci avviamo sul sentiero d'accesso alla casa. La doppia porta d'ingresso è sormontata da un'arcata, roba da chiesa, magari ai piedi di un campanile. Nella fessura tra le due porte è infilato un foglio di carta scolorito dal sole, raggrinzito. La pubblicità di una svendita di Halloween che è terminata tre settimane fa. C'è un giornale, ancora serrato dall'elastico. È stato bagnato dagli irrigatori automatici o dalla rugiada del mattino e poi lasciato ad asciugare al sole. Ho visto certi frammenti dei rotoli del mar Morto in condizioni migliori. Tolgo l'elastico e apro il giornale alla prima pagina. L'articolo di fondo è dedicato a Melanie Vega e recita: MOGLIE DI UN LEGISLATORE
ASSASSINATA NELLA ZONA EST. Il giornale è rimasto qui, dimenticato sotto un cespuglio, dal giorno dopo l'omicidio. Salgo i gradini e guardo dai vetri della porta. È vetro al piombo, molato. Sembra di guardare in un caleidoscopio: luci scintillanti, più incoerenti di un cliente di Harry. Punto gli occhi. Moquette, e nient'altro. Niente mobili. Nulla alle pareti. Suono il campanello. Aspettiamo pazientemente di udire passi. L'unica cosa che arriva è un gatto, un persiano affamato. Salta giù dalla ringhiera del portico e comincia a fare l'amore con la mia gamba. «Non c'è nessuno», dichiara Harry. Suoniamo un'altra volta. Stesso risultato. È solo quando mi giro che lo vedo. In fondo alla veranda, appoggiato al davanzale della finestra, un cartello dice: VENDESI. In alto è stampato il nome di un'agenzia immobiliare. Percorro la breve distanza e guardo. Il nome e due numeri telefonici, casa e ufficio, di un agente immobiliare sono stampati su una targa di metallo che pende dal carrello. Trascrivo tutto sul retro di un biglietto da visita che poi infilo in tasca. «Hanno traslocato», commenta Harry. «Così sembra.» Mi volto. Adesso ho direttamente davanti agli occhi una delle finestre della veranda. Una camera da letto, vuota. Se uno entrasse e si mettesse a urlare, si creerebbe l'eco. È rimasta soltanto la tendina su un lato della finestra, abbandonata come in una fuga precipitosa. Scendo dalla veranda e giro intorno alla casa, con Harry alle calcagna. «Forse ti sei sbagliato. Forse si sono diretti a un'altra casa. C'era parecchia confusione, quella notte», ipotizza lui. «Nessuno sbaglio», ribatto. «Li ho visti percorrere questo sentiero e scomparire sul retro.» Siamo confusi. Harry torna sul marciapiede, controlla il numero della casa, consulta la sua copia delle liste elettorali. Sull'elenco, i Merlow non ci sono. «Ma che bravi cittadini», esclama. Visto il suo atteggiamento nei confronti del governo, potrei mettere in discussione i suoi criteri per assegnare punti di demerito civico. Tira fuori un telefono cellulare e lo apre. Harry e l'era dell'elettronica. Un idiota di qualche ditta gli ha dato quell'aggeggio da usare per sei mesi, nel quadro di una campagna promozionale. Harry ha già versato la salsa
degli spaghetti sulla tastiera, che è troppo piccola per le sue dita bitorzolute, dice. Alla compagnia telefonica non risulta un numero dei Merlow, vecchio o nuovo. Harry borbotta fra sé mentre io supero il cancello e mi avvio verso il retro. «Qualche vicino ficcanaso potrebbe chiamare gli sbirri.» È preoccupato. «Noi due stiamo cercando casa», lo informo. Inutile preoccuparmi d'imbattermi in Jack. Dopo l'omicidio, si è trasferito coi ragazzi in un condominio del centro, più vicino al Campidoglio. Ho sentito dire che Julie e Danny hanno paura della vecchia casa. Danny non voleva più restarci dopo le visite della polizia, le domande, gli agenti che raccoglievano fibre dalla moquette della camera da letto di suo padre. Il condominio è stato una concessione, una parte dello sforzo di Jack per ottenere la custodia provvisoria dei figli, riportarli al suo nido in attesa del processo a Laurel. «Che stai cercando?» chiede Harry. «Non so. Però quella notte c'era qualcosa di strano.» Forse è il ricordo di Kathy Merlow a occhi sgranati, turbata dal cadavere, ansiosa di sapere quando il coroner avrebbe portato fuori il corpo. Forse mi ha colpito la sua fragilità, non tanto fisica quanto psichica. Comunque sia, quella notte Kathy Merlow aveva una certa aria, un'espressione che in vent'anni di pratica legale ho visto tante volte, e che oggi so riconoscere molto bene. Lo aveva scritto negli occhi: era paralizzata dalla paura. Non un'ansia vaga, generica, ma qualcosa di più specifico, un timore tanto forte quanto preciso. Harry mi segue nell'ispezione sul retro. La casa, o ex casa, dei Merlow è una di quelle riproduzioni moderne dello stile vittoriano, quintali di decorazioni e ghirigori appariscenti spacciati per stile; una casa da mezzo milione di dollari su un terreno da un milione. Come ha detto Harry quando ha visto il quartiere: «La zona è tutto». Sul retro ci sono piscina e campo da tennis, recintati da una catena metallica nera, circondati da finti lampioni a gas, stile strade londinesi. Con la nebbia, uno potrebbe credere di vedere Jack lo Squartatore. «Questa gente vive mica male», riflette Harry. Gli piacerebbe sapere che mestiere fa George Merlow. «Forse è la via migliore per trovarlo», dico. «Il suo lavoro.» Anche se non ho la più pallida idea in merito. Cerco di ricordare il tenore della nostra conversazione, quella notte. Ma non si sono sprecate molte chiacchiere
da salotto. Kathy Merlow era troppo ansiosa di vedere cadaveri. Sul fondo, all'altro lato della casa, c'è una piattaforma rialzata. Conduce a una piccola zona pranzo della cucina. Harry prova la porta scorrevole. È chiusa a chiave. Lo fisso a fronte corrugata. «Volevo solo guardare», si giustifica. Al primo piano c'è una terrazza: colonnine scanalate e lucida ringhiera bianca. Il sogno di ogni bambina per la sua casa delle bambole. Corre per l'intera lunghezza della facciata sino a una torretta, e lì la terrazza si trasforma in una scala a chiocciola in ferro battuto che arriva a terra. Harry e io saliamo. In terrazza, la porta scorrevole tra il grande bovindo e la scala è chiusa a chiave. Harry ha già controllato. Col lembo della giacca, sta cancellando le impronte che le sue dita hanno lasciato sul vetro. Guardo da una finestrella a fianco della scala. Come a pianterreno, una stanza vuota. Una camera da letto, probabilmente quella padronale. Intravedo un grande bagno comunicante. Il bovindo al lato opposto della terrazza, rivolto verso la casa dei Vega, è uno studiolo. Una stanza da uomo. Un angolo bar, tappezzeria marrone con disegni di navi. Nella parete di fronte a me c'è un mobile a muro, un armadietto per televisore e stereo, con un'anta aperta. Al centro del bovindo c'è un ripiano-scrivania. Sulla moquette sono rimaste le impronte di un mobile. La mia ipotesi è che si trattasse di una poltroncina girevole, per godere della visuale del bovindo lavorando alla scrivania, e potersi anche voltare a guardare la televisione. «Qui non c'è niente», dice Harry. «Forse possiamo rintracciarli all'ufficio postale.» Sta pensando a un cambio d'indirizzo. Io invece penso che non arriveremo a nulla. Qualcosa nelle ossa mi dice che ritrovare George e Kathy Merlow non sarà troppo facile. Giriamo sui tacchi per andarcene, e io mi fermo di botto. Harry è già quasi alla scala quando si accorge che non l'ho seguito. Sto guardando dalla terrazza. Ammiro il panorama dall'altezza del bovindo, dallo studio di George Merlow. Come un posto di gradinata al Dodger Stadium, guarda giù, oltre la cancellata divisoria, direttamente su una finestra della casa di Jack Vega. Non una finestra qualsiasi. È una di quelle vetrate tipo serra che potrebbero ospitare un'intera famiglia. Una parete in vetro che scende in diagonale dal soffitto alle fondamenta, più grossa del tettuccio di un B-29. Dietro la finestra c'è una vasca da bagno enorme, una paradisiaca Jacuz-
zi, porcellana bianca su una piattaforma di piastrelle. Strisce di nastro giallo della polizia sbarrano la porta del bagno. Nella fretta di andarsene, Jack ha dimenticato di farle togliere. Harry mi ha raggiunto alla ringhiera, e guarda giù con me. «È ancora sotto sigilli», borbotta. «Dovremmo chiedere alla Corte il permesso di entrare nella casa di Jack.» Vuole dare un'occhiata al luogo del delitto. Si appoggia alla ringhiera, si volta, fissa la vetrata del bovindo, di quello che dobbiamo presumere fosse lo studio di George Merlow. «E abbiamo un gran bisogno di trovare il tuo amico George Merlow», conclude. 7. Il quarto piano del Palazzo di Giustizia della contea ospita la sezione libertà vigilata, il self-service, e il Tribunale Municipale. In questo Stato, il Tribunale Municipale si occupa di cause civili da pochi dollari, processi per reati minori, e si fa un po' di pubblicità solo fungendo da sede per la contestazione dei capi d'accusa per reati gravi. È per questo che sono qui stamattina. Sotto il fuoco di fila delle luci, corro con la mia borsa sotto il braccio in mezzo alla calca di giornalisti, cercando di non farmi catturare e marchiare come un vitello. Mi vengono strillate decine di domande. Le telecamere arretrano, mi riprendono in campo lungo: queste immagini rappresentano una messe di materiale d'archivio da utilizzare in seguito, il giorno in cui succederà qualcosa di grosso, quando il tuo cliente sarà stato macellato per bene dalle ruote della giustizia, e i telespettatori potranno vedere l'avvocato difensore che sorride e saltella, come se niente fosse. Uno stronzo m'infila il microfono in bocca e mi chiede se è stata la mia cliente. Non perdetevi il film delle otto: la confessione dell'assassino. Dal tenore della domanda, non mi pare che il tizio sappia di preciso che cosa dovrebbe aver commesso la mia cliente, se non uno dei consueti atti infami di cui si nutre una mente indagatrice. Del resto, se fosse bene informato, perché mai la sua rete l'avrebbe mandato qui? L'autostrada dell'informazione, il brillante fulgore dell'argento vivo. Sulla scalinata esterna ho incontrato Jack Vega. Mi è parso più ostile del solito. Forse era solo incazzato per l'assedio di giornalisti e telecamere. Entro in aula, chiudo la porta, mi lascio alle spalle il clamore dei pezzen-
ti. Qui c'è una quiete maggiore; toni smorzati, il mormorio delle chiacchiere di tribunale. Alcuni dei presenti sono giornalisti giudiziari. Un tempo erano solo uomini, adesso c'è anche qualche donna; clienti fissi che vivono nei locali del tribunale, nella sala stampa a pianterreno. Hanno più vie di accesso ai giudici di qualunque avvocato. Alcuni hanno addirittura le chiavi dell'ufficio del cancelliere, dove fanno le ore piccole. Un giorno scrivono una colonna in decima pagina su una causa di successione, quando qualche fesso lascia dieci milioni di dollari al suo cane, un griffoncino di Bruxelles con un muso che più che altro somiglia a un culo. Il giorno dopo passano a un illecito miliardario. Ma, se possono scegliere, un omicidio nel bel mondo è sempre al primo posto della loro hit parade. Sono reporter scafati che sanno frugare nell'archivio di un cancelliere, gente dalla quale bisogna guardarsi. Giri la schiena, dici una parola di troppo all'orecchio sbagliato, e finisci in prima pagina, non esattamente nel modo che desidereresti. Sento il mio nome, che oggi è l'argomento ideale per le battute di spirito. Qualcuno si sta staccando da una delle combriccole in prima fila. Quando mi giro, davanti a me c'è la faccia di Glen Dicks. «Glen», dico. «Come va, Paul?» Ci diamo tranquillamente del tu, ma non ci stringiamo la mano. È uno dei tanti rapporti secondari. Non brutti; semplici affari. Dicks scrive per l'Herald, uno dei quotidiani cittadini. È in posizione di vantaggio rispetto ai reporter di fuori città venuti a dare un'occhiata per le ripercussioni politiche del caso. La moglie di un legislatore trovata nuda e assassinata ha un certo potenziale. Glen Dicks ha riccioli grigi fino ai lobi degli orecchi, e un paio di baffi buoni per scoparci la veranda di casa. Indossa una giacca sportiva; il numero di cose che sporgono dalle tasche rivaleggia con quello degli aculei sul culo di un porcospino. Ha una pancia che sembra una crinolina vittoriana. Sotto una spinta così poderosa, un bottone della sua camicia è stato sparato via. Mi cita il vecchio aforisma sull'avvocato che difende se stesso. Poi chiede: «Difendere un parente è la stessa cosa?» «Non so. Dovresti chiedere a mia cognata se si sente un'idiota», gli rispondo. Ridacchia. Glen Dicks è furbo, ha esperienza, ha assistito a mille battaglie in tribunale; sa che il fatto che io rappresenti un parente costituisce uno svantaggio, dal punto di vista tattico. Se l'accusa saprà rivolgersi alla
giuria nel tono giusto - cioè fingendo di rivolgermi un complimento per il senso della famiglia che io dimostro di possedere -, potrebbe dare l'impressione che io non creda nell'innocenza di Laurel, che la difenda perché mi sento in obbligo. Glen sonda con delicatezza, cerca qualcosa da mettere nero su bianco. Previsioni sulla data del processo. Se è probabile che l'imputata si presenti a testimoniare. Idee sul numero dei testimoni della difesa. Ottiene risposte che potrà citare, ma nessuna informazione. «Oggi che succederà qui?» dice. «Dovresti chiederlo al procuratore.» «I capi d'accusa sono stati modificati», insiste. «Non ti hanno detto niente?» Sminuisco l'importanza della cosa. «Suppongo siano soltanto minuzie tecniche. Robetta», gli rispondo. «Un'aggiustatina alla grammatica e alla punteggiatura.» «Hmm.» Sta scrivendo tutto. «Una linea di difesa?» chiede. «Sicuro. E sarò felicissimo di riferirtela non appena mi confermeranno che l'accusa è sorda, cieca, e non sa leggere il Braille.» Un sorriso nervoso. Un'occhiata come per dire: be', dovevo provarci. «Come la sta prendendo?» Parla di Laurel. Se non ottiene da me qualcosa di concreto, Glen la butterà sul lato umano. «A parte le sbarre e le signore che di notte hanno il delirium tremens, mi dice che è come essere a casa sua.» Riderebbe, ma è tanto intelligente da capire l'antifona. Annuisce per dirmi che comprende, così gli do qualcosa da scrivere. «Le accuse sono gravi», lo accontento. La penna corre sul taccuino. «Laurel non ha idea di che cosa sia successo. E, da buona madre, sente la mancanza dei figli.» «I figli sono col padre», dice Glen. Non tanto una domanda, quanto la richiesta di una conferma. Annuisco. «Non sono ancora orfani. Hanno il padre.» «Almeno per il momento», commenta lui. Pare quasi che mi stia invitando a farlo testimoniare. Adesso è il mio turno di chiedere informazioni. Lui non perde tempo. «Be', sono girate voci», mormora. «Chiacchiere tra gli uffici del tribunale e gli uffici del Campidoglio. Cose del genere.» «Cose di che tipo?»
«Voci sull'uomo politico.» Subito dopo avermelo detto, alza di scatto il taccuino e lo sistema all'angolo della bocca, per schermarla da ogni possibile lettura delle labbra. Il suo sguardo fissa nervosamente la porta. Quando parli del diavolo... Jack Vega è appena entrato in aula. Dicks contorce il viso in una smorfia. Forse non è sicuro che io abbia sciolto del tutto questo particolare legame di famiglia. Magari Jack e io dividiamo ancora i piatti del poker, il giovedì sera. Con poche parole a fior di labbra, gli comunico che fra noi non corre più buon sangue. «Che hai sentito?» chiedo poi. «Che lo stanno sottoponendo a un'indagine molto minuziosa... Di tipo federale.» Mi guarda con l'aria del francese che deve giudicare un vino straniero. «L'FBI e il procuratore», spiega. Si parla da mesi di un'inchiesta federale coi fiocchi. Molto fumo e niente arrosto. Tutti hanno dedotto che l'aria fosse tornata respirabile quando un senatore dello Stato, il presunto soggetto dell'inchiesta, ha ricevuto il certificato di buona salute, sotto forma di una blanda dichiarazione del ministero della Giustizia, pacata come una conferenza stampa sulle condizioni dell'assemblea legislativa: il paziente ha un cancro che gli sta divorando anche il culo, però noi non riusciamo a trovarlo sulle radiografie. Comunque, può darsi che la stella di Jack stia per tramontare. Ultimamente si è dato con ardente passione a un'attività frenetica, facendo piovere regali dall'albero dei soldi della politica. Il suo mandato elettorale sta per scadere, e Jack è a corto di tempo. Sta cercando di vendersi prima di affondare ai livelli di valore della carta straccia. «Che cosa stanno cercando i federali?» chiedo. «Se lo sapessimo, ci scriveremmo un articolo», mi spiega Dicks. «Però si mormora che lui sia sotto indagine. Abbiamo sentito voci, senza conferme a sufficienza, semplici voci di un altro gran giurì federale.» Non vorrei distruggere le illusioni di Dicks, ma se Jack ha addosso un microfono, al centro dell'inchiesta non c'è più lui. Di colpo, l'attrezzatura elettronica sul corpo di Vega comincia ad acquistare senso. Non c'entra nulla con l'omicidio di Melanie. La mia ipotesi è che Jack sia a bordo della santa nave della giustizia, in manette e catene, e in prigione. Nella morsa di una commissione d'indagine federale, se qualche agente ambizioso in cerca di un Oscar lo filmasse mentre accetta una bustarella, la sera della prima Vega se la farebbe sotto. Convincerebbe i federali che il Campidoglio è un covo di ladri; non che
ci vorrebbe molto a convincerli... E se qualcuno sussurrasse le paroline «microfono spia», non ho il minimo dubbio che Jack si presenterebbe coi cavi elettrici che gli escono dagli orecchi e una batteria d'auto legata alle chiappe. Vedo una guardia portare in aula Laurel dalla porta d'acciaio che dà accesso alle celle. La mia conversazione con Dicks si conclude. Lui torna dal branco. Adesso che ha piantato questo seme nell'orticello della mia curiosità, aspetterà di vedere se nel corso del processo spunterà un germoglio. Laurel non ha più manette e catena, ma indossa ancora la tuta arancio da carcerata, come la figlia di un contadino nella tenuta da lavoro del papà. Per il momento, non essendoci una giuria, il suo aspetto è irrilevante ai fini della giustizia. Si accomoda al tavolo della difesa e io la raggiungo. Non una parola. Appoggia la sua mano sulla mia. Mi guarda un attimo, con un sorriso forzato, date le circostanze. Nelle nostre poche conversazioni, mi è parsa imbarazzata all'idea di avere scaricato su di me le sue disgrazie. Mi ha ripetuto più volte che pagherà ogni centesimo del mio onorario. A un certo punto, mi ha persino detto di passare l'incarico al difensore d'ufficio. Ha la stoffa della martire. «Che succederà?» chiede. «Qui, oggi?» «Cercheranno di dimostrare che le prove giustificano le accuse», le rispondo. È difficile immaginare che possano fare danni ulteriori. Forse un tentativo di accreditare le aggravanti, di dare corpo alla teoria che quella sera Laurel si sia nascosta in casa di Jack, chiusa in un armadio in attesa di veder spuntare Melanie da dietro l'angolo. Harry ha una sua teoria. È convinto che accuseranno Laurel di furto: il tappetino da bagno che stava lavando a Reno, un particolare che lei non ha ancora spiegato. Il furto nell'ambito di un omicidio ricade sotto la dottrina dell'omicidio con aggravanti; e, per quanto si tratti di aggravanti particolari, giustificherebbero una condanna alla pena capitale. Ho detto a Harry che la sua teoria è una cazzata. L'accusa di furto richiederebbe prove del fatto che Laurel avesse deciso di rubare il tappetino prima di uccidere Melanie. Nessuno ha mai accusato Nelson e il suo staff di essere minorati mentali. E dovrebbero esserlo, se lo Stato decidesse di basare la propria tesi sulla teoria che Laurel abbia ucciso Melanie per un tappetino. Rumori, corpi in movimento, ombre nel corridoio a fianco dello scanno del giudice. Per primo vedo Jimmy Lama, poi una forma felina che prece-
de l'ufficiale giudiziario. Duane Nelson ha fatto la sua scelta, ha dato l'incarico all'avvocato che si occuperà del caso. Morgan Cassidy fa parte della lista prioritaria di Nelson, l'elenco dei quattro o cinque sostituti top, tra i quasi cento avvocati del suo ufficio. Si occupa soltanto di cause importanti, e vorrebbe la pena di morte per ogni imputato. Un metro e sessantacinque, con l'aspetto curato che solo le persone frenetiche possono avere, bruna, non è un avvocato che ispiri fiducia alla difesa. Talvolta ha vinto dimostrando di non avere scrupoli di sorta. È pronta a fare a braccio di ferro con il giudice, e in due casi su tre, come minimo, riesce a strappargli i coglioni. È una personalità a senso unico, ossessiva. Una di quelle persone che una volta all'ora si flagellano per i pochi errori commessi nel corso dell'esistenza. Cerca febbrilmente il successo, ma, una volta ottenutolo, non riesce a trarne piacere. Averla per avversario in aula è come mungere una vacca facendo a gara con una mungitrice automatica. Ha una ventosa attaccata a ogni falla della tua linea di difesa, con la velocità di suzione regolata sul massimo. Inquietante quanto la sua presenza qui è il fatto che entri in aula dalla direzione dell'ufficio del giudice. Con chiunque altro, non me ne importerebbe. Con Morgan mi domando quali trame stia tessendo. La Cassidy non mi guarda, ma Lama, passando davanti al nostro tavolo, mi lancia un sorrisetto compiaciuto. E sopra quel ghigno da stronzo, i suoi occhi si spostano sulla Cassidy, poi tornano su di me, come a dire: guarda che anima bacata ti ho portato. Raggiungono il loro tavolo e sistemano alcune carte. Lama siederà a fianco della Cassidy durante il processo, come rappresentante del popolo. L'accusa ha diritto a un solo rappresentante del popolo, e Jimmy, il detective incaricato delle indagini, ha la massima familiarità con le prove... vere e, in certi momenti della carriera di Lama, prefabbricate. Andrei a parlare con la Cassidy per tirarle fuori qualcosa, ma non ne ho il tempo. Alle loro calcagna spunta Tim Bone, giudice del Tribunale Municipale. Sale sullo scanno, batte il martelletto, chiede ordine. «Il Popolo contro Laurel Jane Vega.» Il cancelliere legge il numero della causa. Lo stenografo comincia a battere sui tasti della sua macchinetta. Bone ha labbra sottili. È un ometto magro, calvo come il culo di un neonato, e con lui c'è poco da scherzare. Il suo viso mi ricorda un bucato lasciato per troppo tempo nell'asciugatrice: freddo e con un sacco di grinze.
«Ritengo che l'imputata sia stata informata dei suoi diritti al momento della prima contestazione dei capi d'accusa. Quindi adesso possiamo farne a meno», esordisce. «Signora Cassidy, ha già consegnato copia dell'atto di accusa alla difesa?» Da come lo dice, mi fa pensare che lui e la Cassidy ne abbiano discusso in separata sede. Forse a Bone non garba il fatto che noi ne siamo stati tenuti all'oscuro. In linea di principio, la cosa non ha importanza. Lo scopo della contestazione dei capi d'accusa è identificare l'imputato e informare la difesa delle accuse che gli vengono mosse. Ma Bone è un fanatico della cortesia. «Lo faccio adesso, vostro onore.» La Cassidy apre la sua borsa di cuoio, estrae un fascio di carte, e fa un giro di valzer per portarmele. Sono fogli graffettati, numerati sul margine sinistro, e sembrano gli stessi che abbiamo ricevuto alla prima contestazione dei capi d'accusa. «Signor Madriani, si prenda pure qualche minuto.» Bone m'invita a leggere. «Ho detto alla signora Cassidy che la cosa non dovrà ripetersi. Non nella mia aula. In futuro, consegnerà alla difesa copia dei documenti coi capi d'accusa prima della contestazione.» «Sì, vostro onore.» La Cassidy ha grosso modo la stessa aria pentita di una prostituta colta in flagrante col suo protettore. Mi metto a leggere. L'imputazione di omicidio, seguita dall'aggravante della premeditazione. Per il momento, tutto bene. Se la Cassidy sperava di trarre vantaggio tenendoci all'oscuro, non vedo come. Giro pagina. Niente di nuovo. Giro ancora. A pagina tre, centrati sul foglio, grossi caratteri in neretto: SECONDO CAPO D'ACCUSA Come secondo e separato capo d'accusa, la convenuta è accusata di avere violato l'articolo 187 del Codice Penale avendo, il 19 ottobre del corrente anno, posto fine alla vita del figlio maschio non ancora nato della vittima... Per un istante resto ammutolito. I miei occhi non riescono più a mettere a fuoco. Alzo il foglio in modo che Laurel possa leggere sopra la mia spalla. Il mio indice corre sotto le parole: «figlio maschio non ancora nato». A giudicare dalla sua espressione, si sta chiedendo perché debba perdere tempo con lievi modifiche tecniche ai capi d'accusa. Poi si rende conto. A occhi sgranati, legge, e inghiotte aria.
«Mio Dio», mormora. Porta la mano alla bocca. Sta male. Un diretto allo stomaco. Un conato di vomito, una convulsione che la strazia, ma non butta fuori niente. Con la mano sullo stomaco, continua a leggere, come se le parole sul foglio potessero scomparire. Inchiostro simpatico. Ringrazio il cielo che non ci sia una giuria a vedere tutto questo. Grande soddisfazione sulla faccia della Cassidy, che insieme a Lama sta studiando l'imputata per scoprire l'effetto che fa. Ai loro occhi, le reazioni di Laurel sono una conferma, il tassello definitivo della sua colpevolezza. Di colpo, sono folgorato dall'idea irrefutabile che un processo contro quei due non sarà un'esperienza mistica. Mi alzo, incerto, senza un'idea precisa, prima ancora di avere capito sino in fondo. Che posso dire? «Ci hanno colti di sorpresa. Chiediamo rispettosamente che la Corte respinga i capi d'accusa»? La Cassidy sa perfettamente che la sua tattica è quella del torto marcio. «Vostro onore, non ne sapevamo niente. Lo Stato si è rifiutato di fornirci i rapporti del patologo.» «È semplice», cinguetta la Cassidy. «La vittima, Melanie Vega, era incinta di quattro mesi quando è stata assassinata dalla sua cliente.» Astuti toni d'indignazione. Una moralità a beneficio della stampa. Non mi volto, ma con la coda dell'occhio vedo guizzare la penna di Glen Dicks. Domattina, in prima pagina: LAUREL VEGA HA PER AVVOCATO UN IDIOTA. «Ma il rapporto di patologia dello Stato...» balbetto. Bone, dallo scanno, fissa la Cassidy con uno sguardo che potrebbe ucciderla. Lei riapre il vaso di Pandora, e questa volta fa scavalcare l'abisso a Lama. Jimmy mi consegna una copia del rapporto del medico legale, cinque pagine a interlinea uno, con disegnetti su ogni foglio. Lo scorro in fretta, e mi viene quasi da piangere. Un feto in perfette condizioni, stando al coroner. Il pane quotidiano della Cassidy. Una santa causa. Farà ammassare nei corridoi del tribunale gruppi pro-vita: nenie e cartelli di protesta, fotografie di embrioni pallidi, devitalizzati, che fluttuano in vasetti della maionese. Non abbiamo ancora cominciato, e la Cassidy mi ha già portato alle forche caudine. Ha distrutto uno dei pochi punti di forza della difesa. Sul banco dei testimoni, la mia cliente avrebbe avuto una voce forte e chiara, sarebbe diventata un faro per la giuria; avrebbe trasmesso l'immagine della madre amorosa. Adesso, è accusata di avere sulle mani il sangue di un
bambino che non ha nemmeno avuto il diritto di nascere. Mi è stato detto che combattere con Morgan Cassidy in tribunale può essere un po' come una luna di miele: ogni giorno c'è una nuova sorpresa, e intanto lei continua a fotterti. Dopo la doccia fredda della seconda contestazione dei capi d'accusa, ho rinunciato alla loro lettura formale, ho raccolto dal pavimento la mascella che mi era caduta, e mi sono ritirato nella relativa sicurezza delle celle per gli imputati, a godere della più amabile compagnia dei criminali professionisti. Uscendo dall'aula ho sparato la mia unica cartuccia: un'istanza per mantenere segreto il resoconto scritto del gran giurì, per sottrarre agli occhi avidi di stampa e pubblico i particolari delle prove, e la richiesta di un'ordinanza restrittiva che obblighi al silenzio stampa accusa e polizia. Il giudice Bone, già di cattivo umore grazie alla Cassidy e al suo comportamento, ha accettato entrambe le richieste, anche se solo su base temporanea. Dovremo ripresentarci fra dieci giorni per discutere i meriti di un'ordinanza restrittiva permanente. La Cassidy potrà anche essere capace di fottermi in aula, ma se parla via etere o con gli scriba della prima fila, Bone chiuderà le sue chiappe dietro le sbarre. Laurel e io sediamo al piccolo tavolo dell'area per i colloqui coi clienti, a porte chiuse. Fuori c'è una guardia. Sto lottando per rimettere insieme i pezzi della nostra difesa ridotta a brandelli. Il mio cervello tenta di comunicare con la centrale controllo danni. In aula non sono riuscito a leggere tutti i particolari dei capi d'accusa. Lo faccio adesso. In fondo alla pagina vengono mosse a Laurel altre aggravanti. Il colpo di grazia di Morgan. L'assassinio di una donna che porta in grembo un feto perfettamente sano costituisce un duplice omicidio. In termini giuridici si parla di aggravante per omicidio plurimo. Questo resta vero anche se l'omicida non era al corrente della gravidanza e ha ucciso madre e figlio contemporaneamente. Con un dotto sfoggio di sapienza giuridica, la Cassidy cita per filo e per segno i precedenti di casi relativi. Adesso, Laurel riuscirà a sfuggire alla morte solo se convincerà la giuria di non essere l'autrice del delitto; o, qualora lo fosse, dovrà dimostrare che esistono circostanze attenuanti, scusanti che non ammettono la pena capitale. Con la Cassidy che fa il bagno nel sangue di un bambino mai nato, non sarà un'impresa facile. «È mostruoso», mormora Laurel. Sta parlando del fatto che Melanie fosse incinta. «Un bambino.» Scuote la testa, fissa il piano del tavolo, come
se sulla superficie metallica sfregiata fosse scritta una risposta. «Avrei anche potuto ucciderla... Lo sa Dio se non la odiavo a sufficienza.» Idee che sarà meglio tenere nascoste a una giuria. «Ma non con un figlio», conclude. «Mai con un figlio.» Laurel è una di quelle persone intorno alle quali i giovani gravitano perennemente. Ogni famiglia possiede zie e zii che parlano uno speciale linguaggio d'amore. Persone del genere conoscono sempre le molle interiori dei giovani. Nelle riunioni di famiglia, Laurel trascorreva ore interminabili a parlare con Sarah, in qualche angolo tranquillo. Conosce meglio di me mia figlia, i suoi desideri segreti, le cose che la atterriscono di notte. Così, questo figlio morto, e l'idea che qualcun altro la ritenga responsabile della sua morte, costituiscono per Laurel un colpo di dimensioni colossali. «Pensano davvero che io abbia potuto farlo?» chiede. Per la prima volta, mi guarda. Non rispondo, ma lei la conosce, la risposta. «Non sapevi che era incinta?» Laurel si prende di nuovo la testa fra le mani, appoggia le dita sulla fronte. Abbassa gli occhi. «E come potevo saperlo?» sussurra. «Melanie non mi faceva certe confidenze. A te sembrava incinta?» «Pensavo che magari Julie o Danny...» Melanie potrebbe aver parlato con uno dei ragazzi, durante una delle loro visite a casa di Jack. «No. Me lo avrebbero detto», risponde lei. Mi sono chiesto come mai questo fatto, la morte di un erede, non abbia scatenato l'ira di Jack sin dai primi momenti. Il suo ego virile, l'idea che il suo seme sia stato ucciso prima di poter sbocciare non sono cose alle quali Jack potrebbe attribuire un'importanza secondaria, anche se un ampliamento della famiglia non rientrava nei suoi obiettivi prioritari. Adesso, l'accresciuta ostilità di Jack che ho scorto questa mattina acquista un motivo. Jack ha avuto la sua sorpresa. Il primo barlume sulla gravidanza della moglie gli è venuto dal medico legale, dopo l'autopsia. «Una cosa non ha senso», dico. «Perché Melanie doveva tenere nascosta la notizia a Jack? L'arrivo di un altro figlio. Il seme di una nuova famiglia. La pace domestica. Con quello che stava succedendo in aula, era un elemento che potevano usare a loro favore per ottenere l'affidamento dei ragazzi.» «Tu dai per scontato che il figlio fosse di Jack», ribatte Laurel. «So che non stravedevi per Melanie», commento.
«Non è una questione di animosità», replica lei. «Io so che il figlio non poteva essere di Jack.» «Che cosa?» «Non ne abbiamo mai parlato, nemmeno col resto della famiglia», dice. «Ma Jack si è fatto fare una vasectomia, dodici anni fa. Subito dopo la nascita di Julie. Ormai non può diventare padre più di quanto lo possa io.» 8. Arriva in pantaloni beige, camicia bianca, e un lungo, svolazzante caffettano, metri di seta lucida aperti sul davanti. È il contrappunto femminile al rude spolverino da cowboy in una strada dimenticata da Dio, con le pistole nelle fondine ai fianchi. Dana Colby scruta dall'ingresso, m'individua, sorride, e si mette a navigare tra i piccoli tavoli dell'affollato ristorante, occupato per la maggior parte da coppie. È tutta un contrasto di colori: occhi ametista su una carnagione chiara, e capelli del colore del rame brunito. Si muove con una sfacciata sicurezza che pare urlare: sono divorziata e ho voglia di un uomo. Numerosi occhi maschili lasciano le compagne di tavolo e scrutano questa bellezza elettrizzante: di colpo assumono l'espressione avida dei bambini che hanno visto qualcosa di meglio sullo scaffale della marmellata. Mi alzo. Lei fa la raffinata. Mi prende la mano, poi si tende e mi schiocca un bacio sulla guancia, nulla di sentimentalmente impegnativo. Per gli iniziati al cerimoniale, questo rivela che siamo semplici amici. «Scusa il ritardo», mi dice. «Venerdì sera. Il traffico era caotico. È molto che aspetti?» «Qualche minuto.» Guardandola, capisco che ne valeva la pena. I capelli di Dana, come quelli di Raperonzolo, se venissero sciolti potrebbero permettere a una famiglia di calarsi da un palazzo in fiamme. Stasera sono raccolti in un'unica treccia che sfolgora sulla sua schiena. Siamo al centro del Chievas, il ristorante più costoso di Capital City, a pianterreno, sulla destra della pista da ballo. Su Dana è puntata una legione di occhi invidiosi, maschili e femminili. Mi sento come uno che ha vinto una lotteria miliardaria. Si accomoda. Io accosto la sua sedia al tavolo. «Grazie.» Nel suo sorriso c'è tanto calore da accendere una caldaia. Il cameriere ci piomba addosso. Qualcosa da bere? «Un bicchiere di vino bianco», dice lei.
Tra una dozzina di vini, sceglie il Gewürztraminer. Ne ordino una bottiglia. Andrò all'attacco col vino. L'ho chiamata ieri e le ho chiesto se potevamo vederci a pranzo, per discutere di un paio di cose e magari rinnovare un'antica amicizia. Ho un programma più specifico, ma lo tengo per me. A pranzo Dana era occupata, così stasera ceniamo insieme. Sono soltanto affari, e io mi sento ancora sposato. Ho una figlia a casa che mi aspetta di ritorno prima dell'ora delle streghe del sonno: le nove. Mi manca la fiducia in me stesso per chiedere un appuntamento galante a questa donna. Comunque, Dana ha la grazia di far apparire il nostro incontro un'occasione sociale. All'università aveva un ragazzo più avanti di me di quattro anni, una specie di profeta che era già arrivato alla Terra Promessa, un avvocato con tutto l'equipaggiamento migliore: Porsche Carrera, e un appartamento al Point. Anche se più tardi la cosa si è dimostrata del tutto inutile, aveva regalato a Dana un anello con una pietra grossa come un uovo. Quanto a me, vidi Dana per la prima volta durante il semestre in cui studiavamo il sistema dell'equity e il relativo contesto di leggi, e, a tutt'oggi, questa importantissima fonte del diritto inglese resta per me un mistero. Come una decina di altri ragazzi, ho trascorso il tempo a lasciarmi ipnotizzare dal caleidoscopio di colori proiettato dal prisma al suo anulare, e a sognare nel mio banco. «Sei spettacolosa», le dico. Arrossisce un po'. Gli uomini sono strani. Dopo mille processi, dopo esserti trasformato in un Cicerone dalla parlantina aurea davanti alla giuria, una donna in caffettano, indumento evocatore di avventura, può ridurti all'afasia. «Sono certa che tutti e due abbiamo un aspetto migliore dell'ultima volta», sorride lei. Allude alla strada di fronte alla villa di Jack, la notte dell'omicidio. «Adoro questo posto. C'eri già stato?» «Qualche volta», le rispondo. «E tu?» «Una volta o due.» Senza dubbio al braccio di «stoffa più consistente» di me, rifletto, citando mentalmente l'Antonio di Shakespeare. Il cameriere arriva e versa il vino. «Ultimamente trovo il tuo nome su tutti i giornali», dice Dana. «Più che altro associato a insulti», commento. «È difficile trasformare in un disastro una contestazione di capi d'accusa. Ma, a quanto pare, ci siamo
riusciti.» Lei ride. «Morgan possiede un vero talento per portare gli altri al disastro.» «Conosci la Cassidy?» Annuisce. «Siamo iscritte allo stesso club», spiega. «Ah.» Mille espressioni sulla mia faccia, tutte brutte. Lei ha entrambe le mani sullo stelo del bicchiere, che tiene quasi accostato alle labbra. La posa della meditazione. «No, non è l''Anonima Puttane'.» Mi sorride. «Ehi, ho detto questo?» Ma lei fiuta i miei pensieri. «Non esplicitamente.» «È così facile leggermi nel pensiero?» «La tua anima dà su una finestra...» dice. «Anche se parlando di Morgan non è difficile leggere la mente di un avvocato che abbia avuto a che fare con lei. A volte il suo gioco non è propriamente corretto.» «Tu dov'eri la settimana scorsa, prima della contestazione dei capi d'accusa?» «Ehi, Morgan non è così male. Ha i suoi lati buoni.» «Temo siano sfuggiti alla mia attenzione.» «Stende tutti. Senza discriminazioni di sesso», spiega Dana. «Metà delle donne avvocato del Queen's Bench, il nostro club, non le parlano più. Per fortuna non mi sono mai trovata a dover schivare uno dei calci di Morgan. Per cui, forse, si può dire che siamo ancora amiche.» «Sembreresti una sua ammiratrice.» «A modo mio. Viviamo in un mondo crudele.» «Parlamene.» «Dovresti provare a esercitare la professione in gonna e tacchi a spillo.» «Non so perché, ma non credo che mi aiuterebbe», borbotto. Sorride. Intorno ai suoi occhi si formano piccole rughe. «Pranziamo insieme una volta a settimana», precisa. Sta parlando della Cassidy. «Forse posso mettere una buona parola.» «Non da parte mia», ribatto. Ho già incontrato un certo tipo di persona. Chi è impegnato in una crociata tende a prendere per il verso storto ogni tentativo di essere influenzato. «Forse è solo che non hai visto il suo lato dolce.» «In effetti, non l'ho notato.» «Le parlerò», annuncia. Il suo sorriso mi svela che sarà un tentativo infruttuoso. Le chiacchiere scambiate a pranzo non renderanno più malleabi-
le la Cassidy su un'accusa di omicidio plurimo. Magari si potrebbe concludere qualcosa con un altro sostituto procuratore distrettuale, se la vittima fosse un senzatetto e la stampa non s'interessasse al caso. Ma con la Cassidy, il fiume dell'ossessione scorre veloce e impetuoso: un giro in canoa sulle rapide del Colorado. «È davvero un vino eccellente», dice Dana. Ne convengo. Il Gewürztraminer va giù che è un piacere. Ottimo per darti quel frizzante senso d'euforia, nonché stomaco e ginocchia tremolanti quando ti alzi. «Allora, di che volevi parlarmi?» chiede. «Sospetto che tu non mi abbia chiamato soltanto per tirar fuori qualche cattiveria alle spalle di Morgan.» «No. Non che non sia stato divertente», confesso. Lei sorride di nuovo. «Glielo riferirò.» Mi strizza l'occhio, sopra l'orlo del bicchiere. «Volevo parlarti dei Merlow. George e Kathy», dico. Uno sguardo vacuo. Ricerche nel cervello, come se i Merlow potessero essere i personaggi di uno spot pubblicitario del caffè. «Ricordi?» indago. «La giovane coppia di fronte alla casa di Jack, la notte dell'omicidio.» «Ah, sì», esclama lei. Negli occhi, il lampo di chi ricorda. «Pensavo potessi sapere dove si sono trasferiti.» Scuote lentamente la testa. «No. Non sapevo che avessero cambiato casa.» «Il vostro quartiere è piccolo. Tanti cul-de-sac che s'incrociano. Pensavo che forse tu avevi parlato con loro.» «No. Non mi pare proprio. La nostra zona è piena di estranei. Pendolari che non parlano mai. A dire il vero, non li avevo visti prima di quella notte. E non li ho più incontrati. Quando hanno traslocato?» «Subito dopo l'omicidio. Il giorno dopo, forse.» «E stai pensando che come coincidenza sia un po' forzata?» Mi scruta con un sorrisetto. So a che sta pensando: l'avvocato difensore che si arrampica sugli specchi. «È un po' strano che non ne abbiano parlato», rilancio. «Pensi che possano avere visto qualcosa? O lo speri?» Adesso ha un sorriso enorme. Il lato cinico dell'accusa. Non ha visto la finestra del bagno di Jack. Faccio una smorfia. Concedo che è un tentativo alla cieca, ma non intendo autorizzarla a ridere.
«Buona fortuna», mi dice. Poi, di nuovo seria: «Se lo sapessi te lo direi. Sei certo che abbiano traslocato?» «La casa è vuota. È in vendita. C'è il cartello.» «Allora devono proprio essersi trasferiti. C'è il nome di un'agenzia immobiliare?» Annuisco. «Be', sei servito. Io parlerei con l'agenzia. Devono sapere qualcosa.» «Stiamo controllando. Pensavo solo che tu potessi risparmiarmi un po' di tempo... se li conoscevi.» «Se potessi...» dice. «Ma il fatto è che sono arrivati lì e si sono presentati quella notte. Prima non li avevo mai visti.» Scrolla le spalle. Le piacerebbe aiutarmi, ma non può. «In questo processo sei chiuso in angolo, eh?» «È una sparatoria: e io sono a corto di munizioni», confermo. «Una situazione dura. È vero quello che ho sentito? Lei è una tua parente?» Ha seguito il caso più da vicino di quanto credessi. «La sorella di mia moglie.» Dana sorseggia il vino e annuisce. Ha capito. «Ci sono di mezzo dei figli, ho saputo.» «Due. Teenager.» Lei scuote la testa. «Orribile. Tremendo, per loro.» «Non parlarmene.» Lancio un'occhiata di sbieco all'orologio. Ma non sono abbastanza in gamba. «Hai qualche appuntamento?» mi chiede. «Oh, no. Mia figlia. Le ho promesso che sarei tornato in tempo per darle la buonanotte. Ma ho tutto il tempo che voglio.» «Oh.» Dana si ammorbidisce. Un sorriso dolce. «Quanti anni ha?» «Sette», rispondo. «E va per i venti. Il prezzo che paghiamo per vivere nel villaggio globale, MTV e la perdita dell'innocenza.» «Deve essere difficile, tirare su una figlia da solo.» «Ha i suoi alti e bassi.» «Ti manca molto?» «Hmm.» «Oh. Lasciamo perdere.» Un grande sventolare di mani, espressioni imbarazzate. «Sto ficcando il naso dove non dovrei», si scusa Dana. E finalmente afferro. «Parli di Nikki?» «Sì. Però non sono affari miei.»
«Guarda che non mi dispiace. Sì, mi manca. Più di quanto mi piaccia ammettere. Specialmente con me stesso. È il guaio delle persone che conosciamo meglio. Che amiamo. Le diamo per scontate. Non ho mai capito quanto mi sarebbe mancata finché non l'ho persa.» Lei annuisce. Finge di capire. Ma per me è ovvio che è nel buio più totale. «Passi un sacco di tempo a prepararti, e poi è finita, sei solo, e scopri che tutti i preparativi sono stati uno spreco di tempo. Perché è impossibile prepararti. Per quanto tempo tu abbia. Alla fine, c'è solo un grosso buco che si è aperto nella tua vita.» «Deve essere stato un rapporto molto speciale.» «Non sono stato un marito particolarmente buono», le confesso. «Eccesso di modestia.» «No. Abbiamo avuto la nostra parte di problemi. La mia ossessione per il lavoro. Un... vagabondaggio durante un periodo di separazione.» Potrei dirle che a vagabondare sono stato soltanto io, ma non lo faccio. Lei mi guarda, un po' stupita dalla mia franchezza. «Ma se la misura di un buon matrimonio è il senso di vuoto che prova uno dei due quando l'altro è scomparso, allora il nostro è stato un buon matrimonio.» Mi accorgo che i nostri occhi non s'incontrano più. Siamo al lacrimevole. Una seduta di confessioni intime. «Ecco la storia della mia vita», concludo. «E tu?» «Oh. Tre anni di matrimonio. Niente figli. Un divorzio. E, per la cronaca, lui non mi manca.» «Il vantaggio di morire», dico. Accenniamo una risata, ma per me è dolceamara. Prendiamo i menu e leggiamo. Il cameriere arriva con una lista dei piatti del giorno, una dozzina. Parla troppo veloce. Sembra che ci stia facendo un test di fisica. Ordiniamo, e poi ci limitiamo a chiacchiere innocue, soprattutto di lavoro. Visto che io mi occupo principalmente di casi a livello statale, mentre lei lavora a livello federale, c'è ampio spazio per parlare senza infrangere segreti. Dana è in ascesa. Sta facendo strada. Si è parlato di una sua promozione a giudice federale. Lei non ne fa cenno, ma io ho letto il suo nome sui giornali, in compagnia di pochi altri. Sarebbe il giudice più giovane nella storia del nostro distretto. Sto infilando un raviolo con la punta della forchetta quando mi decido
ad affrontare l'argomento. «Ho sentito voci su Jack Vega e un'inchiesta federale.» È in gamba. I suoi occhi non abbandonano il piatto per un secondo. L'espressione di un idolo di pietra. Niente lascia supporre che io le abbia tirato una pugnalata. «Fonti piuttosto autorevoli», insisto, «mi dicono che è al centro di un'inchiesta federale.» Lei non dice niente, però mette giù la forchetta, si pulisce le labbra col tovagliolo. Dal suo atteggiamento, intuisco che è pronta a negare tutto. Gioco il mio asso nella manica prima che lei possa scavarsi una fossa troppo profonda nelle sue bugie. «Il tuo uomo va in giro con un microfono addosso», le dico. Di colpo, la sua espressione si fa più seria. «Chi te lo ha detto? Hai parlato col signor Vega?» «Abbiamo parlato. Ma non me lo ha detto lui. Non ce n'è stato bisogno. Sai, Jack veste attillato e gli aggeggi elettronici tendono a sporgere. Gli è saltato un bottone. È volato via. E io ho potuto dare un'occhiata.» «Merda.» Dana mi studia di sottecchi, come se ci credesse soltanto a metà. Poi, mettendo il tovagliolo davanti alla bocca, scoppia a ridere all'immagine evocata dalle mie parole. «Non starai scherzando, eh?» m'interroga. «No, no.» Mi lascio andare anch'io, e finiamo tutti e due a ridacchiare. «Non posso crederci. Che idiota», esclama lei. «Be', se fossi io a dover scegliere un informatore, non sarebbe Jack», le comunico. Se Dana pensa adesso che Jack è un disastro, chissà che cosa succederà quando lo metterà sul banco dei testimoni. Davanti a una giuria, Jack possiede probabilmente la stessa credibilità di una gelatina: un continuo tremolio e una trasparenza assoluta. «Capirai che non posso né confermare né negare», spiega Dana. Ha già confermato, ma le dico che capisco. «Oltre a te, chi sospetta?» «Qualche giornalista ritiene che sia al centro di un'inchiesta. Sono appostati proprio dietro l'angolo», la informo. Lei mi guarda, ed è ovvio che si sta chiedendo per quanto tempo riuscirò a mantenere il segreto. «Da quanto va avanti?» la incalzo. «Jack è una pedina delle vostre indagini.» «È molto imbarazzante. Mi hai messa in una situazione difficile», mor-
mora. «Chi poteva immaginare che sua moglie venisse assassinata nel mezzo dell'inchiesta?» «Guarda le cose dal mio punto di vista. L'amico è sposato alla vittima. È uno dei vostri protagonisti. Probabilmente potrei ottenere l'autorizzazione a farlo testimoniare sulla vostra indagine, ma sarebbe più facile per tutti e due se non ci fossi costretto.» «Su quali basi?» «Sulla base del fatto che se Jack veniva usato per fornire prove nell'ambito di una grossa inchiesta federale, è concepibile che sia stato lui il bersaglio di un tentativo d'omicidio, la sera in cui è stata uccisa sua moglie.» «Parli sul serio? Questa è solo un'indagine sui colletti bianchi.» Lo dice come se tutti quei signori fossero la crema dell'aristocrazia. Come se commettessero i loro delitti soltanto con carta e penna, ed esclusivamente in guanti bianchi. «Mi stai dicendo che non si lasciano mai prendere dal panico?» chiedo. «Che non sarebbero capaci di ammazzarsi fra loro per mantenere un segreto?» Lei scuote la testa, incredula. «La giuria avrebbe il diritto di sentirne parlare...» «E tu credi che sia successo questo?» Faccio una smorfia. «Il punto non è che io ci creda o no. Per obbligare Jack a testimoniare devo solo dimostrare che la questione è rilevante. E credo che una Corte ne ammetterebbe la rilevanza.» «Avrei dovuto saperlo. Non era nemmeno capace di accendere e spegnere nei momenti giusti.» Dana sta parlando di Jack e del registratore che aveva addosso. «Metà delle conversazioni sono cose che non volevamo o non ci occorrevano. Telefonate alla lavanderia e al parrucchiere.» «Jack si è arreso in fretta?» chiedo. «È stato il primo pesce a cadere nella nostra rete. Così ha concluso un buon affare.» «E lasciami indovinare... Lo avete torchiato per bene?» «È crollato come un castello di carte. Ci ha raccontato cose che non avremmo mai scoperto nel corso di due vite. E quando ha ceduto, si è messo a piangere come un bambino. Aveva problemi personali, a quanto pare...» Inarco un sopracciglio. «Problemi coniugali. Quasi mi sono sentita triste per lui.» «E questo come lo sai?» «Non posso aggiungere altro. Finché non sarò autorizzata», mi risponde.
«Ho la tua parola che non ne farai parola con nessuno prima che io abbia parlato coi miei superiori?» «Non m'interessa salvare le chiappe di Jack. Però devo sapere che cosa bolle in pentola.» «Ho la tua parola?» Annuisco. «Forse possiamo collaborare. Chiudere in fretta la nostra inchiesta, prima che si arrivi al processo», dice lei. «Se riusciamo a formulare capi d'accusa circostanziati, non c'importa che salti la copertura di Vega... Possiamo vederci domani sera? Avrò il tempo di parlare coi miei superiori.» «Come preferisci.» A me sta benissimo. Al diavolo Jack. Per quello che me ne importa, possono prendere il suo culo e cuocerlo a fuoco lento. Io voglio solo sapere che tipo di pressioni esercitassero su di lui. A questo punto, ho due teorie su ciò che potrebbe essere accaduto quella sera, e a Dana ne ho esposta una sola. 9. «La Resolution Trust Corporation», dice Harry. «Che cosa?» «L'RTC. L'ente governativo che è andato in soccorso delle casse di risparmio finite in bancarotta.» Harry è al volante della sua auto. Io gli sono seduto al fianco. Mi sta rivelando chi detiene l'ipoteca sulla casa di Harry e Kathy Merlow. Con l'agenzia immobiliare si è trovato in un vicolo cieco. «E l'agente non ha mai sentito parlare di George o Kathy Merlow. L'atto di acquisizione della casa è stato firmato da un fesso dell'RTC. La casa faceva parte del patrimonio immobiliare che l'ente ha rilevato dalle casse di risparmio fallite», spiega. Stando a Harry, la casa dei Merlow langue da un po' di tempo sull'elenco delle proprietà invendute dell'RTC. «E come mai i Merlow sono finiti ad abitare lì?» «E chi lo sa?» risponde lui. «L'agente immobiliare pensa che probabilmente sia stata affittata. Dice che non sarebbe insolito. Dice che gli enti pubblici lo fanno spesso, mentre cercano di vendere proprietà immobiliari. Così recuperano le spese.» «E adesso che facciamo?» lo interrogo.
«Ho chiamato l'RTC», ribatte lui. «Ho lasciato un messaggio sulla loro segreteria telefonica. Probabilmente ci richiameranno nella prossima vita.» Nel frattempo, mi sta accompagnando al vecchio ufficio postale in centro, il posto dove, a detta dei vicini, lavorava Kathy Merlow. «Però adesso non ci lavora più», puntualizza Harry. Ha parlato con un direttore. «Non la vedono da quasi un mese. Non ne hanno più saputo niente. Un giorno non si è presentata in ufficio, e da allora non è più tornata.» «Fammi indovinare. Subito dopo l'omicidio di Melanie Vega?» «Il giorno dopo», ammette Harry. Kathy Merlow è svanita come uno spettro. Non so di preciso che cosa speriamo di trovare all'ufficio postale, ma Harry pensa che valga la pena di dare un'occhiata. Ha preso un appuntamento. «E George Merlow?» chiedo. «Se lavorava, lo faceva in casa. I vicini dicono di non averlo mai visto uscire, se non in rarissime occasioni... Come fosse un recluso.» «Quella casa è un posticino piuttosto costoso, per un tizio senza lavoro con una moglie impiegata all'ufficio postale», rifletto. «Forse staccava cedole», ipotizza Harry. «Aveva un grosso portfolio di azioni.» «E sua moglie aveva bisogno di lavorare all'ufficio postale? Non ha senso.» «Forse, col governo come padrone di casa, l'affitto non era alto... Non ti aspetterai che applichino le tariffe di mercato, eh?» Harry sogghigna alla semplice idea di un atto razionale da parte di un ente governativo. Tanti «forse», ma risposte logiche zero. Accostiamo e parcheggiamo davanti a un parchimetro. Harry infila tre quarti di dollaro e guarda la lancetta del timer che si sposta a stento. Mi chiede moneta. Gli passo altri due quarti di dollaro. «Dovremo fare in fretta», dichiara. Saliamo le scale, entriamo dalla massiccia porta in bronzo. Il vecchio ufficio postale è uno di quegli edifici che risalgono agli anni '30, all'epoca delle iniziative statali per la ripresa economica, quando solo il governo aveva soldi e gli stipendi medi erano all'incirca quelli degli schiavi che hanno costruito le piramidi. Buio, con tocchi artistici datati e più marmo di un mausoleo, è oggi una tomba per gli oscuri burocrati che sgobbano qui.
Saliamo al primo piano in ascensore. Harry sta leggendo un foglietto, l'appunto col nome di un tizio e il numero di una stanza. Trova il numero 224 -, una porta con una finestra semitrasparente, chili di fil di ferro ingabbiati nel vetro, e un'architrave in alto. La porta ha l'aria di non essere mai stata aperta dagli anni '40. È troppo buio per capire se da allora abbiano ridipinto il corridoio, ma io propenderei per il no, a giudicare dal lerciume delle pareti. Harry apre la porta ed entriamo. La stanza è immensa, e per la maggior parte vuota. Ci sono due scrivanie di metallo, una delle quali abbandonata a se stessa. All'altra siede un nero magro, con baffetti sottili, sulla cinquantina. Capelli grigi a spazzola. Solleva la testa e ci guarda. «Cerchiamo il signor Goldbloom», dice Harry. «Lo avete trovato.» Il tizio si alza, e Harry fa le presentazioni. «Oh, sì. Avete telefonato. Avvocati», riflette il tizio. «Per un caso.» Harry dà il suo biglietto da visita al tizio e ne prende uno da una scatoletta sulla scrivania. Carta riciclata dal governo, il tono grigiastro del cartone: CYRIL GOLDBLOOM, ISPETTORE POSTALE. Harry ha un fiuto speciale per gli sbirri. «Di che si tratta?» chiede il tizio. Harry gli rinfresca le idee, gli ricorda la conversazione telefonica. «Ah, già. Lei ha chiamato stamattina. Un caso penale. State cercando uno dei nostri impiegati. Una questione personale», dice il signor Goldbloom. Sollievo sulla sua faccia. Ha trovato la casella giusta per il nostro problema. Torna a sedere alla scrivania e ci fa cenno di accomodarci. Io scelgo una sedia sull'altro lato rispetto a lui. Harry decide di appoggiare una chiappa sulla scrivania vuota e guardare da lì. Goldbloom apre un cassetto in alto e tira fuori un modulo, stampato a caratteri più piccoli di quelli per le Bibbie tascabili. «Nome dell'impiegato?» chiede. Bisognerà seguire la prassi burocratica. Harry mi guarda. So che sta pensando insulti. «Kathy Merlow», rispondo. «Esatto. Ricordo», annuisce Goldbloom. Scrive il nome sullo spazio in cima al foglio. Poi trascrive nome, indirizzo, e numero di telefono di Harry dal biglietto da visita, in un altro piccolo spazio. «Scopo della richiesta d'informazioni?» chiede. Guardo Harry, scrollo le spalle. «Indagine legale», rispondo.
«I vostri rapporti con l'impiegata?» Goldbloom guarda me, poi Harry. «Siamo estranei», dico. «Hmm.» A quanto pare, non esiste un quadratino con l'intestazione ESTRANEI. Goldbloom medita sulla cosa per diversi secondi, e alla fine scarabocchia un appunto in fondo al modulo. Ha una dozzina di altre domande, quasi tutte idiote. Poi alza la testa. Fatto. «Provvederemo», annuncia. «Come le ho spiegato quando ha telefonato...» Sta guardando Harry. «La signora Merlow non lavora più qui. Controlleremo nella sua cartella personale per vedere se esistano informazioni che siamo liberi di comunicare.» «Non possiamo vedere la cartella?» chiede Harry. «No. No. Personale e confidenziale», s'indigna Goldbloom. «Leggi federali. Potrebbe contenere chissà che cosa.» Proprio quello che sperava Harry. «Che può dirci?» chiedo. «Più o meno, nient'altro.» «Che incarico aveva? Questo dovrebbe potercelo spiegare», insiste Harry. Goldbloom fa una smorfia, riflette. Forse l'idea di dare informazioni a due cittadini è assolutamente contraria ai dettami del buonsenso. Poi apre uno dei cassetti in basso della scrivania ed estrae un fascio di fogli dattiloscritti, tenuti insieme da una graffetta nell'angolo in alto a sinistra. È un elenco telefonico per uso interno, per permettere agli impiegati di comunicare fra loro. Sfoglia qualche pagina. «Ecco qua. Kathy Merlow. Rapporti col pubblico», dice. «Sarebbe?» «Lamentele, disservizi. Cose del genere.» «È stata trasferita da un altro ufficio postale?» «Questo non lo so.» «È rimasta in città solo poco tempo.» «Non saprei.» «Lavorava in questo edificio?» «Già. A pianterreno», risponde Goldbloom. «Di più proprio non posso dirvi.» «Quanto ci vorrà per avere una risposta?» chiede Harry. «A quel modulo, intendo. Magari avere il nuovo indirizzo della signora Merlow.» Goldbloom fa un'altra smorfia. «Potrebbe passare un po' di tempo. Biso-
gnerà inoltrarlo alla direzione. Dovrà occuparsene il direttore dell'ufficio personale.» «Quindi potremmo morire di vecchiaia...» grugnisce Harry. Goldbloom ride. Passa tutto il giorno a fissare quattro pareti scalcinate. La sua soglia di umorismo è bassa. Harry si sta surriscaldando. «Se fossimo della polizia, lei ci mostrerebbe la cartella della Merlow oggi stesso, non è vero?» «La cosa sarebbe diversa», ammette Goldbloom. «Sa, un'indagine ufficiale...» Lo interrompo. «Un'ingiunzione della Corte servirebbe a qualcosa?» «Oh, certo. A quel punto, saremmo liberi di mostrarvi la cartella.» Goldbloom ci sorride. «Un'ingiunzione della Corte è una delle eccezioni previste dalla legge. Mi piacerebbe aiutarvi, ma ho le mani legate.» Corruga le sopracciglia scure. «Come no», sfotte Harry. Lo salutiamo e usciamo. Siamo a metà strada dall'ascensore. «Otterremo un'ingiunzione», dico a Harry. Lui ha un'idea migliore. Scendiamo, usciamo dall'ascensore, ma Harry non si dirige all'auto. Mi metto a seguirlo in strada, lungo la facciata dell'edificio, che occupa mezzo isolato. Sul retro c'è un vicolo che taglia in due l'isolato. Parte in discesa dalla Settima e interseca l'Ottava sul lato opposto rispetto a noi. Nel punto più basso del vicolo c'è una piattaforma di carico, con diversi furgoni postali parcheggiati. «Nessuna legge proibisce di parlare», mi catechizza Harry. Percorriamo il vicolo e saliamo sulla piattaforma prima che io possa dire una parola. Un paio di scaricatori stanno sistemando la posta sui furgoni. C'ignorano, forse sperano che ce ne andiamo: cittadini incazzati in cerca di corrispondenza perduta. Harry si avvicina a uno dei due. «Siamo qui per prendere un pacco», dice. «Lo sportello a pianterreno, sul davanti del palazzo», risponde il tizio. Non lo guarda nemmeno. A schiena girata, continua a caricare le sue casse di lettere. Getta i mucchi di corrispondenza all'interno del furgone come un beduino che butti sterco di cammello sul fuoco. «Ci hanno detto di venire qui. È un pacco grosso», insiste Harry. «Tempo fa ci ha telefonato Kathy Merlow. Mi pare che una sua amica, adesso non ricordo il nome, lo tenga pronto per noi. Potrebbe controllare?»
Il tizio si decide a girarsi. Concede a Harry un'occhiata e il sospiro tipico del dipendente pubblico. Si capisce benissimo che cosa gli passa per la testa. E che cos'è, una crisi mondiale, una calamità nazionale? Un pacco perso all'ufficio postale... «Mi dia un minuto», concede. Carica altre due casse sul furgone, svuota il piccolo carrello, e si avvia verso il palazzo, in cerca di un altro carico. Harry gli si mette alle calcagna. Il tizio si gira. «Aspetti qui.» Gela Harry con un'occhiata. Poi, da una porta oscillante, scompare nell'edificio. Harry mi lancia un sorriso demoniaco. Anche nel breve tempo trascorso a lavorare qui, Kathy Merlow deve essersi fatta almeno un'amica, qualcuno che il tizio possa avvertire e che venga a vedere chi sta raccontando balle sul suo conto. Passano un paio di minuti. Harry e io ammazziamo il tempo sulla piattaforma, schiviamo altri scaricatori con scatole colme di posta. Sono felicissimi d'ignorarci, se noi facciamo lo stesso con loro. Alla fine il nostro tizio esce. Mi sembra solo. Poi la vedo: una donna, o meglio una ragazza, persa nell'ombra dell'uomo. Potrebbe avere dai sedici ai ventidue anni. Più che snella è macilenta. Porta una camicia azzurra dell'Amministrazione Postale larga di una misura. Le falde escono dai calzoni neri, arrivano quasi alle scarpe da tennis bianche. I capelli color topo formano due codini che sprizzano ai lati della testa ed esplodono in un mare di ciocche appena sotto gli elastici. In un mondo razionale, qualcuno potrebbe rompere le scatole all'Amministrazione Postale per violazione delle leggi sul lavoro dei minori. Ha una carnagione pallida costellata di poche lentiggini, e tutte le sue speranze di seduzione si concentrano negli occhi castani, enormi, che sembrano appartenere a qualcun altro. Ha l'aria di un monello uscito da un racconto di Dickens che finisce male. Ma mi basta darle un'occhiata e so, da quello che ricordo di Kathy Merlow, che spunti da dove spunti, dall'inferno o dalle viscere di un ufficio postale, questa donna è l'anima gemella della Merlow. «Cercate Kathy?» chiede. Harry annuisce. «Non lavora più qui.» «Conosceva Kathy Merlow?» dice Harry. La donna gli lancia uno sguardo cauto. «Che volete?» «Vorremmo trovare la signora Merlow», spiega Harry.
«Lui dice che cercavate un pacco.» La ragazza sta guardando lo scaricatore, che è tornato al suo lavoro. «Abbiamo bisogno di parlare con la signora Merlow.» Harry ammorbidisce il tono, come se stesse chiedendo informazioni a un bambino. «Pare che tutti vogliano trovare Kathy», sbuffa lei. «Chi altri è venuto a cercarla?» fa Harry. Lei lo guarda ma non risponde. Mi faccio avanti e do alla ragazza il mio biglietto da visita. Lei lo studia per diversi secondi. «Siamo avvocati», la informo. «Vorremmo parlare col signore e la signora Merlow per un caso di cui ci stiamo occupando. Riteniamo possibile che siano testimoni importanti.» «Hanno fatto qualcosa di male?» «No. No. Vorremmo solo parlare con loro.» «Non posso aiutarvi. Non so dove sia Kathy.» Lei fa per allontanarsi. «Signora.» Si volta. «È molto importante. La vita di una donna potrebbe dipendere da questo.» Per un attimo punta su di me i grandi occhi castani. «Una madre con due figli.» Do un altro giro di vite. Lei guarda lo scaricatore, che al momento non ci presta alcuna attenzione. Si avvicina di un passo. «E in che modo Kathy potrebbe salvare una vita?» chiede. «È un processo per omicidio. Noi rappresentiamo...» «Marcie!» Una voce tuonante, dalla porta alle spalle della ragazza. Lei, già così piccola, sembra raggrinzirsi su se stessa. Sulla porta è apparso un uomo, sui trentacinque anni: cravatta, camicia bianca con le maniche arrotolate sui gomiti, capelli a spazzola, l'aria del dirigente nello sguardo. «Sei in pausa?» chiede. La ragazza si gira. «No, signore.» «Allora dovresti essere a smistare la posta», grida l'uomo. «Ne abbiamo discusso all'ultima valutazione dei tuoi risultati... C'è bisogno di ricominciare da capo tutta la discussione? Guarda che lo metto nei tuoi dati personali. Insomma, devo ricordarti che sei in prova. Un altro rapporto insoddisfacente, e sei sulla strada. Te l'ho detto. Ti ho avvertita.» La ragazza, Marcie, adesso sta tremando, anche se non riesco a capire se per rabbia o per paura.
«Sono soltanto uscita un attimo», spiega. La sua voce è più salda. «Vuoi metterti a discutere o vuoi avere un lavoro? Se vuoi discutere, puoi farlo da là, dalla strada», sibila l'uomo, e indica il marciapiede. La ragazza rimane muta, impietrita. Dà la schiena all'uomo, e sillaba una parola che noi possiamo leggere sulle sue labbra: «Stronzo». «Allora, che cosa decidi?» chiede l'uomo. Marcie dà l'idea di poter sgusciare tra porta e telaio, talmente è piccola, ma ha qualche difficoltà a superare l'uomo. E lui non si sposta di un millimetro per lasciarla passare. La costringe a girargli intorno. Mentre lei lo aggira, lui scuote la testa, con le mani sui fianchi. Potrebbe essere il signore di Tara incazzato con un inetto bracciante di colore. Gli mancano solo il cappello a tesa larga e la frusta. Prima che io possa aggiungere una parola, Marcie scompare dietro la porta. Un'occasione d'oro svanita. Adesso il tizio in maniche di camicia sta lì a fissare me, però l'atteggiamento è diverso, più morbido. Ha a che fare col pubblico, con qualcuno che non si lascerà intimorire così facilmente. «Che ci fanno qui lorsignori? Quest'area è proibita al pubblico», annuncia. Harry si sta mettendo in posizione, come se volesse strappare all'uomo qualche parte anatomica superflua. Sul suo viso, leggo la solidarietà con la classe lavoratrice, i prodromi di un assalto ai bastioni della classe dirigente. Lo prendo per il braccio. «Un'altra volta», gli mormoro. Harry ringhia di gola, come un bastardo suonato che stia per azzannare le chiappe di qualcuno. Giurerei che c'è un po' di bava all'angolo delle sue labbra. Prima che cominciamo a scendere nel vicolo, il tizio si mette a rompere le palle allo scaricatore. «Ma perché cazzo li hai lasciati salire qui?» strepita. «Secondo te, perché abbiamo dei regolamenti? Se non ce la fai da solo, chiama la sicurezza. Quante volte ve lo devo ripetere? Ve ne parlo, ve ne riparlo, ve ne straparlo, e voialtri non state mai a sentire.» È più piccolo dello scaricatore. Lo guarda sul mento, gli urla all'altezza della gola. Gli dà in pubblico una lavata di capo che non si darebbe nemmeno a un bambino sorpreso a rubare in un negozio. Lo scaricatore ha nello sguardo la voglia di fare a pezzi quel figlio di puttana. L'unica cosa che lo trattiene è la necessità di sfamare la famiglia,
all'interno di quella che gli eufemismi politici definiscono «un'economia ridimensionata». Scesi gli scalini di cemento della piattaforma, siamo nel vicolo, e io sento ancora il tizio sbraitare, dare una bella lezione allo scaricatore, al killer in potenza. «Che stronzo», borbotta Harry. «La ragazza sa qualcosa», ribatto. «Sa dov'è Kathy Merlow.» Lui mi guarda. «Come fai a saperlo?» «Voleva parlare. L'ho fiutato. Quando le ho detto che era in pericolo la vita di una donna, si è ammorbidita. Stava per caderci fra le braccia. Un attimo prima che spuntasse Mister Negriero.» «Forse potremmo guardare sulla lista di Goldbloom, cercare il nome di Marcie», s'infervora lui. «Telefonarle.» «E riempire un modulo?» gli chiedo. «Troveremo un altro modo per farla parlare. Torneremo dopo l'orario di lavoro, se sarà necessario.» «La situazione solleva un'altra domanda», fa Harry. «Secondo te, chi sta cercando Kathy Merlow, oltre a noi?» «Tiro a indovinare? Probabilmente Jimmy Lama.» Harry afferra il concetto. Se Jimmy ha fatto il giro del vicinato come noi, la casa vuota dei Merlow non può essergli sfuggita. «È logico che controlli dove Kathy lavorava. Lama e i suoi tirapiedi avranno radunato tutti gli impiegati e fatto il terzo grado. Un punto a nostro favore», lo informo. «Se davvero è stata la polizia a chiedere informazioni. Marcie è amica di Kathy Merlow. Se pensa che Kathy sia in pericolo, secondo te ha parlato?» Harry scuote la testa come un prete di paese che si senta chiedere se il diavolo va in paradiso. «Ecco che cosa penso», concludo. Un sorriso reciproco, a trecentosessanta gradi. Siamo all'angolo quando vedo la faccia di Harry diventare prima cupa, poi furibonda. «Merda.» È l'unica cosa che dice. La vigilessa sta scrivendo una multa per Harry. «Ricatto, frode postale, ed estorsione», elenca lei. «Sei capi d'accusa. Due mesi fa, dopo la contestazione segreta, ha chiesto il patteggiamento.» Dana Colby riassume con queste parole gli elementi che il ministero della Giustizia ha a carico di Jack Vega.
Fischietto sottovoce. Per cose del genere potrebbe farsi una dozzina d'anni di galera. Senza dubbio, si tratta di attività che Jack raggrupperebbe sotto il termine «raccolta di fondi». «Il signor Vega è un po'... maleducato, in fatto di soldi», dice lei. Conoscendo Jack e la sua capacità di attirare l'attenzione, probabilmente si è portato in giro per il Campidoglio gruppi di gente con la grana, minacciando il patibolo di nuove tasse se non gli avessero sganciato qualcosa per le sue spesucce. Sono quasi le sette e mezzo di sera. Mi trovo a casa di Dana, a due isolati dalla villa di Jack. È stata Dana a scegliere questo posto per l'incontro. Vederci nel suo ufficio, ha sostenuto, avrebbe sollevato domande. Ha parlato coi suoi boss ed è stata autorizzata a riferirmi alcune cose. «Allora adesso Jack sta facendo il suo dovere civico», commento. Cioè sta fregando i suoi amici del Campidoglio che non sospettano niente. «Aveva qualcosa da offrire. E a noi interessava», spiega lei. «Siediti. Un caffè?» «Grazie.» Mi accomodo sul divano del soggiorno. Da questa posizione, posso vedere lei in cucina mentre parliamo. Dana non si è ancora cambiata dopo il rientro dal lavoro. Camicia bianca, gonna di lana grigia a righine, con l'orlo appena sopra il ginocchio. L'abbigliamento delle donne avvocato eleganti. La gonna, stretta, aderisce alle sue forme. Lei cammina a piedi nudi. Si è tolta le scarpe, le ha abbandonate davanti a una sedia del soggiorno. «Gli abbiamo offerto diciotto mesi a Lompoc», dice. «E una multa di un quarto di milione di dollari.» Il che, senza dubbio, farà abbassare un po' la cresta a Jack. E anche se sconterà la condanna in uno dei country club federali, il posto dove i re delle obbligazioni spazzatura fanno i muscoli, si lasciano crescere la barba, trovano Dio, e scoprono nuove dimensioni etiche, sarà pur sempre in un penitenziario. Quando uscirà, non potrà fare il lobbista a Washington. La cosa per la quale Jack vive, il potere, gli sarà stata prosciugata dalle ossa. Si trasformerà nella batteria scarica di un giocattolo scartato. Per un uomo come Jack, incapace di fare un vero lavoro, questo deve essere il primo passo sulla strada di una carriera da senzatetto. Un uomo che, all'improvviso, si trova sottoposto a un'enorme tensione, con qualcuno che gli stira a vapore la psiche. «I suoi avvocati hanno mirato in alto», commenta Dana. «Fedina penale immacolata. Un uomo con famiglia. Una lunga e onorata carriera pubbli-
ca.» «Lunga, glielo concedo», dico. «E figli», insiste lei. Di colpo, la frenesia di Jack di ottenere l'affidamento dei figli acquista un senso. I ragazzi erano una barriera difensiva, uno scudo da alzare davanti a un giudice comprensivo. Non hanno un posto dove andare. Hanno bisogno di un padre. «Dovrà darvi in cambio qualcosa di grosso.» «Alcuni membri del corpo legislativo», rivela Dana. Non fa nomi, ma dal tono sono certo che si tratti di politici d'alto bordo. «E qualche lobbista», aggiunge. Parla come se fosse una partita di scacchi. Il mio cavallo in cambio del tuo alfiere. Torna col caffè, due tazzine, e un piatto di biscotti. Mi passa la tazzina, offre i biscotti, e ne prendo uno. Stasera salto la cena. Poi si accoccola sul divano, con le gambe raggomitolate sotto di sé. Siamo alle due estremità, e a separarci c'è un unico cuscino. La sua gonna è un po' risalita, e così adesso, oltre al caffè e ai biscotti, mi godo una buona porzione di coscia. Dana si accorge che sto guardando, ma non si sistema la gonna; mi lancia invece quell'occhiata astuta che riesce tanto bene a certe donne, quando sanno di essere il bersaglio di sguardi avidi, però non hanno nulla in contrario. «Un accordo piuttosto buono. Per Jack, intendo. Con quelle accuse, se le prove erano solide...» «Come l'acciaio», m'interrompe lei. «Lo avevamo su videocassetta, mentre sollecitava e accettava tangenti. Comunque, non si è arreso. Sta ancora patteggiando.» La guardo. Un punto di domanda negli occhi. «I suoi avvocati sostengono che l'omicidio della moglie e l'assenza di genitori per i figli cambiano radicalmente la sua posizione. Mirano alla libertà vigilata, insomma. Un'altra udienza davanti alla Corte.» Una cosa è certa. Anche se lei non lo sa ancora, il nome di Dana Colby apparirà sul mio elenco di testimoni per la difesa. «Non mi pare che tu voglia dare battaglia su questo punto.» «Era un elemento di corruzione. Avvelenava il sistema», fa lei. «Che sconti un periodo di detenzione o no, lo abbiamo estirpato come un cancro. I termini dell'eventuale libertà vigilata saranno lunghi e severi. Nessuna attività di lobby, interdizione dai pubblici uffici. A volte non si può fare di più. Ci si accontenta di quello che si può avere. A ogni modo, abbiamo ottenuto quello che volevamo. La collaborazione di Vega, la sua neutralizza-
zione. La sua testimonianza contro altre persone più corrotte.» Non credo esista un simile animale. E Dana è notevolmente sulla difensiva. Mi chiedo se non ci siano altri motivi che li spingano a concedere la libertà di movimento a Jack, qualcosa che lei non mi dice. Un altro accordo che l'abbia convinta a richiamare i cani. In ogni caso, questo è il Jack che io conosco. Il re dei re, anche nelle fauci della giustizia. Una tragedia in famiglia, e Jack non perde un colpo. I suoi avvocati sono sempre in cerca del filone d'oro, e pare che lo abbiano trovato. «Quanto manca alla chiusura del caso?» chiedo. «Fra quanto Jack smetterà di lavorare per voi e si passerà alle imputazioni?» «Ahh. Cose del genere richiedono tempo», sospira. «Qualche settimana, forse un mese. Magari un po' di più.» Sarebbe più facile ottenere la collaborazione dei federali, rendere di dominio pubblico le informazioni sulle attività criminose di Jack ed evitare una disastrosa battaglia con le autorità federali, se loro potessero chiudere il caso in fretta e passare alle imputazioni. Il che getterebbe anche una nuova luce sul vedovo in lacrime, e forse renderebbe un po' meno acido l'accanimento della pubblica accusa contro Laurel. Dopo tutto, la vittima viveva, come minimo, con un delinquente. Mi chiedo quanto sapesse Melanie. La tattica preferita della difesa: fare il processo alla vittima. «Indubbiamente, l'omicidio della moglie rappresenta una complicazione», ammette Dana. «Però non sono certa che si possa vedere un rapporto tra le due cose, la nostra indagine e la morte della signora Vega.» In questo momento, negli occhi di Dana ci sono più domande che risposte. Vuole sapere se io ho in mano qualcosa che colleghi l'omicidio ai problemi di Jack coi federali. «Questo solleva una domanda», dico. «Cioè?» «Mi avresti parlato della posizione di Jack, se io non fossi inciampato nel suo microfono?» Lei sorride. Piccole rughe agli angoli della bocca. «Probabilmente no. Non avremmo visto alcun rapporto con l'omicidio. Nessun elemento sospetto... A meno che tu non sappia qualcosa che noi non sappiamo.» La mia faccia è di pietra. «Non penserai sul serio che quella sera qualcuno abbia tentato di ucciderlo per chiudergli la bocca?»
Io sono tutto smorfie e scrollate di spalle. «Parlami dei suoi problemi coniugali», la invito. Lei mi guarda da dietro l'orlo della tazzina. «L'altra sera, a cena, mi hai detto che, oltre a tutto il resto, al di là di quello in cui state affondando le mani voi, Jack aveva problemi coniugali.» Lei sorseggia il caffè. «Hmm. Ah... Non vorrei sembrarti offensiva. So che è il tuo ex cognato eccetera eccetera.» «Puoi mettere l'accento sull'ex», la informo. «Immagino che se sua moglie andava a letto con altri uomini avesse le sue buone ragioni», dice Dana. «Non mi sembri una fan di Jack.» «Faccio una doccia calda con molto sapone tutte le volte che mi capita di avere a che fare con lui.» Mi spiega che non si tratta solo delle propensioni di Jack alla corruzione. «Quando ti guarda è come se stesse avendo un rapporto sessuale ottico con te», precisa. «E non parlo di occhiate distratte. Si tuffa su tutto il possibile. Uno strappo nel vestito, le gambe un po' aperte... E non si limita agli sguardi.» «Non me n'ero mai accorto», mento. «Non sei una donna», mi spiega lei. Non mi riesce difficile credere che Jack, dopo aver conosciuto Dana, abbia sviluppato occhi capaci di fottere. «Melanie se la faceva con qualcun altro?» «Più probabilmente con chiunque altro», puntualizza. Un lungo sospiro, come non fosse certa di dover andare a fondo della questione. Poi mi guarda. «Da me non hai saputo niente», dice. Si sporge sull'abisso tra divano e tavolino e mette giù la sua tazza. Piccole zone di tessuto si aprono sulla sua camicia, e io vedo sotto una grande quantità di pizzo, poi distolgo gli occhi. La maledizione dei sensi di colpa maschili. Adesso Dana ha di nuovo la schiena appoggiata al divano. Io cerco il contatto col suo sguardo, per impedire ai miei occhi di vagabondare. «Ci ha permesso di mettere sotto controllo il telefono di casa sua. Non credo che la moglie lo sapesse.» «L'hai sentita parlare con altri uomini?» «Io no. Però l'hanno sentita gli agenti che se ne occupavano. Incontri fuori casa, e alcuni anche in casa.» «Vega lo sapeva?»
Lei annuisce. «Come potete esserne sicuri?» «Ha combinato pasticci incredibili col registratore che aveva addosso», spiega. «Lo lasciava acceso per ore. Si dimenticava di spegnerlo. E per due volte, quando ci sono state conversazioni importanti, ha dimenticato di accenderlo. Lo sappiamo, perché abbiamo quei tizi filmati su nastro nel suo ufficio.» L'idea di quei nastri, film muti, immagini senza parole, per qualche motivo mi raggela. Prendo un appunto mentale: non mettere mai più piede nell'ufficio di Jack. «Abbiamo dovuto rimandarlo indietro», continua Dana. «È stato terribile. È tornato nell'ufficio di qualcun altro a fare la figura del demente. Ha raccontato di aver dimenticato quello che avevano discusso dieci minuti prima, i contributi da versare, e quale fosse la proposta di legge da far passare. Ma ci pensi? Praticamente è stato come invitare l'altro a parlare nel microfono che aveva addosso.» «E scommetto che il tizio ha ripetuto tutto.» «Oh, sì.» Dana ha gli occhi sgranati. Il suo viso è colmo d'incredulità. «Quella gente crede nel concetto di fiducia», chiosa. E perché no? mi chiedo. Parlavano con Jack Vega, il santo patrono della corruzione politica. Chi è più sporco di Jack? «A Vega era impossibile nasconderci un segreto. Anche cose che non volevamo sapere.» «Così sospettava che sua moglie avesse una relazione? Lo ha detto?» «Come minimo due volte. Una volta a una delle sue assistenti. Una ragazza. È stato orribile... Vega si è esibito in una recita strappalacrime, registrata in audio e in video. Ha pianto su una spalla accogliente. La ragazza aveva poco più di vent'anni, non sapeva che fare. Quell'uomo che le singhiozzava addosso, tenendole le braccia al collo. Non ho capito se Jack facesse sul serio o se fosse solo una scusa per infilarsi nelle mutande della ragazza.» Conoscendo Jack, posso trarre le mie conclusioni. Ha sempre agito in base a due pesi e due misure. Se una donna respira, Jack è pronto a scoparsela. Ma basta che Melanie esca con un altro uomo, e non ci vuole molto a immaginare Jack pronto praticamente a tutto. «E un'altra volta ne ha parlato al telefono con qualcuno», prosegue Dana. «Non sappiamo chi. Una conversazione molto criptica.» «Sapete esattamente di che cosa abbiano parlato?»
