PIERRE MAGNAN IL VELO MAGICO (Le Commissaire Dans La Truffière, 1978) Al mio amico Maurice Chevaly Personaggi principali...
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PIERRE MAGNAN IL VELO MAGICO (Le Commissaire Dans La Truffière, 1978) Al mio amico Maurice Chevaly Personaggi principali: LAVIOLETTE commissario di polizia di Digne MARCHESE DES BRÈDES amico di Laviolette VIAUD maresciallo capo della gendarmeria ALYRE MORELON tartufaio FRANCINE MORELON moglie di Alyre PASCALON BAYLE POLYCARPE BLEU ALBERT PIPEAU SIDOINE PIPEAU tartufai JÉRÉMIE PIOCHET una delle vittime CLAIRE PIOCHET sorella della vittima ROSEMONDE BURLE locandiera 1 «Forza, Roseline! Ancora uno, dai! Scavamene ancora uno.» Coricato sul fianco, un filo d'erba fra le labbra, la testa appoggiata alla mano, Alyre Morelon incoraggiava Roseline con la voce e il gesto. E Roseline gli leccava dolcemente la barba con la lingua che odorava di tartufo fresco. Nello stesso tempo grugniva di soddisfazione. «Forza, Roseline! Non fare la stupida. Uno soltanto! Tiramene fuori ancora uno e torniamo a casa.» Ma Roseline si faceva pregare. Lo assediava con piccole testate persuasive che significavano: "Dai, va'! Torniamo! Ne hai abbastanza per oggi! Hai gli occhi più grandi della bocca!". «Alyre valutò il paniere dei tartufi e sospirò. Ne conteneva appena quattro chili e il mediatore gliene aveva richiesti dieci per sabato.» «Sei una bella pigrona» disse. «Non ti parlo più.» E si girò sull'altro fianco. Allora anche Roseline sospirò, a modo suo. Vagò un poco in tondo per il bosco. C'era, cosa piuttosto rara, nella tartufaia di querce giovani un mandorlo dal tronco contorto come se l'avessero
strizzato mani poderose di una lavandaia. In questi paraggi delle Basse Alpi se ne vedono, di simili tronchi misteriosi e dalle grinze elicoidali, irrigiditi sul loro asse, che si protendono come aspirati dal cielo. Il tartufo è capriccioso, ve l'aspettate al piede di un albero novello, ben rastrellato al suolo, e invece eccolo sotto lo scompiglio cespuglioso di un contorto ginepro, o sotto una quercia di duecento anni, diciamolo, non se n'è mai trovati. Vi aspetta. Vi aspetta quando si dispone di una Roseline. «C-ro!» Era il "Grido". Un grido inimitabile, una sorta di scatto reciso. Con un balzo Alyre fu sul tartufo, si chinò, lo depose nel paniere. Doveva essere sui cinquanta grammi. «Ah, figlia bella! Eh sì, signora, è proprio una bella figlia, questa, sapete.» S'inginocchiò a ridosso della scrofa, la baciò due volte sulle grosse guance sericee, ed essa era tanto contenta di recargli quel piacere da travolgerlo con tale impeto che entrambi rotolarono avvinghiati, in un concerto di risa e grugniti, su quel suolo benedetto e grumoso, aria e terra insieme, che per loro costituiva una miniera d'oro. «Troiona d'una Roseline! Stai più attenta, mi schiacci.» Si alzò, impugnò il paniere. L'aria, a distanza, sapeva di zuppa calda. Era l'ora. Fumi si levavano dal paese, che invitavano al rientro. L'uno dietro l'altra, guadagnarono l'orlo del querceto. La strada bianca e deserta saliva verso Banon. «Aspetta, Roseline, ti metto lo stesso il collare, per via delle macchine...» Il collare, in realtà, era un nastro rosa che un tempo ornava il campanone di cioccolata che Alyre aveva donato al figlio quando questi aveva otto anni. E questo figlio, come Alyre, adorava Roseline che gli finanziava almeno la metà dei suoi studi a Parigi. Un giorno, in camera sua, staccando dalla cornice dello specchio il nastro dove le mosche da tempo si dibattevano, aveva detto al padre: "Tieni, gliela metterai intorno al collo... In attesa che la riveda". Il collare, legato a uno spago grossolano, era solo proforma, poiché Roseline, probabilmente consapevole del proprio valore commerciale, non si allontanava mai dalla banchina della strada. Mai... Eppure, dall'estate scorsa le capitava qualche volta di gettarsi di scatto fra le querce o di avventarsi sotto la cupola dei lauri. E infatti quella sera... «Roseline! Sei matta! Cosa fai?»
Con un brusco scossone gli aveva appena strappato di mano lo spago. Fuggiva laggiù, verso quell'ammasso di bronzo liquido che scintillava al vento della sera, ticchettando come le lance di un esercito in marcia. È un ampio boschetto di lauri. Erano gelati nel '56. Alcuni erano rinati alla base, altri sui rami morti. Tutti questi getti, rigidi come scope, salgono diritti al cielo, asta contro asta, agitando i funebri sonagli dei loro frutti nocivi. Alyre riagguantò Roseline al limitare. Vi sostò un attimo. Come ogni volta che si attardava ai margini del laureto, gli sembrava che l'aria trascinasse una qualche nuova stranezza. Gli parve anche che, nel profondo del bosco, fosse nascosta una grossa automobile scura. Cosa ci faceva là, dove non c'erano strade transitabili? Ma se bisognava "formalizzarsi" su tutto... Si rimisero in cammino, l'uno tirando l'altra, tutti e due mugugnando. Alyre riprese la sua raccolta di erbe secche sulla scarpata. Per dissipare la sgradevole impressione che aveva intaccato il suo ottimismo davanti alla barriera di lauri, alzò il paniere per annusarne il profumo. Dissotterrava tartufi da oltre quarant'anni e non si era mai saziato del loro aroma. Non vendeva mai i primi raccolti. Malgrado le urla di Francine, li richiudeva tre giorni in un vaso ermetico, assieme a sei uova prese dal nido. I tartufi impregnavano l'albume e il tuorlo delle uova, trasmettendo l'odore attraverso i pori del guscio. Si produceva uno scambio sottile dagli uni alle altre, fino a congiungersi in una natura nuova appena creata. Era la festa del palato e dell'olfatto, quando l'omelette schiumosa appariva sulla tavola, in una sera di forte vento, e il fornello ti scaldava la schiena col rumore del bricco. Adesso, ai bordi della strada, Roseline trotterellava nella polvere di quel novembre asciutto. Roseline era l'unica scrofa del circondario che aveva la probabilità di morire di vecchiaia. Le sue enormi cosce non sarebbero mai state strofinate di sale per impregnarsi di salnitro e diventare prosciutti. Mai il suo lardo sarebbe stato fuso in ciccioli. Roseline era una di quelle femmine rarissime che dissotterrano i tartufi senza mangiarli, salvo evidentemente quando gliene si offre uno in ricompensa. Soltanto non bisogna esagerare, si potrebbe distruggerle il fiuto, poiché come un ubriacone non sarà mai in grado di riconoscere uno château-latour da uno chateau haut-brion, così Roseline, troppo viziata coi tartufi, non avrebbe tardato a non scoprirli più sotto terra. La testa messa in risalto dal nastro rosa, trotta verso il porcile dove
l'aspetta, calda e fragrante di mietitura estiva, quella miscela di crusca e patate cotte, leccornia di tutti i porci del mondo. 2 La porta carraia dominava la corte quadrata; da un lato le galline e, a sud, le gabbie dei conigli. Un odore di erba triturata fluttuava sotto le volte dell'ovile dove alitava il calore del gregge. La sala da pranzo era al primo piano, sotto la pensilina della terrazza coperta, sostenuta da un pilastro quadrato. Paniere al braccio, Alyre raschiò le scarpe sul montatoio e salì con passo leggero la scala esterna. Tirò a sé la grata per le mosche e aprì la porta a vetri. Francine stava togliendo dal forno la zuppa di cipolle gratinata. I coperti erano apparecchiati intorno al vino rosso, mezzo Alicante, mezzo Jacquez, vitigno proibito. Ma era una vite vecchissima, e Francine era assessore. Chiudevano gli occhi su quelle piante che avrebbero dovuto essere sradicate da tempo. Coltello e forchetta in pugno, punta e denti in aria, com'era suo solito, il pastore, già seduto, significava con tutta la sua persona tarchiata: "E allora, arriva?". I tre cani, sotto il tavolo, si accingevano ad afferrare gli avanzi del banchetto. «Guardalo, quello, non mi darebbe una mano per un regno!» Francine indicava il pastore, con mano decisa. «Mi avete detto che ero un buono a nulla.» «Ah, questo è vero.» Il pastore era Pascal, figlio unico di una famiglia agiata che aveva abbandonato i suoi perché la madre tradiva il padre. Se n'era partito senza una parola, tenendo per sé il segreto. Aveva diciannove anni. Sua madre andava a scocciarlo persino nei pascoli quasi tutti i sabati. "Ma perché? Perché? Avevi pane e companatico. Io e tuo padre eravamo pieni di premure per te." Parlava a una schiena voltata. Pascal non rispondeva mai e continuava il suo lavoro. Le diceva "Ciao, ma'" quando lei arrivava e "Arrivederci, ma'" quando se ne andava. «C'è gente» commentava Alyre «che si metterebbe in ginocchio pur di farsi dire quello che si merita. Ma vedrai! Un bel giorno, glielo sputerà in faccia quello che si merita. E allora, bisognerà raccoglierla nel prato dove l'avrà piantata in asso. Caduta stecchita. Il naso nella merda di capra.»
Francine si allontanava sempre quando Alyre pronunciava quella frase veritiera. Cosa ne sapeva lui della verità? Quando lei gli mentiva da dodici anni, senza che dicesse uffa? La donna lanciò un'occhiata al paniere posato per terra. «È tutto qui quello che hai preso. Non vi siete ammazzati di fatica nessuno dei due, eh?» In effetti, ce n'era per più di mille franchi. E sarebbe durata così dal 15 novembre al 15 febbraio, salvo le interruzioni dovute al maltempo. Non c'era di che lamentarsi. Ma la tattica di Francine consisteva nel mostrarsi bisbetica come sua abitudine. Alyre la osservava sempre con lo stesso piacere. "Guardatela, con i suoi fronzoli" diceva fra sé "se non è superba. Quanto ama i fronzoli questa donna! E l'orologio con bracciale coperto di pietre. E la collana di perle false e l'anello col fondo di bicchiere. E brillano tutti. E luccicano. Peggio che se fossero gioielli d'imitazione. Non si può immaginare quello che riescono a fare oggi." Ed era vero che, sotto il lampadario, i tesori di Francine, la sua sola debolezza, scintillavano sommessamente e creavano un'atmosfera festosa. Se ne adornava con cura ogni giorno, appena finiti i lavori pesanti. "A Francine piacciono i fronzoli..." pensava. A prima vista, questa Francine diritta e sottile, sempre vestita di scuro, per mortificare la figura; questa Francine, dunque, a quarantun'anni, pareva piuttosto vuota d'amore e appena appena adatta a un solo uomo. Ma chi la toccava, per caso o con intenzione, provava una grande sorpresa. Era morbida e soda, e il suo ventre piatto, teso come quello di un atleta, lo si intuiva capace dei più bei movimenti. Era la politica ad averla rivelata. Fino a trent'anni, era appartenuta a quella generazione di donne che, con rassegnazione, prendono l'amore come viene. Ma quando l'avevano eletta consigliere comunale, poi "assessore", aveva conosciuto il mondo, in quei momenti di distensione che seguono le varie riunioni. Un giorno, per scherzo, il consigliere di un altro comune l'aveva tirata a sé per farla ballare. Lui aveva terminato la samba col fiato mozzo. «Santo cielo, Francine» le aveva detto. «Mi scusi, ma è un po' troppo scatenata per me.» Da quel giorno, si mise a ballare ai ricevimenti che concludono le riunioni dei sindacati e dei congressisti. Si dedicò al resto, anche, era fatale, ma non senza sospiri né reticenze. Detestava le complicazioni e le menzo-
gne. Così aveva presentato i suoi amanti ad Alyre. «Alyre, domani vado ad Angles con il signor Maucoeur. Siamo nella commissione incaricata di verificare la seconda parte dei lavori dell'acquedotto... Troverai tutto pronto nel frigo.» «Alyre, ti presento il dottor Malgriaux, del Ministero della Sanità... Mi hanno designata a fargli fare il giro delle colonie estive del circondario, eccetera.» Se, per caso, un giorno l'opposizione vincesse le amministrative, a Francine non resterebbe che suicidarsi o dire la verità. "La verità!" pensò Alyre, assaggiando la zuppa di cipolle. "Come se l'ignorassi, la verità!" Ma lui aveva Roseline, i tartufi e le api, il resto... «È un po' troppo liquida» esclamò Francine. Non ci fu nessuna eco. Alyre aveva fame, e comunque fosse... Quanto al pastore... Il pastore, il cucchiaio sospeso a mezz'aria fra il piatto e la bocca già aperta, seguiva con gli occhi qualcosa sul muro. Qualcosa conosciuto soltanto da lui, una presenza immateriale che era appena spuntata dalla cassa dell'orologio, fra due secondi sgranati, che ora fuggiva sulla batteria di cucina, svoltava l'angolo della mensola del caminetto, abbandonava un po' di polvere su ogni scatola di spezie: "Zucchero, sale, pepe, cannella", appannava il vetro della lampada a petrolio per le sere di temporale, per andare a perdersi finalmente, con lo sguardo del pastore, laggiù, nello scarico del lavello in acciaio cromato. «Guardalo, quello» esclamò Francine che l'osservava. «Cos'ha visto ancora? Lo si direbbe un gatto che spia un fantasma.» Era proprio così. Il pastore di diciannove anni, sotto i capelli che gli piovono sul collo, con gli occhi smisurati da Cristo romanico, ma neri, ma profondi, stava seguendo davvero un fantasma, dalla cassa dell'orologio allo scarico del lavello. Aveva questo potere, privilegio dei gatti. «Vi farebbe gelare il sangue» disse ancora Francine. Temeva sempre che, da qualche fessura, trapelassero i suoi segreti E il tramite di un fantasma le sembrava idoneo a... Il pastore tardò a riportare lo sguardo sulla terra. Tardò a riconoscere Francine che amava invano e con la massima umiltà. «Ne è scomparso ancora uno» disse con voce felpata. «Uno cosa?» gridò Francine. Credeva di aver perduto un agnello senza osare confessarlo. «Non so... L'hanno detto i gendarmi. Stavo pascolando alla Chariton-
ne...» «Sulla strada di Montsalier?» «Quella per il bosco di Deffens, sì.» «E allora?» «E allora, sono scesi dal furgone per domandarmi se non l'avessi visto.» «Ma chi?» «Uno che è scomparso.» «Come si chiamava?» «Jérémie...» «Dunque lo sanno chi è.» «È quello che ho detto ai gendarmi. Insistevano. "Com'era il vostro Jérémie?" Così, me lo descrivono: "Una tonaca marrone a strisce bianche, confezionata a Giacarta" hanno detto "da una colonia di buddisti. Zoccoli danesi, molto rumorosi. Capelli tinti con l'henné che fluttuano fino alla cintura e, nascosto sotto la barba, uno scapolare di bacche di cipresso, con un libro appeso a un'estremità". Erano questi i dati segnaletici dei gendarmi. "Ah, dimenticavo. Un mandolino a tracolla." Cosa volete? Dall'inizio della stagione ne avrò visti forse una sessantina salire verso Montsalier. E sono tutti come dite voi.» «Tutti» disse Francine. «Tre giorni fa, ne è passato un altro e voleva che gii dessi un uovo. La Giraud di Parmelles mi ha spiegato un po' come vivono. Hanno eretto delle tende sotto il tetto forato della vecchia chiesa. Fanno da mangiare intorno all'acquasantiera piena di pioggia. Hanno bruciato tutti i banchi che restavano.» Il pastore riprese: «"Siccome anche lei ha i capelli lunghi" mi hanno detto i gendarmi "pensavamo che forse eravate un po' in confidenza. Veniva da Noyerssur-Jabron. Non le dice nulla, Noyers-sur-Jabron?" E mi guardavano come guardano i gendarmi quando hanno dei sospetti.» Tacque. Nel sambuco, sotto il terrazzo, frusciava il vento. Trascinava delle zaffate dall'ovile mal chiuso. Il montone, cambiando posizione, agitava il campanaccio. Il pastore l'ascoltava. Snidava ancora un fantasma dalla cassa dell'orologio; lo seguiva attraverso tutta la lunghezza del caminetto, hop! L'accompagnava fino allo scarico del lavello moderno dove s'inabissava in lunghe spire. «È la quarta volta da settembre» disse il pastore. «La quarta volta che i gendarmi mi domandano a bruciapelo...» «A proposito» disse Alyre «fra parentesi... parlando di questo, credi che sia normale, Francine... Credi che possa accadere... Credi che sia possibile
che...» Raggomitolava con cura intorno al cucchiaio un lungo filo di formaggio grattugiato che alla fine inghiottì e si asciugò le labbra. Afferrò il bicchiere di vino nero e l'interpose fra lui e il lampadario. Niente da fare. La luce non l'attraversa, il vino di Jacquez... Non si accorgeva, mentre rifletteva alle possibili conseguenze della sua frase, che il pastore, nell'attesa, teneva il cucchiaio a metà strada fra il piatto e le labbra socchiuse per inghiottirlo. E Francine stessa, il mestolo pieno, spiava la fine della frase, prima di servirsi. Esplose: «Come? Cos'è che non si può fare? Cos'è che non è normale? Sputa il rospo. Siete asfissianti tutti e due: uno va a caccia di fantasmi come se fossero mosche, l'altro si perde per strada quando parla. Di', spiegati. Paria chiaro.» Gli occhi spalancati del pastore brillavano di curiosità. Non soltanto prevedeva il peggio, ma era sempre pronto a considerarlo con allegria. «Oh» disse Alyre che quell'esordio aveva appena indotto a non parlare più. «Oh... è una cosa che, per capirla, bisognerebbe tenere conto di tutto. Di tutto! E siccome non ne sappiamo nulla...» Cavalcava un sogno triste che si svolgeva laggiù, verso le sue tartufaie di Cassagne, fra le lance di bronzo di un boschetto di lauri. Quell'esercito ticchettante non s'immobilizzava mai al vento della notte? Erano comunque strani i capricci di Roseline che duravano da qualche tempo, proprio passando vicino a quel bosco. Era comunque strana la sensazione soffocante che gli faceva girare la testa, quando ascoltava le voci del vento davanti a quel bosco riannodando lo spago al nastro di Roseline. «Mi cadono le braccia» disse Francine. «Non mi hai abituata a tanti misteri.» «Non sono misteri» disse Alyre «sono perplessità... È così: sono perplesso...» Tale perplessità lo condannava, quella sera, a ricercare maggior compagnia. Appena finito il formaggio, si alzò, infilò la salvietta nel cerchietto col suo nome inciso e annunciò che andava a giocare a carte da Rosemonde Burle. 3 L'orologio del cruscotto ticchettava nell'oscurità. La grossa automobile blu era immersa sotto la cupola dei lauri. A tratti, il vento staccava un frutto nero che rimbalzava sulla lamiera. Solo la macchia bianca di mani feb-
brili si distingueva attraverso il parabrezza dove s'insinuava qualche raggio di luna filtrato fra i rami ondeggianti. «È la tua ultima parola?» La ragazza con le dita rattrappite sul volante guardava diritto davanti a sé. Gli occhi chiari le si appannavano di lacrime e la voce era strozzata dai singhiozzi. «Sembrerebbe una storia d'amore...» L'uomo al suo fianco, ispido di barba irsuta e di lunghi capelli attorcigliati, le rispondeva cupamente, lo sguardo fisso davanti a sé, in lontananza, su quel muro fatiscente, forato da una porta di ferro. «È una storia d'amore...» «Ma no, è una storia di soldi.» «Dieci milioni! Regali dieci milioni a quei pidocchiosi. E sostieni che non si tratta d'amore. La metà dei nostri averi. Ci pensi. Tutta la fatica di due generazioni.» «La fatica di due generazioni di esercenti, sì.» «Ma cosa pretendi di provare agendo in questo modo?» «Espiare. Espio per mio padre, per mia madre e per te, di conseguenza... Ascoltami bene: fra quarant'anni, fra cinquanta, sarai vecchia o morta. Avrai avuto un marito che non amerai più; dei figli che si chiederanno cosa fare di te perché non oseranno ancora spingerti giù dalle scale... Li avrai visti disfarsi a mano a mano che invecchiano. Quel Dio a cui ti hanno educata non ti servirà più a nulla. E tu non sarai mai servita a niente perché avrai sempre amato soltanto il tuo piccolo nucleo familiare e il peggio, nel tuo caso, sarà che continuerai ad amarlo anche se orrendo...» «Perché dovrebbe essere orrendo?» «Perché genitori come i nostri, che hanno sempre avuto soltanto i soldi in bocca, non possono generare che esseri orrendi. E tu ti sceglierai un marito, come per caso, fra altri figli di esseri orrendi.» «Papà era uno sciagurato.» L'uomo ridacchiò. «Esatto. Lasciava cadere così dall'alto le elemosine da dare sempre l'idea di spartire il suo patrimonio. No, non è possibile. Bisogna che mi stacchi da lui. Non devo assomigliargli. Non voglio essere bollato da lui. Al mondo dobbiamo essere tutti fratelli. Non avrei il mio posto fra gli uomini se gli assomigliassi. Se ti assomigliassi.» Fece l'atto di aprire la portiera. «No, aspetta» disse lei ansando. «Posso arrivare a sei milioni. Lo sai che
si tratta della mia vita. Che ho studiato per questo. Che ho dato tutto.» «Hai un animo da padrone» disse con disprezzo. «È possibile? È possibile che sia proprio tu. Tu che ti precipitavi a regalare le bambole a tutte le mendicanti di Oyonnax?» «Mi sono presa delle bacchettate sulle dita, per questo.» «Non dai nostri genitori. Se ne guardavano bene. Ti facevano dire severamente dalle tue bambinaie di non spartire nulla. Quando hai smesso? Quando hai smesso di regalare? Dimmi? Non puoi tornare indietro? Non puoi ricominciare ad assomigliarmi? Ti volevo tanto bene.» «Mi vuoi bene, ma mi lesini quattro milioni.» «Ho fatto fare tutti i preventivi. Ho ottenuto tutti gli sconti possibili: acquisto di tutti i terreni, di tutti i ruderi, restauro delle case, acquedotto, elettricità, eccetera. Per sistemare la comunità in una natura amena, mi ci vogliono tutti.» «Tutti? Sei pazzo.» «Lo sai bene che non lo sono. Ho tre attestati di matematica. Mi hai fatto controllare di nascosto in due riprese. Sì, sì, non protesto. So che il tuo amore è cosciente...» «Il gruppo Europlast ci spia. Ha fatto in modo che nessun altro si arricchisca. All'occorrenza, non otterrai neppure i sei milioni che ti offro.» L'uomo abbozzò un sorriso nell'ombra. «Sei troppo brava per me, ma comunque non fino a questo punto. So che hai commissionato un'analisi seria a una società americana. Ti ho anche fatta spiare commercialmente da un mio amico investigatore privato. La fabbrica è stata valutata venticinque milioni di franchi. E venti milioni è la cifra limite che l'Europlast ha fissato perché la mano di poker diventi fruttuosa. Non dimenticare che chiuderanno la fabbrica non appena l'avranno acquistata. Porteranno via soltanto il portafoglio clienti. Allora, sorellina... Dieci milioni, è la mia ultima parola.» Aprì la portiera, questa volta con decisione. Un odore sgradevole gli solleticò le narici. Lanciò verso il fogliame dei lauri uno sguardo incerto. Le nubi veleggiavano sotto la luna. «Jérémie!» Aveva sbattuto la portiera anche lei e, girando attorno alla macchina, andava a sbarrargli il passaggio. «Mi metti in croce.» La luna l'illuminò tutt'intera, con la mantella di lana cruda, i capelli spettinati ad arte; le gambe inguainate di seta, slanciate su tacchi di scarpe che
rutilavano quando un raggio le investiva. Era una ragazza dalla pelle chiara, gli occhi immensi; il viso le rifulgeva di bontà e d'intelligenza. «Come sei bella» mormorò Jérémie. «Che peccato! Cosa farai con tutti quegli scalcinati? Tuo marito guarderà la Coppa del mondo alla televisione! Ti porterà a vedere delle autentiche scene porno quando uscirà per qualche cena d'affari. Mangerai carnaccia di montone. Farai una vita volgare. Vieni con me. Su queste colline, venuti da ogni parte, conoscerai degli uomini che saranno sporchi ma che almeno saranno puri. E ne conoscerai parecchi, senza costrizione, liberamente, finché ne troverai uno che fa per te. O una, chi lo sa? Ma almeno, nel nostro ambiente, avrai libera scelta.» «Jérémie, ti supplico. Senza la fabbrica sono una conchiglia vuota. Accetta. Ti giuro che se potessi di più lo farei.» Jérémie si voltò verso di lei. Aveva, frammezzo alla sua zazzera irsuta, lo stesso sguardo tenero della ragazza. «Santo cielo» gemette «come fai a nascondere tutto questo sotto tanta purezza? Come puoi essere al tempo stesso così ingenua?» Era accasciata su di sé. Non reagiva più. Quel fratello che aveva amato, quel fratello che era dei loro, dov'era? Dov'era il suo spirito? La tentazione di pregare, da tanto tempo soffocata, d'un tratto la sommerse. Ma lui stava voltando le spalle, se ne stava andando... Lo guardava partire, portandosi via la sua ultima speranza. La fabbrica sarebbe stata venduta. Non poteva dargli dieci milioni. Il sacro deposito in Svizzera non si poteva intaccare. Suo padre gliel'aveva fatto giurare. Soltanto la fuga della famiglia, fuori della Francia, l'avrebbe autorizzata a toccarlo. «Jérémie!» Se ne andava a piedi nudi, la tonaca fradicia e sottile spiegazzata intorno al corpo come quella di un frate, ma ancor più umile, senza cintura, senza croce, salvo quello scapolare in bacche di cipresso che gli ticchettava alla vita. "Santo Dio" pensò lei "che freddo deve sentire!" Il suo sguardo sfiorò meccanicamente la fascia bianca, che rifletteva la luna, dei lussuosi pneumatici dell'automobile. La ruota anteriore destra era sgonfia. «Jérémie!» gridò. Si voltò, ritornò sui suoi passi. «Jérémie, non ho mai saputo cambiare una gomma in vita mia. Proprio
