JOHN TWELVE HAWKS IL VIAGGIATORE (The Traveller, 2005) Ai miei esploratori PRELUDIO Il cavaliere, la morte e il diavolo ...
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JOHN TWELVE HAWKS IL VIAGGIATORE (The Traveller, 2005) Ai miei esploratori PRELUDIO Il cavaliere, la morte e il diavolo Maya allungò il braccio aggrappandosi alla mano di suo padre mentre uscivano dal sottosuolo, verso la luce. Thorn non la respinse né le disse di concentrarsi sulla postura. Sorrise e la condusse per una stretta scalinata che sbucava in una lunga galleria di piastrelle bianche. La società dei trasporti aveva installato a un lato del passaggio delle sbarre d'acciaio verticali, che facevano sembrare il corridoio parte di un'enorme prigione. Se fosse stata da sola, Maya si sarebbe sentita in trappola. Ma non c'era nulla da temere. Papà era con lei. "È la giornata perfetta" pensò Maya. Be', forse era la seconda giornata perfetta. Ricordava ancora di quando, due anni prima, papà era mancato al suo compleanno e a Natale, per ricomparire all'improvviso a Santo Stefano con un taxi carico di regali per lei e per sua madre. Quel mattino era stato fantastico e pieno di sorprese, ma questo sabato prometteva una felicità più duratura. Invece del solito deposito abbandonato di Canary Wharf, dove le insegnava a tirare calci e pugni e a usare le armi, suo padre l'aveva portata allo zoo di Londra, raccontandole una storia diversa per ogni animale. Aveva viaggiato in tutto il mondo e sapeva descrivere il Paraguay o l'Egitto come una guida turistica. La gente li fissava mentre passeggiavano davanti alle gabbie. Di solito gli Arlecchini cercavano di mescolarsi alla folla, ma suo padre spiccava comunque in un gruppo di normali cittadini. Era tedesco, con un naso virile, capelli lunghi fino alle spalle e occhi di un azzurro cupo. Indossava vestiti dai colori scuri e un braccialetto kara d'acciaio che sembrava una manetta spezzata. Nell'armadio a muro del loro appartamento, nell'East End di Londra, Maya aveva trovato un vecchio volume di storia dell'arte. Nelle prime pagine del libro c'era l'illustrazione di un quadro di Albrecht Dürer intitolato Il cavaliere, la morte e il diavolo. A Maya piaceva quel quadro, anche se
guardarlo la faceva sentire strana. Il cavaliere con l'armatura assomigliava a suo padre. Calmo e impavido come lui, cavalcava tra i monti, mentre la morte reggeva una clessidra e il diavolo lo seguiva, fingendosi uno scudiero. Anche Thorn aveva sempre con sé una spada, celata però dentro un tubo di metallo che portava a tracolla. Sebbene ne andasse fiera, Thorn però la intimidiva. A volte Maya avrebbe preferito essere una bambina normale, con un padre con la pancetta e un lavoro d'ufficio: un uomo felice che le comprasse il gelato e le raccontasse barzellette sui canguri. Il mondo intorno a lei, con le sue mode, la musica pop e gli spettacoli televisivi, era una tentazione costante. Maya avrebbe voluto abbandonarsi in quelle acque tiepide e lasciarsi portar via dalla corrente. Essere figlia di Thorn era duro: sempre attenti a evitare la sorveglianza dell'Immensa Macchina, sempre all'erta dai possibili agguati, a chiedersi da dove sarebbe arrivato il prossimo attacco. Maya aveva dodici anni, ma non era ancora abbastanza forte per usare una spada da Arlecchino. Quella mattina, prima di uscire di casa, papà aveva preso un bastone da passeggio dall'armadio a muro e glielo aveva dato. Maya aveva la pelle bianca e i lineamenti marcati di Thorn, e i folti capelli corvini di sua madre, una donna sikh. I suoi occhi erano di un celeste talmente chiaro che da una certa angolazione sembravano trasparenti. Non sopportava quelle signore che, parlando con sua madre, le facevano i complimenti per la bellezza di sua figlia. Pochi anni ancora e sarebbe stata abbastanza adulta per travestirsi e sembrare più ordinaria possibile. Uscirono dallo zoo e passeggiando attraversarono Regent's Park. Era aprile inoltrato e i ragazzi giocavano a pallone sul prato fangoso mentre mamme e papà spingevano carrozzine con bebè infagottati. Dopo tre giorni di pioggia l'intera città sembrava uscita in strada a godersi il sole. Maya e suo padre presero la Piccadilly Line e scesero ad Arsenal. Quando uscirono dalla stazione stava imbrunendo. A Finsbury Park c'era un ristorante indiano e Thorn aveva prenotato per cena. In strada, Maya udì dei rumori in lontananza - cori e sirene da stadio -, forse un corteo o una manifestazione politica. Poi papà la condusse oltre il cancelletto girevole, e si trovarono in mezzo a una guerra. In piedi sul marciapiede, Maya vide una folla compatta che marciava per Highbury Hill Road. Non c'erano cartelli di protesta, e la bambina capì che era appena finita una partita di calcio. Lo stadio era proprio in fondo alla strada, e l'Arsenal aveva appena giocato contro il Chelsea. I tifosi del Chelsea, vestiti di blu e bianco, i colori della squadra, stavano uscendo
dallo stadio attraverso i cancelli del lato ovest, e si dirigevano verso la stazione della metropolitana lungo una stretta via incassata tra due file di case. Il percorso tra lo stadio e la metropolitana, di solito niente più che una breve passeggiata, era diventato un campo di battaglia. La polizia stava proteggendo i tifosi del Chelsea dagli hooligan dell'Arsenal, che cercavano lo scontro. Agenti di polizia ai bordi. Biancoblu al centro. I Rossi che lanciavano bottiglie nel tentativo di forzare il cordone di sicurezza. I semplici cittadini capitati per caso in quel caos scappavano di corsa tra le auto in sosta, rovesciando nella fuga i bidoni dell'immondizia. Ai lati della strada c'erano dei biancospini in fiore e le loro gemme rosate tremolavano ogni volta che qualcuno veniva spinto contro la pianta. I petali fluttuavano nell'aria e cadevano sulla folla impazzita. La massa era ormai a meno di cento metri dalla stazione. Thorn avrebbe potuto girare a sinistra, in Gillespie Road; invece restò immobile sul marciapiede, studiando la situazione. Fece un vago sorriso, sicuro delle proprie forze e come divertito dalla violenza gratuita di quei miserabili. Oltre alla spada aveva con sé almeno un pugnale e una pistola, ottenuti grazie ai suoi contatti in America. Se avesse voluto, avrebbe potuto fare una strage, ma erano scontri di strada e la zona era piena di poliziotti. Maya guardò suo padre. "Dovremmo scappare" pensò. "Questa gente è impazzita." Ma Thorn guardò sua figlia come se ne avesse fiutato la paura, e lei rimase zitta. La strada era invasa dalle grida. Voci che si mescolavano in un unico boato. Maya udì il suono acuto di un fischietto. Il lamento di una sirena della polizia. Una bottiglietta di birra vuota percorse un arco nell'aria esplodendo in frantumi a pochi passi da loro. Improvvisamente, un gruppo di hooligan si apri un varco nel cordone di poliziotti; Maya vide gli uomini che cominciavano a tirare pugni, vide il sangue sul volto di un poliziotto e un agente alzare il manganello e vibrare colpo su colpo. Maya strinse forte la mano di suo padre. «Vengono verso di noi» disse. «Dobbiamo andare via di qui.» Thorn fece dietrofront e portò sua figlia nella stazione sotterranea della metropolitana, come per cercare un rifugio. Ma la polizia stava spingendo in avanti i tifosi del Chelsea, come una mandria di bestiame, e Maya si ritrovò circondata di uomini vestiti di blu. Travolti dalla folla, padre e figlia furono sospinti oltre la cabina della biglietteria. Un anziano impiegato tremava di paura dietro al vetro spesso.
Suo padre saltò oltre il cancelletto girevole e Maya lo seguì. Ora erano di nuovo nella lunga galleria, diretti verso i binari. "È tutto a posto" pensò Maya. "Ora siamo al sicuro." Ma un secondo più tardi si rese conto che gli hooligan dell'Arsenal avevano forzato i blocchi e stavano correndo verso di loro. Uno di essi brandiva un calzettone di lana riempito con sassi o biglie d'acciaio con cui colpì in faccia un tipo anziano che correva davanti a Maya, facendogli saltar via gli occhiali e rompendogli il naso. Altri hooligan dell'Arsenal avevano spinto un tifoso del Chelsea contro l'inferriata sul lato sinistro della galleria e lo stavano riempiendo di calci e bastonate mentre il ragazzo tentava di fuggire. Sangue. Altro sangue. E niente polizia. Thorn a quel punto afferrò Maya per la giacca e la trascinò attraverso la rissa. Un uomo cercò di aggredirli ma suo padre lo bloccò con un pugno rapido e potente alla carotide. Maya correva lungo la galleria, cercando di raggiungere le scale. Prima che avesse il tempo di reagire, qualcosa, come una corda, le cinse la spalla destra e il petto. Abbassò lo sguardo e vide che suo padre le aveva appena legato intorno al busto una sciarpa blu e bianca del Chelsea. In un istante capì che la giornata allo zoo, i racconti sugli animali e la cena al ristorante facevano parte di un piano preciso. Suo padre sapeva della partita di calcio, probabilmente era già stato lì per un sopralluogo e aveva calcolato i tempi del loro arrivo. Maya si voltò e vide Thorn sorridere e annuire come se le avesse appena raccontato una storia divertente, per poi voltarsi e andarsene. Maya si guardò alle spalle e vide tre tifosi dell'Arsenal che correvano verso di lei, insultandola. "Non riflettere. Reagisci." Afferrò il bastone da passeggio come un giavellotto e con la punta d'acciaio colpì in fronte il più alto dei tre. Vide il sangue sgorgare dalla ferita alla testa e l'uomo stramazzare a terra, mentre stava già girando su se stessa per colpire il secondo uomo alle gambe. Quando questi barcollò all'indietro, Maya gli tirò un calcio volante in faccia, facendolo crollare a terra. "E giù. L'ho abbattuto." Maya corse avanti e lo finì con un calcio. Nel momento in cui riprese l'equilibrio, il terzo aggressore l'afferrò alle spalle e la sollevò dal pavimento stringendole il torace, nel tentativo di romperle le costole, ma Maya mollò il bastone, allungò le mani all'indietro e afferrò il suo aggressore per le orecchie. L'uomo gridò mentre la bambina lo faceva roteare sopra la spalla, scaraventandolo a terra.
Maya raggiunse le scale, scese di corsa i gradini a due a due e scorse suo padre in piedi sulla banchina, vicino alle porte aperte di un treno. Thorn la afferrò con la mano destra usando la sinistra per farsi largo a forza dentro il vagone. Le porte scorrevoli si chiusero, si riaprirono un paio di volte e finalmente si chiusero per l'ultima volta. Gli hooligan dell'Arsenal, giunti di corsa sulla banchina, si avventarono contro il vagone, prendendo a pugni i finestrini, ma il convoglio partì lentamente e imboccò il tunnel. La gente era ammassata nei vagoni. Maya udì una donna piagnucolare mentre il ragazzo davanti a lei si premeva un fazzoletto sulla bocca e sul naso. In una curva Maya cadde addosso a suo padre, affondando il viso nel suo cappotto di lana. Lo odiava e lo amava, voleva colpirlo e abbracciarlo. "Non piangere" disse a se stessa. "Ti sta osservando. Gli Arlecchini non piangono." E si morse il labbro inferiore talmente forte da lacerare la pelle e sentire il sapore del proprio sangue. 1 Maya atterrò all'aeroporto di Rusynê nel tardo pomeriggio e prese la navetta per Praga. La scelta dell'autobus era un piccolo atto di ribellione. Un Arlecchino avrebbe noleggiato un'auto o preso un taxi. In un taxi si poteva sempre tagliare la gola all'autista e prendere il controllo della situazione. Aerei e pullman erano scelte pericolose, anguste trappole con pochissime possibilità di fuga. "Nessuno vuole uccidermi" pensò. "Non interesso a nessuno." I poteri dei Viaggiatori erano ereditari e per questo la Tabula cercava di sterminare tutti i membri della stessa famiglia. Gli Arlecchini difendevano i Viaggiatori e i loro mentori, gli Esploratori, ma era una loro scelta. Uh bambino o una bambina arlecchino poteva rinunciare spontaneamente alla via della spada, accettare un nome da cittadino e trovare un posto nell'Immensa Macchina. Se stava alla larga dai guai, la Tabula lo avrebbe lasciato in pace. Alcuni anni prima Maya si era recata in visita da John Mitchell Kramer, l'unico figlio di Greenman, un Arlecchino inglese assassinato ad Atene da un'autobomba della Tabula. Kramer viveva nello Yorkshire ed era diventato un allevatore di maiali. Maya lo aveva guardato arrancare nel fango con secchi di cibo per i suoi animali. «Per quel che ne sanno, non hai oltrepassato la linea» le aveva detto. «Sta solo a te decidere, Maya. Puoi ancora chiamarti fuori, e avere un'esistenza normale.»
Maya aveva deciso di diventare Judith Strand, una giovane donna che aveva studiato produci design alla Salford University di Manchester. Si era poi trasferita a Londra, aveva cominciato a collaborare con uno studio di design, e alla fine le era stato offerto un impiego a tempo pieno. I suoi tre anni nella capitale britannica erano stati una serie di sfide private e di piccole vittorie. Ricordava ancora la prima volta che era uscita di casa disarmata. Si era sentita inerme e completamente esposta. Si sentiva osservata da tutti; chiunque la avvicinasse era un possibile assassino. Aveva atteso un proiettile o una pugnalata, ma non era successo niente. Poco alla volta, era rimasta fuori di casa per periodi di tempo sempre più lunghi e si era adattata alla sua nuova vita. Maya non guardava più nei vetri dei negozi per controllare se era seguita. Quando mangiava in un ristorante con i suoi nuovi amici non nascondeva una pistola nel vicolo sul retro e non si sedeva per forza con le spalle rivolte al muro. In aprile aveva violato una delle principali regole degli Arlecchini e aveva cominciato a recarsi da uno psicanalista. Per cinque costose sedute si era accomodata in una stanza piena di libri, a Bloomsbury. Voleva parlare della sua infanzia e di quel primo tradimento alla stazione della metropolitana di Arsenal, ma era stato impossibile. Il dottor Bennett era un ometto distinto, un conoscitore di vini e di porcellane antiche. Maya ricordava ancora la sua confusione quando lo aveva chiamato "cittadino". «Certo che sono un cittadino» le aveva detto, perplesso. «Sono nato e cresciuto in Gran Bretagna.» «È solo una definizione di mio padre. Per lui il novantanove per cento della popolazione è fatta di "cittadini" e "fuchi".» Il dottor Bennett si era levato gli occhiali e aveva pulito le lenti con uno straccetto verde. «Le spiacerebbe spiegarsi meglio?» aveva chiesto. «I cittadini sono persone che pensano di capire che cosa succede nel mondo.» «Io non ho mai detto di sapere tutto del mondo, Judith. Ma mi tengo informato. Guardo il telegiornale ogni mattina.» Maya aveva avuto un attimo di esitazione, poi aveva deciso di dirgli la verità. «I fatti che lei conosce sono per la maggior parte un'illusione. Il vero conflitto della storia avviene sotto la superficie.» Il dottor Bennett aveva sorriso, condiscendente. «Mi parli dei fuchi.» «I fuchi sono persone talmente occupate a sopravvivere da non sapere nulla di ciò che non li riguarda direttamente.» «Si riferisce ai poveri?»
«Possono essere poveri, o persone che vivono nel Terzo Mondo, ma sono ancora in grado di trasformare se stessi. Mio padre diceva sempre: "I cittadini ignorano la verità. I fuchi sono solo troppo stanchi".» Bennett aveva inforcato di nuovo gli occhiali, poi aveva preso il blocco per appunti. «Forse dovremmo parlare dei suoi genitori.» Quella richiesta aveva segnato la fine della terapia. Che cosa poteva mai dire Maya riguardo a Thorn? Suo padre era un Arlecchino sopravvissuto a cinque attentati della Tabula. Era orgoglioso, spietato e molto coraggioso. La madre di Maya proveniva da una famiglia sikh alleata degli Arlecchini da diverse generazioni. In suo ricordo, Maya portava un braccialetto Icaro. d'acciaio al polso destro. Quell'estate Maya aveva compiuto ventisei anni e una delle sue colleghe l'aveva portata a fare shopping per le boutique di Londra. Maya aveva acquistato qualche vestito di classe, dai colori brillanti. Aveva cominciato a guardare la televisione, cercando di credere alle notizie. A volte si sentiva felice, quasi felice, le piacevano le infinite distrazioni dell'Immensa Macchina. C'era sempre qualche nuovo motivo per avere paura o un nuovo prodotto che tutti volevano. Sebbene non andasse più in giro armata, di tanto in tanto faceva un salto in una palestra di kick boxing nella zona sud di Londra e si allenava con l'istruttore. Al martedì e al giovedì frequentava un corso avanzato in un'accademia di kendo e faceva qualche combattimento con una spada shinai di bambù. Maya si sforzava di fingere che fosse solo un modo per tenersi in forma, come i suoi colleghi allo studio facevano jogging o giocavano a tennis. Ma sapeva che era diverso. Quando si combatte, ci si trova completamente "dentro" il momento, concentrati a difendersi e a sconfiggere l'avversario. Nulla di ciò che faceva nella vita aveva quell'intensità. Ora che Maya era a Praga per trovare suo padre, la vecchia paranoia da Arlecchino le era ripiombata addosso. Dopo aver comprato il biglietto del pullman al chiosco dell'aeroporto, era salita sull'autobus e si era seduta in fondo. Era una pessima posizione difensiva, ma Maya non aveva intenzione di farsi sopraffare da quei pensieri. Osservò una coppia di anziani e un gruppo di turisti tedeschi salire sul pullman e sistemare i bagagli. Cercò di distrarsi pensando a Thorn, ma il suo istinto prese il sopravvento e la costrinse a scegliere un altro posto, vicino all'uscita di sicurezza. Sconfitta dal suo addestramento e furiosa con se stessa, strinse spasmodicamente i pugni e si mise a guardare fuori dal finestrino. Appena dopo la partenza cominciò a piovigginare e quando arrivarono
in centro pioveva già molto forte. Praga sorgeva sulle due sponde di un fiume, ma le vie strette del centro storico e i palazzi di pietra grigia la fecero sentire intrappolata come se fosse in un inestricabile labirinto di siepi. La città era costellata di chiese e castelli, le cui guglie trafiggevano il cielo. Alla fermata del pullman Maya dovette prendere un'altra decisione. Avrebbe potuto raggiungere l'albergo a piedi oppure fermare un taxi. Sparrow, il leggendario Arlecchino giapponese, aveva scritto che i veri guerrieri dovevano "coltivare la casualità". Con poche parole, Sparrow aveva suggerito un'intera filosofia. Un Arlecchino rifiutava la routine e le abitudini. Bisognava vivere con disciplina, senza temere il disordine. Pioveva. Maya si stava bagnando. La scelta più prevedibile era prendere il taxi in attesa sul bordo del marciapiede. Maya esitò qualche secondo e poi decise di comportarsi come un cittadino normale. Tenendo le borse con una mano sola, aprì la portiera del taxi e si accomodò sul sedile posteriore. Il tassista era un ometto tarchiato con la barba che sembrava un troll. Maya gli disse il nome del suo albergo, ma l'ometto non reagì. «È il Kampa Hotel» ripeté in inglese. «Qualcosa non va?» «Nessun problema» ribatté il tassista mettendo in moto. Il Kampa Hotel era un imponente palazzo di quattro piani, sobrio e massiccio, con le tende verdi. Sorgeva in una via secondaria a breve distanza dal Ponte Carlo. Maya pagò il tassista e provò a uscire, ma la portiera del taxi era bloccata. «Apra questa maledetta porta.» «Scusi, madame.» Il troll premette un pulsante sul cruscotto e le serrature elettriche scattarono. Sorridendo, l'ometto barbuto indugiò a guardare la ragazza mentre scendeva. Maya lasciò che il portiere le trasferisse i bagagli in albergo. Partendo per incontrare suo padre, aveva sentito la necessità di portare con sé le solite armi, nascoste in un treppiede da telecamera. Il suo aspetto non suggeriva nessuna particolare nazionalità e il portiere le rivolse la parola in francese e in inglese. Per il viaggio a Praga aveva lasciato a casa i suoi vestiti colorati e indossava un paio di ampi pantaloni grigi, un pullover nero e stivaletti. Gli Arlecchini vestivano stoffe scure, molto costose, e abiti tagliati su misura. Nulla di attillato o di vistoso. Niente che rallentasse i movimenti in combattimento. La hall dell'albergo era arredata con poltrone e tavolini bassi. Su di una parete era appeso un arazzo sbiadito. In una sala da pranzo adiacente, un gruppo di donne attempate sorseggiava tè e chiacchierava di fronte a un
vassoio di pasticcini. Al bancone, l'impiegata dell'accettazione lanciò un rapido sguardo al treppiede e alla valigetta della telecamera e parve soddisfatta. Gli Arlecchini, per regola, avevano sempre pronta una spiegazione sull'identità che assumevano e sul motivo della loro presenza in un determinato luogo. L'attrezzatura video era un espediente tipico. Il portiere e la receptionist probabilmente pensarono che Maya fosse una regista. La sua camera d'albergo era una suite al terzo piano, buia, piena di lampade in finto stile vittoriano e mobili troppo imbottiti. Una finestra si affacciava sulla via sottostante e un'altra sovrastava il giardino-ristorante dell'hotel. Stava ancora piovendo. Il ristorante esterno era chiuso: gli ombrelloni a strisce grondavano acqua e le sedie erano appoggiate ai tavoli, come soldati stremati. Maya sbirciò sotto il letto e scoprì un regalino di benvenuto di suo padre: un arpione da scalata e cinquanta metri di corda da alpinismo. Se la persona sbagliata avesse bussato alla porta, avrebbe potuto calarsi dalla finestra e fuggire dall'albergo in circa dieci secondi. Maya si levò il cappotto, si rinfrescò il viso in bagno e appoggiò il treppiede sul letto. Ai controlli di sicurezza aeroportuali i funzionari sprecavano sempre un sacco di tempo a ispezionare la telecamera e i vari obiettivi. Le armi vere erano nascoste nel treppiede. In una gamba c'erano due pugnali: un coltello da lancio calibrato e uno stiletto utile per il corpo a corpo. Maya li sistemò nei loro foderi e li infilò poi nelle fasce elastiche che aveva messo agli avambracci. Abbassò con attenzione le maniche arrotolate del pullover e si controllò allo specchio. Il maglione di lana era abbastanza largo da nascondere le armi. Incrociò i polsi, mosse rapidamente le braccia, e un coltello le si materializzò nella mano destra. La lama della spada era nella seconda gamba del treppiede. La terza gamba nascondeva l'impugnatura e l'elsa. Maya unì le varie parti. L'elsa poteva essere ripiegata in avanti in modo che, durante il trasporto, la spada diventasse un'unica linea retta, senza sporgenze. Quando Maya estraeva la spada, l'elsa tornava automaticamente in posizione. Insieme al treppiede e alla telecamera Maya aveva portato con sé un tubo di metallo lungo un metro e venti, con una tracolla di cuoio simile a una custodia da disegno per artisti. Veniva utilizzato come custodia per la spada in modo da non creare sospetti per strada. Maya era capace di estrarre la spada dal tubo in due secondi netti, e le occorreva un altro secondo per attaccare. Suo padre le aveva insegnato a tirare di scherma quando era ancora adolescente e lei aveva perfezionato la sua tecnica in un corso di kendo con un maestro giapponese.
Gli Arlecchini venivano anche addestrati all'uso di pistole e fucili da assalto. L'arma prediletta di Maya era un fucile a canne mozze, preferibilmente un calibro 12 con impugnatura a pistola e calcio pieghevole. L'impiego di un'antiquata spada da samurai assieme alle armi moderne veniva accettato - e apprezzato - come parte dello stile degli Arlecchini. Le armi da fuoco erano un male necessario, ma le spade erano oggetti al di fuori del tempo, libere dai controlli e dai compromessi dell'Immensa Macchina. Addestrarsi con la spada comportava equilibrio, strategia e decisione. Come un kirpan sikh, la spada da Arlecchino legava ogni guerriero a degli obblighi spirituali e a un'antica tradizione. Thorn pensava che le spade avessero anche dei vantaggi reali sulle armi da fuoco. Nascoste in attrezzature come il treppiede, potevano superare i sistemi di controllo di sicurezza negli aeroporti. Inoltre erano armi silenziose e talmente poco comuni da sorprendere la maggior parte degli avversari. Maya visualizzò mentalmente un attacco. Una finta alla testa, poi un fendente in basso sull'esterno del ginocchio. Una lieve resistenza. L'osso e la cartilagine che si lacerano. E qualcuno si ritrova con la gamba amputata. Trovò una busta gialla posata sulla corda arrotolata. Maya l'aprì e lesse l'indirizzo e l'ora dell'appuntamento. Alle 19.00. Al Betlémské nàmésti, un quartiere storico della Città Vecchia. Appoggiò la spada di traverso sulle cosce, spense le luci e cercò di raccogliersi in meditazione. Una serie di immagini le affluì alla mente, ricordi dell'unica volta in cui aveva combattuto come Arlecchino. All'epoca aveva diciassette anni e suo padre l'aveva portata a Bruxelles per proteggere un monaco zen in visita in Europa. Il monaco era un Esploratore, ossia uno dei mentori spirituali in grado di mostrare a un potenziale Viaggiatore come raggiungere altri regni. Sebbene gli Arlecchini non proteggessero per giuramento gli Esploratori, li aiutavano ogni volta che potevano. Il monaco era un grande maestro, ed era sulla lista nera della Tabula. Quella notte a Bruxelles il padre di Maya e Linden, il suo amico francese, erano in albergo, allo stesso piano della suite occupata dal monaco. A Maya era stato ordinato di sorvegliare l'ascensore di servizio nel sotterraneo. Quando arrivarono due mercenari della Tabula, non c'era nessuno ad aiutarla. Aveva sparato alla gola a uno dei due e aveva ferito a morte l'altro con la spada. Il sangue dei due avversari le aveva imbrattato la divisa grigia da cameriera, le braccia e le mani. Linden l'aveva trovata in lacrime, seduta di fianco ai cadaveri. Due anni dopo il monaco zen era morto in un incidente stradale. Tutto
quel sangue e quel dolore erano stati inutili. "Calmati" disse Maya tra sé. "Trovati un mantra personale. Nostri Viaggiatori che siete nei Cieli. Andate tutti all'inferno." Verso le sei di sera smise di piovere e Maya decise di raggiungere a piedi l'appartamento di Thorn. Uscita dall'albergo, trovò senza problemi via Mosteckà e la seguì fino al Ponte Carlo. L'antico ponte di pietra era largo e illuminato da lampioni colorati che mettevano in risalto una lunga fila di statue. Un ragazzo suonava la chitarra davanti a un cappello capovolto sul selciato, mentre un artista di strada disegnava un ritratto a carboncino di un'anziana turista. A metà del ponte si trovava una grande croce dorata. Maya ricordava di aver sentito che portava fortuna. La fortuna non esisteva, ma Maya la toccò, esprimendo sottovoce un desiderio. «Che qualcuno possa amarmi e che io possa ricambiarlo.» Vergognandosi di quella dimostrazione di debolezza, accelerò il passo e arrivò in fondo al ponte, all'inizio della Città Vecchia. Negozi, chiese e cantine trasformate in nightclub si susseguivano nelle vie, una a ridosso dell'altra come passeggeri su un treno affollato. Giovani cechi e turisti con lo zaino sostavano fuori dai pub, con l'aria annoiata, a fumare marijuana. Thorn abitava in via Konviktskà, un isolato a nord della prigione segreta in via Bartoloméjska. Durante la Guerra Fredda, la polizia di Stato aveva requisito un convento e vi aveva allestito celle di detenzione e camere di tortura. Ora le suore della Misericordia erano tornate nel loro convento e la polizia si era trasferita in un palazzo vicino. Attraversando il quartiere, Maya comprese perché Thorn avesse scelto quella città. Praga manteneva ancora un aspetto medievale e la maggior parte degli Arlecchini odiava qualsiasi cosa sembrasse moderna. La città era dotata di un decoroso sistema sanitario, di ottimi trasporti pubblici e di numerosi Internet café. Un terzo fattore era persino più importante: la polizia si era formata in epoca comunista. Corrompendo le persone giuste, Thorn poteva accedere all'ufficio passaporti e agli archivi della polizia. Una volta, a Barcellona, Maya aveva conosciuto uno zingaro che le aveva spiegato perché si sentiva in diritto di borseggiare i turisti e rubare negli alberghi. I Romani, condannato Gesù alla crocifissione, avevano fuso un chiodo d'oro massiccio da piantare nel cuore del Salvatore. Uno zingaro - a quanto pareva nell'antica Gerusalemme esistevano gli zingari - aveva rubato il chiodo e di conseguenza Dio aveva concesso al suo popolo il permes-
so di rubare. Gli Arlecchini non erano zingari, ma Maya si era convinta che la loro mentalità fosse la stessa. Suo padre e i suoi amici avevano un senso dell'onore molto elevato e un forte spirito di gruppo. Erano disciplinati e leali gli uni verso gli altri, ma disprezzavano qualsiasi tipo di legge civile. Gli Arlecchini ritenevano di avere il diritto di uccidere in virtù del loro impegno a proteggere i Viaggiatori. Maya passò davanti alla chiesa della Santa Croce e, al lato opposto della strada, vide il numero 18 di via Konviktskà. Era una porta rossa, stretta tra un negozio di sanitari e uno di biancheria intima, nella cui vetrina un manichino indossava una guêpière e un paio di calze di paillette. L'edificio aveva due piani superiori e tutte le finestre erano chiuse o avevano i vetri oscurati. Gli Arlecchini abitavano in case con almeno tre uscite, una delle quali sempre segreta. Il palazzo aveva la porta principale davanti e una di servizio che si apriva sul vicolo retrostante. Probabilmente esisteva un passaggio segreto collegato al negozio di lingerie. Maya aprì la custodia della spada e la inclinò leggermente in avanti, facendo sporgere di pochi centimetri l'impugnatura dell'arma. A Londra, la convocazione le era giunta nel modo di sempre: una busta marrone senza indirizzo né mittente, infilata sotto la porta di casa. Se la Tabula aveva scoperto che era implicata negli omicidi di otto anni prima, poteva averla attirata fuori dall'Inghilterra in modo da eliminarla più facilmente. Attraversò la strada e si fermò davanti al negozio di lingerie a osservare la vetrina alla ricerca di un segno tradizionale degli Arlecchini, come una maschera o un capo di vestiario con un disegno a rombi, qualsiasi cosa potesse calmare la tensione che le cresceva dentro. Erano le sette di sera. Percorse lentamente il marciapiede e scoprì un disegno fatto con il gesso sul selciato: un semplice ovale e tre linee diritte. Un liuto da Arlecchini. Se fosse stato opera degli uomini della Tabula, sarebbe stato disegnato con maggior cura, in modo da somigliare allo strumento. Invece era appena schizzato, come se fosse stato un bambino annoiato a tracciarlo. Maya premette il campanello davanti alla porta, udì un ronzio elettrico e notò sul muro una piccola telecamera di sorveglianza. Era puntata su di lei. La serratura fece uno scatto e Maya entrò ritrovandosi in un piccolo corridoio che conduceva a una ripida scala a chiocciola. La porta alle sue spalle si richiuse automaticamente e un perno d'acciaio di otto centimetri scattò nel muro. "Sono in trappola." Maya estrasse la spada dalla custodia a tracolla, fece scattare l'elsa e salì i gradini. In cima alla scaletta c'era una porta d'acciaio e un secondo citofono. Maya premette il pulsante e da un alto-
parlante giunse una voce elettronica. «Impronta vocale, prego.» «Vai all'inferno.» Un computer analizzò la sua voce e tre secondi dopo la seconda porta si aprì automaticamente. Maya entrò in un vasto stanzone bianco dal parquet lucido. L'appartamento di suo padre era spoglio e pulito. Non c'era nulla di plastica, nulla di falso o di inutile. Una mezza parete separava il corridoio dal soggiorno. Lo spazio era occupato da una poltrona di pelle e da un basso tavolino di cristallo, sul quale era posato un vaso con una solitaria orchidea gialla. Ai muri erano appesi due poster incorniciati. Uno era il manifesto di una mostra di spade da samurai giapponesi al Nezu Institute of Fine Arts di Tokyo. La via della spada. La vita del guerriero. Il secondo era la riproduzione di un'opera d'arte del 1914: Trois stoppages étalon, un "ready-made" di Marcel Duchamp. L'artista francese aveva fatto cadere su una tela tre pezzi di filo, e li aveva fissati sul quadro nell'esatta posizione di caduta. Come un Arlecchino, Duchamp non si opponeva alla casualità e all'incertezza: le usava per la sua arte. Maya udì dei passi sul parquet, poi un giovanotto dalla testa rasata, armato di mitragliatrice, svoltò l'angolo del corridoio. L'uomo sorrideva e teneva l'arma puntata vero il basso. Maya decise che se il ragazzo fosse stato abbastanza stupido da alzare la mitraglietta avrebbe scartato a sinistra e gli avrebbe aperto la faccia con la spada. «Benvenuta a Praga» disse lo sconosciuto in inglese, con accento russo. «Tuo padre sarà qui tra un attimo.» Il ragazzo indossava un paio di pantaloni a righe e una maglietta con degli ideogrammi giapponesi. Maya vide che le sue braccia e il collo erano decorati con numerosi tatuaggi. Serpenti. Demoni. Una visione infernale. Non c'era bisogno di vederlo nudo per capire che era una specie di racconto epico ambulante. Gli Arlecchini si facevano sempre aiutare da disadattati o gente strana. Maya rimise la spada nella custodia. «Come ti chiami?» «Aleksj.» «Da quanto tempo lavori per Thorn?» «Non è lavoro.» Il giovane sembrava molto compiaciuto. «Aiuto tuo padre, e lui aiuta me. Mi sto allenando per diventare un maestro di arti marziali.» «Ed è un ottimo allievo.» La giovane donna udì prima la voce di suo pa-
dre, che aggirò l'angolo del corridoio un secondo dopo e giunse in soggiorno su una sedia a rotelle elettrica. La sua spada da Arlecchino era in un fodero appeso a un bracciolo. Negli ultimi due anni Thorn si era fatto crescere la barba. Il torace e le braccia erano ancora muscolosi e facevano quasi dimenticare le sue gambe ormai inutili. Fermò la sedia a rotelle e sorrise a sua figlia. «Buonasera, Maya.» L'ultima volta che aveva visto suo padre era stato a Peshawar la notte in cui Linden, coperto di sangue, lo aveva riportato a valle privo di sensi dalle montagne della frontiera nordoccidentale. La Tabula, attraverso falsi articoli di giornale, aveva attirato Thorn, Linden, un Arlecchino cinese di nome Willow e uno australiano di nome Libra in una regione tribale del Pakistan. Thorn si era convinto che due bambini - un dodicenne e la sua sorellina di dieci anni - fossero Viaggiatori e che un capo religioso locale stesse cercando di ucciderli. I quattro Arlecchini e i loro aiutanti erano caduti in un agguato a un valico di montagna. Willow e Libra erano morti. Thorn aveva subito una grave lesione alla spina dorsale ed era rimasto paralizzato dalla vita in giù. Due anni dopo suo padre viveva in un appartamento di Praga con un freak tatuato come servitore e tutto filava a meraviglia. Scordiamoci il passato e tiriamo avanti. In quel momento Maya fu quasi lieta che suo padre fosse paraplegico. Se non fosse stato ferito non avrebbe mai ammesso di essere caduto in un'imboscata. «Allora, come stai, Maya?» Thorn si rivolse al russo. «È da un po' di tempo che non vedo mia figlia.» Il fatto che avesse usato quel termine fece infuriare Maya. Significava che voleva chiederle un favore. «Più di due anni» disse. «Due anni?» Aleksj sorrise. «Avrete un sacco di cose da dirvi.» Thorn fece un cenno con la mano e il russo prese da un ripiano uno scanner che assomigliava a un piccolo metal detector ma serviva a rilevare le perle localizzatrici della Tabula. Le perle emettevano un segnale che poteva essere rilevato dai satelliti GPS. Esistevano perle localizzatrici a onde radio e perle speciali che emettevano segnali a infrarossi. «Non sprecate il tempo. Io non interesso alla Tabula.» «È solo per prudenza.» «Io non sono un Arlecchino e loro lo sanno.» Lo scanner non emise nessun segnale. Aleksj uscì dalla stanza e Thorn si sistemò sulla sedia. Maya sapeva che suo padre aveva preparato mentalmente quella conversazione. Probabilmente aveva pensato per ore ai vestiti
da indossare e a come disporre l'arredamento. Al diavolo. Lo avrebbe preso di sorpresa. «Che bel servitore hai.» Maya si accomodò sulla poltrona e Thorn le si avvicinò. «Molto pittoresco.» Normalmente, nelle conversazioni private, parlavano in tedesco. Thorn stava facendo una concessione a sua figlia. Maya aveva passaporti di diverse nazionalità, ma in quel periodo si considerava inglese. «Ah sì, ti riferisci ai tatuaggi.» Suo padre sorrise. «Aleksj ha convinto un artista a tatuargli sul corpo un'immagine del Primo Regno. Non è molto bella a vedersi, ma la scelta è sua.» «Già. Abbiamo tutti il libero arbitrio. Perfino gli Arlecchini.» «Non sembri molto contenta di vedermi, Maya.» Maya si era ripromessa di mantenere il controllo, ma le parole le salirono spontaneamente alle labbra. «Ti ho tirato fuori dal Pakistan, ho corrotto o minacciato una buona metà dei funzionari del Paese pur di farti salire a bordo di quell'aereo. Poi siamo arrivati a Dublino e Mother Blessing si è presa cura di te, e io non ho avuto nulla da ridire poiché era sul suo territorio. Il giorno dopo l'ho chiamata sul telefono satellitare e mi ha detto: "Tuo padre è paralizzato dalla vita in giù. Non potrà mai più camminare". Poi ha riattaccato e ha cancellato immediatamente la linea. Così. Passo e chiudo. E per due anni non ho più avuto tue notizie.» «Ti stavamo proteggendo, Maya. Sono tempi difficili.» «Vallo a raccontare al bambinone tatuato. Hai sempre usato il pericolo e la sicurezza come scuse per fare quel che volevi, ma non attacca più. Non ci sono più battaglie. In effetti non esistono più Arlecchini: solo un piccolo gruppo isolato: tu, Linden e Mother Blessing.» «C'è Shepherd, in California.» «Tre o quattro persone non cambiano niente. La guerra è finita. Non lo capisci? La Tabula ha vinto. Noi abbiamo perso. Wir haben verloren.» Il tedesco parve toccare Thorn più dell'inglese. Sfiorò i comandi manuali della sua sedia a rotelle e si voltò in modo che Maya non gli potesse vedere gli occhi. «Anche tu sei un Arlecchino, Maya. È questo il tuo vero io. Il tuo passato e il tuo futuro.» «Io non sono un Arlecchino e non sono come te. Ormai dovresti saperlo.» «Abbiamo bisogno di te. Ci devi aiutare. È importante.» «È sempre importante.»
«Ho bisogno che tu vada in America. Copriremo noi le spese, e penseremo alla logistica.» «Quello è territorio di Shepherd. Lascia che se ne occupi lui.» Suo padre usò tutta la forza dei suoi occhi e della sua voce. «Shepherd si è trovato in una situazione insolita. Non sa come comportarsi.» «Ora ho una vita vera. Non ho più niente a che vedere con voi.» Agendo sulla leva di guida della sedia, Thorn si allontanò da lei di qualche metro. «Ah sì. Una vita da cittadina nell'Immensa Macchina. Una vita divertente... Racconta...» «Prima d'ora non me lo avevi mai chiesto.» «Non lavori in un ufficio?» «Mi occupo di design. Lavoro in un team che progetta packaging per diverse società. La settimana scorsa ho disegnato una nuova boccetta di profumo.» «Sembra stimolante. Sono sicuro che hai molto successo. E che cosa mi dici del resto? Nessun uomo di cui dovrei sapere?» «No.» «C'era quell'avvocato... come si chiamava?» Thorn lo sapeva benissimo, naturalmente, ma finse di fare uno sforzo. «Connor Ramsey. Ricco. Bello. Di buona famiglia. E ti ha lasciato per un'altra donna. Mi hanno detto che per tutto il tempo in cui siete stati insieme frequentava anche l'altra.» Maya si sentì come se Thorn l'avesse appena schiaffeggiata. Avrebbe dovuto sapere che suo padre avrebbe raccolto informazioni su di lei. Dava sempre l'impressione di sapere tutto. «Questo non ti riguarda.» «Non sprecare tempo a preoccuparti per Ramsey. Qualche mese fa certi mercenari che lavorano con Mother Blessing gli hanno fatto saltare in aria la macchina. Adesso è convinto di essere nel mirino dei terroristi. Ha assoldato delle guardie del corpo. Vive nella paura. E questo è un bene, non ti sembra? Mr Ramsey doveva essere punito per aver preso in giro la mia bambina.» Thorn girò la sedia a rotelle e le sorrise. Maya sapeva che avrebbe dovuto sentirsi offesa, ma non ci riuscì. Ripensò a Connor che l'abbracciava appassionatamente sul molo di Brighton, e poi al suo ex seduto in un ristorante, tre settimane dopo, mentre le diceva di non trovarla adatta al matrimonio. Maya aveva letto sui giornali dell'auto esplosa, ma non aveva collegato la cosa con suo padre. «Non avresti dovuto farlo.»
«Però l'ho fatto.» Thorn si avvicinò di nuovo al tavolino. «Fare esplodere una macchina non cambia niente. Non andrò in America.» «E chi ha parlato dell'America? Stiamo solo facendo conversazione.» L'addestramento da Arlecchino suggerì a Maya di passare al contrattacco. Anche lei si era preparata per quell'incontro. «Dimmi una cosa, papà. Tu mi vuoi bene?» «Sei mia figlia, Maya.» «Rispondi alla domanda.» «Da quando è morta tua madre, sei l'unica cosa preziosa che ho nella vita.» «D'accordo. Accettiamo questa risposta, per il momento.» Maya si sporse in avanti sulla poltrona. «La Tabula e gli Arlecchini hanno sempre combattuto una battaglia equilibrata. Ma l'Immensa Macchina ha cambiato le cose. Per quel che ne so, non esistono più Viaggiatori e sono rimasti solo pochi Arlecchini.» «La Tabula usa scanner facciali, sistemi di sorveglianza elettronica, una rete di ufficiali governativi...» «Non voglio motivazioni. Non stiamo parlando di questo. Solo fatti e conclusioni. In Pakistan sei rimasto ferito gravemente e due persone hanno perso la vita. Ero molto affezionata a Libra. Quando veniva a Londra mi portava sempre a teatro. E Willow era una donna forte e gentile.» «Entrambi conoscevano i rischi e li accettavano» disse Thorn. «Entrambi hanno avuto una Fiera Morte.» «Già, sono morti. Eliminati per niente. E ora tu vuoi che io muoia nello stesso modo.» Thorn afferrò i braccioli della sedia a rotelle e, per un momento, Maya pensò che si sarebbe costretto ad alzarsi in piedi, in un atto di pura volontà. «È successa una cosa straordinaria» disse. «Per la prima volta abbiamo una spia nella Tabula. Linden tiene i contatti.» «È solo un'altra trappola.» «Può darsi. Ma tutte le informazioni che ci ha fornito si sono rivelate esatte. Qualche settimana fa abbiamo saputo della presenza di due possibili Viaggiatori negli Stati Uniti. Sono fratelli. Molti anni fa io protessi il loro padre, Matthew Corrigan. Prima che entrasse in clandestinità, gli affidai un talismano.» «La Tabula sa di questi fratelli?» «Sì. Li tengono sotto stretta sorveglianza, ventiquattro ore al giorno.»
«Perché non li uccidono come hanno sempre fatto?» «L'unica cosa che so è che i Corrigan sono in pericolo e che dobbiamo aiutarli immediatamente. Shepherd discende da una famiglia di Arlecchini. Suo nonno salvò la vita a centinaia di persone. Ma un potenziale Viaggiatore non si fiderebbe di lui. Shepherd non è né disciplinato né particolarmente intelligente. È un...» «Un idiota.» «Esattamente. Tu ce la faresti, Maya. Devi solo trovare i Corrigan e portarli in un luogo sicuro.» «Forse non sono Viaggiatori.» «Non lo sapremo finché non li avremo interrogati. Su una cosa hai ragione: non esistono più Viaggiatori. Questa potrebbe essere la nostra ultima occasione.» «Non hai bisogno di me. Trova dei mercenari.» «La Tabula ha più denaro e più potere. I mercenari ci tradiscono sempre.» «Allora fallo tu.» «Sono disabile, Maya. Inchiodato qui, in questo appartamento, su questa sedia a rotelle. Tu sei l'unica in grado di farlo.» Per qualche secondo Maya ebbe l'impulso di sguainare la spada ed entrare in battaglia; poi si ricordò dello scontro nella metropolitana di Arsenal. Un padre avrebbe dovuto proteggere sua figlia. Invece Thorn le aveva rovinato l'infanzia. Si alzò dalla poltrona e si diresse verso la porta. «Io torno a Londra.» «Non ti ricordi i miei insegnamenti? Verdammt durch das Fleisch. Gerettet durch das Blut...» Dannati dalla carne. Salvati dal sangue. Maya aveva sentito quella frase - e l'aveva odiata - fin da bambina. «Dillo al tuo nuovo amico russo. Con me non funziona.» «Se non ci sono più Viaggiatori, allora la Tabula è riuscita a conquistare la storia. Nel giro di una o due generazioni il Quarto Regno diventerà un posto freddo e sterile dove chiunque sarà sorvegliato e controllato.» «È già così.» «È il nostro dovere, Maya. È l'essenza di ciò che siamo.» La voce di Thorn era carica di dolore e rammarico. «Molte volte ho desiderato una vita diversa. Avrei voluto essere nato cieco e ignorante. Ma non avrei mai potuto far finta di niente e rinnegare il passato, ignorare gli Arlecchini che si erano sacrificati per una causa tanto importante.»
«Quand'ero una bambina mi hai regalato armi e mi hai insegnato a uccidere. Ora vuoi mandarmi a morire.» Thorn parve farsi più piccolo sulla sedia a rotelle. La sua voce divenne un sussurro. «Morirei per te.» «Ma io non morirò per una causa che non esiste più.» Maya allungò una mano sulla spalla di Thorn. Era un gesto di addio, l'ultimo tentativo di comunicare con lui, ma l'espressione furente del padre le fece ritrarre la mano. «Addio, papà.» Maya tornò alla porta e prese la maniglia. «Ho una minima speranza di essere felice. Non lascerò che tu me la porti via.» 2 Nathan Boone era seduto in una stanza del magazzino di fronte al negozio di lingerie. Attraverso un visore notturno, osservò Maya lasciare l'edificio in cui abitava Thorn e risalire la via lungo il marciapiede. Boone aveva già fotografato la figlia di Thorn al suo arrivo all'aeroporto, ma fu contento di rivederla. In quel periodo il suo lavoro consisteva per lo più nel fissare lo schermo di un computer, controllare telefonate e ricevute di carte di credito e leggere referti medici e bollettini della polizia provenienti da una dozzina di nazioni diverse. Vedere un Arlecchino in carne e ossa lo riportava alla realtà. Il nemico esisteva ancora, o almeno esisteva un piccolo numero di nemici, ed era sua responsabilità eliminarli. Due anni prima, dopo lo scontro a fuoco in Pakistan, Boone aveva scoperto che Maya viveva a Londra. Il suo comportamento indicava che aveva rifiutato la violenza degli Arlecchini e aveva deciso di condurre una vita normale. I Confratelli avevano preso in considerazione la sua esecuzione, ma Boone aveva inviato loro una lunga e-mail nella quale si opponeva a questa decisione. Sapeva che Maya poteva condurlo a Thorn, Linden e Mother Blessing. I tre Arlecchini erano ancora pericolosi. Dovevano essere localizzati ed eliminati. Maya avrebbe notato chiunque l'avesse pedinata per le strade di Londra, per questo Boone aveva mandato una squadra di tecnici a casa sua perché piazzassero in ogni sua borsa e valigia delle perle di localizzazione. Quando Maya usciva dal quartiere con i bagagli, il satellite GPS inviava l'informazione ai computer dei Confratelli. Era stata una bella fortuna che Maya fosse andata a Praga in aereo. A volte gli Arlecchini scomparivano semplicemente da un Paese, per ricomparire a seimila chilometri di distan-
za con un'identità del tutto nuova. Boone udì in cuffia la voce di Loutka. «E adesso?» domandò l'uomo. «La seguiamo?» «Questo è il lavoro di Halver. Ci penserà lui. L'obiettivo primario è Thorn. Ci occuperemo di Maya più tardi stanotte.» Loutka e i tre tecnici erano all'interno di un furgone per consegne a domicilio parcheggiato all'angolo. Loutka era un tenente della polizia ceca incaricato di fare da collegamento con le autorità locali. I tecnici erano lì per un lavoro delicato, dopo di che se ne sarebbero tornati a casa immediatamente. Con l'aiuto di Loutka, Boone aveva ingaggiato due sicari professionisti di Praga. I due mercenari erano seduti sul pavimento alle sue spalle, in attesa di ordini. Il magiaro era un tipo robusto che non parlava una sola parola di inglese. Il suo amico serbo, un ex soldato, parlava quattro lingue e aveva l'aria intelligente, ma Boone non si fidava di lui. Era il tipo che, in caso di difficoltà, poteva anche scappare. Nella stanza faceva freddo e Boone indossava un giaccone e un berretto di lana. Il taglio di capelli militare e gli occhiali dalla montatura d'acciaio gli davano un'aria disciplinata e forte, di un ingegnere chimico che correva la maratona ogni weekend. «Andiamo» disse Loutka. «No.» «Maya sta tornando a piedi al suo hotel. Non penso che Thorn riceverà altre visite stasera.» «Lei non conosce questa gente. Io sì. Agiscono di proposito in modo imprevedibile. Thorn potrebbe decidere di uscire di casa, o Maya potrebbe tornare. Aspettiamo cinque minuti e vediamo cosa succede.» Boone abbassò il visore notturno e continuò a tenere d'occhio la via. Negli ultimi sei anni aveva lavorato per i Confratelli, un piccolo gruppo di uomini di diverse nazionalità uniti dalla stessa visione del futuro. I Confratelli - chiamati "la Tabula" dai loro nemici - erano votati allo sterminio degli Arlecchini e dei Viaggiatori. Boone era l'ufficiale di collegamento tra l'organizzazione e i suoi mercenari. Per lui era facile occuparsi di gente come il serbo e il tenente Loutka. Un mercenario voleva sempre o del denaro o qualche tipo di favore. Prima si contrattava un prezzo, poi si decideva se lo si voleva pagare. Sebbene Boone ricevesse molti soldi dai Confratelli, non si era mai sentito un mercenario. Due anni prima gli era stato concesso di leggere una
raccolta di volumi intitolata La Conoscenza, che gli aveva dato una visione più ampia degli obiettivi e della filosofia dei Confratelli. La Conoscenza aveva mostrato a Boone che egli era parte di una battaglia contro le forze del disordine. I Confratelli e i loro alleati erano sul punto di creare una società controllata alla perfezione, ma questo nuovo sistema non sarebbe sopravvissuto se ai Viaggiatori fosse stato ancora permesso di abbandonare il sistema, per tornare a sfidare l'opinione comune. La pace e la prosperità potevano essere raggiunte solo se la gente avesse smesso di porre nuove domande e avesse accettato le risposte disponibili. I Viaggiatori portavano il caos nel mondo, ma Boone non li odiava. Un Viaggiatore era nato con il potere di viaggiare tra i mondi; era ereditario, non potevano farci niente. Gli Arlecchini erano diversi. Benché esistessero famiglie di Arlecchini, ognuno di loro proteggeva i Viaggiatori per libera scelta. Il loro culto per la casualità contraddiceva le regole che governavano la vita di Boone. Qualche anno prima aveva ucciso a Hong Kong un Arlecchino di nome Bronze Dragon. Perquisendo il cadavere dell'uomo, oltre alle solite armi e ai passaporti falsi, aveva trovato un congegno elettronico chiamato GNC, un "generatore di numeri casuali". Il GNC era un computer miniaturizzato che produceva un numero casuale premendo un pulsante. A volte, gli Arlecchini usavano i GNC per prendere delle decisioni. Un numero dispari poteva voler dire sì, un numero pari no. Bastava premere il piccolo pulsante e il GNC avrebbe indicato quale porta prendere. Boone, seduto in una camera d'albergo, si era messo a studiare il congegno. Come si poteva vivere in quel modo? Per quel che lo riguardava, chiunque lasciasse che dei numeri casuali guidassero la sua vita doveva essere braccato e ucciso. L'ordine e la disciplina erano i valori che impedivano il decadimento della civiltà occidentale. Bastava guardare chi viveva ai margini della società per rendersi conto di ciò che sarebbe successo se la gente avesse affidato le proprie scelte al caso. Erano trascorsi due minuti. Boone premette un pulsante sull'orologio da polso e sul display lampeggiarono prima il ritmo cardiaco e poi la temperatura corporea. Era una situazione di grande tensione, e Boone fu soddisfatto di vedere che le sue pulsazioni erano di soli sei punti superiori alla norma. Conosceva a memoria le proprie pulsazioni cardiache, a riposo e in moto, come anche la percentuale di grasso corporeo, quella di colesterolo nel sangue e il suo fabbisogno giornaliero di calorie. Un fiammifero si accese e pochi secondi dopo Boone sentì odore di fu-
mo. Voltandosi, vide che il serbo stava fumando una sigaretta. «Spegnila.» «Perché?» «Non mi piace respirare aria avvelenata.» Il serbo sogghignò. «Tu non stai respirando proprio niente, amico. Sono io che la sto fumando.» Boone si alzò e si allontanò dalla finestra. Il suo volto rimase impassibile mentre valutava la situazione. Quell'uomo era pericoloso? Occorreva intimidirlo per il successo dell'operazione? In quanto tempo avrebbe reagito? Infilò la mano destra in una delle tasche laterali del giaccone, sentì sotto le dita il rasoio sigillato con del nastro adesivo e lo strinse saldamente tra il pollice e l'indice. «Spegni subito la sigaretta.» «Quando l'avrò finita.» Boone vibrò un fendente dall'alto e tagliò di netto la punta della sigaretta. Prima che il serbo potesse reagire, lo prese per il bavero e tenne il filo del rasoio a mezzo centimetro dal suo occhio destro. «Se ti tagliassi gli occhi, la mia faccia sarebbe l'ultima cosa che vedresti in vita tua. Penseresti a me per il resto dei tuoi giorni, Josef. La mia immagine ti rimarrebbe impressa a fuoco nel cervello.» «Ti prego» biascicò il serbo. «Ti prego, non...» Boone fece un passo indietro e mise in tasca il rasoio. Poi puntò gli occhi sul magiaro. L'uomo sembrava aver capito. Mentre tornava alla finestra, la voce del tenente Loutka gli arrivò in cuffia. «Che cosa succede? Perché stiamo aspettando?» «L'attesa è finita» disse Boone. «Dica a Skip e Jamie che è arrivato il momento di guadagnarsi lo stipendio.» Skip e Jamie Todd erano due fratelli di Chicago specialisti in sorveglianza elettronica. Erano entrambi bassi e grassocci, e indossavano tute marroni identiche. Mentre Boone li osservava attraverso il visore notturno, i due uomini tirarono fuori dal furgone una scala di alluminio e la posarono sul marciapiede davanti al negozio di lingerie. Sembravano due elettricisti, chiamati per un problema alla rete. Skip aprì la scala e Jamie vi si arrampicò fino a raggiungere l'insegna luminosa sopra la vetrina del negozio. Una telecamera miniaturizzata radiocomandata, montata sul bordo dell'insegna qualche ora prima, aveva ripreso Maya, in attesa sul marciapiede. Thorn aveva nascosto una telecamera di sorveglianza all'interno della
tettoia di ferro che riparava l'entrata dell'appartamento. Jamie salì sulla scala una seconda volta, rimosse la telecamera e la sostituì con un riproduttore DVD miniaturizzato. Quando i fratelli ebbero terminato, chiusero la scala e la caricarono di nuovo sul furgone. Per tre minuti di lavoro, avevano guadagnato diecimila dollari e una visita a un bordello di lusso invia Korunni. «Preparatevi» disse Boone al tenente Loutka. «Scendiamo.» «E Harkness?» «Gli dica di restare sul furgone. Lo porteremo di sopra quando la situazione sarà sicura.» Boone si mise in tasca il visore notturno e fece un cenno ai mercenari. «È ora di andare.» Il serbo disse qualcosa al magiaro e i due uomini si alzarono in piedi. «Quando entreremo nell'appartamento dovrete stare attenti» li avvertì Boone. «Gli Arlecchini sono molto pericolosi. Se attaccati, reagiscono immediatamente.» Il serbo aveva recuperato parte della fiducia in se stesso. «Forse sono pericolosi per te. Ma io e il mio amico sappiamo gestire qualsiasi problema.» «Gli Arlecchini non sono persone normali. Imparano a uccidere fin da bambini» I tre uomini scesero in strada e si fecero incontro a Loutka. Il tenente di polizia sembrava pallido sotto la luce del lampione. «E se non funziona?» chiese. «Se ha paura, può restare sul furgone con Harkness, ma non sarà pagato. Non si preoccupi. Quando io organizzo un'operazione, tutto va per il meglio.» Boone guidò gli uomini alla porta di Thorn sull'altro lato della strada ed estrasse la sua pistola con puntatore laser. Nella mano sinistra stringeva un radiocomando. Premette il pulsante giallo e il registratore DVD riprodusse l'immagine di Maya ferma davanti alla porta un'ora prima. Uno sguardo a sinistra. Uno sguardo a destra. Tutti erano pronti. Boone premette il pulsante del citofono e rimase in attesa. Al piano di sopra, il giovane russo diede un'occhiata al monitor del sistema di sorveglianza e vide Maya. La porta si aprì. Erano dentro. I quattro uomini salirono le scale. Arrivati al pianerottolo del primo piano, Loutka prese dalla tasca un registratore. «Impronta vocale, prego» disse una voce elettronica. Loutka accese il registratore, che diffuse la voce registrata poche ore
prima sul taxi. «Apra questa maledetta porta» disse la voce di Maya. «Apra questa...» La porta blindata si aprì. Boone fu il primo a entrare. Il russo tatuato era in piedi nel corridoio, aveva in mano uno straccio e sembrava decisamente sorpreso. Boone alzò la pistola. Il proiettile da 9 mm colpì come un gigantesco pugno il torace del ragazzo, scaraventandolo a terra. Il magiaro, nel tentativo di guadagnarsi un bonus con la successiva vittima, avanzò di corsa, aggirando la mezza parete che divideva la stanza. Boone lo udì urlare e si precipitò in avanti, seguito da Loutka e dal serbo. I tre irruppero nella cucina e videro che il magiaro giaceva in grembo a Thorn, con le gambe piegate sul pavimento e le larghe spalle incastrate tra i braccioli della sedia a rotelle. L'Arlecchino stava cercando di spingere da parte il suo corpo esanime e di sguainare la spada. «Bloccategli le braccia» disse Boone. «Presto!» Il serbo e Loutka immobilizzarono Thorn afferrandolo ognuno per un braccio. Il sangue aveva imbrattato la sedia a rotelle. Quando Boone tirò indietro il cadavere vide l'impugnatura di un coltello da lancio che sporgeva dalla gola del magiaro. «Indietro» ordinò Boone. «Spostatelo da quella parte. Attenti. Non sporcatevi di sangue le scarpe.» Boone levò di tasca un paio di cinghie di contenzione di plastica e legò i polsi e le ginocchia di Thorn. Poi arretrò di due passi e studiò attentamente l'Arlecchino. Thorn era sconfitto, ma sembrava fiero e arrogante come sempre. «Piacere di conoscerla, Thorn. Sono Nathan Boone. Due anni fa in Pakistan mi è sfuggito per un pelo. Laggiù diventava buio molto presto, vero?» «Io non parlo con i mercenari della Tabula» ribatté Thorn in tono pacato. Boone aveva sentito la voce dell'Arlecchino dalle registrazioni telefoniche. La sua voce, dal vivo, era più profonda, e più intimidatoria. Si guardò intorno. «Mi piace il suo appartamento, Thorn. Davvero. È pulito ed essenziale. Colori raffinati. Invece di riempire la casa di cianfrusaglie ha scelto un'impostazione minimalista.» «Se vuole uccidermi, lo faccia subito. Non sprechi il mio tempo con discorsi inutili» disse Thorn. Boone fece un cenno a Loutka e al serbo. I due uomini trascinarono il corpo del magiaro fuori dal soggiorno. «La lunga guerra è finita. I Viaggiatori sono estinti e voi Arlecchini siete stati sconfitti. Potrei ucciderla subito, ma ho bisogno di lei per concludere il mio lavoro.»
«Non tradirò nessuno.» «Collabori, e noi lasceremo che Maya abbia una vita normale. Se rifiuta di collaborare sua figlia morirà, in modo molto doloroso. I mercenari ai miei ordini impiegarono due giorni a violentare quell'Arlecchino cinese quando la catturammo in Pakistan. Apprezzarono soprattutto il fatto che lei continuasse a lottare. Probabilmente le donne locali, in simili situazioni, cedono in fretta.» Thorn rimase in silenzio e Boone si domandò se stesse prendendo in considerazione l'offerta. Amava davvero sua figlia? Gli Arlecchini erano capaci di provare sentimenti? I muscoli delle braccia di Thorn si tesero nel tentativo di strappare le cinghie di contenzione. Cedette e tornò ad accasciarsi sulla sedia a rotelle. «Uccidimi» sospirò Thorn sottovoce. «Fallo subito.» Boone accese la cuffia radio e parlò nel microfono. «Mr Harkness, per favore, venga di sopra con il materiale. L'area è sicura.» Il serbo e Loutka portarono Thorn in camera da letto e lo deposero sul pavimento. Harkness arrivò pochi minuti dopo, impacciato dal peso di una grossa cassa. Era un inglese di mezza età che parlava di rado, ma Boone trovava difficile stargli seduto vicino in un ristorante. C'era qualcosa nei denti gialli e nel pallore spettrale di quell'uomo che suggeriva un'idea di morte e putrefazione. «So che cosa sognate voi Arlecchini. Una Fiera Morte. Non è così che la chiamate? Potrei fare in modo che lei ne abbia una: una morte nobile, che concluda la sua vita con dignità. Ma in cambio dovrebbe darmi qualcosa. Mi dica come scovare i suoi due amici, Linden e Mother Blessing. Se rifiuta, l'attende un'alternativa più umiliante...» Harkness posò la cassa davanti alla soglia della camera da letto. Sulla parte superiore c'erano dei fori di aerazione, chiusi da una robusta rete metallica. Degli artigli grattavano il fondo di metallo della cassa e Boone udì un respiro rauco provenire dall'interno. L'agente della Tabula prese dalla tasca il rasoio. «Mentre voi Arlecchini eravate prigionieri dei vostri sogni medievali, i Confratelli hanno ampliato il loro sapere. Ora sono padroni dell'ingegneria genetica,» Boone incise un piccolo taglio superficiale sotto agli occhi dell'Arlecchino, appena sopra gli zigomi. La creatura dentro la cassa, come sentendo il sangue di Thorn, emise uno strano suono simile a un ghigno, quindi urtò con forza il pannello laterale della cassa e cominciò a grattare con gli artigli la rete metallica.
«Questo animale è stato progettato geneticamente per essere feroce e senza paura. È spinto ad attaccare continuamente, non ha istinto di sopravvivenza. Questa non sarà una Fiera Morte. Verrà divorato come un pezzo di carne.» Il tenente Loutka tornò nel soggiorno. Il serbo sembrava curioso e spaventato. Restò in piedi sulla soglia della stanza, a pochi passi da Harkness. «Ultima possibilità. Mi dia un solo fatto. Riconosca la nostra vittoria.» Thorn si rigirò sul pavimento e guardò la cassa. Boone capì che intendeva combattere con la creatura. «Pensa quello che vuoi» disse calmo l'Arlecchino. «Ma questa è comunque una Fiera Morte.» Boone uscì dalla stanza ed estrasse la pistola dal fodero. La bestia, una volta finito con Thorn, avrebbe dovuto essere abbattuta. Il ghigno si interruppe e la creatura adottò il silenzio del cacciatore. Boone fece un cenno ad Harkness. Il vecchio si mise a cavallo della cassa e sollevò lentamente il pannello di apertura. 3 Solo quando giunse al Ponte Carlo Maya si rese conto di essere pedinata. Thorn una volta le aveva detto che gli occhi emettono energia. Se eri abbastanza sensibile, potevi avvertire le onde che ti colpivano. Durante l'infanzia e l'adolescenza a Londra, suo padre di tanto in tanto assoldava dei borseggiatori perché la pedinassero fino a casa quando usciva da scuola. Maya doveva individuarli e colpirli con le biglie d'acciaio che aveva nello zaino. Quando ebbe attraversato il ponte e svoltato in via Saska, Maya notò che si era fatto buio. Decise di dirigersi alla chiesa di Nostra Signora della Catena, dove c'era un cortile non illuminato con tre diverse vie di fuga. "Continua a camminare" disse a se stessa. "Non guardare indietro." Via Saska era stretta e tortuosa. Qualche raro lampione emetteva una cupa luce giallastra. Maya oltrepassò un vicolo cieco, tornò sui suoi passi e si nascose nell'ombra. Si accovacciò dietro un cassonetto dei rifiuti e attese. Trascorsero dieci secondi. Venti. Poi il piccolo tassista dall'aria da troll che l'aveva portata all'hotel comparve sul marciapiede. "Non esitare. Agisci." Quando il tassista passò davanti all'imbocco del vicolo, Maya estrasse lo stiletto dal fodero e gli spuntò alle spalle, trattenendolo per la giacca con la mano sinistra e premendogli la punta del pugnale contro la nuca.
«Non muoverti. Non tentare di scappare.» La voce di Maya era dolce, quasi seducente. «Gira qui a destra. Non voglio problemi.» Lo trascinò nel buio del vicolo e lo spinse contro il cassonetto. La lama era puntata contro il suo pomo d'Adamo. «Raccontami tutto. Non mentire e forse non ti ucciderò. È chiaro?» Il piccolo troll annuì terrorizzato. «Chi ti ha assoldato?» «Un americano.» «Come si chiama?» «Non lo so. Era un amico del tenente Loutka.» «Che istruzioni avevi?» «Di pedinarti. Tutto qui. Prenderti a bordo del taxi e seguirti stasera.» «All'hotel mi sta aspettando qualcuno?» «Non lo so. Giuro che è vero.» L'uomo cominciò a piagnucolare. «La prego, non mi faccia del male.» Thorn l'avrebbe sicuramente pugnalato, ma Maya decise di non farsi coinvolgere da quella follia. Se avesse assassinato quello stupido omuncolo, anche la sua vita sarebbe stata distrutta. «Io adesso vado da quella parte mentre tu torni indietro, verso il ponte. Hai capito?» «Sì, sì» bisbigliò il troll. «Se ti vedo di nuovo sei morto.» Uscì dal vicolo e si diresse verso la chiesa. Poi a un tratto si ricordò di suo padre. Il troll doveva averla pedinata fino a casa di Thorn. La Tabula li aveva trovati. Tornò indietro di corsa fino all'imbocco del vicolo e udì la voce del tassista. Stringendo un telefono cellulare con le dita tremanti balbettava qualcosa al suo padrone. Quando Maya sbucò dall'oscurità, l'uomo restò senza fiato e lasciò cadere per terra il cellulare. Lo afferrò per i capelli, lo tirò a sé e gli inserì la punta dello stiletto nell'orecchio sinistro. In quell'istante la lama poteva ancora fermarsi. Maya era conscia della scelta che stava per fare, e della via oscura che le avrebbe aperto. "Non farlo" pensò. "Hai ancora una possibilità." Ma l'orgoglio e la rabbia ebbero il sopravvento. «Ascoltami» disse. «Questa è l'ultima cosa che sentirai in vita tua. Un Arlecchino ti ha ucciso.» L'ometto cercò di divincolarsi, ma Maya affondò la lama dello stiletto nel canale auricolare fino al cervello.
Mollò la presa e l'uomo le cadde di fronte. Il sangue gli riempiva la bocca e gli colava dal naso. Aveva gli occhi aperti e stupiti, come se avesse appena ricevuto una brutta notizia. La ragazza pulì la lama dello stiletto e nascose l'arma sotto il maglione. Tenendosi nell'ombra, trascinò il cadavere in fondo al vicolo e lo coprì con dei sacchi di immondizia presi dal cassonetto. Il mattino dopo, qualcuno avrebbe scoperto il cadavere e chiamato la polizia. "Non metterti a correre" disse a se stessa. "Non far vedere che hai paura." Cercò di sembrare calma mentre attraversava di nuovo il fiume. Arrivata in via Konviktskà, si arrampicò su di una scala antincendio fin sul tetto del negozio di lingerie e di lì saltò sull'edificio in cui viveva Thorn. Nessun lucernario. Nessuna porta antincendio. Doveva cercare un altro modo per entrare. Tornò con un balzo al palazzo vicino. Poi percorse l'intero isolato sui tetti finché non trovò su di un terrazzo una corda da bucato tesa tra due pali di ferro. Tagliò la corda con lo stiletto, tornò alla casa di suo padre e legò un'estremità della corda a un tubo di sfiato. Era tutto buio, a parte il bagliore di un solitario lampione e una luna nuova che sembrava un sottile graffio nel cielo. Saggiò la corda e si assicurò che reggesse. Scavalcò il piccolo muro che delimitava il tetto e si calò fino alla finestra del secondo piano. Spiando attraverso il vetro, vide che l'appartamento era invaso da un fumo biancogrigiastro. Si spinse all'indietro con i piedi, e sfondò con un calcio la lastra di vetro. Il fumo venne risucchiato all'esterno dal buco nel vetro, perdendosi nella notte. Maya sferrò altri calci, ripetutamente, eliminando le schegge di vetro rimaste attaccate all'intelaiatura della finestra. "Non si vede niente" pensò. "Stai attenta o rimarrai in trappola." Si spinse il più possibile all'indietro per prendere lo slancio e saltare nell'appartamento. Il fumo si sollevava in volute verso il soffitto e defluiva dalla finestra in frantumi. Sotto la massa bianca era rimasto uno spazio d'aria di un metro e mezzo circa. Maya si mise carponi. Arrancò fino al salone e scoprì il russo riverso accanto al tavolino di cristallo. Ferita di arma da fuoco. In pieno torace. Una pozza di sangue circondava il suo corpo. «Papà!» Maya si alzò, aggirò barcollando la mezza parete divisoria e trovò una pila di Ebri e cuscini che bruciavano al centro del tavolo da pranzo. Vicino alla cucina, inciampò in un altro cadavere: un tipo massiccio con un coltello piantato in gola. Avevano catturato suo padre? Era prigioniero della Tabula? Scavalcò il
cadavere dell'uomo e percorse il corridoio fino alla stanza successiva. Un letto e due paralumi stavano bruciando. Sui muri bianchi c'erano impronte insanguinate di mani. Un uomo giaceva su di un fianco, accanto al letto. Era di spalle, ma Maya riconobbe i capelli lunghi e i vestiti di suo padre. Il fumo le turbinò intorno quando si abbassò di nuovo sulle ginocchia avanzando verso di lui a gattoni, come una bambina, fra i colpi di tosse e le lacrime. «Papà!» continuava a gridare. «Papà!» E poi lo vide in faccia. 4 Gabriel e suo fratello maggiore Michael erano cresciuti sulla strada e si consideravano degli esperti di motel, stazioni di rifornimento e tavole calde per camionisti. Durante le lunghe ore di viaggio, la mamma sedeva tra di loro sul sedile posteriore dell'auto e leggeva dei libri, o raccontava delle storie. Una delle loro storie preferite era quella di re Edoardo IV e suo fratello, il duca di York, i due giovani principi imprigionati nella Torre di Londra da Riccardo III. Secondo la mamma, re Riccardo aveva ordinato alle sue guardie di soffocarli nel sonno, ma i due fratelli avevano scoperto un passaggio segreto nella torre ed erano fuggiti attraversando a nuoto un fossato. Travestiti da straccioni e aiutati da Merlino e Robin Hood, i due fratelli avevano poi vissuto una serie di avventure nell'Inghilterra del XV secolo. Da bambini, giocando nei parchi pubblici e nelle aree di servizio delle autostrade, i fratelli Corrigan fingevano di essere i principi scomparsi. Ma ora che erano adulti, Michael aveva una visione diversa del gioco. «Ho controllato su un libro di storia» disse una volta a suo fratello. «Riccardo HI ce la fece. I due principi furono assassinati.» «Che differenza fa?» domandò Gabriel. «Mamma mentiva, Gabe. Era solo un'altra invenzione. Da piccoli ci raccontava tutte queste storie, ma non ci ha mai detto la verità.» Gabriel era d'accordo con Michael, era meglio sapere la verità. Ma a volte gli piaceva ripensare alle storie di sua madre. Una domenica, lasciò Los Angeles prima dell'alba e attraversò la città di Hemet, ancora buia. Mentre faceva rifornimento in una stazione di servizio e prendeva la colazione in un bar, si sentiva un principe in fuga, solo e in incognito. Quando riprese
la strada, il sole sì alzava dalla terra come un'enorme bolla arancione e galleggiava nell'aria, libero dalla gravità. L'aeroporto di Hemet era costituito da un'unica pista asfaltata infestata da erbacce, da una zona di parcheggio per gli aerei e da una serie di roulotte e costruzioni provvisorie. L'ufficio Lanci ad alta quota aveva sede in una grande roulotte doppia vicino all'estremità meridionale della pista. Gabriel parcheggiò la moto vicino all'entrata e sganciò le cinghie che trattenevano sulla schiena la sua attrezzatura. I lanci ad alta quota erano costosi, e Gabriel aveva spiegato a Nick Clark, l'istruttore di paracadutismo, che si limitava a un solo lancio al mese. Dall'ultimo lancio erano passati solo dodici giorni e ora era di nuovo lì. Quando fece il suo ingresso nella roulotte, Nick gli sorrise come un allibratore che salutasse uno dei suoi migliori clienti. «Non ce l'hai fatta a resistere, eh?» «Ho guadagnato qualche soldo extra» spiegò Gabriel. «Non sapevo come spenderli.» Gabriel consegnò a Nick una mazzetta di banconote e andò nello spogliatoio maschile a indossare la biancheria termica e la tuta. Quando uscì, era arrivato un gruppo di cinque coreani. Avevano tutti divise verdi e bianche coordinate, attrezzature costose e tesserini plastificati con frasi utili in inglese. Nick disse che Gabriel si sarebbe lanciato con loro, e i coreani andarono uno alla volta a stringergli la mano e a scattargli una foto ricordo. «Quanti lanci ad alta quota ha già fatto?» domandò uno di essi. «Non tengo il conto» disse Gabriel. La sua risposta fu tradotta e tutti parvero molto sorpresi. «Tenga un registro personale» gli consigliò il più anziano dei cinque. «Così saprà sempre con esattezza quanti sono.» Nick disse ai coreani di prepararsi, e il gruppo iniziò a enumerare e spuntare una dettagliata check-list. «Questi tizi si lanciano ad alta quota in ognuno dei sette continenti» mormorò Nick a bassa voce. «Deve costargli un mucchio di soldi. Quando lo fanno sopra l'Antartide indossano tute spaziali.» A Gabriel i coreani erano simpatici - prendevano il lancio molto sul serio - ma quando passava in rassegna la sua check-list preferiva rimanere da solo. La preparazione in sé era un piacere, quasi una forma di meditazione. Indossò una tuta sopra i vestiti, esaminò attentamente i suoi guanti termici, il casco e gli occhiali, dopo di che passò a ispezionare il paracadute princi-
pale e quello di riserva, le cinghie e la maniglia a strappo. Tutti questi oggetti sembravano poco importanti a terra, ma sarebbero diventati essenziali al momento del lancio. I coreani scattarono qualche altra foto ricordo e poi tutti salirono a bordo dell'aereo. Si sedettero a coppie, in una fila di tre sedili doppi, e collegarono i tubi dell'ossigeno all'erogatore del velivolo. Nick parlò con il pilota e l'aereo decollò, iniziando la sua lenta ascesa a novemila metri di quota. Le maschere a ossigeno rendevano difficoltoso parlare e Gabriel fu lieto che i tentativi di conversazione fossero finiti. Chiudendo gli occhi, si concentrò sulla respirazione mentre l'ossigeno della maschera sibilava piano. Gabriel odiava la forza di gravità e le esigenze del proprio corpo. Il movimento regolare dei polmoni e il battito cardiaco sembravano le reazioni meccaniche di una macchina vuota. Una volta aveva cercato di spiegare a Michael quella sensazione, ma aveva avuto la netta impressione che stessero parlando due lingue diverse. «Nessuno ha chiesto di nascere, ma esistiamo comunque» aveva osservato Michael. «C'è una sola domanda a cui dobbiamo trovare una risposta: "Ci troviamo ai piedi della montagna o sulla vetta?".» «Forse la montagna non è così importante.» Michael era parso divertito. «Il nostro destino comune è di salire in vetta» aveva commentato. «La mia meta è lassù e ti porterò con me.» Superati i seimila metri di quota, all'interno dell'abitacolo comparvero dei cristalli di ghiaccio. Gabriel aprì gli occhi proprio mentre Nick si faceva largo a fatica nell'angusto passaggio accanto ai sedili, verso la coda dell'aereo, e apriva di pochi centimetri il portello. Gabriel cominciò a sentirsi eccitato per il vento gelido che entrava in cabina. Era arrivato il momento. Nick scrutò in basso, cercando la zona di lancio, mentre parlava con il pilota all'interfono. Finalmente fece cenno di prepararsi e tutti abbassarono gli occhialoni sul viso, stringendo un'ultima volta le cinghie delle imbracature. Trascorsero due o tre minuti. Nick agitò di nuovo la mano per avvisarli e tamburellò con un dito sulla sua maschera a ossigeno. Ognuno aveva una bomboletta di ossigeno agganciata alla gamba sinistra. Gabriel tirò la maniglia di regolazione della propria bomboletta e la sua maschera schioccò leggermente. Poi si scollegò dall'erogatore di bordo, pronto a lanciarsi. Erano alla stessa altezza dell'Everest e faceva un freddo polare. Forse i coreani avevano pensato di fermarsi per qualche secondo sulla soglia del
portello aperto e compiere qualche ridicolo gesto di euforia, ma Nick li voleva fuori bordo prima che terminassero l'ossigeno. Uno alla volta, con ordine, si alzarono in piedi, arrancarono verso il portello e si lanciarono fuori, sparendo come puntini nel cielo. Gabriel aveva occupato il sedile più vicino al pilota, e sarebbe dunque stato l'ultimo a lanciarsi. Avanzò lentamente e finse di sistemarsi la cinghia del paracadute di emergenza, in modo da essere completamente solo durante la discesa. Quando giunse davanti al portello, sprecò qualche altro secondo a fare a Nick il segnale di okay, dopo di che si lanciò fuori dall'aereo, precipitando nel vuoto. Assunse la posizione di caduta libera, distribuendo il peso del corpo sugli arti, e si rigirò sulla schiena in modo da non vedere nient'altro che lo spazio sopra di sé. Il cielo era blu scuro, un colore più cupo e intenso di qualsiasi cielo si potesse vedere da terra. Un violaceo blu di mezzanotte con un lontanissimo punto di luce. Venere. La dea dell'amore. Una piccola zona esposta della guancia cominciò a pungere, ma Gabriel ignorò il fastidio e si concentrò sul cielo, sull'assoluta purezza del mondo che lo circondava. Sulla terra, due minuti erano il tempo di uno spot televisivo, cinquecento metri su un'autostrada intasata, la strofa di una canzone. Ma, precipitando nel vuoto, ogni secondo si espandeva come una minuscola spugna gettata nell'acqua. Gabriel attraversò uno strato di aria calda, poi tornò al gelo. Aveva la mente invasa da mille pensieri, ma non stava ragionando. Tutti i dubbi e i compromessi della vita sulla terra si erano dissolti. L'altimetro che aveva al polso iniziò a emettere un suono intermittente. Di nuovo Gabriel spostò il peso, ruotando su se stesso. Fissò il paesaggio marrone opaco della California meridionale sotto di sé e una piccola catena di rilievi lontani. A mano a mano che si avvicinava alla terra, riusciva a distinguere automobili, fattorie, e la foschia giallastra dell'inquinamento sospesa sopra la superstrada. Avrebbe voluto precipitare nel vuoto per sempre, ma una pacata voce interiore gli ordinò di tirare la maniglia. Guardò il cielo oltre la sua testa - cercando di imprimersi nella mente quello spettacolo - e poi il paracadute si aprì sopra di lui. Gabriel abitava a West Los Angeles in una casa a pochi metri dalla San Diego Freeway. Di notte un fiume bianco di anabbaglianti defluiva a nord oltre il Sepulveda Pass, mentre un fiume rosso parallelo di fanalini di coda scorreva lentamente a sud verso le città della costa e il Messico. Dopo che aveva scoperto diciassette adulti e cinque bambini nella sua villetta, il pa-
drone di casa di Gabriel, Mr Varosian, aveva denunciato e fatto rimpatriare tutti i clandestini a El Salvador e aveva affisso all'esterno della casa un cartello che avvertiva UN SOLO INQUILINO, NESSUNA ECCEZIONE. Mr Varosian si era convinto che Gabriel fosse coinvolto in qualche attività illegale: un club equivoco o lo smercio di pezzi di ricambio d'auto rubate. A Mr Varosian non interessava niente dei pezzi di ricambio, ma aveva comunque delle regole. "Niente pistole. Niente spacciatori. Niente gatti." Alle orecchie di Gabriel arrivava l'incessante rumore di macchine, camion e pullman diretti a sud. Ogni mattina usciva di casa e si accostava al robusto reticolato che recintava il cortile posteriore della sua proprietà per vedere che cosa avesse lasciato la superstrada lungo i suoi bordi. La gente buttava sempre dai finestrini gli oggetti più disparati: sacchetti per alimenti, contenitori dei fast-food, giornali, una Barbie di plastica dai capelli arruffati, diversi telefoni cellulari, uno spicchio di formaggio di capra con il segno di un unico morso, profilattici usati, attrezzi da giardinaggio e un'urna di plastica contenente denti anneriti e ceneri. Graffiti di gang giovanili imbrattavano il garage, e il praticello antistante la casa era punteggiato di erbacce, ma Gabriel si guardava bene dal fare alcun cambiamento all'esterno della villetta. Era un travestimento, come gli stracci indossati dai due principi in fuga. L'estate prima Gabriel aveva comprato a un mercatino di quartiere un adesivo di un'accolita religiosa che recitava SIAMO DANNATI IN ETERNO, E SALVATI DAL SANGUE DI NOSTRO SIGNORE. Gabriel aveva tagliato con le forbici l'adesivo, lasciando soltanto DANNATI IN ETERNO, e lo aveva appiccicato sulla porta d'ingresso. Quando assicuratori, agenti immobiliari e venditori porta a porta evitavano di suonare il campanello sentiva di aver ottenuto una piccola vittoria. All'interno la casa era pulita e accogliente. Ogni mattino, quando il sole giungeva a una certa angolazione, le stanze si riempivano di luce. Sua madre diceva sempre che le piante d'appartamento pulivano l'aria e ispiravano pensieri positivi, perciò Gabriel aveva in casa più di trenta piante in vaso, sospese con corde al soffitto o poggiate sul pavimento. Dormiva su un futon giapponese in una delle due camere da letto e conservava in buon ordine i suoi effetti personali in poche sacche da viaggio di tela. Il suo elmo e la sua armatura da kendo erano appesi a un manichino, accanto alla rastrelliera che sorreggeva una spada shinai di bambù e l'antica spada giapponese lasciatagli in eredità da suo padre. Se di notte si svegliava e apriva gli occhi, aveva l'impressione che un guerriero samurai stesse proteggendo il suo
sonno. La seconda camera da letto era praticamente vuota, a parte qualche centinaio di libri ordinati in pile precise a ridosso di un muro. Anziché avere la tessera di una biblioteca e cercare un volume determinato, Gabriel leggeva qualsiasi libro gli capitasse a tiro. Molti dei suoi clienti gli regalavano libri e romanzi quando avevano finito di leggerli, e Gabriel ne raccoglieva altri abbandonati nelle sale di attesa o ai bordi della superstrada. Nella sua biblioteca di casa c'erano tascabili dalle copertine luride, testi scientifici e opuscoli tecnici sulle leghe metalliche, e tre romanzi di Dickens con le pagine rovinate dall'umidità. Gabriel non faceva parte di nessuna associazione, club o partito politico. Ma era convinto di dover vivere fuori dalla Griglia. Sul vocabolario la voce "griglia" era definita come un reticolo a linee orizzontali e verticali equidistanti che poteva essere usato per localizzare un oggetto particolare o un punto. Secondo Gabriel, se si considerava la civiltà moderna in un certo modo, ci si rendeva conto che ogni impresa commerciale o programma di governo facevano parte di un'immensa Griglia. Le linee e i riquadri potevano individuarti e localizzarti al millimetro; potevano scoprire quasi tutto di te. La Griglia includeva una serie infinita di linee rette che si intersecavano su un piano; tuttavia, era ancora possibile condurre una vita segreta. Si poteva trovare un'occupazione nell'economia sommersa, oppure continuare a trasferirsi da una località all'altra abbastanza in fretta da sfuggire alla localizzazione. Gabriel non aveva un conto corrente bancario né una carta di credito. Utilizzava il suo vero nome di battesimo, ma aveva un cognome falso sulla patente. Sebbene portasse sempre con sé due cellulari, uno per le sue faccende private e uno per il lavoro, entrambi erano registrati a nome dell'agenzia immobiliare di suo fratello. L'unico collegamento di Gabriel con la Griglia era sulla scrivania del soggiorno. Un anno prima, Michael gli aveva regalato un computer e una linea ADSL. Navigare in Internet gli permetteva di scaricare in MP3 brani di trance Musik dalla Germania, ipnotici loop prodotti da alcuni deejay affiliati a un misterioso gruppo chiamato Die Neunen Primitiven, i Nuovi Primitivi. La musica elettronica lo aiutava a addormentarsi quando tornava a casa per la notte. Quella sera, chiudendo gli occhi, ascoltava una ragazza cantare: "Mangiatori di loto perduti nella Nuova Babilonia / Pellegrini solitari, ritrovate la strada di casa".
Prigioniero del suo sogno, precipitò nell'oscurità; precipitò tra le nuvole, la neve e la pioggia. Cadde di schianto sul tetto di una casa e passò attraverso le assicelle di copertura di cedro, la carta catramata e il telaio di travi. Era di nuovo bambino, in piedi nel corridoio al primo piano della fattoria nel South Dakota. E la casa stava bruciando, il letto matrimoniale dei suoi genitori, il comò e la sedia a dondolo nella loro stanza fumavano e ardevano avvolti dalle fiamme. "Esci subito" disse a se stesso. "Cerca Michael. Nascondetevi in cantina." Ma il suo io infantile, la figura minuta che avanzava adagio nel corridoio, non parve sentire l'avvertimento dell'adulto. Qualcosa esplose dietro una parete di legno, producendo un suono sordo. Poi il fuoco salì le scale con un boato, lambendo la ringhiera e la balaustra del pianerottolo. L'incendio divampò lungo il corridoio avanzando in un'ondata di caldo e di dolore. Il telefono cellulare sul pavimento, vicino al materasso, cominciò a suonare e Gabriel sollevò a fatica il capo dal cuscino. Erano le sei di mattina e la luce del sole si infiltrava nella stanza da uno spiraglio fra le tende. "Non c'è nessun incendio" disse tra sé. "È un altro giorno." Rispose al telefono, era Michael e dalla voce sembrava preoccupato, come sempre. Fin da bambini, Michael si comportava come il fratello maggiore responsabile. Ogni volta che sentiva di un incidente di moto alla radio, chiamava Gabriel al cellulare per essere sicuro che stesse bene. «Dove sei?» «A casa, stavo dormendo.» «Ti ho chiamato ben cinque volte ieri. Perché non mi hai richiamato?» «Era domenica, e non avevo voglia di parlare con nessuno. Ho lasciato il cellulare a casa e sono andato a Hemet per un lancio.» «Fai quello che vuoi Gabe, ma dimmi dove vai. Mi preoccupo, quando non so dove sei.» «Va bene, cercherò di ricordarmelo.» Si girò su un fianco e vide gli stivali e la tuta da motociclista sparsi per terra. «Com'è andato il weekend?» «Come al solito. Ho pagato dei conti e ho giocato a golf con due agenti immobiliari. Hai visto mamma?» «Sì, sono andato a trovarla sabato.» «Tutto bene alla nuova casa di cura?» «Sì, si trova bene.» Due anni prima la signora Corrigan era stata ricoverata in ospedale per una normale operazione alla vescica e i medici avevano scoperto un tumore maligno sulla parete addominale. Si era sottoposta alla chemioterapia,
ma il cancro era degenerato in metastasi e si era diffuso in tutto il corpo. Ora era ricoverata in una casa di riposo di Tarzana, un sobborgo nella zona sudovest della San Fernando Valley. I fratelli Corrigan si erano divisi i compiti. Gabriel andava a trovarla quasi ogni giorno e parlava con il personale della casa di cura. Suo fratello maggiore passava una volta alla settimana, ma pagava tutti i conti. Michael nutriva sempre sospetti nei confronti di medici e infermiere. Se si accorgeva di una negligenza, convinceva la madre a lasciarsi trasferire in un nuovo istituto. «Mamma non vuole cambiare di nuovo, Michael.» «Nessuno ha parlato di un altro trasferimento. Voglio solo che i dottori facciano il loro lavoro.» «I dottori non sono importanti, ora che ha interrotto la chemioterapia. A prendersi cura di lei sono le infermiere e gli inservienti.» «Se ci fosse qualche problema, per quanto minimo, fammelo sapere subito. E bada a te stesso. Oggi lavori?» «Sì, suppongo di sì.» «L'incendio a Malibu sta peggiorando e ora ci sono nuovi focolai a est, vicino a Lake Arrowhead. Tutti i piromani della California sono in giro con i loro accendini. Dev'essere il clima.» «Stavo giusto sognando un incendio» disse Gabriel. «Eravamo ancora nella nostra vecchia casa nel South Dakota. La fattoria stava bruciando e io non potevo uscire.» «Devi smettere di pensarci. Non serve a niente.» «Non vuoi sapere chi ci ha attaccato?» «Mamma ci ha dato almeno una dozzina di spiegazioni diverse. Scegline una e vivi la tua vita.» Nell'appartamento di Michael squillò un secondo telefono. «Mi è arrivata un'altra telefonata» disse. «Ci vediamo mercoledì alla clinica.» Gabriel fece la doccia, indossò un paio di pantaloni corti e una T-shirt e andò in cucina. Mise in un frullatore del latte, un vasetto di yogurt e due banane e si preparò un frullato. Mentre lo beveva annaffiò tutte le piante che pendevano dal soffitto, poi tornò in camera da letto e cominciò a vestirsi. Quando era nudo, Gabriel poteva vedere le cicatrici del suo ultimo incidente in moto: delle pallide linee bianche sul braccio e sulla gamba sinistra. I capelli ricci castani e la pelle liscia gli davano un'aria da adolescente, ma quando si infilava un paio di jeans, una T-shirt a maniche lun-
ghe e gli stivali da motociclista le cose cambiavano totalmente. Gli stivali erano coperti di abrasioni e graffi, specie sulle punte, per il modo aggressivo con cui affrontava le curve. Anche il suo giubbotto di pelle era graffiato, specie sui gomiti, e macchie di olio lubrificante scurivano i polsini e le maniche. I suoi due telefonini erano montati su una speciale cuffia con microfono incorporato. Le chiamate di lavoro erano destinate all'orecchio sinistro, mentre quelle private al destro. Quando guidava poteva rispondere a entrambi i telefoni spingendo un pulsante attraverso la tasca esterna del giubbotto. Gabriel uscì nel cortiletto posteriore di casa con in mano il casco. Era ottobre nella California del Sud e un'onda calda di vento dei monti Santa Ana spirava dai canyon a nord. Il cielo sopra di lui era terso e luminoso, ma l'orizzonte, a nordovest, era coperto dalla nube grigio scuro dell'incendio di Malibu. Nell'aria c'era un'opprimente sensazione di stantio, come se l'intera città fosse diventata una stanza senza finestre. Gabriel aprì il garage dove si trovavano le sue tre motociclette. Se doveva posteggiare in un quartiere poco sicuro, di solito prendeva la Yamaha RD400. Era la più piccola della sua scuderia, molto ammaccata e poco affidabile. Solo il più disperato dei ladri avrebbe potuto rubare un rottame del genere. Possedeva anche una Guzzi V11, una splendida moto di grossa cilindrata, dotata di trazione ad albero e di un motore potente. Era la motocicletta che usava nei fine settimana per i lunghi viaggi nel deserto. Quella mattina decise di usare la Honda 600, una moto da corsa in grado di raggiungere facilmente i centosessanta chilometri orari. Controllò la pressione della gomma posteriore, gonfiandola con il piccolo compressore da garage, lubrificò la catena di trasmissione con una bomboletta spray e aspettò che i solventi colassero adagio penetrando nei denti e nei rulli. La Honda aveva dei difetti alla catena di trasmissione, perciò andò al banco degli attrezzi, prese un cacciavite e una chiave inglese e li mise in una delle borse da viaggio laterali. Non appena si posizionò a cavallo della motocicletta e avviò il motore, Gabriel si rilassò. La moto gli regalava la sensazione di poter lasciare la casa e la città per sempre; guidare senza fermarsi, fino a scomparire nella foschia scura all'orizzonte. Gabriel svoltò in Santa Monica Boulevard e si diresse a ovest verso la spiaggia, senza una meta precisa. L'ora di punta del traffico mattutino era iniziata. Donne che bevevano da thermos d'acciaio si recavano al lavoro a bordo delle loro Land Rover, mentre gli ausiliari del traffico, con i loro giubbotti fluorescenti, sorvegliavano gli incroci. A un
semaforo rosso, Gabriel premette la tasca esterna del giubbotto, accendendo il cellulare di lavoro. Lavorava per due diversi servizi di spedizioni: Sir Speedy e il suo concorrente, la Blue Sky Messengers. Il padrone della Sir Speedy era Artie Dressler, un ex pubblico ministero di centottanta chili che lasciava di rado casa sua nel Silver Lake District. Artie si era abbonato a diversi siti per adulti e rispondeva alle telefonate guardando collegiali nude che si mettevano lo smalto alle unghie dei piedi. Detestava la ditta concorrente, la Blue Sky Messengers, e la sua titolare, Laura Thompson. In passato Laura aveva lavorato nel cinema, come tecnico di montaggio, e ora abitava in una casa a cupola a Topanga Canyon. Credeva fermamente nella pulizia del colon e negli alimenti color arancione. Il cellulare suonò proprio mentre scattava il verde e Gabriel udì in cuffia il marcato accento del New Jersey di Artie: «Gabe, sono io! Perché avevi spento il cellulare?». «Scusa. Me ne ero dimenticato.» «Sto guardando uno spettacolo sul mio computer. Due ragazze stanno facendo la doccia insieme. È cominciata molto bene, ma ora il vapore sta appannando l'obiettivo.» «Sembra interessante.» «Ho da farti ritirare una busta su al Santa Monica Canyon.» «È vicino all'incendio?» «No. È a parecchi chilometri da Malibu. Nessun problema. Ma c'è un nuovo incendio nella Simi Valley, ed è completamente fuori controllo.» Il manubrio della motocicletta era molto corto, e i poggiapiedi e la sella erano distribuiti in modo che il corpo del guidatore fosse sempre piegato in avanti. Gabriel avvertiva nel corpo le vibrazioni del motore e sentiva bene i cambi di marcia. Quando accelerava, la moto diventava una parte di lui, un'estensione del suo corpo. A volte le manopole del manubrio arrivavano a pochi centimetri dalle auto mentre seguiva le linee intermittenti che separavano le carreggiate. Guardava fisso in fondo alla strada, avvistava luci di stop, pedoni, camion impegnati in una curva lenta, e capiva immediatamente se doveva fermarsi o accelerare, o sterzare per evitare un ostacolo. Il Santa Monica Canyon era un quartiere di lussuose ville costruite a ridosso della spiaggia. Gabriel ritirò una busta commerciale marrone lasciata per lui sullo zerbino di casa da uno sconosciuto e andò a consegnarla a un mediatore ipotecario di West Hollywood. Quando arrivò all'indirizzo indicato, si tolse il casco ed entrò nell'ufficio. Odiava quella parte del suo lavo-
ro. Sulla moto, era libero di andare ovunque volesse. In piedi di fronte alla segretaria, invece, sentiva il proprio corpo lento, incollato al suolo sotto il peso del giubbotto e degli stivali. Di nuovo in sella alla Honda. "Riparti. Resta sempre in movimento." «Gabriel, caro, mi senti?» Era la voce suadente di Laura, proveniente dalla cuffia. «Spero che stamattina tu abbia fatto colazione come si deve. I carboidrati complessi aiutano a stabilizzare il glucosio nel sangue.» «Non preoccuparti. Ho mangiato qualcosa.» «Bene. Ho da farti ritirare una cosa a Century City.» Gabriel conosceva piuttosto bene l'indirizzo. Era uscito con qualcuna delle impiegate e delle segretarie incontrate consegnando buste e pacchetti, ma si era fatto una sola vera amica, un avvocato penalista di nome Maggie Resnick. All'incirca un anno prima si era presentato nello studio legale di Maggie per ritirare una busta e aveva dovuto aspettare che le segretarie di Maggie trovassero un documento legale messo fuori posto. Maggie aveva cominciato a fargli delle domande sul suo lavoro ed erano finiti a chiacchierare per un'ora, terminando parecchio tempo dopo che il documento era saltato fuori. Gabriel le aveva offerto di portarla a fare un giro sulla sua moto ed era rimasto sorpreso quando Maggie aveva accettato. Aveva sessant'anni suonati, era una donna energica che adorava indossare abiti rossi e calzature costose. Artie Dressler diceva che difendeva legalmente attori e attrici del cinema e altre celebrità nei guai, ma che parlava di rado dei suoi casi. Maggie trattava Gabriel come fosse il suo nipote prediletto, troppo giovane e un po' irresponsabile. «Dovresti andare all'università» gli diceva. «Aprire un conto corrente. Comprarti una casa tutta tua.» Gabriel non seguiva nessuno dei suoi consigli, ma gli piaceva che Maggie si preoccupasse per lui. Quando sbucò dall'ascensore al ventiduesimo piano, la receptionist gli indicò l'ufficio privato di Maggie, in fondo al corridoio. Gabriel entrò senza bussare e trovò Maggie che parlava al telefono, fumando una sigaretta. «Certo che può rivolgersi al procuratore distrettuale, ma non servirà a nulla. E non c'è niente da fare perché il procuratore non ha le basi per aprire un caso. Vada da lui se se la sente, e poi mi richiami. Sarò a pranzo, ma la segretaria mi passerà la telefonata sul cellulare.» Maggie riagganciò e scrollò la cenere della sigaretta. «Bastardi. Sono tutti dei bastardi cacciapalle.» «Hai un pacchetto per me?» «Nessun pacchetto. Volevo solo vederti. Pagherò lo stesso a Laura una
consegna.» Gabriel si abbandonò contro lo schienale del divano, abbassando la cerniera del giubbotto di pelle, e si versò un bicchiere d'acqua. Maggie si sporse sulla scrivania, con espressione severa e tenace. «Se spacci stupefacenti, Gabriel, ti strozzo con le mie mani.» «Non sono uno spacciatore.» «Mi hai parlato di tuo fratello. Non dovresti lasciarti coinvolgere nelle sue truffe.» «Compra e vende immobili, Maggie. Tutto qui. Palazzi per uffici.» «Lo spero con tutto il cuore, caro. Se ti trascina in qualche operazione illegale gli taglio la lingua.» «Cosa succede?» «Lavoro con un ex agente di polizia che ora fa il consulente per la sicurezza. Mi dà una mano quando qualche pazzoide importuna uno dei miei clienti. Ieri stavamo parlando al telefono quando, di punto in bianco, mi chiede: "Conosci un pony express che si chiama Gabriel? L'ho notato alla tua festa di compleanno" e quando gli rispondo di sì, dice: "Certi miei amici mi hanno chiesto di lui. Dove lavora. Dove abita".» «Chi sono queste persone?» «Inutile chiederglielo. Non me l'avrebbe detto. Ma dovresti fare attenzione, caro. Qualche personaggio influente si interessa a te. Hai fatto un incidente?» «No.» «Hai in ballo una causa legale?» «Nemmeno per sogno.» «Che ci sia sotto una delle tue donne?» Maggie lo fissava con occhi penetranti. «Qualche ragazza ricca? Una donna sposata?» «Ho invitato a uscire quella ragazza conosciuta alla tua festa. Andrea...» «Andrea Scofield? Suo padre è proprietario di quattro aziende vinicole nella Napa Valley.» Maggie si sciolse in una risata. «Allora si tratta di questo. Dan Scofield vuole essere certo che sei un tipo a posto.» «Siamo solo andati in moto qualche volta.» «Non preoccuparti, Gabriel. Parlerò io a Dan. Gli dirò di non essere iperprotettivo. Ora lasciami sola. Devo preparare una causa.» Camminando nel garage sotterraneo, Gabriel si sentiva nervoso e spaventato. Forse qualcuno lo stava sorvegliando. I due uomini a bordo del grosso fuoristrada? La donna con la ventiquattrore che camminava verso
gli ascensori? Mise la mano nella borsa della moto e trovò la pesante chiave inglese. Se necessario, poteva usarla come arma. I suoi genitori sarebbero fuggiti non appena avessero saputo che qualcuno stava facendo domande su di loro. Ma Gabriel viveva a Los Angeles da cinque anni e nessuno aveva mai fatto irruzione in casa sua sfondando la porta. Forse avrebbe fatto meglio a seguire il consiglio di Maggie: farsi un'istruzione e trovarsi un impiego decente. Se si entrava nella Griglia, la vita diventava più semplice. Mentre avviava la moto, gli tornò in mente la storia di sua madre, con tutto il suo potere consolatorio. Lui e Michael erano i principi in fuga, travestiti da straccioni, ma coraggiosi e pieni di risorse. Gabriel risalì la rampa d'uscita, sbucò in strada ed entrò nel traffico, superando un grosso pickup. Innestò la seconda. La terza. Accelerò. Ed era di nuovo in movimento, sempre in movimento, una minuscola scintilla di coscienza circondata da macchine. 5 Michael Corrigan era convinto che il mondo fosse un campo di battaglia in perenne stato di guerra. La guerra comprendeva le campagne militari organizzate dall'America e dai suoi alleati, ma c'erano anche conflitti minori tra nazioni del Terzo Mondo e genocidi ai danni di varie tribù, razze e religioni. C'erano assassinii e attentati terroristici, cecchini pazzi che sparavano a caso sulla gente per motivi folli, gang mafiose e bande criminali per le strade delle grandi città, sette pseudoreligiose e scienziati che spedivano buste all'antrace. Una marea di emigranti dai Paesi del Sud attraversava i confini, verso nord, portando con sé nuovi terribili virus e micidiali batteri carnivori. La natura era talmente infuriata per la sovrappopolazione e l'inquinamento che stava reagendo con siccità, carestie e uragani. Le calotte polari si stavano sciogliendo e il livello dei mari e degli oceani aumentava, mentre lo strato d'ozono veniva lacerato dagli aerei. A volte Michael perdeva di vista le diverse minacce, ma restava comunque consapevole del pericolo in generale. La guerra non sarebbe mai finita. Si diffondeva ogni giorno di più, facendosi sempre più invadente, reclamando nuove vittime. Michael abitava all'ottavo piano di un grattacielo di West Los Angeles. Gli erano bastate quattro ore per arredare l'appartamento. Il giorno in cui
aveva firmato il contratto d'affitto si era recato in macchina presso un enorme mobilificio in Venice Boulevard e aveva comprato le soluzioni suggerite dal negozio per il salotto, la stanza da letto e un ufficio casalingo. Si era offerto di prendere in affitto un appartamento per suo fratello nel suo stesso condominio e di arredarlo con mobili simili ai suoi, ma Gabriel aveva rifiutato. Per qualche perversa ragione, il suo fratellino preferiva abitare in quella che probabilmente era la casa più brutta di tutta Los Angeles, e respirare i fumi di scarico degli automezzi sulla superstrada. Se usciva sul terrazzino, Michael riusciva a scorgere l'oceano Pacifico in lontananza, ma non gli interessava guardare il panorama e di solito teneva accostate le tende. Dopo la telefonata con Gabriel, si preparò il caffè, sgranocchiò una barretta energetica e fece una serie di telefonate a diverse agenzie finanziarie di New York che investivano nel campo immobiliare. A causa delle tre ore di fuso orario, a New York stavano già lavorando nei loro uffici mentre Michael gironzolava ancora in mutande per il soggiorno. «Tommy! Sono Michael! Hai ricevuto la proposta che ti ho inviato? Che cosa ne pensi? Che cosa dice il comitato per il mutuo?» Di solito i comitati per il mutuo erano troppo prudenti, oppure sconsiderati, ma non bisognava lasciarsi fermare dalle loro decisioni. Negli ultimi cinque anni, Michael aveva trovato gli investimenti necessari per acquistare due palazzi e stava per concludere l'acquisto di un terzo grattacielo in Wilshire Boulevard. Michael si aspettava sempre che la gente rispondesse di no e aveva già pronte altre argomentazioni per convincerli. Verso le otto aprì il guardaroba e scelse un paio di pantaloni grigi e un blazer blu. Aggiustandosi al collo una cravatta di seta rossa, girovagò nell'appartamento, passando da un televisore acceso all'altro. Quella mattina gli incendi e i forti venti che soffiavano dai monti Santa Ana erano le notizie principali. Un grosso incendio a Malibu stava minacciando la villa di un noto campione di basket. Un altro incendio era fuori controllo a est delle montagne e la televisione mostrava gente che gettava frettolosamente in macchina album di foto di famiglia e mucchi di vestiti. Scese con l'ascensore nel parcheggio sotterraneo e salì a bordo della sua Mercedes. Quando metteva piede fuori dal suo appartamento si sentiva come un soldato pronto a fare soldi. L'unica persona su cui potesse contare veramente era Gabriel, ma era evidente che suo fratello non si sarebbe mai trovato un buon impiego. Sua madre era malata e lui stava ancora pagando la chemioterapia. "Non lamentarti" disse tra sé. "Continua a combattere e basta." Quando avesse avuto abbastanza soldi, si sarebbe comprato un'isoletta
da qualche parte nell'oceano Pacifico. Al momento né lui né Gabriel avevano una ragazza fissa e Michael non riusciva a immaginare la moglie adatta a un paradiso tropicale. Nel suo sogno ricorrente, lui e Gabriel galoppavano in sella a due cavalli, in riva al mare, proprio sulla battigia, tra spuma bianca e schizzi d'acqua. Le loro mogli rimanevano sullo sfondo, leggermente sfocate, in piedi su un promontorio di roccia e vestite con lunghi abiti bianchi. L'isola era calda e soleggiata: sarebbero stati in salvo, finalmente al sicuro. Per sempre. 6 Quando Gabriel giunse alla casa di cura, le colline a ovest stavano ancora bruciando e il cielo era di un color giallo senape. Lasciò la motocicletta nel parcheggio ed entrò nell'edificio: la casa di cura era un ex motel a due piani ristrutturato, con sedici letti per sedici degenti in fase terminale. Nell'atrio era seduta un'infermiera originaria delle Filippine di nome Anna. «Meno male che è arrivato, Gabriel. Sua madre chiede di lei.» «Mi dispiace, non ho portato nessun bombolone stasera.» «Adoro i bomboloni, ma anche loro mi amano troppo.» Anna si pizzicò il grasso avambraccio scuro. «Deve andare subito da lei. È molto importante.» Gli inservienti della casa di cura lavavano il pavimento e rifacevano i letti in continuazione, ma la palazzina puzzava invariabilmente di orina e di fiori appassiti. Gabriel salì le scale fino al primo piano e percorse tutto il corridoio. Le luci al neon sul soffitto emettevano un sommesso ronzio. Quando entrò in camera sua madre stava dormendo. Il suo corpicino era diventato una piccola gobba sotto un lenzuolo bianco. Ogni volta che si recava in visita alla casa di cura, Gabriel cercava di ricordare come era stata sua madre quando lui e Michael erano bambini. Le piaceva canticchiare tra sé quando era sola. Per lo più vecchie canzoni rock'n'roll come Peggy Sue o Blue Suede Shoes. Adorava i compleanni e qualsiasi altra occasione per una festa in famiglia. Anche quando abitavano nei motel, aveva sempre voluto comunque festeggiare la Festa degli Alberi o il solstizio d'inverno. Gabriel si sedette vicino al letto e strinse la mano fredda di sua madre. A differenza degli altri degenti della casa di cura, sua madre non si era portata dei cuscini ricamati o delle foto in cornice per trasformare lo sterile ambiente della sua stanza in un angolino di casa. Il suo unico tocco personale
era stato chiedere che il televisore venisse scollegato e portato via. Il filo della Tv via cavo giaceva in spire sul ripiano vuoto del televisore come un sottile serpente nero. Una volta alla settimana Michael faceva recapitare alla clinica un nuovo mazzo di fiori da metterle in camera. Dall'ultima consegna di tre dozzine di rose era passata quasi una settimana e i petali rossi caduti formavano un cerchio attorno al vaso bianco. Le palpebre di Rachel Corrigan si sollevarono in un tremito e la donna fissò suo figlio. Le occorsero alcuni secondi per riconoscerlo. «Dov'è Michael?» «Verrà a trovarti mercoledì.» «No, mercoledì sarà troppo tardi.» «Perché?» Sua madre liberò la mano dalla stretta e parlò con voce calma. «Stanotte morirò.» «Ma cosa dici?» «Non voglio più soffrire. Sono stanca del mio guscio.» Il "guscio" era il nome di sua madre per il proprio corpo. Tutti avevano un guscio, dentro al quale portavano una piccola parte di ciò che lei chiamava la "Luce". «Sei ancora forte» disse Gabriel. «Non morirai.» «Chiama Michael e digli di venire.» Chiuse gli occhi e Gabriel uscì in corridoio, dove trovò Anna con in mano delle lenzuola pulite. «Che cosa le ha detto?» «Che vuole morire.» «Mi ha detto la stessa cosa quando sono entrata in servizio» ribatté Anna. «Chi è il medico di guardia stanotte?» «Chattarjee, il dottore che viene dall'India. Ma ora è a cena.» «Lo chiami sul cercapersone, per favore. Subito.» Anna scese al pianoterra a telefonare mentre Gabriel accendeva il suo cellulare. Chiamò Michael e suo fratello rispose al terzo squillo. In sottofondo c'era un brusio di folla. «Dove sei?» chiese Gabriel. «Al Dodger Stadium. Un posto numerato in quarta fila, proprio dietro la casa base. È fantastico.» «Io sono alla casa di cura. Devi venire subito qui.» «Ci farò un salto alle undici, Gabe. Forse più tardi. Quando sarà finita la partita.»