Lei scuote la testa. «Avete i nastri?» «Li avevamo. Non so se li abbiamo tenuti. La nostra politica è sbarazzarci di tutto ciò che non è rilevante.» «Potresti controllare?» «È importante?» «Potrebbe esserlo.» Mi guarda con espressione intensa. Ruote che girano dentro altre ruote, poi si bloccano, si fermano. La slot machine regala un piatto ricco: l'illuminazione. «Pensi che abbia ucciso sua moglie», esclama Dana. «Sto prendendo in considerazione la possibilità.» 10. Harry e io stiamo andando in carcere per un incontro con Laurel. Ci facciamo a piedi i sette isolati. È più semplice che cercare un parcheggio. «Sei sicuro che dietro non ci sia solo un po' di veleno di famiglia?» mi chiede. Sta parlando della mia teoria che possa essere stato Jack a uccidere Melanie. È tutta notte che batto questa grancassa nella mia testa, anche durante il sonno. «Non fraintendermi. Sarei felicissimo di fottere quello stronzo», mi rassicura. Il fatto che Vega sia un politico per Harry è sufficiente. Il fatto che sia sporco, per Harry, rientra semplicemente nelle qualifiche professionali. «Ammetterò di nutrire una certa animosità», replico. «Però ci sono cose che non ti ho detto.» «Per esempio?» «Per esempio il fatto che Jack ha mentito alla polizia, la notte dell'omicidio.» Mi giro a guardare. Harry mi sta dietro di mezzo passo. Ho stuzzicato la sua curiosità, e mi raggiunge. «Ha detto di non avere mai posseduto una pistola. Era una bugia. Da cretini. Ma Jack è fatto così... Domanda e risposta sono nel rapporto della polizia.» «Ha una pistola?» «Come minimo l'ha avuta in passato. Nel suo ufficio, su una credenza dietro la scrivania, ci sono tre trofei. Chili di marmo e cromature. Se guar-
di bene, vedrai che sono per gare di tiro al bersaglio. Con la pistola. Sai, uno di quei tornei parlamentari dove i lobbisti e le persone che li pagano lasciano vincere i politici.» Jack era un vero fanatico di armi da fuoco. Ha visitato le grandi mostremercato nazionali, con viaggetti a spese dello Stato: una volta a Dallas, un'altra a Miami. Ha ricevuto trofei solo per il fatto di esserci andato. Ha ricevuto anche una pistola placcata al nickel, con la custodia in noce e un sacco d'incisioni decorative. Dono di un produttore d'armi. In segno di riconoscenza per il voto contro una proposta di legge per limitare la vendita delle armi. Qualche anno fa l'ha mostrata all'intera famiglia, facendola piroettare intorno all'indice. «Una semiautomatica», dico a Harry. «Nove millimetri.» Harry fischia. «Gli sbirri hanno passato casa sua al setaccio. Non l'hanno trovata. Pensi che l'abbia usata e poi se ne sia sbarazzato?» È uno scenario possibile, ma nei miei fondi del tè leggo altre cose. «Quello che mi turba in questa teoria», proseguo, «è che non riesco a concepire Jack come assassino. Non fraintendermi. Me lo immagino benissimo a progettare un omicidio, date le motivazioni giuste. Ma eseguirlo è un altro paio di maniche. Non è nello stile di Jack. È il tipo che per un po' si spremerebbe il cervello in cerca di tutte le scuse possibili. Ci penserebbe su. Poi si rivolgerebbe a una persona di fiducia, qualcuno che abbia i rapporti giusti nella malavita per dargli una mano.» «Un delitto passionale per interposta persona», sintetizza Harry. «Passione? Forse. E forse qualcosa di più.» «Ma perché ha mentito sulla pistola? Se Jack ha assoldato qualcuno, mica sarà stata usata la sua pistola.» «Credo che abbia commesso un errore. Probabilmente si è lasciato prendere dal panico. Quando la polizia gli ha chiesto se possedesse una pistola, Jack ha pensato che stessero puntando il mirino su di lui. La coscienza sporca fa commettere stupidaggini. Ha mentito senza un motivo preciso. Non ha riflettuto. Se l'avesse consegnata, ritengo che l'avrebbero controllata e gli esami balistici sarebbero stati negativi. Adesso possiamo incastrarlo per quella bugia.» «Sarebbe meglio per noi se Jack non fosse in grado di consegnare la pistola», commenta Harry. L'idea gli piate; poi avanza una punta di preoccupazione: «Possiamo dimostrare che sapeva della relazione della moglie?» «Se riesco ad avere i nastri da Dana.» «Anche se i federali li hanno distrutti», dice Harry, «potremmo chiamare
in aula l'agente che ha ascoltato le conversazioni. Metterlo sul banco dei testimoni.» «E sperare che abbia buona memoria per i letamai familiari», aggiungo. «Semplici dicerie.» «Forse con qualche possibile eccezione», lo informo. «Stato mentale?» Annuisco. Le testimonianze sullo stato mentale di una persona, su ciò che essa riteneva vero o falso, non sono considerate diceria, se vengono da qualcun altro. Sono ammissibili in aula. «Quello che non sappiamo», insiste Harry, «è se Vega fosse al corrente del fatto che Melanie era incinta. E, se lo era, quando lo abbia scoperto. Potrebbe essere stato quello a mandargli il cervello in tilt. Un catalizzatore per l'omicidio sarebbe un bel regalino per la giuria.» «Può darsi.» Per me, il dato più importante è l'assenza di passione da parte di Jack quando gli è stato rivelato che sua moglie, al momento della morte, era incinta. Mi sarei aspettato che la cosa alimentasse la sua ira e, invece, niente. Era come se lo sapesse già. «Forse Jack è stato più calcolatore», rifletto. «Non dimenticare che i federali lo avevano già incastrato. Dopo di che, scopre che la moglie gli è infedele. Sa che lo attende il carcere. Che gli sarà passato per la mente?» «Che lei non avrebbe fatto la brava mogliettina, che non sarebbe rimasta ad aspettarlo», conclude Harry per me. «Esatto. Così Jack aspetta il momento buono. Elabora un piano. Allunga le zampe sui figli, cerca di ottenere la custodia. Fa incazzare Laurel, la manda su di giri, magari fa qualcosa per dirigere l'odio di Laurel su Melanie. La mia giovane moglie vorrebbe giocare un po' a fare la mamma, così ti prenderemo i figli. Prepara l'ambiente per una litigata in tribunale. Poi fa spedire all'altro mondo Melanie e punta l'indice su Laurel. Laurel finisce al centro dei sospetti. Jack ottiene la custodia dei figli e sfrutta la tragedia dell'omicidio per spingere i federali a ripensare la sua situazione. Voilà. Jack è fuori in libertà vigilata.» «E con una moglie in meno», precisa Harry. «Bisogna ammettere che sa tagliare le spese», dico. «Tu credi che sia così subdolo?» «Conoscendo Jack?» La mia fronte è tutta una ruga. «Però resta qualche domanda in sospeso. Per esempio, che ci faceva Laurel a Reno?» mi chiede Harry. «E come mai era in possesso del tappe-
tino della casa di Jack che stava lavando a Reno?» «Questo ce lo può dire una sola persona.» Dall'esterno somiglia a un hotel elegante del centro, otto piani di cemento curvilineo: il Bastiglia Park Regency, l'ultimo gioiello della contea di Capital, un carcere da sedici milioni di dollari. Ognuno dei sette piani è diviso in sezioni da grandi pareti d'acrilico, spesse parecchi centimetri e alte due piani di una casa normale, da pavimento a soffitto: una struttura trasparente inserita in una griglia d'acciaio. Tutto questo, nell'insieme, dà la sensazione di trovarsi in un acquario senz'acqua. Dietro l'acrilico ci sono le attrazioni: millecinquecento carcerati in un colpo solo. La prigione è stata costruita tre anni fa e sta già scoppiando. La gente incarcerata qui non vive nelle solite celle. Non ci sono sbarre. Dormono dietro porte di solido acciaio, in stanze di un metro e ottanta per tre. Pareti, pavimenti e soffitti sono di cemento; l'aria viene pompata da condotti che sfociano sui soffitti. I condomini di questo posto sono la sabbia nei meccanismi della società, soci fondatori del «club cinque per cento», la minoranza che provoca sempre la maggioranza dei problemi. Molti non sono genietti del crimine. Non posseggono l'intelligenza, le motivazioni interiori o la disciplina per fare bene qualcosa, e men che meno provvedere a tutte le necessità di un crimine riuscito. Le loro vite sono un misto di follia e allegria, a volte in proporzioni letali. Tutti casi tristi, dal primo all'ultimo. L'uomo che ha appiccato un incendio al suo negozio per incassare l'assicurazione e si è dato fuoco come una torcia, e adesso lascia appesi ai manubri della macchina per il sollevamento pesi brandelli di pelle sintetica, come bandierine gialle; il tizio che chiamano il Fantasma dell'Opera, che ha tentato di suicidarsi con un fucile da caccia e non gli è riuscito bene; l'immigrato asiatico così irritato da un arresto per guida in stato d'ubriachezza da esibirsi in un fatale tuffo sul cemento dal terrazzo del secondo piano; il nuotatore che ha sigillato la fessura sotto la porta della cella con una salvietta, ha ingolfato il water e ha continuato a tirare l'acqua, magari perché aveva voglia di fare un giro in canoa; e la sventurata guardia che ha visto la piccola pozzanghera davanti alla porta della cella e ha deciso di aprire la porta. Tutti costoro fanno parte del cast che ha percorso i corridoi di questo posto, la versione locale del nido del cuculo. Mi chiedo se esista un significato recondito nel fatto che Laurel, con una psiche più tesa di una corda di pianoforte, si trovi adesso qui.
Entriamo a due passi dall'area dell'accettazione, che possiede l'efficienza di un mattatoio. Le impronte vengono prese su una lastra di vetro e archiviate in un computer, così si possono stampare tutte le copie che si vogliono da spedire a uffici statali e federali, per controlli incrociati su altri casi. In questo edificio, tutto è monitorato dai computer: i pasti dei detenuti, chi deve presentarsi in tribunale un certo giorno, l'ora di partenza e l'aula, chi ha diritto ai propri abiti e chi deve vestire l'uniforme da carcerato, chi è in isolamento e quanto tempo ci deve restare. Esci dalla possente RAM del computer, e la tua detenzione diventa eterna. Questa macchina è un Dio, un idolo impassibile il cui sguardo è un luminoso schermo azzurro. Nelle poche occasioni in cui si è guastato, questo posto ha messo in scena la propria versione dell'inferno amministrativo. Hanno perquisito le nostre borse e fatto passare Harry e me nel metal detector a pianterreno. Apri la bocca per protestare, e il prezzo d'ingresso può diventare la perquisizione di ogni tua cavità. Gli unici avvocati difensori che godano di una certa fiducia in questo posto sono gli avvocati d'ufficio, che vedono il sole meno di tanti prigionieri. Spesso danno del tu alle guardie, il che non genera eccessivo entusiasmo nei loro clienti. Stamattina siamo diretti ai piani alti, a quelle che le guardie di questo posto chiamano «capsule», un insieme di strutture carcerarie che somigliano alle stive dell'Enterprise, così moderne e così inquietanti. Il carcere è nuovo, per cui tutto è molto pulito; e su queste superfici, occorrerebbe un diamante per incidere le proprie iniziali. L'ascensore ha levigate pareti d'acciaio alle quali nemmeno uno sputo riuscirebbe ad aderire. Una volta entrato, scopri che non ci sono pulsanti per scegliere il piano. Per arrivare a destinazione devi parlare, come stiamo facendo Harry e io, guardando la telecamera montata su un angolo del soffitto, a tre metri e mezzo d'altezza. Dico alla guardia nascosta in una qualche sala di controllo: «Sesto piano». Qualche secondo più tardi la porta si riapre. Un momentaneo sollievo dai prodromi della claustrofobia. Ci aspetta una guardia. Alcuni prigionieri, tutti di sesso femminile su questo lato dell'edificio, fanno ginnastica dietro la parete d'acrilico. Due giocano a ping-pong; altre passeggiano, leggono, o guardano la televisione nella «sala comune», una grande area aperta a un livello leggermente sotto di noi. Sono tenute sotto controllo da guardie che scrutano i monitor della sala controllo. Ci sono telecamere in ogni minimo buco. Con tutto questo, è un monumento all'intel-
ligenza umana il fatto che droga e altri articoli di contrabbando riescano a entrare in un posto del genere. Harry e io siamo come bestiame con gli orecchi punzonati; portiamo tesserini che c'identificano come visitatori. Ci fanno entrare nella stanza per i colloqui con gli avvocati, un ripostiglio di cemento su una pedana al di sopra della sala comune. Laurel ci sta già aspettando. A dividerci c'è una spessa parete di vetro, con microfoni incorporati per poter comunicare. Ha un'espressione speranzosa. Prima che io possa sedermi, sulle sue labbra si forma la frase che è il sogno di libertà di ogni prigioniero: «C'è qualche novità per la cauzione?» Nell'ultimo mese, con istanze separate, abbiamo chiesto la libertà su cauzione tre volte. Indossa blue jeans e una camicia blu. Lo sguardo smarrito mi dice che non ha dormito bene. Laurel è una persona che praticamente vibra di energia fisica e nervosa, che trova difficile restare ferma anche solo per un attimo, che sceglie sempre le scale, mai l'ascensore. Per lei, rimanere chiusa in una cella di un metro e ottanta per tre, senza finestre, deve essere un vero e proprio incubo. Quello che vedo dietro il vetro è un relitto umano che sta lentamente cadendo a pezzi. Devo soffocare le sue speranze. Il nostro ultimo tentativo di ottenere la cauzione è andato a vuoto. In aula, Morgan Cassidy ha giocato sul fatto che Laurel è stata arrestata in un altro Stato. La Corte ha accettato l'idea che la mia cliente possa rappresentare un rischio di fuga. «Potrei riaprire il discorso, se sapessi che cosa facevi a Reno», la informo. È un punto dolente. Laurel non ha voluto aprir bocca. «Oh, ancora. Non posso dirtelo.» Guarda il soffitto. La sua è un'espressione di dolore. «Hai deciso o no se vuoi aiutarmi per Danny e Julie?» chiede. La situazione sta diventando ripetitiva. Esiste un rapporto tra queste cose, fra il suo viaggio a Reno e i figli, ma ancora non ho capito di che si tratti. «Sto cercando di aiutarti», la incalzo. «Devi fidarti di me. Che cos'è che vuoi?» «Lo sai», risponde. Fa una smorfia, ma non lo dice ad alta voce. Si chiede se qualcun altro non sia in ascolto su questi microfoni. Un balletto criptico che abbiamo già eseguito in un paio di colloqui. Laurel vuole che io la aiuti a portare i ragazzi lontano da Jack, che li scorti fuori dello Stato, probabilmente dalla sua amica del Michigan, quella di cui mi ha parlato al te-
lefono il giorno prima dell'arresto, quando ha chiamato da Reno. «Sai che non posso», le dico. «Non vuoi.» «Ne abbiamo già discusso. Io sono un funzionario della Corte. Jack ha un ordine di custodia temporanea. Se fai una cosa del genere, la Corte lo renderà permanente.» «Aiutami, e lui non li troverà mai.» Con tutti i suoi problemi, l'idea di farla pagare a Jack, attaccarlo di sorpresa e togliergli i figli è ancora al primo posto nelle priorità di Laurel. Scuoto la testa, frustrato. Avere a che fare con lei sta diventando un tormento. «La risposta è no.» «Allora non posso dirti che cosa facevo a Reno.» Laurel gira la testa. È la sua risposta definitiva. Se non la aiuto coi figli, terrà in ostaggio questa informazione. «Non puoi farlo. Quando ci presenteremo in aula, dovremo essere in grado di spiegare alla giuria che ci facevi là. Che non stavi fuggendo. Che non stavi scappando dalla scena del delitto. Che il tuo viaggio a Reno non ha nulla a che fare con l'omicidio di Melanie.» Un lungo silenzio. Il nulla. «Non c'entra, vero?» Lei mi guarda. Ha il fuoco negli occhi. «No.» Però continua a non volermi dire che cosa facesse a Reno. «Ci torneremo su più tardi. Adesso parliamo del tappetino del bagno», sospiro. Altra farina che abbiamo già macinato. «Jack dice che appartiene a lui. Afferma che era in casa, in bagno, la sera dell'omicidio.» «Jack è un bugiardo», sbotta lei. «Direbbe qualunque cosa per peggiorare la mia situazione. È un tipo vendicativo.» Detto da Laurel, è come se il tifone Mary lanciasse un avvertimento a un'epidemia. Non le ho raccontato della mia ipotesi, l'ipotesi che Jack stesso avesse motivo di uccidere Melanie. «Allora da dove veniva il tappetino?» «Te l'ho detto. Era mio. Veniva dal mio appartamento.» «Che ci faceva a Reno? Perché lo stavi lavando?» «Ne abbiamo già parlato.» «Parliamone un'altra volta.» «Benissimo», dice, come se stessi sprecando il suo tempo. «Ci dormiva sopra il mio gatto. Lo usava come letto. Èra pieno di peli di
gatto. Andava lavato. Quante volte te lo devo ripetere?» «Così sei andata a Reno per lavare il tappetino? È questo che vuoi che raccontiamo alla giuria?» interviene Harry. Lei gli rivolge una smorfia molto sarcastica. «No. Sono andata a Reno per altre ragioni. Già che c'ero, ho pensato fosse il caso di lavare il tappeto. Dovevo ammazzare il tempo.» «Speriamo che tu abbia ammazzato solo quello», commenta Harry. «Fottiti», esclama Laurel. «Perché non mi assegnano un difensore d'ufficio?» Si è alzata dallo sgabello e si è messa a passeggiare, per quanto glielo consente lo spazio. «Tesa come un elastico», mi mormora Harry. «Dobbiamo tirarla fuori di qui. L'ambiente le fa un brutto effetto.» «Fottiti», ribatte lei. «E fotti anche il cavallo che ti ha portato qui.» Mia cognata non è una margheritina appassita. Sta per raggiungere il punto di rottura. Non fosse per il vetro, credo che potrebbe dilaniare la gola di Harry. Ha perso almeno quattro chili da quando è dentro, chili che non poteva permettersi di perdere. Però riuscirebbe sempre ad avere la meglio su Harry. «Siediti», le ordino. Mi guarda. La stessa espressione di Sarah quando è sicura che al mondo non esista una sola anima che le voglia bene. «Per favore», dico. Lei si siede e mi guarda. Una bambina petulante. Si sente accerchiata: ecco il problema di Laurel. Sta combattendo su tanti fronti che non sa più distinguere gli amici dai nemici. Ci sta rendendo la vita più dura di quanto abbia fatto coi poliziotti. Ci costringe al terzo grado. «Dovrai ammettere che l'idea non è molto sensata. Non si parte per un viaggio portandosi dietro la biancheria sporca.» «Io lo faccio.» Lo dice secca, decisa. Ultima risposta, discorso chiuso. Forse è il problema delle realtà della vita, ma ci sono cose che non si possono raccontare a una giuria, per lo meno se vuoi conservare la credibilità. Glielo faccio presente. «Benissimo. Allora inventa un'altra spiegazione.» «Anche se fossi disposto a farlo, la mia immaginazione non è così fervida.» «Allora la verità è la risposta migliore.» Su questo sono d'accordissimo. Per il momento, siamo a un punto morto con la cauzione, e una spiegazione credibile del comportamento di Laurel non è più vicina di quanto
non lo fosse la sera dell'omicidio. Parliamo d'altro. Voglio sapere perché ha aggredito Melanie, quel giorno in tribunale. Lei mi guarda. «Non sapevo di averlo fatto», mormora. «L'ho colpita?» «Come il martello che pianta il chiodo nel muro», dice Harry. Abbiamo visto il nastro registrato in tribunale. «Be', probabilmente non mi è piaciuta la sua testimonianza.» «Che cosa, in particolare?» chiedo. «La storia della droga.» «Però quel giorno hai detto qualcosa. Hai detto che Melanie doveva stare lontana dai ragazzi. Che c'era sotto?» Lei sbuffa, guarda il pavimento. «Oh, all'inferno. Prima o poi salterà fuori. Jack lo sa. Probabilmente lo ha già raccontato alla polizia.» Comincio ad avvertire un nodo allo stomaco. Fiuto un'ammissione che ci danneggerà. Ha lo stesso odore dei toast bruciati. «È successo la settimana prima che lei morisse.» È così che Laurel parla dell'omicidio di Melanie; come fosse stata una vecchietta passata a miglior vita nel sonno. «Dovevo portare Danny a un concerto in città.» «San Francisco?» chiedo. Lei annuisce. «Suonavano i Pearl Jam...» «Che cosa sono i Pearl Jam?» interrompe Harry. «Un gruppo rock», spiega lei. Harry annuisce come se avesse capito. «Solo che io non potevo permettermi di comperare i biglietti. Jack, al solito, era in ritardo con gli alimenti. Ero a corto di soldi. O pagavo l'affitto, o comperavo i biglietti. Ho dovuto dirlo a Danny. È rimasto deluso, ma l'ha presa bene. In un modo o nell'altro, non so come, forse Danny lo ha raccontato a Jack, e lui ha detto qualcosa a lei, ma comunque lei lo è venuta a sapere.» «Melanie?» «Già. E lei che fa? Compera i biglietti, e va con Danny a sentire i Pearl Jam. Lo ha portato in città sulla Jaguar nuova che le aveva regalato Jack. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso... Io non lo sapevo. Julie me lo ha detto in tribunale, in corridoio. Mi sono saltati i nervi. Ho perso la testa. Quando l'ho vista lì con Jack e con te, come se niente fosse successo, avrei potuto ucciderla, quella puttana.»
Io guardo il microfono e prego che non ci siano altri orecchi in ascolto. Laurel rimpicciolisce dietro il vetro. Le sue spalle cadono come fiori avvizziti. Per lei, i figli non erano semplicemente un ricettacolo d'affetto. Erano tutto. Facevano girare il mondo. Avrebbe lasciato Jack già da anni, in un minuto, non fosse stato per Julie e Danny. È rimasta, ha sopportato il marito e le sue notti di vagabondaggi erotici, per i figli. Poi Jack l'ha scaricata per una donna più giovane, una manipolatrice che - per lo meno agli occhi di Laurel - stava manovrando per rubarle i figli, comperando loro le cose che lei non poteva permettersi; e intanto Jack la assediava per la custodia. Era sola, circondata; lottava per tutto ciò che aveva di prezioso nella vita. A una mente ragionevole, lo scatto d'ira di Laurel, quel giorno in tribunale, potrebbe sembrare assolutamente plausibile. Ma a una giuria che deve decidere su una duplice accusa d'omicidio potrebbe anche fornire lo spettro di un movente. A pianterreno, Harry e io depositiamo i tesserini da visitatori nella scatola sul banco all'ingresso e ci avviamo nell'atrio. Sono a cinque passi dalla porta quando lui entra e quasi mi finisce tra le braccia. Berretto da baseball abbassato sugli orecchi, unico ragazzo di mia conoscenza che tenga la tesa girata in avanti, Danny Vega mi vede e sorride. «Zio Paul. Hai visto mamma?» chiede. «Che ci fai qui?» «Giorno di visita», spiega. «È la prima volta che mi lasciano entrare.» Di fronte a quel mare di musi cattivi, Danny resta un po' stravolto, ma pare sollevato di avere incontrato noi due. «Vuoi venire su con me?» «Mi piacerebbe molto, ma ho un cliente che mi aspetta in ufficio.» Gli presento Harry, ma Danny non lo guarda. Sta studiando la scala mobile per il mezzanino, la strada percorsa da quasi tutti quelli che vengono a trovare amici o parenti. Scruta il soffitto, alto quasi tre piani sopra la sua testa, con le luci incorporate come stelle. «Uau. Che posto», esclama. Per Danny, figlio di una generazione che ha trascorso la propria vita scolastica in aule tascabili, il fatto che i contribuenti sborsino soldi per una struttura di queste dimensioni è, immagino, una novità. È perso in altre riflessioni. Capisco dal suo sguardo che sta soppesando la situazione. Gli danzano nella mente fantasie di arrampicate e discese dal soffitto, di corse
senza fiato in skateboard giù per la scala mobile. «Non c'ero mai stato», mormora. Si vede. «Come sei venuto?» «In Vespa. L'ho lasciata davanti alla biblioteca, dall'altra parte della strada, con le biciclette.» «Tuo padre sa che sei qui?» Un'espressione molto significativa. Sembra Tom Cruise in Risky Business. Jack non lo sospetta nemmeno. E il peggio è che l'unica cosa che possa dare fastidio a Vega è l'idea che suo figlio venga a trovare la madre. A parte questo, ritengo che a Jack non freghi proprio niente di dove sia Danny. «Come sta mamma?» «Bene. Un po' stanca, sì, ma, per il resto, tutto okay.» «La tirerai fuori?» C'è urgenza nei suoi occhi intensi. Danny è fatto così. Andiamo al sodo, veniamo ai fatti. Perché perdere tempo? «Ci proveremo.» «Com'è la situazione?» «Stiamo ancora raccogliendo prove», rispondo. «Sarà un caso difficile.» «È così brutta?» «Non preoccuparti», lo tranquillizzo. «Ne verremo fuori. Ce la caveremo. Tua madre è una donna forte.» Un sacco di discorsi spavaldi ma neppure una risposta alle sue domande. «Lo so», dichiara. «Ma non è stata lei.» «Lo so», gli faccio eco. «Faremo tutto il possibile.» «Non puoi parlare col giudice?» chiede. Per Danny, gli elementi della giustizia sono semplici. «Non è così facile», lo informo. «Lo so», dice. Di colpo, le mani del ragazzo sono dappertutto. Gesticola nervosamente, come non sapesse che farne. Alla fine, tende la destra a Harry. Gli stringe la mano. «Piacere di averla conosciuta... Devo andare», annuncia. Mi rivolge un cenno del capo e un grande sorriso, lo stesso sorriso che ricordo completamente sdentato quando aveva sette anni. Gira sui tacchi e si avvia verso la fila davanti alla scala mobile. Resto a guardare Danny che passa nel metal detector. Strillano allarmi. Lo fanno tornare indietro. Una guardia passa un magnetometro sui jeans del ragazzo. Danny vuota le tasche: una manciata di chiavi e un temperino
che vengono sequestrati in cambio di una ricevuta. Mentre lo vedo sparire sulla scala mobile, ho voglia di sputare sull'autoindulgenza della mia generazione. Il mio senso di colpa paterno si accende, emette vapori di vergogna. Siamo una società che scarica coniugi e accetta nuovi amanti più in fretta di un rajah che voglia soddisfare tutto il suo harem. Dissolviamo intere famiglie per un capriccio carnale. Inseguiamo grandi ambizioni come fossero una santa religione, e lasciamo che i nostri figli tornino in case vuote, si preparino da mangiare da soli, affrontino le micidiali incertezze dell'adolescenza, mentre noi siamo impegnati nell'eterna caccia al graal dei beni materiali. E abbiamo l'audacia di chiederci chi abbia ucciso l'innocenza dell'infanzia. 11. Oggi, per la scuola di Sarah, è quella che chiamano una «giornata corta». I bambini escono alle undici; gli insegnanti hanno una riunione. Pranzo con mia figlia. L'ho portata in una di quelle pizzerie con grossi pupazzi canterini, dove vendono gettoni per i giochi e ti prosciugano di tutta la moneta. Siamo a un tavolo, davanti a un disco di mezzo metro di diametro, coperto di formaggio talmente lavorato che una mucca non lo riconoscerebbe mai. Dividiamo una caraffa di Coca-Cola. Sarah è tutta occhioni e sorrisi. Sta lottando con un filo di formaggio che è diventato più lungo delle sue braccia. Il formaggio si spezza, e lei mastica. Si pulisce la bocca con la manica. Le passo un tovagliolo. «Kevin mi ha baciata un'altra volta.» Lo dice a tradimento, a bocca piena, mentre fa rifornimento di Coca-Cola. Kevin è un maschietto della sua classe, la seconda elementare, che si è preso una cotta per Sarah. Non ha ancora scoperto che le ragazze sono ributtanti. Mi dicono che questa malattia si diffonda tra i maschi all'incirca in terza. Non vedo l'ora. «Digli di piantarla.» «È okay», obietta lei. «Mi piace.» «Be', a me no.» «Ma non ci baciamo mica alla francese», precisa lei. Alzo gli occhi al cielo. Nikki, ho bisogno di te. «E questo dove l'hai sentito?» chiedo.
«Sentito che cosa?» Un faccino di stupore sdentato. I suoi due incisivi sono caduti. «Il bacio alla francese.» «Ce l'ha fatto vedere Courtney al campeggio. Le sa tutte, lei, queste cose.» Courtney è una delle sue amiche. È alta una trentina di centimetri più di Sarah, ma ha la stessa età. Ed è l'indiscussa autorità su tutto. A quanto pare, a quell'età la mole è importantissima. «Ne riparleremo più tardi», le dico. Ho bisogno di un po' di tempo per vedere le cose in prospettiva. Chiederò a Laurel. «Perché dobbiamo parlarne?» «Lascia perdere. Tu di' a Kevin di smettere di baciarti.» «Va bene. Cercherò di ricordarmelo», annuisce. Prende una manciata di gettoni. Ancora masticando formaggio e una pasta cotta a metà, si dirige all'elicottero. Sono dieci minuti che aspetta il suo turno. Colgo l'occasione per chiamare l'ufficio dai telefoni vicino alle toilette. Da lì vedo Sarah. Le luci dell'elicottero si sono accese. Lei tira la cloche e l'elicottero si solleva sul braccio idraulico, alzandosi in aria di poco più d'un metro. Compongo il numero, e mi risponde la receptionist. «Ciao, Sally. Sono Paul. Messaggi?» «Vediamo.» La sento frugare tra i foglietti. «L'appuntamento dell'una è annullato. Il cliente fisserà un appuntamento per la prossima settimana. Ha chiamato la sezione dodici. L'udienza per il caso Vega è fissata per il quattordici.» «Chi è il giudice?» Si tratta delle istanze predibattimentali per Laurel. Chi presiederà quest'udienza sarà, molto probabilmente, il giudice del processo. «Non so», borbotta Sally. «Controlla sul ruolo del tribunale.» «Stiamo aspettando quello nuovo. Reincarichi», spiega. «Vuoi che chiami e scopra chi è?» «Si. E lasciami un appunto sulla scrivania.» «Sarà fatto. E c'è un altro messaggio. Ha telefonato Marcie Reed.» «Chi?» «Dice di chiamarsi Reed.» «Non conosco nessuna Reed. Ha detto che voleva?»
«No.» Mi frugo nel cervello. E finalmente capisco. Marcie, la ragazza dell'ufficio postale. L'amica di Kathy Merlow. «Ti ha lasciato un numero di telefono?» Sally me lo dà. Lo scrivo sul retro di un biglietto da visita. La ringrazio, riappendo, e chiamo. «Ufficio postale. Posso esserle d'aiuto?» Una voce maschile. «Marcie Reed, per favore.» «Chi la desidera?» «Paul Madriani. La signora Reed aspetta una mia telefonata.» «Un minuto.» Lo sento urlare il nome di Marcie. Lo ripete diverse volte. Passano parecchi minuti. Passi smorzati e rumori vari all'altro capo della linea. Poi, all'improvviso, una voce femminile, molto incerta. «Pronto?» «Signora Reed? Sono Paul Madriani.» «Ah, sì. Ha ricevuto il mio messaggio.» «Esatto.» «Io, uh... Ho visto il suo nome e la sua foto sul giornale», mormora. Poi scende un silenzio di tomba. Per un attimo mi chiedo se sia caduta la linea. «Pronto? È ancora lì?» «Sì. Sono ancora qui», risponde lei. «La donna che sta difendendo è quella di cui mi ha parlato? Quella che vorrebbe far aiutare da Kathy Merlow?» «Sì. Sa dove posso trovare la signora Merlow?» «Forse. Può darsi che io possa aiutarla.» «In che modo?» «Non posso parlare al telefono. Controllano le nostre conversazioni», bisbiglia. «Il tempo che passiamo al telefono. Se scoprono che facciamo telefonate personali...» Lascia la frase in sospeso, ma io sento il fruscio della lama della ghigliottina che scende, rapida. Le delizie del management moderno. Spendono due milioni di dollari per creare un logo d'impatto che comunichi un'immagine migliore dell'azienda (nella fattispecie la testa di un'aquila con un becco lungo da qui al Cairo), però non possono fare a meno di scaricare tonnellate di guano psicologico sugli impiegati. «Possiamo incontrarci? Dove vuole lei», le dico. «Nel mio ufficio?» «No. No, non voglio farlo. E poi non posso andarmene da qui di gior-
no.» «Dopo il lavoro?» «Devo passare a prendere i miei figli dalla baby-sitter. Che ne dice di venire qui?» «All'ufficio postale?» chiedo. «Sì.» «È sicura di non mettersi nei guai?» «Oggi il signor Haslid non c'è.» Per Marcie Reed, i guai cominciano con la H. «E il tizio che urlava sulla piattaforma di carico?» dico. «Sì. Ma oggi non c'è.» E i topi ballano, penso. «Perché no?» «Io ho la pausa per il pranzo all'una. Quaranta minuti. Possiamo parlare nel vecchio ufficio di Kathy. Al momento è vuoto.» Guardo l'orologio. Quasi le dodici e venti. «Mi presento agli sportelli a pianterreno?» «No. No. Ci vediamo sulla piattaforma di carico. All'una. Adesso devo andare...» E riappende. Sarah ha finito i gettoni, ma resta a bordo, a giocare con la cloche. Un bambino biondo la scruta invidioso. Tiro fuori mia figlia dall'elicottero e illumino di gioia il bambino. Dovrò dare un dispiacere a Sarah, lasciarla all'asilo prima del previsto. Sulla piattaforma, due scaricatori stanno sistemando casse di lettere sul retro di furgoncini che sembrano jeep. Non c'è traccia di Marcie Reed, così mi fermo in fondo al vicolo. Sono in ritardo di quasi cinque minuti, e comincio a chiedermi se lei non sia già uscita e rientrata, o se ci abbia ripensato e non voglia più parlare con me. Appoggio la schiena alla parete di un edificio, con un occhio sull'orologio e l'altro sulla piattaforma. Passano diversi minuti, e alla fine la porta si apre. È Marcie. Mi avvio nel vicolo per farmi vedere. Lei dice qualcosa a uno dei due che stanno lavorando sulla piattaforma. Quello si ferma, la guarda. Mette le mani sui fianchi e scuote la testa. Mi avvicino e riesco a sentire una parte della loro conversazione. «Se ti beccano, il culo è tuo», sta dicendo l'uomo. Lei è impassibile. Mi fa cenno di salire. «È in ritardo. Credevo non venisse più», mi dice.
«Ho dovuto portare mia figlia all'asilo.» «Non ho molto tempo.» Marcie ha in mano un sacchetto. Il suo pranzo, presumo. I due uomini sulla piattaforma mi scrutano, mi soppesano. Leggo nei loro sguardi minacce molto concrete. «È certa che non ci siano problemi?» «Sì. Tutto okay. Però non restiamo qui fuori», risponde Marcie. Per lei, «okay» significa non farsi prendere in castagna. C'è un luccichio eccitato nei suoi occhi. Il boss si è preso il giorno libero. È il momento buono per giocare. Salgo sulla piattaforma. Le occhiate dei due scaricatori mi dicono che con ogni probabilità sto violando diversi paragrafi del regolamento. Forse stanno pensando all'ispettore al primo piano, lo sceriffo con distintivo e pistola. «È sicura che sia okay? Giù in strada c'è un caffè. Offro io», le dico. L'ultimo tentativo di cambiare sede. «Tutto a posto.» Gli occhi di Marcie m'invitano ad avere un po' più di coglioni. Mi dà l'impressione di essere una di quelle persone sempre torchiate, sempre nei guai, capaci di fingere una paura enorme, ma mai realmente spaventate. I figli della terra di nessuno. La seguo a ruota. Superiamo la porta oscillante, quella col grande cartello rosso: RISERVATO AL PERSONALE AUTORIZZATO. All'interno, un labirinto di tavoli, sacchi postali appesi a ganci metallici, carrelli a mano. Forse una dozzina di persone che indossano svariate versioni dell'uniforme: camicie grigio-azzurro con l'emblema delle poste sulla schiena, jeans, e scarpe da ginnastica. «Quanti anni ha sua figlia?» chiede Marcie. Chiacchiera sottovoce mentre camminiamo. «Sette», sussurro. Mi sento come un ragazzino che si sia infilato in un campo da golf di sera, quando il campo è chiuso, per rubare palle. «La stessa età di mio figlio», commenta lei. Stiamo seguendo, a passo veloce, una complessa rotta che ci fa fare il giro lungo. Circumnavighiamo carrelli e ripiani per lo smistamento della posta, evitiamo ogni contatto con altri impiegati. Vedo mani che lanciano lettere, torsi umani al lavoro dietro tavoli su piani rialzati. Le parti superiori dei corpi sono nascoste da armadietti che immagino suddivisi in una miriade di caselle per corrispondenza e pacchi. Marcie si ferma su un lato del locale, in fondo. Prova diverse chiavi nel-
la serratura di una porta. Legno scuro, sormontato dal vetro. Sul vetro è stampigliata una scritta: RAPPORTI COL PUBBLICO. Trova la chiave giusta, accende la luce, e siamo dentro, a porte chiuse. Lei finalmente si concede un sospiro. «Non è stato poi così terribile, eh?» dice. Si gira a guardarmi. Ha scritta negli occhi l'eccitazione della missione compiuta. A giudicare dalle estremità increspate dei codini, pare che abbia ficcato le dita in una presa elettrica. E quelle lentiggini, poi... Fosse un po' più bassa, potrebbe passare per una delle amiche di Sarah. Si accomoda sulla sedia dietro una scrivania sgombra, a parte un minimo di polvere sulla superficie di metallo verde, e riprende fiato. Butto la mia borsa sulla sedia in un angolo. Prendo un'altra sedia, la sposto davanti alla porta, e mi accomodo. Nella borsa ho un registratore, nel caso Marcie sappia qualcosa e sia pronta a lasciarsi registrare. Se no, ho un taccuino. «Se la scoprono qui con me potrebbero licenziarla, giusto?» chiedo. Non mi risponde. Mi guarda, mi scruta dalla testa ai piedi. Fa l'inventario prima di parlare. Io aspetto che mi dica il prezzo. Quanto vale l'informazione, alle tariffe di mercato di Marcie? «Questo è l'ufficio di Kathy Merlow?» Lei annuisce. «Lo è stato per due mesi e quattro giorni. Prima che se ne andasse.» Sulla parete in fondo, appeso a un gancio, c'è un maglione. Qualche elenco telefonico su uno scaffale. L'aria di un ufficio abbandonato. «È riuscita a conoscerla bene in così poco tempo?» «Anime gemelle», mi risponde. «Kathy e io avevamo alcune cose in comune. Non piacevamo alla direzione, per esempio.» «Kathy ha trovato un altro lavoro?» Lei scuote la testa e continua a guardarmi. «Che cosa faceva, esattamente?» Faccio un cenno in direzione della scritta sul vetro della porta. «Che cosa sono i rapporti col pubblico?» «Un'etichetta.» «Tutto qui?» «È quello che le hanno dato. Un ufficio, un'etichetta e uno stipendio.» «Sarà stata un'impiegata statale, no?» chiedo. «Non esattamente.» «Come si fa ad avere un posto...» «Non c'è tempo per questi particolari», taglia corto. «Ne possiamo parla-
re più tardi. Adesso ho bisogno di sapere alcune cose. L'accusa alla sua cliente. Devo sapere se lei può riuscire a farla assolvere senza l'aiuto di Kathy.» Dal tono di voce, mi viene da domandarmi chi lo stia chiedendo: Marcie o Kathy Merlow? «Non so», rispondo. «Un processo è un gioco d'azzardo. E su questo, io non ci scommetterei.» Forse, penso, sta tastando il terreno. Cerca di scoprire quanto valgono le sue informazioni. «Sa dove si trovino i Merlow?» chiedo. Marcie ripesca il sacchetto che aveva con sé. Lo mette sulla scrivania. Forse sto per avere qualche risposta. Apre il sacchetto. Tira fuori un involucro di carta cerata. Due fette di pane spalmate di burro d'arachidi e gelatina. «Ne vuole metà?» «No, grazie.» «Lei che cosa sa di Kathy e di suo marito?» «So che abitavano a due passi dalla casa dell'omicidio. Penso che quella sera abbiano visto qualcosa.» Lei fa una smorfia. Non conferma, non nega. Ma mi ha già detto abbastanza per consentirmi di mettere insieme i pezzi. «Allora non glielo hanno detto», mormora. «Detto che cosa? E chi?» Sembra perplessa, come se mi sfuggisse qualcosa di ovvio, di evidente. Un elemento dell'equazione. «Lei che cosa sa?» chiedo. «So che l'assassino non è la sua cliente.» «E come fa a saperlo?» «Perché so chi è l'assassino, e perché ha ucciso.» «Gliel'ha detto Kathy Merlow?» Marcie è un idolo di pietra, ma io le leggo negli occhi. «Che cosa le ha detto?» «Qualcuno è stato pagato per farlo.» «Per uccidere?» Lei annuisce. «Chi ha pagato il killer?» «Se vuole saperne di più, deve parlare con lei. Con Kathy.» «Perfetto. Mi dica dov'è.»
Sospiri straziati all'altro lato della scrivania, improvviso agitarsi di mani nervose, dita sulla bocca. Noto che le unghie di Marcie sono mangiate fino alla carne viva. Mi studia per un lungo momento, in pacata contemplazione. Poi si china e apre il cassetto centrale della scrivania. Tira fuori una piccola busta bianca, del tipo che si usa per i biglietti di ringraziamento. All'esterno vedo alcune righe scritte a penna. «Mi è arrivato una settimana fa», spiega. «È un biglietto di Kathy. Nessun altro ne è al corrente. Credo che George non sappia nemmeno che Kathy lo ha mandato. Voleva qualcosa che ha dimenticato qui. Gliel'ho spedito ieri. Lei deve darmi la sua parola che, se le dico dove si trova Kathy, non lo dirà a nessun altro. Andrà lei a parlarle. Non manderà qualcun altro.» Mi esibisco in una smorfia di costernazione. «Dipende da dove sta», ribatto. «Mi sto preparando per un processo. Di solito usiamo un investigatore.» Lei fa per rimettere la busta nel cassetto. «Okay», concedo. «Parlerò soltanto io con Kathy. Nessun altro. Però forse dovrò farle avere una citazione di comparizione.» Lei mi regala un sorriso. «Buona fortuna.» Bussano al vetro dietro la mia testa. Qui dentro siamo stretti come sardine. Guardo Marcie. È bianca come un cencio. Più di un pizzico di paura. Sta fissando la figura dietro il vetro. In silenzio, sillaba una sola parola: «Haslid». Le leggo le labbra. Ma la luce è accesa. La persona all'esterno può vederci attraverso il vetro semitrasparente. Bussano di nuovo. Marcie scrolla le spalle. Deve avere deciso che l'unica cosa da fare sia aprire e prendersi la lavata di testa. Faccio io gli onori di casa. Apro la porta quel tanto che basta al tizio per infilare dentro la testa. È uno degli scaricatori che lavoravano sulla piattaforma. Sento il sospiro di sollievo di Marcie. È andata in iperventilazione. «Porca miseria, Howard. Mi hai tolto cinque anni di vita.» «Bene», grugnisce lui. «Così forse alzerai i tacchi da qui e tornerai al lavoro.»
«Che vuoi?» «C'è un corriere con un pacco per te.» «Per me?» «Così ha detto.» Mi alzo, scosto la sedia dalla porta. Fuori c'è un tizio con un'altra uniforme: stoffa blu scuro, scarpe da ginnastica bianche, una striscia bianca sui lati dei calzoni. Un corriere privato. È giovane, sotto la trentina, un bell'uomo: mascella quadrata, capelli tagliati a spazzola, stile militare. O porta una camicia troppo stretta, o è uno che nel tempo libero fa sollevamento pesi. «Ho un pacco espresso», annuncia. «Qui sembra di essere a un fottuto convegno.» Howard è incazzato. «Io dovrei prendere il comando quando il boss non c'è, e voi mi mettete nei guai. Vedete di farla finita e levate le tende. Qui non dovrebbero entrare corrieri.» Adesso guarda me. «E lei non dovrebbe stare in questo ufficio.» «Solo un altro paio di minuti», gli dice Marcie. Howard è il tipo che urla e strilla in continuazione e usa le imprecazioni come una seconda lingua. Ma non ha la stoffa del comandante. In uno scontro verbale serio, avrebbe la peggio. Marcie guarda il corriere. «Chi mi manda un pacco?» domanda. «Firmi qui.» Il corriere si è trovato preso in mezzo. Vuole solo fare il suo lavoro e tagliare la corda. Non riesce a entrare dalla porta, così mi passa il pacco e un portablocco col registro delle firme. «Numero diciotto.» Traccia una X sulla riga dove Marcie deve firmare. Il pacco è pesante. I bordi della scatola di cartone sono gonfi. «E lei...» Howard, l'impiegato postale, mi sta guardando. «Qualcuno vuole vederla alla piattaforma di carico.» «Me?» «Qui dentro c'è qualcun altro?» «Nessuno sa che sono qui», lo informo. «Buon per lei», mi dice Howard. «Tutto quello che so è che qualcuno vuole parlare col tizio che sta in ufficio con Marcie. Qualcuno sa che lei è qui.» «Chi è?» «E che sono io? Le Pagine Gialle?» sbotta Howard. Marcie ha firmato. Mi passa il portablocco da restituire. Il corriere schizza via come un missile. Galoppa verso il suo furgone. Howard lo guarda, scuote la testa, sorride ironico, come per dire che ha già visto gente
del genere, leccaculo che vogliono fare buona impressione al loro capo. Howard è un dipendente pubblico. E, comunque, sa che non ha nemmeno mezza probabilità di diventare il direttore dell'ufficio postale. Howard parte verso la piattaforma di carico. Mi metto alle sue calcagna. Questa volta seguiamo un percorso diretto, senza deviazioni. Passiamo al centro dell'area dove la posta viene smistata. Gli impiegati mi guardano. Risatine. Howard scrolla la testa. Forse non gli piace dare l'impressione di farmi da scorta personale. Usciamo sulla piattaforma. Il collega di Howard sta ancora caricando il suo furgone. A parte Howard e me, è solo sulla piattaforma. «Dov'è andato? Il tizio che voleva vedermi?» Howard si gratta la testa, si sposta al bordo della piattaforma, guarda nel vicolo. Nessuno. Chiede informazioni all'altro. «Non so. Era qui un minuto fa. Si sarà stancato di aspettare», dice lo scaricatore. E scrolla le spalle come solo i dipendenti statali sanno fare. Scruto il vicolo nell'altra direzione. Il corriere è sul marciapiede, davanti alla portiera aperta di un veicolo. Ha la testa girata e guarda nella mia direzione. In giro non c'è nessun altro, a parte una vecchia e un vagabondo sul marciapiede che taglia il vicolo all'altezza della Settima. «Se torna, gli dica di aspettare.» Sto guardando Howard. «Che cosa sono? Il suo messaggero?» «Io rientro. Questioni in sospeso», lo informo. Howard mi guarda con quella sua espressione autoritaria, appassita come un fiore in un periodo di siccità. Non tenta nemmeno di fermarmi. Ahimè, non ha davvero la stoffa del dirigente. Rientro dalla porta oscillante, chiedendomi chi mi possa aver cercato. In ufficio non ho lasciato detto dove andavo, quindi non può essere stato Harry. Uno di quegli episodi inquietanti, come un telefono che squilla di notte, e quando alzi la cornetta senti solo un respiro pesante. Una seccatura. Cerco di scacciarla dalla mente. Mentre percorro la grande sala, il mio cervello si mette a filtrare quello che ho visto nel vicolo, come la luce che passa in un obiettivo fotografico con l'otturatore regolato su una velocità molto alta. La silhouette dell'uomo sul marciapiede. Perché, mi chiedo, un corriere dovrebbe salire sul sedile posteriore di una berlina nera? Il pensiero viene fuso nella mia mente dall'esplosione: un lampo di luce seguito in un istante da un calore che mi arrostisce la faccia. L'onda d'urto mi scaraventa contro la parete. Schegge di legno, frammenti di vetro mi
bucherellano il corpo, come pallini sparati da un fucile da caccia. Mi trovo in un paesaggio irreale: sono riverso a terra, immerso nel bagliore caldo di tizzoni ardenti. Sono stordito. Sopra di me, sopra la mia testa, ci sono cose che si muovono, farfalle bianche e azzurre. La mia vista si rimette a fuoco. I fantasmi che fluttuano nell'aria non sono farfalle, bensì pezzi di carta strinati sui bordi che planano verso il pavimento. Uno atterra sul mio naso, in perfetto equilibrio, poi s'inclina verso un occhio. Abbasso la palpebra, sorpreso di poter esercitare un simile controllo su una qualche parte del mio corpo. Lentamente, mi alzo, mi appoggio su un ginocchio, poi su due. A quattro zampe vado in cerca della parete. Un sudore caldo mi scende giù per il viso. L'unico suono che riesco a udire è il fischio negli orecchi. Adesso c'è gente che comincia a muoversi, facce agitate, bocche che si aprono senza emettere parole. Un uomo mi prende per il braccio. Mi dice qualcosa, ma io non sento. Scuoto la testa, gesticolo, lo invito a parlare. Solo il fischio negli orecchi. L'uomo mi sistema contro la parete e si avvia verso la porta, verso l'ufficio dove si trova Marcie. Mi sto sorreggendo la testa con una mano. Una sensazione di liquido caldo. Guardo la mano, che è rossa di sangue. Quello che mi scende giù per la guancia non è sudore. La porta dell'ufficio di Marcie si è disintegrata. In alto, il vetro non esiste più. Sotto, il pannello di legno è una lama dentellata fatta di schegge. Ciò che resta della sedia sulla quale mi trovavo io è stato sparato fuori attraverso la porta. Due tizi buttano giù a calci i resti del legno. Uno dei due entra. Bocche che si muovono, gente che cerca di urlare, ma hanno tutti perso la voce. «Qualcuno chiami la polizia», dico. Però non sento le parole. Due impiegati hanno lasciato il banco all'ingresso. A fatica, mi alzo in piedi e barcollo verso la porta. Mi fischia tutta la testa. Gli orecchi mi martellano. Un'ondata di nausea. Mi giro verso il muro, perché sto per vomitare, ma ricaccio tutto indietro. Lotto per recuperare il controllo. Dalla soglia, Marcie non si vede. La sua sedia è stata sparata all'indietro, scavando un buco nella parete dietro la scrivania. Uno dei braccioli è a brandelli. Di Marcie non c'è traccia. Entro nella stanza, appoggio le mani sulla scrivania, per non cadere. Goccioline di sangue si mischiano alla polvere e ai brandelli di carta sul
piano della scrivania. Poi la vedo. Sul pavimento, riversa sulla schiena. La parte superiore del suo corpo è nuda. Solo il reggiseno, completamente strinato, e qualche residuo di stoffa di una manica coprono ancora il suo fragile torso. Guardo il suo volto, nero, ustionato, ancora più innocente e infantile nel sonno della morte. Un uomo le sta sentendo il polso. Poi alza gli occhi, scuote la testa: un messaggio universale che non ha bisogno di parole. Sulla porta sta cominciando a radunarsi gente. Vedo la mia borsa appiattita contro la parete. La pelle è sforacchiata, come un bersaglio da poligono, da una mezza dozzina di chiodi. Poi la vedo sul pavimento, vicino alla sedia e alla mia borsa. La piccola busta. Quella che Marcie ha preso dal cassetto della scrivania. Il biglietto di Kathy Merlow. Gli orli sono bruciacchiati. Mi muovo in un mondo di silenzio rimbombante. Le persone si affollano intorno alla scrivania, a un tempo curiose e orripilate. Per il momento, i loro pensieri sono puntati sulla fragile forma riversa sul pavimento. In punta di piedi, si fanno avanti a guardare. Sguscio dietro due delle donne che si sono spinte fino al bordo della scrivania. Recupero la mia borsa martoriata, imbottita di chiodi. Sotto la forza dell'esplosione, la metà superiore è implosa. Col movimento più fluido che mi riesce di compiere, mi chino, intrappolo fra due dita sanguinanti la piccola busta e mi rialzo. Nessuno sembra essersi accorto che sul pavimento c'è un pezzo di carta in meno. Un'altra ondata di nausea. Blocco la bile in gola, deglutisco. Alzo la mano alla bocca. Ci sono impronte di sangue sulla busta. Esco a passi lenti dalla stanza. In fondo, appena oltre l'ingresso, vedo due poliziotti, uniformi azzurre e distintivi scintillanti. Sono diretti qui. Mi avvio, inciampo, accelero. Cerco di procedere in linea retta verso l'uscita. Sulla piattaforma di carico sono solo. Sono tutti dentro. Riesco a scendere le scale, incespicando, continuando a perdere sangue. Con tutta la velocità che mi è possibile, cammino verso il rifugio sicuro della mia automobile. Stringo fra le mani la piccola busta, il mio unico legame con Kathy Merlow e con ciò che sa. 12. «Mi serve il tuo aiuto», le dico.
Sono in ufficio con Harry. Sto passando le dita su una delle medicazioni che ho sulla fronte. Ci sono tre punti e una ventina di lacerazioni sul lato destro della mia faccia. Un giovane medico mi ha estratto il vetro da pelle e carne in un centro chirurgico, uno di quei posti dove, con carte di credito a sufficienza, puoi farti fare di tutto, dall'asportazione delle tonsille alla legatura delle tube, e niente domande. La faccia mi trasmette le sensazioni di una polpetta di carne pestata da un paio di stivali su un sentiero di ghiaia. Sto telefonando a Dana Colby. Sono le sei del pomeriggio appena passate. La città comincia a morire; le strade si svuotano. L'ho beccata al volo al rientro dal lavoro. Ha una voce bassa, vellutata, e io non riesco a sentirla. «Alza il volume», le dico. «L'esplosione mi ha messo fuori uso gli orecchi.» Ho raccontato a Dana che le tracce di George e Kathy Merlow mi hanno portato all'ufficio postale e al pacco-bomba. Sapeva già dell'esplosione. Una notizia che scotta. Tutti i canali radio nazionali, e la stazione locale, la stanno usando per bombardare i pendolari. Dana capisce benissimo di avere un grosso vantaggio sugli altri. Ascolta con la massima attenzione ogni mia parola, il resoconto di un testimone oculare. Harry scuote la testa. Pensa che coinvolgere Dana sia da cretini. Per lui, al di là del sesso e della bellezza, Dana è solo un altro procuratore distrettuale. Sta cercando di parlare nel mio orecchio sinistro. «Grosso errore.» Harry lo scrive su un taccuino che poi mi ficca sotto il naso. Ne abbiamo già discusso. Harry pensa che abbia fatto bene a scappare, a non fermarmi a parlare con la polizia. E adesso, secondo lui, sto mandando tutto a farsi friggere. Sono scappato perché volevo evitare la polizia, le domande. Il solo Lama mi avrebbe trattenuto una settimana per interrogarmi. Per Jimmy, dare del filo da torcere ai federali sarebbe il massimo del divertimento. E la possibilità di farmi soffrire sarebbe meglio del sesso. Avrebbero voluto sapere perché fossi andato a parlare con Marcie Reed. Una cosa avrebbe portato all'altra: Kathy Merlow e il suo biglietto, che la polizia avrebbe voluto. È il mio unico legame coi Merlow e con ciò che sanno dell'omicidio di Melanie. Faccio un cenno a Harry. Vattene dal mio orecchio, gli sto comunicando. Infine sbotto: «Per favore. Non riesco a sentirmi pensare». Lui si gira, va verso la finestra, agita le mani. Parla fra sé. «No, non te», grido. Sono di nuovo con Dana. «Devo parlarti. Possiamo vederci a casa mia?»
«Posso esserci fra venti minuti.» «No. Ho bisogno di almeno un'ora... Ho una commissione da sbrigare.» «Sarò lì fra un'ora.» Riappendiamo. «Tu sei uscito di testa», borbotta Harry. È ancora girato verso la finestra, lontano da me. «Le hai raccontato che eri là. Quella chiamerà i fibbiai.» Il termine di Harry per l'FBI. «Ti sbatteranno su una sedia con le luci negli occhi prima che tu abbia il tempo di starnutire. Tanto valeva che restassi là e parlassi direttamente con loro. Se non altro, ti saresti sputtanato un po' meno.» Si volta e mi regala una delle sue espressioni più calorose, di quelle che mi dicono che sono scemo marcio. «Insomma, per la miseria. Vai a parlare con questa ragazza, Marcie Reed. Lasci il suo ufficio due minuti, e quella finisce spalmata sulle pareti.» «Oh, merda!» Di colpo, mi trovo a fissare il nulla, come se il corpo di Harry non esistesse. «Che cosa c'è?» chiede lui. «Me n'ero dimenticato», dico. «Il pacco. Quello consegnato dal corriere. L'ho toccato. L'ho dato io a Marcie.» «E come sei riuscito a tanto?» «La stanza era troppo piccola. Quello non riusciva a entrare. Così sono stato io a dare il pacco a Marcie.» «Oh, grande.» Harry parte al trotto. Corre tra la finestra e la mia scrivania, senza fermarsi, battendo la mano sulla coscia. «Oh, grande! È grandioso. Perché non hai dato fuoco alla miccia, già che c'eri? Avrai bisogno di un avvocato con due palle così... Spero che tu ne conosca uno.» Non si offre volontario. Mi chiedo se la scientifica sia in grado di rilevare impronte da brandelli di carta bruciacchiata. Non che la cosa abbia troppa importanza, suppongo. È solo questione di tempo, e scopriranno che ero lì: impronte digitali sulla scrivania, testimoni che mi hanno visto. «Ho solo bisogno di guadagnare un po' di tempo. Quanto basta per seguire la traccia del biglietto, cercare di ritrovare i Merlow.» «E tu pensi che te lo darà lei, il tempo?» Sta parlando di Dana. «Lo spero.» «Buona fortuna!» La faccia di Harry dice tutto. «Te lo sogni.» In piedi davanti alla finestra, guarda le luci della città. Il Campidoglio, a cinque isolati di distanza, è illuminato dalla corona dei riflettori lungo i
fianchi della cupola. In alto brilla la sfera dorata. Ma c'è una forma grigia che ci tiene nella sua morsa: la vallata centrale immersa nell'inverno. Lì sì che sanno come si produce la nebbia. Seduto alla scrivania, studio il contenuto della busta bruciacchiata di Marcie Reed. C'è una fotografia con gli orli strinati. Rappresenta quella che sembra una chiesetta a una sola navata, assicelle di rivestimento verdi su un fondo di stucco bianco. Intorno, una natura rigogliosa, fazzoletti di cielo d'un azzurro brillante. S'intravede qualche lapide; un piccolo cimitero a lato della chiesa. E c'è il biglietto, scritto da una mano femminile: Cara Marcie, mi spiace, ma devo chiederti un favore. Ho lasciato l'anello di mia madre nel cassetto in alto della scrivania. Potresti spedirlo, fermo posta, ad «Alice Kent»? Grazie di tutto il tuo aiuto. Tu sei l'unica amica che io abbia avuto in due anni. Questo posto è alla fine del mondo. Un giorno, quando sarà tutto finito, mi farò viva. Abbi cura di te. Con tutto il mio amore, K. La mia ovvia ipotesi è che Alice Kent sia un nome di comodo, una firma semplice e indolore che Kathy Merlow potrà usare per ritirare un pacchetto al fermo posta. Ormai dovrebbe avere un'identità immacolata, forse anche più di una. Vista la velocità con la quale sono evaporati dopo l'omicidio di Melanie, e l'assenza di ogni traccia (Harry non ha ancora avuto risposta dalla Resolution Trust Corporation per l'affitto della casa), i Merlow sono gente piena di risorse. Guardo la busta, il piccolo timbro postale, rotondo. Poi giro la fotografia. Sul retro, nella grafia di Kathy Merlow, tre righe scritte da un pennarello sbiadito: Se raggiungessi le ali dell'aurora e riuscissi ad abitare al di là del mare. È un posto speciale, dove trascorro i miei pomeriggi. Volto la fotografia, studio la chiesetta. Chi ha scattato la foto è stato molto attento. Nessuna targa, nessun cartello o insegna. Niente che si possa ingrandire per individuare la località.
Niente che io riesca a vedere, comunque. Harry sta guardando dietro la mia spalla. «Secondo me, è un brano di una poesia», dice. «Che cosa?» «Le ali e il mare... Roba lirica.» «Il marciume delle tue radici è ovvio», lo informo. «Il catechismo ha i suoi vantaggi.» «Sarebbe a dire?» «È una citazione dalla Bibbia. Da uno dei Salmi.» Squilla il campanello. Non ho ancora avuto il tempo di togliermi la giacca. Dana ce l'ha fatta in meno di un'ora. Apro la porta per darle il benvenuto. «Ehi, amico, sei l'avvocato? Lo zio di Danny Vega?» Sul portico di casa mia ci sono tre ragazzi, forse sui sedici anni, carnagione scura, capelli neri come il carbone, occhiali che sporgono all'esterno dei taschini delle camicie. Portano pantaloni kaki e camicie nere molto larghe, a maniche lunghe, parte integrante dell'uniforme: l'esercito vendicatore di Pancho Villa. Un trio pronto a stuprare tutto e tutti. «Chi vuole saperlo?» Uno dei tre ha i capelli raccolti a crocchia, con una reticella nera. È lui che parla. «Ehi, amico. Rispondi alla domanda e stop. Non raccontarci cagate. Conosci Danny Vega? Sai dov'è?» Il ragazzo ha occhi da sessantenne in una faccia che avrà al massimo sedici anni, ma è cattiva. I suoi due compagni mi guardano con aria risoluta, per calcare la mano. Io scruto la catenella di sicurezza che penzola dalla mia porta. L'unica cosa che ci divida è la zanzariera, tutta graffiata e sbrindellata dai gatti di un mio vicino. «Penso che dovreste andarvene.» «Noi non andiamo da alcuna parte se non ci dici dov'è Danny. Non vogliamo darti rogne, amico. Ma se ci costringi...» Uno dei tre estrae dalla tasca un coltello a serramanico e lo apre. Per il momento si pulisce le unghie, passandomi sotto gli occhi la lama affilata come un rasoio. «Mica cerchiamo guai...» Il ragazzo con la reticella per capelli ha ripreso il comando. «Sicuro. Ve ne state sulle scale di casa mia a minacciarmi, niente di
più.» «Ehi, amico, abbiamo detto qualcosa di minaccioso?» Occhi sgranati, un coro si alza dalle teste scrollate. «Io no.» «Tu hai sentito qualcosa di minaccioso?» «Nada.» Interrompo la litania. «Che cosa volete da Danny?» «Ehi. Secondo me è dentro.» Uno dei tre sorride. «Ehi, Danny, sei lì? Vieni fuori, vieni fuori, se ci sei.» I suoi amici ridono. Lo trovano molto divertente. Reticella afferra la maniglia della zanzariera. La porta è chiusa a chiave. Delusione sulla sua faccia. Mi sa di aver ferito i suoi sentimenti. «Ehi, amico. Te l'ho detto che siamo solo amici in visita. Lasciaci entrare, okay?» «No, non è okay. Vi suggerisco di tagliare la corda e andare all'inferno.» Il livello della mia voce comincia ad alzarsi: o è voglia di ribellione, o è voglia di fuga. «Ehi, mica tanto cordiale, amico.» Il ragazzo col coltello comincia a tagliuzzare la zanzariera, vicino alla maniglia. «Tu mandalo fuori. Possiamo parlare qui. Ti va?» Reticella mi spara una raffica di denti bianco perla. «Vieni fuori, Danny. Se no dobbiamo venire dentro noi. Decidi tu.» Sta cantilenando attraverso la mia zanzariera. «Danny non abita qui.» Il ragazzo con la reticella mi guarda. «Oh. Allora sai dove abita. Potresti dircelo.» «Penso che dovreste andarvene.» «Ehi, amico, niente rogne. Dicci dove sta.» Conosco Danny tanto bene da sapere che questi non sono suoi amici. Se lo cercano, è perché Danny è nei guai. Potrebbe trattarsi di niente più di un'occhiata indignata scoccata nella loro direzione, un'offesa alla loro dignità macho. Con il materiale umano che ha suonato alla mia porta, basta non tenere gli occhi abbastanza bassi per guadagnarsi il tipo di saluto offerto da una pallottola esplosa dal finestrino di un'auto in corsa. Arrivano i fari di un'auto. Uno dei tre si gira a guardare. Tira per la manica il portavoce del trio. Reticella studia l'automobile. Dana sta scendendo sul marciapiede. Vede la piccola folla alla mia por-
ta, si ferma, li scruta da sopra il tetto dell'auto. Una donna sola. Reticella mi regala un sorriso. «La tua donna, per caso?» dice. Non rispondo. Ho il presentimento di una situazione spiacevole. Io qua dentro, Dana fuori. Quando i tre si girano a guardare un'altra volta, Dana sta telefonando col cellulare dell'auto. I sorrisi baldanzosi evaporano all'improvviso. Uno dei gregari scuote Reticella. «Ehi, andiamo.» Il leader del branco non è contento. Ondeggia in punta di piedi. «Okay per adesso, amico. Ma torneremo. Ricevuto?» Mi punta un dito in faccia, a due centimetri dalla zanzariera. Per il momento, finché non avrà trovato qualcosa di più letale da puntarmi addosso, si accontenterà di quello. Ha lo stesso fascino delle piaghe d'Egitto. «Ci vediamo», dice. «È stato un piacere.» «Già. Un piacere, amico.» Sputa sulle mie rose. Un appunto mentale: devo chiamare Harry, dirgli di parlare con Laurel. Forse ha ragione lei. Forse Danny, per un po', sarebbe più al sicuro da qualche altra parte. Scendono i gradini, superano il cancello, attraversano la strada fino a una station wagon molto aerodinamica, un'Impala rosso ciliegia con un impianto stereo da svegliare i morti. Quando scompaiono dietro l'angolo, sento ancora il bum-bum-bum dei bassi. «Amici tuoi?» Dana è sui gradini. «Non esattamente.» Prima che lei sia entrata, un'auto della polizia passa in strada. Dana si gira nella luce del mio portico e saluta con la mano. Quindi punta l'indice in direzione del bum-bum-bum, e l'auto di pattuglia accelera al punto che quasi svolta su due ruote. Un incontro ravvicinato, tra bagliori rossi e azzurri, con chi ha giurato di «proteggere e servire» forse non basterà a spingere il trio a farsela addosso, però sapranno di essere stati individuati. «Spero che non abbiano qualcosa d'illegale in auto.» Da come lo dice, ho l'impressione che i ragazzi si troveranno per un po' a parlare con il fascio luminoso di una torcia elettrica puntato negli occhi. Le cortesie professionali della confraternita votata al rispetto della legge. «Hai un aspetto tremendo», mi mormora. Mi tocca la guancia con la mano chiusa in un guanto morbido. Un contatto dolce, etereo; un'anestesia
locale per la mia pelle. «Fa molto male?» «Solo quando rido.» «Allora sarà meglio parlare di cose serie», ribatte lei. «Una tazza di caffè?» chiedo. Dana guarda l'orologio. «Perché no? La serata è rovinata. Ho la sensazione che non sarà una cosa veloce.» Venti minuti più tardi, nell'aroma del caffè appena fatto, Dana studia il contenuto del messaggio di Kathy Merlow e la busta. Ho lasciato la fotografia nella tasca interna della giacca. È il mio asso nella manica e, per il momento, lo tengo per me. «Non è che sia molto», commenta lei, dopo aver letto il messaggio. «È una traccia.» «Però potrebbe averlo fatto spedire da qualcun altro.» Dana sta guardando il timbro postale. «Se questa Kathy Merlow vuole davvero restare nell'ombra, potrebbe aver dato la busta a un'amica che andava in vacanza e aver fatto ritirare da lei il pacchetto al fermo posta. Io avrei agito così.» «È una fortuna che non debba cercare te», scherzo. Lei fa una smorfia, sorride. «Ti sto solo spiegando che cosa avrei fatto io.» «Tutto è possibile. Ma, per il momento, il biglietto e la busta sono le uniche cose che ho.» «Perché sei tanto sicuro che la Merlow sappia qualcosa?» «Per quello che mi ha detto Marcie Reed.» «Cioè?» «Kathy Merlow sa chi ha ucciso Melanie.» «Te lo ha detto questa Marcie?» «Non mi ha fatto nomi. Però ha detto che è stato un killer prezzolato. Che il resto dovevo chiederlo a Kathy Merlow.» Un'ombra scende sul viso di Dana. «Un killer prezzolato? E Kathy Merlow come può saperlo? Capisco che possa identificare l'assassino, se lo ha visto, ma...» «Forse non ha visto proprio niente», ribatto. «Forse le hanno detto qualcosa.» «Non capisco», dice lei. «Pensa a quello che sappiamo. Sappiamo che Melanie era incinta al momento della morte e, stando a Laurel, Jack non è uno dei candidati al
ruolo di padre.» «Quindi Melanie se la faceva con un altro uomo. Uno, o più», riflette lei. «A me ne interessa uno solo in particolare. Qualcuno che abitava vicino a lei. Che poteva entrare e uscire dalla casa di Melanie senza problemi. Che poteva sapere quando Jack non c'era. Che poteva essere lo stallone preferito di Melanie. Un vicino cordiale, insomma.» «Il marito di Kathy Merlow», conclude Dana. «Entra in scena George Merlow.» «Ma come faceva George a sapere di un killer prezzolato?» «E se Melanie avesse cominciato a preoccuparsi? Se avesse temuto che Jack sapesse di lei e George? Conosco Vega», le ricordo. «Non farebbe mai buon viso a cattivo gioco. Se stava progettando una cosa simile, sotto stress, Jack si sarebbe potuto leggere come un libro aperto. E Melanie potrebbe aver avuto più di vaghi sospetti. Potrebbe aver intercettato un appunto, un messaggio telefonico che l'ha gettata nel panico. Troppo poco per avvertire la polizia, ma abbastanza per tenerla sveglia di notte. E a chi poteva dirlo? A chi lo avrebbe confidato?» «A George.» Annuisco. «Così George, amante premuroso, sta di guardia. E quella sera vede anche troppo. Vede l'assassino. Ormai è tardi per fare qualcosa. Gli viene l'idea che, se Jack ha fatto ammazzare la moglie, avrà una gran voglia di sistemare anche l'amante. George si spaventa. Deve spiegare qualcosa a sua moglie. Vuota il sacco, racconta tutto a Kathy. Lei è una che sa perdonare, oppure non ha un'alta opinione di se stessa, come vuoi tu...» «E i due scompaiono in un lampo», conclude Dana. «Esatto.» «Perché non restano? Perché lui non racconta alla polizia quello che sa?» «Perché l'unica cosa che sa è che Melanie nutriva qualche sospetto. Che potrebbe dire? 'Io gli scopavo la moglie e lei sospettava che Jack fosse geloso?' Nel mentre che la polizia indagava, George rischiava di finire nel bidone della spazzatura. Soprattutto se si fosse sparsa la voce che aveva visto il killer. I Merlow non avevano legami forti all'interno della comunità. In una situazione del genere, chi ha cervello taglia la corda.» «Allora hai bisogno di Merlow come testimone?» «Esatto. Senza di lui, ho in mano soltanto prove indiziarie. Al massimo posso puntare i riflettori su un altro individuo sospetto. E, se il mio castello crollasse, trovare circostanze attenuanti sarà una battaglia lunga e ardua.»
«Se succedesse, non t'invidierei proprio», dice lei. Dana ha ragione. Laurel non è la moglie singhiozzante o la bambina molestata per la quale trovare mille giustificazioni. Mia cognata è soltanto un'ex in cerca di vendetta, o almeno così si sostiene. «C'è un'altra possibilità. Un'altra ragione che potrebbe averli spinti a scappare», riflette Dana. «Come fai a essere sicuro che Kathy Merlow o il marito non siano coinvolti nell'omicidio di Melanie?» «Non ne ero certo fino a oggi. Pensaci un attimo. Il corriere consegna il pacco; contemporaneamente, qualcuno chiede di parlare con me sulla piattaforma di carico. La fatina azzurra? Il mio angelo custode?» chiedo. L'espressione di Dana è interrogativa. «Qualcuno voleva Marcie Reed morta perché non potesse dirmi qualcosa. Qualcosa su Kathy Merlow. E voleva anche che io restassi illeso. Di solito, chi manda pacchi-bomba non ha una simile gentilezza d'animo. Se mi vogliono vivo, è per un motivo preciso. Sanno che sto cercando i Merlow. Secondo me, stanno facendo la stessa cosa anche loro, e sperano che sia io a fare il lavoro per loro. Un avvocato invischiato fino al collo in un processo per omicidio, in grado di costringere qualcuno a presentarsi in aula come teste. Non è poi tanto male...» «Allora credi che vogliano uccidere i Merlow?» mi chiede. «Perché?» «Penso che chi ha ucciso Marcie Reed abbia anche sparato a Melanie Vega, e sia stato visto. In un modo o nell'altro, il killer ha scoperto di essere stato identificato. Adesso sta cercando di mettersi al sicuro.» Mi guarda, a occhi sgranati. «È lo stile di Jack. Fidati. È capacissimo di assoldare qualcuno per far fuori Melanie. Quando controlleremo, sono sicuro che avrà almeno sei alibi per la sera dell'omicidio. Pensaci su. Sua moglie è incinta. Ha un amante giovane. Jack sta per finire in galera. Lei non lo aspetterà. Un politico trombato, senza futuro, senza soldi per le multe che dovrà pagare. Per Jack, Melanie era un bene prezioso più da morta che da viva. Se fosse riuscito a riavere i figli, avrebbe giocato sull'emozione suscitata dalla morte violenta della moglie, facendo appello al vostro buon cuore. Si stava preparando a suonarvi come un pianoforte.» «E il pacco-bomba? Credi che Jack abbia avuto una parte anche in quello?» «No. Io penso che la situazione sia diventata incontrollabile. Che il killer si sia lasciato prendere dal panico e abbia ingaggiato qualcun altro per coprire le proprie tracce. Deve essere disperato.»
«E all'ufficio postale non è stato troppo efficiente», commenta lei. «Se il tuo racconto è esatto, qualche persona ha visto il corriere.» «Vero. I disperati fanno stupidaggini del genere.» «E Jack che c'entra in tutto questo?» «Non so se a questo punto sia al corrente di quello che sta succedendo. Probabilmente ha pagato il compenso standard per un killer professionista, l'attuale tariffa di mercato. Secondo me non sa che è successo un casino. Che ci sono questioni in sospeso, un testimone dell'omicidio. La sua perfetta macchinazione sta per esplodere... Comunque, una cosa è certa: fra qualche ora, i tuoi amici federali sapranno che io mi trovavo all'ufficio postale. Non ci metteranno molto a identificarmi. Impronte digitali sulla scena, le descrizioni di qualche impiegato. La mia fotografia è uscita sui giornali quasi tutti i giorni, dopo che Laurel è stata incriminata. Quando mi metteranno le mani addosso, passerò una settimana a rispondere alle loro domande, a guardare foto segnaletiche nella speranza d'identificare il corriere.» «E non potrai trovare Kathy Merlow», completa lei. «Hai afferrato il concetto.» «Perché non mandi un investigatore a cercarla?» «È una cosa che devo fare io. L'ho promesso.» «A chi?» Non rispondo alla domanda, ma lei mi legge nel pensiero. «A Marcie Reed», dice. Altro silenzio. «È morta.» «Il che rende ancora più vincolante il rispetto della promessa, non ti pare?» «Assurdo.» «Può darsi. Però devo farlo io. Una persona che ho trascinato in questa storia è già morta.» «Quello che vuoi fare è pericoloso», mi ricorda Dana. «Lo hai detto tu stesso, sono alla disperazione.» «Non ho molta scelta. E non ho molto tempo.» Sto guardando l'orologio. «Che vuoi da me?» chiede. «Ho un volo che parte fra meno di un'ora. Non potevo aspettare domattina. I tuoi amici federali potrebbero avere già buttato la rete. Domani, le mie probabilità di riuscire a prendere un aereo sarebbero inferiori al cinquanta per cento. Quindi, questa nostra conversazione è un tantino riserva-
ta. Ti sto dicendo quello che so perché mi fido di te. Mi do una ripulita all'anima. Se mi prenderete quando sarò là, voglio poter dire che vi ho fornito tutti i particolari.» «Grande. E io che dovrei dire?» «Che non sei riuscita a fermarmi. Ci hai provato e ti sono sfuggito.» «Però c'è anche un'altra ragione?» chiede. «Infatti.» «Mi stai dicendo che, nel caso tu non dovessi tornare, vuoi che qualcuno con una certa autorità abbia il quadro generale dell'accaduto.» «Non mi era mai passato per la mente», dichiaro. Lei sorride. «Bel tentativo.» «Be', se dovesse succedere, riferisci tutto, corriere compreso. Ho lasciato una sua descrizione scritta a Harry. Fino alle lentiggini che ha sul culo. Come minimo, un'altra persona lo ha visto all'ufficio postale. Un certo Howard. Qualcuno dovrebbe riuscire a identificare un killer professionista. Se ha precedenti.» «E tua figlia? Dov'è?» «Con degli amici, da qualche ora. Una coppia che Nikki e io frequentavamo spesso. Vivono in campagna. Hanno un pony e una bambina dell'età di Sarah. Si troverà benissimo.» Non glielo dico, ma Sarah sarebbe andata là in ogni caso, che io partissi o no. Dopo la sorpresa del pacco-bomba, non correrò rischi. «Non dovresti farlo. Noi due non dovremmo nemmeno parlarne. Io dovrei chiamare l'FBI e tu dovresti rispondere alle loro domande e guardare fotografie.» «Non ho scelta», ribatto. «Se non trovo i Merlow, Kathy o George, affronterò il processo su basi che sono al massimo traballanti. Una dolce signora verrà sbattuta in galera per parecchio tempo, o peggio. Quindi, parto. Non cercare di fermarmi.» Dana ci riflette su per un lungo momento, in silenzio, sorseggiando il caffè. Rigira fra le dita la busta dei Merlow, da un lato e poi dall'altro, e alla fine la mette sul tavolo, col francobollo all'insù. Guarda il timbro postale, le lettere perfettamente chiare all'interno del cerchio: HANA - HAWAIIAN ISLANDS - 96713 - USPS. «Il tuo volo è al completo?» chiede. «Non so.» «Se lo è, posso usare le mie credenziali per rubare il posto a qualcuno. Priorità governative», spiega.
«Nemmeno per sogno», ribatto. «Allora non prenderai mai l'aereo.» «Perché?» «Ti fermerò.» Visioni di poliziotti che scendono dalle loro auto. Non c'è un briciolo d'ironia nel suo sorriso. Dana è mortalmente seria. Se non la porto con me, mi farà prelevare all'aeroporto. Magari mi faranno scendere dall'aereo. «Stiamo parlando di un crimine federale», scandisce. «Un'impiegata postale è stata uccisa in un edificio federale. Non posso prendermi la responsabilità di lasciarti partire da solo a caccia di qualcuno che, stando alla tua stessa teoria, è un bersaglio vivente, il testimone di un altro omicidio. E, a quanto hai detto tu stesso, stanno seguendo i tuoi movimenti... Se ti succedesse qualcosa, come potrei continuare a vivere con me stessa? E che direi a Sarah?» Sorride. Una dolce aria felina, la testa leggermente piegata di lato, i capelli raccolti sulle spalle. «Affare fatto?» Il mio spazio di manovra si sta restringendo. «Se trovo la Merlow, posso averla come testimone?» chiedo. Sto cercando di sottrarmi all'influenza della bellezza di Dana. Mi sforzo di tenere acceso il mio cervello di avvocato sotto l'intensità al laser dei suoi occhi, sotto l'assalto della fragranza del suo profumo. «Perché no? A questo punto, abbiamo un interesse reciproco. Tu risolvi il tuo omicidio, e forse io risolverò il mio.» Vede che la mia decisione comincia a vacillare. Non che io abbia molta scelta. «Fammi chiamare per comperare il biglietto», dice lei. «Poi andiamo a casa mia a fare le valigie. A meno che tu non abbia uno spazzolino da denti extra e una camicia da notte.» «Possiamo vederci all'aeroporto. Vai tu a casa tua a fare le valigie.» «Non se ne parla nemmeno.» Il sorriso di Dana si allarga. «Non ti perderò di vista finché non saremo sull'aereo.» Faccio per controbattere, e lei mi ferma con un dito sulle labbra. «Sttt. Tu parli troppo», dice. Il suo morbido palmo, adesso non più coperto dal guanto, scivola sul tavolo, si posa sulla mia guancia disastrata. Come un balsamo capace di placare la tensione e il bruciore di terminazioni nervose squassate dal dolore, Dana ha uno sguardo caldo, tenero, e gli occhi parlano di camere da letto.
13. Sei ore in aereo, una parte delle quali trascorse con la testa di Dana addormentata sulla mia spalla, non sono un'esperienza del tutto sgradevole. Dana si muove sulla mia spalla, si stiracchia, inarca la schiena sul sedile. «Vado a telefonare», annuncia. «Cerco di prenotare le camere.» È già stata da queste parti, così lascio fare a lei. «Tieni. Aggiornati sulla situazione», dice. Mi passa il giornale della sera di Capital City, estratto dalla tasca laterale della sua borsa portadocumenti, sotto il sedile davanti a lei. La guardo percorrere il corridoio verso uno dei telefoni posti nella zona anteriore dell'aereo. La bomba all'ufficio postale è il piatto forte; un titolo a tutta pagina con una foto su tre colonne: il nastro della polizia lungo il perimetro della piattaforma di carico, una marea umana di curiosi nel vicolo dietro l'edificio, cinque ira autopompe e auto della polizia. Sul nome dell'impiegata uccisa verrà mantenuto il segreto finché non saranno stati avvertiti i familiari. Penso ai figli di Marcie, a quel bambino di sette anni di cui mi ha parlato, e mi chiedo: ha un padre? Che ne sarà di lui, adesso? E penso a Sarah. Non fosse stato per qualche metro di distanza fra me e la porta dell'ufficio... Al momento, i particolari sono scarsi. Il giornale riporta una robusta dose di congetture, dichiarazioni di funzionari postali sul continuo rischio di bombe spedite per posta, sulla difficoltà di prendere precauzioni efficaci dato il volume di lettere e pacchi. Ipotesi, per la maggior parte errate. Scorro l'articolo, due colonne, e giro pagina. Non un cenno sul corriere o sul pacco che ha consegnato. Mi chiedo che cosa sia successo a Howard, il collega di Marcie che ha accompagnato in ufficio il corriere. Lo hanno interrogato? Hanno ricostruito l'accaduto? Giro pagina. Nient'altro. Dana, a qualche metro da me, è voltata di schiena. Sta premendo altri tasti del telefono. Forse ha problemi a trovare una sistemazione in hotel. Quando rialzo la testa, sta tornando verso di me. «Penso che il posto ti piacerà», dice. «Ci sono stata una volta con mio marito, anni fa.» «Sono certo che andrà benissimo», le rispondo. Non siamo in vacanza. Lei si accomoda sul sedile e allaccia la cintura. Ho una mano infilata nella tasca della mia giacca sportiva. Sotto le mie
dita, la fotografia della chiesetta, adesso avvolta in un involucro di plastica; la foto che ho tenuto nascosta a Dana. I miei occhi riprendono a scorrere il giornale. Sul fondo della pagina c'è qualcosa d'interessante: si è liberato un posto al Tribunale Federale di Capital City, e il nome di Dana occupa una posizione di tutto riguardo in un breve elenco di possibili candidati. La signora si fa strada. Le mostro l'articolo. Punto l'indice sotto il suo nome. Lei fa la modesta. «I giornalisti», sospira. «Se finisci nel loro mirino, non ne vieni più fuori. Devono pur avere qualcosa da scrivere tra un annuncio pubblicitario e l'altro...» Ma io non la bevo. Dana è entrata nell'élite di potere di Capital City. Gode di un'ottima reputazione; è una seria candidata per le alte cariche. Parliamo un po', a tratti ci appisoliamo. La mia testa è una giostra. L'esplosione di oggi pomeriggio, la pressione in cabina, il ronzio dei motori: tutto cospira per indurmi al sonno. Arriviamo che è quasi mezzanotte, ora delle Hawaii. Mentre percorriamo, sull'auto presa a nolo, gli ultimi chilometri che ci separano da Wailea e dal nostro hotel, le stelle sono così luminose che viene voglia di allungare la mano per afferrarle. Al volante ci sono io; Dana mi fa da secondo pilota. Mi sarei fermato a dormire in un buco qualsiasi nella zona dell'aeroporto, ma Dana ha insistito. Dice che avremo bisogno di una buona notte di sonno, per affrontare domattina la strada per Hana. «Ci sei già stata?» le chiedo. «Una volta.» «Com'è?» «Il paradiso in terra», risponde. «Mari azzurri, cieli azzurri, nubi turgide e colline verdi. Molto, molto verdi.» Sorride. «E poi c'è la strada per Hana.» «Cioè?» «Vedrai domattina.» L'autostrada finisce di colpo. Svolto a destra, su una stradina serpeggiante che scende verso il mare. Finiamo davanti a un centro commerciale di dimensioni gigantesche. Vedo cartelli con frecce puntate in ogni direzione: campi da golf e country club disseminati per tutti i punti cardinali. «Devi girare a sinistra», mi spiega Dana. Svolto e, dopo un centinaio di metri, vedo l'insegna che indica l'hotel.
Entriamo sul sentiero d'accesso e ci fermiamo a un chiosco. Una donna in sarong di seta fa gli onori di casa. «Benvenuti al Grand Wailea. Sarete nostri ospiti?» «La prenotazione è sotto il nome Colby», risponde Dana. «Ma certo», annuisce la donna. «Avete telefonato.» La donna mi dà un pass per il parcheggio e ci fa entrare. Percorriamo un grande sentiero dalle ampie curve, superiamo cascate illuminate da luci multicolori. Un'ultima svolta, e ci fermiamo sotto l'imponente tettoia per automobili dell'ingresso. Un inserviente si fa dare le chiavi dell'auto. Un fattorino prende i bagagli. Se esistessero le sei stelle, questo hotel le prenderebbe tutte. C'inghirlandano di fiorì mentre entriamo in un atrio che sembra uscito da un kolossal hollywoodiano: spazi aperti e vegetazione rigogliosa, una vasca per i pesci più grande di certi laghi, e un enorme banco al centro, coperto da un tetto a mattonelle azzurre che fluttua in aria, su spirali di cemento, a una quindicina di metri dal suolo. Ci accoglie una ragazza in livrea bianca: tunica bianca con bottoni dorati, occhi asiatici, e un accento che profuma d'intrigo. Fanno le radiografie alle nostre carte di credito, e io mi chiedo se la mia possa reggere. Dana si china sul mio orecchio. «Non preoccuparti. Ho un buon budget.» La ragazza al banco sorride. Grande. Trecento dollari a notte, penso. Ci portano salviettine calde per le mani e piccoli bicchieri di succo di papaia. La ragazza batte due volte sul campanello e i nostri bagagli appaiono su un carrello. Seguiamo il fattorino fino all'ascensore, e poi fuori, sotto stelle e torce, oltre i baniani giganti e un mare di bambù, con le fronde che lanciano schiocchi secchi sotto gli alisei. L'inserviente ferma il carrello davanti a una porta di lucido smalto bianco con finiture in ottone, e la apre con la tessera magnetica. Fa entrare Dana, scarica i suoi bagagli, e mi accompagna alla mia stanza, alla porta accanto. Gli do la mancia, e se ne va. Il posto è superbo, ma afoso. Apro le persiane e la porta scorrevole sul retro della camera, esco sulla terrazza affacciata sul mare: schiuma bianca che si gonfia su una curva di sabbia, candida nel chiarore lunare. Sento bussare.