oggi devo...» Egli alzò le spalle. «Hai gli attrezzi?» «Nel bagagliaio.» Si dava da fare intorno a lei, preparava il martinello, tirava fuori la ruota di scorta. «Non ti fai male ai piedi?» «Figurati! Sono fiero della mia callosità. Ho fatto cinquemila chilometri a piedi nudi. Non si consumano come le gomme della macchina. Cazzo! Quegli stronzi hanno stretto troppo i bulloni. I meccanici sono tutti uguali. Li stringono con delle chiavi a stella e tu non hai che questa chiavetta a tubo. Sono tutti stronzi. Non hai una chiave inglese? La infilerei nel tubo e farei leva.» Frugava nella cassetta degli attrezzi. Ritornava. Toglieva con cura i bulloni dal coprimozzo. Cambiava la ruota. Riavvitava i bulloni a mano. «Tienimi questa.» Le tendeva la pesante chiave inglese che gli era servita da leva. Era chinato davanti a lei. Il suo cranio ispido era all'altezza del cofano. "Dieci milioni" pensò lei. "E la mia vita... E cosa ne sarà di me?" Fu tutta la stirpe dei vivi e dei morti della famiglia a sollevare la chiave inglese in mano alla giovane e ad abbatterla con tutta la sua forza sul cranio di Jérémie... Una volta, due volte... Una paura tremenda la colse poiché, invece di cadere, lui cominciò a raddrizzarsi lentamente, lentamente, come poco prima si alzava il veicolo sotto l'azione del martinello. Comprese subito che se si fosse voltato, se l'avesse visto in faccia, sarebbe morta - anche se non per mano sua - di orrore, di rimorso, di smarrimento... Allora lo colpì di nuovo con la forza della disperazione e, questa volta, egli crollò sul cofano. Ma l'ultima immagine che conservò non fu quel grande corpo raggomitolato su se stesso nella sua tonaca fluttuante. Fu l'uomo ancora vivo che si rialzava con quella lentezza irreale; l'uomo le stava mostrando un viso che lei ben sapeva... Il viso di uno che imparava a conoscerla qual era! "L'ho ucciso perché aveva ragione" disse fra sé. Ma presto pensò che lei fosse l'anello che collegava il passato al futuro. Cos'importava essere un'assassina? Uccidendo Jérémie salvava un'impresa, degli operai. "E tu, ti salvi tu" le gridò una voce. Immediatamente ciò che lei era stata, prima di quell'attimo, affiorò alla sua coscienza. Era possibile? Si contemplò il braccio come se appartenesse a un'altra, contemplò la
chiave inglese impiastricciata di sangue. La gettò per terra. Il rumore che fece cadendo risvegliò il suo istinto. Bisognava cancellare le tracce, andarsene, fuggire... Raccolse la chiave, si abbassò per terminare di avvitare i bulloni e rimettere il coprimozzo. Durante tutta l'operazione, chinata sulla ruota, il suo viso acqua e sapone fu all'altezza di quello di Jérémie e i suoi lunghi capelli accarezzarono quelli di lui. Finalmente si raddrizzò, rimise a fatica la gomma forata nel bagagliaio e fece il giro dell'auto per installarsi al volante. Fuggire... Nessuno al mondo sapeva ancora che era partita da Oyonnax per venire qui a Banon. Nessuno... Aveva fatto il pieno il giorno precedente. Non aveva neppure dovuto fermarsi a un distributore... Se, fin d'ora, avesse potuto allontanarsi, riguadagnare Oyonnax prima dell'alba, chi l'avrebbe sospettata? Dietro il suo viso puro? Dietro il suo equilibrio? Dietro il dolore che avrebbe saputo provare fino a manifestarlo convenientemente in pubblico? Solo l'avvocato di Jérémie era al corrente della sua intenzione di vendere la fabbrica. Lei stessa, se non gliel'avesse confessato espressamente Jérémie quella sera, non ne avrebbe saputo ancora nulla. Tutto era fatto perché lei ne uscisse con le mani pulite. Consultò l'orologio. Era mezzanotte e mezzo. Cinque ore di strada a centocinquanta all'ora... Possibile. Fece l'atto di aprire la portiera. Vide Mambo. Ritto sulle corte zampe contro il vetro chiuso, un minuscolo bassotto tedesco la guardava gemendo, impaziente di ritrovare il padrone. Indietreggiò alla sua vista. Lo vedeva ancora su quella strada, allegro e cordiale, il cagnolino in braccio, un borsone da viaggio appeso al collo. Anche la borsa era qui. Forse sapeva ancora del sudore di Jérémie sulle strade... No. Si coprì la faccia con le mani. Era riuscita a uccidere perché lo esigeva la fabbrica. Non poteva uccidere il bassotto. Sarebbe stato superiore alle sue forze. L'avrebbe abbandonato... durante il ritorno... Era di razza. Qualcuno l'avrebbe raccolto... 4 Mentre stava per mettersi alla guida, sentì, sobbalzante sul sentiero, arrivare verso di lei, a bassa velocità, una vecchia automobile. Traballava, alla mercé dei solchi, col paraurti mal rabberciato che produceva un rumore di casseruola. Chi veniva in quel deserto a quell'ora? Davanti alla Mercedes si insinuava nell'oscurità un antro di verde. Si mise al volante, azionò il contatto, indietreggiò alcuni metri e spostò la macchina nell'antro oscuro
fino a sentire i rami frustare la carrozzeria. Aveva fatto tutto senza accendere i fari. Scese, s'imboscò fra i lauri, irrigidita, bianca sotto la luna, ma la cortina di alberi la separava da quella radura cosparsa di foglie morte e sbarrata da un muro e da un cancello rugginoso. Quel boschetto così folto, che aveva scorto dalla strada dopo aver caricato Jérémie che l'aspettava all'incrocio dove le aveva dato appuntamento, le era parso propizio a un colloquio privato. Il destino, probabilmente, le aveva suggerito già allora, senza che ne avesse coscienza, che forse avrebbe dovuto ucciderlo. Ma adesso era prigioniera di quel boschetto. Non offriva altre uscite per raggiungere la strada, a parte il sentiero sterrato dove avanzava la vecchia automobile. Si avvertiva il fracasso del suo motore asmatico in seconda; asmatico, ma robusto, da cui si intuiva che poteva funzionare ancora vent'anni a un'andatura così ridotta. Sul vialetto rigidamente delimitato dai fusti ricurvi dei lauri, il veicolo avanzava a fari spenti. Finalmente appariva. Sbucava nella radura occhieggiata dal chiaro di luna che giocava col vento attraverso i lauri e i lecci. La vecchia carrozzeria un tempo bianca, era ora screpolata e grigia come un guscio di tartaruga; così vecchia e così erosa dalle stagioni passate all'aperto che non sembrava più di questo mondo. Un'aura sinistra aleggiava intorno a quella carretta familiare. La ragazza la contemplava, gelata fino alle ossa, rigida di paura e di presentimenti funesti. Se il guidatore accendeva i fari, non era possibile che non avvistasse il cadavere di Jérémie sul cumulo delle foglie secche. Ma perché restava a fari spenti? Cosa veniva a fare a quell'ora in quel parco sbarrato da cancelli arrugginiti? Il motore si spense di colpo. Nel silenzio che seguì, la giovane udì un grosso albero stormire al vento in un soffio lentissimo di tristezza. Le parve di riconoscere il canto funebre di un cipresso. Guardava a occhi spalancati la vettura grigia, immobile nella penombra, i vetri appannati dal freddo di dicembre, quando sentì cigolare la portiera. Il sedile del guidatore sì trovava dalla parte opposta del boschetto di lecci dove si celava lei. Lo vide soltanto quando lui si alzò in piedi. Le dava la schiena. Avanzava con indolenza verso l'inferriata arrugginita. Il chiaro di luna rivelava una figura imprecisa che si prolungava diritta e scura, dalla testa ai piedi, senza vita, senza spalle né collo. Si bloccò davanti al cancello, cavò di tasca un mazzo di chiavi che tintinnò. Ci fu un rumore di catenaccio ben oliato che scivolò senza sforzo nella bocchetta. L'uomo spinse per bene il battente, che cigolò sui cardini. Quindi si voltò. La giovane vide drizzarsi tutto nero, chiazzato di ombre e di chiar di lu-
na, uno spauracchio informe senza viso. Dalle falde enormi del cappello nero scendeva un velo di tulle nero che gli insaccava le braccia fino ai gomiti. Portava lunghi guanti neri che sembravano femminili. Attraverso i varchi del fogliame lo guardava soggiogata. I suoi passi facevano scricchiolare le foglie morte mentre si dirigeva con lentezza verso la carretta. Ma prima di raggiungerla, si bloccò, piedi uniti, braccia incollate al corpo, immobile, in mezzo alla natura come un cacciatore che voglia integrarvisi. Trattenne il respiro. Erano a venti metri l'uno dall'altra. Poco prima, durante la discussione in automobile, aveva fumato una sigaretta e sentiva intorno a sé il proprio profumo sottile che avrebbe rischiato di tradirla, se sotto gli alberi non avesse fluttuato un odore acre dominante su ogni cosa. Comunque, l'uomo rigido e teso girava pian piano da una parte e dall'altra la tendina funebre che gli velava il volto, e il cappello seguiva il movimento. Riprese il cammino, ancor più lentamente, verso la sua macchina. Lo immaginava temporeggiare, esitante. Se all'improvviso gli saltava il ghiribizzo di scostare i lauri e di avanzare verso la prima cupola di lecci, di sicuro avrebbe scoperto Jérémie e allora... mai avrebbe avuto il tempo di allontanarsi. Ma il personaggio, il cui atteggiamento era sempre estremamente circoscritto, non modificava il suo percorso... Una sola volta si girò con vivacità. Fu quando, spinto dal vento e forse curvo sui cardini, il cancello arrugginito si mosse appena, con uno stridio che parve allarmare l'uomo circospetto. Rimase un lungo attimo voltato a contemplare il vuoto dell'apertura dove s'insinuava un unico raggio di luna, poi, probabilmente rassicurato, si mosse di nuovo. Non riprese il suo posto al volante. Aprì la portiera posteriore, dal lato opposto da dove lei spiava. Ne trasse con sforzo una specie di marionetta oblunga e flaccida che gli scivolava fra le braccia facendogli compiere una immane fatica per trattenerla. Si caricò titubante quel collo informe. Si raddrizzò. Si mise in cammino con passo pesante verso il cancello aperto. Allora il chiaro di luna rivelò di colpo la natura del fardello sulle spalle dell'uomo. Era il corpo di Jérémie disteso sull'erba e che lei distingueva ancora allo stesso posto. Uno stupore senza nome le elettrizzò i capelli e le ghiacciò la spina dorsale. Lo scapolare, la tonaca, i piedi che lo sconosciuto stringeva alle caviglie: c'era tutto. Tutto era simile. I capelli sulla testa rovesciata spazzavano quasi il suolo, mascherando il viso. Ormai l'ombra scivolava attraverso il cancello, spariva. La ragazza non riusciva più a muoversi. Sapeva che il corpo di Jérémie era sempre là... Ma allora? Chi
era quello che trasportava l'uomo con la veletta? Perché era morto? Cosa ne faceva? Il desiderio di sapere la proiettò avanti. Varcò a sua volta il cancello. Quando l'uomo tornò, non si voltò immediatamente. Prima chiuse il cancello cigolante dando due giri di chiave. Poi, con la stessa lenta andatura, si diresse alla sua automobile. Allora alzò la testa. Laggiù, nella penombra, il volto di una ragazza lo fissava intensamente. Non credette ai propri occhi. Subito ebbe paura. Ma quel volto era così promettente che si rassicurò senza indugio. Non aveva nulla da temere da una simile purezza. Purtroppo non aveva con sé nulla dell'occorrente... Si guardò le mani e, per testimoniare la sua fiducia in esse, vi sputò dentro... Avanzò a piccoli passi. Scostò i lauri. Non guardava che la ragazza. Non vedeva il colore delle sue pupille, ma soltanto un grande foro riempito dal chiaro di luna. Lei si lasciava cadere ai piedi quella specie di mantello senza maniche che indossava. Si sbottonava la camicetta, se la toglieva... Lui inciampò contro una massa molle, si accorse con stupore che era un cadavere. Lo scapolare, la tonaca... I capelli lunghi. Ebbe di nuovo paura. La ragazza, adesso, stava a dieci metri. Sotto il soffio del vento gelido di Lure, si lasciava scivolare la gonna, era quasi nuda. Più due metri soltanto. Allungò la mani verso il centro delle sue gambe, col desiderio immediato di palparla, di accarezzarla, di sottometterla prima di ucciderla. Prima però di richiudere la presa intorno a quel corpo che riteneva docile, lei, con tutta la sua forza, gli piantò nelle parti basse il pugno armato del mazzo di chiavi. Nell'urto avvertì che una grossa massa di carne molle e dura insieme si era schiacciata. Lo colpì di nuovo da vicinissimo, con la punta delle chiavi bene in mostra questa volta e nello stesso punto. Lui si risvegliò dal suo inebriamento con un gorgoglio sordo che reprimeva un urlo, si piegò su se stesso. Soffiava come un toro crivellato di banderilla. Le sue mani da boscaiolo si protesero questa volta verso il collo della donna per stritolarlo, ma lei non c'era più. Era laggiù, nell'ombra fitta di un leccio, quasi invisibile, salvo le cosce e il ventre che facevano scudo al chiaro di luna. Sbilanciato, il dolore che gli mozzava il fiato, l'uomo avanzò a braccia aperte, con un gesto da gorilla. La ragazza fuggì tra gli alberi. La seguì. Forzò l'andatura, ma la distanza fra loro non diminuiva. Correndo a piedi nudi sulle foglie morte, tentava di sfiancarlo ed egli colpito com'era, faticava a riprendersi. La perse di vista. Cercò. Procedeva fra i lauri, circospetto, terribile. Il cappello ben fissato sotto il velo si era appe-
na spostato sulla testa. Di colpo la sentì leggera dietro di sé. Il suo polso fu preso nella morsa di due mani d'acciaio. Lei tirò con tutta la sua forza. Era la prima volta, da quando faceva judo, che doveva tirare una massa così notevole. Ma la sua tecnica si era perfezionata. L'uomo andò a ruzzolare in mezzo a un cespuglio di rose selvatiche. Nutriva ancora illusioni, ma il centro del corpo lo faceva soffrire sempre di più e si teneva il polso sinistro decontraendo le articolazioni martirizzate. La donna si precipitò verso la Mercedes. Aprì la portiera mentre l'altro esitava, sempre più visibilmente, come stesse per scagliarsi o per crollare. Afferrò nel bauletto interno un minuscolo revolver, lo puntò sull'uomo e liberò la sicura. Lui si fermò di botto. Erano faccia a faccia. Si squadravano. Lei in piena luce, trionfante, quasi nuda, con le punte dei seni che si sollevavano nell'ansimare dell'emozione; l'uomo, semipiegato in due, che stava recuperando in fretta ma restava sempre anonimo, trincerato dietro il velo nero. Respiravano molto forte. Sembrava che, invece di una battaglia, fosse stato uno sforzo amoroso ad averli affaticati. Tutt'intorno il silenzio era compatto. Il vento stesso era cessato. Nella notte chiara non si sentiva altro che i loro due respiri come vicinissimi. Dalla canna della pistola alla punta del braccio teso, lei indicava ostinatamente il cadavere di Jérémie e, con l'indice della mano sinistra, additava il cancello che l'uomo aveva richiuso. Questi tardava a eseguire. L'altra indietreggiava per tenersi fuori portata, ma non troppo lontano, comunque, perché all'occorrenza nessuno dei sei proiettili del caricatore si disperdesse nel bosco. Ci mise un po' di tempo a capire. Ma, a forza di scrutare la luminosità del viso che non distoglieva mai gli occhi, in pochi minuti conobbe quella ragazza meglio di chiunque altro l'avesse mai conosciuta. Non aveva il fisico per resistergli. Allora compì l'ultimo sforzo. Si caricò in spalla il cadavere di Jérémie e aprì ancora una volta il cancello, mentre lei recuperava i vestiti e le scarpe. Si rivestì, si annodò la mantella alle spalle e seguì l'uomo al di là dell'inferriata per sorvegliarlo ed evitare che la cogliesse di sorpresa. Alcune volpi guaivano in lontananza, affamate e ostinate. Disse fra sé che quei resti e quelle tracce di sangue sarebbero stati presto cancellati. L'uomo posò dolcemente il corpo di Jérémie. Sollevò quella barba serica, accarezzò quel collo così giovane. Mormorò: «Che peccato...»
5 Quella sera, Alyre Morelon s'era attardato fuori per andare a consegnare un cesto di tartufi dai Levinkof. Il pittore si era insediato in una vecchia segheria, un chilometro oltre le tartufaie di Alyre, sulla strada di Simiane. Godeva del favore della critica e vendeva quadri in America. Quando Alyre arrivò sull'aia che fronteggiava lo studio, pensò, nel crepuscolo, che un'orda di barbari avesse sterminato la famiglia. Una quercia secolare era spaccata in mezzo nel senso dell'altezza, foglie e rami compresi. Sul taglio liscio come una tavola, l'artista aveva dipinto una serie di vene azzurrognole, a spirali e volute. Spaventapasseri di stracci gialli e malva si arruffavano tra i rami appesi a corde colorate. Le loro lingue di taffettà rosso papavero penzolavano più o meno lunghe, a volte fino al suolo, sempre smisurate, leggermente falliche. L'insieme di quell'orrore dondolava al vento serale. "Carino" disse Alyre con ammirazione. Legò con cura Roseline, che disapprovava sordamente, ai piedi della quercia fatidica. Una marmaglia pigolante saltava intorno ad Alyre, cercando di scippargli qualche tartufo dal paniere; cani famelici gli abbaiavano alle calcagna; gatti febbricitanti per denutrizione fuggivano al suo avvicinarsi. E allora, da laggiù, Levinkof lo chiamò. Aveva una voce da basso in un corpo da Giobbe sul letamaio: sempre in short, muscoli come corde di violino si annodavano flaccidi sui polpacci da gallo. Sessant'anni? Settanta? Impossibile dirlo. «Cosa ne dici del mio albero di Natale?» domandò subito. «È bello» disse Alyre. Levinkof lo spingeva verso casa. Sulla soglia era in attesa la sua compagna. Era proprio per lei che Alyre veniva volentieri a consegnare i tartufi. Stava sulla sommità dei quattro gradini che portavano all'entrata. Era la sua posizione preferita nell'accogliere i visitatori. Si mostrava la maggior parte del tempo incinta e trionfante, del tutto nuda sotto una tunica di velo, l'ombelico debordante dal ventre come un cavatappi osceno; le mammelle un po' sfinite ma enormi. Era alta, a occhio e croce, un metro e ottanta. Alyre sognava ore e ore dopo averla vista, tanto che si perdeva in lei e non la smetteva di riempirsene gli occhi. Beninteso, Levinkof contava proprio su di lei per ottenere uno sconto sui tartufi. Ma l'inflessibile Frantine aveva
detto "trecento franchi al chilo" e sarebbe stato trecento franchi. Facevano festa intorno al paniere. Trascinavano Alyre in casa. Lo mettevano davanti a un pastis di cui aveva orrore. Riuscì a proteggere il suo raccolto finché Levinkof non gli ebbe firmato l'assegno e lui non l'ebbe intascato. Ma, subito dopo, la marmaglia (i sette figli di Levinkof più un piccolo laotiano che aveva adottato), la dea incinta e il pittore si gettarono sui tartufi come su un cestino di ciliegie. Il succo nero colava dalla fessura delle loro labbra; quel po' di terra rossa di cui erano ricoperti scricchiolava sotto i loro denti solidi. La dea ne succhiava uno che doveva pesare ottanta grammi. Gli occhi chiusi, il suo ampio viso biondo si deliziava vicino a quella palla nera che le gonfiava le labbra. In un quarto d'ora, divorarono milleduecento franchi di tartufi. La marmaglia rimpinzata ruttava di piacere. «Dimmi, Alyre» chiese Levinkof fra un boccone e l'altro «sono venuti anche da te i gendarmi?» «Due volte» disse Alyre. «Ne è scomparso ancora uno?» «Questo è certo.» «Allora, neppure in Francia si può più scomparire come si vuole senza che i gendarmi se ne impiccino?» «Sembra che...» cominciò Alyre. Si fermò di colpo. «Hanno gironzolato» disse Levinkof «intorno al mio albero di Natale per più di un quarto d'ora. S'intestardivano a voler credere che io avessi appeso degli uomini veri alla quercia.» «Si fa tardi» disse Alyre. «Rientro.» Levinkof lo baciò. La dea a sua volta si chinò per baciarlo e per un secondo la profusione delle sue mammelle pesò sulle spalle di Alyre. Anche la marmaglia l'imbrattò di tartufi. L'accompagnarono in trionfo verso Roseline che guardava di sottecchi, grugnendo con dolcezza. La marmaglia si tenne a distanza, rispettosa dei centottanta chili della scrofa. Alyre riprese la via di casa, con Roseline saltellante intorno al laccio simbolico. La notte invernale si era instaurata sui querceti. La luna rendeva la strada, dove trottavano l'uomo e il maiale, bianca. Ripassando davanti alle sue tartufaie, Alyre si rammentò che aveva dimenticato la zappa sull'inforcatura di un albero. Si addentrò sul suolo friabile. Provava sempre lo stesso piacere a scavare la terra sotto le querce. Amava quel silenzio, quell'ombra chiara. Era un uomo che si accontentava
di poco. Il silenzio... Il silenzio era turbato a una certa distanza da un rumore molto discreto che Alyre non riusciva a identificare. Era come se passassero della terra al setaccio. Un leggero rumore di sabbiatura. Nel contempo adocchiò il ferro della zappa sull'inforcatura dove l'aveva posata. «Aspetta.» Mollò il guinzaglio di Roseline. Si separò da lei per prendere l'attrezzo. Questione di un attimo... Roseline, che annusava l'aria con inquietudine da quando si era manifestato quel leggero rumore, si allontanò un tantino dalla vista di Alyre, avanzando col muso rasoterra. E, all'improvviso, si mosse al piccolo trotto e poi sempre più svelta. L'animale cacciò un urlo selvaggio. «Roseline» gridò Alyre. Era troppo tardi. Roseline scappava laggiù, sotto la cupola degli alberi, a gran carriera. Alyre si lanciò all'inseguimento, già in preda al panico, il cuore in gola. Una siepe che la scrofa aveva sfondato senza fatica gli si presentò davanti. Impiegò un tempo infinito ad aggirarla, a superare la scarpata. Era disperato. Sentiva in lontananza la sua bestia mugolare a più non posso, nelle tartufaie di tutta Banon. Che capriccio le prendeva ancora? Era il richiamo di un cinghiale? Talvolta capita, alle scrofe. Ma non era la stagione. E poi quel rumore... no, non era un cinghiale. Chiamava ai quattro venti Roseline nella notte chiara. Era attraversato da un orribile presentimento. Di colpo, la intese urlare. Si precipitò a caso, le mani a imbuto, ripetendo l'appello. Alla fine la scorse. Grugniva sommessamente sotto una quercia da tartufi cercando di leccarsi la coscia. «Roseline! Mia Roseline.» Le s'inginocchiò accanto. «È ferita. Sei ferita, mia Roseline. Mia povera Roseline! Ma perché sei così stupida? Perché sei così curiosa?» Non vedeva bene, alla sola luce della luna nascosta dal fogliame. Palpava Roseline su tutte le cicatrici. Lanciò un urlo di dolore. «È qui, mia Roseline? È qui che hai male?» Sì, era lì. Una grossa ecchimosi, aggravata da un graffio sulla spalla sinistra, e dalla punta di un orecchio colava un po' di sangue. Doveva essere stata assalita a pietrate. Assalita? Oppure era stata lei ad aver cercato di caricare un avversario misterioso che si era difeso? Ma allora? Perché quello non si era manifestato? Perché era fuggito? Era un razziatore di tartufi?
