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DEAN KOONTZ IL VOLTO (The Face, 2003) Questo libro è dedicato a tre uomini eccezionali e alle loro mogli, che hanno dovuto impegnarsi molto per riuscire a modellarli da un'argilla così grezza. Nell'ordine: Leason e Marlene Pomeroy, Mike e Edie Martin, Jose e Rachel Perez. Dopo il Progetto, non sarò più capace di alzarmi al mattino, trascorrere un solo momento della giornata a casa mia o andare a dormire alla sera senza pensare a voi. Immagino che dovrò semplicemente convivere con questa realtà. Lo spirito umano civilizzato... non può liberarsi della sensazione del mistero. THOMAS MANN, Doktor Faustus 1 Dopo che la mela era stata tagliata in due, le metà erano state cucite insieme con un grosso filo nero. I dieci punti erano distanziati in modo uniforme. Ogni nodo era stato legato con la meticolosità di un chirurgo. La varietà di mela, una Red delicious, poteva avere un significato. Considerato che questi messaggi erano stati inviati sotto forma di oggetti e immagini, mai con parole, ogni particolare poteva rifinire l'intenzione del mittente, così come gli aggettivi e la punteggiatura rifiniscono una prosa. Tuttavia questa mela era stata scelta perché non era matura. Probabilmente una polpa più morbida si sarebbe disfatta anche se l'ago fosse stato usato con la massima cura e ogni punto passato delicatamente. In attesa di un esame più approfondito, la mela si trovava sulla scrivania dello studio di Ethan Truman. Accanto alla mela c'era la scatola nera in cui era stata chiusa e la carta velina nera che l'aveva avvolta. La scatola aveva già fornito tutti gli indizi che conteneva: nessuno. Situato nell'ala ovest della grande villa, l'appartamento al pianterreno di Ethan era costituito da uno studio, una camera, un bagno e una cucina. Le alte portefinestre si aprivano su un panorama assolutamente irreale. Chi in precedenza aveva occupato quell'appartamento avrebbe chiamato
lo studio «salotto» e lo avrebbe arredato di conseguenza. Ethan conduceva una vita troppo poco salottiera per dedicarvi un'intera stanza. Prima di aprire la scatola nera, l'aveva fotografata con una macchina digitale. Aveva anche scattato istantanee della Red delicious da tre diverse angolature. Dava per scontato che la mela fosse stata divisa in due per inserire un oggetto nel torsolo. Ma esitava a tagliare i punti per vedere che cosa ci fosse dentro. Per certi versi, anni di lavoro come detective alla squadra Omicidi lo avevano indurito. Ma allo stesso tempo, troppa esperienza di violenze estreme lo avevano reso vulnerabile. Aveva solo trentasette anni, ma la sua carriera nella polizia si era già conclusa. Tuttavia il suo istinto era rimasto particolarmente affinato e le sue più cupe aspettative erano ancora intatte. Il vento colpiva le finestre con un mormorio insistente. La pioggia bussava sommessamente ai vetri. Quel blando temporale gli offrì la scusa per lasciare la mela in attesa e per avvicinarsi alla finestra più vicina. Intelaiature, montanti, divisori dei pannelli di vetro... ogni particolare di ogni singola finestra di quell'enorme villa era stato fabbricato in bronzo da abili artigiani. L'esposizione agli elementi aveva favorito il formarsi di una gradevole patina verde muffa sulle superfici esterne. All'interno, grazie a una diligente manutenzione, il bronzo appariva di un cupo rosso-marrone. Il vetro di ciascun pannello era molato lungo i bordi. La molatura era stata eseguita anche ai vetri delle più umili stanze di servizio, il retrocucina, la lavanderia al pianterreno. Sebbene la residenza fosse stata costruita per un magnate della cinematografia durante gli ultimi anni della Grande Depressione, appariva evidente che il committente non aveva badato a spese, a partire dall'atrio d'ingresso via via fino all'ultimo corridoio posteriore. In un'epoca in cui l'acciaio scendeva di prezzo, gli indumenti restavano invenduti nei negozi e venivano divorati dalle tarme, le auto si arrugginivano nei saloni di esposizione per mancanza di clienti, l'industria cinematografica continuava a prosperare. Negli anni di vacche magre così come in quelli di vacche grasse, le uniche due necessità assolute erano il cibo e le illusioni. Dalle finestre dello studio, il panorama sembrava un dipinto utilizzato a volte nelle riprese cinematografiche: una scena dimensionale mirabilmente
rappresentata che, attraverso l'occhio ingannatore della cinepresa, poteva servire in modo convincente sia come paesaggio di un pianeta lontano, sia come un luogo di questo mondo, perfetto come la realtà non era mai. Più verde dei campi dell'eden, intorno alla casa si estendeva a perdita d'occhio un prato in cui non cresceva neppure una pianta infestante e nel quale non si scorgeva il più piccolo filo d'erba ingiallito. Le maestose chiome delle querce della California e i rami spioventi dei melanconici cedri deodara apparivano argentati e ornati di diamanti grazie alla pioggerellina di dicembre. Attraverso un velo di pioggia sottile come capelli d'angelo, Ethan riusciva a scorgere in distanza l'ultima curva del viale d'accesso. L'acciottolato di quarzite grigioverde, che la pioggia faceva scintillare come argento, conduceva all'ornamentale cancello di bronzo che si apriva nel muro di cinta della proprietà. Durante la notte, l'indesiderato visitatore si era avvicinato al cancello a piedi. Probabilmente sospettando che quell'imponente barriera fosse dotata di un moderno sistema di sicurezza e che il peso di chiunque si fosse arrampicato avrebbe fatto scattare l'allarme nella postazione di monitoraggio, aveva lanciato il pacchetto oltre il cancello, facendolo cadere sul viale d'accesso. La scatola contenente la mela era stata avvolta in un foglio di plastica a bolle e poi sigillata in un sacchetto di plastica bianca per proteggerla ulteriormente dalle intemperie. Un fiocco rosso da regalo, pinzato sul sacchetto, rendeva impossibile scambiare il pacchetto per un sacco della spazzatura. Dave Ladman, uno dei due guardiani del turno di notte, aveva raccolto l'involucro alle tre e cinquantasei del mattino. Maneggiando il sacchetto con la massima cautela, l'aveva portato nell'ufficio degli addetti alla sicurezza che si trovava nella palazzina del giardiniere, sul retro della tenuta. Dave e il suo compagno di turno, Tom Mack, avevano sottoposto il pacchetto ai raggi X per mezzo di un fluoroscopio. Cercavano i fili e gli altri componenti metallici di un congegno esplosivo o di un ordigno mortale caricato a molla. Oggigiorno, però, alcune bombe possono essere fabbricate senza parti metalliche. Di conseguenza, come passo successivo, Dave e Tom avevano utilizzato un analizzatore di odori capace di rilevare trentadue composti esplosivi, partendo solo da tre molecole caratteristiche per centimetro cubo d'aria.
Solo dopo che il pacchetto si era rivelato «pulito», i guardiani avevano aperto l'involucro. Vedendo la scatola da regalo nera, avevano lasciato un messaggio sulla casella vocale di Ethan e avevano conservato il pacchetto per lui. Alle otto e trentacinque di quella mattina, una delle due guardie del primo turno, Benny Nguyen, aveva portato il pacchetto nell'appartamento di Ethan. Benny aveva con sé anche una videocassetta contenente le immagini che le telecamere montate lungo il perimetro della proprietà avevano registrato al momento della consegna. In aggiunta a tutto ciò, offrì a Ethan una tradizionale ciotola d'argilla vietnamita con cibo preparato da sua madre, il com tay cam, un piatto a base di pollo e riso di cui il detective era ghiotto. «La mamma ha letto di nuovo la cera che cola dalle candele», lo informò Benny. «Ne ha accesa una a tuo nome, l'ha letta, e dice che hai bisogno di essere fortificato.» «Per che cosa? In questi giorni la cosa più faticosa che faccio è alzarmi al mattino.» «Non ha detto per quale motivo. Ma di certo non per gli acquisti di Natale. Mentre parlava aveva quello sguardo da drago del tempio.» «Quello che convince anche i pittbull a sdraiarsi a pancia in su?» «Proprio quello. Dice che hai bisogno di mangiare bene, di recitare sempre le tue preghiere la mattina e la sera, e di evitare di bere superalcolici.» «C'è un problema. Bere superalcolici è il mio modo di pregare.» «Io dirò alla mamma che hai vuotato la tua bottiglia di whisky nel lavandino e che, quando me ne sono andato, ti eri inginocchiato e ringraziavi Dio per aver creato le galline, così che lei potesse prepararti il com tay cam.» «Tua madre non accetta mai un no come risposta», commentò Ethan. Benny sorrise. «Non accetta neppure un sì. Non si aspetta alcuna risposta. Solo una doverosa obbedienza.» Adesso, un'ora più tardi, Ethan se ne stava davanti alla finestra e fissava la pioggia sottile che, come fili di perline, ornava le colline di Bel Air. Contemplare le condizioni del tempo gli schiariva le idee. A volte solo la natura sembrava reale, mentre tutti i monumenti e le azioni dell'uomo apparivano come scenari e trame di sogni. Durante tutti gli anni trascorsi nella polizia, i suoi colleghi gli avevano sempre detto che pensava troppo. Alcuni di loro erano morti. Quella con la mela era la sesta scatola nera ricevuta nel giro di dieci
giorni. Il contenuto delle cinque precedenti era piuttosto inquietante. I corsi di psicologia criminale, uniti ad anni di esperienza sulla strada, avevano reso Ethan difficilmente impressionabile riguardo alla capacità umana di commettere del male. Tuttavia questi regali lo preoccupavano notevolmente. Negli ultimi anni, grazie ai pirotecnici malvagi del cinema, qualsiasi stupratore o aspirante serial killer, impegnato a recitare mentalmente un suo film, non si limitava più a svolgere semplicemente il suo sporco lavoro e a togliersi di mezzo. La maggior parte sembrava ossessionata dall'idea di inventarsi un personaggio, una firma originale da lasciare sulla scena del crimine e ingegnose provocazioni per tormentare le sue vittime prima di ucciderle o, dopo il delitto, per farsi beffe della tanto declamata competenza della polizia. Tuttavia le loro fonti di ispirazione si erano ormai prosciugate. Quella gente riusciva soltanto a far apparire spaventosi atti di crudeltà come noiose buffonate di un clown da strapazzo. Ma il mittente delle scatole nere era riuscito dove altri avevano fallito. Prima di tutto, le sue tacite minacce erano ricche d'inventiva. Quando le sue intenzioni fossero state finalmente svelate e le minacce chiarite alla luce delle azioni che avrebbe intrapreso, forse quei messaggi si sarebbero rivelati anche intelligenti. Addirittura in modo diabolico. Inoltre quell'individuo non si era attribuito alcun stupido o ridicolo soprannome con il quale deliziare i tabloid quando, alla fine, questi fossero venuti a conoscenza delle sue attività. Non si firmava affatto, il che stava a indicare sicurezza di sé e scarso desiderio di celebrità. C'era poi il fatto che il soggetto da lui preso di mira era il divo più famoso del mondo, forse l'uomo più protetto della nazione dopo il presidente degli Stati Uniti. Eppure, invece di dargli la caccia segretamente, costui rivelava le sue intenzioni attraverso indovinelli privi di parole ma colmi di minaccia, rendendo così la sua preda ancor più difficile da raggiungere. Dopo aver girato e rigirato mentalmente la mela, esaminando i particolari dell'imballaggio e della presentazione, Ethan andò in bagno a prendere un paio di forbicine. Poi tornò alla scrivania. Scostò la poltroncina. Si sedette, spinse da parte la scatola vuota e collocò la mela cucita al centro del ripiano. Le prime cinque scatole nere, ciascuna di dimensioni diverse, e il relativo contenuto, erano già state esaminate per rilevare eventuali impronte digitali. Lui stesso ne aveva cosparse tre di polverina, ma inutilmente.
Finché le scatole giungevano senza alcun messaggio di accompagnamento, la polizia non le avrebbe considerate minacce di morte. Fintanto che l'intenzione del mittente restava sconosciuta, la questione non riguardava le autorità. Le consegne quattro e cinque erano state affidate a un vecchio amico che lavorava nel laboratorio impronte della Scientifica del dipartimento di polizia di Los Angeles, che le aveva esaminate in via non ufficiale. Erano state collocate in una vasca di vetro e sottoposte a vapori di cianoacrilato, che si condensavano immediatamente in forma di resina sulle sostanze oleose che costituivano le impronte nascoste. Illuminate da una lampada fluorescente, non avevano rivelato la tipica struttura della resina bianca. Allo stesso modo, in un locale buio del laboratorio, con il cono di luce di una lampada alogena puntato ad angoli obliqui, le scatole e il loro contenuto avevano continuato ad apparire pulite. La polvere magnetica nera, applicata con un grosso pennello, non aveva rivelato nulla. Anche immersi in una soluzione al metanolo di rodamina 6G, collocati in un locale buio e scansiti dall'inquietante fascio di luce di un generatore laser, gli oggetti non avevano rivelato nessuna delle tipiche spirali luminose. Quell'individuo era troppo accorto per lasciare simili tracce. Nonostante ciò, Ethan maneggiò questa sesta consegna con la stessa cura che aveva usato per esaminare le cinque precedenti. Di sicuro non c'erano impronte da poter danneggiare, ma in seguito avrebbe potuto voler eseguire un ulteriore controllo. Servendosi delle forbicine, tagliò sette punti, lasciando gli ultimi tre a mo' di cardini. Il mittente doveva aver cosparso la mela di succo di limone, o di qualche altro conservante abitualmente usato in cucina, per assicurarsi che il frutto si presentasse al meglio. La polpa era rimasta quasi tutta bianca, con solo qualche traccia marroncina vicino alla buccia. Il torsolo era stato lasciato. Ma i semi erano stati eliminati e la cavità svuotata per lasciare spazio a un oggetto. Ethan si era aspettato di trovare un verme: un lombrico, un agrodite, una sanguisuga, un bruco... un verme qualsiasi. Invece, inserito nella mela, trovò un occhio. Per un brutto momento pensò che potesse essere vero. Poi si rese conto che era soltanto un globo di plastica dotato di particolari decisamente realistici.
In realtà, non proprio un globo, ma un emisfero. La parte posteriore dell'occhio era piatta, con un'asola. Da qualche parte, una bambola guercia stava ancora sorridendo. Forse, quando quell'individuo guardava la bambola, vedeva il famoso oggetto della sua ossessione mutilato allo stesso modo. Ethan si sentì turbato da quella scoperta quasi come se, nella mela, avesse trovato un occhio vero. Con l'occhio, nella cavità svuotata dai semi, c'era un foglietto accuratamente piegato, leggermente inumidito dal succo. Quando lo dispiegò, Ethan vide che c'era qualcosa scritto a macchina, il primo messaggio diretto dopo sei pacchetti: L'OCCHIO NELLA MELA? IL VERME GUARDINGO? IL VERME DEL PECCATO ORIGINALE? LE PAROLE HANNO UN FINE CHE NON SIA IL CAOS? Ethan era davvero confuso. Qualunque cosa significasse, quella minaccia gli appariva particolarmente pericolosa. In questo caso il mittente aveva fatto una dichiarazione piena di rabbia, anche se enigmatica, il cui simbolismo doveva essere interpretato correttamente, e in fretta. 2 Oltre i vetri molati, le nuvole nere che avevano mascherato il cielo ora si nascondevano dietro i grigi veli di una foschia che si spostava pigramente. Il vento era andato a lamentarsi altrove e gli alberi fradici di pioggia si ergevano solenni come i partecipanti a un corteo funebre. Il temporale si avvicinava sempre più, e da ciascuna delle tre finestre dello studio Ethan osservava quel tempo vestito a lutto, mentre meditava sul significato della mela nel contesto dei cinque strani oggetti che l'avevano preceduta. A sua volta, la natura lo scrutava attraverso una cataratta lattiginosa, armonizzandosi con la nebbiosa visione interna di Ethan. Probabilmente la lucida mela rappresentava la fama e la ricchezza, l'invidiabile vita del suo datore di lavoro. Quindi l'occhio della bambola poteva essere una specie di verme, il simbolo di una particolare corruzione che si nascondeva al centro della fama, di conseguenza il significato poteva essere un atto d'accusa, una condanna del Volto. Da dodici anni, l'attore era il divo che aveva fatto incassare le cifre più elevate ai botteghini di tutto il mondo. Fin dal suo primo film di successo, i giornali che si occupavano di personaggi celebri si erano riferiti a lui
chiamandolo il Volto. Si diceva che questo lusinghiero soprannome fosse scaturito contemporaneamente dalla penna di alcuni giornalisti, accomunati da una delirante ammirazione per il suo aspetto attraente e carismatico. In realtà, un astuto e adrenalinico pubblicitario aveva chiesto che gli fossero restituiti tutti i favori fatti e aveva pagato una bella cifra per architettare questa spontanea acclamazione e continuare a sostenerla per più di un decennio. Ai tempi della Hollywood in bianco e nero, così remota da essere considerata ormai preistoria, anche la divina Greta Garbo era nota al pubblico come il Volto. Quel soprannome era stata una trovata dello studio cinematografico, ma poi la Garbo si era dimostrata molto più che una trovata pubblicitaria. Da dieci mesi, Ethan lavorava come capo del servizio di sicurezza di Channing Manheim, il Volto del nuovo millennio. Fino a quel momento, l'attore non aveva dato neppure vagamente prova della profondità della Garbo. Channing sembrava non possedere altro che il volto del Volto. Non che Ethan disprezzasse l'attore. Il Volto era affabile e aveva i modi rilassati di un vero semidio assolutamente certo che la vita e la gioventù per lui siano eterne. L'indifferenza del divo per qualsiasi situazione che non lo riguardasse direttamente non nasceva né dall'egoismo, né da una voluta mancanza di solidarietà. Semplicemente non possedeva capacità intellettive sufficienti a fargli comprendere che la storia di un individuo non poteva essere riassunta nella pagina di un copione e che le sfaccettature della sua personalità erano troppo complesse per essere rappresentate nell'arco di novantotto minuti. Se occasionalmente era crudele, non ne era mai consapevole. Tuttavia, se non fosse stato quello che era e se non avesse avuto un aspetto così attraente, nulla di ciò che Channing diceva o faceva avrebbe avuto un qualsiasi effetto sugli altri. Se un negozio di gastronomia di Hollywood avesse dato ai propri panini i nomi di attori famosi, forse il Clark Gable sarebbe stato un sandwich di pane di segale con roast beef, gorgonzola e rafano; il Cary Grant sarebbe probabilmente stato un petto di pollo cosparso di pepe con formaggio svizzero e senape, racchiuso tra due fette di pane integrale; e a Channing Manheim sarebbe stata intitolata al massimo una fetta di pane tostato e leggermente imburrato con sopra una foglia di crescione. Ethan non provava una reale antipatia nei confronti del suo datore di la-
voro, ma non era neppure necessario che gli fosse simpatico per proteggerlo e assicurarsi che restasse vivo e vegeto. Se l'occhio nella mela era un simbolo di corruzione, forse rappresentava l'ego dell'attore all'interno del bellissimo frutto. O magari l'occhio della bambola non rappresentava la corruzione, ma il lato negativo della fama. Una celebrità del livello di Channing non godeva di molta privacy ed era sempre sotto i riflettori. L'occhio nella mela poteva simboleggiare quello del suo persecutore... che lo osservava sempre, e lo giudicava. Stronzate. Analisi da quattro soldi. Nonostante il suo cupo rimuginare, con un tempo che invogliava alle più pessimistiche speculazioni, tutte le considerazioni di Ethan apparivano ovvie e inutili. Ripensò alle parole scritte su quell'umido foglietto: L'OCCHIO NELLA MELA? IL VERME GUARDINGO? IL VERME DEL PECCATO ORIGINALE? LE PAROLE HANNO UN FINE CHE NON SIA IL CAOS? Era perplesso e non riusciva più ad andare avanti, fu quindi lieto quando, poco dopo le dieci, il telefono squillò, costringendolo ad allontanarsi dalle finestre e a ritornare alla sua scrivania. Laura Moonves, una vecchia amica della polizia di Los Angeles, aveva controllato per lui un numero di targa. Lavorava alla divisione Assistenza Indagini. Nell'anno passato, soltanto una volta Ethan aveva approfittato della loro amicizia in quel modo. «Ho il tuo maniaco», annunciò Laura. «Sospetto maniaco», la corresse lui. «L'Honda è stata immatricolata tre anni fa ed è registrata a nome di Rolf Herman Reynerd, West Hollywood.» Compitò il nome e gli fornì l'indirizzo. «Che razza di genitori chiamano Rolf un bambino?» Laura sapeva tutto sui nomi. «Non è poi così male. Al contrario, è gradevolmente mascolino. In tedesco antico, significa 'lupo famoso'. E naturalmente Ethan significa 'stabile, sicuro'.» Due anni prima avevano avuto una storia. Per Laura, Ethan si era dimostrato tutto tranne che stabile e sicuro. Lei avrebbe desiderato un po' di stabilità, un po' di sicurezza. Ma lui era ancora troppo ferito per poterle dare ciò che lei voleva. Oppure troppo stupido. «Ho controllato se aveva dei precedenti», proseguì Laura, «ma è pulito. Sulla scheda della motorizzazione risulta 'capelli castani, occhi azzurri'. Dice anche 'sesso maschile'. Mi piace il sesso maschile. Non ne ho abba-
stanza di sesso maschile. Altezza un metro e ottantatré, peso ottanta chili. Data di nascita... 6 giugno 1972.» Ethan aveva annotato tutte le informazioni su un blocco per appunti. «Grazie, Laura. Ti devo un favore.» «Allora dimmi una cosa... quanto ce l'ha grosso?» «Non c'è sulla scheda della motorizzazione?» «Non intendevo quello di Rolf. Quello di Manheim. Gli arriva alle caviglie o solo fino alle ginocchia?» «Non gliel'ho mai visto, ma non sembra che abbia problemi a camminare.» «Biscottino, magari un giorno potresti presentarmelo.» Ethan non aveva mai saputo per quale motivo lei lo chiamasse Biscottino. «Quel tizio ti annoierebbe a morte, Laura, te lo assicuro.» «Carino com'è, non avrei bisogno di fare conversazione. Gli infilerei uno straccio in bocca, gli chiuderei le labbra con del nastro isolante e... via verso il paradiso.» «Sostanzialmente il mio lavoro è proprio quello di tenere gente come te lontana da lui.» «Truman deriva dall'inglese antico», ribatté lei. «Significa 'stabile, leale, affidabile, costante'.» «Non otterrai un appuntamento con il Volto facendomi sentire in colpa. Oltretutto, quando mai non sono stato leale e affidabile?» «Biscottino, due aggettivi su quattro non significa che ti meriti quel cognome.» «Comunque eri troppo per me, Laura. Hai molto da dare, più di quanto uno stupido come me possa apprezzare.» «Mi piacerebbe vedere la tua vecchia Tessera 10», commentò lei, riferendosi al suo stato di servizio in polizia. «Devono esserci più stelline marrone per indicare le tua qualità di baciaculo che in centinaia di altre tessere messe insieme.» «Se hai finito di farmi il pelo e il contropelo, mi chiedevo... Rolf. Lupo famoso. Ha un senso? Che cosa deve fare un lupo per diventare famoso?» «Ammazzare un sacco di pecore, immagino.» Dopo aver salutato Laura, Ethan notò che aveva ricominciato a cadere una pioggerellina leggera. Senza la spinta del vento, le gocce baciavano appena le finestre dello studio. Con il telecomando, accese prima il televisore e poi il videoregistratore.
La cassetta era già inserita. Quella era la settima volta che la guardava. Le telecamere esterne del servizio di sicurezza, collocate in tutta la tenuta, erano ottantasei. Monitoravano ogni porta, finestra e via d'accesso. Solo a nord il terreno confinava con una proprietà pubblica. Il lungo muro, su cui si apriva il cancello, era sorvegliato da telecamere montate sugli alberi che si ergevano direttamente dall'altra parte della strada, un tratto della quale era proprietà di Channing Manheim. Chiunque avesse voluto fare un giro di controllo per verificare il sistema di sicurezza del muro anteriore, il funzionamento del cancello e i protocolli seguiti per l'identificazione di un visitatore, non avrebbe individuato alcuna telecamera né sugli alberi che costeggiavano la strada esterna, né su quelli che sporgevano dal muro. Avrebbe quindi dedotto che la sorveglianza fosse effettuata unicamente dall'interno della proprietà. Nel frattempo sarebbe stato ripreso dalle telecamere situate dall'altro lato della stradina di Bel Air, larga appena due corsie e priva di traverse e di lampioni. Gli zoom montati sulle telecamere avrebbero fornito una chiara identificazione del soggetto, il che avrebbe permesso di arrivare a una condanna nel caso che questi fosse passato da una semplice perlustrazione a un'azione criminale. Le telecamere funzionavano ventiquattro ore al giorno e sette giorni su sette. Dall'ufficio del servizio di sicurezza che si trovava nella palazzina del giardiniere e da diversi punti della casa chiunque ne conoscesse la procedura poteva accedere alle videocamere del sistema di sicurezza. Le immagini riprese da ogni obiettivo potevano essere viste sui diversi televisori disseminati per la casa e su una fila di sei monitor installati nell'ufficio della sicurezza. Ogni televisore era in grado di mostrare contemporaneamente quattro riprese diverse. Di conseguenza, la squadra del servizio di sicurezza poteva analizzare immagini provenienti da ventiquattro telecamere allo stesso tempo. Le guardie trascorrevano la maggior parte del tempo bevendo caffè e chiacchierando tra di loro. Tuttavia, quando scattava un allarme, potevano controllare immediatamente, e da vicino, qualsiasi angolo della proprietà che fosse stato violato. Telecamera dopo telecamera, avrebbero potuto seguire un intruso via via che questi si spostava da un campo visivo all'altro. Dalla tastiera del suo ufficio, una guardia poteva indirizzare una delle ottantasei riprese a un videoregistratore. Il sistema comprendeva dodici apparecchi capaci di registrare contemporaneamente quarantotto riprese che venivano trasmesse subito ai monitor, i cui schermi erano suddivisi in
quattro parti. Anche se una guardia fosse stata disattenta, i rivelatori di movimento collegati a ogni telecamera avrebbero fatto scattare una registrazione automatica di quel campo visivo ogni volta che un qualsiasi essere vivente più grosso di un cane avesse attraversato l'area coperta. La notte precedente, alle tre e trentadue del mattino i rivelatori di movimento collegati alla telecamera 01 - che effettuava costantemente una panoramica dell'estremità occidentale del perimetro a nord - avevano individuato una Honda. Invece di proseguire per la sua strada come avevano fatto le poche altre auto transitate durante la notte, il veicolo aveva accostato ed era andato a parcheggiare a un centinaio di metri dal cancello principale. Le prime cinque scatole nere erano state inviate tramite la Federal Express e l'indirizzo del mittente si era rivelato falso. Ma in questo caso Ethan aveva finalmente la possibilità di identificare chi mandava i pacchi. Ora, a meno di sette ore dalla consegna, se ne stava nel suo studio a osservare attentamente la Honda sul suo televisore. Lo stretto margine della strada aveva impedito al guidatore di parcheggiare l'auto completamente fuori della carreggiata. Neppure durante il giorno le esclusive strade di Bel Air erano molto trafficate. A quell'ora della notte, erano quasi deserte. Tuttavia, attento alle norme di sicurezza stradale, il guidatore della Honda non aveva spento i fari dopo aver parcheggiato. Aveva lasciato il motore acceso e inserito le luci di emergenza. Nonostante il buio e le cattive condizioni climatiche, grazie all'avanzata tecnologia per la visione notturna, la telecamera era riuscita a fornire un'immagine ad alta risoluzione. Per un attimo, la Camera 01 aveva continuato la sua panoramica superando la visione della Honda... poi si era bloccata ed era ritornata sull'auto. A quell'ora, Dave Ladman stava effettuando il suo consueto giro di perlustrazione a piedi di tutta la proprietà. Tom Mack, al suo posto nell'ufficio della sicurezza, aveva notato la presenza di un veicolo sospetto e aveva disinserito la funzione automatica della 01. Dal cielo scendeva in quel momento un vero diluvio. Un incessante fuoco di fila di gocce si abbatteva con violenza sull'asfalto, creando una specie di schiuma e spruzzi tali che la strada sembrava ribollire. La portiera dalla parte del guidatore era stata aperta e la 01 aveva zumato su un uomo alto e massiccio che scendeva dall'auto. Indossava una giac-
ca a vento nera impermeabilizzata. Il volto era nascosto da un cappuccio. A meno che Rolf Reynerd avesse prestato la sua auto a un amico, doveva trattarsi proprio del famoso lupo. Il suo profilo fisico corrispondeva a quello indicato sulla patente di Reynerd. Chiusa la sua portiera, il tizio aveva aperto quella posteriore e aveva sollevato dal sedile un grosso involucro bianco, del tutto simile al sacchetto per la spazzatura che aveva contenuto la scatola regalo con la mela cucita. L'uomo aveva poi chiuso la portiera e si era avviato verso il vialetto d'accesso che conduceva al cancello, un centinaio di metri più avanti. Improvvisamente si era fermato e si era voltato a scrutare la strada immersa nel buio e spazzata dalla pioggia, pronto a fuggire. Forse pensava di aver udito, al di sopra dello scrosciare della pioggia attraverso gli alberi, il rumore di un'auto che si avvicinava. La cassetta registrata era priva di audio. Se a quell'ora della notte fosse realmente arrivato un altro veicolo, con tutta probabilità si sarebbe trattato di un'auto appartenente alla Bel Air Patrol, il servizio di sicurezza privato incaricato di sorvegliare le strade di quella facoltosa comunità. Non vedendo apparire né un'auto di pattuglia né un qualsiasi altro veicolo, l'uomo incappucciato aveva ripreso confidenza. Si era avviato di buon passo verso il cancello. Appena uscito dall'area ripresa dalla 01, era stato immediatamente seguito dalla telecamera 02. E quando si era avvicinato al cancello, la 03 l'aveva ripreso dall'altra parte della strada, zumando per fornire un'immagine più ravvicinata. Giunto davanti all'ingresso, lo sconosciuto aveva scagliato il sacchetto bianco verso la cima di quella barriera di bronzo. Non riuscendo a superarla, l'involucro era ricaduto sulla strada. Il lancio era riuscito al secondo tentativo. Ma quando l'uomo si era voltato per tornare indietro, il cappuccio gli era scivolato leggermente e la 03 era riuscita a catturare una chiara immagine del suo volto, illuminato dai lampioni che fiancheggiavano il cancello. L'uomo aveva le fattezze gradevolmente cesellate necessarie per diventare un cameriere di successo nei ristoranti più alla moda di L.A., in cui sia il personale sia i clienti amavano immaginare che qualunque ragazzo o ragazza, incaricato di portare un piatto di costosissimo pesce spada dalla cucina al tavolo, il giorno dopo poteva essere chiamato a interpretare un ambito ruolo nel prossimo film da centocinquanta milioni di dollari di Tom
Cruise. Dopo aver consegnato la mela, mentre voltava le spalle al cancello, Rolf Reynerd aveva sorriso. Forse, se Ethan non avesse conosciuto il significato del suo nome, quel sorriso non gli sarebbe apparso simile a quello di un lupo. Forse gli avrebbe ricordato il ghigno di un coccodrillo o di una iena. In ogni caso, non era certo l'allegra espressione di un burlone. La curva delle labbra e i denti scoperti che la telecamera aveva immortalato nel video facevano pensare a un pazzo bisognoso di cure. Sguazzando in mezzo a pozzanghere nere, cui i fari donavano una filigrana d'argento, l'uomo era tornato alla sua auto. Mentre la Honda si staccava dal margine della strada e imboccava la corsia diretta a est, la telecamera 01 aveva eseguito una rotazione e uno zoom, poi era intervenuta la 02. Entrambe avevano fornito immagini leggibili della targa posteriore. Mentre si allontanava nella notte, il tubo di scappamento dell'auto aveva lasciato dietro di sé forme vaghe, simili a fantasmi, che avevano indugiato brevemente nell'aria. Poi la stradina era rimasta completamente deserta, immersa in un'umida oscurità, a parte il tratto illuminato dai lampioni sul cancello di casa Manheim. Come se il cielo notturno si stesse liquefacendo, scrosci di pioggia nera continuavano a riversarsi sulla terra, trascinando il buio dell'universo nella universalmente ambita tenuta di Bel Air. Prima di uscire dal suo appartamento situato nell'ala ovest della villa, Ethan telefonò alla governante, la signora McBee, per informarla che sarebbe rimasto fuori quasi tutto il giorno. Più efficiente di qualsiasi macchina, più affidabile delle leggi della fisica, degna di fiducia quanto un arcangelo, nel giro di pochi minuti la signora McBee avrebbe inviato nell'appartamento di Ethan una delle sei cameriere che lavoravano ai suoi ordini. Per sette giorni alla settimana, una persona portava via la spazzatura e cambiava gli asciugamani. Due volte alla settimana veniva passato l'aspirapolvere nelle stanze, i mobili venivano spolverati e l'appartamento veniva lasciato perfettamente pulito. Due volte al mese la cameriera provvedeva a lavare le finestre. Abitare in una villa in cui lavoravano venticinque persone di servizio aveva certo dei lati positivi. Nella sua posizione di capo del servizio di sicurezza, responsabile sia
della protezione personale del Volto, sia della difesa della tenuta, Ethan godeva di molti vantaggi, compresi pasti gratuiti preparati dal signor Hachette, lo chef della casa, o dal signor Baptiste, il cuoco. Il signor Baptiste non aveva frequentato le migliori scuole di culinaria come il suo capo, ma nessuno dotato di papille gustative si era mai lamentato dei suoi piatti. I pasti potevano essere consumati nell'ampia e confortevole sala comune, dove il personale non solo mangiava, ma pianificava anche i lavori della giornata, trascorreva le pause e decideva tutti i preparativi necessari per le feste che spesso venivano organizzate quando il Volto si fermava nella villa per qualche tempo. Lo chef o il cuoco fornivano su richiesta anche panini o qualsiasi altro piatto che Ethan desiderasse portare nel suo appartamento. Naturalmente, se lo preferiva, lui poteva prepararsi qualcosa da solo, nella sua cucina. La signora McBee provvedeva affinché la dispensa e il frigorifero di Ethan fossero sempre riforniti secondo una lista che lui stilava e che era addebitata al padrone di casa. A parte il lunedì e il giovedì, quando una delle cameriere cambiava le lenzuola - quand'era in villa, quelle del signor Manheim venivano cambiate ogni giorno - Ethan doveva solo rifarsi il letto ogni mattina. Una vitaccia. Ora, dopo essersi infilato una giacca di morbida pelle, Ethan lasciò il suo appartamento e uscì sul corridoio del pianterreno. Non chiuse la porta a chiave, cosa che non avrebbe fatto neppure se fosse stato il proprietario dell'intera villa. Aveva con sé il fascicolo che aveva raccolto sul caso delle scatole nere, un ombrello e una copia rilegata in pelle del romanzo di Joseph Conrad, Lord Jim. La sera prima aveva terminato di leggere il libro e intendeva riportarlo in biblioteca. Largo più di tre metri e con il pavimento in mattonelle di pietra calcarea, il corridoio era abbellito da tappeti persiani contemporanei, dai colori tenui. Il lungo spazio era arredato da mobili d'antiquariato francese di ottima qualità - tutti in stile Impero, compresi quelli del tardo Impero denominati Biedermeier - sedie, cassapanche, una scrivania, una credenza. Nonostante il mobilio fosse allineato su entrambi i lati, Ethan sarebbe stato in grado di guidare una macchina lungo tutto il corridoio senza graffiare neppure uno di quei pezzi pregiati. In effetti gli sarebbe piaciuto guidare un'auto in quel corridoio, ma poi avrebbe dovuto fornire spiegazioni alla signora McBee.
Durante la tonificante passeggiata verso la biblioteca, incontrò due cameriere in uniforme e un portiere con i quali scambiò qualche parola di saluto. Dato che lui occupava quella che la signora McBee definiva una posizione direttiva, Ethan si rivolgeva al resto del personale chiamandolo per nome, mentre per loro era il signor Truman. Prima che ogni nuovo dipendente cominciasse a lavorare, la signora McBee gli consegnava un taccuino rilegato e intitolato Norme e Procedure, che lei stessa aveva scritto. Guai alla povera anima ottenebrata dall'ignoranza che non avesse memorizzato il suo contenuto e non si fosse comportata sempre secondo le sue direttive. Il pavimento della biblioteca era in noce e trattato con un mordente di un caldo marrone rossiccio. Qui i tappeti persiani erano antichi e aumentavano di valore molto più in fretta delle migliori azioni delle più solide aziende nazionali. Poltroncine dalla bassa spalliera disposte in modo confortevole si alternavano a veri e propri labirinti di scaffali in mogano contenenti più di trentaseimila volumi. Alcuni libri erano sistemati su un secondo livello di mensole, lungo il quale correva una passerella larga più di un metro e mezzo, cui si accedeva attraverso una scala dalla elaborata ringhiera in ferro dorato. Bisognava levare gli occhi al soffitto per riuscire a cogliere le vere dimensioni di quell'enorme locale, altrimenti si poteva cedere all'illusione che non finisse mai. E forse era vero. Tutto sembrava possibile lì dentro. Il soffitto presentava una cupola di vetro colorato che aveva un diametro di quasi dieci metri. I colori intensi del vetro - cremisi, smeraldo, giallo scuro, zaffiro - riuscivano a filtrare completamente la luce naturale anche in una scintillante giornata di sole, così che i libri non rischiavano di restarne danneggiati. Lo zio Joe, che faceva da padre a Ethan ogni volta che il vero padre era troppo ubriaco per assumersi quel compito, aveva lavorato come autista per un panificio regionale. Con il suo camion consegnava pane e dolci ai supermercati e ai ristoranti, sei giorni alla settimana, otto ore al giorno. Tre giorni la settimana, Joe aveva anche un secondo lavoro come guardiano notturno. Nei suoi cinque anni migliori, lo zio Joe non aveva comunque guadagnato tanto quanto era costata quella cupola di vetro colorato. Ricevendo il suo primo stipendio da poliziotto, Ethan si era sentito ricco. In confronto a Joe, stava facendo soldi a palate. Ma il denaro guadagnato
nei sedici anni trascorsi nella polizia non sarebbe bastato neppure per coprire il costo di quell'unica stanza. «Avrei dovuto diventare un divo del cinema», commentò mentre entrava nella biblioteca per riporre Lord Jim nello scaffale dal quale lo aveva preso. Ogni volume era stato disposto in ordine alfabetico, per autore. Un terzo dei libri era rilegato in pelle; il resto era in edizione normale. Molti erano rari e preziosi. Il Volto non ne aveva letto nemmeno uno. Più dei due terzi della raccolta era stata acquistata insieme con la villa. Seguendo le istruzioni del suo datore di lavoro, una volta al mese la signora McBee acquistava i romanzi più acclamati dalla critica e di cui si parlava in quel momento, oltre a opere non di carattere narrativo, che venivano immediatamente catalogati e collocati negli scaffali della biblioteca. Questi nuovi volumi avevano l'unico scopo di essere ostentati. Gli ospiti e i visitatori rimanevano impressionati dalla vastità degli interessi intellettuali di Channing Manheim. Quando chiedevano la sua opinione su un libro, il Volto prima sollecitava il giudizio del visitatore, poi concordava in modo talmente affascinante da apparire sia un uomo profondamente erudito, sia una vera e propria anima gemella del suo interlocutore. Mentre Ethan riponeva Lord Jim tra altri due libri di Conrad, una vocina dietro di lui domandò: «Ci ha trovato qualcosa di magico?» Voltandosi, scorse Aelfrich Manheim, un bambino di dieci anni, sprofondato in una delle poltrone più ampie. Secondo Laura Moonves, Aelfrich (pronunciato elf-rick) in inglese antico significava «governato dagli elfi», parola che all'inizio descriveva un comportamento saggio e intelligente, ma che con il tempo era stata usata per riferirsi a coloro che agivano in modo saggio e intelligente. Aelfrich. La madre del bambino, Fredericka «Freddie» Nielander, una top model che si era sposata e aveva divorziato dal Volto nel giro di un solo anno, nella sua vita doveva aver letto almeno tre libri. La trilogia del Signore degli anelli. In effetti, l'aveva letta più volte. La sua intenzione era stata quella di chiamare il bambino Frodo. Fortunatamente, o forse no, un mese prima del parto la sua migliore amica, un'attrice, aveva scoperto il nome Aelfrich nel copione di un pessimo film fantasy, in cui lei interpretava il ruolo di un'amazzone alchimista dotata di
tre seni. Se l'amica di Freddie avesse ottenuto un ruolo secondario ne Il silenzio degli innocenti, probabilmente Aelfrich ora si sarebbe chiamato Hannibal Manheim. Dal canto suo, il bambino preferiva essere chiamato Fric e nessuno, tranne sua madre, insisteva nell'usare il nome per esteso. Fortunatamente, o forse no, lei non si faceva vedere molto spesso e quindi non poteva torturarlo gran che con quel nome. Secondo i bene informati, Freddie non vedeva Fric da oltre diciassette mesi. Anche la carriera di una non più giovane top model poteva essere impegnativa. «Ho trovato del magico in che cosa?» volle sapere Ethan. «Nel libro che ha appena messo via.» «In un certo senso sì, ma probabilmente non il tipo di magia che intendi tu.» «In questo ce n'è un casino», commentò Fric, mostrando un tascabile con la copertina piena di draghi e di maghi. «Pensi che casino sia una parola adatta per una persona saggia e intelligente?» domandò Ethan. «Accidenti, tutti gli amici del mio vecchio che lavorano nel mondo dello spettacolo, dicono parole molto peggiori di casino. E anche il mio vecchio lo fa.» «Non quando sa che lo puoi sentire.» Fric piegò di lato la testa. «Sta dicendo che il mio papà è un ipocrita?» «Se mai dovessi chiamare tuo padre in quel modo, mi taglierei la lingua.» «Il mago cattivo di questo libro la userebbe per una pozione. Uno dei suoi compiti più difficili è quello di trovare la lingua di un uomo onesto.» «Che cosa ti fa pensare che io lo sia?» «Siamo seri. Lei ha un triplo casino di onestà.» «Che farai se la signora McBee dovesse sentirti usare un linguaggio del genere?» «Adesso è da un'altra parte.» «Davvero?» domandò Ethan lasciando intendere di sapere qualcosa su dove si trovasse in quel momento la signora McBee che avrebbe fatto desiderare al ragazzino di essere più discreto. Incapace di reprimere un'espressione di colpa, Fric si raddrizzò nella poltrona e diede un'occhiata in giro.
Per la sua età, il bambino era piccolo ed esile. A volte, guardandolo in distanza mentre avanzava lungo uno di quegli enormi corridoi o mentre attraversava un salone adatto a un re e al suo seguito, sembrava addirittura minuscolo. «Credo che lei usi dei passaggi segreti», sussurrò Fric. «Tipo cunicoli nelle pareti.» «La signora McBee?» Il bambino annuì. «Noi abitiamo qui da sei anni, ma lei c'è da sempre.» La signora e il signor McBee, entrambi sulla sessantina, erano stati alle dipendenze del precedente proprietario ed erano rimasti su richiesta del Volto. «È difficile immaginarsi la signora McBee che si muove furtivamente all'interno di una parete», gli fece notare Ethan. «Non la si può definire esattamente una persona subdola.» «Ma se lo fosse», ribatté Fric, «le cose qui sarebbero molto più interessanti.» Al contrario dei riccioli d'oro di suo padre, che con un movimento della testa ricadevano sempre perfettamente al loro posto, la zazzera castana di Fric riusciva a essere sempre scompigliata. Non c'era spazzola o pettine che tenesse. Forse, crescendo, Fric sarebbe migliorato fino a eguagliare in bellezza il padre, ma per il momento aveva l'aspetto di un normale bambino di dieci anni. «Perché non sei a lezione?» gli domandò Ethan. «Lei è un ateo o che cosa? Non sa che è la settimana prima di Natale? Anche i rampolli dei divi di Hollywood che studiano a casa fanno vacanza.» Cinque giorni alla settimana il bambino studiava sotto la guida di uno staff di insegnanti privati. La scuola esclusiva che Fric aveva frequentato per un certo periodo di tempo si era rivelata un ambiente non adatto a lui. Con il famoso Channing Manheim per padre e la famigerata Freddie Nielander per madre, Fric era diventato oggetto d'invidia e di ridicolo perfino tra i figli di altri personaggi celebri. Inoltre, i bambini più crudeli lo prendevano in giro per il suo fisico così mingherlino in confronto a quello dell'aitante padre, adorato dal pubblico per i suoi ruoli da eroe. Ma c'era un altro motivo per cui si era ritenuto più opportuno farlo studiare a casa, e cioè la gravità dell'asma di cui soffriva. «Hai qualche idea di quello che troverai sotto l'albero la mattina di Nata-
le?» gli chiese Ethan. «Certo. Entro il 5 dicembre ho dovuto presentare un elenco alla signora McBee. Le ho detto di non perdere tempo a impacchettare i regali, ma lei lo farà lo stesso. Lo fa sempre. Dice che non è una vera mattina di Natale se non c'è un po' di mistero.» «Sono d'accordo con lei.» Il bambino scrollò le spalle e sprofondò nuovamente nella poltrona. Sebbene il Volto in quel momento stesse girando un film, sarebbe tornato dalla Florida la vigilia di Natale. «Sarà bello avere tuo padre a casa per le vacanze. Avete progettato di fare qualcosa di speciale quando tornerà?» Il bambino scrollò nuovamente le spalle, come se volesse dimostrarsi all'oscuro di eventuali progetti o indifferente alla cosa, ma in realtà rivelando involontariamente una tristezza che lasciò Ethan turbato. Fric aveva ereditato i luminosi occhi verdi della madre. Nella singolare profondità di quegli occhi si poteva leggere abbastanza sulla solitudine del bambino da colmare uno o due scaffali della biblioteca. «Forse quest'anno troverai un paio di sorprese sotto l'albero», cercò di consolarlo Ethan. Sporgendosi in avanti, a dimostrazione che gli importava eccome quel senso di mistero che solo poco prima aveva dichiarato non essere importante, Fric domandò: «Perché... ha sentito qualcosa?» «Se avessi sentito qualcosa, e non sto dicendo di averlo fatto, non potrei dirtelo, sempre che io abbia sentito qualcosa, perché la sorpresa non sarebbe più una sorpresa, anche se con questo non intendo dire che ci sarà una sorpresa o che non ci sarà.» Il bambino lo fissò in silenzio per un momento. «Adesso non sta parlando come un onesto poliziotto, ma come il capoccia di uno studio cinematografico.» «E tu lo sai bene come parlano i capoccia degli studi cinematografici, vero?» «A volte vengono qui», rispose il bambino con l'aria di chi conosce il mondo. «Riconosco il loro modo di parlare.» Ethan parcheggiò dall'altra parte della strada rispetto alla palazzina di West Hollywood, fermò i tergicristalli ma lasciò il motore acceso per far funzionare il riscaldamento. Per un po' rimase seduto nel Ford Expedition, osservando l'edificio e decidendo quale fosse il modo migliore per avvici-
nare Rolf Reynerd. L'Expedition era uno dei veicoli messi a disposizione, per motivi di lavoro o uso privato, degli otto membri del personale che risiedevano nella grande villa. Tra le altre automobili, c'era anche un Mercedes 500 SUV parcheggiato nel garage sotterraneo, ma era un veicolo che avrebbe attirato troppo l'attenzione, se quel giorno fosse stato necessario svolgere un'operazione di sorveglianza. La palazzina a tre piani appariva in buono stato, anche se non eccellente. L'intonaco color crema non presentava né buchi né crepe, ma si sarebbe dovuto provvedere a ridipingere i muri almeno un anno prima. Sopra il portone d'ingresso, il numero dell'edificio aveva una cifra storta. Cespugli di camelie dai grossi fiori vermigli, una ricca varietà di felci e palme dalle enormi fronde avevano l'aspetto rigoglioso tipico dei giardini dei quartieri alti, ma le piante avrebbero avuto bisogno di essere cimate già da qualche mese. Il prato incolto suggeriva che l'erba venisse falciata non una volta alla settimana, ma pressappoco ogni quindici giorni. Evidentemente il proprietario dell'immobile cercava di risparmiare, tuttavia era comunque un bel posto dove abitare. Sicuramente nessuno degli inquilini viveva di sussidi. Reynerd doveva avere un lavoro, ma il fatto che avesse consegnato i suoi minacciosi pacchi alle tre e mezzo di notte lasciava intendere che non doveva alzarsi presto al mattino. Forse quindi adesso era a casa. Se Ethan avesse scoperto dove lavorava e avesse cominciato a fare domande ai suoi colleghi, oltre che ai vicini, quasi sicuramente qualcuno avrebbe avvertito Reynerd. E a quel punto l'aitante giovanotto sarebbe diventato troppo diffidente per lasciarsi avvicinare. Preferiva dunque contattarlo direttamente e solo in seguito fare domande in giro. Chiuse gli occhi, appoggiò la nuca contro il poggiatesta e si mise a riflettere su come procedere. Il rombo del motore di un'auto si fece sempre più forte e sempre più vicino, tanto che Ethan riaprì gli occhi, quasi aspettandosi di udire la sirena di un'auto della polizia e di assistere a un inseguimento. Procedendo a una velocità eccessiva per una strada residenziale, una Ferrari Testa Rossa color ciliegia gli sfrecciò accanto come se il guidatore in realtà sperasse di investire un bambino sbucato all'improvviso o una vecchietta che procedeva lentamente per via delle scarpe ortopediche e del bastone. Dall'asfalto disseminato di pozzanghere, uno degli pneumatici sollevò
uno schizzo che investì l'Expedition. Per un momento, il vetro del finestrino dalla parte del guidatore si ricoprì di un velo di acqua sporca. Dall'altra parte della via, la palazzina sembrò scintillare come in un sogno. Qualcosa in quella fugace distorsione fece scattare in Ethan il vago ricordo di un incubo lontano e ormai quasi dimenticato, e la vista dell'edificio in quella strana condizione deformata gli fece inesplicabilmente rizzare i capelli sulla nuca. Poi le ultime gocce di acqua sporca colarono giù e subito dopo la pioggia ripulì il vetro da ogni residuo di fango. La palazzina tornò a essere ciò che era stata quando l'aveva vista per la prima volta: un bel posto in cui abitare. Dato che non c'era un vero acquazzone e un ombrello sarebbe stato più che altro di intralcio, Ethan scese dal SUV e attraversò di corsa la strada. Nella California meridionale, durante la fine dell'autunno e all'inizio dell'inverno, Madre Natura era soggetta a imprevedibili sbalzi d'umore. Da un anno all'altro e a volte da un giorno all'altro la temperatura della settimana di Natale poteva andare dal mite al gelido. Quel giorno l'aria era fredda, la pioggia più fredda dell'aria e il cielo grigio come quello dei climi veramente invernali delle regioni nordiche. Per entrare nella palazzina non era necessario suonare il citofono e farsi aprire il portone. Il quartiere era ancora piuttosto sicuro e gli atri degli edifici non avevano bisogno di fortificazioni. Gocciolante, Ethan entrò in un piccolo locale, più un vestibolo che un atrio, dal pavimento in piastrelle messicane su cui si affacciavano sia le scale sia l'ascensore. L'aria del vestibolo era impregnata dell'odore di pancetta canadese stantia e fumo di marijuana rancido. L'erba aveva un aroma molto particolare. Quella stessa mattina, qualcuno doveva essersi fermato nel vestibolo a finire una canna prima di uscire ad affrontare la sua malinconica giornata. Dalle caselle per la posta, Ethan rilevò che c'erano quattro appartamenti al primo piano, sei al secondo e sei al terzo. Reynerd abitava al secondo piano, al 2B. Sulle caselle era stato scritto a stampatello solo il cognome degli inquilini. Ethan aveva bisogno di più informazioni di quanto quelle etichette adesive potessero fornire. In una delle pareti c'era una nicchia con un vassoio su cui venivano lasciate riviste e altre pubblicazioni quando il loro volume non permetteva al postino di inserirle nelle caselle.
Al momento il vassoio ospitava due riviste. Entrambe erano per George Keesner dell'appartamento 2E. Ethan batté una nocca contro gli sportelli di alluminio delle numerose caselle. Dal rumore sordo comprese che erano vuote. Molto probabilmente, quel giorno la posta non era ancora stata consegnata. Quando batté sulla casella di Keesner, dal rumore capì che era piena. Evidentemente l'uomo era partito da almeno un paio di giorni. Ethan salì le scale fino al secondo piano. Un lungo corridoio, tre porte su ogni lato. Giunto di fronte al 2E, suonò il campanello e rimase in attesa. L'appartamento di Reynerd, il 2B, si trovava proprio di fronte. Dato che nessuno rispondeva al campanello di Keesner, Ethan suonò ancora, due volte. Dopo una pausa, cominciò a bussare rumorosamente. Ogni porta era dotata di uno spioncino che permetteva di esaminare attentamente il visitatore prima di decidere se farlo entrare o no. Forse, dall'altra parte del corridoio, proprio in quel momento Reynerd stava osservando la nuca di Ethan. Non avendo ricevuto risposta, Ethan voltò le spalle alla porta di Keesner, mostrando tutta la sua frustrazione. Si passò una mano sul viso bagnato di pioggia. Poi la fece scorrere sui capelli umidi. Scosse la testa. Guardò da una parte e dall'altra del corridoio. Quando suonò il campanello del 2B, l'uomo della mela rispose quasi immediatamente, senza nemmeno la protezione di una catenella di sicurezza. Sebbene corrispondesse indiscutibilmente all'immagine catturata dalle telecamere del servizio di sicurezza, di presenza si rivelò più attraente di quanto fosse apparso la sera prima sotto la pioggia. Somigliava all'attore Ben Affleck. A parte questo aveva qualcosa da benvenuti-al-motel-Bates che qualsiasi fan di Anthony Perkins e del film Psycho avrebbe riconosciuto. La tensione agli angoli della bocca, il rapido pulsare sulla tempia destra e soprattutto il gelido scintillio degli occhi lasciavano intendere che fosse sotto l'effetto di metanfetamine, non completamente fuori di testa ma piuttosto su di giri. «Mi scusi», disse Ethan mentre la porta si stava ancora aprendo. «Mi dispiace disturbarla, ma devo assolutamente mettermi in contatto con George Keesner, del 2E. Conosce George?» Reynerd scosse la testa. Aveva un collo taurino. Ore e ore trascorse in palestra alla macchina dei pesi. «Lo saluto quando c'incrociamo», rispose Reynerd, «ci scambiamo qual-
che commento sul tempo. Nient'altro.» Se questo era vero, Ethan si sentì abbastanza sicuro per dire: «Sono suo fratello. Mi chiamo Ricky Keesner». Se Keesner aveva tra i venti e i cinquant'anni, la frottola poteva funzionare. «Nostro zio Harry è ricoverato in terapia intensiva, è molto grave», continuò a inventare Ethan. «Non ne avrà per molto. Da ieri mattina tento di chiamare George a tutti i numeri che conosco. Ma non sono riuscito a mettermi in contatto con lui. E adesso non risponde neppure alla porta.» «Penso che sia via», spiegò Reynerd. «Via? Non me ne aveva parlato. Non sa per caso dove potrebbe essere andato?» Reynerd scosse la testa. «L'altro ieri sera, mentre rientravo, l'ho visto uscire con una valigetta.» «Le ha detto quando sarebbe tornato?» «Abbiamo parlato solo del fatto che sembrava stesse per piovere, poi lui è uscito», rispose Reynerd. «Accidenti, è così affezionato allo zio Harry - tutti e due lo siamo - rimarrà sconvolto se non avrà la possibilità di dirgli addio. Magari potrei lasciargli un bigliettino, così lo vede subito appena torna.» Reynerd si limitò a fissare Ethan. Un'arteria cominciò a pulsargli nel collo. Sebbene la droga lo aiutasse a pensare con estrema rapidità, non l'aiutava certo a farlo chiaramente. «Il fatto è», riprese Ethan, «che non ho neppure un pezzetto di carta. E per la verità, nemmeno una penna.» «Oh. Certo, ce li ho io», si affrettò a dire Reynerd. «Mi dispiace davvero di disturbarla...» «Nessun disturbo», lo rassicurò il giovane, voltandosi per andare a cercare un blocco e una penna. Lasciato sulla soglia, Ethan smaniava dalla voglia di entrare nell'appartamento. Voleva dare un'occhiata al nido di Reynerd più da vicino di quanto potesse farlo dall'uscio. Proprio mentre decideva di rischiare di apparire scortese e di entrare anche senza essere stato invitato, Reynerd si fermò e, voltandosi, disse: «Entri. Si accomodi». Ora che l'invito c'era stato, Ethan poteva permettersi di esitare, aggiungendo un po' di autenticità alla sua sceneggiata. «La ringrazio, ma sono tutto bagnato di pioggia...»
«Non rovinerà certo mobili come questi», gli assicurò Reynerd. Lasciandosi la porta aperta alle spalle, Ethan entrò. Un unico grande spazio comprendeva il soggiorno e la cucina a vista, separata dal resto della stanza per mezzo di un bancone con due sgabelli. Reynerd entrò nella cucina e raggiunse un ripiano posto sotto un telefono a muro, mentre Ethan si sedeva sul bordo di una poltrona. Nell'appartamento non c'erano molti mobili. Un divano, una poltrona, un tavolino e un televisore. L'area pranzo conteneva soltanto un piccolo tavolo e due sedie. La televisione trasmetteva il ruggito del leone della MGM. L'audio era basso e il ruggito sommesso. Alle pareti, diverse fotografie incorniciate: stampe artistiche in bianco e nero, quaranta per cinquanta. Ogni foto aveva come soggetto gli uccelli. Reynerd tornò con un blocco per appunti e una matita. «Vanno bene?» «Perfetto», assicurò Ethan. Reynerd aveva anche del nastro adesivo. «Per fissare il foglietto sulla porta di George.» Posò il rotolo sul tavolino. «Grazie», disse Ethan. «Mi piacciono le fotografie.» «Non c'è niente come gli uccelli per rappresentare la libertà», commentò Reynerd. «È proprio così, vero? La libertà di volare. Le ha scattate lei?» «No. Io le colleziono soltanto.» Una delle stampe mostrava uno stormo di piccioni che, in un turbinio di penne, si alzava in volo dall'acciottolato di una piazza che aveva come sfondo degli antichi edifici europei. In un'altra, un gruppo di oche volava in formazione attraverso un cielo plumbeo. Indicando il film in bianco e nero trasmesso dalla televisione, Reynerd spiegò: «Stavo andando a prendere qualcosa da sgranocchiare durante lo spettacolo. Le dispiace...» «Cosa? Oh certo, mi scusi, non badi a me. Butto giù due righe e me ne vado.» In una delle fotografie, gli uccelli stavano volando direttamente verso il fotografo. Grazie a un fotomontaggio, l'istantanea mostrava ali che si sovrapponevano, becchi spalancati in un grido, occhi lucidi e neri. «Le patatine un giorno o l'altro mi ammazzeranno», commentò Reynerd mentre tornava in cucina. «Io ho lo stesso problema con il gelato. Ormai ce l'ho nelle arterie al posto del sangue.»
Ethan scrisse in stampatello CARO GEORGE, poi si fermò come se stesse pensando e si guardò intorno. Dalla cucina, Reynerd soggiunse: «Dicono che non si riesce mai a mangiare soltanto una patatina, ma io non riesco mai a mangiare un solo sacchetto». Due corvi appollaiati su un'inferriata. Una lama di luce sui loro becchi. La moquette bianca sembrava un candido manto di neve appena caduta. I mobili erano stati rivestiti di stoffa nera. In distanza, il ripiano in formica del tavolo da pranzo sembrava nero. Tutto nell'appartamento era bianco e nero. Ethan aggiunse, sempre in stampatello, LO ZIO HARRY STA MORENDO, poi si fermò ancora, come se scrivere quel semplice messaggio gli richiedesse un enorme sforzo. La colonna sonora del film, anche se sommessa, aveva qualcosa di melodrammatico. Doveva trattarsi di un giallo degli anni Trenta o Quaranta. Reynerd continuava a frugare negli armadietti della cucina. Qui, due colombe sembravano scontrarsi in volo. Là, un gufo fissava qualcosa a occhi sbarrati, come sconvolto da ciò che vedeva. Fuori, il vento era tornato. La pioggia, con il suo rumore di dadi scagliati, attirò l'attenzione di Ethan verso la finestra. Dalla cucina giunse il tipico fruscio di un sacchetto aperto. PER FAVORE CHIAMAMI, continuò a scrivere Ethan. Tornando nel soggiorno, Reynerd disse: «Se uno vuole mangiare le patatine, queste sono proprio le peggiori, perché hanno il massimo contenuto di grassi». Ethan sollevò lo sguardo e vide un pacchetto di patatine fritte, nel quale Reynerd aveva inserito la destra. Fu il modo in cui il sacchetto avvolgeva la mano dell'uomo a colpire Ethan, c'era qualcosa di sbagliato. Naturalmente era possibile che quel tizio stesse solo cercando di prendere delle patatine, ma nel suo atteggiamento c'era una strana tensione che faceva pensare a qualcosa di diverso. Fermandosi accanto al divano a meno di due metri di distanza, Reynerd domandò: «Lei lavora per il Volto, vero?» Appollaiato sul bordo della poltrona, in posizione di svantaggio, Ethan finse di non capire. «Per chi?» Quando la mano uscì dal sacchetto, stringeva una pistola. In quanto investigatore privato autorizzato, nonché guardia del corpo, Ethan aveva il porto d'armi. Ma tranne quando era con Channing Man-
heim, raramente si prendeva la briga di portarsi dietro la pistola. Reynerd stringeva una calibro 9. Per fortuna, quella mattina, turbato dall'occhio nella mela e dal sorriso da lupo che l'uomo aveva mostrato sul nastro registrato, Ethan aveva deciso di mettersi la fondina da spalla. Non pensava di aver bisogno di una pistola, in effetti, anzi si era sentito un po' stupido per averla presa senza una reale motivazione. Ora ringraziò il cielo di essere armato. «Non capisco», disse cercando di apparire allo stesso tempo stupito e spaventato. «Ho visto la sua foto», spiegò Reynerd. Ethan lanciò un'occhiata alla porta aperta, verso il corridoio esterno. «Non m'importa che qualcuno veda o senta», gli fece notare Reynerd. «Tanto ormai è finita.» «Ascolti, se mio fratello George l'ha fatta arrabbiare in qualche modo...», disse Ethan, cercando di prendere tempo. Ma Reynerd non era disposto a concedergliene. Mentre Ethan lasciava cadere il blocco e allungava la mano verso la Glock sotto la giacca, l'uomo della mela gli sparò dritto nella pancia. Per un momento Ethan non sentì alcun dolore, ma solo per un momento. Fu scaraventato all'indietro nella poltrona e rimase senza fiato vedendo i fiotti di sangue che gli uscivano dalla ferita. Poi iniziò l'agonia. Udì il primo sparo, ma non il secondo. Il proiettile lo colpì in mezzo al torace. Tutto nell'appartamento in bianco e nero si fece nero. Ethan sapeva che gli uccelli erano ancora sulle pareti, lo guardavano morire. Percepiva la tensione delle loro ali bloccate in volo. Udì ancora quel rumore di dadi scagliati. Ma questa volta non era la pioggia contro la finestra. Era il suo respiro in gola. Niente Natale. 3 Ethan aprì gli occhi. Procedendo a una velocità eccessiva per una strada residenziale, una Ferrari Testa Rossa color ciliegia gli sfrecciò accanto, sollevando uno schizzo d'acqua sporca dall'asfalto disseminato di pozzanghere. Attraverso il finestrino laterale dell'Expedition, l'immagine della palazzina apparve velarsi e distorcersi in una strana geometria, come in un incu-
bo. Quasi fosse stato sottoposto a elettrochoc, Ethan si contorse violentemente e inspirò con la disperazione di un uomo che sta per annegare. L'aria aveva un sapore dolce e pulito. Espirando, il fiato sembrò esplodergli dai polmoni. Niente ferita all'addome. Niente ferita al torace. I suoi capelli non erano bagnati di pioggia. Il cuore gli batteva furiosamente in petto, come il pugno di un pazzo sulla porta imbottita della stanza imbottita di un manicomio. In vita sua, Ethan Truman non aveva mai fatto un sogno di tale chiarezza di tale intensità, né si era trovato in un incubo così particolareggiato come quello vissuto nell'appartamento di Reynerd. Lanciò un'occhiata al suo orologio. Se si era addormentato, non aveva sognato per più di un minuto. Un sogno così complesso, però, non poteva essersi svolto in un solo minuto. Impossibile. La pioggia lavò via l'ultimo residuo fangoso dal vetro del finestrino. Al di là delle foglie grondanti delle palme, la palazzina attendeva, non più distorta, ma ora con qualcosa di misterioso. Quando aveva appoggiato la nuca sul poggiatesta e aveva chiuso gli occhi per concentrarsi meglio sul modo migliore di avvicinare Rolf Reynerd, Ethan non aveva provato affatto il desiderio di dormire. Non era neppure stanco. Era certo di non essersi appisolato per un minuto. E neppure per cinque secondi. Se la prima Ferrari aveva fatto parte di un sogno, la seconda indicava che adesso la realtà seguiva esattamente lo svolgimento di quell'incubo. Sebbene Ethan avesse smesso di ansimare, il suo cuore continuava a battere furiosamente, galoppando dietro alla ragione che, a sua volta, accelerava sempre di più e si allontanava senza lasciare alcuna possibilità di raggiungerla. L'intuito gli diceva di andarsene immediatamente, di entrare in uno Starbuck e di bersi una grossa tazza di caffè. Un caffè così forte da sciogliere persino il cucchiaino. Trascorso un po' di tempo e allontanatosi fisicamente dal luogo in cui si era verificato quell'episodio, avrebbe trovato la chiave del mistero e tutto gli sarebbe apparso chiaro. Se ci si dedicava abbastanza tempo e lo si sottoponeva a un ragionamento rigorosamente logico, nessun enigma restava
senza soluzione. Invece, sebbene anni di lavoro nella polizia gli avessero insegnato a fidarsi del suo intuito così come un neonato si fida della madre, Ethan spense il motore e uscì dall'Expedition. Il fatto era che l'intuito era uno strumento essenziale per la sopravvivenza. Tuttavia, l'onestà verso se stesso era più importante di ciò che gli diceva l'intuito. Per onestà doveva ammettere che desiderava andarsene non tanto per trovare un posto e il tempo per riflettere tranquillamente o per dedicarsi a deduzioni sherlockiane, ma perché si sentiva attanagliato dalla paura. E non bisognava mai permettere alla paura di averla vinta. Cederle anche una sola volta significava essere finito come poliziotto. Certo, lui non era più un poliziotto. Aveva lasciato il corpo più di un anno prima. Il lavoro che aveva dato un significato alla sua vita mentre Hannah era viva aveva gradualmente perso ogni interesse negli anni seguiti alla sua morte. Ethan aveva smesso di credere di poter cambiare qualcosa nel mondo. Aveva voluto ritirarsi, voltare le spalle alla sgradevole realtà della condizione umana, tanto evidente nel lavoro quotidiano di un detective della Omicidi. Il mondo di Channing Manheim rappresentava quanto di più lontano ci fosse dalla realtà e insieme gli permetteva di guadagnarsi da vivere. Sebbene non portasse più il distintivo e non fosse più ufficialmente un poliziotto, essenzialmente però Ethan continuava a esserlo. Siamo ciò che siamo, indipendentemente da ciò che vorremmo o fingiamo di essere. Le mani affondate nelle tasche della giacca di pelle, le spalle curve come se la pioggia rappresentasse un peso, attraversò in fretta la strada dirigendosi verso la palazzina. Grondante d'acqua, entrò nell'atrio. Pavimento di mattonelle messicane. Ascensore. Scale. Come doveva essere. Come era stato. Impregnata dall'odore stantio di pancetta e fumo di marijuana, l'aria aveva qualcosa di denso, come del muco in gola. Nel vassoio c'erano due riviste. Sulle etichette vide il nome di George Keesner. Ethan salì le scale. Sentiva le gambe deboli e le mani gli tremavano. Sul pianerottolo, si fermò per inspirare profondamente, per rammendare il tessuto sfilacciato dei suoi nervi. La palazzina era silenziosa. Niente voci attutite dalle pareti, niente musica per un melanconico lunedì.
Immaginò di udire il debole ticchettare e grattare delle zampe di un corvo su un'inferriata, il fruscio d'ali dei piccioni che si levavano in volo, il tic-tic-tic di un insistente becchettio. In realtà, sapeva che queste erano soltanto le molte voci della pioggia. Sebbene sentisse il peso della pistola nella fondina da spalla, allungò il braccio sotto la giacca e posò la destra sull'arma per essere certo di averla portata. Con un polpastrello seguì il profilo del calcio. Ritrasse la mano, lasciando la pistola nella fondina. Dopo essere scesa, capello per capello, lungo la parte posteriore della testa, la pioggia allungò un dito verso la nuca di Ethan, strappandogli un brivido. Quando raggiunse il pianerottolo del secondo piano, lanciò appena un'occhiata all'appartamento 2E, dove George Keesner non avrebbe risposto né al campanello né al bussare sulla porta, e puntò dritto al 2B, dove perse la calma, ma solo per un attimo. L'uomo della mela rispose al campanello quasi immediatamente. Alto, forte, sicuro di sé, non si era nemmeno preso la briga di inserire la catenella di sicurezza. Non apparve in alcun modo sorpreso di vedere nuovamente Ethan, o di vederlo vivo, come se il loro primo incontro non fosse mai avvenuto. «C'è Jim?» domandò Ethan. «Ha sbagliato appartamento», rispose Reynerd. «Non è quello di Jim Briscoe? Sono sicuro che abitava qui.» «Io ci sto da più di sei mesi.» Alle spalle di Reynerd, una stanza in bianco e nero. «Sei mesi? È passato tutto questo tempo da quando sono venuto a trovarlo l'ultima volta?» A Ethan, il suono della sua voce appariva terribilmente falso, ma insisté. «Già, immagino che sia proprio così, sei o sette mesi.» Sulla parete opposta alla porta, un gufo fissava qualcosa con occhi immensi, come aspettando uno sparo. «Per caso, Jim non ha lasciato un indirizzo a cui spedirgli la posta?» riprese Ethan. «Non ho mai conosciuto l'inquilino precedente.» Il duro luccichio degli occhi di Reynerd, il rapido pulsare sulla tempia, la tensione agli angoli della bocca questa volta furono per Ethan un avvertimento. «Mi scusi se l'ho disturbata», disse.
Quando udì il volume basso del televisore di Reynerd, il sommesso ruggire del leone della MGM, non esitò un istante di più e si diresse immediatamente verso le scale. Si rese conto che la sua veloce ritirata aveva qualcosa di sospetto e cercò di non mettersi a correre. Giunto al pianerottolo sottostante, Ethan si affidò all'istinto, si voltò, guardò verso l'alto e vide Rolf Reynerd in cima alle scale, che lo osservava silenzioso. L'uomo della mela non stringeva in mano né una pistola, né un sacchetto di patatine. Senza aggiungere neppure una parola, Ethan discese l'ultima rampa di scale fino all'ingresso. Mentre apriva il portone, si lanciò un'occhiata alle spalle, ma Reynerd non l'aveva seguito. Più pigra, la pioggia inseguiva altra pioggia lungo la strada e un vento freddo infuriava tra le palme. Una volta tornato dietro al volante dell'Expedition, Ethan avviò il motore, bloccò le portiere e accese il riscaldamento. Un caffè forte e doppio allo Starbuck ormai non bastava più. Non sapeva dove andare. Premonizione. Precognizione. Visione paranormale. Chiaroveggenza. Nella biblioteca mentale di Ethan, il Dizionario ai confini della Realtà voltava le proprie pagine, ma tutte le possibilità che offriva non sembravano spiegare l'esperienza da lui vissuta. Secondo il calendario mancava ancora un giorno al suo inizio, ma l'inverno gli era entrato nelle ossa in anticipo. Aveva un gelo sconosciuto nella California meridionale. Ethan sollevò le mani per guardarle, stupito che potessero tremare in quel modo. Le dita erano pallide e le unghie livide. Ma né il pallore né il tremore turbarono Ethan quanto ciò che vide sotto le unghie della mano destra. Una sostanza scura, di un nero rossiccio. Rimase a fissarla per molto tempo, restio a prendere qualsiasi iniziativa che gli permettesse di stabilire se si trattava di qualcosa di reale o di un'altra allucinazione. Alla fine, con l'unghia del pollice della sinistra estrasse una minuscola quantità di quella strana sostanza. Era leggermente umida, vischiosa. Con una certa esitazione, si portò il dito al naso. Annusò una volta, due volte, e sebbene l'odore fosse molto lieve era inconfondibile. Ethan aveva del sangue sotto tutte le unghie della mano destra. E pur rendendosi conto che il mondo era un luogo estremamente incerto, Ethan ebbe la certezza che quel sangue era suo.
4 I laboratori Palomar di North Hollywood occupavano un ampio edificio in cemento di un solo piano, con finestre piccole e distanziate e un tetto in lamiera sottile, basso e leggermente inclinato, che lo facevano assomigliare a un bunker. Un reparto dei laboratori Palomar era destinato alle analisi di campioni di sangue, ai pap-test, alle biopsie e all'analisi di altro materiale organico. Nella divisione industriale si eseguivano esami chimici di ogni tipo, sia per i clienti privati sia per quelli pubblici. Ogni anno, i fan del Volto inviavano più di duecentocinquantamila missive al loro beniamino, per lo più all'indirizzo del suo studio cinematografico, che a sua volta ogni settimana inoltrava un'infornata di questa corrispondenza all'agenzia pubblicitaria che rispondeva a nome del divo. All'interno di questa corrispondenza c'erano anche regali, tra cui diverse prelibatezze fatte in casa: biscotti, torte, dolcetti al cioccolato. Le probabilità che uno di questi fan fosse sufficientemente squilibrato da inviare biscotti avvelenati erano meno di una su mille, ma in ogni caso Ethan operava sempre secondo il principio «meglio prevenire che curare»: tutti i prodotti alimentari non dovevano essere neppure assaggiati, ma semplicemente buttati via. A volte, quando un dolcetto preparato da un'ammiratrice arrivava accompagnato da una lettera particolarmente sospetta, il prodotto non veniva distrutto immediatamente ma consegnato a Ethan per una verifica. Se lui sospettava qualche contaminazione, portava il pacchetto al Palomar perché fosse analizzato. Nel caso che un perfetto estraneo provasse tanto odio da cercare di avvelenare il Volto, Ethan voleva sapere che quel bastardo esisteva. In seguito avrebbe potuto collaborare con la polizia della città natale dell'avvelenatore e portare in tribunale tutte le prove a sua disposizione. Ora, dopo essersi fermato nell'atrio destinato al pubblico, firmò un modulo che autorizzava il laboratorio a prelevargli il sangue. In mancanza di una richiesta del suo medico, pagò in contanti le analisi che gli interessavano. Richiese un profilo base del DNA. «E voglio sapere se nel mio corpo sono presenti tracce di droghe o prodotti chimici.» «Che medicine sta prendendo?» domandò l'impiegata dell'accettazione.
«Nulla, tranne l'aspirina. Ma voglio che eseguiate un test per ogni possibile sostanza, nel caso sia stato drogato a mia insaputa.» Forse a North Hollywood erano abituati ai pazzi furiosi, fatto sta che l'impiegata non levò gli occhi al cielo, non inarcò un sopracciglio, né mostrò in alcun modo di essere sorpresa sentendogli dire che forse era vittima di una malvagia cospirazione. Il tecnico di laboratorio che gli prelevò il sangue era una minuscola e graziosa vietnamita che aveva il tocco di un angelo. Ethan non sentì neppure l'ago entrare nella vena. In un altro locale riservato alla consegna di campioni non collegati ai normali test clinici compilò un secondo modulo e pagò altre analisi. Questa volta l'impiegata dell'accettazione gli lanciò una strana occhiata quando Ethan spiegò che cosa voleva che si analizzasse. Su un tavolo da laboratorio illuminato da una luce violenta, un tecnico che somigliava a Britney Spears usò una lama d'acciaio sottile e non affilata per grattare un campione da sotto le unghie della mano destra di Ethan, lasciandolo poi cadere su un riquadro di carta bianca. Dato che Ethan non si tagliava le unghie da più di una settimana, la donna riuscì a ottenere una buona quantità di materiale, che in parte aveva ancora una consistenza viscosa. Per tutta la durata dell'operazione la mano di Ethan continuò a tremare. Probabilmente lei pensò che fosse la sua bellezza a renderlo nervoso. Il materiale estratto da sotto le unghie sarebbe stato prima di tutto analizzato per stabilire se era davvero sangue. Successivamente, si sarebbe provveduto a determinarne il gruppo sanguigno e a confrontare il profilo del suo DNA con il campione di sangue che la giovane vietnamita aveva prelevato. I risultati tossicologici completi sarebbero stati pronti solo il mercoledì pomeriggio. Ethan non riusciva a capire come potesse essere finito il suo sangue sotto le unghie della mano visto che, dopo tutto, non era stato ferito né all'addome né al torace. Eppure, come gli uccelli migratori non hanno bisogno di una bussola per riconoscere il nord dal sud, lui sapeva che quel sangue era suo. 5 Nel parcheggio del Palomar, mentre la pioggia e il vento dipingevano sul parabrezza dell'Expedition una processione di sagome incolori, Ethan
chiamò Hazard Yancy sul cellulare. In realtà Hazard si chiamava Lester, ma detestava quel nome. E nemmeno Les gli andava bene. Suonava come less, meno, e gli sembrava un insulto. «Non ho nulla meno di te», aveva detto una volta a Ethan, ma in tono scherzoso. E in effetti, con il suo metro e novanta di altezza e i quasi centoventi chili di peso, con la testa rasata che sembrava grande come una palla da baseball e il collo largo quasi quanto la distanza tra un orecchio e l'altro, Hazard Yancy non dava proprio un'idea minimalista. «Anzi, in un sacco di cose sono più di alcune persone. Sono più determinato, più divertente, più vivace, più propenso a fare stupide scelte in fatto di donne, più probabilmente destinato a farsi sparare nel culo. I miei avrebbero dovuto chiamarmi Più Yancy. Mi sarebbe andato bene.» Da adolescente prima e poi da ragazzo, gli amici lo chiamavano Brick, mattone, riferendosi al fatto che era solido come un muro. Ma in vent'anni nessuno alla Rapine-Omicidi lo aveva chiamato Brick. Tra i poliziotti era noto come Hazard perché lavorare con lui poteva essere un vero azzardo, come guidare un camion carico di dinamite. Il lavoro di agente investigativo alla Rapine-Omicidi poteva certo essere più pericoloso di quello di droghiere, ma i detective avevano meno probabilità di morire in servizio di quante ne avessero i dipendenti di un supermercato durante il turno di notte. Se si voleva provare il brivido di farsi sparare con una certa regolarità, i membri della sezione Attività Bande Organizzate, della Narcotici e sicuramente della Tattiche e Armi Strategiche avevano molte più occasioni di quelli che si dedicavano a dare una ripulita dopo un omicidio. Perfino il solo fatto di indossare una divisa attirava su di sé più violenza rispetto a girare in borghese. Ma la carriera di Hazard era l'eccezione che conferma la regola. I criminali gli sparavano regolarmente contro. Lui si dichiarava sorpreso non tanto dalla frequenza con cui i proiettili lo prendevano di mira, quanto per il fatto che coloro che sparavano non lo conoscevano personalmente. «Essendo tu un mio amico», aveva detto una volta, «immagineresti che avvenisse esattamente il contrario, vero?» La misteriosa attrazione di Hazard per i proiettili ad alta velocità non era dovuta né a sconsideratezza, né a una tecnica investigativa sbagliata. Lui era anzi un detective prudente e di prima qualità.
Per esperienza, Ethan sapeva che l'universo non sempre opera secondo quel meccanismo di causa ed effetto che gli scienziati descrivono con tanta sicurezza. Le anomalie abbondano. Deviazioni dalle regole comuni, strane condizioni, incongruità. Uno può diventare anche pazzo se insiste nella sua convinzione che la vita procede sempre secondo la logica del «questo accade per via di quello». Di tanto in tanto bisogna accettare l'inesplicabile. Hazard non sceglieva i suoi casi. Come altri detective, afferrava ciò che il destino gli lanciava. Per motivi noti solo al segreto padrone dell'universo, gli capitavano più criminali dal grilletto facile che gentili vecchiette che servivano tè avvelenato ai loro altrettanto gentili amici. Fortunatamente, nella maggior parte dei casi i proiettili non centravano il bersaglio. Era stato colpito solamente due volte, e in entrambi i casi le ferite si erano rivelate leggere. A due dei compagni di Hazard era andata peggio, ma non erano morti né avevano subito gravi conseguenze. Da poliziotto, Ethan aveva lavorato con Hazard per quattro anni. Il lavoro svolto in quel periodo era quello che più gli aveva dato soddisfazione. Ora, quando Yancy rispose al cellulare dopo il terzo squillo, Ethan domandò: «Vai ancora a letto con una bambola gonfiabile?» «Vuoi prendere il mio posto?» «Senti, Hazard, in questo momento sei impegnato?» «Ho il piede sul collo di una specie di grumo di muco.» «In senso letterale?» volle sapere Ethan. «In senso figurato. Altrimenti, a quest'ora gli starei saltando sulla trachea e tu ti ritroveresti a parlare con la segreteria telefonica.» «Se stai per arrestare qualcuno...» «Sto aspettando una risposta dal laboratorio. Non me la daranno fino a domani mattina.» «Che ne dici se tu e io pranzassimo insieme a spese di Channing Manheim?» «Se questo non mi obbliga a guardare uno dei suoi schifidi film.» «Ci sentiamo tutti critici cinematografici.» Ethan fece poi il nome di un famoso ristorante del Westside in cui il Volto aveva sempre un tavolo riservato. «Hanno cibo vero o soltanto decorazioni d'interni messe su un piatto?» domandò Hazard. «Ci saranno zucchini ripieni di mousse di verdure e miniasparagi, il tutto accompagnato da salsine varie», ammise Ethan. «Preferiresti cibo arme-
no?» «C'è bisogno di dirlo? Ci vediamo al ristorante armeno, all'una?» «Io sarò quello che ha l'aria di un ex poliziotto che cerca di passare per un tipo intelligente.» Schiacciando il pulsante di fine chiamata, Ethan notò con sorpresa che era riuscito ad apparire del tutto normale. Le mani non gli tremavano più, ma una paura gelida continuava a strisciare lungo tutte le pieghe del suo intestino. Nello specchietto retrovisore, i suoi occhi non gli apparivano del tutto familiari. Ethan mise in moto i tergicristalli. Uscì dal parcheggio dei Laboratori Palomar. In quel calderone da streghe che era il cielo, la luce della tarda mattinata andava trasformandosi in una densa oscurità più adatta a un crepuscolo invernale. La maggior parte degli automobilisti aveva acceso i fari. Luminosi serpenti fantasma si dimenavano sull'asfalto bagnato. Avendo a disposizione ancora un'ora e un quarto prima di pranzo, Ethan decise di fare una visita al morto vivente. 6 L'ospedale Nostra Signora degli Angeli era una struttura bianca e alta che presentava, ai piani superiori, dei gradoni stile ziggurat, sormontati da una serie di plinti sempre più sottili che sostenevano una colonna finale. La presenza della colonna veniva segnalata ai velivoli per mezzo di una cupola illuminata, a sua volta sormontata da un radiofaro che emetteva una rossa luce lampeggiante. L'ospedale sembrava offrire misericordia alle anime malate che abitavano Los Angeles e i suoi dintorni densamente popolati. La sua forma ricordava una navicella spaziale destinata a portare in paradiso quei pazienti che non era stato possibile salvare né con la medicina né con le preghiere. Per prima cosa, Ethan si fermò nella toilette maschile del pianterreno, dove si lavò energicamente le mani sotto il getto d'acqua di un lavandino. Il tecnico di laboratorio non gli aveva tolto tutte le tracce di sangue da sotto le unghie. Il sapone liquido del dispenser aveva un forte aroma d'arancia. E quando Ethan finì di lavarsi, l'intera toilette profumava come un agrumeto. L'acqua bollente e il prolungato strofinare gli lasciarono la pelle di un
rosso acceso. Anche la più piccola macchia era stata eliminata. Tuttavia lui continuava a sentirsi le mani sporche. Provava la sgradevole sensazione che, fino a quando anche solo una molecola di quel residuo collegato alla sua morte, così come l'aveva prevista nell'incubo, gli fosse rimasta appiccicata alle mani, l'implacabile Mietitrice l'avrebbe rintracciato e avrebbe annullato l'ordine di sospendere la condanna. Osservò attentamente il proprio riflesso nello specchio, quasi convinto di poter vedere attraverso il proprio corpo, invece ebbe la conferma di essere ancora solido. Sentendo di essere sul punto di cadere in preda all'ossessione, preoccupato all'idea che avrebbe continuato a lavarsi le mani all'infinito fino a scorticarle, se le asciugò rapidamente con una salvietta di carta e uscì dalla toilette. Condivise il tragitto in ascensore con una coppia dall'aria triste che si teneva per mano come a darsi reciprocamente forza. «Vedrai che guarirà», mormorò l'uomo, e la donna annuì, gli occhi lucidi per le lacrime trattenute. Quando Ethan scese al settimo piano, la giovane coppia continuò a salire verso il suo dolore. Duncan «Dunny» Whistler era ricoverato lì da tre mesi. Tra una permanenza e l'altra nell'unità di terapia intensiva, era stato spostato in diverse camere dello stesso piano. Nelle cinque settimane seguite alla sua ultima crisi gli avevano assegnato la numero 742. Una suora dal cordiale viso irlandese incrociò brevemente lo sguardo di Ethan, sorrise, poi si allontanò senza che la sua voluminosa tonaca emettesse neppure un fruscio. Le religiose che gestivano il Nostra Signora degli Angeli appartenevano a un ordine che rifiutava gli abiti moderni adottati da molte suore, uniformi che assomigliavano a quelle delle hostess sugli aerei. Loro preferivano continuare a indossare tonache lunghe fino a terra, con ampie maniche, mantelline inamidate e, in testa, soggoli alati. Le loro uniformi erano di un bianco sfolgorante, invece che bianco e nero. Quando Ethan le vedeva scivolare lungo i corridoi, quasi che fluttuassero come spiriti, poteva quasi credere che l'ospedale non sorgesse su un terreno di Los Angeles, ma che fungesse da ponte tra questo mondo e l'aldilà. Dunny era rimasto in una specie di limbo, tra i due mondi, fin da quando
quattro tizi inferociti gli avevano infilato una volta di troppo la testa in una tazza della toilette e l'avevano tenuta lì dentro troppo a lungo. I paramedici gli avevano pompato l'acqua fuori dei polmoni, ma i dottori non erano riusciti a risvegliarlo dal coma. Quando Ethan raggiunse la stanza 742, la trovò immersa nella penombra. Il letto più vicino alla porta era occupato da un uomo anziano e privo di sensi, collegato a un ventilatore che gli pompava dentro aria con un rumore simile a un ritmico ansimare. Il letto vicino alla finestra, in cui Dunny aveva trascorso le ultime cinque settimane, era vuoto. Le lenzuola appena cambiate, luminose nell'oscurità. Dal vetro della finestra, la luce del giorno proiettava sul letto immagini vaghe e grigiastre di rivoli di pioggia che scendevano con movimenti ameboici. Le lenzuola sembravano attraversate da rami trasparenti. Quando vide che la tabella della temperatura del paziente non si trovava più agganciata ai piedi del letto, Ethan immaginò che Dunny fosse stato spostato in un'altra stanza o trasferito nuovamente nell'unità di terapia intensiva. Nella sala infermiere del settimo piano, quando domandò dove potesse trovare Duncan Whistler gli fu chiesto di aspettare la capoinfermiera, che venne chiamata con l'altoparlante. Ethan aveva conosciuto la capoinfermiera Jordan durante una delle sue precedenti visite. Era una donna dalla pelle scura con il piglio di un sergente addestratore e la voce morbida e fumosa di una cantante di caffè concerto; entrò nella sala infermiere portando la notizia che Dunny era deceduto quella stessa mattina. «Mi dispiace, signor Truman, ma ho chiamato entrambi i numeri che lei ci ha dato e ho lasciato dei messaggi sulle segreterie.» «Quando è successo esattamente?» s'informò lui. «È spirato alle dieci e venti di questa mattina. Io le ho telefonato quindici o venti minuti dopo.» Più o meno alle dieci e quaranta, Ethan si trovava di fronte alla porta dell'appartamento di Rolf Reynerd, tremava ancora al ricordo della propria morte e fingeva di cercare un ipotetico Jim Briscoe. Aveva lasciato il cellulare sull'Expedition. «So che lei non era proprio un amico intimo del signor Whistler», soggiunse l'infermiera Jordan, «ma di certo dev'essere comunque uno choc. Mi dispiace che abbia dovuto saperlo in questo modo, vedendo il letto vuoto.» «Il corpo è stato portato giù, nel giardino coperto dell'ospedale?» volle
sapere Ethan. L'infermiera Jordan lo guardò con un'espressione di nuovo rispetto. «Non sapevo che lei fosse un poliziotto, signor Truman.» Giardino coperto era l'espressione gergale usata dalla polizia per indicare l'obitorio. Lì dentro i cadaveri aspettavano di essere trapiantati nella terra. «Rapine-Omicidi», confermò lui senza prendersi la briga di spiegare che aveva lasciato la polizia, e perché. «Mio marito ha consumato abbastanza divise da andare in pensione il prossimo marzo. Io faccio gli straordinari per non impazzire.» Ethan capiva. Spesso i poliziotti svolgevano il loro lavoro per molti anni senza preoccuparsi gran che della faccenda polvere-alla-polvere-cenerealla-cenere, così si lasciavano prendere dall'ansia quando mancavano ormai pochi mesi alla data del pensionamento, tanto che erano costretti a masticare quantità industriali di Metamucil per non continuare a pensarci. La preoccupazione poteva essere anche peggiore per le mogli. «Il dottore ha firmato il certificato di morte», soggiunse l'infermiera Jordan, «e il signor Whistler è stato portato giù al fresco in attesa che venga a prelevarlo il furgone delle pompe funebri. Ma... in effetti non sarà l'impresa di pompe funebri a portarselo via, vero?» «A questo punto si tratta di omicidio», spiegò Ethan. «Il medico legale vorrà il corpo per l'autopsia.» «Allora saranno già stati avvertiti. Qui dentro abbiamo un sistema a prova di scemo.» Poi, controllando l'orologio che aveva al polso, aggiunse: «Probabilmente non hanno ancora avuto il tempo di prendere in custodia il corpo, se è questo che si sta domandando». Ethan prese nuovamente l'ascensore per scendere fino ai morti. Il giardino coperto si trovava al terzo e ultimo livello del seminterrato, accanto al garage delle ambulanze. Durante tutto il tragitto, Ethan dovette sorbirsi la versione orchestrale di una vecchia canzone di Sheryl Crow, cui avevano tolto tutta la sensualità per inserirvi un certo brio, tanto che la melodia appariva come la pelle che avvolge una salsiccia diversa e molto meno gustosa. In questo mondo immorale, persino le cose più insignificanti come le canzonette vengono inevitabilmente corrotte. Lui e Dunny, che ora avrebbe avuto trentasette anni come lui, erano stati
grandi amici dai cinque ai vent'anni. Cresciuti nello stesso quartiere degradato, erano stati ambedue figli unici e di conseguenza si erano sentiti come fratelli. Ciò che li legava non erano solo le privazioni, ma anche il dolore fisico ed emotivo di vivere alla mercé di padri alcolizzati e aggressivi. Nonché l'intenso desiderio di dimostrare che anche i figli di ubriaconi, di poveracci, un giorno potevano diventare qualcuno. I diciassette anni trascorsi lontano l'uno dall'altro, e durante i quali solo di rado si erano parlati, avevano attutito il senso di perdita di Ethan. Tuttavia, nonostante i pensieri che in quel momento affollavano la sua mente, si sentì pervadere dalla malinconia pensando a ciò che non era stato. Dunny Whistler aveva spezzato il legame che li univa scegliendo di vivere infrangendo la legge, proprio mentre Ethan si preparava a farla rispettare. La povertà e il caos della sua vita con un padre ubriacone ed egoista avevano fatto nascere in Ethan il rispetto per l'autodisciplina, per l'ordine e per la soddisfazione di una vita vissuta al servizio degli altri. Le stesse esperienze avevano suscitato in Dunny il desiderio di avere denaro e potere sufficienti per assicurarsi che nessuno osasse mai più dirgli che cosa fare o costringerlo a vivere secondo regole che non fossero le sue. Viste in retrospettiva, le loro reazioni agli stessi stress erano state divergenti fin dalla prima adolescenza. Forse per troppo tempo l'amicizia aveva impedito a Ethan di vedere queste crescenti differenze tra di loro. Uno aveva scelto di farsi rispettare grazie al proprio impegno. L'altro voleva quel tipo di rispetto che nasce dalla paura. Inoltre si erano innamorati della stessa donna, cosa che probabilmente avrebbe diviso anche dei veri fratelli. Hannah era entrata nella loro vita quando avevano solo sette anni. All'inizio era stata una di loro, l'unica persona che avevano ammesso ai loro giochi. Erano diventati tre amici inseparabili. Poi, gradualmente, lei aveva coperto il ruolo sia dell'amica sia di una specie di sorella, e i ragazzi avevano giurato di proteggerla. Ethan non era mai riuscito a stabilire il giorno in cui lei aveva smesso di essere soltanto un'amica, soltanto una sorella ed era diventata per lui e per Dunny... l'amore. Dunny voleva Hannah disperatamente, ma l'aveva persa. Ethan non si limitava a desiderarla; l'amava teneramente, aveva conquistato il suo cuore e l'aveva sposata. Lui e Dunny non si erano più parlati per dodici anni, fino alla sera in cui Hannah era morta in quello stesso ospedale.
Lasciando la versione massacrata di Sheryl Crow nell'ascensore, Ethan percorse un corridoio ampio e vivacemente illuminato, dalle pareti di cemento dipinte di bianco. Invece di un surrogato di musica, l'unico suono era il lieve ronzio dei pannelli luminosi sul soffitto. Porte doppie con oblò quadrati si aprivano sull'area destinata all'accettazione del giardino coperto. Un uomo sulla quarantina con il viso butterato, che indossava l'uniforme verde dell'ospedale, sedeva dietro a una sgangherata scrivania. Una targhetta posata sul ripiano lo identificava come WIN TOLEDANO. Sollevò gli occhi da un romanzo in edizione economica con un cadavere grottesco in copertina. Ethan gli domandò come stava e lui rispose che era vivo, quindi doveva stare bene, dopodiché Ethan disse: «Poco più di un'ora fa, dal settimo piano le hanno mandato giù Duncan Whistler». «L'ho messo sotto ghiaccio», confermò Toledano. «Non posso consegnarlo alle pompe funebri. Prima lo vuole il medico legale, perché è stato un omicidio.» A disposizione dei visitatori c'era soltanto una sedia. Generalmente tutte le transazioni riguardanti i cadaveri deperibili erano condotte rapidamente, senza alcun bisogno di comfort da sala d'aspetto, né di riviste vecchie e consunte. «Non sono delle pompe funebri», spiegò Ethan. «Ero un amico del defunto. Ma quando è morto non ero qui.» «Mi dispiace, ma in questo momento non posso farle vedere il corpo.» Sedendosi sulla sedia dei visitatori, Ethan concordò: «Certo, lo so». Per evitare che gli avvocati della difesa, una volta in tribunale, mettessero in discussione i risultati dell'autopsia, il cadavere doveva restare completamente isolato in modo che nessun estraneo potesse manometterlo. «Non c'è alcun famigliare che possa identificarlo e io sono il suo esecutore testamentario», spiegò Ethan. «Quindi, se vogliono che io lo identifichi, preferirei farlo qui piuttosto che in seguito, nell'obitorio cittadino.» Posando il libro, Toledano disse: «L'anno scorso, un tizio con cui sono cresciuto, si è fatto scaraventare giù da una macchina a quasi centocinquanta chilometri all'ora. È dura perdere un amico ancora in giovane età». Ethan non poteva fingere di essere addolorato, ma accettava con gratitudine qualsiasi tipo di conversazione che gli togliesse dalla mente Rolf Reynerd. «È da molto tempo che non eravamo più grandi amici. Non gli ho parlato per dodici anni, e negli ultimi cinque solo tre volte.»
«Però l'ha nominata esecutore testamentario?» «S'immagini un po'. L'ho saputo solo quando Dunny si trovava in terapia intensiva già da due giorni. Ricevo una telefonata dal suo avvocato. Mi dice che non solo sono l'esecutore testamentario se Dunny muore, ma che nel frattempo ho la procura per gestire i suoi affari e prendere decisioni che riguardano la sua salute.» «Dev'esserci stato ancora qualcosa di speciale tra voi due.» Ethan scrollò la testa. «Niente.» «Dev'esserci stato qualcosa», insisté Win Toledano. «Le amicizie d'infanzia sono più profonde di quanto uno possa immaginare. Non ci si vede per anni, poi ci si incontra di nuovo ed è come se non fosse passato nemmeno un minuto.» «Tra di noi non era così.» Ma Ethan sapeva che il qualcosa di speciale tra loro era stata Hannah e l'amore che entrambi avevano provato per lei. Per cambiare argomento, domandò: «Com'è successo che il suo amico è stato spinto fuori da quell'auto in corsa?» «Era un grande, ma pensava sempre con il suo affare piuttosto che con la testa.» «Non è l'unico.» «Se ne sta in un bar, vede tre pollastrelle, sole solette, così si fa avanti. Tutte e tre gli saltano addosso, dicono andiamo a casa nostra, e lui si convince di essere una specie di Brad Pitt e che le tre tipe se lo vogliono fare tutte insieme.» «E invece è una trappola per rapinarlo», cercò di indovinare Ethan. «Peggio. Lui lascia la sua macchina e sale su quella delle ragazze. Due di loro se lo lavorano ben bene sul sedile posteriore, praticamente lo spogliano... poi lo spingono fuori per divertimento.» «Quindi le tre pollastrelle erano completamente fatte di qualcosa.» «Forse sì, forse no», commentò Toledano. «Salta fuori che avevano già fatto quel giochetto altre due volte. Ma questa volta le hanno beccate.» «L'altra sera mi è capitato di vedere un vecchio film alla televisione», raccontò Ethan. «Frankie Avalon, Annette Funicello. Una di quelle storielle di feste sulla spiaggia. Certo che, allora, le donne erano proprio diverse.» «Lo erano tutti. Nessuno è migliorato o è diventato più simpatico dalla metà degli anni Sessanta in poi. Vorrei tanto essere nato trent'anni prima. Com'è morto il suo?» «Quattro tizi pensavano che lui li avesse fregati, facendo sparire dei sol-
di. Lo hanno strapazzato un po', gli hanno legato i polsi dietro la schiena con il nastro isolante e gli hanno infilato la testa nella tazza di un cesso abbastanza a lungo da provocargli danni cerebrali.» «Accidenti, che brutta storia.» «Non è certo roba da Agatha Christie», concordò Ethan. «Ma lei se ne sta occupando, dimostra che ci dev'essere stato ancora qualcosa tra voi due. Nessuno è costretto a essere un esecutore testamentario, se non lo vuole.» Due portantini del laboratorio del medico legale spalancarono una delle doppie porte ed entrarono nella stanza. Il primo era alto, aveva superato la cinquantina e appariva chiaramente orgoglioso di aver conservato tutti i suoi capelli. Li portava acconciati in modo talmente elaborato che avrebbe dovuto guarnirli con dei fiocchi. Ethan conosceva il compagno di lavoro del Capelluto. José Ramirez era un uomo tozzo, di origine messicana, con uno sguardo da miope e il sorriso dolce e sognante di un koala. José viveva per sua moglie e per i suoi quattro figli. Mentre il Capelluto compilava le scartoffie fornitegli dall'addetto all'accettazione, Ethan si mise a chiacchierare con José e gli chiese di vedere le foto più recenti di Maria e dei ragazzi, che l'uomo teneva nel portafogli. Una volta completate le formalità, Toledano li precedette attraverso una porta interna che conduceva nel giardino coperto. Invece del pavimento in mattonelle viniliche dell'accettazione, questo locale era piastrellato in ceramica bianca con fughe sottilissime tra una mattonella e l'altra: una superficie facile da sterilizzare nel caso fosse stata contaminata da fluidi corporei. Sebbene venisse continuamente purificata attraverso un sofisticato sistema di filtri, nell'aria fredda ristagnava un lieve ma sgradevole odore. La maggior parte delle persone non muore profumando di shampoo, sapone e acqua di colonia. Nei quattro cassettoni da obitorio in acciaio inossidabile potevano esserci dei corpi, ma ciò che colpiva immediatamente era la presenza di due cadaveri sui lettini a rotelle. Entrambi erano coperti da un lenzuolo. C'era anche un terzo lettino, vuoto, da cui pendeva un telo aggrovigliato e al quale Toledano si avvicinò con un'espressione sbalordita. «Qui c'era lui. Proprio qui.» Confuso, Toledano abbassò i lenzuoli che coprivano gli altri due cadaveri, scoprendone i volti. Nessuno dei due era Dunny Whistler.
Uno alla volta, aprì i quattro cassettoni d'acciaio. Vuoti. Dato che l'ospedale mandava la maggior parte dei pazienti a casa piuttosto che ai funerali, quel giardino coperto era piccolo rispetto all'obitorio cittadino. Tutti i nascondigli possibili erano già stati esplorati. 7 In quel locale privo di finestre, tre piani sotto terra, i quattro vivi e i due morti per un momento rimasero talmente silenziosi che Ethan immaginò di sentire la pioggia che scrosciava nelle strade, sopra di loro ma assai lontane. Poi il portantino capelluto disse: «Vuoi dire che hai consegnato Whistler alle persone sbagliate?» Toledano scosse decisamente la testa. «Neanche per idea. Non l'ho mai fatto in quattordici anni e non ho certo cominciato oggi.» Un'ampia porta permetteva ai cadaveri sulle barelle di essere trasportati direttamente dal giardino coperto al garage delle ambulanze. I due chiavistelli che la tenevano chiusa erano disinseriti. «Li ho lasciati chiusi», insisté Toledano. «Sono sempre chiusi, sempre, tranne quando controllo una spedizione, e in quel caso sono sempre qui, proprio qui, a guardare.» «Chi potrebbe voler rubare un morto stecchito?» si domandò il Capelluto. «Ma anche se qualche pervertito volesse rubarne uno, non potrebbe», spiegò Win Toledano, aprendo la porta che dava sul garage per mostrare che, dalla parte esterna, non c'erano buchi della serratura. «Due serrature cieche. Non ci sono mai state chiavi. Non puoi aprire la porta se non sei dentro questa stanza, e in questo caso giri i pomelli.» La voce del guardiano si affievolì rapidamente per la preoccupazione. Ethan immaginò che Toledano vedesse il suo lavoro finire nelle fogne così come il sangue è attratto dalla gravità verso le scanalature del tavolo inclinato per le autopsie. José Ramirez suggerì: «Magari non era morto e se n'è andato da solo». «Era più morto di un morto», insisté Toledano. «Assolutamente, maledettamente morto.» Con una scrollata di spalle e un sorriso da koala, José ribatté: «Capita di sbagliare». «Non in questo ospedale, no», ribadì Toledano. «Mai, tranne una volta, quindici anni fa, quando una vecchia signora che se ne stava qui sotto al
fresco già da quasi un'ora, dichiarata morta, si mette seduta e comincia a urlare.» «Ricordo di aver sentito questa storia», confermò il Capelluto. «A una suora è venuto addirittura un infarto.» «Chi ha avuto l'infarto è stato il tizio che faceva questo lavoro prima di me ed è stata la suora che gli ha dato una bella strigliata a farglielo venire.» Piegandosi in avanti, Ethan estrasse un sacco di plastica bianca da sotto la barella su cui era stato deposto il corpo di Dunny. Il sacco era fornito di lacci, su uno dei quali era stata legata una targhetta con il nome DUNCAN EUGENE WHISTLER, la sua data di nascita e il numero di previdenza sociale. Con un tono di panico nella voce, Toledano disse: «Conteneva i vestiti che indossava quando è stato ricoverato in ospedale». Ora il sacco era vuoto. Ethan lo posò sulla barella. «Da quando quell'anziana signora si è risvegliata quindici anni fa, fate un doppio controllo?» «Triplo, quadruplo», dichiarò Toledano. «Quando arriva un morto, per prima cosa lo esamino con lo stetoscopio, ascolto se c'è attività del cuore o dei polmoni. Uso la parte del diaframma per sentire i suoni acuti, l'altra parte per quelli bassi.» Continuava ad annuire come se, mentre parlava, stesse riesaminando mentalmente l'elenco di quanto aveva fatto dopo aver ricevuto il corpo di Dunny. «Eseguo anche un test con lo specchio per il respiro. Poi misuro la temperatura interna del corpo, la prendo di nuovo trenta minuti dopo, e ancora dopo un'altra mezz'ora, per vedere se scende come dovrebbe e se quello che hai tra le mani è veramente un morto.» Capelluto lo trovò divertente. «Temperatura interna? Vuoi dire che passi il tempo a ficcare termometri su per il culo dei morti?» Tutt'altro che divertito, José lo rimproverò: «Abbi un po' di rispetto», e si fece il segno della croce. Ethan aveva i palmi delle mani sudati. Se li asciugò sulla camicia. «Allora, se nessuno poteva entrare qui dentro per prenderlo e se lui era morto... adesso dov'è?» «Probabilmente una delle sorelle ti sta facendo uno scherzo», disse Capelluto, rivolgendosi a Toledano. «Quelle suore sono delle burlone.» Aria fredda, piastrelle di ceramica bianca, cassettoni d'acciaio inossidabile con i pannelli anteriori luccicanti come ghiaccio: eppure niente di tutto questo spiegava il freddo intenso da cui Ethan si sentiva pervaso. Aveva la sensazione che il sottile odore di morte avesse impregnato an-
che i suoi abiti. In passato, luoghi come quello non lo avevano mai disturbato. Ora era sconvolto. Sullo spazio sotto l'intestazione PARENTE PIÙ PROSSIMO O SOGGETTO AUTORIZZATO, il modulo dell'ospedale indicava il nome e i numeri di telefono di Ethan; tuttavia lui preferì consegnare a Toledano un biglietto da visita con le stesse informazioni. Mentre risaliva con l'ascensore, ascoltò solo superficialmente una delle migliori canzoni delle Barenaked Ladies ridotta a musica da sonnellino. Salì dritto fino al settimo piano, dove Dunny era morto. Solo quando le porte dell'ascensore si aprirono, si rese conto che in realtà gli sarebbe bastato raggiungere il garage, al primo livello sotterraneo, dove aveva parcheggiato l'Expedition, appena due piani sopra il giardino coperto. Dopo aver premuto il pulsante per raggiungere il garage principale, salì fino al quindicesimo piano prima che la cabina ricominciasse a scendere. Durante il tragitto, diverse persone entrarono e uscirono, ma Ethan le notò appena. La sua mente lo portava altrove. L'episodio nell'appartamento di Reynerd. La scomparsa del defunto Dunny. Anche senza distintivo, Ethan manteneva intatto l'intuito del poliziotto. Comprendeva che due fatti così straordinari, avvenuti nel corso della stessa mattina, non potevano rappresentare una coincidenza. Tuttavia la sola forza dell'intuito non era sufficiente a chiarire la natura del collegamento che doveva esistere tra questi due misteriosi episodi. Era come voler cercare di eseguire un'operazione chirurgica al cervello usando solo l'intuito. Nemmeno la logica offriva risposte immediate. In questo caso, perfino Sherlock Holmes avrebbe probabilmente rinunciato a scoprire la verità attraverso il ragionamento deduttivo. Nel garage, un'auto in arrivo avanzava tra le file in cerca di uno spazio in cui parcheggiare e svoltò un angolo imboccando una rampa in discesa mentre un'altra auto sbucava dall'abisso di cemento, come un sommergibile di salvataggio che emergesse da una fossa oceanica, e si avviò verso l'uscita; solo Ethan era a piedi. Screziato da anni di fuligginosi gas di scappamento che formavano enigmatiche macchie di Rorschach, il soffitto grigio sembrava abbassarsi sempre di più via via che Ethan avanzava nel garage. Come lo scafo di un sottomarino, le pareti sembravano appena in grado di resistere al devastan-
te peso del mare, a una spaventosa pressione. Passo dopo passo, Ethan si aspettava di scoprire che, dopo tutto, non era l'unica persona a piedi. Al di là di ogni SUV, dietro ogni colonna di cemento, poteva attenderlo il suo vecchio amico, la cui condizione era misteriosa e i cui fini erano inconoscibili. Raggiunse l'Expedition senza incidenti. Nessuno lo attendeva nel veicolo. Al volante, prima ancora di avviare il motore, fece scattare la serratura delle portiere. 8 Il ristorante armeno su Pico Boulevard aveva l'atmosfera di una gastronomia ebraica, un menu che offriva cibo così gustoso da riuscire a far sorridere perfino un condannato a morte durante il suo ultimo pasto, e più poliziotti in borghese e personaggi dell'industria cinematografica messi insieme di quanti se ne sarebbero trovati in qualsiasi posto, tranne in un tribunale durante il processo per l'omicidio del coniuge di un personaggio famoso. Quando Ethan arrivò, Hazard Yancy si era già accomodato in un séparé accanto a una delle vetrate. Anche da seduto era così imponente che avrebbe potuto sostenere il ruolo di protagonista del film L'incredibile Hulk, se mai Hollywood avesse deciso di girarne una versione con personaggi di colore. Ad Hazard era già stato servito un antipasto di kibby con contorno di cetrioli, pomodori e rape sottaceto. Mentre Ethan si accomodava dall'altra parte del tavolo, Hazard disse: «Qualcuno mi ha detto di aver letto sui giornali che il tuo capo ha incassato ventisette milioni di dollari per i suoi due ultimi film». «Ventisette milioni per ciascun film. È stato il primo a superare il tetto dei venticinque milioni.» «Poveraccio», commentò Hazard. «Più una parte di quello che sta dietro.» «Con tutti quei soldi, può prendersi il didietro di chi vuole.» «È un modo di dire dell'industria cinematografica. Significa che, se il film ha successo, a lui spetta una quota dei profitti, a volte perfino una percentuale degli incassi lordi.» «Il che significa?»
«Secondo Daily Variety, i suoi film hanno un tale successo in tutto il mondo che a volte riesce a ricavarci cinquanta milioni di dollari, più o meno.» «Adesso ti sei messo a leggere quella rivista frivola?» domandò Hazard. «Mi aiuta a rendermi conto di che razza di bersaglio stia diventando.» «Ti sei ritagliato il lavoro giusto per te. Quanti film gira in un anno?» «Mai meno di due. A volte tre.» «Stavo pensando di farmi una tale sbafata a sue spese che perfino il signor Channing Manheim l'avrebbe notato e tu saresti stato licenziato per aver abusato dei privilegi che ti ha concesso.» «Neppure tu riusciresti a mangiare centomila dollari di kibby.» Hazard scosse la testa. «Il Gran Chan. Forse sono superato, ma secondo me non vale cinquanta milioni di dollari.» «Possiede anche una società televisiva che attualmente ha tre programmi trasmessi dalle maggiori reti e quattro via cavo. I giapponesi gli pagano diversi milioni di dollari per pubblicizzare alla televisione la loro birra più venduta. È proprietario di una linea di indumenti sportivi. E di un sacco di altre cose. I suoi agenti definiscono gli incassi non derivanti dai film 'flussi di introiti aggiuntivi'.» «Insomma: la gente gli piscia addosso denaro, è così?» «Non avrà mai bisogno di aspettare i saldi.» Quando la cameriera si avvicinò al loro tavolo, Ethan ordinò cuscus con pesce e tè freddo. Per prendere l'ordinazione di Hazard, la ragazza consumò la punta della matita: lebne con formaggio a striscioline e una porzione extra di cetrioli, hummus, foglie di vite ripiene, pane non lievitato con lahmajoon, tajina ai frutti di mare... «E in più mi porti due di quelle bottigliette di Orangina.» «L'unica persona che ho visto mangiare così tanto», commentò Ethan, «era una ballerina bulimica. Dopo ogni portata, andava in bagno a vomitare.» «Sto solo ordinando qualche assaggio e non indosso mai il tutù.» Hazard tagliò in due il suo ultimo kibby. «E allora, quanto è stronzo questo Gran Chan?» Il rumoroso chiacchiericcio delle altre conversazioni consentiva a Ethan e Hazard di godere di una privacy quasi pari a quella che avrebbero avuto su una sperduta collina del Mojave. «È impossibile odiarlo», confessò Ethan. «Questo è il complimento migliore che gli puoi fare?»
«Il fatto è che, di persona, non ha lo stesso impatto di quando lo vedi sullo schermo. Non suscita emozioni, né in bene né in male.» Hazard s'infilò in bocca mezzo kibby ed emise un sommesso gemito di piacere. «In pratica è tutto fumo e niente arrosto.» «Non esattamente. È così... affabile. Generoso con i dipendenti. Per niente arrogante. Ma c'è in lui una specie di... di noncuranza. È come se non gli importasse di come tratta la gente, compreso suo figlio, ma è un'indifferenza benevola. Non è mai intenzionalmente cattivo.» «Con tutto quel denaro, con tutta quell'adorazione, ti aspetteresti un mostro.» «No, lui non lo è. È...» Ethan si soffermò a pensare. Durante tutti i mesi in cui aveva lavorato per Manheim, non aveva mai parlato con nessuno del suo capo così a lungo o in modo così franco. Insieme, lui e Hazard erano rimasti coinvolti in varie sparatorie e ognuno aveva affidato la propria vita all'altro. Ethan poteva parlare liberamente sapendo che nulla di ciò che diceva sarebbe stato ripetuto. Consapevole che si trattava di una conversazione confidenziale, e al riparo da orecchie indiscrete, voleva descrivere il Volto non solo nel modo più onesto, ma anche più chiaramente possibile. Descrivendo la personalità di Manheim ad Hazard, forse sarebbe riuscito a comprenderlo meglio lui stesso. Dopo che la cameriera ebbe portato il tè freddo e le bottigliette di Orangina, Ethan proseguì: «È molto concentrato su se stesso, ma non come lo sono di solito le star del cinema, non in modo tale da apparire egocentrico. Immagino che gli importi dei soldi, ma non credo che si preoccupi di ciò che la gente pensa di lui o del fatto di essere famoso. È concentrato su se stesso, è vero, completamente, ma è come... uno stato Zen di concentrazione». «Stato Zen?» «Esatto. Come se la vita consistesse in lui e la natura, in lui e il cosmo, non in lui e le altre persone. Sembra sempre in uno stato semimeditativo, come non fosse completamente presente, tipo quegli yogi fasulli che fingono di essere distaccati dalle cose terrene, solo che lui è sincero. Se è perennemente in contemplazione dell'universo, è anche sicuro che l'universo non faccia che contemplare lui, che il fascino sia reciproco.» Divorato anche l'ultimo boccone di kibby, Hazard domandò: «Spencer Tracy, Clark Gable, Jimmy Stewart, Bogart... erano tutti delle teste vuote e
nessuno lo sapeva o, a quei tempi, gli attori del cinema erano uomini concreti, con la testa ben piantata sulle spalle?» «Nell'ambiente del cinema c'è ancora gente vera. Ho conosciuto Jodie Foster, Sandra Bullock. Non hanno l'aria delle sciocchine.» «Sembrano anche dei tipi piuttosto decisi», confermò Hazard. Ci vollero due cameriere per portare a tavola tutto il cibo che Hazard aveva ordinato. Ogni volta che gli posavano un piatto davanti, lui sorrideva e annuiva: «Bene. Benissimo. Ottimo. Che meraviglia. Fantastico». Il ricordo dell'incubo in cui veniva colpito all'addome da un proiettile rovinò l'appetito di Ethan. Spiluccando il suo cuscus con pesce, rimandò il momento in cui avrebbe affrontato la questione di Rolf Reynerd. «Hai detto che avevi i piedi sul collo di un grumo di muco, o qualcosa del genere. Di che caso si tratta?» «Una biondina di vent'anni strangolata e gettata in uno di quei bacini di depurazione. Abbiamo soprannominato il caso la Bionda a Bagno.» Lavorare alla Omicidi ti cambia per sempre. Le vittime continuano a perseguitarti con la silenziosa insistenza con cui le spirochete fanno girare il veleno nel sangue. Il senso dell'umorismo è la migliore e spesso unica difesa contro l'orrore. Quando si inizia un'indagine, all'omicidio si appioppa un nomignolo buffo, che successivamente è usato anche da tutta la Omicidi. Il tuo superiore non domanderebbe mai Stai facendo progressi con l'omicidio di Ermitrude Pottlesby? ma chiederebbe sempre Niente di nuovo con la Bionda a Bagno? Quando Ethan e Hazard avevano investigato sul brutale omicidio di due lesbiche di origine mediorientale, il caso era stato ribattezzato le Virago Velate. Un'altra giovane donna era stata legata al tavolo della cucina ed era morta soffocata dalle pagliette d'acciaio e dalle spugne imbevute di detersivo per piatti che il suo assassino le aveva infilato in bocca e spinto giù per la gola. Il suo caso era diventato quello della Donna delle Pulizie. Probabilmente un estraneo si sarebbe offeso nel sentire quei nomignoli. Ciò di cui i civili non si rendevano conto era che spesso i detective sognavano i morti per i quali cercavano giustizia, o che talvolta un detective si affezionava tanto a una vittima che la sua perdita aveva qualcosa di personale. In quei soprannomi non c'era nulla di irriverente e a volte esprimevano addirittura uno strano, malinconico affetto. «Strangolata», commentò Ethan, riferendosi alla Bionda a Bagno. «Il
che suggerisce passione, molto probabilmente è stato qualcuno che aveva una storia con lei.» «Bene. Allora non ti sei completamente rammollito con le tue costose giacche di pelle e i mocassini di Gucci.» «Porto dei Rockport, non dei mocassini. Gettarla in un bacino di depurazione probabilmente significa che l'ha beccata mentre se la faceva con qualcun altro, perciò la considerava sudicia, un pezzo di merda.» «In più, potrebbe essere una persona che conosceva quel bacino e di conseguenza sapeva come liberarsi del corpo. Quello è un maglione di cachemire?» «Cotone. Quindi il tuo assassino lavora nell'impianto di depurazione?» Hazard scosse la testa. «Fa parte del consiglio municipale.» Perdendo completamente l'appetito, Ethan posò la forchetta. «Stai tallonando un politico? Allora perché non ti trovi un bel precipizio e non ti butti giù?» Infilandosi tra le fauci una foglia di vite ripiena, Hazard riuscì a sorridere mentre masticava. Dopo aver ingoiato l'involtino disse: «Il precipizio ce l'ho già, e sto spingendo giù lui». «Se qualcuno finirà per sfracellarsi sulle rocce, quello sarai tu.» «Adesso stai esagerando con la metafora», borbottò Hazard, infilando cucchiaiate di hummus in una pita. Dopo mezzo secolo di funzionali «puliti» e di onesta amministrazione, negli ultimi tempi anche la California era diventata una specie di fognatura, qualcosa che non accadeva dagli anni Trenta e Quaranta, quando Raymond Chandler ne aveva descritto i lati oscuri. Ma adesso, con l'avvento del nuovo millennio, a livello statale e troppo spesso anche a quello locale, la corruzione aveva raggiunto un grado di marciume che raramente si può trovare al di fuori di una repubblica delle banane, in questo caso senza banane e con pretese di glamour. In California, una buona percentuale di politici si stava comportando come una banda di criminali. Se un criminale vede che stai dando la caccia a uno del suo ambiente, dà per scontato che la prossima volta toccherà a lui e quindi userà tutto il suo potere per rovinarti in un modo o nell'altro. Anni fa, quando la società era oppressa dalle bande di gangster, in una crociata contro la corruzione Eliot Ness aveva guidato un corpo di agenti così incorruttibili e così coraggiosi da essere soprannominati gli Intoccabili. Ma in questa California anche Ness e la sua squadra esemplare sarebbero rimasti annientati, non dalle bustarelle o dai proiettili, ma da una buro-
crazia usata spietatamente come una scure e dalla diffamazione avidamente trasformata in articoli calunniosi da un giornalismo affamato di notizie e con un debole per i criminali, eletti dal popolo o no, di cui si occupava quotidianamente. «Se ti trovassi nella mia posizione», gli fece notare Hazard, «gestiresti questa faccenda esattamente come me.» «È vero. Ma di certo non me ne starei seduto a sorriderci sopra.» Indicando il maglione di Ethan, Hazard domandò: «Cotone... cotone da Rodeo Drive?» «Cotone da saldi di Macy's.» «Oggi come oggi, quanto paghi per un paio di calzini?» «Diecimila dollari», sparò Ethan. Fino a poco prima era stato restio all'idea di parlare della questione di Rolf Reynerd. Ora pensò che la cosa migliore che potesse fare per Hazard fosse di distrarlo dalla missione suicida di far condannare un politico per omicidio. «Dai un'occhiata a queste.» Aprì una grossa busta gialla, ne estrasse il contenuto e lo spinse attraverso il tavolo. Mentre Hazard studiava ciò che gli era stato dato, Ethan gli raccontò delle cinque scatole nere consegnate dalla Federal Express e della sesta scagliata oltre il cancello. «Dato che sono arrivate con la Federal Express, sai chi le ha inviate.» «No. L'indirizzo del mittente era falso. Sono state consegnate a diversi negozietti che fanno da centro di raccolta per la FedEx e per la UPS. Il servizio è stato pagato in contanti.» «In una settimana, quanta posta riceve Channing?» «All'incirca cinquemila tra buste e pacchi. Ma la maggior parte viene inviata allo studio cinematografico, dove ha degli uffici. La posta è letta da un'agenzia di pubblicità che provvede anche a rispondere. L'indirizzo privato di Channing non è un segreto, ma non è nemmeno di pubblico dominio.» Nella busta c'erano le stampe ad alta risoluzione di sei foto digitali scattate nello studio di Ethan, la prima delle quali mostrava un piccolo barattolo di vetro posato su un panno bianco. Accanto al barattolo c'era il coperchio. Disseminato sul panno c'era ciò che il barattolo aveva contenuto: ventidue insetti dal dorso arancione punteggiato di nero. «Coccinelle?» domandò Hazard. «Il nome entomologico è Hippodania convergens, della famiglia dei
coccinellidi. Non penso abbia importanza, ma ho voluto comunque verificare.» L'espressione di Hazard parlava chiaramente senza bisogno di parole, ma lui disse comunque: «Certo che questa roba ti spiazza completamente». «Questo tizio pensa che io sia Batman e lui Jocker.» «Perché ventidue coccinelle? Il numero ha qualche significato?» «Non lo so.» «Quando le hai ricevute, erano vive?» volle sapere Hazard. «Tutte morte. Non so dirti se quando le ha spedite fossero ancora vive, ma mi sono sembrate morte già da un po'. Le elitre erano intatte, ma le parti più delicate apparivano raggrinzite, friabili.» Nella seconda foto si vedeva, posata su un foglio di carta oleata, una massa di fango grigio su cui erano accatastate una serie di conchiglie a spirale di color marrone chiaro. «Dieci lumache morte», spiegò Ethan. «Per la verità, quando ho aperto la scatola, due erano ancora vive, ma molto deboli.» «Dovevano avere un profumo che Chanel non userà mai.» Hazard fece una pausa per infilarsi in bocca una forchettata di tajina ai frutti di mare. La terza foto mostrava un piccolo barattolo di vetro chiaro dal tappo a vite. L'etichetta era stata tolta, ma il coperchio indicava che un tempo il barattolo aveva contenuto dei sottaceti. Dato che la foto non era abbastanza chiara da permettere di distinguere il misterioso contenuto, Ethan spiegò: «Immersi nella formaldeide, c'erano dieci pezzi di tessuto anatomico semitrasparente di un colore rosa pallido. A forma di tubicino. Difficili da descrivere. Come minuscole meduse». «Li hai fatti esaminare in laboratorio?» «Sì. Quando mi hanno consegnato i risultati, mi hanno anche lanciato un'occhiata strana. Nel barattolo c'erano dei prepuzi.» Le mascelle di Hazard si bloccarono, come se ciò che stava mangiando si fosse trasformato in colla a presa rapida. «Dieci prepuzi di adulti, non di bambini», sottolineò Ethan. Dopo aver ripreso a masticare meccanicamente, senza più gusto, e dopo aver deglutito con una smorfia, Hazard domandò: «Quanti adulti pensi che si facciano circoncidere?» «Non lo so, ma non credo proprio che facciano la fila», rispose Ethan. 9
Corky Laputa adorava la pioggia. Indossava un lucido impermeabile giallo e un cappello dello stesso colore dalla tesa spiovente. Sembrava un dente di leone. Il lungo impermeabile aveva molte tasche interne, profonde e a prova di umidità. Calzava un paio di alti stivali di gomma neri e, sotto, due paia di calzini che gli tenevano gradevolmente caldi i piedi. Desiderava ardentemente dei tuoni. Moriva dalla voglia di vedere dei lampi. I temporali della California meridionale, solitamente privi di scoppi e bagliori, erano troppo quieti per i suoi gusti. Comunque gli piaceva anche il vento. Sibilava, ululava, dava mordente alla pioggia e rappresentava una promessa di caos. I ficus e i pini tremavano, rabbrividivano. Le fronde delle palme schioccavano e sbatacchiavano. Le foglie, strappate dai rami, turbinavano in aria come spiriti, demoni dalla breve vita che venivano poi scaraventati nelle cunette delle strade. Alla fine, ostruendo le griglie degli scarichi, le foglie avrebbero causato l'inondazione delle strade, avrebbero bloccato le auto, ritardato le corse delle ambulanze e sarebbero state responsabili di numerosi piccoli, ma graditi, disagi. In quel mezzogiorno fradicio e tempestoso, Corky se ne andava a passeggio per un grazioso quartiere residenziale di Studio City. Seminando disordine. Lui non abitava lì. Non l'avrebbe mai fatto. Quello era un quartiere abitato da operai, o al massimo da impiegati. Sarebbe stato difficile trovare uno stimolo intellettuale in un posto del genere. Era arrivato lì in macchina. Nonostante il suo abbigliamento giallo canarino, passeggiava per quelle strade senza attirare l'attenzione di nessuno, quasi fosse stato un fantasma la cui sostanza non era che il tremolio di una nebbiolina ectoplasmatica. Non aveva ancora incontrato nessuno che camminasse a piedi. E poche erano le auto che percorrevano quelle strade tranquille. Le condizioni del tempo invogliavano la gente a restarsene in casa. Ma quel tempaccio era il miglior alleato di Corky. Naturalmente, a quell'ora, gli abitanti delle case erano perlopiù al lavoro. Faticare, faticare, con stupida determinazione.
Dato che era la settimana prima di Natale, i bambini non erano andati a scuola. Oggi: lunedì. Natale: venerdì. E vai con gli addobbi. Alcuni bambini erano in compagnia di parenti. Altri, un numero più ristretto, erano protetti da una madre che non lavorava fuori casa. Altri ancora erano da soli. Tuttavia, in questo caso, a Corky non interessavano i bambini. Non dovevano temere il fantasma giallo che passava tra loro. E comunque aveva quarantadue anni. Oggigiorno i bambini erano troppo accorti per aprire la porta a degli sconosciuti. Negli ultimi anni il mondo era stato profondamente corrotto dall'amato disordine e dalla piacevole decadenza. Ora gli agnelli di tutte le età si facevano sempre più diffidenti. Per il momento Corky si sarebbe accontentato di offese minori, felice com'era di passeggiare in mezzo al temporale e di commettere qualche piccolo danno. In una delle sue capaci tasche interne teneva un sacchetto di plastica pieno di luccicanti cristalli azzurri. Un potente defoliante chimico. Era stato l'esercito cinese a svilupparlo. Prima di una guerra, i loro agenti cospargevano il terreno delle fattorie del nemico con quella sostanza. I cristalli blu facevano avvizzire il raccolto durante il ciclo annuale della coltivazione. Un nemico che non può nutrirsi non può neppure combattere. Un collega di Corky, all'università, aveva ricevuto un finanziamento dal dipartimento della Difesa per studiare i cristalli. Era necessario trovare urgentemente un sistema per proteggersi da quel prodotto chimico prima che venisse utilizzato. Nel suo laboratorio, il collega aveva un bidone da venticinque chili di quella sostanza. Corky ne aveva rubato circa mezzo chilo. Per proteggersi, indossava un paio di sottili guanti di lattice, che poteva facilmente nascondere nelle ampie maniche ad ala di pipistrello del suo impermeabile. In realtà l'indumento somigliava più a un poncho che a un impermeabile. Le maniche erano così voluminose che poteva ritrarre le braccia, frugare nelle tasche interne e infilare nuovamente le braccia nelle maniche, stringendo manciate di veleno. Disseminò i cristalli blu tra primule e liriodendri, su gelsomini e buganvillee. Azalee e felci. Rose e lantane. La pioggia scioglieva rapidamente i cristalli. La sostanza chimica penetrava nelle radici.
Nel giro di una settimana, le piante sarebbero ingiallite e avrebbero perso le foglie. Dopo due settimane, si sarebbero trasformate in un mucchietto di marciume puzzolente. Le quantità che Corky poteva disseminare non avrebbero danneggiato i grossi alberi. Ma un numero soddisfacente di prati, fiori, cespugli, rampicanti e alberelli sarebbero andati distrutti. Lui non seminava morte nel giardino di ogni villetta. Solo uno su tre, senza uno schema apparentemente definito. Se avesse rovinato i giardini di un intero isolato, probabilmente i vicini si sarebbero sentiti solidali tra loro per via della comune catastrofe. Ma se alcuni restavano intatti, avrebbero suscitato invidia. E fatto nascere dei sospetti. La sua missione non era unicamente quella di portare distruzione. Qualsiasi sciocco era in grado di rovinare le cose. Lui intendeva anche propagare la discordia, la sfiducia e la disperazione. Di tanto in tanto, dalla veranda cui era stato legato o dalla sua cuccia al di là di una staccionata o di un muretto, un cane abbaiava o ringhiava. A Corky piacevano i cani. Erano i migliori amici dell'uomo, anche se il motivo per cui desiderassero ricoprire quel ruolo restava per lui un mistero, considerando la spregevole natura dell'umanità. A volte, quando sentiva abbaiare un cane, prendeva da una delle tasche interne un succulento biscottino. Poi lo lanciava sulle verande, al di sopra delle staccionate. Nell'interesse della distruzione della società, poteva mettere da parte il suo amore per i cani e fare ciò che andava fatto. Bisognava fare dei sacrifici. Non puoi preparare una frittata senza rompere le uova, e cose del genere. I biscotti per cani contenevano cianuro. Gli animali sarebbero morti più in fretta delle piante. Ben poche cose seminavano disperazione con tanta efficacia come la morte prematura di un animale a cui si voleva bene. Corky era triste. Triste per gli sfortunati cagnolini. Ma era anche felice. Felice perché, con migliaia di piccoli gesti, ogni giorno contribuiva al crollo di un ordine corrotto... e di conseguenza alla nascita di un mondo migliore. Così come non distruggeva il giardino di ogni casa, non uccideva tutti i cani. Lasciamo che un vicino sospetti di un altro vicino. Non temeva di essere colto sul fatto mentre avvelenava piante e animali.
L'entropia, la forza più potente dell'universo, era sua alleata e sua divinità protettrice. Oltretutto, i genitori che si trovavano a casa in quel momento stavano guardando stupidi talk show, nei quali le figlie rivelavano alle madri di essere delle prostitute, o le mogli rivelavano ai mariti di avere una relazione con i loro cognati. I ragazzini in vacanza dalla scuola sarebbero stati impegnati ad apprendere dai videogame le tecniche più svariate per commettere un omicidio. E, cosa ancor più positiva, gli adolescenti sarebbero stati inchiodati davanti al computer, alla ricerca di siti porno, le cui le immagini mostravano ai fratellini minori e, insieme, progettavano di violentare la bambina della porta accanto. Dato che queste attività avevano la sua piena approvazione, Corky svolgeva il suo lavoro il più discretamente possibile, in modo da non distrarre quella gente dalla propria autodistruzione. Corky Laputa non era soltanto un avvelenatore. Era un uomo dotato di molti talenti e di molte armi. Di tanto in tanto, mentre avanzava faticosamente lungo i marciapiedi disseminati di pozzanghere, sotto gli alberi da cui cadevano fitte goccioline, si metteva a canticchiare. Naturalmente, era Cantando sotto la pioggia, il che poteva essere banale, ma lo divertiva. Non ballava però. Non che non sapesse farlo. Anche se non era agile e non sapeva seguire il ritmo come Gene Kelly, sulla pista da ballo si faceva sempre notare. Tuttavia saltellare lungo una strada, con indosso un impermeabile giallo ampio come la tonaca di una suora, non era certo un comportamento molto saggio per una sorta di anarchico che preferiva l'anonimato. Davanti a ogni villetta c'era una cassetta delle lettere con un numero. In alcuni casi c'era anche il cognome della famiglia. Talvolta, dal cognome, si capiva che la famiglia era ebrea. Stein. Levy. Glickman. Davanti a queste cassette, Corky si fermava per un attimo. Poi vi inseriva delle buste bianche che portava a decine in un'altra delle tasche interne. Su ciascuna busta, una svastica nera. Dentro, due fogli di carta ripiegati con messaggi che avrebbero sicuramente instillato paura e suscitato rabbia. Sulla prima pagina, scritto in stampatello e a caratteri cubitali, c'erano le parole MORTE A TUTTI I LURIDI EBREI. Sulla seconda pagina, una foto che mostrava corpi accatastati in un forno
crematorio di un campo di concentramento nazista. Sotto, sempre in stampatello, ma in rosso: VOI SARETE I PROSSIMI. Corky non aveva alcun pregiudizio contro gli ebrei. Disprezzava nello stesso modo tutte le razze, le religioni e i gruppi etnici. In altre particolari occasioni aveva distribuito messaggi come: MORTE A TUTTI I LURIDI CATTOLICI, MORTE A TUTTI I NERI e IN GALERA TUTTI I PROPRIETARI DI ARMI. Per decenni, i politici avevano tenuto sotto il loro controllo le persone dividendole in gruppi e mettendole l'una contro l'altra. Tutto ciò che un buon anarchico rivoluzionario poteva fare era cercare di intensificare l'odio esistente e versare benzina sul fuoco che i politici avevano appiccato. In quel periodo, l'odio nei confronti di Israele, e per estensione nei confronti di tutti gli ebrei, era la posizione intellettuale in voga tra le personalità più seguite del giornalismo, compresi molti ebrei non religiosi. Corky dava semplicemente alla gente ciò che voleva. Dalle azalee ai gelsomini, dai cani alle cassette delle lettere, trascorreva quella giornata spazzata dalla pioggia disseminando caos. Alcuni cospiratori ben determinati erano capaci di far saltare in aria grattacieli e provocare una distruzione che lasciava senza fiato. La loro opera era di grande utilità. Tuttavia, diecimila Corky Laputa, diligenti e pieni d'inventiva, con la loro attività tenace e silenziosa potevano fare molto di più per minare le fondamenta di questa società di quanto riuscissero a fare tutti i piloti suicidi e gli stragisti messi insieme. Per ogni mille assassini, pensava Corky, preferirei avere un solo insegnante pieno d'odio che avvelenasse in modo subdolo l'anima dei suoi allievi, una sola maestra d'asilo assetata di crudeltà, un solo prete ateo nascosto sotto il suo abito talare. Seguendo un percorso tortuoso, giunse alla BMW che aveva parcheggiato un'ora e mezzo prima. Perfettamente in orario. Poteva essere rischioso trascorrere troppo tempo in un unico quartiere residenziale. L'anarchico saggio continua a muoversi perché l'entropia favorisce chi non si ferma mai e il movimento ostacola i rappresentanti della legge. Durante la sua passeggiata, le nuvole color latte sporco avevano continuato ad abbassarsi e a rimescolarsi in grumi fuligginosi. Nelle luce tetra del temporale, all'ombra bagnata della quercia, la sua auto argentata appariva scura come ferro.