È Dana, alla porta di comunicazione fra le due stanze. Apro dalla mia parte, e lei entra. «Ti piace?» mi chiede. «E come potrebbe non piacermi? Il tuo stipendio deve essere un po' meglio del mio quando lavoravo per la procura distrettuale», le rispondo. «Ho predisposto il terreno», ridacchia lei. «A Honolulu c'è gente che mi doveva un favore.» «Chi sarebbero?» «Gente. Rilassati. Goditi la nottata. Domani... la strada per Hana.» Dal tono, sembrerebbe una minaccia tremenda. Poi mi sorride. La notte è calda, ma la brezza che spira dall'oceano porta un certo fresco. Rabbrividisco, più per stanchezza che per altro. Mi appoggio alla ringhiera della terrazza. «Vuoi ordinare qualcosa da mangiare in camera?» Scuoto la testa. «Allora è così che vive l'altra metà», mormoro. Siamo lontani anni-luce dai cieli grigi e dalla nebbia gelida dell'inverno di Capital City. «È un posto magnifico, no?» Dana mi ha letto nel pensiero. «Penserai che sono un mostro. La donna viziata che rompe le scatole e pretende solo il meglio...» «Perché?» «Avrei dovuto lasciar prenotare a te», dice. Mi giro, la guardo. Sorrido. «Perché dovrei pensare che sei un mostro? Perché hai buon gusto?» Dana ha capelli che splendono, e il bagliore magico della luce notturna danza nei suoi occhi d'ametista. «Adesso stai diventando condiscendente», mi rimprovera. «Credimi, se la nostra destinazione fosse stata un'altra, avrei avuto soltanto la normale diaria, il solito rimborso spese per il viaggio. Ma stanotte è speciale.» «Perché?» Lei mi guarda, mi carezza il viso col dorso della mano. «Hai avuto una giornata dura. Ho pensato che avessi bisogno di qualcosa... di speciale.» «Tuo marito ti ha portata in posti di lusso. Doveva essere ben fornito.» «Sembreresti geloso.» Mi strizza l'occhio. Un sorriso da ragazzina. «Dimmi... non hai mai portato Nikki in un posto del genere?» Scuoto la testa. «Gli attacchi d'ansia nell'attesa del conto avrebbero distrutto tutto il piacere», la informo. «Siamo... Eravamo tutti e due colletti blu, fino alla terza vertebra cervicale. Le poche volte che siamo andati in vacanza, abbiamo affittato il cottage in montagna di un amico, e abbiamo
ripulito tutto da cima a fondo prima di ripartire.» Mi giro verso la ringhiera. Lei è alle mie spalle, col corpo premuto contro il mio, per farsi scudo dagli alisei. Sento il suo ginocchio contro l'incavo del mio. «La famiglia di mio marito era ricca.» Dana riflette ad alta voce, quasi parla tra sé, col mento appoggiato sulla mia spalla. «Il problema era che Darrel li sapeva solo spendere, i soldi. Poteva diventare il figliol prodigo, però non ha mai realmente lasciato casa sua. Non è mai cresciuto.» «Allora, dopo tutto, hai avuto un figlio da accudire», commento. «Ci puoi giurare. Oh, come donna mi sono sempre sentita bene al braccio di Darrel. Portava i vestiti adatti, faceva tutti i gesti giusti. Era alto, bello. Aveva fascino. Aveva anche il tipo di humour che può spingere una donna a dimenticare tante cose, e il dono di far credere che quella prima impressione durasse più della piega dei suoi calzoni... Mi ci è voluto quasi tutto il primo anno per capire da dove arrivassero i soldi. Darrel non sarebbe riuscito a tenere un posto di lavoro nemmeno se fosse stato padrone della ditta dove lavorava. Papà continuava a comperargli aziende, e Darrel continuava a considerarle un hobby.» «È per questo che è finito il vostro matrimonio?» «In parte. Una sera si è ubriacato e ho finalmente scoperto il suo lato oscuro. Aveva litigato con suo padre per questioni di soldi, e si è sfogato su di me. Mi ha presa a schiaffi finché io non ho trovato le chiavi dell'automobile. Non sono più tornata.» «Lo hai lasciato?» «Il divorzio più veloce della storia. Adesso dimmi: ti piace ancora come vive l'altra metà?» «L'erba del vicino eccetera eccetera», ribatto. Annuisco. Ondeggio nella brezza fresca, ascolto le onde che si frangono sulla spiaggia sottostante. La schiuma bianca brilla nella luce lunare. Tre dita della destra di Dana si sono infilate tra i bottoni della mia camicia e si aggirano sul mio petto. La punta di un dito si sposta su un capezzolo. È incandescente. Per un attimo mi chiedo se sia il caso di muovermi, ma non c'è proprio nulla di sgradevole. Una mano femminile sul mio petto; qualcosa che non sperimento da mesi. Il sussurro morbido delle sue labbra mi carezza la nuca. Mi giro, e la guardo negli occhi. Stordito, mi domando che cosa sia successo. Il vetro in frantumi, la morte, la paura, l'esplosione all'ufficio postale,
sembrano appartenere a un altro decennio, a un altro secolo. Sono ipnotizzato dal fuoco che arde sul viso di Dana. Le mie mani, dietro la sua schiena, prendono vita autonoma. Lei è morbida e calda. Le sue mani sulla mia camicia entrano all'improvviso sotto i bottoni slacciati. La seta della sua blusa, in un contatto estatico, mi carezza il petto. La pulsazione che avverto negli orecchi non è più di dolore. Le mie dita sono sui bottoni sul dietro della sua blusa. Ci abbracciamo, ci stringiamo, torniamo nella stanza, lasciando dietro di noi una scia d'indumenti. Le mie ginocchia strette da cosce di seta. La sua bocca impaziente premuta sulla mia, il sussurro della sua lingua. C'è lo strusciare del nylon contro la mia gamba nuda quando la corico sul letto. Sono improvvisamente prigioniero della realtà del suo corpo quasi nudo. Lei è sdraiata sul letto, coi capelli che piovono a cascata sul cuscino, nuda fino alla vita. I suoi seni morbidi sono due fari. I fianchi sottili sono circondati dal pizzo nero di un reggicalze. La pelle chiara delle cosce sopra il nylon. Mi guarda con occhi appannati dal desiderio: l'immagine speculare dei miei. Mi chiama. La sua pelle ha il profumo inebriante dei tropici. Io affondo in lei. I nostri corpi sono due oceani di piacere. Le sue labbra sono sul mio orecchio. Sussurrano passione, evocano il mio nome. I nostri corpi premono l'uno contro l'altro, si muovono, si scontrano. Seguono gli antichi ritmi, il calore del desiderio. Le sue dita sono dappertutto. La mia mente è un mare di confusione: desiderio, o amore. Le mie labbra, i miei denti sul suo capezzolo. Lei inarca la schiena, e nell'ansito della passione, pelvi contro pelvi, implora la liberazione dell'orgasmo. 14. Dardi di luce trafiggono le persiane della stanza come frecce dorate. Fuori, i canti di uccelli esotici s'innalzano dalla vegetazione, fondendosi con il rumore dell'acqua che scorre sulla pietra, nei giardini. C'è anche qualche voce umana, gente che cammina sul sentiero sotto la terrazza. I miei sensi, ancora smorzati, individuano un'ombra che si muove nella parte più lontana della stanza. Sono coperto da lenzuola spiegazzate, coricato sul letto. Sento il tocco della calda, umida aria del mattino dei tropici. Quando il mio sguardo si mette a fuoco, lei è su una sedia. Ha gli occhi puntati su di me, e sorride. Dana è avvolta in due salviette. Ha i capelli u-
midi, appena lavati. «Nessuno ti ha mai detto che quando dormi emetti piccoli suoni?» chiede. «Leggeri miagolii.» E imita un gattino che si lamenta perché vuole uscire dalla scatola in cui lo hanno chiuso. «Delizioso», commento. E finalmente mi rendo conto di quanto sia intensa la luce del giorno, fuori. Rotolo su un fianco e mi metto a sedere, coperto da un lenzuolo. «Che ore sono?» «Quasi le dieci», risponde lei. «Che cosa? Perché non mi hai svegliato?» «Oh, sì che ti ho svegliato», s'indigna. «Stanotte. Almeno tre volte.» «Molto divertente», dico. Sento ancora il desiderio di Dana gonfiarsi nel mio inguine, un'incursione ai limiti dell'edonismo totale, e mi chiedo quale sostanza creata da Dio possa inondare il cervello e produrre tanto piacere. «Eri stanco. Ho pensato di lasciarti dormire.» Sfioro i graffi sul mio viso, prodotti dalle schegge di vetro. Due bende si sono staccate durante la notte. Chissà quanto dell'indolenzimento che sento in corpo viene dall'esplosione, e quanto invece dalle nostre attività notturne. «A quest'ora dovremmo essere a metà strada da Hana», mormoro. «In dieci minuti sono pronta», ribatte lei. Mi alzo. Le lenzuola scivolano sul pavimento. Mi metto a frugare sul sentiero degli abiti sparsi in giro, in cerca dei calzoni. Ho vaghi ricordi di qualcuno che fa la doccia nel cuore della notte. Mi tasto il corpo. Appiccicoso. La doccia non l'ho fatta io. «Sono sull'altra sedia», mi indica Dana. Intende i miei calzoni. Li prendo e faccio per infilarli, poi mi accorgo di non avere addosso la biancheria intima. Lei ride, forte. «La tua valigia è là», spiega. «Vicino al tavolo.» Prima di tutto, l'essenziale. Frugo e trovo un paio di boxer puliti. Dana si alza, va nel bagno della sua stanza. Sento il rumore del phon. «Sul tavolo qui ci sono croissant e caffè», urla lei, nel ronzio dell'asciugacapelli. «Li ho ordinati io. Servizio in camera!» In tre secondi sono al tavolo della sua stanza e mi servo con tutte e due le mani. «Hai fame?» «Come un lupo», la informo.
«E sei anche peloso come un lupo.» Ho un petto villoso, e al momento non porto la camicia. «Quanto ci vorrà per arrivare a Hana?» «Dipende da quanto pericolosamente vuoi vivere», ammicca lei. La strada per Hana è un paradiso sui generis: campi verdeggianti di canna da zucchero e villaggi, una linea costiera rocciosa, le variegate superfici del mare, onde color smeraldo coronate da una schiuma bianca. Creste di lava si alzano da spiagge di sabbia bianca, formano uno sfondo marrone scuro perfettamente intonato alle cosce abbronzate delle ragazze in bikini che vediamo sfilare ai lati dell'autostrada. Poi, dopo una sessantina di chilometri, il paradiso si tramuta in inferno. Ponti a una sola corsia sopra curve a zig-zag, bianche pareti di cemento, e cascate che scendono per centinaia di metri dalla foresta vergine; tornanti così stretti che per metà del tempo viaggiamo sulla corsia sbagliata. Gli indigeni guidano come se bevessero un caffè ricavato da chicchi di testosterone. A quanto pare, la vita sulla strada per Hana è una perpetua roulette russa. La strada si restringe talmente che, a un certo punto, devo fare marcia indietro per una trentina di metri e fermarmi sul ciglio affacciato su un precipizio: il tutto per lasciar passare nell'altra direzione un camion che trasporta cemento. L'autista, un grosso hawaiano, mi regala il sorriso di un lottatore di sumo che ha sbattuto le mie chiappe fuori del cerchio. Tipo: che c'è, amico? Non abbiamo le palle? Anche Dana mi guarda come per dirmi che, se avessi tentato, avrei potuto infilarmi in mezzo alle ruote del camion e passare sotto l'asse. Le offro il volante, ma lei rifiuta. Sono le due del pomeriggio passate quando vedo il basalto nero della pista d'atterraggio dell'aeroporto di Hana. Sorge su un altopiano proteso sul mare, roccia lavica strappata alla giungla. Tre chilometri più avanti c'è la città. Due chiese, l'ufficio postale, un paio di drogherie, e una stazione di servizio. «La strada peggiora, dall'altra parte della città», mi spiega Dana. «Com'è possibile?» «Fidati. Ci sono stata.» C'è un unico hotel. Dana mi indica la direzione, e un paio di minuti dopo imbocchiamo il circolare sentiero d'accesso all'Hotel Hana-Maui: bungalow a un solo piano con tetti a tegole e latta, lo stile delle vecchie Hawaii,
prima che i megadollari americani e giapponesi cercassero di rivestire tutto di marmo come nell'antica Roma. Ma una cosa è certa. Hana sarebbe il posto ideale per chiunque voglia sfuggire agli occhi curiosi del mondo. Una donna ci dirige alla reception. I nostri nomi sono già sul registro: stanze comunicanti in un bungalow nel verde. Dana deve essersi data parecchio da fare al telefono dell'aereo, ieri sera. «Il signor Opolo è nel bungalow di fronte al vostro», c'informa l'impiegato. «Bene», approva Dana. «Chi è il signor Opolo?» «Te lo presenterò fra un minuto», risponde lei. Fiuto una sorpresa. «Dimmelo adesso.» «Lo incontrerai fra un minuto.» «Per piacere.» «È un amico. Di Honolulu.» «Che tipo d'amico?» «Un collega.» «Dana...» «Okay. È dell'FBI. Il direttore dell'ufficio di Honolulu.» «Figlia di puttana», esplodo. «Non avevamo un patto?» «Senti, da solo non concluderai niente. Jessie può aiutarci.» Io scuoto la testa. «Fantastico.» «Conosce la gente. Questa è un'isola, sai.» Dal tono in cui lo dice, sembrerebbe che siamo finiti nel peggior nido di vipere della Polinesia. «Se gli indigeni vogliono prenderti per il naso, lo fanno senza complimenti. Su queste colline ci sono un migliaio di case di ogni tipo, dalle ville megagalattiche ai tuguri in pietra con una sola stanza. I Merlow potrebbero essere in una qualunque di queste case.» «E potrebbero essere in questo hotel, nella stanza accanto alla nostra», ribatto. «Non ci sono. Abbiamo controllato», cinguetta lei. «Grande.» L'impiegato mi porge una mappa dell'hotel. In questo momento potrei sputarci sopra. Un fattorino prende i nostri bagagli e li carica su un carrello elettrico. Dana mi sta fornendo mille e una ragione per ringraziarla di avere tirato in ballo l'FBI. Sto cominciando a pensare che Harry avesse ragione, e a chiedermi chi
abbia fottuto chi, stanotte. Qualche minuto più tardi, lei sta ancora parlando quando il telefono nella sua stanza squilla. «Jessie.» Sollievo nella voce di Dana. È arrivato il Settimo cavalleggeri. «Dove sei? Vieni da me.» Due minuti più tardi bussano alla porta, e Dana va ad aprire. L'uomo è sui cinquant'anni abbondanti, capelli che sembrano di seta bianca, carnagione del colore del legno lucido. Ha un petto gigantesco. Un uomo grosso, con una faccia da totem, austera. Porta una di quelle camicie sgargianti, stampate a fiori di ogni colore dell'arcobaleno. «Ehi, ragazza. È bello rivederti», esclama. «È passato molto tempo», sospira Dana. «Vediamo. Da San Francisco... Quanto? Cinque anni?» Lei conferma, gli mette una mano sulla spalla, e gli dà un bacino sulla guancia. Opolo deve piegare un po' il collo per passare dalla porta. «Jessie Opolo. Paul Madriani.» Dana fa le presentazioni. Non sa di preciso come reagirò. «Lieto di conoscerla.» L'uomo sorride. Chissà se non ci mette anima, o se invece il sorriso riflette la sua astuzia polinesiana. Non voglio fare lo stronzo. Gli stringo la mano. «Piacere mio», dico. «Da quanto sei qui?» chiede Dana. «Da stamattina», risponde lui. «Sono arrivato in elicottero verso le nove.» «C'è qualcuno con te?» «Due agenti.» Un fottuto esercito, penso io. Mi allontano, alzando gli occhi al soffitto. Dana sa leggermi nel pensiero. «Immagino che vi stiate muovendo con la massima discrezione.» Ho visioni di agenti federali con fucili a tracolla. «Gli altri due agenti sono nella stanza», spiega Opolo. «L'unica cosa che abbiamo fatto è stato controllare all'ufficio postale. Il pacco, sai.» «Quale pacco?» chiedo. «L'anello.» Me n'ero dimenticato. L'anello di cui parlava Kathy Merlow nel suo biglietto. Quello che voleva farsi spedire da Marcie. «È stato ritirato ieri pomeriggio», precisa Opolo. «Purtroppo siamo arri-
vati troppo tardi.» «Qualcuno ha firmato per il pacco?» domando. «Sì.» Lui estrae di tasca un taccuino e lo apre, poi prende un foglietto di carta ripiegato all'interno. È una copia della ricevuta postale. «Era indirizzato ad Alice Kent, e la ricevuta è stata firmata con quel nome.» «Posso vederla?» Lui mi passa il foglio. Lo stendo sul tavolo, poi prendo dalla tasca il biglietto inviato a Marcie Reed da Kathy Merlow, e paragono la grafia con la firma sulla ricevuta postale. Due piselli in un baccello. «La Merlow è qui», annuncio. «Ha firmato lei.» Dana mi guarda. «Forse siamo già a metà strada.» Dana e gli agenti sono nella stanza accanto, raccolti intorno a un tavolino da caffè. Stanno discutendo dei metodi per rintracciare i Merlow. La porta fra le due stanze è aperta, così io guardo, da lontano. Hanno già tentato senza risultati diverse strade. L'azienda del gas, la compagnia telefonica e l'azienda elettrica non hanno nuovi utenti registrati sotto il cognome Merlow o Kent. Se vivono in questa zona, usano un altro pseudonimo. Hanno controllato i noleggi d'auto, partendo dal presupposto che ai Merlow servano quattro ruote. «Se hanno noleggiato un'auto sull'isola, hanno usato un altro nome», dice Opolo. «Non risulta un noleggio ai Merlow o ai Kent, e non c'è stato un solo movimento sulla carta di credito di George Merlow da quando i due sono scomparsi da Capital City.» Dana aveva ragione su una cosa. Opolo e i suoi uomini sono riusciti ad avere accesso a informazioni che a noi sarebbero state precluse: i dati di una carta di credito. «Penso che dovremmo parlare coi postini.» Opolo vuole concentrarsi sui postini che servono la zona intorno a Hana. «Il posto è piccolo. Anche se non consegnano posta a quei due, potrebbero sapere se ci sono nuovi arrivati, e dove vivono.» «I postini sono sei. Cinque stanno facendo il loro giro. Potremo averli tutti a disposizione solo nel pomeriggio.» Uno degli agenti ha già controllato. Mi sono infilato nella stanza. Me ne sto in un angolo come la proverbiale pianta nel vaso.
«C'è la drogheria, e il piccolo market», illustra uno del gruppo. «Gli unici posti dove si possa comperare cibo nel raggio di due ore d'auto. Dovranno pur mangiare...» «Forse», concede Opolo. «Qualcuno potrebbe averli visti in negozio, ma saprà dove vivono? I Merlow non offriranno di certo l'informazione in modo spontaneo.» «Potremmo sorvegliare i negozi», suggerisce uno degli agenti. È giovane e smanioso di fare qualcosa. Opolo lo guarda, scettico. «Un esercito di estranei che bighellona davanti ai negozi? C'individuerebbero subito. Entro un'ora lo saprebbero tutti. La città è piccola.» «Troppo buono», commento. «Okay, è un villaggio.» Opolo mi sorride. «Ma se una sola persona parlasse... un impiegato della posta, o dell'hotel... Entro un'ora, in città tutti saprebbero chi siamo, e che stiamo cercando qualcuno. La voce non impiegherà molto a spargersi. Se il signor Madriani ha ragione, la gente che cerchiamo sa come scomparire. Non avremo una seconda occasione.» Nonostante il tiro mancino di Dana, Jessie Opolo comincia a piacermi. Forse aveva ragione lei. «E gli agenti immobiliari?» incalza Opolo. «Quelli che affittano case e cottage? I Merlow devono essersi rivolti a qualcuno per trovare un alloggio. Abbiamo le loro fotografie?» Uno degli agenti si mette a frugare in una borsa di pelle già aperta. «Non sono un granché», spiega. «Le abbiamo ricevute dagli Stati Uniti. Dalla motorizzazione. Sono arrivate per fax stamattina.» Passa a Opolo due fax con fotografie di pessima qualità: immagini storpiate, torturate, ritratti umani stravolti, così indecifrabili che nemmeno i soggetti riuscirebbero a riconoscersi. «Niente di meglio?» chiede Opolo. «Potremmo provare a chiedere delle telefoto», riflette l'agente. «Ci vorrà un po'.» «Bene. Intanto, stendiamo un elenco degli agenti immobiliari della zona», decide Opolo. Guarda l'orologio. «Ci ritroviamo qui fra un'ora per andare a parlare coi postini.» I due agenti si alzano e cominciano a discutere di qualche particolare dell'ultimo minuto. Dana e Opolo, in un angolo, conversano in privato. Colgo l'occasione per tornare nella mia stanza. Ho messo la giacca nell'armadio. Anche d'inverno, il sole hawaiano è
troppo caldo. Infilo la mano in tasca e prendo la fotografia della chiesetta. Due secondi più tardi sono fuori, sul sentiero che porta all'ufficio dell'hotel. Una passeggiata di cinque minuti e, quando raggiungo l'ombra del porticato davanti all'ufficio, sono madido di sudore. Un'impiegata, una ragazza, è seduta a un tavolo, come una portiera. Davanti a lei, libri e opuscoli turistici. Mi accoglie calorosamente. Un ospite pagante. «Avrei una richiesta.» «Ma certo. Se posso aiutarla.» «Ho qui una fotografia. Una chiesetta della zona. Se gliela facessi vedere, potrebbe dirmi dove si trova?» Il suo sorriso sbiadisce un po'. «Posso provarci», mormora. «Ci sono tante chiese.» «Me ne sono accorto.» Lungo la strada, Dana e io ne abbiamo incontrate una dozzina. Nessuna somigliava a quella della foto. Le mostro la fotografia. Lei la studia per diversi secondi. Mi guarda, dalla testa ai piedi: un turista in caccia. C'è un guizzo, e per un attimo penso che stia per dire qualcosa; poi esita. Cambia idea. «Ho paura di non riconoscerla», dice. «Mi spiace.» «C'è un telefono dove possa fare una chiamata internazionale e addebitarla sul mio conto?» «In biblioteca. Alzi il ricevitore e aspetti che le risponda il centralinista.» Mi indica la direzione. È una grande stanza. Un paio di poltrone e qualche mobile di rattan. Buon gusto, tranquillità, e fresco. Una parete, dal battiscopa al soffitto, è una libreria a vetri. Trovo il telefono, mi siedo, e attendo la voce del centralinista. Intanto scruto i titoli sui dorsi dei libri sugli scaffali, e una fotografia in cornice dietro il vetro, in bianco e nero. Mi risponde una centralinista, e io le do il numero di Capital City. Harry reagisce al secondo squillo, sulla linea privata. A Capital City gli uffici sono chiusi da un pezzo, ma lui aspettava la mia telefonata. «Come va?» chiede. Non gli dico che sono in compagnia dell'FBI. Non mi occorrerebbe un telefono per sentire l'ironia di Harry. «Bene», rispondo. «Niente da Mason?» Charles Mason & Co. è uno studio fotografico di vecchio stampo di Capital City. Ai tempi della corsa all'oro, immortalavano signori baffuti sui dagherrotipi. Oggi si dedicano a ritratti di famiglia, servizi fotografici per i
matrimoni e, nel mio caso, ingrandimenti formato poster di documenti che devo usare in tribunale. In questo caso, hanno ingrandito fino al possibile una certa fotografia. È la commissione che ho sbrigato ieri pomeriggio, dopo essere uscito dall'ufficio, prima d'incontrarmi con Dana. «L'hanno portata a dodici ingrandimenti. Niente», sospira Harry. «Solo un sacco di puntini.» «Scritte sulla chiesa?» «No. Nella foto c'è solo una fiancata della chiesa. Il tecnico di Mason pensa che se c'è un nome o qualcosa d'altro, deve essere sulla facciata.» «Fantastico.» «Dall'ingrandimento è saltato fuori un cartello», m'informa Harry. «Ma niente di utile.» «Che cosa dice?» «Lettere bianche su fondo nero. Difficile da leggere perché è scritto a mano. Da quello che siamo riusciti a decifrare, invita la gente a non calpestare le tombe. Non ha mica molto senso... Una chiesa e un cimitero in mezzo al nulla. Ti sembra il posto buono per attirare le folle?» «Tutto il contrario.» «Non so. Da quanto posso vedere, la fotografia è un grosso buco nell'acqua.» È entrata una donna. Sistema alcuni libri su uno scaffale, ne sposta altri. Harry mi augura buona fortuna. Riappendiamo. La donna si mette a spolverare. Apre l'anta di vetro al centro. Posso vedere meglio la foto in cornice, al centro dello scaffale. Un uomo con un berretto da aviatore, in piedi davanti a un aereo. Un volto riconoscibile da ogni adulto della mia generazione. La donna si accorge che sto guardando. «Ha vissuto da queste parti per un po'», mi spiega. «Anzi, è sepolto a poca distanza da qui, in un piccolo cimitero.» Vado a novanta all'ora, tenendo d'occhio l'orologio. Sono quasi le quattro, e io mi chiedo quali siano i parametri dei pomeriggi di Kathy Merlow. Il biglietto diceva che trascorre i pomeriggi nel cimitero dietro la chiesa. Prego che oggi sia ancora lì. Un ricordo improvviso mi ha colpito con l'intensità di un raggio lunare che penetri da una finestra aperta: quello che c'è scritto sul retro della fotografia. Qualcosa a proposito delle ali dell'aurora. Quando ho mostrato la foto alla donna in biblioteca, mi ha detto: «Ma sì.
È sepolto proprio lì». Ottenere indicazioni è stato un altro paio di maniche. Dapprima riluttante, ha affermato che avevano avuto un'infinità di problemi subito dopo la sua morte. I curiosi avevano invaso la chiesetta, scattato fotografie, raccolto fiori. Ma questo accadeva vent'anni fa, e oggi la situazione è più tranquilla. Però gli indigeni hanno un forte istinto protettivo. Le ho assicurato che dovevo incontrarmi con qualcuno lì, che ero in ritardo, e alla fine lei si è decisa a spiegarmi dove si trova la chiesa. Dopo le Sette Pozze, non bisogna lasciarsi fregare dalla chiesetta a lato dell'autostrada, mi ha avvertito, aggiungendo: «Sa, ci cascano quasi tutti i turisti». Quindi imboccare la prima strada sulla sinistra, un po' di zig-zag, e poi un'altra svolta a sinistra. Dana aveva ragione. Usciti da Hana, la strada peggiora. È più stretta, invasa da una vegetazione che spesso graffia i lati della mia auto. Arrivo in cima a una collina e quasi scendo su una stradina privata prima di vedere la svolta. A questo punto, probabilmente Dana e gli agenti si staranno chiedendo dove sono finito. Cercheranno l'automobile nel parcheggio. Qualche turista armato di videocamera si arrampica sul ponte dell'autostrada, vicino al sentiero per le Sette Pozze. Un paio di uomini mi scoccano occhiate cattive mentre passo a razzo sul ponte. Dall'altra direzione sta arrivando una fila di veicoli. Altri tre chilometri, e vedo una chiesa sulla destra. Falsa pista. La supero. Un chilometro e mezzo più avanti ci sono un cancello aperto e un cartello, sulla sinistra. Svolto. Ghiaia e roccia lavica, stradine private chiuse da catene che quasi invadono la strada. Ancora una svolta a sinistra, sotto una distesa di baniani giganti che trasformano la strada in una caverna di fogliame. Dai rami pende muschio morto. Poi la vedo. La chiesetta della fotografia, assi verdi sopra lo stucco bianco. La strada finisce in un parcheggio dal fondo ghiaioso, sotto l'ombra degli alberi. A qualche metro, due cani terribilmente magri sono sdraiati per terra. Sembrano morti. Uno alza la testa quel tanto da guardarmi. La polvere sollevata dalle ruote si alza in aria, poi precipita sul cane. Quello starnuta, riabbassa la testa e si rimette a dormire. Nel parcheggio ci sono altri due veicoli: un furgoncino carico di attrezzature da giardinaggio e una berlina. Un tizio sta caricando sul furgoncino una falciatrice e qualche sacco di plastica pieno d'erba tagliata. Un uomo e una donna guardano una lapide nel cimitero a fianco della
chiesa, sotto un grande baniano. A una certa distanza da me, oltre il cimitero, dietro un cancello, una vecchia siede davanti a un cavalletto. Indossa un abito a fiori e un cappello di paglia. Qui è tutto molto sereno. C'è il fruscio delle fronde delle palme nane, ai lati di un grande prato. Mi avvio sul sentiero, supero il cancello che si apre in un basso muro in pietra. Sono diretto alla chiesa. La porta non è chiusa, ma io sbircio da una delle finestre. Qualche panca in legno e un pulpito sul fondo. Dentro non c'è nessuno, così imbocco il sentiero sulla destra, quello che porta al cimitero. I raggi del sole sono caldi. L'umidità incombe nell'aria. Lontano una trentina di metri, c'è uno steccato, e lì il mondo finisce, la terra scompare: acqua azzurra fino all'orizzonte, cavalloni bianchi che si frangono sulle poche pietre risalite dagli abissi dell'oceano. Il rombo di un motore asmatico, il suono dei pneumatici sulla ghiaia. Il giardiniere è ripartito sul suo furgoncino. Pietre tombali e altri monumenti delimitano lo stretto sentiero a zig-zag verso il prato e il dirupo retrostante. Continuo a camminare. La coppia, due turisti asiatici, sembra finalmente perdere interesse per la lapide. Si voltano e tornano verso il parcheggio. Prendo il loro posto. Sotto il baniano, al limitare dell'erba, c'è una tomba con una lapide modestissima. Niente di sgargiante, di vistoso. Il nome inciso lì è stato un monumento a se stesso quando l'uomo che lo portava era in vita; ha fatto il giro del mondo prima che l'autostrada dell'informazione fosse un sentiero da cervi nella foresta dell'elettronica. Eleviamo a idoli rock star e rapper dalla testa ballonzolante, gente il cui contributo alla nostra vita è fugace quanto i pixel che portano le loro immagini ai nostri schermi televisivi. Nulla dura. È una misura della nostra povertà spirituale. Lui apparteneva a un tempo diverso. Un mucchio rettangolare di roccia lavica circondato da una catena, su paletti che si alzano di pochi centimetri dal terreno. La lapide, granito grigio non levigato, ha un'incisione che recita: Charles A. Lindbergh Nato a Detroit, 1902 - Morto a Maui, 1974 Se raggiungessi le ali dell'aurora e riuscissi ad abitare al di là del mare Sollevo la testa, e la chiesetta incombe su di me tra le fronde degli alberi che la circondano. La fotografia è stata scattata da questo punto.
Non c'è traccia di Kathy Merlow. Mi volto e m'incammino verso lo steccato, con il dirupo a una cinquantina di metri di distanza; scorgo l'ondulare delle acque azzurre, lo scintillio della luce solare sulle creste bianche. La vecchia sta rimettendo via le sue cose. Terminato il lavoro del pomeriggio, ripiega il cavalletto. È in una zona a prato, oltre il cancello. Sul cancello c'è un cartello: KIPAHULU POINT PARK. Il parco sembra fondersi con l'erba del cimitero. Mi piazzo allo steccato e aspetto. Fisso il mare, sperando che Kathy Merlow appaia. Guardo l'orologio: le quattro e mezzo passate. Mi chiedo se Opolo abbia avuto fortuna coi postini, se Dana mi stia cercando freneticamente. Vedo una grossa berlina blu sull'autostrada. Procede a velocità di crociera. Si ferma al cancello. L'autista sporge la testa dal finestrino, legge il cartello, poi riparte. La coppia di asiatici ha raggiunto l'auto. Il tonfo delle portiere che sbattono, il motore che parte. Fra un po' chiuderanno il cancello d'accesso dall'autostrada. Le mie probabilità di poter tornare qui domani sono pessime. Dana e Opolo vorranno sapere dove sono stato. Terzo grado. La vecchia cammina sull'erba a una trentina di metri da me, alle prese col cavalletto, un piccolo sgabello, una scatola di legno con gli arnesi del pittore. Guardo il parcheggio. A parte la mia automobile, è vuoto. La vecchia prende un'altra direzione, si allontana da me. Si dirige verso una piccola apertura nel recinto, vicino all'ingresso per il parco, e all'improvviso mi rendo conto di una cosa: non ha l'andatura di una vecchia. Schizzo via. Di buon passo, la raggiungo. Sono a tre metri dalla donna, che mi gira le spalle. «Mi scusi.» Lei si volta. Il suo viso non ha le rughe, la pelle avvizzita della vecchiaia. È più abbronzato e vigoroso dell'ultima volta che l'ho visto; ma l'espressione di Kathy Merlow è sempre spenta. 15. Ha l'aspetto dell'artista chic degli anni '30. Un kimono di seta dai colori sgargianti, a maniche larghe, aperto sul davanti, come la toga accademica di un professore di Oxford. Sotto, porta calzoni di cotone bianco e un top azzurro. Completano il quadro un enorme cappello di paglia, piegato ad angolo per proteggersi dal sole, e un paio di grossi occhiali scuri.
«Sì?» Il sorriso di Kathy Merlow non è molto schietto. «Posso esserle d'aiuto?» È impacciata dallo sgabello e dal cavalletto che regge in una mano. Nell'altra ha la scatola con colori e pennelli. «Non si ricorda di me?» chiedo. Uno sguardo cauto. «Sono Paul Madriani. Ci siamo conosciuti la notte dell'omicidio di Melanie Vega. Sulla strada di fronte alla casa di Melanie.» «Temo che mi prenda per qualcun altro.» Si gira e fa per ripartire. La prendo dolcemente per un braccio. «Non credo proprio. Ma forse si potrebbe togliere gli occhiali», suggerisco. «Mi levi le mani di dosso», ordina lei. Obbedisco. «Ho un appuntamento e sono già in ritardo.» Mi guarda con l'aria del ricco arrogante, cosa che le riesce molto bene dietro gli occhiali scuri, e pensa di avermi liquidato. «Posso aiutarla?» Tendo la mano verso sgabello e cavalletto. Lei li allontana. «Ce la faccio da sola. Mi lasci in pace.» Fa un passo all'indietro, in piena ritirata, e perde un sandalo. Inciampa, lascia cadere sgabello e cavalletto. La prendo di nuovo per il braccio. Mentre lei cerca di ritrovare l'equilibrio, il coperchio della scatola si apre. Tubetti di colore e pennelli si spargono sull'erba. «Guardi che cosa mi ha fatto combinare.» La lascio andare, e lei torna in equilibrio. «Mi spiace», mormoro. «Non sono qui per darle fastidio. Ho solo bisogno d'informazioni.» «Gliel'ho già detto, lei mi confonde con qualcun altro.» «Non la incuriosisce nemmeno sapere come ho fatto a trovarla?» Sta raccogliendo i colori. L'aiuto. «Marcie Reed», dico. Mi guarda. Se c'è curiosità nei suoi occhi, è nascosta dalle lenti scure. Però Kathy spinge all'indietro il labbro inferiore e lo mordicchia. «Non conosco nessuna Marcie Reed», dichiara. «L'anello che porta», indico. «Il cammeo. È quello che le ha spedito Marcie al fermo posta?» Lei smette di raccogliere colori e pennelli, si copre il dorso della mano destra con la manica del kimono. «Potremmo chiedere all'ufficio postale», spiego.
L'esterno di uno dei tubetti è sporco di pasta acrilica verde. Sul colore si è impressa quella che deve essere l'impronta del pollice della proprietaria, che al momento mi sta fissando negli occhi. Raccolgo il tubetto e lo infilo in tasca, in fretta. Lei non se ne accorge. Il mese scorso, si faceva chiamare Merlow. Questa settimana, senza dubbio, ha un altro cognome che io nemmeno conosco. Sarebbe bello avere il suo vero cognome. Non dice niente. «Sono certo che si ricorda di me», ribadisco. «Come ha fatto ad arrivare qui?» La prima crepa nel muro dei no. Gesticolo in direzione della mia automobile. «Secondo me, lei dovrebbe tornare in auto e andarsene.» «Prima dobbiamo parlare.» «Non abbiamo niente da dirci», ribatte. «Lei non dovrebbe essere qui. Ci saranno guai, se ci trovano insieme.» «Chi dovrebbe trovarci?» «Lasci perdere.» Catturati tutti i colori dell'arcobaleno, Kathy chiude la serratura della scatola. Io raccolgo il cavalletto. Lei me lo strappa di mano e si avvia sull'erba, con tutta la velocità permessa dai sandali, come una geisha in tenuta da lavoro. «Ha un'automobile?» chiedo. Non c'è risposta. «Posso darle un passaggio.» «No, grazie.» Sta mettendo distanza fra noi due. Una ventina di metri. Mi metto a correre. La inseguo. «Devo parlarle.» «No. Non ho niente da dire.» «Marcie Reed è morta», la informo. Si ferma di colpo. Quasi le sbatto contro da dietro. Lei gira la testa. «Marcie?» chiede. Annuisco. «Ieri pomeriggio, a Capital City.» Non dice una parola, però la notizia della morte di Marcie, una donna che sostiene di non conoscere, ha mandato in fumo tutto il suo sangue freddo. Cavalletto e sgabello sono di nuovo sull'erba. Come al rallentatore, il manico della scatola scivola dalle sue dita, e la scatola cade sul cavalletto. Il rumore del legno che colpisce il legno. Una mano si alza. Le dita coprono la bocca. Pare quasi che voglia ingoiarle. Persa nei suoi pensieri, gira la testa. Non la vedo più in faccia. Ma lei alza l'altra mano e si toglie gli
occhiali. «Com'è successo?» «Un pacco-bomba consegnato all'ufficio postale da un corriere privato.» Quando si gira, vedo per la prima volta i suoi occhi. Sono stanchi, cerchiati di nero, circondati da solchi: le impronte che potrebbero lasciare mille uccelli nel fango intorno a una pozza d'acqua, in una savana arida. Sta valutando la barbarie di una morte simile. Mi scruta, mi sonda. Ho l'impressione di una persona torturata dalla paura che, per stanchezza, arrivi all'improvviso a superare ogni timore. «Povera Marcie», sussurra. «Non avrei mai dovuto coinvolgerla. Mi ha solo fatto un favore.» «Lo so.» «Perché hanno dovuto ucciderla?» chiede. «Perché non me lo dice lei?» «Oh, Dio mio. Non doveva succedere niente di tutto questo», bisbiglia. «Ce lo avevano promesso.» «Chi?» La mia domanda la scuote dall'angoscia per Marcie. «Perché ha fatto tutta questa strada? Perché s'interessa a me?» «Rappresento una donna che è stata accusata dell'omicidio di Melanie Vega. Non è colpevole. Credo che lei lo sappia.» «Ahh.» La sua testa gira adesso in lenti cerchi, annuendo, come fa chi è completamente stordito. Nel suo cervello, i pezzi cominciano ad andare a posto. «E pensa che io possa aiutarla?» «Prima di morire, Marcie mi ha detto alcune cose.» «Quali cose?» «Che l'assassino di Melanie Vega è un killer prezzolato. Che lei ne sa qualcosa.» «Mi spiace che la sua cliente sia nei guai. Ma non posso aiutarla.» Su questa frase, inforca di nuovo gli occhiali. «Secondo me può aiutarmi. Mi racconti che cos'è successo.» In distanza, il suono di pneumatici sulla ghiaia. La berlina blu che ho visto qualche attimo fa ha lasciato l'autostrada. Sta arrivando qui come se non esistesse un domani. Un turista con molta fretta. L'auto si ferma nel parcheggio, solleva polvere. La mia domanda resta nel limbo per diversi secondi, sottolineata solo dal rombo distante del motore.
«Signora Merlow?» Lei è come paralizzata. Fissa il veicolo, che è immobile. Il motore continua a girare, ma nessuno scende. «Dobbiamo parlare», la incalzo. «Non adesso.» I suoi occhi non lasciano l'auto. «Quando?» Lei m'ignora. «Voglio solo sapere che cos'è successo. Mi dia una traccia.» «Non ho visto niente», dice. «E suo marito?» chiedo. «Lui sapeva qualcosa, vero? E lo ha detto a lei?» Sto pensando a Melanie e al suo luna-park carnale. Forse Kathy e George, Jack e Melanie facevano una cosa a quattro, uno scambio di partner. Forse è per questo che Kathy Merlow non vuole parlare. «Ci lasci in pace», implora. «No. Non vi lascerò in pace. Una donna è accusata di un omicidio che non ha commesso. Prima o poi, voi due dovrete dirmi quello che sapete.» «Io non so niente. Mio marito non sa niente.» «Si aspetta che creda che voi due avete lasciato Capital City nel cuore della notte, subito dopo l'omicidio di Melanie Vega, perché non vi piaceva il clima?» «Francamente, non m'importa nulla di quello che crede lei.» Lo dice concedendomi solo un'occhiata di sbieco, meno di metà della sua attenzione, che resta puntata sull'auto nel parcheggio. «È con lei?» chiede. L'occupante del veicolo è adesso a fianco dell'automobile. Il motore è ancora acceso. L'uomo sta appoggiato alla portiera aperta, dal lato dell'autista. Guarda da questa parte. Accende quello che sembra un grosso sigaro, un affare enorme con la punta già rossa. Socchiudo le palpebre nella luce del sole. Venendo qui, sono stato molto attento allo specchietto retrovisore. Ho controllato di non essere seguito da altre auto. «No», le comunico. «Ci sta guardando», dice lei. «Non credo. Sta guardando il cimitero», la correggo. «Un turista che probabilmente cerca la tomba di Lindbergh.» «Senta, adesso non posso parlare con lei.» «Più tardi?» «Forse. Ma adesso devo andare.» «Mi dica dove posso trovarla.»
«Forse domani.» «Dei forse non mi accontento.», Lei mi guarda, mi legge nel pensiero. La strada per Hana è stretta, impone una guida lenta. Potrei seguirla, e lo sa benissimo. «Domani pomeriggio. Alle due. Qui», sussurra. «Promette?» «Prometto.» Come un insetto molesto, si posa dapprima sulla sua tempia destra: un piccolo prisma rosso di luce, non più grosso della punta di una penna a sfera. Danza come un bagliore riflesso dalle sfaccettature di un cristallo. Lei si china a raccogliere la scatola dei colori, e la luce svanisce. Poi, quando Kathy si rialza, la luce riappare all'attaccatura dei suoi capelli. Mi occorre un istante per capire. Come un sigaro con la punta coperta di cenere, però diverso; un raggio di luce che un momento c'è, un momento dopo non c'è più. Un bagliore rosso da sguardo demoniaco. Con tutta la forza che il mio corpo riesce ad accumulare senza rincorsa, mi getto contro Kathy Merlow. La butto sull'erba, e atterro sopra di lei. Il crac della pallottola passa smorzato sopra la mia testa e si spegne fra i cespugli dietro di noi. Un'arma col silenziatore. Capace di una precisione micidiale grazie al puntatore laser. «Ma è impazzito?» Kathy mi spinge via, mi graffia la faccia neanche fossi un maniaco sessuale. «Si alzi.» La prendo per un braccio. «Mi lasci stare!» Con una mano cerca di spingermi via, con l'altra tenta di ripulire il kimono. Sono su un ginocchio, accucciato. Lei è in piedi, eretta. E capisco: non si è accorta che ci hanno sparato. La mia mano sul suo braccio è una morsa. Se sopravvive, le resteranno segni neri e blu. La spingo via, davanti a me, di traverso, verso la chiesa e le pietre tombali di granito. «Mi lasci... Mi lasci...» Lo ripete tre o quattro volte. «Mi lasci andare.» Agita le braccia, contorce le mani, cerca di liberarsi. «È impazzito?» Un altro crac nell'aria, a non più di due centimetri dal mio petto. Qualcosa si seppellisce nell'erba vicino al piede sinistro di Kathy. I suoi occhi sgranati paiono ingrandirsi ancora. Per un battito di cuore, resta paralizzata. Qualche passo incerto, poi si mette a correre. I sandali volano via dai suoi piedi. Mi lascia inginocchiato sull'erba. La raggiungo in due secondi. Corriamo appaiati. Con la coda dell'occhio
vedo l'uomo, dietro la portiera spalancata dell'automobile, prepararsi per un altro colpo. Dietro l'albero di baniano, con la tomba di Lindbergh fra noi, lo sento bestemmiare a una cinquantina di metri di distanza. Imprecazioni da far arrossire un marinaio. Movimenti nella mia visuale periferica quando lui alza la canna del fucile e comincia a muoversi parallelamente alla nostra corsa. Si accuccia dietro un muretto in pietra, cerca un punto favorevole per sparare. Un lampo. Qualcosa mi sfiora il collo. Scintille si sollevano dalla pietra quando l'uomo comincia a sparare a raffica, all'impazzata. Le pallottole rimbalzano sulle lapidi come palline in un flipper. L'erba è finita. Kathy Merlow, a piedi nudi, saltella cautamente sulle affilate rocce laviche del sentiero. Corriamo tra una raffica di pallottole, due bersagli da tiro a segno, e finalmente ci troviamo coperti dalla vegetazione intorno alla chiesa. Sul retro dell'edificio ci fermiamo. Kathy si piega su un ginocchio. Stringendo i denti, toglie un sasso dalla pianta nuda di un piede. «Tutto okay?» Annuisce. È senza fiato, ma incolume. «Dov'è la sua automobile?» Ma, prima che lei possa rispondere, appoggio l'indice sulle labbra. Scricchiolio di ghiaia, passi sul davanti della chiesa. Il suono del metallo che scorre sul metallo, un clic. Il nostro uomo ha ricaricato il fucile. Le meraviglie dell'omicidio moderno. Kathy mi indica, sul retro della chiesa, uno steccato semisepolto dalla vegetazione, un cancelletto. Si avvia in quella direzione, poi si volta a guardare se la seguo. Io scuoto la testa, le faccio cenno di andare, con forza. Lei, con le mani, m'invita a seguirla. Scuoto di nuovo la testa. Lasciata senza alternative, Kathy scompare nella giungla di rampicanti che copre il cancello. Lo vedo aprirsi. La forma di Kathy scompare, e il cancello si chiude. Una donna è già morta perché io ho cercato risposte alle mie domande. Adesso sono solo sul retro della chiesa. Ho come unica compagna una vecchia porta in legno. Sospetto che porti in sacrestia, l'area dietro il piccolo altare di legno. Altri passi. Questa volta vengono dal lato della chiesa. L'uomo sta avanzando verso di me, passando per il cimitero.
Provo la porta. La maniglia si abbassa, ma guardo i cardini arrugginiti e decido che farebbero troppo rumore. Un motore si avvia in distanza. Kathy Merlow ha raggiunto la sua automobile. I passi sulla ghiaia prendono il ritmo di una corsa. Se calcolo bene, l'uomo non è a più di quattro metri dall'angolo della chiesa, e corre veloce. Non c'è tempo per pensare. Spalanco la porta, e di colpo sono dentro, nella fresca oscurità della chiesa. La porta alle mie spalle è chiusa. Mi sposto in fretta dietro l'altare, mi perdo nella sua ombra. All'esterno, sento un veicolo correre sulla ghiaia, in direzione della chiesa. Altre bestemmie dell'uomo col fucile, che parte verso il cancello nello steccato. Afferro l'unico oggetto a portata di mano, il candeliere su un ripiano dietro l'altare, e lo scaravento contro una parete. Il tonfo forte del metallo sul legno. Il candeliere atterra sul pavimento. I passi all'esterno si fermano. Sento il rumore dei pneumatici che svoltano sulla sabbia, allontanandosi dalla chiesa. Un'accelerazione del motore, e Kathy Merlow è fuggita. Il rombo si perde su una strada che non conosco. Esitazione. Il rumore all'interno della chiesa è costato al killer la sua preda. Adesso ne cercherà un'altra. Sulla porta, alle mie spalle, c'è un gancio di chiusura sollevato a metà. Mi muovo in un silenzio ovattato. Infilo il gancio nell'occhiello metallico e, prima che io possa tornare all'altare, qualcuno fuori afferra la maniglia e la abbassa violentemente. La porta trema sui cardini, ma non si apre. Io sono premuto contro la parete a fianco della porta. Il gancio sussulta nell'occhiello. Smetto di respirare. Un altro strattone. Passano diversi secondi. Posso visualizzare l'orecchio sul legno della porta, l'occhio sul buco della serratura; e infine, dopo diversi secondi, sento passi che si allontanano. I passi s'interrompono bruscamente come erano iniziati. Forse l'uomo è arrivato sull'erba, in una zona del cimitero sul lato della chiesa. Silenzio di tomba. Io sono appiattito contro la parete, in piedi. Non so se sia solo l'ombra di un ramo sulla finestra, ma fuori qualcosa si muove. Nel più assoluto silenzio, torno dietro l'altare, a quattro zampe. Il sudore freddo della paura m'inzuppa la camicia. Da una crepa in una delle assi vedo una forma umana che si avvicina al vetro, illuminata dal sole del pomeriggio. Una mano si appoggia alla finestra. L'uomo si sta schermando gli occhi per guardare dentro. Capelli dirit-
ti, tagliati a spazzola: il viso del corriere che ha consegnato la bomba a Marcie Reed. Mi stacco dalla crepa nel legno e premo la schiena contro l'altare. Sono immobile come la pietra. Trascorrono secondi senza il minimo rumore. Praticamente non respiro più. Un martellio nella testa per la mancanza di ossigeno. I rivoli di sudore che colano lungo le mie guance gocciolano sul pavimento. Passano i minuti, un'eternità. Perdo la cognizione del tempo. Non voglio muovermi, nel timore di proiettare un'ombra su una parete. Riavvicino l'occhio alla crepa nell'asse. La figura alla finestra è scomparsa. Aspetto, guardo l'orologio. Trascorrono diversi minuti. Ho paura di muovermi. Resto in ascolto del rumore della sua auto, dei pneumatici sulla ghiaia. Ma non sento niente. Potrei seguire il percorso di Kathy Merlow, scappare dal cancello dietro la chiesa. Ma la mia automobile è nel parcheggio sul davanti. Infine mi rendo conto. Mi sta aspettando. Mi ha seguito, sa che auto guido. Prima o poi... Poi li sento. Altri passi. Questa volta sul davanti della chiesa. La ghiaia, il legno del porticato, una mano sulla porta. La porta si apre. Una lama di luce. Premo ancora di più la schiena contro l'altare. Scarpe che avanzano sul pavimento in legno, passi veloci nella mia direzione. A ogni passo conto i secondi di vita che mi restano. Penso a Sarah. Alla sua esistenza da orfana. Amare recriminazioni. Non avrei dovuto venire qui, lasciare mia figlia a pagare il prezzo. Le cose irresponsabili che fanno i genitori. Che cosa darei per un ultimo abbraccio prima di perderla... Un'ombra lunga in avvicinamento, sempre più corta sulla parete. In questo istante di panico cieco, la mia mente va in cerca di un'esperienza fuori del corpo. Vorrebbe fluttuare al di sopra di questa scena, sopra questo altare di morte. «Posso chiederle che sta facendo?» Dalla coda dell'occhio, una massa di capelli neri si protende su di me dall'angolo in legno dell'altare. Un volto magro, severo, di mezza età; una punta di grigio alle tempie. Il volto della pace, incorniciato in bianco e nero: un grosso colletto da sacerdote. «Che ci fa lì dietro?» insiste. «Oh, Dio!» Stringo le mani sul petto, boccheggio. «Sta bene?» Il sacerdote mi guarda, improvvisamente sollecito: una pecorella del suo gregge colpita da infarto.
Sono in iperventilazione. Cerco di compensare il deficit di ossigeno. «Benissimo», gli rispondo. «Sto benissimo.» La mia espressione comunica di certo l'esatto contrario. Lui gira intorno all'altare, mi aiuta a rialzarmi, mi appoggia contro la pietra. «Ha bisogno di un medico?» «No, no. Mi dia solo un secondo.» Il sudore scorre giù per il mio viso, mi tremano le ginocchia. Il prete insiste per conoscere la mia storia, il resoconto di quello che sto facendo qui. Qualcosa da usare per il sermone della domenica. Un caso da manuale d'incontro con Gesù dietro l'altare. «È una storia lunga», gli spiego. Guardo le finestre, il sole che comincia a scendere, le ombre di fine pomeriggio. Tento disperatamente di trovare saliva in una bocca arida. «Dovrà scusarmi, ma stavo pregando», mormoro. «Molto bene», dice il prete. «Questo è il posto giusto. Però bisognerebbe farlo là.» Mi indica le panche. «Non so perché, ma qui dietro mi sento più vicino a Dio.» Lui ci riflette su un attimo, poi annuisce, come per dire: se sta bene al Signore, sta bene anche a me. «C'è qualcuno fuori?» chiedo. Lui scuote la testa. «Intendevo... Ci sono auto nel parcheggio?» «Una se ne stava andando quando sono arrivato, e ce n'è un'altra parcheggiata. Rossa. Ero venuto a cercare il proprietario. Devo chiudere.» «Lo ha trovato. Da dove è arrivato?» chiedo. «Abito sull'altro lato della strada. Vengo qui tutti i pomeriggi a chiudere la chiesa e il cancello d'accesso dall'autostrada. Posso accompagnarla all'auto?» «No. Non è necessario.» Giro intorno all'altare, porgo le mie scuse, gli dico che sto bene. Ho la camicia inzuppata di sudore, e i miei calzoni sono più sporchi di polvere e terriccio di quelli di un minatore. Lui mi scocca una strana occhiata, scuote la testa. Prende le misure della mia anima. Mi fa capire che è passato parecchio tempo dall'ultima volta che qualcuno, in questa chiesetta, ha pregato con tanta intensità. Sulla strada per Hana, i miei occhi sono incollati allo specchietto retrovisore. Se il corriere mi segue, sta facendo un ottimo lavoro. Guida a fari spenti su questi tornanti pazzeschi, nella penombra del tramonto.
Ho appena superato la svolta per le Sette Pozze quando, in una nube di polvere, un'automobile spunta da una stradina laterale. Ha gli abbaglianti accesi. Mi sta talmente incollata che se frenassi mi spappolerebbe il bagagliaio. La mia prima reazione è il panico. Accelero e imbocco una curva su due ruote. All'improvviso, nel mio specchietto esplodono luci blu e rosse roteanti, seguite da una sirena. Fitte di delizioso sollievo. Sto per prendere una multa per eccesso di velocità. Ci fermiamo nello spiazzo più largo che riesco a trovare, l'imboccatura di una strada privata. Il poliziotto scende. Uniforme blu. Nel bagliore delle sue luci non riesco a vedere altro. E la rivelazione mi folgora. Un giorno fa il corriere. E il giorno dopo che difficoltà avrebbe a...? Poi il raggio della sua torcia elettrica è nei miei occhi. Lui abbassa un attimo la torcia, e riesco a vederlo. Uno dei ragazzi del posto, hawaiano fino al midollo. «Posso vedere la sua patente?» «A che velocità andavo, agente?» Nessuna risposta. Frugo nel portafoglio. «Me la passi, per favore.» Gli porgo la patente. Lui la guarda, poi mi punta di nuovo la luce negli occhi. «Signor Madriani, resti sul suo veicolo e mi segua, per favore.» Mi restituisce la patente e torna alla sua auto. Ho fatto qualche giro sulle montagne russe, e non ho mai subito la forza della gravità in maniera così atroce come in questo viaggio di ritorno a Hana alle calcagna del poliziotto. Sembra uscito da un cartone animato di Willy il coyote. Guida come se la strada fosse una carta moschicida capace di trattenere le gomme a ogni svolta. Attraversiamo la città come due missili terra-terra, senza sirena, senza luci lampeggianti; nulla che possa dare mezza probabilità di salvezza a un pedone o a un cane a spasso per i fatti suoi. Tre chilometri fuori città, l'agente svolta in una strada sulla destra, sulla spianata dell'aeroporto. Altra svolta a destra, qualche centinaio di metri su una strada bianca, e poi si ferma dietro un'auto della polizia e due veicoli senza insegne. Un gruppetto di persone sta parlando nella luce dei fari. Vedo Dana, e Jessie Opolo. Indossano tutti e due giacche azzurre di nylon con la scritta FBI stampata sulla schiena.
Non appena Dana vede la mia auto, corre verso di me. Ha un'espressione tesa. Spengo i fari e, prima che mi riesca di scendere, lei è già alla mia portiera. «Dove sei stato?» «Seguivo una traccia», le rispondo. «Ci hai fatti morire di preoccupazione», sospira lei. Il suo viso è una maschera di furia, ma riesce a tenere sotto controllo la voce. «Non avevamo idea di dove fossi finito. Scappare in quel modo...» «Così hai mandato l'esercito?» Indico l'auto della polizia che mi ha portato qui. «Jessie ha ordinato alla polizia di cercare la tua auto», spiega. «Molto discreto», commento. «Be', avresti dovuto dirci dove andavi.» «Che sta succedendo?» «Jessie e i suoi hanno scoperto qualcosa sui Merlow. Un postino li ha visti raggiungere in automobile una casa, lungo questa strada. Pensiamo che si nascondano lì.» «Splendido. Che cosa stanno aspettando?» «Jessie vuole andarci cauto. Non sappiamo di preciso con chi abbiamo a che fare.» Sto cercando di raggiungere Jessie e gli agenti. Dana mi tiene per il braccio. «Che hai scoperto?» mi chiede. «Niente. Un vicolo cieco», rispondo. Non avrebbe senso raccontarle del colloquio con Kathy Merlow o dell'incontro ravvicinato con l'aldilà offertomi dal corriere. Servirebbe solo a farla arrabbiare ancora di più. Se hanno trovato i Merlow, Dana scoprirà tutto molto presto. Potremo sbatterli su un aereo, e io li torchierò tutti e due per cinque ore, cullato dal ronzio dei motori a reazione. Abbiamo raggiunto Opolo e i poliziotti. «Ehi, amico, eravamo preoccupati per te. Dana ti ha fatto il culo per bene?» Un grosso sorriso sulla faccia tonda dell'hawaiano. Non gli rispondo. «Dov'è la casa?» chiedo. «Un centinaio di metri più su», risponde Opolo. Un secondo dopo, un agente scende di corsa dalla strada, che è molto ripida. Non parla finché non ci ha raggiunti.
«Le luci sono accese, ma non si vedono movimenti. Se sono in casa, devono essere seduti a fare qualcosa. Non riusciamo a individuare niente.» «Dobbiamo andare?» Opolo si è rivolto ai suoi uomini. C'è una discussione. «Non abbiamo un mandato.» Uno degli agenti è inquieto. «E che diavolo, non vogliamo mica arrestarli», sbotta Opolo. «Vorrei che qualcuno li trattenesse», intervengo. «Almeno finché non avremo scoperto che cosa sanno.» «Non c'è problema», dice Opolo. «Abbiamo ottimi motivi per trattenerli. Dobbiamo fare due chiacchiere sulla bomba all'ufficio postale. Se quello che dici è vero, sanno di certo qualcosa.» «Esatto. Vogliamo solo parlare», ribadisce uno degli agenti. «Se salta fuori che sono testimoni, li mettiamo nel sacco e li spediamo per via aerea. Li tratterremo finché lei non riuscirà a ottenere un mandato di comparizione, o un ordine di estradizione, se sono coinvolti nella cosa.» «Be', muoviamoci», dico. Opolo mi guarda, pare che mi dia l'okay. Dopo la performance del corriere e i colpi sparati al cimitero, più aspettiamo, maggiore è il rischio che Kathy e George Merlow s'involino. In questo momento, il mio maggior timore è trovare una casa vuota. I Merlow potrebbero avere già fatto le valigie. Un minuto, e abbiamo percorso il pezzo di strada. Le auto inchiodano davanti alla casa, un piccolo bungalow su una specie di palafitte, con un tetto di metallo ondulato. Quella che gli indigeni chiamano «casa coloniale». Le luci sui tettucci delle automobili ruotano a tutto spiano. Opolo e i due agenti federali corrono su per i gradini. Uno dei due agenti ha in mano un ariete che ha preso dal bagagliaio. I poliziotti fanno il giro della casa, per coprire il retro. Opolo bussa alla porta con tanta forza da scardinarla. Ha estratto la pistola dalla fondina, ma la tiene nascosta sotto la giacca. Dana e io abbiamo ricevuto ordine di restare ai piedi dei gradini. «FBI. Aprite la porta.» Nessuna risposta. Opolo bussa un'altra volta e aspetta qualche secondo. Prova la maniglia. La porta è chiusa a chiave. Fa un cenno agli altri agenti. Quelli prendono l'ariete, un tubo di metallo del diametro di dieci centimetri, pieno di cemento, lo tanno oscillare un attimo, e lo sbattono contro
la porta. La forza dell'impatto la spalanca. Il metallo della serratura è piegato; il legno intorno è in frantumi. Catturati dal ritmo della caccia, Dana e io saliamo i gradini. Opolo ci guarda. «Restate qui.» Lui e un altro agente entrano, ad armi spianate. «FBI. Agenti federali. Se siete in casa, fatevi sentire.» Passano di stanza in stanza, accendono le luci. Da una finestra del portico li vedo strisciare verso gli angoli delle porte, con le pistole in pugno. Qualche secondo dopo, un poliziotto entra dal retro della casa. «Nessuno», annuncia. Frenetici movimenti mentre controllano gli ultimi angoli dove qualcuno potrebbe nascondersi. Opolo ci fa cenno di entrare, rimette la pistola nella fondina. «Se vivevano qui, se ne sono andati», dice. «E, a quanto pare, lo hanno fatto in tutta fretta.» Il mio peggior timore. Ci guida in cucina. Uno dei poliziotti ha spento la fiamma del fornello. Un tegame di riso si è praticamente tostato: lunghi chicchi che hanno il colore scuro di qualche esotica formica africana. Uno degli agenti spunta dal corridoio. «Non capisco. Se sono partiti, perché non hanno preso i vestiti?» Lo guardo. «Il guardaroba è pieno», continua. «Le valigie sono su uno scaffale dell'armadio, vuote.» «Forse ho trovato la risposta.» Una voce da un'altra stanza. Ci dirigiamo verso il suono. Uno dei poliziotti è sulla soglia di una stanzetta in fondo al corridoio. La porta è aperta a metà. Si tira in disparte e ci lascia passare. Opolo entra per primo, seguito da Dana e da me. Sento il poliziotto sussurrare ai colleghi fuori: «Niente cadaveri, ma un sacco di sangue». La stanza è dipinta di sangue: pavimento, pareti e soffitto. Gli esperti di medicina legale ci andrebbero a nozze. Al centro del letto, dove il materasso si abbassa, c'è una pozzanghera scura. Lì il sangue deve ancora coagulare, anche se per la maggior parte è stato assorbito dal materasso. Ai piedi del letto c'è un unico capo di vestiario, macchiato di sangue. Una delle maniche è lacerata, e ci sono tagli sul retro, provocati da un coltello o da qualche altro strumento affilato. È un indumento multicolore. Accanto al marrone scuro del sangue in via di coagulazione ci sono
macchie blu. E sono sul kimono di seta che oggi pomeriggio Kathy Merlow ha indossato per dipingere. 16. Soltanto la mia dichiarazione di totale ignoranza nel campo del diritto di famiglia mi ha permesso di restare fra gli spettatori, nella battaglia legale fra Laurel e Jack per l'affidamento dei figli. Stamattina mi trovo nella tutt'altro che invidiabile posizione dall'altra parte della barricata, trascinato sul banco dei testimoni. Le venuzze dei miei occhi sembrano spruzzi di vernice rossa sull'albume di un uovo. Sono rientrato dalle Hawaii da tre giorni, ma ho avuto poco tempo per dormire. Harry e io abbiamo fatto le ore piccole, nel tentativo di mettere insieme una linea di difesa. È un patchwork di teorie: quello che sappiamo dalle mie conversazioni con Marcie Reed, e quello che posso dedurre dai fatti come li conosciamo. Il tutto senza le informazioni essenziali che avremmo potuto ottenere da George o da Kathy Merlow. L'ipotesi più accreditata dall'FBI è che, al momento, i due siano cibo per i pesci, in un punto o nell'altro dei fondali del Pacifico. A parte questo, mi è stato detto pochissimo. Dana mi ha torchiato per due giorni sul mio incontro con Kathy Merlow. Prima davanti a un caffè e poi a pranzo è stata spietata; ha ripassato di continuo ogni aspetto dei miei ricordi di quella breve conversazione. L'FBI mi ha interrogato, ha ottenuto descrizioni, e mi ha costretto a guardare un'infinità di foto segnaletiche, nella remota speranza di trovare il corriere che ha consegnato il pacco-bomba. Non c'è stato il minimo risultato su nessun fronte. Quando le ho raccontato della mia incursione al cimitero nei pressi di Hana, Dana, più che arrabbiarsi, ha cercato un indizio, qualcosa che le permettesse di affondare i denti nell'attentato all'ufficio postale. Una traccia. L'esplosione è in primo piano a Capital City, adesso che la stampa ha rivelato i particolari. Dana ha voluto sapere che cosa mi ha detto Kathy Merlow, e dapprima è parsa scettica quando le ho risposto che Kathy non ha mai avuto il tempo di raccontarmi qualcosa. Nelle questioni di lavoro, Dana è un mastino. Ieri ha avuto una lunga conversazione telefonica con Jessie Opolo, alle Hawaii. Adesso sembra ancora più convinta di me che alla radice dell'omicidio di Melanie ci sia Jack, e che la bomba e il fato dei Merlow siano le
tragiche conseguenze di un delitto commesso malamente, prodotti di una catena di violenza inetta, esiti di azioni compiute da qualcuno in preda al panico. Ne sembra tanto convinta che mi chiedo se non sappia qualcosa che io ignoro. «Alzi la mano destra. Giura solennemente...» Dopo la solita routine, mi siedo al banco dei testimoni. Sullo scanno c'è Alex Hastings, il giudice dei matrimoni andati a male. L'avvocato di Jack, Daryl Westaby, mi scruta con le sue piccole pupille scure. Viene da fuori città, dalla zona della Baia. È un grosso calibro, uno di quei criminali autorizzati dalla legge, un individuo capace di trasformare l'approccio più razionale a un divorzio in una pira funebre di animosità familiare. Al momento, Jack è seduto al loro tavolo. Sussurra all'orecchio del suo avvocato, riversa l'azoto liquido del veleno verbale dentro Westaby. Accende la miccia prima di scagliarmelo contro. Laurel non è qui per l'udienza, ma è rappresentata. Al suo tavolo siede Harry. L'unico uomo di Capital City che di diritto di famiglia ne sappia meno di me. Ma se anche non conosce la legge in materia, ha un pugno sempre pronto a battere sul tavolo e il cervello per versare sabbia negli ingranaggi al momento opportuno. Sono stato chiamato a comparire qui stamattina perché Danny e Julie Vega sono scomparsi. Partiti, evaporati, kaputt. Se ne sono andati lasciando a Jack un messaggio per informarlo che non torneranno finché non sarà finito questo casino fra i genitori per la loro custodia. Fra le righe, Danny ha messo in chiaro che non intende vivere con suo padre. Non ho idea di dove siano andati. La mia unica complicità in tutto questo sta nel fatto che la Vespa di Danny, con la scatola di legno chiusa dal lucchetto, è stata lasciata nel mio garage. È un punto dolente, perché Sarah mi chiede di Danny tutte le volte che la vede, e alla minima occasione s'installa sul sellino a giocare. Hastings è preoccupato. Il suo ordine iniziale di custodia temporanea sembrava l'unica soluzione razionale, visto che Laurel è in carcere. Oggi il giudice appare scosso dalla scomparsa dei ragazzi. Jack è frenetico, non tanto per la preoccupazione quanto per la consapevolezza che, chissà come, Laurel dalla sua cella è riuscita a organizzare la fuga dei ragazzi. Jack ha speso un milione di dollari in parcelle di avvocati ed esperti per fotterla, e Laurel, con un quarto di dollaro e una telefonata, lo ha fregato. Se dovessi azzardare un'ipotesi - cosa che non sono tenuto a fare qui, sotto giuramento -, direi che probabilmente i ragazzi stanno gio-
cando a palle di neve. La mia mente evoca l'immagine dell'amica di Laurel che vive in Michigan, quella di cui Laurel mi ha parlato il giorno che ha telefonato da Reno. Avrei dovuto prevederlo: la visita di Danny in carcere a sua madre quel giorno, l'ultima volta che l'ho visto, subito dopo il mio rifiuto di aiutarla. Sospetto che Danny abbia ricevuto il ruolino di marcia dalla madre in quell'occasione. «Dichiari il suo nome per gli atti, per favore.» «Paul Madriani.» Ci lanciamo nei preliminari. Westaby definisce i miei rapporti con Laurel, quelli familiari e quelli legali; dice che ero sposato con sua sorella e che rappresento Laurel in un processo per omicidio. Si dilunga sui particolari; regala bocconi di supposti pregiudizi alla stampa, da lui invitata: cinque o sei reporter in cerca di colore e di qualche retroscena da servire con il processo per omicidio. Jack sa che, come minimo, questo potrebbe avvelenare un po' la selezione della giuria. Se insiste, potremmo chiedere il rinvio della causa davanti a un altro tribunale, anche se ho i miei motivi per evitare uno spostamento di sede. «Lei sa, vero, che la custodia legale di questi bambini è stata trasferita al padre, Jack Vega?» «Non ho ricevuto copia dell'ordine, ma lo so.» «Lei non rappresentava Laurel Vega nella causa per la custodia dei figli, è esatto?» «Esatto.» «L'ha mai rappresentata nel corso di quella causa?» Westaby sta aggirando il problema del privilegio avvocato-cliente. «No.» Sorride. La rete sta per chiudersi. «Signor Madriani, lei sa dove siano Danny e Julie Vega?» «No.» «Ha qualche idea in merito?» «Non so dove siano.» Non do una risposta diretta alla domanda. La schivo con una replica generica. La falsa testimonianza è un reato costruito intorno a parole specifiche. I giochi degli avvocati. Westaby riflette un attimo. Deve insistere? Harry aspetta, pronto a sparare l'obiezione che la domanda richiede una speculazione da parte mia. Westaby ci ripensa.
«Ha discusso della questione con Laurel Vega?» «A quale questione allude?» «Al problema di dove si trovino i suoi figli.» «No.» E non intendo discuterne con Laurel. Ma non lo dico. «Non le interessa? Stiamo parlando di sua nipote e suo nipote. Non si preoccupa del loro benessere?» Scacco matto. Se m'interessa, sono fregato. Se non m'interessa, sono fregato. «Obiezione. Irrilevante. Il punto in discussione è se il teste sappia o no dove si trovano i ragazzi. Su questo ha già risposto.» Harry e la sua macchina sparasabbia. «Ammetto la domanda.» Hastings è preoccupato per i ragazzi. Un buon giudice. «Certo che mi preoccupo per loro», affermo. «Ma non vuole dirci dove sono?» «Obiezione. La domanda presume fatti non dimostrati. Il teste ha già dichiarato di non sapere dove si trovino i ragazzi.» «Accolta.» «Ha mai avuto conversazioni con Laurel Vega circa la causa per la custodia e circa i figli?» «Mai è un lasso di tempo molto lungo.» Harry sta entrando nello spirito della cosa. Ha intuito che il diritto di famiglia, dopo tutto, somiglia molto a quello penale. Alla fin fine si tratta sempre di prendere a calci in culo qualcuno, e di farlo in un'aula. «Forse l'avvocato potrebbe formulare l'obiezione in una forma più propria», dice Westaby. «Benissimo. Mai è una definizione troppo vaga di un arco di tempo.» Harry preferirebbe infilare la punta di una scarpa su per il culo di Westaby. «Perché non cerca almeno di limitare la domanda a un secolo specifico?» chiede. Westaby e Harry attaccano zuffa. «Basta.» Hastings dallo scanno. Lo ripete altre due volte senza alcun effetto, e alla fine batte il martelletto sul legno. Harry vuole sapere che ci facesse Westaby quando all'università hanno spiegato il concetto di «prova». «Evidentemente le è passato tutto sopra la testa.» La stoccata conclusiva. Il giudice corruga le sopracciglia: sembrano due topini pelosi che si ba-
cino sulla sua fronte. Hastings è un giudice gentiluomo; non è abituato ad avere in aula gente come Harry. Per il momento, i due avvocati se ne stanno tranquilli e guardano lo scanno. «Signor Hinds, se ha un'obiezione, la rivolga alla Corte. Ha capito?» Harry annuisce. «Non voglio vedere la sua testa, voglio sentire la sua voce», dice Hastings. «Sì, vostro onore.» «E lei, signor Westaby, lascerà che sia la Corte a decidere su ogni obiezione. Comprese le questioni di forma. È chiaro?» «Chiarissimo, vostro onore.» Gli avvocati annuiscono vigorosamente. Harry rivolge allo scanno qualcosa che parrebbe un inchino. Hinds sa il fatto suo, in quanto a giudici. Riesce sempre a camminare sull'orlo del precipizio. «Allora, c'è un'obiezione?» «Definizione dell'arco di tempo troppo vaga», ribadisce Harry. «Ho dimenticato quale fosse la domanda», borbotta Hastings. La fa rileggere dallo stenografo. «Obiezione accolta. Vuole riformulare la domanda, avvocato?» Westaby riprende in mano le fila del discorso. «Nell'ultimo mese», dice, «ha discusso con Laurel Vega di qualche aspetto, ogni possibile aspetto, della causa per l'affidamento dei figli?» «Devo obiettare, vostro onore.» Harry è di nuovo in piedi. «Su quali basi?» Westaby gli dà addosso prima che il giudice possa fiatare. «Signor Westaby...» Hastings ha il martelletto sollevato a mezz'aria. «Sulla base del fatto che ogni conversazione riguardante la causa di affidamento è ora intimamente connessa al procedimento penale in cui è coinvolta la signora Vega. Quindi, asseriamo che le comunicazioni fra il signor Madriani e la signora Vega sono protette dal segreto professionale.» La stampa si agita. «Sciocchezze», minimizza Westaby. «Che relazione esisterebbe fra la mia domanda e il procedimento penale a carico della signora Vega?» «Non siamo tenuti a rivelarglielo», s'inalbera Harry. «Esigere una risposta alla sua domanda significherebbe costringere il difensore in un procedimento per reato capitale a svelare informazioni determinanti sulla propria strategia.» «E dovremmo accettare per buona la sua parola?» chiede Westaby.
«Gliene sarei grato», annuisce Harry. «Be', io non sono disposto a...» Hastings lo interrompe e si rivolge a Harry. «Sta dicendo alla Corte che circostanze inerenti a questo procedimento, alla custodia dei figli dei Vega, riguardano direttamente la difesa di Laurel Vega nel procedimento penale a suo carico?» «Proprio così, vostro onore.» «Vorrei sentirlo dal signor Madriani», dice Hastings. «È esatto, vostro onore.» Harry e io ci riferiamo alla teoria che Jack abbia escogitato la richiesta di custodia come parte di un piano, insieme all'omicidio di Melanie, quando ha scoperto che la moglie aveva una relazione con un altro uomo. E che adesso stia usando i figli e la morte della moglie per sfuggire al carcere in cui i federali lo vogliono rinchiudere, accusandolo di corruzione. Hastings non è al corrente di queste nostre idee. Mi chiedo che cosa direbbe se sapesse che Jack potrebbe finire in un penitenziario federale. Senza dubbio i ragazzi verrebbero affidati alla tutela della Corte. «Io non ci credo, vostro onore. Una cortina fumogena», sbotta Westaby. Mormora qualcosa all'orecchio di Jack. È chiaro che abbiamo catturato l'attenzione di quest'ultimo. Jack mi guarda con occhi ansiosi. Si chiede in quale direzione puntiamo e che cosa io sappia. «Mi sono servita di un volo charter, di quelli per i giocatori d'azzardo», dice lei. «E poi di un autobus per farli arrivare là.» È questa la spiegazione di Laurel su quello che faceva a Reno la sera in cui Melanie Vega è stata assassinata. «Dovevo portarli via di qui.» Sta parlando dei figli, Danny e Julie. «Non erano più in grado di affrontare quella casa, o il padre.» Mi pare che stia colorando la situazione con le sfumature del suo odio per Jack. «E non tentare di cercare i ragazzi. Non li troverai mai.» «Non ci pensavo proprio.» Siamo nel cubicolo a pareti di vetro del carcere di contea. Io scruto Laurel e mi pare una donna nuova: occhi luminosi, espressione vivace. Harry ha tenuto fede alla minaccia di qualche settimana fa: l'articolo sulla svendita dei computer del ministero della Giustizia e i testimoni federali compromessi. Ne ha consegnato copie a uno dei suoi clienti, ai primi piani. L'articolo, quasi fosse un decisivo trattato politico, è apparso su tutte le ba-
cheche delle sale comuni ai vari piani del penitenziario; una sorta di avvertimento in codice a chi fosse pronto a fidarsi dello Stato, sedotto dall'idea di tradire i suoi compatrioti. Come dice Harry: «Se la necessità aguzza l'ingegno, il governo aguzza le inculate». Non ci sono borse sotto gli occhi di Laurel. Parla dell'imminente processo neanche fosse una cosa da assaporare, nello stile: «se non ti uccide, ti rafforza». Ha coraggio da vendere, adesso che i ragazzi sono fuori della portata di Jack. Che cosa non fa per lo spirito una buona vendetta. È questa la storia che dovrò vendere alla giuria, per quanto riguarda le mosse di Laurel la sera dell'omicidio: l'immagine di una donna che supera le montagne per ottenere due biglietti d'aereo e sottrarre i figli al padre, mentre la questione della custodia è pendente presso un tribunale. Il fatto che lei non ci veda alcunché di sbagliato è la miglior dimostrazione dell'ottenebramento cerebrale che cala come nebbia in un divorzio contrastato. Morgan Cassidy, senza dubbio, ricorderà alla Corte che un comportamento simile è ispirato dalla stessa velenosità che porta all'omicidio. «Non avremmo vinto la causa per la custodia», mi spiega. «Dovevo fare qualcosa. Non dirò dove sono.» Su questo è inflessibile. Non glielo rivelo, ma non ho il minimo desiderio di sapere dove si trovino i ragazzi, specialmente dopo la mia ultima comparsata su richiesta di Jack e del suo avvocato. Per il momento, mi hanno tolto dalla graticola. Harry e Westaby stanno duettando in punta di precedenti sul segreto professionale tra avvocato e cliente. «Sono al sicuro, e ben curati.» Laurel mi rassicura sulla sorte dei ragazzi. «Lo dirò al giudice. Ne sarà sollevato.» Personalmente, non mi sono mai preoccupato. Conoscendo Laurel, so che per lei la priorità assoluta sarebbe sempre e comunque il benessere dei figli. «Perché non hai semplicemente comperato due biglietti d'aereo a Capital City?» le chiedo. «Sì, a mille dollari l'uno», sbuffa. «Che dovevo fare? Andare a chiedere i soldi a Jack? Prova un po' a procurarti due biglietti a un prezzo ragionevole senza un minimo di due settimane d'attesa.» «Potevi aspettare.» Mi guarda, ma non ribatte. «Di che avevi paura?» «Volevo tirarli fuori da quella casa. Fermiamoci qui.»
Formulo il pensiero che attraverserebbe ogni mente. Ma per quanto Jack possa prendere molte forme, non ce lo vedo in quella del pedofilo. «Così sei andata a Reno...» «Avevo un'amica. Lavora in un casinò. Ha accesso ai biglietti dei voli charter.» Laurel fa una piccola smorfia: una punta d'imbarazzo. «Biglietti gratis, sai. C'è gente che va in città a giocare, beve, si lascia prendere la mano, e perde il volo di ritorno. Succede quasi sempre. Così si rendono disponibili dei posti.» Cosa più importante, aggiunge, i nomi dei passeggeri che prendono il posto di altri non vengono registrati. Non esiste un elenco che gli avvocati di Jack o la polizia possano consultare per trovare il nome di Danny o Julie Vega. Mia cognata non è stupida. «Probabilmente ti citeranno a comparire come testimone nella causa per la custodia.» «Mi appellerò al quinto emendamento», annuncia. Cerco di spiegarle che, se non riusciamo a convincere il giudice che i problemi inerenti alla custodia dei figli hanno un qualche rapporto con l'accusa di duplice omicidio, il diritto a non testimoniare contro se stessi viene a cadere. «E che possono farmi, se rifiuto di parlare? Sbattermi in galera?» Gira gli occhi sulle pareti di cemento che ha intorno e mi regala uno dei suoi sorrisi più fulgidi. «È la prima volta in vita mia che mi sento invulnerabile.» È come se stesse traendo forza dalla sua situazione: non ha niente da perdere, i ragazzi sono al sicuro, e lei si ritrova a faccia a faccia con Jack e col destino. Scrutando Laurel in questo momento, sono commosso nel vedere che è consumata dal fervore della battaglia. Anche Giovanna d'Arco ha guidato le truppe prima di essere messa al rogo. «Vada all'inferno», sibila. Sta parlando di Jack. Poi mi lancia una certa occhiata, qualcosa che dice: e vai all'inferno anche tu. Non hai voluto aiutarmi coi miei figli. O è il mio senso di colpa che parla, oppure è il fervore demoniaco nei suoi occhi. Temo che, in questo momento, Laurel non sia in grado di prendere in considerazione le conseguenze di un'eventuale sconfitta. Però su una cosa ha ragione. Jack ha ben poche probabilità di trovare i ragazzi. In quanto a me, il giudice pare convinto che io non possegga la minima informazione sulla sorte dei figli dei Vega. Ha dimostrato una certa riluttanza a permettere a Westaby di esplorare quelle che potrebbero essere comunicazioni riservate con un'imputata che rischia la condanna a
morte. Ha spedito gli avvocati a fare quello che i giudici ordinano sempre quando non sanno arrivare a una decisione: macinare altra carta. A conti fatti, Jack ha finito per sbattere contro un muro di pietra, per quel che concerne i figli. Senza dubbio, sfrutterà anche la sparizione dei ragazzi per ottenere simpatia e comprensione, quando i federali emetteranno il loro verdetto. Non parlo a Laurel della caduta in disgrazia di Jack, dell'imputazione segreta che gli pende sul capo, della sua ammissione di colpevolezza. Senz'altro, queste notizie le solleverebbero il morale. Però potrebbero indurla a parlare, a esibirsi in racconti giubilanti. Le carceri hanno orecchi. Al momento, i patimenti di Jack e il fatto che la Corte Federale vi abbia steso sopra un velo sono la mia carta coperta in una partita di blackjack; qualcosa che, se gli dèi mi assistono, Morgan Cassidy non sa. «Parlami dell'operazione di Jack.» Alludo alla vasectomia. «Che vuoi sapere?» «Perché l'ha fatta?» «Per avere campo libero.» Una risatina, come per dire: se no, perché? «Conosci Jack. Gli bastava vedere una sottana e partiva in caccia. E i preservativi non gli piacevano. Aveva un detto, che di solito riservava ai suoi compagni di baldorie, ma che anch'io ho sentito più di una volta. Sosteneva che il lattice di gomma va bene solo nei rulli da imbianchini. Questo accadeva prima che la parola AIDS entrasse nel lessico familiare», precisa Laurel. «Jack aveva un talento speciale per farmi sbattere il muso nelle sue avventure.» «E tu come la pensavi? Sull'operazione, intendo.» Lei ride. «Credi che mi abbia consultata? Ha preso su e se l'è fatta fare. Un'ora nello studio del medico. Me lo ha detto solo più tardi, mesi dopo... A quell'epoca, probabilmente non importava più. Eravamo sposati solo formalmente. Piantava me e i ragazzi da soli tutta notte. Usciva coi suoi amici, lobbisti con licenza di scopare.» Ricordo quelle sere. Laurel e i bambini, Julie più piccola della Sarah di oggi, venivano a trovare Nikki e me. Laurel era alla continua ricerca di occasioni per socializzare: voleva la conferma di essere ancora capace di muoversi in un mondo adulto. Jack rientrava a casa coi giornali del mattino, puzzolente come una fabbrica di birra, con i vestiti spiegazzati, le mutande infilate a rovescio, e raccontava a Laurel di essere stato a una riunione. Vega è sempre stato un libro aperto. Per lui, essere un legislatore significa che gli altri devono credere alle tue bugie.