«No. Non c'è tempo.» Gabriel udì di nuovo il rumore della folla e poi la voce attutita di suo fratello che diceva: «Mi scusi, mi scusi». Michael si era probabilmente alzato dal suo posto per risalire la gradinata dello stadio. «Non capisci» disse suo fratello. «Non sono qui per piacere. È una questione di lavoro. Ho pagato un mucchio di soldi per questi posti numerati. Questi banchieri finanzieranno metà del mio nuovo grattacielo.» «Mamma dice che stanotte morirà.» «Che cosa dice il dottore?» «È fuori a cena.» Dovevano aver segnato un punto perché la folla cominciò a urlare. «Allora vedi di trovarlo!» gridò Michael. «Mamma ne è convinta. Penso che possa succedere davvero. Vieni qui il più in fretta possibile.» Gabriel spense il cellulare e tornò nella camera di sua madre. Di nuovo le prese la mano, ma passarono parecchi minuti prima che lei riaprisse gli occhi. «È arrivato Michael?» «L'ho chiamato. È per strada.» «Stavo pensando ai Leslie...» Era un cognome che Gabriel non aveva mai sentito. Sua madre gli parlava dei suoi conoscenti, o gli raccontava delle storie, ma Michael aveva ragione: erano discorsi senza senso. «Chi sono i Leslie?» «Amici dei tempi dell'università. Erano al nostro matrimonio. Quando io e papà partimmo per la luna di miele, li lasciammo restare a casa nostra a Minneapolis. Stavano imbiancando il loro appartamento...» La signora Corrigan chiuse gli occhi serrando le palpebre come se stesse cercando di rivedere tutto. «Poi tornammo dal viaggio di nozze e trovammo a casa la polizia. Degli uomini avevano fatto irruzione di notte nel nostro appartamento e avevano sparato ai nostri amici mentre dormivano nel nostro letto. Volevano uccidere noi e avevano commesso uno sbaglio.» «Volevano uccidervi?» Gabriel si sforzò di sembrare calmo. Non voleva spaventarla e porre fine alla conversazione. «Trovarono i colpevoli?» «Papà mi fece salire subito in macchina e ci mettemmo in viaggio. Fu allora che mi disse per la prima volta chi era in realtà...» «Chi era?» Ma a quel punto sua madre si era di nuovo assopita e la sua coscienza
era sprofondata di nuovo in un mondo d'ombra. Gabriel continuò a tenerle la mano. Sua madre riposò un po', dopo di che si svegliò e chiese di nuovo: «C'è Michael? Sta arrivando?». Il dottor Chattarjee tornò alla casa di cura alle otto e Michael arrivò pochi minuti dopo. Come al solito, sembrava pieno di energia. Si ritrovarono tutti davanti alla scrivania dell'infermiera di turno mentre Michael tentava di capire che cosa stesse succedendo. «Mia madre dice che morirà.» Chattarjee era un ometto educato e gentile con indosso un camice macchiato. Studiò la cartella clinica della signora Corrigan per far vedere che era a conoscenza del problema. «I pazienti malati di cancro fanno spesso affermazioni del genere, Mr Corrigan.» «Allora qual è realmente la situazione?» Il dottore aggiunse un appunto alla cartella clinica. «Potrebbe morire nel giro di pochi giorni o di qualche settimana. È impossibile stabilirlo con precisione.» «Ma per quanto riguarda stasera?» «Le sue funzioni vitali non sono variate.» Michael si voltò di scatto, avviandosi verso le scale. Gabriel seguì il fratello. Mentre salivano al primo piano, si trovarono da soli sul pianerottolo. Nessun altro poteva sentirli. «Ti ha chiamato Mr Corrigan.» «Sì.» «Quando hai cominciato a usare il nostro vero cognome?» «Solo da un anno. Non te l'avevo detto. Adesso ho il mio numero di previdenza sociale, la tessera sanitaria, il codice fiscale e pago le tasse. Sarò il legittimo proprietario del nuovo palazzo di Wilshire Boulevard.» «Ma adesso sei nella Griglia.» «Io mi chiamo Michael Corrigan e tu Gabriel Corrigan. È quello che siamo.» «Sai che cosa diceva papà...» «Maledizione, Gabe! Non possiamo continuare a parlare di queste cose. Papà era matto. E mamma era debole e si è lasciata trascinare.» «Allora perché quegli uomini ci hanno attaccato e hanno bruciato la casa?» «Per papà. Evidentemente aveva fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa di illegale. Noi non siamo colpevoli di nulla.»
«Ma la Griglia...» «La Griglia è la vita moderna. Il sistema. Tutti ci devono fare i conti.» Michael posò una mano sull'avambraccio di Gabriel. «Tu sei mio fratello, okay? Ma sei anche mio amico. Lo sto facendo per tutti e due. Lo giuro su Dio. Non possiamo continuare a comportarci come scarafaggi, a nasconderci nelle crepe del muro ogni volta che qualcuno accende la luce.» Michael e Gabriel entrarono nella stanza e si accostarono ai due lati del letto. Gabriel prese la mano della madre. Ebbe l'impressione che il sangue fosse defluito dal suo corpo. «Mamma... svegliati» disse gentilmente. «Michael è qui.» Rachel Corrigan aprì gli occhi e sorrise quando vide i suoi due figli. «Eccovi qua» disse. «Vi stavo sognando.» «Come ti senti?» Michael le esaminò il volto e il corpo, valutando le sue condizioni. Dalla tensione che Michael aveva nelle spalle e dalla rapidità con cui muoveva le mani era evidente la sua ansia, ma Gabriel sapeva che suo fratello non lo avrebbe mai ammesso. Di fronte a ogni difficoltà, Michael esigeva sempre di più da se stesso. «Mi sembra che tu stia un po' meglio.» «Oh, Michael...» Gli fece un sorriso stanco, come se avesse appena lasciato sul pavimento della cucina delle impronte di fango. «Non fare così, ti prego. Non stasera. Debbo raccontarvi di vostro padre.» «Conosciamo già tutte le storie» ribatté Michael. «Non torniamo su quell'argomento stasera. D'accordo? Dobbiamo parlare con il dottore e assicurarci che tu stia bene.» «No. Lasciala parlare.» Gabriel si sporse sul letto. Si sentiva euforico, ma anche spaventato. Forse era quello il luogo e il momento in cui finalmente sarebbe successo, il luogo e il momento in cui finalmente avrebbe saputo. Il motivo del dolore della sua famiglia. «So di avervi raccontato tante storie diverse» esordì Mrs Corrigan. «Mi dispiace. La maggior parte delle storie che vi raccontavo quando eravate ragazzi non erano vere. Volevo solo proteggervi.» Michael guardò il fratello, annuendo con aria di trionfo. Gabriel capì ciò che voleva dire suo fratello. "Visto? Che cosa ti ho sempre detto? Era tutto falso." «Ho aspettato troppo tempo» proseguì Mrs Corrigan. «È così difficile da spiegare. Vostro padre era... Quando diceva... Io non lo...» Le tremarono le labbra come se migliaia di parole le si affollassero contemporaneamente in
bocca per uscire tutte insieme. «Papà era un Viaggiatore.» Guardò in alto, verso Gabriel. "Credimi" era l'espressione del suo viso. "Ti prego. Credimi." «Vai avanti» disse Gabriel. «I Viaggiatori hanno la capacità di lasciare il loro corpo ed entrare in altri regni. Ecco perché la Tabula cerca di ucciderli.» «Mamma, basta parlare, ora. Ti affaticherai soltanto.» Michael sembrava estremamente turbato. «Faremo venire subito il dottore e ti sentirai meglio.» Sua madre sollevò la testa dal cuscino. «Non c'è tempo, Michael. Non c'è più tempo. Dovete ascoltarmi. La Tabula tentò di...» Sembrava confusa. «E poi noi...» «Va bene, va bene» bisbigliò dolcemente Gabriel. «Un Arlecchino di nome Thorn ci trovò quando abitavamo nel Vermont. Gli Arlecchini sono persone pericolose, molto violente e spietate, ma hanno fatto giuramento di proteggere i Viaggiatori. Fummo al sicuro per alcuni anni, poi Thorn non poté più proteggerci. Ci diede dei soldi e la spada.» La testa le ricadde sul guanciale. Ogni parola l'aveva svuotata della poca energia residua, privandola di tanti piccoli frammenti della sua vita. «Vi ho osservato crescere» disse. «Vi ho osservato entrambi, in cerca dei segni. Non so se siete capaci di varcare i confini di altri regni. Ma se ne avete il potere, dovete nascondervi dalla Tabula...» Chiuse gli occhi, bloccata dal dolore che le investiva tutto il corpo. Disperato, Michael le accarezzò il viso. «Sono qui. Anche Gabe è qui. Ti proteggeremo noi. Convocherò altri medici, ogni genere di dottore...» Mrs Corrigan inspirò a fondo. Il suo corpo si irrigidì, per poi rilassarsi completamente. Fu come se nella stanza fosse improvvisamente calato il gelo, come se dell'energia fosse sfuggita sotto lo spiraglio della porta. Michael si voltò e corse fuori dalla camera, gridando in cerca di aiuto. Ma Gabriel sapeva che era finita. Dopo che il dottor Chattarjee ebbe constatato il decesso, Michael si fece dare un elenco delle imprese di pompe funebri locali e ne chiamò una con il cellulare. Indicò l'indirizzo e chiese una cremazione standard, fornendo il numero della sua carta di credito. «A te sta bene?» domandò. «Certo.» Gabriel si sentiva confuso, intontito e completamente esausto. Lanciò un'occhiata all'oggetto coperto dal lenzuolo. Un guscio senza la
Luce. I due fratelli rimasero accanto al letto finché non si presentarono due impiegati dell'impresa di pompe funebri. Il corpo fu chiuso in un sacco mortuario, deposto su una lettiga e portato al pianterreno fino a un'ambulanza senza contrassegni. Quando l'ambulanza se ne fu andata, i due fratelli Corrigan restarono in piedi l'uno accanto all'altro sotto la fioca luce di sicurezza. «Volevo comprarle una casa con un grande giardino» disse Michael. «Penso che le sarebbe piaciuta.» Guardò verso il parcheggio come se vi avesse appena perso qualcosa di prezioso. «Comprarle una casa era uno dei miei sogni.» «Dobbiamo assolutamente parlare di quello che ci ha detto.» «Parlare di cosa? Tu riesci a spiegarmi qualcosa? Mamma ci ha raccontato per anni storie di fantasmi e di animali parlanti, ma non ha mai accennato una sola volta a qualcuno che si chiamasse "Viaggiatore". Gli unici viaggi che abbiamo mai fatto sono stati quelli a bordo di quel dannato pick-up.» Gabriel sapeva che suo fratello aveva ragione. Le ultime parole della mamma non avevano alcun senso. Gabriel era sempre stato convinto che prima o poi sua madre gli avrebbe spiegato quello che era successo alla loro famiglia. Ma ora non poteva più scoprirlo. «Forse parte di ciò che ha detto è vero. In qualche modo...» «Non voglio star qui a discutere con te. È stata una lunga serata e siamo stanchi.» Michael allungò le braccia e abbracciò suo fratello. «Adesso siamo rimasti solo io e te. Dobbiamo sostenerci l'un l'altro. Riposiamo un po'. Ne riparleremo domattina.» Michael si mise al volante della sua Mercedes e uscì dal parcheggio. Prima che Gabriel avviasse la sua motocicletta, aveva già svoltato in Ventura Boulevard. La luna e le stelle erano nascoste da una fitta foschia. Un frammento di cenere sospeso nell'aria volò incontro alla visiera di plexiglas del suo casco integrale. Gabriel inserì la terza e superò l'incrocio, accelerando. In fondo al viale, vide Michael che imboccava la rampa d'accesso alla superstrada. Quattro veicoli seguivano la Mercedes a poche centinaia di metri di distanza. Accelerarono tutti, formarono un gruppo, e salirono con decisione la rampa d'accesso. Tutto era accaduto con grande rapidità, ma Gabriel capì che le quattro vetture viaggiavano insieme e che stavano seguendo suo fratello. Innestò
la quarta e accelerò ulteriormente. Sentiva le vibrazioni del motore nelle gambe e nelle braccia. "Sterza a sinistra. Ora a destra." Pochi secondi dopo era sulla superstrada dietro agli altri. Un paio di chilometri dopo Gabriel raggiunse il gruppo di autovetture e vi si accodò. C'erano due furgoni senza nessun contrassegno e due suv con targhe del Nevada. Tutti e quattro i veicoli avevano i vetri fumé e non era possibile capire chi vi fosse all'interno. Michael non aveva affatto modificato il suo modo di guidare; sembrava non essersi accorto di quanto stava accadendo. Mentre Gabriel osservava la scena, uno dei due suv superò Michael a sinistra mentre l'altro si accodò alla Mercedes. I quattro autisti erano evidentemente in comunicazione radio tra loro: coordinavano le manovre, e si tenevano pronti a entrare in azione. Michael si spostò nella corsia di destra quando suo fratello si avvicinò allo svincolo per la San Diego Freeway. Ora stavano viaggiando tutti a una tale velocità che le luci sembravano passare accanto come scie luminose. "Piegati in curva. Frena leggermente." E adesso stavano tutti uscendo dalla traiettoria in curva, diretti sulle colline verso il Sepulveda Pass. Percorsero un altro paio di chilometri, poi il suv davanti alla Mercedes rallentò mentre i due furgoni accelerarono, affiancando l'auto da entrambi i lati. Ora Michael era intrappolato fra le quattro vetture. Gabriel era abbastanza vicino da sentire suo fratello suonare più volte il clacson. Michael si spostò di pochi centimetri a sinistra, ma il conducente del suv reagì in modo aggressivo, urtando la fiancata della Mercedes. I quattro veicoli iniziarono a rallentare contemporaneamente mentre Michael cercava disperatamente una via di fuga. Il cellulare squillò e Gabriel udì la voce spaventata di Michael. «Gabe! Dove sei?» «Cinquecento metri dietro di te.» «Sono nei guai. Mi hanno ingabbiato.» «Tu continua a guidare. Io tenterò di tirarti fuori.» Quando la moto sobbalzò su una buca nell'asfalto, Gabriel sentì qualcosa muoversi dentro la sacca da pony express. Aveva ancora con sé il cacciavite e la chiave inglese. Tenendo il manubrio con la sola mano destra, aprì la falda della sacca chiusa con il velcro, infilò la sinistra nella sacca e afferrò la chiave inglese. Poi accelerò bruscamente, inserendosi tra la Mercedes di suo fratello e il furgone che viaggiava nella prima corsia di destra. «Tieniti pronto» disse a suo fratello al cellulare. «Sono qui di fianco a te.»
Sterzò leggermente, avvicinandosi di più al furgone, e colpì con forza con la chiave inglese il finestrino laterale. Il cristallo si crepò in una ragnatela intricata. Colpì una seconda volta, e il finestrino andò in frantumi. Per una frazione di secondo Gabriel scorse l'uomo al volante: un tipo giovane con un orecchino al lobo sinistro e il cranio rasato. L'uomo sembrò stupito quando Gabriel lo colpì in faccia con la chiave inglese. Il furgone sbandò bruscamente a destra e urtò con violenza il guard-rail. Metallo che strideva contro metallo, scintille che crepitavano nell'oscurità. "Continua a guidare" pensò Gabriel. "Non voltarti indietro." E seguì suo fratello fuori dalla superstrada. 7 Le quattro vetture non riuscirono a seguirli fuori dalla superstrada, ma Michael spinse la Mercedes a tavoletta come se lo stessero ancora inseguendo. Gabriel gli andò dietro affrontando una strada ripida che si inoltrava in un canyon con delle elaborate ville a palafitta sostenute da sottili pali d'acciaio. Dopo alcuni tornanti i due fratelli Corrigan finirono sui colli sovrastanti la San Fernando Valley. Michael accostò a destra e si fermò nel piccolo parcheggio di una chiesa con porte e finestre chiuse da assi inchiodate. L'asfalto intorno era coperto di bottiglie vuote e lattine di birra. Gabriel si tolse il casco mentre suo fratello scendeva dall'auto, con l'aria esausta e furiosa. «È la Tabula» disse Gabriel. «Sapevano che mamma era in fin di vita e che saremmo stati entrambi alla casa di cura. Ci hanno aspettato sulla strada e hanno deciso di catturare prima te.» «Quella gente non esiste. Non sono mai esistiti.» «Sono stato l'unico a vedere quegli uomini che ti spingevano fuori strada?» «Non capisci.» Michael voltò le spalle al fratello. Si allontanò di alcuni passi attraverso il parcheggio, prendendo a calci una lattina vuota. «Ti ricordi quando ho acquistato quel primo palazzo in Melrose Avenue? Come pensi che abbia avuto il denaro?» «Hai detto che erano fondi di investitori della costa orientale.» «Erano capitali di gente a cui non piace pagare le tasse. È gente che dispone di un mucchio di soldi in contanti che non possono essere versati su normali conti correnti. La quota maggiore di quei finanziamenti proveniva da un gangster di Philadelphia che si chiama Vincent Torrelli.»
«Perché ti sei messo in affari con gente del genere?» «Che cosa avrei dovuto fare?» ribatté Michael con aria di sfida. «La banca si rifiutava di aprirmi un mutuo. Non stavo usando il mio vero nome. Perciò accettai i contanti offerti da Torrelli e comprai il palazzo. Un anno fa, vidi al telegiornale che Torrelli era stato ucciso fuori da un casinò di Atlantic City. Quando non seppi più nulla dai suoi familiari o dai suoi amici smisi di spedire le rate del mutuo a una casella postale di Philadelphia. Vincent aveva molti segreti. Pensavo che non avesse detto a nessuno dei suoi investimenti a Los Angeles.» «E adesso ti avrebbero scoperto?» «Credo di sì. Qui non c'entrano i "Viaggiatori" e tutte le altre storie assurde che mamma ci raccontava. Si tratta semplicemente della mafia che cerca di farsi restituire dei soldi.» Gabriel tornò alla sua motocicletta. Guardando a est, vedeva la San Fernando Valley. Distorta dalla lente formata dalla cappa di aria calda e polverosa, l'illuminazione stradale era una corolla infinita di aloni arancione opaco. In quel preciso istante, l'unica cosa che Gabriel avrebbe voluto fare era montare in sella alla sua moto, lasciarsi la città alle spalle e fuggire nel deserto, in qualche località solitaria da dove sarebbe riuscito a vedere le stelle sopra di sé mentre il faro anteriore tremolava sulla strada sterrata. Sentirsi sperduto. Perdersi. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di lasciare il proprio passato, la sensazione di essere intrappolato in un'immensa prigione. «Mi dispiace» disse Michael. «La situazione stava finalmente prendendo la giusta direzione. Adesso si è incasinata tutta.» Gabriel fissò suo fratello. Una volta, quando abitavano in Texas, la loro madre, presa da mille preoccupazioni, si era dimenticata completamente del Natale. Alla vigilia in casa non c'era niente di niente, ma il mattino dopo Michael era tornato con un abete e alcuni videogiochi rubati in un negozio di elettrodomestici. Qualunque cosa succedesse, sarebbero sempre rimasti fratelli: loro due soli contro il mondo intero. «Dimentica quelle persone, Michael. Andiamocene da Los Angeles.» «Dammi solo un paio di giorni di tempo. Forse riesco a sistemare le cose. Nel frattempo, staremo in un motel. Tornare a casa non è sicuro.» Gabriel e Michael trascorsero la notte in un motel a nord della città. La camera doppia era a cinquecento metri dalla Ventura Freeway e il rumore delle auto di passaggio faceva tremare i vetri delle finestre. Quando Ga-
briel si svegliò alle quattro di notte, sentì Michael in bagno che parlava al cellulare. «Posso ancora uscirne» sussurrò Michael. «Parli come se non avessi più scelta.» Al mattino, Michael restò a letto con la coperta e il lenzuolo tirati sopra la testa. Gabriel uscì dalla stanza, raggiunse un ristorante vicino e comprò qualche tartina e due caffè da portar via. Il giornale vicino alla cassa mostrava una fotografia di due uomini che fuggivano da un muro di fiamme sotto il titolo Forti venti alimentano gli incendi a sud. Tornato in camera, trovò Michael in piedi. Aveva appena finito di farsi la doccia e si stava pulendo le scarpe con una salvietta umida. «Una persona sta venendo qui. Credo che possa risolvere il mio problema.» «Chi è?» «Il suo vero nome è Frank Salazar, ma tutti lo conoscono come Mr Bubble. Lo chiamano così per le bolle di detersivo. Quando era ragazzo a East Los Angeles puliva la pista da ballo di una discoteca con una macchina lavapavimenti..» Mentre Michael seguiva in Tv il notiziario economico-finanziario, Gabriel si stese sul letto a fissare il soffitto. Chiudendo gli occhi, si immaginò in sella alla sua moto sull'autostrada che saliva spedita tra i monti a nord, verso l'Angeles Cresi Si piegava di lato a ogni curva, seguendo i movimenti della moto, mentre il paesaggio verde scivolava dietro di lui. Michael restò in piedi, passeggiando nervosamente avanti e indietro davanti al televisore. Qualcuno bussò alla porta. Michael diede un'occhiata attraverso le veneziane, e poi andò ad aprire. Un massiccio samoano dalla faccia larga e piatta e i capelli nerissimi, ricci e a cespuglio, ostruiva per intero il corridoio. Indossava una camicia hawaiana sbottonata sopra una T-shirt. Non faceva nessun tentativo di nascondere la fondina ascellare contenente una pistola automatica calibro 45. «Ehi, Deek. Dov'è il tuo capo?» «Giù in macchina. Prima devo controllare che tutto sia a posto.» Il samoano entrò nella camera e ispezionò il bagno e il piccolo armadio a muro. Infilò le mani gigantesche sotto le lenzuola dei letti gemelli e sollevò tutti i cuscini del divano. Michael non smise un istante di sorridere come se fosse tutto normale. «Niente armi, Deek. Sai che non giro mai armato.» «La sicurezza è la priorità numero uno. Mr Bubble non fa che ripeterlo.» Dopo aver perquisito personalmente i due fratelli, Deek uscì e tornò un
minuto più tardi con una guardia del corpo, un latinoamericano con la testa rasata, e un uomo più anziano che portava dei grossi occhiali con le lenti affumicate e una polo turchese. Mr Bubble aveva la pelle cosparsa di macchie di fegato e alla base del collo era ben visibile una cicatrice rosa, segno di un'operazione chirurgica. «Aspettate fuori» disse alle due guardie del corpo che uscirono chiudendosi la porta alle spalle. Mr Bubble strinse la mano a Michael. «Piacere di vederti.» Aveva una voce bassa e roca. «Chi è il tuo amico?» «Mio fratello. Gabriel.» «La famiglia è una buona cosa. Tieniti sempre vicini i tuoi parenti.» Mr Bubble andò verso Gabriel e gli strinse la mano. «Hai un fratello in gamba. Forse un po' troppo furbo, stavolta.» Si accomodò sulla poltrona davanti al televisore. Michael si sedette sull'angolo del letto, di fronte a lui. Fin da quando erano fuggiti dalla fattoria del South Dakota, Gabriel aveva osservato suo fratello convincere dei perfetti estranei a comprare qualcosa o a entrare in società con lui. Mr Bubble aveva l'aria di essere un osso duro. Gli si scorgevano a malapena gli occhi dietro le lenti affumicate e aveva le labbra increspate da un lieve sorriso sarcastico, come se stesse per assistere a uno spettacolo comico. «Hai parlato con i tuoi amici di Philadelphia?» domandò Michael. «Ci vorrà un po' di tempo per sistemare questo casino. Darò protezione a te e a tuo fratello per qualche giorno fino a quando il problema non sarà risolto. Cederemo il Melrose Building alla famiglia Torrelli. In pagamento, mi prenderò la tua quota del Fairfax Building.» «È troppo per un solo favore» disse Michael. «In questo modo non mi resterà più niente.» «Hai commesso uno sbaglio, Michael. E adesso certe persone ti vogliono morto. In un modo o nell'altro il problema deve essere risolto.» «Questo è vero, ma...» «La sicurezza è la priorità numero uno. Hai perso il controllo di due palazzi, ma sei ancora vivo.» Senza smettere di sorridere, Mr Bubble si abbandonò contro lo schienale della poltrona. «Considerala un'occasione per imparare qualcosa.» 8 Maya recuperò la telecamera e il treppiede dal Kampa Hotel, ma lasciò nella stanza la valigia e i vestiti. Sul treno diretto in Germania, controllò
accuratamente l'attrezzatura video, ma non trovò nessuna perla localizzatrice. Era chiaro che la sua vita da comune cittadina era finita. Dopo il rinvenimento del tassista morto, gli agenti della Tabula le avrebbero dato una caccia spietata. Sapeva che non sarebbe stato facile nascondersi. La Tabula le aveva probabilmente scattato molte fotografie durante gli anni trascorsi a Londra. Forse avevano anche le sue impronte digitali, una scansione vocale e alcuni campioni del suo DNA che potevano aver preso dai fazzolettini di carta che buttava nel cestino in ufficio. Arrivata a Monaco di Baviera, avvicinò una donna pakistana nella stazione centrale e si fece dare l'indirizzo di un negozio d'abbigliamento arabo. Fu addirittura tentata di ricoprirsi per intero con il burka blu indossato dalle donne afghane, ma i vestiti ingombranti avrebbero reso difficile l'uso delle armi. Finì per comprare un hijab nero per coprire i propri indumenti occidentali, un chador per coprirsi la testa e un paio di occhiali da sole con le lenti nere. Ritornata alla stazione ferroviaria, distrusse i suoi documenti di identità inglesi e utilizzò un passaporto di riserva per diventare Gretchen Voss, una studentessa della facoltà di Medicina di padre tedesco e madre iraniana. I viaggi in aereo erano un rischio, perciò Maya prese un treno per Parigi, raggiunse in metrò la stazione di Galleni e salì a bordo del bus che ogni giorno collegava Parigi e Londra. Il pullman era pieno di emigranti senegalesi e di famiglie di nordafricani carichi di borse e sacchetti di abiti vecchi. Quando la corriera giunse alla Manica tutti salirono a bordo di un enorme traghetto. Maya osservò i turisti inglesi acquistare bottiglie di liquori nei duty-free shop della nave, inserire monete nelle slot machine e guardare un telefilm brillante su di un grande schermo televisivo. Da semplici cittadini la vita era normale, quasi noiosa. Nessuno sembrava rendersi conto, o far caso, al fatto di essere tenuto costantemente sotto controllo dall'Immensa Macchina. In Gran Bretagna c'erano quattro milioni di telecamere a circuito chiuso, all'incirca una telecamera ogni quindici abitanti. Thorn una volta le aveva detto che una persona comune - un cittadino medio - che lavorava a Londra veniva fotografata o ripresa ogni giorno da trecento diverse telecamere di sorveglianza. Quando le telecamere erano comparse per la prima volta, il governo britannico aveva fatto affiggere ovunque dei manifesti che recitavano AL SICURO SOTTO OCCHI VIGILI. Con la scusa delle leggi antiterrorismo, ogni nazione industrializzata stava seguendo l'esempio inglese.
Maya si domandava se i cittadini avessero fatto la scelta di ignorare quell'intrusione. La maggior parte della popolazione era veramente convinta che le telecamere proteggessero dai criminali, dai delinquenti e dai terroristi. Quasi tutti credevano di mantenere ancora l'anonimato ogni volta che uscivano in strada. Solo poche persone capivano il potere dei nuovi programmi di scansione facciale. Quando un volto veniva inquadrato e fotografato da una telecamera di sorveglianza, poteva essere trasformato in segnaletica, con dimensione, contrasto e luminosità notevoli, utilizzabile per dei confronti con le fototessera di patenti o passaporti. I programmi di scansione computerizzata identificavano i volti di ogni individuo, ma il governo poteva anche usare le telecamere per individuare comportamenti anomali o insoliti. I cosiddetti programmi Shadow, programmi Ombra, venivano già impiegati a Londra, Las Vegas e Chicago. L'elaboratore centrale analizzava immagini riprese dalle telecamere e avvertiva la polizia se qualcuno lasciava un pacchetto davanti a un edificio pubblico o parcheggiava una macchina ai bordi di un'autostrada. Shadow notava chiunque passeggiasse per le vie della città guardandosi attorno invece di raggiungere a passo spedito il luogo di lavoro. I francesi avevano un termine preciso per definire questo tipo di persone curiose e contemplative - i flâneurs - ma, per quanto riguardava l'Immensa Macchina, chiunque si attardasse all'angolo di una via o si fermasse a osservare un cantiere diventava immediatamente una persona sospetta. In pochi secondi, le immagini di queste persone venivano evidenziate e trasmesse alla polizia. A differenza del governo britannico, la Tabula non era impacciata da leggi o impiegati pubblici. Era un'organizzazione relativamente piccola e ben finanziata. Il suo centro informatico di Londra era in grado di violare in segreto qualsiasi sistema di sorveglianza e analizzarne l'archivio di immagini con un potente programma di scansione. Fortunatamente, nell'America del Nord e in Europa il numero delle telecamere era talmente elevato che la Tabula era letteralmente travolta dai dati. Anche se ottenevano un riscontro identificativo esatto con una delle fotografie del loro archivio, non erano in grado di arrivare in una particolare stazione ferroviaria o nella hall di un albergo abbastanza in fretta. «Mai fermarsi» le aveva sempre raccomandato Thorn. «Non riescono a prenderti se sei sempre in movimento.» Il pericolo veniva dalla ripetizione. Se un Arlecchino avesse fatto sempre lo stesso tragitto per raggiungere un determinato luogo, alla fine la scansione facciale avrebbe scoperto lo schema e la Tabula avrebbe potuto
organizzare un agguato. Thorn aveva sempre cercato di evitare le situazioni che definiva "canali" oppure "canyon a scatola". Si parlava di canale quando si era costretti a viaggiare lungo un tragitto particolare, sorvegliato dalle autorità. I canyon a scatola invece erano canali che portavano in un luogo privo di vie di fuga, come per esempio un aereo di linea o una saletta per interrogatori del servizio immigrazione. La Tabula aveva il vantaggio del capitale e della tecnologia. Gli Arlecchini erano sopravvissuti grazie al loro coraggio e alla capacità di coltivare la casualità. Quando finalmente arrivò a Londra, Maya prese la metropolitana fino alla stazione di Highbury-Islington, ma non tornò al suo appartamento. Proseguì invece lungo la via di casa fino all'Hurry Curry, un ristorante takeaway. Diede al ragazzo delle consegne a domicilio la chiave del portoncino esterno, chiedendogli di aspettare un paio d'ore e poi di andare a deporre una porzione di pollo nel corridoio d'ingresso della casa. Quando cominciò a imbrunire, Maya salì sulla terrazza dell'Highbury Barn, il pub di fronte a casa sua. Nascosta dietro un paravento, osservò le persone che entravano nel negozio al pianterreno del suo edificio per comprare vino. I cittadini tornavano a casa con in mano la ventiquattrore e i sacchetti della spesa. Un furgone bianco per consegne a domicilio era posteggiato di fronte a casa sua, ma sul sedile anteriore non c'era nessuno. Il ragazzo indiano dell'Hurry Curry comparve alle 19.30 spaccate. Nell'attimo stesso in cui inserì la chiave nella toppa del portoncino, due uomini scesero rapidamente dal furgone bianco e lo spinsero dentro l'edificio. Forse l'avrebbero ucciso, o forse l'avrebbero solo interrogato. A Maya non importava niente. Stava di nuovo scivolando nella mentalità da Arlecchino: nessuna compassione, nessun attaccamento, nessuna pietà. Passò la notte in un appartamento dell'East End che suo padre aveva comprato vent'anni prima. Sua madre aveva vissuto lì, protetta dalla comunità asiatica. Era morta di infarto quando Maya aveva quattordici anni. Il trilocale si trovava all'ultimo piano di una cadente palazzina nei pressi di Brick Lane. Al pianoterra c'era un'agenzia di viaggi bengalese che vendeva permessi di lavoro e carte d'identità falsi. L'East End di Londra era sempre stata tradizionalmente fuori dalla cerchia urbana, il posto adatto in cui fare o comprare cose illegali. Per centinaia di anni era stato uno dei peggiori bassifondi del mondo, il terreno di caccia di Jack lo Squartatore. Adesso folle di turisti americani invadevano la zona, l'antica fabbrica di birra Truman era stata riattata a pub con terrazza all'aperto e le torri di cristallo e acciaio del moderno complesso per uf-
fici di Bishop's Gate svettavano nel cuore del quartiere storico. Quello che un tempo era un labirinto di vicoli scuri era ormai punteggiato di gallerie d'arte e di ristoranti alla moda ma, sapendo dove cercare, era ancora possibile procurarsi una grande quantità di articoli per sfuggire allo sguardo dell'Immensa Macchina. Ogni fine settimana i venditori ambulanti facevano la loro comparsa nella parte alta di Brick Lane, nei dintorni di Cheshire Street. Vendevano stiletti acuminati e tirapugni di ottone per le risse di strada, videocassette pirata e schede SIM rubate. Per poche sterline in più, ti attivavano la SIM con una carta di credito collegata a una società fantasma. Sebbene le autorità disponessero della tecnologia per ascoltare le chiamate sui cellulari, non erano in grado di risalire al proprietario. L'Immensa Macchina poteva tenere sotto controllo facilmente i cittadini con un domicilio fisso e un conto corrente bancario. Gli Arlecchini che vivevano fuori dalla Griglia utilizzavano una scorta infinita di cellulari e documenti di identità usa e getta. A parte le loro spade, quasi tutto poteva essere usato pochissime volte e buttato via come una carta di caramella. Maya telefonò al suo ex datore di lavoro allo studio di design, dicendo che suo padre aveva un tumore e che era costretta a lasciare l'impiego per prendersi cura di lui. Ned Clark, uno dei fotografi che lavoravano per lo studio, le diede il nome di un medico omeopata e poi le domandò se avesse per caso dei problemi di tasse. «No. Perché me lo chiedi?» «Un tizio della Tributaria è venuto in ufficio a fare domande sul tuo conto. Ha parlato con quelli dell'amministrazione e ha chiesto formalmente informazioni sui tuoi versamenti erariali, le tue tasse sul reddito, i tuoi numeri di telefono e indirizzi.» «E glieli hanno dati?» «Be', naturalmente. Era un funzionario statale.» Clark abbassò la voce. «Se avessi un posticino in Svizzera e fossi in te, ci andrei dritta filata. Che vadano all'inferno, quei bastardi. In fin dei conti, a chi va di pagare le tasse?» Maya non sapeva se l'uomo dell'ufficio delle imposte fosse un vero funzionario statale oppure soltanto un mercenario della Tabula con un tesserino falso. Comunque fosse, la stavano cercando. Tornata al sicuro nell'appartamento, trovò la chiave di un ripostiglio situato in un deposito di Brixton. Da bambina era andata diverse volte al deposito con suo padre, ma non ci tornava da anni. Dopo aver sorvegliato a distanza il deposito per alcune ore, entrò nell'edificio mostrando la chiave all'anziano portinaio e
salì con l'ascensore al secondo piano. Il ripostiglio era una stanza senza finestre, grande all'incirca come uno spogliatoio. La gente lasciava nei magazzini del deposito bottiglie e damigiane di vino, e l'edificio era mantenuto abbastanza fresco da un impianto di aria condizionata. Maya accese la semplice lampadina con paralume sospesa al soffitto, si chiuse a chiave nello sgabuzzino, e cominciò a cercare tra le scatole di cartone. Quando era ancora bambina, suo padre l'aveva aiutata a ottenere diciotto passaporti di diverse nazioni. Gli Arlecchini si procuravano i certificati di nascita di persone decedute in incidenti stradali, e li usavano per richiedere documenti di identità legali. Purtroppo, la maggior parte di questi passaporti falsi era diventata inutile ora che il governo raccoglieva informazioni biometriche - scansione facciale, impronta della retina, disegno dell'iride e impronte digitali - inserendole in chip digitali allegati a passaporti e carte d'identità. Quando il chip veniva letto da uno scanner, i dati contenuti venivano confrontati con le informazioni archiviate nel National Identity Register britannico, l'archivio anagrafico nazionale. Per imbarcarsi sui voli di linea diretti negli Stati Uniti, i dati del passaporto dovevano corrispondere ai rilevamenti computerizzati dell'iride e delle impronte digitali effettuati in aeroporto prima dell'imbarco. Negli Stati Uniti e in Australia le autorità stavano già introducendo dei passaporti con, inseriti nelle copertine, dei chip identificativi a frequenza radio. Questi nuovi passaporti erano molto pratici per i funzionari del servizio immigrazione, ma fornivano anche alla Tabula un nuovo strumento per dare la caccia ai suoi nemici. Uno skimmer, o scrematrice, ossia uno speciale apparecchio a puntamento, era in grado di leggere le informazioni su un passaporto nascosto nella tasca di un cappotto o in una borsetta. Gli skimmer venivano installati nelle cabine degli ascensori o alle fermate d'autobus, in qualsiasi luogo la gente si fermasse per un breve lasso di tempo. Mentre un comune cittadino stava pensando al pranzo, lo skimmer scaricava segretamente le sue informazioni personali. L'apparecchio poteva cercare nominativi presumibilmente collegati a una certa razza, fede religiosa o etnia. Avrebbe trovato i dati relativi all'età, al domicilio e alle impronte digitali del cittadino, come pure i viaggi che questi aveva effettuato negli ultimi anni. I nuovi sistemi di sicurezza costringevano Maya a fare assegnamento su tre passaporti "di facciata" che corrispondevano a tre diverse versioni dei suoi dati biometrici. Era ancora possibile ingannare l'Immensa Macchina, ma bisognava essere preparati e pieni di risorse.
La prima cosa da mascherare era l'aspetto esteriore. I sistemi di riconoscimento si concentravano sui punti nodali che distinguevano un determinato volto. Il computer analizzava i punti nodali di una persona e li trasformava in una "stringa" numerica per creare un'impronta facciale. Lenti a contatto colorate e parrucche di tinte diverse potevano cambiare l'aspetto superficiale, ma solo dei farmaci speciali erano in grado di ingannare gli scanner. Degli steroidi avrebbero teso la pelle del viso e le labbra di Maya. Dei sedativi le avrebbero invece provocato un rilassamento cutaneo generale, facendola apparire più vecchia. Le sostanze dovevano essere iniettate nelle guance e nella fronte prima di sottoporsi agli scanner di controllo dei servizi aeroportuali. Ognuno dei suoi tre passaporti di facciata prevedeva dosi differenti di farmaci e una sequenza diversa di iniezioni sottocutanee. Maya aveva visto al cinema un film in cui il protagonista si sottoponeva a un controllo computerizzato dell'iride presentando allo scanner i bulbi oculari di un uomo morto. Nella realtà, una cosa del genere non era assolutamente possibile. Le apparecchiature per la scansione computerizzata dell'iride proiettavano un sottile raggio di luce rossa nell'occhio umano e le pupille di un uomo morto avrebbero logicamente evitato di contrarsi. Le agenzie governative affermavano che gli scanner dell'iride erano strumenti di identificazione affidabili al cento per cento. Le minuscole infossature, le pliche distintive e le macchie di pigmentazione cominciavano a svilupparsi nell'utero materno. Sebbene uno scanner potesse essere confuso da un paio di ciglia lunghe o da una lacrima, l'iride in sé restava immutata durante l'intera vita di una persona. Thorn e gli altri Arlecchini che vivevano in clandestinità avevano trovato un sistema per eludere la scansione computerizzata dell'iride parecchi anni prima che questa tecnologia fosse utilizzata dai funzionari del servizio immigrazione. Certi ottici di Singapore venivano pagati molto bene per produrre speciali lenti a contatto. Il disegno caratteristico dell'iride di un'altra persona veniva inciso sulla superficie di plastica flessibile: quando la pupilla veniva illuminata dal raggio di luce rossa dello scanner, la speciale lente a contatto si contraeva proprio come un occhio umano. L'ultimo ostacolo biometrico era l'analisi computerizzata delle impronte digitali. Certi acidi o la chirurgia plastica potevano alterare le impronte digitali di un individuo, ma i risultati erano permanenti e lasciavano cicatrici. Durante un viaggio in Giappone Thorn aveva scoperto che certi scienziati dell'Università di Yokohama avevano riprodotto delle impronte digitali lasciate sulla superficie di alcuni bicchieri di cristallo e le avevano
trasformate in rivestimenti di gelatina che potevano essere sistemati sulla punta delle dita. Questi "guanti" digitali erano molto fragili e difficili da indossare, ma ognuno dei tre passaporti di Maya era accompagnato da una serie di rivestimenti per le dita. Rovistando tra le scatole nello sgabuzzino, Maya trovò una trousse di pelle contenente due siringhe ipodermiche e diversi farmaci in grado di cambiare il suo aspetto esteriore. Passaporti. Cappucci per le dita. Lenti a contatto speciali. Sì, c'era tutto. Aprì una scatola dopo l'altra senza fretta e trovò pugnali, coltelli da lancio, pistole e mazzette di banconote di vari Paesi. C'era un telefono satellitare non registrato, un computer portatile e un generatore di numeri casuali grande più o meno come una scatola di fiammiferi. Il GNC era uno strumento distintivo degli Arlecchini, come la spada. Nei tempi antichi, i cavalieri medievali che proteggevano i pellegrini portavano con sé dei dadi d'osso o di avorio che gettavano a terra prima di una battaglia. Ora Maya non doveva fare altro che premere il pulsante e sul piccolo display sarebbero apparsi dei numeri lampeggianti. Al telefono satellitare era attaccata con del nastro adesivo una busta sigillata. Maya la aprì, riconoscendo subito la calligrafia di suo padre. Quando sei su Internet, fai molta attenzione a Carnivore. Fingiti sempre una cittadina e usa un linguaggio sobrio. Stai all'erta, ma non avere paura. Sei sempre stata una persona forte e piena di risorse, fin da bambina. Ora che sono più vecchio, sono fiero di una sola cosa nella mia vita: che tu sia mia figlia. Maya non aveva pianto per suo padre a Praga. E durante il viaggio di ritorno a Londra aveva pensato solo a sopravvivere. Ma in quel momento, da sola nel ripostiglio, si sedette sul pavimento e cominciò a piangere. Al mondo c'erano ancora degli Arlecchini, ma sapeva di essere ormai sola. Se avesse commesso un errore, anche uno solo, la Tabula l'avrebbe uccisa. 9 Come esperto di neuroscienze, il dottor Phillip Richardson aveva studiato il cervello umano con tecniche diverse. Aveva esaminato un'infinità di TAC, radioencefalografie e immagini a risonanza magnetica che mostravano il cervello mentre pensava o reagiva agli stimoli. Aveva dissezionato e pesato encefali umani, e tenuto in mano il tessuto grigio-bruno di cui era
composta la materia cerebrale. Queste esperienze gli permettevano di osservare con un certo distacco le sue stesse attività cerebrali mentre teneva la sua conferenza all'Università di Yale. Richardson leggeva da una serie di schede e premeva un pulsante sotto il podio che comandava il cambio delle immagini proiettate alle sue spalle. Si grattava il collo, spostava il peso da una gamba all'altra e accarezzava il legno liscio del podio. Intanto contava i presenti nell'aula magna e li suddivideva in diverse categorie. C'erano i suoi colleghi della facoltà di Medicina e circa una dozzina di studenti laureandi di Yale. Aveva scelto un titolo provocatorio per la sua lezione - Dio nella scatola. Ultimi progressi delle neuroscienze - ed era gratificante vedere che numerosi non accademici avevano deciso di presenziare alla conferenza. «In quest'ultimo decennio ho studiato le basi neurologiche dell'esperienza spirituale umana. Ho raccolto un gruppo campione di individui che meditano o pregano frequentemente e ho iniettato loro un mezzo di contrasto radioattivo ogni volta che sentivano di essere in contatto diretto con Dio e l'universo. I risultati sono i seguenti...» Richardson premette il pulsante e sullo schermo comparve l'immagine di un cervello umano, suddivisa in aree rosse e arancioni. «Quando il soggetto prega, la corteccia prefrontale è concentrata sulle parole. Nel frattempo il lobo parietale superiore sulla sommità del cervello si è oscurato. Il lobo sinistro processa le informazioni sulla nostra posizione nello spazio e nel tempo. Mantiene viva la sensazione del proprio corpo. Quando il lobo parietale interrompe le sue funzioni, non sappiamo più distinguere tra il nostro stesso Io e il resto del mondo. Di conseguenza, il soggetto è convinto di essere in contatto con l'infinito potere atemporale di Dio. La sensazione è quella di un'esperienza spirituale. Ma in realtà non è altro che un'illusione neurologica.» Il dottore premette il pulsante e mostrò un'altra diapositiva raffigurante un cervello. «In anni recenti ho anche esaminato i cervelli di persone convinte di aver avuto esperienze mistiche. Notate questa sequenza di immagini. L'individuo che sta facendo esperienza di una visione religiosa in effetti sta reagendo a rapide stimolazioni neurologiche nel lobo temporale, l'area responsabile del linguaggio e del pensiero concettuale. Allo scopo di duplicare l'esperienza, ho applicato degli elettrodi sulle tempie dei miei volontari per l'esperimento, generando un campo magnetico di lieve entità. Tutti i soggetti hanno riferito di aver provato una sensazione extracorporea e di aver avuto l'impressione di essere in contatto diretto con Dio.
«Esperimenti di questo genere ci costringono a rimettere in discussione le posizioni tradizionali sull'esistenza dell'anima. Storicamente, tali questioni sono state prese in esame da filosofi e teologi. Per Platone o Tommaso d'Aquino sarebbe stato inconcepibile che un medico prendesse parte al dibattito sull'anima. Ma siamo ormai entrati in un nuovo millennio. Mentre i sacerdoti continuano a pregare e i filosofi a speculare intellettualmente, i più vicini a comprendere la vera natura della coscienza umana sono i neuroclinici. La mia opinione scientifica, suffragata da esperimenti concreti, è che Dio viva all'interno dell'oggetto che è nascosto in questa scatola.» Il neurologo era un uomo di notevole statura, dinoccolato, sulla quarantina, ma tutta la sua goffaggine parve scomparire quando si avvicinò a una scatola di cartone posta su un tavolo vicino al podio. Il suo uditorio lo fissava, in attesa. Tutti volevano vedere. Il dottore mise le mani nella scatola, ebbe un attimo di esitazione e finalmente estrasse un barattolo di plexiglas contenente un cervello. «Un cervello umano. Nient'altro che un pezzo di tessuto galleggiante nella formaldeide. Con i miei esperimenti ho dimostrato chiaramente che la nostra cosiddetta coscienza spirituale è soltanto una reazione cognitiva a un cambiamento neurologico. Il nostro senso del divino, la nostra convinzione che un potere spirituale ci circondi, è creato - o meglio, prodotto dal cervello. Fate un ultimo passo, giudicate le implicazioni di questi studi e concluderete come me che anche Dio - l'idea di Dio - è una creazione del nostro sistema neurologico. Ci siamo evoluti fino a sviluppare una coscienza in grado di adorare se stessa. Questo è il vero miracolo.» Il cervello in formaldeide aveva dato una conclusione spettacolare alla conferenza, ma ora Richardson doveva riportarlo a casa. Con estrema cura, rimise il barattolo di plexiglas nella scatola di cartone e scese i gradini della pedana. Alcuni amici della facoltà di Medicina gli si fecero intorno per congratularsi e un giovane chirurgo lo scortò fuori dall'aula, fino al parcheggio. «Di chi è il cervello?» domandò il giovane. «Di qualcuno famoso?» «Santo cielo, no. Deve essere un cervello che ha più di trent'anni. Sicuramente appartiene a qualche paziente di un ospizio per poveri che ha firmato la liberatoria.» Il dottor Richardson mise la scatola con il cervello nel bagagliaio della sua Volvo e partì diretto a nord, lasciandosi alle spalle l'università. Dopo
che sua moglie aveva firmato i documenti di divorzio e si era trasferita in Florida con un maestro di danza, Richardson aveva preso in seria considerazione l'idea di mettere in vendita la sua casa in stile vittoriano di Prosperi Avenue. La sua mente razionale si rendeva conto che la casa era troppo grande per una persona sola, ma Richardson aveva ceduto alle sue emozioni, decidendo di tenerla. Ogni stanza dell'edificio era come una porzione di cervello. Aveva una biblioteca molto fornita, e una camera da letto al piano superiore piena di fotografie della sua infanzia. Se desiderava cambiare di umore, gli bastava andare a sedersi in una stanza diversa. Richardson posteggiò l'automobile nel garage e decise di lasciare il cervello nel bagagliaio. L'indomani mattina, tornato alla facoltà di Medicina, lo avrebbe rimesso nella sua teca di vetro. Uscì dal garage e lo chiuse. Erano all'incirca le cinque di sera. Il cielo era di un color vermiglio scuro. Richardson sentiva nell'aria un profumo di legna bruciata proveniente dal camino del suo vicino. Sarebbe stata una notte fredda. Forse dopo cena avrebbe acceso il camino nel salotto. Avrebbe potuto sedersi nella grande poltrona verde correggendo alla luce del fuoco la prima stesura della tesi di un suo studente. Uno sconosciuto uscì da un grosso fuoristrada verde parcheggiato sull'altro lato della strada, dirigendosi verso di lui. Sembrava aver passato la quarantina; aveva capelli corti e occhiali dalla montatura d'acciaio. Il suo portamento trasmetteva forza e concentrazione. Richardson pensò che si trattasse di un esattore, incaricato dalla sua ex moglie di sollecitare il pagamento dell'ultimo assegno mensile. Dopo che lei, tramite raccomandata, gli aveva chiesto altri soldi, il dottore aveva deciso di sospendere gli alimenti. «Mi dispiace di non essere riuscito ad arrivare in tempo per la sua lezione» disse l'uomo. «Dio nella scatola era un titolo interessante. C'era molta gente?» «Mi perdoni, ci conosciamo?» chiese Richardson. «Sono Nathan Boone. Lavoro per la Evergreen Foundation. Le abbiamo assegnato una sovvenzione di ricerca. Dico bene?» Negli ultimi sei anni la Evergreen Foundation aveva finanziato le ricerche del dottor Richardson nel campo della neurologia. Era molto difficile ricevere la prima sovvenzione. Non si poteva fare una semplice richiesta alla fondazione; erano loro a contattare i candidati ma, una volta superata la barriera iniziale, il rinnovo era automatico. La fondazione non telefonava mai, né mandava qualcuno al laboratorio per valutare i risultati. Gli
amici di Richardson, scherzando, dicevano che la Evergreen Foundation, nel campo della scienza, rappresentava l'istituzione più vicina a Babbo Natale. «Sì. Finanziate il mio lavoro da molto tempo» disse Richardson. «In che cosa posso esserle utile?» Nathan Boone infilò la mano in una tasca del suo parka, estraendo una busta bianca. «Questa è una copia del suo contratto. Mi è stato detto di portare la sua attenzione sulla clausola 18-C. Le è familiare questa sezione, dottore?» Naturalmente Richardson ricordava bene quella clausola. Era una particolarità esclusiva della Evergreen Foundation, inserita in ogni loro contratto di sovvenzione per difendersi da frodi e sprechi. Boone estrasse il contratto dalla busta e cominciò a leggere ad alta voce. «Numero 18-C. Il destinatario delle sovvenzioni - immagino che qui si parli di lei, dottore - accetta di incontrarsi con un rappresentante della fondazione in qualsiasi momento stabilito dalla stessa per fornire un resoconto dei progressi della sua ricerca e una dichiarazione concernente l'assegnazione dei fondi di sussidio. Il giorno e l'ora dell'incontro verranno stabiliti dalla fondazione. Verranno garantiti i mezzi di trasporto. Il rifiuto di onorare questa richiesta annullerà la sovvenzione stessa. Il ricevente dovrà restituire alla fondazione l'intero ammontare della sovvenzione.» Boone sfogliò rapidamente il resto del manoscritto e si soffermò sull'ultima pagina. «E lei ha firmato questo contratto, dottor Richardson. Esatto? Questa firma in calce è sua?» «Certo. Ma perché vogliono parlare con me proprio ora?» «Sono sicuro che si tratta di una formalità. Metta in una borsa qualche calzino e uno spazzolino da denti, dottore. L'accompagnerò in macchina io stesso al nostro centro di ricerca di Purchase, nello Stato di New York. Vogliono che stanotte riveda certi dati in modo da potersi incontrare con lo staff domattina stessa.» «Non se ne parla neanche» ribatté Richardson. «Domani ho una lezione all'università. Non posso allontanarmi da New Haven.» Boone allungò una mano e afferrò Richardson per il braccio destro, appena sopra il gomito. Poi strinse leggermente, in modo che il dottore non avesse la possibilità di scappare. Boone non aveva estratto una pistola né fatto minacce, ma nella sua personalità c'era un che di estremamente intimidatorio. A differenza della maggior parte della gente, non aveva nessuna esitazione.
«Conosco bene i suoi programmi, dottor Richardson. Ho controllato prima di venire qui. Domani nonna nessuna lezione.» «Mi lasci andare, per favore.» Boone ritrasse la mano. «Non ho intenzione di costringerla a salire in macchina e venire a New York. Non ho intenzione di costringerla affatto. Ma se decide di essere irragionevole, allora dovrebbe anche esser pronto ad accettarne le conseguenze. Mi dispiacerebbe molto che un uomo tanto intelligente facesse la scelta sbagliata.» Come un soldato che avesse appena comunicato a voce un messaggio, Boone girò sui tacchi e si incamminò con passo lento verso l'auto. Il dottor Richardson aveva la sensazione di aver ricevuto un pugno nello stomaco. Di che cosa stava parlando quell'uomo? Conseguenze negative? «Un minuto solo, Mr Boone. Per piacere...» Boone si fermò sul cordolo del marciapiede. Ormai era troppo buio per vederlo in faccia. «Se vengo con lei al centro di ricerca... dove dovrei passare le notte?» «Abbiamo alloggi confortevoli per i membri del nostro staff, dottore.» «E sarò di ritorno qui entro domani pomeriggio?» La voce di Boone mutò leggermente. Richardson ebbe l'impressione che stesse sorridendo. «Può contarci.» 10 Il dottor Richardson preparò una borsa con i propri effetti personali mentre Nathan Boone lo aspettava nell'atrio al pianoterra. Partirono subito dopo, puntando verso sud in direzione di New York. Quando varcarono il confine della contea di Westchester, in prossimità della cittadina di Purchase, Boone svoltò in una strada secondaria. Il suv oltrepassò una serie di lussuose case in pietra e mattoni. Querce bianche e aceri maestosi punteggiavano i prati antistanti le ville e l'erba era ricoperta di foglie secche autunnali. Erano le otto e qualche minuto quando Boone imboccò una strada coperta di ghiaia e giunse davanti all'entrata di un complesso protetto da un muro di recinzione. Un cartello annunciava che erano arrivati a un centro di ricerca gestito dalla Evergreen Foundation. Il custode armato nella guardiola riconobbe Boone e aprì il cancello. Parcheggiarono in un piccolo spiazzo circondato di pini e scesero dal fuoristrada. Quando si incamminarono su un sentiero lastricato, Richar-
dson scorse i cinque grandi edifici che formavano il complesso. C'erano quattro costruzioni di acciaio e cristallo poste agli angoli di un quadrilatero, collegate le une alle altre da passerelle sospese, all'altezza del secondo piano. Al centro sorgeva una costruzione completamente priva di finestre, con una facciata di marmo bianco. Al dottor Richardson ricordò certe fotografie che aveva visto della Kaaba, il santuario musulmano della Mecca in cui veniva conservata la misteriosa pietra nera che Abramo aveva ricevuto da un angelo. «Quella è la biblioteca della fondazione» spiegò Boone, indicando l'edificio all'angolo nord del quadrilatero. «Oltre la biblioteca, in senso orario, ci sono il laboratorio di genetica, la sede informatica e il centro amministrativo.» «Che cos'è l'edificio bianco senza finestre?» «Si chiama Centro di ricerca cibernetico-neurologica e l'hanno costruito solo un anno fa.» Boone portò Richardson nel centro amministrativo. L'ampio atrio dell'edificio era deserto, a parte una telecamera di sorveglianza a circuito chiuso su di una parete. In fondo alla stanza c'era una coppia di ascensori. Mentre i due uomini attraversavano l'atrio, le porte scorrevoli di uno di essi si aprirono automaticamente. «Qualcuno ci sta sorvegliando?» Boone scrollò le spalle. «C'è sempre una possibilità, dottore.» «Qualcuno ci sta sicuramente osservando, perché ci hanno appena aperto le porte dell'ascensore.» «Ho su di me un chip di identificazione a radiofrequenza. Lo chiamiamo "Link Protettivo". Il chip informa un computer che sono entrato nell'edificio e mi sto avvicinando a un punto di ingresso.» I due uomini entrarono nell'ascensore e le porte scorrevoli si chiusero senza che nessuno premesse un pulsante. Boone passò la mano davanti a un pannello grigio incorporato nella parete laterale e, dopo un lieve scatto metallico, l'ascensore cominciò a salire. «Nella maggior parte degli edifici si usano i tesserini di riconoscimento.» «Ben poche persone qui usano ancora carte magnetiche.» Boone alzò il braccio e Richardson notò una cicatrice sul dorso della mano destra. «Chiunque abbia un'autorizzazione di alto livello ha un Link Protettivo personale impiantato sottopelle.» Arrivarono al terzo piano. Boone accompagnò il neurologo in una suite
con bagno, camera da letto e soggiorno. «Trascorrerà la notte qui» spiegò. «Si accomodi. Faccia come fosse a casa sua.» «Che cosa devo aspettarmi?» «Niente di cui preoccuparsi, dottore. C'è una persona che vuole parlare con lei.» Boone uscì dall'appartamento e la porta si richiuse piano con un leggero scatto metallico. "Roba da pazzi" pensò Richardson. "Mi trattano come un criminale." Per diversi minuti il neurologo passeggiò avanti e indietro, battendo ripetutamente il pugno della mano destra nel palmo della sinistra. Poi la sua collera cominciò a scemare. Forse aveva davvero fatto qualcosa di sbagliato. C'era stata quella conferenza in Giamaica... e poi che altro? Qualche pranzo e cena al ristorante e qualche camera d'albergo che non c'entravano per niente con le sue ricerche neurologiche. Come potevano averlo saputo? Chi li aveva informati? Richardson pensò ai suoi colleghi di Yale, molti erano gelosi del suo successo. La porta si aprì automaticamente e un giovane asiatico con in mano un grosso raccoglitore verde ad anelli entrò nella suite. Il giovane indossava un'immacolata camicia bianca e una stretta cravatta nera che gli conferivano un aspetto ordinato e deferente. Richardson si rilassò immediatamente. «Buonasera, dottore. Sono Lawrence Takawa, direttore del Dipartimento progetti speciali per la Evergreen Foundation. Prima di cominciare, volevo solo dirle che ho molto apprezzato i suoi libri, specialmente La macchina nel cranio. Lei ha certamente formulato alcune interessanti teorie sul cervello umano.» «Vorrei sapere perché sono stato portato qui.» «Avevamo bisogno di parlarle. La clausola 18-C ci permette di farlo.» «Perché era necessario incontrarsi proprio stasera? So di aver firmato il vostro contratto, ma questo modo di agire è davvero insolito. Avreste potuto mettervi in contatto con la mia segretaria e fissare un appuntamento.» «Dovevamo rispondere immediatamente a una situazione che si è appena creata.» «Che cosa desiderate? Una sintesi dei miei progressi di quest'ultimo anno? Vi avevo già spedito per posta un rapporto preliminare. Non l'ha letto nessuno?» «Non l'abbiamo convocata per fard un resoconto, dottor Richardson. Vogliamo invece metterla al corrente di alcune informazioni di estrema importanza.» Lawrence indicò con un cenno una delle sedie e i due uomini si sedettero l'uno di fronte all'altro. «In questi ultimi sei anni lei ha effet-
tuato molteplici esperimenti, ma la sua ricerca nel campo della neurologia è tutta a sostegno di un'idea specifica: in tutto l'universo non esiste alcuna realtà spirituale. La coscienza umana non è nient'altro che un processo biochimico che si verifica all'interno del nostro cervello.» «Questo è un sunto semplicistico, Mr Takawa. Ma è fondamentalmente esatto.» «I risultati della sua ricerca sostengono in pieno la filosofia della Evergreen Foundation. Le persone che dirigono la fondazione credono fermamente che ogni essere umano sia un'unità biologica autonoma. Il cervello umano è un computer organico le cui capacità di elaborazione mentale sono stabilite dal patrimonio genetico dell'individuo. Nel corso della vita immagazziniamo nel cervello conoscenze apprese e reazioni legate a determinate esperienze. Al momento della morte, il computer-cervello viene distrutto insieme a tutti i dati e i programmi operativi raccolti in esso.» Richardson annuì. «Penso che sia chiaro.» «È una teoria fantastica» esclamò Lawrence. «Ma purtroppo è falsa. Noi abbiamo scoperto che all'interno di ciascun essere vivente esiste un frammento di energia, indipendente dal corpo o dal cervello. Questa energia entra in ogni vegetale o animale al momento della nascita. E lo abbandona al momento della morte.» Il neurologo cercò di non sorridere. «Evidentemente lei si riferisce all'anima.» «Noi la chiamiamo Luce. Pare che segua le leggi della teoria dei quanti.» «Chiamatela come vi pare, Mr Takawa. Non mi interessa. Presumiamo, per un istante, di essere dotati di anima. È in noi quando siamo vivi e ci lascia quando moriamo. Anche se accettiamo di avere un'anima, è irrilevante ai fini della nostra esistenza. Intendo dire che non possiamo farne nulla. Non possiamo misurarla. Né verificarla, né estrarla da un corpo umano e racchiuderla in un barattolo.» «Un gruppo di persone chiamate "Viaggiatori" sono in grado di dominare la loro Luce e di farla uscire volontariamente dal loro corpo.» «Non credo in nessuna di queste sciocchezze spirituali. Nulla di tutto ciò può essere dimostrato con un esperimento.» «Legga questo, prima.» Lawrence posò il raccoglitore ad anelli sul tavolo. «Tornerò tra poco.» Lawrence uscì dalla suite e Richardson rimase un'altra volta solo. La conversazione era stata così strana e inattesa che il neurologo non sapeva
come reagire. Viaggiatori. La Luce. Perché il dipendente di una rispettata organizzazione scientifica usava una simile terminologia mistica? Il dottor Richardson sfiorò delicatamente con la punta delle dita la copertina rigida del raccoglitore, come se il suo contenuto potesse ustionarlo. Inspirò a fondo, aprì alla prima pagina e cominciò a leggere. Il volume era suddiviso in cinque sezioni, ognuna delle quali numerata separatamente. La prima sezione era un riassunto delle esperienze di persone diverse, fermamente convinte che il loro spirito avesse abbandonato il loro corpo, superando una dopo l'altra quattro barriere e varcando infine la soglia di un altro mondo. Questi Viaggiatori credevano che tutti gli esseri umani avessero nei proprio corpo un'energia, come una tigre imprigionata in una gabbia. Improvvisamente, la porta della gabbia si spalancava e la Luce era libera. La seconda sezione raccoglieva le biografie di numerosi Viaggiatori apparsi sulla terra negli ultimi mille anni di storia. Alcuni di questi personaggi erano diventati degli eremiti e si erano ritirati a vivere nel deserto; molti altri Viaggiatori avevano fondato dei movimenti e sfidato le autorità. Dato che erano usciti temporaneamente dal mondo, i Viaggiatori vedevano e consideravano ogni cosa da una prospettiva del tutto differente. L'autore della seconda sezione ipotizzava che san Francesco d'Assisi, Giovanna d'Arco e Isaac Newton fossero stati dei Viaggiatori. Il famoso Diario oscuro di Newton, segretamente conservato nei sotterranei di una biblioteca all'Università di Cambridge, rivelava che il noto matematico inglese aveva sognato di attraversare barriere di acqua, terra, aria e fuoco. Negli anni Trenta del XX secolo Josif Stalin aveva deciso che i Viaggiatori rappresentavano una minaccia per la sua dittatura. La terza sezione descriveva come la polizia segreta russa avesse arrestato oltre un centinaio di mistici e di capi spirituali. Un medico di nome Boris Orlov aveva esaminato i Viaggiatori detenuti in un ospedale campo di prigionia alla periferia di Mosca. Quando i prigionieri entravano in un altro regno il loro battito cardiaco diminuiva fino a due sole pulsazioni al minuto, e la respirazione si interrompeva completamente. "Sono come morti" scriveva Orlov. "L'energia vitale ha abbandonato i loro corpi." Heinrich Himmler, comandante delle SS tedesche, aveva letto una traduzione del rapporto di Orlov e si era convinto che i Viaggiatori potessero essere la fonte di una nuova arma segreta in grado di vincere la guerra. La quarta sezione del volume descriveva come i Viaggiatori catturati nei Paesi
occupati dalle truppe naziste fossero stati mandati nel centro di ricerca di un campo di concentramento sotto la supervisione del famigerato "Dottor Morte": Kurt Blauner. I prigionieri venivano sottoposti a lobotomie parziali, elettroshock e bagni ghiacciati. Dopo che gli esperimenti erano miseramente falliti, senza che nessuna arma venisse scoperta, Heinrich Himmler si era convinto che i Viaggiatori fossero "un elemento cosmopolita degenerato", e ne aveva deciso lo sterminio. Richardson non vedeva nessun legame tra la sua opera e quelle rudimentali, approssimative ricerche effettuate nel passato. Per lui i soggetti convinti di aver viaggiato in mondi alternativi o dimensioni parallele soffrivano di un'anormale attività in parti specifiche del loro encefalo. Teresa d'Àvila, Giovanna d'Arco e tutti gli altri visionari erano con ogni probabilità epilettici sofferenti di attacchi lobo-temporali. I nazisti naturalmente si sbagliavano. Quelle persone non erano santi o nemici dello Stato; avevano solo bisogno di moderni sedativi e di terapie che permettessero loro di affrontare lo stress emotivo prodotto dalla malattia. Quando giunse alla quinta sezione, Richardson fu lieto di trovare dati sperimentali ottenuti con strumenti moderni come la TAC e la risonanza magnetica. Avrebbe voluto conoscere il nome degli scienziati coinvolti nella ricerca, ma tutte le informazioni personali erano state cancellate con un pennarello nero. I primi due referti medici erano valutazioni neurologiche dettagliate di cosiddetti Viaggiatori. Quando questi individui entravano in stato di trance, i loro corpi andavano come in letargo, sospendendo ogni funzione organica. Le TAC, in questa fase, non rivelavano praticamente alcuna attività neurologica, a parte una reazione cardiaca rallentata, controllata dalla base del cervello. Il terzo referto medico descriveva un esperimento effettuato in un ospedale di Pechino: un gruppo di ricercatori cinesi aveva inventato un'apparecchiatura denominata MEN, O "monitor dell'energia neurale". Il MEN misurava l'energia biochimica prodotta dal corpo umano. Dimostrava che i Viaggiatori avevano la capacità di creare brevi impulsi - o "scariche" - di quella che Lawrence Takawa aveva definito la "Luce". Questo potere neurale era incredibile, fino a trecento volte superiore alla flebile energia che scorre in genere attraverso il sistema nervoso centrale. I ricercatori ipotizzavano che l'energia fosse legata alla capacità di viaggiare in altri mondi. "Questo non dimostra ancora niente" pensò Richardson. "L'energia investe il cervello e questa gente pensa di aver visto gli angeli." Voltò pagina leggendo in fretta il resoconto successivo. In quell'esperi-
mento, gli scienziati cinesi avevano introdotto ogni Viaggiatore in un contenitore di plastica - una specie di bara - con delle speciali apparecchiature per monitorare l'attività energetica. Ogni volta che un Viaggiatore entrava in trance, un'intensa scarica di energia veniva liberata dal corpo. La Luce faceva scattare gli apparecchi di controllo, passava attraverso il contenitore di plastica e fuggiva libera. Richardson lesse attentamente le note a pie di pagina, nel vano tentativo di scoprire i nomi degli scienziati e dei Viaggiatori coinvolti negli esperimenti riportati. Al termine di ciascun rapporto compariva una frase stringata, come una sorta di commento casuale alla fine di una lunga conversazione. "Soggetto tornato in custodia cautelare." "Soggetto non più collaborativo." "Soggetto deceduto." Il dottor Richardson stava sudando. Nella stanza si era creato un caldo opprimente. Forse l'aria condizionata era spenta. "Apri la finestra" gli venne da pensare. "Respira un po' di aria fresca." Ma quando aprì i pesanti tendaggi della camera scoprì un muro bianco. Nella suite non c'erano finestre e la porta era chiusa da una serratura automatica. 11 All'estremità sud di Brick Lane c'era un negozio bengalese di articoli per matrimoni. Se si entrava e si oltrepassavano i satiri dorati e le decorazioni in nuance rosa, si accedeva a un piccolo retrobottega in cui ci si poteva collegare a Internet senza essere localizzati dalle autorità. Maya inviò dei messaggi in codice a Linden e a Mother Blessing. Utilizzando la carta di credito della titolare del negozio richiese on-line la pubblicazione di due necrologi: uno su "Le Monde", l'altro "sull'Irish Times". Si è spento a Praga, in seguito a un malore improvviso, H. Lee Quinn, fondatore della Thorn Security Ltd. Ne dà il triste annuncio la figlia Maya. Al posto dei fiori, è gradito un contributo al Traveler's Fund. Più tardi, quello stesso pomeriggio, Maya ricevette una risposta su una "lavagna" da Arlecchini: un muro nero nei pressi della stazione di Holborn sul quale si poteva scrivere un messaggio facendolo sembrare un graffito. Qualcuno aveva tracciato sul muro, con un gesso arancione, un liuto da Arlecchino, una serie di numeri e le parole: CINQUE/SEI/BUSH/GREEN. Era un messaggio facile da decifrare. I numeri indicavano l'ora e la data. Il
luogo dell'appuntamento era il civico 56 di Shepherd's Bush Green. Maya infilò una pistola automatica nella tasca dell'impermeabile e si mise a tracolla la custodia della spada. Il numero 56 di Shepherd's Bush Green risultò essere un piccolo cinema d'essai in un vicolo secondario nei paraggi dell'Empire Theatre. Quel pomeriggio al cinema erano in programmazione un film cinese di kung fu e un documentario di viaggio intitolato Provenza: terra incantata. Maya comprò un biglietto da una sonnacchiosa ragazza seduta alla biglietteria. Qualcuno degli Arlecchini aveva scarabocchiato tre rombi intrecciati sul muro presso l'entrata della sala due, perciò Maya entrò trovandovi soltanto un ubriaco che dormiva in terza fila. Quando le luci si attenuarono adagio e il film ebbe inizio, l'uomo lasciò cadere la testa in avanti, cominciando a russare sonoramente. Il documentario non aveva nulla a che vedere con la Francia rurale. Era un montaggio di immagini di telegiornali e vecchie fotografie scaricate da Internet, che scorreva accompagnato dalla registrazione gracchiante della cantante jazz Josephine Baker che cantava J'ai deux amours. Qualsiasi cittadino che fosse entrato nella sala cinematografica in quel momento avrebbe pensato che il film era un incomprensibile guazzabuglio visivo, un assemblaggio di immagini di pena, oppressione e terrore. Maya invece si rese immediatamente conto che il documentario riassumeva la visione del mondo degli Arlecchini. La storia convenzionale raccontata nei testi scolastici era un'illusione. I Viaggiatori erano l'unica vera forza capace di portare un cambiamento, ma la Tabula intendeva sterminarli. Per migliaia di anni le stragi e gli assassinii mirati erano stati ordinati da sovrani e capi religiosi. Un Viaggiatore faceva la sua comparsa in una società tradizionale e diffondeva una nuova visione che rappresentava una sfida per il potere costituito. Si guadagnava un seguito e poi veniva eliminato senza pietà. Gradualmente, i regnanti avevano iniziato a adottare una "strategia da re Erode". Se i Viaggiatori risultavano più frequenti in certi gruppi etnici o religiosi, le autorità massacravano l'intero gruppo. Verso la fine del Rinascimento, una piccola cerchia di uomini che si definivano i "Confratelli" cominciarono a organizzare queste stragi. Grazie al loro denaro e alle loro conoscenze influenti, erano in grado di uccidere gli Arlecchini o di localizzare i Viaggiatori fuggiti in altri Paesi. I Confratelli si ponevano al servizio di re e imperatori, ma si consideravano al di sopra
del potere politico. Ciò a cui attribuivano maggior valore erano la stabilità e l'obbedienza: una società ordinata nella quale ognuno conosceva il suo posto. Nel XVIII secolo il filosofo inglese Jeremy Bentham aveva elaborato il panopticon, o panottico: un penitenziario modello in cui un solo osservatore era in grado di sorvegliare centinaia di prigionieri restando invisibile e anonimo. I Confratelli avevano utilizzato i progetti originali del panopticon quale base teorica per le loro idee. Credevano che, se i Viaggiatori fossero stati tutti sterminati, sarebbe stato possibile tenere sotto controllo il mondo intero. Sebbene la Tabula avesse ricchezze e potere, gli Arlecchini avevano difeso con successo i Viaggiatori per secoli e secoli. L'introduzione dei computer e la crescita dell'Immensa Macchina avevano cambiato ogni cosa. La Tabula finalmente disponeva dei mezzi per rintracciare, localizzare ed eliminare i suoi nemici. Alla fine della Seconda guerra mondiale sull'intero pianeta erano rimaste approssimativamente due dozzine di Viaggiatori noti. Ora non ne restava più nessuno e gli Arlecchini erano ormai ridotti a un pugno di combattenti. I Confratelli continuavano a restare nascosti nell'ombra, ma avevano guadagnato abbastanza fiducia da fondare un'organizzazione scientifica denominata Evergreen Foundation. Qualsiasi giornalista o storico che cominciasse a indagare sulle leggende degli Arlecchini e dei Viaggiatori veniva ammonito o licenziato. I siti web Internet sui Viaggiatori venivano infettati con virus informatici che sfuggivano a ogni controllo, minando il resto del sistema. Gli hacker e gli esperti informatici della Tabula attaccavano segretamente i siti web in attività, per poi inserire nella rete falsi siti che mettevano in relazione le teorie sui Viaggiatori con i misteriosi cerchi nei campi di frumento, gli Ufo e il Libro dell'Apocalisse. I cittadini sentivano voci sul conflitto segreto ancora in corso, ma nessuno poteva sapere se erano vere o meno. Josephine Baker continuava a cantare. L'ubriaco continuava a russare. Sullo schermo, le stragi proseguivano ininterrotte. I Viaggiatori erano stati in larga misura sterminati e gli Arlecchini non erano più in condizione di difenderli. Maya guardò servizi televisivi in cui comparivano alti funzionari di diversi governi: erano tutti uomini anziani dagli occhi spenti e dai sorrisi tronfi che comandavano eserciti di soldati e poliziotti. Erano i Confratelli o i loro sostenitori. "Siamo perduti" pensò Maya. "Perduti per sempre."
A metà del film-documentario, un uomo e una donna entrarono nella sala cinematografica e si sedettero in prima fila. Maya estrasse dalla tasca dell'impermeabile la pistola automatica e disinserì con il pollice la sicura. Era già pronta a difendersi quando l'uomo aprì la cerniera dei pantaloni e la prostituta si chinò sopra al bracciolo della poltrona, cominciando il servizietto. Josephine Baker e le immagini dello sterminio sistematico dei Viaggiatori non avevano avuto alcun effetto sull'ubriacone addormentato, ma a un tratto l'uomo si svegliò e notò gli intrusi. «Dovreste vergognarvi!» disse loro farfugliando. «Ci sono altri posti per queste cose!» «Vaffanculo» replicò la donna. Ne venne fuori uno scambio di insulti che si concluse con l'uscita anticipata della coppia, seguita dall'ubriacone che continuava a urlare. Maya rimase sola nella saletta cinematografica. Il film si concluse sul fermo-immagine della figura del presidente francese che stringeva la mano al segretario di Stato americano. Quando la porta della cabina di proiezione si aprì scricchiolando, Maya si alzò in piedi, puntò la pistola automatica e si tenne pronta ad aprire il fuoco. Un uomo corpulento con il cranio rasato uscì dalla cabina di proiezione e scese una scaletta. Come Maya, portava in spalla una spada da Arlecchino custodita in un tubo di metallo. «Non sparare» disse Linden. «Mi rovineresti la giornata.» Maya abbassò l'arma da fuoco. «Quegli spettatori lavoravano per te?» «No. Erano dei cittadini. Pensavo che non se ne sarebbero più andati. Ti è piaciuto il film, Maya? L'ho montato l'anno scorso, a Madrid.» Linden percorse il corridoio centrale e abbracciò affettuosamente Maya. Aveva braccia e spalle muscolose, e per qualche secondo Maya si sentì al sicuro, protetta dalla mole e dalla forza dell'amico. «Mi dispiace tanto per tuo padre» disse Linden. «Era un grand'uomo. La persona più coraggiosa che io abbia mai conosciuto.» «Mio padre mi ha detto che hai un informatore al servizio della Tabula.» «È esatto.» Si sedettero l'uno accanto all'altra e Maya gli posò una mano sull'avambraccio. «Voglio che tu scopra chi ha ucciso mio padre.» «L'ho già chiesto al mio informatore» ribatté Linden. «È probabile che sia stato un americano di nome Nathan Boone.» «Come posso trovarlo?» «Uccidere Boone non è il nostro principale obiettivo. Tuo padre mi ha chiamato tre giorni prima del tuo arrivo a Praga. Voleva che tu andassi
negli Stati Uniti ad aiutare Shepherd.» «Mi aveva chiesto di farlo. Ho rifiutato.» Linden annuì. «Ora te lo chiedo di nuovo. Ti comprerò il biglietto aereo. Puoi partire stasera stessa.» «Voglio trovare l'assassino di mio padre. Lo ucciderò e poi sparirò nel nulla.» «Molti anni fa tuo padre aveva scoperto un Viaggiatore che si chiamava Matthew Corrigan e viveva negli Stati Uniti con la moglie e due figli. Quando fu chiaro che erano in pericolo di vita, Thorn consegnò a Corrigan una valigia piena di contanti e una spada appartenuta a suo tempo a Sparrow. Tuo padre aveva ricevuto in dono la spada quando aveva aiutato la fidanzata di Sparrow a lasciare clandestinamente il Giappone.» Maya restò impressionata dal regalo di suo padre. La spada di un famoso Arlecchino come Sparrow era un oggetto prezioso. Ma suo padre aveva preso la decisione giusta. Soltanto un Viaggiatore era in grado di utilizzare tutto il potere di un talismano. «Mio padre mi ha detto che i Corrigan erano entrati in clandestinità.» «Sì. Ma la Tabula li aveva localizzati e raggiunti nel South Dakota. Ci dissero che i mercenari avevano sterminato l'intera famiglia, ma a quanto pare la madre e i due figli riuscirono a fuggire. Sono stati dati per dispersi per anni finché uno dei due fratelli, Michael Corrigan, non ha rivelato il suo vero nome all'Immensa Macchina.» «I due Corrigan sanno di avere il potere?» «Penso di no. La Tabula vuole catturare i due fratelli e trasformarli in Viaggiatori.» «Non è possibile. La Tabula ha sempre cercato di sterminare tutti i Viaggiatori.» Linden si alzò quasi di scatto, sovrastando Maya. «I nostri nemici hanno perfezionato un apparecchio denominato "computer ai quanti". Grazie a questo computer hanno fatto una scoperta importante, ma il nostro informatore non riesce a sapere quale. Qualsiasi cosa la Tabula abbia scoperto, ha provocato un cambio di strategia. Anziché uccidere i Viaggiatori, vogliono usare il loro potere.» «Shepherd dovrebbe intervenire.» «Shepherd non è mai stato un buon combattente, Maya. Ogni volta che lo vedo, non fa altro che parlarmi di qualche nuovo sistema per fare soldi in fretta. Avevo pensato di imbarcarmi io stesso sul primo aereo per gli Stati Uniti, ma la Tabula sa fin troppe cose sul mio conto. Nessuno riesce a
trovare Mother Blessing. Ha chiuso tutti i canali di comunicazione. Siamo ancora in contatto sporadico con pochi mercenari affidabili, ma non sono in grado di risolvere questo tipo di problema. Qualcuno deve assolutamente trovare i fratelli Corrigan prima che vengano catturati.» Maya si alzò a sua volta avvicinandosi allo schermo del cinema. «A Praga ho ucciso una persona che mi pedinava, ma è stato solo l'inizio di un incubo. Quando sono tornata a casa di mio padre, l'ho trovato steso sul pavimento della camera da letto. Sono stata a malapena in grado di riconoscerlo... solo per via di quelle sue vecchie cicatrici da coltello sul dorso delle mani... Sembrava che un animale lo avesse sbranato.» «Un team di ricerca della Tabula sta creando animali geneticamente modificati. Gli scienziati li chiamano "congiunti" perché li creano tagliando catene diverse di DNA e poi le ricongiungono. Forse hanno usato uno di questi animali contro tuo padre.» Le enormi mani di Linden si chiusero a pugno, come se fosse di fronte ai suoi nemici. «La Tabula ha cominciato a usare questo potere senza pensare alle conseguenze. L'unico modo in cui possiamo batterli è trovare Michael e Gabriel Corrigan.» «Non me ne importa niente dei Viaggiatori. Ricordo ancora che mio padre mi diceva che alla maggior parte di loro non piacciamo nemmeno. Loro volano verso altri regni, mentre noi siamo imprigionati in questo mondo... in eterno.» «Sei la figlia di Thorn, Maya. Come puoi rifiutare le sue ultime volontà?» «No» ribatté Maya. «No.» Ma la sua voce la tradì. 12 Lawrence Takawa era seduto alla sua scrivania e osservava il dottor Richardson sul monitor del computer. Nella suite degli ospiti erano nascoste quattro telecamere di sorveglianza. Avevano ripreso e fotografato Richardson nelle ultime dodici ore, mentre lo scienziato leggeva il volume sui Viaggiatori, dormiva e si faceva la doccia. Un uomo del servizio di sicurezza era appena entrato nell'appartamento per ritirare il vassoio con i resti della colazione. Lawrence mosse il cursore con il mouse spostandolo sulla parte superiore dello schermo. Cliccò su una casellina contrassegnata con un "+" e la telecamera due zoomò sul volto del neurologo, ingrandendolo in primo piano. «A che ora è l'incontro con lo staff della fondazione?» domandò Richar-
dson. L'agente del servizio di sicurezza era un uomo massiccio dell'Ecuador di nome Immanuel. Indossava un blazer blu, pantaloni grigi e cravatta rossa. «Non so, signore.» «Sarà stamattina?» «Nessuno mi ha detto niente.» Con il vassoio in una mano, Immanuel aprì la porta che dava accesso al corridoio esterno. «Non chiuda la porta a chiave» disse Richardson. «Non è necessario.» «Non la chiudiamo dentro, signore. La chiudiamo fuori. Non ha l'autorizzazione necessaria per muoversi liberamente in questo edificio.» Quando la serratura automatica della porta scattò, Richardson imprecò ad alta voce. Si alzò di scatto dalla sedia come se avesse l'intenzione di fare qualcosa di decisivo, poi cominciò a passeggiare avanti e indietro nella stanza. Dal suo viso si capiva facilmente che cosa stesse pensando. Oscillava tra due emozioni: collera e paura. Lawrence Takawa aveva imparato a dissimulare le proprie emozioni quando era uno studente del secondo anno alla Duke University. Benché fosse nato in Giappone, sua madre lo aveva portato con sé in America quando aveva solo sei mesi. Lawrence odiava il sushi e si era sempre rifiutato di imparare il giapponese. Poi una troupe itinerante di teatro Noh era stata ospite del suo ateneo e Lawrence aveva assistito a un'intera giornata di rappresentazioni teatrali che gli avevano cambiato la vita. Sulle prime, il teatro Noh sembrava esotico e difficile da comprendere. Lawrence era rimasto affascinato dalle movenze stilizzate degli attori sul palcoscenico, con uomini travestiti che recitavano anche le parti femminili, e i suoni fatati del flauto nohkan e di tre tamburi. Ma la vera rivelazione erano state le maschere Noh. I protagonisti, così come i personaggi femminili e quelli anziani, indossavano tutti maschere dai colori vivaci, scolpite nel legno. Mostri, fantasmi, demoni e pazzi avevano maschere che esprimevano un'emozione forte, ma la maggior parte degli attori indossava una maschera dall'espressione deliberatamente neutrale. Perfino gli uomini di mezz'età che recitavano a viso scoperto si sforzavano di restare perennemente impassibili. Ogni gesto sul palcoscenico, ogni battuta e reazione erano una scelta consapevole. Lawrence era appena entrato a far parte di una confraternita le cui principali attività erano feste piene di alcol ed elaborati, mortificanti rituali.
Ogni volta che guardava la propria immagine riflessa, Lawrence vedeva solo insicurezza e confusione: qualcuno che non si sarebbe mai integrato. Una maschera vivente aveva risolto il problema. Davanti allo specchio del bagno, si era esercitato per ore a rivestirsi di "maschere" di felicità, di ammirazione ed entusiasmo. Durante l'ultimo anno al college era stato eletto presidente della confraternita e i suoi professori avevano scritto per lui lettere di raccomandazione molto lusinghiere per il dottorato. Il telefono sulla scrivania fece uno squillo discreto e Lawrence distolse lo sguardo dal computer. «Come sta reagendo il nostro nuovo ospite?» domandò Boone. «Sembra agitato. E anche spaventato.» «Non c'è nulla di male» sentenziò Boone. «Il generale Nash è arrivato da pochi minuti. Vada a prelevare Richardson e lo accompagni nella Sala della Verità.» Lawrence scese con l'ascensore al terzo piano. Come Boone, aveva un Link Protettivo innestato sottopelle. Passò la mano davanti al sensore della porta facendo scattare la porta elettronica, ed entrò nella suite per gli ospiti. Il dottor Richardson si comportò come se avesse appena sorpreso Lawrence a copiare di nascosto durante un esame. «È un oltraggio» disse in tono offeso. «Mr Boone diceva che avrei avuto un incontro con il vostro staff. Invece, sono stato tenuto rinchiuso qui come... come un galeotto.» «Mi scuso per il ritardo» disse Lawrence. «Il generale Nash è appena arrivato ed è ansioso di parlarle.» Richardson parve sorpreso. «Vuole dire Kennard Nash? Il vostro direttore generale?» «Esatto. Sono certo che l'ha visto in televisione.» «È da parecchi anni che non compare più in televisione» ribatté Richardson. «Ma ricordo quando faceva parte dello staff presidenziale come consigliere per la Sicurezza.» «Il generale è sempre stato un integerrimo servitore dello Stato» dichiarò Takawa. «Perciò per lui è stato un passaggio naturale entrare a far parte della Evergreen Foundation.» Lawrence mise una mano nella tasca della giacca del suo completo ed estrasse un metal-detector tascabile, simile a quelli usati dal personale di sicurezza degli aeroporti. «Per motivi di sicurezza, gradiremmo che lasciasse in camera qualsiasi oggetto di metallo. Compreso l'orologio, eventuali spiccioli e la cintura.»
Se Lawrence gli avesse dato apertamente un ordine, Richardson avrebbe anche potuto rifiutarsi di obbedire. Invece, fu costretto a prendere in considerazione l'ipotesi che togliersi l'orologio fosse una procedura standard negli incontri con personaggi importanti. Ebbe un attimo di esitazione, e poi lasciò i suoi effetti personali sul tavolo. Dopo aver perquisito con il metal-detector il dottore, Lawrence lo accompagnò lungo il corridoio fino all'ascensore. «Stanotte ha letto tutto il materiale fornitole?» «Sì.» «Spero che l'abbia trovato interessante.» «È incredibile. Perché questi studi non sono stati pubblicati? Non avevo mai letto niente riguardo ai Viaggiatori o al MEN.» «In questa fase la Evergreen Foundation desidera mantenere il più stretto riserbo su queste informazioni.» «Non è così che opera la scienza, Mr Takawa. Le scoperte più importanti avvengono perché gli scienziati di tutto il mondo possono accedere liberamente agli stessi dati.» Scesero con l'ascensore al piano interrato e percorsero un lungo corridoio fino a una porta bianca senza maniglia o pomello. Lawrence passò la mano davanti al sensore sulla parete e invitò il dottor Richardson a precederlo in una stanza priva di finestre. Il locale era quasi del tutto disadorno, tranne per un tavolo e due sedie di legno. «Questa è una speciale sala di sicurezza» spiegò Lawrence. «Qualsiasi cosa si dica qui dentro è strettamente confidenziale.» «Allora, dov'è il generale Nash?» «Non si preoccupi. Sarà qui da un momento all'altro.» Lawrence passò di nuovo la mano destra davanti al sensore e la porta si richiuse, imprigionando Richardson nella Sala della Verità. Negli ultimi sei anni la Evergreen Foundation aveva finanziato un progetto di ricerca segreto per l'ideazione di una tecnologia che analizzasse la veridicità delle affermazioni di un soggetto. L'esame non avveniva per mezzo di un analizzatore vocale o di un poligrafo che registrava la regolarità del respiro e la pressione sanguigna. La paura poteva alterare i risultati dei test e un buon attore era perfettamente in grado di controllarsi, ingannando le macchine. Ignorando gli effetti fisici esteriori, i ricercatori della Evergeen Foundation analizzavano direttamente il cervello ricorrendo alla risonanza magne-
tica. La Sala della Verità non era nient'altro che una grande camera di tomografia in cui una persona poteva parlare, mangiare e muoversi. Non era necessario informare l'uomo o la donna che venivano interrogati nella saletta, il che favoriva una gamma molto più ampia di reazioni. Osservando su un monitor il cervello di una persona mentre questa rispondeva a delle domande si aveva la possibilità di osservare come reagivano i diversi settori del cervello. I ricercatori della fondazione avevano scoperto che per il cervello era più facile dire la verità. Quando un soggetto mentiva, la sua corteccia prefrontale sinistra e la circonvoluzione cingolata anteriore si illuminavano come macchie di lava incandescente. Lawrence proseguì lungo il corridoio fino a un'altra porta anonima. Una serratura automatica scattò ed egli entrò in una saletta in penombra. Quattro monitor televisivi erano installati su un muro, di fronte a un banco di computer e un lungo piano di lavoro in gran parte occupato dalla consolle di comando. Un uomo grassoccio e barbuto era seduto al piano di lavoro e stava digitando istruzioni su una tastiera da computer. Gregory Vincent aveva personalmente costruito e installato le attrezzature. «Gli hai fatto togliere tutti gli oggetti metallici?» domandò Vincent. «Sì.» «Perché non sei entrato nella saletta? Temevi di poter dire qualcosa mentre stavo osservando?» Lawrence sospinse una poltroncina a rotelle verso la consolle di comando e si accomodò. «Stavo solo seguendo le istruzioni.» «Già. Certo.» Vincent si grattò la pancia. «Nessuno vuole mai entrare nella Sala della Verità.» Alzando lo sguardo verso i monitor sulla parete, Lawrence vide che il corpo di Richardson era diventato un'immagine informe composta da diverse aree luminose. La luce cambiava colore e intensità mentre Richardson respirava, deglutiva e pensava al guaio in cui si trovava. In pratica era un uomo digitale che poteva essere trasformato in dati e analizzato dai computer alle spalle di Vincent e Lawrence. «Mi sembra un buon soggetto» disse Vincent. «Credo che non ci saranno problemi.» Il ricercatore alzò gli occhi al piccolo monitor del sistema di sicurezza sospeso al soffitto. Un tipo calvo stava risalendo il corridoio. «Un tempismo perfetto. Ecco che arriva il generale.» Lawrence si calò nella maschera adatta. Sollecito. Concentrato. Fissò attentamente i monitor mentre Kennard Nash entrava nella Sala della Verità.
Il generale aveva passato la sessantina, aveva il naso smussato e una rigida postura militare. Lawrence ammirava il modo in cui Nash nascondeva la sua brutale durezza sotto lo stile affabile di un allenatore sportivo di successo. Richardson si alzò dalla sedia e Nash gli strinse vigorosamente la mano. «Dottor Richardson! Che piacere conoscerla. Sono Kennard Nash, il direttore generale della Evergreen Foundation.» «È un onore conoscerla, generale Nash. Ricordo di quando lavorava al governo.» «Sì. Fu una vera sfida, ma per me era arrivato il momento di occuparmi d'altro. È stato entusiasmante entrare nella Evergreen.» I due uomini si sedettero al tavolo. Nella sala di controllo, Vincent digitò sulla tastiera alcuni comandi. Diverse immagini del cervello di Richardson comparvero sui monitor. «Mi hanno informato che ha letto quello che in gergo chiamiamo il "Libro Verde". È un riassunto di tutto ciò che sappiamo dei Viaggiatori.» «Sono informazioni incredibili» ribatté Richardson. «È tutto vero?» «Sì. Certe persone hanno la capacità di proiettare la loro energia neurale fuori dal corpo. È un'anomalia genetica che può essere trasmessa dai genitori ai figli.» «E dove va l'energia?» Il generale Nash disgiunse le mani e le nascose sotto il tavolo. Fissò Richardson per alcuni secondi, esaminando il suo volto. «Come indicano i nostri rapporti, vanno in un'altra dimensione e poi ritornano.» «Non è possibile.» Il generale parve divertito. «Oh, da anni siamo a conoscenza dell'esistenza di altre dimensioni. È uno dei fondamenti della moderna teoria dei quanti. Abbiamo sempre avuto la prova matematica, ma non i mezzi per compiere il viaggio extracorporeo. È stato sorprendente scoprire che i cosiddetti Viaggiatori lo fanno da secoli.» «Dovreste indire una conferenza stampa e rendere pubblici i dati sperimentali che avete raccolto. Gli scienziati di tutto il mondo comincerebbero gli esperimenti per verificare le vostre scoperte.» «È esattamente quello che vogliamo evitare. Il nostro Paese è sotto l'attacco di terroristi e sovversivi. La fondazione e i suoi alleati e amici in tutto il mondo temono che certe organizzazioni terroristiche possano usare il potere dei Viaggiatori per distruggere il nostro sistema economico. I Viaggiatori hanno la tendenza a rifiutare la società.»
«Vi occorrono maggiori informazioni su queste persone.» «Ecco perché qui al centro stiamo sviluppando un nuovo progetto di ricerca. Al momento stiamo approntando le attrezzature necessarie e cerchiamo un Viaggiatore collaborativo. Forse ne avremo presto due: due fratelli. Ci occorre un neurologo con la sua esperienza per impiantare chirurgicamente dei sensori nel loro cervello. Poi potremo usare il nostro computer ai quanti per seguire la loro energia extracorporea.» «Nelle altre dimensioni?» «Sì. Dobbiamo scoprire come andarci e come tornare. Il computer ai quanti ci consentirà di seguire tutto quello che avviene. Non c'è bisogno che lei sappia come funziona questo computer, dottore. Deve solo impiantare i sensori, lasciando che i Viaggiatori facciano la loro parte.» Il generale Nash alzò le mani come se stesse invocando una divinità. «Stiamo per effettuare una grande scoperta scientifica che rivoluzionerà la nostra civiltà. Non c'è bisogno che le dica quanto ciò sia entusiasmante, dottor Richardson. Sarei onorato se volesse unirsi alla nostra equipe.» «E tutto sarebbe segreto?» «A breve termine. Per ragioni di sicurezza, si trasferirebbe temporaneamente al centro di ricerca e lavorerebbe con il nostro staff. In caso di successo le sarebbe concesso di pubblicare i risultati della sua ricerca. Verificare l'esistenza di altri mondi significherebbe ricevere automaticamente un premio Nobel, ma capisce benissimo che c'è in gioco molto di più. Sarebbe una scoperta rivoluzionaria, al livello delle teorie di Albert Einstein.» «E se invece fallissimo?» domandò Richardson. «I nostri sistemi di sicurezza la proteggerebbero dalle critiche dei media. Se l'esperimento non avrà successo, non sarà necessario che qualcuno ne sappia qualcosa. I Viaggiatori potranno tornare a essere delle semplici leggende popolari senza alcun fondamento scientifico.» Il cervello di Richardson rivelò una colorazione rosso vivo quando il dottore analizzò mentalmente le varie possibilità. «Credo che mi sentirei più a mio agio lavorando a Yale.» «So come vanno le cose nella maggior parte dei laboratori universitari del Paese» dichiarò Nash. «Si è costretti a sottostare a comitati di revisione e a iter burocratici senza fine. Nel nostro centro di ricerca non esiste alcuna burocrazia. Se desidera una nuova attrezzatura scientifica, le sarà consegnata in laboratorio entro quarantotto ore dalla richiesta. Non si preoccupi dei costi. Copriamo le spese per tutto. Inoltre ci farebbe piacere assegnarle un significativo onorario per il suo personale contributo.»
«All'Università di Yale devo compilare ben tre moduli di richiesta per ricevere una scatola di provette.» «Questo genere di sciocchezze sono uno spreco della sua intelligenza e della sua creatività. Noi vogliamo fornirle tutto ciò che le serve per compiere una scoperta importante.» Il corpo del dottor Richardson si rilassò. Il suo lobo frontale rivelava delle piccole macchie rosa di attività cerebrale. «È tutto molto allettante...» «Purtroppo abbiamo una certa urgenza, dottore. Temo di doverle chiedere una decisione immediata. Se non è convinto, ci metteremo in contatto con altri neurologi. Credo che nel nostro elenco ci sia un suo collega, Mark Beecher.» «Beecher non ha l'esperienza clinica sufficiente» si affrettò a ribattere Richardson. «Chi altri avete in mente?» «David Shapiro, dell'Università di Harvard. A quanto ci risulta, ha svolto importanti esperimenti sulla corteccia cerebrale.» «Sì, ma solo usando cavie animali.» Richardson cercava di dare l'impressione di essere riluttante, ma il suo cervello era in piena attività. «Suppongo di essere la persona giusta per questo progetto.» «Fantastico! Sapevo che potevamo contare su di lei. Torni pure a New Haven e faccia i preparativi per lasciare l'ateneo per qualche mese. Presto scoprirà che la Evergreen Foundation ha molti contatti ad alto livello all'università, il tempo non sarà un problema. Lawrence Takawa sarà il suo riferimento principale.» Il generale Nash si alzò dalla sedia e strinse la mano a Richardson. «Cambieremo il mondo per sempre, dottore. E lei farà parte della squadra.» Lawrence osservò il corpo luminescente del generale Nash uscire dalla saletta. Uno dei monitor continuò a mostrare il dottor Richardson che si agitava nervosamente sulla sedia. Gli altri schermi trasmettevano le registrazioni digitali di diversi segmenti della conversazione appena conclusa. Un grafico di linee verdi si sovrapponeva al cranio del neurologo, analizzando le sue reazioni durante l'incontro con il generale. «Secondo i rilevamenti, Richardson non ha mai mentito» concluse Vincent. «Bene. È quello che mi aspettavo.» «L'unica menzogna viene dal generale Nash. Dai un'occhiata...» Vincent digitò un comando sulla tastiera del suo computer e uno dei monitor trasmise il tracciato digitale dell'attività cerebrale di Kennard Nash. Un primo
piano della corteccia cerebrale dimostrava che il generale stava nascondendo qualcosa nel corso della maggior parte della conversazione. «Per motivi tecnici rilevo sempre le immagini di tutte le persone presenti nella Sala della Verità» spiegò Vincent. «Per verificare il funzionamento dei sensori.» «È una procedura non autorizzata. Per favore cancella dal sistema informatico tutte le immagini del generale Nash.» «Naturalmente. Nessun problema.» Vincent digitò sulla tastiera un nuovo comando e il cervello di Nash scomparve dallo schermo. Un agente del servizio di sicurezza scortò il dottor Richardson fuori dall'edificio. Cinque minuti dopo, il neurologo era seduto sul sedile posteriore di una limousine che lo stava riportando a New Haven. Lawrence tornò nel suo ufficio e inviò una e-mail a un membro dei Confratelli che aveva conoscenze influenti alla facoltà di Medicina di Yale. Poi aprì un file su Richardson e inserì tutte le informazioni personali relative al dottore. I Confratelli classificavano tutti i loro dipendenti in una scala di dieci livelli di sicurezza. Kennard Nash era un Primo livello ed era al corrente di qualsiasi operazione. Al dottor Richardson era stata assegnata un'autorizzazione da Quinto livello; era a conoscenza dell'esistenza dei Viaggiatori, ma non avrebbe mai saputo dell'esistenza degli Arlecchini. Lawrence era un dipendente fidato di Terzo livello; era in condizione di accedere liberamente a una mole notevole di informazioni segrete, ma non conosceva le grandi strategie dei Confratelli. Le telecamere di sorveglianza seguirono Lawrence quando lasciò il suo ufficio, percorse il corridoio e scese con l'ascensore nel vasto parcheggio sotterraneo. Quando uscì in macchina dai cancelli del complesso, un satellite cominciò a seguire i suoi movimenti, comunicandoli a un computer della Evergreen Foundation. Nel periodo trascorso alla Casa Bianca il generale Nash aveva proposto che ogni cittadino americano indossasse o portasse con sé un Link Protettivo o un "LP". Il programma di governo "Libertà dalla paura" aveva posto enfasi sia sulla sicurezza nazionale sia sugli aspetti pratici del programma. Codificato in un certo modo, il chip LP poteva essere una carta di credito o di pagamento universale. Permetteva di accedere a qualsiasi informazione sanitaria personale in caso di incidente. Se tutti i fedeli cittadini americani osservanti della legge avessero indossato o portato con sé un chip LP, la
criminalità nelle strade sarebbe potuta sparire nel giro di pochi anni. In una pubblicità per la carta stampata, due giovani genitori che portavano su di loro degli LP rimboccavano le coperte alla figlioletta addormentata il cui LP era nascosto in un orsacchiotto. Lo slogan pubblicitario era semplice ma efficace: COMBATTIAMO IL TERRORISMO MENTRE DORMITE. Chip di identificazione a frequenza radio erano già stati inseriti sottopelle a migliaia di americani: in larga misura anziani o persone con gravi problemi di salute. Identici tesserini magnetici di identificazione controllavano impiegati e operai che lavoravano per grandi società. Molti cittadini americani sembravano accettare di buon grado una tecnologia che li avrebbe protetti da pericoli ignoti e avrebbe reso più rapide le code al supermarket. Ma il Link Protettivo era stato aspramente contestato da un'alleanza trasversale di associazioni radicali e di organizzazioni per le libertà civili, tutti gruppi di sinistra, e da alcuni gruppi libertari di destra. Dopo aver perso il sostegno della Casa Bianca, il generale Nash era stato costretto a dare le dimissioni. Quando aveva assunto la direzione della Evergreen Foundation, Nash aveva organizzato immediatamente un sistema di Link Protettivi. I dipendenti della fondazione potevano tenere il loro tesserino nel taschino della camicia o appeso al collo con una cordicella, ma tutti i dirigenti di livello superiore avevano il chip innestato sottopelle. La piccola cicatrice sul dorso della mano destra indicava la loro posizione di privilegio nella gerarchia della fondazione. Una volta al mese Lawrence doveva appoggiare la mano su di uno speciale carica-batterie a corrente. Mentre il chip si ricaricava, egli avvertiva una sensazione di calore e un leggero formicolio. Lawrence avrebbe voluto sapere fin dall'inizio come funzionava il Link Protettivo. Un satellite geostazionario localizzava e seguiva costantemente i movimenti di un determinato soggetto e gli elaboratori centrali stabilivano per ciascun dipendente una GDF, o "Griglia di Destinazioni Frequenti". Come la maggior parte della gente, Lawrence trascorreva il novanta per cento della sua vita nella stessa, identica griglia di destinazioni. Faceva la spesa in certi negozi, si allenava nella stessa palestra e viaggiava avanti e indietro tra la casa e l'ufficio. Se Lawrence avesse saputo dell'esistenza della Griglia, nel corso del suo primo mese avrebbe fatto qualche cosa di insolito. Ogni volta che deviava dalla sua Griglia di destinazioni frequenti, un elenco di domande compariva immediatamente sul monitor del suo computer. "Perché mercoledì alle 21 si trovava a Manhattan?" "Perché è andato a
Times Square?" "Perché è passato per la Quarantaduesima Strada per raggiungere la Grand Central Station?" Le domande erano generate automaticamente dal computer, ma si doveva rispondere a ognuna di esse. Takawa si domandava se le sue risposte finissero immediatamente in un file che nessuno leggeva o se fossero analizzate e valutate da un altro programma informatico. Lavorando per i Confratelli, non si poteva mai sapere quando si era sorvegliati e si era costretti a pensare che il controllo fosse continuo. Appena entrato in casa, si levò le scarpe senza abbassarsi, usando a turno i talloni, allentò il nodo della cravatta, sfilandosela completamente dalla testa, e buttò la ventiquattrore sul tavolino del soggiorno. Aveva acquistato tutto l'arredamento con l'aiuto di una decoratrice di interni assunta dalla Evergreen Foundation. La donna sosteneva che Lawrence fosse una "personalità Primavera", perciò tutti i mobili e le pareti della casa erano in colori coordinati, blu e verde pastello. Lawrence fece ciò che faceva ogni volta che poteva rimanere da solo: si mise a urlare. Poi andò davanti a uno specchio e sorrise, aggrottò le sopracciglia e strillò come se fosse impazzito. Dopo aver allentato la tensione, si fece una doccia e indossò una vestaglia. Un anno prima Lawrence si era costruito uno stanzino segreto nell'armadio a muro del suo studio di casa. Gli erano occorsi dei mesi per fornire lo stanzino di impianto elettrico e per nasconderlo perfettamente dietro uno scaffale-libreria. Era stato in quello stanzino tre giorni prima, ed era arrivato il momento di un'altra visita. Spinse indietro lo scaffale di qualche passo, si intrufolò nel varco e accese la luce. Su un piccolo altare buddhista aveva posto due foto dei suoi genitori scattate alle terme di Nagano, in Giappone. In una delle fotografie suo padre e sua madre si sorridevano felici tenendosi per mano. Nella seconda, suo padre era seduto da solo, con lo sguardo rivolto verso i monti lontani, con un'espressione triste dipinta sul volto. Sul tavolo che gli stava davanti c'erano due antiche spade da samurai giapponesi: una con una giada incastonata nell'impugnatura, l'altra con finiture d'oro. Aprì un bel cofanetto di ebano ed estrasse un telefono satellitare e un computer portatile. Un minuto dopo era collegato a Internet e stava navigando in rete. In pochi istanti trovò, in una chat room di trance Musik, l'Arlecchino francese di nome Linden. «Qui Figlio di Sparrow» digitò sulla tastiera. «Sei al sicuro?»
«Penso di sì.» «Novità?» «Abbiamo trovato un dottore che ha accettato di impiantare chirurgicamente dei sensori nel cervello del soggetto. La "cura" inizierà presto.» «Nessun'altra novità?» «Credo che l'equipe informatica abbia fatto un altro importante passo avanti. A pranzo, in mensa, sembravano molto contenti. Non ho ancora accesso alle loro ricerche.» «Hanno trovato i due elementi più importanti dell'esperimento?» Lawrence fissò un momento il monitor del computer portatile e poi digitò rapidamente sulla tastiera. «Li stanno ancora cercando. Resta poco tempo. Devi trovare i fratelli.» 13 L'ingresso principale dell'edificio nel quale si trova la fabbrica di abbigliamento di Mr Bubble era incorniciato tra due obelischi di pietra inseriti nel muro di mattoni rossi. La hall di ingresso al pianterreno era decorata con bassorilievi in gesso di figure tombali egizie mentre le pareti delle scale erano coperte di geroglifici. Gabriel si domandò se i geroglifici fossero opera di un professore di archeologia o se fossero stati copiati da un libro. Quando si aggirava di notte nel palazzo deserto, sfiorava i geroglifici, seguendone la forma con le dita. Ogni mattina nell'azienda arrivavano operai e impiegati. Il pianoterra era destinato alla distribuzione e al ricevimento merci ed era diretto da giovani latinoamericani che indossavano pantaloni oversize e magliette bianche aderenti. Le stoffe in arrivo venivano mandate con i montacarichi alle tagliatrici del terzo piano. In quel periodo stavano confezionando biancheria intima femminile per San Valentino e le operaie stendevano strati su strati di satin e rayon sui tavoli da lavoro, tagliando la stoffa con le forbici elettriche. Le cucitrici del secondo piano erano immigrate illegali provenienti dal Messico e dai Paesi dell'America Centrale. Mr Bubble le pagava trentadue centesimi di dollaro per ogni capo cucito. Lavoravano senza posa nella sala rumorosa e piena di polvere, ma sembravano sempre ridere o chiacchierare tra loro. Molte avevano attaccato alle macchine da cucire, con del nastro adesivo, delle immaginette di Maria Vergine, come se la Madonna vegliasse su di loro mentre cucivano bustini rossi con cuoricini dorati agganciati alla lampo.