Una buganvillea rampicante sferzava l'aria, lanciando petali scarlatti, sfregando le sue unghie spinose contro il muro a stucco di una villetta, provocando un rumore come di graffi: scrac-scrac, scric-scric. Il vento sferzava la pioggia e provocava mulinelli. La pioggia sibilava, sfrigolava, schizzava. Il cellulare di Corky suonò. Si trovava ancora a mezzo isolato di distanza dall'auto. Non faceva in tempo ad arrivare alla BMW prima di rispondere. Fece scivolare il braccio destro fuori della manica, lo allungò sotto l'impermeabile e staccò il telefonino dalla cintura. Con il braccio infilato nuovamente nella manica e il telefono appoggiato all'orecchio, mentre trotterellava tutto vestito di giallo e buffo come il personaggio di un programma televisivo per bambini, Corky Laputa era così di buonumore che rispose alla telefonata dicendo: «Illumina l'angolo in cui ti trovi». Era Rolf Reynerd. Ottuso tanto quanto Corky era giallo, Rolf pensò di aver sbagliato numero. «Sono io», lo rassicurò subito Corky, prima che Reynerd potesse riagganciare. Quando infine raggiunse la BMW, desiderò di non aver mai risposto a quella chiamata. Reynerd aveva fatto qualcosa di stupido. 10 Dietro la vetrata del ristorante, la pioggia scendeva limpida come la coscienza di un neonato, ma quando finiva sull'asfalto allagava le canalette di scolo con torrenti sudici e gorgogliami. Osservando attentamente la foto del barattolo pieno di prepuzi, Hazard domandò: «Dieci cappellini tolti da dieci piccole teste? Pensi che potrebbe trattarsi di trofei?» «Presi da uomini che ha ucciso? Possibile ma improbabile. Chiunque abbia commesso tanti omicidi non è certo il tipo di assassino che prima si diverte a terrorizzare le sue vittime con strani regali in scatole nere. Le ammazza e basta.» «E se fossero dei trofei, non se ne separerebbe tanto facilmente.» «Infatti. Li esporrebbe a casa sua. Penso invece che lavori con i morti. Magari in un'impresa di pompe funebri o in un obitorio.» «Circoncisioni post mortem.» Hazard arrotolò intorno alla forchetta alcune striscioline di formaggio come fossero spaghetti. «Per quanto bizzar-
ra, dev'essere questa la risposta, perché non ho sentito nulla di dieci omicidi irrisolti in cui l'assassino potrebbe essere un rabbino fuori di testa.» Immerse le striscioline di formaggio nel lebne e continuò a mangiare. Ethan suggerì: «Penso che abbia tolto i prepuzi dai cadaveri con l'unico scopo di inviarli a Channing Manheim». «Per far capire che cosa... che il Gran Chan è un cazzone?» «Dubito che il messaggio sia così semplice.» «La fama non affascina più come un tempo.» La quarta scatola nera era più grande delle precedenti. C'erano volute due foto per documentarne il contenuto. Nella prima, appariva un gattino di ceramica color miele. Il micio era sollevato sulle zampe posteriori e stringeva un biscotto di ceramica in ciascuna di quelle anteriori. Sul torace e sulla pancia c'era una scritta in rosso: MICINO DA BISCOTTI. «È una biscottiera», spiegò Ethan. «Sono un detective così bravo che l'avevo capito da solo.» «Era riempita di tessere del gioco Paroliamo.» La seconda foto mostrava delle tessere una sull'altra. Di fronte al mucchietto, Ethan aveva usato sei pezzi per scrivere le parole OWE (dovere) e WOE (dolore). «La biscottiera conteneva novanta tessere di ogni lettera: o, w, E. Ogni parola poteva essere scritta novanta volte o entrambe le parole quarantacinque volte, una accanto all'altra. Non so quale delle due intendesse.» «In pratica il pazzoide dice 'ti devo del dolore'. Ritiene che, in qualche modo, Manheim gli abbia fatto un torto e che ora sia arrivato il tempo di fargliela pagare.» «Può darsi. Ma perché in una biscottiera?» «Potresti anche comporre la parola wow (fantastico)», notò Hazard. «È vero, però resterebbero inutilizzate metà delle O e tutte le E, che insieme non formano alcuna parola. Soltanto owe e woe utilizzano tutte le lettere.» «Hai provato con combinazioni di due parole?» «La prima è wee woo, insomma 'piccolo amore', ma non riesco a capirne il messaggio. La seconda è ewe (pecora) e di nuovo woo.» «Amore timido?» «Per me non significa nulla. Credo che intendesse proprio owe o woe, una o l'altra, o tutte e due.» Spalmando del lebne su una fetta di pane non lievitato, Hazard commen-
tò: «Forse, dopo questo, possiamo giocare a Monopoli». La quinta scatola nera aveva contenuto un libro intitolato Zampe per riflettere. La copertina mostrava la foto di un adorabile cucciolo di golden retriever. «È un libro di ricordi», spiegò Ethan. «Il tizio che l'ha scritto - Donald Gainsworth - per trent'anni ha addestrato cani guida per ciechi e cani in grado di svolgere piccoli servizi per paraplegici.» «Niente insetti o prepuzi conservati tra le pagine?» «No. E ho anche controllato ogni pagina in cerca di eventuali sottolineature, ma non c'era evidenziato nulla.» «Non è in sintonia con tutto il resto. Un libro del tutto innocuo, addirittura sentimentale.» «La scatola numero sei è stata gettata al di sopra del cancello un po' prima delle tre e mezzo di questa mattina.» Hazard osservò attentamente le ultime due fotografie. Prima la mela cucita. Poi l'occhio sistemato all'interno. «È vero?» «L'ha tolto a una bambola.» «In ogni caso, quest'ultimo 'regalo' è quello che mi disturba di più.» «Anche a me. A te, per quale motivo?» «Dei sei, è quello più elaborato. Ci ha messo molto impegno, quindi probabilmente è quello a cui dà maggior significato.» «Per il momento non mi dice niente», si lamentò Ethan. Graffettata all'ultima fotografia c'era una fotocopia del messaggio scritto a macchina che era stato piegato e collocato sotto l'occhio. Dopo averlo letto due volte, Hazard domandò: «Non ha mai mandato niente del genere con i primi cinque pacchi?» «No.» «Allora, con tutta probabilità, questa sarà l'ultima scatola che spedisce. Ha detto tutto ciò che desidera dire prima con i simboli e adesso con le parole. Ora passerà dalle minacce all'azione.» «Penso che tu abbia ragione. Ma le parole sono un enigma esattamente come i simboli, gli oggetti.» Con argentea insistenza, i fari delle auto fendevano l'oscurità del pomeriggio. Luminose ali d'acqua si levavano dall'asfalto pieno di pozzanghere, nascondendo gli pneumatici e conferendo un'aura di missione sovrannaturale ai veicoli che solcavano le correnti di Pico Boulevard. Dopo aver rimuginato in silenzio, Hazard disse: «La mela potrebbe rappresentare il simbolo di una conoscenza pericolosa o proibita. Il peccato
originale che ha menzionato». Ethan assaggiò di nuovo il cuscus con il pesce. Riusciva ad apprezzare così poco il cibo che avrebbe potuto benissimo mangiare colla. Posò la forchetta. «I semi della conoscenza sono stati sostituiti dall'occhio», soggiunse Hazard, più parlando a se stesso che a Ethan. Un gruppo di pedoni passò in fretta davanti alle vetrate del ristorante, curvi come se dovessero resistere a un vento ben più forte di quello che spirava, protetti in qualche modo da ombrelli neri, come partecipanti a un funerale che si affrettino a raggiungere il cimitero. «Forse intende dire: 'io vedo i tuoi segreti, l'origine - i semi - della tua malvagità'.» «Anch'io ho pensato a qualcosa del genere. Ma non mi convince completamente, non mi porta a niente di utile.» «Qualunque cosa volesse dire», commentò Hazard, «ciò che mi disturba è che l'occhio nella mela sia arrivato subito dopo il libro che parla di un tizio che ha addestrato cani guida per i ciechi.» «Già sarebbe un guaio se minacciasse di accecare Manheim», ribatté Ethan, «ma penso che intenda qualcosa di peggio.» Dopo aver dato ancora un'occhiata alle fotografie, Hazard le restituì a Ethan e riprese a mangiare con gusto la sua tajina con frutti di mare. «Immagino che il tuo uomo sia ben protetto.» «Sta girando un film in Florida. È scortato da cinque guardie del corpo.» «Tu non vai con lui?» «Di solito no. Io soprintendo tutte le operazioni di sicurezza da Bel Air. Parlo con il capo carovana almeno una volta al giorno.» «Carovana?» «È un nomignolo buffo inventato da Manheim. Così chiama le guardie del corpo che viaggiano con lui.» «E questo sarebbe buffo? Quando scoreggio sono più divertente di lui.» «Non ho mai affermato che fosse il re della commedia.» «Quando, la notte scorsa, qualcuno ha lanciato la sesta scatola oltre il cancello», domandò Hazard, «chi era questo qualcuno? Siete riusciti a filmare qualcosa?» «Un sacco di cose. Compresa un'immagine molto chiara della targa della sua auto.» Ethan gli raccontò di Rolf Reynerd, senza tuttavia menzionare i suoi incontri con quell'uomo, né quello che sapeva essere stato reale, né quello
che sembrava aver sognato. «E tu che cosa vuoi che io faccia?» volle sapere Hazard. «Magari potresti stargli un po' dietro.» «Stargli un po' dietro? Fino a che punto? Vuoi che gli tenga le palle mentre lui gira la testa per tossire?» «Forse non fino a quel punto.» «Devo controllare se ha dei polipi nel retto?» «So già che non ha precedenti penali...» «Quindi non sono il primo a cui stai chiedendo di ricambiarti un favore.» Ethan scrollò le spalle. «Mi conosci, uso la gente. Non si salva nessuno. Quello che mi sarebbe utile sapere è se Reynerd detiene legalmente un'arma.» «Non è che per caso hai parlato con Laura Moonves, della divisione Assistenza Indagini?» «Mi è stata molto utile», ammise Ethan. «Dovresti sposarla.» «Quello che mi ha detto di Reynerd non era così tanto.» «Perfino noi cretini vediamo che tu e lei stareste bene insieme come il pane con il burro.» «Sono ormai diciotto mesi che non usciamo neppure più insieme», protestò Ethan. «Questo tu perché non sei intelligente quanto noi cretini. Tu sei solo un idiota. Quindi non prendermi in giro. Moonves poteva benissimo fornirti l'informazione sulle armi registrate. Non è questo che vuoi da me.» Mentre Hazard si concentrava sul pranzo, Ethan rimase a fissare il falso crepuscolo del temporale. Dopo due inverni di piovosità inferiore alla media, gli esperti di climatologia avevano avvertito che la California doveva prepararsi a un lungo e disastroso periodo senza piogge. Come sempre, i terribili racconti di siccità che a quel punto avevano inondato giornali e televisioni si erano dimostrati ottimi profeti, tanto che adesso diluviava. Il ventre incinto del cielo era sempre più basso e grigio, e le acque si ruppero per annunciare la nascita di altra pioggia. «Probabilmente quello che voglio da te», disse infine Ethan, «è che tu dia un'occhiata da vicino a quel tizio e mi dica che cosa ne pensi.» Perspicace come sempre, Hazard disse: «Hai già bussato alla sua porta, vero?»
«Sì. Ho finto di andare a trovare l'inquilino che occupava l'appartamento prima di lui.» «E ti ha fatto venire i brividi. Hai percepito qualcosa di molto strano in quel tizio.» «O te ne accorgerai subito o non te ne accorgerai affatto», replicò Ethan in modo evasivo. «Sono un poliziotto della Omicidi. Reynerd non è sospettato di aver ucciso qualcuno. Come giustifico la mia visita?» «Non ti sto chiedendo niente di ufficiale.» «Ma se non ho un distintivo, non mi farà neppure entrare, non con l'aria truce che mi ritrovo.» «Se non puoi, non puoi. Va bene.» Quando la cameriera si avvicinò al loro tavolo per domandare se volevano altro, Hazard rispose: «Adoro quei biscotti alle noci. Me ne prepari sei dozzine da portar via». «Mi piacciono gli uomini che non sono mai sazi», commentò lei con aria timida. «Signorina, lei potrei ingoiarmela in un sol boccone», replicò Hazard, provocandole una vampata di interesse erotico e strappandole una risatina nervosa. Quando la cameriera si allontanò, Ethan domandò: «Sei dozzine?» «Mi piacciono i biscotti. Allora, dove abita questo Reynerd?» In precedenza, Ethan aveva scritto l'indirizzo su una strisciolina di carta. La fece scivolare sul tavolo. «Se ci vai, non andarci alla leggera.» «E allora come... su un carro armato?» «Dico solo di tenerti pronto.» «Per che cosa?» «Probabilmente per nulla, forse per qualcosa. Quel tizio o è drogato fino agli occhi, oppure è proprio pazzo. E ha una pistola.» Lo sguardo di Hazard studiò il volto di Ethan come se potesse leggerne i segreti con la stessa facilità con cui uno scanner ottico decifra il codice a barre di un prodotto. «Prima mi hai chiesto di controllare se ha un'arma registrata.» «È stato un vicino a dirmelo», mentì Ethan. «Dice che Reynerd è un po' paranoico, che quasi sempre tiene l'arma a portata di mano.» Mentre Ethan infilava nuovamente le foto stampate dal computer nella grossa busta gialla, Hazard non smise di fissarlo. All'inizio sembrava che le foto non entrassero nella busta. Poi il ferma-
glio metallico sembrò troppo largo per scivolare nel buco del lembo. «Quella busta continua a tremare», commentò Hazard. «Troppo caffè al mattino», spiegò Ethan e, per evitare di guardare negli occhi Hazard, si mise a fissare gli avventori che affollavano il ristorante. Sferzata dalle voci umane, l'aria attraversava il ristorante, andava a sbattere contro le pareti e quello che, a un orecchio disattento, poteva apparire come un allegro fracasso, se ascoltato con maggiore attenzione aveva qualcosa di sinistro. Risonava ora come la rabbia a malapena soffocata di una folla tumultuosa, ora come il tormento di una moltitudine crudelmente oppressa. Ethan si rese conto di cercare, in ogni viso, un volto in particolare. Si aspettava quasi di vedere Dunny Whistler, affogato in una toilette, che pranzava nonostante fosse morto. «Non hai quasi toccato il tuo pesce», gli fece notare Hazard con un tono che, per quanto gli era possibile, si avvicinava a quello di una madre preoccupata. «Non è fresco», disse Ethan. «Perché non l'hai rimandato indietro?» «Tanto non ho fame.» Hazard usò la sua forchetta per fare un assaggio. «Non è vecchio.» «A me sembra di sì», insisté Ethan. La cameriera tornò con il conto e con alcune scatole rosa piene di biscotti alle noci infilate in un sacchetto di plastica trasparente con il logo del ristorante. Mentre Ethan estraeva una carta di credito dal suo portafogli, la donna rimase in attesa con un'espressione sul volto che era una finestra aperta sui suoi pensieri. Voleva civettare ancora un po' con Hazard, ma era intimidita dal suo aspetto. Quando Ethan restituì il conto accompagnato dalla sua American Express, la cameriera lo ringraziò e lanciò un'occhiata ad Hazard, che si leccò le labbra con un piacere ostentato, spingendo la donna a scappare via come un coniglio così lusingato dall'ammirazione di una volpe da essersi quasi offerto come cena prima di ritrovare il suo istinto di sopravvivenza. «Grazie per aver pagato il conto», esclamò Hazard. «Ora posso dire che il Gran Chan mi ha portato a pranzo. Anche se penso che questi biscotti finiranno per essere i più costosi che io abbia mai mangiato.» «È stato solo un pranzo. Non hai nessun obbligo. Come ho detto, se non puoi, non puoi. Reynerd è un problema mio, non tuo.»
«Sì, però adesso mi hai incuriosito. In questo, sei meglio della cameriera.» In mezzo a un groviglio di cupe emozioni, Ethan riuscì a trovare un sorriso sincero. Un improvviso cambiamento nella direzione del vento scagliò frammenti di pioggia contro le grandi vetrate. Fuori, i pedoni e le auto di passaggio sembrarono dissolversi come fossero stati colpiti da un Armageddon di calore senza fiamme, un olocausto di acido caustico. Ethan avvertì: «Se tiene in mano un sacchetto di patatine o roba del genere, potrebbe esserci dentro qualcosa di più che semplici stuzzichini». «È questa la parte paranoica? Hai detto che tiene sempre la pistola a portata di mano.» «Questo è quello che ho sentito dire. In un sacchetto di patatine in posti del genere, dove può infilare una mano senza che tu ti renda conto di quello che sta facendo.» Hazard lo fissò senza dire nulla. «Potrebbe trattarsi di una Glock calibro 9», soggiunse Ethan. «Per caso, non ha anche un'arma nucleare?» «Non che io sappia.» «Probabilmente la tiene in una scatola di salatini.» «Portati dietro un bel po' di biscotti alle noci e vedrai che riuscirai ad affrontare qualsiasi cosa.» «Certo, come no. Gliene lancio uno e gli spacco la testa.» «Poi ti mangi la prova.» La cameriera tornò con la carta di credito e la ricevuta. Mentre Ethan aggiungeva la mancia e firmava il modulo, Hazard sembrava quasi essersi dimenticato della donna e non le lanciò neppure un'occhiata. Con aghi di pioggia il vento impetuoso tatuava effimeri disegni sulla vetrata e Hazard commentò: «Deve far freddo là fuori». Era esattamente quello che Ethan pensava. 11 Seduto dietro al volante della BMW argentata, con ancora l'impermeabile sopra i jeans e un maglione di lana, Corky Laputa era in preda a un senso di frustrazione soffocante come una pelliccia.
Sebbene non portasse la camicia allacciata fino in alto, la rabbia gli stringeva la gola come se avesse voluto strizzarla in un colletto misura 38 invece che 40. Voleva guidare fino a West Hollywood e uccidere Reynerd. Naturalmente doveva resistere a simili impulsi perché, sebbene sognasse il crollo della società e della legalità, e la successiva nascita di un nuovo ordine, le leggi contro l'omicidio esistevano ancora. Venivano ancora fatte rispettare. Corky era un rivoluzionario, non un martire. Capiva che era necessario bilanciare l'azione radicale con la pazienza. Riconosceva i limiti effettivi della rabbia. Per calmarsi, mangiò una barretta dolce. Contrariamente a quanto affermato dalla medicina organizzata, sia quella occidentale corrotta dall'avidità, sia quella orientale compiaciuta dalla sua spiritualità, lo zucchero raffinato non rendeva Corky ipercinetico. Il saccarosio lo calmava. Le persone molto anziane, che la vita e le delusioni avevano reso particolarmente irritabili, già da molto tempo conoscevano gli effetti rasserenanti della sovrabbondanza di zuccheri. Più sfuggiva loro la possibilità di realizzare speranze e sogni, più la loro alimentazione si arricchiva di dolci, da interi barattolini di gelato a scatole di biscotti in confezione famigliare, nonché quantità industriali di cioccolato in qualsiasi forma si presentasse, dai dischetti ricoperti di granelli di zucchero ai Baci e perfino ai coniglietti venduti a Pasqua, che venivano smembrati brutalmente e divorati con grande voracità. Negli ultimi anni della sua vita, la madre di Corky era stata una gelatodipendente. A colazione, a pranzo, a cena. Gelato in coppette di vetro, in grosse ciotole, ingollato direttamente dalla confezione. Trangugiava abbastanza gelato da ostruire una rete di arterie che andavano dalla California alla luna e ritorno. Per un certo periodo di tempo Corky pensò che lei stesse tentando di suicidarsi con il colesterolo. Ma a sua madre non era venuto un infarto, al contrario la sua salute era migliorata notevolmente. Il suo volto si era fatto luminoso e i suoi occhi avevano acquisito una lucentezza che non avevano mai avuto prima, neppure in gioventù. Chili, quintali di gelato di tutti i gusti possibili e immaginabili sembravano aver fatto tornare indietro il suo orologio biologico, cosa che le acque
di mille fontane non erano riuscite a fare con quello di Ponce de Leon. Aveva cominciato a pensare che, nel caso del singolare metabolismo di sua madre, la chiave dell'immortalità consistesse nel grasso del latte. Quindi l'aveva uccisa. Se lei fosse stata disponibile a dividere con lui un po' del suo denaro quand'era ancora in vita, le avrebbe permesso di vivere. Non era un uomo avido. Ma lei non aveva mai creduto nella generosità e neppure nella sua responsabilità materna, e non gliene importava nulla del comfort e delle necessità di suo figlio. Corky temeva che, alla fine, lei avrebbe cambiato il testamento e l'avrebbe lasciato senza un quattrino per il puro piacere di farlo. Prima di andare in pensione, sua madre era stata professoressa di economia all'università, specializzata in modelli economici marxisti e nelle feroci politiche dipartimentali del mondo accademico. Credeva unicamente nella legittimità dell'invidia e nel potere dell'odio. Quando entrambi i suoi credo si erano rivelati privi di consistenza, non li aveva abbandonati, ma li aveva integrati con il gelato. Corky non odiava sua madre. Lui non odiava nessuno. E neppure invidiava qualcuno. Avendo constatato di persona come quelle divinità avessero deluso sua madre, le aveva rifiutate entrambe. Non desiderava invecchiare senza altro conforto che la sua marca preferita di gelato al cocco. Quattro anni prima si era introdotto furtivamente in casa di sua madre con l'intenzione di soffocarla rapidamente e pietosamente nel sonno, ma aveva finito per ammazzarla a colpi di attizzatoio, come se si fosse trovato a interpretare una storia iniziata da un'ironica Anne Tyler e grossolanamente terminata da un furibondo Norman Mailer. Sebbene non fosse stato progettato, quell'esercizio fisico con l'attizzatoio si era dimostrato catartico. Non che avesse provato piacere nella violenza. Non era così. In realtà, l'omicidio era stato programmato con la stessa razionalità con cui si decide di acquistare le azioni di un'affidabile società ed era stato eseguito con la stessa freddezza ed efficienza con cui lui avrebbe portato a termine un qualsiasi investimento finanziario. Essendo un'economista, sua madre avrebbe certamente capito. Corky si era procurato un alibi inattaccabile. Aveva ereditato le proprietà di sua madre. E la vita era continuata. Quanto meno, la vita di Corky. Ora, mentre finiva di mangiare la barretta, lo zucchero e il cioccolato lo
fecero sentire più calmo, coccolato. Desiderava ancora uccidere Reynerd, ma la sconsiderata urgenza di quell'impulso era passata. Si sarebbe preso tutto il tempo necessario per progettare l'omicidio. E una volta entrato in azione, avrebbe seguito fedelmente il suo piano. Questa volta il cuscino non sarebbe diventato un attizzatoio. Notando che l'impermeabile giallo aveva abbondantemente bagnato il sedile, sospirò, ma non fece nulla. Corky era un rivoluzionario troppo impegnato per preoccuparsi dei rivestimenti interni dell'auto. Inoltre aveva Reynerd a cui pensare. Essendo un eterno adolescente nonostante il suo aspetto da duro, Rolf non aveva resistito alla tentazione di consegnare personalmente la sesta scatola. Voleva un po' di eccitazione. Quello stupido aveva pensato che lungo il perimetro non ci fossero telecamere unicamente perché lui non era riuscito a individuarle. Non ci sono altri pianeti nel sistema solare, gli aveva domandato Corky, solo perché tu non riesci a localizzarli in cielo? Quando Ethan Truman, il capo del servizio di sicurezza di Manheim, gli aveva fatto visita, Reynerd era rimasto di stucco. Per sua stessa ammissione, si era comportato in modo sospetto. Corky appallottolò l'involucro della barretta e lo infilò in un sacchetto per la spazzatura, desiderando di poter eliminare Reynerd con la stessa facilità. All'improvviso la pioggia cominciò a scendere più intensamente di quanto avesse fatto fino a quel momento. Lo scroscio d'acqua staccò alcune ostinate ghiande dalla quercia sotto la quale Corky aveva parcheggiato e le disseminò sulla carrozzeria della BMW. Rimbalzarono sulla vernice, sicuramente danneggiandola, e colpirono il parabrezza senza tuttavia incrinarlo. Non era proprio necessario restarsene seduto lì, sotto quel bombardamento di ghiande, a escogitare il modo migliore per liberarsi di Reynerd, fino a quando un grosso ramo marcio si fosse spezzato, schiacciando l'auto, con lui dentro. Poteva continuare a occuparsi della sue faccende e, allo stesso tempo, progettare mentalmente l'omicidio. Corky guidò per alcuni chilometri fino a un'elegante galleria commerciale e parcheggiò nel garage sotterraneo. Scese dalla BMW, si tolse l'impermeabile e il cappello e li gettò sul fondo dell'auto. Poi s'infilò una giacca sportiva di tweed che completava il maglione e i jeans.
Un ascensore lo portò dal garage sotterraneo all'ultimo dei due piani di negozi, ristoranti e attrazioni varie. Era al secondo piano che si trovava la sala giochi. Con le scuole chiuse, il locale era affollato di ragazzini. Nella maggior parte dei casi erano poco più che bambini. Le macchinette suonavano, tintinnavano, gemevano, fischiavano, rombavano, stridevano, ululavano, strepitavano come mitragliette, emettevano frammenti di musica spaccatimpani, urla di vittime virtuali, mandavano lampi e scintille multicolori e ingoiavano monete perfino con maggior voracità del famoso Pac-Man, che ingoiava biscotti da milioni di schermi delle sale gioco in un'epoca che ai ragazzi d'oggi appare quanto meno bizzarra, ammesso che non sia loro del tutto sconosciuta. Girovagando tra le macchinette, Corky distribuì gratuitamente dosi di droga ai ragazzini. Ogni sacchetto di plastica conteneva otto pasticche di Ecstasy - o di Extasy, per chi ha frequentato le scuole pubbliche - e avevano un'etichetta su cui era scritto a stampatello CAMPIONE GRATUITO, poi suggeriva, RICORDA CHI È TUO AMICO. Fingeva di essere uno spacciatore in cerca di nuovi clienti. Ma non prevedeva di vedere mai più quei ragazzi. Alcuni di loro accettarono i pacchetti, pensando che fosse una cosa tosta. Altri non si mostrarono interessati. Ma di quelli che rifiutarono l'offerta, neppure uno andò a riferire l'accaduto a un adulto; a nessuno piacevano gli spioni. In alcuni casi, Corky faceva scivolare i sacchetti nelle tasche dei ragazzi senza che loro se ne accorgessero. Lasciamo che li trovino dopo, che rimangano allibiti. Alcuni avrebbero preso quella roba. Altri l'avrebbero gettata via o data a un amico. Alla fine, Corky sarebbe riuscito a corrompere qualche altra mente. La verità era che non gli interessava creare tossicodipendenti. Se questo fosse stato il suo scopo, avrebbe regalato eroina o addirittura crack. Studi scientifici effettuati sull'Ecstasy rivelavano che, cinque anni dopo aver assunto una sola dose, la persona continuava a mostrare persistenti mutazioni nella composizione chimica del cervello. Dopo un uso regolare, si poteva arrivare a un danno cerebrale permanente. Alcuni oncologi e neurologi prevedono che, nei decenni a venire, se si continuerà a consumare l'Ecstasy in quantità così elevate, si verificherà un
forte aumento di tumori al cervello in pazienti ancora giovani, nonché una diminuzione delle capacità conoscitive in centinaia di migliaia, se non milioni, di individui. Campioni gratuiti da otto dosi come i suoi non avrebbero certo facilitato il collasso della civiltà dal giorno alla notte. Corky era impegnato in un'attività i cui effetti si sarebbero visti a lungo termine. Non portava mai con sé più di quindici sacchetti e, una volta che aveva cominciato a distribuirli, faceva in modo di liberarsene rapidamente. Troppo astuto per farsi pizzicare con un sacchetto addosso, entrò e uscì dalla sala giochi in non più di tre minuti. Dato che non aveva bisogno di fermarsi per vendere la sua merce, il personale non aveva nessuna possibilità di notarlo. Quando uscì dalla sala giochi era un cliente come un altro; in tasca non aveva nulla che lo potesse incriminare. Entrato in uno Starbucks, ordinò un cappuccino doppio, che sorseggiò seduto a uno dei tavolini esterni, mentre osservava quella sfilata di esseri umani nella sua assurdità. Finito il cappuccino, entrò in uno dei grandi magazzini. Aveva bisogno di calze. 12 Gli alberi, un gruppetto di otto, si ergevano su tronchi spettacolarmente nodosi, levavano verso l'alto i rami contorti e scuotevano nel vento le loro aggraziate chiome grigioverdi, quasi che volessero allo stesso tempo sfidare il temporale e festeggiarlo. Privi di frutti in quella stagione, sull'acciottolato del vialetto non lasciavano cadere olive, ma soltanto foglie. Serpeggianti tra i rami, le luci di Natale a quell'ora erano ancora spente, le lampadine attendevano di scintillare nella notte. Il condominio di cinque piani nella zona di Westwood, a meno di un isolato da Wilshire Boulevard, non era né abbastanza lussuoso come altri palazzi del quartiere, né abbastanza vasto da richiedere la presenza di un portiere. Tuttavia il prezzo di un appartamento in quell'edificio avrebbe fatto venire conati di vomito anche a un mangiatore di spade. Ethan calpestò i ramoscelli di pace, passò sotto le luci natalizie ancora spente ed entrò in un atrio accessibile al pubblico, il cui pavimento e le cui pareti erano interamente rivestiti di marmo. Per aprire il portoncino interno si servì di una chiave.
Il vestibolo era piccolo ma accogliente, con un tappeto che copriva parzialmente il pavimento di marmo, due poltroncine Art Deco e un tavolo con due false lampade Tiffany dai vetri colorati di rosso, ambra e verde. Invece delle scale che arrivavano fino al quinto piano, Ethan scelse di salire con il lento ascensore. Dunny Whistler abitava - aveva abitato - all'ultimo piano. Ciascuno dei primi quattro piani era diviso in quattro appartamenti, ma nell'ultimo c'erano soltanto due attici. Nell'ascensore si percepiva ancora lo sgradevole odore di un recente passeggero. Complesso e sottile, a Ethan quell'odore ricordava qualcosa, ma non riuscì a identificarlo. Mentre superava il secondo piano, improvvisamente gli sembrò che la cabina fosse più piccola di quella che ricordava dalle visite precedenti. Il soffitto era troppo basso, come un coperchio su una pentola. Al terzo piano si rese conto che stava respirando più in fretta di quanto sarebbe stato normale, come se avesse camminato di buon passo. L'aria sembrava estremamente rarefatta. Giungendo al quarto piano, si convinse di avere individuato qualcosa di sbagliato nel ronzio dell'ascensore, in quello dei cavi che scorrevano nelle guide. Questo cigolio, quel ticchettio, questo stridore potevano essere rumori di un perno che si allentava all'interno del meccanismo. L'aria si fece ancor più rarefatta, le pareti più vicine, il soffitto più basso, il meccanismo meno sicuro. Forse le porte non si sarebbero aperte. Il telefono d'emergenza poteva essere fuori uso. Il suo cellulare poteva non funzionare lì dentro. Se ci fosse stato un terremoto, il pozzo dell'ascensore sarebbe potuto crollare, schiacciando la cabina e riducendola alle dimensioni di una bara. Avvicinandosi al quinto piano, Ethan comprese che questi sintomi di claustrofobia, che non aveva mai provato prima di allora, in realtà nascondevano un'altra paura che lui, da uomo razionale, si rifiutava di ammettere. Si era quasi aspettato che, al quinto piano, ci fosse Rolf Reynerd ad attenderlo. Come Reynerd avesse saputo di Dunny o dove questi abitava, e come potesse sapere quando Ethan avrebbe deciso di andare lì erano domande a cui non poteva dare una risposta senza aver prima condotto un'accurata indagine e forse senza aver prima abbandonato la logica. Nonostante questo, Ethan si spostò sul lato della cabina per diminuire le probabilità di essere colpito. Estrasse la pistola.
Le porte dell'ascensore si aprirono su un vestibolo di tre metri per quattro, con le pareti rivestite da pannelli color miele. Deserto. Ethan non ripose l'arma nella fondina. I due attici avevano porte identiche, lui si diresse verso quella di Whistler. Aprì con la chiave fornitagli dall'avvocato di Dunny, spinse la porta ed entrò con circospezione. L'allarme non era inserito. Nel corso della sua più recente visita, otto giorni prima, uscendo Ethan lo aveva messo in funzione. In quel lasso di tempo, la governante era entrata nell'appartamento. Prima che Dunny fosse ricoverato in ospedale, la signora Hernandez lavorava per lui tre giorni la settimana; ma ora veniva solo di mercoledì. Molto probabilmente la settimana prima, quando se n'era andata, aveva dimenticato di inserire il codice del sistema d'allarme. Tuttavia, per quanto questa fosse una spiegazione logica, Ethan non ci credeva. Juanita Hernandez era una donna responsabile, attenta a ogni particolare. Appena varcata la soglia, Ethan si fermò in ascolto. Lasciò la porta aperta alle sue spalle. La pioggia tamburellava sul soffitto, un rumore sordo e lontano come quello provocato dai piedi di una moltitudine in marcia verso una guerra. Per il resto, solo silenzio. Forse fu l'istinto ad avvertirlo o forse fu l'immaginazione a trarlo in inganno, ma Ethan ebbe la sensazione che non si trattava di un silenzio rilassato, bensì una calma attorcigliata su se stessa, altrettanto carica di potenziale energia quanto un cobra, un serpente a sonagli o un mamba nero. Dato che preferiva non attirare l'attenzione di un vicino e non voleva neppure facilitare la fuga di qualcuno, se non la sua, chiuse la porta. Fece scattare la serratura. Duncan Whistler si era arricchito con le truffe, con il traffico di droga e con cose anche peggiori. Spesso i criminali riescono a mettere le mani su un bel po' di soldi, ma sono pochi quelli che non li sperperano o che restano liberi abbastanza a lungo per spenderli. Dunny era stato abbastanza furbo da evitare l'arresto, riciclare il denaro e pagare le tasse. Di conseguenza il suo appartamento era enorme, con due ampi corridoi, stanze che conducevano ad altre stanze e che, di solito, non si avvolgevano a spirale come sembravano fare in quel momento. In altre circostanze, dovendo perlustrare un ambiente potenzialmente pericoloso, Ethan sarebbe avanzato con entrambe le mani sulla pistola e le braccia tese, mantenendo una cauta pressione sul grilletto. Avrebbe attra-
versato i vani delle porte in fretta, mantenendosi basso. Al contrario, ora stringeva la pistola nella destra, puntandola verso il soffitto. Avanzava con cautela, ma senza la tensione tipica dello stile da accademia di polizia. Mantenere sempre la schiena rivolta alle pareti, evitare di dare le spalle al vano di una porta, muoversi in fretta mentre si controllava a sinistradestra-sinistra, essere sempre consapevole della posizione dei piedi, della necessità di mantenersi sufficientemente in equilibrio per assumere, nel giro di un istante, la posizione di tiro: se avesse fatto tutto ciò, avrebbe dovuto ammettere che aveva paura di un morto. E quella era la verità. L'aveva evitata, si era rifiutato di riconoscerla. I sintomi di claustrofobia nell'ascensore e la convinzione di trovare Rolf Reynerd al quinto piano non erano stati altro che tentativi di sviarlo da quella che era la sua vera paura, e cioè dalla convinzione ancor meno razionale che Dunny, morto, si era alzato dalla barella dell'obitorio ed era tornato a casa per motivi sconosciuti. Ethan non credeva che i morti potessero camminare. E dubitava che Dunny, vivo o morto, volesse fargli del male. Ciò che lo metteva in ansia era la possibilità che Duncan Whistler, se davvero aveva lasciato il giardino coperto dell'ospedale di sua volontà, potesse essere un Dunny solo di nome. Quasi annegato in una toilette, dopo aver trascorso tre mesi in coma, era possibile che avesse subito danni cerebrali così gravi da renderlo pericoloso. Sebbene Dunny avesse le sue buone qualità, non ultima quella di riconoscere in Hannah una donna di eccezionali virtù, era anche stato capace di una violenza spietata. Non aveva avuto successo nell'ambiente criminale con le buone maniere e un bel sorriso. Poteva spaccare una testa quando era necessario farlo. E a volte ne aveva rotte anche quando non era stato necessario. Se Dunny era la metà dell'uomo di un tempo, e la metà sbagliata, Ethan preferiva non trovarsi a faccia a faccia con lui. Nel corso degli anni il loro rapporto aveva preso strane svolte; non si poteva escludere che ora ne imboccasse una finale e ancor più sinistra. L'enorme soggiorno era arredato con poltrone e divani moderni dall'alta spalliera, rivestiti di seta color grano. Tavoli, vetrinette e soprammobili erano tutti oggetti d'antiquariato cinese. O Dunny aveva trovato una lampada magica e aveva chiesto al genio in essa contenuto di donargli un gusto particolarmente raffinato, oppure si era
rivolto a un costoso architetto d'interni. Lassù, ben al di sopra degli ulivi, le ampie finestre mostravano gli edifici dall'altra parte della strada e un cielo che somigliava alla cenere bagnata di un enorme incendio spento. Fuori, il clacson di un'auto in distanza, il basso e cupo borbottio del traffico lungo il Wilshire Boulevard. La pioggia, con il suo frenetico ticchettio, parlava alla finestra, clic... clic... clic. Nel soggiorno, un'immobilità distillata. Solo il respiro di Ethan. Il suo cuore. Si avviò verso lo studio per scoprire la fonte di una luce soffusa. Sulla scrivania in stile cinese c'era una lampada di bronzo con un paralume di alabastro. Il chiarore giallo scuro faceva sprigionare colori iridescenti dal bordo degli intarsi in madreperla. In precedenza, sulla scrivania c'era stata una foto incorniciata di Hannah. Era sparita. Ethan ricordava quanto fosse rimasto sorpreso nel vedere quella foto durante la sua prima visita all'appartamento, erano oramai trascorse undici settimane, dopo aver appreso di essere stato nominato responsabile della gestione degli affari di Dunny. La sorpresa era stata accompagnata dalla costernazione. Sebbene Hannah fosse morta già da cinque anni, la presenza di quella foto gli era apparsa come un gesto di aggressione emotiva e, in qualche modo, riteneva un insulto alla sua memoria il fatto che lei fosse un oggetto d'amore - un tempo oggetto di desiderio - da parte di un uomo che aveva condotto una vita di crimini e violenza. Ethan aveva lasciato al suo posto la fotografia perché, nonostante avesse una procura che gli permetteva di gestire tutte le proprietà di Dunny, aveva sentito che quell'istantanea, racchiusa in una bella cornice d'argento, non era di sua proprietà, non poteva né gettarla via, né pretenderla per sé. Dopo dodici anni trascorsi come fossero due estranei, Ethan e Dunny si erano parlati, prima all'ospedale, la sera in cui Hannah era morta, e poi di nuovo al funerale. Tuttavia il loro mutuo dolore non li aveva riavvicinati. Per i tre anni successivi non avevano avuti più contatti. Per il terzo anniversario della morte di Hannah, Dunny aveva telefonato per dire che, in quei trentasei mesi, lui aveva meditato a lungo sul fatto che lei fosse morta così prematuramente, a soli trentadue anni. Gradualmente ma profondamente, la perdita di Hannah - il fatto di sapere che lei non era
più da qualche parte del mondo - aveva avuto effetto su di lui, lo aveva cambiato per sempre. Dunny aveva dichiarato di voler tornare sulla retta via, di voler abbandonare tutte le sue attività criminali. Ethan non gli aveva creduto, ma gli aveva augurato buona fortuna. Non si erano mai più parlati. In seguito, Ethan aveva saputo da altri che Dunny aveva realmente abbandonato la vita di un tempo, che i vecchi amici e soci non lo vedevano più e che era diventato una specie di eremita, amante dei libri e della vita ritirata. Tutte quelle voci avevano fatto venir voglia a Ethan di sapere quale fosse la verità. Era comunque certo che, alla fine, avrebbe sentito dire che Duncan Whistler aveva ripreso le vecchie abitudini... o che in realtà non le aveva mai abbandonate. In seguito aveva saputo che il suo amico di un tempo era tornato alla chiesa, andava a messa ogni settimana e si comportava con un'umiltà che non aveva mai fatto parte del suo carattere. Vero o no, restava il fatto che Dunny si era tenuto la fortuna ammassata attraverso truffe, furti e spaccio di droga. Un uomo veramente pentito avrebbe considerato moralmente inaccettabile vivere in un lusso pagato con denaro tanto sporco e avrebbe destinato tutte le sue ricchezze a un uso migliore. Dallo studio non mancava soltanto la foto di Hannah. Era svanita anche l'atmosfera della stanza destinata esclusivamente alla lettura. Diversi volumi rilegati erano accatastati sul pavimento in un angolo. Erano stati tolti da due mensole della libreria che occupava tutta la parete. Una delle mensole, solo in apparenza fissa come le altre, era stata tolta. E una sezione della parete di fondo della libreria era stata fatta scivolare di lato, rivelando l'esistenza di una cassaforte. Lo sportello, del diametro di circa trenta centimetri, era aperto. Ethan infilò la mano all'interno. Era completamente vuota. Lui non sapeva che nello studio ci fosse una cassaforte. La logica suggeriva che, a parte l'installatore, soltanto Dunny poteva esserne a conoscenza. Un uomo che ha subito danni cerebrali si veste. Trova la strada di casa. Ricorda la combinazione della sua cassaforte. Oppure... un morto torna a casa. Desideroso di divertirsi, prende un po' di denaro da spendere. Un Dunny morto aveva quasi altrettanto senso di un Dunny con gravi danni cerebrali.
13 Fric nel fracasso: due treni che sferragliavano e fischiavano agli incroci, nazisti nei villaggi, che combattevano scendendo dalle colline, soldati morti ovunque e malvagi ufficiali delle SS in divisa nera che spingevano ebrei nei vagoni chiusi di un terzo treno fermo nella stazione, altri bastardi delle SS che sparavano ai cattolici e seppellivano i loro corpi in una fossa comune vicino a una pineta. In pochi sapevano che i nazisti non avevano ucciso solo ebrei ma anche milioni di cristiani. La maggior parte dei nazisti di grado più alto aveva aderito a uno strano credo pagano, in cui si venerava la terra, la razza e i miti dell'antica Sassonia, nonché il sangue e il potere. Non erano in molti a saperlo, ma Fric sì. Gli piaceva essere a conoscenza di cose che gli altri ignoravano. Frammenti di storia sconosciuti. Segreti. I misteri dell'alchimia. Curiosità scientifiche. Per esempio, come alimentare un orologio elettrico con una patata. Ci volevano un piolo di rame, un chiodo di zinco e un po' di filo elettrico. Un orologio alimentato da una patata era una cosa un po' stupida, però funzionava. O come la piramide tronca sul retro delle banconote da un dollaro. Rappresentava il tempio di Salomone incompiuto. L'occhio che fluttuava al di sopra della piramide era il simbolo del Grande Architetto dell'universo. O chi aveva costruito il primo ascensore. Usando alternativamente la forza umana, animale e idrica, all'incirca nel 50 a.C. l'architetto romano Vitruvio aveva costruito i primi ascensori. Fric lo sapeva. Un bel po' delle strane cose che sapeva non si rivelavano molto utili nella vita quotidiana, non cambiavano il fatto che era basso per la sua età e troppo magro, o che aveva un collo da mostriciattolo e gli stessi occhi verdi di sua madre, per i quali i giornalisti si scioglievano, che però facevano sembrare lui un incrocio tra un gufo e un alieno. Comunque gli piaceva conoscere tutte queste strane cose, anche se non lo aiutavano a uscire dal pantano del Regno di Fric. Il fatto di avere un tipo di conoscenza che raramente si trovava in altre persone faceva sentire Fric come una specie di stregone. O, quanto meno, un apprendista stregone. A parte il signor Jurgens, che veniva due giorni al mese per pulire e cu-
rare la manutenzione della vasta collezione di trenini elettrici, antichi e moderni, soltanto Fric sapeva tutto sulla stanza dei treni e sul suo funzionamento. I trenini appartenevano all'attore di fama mondiale Channing Manheim, che casualmente era anche suo padre. Nel mondo privato di Fric, già da molto tempo il divo era stato soprannominato Papà Fantasma, perché di solito era presente solo in spirito. Papà Fantasma sapeva ben poco della stanza dei treni. Per quella collezione aveva speso abbastanza denaro da comprare l'intera nazione di Tuvalu, ma raramente giocava lì dentro. La maggior parte delle persone non aveva mai sentito parlare di Tuvalu. Si trovava nell'Oceano Pacifico meridionale, comprendeva nove isole, la sua popolazione non superava i diecimila abitanti e le sue maggiori esportazioni erano la copra e le noci di cocco. La maggior parte delle persone non sapevano che cosa fosse la copra. Nemmeno Fric. Si era riproposto di andarlo a cercare nell'enciclopedia fin da quando era venuto a sapere dell'esistenza di Tuvalu. La stanza dei treni si trovava nel più alto dei due seminterrati, adiacente al garage superiore. Misurava venti metri per quindici, il che significava che era molto più vasta di un normale appartamento. La mancanza di finestre garantiva che il mondo reale fosse lasciato fuori. Lì dentro regnava la fantasia. Lungo le due pareti più corte c'erano scaffali che arrivavano fino al soffitto e che contenevano la collezione di trenini, a eccezione dei modelli usati in quel momento. Appesi alle due pareti più lunghe: una serie di meravigliosi quadri rappresentanti treni. Qui, una locomotiva che sembrava esplodere da una fitta nebbia luminosa, il faro anteriore dalla luce accecante. Là, un treno che attraversava una prateria illuminata dalla luna. Treni di epoche diverse sfrecciavano attraverso foreste, superavano fiumi, si inerpicavano sulle montagne sotto la pioggia e il nevischio e la neve e la nebbia e il buio, nuvole bianche che uscivano dai fumaioli, scintille che sprizzavano dalle loro ruote. Al centro di questo enorme spazio, su un tavolo massiccio con molte gambe, era stata collocata la riproduzione di un paesaggio con colline verdi, campi, foreste, valli, dirupi, fiumi, laghi. Sette villaggi in miniatura, con centinaia di costruzioni curate in ogni dettaglio, erano collegati da viottoli di campagna, diciotto ponti e nove tunnel. Curve convesse, con-
cave, a ferro di cavallo, rettilinei, salite e discese erano attraversate da più binari di quante fossero le noci di cocco prodotte da Tuvalu. Questa incredibile riproduzione misurava dieci metri per quindici e ci si poteva girare intorno oppure, attraverso un cancelletto, entrarvi e visitarla seguendo un vialetto interno, come un turista in vacanza a Lilliput. Fric si trovava proprio nel bel mezzo di quel mondo di fantasia. Aveva disseminato il paesaggio di eserciti di soldatini e stava giocando contemporaneamente con i treni e alla guerra. Considerando le risorse che aveva a disposizione, si sarebbe dovuto divertire molto di più. Nelle due stazioni di controllo, quella interna e quella esterna, c'erano due apparecchi telefonici. Quando squillarono con la sua suoneria personale, Fric trasalì. Raramente riceveva telefonate. Nella proprietà erano state installate ventiquattro linee. Due erano riservate al sistema di sicurezza, una al monitoraggio esterno dell'impianto che faceva funzionare sia il riscaldamento, sia l'aria condizionata. Due erano per i fax e due erano riservate ai collegamenti con Internet. Delle rimanenti diciassette, sedici erano distribuite tra membri della famiglia e il personale. La linea 24 era destinata a un più alto scopo. Il padre di Fric aveva a sua disposizione quattro linee perché tutti - una volta perfino il presidente degli Stati Uniti - volevano parlare con lui. Telefonate per Channing - o Chan oppure Channi o perfino (nel caso di un'attrice infatuata di lui) Chi-Chi - arrivavano anche in sua assenza. Anche la signora McBee aveva quattro linee, ma questo non significava, come Papà Fantasma diceva scherzando, che la signora McBee dovesse cominciare a pensare di essere importante tanto quanto il suo capo. Ah, ah, ah. Una di quelle quattro linee era collegata all'appartamento del signore e della signora McBee. Le altre tre erano utilizzate per motivi di lavoro. Normalmente, la gestione della casa non richiedeva l'utilizzo di tre linee. Tuttavia, quando la signora McBee doveva organizzare una festa per quattro o cinquecento imbecilli di Hollywood, non sempre tre telefoni bastavano per prendere accordi con il designer, il responsabile del catering, il fiorista e le innumerevoli misteriose agenzie e organizzazioni che lei doveva coordinare per riuscire a realizzare una serata indimenticabile. Fric si chiedeva se valesse la pena di impegnarsi tanto e di spendere tutti quei soldi. Alla fine della serata, almeno la metà degli ospiti se ne andava così ubriaca e così stordita dalla droga che, la mattina successiva, non avrebbe neppure ricordato dov'era stata.
Anche se li avessero fatti sedere fuori in giardino, avessero dato loro un sacchetto di hamburger e avessero messo a disposizione un'autocisterna di vino, si sarebbero storditi nello stesso modo. Poi sarebbero tornati a casa e avrebbero vomitato tutto come al solito, sarebbero crollati sul letto come al solito e il giorno dopo si sarebbero risvegliati stupidi come sempre. Essendo il capo della sicurezza, il signor Truman aveva due linee nel suo appartamento, una personale e una di lavoro. Delle sei cameriere, soltanto due erano a tutto servizio e condividevano una linea telefonica con l'autista. Il giardiniere invece ne aveva una tutta per sé, mentre il terrificante signor Hachette, lo chef, e il simpatico cuoco, il signor Baptiste, utilizzavano una delle linee della signora McBee. Alla signora Hepplewhite, assistente personale di Papà Fantasma, erano destinate due linee. Anche Freddie Nielander, la famosa top model nota in Fricsylvania come Mamma Virtuale, poteva usufruire di una linea telefonica a lei riservata, nonostante avesse divorziato da Papà Fantasma quasi una decina d'anni prima e, da allora, si fosse fermata a dormire in quella casa meno di dieci volte. Una volta Papà Fantasma aveva raccontato a Freddie che, di tanto in tanto, lui la chiamava su quella linea sperando che lei rispondesse e gli dicesse di essere finalmente tornata da lui per sempre. Ah, ah, ah. Ah, ah, ah. Fric aveva avuto a disposizione una sua linea telefonica fin dai sei anni. In realtà non telefonava mai a nessuno, tranne una volta, quando si era servito delle conoscenze di suo padre per ottenere il numero privato, e non in elenco, di Mike Myers, l'attore che aveva doppiato il personaggio principale di Shrek, per comunicargli che Shrek era assolutamente fantastico. Il signor Myers era stato molto gentile, per farlo divertire aveva parlato con la voce di Shrek e con quelle di molti altri personaggi e lo aveva fatto ridere tanto che alla fine Fric aveva la pancia che gli faceva male. Quell'indolenzimento dei muscoli addominali era in parte dovuto al fatto che il signor Myers era davvero divertente e in parte perché, negli ultimi tempi, Fric non aveva esercitato il gruppo di muscoli collegato alla risata quanto avrebbe voluto. Il padre di Fric, che credeva nei fenomeni paranormali, aveva riservato l'ultima linea telefonica alle eventuali chiamate da parte dei defunti. E questo era già di per sé una storia mica male.
Ora, per la prima volta in otto giorni, cioè dall'ultima telefonata di Papà Fantasma, Fric udì i telefoni della stanza dei treni squillare con la sua suoneria. Tutti coloro ai quali erano state riservate una o più linee avevano una suoneria differente. I telefoni di Papà Fantasma si limitavano a emettere un brrrr. La suoneria della signora McBee era composta da una serie di rintocchi musicali. Per il signor Truman erano previste le prime nove note della colonna musicale di una vecchia serie televisiva di telefilm polizieschi, Dragnet, il che era stupido, e anche il signor Truman la pensava allo stesso modo, ma la sopportava pazientemente. Quel complesso impianto telefonico era in grado di comporre fino a dodici suonerie diverse. Otto erano standard. Quattro - come Dragnet - potevano essere personalizzate. A Fric era stata assegnata la più stupida delle suonerie standard, quella che il fabbricante descriveva come «un'allegra musichetta infantile adatta alla camera di un neonato o di un bambino piccolo». Per quale motivo un neonato o un bimbetto nel suo lettino dovessero avere bisogno di un telefono personale restava per Fric un vero mistero. Avrebbero forse chiamato un negozio per ordinare dei ciucci al gusto di aragosta? Oppure avrebbero telefonato alla mamma dicendo: Ops, ho fatto pupù nel pannolone e mi sento tutto impiastricciato? Stupido. Udili-udili-u, suonarono i telefoni nella stanza dei treni. Fric odiava quel suono. L'aveva odiato a sei anni e ora lo detestava ancor di più. Udili-udili-u. Era il suono che avrebbe potuto fare il personaggio, mezzo orso, mezzo cane e mezzo scemo, di un video girato per bambini dell'asilo convinti che programmi stupidi come Teletubbies fossero il non plus ultra dell'umorismo e della raffinatezza. Sentendosi umiliato nonostante fosse da solo, Fric premette i pulsanti di due trasformatori per fermare i treni e rispose al telefono al quarto squillo. «Ristorante Polpette e Scarafaggi», disse. «Il nostro piatto del giorno è salmonella su pane tostato con insalata di cavolo.» «Salve, Aelfrich», lo salutò una voce maschile. Fric si era aspettato di sentire la voce di suo padre. Se al contrario avesse udito quella della Mamma Virtuale, gli sarebbe preso un infarto e sarebbe rimasto stecchito sul pannello di controllo dei treni.
Tutto il personale della villa, forse con l'eccezione dello chef Hachette, avrebbe pianto per lui. Sarebbero stati profondamente, terribilmente dispiaciuti. Profondamente, profondamente, terribilmente, terribilmente. Per circa quaranta minuti. Poi sarebbero stati superimpegnati a preparare il ricevimento post funerale, al quale sarebbero stati invitati circa un migliaio di famosi e quasi famosi ubriaconi, drogati e baciaculo ansiosi di stampare le loro labbra sul culetto dorato di Papà Fantasma. «Chi parla?» domandò Fric. «Ti stai divertendo con i trenini, Fric?» Non aveva mai sentito quella voce prima di allora. Non apparteneva a nessuno dei dipendenti. Era sicuramente un estraneo. La maggior parte delle persone che si trovavano in casa non sapevano che Fric era nella stanza dei treni e nessuno che fosse fuori della proprietà poteva saperlo. «Come fai a sapere dei treni?» L'uomo rispose: «So molte cose che gli altri non sanno. Proprio come te, Fric. Proprio come te». I capelli sulla nuca di Fric si esibirono in un'imitazione di ragni in fuga. «Chi sei?» «Non mi conosci», rispose l'uomo. «Tuo padre quando tornerà dalla Florida?» «Se sai tante cose, perché non me lo dici tu?» «Il 24 dicembre. Nel primo pomeriggio. La vigilia di Natale», elencò lo sconosciuto. Fric non ne rimase impressionato. Milioni di persone sapevano dove si trovava in quel momento il suo vecchio e quali fossero i suoi progetti per Natale. Soltanto una settimana prima, Papà Fantasma aveva partecipato a Entertainment tonight, per parlare del film che stava girando e per far sapere quanto non vedesse l'ora di tornare a casa per le vacanze. «Fric, vorrei essere tuo amico.» «Che cosa sei, un maniaco?» Fric aveva sentito parlare dei maniaci. Accidenti, probabilmente ne aveva conosciuti a centinaia. Non sapeva tutto su quello che potevano fare a un ragazzino e non era proprio certo di sapere quali fossero le loro preferenze, ma sapeva che collezionavano occhi di bambini e che indossavano collane fatte con le ossa delle loro vittime. «Non ho alcuna intenzione di farti del male», lo rassicurò lo sconosciuto, il che era senza dubbio quello che qualsiasi maniaco avrebbe detto. «Al
contrario. Voglio aiutarti, Fric.» «Aiutarmi a fare che cosa?» «A sopravvivere.» «Come ti chiami?» «Non ho un nome.» «Tutti devono avere un nome, anche solo uno, come Cher o Godzilla.» «Io no. Ora sono soltanto uno dei tanti, senza nome. Ci saranno dei guai, giovane Fric, e tu devi prepararti.» «Che tipo di guai?» «C'è in casa un posto dove nasconderti senza che nessuno possa trovati?» domandò lo sconosciuto. «Che razza di domanda balorda.» «Avrai bisogno di un posto dove nasconderti e dove nessuno possa trovarti, Fric. Un posto speciale, segreto.» «Nascondermi da chi?» «Questo non posso dirtelo. Chiamiamolo la Bestia in Giallo. Ma presto, molto presto, avrai bisogno di un nascondiglio segreto.» Fric sapeva che era meglio riagganciare, che poteva essere pericoloso stare al gioco di quel pazzo. Molto probabilmente non era altro che un povero pervertito che aveva imbroccato il numero di telefono giusto e che, prima o poi, avrebbe cominciato con le sue oscenità. Ma il tizio poteva anche essere uno stregone che sapeva gettare il malocchio a distanza, oppure un malvagio psicologo in grado di ipnotizzare un ragazzino al telefono, fargli rapinare i negozi di liquori e poi farsi consegnare tutti i soldi, mentre se la rideva con una vocetta chiocciante. Pur consapevole di tutti quei rischi e di molti altri, Fric non interruppe la comunicazione. Era di gran lunga la telefonata più interessante che avesse mai ricevuto. Nel caso che quel tizio fosse proprio la persona da cui si doveva nascondere, Fric dichiarò: «Comunque, ho delle guardie del corpo armate di mitragliette». «Non è vero, Aelfrich. Mentire non ti porterà altro che sofferenza. La villa è dotata di un elaborato sistema di sicurezza, ma non servirà a nulla quando arriverà il momento, quando la Bestia in Giallo farà la sua comparsa.» «Ma è vero», insisté nella bugia Fric. «Le mie guardie del corpo sono ex membri della Delta Force e uno di loro è stato anche Mister Universo. Loro sanno come difendermi.»
Lo sconosciuto rimase in silenzio. Dopo un paio di secondi, Fric disse: «Pronto? Ci sei?» L'uomo rispose con un sussurro. «A quanto pare ho delle visite, Fric. Ti richiamerò più tardi.» La sua voce si abbassò ulteriormente fino a diventare un mormorio, che Fric riuscì a udire solo a fatica. «Intanto, comincia a cercare quel nascondiglio speciale. Non c'è molto tempo.» «Aspetta», esclamò Fric, ma la comunicazione era stata interrotta. 14 Pistola pronta, puntata verso l'alto, da un locale a un corridoio a un altro locale, attraverso l'appartamento di Dunny Whistler, Ethan giunse alla camera. Un abat-jour era stato lasciato acceso. Contro la testiera del letto la governante aveva sistemato con cura diversi cuscini decorativi foderati di seta. Sempre sul letto, gettati con evidente fretta, c'erano alcuni indumenti maschili. Stropicciati, macchiati, ancora umidi di pioggia. Pantaloni, camicia, calzini, biancheria intima. Le scarpe erano state gettate in un angolo. Ethan non sapeva che cosa avesse indossato Dunny quando aveva lasciato l'obitorio del Nostra Signora degli Angeli. Comunque avrebbe scommesso che quelli fossero proprio i suoi indumenti. Avvicinandosi al letto, percepì l'odore sgradevole che poco prima aveva sentito nell'ascensore. Ora alcuni componenti erano più facilmente identificabili: sudore stantio, una pomata rancida con una base di solfato, tracce di urina acida. L'odore della malattia, di chi è rimasto a lungo in un letto, lavato solo con una bacinella e una spugna. Ethan si accorse che, in sottofondo, si udiva una specie di sfrigolio, rumore che inizialmente prese per lo scrosciare della pioggia. Poi capì che si trattava dell'acqua della doccia nel bagno della camera padronale. La porta del bagno era socchiusa. Dalla fessura, insieme con lo sfrigolio, giungeva un triangolo di luce e un filo di vapore. Ethan spalancò la porta. Pavimento e pareti rivestite di marmo dorato. Incassati nel ripiano di granito, due lavandini di ceramica nera dalla rubinetteria dorata. Al di sopra del ripiano, il lungo specchio molato appannato dalla condensa, non rifletteva chiaramente le immagini. La sagoma distorta di Ethan si muoveva al di sotto di quella superficie semiopaca, come qualcosa di
strano e pallido intravisto appena sotto la superficie screziata di un laghetto. Sottili cortine di vapore fluttuavano nell'aria. All'interno del bagno, c'era un piccolo locale separato con la tazza del water. La porta era aperta. Dentro non c'era nessuno. Dunny era quasi annegato in quella tazza. Alcuni vicini del quarto piano lo avevano sentito lottare furiosamente, chiedere aiuto. La polizia era arrivata quasi subito e aveva catturato gli aggressori mentre fuggivano. Dunny era sdraiato su un fianco, di fronte alla tazza del water, semisvenuto, che vomitava acqua. Quando l'ambulanza era arrivata, lui era già entrato in coma. I suoi aggressori - che erano andati da lui per denaro, vendetta o entrambe le cose - erano stati truffati da Dunny molto tempo prima. Dopo aver trascorso sei anni in prigione, erano stati rilasciati ed erano venuti a sistemare quella faccenda rimasta in sospeso. Forse Dunny aveva sperato di potersi lasciare definitivamente alle spalle la sua vita di criminale, ma quella notte alcuni vecchi peccati erano riusciti a raggiungerlo. Ora, sul pavimento del bagno, c'erano due asciugamani neri umidi e spiegazzati. Sul portasciugamani ce n'erano ancora due asciutti. Rispetto all'entrata, la doccia si trovava sulla parete opposta, nell'angolo destro. Anche se la porta a vetri non fosse stata appannata dal vapore, Ethan non avrebbe potuto vedere se c'era qualcuno nella cabina. Mentre si avvicinava, vide mentalmente l'immagine del Dunny Whistler che si aspettava d'incontrare. La pelle grigiastra di un morto, che neppure l'acqua calda riusciva ad arrossare. Occhi grigi, la sclera rosso fuoco per via delle emorragie. Continuando a stringere la pistola nella destra, afferrò la porta con la sinistra e, dopo un attimo di esitazione, la spalancò. La cabina della doccia era vuota. L'acqua si riversava sul pavimento di marmo e scendeva nello scarico formando un mulinello. Sporgendosi all'interno, allungò un braccio dietro al getto d'acqua e chiuse il rubinetto. L'improvviso silenzio che seguì al rumore dell'acqua scrosciante sembrò annunciare la sua presenza come se si fosse fatto precedere da uno squillo di tromba. Ethan si voltò nervosamente verso l'ingresso del bagno, aspettandosi
qualcosa, ma senza sapere esattamente che cosa. Anche se il rubinetto della doccia era stato chiuso, il vapore continuava a salire e, riversandosi da sopra il vetro della cabina, scendeva su Ethan, avvolgendolo. Nonostante l'aria umida, lui si sentiva la bocca asciutta. Lingua e palato erano premuti l'una contro l'altro ed Ethan riusciva a staccarli con difficoltà, come fossero due strisce di Velcro. Quando fece per avviarsi verso la porta del bagno, notò di nuovo il movimento del suo riflesso, vago e distorto, nello specchio appannato sopra ai lavandini. Poi vide la forma impossibile che lo costrinse a bloccarsi. Nello specchio, sotto il velo di condensa, c'era una sagoma pallida, confusa come l'immagine riflessa di Ethan, ma tuttavia riconoscibile come una figura ben precisa, di uomo o di donna. Ethan era solo. Una rapida occhiata alla stanza gli confermò che non c'era alcun oggetto o struttura che, riflettendosi nello specchio appannato, potesse essere confuso con una figura umana. Chiuse gli occhi. Li riaprì. La sagoma era ancora lì. Ora udiva soltanto il battito del suo cuore, solo il suo cuore, non rapido, molto rapido, che martellava, picchiava, gli pompava sangue nel cervello per cacciar via l'irrazionalità. Naturalmente la sua immaginazione aveva dato significato a un'insignificante macchia dello specchio, così come avrebbe potuto vedere uomini, draghi e creature fantastiche di ogni tipo nelle nuvole di un cielo estivo. Immaginazione. Naturalmente, Ma quest'uomo, questo drago o quello che era... si spostava. Non molto, solo un po', abbastanza perché il cuore di Ethan si fermasse tra una martellata e l'altra. Forse anche il movimento era immaginario. Con passo esitante Ethan si avvicinò allo specchio. Non si pose proprio di fronte a quella specie di fantasma, perché nonostante i violenti afflussi di sangue avrebbero dovuto schiarirgli la mente, era convinto che sarebbe accaduto qualcosa di terribile se il suo riflesso si fosse sovrapposto a quello della figura nello specchio. Certo, il movimento dell'apparizione era stato immaginario, ma stranamente l'immaginò di nuovo. La figura sembrò avvicinarsi, avanzare verso di lui. Ethan non l'avrebbe mai ammesso con Hazard Yancy o con qualsiasi al-
tro ex collega e forse neppure con Hannah se fosse stata ancora viva, ma quando posò la mano sullo specchio, era quasi convinto che non avrebbe sentito l'umida superfide del vetro, bensì la mano di un altro essere, di qualcuno che stabiliva un contatto da una Aldilà gelido e ostile. Con il palmo mano tolse un po' di vapore, lasciando una luccicante sbavatura d'acqua. Mentre Ethan muoveva la mano, anche la figura nello specchio si spostò, scivolando di lato. Scaltramente elusiva, si manteneva al riparo della condensa... e continuava ad avanzare verso di lui. A parte il volto, il vago riflesso di Ethan appariva scuro perché scuri erano i vestiti, i capelli. La sagoma nascosta dal vapore che ora si trovava proprio davanti a lui era pallida come un chiaro di luna, e prendeva il posto di quella di Ethan. La paura bussò al suo cuore, ma lui non la lasciò entrare, come quando da poliziotto si trovava in un conflitto a fuoco e non osava lasciarsi prendere dal panico. In quel momento gli sembrò di essere quasi in trance, in grado di accettare l'impossibile, così come avrebbe potuto fare in un sogno. L'apparizione si sporse verso di lui, quasi che cercasse di comprendere quale fosse la natura di Ethan dalla sua posizione dall'altra parte del vetro, più o meno come aveva fatto Ethan quando si era sporto in avanti. Alzando ancora una volta la mano, Ethan tolse una piccola striscia di vapore, convinto che quando si fosse ritrovato a fissare il proprio riflesso, gli occhi che avrebbe visto non sarebbero stati i suoi, ma quelli grigi di Dunny Whistler. La figura misteriosa nello specchio si mosse nuovamente, più rapida della mano di Ethan, continuando a nascondersi dietro il vapore. Solo quando espirò con forza, Ethan si accorse che aveva trattenuto il fiato. Inspirando nuovamente, udì un fragore in una stanza lontana dall'appartamento, la musica tintinnante di un vetro che andava in frantumi. 15 Ethan aveva chiesto ai laboratori Palomar di analizzare il suo sangue per vedere se c'erano tracce di sostanze chimiche illegali, nel caso fosse stato drogato a sua insaputa. Quando si era ritrovato nell'appartamento di Reynerd, gli era sembrato di essere in uno stato di coscienza alterato.
Ora, mentre usciva da quel bagno, si sentiva disorientato esattamente come quando, dopo essere stato colpito all'addome, si era ritrovato ancora una volta dietro al volante dell'Expedition, senza alcuna ferita. Qualunque cosa fossa accaduta - o era soltanto sembrata essere accaduta - in quello specchio, non si fidava più completamente dei suoi sensi. Avanzò quindi con maggior circospezione, partendo dal presupposto che ancora una volta le cose non fossero come apparivano. Attraversò le stanze che aveva già perlustrato, poi s'inoltrò in una parte dell'appartamento che non aveva ancora visto, finendo per arrivare in cucina. Sul tavolo e sul pavimento scintillavano frammenti di vetro. Sul pavimento c'era anche la cornice d'argento che mancava dalla scrivania dello studio. La foto di Hannah era stata tolta. Chiunque avesse portato via la foto aveva avuto troppa fretta per sollevare i quattro fermagli sul retro della cornice e aveva preferito rompere il vetro. La porta di servizio dell'appartamento era aperta. Da lì si accedeva a un ampio corridoio comune a entrambe gli attici. All'estremità più vicina, c'era un cartello con la scritta USCITA che indicava le scale. In fondo al corridoio, un montacarichi abbastanza grande per poter trasportare frigoriferi e grossi mobili. Se qualcuno era sceso con il montacarichi, ormai aveva terminato la corsa. L'ascensore era fermo. Ethan si precipitò verso le scale. Aprì la porta antincendio. Si fermò sulla soglia, in ascolto. Lamento o gemito, oppure un malinconico sospiro, o anche un tintinnare di catene: perfino un fantasma doveva emettere qualche rumore, ma dalla tromba delle scale saliva soltanto un silenzio freddo e cupo. Scese rapidamente le dieci rampe fino al pianterreno, poi le altre due che portavano al garage. Non incontrò nessuno. Né un essere in carne e ossa, né uno spirito. Laggiù non c'era più traccia dell'odore di malattia e di febbre che Ethan aveva percepito nell'ascensore. Al contrario, ora sentì nell'aria un lieve profumo di sapone, come se da quella parte fosse passato qualcuno appena uscito da una doccia. E c'era persino una leggera fragranza di dopobarba. Spinse la porta antincendio d'acciaio ed entrò nel garage, avvertendo subito il rombo di un motore, puzza di gas di scarico. A quell'ora, in un giorno feriale, molti dei quaranta posti auto erano vuoti. In fondo, verso l'entrata del garage, un'auto stava facendo retromarcia.
Ethan riconobbe la Mercedes blu di Dunny. Azionato dal telecomando, il cancello del garage si stava già sollevando con uno sbatacchiare metallico. Con la pistola ancora in mano, Ethan corse verso l'auto che si allontanava da lui. Il cancello si alzava lentamente e la Mercedes fu costretta a fermarsi. Attraverso il finestrino posteriore, riuscì a vedere la sagoma di un uomo al volante, ma non abbastanza chiaramente per poterlo identificare. Si avvicinò alla Mercedes compiendo un semicerchio. Intendeva arrivare direttamente alla portiera del guidatore. L'auto partì a tutta velocità prima che la barriera si fosse completamente sollevata. Sfiorò il bordo inferiore del cancello e imboccò la ripida rampa d'uscita che conduceva alla strada. Il guidatore premette il pulsante di chiusura del telecomando e, quando Ethan raggiunse il cancello, questi aveva già ricominciato a chiudersi. La Mercedes aveva già svoltato in strada ed era sparita. Ethan rimase fermo un momento, scrutando attraverso il cancello nella luce grigia del temporale. L'acqua piovana scorreva abbondante giù per la rampa poi, gorgogliando, spariva nella grata di drenaggio che si trovava all'uscita del garage. Su quel piano inclinato di cemento, una piccola lucertola, il dorso spezzato dalla ruota di un'auto, ma ancora viva, lottava coraggiosamente contro la forza dell'acqua. Sembrava credere che, avanzando tenacemente centimetro per centimetro, una volta arrivata in cima, un essere superiore avrebbe soddisfatto tutte le sue necessità e guarito tutte le sue ferite. Ethan non voleva assistere all'inevitabile sconfitta di quella piccola creatura, che sarebbe stata spazzata via e sarebbe andata a morire sulla grata di drenaggio, e distolse lo sguardo. Ripose la pistola nella fondina. Si osservò le mani. Tremavano. Tornò alle scale e, mentre saliva fino al quinto piano, percepì nuovamente il profumo di sapone, una traccia di dopobarba. Ma questa volta sentì anche un altro odore meno pulito dei primi due, vago ma inquietante. Qualunque altra cosa potesse essere, di certo Dunny Whistler era un uomo vivo, non un morto vivente. Perché mai un cadavere ambulante dovrebbe tornare a casa per farsi una doccia, sbarbarsi e indossare degli indumenti puliti? Assurdo. Nella cucina dell'appartamento, Ethan si servì di un aspirapolvere portatile per eliminare tutti i frammenti di vetro della cornice.
Nel lavandino trovò un cucchiaio e un barattolino di gelato aperto. Evidentemente, chi era appena resuscitato preferiva il gusto al caramello e cioccolato. Ripose il gelato nel freezer e riportò la cornice vuota nello studio. Poi, entrato nella camera padronale, si fermò a qualche passo dalla porta del bagno. Intendeva controllare ancora una volta lo specchio, vedere se era tuttora appannato e se, dall'altra parte, si muovesse qualcosa che non avrebbe dovuto trovarsi lì. Ma all'improvviso mettersi alla ricerca di quel fantasma gli sembrò una pessima idea. Decise quindi di andarsene dall'appartamento e, dopo aver spento tutte le luci, chiuse a chiave la porta dietro di sé. Mentre scendeva con l'ascensore principale, Ethan pensò: Per lo stesso motivo per cui il proverbiale lupo si nasconde sotto una pelle di pecora per non farsi notare in mezzo agli agnelli. Ecco perché un morto vivente potrebbe decidere di farsi la doccia, sbarbarsi e cambiarsi. Mentre l'ascensore lo portava al pianterreno, Ethan capì come doveva essersi sentita Alice mentre precipitava nella tana del coniglio. 16 Dopo aver interrotto il traffico ferroviario, Fric lasciò gli sporchi nazisti ai loro malvagi progetti, abbandonò l'irrealtà della stanza dei trenini per l'irrealtà della multimiliardaria collezione di auto del garage e si precipitò verso le scale. Avrebbe dovuto prendere l'ascensore. Tuttavia quel meccanismo privo di cavi, che faceva salire e scendere la cabina grazie a un potente ariete idraulico, sarebbe stato troppo lento per lo stato d'animo in cui si trovava. Il motore di Fric correva, correva. La conversazione telefonica con quello sconosciuto - che lui aveva soprannominato l'Uomo Misterioso - era un formidabile carburante per un ragazzino con una vita noiosa, una grande fantasia e molte ore vuote da riempire. Non salì le scale, le aggredì. Balzando da un gradino all'altro, afferrandosi al corrimano, Fric si lanciò alla conquista di due, quattro, sei, sei lunghe rampe fino al secondo e ultimo piano di Palais Crapaud, dove lui aveva le sue stanze. Solo Fric sembrava conoscere il significato del nome dato alla grande villa dal suo primo proprietario: Palais Crapaud. Quasi tutti sanno che Pa-
lais in francese significa «palazzo», ma nessuno, a parte forse qualche regista europeo con la puzza sotto il naso, sembrava avere la benché minima idea di che cosa significasse Crapaud. Per essere onesti, alla maggior parte delle persone che frequentava la loro casa non importava un bel niente di come si chiamava la villa o di che cosa significasse il suo nome. Avevano questioni ben più importanti a cui pensare... tipo quanto aveva incassato un film durante il weekend, che audience aveva avuto un programma televisivo, gli ultimi rimescolamenti tra i funzionari degli studi cinematografici e delle reti televisive, chi dovevano fregare nei contratti che stavano preparando e quanti soldi dovevano spillargli, come mandarlo in confusione in modo che non si rendesse conto di essere stato fregato, dove trovare della nuova cocaina e quali vantaggi avrebbe tratto la loro carriera se avessero cominciato a sottoporsi a lifting al viso quando avevano ancora diciotto anni. I pochi che si erano domandati che cosa significasse il nome della villa, avevano avanzato teorie contrastanti. Alcuni credevano che alla proprietà fosse stato dato il nome di un famoso statista, o filosofo o architetto francese. Nell'industria cinematografica il numero degli individui che sapeva qualcosa di politici, filosofi e architetti era minimo, quasi quanto il numero di quelli in grado di tenere una conferenza sulla struttura della materia a livello subatomico; di conseguenza questa era una teoria che si poteva accettare facilmente senza timore di essere smentiti. Altri erano certi che Crapaud fosse il nome da signorina dell'adorata madre del primo proprietario, oppure il nome di una slitta che lui si era divertito a guidare da bambino, quand'era stato veramente felice per l'ultima volta in vita sua. Altri ancora ritenevano che alla villa fosse stato dato il nome dell'amante segreta del primo proprietario, una giovane e sconosciuta attrice di nome Vera Crapaud. In realtà, Crapaud non era il suo vero cognome e il produttore, l'agente o chiunque glielo avesse suggerito doveva averla segretamente disprezzata. Infatti Crapaud in francese significa «rospo». Solo Fric sembrava essere al corrente del fatto che chiamare una villa Palais Crapaud significava in realtà chiamarla Palazzo Rospo. Fric aveva fatto alcune ricerche. Gli piaceva sapere le cose. Evidentemente il magnate dell'industria cinematografica che aveva costruito quella grande dimora più di sessant'anni prima aveva avuto un buon senso dell'umorismo. Da quanto Fric aveva potuto constatare, nell'industria
cinematografica nessuno possedeva più il senso dell'umorismo. Salì le scale con tanta furia che, quando raggiunse il corridoio a nord del secondo piano, ansimava affannosamente. Non andava bene. Avrebbe dovuto fermarsi un po'. Al contrario continuò a correre lungo il corridoio a nord per poi imboccare quello a est, dove si trovavano le sue stanze private. Gli oggetti di antiquariato allineati lungo i corridoi di quel piano erano di una bellezza straordinaria, ma non così preziosi da poter essere esposti in un museo come quelli dei due piani sottostanti. Le stanze di Fric erano state riammobiliate un anno prima. L'architetto d'interni di Papà Fantasma aveva portato Fric a far compere. Per cambiare i mobili di quelle stanze, suo padre gli aveva messo a disposizione un budget di trentacinquemila dollari. Non era stato Fric a chiedere dei nuovi mobili. Lui non chiedeva mai nulla... tranne che a Natale, quando gli veniva imposto di compilare l'infantile letterina a Babbo Natale che la signora McBee, su insistenza di suo padre, gli consegnava ogni anno. L'idea di cambiare i mobili era stata interamente di Papà Fantasma. Nessuno, tranne Fric, aveva pensato che fosse una pazzia mettere a disposizione di un bambino della sua età trentacinquemila dollari per rinnovare le sue stanze. L'architetto e i commessi dei negozi si erano comportati come se fosse una cosa del tutto normale, come se ogni bambino avesse sempre una cifra del genere da spendere per la sua stanzetta. Erano matti. Spesso Fric aveva il sospetto che le persone cortesi e apparentemente ragionevoli che stavano intorno a lui fossero in realtà PAZZI FURIOSI. Il nuovo mobilio delle stanze era moderno, vivace e dalle linee slanciate. Lui non aveva nulla contro i mobili e gli oggetti costruiti in tempi lontani. Gli piacevano. Ma quasi un intero palazzo traboccante di antichità era più che sufficiente. Nel suo spazio privato voleva essere un bambino, non un vecchio nano francese, cosa che spesso gli capitava di sentirsi tra tutti quei mobili d'antiquariato francese. Voleva credere che quella cosa chiamata futuro esistesse davvero. Gli era stato riservato un intero appartamento. Soggiorno, camera, bagno, cabina armadio. Respirando a fatica, Fric attraversò il soggiorno. Ansimando ancor di più, attraversò la camera ed entrò nella cabina armadio. La parola cabina era una descrizione assolutamente inadeguata. Se Fric
avesse posseduto una Porsche, avrebbe potuto farcela entrare. E se nella sua letterina a Babbo Natale avesse scritto che voleva una Porsche, molto probabilmente la mattina di Natale se la sarebbe trovata parcheggiata sul viale d'accesso, con un enorme fiocco sul tettuccio. Erano matti. Sebbene Fric possedesse più indumenti di quanti gliene fossero necessari, più di quanti ne desiderasse, il suo guardaroba occupava solo un quarto della cabina armadio. Il resto dello spazio era stato riempito di ripiani sui quali erano conservate collezioni di soldatini giocattolo, che lui adorava, giochi in scatola che lo lasciavano indifferente... nonché le videocassette e i DVD di tutti gli stupidi e noiosi film per ragazzi girati negli ultimi cinque anni, che gli venivano spediti gratis dai dirigenti degli studi cinematografici e da altre persone che volevano guadagnare qualche punto agli occhi di suo padre. Sul fondo della cabina armadio, la parete di circa sei metri era divisa in tre sezioni di scaffali che andavano dal pavimento al soffitto. Allungando un braccio sotto il terzo scaffale di destra, Fric premette un pulsante nascosto. La sezione centrale era in realtà una porta segreta che si apriva girando su un perno montato al centro. Ruotando, la scaffalatura lasciava su ogni lato un passaggio largo circa ottanta centimetri. Per infilarsi in quelle aperture, alcuni adulti avrebbero dovuto voltarsi di lato. Ma Fric non aveva nessuna difficoltà a entrare nel regno segreto che stava al di là della cabina armadio. Dietro agli scaffali c'era uno spazio di circa due metri per due con una porta in acciaio inossidabile. Sebbene non fosse d'acciaio massiccio, era spessa dieci centimetri e aveva un aspetto eccezionalmente solido. Quando l'aveva scoperta, tre anni prima, Fric aveva notato che la porta non era chiusa a chiave. Non lo era neppure adesso. Non aveva mai trovato la chiave. Oltre a una normale maniglia sulla destra, la porta era anche dotata di una seconda maniglia al centro. Quest'ultima, che poteva fare un giro completo di 360 gradi, era in realtà una manovella, simile a quelle installate sulle finestre a battenti della casa. La manovella era affiancata da due strani oggetti che sembravano delle specie di valvole. Aprì la porta, accese la luce ed entrò in una stanza di circa cinque metri
per quattro. Un luogo per diversi aspetti molto strano. Il pavimento era formato da una serie di lastre d'acciaio. Anche le pareti e il soffitto erano rivestiti con pannelli dello stesso metallo. Queste lastre e questi pannelli erano stati meticolosamente saldati a ogni giuntura. Fric aveva studiato attentamente la stanza ma non era mai riuscito a trovare neppure la più piccola fessura o il più minuscolo foro in quelle saldature. Tutt'intorno al perimetro, la porta aveva delle guarnizioni di gomma. Ora era vecchia, secca e crepata, ma molto probabilmente un tempo quella gomma aveva formato con lo stipite una chiusura a tenuta stagna. Dalla parte interna, il pannello della porta presentava una rete a maglia sottile, dietro la quale c'era un congegno che Fric aveva esaminato più volte alla luce di una torcia. Attraverso la rete, vedeva pale da ventilatore, ingranaggi, polverosi cuscinetti a sfera e altri pezzi di cui non conosceva il nome. Sospettava che un tempo la manovella sulla parte esterna della porta servisse per far girare l'aspiratore e che, attraverso le valvole, tutta l'aria uscisse dalla stanza, fino a creare una specie di vuoto. Ma non riusciva proprio a comprendere a che scopo fosse destinato quel locale. Per un certo periodo di tempo pensò che si trattasse di un soffocatorio. Soffocatorio era una parola inventata da Fric. Immaginava un genio del male che, tenendo sotto tiro la sua terrorizzata preda, la costringesse a entrare nel soffocatorio, chiudeva con forza la porta e, girando allegramente la manovella, faceva uscire tutta l'aria dalla stanza, fino a far soffocare lentamente la sua vittima. Nei romanzi, i cattivi a volte inventano congegni e modi terribilmente elaborati per uccidere la gente, anche se potrebbero farlo più semplicemente con un coltello o una pistola, oltretutto molto più in fretta e spendendo di meno. Ma la mente dei malvagi deve essere tortuosa come i labirinti di un formicaio. Oppure c'erano pazzi assassini a cui faceva schifo il sangue. Magari si divertivano a uccidere, ma non se poi gli toccava pulire tutto. Tipi del genere avrebbero potuto installare un soffocatorio segreto. Tuttavia alcuni elementi nel design della stanza suggerivano che quella non fosse la spiegazione giusta, per quanto raccapricciante e affascinante potesse essere. Prima di tutto, la maniglia interna permetteva di aprire la porta anche se
la serratura era stata chiusa dall'esterno con la chiave. Chiaramente l'intento era stato quello di evitare che qualcuno restasse accidentalmente intrappolato nella stanza, ma assicurava anche che nessuno potesse esservi chiuso dentro intenzionalmente. Poi c'erano i ganci di acciaio inossidabile che pendevano dal soffitto, disposti in due file che correvano per tutta la lunghezza della stanza, ognuna delle quali si trovava a più di mezzo metro dalla parete. Alzando gli occhi verso quei ganci luccicanti, Fric udì il proprio respiro farsi affannoso come quando aveva appena terminato di salire le sei rampe di scale. Il suono di ogni inspirazione ed espirazione riecheggiava lungo le pareti metalliche. Un pizzicore tre le spalle ben presto si propagò fino alla nuca. Sapeva che cosa significava. Non stava semplicemente respirando più in fretta. Aveva cominciato ad ansimare. Improvvisamente sentì una stretta al torace e rimase senza fiato. Il suo ansimare era più forte quando espirava che quando inspirava: non c'erano dubbi, era stato colto da un attacco d'asma. Sentiva le vie respiratorie stringersi sempre più. Nei suoi polmoni entrava più aria di quanta lui riuscisse a farne uscire. Ma doveva liberarsi di quella viziata per poter fare entrare quella fresca. Curvando le spalle e piegandosi in avanti, usò i muscoli del torace e del collo per cercare di espellere l'aria intrappolata. Ma invano. Come attacco d'asma, questo era davvero brutto. Afferrò l'inalatore che teneva agganciato alla cintura. Da quel che poteva ricordare, solo in tre occasioni Fric era rimasto senza aria a tal punto che la sua pelle aveva assunto una colorazione bluastra ed era stato necessario portarlo al pronto soccorso. La vista di un Fric blu aveva spaventato proprio tutti. Sganciato dalla cintura, l'inalatore gli scivolò via dalle dita, cadde sul pavimento, sbatacchiò contro le lastre d'acciaio. Continuando ad ansimare, Fric si chinò per recuperarlo, ebbe un capogiro e cadde in ginocchio. Gli riusciva così difficile respirare che era come se un assassino gli stringesse le mani intorno alla gola, soffocandolo. Ansioso ma non ancora disperato, strisciò in avanti cercando a tentoni l'inalatore. L'apparecchietto gli schizzò tra le dita improvvisamente sudaticce, finendo un po' più lontano. La stanza girava davanti ai suoi occhi, appariva confusa, cominciò a o-
scurarsi. Nessuno gli aveva mai scattato una foto quando era nel suo periodo blu. Da tempo era curioso di sapere che aspetto aveva quand'era color lavanda, o color indaco. Le vie respiratorie si restrinsero ulteriormente. Il suo ansimare si fece sibilante. Sembrava che avesse ingoiato un fischietto e che questi gli si fosse bloccato in gola. Quando riuscì a posare nuovamente la mano sull'inalatore, gli si aggrappò con forza, poi ruotò sulla schiena. Non andava bene. Sdraiato non riusciva a respirare affatto. E non era neppure la posizione corretta per usare l'inalatore. Sopra di lui: i ganci che scintillavano, scintillavano. Quello non era un buon posto per avere un così brutto attacco d'asma. Non aveva abbastanza fiato per mettersi a gridare. E, comunque, nessuno avrebbe sentito le sue grida. Palais Crapaud era stato costruito molto bene, i suoni non attraversavano quelle solide pareti. Adesso sì che era disperato. 17 Chiuso in una cabina della toilette maschile nella galleria commerciale, Corky Laputa usò un pennarello per scrivere sulle pareti alcune frasi razziste. In realtà lui non era razzista. Non provava malanimo per nessun gruppo in particolare, ma guardava con disprezzo all'umanità in generale. E non conosceva neppure qualcuno che provasse sentimenti razzisti. Tuttavia, esistevano persone convinte che i razzisti fossero tutt'intorno a loro. Avevano bisogno di crederlo per dare uno scopo e un significato alla loro vita, e per avere qualcuno da odiare. Per una non trascurabile parte dell'umanità, avere qualcuno da odiare era necessario come il pane, indispensabile come l'aria. Alcuni individui avevano bisogno di essere furibondi per qualcosa, qualsiasi cosa. Corky era felice di scribacchiare quei messaggi che, una volta visti da determinate persone, avrebbero attizzato la rabbia che covava in loro e aggiunto un po' di bile alla loro amarezza. Mentre lavorava, seguiva la musica canticchiando a bocca chiusa. Lì dentro, nonostante fosse il 21 dicembre, la scaletta musicale non comprendeva alcuna canzone natalizia. Molto probabilmente la direzione della gal-
leria commerciale temeva che motivetti come Jingle bells avrebbero offeso profondamente i clienti non di fede cristiana, nonché allontanato gli atei dotati di una particolare sensibilità e con molti soldi da spendere. In quel momento, l'altoparlante trasmetteva una vecchia canzone dei Pearl Jam. Questo particolare arrangiamento della canzone era stato eseguito da un'orchestra con una vasta sezione di archi. Anche senza la stridula parte vocale, quella musica riusciva comunque a intorpidire la mente come l'originale, ma in modo più gradevole. Quando Corky terminò di scrivere i suoi crudeli insulti razzisti, tirò l'acqua e andò a lavarsi le mani in uno dei lavandini; era solo nella toilette maschile. Nessuno lo stava osservando. Andava orgoglioso della sua capacità di cogliere qualsiasi opportunità per seminare il caos, per quanto piccolo fosse il danno che poteva infliggere all'ordine sociale. Nessuno dei lavandini aveva un tappo. Strappò manciate di tovagliette di carta da un dispenser. Dopo averle bagnate, le appallottolò e le infilò nei buchi di scarico di tre dei sei lavandini. Oggigiorno, nella maggior parte delle toilette pubbliche i rubinetti sono dotati di un dispositivo a tempo che permette all'acqua di scorrere per alcuni secondi, poi il getto s'interrompe automaticamente. Ma quelli avevano ancora le manopole che si giravano. Aprì completamente i rubinetti dei lavandini che aveva otturato con le tovagliette di carta appallottolate. Al centro del pavimento c'era uno scarico che avrebbe potuto annullare tutti i suoi sforzi. Corky allora spostò il grosso bidone dei rifiuti, mezzo pieno, e bloccò lo scarico. Raccolse da terra il sacchetto in cui aveva messo gli acquisti fatti - calzini nuovi, lenzuola, un portafogli di pelle comprato nel grande magazzino, nonché uno splendido coltello acquistato in un negozio di articoli per la cucina, a cui si rivolgevano gli spettatori delle trasmissioni televisive di culinaria - e rimase a guardare i lavandini che si riempivano d'acqua. Incassato in una parete, a circa dieci centimetri dal pavimento, c'era un ampio foro di ventilazione. Se l'acqua fosse salita fin lì, riversandosi nell'impianto di riscaldamento e scorrendo all'interno delle pareti, un semplice guaio poteva trasformarsi in un costoso disastro. E questo avrebbe gravemente danneggiato numerose attività commerciali, nonché la vita dei relativi dipendenti. Uno, due, tre, i lavandini traboccarono. L'acqua si riversò sul pavimento.
Accompagnato dalla musica di schizzi e spruzzi - e, in sottofondo, da quella dei Pearl Jam - Corky Laputa uscì dalla toilette sorridendo. Dato che l'atrio che i bagni maschili e femminili avevano in comune era deserto, lui posò a terra il sacchetto. Da una tasca della giacca estrasse un rotolo di nastro isolante per elettricisti. Era sempre preparato per affrontare eventuali avventure. Con il nastro isolò lo spazio tra la base della porta e la soglia. Visto che la porta combaciava perfettamente con gli stipiti e sarebbe riuscita a trattenere l'acqua, non ebbe bisogno di utilizzare altro nastro. Poi prese dal portafogli un'etichetta adesiva 8x15. La dispiegò, ne tolse il rettangolo protettivo e la fece aderire alla porta. A caratteri rossi su sfondo bianco, c'era la scritta FUORI USO. L'etichetta avrebbe sicuramente insospettito una delle guardie della galleria, ma i clienti non si sarebbero posti domande e sarebbero andati a cercare un'altra toilette. Il suo lavoro lì dentro era finito. L'entità dei danni provocati dall'acqua adesso era nelle mani del fato. Era vietato installare telecamere di sicurezza nei bagni e nelle loro immediate vicinanze. Quindi fino a quel momento la sua immagine non era stata registrata sul luogo del crimine. Fuori delle toilette, un corridoio a forma di L conduceva alla passeggiata interna del primo piano, che era costantemente sorvegliata dalle telecamere. In precedenza, Corky aveva controllato la posizione di quelle telecamere che inquadravano le vie d'accesso al corridoio delle toilette. Ora, mentre usciva, voltò con noncuranza il viso. Tenendo la testa bassa, si mescolò rapidamente alla folla. Quando, più tardi, i guardiani avessero controllato le riprese, avrebbero stabilito che Corky era entrato e uscito dal corridoio delle toilette all'incirca nel periodo in cui era stato commesso l'atto di vandalismo. Ma non sarebbero stati in grado di ottenere un'immagine chiara del suo viso. Aveva intenzionalmente scelto degli indumenti piuttosto anonimi per farsi notare il meno possibile tra la gente. Sui nastri registrati delle altre telecamere sparse nella galleria commerciale, non sarebbe stato facilmente identificabile come lo stesso uomo che era entrato nelle toilette prima dell'allagamento. In più, le sovrabbondanti decorazioni, tutte lustrini e finta neve, compromettevano ulteriormente l'utilità delle telecamere, confondendo le riprese.
Il tema da inverno nel paese delle meraviglie evitava qualsiasi riferimento diretto e simbolico al Natale: niente angeli né mangiatoie, niente immagini di Babbo Natale, niente folletti intenti a costruire giocattoli, né renne, nessun ornamento tradizionale... e neppure file di lucine colorate, solo minuscole e scintillanti lampadine bianche. La galleria commerciale era addobbata con chilometri e chilometri di festoni formati da ghiaccioli di plastica e fogli d'alluminio. Dal soffitto pendevano fili a cui erano attaccati migliaia di grossi fiocchi di neve in polistirolo cosparsi di lustrini. Nella rotonda centrale, dieci pattinatori a grandezza naturale, tutti pupazzi meccanici che si muovevano su binari, scivolavano intorno a un finto laghetto ghiacciato in una elaborata riproduzione di un paesaggio invernale, completo di pupazzi di neve, fortini di ghiaccio, bambini robot che si minacciavano reciprocamente con palle di neve di plastica, nonché finti orsi polari che si muovevano assumendo comiche pose. Corky Laputa era incantato dalla pura, gioiosa stupidità di tutta quella messinscena. Mentre la prima scala mobile lo portava a pianterreno e con la seconda scendeva verso il garage, si soffermò a rimuginare su alcuni dettagli relativi al suo piano di uccidere Rolf Reynerd. Sia mentre stava facendo acquisti, sia quando si era divertito a mettere in atto quella sua scappatella distruttiva, Corky aveva continuato a elaborare un progetto semplice e ardito per commettere quell'omicidio. Possedeva la dote innata di riuscire a dedicarsi a più cose contemporaneamente. A chi non aveva mai studiato strategia politica e mancava di una solida base filosofica, il comportamento di Corky nella toilette maschile poteva apparire come una birichinata infantile. Tuttavia, solo di rado una società poteva essere distrutta unicamente per mezzo di azioni violente, e un buon anarchico rivoluzionario doveva impegnarsi nella sua missione ogni minuto del giorno, provocando distruzioni sia piccole che grandi. Teppisti ignoranti che deturpavano la proprietà pubblica dipingendo graffiti con gli spray, terroristi suicidi, vaneggianti pop star che diffondevano rabbia e nichilismo attraverso i loro ritmi contagiosi, avvocati specializzati in cause per illeciti civili che intentavano azioni legali di vasta portata con la precisa intenzione di mandare in rovina importanti società e antiche istituzioni, serial killer, spacciatori di droga, poliziotti disonesti, dirigenti corrotti che falsificavano i libri contabili e si appropriavano dei fondi pensione, infidi sacerdoti che molestavano i bambini, politici che cercava-
no di farsi rieleggere suscitando l'invidia tra le classi sociali: tutti questi e altri individui, che operavano a livelli diversi, alcuni rovinosi come treni usciti dai binari e senza controllo, altri che, come termiti, distruggevano il tessuto della civiltà e della ragione, erano assolutamente necessari per mandare in rovina l'ordinamento attuale. Se Corky fosse riuscito in qualche modo a trasmettere la peste senza rischiare la propria vita, avrebbe contagiato con entusiasmo chiunque avesse incontrato attraverso starnuti, colpi di tosse, abbracci e baci. A volte, tutto quello che poteva fare era gettare un grosso petardo in una toilette pubblica, si sarebbe accontento di aumentare il caos in quel modo, aspettando l'occasione di riuscire a provocare un danno maggiore. Quando raggiunse la sua BMW parcheggiata nel garage, si sfilò la giacca sportiva. Prima di sedersi al volante, indossò nuovamente l'impermeabile giallo. Poi posò il cappello a falde spioventi sul sedile del passeggero, a portata di mano. Oltre che ripararlo dalla pioggia, anche la più fitta, l'impermeabile rappresentava l'indumento ideale per commettere un omicidio. Si poteva facilmente lavar via il sangue dalla lucida superficie vinilica senza che restasse alcuna macchia. Secondo la Bibbia, c'è uno scopo per ogni stagione, un tempo per uccidere e un tempo per sanare. Non essendo un gran guaritore, Corky credeva che ci fosse un tempo per uccidere e un tempo per non uccidere. Il tempo per uccidere era arrivato. La lista di morte di Corky conteneva più di un nome, e quello di Reynerd non si trovava in cima. L'anarchia poteva essere una fede molto esigente in fatto di priorità. 18 Accasciato nel soffocatorio, preoccupato e ansimante, e senza dubbio più blu della luna blu, Fric riuscì in qualche modo a mettersi seduto, con la schiena appoggiata a una delle pareti d'acciaio. L'inalatore che stringeva nella destra pesava poco più di un SUV Mercedes 500 classe M. Se fosse stato suo padre, sarebbe stato circondato da decine di persone che l'avrebbero aiutato a sollevare quello stupido oggetto. Ecco un altro degli svantaggi di essere un mostriciattolo solitario. La mancanza d'ossigeno rendeva i suoi pensieri sempre più confusi. Per
un momento credette che un pesante fucile gli inchiodasse la mano a terra, che fosse proprio un fucile l'oggetto che voleva sollevare per infilarselo in bocca. Terrorizzato, fu quasi sul punto di scagliare lontano quell'aggeggio, poi in un momento di chiarezza mentale riconobbe l'inalatore e lo strinse con forza. Non riusciva a respirare, a pensare, poteva solo ansimare e tossire e ansimare, gli sembrò di essere sull'orlo di uno di quei rari attacchi abbastanza gravi da richiedere il suo trasporto al pronto soccorso dell'ospedale. I medici lo avrebbero strattonato, piegato da una parte e dall'altra, continuando a blaterare dei loro film preferiti di Manheim. La scena con gli elefanti! Il salto da un aeroplano all'altro e senza paracadute! La nave che affondava! Il re alieno che aveva la forma di un serpente! Quelle scimmie così divertenti! Sarebbe stato attorniato da infermiere che continuavano a ripetergli quant'era fortunato ad avere un padre che era una star, un eroe, un fustacchione, un genio. Forse sarebbe stato meglio morire, subito. Senza essere né Clark Kent, né Peter Parker, Fric riuscì lo stesso a portarsi al viso quell'aggeggio da un milione di miliardi di chili. Si infilò il boccaglio tra le labbra e inspirò il più profondamente possibile, che non era poi così profondamente. In gola aveva qualcosa, un uovo sodo o un sasso, oppure un grumo di catarro talmente grosso da finire sul Guinness dei Primati, insomma una specie di tappo che permetteva soltanto a una minima quantità di aria di entrare e di uscire. Si sporse in avanti. Serrò e rilasciò i muscoli del collo, del torace e quelli addominali. Lottò per inspirare l'aria fresca e medicata nei polmoni, ed espirare quella calda e viziata che gli ristagnava nel petto come uno sciroppo. Due boccate. Quello era il dosaggio prescritto. Fece partire la boccata numero due. Il leggero gusto metallico avrebbe potuto farlo vomitare se le sue vie respiratorie infiammate e gonfie fossero state in grado di farlo, ma i tessuti riuscivano soltanto a contrarsi, non a espandersi, stringendosi sempre di più. Una fuliggine grigiogiallastra sembrò scendergli davanti agli occhi, il lento sopraggiungere di un crepuscolo interiore. Si sentiva stordito. Era seduto sul pavimento, la schiena contro la parete,
le gambe tese davanti a lui, e tuttavia aveva la sensazione di essere un funambolo in equilibrio su un piede, che traballava, sul punto di precipitare. Due boccate. Aveva preso due dosi. Evitare il sovradosaggio. Pericoloso. Due boccate. Dovevano bastare. Di solito bastavano. A volte una sola dose gli permetteva di uscire da quell'invisibile capestro. Non superare la dose. Ordine del medico. Non lasciarsi prendere dal panico. Consiglio del medico. Dai alla medicina il tempo di funzionare. Istruzione del medico. Al diavolo il medico. Fece partire una terza boccata. Dalla gola gli uscì un rumore secco, come quello di un dado che ruzzoli su una tavola da gioco e il suo ansimare si fece meno stridulo, meno sibilante e più roco. L'aria calda gli esplose dai polmoni. Quella fresca entrò. Andava meglio. Lasciò cadere l'inalatore in grembo. Ci volevano mediamente quindici minuti per riprendersi da un attacco d'asma. Non poteva far niente se non aspettare. Ai margini del campo visivo, l'oscurità si dileguò. Le immagini confuse si fecero gradualmente sempre più nitide. Seduto sul pavimento di una stanza d'acciaio vuota, senza nulla per distrarlo se non i ganci sul soffitto, Fric non poteva fare altro che guardare quelle strane forme ricurve e pensare a cosa potessero servire. Quando aveva scoperto la stanza, gli erano tornate alla mente alcune scene di un film ambientato in una cella frigorifera e le carcasse delle mucche appese ai ganci che scendevano dal soffitto. Si era quindi chiesto se un folle genio del crimine avesse appeso i cadaveri delle sue vittime in quella stanza. Forse un tempo il locale era stato refrigerato. Tra un gancio e l'altro non c'era abbastanza spazio per farvi stare il cadavere di un adulto, uomo o donna che fosse. All'inizio Fric era giunto alla macabra conclusione che l'assassino aveva conservato e refrigerato cadaveri di bambini. Osservandoli più da vicino, aveva però notato che quei ganci in acciaio inossidabile non erano appuntiti. Quindi non sarebbe stato possibile infilzarvi né un bambino, né una mucca. Era stato a quel punto che aveva lasciato perdere i ganci, riservandosi di tornare sull'argomento in seguito, ed era giunto alla conclusione che la
stanza era stata un soffocatorio. Tuttavia, il fatto che il locale non potesse essere chiuso dall'interno gli aveva fatto capire che la sua teoria era sbagliata. Mentre la sua respirazione si faceva più regolare e la stretta al torace si allentava, Fric rimase a osservare i ganci e le pareti d'acciaio, cercando di formulare una terza teoria riguardo all'uso di quel locale. Ma continuava a essere perplesso. Non aveva detto a nessuno della scaffalatura che ruotava su se stessa e della stanza nascosta. Ciò che rendeva davvero fico quel nascondiglio non era tanto il fatto che fosse un luogo strano, quanto che lui fosse l'unica persona al corrente della sua esistenza. Quello spazio poteva essere usato come lo «speciale luogo segreto» di cui, a detta dell'Uomo Misterioso, ben presto avrebbe avuto bisogno. Forse era il caso di riempirlo di provviste. Due o tre confezioni da sei Pepsi. Diverse confezioni di panini al burro di arachidi. Un paio di torce con batterie di ricambio. Una bibita calda non era esattamente in cima alla sua lista di preferenze, ma era sempre meglio che morire di sete. E perfino una bibita calda era meglio che ritrovarsi in pieno Mojave senz'acqua, costretti a conservare e bere la propria urina. I panini al burro di arachidi, buoni in qualsiasi circostanza, sarebbero stati disgustosi se accompagnati da sorsate di urina. Forse era meglio prendere quattro confezioni di Pepsi. Anche se non avrebbe bevuto la sua urina, avrebbe avuto bisogno di qualcosa in cui fare pipì, nel caso fosse stato necessario restare nascosto per più di qualche ora. Una pentola con il coperchio. Meglio ancora, un barattolo con il tappo a vite. L'Uomo Misterioso non aveva detto per quanto tempo Fric doveva aspettarsi di restare sotto assedio. Avrebbero dovuto chiarire questo punto nel corso la prossima chiacchierata. Lo sconosciuto aveva promesso che si sarebbe fatto vivo ancora. Se era un maniaco, avrebbe sicuramente chiamato, sbavando sul telefono. Se non lo era, allora poteva essere un amico sincero, nel qual caso avrebbe certamente telefonato, ma per motivi migliori. Trascorse un po' di tempo, l'asma si placò e Fric si alzò in piedi. Agganciò l'inalatore alla cintura. Ancora un po' stordito, cercò di mantenere l'equilibrio appoggiando una mano contro la gelida parete d'acciaio e si avviò verso la porta.
Un minuto dopo, in camera sua, si sedette sul bordo del letto e sollevò il ricevitore del telefono. Sul pannello del centralino si accese la luce della sua linea privata. Nessun altro lo aveva chiamato da quando Fric aveva risposto al udili-udili-u nella stanza dei trenini. Dopo aver premuto *69, rimase in ascolto mentre il suo apparecchio componeva automaticamente il numero dell'ultima chiamata ricevuta. Se fosse stato un cervellone addestrato a diventare una spia terribilmente pericolosa e se avesse avuto l'orecchio di Beethoven, prima che Beethoven diventasse sordo, o se uno dei suoi genitori fosse stato un extraterrestre inviato sulla Terra per incrociarsi con gli umani, forse Fric sarebbe riuscito a tradurre quella veloce serie di toni in numeri. Avrebbe potuto memorizzare il numero di telefono dell'Uomo Misterioso per usarlo in futuro. Ma lui non era altro che il figlio del più grande attore cinematografico del mondo. Quella posizione gli permetteva di godere di molti extra, come una XBox gratis da parte della Microsoft e una tessera per entrare gratuitamente a Disneyland valida per tutta la vita, ma non gli garantiva né una straordinaria intelligenza né poteri paranormali. Dopo il dodicesimo squillo, inserì il viva voce. Mentre, dall'altra parte, l'apparecchio continuava a squillare, Fric si avvicinò a una finestra. A est, il prato liscio come un tavolo da biliardo declinava gradualmente attraverso querce e cedri fino a una serie di cespugli di rose, fino a sparire nella pioggia grigia e nella foschia d'argento. Fric si domandò se dovesse raccontare a qualcuno dell'Uomo Misterioso e del suo avvertimento di un pericolo imminente. Se avesse chiamato il cellulare di Papà Fantasma, gli avrebbe risposto o una guardia del corpo o il truccatore personale di suo padre. Oppure il suo parrucchiere personale. O il massaggiatore che lo accompagnava sempre negli spostamenti. O il suo consigliere spirituale, Ming du Lac, o uno delle decine di altri leccapiedi che orbitavano intorno al Quarto Uomo Più Ammirato Del Mondo. Il cellulare sarebbe passato da una mano all'altra di questi individui, attraversando sconosciute distanze verticali e orizzontali, fino a quando, dieci o dodici minuti dopo, sarebbe riuscito a parlare con Papà Fantasma. Lui avrebbe detto: «Ehi, mio ometto speciale, indovina chi c'è qui con me e che vuole parlare con te?» Quindi, prima che Fric riuscisse a dire una sola parola, Papà Fantasma avrebbe passato il telefonino a Julia Roberts o Arnold Schwarzenegger, a Tobey Maguire o a Kirsten Dunst, oppure ancora a Winnie il Cavallo Pro-
digio, probabilmente a tutti quanti messi insieme, e loro sarebbero stati tanto carini con Fric. Gli avrebbero domandato come andava a scuola, se da grande voleva diventare l'attore più importante del mondo, che tipi di cereali preferiva... E quando infine il cellulare fosse tornato nella mani di Papà Fantasma, un giornalista di Entertainment Weekley, usando la matita dalla parte che non scriveva, avrebbe preso appunti per un articolo su quella chiacchierata tra padre e figlio. Una volta stampata, la storia sarebbe risultata completamente sbagliata e Fric sarebbe stato descritto o come un cretino piagnucoloso o come una femminuccia viziata. Nel caso peggiore, come spesso succedeva, poteva rispondere al cellulare di Papà Fantasma una giovane attrice senza alcuna vera esperienza ma con un bel po' di pettegolezzi alle spalle, quella che veniva definita una starlette. Avrebbe cominciato a ridacchiare, dimostrandosi molto divertita per il nome Fric, perché quelle ragazze erano sempre molto divertite da qualsiasi cosa. Nel corso degli anni, aveva parlato con decine, centinaia di attricette del genere e sembravano tutte uguali come pannocchie di granoturco raccolte nello stesso campo, come se un contadino le coltivasse nello Iowa e ne spedisse vagonate intere a Hollywood. Fric non era in grado di telefonare alla sua Madre Virtuale, Freddie Nielander, perché probabilmente si stava mostrando in tutto il suo splendore in un posto lontano e favolosamente elegante come Monte Carlo. Lui non aveva un numero di telefono al quale poterla chiamare. La signora McBee e, per estensione, il signor McBee, erano gentili con Fric. Sembravano aver sempre in mente ciò che era meglio per lui. Tuttavia, in un caso come questo Fric esitava a rivolgersi a loro. Il signor McBee gli sembrava un po'... sciocco. E la signora McBee era una donna formidabile che sapeva tutto, vedeva tutto, decideva tutto, a cui bastava una frase o un'occhiata di educata disapprovazione per provocare emorragie interne nell'oggetto del suo rimprovero. Il signore e la signora McBee erano responsabili in loco parentis. Questa era una frase in latino che significava che fungevano da genitori di Fric quando i suoi veri genitori erano assenti, il che significava quasi sempre. Sentendo per la prima volta la frase in loco parentis, Fric aveva pensato che volesse dire che i suoi genitori erano locos, cioè pazzi. Tuttavia, i McBee governavano la villa già molto tempo prima che Papà Fantasma l'acquistasse. A Fric sembrava che la loro realtà riguardasse più Palais Crapaud, quel luogo e la sua tradizione, piuttosto che il datore di lavoro in sé o i suoi famigliari.
Il signor Baptiste, il cuoco, era più che altro una simpatica conoscenza, non un vero e proprio amico, e sicuramente non un confidente. Il signor Hachette, lo chef terribile e probabilmente un po' pazzo, non era proprio il tipo di persona a cui qualcuno si sarebbe rivolto in caso di necessità, salvo forse satana. Il Principe delle Tenebre avrebbe apprezzato i consigli di quel folle. Fric progettava attentamente tutte le sue incursioni in cucina in modo da evitare il signor Hachette. Una testa d'aglio non avrebbe avuto alcun effetto su di lui, perché gli piaceva moltissimo, ma se qualcuno gli avesse premuto un crocifisso sulla carne, lo avrebbe sicuramente visto incendiarsi come una torcia e, in mezzo a urla terribili, volar via come un pipistrello. Esisteva la possibilità che lo chef psicotico fosse proprio il pericolo di cui aveva parlato l'Uomo Misterioso. In effetti, praticamente ognuno dei venticinque membri del personale poteva essere un pazzo omicida scaltramente nascosto dietro a una maschera di cortesia. Un assassino armato di un'ascia, di un rompighiaccio. Di un foulard di seta con cui strangolare la sua vittima. Forse tutti e venticinque erano assassini pronti a colpire. Magari la prossima luna piena avrebbe provocato ondate di follia e tutti i dipendenti sarebbero esplosi contemporaneamente, commettendo violenze spaventose, aggredendosi l'un l'altro a colpi di pistola, accette e frullatori. Se non potevi sapere tutta la verità su ciò che tuo padre e tua madre pensavano di te, se non potevi sapere veramente chi erano e che cosa gli passava per la testa, allora non potevi aspettarti di sapere con sicurezza nulla riguardo ad altre persone che ti erano ancor meno vicino. Fric era quasi convinto che il signor Truman non fosse un pazzo con la mania delle seghe elettriche. Dopo tutto, il signor Truman era stato un poliziotto. In più, c'era qualcosa in Ethan Truman di profondamente giusto. Fric non sapeva come descriverlo, ma lo sentiva. Il signor Truman era una persona concreta. Quando entrava in una stanza, era lì. Quando ti parlava, comunicava davvero con te. Fric non aveva mai conosciuto nessuno come lui. Tuttavia non intendeva raccontare neppure al signor Truman dell'Uomo Misterioso e della necessità di trovare un nascondiglio. Prima di tutto, temeva di non essere creduto. Spesso i ragazzini della sua età inventavano storie incredibili. Non Fric. Ma altri ragazzini sì. Fric non voleva che il signor Truman lo considerasse un bugiardo che inventava
balle da ragazzino. E neppure voleva che il signor Truman pensasse che lui era un fifone, uno smidollato, un piccolo vigliacco. Nessuno avrebbe mai creduto che Fric potesse salvare il mondo più di venti volte, così come erano convinti che avesse fatto suo padre, ma non voleva neppure che qualcuno lo considerasse un bamboccio pauroso. Soprattutto il signor Truman. Poi c'era anche il fatto che a lui piaceva l'idea di avere un segreto. Era meglio che giocare con i trenini. Rimase a osservare la giornata umida, aspettandosi di intravedere per un attimo la figura del malvagio assassino muoversi furtivamente nel parco, oscurata dalla pioggia e dalla foschia. Dopo che il telefono dell'Uomo Misterioso aveva squillato all'incirca per un centinaio di volte senza che nessuno rispondesse, Fric tornò all'apparecchio e interruppe la chiamata. Aveva da fare. Occuparsi dei preparativi. Stava per accadere qualcosa di terribile. Fric intendeva essere pronto ad affrontarlo e a sconfiggerlo. 19 Riparato da un ombrello nero, Ethan Truman percorreva il vialetto fiancheggiato da tombe, con le scarpe che schizzavano acqua, calpestando l'erba fradicia di pioggia. Giganteschi cedri dai rami spioventi sembravano piangere insieme con il giorno, e gli uccelli, come spiriti risorti, si agitavano tra i rami ogni volta che lui passava troppo vicino. Da quel che riusciva a vedere, era solo in quel luogo di morte. Le visite ai cari defunti di solito avvenivano durante le giornate di sole, quando i ricordi sono luminosi come il tempo. Nessuno sceglieva di andare al cimitero durante un temporale. Nessuno, tranne un poliziotto la cui molla della curiosità era stata caricata al massimo, un poliziotto nato con l'ossessione della verità. Questa sua necessità interiore, voluta dal destino e che lo accompagnava fin dalla nascita, lo costringeva ad andare ovunque il sospetto e la logica potessero condurlo. In questo caso, il sospetto, la logica e il terrore. L'intuito gli aveva fatto nascere la strana convinzione che avrebbe sco-
perto di non essere il primo visitatore di quella giornata e che, in quel luogo, avrebbe scoperto qualcosa di inquietante, anche se non aveva idea di cosa si potesse trattare. Lapidi di granito consumato da tempo, mausolei incrostati di licheni e macchiati dallo smog, cippi funerari e obelischi inclinati per via di cedimenti del terreno: in quel cimitero non c'era nulla di tutto questo. Le lapidi di queste tombe - una targa di bronzo su una base di granito chiaro - erano state collocate a livello dell'erba. Da lontano il camposanto sembrava un normale parco. Raggiante e unica da viva, qui Hannah veniva ricordata con la stessa sfumatura di bronzo riservata alle altre migliaia di persone che riposavano in quel cimitero. Ethan faceva visita alla sua tomba sei o sette volte all'anno, di cui una a Natale. E sempre per il loro anniversario. Non sapeva perché venisse così spesso. Hannah non si trovava lì, c'erano solo le sue ossa. Lei viveva nel suo cuore, era sempre con lui. A volte pensava di compiere quelle visite non tanto per ricordare lei che non veniva mai dimenticata - ma piuttosto per fermarsi a guardare lo spazio vuoto accanto ad Hannah e la base di granito sulla quale un giorno avrebbero applicato una targa di bronzo con sopra il suo nome. A trentasette anni era troppo giovane per desiderare la morte e la vita aveva ancora in serbo per lui molte promesse. Tuttavia, a cinque anni dalla scomparsa di sua moglie, Ethan non aveva smesso di sentire che, con Hannah, era morta anche una parte di lui. Durante i dodici anni di matrimonio, avevano preferito rimandare il momento di avere dei figli. Erano così giovani. Non avevano fretta. Nessuno si aspetta che a una donna di trentadue anni, bella e piena di vita, venga diagnosticato un cancro e che muoia nel giro di quattro mesi. Portandosi via lei, la malattia si era presa anche i bambini che avrebbero potuto avere e i nipoti che sarebbero venuti in seguito. In un certo senso, Ethan era veramente morto con lei: era morto quell'Ethan che sarebbe stato un padre affettuoso per i loro figli, quell'Ethan che avrebbe goduto della compagnia di sua moglie per molti anni a venire, che avrebbe conosciuto la pace e il significato di invecchiare accanto a lei. Forse avrebbe avuto la sorpresa di trovare la sua tomba aperta, vuota. Ciò che invece trovò, per quanto inaspettato, non lo sorprese affatto. Alla base della targa di bronzo erano state deposte due dozzine di rose a stelo lungo. Il fiorista le aveva avvolte in un cono di cellophane rigido che
in parte proteggeva i fiori dalla pioggia battente. Erano un ibrido di rosa tea, una varietà rosso dorata chiamata Broadway. Tra tutte le rose che Hannah aveva amato e coltivato, la Broadway era stata la sua favorita. Ethan fece un giro completo del cimitero. Non vide nessuno su quei leggeri pendii erbosi. Scrutò con sospetto ogni cedro, ogni quercia. Ma da quanto riusciva a vedere, dietro a quei tronchi non c'era appostato nessuno. Non c'erano auto sulla stradina tortuosa che attraversava il cimitero. L'Expedition di Ethan, bianco come l'inverno, scintillante come ghiaccio, era l'unico veicolo parcheggiato. Oltre i confini del cimitero, il paesaggio urbano appariva velato dalla pioggia e dalla nebbia, più simile alla metropoli di un sogno che a una vera città. Il rumore del traffico e lo strombazzare dei clacson non arrivavano fino a lì, come se già da molto tempo tutti i suoi cittadini fossero venuti a riposare in eterno sotto la silenziosa distesa d'erba che circondava Ethan. Abbassò nuovamente lo sguardo sul mazzo di fiori. Oltre al colore vivace, la rosa Broadway è gradevolmente profumata. Fiorisce anche sotto il sole cocente e resiste alla muffa molto più di altre varietà. In un tribunale, due dozzine di rose trovate su una tomba non sarebbero state ammesse come prova. Tuttavia Ethan considerava quei fiori come una prova più che sufficiente dello strano corteggiamento di un uomo morto verso una donna morta. 20 Hazard Yancy se ne stava seduto in un'auto civetta della polizia proprio di fronte alla casa di West Hollywood dove si trovava l'appartamento di Rolf Reynerd, mangiando biscotti armeni e bevendo caffè da un thermos. Considerata la stagione invernale, la sera sarebbe scesa presto, di lì a una mezz'ora, ma sotto la cappa del temporale, già da un'ora la città era sprofondata nel buio. Attivati dai sensori fotoelettrici, i lampioni si erano accesi, dipingendo una metallica luminosità sugli aghi di pioggia che cucivano alla terra il cielo grigio simile a garza. Anche se poteva sembrare che, mangiando biscotti, Hazard stesse solo perdendo tempo, in effetti stava pensando a come avvicinare Reynerd. Dopo il pranzo con Ethan era tornato alla Omicidi. In un paio d'ore, con alcuni collegamenti a Internet, lavorando sia con la tastiera che con il tele-
fono, era venuto a sapere diverse cosette su quell'individuo. Rolf Reynerd era un attore che solo di tanto in tanto si guadagnava da vivere con la recitazione. Tra un ruolo minore e l'altro, interpretando sempre la parte del cattivone in diversi telefilm, restava disoccupato per lunghi periodi. In un episodio di X-Files, aveva interpretato la parte di un agente federale impazzito a causa di una sanguisuga aliena che gli era penetrata nel cervello. In un episodio di Law & Order era stato un personal trainer psicotico che aveva ucciso la moglie e poi si era suicidato verso la fine del primo tempo. In uno spot pubblicitario per un deodorante, era la guardia paranoica di un gulag sovietico; lo spot non era mai stato trasmesso a livello nazionale e lui non aveva guadagnato gran che. Un attore abbastanza sfortunato da interpretare sempre lo stesso tipo di personaggio di solito cade in quella trappola solo quando ha avuto un enorme successo in un determinato ruolo. A quel punto, il pubblico non riesce più ad accettarlo nelle vesti di un altro personaggio che non sia quello che lo ha reso famoso. Ma nel caso di Reynerd, sembrava che lo chiamassero per certi ruoli anche quando questi non avevano avuto alcun successo. Questo suggeriva ad Hazard che in quell'uomo c'erano particolari aspetti della sua personalità e del suo comportamento che gli consentivano di interpretare unicamente personaggi mentalmente instabili, che lui riusciva bene a recitare la parte del pazzoide proprio perché aveva diverse rotelle fuori posto. Nonostante i suoi guadagni fossero piuttosto discontinui, Rolf Reynerd abitava in un appartamento spazioso, in un edificio elegante e in un buon quartiere. Vestiva bene, frequentava i locali notturni più alla moda in compagnia di giovani attrici con una predilezione per il Dom Perignon, e guidava una Jaguar nuova. A detta di quelli che un tempo erano stati gli amici di Mina, la madre vedova di Reynerd, lei stravedeva per il figlio, era convinta che un giorno sarebbe diventato famoso e lo sovvenzionava con un consistente assegno mensile. Erano stati amici di Mina Reynerd un tempo nel senso che lei era morta da quattro mesi. Prima le avevano sparato a un piede, poi era stata massacrata con una lampada di marmo rivestita di bronzo dorato. L'assassino non era mai stato scoperto. I detective non erano riusciti a raccogliere neppure un indizio. Com'era prevedibile, erede di tutte le sue proprietà era stato il figlio uni-
co, il povero Rolf. Per la sera dell'omicidio di sua madre, l'attore aveva un alibi a prova di bomba. Questo fatto non sorprese Hazard, né lo convinse dell'innocenza di Reynerd. Di solito gli eredi unici hanno alibi inattaccabili. Secondo il medico legale, Mina era stata massacrata tra le nove e le undici di sera. L'avevano colpita con tanta forza che i disegni delle decorazioni in bronzo le si erano impressi profondamente nella carne, avevano addirittura inciso l'osso della fronte. Rolf era stato a divertirsi con la fidanzata del momento e altre quattro coppie dalle sette di quella sera fino alle due del mattino successivo. Avevano trascorso il tempo tra due diversi locali notturni alla moda, in cui si erano fatti notare per la loro chiassosità. Comunque, anche se l'omicidio di Mina era rimasto irrisolto e se pure l'alibi di Rolf fosse stato che era rimasto a casa tutta la sera, da solo, a masturbarsi, Hazard non avrebbe comunque avuto nessuna scusa per svolgere delle indagini su di lui. Il caso apparteneva a un altro detective. Ma per una fortunata coincidenza, uno degli amici che aveva trascorso quella sera con Reynerd - Jerry Nemo - era noto ad Hazard per un altro caso, il che gli offriva un aggancio. Due mesi prima, avevano sparato in testa a uno spacciatore di nome Carter Cook. Da quanto era emerso, l'omicidio era avvenuto nel corso di una rapina, Cook era pieno di merce e di denaro in contanti. L'amico di Reynerd, Jerry Nemo, aveva chiamato Cook al cellulare un'ora prima dell'omicidio. Nemo era un cliente, un cocainomane. Aveva fissato un appuntamento per comprare della roba da lui. Nemo non era più sospettato. Nessuno a Los Angeles o in qualsiasi altro posto del pianeta Terra veniva ancora sospettato. L'omicidio di Cook era la classica causa persa, un caso che non aveva alcuna probabilità di essere risolto. Tuttavia, fingendo che la polizia stesse ancora indagando su Nemo, Hazard aveva una scusa per avvicinare Reynerd e dargli un'occhiata per conto di Ethan. La scusa non gli serviva per tranquillizzare Reynerd. Armato unicamente del suo distintivo e di una certa aggressività, Hazard sarebbe stato in grado di inventare centinaia di storie abbastanza plausibili per convincere l'amico festaiolo ad aprirgli la porta e a rispondere alle sue domande. D'altronde se Reynerd, direttamente o indirettamente, avesse rivelato la
sua ossessione per Channing Manheim o, cosa altamente improbabile, avesse confessato l'intenzione di far del male all'attore, Hazard avrebbe dovuto riferire la situazione a qualcuno al di fuori della Omicidi perché venissero svolte delle indagini. A quel punto avrebbe avuto bisogno di una spiegazione credibile sui motivi che lo avevano indotto a interrogare Reynerd. Fingendo che Nemo fosse ancora sospettato per l'omicidio di Carter Cook, Hazard poteva pararsi il culo. Dopo essersi leccato le dita, coperte di zucchero a velo e di briciole, Hazard scese dall'auto. Non si scomodò a prendere l'ombrello. Considerata la sua stazza, per ripararsi completamente avrebbe avuto bisogno di un ombrellone da spiaggia. Si avvicinò alla palazzina di buon passo, ma senza mettersi a correre sotto l'acquazzone. L'edificio non era molto rientrato rispetto alla strada. Oltretutto, raramente Hazard si adattava al mondo perché di solito il mondo si spostava al suo passaggio. Notò appena la pioggia. Entrando nell'atrio, ignorò l'ascensore e si diresse verso le scale. Una volta gli avevano sparato in un ascensore. Era salito al sesto piano, le porte si erano aperte e quel farabutto era lì che lo stava aspettando. Se ti prendono di mira in un ascensore, non hai molto spazio per schivare i proiettili; come posto per farsi sparare, di peggio c'è solo una cabina telefonica o un'auto parcheggiata. Ad Hazard avevano sparato mentre era seduto in un'auto parcheggiata, ma mai in una cabina telefonica. Sapeva che sarebbe stata solo questione di tempo. Il tipo che lo aspettava fuori dell'ascensore aveva una calibro 9. E se la stava facendo addosso dalla tensione. Se quel pazzoide fosse stato calmo o armato di un fucile, per Hazard le conseguenze sarebbero state molto più sgradevoli. Il primo proiettile si era conficcato nel soffitto della cabina. Il secondo aveva fatto un buco nella parete di fondo. Il terzo aveva ferito a un braccio lo sconosciuto che si trovava nell'ascensore con Hazard. Saltò fuori che il vero bersaglio era lo sconosciuto, un agente del fisco. Hazard si era semplicemente trovato nel posto sbagliato in un momento poco opportuno, condannato a morte solo perché era un testimone. L'agente del fisco non era colpevole di aver preso di mira il pistolero, mettendosi a spulciare tutti i suoi conti o roba del genere. Si era semplice-
mente scopato sua moglie. Invece di rispondere al fuoco, Hazard si era lanciato verso la pistola. L'aveva strappata dalle mani dell'aggressore, lo aveva spinto lungo la parete del corridoio e, con una ginocchiata, gli aveva reso più compatti i genitali. Poi, non per caso, gli aveva anche rotto un braccio. Successivamente, durante la causa di divorzio che durò alcuni mesi, ebbe una relazione con la moglie del pistolero. Non era una cattiva donna. Si era solo lasciata coinvolgere da uomini sbagliati. Ora, pur non sentendosi completamente a suo agio nello spazio ristretto della tromba delle scale, Hazard salì fino al secondo piano. Giunto davanti all'appartamento 2B, suonò il campanello senza esitare. Quando Rolf Reynerd aprì la porta, Hazard notò che corrispondeva perfettamente alla descrizione di Ethan, dal luccichio dei gelidi occhi blu, provocato dalle anfetamine, alle minuscole macchie di saliva agli angoli della bocca, il che stava a indicare che lo stato di esaltazione da sostanze stupefacenti era per lui una condizione normale e che, in un momento di psicosi, avrebbe potuto mettersi a girare furiosamente per l'appartamento, convinto di essere l'Uomo Ragno, con i filamenti setosi che gli uscivano dai polsi. Hazard mostrò il distintivo, gli raccontò una vagonata di stronzate sul fatto che Jerry Nemo era sospettato dell'omicidio di Carter Cook ed entrò nell'appartamento così in fretta che la pioggia ancora gli gocciolava dai lobi delle orecchie. Il sollevamento pesi e gli integratori davano a Reynerd l'aspetto di uno che doveva mangiare una dozzina di uova crude ogni mattina unicamente per mantenere la massa muscolare del suo tricipite destro. Tra loro, Hazard Yancy era il più massiccio e senza dubbio anche il più intelligente, ma nonostante questo si disse di essere cauto, di mantenersi vigile. Reynerd chiuse la porta dell'appartamento e accompagnò Hazard nel soggiorno, esprimendo il suo sincero desiderio di collaborare, nonché la sincera convinzione che il suo buon amico Jerry Nemo fosse incapace di far male a una mosca. Indipendentemente da quanto Nemo amasse o non amasse le mosche, Reynerd insisteva sulla sincerità come avrebbe fatto se, vestito da dinosauro, avesse insegnato i piccoli fatti della vita a un pubblico di bambini dell'asilo durante un programma televisivo del mattino. Se la sua interpretazione era stata così spaventosa quand'era apparso in
quelle soap opera, gli sceneggiatori dovevano letteralmente impazzire di gioia all'idea di fargli interpretare il personaggio che muore in un incidente d'auto o che viene colpito da un tumore maligno fulminante. Forse il pubblico avrebbe preferito per lui una fine più cruenta, per esempio crivellato di colpi in un ascensore. Mobili, tappeti, veneziane, fotografie di uccelli: tutto nell'appartamento era in bianco e nero. Alla TV, in un vecchio film in bianco e nero, Clark Gable e Claudette Colbert mostravano a Reynerd come si dovrebbe recitare. Il sincero amico di Jerry Nemo era vestito in tinta con l'appartamento: pantaloni neri e una camicia sportiva bianca e nera. Su invito del suo ospite, Hazard si sedette in una poltrona. Ma rimase sul bordo, per alzarsi più rapidamente. Reynerd prese il telecomando dal tavolino, bloccando Gable mentre parlava e la Colbert mentre reagiva alle sue parole. Poi si sedette sul divano. Nella stanza gli unici colori erano l'azzurro degli occhi di Reynerd e i motivi vivaci che ravvivavano i due sacchetti di patatine che il baldo giovanotto teneva sul divano accanto a lui, uno da una parte, uno dall'altra. Il sacchetto alla sua sinistra conteneva patatine fritte. Quello a destra, una varietà al gusto di erba cipollina e panna acida. Un vero buongustaio. Hazard non aveva dimenticato l'enigmatico avvertimento di Ethan riguardo ai contenitori di patatine o stuzzichini vari. Entrambi i sacchetti erano aperti, ben dritti, abbastanza gonfi da essere pieni. Hazard percepì l'aroma leggermente unto delle patatine. Ma se i sacchetti avessero contenuto anche delle pistole, Hazard non era certo in grado di sentire l'odore delle armi. Né poteva vederle, perché i sacchetti, di carta metallizzata, non erano trasparenti. Reynerd sedeva con le mani posate sulle cosce, leccandosi le labbra come se da un momento all'altro potesse decidere di mangiare una delle patatine. Indicando con un cenno della testa l'immagine bloccata sullo schermo, l'attore disse: «Quello sarebbe stato l'ambiente perfetto per me, ma sono nato troppo tardi. Sarei dovuto vivere a quei tempi». «E cioè?» domandò Hazard, perché sapeva che spesso le persone sospette rivelano di più quando le si lascia parlare a ruota libera. «Gli anni Trenta e Quaranta. Quando tutti i film erano in bianco e nero. A quei tempi sarei stato una star.» «Davvero?»
«Ho una personalità troppo forte per i film a colori. Esplodo dallo schermo. Travolgo il pubblico.» «Capisco che potrebbe essere un problema.» «Nell'era del colore, gli attori di maggior successo sono tutti privi di personalità, sono piatti. Non hanno profondità.» «Come mai?» «Il colore, la profondità di campo resa possibile dalle moderne cineprese, le nuove tecnologie usate per il sonoro... tutta quella roba esalta le personalità più piatte, gli fornisce sostanza e complessità.» «Lei, d'altra parte...» «Io, d'altra parte, sono già così profondo e così vivo che la moderna tecnologia cinematografica non può far altro che esagerare la mia personalità, mi fa apparire come una caricatura.» «Deve essere frustrante», commentò Hazard in tono di commiserazione. «Non può nemmeno immaginare quanto. In un film in bianco e nero, riempirei lo schermo senza travolgere il pubblico. Oggigiorno, dove sono i Bogart e le Bacall, i Tracy e le Hepburn, i Cary Grant, i Gary Cooper e i John Wayne?» «Non ne abbiamo più», riconobbe Hazard. «Oggi non avrebbero successo», gli assicurò Reynerd. «Sarebbero troppo potenti per i film moderni, troppo profondi, decisamente troppo affascinanti. Come le è sembrato Moonshaker?» Hazard corrugò la fronte. «Cosa?» «Moonshaker. L'ultimo successo di Channing Manheim. Ha incassato duecento milioni di dollari.» Forse Reynerd era così ossessionato da Manheim che in qualsiasi conversazione, prima o poi, si sarebbe messo a parlare dell'attore. Restando comunque molto cauto, Hazard rispose: «Non vado al cinema». «Tutti ci vanno.» «Non proprio. Per incassare duecento milioni di dollari, devono essere stati venduti meno di trenta milioni di biglietti. Il che fa appena il dieci per cento della popolazione del paese.» «Va bene, ma altre persone vedono i film alla televisione, sui DVD.» «Magari una trentina di milioni. Prenda un qualsiasi film... almeno l'ottanta per cento del paese non lo vedrà mai. La gente ha la sua vita da vivere.» Reynerd sembrò trasecolare all'idea che i film non rappresentassero il
centro del mondo. Sebbene non infilasse una mano in uno dei sacchetti per prendere la pistola, il suo disappunto per la piega che aveva preso la conversazione era evidente. Hazard rientrò nelle grazie dell'attore dicendo: «D'altro canto, all'epoca del bianco e nero di cui lei parlava, almeno una metà del paese andava al cinema una volta alla settimana. A quei tempi, le star erano vere star. Tutti conoscevano i film di Clark Gable, di Jimmy Stewart». «Esattamente», concordò Reynerd. «All'epoca del bianco e nero, Manheim sarebbe svanito nel nulla. Sarebbe stato troppo insulso, troppo piatto. E adesso lo avrebbero dimenticato tutti quanti. Anzi, peggio che dimenticato... sarebbe stato uno sconosciuto.» Il campanello della porta squillò. In tono perplesso e leggermente irritato, Reynerd disse: «Non sto aspettando nessuno». «Nemmeno io», ribatté Hazard. Reynerd lanciò un'occhiata alle finestre dove il crepuscolo grigio e fradicio di pioggia moriva dietro ai vetri. Spostò l'attenzione sullo schermo del televisore. Gable e la Colbert rimanevano congelati nella loro discussione amorosa. Alla fine Reynerd si alzò dal divano, ma poi esitò, abbassando lo sguardo sui sacchetti di patatine. Osservando quello strano comportamento, Hazard si chiese se l'attore stesse per avvicinarsi alla condizione in cui un drogato pieno di anfetamine può precipitare da un picco di intensa consapevolezza a uno stato di confusione e disorientamento fino al crollo totale. Quando il campanello squillò di nuovo, Reynerd si decise ad attraversare il soggiorno. «C'è sempre qualche cretino che cerca di venderti Gesù», commentò irritato, e aprì la porta. Dalla poltrona, Hazard non fu in grado di vedere chi sparò. Ma il secco bum, bum, bum dei tre colpi gli fece comprendere che l'assassino aveva usato un'arma di grosso calibro, forse una .357, forse anche più potente. A meno che gli Avventisti del Settimo Giorno avessero adottato tecniche di vendita alquanto aggressive, Reynerd si era sbagliato sul motivo della visita. Hazard scattò in piedi al secondo bum e al terzo colpo aveva già estratto la pistola dalla fondina. Mortale come perfino Gable e Bogart avevano dimostrato di essere, Reynerd fece un balzo all'indietro e crollò a terra, lanciando un schizzo in
Technicolor nell'appartamento in bianco e nero, nel quale lui era stato così profondo, così vìvo. Avvicinandosi all'attore, Hazard sentì un rumore di passi che si allontanavano lungo il corridoio del pianerottolo. Reynerd era stato colpito in pieno petto da distanza ravvicinata; uno dei tre proiettili, uscendo dalla schiena, aveva spinto fuori diversi frammenti del cuore. Era già stecchito prima ancora di toccare il pavimento. Gli occhi dell'attore, sgranati per la sorpresa, avevano assunto un colore azzurro meno gelido. Sembrava che adesso avesse bisogno di un qualche Gesù. Hazard scavalcò il corpo e uscì dall'appartamento. Vide l'assassino in fondo al corridoio. L'uomo cominciò a scendere i gradini a due a due. Hazard lo inseguì. 21 Sopra la città, mentre il giorno si ritirava spandendo umidi fili di foschia e di goccioline grigiastre, il duro volto della notte non era ancora apparso. Giunto in una strada elegante, affollata di gallerie d'arte, negozi di lusso e ristoranti in cui, più che al cibo, si dava importanza allo snobismo dei clienti, Ethan parcheggiò l'Expedition il più vicino possibile a un cordolo rosso, con due ruote che affondavano in una cunetta allagata, fidando nel fatto che i vigili davano multe con maggiore entusiasmo quando il tempo era bello piuttosto che con la pioggia. I negozi di quel quartiere, frequentati da una clientela sofisticata ed esclusiva, non avevano nulla di appariscente e si affidavano a insegne discrete. È il denaro che urla, la ricchezza sussurra. I negozi non erano ancora chiusi e la maggior parte dei ristoranti apriva solo dopo un'ora. I lampioni, accesi anzitempo, rivestivano d'oro le foglie gocciolanti degli alberi della strada e trasformavano il marciapiede bagnato in un sentiero lastricato di tesori da pirati. Dato che era senza ombrello, Ethan camminava riparandosi sotto i tendoni dei negozi, tutti di color marrone chiaro o verde, argento o nero, a parte quello del Rose Per Sempre, che era di un intenso rosa corallo. Sarebbe stato più corretto chiamare quel negozio di fiori Solo Rose, perché dietro gli sportelli di vetro dei refrigeratori allineati lungo le pareti dell'ampio locale, non si vedevano altro che rose, a parte qualche felce e altri ramoscelli verdi che erano usati per completare i colorati bouquet e le
composizioni floreali. Dato che Hannah era stata un'appassionata di giardinaggio, e nonostante fossero trascorsi cinque anni da quando era stata sepolta sotto un tumulo su cui crescevano cespugli di rose, Ethan era in grado di identificare molte delle varietà esposte nei refrigeratori. Là c'era una rosa di un rosso così scuro da sembrare quasi nera, con petali vellutati, a cui era stato dato il nome di Black Magic. E qui una John F. Kennedy: petali bianchi così spessi e lucidi da sembrare modellati nella cera. La Charlotte Armstrong: fiori grossi, profumati, di un rosa intenso. La Jardins de Bagatelle, la Rio Samba, la rosa Paul McCartney, la Auguste Renoir, la Barbara Bush, la Vudù e la Bride's Dream. Dietro al bancone, simile a una rosa, c'era una donna che somigliava ad Hannah, se mai lei fosse riuscita ad arrivare ai sessant'anni. Capelli folti, sale e pepe, corti e un po' arruffati. Occhi grandi e scuri che traboccavano di vita e di gioia. Il tempo non ne aveva attenuato la bellezza, ma l'aveva arricchita di una patina d'esperienza. Leggendo la targhetta con il nome appuntato sulla blusa, Ethan disse: «Rowena, la maggior parte dei fiori che vedo qui dentro sono ibridi di rose tea. Ma a lei piacciono anche le rose rampicanti?» «Certo, tutti i tipi di rose», rispose Rowena, con una voce calda e musicale. «Ma raramente usiamo le rose rampicanti. Quelle a stelo lungo sono più adatte alle composizioni.» Ethan si presentò e, com'era sua abitudine in situazioni come quella, spiegò di essere un ex detective della Omicidi, ma che ora lavorava per un personaggio famoso. Los Angeles e dintorni pullulava di gente che si vantava di avere a che fare con i ricchi e famosi. Tuttavia, perfino coloro che erano stati resi cinici da quella città dell'inganno credevano a ciò che diceva Ethan, o fingevano di farlo. Hannah asseriva che la gente si fidava facilmente di lui perché Ethan racchiudeva in sé la tranquilla forza di un Harry Callahan e l'innocenza di un Huck Finn. Quello, aveva risposto lui, era un film che non avrebbe mai voluto vedere. Sia che percepisse in lui quella combinazione Harry-Huck oppure altre qualità, Rowena sembrò accettarlo per quello che era e per quello che affermava di essere. «Se indovino qual è la sua rosa rampicante preferita», propose lui, «ac-
cetterà di rispondere ad alcune domande su un cliente che ha servito nel primo pomeriggio?» «Questo riguarda la polizia o il personaggio famoso?» «Tutt'e due.» «Fantastico. Mi piace gestire un negozio di fiori, ma in questo lavoro c'è più profumo che divertimento. Provi a indovinare. Dato che, in Rowena, vedeva Hannah come probabilmente sarebbe stata a sessant'anni, disse il nome della rosa rampicante che sua moglie aveva amato più di tutte: «Saint Joseph's Coat». Rowena sembrò realmente sorpresa e compiaciuta. «È esatto! In confronto a lei, Sherlock dovrebbe vergognarsi.» «Ora tocca a lei», le ricordò Ethan, sporgendosi in avanti e appoggiando entrambe le braccia sul bancone. «Questo pomeriggio è venuto qui un uomo che ha comprato un mazzo di rose Broadway.» I meravigliosi fiori rosso dorati sulla tomba di Hannah erano stati avvolti in un cono di cellophane rigido. Invece di nastro adesivo o graffette, per sigillare il cellophane e mantenerne la forma erano state usate sei etichette adesive. Su ognuna di queste graziose etichette c'erano il nome e l'indirizzo di Rose Per Sempre. «Ne avevamo solo due dozzine», confermò Rowena, «e lui le ha comprate tutte.» «Allora se lo ricorda?» «Certamente. Era... un tipo che non si dimentica.» «Me lo descriverebbe?» «Alto, atletico ma snello, indossava un completo grigio molto elegante.» Duncan Whistler possedeva un'infinità di completi, tutti fatti su misura e molto costosi. «Era un bell'uomo», proseguì Rowena, «ma terribilmente pallido, come se da mesi non avesse visto neppure un raggio di sole.» In stato di coma per dodici settimane, Dunny aveva assunto un pallore da ospedale successivamente intensificato da almeno un'ora trascorsa nell'obitorio. «Aveva degli occhi grigi davvero affascinanti», ricordò Rowena, «screziati di verde, bellissimi.» Una descrizione perfetta degli occhi di Dunny. «Mi ha detto che voleva delle rose per una donna speciale.» Al funerale di Hannah, Dunny aveva visto le rose Broadway. Rowena sorrise. «Ha anche detto che ben presto sarebbe venuto qui un suo vecchio
amico chiedendo che tipo di rose aveva comprato. Immagino che entrambi state cercando di conquistare la stessa donna.» Se Ethan non avesse serrato i denti, li avrebbe battuti per il freddo, ma quei brividi non erano dovuti né alla giornata invernale, né all'aria fresca del negozio di fiori. Improvvisamente si rese conto che Rowena sorrideva in un modo un po' curioso, come se nel suo buon umore ci fosse anche una punta di incertezza o di disagio. Quando la donna capì che la sua rivelazione lo aveva turbato profondamente, il sorriso si fece incerto, poi sparì. «Era un uomo strano», commentò. «Ha detto nient'altro?» Rowena distolse lo sguardo e si mise a fissare le vetrine del negozio, come se si aspettasse di vedere all'entrata qualcuno che conosceva, ma che non gradiva. Ethan le lasciò il tempo di scegliere le parole e infine Rowena ricordò la frase esatta: «Ha detto che lei pensa che sia morto». La sua memoria si affollò di immagini. La barella vuota e il lenzuolo aggrovigliato nell'obitorio dell'ospedale; la sagoma sfuggente nello specchio appannato del bagno; la lucertola sulla rampa che lottava disperatamente per salire nonostante la schiena rotta, che doveva lottare contro una salita ripida e un torrente d'acqua gelido e insistente come lo scorrere del tempo. «Ha detto che lei pensa che sia morto», ripeté Rowena, riportando nuovamente lo sguardo su Ethan. «E mi ha detto di dirle che ha ragione.» 22 Hazard nel corridoio, Hazard sulle scale, ben consapevole di quanto un uomo della sua stazza rappresentasse un facile bersaglio in uno spazio così angusto, si lanciò lo stesso all'inseguimento. Quando accettavi di svolgere quel lavoro, sapevi che non era previsto di poter scegliere i posti in cui mettere a repentaglio la tua vita. Oltretutto, come la maggior parte dei poliziotti, agiva con la scaramantica convinzione che esitare, perdere solo per un istante il controllo dei nervi, significava correre rischi maggiori. La sopravvivenza dipendeva da una buona dose di audacia temperata da un pizzico di paura sufficiente a scoraggiare qualsiasi gesto sconsiderato.