"Chi è il figlio di puttana?" Si guardò intorno selvaggiamente. Se l'aggressore di Roseline era ancora nei paraggi, per quanto Alyre fosse mingherlino, doveva proprio nascondersi! Gli pareva di essere lui a soffrire per la spalla della sua cara Roseline. Presto si orientò. Si trovava ai confini di una fitta serie di appezzamenti separati da siepi e scarpate. A un tratto si era levato il vento inaspettatamente, senza che nessun brusio lontano ne avesse preavvisato l'arrivo. Sotto le folate che piombavano dalle alture di Montsalier, Alyre percepì un altro strano rumore. Era un ticchettio di campanella e il fruscio dolcissimo di un tessuto femminile, come se una donna vestita con abiti leggeri sfiorasse i prugnoli del sentiero. Allora, lungo la china pulita fra le querce da tartufi, vide scendere verso di lui, spinti dalla tramontana, due oggetti disparati che, fluttuando nella corrente d'aria, producevano i rumori che l'insospettivano. Era un secchio giallo di plastica che risuonava ogni volta al suolo, urtando i sassi col manico metallico. Precipitò ancora un poco verso Alyre e finalmente s'incastrò nell'inforcatura di una quercia bassa. L'altro oggetto saltellante e leggero sembrava muoversi su un cuscino d'aria. Alyre lo riconobbe prima di distinguerne la natura. Lo riconobbe dal freddo fruscio che si propagò sulla sua fronte. «L'Uillaoude» ansimò. Un giorno, all'età di cinque anni, nascosto dietro la nonna che l'aveva portato là perché intanto era troppo piccolo per capire, aveva visto quell'oggetto, col suo nastro curiosamente annodato a mo' di otto petali inestricabili, sulla testa di una vecchia signora che ne era del tutto occultata. Era il "velo magico", cioè un tulle esorcizzato da certe pratiche che doveva proteggere la "fattucchiera" durante certe sedute particolarmente pericolose. Del resto, non era altro che l'ampio cappello da cui ricadeva il velo destinato a riparare gii allevatori dalle punture di api durante la raccolta del miele. Soltanto che era nero, tutto lì. Era nero e vetusto. Era appartenuto a una vedova del tempo che fu. Ed era anche sinistro, poiché diventava magico solo se la vedova aveva dato l'ultima spintarella al destino. Se con qualche artificio lei aveva affrettato la morte del coniuge. Allora le api le si gettavano sulla faccia e talvolta riuscivano a ucciderla all'istante. Tale oggetto, che riconosceva dal nodo inestricabile del nastro, dalla paglia nera del cappellino, Alyre si guardava bene da! toccarlo. Non credeva
a tutte quelle frottole, certamente, ma ciò non impediva di essere prudenti. E quella notte avvenivano cose strane... Si accontentava di guardarlo palpitare ai suoi piedi, al soffio del vento, e quando il vento s'incapricciava spingendo il "velo" verso le sue scarpe, indietreggiava precipitosamente. Il secchio, in compenso, per la sua stessa semplicità, era più rassicurante e Alyre non esitò ad afferrarlo. Era andato a posarsi in modo che il chiaro di luna ne illuminasse il fondo. Conteneva soltanto due o tre pezzettini di una materia granulosa che Alyre raccolse e fece saltare sul palmo. Erano pesanti, sabbiosi, un po' vischiosi. Quando si prendeva quella materia fra il pollice e l'indice, si amalgamava come mollica di pane, si riscaldava. Gli pareva che si animasse di una strana vita. Se ne sbarazzò subito, gettò il secchio lontano e si asciugò a lungo le mani sulle cosce. Le annusava, faceva una smorfia. Un malessere indefinibile gii sconvolgeva lo stomaco. «Alziamo i tacchi, Roseline» ansimò. Ma la bestia zoppicava leggermente e tornarono verso Banon a passo molto ridotto. Non smise di strapazzarla per tutto il cammino tanto era preoccupato nei suoi confronti. «Imbecille! Cosa andavi a fare in quelle tartufaie che non sono nostre? Se Pascalon Bayle o Polycarpe Bleu o Sidoine o Pipeau il suonatore di flauto mi avessero sorpreso - e con te per giunta - nei loro terreni alle nove di sera, saremmo stati freschi. E per giunta, sono tutti nipoti dell'Uillaoude.» "Toh, è proprio vero. Sono tutti nipoti dell'Uillaoude. E l'Uillaoude d'oggigiorno è la degna nipote di quella che mia nonna mi portava a vedere..." Alyre Morelon guardò il cielo dove il chiaro di luna attenuava lo scintillio delle stelle. Non gli succedeva spesso di guardare il cielo, ma quella sera era particolarmente disorientato. «Non fa nulla, Roseline... Ne accadono di cose strane... Cosa diavolo combinava, quello, sotto le querce di non so chi? Con un secchio di non so cosa... E con in testa un "velo magico"? A cosa poteva servirgli? E perché non si è fatto riconoscere? E perché ti ha gettato delle pietre?» Ce n'erano di domande per un solo uomo e una scrofa azzoppata. Quando arrivò a casa, trascinando Roseline a testa bassa sotto il suo nastro, si affrettò a cercare dell'acquavite e della penicillina, e, malgrado gridi orrendi, le pulì la ferita e le applicò una benda, senza illusioni però sul tempo che l'avrebbe conservata. «Fatto. E domani, se non guarisci, ti spediamo dal dottor Arnaud, a Ma-
nosque...» Dopodiché portò dall'officina un grosso lucchetto e delle viti per montarlo. Fissò il saliscendi del porcile. Piantò i ganci. Finiva quel lavoro quando Francine, che tornava da una trasferta, sbatté la portiera dell'automobile. «Di', cosa fai lì? Cosa ti viene in mente di chiudere Roseline col lucchetto? Temi che te la rubino? Con gli urli che fa quando si avvicina un estraneo, mi stupirebbe che...» Alyre le troncò la parola. «Non temo che me la rubino» disse «ho paura che me l'uccidano. Non è la stessa cosa...» Scrutava gli angoli bui delle rimesse come se fiutasse la presenza di un assassino. 6 Quando Laviolette, sempre nella sua Vedette verde mela, arrivò a Banon verso la fine di un pomeriggio, la piazza era deserta sotto il mistral. Un minuscolo bassotto tedesco vagabondava, frastornato dal vento. Laviolette misurò quel paese in tre sguardi. Il primo si posò sul cipresso all'angolo di un giardino a terrazza, ultimo dei centocinquanta con cui i monaci, per occupare gli intervalli della preghiera, nel Settecento avevano adornato gli spalti. Il secondo registrò i tre edifici a oblò che si esitava a credere se fossero usciti dalla terra o se vi fossero semplicemente posati sopra. Due alberghi moderni li completavano, uno si proclamava Hôtel des Fraches e l'altro Hôtel de Lure. Sul loro esempio, digradava verso l'altopiano un insieme di ville marsigliesi dove ognuno esponeva all'invidia dei passanti le ricchezze della propria immaginazione e la propria concezione dell'arte. Laviolette capì subito che quella Banon era senza misteri e non lo riguardava. Ma il terzo sguardo gli rivelò un'altra Banon. Era un vecchione col basco che traversava verso la fontana, i piedi a squadra contro il mistral. Gli si avvicinò e sollevò il cappello. «Non conoscerebbe» gli disse «un posto dove potrei mangiare e dormire a buon mercato?» Di proposito non adoperò la parola "albergo". «Mangiare e dormire?» ripeté l'altro. Quell'indugio gli permetteva di esaminare l'interlocutore. Vedeva un uomo dall'aria insignificante, né magro né grasso, con un testone, però, e
occhi sporgenti dallo sguardo vacuo. Per unico bagaglio, teneva, buttata sulle spalle, una sacca blu da marinaio, portata un tempo dall'Inghilterra. «Potrebbe provare un po'» disse il vecchione «da Rosemonde Burle.» Voltato verso le alture di Banon, indicava con due o tre mulinelli di canna un qualche antro ospitale e il modo per raggiungerlo. Il mistral gli rapiva a fior di labbra le parole che gridava dalle gengive sdentate. «Chi ha detto?» domandò Laviolette. «Rosemonde Burle. In cima alla via, sotto la porta. Si chiama La Rabassière. Ma attenzione, eh! Non le dica che la mando io. Se quella vuole, può, ma... se sa che sono stato io... addio sistemazione.» Laviolette lo ringraziò e fece il giro della terrazza del caffè dove, allungando il collo dietro la vetrata, quattro sfaccendati lo divoravano con gli occhi. Avrebbero dato tutto il guadagno delle giocate domenicali per sapere quel che diavolo il forestiero aveva domandato a Gabriel Montagnier. E del resto, Laviolette stava appena superando l'angolo della piazza, quando uno degli osservatori sgusciò fuori e veleggiò verso il pisciatoio dove scompariva il vecchione strascicando i piedi. La via s'inerpicava ripida davanti a Laviolette. E lì era la vera Banon. I pianterreni denunciavano qualche bottega o qualche bella pergola di pensionati, con la sua cassetta delle lettere dipinta di verde, ma bastava alzare gli occhi, allora si contemplavano tre piani di pietre senza età e persiane azzurro cielo in origine, ma sbiadite al sole degli ultimi cento anni. La via si restringeva fino alla cima del paese. Sotto il manto d'asfalto divelto dove l'urbanesimo l'aveva soffocata, rivelava un lastricato levigato dall'uso. Fu proprio lì, a tre gradini sopra il selciato, che Laviolette scoprì La Rabassière. Confusa, stinta, screpolata, l'insegna sopra la porta si distingueva ancora, blu pastello su fondo bruno scrostato: affermava, senza ostentazione, di offrirsi come albergo-ristorante. Gli stipiti dei tre pannelli a vetri erano lucidati con cura e il bianco di Spagna, fissato sino a mezz'altezza, impediva che si vedesse all'interno, come doveva proibire di distinguere la strada. Laviolette abbassò la maniglia a becco e infilò la testa tenendo la porta. Un intenso profumo di tartufi gli scombussolò l'odorato. La sala era vuota. Al primo piano, una voce di donna decisa gridò: «Arrivo.» Sedici tavoli occupavano la taverna in tutta la profondità. La volta, doppia vicino all'atrio, era invisibilmente rinzaffata a gesso come una croce di chiesa. Laviolette non finiva, gli occhi alzati, di interrogarsi sul mistero di
quella doppia volta che non poggiava su nulla. «Sta guardando il soffitto? È bello, eh? Quando penso che un muratore voleva pareggiarmelo!» «Le è andata bene» disse Laviolette. Non riusciva a capacitarsi che quelle pietre tenessero da sole, accostate senza cemento, sul vuoto, grazie alla sola abilità del loro scalpellino. Abbassò gli occhi. Rosemonde passava dietro il banco. I suoi fianchi si muovevano armoniosamente, a ogni passo, da destra a sinistra, da sinistra a destra. Era agile, sebbene in carne. Si voltò verso di lui. «Cosa desidera?» Era una donna di quarant'anni, rossa, occhi verdi. I capelli e il seno abbondavano, ma la bocca sottile denunciava circospezione. Capì subito che non era lì per bere un cicchetto al banco. «L'importante» disse Laviolette «non è tanto quello che desidero io, quanto quello che può offrirmi lei.» «Ha già mangiato?» «Sì, grazie. Vede, cerco vitto e alloggio, forse per un quindici giorni, forse di più...» Si asciugava le mani contro la camicetta. «Santo cielo» disse lei «con quel vento che tirava sulla loggia, mi sono impigliata nelle lenzuola che stavo stendendo, e ora sono tutta bagnata. Aspetti un attimo, vado a cambiarmi... Non voglio buscarmi una polmonite. Starei fresca. Ha premura?» «Faccia, faccia» disse Laviolette. Che quel petto potesse contrarre una malattia gli sembrava improbabile, tanto era gonfio e solido. "Ci rifletterà su" disse fra sé "peserà il pro e il contro..." Nel giro di tre minuti lei fu di ritorno. «Allora, vorrebbe alloggiare da me?» «Sì, se è possibile.» «Il fatto è che, sa... Non c'è riscaldamento. Però nell'unica camera che posso darle ci passa proprio il tubo della stufa. Di norma, capisce, l'affitto solo ai villeggianti.» «E lei, è riscaldata in camera?» «No. Infilo in una calza un ciottolo che resta tutto il giorno nel forno della cucina...» "Un ciottolo in una calza. Come mia nonna..." pensò Laviolette.
«Di sicuro ce ne ha uno per me.» «Santo cielo! Forse ne ho cinque, non sono quelli a mancarmi. Oh, noti bene, c'è un bel piumino d'oca...» «Un piumino alto così?» domandò Laviolette tutto speranzoso. «Proprio così.» «E color tuorlo d'uovo?» «Esatto.» «Allora, mi tenga, la supplico.» La donna scoppiò a ridere. «Andiamo. Va bene... L'accetto. Porti su i bagagli. È sul primo pianerottolo, proprio in faccia alla scala. Ma, sa, forse si troverebbe meglio all'Hôtel de Lure.» «Ah, grazie» disse Laviolette. «E mi ha squadrato piuttosto bene per essere sicura del contrario.» 7 "Qual è?" si chiese Alyre. Aveva appena spinto la porta di Rosemonde Burle. Erano già tutti presi dalia partita quando entrò. Il fornaio e il parroco in borghese bevevano un bicchierino insieme, in attesa di andare a impastare, cosa che facevano in comune, aiutandosi a vicenda. Martel, l'impresario, e Martin, l'idraulico, discutevano di un planning per un prossimo cantiere. Ma nel nido dei "tartufisti" c'erano i suoi col leghi, nella penombra, discreti e intenti al gioco. Rosemonde li guardava, col gomito sul banco, il pugno sulla mano, calma e nostalgica. "Qual è?" si ripeté Alyre. Si avvicinava a loro in silenzio. Non lo vedevano venire. Li osservava di profilo. Gli "arrabbiati a morte", come li chiamavano. Erano gli ultimi produttori di tartufi del circondario. Una volta che fossero scomparsi, poiché i loro figli si erano trasferiti o erano sul punto di farlo, nessuno avrebbe più raccolto tartufi, qui. Il sottobosco, i cespugli e le erbacce avrebbero coperto per sempre le tartufaie e sarebbe stato come quando la foresta sommerge le civiltà scomparse. "Per fortuna il mio Paul" pensava Alyre "per quanto sia un agronomo, è deciso a ritornare qui e a rimanerci." Compativa un po' i compagni perché non avevano la stessa certezza. "Eppure" disse fra sé "fra loro c'è un figlio di puttana."
Pensava al prosciutto tumefatto di Roseline che guariva lentamente, passando attraverso tutti i colori dell'arcobaleno, per le pietrate che aveva subito l'altra sera. "Avrei dovuto fargli la posta" rimuginava ancora Alyre "sarà ben venuto a cercarli, il 'velo' e il secchio..." S'installò senza rumore a cavalcioni di una sedia, un po' più in disparte per poterli scrutare a suo agio. Erano tutti più o meno della sua età, eccetto Pipeau, il suonatore di flauto, la cui madre era stata "sorpresa" verso la quarantina, quando credeva di non rischiare più. "Cosa che non gli impedisce di essere bello come il sole" proclamava lei. Ma tutti gli altri, Polycarpe Bleu e suo fratello Omer; Pascalon Bayle e suo fratello Virgile; Sidoine Pipeau, più vecchio di Albert di quindici anni; con tutti quelli che restavano a Banon a vivacchiare superando le varie difficoltà che presentano un gregge, qualche tartufaia e un centinaio di alveari, Alyre era andato a scuola insieme. Non ce n'erano più molti. O erano partiti, o avevano cambiato mestiere, o erano già morti. "Non è possibile" pensava Alyre "che uno di questi ha scagliato pietre alla mia scrofa. Sanno tutti il valore che ha. Gliela impresto, persino, a volte, quando sono a corto di cani..." Dovette però riconoscere onestamente che erano rari quei prestiti, e mai spontanei. La cosa che colpiva di quegli uomini di altri tempi sperduti in questo secolo era l'austerità dei loro tratti. "Sappiamo benissimo che non c'è da stare allegri" diceva fra sé Alyre "ne abbiamo in testa, di preoccupazioni; capita che un anno il miele sia raro e che l'anno dopo abbondi ma sia scuro, perché le api hanno bottinato troppo i fiori di quercia. E allora i marsigliesi non lo vogliono. Sappiamo benissimo che l'essenza di lavanda si vende un anno su cinque e che bisogna essere in grado di aspettare... Sappiamo benissimo che ci sono le scadenze del Crédit agricole... ma insomma... non è un motivo per avere quell'aria musona... Guardali: hanno tutti la stessa testa. Non solo si vestono uguali, con tute 'militari' della Società Elettrica di Francia e berretti impermeabili, ma addirittura sono tutti magri uguali. Come se si proibissero di ingrassare, per paura che gli si chieda qualcosa di più. Hanno il cuore avvelenato" concluse Alyre sommariamente. "E io, nonostante Francine, ho il cuore felice." Era una conclusione che l'autorizzava a cavare di tasca borsina e cartine di riso e ad "arrotolarsene una", con filosofia. Allora,
compiendo quei gesti precisi, s'accorse che nella penombra, dall'altra parte dei giocatori, come lui a cavalcioni su una sedia e nell'atto di arrotolarsi una sigaretta come volesse imitarlo, c'era quell'uomo dallo sguardo pesante che non diceva nulla, ma che osservava con attenzione, come Alyre faceva dalla sua parte, l'altro profilo dei giocatori di carte. Si era saputo che era uno della polizia, venuto qui a indagare su quelle sparizioni, "nell'interesse delle famiglie", così pareva. "Com'è possibile" pensava Alyre "che simili straccioni abbiano una famiglia e che egli s'interessi a loro? E se gli parlassi della mia scrofa? Visto che s'interessa delle famiglie degli hippy, può anche interessarsi della mia bestia, no? Mi sembra che da un po' di tempo, sarà un presentimento... sia minacciata, la mia Roseline..." Ebbe un brivido. Immaginava quel collo rosa e grassottelle... così vulnerabile... così bramato dai macellai... Si scrollò: "Sei completamente tocco... Chi mai vorrebbe ucciderti la scrofa? E perché?". Il vociare di un giocatore contro un altro che aveva fatto un errore lo strappò dalle sue fantasticherie. Era Polycarpe Bleu, scosso da un tic violento che ogni tanto lo coglieva, che se la stava prendendo con Sidoine Pipeau, il commerciante di legna, suo compagno di squadra. Gli avversari, Pascalon Bayle e Omer Bleu, avevano raccolto le carte e aspettavano la fine della sfuriata, con quell'aria neutrale della gente che è ben lieta di non dare spettacolo di sé. "Guardali come sono contenti che i loro fratelli si insultino" disse fra sé Alyre. "Ce l'hanno con i loro fratelli. Mi sono sempre chiesto perché si ostinino a venire tutti nello stesso caffè a giocare a carte quando non si parlano più da oltre vent'anni. Deve essere per ragioni di comodità... O magari per Rosemonde... Bisogna dire che Rosemonde... Non è la moglie di Levinkof certo, ma..." I due Pipeau, che assistevano anche loro alla partita, ognuno a un capo del tavolo, si schieravano da una parte o dall'altra, per inasprire la situazione. Di colpo avveniva un'esplosione di odio, sproporzionata a una disputa di gioco, fra tutti quegli esseri chiusi, che si conoscevano da sempre e che avevano, ben suggellate in se stessi, solide ragioni per non amarsi ma, nel contempo, per restare il più possibile insieme, con lo scopo di spiarsi, di non perdersi di vista. "Solide ragioni" rifletté Alyre. "Cosa può esserci di più solido di un amore deluso? Polycarpe e Omer sono arrabbiati per imbecillità. Con la loro lunga faccia sentenziosa, nulla di strano... Eppure erano stati allevati, se si
può dire, nella stessa culla. Quand'erano piccoli, erano coperti di mosche, d'estate, tanto li lavavano spesso. Mia madre mi proibiva di frequentarli... Poi il loro orgoglio aveva avuto la meglio. Uno ha fatto carriera nell'esercito. Con gli anni che contano doppio... eccolo pensionato a quarantaquattro anni e con i suoi duecento ettari che d'inverno affitta al pastore di Larche, cavolo! Suo fratello, Omer, è sempre rimasto qui con una donna di SaintAndré che gli ha portato un po' di soldi. Aveva persino una vigna, a parte che era solo del Jacquez. Un giorno, con intenzioni sincere, Polycarpe, che è sempre stato l'oracolo della famiglia, gli dice: 'Dovresti sradicare la vigna'. 'Sradicare cosa? È l'unica che cresce qui'. 'Sai che è Jacquez e che il Jacquez è vietato, e che, soprattutto, fa venire il cancro?'. 'Non sei già tu un cancro?' Una cosa, l'altra... Polycarpe l'ha denunciato al Consorzio agrario con una lettera anonima, a quanto sembra per salvargli la vita. Omer lo cercava dovunque col fucile caricato a pallettoni. Sono intervenuti tutti: i gendarmi, il parroco, il sindaco. Sono riusciti a far sì che si dessero la mano, sulla piazza, davanti a tutti: l'hanno ritirata come se scottasse. Sul letto di morte, la povera madre li ha supplicati di abbracciarsi. L'hanno fatto. Ero là: soffiavano come cinghiali inseguiti. Poi si sono abituati, ma mai una parola. Giocano a carte - mai insieme, eh! - vanno a vedere giocare alle bocce, ma mai una parola." La disputa si attenuava. Si borbottava ancora un po' fra i compagni scontenti, ma la partita riprendeva. Si sentiva Pascalon Bayle leccarsi il pollice a ogni carta distribuita. Il forestiero, a cavalcioni della sedia, adesso scrutava Alyre, a disagio, come se fosse colpevole. Fece il giro del tavolo, gli posò familiarmente la mano sulla spalla. «E lei» disse «non gioca?» «Oh, io» disse Alyre «io guardo.» «Lei ha la fattoria, laggiù, credo, dalla parte di Montsalier, proprio all'uscita di Banon?» «Proprio» fece Alyre. Lo sconosciuto scrollò la testa, rifece il giro del tavolo, s'installò di nuovo a cavalcioni della sedia. "Con domande simili, non andrà lontano..." pensò Alyre. Ma dalla sua postazione poteva constatare che, via via che quell'uomo passava dietro ai giocatori e a chi seguiva la partita, le spalle si curvavano impercettibilmente, e persino Pascalon Bayle, che si accingeva a calare una carta, lanciava comunque una sbirciatina, come se lo minacciasse un tiro mancino.