Gabriel e Michael erano alloggiati al quarto piano, in un ripostiglio pieno di scatoloni vuoti e vecchi mobili per ufficio. Deek aveva comprato in un negozio di articoli sportivi un paio di sacchi a pelo e due brandine da campeggio. Nella ditta non c'erano docce, ma di notte i fratelli Corrigan scendevano al secondo piano e si lavavano con delle spugne nel bagno degli impiegati. Per colazione mangiavano ciambelle glassate e krapfen. All'ora di pranzo arrivava il furgone del servizio di catering e una guardia di sicurezza portava loro burritos alle uova o sandwich al tacchino. Due salvadoregni li sorvegliavano durante le ore lavorative del giorno. Dopo che gli operai se n'erano andati a casa, Deek arrivava in compagnia del latinoamericano calvo: un ex buttafuori che si chiamava Jesus Morales. Jesus trascorreva gran parte del suo tempo a leggere riviste di auto e ad ascoltare musica ranchero alla radio. Se Gabriel si annoiava e aveva voglia di scambiare due chiacchiere, scendeva di sotto a parlare con Deek. Il grosso samoano doveva il suo soprannome al fatto di essere diacono in una chiesa fondamentalista di Long Beach. «Ogni uomo è responsabile della propria anima» disse un giorno a Gabriel. «Se qualcuno finisce all'inferno, in paradiso resta più posto per i virtuosi.» «E se ci finissi tu all'inferno, Deek?» «Non succederà, fratello. Io andrò nel posto giusto.» «E se tu fossi costretto a uccidere qualcuno?» «Dipende da che persona è. Se si trattasse di un vero peccatore, allora renderei il mondo un posto migliore. La spazzatura finisce nella pattumiera. Mi capisci, fratello?» Gabriel aveva portato la sua Honda e alcuni libri su al quarto piano. Trascorreva il suo tempo a smontare per intero la motocicletta, pulire ogni pezzo, lubrificarlo e rimontare tutto. Quando era stanco di quel passatempo, leggeva vecchie riviste o la Storia di Genji. A Gabriel mancava moltissimo la sensazione di libertà che gli dava guidare la motocicletta o lanciarsi con il paracadute. Si sentiva in trappola e continuava a sognare incendi. Era dentro una vecchia casa a fissare una sedia a dondolo che bruciava avvolta da fiamme giallo intenso. "Fai un bel respiro profondo. Svegliati nel buio." Michael era disteso a pochi passi da lui, e russava, mentre fuori dalla ditta un camion della nettezza urbana svuotava un cassonetto. Durante il giorno, Michael passeggiava avanti e indietro al quarto piano
con il cellulare sempre all'orecchio. Stava tentando di concludere in un modo o nell'altro l'acquisto del palazzo per uffici di Wilshire Boulevard, ma non poteva spiegare alla banca la sua improvvisa sparizione. L'affare stava sfumando mentre Michael continuava a implorare altro tempo. «Lascia perdere» disse un giorno Gabriel. «Puoi trovarti un altro grattacielo.» «Potrebbero volerci degli anni.» «Potremmo sempre trasferirci in un'altra città. Cominciare una nuova vita.» «Pensavo che questa sarebbe stata la mia vita.» Michael si sedette su una cassa di legno da imballaggio e cercò di pulire con un fazzoletto un piccolo sbaffo di grasso sulla punta della scarpa. «Ho lavorato sodo, Gabe. E ora mi sembra che tutti i miei sforzi non siano serviti a niente.» «Siamo sempre sopravvissuti.» Michael scosse la testa. Aveva l'aria di un pugile che avesse appena perso l'incontro per il titolo mondiale. «Volevo solo proteggerti, Gabe. Mamma e papà non lo facevano. Cercavano solo di nascondersi. La protezione si compra con il denaro. È un muro fra te e il resto del mondo.» 14 L'aereo volava verso ovest, rincorrendo le tenebre sopra il territorio degli Stati Uniti. Quando gli steward accesero le luci, Maya sollevò la tendina di plastica e sbirciò fuori dal finestrino. Una linea di luce solare sull'orizzonte illuminava il deserto. L'aereo stava sorvolando il Nevada o l'Arizona, non lo sapeva con precisione. Il grappolo di piccole luci di una cittadina di provincia brillava sotto di lei. In lontananza, scorreva un fiume scuro. Maya declinò l'offerta della colazione e la coppa di champagne, ma accettò la focaccina calda, servita con fragole e panna rappresa. Ricordava ancora quando sua madre cuoceva nel forno focaccine simili per merenda. Era l'unico momento della giornata in cui Maya si sentiva una bambina come tutte le altre. Tè indiano con tanta panna e zucchero. Biscotti. Pudding di riso. Pasticcini. A un'ora dall'atterraggio, Maya percorse il corridoio centrale e andò alla toilette dell'aereo, chiudendosi a chiave. Aprì il passaporto con il quale viaggiava, lo appese con una striscia di nastro adesivo allo specchio del bagno e confrontò l'immagine della fotografia con il suo aspetto. Ora i suoi
occhi erano nocciola grazie a speciali lenti a contatto. Purtroppo, l'aereo era decollato da Heathrow con tre ore di ritardo e gli effetti delle sostanze che si era iniettata nel viso cominciavano ad attenuarsi. Apri la borsetta e tirò fuori la siringa e la fiala di steroidi in soluzione per farsi un ritocco. Gli steroidi erano mascherati da dosi di insulina e il kit conteneva una ricetta medica dove si dichiarava che Maya era diabetica. Osservandosi allo specchio, affondò adagio l'ago ipodermico nello zigomo e iniettò metà del contenuto della siringa. Quand'ebbe finito con gli steroidi, riempì d'acqua il lavandino, estrasse dalla borsetta una provetta e versò un cappuccio per le dita nell'acqua fredda. Il cappuccio di gelatina era bianco-grigiastro, sottile e fragile; assomigliava a un segmento di intestino animale. Maya pescò dalla borsetta una finta boccetta di profumo spray e si spruzzò dell'adesivo sulla punta dell'indice sinistro. Immerse il dito nell'acqua, infilandolo delicatamente nel cappuccio, e ritrasse la mano. La gelatina copriva il suo dito con una nuova impronta, che avrebbe ingannato il servizio di sicurezza aeroportuale. Prima dell'atterraggio, Maya avrebbe usato una limetta per grattar via la parte di gelatina che le ricopriva le unghie. Attese due minuti che il primo cappuccio protettivo seccasse e poi aprì una seconda provetta contenente il cappuccio digitale per l'indice destro. In quel momento l'aereo incappò in una zona di turbolenza e cominciò a sobbalzare nell'aria. Una luce rossa d'allarme si accese nella toilette: SIETE PREGATI DI TORNARE AL VOSTRO POSTO. "Concentrati" disse a se stessa. "Non puoi commettere errori." Quando finalmente infilò la punta del dito nel cappuccio di gelatina, l'aereo incontrò un vuoto d'aria abbassandosi bruscamente. Maya lacerò involontariamente il materiale. Cadde all'indietro contro la parete del bagno, con lo stomaco in subbuglio. Aveva con sé un solo cappuccio di scorta e, se non fosse andato bene, sarebbe stata probabilmente arrestata appena giunta sul suolo statunitense. La Tabula doveva essere entrata in possesso delle sue impronte digitali quando lavorava per lo studio di design a Londra. Per loro sarebbe stato facile introdurre informazioni false nel computer del servizio immigrazione statunitense, in modo che l'analizzatore di impronte facesse scattare l'allarme: "Persona sospetta. Provati contatti con terroristi. Arrestare immediatamente". Maya aprì il tappo della terza provetta e rovesciò la sua gelatina protetti-
va di scorta nell'acqua del lavandino. Di nuovo, spruzzò lo spray adesivo giallo sulla punta dell'indice destro. Inspirò a fondo e immerse il dito nell'acqua. «Mi scusi!» Uno steward bussò alla porta della toilette. «La prego di tornare immediatamente al suo posto!» «Un minuto soltanto.» «Il pilota ha acceso la spia delle cinture di sicurezza! Il regolamento impone che tutti i passeggeri tornino ai loro posti!» «Mi sento... mi sento male» disse Maya. «Mi dia solo un minuto. Non chiedo di più.» Il sudore le scorreva sulla nuca. Questa volta inspirò lentamente ma a fondo, riempiendosi d'aria i polmoni, poi infilò adagio la punta del dito nel cappuccio di gelatina e tolse la mano dall'acqua. Ancora umido, lo schermo di gelatina brillava sul dito. Un'assistente di volo, una donna più vecchia di lei, la fulminò con lo sguardo quando tornò al suo posto. «Non ha visto la luce d'avvertimento?» «Mi scusi tanto» rispose Maya a voce bassa. «Ma ho lo stomaco in disordine. Sono sicura che mi capisce.» L'aereo fu scosso da un'altra turbolenza mentre Maya allacciava la cintura e si preparava mentalmente per la battaglia. Quando un Arlecchino arrivava in un Paese straniero per la prima volta era accolto all'aeroporto da un contatto locale che gli consegnava in segreto armi da fuoco, denaro e documenti falsi di identità. Maya aveva portato con sé la sua spada, il coltello da lancio e lo stiletto nascosti nel treppiede da fotografo. Sia le armi sia il treppiede erano stati costruiti a mano a Barcellona da un esperto armaiolo catalano che sottoponeva ogni cosa a minuzioso esame di controllo a raggi X. Shepherd aveva promesso di andarla a ricevere all'aeroporto, ma l'Arlecchino americano stava dimostrando la sua solita incompetenza. Nei tre giorni precedenti la partenza di Maya da Londra, aveva cambiato idea innumerevoli volte, poi aveva inviato una e-mail nella quale spiegava di essere pedinato e che doveva usare la massima prudenza nei suoi spostamenti. L'Arlecchino americano aveva preso contatto con un Jonesie, e sarebbe stata questa persona ad attenderla al terminal. "Jonesie" era il soprannome attribuito ai membri della Divina Chiesa di Isaac T. Jones. Erano una piccola congregazione di afroamericani che credevano che un Viaggiatore di nome Isaac Jones fosse stato il più grande profeta mai vissuto. Jones era un umile calzolaio che aveva vissuto in Ar-
kansas intorno alla fine dell'Ottocento. Come molti Viaggiatori, aveva iniziato a predicare un messaggio spirituale e in seguito aveva diffuso idee che sfidavano le autorità costituite. In quell'epoca, nell'Arkansas meridionale, i mezzadri, sia bianchi sia neri, erano dominati da un gruppo ristretto di potenti latifondisti. Il "profeta" aveva detto a questi poveri contadini di recedere dai contratti di mezzadria che li tenevano in schiavitù. Nel 1889 Isaac Jones era stato accusato, senza alcuna prova, di aver violentato una donna bianca recatasi nella sua bottega a ritirare un paio di scarpe. Era stato arrestato dallo sceriffo della città e linciato quella notte stessa da un gruppo di persone che aveva fatto irruzione nella prigione, sfondando la porta della sua cella. La notte in cui Jones era stato ucciso, un commesso viaggiatore di nome Zachary Goldman si era recato in visita alla prigione. Quando la folla aveva fatto irruzione nel carcere, Goldman aveva ucciso tre uomini con il fucile dello sceriffo e altri due con un grimaldello. La folla l'aveva poi sopraffatto e il giovane era stato dapprima castrato e poi arso vivo nello stesso rogo che aveva bruciato Isaac Jones. Soltanto i fedeli conoscevano la storia autentica: Zachary Goldman era in realtà Lion of the Tempie, un Arlecchino recatosi a Jackson City per corrompere lo sceriffo e far fuggire il profeta dalla città. Quando lo sceriffo era scappato, Goldman era rimasto nella prigione ed era morto difendendo il Viaggiatore. La Chiesa dei Jonesie era sempre stata un'alleata degli Arlecchini, ma nell'ultimo decennio i rapporti erano mutati. Alcuni Jonesie credevano che Goldman in realtà non fosse mai stato nella famigerata prigione, ma che gli Arlecchini avessero inventato la storia per usarla a loro vantaggio. Altri credevano che la loro Chiesa avesse fatto talmente tanti favori agli Arlecchini nel corso degli anni da aver ormai ripagato il debito. Tutti erano infastiditi dal fatto che al mondo esistessero altri Viaggiatori, perché gli insegnamenti del profeta non avrebbero mai dovuto essere soppiantati da nuove rivelazioni. Solo una sparuta frangia di testardi Jonesie ribattezzatisi "DI" - un'abbreviazione di "Debito Insoluto" - difendeva ancora l'antica alleanza. Un Arlecchino era morto con il loro profeta ed era loro dovere onorare quel sacrificio. All'aeroporto di Los Angeles Maya ritirò la sua borsa da viaggio con il vestiario, la valigetta con l'attrezzatura cinematografica e il treppiede, dopo di che si presentò al banco del servizio immigrazione con il suo passaporto tedesco. Le lenti a contatto colorate e i cappucci di gelatina sulle dita funzionarono alla perfezione.
«Benvenuta negli Stati Uniti d'America» disse l'uomo in uniforme e Maya rispose con un sorriso di cortesia. Seguì le indicazioni verdi per i passeggeri che non avevano nulla da dichiarare e percorse una lunga rampa in salita che dava accesso all'area di accoglienza. Centinaia di persone erano ammassate contro le transenne d'acciaio, in attesa dei passeggeri in arrivo. L'autista di una limousine teneva alto un cartello di cartone per un certo Kauffman. Una giovane donna in gonna attillata e tacchi a spillo corse ad abbracciare un soldato americano. La ragazza rideva e piangeva istericamente nello stesso tempo per il suo fidanzato pelle e ossa, ma Maya provò ugualmente una fitta di invidia. L'amore rendeva vulnerabili; la persona alla quale donavi il tuo cuore poteva lasciarti oppure morire. Eppure era circondata da scene d'amore. Ovunque c'erano persone che si abbracciavano vicino alla porta degli arrivi, e che agitavano improvvisati cartelli fatti a mano. "Ti vogliamo bene, David!" "Bentornata a casa!" Maya non aveva la più pallida idea di come avrebbe dovuto riconoscere il Jonesie. Fingendo di cercare un amico, attraversò a grandi passi il terminal da un'estremità all'altra. "Maledetto Shepherd" pensò. Suo nonno era un tedesco del Baltico che durante la Seconda guerra mondiale aveva salvato la vita a centinaia di persone. Il nipote di quel grand'uomo aveva assunto il suo stesso nome, Shepherd, ossia "Pastore", ma era sempre stato un imbecille. Maya giunse davanti all'uscita, fece dietrofront e tornò verso le transenne di sicurezza. Forse sarebbe dovuta uscire dal terminal e cercare il contatto di riserva indicatole da Linden: un certo Thomas che abitava a sud dell'aeroporto. Suo padre aveva trascorso tutta la vita a fare quello che stava facendo lei: recarsi in viaggio in Paesi stranieri dove assoldava mercenari come assistenti e cercava dei Viaggiatori. Adesso era completamente sola, insicura e anche un po' spaventata. Si diede una scadenza di cinque minuti. Poi notò una ragazza di colore vestita di bianco in piedi vicino allo sportello informazioni. La giovane donna reggeva in mano un piccolo mazzo di rose come regalo di benvenuto. Tra i fiori c'erano tre rombi di carta lucida, un segno distintivo degli Arlecchini. Avvicinandosi allo sportello informazioni, Maya vide che la ragazza aveva, appuntata al corpetto del vestito, una piccola fotografia di un uomo di colore dall'espressione solenne. Era l'unica foto esistente di Isaac T. Jones.
15 Virtory From Sin Fraser aspettava in piedi al centro del terminal con in mano il suo mazzo di rose. Come la maggior parte dei membri della sua Chiesa, aveva conosciuto Shepherd nel corso degli occasionali viaggi di quest'ultimo a Los Angeles. L'uomo aveva un'aria talmente convenzionale, con il suo sorriso cordiale e i suoi abiti di classe, che Vicki trovava veramente difficile credere che fosse un Arlecchino. Nella sua fantasia gli Arlecchini erano guerrieri esotici capaci di arrampicarsi su per i muri e di fermare le pallottole con i denti. Ogni volta che assisteva a qualche prevaricazione, Vicki desiderava con tutto il cuore che un Arlecchino giungesse all'improvviso sul posto, sfondando una finestra, o spiccasse un balzo da un tetto saltando a terra, per fare immediatamente giustizia. Vicki voltò le spalle allo sportello informazioni e scorse una donna che le si avvicinava. La donna portava una borsa da viaggio di tela, un tubo nero a tracolla, una valigetta da telecamera e un treppiede. Indossava occhiali da sole a lenti nere e aveva un caschetto corto di capelli castani. Sebbene il suo corpo fosse snello e flessuoso, aveva la faccia gonfia e poco attraente. Mentre andava avvicinandosi sempre di più, Vicki si rese conto che c'era qualcosa di feroce e di pericoloso nella sconosciuta, un'intensità tenuta a malapena sotto controllo. La donna si fermò di fronte a Vicki, esaminandola con lo sguardo. «Sta cercando me?» Parlava con un leggero accento inglese. «Sono Vicki Fraser. Sto aspettando la conoscente di un amico della nostra Chiesa.» «Deve trattarsi di Shepherd.» Vicki annuì. «Mi ha detto di occuparmi di lei fino a quando non troverà un luogo sicuro in cui incontrarla di persona. Lo stanno sorvegliando.» «Va bene. Usciamo di qui.» Lasciarono il terminal internazionale tra la folla e attraversarono la strada in direzione di un parcheggio coperto di quattro piani. La donna non permise a Vicki di aiutarla con i bagagli. Continuava a guardarsi in giro come se si aspettasse di essere pedinata. Mentre salivano le scale di calcestruzzo, improvvisamente afferrò Vicki per un braccio e la costrinse a girarsi verso di lei. «Dove stiamo andando?» «Io... io ho parcheggiato la macchina al secondo piano.» «Torniamo di sotto.»
Scesero al pianterreno. Una famigliola latinoamericana che chiacchierava in spagnolo le incrociò sulle scale. La donna arlecchino si girò di scatto, scrutando attentamente in ogni direzione. Niente. Risalirono al secondo piano e Vicki si avvicinò a una berlina Chevrolet sul cui lunotto posteriore era appiccicato un adesivo con la scritta ABBI FEDE! ISAAC T. JONES È MORTO PER TE! «Dov'è il mio fucile?» chiese la donna. «Quale fucile?!» «Era previsto che mi dessi armi, denaro e documenti falsi americani. È la procedura.» «Sono spiacente Miss... Miss Arlecchino. Shepherd non me l'ha detto. Mi ha solo chiesto di portare con me il simbolo dei tre rombi e di venire a prenderla al terminal dell'aeroporto. Mia madre non voleva assolutamente che lo facessi, ma sono venuta lo stesso.» «Apri il bagagliaio... il baule... o come diavolo lo chiamate voi americani.» Vicki armeggiò con le chiavi e apri il bagagliaio dell'auto. Era pieno di lattine d'alluminio e bottiglie di plastica che avrebbe dovuto portare alla discarica. Vicki si sentì imbarazzata per aver mostrato a un Arlecchino quella roba. Maya sistemò la valigetta della telecamera e il treppiede nel bagagliaio. Poi si guardò intorno. Nessuno le stava osservando. Senza una sola parola di spiegazione, aprì i vani nascosti nelle gambe del treppiede ed estrasse due coltelli e una spada. La breve scena fu fin troppo reale. Vicki ricordò gli Arlecchini immaginari dei suoi sogni, armati di spade dorate, sospesi nell'aria come acrobati. L'arma che aveva sotto gli occhi era una spada vera, dalla lama che sembrava affilata come un rasoio. Non sapendo cosa dire, rammentò un versetto delle scritture tratto dalla raccolta completa delle Lettere di Isaac T. Jones, l'epistolario del profeta. «"Alla venuta dell'Ultimo Messaggero, il Primo Malvagio precipiterà nel Regno delle Tenebre e le spade saranno trasformate in Luce."» «Mi sembra fantastico.» La donna arlecchino infilò la sua spada nella custodia. «Ma fino a quando non accadrà, terrò affilata la mia lama.» Salirono in macchina e la donna arlecchino regolò lo specchietto laterale destro in modo da poter controllare se qualcuno le seguiva. «Usciamo di qui» disse. «Dobbiamo andare in un posto qualsiasi in cui non ci siano telecamere di sorveglianza.» Lasciarono il parcheggio, si immisero nel traffico in uscita dall'aeroporto
e imboccarono Sepulveda Boulevard. Era novembre, ma l'aria era tiepida e la luce del sole brillava su ogni parabrezza, finestra o vetrina. Stavano attraversando un quartiere commerciale composto di edifici a due o tre piani, moderni palazzi per uffici di fronte a negozi di generi alimentari, drogherie etniche e saloni di manicure. Sui marciapiedi camminavano pochissime persone: qualche povero, qualche vecchio e un matto dai capelli arruffati che sembrava Giovanni Battista. «A pochi chilometri da qui c'è un parcheggio» disse Vicki. «Lì non ci sono telecamere di sorveglianza.» «Ne sei veramente sicura o è solo una tua supposizione?» La donna arlecchino non perdeva di vista un solo istante lo specchietto retrovisore esterno. «È una mia supposizione. Ma è un'ipotesi logica.» La risposta di Vicki parve divertire la giovane donna. «D'accordo. Vediamo se la logica funziona meglio in America.» Il parcheggio era una piccola striscia di terra con qualche albero sul lato della strada opposto alla Loyola University. All'apparenza era deserto e sembrava che non ci fosse nessuna telecamera. Maya esaminò attentamente la zona, poi si tolse gli occhiali da sole, le lenti a contatto colorate e la parrucca castana. I suoi capelli veri erano lunghi, folti e nero corvino, e i suoi occhi erano di un celeste molto chiaro, con giusto una punta di azzurro. Il suo aspetto innaturalmente paffuto derivava da qualche tipo di farmaco. A mano a mano che l'effetto della sostanza cominciava a scomparire, sembrava molto più forte e persino più aggressiva. Vicki cercava di non fissare troppo la custodia della spada. «Ha fame, Miss Arlecchino?» La giovane donna ripose la parrucca nella borsa da viaggio. Poi osservò di nuovo lo specchietto laterale esterno. «Chiamami Maya e dammi del tu.» «Il mio nome ecclesiastico è Victory From Sin Fraser. Ma ai miei amici chiedo di chiamarmi semplicemente Vicki.» «È una scelta saggia.» «Hai fame, Maya?» Anziché risponderle, Maya mise una mano nella borsetta ed estrasse un piccolo apparecchio elettronico grande all'incirca quanto una scatola di fiammiferi. Premette un pulsante e sullo schermo comparvero dei numeri. Vicki non capiva che cosa significassero i numeri, ma la donna arlecchino li usò per prendere una decisione. «Okay. Andiamo a pranzare» disse Ma-
ya. «Portami in uno di quei posti in cui si può comprare qualcosa e mangiarlo in macchina. Posteggia con il muso dell'auto rivolto all'esterno, verso la strada.» Si fermarono a un chiosco take-away messicano di nome Tito's Tacos. Vicki portò in macchina dei burritos e due bibite. Maya rimase in silenzio e spiluccò con una forchetta di plastica la carne di manzo che debordava dal suo burrito. Senza sapere che cos'altro fare, Vicki osservò la gente che andava e veniva dal piccolo parcheggio. Una donna anziana dal fisico tarchiato e dalle fattezze indios da contadina guatemalteca. Una coppia di filippini, marito e moglie, di mezz'età. Due giovani asiatici, probabilmente coreani, vestiti con colori brillanti e gioielli d'oro da rapper neri. Vicki affrontò la donna arlecchino sforzandosi di apparire sicura di sé. «Puoi dirmi perché ti trovi a Los Angeles?» «No.» «La tua presenza riguarda un Viaggiatore? Il pastore della mia Chiesa dice che i Viaggiatori non esistono più. Sono stati tutti catturati e uccisi.» Maya abbassò la lattina dalla bocca. «Perché tua madre non voleva che mi incontrassi?» «La Divina Chiesa di Isaac T. Jones non crede nella violenza. Tutti in chiesa sanno che gli Arlecchini...» Vicki si interruppe e parve imbarazzata. «Uccidono?» «Sono sicura che le persone che combatti sono malvagie.» Vicki buttò il resto del suo pranzo in un sacchetto di carta e guardò Maya dritto negli occhi. «Contrariamente a mia madre e ai suoi amici, io credo fermamente nella dottrina del Debito Insoluto. Non dobbiamo mai dimenticare che Lion of the Tempie fu l'unica persona che ebbe il coraggio di difendere il profeta la notte del suo martirio. Mori con il profeta e fu arso vivo nello stesso rogo.» Maya scosse la lattina facendo tintinnare i pezzetti di ghiaccio contro la parete d'alluminio. «Che cosa fai quando non vai ad accogliere strane persone all'aeroporto?» «Mi sono diplomata quest'estate e ora mia madre vuole che faccia il concorso per lavorare alle Poste. Molti fedeli della nostra congregazione qui a Los Angeles fanno i postini. È un buon impiego, con un mucchio di bonus. O almeno così dicono.» «E tu che cosa vuoi fare?» «Sarebbe bellissimo viaggiare in tutto il mondo. Ci sono così tanti posti che ho visto solo nei libri o alla televisione.»
«Allora fallo.» «Non ho i soldi e i biglietti d'aereo che hai tu. Non sono mai stata neppure in un ristorante, a parte le tavole calde e i chioschi di tacos. Gli Arlecchini sono le persone più libere del mondo.» Maya scosse la testa. «Non desiderare di essere un Arlecchino. Se io fossi libera veramente, adesso non sarei in questa città.» Il telefono cellulare nella borsetta di Vicki cominciò a suonare l'Inno alla gioia di Beethoven. Vicki ebbe un attimo di esitazione, poi premette un pulsante sul telefonino e udì la voce allegra di Shepherd. «Hai ritirato il pacco all'aeroporto?» «Sì, signore.» «Passamela.» Vicki porse il cellulare a Maya e ascoltò la donna arlecchino dire "sì" per tre volte. A conversazione conclusa, spense il cellulare e lo depose sul sedile dell'auto. «Shepherd ha le mie armi e i miei documenti falsi. Dovresti andare al 489 Southwest... qualsiasi cosa significhi.» «È una frase in codice. Shepherd mi ha detto di usare la massima prudenza al cellulare.» Vicki prese un elenco telefonico di Los Angeles dal sedile posteriore dell'auto e lo aprì a pagina 489. Nell'angolo in basso a sinistra - il settore sudovest della pagina - trovò la pubblicità di un'officina meccanica, la Resurrection Auto Parts. L'indirizzo era a Marina del Rey, a pochi chilometri dall'oceano. Uscirono dal parcheggio e si diressero a ovest lungo Washington Boulevard. Maya mantenne sempre lo sguardo fisso fuori dal finestrino, come se stesse cercando dei punti di riferimento da poter ricordare. «Dov'è il centro di Los Angeles?» «A downtown, immagino. Ma in realtà non esiste. Qui non c'è nessun centro, solo tante piccole comunità agglomerate.» Passarono davanti a grandi centri commerciali, stazioni di servizio e zone residenziali. Alcuni quartieri erano poveri e fatiscenti, composti da piccole casette in stile spagnolo o da una specie di ranch con i tetti piatti coperti di ghiaia. Davanti a ogni casa c'era una striscia di erba e un albero o due, di solito una palma o un olmo cinese. La Resurrection Auto Parts sorgeva in una stradina laterale tra una fabbrica di magliette e un centro abbronzatura. Sulla facciata priva di vetrine o finestre era dipinta una versione caricaturale della mano di Dio tratta dalla Cappella Sistina. Anziché dare vita ad Adamo, la mano era protesa
verso una marmitta. Vicki posteggiò sull'altro lato della strada. «Posso aspettarti qui. Non mi importa.» «Non è necessario.» Scesero dalla Chevrolet e scaricarono i bagagli. Vicki si aspettava che Maya dicesse "arrivederci", "ciao" o "grazie nulle", ma la donna arlecchino era già concentrata sul nuovo ambiente. Scrutò la strada in entrambe le direzioni, valutando ogni vialetto d'accesso alle proprietà private e ogni auto posteggiata, dopo di che raccolse da terra la borsa da viaggio, la valigetta della telecamera e il treppiede, e si avviò, voltandole le spalle. «Tutto qua?» Maya si fermò e lanciò un'occhiata dietro di sé. «Che cosa vuoi dire?» «Non ci vedremo più?» «Sicuramente no. Hai compiuto il tuo dovere, Vicki. Sarà meglio che tu non lo dica mai a nessuno.» Trasportando tutti i bagagli con la mano sinistra, Maya attraversò la strada verso la Resurrection Auto Parts. Vicki tentò di scacciare la rabbia, ma le risultò difficile. Da bambina aveva ascoltato incantata diverse storie che descrivevano gli Arlecchini come valorosi difensori dei giusti. Ora aveva conosciuto due Arlecchini in carne e ossa. Shepherd era una persona assolutamente ordinaria e quella ragazza, Maya, era egoista e scortese. Era ora di tornare a casa a preparare la cena per la mamma. La Divina Chiesa quella sera aveva un servizio di preghiera alle sette. Vicki si rimise al volante della sua auto e tornò verso Washington Boulevard. Quando si fermò a un semaforo rosso, pensò a Maya che attraversava la strada con tutti i bagagli nella mano o sulla spalla sinistra. Questo le lasciava libera la mano destra. Era pronta a estrarre la spada e uccidere qualcuno. 16 Maya evitò l'ingresso principale della Resurrection Auto Parts, entrò nel parcheggio antistante e fece il giro dell'edificio. Sul retro c'era un'anonima porta d'emergenza con un rombo da Arlecchino scarabocchiato sul ferro arrugginito. Aprì la porta ed entrò. Odore di olio lubrificante e di solvente. Brusio di voci lontane. Si trovava in una sala piena di carburatori e tubi di scappamento usati. Tutto era immagazzinato e ordinato in base alla marca e al modello. Estraendo la spada di qualche centimetro dalla custodia, Maya si diresse verso la luce. Una porta era socchiusa e, quando guardò attra-
verso lo spiraglio, Maya scorse Shepherd e due altri uomini in piedi intorno a un tavolo quadrato. I tre sobbalzarono, colti alla sprovvista, quando Maya varcò la soglia. Shepherd allungò la mano verso la pistola sotto la giacca, poi la riconobbe e sorrise felice. «Eccola! Ormai adulta e bellissima! Questa è la famosa Maya di cui vi ho parlato.» Maya aveva visto Shepherd sei anni prima quando questi si era recato in visita da suo padre a Londra. Progettava di guadagnare milioni di dollari con videocassette pirata di film hollywoodiani, ma Thorn si era rifiutato di finanziare l'operazione. Benché prossimo alla cinquantina, Shepherd sembrava molto più giovane. I suoi bei capelli biondi erano tagliati a istrice e indossava una camicia di seta grigia e una giacca sportiva di sartoria. Come Maya, portava la sua spada in una custodia a tracolla. Gli altri due uomini sembravano fratelli. Erano entrambi tra i venti e i trent'anni, con pessima dentatura e capelli ossigenati. Il maggiore dei due aveva sulle braccia dei brutti tatuaggi sbavati, da penitenziario federale. Maya concluse che i due erano "tare" - un termine in gergo arlecchino per i mercenari di bassa lega - e decise di ignorarli. «Cos'è successo?» domandò a Shepherd. «Chi ti sorveglia?» «Di questo parleremo più tardi» rispose Shepherd. «Per ora voglio presentarti Bobby Jay e Tate. Ho io i tuoi fondi e i tuoi documenti falsi. Ma sarà Bobby Jay a fornire le armi.» Tate, il fratello minore, la stava fissando. Indossava i pantaloni di una tuta sportiva e una maglia da football americano extralarge che probabilmente nascondeva una pistola automatica. «Ha una spada come la tua» disse a Shepherd. L'Arlecchino esibì un sorriso indulgente. «È un aggeggio inutile da portarsi in giro, ma è un po' come far parte di un club.» «Quanto vale la tua spada?» domandò Bobby Jay a Maya. «Ti va di venderla?» Maya si rivolse a Shepherd, seccata. «Dove hai trovato queste tare?» «Rilassati. Bobby Jay compra e vende armi di ogni genere. Cerca sempre di fare affari. Scegli ciò che ti occorre. Lo pagherò io e poi se ne andranno.» Sul tavolo era posata una valigia d'acciaio. Shepherd la aprì e le mostrò cinque pistole inserite nella gommapiuma. Avvicinandosi, Maya notò che una di queste era di plastica nera con una cartuccia montata sopra la canna. Shepherd impugnò la pistola di plastica. «Mai vista una di queste? È una
Taser. Emette una scarica elettrica paralizzante. Naturalmente andrai in giro con una pistola vera, ma questa ti darebbe la possibilità di non uccidere il tuo avversario.» «Non mi interessa» disse Maya. «Dico sul serio. Anch'io ho una Taser. Se spari a qualcuno con una pistola la polizia comincia a indagare. Questa invece ti dà più opzioni.» «Le uniche opzioni sono attaccare o non attaccare.» «D'accordo. Benissimo. Fai come vuoi...» Shepherd sorrise e premette il grilletto. Prima che Maya avesse il tempo di reagire, due piccoli dardi attaccati a un sottile cavo d'acciaio schizzarono fuori dalla canna e la colpirono al petto. Una potente scarica elettrica la fece crollare a terra. Mentre lottava per rimettersi in piedi, Maya venne colpita da un'altra scarica e poi da una terza che la fece precipitare nel buio totale. 17 Il generale Nash telefonò a Lawrence il sabato mattina dicendo che alle quattro del pomeriggio Nathan Boone avrebbe tenuto una teleconferenza con il comitato esecutivo dei Confratelli. Lawrence uscì immediatamente di casa, si recò in macchina al centro di ricerca nella contea di Westchester e consegnò un elenco di ingresso alla guardia del cancello principale. Fece un salto in ufficio per controllare la posta elettronica e poi salì al terzo piano per gli ultimi preparativi della riunione. Nash aveva già trasmesso al computer l'autorizzazione perché Lawrence potesse entrare nella sala conferenze. Quando Lawrence si accostò alla porta, il suo chip identificativo sottocutaneo venne rilevato da uno scanner e la serratura automatica scattò. La sala conferenze conteneva un lungo tavolo consiliare di mogano, una serie di poltrone di pelle marrone e uno schermo televisivo a parete intera. Due videocamere inquadravano la sala da due diversi angoli di prospettiva in modo che i Confratelli all'estero potessero assistere alla discussione in videoconferenza. Gli alcolici non erano mai permessi nelle riunioni del comitato, perciò Lawrence distribuì sul tavolo bottiglie di acqua minerale e bicchieri di vetro. Il suo compito principale era di assicurarsi che l'impianto televisivo a circuito chiuso funzionasse regolarmente. Usando il pannello di controllo sistemato in un angolo della sala, entrò in collegamento con una videocamera montata in una suite presa in affitto a Los Angeles. La videocamera
inquadrava una scrivania e una poltrona vuota. Boone vi si sarebbe seduto all'inizio della riunione e avrebbe fatto rapporto sui fratelli Corrigan. Nel giro di venti minuti, quattro piccoli riquadri comparvero sul lato inferiore dello schermo televisivo a parete, e il pannello di controllo indicò che i Confratelli che abitavano a Londra, a Tokyo, a Mosca e nel Dubai si sarebbero uniti alla discussione. Lawrence stava cercando di apparire diligente e rispettoso, ma era contento che nessun altro fosse presente in sala in quel momento. Era atterrito e la sua consueta maschera non stava nascondendo le sue emozioni. Una settimana prima, Linden gli aveva spedito per posta una piccola videocamera a batterie, chiamata in gergo "Ragno". Nascosto in una tasca di Lawrence, il Ragno sembrava una bomba a orologeria capace di esplodere da un momento all'altro. Lawrence ricontrollò i bicchieri per l'acqua, accertandosi che fossero puliti, e poi si diresse verso la porta. "Non ce la faccio" pensò. "È troppo rischioso." Ma il suo corpo si rifiutò di lasciare la sala. Cominciò a pregare in silenzio. "Aiutami, Padre. Io non ho il tuo coraggio." La collera che provava per la propria paura a un tratto vinse il suo istinto di sopravvivenza. Muovendosi rapidamente, usò una delle poltrone come scaletta e salì al centro del tavolo. Inserì il Ragno in una bocchetta dell'impianto di aria condizionata, si assicurò che le placche magnetiche di sostegno alla microcamera fossero in contatto con il metallo e saltò giù dal tavolo. Erano trascorsi cinque secondi. Otto secondi. Dieci. Lawrence accese la telecamera a circuito chiuso e cominciò a sistemare le sedie. Durante l'infanzia e l'adolescenza Lawrence non sapeva che suo padre fosse Sparrow, l'Arlecchino giapponese. Sua madre gli aveva raccontato di essere rimasta incinta quando era ancora una studentessa all'Università di Tokyo. Il suo facoltoso innamorato si era rifiutato di sposarla e lei non aveva voluto abortire. Per non allevare un figlio illegittimo nella società giapponese, era emigrata in America e aveva allevato il suo bambino a Cincinnati, Ohio. Lawrence aveva accettato in tutto e per tutto questa versione dei fatti. Sebbene sua madre gli avesse insegnato a leggere, scrivere e parlare giapponese, non aveva mai sentito il desiderio di andare in aereo a Tokyo per rintracciare un uomo d'affari egoista che aveva abbandonato una studentessa incinta. Sua madre era morta di cancro quando era al terzo anno di college. In una vecchia federa nascosta nel guardaroba Lawrence aveva trovato un
pacchetto di lettere dei parenti di sua madre in Giappone. Il tono amichevole, affettuoso, delle lettere lo aveva molto sorpreso. Sua madre gli aveva detto che i suoi genitori l'avevano cacciata di casa quando avevano scoperto la gravidanza. Lawrence aveva scritto ai membri della famiglia ancora in vita e sua zia Mayurni era volata in America per il funerale. Dopo le esequie, Mayurni era rimasta qualche giorno ad aiutare suo nipote a imballare le cose della madre per liberare la casa e trasferire tutto in un deposito. Fu allora che scoprirono gli effetti personali che la madre di Lawrence si era portata dal Giappone: un antico kimono, alcuni testi universitari e un album di fotografie. «Questa è tua nonna» aveva detto Mayumi indicando una signora anziana che sorrideva all'obiettivo. Lawrence aveva voltato pagina. «E questo è il cugino di tua madre. E le sue compagne di scuola. Erano ragazze così carine.» Lawrence aveva voltato di nuovo pagina e due fotografie non attaccate erano scivolate fuori dall'album. Una ritraeva sua madre da giovane seduta accanto a Sparrow. L'altra ritraeva Sparrow da solo con le due spade. «E questo chi è?» aveva chiesto. L'uomo nella fotografia aveva un'aria calma e molto seria. «Chi è quest'uomo? Dimmelo, ti prego.» Lawrence aveva guardato negli occhi sua zia e lei era scoppiata in lacrime. «È tuo padre. L'ho incontrato solo una volta, insieme a tua madre, in un ristorante di Tokyo. Era un uomo molto forte.» Zia Mayumi sapeva pochissime cose sul conto dell'uomo ritratto nella vecchia fotografia. Si faceva chiamare Sparrow, ma di tanto in tanto usava il nome Furukawa. Il padre di Lawrence era implicato in qualcosa di pericoloso. Forse era una spia. Parecchi anni prima era stato ucciso da una banda di gangster della Yakuza durante una sparatoria all'Hotel Osaka. Dopo che sua zia era tornata in Giappone, Lawrence aveva trascorso quasi tutto il suo tempo libero su Internet in cerca di informazioni su suo padre. Era stato facile scoprire che cos'era accaduto all'Hotel Osaka. Tutti i quotidiani giapponesi avevano raccontato l'episodio e anche la stampa internazionale aveva riportato la notizia. Diciotto Yakuza erano morti. Un gangster di nome Hiroshi Furukawa figurava nell'elenco dei morti, e un periodico giapponese aveva pubblicato una fotografia di suo padre scattata all'obitorio. A Lawrence era parso strano che nessun articolo fornisse un motivo plausibile dell'incidente. Di solito i giornalisti definivano casi del genere un "regolamento di conti della malavita" o uno "scontro per il con-
trollo di un mercato illegale". Due Yakuza feriti erano sopravvissuti, ma si erano rifiutati di rispondere alle domande. Alla Duke University, Lawrence aveva imparato a elaborare programmi in grado di gestire una quantità impressionante di dati statistici. Dopo la laurea, aveva lavorato per un sito web di giochi per computer aggiornato e diretto dall'esercito americano. Il sito analizzava le reazioni degli adolescenti che formavano squadre on-line e combattevano in una città bombardata. Lawrence aveva dato una mano a elaborare un programma che generava un profilo psicologico per ogni giocatore. I profili avevano una correlazione strettissima con gli esami di valutazione faccia a faccia effettuati dai reclutatoli dell'esercito. Il programma stabiliva chi era un futuro sergente maggiore, chi doveva essere addetto alla radio e chi si sarebbe offerto volontario per missioni ad alto rischio. La collaborazione con l'esercito americano gli aveva aperto le porte per un impiego alla Casa Bianca e lo aveva messo in contatto con Kennard Nash. Il generale pensava che Lawrence fosse un ottimo amministratore e che non dovesse sprecare il suo talento scrivendo programmi informatici. Nash era in rapporto con la CIA e con la NSA, la National Security Agency, e Lawrence si era subito reso conto che lavorare con il generale lo avrebbe aiutato a ottenere un'autorizzazione di sicurezza ad alto livello, grazie alla quale avrebbe avuto libero accesso a informazioni segrete relative a suo padre. Aveva studiato a lungo la fotografia di suo padre con le due spade. Sparrow non aveva gli elaborati tatuaggi di un tipico affiliato alla Yakuza. Alla fine, il generale Nash aveva convocato Lawrence nel suo ufficio e lo aveva messo a parte di quella che i Confratelli chiamavano "la Conoscenza". A Lawrence fu raccontata la versione introduttiva: che esisteva un gruppo di terroristi chiamati "Arlecchini", i quali proteggevano degli eretici chiamati "Viaggiatori". Per il bene della società era importante sterminare gli Arlecchini e tenere sotto controllo i visionari. Lawrence era tornato alla sua postazione di lavoro con il suo primo codice di accesso da Confratello, aveva inserito il nome di suo padre nel programma di ricerca della banca dati centrale e aveva avuto la rivelazione che andava cercando. NOME: Sparrow. ALIAS: Hiroshi Furukawa. Noto Arlecchino giapponese. ARMI: spada/coltello/pistola. RISORSE: Livello 2. EFFICACIA: Livello 1. STATO ATTUALE: Eliminato-Hotel Osaka. Ricevendo una sempre maggiore conoscenza e possedendo una gamma sempre più ampia di codici di accesso, Lawrence aveva scoperto che gran
parte degli Arlecchini erano stati uccisi da mercenari assoldati dai Confratelli. Adesso lavorava per l'organizzazione segreta che aveva assassinato suo padre. Il male lo circondava completamente ma, come un attore del teatro Noh giapponese, Lawrence rimaneva impassibile. Quando Kennard Nash aveva lasciato la Casa Bianca, Lawrence lo aveva seguito in un nuovo impiego alla Evergreen Foundation. Gli era stato accordato il privilegio di leggere il Libro Verde, il Libro Rosso e il Libro Blu, che descrivevano i Viaggiatori e gli Arlecchini e raccoglievano una breve storia dei Confratelli. Nell'età moderna i Confratelli avevano ricusato il brutale controllo totalitario di Stalin e Hitler per il più sofisticato sistema panottico, ideato dal filosofo inglese del XVIII secolo Jeremy Bentham. «Non occorre sorvegliare tutti se tutti sono convinti di essere sotto sorveglianza» gli aveva spiegato Nash. «La punizione non è necessaria, ma la certezza della punizione deve essere programmata direttamente nel cervello di ognuno.» Jeremy Bentham credeva che l'anima non esistesse e che a parte il mondo fisico non ci fosse nessun'altra realtà. Aveva promesso di lasciare dopo la morte i suoi averi all'Università di Londra a patto che il suo corpo venisse imbalsamato e conservato, con indosso il suo abito preferito, in una teca di vetro. Per i Confratelli il corpo del filosofo inglese era una reliquia privata e tutti quanti si facevano un dovere di andare a rendergli omaggio ogniqualvolta si trovavano a Londra. Un anno prima Lawrence era andato ad Amsterdam per una riunione con una delle squadre di monitoraggio in Internet dei Confratelli. Allo scalo di Londra aveva avuto a disposizione un giorno di libertà e si era fatto portare in taxi all'università della capitale britannica. Era entrato nell'ateneo da Gower Street e aveva attraversato a piedi il cortile principale. Era la fine dell'estate e faceva ancora caldo. Studenti in calzoni corti e T-shirt erano seduti sui gradini di marmo bianco del Wilkins Building e Lawrence aveva provato invidia per la loro spensierata libertà. Jeremy Bentham era seduto su una sedia dentro la sua teca di vetro e legno all'ingresso del chiostro sud. Il suo scheletro era stato spolpato, imbottito di paglia e ovatta e poi rivestito con uno degli abiti migliori del filosofo. La testa di Bentham era stata conservata in un contenitore speciale posto ai suoi piedi, ma anni addietro gli studenti dell'ateneo l'avevano rubata per giocarci a calcio sul prato. Ora non c'era più: era finita al sicuro nel caveau dell'università e sostituita con una testa di cera dall'aspetto pallido e
spettrale. Di solito, in una seconda teca a pochi metri da quella del filosofo, era seduta una guardia giurata. I Confratelli che rendevano omaggio all'inventore del panottico affermavano scherzosamente che era impossibile sapere chi dei due fosse più morto: Jeremy Bentham o il fuco obbediente che sorvegliava il suo corpo imbalsamato. Ma quel pomeriggio il guardiano era assente e Lawrence si era trovato da solo nell'atrio. Piano piano, si era accostato alla teca di vetro e aveva fissato da vicino il volto di cera. Lo scultore francese che aveva riprodotto la faccia di cera aveva fatto davvero un buon lavoro: il labbro superiore di Bentham leggermente rivolto all'insù suggeriva che il filosofo era assai soddisfatto del progresso del nuovo millennio. Dopo aver fissato per qualche secondo il corpo imbalsamato, Lawrence si era spostato di qualche passo a sinistra per ammirare una piccola mostra sulla vita del filosofo. Aveva abbassato lo sguardo e aveva notato un graffito fatto con una matita grassa sanguigna sulla cornice di ottone alla base inferiore della bacheca. Era un ovale attraversato da tre linee rette. Lawrence sapeva dalle sue ricerche che si trattava di un liuto da Arlecchino. Era un gesto di spregio? Un gesto provocatorio? Abbassandosi sui talloni, aveva esaminato da vicino il disegno, notando che una delle tre rette era una freccia che puntava dritta verso il corpo imbalsamato di Bentham. Un segnale. Un messaggio. Aveva guardato in fondo all'atrio del chiostro verso un arazzo lontano. Una porta aveva sbattuto da qualche parte nell'edificio, ma non era apparso nessuno. "Fai qualcosa" aveva pensato. "È la tua unica possibilità." Lo sportello della teca era chiuso con un piccolo lucchetto d'ottone, ma Lawrence aveva tirato con forza e aveva scardinato dal telaio di legno la vite a occhiello in cui era agganciato il lucchetto. Non appena lo sportello si era aperto cigolando, aveva allungato una mano all'interno e perquisito le tasche esterne della severa palandrana nera di Bentham. Nulla. Allora aveva aperto il cappotto e controllato l'imbottitura di ovatta, trovando infine una tasca interna. Conteneva qualcosa. Un cartoncino. Sì, una cartolina. Aveva rapidamente nascosto l'oggetto nella sua ventiquattrore, richiuso lo sportello della teca di vetro, allontanandosi rapidamente. Un'ora dopo era seduto in un pub nei pressi del British Museum a esaminare una cartolina raffigurante La Palette, un caffè in Rue de Seine a Parigi. Una tettoia di tela verde. Tavolini e sedie disposti sul marciapiede. Una "X" era stata tracciata su uno dei tavolini all'aperto della fotografia,
ma Lawrence non aveva capito che cosa significasse. Sull'altro lato della cartolina, qualcuno aveva scritto in francese: "Quando crollò il tempio". Al suo ritorno in America, Lawrence aveva di nuovo studiato la cartolina e trascorso ore e ore a fare ricerche su Internet. Un Arlecchino l'aveva lasciata come indizio, una sorta di messaggio in codice? Quale tempio era crollato? Gli veniva in mente soltanto il tempio ebraico di Gerusalemme. L'Arca dell'Alleanza. Il Santo dei Santi. Una sera, a casa sua, Lawrence aveva bevuto una bottiglia intera di vino e si era improvvisamente reso conto che l'antico ordine dei Templari era in relazione con gli Arlecchini. I comandanti dell'ordine erano stati infatti arrestati dal re di Francia e messi al rogo. Che cos'era successo? Si era collegato a Internet con il computer portatile e lo aveva scoperto immediatamente. Ottobre 1307. Venerdì 13. Quell'anno c'erano due venerdì 13 e a uno dei due mancavano poche settimane. Lawrence aveva spostato le sue ferie ed era andato a Parigi. Al mattino del 13 si era recato al caffè La Palette indossando un maglione di lana con un disegno geometrico a rombi sulla falsariga del costume di Arlecchino. Il caffè era situato in una via secondaria di piccole gallerie d'arte, vicino al Pont-Neuf. Si era seduto a uno dei tavolini all'aperto e aveva ordinato al cameriere un caffè macchiato. Era teso e fremente d'eccitazione, pronto per l'avventura, ma era trascorsa un'ora senza che accadesse nulla. Studiando la cartolina per l'ennesima volta, aveva visto che la "X" era stata tracciata su un tavolino particolare all'estremo lato sinistro della zona all'aperto del bar-ristorante. Quando una giovane coppia francese aveva finito di leggere il giornale e si era alzata per tornare al lavoro, si era spostato al loro tavolino e aveva ordinato una baguette con il prosciutto. Poi aveva aspettato fino a mezzogiorno, quando un anziano cameriere con indosso una camicia bianca e una giacca nera si era finalmente avvicinato al suo tavolo. L'uomo si era espresso in francese. Ma quando Lawrence aveva scosso la testa era passato all'inglese. «Sta cercando qualcuno?» «Sì.» «E chi sarebbe?» «Non posso dirglielo. Ma saprò chi è non appena arriverà.» Il vecchio cameriere aveva infilato una mano sotto il panciotto, aveva tirato fuori un piccolo cellulare e glielo aveva consegnato. Quasi immediatamente, il telefonino si era messo a squillare, e Lawrence aveva risposto. Una voce baritonale aveva parlato dapprima in francese, poi in tedesco e
infine in inglese. «Come ha trovato questo posto?» aveva chiesto la voce. «Tramite una cartolina trovata in tasca a un morto.» «Ha trovato un punto di accesso. Abbiamo sette di questi punti nel mondo per trovare nuovi alleati e per contattare mercenari. È solo un punto d'accesso. Non significa che le sarà permesso di entrare.» «Capisco.» «Allora mi dica... che ricorrenza è oggi?» «Il giorno in cui l'ordine dei Templari venne distrutto e i suoi appartenenti furono sterminati. Ma qualcuno scampò alla strage.» «Chi si salvò?» «Gli Arlecchini. In tempi più recenti uno di loro era mio padre, Sparrow.» Silenzio. Poi il suo interlocutore telefonico si era abbandonato a una risatina sommessa. «Suo padre si sarebbe goduto un mondo questo momento. Aveva un gran gusto per l'imprevedibile. E lei chi è?» «Lawrence Takawa. Lavoro per la Evergreen Foundation.» Di nuovo silenzio. «Ahhh sì» aveva sussurrato la voce. «È la facciata pubblica dell'organizzazione che si definisce i "Confratelli".» «Voglio sapere di mio padre.» «Forse è vero. O forse vuole solo prendermi in trappola.» «Aspetterò qui un'altra ora» aveva detto Lawrence. «Decida lei.» Aveva spento il telefono cellulare aspettandosi che esplodesse da un momento all'altro, ma non era accaduto nulla. Cinque minuti dopo, un uomo estremamente robusto con la testa rasata era comparso sul marciapiede, e si era fermato davanti al suo tavolo. Lo sconosciuto aveva un tubo di metallo nero appeso alla spalla e Lawrence aveva capito di avere davanti a sé un Arlecchino con la sua spada. «M'apportez s'il vous plaît une eau-devie fine?» aveva chiesto al cameriere e si era seduto sulla sedia di fronte. Poi aveva infilato la mano nella tasca destra dell'impermeabile, come se stesse impugnando una pistola. Lawrence si chiese se lo avrebbe ucciso immediatamente, o se avrebbe aspettato il suo liquore. «Spegnere il telefonino è stata una mossa determinante, Mr Takawa. Mi è piaciuto. Forse è davvero figlio di Sparrow.» «Ho una fotografia dei miei genitori seduti insieme. Se vuole gliela faccio vedere.» «Forse prima la ucciderò» aveva ribattuto l'Arlecchino. «Scelga lei.»
Il francese aveva sorriso per la prima volta. «Mi dica: perché sta rischiando la vita pur di incontrarmi?» «Voglio sapere perché è morto mio padre.» «Sparrow era l'ultimo Arlecchino superstite in Giappone. Quando la Tabula assoldò degli Yakuza per assassinare tre noti Viaggiatori, lui li difese per quasi otto anni. Uno dei Viaggiatori era un monaco buddhista che viveva in un tempio di Kyoto. I capi della Yakuza mandarono sul posto diverse squadre ad assassinarlo, ma i sicari continuavano a sparire nel nulla. Naturalmente era Sparrow a coglierli di sorpresa, falciandoli come erbacce. Contrariamente a molti Arlecchini moderni, Sparrow preferiva la spada.» «Che cosa accadde? Come fecero a prenderlo in trappola?» «Incontrò tua madre a una fermata dell'autobus nei paraggi dell'Università di Tokyo. Si guardarono e si innamorarono immediatamente. Quando lei restò incinta la Yakuza venne a saperlo. La rapirono e la portarono nel salone dei banchetti dell'Hotel Osaka. Era legata, appesa a una fune assicurata al soffitto. Gli uomini della Yakuza avevano in programma di ubriacarsi e di violentarla a turno. Non riuscivano a uccidere Sparrow, perciò volevano fare del male all'unica persona importante della sua vita.» Un cameriere gli aveva servito un bicchiere di brandy e il colosso aveva levato le mani di tasca. Il rumore del traffico e il brusio delle conversazioni intorno a loro erano andati attenuandosi. L'unica cosa che Lawrence sentiva in quel momento era la voce baritonale dell'uomo. «Tuo padre si introdusse nella sala per banchetti travestito da cameriere. Al momento opportuno allungò le mani sotto un carrello coperto da una tovaglia ed estrasse una spada e un fucile a canne mozze. Attaccò gli uomini della Yakuza, ne uccise diversi e ferì gli altri. Poi liberò tua madre e le disse di scappare.» «Lei gli obbedì?» «Sì. Sparrow sarebbe dovuto fuggire con tua madre, ma il suo onore era stato calpestato. Si aggirò lentamente nella sala per banchetti con la sua spada in pugno, e giustiziò uno dopo l'altro gli uomini della Yakuza. Mentre uccideva gli ultimi superstiti, uno dei gangster feriti impugnò una pistola e gli sparò alle spalle. La polizia locale venne corrotta, e i giornali come sempre riportarono che si era trattato di un regolamento di conti tra bande rivali.» «E i Viaggiatori?» «Senza più. protezione, furono localizzati ed eliminati nel giro di poche
settimane. Un Arlecchino tedesco che si chiamava Thorn andò immediatamente in Giappone, ma era troppo tardi.» Lawrence fissò la sua tazzina di caffè vuota. «E questo è ciò che sarebbe successo...» «Che ti piaccia o no, sei il figlio di un Arlecchino e lavori per la Tabula. Ho solo una domanda. Che cosa hai intenzione di fare?» Un'intensa paura tornò a invadere Lawrence a mano a mano che l'ora fissata per la riunione si avvicinava. Si chiuse nel suo ufficio, ma chi aveva un'autorizzazione di massima sicurezza - come Kennard Nash - poteva comunque entrare. Alle 15.55 levò di tasca il ricevitore del Ragno che Linden gli aveva spedito e lo collegò alla porta seriale del suo computer. Sul monitor apparvero alcune linee rosse sfumate, poi all'improvviso vide la sala conferenze e udì alcune voci in cuffia. Kennard Nash era in piedi davanti al lungo tavolo consiliare e riceveva i Confratelli a mano a mano che questi arrivavano per la riunione. Alcuni di loro indossavano abiti da golf e avevano trascorso il primo pomeriggio al country club di Westchester. Si scambiavano vigorose strette di mano, facevano battute e commentavano la situazione politica. Un osservatore disinformato avrebbe anche potuto pensare che quegli eleganti signori facessero parte di un'associazione di beneficenza con un banchetto annuale e lauti assegni. «Bene, signori» esordì Nash. «Accomodatevi. Dichiaro aperta la riunione.» Digitando alcuni comandi sulla tastiera del computer portatile, Lawrence mise a fuoco l'obiettivo del Ragno. Nathan Boone comparve sul megaschermo a parete della sala. I riquadri alla base dello schermo mostravano i mezzibusti di quattro Confratelli stranieri collegati in videoconferenza. «Buongiorno a tutti.» Boone parlava in tono rilassato, come un commercialista che discutesse di redditi e trattenute fiscali. «Volevo aggiornarvi sulla questione Michael e Gabriel Corrigan. «Un mese fa ho aperto un programma di sorveglianza per controllare i due soggetti. Uno staff temporaneo è stato assoldato a Los Angeles e alcuni nostri dipendenti sono stati mandati sul posto da altre città. Ai nostri uomini era stato detto di osservare i fratelli e di ottenere così delle informazioni sulle loro caratteristiche. Era previsto che arrestassero i Corrigan solo se fosse apparso evidente che avevano intenzione di fuggire.» Lo schermo televisivo trasmise l'immagine di un fatiscente edificio a due
piani. «Alcune sere fa i due fratelli si sono incontrati alla casa di cura in cui era ricoverata la madre. La nostra squadra di sorveglianza non disponeva di un rilevatore di presenza a immagine termica, però aveva uno scanner audio. Rachel Corrigan ha detto ai suoi figli le seguenti parole...» La flebile voce della donna in fin di vita risuonò negli altoparlanti. "Papà era un Viaggiatore.... Un Arlecchino di nome Thorn ci trovò... Ma se ne avete il potere, dovete nascondervi dalla Tabula." Il volto di Boone ricomparve sul megaschermo. «Rachel Corrigan è morta quella sera stessa e i fratelli hanno lasciato la casa di cura. Mr Prichett, al comando della nostra squadra d'azione, ha preso la decisione di catturare Michael Corrigan. Purtroppo, Gabriel ha seguito suo fratello sulla superstrada, attaccando uno dei nostri automezzi. I Corrigan sono riusciti a fuggire.» «Adesso dove sono?» domandò Nash. Lawrence osservò una nuova immagine apparire sul megaschermo. Un uomo di corporatura massiccia che sembrava originario di qualche isola dei mari del Sud e un tipo calvo armato di fucile facevano da scorta ai fratelli Corrigan all'uscita da una modesta abitazione. «Il mattino dopo una delle nostre squadre di sorveglianza ha avvistato i fratelli e due guardie del corpo a casa di Gabriel. Mezz'ora dopo, i quattro sono passati da casa di Michael e hanno preso dei vestiti. «Successivamente, si sono diretti in macchina a sud di Los Angeles e hanno raggiunto una ditta di abbigliamento a City of Industry. L'azienda è di proprietà di un certo Frank Salazar. Quest'uomo in passato si è arricchito con varie attività illecite, ma ora possiede diverse attività legali. Salazar era tra gli investitori di uno dei palazzi per uffici di Michael. I suoi uomini stanno proteggendo i fratelli.» «E si trovano ancora nella ditta?» domandò Nash. «Sì. Chiedo il permesso di attaccare l'edificio stanotte e di prendere in custodia i fratelli.» I Confratelli seduti intorno al tavolo consiliare restarono in silenzio per alcuni secondi; poi un uomo calvo, da Mosca, prese la parola. «Questa ditta di abbigliamento si trova in un'area pubblica?» «Sì» rispose Boone. «A circa cinquecento metri di distanza si trovano due condomini.» «Molti anni fa il comitato decise di non appoggiare azioni che potessero attirare l'attenzione della polizia.» Il generale Nash intervenne. «Se si trattasse di un'esecuzione di prassi
chiederei a Mr Boone di rinunciare e di aspettare un'occasione migliore. Ma la situazione si è evoluta rapidamente. Grazie al computer ai quanti ci è stata data la possibilità di acquisire un alleato dal potere immenso. Se il Progetto Crossover avrà successo, disporremo finalmente della tecnologia necessaria per controllare l'intera popolazione.» «Ma ci serve un Viaggiatore» osservò uno degli uomini seduti intorno al tavolo. Il generale Nash batté il dito indice sul tavolo. «Sì. E per quel che ne sappiamo, al mondo non ne esistono più. Questi due giovani sono i figli di un noto Viaggiatore, e forse hanno ereditato il suo dono. Dobbiamo catturarli. Non c'è altro da fare...» 18 Maya era seduta immobile e osservava i tre uomini. Le ci era voluto un po' per riprendersi dalla scossa elettrica e avvertiva ancora una sensazione di bruciore al petto e alla spalla sinistra. Mentre era priva di conoscenza, gli uomini avevano tagliato una vecchia cinghia di trasmissione e l'avevano usata per legarle le caviglie. I suoi polsi erano bloccati lungo i fianchi da un paio di manette agganciate sotto la sedia. In quel momento, stava cercando di tenere a bada la collera e di trovare un minimo di calma dentro di sé. "Pensa a un sasso" le diceva sempre suo padre. "Un ciottolo liscio e nero. Pescalo da un gelido torrente di montagna e tienilo in mano." «Perché non parla?» domandò Bobby Jay. «Se fossi in lei ti darei del bastardo.» Shepherd lanciò un'occhiata a Maya e rise. «Sta pensando al modo di sgozzarvi. Suo padre le ha insegnato a uccidere quando era ancora bambina.» «Forte.» «No, è una follia» ribatté Shepherd. «Un'altra donna arlecchino, un'irlandese che si chiama Mother Blessing, una volta andò in un paesino della Sicilia e uccise tredici persone nel giro di dieci minuti. Stava tentando di salvare un prete cattolico che era stato sequestrato da mafiosi locali, assoldati dalla Tabula. Il prete si beccò una pallottola e morì dissanguato su un'auto, ma Mother Blessing riuscì a fuggire. E adesso, giuro su Dio, a sud di Palermo c'è una cappelletta nella quale c'è anche un dipinto di Mother Blessing nelle vesti dell'angelo della Morte. Al diavolo! È una dannata psicopatica, ecco cos'è!»
Tate si avvicinò alla sedia masticando un chewing gum e grattandosi. Si piegò in avanti fin quasi a sfiorare con la bocca il viso di Maya. «È questo che stai facendo, dolcezza? Stai pensando a come farci fuori? Non è carino.» «State alla larga da lei» disse Shepherd. «Lasciatela su quella sedia e non fate niente. Non azzardatevi ad aprire le manette. Non datele nulla da mangiare o da bere. Tornerò qui non appena avrò trovato Prichett.» «Traditore.» Maya avrebbe dovuto rimanere zitta - non c'era alcun vantaggio a parlare - ma l'epiteto le era sfuggito di bocca. «È una parola che presuppone un tradimento» commentò Shepherd. «Ma sai una cosa? Non c'è più niente da tradire. Gli Arlecchini non esistono più.» «Non possiamo permettere che la Tabula vinca.» «Ho una notizia da darti, Maya. Gli Arlecchini sono disoccupati perché i Confratelli non uccidono più i Viaggiatori. Ora vogliono solo catturarli e sfruttare il loro potere. È ciò che avremmo dovuto fare anni fa.» «Non sei più degno del tuo nome da Arlecchino. Hai infangato la memoria della tua famiglia.» «In vita loro, sia mio nonno sia mio padre non hanno fatto altro che proteggere i Viaggiatori. Non gli è mai importato di me. Io e te siamo uguali, Maya. Entrambi siamo stati allevati dai sostenitori di una causa persa.» Shepherd si rivolse a Bobby Jay e Tate. «Non perdetela di vista un solo istante» ordinò, e uscì dalla stanza. Tate andò al tavolo e prese in mano il coltello da lancio di Maya. «Da' un'occhiata a questo» disse a suo fratello. «È perfettamente bilanciato.» «Quando Shepherd tornerà qui avremo i suoi coltelli, la spada e il resto dei soldi.» Maya flette leggermente le braccia e le gambe, aspettando l'occasione giusta. Una volta suo padre l'aveva portata in un club di Soho in cui si giocava a biliardo a tre sponde. Le aveva insegnato a riflettere prevedendo le proprie mosse e a organizzare una rapida sequenza di azioni; la palla bianca doveva colpire la palla rossa e poi rimbalzare sulle sponde imbottite in base a uno schema premeditato. «Shepherd ha troppa paura di lei.» Tate tornò verso Maya con in mano il coltello da lancio. «Gli Arlecchini hanno questa gran reputazione, ma non c'è niente che la giustifichi. Guardala. Ha due braccia e due gambe come chiunque altro.» Cominciò a spingere adagio la punta del coltello contro la guancia di
Maya. La pelle si tese e affondò leggermente. Tate spinse ancora e comparve un puntino di sangue. «Ora guarda questo. Sanguinano anche loro, come tutti.» Con attenzione, come un artista che stesse dando forma a un pezzo di argilla umida, Tate incise un sottile taglio superficiale dal collo alla clavicola. Maya sentì il sangue uscire dalla ferita e rigarle la pelle. «Vedi? Sangue rosso. Proprio come me e te.» «Piantala di fare il cretino» disse Bobby Jay. «Finirai per metterci nei guai.» Tate sogghignò e tornò verso il tavolo. Per pochi secondi, rimase girato di schiena, bloccando la visuale a suo fratello. Maya si lasciò cadere in avanti, sulle ginocchia, spingendo il più possibile indietro le braccia. Quando fu libera dalla sedia, passò rapidamente i polsi ammanettati sotto il bacino e le gambe. Ora non aveva più le mani dietro la schiena. Si alzò di scatto - con i polsi e le caviglie ancora legate - e saltò oltre Tate. Fece una capriola volante sopra al tavolo, raccogliendo la propria spada, e atterrò davanti a Bobby Jay. Colto completamente alla sprovvista, il ragazzo cercò disperatamente la pistola sotto il giubbotto di pelle. Maya tirò un fendente, squarciandogli il collo. Un fiotto di sangue sprizzò fuori dall'arteria recisa, e Bobby Jay cadde sul pavimento. Era morto e Maya si era già dimenticata di lui. Infilando la punta della spada tra le caviglie, tagliò la cinghia di gomma nera e si liberò le gambe. "Spostati più velocemente. Subito." Maya balzò di lato aggirando il tavolo verso Tate proprio nel momento in cui questi infilava la mano sotto la T-shirt e afferrava una pistola automatica. Mentre alzava l'arma, Maya si spostò a sinistra, calò un fendente dall'alto e gli tagliò l'avambraccio. Tate lanciò un urlo disumano e barcollò all'indietro, ma Maya gli si avventò contro immediatamente, colpendolo nuovamente al collo e al torace. Tate crollò sul pavimento e Maya sovrastò dall'alto il suo corpo, stringendo la spada tra le mani. In quell'istante il mondo si fece bruscamente più piccolo, implodendo come una stella nera in un unico, piccolo nucleo di paura, rabbia ed esultanza. 19 I fratelli Corrigan vivevano all'ultimo piano della ditta di abbigliamento da quattro giorni. Quel pomeriggio Mr Bubble fece chiamare Michael e gli assicurò che le sue trattative con la famiglia Torrelli a Philadelphia stavano filando lisce. Nel giro di una settimana, dieci giorni al massimo, Michael
avrebbe dovuto firmare alcuni documenti per la cessione delle proprietà e lui e suo fratello sarebbero stati liberi. Deek si fece vivo verso sera e ordinò per telefono cibo cinese. Mandò di sotto Jesus Morales ad aspettare il furgone delle consegne e si sedette alla scacchiera, di fronte a Gabriel. «In prigione si giocava molto a scacchi» spiegò. «Ma là dentro i fratelli giocavano tutti allo stesso modo. Continuavano ad attaccare finché non cadeva uno dei due re.» Nella ditta c'era un silenzio di tomba a quell'ora, quando le macchine da cucire venivano spente e le operaie tornavano a casa dalle loro famiglie. Gabriel sentì un'auto risalire la strada e fermarsi davanti alla ditta. Spiò fuori dalla finestra del quarto piano e vide un autista cinese scendere dalla macchina con due sacchetti di cibo. Deek fissava ancora le pedine, riflettendo sulla sua mossa successiva. «Non sarà contento quando Jesus lo pagherà. Quell'autista si fa un mucchio di strada per venire qui e Jesus gli darà un dollaro di mancia.» L'autista prese i soldi da Jesus e si avviò verso l'auto. Tutt'a un tratto infilò la mano sotto la giacca della tuta sportiva ed estrasse una pistola. Si girò verso il latinoamericano, alzò l'arma e con un colpo gli fece saltare la testa. Deek udì lo sparo. Corse alla finestra e vide arrivare due auto dalle quali scesero sei uomini armati. La squadra seguì il cinese dentro l'edificio. Deek compose un numero sul suo cellulare e disse con il fiato in gola: «Mandate altri fratelli subito qui, e alla svelta. Sei uomini, tutti armati di pistole, sono appena entrati nella ditta». Poi spense il cellulare e imbracciando il suo fucile da assalto M-16 fece un cenno a Gabriel. «Va' a cercare Michael. Resta con lui finché non arriva Mr Bubble a darci una mano.» Quindi scese cautamente le scale. Gabriel corse in fondo al corridoio, trovando Michael in piedi accanto alle loro brandine da campeggio. «Cosa succede?» «Ci stanno attaccando.» Udirono una serie di brevi raffiche di arma da fuoco, attutite dai muri. Deek era sul pianerottolo del terzo piano e sparava nella tromba delle scale. Michael sembrava confuso e spaventato. Immobile sulla soglia, guardava Gabriel che raccoglieva un badile arrugginito. «Che cosa fai?» «Usciamo di qui.» Gabriel diede un colpo di badile sulla parte inferiore del telaio di una finestra, scardinando il fermo. Buttato il badile, sollevò di forza la parte
scorrevole della finestra e guardò fuori. Un piccolo cornicione di cemento di dieci centimetri sporgeva dalla facciata della ditta. Il tetto di un altro edificio era appena tre metri oltre il vicolo laterale, un piano più in basso di quello in cui erano intrappolati. Ci fu un'esplosione all'interno dell'edificio e la luce venne a mancare. Gabriel corse nell'angolo dello stanzone, afferrò la spada giapponese del padre e la infilò nel suo zaino in modo che sporgesse soltanto la punta del fodero. Altri spari. Poi Deek lanciò un urlo di dolore. Gabriel mise in spalla lo zaino e tornò alla finestra aperta. «Andiamo. Possiamo saltare sul tetto dell'altro edificio.» «Non ce la faccio» disse Michael. «Mancherò la presa e cadrò.» «Devi provare. Se restiamo qui ci uccideranno.» «Parlerò con loro, Gabe. Posso convincere chiunque.» «Non sono venuti qui per trovare un accordo.» Gabriel scavalcò il davanzale e si resse in piedi sul cornicione tenendosi con la mano sinistra alla finestra. L'illuminazione stradale forniva luce a sufficienza per vedere il tetto, ma il vicolo tra i due edifici era un pozzo nero d'oscurità. Gabriel contò fino a tre e saltò, atterrando sulla superficie catramata del tetto di fronte. Si rimise subito in piedi, e guardò in alto verso suo fratello. «Dai! Presto!» Michael ebbe un attimo di esitazione, fece una mossa come se stesse per scavalcare il davanzale della finestra, ma poi si ritrasse. «Puoi farcela!» Gabriel si rese conto che sarebbe dovuto restare con suo fratello per aiutarlo a saltare per primo. «Ricorda quello che hai sempre detto, Michael. Dobbiamo restare uniti. È l'unico modo.» Un elicottero con un faro di ricerca rombò nel cielo. Il fascio di luce scandagliò il buio, sfiorando per un istante la finestra aperta e proseguendo sul tetto dell'edificio. «Forza, Michael!» «Non ce la faccio! Troverò un nascondiglio qui.» Michael mise una mano nella tasca del cappotto, tirò fuori qualcosa e la gettò a suo fratello. Quando l'oggetto cadde vicino a lui Gabriel vide che si trattava di un fermaglio d'oro che stringeva una carta di credito e una mazzetta di banconote da venti dollari. «Ci vediamo all'angolo di Wilshire Boulevard e Bundy Drive a mezzogiorno» disse suo fratello. «Se non ci sarò, aspetta ventiquattr'ore e riprova il giorno seguente.»
«Ti uccideranno.» «Non preoccuparti. Andrà tutto bene.» Michael scomparve nell'oscurità, lasciando Gabriel in piedi sul tetto, da solo. L'elicottero tornò indietro e si fermò al di sopra dell'edificio, il motore faceva un rumore assordante e il grosso propulsore sollevava polvere e spazzatura dalla strada. Il fascio di luce venne puntato contro Gabriel: era come fissare il sole. Mezzo accecato dal bagliore, il ragazzo corse barcollando all'estremità opposta del tetto verso una scala antincendio, si aggrappò a una scaletta di ferro e lasciò che la forza di gravità lo trascinasse verso il basso. 20 Maya si tolse gli indumenti macchiati di sangue e li infilò in un sacco dell'immondizia. I due cadaveri erano a pochi passi ma lei cercò di non pensare a quanto era accaduto. "Pensa al presente" disse a se stessa. "Concentrati su ogni azione." Letterati e poeti avevano scritto del passato: lo avevano ammirato, desiderato, rimpianto. Ma Thorn aveva addestrato sua figlia a evitare queste distrazioni. Le diceva sempre di pensare alla sua spada, che viveva solo nell'istante del colpo. Shepherd se n'era andato per incontrarsi con un certo Prichett, ma poteva tornare da un momento all'altro. Sebbene Maya volesse rimanere per ucciderlo, il suo primo obiettivo era rintracciare Gabriel e Michael Corrigan. "Forse sono già stati catturati" pensò. O forse non erano dei Viaggiatori. C'era solo un modo per rispondere a quegli interrogativi: doveva trovarli al più presto. Tirò fuori un ricambio di vestiti dalla sua borsa da viaggio e indossò un paio di jeans, una T-shirt e un golf di cotone blu. Avvolse le mani in due strisce di plastica strappate da alcuni sacchetti, esaminò la merce di Bobby Jay e scelse una piccola pistola automatica di fabbricazione tedesca corredata di fodero da caviglia. Nella lunga valigia di metallo c'era anche un fucile a pompa con l'impugnatura a pistola e il calcio pieghevole e Maya decise di prendere con sé anche quello. Prima di andarsene, gettò un vecchio giornale sul pavimento sporco di sangue e lo usò per perquisire i due cadaveri senza sporcarsi le scarpe. Nelle tasche di Tate c'erano quaranta dollari e tre fiale contenenti cristalli di cocaina. Bobby Jay aveva con sé oltre novecento dollari in contanti, stretti in un rotolo. Maya prese il denaro e lasciò la droga accanto al cadavere di Tate.
Uscì dal retro, portando la valigia delle armi da fuoco e il resto delle sue cose, si allontanò verso ovest di alcuni isolati e buttò i vestiti macchiati di sangue in un cassonetto. Poco dopo era in Lincoln Boulevard, una strada a quattro corsie su cui si affacciavano negozi d'arredamento, ristoranti e fastfood. Faceva caldo e Maya si sentiva ancora sporca di sangue. Aveva un solo contatto di riserva. Anni prima, Linden si era recato in America per procurarsi dei passaporti e delle carte di credito false e aveva stabilito un contatto postale con un certo Thomas, che abitava a Hermosa Beach, a sud di Los Angeles. Maya chiamò un taxi da un telefono pubblico. Il tassista era un vecchio siriano che parlava a malapena inglese. L'uomo aprì uno stradario di Los Angeles, lo esaminò a lungo, e poi dichiarò che era in grado di portarla all'indirizzo indicato. Hermosa Beach era una cittadina costiera a sud dell'aeroporto di Los Angeles. Il centro era una zona turistica, piena di bar e ristoranti, ma la maggior parte delle costruzioni erano piccoli cottage a pochi isolati dall'oceano. Il tassista siriano si perse due volte. Si fermò, sfogliò di nuovo lo stradario di L.A., e finalmente riuscì a trovare la casa di Sea Breeze Lane. Maya pagò, restando a guardare il taxi che scompariva in fondo alla via. Forse gli uomini della Tabula erano già sul posto, e aspettavano che entrasse in casa. Salì nella veranda e bussò alla porta. Non rispose nessuno, ma Maya sentiva della musica proveniente dal cortile sul retro. Aprì un cancelletto di legno laterale e si ritrovò in uno stretto passaggio tra l'abitazione e un muro di cemento. Lasciò i bagagli vicino al cancelletto, in modo da avere le mani libere. La pistola automatica di Bobby Jay era nella fondina allacciata alla caviglia sinistra. La spada era nella custodia a tracolla. Trasse un respiro profondo, si preparò al combattimento, e avanzò decisa. Vicino al muro di cemento c'erano dei pini, ma il resto del cortile era spoglio di vegetazione. Qualcuno aveva scavato nel terreno sabbioso un'ampia fossa rotonda e l'aveva coperta con una cupola, alta poco più di un metro, fatta di legnetti legati con delle corde. Mentre una radio portatile trasmetteva musica country a tutto volume, un uomo a torso nudo stava coprendo la struttura con delle grandi pezze di cuoio. L'uomo vide Maya e interruppe il lavoro. Era un pellerossa ' dai lunghi capelli neri e l'addome flaccido. Sorridendo, mostrò uno spazio vuoto tra i premolari superiori. «È domani» disse senza scomporsi. «Scusi...?!»
«Ho spostato la data della cerimonia della capanna del sudore. Ho mandato una e-mail a tutti gli iscritti, ma immagino che tu sia una delle amiche di Richard.» «Sto cercando un certo Thomas.» L'indiano si chinò e spense la radio. «Sono io. Il mio nome è Thomas Walks the Ground. E con chi ho il piacere di parlare?» «Jane Stanley. Sono appena arrivata dall'Inghilterra.» «Una volta andai a Londra per una conferenza. Un mucchio di gente mi chiese perché non portassi penne d'aquila tra i capelli.» Thomas si sedette su una panca di legno e si mise una T-shirt. «Dissi loro che ero un Absaroka, del popolo degli uccelli che voi bianchi chiamate tribù dei Crow. Non ho bisogno di spennare un'aquila per essere un vero indiano.» «Un amico mi ha detto che sai molte cose.» «Forse sì o forse no. Sta a te decidere.» Maya si guardò attorno, non c'era nessun altro nel cortile. «Costruisci capanne del sudore?» «Esatto. Ne faccio una ogni fine settimana. In questi ultimi anni ho organizzato weekend nella capanna del sudore per uomini e donne divorziate. Dopo due giorni passati a sudare e a battere il tamburo, i partecipanti si convincono di non odiare più il loro ex.» Thomas sorrise. «Non è una gran cosa, ma aiuta la gente e migliora il mondo. Ognuno di noi combatte ogni giorno una battaglia, solo che non lo sappiamo. L'amore contro l'odio. Il coraggio contro la paura.» «Il mio amico mi ha detto che sai da dove deriva il nome della Tabula.» Thomas lanciò un'occhiata rapida a un piccolo frigo portatile e a una felpa per terra. La sua arma era nascosta lì sotto. Probabilmente una pistola. «La Tabula. Giusto. Può darsi che abbia sentito qualcosa su di loro.» Thomas sbadigliò e si grattò la pancia come se gli avessero appena chiesto di una squadra di boy scout. «La Tabula deve il suo nome all'espressione latina tabula rasa, come dire "una lavagna vuota". La Tabula ritiene che quando nasciamo la nostra mente sia una lavagna vuota. Questo significa che chi è al potere può riempirti il cervello di informazioni selezionate. Se lo fa con un gran numero di persone, può controllare la maggior parte della popolazione mondiale. La Tabula odia chiunque sia in grado di dimostrare che esiste una realtà diversa.» «Come un Viaggiatore?» Di nuovo, Thomas guardò verso l'arma nascosta. Esitò, poi parve decidere che non ce l'avrebbe fatta a impugnarla in tempo per salvarsi la vita.
«Stammi a sentire, Jane... o comunque ti chiami. Se sei qui per uccidermi fallo subito. Non me ne importa niente. Un mio zio era un Viaggiatore, ma io non ho il potere. Quando mio zio tornò in questo mondo, tentò di organizzare le tribù, perché la smettessimo con l'alcol e riprendessimo il controllo del nostro destino. Al governo questo non piacque per niente. C'era di mezzo la terra. Il petrolio. Sei mesi dopo che ebbe iniziato a predicare, qualcuno lo investì con un'auto. La faceste sembrare una disgrazia, non è così? Un pirata della strada, e nessun testimone.» «Sai che cos'è un Arlecchino?» «Può darsi...» «Molti anni fa hai conosciuto un Arlecchino francese di nome Linden. Ha usato il tuo indirizzo per farsi mandare dei passaporti falsi. Sono nei guai. Linden mi ha detto che avresti potuto aiutarmi.» «Io non combatto con gli Arlecchini. Non fa per me.» «Mi occorre un'auto o un camioncino, un veicolo qualunque che non sia rintracciabile dall'Immensa Macchina.» Thomas Walks the Ground la fissò a lungo, e Maya sentì la forza del suo sguardo. «D'accordo» disse Thomas lentamente. «Questo posso farlo.» 21 Gabriel uscì dal largo canale di scolo parallelo alla San Diego Freeway. Era quasi l'alba. Una sottile striscia arancione di luce solare splendeva all'orizzonte. Accanto a lui, automobili e camion a rimorchio sfrecciavano diretti a sud. Le persone che avevano attaccato la ditta di abbigliamento di Mr Bubble probabilmente stavano aspettando che tornasse a casa, a West Los Angeles. Gabriel aveva abbandonato la sua Honda alla manifattura e aveva bisogno di un'altra motocicletta. A New York o a Hong Kong - in qualsiasi città verticale - avrebbe potuto far perdere le sue tracce nella metropolitana o nella folla. Ma a Los Angeles solo vagabondi e immigrati clandestini circolavano a piedi. Con la sua moto, sarebbe stato rapidamente assorbito dal traffico che affluiva dalle vie di quartiere verso l'anonima confusione delle superstrade. Un vecchio di nome Foster abitava due case più in là della sua. Nel cortile posteriore aveva un capanno per gli attrezzi con il tetto in lamiera ondulata. Gabriel scavalcò il muro di cemento che separava la superstrada dalle case e poi saltò sopra il tetto del capanno. Scrutando al di sopra dei
tetti, vide che di fronte a casa sua era parcheggiato un furgone della società elettrica. Restò là in piedi per alcuni minuti, senza sapere cosa fare, quando una fiammella gialla lampeggiò nella cabina del furgone. Qualcuno seduto nella penombra si era appena acceso una sigaretta. Gabriel saltò giù dal capanno e si issò di nuovo sul muro divisorio. Il sole si era alzato, spuntando come un pallone sporco da dietro una fila di capannoni. "Fallo adesso" pensò Gabriel. "Se hanno aspettato tutta la notte saranno probabilmente mezzo addormentati." Tornò alla recinzione di casa sua e la scavalcò, ritrovandosi nel proprio cortile. Senza la minima esitazione, corse verso il garage e con un calcio sfondò la porticina laterale. La sua moto Guzzi era parcheggiata in mezzo alla rimessa. Il motore massiccio, il serbatoio nero e il manubrio stretto da corsa gli avevano sempre ricordato un toro da corrida in attesa di un torero. Gabriel mollò un pugno al pulsante che attivava l'apertura elettrica dell'autorimessa e montò in sella, accendendo il motore. La serranda di metallo del garage si sollevò con un forte cigolio. Non appena vide un metro e mezzo di apertura, Gabriel diede gas. Tre uomini si precipitarono giù dal furgone, correndo verso di lui. Quando Gabriel risalì a tutto gas il vialetto d'accesso, un uomo in giacca blu alzò quello che sembrava un fucile lanciagranate, con la granata innestata sulla canna. Gabriel saltò il marciapiede atterrando sulla strada e l'uomo premette il grilletto dell'arma. La granata si rivelò essere un sacchetto di plastica spessa pieno di qualcosa di pesante. Colpì il fianco della motocicletta, facendola sbandare paurosamente. "Non fermarti" pensò Gabriel. "Non rallentare." Sterzò bruscamente a sinistra, recuperò l'equilibrio e accelerando risalì la via fino al primo incrocio. Guardando dietro la spalla, vide che i tre uomini stavano correndo verso il furgone. Gabriel svoltò l'angolo piegando al massimo, con la ruota posteriore della Guzzi che sparava dietro di sé frammenti di ghiaia. Diede ancora gas e l'accelerazione lo schiacciò contro il sedile. Il suo corpo parve entrare a far parte della meccanica, un'estensione della sua potenza, mentre si teneva stretto alla moto e superava di slancio un semaforo rosso. Restò sulle strade provinciali, dirigendosi a sud verso Compton, poi invertì la direzione di marcia e tornò indietro verso Los Angeles. A mezzogiorno passò davanti all'angolo tra Wilshire Boulevard e Bundy Drive, ma Michael non c'era. Fece il pieno di benzina pagando in contanti, guidò a
nord verso Santa Barbara e trascorse la notte in un motel di quinta categoria a diversi chilometri dalla spiaggia. Tornò a Los Angeles il giorno seguente, ma nemmeno allora trovò Michael. Acquistò diversi giornali e lesse ogni singolo articolo. Non c'era nessun accenno alla sparatoria alla ditta di abbigliamento. Sapeva che i quotidiani e i telegiornali riferivano soltanto le notizie che appartenevano a un certo livello della realtà. Quello che gli stava capitando era su un altro livello, come un universo parallelo. Nel mondo, società diverse crescevano o venivano distrutte, creando nuove tradizioni o cambiando le regole, mentre la Griglia fingeva che i volti trasmessi alla televisione fossero le uniche storie importanti. Per il resto della giornata restò in sella alla moto, fermandosi soltanto una volta per fare il pieno e bere un po' d'acqua. Sapeva che avrebbe fatto bene a trovarsi un nascondiglio, ma un'energia nervosa gli impediva di fermarsi. Quando fu stanco, Los Angeles esplose in frammenti: immagini isolate senza un tessuto connettivo. Fronde di palma secche ai bordi della strada. Un gigantesco pollo di plastica. Un volantino con la foto di un cane smarrito. Cartelli dappertutto: PREZZI STRACCIATI! OFFERTE IRRIPETIBILI! CONSEGNE A DOMICILIO! Un vecchio che leggeva la Bibbia. Una ragazzina che parlava al cellulare. Poi il semaforo diventò verde e Gabriel ripartì a tutta velocità senza meta, verso il nulla. Era uscito con diverse donne a Los Angeles, ma le sue relazioni di rado duravano più di un mese o due. Nessuna ragazza gli avrebbe dato una mano se si fosse presentato alla porta in cerca di aiuto. Aveva alcuni amici: appassionati di paracadutismo o di moto, ma non aveva un legame profondo con nessuno di loro. Per evitare la Griglia, si era isolato da tutti, a parte suo fratello. Guidando verso est lungo Sunset Boulevard gli venne in mente Maggie Resnick. Era un avvocato e si fidava di lei. Maggie avrebbe saputo cosa fare. Abbandonò Sunset Boulevard e seguì la strada battuta dal vento che saliva verso il Coldwater Canyon. La casa di Maggie sorgeva su un terreno in forte pendenza. Alla base della casa si trovava la serranda del garage; poi tre piani in vetro e acciaio di dimensioni decrescenti erano impilati l'uno sull'altro come gli strati di una torta nuziale. Era quasi mezzanotte, ma le luci erano ancora accese. Suonò il campanello e Maggie venne ad aprire la porta con indosso una vestaglia rossa di flanella e un paio di ciabatte di peluche. «Spero che tu non sia venuto a chiedermi di fare un giro in moto a que-
st'ora. Fa freddo, è buio e poi sono stanca. Devo ancora leggermi tre deposizioni.» «Ho bisogno di parlarti.» «Che cos'è successo? Sei nei guai?» Gabriel annuì. Maggie si fece da parte per lasciarlo entrare. «Allora accomodati. La virtù è ammirevole, ma noiosa. Suppongo sia questo il motivo per cui sono una penalista.» Sebbene Maggie detestasse cucinare, aveva chiesto al suo architetto di progettarle una cucina enorme. Pentole di rame appese con dei ganci al soffitto. Bicchieri di cristallo in ordine su di uno scaffale. Un frigorifero a doppia anta d'acciaio inossidabile, con dentro solo quattro bottiglie di champagne e il contenitore di un take-away cinese. Mentre Maggie preparava il tè, Gabriel si sedette al bancone. La sua sola presenza in quella casa era già un fattore di pericolo per Maggie, ma aveva un disperato bisogno di raccontare tutto a qualcuno. Faceva fatica a ragionare, e i ricordi d'infanzia avevano cominciato a farsi strada tra i suoi pensieri. Maggie gli versò una tazza di tè bollente, poi si sedette di fronte a lui e si accese una sigaretta. «Va bene. Da questo momento sono il tuo avvocato difensore. Questo significa che tutto quello che mi dirai è strettamente confidenziale a meno che tu non stia progettando un crimine.» «Non ho fatto niente di male.» Maggie agitò la mano e un filo di fumo si disegnò nell'aria. «Non dire così, Gabriel. L'hai fatto di certo. Abbiamo tutti commesso dei crimini. La prima domanda è: la polizia ti sta cercando?» Gabriel le disse della morte di sua madre, e poi le raccontò l'assalto all'auto di Michael, l'incontro con Mr Bubble e la sparatoria alla ditta di abbigliamento. Per la maggior parte del tempo Maggie si limitò a lasciarlo parlare senza interromperlo, ma di tanto in tanto gli chiese come facesse a sapere un determinato fatto. «Sapevo che Michael prima o poi ti avrebbe messo nei guai» commentò alla fine. «La gente che nasconde al governo i suoi soldi è spesso implicata in attività illecite. Michael doveva sapere che, se avesse smesso di pagare le rate del suo palazzo, non sarebbero andati alla polizia, ma lo avrebbero fatto cercare da qualche gorilla.» «Potrebbe trattarsi di qualcos'altro» osservò Gabriel. «Quando eravamo ragazzi nel South Dakota, degli uomini bruciarono la nostra fattoria e mio padre scomparve. Non scoprimmo mai il motivo. Solo in punto di morte
nostra madre ci ha raccontato questa storia assurda.» Gabriel aveva sempre evitato di raccontare della sua famiglia, ma in quel momento non riusciva a fermarsi. Parlò della sua vita nel South Dakota e raccontò ciò che aveva detto sua madre in punto di morte. Maggie aveva trascorso la maggior parte della vita ad ascoltare mentre i clienti le spiegavano i loro delitti. Si era abituata a non lasciare trapelare nessuna traccia di scetticismo sino alla fine del racconto. «È tutto, Gabriel? Non ci sono altri particolari?» «È tutto quello che ricordo.» «Vuoi del cognac?» «In questo momento no.» Maggie andò a prendere da un armadietto una bottiglia di cognac francese e se ne versò un bicchiere. «Non voglio mettere in dubbio quello che ti ha raccontato tua madre, Gabriel, ma devo dirti che non coincide con la mia esperienza. Di solito la gente si mette nei guai per sesso, per orgoglio o soldi. A volte per tutte e tre le cose assieme. Questo mafioso di cui Michael ti ha parlato - Vincent Torrelli - è stato ucciso ad Atlantic City. Da quello che mi hai detto di Michael, penso che potrebbe aver accettato dei soldi sporchi, senza poi restituirli.» «Pensi che Michael stia bene?» «È probabile. Se vogliono proteggere il loro investimento, devono per forza tenerlo in vita.» «Cosa posso fare?» «In pratica poco» sentenziò Maggie. «Perciò la domanda è: ho intenzione di lasciarmi coinvolgere in questa faccenda? Immagino che tu sia completamente al verde. Sbaglio?» Gabriel scosse la testa. «Mi piaci, Gabriel. Non mi hai mai mentito, e per me è stato un piacere. Per la maggior parte della mia vita ho avuto a che fare con bugiardi di professione. Dopo un po' ti sfinisce.» «Volevo solo il tuo consiglio, Maggie. Non ti sto chiedendo di farti coinvolgere in questa storia. Potrebbe essere pericoloso.» «La vita è pericolosa. È questo a renderla interessante.» Maggie finì il suo cognac e prese una decisione. «D'accordo. Ti aiuterò. È un mitzvah, e poi così posso tirare fuori il mio inutilizzato istinto materno.» Aprì lo sportello di un pensile della cucina e prese un flacone di pillole. «Adesso fammi contenta e prendi qualche vitamina.»
22 Quando Victory From Sin Fraser aveva solo otto anni, un cugino in visita a Los Angeles le aveva raccontato la storia del coraggioso Arlecchino che aveva sacrificato la propria vita per il profeta. La storia era talmente drammatica che Vicki aveva provato un immediato legame con quel misterioso gruppo di difensori. Crescendo, la madre di Vicki, Josetta, e il pastore della loro comunità parrocchiale, il reverendo J.T. Morganfield, avevano cercato in tutti i modi di dissuaderla dal seguire la dottrina del Debito Insoluto. Vicki Fraser era un'obbediente seguace della sua Chiesa, ma rifiutava di mutare opinione su quell'unico argomento. Con il tempo il Debito Insoluto era diventato il suo unico sostituto alle ribellioni adolescenziali, come le fughe da casa o il bere alcolici. Josetta si era infuriata quando sua figlia le aveva confessato di essere andata all'aeroporto ad accogliere un Arlecchino. «Dovresti vergognarti» l'aveva redarguita. «Il profeta ha detto che è un peccato mortale disobbedire ai genitori.» «Il profeta ha anche detto che si può disobbedire alle regole quando si fa la volontà di Dio.» «Gli Arlecchini non c'entrano niente con la volontà di Dio» aveva replicato Josetta. «Prima ti sgozzano e poi si infastidiscono se il tuo sangue sporca le loro scarpe.» Il giorno dopo in fondo alla via dei Fraser comparve un furgone della società elettrica. Tre uomini, uno di colore e due bianchi, cominciarono ad arrampicarsi sui pali della luce e a controllare i cavi, ma Josetta non si lasciò ingannare. I finti operai si erano presi ben due ore di pausa pranzo e non sembravano avere nessuna intenzione di finire in fretta il lavoro. Per tutto il giorno uno di essi rimase a gironzolare in strada senza fare nulla, tenendo d'occhio a distanza la casa dei Fraser. Josetta ordinò a sua figlia di rimanere chiusa in casa e lontana dal telefono. Il reverendo Morganfield e altri membri della Chiesa misero i loro abiti migliori e cominciarono ad arrivare uno dopo l'altro a casa dei Fraser, per delle riunioni di preghiera. Nessuno avrebbe sfondato la porta e rapito quella vergine del Signore. Vicki non era per niente pentita di aver aiutato Maya ed essere finita nei guai. Di solito la gente non le prestava attenzione, mentre ora l'intera congregazione parlava di ciò che aveva fatto. Dato che non poteva uscire, trascorse la maggior parte del tempo a pensare a Maya. La donna arlecchino era al sicuro? La Tabula l'aveva uccisa?
Tre giorni dopo il suo atto di disobbedienza Vicki stava guardando fuori dalla finestra sul retro quando Maya scavalcò all'improvviso lo steccato di casa. Per un attimo Vicki credette di averla evocata dai propri sogni. Attraversando il giardino sul retro, Maya estrasse dalla tasca del cappotto una pistola automatica. Vicki le aprì la porta di vetro scorrevole e agitò la mano. «Attenta!» disse. «Nella strada davanti ci sono tre uomini. Sembrano operai della società elettrica, ma crediamo che siano della Tabula.» «Sono entrati in casa?» «No.» Maya si tolse gli occhiali da sole passando dal soggiorno alla cucina. La pistola sparì in tasca, ma la donna arlecchino tenne la mano destra vicino all'apertura della custodia a tubo che teneva a tracolla. «Hai fame?» le domandò Vicki. «Vuoi che ti prepari qualcosa?» Maya si fermò accanto al lavello, scrutando gli oggetti della stanza. E Vicki vide la cucina in modo diverso dal solito, come se la guardasse per la prima volta in vita sua. Le padelle e le pentole verde avocado. L'orologio a muro di plastica. La graziosa contadina in ceramica. Era tutto normale. «Shepherd è un traditore» la informò Maya. «Lavora per la Tabula. E tu l'hai aiutato. Il che significa che anche tu potresti essere una traditrice.» «Non ti ho tradita, Maya. Te lo giuro sul nome del profeta.» La donna arlecchino sembrava stanca e vulnerabile. Continuava a guardarsi attorno, come se qualcuno potesse attaccarla da un momento all'altro. «Non mi fido completamente di te, ma a questo punto non ho alternative. Posso pagare per il tuo aiuto.» «Non voglio denaro dagli Arlecchini.» «Garantisce un minimo di lealtà.» «Ti aiuterò gratuitamente, Maya. Devi solo chiedere.» Guardandola negli occhi, Victory si rese conto che la ragazza arlecchino stava facendo un grande sforzo. Chiedere l'aiuto di un'altra persona richiedeva umiltà, obbligava ad ammettere la propria debolezza. Gli Arlecchini invece traevano la loro forza da un grande orgoglio e da un'incrollabile fiducia in se stessi. Maya balbettò alcune parole inintelligibili, poi ci riprovò, parlando con maggior precisione. «Vorrei che tu mi aiutassi.» «Sì. Con piacere. Hai un piano?» «Devo assolutamente trovare questi due fratelli prima che li catturi la Tabula. Non dovrai usare armi. Non dovrai far del male a nessuno. Aiuta-
mi solo ad assumere un mercenario che non mi tradirà. La Tabula è molto potente in questo Paese e Shepherd collabora con loro. Non posso farcela da sola.» «Vicki?» Sua madre aveva sentito le loro voci. «Cosa succede? Abbiamo visite?» Josetta era una donna robusta, dal viso pieno. Quel mattino indossava un completo giacca-pantalone verde e il medaglione a forma di cuore con la fotografia del suo defunto marito. Entrò in cucina e si bloccò non appena vide l'estranea. Le due donne si fissarono con ostilità e, di nuovo, Maya portò la mano alla custodia della spada. «Mamma, questa è...» «So chi è» disse Josetta. «Una peccatrice assassina che ha portato la morte nella nostra vita.» «Sono in cerca di due fratelli» disse Maya. «Potrebbero essere due Viaggiatori.» «Isaac T. Jones era l'ultimo viaggiatore. Non ce ne sono altri.» Maya toccò il braccio di Vicki. «La Tabula sorveglia la vostra casa. A volte usano strumenti per vedere attraverso i muri. Non posso restare di più, è pericoloso per tutti noi.» Vicki era in piedi fra sua madre e la donna arlecchino. Fino a quel momento la sua vita le era sembrata vaga e confusa, come una foto sfocata nella quale delle figure indistinte fuggivano dall'obiettivo. Ma ora, in quel preciso istante, doveva fare una vera scelta. "Camminare è facile" diceva il profeta. "Ma ci vuole fede per trovare il giusto cammino." «Le darò il mio aiuto.» «No» ribatté Josetta. «Te lo proibisco.» «Non mi occorre il tuo permesso, mamma.» Vicki afferrò la sua borsetta e uscì nel giardino sul retro. Maya la raggiunse ai margini del prato. «Ricorda solo una cosa» disse. «Lavoriamo insieme, ma non mi fido ancora di te.» «D'accordo. Non ti fidi di me. Che cosa facciamo ora?» «Appoggiati allo steccato e saltalo.» Thomas Walks the Ground aveva dato a Maya un furgone Plymouth per le consegne. Non aveva finestrini laterali nel vano di carico, e Maya avrebbe potuto dormire nel retro in caso di necessità. Non appena Vicki salì sul furgone, Maya le disse di spogliarsi completamente. «Perché?»
«Tu e tua madre siete rimaste in casa negli ultimi due giorni?» «Siamo andate a trovare il reverendo Morganfield.» «Gli agenti della Tabula sono sicuramente entrati in casa e l'hanno perquisita da cima a fondo. Avranno messo delle perle localizzatrici nei vostri indumenti e nelle borse. Non appena ti allontanerai dalla zona, un satellite segnalerà la tua posizione.» Con un certo imbarazzo, Vicki andò nel retro del furgone e si tolse le scarpe, la camicetta e i pantaloni. Maya prese uno stiletto e lo usò per aprire ogni cucitura. «Hai fatto riparare queste scarpe di recente?» domandò. «No. Mai.» «Qualcuno ha usato un martello sulla suola.» Maya spinse la punta del coltello sotto il tacco e lo staccò. All'interno era stato scavato un piccolo vano. Maya capovolse la scarpa e una perla localizzatrice bianca le cadde nel palmo della mano. «Fantastico. Ora sanno che sei uscita di casa.» Maya buttò la sferetta dal finestrino e guidò il furgone fuori del quartiere. Si fermarono a comprare un paio di scarpe nuove per Vicki e poi fecero un salto in una chiesa di Avventisti del Settimo Giorno per prendere una dozzina di opuscoli. Fingendosi una missionaria avventista, Vicki andò a bussare alla porta della casa di Gabriel. Non rispose nessuno, ma la ragazza si sentì come osservata. Le due donne raggiunsero il parcheggio di un centro commerciale e andarono a sedersi nel vano posteriore del furgone. Mentre Vicki la osservava, Maya collegò un computer portatile a un telefono satellitare, digitando sulla tastiera un numero di telefono. «Che cosa stai facendo?» «Entro in rete. Ma devo stare attenta a Carnivore.» «Che cos'è?» «Il nome di un programma di sorveglianza di Internet elaborato dalla vostra FBI. Dopo Carnivore, la National Security Agency ha sviluppato strumenti di controllo anche più potenti, ma mio padre e i suoi amici Arlecchini continuavano a usare il termine "Carnivore": il nome ricordava loro la minaccia. Carnivore è un sofisticato programma di sorveglianza che osserva tutto ciò che passa attraverso una determinata rete. È focalizzato su siti e indirizzi e-mail particolari, ma rileva automaticamente anche frasi e parole sospette.» «E la Tabula sa di questo programma?» «Vi accedono clandestinamente grazie al loro programma di monitorag-
gio Internet.» Maya digitò dei comandi sulla tastiera del computer portatile. «Si può aggirare Carnivore usando un linguaggio sobrio e contenuto, che eviti parole classificate come sospette.» Vicki andò a sedersi sul sedile anteriore del furgone e tenne d'occhio il parcheggio mentre Maya cercava un altro Arlecchino. La gente usciva dal centro commerciale spingendo enormi carrelli stracarichi di cibo, vestiti e apparecchi elettronici. I carrelli erano così pesanti che le persone dovevano piegarsi in avanti per poterli spingere verso le loro auto. Vicki ricordò di aver letto al liceo la storia di Sisifo, il re greco condannato in perpetuo a spingere lo stesso masso su per una montagna. Dopo aver cercato in diversi siti web e avere digitato sulla tastiera diverse parole in codice, Maya trovò Linden. Vicki guardò sopra la sua spalla, mentre la ragazza inglese parlava in chat, evitando parole sospette. L'Arlecchino traditore, Shepherd, diventò "il nipote di un brav'uomo" che si era "legato a una ditta concorrente" e aveva distrutto "il nostro possibile affare". «Stai bene?» domandò Linden. «Sì.» «Problemi con il negoziato?» «Carne fredda due volte» digitò Maya. «Strumenti a sufficienza?» «Adeguati.» «Condizioni fisiche?» «Stanchezza, ma nessun danno.» «Hai assistenza?» «Un'impiegata locale della Jones and Company. Oggi assumerò un professionista.» «Bene. Fondi disponibili.» Lo schermo restò vuoto per un paio di secondi, poi Linden digitò: «Ho sentito il mio amico l'ultima volta quarantotto ore fa. Dai un'occhiata...». L'informatore di Linden all'interno della Evergreen Foundation gli aveva fornito ben sei indirizzi a cui rivolgersi per tentare di trovare Michael e Gabriel Corrigan. C'erano anche brevi note come: "Gioca a golf con M" o "Amico di G". «Grazie.» «Cercherò di trovare altri dati. Buona fortuna.» Maya trascrisse su di un foglio gli indirizzi e spense il computer. «Abbiamo qualche altro posto in cui cercare» disse a Vicki. «Ma mi serve un
mercenario. Qualcuno che mi possa coprire le spalle.» «Conosco una persona.» «Fa parte di una tribù?» «Che cosa vuol dire?» «A volte le persone che rifiutano l'Immensa Macchina si uniscono in gruppi che vivono a vari livelli di clandestinità. Certe "tribù" rifiutano gli alimenti prodotti dalla Macchina. Altre ne rifiutano la musica o la moda. Alcune tribù cercano di vivere grazie alla fede, rifiutando la paura e il fanatismo della Macchina.» Vicki rise. «Quindi la Chiesa di Isaac T. Jones è una tribù.» «Esatto.» Maya avviò il furgone e si diresse verso l'uscita del parcheggio. «Una tribù guerriera è un gruppo in grado di difendersi fisicamente dalla Macchina. Gli Arlecchini usano i loro membri come mercenari.» «Hollis Wilson non fa parte di nessun gruppo. Ma sa combattere.» Mentre si dirigevano verso la zona sud di Los Angeles, Vicki spiegò che la Divina Chiesa di Isaac T. Jones sapeva che i fedeli più giovani potevano essere tentati dal materialismo della Nuova Babilonia. Gli adolescenti venivano incoraggiati a diventare missionari della Chiesa in Sudafrica o nei Caraibi. Era considerato un buon modo per incanalare l'energia giovanile. Hollis Wilson faceva parte di una nota famiglia della Chiesa di Isaac T. Jones, ma si era rifiutato di partire in missione e aveva cominciato a frequentare una gang del suo quartiere. I suoi genitori pregavano molto per lui e lo chiudevano a chiave in camera. Una volta, Hollis era tornato a casa alle due di notte e aveva trovato in casa un ministro dei Jonesie che lo aspettava per esorcizzare il demonio dal suo cuore. Quando Hollis era stato arrestato nei pressi di un'auto rubata, Mr Wilson aveva iscritto suo figlio a un corso di karatè dell'associazione sportiva della polizia. Si era convinto che l'istruttore di karatè potesse riuscire a dare ordine alla vita di Hollis. L'ambiente disciplinato delle arti marziali, invece, era stato la vera causa dell'allontanamento di Hollis dalla Chiesa. Dopo aver ottenuto il quarto dan di karatè, Hollis era partito con uno dei suoi istruttori per il Sudamerica. Era finito a Rio de Janeiro e aveva vissuto lì per sei anni, diventando un esperto di capoeira, una tecnica di combattimento brasiliana. «Poi è tornato a Los Angeles» proseguì Vicki. «L'ho conosciuto al matrimonio di sua sorella. Ha aperto una scuola di arti marziali a South Central.» «Descrivimelo. Che aspetto ha?» «Spalle larghe, ma slanciato. Treccine rasta.»
«E com'è di carattere?» «Sicuro di sé, e vanitoso. Crede che nessuna donna possa resistergli.» La scuola di arti marziali di Hollis Wilson sorgeva in Florence Avenue, tra una rivendita di alcolici e un videonoleggio. Sulla vetrina c'era scritto, a lettere gialle e rosse: DIFENDITI! KARATE, KICKBOXING E CAPOEIRA BRASILIANA. NIENTE CONTRATTI. I PRINCIPIANTI SONO BENVENUTI. Avvicinandosi alla scuola, Maya e Vicki udirono dei battiti di tamburo che si fecero più forti quando le due ragazze aprirono la porta d'ingresso. Hollis si era procurato dei fogli di compensato e aveva costruito da sé una scrivania e delle sedie pieghevoli che servivano da reception. Su un tabellone erano attaccati il programma dei corsi e alcuni poster che pubblicizzavano dei tornei di karatè locali. Maya e Vicki passarono davanti a due angusti spogliatoi con le porte sostituite da vecchi copriletto appesi, ed entrarono in un lungo stanzone senza finestre. Un uomo anziano in un angolo stava suonando delle congas e il suono faceva vibrare i muri di cemento. I capoeiristas erano riuniti in circolo, indossavano magliette e pantaloni di cotone bianco. Battevano le mani al ritmo del tamburo e assistevano a un combattimento. Uno dei due combattenti era un latinoamericano di bassa statura, che indossava una maglietta con la scritta THINK CRITICALLY. Stava tentando di difendersi dal suo avversario, un nero sui venticinque anni che gli dava istruzioni tra un calcio e l'altro. L'uomo guardò di sfuggita le due visitatrici e Vicki diede di gomito a Maya. Hollis Wilson aveva lunghe gambe e braccia muscolose. I capelli rasta gli arrivavano fin sotto le spalle. Dopo aver osservato la scena per qualche minuto, Maya si voltò e sussurrò a Vicki: «È lui Hollis Wilson?». «Sì. Quello con i capelli lunghi.» Maya annuì. «Andrà bene.» La capoeira era un miscuglio di grazia e violenza simile a una danza rituale. Dopo che Hollis e il latinoamericano ebbero concluso il combattimento, altre due persone entrarono nel cerchio formato dagli allievi. Saltellando, si avvicinarono alternando pugni, ruote e calci volanti, senza mai toccarsi. Se uno di loro cadeva, riusciva a sferrare calci verso l'alto appoggiandosi al suolo con le mani. Era un movimento continuo, e le magliette di entrambi erano fradice di sudore. Il cerchio si aprì e altri due avversari si misurarono, con Hollis che interveniva di tanto in tanto per dire loro di attaccare o difendere. Il vecchio
conghista batté sempre più in fretta e ogni allievo lottò una seconda volta; poi ci fu una serie di incontri conclusivi che enfatizzarono sgambetti e fulminei calci laterali. Hollis fece un cenno di assenso al musicista e la lezione ebbe termine. Esausti, gli allievi si sedettero sul pavimento. Si rilassarono con degli esercizi di stretching e di respirazione. Hollis non sembrava per niente affaticato. Camminava avanti e indietro, di fronte alla fila di allievi, parlando con la cadenza di un predicatore dei Jonesie. «Esistono tre tipi di reazioni umane: l'intenzionale, l'istintiva e l'automatica. Intenzionale, quando si ponderano le azioni. Istintiva, quando si reagisce senza pensare. Automatica, quando si fa qualcosa per abitudine, perché la si è già fatta altre volte.» Hollis si concesse una pausa e fissò gli allievi che gli sedevano di fronte. Sembrava valutare la loro forza. «Nella Nuova Babilonia, molte delle persone che conoscete pensano di essere intenzionali quando invece sono solo automatiche. Come un esercito di robot, guidano la loro auto sulla superstrada, vanno al lavoro, a fine mese ricevono un assegno in cambio di sudore, sofferenza e umiliazione, e ogni sera tornano a casa ad ascoltare false risate alla televisione. Sono già morti. O in fin di vita. Ma non lo sanno. «Poi c'è un'altra categoria di persone: i ragazzi e le ragazze da festa. Si fumano qualche canna. Si sbronzano di whisky. Cercano sesso veloce. Credono di essere in contatto con i loro istinti, il loro potere naturale, ma sapete una cosa? Sono automi anche loro. «Il guerriero è diverso. Il guerriero usa il potere del cervello per essere intenzionale e il potere del cuore per essere istintivo. I guerrieri non sono mai automatici, tranne quando si lavano i denti.» Hollis tacque un istante e allargò le mani. «Provate a pensare. A sentire. A diventare ciò che siete.» Hollis batté le mani di colpo, una sola volta. «Per oggi è tutto.» Gli allievi salutarono con un inchino, presero le loro sacche da palestra, infilarono le ciabatte infradito di gomma e uscirono dalla scuola. Hollis asciugò con una salvietta alcune chiazze di sudore sul pavimento e si voltò verso Vicki, sorridendo. «Questa sì che è una bella sorpresa!» esclamò. «Tu sei Victory From Sin Fraser... la figlia di Josetta Fraser.» «Ero una bambina quando abbandonasti la Chiesa.» «Mi ricordo. Servizio di preghiera al mercoledì sera. Sezione giovanile al venerdì sera. Cena in congregazione la domenica. Mi è sempre piaciuto
cantare nel coro. In chiesa c'è buona musica. Ma si pregava un po' troppo per i miei gusti.» «Evidentemente non eri un credente.» «Credo in un sacco di cose. Isaac T. Jones era un grande profeta, ma non fu l'ultimo.» Hollis si avviò verso la porta. «Bene, come mai sei venuta, e chi è la tua amica? I corsi per principianti sono mercoledì, giovedì e venerdì sera.» «Non siamo venute qui per i corsi. Questa è la mia amica Maya.» «E tu chi sei?» Hollis chiese a Maya. «Una convertita bianca?» «Questa è una battuta stupida» commentò Vicki. «Il profeta accettava persone di tutte le razze.» «Sto solo cercando di sondare i fatti, signorina Victory From Sin. Se non siete venute qui per delle lezioni, allora siete venute a invitarmi in chiesa. E. reverendo Morganfield avrà pensato che avrei reagito meglio di fronte a due ragazze. Il che può anche essere vero, ma non verrò lo stesso.» «Non siamo qui per la Chiesa» disse Maya. «Voglio assumerti, per combattere. Avrai certamente delle armi, o almeno saprai come procurartele.» «E tu chi diavolo sei?» Vicki lanciò un'occhiata a Maya, chiedendole il permesso di parlare. La donna arlecchino fece un breve cenno. "Diglielo." «Maya è un Arlecchino venuto a Los Angeles in cerca di due potenziali Viaggiatori.» Hollis fece un'espressione sorpresa, e poi scoppiò a ridere. «Già! E io sono Babbo Natale. Non dire idiozie, Vicki. Non ci sono più né Viaggiatori né Arlecchini. Li hanno uccisi tutti.» «Spero che tutti la pensino come te» disse Maya senza scomporsi. «Se nessuno crede che esistiamo, per noi tutto diventa più facile.» Hollis fissò Maya, alzando le sopracciglia come a chiederle con quale diritto fosse entrata nella sua palestra. Poi divaricò le gambe in posizione di combattimento e fece partire un pugno a mezza velocità. Vicki gridò, ma Hollis proseguì l'attacco con un diretto al volto e un calcio. Mentre Maya si fletteva all'indietro per sottrarsi ai colpi, la custodia della spada le scivolò dalla spalla, cadendo a terra. Hollis eseguì una ruota che terminò con un calcio, ma Maya riuscì a pararlo. Allora si mosse più in fretta, attaccando la sua avversaria con la massima forza e velocità. Usando calci e pugni, spinse Maya contro il muro. La ragazza deviò i suoi colpi con le mani e gli avambracci, spostò il peso
sul piede destro e rispose con un calcio frontale all'inguine. Hollis cadde all'indietro, rotolò su se stesso e si rimise in piedi continuando a parare i colpi di Maya. Ormai stavano combattendo con decisione, cercando di ferire l'avversario. Vicki gridò loro di piantarla, ma né l'uno né l'altra parvero udirla. Maya si era ripresa dalla sorpresa iniziale e ora il suo volto era calmo, i suoi occhi concentrati. Si fece sotto all'avversario, tirando rapidi calci e pugni con l'intento di produrre il massimo danno. Hollis le sfuggiva con l'agilità di un ballerino. Perfino in una situazione come quella si sentiva in dovere di dimostrarsi un combattente aggraziato e fantasioso. Con una girandola di pugni e di calci rotanti, spinse Maya verso il centro della palestra. La donna arlecchino si fermò quando urtò con il piede la custodia a tubo della spada, finse un diretto al volto di Hollis, si abbassò rapidamente e afferrò la custodia. Subito comparve la spada, l'elsa scattò in posizione e la ragazza passò al contrattacco. Il suo avversario perse l'equilibrio, cadde all'indietro, e Maya si bloccò. La punta della lama era a cinque centimetri dal collo di Hollis Wilson. «No!» urlò Vicki, e l'incantesimo si ruppe. La violenza e la rabbia scomparvero dalla stanza. Maya abbassò la spada mentre Hollis si rimetteva in piedi. «Sai, ho sempre voluto vedere una di quelle spade da Arlecchino.» «La prossima volta che ci batteremo sarai un uomo morto.» «Ma non ci batteremo mai più. Siamo dalla stessa parte.» Hollis si voltò e strizzò l'occhio a Vicki. «Allora, quanto pensate di pagarmi, belle ragazze?» 23 Hollis era al volante del furgone blu per consegne a domicilio e Vicki gli sedeva accanto. Maya era accovacciata nel vano di carico posteriore, lontana dai finestrini. Mentre attraversavano Beverly Hills, intravide qualche particolare della città. Diverse ville erano costruite in stile spagnolo, con tetti di tegole rosse e cortili interni. Altre sembravano versioni moderne di antiche ville toscane. Alcune case erano semplicemente grandi, prive di qualsiasi stile. Avevano portici elaborati e falsi balconi alla Giulietta e Romeo. Era strano vedere così tante costruzioni grandiose e insulse. Hollis attraversò Sunset Boulevard e imboccò la strada che saliva al Coldwater Canyon. «Ormai siamo in zona» disse.