O quanto meno questo faceva comodo credere, fino a quando quella dose di audacia non ti faceva ammazzare. Nei film, i poliziotti urlano sempre: «Fermo! Polizia!» sia quando sanno che i delinquenti in fuga non ubbidiranno mai all'ordine, sia quando gridare rivelerebbe la loro presenza prima del necessario e perfino ancor prima che il delinquente di turno si sia reso conto di essere tenuto d'occhio dalla polizia. Hazard Yancy, che era appena riuscito a non farsi sparare mentre se ne stava seduto in una poltrona, non urlò ordini né minacce all'assassino di Rolf Reynerd. Si limitò a lanciarsi giù per le scale all'inseguimento dell'uomo. Raggiunse il primo pianerottolo quando l'assassino già si trovava in fondo all'ultima rampa di scale, traballando un po' mentre scendeva l'ultimo gradino e si precipitava nell'atrio. L'uomo scivolò sul pavimento di ceramica, ruotò le braccia a mezz'aria, ma riuscì a non cadere. In tutto quel tempo non si era mai voltato a guardarsi indietro, evidentemente non sapeva di essere inseguito. Senza rallentare, Hazard provò a mettersi nella testa dell'assassino. Aspettandosi di trovare Reynerd da solo, il sicario arriva convinto di fare un lavoretto veloce, pianta un proiettile nel cuore dello stronzetto, evita di farsi sparare a sua volta, si precipita in strada e ora sta già pensando a quando si fumerà un po' di roba buona in compagnia della pollastrella dalle gambe lunghe che lo sta aspettando a letto. Nel momento in cui Hazard si lanciava nell'atrio, l'assassino raggiungeva il portone d'ingresso, facendo però troppo rumore per sentire il suo destino che si avvicinava. Hazard, che non era scivolato sul pavimento, continuava a guadagnare terreno. Quando Hazard giunse al portone, l'uomo era ormai fuori, scendeva gli scalini, forse stava già pensando di spendere il denaro guadagnato con l'omicidio in accessori cromati per la sua auto oppure in qualche vistoso gioiello d'oro da regalare alla sua donna. Poco vento, pioggia fredda, Hazard sui gradini, l'assassino sul marciapiede: la distanza tra loro si ridusse inevitabilmente come quella tra un camion lanciato a tutta velocità e un muro di mattoni. Poi il clacson dell'auto suonò. Un colpo lungo, due brevi. Un segnale. Prestabilito. In strada, non accostata al cordolo, c'era una Mercedes Benz scura, fari e motore accesi, gas di scarico che usciva dal tubo di scappamento. La por-
tiera anteriore del passeggero era spalancata per accogliere il sicario. Piuttosto elegante per essere un'auto da usare per una fuga, forse era stata rubata davanti a qualche villa di Berverly Hills, dietro al volante doveva esserci il compare del sicario, già con il piede sull'acceleratore e pronto a consumare le gomme in una corsa spericolata. I colpi di clacson, uno lungo e due brevi, dovevano aver avvertito il coniglio che aveva un lupo alle calcagna, perché l'assassino scartò improvvisamente a sinistra, scendendo dal marciapiede. Girò di scatto con tanta forza che avrebbe dovuto inciampare, cadere, invece, estrasse l'arma con cui aveva ammazzato Reynerd. Avendo ormai perso il vantaggio della sorpresa, alla fine Hazard gridò: «Polizia! Gettala a terra!» proprio come nei film, ma con l'omicidio di Reynerd l'assassino si era già guadagnato l'ergastolo, magari addirittura la pena di morte, e non aveva nulla da perdere. Ci sarebbero state tante probabilità che gettasse a terra la pistola quante che si calasse i pantaloni e si piegasse in avanti. La pistola era davvero bella grossa, non una .38 o una .357, ma una .45. Caricata a dovere, una .45 era in grado di mandare in frantumi un osso e spappolare la carne, ma per riuscire a controbilanciare il rinculo bisognava avere esperienza e una perfetta stabilità. Preso dal panico, sebbene non aveva assunto la posizione ideale, l'assassino lasciò partire un colpo. In realtà, più che premere il grilletto, gli fece fare un balzo e il proiettile assunse una traiettoria talmente sballata che Hazard non corse praticamente alcun pericolo di essere centrato; sarebbe stato più facile che un asteroide gli piombasse addosso, polverizzandolo. Tuttavia, nel momento in cui vide la bocca dell'arma sputare fuoco e udì il proiettile mandare in frantumi una finestra della palazzina alle sue spalle, Hazard agì solo in parte, spinto dall'addestramento ricevuto e dall'abitudine a compiere il suo lavoro, ma soprattutto da quello che gli diceva l'istinto. Quell'uomo non avrebbe sbagliato due volte. Tutte le istruzioni ricevute sull'importanza di non cedere all'emotività, tutte le conferenze sulla politica sociale e sulle conseguenze sociali, tutte le direttive delle commissioni di controllo riguardo al rispondere alla violenza con calma, comprensione e reazioni misurate rappresentano degli ostacoli alla sopravvivenza quando, in un istante, devi o uccidere o essere ucciso. Mentre il rumore del vetro in frantumi stava ancora tintinnando nella pioggia, Hazard puntò la pistola stringendola con due mani, assunse la posizione di tiro e rispose al fuoco con il fuoco. Assestò con precisione due
proiettili, senza preoccuparsi molto del severo giudizio del Los Angeles Times in materia di condotta della polizia, ma preoccupandosi molto per la salvezza del figlio preferito di mamma Yancy. Il primo proiettile fece cadere l'assassino e il secondo lo fece sobbalzare mentre le gambe gli si stavano ancora piegando. Per riflesso l'uomo sparò ancora, non in direzione di Hazard, ma verso l'erba di fronte ai suoi stessi piedi. Il rinculo gli fece allentare la presa già debole e l'arma gli volò via dalla mano. Prima toccò terra con un ginocchio, in una breve genuflessione, poi con entrambe le ginocchia, infine con il viso. Hazard allontanò la calibro 45 con un calcio, facendola finire in mezzo ai cespugli e all'oscurità, poi si lanciò di corsa verso la strada, verso la Mercedes. L'uomo al volante premette sull'acceleratore un istante prima di togliere l'altro piede dal pedale dei freni. Stridendo, gli pneumatici sollevarono nuvole di pioggia vaporizzata e fumo che puzzava di gomma bruciata. Forse Hazard rischiava di essere colpito da un proiettile sparato dal socio dell'assassino attraverso la portiera dalla parte del passeggero ancora spalancata, ma era un rischio che valeva la pena correre. Un autista che lavorava per la criminalità si specializzava in fughe, non in scontri a fuoco, e sebbene il tizio sicuramente portasse con sé un'arma per i casi estremi, era improbabile che perdesse tempo ad ammazzare qualcuno quando aveva la strada libera davanti a sé, benzina nel serbatoio e il motore già acceso. Sguazzando nelle pozzanghere, Hazard raggiunse la sua berlina. Prima di riuscire a girare intorno al veicolo, le gomme dell'auto in fuga fecero presa sull'asfalto e balzarono in avanti con una specie di latrato. Lo slancio fece sì che la portiera del passeggero si chiudesse bruscamente. Hazard non era riuscito a vedere il guidatore. La sagoma dietro al volante era stata poco più che un'ombra. Curva in avanti, distorta, in qualche modo... sbagliata. Con sua grande sorpresa, Hazard sentì le unghie della superstizione grattargli la cavità interna delle ossa dove di solito se ne stava nascosta, silenziosa, dimenticata. Ma non sapeva che cosa lo avesse fatto fremere di paura o perché all'improvviso si sentisse pervaso da un senso di mistero. Mentre la Mercedes sfrecciava via, Hazard non le sparò contro come avrebbe fatto qualsiasi poliziotto in un film. Quello era un tranquillo quartiere residenziale in cui coloro che stavano guardando alla televisione le repliche di Seinfeld e quelli che stavano pulendo le verdure per cena ave-
vano tutti i diritti di non restare stecchiti sui telecomandi o sui taglieri, sforacchiati dai proiettili vaganti di uno sconsiderato detective. Tuttavia si mise a correre dietro all'auto perché non riusciva a leggere la targa. I gas di scarico, gli spruzzi d'acqua della strada, la pioggia battente e l'oscurità di quel tardo pomeriggio sembravano far di tutto per nascondere i numeri e le lettere. Ma lui insisté comunque, ringraziando la sua buona abitudine di esercitarsi con regolarità su un tapis roulant. Sebbene la Mercedes si stesse già allontanando, un paio di lampioni e un soffio di vento trasversale che squarciò la cortina di pioggia, gli permisero di leggere la targa, anche se a fatica. Molto probabilmente l'auto era stata rubata. Il guidatore l'avrebbe abbandonata da qualche parte. Tuttavia avere il numero e le lettere della targa era meglio che non averli. Rinunciando all'inseguimento, Hazard tornò verso il prato antistante la palazzina. Sperava di aver ucciso l'assassino, non di averlo semplicemente ferito. Nel giro di qualche minuto sarebbe arrivata sul posto la squadra che si occupava dei poliziotti coinvolti in una sparatoria. A secondo della filosofia personale dei membri di quella squadra, o avrebbero difeso con convinzione il comportamento di Hazard e si sarebbero adoperati in ogni modo per proscioglierlo da qualsiasi accusa senza fare alcuno sforzo reale per conoscere la verità, il che a lui andava più che bene, oppure si sarebbero attaccati a qualsiasi sciocchezza e lo avrebbero inchiodato con prove false, lo avrebbero trascinato davanti al tribunale dell'opinione pubblica e avrebbero incoraggiato i giornalisti ad appiccargli il fuoco sotto i piedi per fargli fare la fine di santa Giovanna d'Arco. La terza possibilità era che la squadra arrivasse senza preconcetti, esaminasse i fatti in modo analitico e che giungesse a un'imparziale conclusione basata sulla logica e sulla ragione, il che avrebbe soddisfatto pienamente Hazard perché lui non aveva fatto nulla di male. Naturalmente, non gli risultava che un fatto del genere si fosse mai verificato e lo considerava decisamente meno probabile che riuscire a vedere la sera di Natale, ovvero di lì a tre giorni, otto renne in volo e una slitta guidata da un elfo. Ma se l'assassino fosse stato ancora vivo, poteva asserire che Hazard aveva ucciso Reynerd e che poi aveva cercato di incastrare lui per quell'omicidio. Oppure che si era trovato da quelle parti per puro caso, stava rac-
cogliendo fondi per comprare giocattoli per i bambini poveri, e che si era ritrovato nel bel mezzo di uno scontro a fuoco, dando così al vero assassino la possibilità di fuggire. Qualunque cosa avesse dichiarato, coloro che odiavano i poliziotti, e tutti i cittadini aggressivi incapaci di usare la propria testa, gli avrebbero creduto. Cosa ancor più importante, l'assassino avrebbe trovato un avvocato disposto a intentare una causa contro la municipalità con lo scopo di arricchirsi a spese della cittadinanza. Indipendentemente da come si erano svolti i fatti, avrebbero sicuramente raggiunto un accordo nel quale si prevedeva che Hazard dovesse essere sacrificato. I politici non erano disposti a proteggere gli onesti agenti di polizia più di quanto non proteggessero le giovani stagiste, di cui regolarmente si approfittavano e che a volte uccidevano. Quell'assassino era decisamente un problema minore da morto che da vivo. Hazard avrebbe potuto tornare indietro con molta calma, dando a quel delinquente la possibilità di perdere un altro mezzo litro di sangue, invece si mise a correre. L'uomo era ancora dove l'aveva lasciato, il volto affondato nell'erba bagnata. Una lumaca gli era salita sulla nuca. La gente si era affacciata alla finestra, guardava in strada, l'espressione vuota come quella di sentinelle morte ai cancelli dell'inferno. Hazard si aspettava di vedere Reynerd dietro uno di quei vetri, bianco e nero, troppo affascinante per la sua epoca. Girò il corpo dell'assassino a faccia in su. Il figlio di qualcuno, l'amico di qualcuno, poco più che ventenne, la testa rasata, un orecchino a forma di minuscolo cucchiaio da cocaina. Hazard fu lieto di vedere la bocca tesa in una smorfia di morte e gli occhi colmi di eternità, ma allo stesso tempo rimase disgustato dal senso di sollievo che provava. Fermo sotto la pioggia, cercando di mandar giù un riflusso di biscotto mal digerito che gli bruciava in gola, usò il cellulare per chiamare il suo reparto e riferire l'accaduto. Dopo aver concluso la telefonata, avrebbe potuto entrare nell'atrio della palazzina, ma preferì aspettare sotto l'acquazzone. Le luci della città riflettevano tutte le superfici lucidate dalla pioggia tuttavia, quando la notte ingoiò il crepuscolo, l'oscurità sembrò gonfiarsi,
formando spire minacciose come quelle di un serpente ben nutrito. La pioggia tempestava le palme con un ticchettio da zampette di topo e sembrava che, tra le fronde in alto, una massa di roditori corresse freneticamente avanti e indietro. Hazard vide due lumache sul volto del morto. Avrebbe voluto cacciarle via con un colpetto, ma esitava a farlo. Qualcuno, tra quelli che lo osservavano dalle finestre, avrebbe potuto sospettare che stesse manomettendo le prove. E le loro conclusioni avrebbero potuto essere prese sul serio. Di nuovo quel graffiare nelle ossa. Quella sensazione di «c'è qualcosa di sbagliato». Un morto di sopra, un morto qui, sirene in distanza. Che diavolo sta succedendo? Che succede? 23 Rowena, signora delle rose, ripeté nuovamente le parole di Dunny Whistler, ma ovviamente più per se stessa che per Ethan: «Ha detto che lei pensava fosse morto, e che aveva ragione». Uno sbatacchiare di cardini, un lieve tintinnio delle campanelle del negozio fecero voltare Ethan verso la porta. Non era entrato nessuno. Il vento incostante, allontanatosi per un po' dal temporale, era tornato, infuriando contro l'ingresso del Rose Per Sempre e facendo tremare la porta. Da dietro il bancone, la donna si domandò: «Che cosa mai avrà voluto dire con quella strana frase?» «Glielo ha domandato?» «Quando l'ha detta, aveva già pagato le rose e stava uscendo. Non ho avuto la possibilità di domandarglielo. Si tratta forse di uno scherzo tra voi due?» «L'ha detta sorridendo?» Rowena ci pensò per un attimo, poi scosse la testa. «No.» Con la coda dell'occhio, Ethan intravide una figura che era apparsa silenziosamente. Si voltò, il respiro strozzato in gola, ma scoprì di essere stato ingannato dal proprio riflesso nello sportello di vetro di un refrigeratore. Dai loro secchielli pieni d'acqua sistemati su file di mensole, le rose apparivano talmente splendide da far dimenticare che in effetti erano già
morte, e che nel giro di pochi giorni sarebbero state appassite, chiazzate di marrone, putrescenti. Quei refrigeratori, in cui la morte si nascondeva dietro ai vivaci colori dei petali, ricordavano a Ethan i cassetti dell'obitorio, nei quali i defunti apparivano molto simili a come erano stati in vita e nei quali la morte dimorava senza tuttavia manifestarsi ancora nei particolari più evidenti della decomposizione. Anche se Rowena era una donna simpatica e di bell'aspetto, anche se quel regno delle rose avrebbe dovuto essere gradevole, Ethan era ansioso di andarsene. «Il mio... il mio amico le ha lasciato qualche altro messaggio per me?» «No. Penso non ci fosse altro.» «La ringrazio, Rowena. Mi è stata molto utile.» «Davvero?» si stupì lei, guardandolo in modo strano. Forse la loro conversazione l'aveva lasciata perplessa tanto quanto quella che aveva avuto con Dunny Whistler. «Sì», assicurò Ethan. «Sì, lo è stata veramente.» Quando Ethan posò la mano sul pomello, il vento fece sbatacchiare nuovamente la porta e, dietro di lui, Rowena disse: «Ancora una cosa». Si voltò verso di lei e, sebbene ora si trovasse a più di dieci metri di distanza, vide che le sue domande avevano turbato quella donna. «Mentre se ne stava andando», proseguì Rowena, «il suo amico si è fermato sulla soglia e mi ha detto: 'Che Dio benedica lei e le sue rose'.» Forse quella era una frase insolita per una persona come Dunny, ma non c'era nulla in quelle parole che potesse spiegare per quale motivo, ricordandole, l'espressione di Rowena si rabbuiasse, come se si sentisse a disagio. «Proprio mentre finiva di parlare», continuò lei, «le luci pulsarono, si abbassarono e si spensero... poi si riaccesero di nuovo. In quel momento non gli ho dato molta importanza, considerato che c'era il temporale, ma adesso, in qualche modo, mi sembra... significativo. Ma non so perché.» Anni di esperienza negli interrogatori suggerivano a Ethan che Rowena non aveva ancora finito e che, se avesse aspettato pazientemente in silenzio invece di incalzarla, sarebbe riuscito a farla parlare più in fretta. «Quando le luci si abbassarono e poi si spensero, il suo amico si mise a ridere. Una risatina, non lunga e neanche forte. Mentre le luci tremolavano, ha lanciato un'occhiata verso il soffitto e si è messo a ridere, poi è uscito.» Ethan rimase in attesa.
Rowena sembrò sorpresa di aver parlato di un fatto così irrilevante, ma poi soggiunse: «C'era qualcosa di terribile in quella risatina». Le stupende rose morte dietro muri di vetro. Una bestia sotto forma di vento fiutava dietro alla porta. La pioggia digrignava i denti contro le finestre. Ethan domandò: «Terribile?» «Non so come spiegarlo. Non c'era divertimento in quella risata, aveva qualcosa di... terribile.» Imbarazzata, passò una mano sull'immacolato ripiano del bancone, come se ci scorgesse della polvere, una macchia. Chiaramente aveva detto tutto ciò che voleva o poteva dire. «Dio benedica lei e le sue rose», la salutò Ethan, come se volesse annullare una maledizione. Non sapeva che cosa avrebbe fatto se le luci si fossero messe a tremolare, ma questo non accadde. Rowena gli lanciò un sorriso esitante. Voltandosi nuovamente verso la porta, Ethan si incontrò con il proprio riflesso e chiuse gli occhi, forse per evitare di vedere una sagoma impossibile che condivideva il vetro con lui. Aprì la porta, poi aprì gli occhi. Tra un ringhiare di vento e un tintinnare di campanelline, uscì dal negozio nel freddo della sera di dicembre, chiudendosi la porta alle spalle. Si fermò appena fuori dell'ingresso, tra una vetrina e l'altra, mentre una giovane coppia con impermeabile e cappuccio passava davanti a lui sul marciapiede, lasciandosi trascinare da un golden retriever al guinzaglio. Godendosi la pioggia e il vento, il retriever fradicio d'acqua saltellava sulle zampe, il muso sollevato a fiutare gli odori misteriosi nell'aria gelida. Prima di superare completamente Ethan, si voltò a guardarlo e i suoi occhi erano tanto saggi quanto liquidi e scuri. Poi il cane si fermò, rizzò le morbide orecchie per quanto gli era possibile e piegò di lato la testa come se non comprendesse completamente che tipo d'uomo era quello che se ne stava sotto il tendone color corallo, tra rose e pioggia. Scodinzolò, ma solo due volte e con aria incerta. Fermata dal compagno a quattro zampe, la giovane coppia disse: «Buonasera», ed Ethan rispose, poi la donna si rivolse al cane: «Andiamo, Tink». Tink esitò, cercando gli occhi di Ethan, e si mosse solo quando la donna lo spronò di nuovo. Dato che la coppia e il cane camminavano in direzione del SUV, Ethan attese qualche istante per evitare di seguirli da vicino.
Illuminate dai lampioni, le foglie degli alberi lungo il cordolo erano ancora ammantate d'oro e dalle loro punte cadevano goccioline luccicanti come oro fuso. In strada il traffico era più scarso del solito a quell'ora, ma le auto correvano più di quanto le condizioni climatiche consentissero. Tendone dopo tendone, Ethan si avvicinò all'Expedition e infilò una mano in tasca per cercare le chiavi. Poco più avanti, Tink rallentò un paio di volte il passo, si voltò a guardare Ethan, ma non si fermò. L'odore di ozono della pioggia torrenziale non riusciva a cancellare l'aroma del pane appena sfornato che proveniva da uno dei lussuosi ristoranti, ormai quasi pronti ad accogliere i clienti per la cena. Alla fine dell'isolato, il cane si bloccò ancora una volta, voltando la testa per fissare Ethan. Sebbene smorzata dalla distanza, schermata dal rumore della pioggia scrosciante e da quello delle auto in transito, Ethan riuscì a udire la voce della donna: «Andiamo,Tink». Dovette ripetere l'ordine due volte prima che il cane riprendesse a camminare, tendendo nuovamente il guinzaglio. I tre scomparvero dietro l'angolo. Giunto nella zona di divieto di sosta in fondo all'isolato, dove aveva parcheggiato l'Expedition, Ethan si fermò qualche istante sotto l'ultimo tendone. Attese fino a quando non vide che tra il veicolo appena passato e quello successivo c'era un lungo intervallo. Uscì sotto la pioggia e attraversò il marciapiede. Con un balzo, superò il torrente di acqua sporca che scorreva nella cunetta. Da dietro il SUV, fece scattare le sicure delle portiere con il telecomando. L'Expedition gli rispose con una specie di cinguettio. Per evitare di essere schizzato, aspettò fino a quando la strada rimase completamente libera e girò intorno al SUV prima che arrivasse un altro veicolo e lo costringesse a portare i pantaloni in tintoria. Mentre si avviava verso la portiera dal lato di guida, si rese conto di non aver osservato attentamente l'Expedition mentre ancora si trovava sotto l'ultimo tendone, e all'improvviso si convinse che, mettendosi al volante, avrebbe trovato seduto accanto a sé Dunny Whistler, morto o vivo. Ma la vera minaccia era altrove. Uscendo da una trasversale a una velocità eccessiva, un Chrysler PT Cruiser sbandò all'incrocio. L'automobilista cercò di resistere al movimento, le ruote si bloccarono e il Cruiser cominciò a ruotare su se stesso.
Il paraurti anteriore sinistro dell'auto fuori controllo colpì con forza Ethan, che fu scagliato contro l'Expedition, mentre il suo viso mandava in frantumi il finestrino laterale. Non si accorse di rimbalzare dal SUV e di crollare a terra, ma poi si ritrovò a ruzzolare sull'asfalto bagnato, con l'odore dei gas di scarico, con il sapore del sangue. Udì uno stridore di freni, ma non quelli del Cruiser. Freni ad aria. Un rumore forte e acuto. Qualcosa incombeva su di lui, enorme, un camion, vicinissimo, poi arrivò, un peso tremendo sulle gambe, una pressione spaventosa, le ossa che si spezzavano come bastoncini. 24 Sistemati su tre livelli lungo le pareti, come viaggiatori in un vagone letto, i cadaveri riposavano il quelle cuccette perché il viaggio dalla morte alla tomba era stato ritardato da questa fermata imprevista. Dopo aver acceso la luce, Corky Laputa si chiuse silenziosamente la porta alle spalle. «Buonasera, signore e signori», disse, rivolgendosi ai cadaveri lì riuniti. Riusciva sempre a divertirsi, in qualsiasi circostanza. «La prossima stazione è l'Inferno, troverete ad attendervi confortevoli letti di chiodi, scarafaggi caldi e freddi che vi correranno addosso e un'abbondante colazione a base di zolfo fuso.» Alla sua sinistra c'erano otto corpi e una cuccetta vuota. A destra, i cadaveri erano sette e le cuccette vuote due. In fondo alla stanza, cinque corpi e uno spazio vuoto. Venti cadaveri, con la possibilità di accoglierne altri quattro. Questi viaggiatori che dormivano un sonno senza sogni non riposavano su materassi, bensì su grate di acciaio inossidabile. In realtà le cuccette erano scaffali a rastrelliera che permettevano all'aria di circolare. In quel locale refrigerato, la temperatura veniva mantenuta di pochi gradi al di sopra di quella di congelamento. Il fiato che usciva dalle narici di Corky formava due nastri di pallido vapore. Un complesso sistema di ventilazione aspirava continuamente aria dalla stanza attraverso numerose bocchette collocate vicino al pavimento. L'aria fresca veniva pompata all'interno attraverso fori di ventilazione che si trovavano proprio sotto il soffitto.
Anche se l'odore non suggeriva l'idea di una romantica cenetta a lume di candela, non era neppure disgustoso. Si poteva anche far finta che non fosse molto diverso dall'odoroso bouquet di sudore stantio, piedi accaldati e muffa comune a molti spogliatoi delle scuole superiori. Nessuno dei cadaveri era chiuso in un sacco. La bassa temperatura e l'umidità accuratamente controllata rallentavano il processo di decomposizione fino quasi ad arrestarlo, anche se, in effetti, la decomposizione avveniva, sia pur molto lentamente. Un sacco di plastica avrebbe intrappolato i gas gradualmente rilasciati e si sarebbe trasformato in un pallone pieno di aria calda, annullando così gli effetti della refrigerazione. Invece di essere chiusi in bozzoli di plastica, i cadaveri erano stati ricoperti da teli di cotone bianco. Se non fosse stato per il freddo e per l'odore, li si sarebbe potuti scambiare per i vezzeggiati clienti di un lussuoso centro termale, sorpresi a sonnecchiare in una sauna. Da vivi, pochi di loro, forse nessuno, erano stati vezzeggiati. Se mai avevano visto l'interno di un centro termale, di sicuro erano stati cacciati immediatamente dai guardiani e gli era stato intimato di non tornare mai più. Nella vita erano stati tutti dei perdenti. Erano morti soli, ignorati. Chiunque venisse ucciso, doveva per legge essere sottoposto ad autopsia. Lo stesso valeva per tutti coloro che morivano in un incidente, per suicidio, per una malattia la cui diagnosi non era certa e per cause non evidenti, e che di conseguenza risultavano sospette. In qualsiasi grande città, ma soprattutto in una metropoli anomala come la Los Angeles dei nostri giorni, all'obitorio arrivava un numero così elevato di cadaveri che gli assistenti del medico legale, sovraccarichi di lavoro, non riuscivano a occuparsene immediatamente. La priorità veniva data alle vittime di atti di violenza, alle possibili vittime di negligenza sanitaria e a tutti coloro che avevano dei parenti in attesa di seppellire il loro caro. I vagabondi senza famiglia, che spesso non potevano essere neppure identificati, i cui corpi erano stati scoperti in vicoli, parchi, sotto i ponti, che potevano essere morti per overdose o per esposizione alle intemperie o semplicemente per insufficienza epatica, restavano parcheggiati lì dentro per alcuni giorni, per una settimana, a volte anche più a lungo, finché si trovava il tempo per un'autopsia, sia pure frettolosa. Così come nella vita, anche nella morte questi reietti venivano serviti per ultimi. Sulla parete a destra della porta c'era un telefono, come se fosse stato
premurosamente installato per permettere ai defunti di ordinare una pizza. La maggior parte delle sei linee consentiva unicamente la comunicazione interna. L'ultima permetteva di chiamare anche all'esterno. Corky digitò il numero del cellulare di Roman Castevet. Roman, un patologo che collaborava con il medico legale, aveva appena iniziato il turno serale. In quel momento si trovava in un altro locale dell'edificio e si stava preparando per un'autopsia. Si erano conosciuti più di un anno prima a una festicciola tra anarchici organizzata nell'università in cui insegnava Corky. Il cibo era scadente, le bevande leggermente annacquate e gli addobbi floreali piuttosto bruttini, ma la compagnia era interessante. Roman rispose al terzo squillo e, dopo essersi fatto riconoscere, Corky disse: «Indovina dove sono?» «Sei strisciato su per il tuo culo e non riesci più a uscire», rispose Roman. Aveva un senso dell'umorismo anticonformista. «Meno male che questo non è un telefono pubblico», commentò Corky. «Non ho monetine e nessuno di questi morti di fame vuole prestarmene una.» «Allora devi essere all'università. Quanto a tirchieria, non c'è come un gruppo di accademici anticapitalisti che fanno la bella vita con i soldi dei contribuenti.» «Qualcuno potrebbe scorgere nel tuo umorismo una vena di cattiveria», ribatté Corky con un tono severo che non gli era abituale. «E non avrebbe torto. La crudeltà è il mio credo, ricordi?» Roman era un satanista. Ave principe delle tenebre, roba del genere. Non tutti gli anarchici erano anche satanisti, ma molti satanisti erano anche anarchici. Corky conosceva una buddhista che era anarchica... una ragazza piena di contraddizioni. Per il resto, in base alla sua esperienza, la maggioranza degli anarchici erano atei. Secondo la sua ponderata opinione, un anarchico puro non credeva nel sovrannaturale, né nelle forze delle Tenebre, né in quelle della Luce. Riponeva tutta la sua fede nella forza della distruzione e nel nuovo e migliore ordine che poteva nascere dalle rovine. «Considerando il lavoro in arretrato che hai», gli fece notare Corky, «mi sembra che gli accademici non siano gli unici a non guadagnarsi il denaro dei contribuenti. Voi ragazzi, che cosa fate qui durante il turno serale...
giocate a poker, vi raccontate storie di fantasmi?» Evidentemente Roman lo stava ascoltando solo a metà. Non badò alla parola qui. «Prendere in giro la gente non è il tuo forte. Arriva al punto. Vuoi sempre qualcosa.» «E pago sempre molto bene, o no?» «La capacità di pagare tutto in contanti è la virtù che ammiro di più.» «Vedo che avete risolto il problema dei topi.» «Quale problema dei topi?» Due anni prima, i media si erano occupati a lungo, e fornendo particolari raccapriccianti, delle pessime condizioni igienico sanitarie di quel locale e di altre aree dell'edificio. «Ora questa stanza deve essere a prova di topo. Mi sto guardando intorno», riprese Corky, «e non vedo nessun cugino di Topolino rosicchiare il naso di qualcuno.» L'affermazione venne accolta con un silenzio di allibita incredulità. Quando Roman Castevet riuscì nuovamente a parlare, sibilò: «Non puoi essere dove penso che tu sia». «Sono esattamente dove pensi che io sia.» Il tono di autocompiacimento e di sarcasmo di Roman svanì bruscamente, lasciando il posto a un sussurro furibondo e preoccupato. «Che cosa mi stai combinando? Non sei autorizzato. Non hai niente a che vedere con l'obitorio, e soprattutto non con quella stanza.» «Ho delle credenziali.» «Col cavolo che le hai.» «Potrei uscire di qui e venirti a trovare. Sei in una delle sale per l'autopsia o sei ancora alla tua scrivania?» Il sussurro di Roman si fece più basso ma ancor più intenso: «Sei pazzo? Stai cercando di farmi licenziare?» «Voglio solo fare un'ordinazione», ribatté Corky. Poco tempo prima Roman gli aveva fornito un barattolo di vetro contenente una sostanza conservante e dieci prepuzi tolti da cadaveri destinati alla cremazione. Corky aveva consegnato il barattolo a Rolf Reynerd con le relative istruzioni. Nonostante la sua congenita stupidità, Reynerd era riuscito a confezionare il barattolo in una scatola da regalo nera e a mandarlo a Channing Manheim. «Me ne servono altri dieci», disse Corky. «Non devi venire qui a parlare di queste cose. Non venire mai più, idio-
ta. Telefonami a casa.» «Pensavo fosse divertente, volevo farti fare una risata.» Con voce tremante, Roman mormorò: «O Gesù santo». «Tu sei un satanista», gli ricordò Corky. «Idiota.» «Ascolta, Roman, dove ti trovi esattamente? Come faccio a venire da te? Dobbiamo parlare d'affari.» «Rimani esattamente dove sei.» «Non so. Sto diventando un po' claustrofobico. Questo posto comincia a farmi paura.» «Resta esattamente dove sei! Arrivo tra due minuti.» «Ho appena sentito qualcosa di strano. Credo che uno di questi cadaveri sia ancora vivo.» «Nessuno di loro è vivo.» «Sono certo che quel tizio, quello vicino all'angolo, abbia appena detto qualcosa.» «Allora ha detto che sei un idiota.» «Forse ne avete messo qui uno vivo per errore. Mi sta davvero venendo la pelle d'oca.» «Due minuti», insisté Roman. «Aspettami lì. Non andare a zonzo per l'edificio, facendoti notare, altrimenti lo tolgo a te il prepuzio.» Roman interruppe la telefonata. Nella camera mortuaria dei poveri e degli sconosciuti, Corky riagganciò. Rivolgendosi al suo pubblico avvolto nei sudari disse: «In tutta umiltà, in fatto di recitazione, potrei insegnare un paio di cosette a Channing Manheim». Non si aspettava né aveva bisogno di applausi. Un'interpretazione perfetta è di per sé un premio. 25 Sulla città degli angeli cadde la neve. Fatto senza precedenti, il vento, come un pastore, guidò le sue bianche greggi fuori degli oscuri prati che si estendevano sopra il mondo, le stimolò dolcemente ad avanzare tra ficus e palme, lungo viali che non avevano mai visto un bianco Natale. Affascinato, Ethan scrutò nella notte piena di morbidi fiocchi. Sdraiato nel suo letto, si rese conto che un vento impetuoso doveva aver
fatto volar via il tetto della casa. La neve avrebbe seppellito i mobili, rovinato la moquette. Ben presto avrebbe dovuto alzarsi, percorrere tutto il corridoio fino alla camera dei suoi genitori. Papà avrebbe saputo cosa fare per la casa scoperchiata. Comunque, prima di tutto, Ethan voleva godersi lo spettacolo: la nevicata formava un infinito lampadario di cristallo dai meravigliosi festoni di perline intagliate e di pendenti molati che ondeggiavano in un perpetuo, luccicante movimento. Aveva le ciglia ricoperte di ghiaccio. I fiocchi gli davano freddi baci sul viso, si scioglievano sulle sue guance. Quando riuscì a focalizzare completamente le immagini, scoprì che in realtà la notte era piena di gocce di pioggia, alle quali la sua vista confusa aveva dato una struttura cristallina e misteriose forme da geroglifico. Il suo letto, prima morbido, si era trasformato in asfalto. Non si sentiva scomodo, a parte per il cuscino di piume che premeva contro la sua nuca come se fosse stato un duro marciapiede. Sul suo viso, e sulla mano sinistra rivolta verso l'alto, la pioggia era fredda come neve. Anche la destra era scoperta, ma lì non sentiva né il freddo né il battere delle gocce di pioggia. Non sentiva neppure le gambe. Non poteva muoverle. Non riusciva a muovere nient'altro che la testa e la mano sinistra. Se la sua stanza senza tetto si riempiva di pioggia e se lui non era in grado di muoversi, probabilmente sarebbe annegato. Nel lago dei ragionamenti confusi in cui Ethan si lasciava trascinare, un terrore improvviso guizzò dalle profondità sotto di lui, lanciandosi verso la superficie come uno squalo. Chiuse gli occhi per non vedere una verità ben più terribile della scoperta che i fiocchi di neve erano in realtà gocce di pioggia. Sentì delle voci avvicinarsi. Dovevano essere papà e mamma che venivano a rimettere al suo posto il tetto, a rendere nuovamente morbido il suo cuscino di pietra e a sistemare ogni cosa. Si abbandonò ai loro gesti affettuosi e, come una piuma, cominciò a scendere lentamente verso l'oscurità, verso il Paese di Nod, non il Nod in cui Caino era fuggito dopo aver ucciso Abele, ma il Nod in cui i bambini vanno in sogno per cercare avventure e dal quale si svegliano sani e salvi nell'alba dorata.
Mentre continuava a scendere nell'oscurità a nord di Nod, udì la parole «lesione alla colonna vertebrale». Aprendo gli occhi un minuto o dieci minuti dopo, scoprì che il buio brulicava di luci lampeggianti, gialle e rosse e blu, come se si trovasse in una discoteca all'aperto e sapesse che non avrebbe mai più potuto ballare, o camminare. Al suono gracchiante delle radio della polizia, accompagnato dai paramedici, Ethan scivolò attraverso la pioggia su una lettiga che lo portava all'ambulanza. Sul furgone bianco, a caratteri rossi bordati d'oro, sotto la parola AMBULANZA, risplendeva, più piccola, la scritta OSPEDALE NOSTRA SIGNORA DEGLI ANGELI. Forse gli avrebbero dato il letto che aveva occupato Dunny. La prospettiva lo colmò di terrore. Chiuse gli occhi per quello che gli apparve durare un battito di ciglia, udì degli uomini incitarsi l'un l'altro: «attento» e «piano, piano», e quando aprì di nuovo gli occhi, si trovava già nell'ambulanza. Si accorse che nel suo braccio destro c'era infilato un ago dal quale partiva un tubicino collegato a una sacca di plasma. Per la prima volta udì il proprio respiro - pieno di sibili e di rantoli - ed ebbe la certezza che non erano solo le gambe a essere rimaste schiacciate. Sospettava che uno o entrambi i polmoni fossero collassati. Avrebbe voluto sentir dolore. Qualsiasi cosa, tranne quella terribile mancanza di sensibilità. Il paramedico che si trovava accanto a Ethan disse in tono d'urgenza al suo collega, fermo sotto la pioggia: «Dovremo volare». «Brucerò l'asfalto», promise il paramedico sferzato dalla pioggia e con un colpo secco chiuse le portiere posteriori. Lungo le pareti del veicolo, vicino al soffitto, scintillavano delle ghirlande di lustrini rossi. All'estremità e nel mezzo di ciascuna ghirlanda dondolavano allegramente delle campanelline argentate, a gruppi di tre. Decorazioni natalizie. Ogni gruppo di campanelle era legato alla stessa cordicella. Quella più in alto, che era anche la più grossa, era sospesa su quella centrale e quella centrale sulla terza, che era anche la più piccola. Quando le portiere sbatterono, le campanelle, urtando le une contro le altre, produssero un leggiadro tintinnio, come la musica di una fiaba. Il paramedico sistemò una maschera di ossigeno sul viso di Ethan.
Fresca come l'autunno, dolce come la primavera, l'aria gli calmò la gola in fiamme, ma lui continuò ad ansimare come prima. Dopo essersi messo al volante dell'ambulanza, l'autista sbatté la sua portiera, facendo luccicare di nuovo i lustrini rossi e tintinnare le campanelle. «Campane», disse Ethan, ma la maschera a ossigeno soffocò la parola. Il paramedico che si stava infilando nelle orecchie gli auricolari di uno stetoscopio, si fermò. «Che cosa ha detto?» Vedendo lo stetoscopio, Ethan si rese conto che riusciva a udire il battito del suo cuore e che quello che sentiva era un battito irregolare, allarmante. Ascoltando più attentamente, comprese che quello che udiva non era soltanto il suo cuore, ma anche gli zoccoli del cavallo della morte che si avvicinava al galoppo. «Campane», ripeté, mentre nella sua mente si spalancavano le porte di migliaia di paure. L'ambulanza cominciò a muoversi e la sirena trovò la sua voce stridula. Ethan non riusciva a udire le campanelle al di sopra di quel lamento di morte, ma vedeva le tre più vicine tremare sulla loro cordicella. Tremare. Sollevò la mano sinistra verso quel grappolo oscillante, senza riuscire a raggiungerlo. La sua mano afferrò l'aria. Al terrore che lo stava attanagliando, si unì la confusione mentale e forse un vero e proprio delirio; tuttavia le campanelle gli apparivano come qualcosa di più che semplici decorazioni, gli sembrava avessero qualcosa di mistico nella loro lucentezza, nelle loro curve scintillanti, erano l'incarnazione della speranza e lui aveva assolutamente bisogno di tenerle in mano. Evidentemente il paramedico comprese il disperato bisogno di Ethan di avere quelle campanelle, anche se probabilmente non il motivo. Afferrò un paio di forbicine da una cassetta e, ondeggiando al movimento del veicolo, tagliò il nodo che teneva legato il grappolo più vicino alla ghirlanda di lustrini. Quando gliele porse, Ethan afferrò le campanelle, stringendole in un modo che era allo stesso tempo tenero e feroce. Si sentiva esausto, ma non osava chiudere di nuovo gli occhi perché temeva che, quando li avesse riaperti, avrebbe visto che l'oscurità era ancora lì e che non se ne sarebbe mai più andata via, che da quel momento non avrebbe visto mai più nulla. Il paramedico prese di nuovo lo stetoscopio. Inserì le punte degli auricolari nelle orecchie. Con le dita della mano sinistra, Ethan contò le campane lungo la cordi-
cella, dalla più piccola alla più grande e di nuovo alla più piccola. Si rese conto che stringeva quelle decorazioni come aveva stretto un rosario nella silenziosa camera d'ospedale, durante le ultime sere della vita di Hannah: con la stessa disperazione e speranza, con una inaspettata soggezione che dava sostegno al cuore e con uno stoicismo che lo proteggeva. Quando aveva dovuto sopravvivere alla sua perdita, la speranza si era rivelata vana, lo stoicismo essenziale. Stringendo i grani del rosario tra pollice e indice, aveva cercato di rubare un po' di pietà. Ora lisciava le curve di una campanella dopo l'altra, cercando più pietà che chiarezza, cercando una rivelazione sorda all'orecchio ma riecheggiante nel cuore. Sebbene Ethan non chiudesse gli occhi, facendo scendere l'oscurità, le ombre invadevano lentamente la sua visione periferica come l'inchiostro quando si spande su un foglio di carta assorbente. Lo stetoscopio doveva aver rivelato ritmi che allarmarono il paramedico, perché questi si chinò su Ethan, ma la sua voce giunse da lontano, e sebbene il suo volto fosse una maschera di pacata professionalità, parlò con una tensione che rivelava quanto fosse preoccupato per il paziente. «Ethan, non ci lasci. Tenga duro. Resista, maledizione.» Stretto da un nodo di oscurità, il campo visivo di Ethan si riduceva sempre più. Percepì il profumo astringente dell'alcol. Una sensazione di fresco sotto la piega del braccio sinistro precedette la puntura di un ago. Dentro di lui, il rumore di zoccoli del cavallo della morte fu sostituito dal fragore di una mandria apocalittica lanciata al galoppo. L'ambulanza continuava a sfrecciare verso il Nostra Signora degli Angeli, ma l'autista spense la sirena, evidentemente convinto che bastassero gli abbaglianti sul tettuccio. Ora che quel lugubre lamento non copriva più tutti i rumori, a Ethan sembrò di udire nuovamente il leggiadro tintinnio. Queste non erano le campanelle che lui aveva continuato a lisciare come grani di rosario, e non erano neppure quelle ornamentali appese alle luccicanti decorazioni rosse. Quel tintinnio proveniva da lontano, lo chiamava con una argentina insistenza. Il suo campo visivo si ridusse a un fioco punto luminoso, poi il nodo mortale si strinse ancora di più, accecandolo completamente. Arrendendosi all'inevitabilità della morte e a una eterna oscurità, finalmente abbassò le palpebre.
Aprì la porta, poi aprì gli occhi. Tra un ringhiare di vento e un tintinnare di campanelline, uscì dal negozio nel freddo della sera di dicembre, chiudendosi la porta alle spalle. In stato di choc per essersi ritrovato vivo, incredulo nel vedere che era in piedi e che le sue gambe non erano spezzate, si fermò appena fuori del negozio, tra le due vetrine, mentre una giovane coppia con impermeabile e cappuccio passeggiava sul marciapiede lasciandosi guidare da un golden retriever al guinzaglio. Il cane guardò Ethan, gli occhi tanto saggi quanto liquidi e scuri. «Buonasera», disse la coppia. Incapace di parlare, Ethan ricambiò il saluto con un cenno del capo. «Andiamo, Tink», incitò la donna, ripetendo poi l'ordine quando vide che il cane esitava. Il retrevier, fradicio d'acqua, si allontanò con aria baldanzosa, il muso sollevato verso l'alto ad assaporare l'aria fredda, seguito dai suoi amici. Ethan si voltò a osservare la fiorista ancora ferma dietro al bancone, oltre le bare di vetro piene di rose. Rowena aveva continuato a fissarlo. Ma ora abbassò rapidamente lo sguardo come se si stesse occupando di qualcosa. Con le gambe che vacillavano come la sua ragione, Ethan ripercorse l'itinerario seguito fino a lì, riparandosi sotto i tendoni dei negozi e dei ristoranti, diretto all'Expedition parcheggiato nella zona rossa. Davanti a lui, Tink si voltò due volte a guardarlo, ma non si fermò. Passando davanti a un ristorante dai tavoli elegantemente apparecchiati e illuminati da candele, inspirando profondamente la fragranza del pane appena sfornato, Ethan pensò: il pane della vita. In fondo all'isolato, il cane si voltò di nuovo a guardarlo. Poi i tre scomparvero dietro l'angolo. In strada il traffico era più scarso del solito a quell'ora, ma le auto correvano più di quanto le condizioni climatiche avrebbero consentito. Arrivato nella zona rossa vicino alla fine dell'isolato, Ethan si fermò sotto l'ultimo tendone e pensò che poteva restare lì, al sicuro, lontano dalla strada, fino a quando l'alba avesse chiesto alla notte di riconsegnarle la città. Tra l'ultima auto che era passata e quella successiva c'era un lungo intervallo. Con la destra che tremava, estrasse le chiavi da una tasca e premette il pulsante del telecomando, facendo scattare le sicure delle portiere. L'E-
xpedition gli rispose con una specie di cinguettio, ma lui non si avvicinò. Spostando lo sguardo sull'incrocio, Ethan vide i fari del Cruiser che proveniva dalla via trasversale, a tutta velocità. Il Cruiser sbandò all'incrocio e le ruote si bloccarono. Ruotando su se stesso, il veicolo sfiorò l'Expedition e lo oltrepassò. Se Ethan si fosse trovato lì, sarebbe rimbalzato tra un veicolo e l'altro come la pallina di un flipper. Ed ecco sopraggiungere il camion, lo stridore dei freni ad aria. Con un sobbalzare di pneumatici sull'asfalto bagnato, il Cruiser finì sulla corsia opposta, dove avrebbe dovuto trovarsi. Piombando nel punto in cui un attimo prima c'era il Cruiser, il camion ondeggiò, bloccandosi poi con una specie di brivido. Quando l'autista del Cruiser riprese il controllo del veicolo, proseguì la sua corsa a una velocità sconsiderata, se pur meno folle di prima. Il camionista, scosso, suonò con forza il clacson. Poi riprese la strada che stava seguendo prima del quasi incidente, verso la meta che il destino aveva in serbo per lui. Dietro al camion, le auto avevano formato una fila. All'incrocio, scattò il semaforo. In due direzioni il traffico si fermò, ma in altre due cominciò a muoversi di nuovo. La notte era impregnata del delizioso aroma di pane che cuoceva al forno. La luce dei lampioni gettava monete d'oro sul marciapiede. Il fruscio e lo scrosciare della pioggia. Forse il semaforo scattò due o tre volte prima che Ethan si rendesse conto di un dolore nella mano sinistra. Il crampo aveva cominciato a diffondersi ai muscoli dell'avambraccio. Aggrovigliata tra le dita strette con forza c'era la cordicella delle tre campanelle argentate che pendevano dalle decorazioni natalizie dell'ambulanza e che un compassionevole paramedico gli aveva regalato. 26 Come fossero una depravata élite dell'antica Roma, nel bel mezzo di un'orgia, le toghe scandalosamente scomposte, i morti senza nome mostravano una spalla liscia e vellutata, la pallida curva di un seno, una coscia dalle vene azzurre, una mano dalle dita ripiegate in un gesto sottilmente osceno, qui un piede delicato e una caviglia sottile, là un mezzo profilo in
cui un occhio aperto fissava il nulla con velata lussuria. Di fronte a questa scena, un testimone poco incline alla superstizione avrebbe potuto sospettare che, in assenza di qualsiasi essere vivente, quegli anonimi vagabondi e quegli adolescenti fuggiti da casa trascorressero il tempo passando da una cuccetta all'altra. Non era forse possibile che, nel cuore della notte, questi cadaveri irrequieti si accoppiassero in una gelida e ripugnante parodia di passione? Se Corky Laputa avesse creduto in un codice morale o anche soltanto nel fatto che il buon gusto prevedeva l'osservanza di determinate regole di condotta sociale, avrebbe probabilmente trascorso i due minuti di attesa risistemando quei sudari scomposti, perché anche tra i morti ci fosse un po' di pudore. Al contrario, apprezzò molto la scena. Inoltre, già pregustava l'arrivo dell'abitualmente imperturbabile Roman Castevet, che in quell'occasione si sarebbe mostrato decisamente perturbato. Quasi esattamente due minuti dopo, la maniglia della porta venne abbassata. La porta si socchiuse, ma solo di qualche centimetro. Come se si aspettasse di scoprire che Corky lo stava aspettando in compagnia di una squadra di cineoperatori e di un gruppo di giornalisti avidi di scandali, Roman sbirciò attraverso la fessura, mostrando un occhio sgranato come quello di un gufo colto di sorpresa. «Entra, vieni, vieni», lo incoraggiò Corky. «Qui sei tra amici, anche se la tua intenzione è di sezionarne qualcuno, prima o poi.» Aprendo la porta il minimo indispensabile per far passare il suo corpo sottile, Roman entrò nella camera mortuaria, si voltò con aria preoccupata a controllare che non ci fosse nessuno nel corridoio, poi si chiuse all'interno del locale con Corky e i venti sfacciati membri del toga party. «Che diavolo hai addosso?» domandò il nervoso patologo. Corky girò su se stesso, allargando con le mani la parte inferiore dell'impermeabile giallo. «Un completino da pioggia molto alla moda. Ti piace il cappello?» «Come puoi non farti notare dalle guardie con quel ridicolo completo addosso? Anzi, semplicemente come hai fatto a passare di nascosto?» «Non è stato necessario. Ho presentato le mie credenziali.» «Quali credenziali? Tu insegni narrativa moderna a un gruppo di presuntuose troiette e di ragazzi prodigio completamente idioti.» Come molti di quelli che operavano in campo scientifico, Roman Castevet non aveva una grande considerazione delle facoltà letterarie presenti
nelle moderne università e degli studenti che ricercavano per prima cosa la verità attraverso la letteratura e, come seconda cosa, il modo di entrare il più tardi possibile nel mondo del lavoro. Senza offendersi, anzi approvando il sarcasmo antisociale di Roman, Corky spiegò: «Quelle simpatiche guardie sono convinte che io sia un patologo di Indianapolis venuto qui per discutere alcuni particolari che mi lasciano perplesso riguardo alle vittime di un serial killer che agisce in tutto il Midwest». «Davvero? E per quale motivo dovrebbero pensare una cosa del genere?» «Ho chi mi prepara documenti falsi assolutamente perfetti.» Roman rimase sbalordito. «Tu?» «Spesso ritengo sia meglio avere documenti falsi di prima qualità.» «Sei pazzo o semplicemente stupido?» «Come ho già avuto modo di spiegarti, non sono soltanto un professore un po' rammollito che si diverte a frequentare circoli sovversivi.» «Già, già», commentò Roman sprezzante. «Io colgo ogni opportunità per promuovere quotidianamente la rivoluzione, spesso rischiando l'arresto e la prigione.» «Sei un vero e proprio eroe.» «Molte delle mie operazioni sono tanto ingegnose e sorprendenti, quanto poco convenzionali. Non avrai certo pensato che volessi quei dieci prepuzi unicamente per un mio disgustoso uso personale, vero?» «Infatti, è esattamente quello che ho pensato. Quando ci siamo conosciuti a quella noiosa festa all'università, mi sei sembrato il re dei pazzi furiosi, un mutante morale e mentale come ce ne sono pochi.» «Venendo da un satanista», ribatté Corky con un sorriso, «un giudizio del genere potrebbe essere un complimento.» «Non intendeva esserlo», replicò Roman in tono impaziente e arrabbiato. Nei suoi momenti migliori, ben curato, con gli abiti buoni e l'alito fresco, Castevet era un uomo brutto. La rabbia lo rendeva addirittura orrendo. Magro come un chiodo, tutto fianchi ossuti, gomiti e spalle aguzze, con un pomo d'Adamo più sporgente del naso e con un naso più appuntito di quello che Corky avesse mai visto su un altro membro della specie umana, con guance incavate e un mento senza carne, Roman sembrava soffrire di gravi disordini alimentari. Tuttavia, ogni volta che incrociava lo sguardo da rettile di Castevet e
ogni volta che coglieva il patologo nell'atto di leccarsi sensualmente le labbra, l'unica parte non spigolosa di quella specie di spaventapasseri, Corky aveva l'impressione che la carica erotica di quell'uomo facesse girare a mille il suo metabolismo e lo facesse fumare da tutti gli orifizi. Se avessero organizzato una scommessa su quante calorie Roman bruciava ogni giorno masturbandosi, Corky avrebbe puntato almeno tremila dollari... e sicuramente con le vincite si sarebbe garantito una buona pensione. «Be', qualunque cosa tu pensi di me», disse Corky, «vorrei comunque ordinarti altri dieci prepuzi.» «Senti, ficcatelo bene in testa, non ho più intenzione di fare affari con te. Ti sei dimostrato troppo imprudente a venire qui in questo modo.» In parte come attività secondaria decisamente remunerativa, ma anche in parte per senso del dovere e come espressione della sua incrollabile fede nel Re dell'Inferno, Roman Castevet forniva ad altri satanisti parti del corpo umano, organi interni, sangue, tumori maligni e occasionalmente anche interi cervelli... prelevandoli esclusivamente da cadaveri. A parte Corky, i suoi clienti avevano un interesse sia teologico sia pratico in arcani rituali per ingraziarsi Sua Maestà Satana e ottenere da lui speciali favori, oppure per convocare demoni facendoli uscire dalla loro fossa rovente. Dopo tutto, gli ingredienti essenziali per una ricetta di magia nera non potevano essere acquistati nel supermercato più vicino. «Stai esagerando», gli fece notare Corky. «Non sto esagerando. Sei un imprudente, uno sconsiderato.» «Sconsiderato?» Corky sorrise, scoppiò quasi a ridere. «Mi sembra una reazione da donnicciola per un uomo che crede che saccheggi, torture, stupri e omicidi verranno premiati nell'aldilà.» «Abbassa la voce», gli sibilò Roman, anche se Corky aveva continuato a parlare in tono di normale conversazione. «Se qualcuno ti trova qui con me, potrei perdere il posto.» «Niente affatto. Sono un patologo di Indianapolis e stiamo discutendo la vostra attuale scarsità di personale e questo deplorevole accumulo di cadaveri non identificati.» «Sarai la mia rovina», si lamentò Roman. «Sono solo venuto a ordinare altri dieci prepuzi», mentì Corky. «Non mi aspetto che li prelevi subito. Ho voluto fare un salto di persona a ordinarli perché pensavo che la cosa ti avrebbe divertito.» Sebbene Roman Castevet avesse un aspetto troppo emaciato, troppo rinsecchito per riuscire a produrre lacrime, i suoi intensi occhi neri si fecero
umidi per la frustrazione. «Comunque», soggiunse Corky, «c'è qualcosa che mette più a repentaglio il tuo lavoro che essere trovato qui con me... pensa cosa ti succederebbe se qualcuno scoprisse che, per errore, avete chiuso un uomo vivo qui dentro, in mezzo a tutti questi cadaveri.» «Ti sei fatto una canna o qualcosa di peggio?» «Te l'ho già detto al telefono, qualche minuto fa. Uno di questi disgraziati è ancora vivo.» «Che razza di scherzo è questo?» lo aggredì Roman. «Non è uno scherzo. È vero. L'ho sentito mormorare 'aiuto, aiuto', a voce bassa, si sentiva appena.» «Sentito chi?» «Sono riuscito a capire chi fosse e gli ho tolto il lenzuolo dal viso. È paralizzato. Ha i muscoli facciali distorti da un ictus.» Sporgendosi ulteriormente in avanti, secco come un mazzo di sterpi, Roman fissava intensamente Corky negli occhi, come se fosse stato convinto che il suo sguardo sarebbe riuscito a far arrivare il messaggio che le parole non erano state in grado di trasmettere. Corky soggiunse in tono allegro: «Probabilmente, quando lo hanno portato qui, quel poveraccio era in coma, poi ha ripreso conoscenza, ma è tremendamente debole». Una crepa di insicurezza si aprì nell'armatura di incredulità di Roman Castevet. Smise di fissare Corky e con lo sguardo percorse rapidamente le cuccette. «Chi?» «Laggiù», rispose Corky, indicando l'estremità opposta della camera mortuaria, dove la luce centrale arrivava appena, lasciando i cadaveri sdraiati avvolti nell'oscurità, oltre che nei teli di cotone. «A me sembra che, avvertendoti di quello che è successo, io stia salvando tutti i tuoi lavori, di conseguenza dovresti fornirmi gratuitamente quello che ti ho ordinato, per una questione di gratitudine.» Avanzando verso il fondo della stanza, Roman domandò: «Qual è?» Seguendo il patologo, Corky rispose: «A sinistra, il secondo dal basso». Nel momento in cui Roman si curvò per togliere il lenzuolo dal viso del cadavere, Corky alzò il braccio destro, mostrando la mano che fino a quel momento aveva tenuta nascosta nella manica dell'impermeabile giallo e il rompighiaccio che quella mano stringeva. Con una mira accurata, una grande forza e totale sicurezza, conficcò il punteruolo nella schiena del patologo.
Se conficcato con precisione, un rompighiaccio può perforare gli atri e i ventricoli, provocando un tale choc cardiaco che il cuore si ferma immediatamente e per sempre. Con un fruscio di indumenti e un sommesso sbatacchiare di arti che si piegavano, Roman Castevet crollò a terra senza nemmeno un grido. Corky non ebbe bisogno di controllargli il polso. La bocca aperta, da cui non usciva fiato, e gli occhi fissi come i globi di vetro usati in tassidermia confermarono la perfezione della sua mira. Esercitarsi serviva a qualcosa. A casa, usando lo stesso rompighiaccio, Corky si era esercitato su un manichino rubato alla facoltà di medicina dell'università. Se avesse dovuto colpire due, tre, quattro volte, o se il cuore di Roman avesse continuato a pompare anche solo per un breve periodo, l'aggressione si sarebbe rivelata alquanto cruenta. Per questo aveva indossato quell'impermeabile a prova di macchia. Nell'improbabile eventualità che da uno dei cadaveri si verificasse una sgradevole «perdita», il pavimento della camera mortuaria presentava un largo canale di scolo. Accanto alla porta, un tubo flessibile era collegato a un rubinetto che sporgeva dalla parete. Corky era venuto a sapere dell'esistenza di quel tubo dagli articoli che aveva letto un paio di anni prima, quando lo scandalo dei topi aveva occupato le prime pagine dei giornali. Fortunatamente non ebbe bisogno di usarlo. Sistemò Roman in una delle cuccette in fondo al locale, nella zona più buia. Da una profonda tasca interna dell'impermeabile estrasse il lenzuolo che poco prima aveva acquistato nel grande magazzino della galleria commerciale. Lo dispiegò su Roman, stando attento a coprirlo completamente perché aveva bisogno non solo di nascondere la sua identità, ma anche il fatto che, al contrario degli altri, il cadavere era completamente vestito. Dato che la morte era stata istantanea e la ferita quasi invisibile, non c'era stata fuoriuscita di sangue che potesse macchiare il lenzuolo e richiamare l'attenzione sul fatto che si trattava di una morte recente. Molto probabilmente, nel giro di due o tre giorni, Roman sarebbe stato trovato da un dipendente dell'obitorio incaricato di fare un inventario o di prelevare un cadavere per un'autopsia. Altri articoli in prima pagina per il medico legale. Corky rimpianse di aver dovuto uccidere un uomo come Roman Caste-
vet. In qualità di buon satanista e anarchico impegnato, il patologo si era rivelato molto utile alla campagna di destabilizzazione dell'ordine sociale e, con la sua opera, ne aveva affrettato il collasso. Tuttavia, ben presto nella villa di Channing Manheim si sarebbero verificati eventi tali da richiamare l'attenzione di tutti i mezzi d'informazione del mondo. Le autorità avrebbero sguinzagliato ogni uomo a disposizione per scoprire l'identità di colui che aveva inviato quegli strani regali nelle scatole nere. Seguendo la logica, sarebbero arrivati agli obitori, pubblici e privati, e avrebbero interrogato chiunque fosse nella condizione di poter prelevare i dieci prepuzi. Se, nel corso di quelle indagini, Roman fosse stato sospettato, il patologo avrebbe cercato di salvarsi la pelle accusando Corky. Gli anarchici agivano senza alcun obbligo di lealtà reciproca, come era giusto che fosse tra gente che lottava per il disordine. Per la verità, Corky aveva altre questioni in sospeso da concludere prima che potessero iniziare le festività natalizie. Considerando che indossava un paio di guanti di lattice, cosa di cui la sua vittima non si era accorta perché lui aveva sempre tenuto le mani nascoste nelle ampie maniche dell'impermeabile, avrebbe potuto lasciare il rompighiaccio nel locale senza preoccuparsi di fornire alla polizia impronte compromettenti. Ma preferì riporlo nella sua custodia e infilarlo nuovamente in una delle tasche, non solo perché gli sarebbe potuto tornare utile, ma anche perché ora aveva acquisito un valore sentimentale. Uscendo dall'obitorio, salutò cordialmente le guardie. Il loro era davvero un lavoro ingrato, proteggere i morti dai vivi. Si fermò addirittura a raccontare una barzelletta oscena su un avvocato e una gallina. Non temeva che, in seguito, sarebbero stati in grado di fornire alla polizia una descrizione del suo viso. Con quell'ampio cappello e l'enorme impermeabile, era soltanto un personaggio eccentrico e divertente, di cui nessuno avrebbe ricordato altro che l'abbigliamento. Una volta tornato a casa, davanti al caminetto acceso, mentre sorseggiava un brandy, avrebbe bruciato tutti i documenti relativi all'ipotetico patologo di Indianapolis. Ne possedeva diversi, con diverse identità, da utilizzare se e quando ne avesse avuto bisogno. Uscì di nuovo nella sera, nella pioggia. Era arrivato il momento di occuparsi di Rolf Reynerd, che con il suo comportamento si era dimostrato del tutto inadatto alla vita, così come si era dimostrato inadatto alla celebrità dei telefilm.
27 Se sul Daily Variety, la colorita rivista dell'industria cinematografica, fosse comparso un articolo sulla cena di lunedì sera di Aelfrich Manheim, probabilmente il titolo sarebbe stato AL PUPO PIACE IL PETTO. Prima di essere cotto sulla griglia, il petto di pollo era stato unto con olio di oliva e spolverizzato con sale marino, pepe e una deliziosa miscela di erbe esotiche note a Palais Crapaud come il McBee Secret. Oltre al pollo, gli era stato servito un piatto di pasta, non con la salsa di pomodoro, bensì con burro, basilico, pinoli e parmigiano. Il signor Hachette, lo chef diplomato e discendente diretto di Jack lo Squartatore, non lavorava nei fine settimana, così aveva tutto il tempo di inseguire e fare a pezzi innocenti fanciulle, gettare gatti furiosi nelle carrozzine dei neonati e dedicarsi ai suoi personali interessi del momento, qualunque essi fossero. Il signor Baptiste, il cuoco simpatico, era libero il lunedì e il martedì; di conseguenza di lunedì la cucina era, come si usa dire nel gergo dello spettacolo, buia. Quelle squisitezze erano state preparate per Fric dalla signora McBee in persona. Alla luce tremolante di lampadine elettriche modificate in modo da produrre l'effetto di antiche lampade a olio, Fric cenava da solo seduto alla fratina per otto persone dell'accogliente locale di degustazione, separato dalla parte della cantina a temperatura controllata per mezzo di una parete di vetro. Oltre il vetro, sistemate su file di scaffali, c'erano quattordicimila bottiglie di vino, che a volte suo padre chiamava «cabernet sauvignon, merlot, pinot noir, chiaretto, porto, borgogna e sangue dei critici, che è un vino molto aspro». Ah, ah, ah. Quando Papà Fantasma era a casa, di solito cenavano nella sala da pranzo, tranne quando gli ospiti - amici di papà, soci d'affari o i vari consiglieri personali, dall'assistente spirituale all'istruttore di chiaroveggenza - si sentivano a disagio nell'avere a tavola un ragazzino di dieci anni che ascoltava i loro pettegolezzi e levava gli occhi al cielo sentendoli dire stupidaggini. In assenza di Papà Fantasma, ovvero quasi sempre, Fric poteva scegliere di cenare non soltanto nelle sue stanze private, cosa che faceva spesso, ma praticamente in qualsiasi angolo della proprietà. Se il tempo era bello, poteva mangiare fuori, ai bordi della piscina, felice
perché, in assenza di suo padre, nessuna attricetta irrimediabilmente stupida, noiosamente ridacchiante e praticamente nuda fosse lì a tormentarlo con domande sulla sua materia preferita a scuola, sul suo cibo preferito, sul suo colore preferito, sul suo attore preferito. Cercavano sempre di farsi dare qualche Ritalin o antidepressivo da Fric. Si rifiutavano di credere che l'unica medicina che prendeva era quella per l'asma. A volte si arrischiava anche a cenare, con raffinati piatti e antiche posate d'argento, nel giardino delle rose, posando l'inalatore sul piattino da dessert in modo da averlo a portata di mano nel caso che un'improvvisa brezza sollevasse abbastanza polline da provocargli un attacco di asma. Oppure si faceva servire la cena su un vassoio e mangiava sprofondato in una delle sessanta comode poltroncine della sala di proiezione, che era stata recentemente rinnovata ispirandosi allo stile Art Deco del Pantages Theater di Los Angeles. L'attrezzatura della sala di proiezione permetteva di vedere film, cassette di tutti i formati, DVD e programmi televisivi proiettandoli su uno schermo più grande di quelli normalmente installati in una multisala di periferia. Per guardare cassette e DVD, Fric non aveva bisogno dell'assistenza di un operatore. Seduto nella poltroncina centrale della fila centrale, con la consolle accanto, poteva organizzarsi lo spettacolo che più gli piaceva. A volte, quando sapeva che non erano previste pulizie di alcun tipo nella sala, quand'era certo che nessuno sarebbe venuto a cercarlo, chiudeva a chiave la porta per assicurarsi un po' di privacy e caricava un DVD con uno dei film di suo padre. Essere visto mentre guardava uno dei film di Papà Fantasma era fuori discussione. Non che facessero schifo. Qualcuno sì, naturalmente, perché nessun attore riesce a far centro ogni volta. Ma alcuni erano carini. Altri erano niente male. E altri ancora, pochi, erano perfino straordinari. Ma se qualcuno lo avesse sorpreso a guardare uno dei film di suo padre in quelle circostanze, l'Accademia Nazionale degli Sfigati lo avrebbe scelto come il Più Grande Sfigato del Decennio. Forse anche del secolo. Il Club dei Patetici Perdenti gli avrebbe offerto gratuitamente un'iscrizione a vita. Il signor Hachette, lo chef psicopatico imparentato con la famiglia Frankenstein, lo avrebbe preso in giro sogghignando e facendo maliziosi paragoni tra il fisico mingherlino di Fric e quello statuario di suo padre.
Comunque, nell'unico posto occupato della sala, con il soffitto Art Deco a più di dieci metri d'altezza sopra di lui, a volte Fric se ne stava seduto al buio e proiettava sull'enorme schermo i film di Papà Fantasma. Immerso nel Dolby Surround Sound. Certi film li guardava per la trama, anche se li aveva visti molte volte. Altri li guardava per gli incredibili effetti speciali. E, sempre, nelle interpretazioni di suo padre, Fric cercava le qualità, il fascino, l'espressività e il talento che rendevano Channing Manheim un attore amato da milioni di persone in tutto il mondo. Nei film migliori, momenti del genere abbondavano. Ma anche in quelli che facevano davvero schifo, c'erano scene in cui non potevi fare a meno di apprezzare quell'uomo, di ammirarlo, di desiderare con tutto il cuore di essere suo amico. Citando i momenti migliori dei suoi film più belli, i critici avevano detto che il padre di Fric era magico. «Magico» sembrava stupido, imbarazzante, ma era la parola giusta. A volte, guardandolo sul grande schermo, sembrava più vivo. Più reale di chiunque tu avessi mai conosciuto. O che mai avresti conosciuto. Quel suo apparire superreale non poteva essere spiegato né dalle dimensioni gigantesche dell'immagine proiettata sullo schermo, né dall'abilità del cineoperatore. E neppure dal talento del regista - la maggior parte di loro aveva meno talento di una patata bollita - e neanche dagli effetti ottenuti attraverso la tecnologia digitale. La maggior parte degli attori, compresi i più famosi, non possedevano la magia di Manheim neppure quando lavoravano con i registi e i tecnici migliori. Uno lo guardava sullo schermo e sembrava che lui fosse stato ovunque, che avesse visto ogni cosa, che sapesse tutto ciò che era possibile sapere. Sembrava essere più intelligente, più affettuoso, più divertente, più coraggioso di chiunque altro al mondo... come se vivesse in sei dimensioni mentre tutti gli altri dovevano vivere solo in tre. Fric aveva guardato e riguardato alcune scene, decine di volte, in alcuni casi addirittura centinaia di volte, fino a quando gli erano sembrate reali tanto quanto i momenti che aveva veramente trascorso con suo padre. Ogni tanto, quando andava a letto stanco morto ma non riusciva a prendere sonno, o quando si svegliava nel cuore della notte ma restava in una sorta di dormiveglia, continuando a pattinare sulla superficie di un sogno temporaneamente congelato, quelle particolari scene di film con suo padre gli sembravano veramente reali. Nella sua memoria si svolgevano non come se le avesse viste dalla poltroncina di una sala di proiezione, ma come
se fossero esperienze di vita che lui e suo padre avevano condiviso. Quei minuti di dormiveglia rappresentavano alcuni tra i momenti più felici della vita di Fric. Naturalmente, se mai avesse detto a qualcuno che quelli erano alcuni dei momenti più felici della sua vita, il Club dei Patetici Perdenti gli avrebbe eretto una statua alta dieci metri, in cui sarebbero stati evidenziati i suoi capelli arruffati e il suo collo lungo e stretto, e l'avrebbero sistemata sulla stessa collina in cui c'era la scritta HOLLYWOOD, illuminandola con i fari. Quel lunedì sera, Fric avrebbe preferito cenare nella sala di proiezione, mentre guardava suo padre che le suonava di santa ragione ai cattivoni e salvava l'intero orfanotrofio pieno di piccoli innocenti, tuttavia decise di cenare nella cantina perché, con la confusione prenatalizia che regnava a Palais Crapaud, non c'era altro luogo dove trovare un po' di privacy. La signora Sanchez e la signora Norbert, le due cameriere a tutto servizio, si erano prese le ferie natalizie in anticipo e mancavano già da dieci giorni. Non sarebbero tornate fino a giovedì mattina, il 24 dicembre. La signora McBee e il signor McBee si sarebbero assentati martedì e mercoledì, per trascorrere un paio di giorni con il figlio e la sua famiglia a Santa Barbara e anche loro sarebbero tornati a Palais Crapaud il 24 dicembre per assicurarsi che la più grande star cinematografica del mondo fosse ricevuta in pompa magna al suo ritorno dalla Florida, nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno. Di conseguenza, quel lunedì sera, le altre quattro cameriere e i due camerieri stavano facendo gli straordinari sotto la risoluta direzione dei McBee, insieme con un certo numero di persone ingaggiate per l'occasione, tra cui una squadra di sei operai specializzati nella pulitura di pavimenti in marmo e calcare, un gruppo di otto persone che si occupavano delle decorazioni e un esperto di feng-shui, il cui compito era assicurarsi che i vari alberi di Natale e relative decorazioni fossero collocati in modo tale da non interferire con il giusto flusso di energia della grande villa. Pazzia pura. Lontano dal ronzio delle macchine per lucidare i pavimenti e dalle allegre risate della squadra di decoratori, Fric si era rifugiato nella cantina che si trovava al piano interrato. Tra quelle mura di mattoni pieni, sotto quel soffitto a volta anch'esso di mattoni, gli unici rumori erano quelli che lui faceva ingoiando il cibo e toccando il piatto con la forchetta. E poi: udili-udili-u.
Smorzato ma udibile, il telefono squillò dall'interno di un barile. Dato che, nella stanza di degustazione, la temperatura era troppo alta per conservarvi il vino, in quel luogo barili e bottiglie erano strettamente decorativi. Udili-udili-u. Accatastati gli uni sugli altri dal pavimento al soffitto di una delle pareti di mattoni, molti di quegli enormi barili avevano il fondo dotato di cardini in modo da poter essere aperti come porte. All'interno, alcuni barili avevano mensole sulle quali erano conservati bicchieri da vino, tovaglioli, cavatappi e altri oggetti per la degustazione. Quattro contenevano televisori che permettevano a un esperto enologo di guardare contemporaneamente i vari canali dedicati all'argomento. Udili-udili-u. Fric aprì il barile contenente il telefono e rispose alla sua linea privata nel consueto stile fricchiano, ben deciso a non apparire intimidito. «Derattizzazione Pet's e Scuola di Conserve Casalinghe. Liberiamo la vostra casa dai topi e vi insegniamo a conservarli per futuri banchetti.» «Salve, Aelfrich.» «Lei ce l'ha un nome?» domandò Fric. «Perduto.» «È un nome o un cognome?» «Tutt'e due. Ti piace la cena?» «Non sto cenando.» «Che cosa ti ho detto riguardo alle bugie, Aelfrich?» «Che mentire non mi porterà altro che sofferenza.» «Ceni spesso nella cantina?» «Sono nella mansarda.» «Non cercare la sofferenza, ragazzo mio. Lei ti troverà anche senza il tuo aiuto.» «Nell'ambiente cinematografico», gli fece notare Fric, «le persone dicono bugie ventiquattro ore al giorno ed è così che diventano ricche.» «Ma a volte la sofferenza arriva subito dopo», gli assicurò l'Uomo Misterioso. «Più spesso, invece, ci vuole una vita prima che arrivi, ma poi ti sommerge come un mare in tempesta.» Fric rimase in silenzio. Anche lo sconosciuto non aggiunse altro. Alla fine Fric inspirò profondamente e disse: «Devo ammetterlo, lei mi fa venire davvero i brividi».
«Questo è un progresso, Aelfrich. Un po' di verità.» «Ho scovato un posto dove nascondermi e non farmi trovare.» «Vuoi dire la stanza segreta dietro alla tua cabina armadio?» Fric non aveva mai immaginato che all'interno delle sue ossa vivessero delle strane creature, ma ora gli sembrò di sentirle strisciare. L'Uomo Misterioso continuò: «Quel posto con le pareti d'acciaio e tutti quei ganci che pendono dal soffitto... è lì che pensi di poterti nascondere?» 28 Con l'omicidio in mente ma non sulla coscienza, Corky Laputa uscì dal sotterraneo dei morti senza nome e attraversò la città spazzata dalla pioggia notturna. Mentre guidava pensò a suo padre, forse perché Henry James Laputa aveva sprecato la sua vita, così come i vagabondi e gli adolescenti fuggiti da casa accatastati nell'obitorio avevano sprecato la loro. La madre di Corky, l'economista, aveva creduto nel diritto all'invidia, nel potere dell'odio. La sua vita era stata distrutta da queste convinzioni e lei aveva portato la sua amarezza come fosse una corona. Suo padre invece credeva nella necessità dell'invidia come stimolo. La sua invidia perenne lo aveva condotto inevitabilmente a un odio cronico, che lui credesse nel potere dell'odio o no. Henry James Laputa era stato professore di letteratura. Ed era stato anche un romanziere che sognava di diventare famoso. Aveva scelto di riversare tutta la sua invidia sugli scrittori più acclamati del tempo. Con feroce diligenza, invidiava loro ogni buona recensione, ogni parola di lode, ogni onore e premio. I loro successi lo facevano fremere di rabbia. Stimolato da tutto ciò, in uno stato di furibonda collera, sfornava romanzi che, al confronto, avrebbero dovuto far apparire le opere dei suoi contemporanei vuote, scialbe e puerili. Voleva umiliare gli altri scrittori con l'esempio, inspirargli un'invidia ancor maggiore di quella che lui riversava su di loro, perché solo così avrebbe potuto liberarsi della propria invidia e sentirsi finalmente realizzato. Era convinto che un giorno quegli intellettuali sarebbero stati così gelosi di lui che non avrebbero più provato alcuna soddisfazione per le loro brillanti carriere. Solo quando avessero desiderato la sua fama letteraria con una tale intensità da diventarne avidi, solo quando fossero arrossiti di ver-
gogna per il fatto che i loro maggiori sforzi non erano che cenere in confronto al falò del suo talento, solo in quel momento Henry Laputa sarebbe stato felice, soddisfatto. Tuttavia, anno dopo anno, i suoi romanzi continuavano a ricevere solo tiepidi elogi e molte di queste lodi erano uscite dalle penne di critici non esattamente di chiara fama. I premi che si aspettava non giunsero mai. Gli onori che si era meritato non gli furono mai conferiti. Il suo genio rimase misconosciuto. Si accorse che molti dei suoi colleghi scrittori lo trattavano con condiscendenza, il che lo portò finalmente a rendersi conto che quegli individui appartenevano tutti a un club dal quale lui era stato bandito. Loro riconoscevano la superiorità del suo talento, ma cospiravano per negargli gli allori che si sarebbe meritato, perché non volevano rinunciare neppure a una fetta della torta che intendevano spartirsi tra di loro. La torta. Henry comprese che anche nell'ambiente letterario, la divinità più importante era il denaro. Questo era il loro piccolo sporco segreto. Distribuivano premi a manca e a destra, blateravano di arte, ma erano unicamente interessati a sfruttare questi onori a beneficio della propria carriera e arricchirsi. Questa intuizione sull'avidità degli intellettuali rappresentò fertilizzante, acqua e sole per il giardino dell'odio di Henry. I fiori neri dell'antipatia fiorirono come non mai. Frustrato dal loro rifiuto di accordargli il consenso a cui ambiva, Henry decise di ottenere la loro invidia scrivendo un romanzo che avrebbe ottenuto un enorme successo commerciale. Era convinto di conoscere tutti i trucchi e le sdolcinatezze che avevano consentito a scribacchini come Dickens di manipolare la plebaglia. Lui avrebbe scritto una storia irresistibile, avrebbe guadagnato miliardi e avrebbe lasciato quei falsi letterati a consumarsi dalla gelosia. Questa epopea commerciale trovò un editore, ma non un pubblico. I diritti d'autore furono scarsi. Invece di inondarlo di denaro, la divinità a cui si era votato gli riversò addosso una montagna di letame, il che era esattamente la definizione che uno dei maggiori critici aveva dato del suo romanzo. Trascorsero altri anni e l'odio di Henry si trasformò in un condensato di malignità pura, persistente e velenosa. Quella malignità, che lui tanto apprezzava, col tempo degenerò in un rancore virulento e implacabile come un cancro al pancreas. All'età di cinquantatré anni, mentre teneva un discorso pieno di sarca-
smo e indignazione di fronte a un'indifferente folla di accademici, riuniti per l'assemblea annuale dell'Associazione Lingue Moderne, Henry James Laputa fu colto da infarto. Morì sul colpo con tanta autorità che alcuni membri del pubblico pensarono stesse sottolineando una sua presa di posizione con uno scherzo e applaudirono brevemente, prima di rendersi conto che non stava fingendo, era davvero morto. Corky aveva appreso molto dai genitori. Aveva imparato che l'invidia, da sola, non costituisce una filosofia. Aveva imparato che una vita divertente e un allegro ottimismo non possono sopravvivere se ci si concentra unicamente sull'odio. Aveva anche appreso che non bisogna fidarsi delle leggi, dell'idealismo o dell'arte. Sua madre aveva creduto nelle leggi dell'economia, negli ideali del marxismo. Aveva finito per diventare una vecchia rancorosa, senza speranze né stimoli, che era apparsa quasi sollevata quando suo figlio l'aveva massacrata con un attizzatoio. Il padre di Corky aveva creduto di poter usare l'arte come un martello per picchiare il mondo e costringerlo a sottomettersi. Il mondo continuava a girare, mentre Papà era diventato cenere, disperso nel mare, come non fosse mai esistito. Caos. Il caos era l'unica forza dell'universo di cui potersi fidare. Corky si era messo al servizio del caos con la certezza che, a sua volta, il caos sarebbe sempre stato al suo servizio. Attraversando la città luccicante, nel buio e nella pioggia, Corky si diresse verso West Hollywood, dove l'inaffidabile Rolf Reynerd doveva morire. Entrambe le estremità dell'isolato in cui abitava Reynerd erano chiuse dalle transenne della polizia. Alcuni agenti, con l'impermeabile nero a strisce gialle fluorescenti, usavano le torce per deviare il traffico. Vivaci matasse di pioggia, nei colori base dell'emergenza, si ingarbugliavano attraverso i fari lampeggianti dell'ambulanza e disegnavano strani motivi sul marciapiede disseminato di pozzanghere. Corky proseguì oltre le transenne. Dopo un paio di isolati, trovò un posto vuoto dove parcheggiare. Forse quel viavai di agenti nella strada di Rolf Reynerd non aveva nulla a che fare con l'attore, ma l'intuito di Corky gli diceva il contrario. Non era preoccupato. In qualunque pasticcio Rolf Reynerd si fosse cac-
ciato, Corky avrebbe trovato il modo di sfruttare la situazione a suo vantaggio. Lo scompiglio e l'agitazione erano suoi amici e lui aveva la certezza che, nella chiesa del caos, era un figlio prediletto. 29 Mentre ascoltava la voce pacata dello sconosciuto, Fric ebbe la sensazione che, per qualche magica influenza del pavimento di mattoni sotto i suoi piedi, delle pareti di mattoni tutt'intorno a lui e del basso soffitto a volta, sempre di mattoni, lui stesso era stato trasformato in un mattone. «La stanza segreta nascosta dietro alla tua cabina armadio non è segreta come pensi, Aelfrich. Non sarai al sicuro là dentro quando arriverà Robin Goodfellow.» «Chi?» «L'altra volta l'avevo chiamato la Bestia in Giallo. Si fa chiamare Robin Goodfellow. In realtà è Moloch, con ossa di bambini conficcate tra i denti.» «Gli servirà un filo interdentale piuttosto solido», commentò Fric, anche se il tremore della sua voce smentiva l'impertinenza delle parole. Poi soggiunse in fretta, sperando che l'Uomo Misterioso non avesse percepito la sua paura, «Robin Goodfellow, Moloch, ossa di bambini... non capisco niente di quello che dice.» «Nella tua casa c'è una grande biblioteca, vero Aelfrich?» «Sì.» «E in quella biblioteca ci deve essere anche un buon dizionario.» «Abbiamo un'intera mensola piena di dizionari», puntualizzò Fric, «tanto per dimostrare quanto siamo istruiti.» «Allora vai a cercare sui dizionari. Conosci il tuo nemico, preparati ad affrontare ciò che sta per succedere, Aelfrich.» «Perché non me lo dice lei che cosa sta per succedere? In modo semplice, facile da capire.» «Non è in mio potere farlo. Non sono autorizzato a compiere azioni dirette.» «Allora lei non è James Bond.» «Sono autorizzato ad agire solo per vie traverse. Incoraggiare, stimolare, terrorizzare, persuadere, consigliare. Influenzo gli eventi con ogni mezzo, purché sia astuto, ambiguo e allettante.» «Chi è lei... un avvocato o qualcosa del genere?»
«Sei un ometto davvero interessante, Aelfrich. Mi dispiacerebbe davvero se tu venissi sventrato e inchiodato sul portone di Palais Crapaud.» Fric fu sul punto di riagganciare. Stretto intorno al ricevitore del telefono, il palmo della sua mano si fece appiccicaticcio per il sudore. Non sarebbe rimasto sorpreso se l'uomo all'altro capo del filo avesse percepito il suo sudore e avesse fatto commenti sul suo aroma salato. Tornando all'argomento di un luogo speciale e segreto, fece uno sforzo per mantenere la voce ferma. «In casa c'è un locale d'emergenza», riferendosi al locale blindato e dotato di impianti di sicurezza tali da impedire l'accesso anche ai rapitori o ai terroristi più determinati. «Dato che la casa è così grande, in realtà voi avete due locali d'emergenza», gli fece notare l'Uomo Misterioso, il che era vero. «Entrambi sono noti e nessuno dei due ti garantirà di restare al sicuro quella notte.» «E quando sarà quella notte?» Senza rispondere alla domanda, l'uomo disse: «Sai, è un locale blindato per pellicce». «Un cosa?» «Molto tempo fa, le tue belle stanze erano occupate dalla madre del primo proprietario.» «Come fa a sapere quali sono le mie stanze?» «Quella donna aveva una serie di costose pellicce. Diverse di visone, una di zibellino, una di volpe bianca, una di volpe nera, una di cincillà.» «Lei l'ha conosciuta?» «Quel locale rivestito d'acciaio serviva a mantenere le pellicce al sicuro da ladri, tarme e roditori.» «È mai stato a casa nostra?» «Quella specie di cassaforte per pellicce non è il luogo ideale per aver un attacco d'asma...» Allibito, Fric domandò: «Come ha fatto a saperlo?» «... ma sarebbe un posto ancor peggiore per restare intrappolato quando arriverà Moloch. Non hai più molto tempo, Aelfrich.» La comunicazione fu interrotta e Fric rimase solo nella cantina, certamente solo, ma con la sensazione di essere osservato. 30 Seppure il cielo si squarciasse per riversare un diluvio di rospi velenosi,
se anche il vento soffiasse con una tale violenza da scuoiare una persona e accecarla, nemmeno un tempo così disastroso dissuaderebbe avvoltoi e pettegoli dal radunarsi sul luogo di incidenti spettacolari e sconvolgenti crimini. La pioggia fitta di quella fredda sera di dicembre era quindi un tempo da picnic per gente che amava le disgrazie come altri amano il baseball. Venti o trenta abitanti del quartiere si erano riuniti per scambiarsi informazioni errate e particolari raccapriccianti sul prato antistante una palazzina che sorgeva in diagonale rispetto alle transenne della polizia. La maggior parte era composta da adulti ma, tra loro, saltavano e correvano una decina di bambini. Perlopiù questi socievoli avvoltoi indossavano impermeabili o si riparavano sotto gli ombrelli. Ma due giovani scalzi e a torso nudo, con addosso solo un paio di jeans, apparivano così saturi di sostanze illegali che l'aria fredda della sera non riusciva a neppure a rinfrescarli. Tra quel gruppo di persone si era creata un'aria di festa, un'aspettativa di fuochi d'artificio e fenomeni da luna park. Corky Laputa avanzava tra gli spettatori in tutta la sua lucida giallosità, come un bombo silenzioso che raccoglieva pazientemente un po' di polline qui, un po' di polline là. Di tanto in tanto, per amalgamarsi meglio con lo sciame e per farsi degli amici, offriva un assaggio di surrogato di miele, inventando coloriti particolari sull'orrendo crimine, particolari che dichiarava di aver appreso dai poliziotti che controllavano la seconda transenna all'estremità opposta dell'isolato. Ben presto venne a sapere che Rolf Reynerd era stato ucciso. I pettegoli e gli avvoltoi non erano sicuri se il nome di battesimo della vittima fosse Ralph o Rafe, o Dolph o Randolph. Oppure Bob. Ma avevano la quasi certezza che il cognome di quel povero disgraziato fosse o Reinhardt o Kleinard, oppure Reiner come il regista cinematografico, o magari Spielberg, come un altro famoso regista, o ancora Nerdoff, oppure Nordoff. Uno dei due giovani a torso nudo insisteva nel dire che tutti quanti avevano fatto una gran confusione con il nome e cognome e il soprannome della vittima. Secondo quel mago del ragionamento deduttivo, la vera identità del morto era Ray «the Nerd» Rolf. Tutti concordavano sul fatto che l'uomo assassinato era stato un attore i cui più recenti successi lo stavano proiettando verso una fama internazionale. Aveva appena terminato un film in cui interpretava la parte del mi-
glior amico, o forse del fratello minore, di Tom Cruise. La Paramount, o forse la DreamWorks, lo aveva ingaggiato per un film in cui sarebbe stato coprotagonista con Reese Witherspoon. La Warner Brothers gli aveva offerto il ruolo di protagonista in una nuova serie di film su Batman, la Miramax voleva che recitasse la parte di un travestito divenuto sceriffo in un dramma sull'intolleranza nei confronti degli omosessuali che regnava nel Texas di fine Ottocento, e la Universal sperava che accettasse di firmare un contratto da dieci milioni di dollari per due film, che lui avrebbe anche scritto e diretto. Evidentemente, in questo nuovo millennio e nell'immaginazione di coloro che abitavano in quell'elegante zona di L.A., nessun fallito moriva mai giovane e la morte prematura arrivava soltanto per i famosi, i ricchi e gli adorati. Chiamiamolo Principio della Principessa D. Nessuno sapeva con certezza se anche l'uomo che aveva ucciso Ray «the Nerd» Rolf era un attore sul punto di diventare famoso in tutto il mondo. Il nome dell'assassino restava sconosciuto. Una cosa era certa, anche il killer era stato ucciso. Il suo corpo giaceva sul prato di fronte al palazzo di Rolf. Tra gli astanti circolavano un paio di binocoli. Corky ne chiese in prestito uno per osservare più da vicino il presunto carnefice di Rolf. Nonostante l'ingrandimento, con il buio e la pioggia non fu in grado di distinguere alcun particolare che gli permettesse di riconoscere il cadavere disteso sull'erba. Gli uomini della Scientifica, impegnati con i loro strumenti e le loro macchine fotografiche, si erano accovacciati accanto al cadavere. Gli impermeabili neri avvolti intorno al corpo come ali piegate li facevano somigliare a corvi intenti a beccare una carogna. In tutte le versioni della vicenda, considerate attendibili dalla piccola folla di pettegoli, l'assassino era stato ucciso da un agente. Il poliziotto era passato da quelle parti al momento giusto, per puro caso, oppure abitava nello stesso edificio di Rolf, o era venuto a trovare la sua ragazza, o sua madre. Qualunque cosa fosse successa quella sera, Corky era ragionevolmente sicuro che l'accaduto non avrebbe compromesso i suoi piani o indotto la polizia a sospettare di lui. Non aveva rivelato a nessuno di quelli che conosceva la sua collaborazione con Reynerd. Riteneva che anche Reynerd fosse stato altrettanto discreto. Insieme, avevano commesso dei crimini e avevano cospirato per commetterne altri.
Nessuno dei due aveva nulla da guadagnare - e molto da perdere - parlando del loro rapporto con qualcuno. Per quanto stupido, Rolf non era avventato. Per far colpo su una donna o sui suoi insulsi amici, forse avrebbe voluto rivelare che aveva fatto uccidere sua madre o che faceva parte di un complotto in cui sarebbe stato coinvolto l'attore più famoso del mondo, ma in pratica non l'avrebbe mai fatto. Si sarebbe limitato a inventare una bugia piena di vividi particolari. Sebbene quello stesso giorno Ethan Truman, in incognito, fosse andato a trovare Rolf, la possibilità che la morte di Reynerd venisse in qualche modo collegata a Channing Manheim e ai sei regali nelle scatole nere restava altamente improbabile. Essendo un apostolo dell'anarchia, Corky comprendeva che il caos governava il mondo e, che nella confusione e nel disordine, insignificanti coincidenze come quella capitavano spesso. Apparenti sincronismi di quel tipo incoraggiavano uomini meno intelligenti e validi di lui a vedere l'esistenza di un progetto e di un significato nella vita. Corky aveva scommesso il suo futuro, anzi, tutta la sua esistenza, sulla convinzione che la vita fosse priva di significato. Possedeva un cospicuo pacchetto azionario di caos e, a quel punto, non aveva alcuna intenzione di rivedere i suoi investimenti vendendo il caos a breve scadenza. Reynerd si vedeva non solo come un potenziale divo del cinema di proporzioni storiche, ma anche come una specie di ragazzaccio, e i ragazzacci si fanno dei nemici. Tanto per cominciare, più in cerca di emozioni che di profitti, aveva spacciato droga a una ristretta cerchia di clienti dell'ambiente cinematografico, perlopiù cocaina, anfetamine ed ecstasy. La cosa più probabile era che uomini molto più duri del bel Reynerd avessero deciso che l'attore stesse invadendo il loro territorio e lo avevano scoraggiato dal continuare la concorrenza piantandogli un proiettile in testa. Corky aveva avuto bisogno che Reynerd morisse. Il caos gli aveva subito fatto quel favore. Né più, né meno. Era ora di muoversi. In effetti, era ora di cena. A parte una barretta in macchina e un cappuccino doppio nella galleria commerciale, dopo colazione non aveva mangiato più nulla. C'erano giornate piene di proficui impegni in cui il suo lavoro lo soddisfaceva completamente e in cui spesso saltava il pranzo. Ma ora, dopo frenetiche ore trascorse a compiere utili imprese, stava morendo di fame.
Decise lo stesso di fermarsi ancora un po' per servire il caos. I bambini erano una tentazione alla quale non poteva resistere. I piccoli avevano tra i sei e gli otto anni. Alcuni erano vestiti meglio di altri per affrontare la pioggia, ma tutti erano instancabili nella loro esuberanza, ballando-giocando-inseguendosi in quella brutta serata, come se fossero uccelli delle tempeste nati per volare nei venti umidi e nei cieli turbolenti. Concentrati su quella baraonda di poliziotti e ambulanze, gli adulti non badavano ai loro pargoli. I bambini erano abbastanza furbi da capire che, fintanto che restavano a giocare sul prato, dietro ai rispettivi genitori, e mantenevano le loro chiacchiere al di sotto di un certo volume, potevano prolungare all'infinito quella notte di avventure. In un'epoca così paranoica, uno sconosciuto non osava neppure offrire una qualsiasi leccornia a un bambino. Anche il più ingenuo si sarebbe messo a urlare, chiedendo l'aiuto della polizia se qualcuno gli avesse offerto un semplice lecca lecca. Corky non aveva lecca lecca, ma portava sempre con sé un sacchetto di gustose e morbide caramelle. Attese che i ragazzini fossero distratti da qualcos'altro, poi prese il sacchetto da una tasca interna dell'impermeabile. Lo lasciò cadere sul prato dove i bambini lo avrebbero sicuramente trovato quando fossero tornati a giocare di nuovo in quel punto. Non aveva corretto le caramelle con una dose di veleno, ma solo con un potente allucinogeno. Si poteva diffondere nella società il terrore e il disordine anche con mezzi più subdoli della violenza estrema. La quantità di droga contenuta in ogni caramella era così piccola che perfino un bambino che ne avesse avidamente mangiate sette od otto non avrebbe rischiato l'overdose. Ma alla terza caramella sarebbero iniziati gli incubi. Corky rimase in mezzo agli adulti per un altro po' di tempo, osservando furtivamente i piccoli, fino a quando due bambine trovarono il sacchetto. Essendo femminucce, generosamente ne condivisero subito il contenuto con i quattro maschietti. Quel particolare tipo di droga, a meno che non fosse assunta insieme a un antidepressivo come il Prozac, provocava allucinazioni. Ben presto i bambini avrebbero creduto che nel terreno si fossero aperte mostruose bocche, con denti aguzzi e lingue di serpente, pronte a divorarli, che dai loro toraci uscissero sciami di parassiti alieni e che tutti coloro che conosce-
vano e amavano ora intendevano farli a pezzi. Anche dopo essersi ripresi, il ricordo di quegli incubi li avrebbe perseguitati per mesi, forse per anni. Dopo aver sparso questi semi del caos, Corky tornò alla sua auto, passeggiando nella corroborante aria serale e sotto la pioggia purificatrice. Se fosse nato in un secolo precedente, Corky Laputa avrebbe seguito il percorso originario di Johnny Appleseed, distruggendo a uno a uno gli alberi che il leggendario frutticoitore aveva piantato in questo continente. 31 Se Fric avesse sospettato che la cantina era infestata da un fantasma o che qualcosa di non del tutto umano si aggirava furtivamente nel sotterraneo, avrebbe sicuramente scelto di cenare in camera sua. Si mosse senza alcuna circospezione. Paragonando il rumore delle guarnizioni di gomma isolanti che si separavano al risucchio fatto dal coperchio di una lattina di noccioline sottovuoto quando veniva tolto, Fric aprì la spessa porta di vetro della parete, anch'essa di vetro, che divideva i due spazi. Uscì dal locale di degustazione ed entrò nella cantina vera e propria. Lì la temperatura era mantenuta costantemente a 13°. Quattordicimila bottiglie richiedevano un bel mucchio di scaffali portabottiglie... un dedalo di scaffali. Questi non erano stati sistemati come le corsie di un supermercato, ma erano allineati lungo un accogliente labirinto di mattoni composto da corridoi a volta che si intersecavano, formando piccole grotte circolari, anch'esse rivestite di scaffali. Quattro volte l'anno, ogni bottiglia veniva fatta delicatamente ruotare di 90° all'interno della propria nicchia. Questo faceva sì che i tappi di sughero non restassero mai asciutti in alcun punto e che il sedimento si depositasse nel modo più corretto sul fondo di ogni bottiglia. I due camerieri, il signor Worthy e il signor Phan, riuscivano a occuparsi della rotazione delle bottiglie solo per quattro ore al giorno, sia perché il lavoro era estremamente noioso, sia per l'attenzione che richiedeva, ma anche per il dolore che provocava ai muscoli del collo e delle spalle. In una sessione di quattro ore, ognuno di loro riusciva a ruotare tra le milleduecento e le mille trecento bottiglie. Accompagnato da un flusso di aria fresca incessantemente pompato dai fori di ventilazione, Fric seguì uno stretto passaggio di pinot noir fino a un corridoio più ampio di cabernet, girò intorno a una grotta dal soffitto cu-
riosamente piegato ad arco, piena di Lafitte Rothschild di annate diverse, proseguì attraverso un tunnel di merlot alla ricerca di un posto dove nascondersi senza timore di essere trovato. Arrivando in una lunga galleria di forma ellittica, piena zeppa di borgogna francese, gli sembrò di sentire dei passi che non erano i suoi, da qualche altra parte del labirinto. Si bloccò, in ascolto. Nulla. Soltanto il mormorio della corrente d'aria fresca che entrava nella galleria da un corridoio e ne usciva da un altro. Le false fiamme tremolanti delle false lampade a gas, che in alcuni punti erano montate sulle pareti e che pendevano anche dal soffitto delle grotte dove l'altezza lo consentiva, facevano sì che bagliori di luce inseguissero ombre ricurve lungo gli scaffali e i muri di mattoni. Questo strano movimento induceva la mente a udire passi che probabilmente non c'erano. Probabilmente. Avanzando con meno sicurezza di prima, lanciando di tanto in tanto un'occhiata oltre la spalla, Fric riprese a camminare insieme con la lieve brezza. A volte le cantine erano locali ammuffiti che il tempo aveva ricoperto di strati di polvere, lasciando il segno del suo eterno progredire. In effetti, un velo di polvere sulle bottiglie veniva spesso considerato come qualcosa che conferiva alla cantina la sua giusta atmosfera. Tuttavia il padre di Fric aveva un'avversione quasi ossessiva nei confronti della polvere e lì dentro non se ne trovava neppure un granello. Stando bene attente a non alterare la posizione delle bottiglie, una volta al mese le cameriere usavano l'aspiratore per pulire scaffali, soffitto, pareti e pavimento. Qua e là, negli angoli dei corridoi e più spesso nelle curve immerse nell'ombra del soffitto a volta si scorgevano delicate ragnatele. Alcune erano semplici, altre elaborate. Ma nessun architetto a otto zampe dimorava in quelle costruzioni. I ragni non erano tollerati. Durante le operazioni di pulizia, le cameriere evitavano con cura di passare l'aspirapolvere sulle raffinate opere architettoniche, create non da ragni ma da uno scenografo che lavorava per lo studio cinematografico preferito di Papà Fantasma. Tuttavia, con il tempo, le ragnatele si deterioravano. Due volte l'anno il signor Knute, lo scenografo, le spazzava via dai mattoni e le sostituiva con altre nuove di zecca. Il vino però era vero.
Mentre passava da un corridoio all'altro del labirinto, Fric calcolò per quanto tempo suo padre avrebbe potuto ubriacarsi con quel vino prima di svuotare tutte le bottiglie della cantina. Bisognava partire da alcuni presupposti, il primo era che Papà Fantasma avesse dormito otto ore per notte. Certo, se era sempre sbronzo, poteva anche dormire di più; tuttavia, tanto per rendere più semplici i calcoli, bisognava scegliere un numero di ore a caso. Otto. Si doveva anche presupporre che un uomo adulto doveva consumare una bottiglia di vino ogni tre ore per restare veramente sbronzo. All'inizio, per raggiungere lo stato di ebbrezza, probabilmente la prima bottiglia sarebbe stata svuotata nel giro di un'ora, successivamente ne sarebbe bastata una ogni tre ore. In questo caso non si trattava di un presupposto, ma di esperienza diretta. In diverse occasioni Fric aveva avuto la possibilità di osservare attori, scrittori, rock star, registi e altri ubriaconi famosi con una predilezione per il buon vino; mentre alcuni riuscivano a scolarsi una bottiglia anche in meno di tre ore, se lo facevano quelli che erano bevitori incalliti finivano sempre per perdere conoscenza. Okay. Cinque bottiglie nell'arco di una giornata di sedici ore. Dividi quattordicimila per cinque. Duemilaottocento. Il contenuto di quella cantina avrebbe potuto tenere Papà Fantasma completamente sbronzo per duemilaottocento giorni. Adesso dividi duemilaottocento per trecentosessantacinque... Più di sette anni e mezzo. Il suo vecchio poteva restare ubriaco fradicio fino a dopo che Fric si era diplomato ed era scappato di casa per entrare nel corpo dei marine. Naturalmente l'attore più famoso del mondo non beveva mai più di un bicchiere di vino a cena. Non faceva uso di droghe... non fumava neppure marijuana, una sostanza che tutti a Hollywood sembravano considerare praticamente solo un integratore alimentare. «Non sono certo perfetto», aveva detto una volta a un reporter della rivista Première, «ma tutti i miei difetti, le mie mancanze e i miei punti deboli tendono a essere di natura spirituale.» Fric non aveva la benché minima idea di che cosa volesse dire, anche se aveva passato un bel po' di tempo a cercare di capirlo. Forse Ming du Lac, il consigliere spirituale a tempo pieno di suo padre, sarebbe stato in grado di spiegare la frase. Ma Fric non osava mai domandargli chiarimenti perché trovava Ming quasi terrificante quanto il signor
Hachette, lo chef che in realtà era un predatore extraterrestre. Quando arrivò nell'ultima grotta, il punto più lontano dall'entrata della cantina, udì nuovamente dei passi. Ma come in precedenza, dopo essersi fermato ad ascoltare attentamente, non udì nulla di sospetto. A volte la sua immaginazione partiva per la tangente. Tre anni prima, quando lui di anni ne aveva sette, si era convinto che qualcosa di strano, verde e squamoso uscisse ogni notte dalla tazza del suo bagno, pronto a divorarlo se gli fosse saltato in mente di andare a fare pipì. Per mesi, quando si svegliava nel cuore della notte con la vescica gonfia, Fric usciva dal suo appartamento e usava una delle altre toilette della casa. Nel suo bagno occupato dal mostro aveva lasciato un biscotto su un piattino. Notte dopo notte, il biscotto era rimasto al suo posto. Alla fine lo aveva sostituito con un pezzo di formaggio poi, al posto del formaggio, aveva messo della carne. Un mostro poteva anche non provare alcun interesse per i biscotti, poteva fare lo schifiltoso di fronte al formaggio, ma nessuna bestia carnivora poteva resistere a un bel pezzo di mortadella. Ma quando anche questa rimase intatta per una settimana, Fric tornò a usare il suo bagno. Niente lo divorò. Anche adesso niente lo seguì nell'ultima grotta. Niente, a parte la corrente fresca e il tremolio di luce e ombra delle false lampade a gas. I varchi di entrata e di uscita della grotta la dividevano all'incirca a metà. Alla destra di Fric c'erano altri scaffali portabottiglie. Alla sua sinistra, accatastate contro una parete dal pavimento al soffitto, c'erano casse di vino ancora sigillate. La scritta stampata sul legno diceva che le casse contenevano dell'ottimo bordeaux francese. In realtà erano piene di vino scadente che solo un barbone avrebbe potuto bere e che probabilmente era diventato aceto anni prima che Fric nascesse. Le casse di legno erano state accatastate in quel punto in parte come decorazione e in parte per nascondere l'ingresso del locale in cui era conservato il porto. Fric premette un pulsante nascosto. Una pila di casse ruotò verso l'interno. Al di là di quel varco si apriva una stanza grande quanto una cabina armadio. Lungo la parete di fondo c'era uno scaffale in cui erano allineate bottiglie di porto vecchie di cinquanta, sessanta e settant'anni. Il porto era un vino da dessert. Fric preferiva la torta al cioccolato. Secondo lui, neppure alla fine degli anni Trenta, quando la villa era stata
costruita, il paese era infestato da bande di ladri di porto. Con tutta probabilità il locale era stato nascosto solo per divertimento. Quella stanza segreta, più piccola del locale blindato per le pellicce, poteva essere un buon nascondiglio... dipendeva da quanto tempo avrebbe avuto bisogno di restare nascosto. Per qualche ora poteva essere abbastanza comodo. Ma se doveva restare lì dentro per due o tre giorni, avrebbe avuto la sensazione di essere stato sepolto vivo. Gli sarebbe venuto un orribile attacco di claustrofobia e alla fine, completamente folle, probabilmente si sarebbe mangiato vivo, cominciando dagli alluci e continuando verso l'alto. Innervosito dalla piega che aveva preso la loro seconda conversazione, Fric si era dimenticato di domandare all'Uomo Misterioso per quanto tempo sarebbe durato quell'assedio. Uscì dal piccolo locale e richiuse la porta formata dalle casse di vino. Voltandosi, Fric scorse un movimento nel corridoio che aveva percorso per entrare nell'ultima grotta. Non era soltanto il pulsare delle false fiamme. Una grande, strana silhouette a forma di spirale scivolava tra gli scaffali e il soffitto a volta, passando sopra quel tremolio di luci e ombre. Si stava avvicinando alla grotta. Al contrario di quanto faceva suo padre nei momenti più drammatici dei film, Fric si fece prendere dalla paura e non riuscì né ad attaccare, né a fuggire. Priva di forma, modificandosi in continuazione, ruzzolando delicatamente, l'ombra si faceva sempre più vicina, finché quella cosa terrificante apparve all'imbocco del corridoio: uno spirito, un fantasma, un'apparizione, dai contorni sfilacciati e una consistenza lattiginosa, semitrasparente e vagamente luminosa, scivolava lentamente verso di lui con un movimento sovrannaturale. Fric cominciò a indietreggiare disperatamente, inciampò, cadde con tanta forza da ricordarsi che il suo sedere era magro quanto i suoi bicipiti. L'apparizione entrò nella grotta, scivolando come una dasiatide nelle profondità oceaniche. La luce tremolante e l'ombra che pulsava conferivano a quel fantasma un'aura velata che ne aumentava il mistero. Fric sollevò le mani per proteggersi il viso, sbirciò tra le dita allargate lo spirito che giungeva sopra di lui. Per un momento, priva di peso e ruotando lentamente su se stessa, l'apparizione gli ricordò la Via Lattea, a forma di spirale, trasparente come una ragnatela... poi la riconobbe per quello che
era. Lasciandosi trasportare pigramente dal soffio di aria fresca, una delle finte ragnatele costruite dal signor Knute si era staccata. Fluttuando con la grazia di una medusa, seguiva la corrente d'aria che attraversava la grotta e si dirigeva verso il corridoio successivo. Mortificato, Fric si rialzò in piedi. Uscendo dalla grotta, la ragnatela restò intrappolata in una delle lampade a muro, si aggrovigliò su se stessa e rimase lì, inconsistente e svolazzante come fosse uscita dal cassetto della biancheria intima di Campanellino. Furibondo con se stesso, Fric si precipitò fuori della cantina. Era di nuovo nel locale da degustazione e stava chiudendo la pesante porta di vetro dietro di sé, quando si rese conto che la ragnatela non poteva essersi staccata da sola. Né poteva essere stato quel leggero soffio d'aria a farlo. Come minimo qualcuno doveva averla urtata, e Fric non credeva di essere stato lui. Sospettava che chi lo aveva seguito da vicino in quel labirinto, avesse anche staccato pazientemente la ragnatela dal suo angolo, stando attento a non romperla, e aveva fatto in modo che cominciasse a fluttuare a mezz'aria per prendersi gioco di lui. D'altra parte ricordava anche troppo bene il mostro verde e squamoso nascosto nella sua toilette, che non era stato neppure abbastanza reale da mangiarsi un pezzettino di mortadella. Si fermò per un momento, guardando con aria perplessa il lungo tavolo. Mentre girovagava per la cantina, i piatti con la sua cena erano stati portati via. Una delle cameriere doveva aver sparecchiato. Oppure la signora McBee anche se, impegnata com'era quella sera, probabilmente avrebbe mandato suo marito. Per quale motivo uno di loro avrebbe dovuto seguirlo nella cantina senza chiamarlo a voce alta, per quale motivo avrebbe dovuto staccare e far svolazzare in aria la ragnatela, era qualcosa che Fric non riusciva minimamente a capire. Ebbe la sensazione di trovarsi al centro di una ragnatela, non di quelle costruite dal signor Knute, ma dell'invisibile ragnatela di un complotto. 32
Appena ricevuta la chiamata, Dunny Whistler si affretta a raggiungere Beverly Hills. Non ha più bisogno dell'automobile. Tuttavia gli piace stare al volante di una bella macchina e anche il semplice piacere di guidare, alla luce degli ultimi avvenimenti, ha acquistato una nuova intensità. Durante il tragitto, i semafori scattano sul verde proprio quando lui ne ha bisogno, gli si aprono varchi nel traffico e Dunny può viaggiare a una tale velocità che, per quasi tutto il tempo, dai suoi pneumatici si levano scure ali di acqua. Dovrebbe provare una sorta di ebbrezza, ma nella sua mente si affollano innumerevoli preoccupazioni. Giunto davanti all'albergo, dove i veicoli in arrivo e in partenza hanno tutti l'aria di essere particolarmente costosi, Dunny consegna la sua automobile all'addetto al parcheggio. Gli lascia una mancia di venti dollari perché, con tutta probabilità, non resterà in giro abbastanza a lungo per godersi tutto il denaro in contanti che ha a disposizione. Nell'atrio, la sontuosità dei colori, dei tessuti e delle forme lo abbraccia con tanto calore che Dunny potrebbe facilmente dimenticare che, fuori, la notte è fredda e piovigginosa. Con le sue pareti rivestite di legno prezioso, con il suo elegante arredamento, con le luci soffuse che creano un'atmosfera romantica, un vero e proprio manuale sull'architettura d'interni, il bar dell'albergo è enorme ma tuttavia affollato di clienti. Tutte le donne presenti, indipendentemente dalla loro età, sono bellissime, o per volontà divina o grazie al bisturi di un buon chirurgo. Metà degli uomini sono attraenti come divi del cinema e l'altra metà pensa di esserlo. La maggior parte di loro lavora nell'industria dello spettacolo. Non sono attori, ma manager di studi cinematografici, agenti, pubblicitari e produttori. In un qualsiasi altro albergo della città, probabilmente ci si troverebbe immersi in una babele di lingue, ma lì si parla solo inglese e unicamente quella ristretta ma colorita versione dell'inglese nota come il dialetto degli affari. In quell'albergo si consolidano relazioni; si fanno soldi; ci si accorda segretamente per organizzare ogni tipo di eccesso sessuale. Sono tutte persone energiche, ottimiste, perennemente in cerca di facili amori, chiassose e convinte della loro immortalità. Così come Cary Grant, nei film, attraversava un salone affollato durante una festa come se pattinasse, mentre tutti gli altri sembravano camminare con dei pesi attaccati alle gambe, Dunny scivola oltre il bar, tra i tavoli
pieni, dirigendosi verso un ambito tavolo d'angolo per quattro persone, al quale siede soltanto un uomo. Quell'uomo si chiama Typhon, o quanto meno così lui vuol far credere. Lo pronuncia Tai-fon, e appena gli siete stati presentati vi informa che porta il nome di un mostro appartenente alla mitologia greca, una bestia che si spostava con i temporali e che seminava il terrore ovunque la pioggia lo portasse. Poi scoppia a ridere, forse rendendosi conto che quel nome è decisamente in contrasto con il suo aspetto, con il suo stile di distinto uomo d'affari e con i suoi modi beneducati. In Typhon non c'è nulla di mostruoso o di tempestoso. Grassoccio, capelli bianchi, un viso dolce e androgino che, in un film, sarebbe adatto a interpretare sia il personaggio di una suora colma di beatitudine sia quello di un pio frate. Sorride spesso, con facilità, e il suo sorriso sembra sincero. Con i suoi modi affabili, la sua disponibilità ad ascoltare, la sua irresistibile simpatia, quell'uomo può farsi un amico nel giro di un minuto. È vestito in modo impeccabile con un completo blu scuro, camicia bianca di seta, cravatta a righe rosse e blu e un fazzoletto da taschino rosso. Il taglio della sua folta capigliatura bianca è stato affidato a uno stilista prediletto da attori del cinema e membri di famiglie reali. La pelle priva di macchie e resa liscia da costosi emollienti, i denti accuratamente sbiancati e le unghie curate indicano che quell'uomo ci tiene al suo aspetto. Typhon siede rivolto verso la sala, in atteggiamento gradevolmente regale, come un monarca che tenga corte. Sebbene debba essere conosciuto da tutta quella gente, nessuno lo importuna, come se sia sottinteso il fatto che lui preferisce vedere ed essere visto, piuttosto che parlare con qualcuno. Delle quattro sedie intorno al tavolo, due sono rivolte verso la sala. Dunny si siede nella seconda. Typhon sta mangiando ostriche accompagnate da un superbo pinot grigio. Dice: «Ti prego, mio caro ragazzo, cena con me. Ordina tutto ciò che desideri». Come per magia, appare immediatamente un cameriere. Dunny ordina una doppia porzione di ostriche e un'altra bottiglia di pinot grigio. È sempre stato un uomo dotato di un formidabile appetito. «Sei sempre stato un uomo dotato di un formidabile appetito», osserva Typhon, poi sorride con aria maliziosa. «Tutto questo finirà anche troppo presto», commenta Dunny. «Ma finché posso, intendo rimpinzarmi di cibo.» «Questo è lo spirito giusto!» esclama Typhon. «Tu mi somigli molto,
Dunny. A proposito, che bel completo.» «Anche lei ha un buon sarto.» «È una seccatura dover parlare d'affari», commenta Typhon, «quindi, togliamoci subito il dente.» Dunny rimane in silenzio, ma si prepara a ricevere un rimprovero. Typhon sorseggia il vino, poi sospira di piacere. «Non sbaglio dicendo che hai ingaggiato un sicario per togliere di mezzo il signor Reynerd?» «Sì. È vero. Un tizio che si faceva chiamare Hector X.» «Un sicario», ripete Typhon con evidente stupore. «Uno che ho conosciuto ai vecchi tempi, apparteneva alla banda dei Crips. Allora preparavamo e distribuivamo insieme dosi di sherm.» «Sherm?» «PCP, un tranquillante per animali. Avevamo messo su un'attività mica male. Sigarette di marijuana corrette con un po' di cocaina e inzuppate nel PCP.» «Tutti i tuoi soci hanno dei curricula così interessanti?» Dunny scrolla le spalle. «Era quel che era.» «Infatti, era. Adesso sono morti entrambi.» «Le spiego come la vedo io. Hector aveva già ucciso in passato e Reynerd aveva fatto uccidere sua madre. Non ho certo corrotto un innocente e neppure ne ho fatto uccidere uno.» «Non è la corruzione che mi preoccupa, Dunny. Il fatto è che tu non sembri comprendere i limiti della tua autorità.» «So che tirare in ballo un assassino per farne fuori un altro è un po' irregolare...» «Irregolare!» Typhon scosse la testa. «No, ragazzo mio, è assolutamente inaccettabile.» Arrivano le ostriche e il vino di Dunny. Il cameriere stappa il pinot grigio, ne versa un po' nel bicchiere e Dunny, dopo averlo assaporato, lo approva. Contando sul gradevole chiacchiericcio degli altri clienti per proteggere da orecchi indiscreti quella loro conversazione così delicata, Typhon riprende a parlare. «Dunny, devi comportarti con discrezione. D'accordo, sei stato un mascalzone per quasi tutta la tua vita, è vero, ma negli ultimi anni avevi lasciato perdere, non è così?» «Ho tentato. Ci sono quasi sempre riuscito. Mi ascolti, signor Typhon, non sono stato io a premere il grilletto contro Reynerd. Ho agito in modo indiretto, come d'accordo.»
«Ingaggiare un sicario non è un modo indiretto.» Dunny ingoia un'ostrica. «Allora avevo capito male.» «Ne dubito», ribatte Typhon. «Credo invece che tu abbia consapevolmente tirato la corda per vedere se si spezzava.» Fingendosi totalmente preso dalle ostriche, Dunny non osa porre l'ovvia domanda. Il più potente capo di uno studio cinematografico fa il suo ingresso dalla parte opposta del locale con tutta la sicurezza propria di un imperatore romano. È accompagnato da un gruppo di giovani assistenti, uomini e donne, eleganti e freddi come vampiri, che tuttavia, osservati più da vicino, appaiono nervosi come chihuahua. Scorgendo immediatamente Typhon, questo re di Hollywood lo saluta con un cenno della mano che rivela una certa ansietà, anche se controllata. Typhon ricambia il saluto con molta più pacatezza, mettendo così immediatamente in chiaro che, tra loro due, è lui il personaggio più importante, e questo lascia il Cesare in uno stato di evidente imbarazzo. Ora è Typhon a porre la domanda che Dunny non aveva voluto fare: «Ingaggiando Hector X, hai tirato la corda della tua autorità oltre il punto di rottura?» Poi risponde: «Sì. Ma sono disposto a offrirti un'altra possibilità». Dunny ingoia un'altra ostrica, che gli scivola in gola con maggior facilità della precedente. «Molti tra gli uomini e le donne che vedi in questo bar», spiega Typhon, «ogni giorno firmano contratti che hanno la precisa intenzione di infrangere. Le persone con cui si accordano si aspettano un simile comportamento o pensano di infrangere loro stessi alcuni termini di quei contratti. Alla fine ci sarà uno scambio di furibonde recriminazioni, si tireranno in ballo avvocati, si minacceranno azioni legali e, tra sgradevoli accuse e veementi controaccuse, si arriverà a un accordo extragiudiziario. In seguito, ma anche durante la lite, le stesse parti saranno impegnate a negoziare tra di loro altri contratti, che naturalmente intendono infrangere.» «L'industria cinematografica è un manicomio», commenta Dunny. «Sì, è vero. Ma, caro ragazzo, non è questo il punto.» «Mi scusi.» «Il punto è che infrangere un contratto - il tradimento in generale - è qualcosa che accettano come parte della loro cultura personale e di lavoro, così come il sacrificio umano era una pratica accettata nel mondo azteco. Ma il tradimento è qualcosa che io non tollero. Non sono così cinico. La
parola, le promesse e l'integrità sono importanti per me. Molto importanti. Non posso fare affari... semplicemente mi rifiuto di concludere affari con persone che non sono sincere quando mi danno la loro parola.» «Capisco», mormora Dunny. «Mi sono pienamente meritato il suo rimprovero.» Typhon sembra sinceramente addolorato per la reazione di Dunny. Il suo viso grassoccio si corruga in una smorfia di costernazione. I suoi occhi, di un azzurro singolare, solitamente scintillanti di buon umore, ora vengono offuscati da una nube di tristezza. Quell'uomo è facile da leggere come un libro aperto, mostra chiaramente le sue emozioni e non è per nulla enigmatico, ed è questo uno dei motivi per cui risulta così simpatico. «Dunny, mi dispiace veramente che tu ti sia sentito rimproverato. Non era questa la mia intenzione. Avevo solo bisogno di chiarire le cose. Il fatto è che io voglio che tu riesca nella tua impresa, davvero, ragazzo mio. Ma se vuoi avere successo, devi agire secondo gli alti livelli qualitativi di cui abbiamo discusso all'inizio.» «Stia tranquillo. Lei è stato più che cortese con me. Le sono grato di lasciarmi un'altra possibilità.» «Via, non c'è bisogno di essermi grato, mio caro Dunny.» Riacquistando tutta la sua allegria, il viso di Typhon si illumina di un grande sorriso. «Se tu avrai successo, allora anch'io avrò avuto successo. I tuoi interessi sono anche i miei.» Per rassicurare il suo benefattore sul fatto che si sono intesi perfettamente, Dunny chiarisce: «Farò tutto il possibile per Ethan Truman... mantenendo sempre un profilo basso, naturalmente. Ma non prenderò alcuna iniziativa contro Corky Laputa». «Che soggetto incredibile è quello lì.» Typhon fa schioccare la lingua, ma i suoi occhi scintillano divertiti. «Il mondo ha disperatamente bisogno della pietà di Dio fintanto che ci sono individui come Corky.» «Amen.» «Sai che, se tu non ti fossi immischiato, molto probabilmente Corky avrebbe comunque ucciso Reynerd.» «Lo so», ammette Dunny. «Allora perché hai tirato fuori quell'Hector X?» «Laputa non lo avrebbe ucciso se ci fosse stato un testimone, di sicuro non con Hazard Yancy presente. Invece, quando Reynerd è morto di fronte a Yancy, questi ne è rimasto per forza coinvolto e più di quanto sarebbe
accaduto se la faccenda si fosse svolta diversamente. Per il bene di Ethan, io voglio che Yancy sia coinvolto.» «In effetti, il tuo amico ha bisogno di tutto l'aiuto possibile», concede Typhon. Per un paio di minuti entrambi si godono le ostriche e il buon vino in silenzio. Poi Dunny commenta: «L'incidente con il Cruiser è stato una sorpresa». Inarcando le sopracciglia Typhon chiede: «Non penserai che i nostri abbiano avuto qualcosa a che fare con quello, vero?» «No», lo rassicura Dunny. «So come funzionano queste cose. È stata una sorpresa, nient'altro. Ma sono riuscito a sfruttarla a mio vantaggio.» «Lasciargli quelle tre campanelline è stata una mossa astuta», concorda Typhon. «Anche se in questo modo lo hai spinto a bere.» Annuendo con un sorriso, Dunny ammette: «Probabilmente è vero». «Non c'è nessun 'probabilmente'», insiste Typhon. Poi, indicando con un dito, soggiunge: «Proprio adesso il povero Ethan è al bar». Sebbene, dalla sua posizione, Dunny possa vedere tutta la sala, circa un terzo del lungo bar si trova alle sue spalle. Si volta per guardare dove Typhon sta indicando. Al di là dei tavoli in cui i violatori di contratti socializzano con i nemici, Ethan Truman è appollaiato su uno sgabello del bar, di profilo rispetto a Dunny, e fissa un bicchiere che potrebbe contenere dell'ottimo scotch. «Mi vedrà», si preoccupa Dunny. «Molto probabilmente no. È troppo distratto. In un certo senso, in questo momento non vede nessuno. È come se fosse da solo.» «Ma se mi vede...» «Se ti vede», lo interrompe Typhon in tono rassicurante, «in un modo o nell'altro riuscirai ad affrontare la situazione. Sono qui per consigliarti, nel caso tu ne abbia bisogno.» Dunny fissa Ethan per qualche istante, poi gli volta di nuovo le spalle. «Ha scelto questo posto sapendo che era qui?» L'unica di risposta di Typhon è un sorriso radioso accompagnato da una smorfia maliziosa, come se ammettesse di essere stato un po' birichino ma di non essere riuscito a resistere. «Ha scelto questo posto proprio perché lui era qui.» «Sapevi che san Duncan, di cui tu porti il nome, è il patrono dei guardiani e dei protettori e che, se ti rivolgi a lui, ti aiuterà a essere determinato e intraprendente nel tuo lavoro?»
Con un sorriso un po' tirato, Dunny commenta: «Davvero? Buffo, le pare?» Rassicurando Dunny con un colpetto sul braccio, Typhon dice: «Da quel che ho potuto vedere, sei un uomo dotato di una straordinaria intraprendenza». Dunny rimane a sorseggiare il suo vino per un po', poi domanda: «Pensa che ne uscirà vivo da tutta questa storia?» Dopo aver terminato l'ultima ostrica, Typhon risponde alla domanda: «Ethan? Almeno fino a un certo punto, sta a te far sì che ci riesca». «Ma solo fino a un certo punto.» «Be', tu sai come funzionano queste cose, Dunny. Molto probabilmente sarà morto prima di Natale. Ma la sua situazione non è totalmente disperata. Non lo è mai per nessuno.» «E quelli di Palais Crapaud?» Con i suoi capelli bianchi, il viso rotondo e gli scintillanti occhi azzurri, a Typhon manca solo la barba per essere il sosia di Babbo Natale. Quel volto così dolce non è fatto per espressioni cupe. Ed è con sconcertante allegria che risponde: «Non penso che un esperto allibratore gli darebbe qualche possibilità, ti pare? Non quando si trovano ad affrontare soggetti come il signor Laputa. Ha un carattere violento ed è deciso a ottenere ciò che vuole». «Anche il bambino?» «Soprattutto il bambino», sottolinea Typhon. «Soprattutto lui.» 33 Spaventato e frustrato, Fric uscì dalla sala di degustazione e si diresse immediatamente verso la biblioteca, seguendo un percorso un po' tortuoso ma in cui c'erano minori probabilità di incontrare qualcuno del personale di servizio. Come uno spirito, come un fantasma, come un ragazzo avvolto in un mantello che rende invisibili, attraversò stanze e corridoi, salì scale ed entrò in altre stanze, ma nessuno in quella grande villa si accorse del suo passaggio, un po' perché riusciva a muoversi silenzioso come un gatto, ma in parte anche perché, forse con l'eccezione della signora McBee, a nessuno importava dove diavolo fosse o che diavolo stesse combinando. Essere piccoli, magri e ignorati non poteva essere considerata sempre una disgrazia. Quando le forze del male si sollevano contro di te, mantene-
re un basso profilo aumenta le tue probabilità di evitare di essere sventrato, decapitato, di entrare a far parte dell'esercito dei morti viventi o qualsiasi altro spaventoso destino ti stia aspettando. L'ultima volta che Mamma Virtuale era andata a trovarlo, che in fondo non risaliva al tempo dei mammuth e degli smilodonti, aveva detto a Fric che lui era: «Un dolce topolino di cui nessuno si accorge perché è così silenzioso, così rapido, così veloce e grigio, veloce come l'ombra grigia di un uccellino che ti sfreccia accanto. Sei un topolino, Aelfrich, un topolino perfetto e quasi invisibile». Freddie Nielander diceva un sacco di stupidaggini. Fric non le serbava rancore per questo. Era stata così bella per così tanto tempo che nessuno l'ascoltava davvero. Tutti restavano sopraffatti dal suo splendore. Quando nessuno ti ascolta, ti ascolta davvero, è possibile che cominci a perdere la capacità di capire se, quando parli, dici qualcosa che ha un senso o no. Fric comprendeva questo pericolo perché anche nel suo caso nessuno lo ascoltava mai veramente. E la gente non era neppure sopraffatta dal suo splendore. Al contrario. Senza alcuna eccezione, tutti amavano Freddie Nielander a prima vista e desideravano che lei ricambiasse il loro affetto. Quindi, anche se l'avessero ascoltata, si sarebbero sempre dichiarati d'accordo con lei; arrivavano a lodare la sua intelligenza perfino quando diceva cose senza senso. La povera Freddie non riceveva alcun messaggio veritiero dalla gente che le stava intorno, ma soltanto dallo specchio. Era un miracolo che non fosse impazzita già da molto tempo come un topo da laboratorio. Arrivando in biblioteca, Fric si accorse che i mobili della zona di lettura più vicini all'ingresso erano stati leggermente spostati per fare spazio a un albero di Natale alto quasi quattro metri. Il profumo di bosco era così intenso che Fric si aspettava di vedere degli scoiattoli seduti nelle poltrone o intenti ad ammassare ghiande negli antichi vasi cinesi. Si trattava di uno dei nove imponenti abeti che quella sera sarebbero stati collocati nelle stanze principali della villa. Erano alberi tutti uguali, dalla forma impeccabile, perfettamente simmetrici e più verdi del verde. Ciascuno dei nove abeti sarebbe stato decorato secondo un tema diverso. In questo caso il soggetto era: gli angeli. Ogni ornamento era un angelo o aveva la forma di un angelo. Angeli neonati, angeli bambini, angeli adulti, angeli biondi con gli occhi azzurri, an-
geli neri, angeli asiatici, angeli nativi americani dal nobile aspetto e con in testa ornamenti di piume, oltre che aureole. Angeli che sorridevano, angeli che ridevano, angeli che usavano le aureole come hula-hoop, angeli che volavano, ballavano, cantavano, pregavano e saltavano alla corda. Cagnolini con le ali di un angelo. Gatti angelo, rospi angelo e un maiale angelo. Fric trattenne l'impulso di mettersi a vomitare. Lasciando tutti gli angeli a scintillare e luccicare, dondolare e sorridere, si diresse verso gli scaffali dei libri, scegliendo quello che conteneva i dizionari. Si sedette sul pavimento dopo aver scelto il volume più grosso - il Dizionario Random House della Lingua Inglese - e si mise a cercare Robin Goodfellow, perché l'Uomo Misterioso aveva detto che l'individuo da cui Fric ben presto avrebbe avuto bisogno di nascondersi «si fa chiamare Robin Goodfellow». La definizione era un'unica parola: Puck. Fric ebbe l'impressione che si trattasse di un'oscenità, anche se non sapeva che cosa volesse dire. I dizionari erano pieni di oscenità. La cosa non lo disturbava. Dava per scontato che coloro che compilavano i dizionari non fossero un gruppo di sporcaccioni, ma che al contrario avessero ottimi motivi per includere il linguaggio volgare. Tuttavia, quando cominciavano a inserire definizioni oscene costituite da una sola parola che non aveva alcun senso, forse l'editore avrebbe fatto meglio ad annusare le loro tazzine di caffè per controllare che non fossero state corrette con qualcosa di alcolico. Tra le conoscenze di suo padre, erano in molti a usare così tante parole oscene in un'unica frase che probabilmente possedevano dizionari contenenti soltanto parolacce. Ma Puck era un termine così oscuro che nessuno lo aveva mai usato in presenza di Fric. Continuò nella sua ricerca, sicuro che avrebbe scoperto che Puck significava «vai al diavolo, siamo stufi di dare la definizione dei vocaboli, inventatelo tu un significato». Invece apprese che Puck era un «folletto birichino» che apparteneva al folklore inglese e che era anche un personaggio di Shakespeare in Sogno di una notte di mezza estate. La maggior parte delle parole aveva più di un significato e questo valeva anche per Puck. La seconda definizione si rivelò meno piacevole della prima: «Demone o spirito maligno». L'Uomo Misterioso aveva detto che il tizio da cui Fric doveva nascon-
dersi aveva un lato più oscuro di quello di Robin Goodfellow, alias Puck. Un lato più oscuro di quello di un demone maligno. Nuvole dall'aspetto preoccupante si stavano ammassando sopra Friclandia. Riprendendo a sfogliare il dizionario, Fric cercò un tizio di nome M-o e L-o-c-h. Gli ci volle un po' di tempo, ma alla fine trovò MOLOCH. Lesse la definizione due volte. Niente di buono. Moloch era una divinità, menzionata in due libri della Bibbia, ai cui fedeli veniva chiesto di sacrificare dei bambini. Naturalmente non era stata una divinità approvata dalla Bibbia. In particolare le ultime quattro parole della definizione turbarono profondamente Fric: «... il sacrificio di bambini da parte dei loro stessi genitori». Passi il sacrificio dei bambini, ma che a ucciderli dovessero essere i genitori gli sembrava davvero un po' troppo. Neanche per un momento credette che Papà Fantasma e Mamma Virtuale lo avrebbero legato a un altare e lo avrebbero fatto a pezzi in onore di Moloch. Prima di tutto, visti i loro impegni da superstar, probabilmente non si sarebbero mai più trovati nello stesso posto e nello stesso momento. In più, anche se non erano il tipo di genitore che ti rimbocca le coperte la sera e che t'insegna a lanciare una palla, non erano neppure dei mostri. Erano soltanto persone. Confusi. Cercavano di fare del loro meglio, come potevano. Fric non dubitava assolutamente che gli volessero bene. Dovevano volergliene. Lo avevano fatto loro. Semplicemente non esprimevano bene i loro sentimenti. La forza di una top model era l'immagine, non le parole. Naturalmente, essendo un attore, il più grande divo del mondo si trovava più a suo agio con le parole rispetto a Freddie, ma solo quando qualcuno le scriveva per lui. Giusto per aver qualcosa da fare che non fosse pensare a come sarebbe stato brutalmente assassinato, Fric si dedicò alla ricerca di parole oscene nel dizionario. Era un libro incredibilmente sporcaccione. Alla fine cominciò a vergognarsi di leggere tutte quelle disgustose definizioni in una stanza in cui c'era un albero ornato di angeli. Dopo aver riposto il dizionario nel suo scaffale, andò al telefono più vicino. Dato che la libreria era un locale enorme, distribuiti tra le varie aree
di lettura c'erano tre apparecchi telefonici. Nelle rare occasioni in cui Papà Fantasma concedeva un'intervista a casa invece che sul set o in un altro terreno neutrale, solitamente faceva notare il fatto che nella biblioteca c'erano più libri, almeno il doppio, di quante fossero le bottiglie contenute nella cantina. Poi soggiungeva: «Quando diventerò un attore ormai superato, perlomeno sarò un ex attore ben istruito». Ah, ah, ah. Fric si sedette sul bordo di una poltrona, sollevò il ricevitore del vicino apparecchio telefonico, premette il tasto della sua linea privata e digitò *69. Si era dimenticato di farlo nel locale di degustazione, dopo che l'Uomo Misterioso aveva riagganciato. Nel precedente tentativo, il numero richiamato aveva continuato a squillare a vuoto. Questa volta la risposta ci fu. Qualcuno sollevò il ricevitore al quarto squillo, ma non disse nulla. «Sono io», disse Fric. Sebbene non ricevesse alcuna risposta, Fric sapeva che la comunicazione non era stata interrotta. Percepiva una presenza all'altro capo del filo. «È rimasto sorpreso?» domandò Fric. Sentiva qualcuno che respirava. «Ho usato asterisco sessantanove.» Il respiro si fece strano, un po' affannoso, come se l'idea di essere stato rintracciato attraverso *69 mettesse in agitazione quell'individuo. «Sono nel bagno di mio padre e sto chiamando dal gabinetto», mentì, aspettando di vedere se quello strano interlocutore lo avrebbe avvertito della sofferenza che toccava a chiunque dicesse bugie. Ma continuò a sentire altri respiri. Il tizio stava cercando chiaramente di spaventarlo. Fric si rifiutava di dare a quel maniaco la soddisfazione di sapere che c'era riuscito. «Ho dimenticato di domandarti per quanto tempo dovrò nascondermi da questo Puck.» Più ascoltava quel respiro, più Fric si rendeva conto che c'era in esso qualcosa di strano e di sgradevole, molto diverso dal tipico ansimare del maniaco al telefono che aveva sentito nei film. «Ho cercato anche Moloch.» Quel nome sembrò eccitare il tizio. Il respiro si fece più rapido ed eccitato.