"Questi tizi sono amorfi" diceva fra sé Laviolette. "Sembrano trincerati dietro a una parete di ghiaccio." "Quale?" rimuginava Alyre. "Quale di questi figli di puttana era nelle tartufaie l'altra notte e per poco non ha ucciso Roseline?" Scrutava quasi sotto il naso i due amici di sempre, Pascalon e Virgile Bayle. Anche quelli erano arrabbiati fra loro. Erano delle "sagome". "Virgile" pensava Alyre "durante la guerra, e aveva diciassette anni, è rimasto tre ore appoggiato sui gomiti, a prendere il sole, mentre i tedeschi pattugliavano la collina per braccare due partigiani. Virgile li aveva sistemati a pancia in giù, in mezzo al gregge immobile che teneva a bada con un semplice fischio. Suo fratello, Pascalon, è un ladruncolo. Ha poche tartufaie e vende sempre più tartufi di noi che ne abbiamo un sacco... Non è normale... A casa sua, vive da nababbo. Le due figlie gli leccano i piedi. Ha messo la madre all'ospizio. S'intende un po' di agricoltura... Se avete bisogno di una buona perizia, dovete allungargli qualche biglietto. Insomma, quei due saranno pure arrabbiati, ma a questo punto persino io ignoro il perché. Vivono entrambi in due case contigue, con due mogli che si parlano cordialmente. Ma loro no. Non si sa il perché. Un giorno, abbiamo creduto di poterlo sapere. S'insultavano a squarciagola, da un giardino all'altro, a venti metri di distanza. Ma non potevamo avvicinarci per paura di essere visti. E tirava uno di quei mistral! Non siamo riusciti a capire nulla. Nulla! E da quella volta non li si sente più né l'uno né l'altro. Non soltanto non si parlano, ma a malapena rispondono agli altri." Dietro a quelle fronti, sotto i berretti ben calzati, quali pensieri cozzavano da anni che non sarebbero mai usciti, che non sarebbero mai stati formulati? Nessuno, nemmeno Dio onnipotente, avrebbe mai domato quegli irriducibili. Sapevano quel che sapevano, punto e basta... Ognuno per sé. Nessuna pietà. Si vive bene così, quando si è dei selvaggi... Alyre indietreggiò un poco la sedia per avere nella sua visuale gli ultimi due nipoti dell'Uillaoude: Sidoine e Albert Pipeau. Sidoine è uno facoltoso. Ha venduto metà dei tagli boschivi alle amministrazioni italiane per vent'anni. A un dato momento, aveva quindici portoghesi fra Lardiers e Saint-Etienne. Non vuole più farlo. Pare che la manodopera costi troppo cara... È già un bell'uomo, ma allora, suo fratello Albert... "Guardatelo" pensò Alyre con rancore. "Lo chiamano 'il corridore' perché cammina più svelto di tutti." Con un sorriso di superiorità, Albert si stendeva sulla sedia, gambe allungate, mani in tasca, il sesso sporgente sotto gli stretti calzoni. Aveva il
naso diritto, la fronte bassa, corti riccioli neri che s'inanellavano fino alle sopracciglia. Il colore degli occhi era incerto, sotto le arcate sopraccigliari prominenti. "Guardalo, quello, se non ha l'aria felice. Ma per ragioni ignobili. Guarda un po', persino Rosemonde fa la gattina con lui. Gli sbatte il seno sotto il naso servendogli la verbena. Mi stupirebbe che Francine..." Lo sguardo diventò così intenso che Albert lo sentì al centro della sua vanità soddisfatta e voltò la testa. Alyre chinò gli occhi per nascondere il suo odio. "E ancora, io..." disse fra sé "non sono il più infelice. Ma suo fratello! Qui, addirittura, c'è un buon motivo per essere arrabbiati da quindici anni. Un motivo come non capita spesso." Poco mancò che aprisse la bocca per gridare loro tutto allegro: "Vi ricordate? Ti ricordi?". Si trattenne a fatica, ma non resistette al piacere di guardare Sidoine con una certa commiserazione nel ricordare la sua storia. "Aveva appena sposato una certa Victoire che era andato a cercarsi nella Drôme. Albert terminava giusto il servizio militare. Lei non l'aveva ancora visto. Una sera d'inverno, tardi, all'angolo della chiesa, correva da Gardon a comprare dello zucchero. (L'ha raccontato cento volte, poi, a tutta Banon...) Proprio all'angolo. Guarda il destino! Gli è piombata addosso e, il tempo di capire, lui aveva aperto le braccia e lei non ha avuto il tempo di parlare. Cosa volete che facesse contro quell'uomo di granito? Lei proveniva da chissà quale paese sperduto. Non ne aveva mai visti come quello. Poi... È durata otto giorni. Lei non ne poteva più. 'È così' ripeteva 'sì, è proprio così, l'amore!' Quando ha saputo che era suo fratello, ha detto tutto a Sidoine. Non sono tutte come la mia Francine... Si sono sparati addosso, sotto i castagni dell'Uillaoude, come in guerra: in perlustrazione. I gendarmi li hanno riportati in manette; neri di polvere da sparo. Il tutto è costato loro mille franchi di multa e sei mesi di prigione con la condizionale, questo li ha calmati un po', ma... bisognerebbe che uno non incontrasse mai l'altro chino sul parapetto di un pozzo..." Sospirò: "E insomma, cos'è il mondo? Adesso Victoire ha i seni cascanti. Ha avuto cinque figli. Si lascia andare. L'amore è morto per lei. Può passare cento volte di corsa all'angolo della chiesa... Mai più!". "Quale?" si tormentò ancora Alyre. "Sono tutti nipoti dell'Uillaoude. Ma lei non esercita più... Il suo 'velo' può essere finito chissà dove. Comunque, l'altra sera, la mia Roseline ha visto qualcosa che non doveva vedere. Devo controllarla... "
Uscì per ultimo perché aveva una piccola questione di uova da regolare con Rosemonde. Quando richiuse la porta dietro di sé, tutti gli avventori erano ripartiti in automobile e, sulla piazzetta della fontana, c'era più soltanto Laviolette col cappotto che pisciava contro il glicine del presbiterio guardando la luna. «Senta, signor commissario...» Alyre gli si avvicinò per pisciare insieme. Laviolette si voltò, vide quell'ometto che pareva sottile avanzare verso il glicine rovistando nella patta. «Ha qualcosa» disse «da comunicarmi?» «Hanno aggredito la mia scrofa» rispose Alyre. Gli raccontò la serata di due giorni prima. Insomma... gliela raccontò quasi... Perché se parlò della fuga di Roseline sotto gli alberi, del suo urlo di dolore... se descrisse, con abbondanza di particolari, la ferita contusa, si guardò bene, in compenso, dall'accennare al secchio e al "velo". Quella faccenda era troppo intima... Vedeva ancora il tulle nero palpitargli davanti, rasoterra, nel vento, come se l'animasse una vita propria. No. Non si parla alla polizia di quei misteri a cui non si crede. «Ha dei nemici?» domandò Laviolette. «Oh, no, si figuri!» "Non si hanno nemici" pensava amaramente Alyre "quando si è cornuti. Un cornuto, si è pieni d'indulgenza verso di lui; gli si batte sulla spalla. Si dice: 'Ah, sì, l'Alyre!' con bonomia e lasciando intendere cosa se ne pensa." «Cosa vuole» fece Laviolette «se la sua scrofa ha caricato qualcuno, non c'è da stupirsi che si sia difeso. Possono averla scambiata per un cinghiale.» «Pulita e rosa com'è?» «Di notte, sa...» Alyre scosse il capo. E poi... non c'era solo quello... «A proposito» esclamò mentre si riabbottonavano la patta con sforzi infiniti. «Crede che sia possibile, crede che sia normale che... che... che si confonda il verso di una scrofa con quello di un cinghiale?» «Perché no?» disse Laviolette. Ma ebbe l'impressione che l'ometto si fosse ricreduto e che volesse domandargli ben altro. 8
«Non è del tutto legale né del tutto normale la mia presenza qui» affermò Laviolette. «In effetti, indago in punta di piedi...» «Mi hanno informato della sua missione» disse Viaud, il maresciallo capo di gendarmeria. «Mi hanno chiesto di fornirle tutta l'assistenza possibile...» «... e manforte all'occorrenza, lo so» sospirò Laviolette. «Non mi mancheranno gli aiuti. Posso anche appoggiarmi a Marsiglia.» «Un'indagine nell'ambito delle famiglie non richiederà tanto» disse Viaud. «Certamente, certamente. È un'indagine nell'ombra, fra le righe... Del resto, quando mi hanno telefonato, non mi hanno indorato la pillola: 'Lei che è incolore' mi hanno detto 'lei che s'infila dappertutto, lei che ha un aspetto insignificante...' Naturalmente sto riassumendo... Non mi hanno accusato di tutto questo insieme... Ma» aggiunse voltato questa volta verso il maresciallo ordinario «trova veramente che io abbia un aspetto insignificante?» Per tutta risposta i due gendarmi scoppiarono a ridere. Viaud si alzò per prendere dall'armadio una camicia bruna nelle cui tasche teneva le copie delle diverse pratiche. «Noti bene» disse «che non mi era sfuggito che tutte queste sparizioni risaltavano nella quantità di casi simili...» «Per via di che cosa?» «Per il fatto che la pista si ferma a Banon, paesino di novecento abitanti. Ero a Remiremont, prima di venire qui, città di quarantamila abitanti e città industriale. Lamentavano, in media, da dodici a quindici sparizioni, quasi sempre di ragazze che, quasi sempre, ritrovavano sulla Costa Azzurra... o in Iran... Andiamo, sei a Banon. In sei mesi!» «E che non ritrovano su nessuna Costa Azzurra» sottolineò Laviolette. «Ecco» disse Viaud «il fascicolo di ogni caso e l'interrogatorio della persona che le ricerca.» Era, per lo più, una lettera di un padre o di una madre, verbalizzata al commissariato o alla stazione di gendarmeria più vicina al loro domicilio. Uno solo si era concesso il viaggio fino a Banon. Tutti avevano fornito caratteristiche di figli ben allevati: blazer, cravatte con lo stemma del collegio, scarpe di Bally; per le ragazze, jeans, pullover, ciondoli di compleanno. Tutti quanti, al momento dell'ultimo incontro con i genitori, sfoggiavano l'orologio da polso di famiglia, erano sbarbati, lindi. Le foto raffiguravano dei giovani borghesi. Persino quello strampalato Constantin Spirage-
orgevitch non era del tutto un dimesso levantino, ma il figlio di un commercialista di Parigi. Persino Ismael Ben Amozil era il rampollo di un onesto commerciante del Sentier, che vendeva T-shirt al metro cubo e gellaba a piramidi nel suo bell'emporio. «Ma prima non faceva lo zincatere?» «Esattamente, fu la sua prima sfida al padre. A sedici anni, era entrato come apprendista da un tecnico di impianti di riscaldamento in rue Oberkampf.» «Jérémie Piochet...» «Questo nome non mi è nuovo» disse Laviolette. «Certo che no. Per pochi secchi o bacinelle di plastica solida che lei abbia in casa, avrà visto il suo nome inciso in rilievo sul fondo.» «Ah, così è quello.» «Sì. Sua madre è appena morta. Lui e la sorella possiedono una grossa azienda a La Cluse, vicino a Oyonnax.» Viaud restò un attimo incantato. «È affascinante...» aggiunse. «Chi?» «Sua sorella.» «La conosce?» «Abita a Banon. Un po' sta qui... un po' vagabonda. È inconsolabile. Se la vedesse... Col suo visino da biondina... angelica.» «Su, su, maresciallo...» disse Laviolette. «Le ho promesso di ritrovare suo fratello!» «Vivo o morto?» «Non ho precisato.» Laviolette sospirò. «Restano le ragazze che hanno dato notizie di sé per l'ultima volta alla stessa data» disse. «Incarnacion Chinchilla... Nipote dei proprietario dell'albergo Les Lusiades, a Irun. È venuto anche lui, ma è ripartito. Adora la nipote. Baciava la sua foto che aveva portato con sé. A tal punto che mi sono chiesto se...» «Sì. Si è chiesto se non fosse un po' invaghito di lei... In modo che la nipote avrebbe avuto tutte le ragioni di questo mondo per prendere il volo...» «Possibilissimo. Caso, per quanto risulti strano, probabilmente analogo per Patricia MacAdarash. Con lei si tratterebbe del suocero. È l'ereditiera di una distilleria a Dundee, in Scozia...» «Di una distilleria? In Scozia?»
«Sì. Di whisky. Ma sconosciuto all'estero. Destinato al consumo nazionale. Su questa Patricia abbiamo un po' più di particolari. Co! collo di una bottiglia di birra che aveva rotto, ha arato le guance di un cinquantenne che le strusciava le chiappe. Il fatto è avvenuto ai Perpendiculaire di Parigi, in rue Saint-Benoît. Era sbronza. Gli ha gridato, sembrerebbe: "Lei è uno schifoso come mio suocero". Sta qui, nel fascicolo... Un verbale del commissariato del sesto arrondissement.» «Una psicodrammaturga...» mormorò Laviolette. «E tutte e due... Invece di insegnare, non saranno state piuttosto delle allieve?» «Probabilmente» rispose Viaud. Laviolette scrutava le cinque foto ingrandite, sparse davanti a lui. Cinque visi giovanili, differenti al massimo. Lo sguardo, però, improntato alla stessa espressione, da cui non si poteva dedurre assolutamente nulla, essendo quella di buona parte delle nuove generazioni. Espressione che significava manifestamente: "Non vale la pena di parlare con voi, non vale la pena di spiegarvi. Non capireste. Siete troppo stronzi". Laviolette sospirò. Dov'erano andati a finire con la loro vaga rivolta, frutto di un carattere contorto, rispetto alla desolante povertà delle soluzioni proposte dai loro avi per lenire la loro solitudine? Dov'erano andati a finire i loro visi? Dov'erano andati a finire i loro corpi? Morti? Vivi? Ma perché Banon? «Capisce, commissario» fece Viaud «queste foto rappresentano gli scomparsi precedenti. Fra queste e il tizio che finisce a Banon, sono trascorsi mesi. Mesi di autostop, di cammino in mezzo alla natura, di notti sotto i ponti delle strade. Senza lavarsi, senza radersi. In viaggio si sono tinti i capelli con non so cosa, e da quel momento sono tutti color mogano. Hanno fumato hashish. Lo sguardo ha subito un mutamento radicale. Quando arrivano qui, sono tutti uguali: come se fossero marciti un mese in uno stagno melmoso prima di venire ripescati. Li vediamo passare così... Perciò può mostrare tutte le foto che vuole. Come sono su queste, nessuno li ha più visti. Le abbiamo sottoposte forse a trecento persone. Non c'è nessuno che ne abbia riconosciuto una e senza esitare.» «Lassù, a Montsalier...» «È il nostro giro abituale. Spesso col furgone, qualche volta a piedi, e allora arriviamo dall'alto, attraverso il bosco di Deffens...» «E neppure lì avete saputo nulla?» Viaud si mise a ridere. «Sapere! Si vede che non frequenta quel genere di umanità. Stanno lì,
torvi, stravaccati intorno a un fuoco di legna verde. Mostra le foto. Niente. Non un cenno. Non un battito di ciglia. Cammina in mezzo a loro e finisce per avere l'impressione di essere un fantasma, tanto non la vedono. Non bisogna neppure azzardarsi a mettergli una mano sulla spalla. Si lascerebbero cadere sbraitando che li ha picchiati.» «Eppure queste sparizioni di loro simili dovrebbero preoccuparli?» «Niente li preoccupa. Sanno come si sparisce e perché si sparisce.» «Non hanno mai contatti con la gente del paese?» «Altroché, li assumono d'estate per ritirare il fieno, raccogliere le patate o i meloni. Sì, hanno contatti. Si può dire persino che, a parte qualche capra che manca misteriosamente all'appello qua e là, la popolazione si è perfettamente adattata a questo genere di turismo.» Laviolette aveva finito per sedersi a cavalcioni di una sedia e si arrotolava una sigaretta con impegno. «La sua opinione personale?» domandò. «In base alle apparenze, sono altrove... A Katmandu, a Benares, a PuntaArenas... Lo sappiamo?» Si alzò a contemplare il paesaggio invernale dalla finestra. «Però... Qualcosa non quadra... In fondo... Mi chiedo se non hanno fatto bene a mandarla...» «E io, mi chiedo se lei non basterebbe...» «Sì... Oh, noti bene... Insomma, ecco» si decise bruscamente «per le ragazze, c'è comunque un particolare strano. Abbiamo indagato presso le PPTT e abbiamo saputo dal ricevitore che il diciotto ottobre due giovani rispondenti al nome di Patricia MacAdarash e Incarnacion Chinchilla hanno ricevuto ognuna un vaglia telegrafico proveniente da due agenti di cambio parigini. Due giorni prima, due ragazze avevano spedito dei telegrammi firmati con gli stessi nomi di battesimo. Ora, quei due vaglia non sono mai stati ritirati.» «Erano consistenti?» «Duemilacinquecento e tremila franchi. Informazioni ufficiose. Non possiamo menzionarle nel rapporto. Questi mandati, scaduto il tempo regolamentare, il ricevitore li ha riaccreditati ai mittenti.» «Tutto porta a credere che né Patricia né Incarnacion hanno mai lasciato Banon...» «Be'... Con gente normale, sarebbe quasi logico. Con degli hippy, è tutta un'altra cosa. Capisce, oltre ad assomigliarsi tutti, il che complica ancor più le ricerche, c'è la loro straordinaria mobilità. Li immagina che dormano
tranquilli, soli o in coppia, su un letto rotto, o addirittura per terra... Stai fresco. A un tratto, verso le due del mattino, con qualunque tempo, li coglie l'imperioso bisogno di fuggire.» «Lei dice di "fuggire", ma da cosa?» «Non importa... dai fantasmi, dai ricordi. Quasi tutti ne hanno di insopportabili, che risalgono all'infanzia. E che si riferiscono a certe notti... Insomma, da quel momento si alzano, senza dire una parola al loro partner di una sera né a chiunque. Scavalcano gli altri dormienti, e a piedi nudi o mal calzati, chitarra in spalla, si dileguano nella notte. Ne seguiamo le tracce dì casolare in casolare con i cani che abbaiano. Talvolta li arrestiamo per strada. Ma con quale pretesto trattenerli? Come stabilire l'itinerario delle loro peregrinazioni? Hanno sempre abbastanza soldi con sé per non trovarsi in stato di vagabondaggio. E quanto al loro domicilio stabile, forniscono quello dei genitori. E mi creda, è per lo più a Ranelagh che a Belleville! Questo per dirle che le due ragazze hanno potuto richiedere della grana quando erano in astinenza e partire completamente drogate in uno stato da non ricordarsi nulla...» «Sì, la capisco. Ma insomma, dopo quella volta, non sono più incappate in un altro controllo?» «No che io sappia.» «Lo saprebbe. Si troverebbe in questo fascicolo sottile come una cartina da sigarette. E saprebbe anche se avessero interpellato le altre tre... Ecco quindi cinque persone ricercate di cui nessuna è stata controllata da nessun posto di polizia. La prima da tre mesi, l'ultima da due settimane. Se fosse altrimenti, essendo all'inizio delle ricerche, lei lo saprebbe...» «Probabilmente» disse Viaud. «Sarebbe vano, beninteso, trarne delle conclusioni premature, ma insomma... Ci crede lei all'eventualità di una partenza imprevista?» «Ebbene... A dire il vero, non troppo. Piuttosto per intuizione che per ragionamento. Di conseguenza, la mia opinione non conta.» «Be', siccome condivido la sua, ne risultano due opinioni inutili. Aspetteremo che intervenga il ragionamento...» Si alzò. Il maresciallo capo l'accompagnò. «Naturalmente» disse Laviolette «non invaderò il suo campo. Non solo sono qui in gita, ma per di più sono senza missione né incarico... quasi senza motivo.» «Insomma, viene a respirare altra aria.» «Oh, sì! Proprio così. Vengo a respirare altra aria.»
«In ogni caso, può contare su me perché, se capita qualcosa, non cercherò di affrontarlo da solo...» Si strinsero la mano da complici. Fuori, sulla spianata declinante verso l'ospedale, la polvere turbinava fra i platani severamente potati. Banon navigava sul deserto del vento. Le foglie morte strappate al sottobosco frustavano i muri esposti a nord. Il cielo era cupo. Non c'era luna. Alle dieci, le vie erano deserte. Di tanto in tanto si sentivano i televisori mal regolati e il rumore del lanciafiamme davanti al panificio, dove il padrone e il parroco scaldavano il forno. Laviolette si accorse che, non lontano dalla sua "giardiniera", come chiamava la Vedette, un'altra macchina, blu metallizzato, massiccia come un carro armato, solida come un vagone, era parcheggiata sotto i platani spuntati. Vide anche il cane che aveva scorto al suo arrivo. Trotterellava, zoppicando leggermente, da una facciata all'altra. Vagabondava sotto gli olmi dell'antico albergo, chiuso da tempo, fino ai muri del nuovo ufficio postale. A tratti, tentava timidamente di rizzarsi contro una pattumiera verde, ma erano ben chiuse. I cani del paese le avrebbero rovesciate soltanto verso le cinque del mattino, quando i loro padroni, esasperati, finalmente li avrebbero sciolti. "È sperso, quello" disse fra sé Laviolette. "Bisogna fare qualcosa." Bighellonò, naso al vento, finché lo permetteva il freddo, zufolando un motivo salace. Si dirigeva per vie traverse verso il bassotto tedesco dalle costole sporgenti. "Se tutto quello che auguro al porco che si è sbarazzato di questa bestia si avvererà, non diventerà molto vecchio" pensò Laviolette. Il bassotto doveva aver evitato tante pedate da alcuni giorni che si era fatto estremamente circospetto. Gli approcci a mezza voce di Laviolette cadevano nel vuoto. Ogni volta che gli si avvicinava a meno di dieci metri, il cane abbaiava dal panico e fuggiva più lontano. «Bisognerebbe costringerlo verso la rimessa» disse Laviolette a voce alta. C'era, contigua all'Hôtel des Fraches, un'immensa porta carraia che controllava l'oscurità di una rimessa in terra battuta, immutata da un secolo. Aveva i battenti, ma si rinunciava da tempo a chiuderli, tanto erano pesanti. D'estate, la stalla ospitava le automobili dei clienti. Custodiva ancora, staccata per l'eternità, nascosta sotto una barricata di cassette vuote, la car-
rozza fabbricata nel 1880 dal maestro carradore Vinatier. Sui fianchi portava ancora le orifiamme artisticamente dentellate che annunciavano il suo itinerario: "Banon-Revest-du-Bion". Laviolette a poco a poco era riuscito a costringere il diffidente animale verso l'entrata oscura di quell'antro, ma appena tentava di spingerlo all'interno il bassotto schizzava fuori portata latrando lamentosamente. «Non ce la farò mai da solo» sospirò Laviolette ad alta voce. «Soprattutto con questo vento che deve frastornarlo...» "È dura" pensava "perché non conosco il suo nome. Perché non c'è nulla di più sperduto al mondo di un cane senza padrone. Ha avuto un nome. L'hanno chiamato con quel nome. E poi, a un tratto, non ha più nulla; più nulla da mangiare, più nulla da amare e più nome, te lo immagini?" Riuscì, dopo non pochi sforzi, a spingere il bassotto fino all'oscurità dell'antro. Gli recitava la litania dei cani dispersi che conosceva così bene. «Vieni, povero piccolo abbandonato. Non starai male lassù, a Piégut, all'aria buona. Il vecchio Ricandance, che me ne tiene già otto, ti tratterà da re. E ti troverà un nome: vivrai come un pascià.» Si sforzò d'incastrarlo sotto una cassetta da verdura. La bestia era ubriaca di stanchezza, di guai, di fame, ma temeva l'uomo sopra ogni cosa. Non aveva più fiducia in nessuno. Schivò Laviolette che tentava di afferrarla. Saltò fuori della rimessa e fiondò verso la strada di Revest dove scomparve. "Come fargli capire" rifletteva Laviolette tristemente "che certi uomini non sono mascalzoni?" 9 «Deve prendere per la "Valle dei Sospiri"» gli disse Rosemonde a cui chiedeva la strada per Montsalier. La "Valle dei Sospiri". Be', non aveva niente di straordinario. Sotto il rigonfiamento delle nubi che si ravviavano ai rami secchi, c'erano soltanto alberi morti, uccisi dal fulmine, rosi dai parassiti, sbrindellati dai cacciatori per innalzarvi le aste dei richiami. Li uccidevano piantando nel tronco i chiodi da carpentiere. Sotto la violenza del vento, i sassi si urtavano sui pendii scoscesi. I campanacci di un gregge suonavano, da qualche parte, in lontananza. Laviolette, sceso dalla macchina, contemplava senza entusiasmo il sentiero ripido. Quando si ha "una certa età", si fuma molto, si beve un po' e si
hanno piccole noie al disco, scoprire bruscamente un cammino scosceso da percorrere non ha nulla di stimolante. Eppure l'affrontò, sbuffando e recalcitrando. Travolto dalle folate, quasi a bocca aperta come un pesce fuor d'acqua, indietreggiando all'improvviso di un metro sotto la foga della tempesta e attaccandosi al tronco annerito di un gelso morto da cento anni, raggiunse finalmente la scarpata dei mulini. Erano appollaiati in modo irregolare e decapitati a mezz'altezza. Nessuna traccia indicava che avessero mai avuto delle pale né quei pesanti meccanismi di legno che azionano le macine. Eppure, negli orecchi di Laviolette, ronzava un rumore di puleggia mescolato a quello del vento. Camminava in diagonale, come un granchio. Banchi di nebbia scorrevano intorno a lui, e lui si dibatteva nella corrente come uno che stia per annegarvi. Il vento, a volte, li sollevava fino all'altezza delle nuvole. Allora il paese si svelava per sessanta chilometri di luce senza sorgente: fino alla valle dei Toupins, fino a Chastelar de Lardiers, fino alle pendici del Ventoux che teneva accuratamente la testa fuori dalle nuvole. Le foreste di Albion, i boschi di Carniol erano disseminati di spazi ben pettinati, a mo' di radure, salvo che non erano troppo precisi, troppo simmetrici. Quelle visioni pacifiche bastavano a far rabbrividire un animo sensibile come quello di Laviolette. Un mulino di preghiera ronzava, sovrastando le sue suggestioni. Solidamente conficcato al centro di un cumulo di pietre, roteava a perdifiato, in senso contrario. Laviolette, fra i banchi di nebbia, lo contemplava incredulo. Qualcuno aveva portato sulle spalle, dagli estremi confini dell'Asia (acquistato?, rubato?), quel palo da fanale che sgranava le sue pergamene al vento pungente delle Basse Alpi. "Qualcuno" disse fra sé Laviolette "che cerca di appendere la propria luce in un posto qualsiasi... Qualcuno completamente sconvolto, smarrito lontano tra la folla, fuori della vista di Cartesio e di Montaigne... Preso a sandwich fra la bruttezza dell'uomo e la bellezza del mondo. Io la vedo così. Li capisco. Hanno ragione." Si orientò fra le rovine. Qua e là avevano sgombrato qualche soglia; sovrapposto mucchi di pietre formando metodicamente dei cubi. Gli steli delle ortiche secche si urtavano fra loro, contro i gambi dei finocchi avvizziti. Un albero di fico, marcito, scricchiolava. Laviolette individuò la chiesa dagli schiocchi dei tendoni. I vagabondi li avevano uniti alla meno peggio, sulle travi ancora intatte, fra le crepe del tetto. Vi avevano aggiunto due teli di plastica trasparente che adoperano gli orticoltori per proteggere
le primizie. Il tutto era fissato con tegole pesanti, pietre piatte prese dalle rovine e che sbattevano pericolosamente, lassù, vicino al piccolo campanile vuoto. La modanatura romanica, ad astragali rotondi, era stata rubata in passato. Una grossa fetta dell'androne, priva del sostegno, era crollata sul sagrato. Bisognava superare il monticello delle macerie. Laviolette lo scalò e scese verso il centro della chiesa occupato dall'acquasantiera. Era una vasca piena di acqua piovana. Sulle lastre intatte, sotto il rosone cieco da cui filtrava la luce, languiva un focherello di agrifoglio. Il vento lo inclinava sulle braci. Scoppiettava e fumava. Vi avevano gettato qualche ceppo di quercia bagnata che non serviva a niente. Il fumo vagava in cerca di un'uscita. Ondeggiava sotto le volte crollate, ma ne restava abbastanza a livello del suolo per far lacrimare Laviolette. Subito credette che l'antro fosse vuoto, poi scorse due grandi sacchi a pelo, arrotolati su una rete metallica sformata. La chiusura lampo era quasi del tutto tirata. Dallo spazio aperto spuntava soltanto una zazzera sporca. Uno dei sacchi si rizzò di scatto, la chiusura scivolò e davanti a Laviolette apparve una superba testa da bramino con una barba fluente. L'individuo sgranava gli occhi a mandorla. Dimostrava quarantacinque anni. Il suo sguardo posato sul commissario non esprimeva alcun interesse. Esitò tre secondi se valesse la pena di ritornare nel mondo. Decise di no. Il sacco ripiombò sulla rete sfondata. Una lunga zampa dalle dita affilate cercò la coppiglia della lampo e zac!, tirò su la chiusura fino al limite estremo che permetteva di non soffocare. Nel sacco ci furono dei soprassalti, poi più nulla. Una fossa biologica individuale nuova, di plastica, fungeva da tavolo. "Ma dove diavolo l'avranno fregata?" Tre bottiglie di vino già cominciate giacevano sul coperchio, accanto a due terzi di una grossa pagnotta e a una borsina di tabacco. Legata a un cumulo di rami scortecciati, sotto la porta bassa della sagrestia colma di macerie, una capra bianca belava, le mammelle gonfie. "Questi fanatici non si alzerebbero neppure per mungere la capra" disse fra sé Laviolette. Degli "Oooh" da taglialegna echeggiavano dietro l'altare. L'abside era crollata sul tabernacolo, sepolto sotto i calcinacci. Un candelabro scadente, imbrattato di gesso, si ergeva come un religioso vestigio. Nella sua coppetta annerita dal tempo si distinguevano ancora i resti di un cero. Laviolette aggirò l'ostacolo. Al riparo da quel crollo, nudi sotto gli
"scamiciati" di montone, un gagliardo e una gagliarda facevano l'amore alla boscaiola. L'uomo, barba a collare, occupava un piumino da montagna. La ragazza stava a cavalcioni del fusto biondo che s'ingegnava a strapparle quei gridi di sforzo e la sua mano sporca poggiava sul nome eroso di un signore di basso lignaggio sepolto sotto quella lastra da alcuni secoli. I loro occhi aperti non batterono ciglio neppure quando apparve Laviolette. Proseguirono le loro ricerche e i loro tentativi senza un attimo di esitazione. "Ha ragione il maresciallo" pensò Laviolette. "Per questi qui siamo proprio dei fantasmi..." La cosa più strana, in quegli emarginati, era che il mondo che rifiutavano finissero per vederlo in trasparenza; che la sua grossolana realtà si ammantasse della stessa inconsistenza spettrale dei loro deliri da drogati. La coppia, le due larve che dormivano sulla rete, e il fumo erano i soli ad abitare il luogo. Con quali speranze Laviolette si era spostato fin lì? Anche a trattarli a calci in culo, i quattro sognatori non gli avrebbero fatto sapere nulla di nuovo. Stava per girare i tacchi, quando notò in fondo al transetto, contro l'altare votivo di una santa sbiadita, un metro cubo di detriti a piramide che, indubbiamente, serviva da pattumiera al ridotto. Sbirciò quella fortuna insperata. A giudicare dagli strati successivi e dagli odori più o meno putridi, era parecchio tempo che la comunità usava l'immondezzaio. Innaffiato dall'orma e dal vomito di coloro che, certe notti, esitavano a varcare la soglia, quel deposito archeologico attirava Laviolette, come un frutto marcio uno sciame di vespe. "Certamente" rifletteva infilandosi i guanti "non è lavoro da commissario... Certamente i gendarmi avrebbero potuto accorgersi prima di me che quest'immondezzaio costituisce una fonte d'indizi. Ma per frugarlo con tutta l'attenzione dovuta ci vuole uno spirito da archeologo." Accovacciato davanti a quella miniera d'oro, respirò con decisione. "E lo stomaco ben saldo" aggiunse fra sé. Sceglieva diligentemente, classificando con metodo, a destra, i recipienti anonimi o senza interesse, a sinistra, tutto ciò che era appunti, fogli, volantini vari, buste di lettere, per esaminarli in seguito. La luce era calata sotto il rosone e lui aveva lasciato gli occhiali in macchina.