«Può darsi che stiano sorvegliando la casa. Parcheggia a distanza di sicurezza.» Hollis si fermò pochi minuti dopo e Maya si sporse in avanti per spiare dal parabrezza. Erano posteggiati in un quartiere residenziale della collina, con le case a ridosso della strada. Un furgone della società elettrica sostava a pochi metri dalla villa di Maggie Resnick. Un uomo in tuta arancione si stava arrampicando su un palo della luce, e altri due operai lo guardavano dal basso. «Sembra tutto a posto» azzardò Hollis. Vicki scosse la testa. «Stanno cercando i fratelli Corrigan. Davanti a casa mia, negli ultimi due giorni, c'è stato un furgone identico a quello.» Maya, accovacciata sul pavimento del furgone, estrasse dalla valigetta il fucile a pompa. Lo caricò a pallettoni e piegò il calcio verso il basso. In quel modo, l'arma assomigliava a una grossa pistola. Quando tornò a ridosso del sedile anteriore, vide un SUV posteggiato dietro il furgone. Dal fuoristrada scese Shepherd, il quale fece un cenno col capo ai falsi operai, salendo i gradini di legno che conducevano all'entrata della casa. Suonò il campanello e rimase in attesa finché una donna non aprì la porta. «Avvia il motore» disse Maya. «E vai a fermarti davanti alla casa.» Hollis non le obbedì. «Chi è il tipo con i capelli biondi?» «È un ex Arlecchino di nome Shepherd.» «E gli altri due?» «Mercenari della Tabula.» «Cosa pensi di fare?». Maya non disse nulla. Bastarono pochi secondi perché i suoi due compagni si rendessero conto che voleva eliminare Shepherd e i mercenari. Vicki sembrava inorridita e Maya vide se stessa negli occhi della giovane donna. «Tu non ucciderai nessuno» disse Hollis con calma serafica. «Ti ho assunto, Hollis. Sei un mercenario.» «Ho posto delle condizioni. Ti aiuterò e ti proteggerò, ma non ti permetterò di andare in giro ad ammazzare la gente.» «Shepherd è un traditore» disse Maya. «Lavora per...» Prima che avesse il tempo di concludere la spiegazione, la serranda del garage si sollevò e dalla rimessa uscì un uomo in sella a una motocicletta. Mentre il fuggiasco saltava il marciapiede, uno dei finti operai parlò nella ricetrasmittente che teneva in mano. Maya strinse la spalla di Vicki. «Quello è Gabriel Corrigan» disse.
«Linden mi ha detto che ha una moto.» Gabriel svoltò a destra imboccando la strada del Coldwater Canyon e si diresse a monte verso Mulholland Drive. Pochi secondi dopo, tre motociclisti con dei caschi integrali neri passarono accanto al furgone, all'inseguimento del fuggitivo. «Sembra che ci fosse altra gente ad aspettarlo.» Hollis avviò il motore e premette l'acceleratore al massimo. Il furgone per consegne partì scodando sulle ruote lisce e imboccò la salita del canyon. Pochi minuti dopo stavano svoltando in Mulholland Drive, la strada che seguiva le colline di Hollywood. Guardando a sinistra si vedeva una foschia bruna sospesa su una vallata coperta di case, piscine azzurre e palazzi per uffici. Maya si scambiò di posto con Vicki e si sedette dal lato del passeggero, tenendo in mano il fucile. Le quattro motociclette li avevano già distanziati e quando il furgone imboccò una curva persero di vista per qualche secondo il gruppetto. La strada tornò dritta. Maya vide uno dei motociclisti estrarre di tasca un'arma che sembrava una pistola lanciarazzi. Raggiunse Gabriel, sparò un colpo contro la motocicletta rossa e mancò il bersaglio. Il proiettile colpì il sottile strato d'asfalto vicino al ciglio della strada, facendolo esplodere. «Che cosa diavolo era?» urlò Hollis. «Una cartuccia Hatton» spiegò Maya. «È carica di una miscela di cera e polvere di metallo. Stanno cercando di fargli saltare la ruota posteriore.» Il motociclista della Tabula rallentò mentre i suoi due compagni proseguivano l'inseguimento. Un pick-up stava arrivando in senso contrario. Il conducente terrorizzato suonò il clacson e agitò le mani freneticamente, nel tentativo di avvertire Hollis dell'uomo a terra. «Non ammazzarlo!» urlò Vicki mentre si avvicinavano al primo motociclista. L'uomo della Tabula guidava lentamente, e stava ricaricando la pistola. Maya sporse la canna del suo fucile a pompa dal finestrino aperto e sparò un colpo, facendogli scoppiare la gomma anteriore. La moto sbandò bruscamente a destra, urtò un muro di cemento e il motociclista fu sbalzato dalla sella. Maya caricò un altro colpo nella canna del fucile a pompa. «Non rallentare!» gridò. «Non dobbiamo perderli!» Il furgone vibrava come se fosse al limite della velocità, ma Hollis schiacciò l'acceleratore fino in fondo. Udirono una detonazione e quando uscirono dalla curva successiva videro che un secondo motociclista era
rimasto indietro a ricaricare la pistola lanciarazzi. L'uomo chiuse di scatto la canna e riprese l'inseguimento prima che riuscissero a raggiungerlo. «Accelera!» urlò Maya. Hollis si aggrappò spasmodicamente al volante mentre affrontavano sbandando la curva successiva. «Non posso. Ci scoppierà una gomma.» «Accelera!» Il secondo motociclista impugnava la pistola lanciarazzi con la sinistra e reggeva il manubrio con la destra. Prese una buca e per poco non perse il controllo. Quando rallentò, il furgone lo raggiunse, tagliandogli la strada. Maya sparò alla gomma posteriore della moto e il motociclista fu sbalzato oltre il manubrio. Il furgone proseguì accelerando e imboccò un'altra curva. Una grossa berlina verde arrivò loro incontro, suonando il clacson e zigzagando. "Tornate indietro" segnalò l'uomo. "Tornate indietro." Oltrepassarono la deviazione per il Laurel Canyon, passando un semaforo rosso. Maya sentì un'altra detonazione, ma in quel momento non riusciva a vedere né Gabriel né il terzo inseguitore. Poi il furgone uscì da una curva a gomito e la strada davanti a loro divenne dritta. La ruota posteriore di Gabriel era stata colpita, ma la moto proseguiva la corsa. Dalla gomma lacerata saliva del fumo e si udiva un frastuono raschiante di acciaio che grattava sull'asfalto. «Ci siamo!» gridò Hollis. Sterzò bruscamente in mezzo alla strada, ostacolando l'ultimo inseguitore. Maya si sporse dal finestrino, tenendo premuto il calcio del fucile contro la portiera, e premette il grilletto. I pallettoni colpirono il serbatoio della motocicletta facendola esplodere come una bomba incendiaria. L'uomo della Tabula fu sbalzato in un fosso. Cinquecento metri più avanti, Gabriel svoltò nel vialetto di una casa. Fermò la moto, scese in fretta e cominciò a correre. Anche Hollis svoltò nel vialetto e Maya si precipitò fuori dal furgone. Era troppo lontana da Gabriel. Non poteva raggiungerlo, ma continuò a correre, urlandogli la prima cosa che le venne in mente. «Mio padre conosceva tuo padre!» Gabriel si fermò sul margine della collina. Ancora qualche passo e sarebbe caduto in una scarpata coperta di arbusti secchi. «Era un Arlecchino!» gridò Maya. «Si chiamava Thorn!» E quelle parole, il nome di suo padre, raggiunsero Gabriel. Sembrava spaventato e disperatamente ansioso di sapere. Ignorando il fucile che Maya stringeva ancora in mano, fece un passo verso di lei. «Chi sono io?»
24 Nathan Boone guardava Michael, preoccupato. Il jet privato a bordo del quale si trovavano stava sorvolando gli appezzamenti rettangolari della campagna dell'Iowa. Prima di decollare dall'aeroporto di Long Beach il ragazzo si era addormentato. Ora il suo volto era completamente inespressivo. "Forse il sedativo era troppo forte" pensò Boone. Rischiava di provocare dei danni cerebrali permanenti. Boone ruotò sulla poltrona di pelle e si rivolse al medico seduto davanti a lui. Il dottor Potterfield veniva pagato come qualsiasi mercenario, ma insisteva a comportarsi come se godesse di privilegi speciali. A Boone piaceva tenerlo sotto pressione. «Controlli i segnali vitali del paziente.» «L'ho fatto solo un quarto d'ora fa.» «Lo faccia di nuovo.» Il dottor Potterfield si chinò sulla barella, mise due dita sulla carotide di Michael e controllò le pulsazioni. Gli auscultò il cuore e i polmoni, sollevò una palpebra e studiò l'iride. «Sconsiglio vivamente di mantenerlo in questo stato per un altro giorno. Il polso è regolare, ma il respiro si sta facendo flebile.» Boone sbirciò l'orologio. «Resisterà per altre quattro ore? È il tempo che manca per arrivare a New York, al centro di ricerca.» «Quattro ore non cambieranno niente.» «Mi aspetto che lei sia presente al momento del risveglio» disse Boone. «E se ci fosse qualche problema, sono sicuro che saprà prendersi le sue responsabilità.» Le mani di Potterfield tremarono leggermente mentre prendeva un termometro digitale dalla sua borsa nera e lo infilava nell'orecchio di Michael. «Non ci sarà nessun danno a lungo termine, ma non si aspetti che scali una montagna appena sveglio. È esattamente come riprendersi da un'anestesia totale. Il paziente sarà confuso e debole.» Boone ruotò la poltrona verso il tavolino al centro dell'aereo. Non era contento di aver dovuto lasciare Los Angeles. Uno dei suoi sottoposti, un giovane di nome Dennis Prichett, aveva interrogato i motociclisti feriti che avevano inseguito Gabriel Corrigan. Era chiaro che Maya si era trovata degli alleati e aveva catturato l'altro fratello. Il team di Los Angeles aveva bisogno di un capo, ma gli ordini ricevuti erano chiari: il Progetto Crosso-
ver aveva la priorità assoluta. Non appena Boone avesse trovato uno dei due fratelli, avrebbe dovuto scortarlo personalmente a New York... Boone aveva trascorso la maggior parte del tempo a bordo seduto di fronte al computer portatile. Aveva tentato di trovare Maya, appoggiandosi al centro di monitoraggio Internet dei Confratelli, nascosto nel centro di Londra. La privacy era ormai diventata soltanto una conveniente finzione. Kennard Nash una volta aveva tenuto una lezione sull'argomento a un gruppo di dipendenti della Evergreen Foundation. Il nuovo monitoraggio elettronico aveva cambiato radicalmente la società; era come se tutti si fossero trasferiti in un'abitazione tradizionale giapponese con le pareti interne fatte di bambù e carta di riso. Benché si sentisse la gente starnutire, chiacchierare e fare l'amore, la vita in società richiedeva che non vi si facesse attenzione. Bisognava fingere che le pareti fossero solide, spesse e insonorizzate. La gente aveva questo stesso atteggiamento quando passava davanti a una telecamera di sorveglianza o usava un telefono cellulare. Ormai le autorità all'aeroporto di Heathrow impiegavano strumenti a raggi X in grado di vedere attraverso i vestiti. L'idea che diverse organizzazioni sorvegliassero, controllassero e ascoltassero tutto e tutti era intollerabile. Meglio non pensarci affatto. Le autorità di governo che appoggiavano i Confratelli avevano fornito loro i codici di accesso a banche dati d'importanza capitale. La maggiore fonte di informazioni private era il Total Information Awareness, un sistema informatico ideato e adottato dal governo americano dopo l'approvazione del Patriot Act. La banca dati del TIA era progettata in modo da processare e analizzare immediatamente ogni transazione del Paese avvenuta via computer. Ogni volta che una persona usava una carta di credito, ritirava un libro da una biblioteca o partiva in viaggio, l'informazione veniva registrata nella banca dati centrale. Qualche libertario si era opposto a questa violazione della privacy. Il governo allora aveva trasferito il programma al servizio di intelligence e - rispettando l'acronimo - aveva ribattezzato il programma Terrorism Information Awareness, chiudendo la bocca a ogni critica. Altre nazioni stavano approvando nuove leggi sulla sicurezza e stavano avviando versioni locali del TIA. Se gli impiegati del centro di monitoraggio della Tabula a Londra non riuscivano a ottenere i codici di accesso, usavano sofisticati programmi software di nome Peephole, Hacksaw e Sledgehammer, per penetrare i firewall ed entrare in qualsiasi banca dati del
mondo. Boone era convinto che le armi più promettenti nella battaglia contro i nemici dei Confratelli fossero i nuovi programmi di immunologia computazionale. I cosiddetti programmi IC erano stati originariamente concepiti in Inghilterra per monitorare il sistema informatico della Royal Mail. Ma i programmi dei Confratelli erano più potenti. Trattavano l'intera rete come se fosse un enorme corpo umano. I programmi agivano come dei linfociti elettronici, prendendo di mira informazioni e idee pericolose. I programmi IC erano stati diffusi in Internet negli ultimi anni dal team informatico della Tabula. Erano entità indipendenti, che vagavano inosservate on-line e si installavano in migliaia di computer senza che nessuno se ne accorgesse. A volte rimanevano come linfociti nel computer di qualcuno, in attesa che comparisse un'idea contagiosa. Se trovavano qualcosa di sospetto, tornavano al computer che li aveva diffusi, a Londra, e attendevano istruzioni. Gli scienziati dei Confratelli stavano sperimentando anche un nuovo programma interattivo in grado di punire i dissidenti, come globuli bianchi di fronte a un'infezione. Il programma IC identificava le persone che menzionavano gli Arlecchini o i regni paralleli nelle loro comunicazioni via Internet. Subito dopo l'identificazione, il programma installava nel loro computer un virus che distruggeva tutti i dati. Una piccola percentuale dei peggiori virus diffusi in Internet era stata creata dai Confratelli o dai governi alleati con loro. Era facile poi dare la colpa a un hacker diciassettenne che abitava in Polonia. Maya era stata individuata impiegando sia un programma di immunologia computazionale sia un comune programma di scansione dati. Tre giorni prima, la donna arlecchino era entrata in un magazzino di ricambi auto e aveva ucciso due mercenari. Per allontanarsi, aveva dovuto scegliere se camminare, accettare un passaggio, comprare una vettura o utilizzare i mezzi pubblici. Il centro di monitoraggio a Londra aveva vagliato i rapporti della polizia di Los Angeles che parlavano di una giovane donna e si riferivano alla zona interessata. La ricerca non aveva prodotto risultati, e gli esperti informatici della Tabula erano entrati nei sistemi informatici delle società di taxi per sapere chi aveva chiamato un'auto nelle quattro ore successive agli omicidi. Gli indirizzi relativi al punto di prelievo e al punto di arrivo dei clienti erano stati confrontati con le informazioni ottenute dai programmi IC. Il centro di monitoraggio disponeva di nomi e indirizzi di centinaia di persone che potevano aiutare i Viaggiatori o gli Arlecchini.
Cinque anni prima il TIP, il team di valutazione psicologica dei Confratelli, si era collegato agli elaboratori centrali degli shopping club delle grandi compagnie alimentari americane. Ogni volta che una persona acquistava qualcosa e utilizzava la sua tessera sconto, le operazioni venivano registrate in una banca dati generale. Durante lo studio iniziale gli psicologi dei Confratelli avevano tentato di comparare le abitudini alimentari e il consumo di alcolici con le simpatie politiche. Boone aveva avuto modo di vedere alcune statistiche e le aveva trovate affascinanti. Le donne che vivevano nella California del Nord e compravano abitualmente più di tre tipi di senape erano, per la maggior parte, progressiste. Gli uomini del Texas orientale che acquistavano birra in bottiglia di alta fascia in genere erano conservatori. Con solo un indirizzo domiciliare e i dati relativi a un minimo di duecento acquisti nei supermarket, il team di valutazione psicologica o TLP era in grado di predire con la massima precisione l'opinione di una persona sui moderni sistemi di controllo sociale. Boone trovò interessante sapere che genere di persone si opponeva all'ordine sociale. Potevano essere idealisti amanti della natura, avversi alla tecnologia, che mangiavano cibo organico e rifiutavano il cibo industriale prodotto dall'Immensa Macchina. Ma anche maniaci della tecnologia che cenavano con barrette di cioccolato ripieno e navigavano in Internet alla ricerca di voci sui Viaggiatori. Mentre l'aereo di Boone sorvolava la Pennsylvania, il centro di monitoraggio inviò un messaggio al suo notebook. L'indirizzo del punto di arrivo del taxi corrisponde alla residenza di Thomas Walks the Ground, nipote di un Viaggiatore nativo americano neutralizzato. Il programma di immunologia computazionale ha rilevato alcune osservazioni negative riguardanti i Confratelli espresse dal suddetto individuo su un sito web sulla tribù dei Crow. Il jet fece una stretta virata e si avvicinò all'aeroporto regionale vicino al centro di ricerca della Evergreen Foundation. Boone salvò i dati sul suo computer e guardò Michael. I Confratelli lo avevano trovato e lo avevano salvato dagli Arlecchini; ma poteva ancora rifiutarsi di collaborare. Boone trovava intollerabile che alcune persone non volessero accettare la verità. Non c'era nessun bisogno di porsi domande di ordine filosofico o religioso. La verità era decisa da chi aveva il potere. Chiunque fosse.
Il jet aziendale atterrò all'aeroporto della contea di Westchester e rullò fino a un hangar privato. Pochi minuti più tardi, Boone scese la scaletta del velivolo. Il cielo autunnale era carico di nuvole e l'aria era gelida. Lawrence Takawa era in attesa a fianco dell'ambulanza che avrebbe portato Michael al centro di ricerca della Evergreen Foundation. Diede istruzioni a una squadra di paramedici e poi andò incontro a Boone. «Bentornato» disse. «Come sta Michael?» «Si rimetterà presto. È tutto pronto al centro?» «Eravamo già pronti due giorni fa, ma abbiamo dovuto fare alcune modifiche all'ultimo momento. Il generale Nash ha consultato il team di valutazione psicologica e ci hanno consigliato una nuova strategia, per Michael.» Dalla voce di Takawa trapelava una leggera tensione e Boone studiò il giovane nippoamericano. Ogni volta che lo vedeva, Lawrence aveva con sé qualcosa - un blocco per appunti, una cartellina, un foglio - che segnalava la sua autorità. «Ha problemi al riguardo?» domandò Boone. «La nuova strategia sembra piuttosto aggressiva» disse Lawrence. «Non so se è davvero necessaria.» Boone guardò di nuovo verso il jet. Il dottor Potterfield stava supervisionando una squadra di paramedici che adagiava la barella sulla pista. «Ora che gli Arlecchini hanno preso in custodia Gabriel, dobbiamo assicurarci che Michael lavori per noi.» Lawrence guardò la tabella per appunti che aveva in mano. «Ho letto i rapporti preliminari sui due fratelli. Sembrano molto attaccati l'uno all'altro.» «L'amore è solo un altro strumento di manipolazione» disse Boone. «Possiamo usare quest'emozione esattamente come usiamo l'odio e la paura.» La barella di Michael fu posata su una lettiga d'acciaio a rotelle, che venne spinta verso l'ambulanza. Il dottor Potterfield, visibilmente in ansia, rimase accanto al suo paziente. «Comprende il nostro obiettivo, Mr Takawa?» «Sì, signore.» Boone fece un rapido movimento con la mano destra che sembrò comprendere il jet aziendale, l'ambulanza e tutti i dipendenti dei Confratelli. «Questo è il nostro piccolo esercito» disse. «E Michael Corrigan è la nostra nuova arma.»
25 Victory Fraser guardava Hollis e Gabriel caricare la moto nel furgone. «Guidi tu» disse Hollis, lanciandole le chiavi. Lui e Gabriel si sedettero a gambe incrociate ai lati della motocicletta mentre Maya occupò il sedile del passeggero, con il fucile a pompa sulle ginocchia. Lasciarono Mulholland Drive e si persero nel labirinto di piccole vie residenziali delle colline di Hollywood. Gabriel continuava a fare domande a Maya sul passato della propria famiglia; sembrava avere un disperato bisogno di sapere tutto, e il più in fretta possibile. Vicki sapeva pochissimo sui Viaggiatori e gli Arlecchini, e seguiva il discorso con attenzione. La capacità di varcare i confini di altri regni era genetica, ereditata da un genitore o da un parente, ma di tanto in tanto comparivano sulla Terra Viaggiatori che non avevano parenti con il potere. Gli Arlecchini facevano accurate ricerche genealogiche sui Viaggiatori del passato, ed era così che Thorn aveva trovato il padre di Gabriel. Hollis abitava a pochi isolati dalla sua scuola di capoeira. Le casette unifamiliari della zona avevano giardini e aiuole fiorite, ma i muri e i cartelloni pubblicitari erano coperti di graffiti di gang locali. Quando svoltarono in Florence Avenue, Hollis chiese a Maya di scambiare con lui il suo posto. Chiese poi a Vicki di rallentare ogni volta che vedeva gruppi di ragazzi con vestiti oversize e bandane blu in testa. Hollis stringeva la mano a tutti e li chiamava con i loro nomi di strada. «Certe persone potrebbero girare da queste parti chiedendo di me» diceva loro. «Fategli capire che questo è il quartiere sbagliato.» Il vialetto d'accesso al villino di Hollis era chiuso da un cancello di rete metallica nelle cui maglie erano intrecciate delle strisce di plastica. Una volta posteggiato il furgone in fondo al vialetto e chiuso il cancello, il veicolo restava nascosto alla vista dalla strada. Hollis aprì con una chiave la porta sul retro e i quattro entrarono in casa. Ogni stanza era pulita e ordinata, e Vicki non vide nessun segno della presenza di una fidanzata. Le tende erano state ricavate da vecchie lenzuola, diverse arance erano posate in un coprimozzo pulito, e una delle due camere da letto era stata riempita di attrezzature da ginnastica e trasformata in palestra. Vicki si sedette al tavolo della cucina con Gabriel e Maya, mentre Hollis prendeva un fucile da assalto nascosto in un armadio per le scope. L'istruttore di arti marziali inserì un caricatore nell'arma e la appoggiò sul banco-
ne della cucina. «Qui saremo al sicuro» disse. «Se qualcuno dovesse attaccare la casa, io li terrò occupati. Voi invece scavalcherete il muro e fuggirete attraverso il giardino del mio vicino di casa.» Gabriel scosse il capo. «Non voglio che qualcuno rischi la vita per me.» «Mi pagano per farlo» disse Hollis. «È Maya quella che lo fa gratis.» Tutti osservarono Hollis riempire d'acqua un bollitore e metterlo sul fornello per il tè. Aprì il frigorifero e prese pane, formaggio, fragole e due manghi maturi. «Qualcuno ha fame?» domandò. «Penso di averne per tutti.» Vicki decise di preparare una macedonia di frutta mentre Hollis tostava in una padella delle fette di pane al formaggio. La giovane jonesie preferiva stare in piedi al bancone a tagliare le fragole: sedere accanto a Maya la metteva a disagio. La donna arlecchino aveva un'aria esausta, ma sembrava incapace di rilassarsi. Vicki pensò che doveva essere terribile passare tutta la vita tenendosi sempre pronti a uccidere, sempre in attesa di un attacco. Ricordò l'epistola sull'inferno scritta da Isaac T. Jones ai suoi fedeli. Naturalmente esisteva un inferno vero e reale. Il profeta l'aveva visto con i suoi stessi occhi "Ma fratelli e sorelle miei, la vostra preoccupazione più grande dev'essere l'inferno che vi create nel cuore." «Sul furgone mi hai raccontato dei Viaggiatori» disse Gabriel a Maya. «Ma non mi hai detto nulla degli Arlecchini.» Maya sistemò la cinghia della custodia della sua spada. «Gli Arlecchini proteggono i Viaggiatori. È tutto quello che devi sapere.» «Ci sono capi e regole? Qualcuno ti ha ordinato di venire in America?» «No. È stata una mia decisione.» «E perché tuo padre non è venuto ad aiutarti?» Gli occhi di Maya erano fissi su una saliera al centro del tavolo. «Mio padre è stato ucciso una settimana fa, a Praga.» «È stata la Tabula?» chiese Hollis «Sì.» «Com'è successo?» «Questo non vi riguarda» la voce di Maya era controllata, ma il suo corpo si era irrigidito per la rabbia. Vicki pensò che l'Arlecchino era pronta a scattare, e ucciderli tutti. «Ho accettato di proteggere Gabriel e suo fratello. Quando il mio compito sarà concluso, troverò l'uomo che ha ucciso mio padre.» «Io e Michael abbiamo a che vedere con la sua morte?» «No. La Tabula ha sempre dato la caccia a mio padre. Già due anni fa, in
Pakistan, avevano tentato di ucciderlo.» «Mi dispiace.» «Non sprecare le tue emozioni» disse Maya. «Noi non proviamo niente per il resto del mondo, e non ci aspettiamo niente in cambio. Da bambina mio padre mi ripeteva sempre: "Verdammt durch das Fleisch. Gerettet durch das Blut". Significa: "Dannati dalla carne. Salvati dal sangue". Gli Arlecchini sono condannati a una guerra senza fine. Ma forse i Viaggiatori ci salveranno dall'inferno.» «E da quanto tempo gli Arlecchini combattono questa guerra?» Maya scostò una ciocca di capelli dalla fronte. «Mio padre diceva che siamo una linea ininterrotta di guerrieri che esiste da migliaia di anni. Durante la Pasqua ebraica, accendeva delle candele e mi leggeva il diciottesimo capitolo del Vangelo di Giovanni. Dopo che Gesù ebbe trascorso la notte nell'orto di Getsemani, Giuda arrivò con i soldati romani e le guardie mandate dai sacerdoti.» «Conosco quel passaggio della Bibbia» disse Hollis. «In effetti è un po' strano. Gesù viene sempre presentato come il Principe della Pace. In tutto il Nuovo Testamento nessuno fa mai riferimento ad armi o a guardie del corpo, ma a un tratto uno dei discepoli...» «Pietro» disse Vicki. «Sì, Pietro estrae una spada e taglia l'orecchio del servo del sommo sacerdote, un uomo che si chiamava...» Hollis guardò Vicki, sicuro che avrebbe avuto la risposta. «... Malco.» «Esatto.» Hollis sorrise. «Così il cattivo si ritrova senza un orecchio.» «Alcuni studiosi ritengono che Pietro fosse uno Zelota» proseguì Maya. «Ma mio padre credeva che fosse il primo Arlecchino citato in un documento storico.» «Ci stai dicendo che Gesù era un Viaggiatore?» domandò Vicki. «Gli Arlecchini sono guerrieri, non teologi. Non sappiamo quale Viaggiatore sia la vera incarnazione della Luce. Il più importante potrebbe essere Gesù o Maometto o Buddha. Oppure potrebbe benissimo essere uno sconosciuto rabbino hasidico ucciso durante l'Olocausto. Noi difendiamo i Viaggiatori, ma non giudichiamo la loro santità. Questo spetta ai fedeli.» «Ma tuo padre citava la Bibbia» osservò Gabriel. «Discendo dal ramo europeo degli Arlecchini. La mia stirpe ha legami più stretti con il cristianesimo. Anzi, certi Arlecchini proseguivano nella lettura del Vangelo di Giovanni. Dopo che Gesù venne arrestato, Pietro...»
«... rinnegò Gesù.» Hollis voltò le spalle ai fornelli. «Era un discepolo, ma rinnegò il Signore tre volte.» «La leggenda vuole che gli Arlecchini siano dannati per questo tradimento. Dato che Pietro non rimase fedele a Gesù, dobbiamo difendere i Viaggiatori sino alla fine dei tempi.» «Non sembra che tu ci creda» commentò Hollis. «È solo una storia della Bibbia. Non penso sia così, ma credo fermamente che esista una storia segreta del mondo. Ci sono sempre stati guerrieri a difesa di mistici o di altre persone impegnate in una ricerca spirituale. Durante le Crociate, un gruppo di cavalieri cristiani iniziò a proteggere i pellegrini che si recavano in Terra Santa. Baldovino II, il re crociato di Gerusalemme, permise a questi cavalieri di occupare una parte del tempio ebraico. Cominciarono così a chiamarsi i Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone.» Gabriel versò una tazza di tè. «Ne ho sentito parlare. I Templari.» «Sì, è il nome usato comunemente» disse Maya. «I Templari diventarono un ordine ricco e potente che controllava chiese e castelli in tutta Europa. Possedevano una flotta di navi e prestavano capitali ai sovrani europei. Quando i Templari lasciarono la Terra Santa, cominciarono a difendere le persone che effettuavano viaggi spirituali, i cosiddetti pellegrini dello spirito. Entrarono in relazione con vari gruppi eretici, come i bogomili in Bulgaria e i catari in Francia. Erano tutti gnostici, convinti che l'anima fosse prigioniera del corpo e che solo alcuni individui iniziati a un sapere occulto fossero capaci di sfuggire a questa prigione e di varcare i confini tra i regni.» «Poi i Templari furono sterminati» disse Gabriel. Maya annuì lentamente, come ricordandosi di una storia imparata molti anni prima. «Re Filippo TV di Francia temeva il loro potere e voleva i loro tesori. Nel 1307 mandò le sue truppe al quartier generale dei Templari e li fece arrestare per eresia. Il Gran Maestro dei Templari fu messo al rogo e l'ordine cessò di esistere... almeno pubblicamente. Ma solo pochi Templari vennero uccisi. La maggior parte di essi entrò in clandestinità, proseguendo la propria opera.» «Ora di pranzo» annunciò Hollis. Mise un piatto di sandwich sul tavolo e Vicki finì di preparare la macedonia. Tutti si sedettero intorno al tavolo e cominciarono a mangiare; ma l'atmosfera era ancora tesa. Maya fissava Gabriel come se stesse valutando se il ragazzo poteva realmente essere un Viaggiatore. Gabriel sembrava aver intuito i pensieri della ragazza, e fissa-
va il proprio piatto. «Ma perché vi chiamate Arlecchini?» domandò a un tratto a Maya. «Arlecchino non è un personaggio tradizionale?» «Cominciammo a usare questo nome nel XVII secolo. Arlecchino è uno dei personaggi della Commedia dell'arte italiana, di solito un servitore scaltro e intelligente. Indossa un costume a rombi e a volte suona il liuto o porta al fianco una spada di legno. Indossa sempre una maschera, per celare la propria identità.» «Ma è un nome italiano» osservò Hollis. «Sapevo che gli Arlecchini provenivano anche dal Giappone e dalla Persia e praticamente da tutte le nazioni del mondo.» «Nel XVII secolo gli Arlecchini europei cominciarono a entrare in contatto con guerrieri di altri Paesi, impegnati a loro volta a difendere i Viaggiatori. La nostra prima alleanza fu con i sikh che vivevano nel Punjab, in India. Come gli Arlecchini, i devoti sikh erano armati di una spada rituale denominata kirpan. Più o meno nello stesso periodo, concludemmo alleanze anche con i guerrieri buddhisti e sufi. Nel XVIIl secolo si unì a noi un ordine di guerrieri ebrei della Russia e dell'Europa Orientale che difendevano i cabalisti.» Vicki si rivolse a Gabriel. «Lion of the Tempie, l'Arlecchino che difese il nostro profeta, era di famiglia ebrea.» Hollis scoppiò a ridere. «Sai una cosa? Io ci sono stato in quella cittadina dell'Arkansas in cui avvenne il linciaggio di Isaac T. Jones. Trent'anni fa il NAACP e non so quale associazione ebraica si impegnarono per la posa di una targa d'ottone in onore di Zachary Goldman. La cerimonia fu una sorta di fraterno happening pace e amore, in onore di un Arlecchino che aveva ammazzato a colpi di grimaldello due bastardi razzisti.» «Ci sono mai state riunioni di Arlecchini?» domandò Gabriel. «I diversi gruppi si sono mai riuniti?» «No, non è mai successo. Gli Arlecchini rispettano la casualità della guerra. Non amiamo le regole. Le famiglie di Arlecchini sono collegate le une alle altre da vincoli matrimoniali, tradizione e amicizia. Certe famiglie sono alleate da secoli. Non abbiamo capi eletti né una costituzione. L'unica cosa che ci lega è la visione del mondo. Alcuni di noi combattono per difendere la libertà. Altri combattono perché è il nostro destino. Non parlo della possibilità di acquistare quattordici tipi diversi di dentifricio o della follia che spinge certi terroristi a fare esplodere un autobus pieno di gente. La vera libertà è tolleranza. Dà alla gente il diritto di vivere e di pensare in
modo sempre nuovo.» «Quando dici: "Dannati dalla carne. Salvati dal sangue"» chiese Gabriel «di quale sangue stai parlando? Della Tabula, degli Arlecchini o dei Viaggiatori?» «Scegli tu» concluse Maya. «Forse di tutti.» In casa c'era solo una camera da letto. Hollis propose che le due donne dividessero lo stesso letto mentre lui e Gabriel avrebbero dormito in soggiorno. Vicki capì subito che a Maya l'idea non piaceva. Ora che aveva trovato Gabriel, diventava ansiosa non appena il ragazzo spariva dal suo campo visivo. «Andrà tutto bene» bisbigliò Vicki. «Gabriel sarà a pochi metri da noi. Possiamo lasciare aperta la porta. E poi Hollis ha un fucile.» «Hollis è un mercenario. Non so fino a che punto è disposto a sacrificarsi.» Maya andò svariate volte dal soggiorno alla camera da letto come se volesse memorizzare perfettamente la posizione delle porte e delle pareti interne. Poi andò in camera e infilò la lama dei suoi due coltelli da lancio tra la rete del letto e il materasso, lasciando sporgere le impugnature. Le bastava abbassare la mano per estrarre un coltello dal fodero. Finalmente si coricò, e Vicki si distese sull'altro lato del materasso. «Buonanotte» disse, ma Maya non le rispose. Vicki aveva dormito con la sorella maggiore e varie cugine durante le vacanze ed era abituata a addormentarsi con qualcuno a fianco. Ma Maya era completamente diversa. La donna arlecchino se ne stava supina con le mani strette a pugno. Sembrava che un peso immenso le schiacciasse il corpo. 26 Quando Maya si svegliò il mattino successivo vide un gatto nero seduto sul comodino. «Che cosa vuoi?» sussurrò, ma non ottenne nessuna risposta. Il gatto saltò sul pavimento e uscì dalla stanza, lasciandola sola. Sentì delle voci e sbirciò fuori dalla finestra della camera da letto. Hollis e Gabriel erano nel vialetto d'accesso e stavano esaminando la motocicletta danneggiata. Acquistare un nuovo pneumatico anteriore implicava una transazione monetaria e un contatto con un'officina meccanica collegata all'Immensa Macchina. La Tabula doveva sapere tutto sulla moto da riparare e aveva probabilmente attivato i suoi programmi di ricerca per verificare le vendite di gomme nell'area di Los Angeles.
Riflettendo sulla sua mossa successiva, andò in bagno e si fece una rapida doccia. I cappucci digitali che le avevano permesso di passare i controlli del servizio immigrazione degli Stati Uniti stavano cominciando a staccarsi dalle dita. Maya si vestì, allacciò agli avambracci i due coltelli e controllò le altre armi. Il gatto nero ricomparve quando uscì dal bagno, precedendola in corridoio. Vicki stava lavando i piatti. «Vedo che hai conosciuto Garvey.» «Si chiama così?» «Sì. Non gli piace essere accarezzato e non fa le fusa. Non penso che sia normale.» «Non saprei» disse Maya. «Non ho mai avuto nessun animale domestico.» Sul bancone della cucina c'era una macchina da caffè elettrica. Maya si versò il caffè caldo in una grossa tazza giallo brillante e aggiunse un goccio di panna. «Ho appena tolto dal forno una focaccia di granturco. Hai fame?» «Sì, molta.» Vicki tagliò una larga fetta di focaccia e la mise in una scodella. Le due donne si sedettero insieme al tavolo. Maya spalmò un po' di burro sulla focaccia e vi aggiunse un cucchiaio di marmellata di more. Il primo morso fu delizioso e per un momento Maya godette di un piacere inaspettato. Tutto in cucina era pulito e ordinato. Chiazze abbaglianti di luce solare brillavano sul linoleum verde. Benché Hollis si fosse allontanato dalla sua Chiesa, sul muro accanto al frigorifero era appesa una foto incorniciata di Isaac T. Jones. «Hollis andrà a comprare alcuni pezzi di ricambio per la moto» disse Vicki «ma vuole che Gabriel resti qui.» Maya annuì masticando un boccone di pane e marmellata. «Va bene.» «E adesso, che cosa hai intenzione di fare?» «Non lo so ancora. Devo prima parlare con un amico in Europa.» Vicki raccolse i piatti sporchi dal tavolo e li portò al lavello. «Pensi che la Tabula sappia che ieri al volante c'era Hollis?» «Forse. Dipende da che cosa hanno visto i tre in motocicletta.» «E che cosa accadrà se scopriranno Hollis?» La voce di Maya era volutamente piatta e impassibile. «Cercheranno di catturarlo, torturarlo per ottenere informazioni e ucciderlo.» Vicki si voltò a guardarla con il canovaccio in mano. «È quello che ho detto a Hollis, ma lui si è messo a ridere. Ha risposto che è sempre alla
ricerca di nuovi compagni di allenamento.» «Hollis sa badare a se stesso, Vicki. È un combattente molto in gamba.» «Ha troppa fiducia in se stesso. Penso che dovrebbe...» L'antiporta a zanzariera si spalancò cigolando e Hollis entrò in casa. «Okay. Ho la lista della spesa.» Fece un sorriso a Vicki. «Perché non vieni con me? Compreremo una gomma nuova e qualcosa per pranzo.» «Hai bisogno di soldi?» domandò Maya. «Ne hai?» Maya si rovistò in tasca e tirò fuori diverse banconote da venti dollari. «Paga in contanti. Dopo che avrete acquistato la gomma, allontanatevi subito dal negozio.» «Certo.» «Evitate i parcheggi sorvegliati. Le telecamere possono fotografare le targhe.» Vicki e Hollis se ne andarono insieme e Maya li guardò uscire. Gabriel era ancora fuori nel vialetto d'accesso a smontare il pneumatico lacerato dal cerchione. Maya si assicurò che il cancello fosse chiuso in modo che Gabriel non potesse essere visto dalla strada. Pensò di discutere con lui sul da farsi, ma poi decise che era meglio sentire per prima cosa Linden. Gabriel le era sembrato scosso da tutto quello che lei gli aveva spiegato il giorno prima. Probabilmente aveva bisogno di un po' di tempo per riflettere. Tornò in camera da letto, accese il computer portatile e si collegò a Internet con il telefono satellitare. Linden stava dormendo oppure non stava usando il computer. Le ci volle un'ora per trovarlo e seguirlo in una chat sicura. Usando un linguaggio estremamente contenuto, per non allertare Carnivore, gli raccontò gli ultimi sviluppi. «I nostri concorrenti commerciali hanno risposto con un marketing molto aggressivo. Al momento sono alloggiata nell'abitazione del mio dipendente, con il nostro nuovo socio.» Maya ricorse a un codice da Arlecchini basato su numeri primi casuali e fornì a Linden l'indirizzo della casa. L'Arlecchino francese non rispose e dopo qualche minuto Maya digitò sulla tastiera: «Capito?». «Il nostro nuovo socio può compiere viaggi in località lontane?» «Al momento no.» «Hai notato nessun segno di questa capacità?» «No. È solo un cittadino come tutti gli altri.» «Devi presentarlo a un insegnante in grado di valutare il suo potenziale.»
«Non è nostra responsabilità» digitò Maya. Gli Arlecchini avevano esclusivamente il dovere di trovare e proteggere i Viaggiatori. Non avevano mai assistito nessuno nel suo viaggio spirituale. Di nuovo, ci fu un ritardo di parecchi minuti, come se Linden stesse pensando alla risposta. Finalmente le parole cominciarono a comparire sul monitor. «I nostri concorrenti sono riusciti a trovare il fratello maggiore e lo hanno portato in un centro di ricerca nei dintorni di New York. Intendono valutare le sue capacità e addestrarlo. In questo momento ignoriamo i loro piani a lungo termine. Ma dobbiamo sfruttare tutte le nostre risorse per contrastarli.» «E il nostro nuovo socio è la nostra risorsa primaria?» «Esatto. È cominciata una gara. Al momento i nostri concorrenti sono in testa.» «E se il nostro socio non volesse collaborare?» «Usa ogni mezzo necessario a fargli cambiare idea. Un insegnante abita negli Stati Uniti sudoccidentali, protetto da una comunità di amici. Porta il socio in quella località entro tre giorni. Nel frattempo, mi metterò in contatto con i nostri amici e li avviserò del vostro arrivo. La destinazione è...» Un'altra pausa e poi sullo schermo comparve una lunga serie di numeri in codice. «Conferma trasmissione» digitò Linden. Maya non rispose. Le due parole riapparvero sullo schermo, stavolta a lettere maiuscole. Linden le stava chiedendo di accettare la missione. «CONFERMA TRASMISSIONE.» "Non rispondergli" si disse Maya. Per un attimo pensò di andarsene da casa di Hollis e oltrepassare il confine con il Messico. Era la cosa più sicura. Passarono alcuni secondi, poi pose le dita sulla tastiera del notebook e digitò lentamente: «Informazione ricevuta». Linden chiuse immediatamente la comunicazione. Maya decodificò i numeri con l'ausilio del computer, scoprendo che avrebbe dovuto recarsi a San Lucas, una città nel Sud dell'Arizona. E laggiù che cosa sarebbe accaduto? Nuovi nemici? Un altro scontro? Sapeva che la Tabula li avrebbe cercati usando tutto il potere dell'Immensa Macchina. Tornò in cucina e apri la porta. Gabriel era seduto sul vialetto di cemento e stava smontando la ruota danneggiata. «Gabriel, mi piacerebbe dare un'occhiata alla spada giapponese che hai con te.»
«Fai pure. È nel mio zaino, vicino al divano in soggiorno.» Maya restò sulla soglia, senza sapere che cosa dire. Gabriel non sembrava rendersi conto della mancanza di rispetto che stava dimostrando nei confronti dell'arma. Gabriel si fermò. «C'è qualcosa che non va?» «Questa spada è un oggetto molto speciale. È meglio se me la dai tu.» Il ragazzo parve sorpreso, poi sorrise e alzò le spalle. «Certo. Se preferisci... Dammi solo un minuto.» Maya portò la sua borsa da viaggio in soggiorno e si sedette sul divano. Sentiva l'acqua scorrere nelle tubature: Gabriel era andato in cucina e si stava lavando le mani sporche di grasso. Quando entrò in soggiorno, la fissò come se fosse una squilibrata che poteva aggredirlo e Maya si rese conto che la sagoma dei coltelli da lancio era visibile sotto le maniche del pullover. Thorn le aveva raccontato dei difficili rapporti tra Arlecchini e Viaggiatori. Solo perché gli Arlecchini rischiavano la vita per difendere i Viaggiatori non significava che i due gruppi andassero d'accordo. Le persone capaci di visitare altri regni in genere sviluppavano una grande spiritualità. Ma gli Arlecchini sarebbero sempre rimasti dei realisti contaminati dalla morte e dalla violenza del Quarto Regno. A quattordici anni Maya aveva compiuto un viaggio in Europa Orientale con Mother Blessing. Quando la donna arlecchino irlandese dava un ordine, sia i cittadini sia i fuchi le obbedivano immediatamente. "Sì, madame. Certo, madame. Speriamo non ci sia nessuna difficoltà." Mother Blessing aveva oltrepassato una linea invisibile e la gente lo intuiva immediatamente. Maya si rendeva conto di non avere ancora quel potere. Gabriel prese dallo zaino la spada, ancora nel suo fodero nero laccato. La offrì a Maya tenendola con entrambe le mani. Maya sentì il bilanciamento perfetto della spada, comprendendo subito che si trattava di un'arma particolare. L'impugnatura era decorata con intarsi verde scuro. «Mio padre consegnò quest'arma a tuo padre quando eri bambino.» «Non me lo ricordo» disse Gabriel. «Ma l'ho sempre vista in casa, fin da piccolo.» Tenendo il fodero sulle ginocchia, Maya estrasse la spada lentamente, poi la alzò in orizzontale avvicinandola al viso, fissando la lama in tutta la sua lunghezza. Era una spada in stile tachi, da portare con la lama rivolta verso il basso. La forma era perfetta, ma la vera bellezza era nell'hamon, il
punto di giunzione longitudinale tra il margine d'acciaio temperato della lama e il resto della spada. Le parti d'acciaio, denominate nie, riflettevano un'aura di luce bianca. A Maya ricordavano macchie di terreno in una distesa di leggera neve primaverile. «Perché questa spada è così importante?» domandò Gabriel. «Era di Sparrow, l'ultimo Arlecchino rimasto in Giappone: l'estremo superstite di una nobile tradizione. Era famoso per il suo coraggio e la sua ingegnosità. Ma pagò la sua unica debolezza...» «Quale?» «Si innamorò di una studentessa universitaria. La Yakuza, che lavorava per la Tabula, trovò la ragazza e la rapì. Quando Sparrow tentò di soccorrerla, venne ucciso.» «Allora come ha fatto la spada ad arrivare in America?» «Mio padre trovò la studentessa, che era incinta e si doveva nascondere dalla Yakuza. La aiutò a fuggire in America e lei gli regalò la spada.» «Se questa spada è tanto importante, allora perché tuo padre non l'ha tenuta?» «È un talismano, un oggetto molto antico e di grande potere. Possono essere amuleti, o specchi... o spade. I Viaggiatori possono portarli con sé in altri regni.» «Per questo è diventata di nostra proprietà?» «La proprietà non c'entra. Non si può possedere un talismano, Gabriel. Il suo potere è libero dall'avidità e dal desiderio umano. Un talismano può solo essere usato, o passato a qualcun altro.» Maya osservò di nuovo la lama. «Questa spada ha bisogno di essere pulita e oliata. Se non ti dispiace...» «Certo. Fai pure.» Gabriel sembrava imbarazzato. «Io non l'ho mai pulita.» Maya aveva con sé tutto l'occorrente per la propria spada. Rovistò nella sua borsa da viaggio e prese un pezzo di morbida carta hosho fatta con corteccia interna di gelso. Willow, l'Arlecchino cinese, le aveva insegnato a trattare un'arma con rispetto. Inclinò leggermente la spada e cominciò a togliere lo sporco dalla lama. «Ho da darti una brutta notizia, Gabriel. Pochi minuti fa mi sono messa in contatto via Internet con un altro Arlecchino. Il mio amico ha una spia che lavora all'interno della Tabula, che gli ha confermato il rapimento di tuo fratello.» Gabriel si sporse in avanti sulla poltrona. «Che cosa possiamo fare?»
domandò. «Dove lo tengono?» «È in un centro di ricerca sorvegliato, vicino a New York. Anche se conoscessi la località precisa, sarebbe difficile liberarlo.» «Non possiamo chiamare la polizia?» «La polizia può anche essere onesta, ma questo non ci aiuta. I nostri avversari sanno usare l'Immensa Macchina: il sistema globale di computer che controlla la nostra società.» Gabriel annuì. «I miei genitori lo chiamavano la "Griglia".» «Sono in grado di entrare nei computer della polizia e inserire falsi rapporti. Probabilmente hanno già introdotto i nostri dati negli elenchi dei ricercati per omicidio.» «D'accordo, lasciamo perdere la polizia. Andiamo dove tengono Michael.» «Io sono sola, Gabriel. Ho assunto Hollis perché mi desse una mano, ma non so se è affidabile. Mio padre definiva i combattenti "spade". È solo un modo diverso di considerare le persone che stanno dalla tua parte. In questo momento non ho abbastanza spade per attaccare il centro di ricerca della Tabula.» «Dobbiamo aiutare mio fratello.» «Non credo che lo uccideranno. La Tabula ha un nuovo piano che prevede l'uso di un Viaggiatore e di una macchina che chiamano computer ai quanti. Vogliono addestrare tuo fratello a viaggiare in altri regni... Non so come intendano farlo. Di solito i Viaggiatori vengono istruiti da persone chiamate "Esploratori".» «Chi sono?» «Dammi solo un minuto...» Maya controllò di nuovo la lama della spada e scoprì qualche piccolo graffio e alcune intaccature nel metallo. Solo un togishi, un esperto giapponese, sarebbe stato in grado di ridare forma perfetta e lucentezza a quell'arma. L'unica cosa che poteva fare era oliarla in modo che non arrugginisse. Presa dalla sua borsa da viaggio una bottiglietta di vetro marrone, versò una piccola quantità di olio di chiodi di garofano su una garza di cotone. L'odore dolciastro dei chiodi di garofano riempì la stanza mentre Maya sfregava delicatamente la lama della spada. Per un istante sentì il grande potere contenuto nell'arma. Quella spada aveva ucciso e avrebbe ucciso ancora. «Un Esploratore è un insegnante molto particolare. Di solito è una persona che ha ricevuto un addestramento spirituale. Gli Esploratori non sono
Viaggiatori - non hanno la capacità di viaggiare in altri regni - ma sono in grado di aiutare una persona che ha questo dono.» «Dove possiamo trovarne uno?» «A mio amico mi ha indicato la località dell'Arizona in cui vive un Esploratore. Questa persona scoprirà se tu hai il potere.» «L'unica cosa che voglio fare è riparare la mia moto e andarmene da qui.» «Sarebbe un'idiozia. Senza la mia protezione, la Tabula prima o poi ti scoverebbe.» «Non mi occorre la protezione di nessuno, Maya. Per la maggior parte della vita sono rimasto fuori dalla Griglia.» «Ma adesso ti stanno cercando... con tutte le loro risorse. Non sai di cosa sono capaci.» Gabriel parve irritato. «Ho visto che cosa è successo a mio padre. Gli Arlecchini non ci hanno salvato. Nessuno lo ha fatto.» «Devi venire con me.» «Perché?» Maya, con la spada ancora in mano, parlò lentamente, ricordando ciò che suo padre le aveva insegnato. «Alcuni filosofi credono che l'uomo sia per natura portato all'odio, all'intolleranza e alla crudeltà. Chi ha il potere vuole mantenerlo a tutti i costi ed è disposto a uccidere chiunque tenti di portarglielo via.» «Mi sembra piuttosto chiaro» disse Gabriel. «L'impulso a comandare gli altri è molto forte, ma il desiderio di libertà e la capacità di dimostrare compassione sopravvivono ancora. L'oscurità è ovunque, ma la Luce resiste.» «E tu credi che sia grazie ai Viaggiatori?» «Compaiono in ogni generazione. I Viaggiatori lasciano questo mondo e poi tornano per aiutare gli altri. Ispirano umanità, ci regalano nuove idee e ci guidano nel nostro progresso...» «Forse mio padre era una di queste persone, ma ciò non significa che io e Michael abbiamo la stessa capacità. Non verrò in Arizona in cerca di questo insegnante. Voglio trovare Michael e aiutarlo a fuggire.» Gabriel guardò la porta, come se avesse già deciso di partire. Maya cercò di trovare la calma che provava quando combatteva. Doveva dire la cosa giusta o Gabriel sarebbe fuggito. «Forse troverai tuo fratello in un altro regno.» «Non puoi saperlo.»
«Non posso prometterti nulla. Se siete entrambi Viaggiatori potrebbe accadere. La Tabula gli insegnerà a lasciare questo mondo.» Lui la guardò dritto negli occhi. Per un attimo Maya fu colpita dal suo coraggio e dalla sua forza, poi Gabriel chinò il capo, tornando a essere un ragazzo come gli altri. «Forse stai mentendo» disse in tono pacato. «Dovrai correre il rischio.» «Se andremo in Arizona sei sicura che troveremo questo Esploratore?» Maya annuì. «Vive nei dintorni di una città che si chiama San Lucas.» «Verrò con te e incontrerò questa persona. Poi deciderò che cosa fare.» Si alzò quasi di scatto e uscì dalla stanza. Maya restò sul divano con la spada di giada. La lama era oliata perfettamente e l'acciaio lampeggiò mentre la lama tagliava l'aria. "Mettila via" disse a se stessa. "Nascondi nell'oscurità il suo potere." Dalla cucina giunsero due voci. Camminando furtivamente in modo da non far scricchiolare il pavimento in legno, Maya entrò nel tinello e guardò in cucina da uno spiraglio della porta. Hollis e Vicki erano tornati a casa. Stavano preparando il pranzo e intanto parlavano della loro congregazione. Due signore avevano discusso su chi di loro cucinasse la miglior torta nuziale e la comunità si era divisa. «Allora quando mia cugina ha scelto Miss Anne per la sua torta nuziale, Miss Grace è venuta al ricevimento e ha finto di sentirsi male dopo averne assaggiato una fetta.» «Non mi sorprende. Mi sembra strano che non abbia messo uno scarafaggio morto nella glassa.» Scoppiarono a ridere insieme. Hollis sorrise a Vicki, e poi distolse rapidamente lo sguardo. Maya fece scricchiolare il pavimento per far loro sapere che stava arrivando ed entrò in cucina. «Ho parlato con Gabriel. Partiremo domani mattina, dopo aver cambiato la ruota della moto.» «Dove andate?» domandò Hollis. «Via da Los Angeles. Non c'è altro che devi sapere.» «Okay. Sei tu che comandi.» Hollis scrollò le spalle. Maya si sedette al tavolo della cucina. «Gli assegni e i bonifici bancari sono rischiosi. La Tabula è diventata abilissima a intercettarli. Tra qualche giorno riceverai per posta una rivista o un catalogo in una busta spedita dalla Germania. Tra le pagine troverai delle banconote da cento dollari. Potrebbero volerci due o tre spedizioni, ma ti pagheremo cinquemila dolla-
ri.» «È troppo» disse Hollis. «Avevamo detto mille dollari al giorno e ti sto aiutando da due giorni soltanto.» Maya si chiese se Hollis avrebbe detto la stessa cosa se non fosse stata presente Vicki. "Se ti piace qualcuno, questo ti rende stupido e vulnerabile." Hollis voleva dimostrarsi nobile di fronte alla ragazza. «Mi hai aiutato a trovare Gabriel. Ti pago per i tuoi servizi.» «È tutto?» «Sì. Il contratto è risolto.» «La Tabula non si darà per vinta, Maya. Continueranno a cercare te e Gabriel. Se vuoi davvero confonderli dovresti creare qualche falsa pista. Far credere loro che siete ancora a Los Angeles.» «E tu come faresti?» «Ho già qualche idea.» Hollis diede una rapida occhiata a Vicki. Sì, lo stava guardando. «Voi Arlecchini volete pagarmi cinquemila dollari, e io vi darò altri tre giorni di lavoro.» 27 Il mattino dopo Vicki si svegliò di buon'ora e preparò caffellatte e biscotti per tutti. Dopo colazione uscirono di casa e Hollis si occupò del furgone di Maya. Aggiunse un litro d'olio al motore e sostituì le targhe con quelle di un'auto abbandonata da un vicino. Poi caricò sul furgone acqua, indumenti di ricambio per Gabriel, una lunga scatola di cartone per nascondere il fucile e una carta stradale. Maya propose di trasportare la motocicletta nel vano di carico del furgone - almeno finché non avessero lasciato la California - ma Gabriel rifiutò. «Stai esagerando» le disse. «A quest'ora sulle superstrade di Los Angeles viaggeranno più di centomila veicoli. Non vedo come la Tabula possa trovarmi.» «Non ci sta cercando un uomo, Gabriel. La Tabula può entrare nelle telecamere di sorveglianza montate sui cartelli stradali. Un programma di scansione computerizzata starà già scorrendo migliaia di immagini, in cerca della tua targa.» Dopo cinque minuti di discussioni, Hollis andò a cercare in garage un grosso pezzo di corda di nylon e attaccò lo zaino di Gabriel sulla parte posteriore della moto in modo da nascondere la targa. Gabriel annuì compiaciuto e avviò la grossa motocicletta. Maya intanto si mise al volante del
furgone e abbassando il finestrino fece un cenno con il capo a Vicki e Hollis. Ormai Vicki si era abituata ai modi dell'Arlecchino. Maya trovava difficile dire "grazie" o "addio". Forse il suo comportamento era solo frutto di maleducazione o arroganza, ma Vicki si era convinta che ci fosse un'altra ragione. Gli Arlecchini avevano accettato l'onere di proteggere e difendere i Viaggiatori, anche a costo della vita. Un'amicizia al di fuori del loro mondo sarebbe stata un peso. Ecco perché preferivano i mercenari, gente che si poteva usare e poi dimenticare. «D'ora in avanti dovrai stare con gli occhi aperti» disse Maya a Hollis. «La Tabula ha perfezionato un sistema di monitoraggio delle transazioni elettroniche. Stanno anche facendo esperimenti con i "congiunti", animali geneticamente modificati che usano per uccidere. Dovrai essere molto disciplinato, ma al tempo stesso imprevedibile. I computer della Tabula sono in difficoltà di fronte al caso.» «Tu fammi solo spedire il denaro» disse Hollis. «Non preoccuparti per me.» L'istruttore di arti marziali aprì il cancello. Gabriel fu il primo a uscire, e Maya lo seguì. Il furgone e la moto risalirono lentamente la via e scomparvero dietro l'angolo. «Che cosa ne pensi?» chiese Vicki. «Ce la faranno?» Hollis strinse le spalle. «Gabriel ha sempre vissuto una vita molto indipendente. Non so se accetterà gli ordini di un Arlecchino.» «Cosa ne pensi di Maya?» «All'inizio di un incontro, quando ti trovi al centro del ring, il giudice di gara fa le presentazioni e tu fissi dritto negli occhi il tuo avversario. Alcuni pensano che a quel punto il combattimento sia già finito. Un uomo sta solo fingendo di essere coraggioso mentre il vincitore sta guardando dall'altra parte, attraverso un ostacolo.» «E Maya è così?» «L'idea della morte non sembra spaventarla. È un vantaggio enorme per un guerriero.» Vicki aiutò Hollis a lavare i piatti e a rigovernare la cucina. Lui le chiese se voleva accompagnarlo in palestra, per la lezione introduttiva di capoeira delle cinque, ma Vicki rispose di no. Era ora di tornare a casa. In macchina non parlarono. Hollis continuava a guardarla, ma Vicki non reagì. Facendo la doccia la mattina presto, Vicki aveva ceduto alla curiosi-
tà, perquisendo il bagno. Nel cassetto in basso dell'armadietto sotto il lavandino aveva trovato una camicia da notte pulita, una bomboletta di lacca per capelli, salviettine per l'igiene intima e cinque spazzolini da denti nuovi. Non si aspettava di certo che Hollis dormisse sempre solo, ma i cinque spazzolini da denti, nella loro scatoletta di plastica immacolata, facevano pensare a una serie interminabile di donne che si spogliavano e si infilavano nel suo letto. La mattina dopo Hollis preparava il caffè, accompagnava la ragazza a casa, e dopo aver buttato via lo spazzolino usato ricominciava da capo. Quando giunsero a casa di Vicki, a Baldwin Hills, la ragazza disse a Hollis di fermarsi all'angolo dell'isolato. Non voleva che sua madre li vedesse in auto e uscisse di corsa di casa. Josetta avrebbe pensato che la ribellione di sua figlia fosse dovuta a una relazione segreta con Hollis. «Come pensi di convincere la Tabula che Gabriel si trova ancora a Los Angeles?» chiese Vicki. «Non ho un piano. Ma qualcosa mi verrà in mente. Prima che Gabriel partisse ho registrato la sua voce. Se lo sentiranno parlare da un telefono pubblico qui a Los Angeles penseranno che è ancora in città.» «E poi che cosa farai?» «Userò il denaro per sistemare la mia palestra. Abbiamo bisogno di un impianto di aria condizionata e il padrone non vuole pagare.» Vicki doveva aver lasciato trasparire la sua delusione, perché Hollis parve seccato. «Non comportarti come una ragazza di chiesa, Vicki. In queste ultime ventiquattr'ore non sei stata affatto così.» «Così come?» «Sempre a esprimere giudizi. A citare di continuo Isaac T. Jones.» «Già, dimenticavo. Tu non credi in niente.» «Credo nel guardare in faccia la realtà. E mi sembra evidente che la Tabula dispone di molti soldi e molto potere. Probabilmente troveranno Gabriel e Maya. Lei è un Arlecchino, e non si arrenderà mai...» Hollis scosse la testa. «Le do al massimo un paio di settimane di vita.» «E non hai intenzione di far nulla per impedirlo?» «Io non sono un idealista. Ho abbandonato la Chiesa tanto tempo fa. Come ho detto, porterò a termine questo lavoro. Ma non combatterò per una causa persa.» Vicki levò la mano dalla portiera e lo affrontò a viso aperto. «A che cosa servono tutti quegli allenamenti, Hollis? Solo a fare soldi? Tutto qui? Non dovresti combattere per aiutare la gente? La Tabula vuole catturare e con-
trollare ogni potenziale Viaggiatore. Vogliono che tutti gli altri agiscano come robot, obbedendo alla televisione, e odiando gente che non hanno mai incontrato.» Hollis alzò le spalle. «Non sto dicendo che hai torto. Ma questo non cambia niente.» «E se ci fosse una grande battaglia... da che parte staresti?» Vicki afferrò di nuovo la maniglia della portiera, ma Hollis si allungò verso di lei e le prese la mano sinistra. Attirandola delicatamente a sé, si chinò e la baciò sulle labbra. Fu come se la luce li attraversasse entrambi, unendoli per un istante. Poi Vicki si ritrasse e aprì la portiera. «Ti piaccio?» chiese lui. «Ammettilo, ti piaccio.» «Il Debito Insoluto, Hollis. Il Debito Insoluto.» Vicki percorse in fretta il marciapiede, tagliò attraverso il prato di un vicino e raggiunse la porta d'ingresso di casa sua. "Non fermarti" si impose. "Non voltarti indietro." 28 Maya studiò la carta stradale e vide che un'autostrada interstatale collegava Los Angeles a Tucson. Seguendo quella grossa linea verde sarebbero arrivati a destinazione nel giro di sei o sette ore. Il percorso diretto era il più logico, ma anche il più pericoloso. La Tabula li avrebbe cercati sulle strade principali. Per questo decise di attraversare il deserto del Mojave e di raggiungere il Nevada meridionale. Da lì avrebbero preso le strade secondarie fino all'Arizona. Le superstrade californiane erano un intrico nel quale era facile perdersi, ma Gabriel le conosceva bene. Guidava la motocicletta davanti a Maya come un poliziotto di scorta, gesticolando con la mano destra per indicarle di rallentare, di cambiare corsia, di imboccare una rampa d'uscita. All'inizio seguirono l'interstatale attraverso la contea di Riverside. Ogni trenta chilometri circa passavano davanti a un grande centro commerciale intorno al quale sorgeva sempre una comunità residenziale di casette identiche, con tetti di tegole rosse e giardini di un verde brillante. Tutte queste cittadine avevano nomi, indicati sui cartelli, ma per Maya erano anonime e false come i fondali di un teatro d'opera. Non poteva credere che qualcuno avesse viaggiato fin lì su di un carro trainato da buoi per arare la terra e costruire una scuola. Quelle cittadine sembravano frutto di una volontà incontrastabile, come se una corporazione della Tabula avesse
progettato l'intera comunità e i cittadini avessero seguito alla lettera il progetto: comprare una casa, trovare un lavoro, fare figli e cederli all'Immensa Macchina. Quando arrivarono a una città che si chiamava Twenty-Nine Palms, uscirono dall'autostrada e imboccarono una strada asfaltata a due corsie che attraversava il deserto del Mojave. Era un'America ben diversa da quella cresciuta intorno alle superstrade. All'inizio il paesaggio era arido e piatto, poi cominciarono a oltrepassare ammassi di rocce rosse, ciascuno separato e distinto dall'altro come le piramidi egizie. C'erano piante di yucca con foglie a forma di spada e cactus dai rami contorti, che a Maya ricordavano braccia levate verso il cielo. Abbandonata l'autostrada, Gabriel cominciò a godersi il viaggio. Si piegava a destra e a sinistra in sella alla moto, tracciando aggraziate serpentine al centro della strada completamente vuota. A un tratto cominciò ad andare più forte. Maya premette l'acceleratore, nel tentativo di stargli dietro, ma Gabriel innestò la quinta e la distanziò correndo a tutta velocità. Furiosa, Maya lo osservò farsi sempre più piccolo, fino a scomparire all'orizzonte. Quando vide che Gabriel non tornava indietro, cominciò ad agitarsi. Aveva deciso di lasciar perdere l'Esploratore e andarsene da solo? Oppure era successo qualcosa di brutto? Magari gli agenti della Tabula lo avevano catturato e ora stavano aspettando lei. Passarono dieci minuti. Venti minuti. Quando Maya stava cominciando a preoccuparsi, un minuscolo puntino apparve in fondo alla strada di fronte a lei. Si fece più grande, aumentando adagio, e finalmente Gabriel emerse dalla foschia del caldo in lontananza. Le veniva incontro a tutta velocità, sorridendo e agitando la mano. "Pazzo" pensò Maya. "Maledetto idiota." Osservò nello specchietto retrovisore Gabriel che faceva inversione e tornava verso di lei. Quando la superò di nuovo, Maya suonò il clacson e segnalò con gli abbaglianti. Gabriel rallentò, spostandosi a sinistra, e si lasciò affiancare dal furgone. «Non puoi fare così!» gli urlò Maya. Gabriel, dando gas in modo da aumentare i rumori della moto, indicò l'orecchio con un dito e scosse la testa. "Scusa. Non riesco a sentirti." «Rallenta! Devi restarmi vicino!» Lui sorrise come un bambino e accelerò. Di nuovo si allontanò sul rettilineo e scomparve nella foschia. Un miraggio apparve sul letto di un lago asciutto: l'acqua che non c'era brillava e scorreva sotto il sole bianco acce-
cante. Arrivati a Saltus, Gabriel si fermò in una stazione di servizio con tavola calda e minimarket costruita come una vecchia capanna dei pionieri. Fece il pieno alla moto ed entrò nel locale pubblico. Maya riempì il serbatoio del furgone, pagò il vecchietto che gestiva il minimarket e raggiunse Gabriel alla tavola calda. La saletta era decorata con attrezzi da agricoltore e lampadari ricavati da vecchie ruote di legno. Alle pareti erano appese teste impagliate di caprioli e mufloni. Era pomeriggio inoltrato e il locale era vuoto. Maya si sedette in un séparé di fronte a Gabriel e ordinarono due piatti unici a un'annoiata cameriera con il grembiule macchiato. Il cibo arrivò in fretta. Maya mangiò svogliatamente la sua omelette mentre Gabriel divorava un hamburger con patatine e ne ordinava un altro. I Viaggiatori diventavano spesso leader spirituali, ma Gabriel non mostrava nessun segno di spiritualità. Era un giovane americano sano e robusto che amava le moto e metteva troppo ketchup su tutto ciò che mangiava. Aveva rischiato la vita per lui, ma forse aveva solo sprecato il suo tempo. «Maya è il tuo vero nome?» le domandò Gabriel. «Sì.» «E qual è il tuo cognome?» «Non ce l'ho.» «Tutti hanno un cognome» disse Gabriel. «A meno che tu non sia una rockstar o una regina o qualcosa del genere.» «A Londra... mi facevo chiamare Judith Strand. Sono entrata in questo Paese con un passaporto intestato a Gretchen Voss, una cittadina tedesca. Ho con me passaporti di tre diverse nazioni. Ma "Maya" è il mio nome da Arlecchino.» «Che cosa significa?» «A quindici o sedici anni gli Arlecchini si scelgono un nome speciale. Non c'è nessun rituale da seguire. Scegli un nome e lo fai sapere ai tuoi familiari. I nomi non sempre hanno un significato evidente. L'Arlecchino francese che si fa chiamare Linden ha preso il suo nome da un albero - il tiglio - che ha foglie a forma di cuore. Una donna arlecchino irlandese molto fiera e tenace si fa chiamare Mother Blessing, cioè "benedizione materna".» «E tu perché ti chiami Maya?» «Ho scelto un nome che non sarebbe piaciuto a mio padre. La dea Devi,
la consorte di Shiva, è chiamata anche Maya. Ma il nome significa anche illusione, il falso mondo dei sensi. È ciò in cui volevo credere: le cose che potevo vedere e udire e sentire. Non i Viaggiatori e i diversi regni paralleli.» Gabriel guardò la triste tavola calda intorno a sé. ABBIAMO FEDE IN DIO, diceva un cartello appeso vicino alla cassa. TUTTI GLI ALTRI SONO FREGATI DI PAGARE IN CONTANTI. «Cosa mi dici dei tuoi fratelli e sorelle? Sono anche loro in giro per il mondo in cerca di Viaggiatori?» «Sono figlia unica. Mia madre veniva da una famiglia sikh che viveva in Gran Bretagna da tre generazioni. Mi regalò questo...» Maya alzò il polso destro e mostrò il braccialetto d'acciaio. «È un kara. Ricorda a chi lo porta di non fare niente che possa causargli vergogna o disonore.» «Com'era tuo padre?» «Non ne voglio parlare.» «Era violento? Ti picchiava?» «No, mai. Di solito era in qualche altro Paese a cercare di salvare un Viaggiatore. Non ci diceva mai dove andava. Non sapevamo mai se sarebbe tornato. Si perdeva il mio compleanno o il Natale in famiglia, poi arrivava nel momento più inaspettato. Si comportava sempre come se fosse tutto normale, come se fosse stato semplicemente al pub dell'angolo a bere una birra. Credo che mi mancasse. Ma volevo anche che non tornasse a casa, perché in quel caso avrei dovuto ricominciare le lezioni.» «Ti insegnava a usare la spada?» «Questa era solo una parte dell'addestramento. Dovevo anche imparare karatè, judo, kick boxing e l'uso delle armi da fuoco. E poi c'era l'allenamento mentale. Se facevamo compere in un negozio, mi chiedeva all'improvviso di descrivere ogni persona che avevamo incontrato. Se viaggiavamo in metropolitana, mi diceva di osservare tutti i presenti nel nostro vagone e di stabilire la sequenza di una battaglia simulata. Prima si dovrebbe attaccare l'avversario più forte e poi proseguire lasciando per ultimo il più debole.» Gabriel annuì come se comprendesse ciò di cui lei stava parlando. «Che cos'altro faceva?» «Quando ero adolescente, papà assoldava ladri o tossicodipendenti perché mi pedinassero per strada quando uscivo da scuola. Dovevo notarli e trovare un modo per seminarli. Il mio addestramento avveniva sempre all'aperto, per strada, con il massimo grado di rischio.»
Maya stava per descrivere la battaglia nella metropolitana con gli hooligan dell'Arsenal quando spuntò la cameriera con il secondo hamburger. Gabriel lo ignorò e proseguì con le domande. «Da come ne parli, sembra che tu non volessi diventare un Arlecchino.» «Avrei voluto una vita normale. Ma non potevo.» «E ora ti dispiace non averla avuta?» «Non sempre possiamo scegliere la nostra strada.» «Sembri arrabbiata con tuo padre.» Le parole sgusciarono sotto la guardia di Maya e le toccarono il cuore. Per un attimo pensò che si sarebbe messa a urlare talmente forte da mandare in frantumi la tavola calda, come una scossa di terremoto in una cristalleria. «Io... io rispettavo mio padre» balbettò. «Questo non significa che tu non possa essere arrabbiata.» «Dimentica mio padre. Non ha niente a che vedere con quello che stiamo facendo. In questo momento la Tabula ci sta cercando, e io tento di proteggerti. Smettila di correre in moto. Ho bisogno di tenerti sotto controllo.» «Siamo in mezzo al deserto, Maya. Nessuno può vederci, qui» «La Griglia esiste anche quando non ne vedi le linee.» Maya si alzò sistemandosi la custodia della spada a tracolla. «Finisci il pranzo. Io ti aspetto fuori.» Per tutto il resto della giornata Gabriel rimase davanti al furgone, senza mai accelerare. Mentre proseguivano verso est il sole tramontò, sprofondando nell'orizzonte. Una sessantina di chilometri prima del confine di Stato del Nevada, Maya scorse l'insegna al neon di un piccolo motel. Mise una mano nella borsetta e pescò il GNC, il generatore di numeri casuali. Un numero pari voleva dire "continua a guidare". Uno dispari "fermati qui". Premette il pulsante. Sul display del GNC comparve 88167, perciò Maya fece lampeggiare gli abbaglianti e svoltò nello spiazzo di ghiaia. Il motel era a forma di U e comprendeva dodici stanze attorno a una piscina vuota sul cui fondo crescevano ciuffi di erbacce. Maya scese dal furgone e andò verso Gabriel. Dovevano dividere la stessa camera in modo che lei potesse sorvegliarlo, ma lei decise di non dirglielo. "Non metterlo sotto pressione" pensò. "Inventa una scusa." «Non abbiamo molti soldi. Sarà meglio prendere una camera doppia.» «Va bene» disse Gabriel, seguendola nell'ufficio illuminato.
Il padrone del motel era una donna anziana, fumatrice accanita, che sogghignò vedendo che Maya aveva scritto "Mr e Mrs Thompson" sul cartoncino bianco di registrazione. «Paghiamo in contanti» precisò la ragazza. «Sì, cara. Perfetto. E cercate di non rompere niente.» Due letti infossati. Un tavolino e due sedie di plastica. In camera c'era l'aria condizionata, ma Maya decise di lasciarla spenta. Il ronzio della ventola avrebbe attutito qualsiasi rumore di passi. Aprì la finestra scorrevole sopra ai letti e andò in bagno. Dalla doccia cadeva un rivolo sottile di acqua quasi tiepida con un persistente odore alcalino e le fu difficile sciacquare i suoi folti capelli crespi. Quando uscì dal bagno con addosso una Tshirt pulita e dei pantaloncini, Gabriel prese il suo posto. Maya levò la coperta dal letto e si infilò sotto il lenzuolo con la spada nel fodero, a pochi centimetri dalla gamba destra. Cinque minuti dopo Gabriel uscì dal bagno con i capelli umidi, in boxer e maglietta. Passò lentamente sul tappeto consunto e si sedette sulla sponda del letto. Maya pensò che stesse per dire qualcosa, ma il giovane cambiò idea e si coricò. Stesa supina, la ragazza arlecchino cominciò a catalogare a occhi chiusi tutti i rumori intorno. Il vento leggero che scuoteva le veneziane. Un camion o un'automobile che viaggiava sulla statale. Maya si stava assopendo, a metà tra il sogno e la realtà, quando d'improvviso si ritrovò bambina, in piedi da sola nella galleria della metropolitana londinese, mentre tre uomini le correvano incontro per aggredirla. "No. Non pensare a quel giorno." Riaprì gli occhi, girando adagio la testa sul cuscino e guardando Gabriel nel letto accanto. Aveva la testa sul cuscino e il suo corpo era una morbida forma sotto il lenzuolo. Maya si domandò se a Los Angeles avesse una serie di ragazze che gli dicevano "ti amo". Sospettava della parola "amore". Le canzoni e gli spot televisivi la usavano in continuazione. Se "amore" era una parola sfuggente e ingannevole - una parola da ordinari cittadini -, allora qual era la cosa più importante che un Arlecchino potesse dire a un'altra persona? Le tornò in mente l'ultima cosa che suo padre le aveva detto: «Darei la vita per te». Gabriel cambiò posizione, facendo cigolare il letto. Trascorse qualche altro minuto, poi il giovane si tirò un po' su, appoggiando la testa su due cuscini. «Le domande di oggi alla tavola calda ti hanno infastidito. Mi dispiace, non avrei dovuto chiederti nulla.» «Non c'è bisogno che tu sappia della mia vita, Gabriel.» «Nemmeno io ho avuto un'infanzia normale. I miei genitori sospettavano
di tutto. Passavano la vita a nascondersi o a scappare.» Silenzio. Maya si chiese se doveva dire qualcosa. Dov'era previsto che gli Arlecchini e le persone che proteggevano avessero delle conversazioni di carattere personale? «Hai mai conosciuto mio padre?» gli domandò. «Ti ricordi diluì?» «No. Ma ricordo la prima volta che vidi la spada di giada. Dovevo avere cinque o sei anni.» Gabriel restò in silenzio e Maya non fece altre domande. Certi ricordi erano come cicatrici che si tenevano nascoste agli altri. Un camion a rimorchio passò davanti al motel. Una macchina. Un altro camion. Se un veicolo avesse accostato e sostato nello spiazzo antistante il motel, Maya avrebbe sentito rumore di pneumatici sulla ghiaia. «Quando mi lancio con il paracadute o corro in moto riesco a dimenticarmi della mia famiglia.» La voce di Gabriel era tranquilla, le parole assorbite dall'oscurità. «Poi rallento e tutto torna a galla...» 29 «In tutti i miei ricordi d'infanzia, siamo in viaggio. Stavamo sempre facendo i bagagli per cambiare città. Dev'essere per questo che Michael e io siamo cresciuti con l'ossessione per le case. «Ogni volta che arrivavamo in un posto nuovo, facevamo finta che fosse per sempre. Poi un'automobile passava davanti al nostro motel una volta di troppo oppure un benzinaio faceva a papà una domanda strana. I nostri genitori allora cominciavano a bisbigliare fra loro, finché una notte ci svegliavano e ci facevano vestire al buio. Così ci ritrovavamo di nuovo sulla strada, senza una meta.» «I vostri genitori non vi hanno mai dato una spiegazione?» domandò Maya. «No. E questo rendeva le cose ancora più inquietanti. Dicevano solo: "Qui è troppo pericoloso" oppure "Degli uomini cattivi ci stanno cercando". Facevamo i bagagli e ripartivamo.» «E non vi siete mai lamentati?» «Non davanti a mio padre. Era sempre vestito male, ma c'era qualcosa in lui - una certa espressione nei suoi occhi - che lo rendeva molto forte e saggio. Anche gli estranei finivano per raccontargli i loro segreti, come se lui potesse aiutarli.» «Com'era tua madre?»
Gabriel rimase in silenzio per un minuto intero. «Continuo a pensare alla sua morte. Non riesco a togliermelo dalla testa. Quando eravamo bambini era sempre ottimista. Se il nostro pick-up si fermava in panne ci portava nei campi a raccogliere fiori selvatici o a cercare quadrifogli.» «E tu com'eri?» domandò Maya. «Eri un bravo bambino?» «Ero piuttosto tranquillo, e introverso.» «E Michael?» «Era il tipico fratello maggiore, sempre sicuro di sé. Se in un motel ci serviva un ripostiglio per la nostra roba o qualche asciugamano in più, i miei genitori mandavano sempre lui a chiedere alla reception. «A volte essere sempre in viaggio era bello. Anche se papà non lavorava avevamo sempre abbastanza soldi. Mia madre odiava la televisione perciò ci raccontava sempre delle favole o ci leggeva dei libri: mi piacevano molto Mark Twain e Charles Dickens. Ricordo ancora il nostro entusiasmo quando ci lesse un po' alla volta La pietra di luna di Wilkie Collins. Mio padre ci insegnava a riparare i motori, a leggere una carta stradale e a non perderci in una città sconosciuta. Invece di studiare sui testi, scolastici ci fermavamo a visitare tutti i siti storici. «A otto anni - Michael ne aveva dieci - papà e mamma ci dissero che avevano intenzione di comprare una fattoria. Cominciammo a fermarci nei paesini di provincia, a leggere le inserzioni sui giornali locali e a visitare fattorie con il cartello VENDESI. A me qualsiasi posto sembrava bellissimo, ma papà tornava sempre al camioncino scuotendo la testa e dicendo a mamma che "i termini non erano a posto". Dopo qualche settimana di questo girovagare cominciai a pensare che i "termini" fossero un gruppo di perfidi vecchi che dicevano sempre di no. «Andammo su a nord nel Minnesota, poi puntammo a ovest verso il South Dakota. A Sioux Falls papà venne a sapere di una fattoria in vendita in una cittadina che si chiamava Unityville. Era una bella zona, con verdi colline ondulate, laghi e pinete. La tenuta era a un chilometro dalla strada, nascosta dietro una pineta. C'erano aceri secolari, un fienile e una pericolante casa a due piani. «Dopo lunghe contrattazioni, papà acquistò la tenuta da un uomo che voleva essere pagato in contanti e ci trasferimmo nella fattoria due settimane dopo. Tutto andò bene sino alla fine del mese, quando improvvisamente mancò l'energia elettrica. Sulle prime io e Michael pensammo che si fosse rotto qualcosa, ma i nostri genitori ci convocarono in cucina e ci spiegarono che la corrente elettrica e il telefono ci mettevano in collega-
mento con il resto del mondo.» «Tuo padre sapeva che vi stavano dando la caccia» disse Maya. «Voleva vivere al di fuori dell'Immensa Macchina.» «Papà non ce lo disse mai, ci informò solo che da quel momento avremmo dovuto chiamarci "Miller" e che ognuno di noi doveva scegliersi un nuovo nome di battesimo. Michael voleva chiamarsi Robin, come il compagno di Barman, ma a mio padre l'idea non piacque per niente. Dopo parecchie discussioni, Michael divenne David e io invece scelsi Jim, come Jim Hawkins, il protagonista dell'Isola del tesoro. «Quella stessa notte papà tirò fuori tutte le armi e ci fece vedere dove sarebbero state nascoste. La spada di giada era nella camera matrimoniale dei miei genitori e ci venne proibito di toccarla senza permesso.» Maya sorrise tra sé, pensando alla preziosa spada nascosta nell'angolo di un armadio a muro, accanto a delle vecchie scarpe. «Un fucile d'assalto stava dietro al divano del salotto e il fucile da caccia fu riposto in cucina. Quando lavorava, papà portava la sua calibro 38 in una fondina ascellare sotto la giacca. Allora non ci sembrava strano. Le armi da fuoco erano una delle cose che avevamo accettato senza domande. Hai detto che mio padre era un Viaggiatore. Be', non l'ho mai visto levitare nell'aria o sparire o fare cose del genere.» «Il corpo resta sempre in questo mondo» disse Maya. «È la Luce interiore che attraversa le barriere.» «Due volte all'anno papà si prendeva il camioncino e partiva per qualche settimana. Ci diceva sempre che andava a pescare, ma non tornava mai con il pesce. Quando era a casa costruiva mobili o estirpava le erbacce in giardino. Di solito smetteva di lavorare verso le quattro del pomeriggio, portava me e Michael nel fienile e ci insegnava judo, karatè e kendo usando spade di bambù. Michael detestava quegli allenamenti, diceva che erano una perdita di tempo.» «Lo diceva a tuo padre?» «Non mettevamo mai in discussione le sue scelte. Lui ti guardava negli occhi e sapeva esattamente cosa stavi pensando. Io e Michael credevamo che potesse leggere il pensiero.» «Cosa pensavano di voi i vicini?» «Non conoscevamo molte persone. Gli Stevenson abitavano in una fattoria più a monte, ma non erano molto cordiali. Don e Irene Tedford, una coppia di anziani, abitavano oltre il torrente e un pomeriggio vennero da noi con due torte di mele. Si meravigliarono del fatto che non avessimo la
corrente elettrica, ma la cosa non parve turbarli più di tanto. Don disse che la televisione era una gran perdita di tempo. «Michael e io prendemmo l'abitudine di andare a trovare i Tedford al pomeriggio per mangiare le frittelle fatte in casa. A volte mamma portava una cesta di panni sporchi a casa loro e li lavava in lavatrice. I Tedford avevano perso loro figlio, Jerry, in non so quale guerra e tenevano le sue foto in ogni angolo della casa. Parlavano di lui come se fosse ancora vivo. Era strano. «Tutto andò bene finché un giorno non arrivò lo sceriffo Randolph. Era un tipo grande e grosso in uniforme e portava una pistola appesa al cinturone. Quando arrivò mi spaventai. Pensavo che fosse stato mandato dalla Griglia e che papà avrebbe dovuto ucciderlo...» Maya lo interruppe. «Una volta, da bambina, ero in macchina con una donna arlecchino che si chiamava Libra e ci fermarono per eccesso di velocità. Pensavo che Libra avrebbe tagliato la gola all'agente della stradale.» «Provai la stessa sensazione» disse Gabriel. «Michael e io non sapevamo che cosa sarebbe accaduto. Mia madre preparò del tè freddo per lo sceriffo Randolph e ci sedemmo tutti sotto il portico di casa. Gli adulti chiacchierarono per un po' della vita a Unityville, poi lo sceriffo portò l'argomento sulla tassa di proprietà della casa. Dato che non eravamo collegati alla rete elettrica, pensava che ci saremmo rifiutati di pagare le tasse. «Papà rimase in silenzio per un po', fissando Randolph. Poi disse che avrebbe pagato la tassa di proprietà e tutti si rilassarono. L'unico che non sembrava felice era Michael. Andò dallo sceriffo e disse che voleva andare a scuola, come tutti gli altri ragazzi. «Quando lo sceriffo se ne andò, papà ci chiamò in cucina per una riunione. Disse a Michael che la scuola era pericolosa perché faceva parte della Griglia. Michael ribatté che avevamo assolutamente bisogno di imparare la matematica, le scienze e la storia. Disse che senza un'istruzione non avremmo mai saputo difenderci.» «E poi che cosa accadde?» chiese Maya. «Non ne parlammo più per qualche mese, ma alla fine dell'estate papà ci annunciò che... d'accordo, potevamo andare a scuola... però dovevamo essere prudenti. Non potevamo dire alla gente come ci chiamavamo in realtà e non potevamo parlare delle armi. «Io ero nervoso all'idea di conoscere altri ragazzi, ma Michael era felice. Il nostro primo giorno di scuola si svegliò due ore prima solo per scegliere come vestirsi. Mi disse che tutti i ragazzi in paese indossavano jeans e ca-
micie di flanella. E che anche noi dovevamo vestirci così. In modo da sembrare come gli altri. «Mamma ci portò a Unityville e ci iscrisse a scuola usando i nostri nomi falsi. Michael e io restammo due ore in un ufficio a rispondere alle domande della vicepreside, Mrs Batenor. Entrambi sapevamo leggere molto bene, ma io avevo qualche problema in matematica. Quando Mrs Batenor mi accompagnò in classe, gli altri scolari mi fissarono a lungo. Era la prima volta che capivo veramente quanto la nostra famiglia fosse diversa e come avessimo vissuto isolati dal mondo. Tutti gli allievi bisbigliarono finché l'insegnante non disse loro di stare zitti. «Durante l'intervallo, trovai Michael nel cortile della scuola e gironzolammo insieme guardando gli altri bambini che giocavano a football. Come aveva detto, portavano tutti i blue jeans. Quattro ragazzi più grandi smisero di giocare a, football e ci vennero incontro. Ricordo ancora l'espressione di gioia sul viso di mio fratello. Era talmente felice. Pensava che i ragazzi ci avrebbero invitato a giocare con loro e che avremmo fatto amicizia. «Uno dei quattro, quello più alto, disse: "Così siete voi i Miller, eh? I vostri genitori hanno comprato la fattoria di Hale Robinson". Michael tentò inutilmente di offrirgli una stretta di mano, ma il ragazzo rimase indifferente: "I vostri genitori sono matti da legare". «Mio fratello continuò a sorridere per qualche altro secondo, come se non riuscisse a credere di aver sentito una cosa del genere. Aveva passato tutti quegli anni sulla strada fantasticando sulla scuola, gli amici e una vita normale. Mi disse di stare indietro e poi sferrò un diretto alla bocca del tipo più alto. Tutti gli altri gli saltarono addosso, ma Michael usò calci rotanti e mosse di karatè. Li stese tutti, e avrebbe continuato a picchiarli se non lo avessi fermato.» «Così non vi faceste mai nessun amico?» «In effetti no. Agli insegnanti Michael piaceva perché sapeva parlare con gli adulti. Passavamo tutto il tempo libero alla fattoria. Quello sì che era bello. Avevamo sempre qualche nuovo progetto, come costruirci una capanna su un albero o addestrare Minerva.» «Oli era Minerva? Il vostro cane?» «Era la nostra civetta da guardia.» Gabriel sorrise al ricordo. «Pochi mesi dopo che cominciammo a frequentare la scuola, trovai un pulcino di civetta vicino al torrente dei Tedford. Non riuscii a scorgere nessun nido nelle vicinanze, perciò lo portai a casa, avvolgendolo nella mia maglietta.
«Quando era ancora piccola, tenevo Minerva in una scatola di cartone e le davo cibo per gatti. Decisi di chiamarla con quel nome perché avevo letto in un libro che la dea greca aveva una civetta come aiutante. Quando diventò più grande, papà fece un buco nella parete della cucina e poi costruì una piccola piattaforma su entrambi i lati, divisa da una porticina a spinta. Insegnammo a Minerva a spingere lo sportellino ed entrare in cucina. «Papà sistemò la gabbia di Minerva in una macchia di abeti in fondo al viale d'accesso alla fattoria. La gabbia era munita di un peso, collegato a una molla che apriva lo sportello, e il peso era attaccato a una lenza da pesca tirata da un lato all'altro del viale, a una spanna da terra. Secondo il nostro progetto, se un'auto avesse svoltato nella nostra strada, avrebbe aperto la porta della gabbia e Minerva sarebbe venuta ad avvertirci.» «Era un'idea intelligente.» «Forse lo era, ma all'epoca non lo pensavo affatto. Quando vivevamo ancora nei motel avevo visto un sacco di telefilm pieni di sistemi ad alta tecnologia. Pensavo che, se davvero ci stavano cercando, avremmo dovuto disporre di sistemi di allarme migliori. «Comunque, tirai la lenza di nylon, lo sportello della gabbia si aprì e Minerva volò via. Quando io e papà arrivammo in cucina, la nostra civetta era entrata dallo sportellino e stava mangiando il cibo per gatti dalla sua ciotola. La riportammo nella sua gabbia, la mettemmo di nuovo alla prova e lei tornò in casa. «Quel giorno chiesi a mio padre perché della gente volesse ucciderci. Disse che ci avrebbe spiegato tutto quando saremmo stati un po' più grandi. Allora gli domandai perché non potevamo rifugiarci al Polo Nord o in qualche altro posto sperduto dove non avrebbero mai potuto trovarci. «Ricordo ancora la sua risposta. Era molto triste. "Potrei andare benissimo in un posto del genere" disse. "Ma tu e Michael e la mamma non potreste venire con me. E io non scapperò mai senza di voi."» «Ti disse che era un Viaggiatore?» «No» rispose Gabriel. «Nulla del genere. Passarono un paio di inverni in cui tutto andò bene. Michael smise di fare a pugni con tutti, ma gli altri ragazzi pensavano che fosse un bugiardo. Aveva raccontato a tutti della spada di giada e del fucile di papà, ma aveva anche detto che avevamo una piscina nello scantinato e una tigre nel fienile. Raccontava una tale quantità di storie che nessuno si rese mai conto che alcune erano vere. «Un pomeriggio, mentre eravamo in attesa del pullman scolastico che ci
riportava a casa, un altro ragazzo accennò a un ponte che scavalcava l'interstatale. Sotto il cavalcavia correva una conduttura dell'acqua e un paio di anni prima un ragazzo di nome Andy aveva attraversato la strada appeso al condotto. «"È facile" disse Michael a tutti. "Mio fratello è capace di fare la stessa cosa a occhi chiusi." Venti minuti dopo ero sotto il cavalcavia. Con un salto, mi aggrappai alla conduttura, cominciando ad attraversare l'interstatale mentre Michael e gli altri ragazzi assistevano alla scena. Sono ancora convinto che avrei potuto farcela, ma il tubo era arrugginito ed era difficile tenersi aggrappati. «Ero ormai arrivato a metà quando la tubatura si ruppe e precipitai sulla strada. Battei forte la testa e mi ruppi la gamba sinistra in due punti. Ricordo di aver alzato la testa dopo la tremenda caduta, e di aver guardato in fondo all'autostrada scorgendo un grosso autoarticolato che veniva verso di me. Svenni. Quando ripresi i sensi, ero nella sala del pronto soccorso di un ospedale, con la gamba ingessata. Ero intontito dai farmaci, ma sono più che sicuro di aver udito Michael dire all'infermiera che mi chiamavo Gabriel Corrigan. Non so perché lo fece. Forse pensava che sarei morto se non avesse fornito le mie vere generalità.» «E così la Tabula vi trovò» sentenziò Maya. «Può darsi, ma chi può saperlo?» commentò Gabriel. «Passarono altri due o tre anni senza che ci accadesse nulla. Una sera - io avevo dodici anni e Michael quattordici - eravamo seduti in cucina a fare i compiti. Era gennaio e fuori faceva un freddo terribile. A un tratto Minerva entrò in cucina. «Prima di allora era già capitato un paio di volte, quando il cane degli Stevenson era inciampato nel filo che apriva la gabbia. Infilai gli stivali e andai fuori, convinto di trovare il cane. Girai l'angolo della casa e scorsi quattro uomini che sbucavano dalla pineta. Indossavano tutti abiti scuri e avevano dei fucili. Parlarono tra loro, e si sparpagliarono, venendo verso di noi.» «Mercenari della Tabula» disse Maya. «Non so chi fossero. Per alcuni secondi rimasi come paralizzato, poi corsi in casa e lo dissi ai miei. Papà si precipitò in camera da letto e tornò giù con una sacca da viaggio e la spada di giada. Affidò la spada a me e la sacca a mia madre. Poi diede il fucile da caccia a Michael e ci disse di uscire dal retro e di andare a nasconderci nella ghiacciaia. «"E tu?" chiedemmo. «"Pensate solo a nascondervi e restate là" ci rispose. "Non venite fuori
finché non sentirete la mia voce." «Papà prese il fucile d'assalto e noi uscimmo. Ci disse di camminare vicini alla siepe, in modo da non lasciare impronte nella neve. Io volevo restare con lui e aiutarlo, ma mamma disse che dovevamo andare. Arrivati all'altezza dell'orto, udii uno sparo e l'urlo di un uomo. Non era la voce di mio padre. Di questo sono sicuro. «Michael sollevò a fatica la porta della ghiacciaia e scendemmo sottoterra. La porta era talmente arrugginita che Michael non riuscì a richiuderla completamente. Ci sedemmo tutti e tre su un muretto di cemento, al buio. Per un po' udimmo degli spari, poi tutto finì. Quando mi svegliai, la luce del sole filtrava all'interno dallo spiraglio della porta rimasta socchiusa. «Michael salì la scaletta, diede una spinta alla porta e lo seguimmo all'aperto. La casa e il fienile erano stati rasi al suolo da un incendio. Minerva stava volando sopra di noi come se stesse cercando qualcosa. Nel cortile giacevano morti quattro uomini - a venti o trenta metri di distanza l'uno dall'altro - e il loro sangue si era mescolato alla neve. «Mia madre si sedette per terra, si abbracciò le ginocchia e cominciò a piangere. Michael e io controllammo ciò che restava della casa, ma non trovammo traccia di nostro padre. Dissi a Michael che quegli uomini non lo avevano ucciso. Che era fuggito. «Michael mi rispose: "Lascia perdere. Sarà meglio andar via. Devi darmi una mano con mamma. Andremo dai Tedford e chiederemo in prestito la loro station wagon". «Andò alla ghiacciaia e tornò indietro con la spada e la sacca da viaggio. Guardammo che cosa ci fosse nella borsa e scoprimmo che era piena di mazzette di banconote da cento dollari. Mamma era ancora seduta nella neve, a piangere e bisbigliare tra sé, come impazzita. Attraversammo i campi fino alla fattoria dei Tedford e, quando Michael bussò alla porta, Don e Irene vennero ad aprirci in vestaglia. «Michael raccontava sempre storie a scuola, ma nessuno gli dava mai retta. Quella volta mentì come se credesse davvero in ciò che stava dicendo. Raccontò ai Tedford che papà era stato un soldato e che aveva disertato dall'esercito. Quella notte alcuni agenti del governo ci avevano bruciato la casa e lo avevano ucciso. Mi sembrò una storia assurda, ma poi ricordai che l'unico figlio dei Tedford era stato ucciso in guerra.» «Una bugia astuta» disse Maya. «Hai ragione. Funzionò. Don Tedford ci prestò la sua station wagon. Michael sapeva guidare già da un paio di anni. Caricammo sull'auto le
armi e la sacca da viaggio mentre mamma si stendeva sul sedile posteriore, e partimmo. La coprii con una coperta di lana e dopo un po' si addormentò. Quando alzai gli occhi e guardai fuori dal finestrino vidi Minerva volare tra il fumo...» Gabriel interruppe il racconto e Maya restò in silenzio a fissare il soffitto. Un camion passò sull'autostrada e i suoi fari illuminarono fugacemente le veneziane. Di nuovo il buio. Silenzio. La penombra scura che li avvolgeva parve acquisire lentamente peso e sostanza. Maya si sentì come se fossero distesi l'uno accanto all'altra sul fondo di una piscina molto profonda. «E poi?» domandò. «Per qualche anno ci spostammo in continuazione, da un capo all'altro del Paese, poi ci procurammo dei certificati di nascita falsi e ci stabilimmo ad Austin, nel Texas. Quando compii diciotto anni Michael decise che avremmo dovuto trasferirci a Los Angeles e cominciare una nuova vita.» «Poi la Tabula vi ha trovato e ora sei qui.» «Già» disse Gabriel sottovoce. «Ora sono qui.» 30 A Boone Los Angeles non piaceva. Sembrava una città come le altre, ma covava fortissimi impulsi all'anarchia. Ricordava la videocassetta di una sommossa popolare nei ghetti. Fumo nero che saliva in un cielo luminoso. Una palma che ardeva avvolta dalle fiamme. Los Angeles era piena di gang che passavano il tempo a spararsi addosso. Questo lo si poteva anche accettare, ma un leader visionario - come un Viaggiatore - avrebbe potuto fermare il consumo di droga e dirigere la rabbia verso l'esterno. Imboccò la superstrada a sud di Hermosa Beach, lasciò l'auto in un parcheggio pubblico e raggiunse a piedi Sea Breeze Lane. Un furgone della società elettrica era già posteggiato di fronte alla casa dell'indiano. Boone bussò allo sportello posteriore del furgone e Prichett scostò la tenda scura che copriva il finestrino, sorridendo. "Felice di vederla." Boone aprì lo sportello, salendo sul furgone. I tre mercenari della Tabula erano seduti su seggioline da spiaggia disposte a semicerchio nel vano posteriore del mezzo. Hector Sanchez era un ex federale messicano rimasto implicato in uno scandalo di tangenti. Ron Olson era un ex agente della polizia militare accusato di stupro. Dennis Prichett era il più giovane dei tre, e l'unico con un passato limpi-
do. Andava in chiesa tre volte alla settimana e non imprecava mai. Negli ultimi anni i Confratelli avevano cominciato ad arruolare fanatici di diverse religioni i quali, sebbene fossero pagati come mercenari, si univano ai Confratelli per ragioni morali. Per loro, i Viaggiatori erano falsi profeti che mettevano in pericolo la vera fede. I Confratelli ritenevano questi nuovi impiegati più affidabili e spietati dei normali mercenari, ma Boone diffidava di loro. Comprendeva l'avidità e la paura più dello zelo religioso. «Dove si trova il nostro sospetto?» domandò. «Sotto il portico, sul retro» rispose Prichett. «Ecco qui. Dia un'occhiata.» Prichett si alzò dalla sedia e Boone prese il suo posto davanti a un monitor. Uno degli aspetti più piacevoli del suo lavoro era poter usare sistemi elettronici avanzati per spiare nelle case. Per l'operazione di Los Angeles il furgone era stato attrezzato con un rilevatore di presenza a immagine termica. La telecamera forniva un'immagine in bianco e nero di qualsiasi superficie che producesse o riflettesse il calore. Nel garage c'era una macchia bianca: lo scaldabagno elettrico. Un'altra macchia bianca si trovava in cucina: probabilmente una brocca di caffè. Un terzo oggetto si mosse nella penombra e Prichett lo indicò con l'indice. Thomas Walks the Ground era seduto nella veranda. La squadra di sorveglianza teneva sotto controllo la casa da tre giorni, controllando le telefonate e usando Carnivore per spiare le e-mail. «Qualche messaggio in partenza o in arrivo?» domandò Boone. «Stamattina ha ricevuto due telefonate per un weekend nella capanna del sudore» disse Sanchez. Olson adocchiò il monitor del computer installato a bordo. «Per posta elettronica non ha ricevuto niente, se non il solito spamming.» «Bene» disse Boone. «Entriamo in azione. Avete tutti un distintivo?» I tre uomini annuirono. Al loro arrivo a Los Angeles avevano ricevuto dei falsi documenti dell'FBI. «Hector e Ron, voi entrerete dalla porta principale. Nel caso incontraste resistenza, vi ricordo che i Confratelli ci hanno dato il permesso di chiudere questo file. Dennis, tu vieni con me, passeremo per il giardino.» Scesero dal furgone e attraversarono rapidamente la strada. Olson e Sanchez si diressero verso il portico anteriore. Boone aprì il cancello di legno e Prichett lo seguì lungo il vialetto. Nel cortile sul retro trovarono una primitiva capanna fatta di legnetti e pezze di cuoio, la aggirarono e scorsero Thomas Walks the Ground seduto a un piccolo tavolo di legno. L'indiano stava rimontando un tritarifiuti elettrico. Boone guardò Prichett con la co-
da dell'occhio e notò che il giovane aveva estratto la sua automatica calibro 9. Presa strettissima. Nocche bianche. Un frastuono di legno fracassato provenne dalla parte anteriore del villino. Hector e Ron dovevano aver sfondato a calci la porta d'ingresso. «Va tutto bene» bisbigliò Boone a Prichett. «Non c'è niente di cui preoccuparsi.» Infilò una mano sotto la giacca, estrasse dalla tasca interna un mandato di perquisizione falso e si diresse verso la veranda. «Buongiorno, Thomas. Sono l'agente speciale Baker e questo è l'agente speciale Morgan. Abbiamo un mandato di perquisizione per la sua abitazione.» Thomas Walks the Ground smise di avvitare un bullone e posò sul tavolo la chiave inglese, studiando i due intrusi. «Non credo che siate dei veri agenti di polizia» disse. «E non credo che quel mandato sia autentico. Purtroppo però ho lasciato la pistola in cucina, perciò sarò costretto ad accettare la situazione.» «È una scelta sagace» disse Boone. Poi si rivolse a Prichett. «Torna al furgone e occupati delle comunicazioni. Di' a Hector di mettere la tuta e di procedere alla perquisizione con il rilevatore. Ron deve restare davanti all'ingresso.» «Signorsì.» Prichett ripose la pistola nella fondina ascellare. «E per quanto riguarda il sospetto, signore?» «Staremo benissimo qui. Devo fare quattro chiacchiere con Thomas. Ho una proposta per lui.» Prichett si affrettò lungo il vialetto mentre Boone tirò una panca vicino all'indiano, sedendosi al tavolo. «Che cosa c'è che non va in quel tritarifiuti?» domandò. «Le lame si erano bloccate e così il motorino si è bruciato. Sa qual era il problema?» Thomas indicò un piccolo oggetto nerastro sul tavolino. «Un nocciolo di prugna.» «Perché non comprare un tritarifiuti nuovo?» «Costa troppo.» Boone annuì. «Giusto. Abbiamo controllato il suo conto corrente e il saldo della carta di credito. Lei non ha un soldo.» Thomas Walks the Ground continuò il suo lavoro, rovistando tra i vari pezzi sparpagliati sul tavolo. «Mi fa piacere che un poliziotto inesistente si preoccupi dei miei soldi inesistenti.» «Non vuole rimanere in questa casa?» «Non è importante. Posso sempre tornare dalla mia tribù nel Montana.
Sono rimasto qui anche troppo tempo.» Boone allungò la mano sotto la giacca di pelle e levò dalla tasca interna una busta gonfia, poggiandola sul tavolo. «Questi sono ventimila dollari in contanti. Sono tutti suoi in cambio di una conversazione onesta.» Thomas Walks the Ground raccolse la busta, ma non l'aprì. La tenne un momento nella mano come a soppesarne il contenuto. Poi la gettò sul tavolo. «Sono un uomo onesto, perciò la conversazione sarà gratis.» «Una giovane donna si è fatta portare in taxi a questo indirizzo. Si chiama Maya, ma probabilmente si è presentata con un nome falso. Sui venticinque anni. Capelli neri. Occhi azzurro chiaro. È cresciuta in Gran Bretagna e ha un accento inglese.» «Un sacco di gente viene a trovarmi. Sarà venuta per la mia capanna del sudore.» Thomas sorrise. «Ho ancora qualche posto libero per la cerimonia del prossimo weekend. Lei e i suoi uomini dovreste unirvi a noi, battere i tamburi, buttare fuori tutto il veleno del vostro corpo. Quando poi si esce all'aria fresca ci si sente davvero vivi.» Sanchez risalì il vialetto portando sull'avambraccio una tuta bianca e lo strumento di rilevazione, una sorta di aspirapolvere portatile collegato a uno zainetto. Lo zainetto conteneva una ricetrasmittente che inviava i dati al computer installato sul furgone. Sanchez appoggiò il rilevatore su una sedia da giardino. Indossò la tuta sigillata, cominciando dai piedi. «A che cosa serve?» domandò Thomas. «Abbiamo un campione di DNA della ragazza di cui le parlavo. Lo strumento che vede sulla sedia raccoglie dati genetici. Utilizza un chip a microallineamento per confrontare il DNA del sospetto con il DNA trovato all'interno della sua abitazione.» Thomas trovò fra i pezzi del tritarifiuti smontato tre viti uguali e sorrise, allineandole accanto al nuovo motorino elettrico. «Come le dicevo, ho avuto parecchi ospiti.» Sanchez si chiuse completamente nella tuta alzando il cappuccio e cominciò a respirare attraverso il filtro dell'aria. In questo modo il suo DNA non avrebbe interferito con il campione. Il mercenario aprì la porta del retro ed entrò in casa per cominciare il suo lavoro. I campioni migliori venivano trovati sulla biancheria da letto, i sanitari e gli schienali di poltrone e divani. I due uomini si osservarono reciprocamente mentre il rilevatore emetteva un ronzio sommesso. «Allora mi dica» esordì Boone. «Maya è venuta a trovarla?»
«Perché è importante per lei?» «È una terrorista.» Thomas Walks the Ground cominciò a cercare tre rondelle d'acciaio che corrispondessero al diametro delle tre viti. «Al mondo ci sono terroristi autentici, ma esiste anche un gruppo di uomini che sfrutta la nostra paura del terrorismo per i propri fini. Questi uomini danno la caccia a sciamani e mistici...» Thomas sorrise di nuovo. «E a persone che chiamano "Viaggiatori".» Dall'interno del villino continuava ad arrivare il ronzio del rilevatore. Boone sapeva che Sanchez stava passando il becco dello strumento sui diversi oggetti nelle stanze. «Tutti i terroristi sono uguali.» Thomas si abbandonò contro lo schienale della sua sedia pieghevole. «Lasci che le racconti una cosa su un indiano paiute che si chiamava Wovoka. Intorno al 1880 cominciò a viaggiare in altri mondi. Al suo ritorno su questa terra, parlò a tutte le tribù, fondando un movimento che si chiamava "Ghost Dance", la Danza degli Spettri. I suoi seguaci danzavano in cerchio, intonando dei canti. Quando non si danzava bisognava condurre una vita retta. Niente alcolici. Niente furti. Niente prostituzione. «Ora, si sarebbe portati a pensare che i bianchi responsabili delle riserve ammirassero tutto questo. Dopo anni di declino gli indiani stavano riconquistando forza e moralità. Disgraziatamente, i Lakota non stavano diventando più obbedienti. La Danza degli Spettri arrivò nella riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota, e i bianchi della zona si spaventarono molto. Un agente governativo, un certo Daniel Royer, decise che i Lakota potevano benissimo fare a meno della libertà o di una terra. Quel che occorreva loro era imparare il baseball. Tentò di insegnare ai guerrieri a giocare, ma i Lakota non abbandonarono le danze. «Così i bianchi si dissero: "Gli indiani stanno di nuovo diventando pericolosi". Il governo mandò i soldati a una cerimonia della Danza degli Spettri a Wounded Knee Creek e fece massacrare duecentonovanta uomini, donne e bambini indifesi. I soldati scavarono fosse comuni e gettarono i cadaveri nel terreno gelato. E il mio popolo tornò all'alcol e alla confusione...» Il rumore cessò. Un minuto dopo, Sanchez era di fronte a loro. Rimosse il filtro dell'aria e si tolse il cappuccio della tuta. Aveva il volto lucido, imperlato di sudore. «Abbiamo un rilevamento positivo» annunciò. «Sul divano del soggiorno c'era un suo capello.»