Improvvisamente Fric si convinse che dall'altra parte del filo non c'era un uomo, bensì un animale. Come un orso, ma peggio di un orso. Come un toro, ma non comune come un toro. Risalendo lungo la spirale del filo, nel ricevitore, nell'auricolare, entrando nell'orecchio destro di Fric, il respiro si dimenò, un serpente di rumore che cercava di attorcigliarsi nel suo cranio e di affondare i denti velenosi nel suo cervello. Non somigliava affatto all'Uomo Misterioso. Fric riagganciò. La sua linea squillò immediatamente: Udili-udili-u. Non rispose. Udili-udili-u. Fric si alzò dalla poltrona. Si allontanò. Percorse in fretta i corridoi di scaffali e raggiunse la parte anteriore della biblioteca. La sua suoneria personale continuò a prendersi gioco di lui. Fric si fermò a fissare l'apparecchio telefonico che si trovava nell'area di lettura principale, con la luce che lampeggiava a ogni squillo. Come tutti gli abitanti della casa e i membri del personale ai quali era stata riservata una linea, anche Fric aveva una segreteria telefonica. Se al quinto squillo non avesse ancora risposto, la telefonata sarebbe stata registrata. Ma nonostante la sua segreteria telefonica fosse accesa, il telefono aveva squillato per quattordici volte, forse anche di più. Girò intorno all'albero di Natale, aprì una delle due porte e uscì dalla biblioteca. Alla fine il telefono smise di beffarsi di lui. Fric guardò a sinistra, poi a destra. Nel corridoio non c'era nessun altro, nondimeno provava di nuovo la sensazione di essere osservato. Nella biblioteca, fra centinaia di minuscole luci bianche che, come stelle, punteggiavano i rami scuri dell'abete, gli angeli cantavano silenziosamente, ridevano silenziosamente, silenziosamente suonavano le trombe, luccicavano, scintillavano, pendevano dalle aureole o dalle arpe, dondolavano dalle loro ali forate, dalle mani alzate in segno di benedizione e dai colli, come se avessero infranto tutte le leggi del paradiso e, con un'esecuzione di massa, fossero stati impiccati a quell'albero. 34
Ethan bevve lo scotch senza che gli facesse alcun effetto, perché il suo metabolismo sembrava essere stato notevolmente accelerato dall'esperienza di essere morto due volte in uno stesso giorno. Il bar di quell'albergo, con la sua folla salottiera, era uno dei preferiti di Channing Manheim, un locale che l'attore frequentava all'inizio della carriera. In altre circostanze, Ethan avrebbe scelto un bar meno appariscente e impregnato di un confortevole odore di birra. Ma i pochi altri locali che conosceva erano anche quelli preferiti dai poliziotti fuori servizio. Lo scoraggiava la prospettiva di imbattersi in uno dei suoi vecchi amici, proprio quella sera. Anche se Ethan avesse tentato in ogni modo di apparire sereno, sarebbe bastato un minuto di conversazione con un fratello di distintivo perché questi comprendesse quanto l'ex collega fosse profondamente turbato. A quel punto nessun poliziotto degno di questo nome avrebbe resistito alla tentazione di fargli confessare, in modo più o meno astuto, il motivo della sua preoccupazione. In quel momento lui non voleva parlare di ciò che gli era successo. Voleva pensarci su. Be', non era del tutto vero. Avrebbe preferito ignorare tutto quanto, piuttosto che pensarci. Semplicemente dimenticare che era accaduto. Voltargli le spalle. Bloccare la memoria e ubriacarsi. Ma non poteva fingere che non fosse successo nulla, non con le tre campanelle argentate prese nell'ambulanza e che ora scintillavano sul ripiano del bar, accanto al bicchiere di scotch. Era come ritrovarsi con l'abominevole uomo delle nevi seduto sulla faccia e insistere a negarne l'esistenza. Quindi non aveva altra scelta se non quella di continuare a rimuginare su ciò che era accaduto, il che lo conduceva immediatamente in un vicolo cieco. Non solo non sapeva che cosa pensare di quegli strani episodi, non sapeva neppure come pensarvi. Ovviamente Rolf Reynerd non gli aveva conficcato un proiettile nell'addome. Tuttavia, per intuito, sapeva che il referto del laboratorio gli avrebbe confermato che il sangue trovato sotto le sue unghie apparteneva proprio a lui, a Ethan Truman. L'esperienza di essere investito e di ritrovarsi in condizioni disperate era così viva, il ricordo della paralisi così orribilmente particolareggiato, che non poteva credere di essersi immaginato tutto sotto l'influenza di una droga, somministratagli a sua insaputa.
Ethan chiese al barista di servirgli un altro scotch e, mentre il liquore veniva versato in un bicchiere pulito e su un paio di cubetti di ghiaccio, indicò le campanelle e domandò: «Le vede?» «Adoro quella vecchia canzone», confessò il barista. «Quale canzone?» «'Campane d'argento '.» «Quindi lei le vede?» Il barista lo guardò stupito. «Certo. Una serie di tre campanelle. Lei quante ne vede?» La bocca di Ethan si aprì in un sorriso che sperò sembrasse meno stupido di quanto lui si sentiva. «Soltanto una serie di tre. Non si preoccupi. Non sarò un pericolo sulla strada.» «Davvero? Allora lei è più unico che raro.» Già, pensò Ethan, sono davvero più unico che raro. Oggi sono morto due volte e tuttavia riesco ancora a tenere sotto controllo la mia sbronza, poi si domandò quanto ci avrebbe messo il barista a portargli via il bicchiere di scotch se avesse espresso a voce alta il suo pensiero. Sorseggiò il liquore, cercando lucidità nell'ubriachezza, visto che non riusciva a trovarne nella sobrietà. Dieci o quindici minuti dopo, perfettamente sobrio, scorse nello specchio del bar il riflesso di Dunny Whistler. Con uno scatto fece ruotare lo sgabello, rovesciando un po' di scotch dal bicchiere. Avanzando a zigzag tra i tavoli, Dunny aveva quasi raggiunto la porta. Non era un fantasma: una cameriera si era fermata per lasciarlo passare. Ethan scattò in piedi, si ricordò delle campanelle, le afferrò dal ripiano del bar, poi si precipitò verso l'uscita. Alcuni clienti stavano chiacchierando con amici e conoscenti seduti ad altri tavoli, ingombrando il passaggio. Dovette resistere all'impulso di farsi largo a spintoni. Il suo «mi scusi» aveva un tono così duro che la gente si voltava seccata, ma l'espressione del suo volto li convinceva a ricacciarsi in gola il rimprovero. Quando infine Ethan riuscì a uscire dal locale, Dunny era già scomparso. Si precipitò nell'atrio adiacente e vide alcuni clienti fermi davanti alla reception, altri che chiedevano informazioni e alcune persone che si avviavano verso l'ascensore. Ma Dunny non era tra loro. L'atrio rivestito di marmo si apriva su un enorme salotto, arredato con divani e poltrone. In quel locale, ogni pomeriggio gli ospiti dell'albergo
potevano prendere il tè; e a quell'ora della sera veniva servito da bere a coloro che preferivano un'atmosfera più tranquilla di quella del bar. A Ethan bastò un'occhiata per rendersi conto che Dunny Whistler non era neppure nel salotto. Alla destra di Ethan, la porta girevole dell'ingresso principale dell'albergo si stava lentamente fermando, come se qualcuno fosse appena entrato o uscito, ma in quel momento i suoi quadranti erano vuoti. Uscì all'esterno, nel freddo della sera e si fermò sotto l'ampia tettoia. Proteggendoli sotto grossi ombrelli, il portiere e un'indaffarata squadra di addetti al parcheggio scortavano i clienti avanti e indietro verso i veicoli in arrivo e in partenza. Automobili, SUV e limousine avanzavano in due file parallele lungo gli affollati vialetti di servizio che conducevano all'ingresso dell'albergo. Dunny non era tra quelli che attendevano la loro auto. Né stava correndo da qualche parte, protetto da un ombrello e scortato da un dipendente dell'albergo. Tra quei veicoli c'erano diverse Mercedes scure, ma Ethan era certo che nessuna di loro appartenesse a Dunny. Con il chiacchiericcio della gente accalcata sotto la tettoia, i motori delle auto e lo scrosciare della pioggia, non avrebbe mai potuto udire il trillo del suo cellulare. Ma lo sentì vibrare in una delle tasche. Rispose mentre continuava a guardarsi intorno alla ricerca di Dunny. Hazard Yancy gli disse: «Ho bisogno di vederti immediatamente, amico, e dev'essere un posto che l'élite non frequenta». 35 Dunny entra nell'ascensore dell'albergo e sale fino al quarto piano in compagnia di un'anziana coppia. I due si tengono per mano come giovani innamorati. Sentendo involontariamente la parola «anniversario», Dunny domanda da quanto tempo sono sposati. «Cinquant'anni», risponde il marito raggiante e orgoglioso per il fatto che sua moglie abbia scelto di trascorrere gran parte della sua vita con lui. Sono di Scranton, Pennsylvania, e sono venuti a Los Angeles per festeggiare il loro anniversario con la figlia e la sua famiglia. La figlia ha voluto pagargli la suite luna di miele dell'albergo che, a detta della moglie, «è così lussuosa che abbiamo paura di sederci sul letto».
Da L.A. prenderanno un aereo per le Hawaii, soltanto loro due, dove trascorreranno una romantica settimana al sole. Sono persone semplici, cordiali, chiaramente innamorate. Insieme hanno costruito una vita che, per lungo tempo, Dunny ha disprezzato, perfino deriso. Ma negli ultimi anni era giunto a desiderare quel tipo di felicità più di qualsiasi altra cosa al mondo. La loro reciproca dedizione, la famiglia che avevano costruito, i loro sforzi, i ricordi di sfide condivise e di vittorie duramente conquistate: alla fine era questo che importava, non le cose che lui aveva inseguito con ostinazione e ottenuto con metodi brutali. Non il potere, non il denaro, non l'eccitazione, non il controllo. Aveva cercato di cambiare, ma aveva percorso troppo a lungo una strada solitaria per essere in grado di tornare indietro e trovare la compagnia che tanto desidera. Hannah non c'è più da cinque anni. Solo quando ormai era moribonda, Dunny si è reso conto che lei era stata la migliore opportunità che lui avesse mai avuto di abbandonare la strada sbagliata e imboccare quella giusta. Quand'era giovane e scapestrato, Dunny aveva rifiutato i consigli di Hannah, aveva creduto che potere e denaro fossero più importanti di lei. Lo choc della sua morte prematura lo aveva costretto ad affrontare la dura verità, e cioè che aveva sbagliato. Solo in quella strana giornata di pioggia lui è arrivato a comprendere che Hannah è stata anche la sua ultima opportunità. Considerando che un tempo aveva creduto che il mondo fosse argilla dalla quale lui poteva ottenere ciò che desiderava, ora Dunny si trovava in una situazione difficile. Ha perso tutto il potere, perché nulla di ciò che fa ora può cambiargli la vita. Del denaro ritirato dalla cassaforte del suo studio, gli sono rimasti ancora ventimila dollari. Potrebbe darne diecimila a quest'anziana coppia di Scranton, dirgli di fermarsi un mese intero alle Hawaii, di mangiare e bere nei posti migliori, con la sua benedizione. Oppure potrebbe fermare l'ascensore e ucciderli. Nessuna delle due azioni cambierebbe il suo futuro in modo significativo. Invidia con tutto il cuore la loro felicità. Proverebbe una certa soddisfazione nel derubarli degli anni che gli rimangono. Ma qualsiasi cosa di sbagliato ci sia in lui - l'elenco dei suoi difetti e delle sue colpe è lungo - non può uccidere soltanto per invidia. Più che la pietà, glielo impedisce l'orgoglio. La stanza dell'anziana coppia al quarto piano si trova all'estremità oppo-
sta rispetto alla sua. Augura loro buona fortuna e rimane a osservarli mentre si allontanano, mano nella mano. Dunny occupa la suite presidenziale. Questo lussuoso appartamento è a disposizione di Typhon dodici mesi all'anno, e lui non ne avrà bisogno per alcuni giorni dato che i suoi affari lo condurranno altrove. Il termine presidenziale sottintende una grandeur democratica che si tenta di minimizzare. Ma quelle stanze sono così lussuose che risultano più adatte a membri di una famiglia reale o a semidei, piuttosto che a un amministratore della democrazia. Pavimenti di marmo intarsiato, tappeti Oushak nelle tonalità oro, rosso, albicocca e indaco, pareti tappezzate alte cinque metri e soffitti a cassettoni... Dunny vaga da una stanza all'altra, commosso dal desiderio dell'umanità di rendere più bello il suo habitat, rifiutandosi di tollerare la grossolanità del mondo. Palazzi e opere d'arte prima o poi diventeranno polvere e il tempo è il paziente vento che li farà sgretolare. Tuttavia, uomini e donne si sono impegnati, si sono sforzati e hanno messo tanta cura nel rendere gradevoli quelle stanze perché sperano, contro ogni evidenza, che le loro vita abbia un significato e che nel loro talento risieda uno scopo ben più importante delle loro persone. Fino a due anni prima, non aveva mai conosciuto questa speranza. Tre anni di dolore per la perdita di Hannah, gli avevano fatto desiderare di credere in Dio. Un po' alla volta, negli anni che erano seguiti al suo funerale, in lui era cresciuta una speranza inaspettata, fragile e disperata, ma persistente. Tuttavia lui rimane sempre il vecchio Dunny, impantanato nei suoi modi di pensare e agire. La sua speranza è come una luminosità offuscata dalle nubi. Non ha imparato a distillarla in qualcosa di puro, limpido, più potente. E ora non lo farà mai più. Entrato nella camera padronale, va a fermarsi davanti a una finestra inondata di pioggia e rimane a fissare il panorama che si estende a nordovest. Al di là delle tremolanti luci della città, al di là delle rigogliose colline di Beverly Hills punteggiate di ville, si estende Bel Air e Palais Crapaud, quel folle e tuttavia coraggioso monumento alla speranza. Tutti coloro che l'hanno posseduto sono morti... o moriranno. Volta le spalle alla finestra e guarda il letto. La cameriera ha tolto il copriletto, ha abbassato le lenzuola e ha lasciato su uno dei cuscini una minu-
scola scatola dorata. La scatoletta contiene quattro bonbon. Eleganti nella forma e nelle decorazioni, i dolcetti hanno un'aria deliziosa, ma lui non li assaggia. Potrebbe chiamare una delle tante belle donne che conosce per condividere il letto con lui. Alcune di loro si aspetterebbero di essere pagate, altre no. Per alcune il sesso è un atto d'amore e di piacere, altre sguazzano nella loro depravazione. Tocca a lui scegliere, può avere tutta la tenerezza o tutta l'eccitazione che desidera. Non riesce a ricordare il gusto delle ostriche né il bouquet del pinot grigio. La sua memoria non sente né sapori né aromi, offre ai sensi di Dunny meno stimoli di una fotografia di ostriche e vino. Nessuna delle donne alle quali potrebbe telefonare gli lascerebbe un'impressione maggiore del cibo e del vino che, non ancora digeriti, sembrano aver fatto parte di un pasto immaginario. La setosità della loro pelle, il profumo dei loro capelli sarebbe svanito nel momento stesso in cui, uscendo, quelle donne si fossero chiuse la porta alle spalle. È come un uomo che sta vivendo la notte che precede la fine del mondo con la piena consapevolezza che, la mattina dopo, il sole esploderà, e nondimeno è incapace di godere dei piaceri di questo mondo perché la sua energia è concentrata nel suo disperato desiderio che, dopo tutto, la fine prevista non arrivi. 36 Ethan e Hazard s'incontrarono in una chiesa perché, di lunedì e a quell'ora della sera, le panche erano vuote e non c'era alcuna possibilità che potessero essere visti insieme da politici, da colleghi della squadra Agenti Coinvolti in Sparatorie o da altri poliziotti in generale. Si sedettero uno accanto all'altro su una panca di una navata laterale che, non essendo illuminata da luci artificiali, permetteva loro di restare nascosti nella penombra. Un gradevole e penetrante odore di incensi profumava l'aria immobile come quella di un contenitore sigillato. Quando cominciarono a parlare, il loro tono di voce non era quello di due cospiratori, ma quello di uomini che avevano vissuto una misteriosa esperienza. «Così ho detto a quelli dell'ACS, che andavo da Reynerd per fargli qualche domanda sul suo amico Jerry Nemo, visto che era sospettato dell'omicidio di un trafficante di cocaina, un tale Carter Cook.»
«Ti hanno creduto?» volle sapere Ethan. «Mi è sembrato che volessero crederlo. Ma poniamo che domani mi arrivino i risultati del laboratorio e che questi colleghino senza ombra di dubbio la Bionda a Bagno con il consigliere municipale di cui ti ho parlato.» «La ragazza gettata nel bacino di depurazione.» «Proprio quella. A quel punto quel bastardo di consigliere cercherà un modo per farmela pagare. Se uno dei ragazzi dell'ACS può essere comprato o ricattato, riusciranno a far apparire il sicario con l'orecchino a forma di cucchiaio da cocaina come un chierichetto zoppo a cui avevano sparato alla schiena e la mia faccia comparirà su tutte le prime pagine dei giornali, con sopra il famoso titolo di sedici lettere.» Ethan sapeva che il titolo a sedici lettere a cui si riferiva Hazard era... POLIZIOTTO KILLER... perché per anni loro due avevano discusso dei pregiudizi esistenti nei confronti delle forze dell'ordine. Quando un politico corrotto e la stampa assetata di notizie sensazionali scoprivano di avere un interesse comune in un caso, la verità era forzata e stiracchiata più della pelle di una matrona di Hollywood dopo quattro lifting, e alla Giustizia veniva strappata la benda dagli occhi per potergliela infilare in bocca e farla stare zitta. Hazard si curvò in avanti, gli avambracci sulle cosce, le mani serrate quasi in preghiera, lo sguardo fisso sull'altare. «I giornalisti adorano quel consigliere. Si fa passare per un riformatore, su ogni causa assume sempre la posizione giusta. Dovrebbero voler bene anche a me, visto che sono così dolce, ma quella gente preferirebbe tagliarsi le labbra piuttosto che baciare un poliziotto. Se scorgeranno una sola possibilità di salvare lui crocifiggendo me, tutte le ferramenta della città resteranno senza chiodi.» «Mi spiace di averti cacciato in questo pasticcio.» «Non potevi sapere che un pazzo qualsiasi avrebbe fatto fuori Reynerd.» Hazard distolse lo sguardo dall'altare e i suoi occhi scrutarono quelli di Ethan come se vi cercassero il marchio di giuda: «È così, vero?» «Potrebbe sembrare che in questa storia c'entri anch'io.» «Infatti», concordò Hazard. «Ma neppure tu sei così stupido da lavorare per uno stronzo di superdivo che risolve i suoi problemi come fosse un musicista rap.» «Manhein non sa nulla di Reynerd, né delle scatole nere. E se anche lo sapesse, penserebbe che tutto ciò di cui ha bisogno Reynerd è di migliorare la sua condizione psicologica con un po' di aromaterapia.»
«Però c'è qualcosa che non mi hai detto», insisté Hazard. Ethan scosse la testa, ma non per negare. «Accidenti, oggi è stata davvero una gran brutta giornata.» «Per esempio, Reynerd era seduto sul divano tra due sacchetti di patatine. Salta fuori che in ogni sacchetto c'è una pistola carica.» «Però, quando l'assassino ha suonato il campanello, Reynerd è andato ad aprire la porta disarmato.» «Forse perché pensava che fossi io il vero pericolo e ormai ero già entrato. Ma quello che voglio dire è che tu avevi ragione riguardo alle patatine.» «Come ti ho già detto, un vicino mi ha spiegato che era un tipo paranoico, che teneva una pistola sempre vicino a sé, infilata in posti strani come quelli.» «La storia del vicino chiacchierone... è una stronzata», affermò Hazard. «Non c'è nessun vicino chiacchierone. L'hai saputo in qualche altro modo.» Si trovavano a un bivio. Da una parte c'era la fiducia, dall'altra il sospetto. Ethan doveva rivelare qualcosa di più, altrimenti Hazard si sarebbe rifiutato di continuare a seguirlo. La loro amicizia non sarebbe finita lì ma, senza ulteriori chiarimenti non sarebbe stata più la stessa. «Penserai che sono fuori di testa», premise Ethan. «Lo penso già.» Ethan inspirò dell'altro incenso, espirò inibizione e raccontò ad Hazard che Reynerd gli aveva sparato all'addome ma che, aprendo gli occhi, lui si era accorto di non essere affatto ferito, e tuttavia aveva trovato tracce di sangue sotto le proprie unghie. Durante tutto il racconto, Hazard rimase sempre attento e non distolse mai lo sguardo per fissare un punto lontano, cosa che avrebbe fatto se avesse creduto che Ethan gli stava mentendo o stava dando i numeri. Solo quando il racconto finì, Hazard abbassò nuovamente lo sguardo sulle mani serrate. Alla fine disse: «Be', di sicuro non sono seduto accanto a un fantasma». «Quando sceglierai il manicomio dove farmi rinchiudere», suggerì Ethan, «ne preferirei uno con un buon corso di artigianato.» «A parte aver chiesto un'analisi del sangue per vedere se ci sono tracce di droga, hai qualche altra teoria su tutta questa faccenda?» «Vuoi dire, se mi trovo tra una zona intermedia tra la vita e la morte? Oppure che sono morto davvero e questo è l'inferno?» Hazard comprese quel che voleva dire. «In effetti, non è che vengano in
mente molte ipotesi.» «Certo non le ipotesi che possono essere analizzate secondo quelle che all'accademia di polizia definiscono 'tecniche investigative convenzionali'.» «A me non sembri matto», commentò Hazard. «Anch'io non mi sembro matto. Però il matto è sempre l'ultimo a saperlo.» «Oltretutto, avevi ragione riguardo alla pistola nel sacchetto di patatine. Quindi dev'essere stata almeno... un'esperienza paranormale.» «Sì, un episodio di chiaroveggenza. Solo che non spiega il sangue sotto le mie unghie.» Hazard aveva ascoltato quello strano racconto con tranquilla fiducia e notevole calma. Tuttavia Ethan non aveva alcuna intenzione di riferirgli anche l'episodio dell'investimento da parte di un Cruiser e di un camion. E neppure di essere morto sull'ambulanza. Se racconti di aver visto un fantasma, sei un tizio normale che ha vissuto un'esperienza inspiegabile. Ma se dici di aver visto un'altro fantasma, in un luogo e in un momento diverso, nella migliore delle ipotesi sei un tipo stravagante, le cui dichiarazioni vanno sempre prese con beneficio d'inventario. «L'assassino di Reynerd era un criminale che si faceva chiamare Hector X», spiegò Hazard. «In effetti si chiamava Calvin Roosevelt. È uno dei capi della banda dei Crips, quindi c'è da pensare che il suo complice fosse al volante di un'auto rubata poco prima dell'omicidio.» «Come al solito», concordò Ethan. «Però nessuno ha denunciato il furto della Benz che hanno usato. Sono riuscito a prendere il numero di targa e se ti dico a chi appartiene, non ci crederai.» Hazard sollevò lo sguardo dalle mani e fissò Ethan negli occhi. Sebbene Ethan non sapesse cosa stesse per dirgli, era certo che non si trattava di niente di buono. «A chi?» «Al tuo amico d'infanzia. Il famigerato Dunny Whistler.» Ethan non distolse lo sguardo. Non osava. «Tu sai che cosa gli è successo alcuni mesi fa.» «Lo so. Dei tizi gli hanno infilato la testa nella tazza del bagno, però non è morto.» «Pochi giorni dopo, il suo avvocato si è messo in contatto con me e mi
ha detto che, qualche tempo prima, Dunny mi aveva nominato esecutore testamentario e che, fintanto che fosse rimasto in vita, avevo il diritto di prendere qualsiasi decisione riguardo alle cure mediche a cui i medici intendevano sottoporlo.» «Questo non me l'avevi detto.» «Non ne vedevo il motivo. Sai bene che soggetto era. E capisci perché non lo volevo nella mia vita. Ma ho accettato per - non so - per via di quello che aveva rappresentato per me quand'eravamo bambini.» Hazard annuì. Estrasse dalla tasca del cappotto un rotolo di caramelle dure, strappò una parte dell'involucro e gliene offrì una. Ethan scosse la testa. «Dunny è morto questa mattina all'ospedale Nostra Signora degli Angeli.» Hazard staccò una delle caramelle dal rotolo e se la lanciò in bocca. «Non riescono a trovare il suo corpo», soggiunse Ethan, perché all'improvviso ebbe la sensazione che Hazard lo sapesse già. Hazard rimase in silenzio, intento a ricoprire con l'involucro la caramella rimasta scoperta. «Giurano che era morto», continuò Ethan, «ma considerando come funzionano le cose nella camera mortuaria dell'ospedale», non può essere uscito da là dentro se non con le sue gambe.» Hazard ripose il rotolo nella tasca del cappotto. Succhiò la caramella, spostandola da una parte all'altra della bocca. «Sono sicuro che è vivo», affermò Ethan. Alla fine Hazard riportò lo sguardo su di lui. «Tutto questo è accaduto prima che pranzassimo insieme.» «Sì. Ascolta amico, non te ne ho parlato perché non vedevo come Dunny potesse essere collegato a Reynerd. Ancora non vedo come. E tu?» «Considerando che, a pranzo, tutta questa storia continuava a girarti e rigirarti nella mente, sei riuscito a controllarti niente male.» «Mi sembrava di impazzire ma, anche se te lo avessi detto, non vedo come avresti potuto aiutarmi.» «E che cosa è successo dopo il pranzo?» Ethan riferì della sua visita all'appartamento di Dunny, senza tralasciare nulla, a parte quella strana sagoma intravista nello specchio appannato dal vapore. «Chissà come mai teneva una foto di Hannah sulla scrivania», si domandò Hazard. «Non l'ha mai dimenticata. Neppure adesso. Immagino che sia per que-
sto motivo che ha tolto la foto dalla cornice e se l'è portata dietro.» «Poi è uscito dal garage a bordo della sua Mercedes...» «Ho pensato che fosse lui. In realtà non sono riuscito a vedere il guidatore.» «E dopo, che cosa è successo?» «Avevo bisogno di pensarci sopra. Sono andato a fare una visita alla tomba di Hannah.» «Perché?» «Sentivo di doverlo fare. Pensavo che avrei potuto trovare qualcosa.» «E che cosa hai trovato?» «Rose.» Raccontò ad Hazard delle due dozzine di Broadway e della sua successiva visita al Rose per Sempre. «La fiorista ha descritto Dunny come avrei potuto farlo io. È stato in quel momento che ho avuto la certezza che fosse vivo.» «Che cosa avrà voluto dire con quella frase... che tu pensavi che fosse morto, e che avevi ragione?» «Non lo so.» Hazard masticò ciò che restava della caramella. «In quel modo ti puoi rompere un dente», lo avvertì Ethan. «Come se questo fosse il mio maggior problema.» «È solo un consiglio da amico.» «Whistler si sveglia in una camera mortuaria, si rende conto di essere stato considerato morto, allora si riveste, se ne torna a casa senza neppure dire buu a qualcuno, e si fa la doccia. Ti sembra logico?» «No. Ma ho pensato che avesse avuto dei danni cerebrali.» «Si fa un giro con la sua macchina, entra in un negozio di fiori, compra delle rose, visita una tomba, ingaggia un sicario... per uno che è uscito dal coma con danni cerebrali, direi che se la cava piuttosto bene.» «Ho già lasciato perdere la teoria dei danni cerebrali.» «Mi sembra una buona idea. E che cosa è successo dopo che sei uscito dal negozio di fiori?» Basandosi sulla teoria dei due fantasmi uguale nessuna credibilità, Ethan non parlò del Cruiser e disse: «Sono entrato in un bar». «Non sei il tipo che cerca risposte in un bicchiere di gin.» «Era scotch. Ma neppure in quello ho trovato delle risposte. La prossima volta potrei tentare con la vodka.» «E questo è tutto? Non c'è nient'altro che devi dirmi?» Con tutta la convinzione che riuscì a porre nella tono della voce, Ethan
domandò: «Non ti sembra che in tutta questa storia ci siano abbastanza stranezze da riempire un intero episodio di X-Files? Vorresti che ci fossero anche alieni, vampiri, lupi mannari?» «Stai evitando di rispondere?» «Non sto evitando niente», ribatté Ethan, dispiaciuto di dover essere costretto a mentire così sfrontatamente, invece che in modo indiretto. «Sì, ti ho raccontato tutto. Quando mi hai chiamato, stavo bevendo lo scotch.» «È la verità?» «Sì. Stavo bevendo lo scotch, ho ricevuto la tua telefonata.» «Ricordati che siamo in chiesa.» «Se sei credente, il mondo intero è una chiesa.» «Sei credente?» «Lo sono stato.» «Non più, dopo che Hannah è morta?» Ethan scrollò le spalle. «Forse lo sono, forse no. A seconda dei giorni.» Dopo avergli lanciato un'occhiata che avrebbe sbucciato una cipolla strato per strato, Hazard decise: «Okay, ti credo». Sentendosi peggio di un verme, Ethan mormorò: «Grazie». Hazard si voltò nel banco per controllare la navata ed essere certo che nessun'anima perduta fosse entrata nella chiesa per chiedere aiuto a Dio. «Ora che mi hai raccontato tutto, anch'io ti dirò qualcosa, ma devi dimenticare di averla sentita.» «Non mi ricordo neppure di essere qui.» «Nell'appartamento di Reynerd non c'era nulla di particolarmente interessante. Pochi mobili, tutto in bianco e nero.» «Sembrava che vivesse come un monaco, ma un monaco con molto stile.» «E con molta droga. Aveva una grossa scorta di cocaina già confezionata per essere rivenduta e un'agendina con nomi e numeri, probabilmente di clienti.» «Nomi famosi?» «Non proprio. Qualche attore. Niente di importante. Ma quello che devi sapere è che stava scrivendo una sceneggiatura.» «In questa città, quelli che scrivono sceneggiature sono più numerosi di quelli che tradiscono la moglie», gli fece notare Ethan. «Aveva una pila di ventisei pagine accatastate accanto al computer.» «Non bastano neppure per il primo tempo.» «Ne sai qualcosa di sceneggiature? Ne stai scrivendo una?»
«No. Mi è rimasto ancora un po' di amor proprio.» «Reynerd stava scrivendo la storia di un giovane attore che frequenta uno speciale corso di recitazione», spiegò Hazard, «e stabilisce quello che chiama 'un profondo legame intellettuale' con il suo professore. Entrambi odiano un personaggio di nome Cameron Mansfield, che guarda caso è l'attore più famoso del mondo, e quindi decidono di ucciderlo.» Sotto il peso della stanchezza, Ethan se ne stava seduto pesantemente nell'angolo della panca. Ma sentendo quelle parole, si raddrizzò. «Per quale motivo?» «Non è chiaro. Reynerd ha scritto un sacco di appunti sul margine della pagina cercando di dare una spiegazione. Comunque, tanto per dimostrarsi reciprocamente capaci di farlo, ognuno di loro accetta di dare all'altro il nome di qualcuno da uccidere prima di unire le forze per far fuori il superdivo. L'attore incarica il professore di uccidere sua madre.» «Perché mi sa tanto di Hitchcock?» si domandò Ethan. «È un po' come in quel vecchio film, L'altro uomo. L'idea è che, scambiandosi gli omicidi, i due avranno un alibi perfetto per un delitto di cui potrebbero essere incolpati.» «Lasciami indovinare. La madre di Reynerd è stata veramente uccisa.» «Quattro mesi fa», confermò Hazard. «Una sera in cui suo figlio aveva un alibi solido come un carro armato.» La chiesa cominciò a girare lentamente, come se lo scotch stesse avendo un effetto ritardato su Ethan, ma lui sapeva che quella vertigine non era causata tanto dal liquore, quanto da queste ultime rivelazioni. «Ma che razza di idiota fa cose del genere e poi le scrive in una sceneggiatura?» «Un attore idiota e arrogante. Non dirmi che secondo te è un caso unico.» «E il professore, chi voleva che venisse ucciso da Reynerd?» «Un collega dell'università. Ma Reynerd non aveva ancora scritto quella parte. Aveva appena terminato la scena dell'omicidio di sua madre. Nella vita reale si chiamava Mina e prima le hanno sparato a un piede, poi l'hanno finita massacrandola con una lampada. Nella sceneggiatura, si chiama Rena e viene accoltellata, decapitata, smembrata e bruciata in una fornace.» Ethan fece una smorfia. «A quanto pare, quella donna aveva i giorni contati, sia che Reynerd conoscesse il professore o no.» Rimasero in silenzio. Il tetto della chiesa, ben isolato, era così in alto rispetto a loro che la voce del temporale si udiva appena. Il tambureggiare
della pioggia giungeva alle loro orecchie come il lieve fruscio di ali di uno stormo di uccelli. «A questo punto», riprese alla fine Hazard, «anche se Reynerd è morto, forse Gran Chan farebbe a guardarsi le spalle. Il professore - o qualunque cosa faccia nella vita reale - è ancora in giro.» «Chi si sta occupato dell'omicidio di Mina Reynerd?» domandò Ethan. «Qualcuno che conosco?» «Sam Kesselman.» Quando Ethan portava ancora il distintivo, Sam era già un detective della Rapine-Omicidi. «Che cosa ne pensa della sceneggiatura?» Hazard scrollò le spalle. «Non ne sa ancora nulla. Probabilmente gliene manderanno una fotocopia solo domani mattina.» «È uno in gamba. Ci si butterà a capofitto.» «Ma forse non sarà abbastanza veloce per te», predisse Hazard. Nella parte anteriore della chiesa, stuzzicate da una corrente d'aria, le fiamme delle candele votive si agitarono nei loro contenitori rossi. Camaleonti di luce e ombra strisciarono su una delle pareti. «Che cosa intendi fare?» volle sapere Hazard. «La notizia della sparatoria a casa di Reynerd sarà sul giornale del mattino. Sicuramente parleranno anche dell'omicidio di sua madre. Quindi avrò una buona scusa per andare da Kesselman e informarlo sui pacchi che Reynerd aveva mandato a Manheim. Nel frattempo lui avrà già letto la sceneggiatura incompiuta...» «Di cui tu non sai un accidente», gli ricordò Hazard. «... e si renderà conto che fino a quando il professore non sarà stato identificato, Manheim si troverà in pericolo. Questo darà un colpo di acceleratore alle indagini e, nel frattempo, potrei perfino ottenere la protezione della polizia per il mio capo.» «Sì, in un mondo perfetto», commentò Hazard in tono acido. «A volte il sistema funziona.» «Solo quando non te lo aspetti.» «Già. Ma io non ho la possibilità di indagare abbastanza in fretta su amici e conoscenti di Reynerd e non ho l'autorità per esaminare i suoi documenti e i suoi effetti personali. Quindi devo affidarmi al sistema, che io lo voglia o no.» «E il nostro pranzo di oggi?» domandò Hazard. «Non c'è mai stato.»
«Qualcuno potrebbe averci visto. In più, pagando con la carta di credito, hai lasciato una traccia.» «Okay, abbiamo pranzato insieme. Ma io non ti ho mai parlato di Reynerd.» «E chi pensi che ci creda?» A Ethan non venne in mente nessuno di così ingenuo. «Tu e io pranziamo insieme», disse Hazard, «io mi invento un motivo per andare a trovare Reynerd quello stesso giorno e, guarda caso, lui viene ammazzato proprio mentre sono lì. Poi, guarda caso, salta fuori che l'auto con cui l'assassino doveva scappare appartiene a Dunny Whistler, il tuo vecchio amico.» «Mi fa male la testa», sospirò Ethan. «E sono solo all'inizio. Amico, loro saranno convinti che noi sappiamo che cosa sta succedendo, e quando diremo che non ne sappiamo nulla...» «Il che è vero.» «... a quel punto saranno certi che stiamo mentendo spudoratamente. Se fossi in loro, io lo penserei.» «Anch'io», ammise Ethan. «Così si inventeranno una storia che in qualche modo spieghi tutto e noi finiremo accusati di aver fatto fuori la madre di Reynerd, di aver ammazzato Reynerd accusando dell'omicidio Hector X e poi di aver accoppato anche lui. Prima che sia finita, quel bastardo del procuratore distrettuale cercherà di incolparci della scomparsa dei dinosauri.» La chiesa non appariva più come un santuario. Ethan avrebbe voluto trovarsi in un altro bar, dove forse sarebbe riuscito a trovare un po' di sollievo, ma non il tipo di bar che Dunny, vivo o morto, avrebbe frequentato. «Non posso andare da Kesselman», decise. Hazard non avrebbe mai tratto un sospiro di sollievo, perché in questo modo avrebbe ammesso di essere stato molto, davvero molto preoccupato. Se qualcuno gli avesse messo uno specchio sotto le narici, forse la superficie si sarebbe leggermente appannata ma, a parte questo, l'unico indizio del suo sollievo fu un lieve rilassamento delle enormi spalle. «Dovrò prendere delle precauzioni straordinarie per proteggere Manheim», proseguì Ethan, «e sperare che Kesselman trovi in fretta l'assassino di Mina.» «Se il giudizio preliminare degli uomini dell'ACS non mi costringerà ad abbandonare il caso Reynerd», disse Hazard, «metterò sottosopra la città per riuscire a trovare Dunny Whistler. Sono convinto che lui sia la chiave
di tutto.» «Penso che sarà Dunny a trovare me per primo.» «Che cosa intendi dire?» «Non lo so.» Ethan ebbe un attimo di esitazione, poi sospirò. «Dunny era là.» Hazard corrugò la fronte. «Là dove?» «Al bar dell'albergo. L'ho notato solo quando è uscito. Gli sono andato dietro, ma l'ho perso in mezzo alla folla.» «Che cosa stava facendo?» «Beveva. Forse mi stava osservando. Forse mi aveva seguito lì dentro, intendeva affrontarmi, ma poi ha deciso di non farne nulla. Non lo so.» «Perché non me l'hai detto subito?» «Non lo so. Mi sembrava... come un fantasma di troppo.» «Pensi che se la storia si fa troppo assurda, io non ti creda? Abbi un po' di fede, amico. Ci conosciamo da un sacco di tempo, o no? Eravamo insieme quando ci hanno sparato.» Scelsero di uscire dalla chiesa separatamente. Hazard si alzò per primo e si allontanò. Fermandosi in fondo al banco, prima di inoltrarsi nella navata centrale, esclamò: «Come ai vecchi tempi, d'accordo?» Ethan sapeva ciò che intendeva dire. «Di nuovo a pararci il culo a vicenda.» Per essere un uomo così massiccio, Hazard fece davvero poco rumore mentre attraversava la navata fino al nartece e poi usciva dalla chiesa. È un conforto avere un amico fedele che ti guarda le spalle, ma la consolazione e il sostegno offerti anche dal miglior amico non possono essere minimamente paragonati a ciò che una moglie affettuosa può rappresentare per un marito, o un marito affettuoso per una moglie. Nell'architettura del cuore, le stanze dell'amicizia hanno fondamenta profonde e sono solidamente costruite, ma il rifugio più accogliente e sicuro del cuore di Ethan era quello che aveva condiviso con Hannah e nel quale ora lei viveva solo come un prezioso fantasma, un dolce ricordo. Ethan avrebbe potuto raccontarle tutto - la figura nello specchio, la sua seconda morte fuori del Rose per Sempre - e lei gli avrebbe creduto. Insieme avrebbero cercato di capire. Nei cinque anni trascorsi dal giorno della sua morte, non ne aveva mai sentito la mancanza come in quel momento. Seduto da solo in una chiesa silenziosa, consapevole della pioggia che batteva leggermente sul tetto, del profumo di incenso che aleggiava nell'a-
ria, della luce rosso vivo delle candele votive, ma incapace di avvertire anche il più lieve sussurro o la più vaga scintilla di Dio, Ethan desiderava ardentemente non una prova dell'esistenza del suo Creatore, ma di avere Hannah accanto a sé, di udire la musica della sua voce e di vedere la meravigliosa geometria del suo sorriso. Si sentì uno sbandato, senza una casa o un'ancora a cui aggrapparsi. L'appartamento nella villa di Manheim, con tutte le sue comodità, attendeva il suo ritorno, ma era soltanto un luogo dove risiedere, in esso non c'era nulla che glielo rendesse caro. Durante quel lungo, strano giorno, soltanto una volta si era sentito a casa: davanti alla tomba di Hannah, dove lei riposava accanto al piccolo lotto di terreno che Ethan aveva acquistato per sé. 37 La pioggia nera e argentea gocciolava e rimbalzava dal cancello della villa di Manheim, dai fiori cruciformi di bronzo, dai riquadri di arabeschi, da frecce e volute e greche e smerlature e foglie, nonché da grifoni ed emblemi araldici. Ethan si fermò accanto alla colonnina del servizio di sicurezza: un pilastro quadrato, rivestito di calcare e alto un metro e mezzo, nel quale erano incassati una telecamera a circuito chiuso, un citofono e una tastiera. Abbassò il vetro del finestrino e digitò il codice personale di sei cifre. Mentre i fari dell'Expedition illuminavano la sua superficie riccamente decorata, il massiccio cancello cominciò ad aprirsi lentamente. Ogni dipendente della villa aveva un codice diverso. Le guardie registravano sul computer tutte le entrate. Telecomandi come quelli usati normalmente per aprire un garage oppure trasponditori codificati, assegnati a ogni veicolo, sarebbero stati più comodi rispetto al sistema che prevedeva la digitazione di un codice personale, soprattutto in caso di pioggia; però congegni del genere sarebbero stati accessibili a meccanici, addetti al parcheggio e a chiunque fosse stato affidato temporaneamente un veicolo. Bastava che tra di loro ci fosse una sola persona disonesta per compromettere tutta la sicurezza della villa. Se Ethan fosse stato un visitatore privo di un codice di accesso personale, avrebbe premuto il pulsante del citofono e si sarebbe fatto riconoscere dalla guardia che si trovava nell'ufficio del servizio di sicurezza posto dietro alla villa. Se il visitatore era atteso o se era un amico di famiglia il cui
nome era incluso nell'elenco di coloro che avevano sempre accesso alla casa, la guardia avrebbe aperto il cancello dal suo quadro di comando. Mentre attendeva che la massiccia barriera di bronzo si aprisse completamente, Ethan sapeva di essere controllato dalla telecamera incassata nella colonnina. Una volta entrato nella proprietà, i suoi spostamenti sarebbero stati seguiti da una serie di telecamere montate sugli alberi e posizionate in modo tale da rivelare la presenza di chiunque si fosse sdraiato sul fondo del SUV per evitare di essere intercettato. Tutte le telecamere erano dotate di un sistema per la visione notturna che trasformava anche il più debole chiaro di luna in una forte luminosità. Un sofisticato software filtrava gran parte degli effetti di offuscamento e di distorsione provocati dalla pioggia, permettendo agli schermi dell'ufficio di sicurezza di ricevere immagini nitide e in tempo reale. Se fosse stato un artigiano o un fattorino a bordo di un furgone chiuso, a Ethan sarebbe stato chiesto di attendere fuori del cancello fino all'arrivo di una guardia. Questi avrebbe controllato l'interno del veicolo per assicurarsi che l'autista, magari sotto la minaccia di un'arma, non stesse introducendo qualche malvivente. Palais Crapaud non era una fortezza, né secondo i criteri moderni e neppure secondo quelli medievali, cioè non era circondato da un fossato, né aveva un ponte levatoio. Ma la villa non era neppure un dolce servito su un piattino e offerto a qualsiasi ladro affamato. Il cancello poteva essere fatto saltare in aria con una carica di esplosivo. Il muro di cinta poteva essere scalato. Ma non era facile introdursi di soppiatto nella proprietà. Un intruso sarebbe stato quasi immediatamente identificato e seguito da telecamere, rivelatori di movimento, sensori di calore e altri congegni di questo tipo. Il cancello di bronzo, largo circa nove metri, pesava più di quattro tonnellate. Ma il motore che faceva funzionare la trasmissione a catena era assai potente e la barriera si spostava con apparente facilità e più rapidamente di quanto uno si aspettasse. Un lotto di cinque acri sarebbe stato considerato un bel pezzo di terreno nella maggior parte delle aree residenziali. Ma in quel quartiere, dove un acro poteva rendere oltre dieci milioni di dollari, una proprietà di cinque acri corrispondeva a quella che, in Inghilterra, poteva essere la tenuta di campagna di un barone. Il lungo viale d'accesso girava intorno a un laghetto nel quale si rifletteva la grande villa di tre piani, che non era barocca come il cancello di
bronzo, ma in stile palladiano, completamente rivestita di pietra calcarea, con decorazioni semplici e classiche, enorme e tuttavia elegante nelle sue proporzioni. Appena prima di raggiungere il laghetto, il viale si biforcava ed Ethan imboccò quello che conduceva verso il lato della casa. Alla successiva biforcazione, il viale da una parte conduceva alla palazzina del giardiniere e all'ufficio del servizio di sicurezza, dall'altra portava a una rampa che scendeva verso il garage sotterraneo. Il garage era stato costruito su due livelli. In quello superiore, il Volto teneva trentadue veicoli appartenenti alla sua collezione personale, si andava da una Porsche nuova a una serie di Rolls-Royce degli anni Trenta, da una Mercedes Benz 500K del 1936 a una Duesenberg Model J del 1931 a una Cadillac Sixteen del 1933. Il livello inferiore del garage ospitava un certo numero di veicoli in dotazione alla villa ed era fornito di apposti spazi in cui venivano parcheggiate le auto di proprietà dei dipendenti. Come quello superiore, anche il garage inferiore aveva il pavimento in piastrelle di ceramica opaca beige e le pareti rivestite di piastrelle lucide dello stesso colore. Le colonne di sostegno erano decorate con mosaici in varie sfumature di giallo. Pochi autosaloni di lusso, destinati a una clientela miliardaria, erano arredati in modo così elegante come quel garage. Il pannello per appendere le chiavi delle auto era stato collocato sulla parete appena fuori dell'ascensore e Fric se ne stava seduto sul pavimento sotto il pannello, tenendo tra le mani lo stesso romanzo fantasy che quella mattina stava leggendo in biblioteca. Vedendo Ethan avvicinarsi, si alzò in piedi. Ethan rimase sorpreso da quanto la vista di quel bambino riuscisse a rallegrarlo. Niente altro era riuscito a farlo in quella giornata grigia e sconfortante. Non sapeva esattamente perché il bambino riuscisse a sollevargli il morale. Forse perché uno si aspettava che il figlio del Volto, cresciuto nell'oro e nell'indifferenza, fosse un moccioso tremendamente viziato oppure completamente nevrotico, o entrambe le cose; e forse perché, al contrario, Fric era fondamentalmente un bambino buono e timido, che cercava di mascherare la sua timidezza con un atteggiamento da uomo di mondo, ma che non poteva nascondere la sua umiltà, una virtù rara nell'ambiente in cui viveva quanto lo era la pietà in una palude infestata da coccodrilli. Indicando il libro, Ethan domandò: «Il mago cattivo è riuscito a trovare
la lingua di un uomo onesto per la sua pozione?» «Ancora no. Ma ha appena mandato il suo crudele assistente Cragmore da un politico bugiardo per strappargli via i testicoli. Ethan fece una smorfia. «Dev'essere un mago veramente terribile.» «Be', si tratta solo di un politico. Ogni tanto qui ne viene qualcuno. Dopo che se ne vanno, la signora McBee fa l'inventario di tutti gli oggetti di valore che c'erano nelle stanze in cui sono entrati.» «E allora... che cosa stai facendo quaggiù? Hai in mente di farti una passeggiata in auto?» Fric scosse la testa. «Non ha senso scappare di casa fino a quando non si hanno sedici anni. Prima devo ottenere la patente, avere abbastanza tempo per accumulare un bel po' di soldi con cui iniziare una nuova vita, cercare un paesino perfetto in cui nascondermi e mettere a punto una serie di travestimenti davvero tosti. Ethan sorrise. «È questo il tuo piano?» Senza rispondere al sorriso di Ethan, in tono assolutamente serio, Fric rispose: «È proprio questo». Il bambino premette il tasto per chiamare l'ascensore. Il congegno si mise in movimento e il suo rumore fu soffocato solo in parte dalle pareti del pozzo. «Mi sono nascosto dalla squadra di decoratori», rivelò Fric. «Stanno ancora sistemando alberi e roba del genere in tutta la casa. Questo è il suo primo Natale qui, quindi lei non lo sa, ma tutti i decoratori hanno in testa questi stupidi berretti da Babbo Natale e, ogni volta che ti vedono, si mettono a gridare 'Buon Natale', sorridendo come pazzi furiosi e ti devono assolutamente dare questi disgustosi bastoncini di zucchero. Non si limitano a decorare la casa, ne fanno uno spettacolo, e immagino che sia quello che vogliono i clienti, altrimenti non farebbero affari, ma è roba da farti diventare ateo.» «Sembra proprio una tradizione che uno non dimentica facilmente.» «Però è sempre meglio di quelli che sono pagati per cantarti le canzoncine di Natale alla vigilia. Si vestono come personaggi di un romanzo di Dickens e, tra una canzone e l'altra, ti parlano della regina Vittoria, di Scrooge, e ti chiedono se per la cena di Natale mangerai oca e pasticcio di rognone di bue, e ti chiamano 'mio signore' e 'padroncino', e devi restare lì perché Papà Fant... mio padre pensa che sia tutto così carino. Dopo circa mezz'ora, hai la certezza che o ti verrà la diarrea o diventerai cieco, però ce n'è ancora per un'altra mezz'ora. Ma poi va bene, perché dopo le canzonci-
ne di Natale, c'è il mago che fa un numero con i nani vestiti da folletti di Babbo Natale ed è veramente divertente. Aelfrich sembrava nascondere una preoccupazione che lo rendeva nervoso e che involontariamente esprimeva in un fiume di parole che sembravano buttate lì, senza né capo né coda. Non era un ragazzino silenzioso, ma neppure un gran chiacchierone. L'ascensore arrivò e le porte si aprirono. Ethan seguì Fric nella cabina dalle pareti rivestite di legno. Dopo aver premuto il pulsante del pianterreno, il ragazzino domandò: «Secondo la sua esperienza, i maniaci telefonici sono veramente pericolosi o tutto quello che fanno è parlare e basta?» «Maniaci telefonici?» Fino a quel momento, Fric aveva guardato Ethan negli occhi. Ora invece fissava la luce sul pannello dell'ascensore che indicava i piani. «Sì, quei tizi che telefonano e continuano a respirare. Gli basta divertirsi così o a volte vengono veramente a casa tua e cercano di acchiapparti e roba del genere?» «Ti ha telefonato qualcuno, Fric?» «Sì. Un tipo strano.» Il ragazzino si mise ad ansimare profondamente in modo irregolare, come se Ethan fosse stato in grado di identificare un maniaco dal modo in cui respirava. «Quando è cominciata tutta questa storia?» «Oggi. La prima volta quando ero nella stanza dei trenini. Poi mi ha chiamato di nuovo nella cantina, mentre cenavo.» «Ha telefonato sulla tua linea privata?» «Sì.» Sul pannello, la luce passò dal garage inferiore a quello superiore. L'ascensore saliva lentamente. «Che cosa ti ha detto questo tizio?» Fric esitò, strisciando leggermente i piedi sul pavimento di marmo. Poi: «Ha soltanto respirato... e ha fatto dei versi quasi da animale». «Nient'altro?» «No. Dei versi da animale, ma non so quale animale volesse imitare perché non è che fosse molto bravo a farli.» «Sei certo che non ti abbia detto niente? Non ti ha neppure chiamato per nome?» Continuando a fissare il pannello, Fric rispose: «Solo quello stupido ansimare. Io l'ho richiamato con l'asterisco sessantanove immaginando che magari quel pervertito viveva ancora con sua madre e che lei a-
vrebbe risposto, così io le avrei potuto dire che cosa faceva il suo adorato figlioletto, invece c'era ancora lui che ansimava». Erano arrivati al pianterreno. Le porte si aprirono. Ethan uscì nel corridoio, ma Fric rimase nell'ascensore. Bloccando le porte con un braccio, Ethan gli fece notare: «L'averlo richiamato... non è stata una buona idea, Fric. Quando qualcuno cerca di molestarti, la soddisfazione maggiore che puoi dargli è fargli sapere che ci è riuscito. La cosa migliore è riagganciare immediatamente appena capisci di chi si tratta e, se il telefono squilla di nuovo subito dopo, non rispondere». Guardando l'orologio che aveva al polso e mettendosi a regolare l'ora, Fric disse: «Pensavo che lei avesse un modo per scoprire chi era». «Ci proverò. E... Fric?» Il ragazzino continuò a cincischiare con l'orologio. «Sì?» «È importante che tu mi dica tutto su questa storia.» «Certo.» «Mi stai dicendo tutto, vero?» Portando l'orologio a un orecchio come per ascoltarne il ticchettio, Fric rispose: «Certo. Era uno che ansimava». Il ragazzino stava nascondendo qualcosa, ma insistere in quel momento avrebbe soltanto significato far sì che mantenesse il segreto con maggiore determinazione. Ricordando come lui stesso avesse reagito alle domande di Hazard nella chiesa, Ethan decise di non insistere. «Se ti sta bene, quando chiamano sulla tua linea, stasera o anche domani, sempre che io sia in casa, vorrei essere io a rispondere.» «Okay.» «La tua linea non suona nel mio appartamento, ma provvederò a modificare il programma del computer di casa.» «Quando?» «Subito. Risponderò dopo i primi squilli, ma se la telefonata arriva domani, quando non sarò qui, tu lascia che risponda la segreteria telefonica.» Finalmente il ragazzino lo fissò di nuovo negli occhi. «Okay. Lo sa qual è la mia suoneria?» Ethan sorrise. «La riconoscerò.» Fric lo fissò costernato: «Già, è proprio stupida». «E tu pensi che le prime nove note di Dragnet mi facciano sentire come uno che riceve telefonate importanti?»
Fric sorrise. «Se hai bisogno di chiamarmi a qualsiasi ora, giorno o notte», soggiunse Ethan, «su una delle mie linee o al cellulare, non esitare, Fric. Comunque non dormo mai molto. Hai capito?» Il ragazzino annuì. «Grazie, signor Truman.» Ethan indietreggiò nuovamente nel corridoio. Imbarazzato, Fric cominciò a mordicchiarsi il labbro inferiore mentre premeva un pulsante del pannello, probabilmente quello del secondo piano dove aveva le sue stanze. La bassa statura del ragazzino faceva apparire l'ascensore ancor più grande del solito. Nonostante fosse piccolo e magro per la sua età, Fric possedeva una tranquilla determinazione e un coraggio, che mostrava nella postura e nel modo in cui affrontava la vita di tutti i giorni, che erano sorprendenti per la sua età e ben più grandi del suo corpo minuto. L'infanzia strana e solitaria di quel ragazzino aveva già cominciato a prepararlo per affrontare le avversità. Nonostante la sua ricchezza, la sua intelligenza e la sua crescente saggezza, prima o poi le avversità si sarebbero abbattute su di lui. Dopo tutto era un essere umano e di conseguenza avrebbe ereditato la sua parte di sofferenza e di sventura. Le porte dell'ascensore si chiusero. Fric scomparve dalla sua vista e il meccanismo riprese a ronzare, ma Ethan si fermò a guardare il riquadro indicatore al di sopra delle porte. Vide la luce spostarsi dal pianterreno al primo piano, rimase ad ascoltare il rumore dell'ascensore che continuava a salire. Mentalmente, Ethan vide le porte aprirsi al secondo piano, la cabina vuota, Fric svanito per sempre. Non era solito abbandonarsi a queste strane e cupe fantasie. In qualsiasi altro giorno, si sarebbe domandato da dove gli arrivasse un pensiero così inquietante, poi l'avrebbe cancellato subito dalla sua mente con la stessa facilità con cui un ferro da stiro cancella una piega da una camicia. Ma essendo stato quello un giorno così diverso dagli altri, Ethan si sentì portato a prendere in seria considerazione anche i presentimenti e le possibilità più improbabili. La scala posteriore della villa girava intorno alla tromba dell'ascensore. Ethan fu tentato di lanciarsi su per le quattro rampe di scale. L'ascensore saliva così lentamente che forse sarebbe riuscito ad arrivare prima lui al
secondo piano. Ma se le porte si fossero aperte, mostrando Fric sano e salvo, il ragazzino si sarebbe spaventato nel trovarsi di fronte Ethan. E lui, ansimante per la salita, non sarebbe stato in grado di nascondere la sua preoccupazione... né di spiegarla. Il momento passò. Il nodo che gli stringeva la gola si sciolse. Ethan deglutì, inspirò profondamente. La luce del pannello passò dal primo al secondo piano. Il motore dell'ascensore smise di ronzare. Sicuramente Fric era arrivato sano e salvo all'ultimo piano della villa. Non era stato divorato e digerito dal meccanismo posseduto da un demonio. Ethan cercò in qualche modo di cancellare quell'idea bizzarra dalla sua mente e si avviò verso il suo appartamento nell'ala occidentale. 38 Percorrendo in fretta tutto il lungo corridoio a nord della casa, più di una volta Fric si voltò a guardarsi oltre la spalla con aria preoccupata, perché era sempre stato un po' convinto che negli angoli più solitari di quel grande palazzo ci fossero nascosti dei fantasmi, ma quella sera era assolutamente certo della loro presenza. Mentre passava davanti a uno specchio dalla cornice dorata posto al di sopra di un'antica consolle, gli sembrò di scorgere due figure nel vetro scolorito dal tempo: se stesso e anche un individuo più alto, più scuro, che camminava proprio dietro di lui. Da un arazzo che probabilmente risaliva a prima dell'ultima era glaciale, alcuni cavalieri dall'aria minacciosa, in sella a scuri destrieri, sembravano voltare la testa per seguire i suoi movimenti. Con la coda dell'occhio, a Fric parve di vedere i cavalli - occhi di fuoco, narici fumanti - mettersi a galoppare attraverso quel paesaggio di boschi e foreste, come se intendessero balzare fuori dal loro mondo di stoffa e proseguire la corsa nel corridoio del secondo piano. Considerato il suo attuale stato d'animo, non poteva assolutamente lavorare in un cimitero, in una camera ardente, in un obitorio o in uno di quei laboratori di criogenia in cui gruppi di cadaveri venivano ibernati con la speranza che un giorno potessero essere riportati in vita.
In uno dei suoi film, Papà Fantasma aveva interpretato Sherlock Holmes, che saltava fuori essere stato il primo uomo a far ibernare il proprio corpo subito dopo la morte. Holmes era stato poi riportato in vita nel 2225, perché una società utopistica aveva bisogno del suo aiuto per risolvere il primo caso di omicidio verificatosi negli ultimi cento anni. Se fossero stati tolti i robot cattivi o gli alieni cattivi oppure le mummie cattive, la storia ne avrebbe tratto sicuramente vantaggio. A volte un film può essere troppo fantasioso. Tuttavia, in quel momento, Fric non aveva nessuna difficoltà a credere che Palais Crapaud fosse strapieno di fantasmi, robot, alieni, mummie ed esseri ancor peggiori, soprattutto lì, al secondo piano, dove ora si trovava tutto solo. Non fortunatamente solo, ma nel senso che era l'unico essere umano vivo. La camera di suo padre e le altre stanze del suo appartamento si trovavano su quello stesso piano, nell'ala occidentale e lungo parte del corridoio a nord. Quando Papà Fantasma era a casa, in un certo qual modo Fric aveva compagnia, ma nella maggior parte dei casi, di notte, al secondo piano non c'era nessuno. Come quella sera. All'incrocio tra i corridoi che conducevano rispettivamente a nord e a est, si fermò e rimase immobile come un cadavere in una vasca criogenica, in ascolto. Più che udirlo, Fric immaginava il ticchettio della pioggia. Il tetto era di ardesia, ben isolato e molto in alto rispetto al soffitto del corridoio. Il lieve e incostante mormorio del vento era solo un ricordo lontano, perché quella sera l'aria era perlopiù immobile. Oltre all'appartamento di Fric, sul corridoio orientale si aprivano altre stanze. Camere per gli ospiti raramente occupate. Un ripostiglio per la biancheria. Un locale di servizio stipato di apparecchi elettrici che a Fric apparivano misteriosi ma che gli ricordavano il laboratorio di Frankenstein. C'era anche un salottino, lussuosamente arredato e sempre perfettamente in ordine, che nessuno usava mai. In fondo al corridoio, una porta si apriva sulle scale di servizio che scendevano per cinque piani, fino al garage inferiore. In fondo al corridoio occidentale c'era un'altra scala di servizio che scendeva fino ai sotterranei di Palais Crapaud. Naturalmente, nessuna di queste due scale era ampia o sontuosa come quella principale, che a ogni pianerottolo era illuminata da un lampadario di cristallo.
L'attrice Cassandra Limone... il cui vero nome era in realtà Sandy Leaky - che aveva vissuto con il padre di Fric per cinque mesi e che si era fermata nella villa anche quando lui era assente - per mantenersi in forma aveva salito e sceso tutte le scale della casa quindici volte al giorno. Al primo piano c'era una palestra ben attrezzata che, tra gli altri macchinari, aveva anche uno StairMaster, ma Cassandra diceva che le scale «autentiche» erano meno noiose di quelle finte e che avevano un effetto più naturale sui muscoli delle gambe e del sedere. Ricoperta di sudore, grugnendo come un maiale, strizzando gli occhi, facendo smorfie, imprecando come la ragazzina posseduta dal demonio nel film L'esorcista, urlando contro Fric se casualmente si imbatteva in lui nel corso dei suoi esercizi ginnici, quella Cassandra non sarebbe neppure stata riconosciuta dai giornalisti della rivista People. Per due volte l'avevano inserita nell'elenco delle persone più belle del mondo. Ma evidentemente era valsa la pena compiere tutti quegli sforzi. Più di una volta Papà Fantasma aveva detto a Cassandra che lei era un'arma mortale, perché i muscoli dei suoi polpacci potevano spaccare un cranio, quelli delle sue cosce potevano spezzare un cuore e il suo sedere poteva far impazzire un uomo. Ah, ah, ah. Invece di mettere alla prova il senso dell'umorismo di una persona, alcune battute mettevano a dura prova la sua capacità di reprimere i conati vomito. Un giorno, quasi alla fine della sua permanenza nella villa, Cassandra era caduta dalle scale di servizio dell'ala ovest e si era rotta una caviglia. Davvero divertente. Invece di dirigersi verso il suo appartamento, Fric aveva proseguito verso l'ultima stanza sulla destra, prima delle scale. Questo locale, che misurava più di dodici metri quadrati, non aveva nulla di elegante, il pavimento era rivestito di solide assi di legno e le pareti bianche erano completamente nude. Al momento era vuoto, ma serviva come deposito temporaneo durante le operazioni di trasferimento delle merci da e per il solaio. Uno spazioso montacarichi, azionato da un motore elettrico, poteva trasportare fino a duecento chili e permettere così di immagazzinare nell'ampia area soprastante scatole pesanti e oggetti di grosse dimensioni. Al solaio si accedeva anche grazie a una scala a chiocciola. Fric preferì usare la scala. Salì con grande circospezione, una mano sempre sul corrimano, temendo che l'essersi divertito per la caviglia rotta
di Cassandra gli avrebbe portato sfortuna e lui si sarebbe ritrovato con una gamba ingessata. Il solaio si estendeva per tutta la lunghezza e la larghezza della villa. Il locale non era grezzo, ma ben rifinito: pareti intonacate, pavimento di legno coperto da linoleum per una più rapida pulizia. Colonnati di massicce travi verticali fungevano da supporto a un'elaborata travatura reticolare che reggeva il tetto. Dato che tra un colonnato di travi e l'altro non erano state costruite pareti divisorie, il solaio formava un'unica, enorme stanza. Tuttavia, se ci si trovava a un'estremità del locale, non si poteva vedere facilmente l'estremità opposta perché, dalle travi, pendevano centinaia di giganteschi poster incorniciati. Su ognuno di essi c'era il nome e l'immagine di Channing Manheim. Il padre di Fric aveva girato soltanto ventidue film, ma collezionava oggetti, provenienti da tutto il mondo, che riguardavano la sua carriera. I suoi film avevano un enorme successo in tutti e cinque i continenti e in ogni paese venivano realizzati un gran numero di poster diversi. Quei manifesti formavano una sorta di pareti e corridoi, così come le centinaia di scatole, accatastate le une sulle altre, piene zeppe di oggetti riguardanti Channing Manheim, tra cui magliette con il suo ritratto e/o frasi tratte dai suoi film, orologi da polso e tazze da caffè con stampato il suo volto, berretti, cappelli, giacche, bicchieri, pupazzetti meccanici, bambole, centinaia di giocattoli diversi, biancheria intima, medaglioni, contenitori per alimenti nonché molti altri oggetti che Fric ricordava o immaginava di aver visto. In diversi punti del locale c'erano sagome in cartone di Papà Fantasma, che si mantenevano in posizione eretta grazie a un supporto. Qui era un rude cowboy, là il comandante di una nave spaziale, qui un ufficiale di marina, là il pilota di un jet, un esploratore in mezzo alla giungla, un ufficiale di cavalleria del diciannovesimo secolo, un medico, un pugile, un poliziotto, un pompiere... Diorami di cartone più elaborati rappresentavano il più grande divo del mondo in scene tratte dai suoi film. Questi diorami erano stati esposti negli atri dei cinema e molti di loro, se alimentati da batterie, avevano parti mobili e luci che lampeggiavano. Alcuni pezzi del materiale scenico usato nei suoi film erano posati su scaffali di metallo o appoggiati contro le pareti. Armi futurìstiche, elmetti da pompiere, elmetti da soldato, un'armatura, un ragno robot grande quan-
to una poltrona... Il materiale scenico di maggiori dimensioni, come la macchina del tempo tratta da Futuro imperfetto, era conservato in un magazzino di Santa Monica. Sia quel magazzino, sia questo solaio erano dotati di sistemi di riscaldamento e di umidificazione simili a quelli usati nei musei per ridurre al minimo il deterioramento degli oggetti che formavano la raccolta. Recentemente Papà Fantasma aveva acquistato la proprietà che confinava con Palais Crapaud. La sua intenzione era di abbattere la villa che vi sorgeva, collegare i due appezzamenti di terreno e costruire un museo nello stesso stile architettonico di Palais Crapaud e in cui avrebbe esposto l'intera raccolta. Sebbene suo padre non l'avesse mai detto, Fric sospettava che un giorno intendesse aprire al pubblico la proprietà così com'era avvenuto per Graceland, e che la sua gestione sarebbe stata affidata a Fric. Se quel giorno fosse mai arrivato lui, naturalmente, avrebbe dovuto farsi saltare le cervella oppure gettarsi da un edificio molto alto, o entrambe le cose, sempre che non fosse già riuscito a iniziare una nuova vita sotto un'identità segreta a Goose Crotch nel Montana, o in qualche altro paesino così remoto e semplice che gli abitanti del luogo si riferivano ai film chiamandoli ancora «gli spettacoli della lanterna magica». Ogni tanto saliva nel solaio per gironzolare nel labirinto Manheim e ne restava incantato. A volte si sentiva addirittura elettrizzato all'idea di far parte di questa impresa quasi leggendaria e che aveva qualcosa di magico. Altre volte, si sentiva piccolo piccolo, insignificante come un insetto che corre il pericolo di essere calpestato, schiacciato e dimenticato. Quella sera non si sentiva né ispirato, né sconfortato di fronte a quella collezione, perché la stava visitando unicamente per trovare un nascondiglio. In quel labirinto, avrebbe sicuramente scoperto un buco sicuro dove nascondersi e dove l'onnipresente volto di suo padre sarebbe riuscito a proteggerlo, scacciando il male, allo steso modo in cui l'aglio e il crocifisso scacciano i vampiri. Giunse di fronte a uno specchio alto più di due metri e con una cornice formata da serpenti, intagliati e dipinti a mano, che si contorcevano formando grovigli multicolori. Nel film Black snow, in quello specchio, il padre di Fric aveva intravisto il proprio futuro. Fric ci vide Fric, e soltanto Fric, che strizzava gli occhi come a volte faceva per cercare di vedere nel suo riflesso qualcuno più alto e più forte di quanto in realtà lui non fosse. Come al solito non riuscì a ingannare se
stesso ma si rallegrò del fatto che lo specchio non gli mostrava scene del suo futuro, scene che gli avrebbero confermato il fatto che anche a trenta, quaranta, cinquant'anni, sarebbe sempre stato un mostriciattolo senza speranza. Fric fece un passo all'indietro e cominciò a voltarsi, ma in quel momento lo specchio sembrò incresparsi e dalla sua superficie uscì un uomo, che appariva alto e forte anche senza dover strizzare gli occhi. Quell'essere, che gli sorrideva in modo spaventoso, allungò un braccio verso di lui e Fric si lanciò in una fuga disperata. 39 Turbato come mai gli era accaduto prima dall'oscurità che premeva contro le finestre, Ethan passò da una stanza all'altra del suo appartamento, chiudendo le tende e lasciando fuori la sera piovosa come se questa avesse mille occhi. Poi andò nel suo studio, si sedette alla scrivania, accese il computer ed entrò nel programma di controllo della casa. Sullo schermo apparvero le icone dei comandi di riscaldamento-raffreddamento, il riscaldamento della piscina e dei locali sauna-idromassaggio, illuminazione e annaffiatura giardino, illuminazione interna, apparecchio collegamento audiovideo, sistema elettronico per il servizio di sicurezza, telefoni e altri dispositivi. Cliccò sull'icona del telefono. Gli fu richiesta la password e la digitò. Ethan era l'unico membro del personale che poteva accedere ai sistemi telefonici e di sicurezza, e riprogrammarli. Sullo schermo apparve una nuova serie di opzioni. Gli apparecchi telefonici installati nel suo appartamento mostravano tutte e ventiquattro le linee, ma soltanto due erano accessibili a Ethan. Non poteva ascoltare di nascosto le telefonate dirette ad altre persone, come gli altri non potevano ascoltare le sue. Inoltre, quando le telefonate riguardavano altre linee, Ethan non sentiva squillare il telefono nelle sue stanze. Ma quando arrivava una telefonata, la spia al di sopra del numero delle linea cominciava a tremolare e restava accesa stabilmente solo se c'era una conversazione in corso. Dopo essere entrato nel programma che riguardava l'impianto telefonico, modificò i comandi in modo che la linea 23, quella di Fric, da quel momento in poi fosse accessibile anche a lui. In questo modo avrebbe sentito la suoneria personale di Fric squillare dagli apparecchi del suo apparta-
mento. Completata l'operazione, esaminò attentamente l'elenco delle telefonate di quel giorno. Tutte le telefonate che giungevano a Palais Crapaud, e tutte quelle in uscita, venivano automaticamente inserite in un elenco, anche se la voce non veniva registrata. L'elenco indicava l'ora in cui era iniziato il collegamento e la durata di ogni conversazione. Il computer memorizzava anche il numero di telefono delle persone chiamate, nonché quelli di coloro che chiamavano, tranne quando queste persone utilizzavano un Blocco Identificazione Chiamante per proteggere la loro privacy. Ethan digitò il suo nome e vide che, mentre era stato fuori, aveva ricevuto soltanto una telefonata. Le chiamate che faceva e riceveva sul cellulare non erano comprese in quell'elenco. Sollevò il ricevitore per controllare la segreteria telefonica. La telefonata era giunta dall'ospedale e lo informava della morte di Dunny. Quando Ethan cancellò il proprio nome e digitò quello di Aelfrich, il computer riferì che il ragazzino non aveva ricevuto nessuna chiamata a nessuna ora di quel giorno, lunedì 21 dicembre. A detta di Fric, il maniaco aveva telefonato due volte. E almeno una volta, il ragazzino era riuscito a rintracciarlo tramite *69. Il computer avrebbe dovuto prendere nota di tutte queste chiamate. Ethan passò dal file riguardante Fric a quello generale, che elencava l'intera attività delle linee a partire dalla mezzanotte precedente, nell'ordine in cui erano state fatte e ricevute le telefonate. L'elenco era piuttosto lungo perché il personale era stato impegnato per i preparativi natalizi. Ethan esaminò attentamente l'elenco, ma non trovò alcuna telefonata in entrata o in uscita sulla linea di Fric. A meno che il sistema di memorizzazione avesse sbagliato, fatto che per quanto ne sapeva Ethan non si era mai verificato prima, l'unica conclusione possibile era che Fric avesse mentito su quelle telefonate oscene. La stima che provava per quel ragazzino spinse Ethan a esaminare nuovamente l'elenco, questa volta dal basso verso l'alto. Il risultato fu identico. Per quanto gli risultasse difficile credere che il sistema non avesse registrato le chiamate di cui Fric aveva parlato, Ethan trovava quasi altrettanto difficile accettare il fatto che il ragazzino avesse inventato la storia del maniaco telefonico. Fric non aveva l'abitudine di drammatizzare qualunque cosa gli accadesse, né cercava di richiamare su di sé l'attenzione di chi
gli stava intorno. Inoltre era sembrato davvero turbato quando aveva riferito di quelle telefonate. Ha soltanto respirato... e ha fatto dei versi quasi da animale. Intravedendo con la coda dell'occhio una luce lampeggiante, Ethan distolse lo sguardo dal computer e vide la spia della linea 24 che aveva cominciato a tremolare. Poi qualcuno rispose alla telefonata, il collegamento venne effettuato e la luce rimase accesa in modo stabile. La linea 24, l'ultima che compariva sulla tastiera, era una linea a parte, installata solo per ricevere telefonate dai morti. 40 Quando un tizio dall'aria feroce esce da uno specchio come fosse il vano di una porta, quando cerca di acchiapparti e sfiora la tua camicia con le dita, nessuno avrebbe da ridire se ti bagnassi i pantaloni o se perdessi il controllo dello sfintere, quindi Fric rimase sorpreso di non essersi svuotato da ogni orifizio, di aver reagito abbastanza in fretta da sfuggire a quelle dita e di essere scappato a gambe levate, attraversando quel labirinto completamente asciutto e senza puzzare. Svoltò a sinistra, a destra, a destra, a sinistra, con un salto superò una fila di scatole, svicolando da un corridoio all'altro, andando a sbattere tra due enormi poster, sfrecciando accanto a un Papà Fantasma in grandezza naturale stile detective anni Trenta, passò in mezzo ad altri poster, girò intorno a un unicorno in polistirolo, dall'aria piuttosto realistica, usato nel solo film di Manheim di cui nessuno osava parlare in presenza di suo padre, svoltò di nuovo a sinistra, a sinistra, a destra, poi si bloccò rendendosi conto che non ricordava più da dove era arrivato e che magari stava tornando verso lo specchio incorniciato dai serpenti. Dietro di lui, e per buona parte dell'enorme solaio, i poster incorniciati ondeggiavano come giganteschi pendoli. Lui ne aveva spostati alcuni durante la fuga, ma l'aria smossa aveva provocato ad altri poster un movimento più attenuato. Fra tutte queste oscillazioni, era più difficile capire se l'uomo dello specchio si stava avvicinando o no. Fric non riusciva a scorgerlo. A meno che uno non fosse uno spirito maligno in agguato e con una predilezione per le ombre, l'illuminazione di quell'enorme locale poteva rappresentare un problema. Lungo tutto il perimetro del solaio c'erano alcune lampade a parete, altre erano state montate su alcune delle colonne
che sostenevano la travatura reticolare, tuttavia il loro numero e la loro luminosità lasciavano molto a desiderare. Le barriere formate dai poster appesi al soffitto, schierate come bandiere appartenenti alle varie nazioni di Manheim, impedivano alla luce di diffondersi da un corridoio all'altro. Accovacciato nell'oscurità, Fric inspirò profondamente, trattenne il respiro e rimase in ascolto. All'inizio non riuscì a sentire nient'altro che il rombo del suo cuore, ma quando stava per espirare l'aria che aveva trattenuto, cominciò a udire anche lo scrosciare della pioggia sull'ardesia. Comprendendo che qualsiasi piccolo rumore avrebbe permesso all'uomo in agguato di localizzarlo, Fric espirò con estrema lentezza l'aria viziata, inspirò con calma quella fresca, poi trattenne di nuovo il fiato. Trovandosi nel posto più elevato della casa, era anche più vicino al temporale. Qui il sospiro della pioggia si era trasformato nel bisbigliare di una moltitudine che si scambiava infami segreti nel mare della notte che ora aveva sommerso Palais Crapaud. Tuttavia, nello stesso modo in cui si era concentrato per udire il rumore della pioggia al di sopra del rombo del suo cuore, Fric si sintonizzò sui passi dell'uomo dello specchio. L'architettura del solaio, i movimenti oscillatori dei giganteschi poster e il mormorio della pioggia distorcevano i rumori, facevano credere che l'uomo si stesse allontanando da Fric, poi avvicinando, poi allontanando di nuovo, mentre con tutta probabilità quell'individuo si stava avvicinando sempre di più alla sua preda. Fric aveva tenuto in debita considerazione il consiglio dell'Uomo Misterioso di trovare un nascondiglio segreto. Aveva creduto alle sue parole quando gli aveva detto che ben presto avrebbe avuto bisogno di un rifugio, ma non si era reso conto di averne bisogno così presto. Imparando a respirare e ascoltare contemporaneamente, si ricordò di quanto quella stravagante di sua madre insisteva nel dire, e cioè che lui era «un topolino quasi invisibile». Quindi, rapido e silenzioso, superò le guglie di cartone rosse e oro di una città del futuro sulla quale suo padre - sempre di cartone - torreggiava armato di un terrificante fucile laser. All'incrocio tra i due corridoi, Fric guardò in entrambe le direzioni, poi svoltò a sinistra. Avanzò rapidamente, analizzando il rumore di ogni passo via via che procedeva, calcolando quale fosse il percorso migliore da scegliere per allontanarsi il più possibile dall'uomo nello specchio. L'intruso non faceva alcuno sforzo per nascondere la sua presenza. Anzi, sembrava che volesse farsi udire, come se fosse certo che Fric non avesse
alcuna possibilità di sfuggirgli. Moloch. Quello doveva essere Moloch. Cercava un bambino da sacrificare, da uccidere, forse da mangiare. È Moloch, con ossa di bambini conficcate tra i denti... Fric soffocò l'impulso di mettersi a urlare, di chiedere aiuto, tanto non lo avrebbe udito nessuno, a parte l'uomo-divinità-bestia che lo inseguiva. Le pareti della casa erano spesse, i pavimenti ancor più spessi delle pareti e le persone più vicine si trovavano al primo piano, al centro della villa. Avrebbe potuto cercare una finestra e trovare rifugio su un cornicione, oppure rischiare di precipitare. Ma il solaio non aveva finestre. Sistemato in posizione eretta, c'era un finto sarcofago di pietra decorato con geroglifici e immagini di un faraone morto; all'interno non c'era più la mummia cattiva che un giorno aveva combattuto contro il più grande divo del mondo. C'era anche un baule basso, attualmente vuoto, nel quale uno spietato e astuto assassino (interpretato da Richard Gere) aveva nascosto il cadavere di una stupenda bionda (in realtà il corpo più vivo che mai della summenzionata Cassandra Limone). Fric non aveva alcuna intenzione di nascondersi in quei contenitori, e neppure nella bara smaltata di nero, e neppure nella scatola magica in cui l'assistente di un prestigiatore scompariva con l'aiuto di specchi sistemati ad angolo. Anche quelle che non erano bare, sembravano bare e Fric era sicuro che infilarsi in uno di quei contenitori avrebbe significato morte certa. La cosa più intelligente da fare era continuare a muoversi, rapido e silenzioso come un topo, mantenendosi basso, sempre a una certa distanza, e a diverse svolte, dall'uomo dello specchio. Girando in tondo alla fine poteva raggiungere nuovamente la scala a chiocciola, scendere dal solaio e correre a cercare aiuto. Improvvisamente si rese conto che non udiva più i passi del suo inseguitore. Nessun Papà Fantasma di cartone era più immobile, nessuna mummia sotto la sabbia d'Egitto respirava meno con i suoi polmoni raggrinziti di quanto facesse Fric nel momento in cui cominciò a sospettare che quel silenzio rappresentava uno sviluppo tutt'altro che positivo. Un'ombra fluttuò sopra di lui, fendendo l'aria come fosse acqua. Fric guardò in alto e rimase a bocca aperta. Le travi reticolari che sostenevano il tetto erano posate sulle colonne del
solaio, un metro e mezzo sopra la sua testa. La figura stava attraversando in volo il corridoio, passando da una trave all'altra, senza ali ma più aggraziata di un uccello, muovendosi con la lentezza e la leggerezza di un'astronauta nello spazio, nell'assoluto disprezzo della gravità. Non era un fantasma avvolto in un mantello, ma un uomo vestito normalmente; lo stesso che era uscito dallo specchio e che ora stava eseguendo un impossibile balletto in aria. Atterrò su una trave orizzontale, ruotò verso Fric e si lanciò verso il basso, non come una pietra che cade, ma come una piuma, sorridendo esattamente nel modo in cui Fric aveva immaginato che avrebbe sorriso il cattivo Moloch, affamato di bambini. Fric si voltò e cominciò a correre. Sebbene la discesa di Moloch fosse stata lenta come quella di una piuma, all'improvviso era lì. Afferrò Fric da dietro, un braccio intorno al torace, una mano sul viso. Fric cercò disperatamente di divincolarsi, ma venne sollevato in aria come un topo afferrato dagli artigli di un falco. Per un attimo pensò che il mostro lo avrebbe portato in volo su una delle travi e poi lo avrebbe fatto a pezzi per divorarlo. Invece restarono a terra, ma Moloch aveva ripreso a muoversi. Avanzò rapidamente come se sapesse dove ogni svolta del labirinto lo avrebbe portato. Fric si dimenava, scalciava, scalciava, ma sembrava che lottasse contro qualcosa di inconsistente come l'acqua, intrappolato nelle correnti di un incubo. La mano gli premeva il viso da sotto il mento, tenendogli serrati i denti e costringendolo a ingoiare l'urlo che aveva in gola, e gli stringeva le narici. Fu sopraffatto da quel tipo di panico che ben conosceva per averlo provato durante i suoi peggiori attacchi di asma. Non poteva aprire la bocca per mordere, non riusciva a dare un calcio che avesse un minimo di forza. Non poteva respirare. Ma una paura peggiore lo attanagliò, lo lacerò, gli straziò la mente mentre passavano accanto al sarcofago della mummia, a un poliziotto di cartone con il viso di Papà Fantasma: l'orrendo pensiero che Moloch lo avrebbe portato oltre lo specchio, in un mondo di buio perenne, dove i bambini venivano fatti ingrassare come bestiame per soddisfare l'appetito di divinità cannibali, dove non era possibile trovare neppure la gentilezza ben retribuita della signora McBee, dove non c'era alcuna speranza, neppure quella di diventare adulti.
41 Ethan lanciò un'occhiata al suo orologio, poi alla spia accesa della linea 24 per controllare la durata della telefonata. Non credeva certo che un morto avesse chiamato Palais Crapaud inserendo metafisiche monete in un telefono pubblico dell'Aldilà. Sicuramente, o qualcuno aveva sbagliato numero, oppure si trattava di un rappresentante così deciso a vendere da presentare i suoi prodotti anche alla segreteria telefonica che registrava i messaggi. Quando Ming du Lac, consigliere spirituale del Volto, aveva spiegato la funzione della linea 24, Ethan era stato abbastanza perspicace da rendersi conto che Ming si sarebbe inalberato anche solo di fronte a un'espressione perplessa e sarebbe andato su tutte le furie se lui si fosse mostrato incredulo. Si era quindi sforzato di mantenere un'espressione impassibile e un tono di voce pacato. Tra i membri del personale, soltanto la signora McBee e, tra gli altri collaboratori di Manheim, soltanto Ming du Lac erano abbastanza influenti da convincere il grande uomo a licenziare Ethan. Quindi lui sapeva esattamente con chi doveva evitare di scontrarsi. Telefonate dai morti. Chiunque avesse risposto al telefono, non sentendo nessuno dall'altra parte, aveva ripetuto «pronto», immaginando che il suo interlocutore fosse stato distratto da qualcuno o che ci fosse un problema di linea. Ma anche quando un terzo «pronto» non riceveva risposta, questo qualcuno avrebbe riagganciato, convincendosi che o avevano sbagliato numero, o volevano fare uno scherzo, oppure c'era un problema tecnico nell'impianto telefonico. Alcune persone, tra cui il Volto, credono che una parte di queste telefonate provengano da amici o persone care defunte che cercano di raggiungerci dall'aldilà. Secondo questa teoria, per qualche ragione i morti possono far squillare un telefono, ma non possono con altrettanta facilità far superare alle loro voci l'abisso che divide la vita dalla morte; di conseguenza, ciò che si sente è silenzio oppure strani disturbi elettrostatici o ancora, in rare occasioni, frammenti di parole che sembrano sussurrate da molto lontano. Dopo che Ming gli aveva spiegato lo scopo della linea 24, Ethan si era informato ed era venuto a sapere che i ricercatori che si occupavano di fe-
nomeni paranormali avevano effettuato delle registrazioni su linee telefoniche lasciate aperte tra due determinati numeri, partendo dal presupposto che se i defunti erano in grado di dare l'avvio a una telefonata, forse potevano anche avvantaggiarsi di una linea aperta, riservata esclusivamente alle loro comunicazioni. Successivamente i ricercatori amplificavano e potenziavano quei deboli suoni registrati. Per la verità, spesso scoprivano che le voci parlavano in inglese, ma a volte anche in francese, spagnolo, greco e in altre lingue. La maggior parte di queste entità sussurranti pronunciava solo frammenti di frasi o parole sconnesse che non avevano molto senso, quindi non fornivano dati sufficienti per un'analisi approfondita. A volte, altri e più completi «messaggi» potevano essere interpretati come predizioni o anche come terribili avvertimenti. Tuttavia erano sempre brevi e spesso enigmatici. Il buonsenso suggeriva che le parole o le frasi registrate fossero in realtà brani di conversazioni tra esseri viventi che stavano usando altre linee. E, in effetti, molti dei brandelli di frasi che avevano senso riguardavano argomenti troppo materiali per spingere i defunti a mettersi in comunicazione con i vivi: domande riguardanti il tempo, le ultime pagelle dei nipotini, affermazioni come «... mi è sempre piaciuta la torta di mandorle, soprattutto la tua...» e «... meglio risparmiare per i momenti difficili...» e «... in quel bar che ti piace tanto, c'è una cucina sporca da far paura...» Però... Però alcune delle voci apparivano così tormentate, così angosciate oppure così disperatamente piene d'amore e di preoccupazione da non poter essere dimenticate, né facilmente spiegate, soprattutto quando i messaggi avevano un tono incalzante: «... esalazioni dalla caldaia, esalazioni, non andare a dormire stanotte, esalazioni...» e «... non ti ho mai detto quanto ti amo, ti amo tanto, cercami quando verrai da questa parte, ricordami...» e «... l'uomo sul camion blu, non farlo avvicinare alla piccola Laura, non lasciarlo mai vicino a lei...» Questi strani messaggi riferiti dai ricercatori del paranormale avevano convinto Channing Manheim a lasciare la linea 24 a completa disposizione dei defunti chiacchieroni. Ogni giorno, ovunque si trovassero nel mondo, Manheim e Ming du Lac usavano parte dei loro periodi di meditazione per trasmettere mentalmente il prefisso e il numero telefonico di sette cifre della linea 24, gettando questo amo e la sua esca nel mare dell'immortalità, con la speranza di riuscire
a catturare uno spirito. In tre anni erano riusciti a registrare soltanto numeri sbagliati, tentativi di vendite telefoniche, nonché una serie di telefonate fatte da un burlone che, prima dell'arrivo di Ethan, aveva fatto parte del servizio di sicurezza. Era stato allontanato con una generosa liquidazione e, a quanto riferito dalla signora McBee, con una paternale da parte di Ming du Lac, che lo aveva consigliato di mettere ordine nella sua casa spirituale. La spia luminosa si spense. La telefonata era durata un minuto e dodici secondi. A volte Ethan si domandava com'era possibile che Channing Manheim, che aveva saputo gestire la sua carriera di attore in modo così brillante e che si era dimostrato un vero mago degli investimenti, fosse lo stesso uomo che aveva assunto Ming du Lac, un consigliere di feng-shui, un insegnante di chiaroveggenza, nonché un esperto di vite passate che trascorreva quaranta ore alla settimana a cercare di scoprire quali erano state le reincarnazione dell'attore nel corso dei secoli. D'altra parte, i singolari eventi di quel giorno avevano fatto traballare il suo consueto scetticismo. Riportò nuovamente l'attenzione sullo schermo del computer e sull'elenco delle telefonate, domandandosi per quale motivo Fric avrebbe dovuto inventarsi la storia del maniaco telefonico. Se qualcuno aveva fatto realmente delle telefonate oscene al ragazzino, c'erano ottime probabilità che queste fossero collegate alle scatole nere e alle implicite minacce contro Manheim. Oppure le minacce giungevano contemporaneamente da due fonti diverse. Ma Ethan non credeva alle coincidenze. L'uomo che ansimava al telefono poteva essere il «professore» menzionato da Reynerd nella sua sceneggiatura incompiuta, e cioè l'uomo che aveva cospirato per inviare le scatole nere e per uccidere Manheim. Se così stavano le cose, in qualche modo era riuscito a ottenere almeno uno dei numeri di telefono privati della casa: uno sviluppo inquietante. In passato, il computer non aveva mai mancato di registrare una telefonata. E sebbene possano sbagliare, le macchine non mentono. La telefonata giunta alla linea 24 appariva come l'ultima dell'elenco di quel giorno. Così come doveva essere. Ethan aveva cronometrato la durata della chiamata in un minuto e dodici secondi. Ma il computer aveva registrato un minuto e quattordici secondi. Senza dubbio quella differenza di due secondi era da attribuirsi a un errore
di Ethan. Secondo il computer, un Blocco Identificazione Chiamante aveva impedito di rilevare il numero da cui era partita la chiamata. Un fatto strano se la telefonata giungeva da un venditore telefonico, categoria che per legge non poteva più nascondere la propria identità, ma tutt'altro che strano se chi aveva chiamato aveva composto il numero sbagliato. Non era neppure insolito che una persona che aveva sbagliato numero tenesse la linea occupata per più di un minuto. Il messaggio registrato sulla speciale segreteria telefonica riservata alla linea 24 non era molto articolato e si limitava a un semplice «per favore lasciate un messaggio». A volte, chi telefonava non si rendeva conto di aver sbagliato numero e aderiva a tale invito. Comunque, non era importante sapere chi avesse chiamato la linea 24. La questione era se una macchina, rivelatasi sempre affidabile, avesse sbagliato o mentito, non registrando le telefonate che Fric asseriva di aver ricevuto. A rigor di logica, Ethan poteva soltanto giungere alla conclusione che non si poteva incolpare la macchina. La mattina successiva avrebbe dovuto fare quattro chiacchiere con il ragazzino. Sulla scrivania, accanto al computer, c'erano le tre campanelle argentate dell'ambulanza. Le fissò a lungo. Accanto alle campanelle vide una grossa busta gialla lasciata dalla signora McBee. La governante ci aveva scritto sopra il nome di Ethan con la sua elegante calligrafia. Dentro, lo aspettava l'ennesima conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la madre di Fric era un'autentica carogna. 42 Bizzarramente giallo dalla testa ai piedi, Corky Laputa prese il sacchetto di plastica rosa shocking che gli porgeva il signor Chung. Era consapevole dei sorrisi che suscitava negli altri clienti e immaginò che, nella sua sgargiante vivacità giallo e rosa, doveva essere l'anarchico dall'aspetto più allegro del mondo. Il sacchetto straripava di contenitori pieni di cibo cinese e il signor Chung traboccava di cordialità. Ringraziò con effusione Corky per essere un cliente tanto fedele e gli augurò tutto il meglio che la fortuna aveva da offrire.
Dopo una delle sue intense giornate dedicate al perseguimento del collasso sociale, di solito Corky non aveva voglia di prepararsi la cena. Almeno tre o quattro volte alla settimana andava comprava del cibo pronto dal signor Chung. In un mondo migliore, invece di dover ricorre al cibo cinese, avrebbe spesso cenato in ristoranti di lusso. Tuttavia, se un locale offriva una buona cucina e un eccellente servizio, aveva inevitabilmente abbastanza clienti da rovinare la serata. Salvo poche eccezioni, gli esseri umani erano degli illusi che lo annoiavano a morte. Riusciva a sopportarli individualmente o riuniti in una classe, dov'era lui a stabilire le regole, ma quando erano una folla, non gli permettevano di godersi un buon pasto o di digerire adeguatamente. Guidò sotto la pioggia e giunse a casa con il suo sacchetto rosa, che lasciò ancora chiuso sul tavolo della cucina. La stanza fu inondata da aromi che facevano venire l'acquolina in bocca. Dopo essersi cambiato e avere indossato una comoda vestaglia di cachemire, adatta a una piovigginosa sera di dicembre, Corky si preparò un martini. Soltanto una punta di vermouth, due olive. Nel piacevole ricordo di una giornata ben spesa, spesso gli piaceva girovagare per la spaziosa villetta e ammirarne l'elegante architettura e le decorazioni vittoriane. I suoi genitori, entrambi di famiglie benestanti, avevano acquistato la proprietà poco dopo il matrimonio. Se non fossero state le persone che erano, quella meravigliosa casa sarebbe stata viva di ricordi famigliari e di senso di appartenenza. Ma il suo unico ricordo famigliare piacevole, quello che più gli riscaldava il cuore, era legato al soggiorno, soprattutto la zona intorno al camino dove, grazie a un attizzatoio, lui aveva provveduto a separare sua madre dall'eredità che gli spettava. Si fermò davanti al camino per un paio di minuti, riscaldandosi al fuoco, prima di tornare al piano superiore. Questa volta, con il martini in mano, si avviò verso la camera degli ospiti per controllare come stava il Puzzolente Uomo Formaggio. Ormai non si prendeva neppure la briga di chiudere a chiave la porta. Il vecchio Puzzolente non era più in grado di andare da nessuna parte. La stanza sarebbe stata buia anche in pieno giorno, perché le due finestre erano state ricoperte con pannelli di legno. L'interruttore accanto alla porta accendeva direttamente la lampada sul comodino.
La lampadina colorata e il paralume di seta color albicocca emanavano una gradevole luminosità. Ma anche in quella luce che gli donava tanto, Puzzolente appariva più pallido che mai, talmente grigio da sembrare che si stesse trasformando in pietra. La testa, le spalle e le braccia erano scoperte, ma il resto del corpo era coperto da un lenzuolo e da una coperta. Più tardi, Corky si sarebbe goduto l'intero spettacolo. Un tempo Puzzolente era stato un omone di circa cento chili, in ottime condizioni fisiche. Probabilmente, se fosse stato in grado di salire su una bilancia, ora il suo peso non avrebbe raggiunto i cinquanta chili. Tutto ossa, pelle, capelli e piaghe da decubito, riusciva a malapena a sollevare la testa dal cuscino, decisamente troppo debole per scendere dal letto e salire su una bilancia, e già da settimane la sua disperazione aveva spezzato in lui la volontà di resistere. L'uomo non era più parzialmente sedato. I suoi occhi infossati fissarono quelli di Corky con un cupo scintillio di disperata supplica. Appesa all'asta della flebo, la sacca di glucosio e soluzione salina, che durava ventiquattro ore, era ormai completamente vuota. Oltre al glucosio, le vitamine e minerali che mantenevano vivo Puzzolente, la flebo conteneva anche una droga che provocava uno stordimento mentale e un'opportuna docilità. Corky posò il martini, prese da un piccolo frigorifero una sacca nuova e, con gesti precisi, la sostituì a quella vuota. In quella soluzione non c'erano droghe. Corky voleva che, più tardi, il suo avvizzito ospite avesse la mente lucida. Dopo aver preso il martini e averne bevuto un sorso, disse: «Tornerò da te dopo cena», poi uscì dalla stanza. Nuovamente nel soggiorno, Corky si fermò davanti al camino per finire il cocktail e per ricordare mamma. Sfortunatamente, lo storico attizzatoio non era più lì per essere lucidato, soppesato e ammirato. Anni prima, la sera in cui si era verificato quell'evento, i poliziotti lo avevano portato via insieme a molti altri oggetti con l'intenzione di raccogliere delle prove, ma non l'avevano più riportato indietro. Corky era stato troppo furbo per richiederne la restituzione, la polizia avrebbe sospettato che avesse un valore sentimentale per lui. Dopo la morte di sua madre tutti gli attrezzi del camino erano stati sostituiti con altri nuovi di zecca.
Pur contro voglia, aveva anche dovuto cambiare il tappeto. Se, per un qualsiasi motivo, i detective della Omicidi fossero tornati, vedendo il tappeto macchiato di sangue ancora al suo posto, probabilmente sarebbero rimasti alquanto perplessi. Entrato in cucina, riscaldò il cibo cinese nel forno a microonde. Moo goo gai pan. Maiale Mu shu. Manzo e peperoncino rosso. Riso, naturalmente, e verze sottaceto. Non poteva mangiare tutta quella roba da solo. Tuttavia, da quando aveva cominciato a lasciar morire metodicamente di fame il Puzzolente Uomo Formaggio, Corky aveva cominciato a comprare cibo pronto in quantità esagerate. Evidentemente lo spettacolo dello spaventoso declino di Puzzolente non era soltanto divertente ma, a livello inconscio, anche inquietante. Faceva emergere in Corky il terrore di non essere sufficientemente nutrito. Quindi, nell'interesse della sua salute mentale, continuava ad acquistare troppo cibo e si godeva il terapeutico piacere di gettare tutto ciò che avanzava nella spazzatura. Quella sera, come spesso gli era accaduto negli ultimi mesi, Corky cenò seduto al tavolo della sala da pranzo, sul quale erano accatastate le cianografie complete di Palais Crapaud. Quelle stampe provenivano da una serie di floppy disk realizzati dallo studio di architettura che si era occupato della ristrutturazione della villa, costata sei milioni di dollari ed eseguita poco dopo l'acquisto della proprietà da parte di Manheim. Oltre ad aver sostituito completamente l'impianto elettrico, quello idraulico, di riscaldamento, di condizionamento dell'aria e il sistema audiovideo, l'enorme casa era stata computerizzata e dotata del miglior sistema di sicurezza attualmente disponibile e progettato per essere continuamente aggiornato. A detta della persona alla quale Corky si era affidata, il sistema di sicurezza era stato realmente aggiornato almeno una volta negli ultimi due anni. Come se la notte fosse un essere vivo e bizzoso, si svegliò dalla sua fradicia letargia e scatenò un venticello bisbetico che sibilava alle finestre, che graffiava i muri della casa con le dita artificiali che ricavava dai rami degli alberi e, scuotendo il suo mantello nero, sparò raffiche di pioggia contro i vetri. Nella sua calda sala da pranzo, avvolto nella vestaglia di cachemire, con una succulenta cena cinese davanti a sé, con un utile ed eccitante lavoro che gli occupava la mente, solo di rado Corky Laputa si era sentito così a suo agio e tanto felice di essere vivo.
43 La relazione della signora McBee era particolareggiata e pratica, come sempre, ma anche cordiale, scritta con una calligrafia che la rendeva un piccolo capolavoro e le donava un'aura di documento storico. Seduto dietro la sua scrivania, Ethan udiva mentalmente la cadenza musicale e il leggero accento scozzese della governante. Dopo i convenevoli iniziali, in cui si augurava che Ethan avesse trascorso una giornata proficua e che lo spirito natalizio lo mettesse di buonumore come succedeva a lei, la signora McBee gli ricordava che lei e il signor McBee sarebbero partiti per Santa Barbara nelle prime ore della mattina successiva. Avrebbero trascorso due giorni con il figlio e la sua famiglia e sarebbero tornati alle nove del mattino del 24 dicembre. Gli ricordava inoltre che Santa Barbara si trovava a poco più di un'ora di distanza e che lei restava a disposizione nel caso avessero avuto bisogno di un suo parere. Gli comunicava il numero del suo cellulare, che Ethan aveva già, e quello del telefono di suo figlio. Indicava inoltre l'indirizzo di suo figlio e lo informava che, a meno di tre isolati di distanza dalla casa, c'era un ampio e graziosissimo parco. Nel parco si trovano maestose querce della California e numerosi alberi di grandi dimensioni, scriveva, ma all'interno di questa distesa verde ci sono anche due grandi prati, su ognuno dei quali potrebbe atterrare un elicottero, nel caso alla villa si verificasse un'emergenza di tali e catastrofiche proporzioni da rendere necessario il mio trasporto a casa come fossi un medico militare impegnato a prestare la sua opera nel bel mezzo di una battaglia. Ethan non avrebbe mai creduto che qualcuno riuscisse a farlo ridere tanto alla fine di una giornata così angosciante. Ma, con il suo pungente senso dell'umorismo, la signora McBee ci era riuscita. Gli ricordava che, in loro assenza, sua e del signor McBee, Ethan avrebbe agito in loco parentis, con piena responsabilità e autorità nei confronti di Fric. Durante il giorno, se Ethan doveva allontanarsi dalla villa, la sua posizione sarebbe stata assunta dal signor Hachette, lo chef. I camerieri e le cameriere si sarebbero occupati del bambino secondo le necessità. Il personale che non risiedeva nella villa se ne andava dopo le cinque del pomeriggio. Il signor Hachette lasciava la proprietà dopo cena.
Dato che gli altri membri del personale a tutto servizio avevano preso in anticipo le ferie natalizie, la signora McBee consigliava a Ethan di assicurarsi di tornare prima che il signor Hachette se ne andasse. In caso contrario, Fric sarebbe rimasto da solo e gli adulti più vicino a lui sarebbero stati le due guardie che si trovavano nell'ufficio del servizio di sicurezza sul retro della casa. A quel punto, la governante affrontava l'argomento che riguardava la mattina di Natale. Quel giorno, dopo aver parlato con il ragazzino nella biblioteca e prima di avviarsi verso West Hollywood per svolgere indagini su Rolf Reynerd, Ethan aveva interpellato la signora McBee sulla questione dei regali di Natale di Fric. Qualunque ragazzino sarebbe stato entusiasta di poter presentare un elenco, lungo quanto voleva e che comprendeva tutti gli oggetti che desiderava, sapendo che avrebbe ricevuto esattamente ciò che aveva chiesto, nulla di meno, ma neppure nulla di più. Tuttavia a Ethan sembrava che questo togliesse alla mattina di Natale il piacere della sorpresa e anche un po' della sua magia. Dato che quello sarebbe stato il suo primo Natale a Palais Crapaud, era andato dalla signora McBee, nel suo ufficio accanto alla cucina, per domandarle che cosa diceva il protocollo riguardo a un dono inatteso per Fric, un regalo da lasciare sotto l'albero. «Che Dio la benedica, signor Truman», aveva risposto lei, «ma è una pessima idea. Non quanto spararsi in un piede per osservare l'effetto del proiettile, ma quasi.» «Perché?» si era stupito lui. «Ogni membro del personale riceve una generosa gratifica natalizia, oltre a un oggettino di carattere più personale acquistato da Neiman Marcus o da Cartier...» «Sì, l'ho letto nel suo Norme e Procedure», l'aveva interrotta Ethan. «E al personale è opportunamente vietato scambiarsi regali perché, essendo così numeroso, fare gli acquisti prenderebbe troppo tempo e finirebbe per essere troppo costoso...» «Anche questo è scritto in Norme e Procedure.» «Sono lusingata del fatto che lei lo abbia memorizzato tanto bene. Quindi saprà anche che al personale è cortesemente proibito offrire regali ai membri della famiglia, principalmente perché la famiglia è abbastanza fortunata da avere tutto ciò che può desiderare, ma anche perché il signor Manheim considera il nostro impegno e la nostra discrezione nel discutere della sua vita privata con estranei come regali per i quali ci è grato ogni
giorno.» «Ma il fatto che il ragazzino debba preparare un elenco e che sappia già che la mattina di Natale troverà tutto ciò che ha chiesto... mi sembra così meccanico.» «La carriera e la vita di un personaggio famoso sono spesso una cosa sola, signor Truman. E in un'impresa vasta e complessa come quella che è il signor Manheim, l'unica alternativa alla meccanizzazione è il caos.» «Immagino che sia vero. Ma è terribilmente freddo. E triste.» Abbassando la voce e parlando con un tono più affettuoso, la signora McBee aveva confermato: «È davvero triste. Quel ragazzino è un tesoro. Ma la cosa migliore che tutti noi possiamo fare è quella di essere particolarmente sensibili nei suoi confronti, offrirgli consigli e incoraggiamenti quando li chiede, o comunque quando sembra averne bisogno. Un regalo natalizio inatteso potrebbe essere accolto con gioia da Fric, ma temo che suo padre non approverebbe». «Mi sembra di capire che non approverebbe per motivi diversi da quelli elencati in Norme e Procedure.» La signora McBee era rimasta a lungo pensierosa, come se stesse mentalmente consultando una versione di Norme e Procedure molto più lunga di quella rilegata che consegnava a ogni nuovo dipendente. Alla fine aveva detto: «Il signor Manheim non è un uomo cattivo o senza cuore, ma semplicemente sopraffatto dalla sua vita... e forse è troppo innamorato del suo lato più superficiale. In qualche modo si rende conto di aver mancato nei confronti di Fric e sicuramente vorrebbe che le cose fossero diverse tra loro, ma non sa come porre rimedio alla situazione e tuttavia continuare a fare ciò che deve fare per continuare a essere quello che è. Quindi evita di pensarci. Se lei mettesse un regalo per Fric sotto l'albero di Natale, il senso di colpa del signor Manheim riaffiorerebbe e si sentirebbe ferito per il significato sottinteso del suo gesto. Sebbene sia un uomo corretto con i suoi dipendenti, non sono in grado di prevedere ciò che potrebbe fare». «A volte, quando penso a quel ragazzino così solo, vorrei ficcare un po' di buonsenso nella testa di suo padre anche se...» Sollevando una mano, la signora McBee lo aveva interrotto. «Neppure quando siamo tra noi ci permettiamo di spettegolare su colui che ci dà da mangiare, signor Truman. Sarebbe scorretto e da ingrati. Ciò che le ho detto era una sorta di consiglio amichevole perché credo che lei sia un membro del personale molto prezioso e un buon esempio per il nostro Fric, un
ragazzino dotato di più spirito d'osservazione di quanto lei probabilmente si renda conto.» Ora, nel suo memorandum, la signora McBee affrontava ancora una volta la questione del regalo. Aveva avuto tutta la giornata per riconsiderare le sue parole. Quanto alla delicata questione di un dono inatteso, ritengo di poter essere meno drastica rispetto a quello che le ho detto questa mattina. Un oggetto piccolo e molto speciale, qualcosa che sia più magico che costoso, non lasciato sotto l'albero, ma altrove e in modo anonimo, colmerebbe di entusiasmo chi lo riceve nello stesso modo in cui lei e io ricordiamo di esserci entusiasmati nelle mattine di Natale della nostra gioventù. Credo che lui, per intuito, comprenderebbe l'opportunità di mantenere la massima discrezione a riguardo e sicuramente non rivelerebbe l'esistenza di questo dono a nessuno, se non altro per il puro piacere di avere un segreto. Ma l'oggetto dev'essere veramente speciale e le consiglio la massima circospezione. Anzi, quando avrà finito di leggere questo messaggio, la prego di farlo a pezzetti e di mangiarlo. Ethan scoppiò nuovamente a ridere. Contemporaneamente alla sua risata, una spia luminosa si mise a tremolare sul telefono: la linea 24. Al terzo squillo, la segreteria telefonica scattò e la spia si accese in modo stabile. Non poteva entrare nel programma del computer e modificarlo in modo da poter ricevere la linea 24 nel suo appartamento. Quella era un'operazione che poteva compiere solo con le prime ventitré linee. A parte Manheim, soltanto Ming du Lac aveva accesso a quella linea speciale. Se gli fosse stato chiesto di modificare la situazione, Ming si sarebbe arrabbiato come mai aveva fatto un guru spirituale, ovvero sarebbe stato furibondo come un serpente a sonagli stuzzicato con un bastoncino, naturalmente senza tutti i vari sibili. Anche se avesse avuto accesso alla linea 24, Ethan non sarebbe stato in grado di monitorare alcuna telefonata dal momento in cui la segreteria telefonica scattava, perché l'apparecchio stabiliva un collegamento esclusivo che precludeva qualsiasi possibilità di ascolto da parte di estranei. In precedenza, l'interesse che aveva provato per la linea 24 era stato minimo rispetto a quello che provava quella sera, e questo lo faceva sentire a disagio. Se voleva trovare una spiegazione per ciò che gli era accaduto durante quell'incredibile giornata, doveva tenere a bada la superstizione e usare la logica.
Tuttavia, quando smise di guardare la spia accesa della linea 24, si trovò a fissare le tre campanelle argentate sulla scrivania ed ebbe difficoltà a distogliere lo sguardo. L'ultimo argomento affrontato dalla signora McBee nel suo memorandum riguardava la rivista che aveva accluso, l'ultimo numero di Vanity Fair. Aveva scritto: Questa pubblicazione è giunta con la posta del sabato, insieme ad altre e, come sempre, è stata messa sull'apposito tavolo della libreria. Stamattina, poco dopo che il signorino aveva lasciato la biblioteca, ho scoperto la rivista alla pagina che ho evidenziato. Questa scoperta mi ha fatto riconsiderare il consiglio che le avevo dato riguardo alla questione dei doni di Natale. Tra la seconda e la terza pagina di un articolo sulla madre di Fric, Fredericka Nielander, la signora McBee aveva incollato un post-it giallo. E aveva sottolineato un brano del testo. Ethan lesse l'articolo dall'inizio. Nelle prime righe della seconda pagina trovò un riferimento ad Aelfrich. Freddie aveva raccontato al giornalista che lei e suo figlio erano «inseparabili» e che, ovunque il suo affascinante lavoro la portasse, loro due si tenevano in contatto attraverso «lunghe chiacchierate piene di pettegolezzi, come due compagni di scuola, parliamo dei nostri sogni e ci confessiamo più segreti di due spie schierate contro il mondo». In effetti, il loro rapporto telefonico era così segreto che neppure Fric ne sapeva nulla. Freddie descriveva Fric come «un ragazzino esuberante, sicuro di sé, molto atletico, proprio come suo padre, meraviglioso con i cavalli, uno straordinario cavallerizzo». Cavalli? Ethan avrebbe scommesso la paga di un anno che se mai Fric aveva avuto a che fare con i cavalli, questi erano del tipo che non si lascia mai dietro cumuli di letame e corre sempre accompagnato dalla musica di una giostra. Inventandosi questo falso Fric, Freddie sembrava voler dire che le qualità reali di suo figlio o non erano particolarmente importanti per lei, o addirittura la imbarazzavano. Fric era abbastanza intelligente e abbastanza sensibile per arrivare a quella stessa conclusione. Il pensiero che Fric avesse letto quelle offensive sciocchezze spinse Ethan non a gettare la rivista nel cestino della carta straccia accanto alla
scrivania, ma a scaraventarla con rabbia verso il caminetto, con l'intenzione di bruciarla alla prima occasione. Freddie avrebbe probabilmente fatto notare che, in un'intervista a Vanity Fair, doveva calcolare ogni frase per mettere in risalto la sua immagine. Da una supermodella non poteva essere nato altro che un superfiglio. Bruciare le pagine della rivista che mostravano le foto di Freddie sarebbe stato davvero un grande piacere. Una specie di rito vudù. La linea 24 era ancora occupata. Si voltò verso il computer sul cui schermo appariva l'elenco delle telefonate. Anche questa volta, un Blocco Identificazione Chiamante impediva di risalire al numero di chi aveva telefonato. Dato che il collegamento non era stato interrotto, nella colonna intitolata LUNGHEZZA DELLA CHIAMATA, il tempo continuava a scorrere. Erano già passati più di quattro minuti. Se, dall'altra parte, c'era un venditore o qualcuno che aveva sbagliato numero, il messaggio lasciato sulla segreteria telefonica era piuttosto lungo. Strano. La spia luminosa si spense. 44 Fric si risvegliò con l'immagine di una moltitudine di padri tutti intorno a lui, un esercito in cui ogni soldato aveva lo stesso famoso volto. Era sdraiato sulla schiena, ma non nel suo letto. Sebbene restasse prudentemente immobile, premendo con una sorta di disperazione contro la superficie liscia e dura sotto di lui, la sua mente girava piano piano, in un vortice di confusione. Erano enormi, quei padri, a volte gigantesche figure intere e a volte solo teste staccate dal corpo, ma grandi come i palloni della sfilata organizzata da Macy's per il giorno del Ringraziamento. Fric aveva l'impressione di essere svenuto per mancanza d'aria, il che significava un tremendo attacco di asma. Tuttavia, quando tentò di respirare, riuscì a farlo senza alcuna difficoltà. Spesso i volti di questi giganteschi padri avevano nobili espressioni, espressioni di impavida determinazione, di cupa ferocia, ma altri sorridevano. O strizzavano l'occhio. Uno rideva silenziosamente. Alcuni fissavano con affetto o con aria sognante non Fric, ma donne famose dalle teste egualmente grandi.
Mentre il capogiro si attenuava lentamente, Fric si ricordò dell'uomo che era uscito dallo specchio. Si mise a sedere sul pavimento del solaio. Per un momento, la testa riprese a girargli vorticosamente. La nausea stava per sopraffarlo. Riuscì a resisterle e si sentì quasi eroico. Osò sollevare il capo per controllare se in mezzo alle travi ci fosse ancora quel fantasma senza ali. Si aspettava di intravedere un completo di lana grigia in volo, delle scarpe nere che scivolavano sull'aria con la grazia di un pattinatore. Non vide alcuno strano individuo volante, ma scorse ovunque i padri guardiani a colori, bicromatici, in bianco e nero. Si avvicinavano, si allontanavano, descrivevano cerchi, incombevano su di lui. Padri di carta, tutti. Da piccolo temerario di modeste ambizioni, si alzò in piedi e rimase fermo per un momento, come fosse in equilibrio su un filo sospeso. Si mise in ascolto e udì soltanto la pioggia. L'incessante, scrosciante pioggia. Avanzando troppo in fretta per essere prudente, troppo piano per essere coraggioso, Fric si inoltrò in mezzo a quel labirinto in cerca della scala a chiocciola. Forse inevitabilmente, giunse di fronte allo specchio incorniciato da serpenti. La sua intenzione era di stargli alla larga. Tuttavia lo specchio esercitava su di lui un'oscura e intensa attrazione. A volte, nella sua memoria, ciò che era accaduto con l'uomo dello specchio gli appariva come un sogno, ma subito dopo sembrava reale come la puzza del sudore di cui si sentiva impregnato. Aveva bisogno di sapere ciò che era vero e ciò che non lo era, forse perché era già troppo colma di situazioni irreali e questo gli rendeva impossibile sopportare un'incertezza in più. Tutt'altro che coraggioso ma meno vigliacco di quanto si aspettava di essere, si avvicinò allo specchio protetto dai serpenti. Dato che gli ultimi avvenimenti lo avevano convinto che l'universo di Aelfrich Manheim e quello di Harry Potter si stavano lentamente avvicinando e presto si sarebbero scontrati, Fric non sarebbe rimasto molto sorpreso, ma sicuramente spaventato, se i serpenti intagliati avessero magicamente preso vita e si fossero scagliati contro di lui. Ma le squame dipinte, le sinuose spire rimasero immobili e gli occhi verdi di vetro luccicarono con inanimata malizia. Nello specchio, Fric vide soltanto se stesso e una natura morta invertita
di tutto ciò che si trovava alle sue spalle. Niente vaghe immagini dell'aldilà, neppure una traccia dell'altro mondo. Per avere una conferma, sconfortato nel rendersi conto di quanto stesse tremando, Fric allungò la mano destra verso la sua immagine. Sotto le dita, lo specchio era freddo e liscio... e innegabilmente solido. Quando appoggiò completamente il palmo sulla superficie, l'incontro con Moloch gli sembrò essere avvenuto più in sogno che nella vita reale. Poi si rese conto che gli occhi dell'immagine riflessa non erano verdi come i suoi, di quel verde che aveva ereditato da Mamma Virtuale. Quegli occhi erano grigi, di un grigio luminoso, solo leggermente screziati di verde. Erano gli occhi dell'uomo dello specchio. Nel momento stesso in cui Fric si accorse di questa terrificante differenza nel suo riflesso, due mani maschili uscirono dallo specchio, lo afferrarono per un polso e gli consegnarono qualcosa. Poi le mani dell'uomo si chiusero sulla sua, costringendo a stringerla a pugno e ad accartocciare l'oggetto che gli era stato consegnato, dopodiché gli diedero uno spintone che lo fece barcollare all'indietro. Terrorizzato, Fric gettò a terra l'oggetto ricevuto, qualunque cosa fosse, rabbrividendo nel sentirlo allo stesso tempo scivoloso e scricchiolante. Si lanciò a tutta velocità lungo l'ultimo corridoio, verso l'uscita del solaio, giù per la scala a chiocciola, i piedi che pestavano con tanta forza che, dietro di lui, i gradini di metallo vibravano come pelli di tamburi. Dal corridoio a est a quello a nord, attraverso il secondo piano completamente deserto, Fric tremava ogni volta che passava davanti a porte chiuse, porte che potevano essere improvvisamente spalancate dai mostri più terribili che la mente potesse immaginare. Si faceva piccolo piccolo per la paura ogni volta che vedeva antichi specchi striati dal tempo sopra vecchie consolle. Più volte si guardò indietro, sollevò lo sguardo verso l'alto, aspettandosi di vedere qualcosa di terribile. Di sicuro Moloch stava volando verso di lui, un'insolita divinità cannibale in giacca e cravatta. Raggiunse la scala principale senza che nessuno gli avesse fatto del male, né l'avesse seguito, ma questo non gli dava alcun sollievo. Il battito del suo cuore era talmente forte che avrebbe coperto anche il rumore degli zoccoli di cento cavalli montati da cento Cavalieri della Morte armati di cento falci. In ogni caso, il suo nemico non aveva bisogno di inseguirlo fino allo
svenimento, come una volpe con un coniglio. Se Moloch poteva uscire dagli specchi, perché non dai vetri delle finestre? Perché non da qualsiasi superficie abbastanza lucida da mostrare anche il più incerto riflesso, come quell'urna di bronzo, come le porte smaltate di nero di quell'armadietto in stile Impero, come, come, come?... La rotonda alta tre piani che fungeva da ingresso era immersa nell'oscurità. L'ampia scalinata che seguiva la curva della parete fino al pianterreno svaniva nel buio. Era scesa la sera. I lucidatori avevano finito di lustrare i pavimenti e i decoratori avevano completato gli addobbi, se n'erano andati tutti, anche il personale che si era fermato per gli straordinari. I McBee erano andati a dormire. Non poteva restare da solo al secondo piano. Impossibile. Quando premette un interruttore sulla parete, tutti i lampadari di cristallo che seguivano la curva della scalinata s'illuminarono contemporaneamente. Centinaia di pendenti molati gettarono arcobaleni multicolori sulle pareti. Scese al pianterreno con un tale impeto che, se Cassandra Limone, attrice i cui muscoli dei polpacci riuscivano a frantumare un cranio, fosse stata intenta a esercitarsi su quella scalinata, Fric non avrebbe potuto evitare di romperle qualcosa di più che una semplice caviglia. Superato con un balzo l'ultimo gradino scivolò sul pavimento di marmo della rotonda per poi bloccarsi alla vista dell'albero di Natale più imponente che era stato collocato nella casa. Alto più di cinque metri, decorato esclusivamente con ornamenti di color rosso e argento e di cristallo, l'albero era assolutamente fantastico anche con le ghirlande di lucine ancora spente. Il sensazionale spettacolo dell'albero in sé non sarebbe stato sufficiente a interrompere la sua fuga se non per qualche istante, ma, mentre fissava l'abete con le sue scintillanti decorazioni, si accorse di serrare qualcosa nella mano destra. Aprendo il pugno, vide l'oggetto che gli era stato consegnato dall'uomo nascosto nello specchio, quella cosa accartocciata che era certo di avere gettato sul pavimento del solaio. Fatto di un materiale che era allo stesso tempo scivoloso e scricchiolante, leggero di peso, non si trattava di uno scarafaggio morto, né di una pelle di serpente, di un'ala di pipistrello schiacciata o di uno qualsiasi degli ingredienti usati dalle streghe per le loro pozioni, come si era immaginato lui. Era soltanto una fotografia appallottolata.
Dispiegò la foto, lisciandola tra le mani tremanti. Sbrindellato lungo due dei bordi, come fosse stato strappato da una cornice, il ritratto mostrava una graziosa donna dai capelli e dagli occhi scuri. Non l'aveva mai vista prima. Per esperienza diretta, Fric sapeva che l'aspetto di una persona in fotografia non ha nulla a che vedere con le sue qualità nella vita reale. Tuttavia, dal dolce sorriso di quella donna, dedusse che doveva avere un cuore gentile e sentì che gli sarebbe piaciuto conoscerla. Di tutti gli strani e raccapriccianti oggetti che ci si aspettava di ricevere da qualcosa che viveva dentro uno specchio - un amuleto maledetto, un impiastro creato per rubare l'anima di chi lo riceveva, un pupazzo vudù nulla poteva essere più sorprendente e più sconcertante di quella fotografia sgualcita. Non riusciva a immaginare chi fosse quella donna, che cosa doveva significare il suo ritratto, come poteva venire a conoscenza della sua identità e se conoscere il suo nome sarebbe stato per lui un vantaggio o uno svantaggio. Grazie all'effetto calmante di quel viso, ora si sentiva meno attanagliato dalla paura ma, quando spostò lo sguardo dalla foto all'abete, il terrore lo afferrò di nuovo. Qualcosa si muoveva nell'albero. Non si spostava da un ramo all'altro, non se ne stava appostato nell'ombra verde: il movimento riguardava le decorazioni. Ogni pallina argentata, trombetta argentata, ciondolo argentato era uno specchio tridimensionale. Un riflesso vago e informe scorreva su quelle superfici lucide e tondeggianti, avanti e indietro, su e giù. Solo qualcosa che volasse intorno alla rotonda, avvicinandosi e allontanandosi ripetutamente dall'albero scintillante, poteva provocare quel riflesso. Tuttavia nessun enorme uccello, nessun pipistrello dalle ali grandi come bandiere, nessun angelo di Natale, nessun Moloch attraversava l'aria e quindi sembrava che l'ombra scorresse all'interno delle decorazioni, increspando un lato dell'albero mentre saliva, per poi scendere dall'altra parte come una cascata. Sebbene meno brillanti e più scure delle decorazioni argentate, anche quelle rosse riflettevano come specchi. L'ombra vibrante scivolava sulle rosse superfici, suggerendo l'immagine di zampilli di sangue. Fric intuì che ciò che lo stava inseguendo adesso - ammesso che non fosse soltanto frutto della sua immaginazione - era la stessa ombra che lo aveva inseguito qualche ora prima nella cantina dei vini. Sentì la pelle tendersi sulla testa, incresparsi sulla nuca. In uno dei suoi romanzi preferiti, Fric aveva letto che i fantasmi possono apparire grazie
alla loro volontà, ma non possono mantenere a lungo una forma fisica se noi evitiamo di concentrarci su di loro, perché sono la nostra meraviglia e la nostra paura a nutrirli e renderli più forti. Aveva letto che i vampiri non possono entrare in una casa salvo che non ci sia qualcuno all'interno che li inviti a varcare la soglia. Aveva letto che un'entità maligna può fuggire dall'inferno ed entrare in una persona di questo mondo attraverso il treppiede di una tavoletta ouija, non se uno si limita a porre domande sul defunto, ma solo se si è abbastanza sconsiderati da dire qualcosa come «unisciti a noi» o «vieni con noi». Per la verità aveva letto un sacco di stupidaggini che, nella maggior parte dei casi, dovevano essere state inventate da stupidi romanzieri decisi a fare un bel po' di soldi vendendo le loro stupide sceneggiature a degli stupidi produttori. Fric si era convinto che se non distoglieva lo sguardo dall'albero di Natale, l'ombra sul vetro avrebbe cominciato a muoversi sempre più in fretta, acquistando sempre più forza, fino a quando, come una cartucciera di granate, tutte le decorazioni sarebbero esplose contemporaneamente trafiggendolo con diecimila schegge, dopodiché ogni scheggia avrebbe portato nella sua carne un frammento di quel fantasma, permettendogli di nutrirsi del suo sangue e di diventare il suo padrone. Oltrepassò di corsa l'albero e uscì dalla rotonda. Premette l'interruttore che illuminava il corridoio a nord e schizzò via, pestando rumorosamente con le scarpe da ginnastica dalla suola di gomma sul pavimento di calcare appena lucidato. Continuò a correre, oltre il salotto, la sala da tè, la sala da pranzo piccola, quella grande, la saletta per la colazione, l'office, la cucina, fino all'estremità dell'ala nord, e questa volta non si guardò indietro, né a destra né a sinistra. Oltre alla sala comune, in cui il personale trascorreva i momenti di pausa e pranzava, e alla lavanderia attrezzata in modo professionale, l'ala occidentale del pianterreno comprendeva anche le stanze e gli appartamenti del personale a tutto servizio. Le cameriere, la signora Sanchez e la signora Norbert, erano in vacanza fino alla mattina del 24. Comunque lui non si sarebbe mai rivolto a loro. Erano abbastanza simpatiche, ma una non smetteva mai di ridacchiare e l'altra continuava a raccontargli storie del Nord Dakota, dov'era nata, che a Fric sembravano perfino meno interessanti dell'isola di Tuvalu, con la sua industria di esportazione di noci di cocco. Il signore e la signora McBee avevano avuto una giornata lunga e fatico-
sa. Probabilmente a quell'ora stavano già dormendo e Fric non voleva disturbarli. Arrivando di fronte alla porta dell'appartamento assegnato al signor Truman, che proprio recentemente lo aveva invitato a rivolgersi a lui se avesse avuto bisogno di aiuto, a qualsiasi ora del giorno e della notte, e dal quale aveva pensato di andare quando era scappato dal solaio, improvvisamente Fric si perse d'animo. Un uomo che usciva dallo specchio; lo stesso uomo che volava da una trave all'altra del solaio; uno spirito che lo osservava e che poteva esplodere dalle decorazioni di un albero di Natale: Fric non riusciva proprio a immaginare come una storia tanto fantastica e incoerente potesse essere creduta da qualcuno, ma soprattutto da un ex poliziotto, probabilmente divenuto alquanto cinico dopo aver ascoltato milioni di racconti pazzeschi da un sacco di balordi e di gente fuori di testa. Fric era un po' preoccupato all'idea di essere rinchiuso in un manicomio. Nessuno aveva mai detto che quello era il suo posto. Ma nella storia della sua famiglia di manicomi ce n'era almeno uno. Qualcuno si sarebbe ricordato di una certa esperienza di Mamma Virtuale e magari, guardando lui, avrebbe pensato: eccolo qui un pazzo che avrebbe bisogno di un manicomio. Ma la cosa peggiore era che, prima, aveva mentito al signor Truman e ora avrebbe dovuto ammettere quella bugia. Non gli aveva riferito delle sue strane conversazioni con l'Uomo Misterioso perché anche quella gli era sembrata una storia troppo strana per essere creduta. Aveva sperato che se si fosse limitato a parlare di un maniaco telefonico, il signor Truman sarebbe riuscito a risalire al numero da cui erano partite le chiamate, avrebbe trovato quel bastardo - sempre ammesso che l'Uomo Misterioso fosse un bastardo - e avrebbe messo fine a tutta quella strana faccenda. Il signor Truman aveva domandato se Fric gli stesse dicendo tutto, e lui aveva risposto: «Certo. Era uno che ansimava», ed era lì che aveva detto la bugia. Ora Fric avrebbe dovuto ammettere di non essere stato quello che i poliziotti definiscono «pronto a collaborare», e, alla televisione, i poliziotti non si dimostravano molto entusiasti quando avevano a che fare con degli stronzi che nascondevano informazioni. Da quel momento in poi, giustamente, il signor Truman non avrebbe più avuto molta fiducia in lui, si sarebbe domandato se il figlio dell'attore più famoso del mondo non fosse in realtà solo un mocciosetto destinato a diventare un buono a nulla.
Tuttavia doveva riferire al signor Truman dell'Uomo Misterioso in modo da potergli parlare di Robin Goodfellow, che in realtà era Moloch, e avrebbe dovuto parlargli di Moloch per prepararlo alla storia totalmente folle di quello che gli era accaduto nel solaio. Sembrava una faccenda davvero troppo pazza da raccontare in un colpo solo, soprattutto a un cinico ex poliziotto che aveva visto tutto almeno due volte e che detestava gli stronzetti poco collaborativi. Non raccontando tutta la verità fin dall'inizio, Fric si era scavato la fossa da solo, proprio come fanno certi stupidi tizi negli stupidi telefilm polizieschi, che si scavano sempre la fossa da soli, innocenti o colpevoli che siano. Mentire non ti porterà altro che sofferenza. Già, già, già. L'unica prova di tutta quella storia era la fotografia spiegazzata della graziosa signora dal dolce sorriso, che gli era stata ficcata in mano dall'uomo dello specchio. Fissò la porta dell'appartamento del signor Truman. Guardò la fotografia. Quella fotografia non dimostrava nulla. Poteva averla presa da chiunque, in qualunque posto. Se l'uomo dello specchio gli avesse dato un anello magico che gli permetteva di trasformarsi in un gatto, oppure in un rospo a due teste che parlava con una in inglese e con l'altra in francese e cantava le canzoni di Britney Spears dal sedere, quella sì che sarebbe stata una prova. Quel ritratto non significava nulla. Era solo una foto spiegazzata. Niente più che l'immagine di una graziosa signora con un bel sorriso. Una sconosciuta. Se Fric avesse raccontato ciò che gli era accaduto nel solaio, il signor Truman avrebbe pensato che si era fatto una canna. E lui avrebbe perso qualsiasi credibilità. Rinunciando a bussare, si voltò e si allontanò dalla porta. Era da solo a combattere quella battaglia. Essere da solo non era una novità, ma stava diventando davvero faticoso. 45 Dopo aver mangiato troppo cibo cinese, dopo aver rinfrescato la sua conoscenza degli angoli più sconosciuti di Palais Crapaud, dopo aver gettato gli avanzi nella spazzatura, Corky si preparò un secondo martini e tornò al
piano di sopra, nella stanza degli ospiti dove il Puzzolente Uomo Formaggio giaceva in un tale stato di deperimento che avrebbe rappresentato un boccone poco invitante perfino per degli avvoltoi affamati, che si sarebbero rifiutati di fermarsi per la veglia funebre. Corky Laputa lo aveva soprannominato Puzzolente Uomo Formaggio perché, dopo diverse settimane trascorse a letto, senza lavarsi, emanava un odore che ricordava cose non proprio gradevoli, compresi certi latticini dall'aroma particolarmente forte. Ormai da molto tempo Puzzolente non produceva più escrementi solidi. Quindi il fetore associato all'intestino aveva smesso di essere un problema. Subito dopo aver fatto prigioniero l'uomo, Corky lo aveva cateterizzato, di conseguenza non si era mai dovuto preoccupare di lenzuola inzuppate di urina. Il tubo del catetere finiva in un recipiente di vetro da quattro litri posato accanto al letto, che al momento era pieno solo per un quarto. La puzza, acida e pungente, era in gran parte dovuta al sudore, provocato dalla paura, che si era via via asciugato sulla pelle dell'uomo, e dalla naturale untuosità accumulatosi nel corso delle settimane. Le spugnature non erano tra i servizi forniti da Corky. Entrando nella camera, posò il martini e prese dal comodino il disinfettante al profumo di pino. Puzzolente chiuse gli occhi perché sapeva ciò che stava per accadere. Corky abbassò completamente il lenzuolo e la coperta e spruzzò dalla testa ai piedi il suo scheletrico prigioniero. Era un metodo rapido ed efficace per ridurre il fetore a un livello accettabile almeno per la durata della loro chiacchierata serale. Accanto al letto c'era uno sgabello da bar con lo schienale e il sedile morbidamente imbottiti. Corky ci si appollaiò sopra. Accanto allo sgabello, un alto tronchetto utilizzato per appoggiarvi i vasi fungeva da tavolino. Dopo aver bevuto un sorso del suo martini, Corky posò il bicchiere sul tronchetto. Rimase a osservare Puzzolente per un po', senza dire nulla. Naturalmente, Puzzolente non parlava perché aveva imparato a sue spese che non toccava a lui iniziare le conversazioni. Inoltre, la sua voce un tempo potente ormai era diventata più debole di quella di un tubercolotico allo stadio terminale e aveva assunto una tonalità particolarmente secca e stridula; ricordava la sabbia portata dal vento che graffiava un'antica pietra, o il ticchettio di scarabei in fuga. Puzzolente era spaventato dal suono della sua stessa voce e parlare gli era diventato
doloroso; sera dopo sera, diceva sempre meno. Nei primi giorni, per impedirgli di mettersi a urlare abbastanza forte da insospettire i vicini, Corky gli aveva chiuso la bocca con del nastro isolante. Ora non era più necessario, perché l'uomo non era più in grado di emettere suoni a un volume che potesse infastidire Corky. All'inizio, anche se le droghe lo mantenevano in uno stato di semiparalisi, Puzzolente era stato incatenato al letto. Ma visto il grave deperimento del corpo e il crollo totale delle sue forze fisiche, le catene erano diventate superflue. In assenza di Corky, alle flebo venivano sempre aggiunte delle droghe per mantenerlo docile, un'assicurazione contro un'improbabile fuga. Alla sera gli era permesso di restare lucido. Per le loro sedute. I suoi occhi colmi di paura ora evitavano Corky, ora erano attratti da lui da un terrore magnetico. Era sconvolto da ciò che stava per accadere. Corky non aveva mai picchiato quell'uomo, non era mai ricorso alla tortura fisica. Non l'avrebbe mai fatto. Con le parole e con le parole soltanto aveva spezzato il cuore del suo prigioniero, aveva distrutto ogni sua speranza, aveva annientato la sua autostima. Con le parole avrebbe distrutto anche la sua mente, sempre che Puzzolente non fosse già pazzo. Il vero nome di Puzzolente era Maxwell Dalton. Era stato professore d'inglese nella stessa università di Corky. Corky insegnava letteratura da una prospettiva decostruzionista, instillando negli studenti la convinzione che il linguaggio non può mai descrivere la realtà perché le parole si riferiscono unicamente ad altre parole, non a qualcosa di reale. Insegnava che quando si esamina uno scritto, che si tratti di un romanzo o di una legge, ogni individuo è l'unico arbitro di ciò che lo scritto dice e di ciò che significa, che la verità è sempre relativa, che tutti i principi morali sono interpretazioni fraudolente di testi religiosi e filosofici, testi che in realtà non hanno alcun significato se non quello che ogni individuo desidera che abbiano. Si trattava di idee adorabilmente distruttive e Corky era molto orgoglioso del suo lavoro di insegnante. Il professor Maxwell Dalton era un tradizionalista. Credeva nel linguaggio, nel significato, nelle intenzioni e nei principi. Per decenni, i colleghi in sintonia con le idee di Corky avevano controllato la facoltà di letteratura inglese. Ma negli ultimi anni Dalton aveva cercato di scatenare una rivolta contro la mancanza di significato. Quell'uomo era uno scocciatore, una peste, una minaccia al trionfo del
caos. Ammirava le opere di Charles Dickens, di T.S. Eliot e di Mark Twain. Era un essere spregevole. Grazie a Rolf Reynerd, ora Dalton era prigioniero in quella camera da più di dodici settimane. Quando Corky e Reynerd avevano giurato che, insieme, si sarebbero imposti all'attenzione del mondo intero attaccando l'apparentemente impenetrabile proprietà di Channing Manheim, avevano anche concordato che, per dimostrare la serietà del loro impegno, ognuno di loro avrebbe prima commesso un grave crimine per conto dell'altro. Corky avrebbe ucciso la madre di Reynerd; in cambio, l'attore avrebbe rapito Dalton e l'avrebbe consegnato a Corky. Ricordando come la sua intenzione di soffocare la propria madre senza alcuno spargimento di sangue fosse tanto facilmente degenerata in un furibondo massacro della donna a colpi di attizzatoio, Corky si era procurato una pistola, resa opportunamente non rintracciabile, con la quale far fuori Mina Reynerd in modo rapido e professionale, sparandole un colpo al cuore in modo che ci fosse una minima fuoriuscita di sangue. Sfortunatamente all'epoca non era un grande esperto nell'uso di armi da fuoco. Il primo proiettile non l'aveva colpita al cuore, ma a un piede. La signora Reynerd aveva cominciato a urlare dal dolore. Per ragioni che Corky ancora non riusciva a comprendere appieno, invece di sparare un altro colpo, si era avventato sulla donna, massacrandola furiosamente con un'antica lampada, che era rimasta gravemente danneggiata. In seguito si era scusato con Rolf per aver rovinato quel delizioso ricordo di famiglia. Fedele alla parola data, successivamente l'attore aveva rapito Maxwell Dalton. Poi aveva portato il professore ancora svenuto in quella camera, dove Corky attendeva con una riserva di sacche da infusione conservate nel frigorifero e un'adeguata provvista di droghe che gli avrebbero permesso di mantenere docile il suo prigioniero durante le prime settimane, quando Dalton possedeva ancora la forza per opporre resistenza. Da allora aveva lasciato che il suo collega patisse la fame, limitandosi a tenerlo in vita attraverso le flebo. Sera dopo sera, a volte anche di mattina, infieriva su Dalton con spaventose torture psicologiche. Al professore era stato fatto credere che sua moglie Rachel e la loro bambina di dieci anni, Emily, fossero state rapite con lui. Pensava che si trovassero in altre stanze della casa. Ogni giorno Corky intratteneva Dalton con il racconto degli oltraggi,
degli abusi e dei tormenti a cui aveva di recente sottoposto l'adorabile Rachel e l'innocente Emily. Le sue descrizioni erano vivaci, intensamente volgari e stupendamente oscene. Il suo talento per l'inventiva pornografica lo sorprese e lo divertì, ma ciò che lo lasciò davvero allibito fu il fatto che Dalton accettasse immediatamente i suoi racconti come veritieri, abbandonandosi all'angoscia e alla disperazione ogni volta che li ascoltava. Ma se lui avesse dovuto occuparsi di tre prigionieri in aggiunta ai suoi impegni quotidiani, se avesse commesso su Rachel ed Emily anche solo una frazione delle atrocità cui asseriva di essersi così gradevolmente impegnato, sarebbe stato magro e debole quasi quanto l'uomo sdraiato in quel letto. La madre di Corky, l'economista nonché feroce accademica, sarebbe rimasta allibita nel sapere che suo figlio era stato capace di terrorizzare almeno un collega, riuscendo dove lei aveva fallito. Non sarebbe mai stata in grado di escogitare e realizzare un piano così astuto e complesso come quello di cui si stava servendo Corky per annientare Maxwell Dalton. Sua madre era stata spinta dall'invidia, dall'odio. Libero dall'invidia, libero dall'odio, Corky era motivato dal sogno di un modo migliore creato attraverso l'anarchia. Lei voleva distruggere una manciata di nemici, lui invece voleva distruggere tutto. Spesso chi ha una più ampia visione è gratificato da un più ampio successo. Ora, alla fine di quella che era stata una giornata insolitamente positiva, Corky se ne stava seduto sullo sgabello, osservando dall'alto l'avvizzito professore; continuò a sorseggiare il suo martini per circa dieci minuti, senza dire nulla, lasciando che la suspence aumentasse. Anche durante quella giornata così intensa aveva trovato il tempo di escogitare una storia favolosamente brutale che, con tutta probabilità, sarebbe finalmente riuscita a distruggere Dalton, spezzandolo come un grissino. Corky intendeva riferirgli di aver ucciso Rachel. Considerando la condizione di estrema fragilità di Dalton, forse quella bugia, se ben raccontata, gli avrebbe provocato un infarto mortale. Ma se il professore fosse riuscito a sopravvivere a quella tremenda notizia, la mattina successiva Corky lo avrebbe informato che anche sua figlia era stata uccisa. Forse il secondo choc lo avrebbe finito. In un modo o nell'altro, Corky era pronto a liberarsi di Maxwell Dalton. Aveva ricavato tutto il divertimento possibile da quella situazione. Ora era arrivato il momento di andare avanti.