Non si fidava dei cocci di bottiglie e delle lamette da barba capaci di trapassare i guanti. Mise da parte comunque alcuni aghi ipodermici e alcune siringhe spezzate. Ammucchiò ogni cosa in una scatola di biscotti arrugginita. Il tutto sarebbe ritornato dal laboratorio accompagnato da precise indicazioni. Le sue dita frugavano in lunghe sfilze di assorbenti igienici inghirlandati gli uni agli altri dalla loro putredine essiccata. Pezzi di carne incerta, ostinata da settimane a non marcire che in parte, gli invischiavano i guanti. Eppure nulla eguagliava i fondi delle scatole di conserva. Quel miscuglio di ferro arrugginito e di pesce marcio componeva un cocktail olfattivo difficilmente sostenibile. Procedeva con lena e metodo, incoraggiato dalla romanza d'amore che saliva e scendeva dietro l'altare, come un leitmotiv, ritmato da esclamazioni incredule, a ogni nuova convulsione. A mano a mano che si addentrava nel cuore dei rifiuti, l'assaliva una sensazione ben conosciuta dagli archeologi: la convinzione che qualcuno prima di lui avesse frugato nella pattumiera. Poster insozzati del "Che" o di Angela Davis, vecchie cose dimenticate da tutti, affioravano; in compenso, brandelli di manifesti che si richiamavano a Larzac o al sito di una centrale nucleare qualsiasi, annegavano nei fondi di caffè. Bucce e fogliame di porri emergevano ancora freschi sotto venti centimetri di materia innominabile ma, in compenso, ne erano tornati in superficie dei putridi, che sapevano già di humus. In poche parole: l'ordine cronologico veniva sconvolto. Ciò l'indusse a perseverare nonostante il tanfo monotono. L'indice poggiava sul terriccio formato dai detriti marci. C'era uno zaino Lafuma senza tasche né armatura, di quel modello ridotto riservato agli scalatori solitari. Laviolette ebbe subito l'intuizione che l'immondezzaio fosse stato frugato per occultarvi quell'oggetto. "Troppo nuovo, troppo pulito, troppo poco impregnato di odore, per trovarsi qui dal tempo che sembrerebbe indicare la profondità a cui l'ho scoperto." L'aprì a fatica, le cinghie di cuoio si erano gonfiate nelle scanalature metalliche. Ne cavò un quaderno di scuola, una copia delle Georgiche, una scatola intatta di cibo per cani. "Non si nutriranno mica di questa roba?" Un crepuscolo precoce invadeva la chiesa. Laviolette non distingueva più nulla. Riteneva comunque di aver raggiunto lo strato dell'immondezzaio anteriore all'epoca della prima sparizione. La coppia, dietro l'altare, fa-
ceva sempre l'amore. Aveva semplicemente cambiato posizione. Sulla rete sfondata, come due enormi fagioli, i sacchi a pelo erano sempre immobili. Laviolette uscì dalla chiesa, la scatola di biscotti in una mano, lo zaino nell'altra. Il mulino di preghiera girava sempre a tutto spiano. Il vento rinforzava senza dissipare la nebbia. Laviolette si precipitò come un fulmine verso l'oasi della sua auto. Ma non era solo nella tempesta. Un gregge scampanava sul fianco dell'altro versante del vallone. "Un pastore?" si domandò Laviolette. "Deve andare su e giù tutto il giorno da queste parti... Se sapesse qualcosa?" Rinchiuse nel bagagliaio la scatola e lo zaino. Si orientò alla bell'e meglio con i campanacci del gregge. Salì il pendio su un sentiero cedevole come un mucchio di ghiaia. Effettuava parecchie soste per orientarsi fra i rumori differenti che la tempesta acuiva: quello, familiare, dei gregge che voleva rintracciare; un altro, di natura incerta: a tratti veemente, a tratti così tenue da sembrare frutto della fantasia... Una frustata sibilante della burrasca di colpo disperse la nebbia e forò le nubi fino all'azzurro del cielo. Laviolette distinse allora il gregge, disposto a spirale, testa contro coda, che si lamentava, come in pericolo. Due capre belavano sulla cima di un tugurio che un tempo era stato una fattoria. Ai piedi di un muro, su una grande pietra piatta, una specie di pastore era allungato dentro a un cappotto da prigioniero di guerra, col pugno che reggeva il mento, barbuto e irsuto, lo sguardo pronto a comprendere qualsiasi prodigio. Due cani, testa voltata di fianco, non perdevano una battuta neppure loro; così assorti, gli orecchi frementi, da non sentire rotolare le pietre sotto i passi di Laviolette. I cani e il pastore, che se ne stava sdraiato a bocca aperta sull'ampia lastra di roccia levigata, avevano il naso in una breccia di cinquanta centimetri, appena sufficiente al passaggio di un uomo. Il nome della breccia era scritto al suo fianco, in lettere al minio, cancellato a poco a poco dalle intemperie: "Voragine di Caladaïre". Una vaga musica confidenziale, provocata dalla tempesta, modulava i toni al di fuori di quel buco e avvinceva i pastori e i cani. Laviolette ritenne che fosse giunta l'ora di riportare il pastore sulla terra, prima che tentasse di svanire nel vento, attraverso quel buco in apparenza insignificante, che dominava, però, un dirupo di tenebre, profondo quattrocento metri.
«Ehi» gridò. «Dove si va di lì?» I cani si avventarono ai piedi di Laviolette. Erano due inqualificabili bastardi, pelo ruvido, occhi vai, uno nero, l'altro acquamarina. Piantati a un metro dal commissario, abbaiavano di gusto verso di lui come se vedessero una vipera. «Trusco! Toulouse! Qui!» gridava il pastore inutilmente. Laviolette avanzò nello stretto passaggio delle fauci dei cani, a venti centimetri dai pantaloni; l'abbandonarono appena ebbe dato la mano al loro padrone che li mandò a raccogliere il gregge. «Tutto bene?» disse Laviolette. «Bene» rispose il pastore. «Sta facendo una passeggiata?» «Porta in giro il gregge con questo tempo?» «Non ha paura della nebbia?» «Non c'è un granché da dargli da mangiare?» «Si è perso?» Si sarebbe potuto protrarre a lungo quel modo di comunicare a domande, fra interlocutori ben decisi a non rispondere, anzi a interrogare a loro volta. Ma Laviolette abbandonò subito tale comportamento per andare più diritto allo scopo. «Cerco mia figlia» buttò lì per lì. «Non l'avrebbe mica incontrata per caso?» Il caso in quella giornata disgraziata poteva essere evocato soltanto da gente abituata a prendere il tempo come viene, per spiegare una passeggiata di famiglia. Il pastore rispose unicamente alla seconda domanda. «Oh» disse «non è per quello che mangiano... Di cibo ne trovano nella stalla. Ma la padrona vuole che le portiamo fuori con qualunque tempo. Dice: "Le pecore si fortificano col cattivo tempo". Sapesse che donna è, la padrona.» Per descriverne il temperamento, scosse la mano come se bruciasse. «Per l'appunto» troncò Laviolette. «Mia figlia è un po' così. Non l'avrebbe mica vista, per caso?...» Lo sguardo del pastore vagò all'orizzonte, come per raccogliere un gregge di fumo, mentre il suo era solidamente vigilato dai cani. «Quando l'ha persa?» «È già da un po'. Un mese, due... si era travestita da poveraccia. Aveva la pronuncia inglese» aggiunse, spinto da un'improvvisa intuizione. «Oh, allora» fece il pastore «se aveva la pronuncia...» Impresse parecchie mimiche alla sua zazzera a significare che ogni spe-
ranza era svanita. Corroborò quella certezza facendo alcune volte mulinello col bastone, a sottolineare la vastità del mondo, l'incertezza delle cose, la vanità della ricerca di un ago in un pagliaio. «Capisce» disse infine «quelle si assomigliano tutte.» «Ah, lo so» disse Laviolette prostrato. «Ma...» riprese il pastore avvicinandosi al commissario «se aveva la pronuncia inglese... Un mese fa, forse due, mettiamo cinque settimane... Ce n'era una, forse, che mi ha domandato qualcosa... Voleva un agnello, forse due. Una bionda, quasi piatta, con dei piedoni nudi, poco più vecchia di me...» «Questa?» domandò Laviolette. Estrasse prontamente dal portafoglio una fotografia di Patricia MacAdarash, tre mesi prima della sua scomparsa. «Forse...» disse il pastore. «Aveva le lentiggini intorno al naso... Ma era meglio di questa. Con vestiti più moderni... Più in...» «Cosa significa in?» «Oh» disse il pastore «non si può spiegare.» «Come si scrive?» «Va' a saperlo» disse il pastore.«È sua figlia?» «È la mia figliastra. Sua madre è inglese. Ritornava dall'India...» «Voleva due agnelli. "Chi glieli ucciderà?" le ho chiesto. Ho pensato che stesse per strapparmi gli occhi. "Non è per ucciderli. Non per ucciderli. Anzi, per salvarli. Non pensa che a uccidere. Non pensa che ai soldi." "No, non sono miei" le ho detto. Lei mi offriva... Lei mi offriva...» Univa le dita sopra il bastone al ricordo di quelle offerte allettanti. «Mi offriva qualunque cosa. Anche delle sconcezze. Mi dava del tu. Si alzava il lungo vestito fin sopra all'ombelico, e non portava mutandine.» Sgranava ancora gli occhi. «Solo che io» sospirò «con mia madre...» «Ah, certo che, quando si ha una madre...» sospirò in coro Laviolette. «Oh, non ce n'è un'altra come la mia» sbuffò il pastore. "Accidenti" disse fra sé Laviolette. "Ha rotto il ghiaccio. Mi racconterà tutta la sua vita." A rischio di soffocare sul nascere la confidenza nel pastore offeso, gli troncò la parola. «E quando è successo?» Il pastore, che s'attardava a parlare della madre, perse alcuni secondi per riprendere il filo.
«Oh, quando è successo?» ripeté. «È successo in novembre, forse l'undici... Mi diceva: "Non ho soldi. Ti offro me. Sono un buon affare, vedrai. Le inglesi, ne hai sentito parlare?". Ma io, con mia madre... Allora mi ha detto: "Aspetta. Aspetta quattro giorni. Fra quattro giorni avrò i soldi. Ti darò i soldi". Io ripetevo: "Ne parlerò alla padrona". "No" gridava lei. "Non alla padrona. Sono tutte uguali. Se sa che è per salvarli, li venderà, magari più a buon mercato, al macellaio. Tienimeli quattro giorni. Fra quattro giorni avrò i soldi. Ti darò i soldi. E anche me. Vedrai se ci so fare." Ma io dopo che mia madre...» «E quando l'ha rivista?» domandò Laviolette. «Mai più» esclamò il pastore. «È stata la prima e l'ultima volta nella mia vita. E» aggiunse «ci penso ancora... Perché credo che se ci avessi riflettuto bene... Anche col ricordo di mia madre...» 10 Nella notte fra il sabato e la domenica, una settimana prima di Natale, gli eventi precipitarono. Le cose si stavano già mettendo male da due o tre giorni. Brandelli di tempesta strappati alla depressione nordica piombavano su di noi e si disperdevano al mistral. Quella notte, il vento si scagliò a ovest. Da Lure, la neve si sparse attraverso tutti i sentieri al riparo, il bosco di Deffens, la breccia di Calavon, le scarpate del Crau de Bane. Ondulava le vallate come tante orifiamme. S'infiltrava, orizzontale, si attaccava alle facciate, colmava le tegole d'ardesia dal disotto, occultava il quadrante scuro dell'orologio. Le tre vecchie volontarie e il parroco che davano gli ultimi tocchi al presepe faticarono non poco, mascherati fino agli occhi da scialletti di lana, a raggiungere le loro case camminando di sbieco. La neve non si fissava né sui tetti né al suolo quando non trovava ostacoli. S'incollava a ovest dei tronchi d'albero, contro i pali delle strade. Cancellava i viottoli incassati fra due scarpate. Eppure, a Banon si riteneva che, grazie a quella tempesta, la notte si doveva stare tranquilli e che rinforzando le caldaie a nafta e le stufe sarebbe bastato lasciarla sfogare. Claire, gli occhi spalancati, seguiva la burrasca dalla tendina sollevata della sua finestra all'Hôtel des Fraches.
Contemplava, col cuore stretto, il povero Mambo sulla piazza che si era acciambellato contro il tronco cavo di un platano e tremava. Fra lei e il cane abbandonato di proposito, si frapponeva sempre la stessa immagine, nelle pieghe della neve sollevata dal vento: il grande corpo di Jérémie che si rialzava lentamente e ruotava verso di lei se non gli dava il colpo di grazia. A forza di stringere i pugni nel fissare quella visione insostenibile, si conficcava le unghie nella carne. Si voltò, camminò fino al letto dove giaceva sparpagliata la lettera del notaio di famiglia che conosceva quasi a memoria: ... Beninteso, questa lunga insolvenza da parte di suo fratello, cofirmatario di ogni decisione importante, è fortemente pregiudizievole al buon andamento degli affari... Non dubito, come lei mi lascia sperare nella sua lettera, che lo ritroverà presto, ma tuttavia sarebbe increscioso nel frattempo, mi perdoni, che gli fosse capitato qualche fatale incidente, poiché in tal caso la situazione ristagnerebbe finché, mi perdoni ancora, noi non potessimo produrre il de cujus... Terminava: ... Comunque sia, queste responsabilità mi sembrano molto pesanti per le sue spalle e quelle di Jérémie, così deboli... E, all'occorrenza, se posso permettermi un consiglio paterno, mi sembra che la fruttuosa e generosa proposta dell'Europlast risulti di natura tale da meritare tutta la sua attenzione... Claire spiegazzò la lettera e la gettò in un angolo della stanza. "Certamente" diceva fra sé "'tutta la mia attenzione'. E lui, per il suo consiglio paterno, incasserebbe una commissione favolosa." Ma c'era qualcosa di più grave nella lettera: "Produrre il de cujus". Non aveva pensato a quello... Quando l'avrebbero scoperto il corpo di Jérémie, là dove si trovava adesso? Era imprigionata dalla sua stessa abilità, come in una trappola per topi... Dietro i vetri pure loro, uno vicino all'altra, Laviolette e Rosemonde contemplavano la tempesta che irrompeva dalle cime di Banon. S'ingolfava sotto la porticina a baionetta delle mura, che la rivomitava sotto i lam-
pioni come un geyser trionfante. I vortici dell'aria s'impadronivano della neve e la rigettavano verso il cielo, prima di aspirarla di nuovo verso la via dove turbinava a quasi cento chilometri all'ora. «Se prendessimo qualcosa di forte?» «Mi sembra che il tempo sia adatto...» «Non verrà nessuno... Le mogli devono aver detto: "Non andrai a giocare a carte con questo tempo? Non ti mancherà mica Rosemonde?".» Si accomodò davanti a lui che si stava arrotolando una sigaretta. Erano soli, in due, quasi in intimità. In ogni caso, oppressi dallo stesso guaio di invecchiare che li rendeva complici. Si fecero delle confidenze e parlarono del passato fino a mezzanotte. Erano sempre più soli. Si guardavano in fondo agli occhi e dal fondo del cuore. Erano al loro terzo bicchierino per darsi coraggio. Il tempo era troppo freddo, troppo ostile, perché due esseri non si precipitassero l'uno verso l'altro, avendone l'occasione. Ma temevano troppo di avere ormai soltanto dei ricordi da offrirsi. A mezzanotte e mezzo andarono a letto, separati. Ma per non aver saputo, per non aver osato eppure per aver avuto così tanta voglia, gli si piegavano i ginocchi, come se avessero avuto diciotto anni. Allora, cominciò la notte. Dapprima, in una luce incombente diffusa attraverso la tempesta, si vide sbucare da un fianco di costa completamente mimetizzata e seguire una strada conosciuta soltanto da lei una vecchia carretta traballante che sobbalzava sulle catene antineve. Aveva dei fari strabici, una luce di posizione bruciata, il paraurti posteriore attaccato da una parte con del fil di ferro. Tuttavia, procedeva verso la tormenta; i tergicristalli a fatica riuscivano a praticare, sulla neve che s'attaccava, degli squarci di venti centimetri. Sembrava che, per qualcuno che cercasse la solitudine, fosse la più bella notte del mondo. Ma... Due foruncolosi di sedici anni, appassionati di cinema e che uscivano dal Lido, con la testa piena di camion in fiamme, si trovarono, a mezzanotte, sul selciato di Manosque, in una notte sognata per un rally. Che fare? Rincasare? Ritrovare la stufa a nafta che puzza o la sorella maggiore che si fa godere, spudoratamente, dietro la parete mal isolata? E domani, per di più, era domenica... Andarono alla ricerca di qualche colpo gobbo verso le Residences des
Prés. Camminavano, curvi, nelle loro giacche sottili e scarpe di materiale sintetico. Le mani tormentavano, in fondo alle tasche, un bel mazzo di trombe di ogni misura assieme a delle lunghe matasse di filo elettrico utile per collegare fra di loro i morsetti delle batterie. All'improvviso, uno trattenne l'altro per mostrargli qualcosa nella bufera. A tre metri da un lampione c'era una R 12, verniciata a scacchi e abilmente truccata per le corse. Era evidente dagli stemmi, dal numero dei fari, dai gagliardetti, dalle ruote più sporgenti e dalla quantità di decalcomanie che costellavano i vetri. Con una pazienza da certosino, in ginocchio sul suolo ghiacciato, poiché la neve trasportata dal vento non si fermava neppure lì, cominciarono a scassinare la portiera. Bastarono dieci minuti e altri cinque per inserire la tromba lavorata artisticamente che sbloccava l'antifurto. Avevano alle spalle cinque tentativi riusciti. Degli esperti. Rientravano in autostop la maggior parte delle volte, quando il serbatoio li piantava a trenta o cinquanta chilometri da Manosque. Ma quella notte, che pacchia! La lancetta segnava il pieno di benzina. Da parecchio tempo avevano in progetto un bel circuito di resistenza attraverso Forcaiquier, Banon, Sault, la valle della Méouge. A tutto gas! Il motore ruggiva. Partirono schizzando su due ruote. Nel frattempo, da Bonniol, al Revest-de-Bion, i cinque Seringueiros di Forcaiquier che avevano animato il ballo dei "Capelli d'Argento" caricavano la sezione ritmica sul retro di un break, bevevano in piedi l'ultimo bicchierino e resistevano ai rimbrotti degli organizzatori. «Non vorrete mica mettervi in viaggio con questo tempo. Da qui a un'ora, forse meno, si formeranno i primi mucchi di neve. Non state bene qui? Rimanete. Abbiamo da darvi da dormire.» «No, no. Abbiamo le gomme chiodate. Grazie mille. Vi ringraziamo, ma dobbiamo rientrare: proprio prima che la neve si ammucchi.» Uno aveva la moglie giovane; il secondo, un'influenza coi fiocchi; gli altri tre erano alla loro quarta notte di baldoria. Se qualcuno li spingeva, cadevano. E l'indomani si esibivano pomeriggio e sera a Peyruis. «No, no. A presto!» Crollando il capo, guardarono sparire i loro fanalini rossi alla curva della chiesa, sotto la maledizione ruggente dell'olmo di Sully i cui rami battevano follemente, come ali di arcangelo.
Nel frattempo, la vecchia carretta approdava, a venti all'ora, alla piazza di Banon, singhiozzava un po', fra l'Hôtel de Lure e la drogheria Martin, e si tuffava nell'ultima discesa, verso la strada di Simiane. La tormenta, a spire bianche, mulinava sul selciato, si schiantava contro i tergicristalli che slittavano sulla brina. L'uomo al volante incollava la faccia al parabrezza e non riconosceva il suo paese. I fari difettosi, mal regolati, gli rivelavano alberi gonfi di neve, muri rintonacati dal basso in alto da uno strato bianco appiccicoso che ostruiva le finestre, rialzava i livelli, ingrandiva gli edifici e li deformava. Era obbligato a enumerare ad alta voce. «Questi devono essere i mandorli di Calut... Qui, il villino di Jean Laine. Ah, ecco la tartufaia di César Blanc.» Frenò bruscamente. Era partito troppo tardi. Il primo cumulo notturno si era già formato, davanti a lui, a triangolo, dalla scarpata bassa a quella alta, sbarrando la strada. Se ci entrava, anche con le catene, rimaneva impantanato. Secondo la sua stima maldestra, aveva ancora da percorrere un chilometro fino a destinazione. Mai... mai ci sarebbe riuscito a piedi. Non poteva tentare il colpo... Si decise alla svelta. Sebbene la strada fosse tutta sua, manovrò a più riprese per girare il veicolo nella direzione di Banon. Le catene, sull'asfalto, si trascinavano il loro rumore macabro. Nel frattempo, il break dei Seringueiros incrociava sulla piazza di Banon le tracce del vecchio catorcio. «Dovresti andarci dietro» disse l'autista, per la terza volta, al battitore della formazione. «Figurati. Non vorrai mica incontrare un gendarme con questo tempo e a quest'ora?» Alzò gli occhi verso la facciata dell'Hôtel des Fraches dove una finestra era illuminata. Scorse, in un lampo, un bel viso di donna che scrutava la notte, avvolta in un mistero vago, e il ricordo di quella bellezza lo cullò in un vago sogno, nei tre chilometri che gli restavano da vivere. Sballottati da una lastra di ghiaccio all'altra, mancando di poco il muro di un ponticello o il tronco di un albero luminoso di segnali, i due brufolosi, intanto, di cui uno aveva il piede sull'acceleratore, sbavavano di gioia a centoventi all'ora. Non vedevano un accidente: un tunnel di neve a pelo del cofano! Cosa che li faceva gongolare. Era meglio che al cinema... E niente
trucchi... Il loro unico rimpianto era che nessuno potesse vederli. Quando raggiunsero la curva degli Stagni Bassi, la morte aveva già vibrato tre volte la falce appena appena sopra di loro. Avevano sentito sibilare la lama, e si erano terribilmente eccitati. La curva è conosciuta da tutti. È a gomito, sotto l'ombra delle Ferriere e a nord delle Pianure. Alla fine di un lungo rettilineo dove i due brufolosi avevano lanciato a fondo la R 12. Approfittando del fatto che i fari non squarciavano la notte a più di trenta metri, si creavano con la fantasia una strada deserta, sgombrata unicamente a loro uso e consumo. Accesi da quell'incertezza, abbordarono il tornante a cento all'ora contro la scarpata di sinistra. Fari abbaglianti, tenendo la destra, il break dei Seringueiros sbucò a sei metri, davanti a loro. Il ghiaccio avrebbe potuto evitare tutto. Sulla lastra bombata che smaltava il selciato, la R 12 iniziò uno slittamento verso destra, che sgomberava la strada al break. Ma il guidatore ebbe un istinto di conservazione: in presenza di quel bolide inevitabile si buttò sulla sinistra. Lo scontro avvenne in mezzo alla strada. La R 12 piroettò, a porte spalancate. Fece sei giri su se stessa, ronzando come una trottola musicale. Al secondo, scaraventò il passeggero che rimbalzò a dodici metri di distanza, arando il suolo, prima di finire, senza naso e senza orecchi, fra i cespugli della scarpata dove restò prono, ancora palpitante. L'autista fu catapultato al quarto giro contro l'abbeveratoio vuoto della fontana della casa cantoniera dove si schiacciò la testa. La giardinetta, per forza d'inerzia, fiondò verso la quercia di Zorne che serve, in quel punto, da riferimento all'esercito. Si schiantò come un melone maturo. Il tetto saltò a un'altezza di sei metri, le portiere si abbatterono come castelli di carte; il passeggero davanti, ucciso nell'urto, scivolò, morto, nella neve; il guidatore, morente, restò inchiodato al volante. Gli altri tre, dietro, si tirarono fuori strisciando sugli arti più o meno spezzati, i! più lontano possibile dal serbatoio che perdeva benzina. La grancassa con tutti i suoi orpelli scintillanti di lucido ottone fu proiettata in aria e ricadde al suolo dove danzò, alla meno peggio, sbilenca, grottesca, spinta dalla tempesta, rotolando sul bordo come un cerchio da bambino. S'inclinava un po' sui piatti, un po' sul triangolo, adesso contorto. Il pedale della batteria, a ogni giro di valzer, batteva un colpo sordo contro la pelle d'asino. Lo strumento si arenò, un bel po' dopo, in un fosso laterale, ma la tempesta continuò a martellare le sue pelli forate e a fremere sotto i piatti contorti che vibravano ancora, come sotto la mano leggera che non li avrebbe
sfiorati mai più. Un tale della frazione di Largue che dormiva a persiane aperte ebbe il sonno abbagliato dall'esplosione del serbatoio. Drizzatosi a sedere, vide davanti a sé la tempesta color ribes come se il sole sorgesse di sbieco. Si precipitò al telefono. Era il momento in cui, raschiando le sue catene da fantasma sul selciato dove la tormenta disperdeva la neve, il catorcio attraversava l'incrocio di Dauban e rientrava a Banon. Il guidatore all'erta avvertì subito che la notte non era più serena. In basso, due gendarmi schizzavano dai garage con il furgone. In alto, sul pianoro del paese, brillavano delle finestre, poco prima buie, e dietro vi si agitavano delle ombre. Mentre lui stava per raggiungere la sommità della strada, all'angolo della fontana, e gettarsi nella discesa verso Rochegiron, la sirena dell'allarme suonò con un lunghissimo ululato. L'uomo vide accendersi la luce nel locale dei pompieri. Qualcuno ribaltava la porta a bascula e anche l'officina di Martel, il meccanico, si illuminava rivelando il carro attrezzi che stazionava stabilmente fuori. Il guidatore non poteva sfilare davanti a quegli uomini e a quelle luci, per l'unica strada praticabile. Svoltò ad angolo retto verso la piazza, e laggiù, verso la stazione, fra le criniere di neve, scorse l'elmo rutilante di Jules Bec che trottava, allacciandosi il cinturone sulla sua grossa pancia. Ed ebbe appena il tempo di svoltare ancora, per evitare Biscarle che saliva le scale, affianco alla posta. Si scostarono le tendine alle finestre. La vecchia carretta era incastrata come un topo nel bel mezzo di una crisi di panico. L'autista notò l'atrio buio, spalancato, dell'enorme rimessa dell'Hótel des Fraches. Ci s'infilò in tutta fretta, spense il motore, i fari, e se ne restò quieto. Echeggiarono dei passi, fuori, sul suolo ghiacciato. Azionando il segnalatore acustico, il primo contingente di volontari decollava sulla grande autopompa. Il fascio dei fari esplorò, passando, l'antro della rimessa fino ai brandelli di ragnatela sospesi al soffitto. L'uomo si raggomitolò sul sedile. Gente parlava a voce alta, s'interrogava da una porta all'altra. Il fornaio in pantofole e camicia da notte, fumando la sua cicca, uscì sulla piazza a informarsi; vedendo passare l'autopompa, si rintanò precipitosamente. Apparve la luce persino in casa del dottor Lagardère, il notaio, che, inquieto, sollevò un poco le tendine. I due alberghi illuminarono i banchi dei caffè. La Porsche del medico fece stridere tutte le gomme nella curva, superò come un ciclone il carro attrezzi che stava manovrando.