«Bene. Puoi tornare al furgone.» Sanchez si tolse la tuta, incamminandosi sul vialetto. Di nuovo, Boone e Thomas restarono soli. «Maya è stata qui» commentò Boone. «Lo dice il vostro apparecchio.» «Voglio sapere cosa ha detto e cosa ha fatto. Voglio sapere se le ha dato dei soldi o un passaggio in auto. Era ferita? Aveva un travestimento?» «Non l'aiuterò» dichiarò Thomas con calma. «Se ne vada da casa mia.» Boone estrasse la sua pistola automatica, ma la tenne di piatto sulla gamba destra. «In realtà non ha scelta, Thomas. Deve rendersene conto...» «Ho la libertà di dire "no".» Boone sospirò come un padre davanti a un bambino testardo. «La libertà è il più grande mito che sia mai stato creato. È una meta irraggiungibile, distruttiva, che ha causato dolori e sofferenze infinite. Pochissime persone sono in grado di gestire la libertà. Pochissime. Una società è sana e produttiva quando è tenuta sotto controllo.» «Ed è convinto che questo accadrà?» «Una nuova era sta per cominciare. Presto avremo a disposizione la tecnologia necessaria per monitorare e controllare un'infinità di persone. Popolazioni intere. Nelle nazioni industrializzate la struttura è già attiva.» «Anche lei sarà controllato?» «Oh, certamente. Chiunque lo sarà. È un sistema molto democratico. Ed è inevitabile, Thomas. Non c'è modo di impedirlo. Il suo sacrificio per un Arlecchino è privo di senso.» «Può pensare ciò che vuole, ma sono io a decidere che cosa dà senso alla mia vita.» «Lei mi aiuterà, Thomas. Non c'è alcun margine di trattativa. Nessun compromesso. Deve rendersene conto.» Thomas scosse il capo. «No, amico. È lei a non rendersi conto della situazione. Lei mi guarda e vede un indiano crow sovrappeso, senza soldi e con un tritarifiuti scassato. E pensa: "Ah, è solo una persona comune". Ma le dico che gli uomini e le donne comuni capiranno quello che state facendo. E ci alzeremo in piedi, sfonderemo la porta e lasceremo per sempre la vostra gabbia elettronica.» Thomas si alzò dalla sedia, scese i gradini del portico e si diresse verso il vialetto d'ingresso. Boone si voltò sulla panca e, tenendo la pistola automatica a due mani, gli fece saltare la rotula destra. L'indiano crollò di schianto a terra, rimanendo immobile.
Boone scese dal portico con la pistola in pugno e gli si avvicinò. Thomas era ancora cosciente, ma aveva il respiro affannato. La gamba era quasi troncata e un fiotto di sangue scuro sgorgava dall'arteria recisa. Cominciando a tremare per lo shock, alzò lo sguardo verso Boone e disse lentamente. «Non ho paura di te...» Una collera cieca si impossessò di Boone. Puntò la pistola alla fronte di Thomas come per distruggere tutti i pensieri e i ricordi dell'uomo, poi premette il grilletto. La seconda detonazione fu assordante, e le onde sonore parvero espandersi nel mondo. 31 Michael, sotto la doccia, stava facendo il punto della situazione. Era rinchiuso in una suite di quattro stanze senza finestre. Di tanto in tanto sentiva dei rumori attutiti e lo scorrere dell'acqua nelle tubature, perciò dedusse che altre persone abitavano nell'edificio. C'erano un bagno, una camera da letto, un soggiorno e una guardiola esterna in cui due uomini taciturni, vestiti con giacche blu identiche, gli impedivano la fuga. Non sapeva se si trovava in America o in un Paese straniero. Nell'appartamento non c'era nessun orologio e non poteva dire se era giorno o notte. L'unica persona che gli rivolgeva la parola era un giovane nippoamericano che diceva di chiamarsi Lawrence Takawa. Lawrence era seduto accanto al suo letto quando si era ripreso dal narcotico. Pochi minuti dopo era arrivato un dottore in camice bianco che, dopo una rapida visita, aveva sussurrato qualcosa all'orecchio di Lawrence ed era sparito. Michael aveva immediatamente cominciato a fare delle domande a Lawrence. Dove mi trovo? Chi siete? Che cosa diavolo sta succedendo? Lawrence sorrideva cortesemente e forniva sempre la stessa serie di risposte. Sei fra amici. Sei al sicuro. Al momento stiamo cercando Gabriel per mettere al sicuro anche lui. Michael sapeva bene di essere un prigioniero e che i suoi sequestratori erano il nemico. Ma Lawrence e le due guardie armate trascorrevano la maggior parte del loro tempo ad assicurarsi che fosse a suo agio. In soggiorno c'era un costoso apparecchio televisivo e uno scaffale di DVD. Cuochi e camerieri erano in servizio ventiquattr'ore su ventiquattro e preparavano qualsiasi cosa desiderasse. La prima volta che si alzò dal letto, Lawrence lo condusse in una cabina-armadio e gli mostrò abiti, calzature e
accessori per migliaia di dollari. C'erano camicie e abiti di sartoria di seta o cotone egiziano che sul taschino avevano un raffinato monogramma con le sue iniziali. Pullover fatti con il cachemire migliore. Mocassini, scarpe sportive e ciabatte: tutto della sua misura. Chiese degli attrezzi da palestra, e pochi giorni dopo gli fecero trovare in soggiorno un tapis-roulant e una serie di pesi e manubri. Se desiderava leggere un determinato libro o una rivista, lo chiedeva a Lawrence, ricevendolo poche ore dopo. Il cibo era eccellente e poteva ordinare vini francesi e americani. Takawa gli disse che, se avesse voluto, avrebbe avuto anche compagnie femminili. Aveva tutto ciò che desiderava tranne la libertà di andarsene. L'obiettivo a breve termine, secondo Lawrence, era quello di rimetterlo in forze e in buona salute dopo le sue ultime vicissitudini. Avrebbe poi incontrato un uomo molto influente, il quale avrebbe risposto alle sue domande. Quando uscì dal bagno Michael scoprì che qualcuno aveva scelto per lui dei vestiti, disponendoli sul letto. Scarpe e calzini. Pantaloni grigi di morbida lana pettinata e una camicia nera che gli andava a pennello. Entrò nel soggiorno della suite e trovò Lawrence che sorseggiava un bicchiere di vino ascoltando musica jazz. «Come sta, Michael? Dormito bene?» «Bene.» «Sognato niente?» Michael aveva sognato di essere in volo sopra l'oceano, ma non c'era motivo di raccontarlo. Non voleva far loro sapere che cosa gli passava per la mente. «Niente sogni. Non che io ricordi, almeno.» «Tra qualche minuto conoscerà Kennard Nash. Sa chi è?» Michael ricordava una faccia in un notiziario televisivo. «Tempo fa non occupava un posto di governo?» «Era un generale. Dopo aver lasciato l'esercito ha fatto parte di due diverse amministrazioni: sia con i democratici sia con i repubblicani. Tutti lo stimano molto. Attualmente è direttore generale della Evergreen Foundation.» «"La fondazione per ogni generazione"» esclamò Michael, citando lo slogan televisivo della fondazione. Il loro marchio era molto incisivo. Un brevissimo videoclip animato di due bambini, un maschio e una femmina, che si chinavano sopra un piccolo abete, poi tutto si trasformava nel simbolo stilizzato di un albero. «Sono quasi le sei di sera. Si trova nella sede amministrativa del centro
di ricerca della fondazione. Siamo nella contea di Westchester, più o meno a quarantacinque minuti di auto da New York.» «Perché mi avete portato qui?» Lawrence posò il bicchiere di vino e sorrise. Era impossibile sapere che cosa stesse pensando. «Tra un attimo andremo di sopra dal generale Nash, che sarà lieto di rispondere ai suoi interrogativi.» I due agenti del servizio di sicurezza li stavano aspettando nella guardiola. Senza dire una parola scortarono Michael e Lawrence all'esterno, lungo un corridoio, verso una serie di ascensori. In corridoio c'era una finestra e Michael vide che era notte. Quando l'ascensore si aprì, Lawrence lo invitò a entrare. Poi passò la mano destra davanti a un sensore e premette il pulsante. «Presti la massima attenzione al generale Nash, Michael. È un uomo molto importante.» Lawrence uscì dall'ascensore, e Michael salì da solo all'ultimo piano. L'ascensore si aprì in un ufficio privato. Era un vasto salone arredato nello stile di un club britannico. Librerie a tutta parete in rovere contenevano file di volumi rilegati in pelle; c'erano comode poltrone, tavolini e lampade verdi da lettura. L'unico particolare insolito erano le tre telecamere di sorveglianza a circuito chiuso montate sul soffitto che si muovevano lentamente, tenendo sotto controllo l'intera sala. "Mi stanno osservando" pensò Michael. "Qualcuno sta sempre osservando." Gironzolò nella stanza, cercando di non toccare nulla. In un angolo della sala, dei piccoli faretti illuminavano il modellino in scala di un edificio composto da due parti, una torre centrale circondata da un palazzo ad anello. La struttura esterna della costruzione era divisa in piccoli locali identici, ciascuno dei quali dotato di una finestra munita di sbarre nella facciata esterna e un'altra finestra che costituiva la metà superiore della porta d'ingresso. La torre aveva l'aspetto di un solido monolito, ma quando Michael si spostò dall'altra parte del piedistallo vide uno spaccato dell'edificio. Era un labirinto di porte e scale. Piccole fasce di legno di balsa coprivano le finestre come veneziane. Michael sentì aprirsi una porta e Kennard Nash entrò nella sala. Calvo. Spalle larghe. Quando Nash sorrise, Michael si ricordò di tutte le volte che aveva visto il generale in televisione. «Buonasera, Michael. Sono Kennard Nash.» Gli si fece incontro, tendendogli la mano. Una delle telecamere di sorve-
glianza ruotò leggermente come per inquadrare la scena. «Vedo che ha notato il panopticon.» Nash si avvicinò al modellino. «Che cos'è? Un ospedale?» «Potrebbe benissimo essere un ospedale o un palazzo per uffici, ma in realtà è un penitenziario progettato da Jeremy Bentham, un filosofo inglese del XVIII secolo. Bentham mandò i suoi progetti a tutti i membri del governo inglese, ma non vide mai realizzate le proprie idee. Questo modello è basato sui suoi disegni originali.» Nash si avvicinò al modellino e lo studiò attentamente. «Ogni locale è una cella con mura così spesse da impedire qualsiasi possibilità di comunicazione tra i prigionieri. La luce proviene dall'esterno in modo che ogni prigioniero sia sempre visibile in controluce.» «E gli agenti di custodia alloggiano nella torre?» «Bentham la chiamava padiglione d'ispezione.» «Sembra un labirinto.» «L'ingegnosità del panottico è proprio questa. È progettato in modo che non si possa mai vedere in faccia il custode, o sentirlo muoversi per la torre. Pensi alle implicazioni, Michael. Nella torre ci possono essere venti guardie o una sola, oppure addirittura nessuna. Non cambia nulla. Dopo un po', questa consapevolezza entra a far parte della coscienza del prigioniero. Quando il sistema è in perfetto funzionamento gli agenti di custodia possono lasciare la torre per l'ora di pranzo... o anche per tre giorni. È lo stesso. I prigionieri ormai hanno accettato la loro condizione.» Il generale Nash aprì una finta libreria dietro la quale si trovava un mobile bar. «Sono le sei e mezzo di sera. Di solito a quest'ora prendo uno scotch. Abbiamo bourbon, whisky, vodka e vino. Se vuole qualcosa di più elaborato, posso ordinarlo.» «Prenderò whisky con acqua.» «Eccellente. Ottima scelta.» Nash aprì le bottiglie. «Faccio parte di un gruppo denominato i "Confratelli". Esistiamo da parecchio tempo, ma per secoli e secoli non abbiamo fatto altro che reagire agli eventi, tentando di limitare il caos. Il panottico fu una vera rivelazione per i nostri membri. Cambiò il nostro modo di pensare. «Perfino i peggiori studenti di storia si rendono conto che gli esseri umani sono avidi, impulsivi e crudeli. Ma la prigione modello ideata da Bentham ci dimostra che il controllo sociale è possibile, con la tecnologia giusta. Non c'è nessun bisogno di un poliziotto a ogni angolo. L'unica cosa necessaria è un panottico virtuale che sorvegli costantemente la popolazio-
ne. Non è obbligatorio osservare sempre, ma le masse devono accettare questa eventualità, e la conseguente punizione. Occorrono la struttura, il sistema, la minaccia implicita che entra nella vita della gente. Quando la popolazione abbandona il concetto di privacy, permette la nascita di una società pacifica.» Il generale portò due bicchieri verso un tavolino basso di legno. Posò il drink di Michael sul tavolino e si sedette di fronte a lui. «Quindi... al panottico.» Nash levò il suo bicchiere in direzione del modellino. «Fu un'invenzione mancata, ma una grandissima intuizione.» Michael sorseggiò il suo whisky di malto. Non aveva nessun retrogusto che potesse rivelare che era drogato, ma non poteva esserne sicuro al cento per cento. «Faccia pure della filosofia» disse. «Ma a me non interessa. L'unica cosa che so è che sono vostro prigioniero.» «In effetti lei sa molto di più. La sua famiglia ha vissuto sotto false identità per parecchi anni finché un gruppo di uomini armati non ha attaccato la vostra fattoria nel South Dakota. Eravamo noi, Michael. Quegli uomini erano nostri soldati e stavano seguendo la nostra vecchia strategia.» «Avete ucciso mio padre» disse Michael. «Davvero?» Kennard Nash inarcò le sopracciglia. «La nostra squadra perquisì ciò che restava dell'abitazione bruciata, ma non trovammo mai il suo cadavere...» Il tono di voce noncurante di Nash fece infuriare Michael. "Bastardo" pensò. "Come puoi startene seduto lì a sorridere?" Per un istante pensò di saltare il tavolino e afferrare Nash per il collo. Finalmente avrebbe potuto vendicarsi per quella notte alla fattoria. Il generale non parve rendersi conto della rabbia di Michael. Il suo cellulare suonò, ed egli rispose posando sul tavolino il bicchiere. «Avevo chiesto di non essere disturbato» disse. «Sì, davvero? Interessante. Senti, perché non lo chiediamo a lui?» Abbassò il telefono e guardò Michael. Sembrava un funzionario di banca che aveva appena trovato un piccolo problema in una richiesta di prestito. «Era Lawrence Takawa. Ha detto che lei ha intenzione di aggredirmi, o di scappare.» Michael trattenne il respiro per un attimo, stringendo con le mani i braccioli della poltrona. «Non... Non so di cosa parla» disse. «La prego, Michael. Non cerchi di negare. La stiamo controllando con uno scanner a infrarossi. Lawrence Takawa dice che lei ha i battiti cardiaci accelerati, elevata risposta cutanea galvanica e segni di riscaldamento at-
torno agli occhi. Tutti questi elementi indicano con chiarezza una situazione di "aggressione o fuga". Il che ci riporta alla mia domanda: ha intenzione di aggredirmi o di fuggire?» «Mi dica solo perché volevate uccidere mio padre.» Nash studiò la faccia di Michael, e poi decise di proseguire la conversazione. «Non si preoccupi» disse a Lawrence Takawa. «Stiamo facendo progressi.» «Mio padre era un criminale?» chiese Michael. «Aveva commesso dei furti?» «Il modello del panottico funziona perfettamente solo se l'umanità intera vive all'interno della struttura. Non è valido se anche un solo individuo può aprire una porta e chiamarsi fuori dal sistema.» «E mio padre poteva farlo?» «Sì. Noi chiamiamo la gente come lui "Viaggiatori". Suo padre era capace di proiettare la sua energia neurale fuori dal proprio corpo e di viaggiare in altre realtà. Il nostro mondo è il Quarto Regno. Bisogna attraversare delle barriere per entrare in altri regni, e non sappiamo se suo padre li avesse esplorati tutti.» Nash fissò Michael. «Sembra che la capacità di lasciare questo mondo sia un carattere genetico. Può darsi che lei sia in grado di farlo, Michael. Lei e Gabriel potreste avere questo potere.» «E voi siete la Tabula?» «È il nome usato dai nostri nemici. Come le ho detto, noi ci chiamiamo i "Confratelli". La Evergreen Foundation è la nostra istituzione pubblica.» Michael guardò il proprio bicchiere, tentando di elaborare una strategia. Era ancora vivo perché volevano qualcosa da lui. "Può darsi che lei sia in grado di farlo, Michael." Sì. Era così. Avevano assolutamente bisogno di un Viaggiatore. «L'unica cosa che conosco della vostra fondazione sono gli spot pubblicitari.» Nash si alzò dalla poltrona e andò alla finestra. «I Confratelli sono veri idealisti. Vogliamo ciò che è meglio per tutti: pace e prosperità. L'unico modo per raggiungere questo obiettivo è perseguire la stabilità politica e sociale.» «E lo fate rinchiudendo tutti in una prigione colossale?» «Non capisce, Michael? Oggigiorno la gente è spaventata dal mondo che la circonda e questa paura è facile da incoraggiare e mantenere. La gente vuole stare nel nostro Panottico Virtuale. Li sorveglieremo come buoni
pastori. Saranno costantemente seguiti, controllati, protetti dall'ignoto. «Inoltre, si accorgono di rado della prigione. C'è sempre qualche distrazione. Una guerra in Medio Oriente. Uno scandalo nel mondo delle celebrità. La Coppa del Mondo o il Super Bowl. Droghe e farmaci. Pubblicità. Una nuova canzone. La moda che cambia. La gente può entrare nel nostro Panottico per paura, ma una volta dentro le garantiamo un divertimento continuo.» «Nel frattempo sterminate i Viaggiatori.» «Come le ho detto, questa era la nostra vecchia strategia. Reagivamo come un corpo sano che deve difendersi dai virus. Tutte le leggi fondamentali sono state scritte, e in una moltitudine di lingue diverse. Le regole sono chiare. L'umanità deve solo imparare a obbedire. Ma nel corso della storia ogni volta che una società era vicina a raggiungere un certo grado di stabilità, spuntava un Viaggiatore che portava nuove idee, tentando di rivoluzionare tutto. Mentre i saggi e i potenti cercavano di edificare un'immensa cattedrale, i Viaggiatori continuavano a minarne le fondamenta.» «Allora che cos'è cambiato?» chiese Michael. «Perché non mi avete ucciso?» «I nostri scienziati lavorano da tempo al progetto di un computer ai quanti, e hanno ottenuto esiti insperati. Stasera non entrerò nei particolari tecnici, Michael. Per ora le basti sapere che un Viaggiatore ci può aiutare a compiere un incredibile passo in avanti nel campo della tecnologia. Se il Progetto Crossover funziona, cambieremo per sempre la storia.» «E volete che diventi un Viaggiatore?» «Esatto.» Michael si alzò e andò alla finestra. Aveva la sensazione di avere iniziato una partita a poker e che le carte fossero dalla sua parte. «Poco fa ha ammesso che la sua organizzazione è responsabile dell'attacco alla mia famiglia.» Il generale Nash annuì. «Personalmente, non ho niente a che fare con quello spiacevole incidente.» «Anche se accettassi di accantonare il passato e di collaborare con voi non significa che possa realmente aiutarvi. Io non so "viaggiare" in nessun mondo. Mio padre non ci ha insegnato nulla, se non a tirare di scherma con le spade di bambù.» «Sì, me ne rendo conto. Ha visto il nostro centro di ricerca?» Nash fece un gesto con la mano e Michael guardò dalla finestra. Le luci di sicurezza illuminavano il complesso. L'ufficio di Nash era all'ultimo piano di un
modernissimo palazzo amministrativo collegato ad altri tre edifici da passerelle coperte. In mezzo al quadrangolo sorgeva una quinta costruzione simile a un cubo bianco. I muri di marmo del cubo erano così sottili che le luci interne facevano brillare la costruzione. «Se lei ha il potenziale, disponiamo del personale e della tecnologia necessari per aiutarla ad abbandonare il Quarto Regno. In passato, i Viaggiatori venivano istruiti da sacerdoti eretici, ministri di culto dissidenti e rabbini dei ghetti. L'intero processo era governato dalla fede religiosa e dal misticismo, e a volte non funzionava. Come può intuire da sé, la nostra operazione non manca di una pianificazione adatta.» «Va bene. Fantastico. Avete sedi futuristiche e un sacco di soldi. Questo non vuol dire comunque che io sia un Viaggiatore.» «Se avrà successo ci aiuterà a cambiare la storia. E se fallisce, la ricompenseremo comunque. Non dovrà mai più lavorare in vita sua.» «E se mi rifiutassi di collaborare?» «Escludo questa ipotesi. Non dimentichi che so tutto di lei, Michael. Il nostro staff ha svolto indagini sul suo conto per mesi. Contrariamente a suo fratello, lei è un uomo ambizioso.» «Lasci fuori Gabriel da tutto questo» scattò Michael. «Voglio che nessuno lo cerchi.» «Gabriel non ci serve. Abbiamo già lei. E ora le sto offrendo una grande occasione. Lei è il futuro. Sarà il Viaggiatore che donerà al mondo la pace.» «Le guerre esisteranno sempre.» «Si ricorda che cosa le ho detto? È tutta una questione di paura e distrazione. La paura spingerà la gente a far parte del nostro Panottico Virtuale, dopo di che la manterremo felice. Tutti saranno liberi di prendere antidepressivi, di indebitarsi fino al collo e di guardare per ore la televisione. La società potrà sembrare disorganizzata, ma sarà invece stabilissima. Ogni quattro anni sceglieremo una faccia diversa che tenga discorsi dalla Casa Bianca.» «Ma chi avrà il potere reale?» «I Confratelli, naturalmente. E lei farà parte della nostra famiglia, guidandoci verso il futuro.» Nash gli mise una mano sulla spalla. Era un gesto cordiale da zio o da padrino. "Ci guiderà verso il futuro" pensò Michael. "Parte della nostra famiglia." Fissò l'edificio cubico di marmo bianco fuori dalla finestra. Il generale Nash tornò verso il bar. «Mi permetta di offrirle un altro
drink. Ordineremo la cena - lombo di manzo o sushi -, qualsiasi cosa desideri, e poi parleremo. La maggior parte della gente trascorre tutta la vita ignorando la verità sui principali avvenimenti della storia contemporanea. Assistono a una farsa mentre il vero dramma si svolge dietro il sipario. «Stasera solleverò il sipario, faremo un giro dietro le quinte e le farò vedere come funzionano i sostegni, che cosa c'è dietro il palco e cosa fanno gli attori nei camerini. Gran parte di ciò che le è stato insegnato a scuola è parte di una immensa finzione. La storia è uno spettacolo di marionette per menti puerili.» 32 Gabriel si svegliò nella camera dei motel, ma Maya non c'era più. Si era alzata e vestita senza il minimo rumore. Gabriel trovò strano che la ragazza avesse rifatto con ordine il letto, rimboccando per bene la coperta, sprimacciando i due cuscini e rifinendo il tutto con il vecchio copriletto di cotone sfilacciato. Era come se volesse cancellare la loro presenza; la notte insieme, nella stessa stanza. Si sedette, appoggiandosi alla testiera scricchiolante. Da quando avevano lasciato Los Angeles non aveva smesso un momento di riflettere su cosa significasse essere un Viaggiatore. L'uomo non era semplicemente una macchina biologica? O dentro ogni essere vivente c'era qualcosa di eterno, una scintilla di energia che Maya definiva la "Luce"? Suo padre era stato perseguitato per tutta la vita dalla Tabula, ma questo non dimostrava che fosse un Viaggiatore. E anche se lo fosse stato, non significava che i suoi due figli avessero lo stesso potere. Provò a pensare a un altro mondo, ma si trovò sopraffatto da pensieri casuali. Non era capace di controllare la propria mente, che si agitava saltellando come una scimmia in gabbia, buttando all'aria immagini di vecchie innamorate, corse in motocicletta e il testo di una vecchia canzone. Udì un ronzio e aprì gli occhi: una mosca stava sbattendo contro il vetro della finestra. Irritato, andò in bagno e si lavò la faccia. Maya, Hollis e Vicki avevano rischiato la vita per lui, ma sarebbero rimasti delusi. Si sentiva come un intruso a una festa dove fingeva di essere qualcuno importante. L'Esploratore - ammesso che esistesse - avrebbe riso di lui. Quando tornò in camera, notò che la borsa da viaggio e il computer portatile di Maya erano ancora accanto alla porta. La ragazza doveva essere
nelle vicinanze. Aveva preso il furgone ed era andata a comprare del cibo? Impossibile. Nella zona non c'erano né ristoranti né supermarket. Si vestì e uscì nel parcheggio. L'anziana signora che gestiva il motel aveva spento l'insegna al neon e il suo ufficio era buio. Il cielo all'alba era color lavanda, costellato di nuvole d'argento. Girò dietro l'angolo sud dell'edificio e scorse Maya in piedi su una piattaforma di cemento, in mezzo a dei cespugli. La struttura di cemento sembrava il fondamento di una casa abbandonata al deserto. Nel vecchio cantiere edile Maya aveva trovato una bacchetta di ferro, lo scarto di un rinforzo per il cemento armato. Impugnandola come una spada, eseguì una serie di figure rituali e di combinazioni di scherma, simili a quelle che Gabriel aveva visto compiere da suo padre durante le lezioni domestiche di kendo. Parata. Affondo. Difesa. Ogni movimento si fondeva con grazia nella mossa successiva. Restando a distanza osservò Maya senza disturbare l'intensa risolutezza della ragazza inglese. Gabriel non aveva mai conosciuto nessuno come quella donna arlecchino. Sapeva che era una guerriera capace di uccidere senza esitare, ma nel modo con cui affrontava il mondo c'era qualcosa di puro e onesto. Guardandola esercitarsi, Gabriel si chiese se le importasse qualcos'altro oltre a quell'obbligo antico, la violenza che aveva rivendicato la sua stessa esistenza. Una vecchia scopa giaceva per terra accanto a un cassonetto dell'immondizia. Gabriel la spezzò alla base e, con il manico rotto, si avvicinò alla piattaforma di cemento. Quando lo vide, Maya interruppe gli esercizi e abbassò l'arma improvvisata. «Da ragazzo ho preso lezioni di kendo, ma tu sembri un'esperta» disse Gabriel. «Ti va se ci alleniamo insieme?» «Un Arlecchino non dovrebbe mai battersi contro un Viaggiatore.» «Potrei non essere un Viaggiatore. Dobbiamo accettare questa possibilità.» Gabriel sferzò l'aria con il manico di scopa. «E questa non è esattamente una spada.» Gabriel attaccò Maya, muovendosi piano. Maya parò gentilmente e affondò un colpo al fianco sinistro. Per la prima volta Gabriel ebbe l'impressione che Maya lo stesse trattando come un suo pari. La ragazza sorrise perfino due o tre volte quando lui bloccò i suoi attacchi e cercò di sorprenderla con una mossa imprevista. Duellarono con grazia sotto il cielo immenso.
33 Quando entrarono in Nevada cominciò a far caldo e Gabriel si levò il casco integrale, buttandolo nel furgone. Inforcò un paio di occhiali da sole e diede gas alla moto, staccando Maya mentre il vento gli agitava le maniche della camicia e i risvolti dei jeans. Puntarono a sud verso il fiume Colorado e la Davis Dam. Rocce rosse. Cactus giganti. Onde di aria calda sul nastro d'asfalto. In prossimità di una cittadina che si chiamava Searchlight apparvero cartelli scritti a mano, PARADISE DINER. CINQUE MIGLIA. COYOTE VIVO! FATELO VEDERE AI BAMBINI! TRE MIGLIA. PARADISE DINER. PRANZATE DA NOI! Gabriel le fece cenno di fermarsi. La tavola calda era un edificio basso con il tetto piatto che sembrava un vagone ferroviario con le vetrine. Sul tetto era installato un grosso impianto di aria condizionata. Tenendo in mano la custodia della spada, Maya scese dal furgone e studiò la costruzione prima di decidersi a entrare. Ingresso anteriore. Uscita sul retro. Uno scassatissimo pick-up rosso posteggiato davanti alla tavola calda e un secondo pick-up modificato in camper parcheggiato su un lato. Gabriel smontò dalla moto e la raggiunse, rilassando i muscoli. «Non penso che avremo bisogno di quella» disse indicando con il mento la custodia a tubo. «Facciamo solo colazione, Maya. Non è la Terza guerra mondiale.» Maya si vide con gli occhi di Gabriel. Follia da Arlecchini. Paranoia costante. «Mio padre mi ha addestrato a portare un'arma in qualsiasi momento.» Gabriel le rivolse un sorriso cordiale. E Maya vide come per la prima volta il suo viso, i suoi occhi e i capelli castani. «Suppongo che tu abbia ragione» ribatté. Fece un respiro profondo e ripose la spada nel furgone. Però si controllò gli avambracci per assicurarsi che i due coltelli fossero nei loro foderi. Il coyote era tenuto in una gabbia di rete metallica sistemata presso l'entrata, all'interno della tavola calda. Era accucciato su una lastra di cemento coperta di sterco, e ansimava per il caldo soffocante. Era la prima volta in vita sua che Maya ne vedeva uno. Sembrava un cane con la testa e le zanne di un lupo. Solo i suoi occhi nocciola scuro tradivano la sua natura selvatica. «Odio gli zoo» disse a Gabriel. «Mi ricordano le prigioni.» «Alla gente piace vedere gli animali.»
«I cittadini godono nell'uccidere le creature selvatiche oppure nel metterle in gabbia. Li aiuta a dimenticare che anche loro sono prigionieri.» La tavola calda era uno stanzone lungo, diviso in séparé sul lato della vetrata, con un bancone di fronte a una serie di sgabelli alti e una cucina stretta. Accanto alla porta d'ingresso c'erano tre slot machine; ognuna con un tema diverso: Circus of Jackpots, Big Winner e Happy Daze. Un paio di messicani con stivali da cowboy e abiti da lavoro impolverati sedevano al bancone, ognuno davanti a un piatto di uova strapazzate e tortilla. Una giovane cameriera dai capelli biondi tinti, con un grembiule scamiciato, stava travasando il fondo di una bottiglietta di ketchup in un'altra. Maya scorse una faccia che spiava dalla cucina: un vecchio con gli occhi annebbiati e la barba spinosa. Il cuoco. «Sedetevi dove preferite» disse la cameriera, e Maya scelse il posto migliore per controllare l'ambiente: l'ultimo séparé in fondo, di fronte all'entrata. Sedendosi, osservò le posate argentate sul tavolo di formica e cercò di visualizzare mentalmente il locale. Era un ottimo posto per una sosta. I due messicani sembravano inoffensivi e dalla sua sedia era in grado di avvistare qualsiasi auto in arrivo dalla statale. La cameriera portò loro due bicchieri d'acqua con ghiaccio. «'Giorno. Caffè?» La ragazza aveva una voce squillante. «Solo del succo d'arancia» disse Gabriel. Maya si alzò. «Dov'è il bagno?» «Sul retro. È chiuso a chiave. Venga, l'accompagno.» La cameriera - il cui nome sulla targhetta era "Kathy" - accompagnò Maya fuori dalla tavola calda fino a un'anonima porta, chiusa con un lucchetto. La ragazza continuò a chiacchierare mentre cercava la chiave nella tasca del grembiule. «Papà ha paura che la gente entri di nascosto e rubi la carta igienica. Qui lui fa il cuoco e il lavapiatti e qualsiasi altra cosa.» Aprì la porta, accendendo la luce. La stanza era ingombra di scatoloni di cibo. La ragazza rovistò in giro, controllando il distributore di salviette di carta e dando una ripulita al lavandino. «Ha un ragazzo veramente carino» disse Kathy. «Mi piacerebbe stare con un uomo così bello. Invece rimarrò inchiodata qui al Paradise finché papà non si deciderà a vendere.» «Siete un po' isolati.» «Ci siamo solo noi due e quel vecchio coyote. Più qualche cliente che viene da Las Vegas. Mai stata a Las Vegas?» «No.»
«Io ci sono stata sei volte.» Quando finalmente la ragazza uscì dal bagno, Maya chiuse la porta e si sedette su una pila di scatole di cartone. L'attaccamento che provava per Gabriel la preoccupava. Agli Arlecchini non era permesso fare amicizia con i Viaggiatori che proteggevano. L'atteggiamento migliore era sentirsi superiori a loro, come se fossero dei bambini innocenti e ignari dei lupi in agguato nella foresta. Suo padre diceva sempre che c'era una ragione pratica per quella distanza emotiva. I chirurghi di rado operavano membri della loro famiglia, perché potevano perdere la lucidità. Le stesse regole valevano per gli Arlecchini. Maya si alzò e andò al lavandino, osservandosi nello specchio incrinato. "Guardati" pensò. Capelli arruffati. Occhi rossi. Indumenti scuri e scialbi. Thorn l'aveva trasformata in un killer senza affetti, un essere privo del desiderio di comodità dei "fuchi" e del desiderio di sicurezza dei "cittadini". Gabriel sapeva di essere un Viaggiatore; ecco perché era così prudente nel suo rapporto con lei. I Viaggiatori potevano anche essere deboli e confusi, ma erano capaci di varcare i confini extracorporei e di fuggire da quel penitenziario globale. Gli Arlecchini invece rimanevano prigionieri del Quarto Regno fino alla morte. Quando Maya tornò nella tavola calda, i due messicani avevano terminato la colazione e se n'erano andati sul loro pick-up. Lei e Gabriel ordinarono da mangiare. Dalla cucina veniva odore di fritto. «Dimmi una cosa» esordì Gabriel. «Ammettiamo per un istante che certe persone sappiano veramente viaggiare in altri regni. Com'è? È pericoloso?» «Non lo so. Per questo hai bisogno dell'aiuto di un Esploratore. Mio padre mi ha raccontato di due possibili pericoli. Quando varchi il confine, il tuo guscio... cioè il tuo corpo... resta qui.» Gabriel bevve un sorso di succo d'arancia e la fissò. Lei tentò di evitare il suo sguardo. "Non guardarlo negli occhi." «E il secondo pericolo?» «La tua Luce, il tuo spirito, comunque tu voglia chiamarlo, può essere ucciso o ferito in un altro regno. Se succede, allora resti intrappolato, per sempre.» Voci. Risate. Maya alzò gli occhi proprio mentre quattro giovani entravano nella tavola calda. Fuori, nel parcheggio antistante, il sole del deserto scintillava sul loro fuoristrada blu scuro. Osservò ogni membro del gruppo e diede a ciascuno un soprannome. Braccio di ferro, Cranio rasato e Lardone indossavano tutti maglie da football e pantaloni da allenamento. Il
loro capo - il tipo più basso, ma con la voce più forte - aveva ai piedi stivali da cowboy a tacco alto per guadagnare in statura. "Chiamalo Baffo" pensò Maya. "No. Fibbia d'argento." La fibbia faceva parte di una grossa cintura da cowboy. «Sedetevi dove volete» disse Kathy. «Certo, che diavolo» rispose subito Fibbia d'argento. «Lo avremmo fatto comunque.» Le loro voci alte e il loro desiderio di farsi riconoscere innervosirono Maya. Consumò la colazione alla svelta, terminando tutto in pochi minuti, mentre Gabriel spalmava due cucchiaini di marmellata al pompelmo sul suo toast. I quattro si fecero dare da Kathy la chiave della toilette e ordinarono la colazione, cambiando continuamente idea. Dissero a Kathy che stavano tornando in Arizona dopo aver assistito a un incontro di boxe a Las Vegas. Avevano perso una bella somma scommettendo sullo sfidante, e altri soldi ai tavoli di blackjack. Kathy prese gli ordini e tornò dietro il bancone. Lardone si fece cambiare in monete una banconota da venti dollari e cominciò a giocare con le slot machine. «Hai finito?» chiese Maya. «Ancora un attimo.» «Andiamocene subito via.» Gabriel parve divertito. «Non ti piacciono quei quattro, eh?» Maya fece tintinnare i cubetti di ghiaccio agitando il bicchiere e mentì. «Non presto alcuna attenzione ai cittadini, se non mi intralciano.» «Pensavo che Victory Fraser ti fosse simpatica. Vi comportavate come due amiche...» «È una truffa!» Lardone batté il pugno su una delle slot machine. «Ci ho messo venti sacchi e non ho vinto nemmeno una volta.» Fibbia d'argento era seduto di fronte a Cranio rasato nel séparé. Si accarezzò i baffi col pollice e rise. «Svegliati, Davey. È programmata per non fare vincere mai nessuno. Qui dentro non guadagnano abbastanza con questo schifoso caffè e quindi devono derubare i turisti che giocano con quelle macchinette.» Kathy uscì da dietro il bancone. «A volte si vince. Due settimane fa un camionista ha preso il jackpot.» «Non raccontarmi balle, tesoro. Vedi solo di restituire al mio amico i suoi venti sacchi. Dovrebbe esserci una legge, o qualcosa del genere, secondo la quale dovreste rimborsare una percentuale.» «Non posso farlo. Le macchine non sono nostre. Le prendiamo in affitto
da Mr Sullivan.» Braccio di ferro rientrò in quel momento dalla toilette, rimanendo ad ascoltare accanto alle slot machine. «Non ci interessa» intervenne. «Tutto il dannato Stato del Nevada è un'immane fregatura. Sgancia i soldi oppure un pasto gratis per tutti.» «Le colazioni non c'entrano niente con le slot machine» rispose Kathy. «Se avete ordinato da mangiare, allora...» Lardone raggiunse in tre falcate la cassa e afferrò Kathy per un braccio. «Allora invece del pasto mi prenderò qualcos'altro.» I suoi tre amici risero. «Sei sicuro?» domandò Braccio di ferro. «Pensi che la biondina valga venti dollari?» «Se ce la facciamo in quattro, sono cinque dollari a cranio.» La porta della cucina si spalancò e il padre di Kathy entrò in sala con una mazza da baseball. «Lasciala andare! Subito!» Fibbia d'argento sembrava divertito. «Mi stai minacciando, vecchio?» «Ci puoi contare! E ora prendete la vostra roba e andatevene!» Fibbia d'argento si allungò sul tavolo e afferrò la pesante zuccheriera di vetro vicino alla bottiglietta rossa di tabasco. Si alzò dalla panchetta e scagliò la zuccheriera con quanta più forza possibile. Il padre di Kathy cercò di evitarla tirandosi indietro di scatto, ma il contenitore lo colpì alla guancia sinistra, frantumandosi. Lo zucchero si sparse ovunque e il vecchio barcollò all'indietro. Cranio rasato scivolò fuori dal séparé. Afferrò l'estremità della mazza da baseball, la strappò dalle mani dell'anziano cuoco e lo immobilizzò cingendogli il collo da dietro. Lo colpì più volte con il manico della mazza, lasciandolo poi crollare sul pavimento. Maya toccò la mano di Gabriel. «Esci dalla porta della cucina.» «No.» «Noi non c'entriamo con tutto questo.» Gabriel la guardò con disprezzo e Maya si sentì come pugnalata. Restò immobile mentre Gabriel si alzava dal tavolo e andava incontro ai quattro. «Fuori di qui.» «E tu chi diavolo sei?» Fibbia d'argento si alzò dal tavolo. Ora tutti e quattro erano in piedi vicino al bancone. «Fatti gli affari tuoi.» Cranio rasato sferrò un calcio nelle costole del cuoco sul pavimento. «Chiudiamo questo vecchio bastardo nella gabbia del coyote.» Kathy tentava di divincolarsi, ma Lardone la teneva stretta. «Sì, poi ispezioneremo la merce.»
Gabriel aveva fatto solo qualche allenamento di karatè, e non sapeva cosa fare. Restò fermo in piedi, di fronte agli avversari, in attesa dell'attacco. «Avete sentito quello che ho detto?» «Sì. Abbiamo sentito.» Cranio rasato fece roteare la mazza da baseball come un manganello. «Hai cinque secondi di tempo per scomparire.» Maya si alzò e uscì dal séparé. Si sentiva rilassata. «Il nostro modo di combattere è come un tuffo in un oceano» le aveva detto Thorn una volta. «In caduta libera, ma con grazia. Attratti dalla gravità, ma con pieno controllo.» «Non azzardatevi a toccarlo» disse Maya. I quattro uomini scoppiarono a ridere mentre Maya avanzava verso di loro. «Da dove vieni?» le domandò Fibbia d'argento. «Mi pare dall'Inghilterra o qualcosa del genere. Da queste parti le donne lasciano che siano gli uomini a risolvere le loro questioni.» «Ma no! Lasciala partecipare» disse Braccio di ferro. «Ha un bel corpicino.» Maya sentì la freddezza degli Arlecchini invaderle il cuore. Misurò istintivamente le distanze e le traiettorie tra sé e i quattro bersagli. La sua faccia era di pietra - completamente impassibile - ma si sforzò comunque di rendere le proprie parole più chiare e distinte possibile. «Se provate a toccarlo dovrò uccidervi.» «Oh, che paura!» Cranio rasato scambiò un'occhiata con il suo amico e sogghignò. «Sei in guai grossi, Russ! Sembra davvero arrabbiata. Stai attento!» Gabriel si voltò verso Maya. E per la prima volta parve prendere le redini del loro rapporto: come un Viaggiatore che comandasse il suo Arlecchino. «No, Maya! Mi senti? Ti ordino di non...» Alle sue spalle Cranio rasato alzò la mazza da baseball. Maya saltò sopra uno sgabello e poi sul bancone. Con due falcate veloci scavalcò un gruppo di bottigliette di ketchup e di senape e allungò di scatto la gamba destra, sferrando un calcio alla gola di Cranio rasato. Il giovane fece uno strano gorgoglio, ma non mollò la mazza da baseball. Maya la afferrò e saltò giù dal bancone, strappandogliela di mano e colpendolo alla testa con un solo movimento. L'osso fece un rumore secco e il giovane cadde a faccia in giù sul pavimento. Con la coda dell'occhio Maya scorse Gabriel corpo a corpo con Fibbia d'argento. Si precipitò verso Kathy, stringendo la mazza da baseball nel pugno destro ed estraendo con l'altra mano il coltello. Lardone aveva un'e-
spressione terrorizzata. Alzò in alto le braccia come un soldato che si arrendeva in battaglia e Maya gli trapassò un palmo con lo stiletto, inchiodandogli la mano alla parete di legno. Il cittadino lanciò un urlo disumano, ma Maya lo ignorò e continuò verso Braccio di ferro. Una finta alla testa, e poi subito un colpo in basso. "Spaccagli il ginocchio destro." Crack! Rotula a pezzi. Poi un colpo alla testa. Il suo bersaglio crollò in avanti e Maya lo scavalcò. Fibbia d'argento era steso sul pavimento, privo di sensi. Gabriel lo aveva messo KO. Lardone prese a piagnucolare come un bambino quando la ragazza arlecchino tornò verso di lui. «No» disse con un filo di voce. «Oddio, ti prego, no!» Maya lo colpì alla testa con la mazza. L'uomo cadde strappando il coltello dalla parete. L'Arlecchino lasciò cadere la mazza da baseball sul pavimento e recuperò lo stiletto, pulendo la lama sulla camicia di Lardone. Poi la lucidità dello scontro cominciò a svanire. Cinque corpi giacevano sul pavimento. Aveva difeso Gabriel, ma non era morto nessuno. Kathy fissava Maya con gli occhi sbarrati come se fosse un fantasma. «Andate via» disse. «Pensate solo ad andarvene. Perché tra un istante chiamerò lo sceriffo. Non preoccupatevi. Se andate a sud dirò che eravate diretti a nord e descriverò due persone diverse.» Gabriel fu il primo a imboccare la porta d'uscita e Maya lo seguì subito dopo. Mentre passavano accanto al coyote, tirò il chiavistello e aprì la gabbia. Sulle prime l'animale non si mosse, come se avesse perso perfino il ricordo della libertà. La ragazza continuò a camminare guardandosi indietro: il coyote rimaneva nella sua prigione. «Scappa!» gli urlò. Era quasi giunta al furgone quando l'animale trotterellò con cautela fuori dalla gabbia e perlustrò il parcheggio di terra battuta annusando qui e là. Poi il rombo improvviso della motocicletta di Gabriel lo spaventò: dopo un balzo di lato recuperò il suo atteggiamento incurante e trotterellò oltre la tavola calda. Gabriel non guardò Maya mentre svoltava sgommando sulla strada. Non ci fu più nessun sorriso, nessun cenno di saluto, o slalom sulla linea di mezzeria. Lei aveva protetto Gabriel ma in qualche modo la rissa li aveva allontanati l'uno dall'altra. In quel momento Maya comprese con assoluta certezza che nessuno l'avrebbe mai amata o avrebbe mai curato il suo dolore. Come suo padre, sarebbe morta circondata da nemici. Sola.
34 Lawrence Takawa era in piedi in un angolo della sala operatoria, con indosso un camice e una mascherina. Il nuovo edificio in mezzo al centro di ricerca non era ancora attrezzato per un intervento medico. Una sala temporanea era stata allestita al piano interrato della biblioteca. Lawrence osservava Michael Corrigan steso sul tavolo operatorio. Miss Yang, l'infermiera, gli si accostò con una coperta elettrica e gliela avvolse intorno alle gambe. Qualche ora prima aveva rasato a zero il capo di Michael, che sembrava una recluta dell'esercito all'inizio del corso di addestramento. Il dottor Richardson e il dottor Lau, l'anestesista fatto appositamente arrivare da Taiwan, conclusero i preparativi per l'operazione. Un ago ipodermico fu inserito nel braccio di Michael e collegato alla soluzione fisiologica sterile. Avevano già eseguito le lastre ai raggi X e la TAC cerebrale in una clinica privata della contea di Westchester sotto il controllo dei Confratelli. Miss Yang appese le lastre e la TAC ai visori luminosi su un lato della sala. Richardson abbassò lo sguardo sul paziente. «Come si sente, Michael?» «Sarà doloroso?» «No. La addormentiamo per sicurezza. Durante l'operazione la testa deve restare assolutamente immobile.» «E se andasse storto qualcosa e ci fossero dei danni al cervello?» «È un intervento semplice, Michael. Non ha alcun motivo di preoccuparsi.» Richardson annuì al dottor Lau e il tubicino della flebo fu collegato a una siringa di plastica. «Bene, ci siamo. Cominci a contare alla rovescia partendo da cento.» Nel giro di dieci secondi Michael perse conoscenza e cominciò a respirare regolarmente. Con l'aiuto dell'infermiera, Richardson gli bloccò il capo con una morsa d'acciaio. Anche se il corpo di Michael fosse stato in preda alle convulsioni, la sua testa non si sarebbe mossa di un millimetro. «Passiamo alla mappatura» disse Richardson. Miss Yang gli consegnò un righello d'acciaio flessibile e un pennarello nero a punta sottile, e il neurochirurgo impiegò i successivi venti minuti a tratteggiare un reticolo sul capo di Michael. Verificò il suo lavoro due volte, dopo di che segnò otto punti d'incisione. Da molti anni, i neurologi impiantavano elettrodi permanenti nel cervel-
lo di pazienti affetti da depressione. Questo permetteva ai dottori di stimolare il cervello in profondità, influendo sull'umore delle persone. Una delle pazienti del dottor Richardson, una giovane pasticcera di nome Elaine, chiedeva il livello di stimolazione due per guardare la televisione, ma preferiva passare al cinque se doveva preparare un'impegnativa torta nuziale. Quella stessa tecnologia sarebbe stata usata per tracciare l'energia neurale di Michael. «Gli ha detto la verità?» chiese Lawrence. Richardson alzò lo sguardo oltre il tavolo operatorio. «Che cosa intende dire?» «Il procedimento potrebbe danneggiargli il cervello?» «Per monitorare l'energia neurologica con un computer occorre inserire questi sensori nel cervello. Dei semplici elettrodi attaccati all'esterno non avrebbero la stessa efficacia. Anzi, potrebbero fornire dati contraddittori.» «Ma i cavetti non distruggeranno le sue cellule cerebrali?» «Abbiamo milioni di cellule cerebrali, Mr Takawa. Forse il paziente dimenticherà l'esatta pronuncia del vocabolo "Costantinopoli", o il nome della sua compagna di banco al liceo. Niente di importante.» Quando finalmente fu soddisfatto dei punti di incisione, il dottor Richardson prese posto su uno sgabello accanto al tavolo operatorio e studiò la parte superiore del capo di Michael. «Più luce» disse, e l'infermiera Yang regolò la lampada chirurgica. Il dottor Lau era in piedi poco distante, di fronte a un monitor. «Tutto bene?» Il dottor Lau controllò il battito cardiaco e la respirazione del paziente. «Può procedere.» Richardson abbassò un trapano osseo attaccato a un braccio mobile e con la massima attenzione praticò un microforo nel cranio. Faceva il medesimo suono di un trapano dentistico. Il dottore ritrasse lo strumento. Un puntino di sangue apparve sulla pelle e cominciò a espandersi, immediatamente tamponato da Miss Yang. Un iniettore neurochirurgico era montato su un secondo braccio mobile appeso al soffitto. Richardson lo puntò sul minuscolo forellino premendo il pulsante, impiantando nel cervello un sottilissimo filo di rame rivestito di teflon, del diametro di un capello umano. Il filo di rame era collegato a un cavetto elettrico che trasmetteva dati al computer ai quanti. Lawrence indossava una radiocuffia collegata al centro informatico. «Date inizio al test» comunicò a uno dei tecnici. «Il primo
sensore è inserito nel cervello.» Passarono cinque secondi. Venti secondi. Poi un tecnico confermò che stavano rilevando l'attività neurale. «Il primo sensore è perfettamente in funzione» disse Lawrence. «Può procedere.» Il dottor Richardson innestò sul cavetto la minuscola piastrina di un elettrodo, facendola scivolare per tutta la lunghezza del filo, la fissò alla pelle e tagliò il filo in eccesso. Novanta minuti più tardi tutti i microsensori erano stati inseriti nel cervello di Michael e collegati alle piastrine. A distanza, sembrava che gli avessero appiccicato sul cranio otto monetine d'argento. Michael era ancora privo di conoscenza, perciò l'infermiera gli restò accanto mentre Lawrence seguiva i due medici nel locale adiacente. Tutti e tre si tolsero i camici e le mascherine chirurgiche e le gettarono in un apposito bidone. «Quando si sveglierà?» chiese Lawrence. «Tra un'ora circa.» «Proverà dolore?» «In forma minima.» «Ottimo. Chiederò al centro informatico quando potremo iniziare l'esperimento.» Il dottor Richardson sembrava nervoso. «Forse io e lei dovremmo parlare.» I due lasciarono la biblioteca e attraversarono il quadrangolo fino al centro amministrativo. La notte prima era piovuto e il cielo era ancora grigio. L'erba delle Bermuda che bordeggiava il sentiero pedonale era secca e morente, mentre le rose pendevano dallo stelo, appassite. Tutto sembrava vulnerabile al passaggio del tempo tranne l'edificio cubico bianco e senza finestre al centro del cortile. Il nome ufficiale dell'edificio era Centro di ricerca cibernetico-neurologica, ma i membri più giovani dello staff lo chiamavano "il Sepolcro". «Ho letto altre informazioni riguardo ai Viaggiatori» esordì Richardson. «E posso prevedere qualche problema. Abbiamo un giovane che potrebbe o non potrebbe - essere in grado di compiere viaggi extracorporei in altri regni.» «Esatto» ribatté Lawrence. «Non lo sapremo finché non ci proverà.» «Le ricerche indicano che i Viaggiatori possono apprendere come varca-
re il confine da soli. Può avvenire a causa di una prolungata situazione di stress o di un improvviso trauma emotivo. Ma la maggior parte dei soggetti viene aiutata da una sorta di mentore...» «Vengono denominati "Esploratori"» precisò Lawrence. «Ne cerchiamo uno da molto tempo, ma senza esito.» Si fermarono all'entrata del centro amministrativo. Lawrence notò che a Richardson non piaceva guardare il Sepolcro. Il neurologo fissò prima il cielo e poi un muretto di cemento coperto di edera. «Che cosa accadrà se non riuscirete a trovare un Esploratore?» domandò Richardson. «Come farà Michael a sapere ciò che deve fare?» «C'è un altro sistema. Lo staff di supporto sta studiando diverse sostanze che potrebbero agire da catalizzatore neurologico.» «Questo è il mio campo e le posso subito dire che non è stato ancora scoperto nessun farmaco del genere. Nessuna sostanza è in grado di provocare una rapida intensificazione dell'energia neurale.» «La Evergreen Foundation ha molte fonti. Stiamo facendo tutto il possibile.» «È chiaro che non sono al corrente di tutto» concluse Richardson. «Lasci che le dica una cosa, Mr Takawa. Un simile atteggiamento non ci porterà a dei risultati.» «E che cos'altro le occorre sapere, dottore?» «L'esperimento con i Viaggiatori fa parte di un obiettivo di gran lunga più importante, giusto? Qualcosa inerente il computer ai quanti. Che cosa state cercando in realtà? Me lo può dire?» «L'abbiamo assunta per mandare un Viaggiatore in un altro regno» rispose Lawrence. «E l'unica cosa che le occorre sapere è che il generale Nash non accetta fallimenti.» Tornato in ufficio, Lawrence dovette occuparsi di una dozzina di messaggi telefonici urgenti e di più di quaranta e-mail. Parlò con il generale Nash dell'operazione chirurgica e confermò che il centro informatico aveva rilevato l'attività neurale di Michael. Nel corso delle successive due ore scrisse, soppesando ogni parola, un messaggio e-mail destinato a tutti gli scienziati e i ricercatori sovvenzionati dalla Evergreen Foundation. Non poteva accennare ai Viaggiatori, ma chiese informazioni sull'esistenza di farmaci psicotropi che provocavano visioni di altri mondi. Alle sei di sera il suo Link Protettivo segnalò che stava lasciando in auto il centro di ricerca, diretto a casa. Chiuse a chiave la porta del suo appar-
tamento, tolse gli abiti da lavoro indossando una vestaglia di cotone nero ed entrò nel suo stanzino segreto. Voleva aggiornare Linden sul Progetto Crossover, ma nell'attimo stesso in cui si collegò a Internet una casellina blu cominciò a lampeggiare nell'angolo superiore sinistro del suo computer. Due anni prima, dopo che gli era stato fornito un nuovo codice di accesso al sistema informatico dei Confratelli, Lawrence aveva lanciato un programma che cercasse informazioni su suo padre. Il programma analizzava un'infinità di siti Internet con la rapidità di un furetto a caccia di topi. Quel giorno aveva scovato delle informazioni negli archivi del dipartimento di polizia di Osaka, in Giappone. Nella fotografia di Sparrow comparivano due spade: una con l'impugnatura dorata e un'altra con una decorazione di giada. Da Parigi, Linden gli aveva raccontato che sua madre aveva affidato la spada di giada a un Arlecchino di nome Thorn, il quale l'aveva poi consegnata alla famiglia Corrigan. Lawrence pensò che Gabriel Corrigan avesse ancora con sé l'arma quando Boone e i suoi mercenari avevano preso d'assalto l'azienda di abbigliamento. Una spada di giada. Una spada d'oro. Forse ce n'erano altre. Lawrence aveva appreso che il costruttore di spade più famoso della storia giapponese era un prete buddhista di nome Masamune, che aveva forgiato le sue lame durante il XIII secolo, quando i Mongoli avevano tentato di invadere il Giappone. L'imperatore dell'epoca aveva ordinato una serie di preghiere rituali nei templi buddhisti, e molte spade famose erano state forgiate come offerte religiose. Masamune stesso aveva forgiato una spada perfetta con un diamante incastonato nell'impugnatura per ispirare i suoi dieci allievi, gli Jittetsu. Durante l'apprendistato, ognuno dei dieci allievi aveva costruito un'arma speciale da presentare al maestro. Il programma di Lawrence aveva scoperto il sito web di un sacerdote buddhista di Kyoto. Il sito forniva i nomi dei dieci Jittetsu e catalogava le loro spade.
I II III IV V
FABBRO Hasabe Kinishige Kanemitsu Go Yoshihiro Naotsuna Sa
SPADA Argento Oro Legno Perla Osso
VI VII VIII IX X
Rai Kunitsugu Kinju Shizu Kaneuji Chogi Saeki Norishige
Avorio Giada Ferro Bronzo Corallo
Una spada di giada. Una spada d'oro. Le altre spade jittetsu erano scomparse - probabilmente perdute in terremoti o guerre - ma gli Arlecchini giapponesi avevano protetto due delle dieci armi sacre. Gabriel Corrigan aveva con sé uno di questi tesori e l'altro era stato usato per uccidere degli Yakuza, in un salone coperto di sangue. Il programma di ricerca aveva poi analizzato gli elenchi delle prove indiziarie negli archivi della polizia e aveva tradotto in inglese i caratteri giapponesi. "Antica tachi (spada lunga). Impugnatura d'oro. Indagine criminale 15433. Prova mancante." "Non mancante" pensò Lawrence. "Rubata." I Confratelli dovevano aver sottratto la spada d'oro alla polizia di Osaka. Poteva essere o in Giappone o in America. Forse era conservata nel centro di ricerca, anche a pochi metri dalla sua scrivania. Lawrence Takawa era pronto a rimettersi immediatamente al volante e a tornare al centro, ma controllò le proprie emozioni e spense il computer. La prima volta che Kennard Nash gli aveva parlato del Panottico Virtuale, aveva pensato che si trattasse di una teoria filosofica, ma ormai viveva dentro la prigione invisibile. Nel giro di un paio di generazioni ogni cittadino sarebbe stato seguito, controllato e sorvegliato costantemente dall'Immensa Macchina. "Sono solo" pensò Lawrence. "Sì. Completamente solo." Ma assunse subito una nuova maschera che lo faceva sembrare vigile, diligente e pronto a obbedire. 35 A volte il dottor Richardson aveva l'impressione che la sua vita precedente fosse svanita del tutto. Sognava il ritorno a New Haven e, come il fantasma del Natale passato di Dickens, guardava da una strada fredda e buia i suoi vecchi amici e colleghi ridere e brindare in casa sua. Era ormai chiaro che non avrebbe mai dovuto accettare di vivere nel complesso recintato del centro di Westchester. Aveva pensato che ci sa-
rebbero volute settimane per ottenere il congedo temporaneo da Yale, ma la Evergreen Foundation aveva dimostrato un potere straordinario sul rettorato dell'università. Il preside della facoltà di Medicina di Yale aveva concordato personalmente il suo anno sabbatico a stipendio pieno, e subito dopo aveva chiesto se la fondazione non fosse per caso interessata a finanziare il nuovo laboratorio di ricerche genetiche. Lawrence Takawa aveva trovato un neurologo della Columbia University disposto a fare la spola tra i due atenei ogni martedì e giovedì, per portare a termine i corsi semestrali di Richardson. Cinque giorni dopo il suo colloquio con il generale Nash, due agenti della sicurezza si erano presentati a casa sua, lo avevano aiutato a fare i bagagli e lo avevano scortato in macchina al centro di ricerca. Il nuovo ambiente era confortevole, ma pieno di costrizioni. Lawrence Takawa gli aveva fornito un tesserino elettronico plastificato chiamato "Link Protettivo" che definiva le sue possibilità d'accesso nelle diverse parti del centro. Poteva lavorare in biblioteca e nel centro amministrativo, ma non poteva entrare nel centro informatico, nel centro ricerche genetiche e nell'edificio privo di finestre chiamato "il Sepolcro". Durante la sua prima settimana aveva lavorato al piano interrato della biblioteca esercitando le sue capacità chirurgiche sui cervelli di cani e scimpanzé, e sul cadavere di un grassone dalla barba bianca soprannominato dallo staff "Babbo Natale". Ora che i fili di rame rivestiti di teflon erano stati inseriti nel cervello di Michael Corrigan, Richardson trascorreva la maggior parte del tempo nel suo alloggio nel centro amministrativo o in biblioteca. Il Libro Verde dava un resoconto dell'ampia ricerca neurologica eseguita sui Viaggiatori. Nessuno dei rapporti scientifici era stato pubblicato e grossi tratti di pennarello nero mascheravano i nomi delle varie equipe di ricerca. Gli scienziati cinesi erano ricorsi alla tortura su alcuni Viaggiatori tibetani; le note a pie di pagina descrivevano l'uso di trattamenti chimici ed elettroshock. Se un Viaggiatore moriva durante la tortura, un asterisco discreto veniva apposto accanto al numero del soggetto. Il dottor Richardson credeva di aver colto gli aspetti chiave dell'attività cerebrale di un Viaggiatore. Il sistema nervoso produceva una tenue carica elettrica. Quando il Viaggiatore entrava in uno stato di trance, la carica aumentava e mostrava uno schema di pulsazioni caratteristico, finché nella corteccia cerebrale tutto sembrava spegnersi e la respirazione e l'attività cardiovascolare calavano a livelli minimi. A parte una reazione a basso livello nel midollo allungato, il paziente era tecnicamente morto. Durante
questo tempo, l'energia neurologica del Viaggiatore si trovava in un altro regno. La maggior parte dei Viaggiatori dimostrava un legame genetico con un genitore o un parente con il potere, ma ciò non era sempre vero. Un Viaggiatore poteva comparire in una remota regione della Cina rurale, in una famiglia di contadini e da genitori che non avevano mai viaggiato in altri regni. Un'equipe di ricerca scientifica dell'Università dello Utah, finanziata dalla Evergreen Foundation, al momento stava cercando una banca dati genetica segreta comprendente tutti i Viaggiatori conosciuti e i loro antenati. Il dottor Richardson non sapeva quali di queste informazioni fossero riservate e quali invece potesse condividere con lo staff. Il suo anestesista, il dottor Lau, e la sua assistente, Miss Yang, erano stati convocati da Taiwan appositamente per l'esperimento. Quando i tre mangiavano insieme in mensa, chiacchieravano di questioni pratiche o della passione di Miss Yang per i vecchi musical americani. Richardson non aveva voglia di parlare di The Sound of Music o di Oklahoma. Lo preoccupava un possibile fallimento dell'esperimento. Non c'era nessun Esploratore in grado di guidare Michael e la sua equipe non aveva ricevuto alcun farmaco in grado di costringere la Luce del ragazzo a uscire dal corpo. Il neurologo scrisse una e-mail collettiva nella quale chiedeva aiuto alle altre equipe di ricerca della fondazione. Dodici ore dopo aveva ricevuto un rapporto dal laboratorio di studi genetici. Il rapporto descriveva un esperimento sulla rigenerazione delle cellule. Richardson aveva studiato la stessa questione molti anni prima, al tempo del suo corso di biologia da laureando. Lui e il suo collega avevano tagliato un lombrico in dodici pezzi differenti e, poche settimane dopo, si erano riprodotte dodici versioni identiche della creatura. Alcuni anfibi, come le salamandre, potevano rigenerare una zampa se la perdevano. L'Agenzia progetti di ricerca del ministero della Difesa degli Stati Uniti aveva speso milioni di dollari in esperimenti sulla rigenerazione dei mammiferi. Il ministero dichiarava di voler fare ricrescere nuove dita e braccia ai soldati feriti in guerra, ma si vociferava di tentativi ancor più ambiziosi. Uno scienziato del governo aveva dichiarato a una commissione del Congresso che il soldato americano del futuro sarebbe stato in grado di subire una ferita grave, guarire autonomamente e continuare a combattere. La Evergreen Foundation si era spinta ben oltre. Il rapporto di laboratorio raccontava come un animale ibrido denominato in gergo "congiunto"
fosse in grado di fermare una grave emorragia in un tempo stimato tra uno e due minuti e di poter rigenerare un nervo spinale reciso in meno di una settimana. Come gli scienziati avessero ottenuto questi risultati non veniva mai specificato. Richardson stava leggendo il rapporto per la seconda volta quando Lawrence Takawa comparve in biblioteca. «Ho saputo che le sono state inviate delle informazioni non autorizzate dalla nostra equipe di genetisti.» «E ne sono lieto» ribatté Richardson. «Questi dati sperimentali sono molto promettenti. Conosce i nomi dei ricercatori?» Anziché rispondere alla domanda, Lawrence tirò fuori il suo cellulare e compose un numero. «Potete mandare subito qualcuno in biblioteca?» ordinò. «Grazie.» «Che cosa succede?» «La Evergreen Foundation non è ancora pronta a pubblicare le sue scoperte. Se accennerà al rapporto con chicchessia, Mr Boone la considererà una grave violazione delle norme di sicurezza.» Una guardia entrò in biblioteca e Richardson provò una fitta allo stomaco. Lawrence era in piedi accanto al cubicolo con un'espressione mite in volto. «Il dottor Richardson deve sostituire il suo computer» disse, come se si fosse verificato un guasto. L'agente scollegò immediatamente il computer e lo portò fuori dalla biblioteca. Lawrence diede un'occhiata di sfuggita all'orologio. «È quasi l'una, dottore. Perché non va a pranzare?» Richardson ordinò un'insalata di pollo e una tazza di caffè d'orzo, ma era troppo teso per finire il pasto. Quando tornò in biblioteca, un nuovo computer era stato installato nel suo cubicolo. Il rapporto del laboratorio era sparito dal nuovo hard disk, ma in compenso i tecnici della fondazione avevano installato un ottimo simulatore di scacchi. Il neurologo cercò di non pensare alle conseguenze negative di ciò che era successo, ma non riusciva a tenere a freno i pensieri. Giocò nervosamente a scacchi con il computer per il resto della giornata. Una sera, dopo cena, Richardson si trattenne più del solito nella caffetteria del centro. Cercò di leggere sul "New York Times" un articolo a proposito di quella che veniva definita "nuova spiritualità", mentre un gruppo di giovani programmatori, seduti a un tavolo vicino, rideva di un videogioco pornografico. Qualcuno gli toccò la spalla e il dottore si voltò, trovandosi di fronte
Lawrence e Nathan Boone. Richardson non vedeva il capo della sicurezza da diverse settimane e si era convinto che la paura che provava nei suoi confronti fosse stata una reazione eccessiva, ma ora che Boone lo fissava la paura riaffiorò. Quell'uomo lo intimidiva. «Ho splendide notizie» annunciò Lawrence. «Uno dei nostri contatti ci ha appena telefonato, in merito a un farmaco sul quale stavamo indagando. Si chiama 3B3. Crediamo che possa aiutare Michael Corrigan a liberare la propria Luce.» «Chi ha prodotto questo farmaco?» Lawrence scosse le spalle, come se non fosse importante. «Lo ignoriamo.» «Posso leggere i rapporti di laboratorio?» «Non ne esistono.» «Possiamo avere un campione di questa sostanza?» «Venga con me» intervenne Boone. «Lo cercheremo insieme. Se troveremo un fornitore, lei dovrà effettuare una rapida valutazione.» Richardson e Boone partirono immediatamente, diretti a Manhattan a bordo di un SUV. Boone portava un auricolare e rispose a una serie di telefonate, senza mai accennare a nulla di specifico o usare il nome di qualcuno. Ascoltando le sue risposte, Richardson dedusse che gli uomini di Boone stavano cercando in California un qualche personaggio protetto da una pericolosissima guardia del corpo. «Se la trovate, non perdete d'occhio le sue mani e non lasciate mai che vi si avvicini» disse Boone a qualcuno. «Direi che tre metri sono la distanza minima di sicurezza.» Seguì una lunga pausa, durante la quale Boone ricevette qualche altra informazione. «Non penso che la donna irlandese sia in America» ribatté. «Le mie fonti europee mi dicono che è sparita. Se vi capita di individuarla, reagite in modo estremo. È incontrollabile ed estremamente pericolosa. Sapete cosa è successo in Sicilia? Sì? Be', vedete di non dimenticarvelo...» Boone spense il cellulare e si concentrò sulla strada. La luce degli strumenti di bordo si rifletteva sulle lenti dei suoi occhiali da vista. «Dottor Richardson, mi è stato riferito che ha ricevuto dal centro ricerche genetiche informazioni non autorizzate.» «Si è trattato solo di un equivoco, Mr Boone. Non stavo cercando di...» «Però non ha visto niente.»
«Purtroppo sì, ma...» Boone lo guardò come si guarda un bambino cocciuto. «Non ha visto niente» ripeté. «No. Suppongo di no.» «Bene.» Boone si spostò nella corsia di destra e imboccò la rampa di uscita per New York. «Allora non c'è nessun problema.» Erano circa le dieci di sera quando arrivarono a Manhattan. Il dottor Richardson vide dal finestrino un barbone che rovistava in un bidone della spazzatura e un gruppo di ragazze che ridevano sguaiatamente uscendo da un ristorante. Dopo l'ambiente tranquillo del centro di ricerca, New York sembrava rumorosa e sfrenata. La sua precedente visita alla città, assieme alla sua ex moglie, gli sembrava irreale. Boone guidò verso l'East Side e parcheggiò sulla Ventottesima Strada. Scesero dal SUV e si diressero a piedi verso i grattacieli scuri del Bellevue Hospital. «Che cosa ci facciamo qui?» domandò Richardson. «Siamo venuti a un appuntamento con un amico della Evergreen Foundation. Stasera scoprirà quanti nuovi amici ha nel mondo.» Boone consegnò un biglietto da visita all'annoiata donna dell'accettazione, dirigendosi poi all'ascensore per il reparto di psichiatria. Al sesto piano trovarono un guardiano in uniforme seduto dietro una barriera di plexiglas che non parve affatto sorpreso quando Boone estrasse una pistola dalla fondina ascellare e la mise in uno degli armadietti. Entrarono nel reparto. Li stava aspettando un ispanico basso con un camice bianco da laboratorio che sorrise e tese entrambe le mani, come se fossero a una festa di compleanno. «Buonasera, cari signori. Chi di voi è il dottor Richardson?» «Sono io.» «Piacere di conoscerla. Sono il dottor Raymond Flores. La Evergreen Foundation mi aveva avvertito che sareste venuti, stasera.» Il dottor Flores li scortò in fondo al corridoio. Nonostante l'ora, alcuni pazienti maschi in pigiama di cotone e vestaglia gironzolavano senza meta. Erano tutti imbottiti di sedativi e si muovevano lentamente. Avevano gli occhi completamente spenti e le loro ciabatte strisciavano rumorosamente sul pavimento in cotto. «Così lavora per la fondazione» disse Flores. «Sì» rispose Richardson. «Sono a capo di un progetto speciale.» Lo psichiatra passò davanti a diverse camere e si fermò di fronte a una
porta chiusa a chiave. «Mr Takawa mi ha chiesto di cercare dei pazienti ricoverati sotto l'influsso di questa nuova droga, il 3B3. Nessuno ha ancora effettuato un'analisi chimica della sostanza, ma pare si tratti di un potentissimo allucinogeno. La gente che lo assume è convinta di avere visioni di mondi diversi.» Flores aprì la porta con una chiave e i tre entrarono in una cella di detenzione che puzzava di vomito e orina. L'unica luce proveniva da una singola lampadina protetta da un paralume di rete metallica. Un giovane avvolto in una camicia di forza di tela giaceva sul pavimento. Aveva la testa completamente rasata, ma una vaga lanugine di peli biondi stava cominciando a spuntargli sul cranio. Il paziente aprì gli occhi e sorrise ai tre uomini attorno a lui. «Ciao a tutti. Perché non vi togliete il cervello e non vi mettete comodi?» Il dottor Flores si lisciò i risvolti del camice bianco e sorrise. «Terry, questi signori vogliono che racconti del 3B3.» Terry sbatté gli occhi due volte e Richardson si domandò se avrebbe mai detto qualcosa. Improvvisamente, cominciò a spingersi con le gambe, dimenandosi sul pavimento fino a un muro e costringendosi ad assumere una posizione seduta. «Non è una droga, in realtà. È una rivelazione.» «Come la si assume?» La voce di Boone era calma e neutra. «È un liquido azzurro come il cielo d'estate.» Terry chiuse gli occhi per pochi secondi, poi li riaprì. «L'ho mandata giù al club e in un secondo mi sono trovato fuori da questo corpo, volavo attraverso l'acqua e il fuoco fino a una foresta bellissima. Ma sono riuscito a restarci solo per qualche secondo.» Terry sembrava molto deluso. «Il giaguaro aveva occhi verdi.» Il dottor Flores guardò Richardson. «Ha raccontato questa storia parecchie volte, e finisce sempre con il giaguaro.» «Dove posso trovare del 3B3?» chiese il neurologo. Terry chiuse di nuovo gli occhi e sorrise sereno. «Sai quanto chiede per una dose? Trecentotrentatré dollari. Dice che è un numero magico.» «Chi?» domandò Boone. «Pius Romero. Sta sempre alla Chan Chan Room.» «È una discoteca di Midtown» spiegò il dottor Flores. «È da lì che arrivano molti dei pazienti per overdose.» «Questo mondo è troppo piccolo» bisbigliò Terry. «Ve ne rendete conto? È la biglia di un bambino lanciata in uno stagno.» Seguirono Flores in corridoio. Boone si allontanò di qualche passo dai due medici e chiamò qualcuno con il telefonino.
«Ha visitato altri pazienti che hanno assunto questo stupefacente?» domandò Richardson. «È il quarto in due mesi. Gli somministriamo Fontex e Valdov per alcuni giorni finché non diventano catatonici, poi diminuiamo il dosaggio e li riportiamo gradualmente alla realtà. Dopo un po' il giaguaro scompare.» Tornarono al SUV. Boone ricevette altre due telefonate, disse "sì" ai due interlocutori e poi spense il cellulare. «E adesso che cosa facciamo?» «La nostra prossima tappa è il Chan Chan Room.» Davanti alla discoteca sulla Cinquantatreesima erano parcheggiate in doppia fila limousine e lussuose berline nere. Trattenuta dietro un cordone di velluto rosso, una folla di persone aspettava in fila di farsi perquisire dai buttafuori con dei metal detector. Le donne in coda indossavano abiti cortissimi o gonne con lo spacco. Boone oltrepassò sul fuoristrada l'entrata del locale e si fermò di fianco a una berlina posteggiata a metà dell'isolato. Due uomini scesero dall'auto e si accostarono al finestrino. Uno dei due era un afroamericano basso e tarchiato che indossava un costoso soprabito di montone. Il suo compagno era bianco e massiccio come un giocatore di football. Indossava un giubbotto militare e sembrava ansioso di mettere le mani addosso a qualcuno. Il nero sorrise a trentadue denti. «Ehi, Boone! È una vita che non ci si vede!» Fece un cenno di saluto al dottore. «Chi è il tuo nuovo amico?» «Dottor Richardson, le presento il detective Mitchell e il suo collega, il detective Krause.» «Abbiamo parlato con i buttafuori della discoteca.» Krause aveva una voce profonda e gutturale. «Dicono che questo Romero è entrato un'ora fa.» «Voi due andate sul retro e aspettate all'uscita di emergenza» disse Mitchell. «Lo porteremo fuori.» Boone alzò il finestrino e ripartì. Parcheggiò a due isolati di distanza dal locale e prese un guanto di pelle nero da sotto il sedile. «Venga con me, dottore. Mr Romero potrebbe avere alcune informazioni.» Richardson seguì Boone in un vicolo fino all'uscita di servizio del Chan Chan Room. Una musica ritmata e martellante, a tutto volume, batteva sulla porta antincendio. Pochi minuti dopo la porta si spalancò di colpo e il detective Krause scaraventò sull'asfalto un portoricano ossuto. Senza perdere la sua allegria, il detective Mitchell si avvicinò all'uomo a terra e gli
tirò un calcio nello stomaco. «Signori, abbiamo il piacere di presentarvi Pius Romero. Era seduto nel privé a sorseggiare un cocktail alla frutta con dentro un ombrellino. Non è giusto, vero? Io e Krause siamo due servitori dello Stato e nessuno ci invita nei prive.» Pius Romero giaceva senza fiato sull'asfalto. Boone infilò il guanto di pelle nero. Guardò Romero come se il ragazzo fosse una scatola di cartone vuoto. «Apri bene le orecchie, Pius. Non siamo venuti qui ad arrestarti. Vogliamo solo qualche informazione. Se menti i miei amici ti rintracceranno e ti procureranno un sacco di problemi. Mi hai capito? Fammi vedere che hai capito...» Pius si alzò a sedere e si toccò il gomito sbucciato. «Non stavo facendo niente di male.» «Chi ti fornisce il 3B3?» Il nome della droga fece drizzare la schiena a Romero. «Mai sentito nominare.» «Lo hai dato a diverse persone. Chi te lo ha venduto?» Pius si rialzò in piedi come un'anguilla e tentò di scappare, ma Boone lo tenne fermo. Scagliò violentemente lo spacciatore contro il muro e lo prese a schiaffi con la mano destra, facendogli sanguinare il naso e la bocca. Il guanto di pelle produceva un sonoro schiocco a ogni colpo. Richardson sapeva che tutta quella violenza era reale, molto reale. Ma non se ne sentiva coinvolto. Gli sembrava di guardare un film alla televisione. Osservò i due detective. Mitchell sorrideva mentre Krause annuiva come un tifoso di basket che avesse appena visto un perfetto tiro da tre punti. La voce di Nathan Boone era calma. «Ti ho rotto il naso, Pius. Adesso ti colpirò qui in mezzo agli occhi, dal basso verso l'alto, e ti fratturerò le parti ossee del cornetto nasale. Queste ossa non si rinsaldano mai. Non sono come una gamba o un braccio. Soffrirai per tutta la vita.» Pius Romero alzò le mani come un bambino. «Che cosa volete?» piagnucolò. «Dei nomi? Ve li darò. Vi darò qualsiasi cosa...» Verso le due di notte trovarono l'indirizzo vicino all'aeroporto JFK di Flushing, nel Queens. L'uomo che produceva il 3B3 abitava in una casa di assicelle bianche con sedie da giardino incatenate al portico. Era un quartiere tranquillo, da classe operaia, il genere di posto in cui la gente scopava i marciapiedi e metteva statuette della Madonna nel prato di casa. Boone
parcheggiò il SUV e disse al dottor Richardson di scendere con lui e di accompagnarlo dai due detective seduti nell'auto. «Volete una mano?» domandò Mitchell. «Restate qui. Io e il dottor Richardson andremo dentro. In caso di problemi, vi chiamerò con il cellulare.» Richardson avrebbe tanto voluto scappare, ma sarebbe stato inutile. Rabbrividendo per il freddo, seguì Boone sull'altro lato della via. «Che cosa vuole fare?» domandò. «Non lo so. Prima devo valutare il problema.» «Non mi piace la violenza, Mr Boone.» «Neanche a me.» «Ha quasi ucciso quel ragazzo.» «Non ci sono andato neppure vicino.» Sbuffi di fiato condensato bianco gli uscivano di bocca mentre parlava. «Dovrebbe studiare un po' di storia, dottore. Tutte le grandi rivoluzioni sono basate sulla sofferenza e la distruzione.» I due uomini attraversarono il giardino della casa fino alla porta sul retro. Boone saggiò l'intelaiatura della porta e la serratura con la punta delle dita, poi arretrò di un passo e sferrò un poderoso calcio appena sopra il pomello, rompendo il legno e spalancando la porta. Richardson lo seguì all'interno. La casa era molto calda e puzzava di qualcosa di aspro e insopportabile, come se qualcuno avesse rovesciato una bottiglia di ammoniaca. I due uomini attraversarono al buio la cucina e Richardson inciampò in una bacinella d'acqua. Delle creature si stavano muovendo in giro per la cucina e sui piani di lavoro. Boone accese la luce. «Gatti!» esclamò. «Odio i gatti. Non si lasciano addestrare.» In cucina c'erano quattro felini, e altri due in corridoio. Si muovevano con passi felpati, e i loro occhi riflettevano la flebile luce della luna, diventando oro, rosa e verde. Le loro code si piegavano come punti interrogativi mentre con i baffi saggiavano l'aria. «Di sopra c'era una luce» bisbigliò Boone. «Vediamo chi c'è in casa.» Salirono le scale di legno fino al terzo piano ed entrarono in un solaio trasformato in laboratorio. C'erano tavoli, e attrezzature chimiche. Uno spettrografo, microscopi e becchi Bunsen. Un signore anziano sedeva su una poltrona di vimini con un persiano bianco in grembo. Era ben rasato e vestito con cura, con gli occhiali abbassati sulla punta del naso. Non sembrava sorpreso dall'intrusione.
«Buonasera, signori.» Il vecchio parlava scandendo ogni sillaba. «Sapevo che sareste arrivati, prima o poi. Anzi, l'avevo predetto. La terza legge di Newton afferma che per ogni azione c'è una reazione uguale e contraria.» Boone guardava il vecchio come se potesse scappare da un momento all'altro. «Sono Nathan Boone. Lei come si chiama?» «Lundquist. Dottor Jonathan Lundquist. Se siete della polizia, potete andarvene subito. Non ho fatto nulla di illegale. Non c'è nessuna legge contro il 3B3, perché il governo non ne conosce l'esistenza.» Un gatto prese a sfregarsi contro una gamba di Boone, venendo allontanato con un calcio. «Non siamo agenti di polizia.» Il dottor Lundquist sembrò sorpreso. «Allora dovete essere... sì, naturalmente... lavorate per i Confratelli.» Boone diede l'impressione di volersi rimettere il guanto di pelle nero per rompere il setto nasale al vecchio. Richardson scosse impercettibilmente il capo. "Non ce n'è alcun bisogno." Si avvicinò all'anziano dottore e si sedette. «Sono il dottor Phillip Richardson, un neurologo ricercatore dell'Università di Yale.» Lundquist sembrò felice di conoscere un altro uomo di scienze. «E ora lavora per la Evergreen Foundation...» «Sì. A un progetto speciale.» «Molti anni fa feci richiesta di sovvenzione alla fondazione, ma non risposero neppure alla mia lettera. Fu prima che venissi a sapere dei Viaggiatori grazie a dei siti web pirata.» Lundquist si concesse una risatina contenuta. «Pensai che fosse meglio lavorare in proprio. Nessun modulo da compilare. Nessun controllo.» «Stava cercando di duplicare l'esperienza dei Viaggiatori?» «Molto di più, dottore. Stavo cercando di rispondere ad alcune domande fondamentali.» Lundquist smise di accarezzare il persiano, che scese dal suo grembo con un salto. «Fino a pochi anni fa avevo una cattedra di chimica organica all'Università di Princeton...» L'anziano dottore guardò di sottecchi Richardson. «Avevo una carriera accademica di tutto rispetto, ma nulla di eccezionale. Ho sempre nutrito interesse per il quadro generale. Non solo per la chimica, ma anche per altri campi. Così un pomeriggio andai a un seminario alla facoltà di Fisica che aveva come oggetto un'ipotesi scientifica chiamata "teoria della membrana". «Oggigiorno i fisici sono di fronte a un grosso problema. I concetti che spiegano l'universo, come la teoria della relatività generale di Einstein,
sono incompatibili con il mondo subatomico della meccanica quantistica. Alcuni fisici hanno aggirato questa contraddizione con la teoria delle stringhe, l'idea cioè che tutto sia composto di microscopici oggetti subatomici vibranti in uno spazio multidimensionale. A livello matematico ha senso, ma le stringhe sono talmente minuscole che non possono essere osservate sperimentalmente. «La teoria della membrana va oltre e tenta di dare una spiegazione cosmologica. I suoi teorici sono convinti che il nostro universo sia delimitato da una sorta di membrana spaziale e temporale. La nostra galassia è simile alla schiuma superficiale di uno stagno: uno strato sottile di esistenza fluttuante su di una massa molto più grande. Qualsiasi materia, compreso il nostro stesso corpo, è intrappolata nella nostra membrana, ma la gravità può trapelare nella massa maggiore o influenzare sottilmente il nostro mondo. Altre membrane, altre dimensioni, altri regni - chiamatele come volete -, possono essere molto vicine a noi, ma saremmo completamente ignari della loro esistenza, perché né la luce né il suono né la radioattività possono attraversare le dimensioni.» Un gatto nero si avvicinò a Lundquist e l'anziano dottore gli grattò la testa tra le orecchie. «Questa almeno è la teoria, in forma molto semplificata. Avevo in mente proprio queste idee quando andai a New York per una conferenza tenuta da un monaco tibetano. Ero seduto là, ad ascoltarlo parlare dei sei diversi regni della cosmologia buddhista, e a un tratto mi resi conto che stava descrivendo le membrane, cioè le diverse dimensioni e le barriere che le separano. Ma c'è una differenza fondamentale: i miei colleghi di Princeton non possono concepire l'idea di entrare in altri mondi. Un Viaggiatore invece può farlo. Il corpo non ne è in grado, ma la nostra Luce interiore sì.» Lundquist si appoggiò allo schienale della poltrona di vimini e sorrise ai suoi ospiti. «Questo collegamento tra la spiritualità e la fisica mi fece considerare la scienza in un modo del tutto nuovo. Attualmente bombardiamo atomi e sezioniamo cromosomi. Stiamo scendendo in fondo all'oceano per contemplare lo spazio, e non stiamo veramente indagando la regione interna al nostro cranio, se non in modo assai superficiale. Usiamo la tomografia assiale e la risonanza magnetica, ma sono sistemi limitati. Nessuno sembra rendersi conto di quanto sia immensa in effetti la coscienza umana. Ci lega al resto dell'universo.» Richardson si guardò in giro un momento e scorse un gatto soriano seduto su una cartelletta di pelle, piena di fogli macchiati. Cercando di non al-
larmare Lundquist, si alzò e avanzò di alcuni passi verso il tavolo. «E così ha cominciato a fare esperimenti...» «Sì. Prima a Princeton. Poi andai in pensione e mi trasferii qui per risparmiare. Non dimentichi che sono un chimico, non un fisico. Perciò decisi di ricercare una sostanza capace di liberare Luce interiore dal corpo.» «E scoprì una formula...» «Non è la ricetta per una torta» ribatté Lundquist irritato. «Il 3B3 è un essere vivente. Un nuovo ceppo di batteri. Quando si inghiotte la soluzione liquida, questa viene assorbita dal sistema nervoso.» «Sembra pericoloso.» «L'ho presa decine di volte. E posso ancora ricordarmi di portare fuori la spazzatura al giovedì e di pagare le bollette.» Il soriano fece le fusa e si accostò a Richardson quando questi raggiunse il tavolo. «E il 3B3 le permette di vedere regni diversi?» «No. È un fallimento. Ne può ingoiare quanto vuole, ma non la trasformerà mai in un Viaggiatore. Il viaggio extracorporeo è brevissimo, un fugace contatto più che un vero atterraggio. Si resta nell'altra dimensione il tempo necessario per una o due immagini, poi si è costretti a tornare.» Richardson aprì la cartelletta e diede una rapida scorsa agli appunti scarabocchiati. «Cosa direbbe se prendessimo il suo batterio e lo somministrassimo a qualcuno?» «Prego, accomodatevi. Ce n'è un po' in quel vetrino da coltura proprio davanti a lei. Ma sprechereste il vostro tempo. Come le ho detto, non funziona. Ecco perché ho cominciato a regalarlo a Pius Romero, un ragazzo gentile che mi spalava la neve dal vialetto del garage. Pensavo che il problema riguardasse solo me. Forse altre persone potevano prendere il 3B3 e varcare il confine spazio-tempo in modo più completo. Ogni volta che Pius torna da me per avere altro 3B3 insisto perché mi faccia un rapporto completo. Le persone hanno fugaci visioni di un altro mondo, ma non riescono a trattenervisi.» Richardson sollevò dal tavolo il vetrino. Una colonia di batteri verdeazzurra stava crescendo in una soluzione di agar. «È questo?» «Già. Il fallimento. Tornate dai Confratelli e consigliate loro di ritirarsi in un monastero. Di pregare. Meditare. Studiare la Bibbia, il Corano o la cabala. Non esiste nessun metodo rapido per fuggire dal nostro piccolo mondo meschino.» «Ma se si somministrasse il 3B3 a un Viaggiatore?» domandò Richardson. «Gli fornirebbe la spinta iniziale per il viaggio extracorporeo, che lui
potrebbe proseguire e concludere ricorrendo alle proprie facoltà.» Il dottor Lundquist si sporse di scatto in avanti e Richardson pensò che stesse per saltare dalla sedia. «È un'ipotesi interessante» esclamò. «Ma i Viaggiatori non sono tutti morti? I Confratelli hanno speso grandi capitali per sterminarli. Ma chi può sapere? Forse se ne può trovare uno nascosto nel Madagascar o a Katmandu.» «Abbiamo trovato un Viaggiatore collaborativo.» «Non posso crederci! Perché i fratelli lo stanno facendo?» Richardson prese il faldone e il piattino da coltura. «È una scoperta meravigliosa» disse. «Voglio solo che lo sappia.» «Non voglio i suoi complimenti. Ma una risposta. Perché i Confratelli hanno cambiato strategia?» Boone si avvicinò a Richardson e gli sussurrò: «È quello che siamo venuti a cercare?». «Credo di sì.» «Non torneremo più qui, dottore. Deve esserne sicuro.» «È quello che volevamo. Stia a sentire, non voglio che capiti niente di sgradevole al dottor Lundquist.» «Certo dottore, la capisco. Non è un criminale come Pius Romero. Boone posò una mano sulla spalla del neurologo e lo sospinse oltre la soglia. «Torni giù in macchina e mi aspetti. Io devo spiegare le nostre esigenze di sicurezza al dottore. La raggiungerò tra meno di un minuto.» Richardson scese rapidamente le scale e uscì dalla porta della cucina. L'aria fredda gli fece lacrimare gli occhi. In piedi nel porticato, si sentì così male da volersi abbandonare per terra in posizione fetale. La sua vita era cambiata per sempre, ma il suo corpo pompava ancora sangue, digeriva il cibo e inalava ossigeno. Non era più uno scienziato che faceva ricerche e sognava il premio Nobel. Era diventato qualcosa di più piccolo, quasi insignificante, un piccolo componente di un meccanismo complesso. Tornò alla macchina tenendo in mano il piattino di coltura. Boone lo raggiunse poco dopo. La sua conversazione con Lundquist non era durata molto. «Tutto a posto?» chiese Richardson. «Certamente. Sapevo che non ci sarebbero stati problemi. A volte è meglio essere franchi, senza troppe parole, e senza falsa diplomazia. Mi sono espresso con fermezza, e ho ottenuto una risposta positiva.» Boone aprì la portiera facendo un inchino, come uno chauffeur insolente. «Dev'essere stanco, dottor Richardson. È stata una lunga notte. Mi per-
metta di riaccompagnarla al centro di ricerca.» 36 Hollis passò davanti al palazzo di Michael Corrigan alle nove di mattina, alle due del pomeriggio e alle sette di sera. Cercava i mercenari della Tabula seduti in un'auto posteggiata o su una panchina del parco antistante: uomini che si fingevano dipendenti della società elettrica o operai della municipalità locale. Dopo ogni passaggio parcheggiava davanti a un salone di bellezza e prendeva nota di tutto quello che aveva visto. "Anziana signora con borsa della spesa. Uomo con barba che carica un seggiolino per bambini sull'auto." Quando tornò cinque ore dopo confrontò gli appunti e non trovò nessuna similitudine. Questo significava soltanto che gli uomini della Tabula non stavano aspettando all'esterno dell'edificio. Forse erano seduti nell'appartamento di fronte a quello di Michael. Hollis pensò a un piano dopo la lezione serale di capoeira. Il giorno dopo indossò una tuta blu da lavoro e caricò in macchina lo spazzolone e il grosso secchio a rotelle che usava per pulire il pavimento della sua scuola. Il gigantesco complesso per appartamenti in cui abitava Michael occupava un intero isolato in Wilshire Boulevard, in prossimità di Barrington Avenue. Era composto da tre grattacieli, un parcheggio a quattro piani e un vasto cortile interno con piscina e campi da tennis. "Sii cauto" pensò Hollis. "Non devi combattere con la Tabula, ma solo depistarli." Posteggiò l'automobile a due isolati di distanza dall'entrata, riempì il secchio con l'acqua insaponata presa da due taniche, affondò lo spazzolone nell'acqua e cominciò a spingere la sua attrezzatura lungo il marciapiede. Mentre si avvicinava all'ingresso, cercò di calarsi nel ruolo dell'inserviente. Due anziane signore stavano uscendo dal complesso quando Hollis giunse all'entrata. «Ho appena pulito il marciapiede» disse loro. «E qualcuno ha sporcato di nuovo uno dei corridoi ai piani.» «Dovrebbero imparare l'educazione» ribatté una delle due donne. La sua amica tenne aperta la porta a vetri in modo che Hollis potesse spingere dentro l'atrio il secchio a rotelle. Hollis annuì e sorrise in segno di ringraziamento mentre le due anziane si allontanavano. Attese qualche secondo e attraversò l'atrio. Quando l'ascensore arrivò spinse dentro il secchio a rotelle, salendo all'ottavo piano.
"Gira a sinistra." L'appartamento di Michael Corrigan era in fondo al corridoio. Se gli scagnozzi della Tabula erano davvero nascosti nell'appartamento di fronte e sorvegliavano il corridoio dallo spioncino, avrebbe dovuto cominciare subito a recitare la parte dell'inserviente. "Mr Corrigan mi paga per pulirgli i pavimenti. Sì, signore. Lo faccio una volta alla settimana. Mr Corrigan è partito? Non sapevo che fosse fuori città, signore. È da un mese che non mi paga." Hollis aprì la porta dell'appartamento con la chiave che gli aveva dato Gabriel ed entrò. Era vigile, pronto a difendersi in caso di aggressione, ma non comparve nessuno. L'appartamento aveva un odore di polvere e di chiuso. Sul tavolino del salotto c'era ancora una copia del "Wall Street Journal" di due settimane prima. Hollis lasciò il secchio a rotelle e lo spazzolone vicino alla porta e si affrettò verso la camera da letto. Trovò il telefono, levò di tasca un registratore a microcassette e compose il numero di casa di Maggie Resnick. L'avvocatessa non era in casa, ma Hollis non intendeva parlare con lei. Era sicuro che la Tabula tenesse sotto controllo le linee telefoniche. Quando la segreteria telefonica di Maggie entrò in funzione, Hollis accese il registratore, accostandolo al ricevitore. «Ehi, Maggie. Sono Gabe. Sto lasciando Los Angeles. Mi nasconderò da qualche parte. Grazie di tutto. Ciao.» Hollis spense il registratore, riagganciò il telefono e lasciò l'appartamento. Si sentiva teso mentre spingeva il secchio lungo il corridoio dell'ottavo piano, poi l'ascensore arrivò. "Bene. Finora è stato abbastanza facile. Ricordati che sei sempre un inserviente." Quando l'ascensore giunse al pianterreno, spinse fuori il secchio e salutò con un cenno del capo una giovane coppia con un cocker spaniel al guinzaglio. La porta d'ingresso si aprì e tre mercenari della Tabula entrarono nell'atrio a passo sostenuto. Avevano l'aria di agenti di polizia che stavano arrotondando lo stipendio. Uno di loro indossava un giubbino di jeans e gli altri due erano vestiti da imbianchini. Portavano sull'avambraccio dei teli di plastica e degli stracci che nascondevano le mani. Hollis li ignorò. Era a meno di un paio di metri dalla porta quando un vecchio latinoamericano aprì la porta di accesso alla piscina condominiale. «Ehi, dove vai?» chiese a Hollis. «Qualcuno ha rotto una bottiglia di succo di lamponi, su al quinto piano. Sono appena salito a pulire.» «Non ho visto nessuna segnalazione del genere nel rapporto di questa
mattina.» «È successo da poco.» Hollis ora era davanti alla porta, con la mano quasi sul pomello. «E poi non se ne occupa Freddy? Tu per chi lavori?» «Sono stato appena assunto da...» Ma prima che Hollis avesse il tempo di finire la frase sentì un movimento alle sue spalle, e poi una pistola premuta contro le reni. «Lavora per noi» disse uno dei tre uomini. «Esatto» confermò un altro. «E non ha ancora finito.» I due agenti travestiti da imbianchini circondarono Hollis. Lo fecero voltare e lo sospinsero a forza verso gli ascensori. Il tipo con il giubbino di jeans stava parlando con il responsabile della manutenzione, mostrandogli una lettera che garantiva un qualche permesso ufficiale. «Cosa c'è?» Hollis cercò di apparire sorpreso e spaventato. «Chiudi il becco» gli bisbigliò il tipo più grosso. «Non dire nemmeno una parola.» Hollis e i due falsi imbianchini entrarono nell'ascensore. Un attimo prima che la porta scorrevole si richiudesse, il terzo agente entrò, premendo il pulsante dell'ottavo piano. «Chi sei?» chiese. «Tom Jackson. Lavoro qui.» «Balle» esclamò uno degli imbianchini. Era quello con la pistola. «Quel tizio di sotto non ti conosceva.» «Sono stato assunto solo due giorni fa.» «Come si chiama la società che ti ha assunto?» «È stato Mr Lieber.» «Ti ho chiesto il nome della società.» Hollis spostò leggermente il peso da una gamba all'altra in modo da scostarsi dalla canna della pistola. «Spiacente, signore. Sono davvero spiacente. Ma l'unica cosa che so è che ad assumermi è stato Mr Lieber e mi è stato detto di...» Fece un mezzo giro su se stesso, afferrò il polso del tizio armato e lo piegò con forza. Con la mano destra colpì l'uomo al pomo d'Adamo e dalla pistola partì un colpo assordante che colpì l'altro imbianchino. L'uomo urlò mentre Hollis si voltava sferrando una gomitata alla bocca del mercenario col giubbino di jeans. Poi torse verso il basso il braccio che stava tenendo con la sinistra, facendo cadere a terra la pistola del terzo aggressore. "Voltati. Attacca. Un giro completo e un altro pugno." In pochi secondi i
tre uomini giacevano sul pavimento dell'ascensore. La porta si aprì e Hollis uscì dalla cabina, corse in fondo al corridoio, trovò l'uscita di emergenza e si precipitò giù per le scale. 37 Da bambino, durante gli anni trascorsi sulle strade d'America, Michael aveva elaborato una reazione automatica alle storie assurde di sua madre e ai progetti insensati di Gabriel per fare soldi. "È ora di tornare a Reality Town" diceva, per esortarli a vedere i loro problemi in modo obiettivo. Michael si considerava a tutti gli effetti il sindaco di Reality Town, un posto non troppo piacevole, forse, ma senza assurde illusioni. Al centro di ricerca della Evergreen Foundation trovava difficile essere obiettivo. Era prigioniero, su questo non c'erano dubbi. Anche ammesso di trovare il modo di uscire dall'appartamento, le guardie della fondazione non gli avrebbero mai permesso di uscire dal centro di ricerca e prendere un autobus per New York. Forse aveva perso la sua libertà, ma la cosa non lo preoccupava più di tanto. Per la prima volta in vita sua la gente sembrava concedergli la giusta dose di rispetto e deferenza. Ogni martedì, Michael cenava nell'ufficio di Nash. Il generale teneva banco nelle conversazioni, spiegandogli gli obiettivi nascosti dietro quelli che sembravano eventi casuali. Una sera Nash gli parlò dei chip a frequenza radio nascosti nei passaporti americani e gli mostrò una fotografia di una macchina chiamata "skimmer", che riusciva a leggere i passaporti da una distanza di trenta metri. Quando la tecnologia era stata concepita, alcuni esperti avevano proposto un chip a contatto, che sarebbe stato letto solo se le persone avessero passato il loro documento in una fessura, come una carta di credito. I Confratelli, però, avevano insistito perché il chip fosse a frequenza radio. «Le informazioni sono criptate?» «Certo che no, sarebbe più difficile condividere il sistema con altri governi.» «E se i terroristi usassero uno skimmer?» «Renderebbe di certo più facile il loro lavoro. Diciamo che un turista sta attraversando un mercato al Cairo. Uno skimmer potrebbe leggere il suo passaporto, sapere se è americano e se è stato in Israele. Sarebbe un uomo morto prima di arrivare in fondo alla strada.» Michael aveva studiato per un attimo il lieve sorriso di Nash.
«È assurdo, il governo dice di volerci proteggere, ma ci sta rendendo più vulnerabili.» Il generale lo aveva guardato come un nipote che aveva commesso un errore innocente. «Sì, è un peccato. Ma bisogna considerare che la perdita di qualche vita è compensata dal potere regalatoci da questa nuova tecnologia. È il futuro, Michael, e nessuno può fermarlo. Ira qualche anno i passaporti non esisteranno più: tutti avranno un Link Protettivo che li localizzerà costantemente.» Fu durante uno di questi incontri settimanali che Nash gli disse che cos'era accaduto a Gabriel. A quanto risultava, il fratello di Michael era stato catturato da una terrorista, membro di un gruppo denominato "gli Arlecchini", la quale aveva ucciso diverse persone prima di portarlo via da Los Angeles. «Il mio staff li sta cercando» disse Nash. «Non vogliamo che qualcuno faccia del male a suo fratello.» «Avvertitemi quando lo troverete.» «Naturalmente.» Nash spalmò un po' di crema di formaggio e di caviale su un cracker e vi spremette sopra una goccia di limone. «Il motivo per cui gliene parlo è che gli Arlecchini potrebbero addestrare Gabriel a diventare un Viaggiatore. Se entrambi avete questo potere, è possibile che vi incontriate in un'altra dimensione. Se avverrà, dovrà chiedergli di indicarle l'ubicazione esatta del suo corpo fisico, Michael. Non appena avremo l'informazione, potremo soccorrerlo.» «Non contateci» commentò Michael. «Gabe esplorerebbe un altro regno solo se potesse andarci in motocicletta. Può darsi che gli Arlecchini lo capiscano e lo lascino andare.» Michael non sapeva per certo se era un Viaggiatore o meno, ma era sicuro che Gabe fosse prigioniero del mondo reale. Secondo il dottor Richardson, i Viaggiatori uscivano dai loro corpi come in una scarica laser. L'intero processo richiedeva concentrazione e intensità, ed era esattamente in quel modo che lui aveva sempre affrontato la vita. "È ora di tornare a Reality Town." E la realtà era che suo fratello non si era mai concentrato su niente che non fosse la sua moto. La mattina dell'esperimento Michael si svegliò presto e si fece una doccia, indossando una cuffia da piscina molto stretta per non bagnare le piastrine d'argento che aveva sul cranio. Indossò una T-shirt, un paio di panta-
loni leggeri a coulisse e delle infradito. Niente colazione. Il dottor Richardson glielo aveva vietato. Era seduto sul divano del soggiorno ad ascoltare musica quando Lawrence Takawa bussò educatamente alla porta, entrando un attimo dopo. «L'equipe di ricerca è pronta» disse. «È ora.» «E se decidessi di non farlo?» Lawrence parve stupito. «Sta a lei scegliere, Michael. Ovviamente, i Confratelli non sarebbero affatto contenti della sua decisione. Dovrei chiamare il generale Nash e...» «Si rilassi. Non ho cambiato idea.» Si mise un berretto di lana sulla testa rasata e seguì Lawrence fuori dall'appartamento, in corridoio. Due agenti della sicurezza li attendevano con le loro solite cravatte nere e i blazer blu, formando una sorta di guardia d'onore: uno davanti e l'altro dietro. Arrivati a pianterreno, il piccolo gruppo oltrepassò una porta automatica e uscì in cortile. Michael fu sorpreso di vedere che tutto il personale coinvolto nel Progetto Crossover - segretarie, chimici e programmatori informatici - era uscito all'aperto per vederlo entrare nel Sepolcro. Sebbene la maggior parte di esso non comprendesse la vera natura del progetto, gli era stato detto che sarebbe servito a proteggere l'America dai suoi nemici e che Michael aveva una parte importante nell'operazione. Michael annuì una volta, come un atleta che saluta la folla, e attraversò senza fretta il cortile, verso il Sepolcro. Tutti quegli edifici imponenti erano stati costruiti, e tutta quella gente era stata riunita, solo per quel momento. "Scommetto che costa un mucchio di soldi" pensò. "Scommetto che costa milioni di dollari." Aveva sempre pensato di essere speciale, e ora lo trattavano come una stella del cinema, protagonista di un film con un solo personaggio, un'unica faccia sullo schermo. Se davvero era capace di viaggiare fuori dal proprio corpo in un'altra dimensione, allora gli dovevano il massimo rispetto. Non era lì per semplice fortuna, ma per diritto di nascita. Una porta d'acciaio temperato si apri e i quattro entrarono in una vasta sala in penombra. Una galleria di vetro, a un'altezza di circa sei metri dal pavimento di cemento liscio, percorreva i quattro lati della stanza. La luce proveniente dai pannelli di controllo e dagli schermi dei computer baluginava all'interno della galleria e Michael vide numerosi tecnici che lo guardavano dall'alto. L'aria era fredda e secca e si udiva un vago ronzio. Al centro della sala era posto un tavolo operatorio d'acciaio con un cu-
scino per la testa. Il dottor Richardson era in piedi accanto al tavolo. L'infermiera cinese e il dottor Lau stavano controllando le apparecchiature di monitoraggio e una rastrelliera d'acciaio piena di provette di diversi colori. Accanto al cuscino bianco erano appoggiati otto cavi collegati a degli elettrodi a piastra color argento. «Si sente bene?» domandò Lawrence. «Per ora sì.» Lawrence toccò leggermente il braccio di Michael, poi si sistemò vicino alla porta con i due agenti della sicurezza. Si comportavano come se stesse per fuggire dall'edificio, saltare oltre il muro di cinta e nascondersi nel bosco circostante. Michael andò verso il centro della sala, si tolse il berretto di lana e lo diede all'infermiera. Poi si distese supino sul tavolo operatorio, con indosso solo la T-shirt e i pantaloni a coulisse. Richardson si chinò su di lui e applicò i sensori agli otto elettrodi rotondi che aveva sul cranio. Ora il suo cervello era collegato direttamente al computer ai quanti e i tecnici nella galleria sovrastante erano in grado di monitorare la sua attività neurologica. Richardson appariva nervoso. Michael avrebbe preferito che il dottore indossasse una mascherina chirurgica, in modo da non vedere la sua espressione. "Che vada al diavolo" pensò. "Non è il suo cervello a essere infilzato con i fili di rame. È la mia vita a essere in gioco. Un rischio tutto mio." «Buona fortuna» gli augurò il dottore. «Lasci perdere la fortuna. Facciamolo, e vediamo che cosa succede.» Richardson annuì, infilando una radiocuffia per poter parlare direttamente con i tecnici nella galleria. Aveva la responsabilità del cervello di Michael, mentre l'infermiera e il dottor Lau si sarebbero occupati del resto del corpo. Fissarono alcuni sensori sul petto e sul collo del giovane per poter seguire i segnali vitali; l'infermiera gli passò sul braccio dell'anestetico e poi infilò un ago collegato a un tubetto di plastica flessibile. Una soluzione salina cominciò a entrargli nel sangue. «Ricevete il segnale?» bisbigliò Richardson nel microfono. «Perfetto.» «Per cominciare ci occorrono dei parametri di riferimento» disse a Michael. «Perciò sottoporremo il cervello a diversi tipi di stimoli. Non deve pensare a nulla in particolare. Si tratta di reazioni automatiche.» L'infermiera si diresse verso la rastrelliera d'acciaio e cominciò a portare le provette. La prima serie conteneva sostanze per stimolare il gusto: salato, acido, amaro, dolce. Poi profumi e odori. Rosa. Vaniglia. E qualcosa che a Michael ricordò la gomma bruciata. Richardson prese una speciale
lampada e, continuando a bisbigliare nel microfono, proiettò negli occhi di Michael diverse luci colorate. Inoltre gli fecero sentire suoni a volumi diversi e gli toccarono il volto con una piuma, un blocchetto di legno e un ruvido pezzo di ferro. Soddisfatto dei dati sensori, Richardson chiese a Michael di eseguire un conteggio alla rovescia, di fare calcoli mentali e descrivere la cena servitagli la sera prima. Poi stimolarono la memoria profonda e Michael dovette raccontare la prima volta che aveva visto il mare e la prima volta che aveva visto una donna nuda. «Aveva una stanza tutta sua da adolescente? Com'era fatta? Descriva l'arredamento e i poster appesi.» Finalmente Richardson smise di fargli domande e l'infermiera gli diede dell'acqua. «Bene» disse il neurologo, rivolto ai tecnici. «Siamo pronti.» L'infermiera prese da un armadietto una sacca con una soluzione di 3B3. Kennard Nash aveva convocato Michael nel suo studio per discutere del farmaco. Gli aveva spiegato che il 3B3 era una speciale coltura di batteri sviluppata in Svizzera da un'equipe scientifica d'alto livello. Era estremamente costoso e difficile da produrre in laboratorio, ma le tossine create dalla coltura batterica sembravano aumentare l'energia neurale. Il liquido turchese gorgogliò quando l'infermiera sollevò la sacca. La soluzione fisiologica fu sostituita da quella con il 3B3 e il farmaco scese velocemente nel tubetto di plastica fino all'ago che gli bucava il braccio. Richardson e il dottor Lau lo fissarono dall'alto come se si aspettassero che sarebbe volato direttamente in un'altra dimensione. «Come si sente?» domandò Richardson. «Normale. Quanto tempo ci vuole perché questa sostanza faccia effetto?» «Non lo sappiamo.» «Ritmo cardiaco leggermente aumentato» li informò il dottor Lau. «Respirazione costante.» Cercando di non mostrare il suo disappunto, Michael fissò il soffitto sopra di sé per qualche minuto, poi chiuse gli occhi. Forse non era un Viaggiatore, o forse il farmaco non funzionava. Tanti sforzi e denaro per un fallimento totale. «Michael?» Aprì gli occhi. Richardson lo stava fissando dall'alto. La vasta sala era ancora fredda, ma il volto del neurologo brillava di sudore. «Cominci a contare alla rovescia partendo da cento.» «Lo abbiamo già fatto.»