Oltretutto, presto avrebbe avuto bisogno di quella stanza per Aelfrich Manheim. 46 La notte sulla luna fredda e piena di crateri non poteva essere solitaria quanto quella che avvolgeva la villa di Manheim. All'interno, gli unici rumori erano i passi di Fric, il suo respiro, il lieve cigolio dei cardini quando apriva una porta. Fuori, un vento mutevole, a volte minaccioso a volte melanconico, litigava con gli alberi, si lamentava nelle grondaie, sferzava i muri, gemeva come se protestasse per essere stato escluso dalla casa. La pioggia batteva furiosamente contro le finestre, ma poi piangeva silenziosamente scendendo lungo i vetri. Per qualche tempo, Fric pensò che sarebbe stato più al sicuro se avesse continuato a muoversi e non si fosse fermato in un posto ben preciso, perché in questo caso forze invisibili si sarebbero immediatamente radunate intorno a lui. Oltretutto, in piedi, sempre in movimento, poteva mettersi a correre e fuggire con maggior facilità. Suo padre era dell'idea che, quando un bambino raggiungeva l'età di sei anni, non si dovesse costringerlo ad andare a dormire a un'ora prestabilita, ma che fosse meglio consentirgli di trovare il proprio ritmo circadiano. Di conseguenza, già da alcuni anni Fric andava a dormire quando lo desiderava, a volte alle nove, a volte dopo la mezzanotte. Ben presto si stancò di vagare senza sosta, accendendo le luci davanti a sé e lasciandole accese quando si allontanava. La possibilità che Moloch, la divinità divoratrice di bambini, uscisse da un momento all'altro da uno specchio lo avrebbe tenuto sveglio per il resto della sua vita, o almeno fino a quando avesse compiuto diciotto anni e non potesse più essere considerato un bambino. Tuttavia la paura era spossante quanto un lavoro faticoso. Temendo di crollare su un divano o su una poltrona e di addormentarsi in un luogo che lo rendeva più vulnerabile del necessario, prese in considerazione l'idea di tornare nell'ala occidentale del pianterreno, dove avrebbe potuto raggomitolarsi fuori della porta dell'appartamento del signor Truman. Ma se il signor Truman o i McBee l'avessero trovato lì, lui avrebbe fatto la figura del moccioso fifone e questo sarebbe stato una vergogna per il nome dei Manheim. Decise che la biblioteca rappresentava il rifugio migliore. Si era sempre
sentito a suo agio tra i libri. E sebbene la biblioteca si trovasse al primo piano, che era deserto come il secondo, perlomeno lì dentro non c'erano specchi. Venne accolto dall'albero di angeli. Indietreggiò di fronte a quella moltitudine alata. Poi si rese conto che le decorazioni dell'abete non presentavano neppure una superficie lucida attraverso la quale un'entità malvagia potesse entrare in questo mondo o restare a osservarlo dall'aldilà. Anzi, gli angioletti appesi sembravano suggerire che quello era un luogo protetto, un vero e proprio santuario. In quell'enorme locale, tutti i soprammobili - vasi e vasetti, anfore e statuine - erano porcellane Wedgwood nere con decorazioni stile Impero oppure porcellane della dinastia Han. I soprammobili neri avevano una superficie opaca. E, in duemila anni, le porcellane Han avevano perso ogni lucentezza, quindi Fric poteva stare tranquillo, nessuna creatura malvagia lo avrebbe sbirciato dalla statua di un cavallo o da un vaso che risalivano a prima della nascita di Cristo. In fondo alla biblioteca c'era una porta che si apriva su un bagno. Fric incastrò una sedia a schienale alto sotto la maniglia, perché nel bagno, sopra il lavandino, c'era uno specchio. Questa saggia precauzione presentava però un problema di secondaria importanza che venne facilmente risolto. Doveva fare pipì e per questo utilizzò una palma in vaso. Di solito, dopo un'operazione del genere, si lavava sempre le mani. Questa volta avrebbe dovuto rischiare di restare contaminato, di ammalarsi, di essere vittima di un'epidemia. Distribuite nel grande salone c'erano almeno venti palme in vaso. Fric stabilì che avrebbe dovuto ricordarsi di quelle che avrebbe di volta in volta innaffiato, per evitare di far appassire l'intera foresta pluviale della biblioteca. Tornò nella zona più vicina all'albero di Natale e al battaglione di angeli; certamente quello doveva essere un luogo sicuro. Oltre a poltrone e sgabellini, in nell'ampia area di lettura c'era anche un divano. Fric stava per sdraiarsi su quella specie di letto, quando il silenzio venne rotto da un'allegra musichetta adatta alla camera di un neonato o di un bambino piccolo. Udili-udili-u. L'apparecchio era posato su un mobile che la signora McBee definiva un
«escritoire», ma che per Fric era solo una scrivania. Ci si fermò accanto e rimase a guardare la spia della sua linea privata che si accendeva tremolante ogni volta che il telefono squillava. Udili-udili-u. Si aspettava che il signor Truman rispondesse al terzo squillo. Udili-udili-u. Il signor Truman non rispose. Il telefono squillò una quarta volta. Una quinta. Neppure la segreteria telefonica entrò in funzione. Sei squilli. Sette. Fric si rifiutava di sollevare il ricevitore. Udili-udili-u. Nel suo appartamento, Ethan aveva prelevato da un armadietto gli oggetti contenuti nelle sei scatole nere e li aveva disposti sulla scrivania nell'ordine in cui erano stati ricevuti. Aveva spento il computer. Il telefono era a portata di mano, dove avrebbe potuto intercettare le chiamate dirette a Fric, se mai qualcuno lo avesse chiamato, e da dove avrebbe potuto notare se la spia della linea 24 si fosse accesa segnalando altre telefonate in arrivo. Su quella linea destinata ai messaggi-da-parte-deidefunti il traffico telefonico sembrava essere in aumento, fatto che trovava inquietante per motivi che non riusciva a definire chiaramente, e quindi desiderava tenere la situazione sott'occhio. Seduto nella poltroncina della scrivania con una lattina di Coca in mano, si soffermò ad analizzare gli elementi di quella specie di indovinello. Il barattolo di vetro contenente ventidue coccinelle morte. Per l'esattezza, ventidue Hippodania convergens, della famiglia dei coccinellidi. Un altro barattolo di vetro, di dimensioni maggiori, nel quale aveva trasferito le dieci lumache morte. Uno spettacolo sempre più brutto da vedere, via via che passavano i giorni. Un barattolino da sottaceti contenente nove prepuzi conservati nella formaldeide. Il decimo era stato distrutto dal laboratorio nel corso delle analisi. Le tende chiuse smorzavano il crepitio della pioggia sui vetri e il furibondo sibilare del vento. Coccinelle, lumache, prepuzi... Per qualche ragione, l'attenzione di Ethan si spostò sul telefono, anche se
non aveva squillato. Nessuna spia si era accesa, né quella della linea 24 e neppure quelle delle altre ventitré. Sollevò la lattina di Coca e bevve un sorso. Coccinelle, lumache, prepuzi... Udili-udili-u. Forse il signor Truman era scivolato, era caduto e aveva sbattuto la testa e magari adesso era a terra, svenuto, e non poteva sapere che il telefono stava squillando. Magari era stato portato in un mondo al di là di uno specchio. Oppure si era semplicemente dimenticato di modificare il programma per ricevere le telefonate private di Fric. Chi lo stava chiamando era deciso a non demordere. Dopo ventun ripetizioni di quella stupida musichetta per bambini, Fric giunse alla conclusione che se non avesse sollevato il ricevitore, avrebbe dovuto sentirlo squillare per tutta la notte. Non gli piacque il lieve tremore che udì nella propria voce, ma andò comunque avanti: «Gelateria e vomitatoio di Vinnie, patria del cono gelato da cinque chili, dove potete rimpinzarvi e poi liberarvi». «Salve, Aelfrich», disse l'Uomo Misterioso. «Non riesco a decidere se lei è un maniaco o un amico come dice. Propendo per il maniaco.» «Propendi male. Cerca la verità intorno a te, Aelfrich.» «Che cosa devo cercare intorno a me?» «Quello che è lì con te, in biblioteca.» «Sono in cucina.» «Ormai dovresti esserti reso conto che non mi puoi dire bugie.» «Il mio nascondiglio segreto sarà uno dei forni più grandi. Ci striscerò dentro e chiuderò lo sportello dietro di me.» «Farai meglio a spalmarti di burro, perché Moloch si limiterà ad accendere il gas.» «Moloch è già stato qui», gli fece notare Fric. «Quello non era Moloch. Ero io.» Di fronte a questa rivelazione, Fric fu sul punto di sbattergli in faccia il ricevitore. L'Uomo Misterioso spiegò: «Sono venuto a trovarti, Aelfrich, perché volevo che tu capissi che sei davvero in pericolo e che non c'è più tempo da perdere. Se io fossi stato Moloch, tu saresti stato fritto».
«Lei è uscito da uno specchio», disse Fric, perché in quel momento la curiosità e la meraviglia erano più forti della paura. «E ci sono tornato dentro.» «Come ha fatto a uscire da uno specchio?» «Se vuoi una risposta, guardati intorno, figliolo.» Fric osservò attentamente la biblioteca. «Che cosa vedi?» domandò l'Uomo Misterioso «Libri.» «Davvero? Tenete molti libri in cucina?» «Sono nella biblioteca.» «Ecco la verità. Allora c'è speranza che, dopotutto, tu riesca a evitare un po' di sofferenza. Che cos'altro vedi oltre ai libri?» «Una scrivania. Poltrone. Un divano.» «Continua a guardare.» «Un albero di Natale.» «Ci sei arrivato.» «Arrivato dove?» domandò Fric. «Cos'è che penzola e dondola?» «Prego?» «E si scrive quasi come angoli.» «Angeli», rispose Fric, osservando quella luminosa folla bianca che, con trombette e arpe, si era radunata sull'albero di Natale. «Io mi muovo per mezzo degli specchi, della nebbia, del fumo, attraverso porte d'acqua, scale d'ombra, strade di chiari di luna, attraverso il desiderio, la speranza e la semplice aspettativa. L'automobile non mi serve più.» Sbalordito, Fric strinse il ricevitore con tanta forza che la mano gli dolse, come se volesse spremere altre parole rivelatrici dall'uomo dello specchio. L'Uomo Misterioso rispose al silenzio con il silenzio, rimase in attesa. Fra i tanti misteri che Fric si era aspettato, questo non era incluso nella sua lista. Alla fine, con un diverso tremore nella voce e passando a un tono più confidenziale, domandò: «Mi stai dicendo che sei un angelo?» «Credi che potrei esserlo?» «Il mio... angelo custode?» Invece di rispondere direttamente, l'uomo dello specchio disse: «In tutto questo, credere è importante, Aelfrich. Sotto molti aspetti, il mondo è come noi lo facciamo e siamo sempre noi che creiamo il nostro destino».
«Mio padre dice che il nostro futuro è nelle stelle, che il nostro destino è stabilito fin dalla nascita.» «Ci sono molti aspetti del tuo vecchio davvero ammirevoli, figliolo, ma per quanto riguarda la sua opinione sul destino, dice solo stronzate.» «Accidenti», esclamò Fric, «gli angeli possono dire 'stronzate'?» «Io l'ho appena fatto. Ma sono piuttosto nuovo del mestiere e ogni tanto commetto degli errori.» «Ti stai ancora esercitando con le ali.» «Si potrebbe dire così. Comunque, non voglio che ti accada nulla di male, Aelfrich. Ma io da solo non posso garantirti la salvezza. Dovrai metterci del tuo se vuoi salvarti da Moloch, quando arriverà.» Coccinelle, lumache, prepuzi... Sulla scrivania di Ethan, insieme agli altri oggetti, c'era la biscottiera a forma di gatto con le duecentosettanta tessere, novanta per ciascuna lettera o, w, e E. Owe (dovere). Woe (dolore). Wee woo (piccolo amore). Ewe woo (amore timido). Accanto alla biscottiera c'era Zampe per riflettere, il libro di Donald Gainsworth, che addestrava cani guida per ciechi e paraplegici. Coccinelle, lumache, prepuzi, biscottiera con tessere, libro... Accanto al libro c'era la mela cucita, al cui interno era stato collocato l'occhio di bambola. L'occhio nella mela? Il verme guardingo? Il verme del peccato originale? Le parole hanno un fine che non sia il caos? Ethan aveva mal di testa. Probabilmente doveva essere grato di avere solo un'emicrania, dopo essere morto due volte. Lasciando i sei regali di Reynard sulla scrivania, andò in bagno. Prese un flacone di aspirina dall'armadietto delle medicine e se ne versò un paio sul palmo della mano. La sua intenzione era di riempire un bicchiere d'acqua dal rubinetto del lavandino e di ingoiare le due compresse. Ma quando lanciò una breve occhiata allo specchio, si ritrovò a fissare il proprio riflesso, cercando una vaga forma che non avrebbe dovuto essere lì, che poteva scivolargli via da sotto gli occhi mentre lui tentava di focalizzarla, così com'era accaduto nel bagno dell'attico di Dunny. Decise di andare a riempire il bicchiere in cucina, dove non c'erano specchi. Stranamente, la sua attenzione fu attratta dal telefono a muro accanto al
frigorifero. Nessuna linea era occupata. Non la linea 24. E neppure quella di Fric. Ripensò al maniaco telefonico. Anche se il bambino fosse stato il tipo da inventarsi qualcosa per attirare l'attenzione su di sé, e non lo era, gli sembrava che si trattasse di un'invenzione piuttosto banale, che non valeva neppure la fatica di una bugia. Quando i ragazzini si inventano delle storie, tendono ad arricchirle con particolari esagerati. Dopo aver ingoiato l'aspirina, Ethan si avvicinò al telefono e sollevò il ricevitore. La spia di una delle sue due linee private si accese. I telefoni della casa potevano essere anche utilizzati per le comunicazioni interne. Se premeva il pulsante con la scritta INTERFONO e poi quello della linea di Fric, sarebbe stato in grado di parlare direttamente con il ragazzino, in camera sua. Non sapeva che cosa avrebbe detto, né per quale motivo sentiva di dover cercare Fric a quell'ora così tarda piuttosto che la mattina successiva. Fissò la linea del bambino. Posò un dito sul pulsante, ma esitava a premerlo. Probabilmente a quell'ora Fric stava dormendo. E se era ancora sveglio, avrebbe fatto meglio a dormire. Posò il ricevitore. Si avviò verso il frigorifero. Fino a quel momento non era riuscito a mangiare. Dopo quanto era accaduto quel giorno, aveva lo stomaco stretto come un pugno. Per un po', tutto ciò che aveva desiderato era stato dello scotch. Adesso, improvvisamente, il pensiero di un panino al prosciutto gli faceva venire l'acquolina in bocca. Tu ti alzavi alla mattina sperando che andasse tutto bene, ma la vita se la prende con te, ti sparano nella pancia e muori, poi ti alzi e continui per la tua strada, ma la vita non ti lascia in pace, sei investito e muori di nuovo e, santo cielo, tu ci provi ancora ad andare avanti per la tua strada, ma la vita non ti lascia un attimo di tregua, quindi non c'è da sorprendersi se tutto questo movimento alla fine ti fa venire l'appetito di un sollevatore di pesi olimpionico. Guardando gli angeli di vetro smerigliato, di plastica, intagliati nel legno, di metallo dipinto, mentre allo stesso tempo parlava al telefono con un angelo forse-vero, Fric domandò: «Come potrò mai trovare un nascondiglio sicuro se Moloch riesce a spostarsi usando gli specchi e i chiari di luna?» «Lui non può farlo», rispose l'Uomo Misterioso. «Non ha i miei poteri,
Aelfrich. È mortale. Ma non penso che essere mortale lo renda meno pericoloso. Un demonio non sarebbe peggiore di lui.» «Perché non vieni qui e aspetti con me finché lui arriva, e poi gli dai una bella ripassata con il tuo santo bastone?» «Non ho un santo bastone, Aelfrich.» «Devi avere qualcosa. Un bastone, un randello, un manganello, una spada benedetta che brilla di energia divina. In un romanzo che ho letto c'erano degli angeli. Non sono dei tipini fragili e delicati. Sono guerrieri. Hanno combattuto contro le legioni di satana e le hanno cacciate dal paradiso, spedendole all'inferno. Era una parte del libro davvero tosta.» «Questo non è il paradiso, figliolo. Questa è la terra. Qui sono autorizzato ad agire solo in modo indiretto.» Ripetendo le parole che l'Uomo Misterioso aveva detto nella loro precedente conversazione, quando avevano parlato dal telefono della cantina, Fric elencò: «'Incoraggiare, stimolare, terrorizzare, persuadere, consigliare'». «Hai una buona memoria. So quello che sta per accadere, ma posso influenzare gli eventi soltanto con mezzi che siano astuti...» «... ambigui e allettanti», concluse Fric. «Se quello che cerca Moloch è la sua dannazione, io non posso interferire direttamente. Così come non posso interferire se un eroico poliziotto decide di sacrificare la sua vita per salvarne un'altra, cosa che gli permette di salire in cielo.» «Credo di aver capito. Sei come un regista che non partecipa al montaggio finale del film.» «Non sono neppure un regista. Immaginami come uno dei tanti tizi che girano negli studi cinematografici e consigliano quali revisioni apportare alla sceneggiatura.» «Quel genere di consigli che fa sempre incavolare gli sceneggiatori e che li fa diventare degli ubriaconi. Ti fanno venire il mal di testa a furia di parlarne, come se a un bambino di dieci anni potesse interessare qualcosa, come se a chiunque potesse interessare qualcosa.» «La differenza», gli fece notare il forse-angelo, «è che i miei consigli sono sempre a fin di bene... e basati su una visione del futuro che può essere anche troppo vera.» Fric pensò a tutto questo mentre spostava la poltroncina dalla scrivania. Poi, sedendosi, commentò: «Accidenti. Essere un angelo custode dev'essere frustrante».
«Non te l'immagini neppure. Tu puoi controllare il montaggio finale della tua vita, Aelfrich. Si chiama libero arbitrio. Tu ce l'hai. Tutti ce l'hanno. E io non posso agire al posto tuo. È il motivo per cui sei qui... fare delle scelte, giuste o sbagliate, essere saggio o no, essere coraggioso o no.» «Penso di poterci provare.» «Penso che farai meglio a provarci. Che ne hai fatto della foto che ti ho dato?» «La signora con quel bel sorriso? È nella mia tasca posteriore, piegata.» «Lì dentro non ti servirà a nulla.» «Che cosa credi che dovrei farci?» «Pensa. Usa il cervello, Aelfrich. È una cosa possibile persino nella tua famiglia. Pensa, ragiona.» «In questo momento sono troppo stanco per pensare. Chi è... la signora della foto?» «Perché non giochi a fare il detective? Fai delle domande.» «Ne ho appena fatta una. Chi è?» «Chiedi in giro. Questa è una domanda a cui non tocca a me rispondere.» «Perché?» «Perché io non posso infrangere la regola dell'astuto-ambiguo-allettante, il che a volte rende davvero insopportabili gli angeli custodi.» «Okay, lasciamo perdere. Per questa notte sono al sicuro? Posso aspettare fino a domani mattina per trovare quel posto speciale e segreto dove nascondermi?» «Fino alle prime ore del mattino va bene», rispose la voce. «Ma non sprecare altro tempo. Preparati, Aelfrich. Preparati.» «Okay. E... mi dispiace per come ti ho chiamato.» «Intendi dire... un avvocato?» «Già.» «Mi hanno chiamato anche di peggio.» «Davvero?» «Molto peggio.» «E mi dispiace di aver cercato di rintracciare la chiamata.» «Che cosa vuoi dire?» «È stata una gran brutta cosa da fare a un angelo. Mi dispiace di averti richiamato con l'asterisco sessantanove.» L'Uomo Misterioso rimase in silenzio. C'era qualcosa di indefinibile in quel silenzio che lo rendeva diverso da
tutti quelli che Fric aveva mai sentito. Prima di tutto, era un silenzio perfetto, sembrava aver risucchiato non solo i rumori del collegamento telefonico, ma anche tutti quelli della biblioteca, e a Fric sembrò di essere diventato più sordo di un sordo. Quel silenzio aveva anche qualcosa di profondo, come se l'angelo custode stesse telefonando da un abisso oceanico. Profondo e tanto gelido. Fric rabbrividì. Non riusciva a sentire i denti che gli battevano o il corpo che tremava. Non sentiva neppure il suo respiro, anche se percepiva il fiato che gli usciva dalla bocca, abbastanza caldo da prosciugargli i denti. Un silenzio perfetto, profondo, gelido, sì, ma qualcosa di più e di più strano che semplicemente perfetto, profondo e gelido. Fric immaginò che un silenzio del genere potesse essere creato come per magia da un angelo dotato di poteri sovrannaturali, ma che tuttavia quello sembrava l'incantesimo di un Angelo della Morte. L'Uomo Misterioso inspirò profondamente, inalando quel silenzio e lasciando tornare nuovamente il rumore nel mondo, poi disse, con una sinistra nota di preoccupazione nella voce: «Quando hai usato l'asterisco sessantanove, Aelfrich?» «Be', dopo che mi hai chiamato nella stanza dei treni.» «E anche quando ti ho telefonato nella cantina?» «Sì. Ma non lo sai già... visto quello che sei?» «Gli angeli non sanno tutto, Aelfrich. Di tanto in tanto, alcune cose ci vengono... tenute nascoste.» «La prima volta, il tuo telefono ha continuato a squillare, a squillare...» «Perché avevo usato il telefono del mio vecchio appartamento, dove abitavo prima di morire. Non avevo composto il tuo numero, avevo soltanto pensato a te ma, in effetti, avevo sollevato il ricevitore. Stavo ancora imparando... imparando che cosa posso fare adesso. Ma con il passare del tempo sto diventando sempre più bravo.» Fric si domandò se non fosse ancora più stanco di quanto pensasse. Non sempre quella conversazione gli sembrava avesse un senso logico. «Il tuo vecchio appartamento?» «Come angelo, sono relativamente nuovo, figliolo. Sono morto questa mattina. Uso ancora il corpo in cui vivevo, anche se adesso, grazie ai miei nuovi poteri, è più... duttile. Che cosa è successo la seconda volta che hai utilizzato l'asterisco sessantanove?» «Davvero non lo sai?» «Temo di sì. Ma tu dimmelo lo stesso.»
«Mi ha risposto un maniaco.» «Che cosa ti ha detto?» «Non ha detto niente. Continuava ad ansimare... e poi ha fatto dei versi, come un animale.» L'Uomo Misterioso se ne stava zitto, ma questa volta si trattava di un silenzio ben diverso da quello mortale di qualche minuto prima. Ora si percepiva, anche se debolmente, una serie di contrazioni, il palpitare dei nervi, la lieve tensione dei muscoli. «All'inizio ho pensato che fossi tu», spiegò Fric. «Così gli ho detto che avevo cercato Moloch nel dizionario. A sentire quel nome, si è eccitato tutto.» «Non usare mai più l'asterisco sessantanove dopo una mia telefonata, Aelfrich. Mai, mai più.» «Perché?» Con un'insistenza che rivelava un livello di preoccupazione troppo mortale per un angelo custode immortale, la voce ripeté: «Mai più. Hai capito?» «Sì.» «Mi prometti che non cercherai mai di richiamarmi con l'asterisco sessantanove?» «Va bene. Ma perché?» «Quando ti ho chiamato nella cantina, non ho usato un telefono, come avevo fatto la prima volta. Ora non ho più bisogno di un apparecchio per telefonarti, così come non ho più bisogno di un'automobile per viaggiare. Mi basta l'idea di un telefono.» «L'idea di un telefono? Come funziona?» «La posizione che occupo attualmente mi permette di avere alcune capacità sovrannaturali.» «Cioè, il fatto di essere un angelo custode?» «Ma quando uso soltanto l'idea di un telefono, l'asterisco sessantanove potrebbe metterti in collegamento con un posto in cui tu non devi andare.» «Quale posto?» La voce esitò. Poi disse: «L'oscurità eterna». «Non sembra un bel posto», concordò Fric, lanciando un'occhiata inquieta alla biblioteca. In quel labirinto di scaffali, mostri umani e no vivevano all'interno dei libri. Forse una bestia vagava non in quei mondi di carta ma in questo, respirava non aria ma esalazioni di inchiostro, in attesa che prima o poi un
ragazzino la trovasse lungo uno di quei silenziosi corridoi. «L'oscurità eterna. L'abisso senza fine. Il buio visibile e tutto ciò che vi abita», spiegò la voce. «Sei stato fortunato, figliolo. Non ti hanno parlato.» «Hanno?» «Quelli che tu hai definito 'il maniaco'. Se ti parlano, sono capaci di lusingare, persuadere, affascinare, a volte perfino dominare.» Fric lanciò nuovamente un'occhiata all'albero. Gli angeli sembravano osservarlo, uno a uno. «Quando premi asterisco sessantanove», proseguì la voce, «apri una porta.» «A chi?» «Abbiamo proprio bisogno di dire il loro nome che puzza di zolfo? Entrambi sappiamo di chi sto parlando, vero?» Essendo un ragazzino che prediligeva i libri fantasy, che aveva a sua disposizione una sala cinematografica dove poteva guardare qualsiasi cosa, dalle pellicole per i bambini ai film dell'orrore, dotato di un'immaginazione acuita dalla solitudine, Fric era certo di sapere di chi stavano parlando. L'Uomo Misterioso soggiunse: «Tu gli apri la porta, poi, con una semplice parola sbagliata, potresti involontariamente... invitarli a entrare». «Qui, a Palais Crapaud?» «Potresti invitare uno di loro a entrare dentro di te, Aelfrich. Una volta ricevuto l'invito, sono in grado di spostarsi attraverso i collegamenti telefonici, attraverso quel fragile legame che unisce uno spirito a un altro spirito, un po' come io riesco a passare da uno specchio a un altro.» «Sul serio?» «Sul serio. Dopo questa mia telefonata, non farti venire in mente di usare l'asterisco sessantanove.» «Va bene.» «E non farlo mai quando ti chiamo.» «D'accordo.» «Sto parlando molto seriamente, Aelfrich.» «Non mi sarei mai aspettato che un angelo custode facesse una cosa del genere.» «Che cosa?» «Spaventarmi in questo modo.» «Incoraggiare, stimolare, terrorizzare», gli ricordò l'Uomo Misterioso. «Ora dormi tranquillamente, finché puoi. E domani mattina non perdere tempo. Preparati. Preparati a sopravvivere, Aelfrich, perché in questo mo-
mento, se guardo a come la situazione molto probabilmente si evolverà... ti vedo morto.» 47 Fric in pieno dilemma, sdraiato a faccia in giù sul divano, guardava il telefono posato sul pavimento della biblioteca. Lo aveva spostato dalla scrivania, allungando al massimo il filo. Aveva pensato di sistemarlo nelle immediate vicinanze per sentirsi più sicuro, nel caso avesse dovuto telefonare in fretta a qualcuno per chiedere aiuto. Pur essendo vero, questo motivo rappresentava solo una parte della verità. In effetti si gingillava con l'idea di digitare *69. Fric non aveva alcun desiderio di autodistruggersi. Non era uno di quei bambocci di Hollywood che non vedevano l'ora di crescere per diventare un ricco eroinomane. Non aveva alcuna intenzione di ammazzarsi guidando a tutta velocità auto sportive, usando armi di vario genere, ingoiando pillole dimagranti, ubriacandosi con superalcolici, fumando abbastanza marijuana da farsi venire un cancro ai polmoni o distruggendosi con le donne. A volte, durante una festa, quando Palais Crapaud era affollato da centinaia di persone famose, semifamose e ansiose di diventare famose, Fric si rendeva invisibile per origliare meglio. In mezzo a una folla di quel genere era facile rendersi invisibile, perché metà ospiti erano totalmente concentrati su se stessi e gli altri erano concentrati su quel gruppetto di registi, agenti e capoccia degli studi cinematografici che potevano renderli ricchi da far schifo o ancora più ricchi da far schifo di quanto fossero già. Durante uno di quei magici momenti di invisibilità, Fric aveva sentito dire del terzo, forse quarto attore più famoso del mondo che «se continua a farlo in quel modo, quello stupido cazzone finirà per uccidersi con le donne». Fric non aveva la benché minima idea di come uno potesse uccidersi con le donne o per quale motivo uno che avesse deciso di suicidarsi non comprasse semplicemente una pistola. Tuttavia, quella curiosa affermazione gli era rimasta in mente e lui intendeva essere molto cauto. Adesso, ogni volta che conosceva una nuova donna, la osservava attentamente di nascosto per cercare di capire se era potenzialmente pericolosa. Allo stesso modo, fino a quella strana notte, non aveva mai immaginato
che si potesse telefonare alla morte componendo *69. Magari ciò che sarebbe giunto attraverso il telefono non l'avrebbe ucciso. Forse si sarebbe impossessato della sua anima, avrebbe preso il controllo del suo corpo, rendendolo così infelice che avrebbe finito per desiderare di essere morto. Oppure, una volta entrato in lui, l'avrebbe scaraventato dritto contro un muro, o in un pozzo nero (ammesso che si potesse trovare un pozzo nero a Bel Air), o giù dal tetto di Palais Crapaud o magari tra le braccia di una bionda mortale (di cui apparentemente Bel Air era infestata). Il suo dilemma era che non sapeva se credere a tutto ciò che l'Uomo Misterioso gli aveva detto. Da una parte, la storiella che lui era un angelo custode, che si spostava per mezzo degli specchi e dei chiari di luna... poteva essere una stronzata solenne. Ancora più grossa del film con l'unicorno di Papà Fantasma. D'altra parte - e c'è sempre un'altra parte - l'Uomo Misterioso era realmente uscito da uno specchio. Aveva realmente svolazzato tra una trave e l'altra. La sua esibizione nel solaio - e poi sulle lucide superfici delle decorazioni natalizie - era stata così incredibile da fargli guadagnare una certa credibilità. Ma che razza di angelo custode indossava un completo e una cravatta usciti dritti dritti da un negozio di Rodeo Drive, era pallido come un pesce, aveva un aspetto poco santo e molto spaventoso, nonché gelidi occhi grigi che sembravano cenere sotto ghiaccio? Era possibile che, per motivi sconosciuti, l'Uomo Misterioso avesse mentito, lo avesse ingannato, spingendolo verso conclusioni sbagliate. Una volta aveva sentito suo padre dire che praticamente tutti, in quella città, cercavano di mandare in rovina qualcuno, che se non lo facevano per soldi, lo facevano per divertimento. L'Uomo Misterioso aveva detto che Fric non doveva usare *69 perché questo l'avrebbe messo in comunicazione con l'oscurità eterna. Forse la verità era che quel tizio non voleva che Fric cercasse di sapere da dove stava chiamando. Ancora sdraiato a pancia in giù sul divano, Fric si sporse verso l'apparecchio, sollevò il ricevitore. Premette il pulsante della sua linea privata. Udì il segnale di libero. Gli angeli sull'albero di Natale sembravano proprio degli angeli. Ci si poteva fidare di un angelo con un'arpa, con una trombetta, vestito di bianco e con le ali.
Premette *, poi 6, poi 9. Dall'altra parte, il ricevitore non fu sollevato al quarto squillo, com'era avvenuto precedentemente, ma al primo. Nessuno disse pronto. Ancora una volta, Fric non udì altro che silenzio. Poi, dopo alcuni secondi, udì respirare. Fric intendeva restare in silenzio, costringere il maniaco a parlare per primo. Tuttavia, dopo venti o trenta secondi, s'innervosì a tal punto che cedette e disse: «Sono di nuovo io». Le sue parole non suscitarono alcuna reazione. Cercando di assumere un tono leggero e giocoso, ma riuscendovi solo in minima parte, Fric domandò: «Come vanno le cose nell'oscurità eterna?» Il respiro si fece più aspro e pesante. «Hai presente... l'oscura eternità?» domandò Fric in tono sarcastico, ma anche con un lieve tremore nella voce che non riuscì a controllare e che smentì il suo atteggiamento spavaldo. «Indicata su alcune cartine come l'abisso senza fondo. O il buio visibile.» Lo strano individuo continuò ad ansimare. «Secondo me non stai molto bene. Devi avere una brutta sinusite», commentò Fric. La testa gli sporgeva oltre il bordo del divano e lui cominciò a sentirsi leggermente stordito. «Ti darò il nome del mio dottore. Ti scriverà una ricetta. Poi riuscirai a respirare meglio. Mi ringrazierai.» Una voce gracchiante, che usciva da una gola ostruita da lame di rasoio, più secca delle ceneri di ceneri bruciate due volte, che giungeva da una terribile profondità, attraverso le crepe di pietre spezzate che formavano strane rovine, disse una sola parola: «Ragazzo». Nell'orecchio di Fric, la parola avanzò furtivamente come un insetto, forse uno di quei dermatteri che, secondo la leggenda, penetrano nell'orecchio e arrivano fino al cervello, dove depongono le uova, trasformandoti in un alveare vivente pieno di brulicanti insetti. Ricordando tutti quei poster in cui suo padre appariva nobile, coraggioso e pieno d'incrollabile risolutezza, Fric si appoggiò con forza al ricevitore. Raccolse tutta la determinazione che gli riuscì di trovare per cancellare qualsiasi nota di paura dalla sua voce, poi affermò: «Non mi fai paura». «Ragazzo», ripeté l'altro, «ragazzo», e altre voci giunsero attraverso il telefono, inizialmente solo quattro o cinque, parlavano a un volume più basso della prima, erano maschili e femminili, costellando il loro farfuglia-
re di «ragazzo, ragazzo». Erano incalzanti, avide, disperate. Voci sussurranti e melliflue, voci grossolane «... chi c'è lì?» «... la via, lui è la via...» «... carne dolce...» «... stupido porcellino, facile da prendere...» «... chiedimi di entrare...» «... chiedi a me...» «... no, chiedilo a me...» Nel giro di pochi secondi le voci aumentarono di numero, divennero una moltitudine. Forse perché quegli esseri parlavano tutti contemporaneamente, i loro discorsi sembrarono trasformarsi in versi bestiali e le parole che restavano ancora comprensibili erano per lo più oscenità che, pronunciate una di seguito all'altra, formavano una successione priva di senso. Raggelanti urla di paura, di dolore, di frustrazione e di rabbia pura cucivano tra di loro questi brandelli di rumori formando un arazzo di avido desiderio. Il cuore di Fric cominciò a battergli con forza contro le costole, a pulsargli in gola, sulle tempie. Aveva affermato di non aver paura, ma era spaventato, eccome, troppo spaventato per venirsene fuori con una delle sue battute o anche semplicemente per dire qualcosa. Tuttavia quell'intrico di voci lo affascinava, esigeva tutta la sua attenzione. La smania, l'intensa bramosia, la disperazione, la malinconica nostalgia che si percepiva in loro formava una canzone che toccava le corde della solitudine di Fric, che gli parlava, assicurandogli che non c'era alcuna necessità di soffrire, che doveva soltanto chiedere compagnia e l'avrebbe ottenuta, che la sua vita avrebbe avuto uno scopo e un significato, che lui avrebbe finalmente avuto una famiglia, se solo avesse aperto il suo cuore e si fosse affidato a loro. Anche quando era privo di parole, nonostante le oscenità che avrebbero dovuto disgustare Fric, quel coro gutturale, pieno di sibili e grugniti, riuscì a calmare il suo terrore. Il cuore continuava a martellargli furiosamente nel petto, ma un po' alla volta non fu più la paura a provocare quel battito frenetico, bensì l'esaltazione. Tutto poteva cambiare. Definitivamente. Completamente. Ora e per sempre. Cambiare in un istante. Bastava chiedere, e avrebbe avuto una vita nuova e migliore, una vita che non avrebbe più conosciuto solitudine, incertezza, confusione, dubbi e debolezza... Fric aprì la bocca per pronunciare un invito simile a quello che chi usa una tavoletta ouija sa di dover assolutamente evitare. Ma prima che potesse parlare, fu distratto da un movimento che colse con la coda dell'occhio. Quando si voltò a guardare ciò che aveva attirato la sua attenzione, vide il filo che collegava il ricevitore all'apparecchio, prima bianco e rivestito di vinile, ora apparentemente vivo, rosa e liscio, come quella corda di tessuto organico che lega la madre al neonato. Attraverso quel filo correva una
pulsazione lenta ma forte, che si spostava dall'apparecchio telefonico sul pavimento verso il ricevitore, verso l'orecchio di Fric, come se già pregustasse l'invito che lui era stato sul punto di pronunciare. Seduto alla scrivania del suo studio, mentre mangiava un panino al prosciutto e cercava di scoprire il significato dei sei regali di Reynerd, Ethan si ritrovò a pensare ripetutamente a Duncan Whistler. Nel giardino coperto dell'ospedale Nostra Signora degli Angeli, quand'era venuto a sapere che il corpo di Dunny era sparito, Ethan aveva subito intuito che gli strani eventi accaduti nell'appartamento di Reynerd e l'esibizione da morto-che-cammina di Dunny erano collegati. In seguito, l'apparente coinvolgimento del suo amico d'infanzia nell'omicidio di Reynerd, sebbene inaspettato, non lo aveva sorpreso. Ciò che invece più ci pensava più lo sorprendeva era l'incontro con Dunny nel bar dell'hotel. Quella doveva essere stata più che una coincidenza. Dunny si era trovato nel bar perché anche Ethan era lì. Il fatto che avesse visto Dunny era qualcosa di voluto. Se Dunny aveva voluto che Ethan lo vedesse, allora aveva anche voluto che lui lo seguisse. E magari anche che lo raggiungesse. Fuori dell'hotel, in quell'andirivieni di gente e con la pioggia, aveva perso di vista la sua preda e proprio in quel momento aveva ricevuto una telefonata di Hazard. Ora non poteva fare a meno di pensare che cosa avrebbe fatto se non fosse stato obbligato a incontrare Hazard nella chiesa. Dopo aver ottenuto il numero di telefono dal servizio informazioni, chiamò l'albergo. «Vorrei parlare con uno dei vostri ospiti. Non so il numero della stanza. Si chiama Duncan Whistler.» Dopo una pausa per controllare sul computer dell'hotel, l'impiegato disse: «Mi dispiace, non abbiamo nessuno registrato a nome Whistler». In precedenza, l'enorme locale era stato rischiarato solo da qualche abatjour disseminato qua e là, ma ora tutte le lampade erano accese, così come i lampadari, le luci delle nicchie e la fila di minuscole lampadine che girava tutto intorno all'albero di Natale. La biblioteca era illuminata a giorno come una sala operatoria, ma per Fric non era ancora abbastanza luminosa. Aveva riportato il telefono sul ripiano della scrivania. L'aveva staccato dalla presa. Immaginò che, nelle sue stanze al secondo piano, i telefoni stessero
squillando e che avrebbero continuato a squillare per un bel po'. Non aveva alcuna intenzione di andare a controllare. Quando l'inferno chiamava, poteva essere molto insistente. Aveva trascinato una poltrona accanto all'albero di Natale. Vicino agli angeli. Forse si stava comportando in modo superstizioso, infantile, stupido. Non gliene importava nulla. Quella gente disperata all'altro capo del filo, quelle cose... Si sedette con la schiena rivolta all'albero perché immaginava che nulla sarebbe sbucato da quei rami disseminati di angeli, cogliendolo di sorpresa. Se prima non avesse mentito al signor Truman, ora gli sarebbe stato possibile scendere fino all'appartamento del capo della sicurezza e chiedere aiuto. Lì a Fricburg, USA, era sempre mezzogiorno di fuoco e lo sceriffo non poteva aspettarsi alcun aiuto da parte degli abitanti del villaggio, quando la banda di fuorilegge sarebbe arrivata per la resa dei conti. Ethan concluse la conversazione con l'impiegato dell'albergo e prese ciò che restava del panino al prosciutto, ma una delle sue linee telefoniche squillò prima che potesse addentarne un boccone. Quando rispose, dall'altra parte non udì altro che silenzio. Ripeté «pronto», ma non ottenne risposta. Si domandò se potesse trattarsi del maniaco di Fric. Non udì alcun ansimare. Soltanto il vuoto di una linea aperta e il sibilo dell'elettricità statica, ma così lieve da essere quasi impercettibile. Raramente Ethan riceveva telefonate così tardi, quasi mezzanotte. Considerata l'ora e gli eventi di quella giornata, trovò che perfino il silenzio era significativo. Non sapeva se era l'istinto o la sua immaginazione a farglielo credere, ma percepì una presenza all'altro capo del filo. Durante gli anni trascorsi nella polizia, aveva condotto abbastanza operazioni di sorveglianza per imparare a essere paziente. Rimase ad ascoltare chi lo stava ascoltando, rispondendo al silenzio con il silenzio. Il tempo passava. Il prosciutto aspettava. Ancora affamato, a Ethan era anche venuta voglia di una birra. Alla fine udì un grido, ripetuto tre volte. La voce era fievole, non perché sussurrasse o fosse debole, ma perché giungeva da una grande distanza,
così tenue che sembrava quasi il miraggio di un suono. Altro silenzio, altro tempo, poi la voce si udì di nuovo, flebile come prima, così vaga che Ethan non avrebbe potuto dire con certezza se si trattava della voce di un uomo o di una donna. Per la verità poteva anche essere il verso di un uccello o di un animale, ripetuto nuovamente tre volte, attutito come se giungesse da dietro una barriera di nebbia. Ormai non si aspettava più di udire qualcuno ansimare. Sebbene non fosse aumentato di volume, il sibilo dell'elettricità statica aveva assunto un tono minaccioso, come se ogni sommesso tic rappresentasse l'impatto di una particella radioattiva sul timpano di Ethan. Quando la voce si fece udire per la terza volta, non ripeté il breve grido di prima. Ethan avvertì una struttura nel suono che sicuramente voleva trasmettere un significato ben preciso. Parole. Non del tutto comprensibili. Come se una lontana stazione radio trasmettesse in un etere sconvolto dalle tempeste, quelle parole venivano distorte da evanescenze, deviazioni, scariche. Avrebbe potuto essere una voce fuori del tempo, o inviata dalla faccia buia di Saturno. Non ricordava di essersi sporto in avanti nella poltrona. Né ricordava quando le braccia erano scivolate dai braccioli e lui aveva appoggiato i gomiti sulle ginocchia. Tuttavia se ne stava seduto in quella posizione, con entrambe le mani sulla testa, una che stringeva il ricevitore, come un uomo reso umile dal rimorso o in preda alla disperazione dopo aver ricevuto una terribile notizia. Sebbene Ethan si sforzasse in ogni modo di afferrare il contenuto di quella lontana conversazione, questa continuava a sfuggirgli, elusiva come l'ombra delle nuvole proiettate da un chiaro di luna sulle onde del mare. Anzi, più lui si sforzava di trovare un significato in quelle probabili parole, più loro si ritraevano dietro a uno schermo di scariche e di distorsioni. Pensava che se si fosse rilassato, il flusso di parole sarebbe stato più chiaro, la voce più forte, ma lui non riusciva a rilassarsi. Nonostante premesse il ricevitore contro la testa con una tale forza che l'orecchio gli doleva, non era capace di ridurre l'intensità della sua concentrazione, convinto che solo se avesse avuto la pazienza di non distrarsi neppure per un istante i suoi sforzi sarebbero stati premiati. C'era qualcosa di malinconico in quella voce. Benché incapace di afferrare le parole e di comprenderne il significato, Ethan vi percepiva un tono di supplica e forse una struggente tristezza. Quando pensò di aver trascorso almeno cinque minuti cercando inutil-
mente di recuperare le parole dal mare di turbolenze elettrostatiche e di silenzio, Ethan lanciò un'occhiata al suo orologio. Le 12.26. Era stato inchiodato all'apparecchio per quasi mezz'ora. Sentiva l'orecchio che bruciava e pulsava per essere stato premuto così a lungo contro il ricevitore. Il collo era tutto indolenzito e gli facevano male le spalle. Sorpreso e in qualche modo disorientato, si raddrizzò nella poltroncina. Non era mai stato ipnotizzato, ma immaginò che quello fosse il modo in cui ci si sentiva risvegliandosi da uno stato di trance. Pur controvoglia, riagganciò. Forse quella voce nel vuoto non era stata altro che una suggestione, un'illusione uditiva. Tuttavia l'aveva inseguita con la concentrazione di un ecogoniometrista che, a bordo di un sottomarino, si aspetta di udire da un momento all'altro il ping di una nave da guerra in avvicinamento. Non riusciva a comprendere chiaramente ciò che aveva fatto. O perché. Sebbene la stanza non fosse eccessivamente calda, si asciugò la fronte con la manica della camicia. Era convinto che il telefono avrebbe squillato di nuovo. Forse sarebbe stato meglio non rispondere. Quel pensiero lo turbò perché non riusciva a comprenderlo. Per quale motivo non doveva rispondere a un telefono che squillava? Il suo sguardo sfiorò i sei oggetti inviati da Reynerd, ma la sua attenzione si posò sulle tre campanelline prese da un'ambulanza sulla quale lui non era mai stato. Dopo due o tre minuti, vedendo che il telefono restava muto, Ethan accese il computer e controllò nuovamente l'elenco delle chiamate. L'ultima voce riguardava la telefonata che lui aveva fatto all'albergo per chiedere di Dunny Whistler. Quella successiva, ovvero la telefonata che lui aveva ricevuto e che era durata quasi mezz'ora, non era stata registrata. Impossibile. Fissò lo schermo, pensando alle telefonate che Fric aveva detto di aver ricevuto dal maniaco. Era stato troppo superficiale nel considerare quella storia come l'invenzione di un ragazzino. Lanciò un'occhiata al telefono, e vide che la spia luminosa della linea 24 era accesa. Venditori. Numeri sbagliati. Tuttavia... Se fosse stato facile soddisfare la sua curiosità, sarebbe salito al secondo
piano dove, all'interno di una stanza speciale, la cui porta azzurra era sempre chiusa a chiave, si trovava la segreteria telefonica collegata alla linea 24. Tuttavia, nel momento stesso in cui fosse entrato in quella stanza, avrebbe perso il suo lavoro. Per Ming du Lac e Channing Manheim, la stanza dietro a quella porta azzurra era un luogo sacro. Tranne loro due, nessun altro poteva entrarvi. In caso di emergenza, Ethan era autorizzato a usare il suo passepartout che gli permetteva di accedere a tutte le stanze della casa. L'unica porta che il passepartout non apriva era quella azzurra. Né la folla di angeli, né il gradevole profumo di abete, e neppure il comfort dell'enorme poltrona riuscivano a far addormentare Fric. Scese della poltrona, si arrischiò a raggiungere gli scaffali più vicini e scelse un romanzo. Benché avesse solo dieci anni, le sue letture erano quelle di un sedicenne. Ma non se ne vantava; in base alla sua esperienza, la maggior parte dei sedicenni non era certo costituita da ragazzi prodigio, probabilmente perché nessuno si aspettava che lo fossero. Neppure la signorina Dowd, la sua insegnante privata, si aspettava che a lui piacessero i libri; dubitava che gli servissero a qualcosa. Diceva che i libri erano ormai superati; il futuro si sarebbe basato sulle immagini, non sulle parole. Anzi, lei credeva nei «memes», che pronunciava mims e definiva idee che sorgevano spontaneamente tra «le persone informate» e che si diffondevano tra la gente comune come un virus mentale, creando «nuovi modi di pensare». La signorina Dowd andava da Fric quattro volte alla settimana e, dopo ogni lezione, lasciava dietro di sé abbastanza letame da fertilizzare i prati e le aiole dell'intera proprietà per almeno un anno. Sprofondato nuovamente nella poltrona, Fric si accorse che non riusciva a concentrarsi abbastanza per lasciarsi coinvolgere dalla storia. Questo non significava che i libri fossero obsoleti, ma solo che lui era stanco e spaventato. Rimase seduto per qualche tempo, in attesa che un meme sorgesse nella sua mente, dandogli qualcosa di radicalmente nuovo cui pensare, qualcosa che avrebbe spazzato via dalla sua testa tutti i pensieri di Moloch, di sacrifici di bambini e di strani uomini che si spostavano grazie agli specchi. Ma evidentemente in quel momento non c'era alcuna epidemia di meme. Sentendo che gli occhi cominciavano a bruciargli ma che il sonno non
voleva arrivare, prese da una tasca dei jeans la foto che gli era stata passata attraverso uno specchio. La dispiegò e la lisciò su una gamba. Quella signora era anche più graziosa di quel che ricordava. Non bella come una top model, ma graziosa in modo reale. Dolce e gentile. Si domandò chi fosse. Poi provò a immaginare come sarebbe stata la sua vita se quella donna fosse stata sua madre e se il marito di lei fosse stato suo padre. Si sentì un po' in colpa per aver escluso Mamma Virtuale e Papà Fantasma da quella vita immaginaria, ma d'altra parte la loro vita reale era finta, quindi pensò che non gli avrebbero portato rancore se, per una sola notte, si fosse creato una famiglia di fantasia. Dopo un po', il sorriso di quella donna si trasmise a Fric, il che era molto meglio che prendersi un meme. Poi un giorno, quando Fric già abitava con la sua nuova mamma e il marito di lei, che Fric non aveva ancora conosciuto, in un grazioso villino di Goose Crotch, nel Montana, dove nessuno era al corrente della sua passata identità, l'uomo dagli occhi grigi era uscito da uno dei lati lucidi del tostapane, aveva dato qualche affettuoso colpetto sulla testa del cane e aveva avvertito Fric che era pericoloso cercare di richiamarlo attraverso *69. «Ma se un angelo usa l'idea di un telefono per chiamarmi», gli aveva fatto notare Fric, «e poi io digito asterisco sessantanove, per quale motivo vengo messo in comunicazione con l'inferno invece che con il paradiso?» Senza rispondere alla domanda, l'uomo si era messo a soffiare come un drago, lanciandogli contro una fiammata, poi era scomparso nuovamente all'interno del lato lucido del tostapane. Le fiamme avevano bruciacchiato gli indumenti di Fric, facendoli fumare, ma lui non aveva preso fuoco. La sua meravigliosa nuova madre gli aveva versato un altro bicchiere di limonata per rinfrescarlo e insieme avevano continuato a parlare dei loro libri preferiti, mentre lui divorava una grossa fetta di torta al cioccolato che lei gli aveva preparato. In una tumultuosa oscurità che prima riecheggiava di spari e del rombo di motori sempre più vicini, poi di una voce che gridava dal vuoto, Ethan continuò a girarsi e rigirarsi, ruzzolando sull'asfalto bagnato, finché girò un'ultima volta in una tranquilla oscurità di lenzuola umide e aggrovigliate. Mettendosi a sedere nel letto, mormorò: «Hannah», perché mentre dormiva, quando tutte le sue difese psicologiche erano crollate, aveva riconosciuto la sua voce in quella udita al telefono. Inizialmente lei aveva ripetuto tre volte lo stesso grido, e poi altre tre
volte. Nel sonno lui aveva riconosciuto la parola, il suo nome: «Ethan... Ethan... Ethan». Ma continuava a sfuggirgli quello che Hannah aveva detto dopo, il messaggio urgente che aveva cercato di fargli pervenire attraverso l'enorme distanza che li separava. Neppure durante il sonno, la stanza che confina con la morte, era stato abbastanza vicino a lei per udire qualcosa di più oltre al proprio nome. Mentre il velo del sonno scivolava via, Ethan ebbe la netta sensazione di essere osservato. Ogni bambino conosce bene la sensazione di svegliarsi da un sogno sentendo che nell'oscurità della cameretta si nascondono spiriti maligni di ogni tipo. La presenza dei demoni sembra così reale che molte manine esitano a premere l'interruttore dell'abat-jour, temendo che ciò che vedranno sia anche peggiore delle immagini create dalla fantasia; tuttavia il loro terrore svanisce sempre con la luce. Ma Ethan non era proprio convinto che questa volta la luce avrebbe cancellato l'irrazionalità. Aveva la sensazione di essere osservato da gufi e cornacchie, da corvi e falchi dallo sguardo crudele, uccelli che non se ne stavano appollaiati sui suoi mobili, ma che lo fissavano da fotografie in bianco e nero appese alle pareti. Foto che non c'erano quando lui era andato a dormire. Sebbene già da diverse ore la notte si era fusa nell'oscurità che sempre precede un nuovo giorno, non aveva alcun motivo per supporre che il martedì sarebbe stato meno permeato di irrazionalità del lunedì appena trascorso. Non allungò la mano verso l'interruttore dell'abat-jour. Tornò a sdraiarsi, la testa appoggiata sui cuscini, rassegnato alla presenza di qualunque cosa si nascondesse nel buio. Dubitava di riuscire ad addormentarsi di nuovo. Ma ben presto i suoi occhi si chiusero. Mentre si trovava sul bordo del vortice che l'avrebbe fatto sprofondare nel sonno, mentre si lasciava trasportare pigramente, udì un tic-tic-tic che poteva essere provocato dagli artigli degli uccelli di guardia ogni volta che cambiavano posizione su un'inferriata. O forse era soltanto la pioggia gelida che graffiava le finestre. Mentre cominciava a ruotare sempre più rapidamente e veniva attratto verso quel buco nero che era il sonno, Ethan sbatté le palpebre un'ultima volta e notò una lucina nel buio. Il telefono. Senza alzarsi per andare a controllare, non poteva essere certo di quale fosse la spia che si era accesa,
tuttavia l'istinto gli diceva che doveva trattarsi della linea 24. Si abbandonò e precipitò nel vortice, verso i sogni che lo attendevano. 48 Libero dall'invidia, libero dall'odio, gioioso nel servire il caos, Corky Laputa cominciò la sua giornata con un dolce alle mandorle e cannella, quattro tazze di caffè nero e un paio di compresse di caffeina. Chiunque voglia distruggere l'ordine sociale deve procurarsi un'energia aggiuntiva anche a costo di distruggere le pareti interne del suo stomaco e ritrovarsi con un'infiammazione intestinale cronica. Fortunatamente per Corky, consumare di tanto in tanto massicce quantità di caffeina sembrava aumentare l'efficacia della sua bile senza provocargli acidità o altri sgradevoli sintomi. Mentre ingeriva caffeina aiutandosi con altra caffeina, si fermò davanti alla finestra della cucina e sorrise al cielo basso e cupo e alla foschia notturna che non era stata ancora cancellata dall'alba grigia. Ancora una volta il maltempo era suo alleato. La pioggia si stava prendendo solo una breve pausa. Un nuovo e più forte temporale inseguiva da vicino quello del giorno precedente e, a detta del servizio meteorologico, avrebbe spazzato la città, permettendo così a Corky di indossare il suo completo da pioggia. Lui aveva già riempito nuovamente le tasche interne dell'impermeabile giallo, che al momento si trovava nel garage, appeso a un gancio. Portò l'ultima tazza di caffè nella stanza degli ospiti al piano superiore e finì di berla mentre informava il Puzzolente Uomo Formaggio che la sua adorata figlia Emily era morta. La sera precedente gli aveva riferito delle ultime torture e del selvaggio omicidio di Rachel, la moglie di Puzzolente, che naturalmente era ancora viva e non prigioniera di Corky. I particolari inventati erano così vivi e fantasiosi che Puzzolente non aveva potuto evitare di scoppiare in lacrime e i singhiozzi che gli uscivano dalla gola avevano avuto un suono stranamente disumano... e assolutamente disgustoso. Sebbene annientato dal dolore, Puzzolente non era stato colpito da un infarto mortale, come Corky aveva sperato. Invece di stordire l'uomo con un sedativo, Corky aveva aggiunto al liquido della flebo un potente allucinogeno. La sua speranza era che Puzzolente non riuscisse a dormire e trascorresse la notte in un inferno di visioni,
provocate dalla droga, in cui sua moglie veniva torturata e massacrata. Dopo aver intrattenuto il suo ospite con un racconto ancora più sconvolgente delle innumerevoli violenze e delle crudeltà patite dalla piccola Emily, Corky si stancò di quei nuovi fiumi di lacrime e di quelle ulteriori scene di disperazione. Considerate le circostanze, non gli sembrava che un infarto fosse chiedere molto, ma Puzzolente non voleva collaborare. Per un uomo che si supponeva amasse la moglie e la figlia più della sua stessa vita, la determinazione di Puzzolente a sopravvivere era quantomeno inopportuna, soprattutto ora che i suoi famigliali erano ormai solo carne in decomposizione, o almeno così credeva. Come la maggior parte dei tradizionalisti, con tutta la loro sbandierata fede nella lingua, nel significato, nei propositi e nei principi, Puzzolente era solo un impostore. Di tanto in tanto, celato dietro il dolore di Puzzolente, Corky intravedeva un sentimento di rabbia. Gli occhi dell'uomo lanciavano lampi di odio capaci di fulminare una persona, lampi che poi svanivano immediatamente sotto cascate di lacrime. Forse Puzzolente si aggrappava alla vita solo perché sperava di potersi vendicare. Era un illuso. Oltretutto, l'odio distrugge solo chi odia. Con la sua vita sprecata, la madre di Corky aveva dimostrato la verità di quell'asserzione. Con gesti rapidi e sicuri, Corky cambiò la sacca della flebo dopo aver inserito in quella nuova una droga che avrebbe provocato in Puzzolente uno stato di semiparalisi. All'uomo era rimasto ormai così poco tessuto muscolare che sembrava inutile paralizzarlo artificialmente, ma Corky non voleva lasciare nulla al caso. Per ironia, servire al meglio il caos richiedeva la massima organizzazione. Lui aveva bisogno di una strategia per raggiungere la vittoria e di tattiche attentamente studiate per mettere in atto quella strategia. Senza strategia e tattiche, non eri un vero agente del caos. Eri soltanto Jeffrey Dahmer, o una pazzoide che teneva centinaia di gatti e riempiva il giardino di sgradevoli cumuli d'immondizia, oppure eri un recente governatore della California. Cinque anni prima, Corky aveva imparato a fare le iniezioni, a inserire una cannula in una vena, a maneggiare l'attrezzatura relativa a una flebo, a cateterizzare sia uomini sia donne... da allora aveva avuto diverse opportunità di mettere in pratica le sue conoscenze, come per esempio nel caso di Puzzolente; quindi ora usava questi strumenti e queste apparecchiature con un'abilità che avrebbe suscitato l'ammirazione di qualsiasi infermiera.
E in effetti era stato addestrato proprio da un'infermiera, Mary Noone. Aveva il viso di una madonna di Botticelli e gli occhi di un furetto. Aveva conosciuto Mary a un incontro organizzato dall'università per persone interessate alla bioetica utilitaristica. Gli utilitaristici credevano che a ogni vita potesse essere assegnato un valore rispetto alla società e che l'assistenza medica doveva essere razionata in base al valore assegnato. Questa filosofia sosteneva l'uccisione, per negligenza, delle persone fisicamente handicappate, dei bambini down, di tutti coloro che avevano superato i sessant'anni e avevano problemi di salute che richiedevano cure costose come dialisi, operazioni di by-pass, eccetera. La riunione era stata allegra e ricca di intelligenti conversazioni... e la scintilla tra lui e Mary Noone era scoccata nel momento stesso in cui i loro sguardi si erano incrociati. Quando li avevano presentati l'uno all'altra, entrambi stavano bevendo cabernet sauvignon e, tra un bicchiere e l'altro, si erano sentiti attratti come calamite. Dopo alcune settimane, quando aveva chiesto a Mary di insegnargli come fare iniezioni e flebo in modo corretto, Corky aveva spiegato in tono solenne che la salute di sua madre stava peggiorando rapidamente. «Sono terrorizzato all'idea che un giorno non sarà più in grado di alzarsi dal letto, ma preferisco occuparmene personalmente piuttosto che farla ricoverare in un ospizio e affidarla a degli estranei.» Mary affermò che lui era un figlio davvero meraviglioso e Corky finse di accettare il complimento con umiltà, il che non gli fu difficile perché stava mentendo sia sulla salute di sua madre, sia sulle sue intenzioni. La vecchia strega era sana come Matusalemme sei secoli prima di morire e Corky si era gingillato con l'idea di iniettarle una sostanza letale mentre dormiva. Era quasi certo che lei sospettasse la verità. Nonostante questo, gli insegnò ciò che voleva sapere. Inizialmente credette che la sua disponibilità ad addestrarlo in queste operazioni fosse da attribuirsi al fatto che era attratta fisicamente da lui. Neppure i gatti selvatici in calore copulavano con la ferocia e la frequenza di Mary Noone e Corky nei pochi mesi in cui erano stati insieme. Alla fine si era reso conto che lei aveva capito quali erano le sue vere intenzioni e che non le disapprovava. Inoltre cominciò a sospettare che Mary si fosse autonominata Angelo della Morte e che metteva in pratica la bioetica utilitaristica uccidendo tranquillamente quei pazienti le cui vite riteneva fossero di scarso valore per la società.
In quelle circostanze, Corky non osava continuare a essere il suo giocattolo sessuale. Prima o poi, lei sarebbe stata arrestata e condannata, come solitamente accade agli angeli di quel tipo. Per il solo fatto di essere il suo amante, la polizia avrebbe indagato attentamente su Corky e questo avrebbe messo a repentaglio tutto il lavoro della sua vita e probabilmente anche la sua libertà. Inoltre, dopo essere stati insieme per più di tre mesi, Corky cominciò a sentirsi inquieto all'idea di dormire nello stesso letto con Mary Noone. Anche se come amante poteva avere un grande valore nella stima dell'arrapata Mary, non sapeva quanto - o quanto poco - lei lo ritenesse valido per la società. Con sua grande sorpresa, quando lui affrontò con molta delicatezza l'argomento di un'amichevole rottura, Mary reagì con un sospiro di sollievo. Evidentemente anche lei non dormiva più sonni tranquilli. Successivamente Corky aveva deciso di non uccidere sua madre con un'iniezione, ma lo sforzo compiuto per apprendere queste tecniche di assistenza medica non era andato sprecato. Negli anni successivi, aveva visto Mary soltanto due volte, sempre nel corso di riunioni di bioetica. Tra di loro c'era ancora una forte attrazione fisica, ma anche molta diffidenza. Con un'efficienza e una tenerezza che Mary Noone avrebbe ammirato, Corky terminò di occuparsi del Puzzolente Uomo Formaggio. La droga avrebbe paralizzato il suo ospite senza stordirlo o portarlo a uno stato di coscienza alterato. Con la mente perfettamente lucida, avrebbe potuto trascorrere la giornata disperandosi per la morte della moglie e della figlia. «Ora devo liberarmi dei corpi di Rachel ed Emily», mentì Corky con soddisfazione. «Li darei in pasto ai maiali, se sapessi dove trovare un allevamento.» Si ricordò del caso, apparso recentemente sui giornali, di una giovane bionda il cui corpo era stato gettato in un bacino di depurazione. Prendendo in prestito i particolari di quel delitto, si inventò una storia sulla discarica a cui erano destinati i cadaveri delle sue amate Rachel ed Emily. E ancora niente infarto. Quella sera, quando fosse tornato con Aelfrich Manheim, Corky avrebbe presentato il ragazzino a quel relitto umano per prepararlo agli orrori che lo attendevano. Le sofferenze di Aelfrich sarebbero state diverse da quelle che aveva inflitto a quell'arrogante ammiratore di Dickens, Dickinson,
Tolstoj e Twain. Se si fosse ostinato a non morire d'infarto durante la giornata, Corky l'avrebbe ucciso prima di mezzanotte. Lasciando Puzzolente agli strani pensieri, qualunque fossero, che occupavano la mente di un tradizionalista in quelle circostanze, Corky indossò l'ampiamente rifornito impermeabile giallo, chiuse a chiave la casa e, alla guida della sua BMW, uscì nella grigia giornata di dicembre. Il nuovo temporale si era già fatto largo nella città. Come draghi, enormi ammassi di nuvole nere fremevano da un orizzonte all'altro, pieni di ruggiti repressi e di lampi di fuoco che ben presto sarebbero stati scaricati sulla terra sotto forma di irregolari e abbaglianti scariche elettriche. In quel momento cadeva solo una pioggerellina, ma ben presto si sarebbe trasformata in cascate, fiumi verticali, torrenti... un diluvio. 49 Protetto dall'albero di angeli e dalla foto della bella signora sconosciuta, Fric si svegliò sano e salvo, il corpo e l'anima intatti. In alto, al centro della biblioteca, l'elaborata cupola di vetro era illuminata dall'alba, ma i colori erano smorzati perché la luce del primo mattino giungeva fioca e grigia. Dopo essersi soffermato a guardare per un po' la madre dei suoi sogni, Fric piegò la fotografia e la infilò nuovamente in una tasca posteriore dei jeans. Si alzò dalla poltrona e sbadigliò, stiracchiandosi. Era stupito di essere ancora vivo. Andò a togliere la sedia incastrata sotto la maniglia della porta del bagno, in fondo alla biblioteca. Comunque non entrò nel locale per via degli specchi. Dopo essersi guardato rapidamente in giro per assicurarsi che nessuno lo stesse osservando, fece pipì nello stesso vaso, la cui palma aveva cominciato a far appassire la sera prima. Fu un'esperienza che lo lasciò soddisfatto, non altrettanto si poteva dire per l'albero. In tutta la villa non c'era una sola toilette che potesse essere raggiunta senza passare per un bagno provvisto di specchi. Questo modo poco convenzionale di fare i propri bisogni poteva andare bene per un po', almeno fino a quando doveva restare in piedi per fare ciò che doveva fare. Ma nel momento in cui avesse avuto bisogno di sedersi, si sarebbe trovato nei guai.
Se la pioggia avesse finalmente smesso di cadere - o anche se fosse continuata - si sarebbe arrischiato a uscire e a raggiungere il gruppo di deodare che cresceva poco oltre il roseto. Laggiù avrebbe potuto fare ciò che gli orsi fanno nei boschi, e con questo non intendeva andare in letargo o rubare il miele dagli alveari. I guardiani l'avrebbero visto andare avanti e indietro dal gruppo di deodare. Ma fortunatamente non c'erano telecamere nascoste all'interno di quel boschetto. Se qualcuno gli avesse domandato perché era uscito sotto la pioggia, avrebbe risposto senza un attimo di esitazione che stava facendo del bird watching. Doveva ricordarsi di portare con sé un binocolo come copertura. Nessuno avrebbe messo in dubbio la sua storia, la gente si aspettava che un mostriciattolo come lui si dedicasse al bird watching, che fosse un maghetto della matematica, che costruisse dinosauri di plastica, che leggesse segretamente riviste di body building e che, tra tante altre cose, collezionasse le proprie caccole. Una volta stabilito quale strategia adottare per risolvere il problema dei suoi bisogni, Fric inserì nuovamente la spina del telefono che aveva staccato la sera prima. Era convinto che la sua linea avrebbe cominciato a squillare immediatamente, ma non accadde nulla. Allontanò la poltrona dall'albero di Natale e la riportò al suo posto. Dopo aver spento le luci, uscì dalla biblioteca. Mentre chiudeva la porta, alcuni angeli luccicarono debolmente nella semioscurità, appena sfiorata dalla luce del temporale che filtrava attraverso la cupola di vetro. Moloch stava arrivando. Bisognava prepararsi. Scese la scalinata principale, girò intorno alla rotonda e si inoltrò nel corridoio, dirigendosi verso la cucina. Mentre camminava, andava via via spegnendo le luci che aveva lasciato accese durante la notte. Nella grande casa, la quiete delle prime ore del mattino era ancor più profonda del silenzio che, durante la lunga notte, l'aveva fatta sembrare un nascondiglio perfetto per fantasmi di ogni tipo. Passando davanti a una finestra della cucina, notò che aveva smesso di piovere e intravide in distanza il boschetto di deodare. Ma per il momento non aveva urgenza di dedicarsi al bird watching. Di solito Fric evitava di andare in cucina nei giorni in cui il signor Hachette, il diabolico chef, era al lavoro. Quella era la tana del mostro, i cui
numerosi forni non potevano che richiamare alla mente Hansel e Gretel e il rischio che avevano corso, in quel luogo ti rendevi conto che un matterello era anche un bastone, ti aspettavi di scoprire che su coltelli, coltellacci e forchettoni erano incise le parole PROPRIETÀ DEL MOTEL BATES, quello del film Psycho. Ma ora il locale era sicuro perché il signor Hachette - diplomatosi Cordon Bleu alla scuola di arte culinaria e più recentemente dimesso da un altrettanto prestigioso manicomio - non era presente per preparare la colazione né ai membri della famiglia né al personale. Avrebbe iniziato la giornata muovendosi furtivamente tra il mercato e una serie di negozi specializzati, scegliendo e accordandosi per la consegna di frutta, verdure, carni, prelibatezze varie, oltre al veleno necessario per preparare i banchetti per le feste natalizie che aveva progettato con la sua consueta e sinistra segretezza. Il signor Hachette non sarebbe arrivato a Palais Crapaud prima di mezzogiorno. Sebbene non fosse alto, Fric riusciva comunque a raggiungere i rubinetti del lavandino della cucina. Regolò la temperatura dell'acqua fino a quando non fu gradevolmente calda. Se nella cucina ci fosse stato uno specchio, non avrebbe osato lavarsi lì. Si è così vulnerabili quando ci si lava, si abbassano tutte le difese. Gli sportelli d'acciaio inossidabile dei sei frigoriferi e dei numerosi forni avevano una superficie opaca, non lucida. Non potevano essere utilizzati come specchi e di conseguenza era improbabile che offrissero un modo facile ed economico di viaggiare agli spiriti, buoni o cattivi che fossero. Fric si tolse solamente la camicia e la maglietta. Non era un esibizionista. E anche se lo fosse stato, la cucina non sembrava il luogo più adatto per esibirsi. Servendosi di tovagliette di carta e del sapone liquido al profumo di limone che usciva dal dispenser, si lavò le braccia e la parte superiore del corpo, con una cura particolare per le ascelle. Utilizzò altre tovagliette di carta per sciacquarsi e asciugarsi. Appena ebbe chiuso il rubinetto e terminato di asciugarsi il torace, udì qualcuno che si avvicinava. I passi non giungevano dal corridoio, ma dal locale adiacente alla cucina, dov'erano conservati i piatti di porcellana, i bicchieri di cristallo e le posate d'argento. Afferrando la camicia e la maglietta, Fric si gettò a terra e, più veloce di una lucertola, si allontanò dal locale da cui giungevano i passi, andando a nascondersi dietro al più vicino dei tre banconi centrali.
Su quel bancone c'erano quattro friggitrici profonde come pozzi, una piastra elettrica abbastanza grande da potervi cuocere due dozzine di frittelle, e praticamente un ettaro di superficie di lavoro. Se un ghignante signor Hachette l'avesse scoperto rannicchiato lì sotto, Fric poteva essere spellato, sventrato, fritto e mangiato, mentre le poche persone che in quel momento si trovavano in casa continuavano a sonnecchiare tranquille, ignare del fatto che un buongustaio venuto dallo spazio si stava preparando una macabra colazione. Quando osò sbirciare da dietro l'angolo del bancone, scorse non il signor Hachette, ma la signora McBee. Era rovinato. La signora McBee si era già vestita per partire alla volta di Santa Barbara. Attraversò la cucina dirigendosi verso il suo ufficio, entrò e lasciò la porta aperta alle sue spalle. Avrebbe fiutato la presenza di Fric. Fiutata, sentita, percepita in qualche modo. Avrebbe notato le goccioline d'acqua nel lavandino, avrebbe aperto il bidone della spazzatura e avrebbe visto le tovagliette di carta umide, avrebbe immediatamente saputo che cosa Fric aveva fatto e dove ora si nascondeva. Alla signora McBee non sfuggiva nulla e la sua capacità di deduzione era infallibile. Naturalmente lei non lo avrebbe sventrato e fritto, perché era una brava persona ed era un essere umano, non un extraterrestre. Ma avrebbe insistito per sapere per quale motivo si trovava in cucina nudo fino alla vita, appena lavato e con un'aria colpevole come uno stupido gatto con pezzetti di canarino ancora in bocca. Dato che era una dipendente di Papà Fantasma, Fric avrebbe potuto farle notare che, tecnicamente, lei lavorava anche per lui e che quindi non era tenuto a rispondere alle sue domande. Ma se avesse fatto una cosa del genere, si sarebbe trovato immerso fino al collo nella merde, come avrebbe detto sogghignando il signor Hachette. La signora McBee sapeva che, in assenza dei suoi genitori, lei agiva in loco parentis e, sebbene non si approfittasse di quella condizione, la prendeva molto seriamente. Sia che Fric si fosse inventato una spiegazione o cercasse di cavarsela dicendo solo una parte della verità, la signora McBee non si sarebbe lasciata ingannare perché, per lei, Fric era trasparente come il vetro di una finestra e avrebbe intuito ogni sua mossa fin da quando si era svegliato nella poltrona. Venti secondi dopo, con un orecchio ben stretto tra il pollice e
l'indice della mano destra della signora McBee, Fric si sarebbe ritrovato davanti alla palma in vaso della libreria e, tremando come una foglia, avrebbe dovuto spiegare perché avesse cercato di assassinare la pianta con una doppia cascata di urina. Nel giro di pochi minuti, sarebbe riuscita a fargli confessare l'intera storia, da Moloch all'uomo dello specchio, fino alle telefonate dall'inferno. E a quel punto la sua strada sarebbe stata segnata. Perfino la signora McBee, con la sua terribile capacità di scoprire qualsiasi bugia o sotterfugio, in quel caso non sarebbe riuscita a riconoscere la verità. La sua storia era troppo assurda per essere creduta. Sarebbe sembrato ancor più matto degli innumerevoli pazzi furiosi del mondo dello spettacolo che erano stati invitati a Palais Crapaud negli ultimi sei anni e che avevano lasciato allibita la signora McBee con le loro follie. Non voleva che la signora McBee restasse delusa da lui o che pensasse che Fric era uno squilibrato. Teneva molto alla sua considerazione. Oltretutto, più ci pensava, più si rendeva conto che se avesse cercato di convincere qualcuno del fatto che lui comunicava con un angelo custode che si spostava da uno specchio all'altro, sarebbe stato costretto a partecipare a una seduta di terapia di gruppo. Solo che il gruppo sarebbe stato composto da psichiatri e lui sarebbe stato l'unico paziente. Quando si trattava di psichiatri e ancor più di consiglieri spirituali, Papà Fantasma non badava a spese. La signora McBee uscì dal suo studio, chiuse la porta e si fermò in cucina, guardandosi intorno. Fric si ritrasse nuovamente dietro il bancone. Trattenne il fiato. Avrebbe voluto poter chiudere anche i pori per impedirgli di emettere il suo odore. La cucina principale non era un labirinto paragonabile a quello del solaio, anche se conteneva non solo sei grandi frigoriferi ma anche due freezer verticali, forni di vario tipo e più numerosi di quelli che si potevano trovare in una panetteria, tre aree di cottura ben distanziate tra loro, per un totale di ventotto fornelli a gas, una zona per la preparazione dei cibi, una per la cottura in forno, una per il lavaggio, con quattro lavandini e quattro lavastoviglie, tre banconi centrali e un casino di utensili da cucina, di quelli che si trovano solo nei ristoranti. In quella cucina ci potevano lavorare contemporaneamente un ristoratore privato di Beverly Hills con i suoi quaranta dipendenti, e il signor Hachette con il personale della casa, senza che nessuno la considerasse troppo affollata. Quando veniva organizzata una festa, in quel locale veniva preparato,
scodellato e servito cibo per trecento commensali. Fric l'aveva visto fare diverse volte e ne era sempre rimasto sbalordito. Se due o anche tre persone normali si fossero messe a cercarlo in cucina, Fric avrebbe avuto buone possibilità di non farsi trovare. Ma la signora McBee non era in alcun modo una persona normale. Trattenendo il fiato, gli sembrò di sentirla fiutare l'aria. Fric aveva fatto bene a non accendere la luce quando era entrato, anche se lei aveva sicuramente fiutato l'acqua rimasta nel lavandino centrale. Passi. Fric stava quasi per scattare in piedi, per rivelare la sua presenza, gli sembrava meglio che restare ad aspettare di essere scovato come un criminale, nudo fino alla vita e sicuramente intento a combinare qualcosa di riprovevole. Poi si rese conto che i passi si stavano allontanando. La porta del locale adiacente alla cucina venne chiusa. I passi svanirono nel silenzio. Allibito e stranamente deluso per aver scoperto che la signora McBee non era infallibile, Fric riprese a respirare. Dopo qualche minuto, si avvicinò silenziosamente alla porta del corridoio e la socchiuse. Si fermò ad ascoltare. Quando udì in distanza il ronzio dell'ascensore di servizio, capì che la signora McBee e il signor McBee stavano scendendo nel garage sotterraneo; presto sarebbero partiti per Santa Barbara. Attese ancora un po' prima di uscire dalla cucina e raggiungere la lavanderia situata nell'adiacente ala occidentale, dove si trovava anche l'appartamento dei McBee. Mentre la cucina era gigantesca, la lavanderia era soltanto enorme. Gli piaceva l'odore di quel locale. Detergente, candeggina, amido, il persistente odore del cotone caldo sotto il ferro a vapore... Fric avrebbe tranquillamente indossato gli stessi jeans e la stessa camicia del giorno precedente. Ma temeva che il signor Truman potesse notarlo e che gli chiedesse spiegazioni. La signora McBee l'avrebbe notato immediatamente. Avrebbe insistito per conoscere i motivi di tanta trasandatezza. Il signor Truman non poteva farci niente se non capiva tutto immediatamente come la signora McBee. Tuttavia era pur sempre un ex poliziotto, quindi non ci avrebbe messo molto a notare degli indumenti sporchi e stropicciati.
Forse non c'erano molte probabilità che qualcosa di maligno e orribilmente viscido attendesse Fric nelle sue stanze, ma lui non aveva alcuna intenzione di scoprirlo, non sarebbe tornato nel suo appartamento per cambiarsi. Il lunedì era uno dei giorni di bucato. La signora Carstairs, una delle cameriere non residenti che, di fatto, si occupava solo della lavanderia, lavava gli indumenti e li restituiva prontamente la mattina successiva ai membri della famiglia e al personale. Fric trovò le sue camicie e i suoi jeans stirati e appesi a un carrello simile a quello che i fattorini degli alberghi utilizzano per trasportare i bagagli. La biancheria intima e i calzini erano piegati e sistemati sul fondo dello stesso carrello. Rosso per la vergogna, sentendosi un pervertito, si spogliò completamente proprio lì, nella lavanderia. Si cambiò la biancheria intima e indossò un paio di jeans puliti e una camicia di flanella a scacchi blu e verdi che poteva essere portata fuori dei pantaloni. Tolse il suo portafogli e la fotografia ripiegata dai jeans sporchi, che poi gettò insieme al resto degli indumenti nel cesto sistemato sotto lo scivolo in cui veniva incanalata la biancheria da lavare del primo e del secondo piano. Fiero di essere riuscito a fare i propri bisogni, a lavarsi e a cambiarsi in quelle condizioni disperate, Fric tornò in cucina. Entrò con circospezione, aspettandosi di trovare la signora McBee che lo attendeva: «Ragazzino, pensavi veramente che fossi talmente sciocca da farmi imbrogliare così facilmente?» Ma lei non era tornata indietro. Dal ripostiglio degli elettrodomestici, prese un piccolo carrello con due ripiani. Attraversò tutta la cucina, riempiendo il cestino con quello di cui avrebbe avuto bisogno nel suo nascondiglio segreto. Pensò di includere negli approvvigionamenti una confezione da sei lattine di Coca, ma la cola tiepida era disgustosa. Scelse invece una confezione da quattro di succo d'arancia, che era favoloso anche a temperatura ambiente, e sei bottiglie d'acqua. Dopo aver aggiunto alcune mele e un sacchetto di salatini, si rese conto di aver commesso un errore. Quando ci si deve nascondere da un maniaco assassino, i cui sensi sono acuiti come quelli di una pantera in agguato, sgranocchiare del cibo rumoroso è da stupidi quanto mettersi a cantare canzoni di Natale per passare il tempo.
Fric sostituì le mele e i salatini con banane, una scatola di ciambelline ricoperte di cioccolato e diverse barrette dolci e morbide. Aggiunse anche un sacchetto di plastica a chiusura ermetica in cui mettere le bucce di banana. Lasciate all'aria aperta, via via che si scurivano, le bucce avrebbero emanato un aroma particolarmente intenso. Da quel che si vedeva nei film, i serial killer avevano un fiuto straordinario, anche migliore di quello di un lupo. Se Fric non si fosse ricordato di chiuderle in un contenitore a tenuta stagna, le bucce di banana potevano rivelarsi fatali. Un rotolo di carta da cucina. Numerosi fazzolettini inumiditi e sigillati. Anche se doveva restare nascosto, voleva essere pulito. Da un armadietto pieno di contenitori, prese un paio di barattoli di plastica morbida con coperchio a vite. Sarebbero stati usati al posto della palma della biblioteca. Il signor Hachette, essendo una persona profondamente disturbata, aveva stipato la cucina di coltelli di ogni tipo e dimensione, non ne sarebbero serviti tanti neppure se tutti i dipendenti della casa avessero imparato a fare i lanciatori di coltelli e fossero fuggiti per andare a lavorare in un circo. Appese alle tre rastrelliere e conservate in quattro cassetti, in quella cucina c'erano tante armi da taglio da bastare a tutta la popolazione di Tuvalu. Fric scelse un coltello da macellaio. Rispetto alle sue dimensioni, la lama era larga come quella di un machete, faceva paura a guardarla, ma era poco maneggevole. Preferì quindi un coltello più piccolo ma dotato di una lama di quindici centimetri, dalla punta aguzza e talmente affilata da riuscire a tagliare in due un capello. Il pensiero di ferire una persona con quell'arma gli fece venire la nausea. Posò il coltello sul ripiano inferiore del carrellino e lo coprì con uno strofinaccio. Per il momento, in cucina non c'era altro che gli potesse servire. Il signor Hachette - impegnato a far compere e sicuramente anche a mutare la sua pelle squamata con una nuova - non sarebbe strisciato a Palais Crapaud ancora per diverse ore, ma Fric non vedeva l'ora di allontanarsi del territorio dello chef. Sarebbe stato troppo pericoloso servirsi dell'ascensore di servizio, perché si trovava nell'ala occidentale, non lontano dall'appartamento del signor Truman. Sperava di evitare un incontro con il capo del servizio di sicurezza. L'ascensore principale, in fondo al corridoio a nord, sarebbe stato più sicuro.
Il senso di colpa gli mise le ali ai piedi e lui si affrettò a spingere il carrello attraverso le porte oscillanti che davano sul corridoio, poi svoltò a destra e andò quasi a sbattere contro il signor Truman. «Ti sei alzato presto questa mattina, Fric.» «Ehm, ho cose da fare, cose, cioè, ehm», farfugliò Fric, maledicendo mentalmente se stesso per il suo atteggiamento ambiguo, colpevole e molto simile a quello di uno svagato hobbit. «Cos'è tutta quella roba?» volle sapere il signor Truman, indicando le provviste accatastate nel carrello. «Sì, cioè. Per la mia camera, cose che mi servono, sa, roba da tenere in camera.» Fric si vergognava come un ladro; era patetico, stupido. «Qualche bibita, merendine, roba così», aggiunse, e avrebbe voluto darsi uno scappellotto sulla testa. «Finirai per lasciare a casa una delle cameriere, non avrà più nulla da fare.» «Accidenti, no, non è questo che voglio.» Taci, taci, taci! si ordinò, ma non riuscì a resistere e soggiunse: «Mi piacciono le cameriere». «Stai bene, Fric?» «Certo! Sto benissimo. E lei sta bene?» Guardando con aria perplessa i prodotti accatastati nel carrello, il signor Truman disse: «Vorrei parlarti ancora di quelle telefonate». Ben lieto di aver coperto il coltello con uno strofinaccio, Fric domandò: «Quali telefonate?» «Del maniaco che ansimava.» «Oh, già. Il maniaco.» «Sei certo che non ti abbia detto nulla?» «Ansimava. Lui... ansimava soltanto.» «La cosa strana è che nessuna delle telefonate di cui tu mi hai parlato è stata registrata dal computer.» Certo, ora che Fric sapeva che quelle telefonate erano state fatte da un essere sovrannaturale che entrava e usciva dagli specchi, che diceva di essere un angelo custode e che usava soltanto l'idea del telefono, non lo sorprendeva affatto che le chiamate non fossero state inserite nell'elenco del computer. E non si domandava nemmeno più per quale motivo il signor Truman non avesse risposto alla telefonata della sera precedente, anche se il telefono aveva continuato a squillare all'infinito: l'Uomo Misterioso sapeva sempre dove si trovava Fric - stanza dei trenini, cantina, biblioteca - e, usando i suoi poteri misteriosi e unicamente l'idea di un telefono, faceva squillare la linea di Fric non in tutta la casa ma sol-
tanto nella stanza in cui lui la poteva sentire. Avrebbe voluto spiegare questa folle situazione al signor Truman e raccontargli tutti gli strani eventi accaduti la sera precedente. Mentre cercava di trovare il coraggio per confessare ogni cosa, gli vennero in mente i sei psichiatri, che sarebbero stati ben felici di guadagnarsi centinaia di migliaia di dollari costringendolo a starsene sdraiato su un divano, parlando dello stress di essere l'unico figlio dell'attore più famoso del mondo, fino a quando o fosse esploso in tanti sanguinolenti pezzettini oppure fosse scappato a Goose Crotch. «Non mi fraintendere, Fric. Non sto dicendo che ti sei inventato quelle telefonate. Anzi, sono sicuro che non l'hai fatto.» Strette sull'impugnatura del carrello, le mani di Fric erano diventate umide di sudore. Le asciugò sui jeans... poi si rese conto che non avrebbe dovuto farlo. Probabilmente a tutti i criminali del mondo sudano i palmi delle mani quando si trovano di fronte a un poliziotto. «Sono sicuro che non l'hai fatto», ripeté il signor Truman, «perché ieri notte qualcuno mi ha chiamato su una delle mie linee private e anche questa telefonata non è stata registrata dal computer.» Sorpreso da questa notizia, Fric smise di strofinarsi le mani sui jeans e domandò: «Le ha telefonato il maniaco?» «No, non il maniaco. Qualcun altro.» «Chi?» «Probabilmente qualcuno che aveva sbagliato numero.» Fric guardò le mani del capo del servizio di sicurezza. Non era in grado di dire se fossero sudaticce o no. «Evidentemente», proseguì il signor Truman, «dev'esserci qualcosa che non funziona nel software del computer.» «A meno che non si tratti di un fantasma o qualcosa del genere», suggerì impulsivamente Fric. L'espressione che apparve sul viso del signor Truman era difficile da decifrare. Disse: «Fantasma? Come mai hai pensato a un fantasma?» Proprio mentre era sul punto di spifferare tutto, Fric si ricordò che una volta sua madre era stata in un manicomio. C'era rimasta solo dieci giorni e non era certo una pazza furiosa che faceva a pezzi la gente con un'accetta o roba del genere. Tuttavia, se Fric avesse cominciato a farfugliare qualcosa riguardo a strani eventi accaduti di recente, sicuramente il signor Truman si sarebbe ricordato che Freddie Nielander aveva trascorso un po' di tempo in una cli-
nica per persone temporaneamente fuori di zucca. E avrebbe pensato, tale madre, tale figlio. Di certo avrebbe immediatamente contattato il più grande attore del mondo sul set cinematografico in Florida. Dopodiché Papà Fantasma avrebbe inviato un'agguerrita squadra speciale di psichiatri. «Fric», insisté il signor Truman, «che cosa intendevi dire con... fantasma?» Gettando palate di letame sul seme della verità che aveva detto, sperando di farvi crescere una bugia convincente, Fric rispose: «Be', mio padre tiene un telefono speciale per ricevere i messaggi dei fantasmi. Volevo soltanto dire che magari uno di loro aveva chiamato sulla linea sbagliata». Il signor Truman lo fissò a lungo, probabilmente stava cercando di decidere se era davvero così stupido come fingeva di essere. Non essendo un grande attore come suo padre, Fric sapeva che non sarebbe riuscito a reggere a lungo un interrogatorio da parte di un ex poliziotto. Era così nervoso che ben presto avrebbe avuto bisogno di fare pipì in uno dei barattoli di plastica. «Ehm, be', devo andare, cose da fare, su nella mia stanza, cioè», borbottò, facendo ancora una volta la figura del cugino di uno stupido hobbit. Spinse il carrello oltre il signor Truman, poi proseguì lungo il corridoio principale. Non si voltò a guardare indietro. 50 La luce della cupola in cima all'ospedale Nostra Signora degli Angeli era un faro dorato. Molto più in alto, sulla sommità del supporto per l'antenna della radio, la luce rossa di segnalazione per gli aerei lampeggiava nella foschia grigia, come se il temporale fosse un mostro e quella luce il suo malevole occhio da ciclopc In ascensore, mentre dal garage saliva al quinto piano, Ethan ascoltò una versione orchestrale di un classico di Elvis Costello, «arricchita» da violini e corni da caccia. Quella cabina appesa a un cavo, che saliva e scendeva ventiquattro ore al giorno, era un piccolo avamposto dell'inferno in perpetuo movimento. La sala dei medici al quinto piano, alla quale Ethan era giunto grazie alle indicazioni telefoniche ricevute, non era che uno squallido locale privo di finestre e stipato di distributori automatici con, al centro, un paio di tavoli dal ripiano in formica. Gli oggetti di plastica arancione sistemati intorno ai
tavoli potevano essere chiamate sedie tanto quanto quella stanza poteva essere definita sala. Essendo arrivato con cinque minuti d'anticipo, Ethan infilò alcune monete in uno dei distributori e selezionò il tasto del caffè nero. Quando sorseggiò quella brodaglia, capì che gusto doveva avere la morte, ma la bevve comunque perché aveva dormito solo quattro o cinque ore e aveva bisogno di un po' di carica. Il dottor Kevin O'Brien arrivò puntuale. Circa quarantacinque anni, di bell'aspetto, aveva l'aria vagamente spiritata e il nervosismo represso, ma tuttavia evidente, di un individuo che ha trascorso due terzi della sua vita a studiare con il massimo impegno solo per scoprire che i colpi assestati dal ministero della salute, dalla burocrazia governativa e da avvocati senza scrupoli stavano umiliando quotidianamente la sua professione e distruggendo il sistema sanitario a cui aveva dedicato la vita. Aveva gli occhi stanchi. Si leccava spesso le labbra. Lo stress aveva aggiunto una sfumatura di grigio al suo pallore. Sfortunatamente per la sua serenità mentale, sembrava un uomo intelligente che non sarebbe riuscito a credere ancora a lungo che le sabbia mobili in cui stava sprofondando fossero in realtà un terreno solido. Sebbene non fosse l'internista personale di Duncan Whistler, il dottor O'Brien era stato di turno quando il tracciato cerebrale di Dunny era diventato piatto. Aveva seguito le procedure di rianimazione e aveva deciso quando smettere di tentare di riportarlo in vita. Sul certificato di morte c'era la sua firma. Il dottor O'Brien si era portato dietro la cartella clinica completa del paziente, contenuta in tre grosse cartelline. Nel corso della loro conversazione, sparpagliò l'intera documentazione sulla superficie di uno dei tavoli. Si sedettero uno accanto all'altro sulle pseudosedie arancione per esaminare insieme i vari fogli. Il coma di Dunny era stato la conseguenza di un'ipossia cerebrale, ovvero mancanza di un'adeguata quantità di ossigeno al cervello per un lungo periodo di tempo. I risultati dell'elettroencefalogramma e dei vari test - angiografia, TAC - portavano inevitabilmente alla conclusione che, se mai avesse ripreso conoscenza, sarebbe rimasto gravemente handicappato. «Perfino nei casi di coma profondo», spiegò O'Brien, «quando l'attività del cervello è scarsa o nulla, resta abbastanza funzione nel tronco cerebrale da permettere a questi pazienti di mostrare almeno qualche reazione automatica. Continuano a respirare senza ausilio di macchine. Ogni tanto tossi-
scono, sbattono le palpebre, addirittura sbadigliano.» Durante quasi tutto il tempo trascorso in ospedale, Dunny aveva respirato da solo. Tre giorni prima, le reazioni automatiche sempre più deboli avevano reso necessario collegarlo a un ventilatore. Dopodiché non era più stato in grado di respirare senza l'ausilio della macchina. Durante le prime settimane, sebbene fosse in coma profondo, a volte aveva tossito, starnutito, sbadigliato, sbattuto le palpebre. A volte aveva perfino mostrato dei movimenti oculari. Gradualmente quelle reazioni automatiche si erano fatte sempre più rare, fino a cessare del tutto. Questo suggeriva una costante perdita di funzione nel tronco cerebrale inferiore. La mattina del giorno precedente, il cuore di Dunny si era fermato. La defibrillazione e alcune iniezioni di adrenalina avevano riattivato l'attività cardiaca, ma solo per breve tempo. «La funzione automatica del sistema circolatorio è mantenuta dal tronco cerebrale inferiore», proseguì il dottor O'Brien. «Era evidente che il suo cuore si era fermato perché quella funzione si era interrotta. Di fronte a un danno irreparabile del tronco cerebrale non c'è nulla da fare. La morte è inevitabile. In un caso come questo, il paziente non veniva collegato a una macchina cuore-polmone che gli avrebbe consentito una respirazione e una circolazione artificiale, a meno che non fossero i famigliari a insistere. La famiglia però doveva avere i mezzi per pagare perché le compagnie d'assicurazione si rifiutavano di coprire simili spese, considerato che il paziente non poteva più riprendere conoscenza. «Nel caso del signor Whistler», fece notare O'Brien, «lei aveva la procura per prendere qualsiasi decisione in fatto di cure mediche.» «È vero.» «E tempo fa lei ha firmato una liberatoria, specificando che, a parte un ventilatore, non si dovevano utilizzare macchinari speciali per mantenerlo in vita.» «Esatto», confermò Ethan. «E non ho alcuna intenzione di farvi causa.» Questa assicurazione non sembrò tranquillizzare O'Brien. Evidentemente era convinto che, sebbene le coscienziose cure mediche fornite a Dunny fossero a prova di processo, una massa di avvocati si sarebbe comunque riversata su di lui. «Dottor O'Brien, qualunque cosa sia accaduta a Dunny dal momento in cui il suo corpo è stato portato nella camera mortuaria dell'ospedale è una
questione che non ha nulla a che vedere con lei.» «Ma non per questo sono meno turbato. Ne ho discusso due volte con la polizia. Sono... sconcertato.» «Voglio soltanto che lei sappia che non considero responsabili della sua scomparsa neppure gli addetti alla camera mortuaria.» «Sono brave persone», assicurò O'Brien. «Ne sono certo. Qualunque cosa stia accadendo non è colpa dell'ospedale. La spiegazione è... qualcosa di molto strano.» Il dottore permise alla speranza di aggiungere un po' di colore al suo viso. «Molto strano? In che senso?» «Non lo so. Ma nelle ultime ventiquattro ore mi sono accadute cose incredibili e, in qualche modo, tutte collegate a Dunny, almeno così credo. Quindi, il motivo per cui le volevo parlare questa mattina...» «Sì?» Cercando le parole più adatte, Ethan spinse indietro la sedia. Si alzò in piedi, la lingua bloccata da trentasette anni di assoluta fiducia nella ragione e nella razionalità. Avrebbe tanto voluto che ci fosse una finestra. Fissare la pioggia gli avrebbe fornito una scusa per non guardare O'Brien mentre gli domandava ciò che andava domandato. «Dottore, lei non era il medico che seguiva Dunny...» Parlare mentre fissava un distributore pieno di barrette dolci era un po' eccentrico. «... ma ha avuto a che fare con le cure che gli sono state prestate.» O'Brien non disse nulla, aspettava. Avendo finito il caffè, Ethan afferrò il bicchiere di carta dal tavolo e lo accartocciò in una mano. «E dopo ciò che è accaduto ieri, scommetto che lei conosce la sua cartella clinica meglio di chiunque altro.» «Dalla prima all'ultima pagina», confermò O'Brien. Portando il bicchiere di carta verso il cestino dei rifiuti, Ethan domandò: «C'è qualcosa in quella documentazione che lei considererebbe insolito?» «Non ho trovato neppure un errore nella diagnosi, nella cura o nelle procedure seguite per la certificazione della morte.» «Non è questo che intendo.» Gettò il bicchiere accartocciato nel cestino e cominciò a camminare avanti e indietro, fissando il pavimento. «Sono sincero quando le dico che, secondo me, né lei, né l'ospedale siete in qualche modo colpevoli. Quando dico 'insolito', ciò che intendo realmente è...
strano, misterioso.» «Misterioso?» «Sì. Non so in che altro modo esprimermi.» Il dottor O'Brien rimase in silenzio così a lungo che Ethan smise di camminare e sollevò lo sguardo dal pavimento. Il medico si mordicchiò il labbro inferiore, fissando le pile di documenti. «Allora c'è stato qualcosa», provò a indovinare Ethan. Tornò al tavolo e si sedette nuovamente nello strumento di tortura arancione. «Qualcosa di veramente misterioso.» «C'è scritto anche nella cartella clinica. Non ne ho parlato perché è senza senso.» «Che cosa?» «Potrebbe essere considerata erroneamente la prova che, per un certo periodo di tempo, il paziente fosse uscito dal coma, ma non è così. Alcuni hanno attribuito il problema a un cattivo funzionamento della macchina. Ma non è neppure questo.» «Cattivo funzionamento? Di quale macchina?» «Quella dell'elettroencefalogramma.» «La macchina che registra le onde cerebrali.» O'Brien si mordicchiò nuovamente il labbro inferiore. «Dottore?» Il medico guardò Ethan negli occhi. Sospirò. Spostò la sedia dal tavolo e si alzò. «Sarà meglio che lo veda lei stesso.» 51 Corky parcheggiò nella strada sbagliata e, sotto la pioggia gelida, percorse a piedi due isolati fino alla casa del balordo con tre occhi. Il temporale era accompagnato da un vento più impetuoso di quello di lunedì, aveva spezzato le fronde più deboli delle palme, aveva fatto rotolare una bottiglia di plastica vuota al centro della strada, aveva strappato il tendone verde scuro di una finestra e lo faceva sbatacchiare rumorosamente. Le melaleuche agitavano i loro flessuosi rami come se stessero tentando di frustarsi a morte. Gli aghi secchi dei cembri, strappati dai rami, roteavano nell'aria con tanta forza da poter ferire o accecare qualcuno. Mentre camminava, Corky vide un topo morto trasportato dal torrente d'acqua lungo il marciapiede. La testa ciondolante ruotò verso di lui, mo-
strando un'orbita scura e vuota e un occhio lattiginoso. Quello stupendo e grandioso spettacolo gli fece desiderare di avere tempo per unirsi alla celebrazione del disordine e per diffondere personalmente il caos attraverso uno dei suoi divertenti scherzi. Avrebbe voluto avvelenare qualche albero, riempire le caselle della posta di odiosi messaggi, gettare manciate di chiodi sotto gli pneumatici delle auto parcheggiate, incendiare una casa... Ma quel giorno doveva occuparsi di altro, aveva un programma piuttosto fitto di questioni da sistemare. Lunedì si era comportato da vero bricconcello, un simpatico figlio del nichilismo, ma oggi doveva agire da soldato responsabile. Il quartiere era un insieme di villette a due piani con la veranda anteriore leggermente rialzata rispetto al terreno e di classici villini californiani a un solo piano costruiti in diversi stili. Le case erano ben curate ed erano rese ancor più graziose da vialetti in mattoni, staccionate e aiuole di fiori. Al contrario, il villino del balordo con tre occhi sorgeva dietro a un prato incolto e fiancheggiato da cespugli chiaramente trascurati, in fondo a un vialetto di cemento pieno di crepe e di buche. Sotto il tetto di tegole messicane, le grondaie erano disseminate di sudici grovigli di nidi vuoti da tempo e i muri, scheggiati e crepati, avevano urgentemente bisogno di un'imbiancatura. Il villino sembrava l'abitazione di un troll che si era stancato di vivere sotto i ponti, senza alcun divertimento, ma che non aveva né la conoscenza, la capacità e neppure l'orgoglio necessari per occuparsi della manutenzione di una casa. Corky premette il pulsante del campanello che, invece di un suono melodioso, emise uno sgradevole gracchiare. Gli piaceva quel posto. Dato che aveva annunciato la sua visita con una telefonata e aveva promesso del denaro, il balordo con tre occhi lo stava aspettando dietro la porta. Rispose alla tosse tubercolotica del campanello ancor prima che il suono finisse di stridere nelle orecchie di Corky. Spalancò la porta: alto, una smorfia al posto del viso, il ventre molliccio, i piedi enormi, con indosso i pantaloni di una tuta grigia e una maglietta con la pubblicità del concerto dei Megadeth, Ned Hokenberry commentò: «Sembri uno stramaledetto vasetto di senape». «Sta piovendo», gli fece notare Corky. «Sembri un foruncolo sul culo di Godzilla.»
«Se sei preoccupato che ti bagni la moquette...» «Figurati, sudicia com'è, nemmeno un branco di barboni ubriachi e con la vescica debole potrebbe conciarla peggio.» Hokenberry si voltò e si avviò con passo pesante verso il soggiorno. Corky entrò, chiudendosi la porta alle spalle. La moquette aveva l'aria di essere stata usata, in precedenza, per ricoprire il pavimento di un fienile. Se un giorno accadesse che i mobili di formica color mogano e i salotti rivestiti di poliestere a strisce verdi e blu venissero apprezzati da collezionisti e musei, Hokenberry diventerebbe un uomo ricco. In quel soggiorno, i pezzi migliori erano una sdraio disseminata di briciole di patatine e un grande televisore. Le finestrelle erano parzialmente coperte da tende. La casa era immersa nell'oscurità, tranne che per la luce emanata dallo schermo del televisore. A Corky, il buio della stanza andava più che bene. Nonostante il suo gusto per il caos, sperava di non dover mai vedere l'interno di quella casa in piena luce. «Le ultime informazioni che mi hai dato coincidono, per quanto mi è stato possibile verificare», disse Corky, «e sono state davvero molto utili.» «Te l'ho detto che conosco la villa meglio di quanto quella lagna di attore conosca il proprio cazzo.» Fino a quando non era stato licenziato, con una generosa indennità, per aver lasciato messaggi fasulli sulla segreteria telefonica che il suo datore di lavoro aveva riservato alle telefonate dall'aldilà, Ned Hokenberry aveva fatto parte del servizio di sicurezza di Palais Crapaud. «Mi hai detto che adesso hanno un nuovo capo della sicurezza. Non posso garantire che non abbia cambiato qualche procedura.» «Certo.» «Hai i miei ventimila?» «Li ho qui con me.» Corky estrasse il braccio dalla voluminosa manica dell'impermeabile e infilò la mano in una tasca interna per prendere un pacco di banconote, il suo secondo pagamento a Hokenberry. Nonostante fosse incorniciato dal colletto giallo dell'impermeabile e dalla tesa spiovente del cappello, il viso di Corky doveva aver mostrato più disprezzo di quanto lui avrebbe voluto rivelare. Gli occhi iniettati di sangue di Hokenberry assunsero un'espressione di autocommiserazione e il suo viso grasso e molliccio si raggrinzì, mentre si giustificava: «Non sono sempre stato un rottame come adesso, lo sai. Non
avevo questa pancia. Mi radevo ogni giorno, ero sempre pulito. Il prato di casa era di un bel verde. Quello che mi ha rovinato è stato essere licenziato da quel figlio di puttana». «Non mi hai detto che Manheim ti ha pagato un sacco di soldi come indennità?» «Ha voluto comprarmi, ora l'ho capito. Comunque, Manheim non è stato abbastanza uomo da licenziarmi personalmente. Lo ha fatto fare da quella specie di guru.» «Ming du Lac.» «Proprio lui. Ming mi porta nel roseto, mi versa del tè, che io sono abbastanza educato da bere anche se sa di pipì.» «Sei un vero gentiluomo.» «Ce ne stiamo seduti intorno a questo tavolo circondato da rose, con la tovaglietta di pizzo e il servizio di porcellana...» «Delizioso.» «... mentre lui mi parla di mettere in ordine la mia casa spirituale. Io non sono soltanto annoiato a morte, ma penso anche che quel tizio è più pazzo di quanto mi fossi immaginato, e dopo quindici minuti mi rendo conto che mi ha licenziato. Se l'avesse messo in chiaro fin dall'inizio, non avrei dovuto bermi quel tè puzzolente.» «Dev'essere stato traumatico», commentò Corky, fingendo solidarietà. «Non è stato traumatico, brutto foruncolo sul culo. Che cosa pensi che io sia, una checca che si fa venire le smanie se lo guardano storto? Non ero traumatizzato, ero stregato.» «Stregato?» «Stregato, maledetto, mi avevano fatto un sortilegio, mi avevano gettato il malocchio... chiamalo come vuoi. Ming du Lac ha un potere tremendo, quel verme schifoso, e mi ha rovinato per sempre. Da quel momento non ho fatto che cadere sempre più in basso.» «A me sembra il solito imbroglione hollywoodiano.» «Te lo dico io, quell'essere viscido ha dei poteri magici e mi ha gettato il malocchio.» Corky tese il pacco di banconote, ma poi lo ritirò proprio nel momento in cui il relitto umano con il malocchio allungava la mano per afferrarlo. «Ancora una cosa.» «Non cercare di fregarmi», avvertì Hokenberry, fissando Corky dall'alto in basso, con lo sguardo furibondo di una gallina a cui abbiano rubato le uova.
«Tranquillo, avrai i tuoi soldi», lo rassicurò Corky. «Volevo solo sentire come hai ottenuto il tuo terzo occhio.» In realtà Hokenberry aveva soltanto due occhi, il terzo era quello di uno sconosciuto e gli pendeva dal collo a mo' di ciondolo. «Te l'ho già raccontato due volte, come l'ho avuto.» «È che mi piace ascoltare questa storia», spiegò Corky. «La racconti così bene. Mi diverte da morire.» Arricciando la faccia fino a sembrare uno shar-pei, Hokenberry rimase un attimo a riflettere sull'idea di se stesso come affabulatore e l'ipotesi sembrò piacergli. «Venticinque anni fa, ho cominciato a lavorare per i gruppi rock, mi occupavo del servizio d'ordine. Non voglio dire che fossi io a organizzarlo o a gestirlo. Non è cosa per me.» «Sei sempre stato solo un buttafuori», lo anticipò Corky. «Già, sono sempre stato solo un buttafuori, sempre in prima linea per tenere a bada i fan più scatenati, quelli completamente fuori di testa, fatti fino agli occhi di anfetamine e di polvere degli angeli. Ho lavorato nel servizio d'ordine durante i tour dei Rolling Stones, dei Megadeth, dei Metallica, dei Van Halen, di Alice Cooper, dei Meat Loaf, dei Pink Floyd...» «I Queen, i Kiss», aggiunse Corky, «perfino per Michael Jackson quand'era ancora Michael Jackson.» «... Michael Jackson quando ancora era Michael Jackson, se lo è mai stato», concordò Hokenberry. «Comunque, avevo questo lavoro di tre settimane con... non lo ricordo molto bene. Penso si trattasse o degli Eagles oppure potevano essere i Peaches and Herb.» «O magari i Captain and Tennille.» «Sì, forse. Uno dei tre. Tutta questa gente pigiata come sardine, gonadi che stavano per esplodere, troppo fumo e troppi buchi di pessima qualità.» «Sentivi che avrebbero potuto invadere il palcoscenico.» «Sentivo che avrebbero potuto invadere il palcoscenico. Basta un idiota col cervello in pappa che decide di lanciarsi sul gruppo, e si scatena il finimondo.» «Dovevi anticiparlo», lo incoraggiò Corky. «Anticiparlo, bloccarlo nel momento stesso in cui parte all'attacco, oppure ti ritrovi con altri duecento fuori di testa che gli vanno subito dietro.» «Allora c'era questo punk con i capelli blu...» «Chi è che sta raccontando la storia», borbottò Hokenberry. «Tu o io?» «Tu. È la tua storia. L'adoro.» Esprimendo il suo disgusto per queste interruzioni, Hokenberry sputò
sulla moquette. «Allora questo punk con i capelli blu si prepara a scattare, vuole arrampicarsi sul palcoscenico per cercare di arrivare ai Peaches and Herb...» «Oppure a Captain.» «O Tennille. Io gli grido di fermarsi e mi fiondo su di lui e quella testa di cazzo mi mostra il dito, il che mi autorizza a tirargli un cartone.» Hokenberry sollevò un pugno grande come un prosciutto. «Gli ho piantato Bullwinkle proprio in mezzo alla faccia.» «Tu chiami il tuo pugno destro Bullwinkle.» «Sì, e il mio sinistro è Rocky. Non ho avuto neppure bisogno di Rocky. L'ho bullwinklato così forte che uno dei suoi occhi è schizzato fuori. Sono rimasto sbigottito, ma l'ho acchiappato al volo. Un occhio di vetro. Il punk è crollato a terra svenuto e io mi sono tenuto l'occhio, ne ho fatto fare un ciondolo.» «Un ciondolo formidabile.» «Sai, gli occhi di vetro non sono veramente di vetro. Sono dei gusci di plastica sottile e l'iride è dipinta a mano dall'interno. Una vera figata.» «Davvero», concordò Corky. «Ho chiesto a un mio amico artista di fare una piccola sfera di vetro per contenere l'occhio, così non si deteriora. Questa è la storia, adesso dammi i miei venti bigliettoni.» Corky gli consegnò le banconote avvolte nella plastica. Così come aveva fatto con i ventimila dollari ricevuti durante il primo dei loro tre precedenti incontri, Hokenberry si voltò e andò a posare le banconote sul tavolo della zona pranzo, per poterle contare con calma. Corky gli sparò tre volte alla schiena. Crollando a terra, Hokenberry fece tremare il villino. La caduta di quell'omone fu molto più rumorosa degli spari, perché sulla pistola era stato montato un silenziatore che Corky aveva acquistato da un tipo con profondi legami con un aggressivo gruppo di attivisti contrari al consumo di carne di vitello, che fabbricavano i silenziatori sia per uso personale, sia come attività per la raccolta di fondi. Ognuno degli spari emise un rumore smorzato, come una persona che pronunci la parola zuppa. Era la stessa arma con la quale aveva sparato al piede della madre di Rolf Reynerd. Considerata la stazza di Hokenberry, Corky aveva preferito non servirsi del rompighiaccio. Si avvicinò al buttafuori e gli sparò altre tre volte, tanto per essere certo
che non restasse alcuna forza in Rocky e in Bullwinkle. 52 Le finestre mostravano un cielo fatto di solvente e una città che si andava sciogliendo in gocce, goccioline e vapore. Nell'ospedale Nostra Signora degli Angeli, gran parte del vasto locale destinato ad archivio era diviso da alte file di classificatori, che formavano una serie di corridoi. Vicino alla finestra c'erano quattro postazioni di lavoro, due delle quali in quel momento erano occupate. Il dottor O'Brien si sistemò in una delle postazioni di lavoro libere e accese il computer. Ethan prese una sedia e l'avvicinò a quella del medico. Mentre inseriva un DVD nel computer, il dottor O'Brien disse: «Il signor Whistler ha cominciato a soffrire di difficoltà respiratorie tre giorni fa. Dato che era necessario collegarlo a un respiratore, è stato trasferito nell'unità di terapia intensiva». Una volta ottenuto l'accesso al DVD, sullo schermo apparve il nome WHISTLER, DUNCAN EUGENE, con il numero di paziente e altre informazioni personali che erano state raccolte all'accettazione. «Mentre si trovava in terapia intensiva», proseguì O'Brien, «la respirazione, il battito cardiaco e la funzione cerebrale venivano continuamente monitorate e inviate al computer della sala infermieri. Questa è sempre stata la procedura standard.» Con il mouse cliccò su una serie di icone e di possibili opzioni. «Il resto è relativamente nuovo. Il sistema registra i dati raccolti dai macchinari elettronici di monitoraggio per tutto il tempo in cui il paziente resta in terapia intensiva. Perché possano essere controllati anche in seguito.» Ethan immaginò che tenessero una registrazione digitale come prova, per potersi difendere nell'eventualità che qualcuno intentasse una causa con accuse infondate. «Ecco l'elettroencefalogramma di Whistler quando è stato ricoverato in terapia intensiva alle sedici e venti di venerdì scorso.» Una penna invisibile tracciava una linea continua da sinistra a destra attraverso un grafico che continuava a scorrere. «Questi sono gli impulsi elettrici del cervello misurati in microvolt», indicò O'Brien. Una monotona serie di onde descriveva l'attività cerebrale di Dunny. Le creste erano basse e ampie, le valli erano relativamente ripide e strette.
«Le onde delta sono la struttura tipica del tono normale», spiegò il dottore. «Queste sono onde delta, ma non quelle associate a un normale riposo notturno. Qui le creste sono più ampie e molto più basse di quelle delle comuni onde delta, con un'oscillazione più regolare tra un solco e l'altro. Gli impulsi elettrici sono numericamente ridotti, deboli. Questo è Whistler in coma profondo. Okay. Ora utilizzo l'avanzamento rapido per arrivare alla sera del giorno prima che morisse.» «Domenica sera.» «Esatto.» Sullo schermo, mentre ore e ore di monitoraggio scorrevano in un minuto, le insolite onde delta tremolavano e sobbalzavano leggermente, ma solo leggermente, perché la variazione da onda a onda era minima. Un'ora di dati compressi, visionati in pochi secondi, somigliava molto a un minuto degli stessi dati osservati in tempo reale. Anzi, l'uniformità della struttura era tale che Ethan non si sarebbe reso conto di quante ore - o meglio, giorni - di dati stavano scorrendo se, sullo schermo, non fosse stato indicato anche il trascorrere del tempo. «Il fatto è accaduto un minuto prima di mezzanotte, domenica», disse O'Brien. Tornò alla visione in tempo reale e l'avanzamento veloce si fermò alle 22.23,22 della domenica sera. Avanzò brevemente ancora un paio di volte fino a raggiungere le 23.58,09. «Ora manca meno di un minuto.» Ethan si sporse in avanti sulla sedia. Cascate di pioggia s'infrangevano contro i vetri delle finestre, come se il vento, ferito, sputasse rabbiosamente i suoi denti rotti. Una delle persone che occupava una stazione di lavoro uscì dalla stanza. La donna rimasta sussurrava qualcosa nel telefono. Aveva una voce bassa, monotona, leggermente sinistra, come forse erano le voci che lasciavano messaggi sulla segreteria telefonica della linea 24. «Ecco», esclamò il dottor O'Brien. Alle 23.59, le pigre, incostanti onde delta cominciarono a sobbalzare violentemente, trasformandosi in creste e valli aguzze e irregolari. «Queste sono onde beta, un tipo di onda beta molto estrema. Le rapide oscillazioni indicano che il paziente si sta concentrando su uno stimolo esterno.» «Che tipo di stimolo?» domandò Ethan. «Qualcosa che vede, che sente, che percepisce.»
«Esterno? Che cosa può vedere, sentire o percepire durante il coma?» «Questa non è la struttura delle onde di un soggetto in coma. Qui abbiamo un individuo perfettamente cosciente, vigile e turbato.» «Ed è colpa di un cattivo funzionamento della macchina?» «Un paio di persone qui in ospedale pensano che debba trattarsi di un errore della macchina. Ma...» «Lei non è d'accordo.» O'Brien esitò, fissando lo schermo. «Be', preferirei raccontarle i fatti come si sono svolti. All'inizio... quando l'infermiera della terapia intensiva ha visto questo tracciato apparire sullo schermo del suo computer, è andata direttamente dal paziente, pensando che si fosse risvegliato dal coma. Ma lui era sempre nelle stesse condizioni di prima.» «È possibile che stesse sognando?» volle sapere Ethan. O'Brien scosse la testa con enfasi. «Quando un individuo sta sognando, le onde hanno una struttura molto precisa e facilmente riconoscibile. I ricercatori hanno identificato quattro fasi del sonno, ognuna delle quali presenta onde diverse. E nessuna simile a queste.» Le onde beta si allungarono ulteriormente. Le creste e le valli adesso erano aguzze come punte di aghi, e scendevano e risalivano quasi verticalmente. «L'infermiera ha chiamato un medico», proseguì O'Brien. «Quel medico ne fece venire un altro. Nessuno notò in Whistler alcun cambiamento che potesse far pensare a uno stato di coma meno profondo. La respirazione avveniva sempre per mezzo del ventilatore. Il battito cardiaco era lento, leggermente irregolare. Tuttavia, secondo il tracciato dell'elettroencefalogramma, il suo cervello produceva le onde beta di una persona cosciente e vigile.» «E lei ha detto anche 'turbata'» Sullo schermo, il tracciato beta sobbalzava violentemente in su e in giù, le valli delle onde erano sempre più strette e la distanza tra il punto più alto e quello più basso continuava ad aumentare, ricordando il tracciato prodotto da un sismografo durante un forte terremoto. «In alcuni punti si può senz'altro dire che appare 'turbato', in altri 'agitato' e, nel passaggio che lei sta osservando in questo momento, posso affermare senza timore di apparire melodrammatico che queste sono le onde cerebrali di un individuo terrorizzato.» «Terrorizzato?» «Assolutamente.»
«Un incubo?» suggerì Ethan. «L'incubo non è che un sogno, anche se angosciante. Può produrre un tracciato più marcato, ma le onde sono comunque riconoscibili come quelle di un sogno. Niente a che vedere con queste.» O'Brien accelerò nuovamente il flusso dei dati, avanzando di otto minuti in pochi secondi. Quando il tracciato riprese a scorrere a una velocità normale, Ethan disse: «Sembra lo stesso... però c'è qualcosa di diverso». «Sono le onde beta di una persona cosciente e direi ancora spaventata, anche se il terrore potrebbe essersi ridotto a profonda ansietà.» Il vento dalla voce di serpente, che sibilava e gemeva, e il batteregraffiare della pioggia alle finestre sembravano l'accompagnamento sonoro ideale per le irrequiete immagini che scorrevano sul monitor. «Sebbene la struttura generale rimanga quella di una persona cosciente e in preda all'ansia», continuò il dottor O'Brien, «all'interno ci sono questi irregolari sottoinsieme di punte più alte, ognuno dei quali è seguito da un sottoinsieme di punte più basse.» Con un dito indicò i punti in cui ciò avveniva. «Li vedo», confermò Ethan. «Che cosa significano?» «Indicano che si sta svolgendo una conversazione.» «Conversazione? Sta parlando con se stesso?» «Prima di tutto, non sta parlando a voce alta con nessuno, nemmeno con se stesso, quindi questo movimento non dovrebbe comparire.» «Capisco. Almeno, credo di capire.» «Tuttavia ciò che rappresentano non può neppure essere messo in discussione. Durante il sottoinsieme delle punte più alte, il soggetto sta parlando. Durante il sottoinsieme delle punte più basse sta ascoltando. Un individuo che parla mentalmente tra sé e sé, anche quando è sveglio, non produce questo tipo di sottoinsieme. Dopotutto, quando una persona parla con se stesso porta avanti una piccola discussione interiore...» «Tecnicamente, parla in continuazione», concluse Ethan. «Rappresenta entrambe le parti. Non ascolta mai qualcun altro.» «Esatto. Questi sottoinsieme indicano una conversazione cosciente tra l'individuo e un'altra persona.» «Chi?» «Non lo so.» «Lui è in coma.» «Infatti.»
Perplesso, Ethan domandò: «Quindi, com'è possibile che stia parlando con qualcuno? Usa la telepatia?» «Lei crede nella telepatia?» volle sapere O'Brien. «Io no.» «Nemmeno io.» «Allora per quale motivo non potrebbe trattarsi di un cattivo funzionamento della macchina?» si meravigliò Ethan. O'Brien accelerò il flusso dei dati fino a quando il tracciato delle onde cerebrali scomparve dallo schermo, sostituito dalle parole INTERRUZIONE DATI. «Hanno staccato il paziente dall'elettroencefalografo, quello che pensavano avesse dei problemi di funzionamento», spiegò il dottore. «Poi Whistler è stato collegato a una macchina diversa. Per compiere questa operazione hanno impiegato sei minuti.» Cliccò sull'avanzamento rapido per coprire quell'intervallo di tempo, fino a quando il tracciato apparve nuovamente sul monitor. «Anche con la macchina nuova, le onde sembrano le stesse», disse Ethan. «Infatti, sono proprio le stesse. Onde beta che rappresentano uno stato di coscienza, molta ansietà e i sottoinsieme che suggeriscono un'animata conversazione.» «Un secondo elettroencefalografo che funzionava male?» «C'è un mio collega che si ostina a pensarla così. Io no: questo tipo di tracciato è andato avanti per diciannove minuti sulla prima macchina, probabilmente per sei minuti durante lo spostamento e altri trentun minuti con la seconda macchina. Un totale di cinquantasei minuti, prima di interrompersi bruscamente.» «Lei come se lo spiega?» domandò Ethan. Invece di rispondere, O'Brien si chinò sulla tastiera e richiamò una seconda serie di dati, che apparvero sulla metà superiore dello schermo: un'altra linea bianca che si muoveva sullo sfondo azzurro, scorrendo da sinistra a destra. In questo caso, tutte le punte erano al di sopra della linea di base, nessuna al di sotto. «Questa è la respirazione di Whistler sincronizzata con i dati delle onde cerebrali», spiegò O'Brien. «Ogni punta è un'inspirazione. L'espirazione avviene tra una punta e l'altra.» «Molto regolare.» «Decisamente. È il ventilatore a respirare per lui.»
Il medico batté ancora sui tasti e una terza serie di dati apparve al di sopra delle prime due. «Questa è la funzione cardiaca. Un normale movimento in tre fasi. Diastole, sistole atriale, sistole ventricolare. Lento, ma non troppo. Debole, ma non troppo. Lievi irregolarità, ma nulla di pericoloso. Adesso guardi le onde cerebrali.» Le onde beta erano tornate a sobbalzare come in un terremoto. Ethan commentò: «È di nuovo terrorizzato». «Secondo me, sì. Comunque non c'è alcuna variazione nel battito cardiaco. È sempre lento, un po' debole, con qualche accettabile irregolarità, esattamente il battito da coma profondo che aveva quando era stato ricoverato in ospedale, quasi tre mesi fa. È terrorizzato... e tuttavia il suo cuore è calmo.» «Il battito cardiaco è regolare perché lui è in coma. Giusto?» «Sbagliato. Vede, signor Truman, anche durante il coma profondo, mente e corpo non sono completamente scollegati. Quando lei ha un incubo, il terrore è immaginario, non reale, ma la funzione cardiaca ne rimane lo stesso influenzata. Durante un incubo, il cuore batte furiosamente.» Ethan si soffermò a osservare attentamente le onde beta che sobbalzavano violentemente e le confrontò con il battito cardiaco lento e regolare. «Dopo cinquantasei minuti, l'attività cerebrale è tornata alle onde delta, lunghe e lente?» «Esatto. Fino a quando è morto, la mattina successiva.» «Allora, se non c'è stato alcun problema con le due macchine, come spiega tutto questo, dottore?» «Non lo spiego. Non posso. Lei mi ha domandato se ci fosse qualcosa di insolito nella cartella clinica del paziente. In particolare, qualcosa di... misterioso.» «Sì, ma...» «Non ho un dizionario sottomano, ma credo che misterioso significhi non normale, straordinario, che non può essere spiegato. Io posso solo dirle ciò che è accaduto signor Truman, ma non ne so un accidente del perché.» Lingue di pioggia leccavano i vetri delle finestre. Soffiando, ringhiando come un lupo, implorando, il vento chiedeva di poter entrare. Un brontolio lungo e basso attraversò la città. Ethan e O'Brien guardarono verso le finestre ed Ethan pensò che anche il
medico avesse immaginato che, da qualche parte, ci fosse stato un attacco terroristico, che donne e bambini fossero stati assassinati da un gruppo di estremisti islamici che si nutrivano di malvagità e che si spostavano da un capo all'altro del mondo con demoniaca determinazione. Rimasero in ascolto, il brontolio svanì lentamente e, alla fine, il dottor O'Brien commentò con una nota di sollievo nella voce: «Tuoni». «Tuoni», confermò Ethan. Nella California meridionale, raramente i temporali sono accompagnati da tuoni e fulmini. Quel fragore, che fortunatamente non era stato provocato dallo scoppio di una bomba, suggeriva che la giornata sarebbe stata alquanto burrascosa. Le onde beta, irregolari come fulmini, continuavano ad attraversare lo schermo del computer. Pur in coma profondo, Dunny aveva vissuto un incontro terrificante, che non era avvenuto né in questo mondo, né in quello dei sogni, ma in un territorio misterioso. Si era impegnato in una conversazione priva di parole, come se avesse inspirato un fantasma e questi, attraverso i polmoni, gli fosse entrato nelle arterie, per poi raggiungere il cervello dove, per cinquantasei minuti, aveva inseguito Dunny nelle scure stanze della sua mente. 53 Come uno sceicco arabo dalla kefiyah gialla e dal giallo mantello, arrivato fin lì grazie a una lampada strofinata e alla magia di un genio, Corky Laputa era una macchia vivace nello squallore della casa del balordo con tre occhi. Cantando Reunited e successivamente Shake Your Groove Thing, entrambi successi dei Peaches and Herb, perlustrò le stanze ingombre di robaccia, classificandole secondo il loro livello di sporcizia - sudicia, più sudicia, la più sudicia - mentre cercava di trovare ciò che poteva essere rimasto dei primi ventimila dollari consegnati a Hokenberry alcune settimane prima. Quel bestione poteva aver scritto il nome di Corky su una rubrica, su una scheda... perfino su una parete, visto che le pareti di quella casa somigliavano a quelle del più lurido dei bagni pubblici. Ma a Corky non importava. Hokenberry non conosceva il suo vero nome, gliene aveva dato uno falso. Di sicuro, con la memoria che si ritrovava, Hokenberry aveva scribac-
chiato il numero di telefono di Corky su un pezzo di carta. Ma neanche questo lo preoccupava. Se anche la polizia l'avesse trovato, da quel numero non sarebbero mai riusciti a risalire a lui. Ogni mese o poco più, Corky comprava un nuovo cellulare. Ogni apparecchio aveva un numero diverso e le telefonate erano addebitate su un conto mai usato prima, con nome e indirizzo falsi. Si serviva di questi cellulari per fare le telefonate più delicate, quelle che riguardavano la sua attività al servizio del caos. I telefonini gli venivano forniti da uno straordinario hacker, nonché anarchico multimiliardario, di nome Mick Sachatone. Mick li vendeva a seicento dollari l'uno. Ne garantiva la possibilità di utilizzo per trenta giorni. Di solito la compagnia telefonica non si rendeva conto di essere stata raggirata e non riusciva a identificare i conti fasulli per almeno due mesi. Dopodiché interrompeva il servizio e si metteva a cercare il colpevole. Ma a quel punto, Corky aveva già gettato il suo cellulare in un cassonetto e ne aveva ricevuto uno nuovo. Il suo intento non era quello di risparmiare denaro, ma di garantirsi l'anonimato quando svolgeva attività illegali. Contribuire, anche se in minima parte, a un eventuale collasso finanziario della compagnia telefonica rappresentava comunque un piccolo e gradevole extra. Corky trovò il tesoro di Ned Hokenberry nella camera, una stanza appena meno sudicia della caverna di un orso in letargo. Il pavimento era disseminato di tazzine sporche, riviste, sacchetti vuoti di pancetta fritta, contenitori di cartone, anch'essi vuoti, con il logo del Kentucky Fried Chicken, nonché ossa di pollo completamente spolpate. Il denaro era infilato in una scatola vuota di carne secca, nascosta sotto il letto. Dei ventimila dollari, ne restavano soltanto quattordicimila. Evidentemente gli altri seimila erano stati spesi in fast food. Corky prese il denaro e lasciò la scatola della carne secca. Nella zona pranzo accanto al soggiorno, Hokenberry era ancora morto e sempre brutto come prima. Nel corso dei loro tre precedenti incontri, Corky era venuto a sapere che Hokenberry non aveva più contatti con la sua famiglia. Scapolo, non certo il soggetto ideale a cui dare un appuntamento e sicuramente non il tipo di persona che aveva una vasta cerchia di amici e che riceveva visite improvvise, l'ex addetto al servizio d'ordine nei concerti rock sarebbe stato trovato solo quando l'FBI avesse bussato alla sua porta, in seguito al rapimento del
piccolo Manheim. Tuttavia, per evitare che un vicino curioso scoprisse casualmente l'omicidio, Corky prese le chiavi di Hokenberry, che erano appese a un gancio in cucina e, uscendo, chiuse a chiave la porta d'ingresso. Poi gettò la chiave tra i cespugli incolti. Come un cerbero ringhioso sguinzagliato nei corridoi del paradiso, un tuono attraversava il cielo basso e grigio abbaiando e brontolando. Corky sentì il cuore balzargli in petto per la gioia. Sollevò lo sguardo in cerca di un lampo, poi si ricordò che doveva essere apparso prima del tuono. Quindi, se c'era stato, non era riuscito a penetrare la massa di nuvole, oppure doveva aver colpito lontano, in un'altra zona di quell'immensa città. Il tuono doveva essere un segno premonitore. Corky non credeva né in alcuna divinità, né in alcun demone. Non credeva nel sovrannaturale. Aveva fede solo nel potere del caos. Tuttavia decise di credere che il tuono doveva essere preso come un segno premonitore, che la sua incursione di quella sera a Palais Crapaud si sarebbe svolta secondo i programmi e che lui sarebbe tornato a casa con il ragazzino. Anche se l'universo era solo una stupida macchina che avanzava in fretta senza dirigersi da nessuna parte, priva di qualsiasi scopo se non quello della propria distruzione finale, di tanto in tanto gettava via un bullone o un pezzo rotto, e questo permetteva a una persona attenta di prevedere in quale direzione la macchina si sarebbe mossa. Il tuono era appunto quel pezzo rotto e, basandosi sul suo timbro e la sua durata, Corky stabilì che il suo piano avrebbe certamente avuto successo. Se il più grande attore del mondo, che viveva trincerato dietro mura fortificate e un fossato elettronico, difeso da un servizio di sicurezza attivo giorno e notte e da guardie del corpo, non era in grado di garantire la tranquillità della sua famiglia, se l'unico figlio del Volto poteva essere prelevato dalla sua villa di Bel Air e portato via, nonostante l'attore fosse stato esplicitamente avvertito con la consegna di sei scatole nere, allora nessuna famiglia era al sicuro da nessuna parte. Né i ricchi, né i poveri. Né gli sconosciuti, né i famosi. Né gli atei, né i timorati di Dio. Ora dopo ora, giorno dopo giorno, mentre Channing Manheim veniva sottoposto a una lunga e dolorosa prova, quel messaggio sarebbe penetrato sempre più profondamente nella mente del pubblico. Corky intendeva distruggere il piccolo prigioniero prima emotivamente,
poi mentalmente e infine anche fisicamente. Avrebbe registrato su una cassetta tutta l'operazione che, secondo le sue previsioni, sarebbe durata diverse settimane. Poi avrebbe revisionato il nastro, ne avrebbe fatto delle copie utilizzando il materiale che aveva acquisito appositamente per questo progetto e, di tanto in tanto, avrebbe vivacizzato determinati notiziari e giornali, da lui accuratamente selezionati, con le prove delle torture di Aelfrich. Alcuni mezzi d'informazione si sarebbero rifiutati di mostrare il video o anche solo qualche fotogramma, ma altri avrebbero saputo riconoscere il vantaggio di poter agire senza un minimo di coscienza e di buongusto e, giustificandosi con nobili paroloni, si sarebbero tuffati a capofitto nel più volgare sensazionalismo. Dopodiché, almeno una parte di quelli che si erano mostrati restii li avrebbero seguiti. Il volto terrorizzato del ragazzino avrebbe sconvolto l'intera nazione e in questo modo le fondamenta dell'ordine e della stabilità americane avrebbero ricevuto un duro colpo, uno di una lunga serie. Milioni di cittadini sarebbero stati derubati del loro già vacillante senso di sicurezza. A due strade di distanza dal villino di Hokenberry, mentre Corky si avvicinava alla sua BMW, un fulmine perforò le nuvole, seguito dal fragore di un tuono, e il cielo sembrò ribollire. Quella che fino a quel momento era stata solo una pioggerellina, improvvisamente si riversò sulla terra come una cascata e con il suo peso smorzò decisamente l'ira del vento. Se un tuono da solo era stato un segno premonitore del suo trionfo, un altro tuono preceduto da un lampo era la conferma che lui aveva interpretato correttamente quel primo prolungato borbottio. Il cielo lanciò una nuova vampata e ruggì. Grosse gocce di pioggia attraversarono fragorosamente gli alberi, spezzandone le foglie, e cominciarono a martellare l'asfalto. Senza preoccuparsi di essere visto da qualcuno, per almeno mezzo minuto Corky si mise a ballare come Gene Kelly, cantando Shake Your Groove Thing. Poi salì in macchina e si allontanò, perché aveva molte cose da fare durante quello che sarebbe stato il giorno più importante della sua vita. 54 Mentre Ethan attendeva la musica che gli avrebbe fatto cascare le braccia e l'ascensore che gliel'avrebbe portata, il suo cellulare trillò.
«Dove sei?» volle sapere Lester Yancy. «Al Nostra Signora degli Angeli. Sto per andarmene.» «Sei nel garage?» «Lo sto raggiungendo proprio adesso.» «Livello superiore o inferiore?» «Superiore.» «Che macchina hai?» «Un Expedition bianco, come ieri.» «Aspettami lì. Dobbiamo parlare.» Hazard chiuse la comunicazione. Sull'ascensore, Ethan si ritrovò solo e senza musica. L'impianto di filodiffusione doveva essere rotto. Dall'altoparlante non giungevano che sibili e scoppiettii. Era sceso di un piano, quando gli sembrò di percepire una flebile voce dietro i rumori elettrostatici. Ben presto la voce si fece meno flebile, ma sempre troppo debole perché lui riuscisse a capire che cosa stava dicendo. Dopo tre piani, Ethan si convinse che si trattava della stessa voce che, la notte prima, aveva ascoltato per mezz'ora al telefono. Era stato così intento a cercare di afferrarne le parole, che era caduto in una specie di trance. Dall'altoparlante montato nel soffitto della cabina, in mezzo a una nevicata di elettricità statica, gli giunse il suo nome. Lo udì chiaramente, anche se sembrava provenire da una grande distanza. «Ethan... Ethan...» Lungo le spiagge o nei porti, durante le giornate nebbiose, a volte i gabbiani in volo si chiamano a vicenda con un verso, formato da due sillabe, che sembra in parte un grido d'allarme, in parte un richiamo lanciato con la speranza di ricevere una risposta; è il suono più malinconico del mondo. Questo grido «Ethan, Ethan», che sembrava giungere dall'alto di una montagna e riecheggiare in fondo a un burrone, era altrettanto triste e insistente. Tuttavia, ascoltando i gabbiani, lui non aveva mai immaginato di udire il proprio nome nelle loro voci disperate. Né aveva mai pensato che i loro lamenti nella nebbia somigliassero alla voce di Hannah, come invece adesso gli accadeva sentendo il grido che giungeva dall'altoparlante. Adesso Hannah aveva smesso di chiamare il suo nome e gli stava dicendo qualcosa di indecifrabile. Il suo tono era quello di una persona che cercava di avvertire un uomo fermo sul marciapiede che il cornicione dell'edificio alle sue spalle stava per crollargli addosso. A metà strada tra l'atrio e il livello superiore del garage, quand'era ormai
quasi giunto a destinazione, Ethan premette il tasto STOP. La cabina frenò, sprofondando leggermente, poi rimbalzando lungo i cavi. Se quella era davvero una voce che gli parlava - e parlava a lui soltanto attraverso l'altoparlante, e non era invece la dimostrazione che Ethan soffriva di turbe mentali, lui non poteva permettersi di farsi ipnotizzare com'era accaduto al telefono. Pensò alle notti di nebbia in cui gli incauti marinai, sentendo il canto di Lorelei, cambiavano rotta e puntavano dritto verso la sua voce, cercando di comprendere l'affascinante promessa contenuta in quelle parole, ma andavano a cozzare contro il suo scoglio, distruggevano le loro imbarcazioni e annegavano. La voce somigliava più a quella di Lorelei che a quella della sua Hannah. Desiderare ciò che è perduto per sempre, cercare di raggiungerlo andando contro ogni logica, è la roccia fatale avvolta in un'eterna nebbia. In ogni caso, non aveva fermato l'ascensore per cercare di comprendere le parole del presunto avvertimento. Con il cuore impazzito aveva premuto STOP perché all'improvviso si era sentito sopraffare dalla convinzione che, quando le porte si fossero aperte, non avrebbe trovato il garage davanti a sé. Si aspettava una nebbia fitta e acque scure. O un precipizio e un abisso senza fine. La voce sarebbe stata lì, oltre l'acqua, oltre l'abisso, e lui non avrebbe potuto fare altro che andare verso di lei. Il lunedì pomeriggio, in un altro ascensore, mentre saliva verso l'appartamento di Dunny, era stato colto da un attacco di claustrofobia. Ancora una volta ebbe l'impressione che, durante la corsa, la cabina si fosse fatta più angusta. Il soffitto si abbassava sempre più. Presto lui non sarebbe stato altro che un grosso pezzo di carne in scatola. Premette le mani contro le orecchie per impedirsi di udire quella strana voce. Mentre l'aria sembrava farsi più calda e più densa, Ethan cominciò a respirare con difficoltà, ansimando ogni volta che inspirava, sibilando quando espirava, e questo gli rammentò Fric durante un attacco d'asma. Al pensiero del ragazzino, il cuore prese a martellargli in petto con maggior forza ed Ethan allungò una mano verso il pulsante AVVIO. Mentre continuavano ad avvicinarsi sempre più, le pareti dell'ascensore sembravano anche suscitare nella sua mente idee ancor più pazze. Magari le porte dell'ascensore non si sarebbero aperte sul garage dell'ospedale e neppure su acque scure e nebbia, ma sull'appartamento in bianco e nero,
con gli uccelli che lo fissavano dalle pareti, con Rolf Reynerd vivo, che estraeva la pistola da un sacchetto di patatine. Ancora una volta ferito all'addome, questa volta Ethan non sarebbe riuscito a sopravvivere. Esitò, non premette il pulsante. Forse perché la sua faticosa respirazione gli aveva ricordato quella di Fric durante un attacco d'asma, Ethan cominciò a pensare che tra le flebili e quasi incomprensibili parole che giungevano dall'altoparlante ci fosse anche il nome del ragazzino. «Fric...» Trattenne il fiato e si concentrò, ma non riuscì a udirlo. Riprese a respirare e quel nome giunse nuovamente alle sue orecchie. O forse no? Il lunedì pomeriggio, nell'altro ascensore, il breve attacco di claustrofobia non era stato che la sublimazione di un altro terrore che lui non aveva voluto affrontare: l'irrazionale e tuttavia ostinata paura che nell'appartamento di Dunny avrebbe trovato il suo vecchio amico, morto ma in grado di muoversi, freddo come un cadavere ma pieno di vita. Aveva la sensazione che anche questo attacco di claustrofobia e il timore di un Reynerd resuscitato mascherassero un'altra preoccupazione che lui non voleva affrontare e che non riusciva a far emergere dal suo subconscio. Fric? Fric era emotivamente vulnerabile, e non c'era da stupirsi, ma fisicamente non correva alcun pericolo. Anche se in quel momento il personale della villa era ridotto all'osso, c'erano pur sempre dieci persone, includendo il signor Hachette, lo chef, e il signor Yorn, il giardiniere. Il sistema di sicurezza che proteggeva la proprietà era eccellente. Per Fric, il vero pericolo era che qualche pazzoide riuscisse a uccidere Channing Manheim, lasciando il ragazzino orfano di padre. Ethan premette AVVIO. L'ascensore riprese la corsa. Un attimo dopo si fermò al livello superiore del garage. Forse, uscendo dalla cabina, si sarebbe trovato in una strada battuta dalla pioggia, sulla traiettoria di un PT Cruiser impazzito. Le porte si aprirono, mostrando soltanto le pareti di cemento di un garage sotterraneo e file di veicoli illuminati da pannelli al neon. Mentre si avviava verso l'Expedition, il suo respiro irregolare tornò rapidamente alla normalità. Il cuore non solo rallentò il battito, ma dalla gola scese nel torace, tornando al suo posto. Quando si ritrovò dietro al volante del SUV, bloccò tutte le portiere del veicolo.