Laviolette udì appena la sirena e pensò che non lo riguardasse. Nella sua bagnarola rincantucciata al buio, l'uomo braccato dal caso cercava una via d'uscita a quella situazione. Di fuori, due o tre paesani deambulavano già, strascicando i piedi e tossendo da spaccarsi i polmoni sulla prima sigaretta della giornata. Bastava che qualcuno avesse voglia di pisciare e ritenesse propizia l'oscurità della rimessa... Bisognava fare presto, decidersi... Si decise... L'allarme durò tre ore, sotto la tempesta che non rallentava. I banconi illuminati degli alberghi calamitavano qualche cliente scarmigliato, saltato fuori dal letto coniugale per la curiosità e che approfittava di quella notte insolita per offrirsi un "goccio" fuori programma. "Oggi è domenica" dicevano fra sé. "E poi, guarda quei quattro balordi? A cosa serve rinunciare?" Si diffondeva la notizia che l'incidente aveva provocato quattro morti. Alle cinque, rientrarono i pompieri. Il centro mobile di rianimazione fu il primo a spuntare, a velocità moderata. Trasportava all'obitorio dell'ospedale coloro che non necessitavano più di cure. I feriti erano stati dirottati su Manosque dal gruppo di Saint-Etienne, venuto in soccorso. I gendarmi ritornarono per ultimi con il furgone e si vide sfilare, come un veicolo funebre futurista, il carro attrezzi di Martel. Abbagliava con le sue sedici luci intermittenti e rimorchiava la "familiare" dei musicanti, che sobbalzava sulle ruote posteriori deformate, senza portiere e senza tetto. Tutta quella gente si recò negli alberghi a confortarsi a suon di grappini e a raccontarsi l'incubo. In un concerto di rumori, di esclamazioni, di discussioni, trascinarono i piedi nella neve e nella tormenta fino alle sei, quando, finalmente, spente le luci dei caffè, l'ultima conversazione morì nel sibilo del vento. A una a una, le finestre s'oscurarono. Banon avrebbe dormito fino a tardi, quella domenica mattina. Salvo il relitto appeso alla catena del carro attrezzi che il vento dondolava, restava più solo l'uomo rintanato in fondo alla rimessa, nella sua bagnarola. Quando però intese il ronzio regolare dell'impastatrice del fornaio, si arrischiò a ripartire. Uscì dall'oscurità, nella bufera, la schiena curva, una fifa boia, aspettandosi di veder spuntare qualche ritardatario o qualche mattiniero; qualcuno che, riconoscendolo, gli avrebbe detto: "Ehi! Cosa diavolo fai qui, tu?". Ma no. Banon aveva avuto abbastanza emozioni per quella notte. Non incontrò anima viva. Passò, rabbrividendo, davanti alla carcassa della "familiare".
Procedeva sobbalzando, in quel funebre rumore di catene. Ebbe persino il privilegio di veder cambiare il tempo, sotto l'immenso faggio che delimitava la sua proprietà e dove, di colpo, soffiò il vento dal sud. Sotto la cortina di neve che si alzò all'improvviso rivelando l'Orsa Maggiore, si sarebbe potuto seguire a lungo la lugubre vettura sulla strada inclinata verso la valle ma vergine di neve. A tratti, al ricordo delle ultime ore, l'autista, come allucinato, fissava la stretta finestrella disegnata dal tergicristallo. Alla fine, la sua mano destra lasciò il volante e la tenne ostinatamente appoggiata alla bocca, come qualcuno che veda bruciare la propria casa. Capiva pure, nel suo rozzo buonsenso, che l'enorme bastone che Dio Padre onnipotente gli aveva appena gettato fra le ruote annunciava chiaramente il principio della fine. 11 Il giorno si levò, indeciso. Gli spazzaneve uscirono alle otto, ma dai tetti colava la neve fusa e soltanto i cumuli, fra l'altro già intaccati dal disgelo, richiedevano ancora un intervento. Quando la nebbia rivelò Banon, verso le dieci, un sole radioso fece rutilare le tegole. Si sentirono schioccare, l'una contro l'altra, le bocciate di certi marsigliesi, già avidi di misurarsi con gli autoctoni in qualche partita colossale. La piazza si popolò di giocatori e di curiosi. La domenica cominciò a olezzare di odori misti di lepre in salmi e di stufato di cinghialino. Il fornaio sistemò in vetrina le quattro dozzine domenicali di bignè alla crema che gli portavano via in un quarto d'ora. Prometteva sempre di farne di più. I Bleu, i Bayle, Biscarle, Jules Bec, tanti altri che non frequentavano Rosemonde, vennero, mani dietro la schiena, berretto pulito, guance lucide appena rasate, a respirare l'aria della domenica e a commentare gli avvenimenti della notte. Qualche gruppetto andava a raccogliersi davanti alla ferraglia della "familiare", sempre appesa alla catena affianco all'officina di Martel. Verso le undici arrivò Alyre Morelon, dalla sua vicina fattoria, attraverso la scorciatoia di Bonnes-Rues. Teneva al guinzaglio una Roseline strigliata di fresco che ruminava. Roseline amava la gente e il rumore. E Alyre amava tanto la sua scrofa che, certe domeniche come quella, la portava sulla piazza ad assistere alla partita di bocce. Le prime volte, faceva ridere gli uomini. Ma dopo che tutti sapevano che solo lei, Roseline, era capace
di scovare sei chili di tartufi al giorno, un certo rispetto circondava quella lavoratrice. E alcuni persino, con grande orgoglio di Alyre, si chinavano per grattarle la testa. Quella mattina, però, Roseline era di umore scostante. Ruminava sempre di più. Tirava il guinzaglio verso l'Hôtel des Fraches. Era verso l'odore di cinghiale? Era verso quello di lepre? Quando le partite si spostavano da un capo all'altro della piazza, i curiosi le seguivano per riformarvi il cerchio intorno. Ognuno stava attento agli sviluppi del gioco; eccetto uno di loro, le mani dietro la schiena, che si tormentava le falangi invisibili e lanciava sovente occhiate furtive alla rimessa dell'Hótel des Fraches. Alyre gli si avvicinò per salutarlo. Mentre gli tendeva la mano, Roseline strillò così forte e così a lungo che il bocciatore emerito che mirava in quel momento sbagliò la bocciata con una terribile imprecazione. «La finisci, Roseline, di gridare come un ossesso?» disse Alyre. Roseline indietreggiò con tutto il peso dei suoi centottanta chili; Roseline vi forava i timpani, vi disgregava la volontà. I suoi appelli alla rivolta sconvolgevano tutti quanti. Non smetteva, fra i suoi gridi sapientemente scanditi, di strombazzare, di sbuffare e di fremere dalla testa alla coda. "Urlare come un maialino sgozzato" non era più, con lei, una frase retorica. L'uomo che Morelon aveva appena salutato la guardava cupamente, con una sorta di terrore. I suoi occhi e quelli della scrofa si fissavano con cattiveria. I giocatori protestavano acidamente. «Senti un po'! Portala a casa, va'? Quella ci fa sbagliare tutto.» Nel frattempo Laviolette s'insinuava di gruppo in gruppo per guadagnare la sua auto parcheggiata fra i giocatori. La Mercedes blu era sempre lì, accanto alla sua Vedette. Distrattamente strinse la mano di Alyre e del suo vicino, e salì in macchina. Per parecchio tempo ancora intese i grugniti di porco sgozzato che cacciava la scrofa. "Urla veramente da maledetta" disse fra sé senza badarci troppo. Aveva uno spirito campagnolo, e qui si sentiva come in vacanza. Per il momento, del resto, non c'era un granché da tentare. Aveva spedito al laboratorio di analisi i detriti prelevati nel covo degli hippy, accompagnati da istruzioni precise su ciò che bisognava cercare, e aspettava il risultato. 12
Sempre alla sua velocità da corteo funebre, procedeva verso Vachères, verso il vecchio amico marchese des Brèdes, Jean Fréron nella Resistenza perché detestava Voltaire e con il quale, nel 1943, aveva sfiorato la morte, sul massiccio di Allevard. Non si erano più ritrovati da quell'epoca benedetta, ma Brèdes era ornitologo al Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica. Era molto conosciuto. Laviolette riceveva da lui, dai quattro angoli della terra, cartoline raffiguranti uccelli straordinari in via di estinzione, in Tasmania o alle Galapagos. Come unica notizia, sul retro, trovava: "Che ne dici di questo? Non ti ricorda qualcuno?". Oppure: "Esistono più solo duecento coppie di questo. E i maschi sono tutti pederasti. Te l'immagini?". Tutta la corrispondenza di Brèdes, poiché ci teneva che si trascurasse la particella nobiliare, era dello stesso stile. Erano stati calorosamente amici e, appena Laviolette gli telefonò da Banon, lo invitò a pranzo per la domenica. «E naturalmente sei solo?» disse Laviolette. «Naturalmente lo sei anche tu?» disse Brèdes. Le finestre ad ampie vetrate guardavano verso uno stagno ovale e lo scheletro pendente di un salice nudo su quello specchio di bronzo spento. Vi si rifletteva un cielo di un azzurro luminoso. Solitario, sullo sfondo, il profilo settentrionale di Vachères dominava oscurando i prati senza erba. Sebbene contenesse molti bei mobili, la stanza appariva vuota, tanto era vasta. Entrambi si erano appena alzati da tavola, dove la mezzadra li aveva serviti, senza tovaglia, direttamente sul legno massiccio, ma disapprovando. Credette bene di sottolineare che comunque non mancavano di biancheria. «Impossibile farle capire che mi piace vedere la maiolica e le bottiglie riflettersi sul legno. Vedi questo saint-émilion che abbiamo appena bevuto? Ebbene, provo uguale piacere, di altro genere ma complementare, nel vedere, alla rovescia, la bottiglia e l'etichetta sul legno del tavolo...» Si accese la pipa con i tizzoni del focolare. Era un uomo scarno, appollaiato su lunghe gambe, che camminava in fretta e in silenzio. Quasi senza toccare terra, si sarebbe detto. «Ti racconto queste cose perché ti reputo in grado di capirle...» terminò. Laviolette crollò il capo. Intorno a lui scricchiolavano le intelaiature deformate e le porte vecchissime. La casa viveva sotto un ampio tetto a due spioventi che davano riparo a due piani di stanze deserte. Il vuoto sonoro delle stanze, provviste ognuna di un caminetto e piastrellate di mattonelle
rosse, ma mai arredate da nessun mobile, diffondeva un vago mistero fra quelle pareti. La dimora ancestrale dei Brèdes non era mai stata un castello, ma una bigattiera. Cinquant'anni dopo l'ultima raccolta di semi, le profondità dei corridoi odoravano ancora di baco da seta in procinto di fabbricarsi il bozzolo. «E allora» disse Brèdes «cosa diavolo sei venuto a fare a Banon, se non è un segreto?» «No, non è un segreto, è soltanto un mistero. Sei sparizioni...» «Di chi?» «Di hippy.» «Oh, andiamo, quelli! Ne ho incontrati persino sulle rive del Koukounor. Se sapessi dove appaiono e scompaiono. E perché.» «Certo, certo... Ma nel caso in questione, sembra proprio... Tutto porta a credere che siano venuti a Banon e che ci siano rimasti.» «E non li ritrovano?» «No.» «Da molto?» «La prima segnalazione risale a quattro mesi fa.» «E ti hanno mandato per questo? Non bastano i gendarmi?» Laviolette sospirò: «Gli scomparsi hanno quasi tutti dei nomi stranieri. In alto loco, non gradiscono molto che tanti stranieri scompaiano all'improvviso. Non bisogna neppure turbare la gente... Così, sono stato sollecitato... Tu, mi hanno detto, che sei incolore, che t'infili dappertutto e per giunta sei basso-alpino...» "Tu eri così perspicace un tempo" continuò "e hai una mente logica. Riesci a immaginare un qualche motivo per cui sei vagabondi, senza altro legame se non la loro condizione di hippy, poveri come Giobbe, per scelta o per necessità... riesci a immaginare un solo motivo per cui siano scomparsi proprio a Banon?" «A Banon. Ne sei sicuro?» «Sulle prime non lo ero, ma gli indizi si accumulano. Attenendomi soltanto ai fatti, ti ripeto che è probabile. Ma mi scontro con questa domanda senza risposta: per quale motivo? Ecco perché ti chiedo se riesci a immaginarne uno...» Brèdes rifletté profondamente aspirando la pipa, gli occhi fissi sulla fiamma del focolare. «Tutti dello stesso sesso?» domandò.
«Tre uomini, due donne.» «L'età?» «Tutti giovani. Fra i venti e i venticinque anni.» «E hanno cercato dappertutto? Negli ospedali della regione? Nei dormitori pubblici? Nelle comunità religiose? In quelle laiche?» «Dappertutto» disse Laviolette. «Sai che in questo campo la gendarmeria è molto efficiente.» «E non ne hanno ritrovato nessuno? Né vivo né morto?» «Né vivo né morto. Sai che la cosa non ci disorienta. I gendarmi l'hanno anche messo in conto e ogni volta che interrogano qualcuno nel territorio non mancano di chiederglielo e di mostrare le foto.» «Per me» disse Brèdes «sono morti.» «Tutti e cinque? Giovani, apparentemente in buona salute?» «Se sei pressoché sicuro che non siano ripartiti, non vedo altra soluzione. Come si può scomparire a Banon, restando vivi? Novecento abitanti! Migliaia di ettari desolati! Dei pastori! Dei cacciatori, dei bracconieri, degli escursionisti, la gendarmeria, gli elicotteri, no! A Banon? Vivi? Impossibile! Morti o partiti.» «No. Partiti no.» «Allora morti.» «Ma insomma, perché?» «Ah» fece Brèdes «a questo punto, io non sono un indovino. D'altronde poco fa parlavi di perspicacia ed è anche vero che in passato mi vantavo di non esserne privo. Però, vecchio mio, i tempi sono cambiati. Perché sono sei mesi che mi rompo la testa su un problemino personale e non riesco a risolverlo.» «Ma... sono a tua disposizione. Di cosa si tratta?» «Oh, una fesseria. Be', passiamo in biblioteca, i liquori sono lì e così permetteremo alla mezzadra di rassettare e di andarsene. È domenica. Non vorrei trattenerla troppo...» Varcarono una porta bassa in una grande parete. La biblioteca era più intima del soggiorno. Sparpagliati sui tavolini si vedevano dei libri con le copertine decorate da piumaggi di uccelli del paradiso. I ripiani erano numerosi. I volumi in brossura e quelli rilegati si susseguivano nel disordine tipico dell'uomo che legge veramente. Dovettero liberare due sedie davanti al caminetto, fra le due finestre. «E allora» disse Laviolette che si stava arrotolando una sigaretta «questo mistero?»
Brèdes si girò nella sedia impagliata e indicò col dito un mobiletto, nel vano di una finestra. «Vedi quel leggio?» «L'artigiano che l'ha fatto non ha proprio tribolato» disse Laviolette. «Guarda questo pezzo di legno.» «Mio padre l'aveva comperato nel 1930 da Bébé Fabre, l'antiquario di Manosque. Ti ricordi di Bébé Fabre?» «Lo vedo ancora» esclamò Laviolette. «Era venuto a Piégut, avevo otto anni... Mio nonno gli vendette l'orologio di suo nonno. Lo vedo ancora, con i suoi occhialini, il suo cappello, i pantaloni dì nanchino...» «... e la mantellina che gli arrivava appena alla catena dell'orologio.» Risero tutti e due. Avevano dieci anni quando quell'uomo morto da tempo rispondeva al ritratto che avevano descritto. «E allora» proseguì Brèdes «questo leggio, di solito, reggeva un libro vecchissimo... Un libro che risaliva al milleseicento e rotti, e che conteneva un sacco di ricette della nonna. Be'... tutti gli anni, quando sono qui, a Pasqua o alla Pentecoste... do un ricevimento agli ex combattenti di Banon, di Vachères e del Revest. Oh, non vengono tutti. C'è chi ne fa una questione d'onore per astenersi a causa del mio titolo. È una tradizione di famiglia. Lo faceva già mio padre. E poi, piace anche a me. È un'occasione per rivedere la gente del paese, di parlare... Si parla in dialetto. Si rosola uno o due agnelli sugli alari, insomma, capisci di cosa si tratta. E si beve. Non tiro fuori delle bottiglie speciali, ma insomma qualcosa di decente. Allora, quel giorno, siccome saremo stati qualcosa come una sessantina, apro le tre porte; il che vuol dire tre stanze in fila: il salotto che non usiamo mai, il soggiorno e la biblioteca. Si alzò per misurare a grandi passi il parquet intorno ai tavoli carichi di libri e di un manoscritto iniziato. Si riaccese la pipa.» «Quel giorno era brutto tempo, temporale, quasi buio. Di solito, serviamo l'ammazzacaffè di fuori, sulle panchine di pietra del vialetto, sotto gli ippocastani. Ma quella volta, niente da fare... Siamo rimasti dentro a parlare. Alcuni intorno al leggio sfogliavano quel libro antico. Per distrarti, ho avuto l'idea di leggergli, anzi di tradurre, poiché è francese del diciassettesimo secolo, qualche storia di streghe che li ha fatti ridere. Dopo, ho girato di gruppo in gruppo, per unirmi alle conversazioni e parlare degli uni e degli altri: dei morti, dei seduttori, dei cornuti. Insomma, di tutto. A partire dalle cinque, la riunione, come capita sempre, ha cominciato ad assottigliarsi. Sai, c'è addirittura qualcuno che se ne va senza salutarti... nella mi-
schia... Nessuno ci fa caso.» "Alle sette, mi sono ritrovato solo, con la mezzadra, le sue due figlie e tutto il disordine da sistemare. Ci siamo messi tutti e quattro... Ed è stata proprio la mezzadra a farmelo notare. Una brava donna, ma è del Queyras. Non ci ha molto in simpatia. Il fatto che non ci siano crocifissi dietro il letto mi squalifica. Non l'ha mai potuto mandar giù. E i miei sessanta zotici, sebbene lo sia anche lei, li disprezza... È lei che mi ha gridato: 'Le hanno rubato il libro!'. Di solito se ne teneva lontana: 'È stregoneria' diceva. 'Dovrebbe gettarlo nel fuoco.' Siccome ero sicuro di averlo lasciato sul leggio, ero un po' seccato; ma non volevo condividere in pieno il suo parere. E poi: sicuro? Si è mai sicuri di qualcosa? Le ho detto: 'Ma no, ma no! L'ho spostato. Deve essere in tutto quel guazzabuglio che c'è sui tavoli. Non si preoccupi, vada pure. Lo cercherò domani'. Ho cercato. Per scrupolo di coscienza... Ma..." Mimò con la mano davanti alle labbra il gesto di acchiappare una mosca. «Non l'ho più ritrovato.» «Si poteva mettere in tasca, il libro?» «Oh, sì. Era dodici per venti all'incirca...» «Aveva un valore commerciale?» «Aspetta... non ti ho finito la storia: stava sotto il banco del leggio che Bébé Fabre aveva venduto a mio padre. E quando mio padre, in seguito, gliel'ha fatto notare e voleva pagarglielo, il buon Fabre, che era l'onestà in persona, gli ha detto di no, che era colpa sua, che doveva soltanto guardare meglio quello che vendeva e che non avrebbe accettato un soldo: che gli sarebbe servito di lezione. E che, del resto, ne possedeva un altro nella sua biblioteca...» «Così, non sai se il libro vale qualcosa?» «Quel che so è che mio padre, che aveva il senso del valore, ogni anno, per Natale, faceva portare quattro tartufi a Bébé Fabre.» Ci fu un tintinnio sommesso all'interno della casa. «Si direbbe il telefono» fece Laviolette. «È lui» sospirò Brèdes. «Aspetto i risultati di un'analisi. Un'epizootia feroce che decima gli uccelli marini, a sud di Punta-Arenas. Il telefono è nello studio.» «Ti lascio andare.» «No, no. Vieni con me. Non c'è nulla di segreto.» Nello studio stagnava un odore di pipa spenta che, dal soffitto al pavimento, emanava ogni sorta di aromi.
Brèdes alzò la cornetta. «Toh! È per te» disse, sorpreso. «Per me?» disse Laviolette. «Chi è?» Si ricordò di aver avvisato Rosemonde che avrebbe pranzato dal marchese des Brèdes. Ascoltò l'interlocutrice senza batter ciglio. «Va bene» disse. «Arrivo.» Guardò Brèdes che non faceva domande. «Vecchio mio» disse «sono obbligato a lasciarti prima del tempo. Era il maresciallo capo della gendarmeria. Hanno appena scoperto un delitto. Posso usare il tuo apparecchio?» «Ci mancherebbe.» Laviolette chiamò gli uffici di Marsiglia, come era stato autorizzato, all'occorrenza, per chiedere la Squadra Giudiziaria di servizio. «A Banon! Banon! Sì, è giusto. E di corsa, eh! Che usino la sirena se necessario.» Riagganciò, tese la mano. «Carissimo, scusami. Vedi, il lavoro...» «Uno dei tuoi scomparsi?» «Non lo so ancora. È probabile...» «Ci rivedremo?» «Appena posso mi farò vivo. E per il tuo furto... vedi, non ho tempo di aiutarti.» Brèdes si mise a ridere. «Oh, non è così importante. Vivo benissimo senza quel libro.» 13 A mezzogiorno, la domenica era al culmine a Banon. Bel tempo permettendo, quelli di Forcalquier, di Manosque, di Apt, viaggiando sulle strade, capitavano a Banon. «Se ci fermassimo qui a mangiare?» Per il Lure e il Fraches era l'ora di punta di ogni settimana. Al Fraches, per giunta, un pranzo prenotato occupava un'intera sala. Erano i cinquanta convitati di un matrimonio celebrato la sera prima a Lardiers, che avevano scelto Banon per il banchetto. Tre torte a più piani troneggiavano sull'impeccabile tovaglia fra i garofani bianchi. La cucina fumava. Si contavano già venticinque clienti ai tavolini e, alle dodici e mezzo, a gran colpi di clacson, le quattordici automobili della ce-
rimonia si allinearono in ordine sulla piazza e, in disordine, i cinquanta affamati si precipitarono a tavola facendo a chi si sarebbe seduto per primo. Lo strascico della sposa era un po' infangato. La sera precedente, all'uscita dalla chiesa, aveva dovuto fendere la folla parecchie volte, per compiacere i fotografi. Lo strascico, retto da bambini svogliati, era anche servito da straccio sul sagrato dove fondeva la neve. Ma non importa. Tutta quella gente adesso era lì, forchette all'insù, con una fame da contadino delle Basse Alpi da saziare: alcuni già validamente confortati da pastis preliminari, e due o tre fra gli zii che non avevano smaltito la sbornia del giorno prima. Quattro cameriere volteggiavano intorno ai commensali. «E mi raccomando, non rifiutate nessuno.» Eventualmente li avrebbero sistemati nel caffè; soltanto la domenica, a parte l'estate, potevano fare un po' di soldi... La padrona e sua sorella annotavano le ordinazioni. Tre extra avrebbero servito il banchetto. Il padrone, fuori di sé davanti ai fornelli sovraccarichi, investiva i subalterni di ordini contraddittori. A poco a poco, però, tutto si accomodava, si organizzava, sprigionava il suo ronzio di turbine di ogni settimana, fra il cozzare secco delle stoviglie svuotate in fretta. I due lavapiatti sudavano sulle vaschette. All'una e un quarto, sei conti erano già pagati. All'occorrenza si sarebbe potuto rifocillare qualche ritardatario. Il padrone aprì l'armadio frigorifero per verificare le riserve. «Mio Dio! Marie-Jeanne! Mancano i tomini. Ne ho più uno solo. E ho due ordini per gli otto del quattro. Georgette! Fila in dispensa. Portami sei tomini.» Georgette era una grossa cameriera di diciotto anni, in collant rosa fenicottero, che al momento scansava le natiche con maestria fra le schiene degli invitati troppo stretti. Venne la padrona a sostituirla. «Corri svelta in dispensa, Georgette. Non irritare lo zio. Va preso con le molle.» Georgette si precipitò fuori del ristorante, s'infilò nell'enorme rimessa. La dispensa era in fondo. C'era un ampio congelatore, con i fianchi rivestiti di due cristalli azzurri, che conteneva quattro metri cubi. Per via delle sue dimensioni non avevano potuto installarlo all'interno dell'albergo; inoltre, il compressore troppo rumoroso avrebbe disturbato i clienti. Accoglieva di tutto: gelati, fagiolini, lepri non speliate e persino uno o due cinghialini "in casi di necessità", quando cioè la produzione locale non fosse bastata.