«I tecnici vogliono controllare i parametri di partenza.» «Se lo scordi. Questo non sarà...» Michael alzò leggermente il braccio sinistro e vide qualcosa di straordinario. Una mano e un polso composti di piccoli punti di luce emersero dalla sua carne come un fantasma da un armadio chiuso. Senza vita, la sua mano di carne e ossa ricadde inerte sul tavolo operatorio mentre quella spettrale rimase sospesa. Michael comprese immediatamente che quella cosa - quell'apparizione era sempre stata dentro di lui. La mano fantasma gli ricordava gli schemi delle costellazioni. Era composta di minuscole stelle collegate tra loro da linee di luce sottilissime, quasi impercettibili. Ma non poteva muovere la mano fantasma come il resto del corpo. Se pensava "muovi il pollice, piega le dita" non succedeva niente. Doveva pensare a che cosa voleva che la mano facesse e allora, dopo un breve intervallo temporale, l'arto rispondeva alla sua visione. Era complicato. Tutto avveniva con un leggero ritardo, come muoversi sott'acqua. «Che cosa ne pensa?» domandò a Richardson. «Cominci il conto alla rovescia, per piacere.» «Cosa dice della mano? Non riesce a vedere che cosa sta succedendo?» Richardson scosse la testa. «Le sue mani sono entrambe appoggiate sul tavolo operatorio. Mi descriva quello che vede.» Michael cominciava ad avere difficoltà a parlare. Non era semplicemente dovuto alla fatica di muovere le labbra e la lingua; era lo sforzo difficile e laborioso di concettualizzare le idee ed esprimerle a parole. La mente era più rapida delle parole. Molto più rapida. «Io... penso... che...» Michael si interruppe per quello che gli sembrò un periodo di tempo lunghissimo. «Non è un'allucinazione.» «La descriva, la prego.» «È sempre stato dentro di me.» «Descriva ciò che vede, Michael.» «Lei... è... cieco.» L'irritazione di Michael aumentò sempre di più, trasformandosi in collera, e il giovane fece forza sugli avambracci per mettersi seduto. Ebbe la sensazione di stare uscendo con estrema fatica da qualcosa di vecchio e fragile, una capsula di vetro ingiallito. Poi si rese conto che il pezzo superiore del suo corpo fantasma era ritto in verticale mentre quello di carne e ossa era rimasto steso. Perché non vedevano ciò che stava accadendo? Era tutto così chiaro. Ma Richardson continuava a fissare il suo corpo sul tavo-
lo come se fosse un'equazione incomprensibile che avrebbe prodotto da sola il proprio risultato. «Tutti i segnali vitali si sono interrotti» annunciò Lau. «È morto, o è...» «Che cosa sta dicendo?» si allarmò Richardson. «No. C'è appena stata una pulsazione. Un singolo battito. E i suoi polmoni si stanno muovendo. È in una specie di letargo, come se fosse sepolto sotto la neve.» Lau studiò un monitor. «Le sue funzioni sono estremamente rallentate. Ma è ancora vivo.» Il dottor Richardson si piegò sul tavolo operatorio, accostando la bocca all'orecchio di Michael. «Riesce a sentirmi? Riesce a...» E quella voce umana era così difficile da ascoltare - così attaccata al rimorso, alla debolezza e alla paura - che Michael strappò il resto del suo corpo fantasma dalla propria carne e si librò nell'aria, sospeso sopra i medici. In quella posizione si sentiva a disagio, come un bambino che stesse imparando a nuotare. Si mosse in alto, poi in basso. Osservò il mondo, ma in modo distaccato, distante dalla sua confusione nervosa. Benché non riuscisse a vederlo, ebbe la sensazione che nel pavimento della sala ci fosse un piccolo buco nero, come il foro di scarico sul fondo di una piscina, che lo stava delicatamente trascinando verso il basso. "No" si sforzò di pensare. "Stai lontano dal buco." Se lo voleva, riusciva a resistere e a tenersi lontano. Ma cosa c'era là dentro? Anche quello faceva parte del suo viaggio? Passò del tempo. Potevano essere pochi secondi o diversi minuti. Mentre il suo corpo di luce si abbassava fluttuando adagio, il potere - la forza di attrazione - aumentò di potenza, e Michael cominciò ad avere paura. Nella mente gli apparve il volto di Gabriel e provò un intenso desiderio di rivedere suo fratello. Avrebbero potuto affrontare quell'esperienza insieme. Era tutto più pericoloso quando si era da soli. Era sempre più vicino al buco. Smise di opporre resistenza e sentì il suo corpo fantasma condensarsi in un globo, un punto, un'essenza concentrata che veniva trascinata nel buco nero. Niente più polmoni. Niente più bocca. Niente più voce. Non c'era più. Michael aprì gli occhi e si ritrovò a galleggiare in mezzo a un oceano verde. Sopra di lui tre piccoli soli di un bianco incandescente splendevano in un cielo giallo intenso. Cercò di stare calmo e di valutare la situazione. L'acqua era calda e tran-
quilla. Niente vento. Spingendosi con i piedi e le gambe sott'acqua, si mosse verso l'alto, osservando il mondo attorno a lui. Vide una linea scura e indistinta che segnava l'orizzonte, ma nessuna traccia di terra. «Salve!» gridò. E, per un secondo, il suono della sua voce lo fece sentire forte e vivo. Ma la parola scomparve nella distesa infinita del mare. «Sono qui!» urlò. «Qui!» Ma nessuno gli rispose. Si rammentò delle trascrizioni degli interrogatori fatti ai Viaggiatori che il dottor Richardson aveva lasciato nel suo alloggio. C'erano quattro barriere che impedivano l'accesso agli altri regni: Acqua, Fuoco, Terra, Aria. Le barriere non si presentavano secondo un ordine particolare e i Viaggiatori vi si imbattevano in modi diversi. Si doveva trovare il modo di uscire superando ciascuna barriera, ma gli interrogati avevano descritto la prova in modi molto diversi. C'era sempre una porta. Un passaggio. Un Viaggiatore russo lo aveva definito "uno squarcio in un lungo sipario nero". Tutti concordavano sul fatto che si poteva fuggire verso un'altra barriera oppure tornare al punto di partenza nel mondo d'origine. Ma nessuno aveva lasciato istruzioni precise sul modo di oltrepassare le barriere. "O trovi una via d'uscita" spiegava una donna "oppure la via trova te." Le diverse spiegazioni lo irritavano. Perché non potevano dire semplicemente: "Fai otto passi in avanti, poi gira a destra"? Lui voleva una mappa, non una filosofia. Imprecò a voce alta e agitò l'acqua con le mani, solo per sentire un qualche rumore. Uno schizzo gli bagnò il viso e l'acqua gli rigò una guancia scendendo verso la bocca. Si aspettava un gusto forte, salmastro, come quello dell'acqua di mare, ma il liquido era completamente neutro, senza gusto né odore. Ne raccolse un po' nel palmo della mano a coppa, esaminandolo da vicino. Nell'acqua erano sospese minuscole particelle. Poteva essere sabbia o alghe, o polvere magica; non poteva saperlo. Era solo un sogno? Poteva veramente annegare? Alzando lo sguardo al cielo si sforzò di ricordare storie di pescatori dispersi in mare aperto o di turisti caduti da navi da crociera e rimasti a galla finché non erano stati soccorsi. Per quanto tempo avevano resistito? Tre o quattro ore? Un giorno intero? Affondò il capo sotto la superficie, tornò a galla e sputò l'acqua che gli era entrata in bocca. Perché nel cielo sopra di lui brillavano tre soli? Si trovava in un altro universo con altre leggi che regolavano la vita e la morte? Sebbene tentasse di prendere in considerazione queste ipotesi, la situazione in sé, il fatto di trovarsi in mezzo a un oceano, continuava a occu-
pargli la mente. "Non farti prendere dal panico" pensò. "Puoi resistere a lungo." Cantò ad alta voce vecchie canzoni. Fece conteggi alla rovescia e recitò scioglilingua: qualsiasi cosa gli desse la sensazione di essere ancora vivo. "Inspira. Espira. Schizza dell'acqua. Girati. Schizza altra acqua." Ma ogni volta, quando si fermava, le piccole onde e increspature superficiali venivano riassorbite dall'immobilità che lo circondava. Era morto? Forse era morto. Forse in quello stesso preciso momento Richardson si stava affannando sul suo corpo esanime. Forse era quasi morto e, se si fosse lasciato affondare, l'ultimo barlume di vita gli sarebbe sfuggito dal corpo. Spaventato, scelse una direzione e cominciò a nuotare. Diede qualche bracciata in avanti, poi, quando sentì le braccia affaticate, nuotò a dorso. Non aveva modo di calcolare quanto tempo fosse trascorso. Cinque minuti? Cinque ore? Ma quando si fermò, vide intorno a sé la stessa linea dell'orizzonte. Gli stessi tre soli. Il cielo giallo. Si stava stancando. Si lasciò scivolare sott'acqua, poi tornò rapidamente in superficie, sputando acqua e urlando. Si allungò supino, facendo il morto, inarcò la schiena e chiuse gli occhi. L'uniformità dell'ambiente circostante, la sua natura statica, gli fecero pensare di trovarsi in un sogno. Eppure la maggior parte dei suoi sogni aveva sempre dato risalto a Gabriel e alle altre persone che conosceva. La solitudine assoluta di quel posto era qualcosa di strano e di inquietante. Se fosse stato un sogno, allora ci sarebbero stati un vascello pirata o un motoscafo pieno di donne in bikini. Improvvisamente sentì qualcosa di scivoloso toccargli una gamba. Cominciò a nuotare freneticamente. "Batti i piedi. Spingiti in avanti. Fendi l'acqua." Il suo unico pensiero era di nuotare il più velocemente possibile e di allontanarsi dalla cosa che lo aveva toccato. L'acqua gli entrò nelle narici, ma la soffiò fuori. Chiuse gli occhi e nuotò disperatamente senza pensare alla direzione. "Fermati. Aspetta." Ascoltò il rumore ansimante del suo respiro. Poi la paura passò, e si ritrovò di nuovo a nuotare a rana senza meta, verso un orizzonte irraggiungibile. Passò del tempo. Un tempo onirico. Un tempo spaziale. Non era sicuro di niente. Ma a un tratto smise di compiere dei movimenti e restò a galla supino, esausto e senza fiato. Tutti i pensieri lo abbandonarono tranne l'impulso a respirare. Come un singolo frammento di tessuto vivente, si concentrò su quell'unica azione che per tutta la vita gli era sembrata semplice e automatica. Passò altro tempo e Michael avvertì una nuova sensa-
zione. Aveva l'impressione di muoversi in una direzione particolare, trascinato lentamente verso un punto dell'orizzonte. Gradualmente, la corrente aumentò. Michael sentiva l'acqua fluirgli attorno, e poi udì un vago scrosciare ruggente, simile a una cascata lontana. Rimettendosi in posizione verticale, allungò il collo nel tentativo di vedere che cosa stesse accadendo. In lontananza si stava alzando una foschia leggera e delle piccole onde rompevano la superficie piatta dell'oceano. Adesso la corrente era forte ed era difficile opporvisi. Il rumore aumentò gradualmente di intensità e di volume finché la voce di Michael fu sopraffatta dal frastuono. Alzò spasmodicamente il braccio destro come se un uccello gigantesco o un angelo potessero afferrarlo, salvandolo dalla morte. La corrente impetuosa lo trascinò finché il mare parve precipitargli davanti. Per un istante si ritrovò sott'acqua, ma poi riuscì a spingersi verso la luce. Era sull'orlo di un immenso vortice grande quanto un cratere lunare. Subito la corrente lo trascinò all'interno del gorgo, lontano dalla luce. "Continua a nuotare" si disse. "Non mollare." Se si fosse abbandonato all'acqua qualcosa dentro di lui sarebbe stato distrutto per sempre. Avvicinandosi al fondo di quella cavità verde, Michael scorse una piccola ombra nera simile per forma e dimensioni a un oblò. L'ombra era qualcosa di indipendente dal vortice d'acqua. Svaniva dietro gli spruzzi e la schiuma, come una roccia scura sul letto di un fiume, per riapparire nella medesima posizione. Michael si spinse con le mani e con i piedi verso l'ombra. La perse di vista. La ritrovò. E poi si lanciò dentro il suo nucleo scuro. 38 Tre lati della galleria di vetro nel Sepolcro erano occupati dal personale tecnico, ma la zona nord era separata dalle altre da una porta controllata da una guardia. Qui c'era un salotto di osservazione privato con moquette, un lungo divano e lampade di acciaio inossidabile. Tavolini neri e sedie imbottite erano disposti in fila davanti alle finestre panoramiche di vetro oscurato. Kennard Nash era seduto da solo a uno dei tavoli. La sua guardia del corpo, un ex poliziotto peruviano di nome Ramon Vega, gli stava versando un bicchiere di chardonnay. Ramon una volta aveva assassinato cinque minatori tanto insolenti da organizzare uno sciopero in una cava di rame,
ma Nash apprezzava quell'uomo esclusivamente come cameriere. «Che cosa c'è per cena, Ramon?» «Salmone. Purè di patate all'aglio. Insalata di fagiolini verdi e mandorle. Porteranno tutto qui dal centro amministrativo.» «Eccellente. Assicurati che le vivande non si raffreddino.» Ramon tornò a ritirarsi nell'anticamera in prossimità dell'uscita di emergenza e Nash sorseggiò il vino. Una delle tante lezioni apprese dal generale in ventidue anni di servizio nell'esercito era l'assoluta necessità degli ufficiali di mantenere le distanze dai soldati semplici. Per la truppa era un comandante, non un amico. Quando lavorava alla Casa Bianca, lo staff presidenziale seguiva la stessa procedura. Di tanto in tanto il presidente veniva fatto emergere dall'isolamento per lanciare la palla d'inizio in una partita di baseball o per accendere le candeline di un albero di Natale, ma per la maggior parte del tempo era protetto dalla rischiosa imprevedibilità degli eventi. Sebbene fosse un militare, Nash aveva sconsigliato al presidente di assistere ai funerali di qualsiasi soldato. Una moglie emotivamente instabile poteva mettersi a piangere e a urlare. Una madre poteva aggrapparsi all'improvviso a una bara mentre il padre chiedeva perché suo figlio era morto. La filosofia del panottico aveva insegnato ai Confratelli che il vero potere era basato sul rigido controllo e la prevedibilità. Poiché il Progetto Crossover aveva un esito imprevedibile, Nash non aveva informato i Confratelli che l'esperimento era in corso. C'erano troppe variabili per garantirne il successo. Tutto dipendeva da Michael Corrigan, il giovane il cui corpo, in quel momento, giaceva sul tavolo operatorio al centro del Sepolcro. Molte delle persone che avevano ingerito il 3B3 erano finite in un ospedale psichiatrico. Il dottor Richardson affermava di non poter stabilire un corretto dosaggio del farmaco o predire i suoi effetti su un possibile Viaggiatore. Se si fosse trattato di un'operazione militare, Nash avrebbe attribuito ogni responsabilità a un ufficiale di grado inferiore e sarebbe rimasto alla larga dalla battaglia. Era più facile evitare eventuali colpe se ci si teneva lontani dalla zona operativa. Nash conosceva questa regola fondamentale vi si era sempre attenuto nel corso della sua carriera - ma aveva trovato impossibile restare alla larga dal centro di ricerca. Il progetto del computer ai quanti, la costruzione del Sepolcro e il tentativo di creare un Viaggiatore erano tutte sue decisioni. Se il Progetto Crossover avesse avuto successo, avrebbe mutato il corso della storia. Il Panottico Virtuale stava già acquisendo il controllo totale sugli impie-
ghi e i posti di lavoro. Sorseggiando il vino, Kennard Nash si concesse il piacere di una visione maestosa. A Madrid, il computer da tavolo di una banca contava le digitazioni di una stanca impiegata che inseriva dati sulle carte di credito. Il programma informatico che monitorava il suo lavoro creava una tabella oraria che mostrava se la donna aveva raggiunto o meno la quota minima. Sul suo monitor sarebbe apparso il messaggio: "Buon lavoro, Maria" oppure "Sono in pensiero, Miss Sanchez. È sotto la media lavorativa". E la ragazza si sarebbe chinata di scatto sulla tastiera e avrebbe digitato più in fretta, ancora più in fretta, per non essere licenziata. Da qualche parte a Londra una telecamera di sorveglianza stava mettendo a fuoco i volti in una folla, trasformando ogni essere umano in una sequenza di numeri confrontabili con un file digitale. A Città del Messico e a Djakarta orecchi elettronici controllavano le telefonate e il continuo brusio di Internet. I computer del governo sapevano che un certo libro veniva acquistato in una libreria di Denver mentre un altro volume veniva preso in prestito in una biblioteca pubblica di Bruxelles. Chi ha comprato quel libro? Chi ha letto quell'altro? Rintracciare i nominativi. Fare controlli incrociati. Seguire le tracce. Giorno dopo giorno il Panottico Virtuale sorvegliava i suoi prigionieri, diventando il loro mondo. Ramon Vega si intrufolò con discrezione nella galleria e accennò un inchino. Nash ne dedusse che c'erano dei problemi con la cena. «Mr Boone è alla porta, generale. Dice che desidera vederla.» «Sì, certo, naturalmente. Fallo passare subito.» Kennard Nash sapeva che se fosse stato seduto nella Sala della Verità il lato sinistro della sua corteccia cerebrale avrebbe assunto un colore rosso vivo, mostrando la menzogna. Provava avversione per Nathan Boone e si sentiva nervoso quando era nei paraggi. Boone era stato assunto dal predecessore di Nash e conosceva un'infinità di particolari sui meccanismi interni dei Confratelli. Negli ultimi anni aveva stabilito dei rapporti personali con i membri del consiglio direttivo. La maggior parte dei Confratelli lo considerava un uomo audace e pieno di risorse: il perfetto responsabile della sicurezza. Nash era preoccupato del fatto di non avere sotto controllo tutte le sue attività. Di recente aveva scoperto che il capo della sicurezza aveva disobbedito a un suo ordine esplicito. Ramon accompagnò Boone nella galleria e poi lasciò soli i due uomini. «Voleva vedermi?» chiese. Il capitano era rimasto in piedi a gambe leggermente divaricate, con le mani dietro la schiena. Tra i due era Nash ad avere il comando, eppure sapevano entrambi che
Boone avrebbe potuto attraversare la stanza e spezzare il collo al generale in pochi secondi. «Si sieda. Si serva un bicchiere di chardonnay.» «Non ora.» Boone si accostò alla vetrata e gettò uno sguardo al tavolo operatorio sotto di sé. L'anestesista stava posizionando un sensore cardiaco sul torace di Michael. «Come procede?» «Michael è in trance. Battito debole. Respirazione al minimo. Spero che sia diventato un Viaggiatore.» «O magari è mezzo morto. Il 3B3 potrebbe avergli fritto il cervello.» «L'energia neurale ha abbandonato il suo corpo. I nostri computer ne stanno seguendo il movimento con una certa precisione.» Rimasero entrambi in silenzio per diversi secondi, fissando la sala sottostante oltre la vetrata. «Supponiamo che sia davvero un Viaggiatore» disse Boone dopo un po'. «In questo momento potrebbe morire?» «La persona distesa sul tavolo operatorio potrebbe cessare di essere biologicamente viva.» «Ma che ne sarebbe della sua Luce?» «Lo ignoro» ammise Nash. «Però non potrebbe rientrare nel suo corpo.» «Può morire in un altro regno?» «Sì. Siamo convinti che se si viene uccisi in un altro regno vi si resta intrappolati per sempre.» Boone rivolse le spalle alla vetrata. «Spero che funzioni.» «È necessario prevedere ogni possibilità. Ecco perché è di vitale importanza trovare Gabriel Corrigan. Se Michael dovesse morire, avremo immediatamente bisogno di un sostituto.» «Capisco.» Il generale Nash posò il bicchiere di vino. «A quanto affermano le mie fonti, lei ha ritirato i nostri agenti operativi in California. Era la squadra destinata alla ricerca di Gabriel.» Boone non sembrò turbato dall'accusa. «La sorveglianza elettronica prosegue esattamente come prima. Ho anche incaricato una squadra di cercare il mercenario che ha lasciato un falso indizio nell'appartamento di Michael Corrigan. Penso si tratti di un istruttore di arti marziali un tempo affiliato alla Chiesa di Isaac T. Jones.» «Ma nessuno sta cercando Gabriel» disse Nash. «Lei ha disobbedito a un ordine.» «È mia responsabilità proteggere la nostra organizzazione e aiutare a raggiungere i nostri obiettivi.» «A questo punto il Progetto Crossover è il nostro obiettivo primario, Mr
Boone. Non c'è nulla di più importante.» Boone avanzò verso il tavolino come un ispettore di polizia che stesse per interrogare un sospetto. «Forse questo argomento andrebbe discusso dal consiglio direttivo.» Il generale abbassò lo sguardo sul tavolino e prese in considerazione le alternative. Aveva evitato di dare a Boone tutte le informazioni sul computer ai quanti, ma non era più possibile mantenere il segreto. «Come ben sa, ora disponiamo di un computer ai quanti affidabile. Non è certo il momento di discutere degli aspetti tecnici dello strumento, le basti sapere che sfrutta la sospensione di particelle subatomiche in un campo d'energia. Per un brevissimo periodo di tempo queste particelle spariscono dal campo di forza e poi ricompaiono. Dove vanno, Mr Boone? I nostri scienziati mi dicono che viaggiano in un'altra dimensione... in un altro regno.» Boone sembrava divertito. «Viaggiano con i Viaggiatori.» «Queste particelle sono tornate nel nostro computer con dei messaggi da parte di una civiltà molto progredita. All'inizio ricevemmo dei semplici codici binari e successivamente informazioni sempre più complesse. Questa civiltà ha fornito ai nostri scienziati nuove conoscenze nel campo della fisica e dell'informatica. Ci hanno mostrato come apportare modificazioni genetiche in certe specie animali e creare i congiunti. Se riusciremo a saperne di più su questa tecnologia avanzata saremo in grado di instaurare il panottico entro pochi anni. I Confratelli avranno finalmente il potere di sorvegliare e comandare un numero immenso di persone.» «E che cosa vuole in cambio, questa civiltà?» domandò Boone. «Nessuno dà niente per niente.» «Vogliono venire nel nostro mondo a conoscerci. Ed è per questo che ci servono i Viaggiatori: per mostrare loro la strada, per far loro da guida. Il computer ai quanti sta seguendo Michael Corrigan nei suoi spostamenti tra i diversi regni. Capisce, Mr Boone? È tutto chiaro?» Una volta tanto, Boone parve impressionato. Nash si godette quel momento, riempiendosi di nuovo il bicchiere. «È per questo che le ho chiesto di trovare Gabriel Corrigan a tutti i costi. E non sono affatto contento del fatto che non abbia eseguito gli ordini.» «Ho ritirato gli agenti operativi per un motivo preciso» ribatte Boone. «Credo che nell'organizzazione ci sia un traditore.» La mano di Nash ebbe un lieve tremito mentre posava il bicchiere. «Ne è sicuro?»
«La figlia di Thorn, Maya, si trova negli Stati Uniti, ma non sono riuscito a catturarla. Gli Arlecchini sono stati in grado di prevedere ogni nostra azione.» «Ed è convinto che un agente operativo ci abbia tradito?» «Rientra nella filosofia del panottico che tutti debbano essere sorvegliati e valutati... anche chi è a capo del sistema.» «Sta insinuando che io abbia qualcosa a che fare con la fuga di informazioni?» «Certo che no» ribatté Boone, ma continuò a fissare il generale come se stesse prendendo in considerazione quella possibilità. «Al momento la squadra informatica sta controllando tutte le persone collegate al progetto.» «E chi esaminerà le sue attività?» «Non ho mai avuto segreti per i Confratelli.» "Non guardarlo" pensò Nash. "Non permettergli di guardarti negli occhi." Fissò lo sguardo oltre la vetrata, sul corpo di Michael. Il dottor Richardson camminava nervoso, di fianco al suo paziente immobile. Chissà come, una falena bianca si era intrufolata nell'ambiente climatizzato del Sepolcro. Il dottore trasalì quando l'insetto emerse dall'ombra e fluttuò svolazzando dentro e fuori dal cono di luce. 39 Maya e Gabriel attraversarono la città di San Lucas verso l'una del pomeriggio e si diressero a sud su una strada provinciale. Maya stava cercando di ignorare la tensione che cresceva con il passare dei chilometri. A Los Angeles il messaggio di Linden era stato chiaro. "Andate a San Lucas, in Arizona. Seguite la Statale 17 in direzione sud. Cercate un nastro verde. Nome del contatto: Martin." Forse non avevano visto il nastro verde oppure il vento del deserto lo aveva fatto volare via. Forse Linden era stato localizzato dal team informatico della Tabula, e lei e Gabriel stavano per cadere in un'imboscata. Maya era abituata alle indicazioni vaghe che guidavano ai rifugi sicuri o ai punti d'accesso, ma fare da scorta a un possibile Viaggiatore come Gabriel cambiava tutto. Dalla rissa con i quattro teppisti al Paradise Diner, Gabriel si era mantenuto a distanza da lei, dicendo solo qualche parola quando si fermavano a una stazione di servizio per fare benzina e controllavano la carta stradale. Si comportava come un uomo che avesse accettato
di scalare una vetta pericolosa e fosse preparato a tollerare gli ostacoli strada facendo. Maya abbassò il finestrino del furgone e l'aria del deserto le asciugò il sudore sulla pelle. Cielo blu cobalto. Un falco in volo. Gabriel stava viaggiando in sella alla moto un chilometro più avanti. Tutt'a un tratto fece un'inversione a U e tornò verso di lei, puntando il dito a sinistra. "Trovato." Maya scorse un nastro di stoffa verde legato alla base di un paletto miliare. Una pista sterrata - non più larga del furgone - sbucava sulla statale in quel punto, ma non c'era alcun cartello. Gabriel si levò il casco integrale e lo lasciò appeso al manubrio mentre imboccavano la stretta pista. Erano in pieno deserto: un territorio arido e piatto, disseminato di cactus, ciuffi di erba secca e cespugli di acacia spinosa che graffiavano i fianchi del furgone. Più avanti la strada giunse a un bivio, ma Gabriel trovò dei nastri di stoffa verde che li guidarono a est, verso le alture. A mano a mano che salivano in quota cominciarono a fare la loro comparsa querciole grigie, cespugli di mesquite e fitte macchie di agrifoglio con dei piccoli fiori gialli. Seguirono la strada fino alla cima di un'altura, fermandosi per una pausa. Quella che dalla statale in pianura era sembrata una bassa cresta montuosa in realtà era un altopiano che stendeva due enormi braccia intorno a una valle riparata. Persino da quella distanza si intravedeva un gruppetto di case di forma squadrata parzialmente nascoste da una pineta. Più in alto, sull'orlo dell'altopiano, si ergevano quattro turbine a energia eolica. Ciascuna torre d'acciaio sosteneva un rotore a tre pale che ruotava come una mastodontica elica di aeroplano. Gabriel si pulì la faccia impolverata con una bandana e poi ripartì, proseguendo lungo la pista. Procedeva a bassa velocità, quasi a passo d'uomo, guardando continuamente da una parte e dall'altra, come se si aspettasse un attacco a sorpresa. Il fucile a pompa giaceva sul pavimento dell'abitacolo del furgone, nascosto da una vecchia coperta. Maya raccolse l'arma e la caricò, piazzando il fucile accanto a sé, sul sedile del passeggero. Si domandava se un Esploratore si trovasse realmente in quel posto o se fosse già stato trovato e ucciso dagli uomini della Tabula. La pista svoltava direttamente nella vallata e attraversava un ponte di pietra che scavalcava un torrentello. Sull'altra sponda del modesto corso d'acqua Maya intravide alcune figure nel sottobosco e rallentò.
Quattro, no, cinque, bambini stavano trasportando delle grosse pietre lungo il sentiero che scendeva al torrente. Forse stavano costruendo una diga o una pozza d'acqua, Maya non poteva esserne certa. Ma i bambini si fermarono tutti a fissare la motocicletta e il furgone. Trecento metri più avanti oltrepassarono un bambino che reggeva un secchiello di plastica e li salutò con la mano. Non avevano ancora visto nessun adulto, ma i bambini sembravano felicissimi di sfarsene da soli. Per qualche secondo Maya immaginò un regno beato di bambini che crescevano senza la costante influenza dell'immensa Macchina. Quando furono più vicini alla valle la pista diventò una strada pavimentata di mattoni rosso marrone, leggermente più scuri del terreno circostante. Passarono davanti a tre lunghe serre, e poi Gabriel andò a fermarsi in un cortile. Quattro pick-up impolverati erano posteggiati all'ombra di un capannone usato come officina, mentre di fianco a un capanno di legno pieno di attrezzi erano allineati un bulldozer, due jeep e un decrepito scuolabus. Un sentiero a gradoni portava più in alto, verso un grande recinto pieno di galline bianche. Maya lasciò il fucile a pompa nascosto sotto la coperta di lana, ma si mise a tracolla la custodia della spada. Chiudendo la portiera del furgone, vide una ragazzina sui dieci anni seduta in cima a un muro di contenimento in mattoni. Era asiatica e aveva lunghi capelli neri che le arrivavano sotto le spalle. Come gli altri bambini, indossava abiti logori - jeans e maglietta a mezze maniche - e un paio di resistenti scarponcini da lavoro. Portava un grosso coltello da caccia con l'impugnatura di corno appeso alla cintura. L'arma e i capelli lunghi la facevano sembrare lo scudiero di un cavaliere medievale, pronto ad afferrare le redini dei cavalli non appena giunti al castello. «Ciao!» disse la ragazzina. «Siete le persone venute dalla Spagna?» «No, veniamo da Los Angeles.» Gabriel fece le presentazioni. «E tu come ti chiami?» «Alice Chen.» «Questo posto ha un nome?» «New Harmony» rispose Alice. «Abbiamo scelto il nome due anni fa. Tutti hanno votato, anche i bambini.» La ragazzina saltò giù dal muro e si avvicinò ad ammirare la moto impolverata di Gabriel. «Stiamo aspettando due "possibili" dalla Spagna. I possibili vivono qui con noi per tre mesi e poi votiamo il loro ingresso nella comunità.» Alice voltò le spalle alla motocicletta e fissò Maya. «Se
non siete possibili, allora cosa ci fate qui?» «Stiamo cercando un certo Martin» spiegò Maya. «Sai dov'è?» «È meglio che prima parliate con mia mamma.» «Non è necessario.» «Seguitemi. Mamma è al centro comunitario.» La ragazzina li accompagnò al di là di un altro ponte dove il torrente scrosciava su rocce rosse formando ampi mulinelli. Ai lati della strada sorgevano case costruite nel tipico stile del Sudovest. Le abitazioni avevano muretti esterni di stucco bianco alla messicana, finestre piccole e tetti piatti utilizzabili come terrazze nelle notti d'afa. Molte delle costruzioni erano piuttosto grandi e Maya si domandò come avessero fatto a portare su per la strada sterrata tonnellate di mattoni e cemento. Alice Chen continuava a lanciare occhiate dietro di sé sopra la spalla come se si aspettasse che i due forestieri in visita scappassero. Mentre passavano davanti a una casa dipinta di un bel verde pastello, Gabriel si affiancò a Maya. «Questa gente non ci stava aspettando?» «A quanto pare no.» «Ohi è Martin? L'Esploratore?» «Non lo so, Gabriel. Lo scopriremo presto.» Attraversarono una pineta, arrivando in un complesso di quattro costruzioni bianche con un cortile centrale. «Questo è il centro comunitario» disse Alice aprendo una pesante porta di legno. La seguirono in un breve corridoio d'ingresso fino a un'aula scolastica piena di giocattoli. Una giovane maestra era seduta su una stuoia con cinque bambini e leggeva un libro illustrato. Salutò Alice con un cenno del capo e osservò i due forestieri quando passarono davanti alla porta aperta. «I bambini stanno a scuola tutto il giorno» spiegò Alice. «Io invece esco alle due del pomeriggio.» Uscirono dalla scuola e attraverso un cortile con una fontana di pietra al centro entrarono nel secondo edificio. Trovarono tre uffici open-space, senza finestre, attrezzati con dei computer. In una stanza piena di cubicoli alcune persone parlavano al telefono davanti ai monitor dei loro computer. «Sposta il mouse» disse un giovanotto. «Vedi una spia luminosa rossa? Significa...» Il giovane si interruppe per qualche secondo, fissando Maya e Gabriel. Proseguirono oltre, riattraversarono il cortile ed entrarono nel terzo edificio, un'altra sala informatica. Una donna cinese con indosso un camice bianco spuntò da una stanza sul retro. Alice corse incontro alla donna e le
sussurrò qualcosa. «Buongiorno» disse la donna. «Sono la mamma di Alice, la dottoressa Joan Chen.» «Loro sono Maya e Gabriel. Non sono spagnoli.» «Stiamo cercando...» «Sì. So perché siete qui» disse Joan. «Martin ha parlato di voi all'ultima riunione di consiglio. Ma non abbiamo raggiunto un accordo. Dobbiamo ancora votare.» «Vogliamo solo parlare con Martin» precisò Gabriel. «Sì. Certamente.» Joan strinse la spalla della figlia. «Portali sulla collina da Mr Greenwald. Sta aiutando a costruire la casa dei Wilkins.» Alice li precedette di corsa mentre uscivano dall'edificio e imboccavano di nuovo la strada. «Non mi aspettavo un comitato di accoglienza» commentò Gabriel. «Ma i tuoi amici non mi sembrano molto cordiali.» «Gli Arlecchini non hanno amici» ribatté Maya. «Abbiamo solo doveri e alleanze. Non dire niente finché non avrò valutato la situazione.» La strada era cosparsa di frammenti di paglia. Qualche centinaio di metri più avanti arrivarono a un mucchio ordinato di balle di fieno sistemate in prossimità di un cantiere. Dei lunghi tondini d'acciaio erano stati cementati nelle fondamenta di una nuova casa e le balle venivano infilzate sui tondini come giganteschi mattoni gialli. Alla costruzione della casa lavorava una ventina di persone di tutte le età. Adolescenti madidi di sudore stavano piantando tondini d'acciaio nelle balle con delle mazze mentre tre adulti tendevano una rete di metallo galvanizzato sui muri esterni formati dai cumuli di fieno. Due falegnami con i cinturoni portattrezzi stavano erigendo una struttura di legno per sostenere le travi del tetto. Maya comprese che tutti gli edifici nella valle erano stati costruiti con lo stesso, semplice modo. La comunità non aveva alcun bisogno di grandi quantità di mattoni e cemento, solo qualche tavola di compensato, intonaco impermeabilizzante e centinaia di balle di fieno. Un muscoloso latinoamericano oltre la quarantina era accovacciato per terra a misurare una tavola di compensato. Portava un paio di pantaloncini corti, una T-shirt fradicia di sudore e un consunto cinturone portattrezzi di cuoio. Non appena notò i due forestieri, si alzò e andò loro incontro. «Posso aiutarvi?» chiese. «State cercando qualcuno?» Prima che Maya avesse il tempo di rispondere, Alice sbucò dalla casa in costruzione insieme a un tipo anziano dall'aspetto robusto, con un paio di
spessi occhiali da vista. L'uomo si affrettò a raggiungerli, con un sorriso forzato. «Benvenuti a New Harmony. Sono Martin Greenwald. E questo è il mio amico Antonio Cardenas.» Poi, rivolgendosi all'amico: «Sono i due ospiti di cui abbiamo discusso alla riunione di consiglio. Li mandano i nostri amici europei». Antonio non sembrava felice di vederli. Irrigidì la schiena e allargò leggermente le gambe, come preparandosi a combattere. «La vedi la custodia a tracolla? Sai cosa significa?» «Abbassa la voce» lo redarguì Martin. «È un maledetto Arlecchino. Hai idea di che cosa ci farebbe la Tabula se la trovassero qui?» «Queste persone sono miei ospiti» dichiarò Martin. «Alice li accompagnerà giù alla Blue House. Verso le sette potranno venire alla Yellow House per la cena. E sei invitato anche tu, amico mio. Ne discuteremo davanti a un buon bicchiere di vino.» Antonio ebbe un istante di esitazione, poi tornò verso il cantiere. Come una piccola guida turistica, Alice riaccompagnò i due ospiti al parcheggio. Maya avvolse le sue armi nella coperta di lana e Gabriel si mise in spalla la spada di giada. Poi seguirono la ragazzina un poco più a valle, sulla strada vicina al torrente, fino a una casa a due piani colorata di blu. Era piuttosto piccola, composta da cucina, una sola camera da letto e soggiorno soppalcato. Una coppia di portefinestre si apriva su un giardino recintato, con cespugli di rosmarino e senape selvatica. Il bagno aveva un soffitto alto e una vetusta vasca da bagno con i piedini a zampa e macchie verdi sui rubinetti ossidati. Maya decise di fare un bagno e si tolse gli abiti sporchi. L'acqua aveva un odore leggermente ferroso, come se provenisse dalle viscere della terra. Quando la vasca fu piena, vi si immerse e cercò di rilassarsi. Qualcuno aveva sistemato una rosa selvatica in una bottiglia di vetro blu sopra il lavandino. Per qualche minuto dimenticò i pericoli che li circondavano e si concentrò unicamente su quell'isolato punto di bellezza ancora presente nel mondo. Se Gabriel si fosse rivelato un vero Viaggiatore, allora avrebbe potuto continuare a proteggerlo. Se l'Esploratore avesse invece deciso che non aveva il potere, avrebbe dovuto lasciarlo per sempre. Scivolando sotto la superficie dell'acqua, immaginò Gabriel che decideva di stabilirsi a New Harmony e si innamorava di una ragazza carina a cui piaceva cuocere il pane in casa. Gradualmente, la sua fantasia la portò su un sentiero più te-
nebroso e a un tratto si immaginò in piedi fuori da una casa di sera, a osservare attraverso la finestra Gabriel e sua moglie che preparavano la cena. "Arlecchino. Hai le mani sporche di sangue. Stai alla larga." Si lavò e si sciacquò i capelli, trovò un accappatoio di spugna nell'armadio e uscì in corridoio, diretta verso la sua camera. Gabriel era seduto sul letto nell'angolo notte del soggiorno. Pochi minuti dopo si alzò di scatto e Maya lo sentì imprecare fra sé. Passò qualche altro minuto e poi la scaletta di legno scricchiolò mentre il ragazzo scendeva a farsi il bagno. Al tramonto Maya rovistò nella sua borsa da viaggio e trovò un top a canottiera blu e una gonna di cotone che le arrivava alle caviglie. Quando si guardò allo specchio, fu compiaciuta di vedere quanto apparisse normale: sembrava una delle ragazze che Gabriel poteva aver conosciuto a Los Angeles. Poi si alzò la gonna sulle gambe e allacciò ai polpacci i due coltelli. Le altre armi erano nascoste sotto la trapunta che faceva da copriletto. Entrò in soggiorno e trovò Gabriel in piedi al buio. Stava spiando attraverso le tende della finestra. «C'è qualcuno nascosto tra i cespugli là in fondo» disse. «Stanno sorvegliando la casa.» «È probabile che sia Antonio Cardenas o uno dei suoi amici.» «Quindi, cosa pensi di fare?» «Niente. Andiamo a cercare una casa gialla.» Sul sentiero, Maya si sforzò di apparire rilassata, ma non riusciva a capire se qualcuno li stesse pedinando. L'aria era ancora calda e gli abeti sembravano aver catturato delle piccole macchie di oscurità. Una grande casa gialla sorgeva vicino a uno dei ponti. Alcune lampade a petrolio brillavano sulla terrazza a patio del tetto, da dove giungevano delle voci. Entrarono nella casa e trovarono otto bambini di età diverse che cenavano seduti a una tavolata. Una donna di bassa statura con una capigliatura rossa tutta ricci stava trafficando in cucina. Era vestita con una gonna di jeans e una T-shirt con l'immagine di un cartello di divieto al centro del quale era disegnata una telecamera. Un simbolo di resistenza contro l'Immensa Macchina. Maya aveva visto lo stesso disegno sul pavimento di una discoteca di Berlino e in un graffito su un muro nel quartiere Malasaña a Madrid. Senza mollare il mestolo, la donna andò ad accoglierli. «Sono Rebecca Greenwald. Benvenuti in casa nostra.» Gabriel sorrise e fece un gesto indicativo verso la tavolata. «Avete un sacco di bambini qui.»
«Solo due di questi sono nostri. Gli altri sono i tre figli di Antonio venuti a cena da noi, la figlia di Joan, Alice, più due loro amici di altre famiglie. I bambini della nostra comunità mangiano sempre a casa di qualcun altro. Dopo il primo anno siamo stati costretti a imporre una regola: chi invita i suoi amici deve avvertire almeno due adulti entro le quattro del pomeriggio. Cioè, questa almeno è la regola, ma non sempre la rispettano. La settimana scorsa stavamo cuocendo mattoni per lastricare le strade e avevamo qui sette bambini inzaccherati di fango dalla testa ai piedi e tre ragazzi più grandi che mangiavano il doppio di un adulto. Ho cucinato montagne di spaghetti.» «Martin è...» «Mio marito è in terrazza con gli altri. Dovete solo salire le scale. Io arrivo tra due minuti.» Maya e Gabriel attraversarono la sala da pranzo e uscirono in un giardino cintato da un muretto. Mentre salivano la scala esterna che dava accesso al tetto, Maya udì alcune voci. Stavano discutendo. «Non dimenticarti i bambini della comunità, Martin. Dobbiamo proteggere i nostri figli.» «Pensa ai bambini che crescono in ogni parte del mondo. L'Immensa Macchina non fa che insegnar loro paura, avidità e odio...» La conversazione si interruppe non appena comparvero Maya e Gabriel. Un tavolo di legno era stato sistemato sul patio della terrazza, illuminato con lampade a olio vegetale. Martin, Antonio e Joan erano seduti a tavola, bevendo vino. «Di nuovo benvenuti» disse Martin. «Prego, accomodatevi. Volete del vino?» Maya fece un rapido calcolo delle direzioni da cui poteva venire un eventuale attacco e prese posto vicino a Joan Chen. Da quella posizione poteva vedere chiunque stesse arrivando dalla scala esterna. Martin si diede da fare intorno a loro, assicurandosi che avessero stoviglie e posate, e versò loro due bicchieri di vino da una bottiglia senza etichetta. «Questo è un merlot che compriamo direttamente da un produttore» spiegò. «Quando stavamo ancora fantasticando su New Harmony, Rebecca mi chiese quale fosse la mia idea di questo posto e io le dissi che volevo un bicchiere di buon vino tutte le sere, in compagnia di buoni amici.» «Un'aspirazione modesta» commentò Gabriel. Martin sorrise e si sedette. «Sì, ma perfino un piccolo desiderio come questo ha dei presupposti. Prevede una comunità con del tempo libero, un
gruppo affiatato di gente con un reddito sufficiente per acquistare del buon merlot e con il desiderio di godersi i piccoli piaceri della vita.» Sorrise e alzò il bicchiere. «In quest'epoca, un semplice bicchiere di vino può diventare una dichiarazione rivoluzionaria.» Maya non ne sapeva niente di vini, ma il merlot aveva un gusto gradevole, che le ricordava le ciliegie mature. Dal canyon scendeva una brezza leggera e le fiammelle delle tre lampade a olio ondeggiavano dolcemente. Migliaia di stelle li sovrastavano nel cielo terso del deserto. «Voglio scusarmi con voi per la cattiva accoglienza» esordì Martin. «E voglio anche scusarmi con Antonio. Ho parlato di voi alla riunione di consiglio comunitario, ma non abbiamo votato. Non pensavo che sareste arrivati così presto.» «Basta che tu ci dica dov'è l'Esploratore» ribatté Maya. «E partiremo immediatamente.» «Forse l'Esploratore non esiste» brontolò Antonio. «E forse siete due spie mandate qui dalla Tabula.» «Oggi pomeriggio eri furioso perché temevi che fosse una donna arlecchino» osservò Martin. «E adesso la stai accusando di essere una spia.» «Tutto è possibile.» Martin sorrise alla comparsa di sua moglie che teneva in mano un vassoio di cibo. «Anche se fossero spie, sono nostri ospiti e si meritano un buon pasto. Mangiamo, e poi discuteremo a stomaco pieno.» Gli invitati cominciarono a passarsi piatti di portata e terrine. Insalata. Lasagne. Un croccante pane di segale cotto nel forno del centro comunitario. Mentre cenavano, i quattro membri di New Harmony cominciarono a rilassarsi e a parlare liberamente delle loro varie responsabilità. Una conduttura dell'acqua potabile si era rotta. Una delle camionette aveva urgente bisogno di un cambio di olio. Un convoglio sarebbe sceso a San Lucas di lì a qualche giorno: dovevano alzarsi e partire di buon'ora perché uno dei giovani doveva presentarsi per un esame di ammissione all'università. Una volta compiuti tredici anni, i ragazzi e le ragazze venivano guidati da un solo insegnante multiclasse in un'aula del centro comunitario, ma i loro professori provenivano dai più disparati Paesi del mondo: per la maggior parte erano studenti laureati che insegnavano via Internet. Diversi college statunitensi avevano offerto una borsa di studio a una ragazza diplomatasi l'anno prima alla scuola di New Harmony. Erano favorevolmente impressionati da una studentessa che aveva studiato calcolo e sapeva tradurre le commedie di Molière, ma che era anche capace di scavare un
pozzo artesiano e riparare un motore diesel. «Qual è il maggior problema qui?» domandò Gabriel. «C'è sempre qualcosa che non va, ma riusciamo comunque a risolverlo» spiegò Rebecca. «Per esempio, la maggior parte delle case ha almeno un caminetto, e all'inizio il fumo ristagnava nella vallata. i bambini tossivano e si ammalavano. Si poteva a malapena vedere il cielo. Perciò ci riunimmo e decidemmo che nessuno poteva accendere un fuoco di legna a meno che una bandiera blu non sventolasse sull'asta del centro comunitario.» «Siete tutti religiosi?» chiese Maya. «Io sono cristiano» dichiarò Antonio. «Martin e Rebecca sono ebrei. Joan è buddhista. Qui abbiamo quasi ogni tipo di credo, ma la nostra vita spirituale è una questione privata.» Rebecca lanciò un'occhiata al marito. «Vivevamo tutti nell'Immensa Macchina, poi l'auto di Martin si è rotta e le cose sono cambiate.» «Sì, è iniziato tutto con la mia macchina» disse Martin. «Otto anni fa abitavamo a Houston, nel Texas, e io lavoravo come consulente immobiliare per famiglie ricche, proprietarie di edifici commerciali. Avevamo due case, tre auto e...» «Ed era infelice» lo interruppe Rebecca. «Quando tornava a casa la sera, se ne andava immediatamente di sotto in taverna con una bottiglia di scotch, a guardare film stravecchi alla Tv fino a crollare sul divano.» Martin scosse la testa. «Gli esseri umani hanno una capacità quasi illimitata di farsi del male. Siamo capaci di giustificare qualsiasi tristezza, se rientra nella nostra visione della realtà. Probabilmente avrei continuato a trascinarmi sulla stessa strada per tutta la vita, ma poi successe una cosa. Feci un viaggio di lavoro in Virginia e fu un'esperienza terribile. I miei nuovi clienti erano come bambini avidi senza alcun senso di responsabilità. A un certo punto della riunione suggerii che dessero in beneficenza a delle istituzioni locali l'uno per cento dei loro redditi annui, e mi risposero che forse non ero abbastanza duro per occuparmi dei loro investimenti. «Dopo quella riunione tutto andò di male in peggio. L'aeroporto di Washington era presidiato da centinaia di agenti di polizia a causa di non so quale allarme antiterrorismo. Fui perquisito due volte prima di oltrepassare i controlli di sicurezza e poi in sala d'aspetto vidi un uomo in preda a un infarto. Il mio aereo subì un ritardo di sei ore. Trascorsi tutto il tempo d'attesa al bar dell'aeroporto, bevendo e fissando il televisore acceso. Altri morti, altre distruzioni. Terrorismo. Criminalità. Inquinamento. Ogni notizia mi diceva di avere paura. Ogni spot pubblicitario mi diceva di acquista-
re cose di cui non avevo bisogno. Sembrava che potessimo essere solo vittime passive o consumatori passivi. «Quando feci ritorno a Houston c'erano quarantaquattro gradi, con il novanta per cento di umidità. A metà strada fra l'aeroporto e casa l'auto mi piantò sulla superstrada. Naturalmente non si fermava nessuno. Nessuno voleva darmi una mano. Ricordo di esser sceso dall'auto e di aver alzato gli occhi al cielo. Era di un colore marrone sporco a causa dello smog. Spazzatura ovunque. Il frastuono assordante del traffico che mi circondava. Mi resi conto che non c'era nessun motivo di preoccuparsi per l'inferno che ci attende dopo la morte, perché ci eravamo già creati da soli un inferno in terra. «E fu a quel punto che un pick-up si fermò dietro la mia auto. Ne scese un uomo che doveva avere la mia età. Indossava dei jeans e una semplice camicia da lavoro, e reggeva in mano una vecchia tazza di porcellana senza manico, come quelle che si usano in Giappone per la cerimonia del tè. Si avvicinò, senza presentarsi o chiedermi della macchina, mi guardò fisso negli occhi e io provai la netta impressione che mi conoscesse, che capisse ciò che provavo in quel momento. Poi mi offrì la tazza e disse: "Ecco qui, beva un sorso d'acqua. Deve aver sete". «Bevvi l'acqua ed era fresca e buona. Lo sconosciuto sollevò il cofano della mia auto, armeggiò con il motore e lo rimise in funzione in pochi minuti. Di norma, avrei dato a quell'uomo una mancia e me ne sarei andato, ma non mi sembrò giusto e così lo invitai a cena da me. Venti minuti dopo eravamo a casa.» Rebecca scosse la testa, sorridendo. «Pensai che Martin fosse impazzito. Incontra un tizio sulla superstrada e mezz'ora dopo c'è uno sconosciuto seduto a tavola con noi. Pensavo che fosse un vagabondo. Magari un delinquente. A cena conclusa lo sconosciuto sparecchiò la tavola e si mise a lavare i piatti in cucina mentre Martin metteva a letto i bambini. Mi chiese della mia vita e, per chissà quale ragione, cominciai a raccontargli tutto. Ero insoddisfatta e infelice, preoccupata per mio marito e per i miei figli. Dovevo prendere dei sonniferi per dormire.» «Il nostro ospite era un Viaggiatore» disse Martin, fissando negli occhi Gabriel e Maya, seduti di fronte a lui. «Non so quanto conoscete i loro poteri.» «Ascolterò volentieri tutto quello che vorrai raccontare» disse Gabriel. «I Viaggiatori sono usciti da questo mondo, e sono tornati indietro» spiegò Martin. «Vedono le cose in modo diverso.»
«Sono usciti dalla prigione in cui viviamo, e per questo vedono le cose in modo chiaro» si intromise Antonio. «Ecco perché la Tabula ha paura di loro. Vogliono farci credere che l'Immensa Macchina sia l'unica vera realtà.» «All'inizio il Viaggiatore non disse molto...» intervenne Rebecca. «Ma sembrava che potesse guardare in fondo al nostro cuore.» «Presi tre giorni di vacanza» disse Martin «e io e mia moglie passammo tutto il tempo a parlare con lui, cercando di spiegare come fossimo finiti in quella situazione. Dopo i tre giorni, il Viaggiatore si trovò un alloggio in un motel a Houston. Ogni sera veniva a casa nostra. Cominciammo a invitare alcuni dei nostri amici più cari.» «Io stavo ristrutturando la casa di Martin» disse Antonio. «Quando lui mi invitò per la sera, pensai che volesse farmi conoscere qualche predicatore. Invece andai a casa sua e trovai il Viaggiatore. In salotto c'erano molte persone e io me ne stavo in piedi in un angolo. Il Viaggiatore mi guardò e cambiò la mia vita. Era come se avessi finalmente incontrato qualcuno che comprendeva davvero i miei problemi.» «Venimmo a sapere la storia dei Viaggiatori solo molto tempo dopo» disse Joan. «Martin contattò altre persone via Internet e trovò dei siti pirata. La cosa essenziale da sapere è che ogni Viaggiatore è diverso. Provengono da religioni e da culture distinte. La maggior parte di loro visita soltanto un regno o due. Quando tornano in questo mondo, hanno un'interpretazione personale della loro esperienza.» «Il Viaggiatore che abbiamo conosciuto aveva esplorato il Secondo Regno, quello degli Spiriti Affamati» spiegò Martin. «Ciò che aveva visto gli aveva fatto comprendere perché le persone tentano disperatamente di soddisfare la fame della loro anima. Continuano a cercare oggetti ed esperienze che possono soddisfarli solo per un breve tempo.» «L'Immensa Macchina ci mantiene insoddisfatti e impauriti» disse Antonio. «È un sistema per renderci obbedienti. Compresi che tutti i miei acquisti non mi rendevano più felice. I miei bambini urlavano di continuo. Io e mia moglie pensavamo di divorziare. Mi capitava di svegliarmi alle tre di notte e di rimanere immobile nel letto, riflettendo sui conti delle mie carte di credito.» «Il Viaggiatore ci fece capire che non eravamo completamente prigionieri» intervenne Rebecca. «Ci guardò tutti, uno per uno, un gruppo di persone normali, e ci aiutò a trovare il modo di migliorare la nostra esistenza. Ci fece capire quel che potevamo fare per noi stessi.
«I nostri amici ne parlarono con i loro amici e, dopo circa una settimana, ogni sera a casa nostra c'era una dozzina di famiglie. Ventitré giorni dopo il suo arrivo, il Viaggiatore ci disse addio e se ne andò.» «Dopo la sua partenza, quattro famiglie smisero di frequentare le nostre riunioni» proseguì Antonio. «Senza la forza e il carisma di quell'uomo non riuscirono a liberarsi delle vecchie abitudini. Poi qualcun altro navigò in Internet e scoprì quanto fosse pericoloso opporsi all'Immensa Macchina. Passò un altro mese e il nostro gruppo calò a cinque famiglie. Si era formato un nucleo di persone determinate a cambiare la loro vita.» «Non volevamo vivere in un mondo sterile, ma non volevamo nemmeno rinunciare a trecento anni di tecnologia» spiegò Martin. «Discutemmo una sorta di "terza via", un incrocio di alta tecnologia e tecniche primitive. Perciò mettemmo in comune i nostri risparmi, comprammo questo appezzamento di terra e venimmo a stabilirà qui. Il primo anno fu incredibilmente difficile. Fu durissimo costruire le turbine eoliche, in modo da avere la nostra fonte energetica indipendente. Ma Antonio fu veramente fantastico. Risolse tutti i problemi, riuscendo a far funzionare i generatori.» «A quel punto ci eravamo ridotti a quattro famiglie» continuò Rebecca. «Martin ci convinse a costruire prima di tutto il centro comunitario. Potevamo connetterà a Internet usando i telefoni cellulari. Attualmente forniamo assistenza tecnica ai clienti di tre diverse società. È la principale fonte di reddito della comunità.» «Tutti gli adulti di New Harmony devono lavorare sei ore al giorno, cinque giorni a settimana» spiegò Martin. «Si può lavorare al centro comunitario oppure alla scuola o nelle serre. Coltiviamo circa un terzo del nostro cibo - verdura, frutta e uova - e compriamo il resto. Nella nostra comunità non esiste il crimine. Non abbiamo debiti per il mutuo o la carta di credito. E abbiamo il più grande dei lussi: tempo libero.» «E che cosa fate con questo tempo?» domandò Maya. Joan posò il bicchiere sul tavolo. «Io faccio delle lunghe escursioni a piedi con mia figlia. Alice conosce tutti i sentieri qui intorno, in un raggio di molti chilometri. Alcuni dei nostri ragazzi mi stanno insegnando ad andare in deltaplano.» «Io costruisco mobili» disse Antonio. «Sono come opere d'arte, solo che ti ci puoi sedere sopra. Questo tavolo l'ho fatto io.» «Io sto imparando a suonare il violoncello» disse Rebecca. «Il mio insegnante sta a Barcellona. Facciamo lezione via Internet.» «Io trascorro gran parte del mio tempo libero a comunicare via Internet
con altre persone» disse Martin. «Molte di queste sono venute a vivere a New Harmony. Ora siamo ventuno famiglie.» «New Harmony aiuta a diffondere informazioni sull'Immensa Macchina» disse Rebecca. «Alcuni anni fa, la Casa Bianca propose la diffusione di una cosa chiamata Link Protettivo. Il Congresso votò contro, ma abbiamo saputo che viene usato sugli impiegati delle multinazionali. Tra qualche anno il governo riproporrà l'idea e la renderà esecutiva.» «Ma non avete rifiutato la vita moderna» commentò Maya. «Avete computer ed elettricità.» «E la medicina moderna» aggiunse Joan. «Io mi consulto con i colleghi via Internet e abbiamo assicurazioni sanitarie collettive, in caso di malattie gravi. Non so se sia l'esercizio fisico, la dieta o la mancanza di stress, ma i membri della nostra comunità si ammalano molto di rado.» «Non volevamo fuggire dal mondo e fingerci dei contadini medievali» spiegò Martin. «Il nostro obiettivo era quello di riprendere il pieno controllo della nostra vita e dimostrare che questa nostra "terza via" poteva funzionare. Ci sono altre comunità collettive come New Harmony, con la stessa miscela di alta e bassa tecnologia, e siamo tutti collegati tramite Internet. In Canada ne è stata fondata una circa due mesi fa.» Gabriel non diceva nulla da un pezzo, limitandosi a fissare Martin. «Mi dica una cosa» intervenne a un tratto. «Come si chiamava il Viaggiatore che avete conosciuto?» «Matthew.» «E di cognome?» «Non lo ha mai detto» disse Martin. «Non penso che avesse la patente di guida.» «Avete una sua fotografia?» «Credo di averne una in un cassettone.» Rebecca si alzò da tavola. «Dovrei andare a...» «Non occorre» disse Antonio. «Ne ho una anch'io.» Antonio infilò due dita nella tasca posteriore dei pantaloni e tirò fuori un'agendina di pelle, zeppa di elenchi scritti a mano, vecchi scontrini e progetti di mobili. Poggiata l'agendina sul tavolo, sfogliò le pagine finché non trovò una piccola fotografia. «L'ha scattata mia moglie quattro giorni prima che il Viaggiatore ci lasciasse. Quella sera era venuto a cena da noi.» Reggendo l'istantanea come se si trattasse di una preziosa reliquia, Antonio passò la fotografia a Gabriel, il quale la fissò a lungo.
«Quando è stata scattata?» «Circa otto anni fa.» Gabriel alzò lo sguardo dalla foto. Il suo volto mostrava dolore, speranza e gioia. «Questo è mio padre. Pensavamo che fosse morto in un incendio, e invece eccolo qui... seduto accanto a voi.» 40 Gabriel sedeva sotto il cielo stellato guardando la foto consunta di suo padre. Avrebbe voluto che Michael fosse con lui. I due fratelli erano rimasti a guardare insieme i resti inceneriti della loro fattoria rasa al suolo. Avevano viaggiato insieme per tutto il Paese, parlando sottovoce di notte quando la mamma dormiva. Papà era ancora vivo? Li stava cercando? I due fratelli Corrigan non avevano mai smesso di cercare loro padre, aspettandosi di vederlo seduto a una fermata d'autobus o in un caffè. A volte, quando arrivavano in una nuova città, i due fratelli si scambiavano sguardi d'intesa, tesi ed eccitati. Forse papà abitava lì. Era vicino, molto vicino, forse a un paio di isolati di distanza. Solo quando erano arrivati a Los Angeles Michael aveva annunciato che le loro congetture erano finite. Papà era morto o se n'era andato per sempre. "Dimentichiamo il passato, costruiamoci una vita." Mentre le stelle brillavano nel cielo buio, Gabriel interrogò i quattro membri della comunità di New Harmony. Antonio Cardenas e gli altri si dimostrarono solidali, ma non furono in grado di fornirgli altre informazioni. Non sapevano come trovare il Viaggiatore. Non si era più messo in contatto con loro né aveva lasciato un recapito. «Non ha mai detto di avere una famiglia? Una moglie? Due figli?» Rebecca gli mise una mano sulla spalla. «No. Non ha mai accennato niente.» «Che cosa vi disse prima di andarsene?» «Ci abbracciò uno per uno e poi si fermò sulla soglia di casa.» La voce di Martin era tesa, carica di emozione. «Disse che degli uomini molto potenti avrebbero tentato di terrorizzarci e di renderci carichi d'odio. Ci avrebbero sorvegliato per cercare di controllare la nostra vita e di distrarci...» «... con allettanti illusioni» proseguì Joan. «Sì. Con allettanti illusioni. Specchietti per le allodole. Ma che non avremmo mai dovuto dimenticare che la Luce era nel nostro cuore.»
La fotografia, e la reazione di Gabriel, cancellarono ogni diffidenza. Antonio si convinse che lui e Maya non erano affatto spie della Tabula. Non appena il vino finì, spiegò che la comunità stava proteggendo un Esploratore, e che questa persona abitava in una località isolata a una cinquantina di chilometri, verso nord. Se avevano ancora intenzione di andarci, li avrebbe accompagnati lui stesso l'indomani mattina. Maya rimase in silenzio lungo tutta la strada, fino alla Blue House. Quando giunsero davanti alla porta d'ingresso, precedette Gabriel ed entrò in casa per prima. Lo fece con aggressività, come se ogni nuovo posto potesse essere la sede di un'imboscata. Non accese le luci, sembrava aver memorizzato la posizione di ciascun pezzo dell'arredamento. Ispezionò rapidamente tutta la casa e poi si ritrovarono uno di fronte all'altra in. soggiorno. «Va tutto bene, Maya. Qui siamo al sicuro.» L'Arlecchino scosse la testa come se Gabriel avesse detto un'idiozia. La sicurezza per lei era un concetto falso. Un'altra illusione. «Non ho mai conosciuto tuo padre e non so dove sia» disse. «Ma volevo solo dirti che... forse lo ha fatto per proteggervi. La vostra casa era stata distrutta dall'incendio. La tua famiglia si era data alla clandestinità. Secondo la nostra talpa, gli uomini della Tabula vi pensarono morti. Sareste stati al sicuro se Michael non fosse rientrato nella Griglia.» «Forse è questo il motivo. Ma vorrei comunque...» «Vederlo.» Gabriel annuì. «Forse lo troverai, un giorno. Se hai il potere, potresti incontrarlo in un altro regno.» Gabriel salì sul soppalco. Tentò di dormire, ma era impossibile. Mentre un vento freddo fischiava giù dal canyon e faceva tremare i vetri della finestra, Gabriel si alzò a sedere sul letto e cercò di diventare un Viaggiatore. Nulla di tutto quello che lo circondava era reale. Il suo corpo non era reale. E poteva uscirne. Per oltre un'ora litigò con se stesso. "Se sono un Viaggiatore, e il potere è già in me, tutto ciò che devo fare è accettarlo. A più B uguale a C." Quando la logica non bastò più, chiuse gli occhi e si lasciò travolgere dalle proprie emozioni. Se solo fosse stato in grado di liberarsi da quella gabbia di carne avrebbe potuto trovare suo padre e parlargli. Con uno sforzo men-
tale, cercò di allontanarsi dal buio e di andare verso la luce, ma quando riaprì gli occhi si trovava ancora seduto sul letto. Stanco e arrabbiato, prese a pugni il materasso. Alla fine crollò addormentato, svegliandosi all'alba avvolto nella coperta di lana grezza. Quando l'ombra lasciò il soppalco, si alzò, si rivestì e scese la scaletta di legno, in bagno non c'era nessuno e anche la camera da letto era vuota. Percorse il corridoio fino alla cucina, fermandosi di fronte alla porta socchiusa. Maya era seduta con la custodia della spada sulle ginocchia e la mano sinistra posata sul tavolo. Fissava immobile una chiazza di luce solare sul pavimento. La spada e l'espressione intensa sul suo viso gli fecero pensare che l'Arlecchino doveva essersi completamente isolato dagli altri esseri umani. Gabriel non riusciva a immaginare una condizione più solitaria: sempre perseguitati, sempre pronti a combattere e a morire. La ragazza si voltò impercettibilmente all'arrivo di Gabriel. «Non ci hanno lasciato niente per colazione?» domandò lui. «Nell'armadietto ci sono tè e caffè solubile. Latte, burro e pane sono nel frigorifero.» «Mi basta.» Gabriel riempì un pentolino, mettendolo sul fuoco. «Perché non ti sei preparata qualcosa?» «Non ho fame.» «Sai niente di questo Esploratore?» domandò Gabriel. «È giovane? Di che nazionalità è? Ieri sera non ci hanno detto molto.» «L'Esploratore è il loro segreto. Tenerlo nascosto è il loro atto di resistenza contro l'Immensa Macchina. Su una cosa Antonio aveva ragione. Questa comunità potrebbe mettersi in guai molto seri se la Tabula venisse a sapere che siamo stati qui.» «E che cosa accadrà quando avremo trovato l'Esploratore? Hai intenzione di stare a guardarmi mentre cado in trance?» «Ho altre cose da fare. Non scordarti che la Tabula non ha smesso di cercarti. Devo far credere loro che sei da un'altra parte.» «E come pensi di farlo?» «Hai detto che tuo fratello ti ha dato dei soldi e una carta di credito quando vi siete separati alla ditta di abbigliamento.» «Ho usato altre volte la sua carta» disse Gabriel. «Non ne ho nessuna a mio nome.» «Posso prenderla?» «E la Tabula? Non ti rintracceranno attraverso il numero?» «È quello che mi aspetto» spiegò Maya. «Userò la carta di Michael e la
tua moto.» Gabriel non voleva perdere la sua Guzzi, ma sapeva che Maya aveva ragione. La Tabula conosceva il numero di targa della motocicletta e aveva un'altra dozzina di modi per rintracciarla. Doveva abbandonare tutto ciò che lo legava alla sua vecchia vita. «D'accordo.» Consegnò a Maya la carta di credito e la chiave della moto. Maya sembrò volergli dire una cosa importante, ma poi si alzò senza una parola, dirigendosi verso la porta. «Fai colazione» disse. «Antonio sarà qui da un momento all'altro.» «Potrebbe essere uno spreco di tempo. Forse non sono un Viaggiatore.» «Lo so.» «Quindi non rischiare inutilmente la vita e non fare nessuna follia.» Maya lo guardò negli occhi, sorridendo. Gabriel ebbe la sensazione che in quel momento fossero finalmente uniti, forse non come due amici, ma come soldati dello stesso esercito. E poi, per la prima volta da quando la conosceva, sentì ridere la ragazza arlecchino. «È tutto una follia, Gabriel. Ma cerca di rimanere lucido.» Antonio Cardenas arrivò dieci minuti dopo per portarli dove viveva l'Esploratore. Gabriel prese con sé la spada di giada e lo zaino con gli indumenti di ricambio. Sul cassone scoperto del pick-up di Antonio c'erano tre sacche di tela piene di cibo in scatola, pagnotte, frutta e verdura fresca delle serre. «Quando l'Esploratore venne qui, rimasi un mese laggiù a costruire una turbina eolica per far funzionare la pompa dell'acqua e le luci» disse Antonio. «Adesso ci vado ogni dodici giorni per portare le scorte alimentari.» «Allora, com'è?» domandò Gabriel. «Non ce lo avete ancora descritto.» Antonio salutò con la mano alcuni bambini quando il pick-up imboccò lentamente la strada che scendeva lungo l'altopiano. «L'Esploratore è una persona dal carattere molto forte. Dite la verità e non avrete nulla da temere.» Raggiunsero la statale che tornava verso San Lucas, ma percorsi pochi chilometri la lasciarono nuovamente, prendendo una strada asfaltata abbandonata che tagliava diritta attraverso il deserto. C'erano ovunque cartelli di divieto di transito, alcuni appesi a pali di ferro, altri appoggiati sul terreno arido. «Una volta questa era una base missilistica» spiegò Antonio. «Rimase
attiva per circa trent'anni. Recintata. Top secret. Poi il ministero della Difesa portò via i missili e vendette il terreno al distretto di Igiene della contea. Quando la contea non lo volle più, la nostra comunità comprò i quattrocento acri della proprietà.» «È tutto incolto e deserto» disse Maya. «Come vedrete... ha certi vantaggi per l'Esploratore.» Cespi d'acanto e cactus sporgevano dai margini della strada grattando le fiancate del pick-up. La strada venne coperta dalla sabbia per un centinaio di metri, oltre i quali ricomparve. A mano a mano che la strada saliva cominciarono a oltrepassare ammassi di rocce rosse e cactus. Ogni alberello del deserto allungava i rami irti di spine verso l'alto come le braccia di un profeta rivolto al cielo. C'era un caldo rovente e il sole sembrava diventare sempre più grande. Dopo venti minuti di guida prudente arrivarono davanti a una recinzione in rete metallica sormontata da filo spinato. Il cancello d'ingresso era parzialmente divelto. «Proseguiamo a piedi» annunciò Antonio facendo scendere tutti dalla camionetta. Con le sacche di cibo in mano, si intrufolarono in un varco nella rete del cancello rotto e proseguirono lungo la strada. Gabriel avvistò in lontananza uno dei mulini a vento di Antonio. Il calore che si sollevava dal terreno faceva ondeggiare e piegare l'immagine della torre. Prima che avesse il tempo di reagire, un serpente attraversò il sentiero. Era lungo almeno un metro e aveva la testa rotonda e il corpo nero, con degli anelli color panna. Maya si bloccò e portò automaticamente la mano alla spada. «Non è velenoso» disse Gabriel. «Sembra un serpente giarrettiera, ma di solito sono animali molto timidi.» «È un serpente reale» disse Antonio. «Da queste parti non hanno paura dell'uomo.» Continuarono a camminare, vedendo un altro serpente che strisciava sulla terra riarsa, poi un altro che prendeva il sole immobile sulla strada. Tutti avevano il corpo nero, ma il disegno e il colore degli anelli sembravano variare. Bianco. Panna. Giallo pastello. Altri serpenti reali comparvero sulla strada e Gabriel smise di contarli. Decine di rettili se ne stavano attorcigliati a spirale, strisciavano e si guardavano intorno con i loro occhietti neri. Maya sembrava nervosa, quasi impaurita. «Non ti piacciono i serpenti?» La ragazza abbassò le braccia e cercò di rilassarsi. «Non ce ne sono mol-
ti in Inghilterra.» A mano a mano che si avvicinavano alla turbina eolica, Gabriel vide che era stato costruito lì vicino un vasto spiazzo di cemento rettangolare più o meno delle dimensioni di un campo di calcio. Sembrava un enorme bunker abbandonato dall'esercito. A sud dello spiazzo c'era una piccola roulotte d'alluminio che rifletteva la luce del deserto. Un paracadute era stato teso su dei pali per riparare dal sole un tavolo da picnic di legno e alcune cassette di plastica piene di attrezzi e di scorte. L'Esploratore era accovacciato alla base della turbina eolica, stava saldando un contropalo di rinforzo. Indossava blue jeans, camicia a scacchi a maniche lunghe e guanti da lavoro di cuoio. Un casco a visiera da saldatore gli copriva la faccia e sembrava concentrato sul cannello della fiamma ossidrica con la quale stava lavorando. Un serpente reale di un metro e venti di lunghezza strisciò accanto a loro, quasi sfiorando le punte degli stivali di Gabriel. Questi notò che la sabbia ai due lati della strada era contrassegnata da migliaia di vaghe curve a S, segno dei movimenti dei rettili sulla terra arida. A una decina di metri dalla turbina Antonio gridò e agitò le braccia. L'Esploratore lo udì, alzandosi e sollevando la visiera da saldatore. Sulle prime Gabriel pensò che fosse un uomo con i capelli bianchi. Quando fu più vicino si rese conto invece che stavano per conoscere una donna anziana. Aveva una fronte spaziosa e il naso lungo e diritto. Era una faccia che trasmetteva una grande energia senza un grammo di sentimentalismo. «Buongiorno, Antonio. Stavolta hai portato con te qualche amico.» «Dottoressa Briggs, questo è Gabriel Corrigan. È figlio di un Viaggiatore e vuole sapere se...» «Sì. Certamente. Benvenuti.» La dottoressa aveva un marcato accento del New England. Si sfilò un guanto da saldatore e strinse la mano a Gabriel. «Piacere, Sophia Briggs.» Aveva le mani forti e i suoi occhi azzurri erano penetranti, intensi. Gabriel ebbe la sensazione di venire valutato, ma poi la dottoressa distolse lo sguardo. «E lei è...» «Maya. L'amica di Gabriel.» La dottoressa Briggs fissò il tubo di metallo nero appeso alla spalla di Maya e capì immediatamente che cosa conteneva. «Interessante. Pensavo che voi Arlecchini foste tutti morti, sterminati in uno dei vostri tipici gesti autodistruttivi. Forse sei ancora troppo giovane per queste cose.» «E forse lei è troppo vecchia.» «Non manca di spirito. Una punta di resistenza da Arlecchino. Mi pia-
ce.» Sophia tornò verso la sua roulotte e gettò l'attrezzatura da saldatore in una cassetta di plastica per terra. Spaventati dal rumore, due grossi serpenti reali uscirono dall'ombra sotto la roulotte e strisciarono verso la turbina eolica. «Benvenuti nella terra del Lampropeltis getula, comunemente chiamato serpente reale. Naturalmente non hanno proprio niente di comune. Sono coraggiosi e astuti, rettili assolutamente adorabili: l'ennesimo dono di Dio a un mondo decaduto. Quelli che vedete qui intorno sono della sottospecie splendida, il serpente reale delle zone desertiche dell'Arizona. Si nutrono di serpenti testa di rame, e di serpenti a sonagli, come pure di rane, uccelli e ratti. Adorano uccidere i ratti. Specie quelli grossi e infidi.» «La dottoressa Briggs studia i serpenti.» disse Antonio. «Sono una biologa specializzata in rettili. Ho insegnato per ventotto anni all'Università del New Hampshire finché non mi hanno costretta ad andare in pensione. Avreste dovuto vedere il rettore Mitchell, un ometto insulso incapace di salire una rampa di scale senza ansimare, dirmi che ero troppo debole per continuare l'insegnamento. Che tremenda sciocchezza! Poche settimane dopo la cena di addio, cominciai a ricevere e-mail dai miei amici in Internet che mi avvertivano che la Tabula sapeva che ero un'Esploratrice.» Antonio posò le sacche con i rifornimenti alimentari sul tavolo da picnic. «Ma voleva comunque restare dov'era.» «E perché non avrei dovuto? Non sono una codarda. Possiedo tre pistole e so come usarle. Poi Antonio e Martin scoprirono questo posto e mi invitarono qui. Voi due sì che siete allievi brillanti...» «Sapevamo che non avresti resistito» disse Antonio. «E avevate ragione. Cinquant'anni fa il governo sperperò milioni di dollari per costruire questa ridicola base.» Sophia li condusse oltre la roulotte e indicò la zona retrostante. Gabriel vide tre enormi dischi di cemento montati su telai circolari di ferro arrugginito. «Quelli laggiù sono i coperchi dei silos. Si potevano aprire a botola e i missili venivano fatti partire da sottoterra. Quello invece era il deposito.» Si voltò e puntò la mano verso una collina artificiale a ottocento metri di distanza. «Dopo lo smantellamento della base, la contea trasformò quella zona in una discarica. Sotto venti centimetri di terra e teli di plastica ci sono vent'anni di immondizie in putrefazione che danno nutrimento a un'enorme popolazione di ratti. I topi mangiano i rifiuti e si moltiplicano. I serpenti reali mangiano i ratti, e vivono e si riproducono nei silos interrati.
Io studio la sottospecie splendida e finora è stato un vero successo.» Sophia Briggs lanciò un'occhiata a Gabriel. «Una deve mantenersi attiva mentre aspetta noiosamente che da qualche parte spunti un Viaggiatore.» «Cosa facciamo ora?» domandò Gabriel. «Pranzeremo, naturalmente. Meglio mangiare questo pane prima che diventi raffermo.» Sophia assegnò i compiti, e insieme prepararono il pranzo con il cibo deperibile. Maya fu incaricata di affettare una grossa pagnotta e parve irritarsi per il coltello poco affilato. Il pasto fu semplice, ma delizioso. Insalata di pomodori freschi a fettine con olio di oliva e aceto. Formaggio di capra tagliato a pezzetti. Pane di segale. Fragole. Come dessert, Sophia tirò fuori una tavoletta di cioccolato belga e distribuì due quadretti precisi a testa. I serpenti erano ovunque. Se si avvicinavano troppo, Sophia li prendeva saldamente in mano e li portava in un appezzamento di terra umida vicino al capanno. Maya era seduta a tavola con le gambe incrociate, come se uno dei rettili potesse strisciarle su per la gamba. Durante il pasto, Sophia Briggs raccontò qualcosa di sé. Nessun figlio. Mai sposata. Alcuni anni prima aveva dato il proprio consenso a farsi operare alle anche, ma, a parte questo, cercava di stare alla larga dai medici. Passati i quaranta, Sophia aveva cominciato a recarsi ogni anno agli Snake Dens di Narcisse, nel Manitoba, in Canada, per studiare la popolazione di cinquantamila serpenti giarrettiera ad anelli rossi che uscivano dalle tane per il ciclo riproduttivo. Era diventata molto amica di un prete cattolico che abitava in zona il quale, parecchi anni dopo, le aveva rivelato di essere un Esploratore. «Padre Adrian Morrissey era un uomo straordinario» disse. «Come la maggior parte dei preti, presiedeva a migliaia di battesimi, matrimoni e funerali, ma aveva tratto insegnamento da quelle situazioni. Era una persona estremamente intuitiva. Di grande saggezza. A volte avevo la sensazione che mi leggesse nel pensiero.» «Dunque perché scelse te?» domandò Gabriel. Sophia prese un pezzo di pane. «Il mio modo di rapportarmi con il prossimo non è il migliore del mondo. In effetti, la gente non mi piace per niente. In generale trovo tutti vani e stupidi. Ma so osservare. So concentrarmi a fondo su una cosa e fare a meno dei particolari insignificanti. Forse Adrian avrebbe potuto scegliere qualcuno migliore di me, ma gli trovarono un linfoma e morì diciassette settimane dopo la diagnosi. Io mi presi
un semestre di congedo dall'università, andai ad assisterlo in ospedale e Adrian condivise con me il suo sapere.» Quando ebbero terminato il pranzo, Sophia si alzò e squadrò Maya. «Penso che per te sia ora di andare, signorina. Nella roulotte ho un telefono satellitare che funziona quasi sempre. Avvertirò Martin quando avremo finito.» Antonio prese le sacche vuote e si incamminò verso il pick-up. Maya e Gabriel restarono in piedi un momento, l'uno accanto all'altra, ma nessuno dei due parlava. Gabriel si chiese che cosa avrebbe potuto dire. Stai attenta. Fai buon viaggio. A presto. Nessuna delle solite formule si adattava a un Arlecchino. «Arrivederci» disse Maya. «Arrivederci.» La ragazza arlecchino si allontanò di qualche passo, poi si voltò di nuovo. «Tieni sempre con te la spada di giada» gli disse. «Ricordatelo. È un talismano.» E poi se ne andò. La sua figura si fece sempre più piccola, fino a scomparire in fondo alla strada. «Le piaci.» Gabriel si voltò e si rese conto che Sophia era rimasta a osservarli. «Ci rispettiamo...» «Se una donna mi dicesse una cosa del genere la considererei straordinariamente povera di spirito. Ma in fondo sei solo un tipico uomo.» Sophia tornò al tavolo e cominciò a sparecchiare. «Tu le piaci, Gabriel. Ma è una cosa assolutamente proibita per un Arlecchino. Hanno un grande potere. In cambio di questo dono sono probabilmente le persone più sole del mondo. Maya non può permettere che emozioni di qualsiasi tipo offuschino la sua capacità di giudizio.» Mentre riponevano in dispensa il cibo e lavavano i piatti in una vaschetta di plastica, Sophia chiese a Gabriel della sua famiglia. La formazione scientifica della donna esploratore era evidente dalla concatenazione logica delle sue domande. «Come fai a saperlo?» continuava a chiedere. «Che cosa ti porta a credere che sia vero?» Il sole calò lentamente all'orizzonte. Mentre il terreno roccioso iniziava a raffreddarsi, il vento alimentò sempre più. Le folate facevano gonfiare e sbattere il paracadute sopra di loro come una vela. Sophia parve divertita quando Gabriel le raccontò i suoi tentativi fallimentari di diventare un Viaggiatore. «Certi Viaggiatori sono capaci di imparare da soli a varcare i
confini extracorporei» commentò. «Ma non nel nostro mondo frenetico.» «Perché no?» «I nostri sensi sono sopraffatti da tutti i rumori e le luci abbaglianti che ci circondano. In passato, un Viaggiatore potenziale poteva entrare carponi in una caverna o trovare rifugio in una chiesa. Si deve rimanere in un ambiente silenzioso, come per esempio il nostro silo missilistico.» Sophia finì di chiudere le scatole di cibo e lo guardò negli occhi. «Voglio che tu mi prometta che resterai dentro il silo per almeno otto giorni.» «Mi sembra molto» replicò Gabriel. «Pensavo che avresti capito rapidamente se ho il potere di viaggiare fuori dal corpo.» «Sei tu a doverlo capire, ragazzo. Non io. Accetta le regole oppure tornatene a Los Angeles.» «D'accordo. Otto giorni. Nessun problema.» Gabriel andò al tavolo a prendere il suo zaino e la spada di giada. «Voglio farlo, dottoressa Briggs. È molto importante per me. Forse riuscirò a trovare mio padre e mio fratello Michael...» «Se fossi in te non ci penserei affatto. Non è molto utile.» Sophia scacciò un serpente reale da una cassa di viveri e prese una lampada a gas propano. «Sai perché mi piacciono i serpenti? L'Onnipotente li ha creati perché siano puliti, belli... e disadorni. Studiandoli, ho capito che dovevo liberare la mia vita dalla confusione e dalla stupidità.» Gabriel guardò la base missilistica e il paesaggio desertico attorno a sé. Si sentiva come se stesse per abbandonare tutto e partire per un lungo viaggio. «Farò qualunque cosa sia necessaria.» «Bene. Scendiamo sottoterra.» 41 Dal generatore elettrico del rotore eolico partiva un grosso cavo elettrico che scendeva al silo. Sophia Briggs seguì il cavo attraverso la vasta piattaforma di cemento fino a una rampa che dava accesso a un piano interrato con il pavimento di lastre d'acciaio. «Quando c'erano ancora i missili, si entrava attraverso un grosso montacarichi. Ma il governo lo ha smantellato quando ha venduto la zona alla contea. I serpenti vi si intrufolano in decine di modi diversi. Noi invece dovremo usare la scala di emergenza.» Sophia appoggiò per terra la lampada a gas e la accese con un fiammifero. Quando la lanterna fece una fiamma bianca incandescente, sollevò con
due mani una botola, rivelando una scala d'acciaio a più rampe che scendeva nel buio più totale. Gabriel sapeva che i serpenti reali non erano pericolosi per l'uomo, ma vedere un grosso esemplare strisciare giù dai gradini non gli piacque lo stesso. «Dove sta andando?» «Un posto fra i tanti. Nel silo vivono fra i tre e i quattromila splendida. È la loro zona di riproduzione.» Sophia scese due gradini e si fermò. «I serpenti ti danno fastidio?» «No. Ma devi ammettere che è un po' insolito.» «Qualsiasi esperienza nuova è insolita. Il resto della vita non è che sonno e riunioni. Adesso vienimi dietro e chiudi la botola dietro di te.» Gabriel esitò qualche secondo, poi la seguì chiudendosi alle spalle la botola. Si trovava sui primi gradini di una scala di metallo che scendeva a spirale intorno al vano del montacarichi protetto da una rete metallica ondulata. Due serpenti reali lo precedevano sui gradini d'acciaio e molti altri erano oltre la rete. Strisciavano dentro e fuori dalle vecchie tubature come in un'autostrada per rettili. Si muovevano uno sull'altro e facevano saettare le piccole lingue biforcute saggiando l'aria. Gabriel seguì Sophia lungo le scale. «Hai mai guidato una persona che pensava di essere un Viaggiatore?» «Ho avuto due soli allievi in trent'anni. Una ragazza e un uomo. Nessuno dei due riuscì ad abbandonare il suo corpo, ma forse fu colpa mia.» La donna sorrise. «Non si può insegnare a essere un Viaggiatore, Gabriel. Più che una scienza, è un'arte. L'unica cosa che un Esploratore può fare è scegliere la tecnica giusta in modo che il Viaggiatore possa scoprire da sé il proprio potere.» «E come pensi di farlo?» «Padre Morrissey mi fece memorizzare I novantanove sentieri. È un libro di novantanove tecniche ed esercizi elaborati nei secoli da visionari di diverse religioni. Se non si è preparati alla conoscenza del libro, si può pensare che si tratti di una serie di trucchi senza valore: un mucchio di sciocchezze ideate da santi cristiani, ebrei cabalisti, monaci buddhisti e così via. Ma i novantanove sentieri non è affatto un libro mistico. È un elenco pratico di idee con lo stesso fine: liberare la luce interiore dal corpo.» Seguirono le scale fino in fondo al pozzo e si fermarono davanti a una massiccia porta di sicurezza ancora appesa a un cardine. Sophia collegò tra loro due cavi elettrici e, vicino a un generatore di corrente ausiliario ab-
bandonato, si accese una lampadina. Aprirono la porta e percorsero un breve corridoio, sbucando in un tunnel largo abbastanza per un grosso fuoristrada. Una serie di arcate di ferro arrugginito sosteneva la galleria come la cassa toracica di un animale enorme. Il pavimento era formato di larghe piastre d'acciaio. Vecchi condotti di ventilazione e tubature dell'acqua seguivano paralleli il soffitto. Le lampade al neon erano state scollegate e l'unica luce proveniva da sei lampadine allacciate al grosso cavo elettrico. «Questa è la galleria principale» spiegò Sophia. «Da un'estremità all'altra è lunga un chilometro e mezzo. La base sotterranea è come una gigantesca lucertola sepolta. In questo momento ci troviamo al centro del corpo del lucertolone. Se si cammina in direzione nord, verso la testa, si arriva al silo missilistico numero Uno. Le zampe anteriori della lucertola conducono ai silos Due e Tre, mentre quelle posteriori portano al centro di comando e agli alloggi del personale. Se si cammina in direzione sud verso la coda si trova l'antenna radio sotterranea.» «Dove sono tutti i serpenti?» «Sotto il pavimento di piastre o nei controsoffitti sopra di noi.» Sophia lo condusse in fondo alla galleria. «È pericolosissimo esplorare questo posto se non si sa dove andare. Tutti i pavimenti sono poggiati su grandi molle d'acciaio capaci di sopportare l'onda d'urto di un'esplosione. Esistono molti livelli sotterranei e in alcuni punti si rischia di precipitare per molti metri.» Svoltarono in un corridoio laterale ed entrarono in una grande sala rotonda. I muri perimetrali erano di calcestruzzo, dipinti di bianco, e quattro mezze pareti delimitavano i dormitori. In uno di questi si trovavano una branda pieghevole con sopra un sacco a pelo, un cuscino e un materasso di gommapiuma. A pochi passi dalla branda c'erano una lampada a gas propano, un secchiello coperto e tre bottiglie di acqua minerale. «Un tempo qui dormiva il personale di servizio. Io stessa ho vissuto qui sotto per alcune settimane quando stavo facendo il mio primo censimento della popolazione di Lampropeltis splendida.» «E io dovrei vivere qui?» «Sì. Per otto giorni.» Gabriel si guardò intorno, esaminando il locale spoglio. Gli ricordava una prigione. "Niente lamentele" pensò. "Fa' solo quello che ti dice." Posò lo zaino sul pavimento e si sedette sulla branda. «Bene. Cominciamo.»
Sophia gironzolava per la sala, raccogliendo pezzi di cemento e ammucchiandoli in un angolo. «Partiamo dai concetti fondamentali. Tutte le creature viventi hanno in sé un tipo speciale di energia che si chiama Luce. Puoi definirla "anima" se ti va. Chiamala come ti pare. La teologia non mi interessa granché. Quando si muore, la Luce torna all'energia che ci circonda. Ma i Viaggiatori sono diversi. La Luce può abbandonare il loro corpo e farvi ritorno.» «Maya mi ha detto che la Luce viaggia in altri regni.» «Sì. La gente li definisce "regni" o "mondi paralleli". Di nuovo, puoi usare il termine che ti sembra più adatto. Le scritture di ogni religione hanno descritto questi regni. Sono la fonte di ogni visione mistica. Molti santi, e profeti hanno scritto dei regni, ma i monaci buddhisti che vivono in Tibet furono i primi a tentare di comprenderli. Prima dell'invasione cinese, il Tibet era una teocrazia millenaria. I contadini mantenevano i monaci e le monache, che potevano così esaminare i vari resoconti dei Viaggiatori e organizzare sistematicamente le informazioni raccolte. I sei regni non sono un concetto buddhista o tibetano. I tibetani sono semplicemente il primo popolo ad aver raccolto tutte le informazioni sui regni.» «Come faccio ad andarci?» «La Luce deve uscire dal tuo corpo. Perché il processo si verifichi, devi essere in leggero movimento. La prima volta è sorprendente, e anche doloroso. Poi per raggiungere ognuno dei sei regni diversi la tua Luce deve superare quattro barriere. Le barriere sono composte di Acqua, Fuoco, Terra e Aria. Non esiste un ordine preciso per attraversarle, e una volta che la tua Luce scopre un passaggio, lo ritroverai sempre.» «E a quel punto potrò avere accesso al Sesto Regno» disse Gabriel. «Come sono i regni?» «Noi viviamo nel Quarto Regno, Gabriel. Corrisponde alla realtà umana. Com'è il nostro mondo? Splendido. Orribile. Doloroso. Esaltante.» Sophia raccolse da terra un frammento di calcestruzzo e lo gettò all'altro capo della sala. «Qualsiasi realtà comprendente serpenti reali e gelato al cioccolato ha i suoi lati positivi.» «Ma gli altri luoghi...» «Ognuno di noi può trovare tracce degli altri regni nel proprio cuore. Ognuno di essi è governato da una qualità particolare. Nel Sesto Regno, quello degli dei, il peccato è l'orgoglio. Nel Quinto Regno, dei semidei, il peccato è la gelosia. Ma non stiamo parlando di Dio, la sorgente dell'universo. Secondo i tibetani, gli dei e i semidei sono esseri come gli umani,
che provengono da un'altra realtà.» «E noi viviamo nel Quarto Regno...» «Dove il peccato è il desiderio.» Sophia si girò e osservò un serpente reale strisciare fuori da una tubatura rotta. «Gli animali del Terzo Regno ignorano qualsiasi altra realtà se non la propria. Il Secondo Regno è abitato dagli Spiriti Affamati, sempre insoddisfatti. Il Primo Regno, ossia l'ultimo, è una città d'odio, rabbia e ferocia, governata da esseri senza pietà. Ci sono altri nomi per definire quel posto: Sheol, Ade, Inferno.» Gabriel scattò in piedi come un detenuto pronto per l'ispezione. «Sei tu l'Esploratore, quindi dimmi cosa devo fare.» Sophia Briggs sorrise divertita. «Sei stanco, Gabriel?» «È stata una lunga giornata.» «Allora dovresti dormire.» Sophia si accostò al muro, prendendo dalla tasca un pennarello a punta grossa. «Hai bisogno di infrangere la distinzione tra questo mondo e i tuoi sogni. Ti mostrerò l'ottantunesimo sentiero. Fu scoperto da un ebreo cabalista che viveva nella città di Safed, nella Galilea settentrionale.» Con il pennarello tracciò sul muro quattro lettere dell'alfabeto ebraico. «Questo è il Tetragramma: il nome di Dio composto di quattro lettere. Quando comincerai ad assopirti prova a tenere in mente le lettere. Non pensare a te stesso o a me o agli splendida. Durante il sonno dovresti chiederti per tre volte: "Sto sognando o sono sveglio?". Non aprire gli occhi, ma resta nel mondo dei sogni e osserva ciò che accade.» «Tutto qui?» Sophia sorrise e si avviò verso l'uscita. «È solo l'inizio.» Gabriel si distese sulla branda levandosi gli stivali da motociclista e fissò le quattro lettere dell'alfabeto ebraico. Non sapeva leggerle né pronunciarle, ma la loro forma cominciò a fluttuare nella sua mente. Una lettera suggeriva un rifugio dalla tempesta. Un bastone. Un altro rifugio. Infine, una breve linea ondulata che assomigliava a un serpente. Cadde in un sonno profondo, e poi fu sveglio, o in dormiveglia: non lo sapeva. Stava osservando a testa in giù il Tetragramma disegnato con sabbia rossa sopra un pavimento di ardesia grigia. Mentre lo fissava, un colpo di vento soffiò via il nome di Dio. Gabriel si svegliò madido di sudore. Era successo qualcosa alla lampadina del dormitorio e la sala era buia. Una flebile luce proveniva dal corridoio che portava alla galleria principale.
«Ehi!» gridò. «Sophia?» «Sto arrivando.» Gabriel udì dei passi che si avvicinavano. Anche nell'oscurità Sophia sembrava sapere dove mettere i piedi. «Succede in continuazione. L'umidità trapela dai muri di cemento e bagna i collegamenti elettrici.» Picchiettò con un dito la lampadina e il filamento si accese. «Ecco qua.» Si avvicinò alla branda, indicando la lampada a gas propano. «La tua lanterna è lì. Se le luci si spengono, o vuoi esplorare la base, portatela dietro.» Sophia studiò il suo viso. «Allora? Come hai dormito?» «Bene.» «Eri consapevole di essere in un sogno?» «Quasi. Ma poi mi sono dovuto svegliare.» «Ci vuole tempo. Vieni con me. E portati dietro la spada.» Gabriel seguì Sophia nella galleria principale. Non sapeva per quanto tempo avesse dormito. Era mattina o ancora sera? Notò che l'illuminazione fornita dalle lampadine continuava a variare di intensità. Venticinque metri sopra di loro il vento accarezzava le foglie dei cactus e faceva girare le pale del rotore. A volte le raffiche erano più forti e le lampadine irradiavano una luce più chiara. Quando il vento calava, l'unica energia proveniente dagli accumulatori rendeva i filamenti delle lampadine di un arancione intenso, come braci di un fuoco spento. «Voglio che ti eserciti sul diciassettesimo sentiero. Hai portato con te quella spada, perciò mi è sembrata un'ottima idea. Questo sentiero fu ideato in Giappone o in Cina... in qualche cultura orientale della spada. Ti insegna a focalizzare i pensieri attraverso la sospensione del pensiero.» Si fermarono in fondo alla galleria e Sophia indicò una pozza d'acqua sulle piastre di ferro del pavimento. «Eccoci qui...» «Che cosa dovrei fare?» «Guarda in alto, Gabriel. Sopra di te.» Gabriel alzò gli occhi al soffitto e vide una goccia d'acqua che si andava formando sul bordo di una delle arcate d'acciaio. Tre secondi dopo la goccia cadde sul pavimento davanti a lui. «Sguaina la spada e taglia a metà la prossima goccia d'acqua, prima che cada sul pavimento.» Per un secondo Gabriel pensò che Sophia lo stesse prendendo in giro con un obiettivo impossibile, ma la dottoressa non stava sorridendo. Gabriel sfilò dal fodero la spada con l'impugnatura di giada. La sua lama lucente scintillava nella penombra. Impugnando l'arma a due mani, assunse
una posizione di kendo e attese il momento. La goccia d'acqua sopra di lui si ingrossò piano, tremolò e quindi cadde. Gabriel vibrò il colpo di taglio con la spada e mancò completamente il bersaglio. «Non anticipare» consigliò Sophia. «Tieniti solo pronto.» L'Esploratrice lo lasciò solo sotto l'arcata d'acciaio. Una nuova goccia d'acqua si stava formando. Sarebbe caduta di lì a due secondi. Un secondo. Ora. La goccia cadde dall'alto e Gabriel vibrò un colpo pieno di speranza e desiderio. 42 Dopo lo scontro nel palazzo di Michael, Hollis tornò alla sua scuola di arti marziali in Florence Boulevard e tenne le sue ultime lezioni. Disse ai suoi due allievi migliori - Marco Martinez e Tommy Wu - che avrebbe ceduto loro la palestra. Marco avrebbe insegnato agli allievi esperti e Tommy si sarebbe occupato dei dilettanti. Si sarebbero suddivisi i costi alla pari per il primo anno, dopo di che avrebbero deciso se intendevano proseguire insieme. «Potrebbe venire a cercarmi qualcuno. Agenti di polizia, o forse uomini con il distintivo falso. Dite loro che ho deciso di tornare in Brasile e ricominciare con i combattimenti.» «Hai bisogno di soldi?» gli chiese Marco. «A casa ho da parte trecento dollari in contanti.» «No. Non ce n'è bisogno. Sto aspettando un pagamento da certe persone in Europa.» Tommy e Marco si scambiarono un'occhiata. Probabilmente pensavano che fosse uno spacciatore. Sulla strada di casa Hollis fece tappa al supermarket e gironzolò tra le corsie, riempiendo il cestello di generi alimentari. Cominciava a comprendere che tutto ciò che un tempo aveva ritenuto una decisione importante abbandonare la Chiesa, stabilirsi in Brasile - non era stato nient'altro che una preparazione al momento in cui Victory Fraser e Maya erano entrate nella sua palestra. Avrebbe potuto rifiutarsi di collaborare, ma non si sarebbe sentito a posto con se stesso. Si era preparato per tutta la vita a questa battaglia. Guidando verso casa, Hollis fece attenzione a tutte le persone che gli sembravano estranee al quartiere. Aprendo il cancello di casa e parcheggiando l'auto in garage si sentì vulnerabile. Qualcosa si mosse nella pe-
nombra mentre apriva la porta sul retro ed entrava in cucina. Spaventato, fece una balzo indietro, poi scoppiò a ridere quando vide spuntare Garvey, il suo gatto. Ormai la Tabula aveva scoperto che un uomo di colore aveva messo fuori combattimento tre dei suoi mercenari. Hollis sapeva che grazie ai loro computer non avrebbero impiegato molto tempo a trovare il suo nome. Shepherd aveva chiesto a Vicki di accogliere Maya all'aeroporto. Probabilmente l'Immensa Macchina aveva i nominativi di tutti gli appartenenti alla comunità locale dei Jonesie. Hollis aveva interrotto ogni rapporto con la Chiesa diversi anni prima, ma i membri della congregazione sapevano che era un istruttore di arti marziali. La Tabula lo voleva morto, ma Hollis per il momento non aveva nessuna intenzione di fuggire. Innanzitutto c'erano dei motivi pratici - doveva ancora ricevere i suoi cinquemila dollari di pagamento dagli Arlecchini - e inoltre restare a Los Angeles era in linea con il suo stile di combattimento. Hollis giocava sempre di contrattacco. Ogni volta che combatteva lasciava che fosse il suo avversario ad attaccare per primo. Prendere un pugno lo faceva sentire più forte e giustificava la sua risposta. Anche in questo frangente voleva che i suoi avversari facessero la prima mossa. Caricò il fucile d'assalto e si sedette nella penombra del suo soggiorno. Tenne spente sia la radio sia la Tv e per cena mangiò una scodella di cereali con il latte. Di tanto in tanto Garvey entrava in soggiorno e si aggirava qui e là con la coda sollevata in aria, fissandolo con espressione scettica. Quando fu buio, Hollis si arrampicò sul tetto con un materassino da campeggio e un sacco a pelo. Nascondendosi dietro l'impianto di aria condizionata, si stese supino a guardare il cielo. Maya diceva che la Tabula utilizzava speciali rilevatori di presenza a immagine termica per guardare attraverso i muri. Di giorno era in grado di difendersi, ma non voleva che gli uomini della Tabula sapessero esattamente dove dormiva. Aveva lasciato acceso il condizionatore d'aria, sperando che il calore del motore elettrico oscurasse quello del suo corpo. Il giorno dopo il postino gli recapitò un pacchetto proveniente dalla Germania: due libri illustrati sui tappeti orientali. Tra le pagine non c'era niente, ma quando lacerò le copertine con un taglierino trovò cinquemila dollari in biglietti da cento. Chi aveva pagato la somma pattuita aveva incluso il biglietto da visita di uno studio di registrazione tedesco. Sul retro del biglietto aveva annotato l'indirizzo di un sito web e un breve messaggio: "Solo? Nuovi amici ti aspettano". Hollis sorrise tra sé mentre contava
il denaro. Nuovi amici ti aspettano. Arlecchini. Gente che faceva sul serio. Be', se la Tabula lo avesse trovato, gli sarebbe servito aiuto. Scavalcò il muro di confine nel giardino sul retro e andò a parlare con Deshawn Fox, il suo vicino di casa, un ex capobanda di una gang giovanile che smerciava cerchioni in lega, e gli diede milleottocento dollari per l'acquisto di un pick-up di seconda mano modificato in camper. Tre giorni dopo il camper era posteggiato nel vialetto di casa di Deshawn, carico di indumenti di ricambio, cibo in scatola e munizioni. Mentre Hollis cercava degli attrezzi da campeggio, Garvey si intrufolò in un angolo del solaio. Hollis cercò di far uscire il gatto prima con un topolino di gomma e poi con un piatto di tonno in scatola, ma Garvey rimase nascosto fra le travi. Nel pomeriggio un furgone della società elettrica apparve in fondo alla via e tre operai con caschi di protezione finsero di riparare i cavi elettrici in fondo all'isolato. Fece la sua comparsa anche un nuovo postino: un bianco sulla quarantina con i capelli a spazzola che suonò il campanello per diversi minuti, prima di andarsene. Dopo il tramonto, Hollis si arrampicò sul tetto con il fucile d'assalto e un paio di bottiglie d'acqua. L'illuminazione stradale e lo smog rendevano difficile la vista delle stelle, ma Hollis restò comunque supino a osservare le manovre di avvicinamento degli aerei che atterravano all'aeroporto di Los Angeles. Cercò di non pensare a Vicki Fraser, ma il viso della ragazza continuava a tornargli in mente. Quasi tutte le ragazze jonesie restavano vergini fino al matrimonio. Hollis si domandò se anche Vicki lo fosse o se avesse avuto dei ragazzi. Si svegliò intorno alle due di notte quando il cancello del suo vialetto privato sbatté leggermente. Alcune persone scavalcarono il cancello chiuso con la catena, atterrando sul cemento. Qualche secondo dopo sfondarono la porta sul retro ed entrarono. «Non è qui!» gridarono alcune voci. «Non è qui!» Rumore di piatti in frantumi e di pentole a terra. Passarono dieci o quindici minuti. Hollis sentì richiudere la porta sul retro con un cigolio, poi due auto accesero il motore e partirono. Di nuovo il silenzio. Si mise a tracolla il fucile da assalto e scese dal tetto. Quando toccò terra, fece scattare la sicura dell'arma. Nascosto in un cespuglio, sentì in lontananza il rumore di un'auto di passaggio. Stava giusto per scavalcare il muro del giardino di Deshawn quando si ricordò del gatto. Forse gli uomini della Tabula avevano spaventato Garvey, facendolo uscire dal solaio. Apri la porta sul retro e si intrufolò in cucina. Dalle finestre proveniva
solo una tenue luce, ma era chiaro che gli uomini della Tabula avevano perquisito l'intera casa. La porta del ripostiglio era spalancata e tutto il contenuto degli armadietti della cucina era stato buttato sul pavimento. Calpestò i frammenti di un piatto rotto e il rumore della porcellana lo fece trasalire. "Calmati" disse tra sé. "Se ne sono andati." La cucina era sulla parte posteriore della casa. Un breve corridoio la collegava al bagno, alla camera da letto e alla stanza trasformata in palestra. In fondo al corridoio, una quarta porta dava accesso al soggiorno a forma di L. La parte lunga della "L" era la zona in cui ascoltava musica e guardava la televisione. Aveva invece trasformato il lato corto in quello che chiamava "l'angolo dei ricordi", dove conservava le foto in cornice dei suoi familiari, alcuni vecchi trofei di karatè e un album sui suoi combattimenti da professionista in Brasile. Aprì con una spinta la porta della cucina che dava sul corridoio e sentì immediatamente un odore nauseabondo. Gli ricordò il fetore di una gabbia sporca allo zoo. «Garvey?» chiamò sottovoce, rammentandosi improvvisamente del gatto. «Dove diavolo sei?» Risalì con prudenza il corridoio e trovò qualcosa di appiccicaticcio sul pavimento. Sangue. Brandelli di pelame. Quei bastardi della Tabula avevano scovato Garvey e lo avevano squartato. L'odore aumentò quando giunse davanti alla porta in fondo al corridoio. Rimase là immobile per almeno un minuto, pensando ancora al povero Garvey. E poi udì oltre la porta un ghigno minaccioso. Era qualche specie di animale? La Tabula gli aveva lasciato in casa un cane da guardia? Alzò il fucile d'assalto, spalancò di colpo la porta ed entrò in soggiorno. La luce proveniente dalla strada era filtrata dalle lenzuola bianche che usava come tendaggi, ma riuscì comunque a distinguere un grosso animale seduto sulle zampe posteriori nell'angolo più lontano dalla porta, vicino al divano. Avanzò lentamente di due o tre passi. Non era un cane, ma una iena. Aveva spalle molto robuste, orecchie corte, e grandi mascelle. Non appena lo vide, l'animale mostrò i denti, ringhiando. Una seconda iena, un esemplare dal pelo maculato, uscì dall'oscurità dell'angolo dei ricordi. Le due belve si guardarono e il capobranco - l'animale vicino al divano - emise un ringhio rauco. Cercando di mantenersi a distanza, Hollis avanzò adagio verso la porta d'ingresso anteriore, chiusa a chiave. A un tratto alle sue spalle udì abbaiare, un suono simile a una risata nervosa. Si voltò trovandosi di fronte a un'altra iena comparsa dal corridoio. Il terzo animale era rimasto nascosto finché Hollis non era entrato in
soggiorno. Le tre iene cominciarono a muoversi in una formazione a triangolo, tenendolo al centro. Hollis sentiva nell'aria il loro fetore e udiva gli artigli grattare sul pavimento di legno. Faceva fatica a respirare. Una sensazione di intensa paura lo assalì. Il capobranco emise un breve ghigno e mostrò di nuovo le zanne affilate. «Andate all'inferno!» esclamò aprendo il fuoco. Sparò prima al capobranco, poi girò il busto e sparò una raffica di tre colpi alla iena maculata vicina all'angolo dei ricordi. Il terzo animale balzò in avanti proprio mentre Hollis si tuffava di lato. Mentre cadeva a terra, sentì un dolore lancinante al braccio sinistro. Rotolò su se stesso e vide la iena girarsi sulle zampe pronta per un nuovo attacco. Premette immediatamente il grilletto e la colpì al torace scagliandola violentemente contro il muro. Rialzatosi da terra, Hollis si tastò il bicipite e sentì le dita bagnarsi di sangue. La iena doveva averlo ferito con gli artigli nel primo attacco. Ora giaceva riversa su un fianco; il sangue usciva a fiotti dalle ferite alla pancia. Hollis guardò il suo aggressore, ma non si avvicinò. La iena lo fissava con occhi carichi d'odio. Il tavolino basso del soggiorno era rovesciato su un fianco. Hollis lo aggirò ed esaminò il capobranco. Le zampe anteriori e il petto dell'animale erano perforati da almeno tre proiettili. Aveva le labbra tirate a scoprire i denti, e sembrava sogghignare. Hollis mise i piedi in una pozza di sangue, imbrattando il pavimento. Una delle sue brevi raffiche aveva colpito al collo la iena maculata, staccandole quasi la testa. Si abbassò sui talloni e vide che il pelame giallo e bruno dell'animale copriva una pelle spessa quanto quella di un toro. Artigli affilati. Muso e zanne possenti. Era una perfetta macchina assassina, molto diversa dalle iene normali, più piccole e prudenti, che si vedevano nei giardini zoologici. Quella strana creatura era un'alterazione biologica, prodotta per cacciare senza paura, obbligata dalla sua stessa natura ad attaccare e uccidere. Maya lo aveva avvertito che gli scienziati della Tabula avevano imparato a sovvertire le leggi della genetica. Quale termine specifico aveva usato? Congiunti. Qualcosa cambiò nella stanza. Hollis si rese conto che non sentiva più il sibilo gorgogliante proveniente dalla terza iena. Alzò il fucile d'assalto e subito dopo scorse un'ombra muoversi alla sua sinistra. Si girò di scatto proprio mentre il capobranco si rimetteva in piedi e balzava verso di lui.