Al di là del parabrezza, non vedeva altro che una parete di cemento macchiata da chiazze umide e da depositi di gas di scarico. Qua e là, il tempo aveva fatto affiorare in superficie striature di calcare. La sua fantasia voleva cercare immagini in quelle chiazze, come a volte faceva con la forma delle nuvole. Vide solo volti in decomposizione e i corpi scomposti di individui crudelmente assassinati. Gli sembrava di trovarsi di fronte allo spaventoso murale delle molte vittime per le quali, in qualità di detective della Omicidi, aveva cercato giustizia. Rovesciò la testa all'indietro, chiuse gli occhi e, con un brivido, scaricò tutta la tensione. Dopo qualche tempo, pensò di accendere la radio per passare il tempo in attesa che Hazard arrivasse. Sheryl Crow, Barenaked Ladies, Chris Isaak, senza archi, timpani e corni da caccia, forse sarebbero riusciti a calmarlo. Ma era restio a premere il pulsante. Aveva la sensazione che, invece della solita musica e dei notiziari, avrebbe udito unicamente la voce che forse era di Hannah, una voce che cercava inutilmente di parlargli attraverso le varie frequenze. Un toc-toc-toc di nocche che battevano contro il vetro lo fece sobbalzare. Indossando un berretto di lana da marinaio e un'espressione così torva da far inasprire anche l'aceto, Hazard Yancy sbirciò attraverso il finestrino del passeggero. Ethan disinserì le sicure. Colmando il SUV come se il veicolo fosse solo l'automobilina di una giostra, Hazard si accomodò nel sedile anteriore accanto a Ethan e chiuse di scatto la portiera. Sebbene lo spazio davanti a sé fosse troppo corto per le sue gambe, non spostò il sedile all'indietro. Sembrava nervoso. «Hanno trovato Dunny?» «Chi?» «Quelli dell'ospedale.» «No.» «Allora perché sei qui?» «Ho parlato con il medico che ha firmato il certificato di morte, cercavo di capirci qualcosa.» «E ci sei riuscito?» «Sono tornato al punto di partenza... ovvero mi sto guardando su per il culo.» «Non è certo un panorama che attirerà folle di turisti», commentò Ha-
zard. «Sam Kesselman ha l'influenza.» Ethan aveva avuto bisogno che Kesselman, il detective a cui erano state affidate le indagini sull'assassinio della madre di Rolf Reynerd, leggesse la sceneggiatura incompiuta di Reynerd e poi rintracciasse colui che, nella vita reale, aveva ispirato il personaggio del professore omicida descritto in quelle pagine. «Quando tornerà al lavoro?» domandò Ethan. «Sua moglie dice che non riesce a tenere nello stomaco neppure il brodo di pollo. A quando pare, non lo rivedremo fin dopo Natale.» «C'è qualcuno che segue il caso con lui?» «All'inizio, se ne era occupato anche Glo Williams, ma c'era altro da fare e ne è uscito quasi subito.» «Non lo si può far rientrare?» «Adesso si sta occupando della undicenne che è stata stuprata e massacrata, ne stanno parlando tutti i notiziari, non ha tempo per nient'altro.» «Accidenti, ogni settimana che passa il mondo fa sempre più schifo.» «Ogni ora che passa. Altrimenti saremmo disoccupati. Hanno soprannominato il caso di Mina Reynerd la Lampada e la Vamp, perché nelle foto di quando era giovane la vittima somigliava a una di quelle vamp dei vecchi film, come Theda Bara o Jean Harlow. La pratica è sulla scrivania di Kesselman, insieme ad altri casi urgenti.» «Quindi, anche dopo Natale, potrebbe non occuparsene immediatamente.» Hazard fissò la parete di cemento oltre il parabrezza, come se ci scorgesse anche lui figure immaginarie. Forse vedeva gazzelle e canguri. Molto più probabilmente, non poteva evitare di vedere bambini maltrattati, donne strangolate, corpi di uomini straziati da proiettili. Ricordi di vittime innocenti. La sua famiglia fantasma. Sempre con lui. Gli apparivano reali come il distintivo che portava, molto più reali della pensione alla quale forse non sarebbe mai arrivato. «Anche dopo Natale è troppo tardi», ribatté Hazard. «Ho fatto un sogno.» Ethan lo guardò, rimase in attesa. Poi: «Quale sogno?» Incurvando le spalle da lottatore, spostandosi sul sedile per guadagnare un po' di spazio per le gambe, evidentemente a disagio come un bue nella gabbia di un canarino, Hazard fissò la parete di cemento e raccontò: «Ti trovavi con me nell'appartamento di Reynerd. Lui ti ha sparato all'addome. Subito dopo ci troviamo su un'ambulanza. È evidente che non riuscirai a
sopravvivere. Sull'ambulanza ci sono queste decorazioni natalizie. Delle campanelline argentate, a gruppi di tre. Tu mi chiedi una di quelle decorazioni. Io la prendo, cerco di darti le campanelle, ma tu sei già andato, morto stecchito». Ethan si concentrò nuovamente sulla parete del garage. Tra i cadaveri in decomposizione che la sua fantasia aveva visto nelle macchie e nella struttura dell'intonaco, si aspettava di scorgere anche il proprio volto. «Mi sveglio», proseguì Hazard, sempre fissando il cemento, «c'è qualcuno nella camera con me. In piedi accanto al letto. Una sagoma più scura nel buio. Un tizio. Mi alzo, cerco di afferrarlo, ma non c'è più. È dall'altra parte della camera. Lo inseguo. Si muove. È rapido. Non cammina, è come se scivolasse. La mia pistola è nella fondina appesa a una sedia. La prendo. Lui continua a muoversi, in fretta, troppo in fretta, scivolando, è come se mi stesse prendendo per i fondelli. Giriamo intorno alla stanza. Arrivo a un interruttore. Accendo una luce. Lui è davanti all'armadio, mi volta le spalle. L'armadio ha le ante a specchio. Lui entra nello specchio. Scompare in quello specchio.» «Stavi ancora sognando», suggerì Ethan. «Te l'ho detto, mi sveglio, c'è qualcuno nella camera con me», gli ricordò Hazard. «Non sono riuscito a vederlo bene, mi voltava le spalle, l'ho soltanto intravisto nello specchio, ma penso che fosse Dunny Whistler. Apro le ante dell'armadio. Dentro non c'è. Dov'è... in quel maledetto specchio?» «A volte, durante un sogno», ribatté Ethan, «ti svegli, ma anche quello fa parte del sogno, in realtà non ti sei svegliato.» «Ho perlustrato tutto l'appartamento. Non ho trovato nessuno. Sono tornato in camera e ho trovato queste.» Ethan udì l'argentino tintinnio delle campanelle. Distolse lo sguardo dalla parete di cemento. Hazard gli mostrò un gruppo di tre campanelle, legate una sopra l'altra, come quelle che erano appese nell'ambulanza. I loro sguardi s'incontrarono. Ethan sapeva che Hazard aveva compreso immediatamente non tanto quali segreti avesse, quanto che aveva dei segreti. Gli eventi straordinari che erano accaduti a Ethan in meno di trenta ore, e adesso anche ad Hazard, oltre all'inspiegabile caso di Dunny morto che se ne va in giro e che, probabilmente, organizza l'omicidio di Reynerd: tutto questo doveva essere in qualche modo collegato al contenuto delle sei
scatole nere e alla minaccia che incombeva su Manheim. «Che cosa mi stai nascondendo?» volle sapere Hazard. Dopo una lunga pausa Ethan confessò: «Anch'io ho tre campanelline come quelle». «Anche tu le hai ricevute durante un sogno?» «Io le ho avute prima di morire su un'ambulanza, nel tardo pomeriggio di ieri.» 55 Libere sia da un'insulsa musichetta sia da voci provenienti dall'aldilà, quattro rampe di scale conducevano all'ultimo dei tre livelli sotterranei dell'ospedale. Ethan e Hazard seguirono il corridoio bianco ben illuminato che già conoscevano, passarono accanto al giardino coperto e si trovarono di fronte a una porta a due battenti. Varcando quella porta si accedeva al garage delle ambulanze. Tra i diversi veicoli appartenenti all'ospedale, c'erano anche quattro ambulanze parcheggiate una accanto all'altra. Alcuni spazi vuoti stavano a indicare che, in quella giornata piovosa, un certo numero di automezzi erano impegnati in operazioni di soccorso. Ethan si avvicinò all'ambulanza più vicina. Esitò, poi aprì lo sportello posteriore. Dentro, appese al soffitto, due luccicanti ghirlande rosse correvano lungo i lati del veicolo. E da ogni ghirlanda pendevano tre gruppi di campanelline, uno all'inizio, uno al centro e uno alla fine. Aprendo lo sportello della seconda ambulanza, Hazard esclamò: «Ecco». Ethan lo raggiunse. Due ghirlande rosse. Solo cinque serie di campanelle. Il gruppo mancante, al centro della ghirlanda di destra, era quello che gli era stato dato mentre stava morendo. Sentì un tremore gelido, quasi una pressione, al centro della schiena, come se la punta di un dito scheletrico gli percorresse la spina dorsale dalla vertebra cervicale al coccige. Hazard gli fece notare: «Manca solo una serie di campanelle però, tra me e te, ne abbiamo due». «Forse no. Forse abbiamo le stesse.» «Che cosa vuoi dire?»
Alle loro spalle, un uomo domandò: «Posso aiutarvi?» Voltandosi, Ethan vide il paramedico che, meno di ventiquattro ore prima, si era occupato di lui a bordo dell'ambulanza lanciata a tutta velocità verso l'ospedale. Essersi ritrovato con le campanelle in mano fuori del negozio Rose Per Sempre era già stato abbastanza sconvolgente. Ora, trovarsi a faccia a faccia con quell'uomo, che aveva visto soltanto in sogno, gli fece apparire reale la morte sull'ambulanza, anche se lui continuava a respirare, era ancora vivo. Lo choc non fu reciproco. Il paramedico guardava Ethan con lo stesso interesse che avrebbe riservato a un qualunque sconosciuto. Hazard mostrò rapidamente il tesserino della polizia. «Come si chiama?» «Cameron Sheen.» «Signor Sheen, abbiamo bisogno di sapere a quali chiamate questa ambulanza ha risposto ieri pomeriggio.» «Esattamente a che ora?» domandò l'uomo. Hazard guardò Ethan e lui ritrovò la voce. «Fra le cinque e le sei.» «A quell'ora ero di turno con Rick Laslow», rispose Sheen. «Un paio di minuti dopo le cinque, c'è stata una chiamata della polizia, un incidente con feriti gravi, all'angolo tra Westwood Boulevard e Wilshire.» Era a chilometri di distanza dal luogo in cui Ethan era stato urtato dal PT Cruiser. «Una Honda è andata a incastrarsi con un Hummer», proseguì Sheen. «Abbiamo trasportato il tizio che era sull'auto. Sembrava si fosse scontrato frontalmente con un Peterbilt, non con un semplice Hummer. Siamo riusciti a farlo arrivare alla sala operatoria in tempo record e, da quel che ho sentito. se la caverà abbastanza da rimettersi a saltare e a ballare.» Ethan fece il nome di due strade che formavano un incrocio a un isolato e mezzo dal Rose Per Sempre. «Accettate chiamate che vi arrivino da una zona così a ovest?» «Certo. Se pensiamo che ci sia un modo per non restare imbottigliati nel traffico, andiamo dappertutto.» «Ieri avete risposto a una chiamata che veniva da quell'incrocio?» Il paramedico scosse la testa. «Non io e Rick. Magari una delle altre unità. Potreste controllare nel registro delle uscite.» «Lei ha un viso familiare», disse Ethan. «Ci siamo già conosciuti?» Sheen corrugò la fronte, sembrò frugare nella memoria. Poi: «Non che
io ricordi. Allora, volete controllare nel registro?» «No», intervenne Hazard, «ma c'è un'altra cosa.» Indicò una delle ghirlande appese all'interno dell'ambulanza. «Le campanelle, manca il gruppo centrale.» Sbirciando all'interno del veicolo, Sheen disse: «Mancano delle campanelle? Davvero? È possibile. E allora?» «Ci stavamo domandando che cosa ne sia stato.» Sheen strizzò gli occhi con espressione perplessa. «Ah sì? Non ricordo che a quelle campanelle sia successo qualcosa durante le mie ore di lavoro. Forse uno dei ragazzi degli altri turni potrebbe aiutarvi.» Rispondendo a un'occhiata di Hazard, Ethan scrollò le spalle. Hazard chiuse di scatto lo sportello dell'ambulanza. La perplessità di Sheen si trasformò in stupore. «Non mi verrete a dire che hanno inviato due detective perché, forse, qualcuno ha rubato una decorazione natalizia da due dollari?» Né Ethan, né Hazard avevano una risposta per quella domanda. A quel punto Sheen avrebbe dovuto lasciar perdere, ma come accade a molta gente oggigiorno, la sua ignoranza su quello che è il vero lavoro di un poliziotto lo faceva sentire superiore a chiunque portasse un distintivo. «E per prendere un gattino che si è arrampicato in cima a un albero che cosa ci vuole... una squadra speciale?» Hazard ribatté: «Il fatto che manchi una decorazione non ha nulla a che vedere con il valore di due dollari, non è vero, detective Truman?» «Infatti», concordò Ethan, stando al gioco di Hazard, come ai vecchi tempi, «è una questione di principio. Si tratta di un reato dettato dall'odio.» «Decisamente un reato che rientra nel codice criminale della California», confermò Hazard con un viso impassibile. «Per tutto il periodo natalizio», riprese Ethan, «siamo stati assegnati alla squadra Pronto Intervento Antideturpazione Decorazioni e Presepi.» «È una divisione della Task Force Spirito Natalizio», spiegò Hazard, «costituita in seguito alla promulgazione della Legge Antiodio del 2001.» Un mezzo sorrisetto attraversò il viso di Sheen, che piegò di lato la testa, prima in direzione di Ethan, poi di Hazard. «Mi state prendendo in giro, vero?» Ricorrendo allo sguardo di intensa disapprovazione con il quale riusciva a far avvizzire tutto, dai delinquenti alle decorazioni floreali, Hazard domandò: «Lei odia i cristiani, signor Sheen?» Il mezzo sorrisetto di Sheen si bloccò. «Che cosa?»
«Lei crede nella libertà di religione», chiarì Ethan, «o è uno di quelli che pensa che la Costituzione degli Stati Uniti le garantisca la libertà dalla religione?» Sbattendo le palpebre per cancellare dagli occhi il sorriso, leccandoselo via dalle labbra, il paramedico rispose: «Certo, naturalmente, libertà di religione, chi potrebbe essere contro?» «Se, in questo momento, dovessimo ottenere un mandato di perquisizione», insisté Hazard, «non è che, in casa sua, troveremmo una raccolta di opuscoli pieni di odio anticristiano, signor Sheen?» «Che cosa? Io? lo non odio nessuno. Io sono per il vivi e lascia vivere. Di che cosa state parlando?» «O forse ci troveremmo del materiale per costruire delle bombe?» lo incalzò Ethan. Il sorrisetto di Sheen era andato in frantumi sotto lo sguardo gelido di Hazard e ora il suo viso aveva perso ogni colore e appariva grigio come le pareti di cemento del garage delle ambulanze. Indietreggiando e sollevando le mani come se chiedesse una tregua, Sheen farfugliò: «Cos'è tutta questa storia? Non state parlando seriamente. È una follia. Cioè... è solo una decorazione natalizia da due dollari, dovrei forse chiamare un avvocato?» «Se ne ha uno, sarebbe meglio che gli facesse una telefonata», gli consigliò Hazard con voce solenne. Ancora non ben certo di che cosa dovesse credere, Sheen indietreggiò di un altro passo, di due, poi girò sui tacchi e si affrettò a raggiungere la saletta in cui i paramedici attendevano le chiamate. «Squadra speciale un cazzo», borbottò Hazard. Ethan sorrise. «Sei forte.» «Tu sei forte.» Ethan aveva dimenticato quanto potesse essere più facile la vita quando si lavorava con un compagno, soprattutto un compagno dotato di senso dell'umorismo. «Dovresti tornare nella polizia», disse Hazard, mentre attraversavano il garage diretti alla porta che dava sul corridoio. «Potremmo salvare il mondo, divertirci un po'.» Mentre salivano le scale per raggiungere il livello superiore del garage, Ethan disse: «Supponendo che tutta questa follia prima o poi abbia fine... un proiettile nella pancia e subito dopo niente proiettile, le campanelle, la voce al telefono, un tizio che entra nello specchio del tuo armadio. Credi
che sia possibile tornare al normale lavoro di poliziotto, come se non fosse accaduto niente di strano?» «Che cosa dovrei fare... farmi monaco?» «A me sembra che tutto questo dovrebbe... cambiare le cose.» «Sono felice di essere quello che sono», ribatté Hazard. «Sono già il massimo. Non pensi che io abbia un notevole sangue freddo?» «Sei un ghiacciolo ambulante.» «Questo non vuol dire che non mi scaldo mai.» «Non vuol dire», concordò Ethan. «Sono pieno di calore.» «Hai sangue freddo, sei un tipo caldo.» «Esatto. Quindi non ho motivo di cambiare, a meno che non incontri Gesù e lui mi dia uno scappellotto sulla testa.» Non si trovavano in un cimitero, non stavano fischiettando, ma il tenore delle loro parole, che riecheggiava dalla tromba delle scale, fredda come una cripta, riportò alla mente di Ethan un vecchio film, in cui alcuni ragazzini, mentre attraversavano un cimitero in piena notte, nascondevano la loro paura facendo gli spacconi. 56 Brittina Dowd si era affilata alla mola della rinuncia a se stessa con l'impegno di una vera nevrotica ossessiva, trasformandosi in una lama lunga e sottile. Quando camminava, i suoi vestiti sembravano sul punto di essere ridotti a brandelli dai movimenti taglienti del corpo. Aveva fianchi talmente magri da sembrare fragili quanto le ossa di un uccello. Le sue gambe somigliavano alle zampe di un fenicottero. Le sue braccia erano ali spiumate. Brittina sembrava decisa a diventare così leggera che una folata di vento poteva portarsela via, facendola svolazzare tra scriccioli e passeri. In realtà non era una sola lama, ma un intero coltellino svizzero con tutte le lame e gli utensili appuntiti in bella mostra. Se non fosse stata così brutta, Corky Laputa avrebbe potuto amarla. Però, anche se non ne era innamorato, faceva l'amore con lei. Quel corpo scheletrico lo eccitava. Era come accoppiarsi con la Morte. Pur avendo solo ventisei anni, Brittina si era assiduamente preparata a un'osteoporosi precoce, quasi non desiderasse altro che andare in frantumi dopo una caduta, ridursi in mille schegge come un vaso di cristallo scara-
ventato contro un pavimento di pietra. Nel corso dei loro rapporti, Corky si aspettava sempre di venir punto da un ginocchio o da un gomito, oppure di sentire Brittina che si spezzava in due sotto di lui. «Fallo», implorava lei, «fallo», e riusciva a far sembrare quell'implorazione non tanto un invito sessuale, quanto una richiesta di suicidio assistito. Il suo letto era stretto, adatto unicamente a una persona che non si agitasse nel sonno, che giacesse immobile come un cadavere in una bara, decisamente troppo stretto per i selvaggi accoppiamenti di cui entrambi erano capaci. Brittina aveva arredato la sua camera con un letto singolo perché non aveva mai avuto un amante e aveva sempre pensato che sarebbe rimasta vergine. Corky l'aveva conquistata con la stessa facilità con cui avrebbe potuto schiacciare un colibrì in una mano. Il lettino si trovava in una camera al piano superiore di un'angusta villetta in stile vittoriano. Il terreno su cui la casa sorgeva era profondo, ma troppo stretto per ricevere la qualifica di area edificabile in base agli attuali regolamenti municipali. Quel curioso edificio era stato progettato e costruito quasi sessant'anni prima, subito dopo la guerra, da un eccentrico cinofilo. C'era andato ad abitare insieme con quattro levrieri, due di taglia grande, due più piccoli. Ma poi era stato colpito da un ictus ed era rimasto paralizzato. Dopo diversi giorni di digiuno - il loro padrone non era stato in grado di nutrirli - i cani affamati lo avevano divorato. L'episodio era accaduto quaranta anni prima. Successivamente, la storia di quella villetta era stata a volte pittoresca e altre volte macabra quasi quanto la vita e l'orrenda morte del suo primo proprietario. Le vibrazioni della casa avevano catturato l'attenzione di Brittina così come un fischietto ad alta frequenza per cani avrebbe fatto rizzare le orecchie di un levriero. L'aveva acquistata con la parte di eredità ricevuta dalla nonna paterna. Brittina stava frequentando un corso postlaurea nella stessa università in cui avevano insegnato due generazioni di Laputa. Le mancavano ancora diciotto mesi per ottenere il dottorato in letteratura americana, letteratura che peraltro lei disprezzava profondamente. Sebbene non avesse speso tutta l'eredità nell'acquisto della casa, Brittina aveva bisogno di integrare il reddito derivante da investimenti fatti con altre entrate. Aveva quindi lavorato come assistente universitaria per potersi
nutrire con Slim-Fast al gusto di cioccolato e ipecacuana. Poi, sei mesi prima, l'assistente personale di Channing Manheim aveva contattato il preside della facoltà di letteratura inglese dell'università, spiegando che avevano bisogno di un'insegnante per il figlio del famoso attore. Potevano inoltrare la domanda d'assunzione solo accademici del massimo livello. Il preside aveva consultato Corky, che era vicepreside della facoltà, e lui aveva raccomandato la signorina Dowd. Era certo che lei sarebbe stata assunta perché, per prima cosa, quell'idiota di attore sarebbe rimasto impressionato dall'aspetto di Brittina. Il pallore cadaverico, il viso smunto e il corpo di una suora anoressica sarebbero stati considerati la prova che la ragazza non aveva alcun interesse per i piaceri della carne, che apprezzava soprattutto la vita della mente e che quindi era una vera intellettuale. Nell'ambiente dello spettacolo, ciò che importava era l'immagine. E Manheim doveva credere che anche nelle altre professioni l'apparenza corrispondeva alla realtà. Inoltre, Brittina Dowd era una snob che infarciva i suoi discorsi con un gergo accademico più impenetrabile di quello da laboratorio di un microbiologo. Se l'aspetto emaciato della giovane donna non fosse bastato, i suoi paroloni avrebbero sicuramente convinto l'attore che le sue credenziali erano ottime. La sera prima del giorno in cui Brittina doveva presentarsi per il colloquio di lavoro, Corky riversò su di lei una cascata di fascino denso come panna e la giovane donna si dimostrò immediatamente affamata non solo di cibo, ma anche di adulazione. Lei decise di soddisfare questo suo appetito e lui se la portò a letto per la prima volta. Come previsto, Brittina divenne l'insegnante privata di letteratura inglese di Aelfrich Manheim e prese a frequentare regolarmente Palais Crapaud. Prima che tutto ciò avvenisse, Rolf Reynerd e Corky avevano discusso in termini assolutamente generali di come, in nome del disordine sociale, si potesse colpire la società, dimostrando che perfino un personaggio di fama mondiale era vulnerabile di fronte agli agenti del caos. Non avevano deciso il loro bersaglio fino a quando l'amante di Corky era stata assunta da Channing Manheim. Nel corso delle loro conversazioni, a letto e no, Corky aveva ricevuto da Brittina molte informazioni sulla proprietà Manheim. Era stata proprio lei a rivelargli l'esistenza della linea 24 e, cosa ancor più importante, gli aveva
parlato di un addetto al servizio di sicurezza, Ned Hokenberry, prode difensore dei Peaches and Herb, che era stato licenziato per aver lasciato messaggi fasulli sulla segreteria telefonica della linea riservata all'aldilà. Brittina aveva anche fornito a Corky un accurato ritratto psicologico del figlio di Channing. Questo gli sarebbe tornato molto utile quando, una volta rapito Aelfrich, Corky avrebbe provveduto a distruggere emotivamente il ragazzino. Rilassata e soddisfatta dopo i loro frenetici rapporti sessuali, Brittina non aveva mai avuto alcun sospetto sul fatto che l'interesse di Corky per tutto ciò che riguardava Manheim non fosse unicamente dovuto alla sua curiosità. Era una cospiratrice inconsapevole, una ragazza ingenua e innamorata. «Fallo», insisteva adesso Brittina, «fallo», e Corky obbedì. Il vento maltrattava l'angusta casetta e una pioggia dura sferzava i suoi stretti muri, mentre sul lettino, Brittina si agitava freneticamente come una mantide. Questa volta, durante il loro momento di tenerezza post-coitale, Corky non dovette porre domande su Manheim. Ora aveva più informazioni di quante ne avesse bisogno. Come spesso faceva, Brittina si abbandonò a un monologo sull'inutilità della letteratura: quanto fosse antiquata la parola scritta; l'imminente trionfo dell'immagine sul linguaggio; le idee che lei chiamava memes e che avrebbero dovuto diffondersi come virus da una mente all'altra, creando nella società nuovi modi di pensare. Corky ebbe la sensazione che, se lei avesse continuato a parlare, il suo cervello sarebbe esploso, dopodiché lui avrebbe avuto davvero bisogno di un nuovo modo per pensare. Alla fine, continuando a blaterare, Brittina abbandonò il loro nido d'amore con l'intenzione di proseguire il discorso mentre andava in bagno. Allungando un braccio sotto il letto, Corky recuperò la pistola che aveva nascosto. Quando le sparò due volte nella schiena, quasi si aspettò di vedere Brittina frantumarsi in schegge e polvere, come fosse una vecchia mummia resa friabile da due secoli di disidratazione, invece lei crollò a terra morta, formando un mucchietto pallido e angoloso. 57 Negli anni in cui avevano lavorato in coppia, Ethan e Hazard avevano
cercato di seguire il regolamento, per quanto era possibile seguire un regolamento scritto perlopiù da persone che non avevano mai svolto quel lavoro. Ma in quel giorno di dicembre, ancora una volta in coppia, anche se non in modo ufficiale, non si stavano comportando correttamente. Questo faceva sentire Ethan a disagio, ma gli dava anche la confortevole sensazione che, almeno, stavano prendendo il controllo della situazione. Un biglietto sulla porta di Rolf Reynerd avvertiva che l'appartamento 2B era attualmente sottoposto a indagini giudiziarie. Soltanto la polizia e i collaboratori del procuratore distrettuale erano autorizzati a entrare nei locali. La serratura della porta era stata sigillata dalla polizia. Ethan ruppe il sigillo e tolse l'adesivo. Hazard aveva portato con sé una pistola apriserrature Lockaid, un oggetto venduto esclusivamente alla polizia e alle forze dell'ordine. In circostanze normali, Hazard avrebbe dovuto inoltrare una richiesta scritta, specificando l'uso che intendeva fare di quello strumento e indicando l'esistenza di un mandato di perquisizione. Ma quelle non erano circostanze normali. Hazard era riuscito a mettere le mani su uno dei Lockaid del dipartimento in modo tutt'altro che convenzionale. Fino a quando non l'avesse riportato nell'armadietto da cui lo aveva preso, avrebbe camminato sul filo del rasoio. «Quando ti trovi a combattere contro una specie di stregone che sparisce negli specchi», disse, «sei comunque sull'orlo di un precipizio.» Hazard fece scivolare la sottile punta del Lockaid nella toppa della serratura, sotto il meccanismo di ritenuta. Dovette premere il grilletto quattro volte prima che la molla d'acciaio della pistola riuscisse a collocare tutte le punte lungo la linea di scorrimento, facendo così scattare la serratura. Ethan seguì Hazard nell'appartamento, chiudendosi la porta alle spalle. Cercò di girare intorno o di scavalcare le macchie - il sangue di Reynerd che deturpavano la moquette bianca vicino all'ingresso. Fiumi del suo stesso sangue erano stati versati su quella moquette. Lui era morto proprio lì. Quell'esperienza gli tornò alla memoria, troppo vivida per essere stata solo un sogno. L'arredamento in bianco e nero, i soprammobili... tutto era esattamente come lo ricordava. Sulle pareti, uno stormo di piccioni fermati per sempre a mezz'aria. Come macchie di gesso bianche, alcune oche attraversavano un cielo cupo e
un parlamento di gufi, appollaiati sul tetto di un fienile, deliberava sul destino dei topi. La sera precedente, Hazard aveva assistito alla prima perlustrazione dell'appartamento. Sapeva quindi ciò che era stato prelevato, in quanto possibile prova, e ciò che era stato lasciato lì. Si diresse immediatamente verso l'angolo del soggiorno in cui c'era una scrivania smaltata di nero con le maniglie dei cassetti in falso avorio. «Probabilmente quello che ci serve è qui», disse, frugando in ogni cassetto. Corvi su un'inferriata, un'aquila su una roccia, un airone dallo sguardo crudele e dell'aspetto preistorico quanto quello di uno pterodattilo: tutti continuavano a scrutare attentamente il soggiorno, ma appartenevano ad altri tempi, ad altri luoghi. Sentendosi paranoico ma senza vergognarsene, Ethan aveva la sensazione che, se avesse distolto gli occhi da quelle fotografie, gli uccelli si sarebbero voltati a guardarlo, pensando che lui sarebbe dovuto essere morto mentre l'uomo che aveva collezionato le loro immagini sarebbe dovuto essere vivo per poterle ammirare. «Ecco qui», esclamò Hazard, estraendo una scatola da scarpe da uno dei cassetti della scrivania. «Estratti conto, ricevute di assegni emessi.» Si sedettero al tavolo da pranzo in acciaio e formica nera per esaminare la documentazione finanziaria di Reynerd. Accanto al tavolo: una finestra. Al di là della finestra: la giornata tempestosa, in varie sfumature di grigio, sferzata dal vento, inondata dalla pioggia, in quel momento priva di tuoni e lampi ma che comunque ne faceva presagire l'arrivo, cupa e deprimente. La luce era troppo fioca per aiutarli nel loro lavoro. Hazard si alzò e andò ad accendere il piccolo lampadario di ceramica bianca e nera, posto proprio sopra il tavolo. Legati con degli elastici, c'erano undici mazzetti di ricevute bancarie di assegni emessi, uno per ogni mese dell'anno, da gennaio fino a novembre. Le ricevute degli assegni di dicembre non sarebbero state inviate dalla banca fino a metà gennaio. Una volta terminato, avrebbero dovuto riporre tutto nella scatola da scarpe e rimettere la scatola nel cassetto della scrivania esattamente come Hazard l'aveva trovata. Una volta guarito dall'influenza e tornato al lavoro, dopo aver letto la sceneggiatura incompiuta dell'attore morto, Sam Kesselman avrebbe sicuramente voluto esaminare quelle stesse ricevute per vederci più chiaro sull'omicidio di Mina Reynerd.
Ma se avessero aspettato Kesselman, nel frattempo era probabile che Channing Manheim venisse ucciso. E anche Ethan. Dovevano esaminare soltanto le ricevute degli assegni emessi nei primi otto mesi dell'anno, prima dell'omicidio di Mina Reynerd. Hazard tenne quattro mazzetti e spinse gli altri quattro verso Ethan. Nella sceneggiatura, l'attore disoccupato e non adeguatamente apprezzato aveva frequentato un corso di recitazione all'università, dove aveva conosciuto un professore con il quale aveva progettato di uccidere l'attore più famoso del mondo. Se il professore della sceneggiatura corrispondeva a un professore reale, ci doveva essere la ricevuta di un assegno per il pagamento di un corso a livello universitario da cui poter iniziare le ricerche. Ben presto scoprirono che Rolf Reynerd era stato un fanatico dell'istruzione permanente. I suoi appunti su ogni ricevuta si rivelarono meticolosi e di grande aiuto. Nei primi otto mesi dell'anno, aveva partecipato a un paio di convegni della durata di tre giorni sulla recitazione, a un altro sull'arte di scrivere sceneggiature, a un seminario di un solo giorno sulla pubblicità e sull'autopromozione, nonché due corsi, riservati a persone non iscritte all'università, sulla letteratura americana. «Sei possibilità», commentò Hazard. «Credo proprio che ci aspetti una giornata piuttosto impegnativa.» «Prima riusciamo a controllare tutto, meglio è», concordò Ethan. «Però Manheim non torna dalla Florida fino a giovedì pomeriggio.» «E allora?» «Abbiamo a disposizione anche domani.» Hazard guardò oltre Ethan, verso la finestra, e rimase a fissare il temporale quasi che volesse leggere la pioggia come un indovino legge le foglie di tè. Dopo qualche minuto di riflessione, disse: «Forse non dovremmo assolutamente contare su domani. Ho la sensazione che non ci sia rimasto più molto tempo». 58 Una volta crollato a terra, il mucchietto d'ossa non emise alcun grido di sorpresa, nessun gemito, nessun meme. Per essere certo che Brittina fosse davvero morta, Corky intendeva spararle di nuovo, questa volta alla nuca. Sfortunatamente la sua pistola aveva cominciato a far rumore.
Anche un silenziatore di ottima qualità si deteriora. Indipendentemente dal materiale usato come schermo acustico nell'estensione della canna, questi si compatta un po' a ogni sparo, riducendo la sua efficacia. Inoltre, Corky non possedeva un silenziatore del livello di quelli usati dagli agenti della CIA. Non ci si può aspettare la qualità garantita dai più importanti costruttori di armi quando il silenziatore viene acquistato da un attivista che lotta contro il consumo della carne di vitello. Aveva colpito Hokenberry sei volte e Brittina due. In soli otto colpi, la pistola aveva cominciato a ritrovare la sua voce. Forse l'ultimo sparo non era stato udito fuori della casa, ma quello successivo sarebbe stato ancora più forte. Era un uomo che amava i rischi calcolati, ma questo non aveva proprio senso. Nel bagagliaio della sua macchina, all'interno della valigetta porta attrezzi, aveva un altro silenziatore, un paio di occhiali per la visione notturna e una serie di siringhe ipodermiche con diverse fiale di sedativi e veleni. Nonché due granate a mano inesplose. Ma, come sempre, aveva parcheggiato a qualche isolato di distanza dalla casa di Brittina, in un'altra strada. Dato che Corky era un professore di ruolo e lei solo un'assistente, erano stati sempre molto discreti riguardo alla loro relazione. Andare e tornare dalla BMW per sostituire il silenziatore gli sembrava un'inutile complicazione. Preferì invece accovacciarsi accanto alla sua amante crivellata di colpi e tastarle la gola per sentire le pulsazioni della carotide. Era morta stecchita. Nel bagno, Corky si lavò i genitali, le mani e la faccia. Essere innamorati del caos non significava disprezzare l'igiene personale. Aprì l'armadietto dei medicinali e prese un flacone di collutorio. Dato che Brittina non era più nella condizione di offendersi, Corky bevve un sorso direttamente dal flacone e fece dei gargarismi. I baci della ragazza gli lasciavano sempre un cattivo sapore in bocca. L'abitudine di Brittina di digiunare spesso faceva sì che lei si trovasse frequentemente in uno stato di chetosi, durante il quale il suo corpo era costretto a bruciare le misere riserve di grasso che avrebbe dovuto conservare gelosamente. Tra i sintomi della chetosi ci sono la nausea e il vomito, ma anche un alito che profumava di frutta. Corky apprezzava la fragranza del suo fiato ma, dopo essersi scambiati un bel po' di saliva, lingua contro lingua, a volte gli restava in bocca uno sgradevole retrogusto. Come tutte le cose di questo mondo imperfetto, an-
che fare l'amore aveva il suo prezzo. Naturalmente, nel caso in questione, il prezzo era stato più alto per Brittina che per lui. Si vestì rapidamente. Senza infilarsi le scarpe, scese le anguste scale che portavano alla minuscola cucina sul retro della casa. L'impermeabile giallo e il cappello da pioggia erano appesi a un gancio, nella piccola veranda chiusa sulla quale si affacciava la cucina. Gli stivali neri erano posati sul pavimento, vicino all'impermeabile. La pioggia scrosciava con tanta intensità sul tetto della veranda da ricordare un acquazzone tropicale. Corky si aspettava quasi di vedere coccodrilli ghignanti nel giardino e pitoni che strisciavano tra gli alberi. Fece scivolare la pistola in una delle capaci tasche dell'impermeabile. Dall'altra tasca estrasse un tubo di gomma flessibile e un oggetto che sembrava un vasetto da yogurt, anche se era nero con il coperchio rosso e non presentava illustrazioni di succulenti frutti. Dato che non aveva più alcun motivo di mostrare riguardo nei confronti dei pavimenti puliti di Brittina, Corky si infilò gli stivali e rientrò in casa. Le grosse suole di gomma bagnata stridettero sul linoleum della cucina. Il suo lavoro non era ancora finito. Aveva lasciato dietro di sé delle prove che lo avrebbero fatto condannare per omicidio. Sperma, capelli, impronte... doveva eliminare tutto. Durante tutto il tempo in cui aveva frequentato quella casa, erano ormai diversi mesi, non aveva mai indossato i guanti di lattice che usava sempre sulla scena di un omicidio. Anche se Brittina Dowd era un tipo eccentrico, si sarebbe certamente insospettita se il suo amante avesse indossato un paio di guanti chirurgici ogni volta che andava a trovarla. Dalla cucina, una rampa di scale ancora più ripida e stretta delle altre conduceva a un garage, nel quale tre delle quattro pareti erano sotterranee. Il locale era così buio che sembrava di trovarsi in una catacomba. A Corky parve di udire una moltitudine di ragni pizzicare le corde di seta delle loro arpe. In una classica giornata californiana, le quattro finestrelle che si aprivano nella porta garage avrebbero fatto entrare un po' di sole. Ma ora la luce grigia del temporale non riusciva neppure a filtrare attraverso i vetri impolverati. Premendo un interruttore, accese la lampadina nuda che pendeva dal soffitto e che emanava una luce appena sufficiente a permettere di vedere la divinità dello zoroastrismo.
La divinità dello zoroastrismo è Ahura Mazda. L'auto di Brittina era una Mazda, senza l'Ahura, ma Corky trovava comunque divertente quella sua battuta. Prese dal bagagliaio due bombolette spray grandi come quelle della lacca per capelli, con ognuna delle quali un automobilista in difficoltà poteva gonfiare una gomma e, allo stesso tempo, sigillare il forellino che l'aveva sgonfiata. Mise da parte le bombolette ed estrasse dal bagagliaio anche un paio di taniche di benzina vuote. Aveva acquistato tutti questi oggetti per Brittina, oltre a due lampeggianti e a uno stendardo giallo con la scritta EMERGENZA a caratteri cubitali neri, e aveva insistito perché li tenesse sempre nel bagagliaio della sua divinità zoroastriana. Lei era rimasta commossa per queste attenzioni da parte di Corky e aveva commentato che neppure dei diamanti avrebbero potuto dimostrare il suo amore come quegli umili doni. In effetti, facevano parte dei preparativi per liberarsi del cadavere di Brittina, quando fosse arrivato il momento di ucciderla. Corky non negava che, quand'era necessario, sapeva essere estremamente romantico, ma il suo talento era anche maggiore quando si trattava di dedicarsi a meticolose preparazioni. Che dovesse arrostire il tacchino per il giorno del Ringraziamento o uccidere una scomoda amante, oppure progettare il rapimento dell'attore più famoso del mondo, affrontava il suo compito con notevole dedizione e pazienza, prendendosi tutto il tempo per mettere a punto una perfetta strategia, nonché le tattiche necessarie a conseguire il successo. Brittina non aveva mai domandato perché le avesse comprato due taniche di benzina, quando lei ne avrebbe comunque potuto trasportare solo una. Ma lui sapeva che lei non avrebbe mai posto domande e neppure si sarebbe meravigliata, perché era stata una donna di immagini e meme e sogni utopistici, per nulla interessata alla matematica o alla logica. Posò sul pavimento le due taniche vuote. Infilò un pezzetto di tubo nel bocchettone del serbatoio dell'auto. Per caricare il sifone era necessario succhiare la benzina dall'altra parte del tubo. Essendo molto pratico di questo genere di operazioni, Corky riuscì a far entrare nei suoi polmoni una quantità minima di esalazioni e a non ingoiare neppure una goccia della migliore benzina della Shell. Quando infilò l'altra estremità del tubo nella prima tanica, il carburante cominciò a scorrere rapidamente.
Quando entrambe le taniche da otto litri ciascuna furono riempite, Corky le trasportò al pianterreno. Lasciò che un'estremità del sifone versasse un rivolo di benzina sul pavimento del garage. Tornò a prendere le quattro bombolette di aerosol. In cucina, ne posò due sulla griglia più bassa del forno inferiore. Poi mise le altre due sulla griglia più bassa del forno superiore. Mentre saliva con una delle due taniche di benzina, spense il termostato del pianterreno e, successivamente, anche quello del primo piano. Avrebbe così evitato che dall'avviatore elettrico si sprigionasse una scintilla nella caldaia, facendo esplodere troppo presto il gas accumulato, prima che Corky si fosse allontanato dalla casa. Senza togliere il coperchio, versando la benzina direttamente dal beccuccio, inondò il corpo pallido e nudo di Brittina Dowd. I suoi lunghi capelli erano un'ottima miccia, ma non aveva abbastanza grasso per alimentare il fuoco. Dopo aver versato meno di un litro di carburante nel bagno, ne usò circa due litri per inzuppare le lenzuola stropicciate. Non si preoccupò delle altre due stanzette al piano superiore perché non c'era mai entrato e anche perché, per ottenere l'effetto desiderato, non era necessario impregnare ogni angolo della casa. Uscito dalla camera, lasciò una scia di benzina lungo lo stretto corridoio del primo piano e poi giù per le scale fino al pianterreno. Giunto in fondo ai gradini, gettò di lato la tanica vuota e prese quella piena. Continuò a versare rivoli di benzina nel soggiorno e nella sala da pranzo fino alla porta della cucina. Poi posò la tanica sulla soglia. Svitò il coperchio e lo gettò via. Da una tasca della giacca, estrasse l'oggetto nero e rosso grande quanto un vasetto di yogurt: un detonatore ad azione chimica. L'involucro del detonatore non era completamente rigido. Lo infilò nel foro, fino a quel momento rimasto coperto dal tappo a vite, sigillando in questo modo la tanica, nella quale restavano ancora due litri di benzina. Strappò dal coperchio rosso una linguetta ad anello, dando così l'avvio a un processo chimico che avrebbe rapidamente generato calore e, nell'arco di quattro minuti, avrebbe provocato un'esplosione abbastanza violenta da far incendiare la benzina rimasta nella tanica e la scia di carburante che si era lasciato dietro; a quel punto il fuoco si sarebbe propagato fino alla camera al piano superiore e al cadavere. La cosa peggiore che potesse capitare era che il campanello suonasse proprio in quel momento.
Naturalmente questo non accadde perché, oltre che su una strategia perfetta, su una solida tattica e su una meticolosa preparazione, Corky poteva anche contare sulla fortuna dei Laputa. Il suo angelo custode era il caos e lui si trovava sempre nell'occhio, sicuro e calmo, della sua forza distruttrice. Tornò ai forni e ne bloccò gli sportelli per avviare il ciclo di autopulitura. Poi premette i pulsanti con la scritta PULITURA. Il calore avrebbe fatto espandere rapidamente il contenuto pressurizzato delle bombolette, che sarebbero scoppiate. Dato che gli sportelli erano bloccati, la forza dell'esplosione si sarebbe concentrata tutta all'interno. I forni ne sarebbero rimasti gravemente danneggiati e la conseguente fuga di gas li avrebbe fatti esplodere con estrema violenza. Corky non avrebbe avuto bisogno di ricorrere a questo giochetto con i forni per riuscire a distruggere completamente la casa. La benzina che aveva versato in quasi tutte le stanze, oltre a quella che aveva formato una pozza sul pavimento del garage, sarebbe stata sufficiente per alimentare le fiamme e annullare qualsiasi possibilità di risalire al suo DNA, dallo sperma ai capelli e alle impronte che aveva lasciato dappertutto. Tuttavia preferiva sempre abbondare. Tornato sulla veranda della cucina, Corky si infilò il voluminoso impermeabile giallo. Poi si calcò sulla testa il berretto da pioggia. Aprì la zanzariera e scese i gradini. Uscì dal giardino posteriore attraverso un cancello che si affacciava su una stradina secondaria e non si voltò neppure una volta a guardare la villetta. Adorava la pioggia. Il cielo scaricava sulla città cascate d'acqua. Piccoli torrenti inondavano le cunette e i marciapiedi. Quell'acquazzone non avrebbe comunque spento l'incendio che lui aveva provocato. Le fiamme alimentate dalla benzina avrebbero distrutto la struttura lignea prima che i muri crollassero, permettendo alla pioggia di entrare. Anzi, il temporale era suo alleato. L'arrivo dei pompieri sarebbe stato ritardato dagli incroci allagati e dal traffico congestionato. Aveva appena svoltato l'angolo e già vedeva in distanza la sua BMW, quando udì la prima esplosione. Era un rumore basso, piatto, smorzato, ma molto brutto. Ben presto Corky avrebbe eliminato chiunque e qualunque indizio in
grado di far risalire la polizia a lui dopo l'assalto a Palais Crapaud. 59 Fric prelevava torce da terremoto dalle stanze più remote di Palais Crapaud e le riponeva in un cestino da picnic. La villa e gli altri edifici esterni erano stati ristrutturati secondo norme antisismiche ed erano stati eseguiti lavori di consolidamento strutturale che avrebbero permesso alle varie costruzioni di non subire danni, o perlomeno di subirne pochi, anche nel caso che la terra avesse tremato per due minuti in un terremoto dell'ottavo grado della scala Richter. Generalmente, l'ottavo grado era considerato un livello da ci-vediamonell'aldilà. Terremoti di quell'intensità si verificano solo nei film. Se un terremoto assassino avesse fatto saltare la corrente elettrica in tutta la città, Palais Crapaud avrebbe potuto contare sui generatori a benzina del locale sotterraneo dalle pareti e dal soffitto spessi sessanta centimetri e rinforzati da pannelli d'acciaio. Anche dopo una catastrofe a livello regionale, la villa sarebbe rimasta completamente illuminata, i computer avrebbero continuato a funzionare, gli ascensori non si sarebbero fermati e i frigoriferi avrebbero continuato a produrre freddo. Nel roseto, i cherubini della fontana di granito avrebbero continuato a urinare acqua. Quel sistema di sicurezza si sarebbe rivelato un po' meno utile se dei vulcani, di cui fino a quel momento si ignorava l'esistenza, avessero cominciato a eruttare proprio sotto a Los Angeles, vomitando fiumi di lava fusa che avrebbero trasformato centinaia di ettari in un deserto fumante, oppure se un asteroide fosse precipitato su Bel Air. Ma neppure un divo famoso e ricco come Papà Fantasma poteva proteggersi da cataclismi a livello planetario. Se, nel bunker sotterraneo, i generatori di fabbricazione Svizzera fossero stati messi fuori servizio, si sarebbe immediatamente attivata una serie di batterie, che avevano la durata di venti anni e ognuna delle quali era grande come una bara messa in posizione verticale. Quelle batterie avrebbero alimentato l'illuminazione di emergenza, tutti i computer, il sistema di sicurezza e altre attrezzature essenziali per un periodo di novantasei ore. Ma se in tutta la città fosse venuta a mancare l'energia elettrica, se i generatori si fossero rotti, se le gigantesche batterie si fossero dimostrate inutilizzabili, disseminate per tutta la casa c'erano numerose torce da terremo-
to. Personalmente Fric era convinto che una tale serie di guasti poteva verificarsi solo in caso di invasione da parte di extraterrestri dotati di armi a impulsi magnetici. Comunque, a detta della signora McBee, nella villa c'erano duecentoquattordici torce da terremoto, il che significava che ci si poteva tranquillamente scommettere la vita che non ce n'erano né duecentotredici, né duecentoquindici. Queste piccole ma luminose torce, alimentate a batteria, erano sempre inserite nelle prese elettriche lungo i battiscopa, in modo da restare perennemente in carica. Se mancava la corrente, sì accendevano immediatamente, illuminando il pavimento e permettendo a chiunque si trovasse in casa di uscire dalla villa anche nelle ore più buie della notte. Inoltre, potevano essere staccate dalle prese e utilizzate come normali torce. Come la mascherina della presa elettrica in cui erano inserite, il rivestimento di plastica di ogni torcia era in tono con il colore del battiscopa: beige se era in calcare, marrone scuro se di mogano, nero con il marmo nero... in tempi normali, non dovevano dare nell'occhio. Quando si era abituati a vederle ogni giorno, ben presto si smetteva di notarle. Nessuno, tranne la signora McBee, si sarebbe accorto che era sparita una decina di quelle duecentoquattordici torce. Ma la signora McBee non sarebbe tornata da Santa Barbara fino a giovedì mattina. Tuttavia, Fric sgraffignò le torce solo dalle stanze più remote e meno utilizzate, dove era poco probabile che la loro scomparsa facesse sorgere qualche sospetto. Aveva bisogno di quelle torce per il suo nascondiglio speciale e segreto. Aveva scelto proprio quel cesto da picnic perché era dotato di coperchio. Fintanto che avesse tenuto il coperchio chiuso, anche se avesse incrociato un membro del personale, questi non avrebbe potuto vederne il contenuto. Se qualcuno avesse domandato che cosa c'era nel cestino, avrebbe mentito rispondendo: «Panini». Avrebbe raccontato che intendeva accamparsi sotto una coperta nella sala da biliardo, dove avrebbe finto di essere un pellerossa vissuto all'incirca nel milleottocentottanta. Naturalmente, l'idea di fingersi un pellerossa accampato nella sala da biliardo era di una stupidità enorme. Ma la maggior parte degli adulti credeva che i ragazzini di dieci anni facessero cose stupide come quella, quindi gli avrebbero creduto e probabilmente l'avrebbero compatito. Farsi compatire dalla gente era meglio che essere considerato pazzo come il gatto a due teste di Barbra Streisand.
Quello era un modo di dire di Papà Fantasma. Quando pensava che qualcuno non avesse le rotelle a posto, diceva: «Quel tizio è pazzo come il gatto a due teste di Barbra Streisand». Anni prima, Papà Fantasma aveva firmato un contratto per girare un film diretto da Barbra Streisand, poi però qualcosa era andato male. Alla fine, lui si era ritirato dal progetto. Non aveva mai detto neppure una parola contro la signora Streisand. Ma questo non significava che fossero amici per la pelle. Nell'ambiente dello spettacolo, tutti fingevano di essere amici, anche se si odiavano a morte. Si baciavano, si abbracciavano, si davano pacche sulle spalle, tessevano le lodi della persona che avevano di fronte con tanta convinzione che neppure Sherlock Holmes sarebbe riuscito a intuire chi in realtà volesse uccidere chi. A detta di Papà Fantasma, nessuno in quell'ambiente osava dire la verità su qualcun altro, perché tutti sapevano che ognuno di loro era capace di vendicarsi con una crudeltà tale da terrorizzare anche il mafioso più spietato. In realtà Barbra Streisand non aveva un gatto a due teste. Quella era soltanto una «metafora», così la definiva il padre di Fric, per descrivere un episodio o un personaggio che lei avrebbe voluto aggiungere al film dopo che Papà Fantasma aveva firmato un contratto per una sceneggiatura senza gatto a due teste. Lui riteneva che quella del gatto a due teste fosse un'idea assolutamente folle e la signora Streisand pensava che, al contrario, le avrebbe fatto vincere un casino di Oscar. Si dichiararono d'accordo sul fatto che non erano d'accordo, si baciarono, si abbracciarono, si scambiarono complimenti e riuscirono a venirne fuori senza accoltellarsi a vicenda. Quella mattina, nel corridoio fuori della cucina, quando era quasi stato sul punto di raccontare al signor Truman dell'uomo dello specchio, di Moloch e di tutta quella storia, Fric era andato pericolosamente vicino a essere considerato pazzo come il gatto a due teste di Barbra Streisand. Non avrebbe più commesso quell'errore. Sua madre una volta era stata rinchiusa in un manicomio. Avrebbero pensato: tale madre, tale figlio. Sua madre era stata dimessa dopo dieci giorni. Se Fric avesse cominciato a parlare di uomini nello specchio, non l'avrebbero mai lasciato uscire. Né dopo dieci giorni, né dopo dieci anni. Ma la cosa peggiore era che, se l'avessero rinchiuso in un manicomio,
Moloch avrebbe saputo esattamente dove trovarlo. Non c'era possibilità di nascondersi in una cella imbottita. Trasportando il cestino da picnic come se stesse andando a caccia di uova di pasqua, sgraffignando torce in una scala di servizio, in un corridoio secondario, nella sala da tè, nella stanza da meditazione, Fric continuava a ripetersi «panini, panini», perché temeva che, se avesse incrociato una cameriera, si sarebbe impappinato e avrebbe dimenticato la bugia che intendeva raccontare. Era un pessimo bugiardo per natura. In un'epoca e in un luogo in cui bisogna mentire semplicemente per farsi considerare normali, in un luogo e in un momento in cui doveva mentire per riuscire a sopravvivere, essere un pessimo bugiardo poteva significare la morte. «Panini, panini.» Come bugiardo, faceva veramente schifo. Ed era solo. Nonostante quella specie di angelo custode, in effetti, lui era solo. Inoltre, ogni volta che passava davanti a una finestra, si rendeva conto che la giornata stava scorrendo rapidamente e che, con tutta probabilità, Moloch sarebbe arrivato quella notte. Basso per la sua età, esile per la sua età, pessimo bugiardo, solo: era tutto a suo sfavore. «Pallini», borbottò tra sé e sé. «Solo qualche pallino con brutto e macellata.» Era fregato. 60 Palme di ogni tipo e grandezza scuotevano le fronde come quelle spazzate dai temporali nel film L'isola di corallo. Autobus, macchine, camion e SUV congestionavano le strade, con i tergicristalli che non erano ostinati quanto la pioggia battente, i finestrini laterali appannati, i clacson che strombazzavano, i freni che stridevano, zigzagando per cercare di guadagnare un posizione, fermandosi, facendo un balzo in avanti, fermandosi di nuovo, con gli automobilisti che emanavano una frustrazione palpabile che richiamava alla mente la scena iniziale di Un giorno di ordinaria follia, senza il caldo soffocante di quel film e senza Michael Douglas, sebbene Ethan pensasse che anche Michael Douglas potesse trovarsi in quel casino e stesse silenziosamente impazzendo come era accaduto al suo personag-
gio. Di fronte a una libreria, sotto a un tendone, c'era un gruppo di punk rockettari, o forse solo punk, dai capelli dritti in testa, con piercing nelle sopracciglia, nel naso, nella lingua, vestiti di nero, uno di loro portava una bombetta che ricordava i drug di Arancia meccanica. Poco più avanti, un gruppo di adolescenti, tutte bellissime e felici di essere in vacanza dalla scuola, senza ombrello, i capelli appiccicati alla testa, ridevano e fingevano di essere delle ragazze un po' strampalate, come Holly Golightly in un rifacimento di Colazione da Tiffany girato a tremila miglia dalla collocazione originale, ovvero sulla costa orientale del paese. La luce cupa del temporale trasformava il mezzogiorno in crepuscolo, come se un regista stesse filmando delle scene notturne in pieno giorno. Le luci dei negozi, i neon, i tubi a catodo freddo, i vivaci festoni da cui pendevano lanterne colorate e vagamente asiatiche che decoravano le strade in uno spirito laico politicamente corretto, i fari anteriori e posteriori delle auto, tutto si rifletteva nelle vetrine, nei muri di vetro degli edifici che si ergevano in una sorta di folle sfida ai terremoti futuri, nell'asfalto bagnato, luccicavano come lustrini attraverso gli scintillanti sbuffi dei gas di scarico, e a Ethan facevano venire in mente alcune inquadrature di Blade runner. La giornata appariva reale e, allo stesso tempo, artificiale; il sogno di Hollywood aveva illuminato la città in alcuni punti, l'aveva oscurata in molti altri, modificata in ogni angolo, tanto che nulla sembrava concreto come sarebbe dovuto essere. Si trovavano sull'Expedition di Ethan. Avevano lasciato l'auto civetta di Hazard al Nostra Signora degli Angeli. Ethan non era un poliziotto e quindi non poteva costringere nessuno a fornirgli informazioni, in compenso il suo collega non poteva guidare e ottenere informazioni allo stesso tempo. Per seguire le sei piste che avevano individuato, avrebbero dovuto sconfinare in giurisdizioni che non rientravano fra quelle della polizia di Los Angeles. Quindi, dato che non avevano ottenuto alcuna autorizzazione ufficiale, in realtà nemmeno Hazard avrebbe agito in modo legittimo. Ma non avevano tempo per seguire le procedure. Seduto accanto a Ethan, Hazard continuava a fare telefonate. La sua voce passava da un mormorio educato e quasi romantico a un tono imperioso, ma nella maggior parte dei casi preferiva un atteggiamento cordiale, che tuttavia non gli impediva di sfruttare la sua posizione di detective della Omicidi per persuadere una serie di burocrati dell'istruzione superiore a collaborare con lui. Tutti i licei e le università dell'area di Los Angeles avevano chiuso per le
ultime due o tre settimane dell'anno. Il personale, ridotto all'osso, doveva occuparsi unicamente di quei pochi studenti che non erano tornati a casa per le vacanze. A ogni telefonata, si serviva del suo fascino, di appelli alla coscienza civile, di minacce e di insistenze per passare da un non-so-niente a un altro, ma riuscendo infine ad arrivare sempre a un so-qualcosa che gli permetteva di proseguire nelle indagini. Erano già venuti a sapere che il professore d'arte drammatica - dottor Jonathan Spetz-Mogg - aveva organizzato entrambi i convegni di due giorni sulla recitazione per i quali Reynerd aveva emesso degli assegni. Avevano ottenuto un appuntamento con Spetz-Mogg nella sua casa di Westwood, dove si stavano dirigendo senza l'ausilio né di lampeggianti, né di sirene. Nel tentativo di rintracciare il dottor Gerald Fitzmartin, che aveva organizzato il convegno di tre giorni sulla sceneggiatura, Hazard si infuriò tanto di fronte alla sfilza di scuse banali, in cui gli accademici di ogni tipo sono specializzati, che decise di prendersi una pausa prima che la frustrazione lo spingesse a fracassarsi sulla fronte il cellulare, che per altro era di proprietà della polizia. «Tutti questi baroni dell'università odiano i poliziotti.» «Fino a quando non hanno bisogno di voi», commentò Ethan. «Già, allora ci amano.» «Non vi ameranno mai, ma se hanno bisogno di voi per salvarsi il culo, allora vi sopporteranno.» «Conosci quella frase di Shakespeare?» domandò Hazard. «Ne ha scritta più di una.» «Su come rendere il mondo un luogo migliore...» «Uccidi tutti gli avvocati.» «Proprio quella», confermò Hazard. «Però Shakespeare non si era fermato a pensare a chi aveva istruito tutti gli avvocati.» «I baroni dell'università.» «Infatti. Se vuoi rendere migliore il mondo, devi risalire alle origini.» Il traffico continuava a essere caotico. L'Expedition baciò la vernice di un SUV Mercedes nero e riuscì a evitare un bel graffio unicamente grazie al lucidalabbra della pioggia. Ethan sobbalzò, pensando di aver scorto Fric sul marciapiede, che vagava da solo in mezzo a sconosciuti. Guardando più attentamente, si accorse che il ragazzino era più giovane del piccolo Manheim e che stava seguendo i suoi genitori. Da quando aveva lasciato l'ospedale, quello non era il primo Fric che gli
era sembrato di vedere e che lo aveva fatto trasalire. Aveva i nervi a fior di pelle per via di troppe esperienze inspiegabili. «Che mi dici della Bionda a Bagno?» domandò Ethan. «Questa mattina, il laboratorio non doveva consegnarti i risultati delle analisi?» «Non ho controllato. Se avessi le prove che inchiodano quell'amministratore locale, mi farebbe impazzire l'idea di lasciarlo andare, borioso com'è, neanche fosse stato eletto Padreterno, ed è proprio il fatto che sia stato eletto che mi fa uscire dai gangheri, se pensi a quante urne i suoi scagnozzi hanno riempito di voti per lui. Chiamerò il laboratorio domani, dopodomani, quando avremo sistemato questa faccenda.» «Mi dispiace», mormorò Ethan. «Se ti dispiace per il naso che hai, fattelo aggiustare. Se è per qualcos'altro, non c'è nulla da dispiacersi.» «Un pranzo e qualche biscotto non ti hanno certo ripagato di tutto questo fastidio.» «Non sei stato tu a mandare all'aria il mio mondo. Se un tizio mi dà tre campanelline durante un incubo e poi sparisce in uno specchio, io tendo ad agitarmi un po', anche senza il tuo aiuto.» Hazard infilò entrambe le mani sotto la giacca per abbassarsi il maglioncino di cotone, e Ethan domandò: «Sei ingrassato da ieri?» «Ho mangiato Kevlar a colazione.» «Credevo non ti piacessero i giubbotti antiproiettile.» «Ho pensato che forse avevo schivato più proiettili di quanto uno ne abbia diritto. Questo non vuol dire che io non sia ancora un impavido poliziotto che non teme nessuno. «Non ho mai detto il contrario.» «Me la faccio sotto dalla paura, ma sono ancora un impavido poliziotto.» «Questa è la psicologia giusta.» «La psicologia del sopravvissuto», precisò Hazard. «E comunque, che cosa c'è che non va nel mio naso?» «Che cosa c'è che va, vorrai dire.» La pioggia, già fitta, improvvisamente cominciò a scrosciare più violenta che mai ed Ethan aumentò al massimo la velocità dei tergicristalli. Hazard commentò: «Sembra la fine del mondo». 61
Dopo aver ricevuto una frenetica telefonata dal capitano Queeg von Hindenburg, Corky dovette imbarcarsi in un viaggio imprevisto che l'avrebbe condotto a Malibu. In quel periodo, l'uomo di Malibu si faceva chiamare Jack Trotter. Trotter aveva delle proprietà, una regolare patente e pagava quante meno tasse gli fosse possibile con il nome di Felix Greene. Greene, alias Trotter, in passato si era fatto chiamare, tra l'altro, Lewis Motherwell, Jason Barnes e Bobby Domino. Quando Jack-Felix-Jason-Bobby era nato, quarantaquattro anni prima, i suoi orgogliosi genitori lo avevano chiamato Norbert James Creezel. Di sicuro lo avevano amato e, essendo semplici agricoltori dello Iowa, non avrebbero mai immaginato che, crescendo, Norbert sarebbe diventato un bel soggetto come il capitano Queeg von Hindenburg. Corky lo chiamava capitano Queeg perché quel tizio era paranoico e megalomane come il personaggio dell'Ammutinamento del Caine di Herman Wouk. Il soprannome di von Hindenburg gli si adattava a meraviglia anche perché, proprio come lo Zeppelin tedesco sul quale, nel 1937, a Lakehurst nel New Jersey, erano morte trentasei persone... era un pallone gonfiato che, lasciato a se stesso, un giorno sarebbe andato a schiantarsi da qualche parte, incendiandosi in modo spettacolare. Sulla strada per Malibu, Corky si fermò in un garage che aveva affittato a Santa Monica. Era uno dei quaranta box doppi situati in una zona industriale e ai quali si accedeva da una stradina secondaria. Aveva affittato il locale con il nome di Moriarity e pagava le mensilità sempre in contanti. Nel primo dei due posti macchina c'era una Land Rover nera. Corky aveva intestato quel veicolo alla Kurtz Ivory International, una ditta inesistente ma provvista di una documentazione completa. Parcheggiò la BMW accanto alla Land Rover, scese, abbassò la porta basculante del box e accese le luci. Impregnato dell'odore del cemento, della fragranza dolce-acidula delle macchie di olio per motore e del profumo lieve ma persistente di un insetticida utilizzato un mese prima per sterminare le termiti, quello spazio grigio era, per Corky, l'essenza della magia e dell'avventura. Lì, come l'inquieto Brace Wayne nella sua batcaverna, Corky si trasformava in un misterioso cavaliere, anche se la sua attività sarebbe piaciuta più a Jocker che a Brace in calzamaglia e mantello. Nella guerra tra cielo e terra, eserciti di pioggia marciavano attraverso il
tetto di acciaio ondulato, provocando un tale fragore che, se avesse deciso di mettersi a cantare Shake Your Groove Thing, Corky non avrebbe neppure udito la sua voce. Dopo aver acceso una stufetta elettrica, si tolse il cappello a falde spioventi e l'impermeabile giallo. Li appese a un gancio sulla parete. Sul lato sinistro del box, verso il fondo, c'erano quattro armadietti metallici fissati al muro. Corky aprì il primo. All'interno, appese alla sbarra, c'erano due custodie per indumenti di plastica chiuse da cerniere. Su un ripiano al di sopra delle custodie, in un grosso contenitore di plastica, Corky teneva calzini, cravatte, alcuni oggetti di bigiotteria maschile, un orologio da polso e altri effetti personali utili per assumere una falsa identità. Diverse paia di scarpe erano allineate sul fondo dell'armadietto. Dopo essersi tolto gli stivali di gomma e i doppi calzini che portava, dopo essersi liberato anche della biancheria intima, Corky indossò un paio di pantaloni grigi di velluto a coste, un maglioncino nero a collo alto, calzini neri e un paio di Rockport nere. In fondo al box, un tavolo da lavoro fungeva anche da armadietto porta attrezzi ed era dotato di uno spazioso cassetto segreto, progettato dalla stesso Corky. Il cassetto conteneva una serie di pistole e pacchi di documenti falsi relativi a sei nomi diversi. Si sistemò sul maglioncino nero una fondina da spalla, nella quale infilò una Glock calibro 9. Sostituì il suo portafogli con un altro, che conteneva tutto ciò che poteva servirgli per andarsene in giro con una identità diversa: patente, tessera della previdenza sociale, un paio di carte di credito e una fotografia che ritraeva una moglie e dei figli completamente inventati. Il portafogli conteneva perfino cinquecento dollari in contanti. Il pacchetto di documenti comprendeva anche un certificato di nascita, un passaporto e una custodia in pelle contenente una falsa tessera da agente dell'FBI. Ma per quello che doveva fare, ora non aveva bisogno di quei documenti. Prese invece una seconda custodia in cui c'era una falsa ma convincente tessera che lo identificava come agente della National Security Agency. Era con questa identità che Queeg von Hindenburg lo conosceva. Qualsiasi civile, di fronte al documento della NSA, avrebbe implorato di poter collaborare, ma la tessera non avrebbe retto alla verifica di un rappresentante delle forze dell'ordine. Corky non avrebbe mai osato mostrarlo
a un poliziotto. Dato che era vera, se anche fosse stata controllata da un agente, la patente con il nome falso non avrebbe suscitato alcun sospetto. Oltretutto, dal documento risultava che Corky non aveva mai commesso alcuna infrazione. Anni prima, lo stato della California aveva perso il controllo di molti dei suoi uffici burocratici, compreso quello della motorizzazione. Alcuni impiegati corrotti avevano venduto ogni anno decine di migliaia di patenti valide a uomini come Mick Sachatone, l'anarchico multimiliardario. Mick, e altri intermediari come lui, guadagnavano cifre considerevoli vendendo patenti di guida a immigrati clandestini, a delinquenti usciti di prigione e che non vedevano l'ora di lanciarsi in nuove attività criminali senza che questo risultasse dai documenti, ad attivisti del caos come Corky e a numerosi altri individui. Fornito di tutti i documenti necessari, con la Glock nella fondina sotto il braccio sinistro, Corky indossò un'elegante giacca di pelle nera, il cui taglio nascondeva il rigonfiamento dell'arma. Nelle tasche della giacca infilò due caricatori di scorta. Chiuse l'armadietto, chiuse a chiave il cassetto segreto nel tavolo da lavoro e spense la stufetta elettrica. Da dietro il volante della Land Rover, premette un pulsante del telecomando per sollevare la porta basculante del box. Uscì a marcia indietro nella stradina spazzata dalla pioggia. Era arrivato a Santa Monica come Corky Laputa. Se ne stava andando come Robin Goodfellow, agente della NSA. Dopo aver aspettato che la porta del box si abbassasse completamente, premette un secondo pulsante sul telecomando, facendo scattare una serratura elettrica e raddoppiando così la sicurezza del locale. Il lettore di CD della Land Rover era stato caricato con le sinfonie e le opere di Richard Wagner, il suo musicista preferito quando era Robin Goodfellow. Fece partire Götterdämmerung e si avviò verso Malibu per una seria conversazione a faccia a faccia con l'uomo che quella sera l'avrebbe fatto arrivare nella proprietà di Manheim senza che nessuno se ne accorgesse. Corky adorava la sua vita. 62
«Panini», ripeté Fric. Stupido, stupido, stupido. Dopo aver lasciato una decina di torce da terremoto nel suo nascondiglio speciale e segreto, Fric aveva deciso di riportare il cesto da picnic vuoto nel ripostiglio degli attrezzi da giardino, da dove lo aveva prelevato. Aveva deciso di farlo per qualche ragione che, al momento, gli era sembrata logica, ma che ora non ricordava più. Il signor Devonshire, uno dei camerieri - quello con l'accento inglese, le sopracciglia cespugliose e l'occhio sinistro che tendeva a guardare verso la tempia - aveva incontrato Fric al pianterreno, nel corridoio dell'ala ovest in fondo al quale c'era il ripostiglio degli attrezzi da giardino. Giusto per fare due chiacchiere, il signor Devonshire aveva domandato: «Che cos'hai lì dentro, Fric?» Panini, aveva risposto Fric. E adesso ripeteva: «Panini». Era stata una cosa davvero stupida da dire, e anche da ripetere adesso, perché quando il signor Devonshire lo aveva visto arrivare, Fric stava facendo dondolare il cestino in modo tale che non c'erano dubbi sul fatto che fosse vuoto. «Che tipo di panini?» aveva voluto sapere il signor Devonshire. «Al prosciutto», aveva risposto Fric, perché si trattava di una risposta semplice, non sarebbe riuscito a impappinarsi in novemila modi come probabilmente gli sarebbe accaduto con le parole burro e marmellata. «Allora hai deciso di fare un picnic?» insisté il signor Devonshire, mentre il suo occhio sinistro si girava lentamente verso la tempia, come se l'uomo credesse di poter guardare dietro di sé mentre, allo stesso tempo, continuava a osservare attentamente Fric. Quando il signor Devonshire era venuto a lavorare a Palais Crapaud, Fric aveva pensato che possedesse il malocchio e che fosse capace di lanciare maledizioni con una semplice occhiata. La signora McBee gli aveva fatto notare che quel suo timore infantile non aveva fondamento e gli aveva suggerito di compiere qualche ricerca. Ora Fric sapeva che il signor Devonshire soffriva di ambliopia. Era una parola poco conosciuta. A Fric piaceva sapere cose che la maggior parte della gente ignorava. Fric aveva imparato che, mentre parlava con il signor Devonshire, doveva fissarlo nell'occhio buono. Ma in quel momento non gli riusciva di farlo perché si sentiva terribilmente in colpa per quella bugia e, di conseguenza, si ritrovò a fissare stupidamente l'occhio ambliopico.
Per evitare di mettere in imbarazzo il signor Devonshire e se stesso, decise quindi di abbassare lo sguardo sul pavimento e rispose: «Sì, un picnic, da solo, qualcosa di diverso da fare, cioè, non la solita routine». «Dove pensi di fare il picnic?» indagò il signor Devonshire. «Nel roseto.» In tono sorpreso, il signor Devonshire domandò: «Con questa pioggia?» Stupido, stupido, stupido. Fric si era dimenticato della pioggia. Si corresse: «Cioè, volevo dire la stanza delle rose». La stanza delle rose, come il personale continuava a chiamarla, era un salottino al pianterreno. Le sue finestre si affacciavano su quello che un tempo era stato il roseto. Qualche anno prima, su insistenza del loro consulente di feng-shui, il roseto era stato spostato un po' più lontano dalla villa. Dove un tempo c'erano le rose, ora cresceva erba e, dall'erba, si innalzava un'imponente scultura moderna che Mamma Virtuale aveva donato a Papà Fantasma per il nono anniversario del loro matrimonio, anche se ormai erano divorziati da otto anni. Mamma Virtuale aveva descritto lo stile della scultura come «zen organico futuristico». A Fric sembrava un gigantesco cumulo di sterco lasciato da una mandria di cavalli. «La stanza delle rose mi sembra un luogo un po' strano per un picnic», commentò il signor Devonshire, pensando sicuramente alla montagnola di sterco zen che si vedeva dalle finestre. «Be', ehm, lì dentro mi sento vicino a mamma», spiegò Fric, il che era talmente assurdo da apparire quasi credibile. Il signor Devonshire rimase in silenzio per un momento, poi si informò: «Stai bene, Fric?» «Certo, benissimo, solo un po', come dire, scombussolato da tutta questa pioggia.» Dopo un altro silenzio, ma per fortuna questa volta più breve, l'uomo si accomiatò con un: «Be', gustati i tuoi panini». «Grazie, signore. Li ho preparati io stesso. Partendo da zero.» Era il peggior bugiardo del mondo. «Con il prosciutto.» Il signor Devonshire si avviò verso il corridoio a nord e Fric rimase lì, tenendo il cestino tra le mani come se fosse pesante. Il cameriere scomparve all'incrocio dei corridoi a nord e a ovest e Fric continuò a fissare nella sua direzione. Era convinto che il signor Devonshi-
re si fosse semplicemente nascosto e che stesse sbirciando da dietro l'angolo, con l'occhio sinistro che si era tanto girato verso l'esterno da uscire dall'orbita. Il ripostiglio verso il quale Fric si stava dirigendo in realtà non conteneva solo attrezzi da giardinaggio ma, in previsione del maltempo, c'erano stati riposti anche i cuscini che abitualmente ricoprivano seggiole e sedie a sdraio, ombrelloni, attrezzature per giochi all'aria aperta, nonché tutti i vari oggetti collegati al giardino, come i cestini da picnic. Dopo la conversazione con il cameriere, Fric non poteva più limitarsi a riportare il cestino nel ripostiglio. Se, di lì a poco, il signor Devonshire l'avesse incontrato nuovamente, ma questa volta a mani vuote, Fric sarebbe stato smascherato, tutti avrebbero pensato che era un ragazzino infido e bugiardo, un imbroglioncello che stava escogitando qualcosa, sicuramente nulla di buono. Il personale si sarebbe insospettito e l'avrebbe tenuto d'occhio, anche se in questo momento erano quasi tutti in vacanza. Un attento osservatore avrebbe potuto scoprire il suo nascondiglio segreto, senza che Fric se ne rendesse nemmeno conto. Dato che aveva inventato la storia del picnic, ora doveva proseguire su quella strada. Avrebbe dovuto trascinare il cestino fino alla stanza delle rose e starsene seduto davanti alla finestra, fissando il roseto che non c'era più e fingendo di mangiare panini che non esistevano. L'Uomo Misterioso lo aveva avvertito di non dire bugie. Se non era stato capace di cavarsela con una brava persona come il signor Devonshire, Fric si domandò come sarebbe riuscito a ingannare Moloch e a nascondersi da lui. Alla fine decise che, dopo tutto, il cameriere e il suo occhio non lo stavano sbirciando da dietro l'angolo. Pur sapendo di essere troppo scuro in volto per uno che va a fare un picnic, ma incapace di sorridere, Fric si portò dietro il maledetto cestino dall'angolo sudoccidentale della casa fino a quello nordorientale, dove c'era la stanza delle rose. 63 Jack Trotter, che il mondo conosceva con molti nomi ma che solo per Corky era Queeg von Hindenburg, non abitava nella parte più elegante di Malibu. Risiedeva lontano dalle colline e dalle spiagge in cui attori, rock
star e megamiliardari fondatori di società virtuali regolarmente fallite si abbronzavano, giocavano e si scambiavano ricette di biscotti alla marijuana. Lui, invece, viveva all'interno, dietro alle colline, senza vista sul mare, in uno di quei rustici canyon che attiravano non solo chi teneva cavalli e amava la vita semplice, ma anche balordi e pazzoidi, tossici che si facevano chiamare Castoro oppure Alce e che coltivavano marijuana nei fienili alla luce di potenti lampade, ecoterroristi che, per attirare l'attenzione sui topi che vivevano negli alberi e che correvano il rischio di estinguersi, facevano saltare in aria gli autosaloni, nonché appartenenti a sette religiose che adoravano gli UFO. I quattro acri di terreno di Trotter erano circondati da una staccionata da ranch che aveva urgente bisogno di una mano di vernice. Di solito Trotter teneva il cancello chiuso per scoraggiare eventuali visitatori. Quel giorno il cancello era completamente spalancato perché Trotter temeva che Corky - che lui conosceva come Robin Goodfellow, spietato agente federale - non si sarebbe fermato di fronte a quella barriera e l'avrebbe divelta dai cardini, come già aveva fatto una volta in passato. Situata in fondo al vialetto d'accesso ricoperto di ghiaia, la casa era stata costruita in stile hacienda messicana di un color giallo chiaro con rifiniture in legno. Non abbastanza cadente da poter essere chiamata baracca, né così sporca da poter essere definita squallida, la villetta era in uno stato di signorile trascuratezza. Trotter non spendeva molto denaro nella manutenzione della sua casa perché pensava sempre di dover fuggire da un momento all'altro. Jack Trotter viveva quotidianamente in uno stato di tensione superiore perfino a quello di un uomo con la testa nella lunetta della ghigliottina. Teorico della cospirazione, era convinto che il paese fosse governato da un gruppo segreto che intendeva eliminare la democrazia e imporre una brutale dittatura. Era sempre in allerta, per non lasciarsi sfuggire eventuali segnali della catastrofe imminente. In quel periodo Trotter credeva che i dipendenti delle poste fossero utilizzati come avanguardia delle repressione. Secondo lui, non erano semplici impiegati statali come volevano far credere, ma truppe altamente addestrate che si fingevano innocenti postini. Si era preparato una serie di nascondigli segreti, ciascuno dei quali era più remoto del precedente. Quando il bagno di sangue fosse iniziato, lui sperava di sfuggire al mondo civile per gradi.
Sicuramente sarebbe scappato subito dopo la prima visita di Corky se non avesse creduto che Corky, nella veste di Robin Goodfellow, sapesse dove si trovavano tutti i suoi nascondigli e fosse quindi in grado di piombare su di lui, accompagnato da un gruppo di feroci postini che non avrebbero mostrato alcuna pietà. Verso l'estremità orientale della proprietà, lontano dalla casa, sorgevano un vecchio fienile e un prefabbricato d'acciaio di più recente costruzione. Corky sapeva solo in parte che cosa Trotter combinasse in quegli edifici, ma fingeva di esserne perfettamente a conoscenza. Durante il caldo torrido dell'estate, la minaccia reale per Trotter erano gli incendi, non un malvagio gruppo di cospiratori. I ripidi pendii dietro la sua proprietà, nonché metà dell'angusta valletta che correva nel canyon, erano disseminati di cespugli selvatici che, alla fine di agosto, avrebbero potuto prendere fuoco con la stessa facilità con cui la casa di Brittina Dowd si era incendiata con l'aiuto di un po' di benzina. Naturalmente, adesso i ripidi pendii erano così fradici di pioggia che il rischio era quello di uno smottamento. Con quel tipo di terreno, la parete di un canyon poteva sgretolarsi in un'ondata di fango così rapida e improvvisa che neppure un paranoico con i nervi tesi come corde di violino sarebbe riuscito a sfuggirle. Se anche fosse scappato a gambe levate al primo brontolio, Trotter si sarebbe comunque ritrovato sepolto vivo, ma vivo solo per poco, poi avrebbe dovuto condividere la tomba con una tale quantità di animali selvatici schiacciati e soffocati da riempire un'arca. Corky adorava la California meridionale. Non ancora schiacciato e soffocato, Trotter attendeva il suo visitatore sulla veranda. Se appena fosse stato possibile, avrebbe preferito tenere Corky fuori della casa. In una delle sue precedenti visite, immedesimandosi totalmente nel ruolo del rude agente governativo che usava la costituzione degli Stati Uniti come carta igienica, Corky si era comportato davvero male. Non aveva mostrato alcun rispetto per i beni di Trotter. Era stato un vero bruto. Ma neppure lo spirito natalizio di quel 22 dicembre rendeva Corky più mite. Era proprio un diavoletto. Sebbene avesse parcheggiato l'auto a dieci passi dalla veranda, non si mise a correre sotto la pioggia scrosciante, perché Robin Goodfellow, troppo tosto per calzare un paio di stivaloni, non era tipo da accorgersi delle condizioni del tempo quand'era di cattivo umore. Salì i tre gradini che portavano alla veranda, estrasse la Glock dalla fon-
dina e piantò la bocca dell'arma contro la fronte di Trotter. «Ripeti quello che mi hai detto al telefono.» «Accidenti, sai che è vero», ribatté Trotter nervosamente. «È una stronzata», tagliò corto Corky. I capelli di Trotter erano arancione come il pelo del gatto del Cheshire, quello che si era trastullato con Alice nel paese delle meraviglie. Aveva gli occhi sporgenti del Cappellaio Matto. Arricciava nervosamente il naso, facendo venire in mente il Bianconiglio. Il viso gonfio e gli enormi baffi ricordavano il famoso Tricheco; era praticamente un insieme di personaggi di Lewis Carroll. «Santo cielo, Goodfellow», piagnucolò Trotter, «il temporale, il temporale! Non possiamo fare quel lavoro. È impossibile con un tempo così.» Continuando a premere la Glock sulla fronte di Trotter, Corky assicurò: «Per le sei di questa sera il temporale si sarà già allontanato. Il vento si placherà completamente. Avremo condizioni ideali». «Già, dicono che potrebbe allontanarsi, ma che cosa ne sanno loro? Quando mai le loro previsioni si sono rivelate giuste?» «Non mi riferisco a quello che dicono i meteorologi della televisione, cretino. Ma ai satelliti supersegreti del dipartimento della difesa, che non solo studiano le condizioni meteorologiche del pianeta, ma addirittura le controllano attraverso impulsi di energia a microonde. Noi faremo finire il temporale esattamente quando avremo bisogno che finisca.» Un'affermazione così assurda poteva essere creduta solo da un paranoico come Trotter, che sgranò gli occhi già sporgenti. «Controllo delle condizioni atmosferiche», mormorò con aria scossa. «Uragani, tornado, tempeste di neve, siccità, un'arma impossibile da rintracciare e terribile come una bomba nucleare.» In realtà, Corky contava unicamente sul fatto che il caos sarebbe stato ancora una volta suo alleato e che avrebbe fatto terminare il temporale quando lui aveva bisogno di un cielo sereno. Il caos non lo deludeva mai. «Pioggia o non pioggia, vento o non vento», disse a Trotter, «faremo come abbiamo stabilito, alle sette in punto ti troverai a Bel Air, nel posto che ti ho detto.» «Controllo delle condizioni atmosferiche», ripeté Trotter con espressione cupa. «Non ti sognare neppure di non venire. Sai quanti occhi ci stanno osservando in questo momento... da quelle colline, da quei campi?»
«Parecchi», rispose Trotter. «I miei uomini sono sparsi per il canyon, pronti a farti restare una persona onesta o a farti saltare il cervello, a tua scelta.» In effetti, gli unici occhi che li osservavano erano quelli dei corvi, dei falchi, dei passerotti e degli altri membri della comunità piumata riuniti sulle vecchie querce della California che circondavano la casa. Jack Trotter aveva creduto a quelle bugie non tanto per il falso tesserino della NSA che Corky gli aveva mostrato e neppure per l'eccellente interpretazione di Corky nel ruolo di Robin Goodfellow, ma perché questi aveva dimostrato di sapere molte cose sulle false identità di Trotter e di avere almeno qualche informazione sulla sua carriera, fino a quel momento piena di successi, come rapinatore di banche e spacciatore di Ecstasy. Era convinto che Corky fosse così informato su di lui grazie a quel gruppo di malvagi e onniscienti cospiratori. In realtà, ciò che Corky era venuto a sapere di Trotter lo aveva sentito da Mick Sachatone, l'hacker e anarchico multimiliardario che commerciava in documenti falsi, cellulari non rintracciabili e altri documenti, oggetti, sostanze e informazioni illegali. Mick aveva fornito a Trotter le diverse identità e poi le aveva rivelate a Corky. Normalmente, Mick non avrebbe mai rivelato a un cliente informazioni relative a un altro cliente. Considerato il tipo di persone con cui faceva affari, una simile mancanza di discrezione avrebbe avuto come conseguenza, se era fortunato, la sua morte oppure, se era sfortunato, l'estrazione degli occhi, il taglio della lingua e dei pollici, nonché la castrazione con le pinze. Ma dato che Mick aveva buoni motivi per odiare Trotter con un'intensità quasi omicida, aveva corso il rischio di rivelare quelle informazioni a Corky. Ciò che lo aveva indotto a violare il suo consueto standard di riservatezza era una gelosia di proporzioni melodrammatiche. In effetti, Trotter si era meritato l'inimicizia di Mick, anche se sembrava non rendersene conto. Gli aveva rubato la donna. La donna di Mick era stata una pornodiva, nota in determinati circoli per la disumana flessibilità del suo corpo. Forse Trotter non pensava che qualcuno potesse affezionarsi così profondamente, di sera e nei fine settimana, a una donna che si accoppiava con due, sei e perfino dieci uomini alla volta di fronte a una cinepresa, durante quelle che per lei erano normali ore di lavoro. Tuttavia, fin da quando aveva tredici anni, il più grande sogno di Mick era stato quello di avere una pornodiva come ragazza. Secondo lui, Trotter
lo aveva derubato dell'unico vero desiderio della sua vita e aveva cambiato il suo destino. Dopo aver vissuto quattro mesi con Trotter, la donna era scomparsa. Mick era convinto che Trotter l'avesse uccisa, o perché la donna era venuta a conoscenza di troppe cose sulle sue attività illegali, o semplicemente per sport, perché era stanco di lei, dopodiché ne aveva seppellito il corpo da qualche parte nel canyon. Ora lei non serviva più a nessuno e questo inutile spreco della sua eccezionale flessibilità rendeva Mick ancora più furioso. Abbassando la Glock dalla fronte di Trotter, Corky ordinò: «Entriamo». «Per favore, no», supplicò Trotter. «C'è bisogno di ricordarti», gli fece notare Corky, mentendo con soddisfazione, «che la tua collaborazione potrebbe farti ottenere la cancellazione da tutti i registri pubblici, compreso quello delle tasse, rendendoti l'uomo più libero del mondo, un uomo completamente sconosciuto al governo.» «Ci sarò. Alle sette in punto. Vento o non vento. Giuro che ci sarò.» «Ma io voglio entrare lo stesso», insisté Corky. «Sento la necessità di mettere i puntini sulle i.» Negli occhi da Cappellaio Matto di Trotter scese un velo di tristezza. I lineamenti da tricheco si afflosciarono. Rassegnato, precedette Corky in casa. I fori dei proiettili nelle pareti, che risalivano alla precedente occasione in cui Corky aveva ritenuto di dover dare una lezione a Trotter, non erano stati chiusi; tuttavia, le mensole del soggiorno erano state nuovamente riempite da una nuova collezione di porcellane Lladró... ballerine, principesse che danzavano con principi, bambini che giocavano con un cane, una graziosa contadinella che dava da mangiare a un gruppo di oche che si affollavano ai suoi piedi... Il fatto che un paranoico - perseguitato dall'idea di una cospirazione, rapinatore di banche, spacciatore di droga, che si era preparato nascondigli da lì fino al confine canadese - avesse un debole per porcellane così delicate non sorprendeva Corky. Per quanto rudi si possa apparire all'esterno, tutti abbiamo un cuore. Lo stesso Corky aveva un debole per i vecchi film di Shirley Temple, che amava rivedere un paio di volte all'anno. Senza sentirsi imbarazzato. Mentre Trotter stava a guardare, Corky svuotò il caricatore della calibro 9, mandando in frantumi una porcellana per ogni colpo. Dopo aver involontariamente ferito Mina Reynerd a un piede, nei mesi
successivi si era esercitato ed era diventato piuttosto bravo con le pistole. Fino a poco tempo prima, aveva preferito non usare armi da fuoco quando operava al servizio del caos, perché gli era sembrato troppo freddo, troppo impersonale. Ma ora si stava affezionando a quel tipo di strumento. Sostituì il caricatore vuoto con uno nuovo e terminò di distruggere la collezione Lladró. L'aria umida era impregnata di particelle di gesso e odore di polvere da sparo. «Alle sette in punto», disse. «Ci sarò», rispose Trotter a testa bassa. «Ci faremo un bel viaggetto sul tappeto magico.» Dopo aver sostituito il secondo caricatore con un terzo, Corky infilò la Glock nella fondina e uscì sulla veranda. Si avviò lentamente sotto la pioggia in direzione della Land Rover, voltando spavaldamente le spalle alla casa. Uscì dai canyon di Malibu, puntando verso la costa. Il cielo era un'enorme coppa che versava non pioggia, ma il solvente universale che gli alchimisti del medio evo avevano invano cercato di ottenere. Tutt'intorno a lui, le colline si stavano sciogliendo. I bassopiani si dissolvevano. Il bordo del continente si liquefaceva nel mare tempestoso. 64 Seduto nella stanza delle rose su una sedia di fronte alle finestre, Fric guardava l'enorme cumulo di sterco in bronzo, affettuoso regalo di sua madre. Il cestino da picnic era posato sul pavimento accanto alla sedia, con il coperchio chiuso. Sebbene avesse deciso di trascorrere un po' di tempo lì dentro per dar credito alla storia che aveva stupidamente inventato a benefico del signor Devonshire, non avrebbe certo finto di mangiare inesistenti panini al prosciutto, in parte perché se qualcuno lo avesse visto sicuramente avrebbe pensato: tale madre, tale figlio, ma soprattutto perché non aveva degli immaginari sottaceti con cui accompagnarli. Ah, ah, ah. All'epoca dell'incidente, avvenuto quasi due anni prima, l'agente pubblicitario di sua madre aveva spiegato ai giornalisti della stampa scandalistica che Freddie Nielander era stata ricoverata in una clinica privata della Florida. Le avevano riscontrato una forma di esaurimento.
Era sorprendente la frequenza con cui le top model erano ricoverate per quel motivo. Evidentemente, essere affascinante per ventiquattro ore al giorno era faticoso quanto il lavoro di un cavallo da tiro ed emotivamente spossante quanto accudire un malato terminale. Mamma Virtuale aveva posato per una copertina di Vanity Fair di troppo, aveva accettato un'intervista per Vogue più di quanto fosse stato opportuno, e questo aveva provocato una temporanea ma totale perdita del controllo dei muscoli di tutto il corpo. Questa era la storia ufficiale, almeno per quel che Fric era riuscito a capire. Nessuno aveva creduto alla storia ufficiale. I giornali, le riviste e i programmi televisivi che si occupavano esclusivamente di pettegolezzi sui personaggi del mondo dello spettacolo parlarono di un «esaurimento nervoso», un «crollo emotivo». Per la verità alcuni lo definirono un «episodio psicotico», il che lo faceva sembrare un telefilm della serie Lucy e io, in cui Lucy ed Ethel eliminavano un gruppo di persone con delle mitragliette. L'ospedale in cui era ricoverata veniva definito una «casa di salute per i ricchi più ricchi» e una «esclusiva clinica psichiatrica», ma si dice che Howard Stern, nel corso del suo programma radiofonico, l'avesse chiamato un «manicomio per una bambola con più tette che cervello». Fric aveva finto di non sapere ciò che i giornalisti dicevano di sua madre, ma in segreto aveva letto e ascoltato tutti gli articoli e i servizi che era riuscito a trovare. E ne era rimasto terrorizzato. Si era sentito inutile. I giornalisti avevano individuato due cliniche, ma non erano d'accordo su quale fosse quella in cui Freddie era ricoverata, e Fric non aveva l'indirizzo né dell'una, né dell'altra. Non poteva neppure mandarle una cartolina. Alla fine suo padre lo aveva portato nel roseto, che era già stato spostato più lontano dalla casa, e gli aveva domandato se aveva sentito strane notizie su sua madre. Fric aveva finto di cascare dalle nuvole. Suo padre aveva detto: «Be', prima o poi sentirai qualcosa e voglio che tu sappia che non c'è niente di vero. È la solita mania di buttare fango addosso ai personaggi famosi. Diranno che tua madre ha avuto un esaurimento nervoso o qualcosa del genere, ma non è vero. Non che vada tutto bene, ma non va neppure così male come dicono, quindi Ming e il dottor Rudy ti insegneranno alcune tecniche per riuscire a mantenere la serenità durante tutta questa storia». Il dottor Rudy era Rudolph Kroog, uno psichiatra famoso nei circoli di Hollywood per la sua alquanto originale terapia basata sulle vite passate. Il dottor Rudy aveva parlato a lungo con Fric per cercare di stabilire se, in
una precedente incarnazione, fosse stato un re bambino egiziano durante i secoli in cui erano i faraoni a governare, dopodiché gli aveva consegnato un flacone di capsule, dicendogli di penderne una a pranzo e una prima di andare a dormire. Ricordando che a volte i re bambini erano stati avvelenati dai loro consiglieri, fatto che aveva appreso da un programma di cartoni animati del sabato mattina, Fric aveva portato il flacone di capsule nel suo appartamento al secondo piano e lo aveva svuotato direttamente nella tazza del bagno. Se davvero, nel suo w.c, viveva un mostro verde e squamoso, quel giorno lui lo aveva ucciso con un'overdose. Tanto era stato facile sopportare il dottor Rudy, tanto si rivelò difficile tollerare Ming. Dopo due giorni di «consigli», Fric avrebbe preferito essere affidato alla misericordia del signor Hachette, lo chef pazzo, anche se questi l'avesse fatto arrosto con le mele e l'avesse presentato in tavola il giorno del Ringraziamento. Alla fine, tutti lo lasciarono in pace. Ancora adesso non sapeva se si era trattato di un ospedale, di una clinica o di un manicomio. Da allora, sua madre era venuta a Palais Crapaud soltanto una volta, ma non aveva parlato di quell'episodio. Era stato nel corso di quella visita che aveva detto a Fric che lui era un topolino invisibile quasi perfetto. Poi, insieme, avevano fatto una passeggiata a cavallo su un paio di grossi stalloni neri, e Fric si era dimostrato esuberante, sicuro di sé, atletico come suo padre, nonché uno stupendo cavallerizzo. Ah, ah, ah. Seduto nella stanza delle rose, mentre fissava il panorama oltre i vetri, si era talmente perso nel passato che non si era accorto del signor Yorn. Indossando una tuta verde impermeabile e un paio di stivali di gomma neri, probabilmente il signor Yorn era andato a controllare le griglie di scarico del prato o a verificare per quale motivo un pluviale si era intasato. Ora fissava Fric da dietro i vetri delle finestre, da una distanza di meno di due metri, e appariva perplesso, forse preoccupato. Probabilmente il signor Yorn lo aveva salutato con un cenno della mano e Fric, perso nel suo passato, non aveva risposto al saluto; il signor Yorn aveva salutato di nuovo e ancora una volta Fric non aveva reagito; magari adesso il signor Yorn pensava che Fric fosse in trance. Per dimostrare che non era né un cafoncello, né ipnotizzato, Fric agitò con enfasi la mano, il che gli sembrava la cosa giusta da fare, sia che il si-
gnor Yorn fosse stato lì a guardarlo per dieci secondi o per cinque minuti. Forse il cenno di saluto di Fric fu un po' troppo vigoroso, perché il giardiniere si avvicinò alla finestra e domandò: «Stai bene, Fric?» «Sì, signore. Sto benissimo. Sto mangiando qualche panino al prosciutto.» Evidentemente i vetri delle finestre e il fragore della pioggia coprirono in parte la voce di Fric, perché il signor Yorn si avvicinò ulteriormente per domandare: «Che cosa hai detto?» «Panini al prosciutto!» spiegò Fric, mettendosi quasi a urlare. Per qualche istante il signor Yorn continuò a scrutarlo attentamente, come se stesse esaminando uno strano insetto intrappolato in barattolo di vetro. Poi scosse la testa, facendo sbatacchiare in modo buffo la tesa del suo cappello impermeabile, e si allontanò. Fric rimase a osservare l'uomo mentre passava accanto al movimento di intestini in bronzo. Il signor Yorn si allontanò nel temporale, rimpicciolendosi sempre di più a mano a mano che s'inoltrava nell'immenso prato, fino a quando non apparve più grande di uno gnomo da giardino e alla fine svanì come un fantasma. Fric era convinto di sapere che cosa stesse pensando in quel momento il signor Yorn: tale madre, tale figlio. Alzandosi dalla sedia per stiracchiarsi, diede involontariamente un calcio al cestino da picnic, facendolo cadere di lato. Il coperchio si aprì e Fric vide che, dentro, c'era qualcosa di bianco. Il cestino era stato vuoto. Niente torce da terremoto. Niente panini al prosciutto, niente di niente. Fric perlustrò la stanza con lo sguardo. Non vide alcun luogo in cui qualcuno potesse nascondersi. La porta che dava sul corridoio era chiusa come lui l'aveva lasciata. Si chinò in avanti con una certa esitazione. Infilò una mano nel cestino. Estrasse un giornale piegato e, con le mani che gli tremavano, lo dispiegò. Era il Los Angeles Times. Sulla prima pagina, il titolo, scritto a caratteri troppo grandi, troppo neri, era talmente incredibile da non passare inosservato: L'FBI INDAGA NEL RAPIMENTO MANHEIM. Un brivido percorse in su e in giù il corpo di Fric. Improvvisamente si ritrovò con i palmi delle mani bagnati da un velo salmastro, come se avesse affondato le mani in un mare sovrannaturale, e le sue dita rimasero appiccicate alla carta.
Controllò la data del quotidiano: 24 dicembre. Era un giornale di due giorni dopo. Sulla prima pagina, sotto quel terrificante titolo, c'erano due fotografie: una di Papà Fantasma, rilasciata dal suo agente pubblicitario, e una che mostrava il cancello principale della proprietà. Restio a leggere l'articolo per paura che, leggendolo, l'avrebbe fatto diventare vero, Fric lanciò uno sguardo in fondo alla colonna e vide che il servizio continuava a pagina 8. Sfogliò il giornale in cerca della foto più importante per lui. Eccolo lì. La didascalia sotto la sua foto diceva: AELFRICH MANHEIM, DIECI ANNI, SCOMPARSO DA MARTEDÌ SERA. Mentre, sconvolto, fissava la fotografia, la sua immagine in bianco e nero si trasformò in quella dell'uomo dello specchio, dell'Uomo Misterioso, del suo angelo custode: espressione gelida, occhi grigio chiaro. Fric cercò di gettare a terra il Times, ma non riusciva a liberarsene, non perché le sue mani fossero sudate per la paura, ma perché la carta sembrava aver acquistato una carica statica e gli restava appiccicata alle dita. Nella foto, l'Uomo Misterioso cominciò a muoversi, come se non fosse una foto su un giornale, ma un minischermo televisivo e, parlando dal Los Angeles Times, avvertì: «Moloch sta arrivando». Poi, senza ricordarsi di aver fatto neppure un passo, Fric si rese conto di aver attraversato tutta la stanza e di essere arrivato alla porta. Ansimava, ma non per via dell'asma. Il cuore gli rimbombava più forte del tuono che poco prima aveva attraversato il cielo. Ora il Times giaceva a terra, accanto al cestino rovesciato. Mentre Fric lo guardava, il giornale si sollevò dal tappeto persiano come se fosse stato spazzato da un forte vento, anche se non si percepiva neppure una lieve brezza. Le varie sezioni del Times si dispiegarono, si gonfiarono; nel giro di pochi secondi, spiegazzandosi e girando vorticosamente, si composero in un'alta figura umana, come se un uomo invisibile fosse sempre stato lì e ora le pagine del giornale avessero aderito alla sua forma che, fino a quel momento, non era stato possibile vedere. Quell'essere non aveva l'aspetto di un angelo custode, anche se certamente lo era. C'era in lui qualcosa di... minaccioso. Voltando le spalle a Fric, l'uomo di carta si lanciò verso una delle finestre. Quando colpì il vetro, smise di essere una figura di carta e divenne un'ombra, un'oscurità che fluttuava, che scivolava sui pannelli di vetro allo
stesso modo in cui, la sera prima, aveva pulsato dalle decorazioni dell'albero di Natale. La sagoma scura si affievolì, poi scomparve, come se fosse uscita nella pioggia passando attraverso il vetro, facendosi poi trasportare in un luogo lontano e inimmaginabile. Ancora una volta Fric era solo. O sembrava che lo fosse. 65 Il dottor Jonathan Spetz-Mogg abitava in un lussuoso quartiere di Westwood e la sua elegante villa in stile Nantucket era rivestita da pannelli di cedro, ai quali il tempo aveva conferito una patina argentata talmente spessa che neppure la pioggia riusciva a rendere più scura, il che suggeriva che quella patina non era naturale, ma applicata come una vernice. L'accento inglese di Spetz-Mogg era abbastanza eccentrico da risultare affascinante, ma anche abbastanza incostante da poter essere stato acquisito nel corso di un lungo soggiorno in quel paese, piuttosto che per nascita ed educazione. Il professore accolse Ethan e Hazard a casa sua con modi più ossequiosi che cortesi. Rispose alle loro domande non con uno spirito di premurosa collaborazione, ma con un nervoso fiume di parole. Indossava un'ampia maglietta e un paio di pantaloni a vita bassa con i tasconi sulle gambe, il che lo faceva apparire ridicolo quanto può esserlo un bianco che cerca di vestirsi come un ragazzo afroamericano e doppiamente ridicolo perché aveva quarantotto anni. Ogni volta che accavallava le gambe, cosa che faceva spesso, i pantaloni emettevano un fruscio talmente forte da interrompere la conversazione. Forse aveva l'abitudine di portare gli occhiali da sole anche in casa. E li aveva anche in quel momento. Spetz-Mogg si toglieva e si rimetteva gli occhiali quasi con la stessa frequenza con cui accavallava le gambe, anche se questi due indizi di nervosismo non erano sincronizzati. Sembrava non riuscir a decidere se aveva migliori probabilità di sopravvivere all'interrogatorio mostrando di sé un'immagine schietta e sincera o nascondendosi dietro a un paio di lenti colorate. Sebbene il professore fosse chiaramente dell'idea che i poliziotti erano solo dei fascisti, non era certo il tipo da arrampicarsi su una barricata per urlare una simile accusa. Non era arrabbiato perché due agenti della re-
pressiva polizia di stato si trovavano a casa sua; ne era semplicemente terrorizzato. In risposta a ogni domanda, vomitava un fiume di informazioni con la speranza che la sua loquacità avrebbe convinto Ethan e Hazard ad andarsene prima che decidessero di tirar fuori manette e manganelli. Non era quello il professore che stavano cercando. Spetz-Mogg poteva forse incoraggiare altri a commettere dei reati in nome di qualche ideale, ma era troppo vigliacco per farlo personalmente. Oltretutto, non aveva tempo per il crimine. Aveva scritto dieci saggi e otto romanzi. Non solo insegnava, ma organizzava anche conferenze, corsi e seminari. In più scriveva commedie. Per esperienza, Ethan sapeva che le persone molto attive, indipendentemente dalla qualità di quanto riuscivano a produrre, raramente commettevano efferati crimini. Soltanto nei film, uomini d'affari di successo avevano il tempo di dedicarsi a omicidi e torture e, allo stesso tempo, mandare avanti un'azienda. Di solito, sul lavoro, i criminali si rivelavano dei falliti oppure semplicemente dei lavativi. Oppure avevano raggiunto il benessere economico grazie a un'eredità o in un modo altrettanto facile. Non avendo necessità di lavorare, avevano tutto il tempo per tramare qualcosa. Il dottor Spetz-Mogg non si ricordava di Rolf Reynerd. Mediamente, alle sue conferenze del fine settimana partecipavano trecento aspiranti attori. Non erano molti quelli che gli restavano impressi nella memoria. Quando Ethan e Hazard si alzarono per andarsene, senza mostrare alcuna intenzione di torturare il professore con scariche elettriche ai genitali, Spetz-Mogg li accompagnò all'uscita con evidente sollievo. Quando chiuse la porta dietro di loro, sicuramente aveva l'intestino talmente in subbuglio che fu costretto a lanciarsi di corsa verso il bagno, con buona pace della sua flemma inglese. Tornati sull'Expedition, Hazard commentò: «Avrei dovuto tirare un pugno a quel figlio di puttana solo per una questione di principio». «Stai diventando un po' nervoso», gli fece notare Ethan. «Che razza di accento era quello?» «L'accento di uno che fingeva di essere James Bond.» «Già. Con un pizzico di Schwarzenegger.» Una volta lasciata l'abitazione di Spetz-Mogg a Westwood, sprecarono decisamente troppo tempo per rintracciare il dottor Gerald Fitzmartin, quello che aveva organizzato il convegno sulla sceneggiatura a cui aveva
partecipato Reynerd. Secondo l'università in cui insegnava, Fitzmartin stava trascorrendo le vacanze a casa. Ma quando Hazard telefonò, gli rispose la segreteria telefonica. Fitzmartin abitava a Pacific Palisades. Decisero di raggiungere la località percorrendo strade di superficie che, quel giorno, erano più adatte a delle gondole che a dei SUV. A casa Fitzmartin, nessuno rispose al campanello. Forse il professore era fuori per gli acquisti natalizi. O forse non poteva venire ad aprire perché era troppo impegnato ad avvolgere nella carta da regalo un'altra scatola nera per Channing Manheim. Ma un vicino raccontò una storia diversa. Il lunedì mattina, Fitzmartin era stato portato d'urgenza al Cedar-Sinai Medical Center. Non sapeva esattamente perché. Quando Hazard chiamò il Cedar-Sinai, scoprì che per l'ospedale la privacy dei pazienti era più importante delle relazioni con la polizia. Ethan tornò in città, sotto un cielo pieno di lividi scuri come il corpo di un pugile. Il vento stava combattendo con gli alberi, a volte gli alberi perdevano, facendo cadere rami sulle strade e mandando in tilt il traffico. A sua volta, il traffico era turbolento quanto il cielo. A un incrocio, un'auto ne aveva colpito un'altra ed entrambe erano andate al tappeto. Quattro isolati più avanti, un camion aveva lavorato ai fianchi un furgone. Ethan guidava con una prudenza che un po' alla volta si trasformò in un'esagerata circospezione. Non poteva evitare di pensare che se era stato investito e ucciso una volta, poteva morire di nuovo, su una strada diversa. E forse questa volta non si sarebbe risvegliato sano e salvo. Nel frattempo, Hazard continuava con le sue telefonate, cercava di rintracciare il nome del professore che aveva organizzato il breve seminario sulla pubblicità e sull'autopromozione. Senza togliere le mani dal volante, Ethan lanciò un'occhiata al suo orologio. La giornata stava scorrendo più in fretta della pioggia nei canali di drenaggio. Doveva tornare a Palais Crapaud prima delle cinque del pomeriggio. Non si poteva lasciare Fric solo in quella grande casa, soprattutto non in una giornata strana come quella. Il Cedar-Sinai Medical Center si trovava in Beverly Boulevard, una parte di Los Angeles che avrebbe voluto essere Beverly Hills. Arrivarono alle quattordici e diciotto.
Scoprirono che il dottor Gerald Fitzmartin era ricoverato nell'unità di terapia intensiva, ma non ebbero il permesso di vederlo. Nella sala d'attesa, trovarono il figlio del professore che si disse ben lieto di aver qualcosa da fare che lo distraesse, anche se non riusciva proprio a immaginare per quale motivo dei poliziotti volessero parlare con suo padre. Il professor Fitzmartin aveva sessantotto anni. Dopo aver vissuto sempre onestamente, è raro che delle persone anziane, una volta andate in pensione, decidano di trasformarsi in criminali. Era un'attività che interferiva con il giardinaggio e con i calcoli renali. Oltretutto, proprio quella mattina al professor Fitzmartin erano stati applicati quattro bypass coronarici. Se davvero fosse stato il cospiratore di Rolf Reynerd, nell'immediato futuro non avrebbe sicuramente potuto assassinare alcun divo del cinema. Ethan controllò di nuovo l'orologio: 14.34. Tic, tic, tic. 66 Mick Sachatone non abitava in un pacchiano quartiere di multimiliardari perché non aveva mai voluto dover spiegare all'ufficio delle tasse da dove gli arrivavano tutti i suoi soldi. In certi casi è meglio non mettersi troppo in mostra. Era riuscito a riciclare abbastanza denaro sporco da permettersi una spaziosa e piuttosto anonima villetta a due piani, situata in un gradevole quartiere di Sherman Oaks abitato da famiglie di ceto medio alto. Soltanto un ristretto gruppo di vecchi e fidati clienti conoscevano l'indirizzo di Mick. Di solito preferiva concludere i suoi affari in spiagge e parchi pubblici, nei caffè e nelle chiese. Senza fermarsi nel box di Santa Monica per abbandonare il suo travestimento da Robin Goodfellow e indossare degli abiti normali e l'impermeabile giallo, Corky si lasciò alle spalle la casa puzzolente di Jack Trotter a Malibu e si diresse a Sherman Oaks. Grazie a Queeg von Hindenburg, il collezionista di porcellane rotte, il programma di Corky era saltato. Ma aveva ancora molte cose da fare in quella che era la giornata più importante della sua vita, giornata che stava fuggendo troppo in fretta. Parcheggiò nel viale d'accesso e si mise a correre nella pioggia per ripararsi sotto la veranda antistante la casa. La voce di Mick gli giunse dal citofono accanto al campanello, «Arrivo subito», e Mick Sachatone andò ad aprirgli con insolita prontezza. A volte,
dopo che Mick aveva risposto al citofono, bisognava attendere per due o tre minuti, e anche di più, prima che venisse ad aprire, occupato com'era con il suo lavoro e con altri interessi. Come sempre quando stava a casa, Mick era scalzo e indossava soltanto un pigiama. Quel giorno il pigiama era rosso con, stampate sopra, alcune immagini di Bart Simpson, il personaggio dei cartoni animati. Di solito Mick comprava i pigiama nei negozi, ma volte se li faceva confezionare su misura. Ancor prima di raggiungere la pubertà, Mick era rimasto affascinato dalla storia di Hugh Hefner, il fondatore di Playboy. Hefner aveva scoperto il modo di diventare adulto e avere successo restando comunque un bambinone, soddisfacendo ogni suo desiderio come e quanto gli piaceva, rendendo la sua vita tutta un'eterna festa, vivendo gran parte delle sue giornate in pigiama. Mick, che lavorava perlopiù a casa, ne possedeva più di centocinquanta. Di notte dormiva nudo, ma di giorno indossava il pigiama. Si considerava un seguace di Hefner. Un mini-Hef. Mick aveva quarantadue anni, ma presto ne avrebbe compiuti tredici. «Ehi, Cork, che completino da sballo», esclamò Mick aprendo la porta e vedendo Corky vestito da Robin Goodfellow. Uno sconosciuto avrebbe potuto sentirsi preso in giro; ma gli amici di Mick sapevano che lui cercava sempre di usare un linguaggio il più vicino possibile a quello di Hefner. «Scusa il ritardo», disse Corky, entrando. «Non ti affannare, amico. Se potessi, io non terrei neppure un orologio in casa.» L'arredamento del soggiorno era ridotto al minimo indispensabile. Il morbido divano, le grosse poltrone, gli sgabelli, i tavolini e gli abat-jour erano stati comprati in blocco in un magazzino di mobili a buon prezzo. La qualità era più che discreta, ma tutto era stato scelto per il comfort, non per motivi estetici. Mick non aveva grosse pretese. Nonostante la sua ricchezza, restava un uomo dai gusti semplici, anche se a volte le sue esigenze avevano qualcosa di ossessivo. Ciò che più saltava all'occhio in casa Sachatone non aveva nulla a che fare né con i mobili, né con l'arte. A parte alcune stanze di lavoro che Mick aveva aggiunto alla struttura originaria, tutte le pareti della casa, tranne due, erano occupate da scaffali contenenti una collezione di migliaia di vi-
deocassette e DVD pornografici. C'erano scaffali perfino lungo la tromba delle scale e le pareti dei corridoi. Mick preferiva i nastri ai DVD, perché le cassette erano racchiuse in una custodia il cui dorso portava titoli osceni stampati in vivaci colori e a caratteri cubitali, spesso accompagnati da fotografie hard. L'effetto era quello di un ininterrotto mosaico erotico che si estendeva lungo tutte le pareti della casa, dal pavimento al soffitto, e che aveva quasi un impatto psichedelico. Solo l'area destinata al lavoro, il soggiorno e la camera padronale contenevano mobili. Nelle altre stanze, compresa la sala da pranzo, le scaffalature non erano soltanto allineate lungo le pareti, ma formavano vere e proprie corsie, come in una biblioteca. Mick consumava tutti i suoi pasti o davanti al computer o a letto: cibo scaldato nel microonde, oppure pizze e specialità cinesi che gli venivano consegnate direttamente a casa. Delle due pareti prive di scaffali, una si trovava nel soggiorno. La parete conteneva quattro enormi televisori con schermo al plasma di ultima generazione, nonché apparecchi elettronici vari. Un identico impianto si trovava nella camera padronale. Gli schermi erano posizionati, a coppia, gli uni sopra gli altri. Per ogni video, c'era un lettore di DVD e un videoregistratore; questi apparecchi, più otto altoparlanti e gli amplificatori, erano alloggiati in bassi mobiletti posti sotto gli schermi. Mick poteva vedere contemporaneamente quattro film e, se ne aveva voglia, passare da una colonna sonora all'altra. Oppure, come spesso faceva, ascoltare tutte e quattro le colonne sonore allo stesso tempo. Di solito, entrando nel soggiorno di Sachatone, venivi accolto da una rozza sinfonia di sospiri, grugniti, gemiti, strilli, sibili e grida di piacere, da oscenità sussurrate e borbottate. E da un ritmico ansimare, più o meno incalzante. Se chiudevi gli occhi, ti sembrava quasi di essere in una giungla affollata e rumorosa, in cui tutte le specie si stavano accoppiando simultaneamente. Quel pomeriggio, i quattro film porno non erano accompagnati da alcuna colonna sonora. Mick le aveva spente tutte. «Janelle era così speciale», commentò Mick teneramente, riferendosi alla sua ragazza scomparsa e indicando con un cenno del capo la parete con i quattro schermi. «Una pupa davvero super.» Nonostante l'allegro pigiama con Bart Simpson, Mick era in preda a tri-
sti ricordi. Gli schermi mostravano quattro classici della vasta filmografia di Janelle. Indicando lo schermo in alto a destra, Mick spiegò: «Quello che sta facendo lì, nessuno... nessuno... l'ha mai fatto in un film, né prima né dopo di lei». «Dubito che qualcun altro possa riuscirci», ammise Corky, perché l'incredibile giochetto erotico in cui Janelle era energicamente impegnata richiedeva la sua leggendaria flessibilità, il cui gene probabilmente era stata l'unica persona al mondo a possedere. Riferendosi ai coprotagonisti del filmino, Mick disse: «Quei quattro tizi la amano. Te ne sei accorto? Ognuno di loro l'adora. Perché gli uomini amavano Janelle. Lei era davvero la fine del mondo». La voce di Mick traboccava di nostalgia. Nonostante il suo stile hefneriano, era un sentimentale. «Sono appena stato a casa di Trotter, a Malibu», rivelò Corky. «Hai ammazzato quel figlio di puttana?» «Non ancora. Sai che avrò bisogno di lui per un po'.» «Oh, guarda cosa sta facendo.» «È davvero straordinaria.» «A vederlo, sembrerebbe che faccia un male cane.» «Magari faceva male davvero», ipotizzò Corky. «Janelle diceva di no, che era divertente.» «Faceva molti esercizi di stretching?» «Il suo lavoro era tutto un esercizio di stretching. Lo ammazzerai?» «Te l'ho promesso, no?» «Pensavo che sarei invecchiato con lei», sospirò Mick. «Davvero?» «Be', quanto meno sarei diventato più vecchio.» «Gli ho distrutto la collezione di porcellane.» «Costosa?» «Lladró.» «Lo torturerai prima di ucciderlo?» «Certo.» «Sei un buon amico, Cork. Un vero compagno.» «Be', ci conosciamo da un sacco di tempo.» «Più di vent'anni», confermò Mick. «A quel tempo, il mondo era un posto ben peggiore di adesso», gli fece notare Corky, intendendo dal punto di vista di un anarchico.
«In questi anni molte cose sono andate distrutte», concordò Mick. «Ma non in fretta come avevamo sognato che accadesse quando eravamo ragazzi.» Si sorrisero. Se fossero stati uomini diversi, si sarebbero abbracciati. Invece Mick disse: «Ho completato la preparazione per il piano Manheim», e guidò Corky verso la parte interna della casa, dove si trovavano le sue stanze di lavoro. Invece di cassette pornografiche, lungo le pareti c'erano computer, una stampante, macchinari per la laminatura, una stampante laser per olografie e altri strumenti ad alta tecnologia necessari per la produzione di documenti falsi della migliore qualità. Mick aveva già collocato due sedie di fronte al monitor del computer della stazione di lavoro centrale. Si sedette in quella posta davanti alla tastiera. Corky si tolse la giacca di pelle, l'appese allo schienale della sedia e si sedette a sua volta. Notando la Glock infilata nella fondina, Mick domandò: «È con quella che farai fuori Trotter?» «Esatto.» «Poteri averla, dopo?» «La pistola?» «Sarò discreto», promise Mick. «Non la userò mai. E sistemerò la canna in modo che non possa essere ricollegata ai proiettili che userai per ammazzarlo. Vedi, non m'interessa come arma, per me sarà una specie di oggetto sacro. Farà parte del mio monumento privato alla memoria di Janelle, la metterò sulle mensole in cui tengo tutti i suoi film.» «Va bene», accettò Corky. «Quando avrò finito con lui, sarà tua.» «Sei grande, Cork.» Indicando il computer e i dati sul monitor, Mick disse: «È stato un lavoro da perderci la testa.» Essendo un hacker eccezionalmente abile, di solito Mick lasciava intendere o dichiarava apertamente che a lui, autoproclamatosi Padrone Assoluto dei Dati Digitali e Dominatore dell'Universo Virtuale, tutto riusciva con estrema facilità; quindi se ammetteva che il lavoro su Manheim aveva richiesto il massimo impegno, significava che si era trattato di un'impresa straordinariamente difficile. «Esattamente alle otto e mezzo di questa sera», continuò Mick, «Il computer della compagnia telefonica interromperà tutte e ventiquattro le linee
collegate alla villa di Manheim.» «Ma questo non metterà in allarme la Paladin Patrol, l'agenzia esterna di servizi di sicurezza? Una delle linee è collegata ventiquattro ore al giorno con la Paladin, per avvertirla in caso di necessità.» «Lo so. Se la linea s'interrompe, la Paladin considera l'interruzione come un segnale d'allarme. Ma loro non verranno a sapere nulla.» «È un'agenzia autorizzata a intervenire con le armi», si preoccupò Corky. «Le sue guardie arrivano immediatamente e non con gli spray al pepe, ma con le pistole.» «Una parte del pacchetto che ti ho preparato prevede un guasto nel computer della Paladin immediatamente prima che linee telefoniche di Manheim vengano interrotte. Gli manderà in tilt tutto il sistema.» «Saranno dotati di ridondanza.» «Conosco la loro ridondanza come conosco il mio cazzo», ribatté Mick impaziente. «Gli spegnerò anche la ridondanza.» «Notevole.» «Non devi preoccuparti della Paladin. Ma che cosa mi dici delle guardie private che lavorano all'interno della proprietà, dei ragazzi assunti da Manheim?» «Durante il turno di notte, ce ne sono due», rispose Corky. «So che routine seguono. A loro ho già pensato. Invece, come facciamo per i cellulari?» «Anche questo fa parte del pacchetto che stai comprando. Ho controllato le informazioni avute da Ned Hokenberry: Manheim usa lo stesso gestore che usava prima che quel balordo fosse licenziato.» Corky spiegò: «Due cellulari sono usati dalle guardie di turno. Il terzo lo porta sempre con sé il loro capo, Ethan Truman». Mick annuì. «Alle otto e mezzo smetteranno di funzionare, come gli altri telefoni. Ma anche la coppia che dirige la villa ha a disposizione dei cellulari...» «I McBee.» «Esatto», confermò Mick. «E Hachette, lo chef e anche William Yorn...» «Il giardiniere. Ma nessuno di loro sarà in casa stanotte», gli fece notare Corky. «Soltanto Truman e il bambino.» «E se qualcuno decidesse di lavorare fino a tardi o di tornare prima dalle vacanze? Non vorrai certo correre rischi? Io li spengo tutti, così nessuno avrà la possibilità di chiamare la polizia. Allo stesso tempo, anche i cercapersone saranno scollegati.»
In passato avevano parlato di Internet e dei modi in cui la rete poteva essere utilizzata per chiedere aiuto. Anticipando Corky, Mick disse: «Dalle otto e mezzo in poi, nessuno in casa Manheim potrà più accedere a Internet». «E le guardie di turno non se ne accorgeranno?» «No, sempre che non debbano fare una telefonata o collegarsi alla rete.» «Non credi che i computer li avvertiranno se c'è un'interruzione nel sistema?» «Ho pensato anche a questo. Ma come ti ho già detto, non posso spegnere le telecamere, i sensori di calore sistemati lungo il perimetro e neppure i rilevatori di movimento all'interno della casa. Se lo facessi, vedrebbero scomparire tutte le immagini e capirebbero che sta succedendo qualcosa.» Corky scrollò le spalle. «Quando entrerò nella casa, voglio che i rilevatori di movimento funzionino. Potrei averne bisogno. Quanto alle telecamere e ai sensori di calore, ci penserà Trotter a farmeli superare.» «E poi lo ucciderai?» domandò Mick. «Non immediatamente. Più tardi. Allora, cos'altro ti è rimasto da fare?» Alzando con un gesto solenne la mano destra, Mick rispose: «Soltanto questo». Con aria drammatica posò lentamente l'indice sulla tastiera e premette INVIO. I dati sul monitor scomparvero. Lo schermo divenne completamente azzurro. Corky si irrigidì. «Che cosa non ha funzionato?» «Niente. Ho dato inizio alla consegna del pacchetto.» «Quanto tempo ci vorrà?» Mick indicò le parole che erano apparse al centro del monitor: EREZIONE IN CORSO. «Quando la scritta cambia, vuol dire che il lavoro è completato. Vuoi una Coca, qualcos'altro?» «No grazie», rispose Corky. Non aveva mai mangiato o bevuto nulla in quella casa, ed era stato sempre attento a non toccare niente. Era facile immaginare che Mick avesse toccato tutto ciò che c'era lì dentro, una volta o l'altra, e non si poteva sapere dov'erano state di recente le sue mani. O meglio si poteva essere certi di dove fossero state, ed era questo il problema. La maggior parte degli amici di Mick evitava di stringergli la mano e lui, anche se inconsciamente, sembrava comprendere la loro riluttanza ed evitava di toccarli. Bart Simpson si mise a correre attraverso un campo di grinze, saltò da
una piega all'altra della stoffa e fece numerose boccacce mentre Mick andò a prendere una Coca dal frigo del suo ufficio e tornò a sedersi nella sedia di fronte al computer. Si misero a parlare di una videocassetta per adulti alquanto rara, forse prodotta in Giappone, che era addirittura leggendaria tra gli amanti della pornografia; al film partecipavano due uomini, due donne e un ermafrodita, tutti travestiti da Hitler. Mick aveva cercato quella cassetta per dodici anni. A Corky non interessava il bel niente di quel video, ma non ebbe la possibilità di annoiarsi perché, in meno di quattro minuti, le parole sul monitor del computer cambiarono da EREZIONE IN CORSO a un succinto SODDISFAZIONE. «Pacchetto consegnato», annunciò Mick. «Già fatto?» «Sì. I semi sono stati piantati nella compagnia dei telefoni, in quella di trasmissione via cavo e nei computer dell'agenzia di servizi di sicurezza. Fra qualche ora, proprio quando tu lo vorrai, tutto si spegnerà.» «E tu non dovrai più intervenire?» Mick sorrise. «Grandioso, vero?» «Straordinario», confermò Corky. Mick rovesciò indietro la testa per bere un lungo sorso di Coca e Corky estrasse la Glock; quando Mick abbassò di nuovo la testa, Corky premette il grilletto. 67 Il professore che aveva organizzato i brevi seminari sulla pubblicità e l'autopromozione era il dottor Robert Webbler. Lui preferiva essere chiamato dottor Bob, come era noto nell'ambiente dei corsi motivazionali che teneva in varie città e durante i quali prometteva di trasformare uomini e donne anonimi e pieni di dubbi in persone dinamiche, sicure di sé, determinate e realizzate. Ethan e Hazard trovarono il professore nel suo studio, in un'università praticamente vuota, mentre preparava il giro di conferenze previste per il mese di gennaio. Le pareti delle due stanze erano tappezzate da ritratti del dottor Bob stampati su poster nel formato reso popolare da Stalin e da Mao Tse-tung. Aveva la testa completamente rasata, un paio di baffoni a manubrio, u-
n'intensa abbronzatura che dimostrava il suo disprezzo per il melanoma e denti imbiancati al laser che scintillavano più di una tastiera di pianoforte illuminata. A parte gli stivali di pelle di serpente rossi, tutto ciò che indossava - proprio come nei poster - era bianco, compreso l'orologio che aveva un cinturino bianco e un quadrante bianco, senza numeri o lancette che indicassero le ore. Il dottor Bob riusciva a trasformare così bene la risposta a ogni questione in una miniconferenza sull'autostima e sul pensiero positivo che Ethan avrebbe voluto che Hazard lo arrestasse per abuso di luoghi comuni e pratica della filosofia senza neppure un'idea. Era sbruffone quanto Paperino, ma non era un assassino più di quanto lo fosse quell'irritabile papero. Smaniava per essere famoso, non famigerato. Per la verità, a volte Paperino aveva cercato di ammazzare Cip e Ciop, i due pestilenziali scoiattoli, ma sicuramente il dottor Bob avrebbe cercato di convincerli ad abbandonare la loro vita da roditori e a diventare manager di successo. Firmò per Ethan e Hazard due copie della sua ultima raccolta di discorsi motivazionali e affermò che sarebbe stata la prima persona al mondo a vincere un premio Nobel per la letteratura con una serie di manuali. Quando finalmente riuscirono a scappare dall'ufficio del dottor Bob, a trovare un bidone della spazzatura in cui gettare i due libri e a tornare all'Expedition, sia l'orologio del SUV sia quello di Ethan indicavano la stessa ora: quindici e quarantuno. Alle cinque di quel pomeriggio anche l'ultimo membro del personale se ne sarebbe andato. Fric sarebbe rimasto solo a Palais Crapaud. Ethan pensò di chiamare le guardie che si trovavano nella palazzina del giardiniere. Uno di loro poteva entrare in casa e restare con il ragazzino. Ma in questo modo soltanto un uomo sarebbe rimasto a monitorare le telecamere e gli altri sistemi di rilevamento, e nessuno avrebbe potuto svolgere il previsto pattugliamento a piedi. Considerate le circostanze, Ethan era riluttante all'idea di disperdere le sue già scarse risorse. Continuava a credere che il socio di Reynerd, ammesso che fosse ancora deciso ad agire, non sarebbe comunque entrato in azione prima di giovedì pomeriggio, quando il Volto avrebbe fatto ritorno dal set cinematografico in Florida. I movimenti di Manheim erano di pubblico dominio e i giornalisti ne parlavano continuamente. Chiunque fosse stato così ossessionato dall'attore da volerlo uccidere, molto probabilmente sapeva quando Manheim sarebbe tornato a Bel Air. Molto probabilmente... ma non sicuramente.
Quell'elemento di dubbio e la sensazione di Hazard che non avevano tempo fino a giovedì, rendeva Ethan inquieto. Temeva che qualcuno scoprisse un modo per superare le difese della villa, indipendentemente dalla stretta sorveglianza, e che vi restasse nascosto fino al ritorno di Manheim. Dopo tutto, anche il servizio di sicurezza apparentemente più impenetrabile era progettato da una mente umana e quindi, come tutto ciò che è umano, era imperfetto. Un pazzo abbastanza intelligente, spinto dall'ossessione e da un impulso omicida, poteva riuscire a trovare una crepa anche nel muro di protezione che circondava il presidente degli Stati Uniti. Da quanto Ethan sapeva di Reynerd, il giovanotto non era stato proprio un genio, ma la persona che aveva ispirato il personaggio del professore nella sceneggiatura poteva essere un pazzo di livello superiore. «Tu torna a casa», insisté Hazard, mentre si allontanavano dall'università. Lasciami dietro al Nostra Signora degli Angeli così posso recuperare la mia auto e io andrò da solo a controllare gli ultimi due nomi della lista.» «Non mi sembra giusto.» «Dopo tutto, tu non sei un vero poliziotto», gli fece notare Hazard. «Hai rinunciato alla carriera per i soldi e per avere la possibilità di baciare il culo del grande divo. Te lo sei scordato?» «Sei finito in questa storia per causa mia.» «Sbagliato. Ci sono per via di queste», ribatté Hazard, facendo tintinnare le tre campanelle argentate. Quel suono riecheggiò nella spina dorsale di Ethan. «Non voglio nessuna merda misteriosa come questa nella mia vita», disse Hazard, «e neppure tizi che entrano negli specchi. In qualche modo riuscirò a trovare una spiegazione, mi toglierò dalla testa tutti questi strani pensieri e tornerò a essere ciò che ero, come ero.» Gli ultimi nomi erano quelli di due professori di letteratura americana che insegnavano in un'altra università. Erano stati messi in fondo alla lista perché la sceneggiatura di Reynerd suggeriva che il suo socio dovesse essere un insegnante di recitazione o un professore in qualche modo collegato all'ambiente dello spettacolo. Era improbabile che dei noiosi professori di letteratura, con le loro giacche di tweed dalle toppe di pelle sui gomiti, che fumavano la pipa e discutevano di participi, trascorressero il loro tempo a dare la caccia a personaggi famosi o addirittura volessero ucciderli. «Comunque» riprese Hazard, «penso che neppure da questi due riuscirò a tirar fuori qualcosa di utile.» Si mise a leggere gli appunti che aveva preso nel corso delle telefonate
fatte durante il tragitto dal Cedar-Sinai, in cui era ricoverato il professor Fitzmartin, allo studio del dottor Bob. Il temporale si era un po' placato. Il vento, che aveva spezzato i rami degli alberi, ora si limitava a renderli inquieti e a farli rabbrividire in previsione di una improvvisa ripresa della tempesta. La pioggia continuava a scendere con un certa vivacità, ma non più con la forza distruttiva di prima, come se in cielo ci fosse stata una rivoluzione e ora, al posto dei guerrieri, governassero gli uomini d'affari. «Maxwell Dalton», disse Hazard dopo un momento. «Deve essersi preso una vacanza o un anno sabbatico dall'università. La donna con cui ho parlato era un'impiegata temporanea, assunta solo per le vacanze natalizie, e non è stata molto chiara, quindi dovrò vedermi con la moglie di Dalton. L'altro si chiama Vladimir Laputa.» 68 Corky si rammaricò per ciò che aveva fatto al viso di Mick Sachatone. Un vero amico meritava di essere ucciso in un modo più dignitoso. Dato che la Glock era senza silenziatore, Corky aveva potuto contare solo sul primo colpo. Magari nessuno dei vicini era a casa, o comunque il fragore della pioggia avrebbe potuto coprire il rumore di un unico sparo, o smorzarlo abbastanza da non suscitare il loro interesse. Una serie di colpi invece no, quello era proprio fuori discussione. A Malibu, Corky non aveva voluto soffocare la bella voce della pistola. Il bang di ogni sparo, che sottolineava il vivace coro della statuine di porcellana frantumate, aveva scosso profondamente Jack Trotter. Sebbene avesse con sé un silenziatore, la canna allungata impediva alla Glock di infilarsi perfettamente nella fondina. E quei centimetri in più non permettevano a Corky di estrarre l'arma con la scioltezza che tanto gli piaceva. Oltretutto, se il povero Mick avesse visto la Glock con il silenziatore, si sarebbe sentito un po' a disagio, nonostante l'aria indifferente di Corky. Dopo aver riposto la pistola nella fondina, Corky si infilò la giacca di pelle nera e, da una tasca, estrasse un paio di guanti di lattice. Certo, doveva evitare di lasciare impronte, ma in quel tempio della mano peccaminosa, ciò che più lo preoccupava non erano tanto le prove che poteva lasciare, ma quello che poteva prendersi. Nelle altre stanze, le scaffalature ricoprivano anche le finestre, rendendo
la casa una sorta di caverna, ma nelle stanze di lavoro il viso triste della giornata premeva contro i vetri schizzati di pioggia. Chiuse le tende. Aveva bisogno di tempo per perlustrare la casa e trovare il denaro in contanti che Mick teneva ben nascosto, e che non doveva essere poco, e poi per scollegare i computer e caricarli sulla Land Rover, evitando così che qualsiasi informazione su di lui finisse in mani nemiche. Successivamente avrebbe avvolto il corpo in una incerata e l'avrebbe trascinato fuori di lì, dopodiché avrebbe cancellato tutte le macchie di sangue. Infatti, per evitare indagini che, nonostante tutte le sue precauzioni, conducessero a lui, Corky intendeva far scomparire Mick. Certo, avrebbe potuto impregnare la casa di benzina e incendiarla, così come aveva fatto nel villino di Brittina Dowd. Le migliaia di videocassette avrebbero sprigionato un intenso calore ed enormi nubi di fumo tossico, mettendo in difficoltà i pompieri. In quell'ammasso fumante non sarebbe stato possibile scoprire alcuna traccia. Tuttavia detestava l'idea di distruggere un simile archivio di irrazionale lussuria, perché rappresentava il più grande monumento al caos che Corky avesse mai visto. Quel tumore maligno emanava vibrazioni in grado di diffondere la rovina e il disordine così come il plutonio emana radiazioni mortali a cui nessun essere vivente può sopravvivere. Ma la ricerca del denaro di Mick, la demolizione dei suoi computer e lo spostamento del cadavere in pigiama dovevano attendere fino a quando Aelfrich Manheim fosse stato strappato dalle affettuose braccia della fama e imprigionato nella stanza in quel momento occupata dal Puzzolente Uomo Formaggio. Corky sarebbe dunque tornato nel giro di ventiquattro ore. Nel frattempo spense i computer e tutti gli altri apparecchi che si trovavano nelle stanze di lavoro. Poi ispezionò la casa per essere certo che nessun elettrodomestico fosse rimasto acceso perché, surriscaldandosi, avrebbe provocato un piccolo cortocircuito, facendo accorrere i pompieri prima che lui potesse trovare i soldi e mentre il cadavere si trovava ancora lì. Tornato nel soggiorno, Corky si fermò ancora un minuto a guardare sui quattro schermi le contorsioni erotiche dell'incomparabile Janelle, prima di oscurare quella parete di carne che si dimenava convulsamente. Si domandò se Jack Trotter avesse approfittato dell'incredibile flessibilità della ragazza per far entrare il cadavere in una tomba di dimensioni ridotte e risparmiarsi così la fatica di scavare a lungo. Ora che Mick non c'era più, il Romeo e la Giulietta del porno erano entrambi morti. Che tristezza.