E Jack sapeva anche mettersi nei guai. Correva da un'avventura all'altra, ma era geloso in maniera feroce. Ha fatto a botte due volte per donne che non aveva mai visto prima di quella sera. Per Jack, l'impegno personale, la lotta erano sempre legati alle conquiste sessuali, alla misura di un reggiseno; per queste cose era pronto al duello. Se qualcuno fiutava la femmina sbagliata, Vega si metteva a strepitare più di un'alce in calore. In fatto di donne, Jack aveva l'istinto del capobranco. Il suo livello di possessività era sempre sui nove decimi. Una volta, dopo una di queste zuffe, l'ho visto col naso sanguinante e un occhio nero. «Sai chi è il medico che ha eseguito la vasectomia?» «Dovrei guardare su un elenco telefonico, ma penso di poterlo trovare. Se esercita ancora», replica lei. «E lui avrebbe la cartella clinica?» «Suppongo di sì. Potrei telefonarti il nome in ufficio domani.» «No. Dirò a Harry di passare domani pomeriggio con un taccuino.» Non mi fido dei telefoni di questo posto. Le conversazioni tendono a finire nelle mani dell'accusa. «Un'altra cosa, poi devo andare», le dico. «Ricordi la pistola che Jack aveva? Quella nella custodia di noce?» «È stato tanto tempo fa», esita lei. «Ma te la ricordi?» «Come potrei dimenticarla? Passava più tempo con quella cosa che con me. Finché non si è stancato.» Jack si è sempre stancato di tutte le cose della sua vita. «Sai che fine abbia fatto?» «L'ultima volta che l'ho vista, l'aveva Jack. Ha fatto un casino del diavolo per quell'arma, al momento dell'accordo sulla divisione dei beni.» Tipico di Jack. Potrebbe rinunciare a mezza pensione, per una pistola ben oliata. «Hai una copia dell'accordo?» «A casa, con le mie carte. La scatola nel mio armadio», spiega. Ho le chiavi di casa sua. Sarah e io andiamo a innaffiare le piante, teniamo in ordine. «Magari l'ha venduta, o l'ha persa.» Sto riflettendo ad alta voce. «Improbabile. Perché?» «Perché quando la polizia, la notte dell'omicidio, gli ha chiesto se avesse mai posseduto una pistola ha risposto di no. Hanno perquisito la casa piuttosto bene. Se la pistola fosse stata lì, l'avrebbero trovata.»
«Pensi sia quella la pistola che ha sparato?» «No. Però mi chiedo perché Jack abbia mentito.» Sono le quattro e mezzo del pomeriggio. Harry e io stiamo discutendo molto vivacemente sulle istanze predibattimentali. L'intercom ronza. Alzo il ricevitore. «Dana Colby. Dice che è importante», annuncia la receptionist. «Su quale linea?» «No. È qui in ufficio.» Lo riferisco a Harry, gli comunico con una smorfia che non ho idea di che cosa voglia, e mi scuso per un attimo. La trovo alla reception. Sta guardando una delle stampe alle pareti, l'orgoglio di Harry, un dagherrotipo in bianco e nero della fine dell'Ottocento. Due battelli impegnati in una corsa sul fiume, poco oltre il delta, a tutto vapore sotto nubi di fumo nero. Dana mi sente e si volta. «Scusa se ti ho disturbato.» «Non importa. Di che si tratta?» «Devo farti vedere qualcosa», mi dice. «Possiamo parlare in privato?» La guido alla biblioteca e chiudo la porta. Le offro una tazza di caffè. Mi risponde di no. Io me lo verso. Dana apre la sua borsa su uno dei tavoli ed estrae una cartelletta. «Ho qualche fotografia. Vorrei che tu ci dessi un'occhiata.» Sono giorni che pratico questo sport negli uffici dei federali. Cerco la faccia del corriere nei raccoglitori di foto segnaletiche dell'FBI, scrutando i ritratti di specialisti in bombe. Il fatto che Dana mi abbia portato queste in ufficio mi dice che forse pensano di avere qualcosa di decisivo. «Abbi pazienza», si scusa. Sistema le fotografie, di vari formati, a faccia in giù sul tavolo da caffè. «Voglio che tu le guardi attentamente una per una», spiega, poi gira la numero uno, un lucido venti per venticinque. Un tizio sui vent'anni, numeri bianchi scritti su una targhetta nera sotto il suo mento. Molta morte negli occhi. Scuoto la testa. Il numero due è un po' più anziano, taglio di capelli alla militare. Niente targa nera, aria un po' più calma, ma non fa squillare nessun campanello. Gira la terza foto. Ancora niente. La quarta fotografia è piccola. Dana la gira. Una macchia di colore su sfondo azzurro. Non è una foto segnaletica; viene dalla Motorizzazione.
Devo socchiudere le palpebre per vedere bene. Prendo la foto in mano, e di colpo le mie spalle scattano all'insù. Sgrano gli occhi come se qualcuno mi avesse fatto ingerire del cianuro. Dana vede la mia espressione e si ferma. «È lui. Il corriere.» «Sei sicuro?» «Non potrei dimenticare quella faccia.» Labbra sottili, capelli a spazzola cortissimi, come se ci avessero passato sopra una falciatrice. Occhi gelidi come il culo di un eschimese. In quanto all'età, potrebbe essere il ritratto di Dorian Gray, un'età qualunque dai venti ai quarantacinque anni, però in buona forma, come se il vecchio Dorian si fosse messo a fare ginnastica. In questa foto sembra più maturo di quel giorno all'ufficio postale. Attribuisco il fatto all'uniforme che indossava. L'occhio vede quello che la mente si aspetta. Tanti corrieri sono studenti universitari che cercano di guadagnare due soldi. «Chi è?» Dana prende un taccuino dalla borsa. «Si chiama Lyle Simmons, alias Frank Jordan, alias James Hays eccetera eccetera. Ex Berretto Verde, ex mercenario. Si vende per lavoretti difficili.» Da come lo dice, intuisco che non sta parlando di giardinaggio. «È sospettato per due omicidi nell'Oregon, ma non è stato condannato e i casi sono ancora aperti. Si definisce un esperto di tecnologie avanzate applicate alla sicurezza. Dice che è quello il suo mestiere. Quando qualcuno riesce a trovarlo.» «Precedenti?» «È stato arrestato tre volte per possesso illegale di armi. Due condanne. Lo prendono sempre prima che vada al lavoro, o dopo che ne è tornato, mai durante», dice Dana. «Come lo avete scoperto?» «Non è stato facile. Siamo partiti dalla tua teoria su Jack. Dall'idea che avesse assoldato qualcuno per uccidere la moglie.» Sono tutt'orecchi. «Avevamo un informatore. Uno che vive ai margini del mondo politico del Campidoglio.» Fa una smorfia. Non dev'essere un tipo da portare a casa e presentare alla mamma. «Questo informatore ha visto Jack in un bar equivoco sull'altra riva del fiume, qualche tempo fa. Un postaccio, non uno dei locali che tuo cognato frequenta di solito. E noi lo sappiamo. Lo abbiamo sorvegliato. Era in compagnia di un altro uomo. Parlavano a un ta-
volo e tracannavano birra. Vega non passava inosservato, in quell'ambiente. Un politico con un vestito da mille dollari. Il tizio, il nostro informatore, ha preso appunti.» «Perché avrebbe dovuto farlo?» «Era finito nella nostra rete. Un lobbista part-time, uno degli uomini che ci hanno portato a Jack. Stava ai gradini bassi della scala alimentare politica ed era disposto a collaborare, a scendere a patti. Non sapeva che cosa stavamo facendo, però aveva capito che tenevamo d'occhio Jack. Così, fra le altre cose, si è annotato il numero di targa del furgone del signor Simmons. Era nel materiale del dossier su Jack. All'epoca, non ne avevamo fatto niente.» Sto seduto, non apro bocca. Lascio che il mio cervello assorba la notizia. «L'informatore dov'è?» «Questa è la parte brutta. Il nostro uomo sembra scivolato giù dall'orlo del mondo. Almeno per il momento. L'agente che teneva i contatti con lui non lo vede da tre settimane, come minimo. Gira voce che sia in vacanza, ma nessuno sa dove. Lo stiamo cercando.» «E dov'è questo signor Simmons?» «Non sappiamo nemmeno questo. Ha dato alla Motorizzazione un indirizzo falso.» Splendido. L'ho visto uccidere una volta e riprovarci in una seconda occasione. Probabilmente a quest'ora terrà sotto controllo casa mia. Ne accenno a Dana. Lei mi dice di non preoccuparmi. Ci hanno già pensato. Gli agenti federali tengono la mia casa sotto sorveglianza ventiquattr'ore su ventiquattro. Sorvegliano anche Sarah a scuola. Se Simmons si azzarda a provarci, lo inchiodano. Passo a questioni più professionali. «Questo incontro fra Simmons e Jack. Quando si è svolto?» «Sono lieto che tu lo abbia chiesto», sorride Dana. «Cinque giorni prima dell'omicidio di Melanie Vega.» Sono raggelato. Il tipo di brivido che ti percorre il corpo e ti surgela il cervello, come una doppia scarica di adrenalina. La mia teoria su Jack ha appena preso il sangue e la carne della realtà. Dopo l'incontro in ufficio, ho chiuso bottega e invitato Dana a cena a casa mia. Sta preparando l'insalata. Sarah le dà una mano: è in piedi su uno sgabello in cucina, come faceva con sua madre. La cosa non può non turbarmi. Penso a Nikki e al vuoto che ha lasciato nella vita di mia figlia. Io
ho il mio lavoro. Sarah ha tonnellate di solitudine, bambini che le chiedono perché sua madre non va più a scuola il lunedì mattina ad aiutare l'insegnante, come faceva sempre. A sette anni, i bambini non hanno un concetto preciso dell'irrevocabilità della morte. Sarah sta cominciando a imparare: una lezione lunga, dolorosa. «Vuoi versare l'olio intanto che io giro l'insalata?» Dana sta cercando di prendere Sarah sotto la sua ala protettrice. «No. Fallo tu», risponde Sarah. «Io voglio aiutare papà con le pannocchie.» Come quasi tutti i bambini, Sarah impiega un po' a sgelarsi con gli estranei. Ha un bisogno disperato di affetto materno, di coccole. Tutte le mattine passava venti minuti fra le braccia di Nikki, sul divano del soggiorno, prima di vestirsi per la scuola. Adesso sono io l'addetto a quell'incarico. Le do quello che desidera, l'amore di un padre, l'ultimo rifugio contro le insicurezze della vita. Anche se ora, quando mia figlia mi guarda, troppo spesso ho l'impressione che mi sondi con occhi circospetti, nel timore che anch'io possa lasciarla. Sarah tiene la scodella e io, dopo aver preso le pannocchie fumanti, le metto dentro. «Le bistecche sono pronte fra un paio di minuti», annuncio. «Forza. Bisogna preparare la tavola.» Dana si porta davanti agli armadietti di cucina. «Dimmi dove stanno piatti e posate.» Guarda Sarah, cerca di trasformare la cosa in gioco. Ma mia figlia non si muove, resta attaccata a me. Dopo la morte di Nikki, ho scoperto che Sarah è possessiva nei confronti della casa e di ciò che contiene, ma soprattutto nei miei. Le rare volte in cui ho parlato di trasferirci in un posto più piccolo, più facile da tenere in ordine, ha strillato come un'ossessa. Forse pensa che, finché restiamo qui, Nikki sia presente, almeno in spirito. Adesso che Danny e Julie sono scomparsi, l'atteggiamento di Sarah è peggiorato. Danny, infischiandosene delle obiezioni del padre, aveva continuato a venire da noi come minimo una volta a settimana, per scherzare e giocare con sua cugina. Con un po' di moine, convinco Sarah ad apparecchiare. È in sala da pranzo. La vediamo dal passavivande. Dispone sul tavolo piatti e sottopiatti: il mio piatto a un capo del tavolo, il suo quasi sopra il mio, e un altro piatto, solo, abbandonato a se stesso, all'estremità opposta. Dana mi guarda. «Secondo te, chi si deve sedere là in fondo?» «È un momento duro, per lei», dico. Anche se devo ammettere che a
volte Sarah è tremenda.» Ridiamo tutti e due. «Ehi, guarda che capisco. È deliziosa.» Le bistecche sono cotte. Ci sediamo, versiamo il vino, e Sarah recita la preghiera del ringraziamento. È sempre stato un suo privilegio, quando abbiamo ospiti. Poi, in dieci minuti, è già sazia. Mangia come un uccellino, pesa poco più di venti chili; ha gambe affusolate che al momento rappresentano due terzi della sua altezza, e la fanno assomigliare a un cucciolo di gazzella. Ma si farà due spuntini prima di andare a letto. «Altri due bocconi», le dico. Discute un po' e fa qualche smorfia. Visto che la tattica non funziona, si riempie le guance e si congeda. Scompare in camera da letto a giocare. «Sei un uomo fortunato», sospira Dana. Parliamo di figli. Dana è dispiaciuta di non aver assecondato i ritmi del suo orologio biologico. La prendo in giro. Secondo me, l'unico orologio che impedisca a Dana di avere figli è quello che squilla ogni ora per gli appuntamenti della sua ambiziosa agenda. Le chiacchiere a ruota libera su una nomina a giudice, la cosiddetta «lista A», sono improvvisamente diventate reali. La scelta si è ristretta a due soli candidati: un maschio bianco di quarantacinque anni e la donna che mi siede di fronte alla mia tavola. Stando al giornale di oggi, i loro curriculum saranno inviati a una commissione speciale che valuterà a fondo le loro qualifiche e la loro storia professionale. Gira voce che Dana abbia già superato la prova del fuoco del potere politico. È appoggiata da grossi calibri del ministero della Giustizia di Washington e dai due senatori del nostro Stato, due donne con aggressivi programmi di emancipazione femminile. Beviamo il caffè sul divano. Sarah adesso dorme. Il mio invito di stasera a Dana non è soltanto di cortesia. Dovrebbe essere sotto sedativi per non intuirlo. «Qualcosa non va», mormora. «No», ribatto. «Che cos'è?» Mette la tazzina sul tavolo e mi concede per intero la sua attenzione. «Immagino tu stia già inscatolando le tue cose in ufficio», le dico. «Sarai stata dal sarto a fare le prove per una toga nera.» «È questo che ti dà fastidio?» «Non esattamente. M'incuriosisce.» «Ahh.» Una scrollata di testa ricca di sottintesi.
Adesso sono imbarazzato. Dana penserà che faccio parte del Settimo Testosterone, che sono uno di quegli uomini che non sanno gestire una donna in posizione d'autorità. «Pensi che questo cambierebbe le cose», dice. «Fra noi due?» «E tu?» «L'ho chiesto prima io.» Faccio una smorfia esagerata. Gonfio le guance e scrollo le spalle. «A dire il vero, penso che potrebbe essere divertente. Ho sempre avuto una fissazione.» «E quale sarebbe?» «Mi sono sempre chiesto che sensazione si provi a farlo con un giudice, da dietro, sullo scanno», la informo. «Forse non ti permetterò di avvicinarti tanto», dice lei. Poi un sorriso, mentre fa scorrere l'unghia di un dito, come la zanna di un predatore, sulla stoffa dei miei calzoni, all'altezza della coscia. Mi schiarisco la gola, sperando che quando riaprirò bocca la mia voce non sia più alta di un'ottava. Sto usando un tovagliolo per nascondere la sudorazione sul mio labbro superiore. «In realtà, volevo chiederti un favore», rantolo. «Ti ho mai rifiutato qualcosa?» Mi lancia un'occhiata che potrebbe sgelare il mio freezer. Penso che al momento nessuno dei due sappia di preciso se sia meglio scoppiare a ridere o saltarci addosso. «Non mi preoccupa l'idea che tu prenda la toga», dico. «Mi preoccupa il quando.» «No, non è vero. È un'altra cosa. Vorresti sapere quando il mio ufficio toglierà il segreto all'imputazione nei confronti di Jack e alla sua ammissione di colpevolezza.» «L'eterno avvocato.» Le sorrido, mi appoggio all'indietro sullo schienale. «Io penso che Jack Vega si meriti tutto quello che dovrà subire», puntualizza Dana. «Non è un segreto che non sono stata io a volere che rimanesse a piede libero, così da non commettere un'ingiustizia. Quella decisione è stata presa da autorità più in alto. Ed è vero che abbiamo concluso un accordo con lui. Ovviamente, stabilire la data esatta per la divulgazione di quell'accordo è, be', più che altro un problema di pulizie domestiche.» «Allora deduco che sto parlando con la cameriera dei piani alti?» «Monsieur, forse mi permetterà di lucidare l'impugnatura del suo nobile bastone da passeggio.» Dana non perde un colpo.
Se la procura distrettuale scopre che Jack si è dichiarato colpevole di una manciata di reati maggiori, non lo chiamerà mai a deporre. Se io lo convoco come testimone per la difesa, Jack e i suoi avvocati non impiegheranno molto a concludere che voglio accusarlo di essere il regista dell'omicidio di Melanie. Jack si rifiuterebbe di testimoniare, si appellerebbe al quinto emendamento, e lascerebbe alla giuria l'impressione di essere soltanto preoccupato per un'ulteriore carneficina politica, per altri reati di corruzione che non gli sono stati imputati. In un processo, come nella vita, il tempismo è tutto. Senza dubbio la Cassidy, la mia avversaria, sta costruendo buona parte delle sue tesi intorno a Jack la vittima, Jack il vedovo dall'animo pieno d'angoscia. Che cosa potrebbe essere meglio di un leader della comunità martirizzato dalla perdita della moglie e del figlio non ancora nato? Con un briciolo di fortuna, e se gli dèi del tempismo sono dalla mia parte, sulla via della beatificazione di Jack si creerà qualche intoppo. E se poi le cose andassero proprio come vorrei, Vega risulterà piuttosto a corto di miracoli per la santificazione. Guardo gli occhi lucidi di Dana, e un brivido d'eccitazione mi corre per tutto il corpo, fino allo sfintere. L'equivalente, per un avvocato difensore, di un orgasmo intellettuale: l'accusa sta costruendo le sue tesi intorno a un criminale già reo confesso, e non lo sa. 17. Il giudice Austin Woodruff viene da una famiglia locale di antica tradizione repubblicana. È più conservatore di Dio, ma senza la sua pietà. Ha cinquantaquattro anni, un colorito rubizzo e un atteggiamento aristocratico reso ancor più patrizio dalla sua totale mancanza di umorismo: la sua faccia di pietra potrebbe spingere al suicidio almeno una dozzina di comici. Ha lo sguardo autoritario tipico degli anchorman dei bei tempi andati: fluente criniera grigia e sopracciglia di fili d'argento. Insomma: chiedi a un cittadino medio quale faccia gli viene in mente alla parola «giudice» e lui ti traccerà il ritratto sputato di Austin Woodruff. Lo si può definire giusto in ogni senso e accezione del termine, dalla mancanza di pregiudizi all'abilità sullo scanno... anche se a volte mi chiedo se abbia mai visto un imputato che gli piaccia o un campo da golf che non gli piaccia. È severo, con la personalità e il calore umano di un busto di bronzo, il che ha spinto osservatori particolarmente crudeli ad affibbiargli qualche nomignolo. Ho sentito uscire dalle toilette per uomini impreca-
zioni a fior di labbra all'indirizzo del Principe di Ghiaccio e della Testa-dimarmo, ma il soprannome che io preferisco, e che sembra avere preso più piede, è Ridarola. Nel bene o nel male, Austin Woodruff è il giudice del nostro processo. Al momento, è sullo scanno e legge un fascio di carte. Harry e io ci troviamo nell'aula 12 per discutere istanze volte a impedire che lo Stato imprima il proprio marchio di fabbrica alle diverse sfaccettature della verità. Oggi Dana si è unita a noi; sta appena dietro la transenna. Si è presentata in anticipo per un appuntamento a pranzo. Dopo le Hawaii, ha cominciato a nutrire un interesse particolare per il caso. Stamattina Morgan Cassidy siede al suo tavolo con Jimmy Lama, lo sbirro uscito dall'inferno, e un sostituto procuratore distrettuale molto giovane, un ragazzo che sta per dare la sua prima occhiata alla bocca del vulcano del crimine. Laurel non è presente, com'è uso quando un imputato è in carcere. Ho cercato di farle capire l'importanza di queste istanze. Se perdiamo su una qualche prova consistente, metà della nostra linea di difesa rischia di finire nel water prima che il giudice abbia scelto il primo giurato. L'accusa punta tutto su prove indiziarie. Lo Stato cercherà di dimostrare che Laurel era una donna rosa dalla gelosia, una ex moglie scartata come un vestito smesso, piena di rancore e di rabbia verso Melanie che le aveva rubato il marito. Sosterranno che la rabbia è stata rinfocolata dal tentativo di Jack di sottrarle i figli. Tra i possibili sospetti, dimostreranno che Laurel possedeva il miglior movente per l'omicidio, e ampie possibilità di commetterlo. E diranno che è esattamente ciò che ha fatto. A un osservatore distratto, tutto ciò potrebbe sembrare frutto di semplici, vaghi sospetti; e avrebbe ragione, non fosse che per alcune prove che conferiscono credibilità alla teoria. La Cassidy ha infilato queste prove nella sua tesi come chiodi nel coperchio di una bara. Due prove materiali sembrerebbero dimostrare che Laurel si trovasse sulla scena del delitto la sera in cui è stato commesso l'omicidio, e potrebbero risultare altamente incriminanti: il tappetino che Laurel stava lavando quando l'hanno arrestata a Reno (e che Jack sostiene si trovasse nel bagno padronale di casa sua quando Melanie è stata uccisa), e un portacipria d'oro con le iniziali di Melanie trovato nella borsetta di Laurel dopo l'arresto. La polizia ha anche un testimone, la signora Miller, che dirà di aver visto Laurel nel quartiere, nei pressi della villa dei Vega, intorno all'ora dell'omicidio.
La voce di Woodruff ha i toni di uno speaker televisivo sul viale del tramonto, o di un rospo che ha mangiato miele. Melliflua e profonda, ci chiede se siamo pronti a cominciare, ma non attende risposta. Lancia immediatamente una serie di domande, siluri che viaggiano sotto la superficie della nostra prima istanza. «Che cos'è questa storia del tappeto?» chiede. «Volete escluderlo dal procedimento? Su quali basi?» «No, vostro onore.» Agito la mano sottolineando il diniego. «Non è quella la nostra istanza.» È una posizione più difendibile, lo informo. «Allora di che si tratta, esattamente?» L'inizio non promette bene. Woodruff non ha letto uno solo dei documenti alla base delle nostre richieste, le nostre ammissioni scritte. «Il tappeto può entrare nel processo», gli spiego. «Anche se devo avvertire la Corte che esiste una controversia sulla sua proprietà e provenienza.» «Questo è un problema della giuria», sbuffa lui. «Non di questa Corte.» «Sono d'accordo.» La nostra istanza è più sottile, e Ridarola ha palesi difficoltà a comprenderla. Così gli faccio da guida. L'asserzione di Jack che il tappeto provenga dalla scena del delitto è piuttosto grave per noi, anche se Laurel sosterrà il contrario. Su questo punto, posso sperare in una posizione decentemente neutrale, in una giuria che per lo meno non sappia di preciso a chi credere. Quelle che voglio evitare sono le implicite deduzioni della Cassidy, la quale potrebbe giocare sull'idea che Laurel abbia distrutto prove quando ha lavato il tappeto o ha messo le mani nel solvente. È quanto risulta dal referto di laboratorio che lo Stato ci ha trasmesso. Il referto parla di test per i residui di polvere da sparo che sono risultati «inconcludenti a causa delle sostanze chimiche nelle quali l'imputata ha intenzionalmente immerso le mani». Faccio il mio discorsetto a Woodruff, e la Cassidy e io attacchiamo a sbranarci. Lei sostiene che il tappeto parla da sé. Un tappeto parlante è un conto, il fatto che la Cassidy, lasciata libera, possa tentare di saltarci sopra e volare via è un altro. «Che motivo poteva avere l'imputata per portarlo a Reno e lavarlo se non quello di togliere sangue o altre prove incriminanti?» ruggisce la Cassidy. «È questo che temo», dico sconsolato al giudice. «Ipotesi di questo genere.» «È una conclusione naturale, date le circostanze», sibila la Cassidy.
«L'accusa ha trovato sangue?» chiedo. «O altre possibili prove?» «E come poteva trovarle? La sua cliente le ha lavate, cancellandole.» «Queste sono semplici ipotesi», ribatto. Woodruff sta diventando un soprammobile. Alla fine se ne accorge. «Rivolgete le vostre argomentazioni a me», protesta. «Vostro onore, il tappeto è una proprietà rubata», riprende Morgan Cassidy. Ha un grosso talento per distorcere i fatti. Nelle sue mani, le prove possono assumere più ghirigori e svolazzi del ferro battuto. «Secondo chi?» domando. «Secondo il marito della vittima.» «Stop. Stop. Uno alla volta», intima Woodruff. «Prima lei.» Indica la Cassidy. Morgan sta facendo la cosa che le riesce meglio: prendere l'iniziativa. Sostiene che il tappeto è una proprietà rubata, che l'accusa ha diritto a operare una ragionevole deduzione, che il semplice fatto che l'imputata fosse in possesso del tappetino è una prova della sua colpevolezza. Mugghio come un toro ferito prima che lei possa concludere. «Nulla prova che il tappeto sia stato rubato.» Woodruff si gratta la testa. Una tormenta di forfora sul tampone di carta assorbente. Non mi pagano abbastanza per decisioni del genere, sta pensando. Lo guido all'affidavit, firmato sotto giuramento, nel quale Laurel dichiara che il tappeto è suo, che non proviene dalla residenza della vittima. «E con ciò?» ribatte la Cassidy. «Abbiamo un affidavit contrario, firmato dal signor Vega, che dichiara l'opposto. E che situa chiaramente il tappeto nella casa della vittima al momento dell'omicidio.» «Benissimo. Questa è una controversia sui fatti», dico. «Non esiste nulla di vagamente simile a una prova per dimostrare che il tappeto è stato rubato. Sarà la giuria a decidere.» «E se decidesse che è stato rubato, saremo autorizzati a dare un'istruzione alla giuria?» chiede la Cassidy. Sta alludendo a un'istruzione che consenta alla giuria di dedurre la colpevolezza di Laurel dal semplice possesso del tappeto. «Questo argomento non c'interessa. Non siamo qui per discutere delle istruzioni alla giuria. O mi sbaglio?» «Esatto», chiosa Woodruff. Finalmente è in sintonia con noi. La Cassidy sta facendo di tutto per inquadrare i fatti nella sua prospettiva. Se alza un bel polverone, io magari perdo la strada, comincio a stonare.
Abbiamo fatto il giro completo del cerchio e siamo tornati al punto di partenza. Woodruff punta l'indice su di me. «Tocca a lei.» «Il problema non è che cosa possa dedurre la giuria da prove presentate in maniera equa, bensì che cosa sia permesso dedurre all'accusa parlando di quelle prove, del tappeto e del solvente sulle mani della mia cliente...» Nelle pupille di Woodruff si è accesa una luce. Finalmente ha afferrato. «Non lo farebbero», dichiara. Gli leggo un brano del referto di laboratorio, la supposizione che Laurel abbia intenzionalmente sabotato i test sui residui di polvere da sparo immergendo le mani nelle sostanze chimiche. «Oh», esclama lui. La Cassidy intuisce che sta per arrivare la mazzata e si mette a discutere. «Basta», tuona Woodruff. La guarda. «Avete trovato residui di polvere da sparo sulle mani dell'imputata?» «E come avremmo potuto, vostro onore?» «Qualcosa sul tappeto?» «Era lavato alla perfezione.» «E lei vorrebbe dedurre che ciò implica una distruzione intenzionale di prove?» «Dovremmo avere un certo spazio di manovra», dice la Cassidy. «Che cosa c'è di tanto ipotetico? L'imputata è fuggita dalla scena del delitto, ha preso il tappeto, lo ha lavato per eliminare le prove. Mi sembra lampante.» Non credo che Woodruff se la beva, però sta ascoltando. Un segno pericoloso. «È una deduzione ragionevole?» chiedo. «Ci rifletta, vostro onore. Supponiamo che la teoria dell'accusa sia esatta. Diciamo che lei ha commesso un omicidio. Dopo di che, prende dalla scena del delitto un tappeto macchiato di sangue, percorre duecento chilometri, arriva in un'altra città e lava il tappeto. Se è la prova di un crimine, perché non lasciarlo sul posto? Se è vero ciò che asserisce lo Stato, se il tappeto si trovava nella casa, il fatto che venga scoperto lì dopo il delitto non servirebbe né a implicarla né a incriminarla, giusto? A meno che l'assassino non fosse un maniaco della pulizia, perché portare via il tappeto?» «Forse la sua cliente si è lasciata prendere dal panico», insinua la Cassidy. «Benissimo. Allora perché non sbarazzarsene lungo la strada, una volta passato il panico?»
A questo la Cassidy non ha risposta. «Se si deve trarre qualche deduzione dal tappeto, dal fatto che sia stato lavato in una lavanderia a gettoni davanti ad altri clienti, ebbene allora è l'innocenza, non la colpevolezza», dichiaro. «Chi ha la coscienza sporca non si comporta in quel modo.» Silenzio di tomba. Woodruff mi guarda. È difficile discutere la stupidità di un simile gesto. Se Laurel ha ucciso Melanie, il suo comportamento assurdo col tappeto sfida ogni logica. «Mi sembra piuttosto chiaro», borbotta Woodruff. Guarda la Cassidy. «Lei può presentare il tappeto come prova. Ma non voglio sentire la minima ipotesi su macchie di sangue inesistenti o residui di polvere da sparo che non sono stati trovati sulle mani dell'imputata.» «Vostro onore...» «È chiaro?» «Sì», crolla la Cassidy. «Istanza seguente.» Woodruff mi guarda. «E per la frase nel referto di laboratorio?» gli chiedo. Perché accontentarmi di una mezza pagnotta, se posso avere il companatico? «Vorremmo chiederne la cancellazione», annuncio. Uno sguardo imperioso del giudice. «Forse potrebbe modificare qualche espressione», suggerisco. Woodruff guarda la Cassidy. «L'imputata ha messo le mani nel solvente. Quanti modi ci sono per dirlo?» ironizza lei. «Tolga l'avverbio 'intenzionalmente', e andremo avanti», dico. «Bene. Che ne dice?» domanda Woodruff. La Cassidy scuote la testa e dice che va bene. «Perché voi due non avete raggiunto un accordo su questo punto prima di presentarvi qui?» Silenzio. Il giudice mi fissa. Nel suo sguardo leggo che non ha mai provato a usare il termine «compromesso» in presenza della Cassidy. «E adesso che abbiamo?» borbotta quindi, scrutando le sue carte. «Ah, un problema di testimoni e d'identificazione... Di che si tratta? Di un confronto malfatto?» Punta il naso sulla Cassidy. La mia avversaria non sta segnando neanche un punto. È quello che succede quando disponi i carri in cerchio e ti accanisci su ogni singola questione. «Il confronto era viziato», spiego. «In che modo?»
«Abbiamo convocato alcuni testimoni.» «È proprio necessario?» geme Woodruff. Probabilmente ha voglia di fare un salto al campo da golf. «Io credo che possiamo risolvere la questione a livello verbale», dice la Cassidy. Non c'è niente che le riesca meglio. «L'accusa è disposta ad addivenire a un accordo?» chiedo. «Su che cosa?» chiede la Cassidy. «Sull'esclusione dell'identificazione.» Sto parlando della donna che sostiene di aver visto Laurel a casa dei Vega la sera dell'omicidio. «Nemmeno per sogno», dice lei. «Allora vorrei chiamare i miei testimoni.» Parecchi borbottii dal giudice. Gli liscio un po' il pelo, assicuro che sarà una cosa veloce. Woodruff, guardando l'orologio, annuisce. «Ha venti minuti», concede. Chiamo Jimmy Lama sul banco dei testimoni e lo faccio giurare. Lama si è preparato come meglio glielo consentivano le circostanze. Nel suo consueto stile, ha cercato di fregarci con una testimone. Margaret Miller è una vicina di Jack Vega. Harry e io abbiamo parlato con lei nelle settimane dopo l'omicidio. Ci ha informato dei visitatori di sesso maschile di Melanie e ha detto di aver visto Laurel a casa dei Vega due volte, la sera dell'omicidio. La prima volta è stata quando le due donne hanno litigato sul portico. La seconda visita era più vicina all'ora dell'omicidio, e la Miller ha raccontato alla polizia di avere visto Laurel, in felpa e cappuccio, sulla strada di fronte alla casa. I problemi della sua testimonianza sono problemi di procedura e di equità, due concetti alieni a Lama quanto la densità di Giove. Mi giro verso Jimmy, seduto al banco. Stabiliamo i fatti fondamentali. Appuriamo che è il capo della squadra d'investigatori incaricati del caso, e che ha interrogato la signora Miller. «Quante volte l'ha interrogata?» Lama tossisce. «Tre...» Uno sguardo vitreo nei suoi occhi mentre riflette. «Tre colloqui e un confronto», precisa. «E, nel corso di questo confronto, la signora Miller ha identificato Laurel Vega?» «Sì. Ha detto che l'imputata si è recata a casa dei Vega due volte, quella sera.» «Questo confronto è quello al quale ha assistito il mio collega, il signor
Hinds?» Mi giro a guardare Harry. «Sì. Era presente. All'epoca non ha obiettato, non ha detto che qualcosa non andava», dice Lama. Sta già affondando le unghie. «È stato l'unico confronto che lei abbia condotto con questa testimone?» Jimmy fa una smorfia. «Lei come definisce un confronto?» chiede. Conoscendo Lama, so che non avrebbe problemi a concedersi un pizzico di falsa testimonianza; il fatto è soltanto che, se mente, vuole rendersene conto. «Sto parlando di una comparsa dell'imputata con altre potenziali indiziate davanti alla testimone.» «Allora quello è stato l'unico confronto», annuisce lui. Harry mi ha informato che Laurel è stata scelta dalla Miller in un gruppo di altre cinque donne, tutte, come lei, in uniforme da carcerata. Le donne erano tutte all'incirca della stessa altezza. A ognuna è stato chiesto d'indossare una felpa col cappuccio, di mostrarsi di profilo, da entrambi i lati, alla testimone, che si trovava in una cabina, dietro un vetro a specchio. È stato un confronto da manuale, senza il minimo suggerimento da parte di Lama o degli altri poliziotti presenti. Il problema, a quanto risulta, è antecedente. «Prima di organizzare il confronto per la testimone, ha avuto occasione di mostrare delle fotografie alla signora Miller?» «Sì.» «Quante fotografie le ha mostrato?» Jimmy fa una smorfia. «Quattro, cinque, forse una mezza dozzina.» Si concede un bel po' di spazio, non c'è che dire. «E la signora Miller è riuscita a identificare l'imputata dalle fotografie che lei le ha mostrato?» «Sì.» «Ha portato con sé queste fotografie?» So che le ha portate perché ha ricevuto una mia ingiunzione in merito. Se Lama non fosse in grado di esibire tutte le fotografie, si tratterebbe di errore reversibile. Basterebbe per escludere la testimonianza della signora Miller. Lama ha adesso in mano una busta, spessa un paio di centimetri, piena zeppa di foto: un paio di dozzine d'istantanee di vario formato, in bianco e nero e a colori. Mi tende la busta. Jimmy sta cominciando i suoi giochetti. Nasconde gli alberi nella foresta. «Molto divertente.» Comincio a rosicchiargli il culo. «Ma la mia ingiunzione era per le fotografie usate dalla signora Miller per l'identificazione,
non per il suo intero archivio.» «Sono qui dentro», ribatte lui. Traduzione: trovale da solo. Gli restituisco la busta. «Me le mostri.» Lui trasforma in tavolo la balaustra del banco dei testimoni e comincia a depositarvi le fotografie, a una a una. «Mi pare fosse questa. No. No. Questa qui.» Passa in rassegna venti foto e ne trova due che gli sembrano familiari. La legge è chiara. Un imputato ha diritto incontestabile alla presenza di un avvocato durante un confronto, il che non vale per un'identificazione tramite fotografia. Però esistono norme procedurali. La polizia è libera di mostrare a un testimone fotografie di un indiziato rinchiuso in carcere, come preludio a un confronto formale. Il problema sorge quando l'identificazione fotografica è così tendenziosa da provocare l'inevitabile riconoscimento dell'imputato, minando l'intera procedura. È il tipo di giochetto sul quale campa Lama: imprimere nella mente di un testimone la fotografia del cliente della difesa, con tutta la delicatezza di un ferro rovente sulle chiappe di un bovino, e poi far passare il sospettato nel pozzo senza fondo di un confronto. Lo sport preferito da Jimmy. A Lama occorrono tre minuti, e alla fine è sicuro soltanto della foto di Laurel, un'istantanea a colori venti per venticinque, con luci fortissime nei suoi occhi e numeri scritti su un'assicella infilata sotto il mento. In quanto alle altre quattro foto di donne che sceglie dal mucchio, gli «pare» che siano quelle usate per l'identificazione. Sono tutte foto innocue, a colori, dello stesso formato di quella di Laurel. Ritraggono donne in posa per l'obiettivo della polizia, con numeri bianchi su assicelle nere. Lama si agita e contorce come un verme sull'amo quando gli chiedo se sia assolutamente certo che le fotografie sono quelle. Insisto. «Abbastanza sicuro», dice. Gli occhi del giudice si posano su di lui. «Tenente, glielo chiedo per l'ultima volta. È assolutamente certo che siano queste le fotografie usate nell'identificazione di Laurel Vega?» La Cassidy lo guarda. Una prova d'importanza critica appesa a un filo. Se Jimmy dice di no, il fato della testimone è deciso. La legge è chiara. L'identificazione va esclusa. La difesa ha il diritto incontestabile di vedere le fotografie usate per identificare un indiziato: deve essere certa della correttezza della procedura. Se l'accusa non riesce a produrre le foto in questione, ha chiuso.
Sudore sulla fronte di Jimmy. Guarda me, poi la Cassidy. «Sì», bisbiglia. «Sono queste.» Si vede che avrebbe voglia di aggiungere la frase: «Ne sono abbastanza sicuro...» ma io sono pronto a prenderlo a calci in culo, e lui lo sa. Il sospiro di sollievo della Cassidy è quasi palpabile. «È tutto, per questo testimone», annuncio. «Controinterrogatorio?» chiede il giudice. La Cassidy declina l'offerta. Lama fa per andarsene con la busta delle fotografie. «Vorrei tenerle, per il momento», dico. Lui fa per rimettersi a frugare in cerca delle cinque foto che ha identificato. «Tutte», preciso. Lama mi pugnala con lo sguardo, poi mi passa la busta. Chiedo alla Corte se un altro avvocato può unirsi a Harry e me al tavolo. La Cassidy sbarra gli occhi. «Obiezioni?» Il giudice la guarda. La Cassidy parte con piede esitante. Le due donne si fissano. «Conosco bene la signora Colby», dice la Cassidy. La domanda è sospesa in aria: perché mai Dana spreca il suo tempo in un tribunale di Stato? Le due donne si scambiano sorrisi tesi. «Comunque, mi piacerebbe sapere come mai un sostituto procuratore degli Stati Uniti sia coinvolto in questo procedimento.» «È qui in veste non ufficiale», informo la Corte. «A quale scopo?» chiede la Cassidy. «Cortesia professionale», le dico. La Corte concede a Dana di lasciare le file del pubblico e di accomodarsi alle nostre spalle, ma non al tavolo della difesa. Abbastanza vicino per i miei scopi, direi. La Miller è rimasta fuori, sequestrata in corridoio. Una settimana fa abbiamo avuto una cordiale conversazione telefonica, il seguito al nostro primo incontro. Abbiamo parlato del confronto e dell'identificazione fotografica. Il discorso è filato liscio quasi sino alla fine; poi lei mi ha rivolto una domanda. Lama è tornato a sedere a fianco della Cassidy. Le sta sussurrando qualcosa all'orecchio. «Spero che la cosa non vada per le lunghe», sbuffa Woodruff. «Un paio di minuti», lo rassicuro.
Margaret Miller si accomoda al banco e giura. È il ritratto dell'onestà, l'immagine della signora per bene. Porta un vestito stampato, è cordiale come quei visi femminili che trovi sulle scatole di biscotti. I suoi capelli sembrano fili di seta. È tutta sorrisi e calore materno. Con Woodruff forma una bella coppia: sembrano il «prima» della pubblicità di un elisir per far sparire i capelli grigi. Chiedo alla Corte di concedermi un attimo. Giro le spalle alla testimone e per qualche secondo mormoro all'orecchio di Dana. Chiacchiere insignificanti, ma sussurrate al centro dell'attenzione generale. Quello che sto facendo non può sfuggire alla signora Miller. Poi riporto l'attenzione sulla testimone. Lei declina le generalità, e poi cominciamo a esaminare i particolari dell'identificazione fotografica. Le chiedo se ricordi di essersi incontrata con Lama quel certo giorno. «Molto chiaramente», risponde. «E lui le ha mostrato alcune fotografie?» «Inizialmente mi ha fatto vedere una sola foto, la notte che è morta Melanie - la signora Vega - e più tardi diverse altre.» «E lei ricorda quella prima foto?» «Ma certo. Era la sua cliente. Da allora in poi, ho visto molte sue fotografie sul giornale.» Per un po' mi sono chiesto che cosa se ne facesse Jack di una fotografia di Laurel, la ex moglie che odiava. Doveva servirgli a qualcosa. A quanto pare, lui e Lama hanno utilizzato la foto per avvelenare il pozzo dei ricordi della signora Miller, deponendovi il seme dell'idea che quella sera lei avesse visto proprio Laurel: un suggerimento senza mezzi termini. Parliamo della scelta di fotografie di Lama. Rimescolo alcune delle foto che ho in mano, a faccia in giù, in modo che lei non possa vedere le immagini. «Crede di poter ricordare quelle foto, se gliele mostrassi di nuovo?» «Penso di sì. Potrei provarci», dice lei. Le mostro la prima della serie, una delle fotografie indicate da Lama qualche attimo fa. «Hmm.» La signora Miller mi chiede se può prenderla in mano, e io gliela passo. Scuote la testa. «Forse non ricordo bene come credevo», commenta. Provo con la successiva. Un altro buco nell'acqua. È solo alla terza foto, quella di Laurel, che lei sorride. «È questa la per-
sona che ho identificato», esclama. Mi guarda. «La sua cliente, ritengo...» Annuisco. La signora Miller sta scrutando Dana a occhi socchiusi. Finalmente la Cassidy afferra. «Obiezione, vostro onore, Non si può usare questa procedura con la testimone.» Si alza. «È ingannevole», conclude. «Un test sulla memoria della testimone», spiego. Chiedo alla Corte se posso avvicinarmi allo scanno per un colloquio riservato. «Qual è il problema?» sussurra Woodruff. La Cassidy vuole che Dana torni dietro la transenna. Asserisce che io sto intenzionalmente confondendo la testimone. «Agli avvocati è permesso sedere al di qua della sbarra», dico. Il giudice fa una smorfia. «Concesso», dice, «ma si astenga da altre conversazioni private con la signora.» Mi scocca un'occhiataccia. «Benissimo, vostro onore.» Torniamo ai nostri posti. «Signora Miller, posso chiederle di guardare qualche altra fotografia?» «Ma certo.» Le passo le ultime due che Lama ha scelto. Buio totale. La testimone non le ricorda. «Però le ho viste una sola volta», si scusa. «Quante volte ha visto la fotografia della mia cliente?» La tengo a faccia in giù, in modo che lei non possa dare altre occhiate. «Oh. Due volte come minimo, forse tre. I poliziotti me l'hanno mostrata la prima volta che sono venuti a casa mia. Mi hanno chiesto se avessi mai visto quella donna.» «La cosa è stata messa in rapporto con la morte della signora Vega?» «Oh, sì.» «E lei ha dedotto che la donna della fotografia potesse essere sospettata dell'omicidio?» «Obiezione», tuona la Cassidy. «Si chiede alla teste di speculare.» «Le sto chiedendo quale fosse all'epoca il suo stato mentale», dico, «non che cosa pensi adesso.» «Obiezione respinta», sentenzia Woodruff. «E le hanno ripetutamente mostrato questa fotografia della mia cliente?» «Sì», dice lei. «Perfettamente legittimo», commenta la Cassidy. «È una procedura consentita nel corso delle indagini.» «E un'ottima maniera per alterare i ricordi di un testimone», confido alla
Corte. Woodruff fa oscillare la testa. Può darsi, ma non è una ragione sufficiente per escludere l'identificazione. Passeggio per l'aula. Finisco appoggiato alla transenna che delimita il settore riservato al pubblico, a due passi da Dana. Ci guardiamo, ma non apriamo bocca. La Cassidy sta parlando con Lama. Poi però vede quello che sta succedendo, s'interrompe e va verso il giudice. «Obiezione, vostro onore. Questo è chiaramente un tentativo d'inganno. La difesa vorrebbe far credere alla testimone che la signora Colby, l'avvocato seduto lì, sia l'imputata.» Punta l'indice su Dana. «È un ovvio tentativo di confondere la testimone, e ritengo che vada messo a verbale.» «A che cosa sta obiettando?» Woodruff è confuso. «Io non ho sentito una domanda...» «Obietto alla posizione fisica della difesa.» «Signori, per favore...» geme Woodruff. «Molto bene», dice la Cassidy. «Ritiro l'obiezione.» Adesso che sono stato neutralizzato, sorride. Lama si è infilato in bocca mezza mano, per soffocare una risata chiocciante. La signora Miller mi guarda come per dirmi: cattivaccio! Però ha sempre un sorriso cordiale. È una donna che sa godersi una disfida intellettuale. A questo punto, bisogna andare per le spicce. «Signora Miller, lei pensa che la donna seduta là somigli all'imputata? Alla donna della fotografia?» chiedo. Una domanda più che onesta. La Cassidy è tutta sorrisini affettati, come se volesse augurarmi buona fortuna. «Ho pensato che abbia cambiato il colore dei capelli», dice la Miller. «Quello è diverso... Però mi sembra che ci sia una certa somiglianza.» A parte il fatto che sono dello stesso sesso, non esiste praticamente la minima somiglianza fra Laurel e Dana. Che disastri può combinare nella mente umana un semplice suggerimento. «Ora, lei ha visto le fotografie di cinque diverse donne, signora Miller. Oltre alla mia cliente, riconosce in questo gruppo qualcuna delle altre donne?» «Francamente, direi di no», risponde lei. «Sono queste le fotografie che il tenente Lama le ha mostrato il giorno
dell'identificazione?» «Su qualcuna non sono certa... Però so che ne mancano due», informa la Corte. «E quali sarebbero le fotografie mancanti?» «Una era quella della donna di colore», dice lei. Woodruff è incredulo. «Il tenente le ha mostrato la fotografia di una donna di colore?» La signora Miller annuisce. Lama cerca di nascondersi scivolando giù sulla sedia. «Tenente. Nessuna di queste fotografie, di quelle che ha scelto lei, ritrae una donna di colore.» Chi se ne frega se Lama non è sul banco dei testimoni? Il giudice vuole una risposta. Ripetute scrollate di spalle da parte di Lama. «Allora?» lo incalza Woodruff. «Credo che la testimone si sbagli», ribatte Jimmy. Di fronte all'alternativa tra l'ammettere una falsa testimonianza e lo screditare la memoria della sua testimone, ha fatto la sua scelta. «E ha lasciato fuori anche quella della signora che somigliava a mia nipote», infierisce la Miller. «Ricorda? Ne abbiamo parlato.» Se il diavolo è femmina, Lama è in partenza per l'inferno. Al telefono, è stata la domanda della signora Miller sull'indiziata di colore a mettermi sul chi vive. Perché mai un poliziotto doveva mostrarle la foto di una nera, quando lei gli aveva già ripetuto più volte che quella sera, davanti alla casa dei Vega, aveva visto una bianca? Le porgo la busta e le chiedo di controllare. Lei trova la nera in venti secondi: la foto segnaletica di una faccia con le treccine e una grossa voglia che va dalla guancia fino all'attaccatura dei capelli. Impossibile scambiarla per Laurel. Le occorrono un paio di minuti per rintracciare le altre quattro fotografie, istantanee in bianco e nero che sembrano uscite dall'annuario di un college. Lama deve essere andato a pescarle nell'archivio di un'agenzia di modelle. Se qualcuno dovesse scegliere una faccia da omicida in questo gruppetto, non la troverebbe mai. «Gli ho detto che questa somiglia a mia nipote», dice la Miller. Alza la foto che ha in mano, orgogliosa di quella bella ragazza, un concentrato di sana gioventù americana. Vent'anni buoni meno di Laurel. «Vostro onore, chiedo che l'identificazione operata dalla testimone venga esclusa dal procedimento.» La Cassidy sta sibilando insulti all'orecchio di Jimmy Lama. Si sente vit-
tima delle sue sporche manovre. Poi, a metà di una frase, s'interrompe per salvare il salvabile. «Vostro onore, la testimone potrebbe ricordarsi dell'imputata a prescindere dalle fotografie.» Morgan è in piedi, con i palmi rivolti allo scanno in un gesto di supplica. «Potrebbe trattarsi di un errore innocuo.» «Lei ha uno strano concetto dell'errore, avvocato.» Woodruff incombe dallo scanno. Una cosa è discutere di sottigliezze legali, un'altra è trarre in inganno una Corte. Lama ha varcato il confine. L'unico interrogativo, per Woodruff, è se la Cassidy gli abbia fatto compagnia nel viaggetto. Woodruff, per dimostrarsi equo, le concede una possibilità di recupero. Un gesto simbolico. Secondo me ha già deciso. Ecco che ti succede quando racconti bugie a una Corte. La Cassidy è presa in contropiede. Azzarda qualche mite domanda alla signora Miller. Le chiede se ricordi bene la figura che ha visto quella sera davanti alla casa dei Vega. Se l'abbia vista chiaramente. Scossa, incerta su ciò che sta accadendo, rosa dal sospetto di aver fatto qualcosa di sbagliato, la signora Miller è colma d'incertezze. Non è più sicura dei propri ricordi. È passato molto tempo; la sera era buia; la donna portava un cappuccio... Se stesse nuotando a dorso, vincerebbe una medaglia alle Olimpiadi. La Cassidy, per quanto ci provi, non riesce a convincere la testimone a tornare nei quieti pascoli della certezza. Dopo un po', si decide a porre fine al doloroso processo. «Vostro onore, è nostra opinione che si tratti di un errore innocuo.» L'affondo finale. Ma va a vuoto. «L'istanza è accolta», annuncia Woodruff. «L'identificazione dell'imputata da parte di questa testimone è esclusa dal procedimento. C'è altro?» chiede poi. Sta guardando la Cassidy. È palesemente furioso. Si sente strumentalizzato da Lama: sensazione tipica di un giudice quando scopre che qualcuno gli ha mentito. Se i giochetti di Jimmy avessero seriamente peggiorato la posizione di Laurel, e se io avessi in mano qualche argomento plausibile per chiedere il rigetto del processo, lo chiederei alla Corte in questo preciso istante. Un'espressione di dolore appare sulla faccia di Jimmy. Woodruff vuole vederlo nel suo studio dopo pranzo. A Lama conviene sperare che il giudice mangi a base di alcool, e che abbia la sbornia allegra. 18.
«Ehi, baby.» Clem Olsen parla con me - nel suo solito tono stridulo - e intanto scruta Dana con sguardo famelico. «È un pezzo che non ci si vede. Hai un momento per l'Uomo Lupo?» chiede. E i suoi occhi si mangiano Dana. Siamo arrivati su automobili diverse, dai rispettivi impegni: io dall'ufficio, Dana da una soirée politica dall'altra parte della città. Ha accettato il mio invito, però dice che non può fermarsi molto. «Mi presenti o no?» vuole sapere Clem. Le sue mani mimano una stretta con movimenti che non riesco a seguire, tutte variazioni su un tema comune, scimmiottamenti di quella metà della scala sociale che Clem ritiene più chic. Faccio da maestro di cerimonie. Presento Dana. Lei riceve un abbraccio e uno dei baci appiccicosi di Clem su una guancia; poi, appena lui si gira, provvede a togliere i residui col dorso della mano guantata. Stasera, Clem sbriga da solo le incombenze dell'accoglienza alla porta. Saluta tutto quello che si muove, sbircia nelle scollature di un sacco di vestiti, e appena può si fa qualche buona palpata con la scusa dei bacetti e degli abbracci. Certe cose non cambiano mai. Clem Olsen è una di quelle. È le ventunesima riunione di classe del liceo McClesky, e siamo intruppati nella sala da ballo principale del Regency, in pieno centro, di fronte al Campidoglio. Olsen è tutto gale e black tie. I pochi, sottili capelli che gli restano sono riportati, nello stile di Mel Ferrer, per quanto più giovane. È alto e snello, ma con la pancia da sbirro. Dal gonfiore sotto la giacca capisco che è armato. Fascia di seta o no, senza il suo aggeggio d'acciaio sotto l'ascella, Clem cadrebbe in crisi d'identità. Fuori, le limousine accostano e la gente scende. Donne con pellicce così puzzolenti di antitarme che di certo sono a nolo, uomini con pance da birra e mani callose in abiti e cravatte del tutto estranei a loro, poveracci che piegano e torcono il collo come imitazioni da due soldi di veri snob. Alcuni hanno facce che riconosco dall'adolescenza, sotto le cupole poco familiari di zucche pelate. Gente che recita la parte, che vuole nascondere le magagne della propria vita a chi non vede da anni, a chi non rivedrà più per anni, e che ancora cerca l'approvazione del gruppo mai avuta in gioventù; altri ansiosi di ritrovare la popolarità che da allora non hanno più conosciuto. Una pacca sul braccio. «A più tardi, socio. Ti recupero per un drink.» Clem mi regala una strizzatina d'occhi e un ampio cenno del braccio. Ha
già raggiunto il nuovo gruppo che sta entrando, per distribuire il suo charme. Vedo che una delle sue mani è scivolata sul petto fasciato di seta di una donna, una ragazza pom-pon dei bei tempi andati. «Troviamo un tavolo?» «Fantastico», dice Dana. Mi prende a braccetto e c'incamminiamo verso il fondo della sala, per poter svignarcela presto. La guido oltre la coppa del punch, oltre il banco del bar al quale siedono i coniugi degli ex alunni, infelici che non conoscono nessuno e si danno un gran daffare per scivolare in fretta nello stupore alcolico, unico porto in questa tempesta sociale. Qualunque cosa pur di sopravvivere alla serata. Qualcuno mi pianta una mano nelle budella, mi ferma a metà di un passo. «Mike Wagner, vigile del fuoco», esclama. Vaghi ricordi di partite di football. Rammento un bestione che, all'epoca, m'intimidiva parecchio, grazie alla barba e a un fisico da Attila. Avevamo quattordici anni, e lui torreggiava su di me. Però, in un quarto di secolo, non è cresciuto di un millimetro. Adesso ho almeno dieci chili e otto centimetri di vantaggio su di lui. Gli stringo la mano. «Paul Madriani, avvocato», dico. Conversazione zero, però mi presenta la moglie, una bruna sui ventott'anni al massimo. La signora indossa un aderente vestito nero, mastica chewing gum, e sposta il peso del corpo da una coscia all'altra come una spogliarellista annoiata. Ho vaghi ricordi della prima moglie di Wagner, la sua ragazza del liceo; se è qui, senza dubbio in questo momento sta lanciando coltelli con gli occhi, dall'altro lato della sala. Esco dalla sua traiettoria di tiro. Dana e io ci accomodiamo a un tavolo rotondo, stile cavalieri di re Artù. Stringo mani, scambiamo saluti con tre coppie già sedute qui, tutta gente che non mi pare davvero di conoscere. Un buon posto per parlare senza venire interrotti. L'unico motivo per cui sono qui è che devo pagare il prezzo di un favore che chiederò a Olsen, anche se a Dana non l'ho detto. Ultimamente Dana ha ricevuto qualche stoccata da Morgan Cassidy per la sua presenza in aula durante la discussione delle istanze predibattimentali. Ho sentito parlare di pugnalate alla schiena sferrate con molta discrezione, d'intrighi di palazzo negli angoli più bui del regno della giustizia. La Cassidy sta manovrando nell'ombra per fare in modo che il Queen's Bench non sponsorizzi più la candidatura di Dana. Senza dubbio, Morgan vede la
sua presenza al nostro fianco come un'infrazione mortale al patto di fedeltà tra polizia e pubblica accusa. Però sembra che gli sforzi della Cassidy stiano cadendo nel nulla. Da quanto mi risulta, per la nomina a giudice federale Dana ha già estratto la sua spada dalla roccia. Stando alle informazioni in mio possesso, l'unico nome in partenza per Washington è il suo. Stasera lei è sfolgorante: indossa un abito nero, da sera, e scarpe coi tacchi a spillo; ha raccolto i capelli in uno chignon e sulle sue labbra aleggia un sorriso enigmatico. Due delle altre donne al nostro tavolo la fissano con l'aria di chi vorrebbe mettere il paraocchi al marito, per bloccare gli sguardi. Scambiamo qualche chiacchiera, tutti si rimettono a sedere, e Dana si gira verso di me. «Com'è andata con la giuria?» chiede. È elegantissima, bella da mozzare il fiato, e si mette a parlare di lavoro. Ultimamente, o finiamo a letto o parliamo di processi, i suoi e i miei. Dobbiamo ancora trovare il terreno intermedio dell'intimità, però la nostra relazione sta crescendo: ci cerchiamo, scavando un sentiero nella giungla del desiderio fisico. Sono appena uscito da un tour de force durato otto giorni: la selezione della giuria per il processo a Laurel. Otto donne e quattro uomini, con un altro uomo e tre donne di riserva. Sono lieto della sproporzione fra i sessi. Lo dico a Dana. Quando vittima e imputata sono donne, gli uomini in giuria rappresentano un enigma. Un brutto matrimonio, e potrebbero odiare la loro ex, tendere a vendicarsi su Laurel. E gli uomini con un matrimonio solido non si sentirebbero minacciati da Melanie come predatrice sessuale quanto le donne. Il gentil sesso amerà Laurel o la odierà, la vedrà come l'angelo vendicatore in un pessimo matrimonio o come un'astuta furia distruttrice, a seconda delle situazioni. I giurati che ho scelto sono sui trent'anni abbondanti, e oltre. Tre donne sono divorziate, come Laurel. Costrette ad allevare la famiglia da sole, sanno che la vita ha i suoi lati duri; potranno formare una catena di empatia con la mia cliente. In un processo, far penetrare nelle menti dei giurati una teoria è un po' come cercare adeguate strategie di marketing. Scegli il tuo piccione e getti i tuoi semi. Il mio particolare sacco di granturco prevede Jack nella parte dell'uomo energico ed egocentrico, abituato all'esercizio del potere e ai privilegi che ne derivano. Se a ciò si sommano la consapevolezza di essere ormai fuori del gioco e il tentativo di ottenere uno sconto sul periodo di de-
tenzione in virtù della disponibilità a collaborare con Dana e i suoi amici, è facile pensare che Jack doveva proprio essere teso allo spasimo. C'è da chiedersi che cosa farebbe un individuo così in circostanze simili se, in aggiunta a tutte le altre tribolazioni, scoprisse all'improvviso che la sua giovane moglie ha un amante. Il mio candidato della settimana per il ruolo di bel tenebroso è il defunto George Merlow, l'uomo in pasto ai pesci. Melanie, secondo me, potrebbe averlo avvertito che Jack li teneva nel mirino. Se George era di guardia quando Melanie è finita - morta - nella vasca, e se ha visto il killer, la mia ipotesi è che abbia preferito non dare il via a una vendetta. «Sarebbe un bell'aiuto, se riusciste a tirar fuori il vostro informatore», confido a Dana. Alludo all'uomo di cui mi ha parlato lei, il tizio che ha visto Jack bere birra e concludere affari col corriere in un bar sull'altra riva del fiume. «Lo stanno cercando», mi risponde. «Ci vuole tempo.» «Se è in vacanza, dovrebbe tornare presto.» «La faccenda è più complicata», ribatte lei. L'uomo che stanno cercando potrebbe finire in carcere a sua volta, per un altro procedimento penale che non ha nulla a che fare con la corruzione politica. Ha ottimi motivi per prolungare le ferie. «Mi stai dicendo che è considerato latitante?» «No. Non ancora, per lo meno. Lo troveremo.» «Speriamo prima della fine del processo.» La band attacca un'infilata di cascami musicali degli anni '60. Vado a prendere qualcosa da bere, armato dei biglietti. Al bar regna il caos. Passa una donna dal passo armonioso, capelli scuri fino alle spalle come Cleopatra. Si chiama Sharon, ma dagli abissi dei ricordi adolescenziali non riesco a tirare fuori altro. Tre cose s'imprimono nella memoria di un ragazzo di quindici anni: due grosse tette e un nome. Porta un vestito nero di maglia (che, con una candela dietro diventerebbe perfettamente trasparente) e, da quello che posso vedere, ben poco d'altro. Molte nonne getterebbero via ferri e uncinetto, se vedessero questo vestito su questo corpo. Lei fa finta di non accorgersi delle occhiate fameliche che partono dal bar, finché un tizio, già pieno d'alcool e ben deciso a non fermarsi, le lancia un poderoso fischio, un'esplosione selvaggia di suono stile yodler e, per un attimo, tutte le chiacchiere al bar s'interrompono. Poi, lentamente, le risate chioccianti e il ronzio delle voci riattaccano. Non sono ancora le nove, e il clima si sta già surriscaldando.
Mi faccio strada a gomitate e ordino due drink. Al banco c'è un ragazzino lentigginoso che, a occhio e croce, non ha l'età per maneggiare bottiglie. «Ehi, quelli sono miei!» Mi giro e vedo Clem. Mi appoggia la mano sulla spalla. «Mettili sul mio conto», dice. Il ragazzino prende un appunto su un tovagliolo. Tipico di Clem: aprire un conto al bar di una riunione di ex compagni di liceo. Si gira per un secondo e, con la mano libera, procede a fare le presentazioni. Due tizi vogliono conoscere la donna in nero. Come fosse, in questa sera magica, sua maestà in persona, Clem tende l'indice, lo piega a uncino, lo infila in una maglia del vestito. Se hai il prurito e vuoi grattarti, Clem è la mano che ti ci vuole. Con la stessa velocità è di nuovo con me. «Grande serata, eh? Gente favolosa.» Clem si accarezza lo stomaco prigioniero della fascia. Con un sorriso soddisfatto, si guarda intorno e contempla lo spettacolo, neanche fosse lui l'inventore della specie umana. «Ti stai divertendo?» Dal tono, mi viene da pensare che, se rispondessi di no, Clem aggiungerebbe un altro giorno alla creazione, un giorno interamente dedicato a forgiare allegria. «Favoloso», commento. «È bello rivedere la vecchia cricca, eh?» «Già. Morivo dall'impazienza», lo informo. «Bella stoffa», commenta. Sta palpando il risvolto della mia giacca. «Devi avere speso una cifra.» «Grazie.» Non gli rivelo che arrivo diritto dall'ufficio e non ho avuto il tempo di cambiarmi. I drink sono sul banco. «Lo so che sei occupato», dico, «ma devo chiederti un paio di favori.» «Ehi, qualunque cosa, per un amico.» Clem si guarda intorno. Secondo me si sta chiedendo chi voglio agganciare, e, dato lo splendore di Dana, perché. Dalla tasca interna della giacca estraggo una busta, la apro, tiro fuori la piccola fotografia che Dana mi ha mostrato l'altro giorno. La foto del corriere che si è presentato all'ufficio postale. «Dovresti farmi un controllo su questo tizio», spiego. Una smorfia sul viso di Clem. «Se non ti conoscessi, penserei che sei qui
per interesse.» «Ehi, scherzi? Non mi sarei perso questa serata per tutto l'oro del mondo.» «Spero che il controllo possa aspettare», mugugna lui. «Be', non devi farlo adesso.» «Troppo buono. Credevo di dover prendere il cappotto e mettermi a cercare una cabina telefonica.» «Puoi aspettare fino a lunedì», gli concedo. «Fantastico. E questo è tutto quello che hai, suppongo?» Sta guardando la fotografia. «Quella, e un nome. Prova con Lyle Simmons, alias Frank Jordan, alias James Hays. Potrebbe averne altri. Non so. Quello ha più facce di un brillante.» «Non hai una data di nascita? Il numero dell'assistenza sanitaria?» «Prova alla Motorizzazione», suggerisco. «La foto viene da lì.» «Che cos'è che vuoi sapere?» Sta prendendo appunti microscopici con una biro. Striscioline d'inchiostro sul dorso della foto. «Qualunque indirizzo. Se è mai stato in prigione, qui o in un altro Stato, dove e quando. Tutto quello che puoi recuperare sui suoi trascorsi, militari e civili. Se ha famiglia.» «E che cazzo ha fatto? Ha sparato al papa? Non ha pagato la parcella di un avvocato?» Lo ignoro. «Un'altra cosa.» Estraggo dalla tasca della giacca un sacchettino di plastica. Il colore sul tubetto è duro come cemento; ci sono incisi sopra i ghirigori del pollice di Kathy Merlow. «Puoi far controllare dai ragazzi del computer?» Gli indico l'impronta. «Ti accontenti di poco, tu», ribatte Clem. «È importante. Fallo, e avrò un grosso debito con te.» «Se non mi fottono prima», commenta. Clem sa che passare a un estraneo informazioni dei computer del ministero della Giustizia, probabilmente dati su precedenti criminali, significa mettere a rischio la propria testa. La legge specifica che queste informazioni sono confidenziali; le può usare soltanto la polizia per scopi ben precisi. Una violazione comporterebbe sanzioni penali. Le sue chiappe potrebbero prendere fuoco, insomma. Sto puntando sull'idea che i colleghi di Dana non le abbiano riferito tutto sull'uomo conosciuto come Lyle Simmons. Controllare da un'altra fonte non fa mai male. Potrebbe trattarsi di qualcosa che i federali hanno avuto in mano, senza però ritenerlo significativo. Clem può essere uno stronzo,
ma in un incarico del genere sarà soprattutto discreto. «Non prometto niente», conclude. «Ma vedrò che posso fare.» «Grazie.» «A che cosa servono gli amici?» chiede. «E poi mi sa che, al momento, hai bisogno di tutti gli amici che riesci a trovare.» Lo fisso. «Corre voce che Jimmy Lama abbia estratto la spada dal fodero per te, dopo averla ben affilata», mi annuncia Clem. «Quella storia delle istanze predibattimentali.» L'imbarazzo di Lama, il fatto che sia stato convocato nell'ufficio di Woodruff, è l'argomento del giorno in tutte le stazioni di polizia della città. L'ostilità di Lama non mi è nuova. Glielo dico. «Già. Be', tu non girare le spalle», mi consiglia. Parliamo per un po', poi prendo i drink e torno verso il tavolo. A metà strada mi accorgo che qualcuno si è seduto vicino a Dana, alla sua sinistra. Nervosetto, il tipo: non fa che guardarsi intorno, cercando il modo per attaccare discorso. «Il mio drink speciale delle superiori. Doppio rum e Coca-Cola», annuncio a Dana. «Era il mio carburante del sabato sera.» Deposito i drink davanti a lei. Il tizio dall'altra parte resta di sasso. Ha l'aria del metalmeccanico che non ha vinto la lotteria per un solo numero diverso sul biglietto. Dana assaggia un sorso, fa una smorfia. «Ti piace?» «Ho bevuto solventi migliori», risponde lei. «Devi essere stato un vero duro, al liceo.» Chiacchieriamo per qualche minuto, e il tizio sulla sinistra si esibisce in quella che potrebbe passare per una discreta uscita di scena. Le altre coppie del tavolo sono tutte in pista, a ballare. Dana e io siamo soli. «Dai, tagliamo la corda. Preparerò un drink speciale a casa mia.» «Stasera non posso», dice lei. «Tra pochi minuti dovrò lasciarti. Domattina parto per Washington.» «Che cosa? Sono forse le campane dell'incoronazione, quelle che sento?» «Per il momento è solo un tintinnio», precisa lei. «Il primo di una serie di colloqui. Un controllo degli scheletri nell'armadio che potrebbero saltare fuori dopo l'approvazione del Senato.» Per la prima volta, Dana ammette che la sua nomina a giudice federale
potrebbe verificarsi sul serio. E mi legge in faccia la preoccupazione. «Speravi in qualcosa di più, per stasera», dice. «Anche quello», ammetto. «Oh. È per l'incriminazione di Jack.» Con una smorfia, le comunico che so leggere fra le righe. Se lei lascia la sua posizione qui, che cosa mi garantisce che non dovrò dichiarare guerra al suo ufficio per far entrare nel mio processo tutta la spazzatura su Jack? «Non devi preoccuparti», mi consola. «Ho fatto una promessa. La manterrò. E ho un'altra cosa da offrirti.» Beve un altro sorso dall'amaro calice e stringe i denti. Forse si era dimenticata che le fa schifo. «Inserisci anche questo nel tuo puzzle, e vedi se riesci a ottenere un'immagine coerente», sussurra. «Ieri pomeriggio mi sono riletta le trascrizioni delle conversazioni telefoniche registrate dall'apparecchio di casa di Jack.» Sono vecchie di qualche mese, m'informa. Per la maggior parte non valgono una cicca. Stando a Dana, Jack teneva alla larga dal focolare domestico buona parte del lato più oscuro della sua vita. «Però c'era una conversazione, del diciotto agosto», precisa. «Ha chiamato un medico, il dottore di Melanie. Lei non era in casa. Ha risposto Jack. Il dottore voleva semplicemente lasciare un messaggio per essere richiamato da Melanie. Ma Vega era molto insistente. Insomma, si trattava di una di quelle telefonate in cui, tra le righe, puoi leggere che qualcosa non va. Vega voleva sapere di che cosa si trattasse. Il medico ha cercato di assicurargli che andava tutto bene. Sai com'è fatto Jack...» Me lo immagino: il parlamentare nervoso che minaccia di far radiare dall'albo un medico che vuole soltanto mantenere il segreto professionale. «Alla fine, il dottore si è arreso», continua lei. «Ha detto che non era contento di dargli l'informazione, ma che, insomma, date le circostanze, sia Melanie sia Jack dovevano essere felici, perché stavano per avere un figlio.» Le sopracciglia di Dana diventano due accenti circonflessi. «Il messaggio era che il test di gravidanza era positivo», conclude. «Merda santissima», sbotto. «Come l'ha presa Jack?» «Non so che cosa abbia pensato il medico, ma di una cosa sono sicura.» «E cioè?» «Si sarebbe sentito cadere uno spillo», dice Dana. 19.
Laurel ha chiesto a un'amica, una collega della palestra, di raccogliere un po' di cose - compreso qualche altro capo di vestiario preso dal suo armadio -, di metterle in una borsa a tracolla, e di darle a me. Stasera, alla vigilia del processo, le consegno al carcere. Verranno immagazzinate in un guardaroba a pianterreno: mille ganci automatizzati, un serpente meccanico appeso al soffitto che si muove alla pressione di un semplice pulsante ed estrae l'abito giusto per il prigioniero giusto. Una delle molte catene di montaggio della giustizia. Tutto ciò per la delirante idea che l'imputato, dopo essere stato chiuso per mesi in questo girone infernale, marchiato con la lettera scarlatta del criminale e costretto a lottare per la vita con unghie e denti tra i paria di questo mondo, potrà avere un aspetto perfettamente normale quando le guardie gli toglieranno le manette e lo accompagneranno in aula. Una delle finzioni del nostro sistema giudiziario. Lascio la borsa a una matrona, al pianterreno. Perquisiscono la mia borsa e me, con le mani e col metal detector; mi danno un distintivo con la spilletta e mi accompagnano di sopra tirandomi per il naso, il tutto senza una sola parola che si possa definire civile. M'incontrerò con Laurel in una delle «capsule». Aspetto nella piccola cabina, circondato dal vetro. Lei non è ancora arrivata. Ammazzo il tempo tamburellando le dita su uno scaffale di metallo. Nervosismo preprocessuale. Quando la vedo, Laurel è al piano sotto al mio. Cammina nella mia direzione. È con un gruppo di donne dirette verso la sala comune. Parla e gesticola, comunica con un'altra donna col linguaggio del corpo di questo posto. Ogni volta che la vedo, mi sembra dimagrita, però la sua massa muscolare aumenta, segno che passa molte ore con gli attrezzi della palestra a pianterreno. Potrebbe scrivere un libro: Ginnastica forzata. Mi sembra carica di energia sessuale: carica e repressa, come lo sono le donne arruolate tra i marine. Guardandola salire le scale, mi chiedo se in questo posto Laurel non abbia trovato il proprio elemento. Al pari di tanti prigionieri rinchiusi qui, mia cognata appartiene alla genia dei derelitti. Mi viene in mente un episodio che mi ha raccontato Nikki, e che risale all'epoca in cui loro due frequentavano le superiori. Si trovavano a una festa, organizzata in una delle zone rurali della contea. Nikki si era defilata in compagnia di un ragazzo che aveva bevuto troppa birra e che voleva andare al sodo. Con la scusa di una passeggiata al chiar di luna, lui era riuscito a portarla in un piccolo capanno, e si stava dando da fare con notevole
energia. Nikki, rovesciata su un sacco di humus, con le mani premute sull'inguine, cercava di toglierselo di dosso, quando Laurel, che si era messa in caccia dei due, li trovò. Senza fiatare, la sorellina raccolse un rastrello da giardiniere, munito di almeno una dozzina di affilati denti di metallo, e perforò il culo del ragazzo, lasciandogli un souvenir che senza dubbio lui si trova ancora oggi a dover spiegare. Nelle situazioni difficili, molte donne di mia conoscenza ricorrerebbero alla parlantina. Cercherebbero di cavarsela, avendone la possibilità, a furia di parole. Laurel è l'eccezione. È implacabile nel proteggere le sue proprietà e, per lei, Nikki era indiscutibilmente una sua proprietà. Per questo motivo fui colto alla sprovvista quando Nikki mi chiese di prendermi cura di lei. Da quando la conosco, Laurel non mi è mai parsa bisognosa né di cure né di protezione, se non forse da se stessa. È una di quelle persone dal carattere forte che, in un certo senso, dai per scontate, che pensi di conoscere. Ultimamente, ho trascorso sempre più tempo a domandarmi fino a che punto io conosca realmente Laurel. Dalla soglia, lei mi guarda e sorride. «Se mai tu avessi bisogno di clienti, ho un sacco di amiche con storie terribili», m'informa. Senza dubbio la maggior parte di queste signore è alle prese con un difensore d'ufficio. Laurel è una cliente di classe dell'hotel: ha un legale privato, e ai giornali piace molto scrivere di lei. «Hanno detto che volevi parlarmi. Altre istruzioni per domani?» chiede. Scuoto la testa. Ha superato bene l'esposizione iniziale della Cassidy. Non ha sussultato, non ha girato la testa; ha continuato a fissare Morgan negli occhi, sostenendo il suo sguardo senza esitazioni anche quando lei si è girata a indicarla e l'ha chiamata «assassina». Nel suo sguardo non si è acceso neanche un vago barlume di colpa. «Dobbiamo parlare», le dico. S'inquieta. «Che succede?» È una cosa che faccio con quasi tutti i clienti alla vigilia di un processo: un ultimo giro di ricognizione per esplorare le rotte e le direzioni possibili, prima di salpare per il mare aperto. «Domani cominciamo a dare battaglia», le spiego. «Forse dovremo tentare di stracciare i loro testimoni, di fare a pezzi le loro prove. In un processo che prevede la pena capitale, non c'è scelta. Bisogna essere cattivi.» Le donne che fanno il mio stesso mestiere vengono invariabilmente definite puttane dai loro avversari di sesso maschile. Questa non è solo una misura della duplicità degli standard umani; è anche un solido barometro
delle correnti di animosità che spirano in quasi tutti i tribunali. Nell'inferno di un processo, gli animi sono inclini al litigio nello stesso modo in cui il patriottismo e l'orgoglio nazionale si risvegliano in tempo di guerra. Qualche scambio di battute cattive, e «compromesso» diventa una parolaccia. «Devo sapere se sei soddisfatta della nostra linea difensiva», chiedo a Laurel. Lei s'irrigidisce sullo sgabello. «Ehi, Paul, non so se lo fai apposta, ma mi stai facendo venire una paura del diavolo.» «Non è il mio obiettivo. Però dobbiamo esplorare le opzioni.» «L'opzione che mi piacerebbe esplorare è quella che ci permetterà d'inchiodare al muro il culo di Jack.» «Potrebbe non essere troppo facile», la informo. «La resa dei conti», dice lei. Annuisco. Una teoria è solo una teoria. Dimostrarla è un altro paio di maniche. «Quali sono le mie possibilità?» chiede. Sino a oggi non ne abbiamo mai discusso. Ci siamo occupati dei particolari, dei singoli frammenti di prove; abbiamo calcolato la credibilità di ogni testimone, Laurel compresa. Per adesso, il punto saliente è stato il colpo di grazia assestato alla signora Miller. Quel pomeriggio, quando le ho riferito la notizia, Laurel per un attimo, per un battito di ciglia, ha avuto le vertigini. Per la prima volta da quando è finita in carcere, credo, ha preso seriamente in considerazione l'idea di potersela cavare. Da quel pozzo buio che è la sua cella, senza i figli, con l'intera vita in frantumi, le è difficile scorgere concreti raggi di speranza. «Hanno prove materiali che ti collegano alla scena del delitto, la testimonianza di Jack, un solido movente per una vendetta, moltissime prove circostanziali che tendono a incriminarti, il tuo viaggio a Reno, la tua visita a casa di Jack ore prima dell'omicidio. Vuoi che parli schietto? Niente zucchero?» chiedo. Lei annuisce. «Un po' meno del cinquanta per cento.» Faccio una pausa. «Al momento si sentono feriti», riprendo. «Soffrono un po' per la perdita della signora Miller. Una testimone oculare che ti aveva vista sulla scena poco prima del delitto. Un ostacolo che sarebbe stato molto difficile superare... E loro si stanno leccando le ferite. Non sarebbe un brutto momento, se vogliamo patteggiare.» «È questo che mi consigli?»
Il momento più duro per un avvocato: ci sono cose che non sempre puoi esprimere a parole. Una pausa pregnante. «No. Credo proprio di no. Probabilmente sto solo cercando di dirti che non esistono garanzie.» Tiro un grosso sospiro pieno di significato. «E tu non sei una cliente qualunque», continuo. «Non per me. Non per Sarah. Non per i tuoi figli. Avrei un pubblico mostruosamente numeroso in attesa di spiegazioni, se tu finissi male. Non ultimo, me stesso.» «Tu hai fatto tutto il possibile», dice lei. «Sono stata io a cacciarmi in questo disastro.» «No, sono state le circostanze», preciso. «E, a questo punto, l'unica strada sicura per salvarti la vita potrebbe essere un accordo con l'accusa.» Lei digerisce l'informazione dietro la barriera di vetro. Occhi bassi per quella che sembra un'eternità. La madre di tutte le decisioni. «Quanti anni mi darebbero?» chiede. «Dipende da che cosa vogliono offrire. Se riesco a farli scendere all'omicidio di secondo grado, si andrebbe dai quindici anni all'ergastolo. Potresti uscire fra una decina d'anni.» «Che ne sarà dei miei figli?» domanda. «Che ne sarà se verrai giustiziata?» «Jack otterrebbe la custodia?» Torniamo sempre qui. La mia ipotesi è che Jack potrebbe finire a sua volta in carcere, dopo che io lo avrò sistemato a dovere e i federali si saranno resi conto che stava cercando di fregarli pigiando sul tasto della compassione umana. Ma non lo dico a Laurel. Non ha senso darle motivi d'allegria. «Può darsi», le rispondo. «Che differenza fa?» «Non voglio che sia lui a crescere i miei figli. E poi, dieci anni sono molto tempo.» All'improvviso, per Laurel sono un'eternità. «Potresti riavere i tuoi figli.» «Sarebbero grandi.» «Allora avresti dei nipoti.» «Vuoi davvero che lo faccia?» taglia corto. «Che chieda di patteggiare?» «No. Quello che voglio è che noi due prendiamo la decisione giusta.» Quello che realmente vorrei, ma non glielo dico, è che sia qualcun altro a prendere questa decisione, qualcuno che allontani questo calice dalle mie labbra, che tolga dalle mie spalle il peso del processo. «Sembra quasi che tu abbia paura di andare in tribunale», commenta Laurel. «La situazione è così brutta?»