Hollis sparò alla cieca, colpendo l'animale e scaraventandolo indietro. Tenne premuto il grilletto fino a esaurire il caricatore da trenta colpi poi, impugnando il fucile per la canna, corse avanti e iniziò a colpire l'animale con furia isterica, spaccando la testa del congiunto. Il calcio del fucile si ruppe con uno scricchiolio e poi si staccò dalla struttura metallica dell'arma. Rimase in piedi nella penombra, stringendo in mano l'arma ormai inutile. Un rumore raschiante. Artigli sul pavimento d'assi. A tre metri di distanza la terza iena si stava rialzando. Sebbene avesse il torace ancora coperto di sangue, si stava preparando ad attaccare di nuovo. Hollis scagliò i resti del fucile contro il congiunto e fuggì in corridoio. Sbatté la porta dietro di sé, ma la iena corse in avanti a tutta velocità, riuscendo a riaprirla. Hollis si rifugiò in bagno, chiuse la porta e si appoggiò con tutto il peso contro la struttura di compensato, stringendo la maniglia con una mano. Per un istante pensò di uscire dalla finestra scavalcando il davanzale, ma poi capì che il compensato avrebbe resistito solo per qualche secondo. In corridoio, il congiunto si scagliò contro la porta, che si socchiuse di un paio di dita, ma Hollis resistette e la sospinse indietro con il piede, riuscendo a richiuderla. "Trovati un'arma" pensò. "Qualsiasi cosa." Gli uomini della Tabula avevano sparso sul pavimento del bagno il contenuto degli armadietti. Tenendo il peso del corpo contro la porta, si abbassò sui talloni e rovistò disperatamente tra gli oggetti sul pavimento. Il congiunto urtò di nuovo la porta, aprendola a forza. Hollis vide le zanne della creatura e sentì il suo ghigno convulso, e dovette spingere con tutte le sue forze per richiudere la porta. Una bomboletta di lacca spray per capelli giaceva riversa sul pavimento, mentre un accendino a gas era appoggiato sul bordo del lavandino. Hollis li afferrò rapidamente l'uno dopo l'altro, barcollò all'indietro verso la finestra e la porta si spalancò sbattendo rumorosamente. Per una frazione di secondo Hollis fissò gli occhi dell'animale e vi scorse l'intensità del suo desiderio di morte. Fu come toccare un filo scoperto e sentire una scossa di corrente assassina percorrergli il corpo. Hollis tenne premuto l'erogatore, dirigendo lo spray negli occhi della iena, poi fece scattare l'accendino. La nuvola di lacca si incendiò e una grossa fiammata arancione investì il congiunto, che emise un urlo di dolore quasi umano. Coperto dalle fiamme, barcollò lungo il corridoio in direzione della cucina. Hollis si precipitò nella palestra, afferrò un bilanciere d'acciaio e seguì l'animale in cucina. La casa si stava riempiendo di un acre
fetore di carne e pelo bruciati. Si parò sulla soglia della cucina e alzò l'arma. Era pronto ad attaccare, ma il congiunto continuò a ululare tra le fiamme, vagando per la stanza, finché non crollò sotto il tavolo e morì. 43 Gabriel non sapeva da quanto tempo fosse sottoterra. Probabilmente da quattro o cinque giorni. Forse di più. Si sentiva distante dal mondo esterno e dal ciclo quotidiano di luce e tenebre. Il muro che si era creato tra la veglia e il sogno cominciava a svanire. Quando era ancora a Los Angeles, i suoi sogni erano confusi o insensati. Ora sembravano solo un'altra realtà. Se si coricava concentrandosi sul Tetragramma, poteva rimanere cosciente all'interno del sogno, attraversandolo come un turista. Il mondo dei sogni era molto denso - quasi travolgente - perciò per la maggior parte del tempo fissava i propri piedi, alzando solo di tanto in tanto lo sguardo per osservare il nuovo ambiente. In un sogno, Gabriel stava percorrendo una spiaggia deserta nella quale ogni granellino di sabbia era una stella. A un certo punto si era fermato, osservando un mare verdeazzurro le cui onde si frangevano senza rumore sulla battigia. Un'altra volta si era ritrovato in una città deserta con delle barbute statue assire scolpite in alte mura di mattoni. Al centro della città c'era un parco con filari di betulle, una fontana e un'aiuola fiorita di iris blu. Ogni fiore, foglia o filo d'erba era perfetto e distinto dagli altri: una creazione ideale. Svegliandosi da una di queste esperienze oniriche, trovava cracker, tonno in scatola e una macedonia in un contenitore di plastica vicino alla branda. Il cibo appariva come per magia; Gabriel non capiva come Sophia Briggs potesse intrufolarsi nel dormitorio sotterraneo senza fare rumore. Mangiava finché non era sazio, dopo di che usciva dalla sala dormitorio e raggiungeva la galleria principale. Se Sophia non era nei paraggi, si portava dietro la lampada a gas propano e faceva un giro d'esplorazione. I serpenti reali di solito stavano alla larga dalle lampadine accese della galleria principale, ma Gabriel ne trovava sempre nelle stanze laterali. A volte erano attorcigliati in una massa ondulante di teste e di code e corpi striscianti. Spesso erano allungati sul pavimento come se stessero ancora digerendo un grosso topo. Non sibilavano mai contro di lui né facevano movimenti minacciosi, ma Gabriel trovava inquietante fissarli negli occhi,
così lucidi e acuti, come minuscoli gioielli neri. I serpenti non costituivano una minaccia, ma il silo missilistico in sé era pericoloso. Gabriel ispezionò il centro di comando abbandonato, il generatore di corrente e l'antenna radio sotterranea. Il generatore era ricoperto di terriccio argilloso che aderiva al ferro come un tappeto verde. Nella sala di controllo del centro di comando gli strumenti di misura e i quadri elettrici erano stati rotti e saccheggiati. Numerosi cavi elettrici penzolavano dal soffitto come radici in una caverna. Gabriel ricordava di aver notato un piccolo pertugio in uno dei massicci coperchi di cemento a chiusura di un silo di lancio. Forse era possibile strisciare fuori da quel buco e riemergere alla luce del sole, ma la zona di lancio dei missili era la più pericolosa del vasto complesso sotterraneo. Una volta aveva tentato di esplorare un silo di lancio, e si era perso tra i passaggi bui e per poco non era precipitato in un buco nel pavimento. Vicino alle vuote cisterne di carburante per il generatore aveva trovato una copia di quarantadue anni prima "dell'Arizona Republic", il quotidiano di Phoenix. Il giornale era tutto ingiallito e fragile ai margini, ma ancora leggibile. Aveva trascorso ore sulla sua branda a leggere le notizie, le offerte di lavoro e gli annunci di matrimonio. Fingeva di essere di un altro regno e che il giornale fosse la sua unica fonte di informazioni sulla razza umana. La civiltà che emergeva dalle pagine "dell'Arizona Republic" era violenta e crudele. Ma c'erano anche aspetti positivi. Gabriel trovò un articolo sui cinquant'anni di matrimonio di una coppia di Phoenix. Tom Zimmerman era un elettricista con l'hobby del modellismo. Sua moglie Elizabeth era un'ex maestra di scuola che dedicava il suo tempo alla chiesa metodista locale. Steso sulla branda, Gabriel fissava la scolorita fotografia commemorativa della coppia. Marito e moglie sorridevano rivolti all'obiettivo, tenendosi per mano. A Los Angeles Gabriel aveva avuto diverse relazioni, ma quelle esperienze gli sembravano molto lontane. La fotografia degli Zimmerman era la prova che l'amore poteva sopravvivere alla ferocia del mondo. Il vecchio giornale e i pensieri su Maya erano le sue uniche distrazioni. Di solito Gabriel sbucava nella galleria principale e incontrava Sophia Briggs. Un anno prima la donna aveva contato tutti gli esemplari di serpente reale presenti nei tre silos della base e ora stava effettuando un altro censimento per verificare se la popolazione era cresciuta. Armata di bomboletta spray contenente un colore atossico, trovava un serpente e contras-
segnava l'esemplare per mostrare che era stato contato. Gabriel ormai si era abituato a vedere serpenti reali con una vistosa striscia arancione fosforescente sulla coda. Gabriel sognò di essere in una lunga galleria, poi aprì gli occhi e si ritrovò disteso supino sulla branda da campeggio. Dopo aver bevuto un sorso d'acqua e sgranocchiato una manciata di cracker ai cereali, lasciò il dormitorio e incontrò Sophia nel centro di comando abbandonato. La biologa si voltò, rivolgendogli un'occhiata severa. Gabriel si sentì come un nuovo studente di uno dei suoi corsi all'università. «Come hai dormito?» chiese Sophia. «Benissimo.» «Hai trovato il cibo che ti avevo lasciato?» «Sì.» La scienziata scorse un serpente reale strisciare nella penombra. Muovendosi rapidamente, spruzzò una striscia di colore sulla coda dell'ignaro rettile, segnandolo sul suo taccuino. «E come va l'esercizio con la goccia d'acqua? Sei riuscito a tagliarla in due?» «Non ancora.» «Be', forse stavolta ce la farai. Provaci ancora.» E così Gabriel tornò davanti alla chiazza d'acqua sul pavimento, a fissare il soffitto e a maledire i novantanove sentieri. La goccia d'acqua era troppo piccola, e troppo veloce. La lama della spada da samurai era troppo stretta. Era un'impresa impossibile. All'inizio si era sforzato di concentrarsi sull'evento in sé, fissando la goccia mentre si andava formando, flettendo i muscoli e stringendo a due mani l'impugnatura della spada come un giocatore di baseball in attesa di una palla veloce. Purtroppo però le gocce non erano regolari. A volte non ne cadeva nessuna per almeno venti minuti. Altre volte invece ne cadevano due quasi consecutivamente. Gabriel vibrava il colpo di spada e le mancava. Allora imprecava sottovoce, e si rimetteva in posizione. Una collera cieca gli riempiva il cuore con tale intensità che parecchie volte aveva pensato di fuggire dal silo e tornare a piedi fino a San Lucas. Non era il principe fuggiasco della storia di sua madre, ma solo un idiota comandato a bacchetta da una vecchia pazza. Anche allora, Gabriel sentiva che avrebbe fallito. Ma restando in piedi con la spada in pugno per alcune ore si dimenticò di se stesso e dei suoi problemi. Sebbene l'arma fosse ancora nelle sue mani, perse coscienza di
essa. La spada era semplicemente un'estensione della sua mente. La goccia d'acqua cadde dall'alto, ma questa volta parve precipitare al rallentatore. Quando vibrò il colpo, Gabriel si sentì distante. Osservò la lama che incrociava la goccia e la tagliava in due. Il tempo si fermò in quell'attimo ed egli vide tutto con chiarezza: la spada e le due metà della goccia che si staccavano. Il tempo ricominciò a fluire e la sensazione di distacco sparì. Erano stati solo pochi secondi, ma a Gabriel erano sembrati una vita. Percorse quasi di corsa il tunnel. «Sophia!» strillò. La sua voce riecheggiò tra le pareti di cemento. La trovò nella sala controllo, con il taccuino di pelle in mano. «C'è qualche problema?» domandò. Gabriel balbettava come se la sua lingua non rispondesse più. «Io... io ho tagliato la goccia con la spada.» «Bene.» La dottoressa chiuse il taccuino. «Stai facendo progressi.» «C'è un'altra cosa, ma è difficile da spiegare. Per un attimo mi è sembrato che il tempo rallentasse.» «Hai visto la goccia rallentare?» Gabriel guardò il pavimento. «So che sembra assurdo.» «Nessuno può fermare il tempo» disse Sophia. «Ma alcune persone riescono ad acuire i propri sensi. Può esserti parso che fosse il mondo a rallentare, ma era tutto nella tua testa. Le tue percezioni hanno avuto un'accelerazione. A volte, i grandi atleti sono capaci di farlo. Una palla è in aria e loro riescono a vederla con la massima precisione. Alcuni musicisti sono in grado di sentire distintamente tutti gli strumenti di un'orchestra sinfonica. Succede anche alle persone normali, durante la preghiera o la meditazione.» «Accade anche ai Viaggiatori?» «I Viaggiatori sono diversi da tutti perché riescono a controllare queste intense percezioni. Ciò dà loro il potere di vedere il mondo con straordinaria chiarezza.» Sophia studiò la faccia di Gabriel, come se i suoi occhi potessero darle una risposta. «Sei in grado di farlo, Gabriel? Sai premere un interruttore nella tua mente e fare in modo che il mondo sembri rallentare e fermarsi per un attimo?» «No, è stato tutto involontario.» Sophia annuì. «Allora dobbiamo continuare a lavorare.» Raccolse la lampada e si incamminò fuori dalla stanza. «Benissimo. Proviamo il diciannovesimo sentiero per stimolare il tuo senso dell'equilibrio e del mo-
vimento. Quando il corpo di un Viaggiatore si muove quasi impercettibilmente, aiuta la Luce a liberarsi.» Pochi minuti dopo erano in piedi su una piattaforma costruita a metà altezza nel silo di diciotto metri che aveva ospitato l'antenna radio base. Una putrella d'acciaio, larga meno di dieci centimetri, partiva dalla piattaforma tagliando a metà il silo. Sophia sollevò la lampada e gli mostrò che si trovavano sei metri sopra un mucchio di rottami e di macchinari abbandonati. «Sulla putrella, all'incirca a metà, c'è una monetina da un centesimo. Vai a prenderla.» «Se cado mi romperò le gambe.» Sophia alzò la lampada e guardò sul fondo, come se dovesse esprimere un parere. «Sì, potresti romperti le gambe. Ma è più probabile che ti fratturi le caviglie. Naturalmente se cadi di testa hai buone possibilità di morire.» Abbassò la lampada e annuì. «Avanti, forza.» Gabriel inspirò a fondo e si pose di traverso sulla putrella in modo che il peso del corpo fosse sull'arco dei piedi. Cautamente, cominciò ad allontanarsi strisciando i piedi. «Così non va bene» disse Sophia. «Avanza con le dita dei piedi in avanti.» «Così è più sicuro.» «No, non lo è. Apri le braccia, e usale come bilancieri. E concentrati sulla respirazione, non sulla paura.» Gabriel girò leggermente la testa per rispondere a Sophia e perse l'equilibrio. Ondeggiò paurosamente avanti e indietro per un momento e poi si accovacciò, aggrappandosi alla putrella con entrambe le mani. Di nuovo, si trovò sul punto di cadere, finché non aprì di scatto le gambe e si mise a cavalcioni sulla trave. Gli occorsero due minuti per trascinarsi fino alla piattaforma. «Sei stato pietoso, Gabriel. Riprova.» «No.» «Se vuoi essere un Viaggiatore...» «Non voglio ammazzarmi. Smettila di chiedermi cose che nemmeno tu sai fare.» Sophia posò la lampada. Camminando sulla putrella d'acciaio come una equilibrista sul filo, ne raggiunse rapidamente il centro, si chinò e raccolse il centesimo. La donna spiccò un saltello in aria, roteò su se stessa e atterrò su un piede solo. Poi tornò rapidamente alla piattaforma e lanciò la monetina a Gabriel.
«Riposati un po', Gabriel. Sei stato sveglio più di quel che pensi.» Raccolse la lampada e si avviò di nuovo verso la galleria principale. «Quando tornerò giù proveremo con il ventisettesimo sentiero. È antichissimo, ideato nel XII secolo da Hildegard di Bingen, una monaca tedesca.» Furioso, Gabriel scagliò lontano la monetina e seguì la sua Esploratrice. «Da quanto tempo sono qui sotto?» «Non preoccuparti di questo.» «Non sono preoccupato. Voglio solo saperlo. Da quanto tempo sono qui sotto e quanti giorni mi restano?» «Vai a dormire. E non dimenticarti di sognare.» Gabriel pensò per un attimo di lasciare la base, ma poi decise di continuare l'addestramento. Se avesse abbandonato prima del tempo, avrebbe dovuto spiegare la sua decisione a Maya. Se invece fosse rimasto per qualche altro giorno e avesse fallito la prova, nessuno avrebbe potuto biasimarlo. "Dormi. Sogna ancora." Quando alzò gli occhi, vide che era in piedi nel cortile di un grande edificio. Sembrava una specie di monastero o un antico istituto scolastico, ma non c'era nessuno. Sui ciottoli erano sparsi fogli di carta che il vento sollevava. Gabriel si voltò, varcò la soglia di un portone aperto ed entrò in un lungo corridoio con dei finestroni rotti. Non c'erano cadaveri o macchie di sangue, ma capì subito che in quel luogo si era svolta una battaglia. Il vento fischiava nei telai vuoti delle finestre. Un foglietto di carta - la pagina di un taccuino a righe - svolazzava sul pavimento. Gabriel risalì fino in fondo il corridoio, girò l'angolo e vide una donna dai capelli neri seduta sul pavimento con un uomo in grembo. Quando fu più vicino, vide che si trattava del suo stesso corpo. Aveva gli occhi chiusi e non sembrava respirare. La donna alzò gli occhi e scostò i lunghi capelli dal viso. Era Maya. Aveva i vestiti imbrattati di sangue e la sua spada spezzata giaceva sul pavimento. Teneva stretto il suo corpo fra le braccia, cullandolo dolcemente avanti e indietro. Ma la cosa più terrificante era che la donna arlecchino stava piangendo. Gabriel si svegliò in un'oscurità talmente assoluta da non riuscire a comprendere se fosse morto o vivo. «Ehi!» gridò, e il suono della sua voce riecheggiò sulle pareti della stanza. Doveva essere successo qualcosa al cavo elettrico o al generatore di corrente. Tutte le lampadine si erano spente ed era prigioniero del buio. Cercando di non lasciarsi prendere dal pani-
co, allungò la mano sotto la branda e trovò la lampada a gas e una scatoletta di fiammiferi. La fiamma dello zolfanello lo fece trasalire con il suo bagliore improvviso. Accese lo stoppino della lampada e la sala si riempì di luce. Mentre abbassava il coprifiamma di vetro della lampada, udì un sibilo. Si girò leggermente a sinistra proprio mentre un serpente a sonagli si sollevava da terra a mezzo metro dalla sua gamba. In qualche modo il rettile era penetrato nel silo ed era stato attirato dal calore del suo corpo. La coda del serpente prese a vibrare e il rettile tirò indietro la testa, pronto a colpire. Senza alcun preavviso, un enorme serpente reale sbucò dall'ombra come una freccia nera e morse il serpente a sonagli appena dietro la testa. I due rettili rotolarono insieme sul pavimento di cemento e il serpente reale attorcigliò il corpo intorno a quello della sua preda. Gabriel afferrò la lampada e uscì barcollando dalla sala. Le luci erano spente lungo tutta la galleria e gli ci vollero cinque minuti per trovare la scala d'emergenza che portava in superficie. I suoi stivali producevano un tonfo sordo mentre saliva le scale verso la botola. Raggiunse il pianerottolo in alto, spinse forte e si rese conto di essere chiuso nel silo. «Sophia!» urlò. «Sophia!» Ma non rispose nessuno. Tornò alla galleria principale, fermandosi vicino alla fila di lampadine spente. I suoi tentativi di diventare un Viaggiatore erano tutti falliti. Sembrava inutile continuare. Se Sophia aveva intenzione di tenere chiusa la botola, allora avrebbe dovuto esplorare i silos di lancio e trovare un'altra via d'uscita. Si diresse verso nord ed entrò in un dedalo di corridoi. I silos erano stati progettati in modo da deflettere le esplosioni di fiamma durante il decollo dei missili e Gabriel continuava a incontrare pozzi di ventilazione che si rivelavano ciechi. Finalmente si fermò e fissò la lampada che reggeva in mano. Ogni tre o quattro secondi la fiamma tremolava, come agitata da una leggera corrente d'aria. Lentamente, si avviò nella direzione indicata dal movimento della fiamma finché non sentì dell'aria fredda affluire dall'alto nel tunnel. Infilandosi a fatica tra una pesante porta d'acciaio e un telaio divelto, si ritrovò su una piattaforma che sporgeva dalla parete del silo centrale. Il silo era una massiccia cavità verticale rivestita di cemento. Molti anni prima il governo aveva smantellato i missili intercontinentali puntati contro l'Unione Sovietica, ma Gabriel poteva ancora vedere il profilo buio di una piattaforma di lancio per missili circa novanta metri sotto di lui. Una
scala a chiocciola saliva a spirale intorno a quel pozzo enorme, dalla base all'apertura superiore. E sì, eccola là... una lama di luce solare filtrava attraverso una fessura nel coperchio. Una goccia lo colpì sulla guancia. L'umidità sotterranea trapelava dalle crepe nelle pareti di cemento. Gabriel spense la lampada e cominciò a salire la scala, verso la luce. La struttura di ferro tremava ogni volta che saliva un gradino. Cinquant'anni di acqua avevano arrugginito i bulloni che tenevano la struttura agganciata alle pareti. "Vai più piano" disse tra sé. "Devi stare attento." Ma la gigantesca scala cominciò a vibrare come una creatura vivente. Tutt'a un tratto, un bullone si staccò dal muro e precipitò nel buio. Gabriel si fermò ad ascoltare il bullone rimbalzare nella caduta sulla piattaforma. E poi, come proiettili di una mitragliatrice, una serie di bulloni si staccò dai supporti cementati nel muro, e la scala cominciò a separarsi dalle mura interne. Gabriel mollò la lampada a gas e si aggrappò alla ringhiera con le due mani mentre la parte superiore della scala precipitava verso di lui. Il peso della struttura in fase di crollo strappò altri bulloni e a quel punto Gabriel, rimanendo appeso, cadde seguendo un ampio arco, venendo sbattuto contro la parete in cemento, circa sei metri sotto la piattaforma a terrazzino. Soltanto uno dei supporti di sostegno reggeva ancora la ringhiera. Cominciò ad arrampicarsi adagio, ma un attimo dopo udì un suono fortissimo nelle orecchie. C'era qualcosa che non andava nel lato destro del suo corpo. Lo sentiva paralizzato. Mentre si sforzava spasmodicamente di tenersi aggrappato ai rottami della scala a un tratto vide un braccio spettrale, composto di piccoli punti di luce, emergere dal suo corpo mentre il braccio destro penzolava inerte al suo fianco. Si stava reggendo con una mano sola, ma non poteva fare a meno di fissare la luce. «Resisti!» gridò Sophia. «Sono qui, proprio sopra di te!» Il suono della voce dell'Esploratrice fece scomparire il braccio spettrale. Gabriel non riusciva a vedere dove fosse la donna, ma una fune di nylon da alpinismo cadde dall'alto e sbatacchiò contro la parete. Riuscì giusto in tempo ad allungare le mani e ad aggrapparsi alla fune quando il supporto di sostegno fu strappato dal muro di cemento. La ringhiera precipitò accanto a lui, andando a schiantarsi sulla piattaforma di lancio alla base del silo. Si issò a forza di braccia sulla sporgenza a terrazzino e poi rimase disteso, ansimando disperatamente. Sophia era in piedi di fianco a lui, con in mano la propria lampada a gas. «Stai bene?»
«No.» «Ero in superficie quando il generatore è andato in tilt. L'ho rimesso in funzione e sono venuta giù subito.» «Mi avevi... mi avevi chiuso... dentro...» «Sì. Ti mancava solo un giorno.» Gabriel si rimise in piedi e tornò sui suoi passi lungo il passaggio. Sophia gli andò dietro. «Ho visto che cosa è successo, Gabriel.» «Già. A momenti mi ammazzavo.» «Non sto parlando di quello. Il tuo braccio destro si è afflosciato per alcuni secondi. Non sono riuscita a vederla, ma so che la Luce è uscita dal tuo corpo.» «Non so neppure se è giorno o notte, se sto sognando o sono sveglio.» «Sei un Viaggiatore come tuo padre. Non capisci?» «Scordatelo. Non voglio esserlo, voglio una vita normale.» Senza aggiungere una sola parola, Sophia raggiunse Gabriel, allungò una mano afferrandogli la cintura e gli assestò un violento strattone all'indietro. Gabriel ebbe la sensazione che dentro di lui qualcosa si stesse strappando, lacerando. E poi sentì la Luce uscire di colpo dalla sua gabbia fisica e fluttuare verso l'alto mentre il suo corpo crollava sul pavimento. Era terrorizzato, voleva solo tornare al suo corpo, a ciò che conosceva. Si guardò le mani e vide che erano state trasformate in centinaia di puntini luminosi, ognuno dei quali era definito e brillante come una stella. Mentre Sophia si accovacciava accanto al corpo abbandonato, il Viaggiatore si librò verso l'alto, attraverso il soffitto di cemento. Le stelle parvero muoversi, avvicinandosi le une alle altre, a mano a mano che diventava rapidamente un nucleo concentrato di energia. Era un oceano intero costretto in una goccia d'acqua, una montagna compressa in un granello di sabbia. E poi la particella che conteneva la sua energia concentrata, la sua vera coscienza, entrò in una sorta di canale che lo spinse irresistibilmente in avanti. Quel momento sarebbe potuto durare mille anni oppure un solo battito cardiaco. Aveva perso qualsiasi senso del tempo. L'unica cosa di cui era cosciente era che stava viaggiando nell'oscurità totale a una velocità supersonica, seguendo il bordo ricurvo di uno spazio cosmico. E poi il movimento ebbe termine e avvenne una trasformazione. Un unico ancestrale respiro riempì il suo essere. "Ora vai. Trova la via."
44 Gabriel aprì gli occhi e si scoprì in caduta libera in un terso cielo blu. Guardò in basso e in ogni direzione, ma non vide nulla. Sotto di lui non c'era nessuna terra. Nessun punto d'atterraggio o destinazione finale. Era una barriera di aria. Si rese conto di aver sempre saputo della sua esistenza: appeso a un paracadute, aveva tentato di ricreare quella sensazione nel mondo al quale apparteneva. Ora però era libero dall'aereo e dall'inevitabile ritorno sulla terra. Chiuse gli occhi per un attimo e quindi li riaprì. Inarcò la schiena e allargò le braccia, controllando i propri movimenti in aria. "Cerca il passaggio." Glielo aveva detto Sophia. Esisteva un passaggio che conduceva attraverso tutte e quattro le barriere in altri regni. Inclinandosi a destra, prese a muoversi a spirale come un falco in cerca di una preda. Passò del tempo e poi, in lontananza, avvistò una sottile linea nera, come un'ombra fluttuante nello spazio. Allungò le braccia ai lati del corpo, si sottrasse al vorticoso cerchio di caduta e scivolò velocemente a sinistra in una diagonale netta. L'ombra aumentò gradualmente assumendo una forma ovale e Gabriel entrò nel suo centro oscuro. Di nuovo, sentì una compressione di luce, un movimento in avanti e il soffio vitale. Aprendo gli occhi, si ritrovò in piedi in mezzo a un arido deserto, con la terra rossa tutta crepe come se annaspasse in cerca d'aria. Guardò intorno a sé, ispezionando il nuovo ambiente. Il cielo sopra di lui era di un blu zaffiro. Sebbene il sole fosse completamente assente, la luce splendeva all'orizzonte in ogni direzione. Nessun sasso o pianta. Nessun avvallamento o rilievo montuoso. Solo una barriera di terra dove era prigioniero, unica cosa verticale in un mondo assolutamente piatto. Cominciò a camminare. Quando si fermò a guardarsi intorno la sua prospettiva non era cambiata. Si accovacciò, toccando la terra rossa con le dita. Gli occorreva un secondo punto di riferimento nel paesaggio, qualcos'altro che confermasse la sua stessa esistenza. Scavò con i piedi e le mani la terra riarsa, ottenendo un mucchio di terra alto una trentina di centimetri. Come un bambino che avesse rotto una tazza solo per vederne l'effetto, girò diverse volte intorno al cumulo di terra, per assicurarsi che fosse ancora lì. Poi riprese a camminare contando i passi. Cinquanta. Ottanta. Cen-
to. Ma quando si guardò alle spalle, il mucchio di terra era scomparso. Sentì un'onda di panico allagargli il cuore. Si sedette, chiuse gli occhi e si riposò un momento, poi si rialzò e riprese a camminare. Cercando affannosamente il passaggio, cominciò a sentirsi disperato e completamente perso. Per un po', prese a calci il terreno duro con la punta dello stivale. Minuscoli frammenti di terra secca volavano in aria, ricadevano sul suolo circostante venendo istantaneamente riassorbiti. A un tratto si voltò di scatto e notò alle sue spalle una macchia scura. Era la sua ombra. Lo aveva seguito fin dall'inizio in quel viaggio senza meta. Però l'immagine aveva una profondità e una nettezza insolite, come se qualcuno l'avesse ritagliata nel terreno. Era forse quella la via d'uscita? Era sempre stata lì? Chiuse gli occhi e si lasciò cadere all'indietro, venendo risucchiato dal passaggio. "Respira" si disse. "Respira ancora." E si trovò in ginocchio in una strada polverosa che tagliava il centro di una cittadina. Si alzò prudentemente, aspettandosi che il suolo crollasse facendolo cadere nell'aria, nell'acqua o nel deserto desolato. Batté i piedi sulla strada come un uomo in preda a un capriccio infantile, ma la nuova realtà reggeva, rifiutandosi di svanire. La città gli ricordava un avamposto di frontiera in un vecchio film western; il genere di posto in cui ci si sarebbe aspettati di trovare cowboy, sceriffi e ballerine da saloon. Gli edifici erano a due o tre piani, costruiti con tavole di legno e assicelle di copertura sulle facciate. Marciapiedi di assi di legno costeggiavano ambo i lati della via centrale, come se i costruttori avessero voluto evitare che il fango inzaccherasse le soglie delle case. Ma non c'erano né fango, né pioggia, né acqua. I pochi alberi nella via sembravano morti, e c'erano solo foglie secche di colore marrone. Gabriel estrasse la spada di giada, impugnandola saldamente, e salì sul marciapiede. Provò a girare il pomello di una porta - che non era chiusa a chiave - ed entrò da un barbiere. Il negozio, di una sola stanza, aveva tre poltrone e specchi appesi al muro. Gabriel fissò la propria immagine riflessa, il suo volto e la spada che stringeva in pugno. Aveva un'aria spaventata, come se si aspettasse di essere attaccato da un momento all'altro. "Esci subito di qui. Sbrigati." E un istante dopo era di nuovo sul marciapiede d'assi, di fronte al cielo limpido e agli alberi senza vita. Nessuna porta era chiusa a chiave e Gabriel cominciò a esplorare una costruzione dopo l'altra. I suoi stivali producevano un rumore sordo sopra il marciapiede d'assi. Trovò una merceria piena di rotoli di stoffa e, al pri-
mo piano del medesimo edificio, un appartamento. Aveva un lavello con una pompa a mano e una stufa di ghisa. C'era una tavola apparecchiata per tre persone, ma i ripiani e la dispensa erano vuoti. In un'altra palazzina trovò il laboratorio di un bottaio con diversi barili in vari stadi di lavorazione. La città aveva due sole strade che confluivano in una piazza quadrata con alcune panchine di legno e un obelisco di pietra. Sul monumento non c'era alcuna scritta commemorativa, ma solo una serie di simboli geometrici che comprendevano un cerchio, un triangolo e un pentacolo. Gabriel seguì la strada finché la città non scomparve alle sue spalle, e arrivò a una barriera di alberi morti e rovi. Cercò per un po' un varco o un sentiero, poi rinunciò tornando nella piazza quadrata. «Ehilà!» gridò. «C'è qualcuno?» Nessuna risposta. La spada sguainata lo fece sentire un codardo ed egli la ripose nel fodero. Vicino alla piazza trovò una costruzione con il tetto a cupola e la facciata di legno scuro e pesante, con battenti di ferro. Entrò, ritrovandosi in una chiesa con file di banchi e vetrate con complessi disegni geometrici. In fondo si ergeva un altare. Gli invisibili abitanti della città avevano decorato l'altare con due vasi di rose ormai secche che mostravano solo un vago ricordo del loro colore originale. Al centro di quest'offerta scolorita bruciava un cero nero. La fiamma oscillava, unica cosa viva e in movimento in quella città spettrale oltre a lui. Avanzò verso l'altare con un lungo respiro. Il cero nero cadde dal suo supporto d'ottone e la fiamma urtò i petali e le foglie secche. Una rosa prese fuoco e una fiamma arancione divampò lungo il gambo verso un altro bocciolo secco. Cominciò a cercare una bottiglia d'acqua o un secchio di sabbia, qualsiasi cosa potesse estinguere le fiamme. Niente. Quando si voltò, l'intero altare stava bruciando. Le fiamme avvolgevano i pilastri, fino a lambire le volte. Gabriel corse fuori e restò immobile in piedi in mezzo alla strada. Aveva la bocca aperta, ma non disse nulla. Dove poteva nascondersi? C'era un posto qualunque in cui potersi rifugiare? Cercando di controllare la paura, risalì di corsa la strada centrale passando davanti al barbiere e alla merceria. Arrivato al margine dell'abitato si fermò, guardando in lontananza il bosco che sbarrava la strada. Tutti gli alberi erano in fiamme e il fumo si levava in cielo formando un enorme muro grigio. Una particella di cenere gli si posò su una guancia ed egli la pulì con la
mano. Sapeva di non avere nessuna via d'uscita, ma tornò di corsa alla chiesa. Il fumo fuoriusciva dalle fessure del pesante portone. Le vetrate splendevano di luce dall'interno. Mentre osservava la scena, sulla finestra centrale apparve un'incrinatura che si fece sempre più grande, come una ferita irregolare sulla pelle. L'aria surriscaldata si espanse all'interno dell'edificio e la vetrata esplose, inondando la strada di frammenti di vetro. Le fiamme si levarono alte dalla finestra vuota e una colonna di fumo nero salì a lambire il fianco esterno della cupola bianca. Gabriel risalì di corsa la strada fino all'altro capo della cittadina e vide un pino secco prendere fuoco. "Voltati" pensò. "Scappa via." Ma ora tutti gli edifici stavano bruciando. Il calore intenso generò un forte vento che faceva vorticare particelle di cenere come foglie in una tempesta autunnale. Da qualche parte in tutta quella distruzione c'era una via d'uscita, il passaggio oscuro che lo avrebbe riportato al mondo degli umani. Ma l'incendio cancellava ogni ombra e il fumo che saliva in cielo trasformava il giorno in notte. "Fa troppo caldo" pensò. "Non riesco a respirare." Tornato di nuovo nella piazza, si accovacciò accanto all'obelisco di pietra. Le panchine e i cespugli rinsecchiti stavano bruciando, nulla veniva risparmiato dalle fiamme. Si riparò la testa con le braccia e si rannicchiò su se stesso, in posizione fetale. E il fuoco lo accerchiò, attraversando la sua pelle. E poi tutto passò. Riaperti gli occhi, Gabriel si vide circondato dalle rovine fumanti della cittadina e della foresta secca. Grossi pezzi di legno stavano ancora ardendo ridotti in brace e volute di fumo salivano verso un cielo grigio ardesia. Lasciò la piazza e percorse lentamente la via principale fino all'uscita del paese. La chiesa, il laboratorio del bottaio e la merceria con l'appartamento al piano superiore erano stati rasi al suolo dall'incendio. Giunse al limite dell'abitato e a ciò che restava del bosco. Molti alberi erano caduti, ma alcuni altri erano ancora ritti in piedi come scheletriche figure nere dalle braccia contorte. Seguì i propri passi lungo le due strade ricoperte di cenere e notò che un paletto di sostegno di una tenda era ancora in piedi in mezzo alla città distrutta. Gabriel lo toccò, facendo scorrere la mano sulla superficie liscia. Era possibile? Come aveva fatto a non bruciare? Rimase di fronte al paletto, cercando di capirne il significato quando, in piedi a pochi metri di distanza, scorse un muro bianco intonacato. Qualche minuto prima il muro
non c'era... o forse era troppo inebetito per notarlo. Proseguì il cammino e trovò una poltrona da barbiere in mezzo alle macerie. Un oggetto assolutamente reale. Poteva toccarlo, sentire sotto le dita la pelle verde dell'imbottitura e i braccioli di legno. Si rese conto che la città sarebbe lentamente ricomparsa, identica a prima. Si sarebbe ricostruita, solo per bruciare di nuovo, in un processo eterno. Era questa la dannazione della barriera di fuoco. Se non fosse riuscito a trovare il passaggio, sarebbe rimasto prigioniero di quel ciclo eterno di rinascita e distruzione. Anziché cercare un'ombra, tornò in piazza e si appoggiò contro l'obelisco. Mentre si guardava in giro, comparve una porta, poi un marciapiede di legno. La città cominciò a riformarsi, crescendo come una creatura viva. Il fumo sparì e il cielo fu di nuovo azzurro. Tutto era mutato, ma identico, mentre le ceneri si scioglievano al sole come nocchi di neve sporca. Alla fine, il processo fu completo. Una città di stanze vuote e alberi morti lo circondava completamente. Solo in quel momento riacquistò un minimo di lucidità. "Dimentica le tortuosità filosofiche." Esistevano due stati dell'essere: equilibrio e moto. La Tabula venerava l'ideale del controllo politico e sociale, l'illusione che tutto dovesse restare immutato. Ma quella era la fredda vacuità dello spazio, non l'energia della Luce. Lasciò il suo rifugio e cominciò a cercare un'ombra. Come un investigatore alla ricerca di un indizio, entrò in ogni edificio e aprì gli armadi e le credenze vuote. Cercò sotto i letti e si sforzò di osservare ogni oggetto sotto diversi angoli. Forse sarebbe riuscito a vedere il passaggio solo se si fosse trovato nella posizione giusta. Quando tornò in strada, l'aria sembrava essersi scaldata leggermente. La città era nuova e completa, ma stava concentrando energia per il successivo incendio. Gabriel cominciò a sentirsi frustrato dall'inevitabilità del ciclo. Perché non era in grado di impedire ciò che stava per accadere? Prese a fischiettare un inno di Natale, godendosi il flebile rumore nel silenzio totale. Tornò alla chiesa, spalancò il portone e si diresse verso l'altare. Il cero era ricomparso come se nulla fosse accaduto e ardeva luminoso sul suo candeliere d'ottone. Gabriel si leccò il pollice e l'indice, poi allungò la mano e spense la fiamma con le dita. Appena toccò il cero, la fiammella si staccò dallo stoppino e cominciò a fluttuargli intorno alla testa come una farfalla di un giallo brillante. Finì per posarsi sullo stelo di una rosa, incendiando il fiore secco. Gabriel tentò invano di spegnere la fiamma con il palmo della mano, ma dalla rosa si sparsero scintille che caddero su tutto
l'altare. Invece di fuggire dal fuoco, si sedette in un banco al centro della chiesa e restò ad assistere alla nuova distruzione. Poteva morire in quel luogo? Se il suo corpo fosse stato incenerito, sarebbe poi riapparso ancora, come l'altare e la poltrona da barbiere? Cominciò a sentire un calore intenso, ma si sforzò di negare mentalmente la nuova realtà. Forse era tutto un sogno, l'ennesima creazione della sua mente. Il fumo era salito verso il soffitto e ora cominciava a ricadere verso il basso, attirato verso il portone semiaperto. Mentre Gabriel si alzava per lasciare la chiesa, l'altare si trasformò in una colonna di fuoco. Cominciò a tossire, poi guardò alla sua sinistra e vide un'ombra materializzarsi in una delle vetrate. Era nera e profonda; fluttuava avanti e indietro come un'oscillante particella di notte. Gabriel afferrò un banco e lo trascinò vicino al muro. Vi montò sopra e si issò sullo stretto davanzale alla base della vetrata. Estratta dal fodero la spada, vibrò un fendente nell'ombra nera e la sua mano destra scomparve nell'oscurità. "Salta" pensò. "Salvati." Cominciò ad affondare nel passaggio oscuro, trascinato nello spazio. Fu solo all'ultimo momento che, lanciando un'occhiata di sfuggita alle sue spalle, scorse Michael in piedi sulla soglia della chiesa. 45 Maya guidava verso Las Vegas, con la moto di Gabriel nascosta nel vano posteriore del furgone. Vide decine di cartelli pubblicitari di casinò e finalmente, dopo il tramonto, un grumo di grattacieli illuminati spuntò quasi improvvisamente all'orizzonte. Dopo aver superato numerosi motel alla periferia della città, si fermò all'Honest Abe Tourist Lodge: dieci bungalow disegnati come vecchie capanne di tronchi. La cabina della doccia aveva macchie verdi d'ossidazione che colavano dai rubinetti e il materasso era pieno di gobbe, ma Maya piazzò la spada accanto a sé e dormì per dodici ore consecutive. Sapeva che i casinò erano dotati di telecamere di sorveglianza e che alcune potevano essere collegate al sistema informatico della Tabula. Quando si svegliò, prese una siringa e si iniettò i farmaci per cambiare aspetto nelle labbra e nella pelle sotto gli occhi. Le sostanze la fecero sembrare molto più gonfia e sciupata, come una donna con problemi d'alcolismo. Si recò con il furgone a un centro commerciale vicino e vi acquistò dei
capi d'abbigliamento sgargianti, a buon mercato - un paio di pantaloni al ginocchio, una T-shirt rosa shocking e un paio di sandali -, poi entrò in un negozio nel quale una signora anziana, vestita da cowgirl, vendeva cosmetici e parrucche sintetiche e indicò una parrucca bionda su una testa di polistirolo dietro il banco. «È il modello biondo champagne, tesoro. Te la incarto o la indossi subito?» «Me la metto subito.» La commessa annuì con aria d'approvazione. «Gli uomini adorano le bionde. Ne vanno pazzi.» Era pronta. Percorse il viale principale della città, girò a destra a una Torre Eiffel alta la metà dell'originale e lasciò il furgone nel parcheggio del Paris Las Vegas. L'albergo era una versione da luna park della Ville Lumière. Aveva un Arco di Trionfo in scala e facciate di stucco colorato a imitazione del Louvre e dell'Opera di Parigi. C'erano ristoranti e bar e un'enorme zona destinata al gioco d'azzardo in cui la gente si intratteneva con il blackjack o con le numerose, coloratissime slot machine. Maya gironzolò lungo lo Strip - il viale principale di Las Vegas - fino a un altro hotel e vide gondolieri che trasportavano turisti in un finto canale. Ogni hotel aveva un tema differente, ma erano tutti uguali. Nessuna delle sale da gioco aveva orologi a parete o finestre. Eri lì dentro e in nessun luogo contemporaneamente. Quando Maya entrò per la prima volta in un casinò, il suo sviluppato senso dell'equilibrio le fece comprendere una cosa che la maggior parte dei turisti non avrebbe mai capito. I pavimenti erano leggermente inclinati in modo che la forza di gravità attirasse impercettibilmente i visitatori dalla hall dell'albergo ai tavoli di blackjack e alle slot machine. Per la maggior parte della gente Las Vegas era un luogo felice, dove si poteva bere troppo, giocare d'azzardo e guardare donne che si spogliavano. Ma la città del piacere era un'illusione tridimensionale. Le telecamere di sorveglianza spiavano costantemente, i computer controllavano le puntate ai tavoli e una legione di guardie di sicurezza, con la bandiera americana cucita sulle maniche dell'uniforme, si assicurava che non accadesse mai nulla di veramente insolito. Era esattamente il sogno della Tabula: l'apparenza della libertà che celava il controllo totale. In un ambiente così ordinato sarebbe stato difficile sottrarsi alle autorità. Maya aveva passato tutta la vita cercando di sfuggire all'Immensa Macchina, ma ora doveva far scattare tutti i sensori delle autorità e darsi alla fuga
senza essere catturata. Era certa che i programmi informatici della Tabula stessero scandagliando le banche dati dell'Immensa Macchina in cerca di informazioni, tra le quali l'utilizzo della carta di credito di Michael. Se la carta era stata dichiarata rubata, probabilmente avrebbe avuto a che fare con degli agenti della sicurezza che non sapevano niente della Tabula. Gli Arlecchini evitavano di nuocere fisicamente ai "cittadini" o ai "fuchi", ma a volte era necessario per la sopravvivenza. Dopo aver effettuato un rapido sopralluogo in tutti gli altri grossi alberghi dello Strip, Maya decise che il New York-New York Hotel le garantiva il maggior numero di alternative per la fuga. Trascorse il pomeriggio in un negozio dell'Esercito della Salvezza, dove comprò due valigie e abiti usati. Poi acquistò una trousse da toilette maschile e la riempì con una bomboletta di schiuma da barba, un tubetto di dentifricio spremuto a metà e uno spazzolino che aveva sfregato contro il cemento del muro esterno del suo bungalow. Il dettaglio finale era il più importante: alcune carte stradali con dei vistosi segni fatti a pennarello indicanti un viaggio da costa a costa, con destinazione finale New York. Gabriel aveva lasciato il suo casco integrale, i guanti e il giubbotto da motociclista nel furgone. Tornata al motel, Maya indossò la tenuta da motociclista. Fu come se la pelle di Gabriel, la sua presenza, la circondassero. A Londra Maya aveva guidato uno scooter, ma la Guzzi era un veicolo massiccio e potente. Faceva fatica a sterzare, e continuava a grattare con le marce. Quella sera lasciò la moto nel parcheggio dell'hotel e usò un telefono pubblico per prenotare una suite. Venti minuti dopo si avvicinò al banco della reception con le due valigie in mano. «Mio marito ha prenotato per telefono» spiegò. «Arriverà in aereo più tardi.» Il portiere era un giovanotto muscoloso con un'aureola bionda di capelli a spazzola. Aveva più l'aria dell'allenatore in un ritiro estivo in Svizzera. «Spero che passiate un bel weekend» disse, e poi le chiese un documento di identità. Maya gli consegnò il suo passaporto falso e la carta di credito intestata a Michael Corrigan. I numeri vennero trasmessi dal terminale della reception a un server generale e di qui a un computer in un punto imprecisato del pianeta. Maya osservò attentamente l'espressione del portiere, cercando di capire se la parola "rubata" era apparsa sul monitor. Era pronta a mentire, a correre via, a uccidere se necessario, ma l'impiegato sorrise e le consegnò
una key-card plastificata. Nell'ascensore dovette introdurre la key-card nel pannello e premere il numero del suo piano. Ora il computer dell'hotel sapeva esattamente dove si trovava: in ascensore, diretta al quattordicesimo piano. La sua suite di due stanze aveva un televisore enorme. I mobili e i sanitari del bagno erano tutti più grandi di qualsiasi cosa si potesse trovare in un albergo inglese. "Gli americani sono gente più voluminosa" pensò Maya. Ma a Las Vegas c'era qualcos'altro: il desiderio consapevole di sentirsi schiacciati da arredi grandiosi. Maya sentì diverse urla e uno stridore metallico. Scostò le tende e vide delle montagne russe, montate sul tetto di un palazzo a circa centocinquanta metri dalla sua finestra. Ignorando quella scena, fece scorrere l'acqua nella vasca da bagno e nel lavandino, usò una saponetta nuova e inumidì alcune salviette. Poi sistemò le carte stradali e una matita sul tavolino del salotto e lasciò di fianco al televisore un sacchetto di carta con degli unti contenitori di un fast-food. Con ogni singolo oggetto e capo di vestiario stava costruendo una breve storia che sarebbe stata letta e interpretata dai mercenari della Tabula. Erano passati più o meno dieci minuti da quando il numero della carta di credito era entrato nell'Immensa Macchina. Tornata in camera da letto, aprì le valigie e sistemò alcuni indumenti in una cassettiera. Poi rovistò nella borsetta tirando fuori la piccola pistola automatica presa alla Resurrection Auto Parts e la nascose sotto una camicia piegata. La pistola era la prova decisiva della sua presenza in quell'hotel. La Tabula non avrebbe mai creduto che un Arlecchino avesse abbandonato di proposito un'arma. Se la polizia avesse scoperto la pistola, il reperto sarebbe stato registrato nella sua banca dati e i computer della Tabula che scandagliavano Internet l'avrebbero trovata immediatamente. Stava mettendo in disordine le lenzuola e le coperte quando udì un flebile scatto metallico proveniente dalla porta esterna. Qualcuno aveva inserito una key-card nella serratura elettronica e ora stava aprendo la porta. La sua mano destra corse subito alla custodia della spada. Per un attimo fu colta dalla brama degli Arlecchini di attaccare - sempre attaccare - e di neutralizzare la minaccia alla propria sicurezza. Ma così facendo non avrebbe ottenuto il suo vero scopo: depistare la Tabula con false informazioni. Si guardò intorno e vide una porta a vetri scorrevole che si apriva su un balcone. Estrasse lo stiletto e si avvicinò alle tende; le bastarono pochi secondi per tagliare due lunghe strisce di tessuto.
Il parquet scricchiolò nella stanza d'ingresso quando l'intruso avanzò in punta di piedi sopra il tappeto. Chiunque si trovasse all'esterno della camera da letto si fermò per alcuni secondi e Maya si domandò se stesse cercando il coraggio per attaccare. Con in mano le due strisce di tessuto delle tende, fece scorrere adagio la porta a vetri e uscì sul balcone. L'aria calda del deserto la investì. Le stelle non erano ancora apparse, ma una miriade di luci al neon rosse e verdi lampeggiava nella strada sottostante. Non c'era tempo di annodare le due strisce per farne una fune improvvisata. Le legò insieme al balcone, scavalcò la ringhiera e si calò di sotto. Le tende erano fatte di cotone leggero e non potevano sopportare a lungo il suo peso. Mentre si calava in basso, una striscia si lacerò in tutta la lunghezza e un attimo dopo si ruppe. Maya penzolò in aria, tenendosi aggrappata all'altra striscia, e poi continuò a calarsi sul balcone del piano sottostante. Una voce dall'alto. Forse l'avevano vista. Non c'era tempo per riflettere né per aver paura. La donna arlecchino si aggrappò alla ringhiera di ferro e si calò sul balcone sottostante. Di nuovo, estrasse lo stiletto e notò che si era fatta un taglio nel palmo della mano. Dannati dalla carne. Salvati dal sangue. Aprì la porta a vetri e corse attraverso una stanza deserta. 46 Uno dei motivi per i quali a Michael piaceva vivere nel centro di ricerca era la capacità del personale di prevedere le sue esigenze. La prima volta che era ritornato dalle barriere si era sentito fragile e stordito, insicuro della realtà del suo stesso corpo. Dopo alcuni esami medici il dottor Richardson e Lawrence Takawa lo avevano condotto nella galleria al primo piano, dal generale Nash. Michael aveva chiesto un sorso di succo d'arancia e gli inservienti erano tornati cinque minuti dopo con un cartone da un litro, probabilmente recuperato nel cestino del pranzo di uno dei custodi. Adesso, tornato dal suo secondo tentativo di attraversamento delle barriere, tutto era stato preparato in anticipo. Nella galleria vetrata, su un tavolino, lo attendeva una caraffa di succo d'arancia fresco. Accanto, un vassoio di biscotti con scaglie di cioccolato, ancora caldi di forno, come se una squadra di mamme con il grembiule si fosse data da fare per il suo ritorno a casa.
Kennard Nash gli sedeva di fronte su una poltrona di pelle nera e sorseggiava del vino. Durante una delle loro prime conversazioni, Michael si era stupito del fatto che il generale non prendesse mai appunti. Ora sapeva che le telecamere di sorveglianza erano sempre in funzione. Gli piaceva l'idea che tutto ciò che diceva o faceva fosse così importante da dover essere registrato e analizzato. Tutto il centro di ricerca dipendeva dal suo potere. Nash si sporse in avanti e parlò quasi sottovoce. «E poi l'incendio è divampato di nuovo?» «Proprio così. Gli alberi hanno preso fuoco una seconda volta. È a quel punto che ho scoperto un sentiero che portava in una cittadina in mezzo al nulla. Anche quella stava bruciando.» «C'era qualcuno?» chiese Nash. «O era da solo?» «All'inizio pensavo che la città fosse deserta. Poi però sono entrato in una chiesa e ho visto mio fratello Gabriel. Non ci siamo parlati. Stava entrando in un passaggio che probabilmente riportava a questo mondo.» Nash estrasse dalla tasca della giacca un telefonino e chiamò Lawrence Takawa. «Copiate gli ultimi cinque secondi della nostra conversazione e trasmetteteli a Mr Boone. Gli servono questi, dati il prima possibile.» Chiuse il cellulare e sorrise come se niente fosse. «Suo fratello è ancora prigioniero di una banda di terroristi, gli Arlecchini. Evidentemente lo hanno addestrato a viaggiare in altri regni.» «Gabriel aveva con sé la spada giapponese che apparteneva a nostro padre. Com'è possibile?» «Le nostre ricerche indicano che un Viaggiatore può portare con sé degli oggetti particolari, chiamati talismani.» «Non mi interessa il loro nome. Trovatemene una. Voglio essere armato, quando mi trovo in altri regni.» Il generale Nash annuì rapidamente come per dire: "Qualsiasi cosa lei desideri, Mr Corrigan. Nessun problema. Vedremo di accontentarla." Michael si abbandonò di nuovo contro lo schienale della sua poltrona, sentendosi abbastanza sicuro per la richiesta successiva. «Tutto ciò, si intende, nel caso decidessi di visitare altri regni.» «Lo farà di certo» ribatté Nash. «Non mi minacci, generale. Io non faccio parte del vostro esercito. Se volete uccidermi... prego, accomodatevi. Perdereste l'elemento più importante del progetto.» «Se è il denaro che desidera, Michael...»
«Certo che voglio del denaro. Ma questo è insignificante. Ciò che voglio veramente è essere messo al corrente di ogni cosa. Voglio il quadro completo di quest'opera. La prima volta che ci incontrammo mi disse che vi avrei aiutato a compiere una rivoluzione nel campo delle scienze e della tecnologia, che avremmo cambiato la storia insieme. D'accordo, ora sono un Viaggiatore. Allora perché ho dei fili di rame nel cervello? A cosa serve tutto questo?» Nash si alzò dalla poltrona, prendendo un biscotto dal tavolino. «Venga con me, Michael. Le mostrerò una cosa.» I due uomini lasciarono la galleria e percorsero un lungo corridoio verso un ascensore. «Tutto ebbe inizio parecchi anni fa quando lavoravo alla Casa Bianca, occupandomi del programma "Libertà dalla Paura". Volevamo assegnare un Link Protettivo a ogni cittadino americano. Avremmo potuto porre fine alla criminalità e al terrorismo.» «Ma non funzionò» disse Michael. «All'epoca la tecnologia di cui disponevamo non era ancora così sofisticata. Non avevamo un sistema informatico in grado di trattare una mole di dati così grande.» Quando uscirono dal Sepolcro, due agenti della sicurezza interna li seguirono attraverso il cortile. L'aria era fredda e umida, e una nube grigia nascondeva il cielo stellato. Michael fu sorpreso di vedere che erano diretti al centro informatico. L'accesso era consentito esclusivamente ai tecnici. «Quando assunsi il comando dei Confratelli avviai il progetto di un computer ai quanti. Sapevo che avrebbe avuto la potenza necessaria per risolvere problemi complessi e per trattare una quantità impressionante di informazioni. Con una serie di computer ai quanti avremmo potuto letteralmente seguire e monitorare le attività quotidiane di chiunque nel mondo. Qualcuno avrebbe potuto opporsi, ma la maggior parte della popolazione mondiale sarebbe stata lieta di rinunciare a un briciolo di privacy in cambio della sicurezza. Pensi solo ai vantaggi. Niente più comportamenti anomali o fuori dalle regole. Niente più sorprese spiacevoli...» «Niente più Viaggiatori» disse Michael. Il generale rise. «Sì. Lo ammetto. Sbarazzarsi dei Viaggiatori faceva parte del piano. Ma ora è tutto cambiato. Adesso lei fa parte della squadra.» I due agenti della sicurezza si fermarono all'esterno mentre Michael e Nash entravano nell'atrio deserto del centro informatico. «Un elaboratore normale funziona in base a un sistema binario. A prescindere dalle sue dimensioni o dalla sua potenza, ha solo due condizioni di coscienza: 0 e 1.
I computer normali possono essere velocissimi o lavorare in serie, ma restano limitati a queste due sole possibilità. «Un computer ai quanti si basa sulla meccanica quantistica. Sembra logico che un atomo possa ruotare su se stesso in alto o in basso: o 0 o 1. Di nuovo, si tratta di un sistema binario. Ma la meccanica quantistica ci dice che un atomo può essere in alto o in basso, o in entrambe le condizioni contemporaneamente. Grazie a questa proprietà, i calcoli vengono effettuati simultaneamente e a velocità incredibile. Un elaboratore ai quanti utilizza interruttori ai quanti anziché interruttori di tipo convenzionale, e per questo ha un potere immenso.» Entrarono in un piccolo locale privo di finestre e una porta d'acciaio si richiuse alle loro spalle. Nash premette il palmo della mano su un pannello di vetro. Una seconda porta scorrevole si aprì con un suono sommesso e i due entrarono in una sala illuminata da luci basse. Al centro della sala c'era un contenitore di cristallo a tenuta stagna, di circa due metri per lato, posto su un piedistallo d'acciaio. Grossi cavi ottici ed elettrici serpeggiavano dal piedistallo a una batteria di computer convenzionali disposti contro una parete. Intorno al contenitore di cristallo, come accoliti intorno a un altare, si aggiravano tre tecnici in camice bianco, ma non appena il generale Nash fece un cenno si allontanarono. Il contenitore stagno era pieno di un denso liquido verde che ondeggiava lentamente. In diversi punti del liquido lampeggiavano continuamente piccole esplosioni, come minuscoli fulmini. Michael avvertiva un suono ronzante e nell'aria aleggiava un odore di bruciato, come se qualcuno avesse dato fuoco a una manciata di foglie secche. «Questo è il nostro computer ai quanti» dichiarò Nash. «È una serie di elettroni galleggianti in elio liquido costantemente raffreddato. L'energia trasmessa attraverso l'elio liquido costringe gli elettroni a interagire e a eseguire operazioni computazionali.» «Sembra un acquario.» «Sì. Solo che i pesciolini rossi qui sono particelle subatomiche. Secondo la teoria dei quanti, per un brevissimo lasso temporale, le particelle di materia si spostano in altre dimensioni e poi ritornano.» «Proprio come un Viaggiatore.» «Ed è proprio quello che è accaduto, Michael. Nel corso dei nostri primi esperimenti con l'elaboratore ai quanti ricevemmo messaggi da un altro regno. All'inizio non capivamo cosa stesse succedendo. Pensavamo ci fosse un errore nel software. Poi uno dei nostri scienziati capì che stavamo
ricevendo versioni binarie di equazioni matematiche semplici. Quando rispondemmo con messaggi nello stesso codice, cominciarono a inviarci gli schemi di un computer più potente.» «E fu a quel punto che costruiste questa macchina?» «Questa è la terza versione del nostro computer ai quanti. È stato un processo evolutivo continuo. Ogni volta che miglioravamo tecnicamente il nostro elaboratore, ci mettevamo in condizione di ricevere informazioni più complesse. Era come costruire una serie di radio sempre più potenti. Con ogni nuovo modello potevamo ascoltare più parole, ottenere più informazioni. E ciò che abbiamo imparato non riguarda solo l'informatica. I nostri nuovi amici ci hanno insegnato a manipolare i cromosomi e a creare diverse specie ibride.» «Che cosa vogliono?» domandò Michael. «Questa civiltà sa tutto dei Viaggiatori, e credo che siano un tantino gelosi.» Nash sembrava divertito. «Sono prigionieri del loro regno, ma vorrebbero visitare il nostro mondo.» «È possibile?» «Il computer ai quanti l'ha seguita mentre attraversava le barriere. Ecco perché le abbiamo inserito i sensori nel cervello. Lei è l'apripista che fornirà la mappa per i nostri nuovi amici. Se riuscirà a entrare in un altro regno, ci hanno promesso di mandarci il progetto di un computer ancora più potente.» Michael si avvicinò al computer ai quanti e osservò i piccoli lampi di luce. Nash pensava di comprendere ogni aspetto del potere, ma Michael si rese conto all'improvviso dei limiti delle sue idee. I Confratelli erano talmente ossessionati dall'idea di controllare l'umanità da non vedere oltre il loro progetto. "Sono io il custode del cancello" pensò a un tratto. "Sono l'unico che ha il controllo di ciò che può o non può accadere. Se questa civiltà vuole davvero entrare nel nostro mondo, allora sarò io a decidere se e come potrà farlo." Fece un lungo respiro e si allontanò dal computer ai quanti. «Impressionante, generale. Insieme faremo grandi cose.» 47 Maya imboccò la strada sbagliata in pieno deserto e si perse alla ricerca della base missilistica abbandonata. Era ormai sera quando trovò la recinzione con il filo spinato e il cancello divelto.
Di solito portava abiti scuri di sartoria, ma in quell'ambiente avrebbero attirato troppa attenzione. A Las Vegas era stata in un emporio dell'Esercito della Salvezza dove aveva acquistato comodi pantaloni leggeri a coulisse, gonne e top: niente di aderente che le stringesse le spalle o le gambe. Quel pomeriggio indossava un maglione di cotone e una gonna plissettata: un abbigliamento da scolaretta inglese. Ai piedi aveva scarpe da meccanico con il puntale d'acciaio, efficacissime nei calci rotanti. Scese dal furgone, mise a tracolla il portaspada e si diede un'occhiata nello specchietto laterale. Fu un errore. I suoi capelli neri crespi sembravano il nido di un corvo. "Non ha nessuna importanza" pensò. "Sono qui solo per proteggerlo." Camminò spedita verso il cancello, ma si bloccò qualche secondo, sentendo poi l'impulso di tornare al furgone per pettinarsi. Era furiosa - avrebbe quasi voluto mettersi a urlare per sfogare la rabbia - ma continuò a spazzolarsi rapidamente i capelli. "Stupida" disse tra sé. "Maledetta stupida. Sei un Arlecchino. Non gli importa di te." Quand'ebbe finito, lanciò la spazzola nella cabina del furgone con un movimento rabbioso. L'aria del deserto si stava facendo più fresca e decine di serpenti reali erano usciti allo scoperto, strisciando sul nastro d'asfalto della strada. Dato che nessuno la stava guardando, estrasse la spada e la tenne pronta nel caso uno dei rettili si fosse avvicinato troppo. Questa conferma della propria paura fu perfino più frustrante del bisogno di spazzolarsi i capelli. "Non sono pericolosi" si convinse. "Non fare la vigliacca." Tutta la rabbia svanì non appena vide la piccola roulotte parcheggiata nei pressi della turbina eolica. Gabriel era seduto al tavolo da picnic sotto il paracadute trasformato in tettoia. Non appena la vide, scattò in piedi, salutandola con la mano. Maya osservò la sua espressione. Sembrava diverso? Era cambiato? Gabriel le sorrise come se fosse appena tornato da un lungo viaggio. Sembrava felice di rivederla. «Sono passati nove giorni» disse. «Ieri sera, non vedendoti arrivare, ho cominciato a preoccuparmi.» «Ho parlato con Martin Greenwald via Internet. Non aveva notizie da Sophia e quindi pensava che tutto andasse per il meglio.» La porta della roulotte si spalancò di colpo. Sophia Briggs uscì all'aperto con una brocca di plastica e alcune tazze da campeggio. «E infatti tutto va per il meglio, adesso. Buongiorno Maya, bentornata.» La dottoressa poggiò la brocca sul tavolo e guardò Gabriel. «Glielo hai detto?»
«No.» «Ha attraversato le quattro barriere» dichiarò Sophia, rivolta a Maya. «Stai difendendo un Viaggiatore.» Sulle prime, Maya pensò che le tante morti erano servite a qualcosa. Ogni sacrificio era valso a difendere un Viaggiatore. Ma subito pensieri più tenebrosi le invasero la mente. Suo padre aveva ragione; la Tabula era diventata troppo, troppo potente. Alla fine avrebbero trovato Gabriel e lo avrebbero ucciso. Tutto ciò che lei aveva fatto - trovarlo, portarlo da un Esploratore - lo aveva soltanto avvicinato alla morte. «È fantastico» disse Maya. «Stamattina mi sono messa in contatto con il mio amico di. Parigi. La nostra spia gli ha detto che anche Michael può abbandonare questo regno.» Sophia annuì. «L'abbiamo saputo prima di te. Gabriel lo ha visto un istante prima di oltrepassare la barriera di fuoco.» Mentre il sole tramontava, il trio si sedette sotto il paracadute a tettoia a sorseggiare limonata solubile. Sophia si offrì di preparare qualcosa per la cena, ma Maya declinò l'offerta. Gabriel era rimasto alla base troppo a lungo ed era giunto il momento di partire. La donna esploratore raccolse un serpente reale, arrotolato sotto il tavolo, e lo portò al silo. Quando tornò, aveva l'aria stanca e un po' triste. «Addio, Gabriel. Torna qui se puoi.» «Ci proverò.» «Nell'antica Roma, quando un generale tornava vincitore da una guerra, lo portavano in trionfo per le vie della città. Sui carri in testa al corteo c'erano le armi e le corazze dei nemici uccisi e gli stendardi catturati, e di seguito i soldati prigionieri con le loro famiglie. Subito dietro veniva l'armata del generale, con i suoi ufficiali e, infine, il grande condottiero su una quadriga dorata. Un servo teneva i cavalli per le briglie mentre un altro stava in piedi dietro il vincitore, sussurrandogli all'orecchio: "Sei mortale. Sei un essere mortale".» «È un avvertimento, Sophia?» «Un viaggio in altri regni non sempre insegna la compassione. Un Viaggiatore Freddo è una persona che ha imboccato il sentiero sbagliato, e usa il suo potere per portare altra sofferenza in questo mondo.» Maya e Gabriel tornarono al furgone, poi seguirono la strada a due corsie che tagliava il deserto. Le luci della città di Phoenix brillavano all'oriz-
zonte, ma il cielo sopra di loro era terso e mostrava una luna a tre quarti e la brillante cortina della Via Lattea. Guidando, Maya spiegò il suo piano nel dettaglio. Al momento avevano bisogno di denaro, di un rifugio sicuro e di vari mezzi per nascondere la loro identità. Linden avrebbe spedito del denaro ai loro contatti di Los Angeles. Hollis e Vicki erano ancora là. Avrebbero avuto bisogno di alleati. «Non chiamarli alleati» disse Gabriel. «Sono nostri amici.» Maya avrebbe voluto dirgli che non potevano avere amici. Gabriel era la sua unica responsabilità, perché lei poteva rischiare la propria vita solo per una persona, mentre il primo dovere di Gabriel era sfuggire agli agenti della Tabula e sopravvivere. «Sono amici» ripeté Gabriel. «Lo capisci, no?» La ragazza arlecchino preferì cambiare argomento. «Allora, com'è stato?» domandò. «Come ci si sente ad attraversare le barriere?» Gabriel le descrisse il cielo interminabile, il deserto sconfinato e il vasto oceano. Alla fine le raccontò di come avesse visto suo fratello nella chiesa in fiamme. «E gli hai parlato?» «Ho tentato, ma ero già dentro il passaggio. Quando sono tornato indietro era scomparso.» «La nostra spia nella Tabula dice che tuo fratello si è dimostrato molto collaborativo.» «Non sappiamo se sia vero. Sta solo cercando di sopravvivere.» «Sta facendo molto più che sopravvivere. Li sta aiutando in tutto.» «E ora temi che possa diventare un Viaggiatore Freddo?» «Potrebbe succedere. I Viaggiatori Freddi si sono lasciati corrompere dal potere. Possono portare distruzione nel mondo.» Viaggiarono in silenzio per altri quindici chilometri. Maya continuava a guardare nello specchietto retrovisore, ma nessuno li stava seguendo. «Gli Arlecchini li proteggono?» «No, naturalmente.» «Li uccidete?» La voce del Viaggiatore sembrava diversa. Maya si voltò verso di lui. Gabriel la stava fissando. «Li uccidete?» ripeté. «A volte. Se ci è possibile.» «Uccideresti mio fratello?» «Se fosse necessario.» «E io, allora? Saresti capace di uccidermi?»
«Sono solo inutili speculazioni, Gabriel. È meglio che non ne parliamo.» «Non mentire. So già qual è la risposta.» Maya strinse il volante; fissava la strada senza avere il coraggio di guardare Gabriel. Davanti al furgone, una sagoma nera attraversò la strada e scomparve tra i cespugli. «Ho un potere che non posso controllare» disse lui. «Riesco ad accelerare le mie percezioni e vedere tutto con chiarezza.» «Puoi vedere quello che vuoi, ma io ti devo dire la verità. Se tu diventassi un Viaggiatore Freddo ti ucciderei.» La cauta solidarietà che si era stabilita fra loro, il piacere reciproco che avevano provato rivedendosi, sparirono in quell'istante. Proseguirono in silenzio sulla lunga strada deserta. 48 Lawrence Takawa mise la mano destra aperta sul tavolo della cucina e fissò il piccolo rigonfiamento della pelle sotto il quale si trovava il Link Protettivo. Impugnò la lametta da barba con la sinistra e contemplò per un istante il bordo affilato. "Fallo" si disse. "Tuo padre non aveva paura." Trattenendo il fiato, incise un profondo, corto taglio. Il sangue stillò dall'incisione, gocciolando sul tavolo. Nathan Boone aveva studiato le fotografie della telecamera di sorveglianza del New York-New York Hotel di Las Vegas. Era chiaro che la ragazza che aveva preso la suite con la carta di credito di Michael Corrigan era Maya. Un mercenario era stato mandato immediatamente all'hotel, ma la donna arlecchino era fuggita. Ventiquattro ore dopo una delle squadre di sicurezza di Boone aveva trovato la moto nel parcheggio dell'albergo. Gabriel era in viaggio insieme a lei? O stavano solo cercando di depistarlo? Boone decise di volare nel Nevada e di interrogare personalmente chiunque avesse incontrato l'Arlecchino. Era al volante del suo fuoristrada diretto al Westchester County Airport quando ricevette una telefonata da Londra di Simon Leutner, l'amministratore capo del team di monitoraggio Internet. «Buongiorno, signore. Sono Leutner.» «Che succede? Avete trovato Maya?» «No, signore. L'ho chiamata per un altro motivo. Una settimana fa ci aveva chiesto di effettuare un controllo di sicurezza su tutti i dipendenti
della Evergreen Foundation. Oltre ai controlli standard delle telefonate e delle carte di credito, abbiamo cercato di scoprire se qualcuno avesse utilizzato il suo codice d'accesso per penetrare di nascosto nel nostro sistema informatizzato.» «Sarebbe stato un bersaglio logico.» «L'elaboratore centrale esegue automaticamente un controllo dei codici di accesso ogni ventiquattro ore. Abbiamo appena scoperto che un impiegato di terzo livello di nome Lawrence Takawa è penetrato in un settore dati non autorizzato.» «Lavoro personalmente con Mr Takawa. Siete certi che non sia un errore?» «Assolutamente certi. Stava usando il codice d'accesso del generale Nash, ma l'informazione richiesta è stata scaricata direttamente dal suo computer personale. Suppongo non sapesse che dalla settimana scorsa siamo in grado di controllare la destinazione esatta di ogni informazione in uscita.» «E qual era l'obiettivo di Takawa?» «Stava verificando le spedizioni speciali dal Giappone al nostro centro amministrativo di New York.» «Dov'è Takawa in questo momento? Avete controllato la sua posizione con il Link Protettivo?» «È ancora nella sua residenza privata, nella contea di Westchester. Si è messo in malattia per un'infezione virale e oggi non sarà al lavoro.» «Avvertitemi se dovesse uscire di casa.» Boone chiamò il pilota all'aeroporto e rimandò il volo. Se Lawrence Takawa stava collaborando con gli Arlecchini, la sicurezza dei Confratelli era gravemente compromessa. Un traditore era come un tumore maligno. Occorreva subito un chirurgo - uno come Boone - che non avesse paura di asportare il tessuto maligno. La Evergreen Foundation era proprietaria di un intero grattacielo di uffici all'incrocio tra la Quarantaquattresima Strada e Madison Avenue, a Manhattan. Due terzi dell'edificio venivano usati dagli impiegati pubblici della fondazione, che supervisionavano le richieste di fondi di ricerca e amministravano i finanziamenti. Questi impiegati - soprannominati. "gli Agnellini" - erano del tutto ignari delle vere attività della Tabula. I Confratelli utilizzavano gli ultimi otto piani del grattacielo, ai quali si accedeva tramite una serie di ascensori riservati. Nello schema del palazzo,
al pianoterra, questa parte del grattacielo era indicata come la sede centrale di un'organizzazione no-profit chiamata Nations Stand Together, un ente che dichiarava di aiutare i Paesi del Terzo Mondo a migliorare i loro sistemi antiterrorismo. Due anni prima, a una riunione dei Confratelli tenutasi a Londra, Lawrence Takawa aveva conosciuto la segretaria svizzera che rispondeva alle telefonate e alle e-mail trasmesse alla Nations Stand Together. Il suo lavoro consisteva nello sviare qualsiasi richiesta nel modo più cortese e mite. L'ambasciatore del Togo alle Nazioni Unite era convinto che la Nations Stand Together volesse elargire al suo Paese una generosa sovvenzione per l'acquisto di apparecchi ai raggi X destinati alla sicurezza aeroportuale. Lawrence sapeva che il palazzo aveva un punto debole; gli agenti della sicurezza al pianoterra erano Agnellini che ignoravano le politiche dei Confratelli. Dopo aver posteggiato la sua auto in un parcheggio sulla Quarantaduesima, Lawrence raggiunse a piedi la sede della Nations Stand Together in Madison Avenue ed entrò nell'atrio. Nonostante fuori facesse freddo, aveva lasciato la giacca del completo e il cappotto in macchina. Niente valigetta: solo una tazza di caffè con il coperchio e una cartelletta d'archivio. Faceva parte del suo piano. Lawrence mostrò il suo tesserino di riconoscimento alla guardia giurata più anziana seduta al banco e sorrise. «Salgo negli uffici della Nations Stand Together al ventitreesimo piano.» «Si metta sul riquadro giallo, Mr Takawa.» Lawrence si spostò dove richiesto e fissò l'apparecchio di scansione dell'iride, una grossa scatola grigia montata sul banco del servizio di sicurezza. La guardia giurata premette un pulsante e un obiettivo fotografò gli occhi di Lawrence, comparando le imperfezioni naturali delle sue iridi con i dati registrati nella banca dati della sicurezza. Una luce verde lampeggiò. L'anziana guardia giurata fece un cenno a un giovane latinoamericano in piedi accanto al banco. «Enrique, per favore, fai salire Mr Takawa al ventitreesimo piano.» La giovane guardia giurata scortò Lawrence all'ascensore, passò un tesserino sul sensore di sicurezza e lo lasciò solo. Mentre saliva, Lawrence aprì la cartelletta e tirò fuori una tabella a molla con agganciati alcuni documenti. Con un cappotto indosso e la valigetta in mano, le altre persone in corridoio avrebbero potuto fermarlo e chiedergli dove stesse andando. Ma un uomo ben vestito e con l'aria sicura, con in mano una tabella a molla, do-
veva essere di certo un loro collega. Forse era un nuovo assunto dei servizi informatici, appena rientrato dalla pausa caffè. Ladri e rapinatori non giravano con una tazza di caffè macchiato del take-away. Lawrence trovò rapidamente l'ufficio corrispondenza e passò il suo tesserino sul sensore, aprendo la porta. Numerosi pacchi erano impilati contro le pareti, mentre le lettere erano già state distribuite in diverse caselle. In quel momento il responsabile del reparto stava probabilmente spingendo il suo carrello lungo il corridoio e sarebbe ritornato entro pochi minuti. Lawrence doveva trovare il pacco e uscire dal palazzo il più in fretta possibile. Quando Kennard Nash gli aveva chiesto di procurargli una spada talismano, Lawrence aveva annuito obbediente, promettendo di occuparsi della questione. Pochi giorni dopo aveva telefonato al generale e gli aveva dato l'informazione tenendosi il più vago possibile. Dalla banca dati del sistema risultava che diversi anni prima un Arlecchino giapponese di nome Sparrow era stato ucciso nel corso di uno scontro all'Hotel Osaka. Forse i Confratelli giapponesi erano in possesso della spada dell'Arlecchino. Kennard Nash aveva detto che si sarebbe messo in contatto con i suoi amici a Tokyo. Si trattava, per la maggior parte, di influenti uomini d'affari convinti che i Viaggiatori minassero la stabilità della tranquilla società giapponese. Quattro giorni dopo Lawrence aveva usato il codice di accesso personale di Nash per penetrare nella posta elettronica del generale. Abbiamo ricevuto la sua richiesta. Siamo lieti di esserle d'aiuto. L'articolo richiesto è stato spedito al centro amministrativo di New York Dietro un angolo, Lawrence trovò una cassa di plastica. Aveva, sul coperchio, un adesivo con caratteri giapponesi e una bolla di accompagnamento che descriveva il contenuto come "materiale di propaganda per prima cinematografica". I Confratelli non avrebbero mai dichiarato alle autorità governative che stavano spedendo all'estero una spada da samurai del XIII secolo, un tesoro nazionale creato da uno dei Jittetsu. Sul banco spedizioni c'era un taglierino e Lawrence lo utilizzò per tagliare il nastro d'imballaggio e i sigilli adesivi. Aprì il coperchio ma vi trovò un'armatura in plexiglas per un film sui samurai. Pettorale, elmo, guanti, bracciali. E poi, sul fondo della cassa, una spada avvolta in carta da imballaggio.
Lawrence prese l'arma in mano e capì subito che era troppo pesante per essere di fiberglass. Strappò immediatamente la carta sull'impugnatura e vide che le finiture e l'elsa erano d'oro brunito. La spada di suo padre. Un talismano. Boone si insospettiva sempre quando un impiegato in una situazione critica decideva di non presentarsi al lavoro. Cinque minuti dopo la sua conversazione con lo staff di Londra, mandò a casa di Lawrence Takawa un membro della sua squadra di sorveglianza. Quando arrivò sul posto, di fronte al condominio era già posteggiato un furgone del team. Salì sul retro del mezzo e trovò Dorfman, un tecnico della squadra, che sgranocchiava un pacchetto di crostini di mais senza distogliere gli occhi dal monitor di un rilevatore termico. «Takawa è ancora in casa, signore. Stamattina ha telefonato al centro di ricerca, dicendo di avere l'influenza.» Boone si accovacciò sul pavimento ed esaminò l'immagine. Alcune linee sottili rivelavano muri e tubature. Una macchia di calore rosso vivo era in camera da letto. «Questa è la camera da letto» spiegò Dorfman. «Ed ecco lì il nostro malato. Il Link Protettivo è ancora in funzione.» Mentre i due studiavano il monitor, la sagoma saltò giù dal letto e sembrò trascinarsi verso la porta aperta della stanza. Si fermò per alcuni secondi, poi ritornò sul materasso. Durante l'intera sequenza il corpo non era mai stato a più di sessanta o settanta centimetri dal pavimento. Boone spalancò con un calcio il portello posteriore del furgone. «Penso che sia ora di andare a trovare Mr Takawa... o qualsiasi cosa ci sia sul suo letto.» Ci vollero quarantacinque secondi per sfondare la porta d'ingresso, e altri dieci per arrivare in camera di Lawrence. Sul copriletto cosparso di biscotti per cani era sdraiato un bastardino che rosicchiava un osso. La bestiola uggiolò lievemente quando Boone le si avvicinò. «Bravo cagnolino» mormorò. «Bravo cagnolino.» Un contenitore di plastica per sandwich era attaccato con del nastro adesivo al collare del cane. Boone lo aprì, trovandovi all'interno un microchip insanguinato. Mentre Lawrence percorreva verso sud la 2nd Avenue, una goccia di pioggia cadde sul parabrezza della sua automobile. Nuvole scure avevano
coperto il cielo e una bandiera americana su un'asta di metallo sventolava furiosamente. Un brutto temporale era in arrivo. Avrebbe dovuto guidare con prudenza. Aveva il dorso della sua mano destra coperto da un cerotto, ma la ferita gli faceva ancora male. Cercando di ignorare il dolore, guardò dietro di sé sul sedile posteriore. Il giorno prima aveva comprato un set completo di mazze da golf, una sacca e una custodia rigida per il trasporto aereo dell'attrezzatura. La spada e il fodero erano nascosti tra i vari ferri e il putter. Andare all'aeroporto con la propria auto era un rischio calcolato. Lawrence aveva considerato la possibilità di comprare un'auto usata senza GPS, il sistema di localizzazione satellitare, ma l'acquisto avrebbe potuto essere rilevato dal sistema di sicurezza della Tabula. L'ultima cosa che voleva era una finestra sul suo computer che chiedeva: "Perché ha comprato una nuova auto, Mr Takawa? C'è qualcosa che non va nel veicolo della Evergreen Foundation?". Il miglior modo per nascondersi era comportarsi nel modo più normale possibile: avrebbe raggiunto l'aeroporto Kennedy e avrebbe preso un aereo per il Messico. Entro le otto di sera sarebbe stato ad Acapulco. A quel punto, sarebbe sparito dall'Immensa Macchina. Anziché registrarsi in un hotel, si sarebbe affidato a uno dei tanti tassisti messicani che aspettavano all'aeroporto facendosi portare a sud verso il Guatemala. Avrebbe cambiato taxi ogni cento chilometri, facendo tappa per la notte in alberghi da quattro soldi e trovando un nuovo tassista poche ore dopo. Nel viaggio verso l'America Centrale avrebbe potuto evitare gli scanner facciali e i programmi come Carnivore controllati dai Confratelli. Aveva dodicimila dollari in contanti cuciti nella fodera del suo impermeabile, ma non aveva idea di quanto tempo gli sarebbero durati. Forse avrebbe dovuto corrompere le autorità locali o comprare una baracca in un villaggio di campagna. I contanti erano la sua unica risorsa: qualsiasi uso di assegni o di una carta di credito sarebbe stato scoperto immediatamente dalla Tabula. Altre gocce di pioggia sul parabrezza, due o tre alla volta. Lawrence si fermò a un semaforo e vide che i pedoni, con gli ombrelli aperti, affrettavano il passo cercando di ripararsi prima che si scatenasse l'acquazzone. Voltò a sinistra e si diresse a est verso il Queens Midtown Tunnel. "È tempo di cominciare una nuova vita" disse tra sé. "Butta via quella vecchia." Abbassò il finestrino e cominciò a disseminare sulla strada le sue carte di credito. Se qualche sconosciuto le avesse ritrovate - e usate - la cosa a-
vrebbe provocato una confusione ancora maggiore. Quando Boone raggiunse il centro di ricerca della fondazione, un elicottero con i rotori già in movimento lo stava aspettando. Scese dal suo SUV e si affrettò sull'erba, salendo a bordo. Mentre l'elicottero decollava, Boone mise la radiocuffia e udì la voce di Simon Leutner. «Venti minuti fa Takawa è stato segnalato nel nostro centro amministrativo di Manhattan. È entrato nell'ufficio corrispondenza usando il suo tesserino di riconoscimento e ha lasciato l'edificio sei minuti più tardi.» «Possiamo scoprire perché ci è andato?» «Non immediatamente, signore. Ma stanno già effettuando un inventario della corrispondenza e dei pacchi che potevano essere nell'ufficio.» «Avviate una ricerca personale completa su Takawa. Metta una squadra a lavorare sulla sua carta di credito e sul conto corrente.» «Ci siamo già messi all'opera. Ha chiuso il conto proprio ieri.» «Organizzi un altro team che penetri le banche dati delle compagnie aeree e controlli se ha prenotato un volo.» «Sì, signore.» «Impegni le risorse principali nella localizzazione della sua auto. In questo momento abbiamo un vantaggio. Takawa si sta spostando in macchina, ma non credo che sappia che lo stiamo cercando.» Boone guardò fuori dal finestrino dell'elicottero. Scorse le strade a due corsie della contea di Westchester e, in lontananza, una superstrada dello Stato di New York. Uno scuolabus. Un camion per consegne a domicilio della FedEx. Una spider verde che correva veloce nel traffico. In passato i navigatori satellitari per auto erano optional costosi, ma con il tempo erano diventati accessori standard. Il GPS dava informazioni sul percorso e aiutava la polizia nel ritrovamento delle auto rubate. La nuova tecnologia dava ai servizi di sorveglianza e di localizzazione la possibilità di sbloccare e bloccare le portiere a distanza, o di far lampeggiare le luci di un'auto persa in un grande parcheggio. Però trasformava anche ogni vettura in un grosso oggetto in movimento facilmente controllabile dall'Immensa Macchina. La maggioranza dei cittadini non sapeva che ogni auto privata conteneva una piccola "scatola nera" che forniva informazioni su ciò che era avvenuto a bordo del veicolo pochi secondi prima di uno scontro. Le principali aziende di pneumatici avevano iniziato a inserire dei microchip nelle pareti delle gomme, rilevabili da speciali sensori a distanza. I sensori le metteva-
no in relazione con il numero di telaio del veicolo e le generalità del proprietario. Mentre l'elicottero saliva in quota, i computer dei Confratelli nel centro di rilevamento di Londra stavano penetrando in banche dati di massima sicurezza. Come fantasmi digitali, attraversavano i muri e comparivano negli armadi. Il mondo esterno sembrava sempre lo stesso, ma i fantasmi potevano vedere le torri e i muri segreti del Panottico Virtuale. Quando Lawrence sbucò dal Queens Midtown Tunnel cadeva ormai una fitta pioggia. Le gocce esplodevano sul manto stradale e tempestavano il tetto dell'auto. Il traffico si paralizzò: le auto avanzavano un centimetro alla volta, come un esercito stanco. Lawrence riuscì a raggiungere a stento l'uscita della Grand Central Parkway, in coda alle altre vetture. Mantenendo gli occhi fissi sugli stop della macchina davanti, compose sul suo cellulare il numero d'emergenza datogli da Linden quando si erano incontrati a Parigi. Gli rispose una voce registrata, che offriva weekend di vacanza in Spagna. "Lasciate un messaggio e vi richiameremo al più presto." «Sono il vostro amico americano» disse Lawrence, specificando l'ora e la data. «Sto partendo per un lungo viaggio, e non tornerò più. Credo che la mia azienda abbia saputo del mio lavoro per la concorrenza. Questo significa che accerteranno tutti i miei precedenti contatti e qualsiasi richiesta fatta al sistema informatizzato. Io mi terrò fuori dalla Griglia, ma il fratello maggiore rimarrà al nostro centro di ricerca. L'esperimento procede bene...» "Basta così" pensò. "Non aggiungere altro." Ma non riuscì a spegnere il cellulare. «Buona fortuna. È stato un privilegio conoscerti. Spero che tu e i tuoi amici ce la facciate a sopravvivere.» Lawrence premette il pulsante sul bracciolo laterale e abbassò il finestrino. La pioggia entrò nell'abitacolo, sferzandogli il viso e le mani. Gettò in strada il telefono e continuò a guidare. L'elicottero puntò verso sud, spinto dalla tempesta. La pioggia battente mitragliava la cupola di plexiglas del pilota, come una miriade di gocce di fango. Boone continuava a telefonare con il suo cellulare, perdendo di tanto in tanto il segnale. Il velivolo entrò in un vuoto d'aria precipitando per un centinaio di metri, ma alla fine riprese stabilità. «Il bersaglio ha appena usato il cellulare» comunicò Leutner. «Lo abbiamo localizzato. È nel Queens. All'imbocco della Van Wyck Expres-
sway. Il navigatore satellitare della sua auto conferma la posizione.» «Si sta dirigendo all'aeroporto Kennedy» disse Boone. «Ci arriverà tra una ventina di minuti. Alcuni dei nostri amici mi raggiungeranno là.» «Che cosa vuol fare?» «Potete entrare nel suo sistema GPS?» «È facile.» Leutner sembrava molto fiero di sé. «Posso farlo in meno di cinque minuti.» Lawrence ritirò il biglietto ed entrò nel parcheggio per soste prolungate dell'aeroporto. Avrebbe dovuto abbandonare la sua auto: una volta che i Confratelli avessero scoperto il suo tradimento, non sarebbe mai potuto tornare in America. La pioggia continuava a cadere e alcune persone si accalcavano sotto le tettoie del parcheggio, in attesa della navetta per il terminal dell'aeroporto. Lawrence trovò uno spazio vuoto e parcheggiò tra le righe bianche scolorite. Controllò l'orologio; mancavano due ore e mezzo alla partenza del suo volo per il Messico. Aveva tempo in abbondanza per lasciare le valigie e la sacca da golf al check-in, passare i controlli di sicurezza e bersi un caffè in sala d'attesa. Appena toccò la maniglia, vide i dispositivi di blocco abbassarsi, come premuti da una mano invisibile, e sentì scattare le serrature automatiche con un rumore secco. Poi, silenzio totale. Lontano, qualcuno seduto davanti a un computer aveva appena bloccato le quattro portiere della sua auto. L'elicottero dei Confratelli atterrò in prossimità del terminal per i voli privati nei pressi dell'aeroporto Kennedy. Il rotore principale era ancora in movimento mentre Boone correva sotto la pioggia verso la berlina Ford in attesa ai margini della pista. Aprì frettolosamente la portiera ed entrò in macchina. I detective Mitchell e Krause sedevano sui sedili anteriori, con in mano birra e sandwich. «Tira fuori l'arca» commentò Mitchell. «Sta arrivando il diluvio universale...» «Metti in moto. Il localizzatore GPS del navigatore satellitare dice che l'auto di Takawa si trova nei parcheggi Uno o Due del terminal.» Krause guardò il suo collega e poi alzò gli occhi al cielo. «Forse l'auto è ancora là, Boone. Ma lui sarà scappato.» «Non credo. Lo abbiamo appena bloccato in macchina.» Il detective Mitchell mise in moto dirigendosi verso l'uscita. «In quei
parcheggi per soste prolungate ci sono migliaia di auto. Ci vorranno delle ore per trovarlo.» Boone mise un auricolare e compose un numero sul telefono. «Me ne occupo subito.» Lawrence cercò di alzare la sicura della portiera e di forzare la maniglia. Niente. Si sentiva come sigillato in una bara. I Confratelli sapevano tutto. Forse lo stavano seguendo da ore. Si passò le mani sul volto. "Calmati" disse tra sé. "Cerca di essere un Arlecchino. Non ti hanno ancora preso." A un tratto il clacson dell'auto suonò a intermittenza e le luci presero a lampeggiare. Il suono pulsante sembrava affondargli nel corpo come la punta di un coltello. Lawrence si fece prendere dal panico e cominciò a battere i pugni sul finestrino, ma il cristallo di sicurezza non cedette. Si trascinò carponi sul sedile posteriore, aprendo la custodia rigida che conteneva l'attrezzatura da golf. Frugò nella sacca, estrasse una mazza e colpì ripetutamente il finestrino del passeggero anteriore. Sul vetro comparvero delle crepe, poi la testa della mazza ne ruppe il centro. I due detective impugnarono le pistole avvicinandosi all'auto, ma Boone aveva già notato il finestrino infranto e una borsa da viaggio di nylon abbandonata in una pozzanghera. «Niente» disse Krause, guardando all'interno dell'auto. «Dobbiamo ispezionare il parcheggio» suggerì Mitchell. «Potrebbe essere appena fuggito, e forse è ancora qui intorno.» Boone tornò all'auto; stava ancora parlando al telefono con il team di Londra. «È uscito dall'auto. Spegnete l'allarme antifurto e passate a monitorare i sistemi di scansione facciale delle telecamere dell'aeroporto. Fate attenzione soprattutto all'area appena fuori dagli Arrivi del terminal. Se prende un taxi voglio il numero di targa.» Il convoglio della metropolitana partì con un piccolo balzo in avanti, facendo stridere le ruote d'acciaio mentre usciva dalla stazione sotterranea di Howard Beach. Lawrence era seduto in fondo a un vagone, con i capelli bagnati e l'impermeabile indosso. Aveva la spada sulle ginocchia, con il fodero e l'impugnatura d'oro ancora avvolti nella carta da imballaggio. Sapeva che le telecamere di sorveglianza dell'aeroporto lo avevano ripreso mentre saliva sull'autobus diretto alla stazione della metropolitana. C'erano altre telecamere all'entrata della stazione, alla biglietteria e sulla
banchina. Dovevano già sapere che si trovava sulla linea A, diretto a Manhattan. Ma sapere dove si trovava era inutile se restava sul treno e in continuo movimento. La rete della metropolitana di New York era immensa; molte stazioni erano a più piani e avevano diversi corridoi d'uscita. Lawrence sorrise divertito all'idea di vivere nella metropolitana per il resto dei suoi giorni. Nathan Boone e i suoi mercenari sarebbero rimasti sulle banchine delle stazioni locali mentre lui passava loro davanti, seduto in un vagone. "Non puoi farlo" pensò. Prima o poi lo avrebbero preso in trappola. Doveva trovare il modo di lasciare New York evitando i controlli dell'Immensa Macchina. La spada lo faceva sentire in pericolo; il suo peso, la sua solidità gli infondevano invece coraggio. Aveva progettato di nascondersi in qualche remota località del Terzo Mondo: ora doveva trovare posti simili negli Stati Uniti. A Manhattan i taxi erano tutti registrati, ma nei quartieri periferici della città poteva trovarne uno abusivo, che sarebbe stato difficilissimo da individuare. Se fosse riuscito a passare il ponte e ad arrivare a Newark, forse avrebbe potuto prendere una corriera diretta a sud. Alla stazione di East New York Lawrence scese dal treno e si affrettò sulle scale per prendere la linea Z, verso Lower Manhattan. La pioggia entrava da una grata del soffitto e nell'aria c'era una sensazione di umidità e di muffa. Restò in piedi da solo sulla banchina finché le luci del treno non comparvero nella galleria. "Continua a muoverti. Non stare mai fermo." Era l'unico modo per fuggire. Nathan Boone prese posto sull'elicottero con Mitchell e Krause. La pioggia continuava a cadere sul cemento della piattaforma d'atterraggio. I due detective sembrarono seccati quando Boone disse loro di non fumare. Boone li ignorò e chiuse gli occhi ascoltando le voci nell'auricolare. Il team Internet era entrato nelle telecamere di dodici diversi enti governativi o società commerciali Mentre le persone si affrettavano sui marciapiedi e nei corridoi della metropolitana, si fermavano agli incroci, o salivano sugli autobus, i punti nodali dei loro volti venivano ridotti a semplici equazioni numeriche. Quasi istantaneamente queste migliaia e migliaia di equazioni venivano confrontate con l'algoritmo che identificava Lawrence Takawa. Boone si godeva questa visione di un costante flusso di informazioni che scorreva come acqua scura e gelida attraverso cavi di collegamento e reti telematiche. "Sono numeri" pensò. "È ciò che siamo tutti noi: numeri."
Aprì gli occhi quando Simon Leutner riprese a parlare. «Abbiamo appena violato il sistema di sicurezza della Citybank. In Canal Street c'è un bancomat con una telecamera di sorveglianza. Il bersaglio è appena transitato di fronte alla banca, in direzione del Manhattan Bridge.» Leutner sembrava sorridere. «Credo che non abbia notato la telecamera del bancomat. Ormai fanno parte del paesaggio.» Pausa. «Okay. Ora il bersaglio è sulla passerella pedonale del ponte. Abbiamo già penetrato i sistemi di sicurezza delle autorità portuali. Le telecamere sono nascoste nei lampioni. Possiamo seguirlo lungo tutto il tragitto sul ponte.» «Dov'è diretto?» domandò Boone. «A Brooklyn. Si muove rapidamente. Nella mano destra ha una specie di bastone.» Pausa. «È alla fine del ponte.» Pausa. «Il bersaglio si incammina verso Flatbush Avenue. No. Aspetti. Sta facendo un cenno a un taxi abusivo con un portapacchi sul tetto.» Boone premette il pulsante dell'interfono di bordo. «Lo abbiamo trovato» comunicò al pilota. «Vi dirò io dove andare.» Il conducente del taxi abusivo era un vecchio haitiano con addosso un impermeabile di plastica trasparente e un berretto da baseball degli Yahkees. Il tetto dell'auto aveva delle infiltrazioni, e il sedile posteriore era completamente fradicio. Lawrence sentiva l'umido freddo penetrargli nei calzoni ed entrargli nelle ossa. «Dove vuole che la porti?» «A Newark, nel New Jersey. Prenda il ponte di Verrazzano. Pagherò io il pedaggio.» Il vecchio haitiano non sembrava dell'idea. «È troppo distante e non guadagnerei nulla al ritorno. A Newark non troverò nessuno che voglia andare a Fort Greene.» «Quanto costerebbe l'andata?» «Quarantacinque dollari.» «Gliene darò cento. Andiamo.» Soddisfatto dell'affare, l'anziano autista ingranò la prima e la malconcia Chevrolet partì sobbalzando. Il vecchio attaccò a canticchiare una canzone
in creolo, tamburellando sul volante. «Ti cheri. Ti cheri...» Un rombo assordante calò su di loro e Lawrence guardò fuori dal finestrino mentre un forte vento scagliava la pioggia contro le auto. Il conducente inchiodò, esterrefatto dalla visione che gli si presentava davanti: un elicottero stava lentamente atterrando all'incrocio tra Flatbush Avenue e Tillary Street. Lawrence afferrò la spada e spalancò la portiera con un calcio. Boone partì di corsa sotto la pioggia battente. Quando si guardò indietro, vide che i due detective stavano già ansimando. Takawa era duecento metri più avanti e risaliva di corsa Myrtle Avenue in direzione di Saint Edwards Street. Boone passò davanti a un'agenzia di cambio con le finestre sbarrate, uno studio dentistico e una piccola boutique con una vivace insegna rossa e rosa. I grattacieli di Fort Greene dominavano il profilo dell'orizzonte come un muro sbrecciato. Quando la gente sui marciapiedi vide i tre uomini bianchi che rincorrevano un giovane asiatico, tutti sparirono negli ingressi delle case, o si affrettarono all'altro lato della strada. "Un arresto per spaccio" pensarono tutti. "Piedipiatti. Stiamo alla larga." Boone giunse all'incrocio di Saint Edwards Street e guardò oltre l'isolato. La pioggia cadeva sul marciapiede e sulle auto parcheggiate. Rivoli d'acqua scorrevano nei canaletti di scolo per fermarsi in pozzanghere agli incroci. Una sagoma in movimento. No. Solo un'anziana signora con l'ombrello. Takawa si era volatilizzato. Anziché aspettare i due detective, Boone riprese a correre. Oltrepassò due caseggiati cadenti, poi guardò in fondo a un vicolo e scorse Takawa che si infilava nell'apertura di un muro. Evitando i sacchi delle immondizie e un vecchio materasso, Boone raggiunse l'apertura e trovò una rete d'acciaio a parziale copertura di una porta sfondata. Qualcuno, probabilmente un tossico, aveva piegato all'indietro la rete. Takawa era entrato da lì. Mitchell e Krause raggiunsero l'ingresso del vicolo. «Bloccate le uscite!» gridò Boone. «Io vado dentro a prenderlo!» Si spinse con attenzione nell'apertura della rete trovandosi in una lunga stanza con il pavimento di cemento e un soffitto alto. Spazzatura ovunque. Sedie rotte. Molti anni prima, l'edificio era stato usato come garage. A ridosso di un muro c'era un vecchio banco per gli attrezzi vuoto e nel pavimento si apriva una buca per le riparazioni piena di acqua oleosa che
nella penombra sembrava poter condurre in una lontana caverna sotterranea. Boone si fermò accanto a una scala di cemento e restò in ascolto. Sentì l'acqua gocciolare sul pavimento e poi un rumore di passi, proveniente dal piano di sopra. «Lawrence! Sono Nathan Boone! So che sei di sopra!» Lawrence era al primo piano, in piedi, solo. Aveva l'impermeabile fradicio d'acqua, pesante per le migliaia di dollari cuciti nella fodera. Se lo tolse in fretta e lo gettò via. La pioggia gli cadeva addosso, ma ormai non faceva differenza. Si sentiva come se un fardello enorme gli fosse stato tolto dalle spalle. «Vieni giù!» gridò Boone. «Se scendi subito nessuno si farà male!» Lawrence strappò la carta che avvolgeva la spada da samurai di suo padre, estrasse l'arma dal fodero ed esaminò l'aura di luce della lama. La spada d'oro. Una spada jittetsu. Forgiata nel fuoco e offerta agli dei. Una goccia d'acqua gli scivolò sulla faccia, rigandogli la fronte e la guancia. Più niente. Non c'era più niente. Tutto rovinato. Aveva buttato via tutto. Il suo impiego e la sua posizione. Il suo futuro. Le sole due cose che possedeva veramente erano quella spada e il suo coraggio. Depose con delicatezza il fodero sul pavimento bagnato e poi si diresse verso la rampa di scale impugnando la spada. «Stia lì!» gridò. «Sto scendendo!» Fece le scale disseminate di detriti e rifiuti. A ogni gradino perdeva altro peso, le illusioni che gli avevano oppresso e gravato per anni il cuore. Finalmente capiva il senso di solitudine che aveva trovato nella fotografia di suo padre. Diventare un Arlecchino era sia una liberazione sia l'accettazione della propria morte. Arrivò al pianterreno. Boone era in piedi in mezzo alla stanza cosparso di immondizie con una pistola automatica in pugno. «Molla quell'arma!» gli urlò. «Gettala sul pavimento!» Dopo una vita intera di finzioni, Lawrence si tolse l'ultima maschera. Il figlio di Sparrow si avventò di corsa contro il nemico con in mano la spada. Si sentiva libero, sgravato da ogni dubbio ed esitazione. Boone alzò lentamente la pistola e gli sparò al cuore. 49 Vicki era prigioniera in casa di sua madre. Era sorvegliata sia dagli a-
genti della Tabula sia dai membri della sua congregazione. Il furgone della società elettrica era sparito dalla strada, ma erano comparse altre squadre di sorveglianza. Due tecnici di una Tv via cavo cominciarono a sostituire le scatole dei relè in cima ai pali del telefono. Di notte non tentavano nemmeno di nascondersi. Un uomo bianco e uno di colore restavano seduti a bordo di un SUV all'altro lato della strada. Una volta un'auto della polizia si era fermata accanto al fuoristrada, e i due agenti avevano chiesto qualcosa agli uomini della Tabula. Mentre Vicki sbirciava attraverso le veneziane, i mercenari avevano mostrato dei tesserini di riconoscimento e la scena si era conclusa con grandi strette di mano. Sua madre aveva chiesto protezione alla Chiesa. Di notte, una o due persone dormivano in soggiorno. Al mattino se ne andavano e due nuovi fedeli arrivavano per passare l'intera giornata in casa. I Jonesie rifiutavano la violenza, ma si consideravano difensori della fede armati della parola del profeta. Se la casa fosse stata attaccata, avrebbero cantato inni di lode e si sarebbero distesi sull'asfalto davanti alle auto. Vicki trascorse la prima settimana di fronte alla Tv, ma finì per spegnere definitivamente l'apparecchio. Qualsiasi programma sembrava infantile o mistificante quando ci si rendeva conto di cosa si nascondeva dietro la facciata. Si fece dare dei pesi da un diacono della Chiesa e fece esercizi tutti ipomeriggi, fino a sentire male ai muscoli. La sera, cercava fino a tardi siti Internet pirata creati in Polonia, Corea del Sud e Spagna, che parlavano dei Viaggiatori e dell'Immensa Macchina. La maggior parte di questi concordava sul fatto che tutti i Viaggiatori erano morti, uccisi dalla Tabula e dai suoi mercenari. Da bambina Vicki aveva sempre atteso con ansia la domenica, svegliandosi presto la mattina, profumandosi i capelli e indossando il suo vestito bianco preferito. Ora, ogni giorno della settimana era identico all'altro. Quella domenica mattina era già tardi quando sua madre entrò in camera e la trovò ancora a letto. «Devi prepararti, Vicki. Tra poco arriverà un'auto a prenderci.» «Non ho voglia di andare.» «Non c'è motivo di avere paura. La congregazione ti proteggerà.» «Non è per la Tabula. Sono preoccupata per i miei amici.» Josetta strinse le labbra e Vicki intuì ciò che sua madre stava pensando: "Non sono tuoi amici". Rimase in piedi di fianco al letto finché Vicki non si alzò e non si vestì. «Isaac T. Jones una volta disse a suo fratello...»
«Non citare il profeta, mamma. Ha detto un sacco di cose, e non tutte concordano. Se si fa attenzione alle idee di fondo, è chiaro che Isaac Jones credeva nella libertà, nella compassione e nella speranza. Non basta ripetere le sue parole per essere nel giusto. Bisogna cambiare la propria vita.» Un'ora dopo, era seduta in chiesa di fianco a sua madre. Tutto era come sempre, i soliti inni, la colletta, e i volti intorno a lei, ma non si sentiva più parte della cerimonia. L'intera congregazione sapeva che Victory From Sin Fraser era coinvolta in una vicenda losca con Hollis Wilson e una spietata donna arlecchino di nome Maya. Durante il "confessionale" domenicale tutti fissavano Vicki con aria di disapprovazione ed esprimevano i loro timori. Il confessionale pubblico era una particolarità unica della Chiesa dei Jonesie, uno strano incrocio tra una rinascita battista e una testimonianza quacchera. Quella mattina si svolse nella maniera tipica. Prima di tutto il reverendo J.T. Morganfield impartì un sermone sulla manna piovuta nel deserto, non solo l'alimento fornito agli israeliti ma anche le ricchezze spirituali disponibili per ogni fedele. Poi, mentre un complessino di tre soli elementi - batteria, chitarra e organo - attaccava a suonare un trascinante ritmo gospel, la congregazione intonò La fede ti chiama a servir con zelo, un vecchio inno dei Jonesie. Durante il canto i fedeli si alzavano in piedi a turno e alla fine di ogni strofa ognuno esprimeva liberamente ciò che lo turbava. Quasi tutti nominarono Victory Fraser. Erano preoccupati per lei. Avevano paura. Ma sapevano che Dio l'avrebbe protetta. Vicki teneva lo sguardo dritto davanti a sé e cercava di non mostrare il proprio imbarazzo. Da come parlavano, sembrava fosse tutta colpa della sua fede nel Debito Insoluto. Un'altra strofa. Una confessione. Una strofa. Una confessione. Vicki avrebbe tanto voluto alzarsi e scappare di corsa dalla chiesa, ma sapeva che tutti l'avrebbero seguita. Mentre l'inno aumentava d'intensità, la porta della sagrestia vicino all'altare si aprì, facendo apparire Hollis Wilson. Tutti smisero immediatamente di cantare, ma la cosa non parve turbarlo. In piedi di fronte alla chiesa, mise la mano destra nella tasca interna della giacca e tirò fuori una copia rilegata in pelle delle Lettere di Isaac T. Jones. «Ho una confessione da fare» esordì Hollis. «Ho una testimonianza per tutti voi. Nella quarta epistola, scritta da Meridian, nel Mississippi, il profeta dice che non esiste nessuno al mondo, uomo o donna che sia, che si possa ritenere perduto per sempre. Chiunque, perfino il più miserabile dei
peccatori, può prendere la decisione di tornare a Dio e alla cerchia dei fedeli.» Hollis interrogò con lo sguardo il reverendo Morganfield e il pastore rispose, quasi automaticamente: «Amen, fratello». Tutti i membri della congregazione trassero un respiro di sollievo e si rilassarono. Sì, un individuo pericoloso si ergeva accanto all'altare, ma si stava confessando secondo il rito. Hollis guardò Vicki per la prima volta e annuì quasi impercettibilmente, come per avere una conferma della loro intesa. «Ho smarrito la via per molti anni» proseguì Hollis. «Ho condotto una vita da ribelle, di peccato e disobbedienza. Mi scuso con chiunque possa avere anche inavvertitamente ferito o offeso, ma non sono qui per chiedere perdono. Nella nona epistola Isaac T. Jones ci dice che solo Dio può garantire il perdono... ed Egli lo elargisce equamente a ogni uomo e ogni donna, a ogni razza e nazione sotto il sole.» Hollis aprì il libro verde e lesse un versetto. «"Noi, che agli occhi di Dio siamo tutti uguali, dovremmo essere uguali anche agli occhi dell'umanità."» «Amen!» esclamò un'anziana signora. «Non imploro perdono neppure per essermi unito a un Arlecchino per combattere la Tabula. All'inizio l'ho fatto per denaro... sì, come un sicario a pagamento. Ma ora, il velo della cecità mi è stato strappato dagli occhi e ho veduto il potere della Tabula e il loro piano per dominare e manipolare il popolo della Nuova Babilonia. «Per molti anni questa Chiesa si è divisa sulla dottrina del Debito Insoluto. Io sono fermamente convinto che questa disputa abbia perso significato. Zachary Goldman, Lion of the Tempie, morì difendendo il profeta. È un fatto che nessuno può mettere in discussione. Ma la cosa che conta di più è il male operato oggi, adesso, la volontà della Tabula di tradire il genere umano. Come disse il profeta: "Il Giusto deve combattere il Drago sia nelle tenebre sia nella luce".» Vicki si guardò intorno. Hollis aveva conquistato alcuni membri della congregazione, ma non certo il reverendo Morganfield. I fedeli più anziani annuivano, pregavano ed esclamavano «Amen» sottovoce. «Dobbiamo sostenere gli Arlecchini e i loro alleati, non solo con le nostre preghiere, ma con i nostri figli e le nostre figlie. Ecco perché sono qui oggi. La nostra armata ha bisogno dell'aiuto di Victory From Sin Fraser. Sono venuto a chiederle di unirsi a noi e di condividere la nostra lotta.» Hollis alzò il braccio destro e le fece un gesto come a dire: "Vieni con
me". Vicki sapeva di dover prendere la decisione più importante della sua vita. Quando guardò sua madre, vide che stava piangendo. «Voglio la tua benedizione» le sussurrò. «Non andare, ti uccideranno.» «È la mia vita, mamma. È la mia scelta. Sai che non posso rimanere qui.» Ancora in lacrime, Josetta abbracciò sua figlia. Vicki sentì le braccia di sua madre che la stringevano forte, e poi la lasciavano andare. Tutti la fissarono mentre si alzava e raggiungeva Hollis, di fianco all'altare. «Addio» disse. La sua stessa voce la sorprese. Trasmetteva forza e fiducia. «Presto mi metterò in contatto con molti di voi per avere aiuto e sostegno. Andate a casa e pregate. Decidete se volete schierarvi dalla nostra parte.» Hollis le prese la mano e si diressero con passo deciso verso la porta. Sul retro della chiesa era posteggiato un pick-up modificato in camper. Non appena salirono a bordo Hollis estrasse dalla cintura una pistola automatica e la appoggiò sul sedile fra di loro. «Ci sono due mercenari della Tabula davanti alla chiesa, sull'altro lato della strada» disse. «Speriamo che non abbiano in zona una seconda squadra di sorveglianza.» Hollis procedette a bassa velocità lungo il vicolo fino a una stradina d'accesso sterrata che si incuneava tra due file di costruzioni. Continuò a girare per strade secondarie finché non raggiunsero una via asfaltata, a diversi isolati dalla chiesa. «Tutto bene?» Vicki guardò Hollis, e lui le sorrise. «Ho dovuto combattere con tre congiunti, ma te lo racconterò più tardi. Negli ultimi giorni ho continuato a girare per la città, usando i computer delle biblioteche pubbliche. Mi sono messo in contatto con un Arlecchino francese di nome Linden. È l'amico di Maya che mi ha spedito il denaro.» «Chi altro fa parte dell'armata" della quale parlavi?» «Per ora ci siamo solo tu, io, Maya e Gabriel. Maya lo ha riportato a Los Angeles. Ma senti questa...» Hollis batté il pugno sul volante. «Gabriel ha attraversato le barriere. È un Viaggiatore.» Vicki guardò il traffico mentre imboccavano la superstrada. Migliaia di persone sedevano da sole al volante, ognuna prigioniera della sua scatoletta a rotelle. I cittadini fissavano i paraurti davanti a loro, ascoltavano il brusio della radio e credevano che quel momento e quel luogo fossero l'unica vera realtà. Nella mente di Vicki tutto era cambiato. Un Viaggiatore aveva spezzato i legami che vincolavano uomini e donne a questo mondo. La superstrada, le auto e i conducenti al volante non erano la risposta fina-
le, ma solo un'alternativa possibile. «Grazie per essere venuto in chiesa, Hollis. Hai corso un rischio per me.» «Sapevo che saresti stata presente e sapevo come arrivarci senza farmi vedere. E poi mi occorreva il permesso della congregazione. Credo che la maggior parte di loro mi appoggi.» «Di quale permesso stai parlando?» Hollis si abbandonò contro lo schienale e rise. «Ci nasconderemo all'Arcadia.» L'Arcadia era un centro ricreativo della Chiesa sui monti a nordovest di Los Angeles. Rosemary Kuhn, una donna bianca che amava cantare inni nella chiesa dei Jonesie, aveva donato alla congregazione quaranta acri di terreno agricolo a Malibu. Da bambini sia Vicki sia Hollis erano stati spesso all'Arcadia. Facevano escursioni sui monti, nuotavano in piscina e al sabato sera cantavano canzoni intorno al falò. Alcuni anni prima il pozzo artesiano del centro ricreativo si era guastato e il consiglio di zona aveva condannato la località per diverse violazioni alle norme sanitarie e edilizie. Quando la congregazione aveva tentato di rivendere la proprietà, i figli di Rosemary Kuhn avevano impugnato il testamento, cercando di riavere ciò che ritenevano loro di diritto. Hollis prese la Route One che saliva a nord lungo la costa e poi seguì la statale che si inoltrava nel Topanga Canyon. Quando dopo l'ufficio postale di Topanga svoltarono a sinistra la strada si fece più stretta e molto più ripida. File di querce e arbusti delimitavano la strada. Finalmente passarono sotto un arco di legno, rovinato dai vandali con la scritta CADIA ancora dipinta, e giunsero in cima all'altura. Un lungo viale d'accesso, eroso dalle intemperie, li condusse a un parcheggio coperto. Le costruzioni del centro ricreativo erano immutate da vent'anni. C'erano dormitori maschili e femminili separati, una piscina vuota con gli spogliatoi, una cisterna per l'acqua e un grande centro comunitario usato sia come mensa sia come chiesa. I lunghi edifici bianchi avevano i tetti di coppi rossi. Le aiuole fiorite e l'orto, un tempo curati dai Jonesie, adesso erano invasi da piante infestanti. Non c'era una sola finestra i cui vetri non fossero stati infranti a sassate, e il terreno era disseminato di lattine di birra vuote. Dalla cresta si potevano ammirare le montagne da una parte e l'oceano Pacifico dall'altra. Vicki pensò di essere sola con Hollis finché Maya e Gabriel non uscirono dal centro comunitario e andarono ad accoglierli nel parcheggio. Maya
era sempre la stessa: forte e aggressiva. Vicki fissò Gabriel, cercando nel suo aspetto dei segni di cambiamento. Il sorriso non era mutato, ma il suo sguardo aveva una nuova intensità. Vicki provò un certo imbarazzo finché Gabriel non la salutò con un abbraccio. «Eravamo in pensiero, Vicki. Sono contento che tu sia qui.» Hollis era stato in un negozio di forniture militari e aveva comprato quattro brande da campo e quattro sacchi a pelo per i due dormitori. Nella cucina del centro comunitario c'erano un fornello da campeggio, varie bottiglie di acqua, barattoli e scatolette di cibo. Usarono una vecchia scopa per spazzare via la polvere, poi si sedettero a uno dei lunghi tavoli della mensa. Maya accese il suo computer portatile e mostrò loro i dati personali di diversi cittadini americani della loro età, morti in incidenti stradali. Nelle settimane successive si sarebbero procurati i certificati di nascita delle persone morte, con i quali avrebbero fatto richiesta di patenti e quindi di passaporti per diverse identità. Grazie ai documenti falsi avrebbero varcato il confine con il Messico e raggiunto un rifugio sicuro in un altro Paese. «Non voglio finire in una prigione messicana» disse Hollis. «Se vogliamo lasciare il Paese abbiamo bisogno di soldi.» Maya spiegò che Linden aveva spedito in America migliaia di dollari nascosti all'interno di un'antica statuetta di Buddha. Il pacco era depositato presso un antiquario di West Hollywood. Era pericoloso ricevere bonifici o farsi recapitare pacchi quando si era ricercati dalla Tabula. Hollis le disse che sarebbe andato con lei, per sorvegliare il retro dell'edificio mentre lei era nel negozio. «Non posso lasciare Gabriel da solo.» «Non gli succederà nulla» le disse. «Nessuno sa di questo posto. E anche se gli uomini della Tabula lo scoprissero, dovrebbero sempre risalire la strada di accesso. Vedremmo la vettura almeno dieci minuti prima del loro arrivo.» Maya cambiò idea due volte durante il pranzo e poi finalmente decise che doveva ritirare il denaro. Vicki e Gabriel andarono nel parcheggio a salutarli e rimasero a fissare il pick-up di Hollis che scendeva dalla montagna. «Cosa pensi di Maya?» domandò Gabriel. «È una ragazza molto coraggiosa.» «Suo padre l'ha sottoposta fin da piccola a un durissimo addestramento, per fare di lei un Arlecchino. Sono convinto che non si fidi di nessuno.» «Il profeta una volta scrisse una lettera a sua nipote Evangeline, una ra-
gazza di appena dodici anni. Disse che i nostri genitori ci danno delle corazze di protezione da indossare e che a mano a mano che diventiamo grandi decidiamo autonomamente se indossarle o meno. Ma quando si diventa adulti, i pezzi che compongono l'armatura non combaciano più fra loro e non possono più proteggerci completamente.» «Maya è protetta benissimo.» «Sì. Ma sotto la corazza è uguale a noi. Siamo tutti uguali.» Vicki trovò una vecchia scopa e ripulì il pavimento del centro comunitario. Di tanto in tanto lanciava un'occhiata fuori dalla finestra e vedeva che Gabriel stava gironzolando nel parcheggio. Il Viaggiatore sembrava irrequieto e infelice. Stava riflettendo, cercava la soluzione a un problema. Vicki finì di spazzare il pavimento e si mise a pulire i tavoli con uno straccio umido quando Gabriel apparve sulla soglia. «Ho deciso di fare un viaggio.» «Perché proprio adesso?» «Devo assolutamente trovare mio fratello Michael. Nella barriera di fuoco l'ho solo incrociato per un istante, ma forse si trova in uno dei regni.» «Pensi che stia aiutando la Tabula?» «È proprio questo che mi preoccupa, Vicki. Può darsi che lo stiano obbligando.» Vicki seguì Gabriel nel dormitorio maschile e lo osservò sedersi su una branda con le gambe allungate in avanti. «Dovrei andarmene?» domandò. «No. Resta pure. Il mio corpo rimarrà qui. Niente fiamme né angeli.» Tenendo la spada di giada con entrambe le mani, Gabriel fece dei profondi respiri. Tutt'a un tratto, lasciò che la parte superiore del corpo cadesse all'indietro. Il movimento rapido sembrò cambiare tutto. Inspirò a fondo un'ultima volta e poi Vicki assistette alla trasformazione. Il suo corpo fu scosso da alcuni brividi e si afflosciò completamente. Ora le ricordava l'illustrazione che aveva visto su un libro di storia: un cavaliere medievale di pietra disteso sopra un sarcofago. Gabriel era sopra di lei? Stava fluttuando nello spazio? Si guardò intorno in cerca di una traccia qualsiasi della sua presenza, ma vide solo i muri macchiati di umidità e il soffitto annerito. "Veglia su di lui" pregò. "Oh Dio, proteggi questo Viaggiatore." 50 Gabriel aveva abbandonato il Quarto Regno. La sua Luce aveva attra-
versato le quattro barriere. Aperti gli occhi, si ritrovò in piedi in cima alle scale di una vecchia casa. Era solo. Attorno a lui regnava il silenzio. Una fioca luce grigia entrava da una finestrella. Sul pianerottolo alle sue spalle trovò un vecchio tavolo da salotto. Sopra c'era un vaso con una rosa di seta e Gabriel toccò i petali rigidi e lisci. La rosa, il vasetto e l'ambiente circostante erano falsi come gli oggetti del mondo a cui lui apparteneva. Solo la Luce era permanente e reale. Il suo corpo e i suoi indumenti erano immagini del suo spirito che lo avevano seguito in quel posto. Gabriel estrasse di pochi centimetri la spada di giada dal fodero e la lama balenò di un'energia argentea. Spinse da parte le tendine di pizzo e sbirciò fuori dalla finestra. Era quasi sera, poco dopo il tramonto, e cominciava a imbrunire. Si trovava in una città, con marciapiedi e viali alberati. Al lato opposto della strada sorgeva una fila di palazzine a schiera, la zona gli ricordava i vecchi quartieri in arenaria rossa di New York o Baltimora. In alcuni appartamenti di fronte erano accese le luci e le tende assumevano un tenue colore giallognolo, come ritagli di una vecchia pergamena. Gabriel mise la spada a tracolla, in modo che l'impugnatura spuntasse dietro la spalla, poi scese le scale al terzo piano il più silenziosamente possibile. Aprì una delle tante porte, aspettandosi un'aggressione, e trovò una camera da letto vuota. I mobili erano scuri e imponenti: un grosso comò con maniglie d'ottone e un letto con la testiera scolpita. La stanza aveva un fascino rétro che gli ricordava i film degli anni Venti. Non vedeva nessuna radiosveglia né un televisore, nulla di moderno o di colorato o cromato. Al secondo piano udì le note di un pianoforte provenienti dal piano di sotto. La musica era lenta e triste: una semplice melodia ripetuta all'infinito con minime variazioni. Scendendo l'ultima rampa di scale cercò di non far scricchiolare i gradini di legno. A pianterreno una porta ad arco dava accesso a una sala da pranzo con un lungo tavolo e sei sedie. Frutti di cera riempivano una fruttiera di porcellana sulla credenza. Oltrepassato il corridoio, Gabriel attraversò uno studio con delle poltrone di cuoio e una solitaria lampada da tavolo ed entrò in un salotto. Una donna sedeva a un pianoforte con le spalle rivolte alla soglia. Aveva i capelli grigi e indossava una lunga gonna nera e una camicetta color lavanda con le maniche a sbuffo. Gabriel avanzò verso di lei. Il pavimento d'assi fece un leggero scricchiolio e la sconosciuta si guardò alle spalle. Il suo volto lo fece trasalire. Era pallido ed emaciato, come se la donna fosse
rinchiusa in quella casa a morire di fame. Solo i suoi occhi, puntati su di lui, erano vivi, brillanti e intensi. Era sorpresa ma non spaventata dall'intrusione di Gabriel. «E tu chi sei?» chiese la donna. «Non ti ho mai visto.» «Mi chiamo Gabriel. Potrebbe dirmi come si chiama questo posto?» Gli si avvicinò, facendo frusciare la gonna nera. «Sembri diverso dagli altri, Gabriel. Devi essere nuovo.» «Sì, credo di sì.» Il Viaggiatore fece qualche passo indietro, ma lei lo seguì. «Mi scusi se sono entrato in casa sua.» «Oh, non devi dispiacerti per niente.» Prima che Gabriel avesse il tempo di fermarla, la donna gli prese la mano destra. Un'espressione di meraviglia le apparve in viso. «La tua pelle è calda. Com'è possibile?» Gabriel tentò di liberarsi dalla stretta, ma la donna lo trattenne con una forza sorprendente per il suo corpo fragile. Tremando leggermente, si piegò in avanti e gli baciò il dorso della mano. Gabriel sentì le sue labbra gelide sulla pelle e poi, all'improvviso, un dolore lancinante. Ritrasse di scatto la mano e vide che sanguinava. Una piccola goccia di sangue - del suo sangue - era rimasta all'angolo della bocca dell'anziana signora. La donna toccò la goccia con la punta dell'indice, studiò il colore rosso brillante e poi si infilò in bocca il dito. In estasi, chiuse gli occhi tremante, posseduta dal piacere. Gabriel si affrettò a lasciare il salotto e risalì il corridoio di corsa fino alla porta d'ingresso. Annaspò con la serratura a scatto e un istante dopo era fuori, sul marciapiede. Prima che avesse il tempo di nascondersi da qualche parte, un'automobile nera risalì lentamente la via. Sembrava una berlina degli anni Venti, ma nel suo disegno c'era qualcosa di irreale. Sembrava l'idea di un'automobile, anziché una vera macchina costruita in una fabbrica. L'uomo al volante era un vecchio smunto. Fissò Gabriel con insistenza transitandogli davanti. Vagando nelle vie oscure Gabriel non incontrò altre macchine. Giunse in una piazza quadrata in mezzo alla quale c'era un parchetto con alcune panchine, un palco coperto per la banda e qualche albero. La piazza era delimitata da palazzine di tre piani, con i negozi al pianterreno. Le luci accese filtravano dalle finestre dei locali ai piani superiori. Una dozzina di pedoni passeggiava per la piazza. Erano tutti vestiti con abiti all'antica, molto formali, simili a quello indossato dalla donna che suonava il piano: completi scuri, gonne alle caviglie, cappelli e soprabiti che celavano corpi magrissimi.