Corky avrebbe preferito non uccidere Mick, ma il pover'uomo aveva firmato la propria condanna a morte quando aveva tradito Trotter. In un attacco di gelosia, assetato di vendetta, aveva rivelato a Corky le numerose false identità che, negli anni, aveva creato per Trotter. Se era stato capace di tradire uno dei suoi clienti, un giorno avrebbe potuto tradire anche Corky. Distruggere l'ordine sociale è un lavoro solitario. Uscito sulla veranda, Corky chiuse la porta con la chiave di Mick che aveva trovato in cucina, appesa a un gancio. La giornata si era fatta ancora più fredda. Nonostante che, fin dalla mattina, fosse stato abbondantemente sciacquato e strizzato, quello straccio di cielo adesso era di un grigio ancora più sporco. Tante cose erano accadute da quando Corky si era alzato per affrontare quella giornata. Ma il meglio doveva ancora arrivare. 69 In cucina, Ethan si era consultato con il signor Hachette riguardo alla cena, ma lo aveva trovato più silenzioso del solito e furibondo per motivi che si rifiutava di spiegare. Aveva semplicemente detto: «Ciò che ho da dire sulla questione è nel messaggio, ispettore Truman». Ma non chiarì a quale questione si riferisse. «È nel messaggio, la mia furente dichiarazione. Rifiuto di abbassarmi a litigare come un comune cuoco. Io sono uno chef, e annuncio il mio disprezzo con una penna moderna, come un gentiluomo, non in faccia ma alla schiena.» L'inglese di Hachette era meno incerto quando non era arrabbiato o agitato, ma raramente si aveva l'opportunità di sentirgli fare un discorso. In soli dieci mesi, Ethan aveva imparato a non insistere mai con lo chef su argomenti che riguardavano la cucina. In effetti, la qualità dei suoi piatti giustificava la sua insistenza affinché gli fosse lasciata la libertà d'azione dovuta a un artista. Le sue sfuriate venivano e se ne andavano senza lasciare danni. Rispondendo allo strano discorso del signor Hachette con una scrollata di spalle, Ethan si mise in cerca di Fric. La signora McBee non approvava che si cercasse una persona chiamandola attraverso gli altoparlanti dell'interfono disseminati per tutta la casa. La considerava un'offesa nei confronti dell'atmosfera solenne che regnava
in una grande villa, un affronto alla famiglia e una distrazione per il personale. «Noi non lavoriamo in un ufficio o in un grande magazzino», aveva spiegato. I membri del personale di grado più elevato avevano in dotazione un cercapersone, attraverso il quale potevano essere convocati ovunque si trovassero nella grande proprietà. Raramente era necessario chiamarli attraverso l'interfono. Se si aveva bisogno di rintracciare un membro del personale di grado inferiore o se si era autorizzati a cercare un membro della famiglia a propria discrezione - cosa che valeva soltanto per la signora McBee, il signor McBee ed Ethan - allora ci si serviva dell'interfono per collegarsi con una stanza alla volta, partendo dai primi tre posti in cui ci si aspettava di trovare la persona desiderata. Via via che si avvicinavano le cinque del pomeriggio, erano pochi i membri del personale ancora in casa che potevano essere distratti dall'interfono, oltretutto anche quei pochi se ne sarebbero andati nel giro di qualche minuto. E Fric era l'unico membro della famiglia Manheim presente nella villa. I McBee erano già a Santa Barbara. Tuttavia, Ethan si sentiva obbligato a seguire le procedure standard per rispetto della tradizione, per riguardo alla signora McBee e nella convinzione che se avesse usato l'interfono per cercare Fric in tutte le stanze contemporaneamente, pure trovandosi a Santa Barbara, la cara signora avrebbe saputo immediatamente ciò che era accaduto e la sua breve vacanza sarebbe stata in parte rovinata da un inutile inquietudine. Servendosi dell'interfono della cucina, per prima cosa Ethan cercò Fric nelle sue stanze al secondo piano. Poi tentò con la stanza dei trenini... «Sei lì, Fric? Sono il signor Truman...» nella sala di proiezione e nella biblioteca. Non ricevette alcuna risposta. Sebbene Fric non si fosse mai mostrato di malumore e sicuramente non fosse mai stato scortese, era possibile che per qualche ragione avesse deciso di non rispondere all'interfono anche se l'aveva sentito. Ethan decise di fare un giro completo della casa, principalmente per trovare il ragazzine ma anche per assicurarsi che, in generale, tutto fosse come doveva essere. Iniziò dal secondo piano. Non entrò in ogni stanza, ma quanto meno aprì le porte per sbirciare all'interno dei locali e chiamò più volte il ragazzino. La porta che dava sulle stanze di Fric era aperta. Dopo essersi annunciato due volte e non avendo ricevuto risposta, Ethan decise che quella sera la
sicurezza aveva la precedenza sull'etichetta della casa e sulla privacy della famiglia. Entrò nelle stanze di Fric, ma non lo trovò, né notò alcunché di strano. Attraversando l'ala orientale per tornare al corridoio a nord e mentre si dirigeva verso la scalinata principale, Ethan si fermò tre volte, voltandosi e restando in ascolto, bloccato da un brivido alla nuca, dalla sensazione che le cose non erano a posto come sembrava. Silenzio. Calma assoluta. Trattenne il fiato, ma udì solo il suo cuore. Se distoglieva l'attenzione da quel ritmo interno, non udiva nulla di reale, solo assurdità della sua immaginazione: un movimento furtivo nello specchio sopra una delle credenze, una flebile voce come quella che aveva udito al telefono la sera precedente, ma ancora più lontana, che lo chiamava non da una stanza del secondo piano, ma dalla parte opposta di una curva cieca della strada per l'eternità. Nello specchio vide solo il suo riflesso, nessuna forma indefinita, nessun amico d'infanzia. Quando riprese a respirare normalmente, la voce lontana che esisteva solo nella sua immaginazione smise di farsi sentire. Giunto alla scalinata principale, scese al primo piano e trovò Fric in biblioteca. Il ragazzino stava leggendo un libro, seduto in una poltrona che aveva spostato dalla sua normale posizione, sistemandola in modo che la spalliera poggiasse contro l'albero di Natale. Quando Ethan aprì la porta ed entrò, Fric trasalì e subito dopo cercò di nascondere la sua paura fingendo di essersi semplicemente sistemato meglio nella poltrona. Per un istante, il terrore gli aveva fatto sgranare gli occhi e serrare le mascelle, poi si era reso conto che Ethan era soltanto Ethan. «Ciao, Fric, tutto okay? Solo qualche minuto fa, ti ho chiamato con l'interfono proprio qui in biblioteca.» «Non ho sentito niente, no, l'interfono, no», rispose il ragazzino, mentendo in modo così evidente che, se fosse stato collegato a una macchina della verità, l'apparecchio sarebbe probabilmente esploso. «Hai spostato la poltrona.» «La poltrona? Ehm, no, l'ho trovata così, cioè, proprio qui.» Ethan si sedette sul bordo di un'altra poltrona. «C'è qualcosa che non va, Fric?» «Che non va?» ripeté il ragazzino, come se non riuscisse a comprendere
il significato di quelle parole. «C'è qualcosa che vorresti dirmi? Sei preoccupato per qualcosa? Sai, non ti stai comportando in modo normale.» Il ragazzino distolse lo sguardo da Ethan e lo abbassò sul libro. Poi chiuse il libro e se lo posò in grembo. Durante gli anni trascorsi nella polizia, Ethan aveva imparato a essere paziente. Sollevando di nuovo lo sguardo, Fric si sporse in avanti nella poltrona. Sembrò sul punto di voler sussurrare qualcosa in tono cospiratorio, ma esitò, raddrizzandosi. Qualunque cosa avesse avuto intenzione di rivelare, aveva cambiato idea. Scrollò le spalle. «Non so. Forse sono nervoso perché mio padre torna giovedì.» «È una cosa buona, no?» «Certo. Ma mi rende anche un po' nervoso.» «Perché?» «Perché, sa, si porterà dietro degli amici. Lo fa sempre.» «E a te i suoi amici non piacciono?» «Non sono male. Sono tutti giocatori di golf e maniaci dello sport. A papà piace parlare di golf e football e roba del genere. È così che si rilassa. Lui e i suoi amici, loro sono una specie di club.» Un club di cui tu non sei e non sarai mai membro, pensò Ethan, sorpreso da un sentimento di solidarietà che gli faceva venire un nodo alla gola. Voleva abbracciare quel ragazzino, portarlo al cinema, e intendeva un cinema fuori, non in quello di Palais Crapaud, ma in una normale multisala affollata di ragazzini accompagnati dai genitori, dove l'aria era impregnata dell'odore di popcorn e di quella dell'olio di colza aromatizzato in modo da farlo sembrare burro, dove, prima di sederti, dovevi controllare che non ci fossero gomme da masticare e caramelle, dove durante le scene più divertenti del film non sentivi solo la tua risata, ma quella di una folla. «E si porterà dietro una ragazza», proseguì Fric. «Ce n'è sempre una. Ha rotto con l'ultima della serie prima di partire per la Florida. Non so chi sia quella nuova. Magari sarà simpatica. A volte lo sono. Ma è nuova, e io dovrò cercare di conoscerla, il che non è facile.» Dato che quella conversazione avveniva tra un membro della famiglia e uno del personale, si stavano inoltrando in un territorio pericoloso. Ethan non poteva permettersi di dire nulla che rivelasse il suo giudizio su Channing Manheim come padre o che suggerisse che l'attore avrebbe dovuto modificare l'ordine delle sue priorità.
«Fric, chiunque sia la nuova ragazza di tuo padre, non sarà difficile fare la sua conoscenza perché sicuramente tu le piacerai. Tu piaci a tutti, Fric», soggiunse, sapendo che per un ragazzino dolce e profondamente umile come lui quelle parole sarebbero state una rivelazione e probabilmente sarebbero state accolte con incredulità. Fric infatti rimase a bocca aperta, come se Ethan avesse appena confessato di essere una scimmia che si faceva passare per un essere umano. Arrossì e abbassò lo sguardo sul libro che teneva in grembo, con aria sconcertata. Un movimento attrasse l'attenzione di Ethan sull'albero alle spalle di Fric. Le decorazioni appese ai rami si stavano agitando: angeli che ruotavano su stessi, angeli che annuivano, angeli che danzavano. Nella biblioteca, l'aria era immobile come i libri sugli scaffali. Se c'era stato un terremoto di bassa intensità, ma comunque sufficiente a far dondolare le decorazioni, doveva essere stato talmente lieve che Ethan non se ne era neppure accorto. Gli angeli smisero di agitarsi, come se fossero stati messi in movimento da una breve corrente d'aria provocata dal passaggio di qualcuno. Ethan si sentì sopraffare da una strana speranza, dalla sensazione che, nel suo cuore, si stesse aprendo uno spiraglio che gli avrebbe permesso di comprendere tante cose. Si rese conto di trattenere il fiato e che gli si erano rizzati i peli sul dorso della mani. «Il signor Hachette», disse Fric. Gli angeli si fermarono e quel momento così intenso passò senza che si manifestasse... nulla. «Prego?» domandò Ethan. «Al signor Hachette non piaccio», chiarì Fric, come se volesse confutare l'idea che lui godesse di una stima maggiore di quel che pensava. Ethan sorrise. «Be', non credo che al signor Hachette piaccia qualcuno. Ma è un ottimo chef, giusto?» «Se è per quello, anche Hannibal Lecter.» Sebbene divertirsi alle spalle di un altro membro del personale fosse decisamente scortese, Ethan scoppiò a ridere. «Puoi anche pensarla diversamente, ma sono certo che se il signor Hachette dice che ciò che ha messo nel tuo piatto è vitello, sarà senz'altro vitello e non qualcosa di orripilante.» Si alzò dalla poltrona. «Ascolta, ci sono due motivi per cui ti ho cercato. Volevo avvertirti di non aprire nessuna porta esterna per il resto della serata. Appena avrò la certezza che anche l'ultimo membro del personale se n'è
andato, metterò in funzione l'allarme tutt'intorno alla casa.» Fric si raddrizzò nella poltrona. Se fosse stato un cane, avrebbe drizzato le orecchie, tanto quel cambiamento di routine lo aveva messo in allarme. Quando il padre di Fric era presente, l'allarme intorno alla casa veniva attivato solo se lui lo desiderava. In sua assenza, di solito Ethan lo collegava quando andava a dormire, tra le dieci di sera e mezzanotte. «Perché così presto?» domandò Fric. «Questa sera voglio monitorarlo sul computer. Penso che ci sia, in una delle porte o delle finestre, un problema di irregolarità nel flusso di corrente. Nulla che faccia scattare l'allarme senza motivo, ma va riparato.» Sebbene Ethan sapesse mentire meglio di Fric, probabilmente l'espressione dubbiosa che apparve sul viso del ragazzino era la stessa con cui guardava il vitello che il signor Hachette gli metteva nel piatto. Riprendendo in fretta il discorso, Ethan disse: «Ma sono venuto a cercarti anche perché pensavo che, forse, potremmo cenare insieme, visto che in casa ci siamo soltanto noi due maschietti». Il manuale di Norme e Procedure non vietava a un membro del personale di livello superiore di cenare con il bambino in assenza dei suoi genitori. Per la verità Fric cenava quasi sempre da solo, un po' perché amava consumare i pasti in pace, ma soprattutto perché, chiedendo ad altri di fargli compagnia, gli sarebbe sembrato di disturbare. Di tanto in tanto, la signora McBee lo convinceva a cenare con lei e il signor McBee, ma questa sarebbe stata la prima volta per Ethan e Fric. «Davvero?» domandò Fric. «Non sarà troppo impegnato a controllare il flusso di corrente?» Ethan riconobbe una punta di ironia in quella domanda, avrebbe voluto ridere, ma finse di credere che Fric avesse abboccato alla sua storia sul motivo che lo induceva ad attivare l'allarme prima del solito. «No, il signor Hachette ha già preparato tutto. Devo semplicemente scaldare il cibo nel forno secondo le sue istruzioni. A che ora vorresti cenare?» «Prima è, meglio è», rispose Fric. «Alle sei e mezzo?» «Vada per le sei e mezzo. E dove devo preparare la tavola?» Fric scrollò le spalle. «Lei dove vuole?» «Se sta a me scegliere, deve essere per forza la sala comune del personale», rispose Ethan. «Le altre sale da pranzo sono riservate alla famiglia.» «Allora sceglierò io», stabilì Fric. Si mordicchiò il labbro inferiore per qualche istante, poi disse: «Glielo farò sapere più tardi». «Va bene. Io resterò nel mio appartamento per un po', poi mi troverai in
cucina.» «Penso che potremmo avere del vino stasera, le pare?» suggerì Fric. «Un buon merlot.» «Davvero? E dovrei anche preparare i bagagli, chiamare un taxi, scrivermi una lettera di licenziamento a nome di tuo padre ed essere pronto ad andarmene appena ti addormenterai ubriaco fradicio?» «Non c'è bisogno che lo sappia», ribatté Fric. «E se anche lo sapesse, penserebbe che è solo una sciocchezza da ragazzino hollywoodiano, meglio una sbronza che la cocaina. Mi farebbe parlare con il dottor Rudy per vedere se magari il problema risale a quando ero il figlio di un imperatore dell'antica Roma, probabilmente rimasto traumatizzato nel vedere gli stupidi leoni che mangiavano stupide persone nello stupido Colosseo.» Ethan avrebbe trovato quel commento più divertente se non avesse creduto che, molto probabilmente, quella sarebbe stata davvero la reazione del Volto di fronte alla sbronza del figlio. «Forse tuo padre non lo scoprirebbe mai. Ma ti stai dimenticando di Colei Che Non Può Essere Ingannata.» Fric sussurrò: «McBee». Ethan annuì. «McBee.» «Berrò una Pepsi», decise Fric. «Con o senza ghiaccio?» «Senza.» «Bravo figliolo.» 70 Sebbene fosse spaventata e amareggiata, e stesse lottando per non abbandonarsi alla disperazione, Rachel Dalton restava comunque una donna molto bella, con lucidi capelli castani e occhi azzurri profondi e misteriosi. Inoltre, secondo Hazard, si era dimostrata estremamente premurosa. Quando lui le aveva telefonato, aveva accettato di vederlo e, al suo arrivo, Hazard aveva trovato del caffè appena fatto. Glielo servì nel soggiorno, accompagnato da un piatto di minuscole ciambelle e di biscotti al burro. Quand'erano in servizio, ai detective della Omicidi raramente venivano offerti caffè e biscottini, e mai con tovaglioli damascati. Soprattutto non dalle mogli di uomini che erano scomparsi e che la polizia aveva fatto ben poco per ritrovare. Maxwell Dalton era infatti svanito nel nulla tre mesi prima. Il professore
non si era presentato all'università per una lezione pomeridiana e, quattro ore dopo, Rachel ne aveva denunciato la scomparsa. Naturalmente la polizia non aveva mostrato alcun interesse per un adulto che mancava soltanto da quattro ore, e non si era incuriosita neppure quando l'uomo aveva continuato a non dare notizie di sé per uno, due, tre giorni. «A quanto pare», commentò Rachel, «viviamo in un'epoca in cui un incredibile numero di mariti - e di mogli - vanno a drogarsi da qualche parte e poi tornano indietro, oppure decidono improvvisamente di trascorre una settimana a Puerto Vallarta con una prostituta incontrata in un bar dieci minuti prima, o semplicemente se ne vanno per la loro strada senza avvertire nessuno. Quando ho cercato di spiegare che Maxwell era un marito assolutamente affidabile, non mi hanno creduto. Erano convinti che, dopo un po' di tempo, sarebbe tornato a casa con gli occhi iniettati di sangue, uno sguardo imbarazzato e una malattia venerea.» Infine, quando Maxwell Dalton non ebbe dato notizie di sé abbastanza a lungo da far sorgere qualche sospetto perfino alla polizia, era stata redatta una denuncia di scomparsa, che però non era stata seguita da alcuna ricerca. Questo aveva lasciato Rachel profondamente frustrata, perché lei aveva erroneamente creduto che un caso del genere facesse scattare indagini serrate pari a quelle di un omicidio, o quasi. «Non quando si tratta di un adulto», spiegò Hazard, «e non quando non ci sono segni di violenza. Se avessero trovato la sua auto abbandonata...» Ma l'auto di Dalton non era stata trovata, e neppure il suo portafogli, vuoto e gettato da qualche parte, né alcun oggetto che potesse far sospettare qualcosa di grave. Era svanito senza lasciare traccia, come una nave che si fosse inoltrata nel triangolo delle Bermuda, senza più uscirne. «Sono certo che glielo hanno già domandato», disse Hazard, «ma suo marito aveva nemici?» «Era un brav'uomo», rispose Rachel, come Hazard si aspettava che facesse. Poi aggiunse qualcosa che lui non si era aspettato: «E come tutte le brave persone in un mondo malvagio, naturalmente aveva dei nemici». «Chi?» «Una banda di delinquenti in quella fogna che chiamano università. Ma non dovrei essere così dura. Là dentro ci lavorano anche tante ottime persone. Sfortunatamente, la facoltà di lingua e letteratura inglese è nelle mani di canaglie e di pazzi furiosi.» «Pensa che qualcuno della facoltà possa...»
«È improbabile», ammise Rachel. «Tutto quello che fanno è parlare, e oltretutto sono solo chiacchiere senza senso.» Gli offrì dell'altro caffè e, quando lui rifiutò, domandò: «Come si chiama l'uomo sulla cui morte state indagando?» Hazard le aveva raccontato il minimo indispensabile per farsi ricevere e non intendeva entrare in particolari. Non le aveva nemmeno detto di aver già ucciso l'assassino di Reynerd. «Rolf Reynerd. Gli hanno sparato ieri, a West Hollywood.» «Pensa che il suo caso possa essere collegato a quello di mio marito? Cioè, che ci sia qualcosa di più oltre al fatto che aveva frequentato il corso di letteratura tenuto da Max?» «È possibile», rispose Hazard. «Ma improbabile. Io non...» Stranamente, il triste sorriso di Rachel la rese ancora più bella. «Stia tranquillo, detective», lo interruppe, rispondendo a quello che Hazard aveva esitato a dire. «Non smetterò di sperare. E non permetterò neppure alla speranza di indebolirsi.» Mentre Hazard si alzava per andarsene, suonò il campanello. L'insegnante di piano che dava lezioni alla figlia dei Dalton, una bambina di dieci anni, era un'anziana donna di colore, con i capelli bianchi e con le mani più eleganti che Hazard avesse mai visto. Affusolate e morbide come quelle di una ragazzina. Attratta dalla voce musicale della sua insegnante, Emily, la bambina, scese al pianterreno appena in tempo per essere presentata ad Hazard prima che lui se andasse. Aveva la bellezza di sua madre ma non altrettanta forza d'animo, perché il labbro inferiore le tremò e gli occhi le si oscurarono quando disse: «Troverete mio padre, vero?» «Ce la metteremo tutta», le promise Hazard parlando a nome dell'intero dipartimento di polizia e sperando che ciò che aveva affermato non si sarebbe rivelata una menzogna. Dopo aver varcato la soglia ed essere uscito sulla veranda, si voltò verso Rachel Dalton. «Il prossimo nome sulla mia lista è un collega di suo marito. Forse lei lo conosce. Vladimir Laputa.» Se il dolore non offuscava la bellezza di Rachel, non lo faceva neppure l'ira. «Tra tutte quelle iene, lui è il peggiore. Maxwell lo disprezzava... lo disprezza. Sei settimane fa il signor Laputa è venuto a trovarmi, voleva esprimermi tutta la sua solidarietà e la sua preoccupazione per il fatto che non c'erano notizie di Max. Lo giuro... quel verme stava cercando di capire se mi sentivo troppo sola a letto.» «Buon Dio», mormorò Hazard.
«Detective Yancy, un professore universitario non è meno spietato di un appartenente a una banda di criminali. Solo che esprime la sua ferocia in modo diverso. Lo studioso che si richiudeva nella sua torre d'avorio, interessandosi soltanto all'arte e alla verità, non esiste più da molto tempo.» «Sto cominciando a pensarlo anch'io», concordò Hazard, anche se non gli avrebbe mai rivelato che, per mancanza di un candidato migliore, suo marito era salito in cima alla lista degli individui sospettati di aver minacciato Channing Manheim. Gli riusciva difficile credere che una donna come Rachel e una bambina come Emily potessero amare un uomo che non era esattamente - e completamente - quello che appariva. Tuttavia, la scomparsa di Maxwell Dalton poteva realmente significare che aveva iniziato una nuova vita, una vita folle in cui si minacciavano personaggi celebri o con l'intento di far loro del male o nell'ingenua speranza di riuscire a estorcere denaro. Anche lasciando perdere le campanelle che uscivano dai sogni e gli uomini che entravano negli specchi, nel corso della sua carriera Hazard Yancy aveva visto cose ben più strane di un onesto professore che perdeva la ragione, e che invidia e avidità facevano impazzire. I Dalton abitavano in un buon quartiere, ma Laputa risiedeva in uno ancora migliore, a meno di quindici minuti di distanza. Il precoce crepuscolo invernale si era insinuato furtivamente, avanzando alle spalle del temporale, mentre Hazard stava bevendo il caffè in compagnia di Rachel Dalton. Durante il breve tragitto verso la casa del professor Laputa, le nubi grigie, ora illuminate dal basso dalle luci della città, assunsero una tonalità giallastra. Quando giunse di fronte alla casa della peggiore di tutte le iene accademiche, Hazard parcheggiò sul lato opposto della strada, spense i fari e i tergicristalli, ma lasciò acceso il motore per far funzionare il riscaldamento. I ragazzini non avrebbero certo potuto costruire fortini di neve ma, con il sopraggiungere della sera, l'aria si era fatta piuttosto fredda per la California meridionale. Non era riuscito a contattare telefonicamente il professore. Ora, anche se la casa era immersa nel buio, tentò di nuovo. Mentre lasciava squillare il telefono, notò un pedone che svoltava l'angolo in fondo all'isolato e avanzava in direzione della villetta di Laputa. C'era qualcosa di strano in quell'individuo. Non aveva né un ombrello né un impermeabile. L'acquazzone si era ridotto a una pioggia fitta e costante,
ma non era certo il tipo di clima che fa venir voglia di fare una passeggiata. E c'era un'altra cosa: l'uomo sembrava non avere alcuna fretta. Era tuttavia il suo atteggiamento che aveva messo in modo la macchina del sospetto di Hazard Yancy. Se quell'individuo fosse stato una spugna, sarebbe stato così inzuppato di atteggiamento che non ci sarebbe stato spazio neppure per una goccia di pioggia. Camminava con aria tracotante, non come a volte camminano i veri duri, ma come fanno gli attori quando pensano di interpretare in modo perfetto la parte di un duro che cammina con aria tracotante. I pantaloni grigi, il maglione a collo alto nero e la giacca di pelle nera erano fradici, ma lui sembrava sfidare la pioggia. Istrionico. Con quel tempo, non c'erano altri pedoni in giro e in quel momento non passava neppure un'auto nella tranquilla strada residenziale, tuttavia quell'individuo si stava esibendo senza un pubblico, solo per il proprio divertimento. Stanco di ascoltare gli squilli del telefono di Laputa, Hazard premette il tasto di fine chiamata. Il pedone sembrava che stesse parlando da solo, anche se, trovandosi dall'altra parte della strada, Hazard non poteva esserne certo. Quando abbassò il finestrino e tese l'orecchio per ascoltare, fu accolto dal fragoroso tambureggiare della pioggia. Riuscì tuttavia ad afferrare qualcosa e gli sembrò che l'uomo stesse cantando, ma non fu in grado di riconoscere né la melodia, né le parole della canzone. Con grande sorpresa di Hazard, l'uomo dall'aria tracotante abbandonò il marciapiede e imboccò il vialetto d'accesso di casa Laputa. Doveva aver avuto con sé un telecomando, perché la porta basculante del box si sollevò per farlo entrare, poi si abbassò immediatamente. Hazard rialzò il vetro del finestrino. Rimase a osservare la casa. Dopo un paio di minuti, una luce tenue si accese sul retro della villetta, in quella che poteva essere la cucina. Poi, circa mezzo minuto dopo, un'altra luce si accese al piano superiore. Che quell'amante della pioggia fosse Vladimir Laputa o no, doveva conoscere perfettamente la casa del professore. 71 Dalla rotonda dell'ingresso, fermo dietro ai vetri di una finestra accanto alla porta, Ethan rimase a osservare l'auto del signor Hachette che si allon-
tanava lungo il viale d'accesso, scomparendo nella pioggia battente e nell'oscurità. Lo chef era stato l'ultimo membro del personale ad andarsene. Incassato in una parete della rotonda, nascosto discretamente vicino a un angolo, uno schermo buio si illuminò quando Ethan vi premette sopra un dito. Si trattava di uno schermo Creston sensibile al tatto, attraverso il quale Ethan poteva accedere a tutti i sistemi computerizzati della casa: riscaldamento e aria condizionata, impianto stereo, riscaldamento per le piscine e le vasche idromassaggio, illuminazione interna ed esterna, impianto telefonico, eccetera. Gli schermi Creston erano disseminati per tutta la casa, ma gli impianti potevano essere anche controllati attraverso i vari computer, come quello che si trovava nello studio di Ethan. Dopo essere stato attivato, sullo schermo apparvero tre colonne di icone. Ethan sfiorò quella che rappresentava le telecamere per la sorveglianza esterna. Dato che le ottantasei telecamere esterne erano posizionate in vari punti della proprietà, sullo schermo apparvero ottantasei numeri. Nella maggior parte dei casi, per ottenere rapidamente l'immagine di un'area ben precisa era necessario aver memorizzato i numeri, almeno quelli più frequentemente utilizzati in base alla propria posizione all'interno del personale. Ethan sfiorò 03 e sullo schermo apparve l'immagine del cancello principale visto dall'esterno. Era la stessa telecamera che aveva filmato Rolf Reynerd nell'atto di consegnare il pacchetto contenente la mela con l'occhio della bambola. Il cancello si aprì. L'auto del signor Hachette uscì dalla proprietà, svoltò a destra, imboccando la strada pubblica, e scomparve dall'inquadratura. Mentre il cancello si chiudeva, Ethan toccò lo schermo e uscì dal menu telecamere esterne. Premette l'icona che attivava il sistema di allarme della casa. Dato che non tutto il personale era autorizzato ad attivare o disattivare l'allarme, lo schermo richiese la parola d'ordine di Ethan. Lui la digitò, ottenne l'accesso e attivò l'allarme attorno al perimetro della casa. Le aree pubbliche della villa - praticamente tutte, tranne le camere, i bagni e gli alloggi del personale - erano dotate di rilevatori di movimento che registravano il passaggio di chiunque percorresse un corridoio o attraversasse una stanza. Erano attivati ventiquattro ore al giorno per sette giorni alla settimana, ma erano realmente collegati al sistema di allarme solo quando questo era nella posizione NESSUNO IN CASA, ovvero quando la
villa era completamente vuota, cosa che accadeva di rado. Se i rilevatori di movimento fossero stati collegati al sistema di allarme, la presenza di Ethan e Fric avrebbe fatto scattare la sirena ogniqualvolta avessero attraversato uno spazio monitorato o avessero fatto un semplice gesto con la mano. Ethan voleva unicamente essere certo che la sirena scattasse nel caso che qualcuno aprisse una porta o una finestra. Questa precauzione e le guardie che monitoravano gli altri sistemi di individuazione installati nella proprietà non avrebbero permesso a nessuno di cogliere Ethan e Fric di sorpresa. Comunque, non voleva che il ragazzino dormisse da solo al secondo piano. Né quella sera, né la sera successiva e neppure nei prossimi giorni. O Fric si trasferiva al pianterreno, oppure Ethan avrebbe trascorso la notte nel soggiorno dell'appartamento di Fric. Intendeva discuterne con lui subito dopo cena. Nel frattempo, per la prima volta dopo essere tornato a casa, andò nel suo appartamento, entrò nello studio e si avvicinò alla scrivania sulla quale aveva lasciato le tre campanelle argentate. Erano sparite. Nel garage sotterraneo del Nostra Signora degli Angeli, quando aveva scoperto che dall'ambulanza mancava solo un gruppo di campanelle, Ethan aveva avuto il sospetto che quelle attualmente in possesso di Hazard fossero le stesse che si era misteriosamente trovato in mano fuori del Rose Per Sempre. Il fantasma che aveva visto nello specchio del bagno di Dunny, il fantasma che era svanito in uno specchio nella camera di Hazard, era in qualche modo venuto lì durante la notte, mentre Ethan dormiva, aveva preso le campanelle e le aveva portate ad Hazard per motivi sconosciuti e che forse sarebbero sempre rimasti tali. E, con tutta probabilità, quel fantasma era Dunny Whistler, morto ma risorto. Ethan era stupito di potersi soffermare su pensieri così bizzarri ed essere ancora sano di mente. O quantomeno lui credeva di esserlo. Ma forse si sbagliava. Anche se le campanelle erano sparite, gli oggetti contenuti nelle scatole nere erano ancora sul ripiano della scrivania. Si sedette nella poltroncina e si mise a studiare le sei parti dell'indovinello, sperando in una improvvisa illuminazione. Coccinelle, lumache, un barattolo di vetro contenente dieci prepuzi, la biscottiera piena di tessere di Paroliamo, un libro sui cani guida, l'occhio nella mela...
In giorni migliori, di umore migliore, non era riuscito a dare un senso a quei messaggi. Sperava che nel suo attuale stato di estrema tensione e di spossatezza mentale, le sue barriere intellettuali potessero crollare, consentendogli di vedere tutto da una nuova prospettiva e di comprendere ciò che fino ad allora gli era sembrato indecifrabile. Invano. Telefonò alle guardie di turno, in quel momento entrambe nel loro ufficio all'interno della palazzina del giardiniere. In servizio dalle sedici a mezzanotte, i due uomini si erano già accorti che Ethan aveva attivato l'allarme intorno alla casa prima del solito, perché l'operazione era stata registrata sui loro computer. Senza fornire alcuna spiegazione, Ethan chiese loro di essere particolarmente vigili quella sera. «E comunicate questa mia richiesta anche ai vostri colleghi del turno di notte.» Telefonò a Carl Shorter, il capo carovana che dirigeva la squadra di guardie del corpo incaricate di proteggere il Volto in Florida. Shorter non aveva nulla di inquietante da riferire. «Ti chiamo domani», gli disse Ethan. «Dobbiamo parlare di alcune precauzioni che intendo prendere per il vostro arrivo a L.A., giovedì. Più sicurezza all'aeroporto e lungo tutta la strada fino a casa, nuove procedure, un nuovo tragitto, nel caso che qualcuno abbia scoperto come ci muoviamo abitualmente.» «Sei nella merda?» volle sapere Shorter. «Non ancora», lo rassicurò Ethan. «Allora che cosa sta succedendo?» «Ti ho detto di quegli strani regali nelle scatole nere. C'è un piccolo problema collegato a quelle scatole, nient'altro. Ma possiamo tenerlo a bada.» Dopo aver concluso la telefonata con Carl Shorter, Ethan andò in bagno per lavarsi e radersi prima di cena. Si tolse il maglione e indossò una camicia pulita. Qualche minuto dopo, fermandosi di fronte alla scrivania del suo studio, guardò ancora una volta i sei enigmatici oggetti. La luce di una spia sul telefono catturò la sua attenzione: la linea 24, prima tremolante, poi stabile. 72 Intestata alla Kurtz Ivory International e in dotazione a Robin Goodfel-
low, la Land Rover non doveva essere mai vista nel box di Corky. Sarebbe stato troppo facile collegarla alle attività criminali commesse dal suo fascista alter ego. Pertanto Corky la parcheggiò dietro l'angolo, poi percorse sotto la pioggia quel breve tratto di strada fino a casa, cantando alcune strofe del Das Rheingold di Richard Wagner, non molto bene, doveva ammetterlo, ma con sentimento. Una volta entrato nel box, si spogliò completamente e abbandonò gli abiti inzuppati sul pavimento di cemento. Prese il portafogli, la tessera della National Security Agency e la Glock, perché per quel giorno non aveva ancora finito di essere Robin Goodfellow. In camera, si asciugò con cura e si infilò un paio di mutande termiche. Prese dall'armadio una tuta nera Hard Corps Gore-Tex/Thermolite da sciatore. Calda, impermeabile, abbastanza ampia da consentire facilità di movimento, era l'abbigliamento perfetto per l'assalto a Palais Crapaud. Hazard avrebbe potuto telefonare a Vladimir Laputa o a chiunque fosse entrato in quel momento nella casa del professore passando dal box, ma dopo aver riflettuto per qualche istante sull'approccio migliore, decise di andare a trovarlo senza alcun preavviso. Forse, cogliendo di sorpresa quell'uomo, la sua reazione - o la mancanza di reazione - di fronte ad Hazard e al suo distintivo, avrebbe rivelato qualcosa di interessante. Spense il motore, scese dall'auto e si trovò di fronte a Dunny Whistler. Pallido come un teschio sbiancato dal sole, i lineamenti tirati di chi ha trascorso un lungo periodo in coma, Dunny era fermo sotto la pioggia che però non lo bagnava. Era più asciutto di un osso, della sabbia lunare, del sale. «Non entrare lì dentro.» Hazard trasalì e si mise a fare una cosa che era ridicola quasi quanto farsi venire il latte alle ginocchia: cercò di indietreggiare, ma non poteva andare da nessuna parte, perché dietro di lui c'era l'auto. Non riusciva a impedire alle scarpe di scivolare sull'asfalto bagnato, mentre i suoi piedi tentavano di spingerlo all'indietro, attraverso il veicolo. «Se tu muori», spiegò Dunny, «non posso riportarti indietro. Non sono il tuo guardiano.» Un momento solido come la carne, liquido il momento successivo, senza uno schizzo, Dunny crollò nella pozzanghera sulla quale si era fermato come se fosse stato un'apparizione composta di acqua, tornando nell'asfalto in scintillanti ruscelli verticali, scomparendo in un attimo e con una
fluidità perfino superiore a quella mostrata quando era scivolato nello specchio. La tuta termica era dotata di un cappuccio pieghevole, di ginocchiere anatomiche e di più tasche di quelle di un soprabito confezionato appositamente per un cleptomane, tutte chiuse da cerniere. L'insieme era completato da due paia di calze, stivali neri e un paio di guanti di pelle e nylon quasi flessibili quanto quelli chirurgici, ma che destavano meno sospetti. Corky rimase ad ammirarsi in uno specchio a figura intera, poi percorse tutto il corridoio fino alla stanza degli ospiti per vedere se il Puzzolente Uomo Formaggio era morto e, in caso contrario, per fargli prendere un bello spavento. Portò con sé la calibro 9 e un nuovo silenziatore. Già dal corridoio si sentiva la puzza del prigioniero. Ma varcata la soglia, quella che era stata semplicemente una puzza, divenne un miasma che perfino Corky, ardente sostenitore del caos, trovò non proprio gradevole. Accese la luce e si avvicinò al letto. Ostinato quanto puzzolente, l'Uomo Formaggio continuava ad aggrapparsi alla vita, nonostante credesse che la moglie e la figlia fossero state torturate, stuprate e uccise. «Che razza di bastardo egoista sei?» lo apostrofò Corky, con la voce colma di disprezzo. Debole, pericolosamente vicino a una disidratazione mortale, perché gli unici liquidi che riceveva erano quelli delle flebo, Maxwell Dalton avrebbe potuto rispondere unicamente con una voce flebile e talmente gracchiante da essere comica. Di conseguenza si limitò a lanciare uno sguardo pieno d'odio. Corky premette la bocca della pistola contro le labbra inaridite di Dalton. Invece di voltare la testa, il cultore di Dickens, Twain e Dickinson aprì spavaldamente la bocca e morse la canna, in un gesto alla Hemingway. Nei suoi occhi c'erano rabbia e un'espressione di sfida. Seduto dietro al volante dell'auto parcheggiata davanti a casa Laputa, ma sul lato opposto della strada, cercando di riprendere il controllo di sé, Hazard pensò a Nonna Rose, la madre di suo padre, che credeva nella magia anche se non la praticava, che credeva nei poltergeist anche se nessuno di loro si era mai permesso di mettere a soqquadro la sua casa sempre in per-
fetto ordine, che credeva nei fantasmi anche se non ne aveva mai visto uno, che conosceva a memoria e in tutti i particolari migliaia di storie di infestazioni da parte di spiriti benigni, maligni e di Elvis. Ora, all'età di ottant'anni, Nonna Rose - Vudù Rose, come la madre di Hazard la chiamava affettuosamente - era rispettata e molto amata, ma era anche considerata un personaggio un po' buffo dal resto della famiglia, perché insisteva nel dire che il mondo non era unicamente ciò che diceva la scienza e ciò che accadeva sotto i nostri sensi. Nonostante quello che aveva appena visto, Hazard non riusciva ad accettare completamente l'idea che Nonna Rose avesse una percezione della realtà migliore di tutti quelli che lui conosceva. Era sempre stato un uomo piuttosto determinato sulle decisioni da prendere, sia nella vita quotidiana sia nei momenti di estremo pericolo, ma in quel momento, seduto nell'auto, sotto la pioggia, al buio, tremante, aveva bisogno di tempo anche per rendersi semplicemente conto che doveva accendere il motore e il riscaldamento. Quanto al fatto di andare a suonare il campanello di casa Laputa o no, gli sembrava addirittura la decisione più difficile della sua vita. Se tu muori, non posso riportarti indietro, aveva detto Dunny, sottolineando la parola tu. Un poliziotto non poteva tirarsi indietro solo perché temeva di morire. Tanto valeva riconsegnare il distintivo, trovare un lavoro come rappresentante di telefoni e imparare a fare qualche lavoretto per riempire le ore vuote. Non sono il tuo guardiano, aveva detto Dunny sottolineando la parola tuo, una frase che naturalmente rappresentava un avvertimento, ma che conteneva anche delle implicazioni che lasciavano stordito Hazard. Voleva andare a trovare Nonna Rose, posarle la testa in grembo e lasciare che lei lo calmasse con compresse fresche. Magari aveva dei biscotti al limone appena sfornati. E forse gli avrebbe preparato una cioccolata calda. Dall'altra parte della strada, attraverso lo schermo della pioggia, casa Laputa non appariva più la stessa di quando l'aveva vista per la prima volta. Allora era stata un bell'edificio vittoriano che sorgeva su un ampio lotto di terreno, calda e accogliente, il tipo di casa in cui i ragazzi, una volta cresciuti, diventavano medici, avvocati e astronauti, in cui tutti si volevano sempre bene. Ora, mentre la guadava, pensò che in una delle camere ci doveva essere una ragazzina, legata a un letto sollevato a mezz'aria, che vomitava con rabbia, malediceva Gesù e parlava con la voce del demonio.
Come poliziotto, non doveva mai permettere alla paura di averla vinta, e come amico, non poteva abbandonare tutto e lasciare Ethan senza che nessuno gli guardasse le spalle. Informazioni. Per esperienza, Hazard sapeva che i dubbi nascevano quando le informazioni erano troppo scarse per permettere di prendere una decisione intelligente. Aveva bisogno che qualcuno gli fornisse le risposte a un paio di domande. Il problema era che, ufficialmente, lui non aveva alcun motivo di interrogare quelle persone. Se il professore di cui si parlava nella sceneggiatura era collegato a un caso ancora aperto, il caso era l'omicidio di Mina Reynerd, che era stato affidato a Kesselman, non ad Hazard. Non poteva chiedere informazioni attraverso i soliti canali. Telefonò a Laura Moonves della divisione Assistenza Indagini. In passato era uscita con Ethan, ne era ancora innamorata e lo aveva aiutato a rintracciare Rolf Reynerd dalla targa della Honda filmata da una delle telecamere installate fuori della proprietà di Manheim. Hazard temeva che, a quell'ora, se ne fosse già andata, invece lei rispose immediatamente e lui commentò con sollievo: «Sei ancora lì». «Davvero? Pensavo di essere già fuori. Credevo di essere quasi arrivata a casa e di essermi già fermata a comprare del pollo fritto con doppio contorno di insalata di cavoli. No, figlio di puttana, sono ancora qui, ma che importa, dato che non ho una vita sociale.» «Gli dico sempre che è un idiota a lasciarsi sfuggire una come te.» «Anch'io gli dico sempre che è un idiota», confermò lei. «Glielo dicono tutti che è un idiota.» «Ah sì? Allora forse dovremo riunirci tutti quanti e stabilire una nuova strategia, perché questo fatto di dirgli che è un idiota non funziona. Mi piace da morire, Hazard.» «È ancora in lutto per Hannah.» «Ma sono cinque anni!» «Quando l'ha persa, non ha perso soltanto sua moglie. Non riesce più a trovare uno scopo nella vita. Non riesce a trovare un significato superiore nelle cose. E deve riuscirci, per tornare a essere se stesso.» «Il mondo è pieno di uomini sexy, intelligenti e di successo che non saprebbero riconoscere un significato superiore nella vita neppure se gli dessi un pugno in faccia, portando un anello che gli stampasse le Sue iniziali sulla fronte.» «Questa sarebbe la tua versione del Dio furibondo che si trova nel Vec-
chio Testamento.» «Perché mi sono innamorata di un tizio che ha bisogno di significati?» «Forse perché ne hai bisogno anche tu.» Questa frase zittì Laura e, intrufolandosi in quel silenzio, Hazard domandò: «Ricordi quel tipo che hai rintracciato ieri mattina... Rolf Reynerd?» «Il lupo famoso», confermò lei. «Rolf significa 'lupo famoso'.» «Rolf significa morto. Non guardi i telegiornali?» «Non sono certo una masochista, ti pare?» «Allora controlla il bollettino interno della Omicidi. Ma non adesso. Ora ho bisogno che tu faccia qualcosa per me, per Ethan, però in via ufficiosa.» «Che cosa ti serve?» Hazard lanciò un'occhiata alla villetta. Irradiava ancora una doppia atmosfera, era come se la famiglia Brady si fosse costruita la casa sull'ingresso dell'inferno. «Vladimir Laputa», disse Hazard. Poi compitò il nome. «Fammi sapere appena puoi se qualcuno che si chiama così è schedato dalla polizia, anche solo per non aver pagato una multa, qualsiasi cosa.» Invece di premere il grilletto, Corky ritirò la pistola dalla bocca di Dalton, premendo la canna d'acciaio contro i denti, resi poco saldi dalla malnutrizione. «Sarebbe troppo comodo che ti ammazzassi con un solo colpo», disse Corky. «Quando sarò pronto a farti fuori, sarà una cosa lenta... e memorabile.» Posò la pistola, raccontò a Dalton alcune deliziose bugie su come si sarebbe liberato dei corpi di Rachel ed Emily, e alla fine prese dal frigorifero una nuova sacca per infusione. «Questa sera tornerò in compagnia», spiegò mentre lavorava. «Un pubblico per assistere alle tue ultime sofferenze.» Nel volto devastato, circondati da una maschera di pelle livida, scintillanti nelle orbite infossate, gli occhi di Dalton si spostarono per seguire Corky mentre questi cambiava la sacca della flebo, non più gelatine insaporite dall'odio, ma ancora una volta condite con la paura, gli occhi terrorizzati di un uomo che finalmente credeva nella forza del caos e ne comprendeva la grandiosità. «Il nuovo progetto a cui intendo dedicarmi è un ragazzino di dieci anni. Quando te lo presenterò, e saprai chi è, resterai sorpreso.» Dopo aver sostituito la sacca della flebo, si avvicinò all'armadietto dei
medicinali, prese una siringa ipodermica ancora sigillata e due flaconcini. «Lo legherò a una sedia, accanto al tuo letto. E se non riuscirà a sopportare di vedere ciò che ho in mente per te, gli terrò gli occhi aperti con del nastro adesivo.» Laura Moonves non riuscì a trovare nessuna scheda relativa a Vladimir Laputa, neppure qualcosa che si riferisse a multe non pagate. Ma quando, dopo meno di quindici minuti, richiamò Hazard, aveva alcune notizie interessanti per lui. La Rapine-Omicidi aveva un caso aperto sotto il nome di Laputa. Attualmente non svolgevano più indagini per mancanza di indizi e di prove. Quattro anni prima, una sessantottenne di nome Justine Laputa era stata uccisa nella sua casa. L'indirizzo fornito dalla Scientifica era quello della villa che adesso Hazard stava sorvegliando. Tenendo d'occhio la casa mentre parlava con Laura, Hazard domandò: «Com'è morta?» «Sul computer non ho trovato la pratica completa, solo un estratto. Pare sia stata massacrata con un attizzatoio.» A Mina Reynerd avevano sparato a un piede, ma in effetti lei era morta per i violenti colpi che le erano stati inferti con una lampada di marmo e bronzo. Un attizzatoio. Una pesante lampada da tavolo. In entrambi i casi, l'assassino si era servito di un oggetto che aveva a portata di mano. Forse non era una prova sufficiente per stabilire che si trattava di un unico modus operandi, di un unico assassino, ma era un inizio. «L'omicidio di Justine è stato particolarmente brutale, di una violenza insolita», soggiunse Laura. «Secondo il medico legale, l'assassino ha colpito con l'attizzatoio qualcosa come quaranta o cinquanta volte.» Anche l'omicidio di Mina Reynerd, con la lampada, era stato altrettanto brutale. «Chi erano i detective che si sono occupati del caso?» domandò Hazard. «Uno era Walt Sunderland.» «Lo conosco.» «Sono stata fortunata», ammise Laura, «sono riuscita a parlargli sul cellulare, cinque minuti fa. Gli ho detto che adesso non potevo dargli spiegazioni, ma che avevo bisogno di sapere se, in quel caso, aveva avuto dei sospetti su qualcuno. Non ha esitato neppure un istante. Ha detto che il figlio di Justine ha ereditato tutto. Secondo Walt, era un tizio viscido e pieno di
sé.» «E il nome del figlio è Vladimir», provò a indovinare Hazard. «Infatti. Vladimir Ilyich Laputa. Insegna nella stessa università in cui aveva insegnato sua madre prima di andare in pensione.» «Allora perché non si trova in una cella a offrire il suo amore in cambio di qualche sigaretta?» «Walt dice che Vladimir aveva un alibi così inattaccabile, che se fosse stato una navicella spaziale, un astronauta avrebbe potuto usarlo per farci un viaggio avanti e indietro dalla luna.» Al mondo non esiste nulla di perfetto. Un alibi a prova di bomba insospettiva sempre un poliziotto perché aveva tutta l'aria di essere stato costruito. La casa attendeva sotto la pioggia come se fosse viva, vigile, le sue poche finestre illuminate sembravano occhi disposti in modo irregolare. Nella siringa, Corky mise una miscela di droghe paralizzanti in modo da mantenere il suo prigioniero immobile ma vigile. «All'alba sarai morto come Rachel ed Emily, dopodiché questa diventerà la camera del ragazzino, il suo letto.» Non somministrò né un sedativo né un allucinogeno. Quando, prima di mezzanotte, fosse tornato a casa, non voleva che Dalton si trovasse in uno stato confusionale o perso in allucinazioni. Quel verme doveva avere la mente lucida per vivere in pieno ogni più piccola sfumatura della sua morte. «Ho imparato tante cose da questa tua avventura.» Corky introdusse l'ago ipodermico nell'apposito foro del tubicino della flebo. «Mi ha fatto venire in mente tante buone idee, idee migliori.» Con il pollice, premette lentamente lo stantuffo in modo che il contenuto della siringa si unisse alla soluzione salina che, goccia a goccia, penetrava nella vena di Dalton. «In questa stanza, il ragazzino vivrà un'esperienza simile alla tua, solo più vivace, più sconvolgente.» Una volta introdotto tutto il liquido, estrasse l'ago e gettò la siringa nel cestino della spazzatura. «Dopo tutto, il mondo intero si fermerà a guardare i video che distribuirò. Se voglio tenere tutti quei milioni di persone inchiodate davanti al televisore, i miei filmini dovranno essere molto appassionanti.»
I denti malfermi del Puzzolente Uomo Formaggio avevano cominciato a sbatacchiare. Per qualche motivo, quella miscela di droghe paralizzanti lo faceva rabbrividire in modo spasmodico. «Sono certo che il ragazzino sarà entusiasta di avere, nel suo primo ruolo da protagonista, un pubblico ben più vasto di quello di suo padre.» Il temporale si placò, trasformandosi in una pioggerellina senza vento. La nebbia formava una specie di pennacchio nella strada, come un alito freddo che scendesse dalla luna nascosta. Messo in allerta circa la natura dell'individuo con cui aveva a che fare, Hazard rimase seduto in macchina, rimuginando sul modo migliore di avvicinare Vladimir Laputa. Il suo cellulare suonò. Quando rispose, riconobbe la voce che aveva sentito poco prima, in strada, la voce del fantasma. Dunny Whistler ribadì: «Sono il guardiano di Ethan, non il tuo, non quello di Aelfrich. Ma salvare lui - se mi è possibile - sarà del tutto inutile se tu o il bambino morite». Hazard, che di solito poteva attingere a un ricco conto corrente di parole, questa volta si trovò completamente al verde. Non aveva mai parlato a un fantasma prima di allora. E non voleva cominciare adesso. «Incolperà se stesso per la vostra morte», continuò Dunny. «E a quel punto l'ombra che oscura il suo cuore diventerà una fitta tenebra. Non entrare in quella casa.» Hazard riuscì a domandare con voce quasi normale: «Sei morto o vivo?» «Sono morto e vivo. Non entrare in quella casa. Il giubbotto antiproiettili non ti servirà. Sarai colpito alla testa. Due proiettili nel cervello. E io non ho l'autorità per farti resuscitare.» Dunny interruppe la telefonata. Elegantemente vestito per prendere d'assalto il castello del re di Hollywood, Corky entrò in cucina e lanciò un'occhiata all'orologio sulla parete: aveva a disposizione meno di un'ora prima dell'appuntamento con Jack Trotter a Bel Air. Omicidi e torture facevano venire appetito. Senza sedersi, continuando ad andare avanti e indietro dal frigo alla dispensa, si riempì la pancia con una specie di pasto a base di formaggio, frutta secca, mezza ciambellina, una cucchiaiata di budino, un assaggio di questo, un boccone di quello. Una cena così caotica si adattava perfettamente a un uomo che, in un so-
lo giorno, aveva portato tanto disordine nel mondo e che aveva ancora molto da fare prima di andare a dormire. La Glock, con il silenziatore inserito, era sul tavolo della cucina. Entrava perfettamente nella tasca più profonda della tuta da sci. Aveva infilato in altre tasche alcuni caricatori di scorta, molte più munizioni di quante probabilmente avrebbe avuto bisogno, considerando che non aveva in programma di uccidere nessun altro per quel giorno, a parte Ethan Truman. Se Hazard fosse stato soltanto un uomo che voleva vivere, avrebbe messo in moto l'auto e si sarebbe allontanato senza attraversare la strada per andare a suonare il campanello. Tuttavia, era anche un buon poliziotto e un amico di Ethan. Era convinto che il suo non fosse soltanto un lavoro, ma una missione, e che essere amico significava impegnarsi proprio nel momento in cui questo risultava più difficile. Aprì la portiera. Scese dall'auto. 73 Appena ricevuta la telefonata, Dunny si mette in movimento, questa volta senza usare l'automobile, ma percorrendo strade di nebbia e acqua e servendosi dell'idea di san Francisco. In un parco di Los Angeles, afferra una nuvola bianca e se la avvolge intorno come un mantello, poi, abbandonando il sentiero del parco e servendosi delle morbide pieghe di un'altra nebbia, appare centinaia di chilometri più a nord, sulle assi di legno di un molo. Dato che è morto, ma non ha ancora lasciato questo mondo per quello successivo, è rimasto nel suo cadavere, una strana condizione la sua. Dopo essere morto, per un breve lasso di tempo il suo spirito è stato trattenuto in un posto che somigliava alla sala d'aspetto di un medico, ma senza vecchie riviste né speranza. Poi è stato riammesso nel mondo, nel suo involucro mortale. Non è un semplice fantasma e neppure un tradizionale angelo custode. È uno dei morti viventi, ma ora la sua carne è in grado di compiere qualsiasi incredibile prodezza voluta dallo spirito. In quella città più settentrionale e più fredda non piove. L'acqua lambisce le palafitte del pontile, uno sgradevole sogghigno che fa venire in mente scherno, cospirazione e una disumana avidità.
Forse ciò che più lo sorprende del fatto di essere morto è che continua a provare paura. Era convinto che, una volta defunti, si fosse per sempre liberi dall'ansia. Lui trema al rumore dell'acqua sotto il molo, ai plonk dei suoi passi sul legno del pontile umido per la condensa, all'odore di sperma salmastro del fertile mare, a quei gelidi rettangoli, luminosi nella foschia, che sono le larghe vetrate del ristorante con vista sulla baia in cui Typhon lo attende. Durante quasi tutta la sua vita, non ha mai percepito alcun significato nelle cose; ora che è morto, scorge un senso in ogni particolare del mondo fisico e troppo spesso si tratta di un significato negativo. Una passerella del molo corre lungo le vetrate del ristorante e a uno dei tavoli in prima fila siede Typhon, in città per motivi di lavoro ma in quel momento solo, elegante come sempre, regale nell'atteggiamento, senza tuttavia apparire pretenzioso. Attraverso la vetrata, i loro occhi si incontrano. Per un momento, Typhon lo fissa con sguardo cupo, addirittura severo, come se fosse scontento per qualcosa che Dunny ha fatto e le cui conseguenze dovrà, suo malgrado, affrontare. Poi sul viso grassoccio di Typhon compaiono due fossette e la bocca si allarga in un ampio sorriso. Con il pollice e l'indice forma una pistola e la punta contro Dunny come per dire, colpito. Attraverso la nebbia, il vetro e la candela accesa sul tavolo, Dunny potrebbe spostarsi in un battito di ciglia dalla passerella alla sedia di fronte a Typhon. Ma con tutte quelle persone nel ristorante, fare un ingresso così stravagante rappresenterebbe il massimo della mancanza di discrezione. Girando intorno all'edificio, raggiunge l'ingresso principale e segue il capocameriere attraverso l'affollato ristorante fino al tavolo di Typhon. Typhon si alza cortesemente per accogliere Dunny, gli tende la mano e dice: «Mi spiace di averti convocato in un momento tanto critico e proprio questa sera». Dopo che lui e Typhon si sono accomodati nelle rispettive sedie e dopo che Dunny ha educatamente rifiutato di ordinare da bere, decide che la mancanza di sincerità non funzionerà qui come non aveva funzionato la sera precedente, nel bar dell'hotel di Beverly Hills; anzi, forse avrebbe peggiorato la situazione. Typhon gli aveva chiesto in modo specifico: integrità, onestà e franchezza nel loro rapporto. «Signore, prima che lei dica qualcosa, ammetto di aver tirato la corda fino al punto di spezzarla», si scusa Dunny, «e di aver abusato della mia autorità mettendomi in contatto con Hazard Yancy.»
«Non mettendoti in contatto con lui, ma per il modo diretto con cui lo hai avvicinato.» Typhon fa una pausa per sorseggiare il suo martini. Dunny vorrebbe spiegarsi, ma l'anziano signore solleva una mano, chiedendogli un attimo di pazienza. Con gli occhi azzurri che scintillano allegramente, beve un altro sorso, assaporando il cocktail. Poi riprendere a parlare, affrontando per prima cosa la questione del comportamento: «Figliolo, il tuo tono di voce è leggermente troppo alto e ci si percepisce un'ansietà che molto probabilmente attirerà l'interesse di quei commensali che sono troppo curiosi e che, per il loro bene, non dovrebbero esserlo». Il tintinnio di piatti e posate e quello, quasi argentino, dei bicchieri che si toccavano nei brindisi, la piacevole musica di un piano accarezzato dalle dita del pianista e il mormorio delle numerose conversazioni non raggiungevano tonalità così alte da mascherare la le voci di Dunny e Typhon, come invece era accaduto nel bar dell'hotel. «Mi scusi», mormora Dunny. «È ammirevole che tu voglia garantire non solo la sopravvivenza fisica del signor Truman, ma anche il suo benessere emotivo e psicologico. Questo rientra nella tua autorità. Ma nell'interesse del tuo cliente, un guardiano come te deve agire indirettamente. Incoraggiare, stimolare, terrorizzare, persuadere, consigliare...» «... e influenzare gli eventi con ogni mezzo, purché sia astuto, ambiguo e allettante», conclude Dunny. «Precisamente. Sei già arrivato al limite per il modo in cui ti sei occupato di Aelfrich. Ci sei arrivato, ma non l'hai ancora superato.» I modi di Typhon sono quelli di un insegnate preoccupato che ritiene necessario fare un discorsetto a uno studente problematico. Non appare né furente, né irritato, e Dunny gliene è grato. «Dicendo senza molti giri di parole al signor Yancy di non entrare in quella casa», continua Typhon, «informandolo che sarebbe stato colpito alla testa da due proiettili, hai interferito con quello che, probabilmente, a quel punto era il suo destino.» «Sì, signore.» «Ora Yancy riuscirà a sopravvivere non grazie alle sue azioni e alle sue scelte, non perché eserciterà il suo libero arbitrio, ma perché tu gli hai rivelato l'immediato futuro.» Typhon sospira. Scuote la testa. Appare scontento come se le parole che sta per dire lo rattristino un po' : «E questo non è bene, caro ragazzo. Non è bene per te».
Solo qualche momento prima, quando il suo mentore gli aveva parlato senza ira, Dunny gliene era stato grato. Ma ora la pacata tristezza e l'espressione di dispiacere di Typhon lo colmano di apprensione, perché lasciano intendere che sia già stato emesso un giudizio definitivo su di lui. Typhon riprende a parlare: «C'erano molti modi per riuscire ad allontanare il signor Yancy da quella casa agendo in modo indiretto». L'amabile vecchietto non riesce a reprimere a lungo la sua natura gioiosa. Torna a sorridere. I suoi occhi luccicano con tanta allegria che, se portasse una barba tinta di bianco come i suoi capelli e il suo abbigliamento fosse meno elegante, di lì a due notti potrebbe salire su una slitta e incitare le renne senza ali ad alzarsi in volo. Sporgendosi sul tavolo con aria cospiratoria, Typhon dice: «Figliolo, avresti potuto spaventarlo con migliaia di trucchetti che lo avrebbero fatto scappare da quella casa, cercando rifugio o da sua Nonna Rose o in un bar. Non avevi bisogno di essere così diretto. E se continuerai a comportarti così, di sicuro non riuscirai ad aiutare il tuo amico Ethan, anzi, potresti essere tu stesso la causa della sua morte e di quella del ragazzino». Si fissano negli occhi. Dunny esita a domandare se gli sarà permesso di continuare a occuparsi di quel caso, perché teme di conoscere già la risposta. Typhon sorseggia ancora il suo martini, poi soggiunge: «Accidenti, sei un fuoco d'artificio, Dunny. Testone, impetuoso, frustrante... ma sei anche uno spasso. Mi diverti. Davvero». Non sapendo come interpretare quella dichiarazione, Dunny si limita ad aspettare, immobile e silenzioso. «Non intendo essere scortese», continua Typhon, «ma i miei ospiti arriveranno a momenti. Come dice il Bardo, il tuo aspetto magro e affamato e il tuo corpo spigoloso potrebbero spaventarli. Sono persone diffidenti e un po' ombrose, un politico e due dei suoi sostenitori.» Dunny osa domandare: «Posso continuare a proteggere Ethan?» «Dopo che hai ripetutamente violato gli accordi, avrei tutti i motivi per toglierti l'incarico. Gli angeli custodi devono seguire determinati criteri, non credi anche tu? Qualcosa che vada al di là delle semplici buone intenzioni. È una posizione che dovrebbe richiedere un'etica superiore a quella dei senatori degli Stati Uniti e di chi bara al tavolo da gioco.» Typhon si alza e Dunny si affretta a fare altrettanto. «Nonostante questo, mio caro ragazzo, sono incline a darti un'ultima possibilità.»
Dunny accetta la mano che il suo mentore gli tende. «La ringrazio, signore.» «Ma sia chiaro, la sospensione della tua condanna può essere revocata in qualsiasi minuto. Se non agirai entro i termini dell'accordo, la tua autorità e i tuoi poteri saranno ti verranno immediatamente tolti e tu verrai rispedito a casa per l'eternità.» «Terrò fede al nostro accordo.» «E quando tu sarai rimandato a casa, Ethan dovrà proteggersi da solo.» «Filerò dritto.» Posando una mano sulla spalla di Dunny e stringendola affettuosamente, come un padre che consiglia un figlio, Typhon dice: «Mio caro ragazzo, finora hai filato talmente storto che non ti sarà facile raddrizzare la linea da seguire. Ma adesso devi stare attento a come ti muovi, minuto dopo minuto». Dunny esce dal ristorante e si inoltra sul molo immerso nella nebbia, in cui riecheggiano le note basse e cupe delle sirene delle imbarcazioni. Spostandosi per mezzo della nebbia, per mezzo del chiaro di luna al di sopra della nebbia e per mezzo dell'idea di Palais Crapaud a Bel Air, parte, compie il suo viaggio e arriva, il tutto nello stesso tempo. 74 Due proiettili nel cervello. Indossando il giubbotto antiproiettile e ben consapevole di quanto la sua testa leonina rappresenti un facile bersaglio, Hazard chiuse la portiera dell'auto e attraversò la strada. La casa del matricida sembrava attrarre la nebbia, che si muoveva non in banchi, ma in curiosi mulinelli e in flessuosi pennacchi: un vaporoso passo furtivo dopo l'altro, una coda che seguiva un'altra coda di foschia d'angora, come se ci fossero un migliaio di gatti che tornavano a casa, attratti dall'aroma del tonno appena tolto dalla lattina. L'atmosfera che circondava quella casa aveva talmente ammaliato Hazard che il poliziotto attraversò la strada e percorse il vialetto d'accesso senza nemmeno accorgersi della pioggia. Solo quando giunse di fronte ai gradini che portavano alla veranda si rese conto di essersi mosso così lentamente che ora era bagnato fradicio. Mentre saliva i gradini, sentì qualcosa nella mano... e si accorse di stringere il cellulare con il quale aveva parlato con Dunny Whistler.
Sono morto e vivo, aveva detto Dunny, e in quel momento Hazard era nello stesso stato d'animo. Giunto in cima alle scale, invece di dirigersi immediatamente verso la porta e suonare il campanello, si fermò, rendendosi conto che, dopo la telefonata di Dunny, aveva tralasciato di compiere un'operazione standard, un'operazione che avrebbe sicuramente compiuto se avesse ricevuto un messaggio così minaccioso da chiunque altro, soprattutto da una persona che non avrebbe dovuto avere il numero del suo cellulare. Premette *69. Qualcuno rispose al secondo squillo, ma la persona all'altro capo della linea rimase in silenzio. «C'è qualcuno?» domandò Hazard. Gli rispose una voce dura: «C'è qualcuno qui. C'è qualcuno, certo, negro placcato». Nel gergo delle bande placcato significava un falso, un'imitazione. «Io sono lì, mi spari, due colpi, ancora il sapore di penna in bocca.» Penna significava piombo, proiettili. Hazard non aveva mai sentito prima quella voce, ma credeva di sapere a chi appartenesse. Non riusciva a parlare. «Quando anche tu vieni qui, negraccio sbiancato, meglio ti prepari per un milione di pustolosi da incubo. Sai cos'è pustoloso, amico?» «Sì, una persona brutta», rispose Hazard, sorpreso di aver parlato, rendendosi immediatamente conto che rispondere era una pessima idea, che era un invito. «Peggio che brutta, amico. Brutta come il culo. Qua dentro non c'è altro che pustolosi. Quando tu arrivi, sbiancato, io qui. In prima linea.» Hazard voleva premere FINE e agganciare il cellulare alla cintura, ma un fascino sinistro lo costringeva a tenerlo contro l'orecchio. Si era fermato a circa tre metri dalla porta di Vladimir Laputa. Non era il luogo migliore per mettersi a chiacchierare con un'anima inquieta. «Sbiancato, sai quella .45 che doveva ammazzarti ieri sera?» Mentalmente, Hazard rivide Calvin Roosevelt, alias Hector X, sul prato antistante la palazzina di Reynerd, con entrambe le mani strette intorno a una calibro 45, mentre faceva partire un colpo e la bocca dell'arma che sputava fuoco nella pioggia. «Segnatelo giù, culetto d'oro. Quando tu qui, io ho qualcosa più grosso della .45 da infilarti nel culo, e poi anche tutti i pustolosi ti inculano. Ci vediamo presto.» Hazard premette FINE e il cellulare suonò immediatamente. Non c'era
bisogno di rispondere, non aveva senso, visto che sapeva chi era. Era bagnato, infreddolito, spaventato. Il cellulare continuò a suonare. Doveva riflettere attentamente su quello che era accaduto o non pensarci mai più, e non riusciva a decidere che cosa fare, mentre se ne stava lì, sulla veranda del matricida. Infilò il cellulare, che continuava a suonare, in una tasca della giacca, fece dietro front e scese i gradini, di nuovo sotto la pioggia. 75 L'acqua, circolando nella piscina, faceva in modo che la luce che saliva dal fondo formasse scintillanti aurore e ombre che tremolavano incessantemente sulle pareti di calcare e sul soffitto a volta. Fric dispiegò una tovaglia di lino su uno dei tavoli ai bordi della piscina e apparecchiò con piatti di porcellana e posate d'argento. Stava quasi per aggiungere delle candele, ma poi pensò che due maschi non avrebbero mai cenato a lume di candela. Magari alla luce di torce polinesiane, oppure davanti a un falò in una foresta abitata da feroci lupi, ma non a lume di candela. Usando un commutatore, regolò i portalampada montati sulle colonne fino a ottenere una dorata luminosità. Condizioni climatiche permettendo, a Fric piaceva mangiare ai bordi della piscina esterna, ma solo quando lui era l'unico membro della famiglia presente o quando le ragazze di Papà Fantasma non se ne stavano sdraiate con addosso solo lo slip del bikini, spalmate di uno spesso strato di protezione solare, come anatre spennate e lasciate a marinare. La piscina coperta non era grande come quella esterna: solo venticinque metri di lunghezza per quindici di larghezza. Lo spazio non era sufficiente se uno voleva organizzare delle gare con i motoscafi, però d'inverno il locale era caldo e un'esagerazione di palme in vaso davano la gradevole sensazione di trovarsi ai tropici. Tre delle pareti erano dotate di ampie finestre che si affacciavano sul parco. La terza parete aveva anche alcune vetrate in comune con la serra, permettendo così di ammirare le innumerevoli piante di quella specie di giungla. Fric aveva scelto di cenare accanto alla piscina perché era proprio nell'adiacente serra che aveva accuratamente preparato il suo nascondiglio se-
greto. Se avesse avuto anche il più piccolo motivo di credere che Moloch stesse arrivando, avrebbe potuto correre a nascondersi e scomparire con la rapidità di un coniglio. Stranamente, aveva il sospetto che anche il signor Truman si aspettasse l'arrivo di Moloch. La storia di voler controllare il flusso di corrente era una stronzata. Doveva esserci sotto qualcosa. Sperava che il signor Truman non lo chiamasse attraverso l'interfono, come aveva fatto poco prima in biblioteca. Mai e poi mai Fric avrebbe premuto il pulsante RISPOSTA perché temeva che, come nel caso di *69, potesse metterlo in comunicazione con il luogo da cui qualcosa aveva cercato di strisciare lungo il ricevitore e infilarsi nel suo orecchio. Avendo finito di apparecchiare la tavola prima di quanto si fosse aspettato, controllò l'ora sul suo orologio. Il signor Truman non sarebbe arrivato con il cibo prima di dieci minuti. Al di là delle finestre, il parco fradicio di pioggia e avvolto nella nebbia era illuminato da numerosi faretti, ma dato che l'illuminazione era stata studiata per suggerire incanto e romanticismo, in realtà erano le ombre a dominare. Se Moloch era riuscito a scalare il muro di cinta della proprietà senza essere individuato dal sistema di sicurezza, ora poteva già trovarsi là fuori, protetto dall'oscurità, che lo stava osservando. Fric avrebbe voluto correre in cucina con la scusa di dare una mano a preparare la cena, ma non voleva apparire uno stupido lagnoso. Se un giorno fosse davvero scappato di casa e, invece di nascondersi a Goose Crotch, nel Montana, si fosse arruolato nei marine, prima o poi, meglio prima che poi, avrebbe dovuto cominciare a comportarsi come un marine. E un marine non si sarebbe mai lasciato spaventare dal buio che premeva contro i vetri di una finestra. Un marine avrebbe sghignazzato di fronte a quell'oscurità, ci avrebbe pisciato sopra. Prima, naturalmente, avrebbe aperto la finestra, per non sporcare il vetro. Per il momento Fric non si sentiva tanto sicuro da potersi comportare come un marine. Quindi si sedette al tavolo, sperando che i minuti passassero in fretta. Estrasse da una delle tasche posteriori la fotografia, la dispiegò e rimase a fissare la graziosa signora dal sorriso così speciale, cercando di distrarsi e di non pensare ai mille occhi della notte. La sua mamma inventata. Tuttavia non aveva ancora fatto ciò che l'Uomo Misterioso gli aveva suggerito, non aveva domandato se qualcuno conosceva quella donna. Tanto per cominciare, non era riuscito a inventarsi una storia convincen-
te per spiegare com'era entrato in possesso di quella foto e per quale motivo era così interessato a conoscere l'identità della donna. Era un pessimo bugiardo. Oltretutto, più a lungo non faceva domande su di lei, più a lungo quella donna sarebbe stata sua, e sua soltanto. Appena avesse scoperto chi era, la graziosa signora non avrebbe più potuto essere la sua mamma inventata. Qualcuno bussò alla finestra. Fric scattò in piedi, lasciando cadere la foto. Il volto alla finestra era orribile e incappucciato, ma il cappuccio era un cappello impermeabile e il viso era quello del signor Roma, una delle guardie. Dato che aveva il labbro superiore lungo e il naso piccolo, il signor Roma riusciva a sollevare il labbro al di sopra del naso e a lasciarlo così, in modo che il suo viso apparisse deforme e i denti sembrassero enormi. L'effetto era poi aumentato dal fascio luminoso di una torcia, tenuta sotto il mento e rivolta verso l'alto. «Uuu-uuu», gridò il signor Roma, perché senza poter usare il labbro superiore, non riusciva a pronunciare la b di buuu. Quando Fric si avvicinò alla finestra, il signor Roma riportò il labbro nella posizione normale, poi domandò: «Come va, Fric?» «Adesso bene», rispose Fric, alzando la voce per farsi sentire attraverso il vetro. «Per un secondo, ho pensato che lei fosse Ming.» «Ming è in Florida, con tuo padre.» «È tornato prima», lo informò Fric. «È lì fuori, da qualche parte, che passeggia sotto la pioggia.» Il sorriso del signor Roma si gelò sulle labbra. «Voleva che facessi una passeggiata con lui», proseguì Fric, «così poteva spiegarmi tutto su come la pioggia lavi lo spirito del pianeta o qualcosa del genere.» Il sorriso, raggelato, si spezzò e andò in frantumi. Il signor Roma abbassò la torcia e, voltando le spalle a Fric, la spostò da una parte all'altra per rischiarare la sera con il fascio di luce. «Probabilmente lo incontrerà», concluse Fric. Rendendosi conto che la torcia accesa rivelava la sua posizione, il signor Roma la spense. «Ci vediamo, Fric», salutò, allontanandosi in fretta nella nebbia. Anche se Fric era un pessimo bugiardo e le sue parole erano state tutt'altro che convincenti, il signor Roma non avrebbe mai osato metterlo alle strette se c'era anche solo una possibilità su mille che Ming, di umore ciar-
liero e sentendosi più guru che mai, potesse essere nelle vicinanze. 76 Tornato in macchina, sottrattosi alla pioggia, tremando nel getto d'aria calda del riscaldamento, ancora inseguito dal defunto Hector X, Hazard rimase ad ascoltare il telefonino che suonava, suonava, suonava, fino a quando desiderò soltanto abbassare il vetro del finestrino e scaraventare il cellulare in strada. La suoneria si interruppe proprio nel momento in cui notò un movimento in casa Laputa. Un uomo uscì dalla villetta, si fermò per chiudere a chiave il portone d'ingresso, poi scese i gradini della veranda. Nonostante la pioggia e la fitta nebbia, Hazard riconobbe l'individuo che, poco prima, era entrato attraverso il box. Di sicuro, quello era Vladimir Laputa. Uscito dal vialetto d'accesso, Laputa svoltò a destra, ripercorrendo lo stesso tragitto che aveva seguito in precedenza, ma al contrario. Continuava a camminare con aria tracotante, ma ora non sembrava che stesse parlando da solo o che stesse cantando. Si era cambiato: indossava una tuta nera e probabilmente termica, come se avesse intenzione di recarsi al parco nazionale di Mammoth o in qualche altra località sciistica. Quasi presentissero l'arrivo della neve, bianche masse di nebbia si muovevano lentamente intorno a lui, nascondendo parzialmente alla vista ancor prima che, giunto a un incrocio, l'uomo svoltasse a destra, scomparendo davvero. Avendo già tolto il freno a mano e inserito la marcia, Hazard accese i fari e raggiunse l'incrocio, attraversato da auto che sollevavano schizzi di fango. Guardò a destra e vide Laputa che si dirigeva verso nord. Quando il professore fu quasi fuori del suo campo visivo, Hazard svoltò l'angolo e lo seguì. Ogni volta che arrivava a mezzo isolato di distanza da Laputa, Hazard accostava e restava in attesa, lasciando che la sua preda avanzasse fino ai limiti della visibilità, ridotta dalla nebbia. Poi riprendeva l'inseguimento. Un po' avanzando, un po' fermandosi, seguì il professore per due isolati e mezzo. Dopodiché, senza essersi mai guardato indietro, Laputa salì su una Land Rover nera. Restando sempre troppo lontano per riuscire a leggere la targa, lasciando
che altri veicoli si frapponessero tra di loro per mascherare la sua continua presenza, Hazard seguì la Land Rover lungo un tragitto diretto che li condusse al Beverly Center, a Beverly Boulevard e a La Cienega. Sebbene fosse abbigliato in modo alquanto strano per una visita a un centro commerciale, evidentemente Laputa aveva intenzione di andare a far compere. Condurre una sorveglianza in un garage pubblico era molto più complicato che farlo in strada. Hazard seguì la Land Rover rampa dopo rampa, piano dopo piano, lungo file di veicoli parcheggiati, finché Laputa trovò uno spazio vuoto. Giunto quasi in fondo a quella stessa corsia, anche Hazard riuscì a parcheggiare. Spense il motore, scese dall'auto e tenne d'occhio il suo uomo al di sopra dei tettucci delle auto. Si aspettava che il professore seguisse le indicazioni per raggiungere l'entrata più vicina della galleria commerciale. Invece Laputa tornò a piedi verso la rampa che aveva appena risalito in auto. Sebbene ci fossero altri clienti della galleria commerciale che camminavano all'interno del garage, e sebbene ci fossero numerosi veicoli che continuavano a girare alla ricerca di uno spazio dove fermarsi o delle uscite, Hazard si tenne alla massima distanza possibile dalla sua preda. Temeva che il professore lo individuasse e comprendesse immediatamente chi era. Laputa scese una lunga rampa, poi un'altra. Quando si trovò due piani sotto a quello in cui aveva lasciato la Land Rover, si avvicinò a un'Acura coupè che emise una specie di cinguettio quando lui sbloccò le portiere con il telecomando. Colto di sorpresa Hazard si bloccò, mentre il professore si metteva al volante dell'auto. Quel tizio non era venuto lì per far acquisti. Ma per cambiare veicolo. Quasi certamente la Land Rover, o forse l'Acura, erano automobili Kleenex, cioè da usare per commettere un crimine e poi gettare via. Hazard prese in considerazione l'idea di arrestarlo per comportamento sospetto. No. Non poteva rischiare. Non con un rispettabile professore universitario. Non adesso che stava per risolvere il caso della Bionda a Bagno e che un potente amministratore locale stava per diventare suo nemico mortale. Era già sottoposto a indagini da parte dell'ACS per aver sparato a Hector X. Si trovava in una situazione tale per cui ogni errore che avesse commesso sarebbe andato a rinforzare la corda con cui l'avrebbero impiccato. Non aveva alcun motivo legittimo per seguire Laputa. L'omicidio di Mi-
na Reynerd non era un caso affidato a lui. Durante tutto il giorno aveva utilizzato il suo tempo, pagato dai cittadini, e la sua autorità di poliziotto per aiutare un amico a risolvere una questione personale. Aveva infilato il becco in una morsa e l'aveva stretta lui stesso; ora non poteva fare una mossa del genere contro il professore senza pentirsene amaramente. Salito sull'Acura, del tutto ignaro di essere sorvegliato, Laputa chiuse la portiera dalla parte del guidatore. Accese il motore. Sembrò cercare una stazione sulla radio. Hazard tornò indietro a tutta velocità, salì di corsa le due rampe e si precipitò verso la propria auto civetta della polizia. Ma quando, guidando come un pazzo, raggiunse l'uscita del garage, sperando di riuscire a raggiungere l'Acura, Laputa se n'era già andato. 77 «Conosce quella bevanda al cioccolato che si chiama Yoo-hoo?» domandò Fric. «L'ho bevuta qualche volta», rispose il signor Truman. «È buona. Sapeva che si può conservare una Yoo-hoo praticamente per sempre e non va a male?» «Questo non lo sapevo.» «Usano uno speciale processo di sterilizzazione a vapore», rivelò Fric. «Fintanto che non la si apre, rimane sterile come, non so, un flacone di soluzione per lenti a contatto.» «Non ho mai bevuto una soluzione per lenti a contatto», confessò il signor Truman. «Lo sapeva che lo zibetto è usato in un sacco di profumi?» «Non so neppure che cos'è lo zibetto.» Di fronte a questa ammissione, Fric si illuminò. «Be', è una secrezione densa e gialla che si estrae dalle ghiandole anali di un felino africano.» «Un micetto molto collaborativo.» «In realtà, non è proprio un gatto. E poi vive anche in Asia. Quando è agitato, emetto una maggior quantità di zibetto.» «Considerate le circostanze, deve essere agitato tutto il tempo.» «Lo zibetto puzza terribilmente», continuò a spiegare Fric, «quando è concentrato. Ma quando lo si diluisce con le sostanze giuste, allora ha davvero un buon profumo. E sapeva che quando uno starnutisce, per un istante
tutte le funzioni del corpo si bloccano?» «Anche il cuore?» «Perfino il cervello. È come una piccola morte temporanea.» «Allora... niente più pepe nella mia insalata.» «Uno starnuto stressa il corpo in maniera spaventosa», spiegò Fric, «soprattutto gli occhi.» «Starnutiamo sempre con gli occhi chiusi, vero?» «Esatto. Se si fa uno starnuto molto forte con gli occhi aperti, uno degli occhi potrebbe saltar fuori dall'orbita.» «Fric, non mi ero mai reso conto che tu fossi una vera e propria enciclopedia di informazioni insolite.» Sorridendo, tutto soddisfatto, Fric ammise: «Mi piace sapere cose che gli altri non sanno». La cena si era svolta molto, molto meglio di quanto Fric avesse immaginato. I petti di pollo in salsa di burro e limone, il riso con i funghi selvatici e le punte di asparagi erano assolutamente deliziosi, e lui e il signor Truman non erano ancora morti avvelenati, anche se il signor Hachette poteva aver deciso di ucciderli con il dessert. All'inizio la conversazione non era andata molto bene perché avevano cominciato a parlare di film, il che inevitabilmente portava alle interpretazioni di Manheim. Non si erano sentiti a loro agio a parlare di Papà Fantasma. Avevano detto solo cose carine, però sembrava che stessero spettegolando alle sue spalle. Fric aveva domandato com'era fare il detective della Omicidi e voleva che il signor Truman gli raccontasse soprattutto i particolari dei delitti più truci, dei corpi più orribilmente straziati e degli assassini più pazzi che lui avesse incontrato. Il signor Truman gli aveva risposto che gran parte di quella roba non era un argomento di cui conversare a cena e il resto non era adatto a un ragazzino di dieci anni. Comunque gli aveva raccontato storie di poliziotti, perlopiù divertenti; alcune erano volgari, non così volgari da farti vomitare il pollo alla salsa di limone e burro, ma abbastanza da rendere quella chiacchierata la più interessante e la più divertente che Fric avesse mai fatto in vita sua. Quando il signor Truman lo aveva informato che il signor Hachette aveva preparato una torta al cocco e ciliege per dessert, Fric aveva sfruttato la sua conoscenza di Tuvalu, grande esportatore di noci di cocco, per fornire il suo contributo alla conversazione. Tuvalu l'aveva portato a parlare di una serie di cose che lui sapeva, come
per esempio quali erano le scarpe più grandi al mondo. Erano scarpe enormi, fatte su misura per un gigante della Florida di nome Harley Davidson, che però non aveva nulla a che vedere con la fabbrica di motociclette. Quelle scarpe erano lunghe cinquantasei centimetri! Il signor Truman si era mostrato adeguatamente sbalordito. Dalle scarpe gigantesche erano passati alla bevanda Yoo-hoo, allo zibetto e agli starnuti, e mentre stavano finendo il dolce - senza ancora mostrare alcun segno di avvelenamento da arsenico - Fric domandò: «Lo sapeva che mia madre è stata in manicomio?» «Non devi dare importanza a storie come quelle, Fric. I giornalisti sono stati ingiusti ed esagerati a dire una cosa del genere.» «Però mia madre non ha denunciato nessuno per averlo detto.» «In questo paese, i personaggi famosi non possono denunciare qualcuno per calunnia o diffamazione solo perché la gente racconta bugie su di loro. Devono dimostrare che quelle bugie sono state raccontate con l'intenzione di danneggiarli. Il che è difficile. Tua madre non aveva semplicemente voglia di sprecare anni nelle aule di un tribunale. Hai capito?» «Credo di sì. Ma lei sa cosa potrebbe pensare la gente.» «Non sono sicuro di seguirti. Che cosa potrebbe pensare la gente?» «Tale madre, tale figlio.» Il signor Truman apparve realmente divertito. «Fric, nessuno che ti conosca potrebbe mai credere che sei stato in manicomio o che ci finirai mai.» Spingendo di lato il piattino da dessert vuoto, Fric disse: «Be', immaginiamo che un giorno io veda un disco volante. Cioè, che ne veda veramente uno, e anche un gruppo di extraterrestri grossi e untuosi. Ha presente?» «Grossi e untuosi», ripeté il signor Truman, annuendo con aria attenta. «Ma se io lo racconto a qualcuno, la prima cosa che penserà è: sì, già, sua madre è stata in manicomio.» «Ascolta, ammesso e non concesso che ricordino quella storia di tua madre, al mondo ci sono persone che non ti crederebbero neppure se ti presentassi con uno di quei grossi e untuosi extraterrestri al guinzaglio.» «Magari potessi», mormorò Fric. «E non crederebbero neppure a me.» «Ma lei era un poliziotto.» «C'è un sacco di gente che non riesce a vedere la verità nemmeno se ce l'ha davanti agli occhi. Non perdere il tuo tempo con loro. Non c'è speranza.»
«Non c'è speranza», concordò Fric, non pensando tanto a quel tipo di persona, quanto alla propria situazione. «Ma se tu venissi da me o dalla signora McBee, lasceremmo tutto quello che stiamo facendo e correremmo a vedere quei grossi e untuosi mostri perché sappiamo di poterci fidare di te.» Questa affermazione rinfrancò immensamente Fric, che si raddrizzò nella sedia. Nella sua mente si affollavano tutte le cose di cui avrebbe voluto parlare con il signor Truman - l'Uomo Misterioso che usciva da uno specchio e che svolazzava in mezzo alle travi del solaio, spiriti che tentavano di risalire lungo il filo del telefono per infilarsi nell'orecchio quando si premeva *69, angeli custodi con strane regole, Moloch che divorava bambini, il Los Angeles Times con la storia del suo rapimento - ma, cercando di mettere tutta questa roba in ordine in modo che non gli uscisse dalla bocca tutta insieme, in un isterico fiume di parole, esitò troppo a lungo. Il signor Truman lo anticipò: «Fric, fin quando non riesco a capire di che si tratta e come può essere riparato, questo problema del flusso di corrente nel sistema di allarme continua a preoccuparmi». Le parole del capo della sicurezza avrebbero potuto essere un amo a tre punte lanciato con perizia da un pescatore, tanto riuscirono a catturare l'attenzione di Fric. Di nuovo quell'assurda storia del flusso di corrente. «Non succederà nulla, ma sono uno che si preoccupa. Dopo tutto tuo padre mi paga appunto per preoccuparmi. Quindi, fintanto che non sarà tutto a posto, preferirei che tu non dormissi da solo al terzo piano.» L'espressione tesa nello sguardo del signor Truman lasciava intendere che lui aveva visto grossi e untuosi extraterrestri, o si aspettava di vederli da un momento all'altro. «O io mi sistemo in qualche modo nel soggiorno del tuo appartamento», soggiunse, «oppure potresti scendere tu da me, dormire nel mio letto, mentre io userò il divano dello studio. Che cosa ne pensi?» «Oppure potrei dormire io sul divano, così lei non dovrebbe rinunciare al suo letto.» «È davvero gentile da parte tua, Fric. Ma ho già cambiato le lenzuola del mio letto, nel caso questa fosse stata la tua scelta. Ora, se salta fuori che le ho cambiate senza motivo e ho usato delle lenzuola in più, dovrò risponderne alla signora McBee. Non mettermi in questa posizione, ti prego.» Fric sapeva che il signor Truman preferiva il divano per un'unica ragione: voleva trovarsi tra la porta del suo appartamento e la camera in cui Fric avrebbe dormito, e non perché Fric potesse cadere dalle scale durante un
attacco di sonnambulismo, ma perché forse qualcuno avrebbe buttato giù la porta e avrebbe cercato di arrivare a Fric, ma prima di riuscirci avrebbe dovuto affrontare il signor Truman. Di sicuro stava succedendo qualcosa. «Va bene», acconsentì Fric, preoccupato ma anche gradevolmente elettrizzato. «Io vengo nel suo appartamento e lei può dormire sul divano. Sarà fantastico. Non ho mai trascorso una notte lontano da casa.» «Be', non sarai esattamente lontano da casa.» «No, signore, ma non sono mai stato nel suo appartamento», ribatté Fric. «Neppure prima che lei venisse qui. Per me è un territorio sconosciuto, come la faccia nascosta della luna... capisce?... Quindi è proprio un dormir fuori.» Mentre avrebbe dovuto concentrarsi su come evitare di essere rapito e ucciso, Fric si trovò invece a pensare che, se fossero rimasti svegli fino a tardi, magari avrebbero potuto preparare delle tartine, sedersi sul pavimento e, a lume di candela, raccontarsi storie di fantasmi. Sapeva che era un'idea stupida, dalle stupide tartine alle stupide storie di fantasmi, ma in ogni caso gli sarebbe piaciuto. Lanciando un'occhiata al suo orologio, il signor Truman disse: «Sono quasi le otto». Si alzò e cominciò a trasferire i piatti dalla tavola al carrello d'acciaio inossidabile sul quale li aveva trasportati. «Riporto questi in cucina, poi penseremo a sistemarti nel mio appartamento.» «Vorrei salire in biblioteca per prendere un libro», lo informò Fric, anche se in realtà voleva far pipì nel vaso della palma. Fric era ben deciso a non servirsi del bagno, in cui ci sarebbe stato almeno una specchio, neppure quando si fosse trovato nell'appartamento del capo della sicurezza, con l'ex poliziotto fuori a fare la guardia. Quando fai pipì, sei terribilmente vulnerabile. Il signor Truman esitò, lanciando un'occhiata verso le finestre, oltre le quali la notte era immersa nella pioggia e nella nebbia. «Leggo sempre prima di addormentarmi», insisté Fric. «Va bene, ma non metterci troppo, okay? Appena hai trovato il libro che vuoi, raggiungimi subito nel mio appartamento.» «Stia tranquillo, signore.» Fric cominciò ad avviarsi verso l'uscita della piscina coperta, ma dopo aver fatto due passi, si fermò. «Magari, più tardi, possiamo raccontarci storie di fantasmi.» Aggrottando la fronte come se Fric avesse suggerito di far saltare in aria l'ala occidentale, e forse anche impallidendo un po', il signor Truman do-
mandò: «Storie di fantasmi? Come mai hai detto una cosa del genere?» «Be', ehm, perché è quello che la gente fa quando, cioè, dorme fuori casa. Almeno così ho sentito dire.» Stupido. Ma non riusciva a smettere di parlare. «Si siedono sul pavimento, a lume di candela, e raccontano storie davvero terrificanti, poi loro, ehm, preparano delle tartine.» Stupido, stupido. «Oppure si può fare del popcorn, e si possono svelare i propri segreti.» Stupido, stupido, stupido. L'espressione perplessa del signor Truman si trasformò in un sorriso. «Mi stai dicendo che, dopo tutto quello che abbiamo mangiato a cena, riusciresti a mandar giù anche delle tartine?» «Non adesso, no, magari tra un'ora.» «E che nascondi dei terribili segreti?» «Be', ne ho qualcuno, sì, delle esperienze che ho vissuto.» «Esperienze. Riguardano grossi e untuosi extraterrestri?» «No, signore. Niente di così semplice.» «Allora, quando porto questi piatti in cucina, prendo gli ingredienti per fare una montagna di tartine. Mi hai incuriosito.» Con senso di liberazione, ma avendo bisogno di liberarsi in un altro senso, Fric si avviò verso la biblioteca per infierire ulteriormente sulla palma già moribonda. 78 Seduto nell'auto civetta della polizia, Hazard aveva la sensazione di andare alla deriva come il fantasma di un marinaio su una nave ormai marcia e abbandonata, incatenato a quella dimora galleggiante unicamente dalla ostinata abitudine a vivere. Disorientato, senza sapere che cosa fare. Inondate dall'acqua, immerse nelle foschia, le strade erano simili alle rotte di navigazione di uno strano mare infestato da fantasmi ed era facile immaginare - e quasi possibile credere - che molti dei veicoli che gli scivolavano accanto nella notte, e che la nebbia faceva apparire quasi trasparenti, fossero guidati da spiriti che avevano rinunciato alla carne ma non alla città. Aveva comunicato telefonicamente il numero di targa della Land Rover ed era venuto a sapere che proprietaria dell'auto era la Kurtz Ivory International, qualunque cosa fosse. Dai registri della Motorizzazione risultava che l'unico veicolo registrato a nome Vladimir Laputa era una BMW 2002, non un'Acura come quella che era stata tenuta di scorta nel garage della
galleria commerciale. Una volta ricevute queste informazioni, Hazard non aveva idea di quale dovesse essere la sua mossa successiva. E non sapere che cosa fare non gli piaceva affatto. Ogni volta che pensava a come muoversi, gli tornava in mente l'immagine di Dunny Whistler magicamente trasformato da un essere in carne e ossa a una cascata d'acqua, e successivamente diventato un tutt'uno con la pozzanghera sulla quale si era fermato. Con quell'immagine in mente e nelle orecchie il riecheggiare della conversazione con il defunto Hector X, Hazard non riusciva a ragionare in modo logico. I suoi pensieri continuavano a ruotare vorticosamente e sembravano precipitare nella conchiglia da nautilus del terrore. Sebbene avesse saltato il pranzo, non aveva fame. Sebbene non avesse appetito, si fermò in un fast food dove, senza scendere dall'auto, ordinò un «piatto del re» di cheeseburger e patatine fritte. Naturalmente il «piatto del re» era in realtà un sacchetto di carta e, invece del caffè, gli fu portata una tazza di polistirolo con un'amara risciacquatura di piatti bollita con corteccia d'albero. Probabilmente abete. Era ancora troppo agitato per fermarsi nel parcheggio del ristorante. Preferì mangiare mentre guidava. Aveva bisogno di continuare a muoversi. Come uno squalo, sentiva che se si fosse fermato sarebbe morto. Alla fine tornò nell'elegante quartiere in cui abitava il professore. Parcheggiò davanti alla villetta, sul lato opposto della strada. Seduto dietro al volante, udì mentalmente l'avvertimento di Dunny - due proiettili nel cervello - e sapeva con certezza che, se avesse suonato il campanello di Laputa, quella sarebbe la sua fine. Ma per il momento la iena, come l'aveva definito Rachel Dalton, era fuori, a bordo dell'Acura. In assenza del suo proprietario, la casa era soltanto una casa, non un mattatoio. Hazard chiamò la Rapine-Omicidi e si fece dare il numero di telefono privato di Sam Kesselman. Una volta ottenuto il numero, pensò per alcuni istanti a ciò che stava per fare. Sapeva che con questa mossa poteva consegnare ai suoi nemici tutte le armi di cui avevano bisogno per annientarlo. Una volta Nonna Rose gli aveva spiegato che, nella stoffa di cui è fatto il mondo, è stata intessuta anche un'invisibile ragnatela di malvagità e che, all'interno di questa immensa struttura, ragni mortalmente pericolosi fre-
mono al suono della stessa seducente musica, compiono le stesse nefande opere, ognuno a modo suo. Se non ti stacchi da quella appiccicosa ragnatela ogni volta che te la senti addosso, allora diventi come uno di quei maligni esseri a otto zampe che vi danzano sopra. E se non schiacci quei ragni velenosi quando ne hai l'opportunità, ben presto ci saranno miriadi di ragni, ma l'umanità sarà scomparsa. Hazard digitò il numero. Fu lo stesso Sam Kesselman a rispondere, prima con un colpo di tosse, uno starnuto e un'imprecazione, poi con una voce così stridula e gracchiante che sembrava il risultato di un esperimento di genetica in cui fossero stati incrociati un essere umano e una rana. «Accidenti, che brutta voce. Ti sei fatto vedere da un medico? «Sì. Ma l'influenza è un virus. Gli antibiotici non funzionano. Il dottore mi ha dato qualcosa per la tosse. Ha detto di riposare e di bere molto. Io mi sto scolando dieci birre al giorno, ma penso che morirò comunque.» «Bevine dodici.» Kesselman sapeva dell'omicidio di Rolf Reynerd da parte di Hector X e che Hazard aveva a sua volta ucciso l'assassino. «Come te la stai cavando con l'ACS?» «Ne uscirò pulito. A quante pare hanno già preparato la relazione. Ascolta Sam, c'è un collegamento con l'omicidio della madre di Reynerd, e questo è un tuo caso.» «Stai per dirmi che Reynerd verrà coinvolto.» «Avevi già fiutato che c'era qualcosa che non andava, vero?» «Il suo alibi era troppo inattaccabile.» «E questo è più che sufficiente.» Hazard riferì a Kesselman della sceneggiatura incompiuta, ma non gli raccontò tutta la trama. Si limitò alla parte riguardante lo scambio di omicidi, come nel film di Hitchcock, senza tuttavia accennare al progetto di uccidere un famoso divo del cinema. «Quindi tu pensi che... Reynerd avesse... un complice», commentò Kesselman, tra un violento colpo di tosse e l'altro. «Lo so per certo. E sono anche abbastanza sicuro che si tratti di questo Vladimir Laputa. So che il caso della Lampada e la Vamp è tuo, Sam, ma vorrei approfondire meglio questa storia e, se posso, inchiodare Laputa.» Forse Kesselman aveva realmente bisogno di tossire così a lungo o forse si trattava solo di una tattica per prendere tempo e pensarci sopra. Alla fine disse: «Perché? Voglio dire, hai già il tuo bel casino di lavoro».
«Be', penso che da ieri sera questo sia diventato un caso di cui dovremmo occuparci tutti e due.» Fino a quel momento non aveva mentito direttamente a Kesselman. Ora aveva iniziato: «Perché penso che Laputa non abbia soltanto ammazzato Mina Reynerd, ma abbia anche ingaggiato Hector X, il sicario che ha fatto fuori Rolf». «Allora, anche se l'incartamento si trova sulla mia scrivania, in pratica il caso riguarda anche te. Visto come mi sento, almeno fino alla prossima settimana dovrò restare sempre nelle vicinanze di un bagno, quindi occupatene pure tu.» «Ti ringrazio, Sam. Solo un'altra cosa. Se mai ti domandassero qualcosa su te, me e questo caso, non potrei essere venuto a casa tua per parlartene, invece di aver telefonato, e non potremmo aver avuto questa conversazione prima di adesso, diciamo dodici ore fa?» Kesselman rimase in silenzio. Poi domandò: «In che razza di guai ci stiamo cacciando?» «Quando avrò finito», rispose Hazard, «ti sbatteranno fuori dalla polizia con un calcio nel culo, ti toglieranno la pensione e con la tua reputazione ci puliranno i gabinetti pubblici, ma probabilmente ti permetteranno di continuare a essere ebreo.» Kesselman scoppiò a ridere e la risata si trasformò in un accesso di tosse, ma quando finì di tossire, riprese a ridere. «L'importante è che finiamo tutti e due nella stessa fogna, almeno sarà divertente.» Dopo aver concluso la telefonata, Hazard rimase seduto in macchina per un po', fissando la casa di Laputa e pensando a come muoversi. Era sempre stato un uomo d'azione, ma non voleva agire in modo sconsiderato. Entrare nella villetta era la parte più facile anche se non proprio legale. Aveva ancora la pistola apriserrature Lockaid che aveva usato nell'appartamento di Reynerd. Effettuare una perquisizione senza lasciare alcuna traccia della sua presenza e poi uscire tranquillamente, come un'apparizione che prima si manifesta e poi svanisce tornando nel mondo degli spiriti: quella era la parte più difficile. Durante tutta la sua carriera, aveva sempre agito secondo il regolamento, per quanto incoerente a volte potesse essere. Ora doveva convincersi che il suo comportamento scorretto era pienamente giustificato. Da una tasca della giacca, prese il gruppo di campanelle. Le girò e rigirò nella mano. Alle otto e dieci di sera, scese dall'auto.
79 Dopo una breve sosta in cucina, Ethan tornò nel suo appartamento con l'intenzione di far sparire i sei oggetti contenuti nelle scatole nere. Se Fric li avesse visti, inevitabilmente avrebbe posto domande a cui lui non poteva rispondere senza farlo preoccupare per la sicurezza di suo padre. Nello studio, il monitor del computer era illuminato. Ethan non lo aveva acceso da quando era tornato a casa. Ispezionò rapidamente il suo appartamento senza trovare alcun intruso. Comunque qualcuno doveva essere stato lì. Magari qualcuno che era arrivato e se n'era andato attraverso uno specchio. Tornato alla scrivania, Ethan si fermò davanti al monitor e vide che c'era un messaggio per lui: HAI CONTROLLATO LA TUA NETWORK EMAIL? La network e-mail - abbreviata in netmail - era la posta elettronica inviata dai computer installati nella proprietà, negli uffici di Channing Manheim presso lo studio cinematografico e quelli a disposizione delle guardie del corpo che avevano accompagnato l'attore sul set in Florida. La netmail finiva in una casella diversa da quella che riceveva tutta l'altra posta elettronica, una casella di rete. Nella sua casella di netmail, Ethan aveva tre messaggi. Il primo era di Archie Devonshire, uno dei camerieri. Signor Truman, come lei sa, non sono il tipo di persona che ritiene suo compito controllare Aelfrich e spettegolare sul suo comportamento. In ogni caso, è un ragazzino molto educato e di solito non lo si nota nemmeno. Tuttavia questo pomeriggio l'ho visto fare cose strane di cui avrei voluto parlare con la signora McBee, se lei fosse stata presente. L'amico che è venuto a trovarla, il signor Whistler, mi ha fatto notare che Aelfrich... Ethan lesse l'ultima frase senza comprenderla appieno e dovette tornare indietro per leggerla di nuovo. L'amico che è venuto a trovarla, il signor Whistler, mi ha fatto notare... Il fantasma, il morto vivente, qualunque cosa fosse, ammesso che lo fosse, aveva smesso di compiere la sua misteriosa opera ai limiti della percezione ed era entrato spavaldamente nella villa, mettendosi a parlare con il personale. ...mi ha fatto notare che Aelfrich si aggirava in strani luoghi della casa, staccando dalle prese alcune torce da terremoto che poi metteva in un ce-
stino da picnic. Sicuramente la signora McBee disapproverebbe questo fatto; c'è il rischio che, in caso di emergenza notturna, qualche membro del personale o della famiglia abbia difficoltà o addirittura non sia assolutamente in grado di fuggire dalla casa proprio per la mancanza di quelle torce. Su a Santa Barbara, la signora McBee doveva sentirsi piuttosto inquieta perché percepiva che qualcosa era cambiato. Il messaggio di Archie Devonshire continuava: Più tardi, quando mi sono imbattuto in Aelfrich con il cestino, lui mi ha detto che conteneva panini al prosciutto, panini che affermava di aver preparato con le sue stesse mani, e che intendeva fare un picnic nella stanza delle rose. Ma successivamente ho trovato il cestino vuoto proprio in quella stanza, senza che all'interno ci fossero briciole di pane, né i tovaglioli di carta usati per avvolgere i panini. Mi è sembrato tutto molto strano, perché di solito Aelfrich è un bambino sincero. Anche il signor Yorn ha avuto con lui una conversazione alquanto insolita e le invierà un messaggio sull'argomento. Sempre a sua disposizione e al servizio della famiglia, A.F. Devonshire. Il messaggio di William Yorn, il giardiniere, era di tono assai diverso rispetto a quello di Devonshire. Fric si sta preparando un nascondiglio nella serra, rifornito di cibo, bevande e torce da terremoto. È stato il suo amico Whistler a farmelo notare. Non sono affari miei. E neppure del signor Whistler. Ai ragazzini piace fare i Robinson Crusoe. È normale. Francamente, il suo amico Whistler mi sega i nervi. Se le dice che sono stato brusco con lui, la prego di comprendere che era proprio quella la mia intenzione. Successivamente, ho visto Fric dietro alle finestre della stanza delle rose. Sembrava in trance. Poi mi ha gridato qualcosa a proposito di panini al prosciutto. In seguito, con un impermeabile addosso, è uscito e si è incamminato verso il boschetto che si trova dopo il roseto. Aveva con sé un binocolo. Ha detto che voleva osservare gli uccelli. Sotto la pioggia. È rimasto fuori dieci minuti. Ha tutto il diritto di essere un po' eccentrico. Accidenti, se fossi in lui, sarei diventato completamente matto. Le ho scritto tutto questo solo perché Archie Devonshire ha insistito. Anche Archie mi sega i nervi. Sono ben felice di lavorare all'aria aperta. Yorn. Il pensiero che Duncan Whistler, morto o vivo, si aggirasse per Palais Crapaud controllando segretamente Fric fece venire a Ethan un brivido alla nuca.
Pensò che probabilmente la mente di un detective era inadatta a risolvere quell'enigma sempre più intricato. I ragionamenti deduttivi e induttivi non servono a molto quando si ha a che fare con esseri che vagano nella notte. 80 Prima di introdursi illegalmente nella casa, Hazard suonò il campanello. Vedendo che nessuno andava ad aprire, suonò di nuovo. Il fatto che la casa di Laputa fosse immersa nel buio non significava che all'interno non ci fosse nessuno. Invece di introdursi di soppiatto dalla porta posteriore, cosa che avrebbe potuto attirare l'attenzione di un vicino, Hazard entrò spavaldamente dall'ingresso principale. Aprì entrambe le serrature con la Lockaid. Spingendo la porta, gridò: «C'è qualche adulto in casa o siamo solo noi ragazzi?» La sua era prudenza, non voglia di fare il buffone. Anche se alla sua domanda non rispose nessuno, varcò la soglia con circospezione. Tuttavia, appena entrato, individuò l'interruttore sulla parete e accese la plafoniera dell'ingresso. Nonostante la pioggia e la nebbia, un'automobilista o un pedone di passaggio poteva averlo visto entrare. Il fatto di aver acceso immediatamente la luce avrebbe cancellato ogni sospetto. Oltretutto, se Laputa fosse tornato a casa all'improvviso, si sarebbe allarmato nel vedere una luce accesa che, quando era uscito, aveva lasciato spenta, o addirittura il fascio di una torcia che si muoveva nel buio, ma sarebbe rimasto disarmato nel trovare la casa completamente illuminata. Il successo di un'operazione come quella dipendeva dalla sfacciataggine e dalla rapidità. Hazard chiuse la porta, ma non a chiave. In caso di necessità voleva poter uscire in fretta. Molto probabilmente al pianterreno non avrebbe trovato le prove incriminanti che cercava. Gli assassini tendevano a conservare i ricordi dei loro delitti nelle camere. Il secondo ripostiglio preferito nel quale nascondere i loro tesori era il seminterrato, spesso si trattava di stanze nascoste o chiuse a chiave in cui potevano ammirare le proprie collezioni senza timore di essere scoperti. Lì dentro, in un'atmosfera di deliberata follia, potevano rivivere tranquillamente il loro sanguinoso passato. Costruite su un terreno sismico e facile agli smottamenti, raramente le
case della California meridionale sono dotate di un seminterrato. Anche quella era stata costruita su una base di calcestruzzo e non aveva alcuna porta che si apriva su oscurità sotterranee. Hazard fece un rapido giro del pianterreno, senza perdere tempo ad aprire sportelli e cassetti. Se non avesse trovato nulla al piano superiore, avrebbe ricontrollato quelle stanze, perlustrandole con maggiore attenzione. Per il momento gli importava solo di accertarsi che lì non ci fosse nessuno. Ogni volta che usciva da una stanza, lasciava la luce accesa. L'oscurità non era sua amica. In cucina aprì la porta di servizio, lasciandola socchiusa, in modo da avere una seconda via di fuga. Attirati dal calore, tentacoli di nebbia s'insinuarono nella stanza, per poi dissolversi immediatamente. Nella casa tutto appariva pulito, strofinato, spolverato e lucidato con una cura quasi maniacale. I soprammobili - oggetti di vetro, scatoline di ceramica, statuette di bronzo - erano sistemati con un rigido senso dell'ordine che ricordava una scacchiera. Tutti i libri su tutti gli scaffali erano allineati esattamente a un centimetro dal bordo. La casa sembrava un rifugio contro il caos del mondo esterno. Tuttavia, nonostante gli innumerevoli elettrodomestici, nonostante l'arredamento confortevole, nonostante la pulizia e l'ordine, quel luogo non era accogliente, era completamente privo del calore del focolare di una casa. Al contrario, indipendentemente dalla tensione di Hazard per il fatto di essersi introdotto illegalmente, in quella casa c'era un'atmosfera di nervosa aspettativa e una disperazione difficile da definire. Sul tavolo da pranzo c'era una serie di oggetti. Cinque rotoli di mappe o di cianografie legati con elastici. Una lente d'ingrandimento dal manico lungo. Un blocco di fogli gialli a righe. Due biro... una rossa e una nera. Anche se erano stati lasciati sul tavolo, quegli oggetti erano stati allineati ordinatamente uno accanto all'altro. Dato che le stanze al pianterreno non gli avevano riservato alcuna sgradevole sorpresa, Hazard salì al piano superiore. Se in quella casa ci fosse stato qualcuno, oltre a lui, questo qualcuno si sarebbe già presentato per chiedere spiegazioni, quindi Hazard salì senza preoccuparsi di fare rumore e accese le luci del corridoio. La camera padronale si trovava vicino alle scale. Anche questa stanza era perfettamente pulita e talmente ordinata da far quasi venire i brividi. Se Laputa aveva ucciso sua madre e Mina Reynerd, e se aveva conservato dei ricordi, non tanto delle donne quanto degli omicidi, con tutta proba-
bilità avrebbe scelto qualche gioiello, un braccialetto, un anello. Se Hazard era davvero fortunato, avrebbe trovato indumenti macchiati di sangue o ciocche di capelli delle vittime. Spesso un uomo che occupava una posizione di rilievo come Laputa, un uomo con un lavoro prestigioso e che possedeva molti beni materiali, se commetteva uno o due omicidi non conservava alcun souvenir. Quello era il tipo di persona che non uccideva in un momento di follia omicida, ma piuttosto per motivi economici o per gelosia, di conseguenza non sentiva la necessità psicologica di rivivere i suoi crimini più volte e con dovizia di particolari, aiutando la memoria con speciali «ricordini». Hazard aveva la sensazione che Laputa si sarebbe dimostrato un'eccezione alla regola. L'insolita brutalità con cui Justine Laputa e Mina Reynerd erano state massacrate suggeriva che, nell'intimo di quell'onesto cittadino, si celasse qualcosa di peggiore di una semplice iena, un Mister Hyde che riviveva i suoi brutali crimini con piacere, se non addirittura con gioia. Il contenuto della cabina armadio era sistemato con precisione militaresca. L'interesse di Hazard fu attratto da una serie di scatole allineate sul ripiano sopra la sbarra per le grucce. Studiò attentamente la posizione di ogni scatola prima di spostarla, sperando di riuscire a rimetterle tutte esattamente come le aveva trovate. Mentre compiva quest'operazione, tendeva l'orecchio per cogliere eventuali rumori. Lanciava occhiate al suo orologio con una frequenza decisamente eccessiva. Aveva la netta sensazione di non essere solo. Forse perché sulla parete di fondo della cabina armadio c'era uno specchio a figura intera che rifletteva i suoi movimenti. O forse no. 81 Sotto la pioggia e immersa nella nebbia, le rovine di quella casa facevano venire in mente a Corky la scena finale di Rebecca, il romanzo della scrittrice du Maurier: Manderley, la grande villa avvolta dalle fiamme che brillavano nella notte, il cielo nero come inchiostro «screziato di rosso, come una chiazza di sangue», e le ceneri che si disperdevano nel vento. Nessun incendio stava divorando quelle rovine di Bel Air e in quel momento non c'erano né vento, né ceneri disperse nell'aria, ma Corky trovava comunque la scena particolarmente elettrizzante. In quelle macerie vedeva il simbolo di un imminente e più vasto caos.
Un tempo quella era stata un'elegante tenuta, in cui venivano organizzate spettacolari feste per i ricchi e famosi. La grande villa, simile a un castello francese, era stata progettata con un ottimo senso delle proporzioni e costruita con particolari eleganti, e aveva rappresentato un monumento alla stabilità e al gusto raffinato che derivava da secoli di civilizzazione. Ormai tra i nuovi principi e le nuove principesse di Hollywood l'architettura francese non era più di moda, così come la storia. Dato che il passato non si usava più, non era neppure comprensibile, l'attuale proprietario aveva deciso che la villa doveva essere abbattuta e sostituita da una costruzione larga e bassa, tutta vetri e superfici lucide, più in tono con la sensibilità contemporanea, più in. Dopo tutto in quell'ambiente il valore è nella terra, non in ciò che ci sta sopra. Qualsiasi agente immobiliare ve lo può confermare. Prima di tutto, dalla villa erano portati via tutti i particolari dotati di un certo pregio architettonico. L'architrave in calcare dell'ingresso principale, i frontoni scolpiti delle finestre, nonché numerose colonne di calcare. Poi era intervenuta la squadra di demolizione. Erano già a metà del lavoro. Veri artisti della distruzione. Corky era giunto al luogo dell'appuntamento diversi minuti prima delle sette, a piedi, perché aveva parcheggiato l'Acura a diversi isolati di distanza. Aveva acquistato l'auto a un buon prezzo, usando una falsa identità, con l'unico scopo di utilizzarla per quell'operazione. L'avrebbe guidata soltanto un'altra volta, poi l'avrebbe abbandonata con le chiavi inserite. L'accesso al cantiere, e alla tenuta vasta più di tre acri, era sbarrato da un cancello formato da due alti pannelli di metallo incorniciati da una struttura di tubolari d'acciaio, e da una rete metallica. Intorno ai due pannelli c'era una catena chiusa da un grosso lucchetto dal rivestimento praticamente indistruttibile, con un anello di trazione di acciaio al titanio che avrebbe resistito perfino a un tagliabulloni. Corky aveva ignorato il lucchetto e aveva tagliato la catena. Dopodiché si era fermato davanti al cancello aperto e, portando sulle spalle un piccolo zaino nero che aveva prelevato dal portabagagli dell'Acura, spacciandosi per Robin Goodfellow, agente della NSA, aveva aspettato Jack Trotter e i suoi due uomini, che poco dopo erano arrivati sul posto a bordo di un camion lungo dodici metri. Su indicazione di Corky, i tre avevano seguito il viale d'accesso e, dopo una curva, avevano parcheggiato vicino alla villa. «Questa è una follia», aveva dichiarato Trotter scendendo dal camion.
«Niente affatto», lo contraddisse Corky. «Il vento si è calmato del tutto.» «Ma sta ancora piovendo.» «Non così tanto. E un po' di pioggia è proprio quello che ci serve, il suo rumore ci farà da copertura.» In pieno stile Queeg von Hindenburg, Trotter sfoggiava il suo pessimismo con l'arcigna autorità di un Nostradamus di pessimo umore. Il suo viso tondo sembrava un pallone che si stesse sgonfiando e gli occhi sporgenti apparivano terrorizzati da visioni catastrofiche. «Con questa nebbia non abbiamo scampo.» «Non è ancora così fitta. E servirà a nasconderci meglio. È perfetta. Il viaggio è breve e l'obiettivo è identificabile anche con una nebbia come questa.» «Ci vedranno prima ancora di riuscire a partire.» «Siamo in cima a un poggio. Nei dintorni non c'è neppure una casa situata più in alto di noi. Inoltre, siamo circondati da alberi e non possono vederci dalla strada.» Trotter insisteva con le sue previsioni catastrofiche: «Sicuramente qualcuno ci vedrà durante il viaggio da qui a lì». «Può darsi», concesse Corky. «Ma come interpreterà quello che ha visto tra una palizzata e l'altra di nebbia?» «Palizzata?» «Ho uno spiccato interesse per la letteratura, per la bellezza del linguaggio», spiegò Corky. «Comunque la vostra missione non durerà più di sette o otto minuti. Sarete di ritorno qui, fuori di qui, sulla strada, prima che qualcuno possa rendersi conto di dove fosse la vostra zona di attestamento. Ci sono i miei uomini appostati su queste colline e loro non permetteranno alla polizia di avvicinarsi.» «E quando me ne sarò andato da Malibu, per il governo sparirò completamente, io e tutti i nomi che ho usato.» «Questo è l'accordo. Ma farai meglio a muovere il culo. Non abbiamo tempo da perdere. Facendo smorfie come uno che pubblicizzi un farmaco per la diarrea, Trotter osservò attentamente Corky e domandò: «Come diavolo si chiama quella roba che hai addosso?» «Tuta termica», rispose Corky. Da quella conversazione era trascorsa più di un'ora e adesso Trotter e i suoi aiutanti avevano quasi completato le preparazioni. Nell'attesa, Corky si era divertito a osservare da varie angolature le rovi-
ne di quel castello parzialmente demolito. Naturalmente lui non aveva lavorato con Trotter e i suoi uomini. Robin Goodfellow era un'arma umana altamente addestrata, un prezioso agente governativo. Il suo compito era ricercare la verità, la giustizia e l'avventura, non quello di svolgere semplici lavori manuali. James Bond non spolvera i mobili, né lava le finestre. Tuttavia, anche senza la sua assistenza, il piccolo dirigibile era stato completamente gonfiato. 82 Il terzo messaggio sul computer era del signor Hachette. Ispettore Truman, qui io in persona esprimo amaramente un estremo disagio per essere stato richiesto di creare la superiore delle haute cuisine di cui sono capace da un momento all'altro per lo stomaco senza fondo di un ospite la cui presenza in casa non viene rivelata fino a quando egli appare nella mia cucina sorprendendomi come un insetto nel sacco della farina. Il grandioso gusto per il cibo del signor Whistler e le sue lodi per le mie eccezionali coquille Saint Jacques così come per ogni raffinato piatto di mia difficile preparazione mi riescono graditi ma non incollano insieme i miei nervi a pezzi che l'avverto sono devastati e logorati. Se questo mi viene fatto ancora da lei devo rassegnare le dimissioni con conseguenze di indescrivibile estremità. Sono anche contrariato di annunciarle che il ragazzo afferma di aver preparato panini al prosciutto nella mia cucina senza permesso e che in questo momento sto provvedendo a fare l'inventario della dispensa per verificare le dimensioni della distruzione di cui si è reso colpevole. Sperando che questi oltraggi non debbano essere mai più ripetuti la saluto. Chef Hachette. Dunny il morto si era trasferito in casa. E con un grande appetito. Era una situazione folle. Ethan voleva ridere ma non riuscì a strapparsi neppure un sorrisetto. Aveva la bocca asciutta. I palmi delle mani sudati. Tornò al messaggio di Yorn: Fric si sta preparando un nascondiglio nella serra... è stato il suo amico Whistler a farmelo notare... ai ragazzini piace fare i Robinson Crusoe...il suo amico Whistler mi sega i nervi... Durante la battaglia di Hannah contro il cancro, Ethan si era sentito impotente come non mai. Era sempre stato capace di occuparsi delle persone importanti per lui, di fare per loro tutto ciò che andava fatto. Ma non aveva potuto salvare Hannah, proprio la persona che gli era più cara.
Ancora una volta sentiva che il controllo della situazione gli stava sfuggendo dalle mani. Nonostante il più moderno dei sistemi di sicurezza, guardie presenti giorno e notte e protocolli di sicurezza ben studiati, nonostante tutto il suo impegno, non riusciva a tenere Dunny fuori della proprietà, fuori della casa. Uomo o fantasma, o forza difficilmente etichettabile, in qualche modo Dunny era collegato a Reynerd e probabilmente al professore di cui Reynerd aveva scritto nella sua sceneggiatura. Dunny doveva far parte di quel piano criminale e si prendeva gioco di Ethan con le sue intrusioni, dimostrando che lì dentro nessuno era sicuro. Se Ethan non fosse riuscito a proteggere Channing Manheim, se qualcuno fosse riuscito ad arrivare all'attore nonostante tutte le precauzioni, lui avrebbe mancato non solo nei confronti del suo datore di lavoro, ma soprattutto nei confronti di quel ragazzino tanto speciale, che sarebbe rimasto orfano di padre. Avrebbero affidato Fric alla sua egocentrica madre e a quel punto il bambino sarebbe stato più che mai abbandonato a se stesso, condannato a una solitudine ancora più profonda di quella che aveva dovuto sopportare fino a quel momento. Ethan si era alzato dalla sedia del computer senza nemmeno rendersene conto. Si sentiva agitato, sopraffatto dalla necessità di muoversi, di fare qualcosa, ma incapace di comprendere che cosa. Si avvicinò al telefono e premette il tasto INTERFONO e poi il numero della biblioteca. «Fric, sei lì?» Rimase in attesa. «Fric, mi senti?» La voce del ragazzino gli giunse carica di una strana circospezione. «Chi è?» «Ci siamo soltanto noi due vecchi ex poliziotti. Hai trovato il libro?» «Non ancora.» «Non metterci troppo.» «Mi dia un paio di minuti.» Mentre Ethan chiudeva la comunicazione con l'interfono, una luce cominciò a lampeggiare sul telefono, poi rimase fissa: la linea 24. Guardò gli oggetti sistemati sulla scrivania tra il computer e il telefono. Coccinelle, lumache, prepuzi... Riportò l'attenzione all'apparecchio. La spia accesa. La linea 24. La voce che sembrava giungere dall'altra parte della luna, che lui aveva ascoltato per mezz'ora la sera prima, non aveva smesso di riecheggiare nel suo cuore. Così come la flebile voce che gli era sembrato di udire, proprio quella mattina, dagli altoparlanti rotti dell'ascensore dell'ospedale. La biscottiera piena di tessere di Paroliamo, il libro Zampe per riflettere,
la mela cucita con dentro un occhio... Sull'ascensore aveva premuto STOP non soltanto per ascoltare più a lungo quella voce, ma perché aveva avuto la sensazione che, una volta raggiunto il garage dell'ospedale, non avrebbe trovato alcun garage. Solo una distesa di acqua nera. O un abisso. In quel momento aveva avuto la sensazione che la sua assurda reazione fobica in effetti sublimasse una paura più reale, una paura che lui si rifiutava di affrontare. Ora era sul punto di comprendere quella paura. Improvvisamente si rese conto che di percepire quella realtà come l'immagine multicolore mostrata dagli specchi angolati di un caleidoscopio. Il disegno della realtà che lui aveva sempre visto stava per cambiare davanti ai suoi occhi, per trasformarsi in qualcosa di più straordinario e terribile. Coccinelle, lumache, prepuzi... La linea 24, occupata. La voce lontana riecheggiava nella sua memoria come le grida dei gabbiani, malinconiche nella nebbia: Ethan, Ethan... Telefonate dai morti. Coccinelle, lumache, prepuzi... La spia luminosa: una minuscola versione della cupola illuminata in cima al Nostra Signora degli Angeli, l'ultima linea sulla tastiera del telefono, l'ultima linea, l'ultima opportunità, l'ultima speranza. Ethan percepì un profumo di rose. Non c'erano rose nel suo appartamento. Vide mentalmente le rose Broadway sulla tomba di Hannah, fiori rosso oro sull'erba bagnata. Il profumo di rose si fece più intenso. Era un profumo reale, non immaginario, più forte di quello che permeava il negozio Rose Per Sempre. Il brivido che sentì alla nuca e che si diffuse sullo scalpo non era dovuto tanto a una normale paura, quanto a una sorta di timore reverenziale. Un tremito alla bocca dello stomaco. Non aveva la chiave per aprire la porta azzurra ed entrare nella stanza proibita, dove venivano registrate le telefonate della linea 24. Improvvisamente ebbe la sensazione che le chiavi non avessero alcuna importanza. Seguendo un'intuizione che non poteva spiegare ma di cui si fidava, Ethan uscì di corsa dal suo appartamento e si arrampicò su per le scale di servizio fino al secondo piano. 83
LEGATO con due corde, che ronzavano debolmente, ai solidi rami di un paio di vecchi alberi del corallo e fissato al muso del camion con una fune ben tesa, il dirigibile sembrava tirare come un pesce preso all'amo, trattenuto nelle secche dell'aria ma ansioso di potersi levare nuovamente nelle profondità del cielo. Grigio e simile a uno squalo, circa dieci metri di lunghezza e quattro di diametro, il dirigibile appariva insignificante in confronto a quello della Goodyear. Tuttavia a Corky sembrava enorme. Quel mostro faceva impressione, illuminato com'era dal basso da due lampade a gasolio che rischiaravano l'area di lavoro. Dai suoi tondi fianchi scorrevano gocce di pioggia argentata e scintillante. L'impressione che quel velivolo suscitava era maggiore di quanto le sue dimensioni avrebbero giustificato perché un dirigibile era un oggetto che non apparteneva né a quel luogo, Bel Air, né a quel tempo, i primi anni del nuovo millennio. Oltre a essere un fautore della sopravvivenza, un fanatico della teoria della cospirazione e un pazzo furioso, Jack Trotter era anche un patito delle mongolfiere. Il suo spirito trovava pace solo in aria, viaggiando con il vento. Fintanto che restava in cielo, gli agenti del male non potevano catturarlo e gettarlo in un'umida cella illuminata unicamente dal bagliore rossastro degli occhi dei topi. Possedeva tutta la tradizionale attrezzatura - l'involucro a strisce colorate, la ventola, il bruciatore a propano, la navicella per il pilota e i passeggeri - che a volta usava per fare un viaggio da solo, unico aeronauta in una dolce mattina di primavera o in una luminosa sera estiva. Partecipava anche a raduni di altri navigatori celesti, durante i quali almeno una trentina di vivaci mongolfiere salivano più o meno contemporaneamente in cielo e si spostavano in gruppo. Una mongolfiera era completamente alla mercé del vento. Il pilota non poteva né stabilire una destinazione precisa, né prevedere esattamente l'ora d'arrivo. L'assalto a Palais Crapaud richiedeva un velivolo dotato di un'ottima manovrabilità che potesse viaggiare anche con un vento leggermente contrario. Inoltre, doveva essere in grado di innalzarsi senza lo sciagurato rombo di un bruciatore a propano, cosa che inevitabilmente scatenava il furioso abbaiare di tutti i cani presenti nel raggio di mezzo chilometro. Doveva poter scendere senza scosse, come una colomba che da una nuvola vada a posarsi su un pergolato, ma doveva farlo molto più lentamente di
una colomba, e doveva anche essere in grado di librarsi a mezz'aria come un colibrì. A Trotter piaceva vedere lo stupore e l'entusiasmo degli altri aeronauti quando, invece della mongolfiera, portava il piccolo dirigibile, costruito appositamente per lui. Nonostante fosse poco loquace per natura e sgraziato nei modi, Trotter sapeva che in quelle occasioni sarebbe stato al centro dell'attenzione generale. Corky sospettava che, nella sua perpetua esaltazione mentale, Trotter considerasse il dirigibile anche come un mezzo a cui ricorrere in extremis per darsi alla fuga nel caso che una dittatura prendesse improvvisamente il potere e decidesse, per qualsiasi motivo, di bloccare tutte le strade in entrata e in uscita dalle principali aree metropolitane, come quelle di Los Angeles e delle comunità circostanti. Probabilmente vedeva se stesso che sfuggiva al regime totalitario in una notte illuminata da una falce di luna, sufficiente per navigare ma non per essere individuato, avanzando ben al di sopra dei blocchi stradali e dei campi di concentramento, dirigendosi a nord, verso la campagna e le colline pedemontane della Sierra, dove alla fine sarebbe atterrato e avrebbe raggiunto a piedi uno dei suoi organizzati nascondigli. Dopo aver distolto Corky dalle rovine del castello, Trotter disse: «Partiremo tra meno di cinque minuti». I due aiutanti stavano eseguendo gli ultimi controlli sul funzionamento e sugli ingranaggi del dirigibile. I due erano delinquenti ingaggiati da Trotter, che li conosceva perché, come lui, distribuivano Ecstasy. Dopo aver lasciato Corky a Palais Crapaud ed essere tornato al castello con il suo dirigibile e dopo che gli uomini avevano legato nuovamente il velivolo agli alberi, Trotter li avrebbe uccisi. «Non ti ho sentito caricare le batterie», disse Corky. «Le ho caricate completamente prima di venire qui.» «Una volta in volo, non potremo usare il motore, neppure per un minuto.» «Lo so, lo so. Ehi, amico, non mi hai rotto già abbastanza le palle con questa storia? Non avremo bisogno del motore per un viaggio così breve e praticamente senza vento.» I due propulsori a elica del dirigibile, che pendevano dalla parte posteriore della navicella, erano azionati da un motore tolto a una tagliaerbe. Girando, le pale delle eliche producevano un rumore abbastanza sommesso,
ma il motore faceva un baccano tale che era impossibile non farsi notare. «Con poco o addirittura senza vento di prua», spiegò Trotter, «le batterie mi basteranno per due ore, forse anche di più. Ma odio questa pioggia.» «Ormai sono solo poche gocce.» «I lampi», ribatté Trotter. «Me la faccio addosso al pensiero dei lampi, e dovrebbe succedere lo stesso anche a te.» «Per gonfiarlo hai usato l'elio, giusto?» domandò Corky, indicando tre cilindri di gas compresso, ognuno dei quali grande quanto una bombola di ossigeno da ospedale. «L'Hindenburg era a idrogeno. Pensavo che l'elio non esplodesse.» «Non sono preoccupato per un'eventuale esplosione. Ho paura di essere colpito da un lampo! Anche se il lampo non rompesse il pallone, incendiandolo, potrebbe fulminare noi che siamo nella navicella.» «Il temporale si sta calmando. Non ci sono lampi», osservò Corky. «Qualche ora fa ce n'erano.» «Solo qualcuno. Te l'ho già detto, Trotter, noi del governo controlliamo il temporale. I lampi colpiscono se e dove vogliamo noi, quando invece non vogliamo lampi, non ce ne sarà nemmeno uno.» Oltre a essere gonfiato con elio invece che con idrogeno, il dirigibile era diverso da uno zeppelin perché non aveva una struttura interna rigida. Il rivestimento dell'Hindenburg - un velivolo lungo tanto quanto la torre Eiffel è alta, ovvero quanto quattro Boeing 747 sistemati uno sull'altro in posizione eretta - avvolgeva una complessa struttura d'acciaio contenente sedici giganteschi compartimenti per gas, grossi sacchi di cotone che un rivestimento di plastica rendeva a tenuta d'aria, nonché un vero e proprio albergo di lusso. Quand'era sgonfio, il dirigibile di Trotter, qualsiasi dirigibile, era soltanto un sacco vuoto. Senza doversi preoccupare per la mancanza di fragole e senza sfere di metallo da far rotolare ossessivamente in una mano, tipo Bogart in L'ammutinamento del Caine, il capitano Queeg von Hindenburg scrutò con attenzione la nebbia che si spostava lentamente nell'aria, strizzando gli occhi per scorgere le nuvole al di sopra della nebbia. Aveva un'aria preoccupata. Arrabbiata. Con i capelli arancione che la pioggia gli aveva incollato alla testa, gli occhi sporgenti e i baffi da tricheco, sembrava un personaggio dei cartoni animati. «Non mi piace per niente», borbottò. 84
Salito al secondo piano, dopo aver percorso tutta l'ala occidentale fino all'estremità a nord, Ethan giunse infine davanti alla porta azzurra, che si trovava sul lato opposto del corridoio rispetto alla suite di trecento metri quadri che comprendeva la camera del Volto. In tutta la casa non c'era un'altra porta che le somigliasse. Ming du Lac aveva visto in sogno la giusta sfumatura di azzurro. A detta della signora McBee, il decoratore d'interni aveva mostrato quarantasei tonalità di pittura prima che il consigliere spirituale scegliesse quella che corrispondeva al colore del suo sogno. Alla fine la sfumatura di azzurro prescelta si era rivelata identica a quella delle scatole di pasta Ronzoni. Per condurre una seria indagine del fenomeno, Ming e Manheim ritenevano che non bastasse riservare una linea telefonica alle chiamate dall'aldilà e collegarvi una segreteria telefonica. Avevano deciso che gli apparecchi dovevano essere collocati in uno spazio a parte. E che l'atmosfera di quella stanza doveva essere serena, a cominciare dal colore della porta. Un luogo sacro, lo definiva Ming. Sacrosanto, aveva ordinato Channing Manheim. La serratura era semplice, priva di chiavistello, e la chiave andava inserita nel pomello. Se non fosse riuscito a far scattare la serratura con un pezzo di plastica rigida, Ethan sarebbe entrato sfondando la porta a calci. Fece scivolare una carta di credito tra la porta e lo stipite, costrinse la serratura a scatto a uscire dal riscontro e la barriera azzurra si aprì rivelando una stanza di cinque metri per quattro, nella quale le finestre erano state coperte con pannelli di cartongesso. Il soffitto e le pareti erano state imbottite e successivamente tappezzate di seta bianca. Anche la moquette era bianca. L'interno della porta non era azzurro, ma bianco. Al centro di quello spazio c'erano due sedie bianche e un lungo tavolo bianco. Sul tavolo, e parzialmente anche sotto, c'era ciò che Fric avrebbe definito un casino di apparecchi high tech che supportavano un computer dotato di una straordinaria capacità di elaborazione. Tutti i rivestimenti delle apparecchiature erano di plastica bianca; i logo erano stati cancellati applicandovi sopra dello smalto da unghie bianco. Anche i cavi erano bianchi. Se si accendevano le luci al massimo, tutto quel candore poteva risultare accecante. I tubi a catodo freddo nascosti nelle modanature concave vicino al soffitto si accendevano automaticamente quando qualcuno entrava nel locale e la luce era regolata in modo che le pareti tappezzate di seta scintil-
lassero come campi innevati durante un crepuscolo invernale. Ethan era entrato in quella stanza soltanto una volta, durante il suo primo giorno di orientamento, quand'era nuovo del lavoro. Il computer e le relative apparecchiature funzionavano ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana. Ethan si sedette in una delle sedie bianche. Sulla segreteria telefonica bianca, la spia si era spenta. Nessuno stava più usando la linea 24. Nella stanza, l'unico colore era quello dello schermo azzurro, di una tonalità diversa da quella della porta. Le icone erano bianche. Ethan non si era mai servito di quel computer prima di allora. Ma il software delle telefonate in arrivo era lo stesso usato per i collegamenti telefonici del resto della casa. Fortunatamente le lettere, i numeri e i simboli sulla tastiera non erano stati cancellati con uno strato di smalto bianco. Perfino i tasti grigi erano rimasti come li aveva voluti il fabbricante. In confronto all'ambiente circostante, quella tastiera era un'orgia di colori. Ethan richiamò i dati esattamente come avrebbe fatto per le linee dalla 1 alla 23 sul computer del suo studio. Voleva sapere quante telefonate aveva ricevuto la linea 24 nelle ultime quarantotto ore. Gli era stato detto che, ogni settimana, sulla linea 24 venivano lasciati cinque o sei messaggi. Nella maggior parte dei casi si trattava di persone che avevano sbagliato numero o di venditori telefonici. L'elenco delle telefonate di lunedì e martedì apparve con l'ultimo conteggio in cima alla colonna: cinquantasei. In due giorni erano state ricevute tante telefonate quante normalmente ne venivano registrate in dieci settimane. Si era reso conto che il traffico telefonico della linea 24 era aumentato, ma non che le telefonate raggiungessero la media di una all'ora. In quello spazio di conversazione con i defunti la temperatura era sempre mantenuta a 20 °C, ovvero la stessa del sogno di Ming. Ma quella sera l'aria sembrava molto più fredda. Scorrendo l'elenco, Ethan vide che tutte e cinquantasei le chiamate non mostravano il numero telefonico del chiamante. Questo escludeva tutti i venditori, a cui per legge non era più concesso di nascondere il proprio numero. Forse alcune di quelle telefonate erano state fatte da persone che avevano un Blocco Identificazione Chiamate. Forse. Ma Ethan avrebbe scom-
messo qualsiasi cosa che non era quella l'ipotesi giusta. Le telefonate erano giunte da un luogo in cui la compagnia telefonica non era in grado di offrire i propri servizi. Giunto in fondo all'elenco, evidenziò il dato più recente, la telefonata ricevuta mentre si trovava al pianterreno, nel suo studio, mentre cercava di comprendere che senso avessero le coccinelle, le lumache e i prepuzi. Sull'angolo superiore destro dello schermo apparvero tre opzioni. Poteva farsi stampare la trascrizione della telefonata, poteva leggerla sullo schermo, o poteva ascoltare direttamente la registrazione. Scelse la terza possibilità. Se la telefonata era come quella sulla quale, la sera prima, si era concentrato per quasi trenta minuti, una linea aperta piena di sibili e scoppiettii dietro ai quali si udiva una flebile voce, forse solo immaginata, le cui parole non era riuscito assolutamente a comprendere, con quelle apparecchiature così sofisticate sarebbe certamente riuscito a sentire qualcosa di più preciso. L'analizzatore audio computerizzato filtrava l'elettricità statica, identificava i suoni che avevano una struttura adattabile a quella di un discorso, rendeva più chiaro e potenziava quel discorso e infine eliminava le pause per poter condensare al massimo la chiamata prima di memorizzarla. La persona che aveva effettuato la telefonata numero cinquantasei sembrava ancora gridare da molto lontano, dall'altra parte di un abisso. La sua voce era così flebile che, quasi temendo di perderla, Ethan si sporse in avanti sulla sedia. Tuttavia, grazie al potenziamento del computer, riuscì a udire ogni parola, anche se il messaggio lo lasciò perplesso. La voce era quella di Hannah. 85 Nella sua mente, Corky Laputa ascoltava Die Walküre di Richard Wagner, in particolare quel brano che intendeva rappresentare la fuga delle Valchirie. Il minidirigibile del folle Queeg solcava il cielo senza vento di Bel Air, fendendo la pioggia e la nebbia con la scorrevolezza di un sogno che si fonde in un altro. I sibili e gli sfrigolii della pioggia coprivano totalmente il sommesso ronzio delle eliche alimentate a batteria, così che Corky e il suo imbronciato pilota sembravano navigare nel silenzio assoluto, senza neppure il mormorio delle onde. Né il sole né la luna potevano vantarsi di attraversare il
cielo più silenziosamente. Appesa al pallone aerostatico, la navicella somigliava a una barca a remi, ma con la poppa e la prua arrotondate. All'interno, nelle due panche, c'era posto per quattro persone. Trotter, seduto sulla panca più vicina alla poppa, era alla barra di comando e guardava dritto davanti a sé. Quella posizione gli permetteva di stare di fronte al motore, all'alimentatore e agli altri strumenti di volo. Inizialmente Corky era rivolto verso Trotter e verso il punto da cui erano partiti. Poi si era voltato anche lui a guardare in avanti, sporgendosi spesso da una parte o dall'altra per cercare di scorgere qualche punto di riferimento attraverso l'oscurità e la nebbia. Le cime degli alberi scivolavano sotto di loro a pochi metri di distanza. In assenza di luna e di stelle, il dirigibile e i suoi occupanti non gettavano neppure la più vaga ombra e avanzavano così silenziosamente, provocando uno spostamento d'aria così irrilevante, che neppure una volta gli uccelli riparatisi dalla pioggia sui rami più alti si levarono in volo spaventati. Le residenze di quella ricca comunità erano state costruite in un bosco di querce, ficus sempreverdi, di podocarpi, metrosideri e alberi del pepe. Per essere più esatti, il bosco era stato creato per rivestire le colline, le strette valli e i canyon che un tempo erano state soltanto distese semiaride destinate al pascolo e squallide gole disseminate di arbusti. Per riuscire a sorvolare Bel Air restando praticamente invisibili, dovevano mantenersi alla quota più bassa consentita dalla prudenza. Su quelle colline, la maggior parte delle strade erano strette e serpeggianti, fiancheggiate e spesso nascoste da enormi alberi, così che gli automobilisti avevano una visuale del cielo estremamente circoscritta. Fintanto che il dirigibile evitava di attraversare le strade e cercava per quanto possibile di sorvolare i boschi, il velivolo sarebbe stato in grado di raggiungere Palais Crapaud e tornare indietro senza essere notato, perché con quel tempo era alquanto improbabile che qualcuno decidesse di uscire a fare una passeggiata a piedi e sollevasse gli occhi al cielo. Dal castello in rovina, situato sul poggio, a Palais Crapaud, costruito ai piedi della collina, c'erano poco più di cinquecento metri. In assenza di vento, funzionando a batterie, il dirigibile poteva raggiungere una velocità massima di venticinque chilometri all'ora. Ma per smuovere il meno possibile la nebbia, in modo da restarne avvolti, stavano viaggiando a poco più di quindici chilometri all'ora, il che gli avrebbe permesso di giungere a destinazione in circa tre minuti.
Attraverso Internet, Corky era riuscito a visionare non solo le mappe del piano regolatore, ma anche una serie di fotografie aeree di proprietà dello stato della California che offrivano una veduta panoramica dell'esclusiva e nascosta enclave. La maggior parte di quelle residenze erano vere e proprie tenute, in particolare le proprietà dell'area che stavano sorvolando proprio in quel momento, e Corky aveva memorizzato il profilo dei tetti e le caratteristiche principali di ogni villa che incontravano lungo il tragitto. Anche Trotter si era documentato. Ma si sporgeva per individuare i diversi punti di riferimento con meno frequenza di Corky, perché si affidava soprattutto alle indicazioni della bussola. A bordo del dirigibile le uniche luci, peraltro soffuse, erano quelle della bussola, dell'altimetro e dei pochi altri indicatori sul quadro dei comandi. Gli strumenti erano montati su un sostegno girevole e questo permetteva a Trotter di posizionarli secondo la necessità. La loro luminosità globale non riusciva a rischiarare neppure vagamente la curva del contenitore di elio sopra di loro. Anzi, giungeva più luce dalle grandiose ville che stavano sorvolando che dagli strumenti di controllo del velivolo. I riflessi dorati e argentati di quel chiarore che saliva dal basso luccicavano debolmente sul ventre del dirigibile, come se questo fosse ricoperto da un lichene luminoso. Sorvolarono comignoli, sfiorarono tetti bagnati. Erano così vicini che, nonostante il buio e la nebbia, Corky riusciva a distinguere i vari tipi di tegole e di rivestimenti in legno. Se un bambino, nella sua impaziente attesa del Natale, si fosse avvicinato alla finestra con lo sguardo rivolto al cielo, sognando una slitta trainata da renne, probabilmente avrebbe visto il folle dirigibile di Trotter che avanzava sotto la pioggia e avrebbe pensato che Babbo Natale era arrivato con due notti d'anticipo e a bordo di un mezzo decisamente insolito. E finalmente, dopo tanti studi e progetti, apparve villa Manheim. Senza che nessuno si accorgesse di loro, superarono l'area monitorata dalla telecamere mantenendosi a un'altezza di poco più di dieci metri dal muro di cinta. Superarono i rilevatori di movimento installati nel terreno. Superarono le decine di telecamere, nessuna delle quali era puntata verso il cielo. Corky non voleva essere lasciato nella villa. Aveva deciso di calarsi dalla navicella quando questa si fosse trovata sopra il tetto della palazzina del giardiniere che sorgeva sulla parte posteriore della proprietà.