Col suo braccio muscoloso, Georgette sollevò con decisione il coperchio. «Ma cosa diavolo combina con i tomini, quella Georgette?» esclamò il padrone. «Pierrot, va' a vedere, e portala qui.» Pierrot era uno sguattero foruncoloso, che frequentava la scuola alberghiera e che i genitori durante le vacanze mandavano da un collega a guadagnare qualche franco. Scattò. Lo spettacolo l'inchiodò nella penombra. Laggiù, davanti a lui, letteralmente piegata in due, Georgette, il busto completamente infilato nel congelatore, lasciava vedere, sotto la gonna corta, l'intero contenuto del suo collant rosa fenicottero. Pierrot non credeva ai suoi occhi... Sognava da tempo, nei suoi risvegli focosi, ragazze in quella posizione. Procedette, tremante, la mano alla bocca, e sotto a quel riparo, ripeteva a mezza voce: «Oh, Dio! Oh, Dio!» Il cuore gli saltava in gola. Avanzava in punta di piedi per non impaurire Georgette. Ecco, è al suo fianco. Già le sue dita sfioravano la terra promessa. Il suo leggero strabismo l'autorizzava a sbirciare nel contempo verso il collant della ragazza e la vaschetta del congelatore, permettendogli di distinguere, sul letto impellicciato delle lepri e dei cinghialini, un bramino indù che lo fissava intensamente. Si accasciò vicino a Georgette svenuta. Il padrone era geloso persino delle ragazze che non concupiva. «Blanche» disse sospettoso «va' un po' a vedere cosa fanno quei due là... Mi pare che restino un po' troppo per sei tomini.» Blanche era la cognata: reggiseno quinta misura, una bella couperose, piedi come barche, polpacci da escursionista basso-alpino. La sua voce naturalmente penetrante, in preda all'emozione, raggiungeva con facilità il do acuto. Si proiettò fuori della rimessa alla velocità di una palla di cannone. «C'è un morto» urlava sulla piazza. «Aiuto! C'è un morto nel congelatore.» Piombò in cucina, si afflosciò sul tavolo, singhiozzando freneticamente su un tagliere, in mezzo alla salsa verde. «Oh, Paul. Non è possibile! In casa nostra! Di domenica! Un morto! Nel congelatore!» terminò con un do maggiore. Aveva appena finito di pensare che bisognava sostituirlo.
Il padrone si lanciò sul telefono, ma nessuno era rimasto inattivo. Come prima cosa, l'intero banchetto e la metà degli altri clienti e la totalità dei giocatori di bocce sulla piazza affluirono, in un unico blocco, verso la rimessa e l'insolita bara. Aprirono appena appena, per riguardo, un passaggio alla sposa, perché potesse sistemarsi bene in prima fila. Ma per i rimanenti non si fecero scrupoli. I grassi spinsero con la pancia. I piccoli camminarono sui piedi degli altri. A tavola restò solo qualche marsigliese disincantato dalle forti emozioni, che, d'altronde, continuava a succhiare con compunzione i gusci dei suoi gamberi ungheresi. Persino i bambini di quattro anni volevano vedere e battevano i piedi incolleriti se provavano a trattenerli. Uno riuscì a intrufolarsi contro il frigorifero, ci passava appena la testa e, a bocca aperta, non perdeva una battuta. Era il suo primo cadavere. I gendarmi furono sul luogo in due minuti. Era già troppo tardi. «Guarda un po'» disse il maresciallo ordinario al brigadiere. «Sono capaci di accusarci di avere trascurato i primi indizi.» Cento mani, in realtà, si erano già aggrappate ai bordi della vaschetta, dove, forse poco prima, si leggevano distinte le impronte dell'assassino. Avevano calpestato dappertutto la terra battuta del locale dove erano impressi, forse, i passi dell'omicida. Appena furono in quattro, i gendarmi respinsero rudemente i curiosi fuori della rimessa e misero di traverso una catena che non tendevano mai. Laviolette, contro le sue abitudini, aveva superato gli ottanta all'ora. Faticò ad aprirsi un varco nella folla. Per quanto esibisse il tesserino di riconoscimento e reclamasse lo sgombero, ci volle l'intervento di un gendarme per permettergli di scavalcare la catena. «Ci scusi» disse il maresciallo ordinario «il maresciallo capo è assente fino a stasera, ma per via di quello che le abbiamo sentito dire l'altra sera, abbiamo ritenuto opportuno...» «Avete fatto bene, avete fatto bene.» Si avvicinò al congelatore che nessuno aveva pensato di disinserire e che fumava un vapore ghiacciato nel buio della rimessa. «Be'» esclamò Laviolette. «Quello almeno si conserva bene.» Su uno strato di pellicce di lepri e di pelli di cinghialino, rigido come un pesce surgelato, con la sua barba da bramino innevata come quella di un pupazzo di Natale, il cadavere giaceva in abito di bigello indiano, i piedi a squadra su zoccoli di legno giapponese. Un lungo scapolare di bacche di cipresso gli pendeva fino all'ombelico, dov'era agganciato, rosso ciliegia, il
Livre en O di Robert Morel. Laviolette riconobbe immediatamente l'hippy spuntato dal sacco a pelo presso la chiesa di Montsalier, che al suo arrivo si era sollevato e subito rituffato sprezzante nel proprio nirvana. Il dottor Lusel di Banon, avvisato dai gendarmi, arrivò poco dopo. Era un giovanotto di venticinque, trent'anni, sbalordito per quel cadavere domenicale. «Morto da quanto tempo, secondo lei?» disse Laviolette. Il giovane allargò le braccia. «Per il momento, è impossibile stabilirlo. Pensi un po'! È a venti gradi sotto zero. E, a giudicare dall'aspetto, è congelato da parecchie ore. Soltanto l'autopsia...» «Ho chiamato il medico legale» fece Laviolette. «Il suo ospedale è attrezzato?» Il dottore si mise a ridere. «Per un'autopsia, capirà!» «Va bene. La effettueranno domani. Brigadiere, le dispiace far venire il padrone dell'albergo? No, aspetti. Ci andrò io. Stia attento, naturalmente, che nessuno si avvicini.» Entrò nelle cucine dalla porta a vento, fra le pattumiere che invadevano lo spazio, si toccò il cappello, scorse il titolare. Dopo un quarto d'ora di subbuglio l'agitazione si andava placando. Dopotutto, era affare dei gendarmi... Al richiamo della lepre in salmi fumante nelle terrine, il cui aroma dominava l'ambiente, gli sposi e gli altri commensali riprendevano posto, in buon ordine, forchette all'insù. Soltanto che, in mancanza di tomini, avrebbero mangiato delle mele come dessert, poiché, ovviamente, nessuno avrebbe creduto che non fossero serviti da lettiera al cadavere. Gli sposi e gli invitati stretti se ne infischiavano. Grazie a Dio, avevano la loro torta a piani. La sposina era entusiasta. Lei, almeno, quando avrebbe raccontato il matrimonio, ne avrebbe avuto da dire: "Figuratevi che il giorno delle nozze...". «Mi hanno giocato un brutto tiro, capisce» disse il padrone a Laviolette. «Adesso dovrò sostituire il congelatore. Nessuno vorrà più mangiare le cose che escono di lì. Dovrò cambiare marca...» «Andiamo, andiamo» disse Laviolette. «Lo rivenderà a un collega di Aix o della Drôme, non è un problema così grosso... A che ora l'hanno aperto l'ultima volta?» «Ieri sera» rispose il padrone. «Alle otto. C'erano degli ufficiali della ba-
se che volevano mangiare delle crêpes Suzette...» Alzò gli occhi al cielo. «Domando e dico! Delle crêpes Suzette! A Banon! Per fortuna, ne avevo un vecchio pacchetto che mi avevano dato come campione...» «E chi è andato a prenderle, le crêpes Suzette?» Il ristoratore fece un cenno all'indietro con la testa. «Mia nipote.» Laviolette si voltò. La robusta Blanche, recuperata la forza d'animo, ingozzava tra le labbra di Georgette ancora fremente di brividi un cucchiaio di grappa locale. Siccome aveva trovato lo sguattero svenuto vicino alla figlia, ma la mano inerte mollemente abbandonata contro le natiche del suo tesoro, aveva somministrato a ognuno un buon paio di ceffoni, tanto per impedirgli di battere i denti, e ora li riconfortava a sorsate di alcool e zucchero, senza smettere di strapazzarli. «È lei, signorina, che ha scoperto... il corpo?» Di solito roseo e vermiglio, l'incarnato di Georgette tendeva ai colore di un vecchio pezzo di strutto. Scuoteva il capo, completamente afona. «Georgette» ruggì Blanche «non fare la bambina e rispondi al signore, o ti stacco la testa.» «Sissignore...» disse Georgette. «Ed è lei che ieri sera è andata a cercare le crêpes Suzette?» «Sissignore...» «E in quel momento non ha notato nulla?» «Nossignore. Era buio. Avevo una pila. Ho corso. Ho sempre paura di notte nella rimessa...» «E nessuno di voi» disse Laviolette guardandosi intorno «ha avuto bisogno del congelatore, fra ieri sera alle otto e oggi all'una?» «No» gridò il padrone dalle sue padelle, mentre si prendeva un suffumigio di frittura sopra a una paella. «No, faccio provviste il sabato e le sistemo nel frigo che vede qui. Capita soltanto quando devo ricorrere alle scorte, come oggi...» «Bene» disse Laviolette. Sentì un trambusto sulla piazza e gettò un'occhiata in fondo al corridoio. Era la Giudiziaria che sbarcava, rinforzata da Guyot e Leprince, due alti ispettori anticonformisti in jeans e capelli lunghi. Si presentarono. «Ci hanno detto di metterci a sua disposizione...» "Non me li fanno mancare, i rinforzi" pensò Laviolette. Consultò l'oro-
logio. Era trascorsa esattamente un'ora e dieci da quando aveva telefonato al "vescovado". «Dio mio! Dio mio!» esclamò. Centoventi chilometri separavano Marsiglia da Banon. La squadra si catapultava a fatica, assieme al materiale, da una R 5 che fumava ancora di fango e di velocità. «Ci scusi, eh! Ce l'abbiamo messa tutta. La sirena è diventata rossa. Per poco non abbiamo investito almeno tre nonnini che guidavano contromano, a cinquanta all'ora.» «Col rischio di fare nuovi morti» brontolò Laviolette. «Ah, a proposito! Dov'è? Dov'è?» Sbuffavano come puledri. Alla Giudiziaria era festa, quando scovavano un cadavere. Bisognava vederli scattare quelle orribili foto col flash così crude da far rabbrividire persino il pubblico ministero. Laviolette li precedette verso il congelatore dove li aspettavano il medico e il brigadiere. Installarono i loro apparecchi affaccendandosi allegramente. 14 La giustizia era in moto con tutte le sue attrezzature. Non fotografavano solamente il cadavere. L'obiettivo si posava su tutto. La porta della rimessa, il soffitto con le ragnatele, il suolo calpestato da mille passi, le pareti fatiscenti, l'antico trabiccolo "Banon-Revest-du-Bion" - che sollevava le loro esclamazioni incredule -, le tre automobili dei clienti, la catasta delle cassette vuote, la vecchia serie di coltelli da cucina arrugginiti, un enorme rosario di ferri da cavallo infilati in un fil di ferro, che oscillava, come un lampadario, dal chiodo forgiato di una trave: nulla, non un centimetro quadrato del teatro del delitto sfuggiva loro. «Le impronte?» Laviolette alzò gli occhi al cielo. «Provate lo stesso, però...» «Cosa vuole» diceva il brigadiere «quando siamo giunti, forse tre minuti dopo averci avvisati, c'era un centinaio di persone qui.» «Nessuno è tenuto a fare l'impossibile» sentenziò Laviolette. «Comunque» aggiunse il dottore «posso dirle di cosa è morto...» «Dica.» Si chinarono entrambi sul cadavere. La barba, rigida per la brina, spo-
standola, si sollevava come una linguella. «Guardi» disse il dottore. Indicava la gola del morto, o almeno ciò che ne restava. Era stata tranciata da una parte all'altra, così ampiamente che i labbri della ferita non si erano richiusi e si vedeva la carne all'interno, rassodata dal freddo, come una grotta d'ombra e di polpa rosacea. «Ma» osservò il medico «quello che è certo è che non è stato ucciso qui. Non c'è una goccia di sangue.» «Allora, ce l'avrebbero portato?» chiese Laviolette. Il dottore disse con un gesto d'ignorarlo. La Giudiziaria operava diligentemente a quella vista. Il commissario contemplava pensosamente l'uomo morto, senza speranza, senza passato, senza nulla, ricco solo di libertà. Chi poteva avercela con una simile miseria fisica e morale? Stringeva fra i guanti il Livre en O, agganciato allo scapolare tramite un anello, dove la Giudiziaria aveva appena rilevato delle impronte. Lo sfogliava. Era un trattato filosofico dedicato alle motivazioni contro la pena di morte. Una sorta di compendio, un rosario da sgranare in ogni occasione. A ogni pagina, la sua sentenza: Siamo tutti degli assassini! L'omicida è un malato! Bisogna curarlo, non sopprimerlo! Il capitalismo uccide gli assassini per compiacere i borghesi! Si abbia pietà degli assassini! L'assassino di oggi è un brav'uomo di domani!, eccetera. «L'ambulanza è qui fuori» disse il brigadiere. «Avete finito?» «Più o meno. Può farlo portar via...» «C'è un obitorio all'ospedale? Il dottor Rabinovitch sarà qui soltanto domani...» «Qualcosa di simile, in ogni caso...» Laviolette considerò con nostalgia la grossa struttura della vecchia corriera, sprofondata nella penombra, dove avrebbe preso posto volentieri per una gita a Revest-du-Bion... «E di domenica pomeriggio» esclamò. «E poi pretendono che dobbiamo perdonarli.» Col brigadiere si diresse verso la gendarmeria, dove fece diverse telefonate. Riapparve il maresciallo capo, mentre posava l'apparecchio. Gli spiaceva di essere mancato. Era andato a pranzo con la moglie, dal collega di
Forcalquier. Non riusciva a capacitarsi della novità. «Lo prende in mano lei il caso?» domandò a Laviolette. «Aspetto istruzioni... Sono qui, non lo dimentichi, per indagare su un certo numero di sparizioni, ma niente indica, a priori, che questo assassinio vi sia collegato. Però...» Gli raccontò che aveva visto la vittima viva, tre giorni prima, a Montsalier. «Per il momento» disse «i due ispettori che mi hanno mandato di rinforzo stanno interrogando tutto il personale dell'albergo e i clienti, mentre i suoi uomini fanno il giro della periferia per raccogliere eventuali testimonianze. Sembra che il delitto non sia avvenuto nella rimessa. Il cadavere è stato trasportato.» «Nell'attesa» disse Viaud «mando due uomini a Montsalier, per fare una retata di tutti quelli che troveranno, e portarli qui, manette ai polsi, se è il caso. Stavolta, si tratta di un delitto.» «Aspetti» disse Laviolette. Chiamò nel corridoio. Chiese agli agenti della Giudiziaria, che si accingevano a ripartire, di sviluppargli subito due foto del cadavere per poterle mostrare agli hippy che avrebbero preso. Tornò a sedersi. «Naturalmente non aveva nulla addosso?» «Nulla. Una camicia americana, due mutandoni Rasurel, uno sopra l'altro, una calzamaglia da sci; zoccoli giapponesi e la tunica di bigello indiano.» Nessun documento? Nessuna borsa da tabacco? Nessun pacchetto di sigarette? «Dove li avrebbe messi? Non aveva tasche!» In quell'istante si udì uno scalpiccio davanti alla porta, nel corridoio. Due gendarmi invitavano a entrare due tizi rubicondi, che protestavano di "non voler disturbare"... «Ma no! Ma no! Non disturbate affatto. Entrate. Sedetevi. Il maresciallo capo ascolterà la vostra deposizione.» «Sa, non abbiamo un granché da dire. Crede che valga la pena di disturbare?» I gendarmi spingevano amichevolmente davanti a loro lo scalpellino e il benzinaio della stazione di servizio. Non erano ancora entrati nella gendarmeria che già si spargeva la voce che Jules Bec e Absalon Biscarle avevano ucciso l'hippy per violentarlo. Le loro mogli, sconvolte, accorrevano alla notizia. Fu necessario trattenerle, rassicurarle, smentire...
«Insomma, in fin dei conti, cosa avete visto?» domandò il maresciallo capo. Laviolette, in disparte, si arrotolava una sigaretta. «Non un granché» asserì Jules Bec. Aveva installato alla meno peggio i suoi centodieci chili e le sue grosse cosce su una sedia. Quest'uomo timido, dalla testa enorme, grondava di sudore, tanto io frastornava trovarsi seduto in un ufficio di gendarmeria. «Lo dica al maresciallo capo» incitò il brigadiere «quello che ci ha dichiarato da Rosemonde Burle!» «Stavo uscendo di casa...» disse Jules Bec. «Sa che sono pompiere? Stava suonando la sirena... C'era un tempaccio. Il vento soffiava dappertutto. Mi entrava negli occhi come degli aghi. All'improvviso, vengo accecato dai fari di un'auto... Vedo qualcosa, laggiù, nella neve che cade... Qualcosa che si ferma, che indietreggia, che gira fra i platani. Faceva uno strano rumore...» «Ha potuto distinguere di quale auto si trattasse?» Jules Bec restò un buon minuto, l'espressione incerta, a detergersi e a sbuffare. «Forse» disse alla fine «un "Maggiolino"? Una Mini Cooper? O forse una Citroen 4 CV, chissà? Non so se si ricorda che nottataccia era... Ma ho avuto l'impressione...» «Sì?» disse il maresciallo pazientemente. «Ho avuto l'impressione che volesse evitarmi.» Uffa! L'aveva detto... È sempre così difficile esprimere un'opinione personale. Absalon Biscarle, lui, era tutta un'altra cosa. Erano cinque minuti che scalpitava, che apriva la bocca e l'altro gendarme lo tratteneva a stento. «Aspetti. Parlerà quando toccherà a lei.» Tanto l'enorme Jules Bec era timido e tremante, tanto il minuscolo Biscarle era sicuro e risoluto. «Ma io lo so. Io, salivo le scale. Io, proprio quando sbucavo, i fari mi hanno accecato. Io, avevo gli occhi rivolti a terra. Ho visto bene. Sono sicuro che era un "Maggiolino". Badi, ne sono sicuro: era bianco, era tozzo, era solido. Sicuro, era un "Maggiolino". E anch'io, è vero, Jules, ho avuto l'impressione che volesse evitarmi.» «Inutile domandarle» intervenne Laviolette «se ha distinto l'uomo al volante.» «Cosa, distinguere? Ce lo domanda così su due piedi? Con quella nottataccia? Il nostro dovere di pompiere ci faceva correre. Avevamo proprio il
tempo!» «E» disse Jules Bec «ti ricordi il rumore che faceva?» «Un rumore da fantasmi» esclamò Biscarle. «Claclaclà... claclaclà... claclaclà...» «Di catene?» suggerì Laviolette. «Proprio così. Dì catene.» «E l'avete subito persa di vista?» «Da un momento all'altro» disse Biscarle. «Come per magia» disse Jules Bec. «Ma... con quella notte, non c'era da meravigliarsi. E poi, non avevamo il tempo né il motivo di chiederci che cosa ne era stato. Da parte mia, mi ero appena svegliato... Mi stavo allacciando il cinturone.» Uno dei gendarmi prese la parola. «Se mi è permesso...» disse. «Dica, dica» fece Viaud. «Quando abbiamo raccolto la deposizione dei due testimoni, prima di portarglieli, abbiamo interrogato tutti quelli che erano in piedi a quell'ora: il fornaio, Eugène Martel, che avevamo appena svegliato per telefono e che stava tirando fuori il carro attrezzi. Nessuno ha visto quella macchina. Perciò, se ha fatto dietrofront, come loro sembrano credere, l'unica strada che poteva prendere passava davanti a! garage di Martel. Lui l'avrebbe vista per forza...» «Quindi» disse il brigadiere «non è uscita da Banon in quell'occasione?» «Quindi» disse Laviolette «può benissimo essersi imboscata nella rimessa.» «Non c'è più bisogno di noi?» domandò Jules Bec. «No. Per adesso no. Rilascerete una deposizione scritta domani mattina. Potete andare. Vi ringrazio. Andate a fare una dormita, ve la siete meritata... dopo una notte simile.» Fu in quel momento che si diffuse, sullo spiazzo, il terribile urlo di un maiale sgozzato e si vide entrare a precipizio Alyre Morelon, con in braccio un bassotto tedesco infangato. Laviolette lo riconobbe: era quello che aveva tentato di ammansire la sera prima. Roseline lo precedeva tonante e ululando più di una sirena. Un gendarme si era frapposto sulla soglia, ma provate a trattenere un uomo sconvolto e una scrofa di centottanta chili! I due si presentarono davanti al maresciallo capo e a Laviolette pietrificati. Alyre si accasciò sulla sedia ancora calda di Jules Bec. La scrofa, stanca, crollò sul pavimento. La
macchina per scrivere e il ritratto del presidente della Repubblica tremarono al colpo. La stufa a nafta sbuffò un bel po'. «Non ne posso più» proclamò Alyre. «Ho corso come un pazzo. Roseline è sfinita. Datele da bere. È lei! È lei che ha trovato! E date da mangiare a questo cane che sta per morire di fame.» Porgeva il bassotto a un gendarme, ma fu Laviolette a prenderlo in braccio e a non mollarlo più. «Ecco» esclamò Alyre, battendosi la fronte. «Ecco cosa mi rodeva fin da questo autunno. Ecco cosa volevo dire e che non dicevo perché avevo paura che mi prendessero per un minchione. Ecco!» Cavò di tasca e gettò sulla scrivania lo scapolare che aveva raccolto tra le foglie morte. Tutti, tranne i due poliziotti partiti alla ricerca degli hippy a Montsalier, erano riuniti intorno a quell'uomo che voleva esprimere troppe cose alla volta. Qualcuno, però, uscì a prendere una bacinella d'acqua per la scrofa. «Niente panico» disse il maresciallo capo. «Alyre, si calmi...» «Mi sento il cuore in gola. Ne ho presi più col naso che con la sciabola. E Roseline! Basta che non le si rovini il fiuto.» Bisognò pazientare ancora tre buoni minuti, occupati a tirar su col naso, a trombettare nel fazzoletto, a scacciare mosche invisibili intorno a sé, prima che Alyre Morelon spiegasse ai gendarmi e a Laviolette la causa della sua agitazione. Il commissario non smetteva di fischiettare, mentre Alyre riprendeva fiato con un bicchierino di grappa, che un gendarme era andato a prendere a casa. Nel bel mezzo del racconto di Alyre, aveva gridato: "Un attimo". E aveva mandato a vedere se la Giudiziaria era già ripartita. «Da una buona mezz'ora. Dovevano essere già a Pertuis, grazie alla sirena. Una brutta sorpresa li avrebbe accolti all'arrivo, un messaggio bello fresco sulla telescrivente: "Ritornate a Banon con l'attrezzatura".» «Credo» disse Laviolette, «che questa volta la faccenda sia troppo grossa perché continui a sostituirmi al pubblico ministero. Devo avvisare Digne.» «Stavo per suggerirglielo» disse Viaud. 15 Georgette era svenuta davanti al congelatore verso le tredici e trenta. Verso le tredici e quindici, il bassotto Mambo, cacciato da tutte le parti,
spaventato, completamente abbrutito dalla fame, dalla fatica e dal freddo, era fuggito a caso sulla prima strada che si era aperta davanti a lui. Solo al mondo, gemeva la sua miseria lungo le scarpate, col muso rasoterra. Le automobili, che talvolta lo sfioravano, lo facevano schizzare pieno di terrore sulle banchine laterali dove la neve fondeva. Ansimava qualche minuto, poi riprendeva il suo vagabondaggio senza speranza. Cane senza nome, minuscolo, sofferente per l'amore perduto, appena quattro giorni prima stava ancora rannicchiato contro il petto del suo padrone. Un uomo dolce, buono, che gli grattava la testa, che gli apriva una scatoletta quando aveva fame. A tratti, a quel ricordo, Mambo trovava la forza di rialzare il naso per fiutare nel vento se qualche traccia... Superò ciò che rimaneva dei mucchi portati via in mattinata dallo spazzaneve, e che sfavillava ancora sul selciato. Pensando d'ingannare la sete, la fame, Mambo divorò un po' di neve che, quella notte, prima di ammonticchiarsi lì, aveva mulinato follemente per il paese, spinta da un vento sfrenato. Proprio in quei cristalli compatti a Mambo parve di scoprire qualche traccia del padrone scomparso. Appena percettibile, si sgomitolava a fior di terra come un filo invisibile. A volte la ritrovava. Un'energia disperata gli decuplicava il fiuto. Affondava il muso fra le erbe secche che spuntavano dalla neve. Di colpo segnava una battuta d'arresto. Si levava con tutto il corpicino per dominare i cespugli e cercare di distinguere in lontananza. Si ostinava con pazienza, coprendo dieci metri, fermandosi, ripartendo... Una speranza senza senso lo spingeva avanti, sempre più in fretta. Laggiù, sotto il vento che non raggiungeva la strada, scintillava una cupa macchia di lauri. Un cipresso solitario la dominava dall'alto. Un sentiero mal tracciato, fra campi verdi di segale e frumento autunnali, s'insinuava verso il bosco. Era questo sentiero ad attirare Mambo. Fremeva d'impazienza davanti all'orizzonte nero di alberi senza grazia, conficcati nell'humus succoso come le picche di un esercito inchiodato al suolo. Mambo, su quella striscia compatta, braccava il passaggio. Grattava il terreno, fiutava la terra rimossa, sollecitando il suo orientamento su ogni fronte, gemendo d'incertezza. La luce del giorno a un tratto squarciò davanti a lui un lungo viale ben tenuto dove si addentrava il sentiero. Prese risolutamente verso quella breccia. Le aste dei lauri si urtavano sopra la sua testa in un fruscio di lance incrociate. Mescolato al loro ineffabile profumo scemava un odore ancora
indistinto, ma che si intrecciava sempre più fittamente sullo strato di foglie rigide dove trottava il cane. In fondo alla penombra, in lontananza, un cancello arrugginito ergeva le sue sbarre solide al centro di un'alta muraglia. Mambo avanzava adesso all'andatura di un cane che riconosca un amico all'orizzonte e si affretti a raggiungerlo. Cominciava persino ad agitare festosamente la coda. Il viale si estese sui due fianchi del muro. Apparve un cubo di pietra trapuntato da parecchie stagioni di foglie morte, un tempo usato come panchina. Mambo si drizzò contro l'inferriata, tentando di raggiungere le sbarre troppo alte per lui. Ricadde sulle zampe. Allora, con un verso che non era il suo, emesso da quel corpicino, sgorgò un lungo ululato di desolazione, a mezza voce, che si avvertiva però da molto lontano. Da una fattoria, a parecchi chilometri, un secondo cane, lentamente, preludiò in tono minore. Altri due gli risposero a Montsalier nuova. L'onda modulata andò a colpire l'orecchio del vecchio Médor, il bassotto meglio rimpinzato di Banon. Accordò a lungo il contrabbasso delle sue corde vocali alla fanfara di cani che accerchiava il bosco di lauri fremente al vento dove Mambo, il muso levato al cielo, snocciolava il suo lamento ossessivo. A volte, in questa contrada, i maggesi accolgono lugubri sepolcri accarezzati da un cipresso, unico rifugio, quattrocento anni fa, dei protestanti che la Chiesa aveva bandito dai cimiteri. Per lo più, sono tombe senza pietra e senza nome, perpetuate soltanto nella memoria degli agricoltori che di generazione in generazione se ne stanno lontani, creando così, in mezzo alle loro terre, quelle losanghe enigmatiche dove si diffondono le ombrelle delle cicute. A volte, però, sono vere e proprie cappelle, cinte da mura di pietra, orgoglio di signori ribelli al re e al papa. A chi appartengono? I nomi sono incisi sul frontone con la mazza, come sulle lastre delle cripte. Le donazioni, le vendite dei beni nazionali, l'estinzione delle famiglie ne hanno fatto degli anonimi monumenti rurali dove il cipresso, piantato all'epoca, mormora fino a venti metri nel cielo. Era davanti al cancello di un tale mausoleo che Mambo urlava alla morte. Roseline grugnì un po', impietrita. E all'improvviso, con un brusco strattone, scappò dalle mani di Alyre e lo piantò in asso per correre verso il li-
mitare del bosco. «Perdio! Questa volta ci siamo. Guardala! Si direbbe che abbia il fuoco alle calcagna. Ma dove va? Roseline! Roseline!» Ma di Roseline si scorgevano solo le natiche rosa che si dimenavano in cadenza e il guinzaglio che volava nel vento. Stava già addentrandosi nel sottobosco. «Carogna di una Roseline! Mi sa che ti prenderai la prima pedata in culo della tua vita.» Abbordava il sentiero, correndo. Travolgeva le foglie secche. Ansimante, arrivò davanti al cancello della cappella, senza avere avuto il tempo di analizzare le sue sensazioni. Roseline stava seduta sul didietro, esplorando col muso la testa del bassotto che urlava alla morte, la gola tesa verso l'alto. «Perdio! Roseline! È quel cane sperduto che tutti prendono a pedate. Che diavolo ci fa qui?» Aprì di colpo la bocca. Aveva un'aria sorniona. Stava pensando che fin dall'inizio dell'autunno aveva dovuto, a più riprese, riacchiappare Roseline al limitare del bosco. «Perdio, Roseline! Lo sapevo! Ecco cosa sapevo! Tagliamo la corda. Ecco cosa mi opprimeva! Ecco cosa volevo dire!» Ma Roseline, alla quale aveva passato il guinzaglio, s'impuntava sulle quattro zampe con tutto il suo peso. Aveva un bel tirare, lei rimaneva ostinatamente ad annusare il misero bassotto che urlava alla morte. Dopo tutto il tempo che lavoravano insieme, Alyre conosceva le reazioni della scrofa. «Cosa! Vuoi che me lo prenda io» esclamò. «Cro» fece Roseline. «Cosa diavolo me ne faccio?» «Cro» fece Roseline. Ad Alyre non andava di discutere. Si sentiva oppresso. Aveva voglia di andar via di lì il più presto possibile. Si chinò. Il cane tentò di schivarlo, ma era troppo debole. Vacillò. Alyre l'agguantò e se l'infilò sotto la giacca. Era l'unico posto dove poteva impedirgli di scappare. Il bassotto tremava di fame. Si rilassava. «Vieni, Roseline! Tagliamo la corda.» Ma Roseline resisteva sempre passivamente. Il suo grugno tracciava un solco tra le foglie secche. «Cos'hai ancora?»