Gabriel si sentiva un estraneo, in felpa e blue jeans. Cercò di rimanere nell'ombra scura dei palazzi. Le vetrine avevano tutte lo stesso tipo di vetro molto spesso, in telai di acciaio, usato nelle gioiellerie. Ogni negozio aveva una sola vetrina e ogni vetrina un solo articolo esposto, illuminato con varie luci. Gabriel incrociò un uomo calvo, pelle e ossa, con una faccia contratta da vari tic. Stava fissando in una vetrina un orologio antico d'oro. Sembrava stordito, quasi ipnotizzato, dall'oggetto. Due negozi più avanti c'era una bottega d'antiquariato con la statua di marmo di un fanciullo nudo in vetrina. Vicinissima alla vetrina, una donna dal rossetto scuro fissava la statua. Mentre Gabriel le passava accanto, la donna si chinò in avanti e baciò il vetro. In fondo all'isolato trovò una drogheria. Non era un supermercato moderno, ma tutto sembrava pulito e ordinato. Clienti con cestelli di corda rossi per la spesa passeggiavano tra gli scaffali. Una giovane donna in camice da lavoro era in piedi dietro il registratore di cassa. La commessa fissò Gabriel con insistenza quando entrò ed egli si infilò in una corsia del negozio per evitare il suo sguardo. Gli scaffali contenevano scatole e barattoli senza diciture sulle etichette. Al posto di marche e scritte, i diversi contenitori avevano disegni colorati che riproducevano i prodotti all'interno. Bambini e genitori disegnati come personaggi dei fumetti sorridevano allegramente, consumando cereali e minestra al pomodoro. Gabriel prese da uno scaffale una scatola di cracker. Era leggerissima. Afferrò un'altra scatola e la apri, scoprendola vuota. Controllando altre scatole e barattoli, passò alla corsia successiva e trovò un ometto accovacciato per terra che riempiva di prodotti gli spazi vuoti negli scaffali. Il suo grembiule bianco inamidato e il farfallino rosso gli davano un'aria linda ed efficiente. Lavorava con grande precisione, accertandosi che l'etichetta di ogni confezione fosse rivolta all'esterno. «Come mai sono tutte vuote?» domandò Gabriel. L'ometto si alzò, puntandogli gli occhi addosso. «Lei deve essere nuovo qui.» «Come può vendere scatole e barattoli vuoti?» «Perché la gente vuole quello che c'è dentro. Lo vogliamo tutti.» L'uomo era attirato dal calore del corpo di Gabriel. Gli si avvicinò in modo imbarazzante ma il Viaggiatore lo respinse. Cercando di non farsi prendere dal panico uscì dalla drogheria e tornò verso la piazza. Gli batteva forte il cuore e un'onda fredda di paura lo fece rabbrividire. Sophia
Briggs gli aveva parlato di quel luogo. Si trovava nel Secondo Regno, quello degli Spiriti Affamati. Erano spiriti perduti, briciole di Luce alla costante ricerca di qualcosa che colmasse il loro doloroso vuoto. Se non fosse riuscito a scoprire il passaggio per uscire da quel regno, vi sarebbe rimasto per sempre. Girato l'angolo, avvistò una macelleria bene illuminata. Attraversò la strada e si stupì di trovare costolette d'agnello, arrosto di maiale e lombate di manzo su vassoi d'acciaio. Un robusto macellaio dai capelli biondi era alla cassa con il suo aiutante, un giovane sui vent'anni. Un ragazzino con un grembiule stava pulendo con cura il pavimento di piastrelle bianche. La carne esposta era vera. I due uomini e il bambino sembravano in salute. Gabriel allungò la mano verso il pomo d'ottone della porta. Esitò un istante e poi entrò. «Lei è nuovo» disse il macellaio con un sorriso cordiale. «Conosco praticamente tutti da queste parti e non l'ho mai vista prima d'ora.» «C'è qualcosa da mangiare?» chiese Gabriel. «Quel prosciutto, per esempio?» Gabriel indicò tre prosciutti affumicati appesi ai ganci sopra il banco. Il macellaio sembrava divertito e il suo aiutante sogghignò. Senza chiedere il permesso, Gabriel allungò la mano e toccò un prosciutto. Qualcosa non andava. Lo staccò dal gancio, lo gettò sul pavimento e guardò l'oggetto di ceramica frantumarsi in mille pezzi. Nel negozio era tutto falso: imitazioni di cibo esposte come fossero vere. Gabriel udì un breve scatto metallico e si voltò. Il bambino aveva chiuso la porta della macelleria con il chiavistello. Davanti a lui, il macellaio e il suo aiutante fecero il giro del bancone e gli andarono incontro. L'aiutante estrasse un coltello con una lama di trenta centimetri dal fodero di cuoio che aveva appeso alla cintura. Il padrone impugnava una grossa mannaia. Gabriel sguainò la spada e arretrò di qualche passo per mettersi con le spalle al muro. Il bambino appoggiò lo spazzolone ed estrasse un piccolo coltello a lama curva: il genere di attrezzo usato per separare il filetto dall'osso. Continuando a sorridere, l'aiutante alzò il braccio e lanciò il coltello. Gabriel si piegò a sinistra evitando l'arma, che andò a piantarsi nella parete rivestita di legno. Il macellaio partì in avanti, roteando la mannaia. Gabriel finse una stoccata alla testa e vibrò invece un fendente basso, squarciando il braccio all'avversario. Lo spirito sogghignò mostrandogli la ferita: la pelle lacerata, il muscolo reciso e l'osso scoperto, ma non una goccia di
sangue. Gabriel passò all'attacco. L'uomo alzò prontamente la mannaia e parò il colpo di spada. Le due lame sfregarono l'una contro l'altra e l'acciaio stridette come un uccello in trappola. Gabriel balzò di lato, aggirando l'avversario, e vibrò un colpo basso, troncando la gamba dello spirito sotto il ginocchio. Il macellaio cadde sul pavimento di piastrelle. Restò disteso sulla pancia, gemendo e allungando le braccia in avanti come per nuotare sul fondo di una vasca vuota. L'aiutante staccò il coltello dalla parete e Gabriel si preparò a difendersi. Invece il giovane si abbassò di scatto sul macellaio, pugnalandolo alla schiena. Un colpo violento, che lacerò il muscolo fino alle anche. Anche il bambino si avventò contro l'uomo a terra, tagliando brandelli di carne secca e infilandoli in bocca. Gabriel tirò il chiavistello della porta e corse fuori. Attraversò la strada in poche falcate, andando a rifugiarsi nel parchetto quadrato al centro della piazza, e si accorse che la gente stava uscendo dalle case. Riconobbe la donna del pianoforte e il commesso con il farfallino. Gli spiriti sapevano che era in città. Lo stavano cercando, per riempire il loro vuoto. Gabriel era in piedi, solo, con le spalle contro il palco della banda. Doveva mettersi a correre? C'era modo di fuggire? Sentì il motore di un'auto, si voltò e vide spuntare da una via una coppia di fari. Quando l'auto fu più vicina, si rese conto che si trattava di un vecchio taxi con una luce gialla sul tettuccio. Il conducente prese a suonare il clacson senza fermarsi, poi la vettura accostò. L'uomo al volante abbassò il finestrino e sorrise. Era Michael. «Salta su!» gli gridò. Gabriel si affrettò a salire sull'auto e suo fratello fece il giro della piazza, suonando il clacson ed evitando gli spiriti. Svoltò in una strada secondaria e accelerò. «Ero sul tetto di un palazzo e a un certo punto ti ho visto nella piazza.» «Come hai trovato la macchina?» «Ho fatto le scale di corsa e in strada ho visto arrivare questo taxi. Il tassista era un vecchio scheletrico che continuava a chiedermi se ero "nuovo"... qualunque cosa voglia dire. Così l'ho afferrato per il bavero e l'ho tirato fuori dal taxi. Gli ho dato un pugno in faccia e me ne sono andato.» Michael scoppiò a ridere. «Non so dove ci troviamo, ma dubito che sarò arrestato per furto d'auto.» «Siamo nel Secondo Regno, quello degli Spiriti Affamati.»
«Mi sembra una definizione adatta. Sono entrato in un ristorante, e in un séparé c'erano sedute quattro persone. Niente cibo, solo piatti vuoti.» Michael sterzò bruscamente svoltando in un vicolo. «Presto» disse. «Dobbiamo entrare nel palazzo prima che qualcuno ci veda.» I due fratelli scesero dal taxi. Michael aveva con sé una spada con un triangolo d'oro incastonato nell'impugnatura. «Dove l'hai presa?» domandò Gabriel. «Me l'hanno data degli amici.» «È un talismano.» «Lo so. È meglio avere un'arma in un luogo come questo.» I fratelli Corrigan uscirono dal vicolo e risalirono di corsa il marciapiede fino a un edificio di quattro piani con la facciata di granito. Il grande portone d'ingresso era fatto di un metallo scuro ed era diviso in formelle quadrate con sculture a bassorilievo di spighe di grano, mele e altri cibi. Michael aprì la porta e i fratelli entrarono. Si ritrovarono in un lungo corridoio d'ingresso, privo di finestre, con il pavimento a scacchi e lampadari appesi a catene d'ottone. Michael percorse il corridoio e si fermò davanti a una porta con la scritta: BIBLIOTECA. «Eccoci qui. Il posto più sicuro di tutta la città.» Gabriel seguì suo fratello in un grande salone. Tutte le pareti erano coperte di scaffali di rovere carichi di libri. C'erano scalette agganciate a dei binari, con le quali si poteva raggiungere qualsiasi volume, e una passerella a cinque metri d'altezza che dava accesso a un'altra serie di scaffali. Al centro del salone si trovavano pesanti sedie di legno e tavoli da lettura con il piano rivestito di pelle verde. Lampade di vetro verde illuminavano l'ambiente. La biblioteca sembrava ricca di storia e tradizione. In quel luogo era possibile trovare su carta tutta la sapienza umana. Michael si aggirava nella sala come fosse il bibliotecario. «Bella, eh?» «E nessuno viene qui?» «No, naturalmente. Perché dovrebbero venirci?» «Per leggere i libri.» «Impossibile.» Michael prese da uno scaffale un grosso libro rilegato in pelle nera e lo lanciò a suo fratello. «Guarda...» Gabriel aprì il libro, scoprendo che non era stampato. Solo pagine bianche. Lo appoggiò su un tavolo e prese un altro volume da uno scaffale. Pagine bianche. Michael scoppiò a ridere. «Ho consultato la Bibbia e il vocabolario. Non c'è niente di scritto. La gente che vive in questa dimensione non può né mangiare né bere né leg-
gere. Scommetto che non possono neppure fare sesso o dormire. Se questo è un sogno, allora è senza dubbio un incubo.» «Non è un sogno. Siamo entrambi qui.» «Giusto. Siamo Viaggiatori.» Michael annuì e prese il braccio di suo fratello. «Ero in ansia per te, Gabe. Sono contento di vedere che stai bene.» «Papà è vivo.» «Come lo sai?» «Sono stato in un posto che si chiama New Harmony, nel Sud dell'Arizona. Otto anni fa, papà ha incontrato certe persone e le ha aiutate a cambiare la loro vita, fondando una comunità libera dalla Griglia. Potrebbe essere nel nostro mondo - o in questo mondo - ovunque.» Michael passeggiò avanti e indietro tra le file di tavoli da lettura. Scelse un libro da uno scaffale come se potesse fornirgli una risposta e poi lo buttò via. «D'accordo» concesse. «Papà è vivo. È un fatto interessante, ma senza importanza. Ora dobbiamo concentrarci sul nostro problema.» «Quale problema?» «In questo momento il mio corpo fisico è su un tavolo operatorio in un centro di ricerca nei dintorni di New York. Tu invece dove sei, Gabe?» «Sono in un centro ricreativo abbandonato, sulle alture di Malibu.» «Sei sorvegliato?» «No, certo.» «Non appena tornerò nel nostro mondo dirò loro dove sei...» «Sei pazzo?» Gabriel fece un passo verso il fratello. «Proprio tu che sei stato catturato dagli agenti della Tabula. È la stessa gente che ha bruciato la nostra fattoria.» Michael annuì. «So com'è andata, Gabriel. Un uomo di nome Kennard Nash mi ha spiegato tutto. Ma sono storie passate, Gabe. Non è più così. Ora hanno bisogno di un Viaggiatore. Sono in contatto con una civiltà progredita.» «Che differenza fa, Michael? Vogliono distruggere qualsiasi tipo di libertà personale.» «Quello è il piano per le persone normali, ma non riguarda noi. E non è né un bene né un male. Accadrà e basta. Nessuno può impedirlo. I Confratelli stanno già controllando il mondo.» «I nostri genitori non vedevano le cose in questo modo.» «E cosa diavolo hanno ottenuto? Eravamo poveri. Non avevamo amici. Non potevamo nemmeno usare i nostri veri nomi e abbiamo passato tutta la vita a nasconderci. Non si può evitare di far parte della Griglia, Gabriel.
Allora perché non unirsi a chi la controlla?» «La Tabula ti ha fatto il lavaggio del cervello...» «No. È esattamente il contrario. Sono l'unico della famiglia ad avere sempre visto le cose chiaramente.» «Non questa volta.» Michael posò la mano sull'impugnatura d'oro della spada. I due Viaggiatori si fissarono negli occhi. «Ti proteggevo quando eravamo bambini» disse Michael. «E dovrò farlo ancora.» Si voltò, uscendo dalla sala. Gabriel era in piedi fra i tavoli, immobile. «Torna qui!» gridò. «Michael!» Aspettò qualche secondo e poi corse in corridoio. Vuoto. Non c'era nessuno. La porta cigolò debolmente richiudendosi alle sue spalle. 51 Michael era seduto sul tavolo operatorio al centro del Sepolcro. Il dottor Richardson e il medico anestesista erano a pochi passi da lui, e lo fissavano mentre Miss Yang gli staccava dal corpo i sensori. Quand'ebbe finito, l'infermiera prese una felpa dal carrello e gliela porse sul palmo delle mani. Michael la indossò. Si sentiva fiacco e aveva molto freddo. «Forse dovrebbe dirci che cos'è accaduto.» Il dottor Richardson era in agitazione. «Dov'è il generale Nash?» «L'abbiamo chiamato appena lei si è ripreso» disse il dottor Lau. «Era al centro amministrativo.» Michael prese dal tavolo la spada con il fodero che aveva viaggiato insieme a lui, come uno spirito guardiano. La lama scintillante e l'impugnatura lavorata in oro erano identiche nel Secondo Regno. La porta si spalancò e un sottile raggio di luce comparve sul pavimento scuro. Michael depose di nuovo la spada sul tavolo mentre Kennard Nash attraversava a grandi passi la sala. «Tutto bene, Michael? Mi hanno detto che voleva vedermi.» «Faccia sparire questa gente.» Nash fece un breve cenno con il capo. Richardson, Lau e Miss Yang uscirono dalla porta del laboratorio sotto la galleria nord. I tecnici informatici stavano ancora osservando la scena dalla galleria di vetro. «Abbiamo finito!» esclamò Nash ad alta voce. «E fatemi il piacere di spegnere tutti i microfoni! Grazie a tutti!» I tecnici reagirono come scolaretti sorpresi a sbirciare in sala professori.
Si allontanarono immediatamente dalle vetrate, tornando ai loro monitor. «Allora? Dov'è stato, Michael? In un nuovo regno?» «Sì, ma glielo racconterò più tardi. C'è una questione più importante: ho incontrato Gabriel.» Nash si avvicinò al tavolo operatorio. «Meraviglioso! Siete riusciti a parlarvi?» Michael abbassò le gambe, rimanendo seduto sul bordo del tavolo. Durante gli anni di vagabondaggio, aveva trascorso intere ore a guardare il paesaggio oltre il finestrino. A volte si concentrava su di un unico oggetto al margine della strada, trattenendone il ricordo per alcuni secondi, finché non spariva dalla sua mente. Ora riviveva la stessa sensazione, ma in maniera molto più acuta. Le immagini rimanevano fisse nella sua mente, ed egli poteva analizzarne ogni dettaglio. «Quando eravamo bambini Gabriel non pensava mai al futuro né faceva mai progetti. Ero io a dover sempre sapere cosa avremmo fatto.» «Certo, Michael. Lo capisco.» La voce di Nash era dolce e suadente. «Lei è il fratello maggiore.» «Gabe è pieno di idee assurde. Io invece devo essere obiettivo. Devo fare sempre la scelta giusta.» «Gli Arlecchini avranno raccontato a Gabriel le loro assurde leggende. Non ha una visione del quadro generale. Non è come lei.» Michael aveva l'impressione che il tempo scorresse al rallentatore. Senza nessuno sforzo, riusciva a seguire tutti i più piccoli cambiamenti d'espressione di Nash. Normalmente, durante una conversazione tutto accadeva molto in fretta. Un interlocutore parlava, mentre l'altro aspettava di rispondere. C'era brusio, movimento, confusione, e tutti questi fattori aiutavano le persone a nascondere le loro vere emozioni. In quel momento invece tutto era perfettamente chiaro. Michael ricordò come suo padre guardasse le persone con le quali stava parlando. "Ecco come facevi" pensò Michael. "Non leggevi il pensiero delle persone: ma i loro visi." «Si sente bene?» domandò Nash. «Dopo che ci siamo parlati, ho lasciato mio fratello e ho trovato il passaggio per tornare indietro. Penso che Gabriel sia ancora nel Secondo Regno, ma il suo corpo fisico è in un centro ricreativo sulle colline di Malibu.» «È una splendida notizia. Manderò subito una squadra.» «Non fategli del male. Dovete solo portarlo qui.»
Nash abbassò lo sguardo come se si preparasse a mentire. Piegò leggermente la testa e mostrò i denti in un ampio sorriso. Michael batté le palpebre e il mondo tornò normale. Il tempo continuava a scorrere, ogni momento cadeva nel futuro come una fila di domino. «Non si preoccupi. Faremo di tutto per proteggere suo fratello. Grazie Michael. Ha fatto la cosa giusta.» Il generale si voltò e attraversò la penombra, fino all'uscita. I tacchi delle sue eleganti scarpe di cuoio producevano un suono regolare sul pavimento lucido. Clic-clic. Clic-clic. Le pareti del Sepolcro ne restituivano l'eco. Michael prese la spada, stringendo il fodero tra le mani. 52 Erano quasi le cinque del pomeriggio, ma Hollis e Maya non erano ancora tornati. Vicki si sentiva come un Arlecchino mentre vegliava sul corpo del Viaggiatore di fronte a lei. Ogni due o tre minuti toccava il collo di Gabriel. La sua pelle era calda, ma non c'era traccia di pulsazioni. Tornò a sedersi a qualche passo di distanza da lui e riprese a sfogliare delle vecchie riviste di moda trovate in un armadio. I giornali parlavano di abiti e di maquillage, di come trovare un uomo e come perderlo, e di sesso. Certi articoli la facevano sentire in imbarazzo, e Vicki li scorreva velocemente, senza riuscire a leggerli davvero. Si chiese se si sarebbe sentita a disagio in abiti aderenti che avrebbero messo in risalto il suo corpo. Hollis l'avrebbe trovata più attraente, ma forse l'avrebbe trattata come una delle tante ragazze che la mattina dopo ricevevano uno spazzolino da denti di ricambio e un passaggio a casa. Il reverendo Morganfield parlava sempre delle "indecenti donne di oggi" e della corruzione del mondo. «Indecente» mormorò Vicki tra sé. «Indecente.» La parola poteva avere l'effetto di una piuma o quello di un viscido serpente. Buttò le riviste in un cestino, uscì dall'edificio e controllò la strada di accesso al centro. Quando tornò nel dormitorio, la pelle di Gabriel era pallida e piuttosto fredda. Forse il Viaggiatore era entrato in un regno pericoloso. Poteva essere stato ucciso dai demoni o dagli Spiriti Affamati. La paura si fece strada in lei, come un sussurro che aumenti gradualmente di intensità. Gabriel stava perdendo le sue forze. Stava morendo, e lei non poteva fare niente. Gli sbottonò la camicia, si chinò sul petto nudo e appoggiò l'orecchio sopra il cuore. Ascoltò attentamente, sperando di sentire il battito di una
pulsazione. All'improvviso udì un rumore sordo, ma si rese immediatamente conto che proveniva dall'esterno. Abbandonando il corpo esanime, corse fuori dalla porta e vide un elicottero atterrare in una zona pianeggiante vicino alla piscina vuota. Ne uscirono uomini con elmetti da soldato, maschere e giubbotti antiproiettile che li facevano sembrare dei robot. Vicki tornò di corsa nel dormitorio. Cinse il torace di Gabriel con le braccia e cercò di sollevarlo, ma per lei era troppo pesante. La branda si rovesciò di fianco e la ragazza fu costretta ad appoggiare il corpo sul pavimento. Stava ancora stringendo il Viaggiatore quando un uomo alto in tenuta da combattimento irruppe di corsa nella stanza. «Lascialo andare!» le urlò, puntando il fucile d'assalto. Vicki non si mosse. «Fai un passo indietro e metti le mani sopra la testa!» Il dito dell'uomo si contrasse sul grilletto e Vicki aspettò il colpo. Sarebbe morta accanto al Viaggiatore, proprio come Lion of the Tempie era morto difendendo Isaac T. Jones. Dopo tanti anni, il debito sarebbe stato pagato. Un istante dopo Shepherd entrò nella camerata. Portava uno dei suoi completi di sartoria. «Fermo» disse. «Non è necessario.» Il soldato abbassò il fucile. Shepherd fece un cenno di approvazione e si rivolse alla ragazza come se la stesse incontrando a un party. «Ciao, Vicki. Ti stavamo cercando.» Si abbassò sul corpo del Viaggiatore, scostò la spada e premette due dita sulla carotide di Gabriel. «A quanto pare Mr Corrigan se n'è andato in un altro regno. Non c'è problema. Prima o poi dovrà tornare a casa.» «Sei un Arlecchino» disse Vicki in tono accusatorio. «È peccato lavorare per la Tabula.» «"Peccato" è un termine talmente antiquato, Vicki. Ma voi ragazze jonesie siete sempre antiquate.» «Sei solo feccia» ribatté Vicki. «Questo invece lo capisci?» Shepherd le fece un sorriso benevolo. «Considera tutta questa storia un gioco particolarmente complicato. Io ho scelto di stare con i vincitori.» 53 Maya e Hollis erano a pochi chilometri dal cancello d'ingresso di Arcadia quando avvistarono l'elicottero della Tabula. Si levò nel cielo e orbitò
sopra il centro come un rapace in cerca della preda. Hollis deviò subito il pick-up dalla strada e andò a mettersi al riparo sotto un folto gruppo di alberi, vicino a un muro di contenimento. Spiarono tra i rami di una quercia e videro l'elicottero dirigersi verso le alture. «E adesso che facciamo?» domandò Hollis. Maya avrebbe voluto prendere a pugni e calci il parabrezza, ma spinse le proprie emozioni in una stanza remota del suo cervello, chiudendone la porta. Quando era solo una bambina, Thorn la costringeva in un angolo con le spalle al muro e poi fingeva di attaccarla con una spada, un pugnale o con i pugni. Se indietreggiava o si faceva prendere dal panico suo padre era deluso. Se restava calma la lodava invece per il suo coraggio. «Gli uomini della Tabula non uccideranno Gabriel. Prima lo vorranno interrogare. Intanto avranno lasciato una squadra al centro ricreativo, nel caso torni qualcuno.» Hollis guardò fuori dal finestrino. «Vuoi dire che ci stanno aspettando per ucciderci?» «Sì.» Maya infilò gli occhiali da sole, in modo che Hollis non le vedesse gli occhi. «Ma non succederà...» Il sole tramontò verso le sei e Maya prese a inerpicarsi sul fianco del colle in direzione di Arcadia. L'Arlecchino trovò difficile risalire le pendici in linea retta. Aveva quasi la sensazione che gli arbusti, i rovi e le piante rampicanti le afferrassero le gambe e cercassero di strapparle dalla spalla la custodia della spada. A metà della salita restò bloccata in una fitta macchia di vegetazione che la costrinse a cercare un sentiero alternativo. Giunse al reticolato che circondava la proprietà e lo scavalcò. I due dormitori, la zona della piscina, la cisterna dell'acqua e il centro comunitario erano visibili distintamente al chiarore della luna. I mercenari della Tabula dovevano essere là, nascosti nell'ombra. Probabilmente avevano pensato che l'unico punto d'accesso fosse la strada che risaliva la collina. Un caposquadra avrebbe posizionato i suoi uomini a triangolo intorno al parcheggio. Maya sguainò la spada e ricordò gli insegnamenti di suo padre su come camminare senza fare rumore. "Devi muoverti come se stessi attraversando un lago coperto da uno strato sottile di ghiaccio. Metti avanti il piede, saggia adagio il terreno e solo quando sei sicura porta avanti il peso del corpo." Maya raggiunse una zona in ombra vicino alla cisterna e scorse una sa-
goma accovacciata presso gli spogliatoi della piscina. Era un uomo basso e robusto, armato di fucile d'assalto. Mentre gli si avvicinava da dietro, lo udì bisbigliare nel microfono di una cuffia radio. «Hai dell'altra acqua? Io l'ho finita.» L'uomo si interruppe per qualche secondo, poi sembrò seccato. «Capisco benissimo, Frankie. Ma io non mi sono portato dietro due bottiglie come hai fatto tu.» Maya fece un passo a sinistra, si lanciò in avanti e vibrò un fendente al collo dell'uomo, appena sotto la nuca. Il mercenario crollò come un manzo macellato. L'unico rumore fu quello del fucile che cadeva sul cemento. Maya si allungò sul cadavere e tolse al morto la cuffia radio, ascoltando le voci degli altri soldati. «Eccoli» disse una voce con un forte accento sudafricano. «Vedete i fari? Stanno arrivando...» Hollis oltrepassò l'ingresso della proprietà con il pick-up, risalì il viale d'accesso e si fermò nello spiazzo di ghiaia che faceva da parcheggio, spegnendo il motore. La luna illuminava la sua sagoma all'interno del veicolo. «E adesso che si fa?» domandò un soldato americano. «Vedete una donna?» «No.» «Se l'uomo scende, uccidetelo. Se invece rimane fermo là aspettate l'Arlecchino. Boone ha ordinato di sparare a vista alla donna.» «Io vedo solo un uomo» disse l'americano. «E tu, Richard?» L'uomo morto non poteva rispondere. Maya lasciò per terra il suo fucile d'assalto e avanzò rapidamente verso il centro comunitario. «Richard? Mi senti?» Nessuna risposta. Hollis rimaneva a bordo, distraendoli dal vero pericolo. Maya trovò il secondo soldato al vertice successivo del triangolo previsto. In ginocchio a ridosso del centro comunitario, teneva un fucile di precisione puntato contro il pick-up. Maya non aveva fatto rumore, ma l'uomo doveva aver sentito la sua presenza. All'ultimo fece per voltarsi ma la spada dell'Arlecchino gli squarciò la gola. Un fiotto di sangue uscì da un'arteria aperta mentre l'uomo cadeva a terra. «Penso che stia per scendere» disse il sudafricano. «Richard? Frankie? Siete lì?» Maya compì la scelta rapida e certa di un Arlecchino in battaglia, lanciandosi di corsa verso il dormitorio femminile. Come aveva previsto, il terzo uomo era in piedi dietro l'angolo della costruzione. Il mercenario
della Tabula era talmente spaventato da parlare ad alta voce. «Mi sentite? Sparate all'uomo sul pick-up! Subito!» Emergendo dall'ombra, Maya lo colpì con la spada al braccio destro. Il sudafricano lasciò cadere il fucile e Maya gli tagliò i tendini del ginocchio con un secondo fendente. Il mercenario crollò in avanti, urlando di dolore. Era quasi finita. Si avvicinò all'uomo minacciandolo con la spada. «Dove sono i due prigionieri? Dove li avete portati?» Il mercenario cercò di sfuggirle, ma l'Arlecchino gli recise con la spada i tendini dell'altra gamba. Ora il mercenario era disteso bocconi e strisciava come un animale, affondando le dita nella terra. «Dove sono?» «Li hanno portati all'aeroporto Van Nuys, a bordo di un...» l'uomo gemette, scosso da uno spasmo «... jet privato.» «Destinazione?» «La contea di Westchester, vicino a New York. Il centro di ricerca della Evergreen Foundation.» L'uomo si girò supino e alzò le mani in gesto di resa. «Lo giuro, è la verità. Sono diretti alla Evergreen...» La spada di Maya balenò nell'ombra. 54 I coni di luce dei fari del pick-up fendevano la strada mentre Hollis scendeva la collina di Arcadia. Maya era appoggiata contro la portiera con la spada da Arlecchino sulle ginocchia. Da quando era arrivata in America non aveva fatto altro che combattere, o correre a perdifiato, ma aveva fallito. In quel momento, Gabriel e Vicki venivano trasferiti sulla costa orientale a bordo di un jet privato. La Tabula aveva entrambi i Viaggiatori. «Dobbiamo entrare nel centro di ricerca della Tabula» osservò. «Siamo solo in due, ma non vedo alternative. Andiamo all'aeroporto, prenderemo il primo volo per New York.» «Non riusciremo a prendere un aereo. Io non ho un documento falso, e abbiamo troppe armi con noi. Sei tu ad avermi parlato dell'Immensa Macchina. La Tabula sarà già entrata in tutti gli archivi di polizia del Paese, inserendo i nostri nomi nelle liste dei ricercati.» «Allora prendiamo un treno?> «Gli Stati Uniti non hanno una rete ad alta velocità, come l'Europa o il Giappone. In treno ci vorranno quattro o cinque giorni per arrivare a New
York.» Maya alzò la voce, lasciando trasparire la rabbia. «E allora cosa dovremmo fare? Dobbiamo reagire!» «Andremo con il furgone. L'ho già fatto, ci vogliono circa settantadue ore.» «È troppo.» «Se anche un tappeto magico ci portasse immediatamente al centro di ricerca, avremmo bisogno di tempo per pensare a un piano.» Hollis le sorrise, cercando di sembrare ottimista. «Per attraversare l'America servono solo caffè, benzina e della buona musica. Penseremo a un piano durante il viaggio.» Maya fece un cenno con la testa, continuando a guardare fuori dal finestrino. La preoccupava il fatto che le emozioni potessero influenzare le sue scelte. Hollis aveva ragione. Pensava come un Arlecchino. Sul sedile tra Hollis e Maya c'erano delle scatole di scarpe piene di CD. Il pick-up aveva una coppia di grossi altoparlanti e due lettori CD montati uno sopra l'altro. Raggiunta la statale, Hollis inserì un disco e premette il tasto PLAY. Maya si aspettava house music con un ritmo martellante, invece udì il chitarrista gitano Django Reinhardt che suonava Sweet Georgia Brozun. Hollis trovava collegamenti inusitati tra jazz, rap, classica e world music. Teneva il volante con la mano sinistra mentre con la destra rovistava tra i CD nelle scatole. Creò una colonna sonora ininterrotta per il loro viaggio, sfumando ogni canzone in quella successiva: un assolo di sassofono di Charlie Parker confluiva in un canto gregoriano di monaci russi, che sfociava nella Madama Butterfly cantata da Maria Callas. I deserti e le montagne dell'Ovest si susseguivano come uno splendido sogno di libertà e spazi aperti. La realtà non faceva parte del paesaggio americano; la si ritrovava all'improvviso solo nei mastodontici camion a rimorchio e nelle autobotti che di tanto in tanto sfrecciavano accanto a loro carichi di benzina, legname e centinaia di suini spaventati che annaspavano con i musetti tra le assi dei rimorchi. Mentre Hottis guidava per la maggior parte del viaggio, Maya rimaneva al posto del passeggero, usando il telefono satellitare e il computer portatile per collegarsi a Internet. Scovò Linden in una chat room e spiegò con dei cauti giri di parole dove stava andando. L'Arlecchino francese aveva stabilito dei contatti con le nuove tribù che andavano formandosi in Ame-
rica, Europa e Asia: per la maggior parte giovani che si opponevano all'Immensa Macchina. I membri di uno di questi gruppi si incontravano regolarmente su un sito web chiamato Stuttgart Social Club. Benché nessuno di questi hacker in effetti risiedesse a Stoccarda, il "circolo" copriva le identità dei membri e consentiva loro di comunicare. Linden disse loro che aveva bisogno di sapere tutto il possibile sul centro di ricerca della Evergreen Foundation di Purchase. Immediatamente lo Stuttgart Social Club inviò a Maya diversi articoli di quotidiani scaricati da Internet sulla fondazione. Qualche ora dopo i membri del circolo cominciarono a violare i sistemi e le banche dati di vari enti governativi e di società private. Un hacker spagnolo che si faceva chiamare Hercules riuscì a penetrare il sistema dello studio di architettura che aveva progettato il centro di ricerca, e sul computer di Maya cominciarono ad apparire le planimetrie dell'edificio. «È un grande complesso recintato che sorge vicino a New York» disse Maya, passando velocemente in rassegna le informazioni. «È composto da quattro enormi edifici costruiti agli angoli di un quadrangolo centrale, al centro del quale si trova una costruzione senza finestre.» «Com'è la situazione a livello di sicurezza?» domandò Hollis. «È come un castello moderno. Un muro di recinzione alto tre metri. Telecamere di sorveglianza ovunque.» «Abbiamo un solo vantaggio. La Tabula sarà così sicura dei propri sistemi di difesa che non si aspetterà un attacco. C'è un modo per entrare senza far scattare tutti gli allarmi?» «L'edificio progettato come centro di ricerche genetiche ha diversi piani sotterranei. Ci sono tubature, cavi elettrici e condotti dell'aria condizionata lungo i tunnel. Uno degli ingressi per la manutenzione dell'impianto di aerazione si trova due metri fuori dal muro.» «Sembra promettente.» «Ci occorreranno degli attrezzi per entrare.» Hollis inserì in uno dei lettori un nuovo CD e gli altoparlanti sulle portiere cominciarono a sparare a tutto volume musica dance di un gruppo di nome Funkadelic. «Nessun problema!» gridò, e la musica li spinse avanti, attraverso il paesaggio sterminato. 55 Era quasi mezzanotte quando il corpo di Gabriel fu portato nel centro di
ricerca. Un agente della sicurezza bussò alla porta della camera privata del dottor Richardson e gli disse di vestirsi. Il neurologo, infilato uno stetoscopio nella tasca del cappotto, fu scortato nel cortile del quadrangolo. Era una fredda sera d'autunno, ma il cielo era limpido. Il Sepolcro, illuminato dall'interno, sembrava fluttuare nell'oscurità come un cubo gigantesco. Il dottor Richardson e la sua guardia di scorta accolsero un'ambulanza privata e un furgone nero al cancello d'entrata del complesso, seguendo a piedi il convoglio come in coda a un corteo funebre. Quando i due veicoli arrivarono all'edificio del centro di ricerche genetiche, due dipendenti della fondazione scesero dal furgone con una donna afroamericana. L'impiegato più giovane disse di chiamarsi Dennis Prichett. Era responsabile del trasferimento e ben deciso a non commettere nessun errore. Il tipo più maturo aveva capelli biondi corti e una faccia cascante e dissoluta. Prichett continuava a chiamarlo "Shepherd", come se quello fosse il suo unico nome. Portava un tubo di metallo nero appeso alla spalla e in mano reggeva una spada giapponese nel suo fodero. La giovane afroamericana fissò insistentemente Richardson, ma questi evitò di incrociare il suo sguardo. Il dottore intuì che si trattava di una prigioniera, ma non aveva il potere di salvarla. Se la ragazza avesse mormorato sottovoce: "La prego, mi aiuti", Richardson avrebbe dovuto ammettere di essere egli stesso un prigioniero, e un codardo. Prichett aprì lo sportello posteriore dell'ambulanza. Il dottor Richardson vide che Gabriel era legato a una lettiga con le robuste cinghie di contenzione usate nelle sale di pronto soccorso sui pazienti pericolosi. Il Viaggiatore era privo di sensi. Quando la lettiga venne estratta dall'ambulanza, la sua testa ciondolò. La ragazza di colore tentò di avvicinarsi a Gabriel, ma Shepherd la trattenne per un braccio. «Lascia perdere» le disse. «Dobbiamo portarlo subito dentro.» Prichett spinse la lettiga a rotelle fino all'ingresso del centro di ricerche genetiche, dopo di che si fermarono. Nessuno aveva un Link Protettivo che lo autorizzasse a entrare e Prichett dovette chiamare il servizio di sicurezza con il suo cellulare mentre il gruppo aspettava in piedi al freddo. Finalmente, un funzionario dei Confratelli seduto davanti a un terminale a Londra autorizzò all'entrata i loro tesserini di riconoscimento. Prichett spinse la lettiga oltre le porte a vetri e il gruppo lo seguì. Fin da quando aveva letto accidentalmente il rapporto di laboratorio sugli animali ibridi, Richardson aveva nutrito una forte curiosità riguardo
all'edificio che ospitava il centro di ricerche genetiche top-secret. Nei laboratori al pianoterra non c'era nulla di imponente. Luci fluorescenti al soffitto. Refrigeratori e tavoli da laboratorio. Un microscopio elettronico. L'odore sembrava quello di un canile, ma Richardson non vedeva nessuna cavia da laboratorio, e tantomeno qualcosa che potesse essere definito un "congiunto". Shepherd portò la giovane donna di colore in fondo al corridoio mentre Gabriel veniva trasportato in una stanza vuota. Prichett rimase accanto al corpo inerte del Viaggiatore. «Riteniamo che Mr Corrigan abbia compiuto un viaggio extracorporeo in un'altra dimensione. Il generale Nash vuole sapere se il suo corpo ha subito danni.» «Ho con me solo uno stetoscopio.» «Faccia quel che può, ma si sbrighi. Nash arriverà da un momento all'altro.» Richardson premette la punta delle dita sul collo di Gabriel, in cerca di una pulsazione. Niente. Prese dal taschino della giacca una matita e pungolò la pianta di un piede del giovane disteso, provocando una reazione muscolare. Sotto lo sguardo attento di Prichett, il neurologo sbottonò la camicia di Gabriel e appoggiò lo stetoscopio sul torace del Viaggiatore. Dieci secondi. Venti secondi. Poi, finalmente, un battito. Dal corridoio giunsero alcune voci. Richardson si allontanò dal corpo privo di sensi mentre Shepherd faceva entrare Michael Corrigan e il generale Nash. «Allora?» domandò Nash. «Sta bene?» «È vivo. Ma non so se ci sono stati danni a livello neurologico.» Michael si accostò alla lettiga, toccando la faccia di suo fratello. «Gabe è ancora nel Secondo Regno, in cerca di una via d'uscita. Io avevo già trovato il passaggio, ma non gliel'ho detto.» «È stata una saggia decisione» commentò Nash. «Dov'è il talismano di mio fratello, la spada giapponese?» Shepherd aveva l'aria di qualcuno sorpreso a rubare. La diede a Michael, che la pose sul corpo del fratello. «Non potete tenerlo legato per sempre» osservò Richardson. «Gli verranno delle piaghe, come nei pazienti con la spina dorsale rotta, e i muscoli cominceranno a deteriorarsi.» Il generale Nash sembrò infastidito: «Non si preoccupi dottore, lo terremo sotto controllo finché non gli faremo cambiare idea». La mattina dopo Richardson si trovava nel laboratorio neurologico in-
stallato nel sotterraneo della biblioteca. Sperava che nessuno andasse a cercarlo lì. Aveva accesso a un gioco di scacchi on-line programmato dall'elaboratore centrale del centro di ricerca e quell'attività lo affascinava. I suoi pezzi neri e i pezzi bianchi del computer erano piccole figure animate con facce, braccia e gambe. Quando non venivano fatti muovere sulla scacchiera, le regine si pettinavano mentre i cavalieri si occupavano dei loro piccoli destrieri. Le annoiate pedine sbadigliavano in continuazione, si grattavano la testa e il fondoschiena e si addormentavano. Dopo che si fu abituato ai pezzi animati, Richardson passò al "Secondo livello interattivo". In questo livello i pezzi si insultavano reciprocamente oppure fornivano suggerimenti direttamente al giocatore. Se Richardson faceva la mossa sbagliata, il pezzo contestava la sua strategia e poi avanzava brontolando. Al "Terzo livello interattivo" Richardson non doveva fare nulla se non stare a osservare. I pezzi si muovevano in completa autonomia e i più forti eliminavano i più deboli picchiandoli con la mazza o trapassandoli con la spada. «Si lavora sodo, dottore?» Richardson alzò gli occhi e vide Nathan Boone in piedi sulla soglia. «Sto solo giocando a scacchi.» «Bene.» Boone si avvicinò al tavolo da laboratorio. «Abbiamo bisogno tutti di metterci costantemente alla prova. Serve a mantenere vigile la mente.» Si sedette dall'altra parte del tavolo. Chiunque avesse guardato nella stanza avrebbe pensato che i due colleghi stessero discutendo di una teoria scientifica. «Allora, come sta, dottore? È da un po' che non facciamo due chiacchiere.» Richardson diede un'occhiata al computer. I pezzi animati stavano parlottando tra di loro, in attesa di attaccare. Il dottore si domandò se credessero di essere reali. Forse pregavano e sognavano e si godevano le loro piccole vittorie, senza rendersi conto che in realtà era lui a comandare. «Mi... mi piacerebbe tornare a casa mia.» «È comprensibile» ribatté Boone con un sorriso. «Alla fine potrà tornare ai suoi corsi e alle sue lezioni all'università. Ma al momento è un elemento essenziale della nostra squadra. Mi hanno detto che ieri notte era presente quando hanno portato qui Gabriel Corrigan.» «Gli ho solo fatto una breve visita. Tutto qui. È ancora vivo.» «Giusto. È qui, è vivo e ora dobbiamo occuparci di lui. Il che presenta
un problema molto interessante: come si tiene un Viaggiatore sotto chiave in una stanza? Secondo Michael, tenerlo legato gli impedisce di abbandonare il suo corpo. Ma questo potrebbe generare dei problemi fisici.» «Esattamente. È quel che ho detto al generale Nash.» Boone si sporse in avanti e premette un tasto sul computer. La partita a scacchi sparì, con tutti i personaggi. «Da cinque anni la Evergreen Foundation finanzia la ricerca nel campo della trasmissione neurologica del dolore. Come saprà bene, il dolore fisico è un fenomeno alquanto complesso...» «Il dolore viene gestito da varie regioni cerebrali ed è trasmesso da diverse vie neurali parallele» disse Richardson. «In questo modo, anche se una parte del cervello è disabilitata possiamo sempre reagire a una lesione.» «Esatto, dottore. Ma i nostri ricercatori hanno scoperto che si possono impiantare dei fili conduttori in cinque diverse regioni cerebrali, le più importanti delle quali sono il cervelletto e il talamo. Dia un'occhiata a questo...» Boone estrasse un DVD da una tasca e lo inserì nel computer del dottore. «Questo è stato filmato circa un anno fa nella Corea del Nord.» Una scimmia da laboratorio di un colore marrone giallastro comparve sullo schermo. Era seduta in una gabbia e alcuni cavetti le uscivano dal cranio. I sottili elettrodi erano collegati a un piccolo apparecchio radio ricetrasmittente legato al corpo dell'animale. «Vede? Nessuno le provoca dei tagli o le ustiona la pelle. Ma basta premere un pulsante e...» La scimmia gridò e cadde a terra con il muso stravolto dal dolore. Rimase a terra, scossa dai tremiti. «Vede cosa avviene? Non c'è nessun trauma fisico, ma il sistema nervoso è sopraffatto da una forte sensazione di dolore.» Richardson era quasi ammutolito. «Perché mi sta mostrando questo esperimento?» «Non è ovvio, dottore? Vogliamo che inserisca dei fili nel cervello di Gabriel Corrigan. Quando rientrerà in sé dopo il suo viaggio extracorporeo, verrà liberato dalle cinghie di contenzione. Sarà curato e trattato bene e cercheremo di cambiare le sue idee sovversive. Ma se dovesse tentare di fuggire, qualcuno premerà un pulsante e...» «Non posso fare una cosa simile» disse Richardson. «È una tortura.» «È un termine errato. Stiamo solo dando un'immediata risposta a delle cattive scelte.» «Sono un medico. Mi hanno insegnato a curare le persone. Tutto questo è... sbagliato.»
«Deve proprio migliorare il suo vocabolario, dottore. Non è sbagliato. È necessario.» Nathan Boone si alzò dal tavolo, avviandosi verso la porta. «Studi bene il contenuto del DVD. Tra pochi giorni le daremo altre informazioni.» Sorrise per l'ultima volta e poi scomparve in fondo al corridoio. Il dottor Richardson si sentiva come un uomo a cui fosse appena stato diagnosticato un cancro; le cellule maligne si stavano diffondendo nel sangue e nelle ossa. La paura e l'ambizione gli avevano fatto ignorare i sintomi, e ormai era troppo tardi. Seduto nel laboratorio, guardò di nuovo l'esperimento sulle scimmie. Avrebbero dovuto forzare le gabbie, pensò. Avrebbero dovuto scappare e andarsi a nascondere. Ma era partito un ordine, qualcuno aveva premuto un pulsante, e le scimmie erano state costrette a obbedire. 56 Introdursi nei luoghi sorvegliati era considerato dagli Arlecchini non un'abilità essenziale, ma comunque molto importante. Quando Maya era ancora adolescente, Linden le aveva impartito un rapido corso sui vari tipi di serrature, gli impianti d'allarme e i tesserini laminati di sicurezza. Al termine delle sue lezioni, l'Arlecchino francese l'aveva aiutata a entrare di nascosto nell'University College di Londra. I due avevano vagato nei corridoi deserti, e avevano infilato una cartolina in una tasca della palandrana nera che copriva le spoglie di Jeremy Bentham. Le planimetrie del complesso rivelavano un condotto di ventilazione che dava accesso ai piani sotterranei del centro di ricerche genetiche. In vari punti del progetto l'architetto aveva scritto "SM" in caratteri piccoli, indicando un sistema di sensori di movimento agli infrarossi. L'impianto era un problema risolvibile, ma Maya temeva che successivamente fossero stati aggiunti nuovi dispositivi di controllo. Hollis si fermò a un centro commerciale alla periferia di Philadelphia. In un negozio di articoli sportivi acquistarono delle attrezzature da alpinismo, mentre da un rivenditore di forniture ospedaliere presero una bombola di azoto liquido. Vicino al centro commerciale trovarono un grande magazzino di bricolage e trascorsero un'ora tra le sue infinite corsie. Maya prese un martello e uno scalpello, una torcia elettrica, un piccolo saldatore a gas propano, un grimaldello e un paio di tronchesi per tagliare bulloni. Aveva
la sensazione che tutti li stessero osservando, ma Hollis si mise a scherzare con la cassiera e uscirono senza che nessuno li fermasse. Nel tardo pomeriggio raggiunsero Purchase, nello Stato di New York. Era una comunità ricca, con enormi case unifamiliari, scuole private e sedi amministrative di società, circondate da parchi ben tenuti. Maya si convinse presto che la zona era la località perfetta per un centro di ricerca segreto. Il complesso era vicino a New York e agli aeroporti locali, ma la Tabula poteva facilmente tenere nascoste le proprie attività dietro un muro di recinzione. Presero una camera doppia in un motel e Maya dormì per qualche ora con la spada a fianco. Quando si svegliò, trovò Hollis che si radeva in bagno. «Sei pronto?» gli domandò. Hollis indossò una camicia pulita e poi legò a coda le trecce rasta. «Dammi solo un paio di minuti» rispose. «Un uomo deve farsi bello prima di combattere.» Verso le dieci lasciarono il motel, passarono davanti all'Old Oaks Country Club e puntarono a nord. Il centro di ricerca era facile da trovare. Sopra il muro di recinzione erano montati fari al sodio e al cancello d'ingresso c'era una guardiola di sorveglianza. Per tutto il tragitto Hollis continuò a tenere d'occhio il retrovisore, ma nessuno li stava seguendo. Un paio di chilometri più avanti, imboccò una strada secondaria che si dirigeva a nord del complesso e parcheggiò sul ciglio della strada vicino a un boschetto di meli. Le mele erano state colte molte settimane prima e un tappeto di foglie secche copriva il terreno. L'abitacolo del pick-up era fin troppo silenzioso. Maya si accorse di essersi ormai abituata alla musica di Hollis, che li aveva sostenuti durante il viaggio. «Non sarà facile» disse Hollis. «Sarà pieno di guardie.» «Non sei obbligato a venire.» «Non si tratta solo di Gabriel. Dobbiamo salvare anche Vicki.» Hollis fissò il cielo scuro della notte fuori dal parabrezza. «È una ragazza intelligente e coraggiosa, pronta a lottare per ciò in cui crede. Qualsiasi uomo sarebbe fortunato ad averla al suo fianco.» «Parli come se volessi essere tu quella persona.» Hollis rise. «Se fossi fortunato adesso non sarei qui seduto su un pick-up scassato con un Arlecchino. Voi avete troppi nemici.» Scesero dal pick-up e si inoltrarono in una fitta macchia di querce e di cespugli di more. Maya aveva con sé la spada e il fucile a pompa, mentre
Hollis portava un fucile semiautomatico e uno zaino con tutta l'attrezzatura. Quando sbucarono dagli alberi nei pressi del muro nord del centro di ricerca, trovarono il condotto di ventilazione che usciva dal sottosuolo. L'apertura era coperta da una pesante grata di ferro. Hollis tranciò due lucchetti con il tronchese e aprì la grata sollevandola con il grimaldello. Diresse il fascio di luce della torcia elettrica nel condotto, ma la luce non arrivava oltre i tre metri. Maya sentì l'aria calda sulla pelle. «Secondo le planimetrie il condotto porta direttamente al sotterraneo» disse a Hollis. «Questo è il pozzo di aerazione verticale. Non sappiamo se c'è spazio a sufficienza per strisciarci dentro, perciò mi calerò dentro a testa in giù.» «Come saprò che va tutto bene?» «Calami un metro alla volta. Se senti uno strattone, dai corda.» Maya indossò l'imbracatura da alpinista mentre Hollis attaccava una puleggia al bordo della grata. Dopo aver assicurato e ricontrollato tutto, la donna arlecchino venne calata a testa in giù nel condotto di ventilazione con gli attrezzi sotto il giubbotto. Il condotto di acciaio era buio, caldo e largo a sufficienza per una persona. Le sembrava di venire calata in una grotta. Dopo dodici metri di discesa, Maya arrivò a una giuntura a T in cui il condotto si diramava in due direzioni opposte. Appesa a testa in giù, estrasse dalla cintura il martello e lo scalpello e si preparò a tagliare la lamiera. Quando la lama dello scalpello colpì la parete del condotto, il rumore riecheggiò intorno a lei. Dopo diversi minuti di lavoro, il sudore cominciò a gocciolarle sulla faccia. Improvvisamente la punta dello scalpello perforò la lamiera e dal foro apparve una sottile lama di luce. Maya allargò il buco, sollevò la lamiera e infine diede uno strattone alla fune, facendosi calare in una galleria sotterranea di cemento. Nella galleria passavano le condutture dell'acqua, dell'elettricità e dell'aerazione. Era illuminata da luci al neon montate a intervalli regolari di sei metri. Ci vollero dieci minuti per ritirare la corda da alpinismo e calare nel pozzo lo zaino con l'attrezzatura. Cinque minuti dopo, Hollis era in piedi accanto a lei. «Come arriviamo di sopra?» domandò. «All'angolo nord dell'edificio c'è una scala di emergenza. Dobbiamo trovarla senza far scattare l'allarme.» Percorsero la galleria e si fermarono alla prima apertura laterale. Maya
tirò fuori uno specchietto e lo sporse oltre il bordo. Vide una scatoletta bianca munita di un rifrattore tondo. «I progetti rivelano che impiegano sensori di movimento. Il sensore rileva le radiazioni infrarosse emanate dagli oggetti e, se si superano certi limiti, scatta un allarme.» «Ed è per questo che abbiamo comprato una bombola di azoto liquido?» «Esatto.» Maya rovistò nello zaino e tirò fuori la bombola. Sembrava un thermos nero con un beccuccio spray. Con la massima cautela, si sporse oltre la soglia e spruzzò l'azoto sopra il sensore di movimento. Quando il rifrattore fu coperto da una patina di brina bianca, proseguirono il cammino lungo il tunnel. Gli ingegneri che avevano progettato l'edificio avevano fatto dipingere sui muri i numeri dei diversi settori, ma Maya non capiva la loro logica. In certe zone della galleria sentivano un ronzio meccanico costante, che sembrava provenire da una turbina a vapore, ma il macchinario restava invisibile. Dopo aver vagato senza meta per una decina di minuti, raggiunsero un bivio. Il tunnel si apriva in due direzioni diverse senza che alcun cartello indicasse la strada giusta. Maya prese il generatore di numeri casuali dalla tasca. "Dispari, a destra" decise tra sé e premette il pulsante. Sul display apparve il numero 3531. «Andiamo a destra» disse a Hollis. «Perché?» «Per nessun motivo.» «Il tunnel a sinistra sembra più grande. Io dico di andare da quella parte.» Andarono a sinistra e trascorsero dieci minuti a esplorare dei ripostigli vuoti. Il tunnel era cieco. Quando tornarono sui loro passi, ritrovarono il liuto da Arlecchini che Maya aveva inciso sulla parete con il coltello. Hollis sembrava infastidito. «Questo non vuol dire che la tua scatoletta ci avesse fornito l'indicazione giusta. Fammi il piacere, Maya. Il numero non significava niente.» «Significava che dovevamo andare a destra.» Imboccarono il secondo tunnel, neutralizzando un altro sensore di movimento. Tutt'a un tratto Hollis si fermò e indicò qualcosa in alto. Una scatoletta color argento montata sul soffitto. «È un altro sensore di movimento?» Maya scosse il capo, mettendosi un dito davanti alle labbra. «Dimmi solo che cos'è.»
Maya lo afferrò per un braccio e proseguirono di corsa lungo il tunnel. Aperta una porta d'acciaio, entrarono in un vasto salone delle dimensioni di un campo da football, pieno di pilastri di cemento. «Cosa diavolo c'è?» «La scatoletta d'argento era il loro sistema di sicurezza ausiliario. Un sensore acustico. Probabilmente è collegato a un programma informatico che si chiama Echo. Il computer filtra i rumori meccanici e rileva il suono di voci umane.» «Quindi sanno che siamo qui?» Maya aprì la custodia della spada. «Il sensore potrebbe aver rilevato le nostre voci una ventina di minuti fa. Andiamo, dobbiamo trovare la scala al più presto.» La zona delle fondamenta aveva solo cinque fonti di luce: una lampadina solitaria in ogni angolo della sala e una quinta lampadina al centro del soffitto. Maya e Hollis si avventurarono lentamente tra i pilastri grigi, verso la luce al centro. Il pavimento di cemento era impolverato e l'aria era calda e viziata. Le cinque lampadine lampeggiarono per un istante e poi si spensero. Per qualche secondo restarono nel buio totale finché Hollis non accese l'unica torcia elettrica a loro disposizione. Sembrava teso e pronto alla battaglia. Udirono una porta aprirsi con un cigolio. Segui un breve silenzio, poi la porta fu richiusa con un bum sordo. Maya sentì formicolare la punta delle dita. Posò una mano sul braccio di Hollis - "non muoverti" - e una specie di latrato molto simile a una risata risuonò nel salone. Hollis puntò la torcia tra due file di pilastri: qualcosa si muoveva nell'ombra. «Congiunti» disse. «Li hanno mandati giù a ucciderci.» Maya prese nello zaino il saldatore a gas propano. Le tremavano le mani mentre armeggiava con la valvola del rubinetto e accendeva il cannello con un accendino. Una fiamma azzurra soffiò fuori dal beccuccio con un piccolo scoppio. Maya la tenne di fronte e fece un passo avanti. Alcune sagome scure passarono fra i pilastri di cemento. Altre brevi risate. I congiunti stavano cambiando posizione, accerchiando le due prede. Maya e Hollis restarono l'uno di spalle all'altra, dentro il piccolo cerchio di luce. «Hanno la pelle dura» disse Hollis. «E se le colpisci al corpo le ferite si rimarginano subito.» «Miriamo alla testa?» «Se ci riesci. Continueranno ad attaccarci finché non li avremo fatti a
pezzi.» Maya si guardò intorno e scorse il branco di iene a sei metri di distanza. C'erano fra gli otto e i dieci congiunti, e si muovevano con rapidità fulminea. Pelliccia giallastra maculata a chiazze nere. Musi neri schiacciati. Uno dei congiunti lanciò una risata stridula. Il branco si divise, gli animali corsero tra i pilastri e attaccarono avanzando da due lati. Maya mise in terra davanti a sé il saldatore a gas e caricò il primo colpo del fucile a pompa. Aspettò che il primo gruppo fosse a pochi metri e poi sparò all'animale più vicino. I pallettoni lo colpirono al petto, respingendolo con forza, ma gli altri congiunti continuarono ad avanzare. Hollis restò vicino a lei, sparando contro il secondo gruppo. La ragazza arlecchino continuò a sparare finché ebbe munizioni. Poi, lasciando cadere a terra il fucile, sguainò la spada e la puntò davanti a sé come una lancia, infilzando un congiunto che le stava saltando alla gola. Il corpo del mostruoso animale cadde davanti a lei. Disperatamente, Maya sfilò la spada dall'animale morto e si avventò contro due altri animali, squarciando le loro pelli spesse. Immediatamente dopo si voltò in cerca di Hollis e vide il suo compagno allontanarsi di corsa da lei, cercando di inserire un caricatore di riserva nel fucile, mentre tre congiunti lo inseguivano. Hollis si voltò di scatto, lasciò cadere in terra la torcia elettrica e colpì con il calcio del fucile il primo attaccante, abbattendolo di lato. Gli altri due congiunti si avventarono contro, facendolo cadere all'indietro, nell'oscurità. Maya raccolse il saldatore dal pavimento, stringendo la spada con l'altra mano. Corse subito da Hollis mentre questi tentava di respingere gli animali e calò dall'alto due fendenti, troncando di netto la testa a un animale e sventrando l'altro. Hollis aveva il giubbotto lacerato e il braccio coperto di sangue. «Alzati!» gridò Maya. «Devi assolutamente alzarti!» Hollis si rimise in piedi, trovò un caricatore di riserva e lo inserì nel fucile. Un congiunto ferito stava tentando di fuggire, trascinandosi sulle zampe anteriori, ma Maya calò la spada con forza come un boia. Le braccia le tremavano mentre fissava il corpo morto. La bocca del congiunto era aperta e si vedevano le zanne. «Tieniti pronta» disse Hollis. «Stanno tornando.» Poi alzò il fucile e cominciò a mormorare una preghiera dei Jonesie. «Prego Dio con tutto il cuore. Possa la sua Luce proteggermi dal Male che...» Un latrato acuto si levò alle loro spalle: li stavano attaccando da tre lati.
Maya combatté con la sua spada, con stoccate e fendenti alle fauci e agli artigli che si avventavano contro di lei, alle lingue rosse e agli occhi accesi dall'odio selvaggio. Hollis all'inizio tirò un colpo alla volta, cercando di non sprecare munizioni, ma poco dopo cominciò a sparare a raffica. I congiunti continuarono ad attaccare, senza fermarsi, finché rimase un solo membro del branco, che ancora avanzava verso Maya. La ragazza arlecchino alzò la spada, pronta a difendersi, ma Hollis si fece avanti e sparò sul muso del congiunto. Erano uno accanto all'altra, circondati dai cadaveri. Maya si sentiva stordita, travolta dalla furia dell'attacco. «Tutto bene?» La voce di Hollis era dura e tesa. «Credo di sì. E tu?» «Mi hanno ferito a una spalla, ma riesco ancora a muovere il braccio. Andiamo. Dobbiamo sbrigarci.» Maya ripose la spada nella custodia. Con il fucile in mano, fece strada a Hollis verso il perimetro esterno dell'area sotterranea. Impiegarono solo pochi minuti a trovare una porta d'acciaio di sicurezza, protetta da sensori elettromagnetici. Un cavo elettrico collegava la porta a una scatola di derivazione a parete che Hollis forzò. Fili elettrici e interruttori ovunque, ma codificati con colori diversi. Questo facilitava le cose. «Sanno già che ci troviamo nell'edificio» spiegò Maya. «Non voglio che si accorgano che abbiamo raggiunto la scala d'emergenza.» «Quale filo tagliamo?» «Non si deve mai tagliar niente. Farebbe soltanto scattare l'allarme.» "Fai una scelta comunque" le aveva detto una volta suo padre. "Solo gli stupidi pensano di poter fare sempre la scelta giusta." Maya decise che i fili verdi erano quelli dell'impianto d'allarme e quelli rossi i conduttori di corrente. Usò il saldatore a gas per sciogliere la guaina di plastica a un paio di fili rossi e poi li collegò insieme con dei morsetti dentati. «Funzionerà?» «Forse no.» «Ci staranno aspettando?» «È probabile.» «Be', ottime prospettive.» Hollis abbozzò un sorriso sarcastico e Maya si sentì meglio. Hollis non era come suo padre o Mother Blessing, ma stava cominciando a pensare come un Arlecchino. Si doveva accettare il proprio destino, e non perdere il coraggio.
Quando forzarono la porta d'acciaio, non accadde nulla. Erano al fondo di una scala d'emergenza di cemento, con una lampada a muro a ogni pianerottolo. Maya salì le scale di corsa. "Trova il Viaggiatore." 57 Kennard Nash stava parlando con uno dei tecnici del computer ai quanti. Gli batté una mano sulla spalla come un allenatore che rimandasse un giocatore in campo, poi attraversò la sala e si sedette vicino a Michael. «Abbiamo ricevuto il messaggio preliminare dai nostri amici» spiegò. «La trasmissione dovrebbe avvenire tra cinque o dieci minuti al massimo.» La guardia del corpo del generale, Ramon Vega, versò loro del vino mentre Michael mangiava un cracker. Gli piaceva molto starsene seduto nella sala avvolta nella penombra a osservare la grande vasca di vetro piena di elio liquido. Quando gli interruttori a elettroni al centro del computer venivano manipolati in una gabbia di energia, il liquido verde si riempiva di microesplosioni. Gli elettroni esistevano in questo mondo ma, secondo il fenomeno quantistico della sovrapposizione, andavano e venivano, salivano e scendevano, roteavano verso destra o verso sinistra, e tutto nello stesso tempo. Per un attimo quasi impercettibile, si trovavano sia "qui" che "là", in una dimensione parallela. In quest'altro regno, una civiltà progredita era in attesa con una macchina simile. Il loro computer ai quanti catturava gli elettroni vaganti, li ordinava in un pacchetto di informazioni e li rispediva indietro. «State aspettando qualcosa in particolare?» domandò Michael. «Un messaggio da parte loro. Forse una ricompensa. Tre giorni fa abbiamo trasmesso le informazioni ottenute dal suo viaggio nel Secondo Regno. Era quello che volevano da noi: la mappa stradale di un Viaggiatore.» Nash premette un pulsante e tre schermi al plasma calarono dal soffitto. Un tecnico all'altro capo della sala, davanti al monitor di un computer, cominciò a digitare una serie di comandi sulla tastiera. Pochi secondi dopo sullo schermo a sinistra apparvero dei punti luminosi e delle macchie scure. «È la loro trasmissione» spiegò Nash. «In codice binario. Luce e nonluce è il linguaggio base dell'universo.» Gli elaboratori tradussero il codice e sullo schermo a destra apparve una serie di numeri. Un altro breve intervallo di tempo e Michael vide compa-
rire sul monitor centrale uno schema geometrico fatto di rette e di linee ad angolo. Sembrava il progetto di un macchinario molto complesso. Il generale Nash si comportava come un credente che avesse appena visto il volto di Dio. «Era ciò che aspettavamo» mormorò. «Abbiamo di fronte l'evoluzione del nostro computer ai quanti.» «Quanto ci vorrà per realizzarla?» «Il mio staff analizzerà i dati e mi fornirà una data indicativa di consegna. Fino a quel momento dovremo fare contenti i nostri nuovi amici.» Nash sorrise fiducioso. «Stiamo facendo dei piccoli scambi con questa civiltà. Noi vogliamo migliorare la nostra tecnologia, mentre loro vogliono muoversi liberamente fra i vari regni. E sarà lei a insegnarglielo.» Codice binario. Numeri. E poi il progetto di una nuova macchina. I dati e le informazioni trasmesse dalla civiltà progredita affluivano in sala attraverso i tre schermi al plasma e Michael era rapito dalle immagini che si susseguivano davanti ai suoi occhi. Notò a malapena Ramon Vega che si avvicinava al generale Nash, porgendogli un telefono cellulare. «Sono occupato» rispose Nash all'interlocutore. «Non potete aspettare che...» L'espressione del generale cambiò all'improvviso. Si alzò dalla poltrona, teso, e cominciò a passeggiare avanti e indietro. «Cosa avete fatto? Chi vi ha dato il permesso di aprire le gabbie? E dov'è Boone? Vi siete messi in contatto con lui? Be', sbrigatevi a farlo. Ditegli di venire subito al centro informatico.» «Ci sono problemi?» chiese Michael non appena Nash spense il cellulare. «Qualcuno si è introdotto nel centro di ricerca. Potrebbe essere uno di quei fanatici Arlecchini di cui le ho parlato. Anche se mi sembra strano. Quella gente non ha le risorse per superare i sistemi di sicurezza.» «Questo Arlecchino potrebbe essere nel nostro edificio?» La possibilità fece trasalire il generale, che lanciò un'occhiata alla sua guardia del corpo e cercò di controllarsi. «No, certamente no. È impossibile.» 58 Dopo aver vagato nella città degli Spiriti Affamati, Gabriel aveva finalmente trovato il passaggio per tornare a casa. In quel momento si sentiva come sdraiato sul fondo di una grande vasca. L'aria nei polmoni lo trascinò verso l'alto, dapprima lentamente e poi sempre più forte. Era vicino alla
superficie, a un paio di metri soltanto, quando rientrò nel proprio corpo. Aprì gli occhi e si accorse di non essere steso su una branda militare ad Arcadia. Era invece legato a una lettiga, spinto lungo un corridoio interminabile. Protetta dal suo fodero, la spada di giada era ancora sul suo corpo. «Dove...» esclamò a voce bassissima. Ma il suo corpo era come un pezzo di ghiaccio e non riusciva a parlare. A un tratto la lettiga smise di avanzare e due volti si abbassarono su di lui: Vicki Fraser e un uomo anziano in camice bianco. «Bentornato» disse l'uomo. Vicki posò una mano sul braccio del Viaggiatore, sembrava preoccupata. «Stai bene, Gabriel? Riesci a sentirmi?» «Cos'è successo?» Vicki e l'uomo con il camice spinsero la lettiga in una sala piena di gabbie vuote e slacciarono le cinghie di contenzione. Mentre Gabriel cercava di mettersi seduto e di riprendere i movimenti, Vicki spiegò che gli agenti della Tabula avevano trovato Arcadia e li avevano portati in un centro di ricerca vicino a New York. L'uomo con il camice bianco era un neurologo di nome Phillip Richardson. Aveva aperto la cella di Vicki e poi l'aveva aiutata a trovare Gabriel. «Non avevo un piano. L'ho fatto d'istinto.» Il dottor Richardson sembrava terrorizzato ed euforico. «Avevano lasciato un agente di sorveglianza, ma è stato convocato d'urgenza da qualche altra parte. Sembra che qualcuno stia attaccando il centro di ricerca...» Vicki scrutò Gabriel per valutare le sue forze. «Se riusciamo a raggiungere il parcheggio sotterraneo, il dottor Richardson pensa che potremo scappare con uno dei furgoni della manutenzione.» «E poi cosa faremo?» domandò Gabriel. «Sono aperto a qualsiasi suggerimento» disse il dottore. «Un mio vecchio amico del college vive in una tenuta in Canada, ma potrebbe non essere facile superare il confine.» Gabriel provò ad alzarsi in piedi: le gambe erano ancora deboli, ma si sentiva lucido e concentrato. «Dov'è mio fratello?» domandò. «Non lo so.» «Dobbiamo trovarlo.» «È troppo pericoloso.» Richardson era agitato. «Tra pochi minuti il personale si accorgerà che siete scomparsi. Non possiamo lottare contro di loro. È impossibile.» «Il dottore ha ragione, Gabriel. Forse potremo tornare a salvare tuo fra-
tello. Ma ora dobbiamo andare via di qui.» Ebbero una breve discussione sussurrata finché Gabriel non accettò il piano. Ormai Richardson si stava facendo prendere dal panico. «Probabilmente sanno tutto» disse. «Ci staranno già cercando.» Sbirciò attraverso la porta socchiusa e poi li guidò lungo un corridoio verso l'ascensore. Pochi secondi dopo giunsero al parcheggio sotterraneo. A pochi metri dall'ascensore erano parcheggiati tre furgoni bianchi. «Il personale di solito lascia la chiave dell'accensione inserita» spiegò il dottore. «Se riusciamo a superare il cancello, è fatta.» Si accostò al primo furgone e tentò di aprire la portiera del conducente. Era chiusa a chiave, ma Richardson continuò a tirare la maniglia come se non potesse crederci. Vicki gli andò accanto e con voce calma e suadente disse: «Non si preoccupi, dottore. Proviamo con un altro». I tre fuggiaschi udirono un cigolio, come se qualcuno stesse aprendo una porta antincendio, e un rumore di passi sui gradini di cemento. Un istante dopo, Shepherd sbucò dalla scala di emergenza. «Questa sì che è una bella sorpresa!» Shepherd passò davanti al vano dell'ascensore, si fermò e sorrise. «Pensavo che la Tabula si volesse liberare di me, ma ora dovranno darmi un premio. L'Arlecchino rinnegato ha salvato la situazione.» Gabriel sguainò la spada di giada. La alzò davanti a sé e ricordò ciò che aveva detto Maya. Pochi oggetti fatti a mano erano così belli - così puri da esser liberi dall'avidità e dal desiderio degli uomini. Shepherd sbuffò, come se avesse appena sentito una pessima battuta. «Non essere stupido, Gabriel. Forse Maya non mi ritiene più un vero Arlecchino, ma ciò non significa che abbia dimenticato come si combatte. Sono stato addestrato a usare le armi fin da quando avevo quattro anni.» Gabriel si rivolse a Vicki. «Controlla gli altri furgoni, vedi se qualcuno ha lasciato inserita la chiave d'accensione.» Shepherd infilò la mano nella sua custodia di metallo. Estrasse la sua spada da Arlecchino e fece scattare l'elsa. «D'accordo. Come vuoi tu. Da questa decisione verrà fuori qualcosa di buono, in fondo... Ho sempre voluto uccidere un Viaggiatore.» Shepherd si mise in guardia e Gabriel lo sorprese attaccando immediatamente. Finse un colpo al volto dell'avversario e, quando questi lo parò, cambiò bersaglio, puntando al cuore. L'acciaio cozzò contro l'acciaio due, tre, quattro volte, ma l'Arlecchino si difese facilmente. Le due spade si bloccarono a vicenda. Shepherd fece mezzo passo indietro e con un rapido
movimento del polso strappò la spada di giada dalla presa di Gabriel. L'arma cadde sul cemento e il rumore del metallo risuonò nel parcheggio vuoto. I due uomini si fissarono negli occhi e il Viaggiatore vide con chiarezza il suo avversario. Il volto di Shepherd aveva assunto la maschera da Arlecchino, ma c'era qualcosa di sbagliato nell'atteggiamento della bocca. Tremolava leggermente, come se le labbra non riuscissero a decidere tra il sorriso e la malinconia. «Avanti, Gabriel. Prova a prendere la spada...» Qualcuno emise un fischio acuto e penetrante. Shepherd si voltò proprio nel momento in cui un coltello da lancio attraversava l'aria, entrandogli nella gola. Shepherd lasciò andare la spada, cadendo in ginocchio. Maya e Hollis uscirono dalla porta aperta. La donna arlecchino lanciò prima un'occhiata a Gabriel, poi si avvicinò all'uomo ferito mortalmente. «Hai tradito mio padre» disse. «Sai cosa gli hanno fatto, Shepherd? Sai com'è morto?» Shepherd riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti, ma annuì lievemente, come se ammettendo la sua colpa potesse salvarsi la vita. Maya giunse le mani come raccogliendosi in preghiera. Poi tirò un potente calcio frontale sull'impugnatura del coltello, affondandolo nella carne. 59 Maya puntò il fucile contro l'uomo con il camice bianco. «No!» intervenne Vicki. «È il dottor Richardson. Un amico. Ci sta aiutando a fuggire.» Maya valutò rapidamente l'uomo che aveva di fronte e stabilì che era spaventato, ma innocuo. Ma se si fosse fatto prendere dal panico nelle gallerie, avrebbe dovuto risolvere il problema. Gabriel era vivo, nulla contava più di questo. Mentre Hollis spiegava come erano entrati nel centro di ricerca, Maya si accostò al cadavere di Shepherd. Calpestò il sangue che si allargava sul pavimento di cemento, gli si accovacciò accanto e recuperò il coltello. Shepherd era un traditore, ma Maya non si sentiva felice per la sua fine. Ricordò quello che Shepherd le aveva detto nel magazzino della Resurrection Auto Parts. «Io e te siamo uguali, Maya. Entrambi siamo stati allevati da dei pazzi veneratori di una causa persa.» Quando si riunì al gruppo, notò che Hollis stava litigando con Gabriel. Vicki si era messa tra i due uomini e cercava di trovare un compromesso. «Di' qualcosa a Gabriel» disse Hollis. «Vuole andare a cercare suo fra-
tello.» L'idea di dover rimanere nel centro di ricerca terrorizzava Richardson. «Dobbiamo andarcene immediatamente. Gli agenti della sicurezza ci stanno cercando.» Maya prese per un braccio Gabriel e lo allontanò di qualche passo dagli altri. «Hanno ragione. È pericoloso restare qui. Forse potremo tornare.» «Sai bene che non accadrà» disse Gabriel. «E anche se tornassimo, Michael non sarebbe più qui. Lo porteranno altrove, in un posto sorvegliato ancora meglio. È la mia unica possibilità.» «Non posso permetterti di farlo.» «Tu non mi comandi, Maya. È una decisione mia.» Maya aveva la sensazione che lei e Gabriel fossero legati l'uno all'altra come due alpinisti su una parete rocciosa. Se uno dei due fosse scivolato o se la roccia si fosse frantumata, sarebbero caduti entrambi. Nessuno degli insegnamenti di suo padre l'aveva preparata per una situazione simile. "Pensa a un piano" si disse. "Rischia la tua vita. Non la sua." «Va bene. Mi è venuta un'altra idea.» Si sforzò di mantenere la voce più calma possibile. «Tu vai con Hollis. Ti porterà fuori di qui. Io resterò indietro e cercherò di trovare tuo fratello. Te lo prometto.» «Mio fratello ha sempre diffidato di tutti. Anche se lo trovassi, non si fiderebbe di te. Ma di me sì. So che lo farà.» Gabriel la guardò negli occhi e per la frazione di un secondo - giusto un battito cardiaco - Maya avvertì un forte legame fra di loro. Tentò disperatamente di capire quale fosse la decisione migliore, ma era impossibile. Non c'era nessuna scelta giusta, ma solo fatalità. Si accostò a Richardson e strappò il tesserino di riconoscimento dal camice bianco. «Questo apre tutte le porte?» «Non più della metà.» «Dove si trova Michael? Sa dove lo tengono?» «Di solito alloggia in una suite che si trova nel centro amministrativo. Qui siamo all'estremo nord del centro di ricerca. La sede amministrativa è dall'altra parte del quadrangolo.» «Come ci si arriva?» «Usate i tunnel sotterranei ed evitate i passaggi ai piani superiori.» Maya tirò fuori dalla tasca una manciata di cartucce e cominciò a ricaricare il fucile a pompa. «Torna al livello delle fondamenta» disse a Hollis. «Porta fuori Vicki e Richardson attraverso il condotto di ventilazione. Io torno indietro con Gabriel.»
«Non farlo» disse Hollis. «Non ho alternative.» «Portiamolo via con la forza.» «È quello che farebbe la Tabula, Hollis. Noi non agiamo così.» «Capisco che Gabriel voglia aiutare suo fratello. Ma così finirete per farvi ammazzare.» Maya inserì una cartuccia nella camera di scoppio del fucile e lo scatto metallico echeggiò nel parcheggio deserto. Non aveva mai sentito suo padre ringraziare un cittadino. Nel mondo degli Arlecchini la gratitudine non era contemplata, ma desiderava comunque dire qualcosa alla persona che aveva combattuto al suo fianco. «Buona fortuna, Hollis.» «Sei tu quella che ha più bisogno di fortuna. Dai un'occhiata in giro e vattene di qui appena puoi.» Pochi minuti dopo Maya e Gabriel stavano percorrendo il lungo tunnel di cemento che passava sotto il quadrangolo. L'aria era viziata e c'era un caldo soffocante. Gabriel continuava a guardarla. Sembrava molto a disagio, quasi colpevole. «Mi dispiace. So che avresti preferito andartene con Hollis.» «È stata una mia scelta, Gabriel. E poi non ho protetto tuo fratello quando ero a Los Angeles. Ora ho la possibilità di rimediare.» Cercò di rassicurarlo, evitando però di incrociare il suo sguardo: «Stiamo facendo una scelta emotiva. Forse non riusciranno a prevederla». Raggiunsero la sede amministrativa al capo opposto del quadrangolo e salirono le scale, trovandosi nell'atrio dell'edificio. Maya utilizzò il tesserino di Richardson per aprire l'ascensore e i due salirono al quarto piano. Di lì attraversarono un corridoio con la moquette, controllando uffici e sale riunioni deserti. Maya si sentì strana con il fucile a pompa spianato, a fissare una macchina per il caffè, una fila di schedari, un salvaschermo sul monitor di un computer con degli angeli in un cielo blu. Le ricordò il suo impiego allo studio di design a Londra. Aveva trascorso ore e ore seduta in un cubicolo, conia cartolina di un'isola tropicale appiccicata al muro. Ogni giorno, alle quattro del pomeriggio, una grassa signora bengalese arrivava con il carrello del tè. Ora "quella vita le sembrava lontana come un altro regno. Prese un cestino della carta straccia in uno degli uffici e tornarono all'ascensore. Scesi al terzo piano, lei e Gabriel lasciarono il cestino incastrato
fra le porte scorrevoli dell'ascensore e si avviarono lungo il corridoio. Maya disse a Gabriel di coprirle le spalle tre metri più indietro quando lei apriva una porta. Le lampade al neon incassate nel soffitto producevano strane ombre sul pavimento. In fondo al corridoio, una delle ombre sembrava leggermente più scura. "Potrebbe essere qualsiasi cosa" pensò Maya. "Forse un neon bruciato." Ma non appena fece un passo avanti, l'ombra cominciò a muoversi. Si girò verso Gabriel, portandosi l'indice alla bocca. "Zitto." Indicò un ufficio e gli fece cenno di nascondersi dietro la scrivania. Quando tornò alla porta, guardò in fondo al corridoio. Qualcuno aveva lasciato un carretto delle pulizie vicino a uno degli uffici interni, ma l'inserviente era sparito. Maya arrivò all'angolo del corridoio, sporgendosi di pochi centimetri. Tre uomini le spararono addosso. I proiettili staccarono pezzi di intonaco dal muro e schegge di legno dalla porta di un ufficio. Impugnando il fucile a pompa, tornò sui suoi passi e sparò al diffusore dell'impianto antincendio sul soffitto. Il dispositivo saltò via e l'allarme cominciò a suonare. Uno degli uomini della Tabula sbucò dall'angolo del muro e sparò dei colpi nella sua direzione. La parete al suo fianco parve esplodere e altri frammenti di intonaco si sparsero sulla moquette. Maya rispose al fuoco e l'uomo tornò al riparo. Il diffusore rotto spruzzava acqua in corridoio. Quasi tutte le persone normali, di fronte a un pericolo, tendevano ad avere una visione ristretta della situazione, come se stessero guardando in fondo a un tunnel. "Guardati intorno" si disse Maya osservando il soffitto. Sollevò il fucile e sparò due colpi contro la lampada al neon sopra il carrello dell'uomo delle pulizie. La grata di plastica del pannello si frantumò, lasciando una cavità quadrata nel soffitto. Maya appese alla cintura il fucile a pompa e si arrampicò sul carrello, aggrappandosi al tubo dell'acqua. Con un calcio allontanò il carrello e si infilò nel controsoffitto. Riusciva a sentire solo l'allarme antincendio e l'acqua che usciva dal diffusore rotto. Estrasse il fucile dalla cintura, allacciò le gambe alla tubatura e si appese a testa in giù come un ragno. «Tenetevi pronti» disse una voce. «Ora!» Gli agenti della Tabula sbucarono nel corridoio aprendo il fuoco con le pistole. L'allarme antincendio smise di suonare pochi secondi dopo e all'improvviso regnò il silenzio più completo.
«Dov'è andata?» domandò una voce. «Non lo so.» «State attenti» disse una terza persona. «Potrebbe essere in uno degli uffici.» Maya spiò dall'apertura quadrata del controsoffitto e vide uno, due, tre agenti passare sotto di lei, con le pistole in pugno. «Qui Prichett» disse la terza voce. Sembrava che stesse parlando a una ricetrasmittente o a un cellulare. «L'abbiamo avvistata al terzo piano, ma è fuggita. Sì, signore. Stiamo controllando ogni...» Agganciata alla tubatura con le gambe, Maya si sporse dall'apertura. Ora era appesa a testa in giù, con i capelli neri che le penzolavano vero il basso. Vide i tre agenti di spalle e sparò al primo. Il rinculo del fucile a pompa la spinse con violenza all'indietro e Maya assecondò la spinta, facendo una capriola in aria e atterrando in piedi in mezzo al corridoio. L'acqua continuava a caderle addosso, ma la ragazza la ignorò, sparando al secondo uomo mentre questi si girava. Il terzo agente stringeva ancora in pugno il cellulare quando i pallettoni gli crivellarono il torace. Fu scaraventato contro il muro, scivolando poi sul pavimento. Il diffusore smise di spargere acqua e Maya restò in piedi da sola a fissare i tre cadaveri. Era troppo pericoloso trattenersi nell'edificio. Dovevano tornare nei sotterranei. Di nuovo, vide le ombre cambiare forma sopra il muro e poi in fondo al corridoio comparve un uomo disarmato. Anche se non assomigliava al fratello, Maya capì subito di avere di fronte il secondo Viaggiatore e abbassò il fucile. «Ciao, Maya. Sono Michael Corrigan. Qui tutti hanno paura di te, ma io non sono spaventato. So che sei qui per proteggermi.» La porta di un ufficio si spalancò dietro di lei e Gabriel uscì in corridoio. I due fratelli si guardarono. Maya era in piedi tra loro. «Vieni con noi, Michael» disse Gabriel con un sorriso forzato. «Sarai al sicuro. Non dovrai più obbedire a nessuno.» «Ho qualche domanda per il nostro Arlecchino. È una situazione strana, non vi pare? Se venissi con voi sarebbe un po' come spartirsi la stessa ragazza.» «Non è così» ribatté Gabriel. «Maya vuole solo aiutarci.» «E se fosse costretta a fare una scelta?» Michael avanzò di un passo. «Chi salveresti, Maya. Gabriel o me?» «Tutti e due.» «È un mondo estremamente pericoloso. Forse non sarà possibile salvarci
entrambi.» Maya lanciò un'occhiata a Gabriel, ma dal suo viso non le giunse nessun suggerimento. «Difenderò chiunque renda questo mondo migliore.» «Allora sono io.» Michael fece un altro passo avanti. «La maggior parte della gente non sa quello che vuole. Vogliono una casa più grande, o un'auto nuova, ma sono tutti troppo spaventati per dare una direzione alla loro vita. Perciò lo faremo noi al posto loro.» «È quello che vuole farti credere la Tabula» disse Gabriel. «Ma non è vero.» Michael scosse la testa. «Ti stai comportando come nostro padre... una vita senza importanza, sempre nascosto. Da bambino odiavo tutti quei discorsi sulla Griglia. A entrambi è stato trasmesso questo potere, ma tu non vuoi usarlo.» «Questo potere non viene da noi, Michael. In realtà non è nostro.» «Siamo cresciuti come dei disgraziati. Niente elettricità. Niente telefono. Ti ricordi il nostro primo giorno di scuola? Ricordi come la gente guardava la nostra auto quando andavamo in città? Noi non siamo costretti a vivere in quel modo, Gabe. Possiamo diventare padroni di tutto.» «Ognuno dovrebbe essere padrone della propria vita.» «Perché non lo capisci, Gabe? Non è difficile. Fai ciò che è meglio per te e al diavolo tutti gli altri.» «Questo non ti renderà felice.» Michael fissò Gabriel, scuotendo il capo di nuovo. «Parli come se avessi la risposta a tutto, ma una sola cosa è certa.» Alzò le mani come per benedirlo. «Ci può essere un solo Viaggiatore...» Un uomo dai capelli corti e grigi, con gli occhiali dalla montatura di metallo, sbucò da dietro l'angolo del corridoio con una pistola in mano. Gabriel sentì di aver perso per sempre la propria famiglia. Suo fratello lo aveva tradito. Maya si scagliò verso di lui, spingendolo oltre l'angolo del corridoio successivo mentre Boone premeva il grilletto. Il proiettile la colpì alla gamba destra, sbattendola contro il muro e lasciandola a terra. Le sembrava che l'ossigeno le fosse stato spremuto di colpo dai polmoni. Gabriel tornò indietro e la prese precipitosamente fra le braccia, sollevandola da terra. Corse per qualche metro e si tuffò nell'ascensore mentre la ragazza cercava di divincolarsi. "Salvati" voleva dirgli, ma non riusciva a parlare. Gabriel diede un calcio al cestino della carta straccia che bloccava le porte scorrevoli e spinse freneticamente il pulsante. Spari. Urla. Poi
le porte si chiusero e l'ascensore partì. Maya perse i sensi e quando riapri gli occhi si trovava nella galleria sotterranea. Gabriel la sosteneva tra le braccia con un ginocchio posato a terra. Udì una voce e capì che Hollis era con loro. Stava ammassando delle bottiglie di sostanze chimiche che aveva preso nel centro ricerche genetiche. «Ricordo ancora i cartelli rossi di pericolo nel laboratorio di chimica della mia scuola. Tutta questa roba è altamente infiammabile.» Hollis aprì il rubinetto di una bombola verde. «Ossigeno puro.» Afferrò una bottiglia di vetro e versò un liquido incolore sul pavimento. «E questo è etere liquido.» «Ti serve altro?» «È tutto quello che serve. Allontaniamoci da qui.» Gabriel trasportò in braccio Maya in fondo alla galleria. Rimasto indietro, Hollis accese il saldatore a gas, regolò il flusso della fiamma azzurra e poi lo lanciò dietro di sé. Imboccarono una seconda galleria. Pochi secondi dopo udirono una forte esplosione e lo spostamento d'aria spalancò la porta antincendio. Quando Maya riaprì di nuovo gli occhi, stavano scendendo la scala d'emergenza d'accesso ai sotterranei. A un tratto risuonò un boato assordante, come se una bomba sganciata da un aereo avesse appena centrato l'edificio. La luce si spense e i tre fuggiaschi si strinsero l'uno all'altro nel buio totale finché Hollis non accese la sua torcia elettrica. Maya si sforzava di non perdere i sensi, ma era come sprofondare e riemergere continuamente da un sogno. Ricordava la voce di Gabriel, e una corda da alpinismo allacciata sotto le ascelle mentre veniva issata di peso per il pozzo di aerazione. Poi si ritrovò distesa supina sull'erba umida, a fissare le stelle. Udì altre esplosioni in successione e l'urlo di una sirena della polizia, ma nulla più le importava. Sapeva di stare morendo per l'emorragia. Era come se tutta la vita ancora presente nel suo corpo stesse per essere assorbita dal terreno gelido. «Mi senti?» chiese Gabriel. «Maya?» La ragazza avrebbe voluto parlargli - dire un'ultima cosa - ma qualcuno le aveva rubato la voce. Un liquido nero le si formò ai bordi degli occhi e si diffuse rapidamente, incupendosi sempre più, come una goccia d'inchiostro nero in un bicchiere d'acqua limpida. 60
Verso le sei di mattina Nathan Boone alzò gli occhi al cielo sovrastante il centro di ricerca e scorse una chiazza di luce solare. Aveva la pelle e i vestiti neri di fuliggine. L'incendio nelle gallerie sotterranee sembrava ormai sotto controllo, ma dai condotti di aerazione continuava a uscire un fumo nero dall'acre e penetrante odore di sostanze chimiche. Era come se la terra stessa avesse preso fuoco. Nel quadrangolo erano disposte diverse autopompe dei vigili del fuoco e auto della polizia. Di notte, le loro luci lampeggianti rosse erano sembrate forti e invadenti, ma a quell'ora del mattino erano fioche. Lunghe manichette antincendio di tela gommata serpeggiavano dalle autopompe ai condotti di aerazione. Alcune di esse stavano ancora irrorando d'acqua i piani sotterranei, mentre vigili del fuoco dai volti neri di fuliggine sorseggiavano caffè. Boone aveva effettuato una prima valutazione dei danni circa due ore prima. L'esplosione nelle gallerie e il conseguente blackout generale avevano provocato danni in tutti gli edifici. Il computer ai quanti si era spento e parte della macchina era andata distrutta. Un giovane ingegnere informatico aveva stimato che ci sarebbero voluti tra i nove e i dodici mesi perché tutto tornasse a funzionare come prima. I sotterranei erano allagati. Tutti i laboratori e gli uffici erano anneriti dal fumo. Un refrigeratore computerizzato nel laboratorio principale di ricerche genetiche aveva smesso di funzionare e molti embrioni di congiunti erano andati distrutti. Boone era indifferente alla distruzione. Per quanto lo riguardava, ogni edificio del complesso sarebbe anche potuto finire in macerie. Il vero disastro era che un Arlecchino e un Viaggiatore fossero riusciti a fuggire senza che nessuno lo impedisse. Il suo tentativo di organizzare una reazione immediata era stato compromesso da una guardia al minimo salariale, seduta all'entrata del complesso. Alla prima esplosione, il ragazzo si era fatto prendere dal panico e aveva chiamato la polizia e i vigili del fuoco. I Confratelli avevano influenze in tutto il mondo, ma Boone non poteva tenere sotto controllo una squadra locale di pompieri ben decisi a fare il loro dovere. Mentre i vigili del fuoco si erano organizzati e avevano cominciato a pompare acqua nei sotterranei, Boone aveva aiutato personalmente il generale Nash e Michael Corrigan a lasciare il centro di ricerca in un convoglio scortato. Poi aveva trascorso il resto della notte ad assicurarsi che nessuno trovasse il cadavere di Shepherd o degli altri tre agenti della sicurezza.
«Mr Boone? Mi scusi, Mr Boone...» Il responsabile della sicurezza della Tabula si voltò, trovandosi di fronte un capitano dei vigili del fuoco, di nome Vernon McGee. Il basso e robusto pompiere era arrivato al quadrangolo a mezzanotte, ma sembrava ancora pieno di energia. I pompieri di provincia, pensò, dovevano passare il loro tempo a controllare idranti e salvare gatti. «Siamo pronti a cominciare l'ispezione.» «Di che cosa sta parlando?» «L'incendio è stato domato, ma ci vorranno alcune ore prima che si possa scendere nelle gallerie della manutenzione. Ora, devo ispezionare ogni edificio e controllare che non ci siano danni strutturali.» «È impossibile. Come le ho già detto stanotte, lo staff del centro è impegnato in ricerche top-secret per conto del governo. Praticamente ogni locale necessita di un'autorizzazione di sicurezza per potervi accedere.» Il capitano McGee spostò il peso da una gamba all'altra, spazientito. «Non me ne frega niente. Sono a capo dei vigili del fuoco e siamo nella mia giurisdizione. Ho diritto di entrare in qualsiasi edificio del complesso per motivi di sicurezza pubblica. Se lo desidera, mi assegni pure una scorta.» Boone tentò di nascondere la collera mentre McGee chiamava di nuovo a raccolta i suoi uomini. Forse i vigili del fuoco potevano effettuare un'ispezione. Era possibile. Tutti i cadaveri erano già stati chiusi in sacchi neri e caricati su un furgone. Più tardi sarebbero stati trasferiti a Brooklyn dove un impresario di pompe funebri compiacente li avrebbe cremati, disperdendo le loro ceneri in mare. Boone decise di effettuare un controllo preliminare del centro amministrativo prima che McGee cominciasse a ficcare il naso ovunque. Aveva già incaricato due agenti della sicurezza interna di salire al terzo piano e di strappare dal pavimento la moquette macchiata di sangue. Benché le telecamere di sorveglianza fossero fuori uso, agiva sempre come se qualcuno lo stesse sorvegliando, era diventata un'abitudine mentale. Si incamminò deciso attraverso il quadrangolo, come se la situazione fosse sotto controllo. Il suo cellulare trillò e, quando rispose, udì la voce baritonale di Kennard Nash. «Com'è la situazione?» «I vigili del fuoco stanno per effettuare un'ispezione, per motivi di sicurezza.» Nash imprecò ad alta voce. «Chi devo chiamare? L'ufficio del governa-
tore? Il governatore avrebbe l'autorità per impedirlo?» «Non c'è nessun motivo di fermarli. Abbiamo fatto sparire tutto.» «Scopriranno che è stato qualcuno ad appiccare l'incendio.» «È proprio quello che voglio. In questo momento una squadra sta lasciando nell'appartamento privato di Lawrence Takawa una bomba incendiaria e un messaggio di rivendicazione dell'attentato scritto sul suo computer. Quando le autorità locali investigheranno sull'incendio, diremo loro del nostro dipendente arrabbiato...» «E si metteranno a cercare un uomo scomparso.» Nash rise. «Ottimo lavoro, Mr Boone. La richiamerò stasera.» Il generale Nash interruppe la comunicazione senza salutare e Boone restò da solo in piedi davanti all'ingresso del centro amministrativo. Ripensando alle proprie azioni nelle ultime settimane, doveva ammettere di aver commesso alcuni errori. Aveva sottovalutato l'efficienza di Maya e ignorato i suoi sospetti su Lawrence Takawa. Aveva ceduto all'ira in diverse occasioni, facendo scelte poco lucide. Mentre l'incendio andava estinguendosi, il fumo cambiò colore e da nero pece diventò di un grigio sporco. Sembrava fumo di scarico delle auto semplice smog - che usciva dai condotti d'aerazione, disperdendosi nell'aria. Forse i Confratelli avevano subito una temporanea battuta d'arresto, ma la vittoria era inevitabile. I politici potevano continuare a parlare di libertà, spargendo le loro vuote parole come coriandoli. Non serviva più a nulla. La tradizionale idea di libertà stava svanendo nel nulla. Per la prima volta in quella mattina grigia, Boone premette un pulsante sul suo orologio da polso e constatò, compiaciuto, che il suo ritmo cardiaco era perfettamente normale. Raddrizzò la schiena e le spalle, ed entrò nell'edificio. 61 Maya era di nuovo prigioniera del suo sogno. Sola, nella galleria buia, lottò con i tre hooligan e si precipitò giù dalle scale. La banchina era piena di uomini che cercavano di sfondare con calci e pugni i finestrini del treno. Thorn la afferrò, trascinandola nel vagone. Ci aveva pensato così tante volte che quell'avvenimento era diventato parte della sua mente. "Svegliati" si imponeva sempre. "Basta." Ma questa volta non si sottrasse ai ricordi. Il treno partì mentre Maya premeva il viso sul cappotto del padre, tenendo gli occhi chiusi e mordendosi il labbro fino a sentire in bocca il sapore del sangue.
Maya era ancora una volta furibonda, ma ora una voce fioca prese a sussurrarle dall'oscurità un segreto che per anni aveva ignorato. Thorn era sempre stato forte, audace e sicuro di sé. Quel pomeriggio a nord di Londra l'aveva tradita, ma era accaduto anche qualcos'altro. Ora il treno stava uscendo dalla stazione. Maya alzò gli occhi verso suo padre e vide che stava piangendo. All'epoca le era parso impossibile che Thorn potesse mostrare un segno di debolezza, ma ora sapeva che era vero. Una sola lacrima sulla guancia di un Arlecchino era un evento raro e prezioso. "Perdonami." Era questo che stava pensando? "Perdonami per ciò che ti ho fatto." Aprì gli occhi e trovò Vicki piegata su di lei. Per qualche secondo ancora indugiò in una terra d'ombre posta tra il suo sogno e la realtà. Vedeva ancora il volto di Thorn ma sentiva sotto le dita l'orlo di una coperta di lana. "Respira." E suo padre scomparve. «Mi senti?» domandò Vicki. «Sì. Sono sveglia.» «Come stai?» Maya allungò una mano sotto le lenzuola e sentì le bende che le fasciavano la gamba ferita. Se faceva mosse brusche provava un dolore lancinante, come una coltellata, e mentre restava ferma immobile aveva la sensazione che qualcuno le avesse ustionato la pelle con un ferro rovente. Thorn le aveva insegnato che non si poteva ignorare il dolore fisico; si doveva cercare di ridurlo in un punto specifico, isolato dal resto del corpo. Si guardò intorno nella stanza e ricordò di essere stata messa a letto. Erano in una casa in riva al mare sulla costa di Cape Cod, la penisola del Massachusetts che si allunga a falce nell'oceano Atlantico. Vicki, Gabriel e Hollis l'avevano portata lì dopo una tappa di diverse ore a Boston in una clinica privata diretta da un medico membro della Chiesa di Vicki. Si trovavano nella casa di vacanza del dottore. «Vuoi un'altra pillola?» «Niente pastiglie. Dov'è Gabriel?» «A passeggiare sulla spiaggia. Non preoccuparti. Hollis è con lui.» «Quanto tempo ho dormito?» «Otto o nove ore.» «Vai a cercare subito Gabriel e Hollis» disse Maya. «Fate i bagagli. Dobbiamo rimetterci in viaggio e restare in movimento.» «Non è necessario. Qui siamo al sicuro, almeno per qualche giorno.
Nessuno sa che ci troviamo in questa casa, a parte il dottor Lewis, e lui crede fermamente nel Debito Insoluto. Non tradirebbe mai un Arlecchino.» «La Tabula ci sta cercando.» «Sulla spiaggia non c'è nessuno, fa troppo freddo. La casa qui di fianco è disabitata durante l'inverno. Quasi tutti i negozi del villaggio sono chiusi e non abbiamo visto nessuna telecamera di sorveglianza.» Vicki sembrava forte e sicura di sé, e Maya si ritrovò a pensare alla timida ragazza casa e chiesa che l'aveva accolta all'aeroporto poche settimane prima. Tutto era cambiato, grazie al Viaggiatore. «Ho bisogno di vedere Gabriel.» «Tornerà qui a minuti.» «Dammi una mano, Vicki. Non voglio farmi trovare a letto.» Maya si puntellò sui gomiti e sollevò il busto. Sentì una nuova fitta di dolore, ma riuscì a contenerlo. Appoggiandosi sulla gamba sana, cinse con un braccio le spalle di Vicki e uscì lentamente dalla camera da letto, in corridoio. Mentre la aiutava a camminare, Vicki raccontò a Maya le ultime ore. Dopo la fuga dal centro di ricerca della Evergreen Foundation, si erano diretti verso Boston in furgone e il dottor Richardson, durante il viaggio, le aveva fermato l'emorragia. In quel momento Richardson era in viaggio verso il Canada per stabilirsi da un vecchio compagno di università che possedeva una fattoria nell'isola di Terranova. Hollis aveva abbandonato il pick-up alla periferia di Boston, lasciando le chiavi inserite. Ora stavano utilizzando il furgone di un altro membro della Chiesa dei Jonesie. La casa in riva al mare aveva uno spesso tappeto berbero in soggiorno; l'arredamento di legno e pelle era pulito e funzionale. Una porta a vetri scorrevole dava accesso a una terrazza e Maya chiese a Vicki di portarla fuori. Quando si fu distesa su una sdraio di legno, si rese conto di quanta fatica le fossero costati quei trenta passi. Aveva il viso imperlato di sudore e il suo corpo cominciò a tremare. Vicki rientrò in casa, tornando con una coperta di lana. Gliela avvolse bene intorno al corpo e la donna arlecchino cominciò a sentirsi meglio. La casa si trovava tra dune di sabbia punteggiate di roselline selvatiche, erbe ed erica verde scuro. Il vento scuoteva avanti e indietro i cespi d'erba secca e Maya annusò nell'aria il profumo salmastro dell'oceano. Una rondine di mare orbitò sopra le due donne volando in cerchio, come se stesse cercando un posto dove posarsi. La terrazza era collegata alla spiaggia attraverso una scala di legno. Ga-
briel era a centocinquanta metri di distanza, sulla battigia. Hollis stava seduto sulla sabbia asciutta, a metà strada tra la casa e il Viaggiatore. Teneva in mano un asciugamano da spiaggia arrotolato, e Maya capì immediatamente che nascondeva il suo fucile. Nella quiete di quella casa isolata non c'era bisogno di un Arlecchino. Vicki e Hollis avevano provveduto a tutto. Sarebbe stata lei a dover proteggere Gabriel, e invece era stato il Viaggiatore a mettere a repentaglio la propria vita per portarla fuori dal centro di ricerca. Il cielo plumbeo e l'acqua grigioverde si fondevano tra loro, nascondendo l'orizzonte. Le onde si frangevano sulla battigia con un rumore di schiuma, lasciando sulla sabbia un velo d'acqua che si ritirava lentamente. Gabriel indossava un paio di blue jeans e una felpa scura; sembrava che se avesse fatto un passo in più sarebbe stato assorbito dal grigiore, svanendo dal mondo. Il Viaggiatore volse le spalle all'acqua, guardando verso la casa. «Ci ha viste» disse Vicki. Maya si sentiva come una bambina avvolta in una coperta, ma restò seduta tranquilla mentre i due uomini lasciavano la spiaggia e salivano la scala della terrazza. Gabriel si fermò accanto al parapetto mentre Hollis le si avvicinò con un sorriso. «Maya! Come ti senti? Pensavamo che non ti saresti svegliata per qualche giorno.» «Sto bene. Dobbiamo metterci in contatto con Linden.» «L'ho già fatto, da un Internet café di Boston. Ci invierà dei contanti in tre diverse località del New England.» «Non ha detto altro?» «Secondo lui il figlio di Sparrow è scomparso. Immagino che la Tabula abbia scoperto che era...» Vicki lo interruppe. «Andiamo a preparare il caffè, Hollis.» «Io non ne voglio, grazie.» «Ma gli altri potrebbero gradirlo.» Nella voce di Vicki ci fu un sottile cambiamento che rammentò a Maya la pressione gentile della mano di un genitore. Hollis recepì il messaggio. «Giusto. Naturalmente. Caffè bollente per tutti.» Diede un'occhiata a Gabriel e poi seguì Vicki in casa. Erano da soli, ma Gabriel restò ancora in silenzio. Uno stormo di gabbiani spuntò in lontananza, le loro sagome in volo formavano un imbuto che si allungava fino a terra. «Il dottor Lewis ha detto che sarai di nuovo in piedi tra un mese. Sei sta-
ta fortunata: il proiettile non ha rotto nessun osso.» «Non possiamo restare qui così a lungo» disse Maya. «Vicki ha un mucchio di contatti grazie alla sua Chiesa e Hollis conosce diverse persone nell'ambiente delle arti marziali. Abbiamo a disposizione un'infinità di posti dove nasconderci fino a quando non ci procureremo dei documenti falsi.» «A quel punto dovremo lasciare gli Stati Uniti.» «Non so se sia una scelta giusta. La gente vuole convincersi a tutti i costi che esista un'isoletta tropicale o una caverna sulle montagne in cui ci si può nascondere da tutto e da tutti, ma ormai non è più vero. Che ci piaccia o meno, siamo tutti legati gli uni agli altri.» «La Tabula ti darà la caccia.» «Sì. E mio fratello li aiuterà.» Gabriel si sedette accanto a lei. Sembrava stanco e triste. «Da bambino ho sempre pensato che io e Michael stessimo lottando insieme contro il mondo intero. Avrei fatto qualsiasi cosa per mio fratello. Mi fidavo ciecamente di lui.» Maya ricordò il sogno della metropolitana londinese - la tristezza di suo padre - e si concesse di provare compassione per un'altra persona. Tese la mano e Gabriel gliela strinse forte. Il calore della sua pelle sciolse la sua freddezza; si sentì trasformata. Non era felicità. No, la felicità era un'illusione infantile e passeggera. Il dolore dentro di lei si era dissolto, e si sentiva come se con Gabriel avessero creato un centro, un tutto. «Non so se mio padre è ancora vivo, e Michael mi ha tradito» proseguì Gabriel. «Ma mi sento legato a te, Maya. Per me sei molto importante.» La guardò con occhi pieni di energia, poi le lasciò andare la mano e si alzò quasi di scatto. La loro vicinanza era dolorosa; entrambi sentivano di aver varcato un confine. Solo e vulnerabile, Gabriel scese di nuovo i gradini che portavano alla spiaggia. Maya restò sulla terrazza, cercando di controllare i propri sentimenti. Se voleva proteggere il Viaggiatore, non poteva permettersi di provare qualcosa per lui. Qualsiasi emozione l'avrebbe solo resa fragile e insicura. Se si fosse permessa quella debolezza, avrebbe potuto perderlo per sempre. "Aiutami" pensò. Era la prima volta in vita sua che pregava. "Ti prego, mostrami ciò che devo fare." Il vento freddo le investì i capelli corvini e Maya sentì una grande energia, una forza che andava accumulandosi dentro di lei. Fin troppa gente si lasciava vivere, recitando un ruolo senza riconoscere il proprio vero desti-
no. Tutti i dubbi e le indecisioni di Londra erano svaniti. Ora Maya sapeva chi era: un Arlecchino. Sì, sarebbe stato difficile, ma sarebbe rimasta con Gabriel. Si alzò leggermente, guardando verso l'oceano. I gabbiani riposavano sulla sabbia e quando il Viaggiatore si avvicinò si alzarono verso il cielo, chiamandosi l'un l'altro con le loro grida. FINE