Fino a quel momento, in qualità di pilota Trotter non aveva dovuto fare gran che, aveva semplicemente seguito una traiettoria dritta e semplice. Invece ora doveva manovrare il dirigibile in modo che arrivasse sull'edificio prescelto, allinearlo esattamente a una specifica parte del tetto e librarvisi sopra, cercando di spostarsi lateralmente e avanti e indietro il meno possibile. Ognuno dei quattro piani stabilizzatori che si trovavano sul retro del dirigibile era dotato di un timone di direzione. Questi venivano manovrati attraverso interruttori elettrici posti sul quadro dei comandi e collegati a un cavo a basso voltaggio. Trotter non poteva abbassarsi facendo fuoriuscire parte dell'elio. Se doveva raggiungere un'altitudine maggiore, aumentava la quantità di elio nel pallone o, più rapidamente, scaricava acqua dalle cisterne di zavorra che si trovavano ai lati della navicella. Con grazia, con un movimento quasi maestoso, il velivolo modificò la sua rotta puntando verso la palazzina del giardiniere, che raggiunse con la stessa silenziosità delle stelle quando percorrono il cielo dal tramonto all'alba. Con la stessa grazia di passi di danza eseguiti alla perfezione, con lo stesso tocco delicato necessario per innalzare una costruzione di carte, Jack Trotter fece abbassare il dirigibile e lo posizionò esattamente come gli era stato richiesto. Secondo l'orologio da polso preferito dagli anarchici più perspicaci - un affidabile Rolex - il viaggio era durato tre minuti e venti secondi. Le 20.33. Il collegamento di tutti i telefoni di casa Manheim, fissi e cellulari, era stato interrotto tre minuti prima. 86 «Fric è nato... di mercoledì.» Nella stanza bianca dietro la porta azzurra, Ethan ascoltava rapito la voce della sua defunta moglie. «Fric è nato... di mercoledì.» Quella era una musica straordinaria per lui, pura ed elettrizzante. L'inno più amato su un cuore religioso e quello nazionale su uno profondamente patriottico non avrebbero suscitato neppure un frammento delle violente emozioni che quella voce provocava in Ethan. «Hannah?» sussurrò, anche se sapeva che una registrazione non poteva rispondergli. «Hannah?»
Le lacrime che gli velavano la vista erano soprattutto lacrime di gioia, lacrime che sgorgavano non perché aveva sentito tanto la sua mancanza in quegli ultimi cinque anni, ma perché quello strano messaggio che gli giungeva attraverso la sua voce significava che, da qualche parte, l'essenza di Hannah era sopravvissuta, che l'odioso cancro aveva vinto una battaglia, ma non la guerra. Non si sentiva meno disperato per la perdita che aveva subito, ma ora sapeva che quella perdita non era eterna. Hannah aveva ripetuto due volte le stesse cinque parole. Dopo aver riascoltato per tre volte la Telefonata 56, Ethan riuscì a spostare la sua attenzione dal miracoloso suono della voce di Hannah al contenuto del messaggio. «Fric è nato... di mercoledì.» Sebbene fosse evidente che Hannah riteneva importante quell'informazione, Ethan non riusciva a capire per quale motivo il giorno della nascita di Fric avesse attinenza con la situazione in cui lui si trovava in quel momento. Richiamò sul video l'elenco delle telefonate e, partendo dal basso, cliccò sulla Telefonata 55. Come in precedenza, scelse di ascoltare la chiamata piuttosto che di farsi stampare la trascrizione. Di nuovo Hannah. Questa volta diceva soltanto una parola, venti o trenta volte di seguito. Il suo nome. «Ethan...Ethan... Ethan...» L'intensa nostalgia che si percepiva nella sua voce corrispondeva a quella che Ethan provava nel suo cuore. Mentre ascoltava, riusciva a malapena a mantenere quel minimo di autocontrollo che gli era rimasto. Attraverso il telefono, l'altoparlante dell'ascensore, forse con altri mezzi, Hannah aveva cercato in ogni modo di mettersi in contatto con lui, ma invano. Era riuscita a fare arrivare il suo messaggio solo dietro a quella porta color scatola di pasta Ronzoni, in quella ridicola stanza bianca, con l'aiuto di tutte quelle sofisticate apparecchiature. Dio operava veramente in modi strani se lo faceva attraverso soggetti come Ming du Lac. Ethan era entrato in quella stanza con la sensazione che non ci fosse tempo da perdere, una sensazione che per qualche minuto si era placata, ma che ora ebbe di nuovo il sopravvento. Tornò indietro, alla Telefonata 54. Di nuovo Hannah. «Il bambino del lunedì è bello di viso...» Ethan sentì il respiro strozzargli in gola. «Il bambino del martedì è pieno di grazia...»
La conosceva. Era una filastrocca per bambini. Muovendo le labbra senza che gli uscisse alcun suono, recitò il terzo verso insieme con Hannah. «Il bambino del mercoledì è colmo di dolore...» La biscottiera a forma di micino era pieno di tessere di Paroliamo che formavano per novanta volte la parola WOE, dolore. Un micino era un giovane gatto. Un micino era un piccolo. Come Fric. Perché novanta? Forse non aveva importanza. Novanta tessere di ciascuna lettera, duecentosettanta tessere in totale, erano il numero necessario per riempire la biscottiera. Il bambino del mercoledì è colmo di dolore. Telefonata 53. Hannah. Nonostante l'elettricità statica fosse stata filtrata e il volume fosse stato aumentato, non era possibile comprendere il messaggio come se, in quell'occasione, il fiume tra la vita e la morte si fosse allargato a tal punto che la riva opposta si trovava dall'altra parte dell'oceano. Telefonata 52. Altrettanto incomprensibile. Telefonata 51. Hannah, un'altra filastrocca per bambini. «Coccinella, coccinella, vola via da casa...» Alzandosi di scatto, Ethan rovesciò la sedia. «La tua casa è in fiamme e i tuoi piccoli bruceranno...» Manheim sarebbe tornato a casa solo nel pomeriggio del 24 dicembre. Ethan si era mosso partendo dal presupposto che il Volto non sarebbe stato in pericolo fino a quella data. Ma forse il Volto non era mai stato in pericolo. Forse il bersaglio era sempre stato Fric. Ventidue coccinelle in un barattolo di vetro. Perché non ventitré o ventiquattro? Al contrario della biscottiera, il barattolo non era stato pieno nemmeno a metà. Allora perché non cinquanta coccinelle, in modo da riempirlo fino all'orlo? Perché quel giorno era martedì, 22 dicembre. 87 Mentre Corky scivolava dal centro della sua panca verso il lato sinistro della navicella, Trotter esclamò: «Piano, piano». Lo spostamento improvviso degli ottanta e più chili di Corky avrebbe potuto far sbandare il minidirigibile, forse farlo addirittura sobbalzare, e questo era un rischio che non potevano correre ora che erano così vicini al tetto.
Mentre Corky si muoveva lentamente, il torace appoggiato al parapetto, una gamba dentro e una fuori della navicella, Trotter faceva da contrappeso con il suo corpo, spostandosi più a destra sulla panca, e usava i comandi per regolare l'assetto del velivolo. Il dirigibile sbandò, ma non in modo pericoloso. A un segnale di Trotter, Corky scivolò completamente fuori della navicella senza tuttavia staccarsi immediatamente. Rimase appeso con entrambe le mani al parapetto, mentre il pilota compensava questo ulteriore spostamento di peso. Quando l'aeronave si stabilizzò, Corky abbassò prima la mano sinistra dal parapetto al supporto della cisterna di zavorra, poi fece altrettanto con la destra. Il metallo era freddo e bagnato, ma grazie ai suoi guanti di pelle e nylon riuscì ad aggrapparsi saldamente. Scrutando verso il basso, vide che i suoi piedi penzolavano a circa mezzo metro dal tetto. Non osava lasciarsi cadere da una simile altezza. Anche se molto probabilmente sarebbe rimasto in equilibrio, avrebbe fatto troppo rumore, mettendo in allarme le due guardie che si trovavano nell'ufficio del servizio di sicurezza, che occupava metà del primo piano della palazzina. Evidentemente anche Trotter si rese conto del problema. Scaricò una quantità minima di elio e il velivolo scese abbastanza da permettere a Corky di posare i piedi sul tetto. Trovandosi sulla linea di colmo, posò un piede sulla pendenza del tetto rivolta sud e l'altro su quella rivolta a nord, poi lasciò andare il supporto della cisterna di zavorra. Era atterrato quasi con la stessa leggerezza di Peter Pan. Senza più il peso di Corky, il dirigibile si innalzò immediatamente di tre o quattro metri. La coda cominciò a sollevarsi, il che non era bene, ma Trotter si servì dei timoni di direzione per sollevare anche il muso e ritornare nella posizione iniziale, facendo allo stesso tempo girare il dirigibile per il viaggio di ritorno, che avrebbe compiuto da solo. Una volta catturato il ragazzino, Corky avrebbe lasciato Palais Crapaud in grande stile, usando un'automobile della collezione di Manheim. Tornato al castello in rovina, una volta che il dirigibile fosse stato saldamente ancorato agli alberi e al camion, Trotter avrebbe ucciso i due aiutanti. Sebbene abbandonare l'aeronave avrebbe rappresentato per lui un dolore tremendo, aveva deciso di raggiungere a piedi un'auto che poche ore prima aveva parcheggiato a due isolati di distanza. Appena tornato a casa, nel canyon di Malibu, avrebbe cambiato veicolo
e si sarebbe rimesso in viaggio, lasciandosi per sempre alle spalle la sua identità di Jack Trotter. Forse non si sarebbe mai reso conto che qualcuno lo aveva preso in giro facendogli credere che un vero agente della NSA si era accordato con lui per cancellare il suo nome da tutti i registri governativi e permettergli, da quel momento in poi, di vivere come un fantasma nel suo paese; dato che intendeva vivere da fantasma, forse sarebbe riuscito davvero a non farsi notare dalle autorità, ma solo grazie a se stesso. Nel corso delle indagini sul rapimento di Aelfrich Manheim, una volta trovato il dirigibile ed essere risaliti a Trotter, probabilmente la polizia sarebbe arrivata a un punto morto. Non avevano modo di scoprire quale nuova identità avesse assunto, come fosse cambiato il suo aspetto nel frattempo, né dove fosse finito. Se, contro ogni probabilità, un giorno avessero rintracciato Trotter, questi non avrebbe potuto fornire alcun nome, se non quello dell'agente segreto Robin Goodfellow. Sempre in bilico sulla linea di colmo del tetto, Corky avanzò cautamente di un paio di passi. Calzava stivali adatti a camminare sulla neve e sul ghiaccio. Alcune tegole rese scivolose dalla pioggia non avrebbero certo costituito un problema. Tuttavia sarebbe stato disastroso scivolare in quel momento, anche se fosse riuscito a evitare o sopravvivere a una caduta. Con le guardie proprio sotto di lui, la pioggia non avrebbe potuto coprire eventuali rumori, quindi era essenziale riuscire a muoversi in silenzio. Lo sfiatatoio che cercava era proprio nel punto indicato dalle cianografie, lungo lo spiovente rivolto a sud, a meno di mezzo metro dalla sommità del tetto. Sentendosi come uno spiritello maligno impegnato a far danni, Corky avrebbe voluto canticchiare una canzone adatta a un folletto o divertirsi con qualcosa di altrettanto buffo. Ma riconobbe che, in quell'occasione, doveva più che mai tenere a bada la sua naturale esuberanza. Dirigendosi a est e risalendo verso la cima della collina, il capitano Queeg von Hindenburg e il suo velivolo stile Jules Verne si apriva un varco nella nebbia sempre più fitta, che si chiudeva immediatamente dietro di lui, nascondendolo completamente, proprio come il mare aveva contribuito a nascondere Nemo e il Nautilus. Corky si sedette sulla linea di colmo, rivolto verso lo sfiatatoio. Il tubo, che penetrava nel tetto, attraversava il solaio e conduceva al bagno dell'ufficio delle guardie.
Allungando un braccio al di sopra della spalla, Corky aprì la cerniera della parte superiore dello zaino. Ne estrasse un grosso sacco di plastica per la spazzatura e un rotolo di nastro adesivo adatto a qualsiasi condizione atmosferica. Sulla parte superiore del tubo c'era un coperchio di metallo a punta e di forma svasata, montato su quattro asticelle lunghe una decina di centimetri. Questo impediva alla pioggia e ai detriti portati dal vento di entrare nello sfiatatoio, permettendo allo stesso tempo all'aria di uscire dal locale sottostante. Corky infilò il sacco della spazzatura sul coperchio e, con una mano, lo strinse il più possibile intorno al tubo. Se l'aspiratore del bagno fosse stato acceso, avrebbe riempito di aria il sacco della spazzatura e Corky sarebbe stato costretto a ritardare questa fase cruciale della missione fino a quando qualcuno non avesse spento l'aspiratore. Ma il sacco di plastica non si gonfiò. Con il nastro adesivo, fermò l'imboccatura del sacco intorno al tubo, chiudendolo quasi ermeticamente. Allungando nuovamente il braccio oltre la spalla, estrasse dallo zaino un contenitore grande quanto una bomboletta di lacca. Non si trattava di una normale bombola spray ma di una «unità di dispersione aerosol (UDA) con superaccelerante» progettata da uno dei suoi colleghi dell'università, che era stato generosamente finanziato dalle forze armate cinesi. La UDA avrebbe rilasciato il suo contenuto altamente pressurizzato in sei secondi. Le molecole dei suoi ingredienti attivi erano fissate a un gas dotato di un fattore di espansione talmente efficiente che entrambi i piani dell'edificio sarebbero rimasti contaminati nel giro di cinquanta, settanta secondi. La UDA era stata progettata per contenere qualsiasi cosa, da un sedativo a un mortale gas nervino che uccideva alla prima inspirazione. Corky non era riuscito a mettere le mani su una unità contenente il gas nervino. Aveva dovuto accontentarsi di un sedativo. Tutto sommato, addormentare le due guardie gli andava bene. Sebbene si sforzasse in ogni modo di contribuire al collasso della società e alla sua rinascita, non era un uomo che uccideva indiscriminatamente. Certo, per portare avanti la sua nobile causa, ultimamente si erano resi necessari più omicidi del solito. Ma gli piaceva considerarsi una persona capace di trattenere i propri istinti con la stessa facilità con la quale, per capriccio, permetteva alla bestia che era in lui di scatenarsi.
Fece un buco nel sacco di plastica con un dito, lo allargò, poi vi infilò la parte superiore della bomboletta. Servendosi del nastro adesivo, sigillò il punto in cui la bombola e il sacco si incontravano. Mentre con la sinistra teneva l'estremità inferiore della bombola, con la destra tastò la plastica, fino a quando riuscì ad afferrare saldamente l'anello a strappo che funzionava più o meno come quello di una granata a mano. Strappò l'anello, lasciandolo poi scivolare nel sacco di plastica. I dieci secondi che intercorrevano tra l'attivazione dell'unità e la dispersione del suo contenuto permettevano di scagliare la bomboletta attraverso una porta o una finestra aperte. Corky la strinse saldamente e rimase in attesa. Quando il contenuto esplose con forza dal nebulizzatore, la bomboletta vibrò nella sua mano e divenne immediatamente così fredda che, nonostante il guanto, Corky riuscì a sentire il radicale abbassamento della temperatura. Se l'avesse stretta in mano senza alcuna protezione, la sua pelle si sarebbe ghiacciata, attaccandosi all'alluminio. Il sacco della spazzatura si gonfiò bruscamente come l'airbag di un'automobile in uno scontro frontale. Corky temeva che potesse scoppiargli in faccia, inondandolo di gas sedativo. Fortunatamente lo sfiatatoio era abbastanza largo, quindi invece di gonfiare il sacco di plastica fino a farlo scoppiare, il gas si riversò nel tubo, superò il ventilatore del bagno che, se acceso, lo avrebbe respinto indietro e da lì si diffuse in tutto l'edificio. Le porte chiuse non avrebbero costituito un problema. Il gas sedativo si sarebbe infiltrato fra la porta e la soglia, tra la porta e lo stipite, sarebbe penetrato attraverso la più piccola fenditura, attraverso il sistema idraulico e quello di riscaldamento. Il giro di ispezione della proprietà era previsto alle nove, quindi in quel momento entrambe le guardie si trovavano nell'ufficio, proprio sotto Corky. L'azione del gas era talmente rapida che, dieci secondi dopo il completo svuotamento della UDA, i due uomini sarebbero crollati a terra privi di sensi. Corky attese più di mezzo minuto prima di abbandonare la linea di colmo e avviarsi verso la parte del tetto rivolta a nord. Lo spiovente non era molto ripido, quindi la discesa si svolse senza particolari difficoltà. Sulla facciata dell'edificio, grande quanto una villetta di un'elegante quartiere residenziale, c'era una balconata coperta da una solida pergola di legno di sequoia, alla quale si era intrecciata una pianta di gelsomino. Con
un balzo, Corky passò dal tetto alla pergola. Si lanciò poi dalla pergola e atterrò sul prato piegando le ginocchia come un paracadutista, cadde, ruzzolò e si rimise immediatamente in piedi. Si sentiva come Vin Diesel. Dopo essersi tolto lo zaino dalle spalle, ne estrasse una maschera antigas. Gettò via lo zaino e indossò la maschera. L'ingresso principale della palazzina era chiuso a chiave. Entrò nell'atrio. Esattamente come nelle cianografie. Alla sua destra, una porta che si apriva sul ripostiglio degli attrezzi e i prodotti da giardinaggio, abbastanza ampia da contenere anche tre tagliaerba a sedile, nonché due carrelli elettrici che Yorn e i suoi aiutanti utilizzavano per trasportare fertilizzanti e altri materiali da una parte all'altra dell'immensa proprietà. Alla sua sinistra, la porta dello spazioso ufficio di Yorn e un'altra porta che dava sul bagno usato dai giardinieri. Proprio di fronte a lui, le scale che portavano al piano superiore. Corky trovò le due guardie del turno serale svenute nel locale di monitoraggio. Una a terra, l'altra accasciata su una sedia di fronte a una fila di monitor. Sarebbero rimaste profondamente addormentate per un periodo compreso tra i sessanta e gli ottanta minuti. Questo avrebbe dato a Corky tutto il tempo di portare a termine l'operazione e di andarsene. Prese una sedia e la portò davanti a uno dei computer. L'interruzione del traffico telefonico in entrata e in uscita non aveva avuto ripercussioni sulla fornitura di energia elettrica, né sulla rete informatica di comunicazione interna della villa. Con la maschera antigas, il respiro di Corky somigliava a quello di Darth Vader. Come sempre, all'inizio del turno una delle guardie era entrata nel sistema di sicurezza per mezzo di una password personale. Dai dati che comparivano sul monitor, Corky venne a sapere che l'allarme relativo al perimetro della casa era stato attivato e che sarebbe stato impossibile entrare a Palais Crapaud attraverso una porta o una finestra senza fare scattare la sirena. Secondo Ned Hokenberry, il balordo a tre occhi - ora il balordo a due occhi, anzi il balordo a due occhi morto - di solito quell'allarme non veniva attivato prima delle ventitré o addirittura a mezzanotte. Ma quella sera l'avevano messo in funzione prima.
Corky si domandò perché. Forse si erano spaventati per via di certe scatole nere e del loro contenuto. Soddisfatto per essere riuscito a farli preoccupare senza che questo gli impedisse di introdursi nella casa, superando tutte le loro difese, Corky cominciò a cantare il tema di Grinch dal film omonimo. La maschera antigas conferiva a quel motivetto qualcosa di meravigliosamente spaventoso, perfino selvaggio. Mick Sachatone, il povero defunto Mick con il suo pigiama di Bart Simpson, si era introdotto nel sistema di sicurezza di Manheim collegandosi con quel locale attraverso il computer dell'agenzia esterna di pronto intervento armato che manteneva una linea diretta sempre in funzione - ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette - Mick aveva fornito a Corky alcune rudimentali indicazioni sul suo funzionamento. Prima di tutto, Corky controllò lo stato delle due stanze di emergenza presenti nella villa. Al momento, nessuno le stava utilizzando. Per mezzo del computer, mise le due stanze di emergenza in stato d'assedio bloccandone a distanza le serrature. In questo modo non sarebbe stato possibile aprirle servendosi dei pulsanti montati all'esterno. Nessuno avrebbe potuto rifugiarvisi dentro. L'allarme relativo al perimetro della casa poteva essere attivato o disattivato semplicemente scegliendo l'opzione SÌ-NO. In quel momento sul monitor era accesa l'opzione SÌ. Con il mouse, Corky cliccò su NO. Ora gli sarebbe bastata una normale chiave per entrare a Palais Crapaud, proprio come se la villa fosse stata casa sua. Ognuna delle guardie addormentate aveva un mazzo di chiavi appeso alla cintura. Ne sganciò uno, lo fece tintinnare e sorrise. Quando sollevò il ricevitore di un telefono, non udì alcun suono. Provò con uno dei cellulari delle guardie. Non funzionava. Bravo Mick. Lasciando le guardie ai loro sogni, Corky scese le scale e uscì nuovamente sulla balconata protetta dalla pergola e dal gelsomino. Si tolse la maschera antigas e la gettò via. Attraverso uno schermo di alberi e di pioggia, scorse la grande villa a circa duecento metri più a nord. Dato che all'interno c'erano soltanto Ethan Truman e il ragazzino, solo poche finestre erano illuminate, tuttavia quell'imponente costruzione gli faceva venire in mente un lussuoso transatlantico che solcava le onde di un mare notturno. E lui era l'iceberg. Abbassò la cerniera della tasca più profonda della sua tuta termica ed e-
strasse la Glock, sulla quale in precedenza aveva montato un silenziatore. 88 «Coccinella, coccinella, vola via da casa... la tua casa è in fiamme e i tuoi piccoli bruceranno...» Dopo aver ascoltato la Telefonata 51, Ethan non aveva dubbi che anche parte delle precedenti cinquanta registrazioni contenessero messaggi importanti per lui, ma non osava prendersi il tempo necessario per ascoltarle tutte e sapeva di non aver bisogno di ascoltarle per riuscire a risolvere l'enigma. Ventidue coccinelle. Il 22 dicembre. Proprio quel giorno. E restavano soltanto poco più di tre ore prima di passare al 23 dicembre. Se stava per succedere qualcosa di terribile, sarebbe accaduto presto. Aveva lasciato la pistola nel suo appartamento. Ormai anche Fric doveva essere lì ad attenderlo. Uscì di corsa dalla stanza bianca, lasciando la porta azzurra aperta alle sue spalle. Non c'era alcuna necessità di farsi prendere dal panico. L'allarme intorno alla casa sarebbe scattato al primo tentativo di aprire una porta o una finestra. Tra un urlo della sirena e l'altro, una voce computerizzata avrebbe annunciato in quale stanza si era verificata l'intrusione. Inoltre le guardie si sarebbero accorte immediatamente se qualcuno aveva scavalcato il muro di cinta, molto prima che l'intruso riuscisse a raggiungere la casa. Appena avessero constatato l'effettiva violazione della proprietà, avrebbero chiamato il 911 e l'agenzia di pronto intervento armato. Nonostante ciò, senza aspettare l'ascensore, Ethan si lanciò a tutta velocità verso le scale di servizio, scese come una furia le sei rampe, si scaraventò oltre la porta in fondo alle scale attraversando come un fulmine l'ala occidentale del pianterreno. Spalancò la porta del suo appartamento, chiamò Fric, ma non ricevette alcuna risposta. Evidentemente il ragazzino era ancora nella biblioteca. La cosa non gli piaceva. Per dieci anni quel bambino era stato quasi sempre solo, ma non ce l'avrebbe fatta a superare quella notte senza l'aiuto di qualcuno. Ethan si precipitò verso la scrivania. Aveva lasciato la pistola nel primo
cassetto a destra. Era convinto che gli avesse portato via la pistola, ma quando aprì il cassetto, la vide al suo posto. Meravigliosa. Mentre si infilava la fondina da spalla, controllò gli oggetti posati sul ripiano della scrivania, tra il computer e il telefono. Filastrocche per bambini. La tua casa è in fiamme e i tuoi piccoli bruceranno... Il bambino del mercoledì è colmo di dolore... Filastrocche per bambini. Dieci prepuzi tolti a dieci uomini. Dieci perché quella era l'età di Fric. Che cosa sono dei prepuzi? Brandelli di tessuto. Pezzetti. Ritagli. E le lumache sono lumache. Il libro Zampe per riflettere era una raccolta di racconti che parlavano di cuccioli di cani. Che cosa agitano i cuccioli quando sono felici? Le code. Di che cosa sono fatti i bambini piccoli? La filastrocca diceva: Ritagli, lumache e code di cuccioli. Ecco di che cosa sono fatti i bambini. Sulla scrivania c'era il messaggio che aveva accompagnato la mela: L'OCCHIO NELLA MELA? IL VERME GUARDINGO? IL VERME DEL PECCATO ORIGINALE? LE PAROLE HANNO UN FINE CHE NON SIA IL CAOS? In questo caso, il caos era stato proprio il fine. Il sesto oggetto sarebbe stato il più facile da interpretare, di conseguenza il professore, chiunque egli fosse, aveva confuso le idee con parole fuorvianti e allo stesso tempo ironiche. L'occhio nella mela è blu, lo stesso colore dei famosi occhi di Channing Manheim. Ma non era l'occhio nella mela. Andava inteso come la pupilla dei suoi occhi. Non che il buon Fric fosse mai stato la pupilla degli occhi di suo padre. Se mai era il suo punto debole, troppo spesso trascurato, mai visto nella pienezza della sua personalità. Ma in questo caso, chi aveva inviato le scatole nere era partito da un presupposto errato. Il Volto era la pupilla dei propri occhi, quindi non potevano essercene altre. Se si conosceva il vero rapporto esistente tra quel padre e quel figlio, era facile non riuscire a collegare l'occhio di bambola contenuto nella mela cucita e quel meraviglioso ragazzino. Tuttavia Ethan si maledì per essersi lasciato sfuggire il collegamento. Premette il tasto INTERFONO sulla tastiera del telefono e poi il numero della linea del servizio di sicurezza. «Pete? Ken? Potrebbero esserci dei
problemi.» Nessuno rispose. «Pete? Ken? Ci siete?» Niente. Ethan afferrò il ricevitore. Nessun segnale. 89 La iena dormiva in una tana pulita, non insozzata dalle reliquie delle sue prede. Nessun indumento macchiato dal sangue della vittima da premere contro il viso per inspirarne l'odore di morte. Nessun gioiello femminile con cui trastullarsi. Nessuna polaroid di Justine Laputa o di Mina Reynerd, dopo averne verificato la mortalità con un attizzatoio e con una lampada. Dopo una rapida ma meticolosa perquisizione della cabina armadio, dei cassetti del comò, dei comodini e di tutti gli altri luoghi della camera in cui Laputa poteva aver nascosto quel tipo di pornografia che non stuzzicava un interesse pruriginoso ma che stimolava l'ossessione per la violenza, Hazard non trovò neppure una prova né di un crimine, né di un comportamento psicopatico. Come aveva già notato, la cosa che più saltava all'occhio nella casa di Laputa era la pulizia scrupolosa che poteva rivaleggiare con quella di un laboratorio di armi biochimiche, ermeticamente sigillato e frequentemente sterilizzato, nonché il feticistico allineamento e la disposizione geometrica di ogni oggetto, grande o piccolo che fosse. Non solo ciò che era esposto alla vista, ma anche il contenuto dei cassetti aveva l'aria di essere stato disposto con l'aiuto di un micrometro, di un goniometro e di un regolo. Calzini e maglioni sembravano essere stati piegati e riposti nei cassetti da un robot programmato per la precisione. Ancora una volta, Hazard ebbe la sensazione che per Vladimir Laputa quella casa rappresentasse un disperato rifugio dal caos che regnava al di là delle sue pareti. Uscì dalla camera e si fermò per un momento nel corridoio, ascoltando attentamente, ma sentendo solo il leggero tambureggiare della pioggia sul tetto. Lanciò un'occhiata al suo orologio e si domandò quanto tempo avesse ancora a disposizione per esaminare le altre stanze del primo piano. Raramente l'istinto di Hazard sbagliava, ma ora non gli diceva nulla. Il professore poteva tornare da un momento all'altro, o non farsi vedere per ore, giorni.
Aprì la prima porta che incontrò subito dopo la camera padronale, sullo stesso lato del corridoio, e accese la luce. A giudicare dall'apparenza, si trattava di un ripostiglio. Accatastate le une sulle altre a gruppi di tre e in file perfettamente ordinate, c'erano diverse scatole di cartone contraddistinte unicamente da numeri scritti in rosso. Hazard si sentì percorrere da un fremito di interesse e fece qualche passo nella stanza. Poi si rese conto che le scatole erano sigillate con strisce di nastro adesivo applicato con grande cura. Se ne avesse aperte alcune, non sarebbe stato in grado di richiuderle con una precisione tale da non far sorgere sospetti. Mentre si avvicinava all'ultima delle stanze che si aprivano su quel lato del corridoio, percepì un odore sgradevole. Quando raggiunse la porta aperta, la puzza si era trasformata in un fetore nauseabondo. Hazard riconobbe l'odore di carne umana putrescente, una puzza che aveva avuto modo di sentire spesso in tutti gli anni trascorsi alla RapineOmicidi. Probabilmente in quella stanza avrebbe trovato almeno uno dei souvenir di Laputa, qualcosa che gli avrebbe fatto rimpiangere di essersi fermato a mangiare un cheeseburger con le patatine. I portalampade montati sulle pareti del corridoio rischiaravano soltanto la soglia della stanza. Hazard non riusciva a vedere gran che. Entrando premette un interruttore e, invece di un lampadario, si accese un abat-jour. Per un momento pensò che l'uomo nel letto, solo in parte coperto da un lenzuolo, fosse morto. Poi lo sconosciuto, i cui occhi iniettati di sangue lo fissavano con un'espressione supplichevole, sbatté le palpebre. Hazard non aveva mai visto un essere umano ridotto in quello stato. Sembrava uno di quegli infelici che, chiusi in un campo di concentramento, erano stati costretti a lavorare come schiavi, erano stati lasciati morire di fame, e i cui cadaveri erano stati infine gettati in una fossa comune. Nonostante l'asta della flebo e il contenitore delle urine collegato al catetere, Hazard comprese immediatamente che quell'uomo non era un famigliare assistito dal professor Laputa. Quell'infelice non aveva ricevuto le affettuose cure dovute a un malato, ma tutta la brutalità che un carceriere poteva scaricare su un prigioniero. Entrambe le finestre erano ricoperte da pannelli di legno ed erano state sigillate con dello stucco per impedire alla luce di entrare e ai rumori di uscire. In un angolo del pavimento c'erano catene, manette e ceppi per le caviglie. Sicuramente quei ferri erano stati usati all'inizio della prigionia,
quando l'uomo nel letto era stato abbastanza forte da dover essere legato. Hazard stava parlando a voce alta già da un po', ma solo in quel momento se ne rese conto. Stava ripetendo le preghiere che Nonna Rose gli aveva insegnato tanti anni prima, quand'era bambino. In quella stanza c'era il male allo stato puro, qualcosa che andava al di là della comprensione di un semplice peccatore come lui. Un essere malvagio era stato lì, se n'era andato e sarebbe tornato ancora, un demone che si era preso una vacanza dall'inferno. L'ordine e la pulizia esagerati che regnavano nel resto della casa non rappresentavano il bisogno di Laputa trovare rifugio dal disordine del mondo esterno. Erano semplicemente un voler negare a tutti i costi l'esistenza di un tremendo caos interiore. Più Hazard si avvicina al letto, più a ogni respiro si sentiva attanagliare dalla nausea. Settimane di sudore, di untuosità e di piaghe da decubito facevano sì che dal corpo si levasse un fetore insopportabile. Nonostante questo, Hazard prese una delle fragili mani dello sconosciuto. L'uomo era talmente debole da non poter sollevare il braccio e riuscì a malapena a restituire la stretta di Hazard. «Ora va tutto bene. Sono un poliziotto.» Lo sconosciuto lo fissò come fosse stato un miraggio. Sebbene, solo un minuto prima, l'istinto non gli era stato d'aiuto, ora funzionò alla perfezione. Fu sorpreso, ma immediatamente non lo fu più, di sentirsi domandare: «Il professor Dalton? Maxwell Dalton?» Quello scheletro d'uomo sgranò gli occhi cisposi, confermando l'identificazione di Hazard. Quando il prigioniero si sforzò di parlare, la voce che uscì dalla sua gola era così sottile, gracchiante e stridula che Hazard dovette chinarsi su di lui per cercare di indovinare il significato delle parole: «Laputa... ucciso mia moglie... figlia». «Rachel? Emily?» domandò Hazard. Dalton strizzò gli occhi in un'espressione di dolore, si morse il labbro inferiore e annuì. «Non so che cosa lui le abbia raccontato, ma non sono morte», lo rassicurò Hazard. Gli occhi di Dalton si spalancarono di scatto come obiettivi di una macchina fotografica. «Le ho viste proprio oggi, a casa sua», continuò Hazard. «Solo qualche ora fa. Sono terribilmente preoccupate per lei, ma nessuno ha fatto loro del
male.» Per un momento il prigioniero sembrò riluttante a credere a quella notizia, come se fosse convinto che si trattava di un'altra crudeltà con la quale intendevano tormentarlo. Poi scorse la verità nello sguardo diretto di Hazard. La sua mano ossuta si strinse leggermente su quella del suo salvatore e il suo corpo disidratato riuscì in qualche modo a trovare abbastanza liquidi per riempirgli gli occhi di lacrime. Tanto commosso da quella scena quanto nauseato dalla puzza, Hazard esaminò la sacca appesa all'asta della flebo, il tubicino attraverso cui scendeva il liquido, l'ago infilato nella vena di Dalton. Avrebbe voluto strappare via tutto, perché certo niente di quella roba faceva bene a quell'uomo. Ma temeva di danneggiarlo ulteriormente. Doveva lasciar fare ai paramedici. In origine Hazard si era introdotto nella casa con l'intenzione di eseguire una perquisizione illegale e clandestina, dopodiché avrebbe chiuso tutto e se ne sarebbe andato, meditando sulle prove trovate, prove che avrebbe lasciato al loro posto, in modo che nessuno si accorgesse della sua visita. Quel piano non funzionava più. Doveva chiamare il 911, e in fretta. Tuttavia esistevano giudici, e non erano pochi, che avrebbero lasciato libero Vladimir Laputa perché Dalton era stato trovato durante una perquisizione illegale, effettuata senza mandato o per una giusta causa. Inoltre, con il caso della Bionda a Bagno che ancora lo attendeva, Hazard non poteva permettersi note di biasimo o azioni disciplinari. «La farò uscire da qui», promise al prigioniero. «Ma ho bisogno di un paio di minuti.» Dalton annuì. «Torno subito.» Pur riluttante, l'uomo gli lasciò andare la mano. Giunto sulla soglia, proprio mentre stava per lasciare la stanza, Hazard si bloccò, fece un passo indietro ed estrasse la pistola. Uscendo nel corridoio, prese ad avanzare con estrema circospezione. Scese le scale e, muovendosi sempre con molta prudenza, attraversò il pianterreno e raggiunse la cucina. Chiuse la porta di servizio che aveva lasciato aperta come possibile via di fuga. Girò la chiave nella toppa. Adiacente alla cucina c'era una piccola lavanderia. La porta in fondo alla lavanderia si apriva su un box. Nel box non c'erano auto. Sul pavimento, degli indumenti fradici: quelli che Laputa indossava quando era tornato a casa camminando a gambe lar-
ghe e con aria tracotante. Nei cassetti e appesi a un pannello c'erano diversi utensili. Anche questi erano puliti e ossessivamente ordinati come la collezione di soprammobili nel soggiorno. Hazard scelse un martello a granchio e si precipitò nuovamente al piano superiore, lieto di aver acceso tutte quelle luci quand'era entrato nella casa. Si sentì sollevato nel constatare che il prigioniero era ancora vivo. Dalton appariva in fin di vita, come se potesse spirare da un momento all'altro. Hazard posò la pistola sul pavimento e usò il martello granchio per staccare i chiodi da uno degli spessi pannelli con cui Laputa aveva sigillato le finestre. Erano chiodi molto lunghi e vennero via con difficoltà. Alla fine Hazard riuscì a staccare il pannello dalla finestra e lo posò di lato, contro la parete. La tendina era rimasta tra il pannello e la finestra. Anche se stropicciata e impolverata, era proprio quello che gli serviva per togliere le sue impronte dal martello, prima di lasciarlo cadere a terra. Quella era una camera «di servizio» unicamente nel senso che era la più lontana dalle scale. Ma, come quella padronale, si affacciava sulla parte anteriore della villetta. Attraverso la finestra, vedeva la sua auto parcheggiata sull'altro lato della strada. Avvicinandosi nuovamente al letto, Hazard spiegò: «Sono venuto qui seguendo il mio intuito, senza un mandato, e ora devo sistemare la questione in modo da pararmi il culo ed essere certo di incastrare Laputa. Mi capisce?» «Sì», gracchiò Dalton. «Quindi lei dovrà dire che è successo questo: quel bastardo era così sicuro della sua totale incapacità di emettere un suono abbastanza alto da poter essere udito da fuori, che questa sera ha staccato il pannello giusto per tormentarla, per farle vedere quanto fosse vicina la libertà, quella libertà che lei non sarebbe mai riuscito a raggiungere. Sarà capace di raccontare questa storia?» Trasportate da un arido respiro, le parole uscirono dalla gola di Dalton più stridule che mai. «Laputa ha detto... che mi ucciderà... stasera.» «Bene. Okay. Quindi un gesto del genere avrebbe senso.» Hazard prese dal comodino una bomboletta spray di disinfettante al profumo di pino. Era piena a metà, abbastanza pesante. «Subito dopo», riprese, «dovrà raccontare di aver fatto uno sforzo tremendo per trovare dentro di sé le ultime forze rimaste e che, in qualche modo, è riuscito ad avere la volontà, l'energia, la rabbia necessarie per
prendere questa bomboletta dal comodino e scagliarla contro quella finestra.» «Posso farlo», promise Dalton con voce tremante, anche se non sembrava in grado di far altro che sbattere le palpebre. «Il vetro si è rotto e la bomboletta è ruzzolata sul tetto della veranda proprio mentre io passavo qui di fronte. Ho udito i suoi flebili richiami d'aiuto e sono entrato con la forza.» La storia faceva acqua da tutte le parti. I primi agenti arrivati sul posto avrebbero capito immediatamente che si trattava di una montatura, ma considerato ciò che aveva passato Dalton, avrebbero fatto finta di crederci. Il tempo necessario per portare Laputa in tribunale avrebbe permesso a Dalton di riprendersi completamente e la giuria non avrebbe mai saputo in che condizioni di estrema debolezza si trovava la sera in cui era stato salvato. Il tempo avrebbe dato a quella storia un po' sbilenca abbastanza lustro da renderla attraente. Spostando gli occhi dalla porta aperta ad Hazard, Dalton sussurrò ansiosamente: «Presto», come se temesse l'imminente ritorno di Laputa. Hazard scagliò la bomboletta di disinfettante contro la finestra. Il vetro andò in frantumi con un soddisfacente fracasso. 90 Dopo aver ulteriormente inaridito le radici della palma in vaso con la sua potente urina Manheim, che probabilmente avrebbe potuto imbottigliare e vendere ai fan più accaniti di suo padre, Fric cominciò a cercare un libro tra gli scaffali della biblioteca, memore del fatto che il signor Truman gli aveva raccomandato di non perdere tempo. Nel caso non avessero preparato tartine e non si fossero seduti sul pavimento raccontandosi storie raccapriccianti, voleva trovare un libro che gli sarebbe davvero piaciuto leggere. Pensava che, probabilmente, sarebbe rimasto sveglio quasi tutta la notte e non perché era elettrizzato perché tra due giorni sarebbe stata la vigilia di Natale. Se non avesse potuto trascorrere il tempo con un libro, sarebbe impazzito come il gatto a due teste di Barbra Streisand. Aveva appena trovato un libro che sembrava interessante, quando udì un rumore sopra di sé. Una musichetta allegra, molto simile al gradevole tintinnio di innumerevoli minuscole campanelle agitate tutte nello stesso tempo.
Quando sollevò lo sguardo verso la cupola di vetro colorato, vide centinaia di schegge staccarsi dall'impiombatura e cadere verso di lui. No. Non era vetro. Il mosaico di vetro colorato era ancora al suo posto nella cupola. Frammenti di colore e di ombra cadevano dal vetro senza romperlo, cadevano attraverso il vetro, piombando dal buio della notte o forse da un luogo incomparabilmente più strano. I frammenti scendevano lentamente, non secondo le leggi di gravità, e mentre volteggiavano verso il basso cambiavano colore. E mentre cambiavano colore, ruzzolavano uno sull'altro, fondendosi insieme. E mentre si fondevano insieme, acquisivano una dimensione maggiore e una forma. L'insieme dei frammenti divenne l'Uomo Misterioso che Fric aveva visto quel pomeriggio, nella stanza delle rose, ricoperto dal Los Angeles Times, e che aveva incontrato la sera precedente nel labirinto di oggetti ricordo conservati nel solaio. Così come, in quell'occasione, l'angelo custode era sceso, senza l'aiuto di un paio d'ali, dalle travi del soffitto al pavimento del solaio, così adesso si era posato con grazia silenziosa sulla moquette, a pochi centimetri da Fric. «Sei particolarmente dotato per fare spettacolari ingressi in scena», commentò Fric, ma il tremolio della sua voce smentiva l'atteggiamento da sfacciato ragazzino hollywoodiano. «Moloch è qui», lo avvertì l'angelo custode con un tono di voce così terribile che Fric avrebbe provato una stretta al cuore e poi lo avrebbe sentito battere furiosamente anche se il messaggio non fosse stato così spaventoso. «Corri nel tuo nascondiglio speciale, Fric. Corri, subito.» Indicando la cupola di vetro, Fric domandò: «Perché non mi porti semplicemente lassù, fuori, da dove sei arrivato, dove sarei al sicuro?» «Te l'ho già detto, devi fare le tue scelte, esercitare il tuo libero arbitrio e salvarti.» «Ma io...» «Oltretutto, non puoi andare nei posti dove vado io o spostarti con i mezzi che uso io, almeno fin quando non sarai morto.» L'angelo custode si avvicinò, si chinò in avanti, il suo pallido viso a un paio di centimetri da quello di Fric. «Vuoi morire in modo orribile solo per essere in grado di spostarti come meglio ti aggrada?» Il cuore impazzito di Fric spinse con forza tutte le parole fuori della sua bocca prima che lui riuscisse a pronunciarle e, mentre cercava di balbettare qualcosa in quel silenzio, fu sollevato da terra e tenuto a mezz'aria da quello strano angelo custode.
«Moloch è in casa. Nasconditi, ragazzino, per l'amor del cielo, nasconditi.» Dopodiché, l'Uomo Misterioso scagliò lontano Fric come fosse un sacco di stracci, ma usò la sua magia per fra sì che non andasse a sbattere con forza contro i mobili. Al contrario, Fric ruzzolò al rallentatore attraverso la biblioteca, sopra le poltrone e i tavoli, oltre le corsie di scaffali. Mentre ruotava su uno strano asse, vide la fotografia della graziosa signora, la sua mamma immaginaria, che gli era scivolata dalla tasca e ora si spostava lentamente accanto a lui. Come un astronauta che, a bordo di uno shuttle in orbita, in assenza di gravità, cerchi di raggiungere un tubo che fluttua nell'aria, Fric allungò la mano verso la fotografia, senza riuscire ad afferrarla. Atterrò sul pavimento con entrambi i piedi, vicino all'albero di Natale ornato di angeli, toccò il pavimento correndo, che volesse correre o no, come se un incantesimo costringesse le sue gambe a portarlo fuori di lì. Oltrepassato l'albero, di fronte alla porta aperta della biblioteca, si voltò a guardarsi indietro. L'angelo custode era scomparso. La fotografia non si vedeva da nessuna parte. Moloch è in casa. Fric uscì di corsa dalla biblioteca e si lanciò a tutta velocità verso la serra, seguendo il tragitto più breve. 91 Corky Laputa usò le chiavi della guardia per aprire una delle portefinestre di bronzo e vetro molato che si affacciava sull'enorme parco, sulle fontane e sulla piscina, ed entrò nel sontuoso salotto. Si asciugò alla bell'e meglio con gli splendidi tendoni di broccato. Dato che, per passare da una stanza all'altra della casa, avrebbe percorso i lunghi corridoi dai pavimenti in calcare, doveva evitare di lasciare tracce che avrebbero permesso a Truman di arrivare a lui, prima che lui trovasse Truman. Accese le luci. Non aveva paura di essere notato. Erano solo in tre in quella villa più vasta di numerosi centri commerciali. Era improbabile che si imbattessero l'uno nell'altro per puro caso.
Nel salone era stato collocato un albero di Natale dalle sfarzose decorazioni. Era tentato di fermarsi a cercare l'interruttore che accendeva le luci per ammirare quel magnifico abete in tutto il suo luminoso splendore. Ma a volte il caos poteva essere un padrone molto esigente e Corky doveva restare concentrato sul piano che l'aveva portato lì con un dirigibile e nonostante il maltempo. Mentre attraversava l'enorme sala, asciugò la suola degli stivali strofinando più volte avanti e indietro i piedi sui tappeti persiani. Due ampie porte, ben distanziate tra loro, conducevano al corridoio a nord. Accanto a una di queste uscite, incassato nella parete, c'era un pannello di comando sensibile al tatto. Corky sfiorò lo schermo spento. Il pannello si accese immediatamente, mostrandogli tre colonne di icone. Mick Sachatone aveva fornito a Corky qualche nozione di base sul suo funzionamento. Non lo aveva messo in condizioni di padroneggiare il sistema, ma ora ne sapeva abbastanza per riuscire a cavarsela. Toccò l'icona dei rilevatori di movimento interni e sullo schermo apparve un elenco di novantasei ubicazioni. A detta di Ned Hokenberry, non erano stati installati rilevatori di movimento nelle camere, nei bagni e in nessuna delle stanze del secondo piano riservate a Channing Manheim. In fondo all'elenco c'era la parola VEDI, che lui premette. In questo modo poteva scegliere di controllare i movimenti di tutti e tre i piani e dei due livelli sotterranei. In seguito si sarebbe servito di questa opzione per cercare il ragazzo. Ma prima di tutto doveva localizzare Ethan Truman e ucciderlo. Sicuramente sarebbe stato in grado di legare il ragazzino e portarlo via di lì sotto il naso del capo dei servizi di sicurezza. Tuttavia si sarebbe occupato di Aelfrich con maggior tranquillità sapendo che l'ex poliziotto era morto stecchito. Ciascun piano della villa era troppo vasto per risultare chiaramente distinguibile una volta riprodotto sullo schermo. Di conseguenza, per prima apparve la metà orientale del pianterreno. Un solo puntino lampeggiò, indicando la posizione di Corky nel salotto. Lui non si stava muovendo ma, in effetti, i rilevatori di movimento venivano attivati anche dal calore. Nonostante la tuta termica fungesse da isolante, Corky emanava un calore sufficiente ad attivare i sensori. Fece due passi a destra. Sullo schermo, il puntino lampeggiante si spostò leggermente a destra,
contemporaneamente a lui. Quando tornò di fronte al pannello di comando, anche il puntino si mosse. Quando apparve la metà occidentale del pianterreno sullo schermo, i sensori mostrarono un altro puntino lampeggiante. Ethan Truman, nel soggiorno del suo appartamento. Esattamente dove Corky si era aspettato di trovare il suo uomo. Spense lo schermo, si avvicinò alla porta più vicina e uscì silenziosamente nel corridoio a nord. Davanti a lui c'era la rotonda che fungeva da atrio e un altro spettacolare albero di Natale. Gli abitanti e il personale di Palais Crapaud erano pieni di spirito natalizio. Corky si domandò quali deliziosi biscotti mangiassero le persone così ricche in quei giorni di festa. Una volta ucciso Truman e dopo aver legato saldamente il ragazzino, forse avrebbe osato trattenersi qualche minuto per dare un'occhiata in cucina, per scoprire quali dolci avevano preparato. Magari poteva riempire un contenitore di prelibatezze da assaporare più tardi, a casa sua. Svoltò a destra e seguì il corridoio a nord, passando davanti alla sala da tè, al salone da pranzo, dirigendosi verso la cucina e poi verso il corridoio a ovest, dove Truman attendeva di essere ucciso nel suo appartamento. 92 Il telefono sulla scrivania dello studio di Ethan risultava isolato e, quando lui cercò di usare il cellulare, scoprì che anche quello era inutilizzabile. In qualche rara occasione le linee dei telefoni fissi potevano subire un'interruzione dopo due giorni di temporale. Ma non i cellulari. Andò in camera e sollevò il ricevitore dell'apparecchio che teneva sul comodino: muto. Non c'era da sorprendersi. Dal cassetto del comodino, prese un secondo caricatore per la pistola. Aveva preparato quel caricatore di scorta dieci mesi prima, la sera del suo primo giorno di lavoro a Palais Crapaud. All'epoca gli era sembrato di prendere una precauzione inutile. La probabilità che, fra quelle mura così ben protette, avvenisse una sparatoria, e soprattutto una sparatoria che prevedesse l'uso di più di dieci proiettili, era talmente scarsa da non poter essere neppure quantificata. Infilando il caricatore in una tasca dei pantaloni, Ethan tornò in fretta
nello studio. La pupilla dei suoi occhi. Fric. Fric doveva essere in biblioteca a scegliere un libro per trascorrere la notte. Okay. La cosa da fare era andare nella biblioteca. Portare di corsa il ragazzino nella stanza d'emergenza più vicina. Rinchiuderlo in quel locale confortevole e blindato. Poi risalire all'origine di tutto, scoprire che cosa diavolo stava succedendo. Uscì dal suo appartamento e, percorrendo di corsa il corridoio occidentale, raggiunse le scale di servizio che poco prima aveva usato per salire al secondo piano, deciso a entrare nella stanza bianca. Prendendosela comoda, divertendosi più di quanto gli fosse consentito, talvolta avanzando con esagerata circospezione, le ginocchia leggermente piegate e la schiena bassa come se facesse parte di una squadra speciale incaricata di introdursi di nascosto in una fortezza nemica, altre volte camminando con aria spavalda come Vin Diesel quando sa che la sceneggiatura prevede che nessun proiettile riuscirà a centrarlo, Corky seguì il corridoio a nord, passando accanto alla saletta della colazione, all'office e alla cucina. Gli sarebbe tanto piaciuto poter indossare il suo impermeabile giallo e il cappello dalle falde spioventi. Si sarebbe divertito come un matto vedendo l'espressione allibita di Truman di fronte a un assassino giallo banana che sputava morte. Nel corridoio a ovest, la porta dell'appartamento di Truman era aperta. Questo lo fece tornare immediatamente serio. Si avvicinò silenziosamente all'appartamento. Si fermò con la schiena appoggiata alla parete del corridoio, accanto alla porta aperta, in ascolto. Varcò la soglia in fretta, tenendosi basso, stringendo la Glock con entrambe le mani e spostandola rapidamente da sinistra a destra, da destra a sinistra. Lo studio era vuoto. In fretta, ma muovendosi con prudenza, controllò il resto dell'appartamento, senza trovare alcuna traccia della sua preda. Tornato nello studio, notò il contenuto delle sei scatole nere posate sulla scrivania. Evidentemente Truman stava ancora cercando di risolvere l'enigma. Divertente. La sua attenzione fu attratta da un testo scritto che compariva sul com-
puter. Truman sembrava essere uscito dall'appartamento mentre stava leggendo un messaggio di posta elettronica. Cedendo alla curiosità, che era un tratto così determinante del suo carattere e che gli era stata tanto utile in tutti quegli anni, Corky scorse il nome YORN alla fine dell'e-mail. William Yorn, il giardiniere della tenuta. Lesse il messaggio dall'inizio: FRIC SI STA PREPARANDO UN NASCONDIGLIO NELLA SERRA... gran parte delle lamentele di Yorn non significavano nulla per Corky, ma quella storia del nascondiglio era decisamente interessante. Visto che i suoi due bersagli se ne andavano in giro per la casa in un modo che gli risultava incomprensibile, Corky doveva trovare un altro pannello di comando, e in fretta. Uno era incassato in una parete della camera di Truman, ma il capo della sicurezza poteva tornare da un momento all'altro, proprio mentre Corky era impegnato nell'altra stanza. Scorse qualcosa sul pavimento, vicino al divano. Un cellulare. Non come se fosse caduto accidentalmente, ma gettato di proposito. Continuando a muoversi con circospezione, uscì nuovamente nel corridoio a ovest. Lo seguì fino alla porta dei McBee. Dalle cianografie risultava che c'era un pannello di comando nel soggiorno del loro appartamento. Fortunatamente la coppia si trovava a Santa Barbara. Secondo quanto riferito da Ned Hokenberry, per facilitare le pulizie e le altre incombenze della casa solo di rado i membri del personale residente nella villa chiudevano a chiave la porta del proprio appartamento quando uscivano. Il buon defunto Hokenberry si stava dimostrando affidabile quanto le cianografie. Corky entrò nell'appartamento dei McBee e si chiuse la porta alle spalle. Il pannello, incassato nella parete accanto all'ingresso, s'illuminò al tocco delle sue dita. Corky non ebbe bisogno di accendere la luce. Un rapido controllo dei rilevatori di movimento indicò che, al pianterreno, l'unico puntino luminoso era quello che segnalava la presenza di Corky nel soggiorno dei McBee. Al piano superiore, qualcuno aveva abbandonato il corridoio ovest per inoltrarsi nell'ala a nord, in direzione della biblioteca. Forse Truman. Forse il giovane Manheim. Chiunque fosse, sembrava aver fretta. I sensori non segnalavano alcun movimento o calore corporeo al secondo piano.
Richiamò sul pannello l'immagine dei due livelli sotterranei. Nulla. La persona al piano superiore aveva raggiunto la biblioteca. Doveva trattarsi di Ethan Truman. Sicuramente era salito usando le scale di servizio dell'ala ovest. Dov'era il ragazzino? I sensori non l'avevano individuato. Non avevano rilevato né il suo movimento, né il suo calore. Forse era nella sua camera o in uno dei bagni. Quelli erano spazi privi di sensori. Oppure se ne stava acquattato da qualche parte nella serra. Quella storia del nascondiglio era strana. A giudicare dal messaggio di Yorn, anche il personale la riteneva una faccenda curiosa. Truman che correva in biblioteca. Il ragazzino che non si trovava. Il cellulare abbandonato sul pavimento dell'appartamento di Truman. Corky Laputa credeva nei piani progettati con meticolosità e nella fedele esecuzione di questi piani. Ma era anche amico del caos. Riconobbe la mano del caos in quella situazione. Era molto probabile che Truman sapesse che qualcuno si era introdotto nella villa. Mettendo temporaneamente da parte il piano, con il cuore che esultava per quello sviluppo inatteso, Corky si affidò al caos e si lanciò di corsa verso la serra. Lasciando Maxwell Dalton con l'assicurazione che sarebbe tornato di lì a un minuto, Hazard Yancy si precipitò al pianterreno, mentre la bomboletta di disinfettante al profumo di pino, che aveva infranto il vetro della finestra, stava ancora rimbalzando dal tetto della veranda al prato. Ai lati del portone d'ingresso c'erano due pannelli di vetro, nessuno dei quali era abbastanza largo da far passare un uomo, soprattutto della stazza di Hazard. Oltretutto la distanza tra i pannelli e la porta era tale che Hazard non avrebbe mai potuto affermare di aver rotto uno dei vetri e aver allungato un braccio all'interno per disinserire il catenaccio. Aprendo la porta, Hazard, che aveva infilato la pistola nella fondina, fu improvvisamente colto dal timore di trovarsi di fronte Laputa. Oppure Hector X. Ma si trovò a fissare solo la notte, fredda e umida. Uscì sulla veranda. Da quel che poteva vedere, il rumore del vetro infranto non aveva convinto alcun vicino curioso a uscire di casa. Ma era possibile che qualcuno lo stesse osservando da una finestra. Nella sua carriera aveva corso rischi ben maggiori di quello. Sulla veranda c'erano diverse piante in vaso. Ne scelse una piccola.
Dopo aver lasciato passare un'auto, che si allontanò nella strada tra schizzi di fango, scagliò la pianta con il suo vaso di terracotta contro una finestra del soggiorno. Il fragore del vetro che andava in frantumi avrebbe dovuto attrarre l'attenzione anche in un quartiere di fatti-gli-affari-tuoi come quello. Estrasse la pistola e, con il calcio, frantumò alcune schegge che si ostinavano a restare attaccate al telaio. Poi scavalcò il davanzale della finestra ed entrò nel soggiorno della villetta, spingendo di lato le tende, rovesciando un piedistallo e il vaso che c'era sopra, muovendosi a tentoni come se non fosse mai stato a casa di Laputa prima di allora. Ora aveva una storia da raccontare. Rispondendo alle grida d'aiuto che gli erano giunte attraverso il vetro rotto della finestra, aveva suonato il campanello, bussato con forza alla porta. Non avendo ricevuto alcuna risposta, aveva rotto la finestra del pianterreno, era salito al piano superiore e aveva trovato Maxwell Dalton. Quella storiella non profumava certo di verità, anzi, puzzava di letame a chilometri di distanza; tuttavia era il suo letame e l'avrebbe offerto con entusiasmo. Dopo essere tornato sulla veranda uscendo in modo più convenzionale, ovvero dalla porta, considerate le gravi condizioni di Dalton, Hazard usò il suo cellulare per chiamare il 911. Fornì il suo numero di matricola e spiegò la situazione. «Ho bisogno di un'ambulanza e di alcuni ragazzi, prima possibile.» Dopo averci pensato un istante, soggiunse: «Per ragazzi intendo dei poliziotti». «Lo so», rispose la centralinista. «Mi scusi», mormorò Hazard. «Non si preoccupi», lo rassicurò lei. «Ho bisogno di qualcuno della Scientifica...» «Lo so», disse nuovamente lei. «Mi scusi», ripeté Hazard. «Lei è nuovo, detective?» «Ho quarantun anni», disse Hazard, rendendosi immediatamente conto che un premio per la risposta più stupida dell'anno non glielo levava nessuno. «Intendevo dire, nuovo della Rapine-Omicidi», chiarì lei. «No, signora. Ho tanti di quegli anni di servizio sulle spalle che ormai non dovrei reggermi neppure in piedi.» Tuttavia quello era il primo caso in cui avevo avuto a che fare con un
fantasma, o qualunque cosa fosse Dunny Whistler visto che riusciva a dare forma ai sogni di una persona e a scomparire in uno specchio. Era anche la prima volta che riceveva una telefonata da un sicario morto, e anche la prima volta che si occupava di un criminale che torturava e lasciava morire di fame la sua vittima, mantenendola allo stesso tempo viva con una serie di flebo. C'erano giorni in cui pensava di aver visto tutto. Quello non era uno di quei giorni. Conclusa la telefonata con il 911, si catapultò dall'altra parte della strada, verso la sua automobile. Nascose la Lockaid sotto il sedile del guidatore. Mentre tornava alla veranda, udì le sirene che si avvicinavano. Varcando la soglia della biblioteca, Ethan vide sul pavimento una fotografia tutta stropicciata. Hannah. Lo stesso ritratto che Dunny aveva tenuto sulla sua scrivania e che era stato strappato dalla cornice d'argento. La sparizione delle tre campanelle dalla scrivania di Ethan suggerivano che Dunny fosse stato a Palais Crapaud. I messaggi di Devonshire, Yorn e Hachette avevano supportato quell'ipotesi. Per quel che concerneva Ethan, quella foto rappresentava una prova inconfutabile. Morto, morto stecchito, come aveva assicurato il dottor O'Brien del Nostra Signora degli Angeli, tuttavia Dunny era ancora in questo mondo, ma con poteri che sfidavano la ragione e che lo caratterizzavano come entità sovrannaturale. Era stato a Palais Crapaud. Era lì proprio in quel momento. Ethan non avrebbe mai creduto nell'esistenza di un morto vivente se lui stesso non fosse stato colpito al ventre da distanza ravvicinata, non fosse morto e poi resuscitato, se non fosse stato investito da un Cruisier e da un camion, per ritrovarsi di nuovo in piedi qualche istante dopo la sua seconda morte. Lui non era un fantasma, ma dopo gli eventi degli ultimi due giorni, poteva senz'altro credere a un fantasma e a tante altre cose a cui prima non aveva dato credito. O forse Dunny non era nemmeno un fantasma. Poteva essere qualcos'altro che Ethan non sapeva definire. Qualunque cosa fosse, Dunny non era soltanto un uomo. Di conseguenza le sue motivazioni non potevano essere comprese né seguendo un processo di deduzione, né affidandosi all'intuito come facevano i poliziotti.
Tuttavia Ethan in quel momento sentiva che il suo amico d'infanzia, con il quale per tanto tempo non aveva più avuto rapporti, non era colui che minacciava Fric, che il ruolo di Dunny in quella serie di bizzarri eventi era positivo. Un uomo che aveva amato Hannah, che per cinque anni aveva tenuto la sua fotografia anche dopo che lei era scomparsa, doveva avere in sé qualcosa di buono, almeno potenzialmente, e di sicuro non aveva la crudeltà necessaria per far del male a un bambino innocente. Ripiegando la foto e infilandola in una tasca, Ethan gridò: «Fric! Fric, dove sei?» Visto che alla sua domanda aveva risposto solo il silenzio, cominciò a correre, cercando tra quei canyon di libri, da Esopo e Conrad Aiken ad Alexandre Dumas, da Gustave Flaubert a Victor Hugo, da Somerset Maugham a Shakespeare, fino a Émile Zola, temendo di trovare il ragazzino morto, o di non trovarlo affatto. Fric non c'era. L'area di lettura più lontana dall'ingresso non comprendeva solo poltrone ma anche un tavolo da lavoro con un telefono e un computer. Sebbene le linee non funzionassero, l'interfono era una funzione del sistema separata dal servizio telefonico. Solo un guasto all'impianto elettrico poteva metterlo fuori servizio. Ethan premette il pulsante con la scritta INTERFONO, poi premette CASA, e infranse una delle regole fondamentali della signora McBee chiamando il ragazzino contemporaneamente in tutte le stanze della villa, fino al garage del secondo livello sotterraneo: «Fric? Dove sei, Fric? Ovunque tu sia, rispondimi». Rimase in attesa. Cinque secondi gli parvero un tempo spaventosamente lungo. Dieci, equivalsero a un'eternità. «Fric? Rispondimi. Fric!» Il computer accanto al telefono si accese. Ethan non l'aveva toccato. Il fantasma che stava usando il computer entrò nel programma di controllo della casa. Invece delle solite tre colonne di icone, il monitor mostrò immediatamente la metà orientale del pianterreno. Poi, senza che Ethan facesse nulla, apparve il display del sensore di movimento. Un puntino luminoso, che significava movimento e calore corporeo, lampeggiava nella serra. Con un diametro di più di venti metri e un'altezza, dal pavimento al soffitto, di quasi quindici metri, la serra era una giungla dotata di finestre, in
realtà alti pannelli di vetro al piombo recuperati da un palazzo francese andato quasi completamente distrutto durante la prima guerra mondiale. Qui il signor Yorn e i suoi aiutanti curavano e rinnovavano continuamente una serie di piante esotiche, palme, tulipifere, frangipane, mimose, diverse varietà di felci, orchidee e un casino di altre piante che Fric non era in grado di riconoscere. Stretti sentieri di granito frantumato serpeggiavano tra le aiole e i portavasi. Bastava fare qualche passo in quel labirinto verde per avere la netta sensazione di trovarsi in una giungla tropicale. Si poteva fingere di trovarsi nel cuore dell'Africa, sulle tracce di un raro gorilla albino o alla ricerca delle miniere di diamanti di re Salomone. Fric la chiamava Jungle Crapaud, cioè «giungla rospo», e pensava che lì dentro si potesse trovare tutto ciò che di buono offriva una vera foresta tropicale, senza la parte sgradevole. Niente insetti enormi, niente serpenti, nessuna scimmia tra gli alberi che strillava e ti faceva la cacca sulla testa. Al centro di quello spazio solo apparentemente lasciato allo stato naturale si trovava un gazebo di bambù e legno bubinga. Lì dentro potevi cenare o, se ne avevi l'età, ubriacarti fino a vomitare, oppure semplicemente fingere di essere Tarzan prima dell'arrivo di quella scocciatrice di Jane. Il gazebo, che aveva un diametro di quattro metri, era sollevato da terra di circa un metro e mezzo, era raggiungile grazie a otto gradini di legno e conteneva un tavolo rotondo e quattro sedie. Nel pavimento c'era un pannello segreto che, se fatto scorrere, mostrava lo sportello di un piccolo frigorifero pieno zeppo di Coca, birra e bottiglie d'acqua naturale... anche se non così naturale da farti venire la dissenteria, il tifo o il colera, né era infestata da voraci parassiti che ti mangiavano vivo, cominciando dall'interno. Se si faceva invece scorrere un altro pannello segreto, si accedeva allo spazio alto un metro e mezzo che si trovava sotto il gazebo. Questo permetteva di effettuare eventuali riparazioni del frigorifero e consentiva ai dipendenti della ditta di derattizzazione, che venivano una volta al mese, di introdursi sotto il gazebo per controllare che né ragni pericolosi, né topi infetti si fossero annidati nel piccolo spazio buio. Buio lo era davvero. Dato che, di giorno, in quella tana non entrava neppure un raggio di sole, se tutte le luci della serra fossero state spente di notte, da fuori nessuno avrebbe comunque visto le sue torce accese. Alcune ore prima, Fric aveva deciso che quello sarebbe stato il suo nascondiglio segreto e vi aveva portato ciambelle e altro cibo poco rumoroso,
tovagliette inumidite e sigillate, e vasi da notte formati da contenitori per cibi surgelati. Ora che Moloch si era introdotto nella casa, Fric si era rifugiato in quel bunker di bubinga - un nascondiglio che il suo angelo custode riteneva lo avrebbe salvato dal divoratore di bambini - e se ne stava seduto sul pavimento a gambe incrociate come un indiano. Si trovava là sotto da meno di due minuti, ascoltando il suo cuore che imitava una mandria di cavalli al galoppo, quando udì qualcosa di diverso dalla corsa folle che avveniva dentro di lui. Passi. Che salivano i gradini del gazebo. Molto probabilmente era il signor Truman che veniva a cercarlo. Il signor Truman. Non Moloch. Non il mostro con ossa di bambini conficcate tra i denti. Solo il signor Truman. I passi girarono intorno alla piattaforma, prima dirigendosi verso il pannello nascosto, poi allontanandosi. Ma poi si avvicinarono di nuovo. Fric trattenne il fiato. I passi si fermarono. Le assi di legno scricchiolarono quando l'uomo spostò il suo peso. Fric espirò silenziosamente l'aria che aveva nei polmoni, altrettanto silenziosamente inspirò aria fresca, poi di nuovo trattenne il fiato. Lo scricchiolio si interruppe e fu seguito da rumori quasi impercettibili: un leggero strofinare, un sommesso grattare, un clic. Adesso sarebbe davvero il momento peggiore per avere un attacco d'asma. Fric fu quasi sul punto di sgridarsi a voce alta per essere così stupido da pensare una cosa tanto stupida in un momento così pericoloso. Stupido, stupido, stupido. Solo nei film il bambino asmatico o il bambino diabetico o quello epilettico hanno un attacco nel peggiore dei momenti possibili, solo nei film, non nella vita reale. Quella era vita reale, o per lo meno qualcosa che fingeva di esserlo. Sentiva un prurito tra le spalle? Che si allargava verso la nuca? Un prurito vero era sintomo di un imminente attacco d'asma. Un prurito immaginario significava che lui era un mocciosetto completamente scemo e fifone. Proprio sopra di lui, il pannello segreto cominciò a scorrere. E così si trovò a faccia a faccia con Moloch, che evidentemente era più furbo dell'angelo custode di Fric: un tizio con le lentiggini, occhi da sciacallo e un grande sorriso. Tra i denti non aveva frammenti d'ossa di bambini.
Brandendo la lama da venti centimetri che aveva prelevato dal cassetto del signor Hachette, Fric minacciò: «Ho un coltello». «E io ho questa», ribatté Moloch, mostrando una minuscola bomboletta spray grande come una pepaiola. Inondò il viso di Fric con un getto freddo di qualcosa che sapeva di noce moscata e puzzava come probabilmente doveva puzzare lo zibetto allo stato puro. 93 Di notte, la serra veniva splendidamente illuminata: ogni nuvola dorata, ogni scintilla di stelle e serico velo di falso chiaro di luna lasciava a bocca aperta come quelli creati dai più abili maghi delle luci di Hollywood. Dopo il tramonto, bastava sollevare la levetta di un interruttore perché una semplice mini giungla si trasformasse in quel tropicale Shangri-la. Entrando, la pistola stretta con entrambe le mani, Ethan non chiamò a voce alta Fric. Il puntino luminoso che il sensore di movimento segnalava sullo schermo della biblioteca poteva non essere il ragazzino. Non riusciva a immaginare come qualcuno avesse potuto superare il muro di cinta della proprietà e poi introdursi in casa senza far scattare i numerosi allarmi. Tuttavia l'idea che un intruso si trovasse a Palais Crapaud lo lasciava molto meno strabiliato di tanti altri episodi che si erano verificati ultimamente. I sassolini di granito dei sentieri scricchiolavano sotto le sue scarpe, rendendo impossibile effettuare una ricerca silenziosa. Cercò comunque di ridurre al minimo il rumore dei suoi passi. Il pietrisco, spostandosi, gli impediva di mantenere un equilibrio perfettamente stabile. Oltretutto non gli piacevano le zone d'ombra. Ce n'erano ovunque, si sovrapponevano per ottenere un voluto effetto drammatico, innaturale e quindi doppiamente ingannevole. Mentre si avvicinava al centro della piccola giungla, Ethan udì uno strano rumore: thhhut, thhhut, e sentì il fogliame delle piante frusciare e spezzarsi, ma non si rese conto che qualcuno gli stava sparando fino a quando, fendendo l'aria a pochi centimetri dalla sua faccia, un proiettile andò a conficcarsi nel tronco di una palma che emise uno spruzzo di granelli verdi. Ethan si gettò a terra, appiattendosi sul terreno, ruzzolò fuori del sentiero e si mise a strisciare fra felci e pitosfori, tra mimuli carichi di fiori rosso scuro, nascondendosi nella semioscurità, grato per tutte quelle zone d'ombra, naturali e no.
I poliziotti arrivarono prima dell'ambulanza, Hazard li informò brevemente sui fatti e indicò loro dove mandare i paramedici, una volta che questi fossero giunti sul posto, poi salì al piano superiore per occuparsi di Maxwell Dalton. L'uomo, che appariva ancora più scheletrico alla terza occhiata di quanto gli fosse sembrato alla prima e alla seconda, ruotò gli occhi infossati facendo strane smorfie, era estremamente agitato, si sforzava di far uscire alcune parole dalla gola, sicuramente lesionata e sanguinante. «Tranquillo», lo rassicurò Hazard. «Ora si calmi. Adesso andrà tutto bene. Ormai è al sicuro, professore.» Le parole, che sembravano avvolte da filo spinato, pungevano dolorosamente la bocca di Dalton, che tuttavia riuscì a dire: «Lui... sta... tornando». «Bene», commentò Hazard, soddisfatto di udire la sirena dell'ambulanza che si avvicinava nella notte. «Quando verrà qui, sapremo esattamente cosa fare con quel figlio di puttana.» Pur sofferente, Dalton riuscì a ruotare la testa da una parte e dall'altra e a tirar fuori un gemito angosciato. Pensando che Dalton fosse preoccupato per la moglie e la figlia, Hazard lo informò che aveva appena inviato un paio di poliziotti a casa sua, non solo per comunicare a Rachel che suo marito era stato trovato vivo, ma anche per fornire protezione a lei e a Emily, almeno fino a quando Laputa fosse stato individuato e arrestato. Con voce sibilante e spezzata, Dalton disse: «Torna con», poi s'interruppe con una smorfia di dolore. «Non faccia sforzi», gli consigliò Hazard. «In questo momento è terribilmente debole.» L'ambulanza, a sirena spiegata, era arrivata in fondo all'isolato e stava svoltando l'angolo. La notte piovosa leccò e ingoiò l'ultima nota stridula della sirena, mentre i freni inchiodavano il veicolo sull'asfalto davanti alla villetta. «Porta... un bambino», riuscì finalmente a gracchiare Dalton. «Un bambino?» domandò Hazard. «Sta parlando di Laputa?» Dalton riuscì in qualche modo ad annuire. «Gliel'ha detto lui?» Un altro cenno d'assenso. «Ha detto che questa sera avrebbe portato qui un bambino?»
«Sì.» Mentre sentiva i paramedici salire in fretta le scale, Hazard si chinò sull'uomo e domandò: «Quale bambino?» Accovacciato tra mimuli e felci, Ethan udì una seconda raffica di colpi, tre o quattro, sparati da un'arma con un silenziatore e, dopo circa trenta secondi di silenzio, una terza serie di spari. Nessuno di quei proiettili finiva vicino a lui. Evidentemente l'uomo doveva aver perso le sue tracce. O forse non aveva mai saputo dove si trovasse Ethan, aveva sparato alla cieca e per puro caso l'aveva quasi colpito. Un uomo... al singolare. Un solo individuo. Il buonsenso suggeriva che un assalto portato a una proprietà del genere richiedesse l'intervento di più persone, che un uomo da solo non potesse scavalcare il muro di cinta, superare i sistemi di sicurezza elettronici, mettere fuori combattimento le guardie e introdursi nella villa. Era roba da Bruce Willis sul grande schermo. Da Tom Cruise. Era Channing Manheim che interpretava il ruolo del cattivo. Niente che appartenesse alla realtà. Tuttavia, se a Palais Crapaud si fosse introdotta una squadra di rapitori accuratamente coordinata, non ci sarebbe stato soltanto un uomo a sparare di tanto in tanto una serie di colpi. Avrebbero attaccato Ethan con due o tre carabine automatiche. Con gli Uzi, o forse con armi ancor più micidiali. A quest'ora lui sarebbe stato morto stecchito, starebbe già ballando in paradiso. Dato che alla terza, breve raffica era seguito un silenzio prolungato, Ethan si rialzò e si fece cautamente largo tra le felci, avanzò tra le palme e raggiunse il bordo del sentiero. In qualsiasi film ambientato nella giungla, c'era sempre un personaggio profondo conoscitore della natura selvaggia e lui avrebbe compreso subito che una simile immobilità stava a indicare che qualcosa di malvagio aveva fatto il suo ingresso nel mondo naturale, rendendo silenziosi tutti gli animali, dai grilli ai coccodrilli. Odore di vegetazione calpestata che saliva dal basso. Il ronzio dell'impianto di riscaldamento che giungeva dalle pareti. Un moscerino si librava a mezz'aria proprio davanti a Ethan. Gusto di sangue in bocca, la scoperta di essersi morso la lingua mentre si gettava a terra, la piccola ferita che cominciava a pulsare. Un tremolio di foglie lo fece ruotare su se stesso e puntare la pistola verso il rumore.
Non foglie. Ali. In alto, sopra il sentiero, volava uno stormo di pappagalli dai colori vivaci, blu e rossi e gialli e il verde iridescente di certi strani tramonti. Ma nella serra non c'erano uccelli. Né stormi di pappagalli e neppure un unico passerotto. Scendendo in picchiata proprio davanti a Ethan, ma poi risalendo di nuovo, quegli uccelli multicolori rimasero in assoluto silenzio e, mentre risalivano, si trasformarono in colombe bianche. Quello era il fantasma dello specchio appannato. Quello era l'impossibile gruppo di campanelle che si era ritrovato in mano fuori del negozio di fiori. Era l'intensa fragranza di rose Broadway nel suo studio, in cui non c'erano rose, la preziosa voce della sua defunta moglie che parlava di coccinelle nella stanza bianca. Era la mano di una forza sovrannaturale che si tendeva verso di lui, ansiosa di guidarlo. Dopo essere risalite con un frenetico battere d'ali, le colombe scesero di nuovo, si fermarono a mezz'aria, si diressero verso di lui, oltrepassandolo con un cupo fruscio che lo colmò allo stesso tempo di entusiasmo e di paura, che risuonò nel suo cuore con note di meraviglia, ma che rimbombò anche come un tamburo di terrore primitivo. Volarono via. Lui si mise a correre. Lo guidarono. Lui le seguì. «Aspettate», disse Hazard ai paramedici che si erano precipitati verso il letto nonostante il fetore e che ora, pur abituati alle scene orrende a cui assistevano quotidianamente nello svolgimento del loro lavoro, fissavano a bocca aperta e occhi sgranati quello scheletro umano. «Bambino», gracchiò Dalton. «Quale bambino?» domandò Hazard, dopo aver preso nuovamente la mano dell'uomo tra le sue. «Dieci», riuscì a dire Dalton. «Dieci bambini?» «Dieci... anni.» «Un bambino di dieci anni», disse Hazard, non riuscendo a comprendere per quale motivo Dalton pensasse che Laputa intendeva ritornare con un ragazzino e neppure certo di aver interpretato correttamente ciò che quell'uomo aveva cercato di dirgli. Dalton si sforzò di parlare nonostante il tremendo dolore alla gola: «Ha detto... famoso». «Famoso?»
«Detto... famoso bambino.» E Hazard capì. Sull'ascensore, Moloch lasciò cadere Fric, che si afflosciò come un mucchietto di stracci, senza sapere esattamente che cosa gli fosse successo. Moloch non gli aveva spruzzato in faccia del semplice pepe. Riusciva a vedere, ma non a muovere gli occhi con la consueta rapidità, riusciva a sbattere le palpebre, ma solo lentamente. Era in grado di muovere le braccia e le gambe, ma come se lottasse contro la pressione dell'acqua, come un nuotatore stanco che venisse risucchiato verso il fondo da un'implacabile risacca. Non poteva dare un pugno per difendersi, non poteva neppure chiudere completamente la mano. Mentre scendevano verso il garage, Moloch rivolse a Fric un grande sorriso e agitò la bomboletta verso di lui. «Gas semiparalizzante di breve durata, messo a punto da un collega grazie al generoso contributo finanziario della polizia segreta iraniana. Ti volevo docile ma sveglio.» Fric si udì respirare. Non era un respiro asmatico. «Quel gazebo non compariva sulla pianta della proprietà», proseguì Moloch. «Ma nel momento stesso in cui l'ho visto, ho capito. Sono ancora in contatto con il bambino che c'è in me, con quell'essere selvaggio che ognuno di noi è al momento della nascita, e ho capito.» Però Fric non udiva neppure il suono di una respirazione normale. Era regolare ma poco profondo, con un leggero sibilo in gola. Con voce allegra, ma con spaventose contrazioni del volto che avrebbero fatto svuotare completamente la vescica di Fric se lui, poco prima, non si fosse liberato nel vaso della palma, Moloch soggiunse: «Voglio che tu sia sveglio per provare fino in fondo l'orrore di essere portato via dalla tua lussuosa dimora, sapendo che il tuo famoso papà non può arrivare a salvarti in mantello e calzamaglia o volando su una motocicletta, come un tempo pensavi che potesse fare. Non c'è divo al mondo, top model o muscolosa guardia del corpo di Bel Air in grado di salvare il tuo prezioso culetto». Fric capì che sarebbe morto. Nessuna possibilità di svignarsela a Goose Crotch, nel Montana. Nessuna speranza di poter a vivere un giorno una vita reale. Ma magari, finalmente, un po' di pace. Come il pastore alla pecora, come il cane ai poliziotti, le colombe mostrarono la strada a Ethan, uccello per uccello, fuori della serra, nel corridoio a est, oltre la piscina coperta, nel corridoio a nord e infine verso la ro-
tonda. Era uno spettacolo incredibile: trenta o quaranta candidi uccelli che, in fila, attraversavano volando il corridoio, un fiume piumato che scorreva in quel lussuoso canyon, simili a un gruppo di spiriti liberati che si dirigono verso il Valhalla. Raggiunta la rotonda dell'ingresso, cominciarono a volteggiare in tondo, come se fossero stati catturati dalle correnti vorticose di un ciclone, fino a quando Ethan li raggiunse, dopodiché tutti gli uccelli si avvicinarono l'uno all'altro, sempre più vicini, fino a che i loro corpi formarono una sola, turbolenta entità. Dall'alto della cupola, cominciarono a scendere verso il pavimento, cambiando colore, modificando nuovamente la loro forma, trasformandosi in quell'amico d'infanzia che aveva perso la strada. Ferma a qualche metro da Ethan, l'apparizione che era Dunny Whistler disse: «Se questa volta muori, non posso riportarti indietro. Sono al limite della mia autorità. Quell'uomo sta portando Fric nel garage. È già quasi fuori». Prima che Ethan potesse parlare, il defunto Dunny non era più Dunny, ma ancora una volta colombe che esplodevano in uno splendore di ali luminose, lanciandosi dritte verso l'enorme albero di Natale. Non andarono a nascondersi tra i rami, ma volarono nelle lucide superfici rosso e argento delle decorazioni, non più uccelli ma solo ombre di uccelli che andavano scurendosi nelle curve scintillanti, per poi sparire. Afferrato per la camicia, il semiparalitico Fric venne trascinato sul pavimento del garage, con il volto rivolto verso l'ascensore che, via via che si allontanava, sembrava farsi sempre più piccolo. Moloch aveva preso le chiavi di un'auto dal pannello a cui ogni mazzo era appeso sotto un'etichetta che indicava la marca, il modello e l'anno. Il suo rapitore si muoveva con estrema sicurezza, come se avesse abitato a Palais Crapaud. Oltre all'ascensore, anche un'altra cosa si allontanava sempre più da Fric: il suo inalatore, la sua preziosa medicina per l'asma. La bomboletta si era staccata dalla cintura. Aveva cercato di afferrarla, ma gli sembrava di avere gambe e braccia fatte di gelatina. Moloch poteva essere pazzo o semplicemente malvagio. Ma Fric non riusciva proprio a immaginare per quale motivo la polizia segreta iraniana ce l'avesse con lui. Nei suoi dieci anni di vita aveva conosciuto la paura. In effetti era stata
quasi una costante. Ma quella paura che gli era famigliare da così tanto tempo era stata più una sensazione continua che una forza minacciosa, più simile al persistente becchettare di uccellini che alla terrificante ferocia di uno pterodattilo. Il timore che le assenze di suo padre si facessero sempre più lunghe, fino a durare anni, come quelle di sua madre. L'angosciante preoccupazione di restare per sempre il mostriciattolo che era adesso, di non riuscire mai a comprendere che cosa fare di se stesso o della sua vita, di invecchiare e di restare soprattutto il figlio di Channing Manheim, il figlio del Volto. Tuttavia, durante ogni secondo del tragitto tra la serra e il garage, un immenso, oscuro terrore continuò a sbattere furiosamente le ali nella gabbia del suo cuore, si lanciò a precipizio attraverso le cavità del suo corpo e della sua anima, gli fece tremare la carne, il sangue e le ossa. Per la sua fuga, Moloch avrebbe potuto scegliere tra le numerose auto d'epoca del valore di centinaia di migliaia di dollari. Invece preferì servirsi di un modello più recente, una delle auto che Fric amava di più: la Buick Super 8 del 1951, color rosso ciliegia, con gli alettoni e i parafanghi cromati. Sollevò Fric, scaraventandolo sul sedile anteriore del passeggero, sbatté la portiera, girò in fretta intorno all'auto e si sedette dietro al volante. Il motore partì immediatamente perché ogni veicolo veniva mantenuto in perfette condizioni. Evidentemente non si poteva far affidamento sugli angeli custodi nel momento del bisogno. E comunque, l'Uomo Misterioso non gli era mai sembrato un gran che come angelo: il suo aspetto era troppo sinistro, il suo stile troppo minaccioso e c'era tanta tristezza nei suoi occhi. Mentre Moloch faceva retromarcia, Fric si domandò che cosa fosse accaduto al signor Truman. Doveva essere morto. Quando pensò al signor Truman morto, Fric scoprì che la sostanza semiparalizzante che aveva inspirato non gli impediva di piangere. Scendendo le scale ed entrando nel garage superiore, Ethan udì il rombo di un motore, sentì l'odore di gas di scarico. Ferma ai piedi della rampa d'uscita, con la porta del garage che aveva quasi finito di sollevarsi, la Buick era pronta a scattare. Al volante c'era un uomo. Un solo uomo. Niente complici sul sedile posteriore. Nessun individuo armato che lo attendeva nel garage. Ethan si lanciò di corsa verso l'auto, avvicinandola dal lato del passeggero. Sul sedile anteriore, la testa di Fric era appoggiata contro il finestrino
laterale, i capelli arruffati che premevano contro il vetro. Non riusciva a vedere il ragazzino in faccia, ma la sua testa sembrava ciondolare, come se lui fosse svenuto. Ethan riuscì quasi a raggiungere la Buick prima che la porta del garage si sollevasse completamente. Ma l'auto balzò in avanti e imboccò la rampa a una velocità tale che era impossibile per un uomo a piedi riuscire a starle dietro. Passando dalla corsa alla posizione di sparo, rivolto esattamente verso il bersaglio, la gamba destra indietro, ad angolo retto per un maggior equilibrio, il ginocchio sinistro piegato, entrambe le mani strette sull'arma, Ethan sparò tre volte in rapida successione, mirando in basso per timore che un proiettile, rimbalzando, colpisse Fric. Tentava di centrare lo pneumatico posteriore dalla parte del passeggero. Il parafango scendeva fino a quasi metà della ruota, il che non gli dava molto spazio per piazzare il colpo. Un proiettile s'incastrò nel metallo, uno andò a vuoto, ma il terzo colpì la gomma. L'auto sprofondò sul lato posteriore. Continuò la corsa. Sempre troppo veloce per essere raggiunta. La sua salita della rampa fu contrassegnata dallo slap-slap-slap dello pneumatico sgonfio. La pavimentazione in quarzite garantiva una buona trazione sia sull'asciutto sia sul bagnato, ma le ruote posteriori della Buick sbandarono leggermente, sollevando uno spruzzo d'acqua sporca e un pennacchio di fumo blu, forse per via dell'inclinazione dell'auto verso destra. Proprio mentre Ethan riusciva ad avvicinarsi di nuovo, la Buick riacquistò stabilità e fece un balzo in avanti. La gomma a brandelli prese a sbattere ancora più rumorosamente di prima e il cerchione scoperto cominciò a stridere sul fondo in quarzite come una sega da pietra che tagli dei sassi. Quando Ethan giunse in cima alla rampa, vide che l'auto aveva imboccato il viale d'accesso che costeggiava la villa e si dirigeva verso l'uscita principale. Era a poco più di dieci metri di distanza. E continuava ad accelerare, nonostante la gomma a terra. Non c'era nulla che impedisse alla Buick di arrivare in quelle condizioni fino al cancello; a quel punto l'imponente barriera si sarebbe aperta automaticamente dall'interno appena i sensori incassati nella pavimentazione del viale avessero rilevato il movimento dell'auto. Ethan si lanciò all'inseguimento. Non sarebbe mai riuscito a raggiungere la Buick. Non c'era speranza. Ma continuò a correre lo stesso perché non poteva fare nient'altro. Era
troppo tardi per tornare indietro, prendere un mazzo di chiavi, salire su un'altra auto. La Buick avrebbe varcato il cancello e sarebbe svanita nella notte quando ancora lui non era neppure uscito dal garage. Continuò a correre, a correre, finendo nelle pozzanghere di acqua gelida, muovendo ritmicamente le braccia avanti e indietro, cercando di compensare il peso e la massa della pistola che stringeva nella destra perché correre bene è una questione di equilibrio, correva, correva, perché se Fric fosse stato ucciso, anche Ethan Truman sarebbe stato un uomo morto, morto dentro, e avrebbe trascorso il resto del suo tempo in questo mondo a cercare una tomba, sarebbe stato un cadavere ambulante esattamente come Dunny Whistler. 94 Corky Laputa, soddisfatto perché stava dimostrando che Robin Goodfellow era temibile e spericolato come un vero agente della NSA, aveva sempre avuto l'intenzione di abbandonare la villa a bordo di una delle costose auto dell'attore. Non avrebbe certo cambiato i suoi piani per una gomma a terra; quello era soltanto uno sgradevole contrattempo. Guidare in quelle condizioni era tutt'altro che facile, non riusciva a controllare bene il volante, ma in quanto esperto di caos e di disordine, accettava la sfida con la gioia e il divertimento di un bambino che, al luna park, tenti di controllare il veicolo di un autoscontro. Ogni strattone e ogni sobbalzo lo mandava in visibilio. Aveva soltanto bisogno di portare la Buick fuori del cancello e farle percorrere tre isolati, fino alla strada in cui aveva parcheggiato l'Acura. Poi il viaggio sarebbe stato breve. Nel giro di mezz'ora, il viziato mocciosetto sarebbe stato presentato al Puzzolente Uomo Formaggio, avrebbe capito quali spaventose torture lo attendevano e avrebbe iniziato un lungo periodo di sofferenza, nonché la sua carriera di personaggio celebre. Se in quel lasso di tempo qualcosa fosse andato storto, se per la prima volta il caos non fosse stato alleato di Corky, lui avrebbe ucciso il ragazzino piuttosto che consegnarlo a chicchessia. Non avrebbe neppure accettato di cedere il giovane Manheim in cambio della sua vita. Non c'è posto per la vigliaccheria nell'intrepida esistenza di chi è destinato ad annunciare il crollo della società e la nascita di un nuovo mondo. «Se qualcuno dovesse fermarmi», promise al ragazzino, «ti farò saltare le cervella - pop, pop, pop - e ti farò diventare il personaggio famoso più compianto al mondo dai tempi della principessa Diana.»
Aveva raggiunto l'angolo dell'edificio. A una certa distanza, sulla sinistra, c'era il laghetto artificiale costruito al centro dello slargo antistante la villa. La Buick stava ancora percorrendo il viale d'accesso laterale che, dopo cinquanta o sessanta metri, sarebbe confluito in quello principale. Ma davanti ai fari dell'auto avvenne qualcosa di così strano che Corky lanciò un grido di sorpresa e, quando i due fasci di luce mostrarono la vera natura dell'ostacolo davanti a lui, si sentì afferrare dal terrore. Premette il piede sul pedale del freno con tanta forza che la Buick cominciò a ruotare su se stessa. Moloch aveva detto che gli avrebbe fatto saltare le cervella, ma Fric aveva qualcosa di più immediato di cui preoccuparsi, perché il pizzicore tra le spalle questa volta era reale, non immaginario, e si era rapidamente esteso alla nuca. Si era aspettato un attacco d'asma nel momento stesso in cui Moloch gli aveva spruzzato qualcosa in faccia, ma forse quella sostanza aveva ritardato la reazione asmatica. Ora era arrivata, e si stava vendicando. Fric cominciò ad ansimare. Sentì il torace stringersi e non fu più in grado di inspirare aria a sufficienza. Non aveva più l'inalatore. Oltretutto era ancora semiparalizzato e non riusciva ad abbandonare quella posizione accasciata e a rimettersi seduto. Doveva tenere la schiena dritta per poter usare i muscoli delle pareti del torace e quelli del collo ed espirare tutta l'aria che restava intrappolata nei polmoni. A peggiorare la situazione, il suo debole tentativo di raddrizzare la schiena era riuscito soltanto a farlo scivolare ancora più in basso. Stava quasi per cadere. Le gambe gli cedettero e finirono per ripiegarsi all'indietro nello spazio davanti al cruscotto, mentre il suo sedere sporgeva dal bordo del sedile. Era sdraiato dalla vita al collo, solo la testa era rimasta appoggiata allo schienale. Sentì le vie respiratorie stringersi sempre più. Ansimava, sembrava voler succhiare l'aria, riuscì a inspirarne un po', ne espirò meno. Quel ben noto uovo sodo incastrato nella trachea, quella pietra, quel tampone che gliela bloccava. Non poteva respirare, sdraiato com'era sulla schiena. Non riusciva a respirare. Non riusciva a respirare. Moloch inchiodò i freni. L'auto sbandò, poi cominciò a ruotare su se stessa.
Sul viale d'accesso, mentre lui era lanciato a tutta velocità verso di loro, vide corrergli incontro Roman Castevet, che aveva ucciso e nascosto sotto un lenzuolo nella camera mortuaria, Ned Hokenberry, tornato a recuperare il ciondolo con il suo terzo occhio, l'anoressica Brittina Dowd, nuda e ossuta come lui l'aveva lasciata sul pavimento della sua camera ma non bruciata, e Mick Sachatone con il suo pigiama di Bart Simpson. Avrebbe dovuto sapere che erano solo miraggi, avrebbe dovuto investirli senza pensarci due volte, ma non aveva mai visto nulla di simile e non aveva mai neppure sognato che fosse possibile vederlo. Non erano trasparenti, sembravano solidi come un attizzatoio o una lampada di marmo e bronzo. Cercando di frenare, premette il pedale con troppa forza e forse, senza volerlo, diede uno strattone al volante. La Buick cominciò a ruotare su se stessa così bruscamente che la pistola che teneva in grembo fu scaraventata sul fondo dell'auto, ai suoi piedi, e la sua testa sbatté contro il finestrino laterale abbastanza violentemente da incrinarlo. Alla fine di quella rotazione di trecentosessanta gradi, le sue vittime non erano affatto scomparse, erano ancora davanti a lui, e tutte insieme si lanciarono verso l'auto, strappando a Corky un urlo troppo da ragazzina per un Robin Goodfellow. Furibondi, i quattro morti esplosero contro il parabrezza, contro il finestrino laterale incrinato, decisi a gettarsi su di lui, ma esplosero, non reali dopotutto, solo forme di pioggia e ombra, schizzi d'acqua che si dissolsero in spruzzi senza forma, poi scivolarono, scomparvero. La rotazione completa non fu sufficiente a ridurre lo slancio della Buick, che ruotò di altri novanta gradi e andò a sbattere contro uno degli alberi che fiancheggiava il viale, fermandosi di colpo, mentre la portiera dalla parte del passeggero si spalancava e il parabrezza andava in frantumi. Scoppiando a ridere di fronte a quella situazione caotica, Corky allungò un braccio sotto il volante per cercare la Glock sul fondo dell'auto. Sfiorò il calcio della pistola, lo afferrò e sollevò l'arma per sparare al ragazzino. Ma la portiera dalla sua parte si aprì con una stridula protesta di metallo accartocciato ed Ethan Truman si scagliò su Corky che, invece di sparare a Fric, sparò all'uomo. Raggiungendo la Buick nel momento in cui si era fermata dopo aver sbattuto contro l'albero, Ethan gettò la sua pistola sul tettuccio e la lasciò lì
perché non voleva sparare all'interno dell'auto, non con Fric sulla linea di tiro. Senza pensare al rischio che correva, spalancò la portiera contorta e si sporse all'interno. Il guidatore gli puntò contro una pistola - thhup - ed Ethan non solo vide il lampo dello sparo, ma ne percepì anche l'odore. In quel momento era troppo impegnato a cercare di strappare l'arma dalle mani di quell'uomo per capire se era stato colpito o no. Ma giurò di aver sentito un secondo proiettile fargli la riga ai capelli, poi riuscì a impossessarsi della pistola. Per prima cosa scaraventò lontano l'arma, nel buio, poi intendeva costringere il guidatore a uscire alla Buick, ma non ce ne fu bisogno perché l'uomo gli si gettò addosso con tutte le sue forze. Entrambi finirono violentemente a terra ed Ethan, che si trovava sotto, sbatté la nuca contro i sassi di quarzite. Quando finirono contro l'albero e la portiera si spalancò, Fric scivolò giù dal sedile, fuori della Buick, e si ritrovò sul pietrisco bagnato. Era completamente sdraiato sulla schiena, la posizione peggiore quando non riusciva a respirare. Cadendogli negli occhi, la pioggia gli offuscava la vista, ma non era tanto questo che lo preoccupava, quanto un color rosso acceso che andava diffondendosi nella notte, trasformando le gocce di pioggia in rubini. Si sentiva la mente offuscata come la vista - troppo poco ossigeno al cervello - ma era abbastanza lucido per rendersi conto che forse l'effetto di quella schifezza che aveva inalato stava scomparendo. Cercò di muoversi, e ci riuscì, ma con la grazia di un pesce preso all'amo che si agita sulla riva. Ruotò su un fianco, riuscendo in qualche modo a tendere e rilasciare i muscoli del collo, del torace e quelli addominali, cosa che doveva assolutamente fare per espellere l'aria che gli si era condensata nei polmoni come uno sciroppo. Ci riuscì in qualche modo, ma non a sufficienza. Se la carta fosse stata un suono, non sarebbe stata sottile come il suo ansimare, e neppure un capello, o un velo di polvere. Doveva assolutamente mettersi seduto. Ma non ce la faceva. Aveva bisogno del suo inalatore. L'aveva perso. Sebbene il mondo gli apparisse rosso fuoco, sapeva che al mondo lui doveva apparire blu, perché quello era un attacco veramente grave, il peggiore che gli fosse mai capitato, uno di quei casi in cui doveva essere portato al pronto soccorso, con i medici e le infermiere che parlavano dei film
di Manheim. Gli mancava l'aria. Gli mancava l'aria. Trentacinquemila dollari per rinnovare le sue stanze, ma gli mancava l'aria. Buffi pensieri gli affollavano la mente. Non buffi ha-ha. Buffi-strani, da far paura. Pensieri rossi. Di un rosso così scuro che, ai bordi, in realtà era nero. In quel momento non dell'umore giusto per insegnare la teoria decostruzionista della letteratura, ma con una gran voglia di decostruire qualsiasi cosa gli si parasse davanti, con una furia da lupo che gli ululava nel cranio, Corky sentiva l'assoluta necessità di cavare occhi, di mordere il viso che aveva sotto di lui, di lacerare con i denti, di graffiare e squarciare. Mentre spalancava le mascelle per dare il primo morso, si accorse che Truman, sbattendo la testa sul pietrisco, era rimasto stordito, che la sua resistenza non era forte come ci si sarebbe aspettato. Pur nella sua furia selvaggia, Corky si rendeva vagamente conto che, se avesse ceduto al bestiale impulso di uccidere la sua vittima lacerandogli le carni a morsi e a unghiate, qualcosa - un ultimo freno - si sarebbe spezzato dentro di lui e che, se anche fossero trascorse delle ore, alla fine lo avrebbero trovato ancora chino sul corpo straziato di quell'uomo, con il muso affondato nella carne alla ricerca di bocconi cartilaginosi come un maiale che fiuta tartufi. Nella sua identità di Robin Goodfellow, che in realtà non era stato addestrato per diventare un'arma letale, ma che aveva letto diversi romanzi di spionaggio, sapeva che un colpo secco con la parte inferiore del palmo della mano sul naso del nemico avrebbe mandato in frantumi le ossa nasali, spingendone le schegge nel cervello, provocando la morte immediata, e così lui fece, gridando di gioia quando, in seguito al colpo, il sangue di Truman cominciò a sprizzare con forza. Ruzzolando, si liberò dell'inutile poliziotto, si alzò e si avviò verso la Buick alla ricerca del ragazzino. Si sporse dalla parte del guidatore per sbirciare all'interno, ma evidentemente Fric era caduto dalla macchina quando la sua portiera si era spalancata. L'effetto del gas semiparalizzante non doveva essere svanito del tutto. Il moccioso non poteva essere andato lontano. Raddrizzandosi, Corky vide una pistola sul tettuccio della Buick, proprio di fronte ai suoi occhi. Le gocce di pioggia scintillavano come diamanti incastonati sul calcio dell'arma.
La pistola di Truman. Trovare il ragazzino. Sparargli, ma solo a una gamba. Per impedirgli di scappare. Poi tornare in fretta nel garage, prendere un altro mazzo di chiavi, un'altra auto sulla quale fuggire. Corky poteva ancora salvare il suo piano, perché lui era il figlio del caos esattamente come Fric era il figlio del più famoso attore del mondo, e il caos non avrebbe abbandonato la sua creatura come invece aveva fatto l'attore con l'amato pargoletto. Girò intorno all'auto e vide il ragazzino sdraiato su un fianco, che scalciava sul terreno fradicio d'acqua, avanzando a scatti come un granchio mutilato. Corky andò a prenderlo. Sebbene Fric procedesse nel modo più strano che Corky avesse mai visto, emettendo una specie di sibilo che ricordava quello di un giocattolo a cui si fosse rotta la molla e l'ingranaggio, il ragazzino era comunque riuscito a strisciare fuori del viale e a portarsi sull'erba. Sembrava stesse cercando di raggiungere una panchina di pietra che aveva tutta l'aria di essere un pezzo d'antiquariato. Avvicinandosi, Corky sollevò la pistola. William Yorn, il diligente giardiniere, controllava regolarmente che alberi e cespugli non fossero attaccati da malattie e interveniva al primo segno di muffa, carbonchio o sciagure di quel tipo. Tuttavia, di tanto in tanto, non era possibile salvare una pianta e ne ordinava una nuova da un vivaista. I grossi alberi erano rimpiazzati con il più grande esemplare della stessa specie disponibile in vaso. La nuova pianta o veniva trasportata su un camion e poi sollevata e portata al suo posto da una gru affittata per l'occasione, oppure arrivava a bordo di un elicottero, specializzato nel trasporto dei tronchi e dotato di due serie di rotori, che la posizionava dall'alto. Gli esemplari più piccoli venivano messi a dimora con strategie e tattiche meno militaresche e, nel caso degli alberelli, era sufficiente una buona dose di fatica fisica. Talvolta l'albero era così giovane che aveva bisogno di essere sostenuto da un palo per un anno o due, in modo da guidarne la crescita e aiutarlo a resistere al vento. Mentre, per sostenere le giovani piante, altri giardinieri usavano ancora lunghi pali di legno, il signor Yorn preferiva tubi d'acciaio del diametro di quattro, cinque centimetri e alti dai due a tre metri, perché non si arruggi-
nivano, fornivano un miglior sostegno e potevano essere riutilizzati. Dopo aver divelto dal terreno uno dei tubi alti due metri e aver strappato i fili di plastica che lo tenevano legato all'albero, Ethan seguì barcollando quel pazzo figlio di puttana in tuta termica, sollevò il tubo e colpì l'uomo alla testa con tutta la forza di cui era capace, facendolo crollare a terra. Mentre ruzzolava, l'uomo lasciò partire un colpo. Il proiettile rimbalzò dalla panchina di granito e sibilò nella pioggia e nell'oscurità. L'uomo rimase a terra, sdraiato sulla schiena. Un colpo del genere avrebbe dovuto ucciderlo, o quantomeno farlo svenire, invece appariva solo stordito, confuso. Stringeva ancora la pistola in mano. Lasciandosi cadere a peso morto, Ethan piantò entrambe le ginocchia sul torace del suo aggressore, togliendogli il fiato e, con un po' di fortuna, rompendogli anche qualche costola e spappolandogli la milza. Afferrò la mano guantata che stringeva la pistola, impossessandosi dell'arma, ma non riuscì a mantenere la presa e la vide cadere a poca distanza da lui. Nonostante la confusione e lo stordimento, quell'essere spaventoso riuscì ad afferrare una ciocca di capelli di Ethan, torcendogliela dolorosamente e cercando di costringerlo ad abbassare il viso verso la sua bocca spalancata e i denti pronti a mordere. Nonostante quei denti gli facessero paura, Ethan strinse la destra sulla gola dell'uomo per bloccarlo poi, con la sinistra, cominciò a colpirlo, un pugno sull'occhio destro, poi un altro, ma quelle dita d'acciaio non mollavano i suoi capelli, che stavano quasi per staccarsi dallo scalpo. Sentì che l'uomo portava intorno al collo una grossa catena d'oro e pensò di torcerla, e mentre la torceva continuava a sferrare colpi, torceva e colpiva, finché la mano sinistra fu tutto un dolore e la catena, che gli aveva scorticato le dita, alla fine si spezzò. I denti smisero di cercare di mordere. Gli occhi fissavano qualcosa che stava al di là di Ethan, al di là della notte stessa. Le dita si afflosciarono, lasciando andare la ciocca di capelli. Ansimando, rialzandosi in piedi, Ethan guardò la catena che stringeva in mano. Un ciondolo. Una sfera di vetro dentro la quale galleggiava un occhio. Moloch sembrava morto, ma lo era sembrato anche prima. Fric osservava la lotta da una prospettiva cinematografica e attraverso una nebbiolina rossa, domandandosi per quale motivo il direttore della fotografia avesse scelto di girare una scena d'azione usando lenti deformanti e in più un fil-
tro rosso. Si poneva tutte queste domande non con la mente lucida, ma come se stesse sognando, come se avesse due incubi allo stesso tempo, uno vedeva due uomini impegnati in una lotta mortale, l'altro riguardava il soffocamento. Era tornato nel vecchio soffocatorio e respirava sibilando come un minatore affetto da antracosi - come in quel film che Papà Fantasma era stato abbastanza saggio da rifiutare - e la madre del primo proprietario di Palais Crapaud stava cercando di soffocarlo con una pelliccia. Il signor Truman lo prese in braccio e lo portò alla panchina di pietra. Il signor Truman sapeva che, durante un attacco, Fric doveva restare in posizione seduta per utilizzare al meglio i muscoli del collo, del torace e dell'addome e spingere l'aria fuori dei polmoni. Il signor Truman sapeva cosa bisognava fare. Il signor Truman lo fece sedere sulla panchina. Gli tenne la schiena dritta. Tastò la cintura di Fric per cercare l'inalatore. Il signor Truman vomitò una sfilza di parole volgari e oscene, che Fric aveva già sentito dire dal fior fiore dell'industria dello spettacolo, ma mai dal signor Truman, almeno fino ad allora. Sempre più rosso tutto intorno e sempre più vicino al nero, così poca aria passava attraverso il visone, lo zibellino, la volpe, o qualunque cosa fosse quella pelliccia. Respirando attraverso la bocca, perché aveva il naso ostruito dalla cartilagine rotta e dal sangue che si stava coagulando, Ethan non era certo di avere abbastanza fiato per riportare di corsa il ragazzino alla villa e poi fino all'ufficio della signora McBee, dove venivano conservati gli inalatori di scorta. Inoltre un proiettile gli aveva colpito di striscio l'orecchio sinistro e, sebbene la ferita fosse superficiale, il sangue scorreva seguendo le pieghe del padiglione auricolare, entrandogli all'interno e rendendolo parzialmente sordo, colando lentamente nella tromba d'Eustachio e in gola, il che gli provocava accessi di tosse. Dopo un attimo di esitazione, rendendosi conto che Fric era vittima di qualcosa di più grave di un semplice attacco d'asma, che si trovava in pericolo di vita, sollevò nuovamente il bambino, lo strinse tra le braccia e si voltò verso la villa... trovandosi di fronte a Dunny. «Siediti con lui», ordinò Dunny. «Togliti dai piedi, per l'amor del cielo!»
«Andrà tutto bene. Devi solo sederti, Ethan.» «Sta male, non l'ho mai visto stare così male.» Ethan sentì nel tono rauco della sua voce un'emozione più profonda e migliore della paura e della rabbia: l'amore intenso e puro per un altro essere umano, un amore che non pensava di avere ancora la capacità di provare. «Questa volta non ha abbastanza forza per combattere, è terribilmente debole.» «La colpa è dello spray paralizzante, ma l'effetto sta scomparendo.» «Spray? Di che cosa stai parlando?» Gentilmente, ma con una forza maggiore di quella di un semplice essere umano, Dunny Whistler costrinse Ethan a tornare indietro e a sedersi sulla panchina bagnata. In piedi di fronte a loro, pallido e dall'aria disfatta, Dunny non sembrava nulla di speciale, tuttavia entrava negli specchi, si trasformava in pappagalli che a loro volta diventavano colombe, svaniva nelle decorazioni di un albero di Natale. Ethan si accorse che il completo indossato dal suo vecchio amico restava asciutto nonostante la pioggia, così come lo stesso Dunny. Le goccioline sembravano colpirlo senza però avere alcun effetto su di lui. Per quanto Ethan lo scrutasse attentamente, non riusciva a vedere che cosa accadeva alle gocce di pioggia che colpivano gli indumenti e il volto di Dunny, non riusciva proprio a scoprire il segreto di quel trucco. Quando Dunny posò una mano sulla testa di Fric, il fiato intrappolato esplose dai polmoni del ragazzino. Il ragazzino rabbrividì tra le braccia di Ethan, piegò la testa all'indietro e respirò, inspirò aria fredda ed espirò un pallido pennacchio senza alcun sibilo asmatico. Sollevando gli occhi per fissare Dunny - un Dunny smagrito dal coma e dal colorito cereo - Ethan provò lo stesso sbalordimento di quando, dopo essere stato investito ed essere morto, si era ritrovato, vivo, fuori del Rose Per Sempre. «Cosa? Come?» «Credi negli angeli, Ethan?» «Angeli?» «L'ultima notte della mia vita», raccontò Dunny, «mentre ero in coma, ho ricevuto una visita. Questo spirito dice di chiamarsi Typhon.» Ethan pensò al dottor O'Brien del Nostra Signora degli Angeli, il medico con cui aveva parlato solo qualche ora prima. Il DVD con la registrazione delle onde cerebrali di Dunny. Le inspiegabili onde beta di una persona cosciente, vigile, e in preda all'agitazione che si innalzavano bruscamente
sul monitor, mentre Dunny era in coma profondo. «Nelle ore che hanno preceduto la mia morte», proseguì Dunny, «Typhon è venuto da me per rivelarmi il destino del mio migliore amico. Che sei tu, Ethan. Nonostante abbiamo trascorso anni senza vederci e nonostante i miei innumerevoli errori, sei ancora tu. Il mio amico... e il marito di Hannah. Typhon mi ha mostrato quando e dove e come tu saresti stato ucciso da Rolf Reynerd, in quella stanza in bianco e nero con tutti gli uccelli, e io ho avuto tanta paura per te... ero veramente disperato.» L'elettroencefalografo aveva registrato in diversi punti un tracciato beta molto intenso che, secondo il dottor O'Brien, rappresentava le onde cerebrali di una persona terrorizzata. I sottoinsieme di onde beta avevano invece indicato una conversazione. Dunny proseguì dicendo: «Mi è stata fatta un'offerta - ho avuto la possibilità di - di essere l'angelo custode di cui avevi bisogno in questi ultimi due giorni. Grazie al potere che mi è stato concesso per questa breve missione potevo anche, tra le altre cose, tornare indietro nel tempo». Quando hai di fronte un tizio che ti dice di poter tornare indietro nel tempo e tu gli credi immediatamente e, mentre la tua meraviglia continua a diminuire, accetti anche il fatto che rimanga asciutto sotto la pioggia, allora sei cambiato per sempre... e probabilmente in meglio, anche se hai la sensazione che qualcuno ti abbia tolto non la terra, ma addirittura il mondo da sotto i piedi, anche se ti sembra di essere precipitato in un buco più profondo e strano di quello di Alice. «Ho deciso di lasciarti vivere la tua morte nell'appartamento di Reynerd, il destino che era stato previsto per te, poi di riportarti indietro un attimo prima che questo accadesse. Pensavo di farti cagare addosso dalla paura e di darti la carica extra di cui avevi bisogno per affrontare e superare quello che sarebbe successo... e farlo superare anche a lui.» Dunny sorrise a Fric e inarcò un sopracciglio, come se sapesse che il ragazzino voleva dire qualcosa. Ancora debole nel corpo ma come sempre pronto d'intelletto, Fric disse a Ethan: «Probabilmente lei è sorpreso di sentire che gli angeli possono dire 'cagare'. Anch'io lo sono stato. Ma del resto è una parola che si trova nel dizionario». Ethan ricordò un episodio avvenuto nella biblioteca quella stessa sera, quando aveva detto a Fric che lui piaceva a tutti. Incredulo e sconcertato, umile com'era, Fric era rimasto senza parole. Alle spalle di Fric, sull'albero di Natale della biblioteca, gli angioletti
avevano cominciato a girare, ad annuire e a danzare pur in assenza di una qualsiasi corrente d'aria. Ethan si era sentito colmare da una strana aspettativa, come se la porta della comprensione stesse per aprirsi nel suo cuore. Allora non si era aperta, ma adesso si era spalancata. Dunny vede il suo amico che tiene il ragazzino tra le braccia e vede il ragazzino che si stringe a Ethan con tutte le sue forze, ma vede anche molto più della loro meraviglia di fronte alla sua presenza sovrannaturale e molto più del loro sollievo per essere ancora vivi. Vede un uomo che ha deciso di fare da padre a un ragazzino e un figlio che verrà adottato, anche se non in via ufficiale; vede due vite che hanno superato la disperazione grazie al profondo legame che ora li unisce, vede davanti a loro anni colmi di quella gioia che nasce da un amore privo di egoismi, ma anche segnati da dolori che solo l'amore può sanare. E Dunny sa che ciò che ha fatto in quest'occasione è la cosa migliore e più pulita che abbia mai fatto o che farà mai. «Il PT Cruiser, il camion», si domanda Ethan. «Sei morto una seconda volta», spiega Dunny, «perché il destino cerca di ribadire ciò che era previsto che fosse. La tua morte nell'appartamento di Reynerd era frutto del tuo libero arbitrio, delle tue scelte. Tornando indietro nel tempo, ho annullato il destino che ti eri preparato. Non hai bisogno di capire completamente. Non puoi. Io so soltanto che adesso... il destino non insisterà per seguire quel percorso. Con le tue scelte e le tue azioni, ora ti sei creato un altro destino.» «Le campanelle dell'ambulanza?» domanda Ethan, «Quelle che hai usato per tutti quei giochini...» Dunny sorride a Fric. «Quali sono le regole? Come dobbiamo operare noi angeli?» «In modo indiretto», risponde il ragazzino. «Incoraggiare, stimolare, terrorizzare, persuadere, consigliare. Influenzare gli eventi con ogni mezzo purché sia astuto, ambiguo e allettante. «Vedi, sai qualcosa che la maggior parte delle persone non sa», gli fa notare Dunny. «Forse questo è ancora più importante di sapere che lo zibetto viene spremuto dalla ghiandole anali delle viverre per metterlo nelle bottiglie di profumo.» Il ragazzino gli lancia un sorriso da far dimenticare quello di sua madre e il suo sguardo si illumina di una luce interna che brilla anche senza l'aiuto di consiglieri spirituali.
«Quella gente che... che è apparsa sul viale e si è scagliata contro l'auto», dice Ethan ancora sconcertato. «Immagini delle vittime di Moloch che io ho formato con l'acqua e che ho mandato incontro all'auto per spaventarlo», spiega Dunny. «Accidenti, questo me lo sono perso!» esclama Fric. «E c'è un'altra cosa, noi angeli custodi non ce ne andiamo in giro vestiti di bianco, limitandoci a suonare l'arpa, così come vorrebbero farvi credere i film. Come ci spostiamo, Fric?» Il ragazzino comincia a elencare i diversi modi, ma poi s'interrompe: «Attraverso gli specchi, la nebbia, il fumo, le porte...» «Porte d'acqua, scale d'ombra, strade di chiaro di luna», lo aiuta Dunny. E ora Fric ricorda: «Attraverso il desiderio, la speranza e la semplice aspettativa». «Vorresti vedere un angelo esibirsi per l'ultima volta nel modo in cui gli angeli volano realmente?» «Fico!» Esclama il ragazzino. «Aspetta», lo ferma Ethan. «Non posso aspettare», risponde Dunny, perché ora riceve la chiamata e deve rispondere. «Qui ho finito per sempre.» «Amico mio», mormora Ethan. Grato per quelle due parole, Dunny trasforma il suo corpo grazie al potere che gli è stato concesso per contratto e diventa centinaia di luminose farfalle dorate che si levano in volo con grazia e, una per una, con un palpitare d'ali, scompaiono nella notte. 95 Quando Dunny, in risposta alla chiamata, si materializza al secondo piano della grande villa, Typhon esce dalla porta a due battenti dell'appartamento privato di Channing Manheim e gli va incontro nel corridoio a nord, scrollando la testa sbalordito. «Caro ragazzo, hai fatto un giro di queste stanze?» «No, signore.» «Neppure io ho potuto godere di un simile lusso. Ma d'altra parte, viaggiando continuamente, sto quasi sempre in albergo e neppure l'hotel più elegante offre suite paragonabili a questa.» Fuori, nella notte, l'urlo delle sirene sempre più vicino. «Il signor Hazard Yancy», commenta Typhon, «ha inviato i rinforzi con
un pizzico di ritardo, ma sono certo che saranno graditi.» Insieme percorrono il corridoio fino all'ascensore principale le cui portiere si aprono immediatamente al loro arrivo. Con la sua abituale cortesia, Typhon indica a Dunny di entrare per primo. Quando le porte si chiudono e la cabina comincia a scendere, Typhon dice: «Splendido lavoro. Straordinario, davvero. Credo che tu sia riuscito a ottenere tutto ciò che speravi e anche molto di più». «Molto di più», ammette Dunny, perché il loro accordo prevede che lui dica solo la verità. Con gli occhi che gli luccicano allegramente, Typhon gli fa notare: «Devi ammettere che ho onorato tutti i termini del nostro accordo, anzi li ho interpretati con notevole elasticità». «Le sono profondamente grato, signore, per l'opportunità che mi ha concesso.» Battendo affettuosamente sulla spalla di Dunny, Typhon commenta: «Caro ragazzo, per alcuni anni abbiamo pensato di averti perso». «Non ci siete andati neppure vicini.» «Oh, molto più vicini di quanto pensi», gli assicura Typhon. «Eri quasi spacciato. Sono davvero lieto che la faccenda si sia risolta in questo modo.» Typhon batte ancora una volta sulla spalla di Dunny e il corpo di questi crolla sul pavimento dell'ascensore, mentre il suo spirito rimane in piedi, in giacca e cravatta, identico al cadavere che si trova ai suoi piedi ma con un aspetto meno solido di quella carne senza vita. Dopo un istante, il cadavere svanisce. «Dove?» si chiede Dunny. Con una risatina divertita, Typhon lo informa: «Ci sarà qualcuno che resterà confuso e allibito nel giardino coperto del Nostra Signora degli Angeli. Il cadavere nudo che avevano perso sarà ritrovato vestito di tutto punto, e con un bel po' di soldi in tasca». Hanno raggiunto il pianterreno. Sotto, i garage. Con quella nota di affettuosa preoccupazione che lo caratterizza, Typhon domanda: «Ragazzo mio, sei spaventato?» «Sì.» Spaventato ma non terrorizzato. In quel momento nel suo cuore immortale Dunny non ha spazio per il terrore. Qualche minuto prima, guardando Ethan e Fric seduti sulla panchina di
pietra, consapevole dell'affetto che c'era tra loro e del futuro che avrebbero condiviso come padre e figlio, in tutto tranne che nel nome, Dunny si era sentito trafiggere da un rimpianto più acuto di quello che aveva mai provato fino ad allora. La sera in cui Hannah era morta, si era sentito travolgere dalla tristezza, una tristezza che l'aveva quasi portato alla deriva, ma non solo per lei, non solo per la sua perdita, ma anche per la vita sciagurata che aveva vissuto fino a quel momento. Quella tristezza lo aveva cambiato, ma non abbastanza, perché non era riuscita a fargli superare il semplice rimpianto. L'angoscia che ora lo assale mentre dal pianterreno scendono al garage non è solo un triste rimpianto, ma un rimorso così intenso che si sente straziato dal senso di colpa, e la colpa è la madre del rimorso, sente le ossa del suo spirito rose dal tormento. Comincia a tremare, è scosso da un tremito violento perché, per la prima volta, si rende veramente conto dello spaventoso impatto che la sua vita sciagurata ha avuto sugli altri. Gli tornano alla mente i volti di uomini che ha ucciso, di donne che ha trattato con indicibile crudeltà, di ragazzini che lui ha condotto sul sentiero della droga, del crimine, della rovina e, sebbene questi volti gli siano dolorosamente famigliari, lui li vede come se fosse la prima volta perché ora scorge in ogni viso un individuo con le sue speranze, i suoi sogni, la sua capacità di fare del bene. Nel corso della sua vita, quelle persone hanno rappresentato soltanto il mezzo per soddisfare i suoi desideri e le sue necessità, per lui non erano affatto persone, ma unicamente fonti di piacere e strumenti da usare. Ciò che, in seguito alla morte di Hannah, gli era apparsa come una fondamentale trasformazione del suo cuore, in effetti era stata più un'autocommiserazione che un cambiamento significativo. Aveva conosciuto la tristezza, è vero, e in parte anche il rimpianto, ma non aveva provato questo lacerante rimorso e l'umiltà che lo accompagnava. «Caro ragazzo, capisco quello che stai attraversando», lo consola Typhon, mentre oltrepassano il garage superiore. Si riferisce al terrore che crede Dunny stia provando, ma per Dunny il terrore è il sentimento meno importante. Anche perché la parola rimorso non descrive in modo adeguato ciò che sente, perché il suo è un rimorso così devastante che Dunny non conosce neppure la parola adatta a definirlo. Di fronte a quei volti che lo ossessionano, volti che appartengono a una vita sprecata, Dunny chiede perdono a ciascuno di loro, implora di essere perdonato con una profonda umiltà che
è totalmente nuova per lui, continua a supplicarli anche se ormai è morto e non può più fare ammenda, anche se molti di loro sono morti prima di lui e non possono sentire con quanta disperazione Dunny vorrebbe poter cancellare il passato. L'ascensore ha oltrepassato anche il garage inferiore, ma la cabina continua a scendere. Non sono più sull'ascensore, ma sull'idea di ascensore, e di uno anche molto strano. Le pareti della cabina sono chiazzate di muffa, di sudicio, l'aria puzza. Il pavimento sembra fatto di... di ossa schiacciate, compattate. Dunny si accorge che il viso di Typhon sta cambiando, che i suoi lineamenti androgini e i suoi occhi ridenti stanno lasciando il posto a qualcosa che riflette meglio lo spirito racchiuso nella figura da nonno affettuoso che aveva assunto fino a quel momento. Dunny si accorge di questi cambiamenti solo con la coda dell'occhio, perché non osa guardare direttamente. Non osa. Piano dopo piano continuano a scendere, anche se i numeri sul pannello sopra la porta vanno solo da uno a cinque. «Mi sta venendo un bell'appetito», lo informa Typhon. «Da quel che ricordo - e ho una buona memoria - non sono mai stato affamato come adesso. Sono assolutamente famelico.» Dunny si rifiuta di pensare a ciò che quelle parole possano significare, e per la verità non gliene importa nulla. «Mi sono meritato tutto ciò che mi aspetta», dice, mentre il ricordo dei volti che appartengono alla sua vita continuano a ossessionarlo, una folla di volti. «Ancora poco», dice Typhon. Lo spirito di Dunny rimane a testa bassa e fissa il pavimento dal quale il suo corpo è scomparso; è pronto ad accettare qualunque sofferenza lo aspetti se questo significherà porre fine a quell'intollerabile tormento, a quel lacerante rimorso. «Per quanto terribile possa essere», tenta di consolarlo Typhon, «forse sarebbe stato altrettanto spaventoso per te se avessi rifiutato la mia offerta e avessi scelto di attendere migliaia di anni in purgatorio prima di... salire. Non eri pronto per raggiungere direttamente la luce. Grazie al nostro accordo, ti sei risparmiato tutta quella noiosa attesa.» L'ascensore si ferma con un ping, come se fossero semplicemente andati a lavorare e avessero raggiunto il piano dei loro uffici. Le porte si aprono, entra qualcuno, ma Dunny non solleva lo sguardo per vedere di chi si tratta. Ora c'è in lui abbastanza spazio per il terrore, ma
non ne è ancora dominato. Alla vista della persona che è entrata nell'ascensore, Typhon esplode in una serie di maledizioni, con una rabbia disumana, la voce ancora riconoscibile ma senza più alcuna traccia di allegria di o cordialità. Si mette di fronte a Dunny e dice in tono di aspro rimprovero: «Abbiamo fatto un accordo. Tu mi hai venduto l'anima, ragazzo, e io ti ho concesso più di quanto avessi chiesto». Esercitando la sua maggiore volontà e il suo terribile potere, Typhon costringe Dunny a guardarlo. Questo volto. Oh, questo volto. Il volto di diecimila incubi distillati. Il volto che la mente di nessun mortale potrebbe mai immaginare. Se Dunny fosse vivo, la vista di quel volto lo ucciderebbe, ma ora gli fa inaridire lo spirito. «Hai chiesto di salvare Truman, e l'hai fatto», gli ricorda Typhon, con una voce che si fa via via sempre più gutturale e carica di odio. «Angelo custode, gli hai detto. Angelo delle tenebre sarebbe stato più esatto. Tu avevi chiesto solo Truman, ma io ti ho dato anche il ragazzino e Yancy. Tu sei come quei pezzi grossi di Hollywood nel bar dell'hotel, come quel politicante e i suoi sostenitori che ho intrappolato a San Francisco. Pensate di essere abbastanza furbi da potervela svignare quando arriva il momento di tener fede agli accordi presi, ma alla fine tutti quanti dovete pagare. Qui i patti si rispettano!» «Vattene», gli dice la persona appena entrata nell'ascensore. Dunny ha scelto di non guardare quella persona. Se esistono esseri peggiori di quello che Typhon è diventato - e sicuramente ce ne saranno - non li guarderà per sua scelta, ma solo se sarà costretto a farlo, così com'è accaduto con Typhon. Questa volta in tono più deciso: «Vattene». Typhon esce dall'ascensore e mentre Dunny si prepara a seguirlo, andando verso il destino che si è meritato e ha accettato, le porte si chiudono, impedendogli l'uscita, e lui si trova da solo con quella persona. L'ascensore comincia nuovamente a muoversi e Dunny trema all'idea che ci possano essere luoghi ancora più profondi dell'abisso in cui Typhon è sparito. «Capisco quello che stai attraversando», dice la persona, ripetendo la frase che Typhon aveva detto poco prima, mentre scendevano da Palais Crapaud verso luoghi ancor più strani. Quando aveva dato quell'ordine, vattene, Dunny non aveva riconosciuto
la voce. Ora sì. Sa che deve trattarsi di un inganno, di un tormento, e si rifiuta di sollevare lo sguardo. Lei gli dice: «Hai ragione, la parola rimorso non può descrivere l'angoscia che provi, l'angoscia che lacera così dolorosamente il tuo spirito. E non possono descriverlo neppure le parole tristezza, rimpianto o dolore. Ma sbagli nel pensare di non conoscere la parola giusta, Dunny. L'hai imparata una volta e la conosci ancora, anche se fino a ora è stata un'emozione che andava al di là della tua esperienza». Dunny ama tanto quella voce che non può continuare a rifiutarsi di guardare la persona a cui la voce appartiene. Preparandosi ad affrontare la possibilità che la voce gentile provenga da un essere orrendo come Typhon, solleva lo sguardo e scopre che Hannah è stupenda esattamente come lo era da viva. A questa sorpresa ne segue un'altra, che lo lascia stupefatto: l'ascensore non si sta muovendo come lui aveva previsto. Non stanno scendendo verso tenebre ancor più profonde di quelle visibili. Stanno salendo. Le pareti della cabina non sono più ricoperte di muffa e di sporcizia. L'aria non è più impregnata di una puzza nauseabonda. Pieno di meraviglia, ma non osando ancora sperare, Dunny le domanda: «Com'è possibile?» «Le parole sono il mondo, Dunny. Hanno significato e, grazie al fatto che hanno significato, hanno potere. Quando apri il tuo cuore alla tristezza», spiega Hannah, «quando dopo la tristezza impari a conoscere il rimpianto, e dopo il rimpianto provi rimorso, finalmente, al di là del rimorso, scopri il pentimento, ovvero la parola che descrive la tua angoscia. È una parola dotata di un potere enorme, Dunny. Se nel tuo cuore c'è davvero questa parola, non esiste alcun 'troppo tardi', né tenebre eterne, e nessuno stupido patto può vincolare un uomo che è cambiato completamente come te.» Hannah sorride. Il suo sorriso è radioso. Il Volto. Il suo volto è adorabile, ma in esso Dunny scorge un altro Volto, così come ne aveva visto uno diverso in quello di Typhon, ma questo non è un distillato di incubi. Per quanto possa sembrare impossibile, questo Volto... il Volto che è dentro quello di Hannah, è ancor più bello del suo, è la fonte della sua radiosità, è così profondamente meraviglioso che potrebbe togliere il fiato a Dunny se lui non fosse uno spirito e avesse abbandonato il respiro insieme con il corpo.
Quel Volto di un'infinita e meravigliosa complessità è anche il Volto di una pietà che - anche adesso, mentre sale verso la luce - Dunny non può comprendere appieno ma per la quale è indicibilmente grato. Ancora un altro motivo di stupore: dall'espressione di Hannah, si rende conto che lei vede in Dunny lo stesso Volto radioso che lui vede in lei, che ai suoi occhi, Dunny è radioso esattamente come Hannah appare a lui. «La vita è una lunga strada, Dunny, anche quando viene interrotta. Una lunga strada è spesso impervia. Ma il tratto più faticoso è ormai alle tue spalle.» Sorride. «Preparati ad affrontare un viaggio più facile. Amico, non hai ancora visto nulla.» Ping! 96 Ethan e Fric se ne stavano uno accanto all'altro davanti a una finestra del soggiorno del primo piano, locale che veniva chiamato la stanza verde per motivi ovvi a tutti tranne che ai daltonici. Ming du Lac era convinto che nessuna villa di quelle dimensioni potesse essere un luogo di armonia spirituale se non possedeva almeno una stanza completamente tinteggiata, rivestita e arredata in varie sfumature di verde. Il loro consulente di feng-shui si era dichiarato d'accordo, forse perché una stanza tutta verde faceva parte della sua filosofia, o molto più probabilmente perché sapeva che era meglio non contrariare Ming. Tutte le tonalità di verde usate per pareti, rivestimenti, moquette e rifiniture dei mobili erano state viste da Ming in sogno. Non si poteva fare a meno di domandarsi che cosa il consulente spirituale avesse mangiato prima di andare a dormire. La signora McBee chiamava quella stanza «l'orrenda palude verde», ma mai quando Ming poteva sentirla. Al di là della finestra, il grande giardino offriva sfumature di verde sicuramente più belle e, in alto, il cielo di un azzurro luminoso aveva cancellato anche il ricordo della pioggia. Da dove si trovavano, potevano vedere il grande cancello e la folla di giornalisti oltre il muro di cinta. I raggi del sole rimbalzavano sulle auto, sui furgoni e sui grossi camion delle reti televisive con le antenne satellitari montate sui tettucci. «Sarà un vero circo», commentò Fric. «Sarà una fiera», concordò Ethan.
«Sarà uno spettacolo da luna park.» «Sarà uno zoo.» «Se si guarda a come ci useranno nei telegiornali», disse Fric, «sarà Halloween alla vigilia di Natale.» «Allora meglio non guardare», suggerì Ethan. «Al diavolo i telegiornali. E comunque, ben presto si calmeranno.» «Magari», replicò Fric. «Andrà avanti per settimane, ne avranno da raccontare sul piccolo principe di Hollywood e sul pazzo furioso che era quasi riuscito a portarlo via.» «Allora ti vedi come il piccolo principe di Hollywood?» Fric fece una smorfia di disgusto. «Questo è come loro mi chiameranno. Già lo sento. Non potrò più uscire in pubblico fino a quando non avrò cinquant'anni, e anche allora mi daranno un pizzicotto sulle guance e mi racconteranno di quanto sono stati preoccupati per me.» «Non lo so», ribatté Ethan. «Secondo me stai esagerando sull'interesse che la gente prova per te.» Fric lo guardò con espressione speranzosa. «Crede davvero?» «Sì. Cioè, tu non sei uno di quei ragazzini di Hollywood che vuole seguire le orme dei suoi genitori.» «Preferirei mangiare vermi.» «Non hai mai recitato nei film di tuo padre, neppure in ruoli secondari. Non canti e non balli. Non fai neppure imitazioni, vero?» «No.» «Non sei capace di far girare vorticosamente decine di piatti in cima a una decina di canne di bambù, tutte allo stesso tempo?» «Tutte allo stesso tempo, no», ammise Fric. «Trucchi di magia?» «No.» «Sei un ventriloquo?» «Assolutamente no.» «Vedi, sei riuscito già ad annoiarmi. Sai quello che, secondo me, li ha mandati in estasi in tutta questa storia? Qual è stata la cosa più importante?» «Cosa?» volle sapere Fric. «Il dirigibile.» «Il dirigibile», concordò Fric. «Davvero fico.» «Senza offesa, ma un ragazzino della tua età, con la tua mancanza di esperienza... mi dispiace, non puoi proprio competere con un dirigibile a
Bel Air.» All'estremità settentrionale della proprietà, il cancello cominciò ad aprirsi. «Ecco che arriva la banda», annunciò Fric mentre entrava la prima limousine nera. «Pensa che lui farà una breve sosta a beneficio dei giornalisti?» «Gli ho chiesto di non farlo», rispose Ethan. «Non abbiamo abbastanza guardie del corpo per tenere a bada una folla come quella, e oltretutto ai giornalisti non piace essere tenuti a bada.» «Si fermerà», predisse Fric. «Scommetto un milione di dollari contro un cumulo di letame. In quale limousine è?» «Nella quinta.» La seconda auto varcò il cancello. «Sicuramente avrà una nuova ragazza», mormorò Fric, in tono preoccupato. «Ti comporterai benissimo con lei.» «Forse.» «Hai a disposizione un argomento perfetto per rompere il ghiaccio.» «E sarebbe?» «Il dirigibile.» Fric si illuminò. «È vero.» Apparve la terza limousine. «Però ricordati che cosa ci siamo detti. Non racconteremo a nessuno... la parte più strana di tutta la storia.» «Io non lo farò di certo», confermò Fric. «Non voglio che mi rinchiudano in manicomio.» La quarta limousine fece il suo ingresso, ma la quinta si fermò fuori del cancello. Da quella distanza, senza un paio di binocoli, Ethan non poteva vedere se Channing Manheim fosse realmente sceso dall'auto per farsi riprendere dalle telecamere e scambiare qualche battuta con i giornalisti ma, moralmente, sapeva di dovere a Fric un cumulo di letame. «Non sembra neppure che sia la vigilia di Natale», commentò il ragazzino. «Lo sarà», promise Ethan. La mattina di Natale, nel suo studio, Ethan ascoltò ancora una volta tutti i cinquantasei messaggi registrati sulla segreteria telefonica della linea 24. Prima del rientro di Manheim e Ming du Lac a Palais Crapaud, Ethan
aveva provveduto a trasferire le registrazioni su un CD. Poi le aveva cancellate dal computer della stanza bianca e dagli elenchi delle telefonate in entrata. Soltanto lui avrebbe saputo che erano state ricevute. Quei messaggi erano suoi, e soltanto suoi, un cuore che parlava a un altro attraverso l'eternità. In alcuni, Hannah forniva la soluzione degli indovinelli di quel pazzo. In altri, si limitava a ripetere il nome di Ethan, talvolta con nostalgia, talvolta con affetto. Ascoltò la Telefonata 31 più volte di quanto riuscisse a ricordare. In quella registrazione, Hannah gli ripeteva quanto lo amava, e ogni volta che Ethan ascoltava quel messaggio, cinque anni si riducevano a nulla, e anche il cancro non aveva più il suo potere, e neppure la tomba. Stava aprendo una scatola di biscotti lasciata dalla signora McBee, quando il suo telefono squillò. La mattina di Natale, Fric puntava sempre la sveglia abbastanza presto, non perché fosse ansioso di scoprire che cosa avrebbe trovato sotto l'albero, ma perché voleva aprire quegli stupidi regali e farla finita. Sapeva già che cosa nascondevano quelle belle carte da regalo: gli oggetti indicati nella lista che aveva dovuto presentare alla signora McBee entro il 5 di dicembre. Non gli era mai stato negato nulla di ciò che aveva chiesto e, ogni volta che presentava una lista più corta, veniva pregato di aggiungere altri regali in modo che l'elenco fosse lungo almeno come quello dell'anno precedente. Sotto all'albero di Natale del salotto ci sarebbe stato un casino di cose meravigliose, ma nessuna sorpresa. Ma quella mattina, quando si svegliò, vide qualcosa di completamente nuovo. Mentre dormiva, qualcuno si era introdotto silenziosamente nella sua camera e aveva lasciato un regalo sul comodino, accanto alla sveglia. Una piccola scatola avvolta in carta bianca e con un fiocco bianco. Il biglietto d'accompagnamento era più grosso della scatola. Il mittente, che non si firmava, aveva scritto queste parole: È UN OGGETTO MAGICO. SE NON CI SARÀ BATTITO, AVRAI GRANDI AVVENTURE, SE NON CI SARANNO LACRIME, AVRAI UNA VITA LUNGA E FELICE. SE NON DORMIRÀ, DIVENTERAI L'UOMO CHE DESIDERI. Era un biglietto così stupefacente, così misterioso e ricco di possibilità, che Fric lo lesse diverse volte, cercando di comprenderne il significato. Esitava ad aprire la scatola bianca, perché riteneva che qualunque cosa contenesse non avrebbe mai potuto eguagliare la promessa del biglietto.
Quando infine si decise a togliere la carta lucida, sollevare il coperchio e a dispiegare la carta velina, scoprì che - ooh! - il contenuto non era inferiore al biglietto. Da una catena d'oro nuova di zecca pendeva un ciondolo di vetro, una sfera, e nella sfera fluttuava un occhio! Non aveva visto mai nulla di simile in tutta la sua vita e sicuramente non l'avrebbe mai più visto. Forse era un souvenir che proveniva da Atlantide, il continente sommerso, o forse era il gioiello di uno stregone, oppure un amuleto preparato da Merlino per proteggere i cavalieri della tavola rotonda che combattevano per la giustizia. Se non ci sarà battito, avrai grandi avventure. Nessun battito, mai, perché quell'occhio non aveva palpebra. Se non ci saranno lacrime, avrai una vita lunga e felice. Nessuna lacrima, né adesso né mai, perché quell'occhio non poteva piangere. Se non dormirà, diventerai l'uomo che desideri. Nessun sonno, neppure un sonnellino, perché quell'occhio era sempre spalancato e non aveva bisogno di riposare. Fric esaminò il ciondolo alla luce del sole, alla luce dell'abat-jour, alla luce di una minuscola torcia dentro la cabina armadio, per il resto completamente buia. Studiò l'occhio attraverso una potente lente d'ingrandimento e poi indirettamente, grazie a una serie di specchi. Lo infilò nel taschino del pigiama, sapendo che comunque continuava a vederci. Lo strinse nella destra e sentì il suo saggio sguardo sui polpastrelli delle dita chiuse, ed ebbe la certezza che se avesse mantenuto puro il suo cuore e se avesse dedicato la sua mente alla difesa del bene, proprio come dovevano fare i cavalieri, allora un giorno quell'occhio gli avrebbe mostrato il futuro, sempre che lui lo volesse vedere, e lo avrebbe guidato sulla via di Camelot. Dopo aver pensato mille frasi da dire e averne scartate novecentonovantanove, ripose il ciondolo nella scatola e, mentre fissava quello sguardo da pirata, sollevò il ricevitore del telefono. Sorrise, sentendo mentalmente le prime nove note della colonna musicale di Dragnet. Quando anche dall'altra parte venne sollevato il ricevitore, Fric disse semplicemente: «Buon Natale, signor Truman». «Buon Natale, Fric.»
Dopo aver pronunciato quelle parole, entrambi riagganciarono come per un tacito accordo, perché da quel momento in poi non ci sarebbe stato bisogno di dire altro. Nota Nel capitolo 32, il signor Typhon suggerisce a Dunny Whistler di ispirarsi a san Duncan, di cui porta il nome. Nessun san Duncan è stato mai canonizzato. Possiamo solo fare congetture sui motivi che hanno spinto il signor Typhon a dire questa bugia, solo apparentemente di scarsa importanza. DK FINE