«Non lo sarebbe se tu fossi qualcun'altra.» Mentre le parole escono dalle mie labbra, capisco che cosa rappresentano: la confessione definitiva di un avvocato esausto. Per più di un decennio ho preso soldi da estranei e ho tirato i dadi, sempre ansioso, sempre preoccupato, ma senza mai voltarmi a guardare indietro. Ho schivato la mia parte di pallottole. Nessun mio cliente è mai morto nella piccola stanza verde. Ho conosciuto avvocati che hanno subito questa sorte: relitti tremolanti. Qualcuno di loro ha trascorso anni a cercare l'assoluzione nel fondo di una bottiglia. «Non è il processo che mi fa paura», le confido. «Ho paura delle conseguenze.» «Allora prenderò io la decisione per tutti e due», annuncia lei. «Rivoglio indietro la mia vita. Rivoglio indietro i miei figli. Non voglio patteggiamenti. Non voglio dichiarazioni di colpevolezza. Voglio andare in tribunale. Voglio difendere le mie ragioni. La decisione è mia. Ne accetterò le conseguenze, di vita o di morte che siano.» Per un momento restiamo muti tutti e due. Poi Laurel colma il vuoto. «Ti ha lasciato un grosso fardello», mormora. «Chi?» «Nikki. So che lo fai per Nikki.» «Lo faccio per tutti noi.» Con una smorfia, mi comunica che apprezza la mia gentilezza. Per un lungo secondo, in silenzio, resta a fissare il nulla, poi mi regala l'universale gesto d'affetto di tutti coloro che siedono dove siede lei: appoggia il palmo della mano sul vetro che ci divide. Io poso la mia mano dal mio lato, come se le nostre dita si toccassero. E, senza un'altra parola, Laurel si alza, si gira, ed esce. 20. Stamattina Harry e io prendiamo l'ascensore per il terzo piano del tribunale. Quando la porta si apre, è il caos. Ma luci e microfoni non sono puntati verso le nostre facce. Oggi la stampa fa il doppio turno. Il processo a Laurel è in lizza con quello che ha piantato le tende sull'altro lato del corridoio. L'imputato è Louis Cousins, un ragazzo di ventisette anni, laureato a Stanford e rampollo di una ricca famiglia: tre anni fa, in una zona di periferia, il giovane avrebbe prima sodomizzato e poi sgozzato due teenager. Cousins ha capelli biondi e lisci che passano un sacco di tempo a coprir-
gli metà della faccia, e occhi che trasudano una malvagità sfrenata. I tratti del volto sono armoniosi, ma sembrano cesellati nel ghiaccio polare, tanto è dura la sua espressione; la faccia di chi potrebbe strappare il cuore a una suora senza pensarci troppo. Il processo a Cousins è diventato una specie di country club per gli strizzacervelli che vogliono entrare nel luna-park delle testimonianze specialistiche. È tutto pagato dal padre di Louis, che sta guidando una sorta di safari psicanalitico nel passato del figlio. E ogni terapeuta pare avere un'idea sempre più suggestiva dell'infanzia degradata e brutale di Louis; il tutto, ovviamente, è successo dietro le mura di ville sontuose, dietro i finestrini scuri di limousine con l'autista. Dopo ore di colloqui, affiancati da test che fanno venire in mente la divinazione per mezzo delle viscere di animali, gli alti sacerdoti della mente umana non nutrono più dubbi sull'accaduto. L'unico problema è stabilire di chi sia la colpa. La soluzione è stata trovata in fretta, dopo una breve riflessione sul patrimonio di Cousins Senior, l'uomo che paga tutte le parcelle. Si è deciso che deve essere stata una delle governanti di Louis a traviare il ragazzo negli anni della sua formazione. Per lo meno, è questo ciò che Louis ha ripescato dai propri ricordi repressi in ore di manipolazioni psicologiche. Gli hanno dato una mano anche gli avvocati, descrivendogli con dovizia di particolari la morte nella camera a gas. Se riusciranno a rifilare questa teoria alla giuria, potranno andarsene in pensione. Harry è profondamente commosso dalla pietà di chi, per mestiere, guarisce menti umane. Negli ultimi tempi ha chiesto più di una volta perché mai Laurel non possa produrre racconti dell'orrore sui propri traumi infantili. Come dice lui: «Per lo meno potrebbe sedersi per un po' sul water e provarci». Harry mi fa da «avvocato Keenan». In questo Stato, nei processi che possono concludersi con una condanna a morte, l'imputato ha diritto a due difensori: uno per dimostrare l'innocenza o la colpevolezza (il mio ruolo), e l'altro (il cosiddetto «avvocato Keenan», dal nome del caso che ha stabilito la prassi) per gestire la fase della definizione della pena, che può variare dall'ergastolo alla condanna a morte. Quindi Harry è alla perpetua ricerca di circostanze attenuanti, di qualunque cosa possa strappare una lacrima agli occhi dei giurati. Stamattina, Laurel viene portata dentro senza manette, seguita da una matrona e da un'altra guardia. Le due donne si perdono sul fondo dell'aula non appena Laurel si siede al tavolo con noi. Questa procedura si ripeterà
tutti i giorni, prima che la giuria entri, per evitare che i giurati, vedendo Laurel affidata a due guardie, si facciano idee preconcette sulla sua colpevolezza. Indossa un'ampia gonna marrone a pieghe e una blusa bianca a doppiopetto di cotone ruvido, a maniche lunghe, estremamente semplice; il colletto, di dimensioni minime, è molto severo. Glielo faccio notare. «Un tocco alla Maria Stuarda», m'informa lei. Harry, lo storico del gruppo, si tuffa a pesce. Dice che a quell'epoca portavano grandi colletti pieghettati. «Non quando dovevano tagliarti la testa», precisa Laurel. Harry ci riflette un attimo, poi le concede il punto. A quanto pare, Laurel ha un senso dell'umorismo da galera molto colto e tagliente. Comunque, il suo abbigliamento è di gusto. Ho avuto clienti che il primo giorno del processo, abbandonate a se stesse, si sarebbero presentate nelle vesti di eroine di un drammone storico strappalacrime, con un gatto a nove code penzolante dalla camicia, e legate a un palo come Giovanna d'Arco. Passiamo in rassegna i probabili testimoni della giornata. «Il primo è Lama», dico a Laurel. «Se non hanno cambiato l'ordine.» La Cassidy è al lavoro. Sta raccogliendo i vari pezzi della sua tesi. Gira voce che Jimmy sia particolarmente arrabbiato con me. Per come l'ho trattato nella fase delle istanze predibattimentali. Come se il fatto di essere il bersaglio di Lama fosse una novità, per me. Mi dicono che Jimmy abbia raccolto spazzatura varia dall'attentato all'ufficio postale: prove materiali, le mie impronte rilevate sulla scena dagli investigatori federali. Conoscendolo come lo conosco, senza dubbio è perplesso. Non capisce perché i federali non mi stiano dando addosso, perché non mi facciano a brandelli come una coperta in un temporale. Lama può vedere solo una parte del quadro. Non sa che i federali hanno in mano una mia dichiarazione, che sono al corrente del motivo della mia presenza all'ufficio postale. Non sono ansioso d'informarne Jimmy, perché svelerei una parte della nostra teoria su Jack e i Merlow. «Tenente Lama, può raccontare alla Corte come è stato scoperto il cadavere?» La Cassidy parte con un attacco diretto. Lama è sul banco dei testimoni. Increspa le labbra, quasi che per rispondere alla domanda sia necessaria una certa riflessione. Secondo me, è delu-
so. In prima fila c'è solo un pugno di giornalisti. Probabilmente non riceveremo la visita del grosso delle truppe finché il processo a Cousins non sarà terminato. Woodruff ha concesso che lo spettacolo venga trasmesso al mondo dalla rete via cavo specializzata in processi di grido. Ma, a quanto pare, Jimmy ha perso anche su questo punto. Le telecamere stanno riprendendo, sì, ma non ci sarà la diretta. Senza qualche succoso precedente, senza folli novità nel campo della legislazione sui peni tagliati o affini che facciano alzare l'audience, la testimonianza di Jimmy probabilmente verrà trasmessa nel cuore della notte e cadrà nel vuoto. «La vittima è stata trovata dal marito», esordisce. «Era nella vasca del bagno padronale della coppia.» «Con 'il marito' intende il signor Jack Vega?» «Sì.» «E all'incirca a che ora la polizia è stata avvertita?» Jimmy guarda i suoi appunti. «Stando alle annotazioni della nostra stazione, la telefonata è stata ricevuta alle zero e quarantasette esatte.» «Appena prima dell'una?» «Sì.» «Ed è stato lei il primo poliziotto ad arrivare sul posto?» «No. La prima ad arrivare è stata un'auto di pattuglia con due agenti. Sono stati seguiti dai TME...» «I tecnici medici d'emergenza?» «Sì. Giusto. Io sono arrivato intorno...» Uno sguardo agli appunti. «All'una e mezzo.» «Del mattino», puntualizza la Cassidy. «Esatto.» La Cassidy è lenta e meticolosa, come un muratore coi mattoni, un maestro della calce. Sa che, per erigere il suo edificio, tutto di queste fondamenta deve essere solido e perfettamente allineato. «E che cosa ha trovato al suo arrivo?» «Il cadavere. La vittima era supina in una grossa vasca, nel bagno padronale. C'era un po' di sangue nella vasca, nessuna traccia di colluttazioni.» Jimmy sottolinea la frase con molti tic facciali ed enfasi di tono nei punti sbagliati. Ma è una questione importante. L'accusa sta cercando di sbarrare la porta a ogni tentativo di far passare la tesi di un omicidio preterintenzionale, eliminando l'idea di una lotta per il possesso della pistola o di un incidente. Si sono mossi in questa direzione fin dall'inizio. «C'era un'unica ferita da arma da fuoco sotto il mento, qui.» Lama ap-
poggia l'indice, a mo' di pistola, sotto la mascella, leggermente sulla destra del viso, vicino alla gola, per indicare il percorso seguito dalla pallottola penetrata nella testa. «La vittima era vestita?» «No. Era, ahh...» Lama gesticola con le mani, bofonchia come se non trovasse le parole giuste. Nuda come un verme. Biotta. Jimmy, che senz'altro è uscito dall'utero sputacchiando parolacce sul buio e sull'acqua, adesso recita la parte del detective sensibile. «Era come mamma l'ha fatta», dice alla fine. «Era nuda?» La Cassidy lo guarda. Perfetto. Lo ha detto una donna. «Sì», conviene Jimmy. «Era nuda.» «Come se si stesse preparando a fare il bagno?» «Obiezione. La domanda mira a suggestionare il teste.» Resto seduto ma agito una matita. «Accolta.» La Cassidy cambia strada. «Ha avuto modo di determinare che cosa stesse facendo la vittima appena prima che le sparassero?» «Dava l'impressione di prepararsi a fare il bagno», risponde Lama. Bene. Ha afferrato il messaggio. «C'era una salvietta piegata sul pavimento vicino alla vasca, e dell'olio da bagno su un lato», precisa. «Ha detto prima di non avere trovato tracce di colluttazione. Come è giunto a questa conclusione?» «Basandomi su parecchie cose», spiega. «È vero che c'erano un paio di bottigliette rotte sul pavimento del bagno, però a una distanza notevole da dove è stato rinvenuto il corpo. E non c'erano tatuaggi intorno alla ferita da arma da fuoco.» Lama si sta allargando. La sua mente comincia a vagare. «Intende bruciature provocate dall'esplosione?» chiarisce la Cassidy. «Sì. Bruciature da polvere da sparo. Non ce n'erano. Così abbiamo pensato che il colpo sia stato sparato da una certa distanza, forse tre, quattro metri, probabilmente mentre la vittima era prona nella vasca. Riteniamo che le bottiglie si siano rotte quando l'assassino, preso dal panico, le ha fatte cadere da uno scaffale dopo l'omicidio.» «Obiezione. A questo punto abbiamo solo un cadavere, ma nessuna prova di omicidio.»
«Accolta. Lo stenografo cancelli l'ultima parte della risposta del testimone. Tenente, può riformulare la sua ultima risposta?» «Riteniamo che le bottiglie si siano rotte quando il perpetratore è stato preso dal panico.» Jimmy sputa nella mia direzione le p di ogni parola. «E poi», incalza, «la salvietta sul pavimento era in perfetto ordine, ben piegata, non spiegazzata come se ci fosse stata una colluttazione.» Mi guarda duro. Così imparo a fare obiezioni. Uno sparo da una certa distanza, calcolato a sangue freddo, serve meglio alla loro tesi. Offre alla giuria qualche traccia di premeditazione e deliberazione. «E non c'erano prove che il corpo fosse stato rimosso dopo lo sparo?» Un suggerimento vergognoso, ma lascio correre. Se insistessi, Lama potrebbe situare l'assassino in un'altra casa, fornendogli un mirino telescopico. «Esatto. Da quanto abbiamo potuto vedere, le hanno sparato mentre si trovava nella vasca.» «Avete trovato impronte?» «No. Davvero curioso», risponde Jimmy. «Perché dice 'curioso'?» «Perché abbiamo cercato dappertutto. E in certi posti ci saremmo aspettati di trovare impronte, soprattutto della vittima.» «E non le avete trovate?» Jimmy scuote la testa, piega le labbra all'ingiù. «Non abbiamo trovato le impronte della vittima nemmeno sulla maniglia della porta del bagno o sulla vasca. La porcellana dovrebbe conservare bene le impronte... E come ha fatto la signora a entrare nella vasca senza toccare almeno il bordo?» Jimmy guarda la Cassidy come fosse un enigma. La butta sul melodrammatico. «E che cosa avete concluso da questo?» «Che il perpetratore...» Lama mi guarda. «Che il perpetratore abbia ripulito le superfici dopo avere sparato alla donna.» «Per evitare di essere scoperto, o scoperta?» chiede la Cassidy. «Sicuro. Se no, perché?» «Perquisendo la scena del delitto, avete trovato l'arma?» «No.» «Niente?» «Nessuna pistola.» «Avete perquisito l'intera casa?»
«Sì.» «E l'area esterna?» «Tutto. Molto a fondo.» «E non avete trovato l'arma del delitto?» «No.» «Lei ha avuto occasione di parlare col marito della vittima, il signor Vega, sulla scena del crimine?» «Sì.» «E gli ha chiesto se in casa c'era una pistola? Se lui o la moglie ne possedevano una?» «Certo. E mi è stato risposto che né lui né la moglie hanno mai posseduto una pistola.» «E lei che cosa ha concluso da questo?» «Be', ho concluso che chi ha sparato alla signora Vega ha introdotto l'arma in casa e l'ha riportata con sé a cose fatte.» «Quindi l'assassino era intenzionato a uccidere?» chiede la Cassidy. «Obiezione.» «Ritiro la domanda», dice lei. Morgan mi guarda con un sorriso furbo, come per dire: dai, prova a cancellare il ricordo della domanda. «Quel mattino avete trovato altro in bagno?» «Sì. Abbiamo rinvenuto un solo bossolo, di una pallottola da nove millimetri.» La Cassidy si avvicina al carrello delle prove, lo studia un attimo, e sceglie un sacchetto di plastica. «Posso avvicinarmi, vostro onore?» Woodruff annuisce. «Tenente, le chiedo di esaminare il bossolo contenuto in questo sacchetto. Può identificarlo?» Jimmy lo studia per un secondo, guarda le annotazioni sull'etichetta del sacchetto. Tutte le pallottole da nove millimetri si assomigliano. «È questo. È il bossolo che abbiamo trovato in bagno. Sul sacchetto c'è la mia sigla», annuncia Lama. «E lo ha messo nel sacchetto lei stesso.» «Uno dei tecnici della scientifica», precisa lui. «Sotto la mia diretta supervisione. Però io ho siglato il sacchetto, qui.» Indica il punto con un pollice. «Chiedo che questo bossolo venga contrassegnato come reperto numero
uno dello Stato», dice la Cassidy. «Obiezioni?» Il giudice mi guarda. «No, vostro onore.» «Avete trovato qualche altra cosa sulla scena?» «Alcune fibre», risponde Jimmy. La Cassidy torna al carrello. Un secondo dopo, porge a Lama un altro sacchetto. «Le fibre sono queste. Le abbiamo trovate sul pavimento, vicino alla base della vasca. E di nuovo ho siglato il sacchetto per identificarlo», insiste lui. Le fibre sono una novità dell'ultimo minuto, anche se, dopo aver letto il rapporto di laboratorio, penso che stiano procedendo a tentoni. La Cassidy le fa contrassegnare come reperti, e io non obietto. Sta disponendo le tessere della sua tesi, a una a una. Se riesce a costruire qualcosa su queste basi e dimostrare qualche legame incriminante, un rapporto preciso che colleghi queste cose all'imputata e al delitto, a tempo debito cercherà di farle ammettere come prove. È una partita a scacchi giocata con molta ponderazione; ogni mossa viene calcolata in base all'effetto che avrà. «Oltre al bossolo e alle fibre già identificati, avete rinvenuto nient'altro, quel mattino?» «Siamo entrati in possesso di una copia di una videocassetta registrata da una videocamera di sicurezza installata nel portico della residenza.» La Cassidy prende una videocassetta dal carrello e si avvicina al testimone. Lama la identifica in base a un'etichetta. «Tenente, ha visionato il contenuto di questo nastro?» «Sì.» «E può dire alla Corte che cosa ha visto?» «Il nastro riporta la data e l'ora, che sono visibili nell'angolo in basso a sinistra dello schermo, in fase di lettura. Il nastro in questione è uno di quelli speciali, a scorrimento lento. Può contenere fino a dodici ore di registrazione. Quindi contiene parecchia roba.» Riferisce che la data del nastro è quella del giorno dell'omicidio di Melanie Vega, però aggiunge che la registrazione si è interrotta prima dell'ora della morte, per motivi che non specifica. «A noi non interessa tutto il materiale, ma soltanto le parti pertinenti», afferma la Cassidy. Intende tutto ciò che può usare per mettere il cappio al collo di Laurel. «Può riferire alla Corte che cosa ha visto sul nastro?»
«Obiezione.» Mi alzo. «La miglior prova è il nastro stesso. Che bisogno c'è di avere indicazioni in merito dal teste?» «Vostro onore, ci occorre una testimonianza preliminare», dice la Cassidy. Per poter far ammettere qualcosa come prova, sono necessarie testimonianze preliminari adeguate. Nel caso di un oggetto materiale, in genere bisogna dimostrare che sia rilevante per il caso in discussione. Dopo di che, una volta ammesso come prova, il nastro verrebbe visionato dalla giuria. Io sto sostenendo che, per quanto concerne il nastro, Morgan ha già ottenuto una testimonianza preliminare sufficiente. «Concederò un po' di spazio all'accusa», dice Woodruff. «Faccia in fretta.» «Tenente, se può sintetizzare il contenuto del nastro...» «Sì. Alle venti e diciassette della sera in cui Melanie Vega è stata uccisa, sul nastro compare una donna alla porta della residenza della vittima.» «Può identificare quella donna?» «Era l'imputata, Laurel Vega.» Al che, Lama punta l'indice su Laurel, seduta al mio fianco. Gli occorre un secondo per puntarlo ben diritto. Il fatto che il gesto sia fuori tempo rispetto alle sue parole indica chiaramente che è stato studiato a tavolino: una mossa concepita dalla Cassidy o da uno dei suoi assistenti come momento di alto contenuto drammatico. Ma la recitazione di Jimmy è pessima. «Ne è certo?» «Assolutamente.» «Il nastro ha il sonoro?» «Purtroppo no», risponde Lama. «Può dirci che cosa stava facendo l'imputata?» «C'è stata una discussione lunga e molto accesa...» «Obiezione.» «Non voglio sentir parlare di discussioni registrate su quel nastro», ruggisce Woodruff. Chiedo di cancellare la risposta del testimone, e Woodruff dà l'ordine. «Quanto tempo è durata questa conversazione tra la vittima e l'imputata?» Lama guarda i suoi appunti. «Quattro minuti e trentatré secondi.» «E come si è conclusa?» «L'imputata ha sfasciato la videocamera con un vaso da fiori prima
che...» «Obiezione, vostro onore.» Woodruff ha l'aria di essere stato sforacchiato da un pungolo. Le sue sopracciglia inarcate si puntano sulla Cassidy. «Basta», taglia corto. «Non voglio sentire un'altra parola sul nastro... Vuole che venga contrassegnato come reperto?» Woodruff fissa la Cassidy. Niente da fare, questa donna non fa proprio breccia nel suo cuore. Se siamo fortunati, riusciremo a tesaurizzare tali attimi d'inimicizia nei confronti dell'accusa, a farli diventare crediti da riscuotere in un brutto momento, oppure durante qualche futura scaramuccia con la Cassidy e le sue truppe. Il commesso fa il suo dovere. Contrassegna il nastro come uno dei reperti dell'accusa. Morgan guarda i suoi appunti. Ha esaurito tutte le questioni d'importanza critica col testimone; sta cominciando ad avventurarsi in zone che le attirano le mie obiezioni e scatenano l'irritazione di Woodruff. «È tutto, per questo testimone», dice. «Controinterrogatorio?» chiede Woodruff. Mi alzo e mi avvicino al banco dei testimoni, mantenendo una debita distanza. Lama e io ci fissiamo negli occhi. Sul suo labbro superiore ci sono goccioline di sudore. «Tenente Lama, è giusto definirla parte del gruppo dell'accusa in questo caso?» «Io sono un funzionario di polizia. Niente di più, niente di meno.» Lama è parecchio di meno, ma non mi dilungherò sul punto in questa sede. «Non è vero che, in questo caso, lei sta lavorando con il sostituto procuratore distrettuale, la signora Cassidy?» «È il mio lavoro», borbotta lui. «Allora fa parte del gruppo?» «Se vuole metterla così...» «Ha parlato con la Cassidy del caso... All'esterno dell'aula, intendo. Non è vero?» «Sì.» «Ha diviso con lei le informazioni in suo possesso su questo caso? Ha discusso la testimonianza che doveva rendere qui oggi?» «Sì.» «In effetti, non è vero che per prepararsi a testimoniare lei ha discusso di
tutto nei minimi particolari con l'avvocato dell'accusa? Che avete fatto le prove della sua testimonianza?» «Ne abbiamo parlato.» «Quante volte?» chiedo. «Non so.» «Due? Tre?» Faccio il giochino dei numeri. «Non riesco a ricordare.» «Ah. Così tante volte?» Jimmy mi lancia un'occhiataccia. «Non è forse vero che, in preparazione della sua comparizione qui, lei ha provato la sua testimonianza con la signora Cassidy, che ne avete discusso nei particolari parecchie volte, per avere la certezza di non commettere sbagli?» In condizioni normali, non insisterei su questo punto. Ma dopo gli schiaffi ricevuti da Jimmy in fase d'istanze predibattimentali, si può tranquillamente scommettere che Morgan lo ha tenuto chiuso nel suo ufficio per giorni in compagnia di uno dei suoi tirapiedi. Più prove generali di quelle che si fanno per un musical di Broadway. «Abbiamo parlato qualche volta.» Jimmy non vuole dire altro. «Con noi non ha parlato, vero?» «Come sarebbe a dire?» «Non è venuto a parlare con gli avvocati della difesa, il signor Hinds e il sottoscritto, per raccontarci nei particolari quello che avrebbe detto qui oggi, vero?» «Non sono tenuto a farlo», risponde lui. «Esatto», confermo. «Perché è suo compito far condannare l'imputata, no?» Mi sto dando da fare per distruggere il mito che i poliziotti siano neutrali, semplici nemici del crimine senza conti da saldare. Di solito, l'atteggiamento della polizia in un'indagine solidifica più in fretta del mercurio. Basta che vedano un indiziato, a volte con prove scarsissime, e si mettono a puntarlo con la forza implacabile di una bussola rivolta verso un magnete. «Il mio compito è risolvere casi criminali», annuncia lui. Adesso ha indossato l'alta uniforme. Lama nei panni del vendicatore mascherato. «Oh. Allora a lei non interessa vedere condannata l'imputata?» «Non ho detto questo.» «Già. Non l'ha detto, vero?»
Lascio assaporare il concetto alla giuria per un attimo. «Può dirci, signor Lama...» Lungo la strada, Jimmy ha perso i suoi gradi. Perché lasciargli indossare il mantello dell'autorità? «La notte della morte di Melanie Vega è stato emesso un mandato d'arresto?» «Sì.» «Chi lo ha emesso?» «Io.» «E chi era il ricercato?» «La sua cliente», dice lui. «Laurel Vega.» Dopo la figuraccia del primo tentativo, questa volta Jimmy non punta l'indice. Si limita a vaghi cenni della testa nella direzione del nostro tavolo. «Allora lei ha deciso molto presto che Laurel Vega era la principale sospettata in questo caso?» «Esatto.» «Quanti anni di esperienza ha lei nel campo delle indagini criminali?» «Trentadue.» «Immagino che, dopo tanto tempo, lei sia dotato di una sensibilità molto spiccata per questo genere di cose. Che sia in grado di giudicare se sia il caso o no di emettere un mandato d'arresto. Che sappia cioè decidere se procedere o no all'arresto di un sospettato.» «L'esperienza insegna molte cose», chiosa lui. «E questo mandato d'arresto indicava la sospettata come potenzialmente armata e pericolosa?» «Sì.» «Il che significa che la polizia l'avrebbe presumibilmente arrestata ad armi spianate?» «Se gli agenti tenevano alla loro vita», dice. «Cioè? Come mai?» «Perché la ricercata era pericolosa.» «E come ha fatto lei a formarsi tutte queste opinioni così in fretta, quella notte? L'opinione che Laurel Vega fosse la principale sospettata, e fosse anche armata e pericolosa?» «La vittima è stata uccisa da un colpo di pistola. Non abbiamo trovato la pistola. Dovevamo presumere che la ricercata l'avesse con sé.» «Molto bene, signor Lama. Ma come ha fatto a stabilire che Laurel Vega fosse la principale sospettata?» «Be', avevamo il nastro. Il nastro della videocamera...» «Oh. Lei ha potuto visionare il nastro quella notte stessa, sulla scena del
delitto?» Sfoglio le pagine che ho in mano, una copia del rapporto di polizia di quella notte. Lama diventa di colpo chiaroveggente, intuisce dove sto puntando. I suoi occhi sono quelli di un cane rabbioso. «Adesso che ci penso», dice, «non lo abbiamo fatto.» «Non avete fatto che cosa?» «Non abbiamo visionato il nastro, quella notte.» «Come mai?» «La videocamera era rotta», spiega. «E senza una videocamera funzionante per quel particolare standard, non potevate visionare il nastro, giusto?» «No», ammette lui. «Non potevamo.» Lo so dai rapporti successivi al primo. La polizia è riuscita a vedere il nastro solo quasi cinque ore più tardi, quando un rivenditore di videocamere di sicurezza ha fornito loro l'attrezzatura adatta. A quel punto, il mandato d'arresto era stato diramato da quattro ore circa. «Quindi lei era all'oscuro del contenuto del nastro, quando ha emesso il mandato d'arresto. Allora, su quali prove si è basato per diramare l'ordine di arrestare Laurel Vega e per riferire che era armata e pericolosa?» «Be'... Su suo marito», dice lui. «Intende Jack Vega? L'ex marito di Laurel Vega?» «Esatto.» «E che cosa le ha detto il signor Vega per spingerla a diramare il mandato d'arresto per Laurel Vega?» «Gli abbiamo chiesto se sapesse di qualcuno intenzionato a uccidere sua moglie.» «E lui che cos'ha risposto?» «Ci ha dato il nome di Laurel Vega.» «Tutto qui?» «Be', anche qualche altra cosa.» «E cioè?» «Ha detto che Laurel Vega odiava la vittima. Che era gelosa. Ha presente?... Il tipo di roba che ci si aspetta in un divorzio.» «Soltanto la solita roba?» domando. «Sì. Più o meno.» «E il signor Vega le ha detto di avere visto coi propri occhi Laurel Vega commettere il delitto?»
«No. Non era in casa quando è successo.» «Be', il signor Vega le ha detto di avere visto Laurel Vega a casa propria quella sera?» «No.» «Quindi, quella che abbiamo è l'asserzione nuda e cruda del signor Vega, senza alcuna prova a sostegno, dell'odio di Laurel Vega per sua moglie. Indubbiamente quanto basta per voler parlare con lei. Per interrogarla. Allora le prove su cui si è basato l'arresto sono saltate fuori quando lei l'ha interrogata?» chiedo. «No.» Lo dice a denti stretti, con la voce che gli riverbera in petto. «Prego?» «No.» Più forte, in modo che la giuria possa sentirlo. «In questo caso, non capisco. Che prove aveva per arrestare Laurel Vega?» «Avevamo un cadavere», si arrabatta Jimmy. Lo guardo diritto negli occhi. «Sta dicendo a questa Corte che al di là dei sospetti infondati di Jack Vega, asserzioni non corroborate dalla minima prova, al di là di questo, lei non aveva altri motivi per diramare il mandato d'arresto, quella notte?» «Lei aveva con sé un tappeto proveniente dalla scena del delitto», s'illumina lui. «Aveva con sé un tappeto che adesso lei asserisce provenire dalla scena del delitto, ma all'epoca del mandato d'arresto lei non sapeva nemmeno che esistesse.» Salterebbe in groppa al cavallo della testimone oculare, la signora Miller, ma la testimonianza della Miller non è più ammessa. Se ne parla, se apre bocca, se fa un solo cenno, farò immediatamente annullare il processo per vizio di forma. «Abbiamo trovato nella sua borsetta un portacipria che apparteneva alla vittima. Al diavolo, l'imputata era a Reno, in fuga, quando l'hanno trovata.» «Dopo che l'avete arrestata», ribatto. «Avete trovato il portacipria giorni dopo il suo mandato d'arresto che definiva armata e pericolosa la mia cliente. Una sospettata da arrestare ad armi spianate. E lei non aveva idea di dove si trovasse Laurel Vega quando ha diramato il mandato, vero?» «All'epoca era la nostra principale sospettata», protesta lui con tutta l'indignazione di chi è nel giusto. «E rimane a tutt'oggi la vostra unica sospettata perché non vi siete presi
il disturbo di cercarne altre o altri. È esatto?» Mi guarda con espressione torturata. Gli piacerebbe rispondere, ma non sa che dire. Se fa un'ammissione, è fottuto; se dice che non è vero, gli chiederò su quali altri sospetti abbia lavorato, quali altre tracce abbia pescato nella broda di questa indagine. E conosciamo tutti e due la risposta. «Tutte le prove indicano la sua cliente», dice. «Tutte le prove che ha prodotto lei», lo informo, «perché non ha perso tempo a cercare prove che possano discolparla, che possano indicare il vero assassino. Non è vero?» Sto spargendo i semi della mia tesi fra la giuria, l'idea di un altro assassino. È uno dei problemi dell'edificio dell'accusa. Hanno trovato una possibile giustificazione all'arresto di Laurel dopo il fatto, grazie al portacipria, al tappeto, e all'identificazione della signora Miller, che comunque non può più entrare in gioco. Al momento del mandato d'arresto, non avevano in mano uno solo di questi elementi. Senza dubbio, con un mezzo sforzo avremmo potuto far annullare l'arresto iniziale, però loro avrebbero ricucito le falle in pochissimo tempo. È stato meglio lasciare le cose come stavano, e usare adesso l'arresto per far sanguinare Lama. «Siamo stati equi, abbiamo tenuto un atteggiamento mentale aperto», protesta lui. «Abbiamo condotto un'indagine professionale.» «Lei la definisce professionale?» «Io sì», dice lui. «È professionale emettere un mandato d'arresto per la mia cliente basato solo sui sospetti di Jack Vega?» Non risponde. Mi guarda, si aggiusta la cravatta, poi asciuga il labbro superiore con la manica della giacca. Una risposta migliore di quanto potessi sperare, tutta nel linguaggio del corpo. «Sto aspettando una risposta», lo informo. «Gliel'ho già data. È stata un'indagine professionale.» «Un attimo fa ha riferito che il signor Vega le ha detto che Laurel Vega odiava la sua nuova moglie che era gelosa. Il tipo di roba che ci si aspetta in un divorzio... Sono parole sue. Che intendeva dire?» Dalle spalle in su, Jimmy ondeggia e tremola, come uno di quei cagnolini sui cruscotti delle automobili. Lama che cerca di esprimersi senza usare parole. «Ma lo sa!» sbotta. «No. Io non lo so. Che intendeva dire?» «Intendevo un brutto divorzio. Le due donne non si piacevano.»
«E lei è pratico di cose del genere?» «Dopo trent'anni nella polizia, impari parecchio su un sacco di cose.» «Immagino che, negli anni, lei abbia risposto a molte chiamate per problemi domestici, quando ancora faceva servizio di pattuglia», dico. «Ho fatto la mia parte.» «Allora sa come reagiscono le donne a un divorzio?» gli chiedo. «Ci può scommettere. Caverebbero occhi con le unghie...» Data la preponderanza di donne nella giuria, sento la Cassidy risucchiare aria al suo tavolo. Jimmy sta per mettere il piede nella cacca. «Allora le donne possono diventare violente, in un divorzio?» procedo. Di colpo capisce dove sono diretto. Lo sto guidando al pozzo dell'eresia politica, al capovolgimento della dottrina che vuole le donne vittime della violenza domestica. Gli occhi di Jimmy fanno un giretto sul banco della giuria e tornano a me guardinghi. «Anche gli uomini», precisa. «A volte le picchiano... le signore. E così noi dobbiamo andare a fermarli.» Jimmy lanciato al salvataggio. «Ah, quindi la violenza può essere nei due sensi?» chiedo. «Sicuro. Assolutamente», dice lui. «Be', le è mai venuto in mente che il signor Vega potesse avere i suoi motivi per gettare sospetti sulla ex moglie?» «Che vorrebbe dire?» «Voglio dire che si è trattato di un brutto divorzio, con molti rancori. Le è mai venuto in mente che il signor Vega potesse avere i suoi motivi per riversare ostilità sulla ex moglie? Per accusarla senza prove? Sarebbe un fatto naturale in un brutto divorzio, no?» «Non avevamo ragione di sospettare che il signor Vega potesse trarci in inganno», dice lui. «Però lei era pronto a formarsi ogni tipo di sospetto nei confronti della sua ex moglie. Fino al punto di etichettarla come assassina?» «C'erano prove.» «Tutte prove che io sostengo dubbie, e tutte prove che sono state acquisite, glielo vorrei ricordare, dopo l'arresto. Che altro le ha detto il signor Vega, quella notte?» «Era sconvolto. Non volevamo metterlo sotto pressione», dice Jimmy. «Non volevate metterlo sotto pressione! Non volevate metterlo sotto pressione!» Alzo la voce di un'ottava, scruto Lama con occhi increduli. «Capisco. Così era più facile arrestare la mia cliente, diramare un mandato che la definiva armata e pericolosa, sottoporla al rischio di reazioni mici-
diali, farla arrestare da agenti nervosi con le pistole spianate... Era più facile fare questo che indagare sui fatti, scoprire esattamente che cosa ci fosse dietro le accuse di Jack Vega alla ex moglie?» «Col senno di poi», biascica Jimmy, «probabilmente ci saremmo comportati in maniera diversa.» La Cassidy si sta facendo piccola piccola. «Su questo sono pronto a scommettere», chioso. La prima regola del controinterrogatorio: quando il testimone ha messo il piede nella cacca, lascialo lì. Sin dall'inizio ho sospettato che qualche altra cosa motivasse l'arresto di Laurel, qualcosa che ha spinto Lama a cadere nel suo stesso nido di vipere. E quel qualcosa è il suo odio per me, e quindi l'avere scoperto subito che Laurel è, a conti fatti, un membro della mia famiglia. 21. Nel pomeriggio, Morgan Cassidy si lecca le ferite. Lama l'ha lasciata con un bel passivo: la supina resa all'idea di avere arrestato Laurel senza prove sufficienti. La Cassidy si starà senza dubbio chiedendo se le parole di Jimmy non possano diventare l'ultimo tocco a una mia richiesta di appello, nel caso Laurel venisse condannata. La testimonianza di Lama ha scolpito nella mente dei giurati la chiara immagine di un'indagine sciatta, di poliziotti che non hanno badato ai particolari e non hanno voluto appurare l'evidenza dei fatti, impegnati com'erano nella miope crociata di condannare Laurel prima che esistesse una sola prova della sua colpevolezza. Da un certo punto di vista, la Cassidy mi appare ancora più pericolosa proprio per tutto questo. Le sue contorsioni processuali rivelano l'ansia di chi sta inseguendo, nel fitto della vegetazione, una tigre ferita. Colin Demming è tutto ciò che Jimmy Lama non è. È giovane, bello, colto, e intelligente. Di solito in tribunale ci si presenta in abiti civili, ma oggi Demming indossa l'uniforme della polizia di Reno. È un agente di quel dipartimento; è stato lui a prendere in custodia Laurel, nella lavanderia a gettoni di Virginia Street. In condizioni normali, mi aspetterei che la Cassidy faccia testimoniare Demming, ottenga le risposte che le occorrono, e lo congedi in fretta. Ma Morgan ha trovato un'altra linea di attacco, e Demming è l'arma perfetta: un poliziotto non coinvolto in un'indagine maldestra.
La Cassidy si dilunga sui particolari dell'arresto. Apprendiamo che Demming e gli altri agenti sono stati spediti alla lavanderia a seguito della telefonata di una donna che aveva visto la foto di Laurel sul giornale. Demming ha controllato i mandati di arresto e ne ha trovato uno a nome di Laurel. Era stato emesso in base alla testimonianza della signora Miller, dopo che lei aveva identificato Laurel grazie alla fotografia mostratale da Lama. Ho finalmente scoperto da dove sia saltata fuori quella foto. Laurel mi spiega che Jack l'ha rubata dalle cose di Danny, da quello che il ragazzo ha lasciato a casa di Jack dopo una visita al padre. A quanto pare, il fatto che la fotografia di proprietà di Danny sia stata usata per scatenare una caccia a Laurel ha provocato notevoli attriti fra il ragazzo e suo padre. Morgan chiede a Demming che cosa sia successo dopo che gli agenti hanno raggiunto la lavanderia. «Sono arrivate altre due unità, di rinforzo. Una ha coperto il retro dell'edificio, mentre io e altri tre agenti siamo entrati dall'ingresso principale.» «Che cosa avete trovato all'interno?» «Abbiamo notato una donna; era davanti a una delle lavatrici sul fondo del locale. C'erano diversi altri clienti, ai quali abbiamo chiesto di uscire.» «Allora la sospettata non vi ha visti, quando siete entrati?» «No. Era girata di spalle al momento del nostro ingresso. Le macchine, lavatrici e asciugabiancheria, facevano molto rumore. Mi sono avvicinato e ho dovuto batterle sulla spalla prima che lei si accorgesse della mia presenza. Le ho detto di non muoversi. Di appoggiare le mani sulla lavatrice, portare i piedi all'indietro e divaricare le gambe. Poi le ho chiesto un documento d'identità. Lei mi ha detto che doveva prendere la borsa. Le ho risposto di restare dov'era, e uno degli altri agenti ha preso la sua borsa.» «Dove si trovava la borsa?» «Su una sedia a pochi metri di distanza.» «Siete riusciti a identificare la sospettata?» «Sì. Nella borsa abbiamo trovato un portafoglio con una patente. La identificava come Laurel Jane Vega, lo stesso nome che appariva sul mandato d'arresto.» «E oggi vede quella donna in aula?» «Sì. È seduta là.» Demming indica Laurel, sulla sedia al mio fianco. «Vostro onore, vorremmo fosse messo a verbale che il testimone ha identificato l'imputata, Laurel Vega.» «A verbale», dice Woodruff. «A quel punto, avete preso Laurel Vega in custodia?»
«Sì. Le abbiamo letto i suoi diritti e messo le manette.» «Ora, in questo lasso di tempo, mentre lei era alle prese con l'imputata, le leggeva i suoi diritti e la ammanettava, l'imputata le ha detto qualcosa? Ha fatto qualche dichiarazione?» «Sì. Voleva sapere come avevamo fatto a trovarla.» «Qual è stata esattamente la sua frase? La ricorda?» «Ho preso un appunto», spiega Demming. Consulta una copia del verbale di arresto. «'Ragazzi, come avete fatto a trovarmi?' Ha detto questo.» «'Ragazzi, come avete fatto a trovarmi?'» La Cassidy lo ripete lentamente, a spalle erette, girata verso la giuria. «E voi che cosa le avete detto?» «Le abbiamo detto che poteva parlare con un avvocato, se aveva qualche domanda.» «Agente, le ho chiesto di portare con sé qui in aula, oggi, alcuni documenti. Li ha portati?» «Sì.» Demming apre una cartella ed estrae un fascio di fogli. Ne tende diversi alla Cassidy. Lei li sfoglia, ne passa un mazzetto al commesso, che li consegna al giudice; poi Morgan volteggia fino al nostro tavolo e, senza tante cerimonie, depone una copia di tutto davanti a me. «Mi riferisco al modulo con l'intestazione: Inventario del prigioniero. Lo ha trovato?» «Sì.» «Può spiegare alla Corte che cos'è?» «È un modulo standard che, nel nostro distretto, viene compilato dalla stazione di polizia a ogni arresto. Serve per stilare l'inventario degli oggetti rinvenuti in possesso della persona arrestata e incriminata. Gli oggetti vengono chiusi in una busta, poi sigillata, sulla quale il prigioniero appone le proprie iniziali. Se viene pagata una cauzione o comunque se il prigioniero viene liberato, tali oggetti vengono restituiti.» «E il modulo specifico che abbiamo qui?» «È relativo all'imputata in questo processo, Laurel Vega.» «Deduco che sia stato preparato al momento della sua incriminazione a Reno.» «Sì.» «Chi ha compilato questo modulo, agente?» «Io, dato che avevo operato l'arresto.» Demming indica le proprie iniziali in fondo al foglio. «Molti piccoli oggetti personali», dice la Cassidy. Poi legge dal modulo. «'Un fazzoletto, un mazzo di chiavi di automobile, un rossetto.' Dove sono
stati rinvenuti, tali oggetti?» «Nella borsa dell'imputata», risponde Demming, indicando una nota sul modulo che conferma la risposta. «Richiamo la sua attenzione sulla voce numero undici dell'inventario. 'Portacipria d'oro con le iniziali M.L.H.' Lo vede?» «Sì.» «Era uno degli oggetti rinvenuti nella borsa?» «Sì.» La Cassidy si sposta al carrello delle prove, fruga per un secondo in un paio di sacchetti di carta, e un attimo dopo torna dal teste con un oggetto in mano. «Posso avvicinarmi al testimone, vostro onore?» Woodruff sbuffa, fa un piccolo cenno con la testa. «Agente Demming, le chiedo di guardare questo portacipria e dirmi se lo ha già visto in precedenza.» Demming lo rigira nella mano, lo studia da vicino, poi alza lo sguardo sulla Cassidy. «È il portacipria che ho trovato nella borsa dell'imputata al momento dell'arresto.» «Quello contrassegnato col numero undici su questo elenco?» «Sì. Può vedere le iniziali qui.» Demming punta l'indice. «Grazie.» La Cassidy chiede che venga identificato come nuovo reperto dell'accusa. Non ho obiezioni. Morgan aspetterà che Jack lo identifichi come appartenente a Melanie, un oggetto rubato la sera del delitto, dopo di che chiederà che venga ammesso come prova. Sarà uno dei pezzi fondamentali del suo edificio. Toccherà a noi spiegare come mai sia stato trovato nella borsa di Laurel, a Reno, tre giorni dopo l'omicidio. «Un'altra voce», annuncia Morgan. La sta cercando sull'elenco. «Provi la diciassette», le consiglio. Lei mi guarda. Un sorriso condiscendente, come per dire: come fai a sapere che cosa sto cercando? Su queste cose è molto meticolosa. Le sorprese arriveranno più avanti, e tutte da direzioni impreviste. Conoscendo la Cassidy, posso solo prepararmi all'impatto. «Ma certo», dice. «Agente Demming, richiamo la sua attenzione sulla voce diciassette dell'elenco. 'Tappetino decorativo, novanta per centocinquanta centimetri.' La vede?»
«Sì.» «Dove è stato trovato il tappetino?» «Era nella lavanderia, in possesso dell'imputata: che lo stava lavando al momento dell'arresto.» Parlando, la Cassidy si è spostata verso il carrello delle prove. Il tappeto non è difficile da individuare: è arrotolato e legato con uno spago. È ornato da un complesso motivo azzurro. Morgan chiede all'ufficiale giudiziario di darle una mano. Lui prende il tappeto e lo porta al banco dei testimoni. «Agente Demming, è in grado d'identificare il tappeto che l'ufficiale giudiziario le sta mostrando?» Demming guarda, controlla l'etichetta appiccicata a un angolo. «Sì. È il tappeto che abbiamo trovato in possesso dell'imputata quando l'abbiamo presa in custodia. Quello che lei stava lavando.» Tutte le tessere stanno andando al loro posto nel puzzle di Morgan. Demming ha abbondantemente recuperato il terreno perso da Lama. La Cassidy vede già Jack sul banco dei testimoni, a giurare che quella sera il tappetino si trovava sulla scena del delitto, confermando la presenza di Laurel. Se non fosse stata in quella casa, come avrebbe potuto procurarselo? «Concentriamoci un attimo sulla questione della lavanderia», riprende la Cassidy. «Lei ha detto che l'imputata stava lavando questo tappeto. Stava usando una normale lavatrice?» «No. Era una grossa lavatrice a secco. Il proprietario mi ha detto che è una delle ultime rimaste in città nelle lavanderie a gettoni. Usa solventi chimici per il lavaggio a secco di lana e altri tipi di stoffa non lavabili in acqua e sapone.» «Allora queste sostanze chimiche sono piuttosto caustiche?» «Obiezione», cantileno a Woodruff, che sembra si sia appisolato sullo scanno. I suoi occhi si riaprono di scatto. «A meno che l'agente non possegga una laurea in chimica della quale non siamo stati informati, la domanda richiede una speculazione.» «Mi permetto di dissentire», dice la Cassidy. «La mia domanda concerne solo l'aspetto esteriore delle sostanze chimiche nonché dell'imputata al momento in cui le usava.» Avverto un brivido interiore. Morgan sta girando intorno ai confini del proibito, intorno alla deduzione che Laurel stesse distruggendo prove, anche se per il momento la sua domanda è a un livello piuttosto superficiale. «Forse l'accusa può chiarire meglio i termini della domanda», concede
Woodruff. Morgan fa una smorfia. Se proprio è costretta, okay. «Ha fiutato quelle sostanze chimiche, agente?» «Ci può scommettere.» «E che odore avevano?» «I vapori erano molto forti», assicura Demming. «Bruciavano il naso. Qualcuno dei nostri ha continuato a tossire per un paio di minuti, finché non siamo usciti all'aria aperta.» «La lavatrice era aperta, quando lei ha raggiunto l'imputata?» «No.» «Allora non capisco. Come hanno fatto i vapori a uscire?» «A quanto abbiamo rilevato, l'imputata aveva aperto la lavatrice durante uno dei cicli ed era riuscita a infilare le mani nel solvente.» «La cosa l'ha preoccupata?» «Tanto da chiedere al direttore della lavanderia di che cosa si trattasse.» «E lui che cosa le ha risposto?» «Obiezione. Diceria.» «Accolta.» «Mi permetta di chiederle... Ha avuto occasione di guardare le mani dell'imputata?» «Oh, sì.» «E che aspetto avevano?» «Erano coperte di macchie rosse», spiega Demming. «Ustioni chimiche, fino agli avambracci.» «Le ha chiesto come se le fosse procurate?» «Sì. Ha detto che è stato un incidente.» «Un incidente?» rilancia la Cassidy. «Un comportamento piuttosto maldestro, non le pare? Un incidente molto comodo...» «Obiezione. La domanda richiede una speculazione da parte del testimone.» «Accolta.» «Agente, lei sa qualcosa sui test per i residui di polvere da sparo?» «Obietto a questa linea di interrogatorio, vostro onore. Il testimone non è un esperto di medicina legale. Non è stato qualificato come tale.» «È vero», muggisce Woodruff. «Non deve essere un esperto qualificato per dirci se il suo distretto ha effettuato test per scoprire residui di polvere da sparo sulle mani dell'imputata, dopo l'arresto.»
Woodruff fiuta la frase, arriccia il naso. «Vuole chiedergli soltanto questo?» «Sì, vostro onore.» «Proceda», consente il giudice. «Agente Demming, lei sa se il suo distretto abbia tentato di condurre test per i residui della polvere da sparo sulle mani dell'imputata, dopo l'arresto?» «Non lo so.» «Allora non sa se questi esami sarebbero stati possibili, data la contaminazione chimica delle mani dell'imputata?» «Obiezione.» Sono in piedi, urlo allo scanno. «Basta così», ordina Woodruff. «Non una parola di più. La domanda sarà cancellata dal verbale. I giurati non terranno conto dell'ultima domanda dell'accusa. Signora Cassidy, voglio vederla nel mio studio col signor Madriani non appena avremo concluso con questo testimone.» «Sì, vostro onore... Ho concluso con il testimone», annuncia la Cassidy. Torna a sedere, sfugge agli occhi di Woodruff che le stanno scavando un buco in fronte. Il mio corpo, sotto il vestito, sta fumando, ma cerco di non darlo a vedere. Uno dei maggiori errori che si possano commettere in controinterrogatorio: riversare il proprio veleno su un testimone che cerca di dare per lo meno l'impressione della neutralità. «Agente Demming...» Gli rivolgo un grosso sorriso, conto fino a dieci. «Grazie per essere venuto fin qui.» «Fa parte del mio lavoro», dice lui. Mi fissa con occhi severi. Sa che io sono il diavolo. «Ho solo qualche domanda per chiarire alcune cose.» Annuisce, comprensivo, anche se la sua espressione è quella che si potrebbe riservare a un appuntamento col dentista. «È esatto affermare che, quando le hanno comunicato di recarsi alla lavanderia, lei ha anzitutto verificato l'esistenza di un mandato d'arresto?» «Sì.» «E le è stato anche detto che la sospettata poteva essere pericolosa, vero?» «Sì.» «Bene. Ora, quando ha preso in custodia l'imputata, l'ha trovata in possesso di un'arma?» «No.»
«Non aveva armi nascoste sul corpo?» «No.» «Nessuna pistola in borsa?» «Se avessimo trovato una pistola, sarebbe riportata sull'inventario. Lei ne ha visto una?» Caparbio, il poliziotto. «Allora non avete trovato pistole?» «È quello che ho detto.» Potrei insistere, chiedere se non gli sia parso strano scoprire che Laurel era disarmata, essendo stata definita armata e pericolosa. Ma domande del genere, con un testimone chiaramente ostile, tendono a implodere. Rischio d'indurre Demming a ipotizzare che, se Laurel aveva una pistola, magari se n'era sbarazzata in qualche modo. Nelle menti dei giurati attecchirebbe un seme dannoso. Lascio perdere la questione. «Quando si è avvicinato all'imputata, lei ha opposto qualche resistenza? Ha ingaggiato una lotta con lei?» «No.» Non sottolineo il fatto che probabilmente in quel momento Laurel aveva una dozzina di pistole puntate addosso. La Cassidy, saggiamente, si è tenuta alla larga da questo punto dopo la testimonianza di Lama, e per ora non serve ai miei scopi. «A parte la frase che lei ha riferito prima, l'imputata ha detto qualcos'altro quando l'ha arrestata?» Demming riflette un attimo. Se prova a ripetere la solita frase, lo interromperò. «No. Non che io ricordi.» «Non ha reso alcuna confessione?» «No.» «Non ha detto: 'Sono stata io'?» «No.» «Non ha tentato di scappare?» «Le sarebbe stato difficile», risponde Demming. «Ma non ha tentato?» «No.» «Agente Demming, lei ha sostenuto di avere trovato il tappeto di proprietà di Laurel Vega in una lavatrice a secco. È esatto?» «Sì.»
«Ora, ovviamente, quando lei si è avvicinato all'imputata nella lavanderia, la sua maggiore preoccupazione non era certo il contenuto della lavatrice, giusto?» «Non capisco la domanda.» «Lei aveva a che fare con una ricercata. Qualcuno che le era stato descritto armato e pericoloso. È esatto?» «Sì.» «Quindi lei sarà stato piuttosto impegnato a tenerla d'occhio, no? Non era forse un po' troppo preso da altre cose per far caso a quello che si trovava nella lavatrice?» «È vero», ammette Demming. «Allora come ha scoperto che il tappeto all'interno della lavatrice apparteneva all'imputata?» «Ce lo ha detto lei.» «Ve lo ha detto lei?» «Sì. Proprio così.» «Quindi l'imputata non ha nascosto di essere la proprietaria del tappeto?» «No.» «Vi ha offerto lei stessa questa informazione?» «Esatto.» Il punto è chiaro. Se il tappeto è una prova incriminante che collega Laurel all'omicidio di Melanie Vega, perché mai avrebbe dovuto informare la polizia? Perché non lasciare il tappeto lì, abbandonarlo? Dire ai poliziotti che era di qualcun altro? Demming, almeno in parte, è l'esemplificazione vivente di un vecchio adagio: anche il peggior testimone può sempre dare alla nube più scura della tua tesi qualche sfumatura argentea. «Non ho altro per questo teste», annuncio. Demming raccoglie le sue carte e fa per alzarsi. «Oh. Un'altra domanda, agente.» Sono a metà strada dal mio tavolo quando mi volto. «Per le mani della signora Vega... Lei ha detto che, quando l'ha presa in custodia, le mani erano infiammate, irritate. Se non sbaglio, le sue esatte parole sono state...» Guardo i miei appunti. «'Erano coperte di macchie rosse. Ustioni chimiche, fino agli avambracci.' Una cosa piuttosto dolorosa, immagino.» «Senza dubbio», ammette lui.
«Però questo non vi ha impedito di usare manette di metallo, d'immobilizzarle le mani dietro la schiena prima di farla salire sulla vostra auto, vero?» Lui mi guarda. «Procedura standard», borbotta. «Siamo tenuti a...» «È tutto, per questo teste.» Lascio Demming a offrire l'unica scusa possibile alla giuria: uno sguardo mesto. Poiché siamo in attesa di udire altri testimoni, non ci ritiriamo nell'ufficio del giudice. Harry e io, Woodruff e la Cassidy ci troviamo nel piccolo corridoio che porta all'ufficio del giudice, nella penombra, fuori della portata d'orecchio della giuria, e dello stenografo. Lama ha cercato d'infilarsi nel gruppo come rappresentante del popolo, ma è rimasto con metà delle chiappe in aula. Cerca di guardare sopra le spalle della Cassidy, che è più alta di lui. È chiaro che Woodruff cova un'ostilità repressa. I suoi occhi sono puntati su Morgan. «Ho sopportato tutto ciò che posso sopportare», dice. «Forse a lei sembro un idiota.» «Non so di che cosa stia parlando», ribatte la Cassidy. La voce dell'innocenza. «Sto parlando di questioni sulle quali ho deciso in fase d'istanze predibattimentali. Ricorda? Mi corregga se sbaglio, ma abbiamo avuto una conversazione su deduzioni e prove distrutte, e le è stato detto che ogni commento in merito era escluso. Adesso ricorda?» chiede Woodruff. «Certo che ricordo», annuisce la Cassidy. «Allora che diavolo ha combinato?» La Cassidy lo scruta a fronte corrugata, quasi non capisse di che cosa stia parlando il giudice. Quanto basta per accendere una fiamma sotto i piedi di Woodruff. «Lei sa benissimo a che cosa mi riferisco», sbotta. «Tutta quella roba sui residui di polvere da sparo. Le ho concesso spazio per una sola, precisa domanda, e lei ne ha abusato. Se vuole unirsi alla cliente del signor Madriani in carcere, continui così.» Dall'espressione di Harry, capisco che trova la cosa particolarmente gradevole. Se qui ci fosse una fila di poltrone da cinematografo, correrebbe a comperare il popcorn. «Sul mio banco tengo un foglio per segnare i punti», comunica Woodruff a Morgan. «Ci provi un'altra volta, e vicino al suo nome metto un se-
gno. Per il primo le comminerò una multa. Due segni, e a processo finito la vorrò rivedere qui con lo spazzolino da denti. Sono stato chiaro?» «Vostro onore, bisogna permettere alla giuria di conoscere le prove, di formare le proprie...» «Sono stato chiaro?» La voce di Woodruff rimbomba nel piccolo corridoio. So che in aula la possono sentire. Harry è tutto un fremito. Spera, prega che la Cassidy dica solo un'altra parola. «Sì, vostro onore.» Le parole sbagliate. «Bene.» Woodruff parte a passo di carica e ci lascia lì a guardarci nel buio, a fissarci. Morgan alza gli occhi al cielo, come per dire: che bastardo! Ma ha sbagliato pubblico. Jenny Lang è un problema, per noi. Pensavamo che fosse poco più di una comparsa nell'elenco di testimoni dell'accusa, uno delle decine di falsi bersagli che lo Stato ti scaraventa comunque addosso, nella speranza che tu perda il tuo tempo a indagare, a inseguire un nome che non verrà mai chiamato a deporre. Guardo Harry. Lui scrolla le spalle, per dirmi che non ci resta altro da fare che sperare in bene. Molto, molto tempo fa la Lang è stata amica di Laurel. Per essere precisi, faceva parte della cerchia di Laurel sei anni or sono, quando i loro figli frequentavano la stessa scuola privata e Laurel era sposata con Jack. Da allora, le loro strade si sono divise. La Lang lavora come contabile per un gruppo di lobbisti. In rare occasioni - l'ultima risale a otto mesi fa -, Laurel e lei pranzavano insieme. La Cassidy non ci ha fornito un riassunto scritto della testimonianza della Lang, e quando Harry e io abbiamo fatto il terzo grado a Laurel per capire come mai sulla lista dei testimoni di Morgan ci fosse anche quel nome, lei ci ha risposto di non averne la più pallida idea. Abbiamo concluso che, probabilmente, era un depistaggio. Ci siamo sbagliati. Oggi la Lang indossa un tailleur bianco e nero, un fazzoletto da collo scuro, e i tacchi alti. L'uniforme della donna in carriera. Sarà alta un metro e sessanta e l'ago della sua bilancia non va certo oltre i quarantacinque chili. I capelli sale e pepe sono corti. Mentre presta giuramento, Harry e io ci arrabattiamo per capire quale ruolo abbia nel disegno dell'accusa. Lei tiene stretta nella sinistra la tracol-
la della borsetta, alza la destra e giura di dire la verità. Tutto questo fa nascere in me un presentimento malefico, soprattutto perché la Lang sta palesemente evitando d'incontrare gli occhi di Laurel. «Dichiari il suo nome per il verbale.» «Jenny Lang.» «Il suo nome completo?» «Jennifer Ann Lang.» No, quella donna non è proprio a suo agio sul banco dei testimoni. Non è affatto contenta di essere qui. È come se lo avesse scritto su un cartello appeso al collo; un invito a farsi tartassare. Morgan si è posizionata sulla traiettoria fra la testimone e Laurel, a gambe un po' divaricate, le mani sui fianchi. Forma una barriera impenetrabile fra le due donne. «Signora Lang, conosce l'imputata, Laurel Vega?» «Sì. Eravamo, siamo amiche», risponde la Lang. «Può dire alla Corte da quanto tempo conosce l'imputata?» «Cavoli. Sono... Non so.» La teste riflette un attimo. «Per lo meno otto anni, come minimo. I nostri figli sono andati a scuola insieme.» «Quando vi siete viste per l'ultima volta, prima di oggi?» «Forse sei mesi fa», dice la Lang. Cerca di spostare lo sguardo, di ricevere una conferma da Laurel, ma si trova ostacolata dalla Cassidy, che si sta esibendo nella sua imitazione della Grande Muraglia. «E qual è stata l'occasione di questo ultimo incontro?» «Un appuntamento per il pranzo», risponde la Lang. «Ricorda il luogo dell'incontro?» Tutti i minimi particolari vengono estratti dalla memoria della testimone, in modo che la giuria presti fede ai danni che la Lang deve infliggere. «Da Sabrina. Un ristorante del centro commerciale. Ci vedevamo lì, spesso.» La testimone si agita nervosamente, rivolge sorrisi vacui al giudice, alla Cassidy, a nessuno in particolare. A quanto pare, Jennifer Lang sa a che cosa sta puntando la Cassidy, e l'istinto mi dice che non è particolarmente ansiosa di arrivarci. «Mi permetta di riportarla al giugno dello scorso anno, signora Lang, e di chiederle se ricorda una conversazione con un'altra donna, una certa signora Ann Edlin, che lavorava nel suo ufficio.» «Ricordo Ann.» All'improvviso, Laurel mi stringe la coscia e si china sul mio orecchio.
«Ann Edlin», sussurra. «Fa parte dello staff di Jack.» Sottovoce, Laurel m'informa che sono guai. «E ricorda, nel corso di una conversazione, di aver riferito alcune cose alla signora Edlin, cose che le erano state dette dall'imputata, Laurel Vega, nel corso del vostro precedente incontro a pranzo?» Jennifer Lang sta guardando il soffitto. Le trema il mento, la testa comincia a ondeggiare. Mi pare che i suoi occhi si stiano gonfiando di lacrime. «Ma lei aveva detto...» «Ricorda?» «Si. Ricordo di aver parlato con Ann.» «Con la signora Edlin?» «Sì.» «E ricorda di averle riferito questioni che concernevano il matrimonio dell'imputata, informazioni che Laurel Vega le aveva dato a pranzo?» La Lang si morde il labbro inferiore. Sembra che se lo voglia mangiare. «Credevo che non dovessimo parlare di tutto questo», geme. «Si limiti a rispondere alla domanda», taglia corto la Cassidy. «Ricorda...» «Sì.» «Mi lasci finire la domanda. Ricorda di aver parlato con Ann Edlin di questioni che concernevano il matrimonio dell'imputata, cose che le erano state dette da Laurel Vega a pranzo?» «Sì,» La Lang è sconvolta. È ovvio che Morgan l'ha ingannata. È famosa per la capacità di addivenire ad accordi, fare promesse per indurre qualcuno a testimoniare, e poi infischiarsene quando il teste è in aula. Nella logica della Cassidy, questa prassi fa risparmiare il tempo e i soldi che si dovrebbero sprecare per preparare e far consegnare le citazioni. «Può riferire alla Corte di che cosa avete parlato lei e Laurel Vega quel giorno, a pranzo?» La Lang non ha scelta. La Cassidy sa che cosa è stato detto, perché ha una testimone, a meno che la Lang non voglia fare marcia indietro e dire di avere esagerato nel riferire la conversazione alla Edlin. Il testimone è prigioniero della sua stessa trappola. «Abbiamo parlato molto, e di molte cose», annaspa. «Per esempio?» «Dei nostri figli.» «E di che altro?»
Tutti capiscono ciò che sta accadendo. Jennifer Lang è precipitata nel pozzo dei conflitti di fedeltà. In Campidoglio, il mercato dei posti di lavoro non è diverso dalle aste di schiavi. L'unica differenza è che si vendono e comprano carriere, non persone. È un posto dove i rapporti di fedeltà cambiano più spesso di quanto tanta gente cambi la biancheria intima. In un ambiente del genere, le amicizie non esistono, per lo meno non quelle durature. A quanto pare, Ann Edlin ha trovato in fretta la corrente della carriera, magari con qualche confidenza intima sussurrata all'orecchio del suo nuovo boss, Jack Vega. «Abbiamo parlato del divorzio», dice la Lang. «Cioè del divorzio di Laurel Vega dal marito?» «Esatto.» La Lang guarda la Cassidy con un'espressione mista di rabbia e di paura. «E che cosa le ha raccontato Laurel Vega del divorzio?» «Ha detto che stava diventando particolarmente difficile a causa dei figli. Cerchi di capire. Era molto tesa, all'epoca.» La Lang sta tentando d'indorare la pillola. «E perché il divorzio stava diventando difficile?» «Per il problema della custodia.» «I figli?» pungola la Cassidy. La Lang annuisce. «Deve parlare, in modo che lo stenografo possa sentirla.» «Sì.» In questo momento, Laurel sembra offrire un'assoluzione all'amica: protesa in avanti, ha con un sorriso amabile sulle labbra, anche se non può vederla. L'espressione di Laurel è speranzosa, come per dire: se verrà fuori la verità, non ho nulla da temere. È l'ingenuità che scorre come una malattia nella famiglia di Nikki, e che al momento ha contagiato Laurel. «Era particolarmente aspra, la battaglia per la custodia?» chiede la Cassidy. «Ci può scommettere. Suo marito si stava comportando da vero stronzo», risponde la Lang. Woodruff la scruta a fronte corrugata. «Chiedo scusa, vostro onore. Potrei dirlo in un altro modo, ma sarebbe assai meno pregnante.» «Quindi Laurel dava la colpa al marito per questo? Per il problema della custodia?» «Ci può scommettere.»
«Attribuiva colpe a qualcun altro?» Adesso la Cassidy picchia duro. Cerca la giugulare. La Lang la guarda dal banco. Le piacerebbe rispondere di no, ma è preoccupata. È ovvio che l'accusa ha parlato con la Edlin. «In parte dava la colpa a qualcun altro», concede la Lang. «In parte? Cioè? Chi altri era coinvolto nella questione? Non avrà dato la colpa ai figli, per caso?» «No. I figli volevano stare con la madre.» «Per lo meno, è questo che le ha detto l'imputata, no?» «Sì.» «Allora, su chi si potevano riversare colpe?» La Cassidy è girata di spalle, ma posso immaginare il sorrisetto affettato mentre chiude la testimone in trappola. «Sulla nuova moglie di suo marito», dice la Lang. «Melanie Vega. La vittima.» «Sì.» La Cassidy fa una pausa, e si muove per la prima volta. Si gira verso i giurati, li fissa, come per dire: guardate un po' che cosa vi ho portato. In questo momento, la Lang non guarda Laurel. Ha lo sguardo perso nel vuoto, verso il soffitto e il fondo dell'aula. «Riferisca alla Corte il motivo per cui l'imputata incolpava Melanie Vega dei problemi per la custodia. Non era stato Jack, il suo ex marito, ad avviare la procedura legale?» «Io penso che fosse molto sconvolta. Non credo che si rendesse conto di quello che diceva.» «Non le ho chiesto questo», sbotta Morgan, girandosi. La Lang rimpicciolisce sulla sedia. «Perché attribuiva colpe a Melanie Vega?» Un lungo sospiro da Jennifer Lang, come un moribondo che esali l'anima. Poi dice: «Laurel sosteneva che Jack non avrebbe mai cercato di riprendersi i figli se Melanie non lo avesse spinto a farlo». «Allora Laurel non dava la colpa a Jack, bensì a Melanie?» «Dava la colpa a tutti e due.» Il viso della Lang è contorto in una smorfia. Chiede l'assoluzione fissando direttamente Laurel, che le risponde con un sorriso generoso. Io faccio pressione col ginocchio sulla coscia di Laurel per impedirle di mormorare parole rassicuranti alla testimone, piccoli incoraggiamenti come: «Va tutto bene», oppure: «Capisco». Conoscendo Laurel, direbbe queste stesse cose
se la stessero legando alla sedia nella stanzetta verde. «Che altro le ha detto?» «Oh. È così difficile», sospira la Lang. «Riferisca alla Corte che cosa le ha detto l'imputata.» La Cassidy si sta avvicinando al banco della giuria, serra le file. Potrei obiettare, ma servirebbe solo ad attirare ulteriore attenzione sulla teste. «Ha detto che Melanie voleva i suoi figli per pura crudeltà. Per distruggere ciò che restava della sua famiglia», dice la Lang. Ogni sua parola è un paletto infilato nella nostra tesi, carburante per il motore della teoria di un buon movente. «E che altro?» chiede la Cassidy. È già abbastanza, penso io. Jennifer comincia a crollare sul serio. Le lacrime sono più abbondanti. Ha estratto un fazzoletto dalla borsetta. Potrei chiedere una sospensione, per permettere alla testimone di ricomporsi, ma servirebbe soltanto a prolungare la cosa, a renderla ancor più melodrammatica. Proprio quello che vorrebbe la Cassidy. Invece resto al mio tavolo: fingo noia e indifferenza. Purtroppo, al momento la giuria sembra ipnotizzata. «Che altro le ha detto l'imputata?» incalza la Cassidy. «Mi ha detto...» «Riferisca le parole esatte, se può», la interrompe la Cassidy. La Lang si fa forza, punta gli occhi a metà dell'aula. «Mi ha detto... Mi ha detto che certe volte avrebbe potuto uccidere quella puttana.» È questo che Morgan cercava, la gemma preziosa in questo mucchio di sterco. Un mormorio percorre l'aula. È uno di quei momenti decisivi di un processo, quando il cambiamento di rotta è praticamente palpabile. Morgan se ne accorge e gira il coltello nella ferita un'ultima volta, in cerca della ferita mortale. «E a chi si riferiva? Chi era la persona che Laurel Vega definiva 'quella puttana'?» Ampie scrollate di spalle, movimento al banco dei testimoni. La Lang sembra un pesce sfortunato preso all'amo. «Non stava parlando di Melanie Vega?» «Sì.» La Lang esplode in lacrime. «Non volevo», singhiozza poi. Sguardi imploranti a Laurel, deleteri per la nostra causa. Rivelano che non si tratta di una bugia, di una cattiveria inventata da un nemico. Agli occhi
della giuria, quello che la testimone ha detto è l'essenza stessa della verità. «Ho concluso col teste», annuncia la Cassidy. «Date le circostanze, dovremmo concedere una pausa alla testimone», dice Woodruff. «È in grado di continuare, o preferisce una pausa?» Coi cenni di una mano, la Lang indica che preferisce andare avanti, farla finita subito. «Controinterrogatorio», proclama Woodruff. «Signora Lang, solo un paio di domande», esordisco. «Quando ha udito queste parole di Laurel, ha pensato che parlasse sul serio, che volesse davvero uccidere Melanie Vega?» «Obiezione. Si chiede al teste di speculare.» «Accolta.» Comunque, il seme è stato gettato. «Mi permetta di chiederle... In vita sua, in un momento di estrema frustrazione o dolore, ha mai detto ai suoi figli, a suo marito, a un'amica, che certe volte avrebbe potuto uccidere qualcuno?» «Certo», risponde la Lang. Intuisce il mio obiettivo ed è ansiosa di aiutarmi. «E quando ha fatto queste asserzioni, parlava sul serio?» «No.» «Erano modi di dire, niente di più?» «Esattamente», risponde lei. «Mi permetta di chiederle... Ha chiamato la polizia per avvertirla, dopo che Laurel Vega le ha detto che avrebbe potuto uccidere Melanie Vega?» «No», dice lei. «E perché?» Vedo la Cassidy strìngere i denti al suo tavolo. «Obiezione. La domanda richiede al teste di speculare.» «No, no. Non sto chiedendo alla testimone di speculare sullo stato mentale dell'imputata, bensì di riferire il proprio. Di spiegare perché non ha chiamato la polizia.» «Respinta.» «Perché non ha chiamato la polizia e non l'ha informata di questa affermazione da parte di Laurel Vega?» «Perché non pensavo che parlasse sul serio.» «Esatto», esclamo. «Ha preso la frase per ciò che era, un modo di dire e niente più, non è vero?» «Assolutamente», dice lei. Un sorriso sul volto di Jennifer Lang. Final-
mente, la redenzione. «È tutto, per questo teste.» «Molto bene. Lei è congedata», annuncia Woodruff. La Lang si alza dalla sedia. Tenta di prendere la mano di Laurel al nostro tavolo, per consolarla, dimostrarle il suo appoggio, ma io le blocco la strada, la guido oltre la transenna, fuori dell'aula. In questo momento, ogni gesto della Lang, la mano di un'amica tesa a Laurel, sarebbe come un dardo avvelenato lanciato da un pigmeo nel fianco della nostra linea difensiva. È impossibile stabilire quali danni siano stati fatti oggi, ma resta il fatto che, a differenza dei bersagli di altri modi di dire, Melanie Vega è morta. È ovvio che qualcuno voleva uccidere quella puttana. 22. Probabilmente il fatto più singolare e inquietante nella nostra linea difensiva è questo: per ora, l'unico dato che Laurel non metta in discussione è la testimonianza di Jennifer Lang. Dopo la seduta di oggi, nel corridoio che porta alla sua cella, Laurel si è scusata di non avermi avvertito. Aveva dimenticato la frase detta alla Lang a pranzo, tanti mesi fa. Chiacchiere, ha detto. Gli sfoghi di chi si trova impegolato in un brutto divorzio. Tutto ciò mi spinge a chiedermi se abbia detto cose simili ad altre persone, se sia il caso che Harry e io ci teniamo pronti. M'immagino una sorta di processione: i conoscenti di Laurel spinti al banco dei testimoni dalla Cassidy, in una linea lunga lunga come quella dei cercatori d'oro del Klondike. Possiamo solo sperare che il danno, di entità non quantificabile a questo punto, sia già stato fatto sino in fondo. È sera, e sto preparando Sarah per andare a letto, quando squilla il telefono. «Pronto.» Col ricevitore in una mano, cerco con l'altra di slacciare un nodo della scarpa di Sarah. «Ciao.» La voce all'altro capo è distante. Sembra venire da un altro pianeta, e per un attimo non la riconosco. Poi chiedo: «Danny?» Sarah sgrana gli occhi. «Oh, lasciamici parlare.» Tenta di rubarmi il telefono, ma manca la presa. «Più tardi», le dico. «Ho chiamato in un brutto momento?» chiede Danny. «No. No. Per niente», gli rispondo. Soffoco l'urgenza di fargli l'unica
domanda che mi è vietata: «Dove sei?» «Come va con mamma? Qui non arrivano molte notizie, e ho paura di scrivere», spiega Danny. È ovvio che Laurel e lui hanno discusso dell'idea di scriversi, e che lei gli ha consigliato di non farlo. L'indirizzo del mittente su una busta, un timbro postale, e Jack potrebbe saltare addosso a Laurel, accusarla di avere cospirato per violare l'ordine di custodia temporanea della Corte. Le lettere che arrivano alla prigione vengono esaminate e controllate in almeno una decina di modi. «Se la sta cavando al meglio possibile, date le circostanze», lo informo. «Uscirà presto?» chiede lui. «Lo speriamo tutti. C'è parecchia strada da fare.» Non gli parlo dei rischi, di ciò che accadrà se Laurel sarà condannata. Però, dal silenzio all'altro capo della linea, deduco che il cervello di Danny sta macinando proprio quest'idea. «Volevo chiamare lei», mi confida. «Chiamarla in carcere. Ma non devo farlo. Mamma mi ha detto che spiano le telefonate.» Non ribatto. Emetto solo qualche grugnito. Non posso discutere con lui di cose del genere, se verrò chiamato di nuovo a testimoniare nel procedimento per la custodia. Devo essere in grado di poter dire in assoluta sincerità che non ho dato consigli a Danny, che non ho idea di dove si trovi. «Papà ci sta cercando?» «Sta rovesciando le montagne», ribatto. Lui ride un po': niente di sinistro, puro divertimento. Gli fa piacere essere finalmente riuscito a fregare suo padre. «Non gli dirai che ho chiamato.» Gli rispondo che tra suo padre e me non esiste più un canale d'informazioni. «Quando c'incrociamo in corridoio, non ci salutiamo nemmeno», spiego. «Mi spiace», mormora lui, come se fosse in qualche modo responsabile. «Non è colpa tua.» «Sicuro», fa lui. Intuisco una vaga incertezza. Insicurezze giovanili. «Mamma dovrà testimoniare?» «Non so. È un ponte che attraverseremo tra un po'. Ci sono molte prove contro di lei, e probabilmente una sua testimonianza ci aiuterebbe, se potesse rispondere ad alcune domande.» «Allora non sta andando troppo bene?» «Certi giorni sì, certi giorni no... Comunque non abbiamo ancora gettato
la spugna.» «Sono molto contento che ci sia tu ad aiutarla», dice. «So che anche mamma lo è. Non lo dice spesso, ma so che lo è.» L'immagine di Harry e me si sovrappone a quella di don Chisciotte e Sancio Panza. Gli faccio presente che non esistono certezze, che dobbiamo ancora affrontare molte prove, elementi imponderabili che attendono una spiegazione. Quando lui vuole scendere nei particolari, gli rispondo che non posso discuterne. «Forse se tornassi le sarei di aiuto?» chiede. «Tu che ne pensi?» Laurel mi ucciderebbe. «Non spetta a me dirlo. Noi non dovremmo avere questa conversazione», gli rivelo. «Oh. Non me n'ero reso conto.» Ho la sensazione che Danny si allontani dal ricevitore. Sento il tintinnio delle monete che scendono nella fessura dell'apparecchio. «Dovremo parlare in fretta», spiega lui. «Ho quasi finito la moneta.» «Stai bene?» gli chiedo. «Oh, sì. Maggie è favolosa con noi.» Il primo indizio del fatto che Julie sia con lui. Non chiedo chi sia Maggie. Non voglio saperlo. «Julie è li?» «Sì, è qui con me. Vuoi parlarle?» «Solo una parola», rispondo. La voce di Julie. «Ciao, zio Paul.» «Ciao, tesoro. Come va?» «Non troppo bene. Voglio tornare a casa», piagnucola lei. Sento rumori smorzati all'altro capo del filo. Danny che cerca d'impossessarsi del telefono. «Vai via. Voglio parlare.» Julie fa resistenza. «Zio Paul, non so che cosa ci facciamo qui. Puoi parlare con mamma? Vedere se possiamo tornare a casa?» mi chiede. «Tieni duro.» «Mamma ha già abbastanza problemi», sento dire a Danny. «Stiamo facendo tutto il possibile», replico. «Sarà finita prima che tu te ne accorga. Allora parleremo, e vedremo che cosa si deve fare.» «Che vorresti dire?» chiede Julie. «Con chi vivremo?» È difficile raccontare balle ai teenager. «Vivrete con vostra madre.»
«E se la condannano?» chiede lei. «Non credo che succederà.» «Ma se succedesse?» «Dammi il telefono.» Danny sta cercando di afferrare il ricevitore. «Basta», dico, ma loro non mi sentono. Un suono doloroso all'orecchio quando il ricevitore sbatte contro qualcosa di solido. Danny vince la battaglia. La sua voce torna in linea. «Non preoccupare mamma con queste storie. Stiamo benissimo», dice. «Parla per te», borbotta Julie. «Voglio parlare.» Sarah mi sta tirando la manica. «Solo un minuto», la fermo. «Di' a Julie di non preoccuparsi», dico a Danny. «Ah, è una ragazzina viziata», commenta lui. «A tua madre non piacerebbe sentirti parlare così. Cerca di capire. Julie è più giovane di te, e ha paura.» «Mi spiace», fa lui. «Avete bisogno di qualcosa?» chiedo. Non ho la più pallida idea di come riuscirei a far loro arrivare qualcosa senza conoscere la destinazione. Il mio primo pensiero è Harry, lo specialista di tutto ciò che è sospetto. Harry la considererebbe una missione di misericordia umana, e gli avvocati di Jack non lo torchierebbero mai. Danny potrebbe chiamare direttamente lui. «No, va tutto bene», ribadisce Danny. «Sarah è ancora lì?» «Sì.» «Posso parlarle?» Passo il ricevitore a mia figlia. «Danny, dove sei?» chiede lei. Io vorrei origliare e tapparmi gli orecchi a un tempo. Spero che Sarah non ripeta il nome di una località in mia presenza. Con entrambe le mani, slaccio il nodo nel laccio della sua scarpa. Lei mi guarda con un sorriso sdentato, e intanto parla al telefono. «E dov'è?... Quant'è lontano? Che ci fate lì?» Mia figlia è una litania di domande. «Chi è Maggie? È brava? Perché non potete tornare a casa?» Un momento di silenzio. Danny sta cercando di spiegarle le cose in termini comprensibili a una bambina di sette anni. «Lo sai», dice Sarah, «se ne sono andati tutti. Proprio così. Prima la mamma.» Lo dice come se sua madre fosse in viaggio e potesse tornare da un giorno all'altro. Più di una volta mi sono chiesto se Sarah abbia davvero
accettato la morte della madre o non si sia invece ritirata nel mondo protetto della propria fantasia. «Poi è scomparsa zia Laurel, e adesso voi», prosegue. «Voglio sapere che cosa sta succedendo. Quando tornate?» È arrabbiata. Datemi un attimo di tregua, non ne posso più di questi giochi da grandi; è questo il messaggio che mi sta lanciando. Per la prima volta, mi rendo conto di quale effetto abbia su Sarah tutto questo. Ogni suo punto di riferimento è svanito. E anche se io sto cercando di rimettere assieme una parte della sua vita, di dissipare la nube dell'accusa che grava sulla testa di sua zia, proprio questo mi rende un padre assente: o sono in aula o sono chiuso in ufficio, a ruminare sulle mie carte fino alle ore piccole. Un'altra pausa. Sta parlando Danny. Sarah ride un po', poi ascolta ancora. «C'è una signora», spiega a Danny. «Si chiama Dana. Ma non mi piace.» Guardo Sarah. Lei mi sta studiando per vedere l'effetto. Sospetto che la frase sia indirizzata più a me che a Danny. «Non ho detto che sia cattiva o cose del genere.» Sarah si è messa sulla difensiva. «Solo che non mi piace.» «Non è una cosa carina da dire», le mormoro. Lei, con l'orecchio incollato al telefono, fa una smorfia, come per dirmi che raramente la verità è «carina». Ho permesso a Sarah di piangere Nikki a modo suo, e interpreto questo atteggiamento nei confronti di Dana come parte della normale evoluzione del dolore. Potrei discuterne, però lo considero tanto necessario quanto innocuo. Non si tratta di vera ostilità: è piuttosto di una corrente sotterranea di sospetto da parte di mia figlia nei confronti di chiunque si presenti come surrogato di sua madre. In questo caso, l'unica candidata apparente è Dana, dato che ultimamente abbiamo cominciato a formare una coppia. La colpa, o il merito, è della situazione di Laurel. Per parte mia, stare con una donna di mistica bellezza e di cervello sveglio non è un'esperienza sgradevole. La settimana scorsa abbiamo trascorso un paio di calde serate davanti al camino di casa mia, dopo che Sarah si era addormentata, a bere vino e chiacchierare fino a tardi. In casa mia si è udito di nuovo il suono di voci adulte. La comunione di due anime sole. Dana è a Washington da due giorni. Impegni per la sua nomina imminente. Mentre Sarah mi tirava per la manica chiedendomi di leggerle una
favola, Dana e io ci siamo parlati in interurbana entrambe le sere. Abbiamo discusso in termini generici di una possibile vacanza ai tropici in autunno, tutti e tre. Dana ha proposto qualcosa come il Club Med, dove hanno attività speciali per i bambini. Dopo di che, abbiamo cominciato a raccogliere opuscoli turistici. Tutto questo, sospetto, ha provocato una sorta di rivalità che scorre appena al di sotto della superficie, piccole gelosie che una mente di sette anni non è in grado di nascondere. Di colpo, Sarah finisce di parlare con Danny. In quel modo brusco di chiudere una conversazione tipico dei bambini, mi passa il ricevitore, salta giù dal letto e parte verso il corridoio. «Danny?» Lui è ancora in linea. «Sono qui.» «Non scomparire», gli dico. «Chiama quando vuoi.» Lo informo che lascerò detto alla mia segretaria di passarmi la telefonata, se chiamasse in ufficio. Danny ha il numero. «La Vespa è okay?» chiede. «In perfetto stato. Però Sarah ci gioca spesso. Fa finta di portarti a fare un giro... Ma sta molto attenta.» «Tutto okay. Solo, non lasciarla frugare nella scatola, d'accordo? C'è dentro tutta la mia roba.» Il mondo sta andando in pezzi, e Danny si preoccupa per la «roba» nella scatola sul retro del suo motociclo. «È chiusa a chiave, ricordi? Immagino che sia tu ad avere la chiave.» «Già. Be', dille di stare attenta.» «Lo farò», lo rassicuro. «Mi spiace per tutto questo.» Le sue ultime parole al telefono. Un ragazzo che sta crescendo, che sta per diventare uomo, e che prende sulle spalle il fardello della madre. «Non è un problema tuo. Ne usciremo. Tu cerca di non pensarci», dico. E riappendiamo. 23. Il dottor Simon Angelo è il medico legale della contea di Capital, assunto due anni fa. Viene da uno Stato dell'est. Ha lauree di tre università ed è membro di un bel mucchio di associazioni professionali. Sono questi i punti salienti del curriculum vitae che Morgan Cassidy ha appena depositato al mio tavolo.
Angelo è sui quarantacinque anni, ma dall'aspetto e dall'abbigliamento si direbbe più anziano. Ha una frangia di capelli grigi che gli coronano la testa sopra gli orecchi, come nubi con la sommità tagliata dalla scia di un jet. È un uomo esile, dai tratti affilati, con un mento che imprime una netta curvatura al viso, e occhi scuri, molto infossati, che suggeriscono l'idea di una mente impegnata in perpetue riflessioni. Nessuno potrebbe dubitarne: Simon Angelo è uno dei protagonisti dei complessi intrighi alla Corte dei Medici. Stamattina, di fronte a lui, sulla piccola balaustra che forma la parte anteriore del banco dei giurati, c'è una scatola quadrata, simile a una cappelliera ottocentesca. Accetto le sue qualifiche di esperto, e la Cassidy passa copie del suo curriculum da distribuire alla giuria. Nel contesto di una dozzina di domande preliminari, Angelo ricostruisce la scena della morte: Melanie Vega, riversa sul fondo di una vasca asciutta, con gli occhi aperti, le pupille dilatate. L'ora della morte è il primo ponte significativo che lui e la Cassidy attraversano. È un punto cruciale a causa della discussione fra Laurel e Melanie sul portico, qualche ora prima del delitto. È indubbio che alla Cassidy piacerebbe far slittare l'omicidio il più vicino possibile a quel momento. «Il nostro rapporto iniziale situava la morte fra le undici e le undici e mezzo di sera», dice Angelo. Suona un campanello d'allarme. È in arrivo una revisione. «E lei la ritiene ancora una stima accurata?» Lui parla della lividezza cadaverica e, a metà strada, si perde la giuria in un mare di gergo scientifico. «La morte potrebbe essersi verificata prima?» chiede la Cassidy. «È possibile», risponde Angelo. «La lividezza può variare da caso a caso, e le informazioni disponibili in quest'occasione erano come minimo incomplete.» Intende dire che la valutazione si è basata sulle osservazioni dei tecnici medici d'emergenza, prima del suo arrivo sul posto. «Quindi stabilire l'ora esatta di una morte è praticamente impossibile?» chiede Morgan. Angelo le rivolge un sorriso benigno. Una mossa ben studiata. «Proprio così», dice. Stanno gettando le basi per una casa solida e spaziosa. Quando la signora Miller aveva identificato Laurel a casa dei Vega intorno alle undici e mezzo, l'ora fissata dal rapporto del coroner, l'accusa era più che pronta ad
accettare quella stima. Adesso vorrebbe modificarla almeno un po'. I giurati potrebbero chiedersi come mai Laurel, dopo la litigata, abbia aspettato tre ore prima di passare ai fatti, se era così decisa a uccidere Melanie. «È possibile che la morte si sia verificata molto prima, diciamo alle otto e mezzo di sera?» chiede la Cassidy. Cioè meno di dieci minuti dopo il litigio fra le due donne sul portico, e tre ore prima della stima iniziale. Angelo si esibisce in un milione di espressioni di sofferenza. Il revisionista all'opera. Riferisce alla Corte che in questo caso sono presenti fattori insoliti. Bisogna, per esempio, decidere se il corpo fosse bagnato o asciutto al momento del delitto. Questo potrebbe influenzare il tasso di raffreddamento che normalmente rientra nell'equazione. Poi c'è il fatto che i fluidi oculari, un'altra misura dell'ora della morte, sono stati danneggiati dalla pallottola fatale. Alla fine, Angelo ha completamente screditato la propria stima iniziale. «Riflettendoci», conclude, «suppongo sia possibile che la morte si sia verificata intorno alle otto e mezzo di sera.» «Grazie, dottore.» Grazie sul serio. Ecco perché un'aula di tribunale non è il posto giusto per appurare la verità. I due hanno riscritto il rapporto originale del coroner per meglio adattarlo alle prove a disposizione della Cassidy, dopo le istanze predibattimentali. Laurel si china sul mio orecchio. Intuisce che un elemento importante ha subito una revisione, e me ne chiede il significato. La zittisco con un cenno della mano. Le cose si stanno muovendo troppo in fretta. «Dottore, può dirci la causa della morte?» chiede la Cassidy. «La morte è stata provocata da un unico colpo di arma da fuoco alla testa.» «Può essere più preciso? Descrivere la ferita?» «Posso, vostro onore?» Angelo sta indicando la scatola quadrata che ha di fronte. Woodruff annuisce. Angelo solleva il coperchio ed estrae dalla scatola un teschio umano. C'è qualche gemito soffocato, molti mormorii in aula, movimenti e conversazioni nelle file della stampa alle nostre spalle. Laurel mi stringe forte la gamba sotto il tavolo. Poi mi rendo conto che cosa ha provocato tutta quell'eccitazione. Mi chino sull'orecchio di Laurel. «Non è vero», le spiego. «È solo un modello.»
Angelo ha creato un modello in plastica a grandezza naturale del teschio umano e vi ha scavato un foro che riproduce il percorso della pallottola, con parti di cervello, ossa, e altri organi estraibili. Me lo offre in esame prima di procedere con la testimonianza. Mi alzo dal tavolo e prendo il teschio. Sembra identico in ogni particolare alla forma umana che lo ha ispirato. Lo osservo, lo capovolgo, scruto all'interno di cavità e fessure. Contiene strutture ben visibili, tessuti molli che sono stati ricreati e attaccati alle ossa, la lingua e il palato con un foro dai contorni netti. Dietro un bulbo oculare vedo ossa rotte. Se potessi, prenderei a calci questa cosa, per dimostrare alla giuria che non ha nulla di vero. Parliamo del materiale di cui è fatto il teschio, resine e polimeri. «È identico sotto ogni aspetto al cranio della deceduta?» chiedo. Angelo fa una smorfia. «Per quanto mi è riuscito senza staccare la testa dal cadavere, rimuovere tutti i tessuti, e fare un'impronta per una maschera mortuaria», ribatte. Come se io potessi aver suggerito una cosa del genere. Lancio un'occhiata ai giurati. Al momento, non sono proprio allegri. Molti mi guardano con espressione truce; temo che, soltanto un paio di minuti fa, qualcuno di loro abbia davvero pensato che Angelo tenesse in mano la testa recisa di Melanie Vega. Ripasso il cranio ad Angelo per la sua esposizione, e lui si lancia. Spiega alla giuria la ferita mortale. Tiene in una mano il teschio, come Amleto, e nell'altra una bacchetta. «La pallottola è penetrata nel tessuto molle sotto l'angolo della mandibola. La parte inferiore dell'osso mascellare... Leggermente sulla sinistra della linea mediana. Qui.» Angelo indica il foro chiaramente visibile sotto il mento. «Poi ha proceduto in senso ascendente verso la parte posteriore del cranio. Ha attraversato la ghiandola sottolinguale, situata direttamente sotto la lingua. Ha perforato la lingua e l'estremità posteriore del palato molle.» Diversi giurati deglutiscono: pare proprio che si sentano la bocca piena di colla. «Poi ha attraversato le cavità del seno paranasale, ha colpito e fratturato l'osso sfenoide, che forma la base della struttura che contiene il cervello. Qui», indica Angelo, «la pallottola ha provocato una pioggia di frammenti d'ossa, alcuni dei quali si sono conficcati in diverse zone del cervello. Alla fine, la pallottola si è fermata nel lobo temporale sinistro. Qui.» E indica
un'altra volta. «Dottore, può descriverci la posizione della vittima? Melanie Vega era seduta o in piedi al momento dello sparo?» «Stando a tutte le prove disponibili, riteniamo che al momento dello sparo la vittima fosse nella vasca, con la schiena piegata a un angolo di circa quarantacinque gradi contro la parete della stessa. La testa era reclinata, appoggiata al profilo posteriore della vasca.» Angelo tiene il teschio nel palmo della mano, con le orbite vuote rivolte all'insù, verso il soffitto. «All'incirca in questa posizione», spiega. Ruota il teschio sulla mano fino a puntare la volta cranica verso l'estremità del banco della giuria. Se esistesse un corpo intero, i piedi punterebbero in direzione del nostro tavolo. «La pallottola fatale è stata sparata all'incirca da quella direzione», continua. E punta il braccio direttamente su Laurel. Tutto calcolato per ottenere il massimo effetto. «Stimerei che il colpo sia partito da una distanza compresa fra il metro e venti e i due metri.» Il quadro che stanno dipingendo è chiaro. Un colpo freddo e calcolato mentre Melanie Vega era nella vasca. Una vera esecuzione. «L'angolo di tiro dovrebbe essere all'incirca questo.» Angelo muove la bacchetta d'acciaio, in un lento arco, verso il teschio appoggiato sull'altra mano, finché la bacchetta non raggiunge l'osso curvo della mandibola che forma il mento. Trova il buco scavato in precedenza e spinge la bacchetta in su, con un certo sforzo. Al penetrare dell'acciaio, si sentono gli scricchiolii della plastica. Poi infila la bacchetta nella testa per almeno quindici centimetri, finché non si blocca contro la calotta cranica. Diversi centimetri sporgono da sotto il mento, alla base del cranio, e individuano la traiettoria della pallottola. Mi guardo intorno. Tutti gli occhi sono puntati su di lui. I giurati sono ipnotizzati dalla cinica brutalità della cosa, come se Angelo avesse appena massacrato la vittima per la seconda volta, ripetendo ciò che, stando all'accusa, è stato fatto dalla mia cliente. Una delle donne, una divorziata per la quale ho lottato durante la composizione della giuria, scruta adesso Laurel con occhi colmi di meraviglia. Si sta chiedendo come una donna possa avere fatto una cosa simile a un'altra donna. Anche Laurel sembra un po' stravolta. «E ci dica, dottore, questa ferita ha provocato una morte istantanea?» chiede la Cassidy.
«Se non proprio istantanea, la vittima è morta in un arco di tempo assai breve. Minuti, probabilmente... Si sono verificati massicci danni cerebrali, provocati non solo dalla pallottola ma anche da numerosi frammenti di ossa che hanno invaso i tessuti cerebrali.» Appoggia il teschio di plastica sulla balaustra in legno: sembra proprio un ologramma maligno, quella testa senza corpo. La Cassidy mostra ad Angelo alcune fotografie scattate sulla scena del delitto. Il medico legale le identifica e, dopo qualche obiezione e discussione, la Corte opta per cinque discrete istantanee che, dice il giudice, non dovrebbero infiammare i sentimenti della giuria. Vengono ammesse come prove e consegnate al banco dei giurati. Mentre passano di mano in mano, c'è un guizzare d'occhi, una serie di veloci sguardi in direzione di Laurel. La Cassidy chiede ad Angelo della pallottola estratta dalla ferita e gli mostra il bossolo contenuto in un sacchetto di plastica: lui lo identifica per quello estratto dalla testa di Melanie Vega il mattino dell'autopsia. L'estrazione dal cervello è stata fatta coi guanti chirurgici, così da non lasciare graffi in previsione di una possibile perizia balistica, qualora si fosse ritrovata l'arma. Poi la Cassidy chiede ad Angelo in che modo sia stata determinata la distanza dalla quale è stato sparato il colpo. È un punto chiave della loro tesi. Morgan vuole eliminare del tutto l'idea che ci possa essere stata una colluttazione per il possesso della pistola, che si sia trattato di omicidio preterintenzionale o di un altro reato non capitale. Angelo conferma che, senza l'arma del delitto, è stato difficile per i periti balistici eseguire i consueti test. «Non erano presenti 'tatuaggi' intorno alla ferita», sostiene. «Però abbiamo riscontrato nitrati, cioè indici di residui di polvere da sparo, sulla parte superiore del corpo. La limitata quantità di nitrati, e il fatto che in parte fossero depositati a ventaglio nella zona intorno ai capezzoli, a mio giudizio sta a indicare una distanza tra assassino e vittima fra il metro e venti e i due metri.» La Cassidy gli fa spiegare che i «tatuaggi» sono provocati da granuli di polvere da sparo inesplosi, espulsi dalla canna dell'arma. A distanza ravvicinata, impregnano la pelle, lasciando intorno alla ferita l'equivalente di un tatuaggio. Più la distanza è ravvicinata, più il «tatuaggio» è compatto. «La mancanza del 'tatuaggio', la probabile distanza dalla quale è stato effettuato questo sparo, che lei stima fra il metro e venti e i due metri, escluderebbero ogni colluttazione per il possesso della pistola?»
«Così penso. Se, al momento dello sparo, la vittima fosse stata tanto vicina da poter afferrare l'arma, mi aspetterei di trovare almeno un 'tatuaggio' su qualche parte del corpo.» «Oltre all'assenza di 'tatuaggi', nell'esame della ferita ha riscontrato qualche altra cosa che le è parsa degna di rilievo?» «Sì. Ho scoperto pezzi microscopici di metallo nei tessuti immediatamente dietro il foro d'ingresso della pallottola.» «Ha qualche opinione sulla loro origine?» «No. Le perizie metallurgiche indicano che la sostanza di questi frammenti è composta di acciaio di bassa qualità, a basso tenore di carbonio, in minuscole schegge. Dato che non si tratta di una pallottola corazzata, non possono venire dalla pallottola.» «Allora da dove vengono?» «Difficile dirlo», risponde Angelo. «La mia ipotesi è che provengano dalla canna della pistola. Un difetto.» Un'ipotesi traballante. Il piombo non può tagliare l'acciaio. Ma lasciano l'idea in sospeso, così com'è. La Cassidy rivolge l'attenzione al feto, al fatto che Melanie Vega fosse incinta al momento della morte. È chiaro che mira a finire su una nota alta. In questo caso, una nota emotiva alta. «È stato possibile determinare il sesso del bambino?» «Era un maschio.» «Dottore, può dirci quale livello avesse raggiunto lo sviluppo fetale al momento della morte?» «Da tutte le indicazioni, era ai primi stadi del secondo trimestre. Direi all'incirca quattro mesi», sostiene Angelo. «E può dirci quale sia stata la causa della morte del nascituro?» «Asfissia.» «Vuole spiegarci?» «Un feto nel grembo materno ha come unica fonte di sostentamento la madre, tramite il cordone ombelicale. Il cordone convoglia non solo il cibo, ma anche il sangue ossigenato, che tiene in vita il bambino. Se la madre muore, il suo cuore smette di pompare sangue, e il rifornimento di ossigeno al figlio s'interrompe. Se il bambino non è in grado di sopravvivere all'esterno dell'utero, e se non viene estratto nel giro di pochi minuti, soffoca.» «Deve essere stata una morte lenta e dolorosa», dice la Cassidy. «Obiezione!» Balzo in piedi.
«È una domanda per il testimone?» chiede Woodruff. «Sì, vostro onore.» La Cassidy cerca di salvare le chiappe. «Lei ha un'opinione medica, dottore? Si è trattato di una forma di morte lenta e dolorosa per il bambino non ancora nato?» «Non esistono studi medici probanti», borbotta Angelo. «Non siamo certi di quanto dolore possa provare un feto a quello stadio di sviluppo.» A me vengono in mente decine di organizzazioni che sarebbero ben liete di fornirgli tutta la letteratura scientifica del caso. Un correre di mormorii fra il pubblico. Pare che su questo punto le opinioni divergano seriamente. Diversi giurati scuotono la testa. L'unica che, almeno in apparenza, non ha un'opinione è Laurel. È completamente paralizzata all'idea di un bambino morto. Ne abbiamo discusso parecchie volte, ma l'effetto su Laurel è sempre lo stesso: la fa partire alla volta di un mondo interiore tutto suo. «Dottore», incalza la Cassidy, «esiste un modo clinico per accertare se il feto fosse potenzialmente vitale all'epoca della morte della madre?» «Potenzialmente vitale», in questo contesto, significa che, se non fosse successo qualcosa, se la madre non fosse stata uccisa, il feto avrebbe avuto ogni probabilità di completare lo sviluppo, di nascere vivo e perfettamente sano. «È mia meditata opinione medica che questo bambino, il feto presente nel grembo di Melanie Vega, non soffrisse di deformità, di difetti o di anomalie congenite che potessero impedire una nascita normale. Per questo motivo deve essere considerato potenzialmente vitale», sostiene Angelo. Se questa asserzione non viene sconfessata, la Cassidy avrà diritto a un'istruzione alla giuria, al momento opportuno, sul duplice omicidio, e chiederà la pena di morte. Quando alzo la testa, Morgan sta di nuovo frugando nel carrello delle prove. Prende una grossa busta e ne estrae quelle che paiono grandi fotografie a colori. Intravedo toni di rosso e di un blu da cianosi. Scatto in piedi. «Vostro onore, se la signora Cassidy ha in mano quello che penso, chiedo una pausa e un colloquio nel suo studio.» «Che cos'ha lì?» chiede Woodruff. «Alcune fotografie, vostro onore.» Morgan le passa al giudice. Da quanto posso vedere, sono tre foto a colori su carta lucida, formato venti per venticinque. Gli occhiali appollaiati sulla punta del naso di Woodruff per poco non cadono, quando lui dà un'occhiata.
«Sarà meglio parlare», dichiara. Siamo nello studio del giudice, la Cassidy, Harry, Woodruff, lo stenografo e il sottoscritto, e parliamo tutti assieme. «Non esiste un motivo concepibile per escluderle», quasi strilla la Cassidy. «Esiste ogni concepibile motivo.» Mi metto a seguire il suo sentiero. «Vostro onore, sono altamente pregiudizievoli», dichiara Harry. «Sono mostruose.» Persino Woodruff dà addosso a Morgan. «Chiedo scusa, vostro onore, ma rimuovere un feto morto dal grembo della madre assassinata può dare risultati un po' sgradevoli.» La Cassidy si fa forte delle prerogative del sesso femminile, cerca d'intimorire il giudice. «La prossima volta chiederemo al coroner di ripulirlo, prima che vengano scattate le fotografie.» «Non intendevo questo, e lei lo sa.» Woodruff comincia a fare marcia indietro. Senz'altro si sta chiedendo che cosa potrebbero pensare del suo commento le elettrici, e se Morgan sia intenzionata a divulgare il messaggio. «Il bambino è morto», ribadisce lei. «Queste fotografie evidenziano il fatto. È omicidio plurimo, e lo Stato ha diritto a produrre le prove.» «Un punto a suo favore», dice Woodruff. «Il medico legale ha già testimoniato», ribatto. «Nessuno discute la morte del bambino. Lo Stato ha già prove in abbondanza. Il problema», sottolineo, «è se queste fotografie non siano pregiudizievoli. È fuori dubbio che hanno un alto potenziale per infiammare gli animi.» «Lei che ne dice?» chiede Woodruff. Continua a girare il collo da una parte all'altra, come uno spettatore a un torneo di tennis. Prende tempo in attesa di trovare un set-point, un passante sul quale far volare la propria decisione. «Benissimo», sbuffa la Cassidy. «Ammettiamo di non avere bisogno di tutte e tre le fotografie. Ne basterà una... Senz'altro una di queste deve essere accettabile per la Corte. Si tratta di omicidio, e la legge ci concede il diritto di presentarne le prove.» Woodruff guarda di nuovo le foto. Ne mette subito una da parte e studia le altre due, scuotendo la testa, con l'incertezza scritta negli occhi. Posso affrontare milioni di discussioni astratte sulla morte di un feto. Ma le foto di un embrione più piccolo del palmo della mia mano, col corpo dello stesso blu cianotico di un cielo notturno, sono un altro paio di mani-
che. Di fronte a prove simili, i giurati diventano miopi. È stato commesso un crimine atroce. È stato ucciso non solo un adulto perfettamente in grado di affrontare il mondo, e la cui condotta potrebbe essere addirittura stata la causa della morte, ma anche un innocente, un bambino non ancora nato. Davanti a prove del genere, le giurie passano all'attacco. Difficile che si lascino frenare dalle teorie su un altro assassino per il quale non potrebbero ottenere giustizia. Se una sola di queste fotografie entra nel processo, la tesi dell'accusa diventerà una locomotiva che corre su un binario unico, con Laurel Vega legata dietro. Woodruff ha alzato una mano in aria. Sta per sbattere sulla scrivania una delle foto, come la carta vincente in una partita di ramino. «Sottoscriveremo un accordo.» Parlo prima che Woodruff possa abbassare la mano. Lui mi guarda. «Un accordo su che cosa?» chiede. «Ammetteremo di essere in presenza di omicidio plurimo. In cambio, lo Stato non presenterà altre prove sul feto morto. Nulla sino all'arringa finale.» Harry mi tira per il braccio, mormora al mio orecchio qualcosa in una lingua incomprensibile. Mi stacco da lui. «L'accusa sostiene che le fotografie sono necessarie per stabilire gli elementi dell'omicidio plurimo. Noi ammetteremo che si è trattato di omicidio plurimo. Non che lo abbia commesso la mia cliente, ma che il vero responsabile sia colpevole di omicidio plurimo.» «Si rende conto di quello che sta offrendo?» chiede Woodruff. «Una volta stipulato questo accordo, non potrà più revocarlo. Rinuncerà a ogni diritto all'appello su questo punto. Se la sua cliente verrà condannata, lei sta ammettendo circostanze aggravanti. Le premesse per la pena capitale.» Harry mi balza all'orecchio. «Ha ragione», sibila. «Se Laurel è riconosciuta colpevole, non ci sarà spazio per mitigare la pena.» Lo guardo. «Se le fotografie vengono ammesse, Laurel è spacciata», rispondo. «E poi dovremo vederle un'altra volta, in fase di definizione della pena. Che cosa faremo, a quel punto?» chiedo. La limitatezza delle opzioni disponibili sgonfia le vele di Harry. L'unica persona che sembri divertirsi, e molto, in tutto questo è Morgan. Il classico stile Cassidy: mettere la Corte di fronte alle repellenti immagini di morte di una creatura mai nata, tempestare di pugni il giudice su ogni aspetto politico e legale, poi guardarci strisciare per farle concessioni.
«Le fotografie», dico a Harry, «sono veleno. Se dobbiamo mandar giù qualcosa...» Guardo Woodruff. Lui mi regala una scrollata di spalle, come per dirmi che l'equità lo costringe a concedere a Morgan una delle foto. «L'unico interrogativo», spiego a Harry, «è se vogliamo mandarlo giù adesso, o più tardi.» «Abbiamo bisogno di conferire, vostro onore.» Harry ha perso l'impeto battagliero, ma sta ancora cercando di portarmi fuori della stanza per parlare. «O un accordo, o una delle fotografie», taglia corto la Cassidy. «O l'uno o l'altra. Decidetevi.» «Vuole parlare con la sua cliente?» chiede Woodruff. «È un punto importante. Credo che forse dovrebbe parlare con lei.» La Cassidy fa una smorfia d'esasperazione. A giudicare dallo sguardo vitreo di Laurel di fronte alla fredda evidenza di un bambino morto, al momento i problemi di un accordo legale sarebbero per lei la più stupida delle astrazioni. «È una decisione da avvocato», affermo. «Una questione di strategia.» Woodruff piega le labbra, concede il punto. «Allora, che cosa sceglie?» «L'accordo», rispondo. «E che altro?» «Concesso. Le fotografie sono escluse dal dibattimento. E non voglio più sentir parlare del feto morto sino all'arringa finale. È chiaro?» Sta guardando la Cassidy. Woodruff sa a che cosa abbiamo rinunciato. Adesso vuol fare in modo che ci arrivi in cambio ogni grammo di ciò che ci spetta. «Dovremmo avere il diritto di reinterrogare questo testimone, il dottor Angelo, dopo il controinterrogatorio», annuncia la Cassidy. «Nella misura in cui la questione verrà sollevata dalla difesa.» «A che scopo? Ora ha le sue prove. Gli elementi sono provati dall'accordo sottoscritto dalla difesa», protesta Woodruff. «Se la difesa riapre l'argomento...» «Mi stia bene a sentire, avvocato. Dica una sola parola e annullerò il processo per vizio di procedura. Sono stato chiaro?» La Cassidy gli rivolge un sorriso stranito. «Non la sentirà da me», promette. «Tanto per essere chiari», borbotta Woodruff. Al momento, la Cassidy sta fissando le folte sopracciglia della morte. Se lo sfida su questo punto, Austin Woodruff la squarterà. Ci raduniamo intorno al tavolo per decidere la formulazione scritta di un
accordo, qualcosa che Woodruff possa leggere dallo scanno perché entri nel verbale. Il cuore di Harry non regge. Esce dallo studio del giudice, per andare a parlare con Laurel. Ho fatto tornare Angelo sul banco dei testimoni. Fisso i suoi occhietti penetranti. Ho spiegato a Laurel che cosa ho fatto. Lei sembra accettare l'accordo senza scomporsi. Woodruff ha letto l'accordo alla giuria, provocando assensi col capo e sguardi meravigliati, come se i giurati non sapessero di preciso che cosa farsene di quel linguaggio da avvocati. Ma l'idea generale, se non sono analfabeta in fatto di linguaggio del corpo, non mi è sembrata particolarmente positiva per noi. Angelo ci ha recato un danno immenso, e lo sa. Si comporta in modo guardingo, anche se non ne ha motivo. La regola aurea del controinterrogatorio: se non puoi segnare punti, non infognarti. «Ho solo poche domande», gli comunico. «Punti da chiarire. Dottore, lei ha testimoniato a lungo sui residui di polvere da sparo, sulla mancanza di 'tatuaggi' sul cadavere.» Annuisce. «Sulla scena del delitto, lei ha chiuso in un sacchetto le mani della vittima, prima di rimuovere il cadavere?» «Certo.» «Può spiegare alla giuria perché lo si fa?» «È una procedura standard», spiega lui. «Vengono messi sacchetti di carta sulle mani e li si fissa con spago o nastro adesivo ai polsi per avere la certezza di non perdere prove microscopiche presenti sotto le unghie. Inoltre, in questo modo s'impedisce che le mani vengano contaminate da fibre o da altre sostanze durante il trasporto.» «Ha controllato le mani della vittima per accertare la presenza di eventuali prove, nel corso dell'esame del cadavere?» «Sì.» «E ha trovato qualcosa?» «Nulla d'importante. Sotto le unghie non c'era niente. Né fibre né tessuti. Nemmeno capelli. Nulla che potesse indicare una colluttazione o una lotta da parte della vittima prima della morte.» «Ha controllato se sulle mani fossero presenti residui di polvere da spa-
ro?» Lui mi fissa con aria meditativa. «No.» «Perché?» «La cosa appariva inutile. Abbiamo stabilito che lo sparo era partito da troppo lontano perché si verificassero depositi considerevoli di residui. E a che cosa poteva servire un tale controllo? La vittima non si era sparata. La pistola non era nella sua mano.» «Non ha ritenuto importante determinare se avesse afferrato l'arma, lottato col suo assalitore?» «No. Ho già dichiarato che la cosa non era possibile.» «Ne è sicuro?» «In modo assoluto», dice. Annuisco e passo ad altro. «Mi permetta di chiederle... È riuscito a decidere quale fosse il calibro della pallottola?» «Difficile stabilirlo», dice. «Alcuni calibri sono molto simili fra loro. Avendo in mano il solo bossolo, non si può sempre essere sicuri.» «Capisco. Ma in questo momento ritiene di aver risolto la questione?» «Credo che la perizia balistica abbia dato indicazioni chiare», dice. Guarda i suoi appunti. «Nove millimetri» aggiunge. «E lei è d'accordo?» «Su questioni del genere mi affido all'autorità degli esperti», sostiene Angelo. «Ha già avuto a che fare con ferite da pallottole simili? Ferite provocate da un nove millimetri?» «Molte volte. È un calibro comune, nei delitti di strada.» «Allora ha familiarità col tipo di ferita che una pallottola del genere può provocare?» «Sì.» «E che tipo di danni può creare?» «A distanza ravvicinata può essere molto distruttiva. Mortale.» «Direbbe che la pallottola standard da nove millimetri ha una buona forza di penetrazione? Ha mai visto una pallottola da nove millimetri che abbia attraversato un corpo da una parte all'altra?» «Ho visto ferite del genere.» «Anche quando la pallottola colpisce ossa?» «A volte, a seconda delle dimensioni dell'osso e del corpo, la pallottola può perforare il corpo da parte a parte.»
«Lei ha affermato che la pallottola che ha ucciso Melanie Vega è stata sparata da una distanza compresa fra il metro e venti e i due metri, cioè una distanza minima, eppure si è conficcata a metà del cervello. Può spiegare come mai?» «È assai difficile spiegare il percorso di una pallottola. Entrano in gioco troppe variabili. La carica esplosiva, il peso e la sostanza di cui è fatta la pallottola stessa, la densità degli oggetti che colpisce nella sua traiettoria. Ognuno di questi elementi può giustificare variazioni nella profondità di penetrazione.» «Quindi, se una pallottola passasse attraverso un oggetto, potrebbe essere rallentata?» «A seconda dell'oggetto. Sì, è ovvio.» «Parliamo un po' dei frammenti di metallo non spiegati rinvenuti nella ferita. Lei ha testimoniato di aver trovato minuscole scaglie di metallo... Acciaio, mi sembra abbia detto.» «Acciaio di qualità non buona, a basso tenore di carbonio. Sì. Ce n'erano, se non sbaglio, quattro o cinque.» «Ha condotto qualche esame microscopico sui frammenti, prima di passarli al laboratorio per i test?» «Sì.» «Che aspetto avevano?» «Simile a trucioli: minuscoli fili contorti di metallo.» «E non ha idea di che cosa fossero?» «Come ho già detto, inizialmente ho pensato che fossero frammenti di piombo della pallottola. Ma non era così, a quanto pare.» «Farebbe riferimento alle perizie balistiche, su questo punto?» «Certo. Se loro sanno che cosa siano.» «Dottore, mi permetta di chiederle... Come ha scoperto che la vittima era incinta?» «Nel corso della procedura generale di un'autopsia completa, per penetrare nella cavità addominale...» «Allora, da un esame esterno, non le è risultato ovvio che Melanie Vega fosse incinta?» «No. Ha fatto sforzi straordinari per non aumentare troppo di peso.» «Non è strano che nessuno abbia informato lei?» «Che cosa intende dire?» chiede Angelo. «Siamo in presenza di una donna incinta di quattro mesi, e il marito non glielo ha mai detto?»
«Io non ho mai parlato col signor Vega.» «Però non esiste traccia di questa informazione da parte del signor Vega nei rapporti relativi al suo interrogatorio, la notte del delitto. Lei ha letto quei rapporti, vero?» «Sì, certo.» «E non parlavano della gravidanza, esatto?» «No. Che io ricordi, no.» «Non lo ritiene insolito, dottore? Insomma, un marito distrutto, subito dopo che sua moglie è stata uccisa, parla con la polizia, e non gli viene in mente di riferire di questa doppia tragedia?» «Obiezione. Si chiede al teste di speculare.» «Si chiede l'opinione di un esperto», affermo. «Il dottore ha eseguito migliaia di autopsie, letto migliaia di rapporti di polizia relativi a quelle autopsie. Gli sto chiedendo se, come esperto del campo, non trovi insolito il fatto che un marito distrutto dal dolore non abbia fornito quell'informazione.» «Ammetto la domanda», dice Woodruff. «Esclusivamente in rapporto alla sua esperienza, dottore.» «Un po' insolito, forse», concede Angelo. «Ma immagino che il signor Vega fosse piuttosto sconvolto.» «Hmm.» Eseguo una piccola piroetta davanti al banco dei testimoni. Stacco lo sguardo dal teste e lo punto sul tavolo dell'accusa. Harry e io siamo rimasti a mani vuote, riguardo allo sperma rinvenuto sulle lenzuola del letto di Melanie. Il laboratorio che lo ha esaminato per noi non è riuscito a completare i test del DNA. Lo sperma secco era troppo vecchio per permettere un campionamento valido. E così, siamo finalmente giunti al momento del confronto diretto. Non posso più nascondere le mie carte. «Dottore, come parte del suo esame del cadavere, ha per caso stabilito la paternità del bambino morto?» La Cassidy lancia lampi con gli occhi e stringe i denti. Ho attraversato il Rubicone: il primo assalto scoperto a Jack. I contorni della mia linea di difesa cominciano a emergere dalla nebbia. La Cassidy sussurra all'orecchio di Lama. Sospetto gli stia dando la stessa istruzione che io ho dato stamattina a Harry: un'ingiunzione per prelevare il sangue a Jack Vega. Quando avremo finito, Jack avrà più fori di un puntaspilli. Sommovimenti nei ranghi della stampa. A dispetto delle ammonizioni
della Corte, non occorrerà molto tempo perché tutto questo giunga a Vega. In quanto testimone, è recluso all'esterno, ed è lì che lo troveranno oggi pomeriggio i nostri messi: ingiunzioni seguite da aghi penetranti. «È una domanda semplice, dottore. Ha stabilito la paternità del bambino?» «A quale scopo?» chiede lui. «Sì o no?» «No», dice. «Non ce n'era ragione.» Angelo può anche pensarla così ma, mentre guardo i giurati, vedo che la questione della paternità del bambino non è caduta nel vuoto. 24. Stamattina, quando la giuria entra in aula, il teschio di plastica di Melanie Vega preparato dal dottor Angelo riposa sul piano superiore del carrello delle prove, ed è ancora trafitto dalla bacchetta d'acciaio. Le orbite vuote catturano lo sguardo di ogni giurato che si siede. È stata senz'altro la Cassidy a orchestrare questo macabro saluto: l'effigie in plastica di Melanie che chiede, in silenzio, giustizia. Laurel, seduta al mio fianco, con Harry sull'altro lato, sembra inchiodata dallo spettacolo. Ha un'aria allucinata e, nel sedersi, vacilla un po'. La Cassidy arriva in aula e ripete il cerimoniale che ha eseguito tutti i giorni, nella scorsa settimana. Vestita per uccidere (absit iniuria verbis), con l'abito firmato porta un paio di scarpe da ginnastica bianche. Sotto gli occhi della giuria, apre un sacchetto di carta e tira fuori le scarpe di pelle coi tacchi alti cinque centimetri. Cambia scarpe al tavolo dell'accusa. È un messaggio per la giuria: guardate che non sono un avvocato che mira alla Mercedes, ma una di voi, una semplice donna che lavora. Diverse giurate la guardano, prendono appunti mentali. Il sottile messaggio che influenza. Nel gestire il caso, la Cassidy è metodica come un certosino. Morgan lascia dietro di sé una terra bruciata di testimonianze distorte e di mezze verità. Se mai esistesse un'unica prova materiale che a suo giudizio risultasse utile a noi, la stravolgerebbe fino a rendere vano ogni sforzo di spiegarla alla giuria. Ieri Morgan ha portato in aula un esperto in fibre che ha identificato i batuffoli di lanugine rinvenuti sul pavimento del bagno di Melanie. Lei ha pungolato il teste sino a fargli dichiarare che le fibre erano simili in tutto e
per tutto a quelle prelevate dal tappeto in possesso di Laurel al momento dell'arresto. Per tutto il tempo, Laurel ha continuato a ripetermi all'orecchio che il tappeto sequestrato a Reno era suo, che veniva dal suo appartamento. La cosa si è sgonfiata col procedere della deposizione del teste. Tre minuti più tardi, durante il controinterrogatorio, gli ho fatto ammettere che quelle fibre sono comuni come granelli di sabbia su una spiaggia, sono rintracciabili in un'infinità di prodotti e si ritrovano in metà delle case del Paese. Il teste ha ammesso di buon grado l'impossibilità di decidere con certezza scientifica che le fibre presentate come prove venissero dal tappeto di Laurel. Quando ha lasciato il banco, mi sono reso conto che si stava chiedendo perché mai la Cassidy lo avesse chiamato a deporre. Ma lei non tralascia di rivoltare un solo sasso. Dopo tutto, la parte avversa potrebbe sempre inciampare. Per Morgan era solo un altro tentativo, che però non ha dato frutti; così stamattina passiamo alla balistica. Nico Perone è il locale esperto di balistica. Piccolo, calvo, e con una pancia che sporge sopra la cintura come il sacco di giocattoli di Babbo Natale. Se qualcuno stesse vendendo scandali a livello nazionale e Nico avesse un suo ruolo nel mercato, quel qualcuno non si affretterebbe a farlo apparire nel circuito dei talk-show mattutini. Il ritmo del suo respiro aumenta dopo la scalata ai due gradini del banco dei testimoni. Perone potrebbe sudare abbondantemente passeggiando al Polo Nord in gennaio. In quanto all'abbigliamento, sulla cravatta sono ben visibili sia una parte della colazione di stamattina sia quella che pare la cena di ieri sera. Nella lotta della polizia contro i criminali, Perone è al contempo un partigiano e un combattente di prima linea, amico e seguace di Jimmy Lama. Non c'è nulla di obiettivo nel suo metodo scientifico. L'ho visto scivolare e cadere in alcuni processi, di solito in pozzi che aveva scavato lui stesso modificando le prove sino a farle combaciare col delitto. Stamattina è sul banco dei testimoni, pronto a nuotare nel proprio sudore. Le maniche della giacca, che ha usato per asciugarsi la testa, stanno già gocciolando: e pensare che la Cassidy, probabilmente in buona, per ora gli ha chiesto soltanto il nome. Vengono sciorinati i preliminari: i corsi seguiti da Nico al Laboratorio criminale dell'FBI a Washington e in altri posti che lo qualificano come esperto. Morgan gli mostra la pallottola nel sacchetto di plastica, e lui la identifica come quella che ha esaminato e sulla quale ha steso un rapporto
in merito all'omicidio di Melanie. «Signor Perone, che cosa può dirci delle caratteristiche di questa pallottola? Del calibro e del peso?» «Nove millimetri, Luger», dice Perone. «È una marca?» «Un tipo di pallottola», spiega. «Qualcuno la chiama 'parabellum'. È stata introdotta per la prima volta per la pistola semiautomatica Luger, agli inizi del secolo. Quella pesava all'incirca centododici grani. Comunque, sono pronto a scommettere che all'origine ne pesasse centoquindici.» «È un'opinione professionale?» «Sì. Perché nessuno le produce, le pallottole da centododici grani», afferma Perone. Qualche giurato sorride. «Sono sicuro», ribadisce lui. «Il resto della pallottola si è perso da qualche parte dentro la vittima.» «Intende frammenti che si sono distaccati?» chiede la Cassidy. «Già.» Guardare Nico Perone e Morgan Cassidy lavorare insieme è come assistere a un esperimento di chimica. Nico non è mai riuscito ad assumere l'aria del vero professionista. Ha tutto il lustro di un paio di scarpe vecchie ai piedi di un vagabondo. «A parte il calibro, può dire alla giuria che tipo di pallottola sia, di che cosa è fatta?» chiede la Cassidy. «Una lega di piombo», risponde lui. «È quello che si chiama una pallottola a punta cava. Ne esistono tre versioni: a punta cava, semicorazzate e corazzate. Corazzate significa che la palla in piombo è coperta da un rivestimento esterno d'acciaio.» «Qual è la differenza di prestazioni?» chiede la Cassidy. «Le pallottole a punta cava e le semicorazzate hanno la tendenza a provocare inceppamenti, ma hanno più potere d'arresto. Quelle corazzate non fanno inceppare l'arma, però non si deformano. Il potere d'arresto è inferiore, la palla, quando colpisce qualcosa di duro, tende a espandersi. Vede qui? Ha assunto una forma a fungo.» Nico stringe in mano il sacchetto con la pallottola. «Un fungo?» ripete la Cassidy. «Sì. Si può vedere che la pallottola ha colpito qualcosa di duro, probabilmente un osso, e la punta si è allargata.» Nico indica col pollice. «Visto? Qui.»
«E questo provoca danni maggiori?» «Ci può scommettere. Se la punta della pallottola si allarga, trasferisce più energia cinetica al bersaglio. Questo provoca più danni. È quella che i tiratori chiamano 'potere d'arresto'.» «Lei la ritiene una pallottola micidiale?» «Certo. A distanza ravvicinata ha un effetto notevole. È quello che molti distretti di polizia usano al giorno d'oggi, anche se in genere le loro pallottole sono corazzate.» «Quindi, in base alla sua opinione professionale, la pallottola contenuta in questo sacchetto possiede un potere d'arresto maggiore di quelle usate per le armi dello stesso calibro in dotazione standard alla polizia?» «Oh, sì. Chi l'ha usata voleva combinare un bel disastro», esclama Nico. «Obiezione.» «Accolta. Il teste si limiti a rispondere alle domande», borbotta Woodruff. La Cassidy si allontana un attimo per raccogliere le idee. Nico ha l'occasione per inzupparsi la manica di sudore fino al gomito. «Signor Perone, vorrei chiederle... Ha avuto occasione di eseguire qualche tipo di esame microscopico sulla pallottola contenuta nel sacchetto?» «Sì.» «E che cosa ha scoperto?» «Le rigature e i solchi, i segni lasciati sulla pallottola dalla canna dell'arma, indicavano una rigatura destrorsa, cosa piuttosto comune in molti tipi di pistole prodotte in serie.» «Nient'altro?» «Sì. L'arma aveva qualche difetto. Oltre a rigature e solchi, sui lati della pallottola erano scavate piccole striature che devono essere state provocate da imperfezioni della canna dell'arma.» «Può dirci esattamente che cosa le abbia provocate?» Nico fa una smorfia e scuote la testa. «Se devo fare un'ipotesi...» «Nessuna ipotesi. La sua opinione professionale», taglia corto la Cassidy. «Sicuro. La mia opinione professionale. Direi forse un'ossidazione della canna. Forellini scavati dalla ruggine... A volte provocano microscopiche striature sulla pallottola, mentre attraversa la canna.» La Cassidy continua ad annuire lentamente con la testa. Su queste cose, non è obbligata a segnare punti particolari. Una pallottola è una pallottola. E questa ha ucciso Melanie Vega.
Il compito di Morgan è un altro: deve giustificare qualsiasi anomalia delle prove, mettere in discussione ogni possibile incongruenza prima di noi, e risolverla dimostrando che non c'è nulla d'insolito. Solo così potrà rubarci il vento che volevamo indirizzare a favore della nostra linea difensiva, e impedirci di rendere la nostra teoria sull'accaduto più plausibile della sua. Si sposta al carrello delle prove e torna con un altro sacchettino. Questo contiene il bossolo d'ottone ritrovato sul pavimento del bagno. «Signor Perone, le chiedo di guardare il bossolo contenuto in questo sacchetto e di dirmi se ha avuto occasione di esaminarlo.» Lui gira il sacchetto, lo studia un attimo. «Sì. L'ho esaminato.» «Può dirci di che calibro è?» «È un nove millimetri Luger.» «Come la pallottola nell'altro sacchetto?» «Esatto.» «Lei è in grado di dirci se questa pallottola e questo bossolo facessero un tempo parte della stessa cartuccia?» «È molto difficile», dice lui. «Particolarmente con un nove parabellum. Perché di solito, durante la carica, le pallottole vengono strozzate.» «Che cosa intende per 'strozzare la pallottola'?» «Nell'ultima fase della ricarica, la pallottola viene inserita nel bossolo. La cosa può essere fatta a mano, con una pressa, oppure a macchina. In entrambi i casi, quando la pallottola viene inserita, la parte di bossolo che la ricopre può essere strozzata per tenerla in posizione. Nel nove millimetri non succede quasi mai.» «E perché ciò è significativo?» «Se il bossolo viene strozzato, per quanto difficile, c'è una possibilità di confrontare le irregolarità del bossolo con i segni rimasti sulla pallottola nel punto di contatto. Se non viene strozzato, niente da fare.» «E in questo caso?» «Niente da fare.» «Quindi lei non ha modo di dirci se questa pallottola e questo bossolo facessero un tempo parte della stessa cartuccia?» «No.» «Concentriamoci sul bossolo», lo esorta la Cassidy. «C'è qualcosa che può dirci in proposito?» «È una ricarica», risponde Nico.
«Che cosa significa?» «Significa che la cartuccia è stata sparata e ricaricata. In questo caso specifico, molte volte.» «Come può dirlo?» «Dai graffi sulla cerchiatura del bossolo, per cominciare. Una pistola semiautomatica - di solito queste pallottole si usano con una semiautomatica - espelle il bossolo dopo lo sparo. Il bossolo esce dalla feritoia di espulsione, un'apertura sul lato della pistola, o in alto. Un estrattore deve afferrare la cerchiatura del bossolo vuoto e tirarlo fuori dalla camera. L'operazione lascia piccoli graffi sulla cerchiatura.» «Quanti di questi graffi ha trovato sul bossolo in questione?» «Sono riuscito a identificarne almeno otto.» «Il che significa che la pallottola è stata ricaricata come minimo otto volte?» «Non necessariamente. Alcuni graffi potrebbero essere stati provocati da una sega.» La Cassidy guarda Nico con l'aria di chi non ha capito bene. Harry comincia a ridacchiare. La Cassidy lo fulmina con un'occhiataccia, e Harry tossisce per coprire le risate. «Espulsione manuale», precisa Nico. «Si mette la cartuccia nel caricatore, magari insieme ad altre, e poi si aziona manualmente l'otturatore, avanti e indietro. Si fanno entrare le cartucce nella camera e le si espelle a una a una, senza sparare. A volte lo si fa per assicurarsi che la pistola non s'inceppi al momento di sparare. Nel gergo degli esperti, qualcuno lo definisce 'fare una sega'.» «Non c'è bisogno di spiegarlo», commenta la Cassidy. Conoscendo Nico, sarebbe capace di dare una dimostrazione pratica alla giuria. «Ma come fa a sapere che i graffi presenti su questo bossolo non siano stati provocati tutti da espulsioni manuali?» «Perché altri indizi ci dicono che si tratta di una ricarica.» «Che tipo d'indizi?» «Al microscopio sono visibili le sollecitazioni subite dal metallo, la fatica, e lungo le pareti del bossolo ci sono quelle che chiamiamo tracce di dimensionamento. Di solito, i bossoli delle pallottole sono fatti di ottone o di qualche altro metallo morbido. Tendono a espandersi quando la cartuccia viene sparata. Un bossolo espulso, dopo lo sparo, non entrerà più nella camera di un'arma, se prima non viene messo in una pressa di calibratura e
riportato alle sue dimensioni normali. Questa procedura, indispensabile per ricaricare la cartuccia, lascia tracce di sollecitazioni. Dopo che la cartuccia è stata sparata diverse volte, l'estremità posteriore del bossolo, la parte a contatto con l'otturatore, comincia a dar segni di logoramento. Su questa si legge a stento la parola Luger.» «Tutto questo che cosa le dice, signor Perone?» «Mi dice che il bossolo che lei ha in mano è stato usato più volte dell'affare di certi magnaccia», risponde Nico. Perone è il tipo di teste che Harry preferisce. «Fantastico.» Morgan si esibisce in un'espressione affranta, tipo: ma guarda con che gente mi fa lavorare lo Stato... «Manteniamoci sul piano professionale», moraleggia Woodruff. «Chiedo scusa, vostro onore.» Nico scocca un sorriso al giudice. «Ammesso che qualcuno non possegga l'attrezzatura necessaria per ricaricare questo tipo di cartuccia, è possibile a un uomo o a una donna procurarsi cartucce ricaricate?» «Sicuro. Si possono comperare in qualunque poligono. Certe armerie vendono le ricariche. Si possono trovare a quintali alle mostre-mercato di armi. In un milione di posti», esclama Nico. È questo il punto critico che la Cassidy vuole stabilire col testimone: chiunque, Laurel compresa, avrebbe potuto procurarsi la pallottola che ha ucciso Melanie Vega. «Quindi è impossibile stabilire la provenienza di questa cartuccia?» «Non si può dire niente di preciso.» «Mi permetta di chiederle... È possibile stabilire quale tipo di pistola abbia sparato questo bossolo?» «Sappiamo che in un momento o nell'altro è stato sparato come minimo da quattro diverse pistole. A volte, i graffi lasciati dall'estrattore danno indicazioni sul tipo di arma. In questo caso, ci sono troppi graffi, alcuni sovrapposti ad altri. Niente da fare, con un bossolo così usato.» «Quindi lei non può dirci la marca o il modello dell'arma usata per uccidere Melanie Vega?» «No.» «Se la pistola venisse ritrovata, sarebbe possibile eseguire un esame comparativo per accertare che sia stata proprio quella pistola a sparare?» «Ma certo. La pallottola è in buone condizioni. Però dovremmo avere la pistola. Allora potremmo tentare un esame comparativo.» La Cassidy annuisce vigorosamente. Il messaggio è chiaro: ovviamente
non hanno la pistola perché l'assassino se n'è sbarazzato. «Signor Perone, ha mai eseguito test per i residui di polvere da sparo?» «Sì.» «Può spiegare alla giuria a che cosa servono?» I capelli cominciano a rizzarsi sulla mia nuca. «Questi test vengono usati per determinare se nitrati o altri residui prodotti da un'arma che ha sparato si siano depositati sulle mani, sulla faccia o sui vestiti di un indiziato. I residui si possono raccogliere con reazioni chimiche e possono venire rimossi per procedere agli esami.» «E mi permetta di chiederle un'altra cosa: il suo ufficio ha cercato di eseguire test per i residui di polvere da sparo sull'imputata, Laurel Vega, immediatamente dopo il suo arresto e il trasferimento a Capital City?» «Vostro onore, possiamo avvicinarci?» Sono balzato in piedi. Woodruff ci fa cenno di raggiungerlo. Un consulto dietro lo scanno, lontano dagli orecchi del testimone. «Dove vuole arrivare, signora Cassidy? Ricorda che abbiamo parlato di deduzioni?» chiede il giudice. Sussurri appena accennati, mani aperte a ventaglio intorno alla bocca. «Non ho fatto parola di quello che è successo alle sue mani», dice la Cassidy. «Però ci sta arrivando molto vicina», sibilo io. «Vostro onore, dovrebbe esserci permesso chiedere al testimone se è riuscito a eseguire i test, e se no, perché», afferma lei. «Niente di più. Solo questo.» «E come no», sbuffo. «L'imputata ha infilato le mani nel solvente. Ora, noi non vogliamo trarre deduzioni da questo, però di certo i nostri esami sui residui di polvere da sparo sono andati a farsi benedire. Ma certo, lasciamo che sia la giuria a formarsi le proprie conclusioni.» «Non è questo che si dovrebbe fare?» Morgan mi guarda e sorride. «Sono incline a concederle la domanda», dice Woodruff. «Ma che sia una cosa breve e circoscritta.» Alzo gli occhi al cielo. Torniamo ai tavoli. «Il suo ufficio ha cercato di eseguire test per i residui di polvere da sparo sull'imputata, Laurel Vega, immediatamente dopo il suo arresto e il trasferimento a Capital City?» «Sì.» «E siete riusciti a eseguirli?»
«No.» «Può spiegarne il motivo alla Corte?» «Le mani dell'imputata erano state ustionate da sostanze chimiche. Erano state bruciate da un solvente per bucato. In simili circostanze, erano contaminate, e i test per i residui di polvere da sparo non erano eseguibili.» «Le sostanze chimiche avrebbero interferito con gli esami, è vero? Avrebbero reso impossibile individuare residui di polvere da sparo?» «Già.» «Come mai?» «Signora Cassidy, lei sta uscendo dal seminato», tuona Woodruff. Lei lo guarda. «Ritiro la domanda», dice. «Ho concluso, col testimone.» Quando mi alzo, mordo il freno. «Signor Perone, mi permetta di chiederle... Lei dice che quegli esami vengono normalmente usati per individuare residui di polvere da sparo su abiti, mani e viso di un sospettato. È esatto?» Lui fa una smorfia. «Sì. Più o meno.» «Insomma, sì o no?» «Sì. È così.» «Avete eseguito test per i residui di polvere da sparo sugli abiti di Laurel Vega, dopo il suo arresto?» «Sì.» «E avete trovato residui di polvere da sparo sui suoi abiti? Qualcosa che stesse a indicare che l'imputata aveva sparato da poco?» «Obiezione. La domanda esula dai limiti del controinterrogatorio», dice la Cassidy. «Vostro onore, io ho limitato le mie domande alle mani dell'imputata.» «Ha interrogato il teste sui residui di polvere da sparo», preciso. «Ha sollevato lei l'argomento.» La Morgan si mette a discutere con Woodruff. Gli fa presente che, se io voglio affrontare altri temi, posso richiamare Perone come testimone per la difesa. «Respinta», sentenzia Woodruff. «Il teste risponda alla domanda.» Una lezione per la Cassidy. Una passeggiata di troppo in zone proibite che Ridarola considera off limits. «Signor Perone, ha trovato tracce di residui di polvere da sparo sugli abiti di Laurel Vega, subito dopo il suo arresto?» «No.» «Dopo l'arresto, ha esaminato la zona del collo e del viso dell'imputata,
in cerca di residui di polvere da sparo?» «Uh-uh.» «Non l'ho sentita», dico. «Sì.» «E ha trovato sul viso o sul collo residui di polvere da sparo, qualcosa che indicasse che l'imputata poteva avere usato di recente un'arma da fuoco?» «No. Ma tra l'omicidio e l'arresto era passato qualche giorno. Probabilmente l'imputata si è lavata, ha fatto il bagno.» Guardo la Cassidy. Pare in fiamme. I suoi occhi, due fessure puntate su Woodruff, potrebbero uccidere. «Signor Perone, richiamo la sua attenzione sui piccoli segni presenti sulla pallottola. Mi sembra che l'avvocato dell'accusa li abbia definiti piccole striature. Le ricorda?» «Sì.» «Lei ha detto di non sapere esattamente che cosa le abbia provocate, ma che potevano essere il risultato di una presenza di ruggine nella canna dell'arma, è esatto?» «È una teoria», borbotta lui. «Se lei ne ha una migliore...» «Io non sono qui per rispondere a domande», lo informo. «Questo lo deve fare lei.» Nico asciuga un altro po' di sudore dalla fronte. «Mi permetta di chiederle... Sa di piccoli frammenti di metallo rinvenuti nella ferita mortale della vittima, Melanie Vega?» «Obiezione», insorge la Cassidy. «Esula dai limiti del controinterrogatorio.» «Sto cercando di chiarire la presenza delle piccole striature, vostro onore. Credo di poter dimostrare un rapporto.» «Se ci riesce...» commenta Woodruff, poi ordina: «Domande e risposte soggette a istanza di cancellazione. Sia conciso, avvocato Madriani». «Ha mai visto un rapporto su quei frammenti di metallo, signor Perone? I frammenti rinvenuti nella vittima?» «Sì.» «I frammenti sono stati inviati al suo ufficio per l'analisi?» «A metallurgia», dice lui. «Si sono consultati con noi.» «E lei si è formato un'opinione sull'origine di quei frammenti?» Nico fa una smorfia. «Acciaio di bassa qualità. La pallottola potrebbe aver trapassato qualcosa.»
«Che cosa?» chiedo. «La vittima era completamente svestita al momento dello sparo. La pallottola non è stata sparata dall'esterno, magari attraverso una rete metallica, vero?» «No, che io sappia.» «Sulla scena non è stato trovato niente con un foro da pallottola. Avete forse trovato un oggetto metallico colpito da una pallottola?» «No.» «Allora, da dove vengono quei frammenti?» «La sua ipotesi vale quanto la mia», dice lui. «È lei l'esperto», gli ricordo. «Al laboratorio di balistica dell'FBI non danno sfere di cristallo», ribatte Nico. «Siete voialtri ad averne l'esclusiva.» Con una mano si stringe l'inguine; una mossa alla Michael Jackson. Il tutto ben al di sotto della balaustra in legno, dove la giuria non può vedere. Se gli dai il tormento sul banco dei testimoni, Nico è sempre pronto a mostrarti le credenziali: è un socio fondatore del club FOTTIAMO GLI AVVOCATI. «Quindi lei ritiene che a produrre i frammenti presenti all'interno della ferita sia stato un qualche oggetto metallico trapassato dalla pallottola?» «È già successo», annaspa lui. «I frammenti sono descritti come microscopici fili di acciaio a basso tenore di carbonio?» «Così dice il rapporto.» «Del laboratorio di metallurgia?» «Già.» Faccio una passeggiatina davanti al banco dei testimoni. Un po' di scena. «Come esperto di balistica, è lecito sostenere che lei è venuto in contatto con un ricco assortimento di cose, oltre ad armi e pallottole?» «Cioè?» dice lui. «Cioè ordigni esplosivi, silenziatori...» «Vediamo alcune di queste cose, sì.» «Quindi lei ha un'esperienza piuttosto ampia?» «Lo può dire forte.» «E sono cose che non si trovano in commercio, giusto? Intendo una buona bomba a orologeria o un detonatore azionato a distanza... Però certa gente le fabbrica, vero?» «Sì, sicuro», conferma Nico. «Si possono comperare manuali del fai-date, trovare articoli su riviste specializzate. Se sei in gamba con le mani, e se riesci a non spappolarti sul soffitto, ti puoi costruire una bomba che fun-
ziona.» «Vostro onore.» La Cassidy si è alzata. «A meno che mi sia sfuggito qualcosa, la vittima non è stata uccisa da una bomba.» «Se vuole concedermi un po' della sua pazienza, vostro onore.» Woodruff fa cenni con le mani, m'invita a spicciarmi. «Quindi tutte queste cose, bombe e silenziatori, possono essere fabbricate artigianalmente, se si è dotati di una certa abilità e si sa che cosa bisogna fare?» «Sicuro.» «Se, per esempio, qualcuno venisse a chiederle come si fa a fabbricare un silenziatore, lei che cosa risponderebbe?» «Tanto per cominciare, possedere un silenziatore è illegale», s'indigna Nico. «Naturalmente. Però qui stiamo solo facendo un esempio. Se lei volesse, potrebbe spiegare come fabbricarne uno, vero?» «Sicuro.» «Come?» «Qui?» «E perché no? L'informazione non è illegale, giusto?» «No.» Lo invito con un cenno a proseguire. «Si prendono due pezzi di tubo metallico», spiega. «Uno con un diametro un po' maggiore dell'altro. Si scavano molti fori nel tubo più piccolo, stile groviera. Poi s'infila il tubo più piccolo nel più grosso. Bisogna lasciare un po' di vuoto fra l'uno e l'altro. Poi si trova un modo per collegare fra loro le due parti, di solito con una flangia. Il tubo interno deve essere un po' più grosso del foro della canna della pistola. Poi bisogna fissare il tubo alla bocca dell'arma. Di solito va bene una filettatura.» «Tutto qui?» «Bisogna mettere del materiale per smorzare il rumore dell'esplosione. Infilare qualcosa nel vuoto fra i due tubi», dice Nico. «Per esempio?» Lui fa una smorfia. «Qualcosa che non bruci quando si surriscalda. Ai vecchi tempi, qualcuno dei furbi di New York e Chicago usava piccoli fogli di amianto, arrotolati. Se hanno fatto molti affari, i loro polmoni saranno finiti in merda.» Ride, da solo. Poi scocca un sorrisetto nervoso a Woodruff. «Chiedo scusa, vostro onore. Per il linguaggio. Ma immagino si possa parlare di giustizia poetica»,
dice. «Allora che cosa si usa al giorno d'oggi? Per smorzare il suono?» chiedo. «Qualunque cosa non bruci. Lana d'accia...» Nico s'interrompe prima che le parole escano dalle sue labbra. «Si?» «Lana d'acciaio. Certa gente usa la lana d'acciaio», ripete Nico. L'espressione che in questo momento hanno gli occhi di Perone è forse il massimo compenso che ricaverò da questo processo. «E mettendo la lana d'acciaio, qualche pezzetto s'infilerebbe nei fori del tubo interno, no?» Nico sta annuendo come fosse in stato di stupore catatonico. «Non s'infilerebbero pezzetti nel tubo interno?» «È possibile», mormora. «Per cui, un pallottola che viaggi in quel tubo potrebbe raccogliere minuscoli fili, piccoli frammenti di acciaio di bassa qualità, lana d'acciaio», dico. «E la pallottola potrebbe trasportarli, depositarli in una ferita. Non è esatto?» Ormai Perone non risponde più alle mie domande. Sta invece guardando la Cassidy. Si domanda quale livello d'ira gli pioverà addosso quando lei lo chiuderà in angolo fuori dell'aula. Le ha consegnato alla porta di casa, impacchettata e ticchettante, l'unica cosa che ogni buon avvocato odia: una sorpresa. «La lana d'acciaio di un silenziatore potrebbe lasciare piccole striature e solchi inspiegabili nel piombo di una pallottola senza rivestimento? Non è esatto, signor Perone?» Lui annuisce. Grugniti affermativi. «Risponda alla domanda», lo incalzo. «Sì. È possibile.» «Un silenziatore risponderebbe a parecchie domande», dico. «No? Per esempio, perché ci fossero così pochi depositi, pochi residui di polvere da sparo sulla vittima. Perché non fossero presenti 'tatuaggi' sul corpo.» Buona parte dei residui verrebbero filtrati dal silenziatore, e Nico lo sa. «Può darsi», dice. «E spiegherebbe anche perché nessuno abbia sentito il colpo che ha ucciso Melanie Vega, no?» Lui mi guarda con occhi freddi come pietra. «È una possibilità», dice.
«Ho concluso, con questo testimone.» Torno al tavolo con un certo senso di soddisfazione. Tutto questo lascia all'accusa un compito piuttosto impegnativo, se vorrà vendere la teoria che sia stata Laurel a premere il grilletto. O dovrà inventarsi storie d'intrighi degni di James Bond, o dovrà far bere alla giuria l'idea che mia cognata sia un moderno misto di Henry Ford e di Calamity Jane, una donna che non solo carica da sé le proprie munizioni, ma è una maestra del fai-da-te. Qualcuno capace di fabbricare un silenziatore di prestazioni elevate per una pistola semiautomatica. E sono cose del genere che in un processo possono far crollare la credibilità di una tesi. 25. Questo pomeriggio l'aula è avvolta nelle luci smorzate proiettate da un grosso monitor televisivo sistemato di fronte alla giuria. Le luci del soffitto sono spente. Harry e io, la Cassidy e Lama, ci schieriamo ai due lati del banco della giuria per vedere lo schermo. Laurel si è alzata dal tavolo della difesa, ed è seguita in aula da una matrona che le troneggia alle spalle, tallonandola a ogni passo. Il giudice ha lasciato lo scanno. Capelli bianchi, folte sopracciglia e toga svolazzante lo fanno assomigliare a uno spettro in un angolo buio dell'aula. Sullo schermo scorrono sgargianti immagini a colori di Laurel, lanciata alla carica in un affollato corridoio di questo stesso edificio, sette mesi fa, due piani al di sotto di questo, per colpire con la borsetta usata a mo' di manganello. La borsetta si pianta sulla spalla di Jack, sfiora di un paio di centimetri la faccia di Melanie, e finisce sul pavimento insieme all'altra borsetta. Il contenuto di entrambe si sparge per terra. La Cassidy chiede di far ripassare il nastro. Questa volta parte da una scena precedente. Nella sua carica a testa bassa, Laurel butta a terra un vecchio che ha avuto la sfortuna di trovarsi sul suo cammino. Laurel non rallenta nemmeno. C'è l'indubitabile esplosione della sua ira che centra Melanie come un missile a immagine termica. Per un avvocato che stia cercando di dimostrare il movente di un delitto, è l'equivalente in immagini di un milione di parole. Inquadrato al centro dello schermo, il viso di Laurel è paonazzo, colmo di rabbia; anche se le immagini non hanno il sonoro, parole furibonde si possono leggere sulle sue labbra, minacce sputate come veleno da un co-
bra. Sono necessarie tre persone per bloccarla. Io sono una di quelle. La tracolla spezzata della sua borsetta è premuta sulla gola di Melanie Vega, quando io trascino via Laurel. La borsetta di Melanie è sul pavimento e, intanto che lotto con Laurel, la videocamera m'inquadra mentre pattino su un cilindro di rossetto. Alla faccia dell'eleganza. La Cassidy fa rivedere queste immagini ai giurati per la terza volta, nel caso fosse loro sfuggito qualcosa. L'ultimo replay è al rallentatore, in modo che la giuria possa apprezzare sino in fondo la coreografia di questa rabbia. Poi il carrello del monitor viene spinto da parte. Lama è gonfio d'orgoglio. È stato Jimmy a trovare il nastro e portarlo alla Cassidy. Lo ha scoperto grazie alle informazioni dei cronisti giudiziari che gli hanno parlato della scenata. Quando tornano le luci, sul banco c'è un teste di Morgan. È a metà della deposizione, interrotta il tempo necessario per visionare il nastro. George Ranklin, l'ufficiale giudiziario che il giorno dell'alterco si trovava all'esterno dell'aula 14, ha gettato le fondamenta per la presentazione del nastro. Lama ha trascorso dieci minuti fuori dell'aula a dargli istruzioni. Sollecitato da Morgan, Ranklin riferisce subito di essersi trovato tanto vicino al momento dell'incidente da poter udire le parole rabbiose di Laurel. «Signor Ranklin, può dirci se oggi ricorda che cosa abbia detto esattamente Laurel Vega durante l'aggressione alla vittima?» «L'ho sentita dire: 'Ucciderò quella puttana'.» È uno di quei momenti cardine di un processo: un sospetto omicida che emette profezie, il tipo di affermazione che, dopo un delitto, fa rizzare i capelli sulla testa a chi la sente. Diversi giurati si concedono un attimo per studiare Laurel. Al momento, mentre è oggetto del loro interesse, Laurel si china sul mio orecchio, sussurra con fervore che non è vero. «C'eri anche tu», dice. «Hai sentito tutto. Sai che non l'ho detto.» Il termine «puttana» risulta chiaro dal nastro; il resto, secondo me, è un astuto suggerimento di Lama. Io non ricordo una simile minaccia di morte, anche se in colloqui privati, nell'isolamento del cubicolo del carcere, Laurel mi ha detto la stessa identica cosa. Ha affermato che, se qualcuno non l'avesse preceduta, avrebbe potuto uccidere lei Melanie. «Sono state le esatte parole dell'imputata?» chiede la Cassidy.
Ranklin fa una smorfia. «'Fatemi uccidere quella puttana', o 'Ucciderò quella puttana', qualcosa del genere», risponde Ranklin. «È stato parecchio tempo fa, in un posto affollato, con un sacco di rumore.» Morgan si avvicina alla giuria. «'Fatemi uccidere quella puttana', oppure...» E si gira a guardare Ranklin. «Oppure: 'Ucciderò quella puttana'.» Ripete le parole del testimone, mentre Lama, dal tavolo dell'accusa, mi lancia vitree espressioni di maligna soddisfazione. «È quello che ricordo», ribadisce Ranklin. «E quando lo ha detto, Laurel Vega?» «Mentre la stavano bloccando», risponde lui. «Subito dopo aver tentato di colpire la vittima.» «Chi la stava fermando?» «Ricordo che sono occorsi un paio di uomini... Il suo avvocato, là.» Mi indica. «E un altro tizio o due.» «Però lei non ha dubbi? Sono state quelle le sue parole? 'Fatemi uccidere quella puttana', o 'Ucciderò quella puttana'?» Se le fosse possibile, la Cassidy inciderebbe quelle frasi sulla sedia del giudice, appena sotto il simbolo dello Stato e il suo motto, «Eureka». «È ciò che ho sentito.» «Agente, lei ricorda di aver letto sui giornali dell'omicidio di Melanie Vega?» «Sicuro», conferma Ranklin. «Ha fatto notizia. È stato di particolare interesse per chi, come me, lavora in tribunale, perché vedevamo i Vega in aula tutti i giorni, per il procedimento relativo alla custodia dei figli.» «E ricorda se quell'alterco, l'aggressione dell'imputata a Melanie Vega, si sia verificato il pomeriggio dello stesso giorno in cui Melanie Vega è stata uccisa?» «Sì. Il giorno dopo, in tribunale, se n'è parlato molto.» «Chi ne parlava?» «Le persone che lavorano lì, che avevano saputo della litigata fra le due donne.» «Quindi lei direbbe che, nelle persone che avevano seguito il procedimento relativo alla custodia dei figli, si fosse formata l'opinione che non corresse buon sangue fra le due donne?» «Obiezione. Si chiede al teste di speculare.» «Ritiro la domanda», dice la Cassidy. «Ha avuto occasione di seguire qualche fase del procedimento per la custodia, mentre era in servizio?»
«Ne ho visto una parte», dice Ranklin. «Qualche ora.» «E, dalle sue osservazioni personali, era sua impressione che esistesse una certa animosità da parte dell'imputata, Laurel Vega, nei confronti di Melanie Vega?» Ranklin ride. «È quello che succede sempre. Un brutto divorzio. Battaglie per la custodia dei figli. Sicuro. Non correva buon sangue... Era ovvio a ogni osservatore.» «Grazie, agente. Il testimone è suo», mi annuncia la Cassidy. Si siede a fianco di Lama, il quale mi lancia un'occhiata che sprizza soddisfazione. Ranklin è sui venticinque anni. Fa parte dell'arredamento del tribunale da cinque anni. È rimbalzato da un incarico all'altro in un paio di divisioni. L'ho incontrato cento volte in ascensore, l'ho salutato a cenni e a parole: un tipo cordiale. È un ragazzo grande e grosso, alto un bel po' più di un metro e ottanta: un bel vantaggio per chi deve salvaguardare la sicurezza di un tribunale, dato che riesce a intimidire senza dover ricorrere alle armi. Ranklin è un po' un enigma per me, quindi lo sondo con cautela, prendendola alla larga. Non ho certo voglia d'irritarlo. Lo inquadro alla svelta nel ruolo che, in effetti, riveste: quello dell'agente neutrale, di uno che si limita a fare il proprio lavoro. Senza dubbio, anche la giuria lo vedrà così. Voglio comunicare ai giurati che sto guardando attraverso lo stesso prisma colorato che usano loro. Il punto di vista è sempre decisivo. «Con la sua posizione in tribunale, dovrà vedere un bel po' di processi... Lei trascorre qui più tempo di me.» Ne conviene, e accenna una risata. Questo smussa un poco gli angoli dell'ansia. Molti giovani avvocati difensori hanno imparato a loro spese che trattare con un minimo di savoir faire un poliziotto distaccato e neutrale non può nuocere alla propria linea processuale. «Immagino abbia sviluppato un'acuta sensibilità che le permette di decifrare gli atteggiamenti dei testimoni. Un orecchio particolarmente sensibile al malanimo.» Lui ammette che è una dote che si acquista. «Ha avuto occasione di udire qualche testimonianza dell'imputata, Laurel Vega, quando si è presentata per il procedimento relativo alla custodia dei figli?» Risponde di no. Nel periodo della causa fra Laurel e Jack, era di servizio in un'altra aula. «Quindi, a parte quel breve incontro in corridoio, lei non ha mai avuto occasione di osservare di persona dichiarazioni dell'imputata che potessero
riflettere i suoi sentimenti nei confronti della vittima?» «È esatto», annuisce Ranklin. Se ha assistito in parte al procedimento e si è formato un'opinione sul cattivo sangue che correva tra le due donne, c'è solo un'altra possibilità. Ranklin deve aver sentito Melanie Vega arringare Laurel dal banco dei testimoni. E anche se ciò riflette soprattutto l'ostilità di Melanie per Laurel, è pur sempre vero che la morta è Melanie. Se anche riuscissi a dimostrare che lei stessa ha, per così dire, provocato Laurel, sarebbe sempre un buon movente per l'omicidio. Quindi lascio perdere. «Agente Ranklin, mi permetta di chiederle... È assolutamente certo di aver sentito, quel giorno all'esterno dell'aula, Laurel Vega dire che voleva uccidere Melanie Vega? E sicuro che abbia usato proprio il verbo 'uccidere'?» «È quello che ho sentito.» «È certo che non possa avere usato il termine 'puttana' accompagnato da qualcosa d'altro?» «No. L'ha chiamata puttana e ha detto che voleva ucciderla.» Mister Persuasione Lama se l'è lavorato bene, il teste. Chiedete a me che cosa ho udito nel corso di una conversazione, magari anche accesa, avvenuta sette mesi fa, e sarei già fortunato a ricordare le parti in causa. Figuriamoci le parole usate. «Agente, lei ha dovuto compiere un certo sforzo per calmare l'imputata, come risultato di ciò che abbiamo appena visto sul nastro?» «No. Lei stava già facendo un ottimo lavoro, se ricordo bene», commenta lui. «Quindi l'imputata non ha insistito nel tentativo di aggredire Melanie Vega?» «Non so se mi spingerei a dire tanto.» Ranklin riconferma di avere udito una minaccia di morte, quindi il mio lavoro è accettare quelle parole, ma cercare di diminuirne l'importanza. Tento un altro approccio. «Definirebbe l'evento come una subitanea esplosione d'ira che si è esaurita in un paio di secondi?» Ci riflette su, fa una smorfia. «Immagino lo si possa definire così», dice. Finalmente una concessione. «E lei non ha dovuto intromettersi fra le due donne per dividerle, vero?» «No.» «Nel suo lavoro in tribunale, nel corso di un processo o di altri procedi-
menti, le è mai capitato di dover trattenere fisicamente le parti in causa o qualche membro del pubblico?» «Diverse volte», dice Ranklin. «Ha mai udito qualcuno profferire minacce, in simili momenti di rabbia?» «Non è insolito», risponde. «Minacce di morte», preciso. «Sì.» «E non ha constatato che in effetti, nella maggioranza dei casi, si tratta di minacce a vuoto? Che non vengono portate a compimento? Non è forse questo che succede? In una discussione accalorata, la gente non formula minacce stupide, che non prende assolutamente sul serio?» È una cosa che rientra nell'esperienza di tutti i giurati. C'è una sola risposta credibile, e Ranklin lo sa. «È vero», dice infatti. «E quando lei sostiene di aver udito l'imputata minacciare Melanie Vega, ha forse riscontrato nella minaccia qualcosa che lei ha interpretato in modo diverso da un puro e semplice sfogo di rabbia?» Ranklin è chiuso in angolo. Se risponde di sì, sa già che io gli chiederò: «Allora perché, agente, non l'ha presa in custodia?» «No», risponde. «Quindi ha ritenuto che si trattasse di una minaccia a vuoto?» «Sì.» «E, in effetti, oggi come oggi, basandosi esclusivamente sulla sua conoscenza personale dei fatti di questo caso, lei può dire alla giuria che le parole pronunciate quel giorno da Laurel Vega fossero qualcosa di diverso dalle semplici minacce a vuoto?» «No, suppongo di no», borbotta. Ranklin è più riluttante su questo. Non sa di preciso che cosa mi stia concedendo. «Lei non è a conoscenza di alcun fatto che indichi Laurel Vega come assassina di Melanie Vega, vero?» gli chiarisco. «Oh, no», dice, più soddisfatto. «E lei non ha elevato accuse contro l'una o l'altra donna a seguito degli eventi di cui è stato testimone nel corridoio, è esatto, agente?» «Be'... No, non l'ho fatto.» «Perché?» «Ho usato il mio buonsenso.» «La lite è finita in fretta com'era incominciata? Nessuno si è fatto del
male?» chiedo. «Proprio così.» Mi fermo. Se insistessi ancora un po', Ranklin potrebbe dirmi che in effetti è stato un suo errore di giudizio; che, riflettendoci su, avrebbe dovuto prendere in custodia Laurel. E alla giuria non sfuggirebbe il fatto che, se lui avesse arrestato Laurel, forse si sarebbe evitato un omicidio. «Molto bene. Parliamo di quello che è successo dopo la fine di quell'alterco. Ricorda che cosa mi ha detto nell'occasione?» Ranklin fa una smorfia. Mi guarda. «Mi pare di no.» «Ricorda di avermi suggerito qualcosa?» Lui ci pensa su un attimo. Vuoto pneumatico. «No.» Durante il controinterrogatorio posso condurre il gioco. Sfrutto al massimo l'opportunità, e finisco col testimoniare. «Non ricorda di avermi detto che potevo portare la mia cliente nella sala riunioni degli avvocati, perché si ricomponesse?» La Cassidy sta per alzarsi e obiettare. «Oh, sì. Ricordo.» «Prima che ce ne andassimo, prima che io portassi l'imputata via dal corridoio, ricorda che cos'è successo?» «È passato parecchio tempo», si scusa Ranklin. Non tanto, però, da fargli scordare una minaccia di morte che non c'è mai stata. «Ricorda di avere raccolto dal pavimento una borsetta? Rammenta che la gente si chinava a raccogliere le cose cadute e sparse per terra?» «Oh, quello», s'illumina. «Ricordo un fazzoletto. Ho cercato di darlo a una delle due, ma quella ha detto che non era suo.» «Proprio così. A questo punto, forse potremmo riguardare il nastro, agente.» Chiedo all'ufficiale giudiziario di Woodruff di risistemare il monitor e di spegnere le luci. Ranklin lascia il banco per poter vedere meglio. Il giudice scende dallo scanno. L'ufficiale giudiziario comincia a riavvolgere il nastro, e io lo fermo. «Lo faccia ripartire da qui», gli dico. «Ma l'alterco è prima», protesta lui. «Esatto. Lo lasci scorrere da qui in poi.» L'ufficiale giudiziario di Woodruff fa una smorfia, come per dire: sei tu la star. Quando tornano le immagini, siamo tutti raccolti in gruppo al centro del corridoio del tribunale, Laurel e Melanie, Jack tra le due donne, e io
che tiro Laurel per il braccio. Ranklin ha in mano il fazzoletto che Melanie ha appena rifiutato. Qualcuno gli passa la borsa con la tracolla spezzata, e lui mette dentro il fazzoletto. «Quello è il fazzoletto», dice. «Lo vedo.» La gente sta passando varie cose a Ranklin. Lui non guarda. Prende tutto in mano, parla con me, tiene d'occhio Laurel, e intanto lascia cadere gli oggetti in borsetta. Un paio di secondi dopo, passa la borsetta a Laurel, e noi due ci allontaniamo. «Può riportare indietro il nastro e farlo ripassare al rallentatore?» «Come no!» L'ufficiale giudiziario preme pulsanti sul telecomando. Le immagini riprendono a scorrere. Melanie che toglie il fazzoletto dai pantaloni di Jack. Ranklin che lo raccoglie. Qualcuno che gli passa la borsetta. «Rallenti lo scorrimento.» «Ecco. Mi pare che l'abbia appena chiamata 'puttana'.» Ranklin sta cercando di leggere le labbra. «Il resto non riesco a capirlo...» «Stop. Qui. Torni indietro di un paio di fotogrammi», chiedo all'ufficiale giudiziario di Woodruff. Lui torna indietro e aziona il fermo immagine. «Agente Ranklin, che cos'ha nella destra?» Ranklin tende il collo per vedere. «Qualcosa che qualcuno mi ha passato dopo averla raccolta dal pavimento», spiega. «Una cosa uscita da una delle due borsette.» «Può dirmi che cos'è?» chiedo. Solo Ranklin non può capire il significato di quell'oggetto, perché, in quanto testimone, è rimasto sempre all'esterno dell'aula, e gli è stato ordinato di non leggere i resoconti del processo sui giornali. «Sembra un portacipria d'oro», dice. L'espressione sulla faccia di Jimmy Lama vale un anno di parcelle. È l'immagine stravolta della sconfitta fatta uscire con una lavanda gastrica dallo stomaco della vittoria. A occhi sgranati, a mani tese, Lama sta regalando alla Cassidy una vasta gamma di espressioni che hanno un unico significato: stupore totale. Sullo schermo c'è un'immagine che vale mille giustificazioni zoppicanti: Ranklin sta tendendo a Laurel la sua borsetta, e nella borsetta c'è il portacipria d'oro di Melanie Vega. 26.
Sono quasi le cinque del pomeriggio quando rientro in ufficio. Ci sono messaggi: una pila di foglietti rosa sulla mia scrivania. Comincio a smistarli, e il primo che mi capita fra le mani è di Clem Olsen. Faccio il numero e mi risponde lui, l'Uomo Lupo in persona. Ha informazioni sull'impronta di Kathy Merlow stampata sul tubetto di colore che gli ho dato alla riunione di classe. Ma, come al solito, Clem non vuole parlare al telefono. Il Brass Ring, posto a un solo isolato dal tribunale, è uno di quei locali frequentati da sbirri e avvocati. Per i professionisti della legge, è ciò che Ginevra è per le Nazioni Unite: un luogo dove le parti in conflitto possono sedersi a parlare. Quando arrivo c'è una dozzina di persone. Qualche poliziotto, un gruppetto di assistenti procuratori distrettuali al banco, un paio di difensori d'ufficio. Si scambiano i racconti di tragedie e commedie da tribunale. Un bussolotto per i dadi decide chi offre da bere. Brandelli d'informazioni sui punti che ho segnato oggi in aula sono filtrati qui, tra chi segue queste cose. Uno degli avvocati d'ufficio mi assesta una pacca sulla spalla quando passo, mi offre una buona parola, m'incoraggia ad affondare la lancia nel ventre della bestia, domani. In quella partita a scacchi che chiamano processo, Morgan Cassidy ha sacrificato un cavallo in cambio di uno dei nostri pedoni. Per impadronirsi di una vaga e indistinta minaccia di morte, ha perso una delle due prove materiali che legherebbero Laurel alla scena del delitto: il portacipria di Melanie. L'altra, il tappetino del bagno, si basa esclusivamente sulla testimonianza di Jack, sulla sua parola contro quella di Laurel per dimostrare che il tappeto si trovasse nel bagno di Melanie, la sera dell'omicidio. La linea di Morgan appare sempre più problematica di giorno in giorno, e alcune cose sono ormai molto chiare. A dare vita alle sue teorie sono state le indagini iniziali di Jimmy Lama, e io sto cominciando ad avere la sensazione che Lama abbia fatto impantanare Morgan in brutte acque. Penso che la perenne miopia di Jimmy l'abbia contagiata, neanche fosse la Peste Nera. Il fulcro dell'accusa è il desiderio di vendetta di Jimmy, nient'altro. Occorrono tutte le risorse della mia fantasia per immaginare con quanto ardore Lama abbia deciso di crocifiggere Laurel, una volta scoperto che siamo parenti. Per Jimmy, la cosa deve aver preso all'istante la forma di una magnifica ossessione. Così, trovandosi a interpretare il ruolo di poliziotto che deve raccogliere prove, ha azzerato tutte le sue capacità percet-
tive. Non appena ha saputo dei rapporti fra Laurel e me, per lui è esistita una sola sospettata, un'unica teoria. Adesso la Cassidy si trova di fronte a fatti concreti che non collimano con le deduzioni iniziali. Le teorie astratte hanno una certa tendenza ad andare a male. Pagherei oro per poter essere una mosca su un muro dell'ufficio della Cassidy e sentire la strigliata che lei darà a Jimmy per non avere visionato il nastro sino alla fine. Comunque c'è da scommettere che Lama non uscirà mai più da un cinematografo prima che i titoli di coda finiscano di scorrere e si riaccendano le luci. Il bussolotto per dadi viene sbattuto sul banco. Un tonfo, un ruggito di voci: qualcuno deve offrire un giro. Alzo la testa e vedo entrare Clem. Fa lo slalom tra i tavoli, stringe qualche mano, sbirri che hanno finito il loro turno. Sento la voce dell'Uomo Lupo - sembra che abbia una manciata di ghiaia in gola -, poi frammenti di un colorito aneddoto in messicano, seguito da un coro di risate. Clem il politico. La settimana prossima potrebbe diventare un crociato della campagna di sensibilizzazione ai problemi delle minoranze e mettersi a raccontare alle stesse persone come lo spirito antirazzista si dimostra anzitutto in casa, coltivando una mentalità aperta e tenendo la coscienza pulita. Clem è l'unico uomo di mia conoscenza capace di frequentare un seminario sui problemi delle molestie sessuali, e a fine corso, come premio, concedersi una palpata al suo istruttore femmina. «Scusa se ti ho fatto aspettare», dice. «Spero che tu non sia qui da molto.» Vanifico le scuse con un cenno e gli indico la sedia all'altro lato del tavolo. Oggi pomeriggio non mi sorbisco il numero dell'Uomo Lupo. Clem è troppo occupato a guardarsi dietro le spalle, a temere i commenti dei suoi amici che lo vedono fare comunella col nemico, nel pieno di un processo. Mi sussurra che al momento sono «troppo caldo» per le normali chiacchiere di società di questo posto. Lama, dice, vuole una libbra della mia carne, e mentre qualunque mercante di Venezia si accontenterebbe di tagliarla dalla parte più vicina al cuore, Jimmy, stando a Clem, la vuole prendere dalle parti più tenere dei miei genitali. «Che diavolo hai combinato per farlo incazzare tanto?» chiede. «In ufficio, non ha fatto che sbraitare. Oltretutto non sa più di preciso con chi prendersela: se con te, o con 'quella stronza' - per usare la sua definizione che gli hanno dato come compagna di lavoro.» Mi guarda. «Chi è l'avvocato dell'accusa?»
«Morgan Cassidy», gli rispondo. «Oh.» Nient'altro. Pare che Clem sia d'accordo col giudizio di Lama. Poi mi dice che vuole spostarsi in uno dei séparé sul retro, dove potremo parlare in privato. Così non ci disturbano, spiega. Ci trasferiamo. Arriva la cameriera. Clem ordina un torcibudella, io un succo di pompelmo. «Stai smettendo di bere?» chiede lui. Devo andare a prendere Sarah dalla baby-sitter tra pochi minuti. Glielo comunico, e lui annuisce, comprensivo. Dalla morte di Nikki, il mio senso di responsabilità nei confronti di mia figlia è cresciuto; e nutro anche un nuovo rispetto per il genitore single. Mi sono spesso chiesto quali siano le cose che restano impresse per sempre nella mente di un bambino, e mi sono reso conto che la vita ha i suoi lati oscuri, che il profumo che sembrava perennemente sospeso sopra la testa di mio padre come etere non era Aqua Velva. «Hai saputo di Louis Cousins?» chiede Clem. Cousins, il ragazzo il cui processo si celebrava sull'altro lato del corridoio rispetto alla nostra aula, è stato condannato per duplice omicidio di primo grado una settimana fa. Scuoto la testa. «La giuria è rientrata un'ora fa.» Clem tende il braccio, chiude la mano a pugno, poi la gira e fa pollice verso. «Morte», conclude. Non posso dire che la cosa mi sorprenda. Da qualche tempo in qua, le difese psicologiche costruite sugli abusi infantili sono state usate troppe volte, e rilanciate con troppa enfasi dalla stampa. Stanno perdendo la loro forza d'urto. A ogni buon conto, quella sentenza per noi significa soprattutto che adesso i giornalisti sono liberi. Ci guadagneremo una fetta maggiore d'attenzione, e personalmente ne farei volentieri a meno. Clem non ha fretta. Magari pensa che io possa arrivare a una dozzina di drink. Gli lascerò un assegno in bianco, così potrà fare baldoria coi suoi amici. «Che hai scoperto?» gli chiedo. «Niente con la fotografia», risponde. «Buio su tutti i fronti.» Clem sta parlando della foto che mi ha dato Dana, quella dell'uomo noto come Lyle Simmons. Se i dati in possesso di Dana sono esatti, è il killer professionista visto in compagnia di Jack in un bar sull'altra riva del fiume; il corriere che ha consegnato la bomba all'ufficio postale e che poi ha fatto fuori i Merlow. Visto che si dà tanto da fare, pensavo che avesse una fedina pena-
le da far crepare d'invidia Al Capone. «Abbiamo controllato tutti i nomi falsi», continua Clem. «Senza impronte...» Fa una smorfia, stile sogno a occhi aperti. «Il che ci porta all'altra questione.» Sta parlando dell'impronta di Kathy Merlow sul tubetto di colore che io ho raccolto dall'erba nel corso del nostro incontro alle Hawaii. «Al computer c'è voluta quasi un'ora.» Non sembra un granché, ma, col sistema automatico di controlli ad alta velocità, un'ora è una vita. «Abbiamo fatto centro», annuncia poi. Tira fuori di tasca un foglietto. «È una certa Carla Leopold, nata a Paterson, New Jersey, il ventisei agosto del millenovecento...» «Risparmiami i particolari. Veniamo al sodo», lo interrompo. «Il bello viene adesso», dice lui. «Laurea con lode alla Columbia. Contabilità aziendale.» «Sei sicuro che stiamo parlando della stessa donna?» Lui mi regala un sorrisone. «Dipendente di uno dei maggiori uffici di contabilità di New York, cinque anni d'esperienza. Datore di lavoro successivo: Regal International Trading Consortium. Addetta alla contabilità aziendale. C'è rimasta due anni.» «E questo dove ci porta?» chiedo. «Abbi pazienza», sbuffa lui. «Il Regal è un'azienda leader del nuovo corso delle società d'investimento e commercio. Fanno i soldi nel modo più nuovo ed efficiente.» «Cioè?» «Riciclano soldi sporchi», risponde Clem. Poi mi lancia un'occhiata stile: te gusta, muchacho? La cameriera arriva coi nostri drink. Clem si mette a leccare la schiuma sul suo bicchiere ghiacciato. Consegno i soldi, mancia compresa, alla donna, e lei se ne va. «Gira voce che se hai dei narcodollari, il Regal International è sempre pronto a darti una mano», spiega Clem. «Sanno fare certi giochetti di prestigio che levati. Trasformano la merda bianca che va su per il naso di qualcuno in obbligazioni municipali esenti da tasse, solide come roccia. O almeno lo facevano sino a due anni fa.» «E poi che cos'è successo?» Lui beve un sorso. Sa di avere tutta la mia attenzione. «Fisco e Giustizia sono saltati addosso al Regal. Un attacco in massa. Hanno incriminato tutti i dirigenti. Hanno cercato di convincerli a fare i
nomi dei loro clienti. E partendo dalla teoria che bisogna sempre seguire le tracce dei soldi, hanno fatto entrare in gioco la tua Carla.» Lo guardo con piccole smorfie perplesse. Non so di preciso dove voglia arrivare. «A quanto pare, con un clima così caldo, i suoi datori di lavoro si sono fatti una strana idea del ridimensionamento aziendale. Una chiatta, un po' di cemento, un giretto sull'Hudson. Due colleghi della tua amica, altra gente che contava i fagioli, sono entrati nel club dei dispersi. Di colpo, la signora Leopold si è resa conto che le sue prospettive di carriera erano piuttosto limitate. Ha accettato di testimoniare in cambio di un accordo. Si è dichiarata colpevole di frode postale, collusione, e varie attività illecite. Capi d'imputazione multipli. Ecco come mai i suoi dati sono spuntati sul computer... In cambio, avrebbero dovuto proteggerla, metterla in salvo.» «Avrebbero dovuto?» dico. «Non ha mai goduto dei benefici dell'accordo.» «Che vuoi dire?» «Voglio dire che oggi avrebbe trentatré anni, se fosse ancora viva.» Clem sa che la Merlow è morta. Mi chiedo come faccia a esserne al corrente. «Un incidente d'auto sull'autostrada del Jersey, nel pieno di una bufera di neve», precisa. «L'anno scorso, a novembre.» Mi rizzo a sedere di scatto. Quasi mi strozzo col succo di pompelmo. L'acido mi brucia la gola. «Cadavere completamente bruciato, irriconoscibile. L'auto è esplosa come una fottuta bomba. Gira voce che possa essere stato il CO.» Il gergo professionale di Clem: crimine organizzato. Mi sta chiedendo dove abbia pescato l'impronta sul tubetto. A quanto sembra, il tizio che ha eseguito il controllo al computer per lui, al ministero della Giustizia, si è incuriosito. Schivo la domanda con una quantità di finte verbali e mimiche, e alla fine riesco a deviarlo con un'altra domanda. «Sei sicuro per l'impronta? Non potrebbe esserci un errore?» «Impossibile. Identificazione certa. Corrispondono più di una dozzina di punti. I piccoli solchi non mentono.» Clem sta ancora aspettando la mia spiegazione sulla provenienza dell'impronta. E aspetterà sino a che l'inferno non sarà congelato. Sono certo che in questo momento la mia faccia è una maschera di stupore, mentre la mia mente evoca quell'enigma che aveva nome Kathy Mer-
low, nonché tutto un nuovo universo di domande senza risposta. Ho delle visioni: vedo la morte, il suo colorito gessoso e terreo, scorgo Nikki come l'ho vista, da solo, quell'ultimo giorno, quando mi sono chinato a stringere per l'ultima volta la fede al suo anulare, solo in mezzo ai tubi e alle vasche e agli altri strumenti di tortura nella sala sul retro dell'impresa di pompe funebri. Poi Nikki avvolta nel raso bianco. È un'immagine che rivivo regolarmente, anche se adesso è sovrapposta ad altre, e più inquietanti, apparizioni. Le sinapsi del cervello che cercano di ricavare un senso dalla confusione. Un altro volto, immagini di una morte turbinosa, Kathy Merlow. In un modo o nell'altro, Nikki e la Merlow si sono annidate nella mia mente, e io sono bloccato, paralizzato, madido di sudore. Poi fiamme, e un ammasso di metallo contorto su una strada che non riconosco. Sangue sulle coperte di un letto, le palme di Hana, e uno squillo acuto, implacabile, insistente. Le immagini cedono il passo al suono. I volti di Nikki e di Kathy Merlow svaniscono quando finalmente il mio cervello riesce a separare la realtà dai fantasmi. Mi giro su un fianco, mi libero dal groviglio delle lenzuola, e alzo il ricevitore del telefono. Gli squilli s'interrompono. Incubi che si spacciano per sonno. Appoggio i piedi sul pavimento e mi siedo, tra lenzuola inzuppate di sudore. «Pronto. Paul?» Una voce lontana un milione di chilometri, come convogliata da un lunghissimo tubo. Familiare. Harry. «Che diavolo di ora è?» chiedo. «Le cinque e mezzo», m'informa. «Scusa se ti ho tirato giù dal letto.» «Tutto okay. Non dormivo bene. Che c'è?» Asciugo il sudore dalla fronte e il sonno dagli occhi. «Hai visto il giornale del mattino?» chiede lui. «No. Perché?» «Credo ti convenga darci un'occhiata. E fatti un favore: siediti, prima di aprirlo.» «Che cos'è successo?» «Qualcuno ha infilato una lama all'altezza della sesta vertebra cervicale. L'ha affondata per una ventina di centimetri.» «Nella schiena di chi?» «Nella tua, amico mio. L'articolo di spalla, a metà della prima pagina», m'informa Harry. «Titolo: AVVOCATO DIFENSORE LOCALE COLLEGATO ALL'ESPLOSIONE ALL'UFFICIO POSTALE.»
«Merda.» Sto ancora cercando di scacciare le visioni di morte dal mio cervello insonne. La mia mente si mette a vagare, tenta di distinguere tra paure vere e immaginarie. «Non afferro», borbotto. «I federali mi hanno già interrogato.» «Di questo non si parla. Dicono solo che dopo l'esplosione le tue impronte sono state trovate in tutto il locale, e che certi impiegati ti hanno visto parlare con la dipendente delie poste che è morta, pochi attimi prima dello scoppio. Qualcuno ha organizzato un bel numero... Ti consiglio di tirarti in piedi. Ci vediamo in ufficio.» Harry riappende. Comincio a raccogliere capi d'abbigliamento. La mia mente corre per definire il danno che una cosa del genere porterà al processo: siamo a metà, e il difensore di Laurel viene coinvolto in uno scandalo. Poi alzo il ricevitore e chiamo la signora Bailey. Ho bisogno di qualcuno che badi a Sarah. Sto abusando del buon carattere della signora, ma, come sempre, lei è disponibile per mia figlia, il che è più di quanto io possa dire di me stesso. Arriverà fra dieci minuti. Sono in mutande e canottiera, e sto allacciando i calzoni, quando compongo un numero telefonico. Mi risponde una roca voce femminile, piena di sonno. «Ciao. Sono Paul. Mi serve aiuto», dico. «Che c'è?» «Qualcuno mi ha collegato al pacco-bomba. Sul giornale di stamattina.» «Che cosa? Chi potrebbe...» «Non ho tempo per parlare. Ho bisogno del tuo aiuto. Stamattina ci sarà un giudice che mi guarderà a muso duro. Una spiegazione da una fonte autorevole potrebbe fare molto.» «Non capisco», dice lei. «Nemmeno io.» Silenzio all'altro capo della linea. «Ma certo. Tutto quello che posso fare. Dove ci vediamo?» chiede Dana. Stabiliamo l'ora e il posto, il tribunale di contea. Riappendo. Per quasi due ore, passeggiando avanti e indietro in ufficio, Harry e io facciamo la stima dei danni. Quando la luce dell'alba si trasforma in giorno, vedo spegnersi i fari incandescenti sulla cupola del Campidoglio, a cinque isolati di distanza. Rileggiamo l'articolo, dapprima in silenzio, poi ad alta voce l'uno all'altro, in cerca di sfumature che potrebbero esserci sfuggite. Sondiamo le
possibili fonti. Harry pensa a Jack. Ormai deve essergli giunta voce del ruolo fondamentale che ha nella mia linea difensiva. Ha amicizie solide fra i giornalisti. Però Harry non mi spiega come abbia fatto Jack a sapere che sul posto sono state rinvenute le mie impronte. Le indagini, ancora in corso, sono coperte dal segreto. La firma del giornalista non mi è familiare. L'articolo è il classico pezzo scandalistico. Fa riferimento a «fonti in alto loco non citabili, ma molto vicine alle indagini». Non dice esplicitamente che io sono sospettato, però mi seppellisce sotto una fanghiglia di deduzioni e allusioni. Se ci fosse ancora l'Inquisizione, stamattina mi verserebbero piombo fuso in un orecchio, per strapparmi una confessione e condurmi al cospetto del Signore. La cosa è ancora più sorprendente perché sono uscito pulito con l'FBI, dopo ore d'interrogatorio a porte chiuse. Sanno esattamente perché stavo parlando con Marcie Reed. L'unica cosa che posso immaginare è un reporter intraprendente che ha messo le mani solo su metà della storia. Dal nostro punto di vista, come riassume Harry, il problema è che i giurati del processo a Laurel non sono schermati da questa notizia. Non è coperta dall'ingiunzione della Corte, dato che non esistono collegamenti palesi fra la bomba e l'omicidio di Melanie. Se non facciamo qualcosa, la giuria, dopo avere visto il mio nome in rapporto con l'esplosione all'ufficio postale, non crederà a molto di ciò che dirò in difesa di Laurel. Un delinquente che cerca di farne assolvere un altro. «Non può nascondere la realtà, però forse può toglierle le sfumature più oscure. Un'istruzione alla giuria.» Harry sta parlando del giudice Woodruff. Lo abbiamo chiamato quattro volte, nell'ultima ora. Non è ancora nel suo studio, anche se senza dubbio a questo punto ha già letto il giornale. «Probabilmente è una storia da un solo giorno», ipotizzo. «Domani sarà roba vecchia. La toglieranno dalla prima pagina, spiegheranno e correggeranno tutto.» «Già, sicuro. Ma senti un po' che idea del primo emendamento che ha questo!» Detto da uno che passa la vita a leggere giornali... «Fai funzionare il cervello», m'incalza. «La chiamano 'stampa' perché ti stampa addosso tutte le etichette che vuole.» «Hanno raccontato cose sbagliate. Provvederanno a correggere», protesto. «Come diceva quel tipo: 'Tutti hanno diritto a quindici minuti di celebrità'», commenta Harry. «A te li hanno regalati infilandoti una lampadina nel
buco del culo.» Lo invito a rilassarsi. Riprovo a telefonare al giudice. Adesso il cancelliere non risponde. Non possiamo aspettare oltre, così decidiamo di fare a piedi i pochi isolati fino al tribunale. Possiamo morire di ansia anche lì. E poi, ormai Dana dovrebbe essersi messa in moto. Scendiamo con l'ascensore. Esco, e li vedo per la prima volta. Un furgone con un'antenna parabolica sul tetto, parcheggiato qui davanti. Altri due più in giù. Mi chiedo se per caso non sia scoppiato un incendio in uno dei grattacieli. Poi, appena metto piede in strada, mi spunta un microfono davanti alla faccia. «Signor Madriani, che può dirci dell'attentato all'ufficio postale?» Un altro tizio con penna e taccuino. «Verrà incriminato? Parlerà con le autorità?» «Da quanto tempo è sotto inchiesta?» Harry mi sta guardando. «Merda santissima.» Apriamo la porta, rientriamo, chiudiamo a chiave. Le luci stroboscopiche delle telecamere, riflesse dal vetro della porta, sono quasi accecanti. Un'orda sta partendo alla carica. Una delle anime più intraprendenti si è attaccata alla maniglia, scuote la pesante porta. Harry mi ha preso per il gomito, mi trascina verso una porta in corridoio. La strada per il garage. Saliamo sulla sua auto, e quando sbuchiamo dalla rampa, c'è un'altra folla. «Avrei dovuto infilarti nel bagagliaio», grugnisce Harry. «Reggiti.» Per poco non mette sotto un tizio talmente carico di riflettori da non riuscire quasi a muoversi. «Alla faccia della storia da un solo giorno», sbuffa Harry. «Qualche altra teoria?» Mi giro a guardare dal finestrino posteriore, e vedo qualcuno del branco che sta correndo alle automobili. Una reporter con la sua squadra di cameramen si avvia in strada. Sa che devo presentarmi in tribunale, e che si tratta di soli tre isolati. Harry mi chiede che cosa farà Dana per tutto questo. «Spero che garantisca per me con Woodruff. Che gli dica che cos'è successo, gli spieghi che stavo solo parlando con una cliente. Che non sono sospettato.» «Sei stato morso dalla pulce dell'amore», ironizza lui. «Probabilmente la notizia l'ha passata lei.»
Quando mi giro a guardarlo, vedo una fronte corrugata e sopracciglia incurvate. Harry che dà i suoi consigli al prigioniero d'amore. Parla di Dana come se mi avesse fatto lo sgambetto, come se fosse stata lei a farmi precipitare in questa situazione. «Perché avrebbe dovuto? Non ha niente da guadagnare.» «Sorelle di sangue», mi ammonisce lui. «Che cosa vuoi dire? La Cassidy?» «Voglio dire che gli estrogeni non sono acqua», risponde lui. «Certe di loro vengono solo all'idea di fottere un povero fesso.» Le «loro» di cui parla Harry sono l'altra metà della specie umana, il grande sesso debole. «Forse, l'ultima volta che ci hai dato sotto, non le hai fatto passare il prurito giusto.» Harry sta scendendo sul personale. «Ti avevo avvertito», conclude. «Con due avvocati dell'accusa in gonnella.» Harry pensa che l'inimicizia per i maschi sul posto di lavoro sia un fatto, come il patrimonio genetico del cromosoma X; e che quindi non possa esserci pace finché non rimanderemo a casa le donne. È perplesso. Si sta ancora chiedendo come mai il sesso che costituisce più di metà della specie sia riuscito ad acquisire tutti i privilegi di una minoranza e a infilare la testa sotto il tendone delle lotte per l'eguaglianza sociale. «Esistono regole nel nostro mestiere. I canoni dell'etica», dice. «E conosciamo tutti la prima: non infilerai la tua penna nell'inchiostro dell'azienda.» Gli ricordo che Dana non lavora per noi. La seconda regola, dice lui: «Diffida dei falsi procuratori che si presentano da te di notte nei panni della pecora, perché sono lupi assetati di vendetta». Per Harry esiste ben poco di sacro. Gli rivolgo un sorriso, ma non apro bocca. «Sicuro, ridi. Ricorda però che non sono mica io a scappare, inseguito da Madame Tabloid. È il tuo culo che è in fiamme. Offerte votive al dio del giornalismo e alla sua statua color vomito», chiosa Harry. Lontano, a mezzo isolato di distanza, sento uno stronzo urlare: «Eccolo là!» Passi di corsa, suole sul cemento, come la fuga di un branco di puttane davanti al cellulare. Stiamo correndo verso il rifugio del tribunale. Superiamo l'incrocio fra il parcheggio e il tribunale. Passiamo col semaforo che dice STOP. Un'altra auto per poco non ci centra. Voliamo su per la rampa, verso l'ingresso sul retro. Impieghiamo un paio di minuti a superare il metal detector. È lì che la
prima équipe televisiva ci acciuffa. Harry ansima, è senza fiato. Si sta risistemando sui calzoni la cintura con la fibbia di metallo. Pane per il telegiornale del pomeriggio. Ci allontaniamo. Quelli tentano di seguirci. La guardia indica il nastro trasportatore e dice loro di togliersi gli ammennicoli per l'ispezione. Harry si gira e saluta col medio alzato. I riflettori sono ancora accesi. Le telecamere stanno girando. «Ci vediamo sopra, stronzi», grida. «E lasciate fuori in corridoio le fottute telecamere e i microfoni.» Harry Hinds impegnato nelle pubbliche relazioni. Vede l'espressione che ho in faccia. «Non preoccuparti», sghignazza. «Sulle parolacce ci mettono un bip.» Evidentemente non ha mai sentito parlare di lettura delle labbra. Quando finalmente raggiungiamo l'ascensore, sembriamo due commessi viaggiatori con le loro borse di campioni. Quella di Harry è piena di reperti e prove materiali per il processo. La mia contiene le domande da fare oggi a Jack Vega, che si presenterà come testimone per lo Stato. Sempre ammesso che prima io non venga radiato dall'albo. Quando arriviamo alla postazione del cancelliere, dietro l'aula, Dana è già dentro con Woodruff. Il cancelliere bussa alla porta, e ci viene detto di aspettare un paio di minuti. Morgan Cassidy è stata convocata dal giudice e sta arrivando. A quanto pare, Woodruff è preoccupato all'idea di comunicazioni ex parte. Non vuole uno degli avvocati nel suo studio, a porte chiuse, se non è presente anche la parte avversa. Due minuti più tardi la Cassidy entra a razzo in ufficio, seguita da Jimmy Lama. Ci supera come se non esistessimo, rivolgendoci solo uno sguardo imperioso. L'espressione di Lama è tetra. Forse l'idea di questo incontro non lo entusiasma. Il cancelliere apre la porta, e ci ammassiamo tutti nello studio del giudice. Woodruff è seduto dietro una grande scrivania di mogano. Dana è su una delle due sedie imbottite, di fronte a lui. Ha sulle ginocchia la sua borsa di pelle. «Vostro onore, se posso spiegare.» Non perdo tempo. «Suppongo lei abbia visto il giornale di stamattina.» Woodruff alza la mano. «L'ho visto e ho parlato con la signora Colby. Mi ha già raccontato l'accaduto.» Pausa. «Un articolo inesatto», continua. «Al momento m'interessa di più scoprire come la notizia sia arrivata al giornale.» Vuole sapere se vi sia qualche altro motivo, e se la pubblicazio-
ne dell'articolo sia stata ispirata dal processo. Woodruff può anche avere le sopracciglia folte e la bonomia di Walter Cronkite, ma stamattina la sua faccia è molto cattiva, e puntata direttamente su Morgan Cassidy. Non c'è mai stato feeling tra lei e il giudice. «Che cosa può dirci della faccenda, signora Cassidy?» «Niente, vostro onore. Non penserà...» «Be', da noi la notizia non è filtrata», dice Dana. La Cassidy le lancia un'occhiata assassina. Harry sorride. L'altra faccia della cospirazione femminile: un duello fra tigri. «E i suoi uomini?» Dana sta guardando Jimmy Lama. Il pomo d'Adamo di Jimmy arriva a metà della gola, poi fa dietrofront. Occhiate piuttosto nervosette al giudice. «No», dice infine. «Assolutamente no.» «Non capisco», intervengo io. «Credevo che l'indagine sulla bomba all'ufficio postale fosse nelle mani dei federali.» «Ci siamo rivolti alla squadra artificieri locale, e ai periti legali di qui», spiega Dana. «Forse dovremmo convocare le persone che hanno diretto le indagini», almanacca Woodruff. «Non è necessario. Sono già qui», dice Dana. «Il tenente Lama era il nostro tramite locale.» Jimmy assume sette diverse sfumature di viola. Si agita parecchio e lancia occhiate nervose, più di una nella mia direzione. Lama al tappeto. Woodruff esige risposte. Chi aveva accesso alle informazioni? Ai rapporti sulle impronte? «La notizia non è partita da noi», ribadisce Jimmy. Un diniego assoluto, rinforzato un attimo dopo con la promessa di raccogliere informazioni e tornare a riferire al giudice. «Entro oggi pomeriggio», lo ammonisce Woodruff. «Affare fatto», dice Jimmy. «Come?» «Vostro onore», striscia Jimmy. Woodruff gli scocca un'occhiata che dice: così va meglio. Lama sta borbottando qualcosa alla Cassidy. Dinieghi sputacchiati come un motore a corto di benzina. «I nostri non lo farebbero mai.» Tutti tranne uno, e in questo momento ho sotto gli occhi quell'uno. Nella mia mente non esiste più alcun mistero sulla fonte dell'articolo. L'umilia-
zione in aula per il videonastro e la scivolata sul portacipria sono state le gocce che hanno fatto traboccare il vaso. Il Lama più classico. Le tecniche da manuale per fottere l'avversario. Per Jimmy, la vita è solo una lunga serie di conti da saldare. Qualcosa mi dice che Woodruff non riuscirà mai a provare il coinvolgimento di Lama. Jimmy deve aver messo sulla faccenda più strati isolanti di quelli che indossa l'eschimese medio. Una dozzina di persone fra se stesso e il giornalista, niente nome e tantomeno impronte. In simili circostanze, la Corte non può convocare l'autore dell'articolo ed esigere di conoscere le sue fonti. Almeno in teoria, Woodruff non ha giurisdizione in materia. Le informazioni dell'articolo non hanno rapporti col contesto del nostro processo. Sono semplicemente tangenziali; hanno l'unico scopo di screditarmi come difensore. In questo, Lama è stato abile. Woodruff intreccia le mani sulla scrivania, borbotta di un annullamento del processo. A questo punto, dopo i buchi che abbiamo scavato nella linea della Cassidy, per lei sarebbe un regalo dal cielo. Adesso conosce la nostra teoria di difesa. Potrebbe tentare di chiudere le falle e tornare all'attacco in un altro processo. Il giudice afferma che intervisterà i giurati per vedere quanti abbiano letto l'articolo e quale effetto abbia avuto. Nel frattempo, redigerà un'istruzione. Ordina a Lama di tornare dopo l'udienza odierna per riferirgli gli sviluppi delle indagini sull'articolo. Jimmy è tutto inchini e salamelecchi. Il tipico leccapiedi davanti all'autorità. Giura che andrà in fondo alla cosa. Entro le cinque del pomeriggio tornerà con la ferrea assicurazione che nessuno dei suoi uomini è coinvolto, e Woodruff, come me, resterà a coltivare sospetti privi di fondamento. Lama e la Cassidy si avviano in aula, a prepararsi per l'udienza di oggi. Harry li segue. Dana e io ci fermiamo in corridoio, appena dietro la postazione del cancelliere. «Puttana», sibila lei. Resto colpito dal linguaggio. È una rabbia che non ho mai visto in Dana. È rossa in viso, le tremano le mani. In questo momento, guarda il muro alle mie spalle, sfugge ai miei occhi. Pronuncia l'insulto come stesse parlando tra sé. Come se io non fossi presente. «Sono mesi che cerca di far saltare la nomina», dice. Sta parlando delle sue aspirazioni alla carica di giudice. A quanto pare, la sua ira si basa su qualcosa di più della lealtà alla mia persona. La Cassidy, coi dinieghi alla Corte, ha lasciato intendere, in quel suo inimitabile modo, che, se non sono state le indiscrezioni delle autorità locali a portare a quell'imbarazzante ar-
ticolo, c'è soltanto un'altra possibilità: deve essere stata Dana, oppure uno dei suoi. Dana non è molto contenta di vedersi attribuire il ruolo di zimbello delia Corte. «Benissimo. Se è questo che vogliono, è questo che avranno. E ne avranno a palate», esclama. «Riporteremo un po' più in equilibrio la partita... Quando deve testimoniare Jack?» «Stamattina», le rispondo. «È il primo.» «Allora dopo che ha giurato è selvaggina non protetta?» Annuisco. «Entro mezzogiorno avrai copie autenticate dei capi d'accusa coperti da segreto e delle condanne che gli sono state comminate», dice lei. «Te le farò recapitare da un corriere.» La ringrazio di avermi aiutato, di avere spiegato la situazione a Woodruff. «Normale amministrazione», ribatte. Poi aggiunge che ci sono cattive notizie. La ricerca del testimone che ha visto Jack con l'uomo noto come Lyle Simmons, nel bar sull'altra riva del fiume, non procede bene. Il tizio è svanito nel nulla. «I tuoi uomini non hanno smesso di cercarlo?» chiedo. «No. Però non voglio nemmeno darti false speranze. Sono più di due mesi che quell'uomo non si fa vedere. Ha motivi molto solidi per darsi alla macchia. Le accuse penali che gli pendono sulla testa, intendo. Quando riusciremo a trovarlo potrebbe essere troppo tardi.» «Quell'uomo è un perno della mia linea difensiva», la informo. «Puoi dare addosso a Jack anche senza di lui. Jack è sporco», ribatte. «Tu sai che il figlio non era suo. Era roso dalla gelosia. Ha usato la morte della moglie per tentare un accordo sulla carcerazione. Nel materiale che ti passerò ci saranno lettere che lo dimostrano. Puoi squartarlo.» «Vorrei che tu fossi in giuria», sospiro. «La loro tesi sta perdendo più sangue di un'ulcera peptica», incalza lei. «Il portacipria che non collega più la tua cliente alla scena del delitto, un silenziatore, tutti i segni di un omicidio su commissione. E il signor Vega ha un movente. A me pare che la situazione sia questa.» «Sarebbe molto più convincente con un killer professionista.» «Tu vuoi proprio tutto!» sorride Dana. «Ci proveremo. Però non dovresti contarci.» Dal tono, sono portato a pensare che mi convenga fare altri preparativi, rinunciare a priori alla prova più decisiva. Sto cominciando a chiedermi se questo loro testimone non sia morto.
«Stasera sei libero?» mi chiede lei. «A parte i doveri di padre... Cena da me?» Lei mi dice che porterà il vino. «Facciamo alle sette», concludo. Dana sorride. Poi un bacio caldo e umido sulla guancia, nel corridoio buio. Quando lei gira sui tacchi e si avvia in corridoio, vedo Harry seduto alla scrivania del cancelliere. Ha visto tutto. La sua faccia è una maschera di paterna disapprovazione: sembra un patriarca il cui figlio maggiore sia appena scappato con la sgualdrina del villaggio. 27. È il cardine della tesi dell'accusa, il vedovo in lacrime. Jack è sul fondo dell'aula, per qualche scambio di battute dell'ultimo minuto con la Cassidy. Come al solito, sta in punta di piedi e saltella come un bambino che stia per farsela nei pantaloni. È stato scortato in aula da Jimmy e da uno dei suoi tirapiedi, che hanno fatto da rompighiaccio per tenere lontani i giornalisti. Con i soldi che Vega ha sborsato per comprare l'abito che indossa, una famiglia ci camperebbe un anno intero. Sfoggia anche una cravatta di seta e un fazzoletto coordinato, che spunta del taschino della giacca: entrambi marroni, il colore standard di Jack. Parlando, non riesce a staccare gli occhi da me. Scorgo due fessure che guizzano sul mio corpo, guance olivastre, labbra tese, bianche per la tensione. Io sto raccogliendo carte al nostro tavolo, ma mi rifiuto di staccare gli occhi dai suoi. Jack e io stiamo duellando con lo sguardo. L'espressione di Vega, più che decisa, è un distillato di cattiveria. La conosco, quell'espressione: di solito la usa per certi testimoni, convocati a deporre da qualche commissione, prima di dare libero sfogo all'ira. E di solito appare quando Jack lotta per difendere qualcuno che è riuscito ad appannare la sua obiettività con generose regalie. Vega è implacabile con gli inermi, coi gruppi di difesa del consumatore, con gli ambientalisti, specie se studenti. Secondo le regole di Jack, chi non ha soldi non ha diritto a vivere in una democrazia. Stamattina vado a trovare Laurel in cella. Qualche parola di avvertimento prima che la portino in aula. Quando la vedo in cella, ha in mano una spazzola e sta finendo di petti-
narsi. S'interessa molto più al suo aspetto personale adesso che i figli sono lontani e al sicuro dalle grinfie di Jack... almeno a suo giudizio. Le spiego che lui è fuori, pronto a testimoniare; che la giuria la terrà d'occhio, in cerca di reazioni significative a tutto ciò che Jack potrà dire. «Qualunque cosa», la avverto. «Arriccia il naso, fai una smorfia di dolore, e se ne accorgeranno. È d'importanza vitale che tu tenga a freno le emozioni. Impossibile prevedere che cosa dirà.» Ecco qui il riassunto stenografico di un'ovvia verità: di tutti i testimoni, Jack è probabilmente quello che più di ogni altro tenderà a distorcere i fatti concreti, a prendersi certe libertà. «Non penserai che intenda mentire.» Laurel mi rivolge uno sguardo tetro. Per un attimo, il semplice fatto che lei me lo chieda con quell'espressione così seria mi prende in contropiede. Poi nella sua serietà si aprono piccole crepe, le labbra s'increspano, e la diga cede. Scoppiamo a ridere tutti e due. «È una possibilità», dico. «No. Che piova domani è una possibilità», mi corregge lei. «Che Jack menta quando basta essere sinceri... be', è qualcosa di più simile alla legge di gravità.» «Tu sii semplicemente naturale. Sii te stessa.» «Se fossi naturale, gli tirerei un calcio nei coglioni e gli caverei gli occhi», commenta lei. «Ritiro tutto. Non essere naturale.» «Mi dispiace crearti problemi», mormora lei. Non voglio mettere la camicia di forza alle emozioni di Laurel. Se Jack spara una grossa bugia, la giuria si aspetterà una reazione negativa dalla mia cliente, la considererà normale. Però, al nostro tavolo, gli atteggiamenti istrionici sarebbero davvero fuori luogo. «Le emozioni incandescenti», la informo, «sono l'essenza dell'omicidio. Dimostrati arrabbiata, anche per un solo attimo, e per loro sarà più facile vederti con una pistola in mano.» «Capisco. Posso chiamarlo 'bugiardo', ma non 'fottuto bugiardo'.» «Qualcosa del genere», convengo. Ci prepariamo. Lei mi prende la mano e la stringe, e usciamo insieme, Laurel e io, la guardia dello sceriffo e una matrona, diretti in aula. Oggi ci sono schiere extra di giornalisti: quelli che si sono riversati qui dal processo Cousins, e altri dalla capitale, tutti con matite ben temperate.
C'è elettricità nell'aria. L'odore delle notizie scottanti quando il delitto viene iniettato ad alta pressione nel corpo della classe politica, e fatto esplodere da una scintilla. Come il puzzo dell'ozono dopo un lampo. Ci accomodiamo al nostro tavolo. Un tizio con un taccuino si avvicina e comincia a farmi domande, da dietro la transenna. Vuol sapere che cosa, secondo me, dirà Vega. Gli rispondo di stare a guardare. Poi quello si mette a parlare della bomba all'ufficio postale e delle mie impronte digitali. Immediatamente, altri tre giornalisti lo raggiungono, e quando mi volto c'è una piccola folla. Sparo un: «No comment», ma quelli insistono. L'ufficiale giudiziario di Woodruff si avvicina. «O vi mettete ai vostri posti, o ci lascerò sedere la gente che aspetta in corridoio», ingiunge. Di colpo, una dozzina di corpi si scaraventano in ogni direzione. Pare la corsa all'oro. Quando entra la giuria, capisco che l'articolo sul pacco-bomba ha avuto il suo effetto. Non c'è il solito vagare di sguardi nell'aula. Stamattina, tutti gli occhi sono puntati su di me, e i mormorii corrono. Forse sono sorpresi nel vedere che io sono ancora qui, e non in carcere. Woodruff si sistema allo scanno. La Cassidy dirige Vega a una sedia al di qua della sbarra, dove lo parcheggia temporaneamente. «Prima d'incominciare», esordisce il giudice, «devo sgomberare il campo da alcune questioni.» Si mette immediatamente a parlare dell'articolo, della bomba, e delle mie impronte sul posto. Interroga la giuria sugli effetti dell'articolo. Tre giurati dicono di non avere mai letto il pezzo e di non averne sentito parlare da altri media. C'è gente che vive su Marte. Gli altri ammettono di aver visto l'articolo, e di esserne stati incuriositi. Un giurato, un uomo in seconda fila, dice che se c'è fumo ci deve essere arrosto. Secondo costui, se esiste anche un solo sospetto, io non dovrei essere qui in veste di avvocato. Viene immediatamente congedato da Woodruff e sostituito con uno dei giurati di riserva. Questo fa apparire sui visi degli altri varie espressioni, tutte molto cupe. A questo punto, sondare ulteriormente le loro reazioni sarebbe inutile. Nessuno riferirà mai le proprie considerazioni personali. Poi, in tono legnoso, il giudice legge un'istruzione scritta con estrema meticolosità. I giurati, nell'emettere il verdetto per questo processo, non devono tenere nella minima considerazione il contenuto dell'articolo. Woodruff gira intorno alla questione della mia estraneità alla bomba. Dice che ho pienamente collaborato con le autorità, che non sono mai stato sospetta-
to dell'attentato e che le deduzioni dell'articolo in questo senso sono errate. Dai ranghi della stampa alle mie spalle, mi giunge il rumore delle matite che corrono. Poi, bruscamente come ha incominciato, Woodruff conclude. Se questa fosse una conferenza stampa, dozzine di mani schizzerebbero in alto. Anche la Cassidy e Lama se ne accorgono; c'è un sorrisetto perfido sulla faccia di Jimmy. I giornali di domattina avranno tutto lo spazio che vogliono per ulteriori speculazioni. «Chiami il suo prossimo testimone.» Woodruff sta guardando la Cassidy. «Il signor Jack Vega.» Jack si accomoda al banco e giura. Quando s'identifica per il verbale, usa il proprio titolo di membro del corpo legislativo. Lo porta come una medaglia al merito, trascurando il fatto che nei sondaggi d'opinione quel titolo, in quanto a integrità morale, lo colloca parecchio al di sotto dei venditori ambulanti di cravatte, e solo una tacca più in alto degli avvocati che stanno per interrogarlo. «Conosce l'imputata, Laurel Vega?» chiede la Cassidy. «Sì. Siamo stati sposati per qualche anno, fino al divorzio», risponde Jack. «E lei ha avuto figli dall'imputata?» «Due. Un maschio e una femmina, di tredici e quindici anni, anche se non li vedo da quasi un mese.» «Chi detiene la custodia legale di questi figli, al momento?» Ho un brutto presentimento della piega che prenderà il discorso. «Io.» «Però lei non ha idea di dove si trovino?» «No.» «Vostro onore, obiezione. Non pertinente al caso. Dove ci porterà tutto questo?» Senza esitazioni, la Cassidy risponde: «Al tema del movente, vostro onore». «Respinta. Prosegua», dice il giudice. «Quando ha visto i suoi figli per l'ultima volta?» «Ventotto giorni fa», risponde Jack. «Mia figlia mi ha detto che avrebbe trascorso la notte da un'amica.» «E suo figlio?» «Era uscito di casa, anche se non mi aveva detto dove andava. Più tardi ho scoperto che si era recato a trovare sua madre in carcere.»
«L'imputata, Laurel Vega?» chiede la Cassidy. «Esatto», dice lui. «E quella è stata l'ultima volta che ha visto i suoi figli?» «Sì.» «Ha denunciato alla polizia la loro scomparsa?» «Per quello che può servire... Lei sa dove sono e non vuole dirlo.» «Obiezione.» Sono in piedi. «Chiedo la cancellazione.» Woodruff ordina di cancellare il commento dal verbale e dice alla giuria di non tenerne conto. Ma il seme è stato buttato. «Stanno trattando la questione come semplice materia da diritto civile. Diritto familiare», commenta Jack. «Questo che cosa significa?» «Obiezione. Si chiede al teste di speculare.» «Accolta.» «Signor Vega, lei è stato coinvolto in una battaglia legale con l'imputata per la custodia dei figli?» «Sì. Lei l'ha resa molto cattiva», risponde Jack. «E poi ha dato tutta la colpa a mia moglie, Melanie.» «Obiezione, vostro onore.» Woodruff comincia ad arrabbiarsi con Vega. «Signore, lei sa che cosa sia una domanda?» «Ma certo», annuisce Jack. «Allora si limiti a rispondere alle domande e tenga i commenti per sé. Sono stato chiaro?» Jack ha dimenticato di non essere nel foro dei principi della politica che veleggiano in un etere d'arroganza senza regole o norme di condotta o necessità di attenersi ai fatti. Non è abituato a trattamenti simili. Non risponde a Woodruff. Si limita a un veloce cenno d'assenso. «Sì o no per il verbale», incalza il giudice. Se Jack insiste imboccherà la strada verso un'accusa di oltraggio alla Corte. «Sì», dice Vega. «Ricorda, nel corso di questa controversia legale, un'aggressione fisica da parte dell'imputata, Laurel Vega, ai danni della defunta Melanie Vega?» chiede la Cassidy. «Lo ricordo benissimo», esclama Jack. «Lei.» Punta l'indice su Laurel. «Lei ha colpito Melanie, molto forte, con una pesante borsa. Mia moglie mi ha riferito di essersi procurata un'escoriazione, e di avvertire dolori a un braccio.»
«E ricorda che l'imputata abbia proferito minacce all'indirizzo di Melanie Vega, nel corso di tale aggressione?» «Può scommetterci», sbotta Jack. Praticamente non riesce a contenersi. Se avesse a disposizione un palco, si metterebbe a ballare il tip-tap. «Ha detto che voleva uccidere Melanie.» «Sono state queste le sue parole?» «No. Ha detto che voleva uccidere 'quella puttana'.» Nel dirlo, Jack guarda Laurel e me, con le fiamme negli occhi. Ha tenuto in gola il veleno per mesi. Adesso lo riversa come una colata di gel tossico dal banco dei testimoni. Aggiungono ulteriori rifiniture, qualche altra energica frase attribuita a Laurel, che a questo punto, se fosse possibile diffamare i morti, finirebbe sotto processo anche per quello. Jack dovrebbe fare il titolista per i giornali scandalistici. Poi la Cassidy gli fa identificare il tappetino ripescato dal carrello delle prove. Jack è assolutamente sicuro di sé: il tappeto si trovava nel bagno padronale di casa sua, la sera dell'omicidio di Melanie. Secondo lui, Laurel se lo potrebbe essere procurato solo se si fosse trovata a casa dei Vega, quella sera. Morgan comincia a portarlo in crociera in un arcipelago di conversazioni che sospetto non si siano mai verificate, almeno in buona parte. Si tratta d'incontri privati fra Jack e Laurel, nei giorni di visita, quando Laurel andava a prendere o a riportare i figli a casa dell'ex marito. Stando a lui, Laurel in quelle occasioni si esibiva in rabbiose invettive, ovviamente mai provocate né da lui né da Melanie. Laurel, tesa, a labbra contratte, riesce a restare calma per un bel po'. Protesta solo al mio orecchio. Poi, a un certo punto, dice: «È un fottuto bugiardo». Il tono è così alto che per poco Woodruff non la sente. Quando mi giro a guardare, lei non sorride. Jack sostiene che nel corso di uno di questi incontri, durante una conversazione particolarmente rabbiosa, Laurel avrebbe detto di voler vedere morti tutti e due, Melanie e lui. «Mezzo panino è meglio di niente», mi sussurra Laurel all'orecchio, schermando la bocca con le mani. La Cassidy, credo, ha sentito. La giuria, no. Quando guardo Laurel, ha un luccichio caparbio negli occhi. Ecco perché mi preoccupa l'idea di farla testimoniare. «Laurel era sempre gelosa e rabbiosa, specialmente nei confronti di Melanie», sta proclamando Jack. «Non sopportava le donne più giovani.»
«Forse, se tu ne avessi scopate un po' meno ai tempi del nostro matrimonio, il mio atteggiamento sarebbe stato diverso.» Parecchie giurate ridacchiano. Woodruff picchia il martelletto, poi lo punta contro Laurel. «Signora, potremmo imbavagliarla e legarla alla sedia», minaccia. «Avvocato, controlli la sua cliente», ordina a me. Mi scuso per la condotta di Laurel, poi le ingiungo di smetterla, in tono udibile alla Corte. «Riprendiamo», sbuffa il giudice. La Cassidy tiene per il finale l'esplosione emotiva, la storia di Jack che torna a casa e trova la giovane moglie morta in bagno, uccisa da un colpo di pistola alla testa. Jack racconta tutto, fin nei dettagli più morbosi, e riesce a spremere una vera lacrima, un gocciolone solitario che gli scorre giù per la guancia, a beneficio della giuria. Nel frattempo, Laurel tiene una mano sul tavolo e sfrega due dita in un gesto ovvio: il più piccolo violino del mondo. Le copro la mano il più in fretta possibile, ma la Cassidy vede e si lamenta. «Un tic nervoso», spiega Laurel. «Vostro onore, l'imputata sta inviando segnali alla giuria», tuona la Cassidy. «Commenta la testimonianza.» «È più forte di me», si giustifica Laurel. «È un tic nervoso che mi viene tutte le volte che quel figlio di puttana mente.» «Basta così», ruggisce Woodruff. «Gli avvocati si avvicinino. E lei, signora, chiuda la bocca. Ha capito?» Ci avviciniamo allo scanno. Woodruff parte all'insegna dell'imparzialità, però i calci li piglia quasi tutti il mio culo. Mi dice che, se non riesco a controllare Laurel, provvederà lui, e lo spettacolo per la giuria non sarà gradevole. Torniamo ai nostri posti e la Cassidy riattacca con Jack. Vega racconta alla Corte di non aver perso solo una moglie, ma anche un figlio. «Signor Vega», dice la Cassidy, «può riferire alla Corte quando ha saputo della gravidanza di Melanie?» E Jack inventa una bella favoletta. Sostiene che è stata Melanie a informarlo, che attendevano con gioia questo nuovo figlio perché sarebbe stato il trait d'union con la sua famiglia già esistente, il ponte con gli altri figli. Informa la giuria che non avevano preso precauzioni, che Melanie non usava la pillola.
Sono incredulo. Non una parola sulla vasectomia. Poi, di colpo, capisco. Jack non ne ha nemmeno accennato a Morgan. Vega, il re dei bugiardi, ha lasciato la Cassidy all'oscuro del maggior elemento della nostra linea: la sua gelosia, il movente del delitto, il fatto che qualcun altro fosse il padre di suo figlio. Morgan lascia Jack sulle alte vette del martirio, e lo consegna a me per il controinterrogatorio. Per un lungo momento, uno spartiacque processuale, una pausa melodrammatica, Jack e io ci studiamo con occhi cauti, mentre mi avvicino al banco dei testimoni. Faccio una smorfia ben visibile alla giuria, per chiarire che accetto come vangelo solo una piccola parte di questa testimonianza. Affrontando Jack, procedere con ordine è d'importanza critica. Il mio compito è chiaro: smantellare pezzo per pezzo il ritratto di se stesso che ha appena dato, e poi assestare colpi di maglio ai due temi, strettamente uniti, del movente e dell'opportunità. «Signor Vega, noi due ci conosciamo, vero?» Lui mi guarda, ma non risponde. Forse non sa di preciso se mi riferisco ai legami di parentela o piuttosto al fatto che conosco il suo carattere. «Intendo dire che un tempo eravamo parenti acquisiti per matrimonio. Non è così?» «Sì», risponde lui. Spiega alla Corte che un tempo mi considerava un amico. Ai giurati non sfugge l'uso del verbo al passato. Voglio chiarire subito la cosa in modo che Jack non se ne possa servire più avanti, lasciar intendere che nutro animosità personali nei suoi confronti basate solo sulla triste esperienza matrimoniale tra Laurel e lui. Jack se ne servirebbe come scudo, facendomi apparire desideroso di mettere a segno una vendetta privata. Poi comincio. Gli leggo una delle dichiarazioni che ha reso alla polizia la notte del delitto, quando ha affermato di non aver mai posseduto una pistola. Lui continua a sostenere di non possederla. Gli ricordo il pezzo da collezione cromato, la nove millimetri che gli è stata regalata da un lobbista per rafforzare la sua posizione contraria al disegno di legge sulla limitazione alla vendita di armi, anni fa. Jack lascia guizzare gli occhi qua e là, poi decide di fare il duro. La sua parola contro la mia. «Io, ah... Non ricordo proprio», borbotta. Il Jack più classico. Non un diniego assoluto, solo una memoria debole. Scateno la tempesta di carta. Passo copie alla Cassidy e al commesso del
tribunale, per il giudice. «Signor Vega, riconosce questo documento?» Gliene passo una copia. Lui estrae di tasca un paio di occhiali e legge. «Mi sembra familiare», dice. «Già. È sua la firma sul fondo dell'ultima pagina?» Lui guarda. «Sì», ammette. «Non è l'accordo sulla divisione dei beni coniugali che ha firmato insieme all'imputata, Laurel Vega, all'epoca del vostro divorzio?» E la luce fu. «Adesso ricordo», esclama Jack. «C'era una pistola. Tanto tempo fa. Me n'ero dimenticato.» «Vuole guardare a pagina dodici, voce ottantasette?» «Le ho già detto che mi ricordo della pistola.» «Benissimo. Adesso cerchi quella voce.» Con gli occhi ribollenti d'ira, Jack sfoglia le pagine e trova. «Può leggere quella voce?» «Benissimo, per quello che vale... 'Al Ricorrente, una pistola semiautomatica da nove millimetri, cromata, in una custodia di noce.' Visto? Glielo avevo già detto.» «Però non ne ha informato la polizia, la notte dell'omicidio. Perché?» «Per l'ovvia ragione che me n'ero dimenticato.» «Che fine ha fatto la pistola, signor Vega?» «Io, ah... Non lo so. Non ricordo.» Sono convinto che non sia l'arma del delitto. Jack può essere un cretino, ma non un demente. Non userebbe mai una pistola che si possa far risalire a lui con tanta facilità, soprattutto quando era così semplice per lui trovare un'altra arma e qualcun altro che premesse il grilletto. La cosa, però, serve a dare alla giuria un'immagine molto precisa della memoria selettiva di Jack. «Quindi, ciò che ha riferito alla polizia la notte del delitto non era vero. Non è dunque vero che lei non abbia mai posseduto una pistola.» «Può succedere di dimenticare qualcosa», protesta lui. «Come faccio a ricordare tutto ciò che ho posseduto in vita mia?» «Ha spesso problemi di memoria?» chiedo. Una domanda pungente, ma non soggetta a obiezioni. Lui non risponde. Mi scocca un'occhiata. Qualcosa che potrebbe mutare in pietra anime più timide. «D'accordo. Allora mi permetta di farle un'altra domanda», dico. «Lei ritiene che l'elenco di voci di questo documento, l'accordo sulla divisione
dei beni coniugali firmato da lei e dall'imputata, sia un quadro preciso delle proprietà materiali, sue e dell'imputata? Più preciso della sua memoria?» «Di solito si mettono le cose per iscritto proprio per questo motivo, no?» sfotte lui. «Perché tendiamo a dimenticare.» Mette tutta l'enfasi possibile sull'ultima parola, come se la cosa risultasse ovvia a qualsiasi idiota. «Esattamente», confermo. Jack tenta di restituirmi il documento. «Non ancora», lo blocco. «Vuole andare a pagina quattro, voce ventisei?» Lui si mette a sfogliare. «Vuole leggere ad alta voce alla Corte?» Lui legge, poi mi guarda. Ha l'espressione di un cerbiatto che sta per essere travolto da un treno. «Legga», dico. Il mio tono è più secco. «Al Convenuto...» Smette di leggere, assorbe in silenzio l'informazione. «Molto bene. Col permesso della Corte, leggerò io. 'Al Convenuto, un tappeto da bagno bianco intrecciato a mano, con disegni floreali geometrici, con etichetta by Gerri.'» «Ma non lo ha avuto lei», s'inalbera Jack. «L'ho avuto io.» Si è quasi alzato dalla sedia. «Lei ha firmato l'accordo?» «Sì.» «E chi era il Convenuto nel vostro divorzio?» chiedo. È stupefatto. Si sta chiedendo come possa essere successo. La pistola è un conto, il tappetino un altro. Non risponde alla domanda. «Lei era il Ricorrente. Non è un fatto che il tappeto da bagno con l'etichetta by Gerri apparteneva alla sua ex moglie, Laurel Vega? Non è un fatto, signor Vega, che esso è entrato in possesso di Laurel Vega come parte dell'accordo sulla divisione dei beni coniugali dopo il vostro divorzio?» Robuste scrollate di spalle. Jack scruta le parole stampate sul foglio. Forse pensa che, se le studierà abbastanza a lungo, scompariranno. Mi sposto al carrello delle prove e prendo il tappeto. Mi avvicino al banco dei testimoni, giro il tappeto, e lo sbatto sotto il naso di Jack, a un palmo dai suoi occhi. «Riferisca alla giuria che cosa c'è scritto sull'etichetta», lo invito. «La legga alla giuria.» Quando torna a guardarmi, gli occhiali gli sono scesi a metà del naso.
«Che cosa c'è scritto?» «By Gerri», dice Jack. «Grazie.» Lascio il tappeto di fronte a lui sulla balaustra, appollaiato come un uccello del malaugurio. Poi mi volto. La Cassidy mi sta guardando, colma di meraviglia. Si sta chiedendo com'è possibile che sia loro sfuggito un particolare del genere. Ma non hanno colpa. Non lo avrei mai scoperto nemmeno io, se non mi fossi ricordato delle esibizioni di Jack con la pistola, e se quel giorno, in carcere, Laurel non mi avesse detto che Jack aveva fatto un casino del diavolo per l'arma, pretendendo che nell'accordo sulla divisione dei beni risultasse chiara la sua proprietà della pistola. Quando ho cominciato a leggere, una voce ha tirato l'altra. Chissà che cosa sta pensando Jack in questo momento... Probabilmente riflette su quelle cose che facciamo senza pensarci e che poi ci mordono le chiappe. Adesso, sull'ultima prova concreta che collega Laurel all'omicidio di Melanie, è sospesa una grossa nube. E anche se Jack continua a insistere che il tappeto si trovava a casa sua la sera del delitto, non riesce a spiegare come mai venga attribuito a Laurel nell'accordo sulla divisione dei beni coniugali. Oggi pomeriggio, per celebrare, Harry si beve il pranzo: due Manhattan e un Long Island Tea. Ha il naso più rosso di una ciliegia quando rientriamo in tribunale, dove un corriere mi aspetta con una grossa scatola. Dana ha tenuto fede alla parola. Ha consegnato Jack nelle nostre braccia non con un bacio, bensì con un calcio. Ci ritiriamo in una delle stanze sul retro dell'aula per studiare in privato il materiale. Oro puro. Copie autenticate dell'incriminazione da parte del gran giurì e della sentenza di condanna; l'ammissione di colpa di Jack, per diverse accuse di corruzione politica, indirizzata alla Corte Federale. Dana ha addirittura fornito copie per Woodruff e per l'accusa. In una nota, ci avverte che la stampa sarà informata della condanna alle due di oggi pomeriggio. Jack può aspettarsi una bella folla, quando uscirà da qui. Microfoni sotto il naso, e la luce dei riflettori puntata in faccia. Oggi pomeriggio, Harry è pronto a presentare un'ingiunzione per acquisire gli estratti conto - privati e di lavoro - di Jack Vega. Un'agenzia per il recapito delle ingiunzioni aspetta soltanto la sua telefonata. Se Jack, come Dana sospetta, ha assoldato qualcuno per l'omicidio, dovrebbe esserci qualche grosso prelievo bancario nel periodo immediatamente antecedente
all'omicidio di Melanie, e forse anche subito dopo. In fatto di soldi, Vega è un uomo prudente. Sceglierebbe sempre un pagamento rateale. Nel pomeriggio comincio a lavorare su un tema che diventerà centrale per ia nostra linea difensiva: l'idea che Jack abbia tutti i motivi di questo mondo per far incriminare Laurel. Gli chiedo se non lo rattristi vedere la sua ex moglie, la madre dei suoi figli, al tavolo della difesa, imputata di omicidio. Nei termini ben temperati dello statista, lui parla di «una tragedia». Diamo una rispolverata alla testimonianza di Lama, il quale ha riferito che, la notte dell'omicidio, è stato Jack a puntare l'indice su Laurel, senza la minima prova concreta. «Mi hanno chiesto se, a mio parere, qualcuno voleva uccidere mia moglie», dice lui. «E Laurel aveva fatto minacce di morte. Che dovevo dire?» Jack ha trascorso l'intervallo per il pranzo a farsi prendere a calci in culo dalla Cassidy. Adesso deve comportarsi meglio, e lo sa. «Quando le è stata concessa la custodia legale dei figli?» chiedo. Lui mi comunica una data. «Allora è stato dopo l'arresto della madre per omicidio che lei è riuscito a ottenere quello che voleva?» «Lei non poteva più prendersi cura dei figli. Che altro potevo fare?» «La madre non poteva prendersi cura dei figli perché era in carcere, dov'era finita soprattutto grazie alle sue accuse.» «L'avevo accusata di avere minacciato di morte Melanie», precisa Jack. «E aveva asserito che il tappeto da bagno trovato in possesso di Laurel venisse da casa sua.» Non è una domanda, ma Jack risponde lo stesso. «Non era un'asserzione. Era la verità», ribadisce. «Basata esclusivamente sulla sua parola», gli ricordo. «E resta il fatto che lei ha avuto i figli, e Laurel Vega è stata incarcerata. Suppongo sia un modo come un altro per concludere un'aspra battaglia legale per la custodia.» «Con questo che cosa vorrebbe dire?» chiede lui. «Secondo lei, che cosa voglio dire?» Meglio dalla sua bocca che dalla mia. «Se sta cercando di sottintendere che io abbia lanciato accuse false, si sbaglia. Anzi, peggio: lei mente.» «Allora lei non farebbe mai una cosa simile? Non ingannerebbe mai deliberatamente le autorità che indagano su un caso?» «No», dichiara lui. E prende un'aria indignata. Il devoto e affidabile fun-
zionario pubblico. «Si è semplicemente dimenticato della pistola?» «È ciò che ho detto.» «Parliamo della gravidanza di sua moglie. In una precedente testimonianza, lei ha riferito alla Corte che è stata sua moglie a informarla. È esatto?» Jack mi guarda. «Per quanto posso ricordare.» Di nuovo, una memoria difettosa. «Per quanto può ricordare?» Sorrido a trecentosessanta gradi e mi giro verso la giuria. «Stiamo parlando di sua moglie che le dice di aspettare un figlio da lei. Dovrebbe ricordarsene molto bene, no?» «Sì», dice. «Certo che ricordo.» «E quando è successo, approssimativamente?» Lui riflette un attimo. «L'estate scorsa. Un giorno o l'altro.» «Non può essere più preciso?» «Credo fosse agosto o settembre. Non so di preciso.» «E dove glielo ha detto sua moglie? Che cosa stava facendo lei?» «Non ricordo. Penso sia stato in soggiorno. Io probabilmente stavo leggendo.» «Non riesce a ricordare che cosa stava facendo? Una notizia come questa dovrebbe averla colpita molto», mi meraviglio. Jack mi guarda. Se al momento avesse qualcosa in mano, la lancerebbe contro di me. «Signor Vega, ricorda di aver ricevuto, il dieci ottobre, una telefonata dal dottor John Phillips, il ginecologo di sua moglie, mentre quest'ultima era fuori casa?» Un'occhiata guardinga, un guizzare di palpebre. Come faccio a sapere queste cose? «Ricorda di essere stato informato in quell'occasione dal dottor Phillips della gravidanza di Melanie?» Nel chiederlo, stringo in mano e scorro con gli occhi un prospetto dei movimenti telefonici nella nostra zona, un modulo con l'intestazione a caratteri rossi. A Jack non può sfuggire. Quello che non sa è che si tratta del prospetto delle telefonate di casa mia, non di casa sua, o dello studio del dottor Phillips. Riflette un attimo. Asciuga una goccia di sudore dal labbro superiore. «Può darsi», borbotta. «Può darsi che lei abbia parlato col dottor Phillips?»
«Sì.» «Ed è stato lui a informarla della gravidanza, vero?» Il prospetto della compagnia telefonica può indicare che c'è stata una chiamata. Però non può svelarmi il contenuto della conversazione. O ha parlato il medico, oppure io sono in possesso d'informazioni riservate. Jack sa che i federali tenevano sotto controllo il suo telefono. In entrambe le ipotesi, mentire è un rischio. «Lei ha ficcato il naso in molte questioni personali», ribatte. «Vostro onore, le chiedo di ordinare al teste di rispondere alla domanda.» Prima che Woodruff possa intervenire, Jack azzarda un: «È possibile». «È stato il medico a parlarle della gravidanza, è esatto?» «Il medico, Melanie... Che differenza fa?» Non ha ancora capito quale sia la mia direzione di marcia. «Glielo chiederò un'altra volta. Che cosa le ha detto il medico?» «Ha parlato di un test», risponde lui. «Un test di gravidanza?» «Sì.» «E che cosa le ha detto?» «Che il test era positivo.» «Il che significa?» «Che Melanie era incinta.» «Quindi è accaduto il dieci ottobre?» «Se lo dice lei... Non ricordo la data.» «Vuole dare un'occhiata alla documentazione che ci ha fornito il dottor Phillips?» chiedo. «Ha annotato la conversazione telefonica.» Mi giro verso il tavolo per prendere i documenti. Lo specialista ce li ha consegnati dopo la nostra ingiunzione. «Accetto la sua parola», mi ferma Jack. «Molto bene. Allora le chiedo... Com'è possibile che Melanie le abbia rivelato di essere incinta in agosto o in settembre, se ha fatto i test solo in ottobre, e i risultati le sono stati comunicati il dieci ottobre?» Jack si esibisce in una quantità di smorfie, quasi tutte di dolore. Potrebbe avere un milione di risposte all'interrogativo: le donne intuiscono queste cose già prima dei test. Melanie ha fatto gli esami solo quando era già avanti con la gravidanza. Si è sbagliato nel riferire la data della rivelazione. Ma non dice nessuna di queste cose. Invece, fa marcia indietro e investe la sua stessa bugia.
«Credevo fosse stata Melanie a dirmelo per prima. Forse mi sono sbagliato... Forse l'ho saputo prima dal medico. Non capisco la differenza.» Il problema è che Jack non può sapere di preciso che cosa mi abbia detto il medico, ammesso che mi abbia detto qualcosa. Vega non ricorda se, all'epoca della telefonata, abbia ammesso di non avere mai sentito parlare in precedenza di una gravidanza. Potrei mostrargli la trascrizione della conversazione, per rassicurarlo. Come ha detto Dana: «Si sarebbe sentito cadere uno spillo», ma Jack non ha aperto bocca. Però è troppo tardi. Il guaio è che quando spargi in giro troppe bugie, dimentichi quale sia la verità. Vega, molto semplicemente, attribuisce anche questo a difetti di memoria. Solo che questa volta tra i giurati c'è più di una fronte corrugata. «Quindi, da quanto riesce a ricordare, lei non ha saputo per la prima volta del bambino da Melanie, bensì da un medico, ed è accaduto circa tre settimane prima della morte di sua moglie?» «Non so.» L'estremo rifugio di Jack quando si trova alle corde. «Ha mai parlato con sua moglie della gravidanza?» «Certo che ne abbiamo parlato. E che diavolo», sbotta. «Che crede? Pensa che non avremmo discusso di una cosa del genere?» «Non so. Ne avete parlato?» «Senza dubbio», ribadisce Jack. «Quando? Dove?» «Diverse volte... In un sacco di posti. Eravamo molto felici del figlio.» «Lei voleva questo figlio?» «Nel modo più assoluto.» Jack è assoluto su tutto, tranne che sui particolari. «Una bella impresa, eh?» «Che intende dire?» «Suo figlio deve essere stato uno dei miracoli della medicina moderna.» «Cioè?» «Non è vero, signor Vega, che dodici anni fa lei si è sottoposto a una piccola operazione chirurgica, eseguita nello studio del suo medico? Una vasectomia?» Jack inghiotte di colpo il pomo d'Adamo. La sua gola ha tre o quattro sussulti. «Ecchediavolo...» «Come conseguenza dell'operazione, non è un fatto che lei non era in grado di generare un figlio durante il suo matrimonio con la vittima, Melanie Vega?» «Di che sta parlando?»
«Non è un fatto, signor Vega, che il bambino morto nel grembo di sua moglie era figlio di un altro uomo?» «No», protesta lui. «Non è vero.» «Devo prendere la sua cartella clinica? È qui.» «No. Mi sono sottoposto alla vasectomia... Ma il figlio era mio.» «Com'è possibile?» «Non so. Non sono un medico. Però a volte succede. Ho pensato che non abbia funzionato.» «Ha pensato che non abbia funzionato?» È la chiave della nostra linea difensiva, il punto focale: il fatto che il figlio non fosse di Jack, che lui lo sapesse sin dall'inizio, e che adesso stia mentendo spudoratamente alla giuria. Il movente per un omicidio. «Signor Vega, non è un fatto che lei non ha mai parlato di questo figlio con sua moglie? Che Melanie le ha tenuto nascosta la gravidanza? Che è morta convinta che lei non ne sapesse nulla? Non è un fatto che Melanie ha tentato di tenerle nascosta la gravidanza perché aveva una relazione con un altro uomo, e invece lei lo ha scoperto?» «Non è vero», dice Jack. «Melanie non sapeva della telefonata del suo medico, non è vero? La telefonata che lei ha intercettato.» «Non so.» «Però lei non gliene ha parlato, vero?» «No. Me ne sono dimenticato.» Il solito ritornello. «Non è un fatto che sua moglie aveva un amante?» Jack mi fissa dal banco dei testimoni, senza parole. «Non è vero che aveva un amante e che lei lo ha scoperto? Chi è stato, signor Vega? Chi è stato a mettere incinta sua moglie? Chi?» dico. «Chi...?» «Basta!» La parola viene urlata alle mie spalle, nella mia direzione. Una voce femminile angosciata, straziante. Mi volto. È Laurel, in piedi al nostro tavolo, con le lacrime che le solcano il volto. «Basta», ripete. Harry le mette una mano sul braccio, cerca di convincerla a sedere. È stupefatto. Laurel deve essere esplosa senza il minimo preavviso. Persino Woodruff è colto alla sprovvista. Giocherella col martelletto, ma non lo usa. Una matrona spunta dietro Laurel, le mette le mani sulle spalle, le ordina tacitamente di sedere. Agli occhi della giuria, questo è il chiaro segno che
la mia cliente non ha libertà di movimento. «Basta parlare del bambino», mormora Laurel. Poi si affloscia sulla sedia. La giuria è ipnotizzata. Tutti gli occhi sono puntati su Laurel. Come in sogno, dico: «Vostro onore, posso conferire un attimo con la mia cliente?» Ci trasferiamo nei pressi delle celle del tribunale, e io comunico a Laurel che così non va bene. La sua condotta ha inserito nella nostra linea un elemento completamente nuovo. Non ho modo di sapere che cosa ne pensi la giuria: non so davvero prevedere le reazione dei giurati di fronte a una simile esplosione emotiva. L'avranno vista come un'ammissione di colpevolezza o come semplice pietà nei confronti di Jack? Lei mi spiega che non era più in grado di sopportare l'idea del bambino morto, il mio continuo insistere con domande legate alla morte e all'origine del figlio di Melanie. «Ne parlano tutti come fosse una cosa. Un evento e nulla di più. Non lo era, invece. Era un essere umano che viveva e respirava. Una creaturina alla quale è stata rubata la vita prima che potesse nascere.» Laurel, la buona madre. Per lei, il fatto che un bambino innocente sia stato ucciso è l'aspetto più sconvolgente del caso. Si scusa, ma dice che non è capace di sopportare il fatto che si discuta della morte del bambino. Le prometto che mi terrò alla larga dalla questione. Alzo due dita della destra, alla boy scout. Il punto ormai è stato stabilito. È il massimo che posso fare, date le sue esplosive reazioni all'argomento. Un altro scoppio emotivo, e sarà impossibile prevedere che fine farà la nostra strategia processuale. «Non parlerò più di questo bambino fino all'arringa finale», le prometto. «A quel punto, dovrò parlarne. Ma lo farò in modo veloce e discreto.» Lei annuisce. Pare che capisca. «Stai bene?» le chiedo. «Sì.» La prendo per il braccio e rientriamo in aula. Quando arriviamo, la Cassidy guarda Laurel con aria maligna. Lama addirittura sorride. Laurel ha regalato ai due qualcosa che loro non sono riusciti a estrarre dal cilindro della linea d'accusa: l'ombra del sospetto, il suggerimento che Laurel sia tormentata dalla propria coscienza, che non sappia affrontare le impreviste
conseguenze del suo atto di violenza. Dall'espressione di Morgan intuisco che sentiremo ancora parlare del bambino non nato. Rabbrividisco al pensiero di ciò che potrebbe accadere se mi vedessi costretto a far testimoniare Laurel. Woodruff riappare. L'ufficiale giudiziario chiede ordine, e Jack torna al banco dei testimoni. Il giudice mi dice di procedere. «Signor Vega, da quanto tempo è membro del corpo legislativo dello Stato?» «E questo che c'entra?» chiede lui. «Si limiti a rispondere alla domanda.» «Da dodici anni.» «Non intende ripresentarsi alle prossime elezioni, vero?» «No. Vado in pensione.» Guardo Harry, e lui toglie il coperchio alla scatola. «In pensione?» ripeto. «Sì.» «A volte li ho sentiti chiamare 'country club', ma non ho mai sentito definire 'pensionati' la gente che ci vive», commento. Jack mi guarda, in silenzio. Dalla sua espressione, però, capisco che al momento è l'unica persona presente in aula a sapere di che cosa sto parlando. Per la prima volta in questa giornata, noi due siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Il suo volto è quello di un idolo di pietra colpito dalla folgore. Adesso sta fissando la scatola. Posso solo immaginare che cosa gli passi nella mente. Per Jack, questa è un'esperienza ai confini della realtà. «Obiezione.» Morgan ha lasciato la sedia. È in procinto di mettere il piede su una mina. «La questione dei piani del signor Vega per il futuro è irrilevante. Se l'avvocato della difesa vuole rivolgere una domanda al teste, ebbene, la faccia, e smetta d'infastidirlo con commenti inutili.» «Allora la farò», concordo. «Signor Vega, non è un fatto che lei ha sottoscritto un'ammissione di colpevolezza per numerose violazioni di leggi federali sulla corruzione politica?» C'è un sussulto, un'ondata di movimento nei ranghi della stampa, un ansito perfettamente udibile del pubblico. Il tipo di reazione che si produce in aula a ogni morte di papa. Un reporter in seconda fila esplode in un: «Merda!» Woodruff lo sente, ma ignora il commento. Un tizio vicino al corridoio centrale si volta, alza un dito e sventola la mano, come per dare il segnale di accendere i motori. Dietro il vetro della porta dell'aula, vedo le telecamere, i riflettori che si accendono: il viaggetto in compagnia dei me-
dia che Jack dovrà fare è incominciato. Non ha ancora risposto alla mia domanda. «Io...» ansima la Cassidy, poi s'interrompe. Sussurri accalorati all'orecchio di Lama. Jimmy è tutto una scrollata di spalle, come un bambolotto impagliato preso a calci in culo troppe volte. Non ha la più pallida idea di che diavolo stia succedendo. «Vostro onore, obietto a tale... tale linea d'interrogatorio. Non... non siamo stati avvertiti di nulla di tutto questo.» «Però è vero, no?» incalzo, continuando a mazzolare Vega. Woodruff alza una mano. «Il testimone non risponda. C'è un'obiezione in sospeso.» «Vostro onore, abbiamo copie autenticate sia dell'atto d'accusa sia della sentenza di condanna. Non siamo responsabili della mancanza d'informazioni dell'accusa in quest'area. Non siamo tenuti a dividere con loro i risultati delle nostre indagini. Vorrei sottolineare che il signor Vega è un teste dello Stato. Non lo abbiamo convocato noi. Quelle condanne hanno un peso rilevante per la sua attendibilità di testimone. Se lui ha scelto di non rivelare all'accusa la propria situazione, è un problema loro. Dovrebbero prendersela con lui.» «Ma, vostro onore...» tenta la Cassidy. «Un punto a suo favore, avvocato Madriani», salomonizza Woodruff. «Avvocato Cassidy, è stata lei a convocare il teste.» «Ma la condanna non era di dominio pubblico.» «Forse per prima cosa dovremmo appurare se c'è stata una condanna.» Woodruff chiede i documenti, per esaminarli. Ne porto una copia allo scanno, e il giudice li studia. Un'altra copia va alla Cassidy, che si siede subito e comincia a sfogliarli con Lama. Le loro espressioni non sono proprio giulive. Nel frattempo, Jack, al banco dei testimoni, assume varie sfumature di grigio. Woodruff si consulta con lui un paio di volte, sporgendosi dall'orlo dello scanno, e riceve sobri cenni d'assenso. «Sembrano autentici», dichiara Woodruff. «Copie autenticate. Permetto alla difesa di esplorare la questione, salvo successive istanze di cancellazione.» La Cassidy continua a protestare. «Siamo stati colpiti alle spalle dalle autorità federali», dice a Woodruff. A un certo punto fa il nome di Dana, sputandolo fra i denti come una parolaccia. Tutto inutile. Woodruff la informa di avere preso nota delle sue obiezio-
ni e le ordina di sedersi. Passo una copia dei documenti a Jack, l'unica parte in causa che non li abbia ancora visti, e gli chiedo se non riflettano con la massima precisione le condanne che gli sono state comminate dalla Corte Federale. Lui comincia a gemere sul loro accordo. «Non avrebbero dovuto divulgare niente di tutto questo prima della fine del processo», si lamenta. «Avevamo un accordo», informa Woodruff. M'ignora, come se io non esistessi. Fa appello alla toga nera. «Vada a lamentarsi con la Corte Federale», taglia corto Woodruff. Jack viene di nuovo scaraventato nel pozzo buio con me. «Signor Vega, glielo chiedo un'altra volta. Questi documenti riflettono con la massima precisione le condanne che le sono state comminate dalla Corte Federale, dopo le sue svariate ammissioni di colpa per reati maggiori?» «Suppongo di sì», mormora lui. «Non sono un avvocato.» Come con le statue in ferro di Lenin, si può sentire il tonfo, il rumore del metallo che precipita a terra. Jack, il probo politico, è appena volato giù dal piedistallo. Un'epidemia di sussurri nelle prime file. Matite che hanno bisogno di una punta nuova. Un paio di tizi della gang elettronica escono per mettersi in posa e riferire le novità alle telecamere. Il colpo finale. Cerco nel pacco di documenti ed estraggo un fascio di fogli pinzati, quattro in tutto. È il testo del patteggiamento preparato dagli avvocati di Jack. Richiamo l'attenzione della Corte sul documento, e un minuto più tardi cantiamo tutti con lo stesso spartito. Chiedo a Jack di leggerlo. Quando ha concluso, parto all'attacco. «Sono stati i suoi avvocati a redigere questo documento?» chiedo. «Sì.» «Allora lei ha sottoposto questa tesi alla Corte Federale. Siccome sua moglie è morta, lei ha presentato un appello per ottenere la libertà vigilata. Niente carcere per le condanne inflitte dalla Corte Federale... È esatto?» «I ragazzi avevano bisogno di un padre», piagnucola Jack. «Lei era in carcere.» Sta indicando Laurel. «Sì, soprattutto grazie alle sue accuse», dico. «Qualcuno potrebbe suggerire che avrebbe dovuto esserci lei, al posto dell'imputata.» Alludo al carcere. «Non ho commesso l'omicidio», si ribella lui. «E nemmeno la mia cliente. E lei lo sa.» Jack non ribatte. La migliore risposta che potessi sperare.
«Resta il fatto», proseguo, «che, mentre sua moglie era morta e la sua ex moglie era in carcere in attesa di processo per omicidio, l'unico che sembri avere beneficiato di questa triste situazione è lei. Non è così?» «In che modo ne ho beneficiato?» chiede Jack. «Sua moglie aveva un amante. Lei era geloso. Melanie è rimasta incinta. Così lei l'ha uccisa, ha incastrato la sua ex moglie, e ha sfruttato la tragedia per mitigare la pena che le è stata inflitta per svariati reati. Magistrale», commento. «Davvero brillante. Ha quasi funzionato.» «Stronzate», ribatte lui. «Quello che ci si può aspettare da chi è sopravvissuto alla Camera dei rappresentanti per due decenni grazie al proprio cervello.» Il mio tono è quello di chi parla di un covo di ladri, di un terreno di coltura per il crimine organizzato, idea che Jack ha appena confermato con la propria condotta. Il pubblico sospetta già, e noi due ne abbiamo la certezza, che ci sia nell'aria una processione di ulteriori incriminazioni. Se la fortuna ci assiste, tutto questo uscirà allo scoperto nel corso dei nostri interrogatori. Jack ripete il diniego. Il suo arnese del mestiere. «Stronzate. Sono stronzate.» Woodruff non protesta. Si rende conto che il testimone non riesce a trovare le parole, che per autodifesa ha diritto alla propria miglior forma d'espressione. Il suo linguaggio ha un certo effetto sulla giuria, e lentamente Jack se ne accorge. «Ho perso mia moglie.» Si tira su sulla sedia, ritrova gli ultimi brandelli di dignità, e mi fissa diritto negli occhi. «E lei ha trovato il filone d'oro in queste circostanze avverse, non è così?» Sventolo il documento steso dai suoi avvocati, in modo che lui lo possa vedere. È una domanda che non richiede risposta. La risposta sta negli occhi guardinghi di Jack che scrutano i giornalisti, sapendo benissimo che cosa lo aspetta. Un caso classico: Jack si è scavato il pozzo da solo con le comode falle della propria memoria. Ha cominciato con la pistola, un particolare di scarsa importanza, una cosa che avrebbe potuto rivelare senza conseguenze alla polizia. Ma, per Jack, mentire era più avventuroso. I piaceri dell'inganno sono stati la base della maggior parte della sua vita. Il primo scivolone lo ha portato al secondo, al tappetino da bagno e al suo vero proprietario. Se Jack fosse stato onesto sulla pistola e ne avesse informato la polizia, la sua parola avrebbe avuto più peso, contro i termini molto espliciti dell'accordo sulla divisione dei beni coniugali.
Invece, adesso si trova intorno al collo un brutto ritornello: nulla di ciò che dice può essere creduto. Al banco dei testimoni siede un uomo che non conosce la verità. Il suo ritratto è stato schizzato e sistemato nella traballante cornice della corruzione politica. Un'immagine che sarebbe al proprio posto solo in una galleria di ritratti di delinquenti. 28. Stamattina sono in ufficio. Mentre sto controllando alcuni particolari dell'ultimo minuto, l'intercom ronza. «Sì?» «C'è tuo nipote. Vuole vederti.» «Chi?» «Danny Vega», spiega la receptionist. «Qui?» «Sì. Devo farlo passare?» Lo shock della mia vita. «Okay», dico. Un minuto più tardi, scorgo ombre sul vetro opaco della porta, e poi Danny entra nel mio ufficio. Ha perso qualche chilo, e da un po' di giorni non si rade la peluria chiara che gli orna il mento. I suoi vestiti dicono che ha viaggiato: camicia stazzonata, jeans luridi con frange all'altezza delle ginocchia, scarpe da ginnastica scure che sembrano stivali da combattimento, e niente calzini. «Zio Paul», esclama. È sempre così, con Danny. Mi chiamerà «zio Paul» con lo stesso tono anche quando avrà trentacinque anni e io andrò in giro con le stampelle. Un sorriso timido. Mi tende la destra. «Che ci fai qui?» Sono in piedi dietro la scrivania, a stringergli la mano. Non voglio essere brusco, ma il tempismo di Danny ha sempre lasciato a desiderare. Era al sicuro a mezzo continente da qui, e né sua madre né io, in questo momento del processo, abbiamo bisogno di un elemento disturbante come la sua presenza. «Ero preoccupato per la mamma», spiega lui. «Ho pensato che potesse farle comodo un po' d'appoggio.» «Dov'è Julie?» chiedo. «Sta bene. È là.» Rieccoli, gli indovinelli sulla esatta località geografica. «Sono venuto in autobus», precisa. «Maggie lo sa. Non potevo più restare là. Dovevo vedere come se la cava la mamma.» «La mamma sta bene. Ma ho idea che resterà molto sconvolta, quando
saprà che tu sei qui.» «Già. Be'...» Danny scrolla le spalle, come per dire che sua madre ha chiesto un po' troppo. «Ho visto il giornale del mattino», mormora. «L'articolo su papà.» Non poteva sfuggirgli. Tutti i quotidiani del mattino di questo Stato hanno la notizia in prima pagina: MEMBRO DEL CORPO LEGISLATIVO CONDANNATO PER CORRUZIONE. Per quanto Danny non vada d'accordo col padre, la caduta in disgrazia di Jack non gli fa piacere. Mi chiede se è proprio vero. Gli rispondo di sì, e Danny mi stende con le sue intuizioni. «Probabilmente ho sempre saputo che un giorno o l'altro sarebbe finito nei guai», dice. «Che cosa gli succederà?» Scuoto la testa. Non ho idea. «Andrà in galera anche lui?» «Non lo so. Sarà il giudice a decidere.» «Però questo è stato utile alla mamma?» chiede. «Le informazioni su papà, intendo.» Nel grande mercato della vita, Danny riuscirà a sopportare la condanna di Jack, se servirà a Laurel. «L'ha aiutata», confermo. Come posso rivelargli che sto cercando di mettere il marchio dell'assassino sulla fronte di suo padre? «Al momento, le cose stanno andando bene per tua madre.» A questo punto mi fermo e cambio argomento prima che lui possa sondare in profondità. «Non puoi restare qui», gli spiego. «Perché?» «La Corte ha emesso un'ordinanza per la tua custodia.» «Ho fatto qualcosa di sbagliato?» «No, ma è tuo padre ad avere la custodia dei figli.» Danny pensava che l'articolo sul giornale avesse cambiato tutto. Gli assicuro che così non è. Se suo padre verrà condannato al carcere, e la madre dovrà restare in prigione, Danny e Julie verranno affidati alla tutela della Corte. Se ciò dovesse accadere, cercherò di ottenere la custodia. «Resterò nell'appartamento della mamma», m'informa lui. «Nessuno mi cercherà lì.» A quanto pare, ha già previsto tutto. Che cosa posso ribattere? «Allora vacci subito. E fatti un bagno. Ti farò mandare qualcosa da mangiare.» Harry conosce una donna che può farci questo piacere. «Hai abiti puliti, a casa di tua madre?» Annuisce. «Però voglio sapere tutto quello che succede... nel processo alla mamma, voglio dire.»
«Adesso non ho tempo. Ti telefono. Possiamo parlare più tardi. Stasera vieni a cena da me. Così puoi riprenderti la Vespa.» «L'ho già presa», mi spiega lui. «Mi sono fermato a casa tua prima di venire qui. Ti dispiace?» «E perché dovrebbe? Vai a lavarti. Riposati. Hai l'aria stanca.» Il ragazzo ha cerchi scuri intorno agli occhi. «Sicuro», annuisce lui. Gira sui tacchi per uscire. «Danny... Non mettere piede vicino alla prigione.» Come un veggente, intuisco che cosa gli passa per la testa. Una visita a sua madre. «Ti beccano appena entri... E torneresti a vivere con tuo padre.» Un lampo nei suoi occhi, l'ammissione che probabilmente voleva andare lì. Annuisce, ed è già scomparso. La Cassidy non può chiudere sulla nota stonata della testimonianza di Jack, sulla rivelazione raccapricciante delle condanne comminate dai federali. Oggi Dana sta fuori dell'aula. Aspetta di vedere che cosa succederà. L'ho inserita nel mio elenco di testimoni, e quindi non può entrare. Penso che la sua vicinanza all'aula non ci sia d'aiuto, e gliel'ho detto. La Cassidy, entrando, le ha lanciato occhiate tali da incenerirla. Morgan sa da dove sono arrivate le informazioni che hanno distrutto Jack, e Dana, con la sua semplice presenza, sta versando sale nella ferita aperta. È la risposta, credo, ai tentativi di Morgan d'interferire con le aspirazioni di Dana allo scanno, la risposta sia agli sforzi della Cassidy di far rivoltare contro Dana il Queen's Bench sia alla sparata di Lama che ha cercato di attribuire ai federali la fuga di notizie sulla bomba all'ufficio postale. Tutti questi sforzi sono andati a vuoto, ma Dana non è il tipo che dimentica. Sin dall'inizio mi sono chiesto quanto dell'aiuto che Dana ha dato alla nostra linea difensiva sia stato ispirato dalla sua convinzione dell'innocenza di Laurel, dal suo affetto per me, e quanto invece dalla crescente ostilità nei confronti della Cassidy. In quanto a Jack, di lui oggi non c'è traccia. Vega sta sfuggendo all'orda dei giornalisti che, a quanto mi dicono, sono accampati come vandali davanti al suo condominio. Ho visioni di torce ardenti che gocciolano sego nella notte, di gente che chiede a Jack di uscire a parlare. Adesso che la sua ammissione di colpa è di dominio pubblico, la sentenza definitiva del processo a Jack è stata fissata tra una settimana a partire da oggi. Harry lo dà vincente per un po' di tempo in galera. Ai giudici federali, dice Harry, non
piace essere strumentalizzati, e gli sforzi di Vega per ottenere comprensione dopo l'omicidio di Melanie puzzano di strumentalizzazione. Anche se è indiscutibile che la testimonianza di Jack avrebbe dovuto chiudere l'esposizione dell'accusa, stamattina, dopo l'ingresso in aula del giudice, la Cassidy annuncia a Woodruff che intende chiamare un ultimo testimone. Chiede alla Corte il permesso di richiamare Simon Angelo, il coroner della contea. «Obiezioni?» s'informa Woodruff. E guarda me. Conferisco con Harry, che mi regala una delle sue celebri scrollate di spalle. È certo che vogliano riempire qualche vuoto, dare qualche ultimo ritocco per lasciare l'illusione di concludere su una nota alta. Angelo è un testimone sicuro, qualcuno che Morgan può controllare. Non recherà mai danni alla loro linea. La prospettiva m'innervosisce. Se la Cassidy vuole qualcosa di più da Angelo, ci sono solo due possibilità: o ha dimenticato di affrontare qualche argomento con lui la prima volta oppure questa testimonianza deve chiudere qualche grossa falla che abbiamo aperto nella loro linea d'accusa. Sollevo una discussione. «Vostro onore, se lo Stato vuole richiamare il teste, dovrebbe farlo in fase di confutazione, dopo che noi avremo esposto la nostra tesi.» La Cassidy chiede un po' di spazio di manovra, un minimo di equità dopo la sorpresa della condanna di Jack. Woodruff è in vena di comprensione. Chiede a Morgan quanto richiederà la testimonianza di Angelo. «Dieci minuti», risponde lei. «Sono incline a concederla», m'informa Woodruff, e a cenni invita la Cassidy a chiamare il testimone. Angelo si accomoda. Il cancelliere gli ricorda che è ancora sotto giuramento. È quando Morgan ricomincia da capo a qualificarlo come esperto che qualche brivido mi corre su e giù per la spina dorsale. Non lo fa all'interno dell'ampio campo della medicina legale, bensì nell'ambito molto più ristretto della sierologia, dello studio del sangue e del DNA. I miei campanelli d'allarme si mettono a squillare. È chiaro che questa testimonianza ha un suo preciso senso; e, a dispetto delle ipotesi di Harry, non si tratta di qualche ritocco alla facciata. «Dottor Angelo, può riferire alla Corte se, come parte del suo esame medico per questo caso, ha eseguito test del sangue sulle vittime, e in par-
ticolare sul bambino morto, il feto non ancora nato?» All'accenno al bambino, Laurel sussulta. Un brivido palpabile le percorre il corpo. Le prendo una mano e la seppellisco sotto il tavolo. Non le ho detto della visita di Danny in ufficio. Al momento, Laurel ha già abbastanza preoccupazioni. Affronteremo il problema nel weekend e, se sarà necessario, rispedirò il ragazzo al suo nascondiglio finché il processo non sarà concluso. «Non abbiamo fatto gli esami del sangue», risponde Angelo, «ma abbiamo fatto quelli del DNA.» Spiega alla Corte che, dopo la sua prima testimonianza, quando durante il controinterrogatorio è stata sollevata la questione della paternità, ha deciso di condurre alcuni test. «Con procedura accelerata», chiarisce. «Può dire alla Corte quali esami ha eseguito e perché?» «Ho eseguito quelle che sono note come sonde DNA, per accertare la paternità», risponde Angelo. «Vostro onore.» Mi alzo. Protesto di non esserne stato informato. «Non stiamo parlando di prove discolpanti», precisa la Cassidy. Il diritto del nostro Paese impone che i pubblici accusatori non si limitino a far condannare, ma agiscano nell'interesse della giustizia. La Cassidy è rigorosamente tenuta a condividere con noi, sin dal primo momento, ogni prova a favore della mia cliente in cui possa imbattersi. Il fatto che abbiano eseguito gli esami e non ci abbiano informato può significare una sola cosa: questi test non confermano la nostra tesi su un amante di Melanie. La mia speranza, nel migliore dei casi, è che i test si siano rivelati inconcludenti. «L'avvocato della difesa», dice la Cassidy, «ha reso rilevante la questione quando ha offeso il signor Vega suggerendo - vorrei aggiungere in maniera sconveniente -, che la vittima avesse una relazione illecita. Adesso che ha evocato questo orribile spettro, dobbiamo affrontarlo.». La Cassidy mi regala un'espressione di rimprovero, che sulla sua faccia assume sfumature maligne. «Ammetto la domanda», concede Woodruff. Mi fa cenno di sedermi. Nel farlo, mi giro, e con la coda dell'occhio individuo Dana dietro la porta socchiusa. Sta fissando Angelo sul banco dei testimoni, e, dalla sua espressione, direi che ha le mie stesse premonizioni. La Cassidy non avrebbe richiamato questo teste se non potesse recare qualche grave danno alla nostra linea. Ci troviamo in terribile svantaggio, e Morgan lo sa. Madre e figlio sono
stati sepolti prima che noi riuscissimo a formulare una teoria coerente per la difesa di Laurel. Per permettere a noi di far esumare i cadaveri ed eseguire test similari sul DNA sarebbe stato necessario un ordine della Corte. Harry e io abbiamo discusso di questa possibilità agli inizi. Tuttavia, considerato il fatto che Jack si era sottoposto alla vasectomia e probabilmente sparava solo cartucce a salve, ci è parso inutile. Il figlio doveva essere di qualcun altro. La Cassidy gira intorno al problema per un po' con qualche domanda preliminare, poi chiede quello che stiamo tutti aspettando. Con i test, Angelo è riuscito a eliminare Jack Vega dal novero degli uomini che potrebbero essere padri di quel bambino? «No», dichiara Angelo. «Non solo non abbiamo potuto escluderlo, ma grazie a una sonda a focus singolo che ci ha permesso di analizzare specifici fattori genetici condivisi dal feto morto e dal signor Vega, direi che la probabilità dell'attribuzione della paternità è estremamente alta.» «Quanto alta?» chiede Morgan. «Basandoci sulle sonde, non possiamo escludere il signor Vega come padre potenziale, e in questo caso la probabilità, essendo basata su un esame effettuato con sonde DNA multiple, è superiore al novantanove per cento. Per essere esatto, è del novantanove virgola quattro per cento.» Sono esterrefatto. Angelo sta dicendo alla giuria che Jack, con certezza scientifica, è il padre del bambino. L'incredulità deve essere dipinta sul mio viso: quando giro gli occhi, diversi giurati mi stanno studiando per scoprire le mie reazioni. Un manto di delusione cala sulla giuria. Diverse donne mi fissano, chiedendosi come io abbia potuto, davanti a prove così inequivocabili, coinvolgere in uno scandalo una vittima con le labbra sigillate dalla morte. In aula monta una corrente di mormorii, e Woodruff batte il martelletto. La Cassidy non ha più bisogno di dare solidità alla propria linea. Ha trovato il ventre molle della nostra e lo ha squarciato. «Ho concluso col teste», dice. Quando mi alzo, mi pare di avere le gambe di gelatina. Mi sforzo di scacciare dal viso la stupefatta espressione d'ira. Ma ho la netta sensazione che si tratti di prove contraffatte, di qualcosa ideato a una riunione di mezzanotte, quando la Cassidy, dopo una sconfitta in aula, ha visto evaporare la propria linea d'attacco. Si tratta di conclusioni scientifiche delle quali non possiamo controllare accuratezza o veracità. «Dottore, non esiste possibilità d'errore nei suoi test?» chiedo. Un primo,
debole colpo. «No.» Nessuna esitazione. Non: «Credo di no», ma un: «No» assoluto, quasi enfatico. La sua zucca pelata sfavilla sotto le forti luci dell'aula. Nei suoi occhi c'è uno sguardo enigmatico. Sappiamo tutti e due che, se non riesco a demolire le sue asserzioni, il movente nella mia linea di difesa è svanito. Alla vigilia della mia esposizione, mi ritroverò a parlare di nulla, dopo essermi lanciato in una ricostruzione del delitto che Angelo, in dieci minuti, ha completamente distrutto. Senza un misterioso amante nel letto di Melanie, perché Jack avrebbe dovuto assassinare la madre di suo figlio? Nemmeno il cuore più gelido commetterebbe un omicidio plurimo solo per suscitare simpatia nella sentenza su un altro reato, nettamente minore. Persino Jack riuscirebbe a fare il conto delle probabilità di riuscita di un piano simile e scoprirebbe che non può funzionare. «Deve esserci senza dubbio un margine d'errore nella percentuale delle probabilità», insisto. «Questo non è un sondaggio d'opinione», m'informa lui. «È scienza. Non c'è un margine d'errore, in più o in meno. Tale percentuale si basa sul fatto che esistono gradi di rapporti genetici fra gli individui. Si può andare dalla probabilità zero, quando il soggetto, per esempio, viene escluso a causa del gruppo sanguigno, a una probabilità molto bassa, fino a una certezza praticamente totale.» Sorride. Aspetta che gli chieda in quale ambito ricada il nostro caso, ma io non lo chiedo. Angelo farebbe colare altro sangue dalle mie ferite. «È molto interessante che lei non abbia messo per iscritto nulla di tutto ciò. Dovranno senz'altro esserci documentazioni scritte... I suoi appunti, intendo.» Un vago sorriso di concessione. «Posso produrre i miei appunti, ma non li ho con me al momento.» «Naturalmente mi piacerebbe vederli.» «Non ci sono difficoltà. Li farò avere al suo ufficio.» Posso studiare gli appunti e richiamarlo a testimoniare, ma Angelo sa che mi sto arrampicando sugli specchi. I suoi appunti di lavoro devono essere scritti in modo tale da poter essere decifrati soltanto da un altro medico, e i termini di certo sono talmente vaghi e generici che le procedure usate per i test si possono chiarire unicamente grazie a una sua testimonianza. Potrei spendere milioni nel circo delle consulenze scientifiche e ritrovarmi al punto di partenza.
Ovviamente, potremmo far eseguire nostri test. Esumare i cadaveri e controllare il DNA; ma non c'è tempo, e Angelo lo sa. La nostra esposizione inizia lunedì. Nella maggioranza dei laboratori, le analisi del DNA richiedono almeno sei settimane. Mi sto arrabbiando. È scritto nei miei occhi. «Dottor Angelo, è al corrente della documentazione medica relativa alla vasectomia del signor Vega di dodici anni fa?» «L'ho letta», annuisce. «Allora forse potrà illuminare la Corte su come sia possibile che un uomo sottoposto a vasectomia al preciso scopo di farsi sterilizzare possa mettere al mondo un figlio.» «Succede di continuo.» «Prego?» «È ovvio che lei non ne è al corrente, ma questa procedura ha una considerevole percentuale d'insuccessi. Non si contano le cause legali promosse da coppie che si trovano ad avere un figlio dopo che l'uomo si è sottoposto alla vasectomia.» «Adesso ci dirà che il novantanove virgola quattro per cento di queste operazioni non ha successo. E esatto, dottore?» «No. In effetti si tratta di circa il cinque per cento.» «Una percentuale piuttosto bassa, direi... Non esattamente l'ideale per scommetterci su. Immagino sia stato uno stregone a eseguire l'operazione sul signor Vega, usando un bisturi di pietra poco affilato.» «No. Si tratta di ricanalizzazione», m'illustra lui, pacato. «Il condotto deferente, il canale escretore dello sperma, nel corso della vasectomia viene reciso e le due estremità vengono poi legate. Il tasso d'insuccesso dipende soprattutto da quanta parte viene rimossa e da come viene eseguita l'occlusione, il legamento delle estremità», dice. «Se l'occlusione è imperfetta, le estremità del condotto possono ricongiungersi.» «Ha esaminato chirurgicamente il signor Vega per appurare se sia accaduto questo?» «No. Tuttavia le tecniche usate dal medico nel suo caso non sono considerate le più efficaci, oggi come oggi. Hanno una scarsa capacità di penetrazione... Chiedo scusa per il gioco di parole.» Qualche giurato sorride. Angelo ha fatto una battuta. Mi sta prendendo in giro. Se non riesco a capovolgere la situazione, mi converrebbe sedermi. Ma ho scavato un buco ancora più profondo, ho danneggiato maggiormente la nostra tesi con questi chiarimenti. Mi sento spinto a tentare di chiude-
re almeno una piccola parte del buco, a strappare una qualche concessione al testimone, a cercare una nota finale alta, se non altro per dare l'illusione di aver guadagnato qualcosa da tutto questo. Come il giocatore ossessivo, provo l'impulso di vincere almeno una parte di ciò che ho perso, di creare qualche equivoco sul quale ricamare in seguito, riproponendolo alla giuria nell'arringa finale. La posta in gioco è altissima, ma intuisco che anche la persona con la preparazione medica più scarsa presente in aula è rosa in questo momento da un bruciante interrogativo. Se facessi scrivere su cento foglietti i suggerimenti per qualche domanda, tutti metterebbero la stessa al primo posto. Potrei fermarmi qui, sedermi, ma la giuria si chiederebbe il perché. Soppeso la prospettiva, la metto a confronto con la prima regola di un interrogatorio: mai chiedere qualcosa se non conosci già la risposta. Eppure mi sembra quasi di sentire la mente dei presenti formare questa domanda. L'impulso è troppo forte. Un'unica domanda, nella disperata speranza che lui risponda di no. «Dottor Angelo, ha eseguito un conteggio degli spermatozoi del signor Vega?» Sono trafitto dal luccichio dei suoi occhi quando mi risponde: «Sì». Ho come la sensazione del piombo caldo che scorre in ogni orifizio del mio corpo, la raggelata consapevolezza di essere caduto nel micidiale crogiolo preparato per me dalla Cassidy. Potrei girare sui tacchi e sedermi, congedare il testimone. Ma Morgan, durante il controinterrogatorio, mi trafiggerebbe con questo giavellotto. «E che cosa ha scoperto?» chiedo. «Abbiamo scoperto che il signor Vega ha sofferto di una cicatrizzazione dei tessuti in conseguenza della vasectomia, ma è ancora in grado di produrre un numero di spermatozoi sufficiente a generare un figlio.» Assesta questa ferita mortale con un sorriso. Il colpo di grazia. Resto impietrito davanti a lui, con le macerie della mia linea difensiva sparse tutt'intorno. Persino il teschio di Melanie Vega, trafitto dalla lancia metallica sul carrello delle prove, sembra ridere di me nell'atroce silenzio. Angelo si è astenuto dal dipingere i due, Jack e Melanie, mentre fanno l'amore, ma a parte questo ha sbattuto la porta su ogni dubbio circa la legittima paternità di Vega. In una sola deposizione ha fatto più danni di tutti gli altri testimoni messi assieme. Ecco perché la Cassidy non ha sfiorato nulla di tutto questo, la vasectomia e le sue conseguenze, nell'interrogatorio iniziale di Angelo. Voleva
aspettare che io fossi ormai troppo avanti sulla strada della mia linea difensiva per poter cambiare direzione; aspettare che io definissi Jack un assassino davanti alla giuria. Era la trappola che aveva costruito per me, e io ci sono caduto come un agnello alla tosatura. Mi avevano avvertito della sua astuzia, della sua implacabilità. Con la sua tesi apparentemente distrutta, quando già arbitro e secondi stavano per attribuire la vittoria allo sfidante, la Cassidy ha tentato il destro da KO, e mi ha centrato in pieno. 29. Quando Angelo conclude, sono sventrato come un pesce su un peschereccio, tagliato a filetti davanti al banco dei testimoni. È quasi mezzogiorno, e la Cassidy dice a Woodruff che l'accusa ha terminato la propria esposizione. Angelo lascia il banco, e in aula c'è un cambiamento d'umore di dimensioni cosmiche. Se fossero presenti dei bookmaker, pagherebbero mille a uno l'assoluzione di Laurel. L'apprensione nei suoi occhi, mentre studia il mio corpo immobile davanti al banco dei testimoni, mi rivela che non le è sfuggito il cambiamento. A un certo punto, per non cadere mentre percorro i tre metri che mi riportano al nostro tavolo, trovo addirittura necessario aggrapparmi all'orlo dello scanno. È venerdì pomeriggio, e Woodruff mi ordina di essere pronto ad aprire l'esposizione della difesa lunedì mattina. Penso di fargli compassione. Nel rispondergli, tutto quanto, le mie stesse parole, è sovrastato da un ronzio pulsante, il rombo di un motore nelle viscere di una nave. È il sangue che pulsa nella carotide, spinto dal panico che adesso corre nel mio cervello. Il giudice batte il martelletto e la Corte si aggiorna. La giuria viene condotta fuori. La matrona converge su Laurel, che non ha ancora staccato gli occhi da me. Arrivo appena in tempo per prenderle la mano e scambiare qualche parola. «Dovremo parlare», le dico. «Oggi pomeriggio.» La mia voce ha il tono sinistro e dolente di un chirurgo che è penetrato nel corpo di una persona cara in cerca del cancro, e adesso deve comunicare la brutta notizia. «Io non vado da nessuna parte», ribatte lei. Prima di essere condotta via, Laurel riesce addirittura a sorridere. È proprio una fatalista nata: pare che
non si sia mai aspettata un epilogo diverso. «Dieci a uno che quello stronzo mente», borbotta Harry. Sta parlando, quasi fra sé, di Angelo. È paonazzo in volto. Harry è l'unica persona di mia conoscenza che detesti perdere più di me. Solo che in questo caso la posta in gioco, per il sottoscritto, è molto più alta. «Molto comodo», prosegue. «All'ultimo minuto saltano fuori con questa merda. I rapporti non dicono niente, i corpi sono sepolti.» Sta buttando carte alla rinfusa nella scatola delle prove, brontolando sottovoce. «Ci è sfuggito qualcosa», mormoro. «Che cosa?» «Non lo so. Qualcosa non quadra.» «Ti dirò io che cosa è sfuggito a me», sibila. «Quella puttana è sfuggita al parafanghi della mia auto.» Sta scrutando con occhi di fuoco la Cassidy. Parla a denti stretti mentre lei ripone in borsa le proprie cose. Lama sposta una sedia, apre la via a Morgan, che passa in mezzo ai nostri due tavoli e si dirige al cancelletto oscillante nella transenna. «Buon weekend», ci augura. «Hai un minuto, Morgan?» Lei si ferma, si volta. «Forse dovrò parlarti, questo weekend.» Mando giù parecchia bile, nel dirlo. «Dopo avere conferito con la mia cliente.» Sa a che cosa alludo. Un accordo per salvare la vita a Laurel. «Non so se la mia cliente accetterà un...» «Non preoccuparti per la tua cliente», m'interrompe lei. «La tua unica preoccupazione dovrei essere io. Dovresti cercare di scoprire se puoi convincermi a cambiare idea... Una prospettiva che al momento non sembra granché plausibile.» Dopo di che, mi fa la paternale di fronte a diversi giornalisti che prendono appunti. Commenti sull'etica di Laurel e del sottoscritto. «Laurel Vega è un pessimo soggetto», dichiara la Cassidy, «e lo sappiamo tutti e due. E il tuo comportamento col marito, la condanna che era sotto segreto. Tu e quell'aspirante giudice laggiù.» Gesticola in direzione di Dana, che sta nuotando contro una marea di corpi per entrare in aula. La Cassidy emette piccoli suoni ironici. «C'è una possibilità...» «Puoi lasciare un messaggio alla mia segreteria telefonica», dice lei. «Se non vado da qualche parte, ti richiamerò.» Al che gira sui tacchi e si avvia, insieme a Lama. Jimmy, a un volume ben udibile nell'intera aula, declama:
«Non è incredibile il fegato di certa gente?» È chiaro che hanno intenzione di farmi strisciare. Si mescolano alla folla diretta alla porta. Sento Harry ringhiare. Poi sputa fuori un paio di parolacce. «Mentono», conclude. «Non lo so.» «Non essere ingenuo! Si sono inventati tutto. Sanno che non possiamo controllare.» Harry appartiene alla scuola di pensiero secondo la quale pressoché tutte le vittorie nei procedimenti penali si ottengono ricorrendo a un braccio di ferro tra false testimonianze. Tu inventi le tue balle, loro le loro, e alla fine vince la parte che ha più inventiva; secondo questa filosofia, insomma, la verità è avvizzita e poi morta di solitudine in quasi tutte le aule di tribunale. È su questa profonda riflessione che sento sulla nuca il soffio caldo di un respiro. Mi giro e incontro gli occhi di Dana. «Ho sentito quello che è successo», dice. È bianca come un lenzuolo. Mi mette una mano sulla nuca e avvicina le labbra: per un attimo penso che stia per baciarmi sulla guancia. Invece accosta le labbra al mio orecchio, e mi sussurra: «Non preoccuparti. Posso farti avere il testimone». Mi stacco da lei, la guardo negli occhi. Sta parlando dell'uomo che ha visto Jack col killer, Lyle Simmons, nel bar sull'altra riva del fiume. Sembra ignorare il fatto che la cosa non mi fornisce un movente. Perché mai Jack avrebbe dovuto uccidere la moglie? «Dov'è?» chiedo. «Non preoccuparti di questo», risponde Dana. «Devi soltanto sapere che sarà qui, in aula, lunedì mattina, pronto a dirti ciò che ha visto.» «Quando lo avete trovato? Perché non me lo hai detto?» chiedo. Lei si allontana da me, e nei suoi occhi c'è qualcosa che mi ordina di non impicciarmi. È territorio off limits. «Tu sei uscito di testa», esplode Harry. «Non fare domande. Ha ragione lei, quello che non sai non può farti del male. Tu saprai solo quello che dirà questo tizio. Puro e semplice. Facilissimo.» «Semplice, sì. Non sono troppo sicuro che sia puro», lo informo. Sono preoccupato. Temo che quel teste mi offra una falsa testimonianza. È troppo comodo. Me lo hanno detto le parole di Dana, e i suoi occhi. «Posso farti avere il
testimone», mi ha detto. Il che è ben diverso da: «Lo abbiamo trovato». Ho la terribile sensazione che questo tizio, e ciò che ha da dire, sia prefabbricato. Quello che non riesco a capire è perché Dana, una donna che sta per essere nominata giudice, faccia una cosa del genere. Perché correre il rischio? Non può odiare tanto la Cassidy. «E comunque abbiamo un problema», spiego a Harry. «Il teste non è nel nostro elenco. Potrebbe venire escluso solo su questa base.» Lo Stato ha il diritto incontestabile di controllare, di accertarsi che non sia un imbroglione, qualcuno con precedenti penali, magari incline a mentire in aula; stabilire se per caso non fosse in galera, se non stesse scontando una pena nel momento in cui sostiene di avere assistito a quelle rivelazioni sull'altra riva del fiume. Harry ribatte che non è un problema. «Se si lamentano, diamo loro il tempo di controllare l'uomo. Intanto noi balliamo il tip-tap con qualche altro testimone. Continuiamo a battere sul tema che sia stato Jack.» «Perché?» chiedo. «E chi lo sa? Quello stronzo è impazzito... Non sarebbe la prima volta che un politico salta il fosso.» «Dimentichi che, con ogni probabilità, il testimone mente: non ha mai visto Jack con qualcuno in un bar. Secondo te, la Cassidy non lo capirà?» «Tu invece dimentichi», ribatte Harry, «chi è a offrirci questo tizio: il governo federale in persona.» La gioia negli occhi di Harry mentre pronuncia queste parole è davvero indicibile. «Fermati a riflettere un minuto. Non crederai che siano tanto stupidi da tirar fuori qualcuno che non sia assolutamente a prova di bomba, vero? Se ci sono dietro i federali, Lama potrebbe controllare in cielo e in terra e restare a mani vuote. Probabilmente salterebbe fuori che è un arcivescovo o qualcosa del genere...» Parla come se il governo avesse attivato un servizio di assistenza per cose del genere, tipo albo professionale: testimoni spergiuri con tanto di referenze. «Fidati di me», esclama Harry. «Ci sono due cose che il governo federale sa far bene: stampare soldi e creare false identità.» Le sue parole m'inchiodano sul posto, come un eschimese nudo in una tormenta polare. Sbarro gli occhi. «Che c'è?» chiede lui. «Qualcosa che non abbiamo visto. Qualcosa che hai appena detto tu.» «Che cosa?» «Identità», gli rispondo.
«Di che stai parlando?» «I Merlow. Ci siamo chiesti fin dall'inizio che cosa abbiano visto quella sera George o Kathy Merlow.» «Okay. Hanno intravisto qualcosa... Il tipo che ha fatto fuori Melanie. A meno che tu non creda di poter convincere Ridarola a lasciarci tenere una seduta spiritica in aula, i Merlow sono al di là della nostra portata, no? Concentriamoci sull'altro elemento, sul tizio che respira solo quando mente.» Sta parlando del testimone di Dana. «Come possiamo essere certi che i Merlow abbiano visto qualcosa?» gli chiedo. «E se non avessero visto nulla?» «Allora qualcuno si è preso un grosso disturbo a ucciderli per niente.» Harry non cede. «Forse non si tratta di quello che hanno visto... ma di ciò che sono.» Lui mi scruta con occhi torpidi. Prima che Harry possa muoversi, schizzo via dalla sedia e mi precipito in corridoio, diretto al suo ufficio. Harry mi segue come un'ombra. «Che stai facendo?» Quando apro la porta, è chiaro che l'ufficio di Harry non aspetta altro che un incendio. Ci sono pigne di giornali ingialliti sul pavimento, fogli graffettati, brandelli di carta, il tutto mischiato a istanze e appunti per i casi ai quali Harry sta lavorando. Ci sono ritagli di articoli, pagine di giornale inchiodate alle pareti da milioni di spilli. Si va dai fumetti ai titoli cubitali: il carburante per il motore della paranoia politica di Harry. Comincio a frugare tra le carte. «Aspetta un minuto. Che stai facendo?» Harry s'incazza, come se esistesse un equilibrio chimico, un qualche tipo di ordine nel fritto misto cartaceo che sto buttando all'aria. E poi, infilato fra un decrepito numero di The New Republic e un sandwich in via di decomposizione, lo scovo. E un foglio ormai giallo zafferano e quasi incartapecorito, ma ha una data e un'indicazione geografica: Lexington, Kentucky. Lo passo a Harry e glielo faccio leggere. Non appena finisce il primo paragrafo, capisce. «No», esclama. «Non penserai...?» «C'è un solo modo per scoprirlo», gli rispondo. «Vuoi telefonare tu, o devo farlo io?» 30.
La mia dichiarazione d'apertura alla giuria è breve, e probabilmente un po' enigmatica. Non è il folgorante assalto a Jack che ho preparato nei minimi particolari per tutto il mese scorso. «Tra pochi istanti», dico, «udrete testimonianze e vedrete prove che a qualcuno di voi potrebbero provocare un notevole sgomento. Per altri, invece, saranno solo una conferma dei più cupi sospetti sulla natura dell'uomo e sulle istituzioni della sua giustizia. Queste prove sono entrate in mio possesso solo nelle ultime trentasei ore e, da molti punti di vista, sono state per me uno shock maggiore di quanto potranno esserlo per tutti voi.» Trenta secondi dopo che ho pronunciato il suo nome, Dana Colby entra in aula e percorre il corridoio centrale. È calma, quasi serena. Indossa un abito blu scuro, il tipo d'abbigliamento che un avvocato dell'accusa predilige. I suoi tacchi risuonano sul pavimento in marmo. Mi supera come se io non esistessi. Non uno sguardo, né un sussurro. I suoi occhi freddi come pietra sono puntati in avanti, sullo scanno. Laurel è al tavolo con Harry, gli fa domande, vuole sapere perché faccio testimoniare Dana. Non abbiamo avuto tempo di metterla al corrente e, finché non avrò presentato le mie prove, non ho idea dell'impatto che avranno sulla giuria o sul giudice. Al tavolo della Cassidy c'è parecchio movimento. Fra le altre cose, Lama e lei stanno controllando il nostro elenco di testimoni, per accertarsi che vi compaia il nome di Dana. I due hanno preso per fumo negli occhi ciò che in effetti sulla nostra lista aveva proprio quello scopo. Si erano dimenticati di Dana. Adesso, restano sorpresi nel vederla davvero apparire in aula per testimoniare. Dana giura e si accomoda. Il suo sguardo è puntato verso il fondo dell'aula. Unico segno di ansia, il lieve tamburellare di due dita sul bracciolo della sedia. Rifiuta d'incontrare i miei occhi, come io mi sono rifiutato di rispondere alle sue telefonate o di vederla negli ultimi due giorni, da quando le ho fatto consegnare il mandato di comparizione. Credo sappia, o abbia indovinato, che cosa abbiamo scoperto. Per parlare con me, stamattina Dana ha cercato di piantare le tende nel mio ufficio. Un incontro che volevo evitare, così Harry e io siamo rimasti alla larga, chiusi in un caffè a due isolati di distanza dal tribunale fino a pochi attimi prima di venire qui. «Dichiari il suo nome per il verbale», dice il commesso.
«Danielle Elizabeth Colby.» Fino a questo momento, non sapevo che il suo nome di battesimo fosse Danielle. Forse è la misura di quanto poco io la conosca. Mi sposto direttamente di fronte al banco dei testimoni, dove lei non può più ignorarmi; e adesso, finalmente, ci guardiamo negli occhi. «Signora Colby, vuole dire alla Corte qual è la sua professione?» «Sono sostituto procuratore degli Stati Uniti.» La sua voce è neutra, priva d'emozioni, come se qualcosa fosse stato sottratto alla donna che credevo di conoscere. Ciò che sto facendo mi procura molto più di un lieve dolore. «Primo sostituto procuratore dell'ufficio per il distretto orientale di questo Stato, è esatto?» chiedo. «Sì.» «In altre parole, lei è un avvocato della pubblica accusa a livello federale, giusto?» chiedo. «Sì.» Le sto suggerendo le risposte in maniera sfacciata, ma tutto questo è innocuo, e la Cassidy è ansiosa di vedermi arrivare al punto. Forse Morgan non si è accorta dell'attrito fra Dana e me e pensa che stiamo lavorando in tandem per fare a pezzi le sue tesi. «Signora Colby, chi erano George e Kathy Merlow?» A questi nomi, lei s'irrigidisce, come se nella sua sedia fosse passata una leggera scarica elettrica. «Erano vicini di casa della vittima, Melanie Vega», dice Dana. «Vivevano nella casa accanto.» Non è questo che m'interessa. Dana è in gamba. Riesce a schivare la domanda, e così io devo emettere qualche altro filo per dare più consistenza alla mia ragnatela. «E, per quanto risulta a lei, risiedevano lì, nella casa accanto, la sera in cui Melanie Vega è stata assassinata?» «Sì.» «Prima di quella sera, lei ha mai avuto occasione di parlare con George o Kathy Merlow per qualche motivo?» Dana ha due occhi splendidi anche quando tremano di nervosismo, come adesso. La sua lingua va in cerca di saliva. «Può darsi», mormora. Annuisco. Non mi sto divertendo, e credo che lei lo sappia, così ricama un po' sulla risposta per allontanarmi dal nocciolo della questione.
«Vivevamo nello stesso quartiere. Potrei averli incontrati in un posto o nell'altro.» Sta dando l'idea di un incontro casuale, di una cosa talmente insignificante da essere difficile da ricordare. «Capisco. È possibile che uno dei posti in cui ha incontrato George e Kathy Merlow sia stato il suo ufficio, nel palazzo del ministero della Giustizia?» Arriviamo finalmente al punto: il numero primo, la realtà che non si può suddividere in mezze verità. Dana guarda il giudice. «Vostro onore, potremmo conferire un attimo nel suo studio?» chiede. «Si tratta di questioni d'importanza critica. Vita o morte.» Woodruff ha sentito tante cose dal banco dei testimoni, ma mai un teste che chieda di conferire in privato con lui nel pieno della deposizione. «Ha qualche problema di salute?» chiede. «Non si sente bene?» «No, vostro onore.» «Allora risponda alla domanda», la esorta il giudice. Il momento della verità per Dana. «Può darsi. Non ricordo.» La verità diventa evasività. «Non dovrebbe ricordarsi di un incontro nel suo ufficio?» insisto. Cerco di portarla all'ammissione dolcemente, col minor dolore possibile: le porgo una capsula di cianuro da spezzare tra due molari. «In ufficio vedo tanta gente», dice Dana. «Non posso ricordare tutti.» Si agita, si contorce sulla sedia; un tentativo inutile e straziante di rimandare l'inevitabile. Intanto, Laurel continua a martellare Harry con una serie di brevi, frenetiche domande al suo orecchio. Vuole sapere che cosa sto facendo. Che diavolo c'entra Dana in tutto questo. «Non è un fatto, signora Colby, che la notte in cui ha incontrato i Merlow davanti a casa loro, qualche ora dopo l'omicidio di Melanie Vega, lei non passava di lì per caso, ma era sul posto per lavoro?» «Non so di che cosa stia parlando», dice lei. «Non è un fatto che si è recata da George e Kathy Merlow come rappresentante del ministero della Giustizia degli Stati Uniti per assicurare loro che erano al sicuro, che si sarebbe provveduto a tutto?» Dana mi guarda come se mi stessi facendo uno spinello. «Chi l'ha chiamata?» chiedo. «È stato il suo boss, perché lei abitava più vicino di chiunque altro? Oppure lei aveva un rapporto speciale con loro, era una specie di assistente sociale?»
«Vostro onore, ritengo che l'avvocato si confonda», ribatte lei. «È chiaro che qualcuno gli ha dato informazioni errate. Lo ha tratto in inganno, e per chissà quale motivo.» Dana continua a protestare, però a Woodruff non sfuggono due fatti: non ha ancora opposto un netto diniego e non ha risposto alla mia domanda. «Sto aspettando una risposta», ribadisco. «Vostro onore.» Dana sta ancora guardando il giudice. Un'implorazione che cade nel vuoto. Lui le ordina di rispondere alla domanda. Dana tenta l'appello a una Corte Superiore. Si gira a guardare me. «Non potremmo parlare? Credevo che t'importasse qualcosa di me.» Mormora queste parole in un sussurro così basso che lo stenografo le chiede di ripeterle. Gli sono sfuggite. Dana lo ignora. «Al momento», dico, «l'unica cosa che m'importi è la sua risposta alla mia domanda.» «Molto bene», annuisce lei. E in quell'istante si verifica una trasformazione. È evidente nei suoi occhi: tutto ciò che può esserci stato fra noi due muore qui, vaporizzato da inganni che gli spietati meccanismi della legge stanno portando alla luce del sole. «Vuole sapere di Kathy Merlow?» chiede. «Sì.» «Benissimo. Le risponderò. Kathy Merlow faceva parte del cosiddetto programma federale di ricollocazione dei testimoni.» «Era un testimone federale protetto?» chiedo. «Sì.» «Qual era il suo vero nome?» «Carla Leopold.» «Perché è venuta a vivere a Capital City?» «Aveva testimoniato in procedimenti legali sulla costa Est, contro certi esponenti del crimine organizzato. Di conseguenza, qualcuno ha messo una taglia sulla sua vita. È stata fornita una nuova identità a lei e al marito, e i due sono stati trasferiti qui per essere protetti. Faceva parte di un accordo raggiunto dopo la sua ammissione di colpa.» Un basso mormorio di voci in aula, movimenti nei ranghi della stampa, una dozzina di teste che si alzano. Le matite smettono di scrivere. Nessuno ancora capisce quale rapporto abbia tutto ciò col nostro processo. «Vostro onore, qual è la rilevanza di tali argomenti?» La Cassidy ha la-
sciato la sua sedia, sta osservando dalla balaustra che delimita il banco della giuria. Probabilmente crede che Dana e io abbiamo studiato a tavolino questa storia per rimettere in sesto una linea di difesa traballante. Quello di cui si rende conto è che i giurati stanno ascoltando. L'obiezione ha il puro scopo di rallentarmi il passo. «Vostro onore, se mi è concessa un'offerta di prova, ritengo di poter dimostrare in maniera indiscutibile che le informazioni in possesso del teste sono di estrema rilevanza.» «Si sbrighi», concede Woodruff. «Signora Colby, le due persone conosciute come George e Kathy Merlow sono vive o morte?» In questo momento, il volto di Dana è privo di ogni emozione, anche se la domanda sembra coglierla di sorpresa. Forse la sorprende che sia proprio io, di tutte le persone possibili, a farla. «Non si servono più del cognome Merlow», spiega. «Quindi hanno una nuova identità?» «Sì.» Mi avverte che, se chiedessi quale sia questa identità, non me lo direbbe. Non lo chiedo. «Però sono vivi?» «Sì.» È quello che sospettavo sin dalla mia conversazione con Harry. La sua osservazione cinica sul fatto che il governo federale sa far bene due sole cose: stampare soldi e fornire nuove identità. È stata la scintilla che ha dato fuoco a tutti i particolari che non combaciavano: le informazioni di Clem Olsen sulle impronte digitali sul tubetto di colore e su Carla Leopold, la contabile che lavorava per il Regal International Trading Consortium, una copertura del crimine organizzato; la sua «morte» quasi due anni fa in un catastrofico incidente d'auto su un'autostrada della costa orientale; la sua apparente resurrezione in un piccolo cimitero erboso di Hana, due mesi fa. Morte e resurrezione con una nuova identità avevano già funzionato, quindi perché non riprovarci? A Hana non c'è stato alcun omicidio, solo una messa in scena per impedirmi di continuare a indagare. Però un killer c'era sul serio. Dana chiede apertamente scusa dal banco dei testimoni. «Sapevamo che era ancora in circolazione dopo la bomba all'ufficio postale. Era il suo modus operandi.» Marcie Reed è stata uccisa per un motivo molto semplice: per impedirle di dirmi quello che sapeva, e cioè che Kathy Merlow era una testimone protetta dai federali. La Merlow si era confidata con l'unica amica che a-
vesse trovato a Capital City, e questo è costato la vita a Marcie. Le persone che si erano presentate da lei prima di Harry e di me non erano Lama e le sue truppe, come sospettavamo noi, bensì killer prezzolati sulle tracce dei Merlow. Quando hanno scoperto che intendevo usare Kathy come testimone per il processo a Laurel, hanno deciso di mettersi alle mie calcagna. Che cosa c'è di meglio di un avvocato armato di risorse legali per costringere un testimone a presentarsi? Una sola parola di Marcie, e io avrei smesso di cercare. Avrei avuto una linea difensiva molto più solida di una semplice testimonianza oculare. Avrei saputo quello che so adesso. «Sapevamo che era stato pagato per uccidere.» Dana sta parlando del killer professionista che era sulle tracce dei Merlow. «Lei, avvocato, era persino troppo comodo», commenta. «Così mi avete usato come esca?» chiedo. «Non ho mai pensato che lei potesse trovarsi in vero pericolo. Abbiamo cercato di eliminarlo all'aeroporto, a Maui. Ci è sfuggito.» I giurati non sono in grado di cogliere il senso di buona parte di questo scambio di battute, per cui faccio marcia indietro a loro beneficio. «Torniamo alla sera del delitto. Chi le ha chiesto di recarsi dai Merlow?» «Il mio superiore», risponde lei. Cioè il procuratore degli Stati Uniti per il distretto orientale. Un uomo scelto direttamente dal presidente. Comincio a intuire che questa storia arriva molto più in alto di quanto avessi pensato. Dana ha continuato a volare avanti e indietro tra qui e Washington. Pensavo che si trattasse solo della sua aspirazione alla carica di giudice. Adesso sospetto che anche i suoi spostamenti abbiano origini più sinistre. «E perché le ha chiesto di recarsi dai Merlow?» «Per accertarmi che fossero incolumi.» «Perché Melanie Vega era stata assassinata quella sera?» «Esatto», conferma lei. «Vostro onore, qui non si arriva da nessuna parte.» La Cassidy sta girando in cerchio davanti al suo tavolo. «Ancora non afferro la rilevanza di tutto questo. Quei due, i Merlow, hanno visto qualcosa o no? Insomma: o sono testimoni o non lo sono. Se sono testimoni, sentiamoli. Se non lo sono, procediamo.» Lama le dà tutto il suo assenso, con entusiastici cenni della testa. Morgan non ha ancora capito. «Se posso fare un'altra domanda, vostro onore, forse riuscirò a chiarire il problema della pertinenza.»
Woodruff annuisce. «Signora Colby, perché il governo ha trasferito George e Kathy Merlow nel cuore della notte, qualche ora dopo l'omicidio di Melanie Vega?» «Perché avevamo motivo di ritenere che la signora Vega fosse stata uccisa per sbaglio. Che la vittima designata fosse Kathy Merlow.» Le parole di Dana passano come un tornado sui giornalisti in prima linea La videocamera di sicurezza sul fondo dell'aula ronza, registra questo momento su nastro. Intuisco una metamorfosi, il passaggio dalla storia d'interesse locale a quella di livello nazionale. Alcune teste grigie della stampa si girano, si fissano a occhi sgranati, stupefatte dalle implicazioni di tutto questo. La Cassidy protesta. Sostiene che abbiamo introdotto elementi di prova estranei alle nostre informazioni iniziali. Chiede addirittura di cancellare l'intera testimonianza di Dana, sulla base del fatto che non è verificabile. «Le documentazioni sui testimoni federali protetti sono coperte dal segreto», strilla. «Che prove concrete abbiamo di tutto ciò? Come sarà possibile controllare?» Il fatto che Dana abbia distrutto la propria carriera con queste ammissioni non è una prova sufficiente, almeno non per Morgan Cassidy. «Forse posso aiutarla io», la informo. «Fornirle la documentazione, cioè.» La bocca della Cassidy è un pozzo aperto, una caverna di silenzio. Chiaramente, non era questo che voleva. Prima che lei possa parlare, vado e torno dal tavolo della difesa con il fascio di carte che mi ha passato Harry. Il mio socio sta distribuendo copie, una al commesso e una a Lama, che viene raggiunto dalla Cassidy al tavolo dell'accusa. Mostro il documento a Dana, e lei lo identifica: un elenco di testimoni federali protetti generato da un computer, una lista usata dal ministero della Giustizia e trasmessa, su canali elettronici sicuri, a tutti gli uffici del Paese. Dana mi chiede dove me lo sia procurato. Non glielo dico. Viene da un gentile redattore di un quotidiano di Lexington, Kentucky. A farmi finalmente vedere la luce è stato l'articolo che Harry mi ha letto mesi fa, il pezzo sulla svendita di computer da parte del ministero della Giustizia, sui magneti troppo deboli usati per azzerare gli hard disk, sul fatto che tali computer siano stati rivenduti al pubblico quando ancora contenevano informazioni strettamente riservate. Lo stesso articolo che Harry ha appeso nella bacheca del carcere di contea, per mettere in guardia chi avesse voglia di aprire bocca.
«Il suo ministero aveva ragione di credere che i Merlow fossero compromessi, non è così?» «Avevamo ragione di credere che molti testimoni ricollocati fossero compromessi.» «Perché?» Dana conferma l'idiozia quasi incredibile della vendita dei computer. Dice che il ministero della Giustizia e l'FBI hanno cercato di ricomprarli, che hanno persino messo a soqquadro abitazioni private e aziende, con tanto di mandato, per confiscare una parte delle macchine. Harry si sta surriscaldando. Questo è un concentrato dei succhi giornalistici che avevano scatenato la sua ira. Alla fine, il governo si è accorto che le informazioni erano ormai troppo disseminate per poter mettere un tappo alla falla. Così ha cominciato a spostare un'altra volta i testimoni, con nuove identità; e si è occupato anzitutto di quelli ritenuti maggiormente a rischio. «Però i federali non hanno provveduto a trasferire subito i Merlow, vero?» «No.» «Li hanno trasferiti solo dopo l'omicidio di Melanie Vega?» «È esatto.» «Signora Colby, le chiedo di riflettere con molta attenzione. Le farò alcune domande, e voglio che lei risponda chiaramente alla Corte. Che cosa ha scoperto il ministero della Giustizia dopo l'omicidio di Melanie Vega? Che cosa li ha tanto sconvolti, che cosa li ha spinti a nascondere questa informazione, a non fornirla a un avvocato che difendeva una cliente accusata di omicidio? Che cosa si è scoperto in quelle informazioni registrate su computer che sarebbero dovute restare segrete? Mi risponda, la prego.» Tutto ciò che ho fatto, le fondamenta che ho gettato sino a questo punto, portava a queste domande. Al banco dei testimoni, Dana è molto calma. A parte Harry e me, è l'unica persona in aula che sapesse già che questo momento doveva arrivare. «Hanno scoperto...» Le cede un poco la voce. «Hanno scoperto che l'indirizzo, il nuovo indirizzo di Kathy Merlow presente nel computer, era sbagliato... Un errore di battitura.» «Qual era l'indirizzo che risultava dal computer?» «Quello di Jack e Melanie Vega.» Un ruggito palpabile echeggia in aula e un'onda d'indignazione corre nella zona del pubblico. È la manifestazione sonora dell'orrore: è mai possibile che chi amministra la giustizia possa nascondere una cosa talmente
vergognosa? Una cittadina innocente morta, un'altra sotto processo per omicidio, mentre i pezzi grossi della burocrazia di Washington conoscevano la verità da molti mesi. I giornalisti schizzano via dalle sedie, corrono alle telecamere in corridoio. Si vedono già in apertura nei telegiornali nazionali. Woodruff sta sfogliando lo stampato del computer. Quando trova il nome che gli interessa, mi fissa dall'alto dello scanno, con un'espressione allucinata. Gli occhiali gli scivolano fino alla punta del naso e poi cascano giù. Lui li acchiappa al volo prima che cadano a terra. Il giudice affonda nell'imbottitura della sua sedia. Melanie Vega e suo figlio sono stati uccisi perché un impiegato, nelle viscere della burocrazia di Washington, ha commesso un errore di battitura su una tastiera di computer. Al momento, l'espressione che Woodruff ha in faccia è un ibrido tra stupore e furia. Posso solo ipotizzare a quali livelli arriverà questa faccenda. È indubbio che i membri del gabinetto, a Washington, correranno ai ripari entro sera. Un procuratore degli Stati Uniti reciterà il mea culpa, sosterrà che tutto si ferma al proprio ufficio, e intanto cercherà qualche subordinato da immolare sulle pire del pubblico sacrificio, così da placare i numi della politica. È uno scenario che abbiamo già visto per altri scandali. Scruto Dana, esausta, affranta al banco dei testimoni. Non ho dubbi che si troverà ai posti più alti della classifica delle vittime. I suoi sogni di gloria sullo scanno federale si stanno disperdendo nel vento, come l'odore degli alberi carbonizzati dopo l'incendio di una foresta. Woodruff batte il martelletto, cerca di riportare l'ordine in aula. La Cassidy sta tentando, dal proprio tavolo, di ululare un'obiezione o un'eccezione, ma nessuno la sente. Alla fine, la voce del giudice ha la meglio sul caos. «Ordine, o faccio sgombrare l'aula», tuona. «Signor ufficiale giudiziario, faccia sedere quelle persone o le faccia uscire.» Occorre quasi un minuto prima che si torni a una vaga parvenza di ordine. Irrequiete scariche di elettricità veleggiano sopra le nostre teste. «Vostro onore, noi, lo Stato, non ne sapevamo nulla», protesta la Cassidy dal tavolo dell'accusa. «Parla per te», dice Dana. Per la prima volta dall'inizio della deposizione, resto sorpreso dalle parole che escono dalle sue labbra. «Non posso dimostrare che tu lo sapessi», continua Dana. «Ma il tuo investigatore lo sapeva, ne sono certa.»
È chiaro che Dana non andrà a fondo da sola. La Cassidy è una statua di sale. Scruta Lama con la faccia dell'amante tradita. Se si trattasse di qualcun altro, non ci crederebbe ma, coi precedenti di Jimmy, l'istinto dice a Morgan di non mettersi a difenderlo troppo in fretta. «Vuole spiegarsi?» chiedo. Dana è ancora la mia testimone. «Intendo dire che il tenente Lama, nella sua qualità di collaboratore locale dell'FBI per l'indagine sulla bomba all'ufficio postale, è stato informato del fatto che la vittima, la signora Reed, era un'amica di Kathy Merlow, e che la signora Merlow era una testimone protetta dai federali.» All'improvviso, un velo si è squarciato. L'aula è immobile. Tutti hanno intuito che è appena caduta una seconda bomba, anche se non capiscono come. «Vostro onore, non ne siamo mai stati informati», dichiaro. «Una prova discolpante d'importanza vitale per la nostra linea difensiva ci è stata nascosta dallo Stato.» Sin da prima che iniziasse il processo, Lama sapeva che Kathy Merlow era il bersaglio di un killer professionista. Guardo la Cassidy, e capisco che lei è una vittima quanto Laurel e me. Lama si è servito di lei nella sua guerra contro di me. Morgan protesta. Sostiene che non lo ha mai saputo, che Lama non l'ha mai informata. Jimmy si alza dalla sedia e intona il canto del cigno. Spiega alla Corte di non aver compreso il significato della cosa. Per questo non ne ha fatto parola. Vorrebbe far credere a Woodruff di avere tenuto per sé, ignaro delle conseguenze, questa merda che ogni sbirro decente spalmerebbe sulle ciambelle a colazione. Un rapporto di lavoro coi loro idoli dell'FBI. Woodruff non la beve. L'unico interrogativo, dice, è se ci sia stato un intento criminoso nell'occultamento dei fatti. Si mette a parlare in gergo giuridico. Accenna alla differenza tra un processo viziato e la piena assoluzione. Per noi, la distinzione è cosmica. La Cassidy invoca il processo viziato. Non ci sono prove di sbagli intenzionali, dice. Una trascuratezza. Questo le darebbe la possibilità di processare Laurel un'altra volta, farci rivivere di nuovo questa agonia. Se Woodruff aggiorna la Corte con la giuria ancora sul banco, è finita. Laurel sarà una donna libera. «Lei sottoporrebbe l'imputata a un secondo processo?» chiede alla Cassidy.
Lei tossicchia e sbuffa un po'. «È una questione che dovrei discutere col mio superiore», risponde. La Cassidy vuole semplicemente evitare un colpo micidiale come questo: essere costretta da un giudice a ingoiare cresta, piume e tutto quanto. «Risponda a una domanda», la interroga Woodruff. «Sapendo ciò che sa adesso, lei, come pubblica accusa, avrebbe sollevato imputazioni contro la convenuta di questo processo, Laurel Vega?» È la questione essenziale. La Cassidy esita per un brevissimo istante. La risposta non è sulle sue labbra, ma nei suoi occhi; un'ammissione che Woodruff legge bene quanto me. È in questo istante di esitazione che io odo il silenzio della salvezza. «Proprio come pensavo», borbotta Woodruff. «Non sottoporrò l'imputata alle ansie e alle incertezze di un secondo processo... Il caso è chiuso. L'imputata è assolta. Metterò per iscritto le mie conclusioni sull'intento criminoso e le sottoporrò alle parti.» Mentre Austin Woodruff pronuncia queste parole, sul suo viso passa un sorriso minaccioso, il tipo di sorriso del giudice che sa di aver finalmente fatto giustizia. «La Corte si aggiorna.» Non ho nemmeno il tempo di ringraziarlo. Una marea umana supera la transenna. Laurel viene schiacciata da un oceano di corpi. Torno al tavolo. «Che cos'è successo?» chiede lei. «Sei libera.» Per quella che sembra un'eternità, ho l'impressione che non riesca a capire; poi si alza di scatto, mi getta le braccia al collo. Lacrime calde colano sulle mie guance. «Posso andare dai miei figli?» chiede. «Puoi andare dove vuoi: sei libera.» Le dico che Danny è in città. Questo la riporta immediatamente alla realtà. «Dove?» è tutto ciò che chiede. Le rispondo che è a casa sua. Lei vuole vederlo immediatamente, e mi chiede di telefonare a Julie. Si affollano persone con matite e taccuini, le fanno domande. Vogliono sapere come si senta Laurel, se ritenga che sia stata fatta giustizia, se sia adirata col governo per non avere svelato la verità sul testimone federale, se stia pensando a un'azione civile. Harry le impedisce di rispondere a quest'ultima domanda in un momento di euforia. «Stiamo studiando la cosa», annuncia il mio socio. Harry ha già estratto il suo pallottoliere e si sta chiedendo se gli sia possibile aumentare un po' il debito nazionale. In questo istante di caos vengo spinto via. Fluttuo in una corrente di corpi, fuori della portata di Laurel. Fra noi si sono intromessi diversi giornali-
sti e qualcuno che vuole porgere le sue felicitazioni. Laurel urla, con le mani a coppa intorno alla bocca. Non capisco. C'è un'immagine fluttuante, un viso dietro la folla, come l'immagine subliminale su una pellicola; qualcosa che ricordo di avere intravisto dietro la finestra di una chiesa di Hana. Poi svanisce. Io scrollo la testa. Stanchezza, stress. Laurel ricomincia a urlare. «Cena da Fulton, stasera alle sei», grida. «Offro io.» Annuisco, e lei scompare. 31. E così chiudiamo su una nota allegra. Cinque esseri umani felici seduti a un tavolo nelle viscere di Fulton, una steak house della città vecchia. Fuori ci sono lampioni a gas dalla luce tremolante, strade ad acciottolato, e grandi marciapiedi affacciati sul fiume. Ai bei tempi della corsa all'oro, questa zona era il regno di minatori e di giocatori d'azzardo. Ci raccogliamo intorno a un tavolo e brindiamo a Laurel e alla sua libertà coi drink del dopocena. Lei ha Danny su un lato e Sarah sull'altro, e stasera dedica molto del suo tempo a stringere e baciare l'uno e l'altra, a turno. Julie è in volo dal Michigan; dovrebbe arrivare all'aeroporto nella tarda serata. Secondo me, questa possibilità di abbracciare e amare, di mischiarsi coi bambini, è il senso ultimo della vera libertà, almeno per Laurel. I ragazzi si uniscono alle celebrazioni con la Coca-Cola. Danny propone addirittura un brindisi «alla madre più grande che un ragazzo abbia mai avuto». Regalo una stretta di mano a Sarah quando la sua espressione si fa distante e i suoi occhi si rannuvolano, nella consapevolezza che lei non potrà mai più festeggiare Nikki in questo modo; e sarebbe proprio questo a rendere perfetta la serata. In Laurel è evidente la stanchezza che arriva dopo la vittoria in una battaglia aspra, un rilassamento emotivo che si svela in una sorta di tranquilla e pacata euforia; pare che, se si lasciasse andare del tutto, finirebbe per creparsi e rompersi, come una sottilissima porcellana. Dopo mezza bottiglia di vino e un paio di cocktail, il sorriso sembra dipinto per l'eternità sul suo volto, però Laurel sta veleggiando in fretta verso la sbornia triste. Intuisco un diluvio di lacrime appena sotto la superficie. Le conseguenze su una psiche normale di sette mesi dietro le sbarre, e della prospettiva di finire uccisi per mano dello Stato.
Danny è arrivato sulla sua Vespa. Harry ha chiamato un taxi per portarci qui, così nessuno, nel nostro gruppo di ubriachi in libera uscita, sarà costretto a mettersi al volante. Mi fa un favore e porta a casa Sarah. È tardi, e mia figlia deve andare a letto. Harry le farà da baby-sitter per qualche minuto; io ho alcune cose da discutere con Laurel. Poi mi dirigerò a casa anch'io, per la prima notte di sonno tranquillo da mesi. Laurel e io lottiamo davanti al cameriere, contendendoci il privilegio di saldare il conto. Alla fine lui accetta la carta di credito di Laurel, solo per tornare tre minuti più tardi a informarla che la carta non è più valida, dato che lei è in arretrato di diversi mesi coi pagamenti. L'umiliazione finale. Laurel è mortificata. Esce ad aspettarmi con Danny, vicino alla Vespa. Io pago il conto, assicurandole che potrà rimborsarmi quando ne avrà i mezzi. Impiego diversi minuti, e alla fine salgo gli scalini fino al livello della strada e sbocco sul marciapiede davanti a Fulton. Nei weekend, la Seconda Strada della città vecchia è automobili in corsa e ragazze con minigonne inguinali, in giro per i bar frequentati dai ragazzi. Ma stasera, lunedì, la via è quasi deserta. Un unico automezzo, un furgone, è parcheggiato davanti al ristorante. Sull'angolo all'altro lato della strada, a una settantina di metri da me, Laurel e Danny stanno parlando vicino al motoscooter: vedo anche la piccola scatola in legno che contiene tutti i tesori del ragazzo. Danny ha parcheggiato la Vespa accanto a una rastrelliera per biciclette, di fronte al museo ferroviario statale, una struttura in mattoni e vetro a tre piani che occupa un intero isolato, a fianco del vecchio deposito ferroviario. Laurel è girata di spalle, assorta nella conversazione. Il ragazzo sta aprendo il lucchetto a combinazione della catena dello scooter. È l'inizio di primavera, e la brezza del delta è tesa. L'aria della sera è gelida. Mi fermo un attimo all'angolo, a infilare nel portafoglio la ricevuta fiscale del ristorante, in modo che Laurel non la veda. Insisterebbe per averla subito e trovare un modo per rimborsarmi domani stesso. Un custode sta trascinando i suoi ferri del mestiere in un carrettino, sul marciapiede in cemento al lato opposto della strada. Poi apre l'ingresso principale del museo ferroviario per incominciare il suo giro notturno. Arrivo all'angolo, scendo sull'acciottolato, e mi avvio. Sulla superficie in pietra, di fronte a me, appare una specie di lucciola, che poi scompare subito. Scarto di un passo o due a sinistra, e la lucciola riappare, solo che questa volta sembra rimbalzare sulla spalla della mia giacca prima di proiettarsi sulla strada, tre o quattro metri più avanti. Poi, all'improvviso,
svanisce. E io capisco che cos'è l'intenso fascio luminoso. È il puntino rosso della luce laser. Prima ancora di riuscire a pensare, schizzo di tre passi a sinistra e sento il pop della pallottola, sparata col silenziatore, che mi sfiora l'orecchio destro e rimbalza sull'acciottolato. Colpita dal suono del metallo che si spezza, Laurel si volta. A questo punto, io sto correndo. Mi lascio Fulton alle spalle e attraverso la strada, agitando le braccia. «Scappate! Via! Via di qui!» Devo sembrare una bambola disarticolata. Per un attimo, loro mi rivolgono espressioni perplesse: scorgo Laurel con una mano su un fianco, snella e muscolosa come se avesse trascorso sette mesi chiusa in palestra. Ma Laurel e Danny possono vedere chi mi sta sparando, alle mie spalle. Io non sento la pallottola che squarcia la stoffa della mia giacca all'altezza della manica e mi strina la carne. Tendo una mano, sento l'umido del sangue. Ormai i miei piedi volano, si spostano frenetici a zig-zag. Scappo come un leprotto davanti ai cacciatori, con pallottole che fendono l'aria intorno a me. Da un momento all'altro, una di queste pallottole mi spezzerà la spina dorsale, mi penetrerà in petto. Nella mia mente corrono pensieri e immagini. Nikki e Sarah. A un certo punto, chissà come, mi trovo a correre lateralmente all'uomo che spara, e per un istante vedo il profilo di una figura, immobile nel vano della portiera spalancata del furgone. Un passante sull'altro lato della strada avrebbe l'impressione di qualcuno che si è chinato ad accendere una sigaretta. Invece quello sta prendendo la mira con entrambe le mani. Inverto rotta un attimo prima che una pallottola schiocchi davanti alla mia faccia. Sento il suono del metallo che colpisce i mattoni e si deforma contro la parete del museo ferroviario, ormai lontano non più di una trentina di metri. Danny è partito in scooter. Fa un'inversione a U ed esce dalla Seconda nell'altra direzione, sotto la superstrada, verso il centro cittadino. «Chiama la polizia!» gli sta urlando Laurel. Sui tacchi alti, ondeggia per strada, verso il buio e lo spazio aperto del deposito ferroviario. Danny si gira a guardarla. Ha l'aria di non volerla abbandonare. Quasi in fondo alla strada, frena. «Porca miseria, vattene!» grida lei. Io prendo un'altra direzione. Mi allontano da loro. A tutta velocità, raggiungo l'entrata del museo ferroviario. Non so se Lyle Simmons sia il suo vero nome, o se anche quello, come buona parte di ciò che mi ha detto Da-
na, sia inventato. Però non ho dubbi sull'identità della sua vittima predestinata. Vuole me. L'ho visto due volte, prima all'ufficio postale, poi a Hana. Siamo solo in due a poterlo identificare: il sottoscritto, e Howard, l'impiegato dell'ufficio postale che ha visto il corriere consegnare il pacco con la bomba. Chissà se Howard è già stato spedito al creatore dal killer che vuole chiudere tutte le piccole falle del proprio lavoro, dopo l'eliminazione di Marcie Reed e lo sbaglio di Melanie. Mi accoccolo nell'ombra vicino all'ingresso del museo. C'è solo il carretto del custode, appoggiato a una porta aperta a pochi metri da me. Il killer sta avanzando nella mia direzione. Adesso infila un caricatore in quella che sembra una gigantesca pistola, un'arma uscita dall'arsenale di un'astronave, una cosa dalla quale sporgono il mirino laser e il silenziatore a forma di sigaro. Quest'uomo ha messo in piedi il suo tiro a segno personale, e ha scelto me come coniglietto-bersaglio. Sono riuscito a contare almeno otto colpi sparati su una strada pubblica e, a parte Laurel e Danny, nessuno ha visto niente. Con aria indifferente, comincia ad attraversare la strada, a superare lo spazio che ci divide. Raggomitolato, raggiungo il carretto, lo spingo via. Sferraglia sulla superficie irregolare di cemento fino alla luce della luna, poi si prende due pallottole. Il sacchetto in plastica al centro del pianale esplode. È pieno di spazzatura. Simmons pensa che io stia usando il carretto per coprirmi. Mentre lui è distratto, m'infilo nell'ingresso del museo, arrivo nell'atrio, e richiudo la porta senza fare rumore. Però non sento scattare il catenaccio. Mi giro a guardare. Avrei bisogno di una chiave che non c'è. Non ho modo di chiudere fuori il killer. Tutto è avvolto in una luce smorzata. Guardando fuori del vetro della porta, vedo il killer raggiungere il carretto, controllarlo, e poi spingerlo via. Procede per eliminazione. Guarda l'ingresso del museo, la porta chiusa. Io indietreggio nell'ombra, mi volto, mi rialzo, e corro. Mi metto a cercare, ma il custode non si vede. Giro intorno alla cassa, imbocco un lungo corridoio, poi volto in un altro corridoio sulla sinistra. Supero l'ascensore e la tromba delle scale. Lo sento armeggiare con le porte, fuori. Picchia su tutte, tranne sull'unica che sia aperta. Fa un sacco di rumore. Poi l'ultima, con un fruscio, gira
sui cardini e si richiude alle sue spalle. Una voce: «Ehi, che ci fa qui? Il museo è chiuso. Non può stare qui». «Sto cercando qualcuno.» Un accento dell'Est, qualche posto a nord di Boston. Origini proletarie. È la voce che ho già sentito una volta, quando lui ha consegnato il pacco a Marcie Reed e le ha chiesto di firmare. «Be', qui non c'è.» Ancora il custode. Per un secondo m'illudo che Simmons si lasci convincere a uscire. «E quello che cos'è?» Il custode si è accorto che sta succedendo qualcosa di strano. Sento un tonfo smorzato, come una bacchetta di piombo battuta su un tamburo giocattolo. Segue in rapida successione un secondo tonfo, poi il rumore rivoltante di qualcosa che cade sul pavimento: un sacco di arance gettato da un camion. Il custode è morto. Sono fermo dietro l'angolo dell'ascensore, a una trentina di metri dall'atrio. Mi muovo. Supero una parete di finestre che danno su una strada buia, deserta. La luna sta spuntando fra le nubi. Sull'altro lato, le luci di Fulton, il ristorante affollato, un rifugio irraggiungibile. Alle mie spalle, un'antica locomotiva a vapore (The Empire, dice la targa in legno) è montata su binari incastonati in un piedistallo di vetro. Il telaio brilla nella luce rifratta. Questo posto è troppo luminoso; sembra una sala giochi. Accelero il passo e me lo lascio alle spalle. Girato un angolo, incrocio un'altra locomotiva, col nome C.P Huntington scritto sul fianco. All'improvviso, la moquette finisce. I miei passi prendono a risuonare sul legno. Mi fermo a togliermi le scarpe. Le prendo in mano. Corro in calzini. Qualche metro, ed entro in una grande sala circolare, il cui soffitto è molto alto. Per terra, cemento. Materiale rotabile dappertutto, giganteschi dinosauri d'acciaio che torreggiano su di me nell'ombra. Ci sono quattro lucide locomotive sul fondo della sala, due vagoni con le porte spalancate, un vagone postale e un vagone letto, tutti su binari fissati nel cemento. Mi occorre un attimo per ritrovare l'orientamento, poi mi rendo conto di essere nel deposito locomotive, una specie di piattaforma di lancio per i treni. In alto, dietro alte porte in vetro, vedo la piattaforma girevole sotto la quale passano i binari. Alle mie spalle sento un fruscio di scarpe sulla moquette. Passi lenti, cauti, incerti sulla mia posizione. Mi giro, e le vedo, lucide nella luce fioca della sala. Spiccano sul legno passato con la cera: gocce del mio sangue, quattro gocce tra il punto in cui
mi trovo io e l'inizio della moquette. Altre gocce macchiano la moquette fino all'angolo più lontano. La ferita alla spalla non è seria, però ha perso sangue, e Lyle Simmons sta seguendo le gocce, come fossero briciole di pane in una caverna buia. Non ho il fazzoletto. Prendo dalla tasca la cravatta che mi ero tolto a cena. Pulisco il dorso della mano, dove il sangue è gocciolato da sotto la manica della giacca; poi, coi denti e con la mano buona, stringo la cravatta intorno alla ferita, all'attaccatura tra braccio e spalla, e faccio un nodo. La sensazione di una piccola puntura. Qualche passo per distanziarmi dall'ultima goccia di sangue. Certo di non sanguinare più, corro al trotto oltre il vagone postale e una grossa locomotiva. Aggiro un'altra locomotiva, e di colpo mi rendo conto che lo spazio a mia disposizione è quasi finito. Ci sono altre due locomotive, e poi la parete esterna dell'edificio. Sotto una delle due locomotive c'è uno spazio vuoto scavato nel cemento, simile a quelli che nelle stazioni di servizio servono per il cambio dell'olio, però molto più grande. Alle due estremità della locomotiva ci sono dei gradini, in modo che i visitatori possano scendere e camminare nella caverna sottostante il mostro d'acciaio per studiare il telaio di quest'ultimo. Una vampata di ricordi della mia infanzia. Una volta, in un cortile, ho giocato con una locomotiva divorata dalla ruggine. Ricordo che, dopo aver strisciato in mezzo alle massicce ruote trovavo, sopra gli assi, una caverna grande come una casetta, appena sotto il fondo a barile della caldaia. Sto alla larga da quella locomotiva. Sarebbe troppo facile per Simmons scendere e, guardando in su, vedermi. Mi staglierei sullo sfondo della macchina: un tiro a segno con un fondale di metallo. Prima o poi, una delle pallottole, rimbalzando, mi colpirebbe. Scelgo la seconda locomotiva. I numeri 10-10 sono scritti su una targa che indica una rampa di scale in legno che permettono ai visitatori di arrampicarsi in cabina. Mi sposto sull'altro lato e striscio nel triangolo aperto creato da due delle immense ruote motrici accoppiate. Lo spazio è più piccolo di quanto ricordassi dall'infanzia, e per un istante vengo invaso da una sensazione di claustrofobia: trenta tonnellate d'acciaio sopra la mia testa. Il mio corpo si trova adesso per metà nell'apertura sotto le ruote. Sdraiato sulla schiena, vedo, sopra uno dei giganteschi assi di una ruota, una massa d'acciaio con la circonferenza di un discreto tronco d'albero. Scivolo sotto ed eseguo qualche contorsione. Mi isso in cima all'asse. Adesso sono appollaiato come un gatto su un ramo, con la testa rivolta verso le ruote all'altro lato.
Striscio in avanti lungo l'asse. Nelle imponenti ruote motrici è scavata qualche fessura, vicino ai punti in cui le bielle si uniscono all'esterno delle ruote. Queste fessure mi concedono una visuale limitata, in direzione della zona dove la moquette cede il posto al legno: la fine delle tracce lasciate dalle mie gocce di sangue. Controllo sulla manica della giacca, per vedere se sta uscendo altro sangue. Sento una forte pulsazione alla tempia. Mentre mi sposto sotto l'immane volta della locomotiva, all'improvviso, dalle fessure della ruota, penetra un raggio di luce rossa, piccolo e intenso. M'immobilizzo. È il guaio della luce laser: è concentrata, non subisce diffusione con la distanza. Non riesco a capire se Simmons sia a dieci metri da me, o a due. Sto fermo, con la testa appoggiata alla parte interna della gigantesca ruota d'acciaio. Passano i secondi. Il sudore cola dalla mia faccia. Sento passi. Guardo: è a una decina di metri da me. Riesco a vedere soltanto le scarpe e l'orlo dei calzoni, e un'altra cosa, un fascio di luce. Simmons ha una torcia elettrica e sta guardando sotto una delle locomotive. È uno che si prepara bene. In questo istante capisco che, se resto qui, se la polizia non arriva in tempo, sono un uomo morto. Guardo i suoi piedi scomparire su per i gradini che portano al vagone postale. Sta controllando dentro. Il vagone deve essere lungo una ventina di metri, Poi Simmons arriverà in fondo, scenderà, e controllerà la locomotiva vicino al vagone, che ormai è l'unica cosa che ci divide. Nel vagone postale ci sono solo pochi finestrini rivolti in questa direzione, così corro il rischio. Scivolo giù dall'asse e mi lascio cadere sul cemento sotto le ruote. Striscio sullo stomaco nella stretta apertura ed esco allo scoperto, sul lato opposto della locomotiva rispetto a Simmons. Adesso ci sono due locomotive tra me e il vagone postale. Mi sposto a destra. È solo quando raggiungo l'ultima locomotiva, un'enorme macchina diesel, che mi rendo conto che questo mastodonte mi ha nascosto la scala che porta a una galleria soprastante, una specie di mezzanino sospeso sulla sala. In fretta, e in silenzio, giro l'angolo, arrivo ai gradini di cemento, e comincio a salire per due piani. Spunto così a un livello superiore del museo, delimitato da un parapetto in materiale plastico trasparente, perfettamente visibile da sotto. Per una decina di metri riesco a tenermene alla larga; poi arrivo a un ponte che corre tra la piattaforma esterna e le locomotive esposte sotto, nella grande sala. Il ponte è largo poco più di un metro, e io devo strisciare sullo stomaco per non avvicinarmi troppo al parapetto col rischio di essere
visto. Sento i passi di Simmons girare intorno alle locomotive sotto di me. Ci sono lampi occasionali di luce, rossa e bianca a fasi alterne, laser e torcia elettrica. Mi fermo, immobile come la morte, per un istante. La mia mente anticipa l'esplosione del vetro, se lui mi vedrà. E allora la vedo. Un'insegna sopra la porta all'altra estremità della galleria, lettere rosse nella luce bianca: USCITA. C'è un'altra via d'uscita, una rampa di scale sul fondo che scende all'atrio e che Simmons non può vedere. Un sentiero sgombro per la porta d'ingresso e il ristorante. Striscio sulle ginocchia, tenendomi lontano dal parapetto. Finalmente posso rialzarmi. Sono di nuovo alla parete costellata di finestre. Direttamente sotto di me c'è l'Empire con la sua piattaforma a specchio. E poi sento un nuovo rumore di passi. Scarpe da ginnastica che traggono scricchiolii dal legno, come due scoiattoli impegnati in una gara a chi piscia di più. Il mio primo pensiero va a un uomo di una squadra di pronto intervento della polizia. Con molta cautela, per evitare che Simmons mi faccia saltare la testa, striscio fino al parapetto e guardo giù. Non riesco a vedere il killer. Poi, tra le ombre, vedo emergere nel chiarore lunare una forma in movimento. Non è un poliziotto in uniforme nera, con una Heckler & Koch e un caricatore da venti cartucce. È Danny Vega, in tutta la sua innocenza, che sussurra il mio nome. «Zio Paul...» Potrei sputare, ma non lo colpirei. Si tiene attaccato alle pareti, cerca di restare nell'ombra, e intanto si tradisce con la bocca. «Zio Paul... Sei qui?» Sussurri che si possono udire a quindici metri di distanza. Poi afferro. Il ragazzo ha seguito la mia scia di sangue dalla strada a qui. Ogni passo lo porta più vicino a Simmons, acquattato chissà dove all'ombra delle gigantesche locomotive. E io mi chiedo se Danny abbia chiamato la polizia. Con mio nipote, non si può mai sapere. Un modo per attirare la sua attenzione... «Zio Paul...» Per un attimo penso di lanciargli una scarpa, ma il rumore lo tradirebbe immediatamente. Cerco in tasca e trovo qualche monetina. Guardo Danny. Tra un attimo lascerà il legno, passerà sul cemento. Dopo di che, pochi passi lo porteranno fra le locomotive, sotto l'occhio rosso
della morte. Prendo la mira con una monetina e la tiro. La guardo cadere. Un vaso di fiori altera la traiettoria. La moneta atterra in silenzio sulla moquette, vicino a uno dei pezzi del museo. Danny sta girando l'angolo. È quasi all'altezza del vagone postale. Sotto di me c'è una locomotiva enorme, forse la più grande di tutte: pare lunga quanto un campo da football. Lancio un'altra moneta dal parapetto, e questa volta miro al tetto della locomotiva. La moneta rimbalza sulla cabina. Il suono del rame sull'acciaio echeggia nel museo. Trattengo il respiro. Danny si ferma di colpo, si gira a guardare verso la locomotiva, poi alza gli occhi. Ma è girato nel senso sbagliato, con la schiena rivolta a me. Non ho alternative. Mi alzo in piedi e, nel silenzio più totale, agito freneticamente le braccia. Sono un'isola di movimento nel mare d'immobilità che mi circonda. All'improvviso, il vetro esplode. Sassolini di vetro temprato mordono la mia mano, mi entra polvere negli occhi. Indietreggio per sottrarmi alla pioggia, anche se adesso, in piedi, sono un bersaglio perfetto. Un'altra pallottola mi sfiora la testa e una parete di vetro esplode alle mie spalle, si spalanca sul cielo della sera. La sirena di un allarme. Mi butto sul pavimento. Danny sta guardando in su. Ha visto tutto. Si lancia in avanti, sembra sul punto di parlare. Avvicino un dito alle labbra, e con l'altra mano gli faccio cenno d'indietreggiare, di tornare sui propri passi fino all'ingresso, e uscire. Danny afferra. Guarda verso la sala buia, e si rende conto che il pericolo sta in quella direzione. Fa due passi. Fulmineo, sporgendo da uno dei pezzi esposti, con la pistola in mano, Simmons afferra Danny da dietro. Il ragazzo si divincola, ma il killer gli stringe la gola in una stretta mortale. La pistola è puntata alla tempia di Danny. «Una mossa, e sei morto», dice Simmons. La sua voce è perfettamente udibile. Mi vede sull'orlo del parapetto, dove sto immobile. Col laser potrebbe correre il rischio, provare a spararmi. Ma non avrebbe la certezza di uccidermi. Se io mi ributtassi sul pavimento, lui potrebbe non riuscire a prendere la mira una seconda volta. Dovrebbe salire le scale, e nel frattempo io, anche se ferito, potrei strisciare via. Riflette sulle varie opzioni, mentre l'allarme continua a strillare. Sa di avere una manciata di secondi, forse un paio di minuti, non di più. «Vieni giù», grida. «Subito. Se no uccido il ragazzo.»
«Non scendere», dice Danny. «Mi ucciderà lo stesso.» Solo e spaventato, mio nipote ha tanta lucidità mentale da capire benissimo la situazione. Simmons strozza la sua implorazione stringendogli la mano sulla gola. «Al dieci, muore. Uno... Due...» Guardo i suoi occhi. Sta parlando sul serio. Mi metto a correre. Torno indietro in un mare di frammenti di vetro, incurante di essere senza scarpe. «Tre... Quattro...» Giù per le scale a testa bassa. Una rampa, poi l'altra. Nel pozzo delle scale non sento più la voce di Simmons. Emergo sul fondo. Continuo a correre. «Otto... Nove...» «Sono qui!» urlo con tutto il fiato che ho in gola. Devo prendere tempo. Non ho ancora aggirato il vagone postale, per cui lui non riesce a vedermi e, senza le scarpe, che ho lasciato sopra, non può sentire i miei passi. In quest'istante, mi aspetto di sentire l'atroce rumore smorzato di un colpo sparato col silenziatore. Quando spunto da dietro il vagone postale, vedo Simmons. Si fa scudo di Danny. Il silenziatore è premuto alla testa del ragazzo. «Molto bene», dice. «In ginocchio. Adesso.» Fa le cose in fretta. Sa di non avere molto tempo. Mi butto in ginocchio e lui mi ordina di strisciare in avanti, fino alla luce proiettata dal vetro sotto la locomotiva. La sua mano si stringe sempre più sulla gola di Danny, sino a farlo ansimare, tossire. Poi Simmons getta a terra mio nipote e gli dice d'inginocchiarsi. «Mani dietro la testa», sibila. «Intrecciate le dita.» Obbediamo. Intanto, lui si sposta dietro di noi. Adesso non riesco più a vederlo. Le nostre schiene sono rivolte alla finestra in frantumi. Danny cerca di guardare, e la pistola gli assesta un colpo alla guancia. Sento l'acciaio rompere ossa. Danny ha un guizzo in avanti, come se dovesse cadere. «Occhi puntati in avanti.» Simmons è dietro Danny. Vedo la faccia del ragazzo chinarsi quando la pistola gli viene puntata alla nuca. È lui che Simmons vuole uccidere per primo. Tendo tutti i muscoli del corpo e, con le mani ancora intrecciate dietro la testa, sferro un colpo all'indietro con le spalle. Centro Simmons al ginocchio nello stesso istante in cui odo due esplosioni, l'una dopo l'altra. Un
corpo mi cade addosso di sbieco. I capelli sono inzuppati del sangue che esce a fiotti dalla ferita. Il corpo scivola sul pavimento, e resta supino. Vedo gli occhi rivolti all'insù, privi di vita, di Lyle Simmons. Mi giro. Nell'ombra, incorniciata dal chiarore lunare, dietro la parete di vetro infranto, c'è Laurel. Ha in mano una pistola, col silenziatore che fuma. 32. Nel furgone abbandonato da Lyle Simmons di fronte a Fulton la polizia ha trovato un piccolo arsenale di armi da fuoco, il necessario per ogni occasione, nonché l'attrezzatura per caricare munizioni e per fabbricare ordigni esplosivi. Tutto ciò che ci si potrebbe aspettare da qualcuno che di professione fa l'assassino. Laurel ha raccontato alla polizia di avere guardato subito lì, in quel furgone, dopo aver finalmente lasciato le tenebre del deposito ferroviario e aver scoperto che Danny era scomparso, lasciando la Vespa in strada. È stato nel furgone che ha trovato l'arma che ci ha salvato la vita, la pistola che ha usato per sparare a Lyle Simmons. Danny si è lasciato prendere dal panico. Non ha mai telefonato alla polizia. Percorso mezzo isolato, sotto il cavalcavia della superstrada, ha fatto dietrofront ed è tornato a cercare sua madre, che nel frattempo era svanita. Si è guardato un po' intorno, poi ha visto il sangue, ha pensato che Laurel potesse essere entrata nel museo, e ha deciso di seguirla. La polizia ha sottoposto ai test entrambe le armi, e gli esami balistici rivelano che la pistola usata da Laurel per uccidere Lyle Simmons è la stessa che ha sparato la pallottola rinvenuta nel corpo di Melanie Vega. Per le autorità, questa è l'ultima prova necessaria per chiudere il caso; gli ultimi puntini sulle «i» dell'omicidio di Melanie. Qualcuno sta già chiedendo che il Congresso indaghi sul programma federale di protezione dei testimoni, sui rischi che esso presenta per gli ignari cittadini che si trovino ad avere a che fare con bersagli viventi come Kathy Merlow. Il programma ha implicazioni per tutti noi, non ultima quella di sapere chi siano veramente i nostri vicini di casa. Ci sono state varie conferenze stampa al ministero della Giustizia, a Washington. I signori al potere hanno dichiarato di non sapere nulla di tutto ciò, vale a dire delle coperture d'informazioni attuate dopo la morte di Melanie.
Viviamo in un'epoca in cui i leader della nazione si comportano sempre più da boss del crimine che da statisti. Il concetto di «menzogna plausibile» tende a sostituirsi a quello di «verità», ed è ormai normale sentire uomini politici che affermano di essere del tutto all'oscuro di certe malefatte compiute in loro nome. È l'era dell'arroganza, a ruota libera, e dell'apparire, meglio se televisivo. La frase: «Dimostrami che cosa sapevo, e quando l'ho saputo» è diventata un motto nazionale. In tutto questo, Laurel si è dimostrata a un tempo elastica e piena di risorse. La calma in persona nell'oceano tempestoso di una crisi. Quando è entrata nel museo, quella sera, era assolutamente decisa a salvare Danny, a qualunque prezzo. Incidentalmente, è riuscita a salvare anche la mia vita, per quanto in primissimo luogo si sentisse solo ed esclusivamente la madre di suo figlio. E, come accade spesso in casi del genere, entrando in quel museo Laurel è riuscita a trovare un'occasione davvero insperata. L'occasione di sbarazzarsi per sempre della pistola che ha ucciso Melanie Vega. Il fatto è che, per quanto Lyle Simmons fosse stato pagato per uccidere Kathy Merlow, non sapremo mai se sarebbe riuscito o no a trovare l'indirizzo giusto, perché non ne ha mai avuto l'occasione. Il fato ha imbrogliato le carte, e Simmons è entrato in scena un po' troppo tardi. Stamattina Laurel è seduta di fronte a me, alla mia scrivania. È trascorso quasi un mese da quella notte. Siamo soli in ufficio. È sabato mattina, e Laurel mi ha chiesto di parlarci qui. Danny e Julie sono con Sarah. L'hanno portata al cinema, a vedere uno di quei nuovi film a cartoni animati con tanta musica e animazione computerizzata. Sulla mia scrivania c'è l'ultima prova materiale che Morgan Cassidy aveva promesso di farmi avere, ai tempi del processo. Dato che il caso è chiuso, è ormai una prova del tutto vuota di senso, e dubito che Morgan vi abbia riflettuto molto sopra. La polizia ha il suo assassino morto e sepolto. Eppure sulla mia scrivania ci sono gli appunti di lavoro del dottor Simon Angelo. Parlano di DNA, del legame genetico tra il bambino mai nato e Jack Vega. Io non ho mai realmente accettato l'idea di Jack come padre, e mi sono sempre chiesto se Angelo non avesse estratto, dal suo cilindro di scienziato, un magico coniglio per salvare le tesi della Cassidy. Ho trovato la risposta in una criptica nota a piè di pagina dei suoi appunti, una nota non scritta da Angelo, bensì stampata a caratteri minuscoli sul modulo che si usa per esami del genere. Sì, che Jack potesse essere il padre di quel bambino era un fatto valido, assolutamente congruente coi risultati del test. Però si basava su una premessa errata: l'ipotesi che non esistessero
altri maschi forniti del patrimonio genetico di Jack. I test del DNA non avevano preso in considerazione la possibilità di Danny. Questa è la tipica conversazione tra avvocato e cliente. Laurel, prima di parlare, mi ha chiesto molte rassicurazioni sul segreto d'ufficio. Era nervosissima, anche se io le ho detto e ripetuto che le mie labbra sono sigillate, se non dalla legge, almeno dai legami di sangue. E così mi ragguaglia sui particolari che, fino a questo momento, mi sono limitato a indovinare. Non è stata Laurel a recarsi a casa di Jack quella sera. Non era lei la persona che la signora Miller ha intravisto sotto il cappuccio della felpa, ma qualcuno che le somiglia moltissimo. Danny. Era andato là per parlare, e forse per mettere in pratica la soluzione estrema e drammatica che può sembrare giusta a un teenager: uccidere non Melanie, bensì se stesso. Danny sapeva da quasi due mesi che la matrigna aveva in grembo suo figlio, un oscuro segreto che solo Melanie e lui condividevano. Per questo lei aveva tanto insistito con Jack per la custodia dei figli. Spinta da un insieme di paura e di desiderio, Melanie sapeva che se non fosse riuscita a tenere Danny vicino a sé, sotto la propria ala, prima o poi il ragazzo sarebbe crollato. Avrebbe parlato con qualcuno. Se non con le autorità, per lo meno con la madre. La loro esistenza era diventata una lotta quotidiana con la disperazione. Stando a Laurel, la sublime ironia di tutto questo è che forse l'ultimo atto della vita di Melanie è stato un gesto virtuoso. Arrivando, Danny ha trovato Melanie in bagno. Io posso soltanto immaginare quali pensieri siano corsi nella mente di Melanie in quegli ultimi istanti, mentre Danny, isterico, s'infilava il silenziatore dapprima in bocca, e poi se lo puntava alla tempia. Alla fine, lei si è alzata nella vasca e ha implorato il ragazzo di mettere giù la pistola. Quando lui ha rifiutato, lei è uscita dalla vasca, ha messo un piede sul tappetino, e ha tentato di rubargli la pistola. Ha afferrato la canna, e hanno lottato. Melanie era per metà fuori della vasca, per metà dentro. Poi, Danny, orripilato, ha adagiato il corpo della matrigna, della sua seduttrice, nell'acqua. Il tappetino, inzuppato del sangue di Melanie, coperto delle impronte sanguinolente dei piedi di Danny, si trovava effettivamente in casa di Jack, quella sera. Un accordo sulla divisione dei beni coniugali parla anche dell'ultimo chiodo, dell'ultimo stuzzicadenti, ma spetta poi alle due parti
provvedere alla concreta divisione. Possono esserci molte spiegazioni per ciò che è accaduto quella sera di tanto tempo fa, ma in sostanza tutto si riduce a una sola cosa: al fascino che bellezza e astuzia possono esercitare su gioventù e innocenza. All'influenza indebita di Melanie su Danny. «Dove ha trovato la pistola?» chiedo. «E dove vuoi che l'abbia trovata?» risponde lei. «Dalla fonte di ogni vizio giovanile. Un armadietto della scuola. Un amico ha detto a Danny che i membri di una gang tenevano l'arma in un certo armadietto. Così Danny l'ha presa.» «Penso di averli conosciuti», le dico. I ragazzi tanto duri che sono venuti a casa mia una sera, quelli che Dana ha fatto scappare con la telefonata alla polizia. Non volevano Danny; volevano indietro la pistola. E forse avrebbero potuto usarla per ricattarlo, se fossero riusciti a tirare le somme. L'arma, quella sera, non si trovava nel furgone di Simmons, come ha raccontato Laurel alla polizia. Era nella scatola di legno sul retro della Vespa di Danny, dove era rimasta fin dall'omicidio di Melanie; il piccolo scooter parcheggiato per mesi nel mio garage, sul quale Sarah si è seduta a giocare tante volte. Di quello stavano discutendo così animatamente Laurel e Danny, quando io sono uscito da Fulton e li ho visti in strada. Laurel era girata di schiena. Danny le aveva appena consegnato la pistola, l'aveva messa nella sua borsetta. Lei se ne doveva sbarazzare, cosa che avrebbe dovuto fare nel corso del suo viaggio a Reno di tanti mesi prima. Nel caos successivo all'omicidio di Melanie, Laurel aveva messo in borsa alcune cose, in previsione del viaggio, per coprire Danny. Aveva detto al figlio di mettere la pistola in un sacchetto, assieme al tappetino da bagno, e di sistemare il sacchetto nel bagagliaio della sua auto. Il fatto che la pistola sia rimasta nella scatola della Vespa, mi riferisce adesso, è solo una conseguenza del panico e della confusione di un teenager. Io credo che, più che di disordine, si sia trattato di un piano molto logico, almeno per la mente di Danny. Il ragazzo aveva cominciato a chiedersi che cosa sarebbe successo se sua madre fosse stata arrestata e accusata del delitto. È vero che ha guardato da lontano, con estrema ansia, il processo, ma era convinto di avere in mano l'asso vincente. Ha tenuto con sé, sino alla fine, l'arma del delitto; e, vista la sua conoscenza approssimativa dei meccanismi della giustizia, pensava che se sua madre fosse stata condannata sarebbe stato molto semplice farsi avanti, confessare il delitto, e pro-
durre l'arma. Dubito seriamente che la polizia si sarebbe bevuta la sua storia. Posso immaginare l'allarme che ha provato Laurel quando si è trovata davanti al canale di scarico della diga Boca, come mi racconta di avere fatto quella notte, in una sosta del suo viaggio verso Reno, e ha scoperto che la pistola non c'era. Aveva intenzione di riempire il sacchetto di pietre e gettare tappeto e pistola nell'acqua. Ma non aveva la pistola. Ha capito che alla polizia non sarebbe stato troppo difficile collegare Danny all'omicidio, se fosse stata ritrovata l'arma. Per questo ha tenuto il tappeto, lo ha lavato per togliere il sangue, e ha fatto in modo che la polizia lo trovasse quando l'ha arrestata. Il tappeto doveva impedire ai poliziotti di cercare un altro colpevole. Laurel sapeva che Jack lo avrebbe identificato, e lei si sarebbe limitata a contraddire le sue affermazioni. Senza sangue o altre prove, che Laurel aveva eliminato col lavaggio nel solvente chimico, il tappeto, a suo giudizio, sarebbe diventato una prova incriminante solo marginale. Si sarebbe trattato della sua parola contro quella di Jack. Inoltre lei non aveva mai preteso l'esecuzione puntigliosa dell'accordo sulla divisione dei beni, il che tornava a suo vantaggio. In quanto a Jack, il nobile legislatore si è dato alla macchia. Al momento è ricercato. In una lunga e vaneggiante lettera imbucata in un'altra città e indirizzata al giudice della Corte Federale, Vega afferma che il suo istinto di sopravvivenza è più acuto del suo rispetto per la Corte, ovvero per «il vostro cosiddetto sistema giudiziario». Nella lettera, Jack dà fiato alle trombe contro il governo per la copertura d'informazioni sull'omicidio della moglie e, dopo avere nuotato a lungo in un mare di autocommiserazione, conclude di essersi sentito tradito dalla rivelazione della sua ammissione di colpa durante il processo. Riferisce di essersi dovuto sottoporre a un'indispensabile terapia medica: e senza dubbio si riferisce all'operazione di chirurgia plastica che gli permetterà di non essere scoperto. Sospetto che già da un po' di tempo stesse dirottando quelli che normalmente si chiamano «contributi per la campagna elettorale» su un conto corrente in qualche Paese lontano. L'ironia della situazione sta in questo: siccome Jack è sparito prima della sentenza definitiva, tecnicamente non è mai stato condannato. E ciò rende disponibile la sua pensione di parlamentare, che sarebbe stata azzerata se lui fosse finito in carcere. La pensione viene versata ai suoi parenti più prossimi, cioè ai figli di Laurel. Laurel ha ottenuto la custodia e, per la prima volta da anni, ha un
reddito decente. A conti fatti, sarà Dana a pagare il prezzo più alto. I suoi sogni di nomina a giudice federale sono ormai ridotti in cenere. È stata sospesa dall'ufficio, nell'attesa che sia completata un'indagine. Io non ho mai dubitato che lei obbedisse a ordini dall'alto. Però adesso stanno tutti sfruttando questa cosa, la macchia della morte di Melanie, per impedirle di raggiungere posizioni più elevate sulla scala della carriera. Dopo tutto, Dana ha fatto ogni sforzo possibile per far scagionare Laurel. È arrivata al punto di offrirmi un falso testimone, e questo non perché fosse cattiva, ma perché sapeva che Laurel era innocente. In realtà, non sapeva niente. Probabilmente testimonierò a suo favore, quando sarà il caso. La lealtà personale è dura a morire. NOTA DELL'AUTORE IL 21 settembre 1992, su Newsweek, a pagina 70, è apparso l'articolo seguente: PICCOLI ERRORI ELETTRONICI LO ZIO SAM È L'ENNESIMO ANALFABETA DEL COMPUTER Quando, nel giugno 1990, Charles Hayes ha comprato a un'asta, per 45 dollari in tutto, due camion carichi di computer scartati dal governo, sapeva che stava concludendo un buon affare. Che fosse un vero colpaccio, però, lo ha capito solo quando gli ha telefonato, in preda al panico, l'ufficio del procuratore degli Stati Uniti di Lexington, Kentucky. Gli hard disk dei computer contenevano infatti elenchi riservati d'informatori, elenchi stilati dal ministero della Giustizia a uso degli investigatori criminali federali. I computer contenevano anche i nomi di persone inserite nel programma di protezione dei testimoni federali, persone le cui vite dipendono dal fatto che i dati che le riguardano non cadano in mani sbagliate. Quando gli avvocati del ministero della Giustizia hanno telefonato, Hayes aveva già rivenduto i computer. A quanto risulta, il tecnico del governo che ha preparato le macchine per l'asta ha tentato di cancellare tutti i file servendosi di un magnete troppo debole.
RINGRAZIAMENTI Scrivendo quest'opera ho ricevuto assistenza e incoraggiamento da molte persone. Senza il loro aiuto non sarei mai riuscito a completarla. In primo luogo ringrazio mia moglie, Leah, e mia figlia, Meg, per la pazienza, il sostegno, e lo sterminato amore; poi il mio editore, Phyllis Grann, e il mio editor, George Coleman, per gli inesauribili sforzi, la fiducia, e l'immenso entusiasmo; il mio agente, John Hawkins, per i suoi pacati consigli nei momenti caotici; Sam Solinsky, per le sue ricerche e l'impeccabile raccolta di notizie su questioni politiche e legali che sono servite a rendere questo libro autentico nell'ambientazione e nei personaggi; il dottor Nils A. Schoultz, per l'amicizia e l'appoggio di tutta una vita, per i caldi ricordi degli anni di college trascorsi assieme all'University of California di Santa Cruz, e per la sua consulenza su problemi urologici, in particolare per i dati sulle probabilità di successo della procedura medica nota come vasectomia; Thomas M. Cecil, giudice del Tribunale Superiore della contea di Sacramento, per l'incoraggiamento e il sostegno, e in particolare per la sua assistenza nel conferire colore e autenticità alle modernissime strutture della prigione di contea di Sacramento; Lance Gima, vicedirettore del California Crime State Lab di Berkeley, California, e Debby Bell, coordinatore dei test di paternità del laboratorio Meris F.D.L. di Sacramento, California, per l'assistenza nelle questioni relative ai test di paternità e a quelli sul DNA; e infine, ma non per ultima, Meg Byrerton, assistente del California Department of Parks and Recreations, per l'aiuto riguardo al museo ferroviario della California. FINE