«Cro» fece Roseline. Aveva lo stesso comportamento di quando scopriva un tartufo. In ferma. Il muso sbuffante. Di un'immobilità assoluta. Alyre si accovacciò accanto a lei. «Oh, perdio! Roseline!» Alyre, con la mano libera, aveva appena afferrato tra le foglie secche, proprio sotto il grugno della scrofa, un oggetto che non finiva di tirare, di svolgere, di sollevare davanti agli occhi per capirne la natura. Impiegò alcuni secondi per identificarlo. «Perdio, Roseline! Sai cos'è questo? È quella specie di collare che portano tutti i vagabondi. È uno scapolare, di bacche di cipresso. C'è appeso una specie di libretto rotondo. Perdio, Roseline! Corriamo. Tagliamo la corda. Mi sa che hai scoperto gli altarini di qualcuno.» «Questo è tutto» proclamava Alyre nel furgone dei gendarmi. Si teneva in equilibrio alla meno peggio nel mucchio dei tre hippy caricati a Montsalier dai gendarmi, nel pomeriggio. Era stato necessario trasportarli. Come di norma, non si reggevano in piedi. Se per qualche motivo venivano mollati, s'afflosciavano sul loro sacco a pelo. Uno restava in disparte. Gli altri due, accoppiati nello stesso ampio sacco, Laviolette li riconobbe: erano quelli che facevano l'amore, l'altro giorno, dietro l'altare della chiesa. Non si lasciavano con gli occhi. S'intuiva che continuavano ad accarezzarsi, che non sapevano fare altro, che non volevano fare altro. Era stato necessario tirarli fuori insieme dalla chiesa, trascinarli sino al furgone, ficcarli dentro come sacchi postali. Alyre ci teneva i piedi sopra. «Questo è tutto quello che volevo dire» ripeteva «che dirò stasera a Francine e che non osavo confessarle per paura che si prendesse gioco di me. "Francine, credi che si possa ancora avere la percezione di gente morta quattrocento anni fa?"» Si batté le cosce. Finalmente aveva espresso il pensiero più greve che lo teneva in ansia da tre mesi. Lo ripeté ai gendarmi. «Sentite, credete che sia possibile?» Era notte fonda, senza luna, senza stelle, solo le vicine luci di Banon, quelle di Simiane sul fondovalle e pochi rari lumicini verso Carniol e Rochegiron in lontananza. Il bosco di lauri era circondato da gendarmi e pompieri che ne vietavano l'accesso. Avevano chiamato di rinforzo quelli di Saint-Etienne, quelli di Forcalquier, più alcuni cantonieri, una benna, due furgoni... Per ogni even-
tualità. Tutti erano indaffarati. I buontemponi della Giudiziaria erano appena arrivati, dopo una nuova corsa a inseguimento Marseille-Banon dove avevano ancora migliorato il loro record di quattro minuti. Scalpitavano d'impazienza, con tutta l'attrezzatura in mostra. Sul sentiero di foglie secche soffiava un generatore. Installavano dei fari su treppiedi collegati da lunghi fili elettrici. Qualche raro fiocco di neve baluginava fra i raggi di luce. Gli ispettori Guyot e Leprince, ritornati insieme con la Giudiziaria e che contavano sulla serata libera, brontolavano un po' per quel nuovo contrattempo. Caracollando sul sentiero, la Land Rover di Martel avanzava, trainando un altro generatore. Bisognava tapparsi il naso e respirare con la bocca per non svenire. Alcuni coraggiosi sconosciuti, per niente impediti dal fetore, avevano tentato d'infiltrarsi nel boschetto, scalando il muro della cappella per stare nei primi posti. I gendarmi avevano appena cacciato due recidivi minacciandoli di calci nel sedere. Si contava una ventina di banonesi lì nei dintorni, che nicchiavano e si mordevano le dita per non essere pompieri. Un po' più lontano qualche reduce dal banchetto, riconoscibile dai brandelli di velo che svolazzavano sulle auto e dai garofani bianchi attaccati al retrovisore, si purgava dell'ubriacatura nel vento della notte. Ballavano da un piede all'altro con le loro scarpe da festa, ma non avrebbero ceduto il posto per un regno. 16 Avvertito a Manosque da un collega della prima scoperta della giornata, il corrispondente locale del Provençal era lì, con la sua Zeiss-Ikon ad armacollo. Non l'avevano autorizzato ad avvicinarsi, ma finsero di niente. Era solo. Era l'unico. Aveva già telefonato al giornale perché gli riservassero tre colonne in prima. Ne valeva la pena. Erano già le nove di sera. Tutto quello che avrebbe potuto racimolare sarebbe stato in esclusiva. All'inizio del sentiero, rispettosamente scortata, un'automobile nera avanzava con cautela e si bloccava davanti al cancello. Il gendarme che aveva accompagnato l'autista aprì la portiera posteriore salutando. Ne discese una donna giovane, magra, le cui palpebre, dietro gli occhiali, batterono infastidite dalle luci violente dei proiettori. Non doveva pesare molto. Era vestita con molta sobrietà e non era né bella né brutta.
Tese la mano guantata a Laviolette e al maresciallo capo della gendarmeria che si mise sull'attenti. Pregò che la scusassero del ritardo. «Ci hanno spiegato male» disse «il mio autista ha sbagliato strada.» Fece un risolino. «Siamo andati a finire in una cappella votiva. Era molto romantico.» Su invito di Viaud, Martel, un tempo fabbro e da generazioni, avanzò verso il cancello. Si poteva pensare che aspettassero con impazienza l'uscita di qualche presidente. La serratura, in realtà, era al momento l'unico obiettivo dei fari a luce bianca che non lasciavano neppure un dettaglio nell'ombra. «Si accorgerà subito» disse Viaud «che questa serratura enorme è stata ingrassata da poco.» Effettivamente, si distingueva un'aureola intorno alla toppa. «Tanto meglio» soffiò Martel sul gendarme accanto a lui. «Sarà più facile.» Un lesto e agile sottufficiale della Giudiziaria si chinò sulla vecchia toppa arrugginita, applicò intorno al buco una specie di carta assorbente che premette con tutte le sue forze contro il ferro. «A cosa serve?» chiese Martel. «Ad analizzare la natura del lubrificante adoperato...» «Ah, capisco.» Il sottufficiale fece lo stesso con i sei cardini, anche questi ingrassati. Dietro di lui, il secondo ispettore mitragliava ogni punto a colpi di flash. «Posso cominciare?» disse Martel. «Cominci pure.» Martel teneva infilato alla cintura un mazzo di chiavi ingombranti staccate dal pannello, per ogni evenienza. "Una cappella protestante" aveva detto fra sé "non deve essere una Yale. Sta' a vedere che è stato uno dei miei bisnonni a fabbricarla. Vado a prendere l'assortimento di chiavette da chiesa e poi, con quel grosso grimaldello, la vedremo." Si chinò sulla piastra della serratura e vide, dall'imbocco, che non era provvista di cilindro. Era già qualcosa... Iniettò con l'oliatore una buona dose di liquido speciale nel buco. Poi rovistò qualche minuto nel mucchio di chiavi; assestò qualche limata, forzò un po' verso destra e un po' verso sinistra. Sentì il rumore della stanghetta che scivolava. Una volta... due volte... Rivolse i suoi sforzi al bottone di scorrimento che per sbloccarlo gli diede più problemi della serratura stessa.
«Spingo?» chiese. «Spinga senza andare avanti» disse Laviolette «e si metta da parte.» Nonostante i cardini ingrassati, la porta del cimitero girò con un rumore lacerante. Laviolette si scostò. Gli specialisti accostarono i fari, azionarono i flash, si comunicarono i punti salienti delle loro osservazioni. Scomparvero all'interno. Subito dopo introdussero altri proiettori, li puntarono. Finalmente, dietro di loro, Laviolette, il maresciallo capo, due gendarmi e un cancelliere s'intrufolarono nell'apertura. Tutti questi signori parlavano nel naso, poiché si tappavano le narici il più possibile. Fra loro, pronti a reggerla all'occorrenza, la signora sostituto procuratore della Repubblica si teneva contro il bel nasino un minuscolo fazzoletto, ma nella sua graziosa personcina nulla indicava che stesse per svenire. Laviolette, da intenditore, si meravigliava, poiché si sguazzava letteralmente nell'odore della morte. Richiuso il battente, cominciarono a sentir sospirare il cipresso. I proiettori ne rivelavano soltanto la base grigia, il resto della sua opulenza vertiginosa veniva inghiottito dall'oscurità del cielo. I flash a volte ne illuminavano il fusto sino a quindici metri di altezza, ma il cimiero ondeggiava nelle tenebre. Intorno, sui duecento metri quadrati del muro di cinta, una messe di cardi argentati dardeggiava le loro teste fuori dell'ombra. Qualcuno si era aperto un varco scostandoli. A volte persino con rabbia, li avevano abbattuti a bastonate. Armati di flash, centimetri, polveri, diversi strumenti a quadrante che i colleghi consideravano giocattoli, gli industriosi ispettori della Squadra Giudiziaria camminavano bocconi su quel passaggio. «Impronte?» domandò Laviolette. «Calzini» gli risposero. «Allora siamo nella merda.» «Mah... Non è detto... Dipende dalla qualità dei calzini...» Il mio stipendio contro il suo che saranno stati comprati al mercato di Forcalquier. La processione si riunì davanti alla cripta. Venti fari su cavalletto frugavano la sua nudità austera sino alle fessure tra le pietre, non trascurando nessun lichene, nessuna macchia di umidità. Era una cappella di pietre a secco e dall'apparenza ruvida. Sul frontone, il nome della famiglia era stato scolpito in modo che quattrocento anni dopo si avvertiva ancora l'acredine del fanatico che aveva tentato anche di strappare l'asta della meridiana, riuscendo però soltanto a torcerla. «Posso?» domandò Martel.
Gli ispettori che avevano appena auscultato i tre gradini di marmo e la porta, si scostarono davanti all'artigiano. La nuova serratura diede parecchio filo da torcere a Martel, ma se la cavò senza rumore e senza bestemmie. Deglutì prima di chiedere: «Apro?» «Vada» disse Laviolette. Due grossi ratti risposero squittendo allo stridio del battente deformato che raschiava sul marmo. Giocando a cavallina sui gradini, cercarono un'uscita per due volte intorno alle scarpe del sostituto che non batté ciglio. Eppure, avevano sollevato l'odore di putrefazione umana sino a fare star male i più coraggiosi. «Oh, per la miseria» gemette Martel che fino allora non aveva fiatato. «Ci scusi» dissero i sottufficiali passandole davanti. «Sa, nella polizia, lavoriamo di rado su un cadavere fresco.» Il sostituto represse un sorriso dietro il suo bel fazzoletto. Sotto il fascio dei proiettori stava già strisciando laggiù, a quattro zampe, il tizio delle impronte, il quale, nella sua febbricitante ricerca d'indizi, con la fronte toccava quasi i piedi di un cadavere. Era una cappella da ricchi. Una cappella sette metri per quattro, la cui bellezza, nella sua nudità, non era inferiore a quella del fasto dei cattolici. Niente. Quattro muri. Un tetto così ben rifinito che in quattro secoli non era passata neppure una goccia d'acqua. Una finestra di cristallo senza vetrate a colori, a sbarre fitte. Sullo fondo - unica concessione al dolore questa iscrizione trascurata dallo zelo martellatore per qualche oscuro motivo: "Quando fu sera, Gesù disse: Passiamo sull'altra riva". Sotto questo consolante invito avevano disposto i cinque hippy scomparsi. Erano ben allineati sulle lapidi, mani giunte, come statue funebri. E avrebbero avuto una posa araldica se fossero stati di marmo. Purtroppo erano di carne e intorno a loro, sulle lapidi, come un'aureola, la materia cerebrale sparsa bandiva la pietà. Sotto i lampi dei flash, i visi che si disfacevano intorno alle ossa offrivano soltanto contorni vaghi. Unici, i capelli in disordine conservavano i loro riflessi e la loro corposità. Le barbe degli uomini erano ancora cresciute. I topi dovevano essere campagnoli. Si erano poco interessati ai cadaveri, accontentandosi di rosicchiarne le estremità. «Avete finito?» domandò Laviolette. «Per quanto è umanamente possibile, sì» risposero gli agenti. «Avete misurato le distanze fra ogni cadavere?» Si voltarono verso di lui, sorpresi.
«Certamente. Del resto le foto...» «Li avete... perquisiti?» «Grosso modo... Indossano soltanto delle tuniche... Anelli di sostanze vegetali; nessuna fede. Domani, all'obitorio, se possibile, prenderemo le impronte dentali e raccoglieremo tutto quello che hanno addosso... Là, sarà più facile...» Laviolette, tenendo in mano le foto, cercava di accostare quei visi di bambini felici alle molli distorsioni delle carni in disfacimento, da cui fuoriusciva soltanto la punta della cartilagine nasale, salvo per i più recenti. Bisognava dedicarsi a un duro lavoro di identificazione, ma con l'aiuto del sostituto che esaminava con lui quel puzzle macabro e dimostrava grande competenza, Laviolette riuscì abbastanza rapidamente a classificare con ordine i cinque scomparsi. «Gli hippy vivi sono sempre qui?» domandò. «Sì. Nel furgone.» «Vada a cercarli.» «Cercarli? Portarli, intende dire.» «Come portarli? Cosa stanno facendo?» «Uno dorme, credo, e gli altri due fanno l'amore. Oh, pardon!» Il maresciallo Viaud si era appena accorto che parlava davanti a un sostituto procuratore donna. «Niente, niente» disse lei «nelle circostanze attuali mi sembra un'occupazione molto pertinente...» Si tolse gli occhiali per asciugare il vapore e constatarono che aveva occhi bellissimi. «Tenga» disse al maresciallo. «Ecco, credo, la lista redatta dal cancelliere. Sarebbe utile, giacché lei possiede le pratiche e gli indirizzi, che informasse senza indugio le squadre interessate in modo che tutte le famiglie siano avvisate al più presto... e vengano qui» aggiunse. «Abbiamo previsto il trasferimento dei cadaveri? Esiste un obitorio a Banon?» «Rudimentale» disse il maresciallo «e, attualmente, molto ridotto...» Entrambi discussero a voce bassa le disposizioni urgenti che conveniva stabilire. Nel frattempo, quattro gendarmi stremati trascinavano nel loro sacco a pelo i tre hippy, come il cadavere dell'abate Faria. "Evitate assolutamente di dargli dei calci" aveva raccomandato il maresciallo. Eppure gli prudevano le scarpe. Comunque, mollarono quei fardelli sul pavimento di marmo senza troppi riguardi.
Sulle prime, i vagabondi si mantennero uno nel proprio nirvana, gli altri due nelle loro abili esplorazioni reciproche, come se quel nuovo mondo neppure esistesse. Ma all'altezza dove respiravano, l'odore degli ex compagni li investiva senza pietà: di colpo aprì una breccia nel loro volontario isolamento. Videro il mondo: il soffitto, Laviolette, il sostituto procuratore, la scritta sulla parete di fondo. Un incomparabile tanfo li colpì. Schizzarono quasi simultaneamente dai loro sacchi. Uno era un piccolo italiano spigoloso come D'Annunzio, viso e cranio rasati, adorno della sola lunga sfilatura dei baffi e di una treccia da cinese pronto a essere trasportato nell'aldilà. L'altro sacco covava un lungo olandese dai denti radi e la barba bionda, e un'olandese pelosa, con bicipiti da scaricatore, che doveva pesare settanta chili. Commentavano nella loro lingua quel brutto risveglio. L'italiano si rannicchiò sotto la loro protezione. Spaventati, s'indicavano col dito i cadaveri allineati sul pavimento. «Constantin!» «Chinchilla!» «Patsy!» «Ismael!» Deglutivano senza posa. Erano agghiacciati di terrore. «E l'altro?» disse Laviolette. «L'altro?» ripeté il lungo olandese. «Sì, l'altro. Quello lì, al centro, non è un amico?» Scossero la testa tutti e tre, poi si voltarono, andarono a vomitare contro la parete di fondo. I loro rigurgiti colavano abbondantemente contro l'esortazione di Gesù. Facevano un bel concerto. «Approfittate del fatto che sono in piedi» disse Laviolette. «Portateli via e giacché ci sono, fategli vedere il tizio del congelatore. È ancora anonimo. Forse verremo a sapere come si chiama.» «Signora» disse rivolgendosi al sostituto «credo che non abbiamo più nulla da fare qui.» Stava varcando il cancello, quando vide venire verso di lui una ragazza bionda che spiccava nella notte, per tutta la luce che portava con sé. La signora sostituto non fu lietissima di quella visione. «Perché si permette che il pubblico si avvicini?» disse subito. «Chi è quella? Cosa fa qui?» «Purtroppo» disse Viaud «temiamo che suo fratello sia tra le vittime. È lei» mormorò a Laviolette. «Quella di cui le ho parlato: Claire Piochet.» E le andò incontro, sia per aderire al desiderio del sostituto che non vo-
leva, intorno al cadavere, altre donne a parte lei, sia per sottolineare la sua premura verso quella povera ragazza sola e smarrita. Le diceva qualcosa in sordina e l'allontanava dolcemente. «Aspetti» fece Laviolette. Si avvicinò. «Le ho confessato che probabilmente...» disse Viaud. La ragazza piangeva senza rumore e senza singhiozzi. Le lacrime sembravano traboccare, suo malgrado, dall'orlo dei suoi grandi occhi. «Mio fratello...» sussurrò. «Non è detto...» rispose Laviolette. «Domani lo saprà. Per il momento vada a riposare.» «Voglio vedere.» Laviolette scosse il capo. «Per ora non si può. Domani la convocheremo.» La seguì con gli occhi mentre si allontanava, sostenuta da Viaud, il quale sussurrava qualche parolina di conforto. «Birbone» si disse Laviolette sottovoce. «Non mancherà mai l'appoggio a quella nella vita...» «Ha notato il suo cappotto?» sottolineò il sostituto che l'aveva inteso. «Viene diritto dalla Scozia. Non devono essercene più di cento in Francia, di quei cappotti... Costano terribilmente cari...» «Sembra in preda a un dolore immenso» osservò Laviolette. «Immenso, è vero...» ripeté lei dubbiosa. Il sostituto seguiva con attenzione l'andatura di Claire che s'allontanava. Laviolette ebbe l'impressione che la signora sostituto non fosse troppo tenera con le eventuali concorrenti. Ed era anche vero che lei stessa non mancava di fascino. «So cosa pensa, da brav'uomo qual è. Ma non è affatto così... Stavo facendomi una domanda assurda. Mi chiedo se è possibile provare un dolore immenso e continuare a dimenare così il sedere... Che cosa ne dice?» fece lei, voltandosi bruscamente verso Laviolette. Scosse il capo. «Non speri» disse «che le dia su due piedi una risposta a un quesito così grave...» Lo svolgimento dell'inchiesta rubò ancora due ore ai diversi servizi coinvolti. I gendarmi rientrarono in caserma e cominciarono a scrivere, a trasmettere, a telefonare, a rispondere e, in presenza di Laviolette, a inter-
rogare Alyre, Georgette, lo sguattero, il padrone dell'albergo, che dovevano tutti deporre. Gli specialisti della Giudiziaria scandagliarono metro per metro tutta la superficie del cimitero in mezzo ai cardi argentati che pungevano implacabilmente le gambe. Accompagnarono i corpi al piccolo obitorio, si dettero il cambio per non lasciarli soli. Non si poteva mostrarli nudi alle famiglie, ma era anche importante vegliare sul loro ciarpame, amuleti, anelli che avrebbero dovuto subire l'ispezione. Il medico legale arrivò alle quattro e si appostò in attesa davanti al domicilio del collega locale uscito a fare un'iniezione di morfina al macellaio di Revestdes-Brousses, colpito da coliche nefritiche. «A quest'ora?» disse il dottor Lusel, dopo che il collega si fu presentato. «Sempre in prima linea» rispose il medico legale sorridendo. La direzione dell'ospedale non sapeva dove sbattere il cadavere, tanto più che i due ragazzini di sedici anni, responsabili dell'incidente nella notte di sabato, non erano ancora stati reclamati dalle famiglie. Al contiguo ospizio dei vecchi, una specie di allegra attesa rendeva più leggera la tosse dei malaticci. Domani ci sarebbe stato qualcosa da raccontare. Senza una parola, Rosemonde, che non era andata a dormire, spinse verso Laviolette crollato su una sedia una grande scodella di zuppa e un caffè da risvegliare un morto. «Sempre in prima linea» disse Laviolette. Non aveva ingurgitato quattro cucchiai di zuppa che si addormentava sul piano del tavolo, la testa fra le braccia. Il giorno si levava su Banon. 17 «C'è il medico legale. Ho bussato, ma non mi ha sentita...» Erano le undici, quel lunedì. Un vento lugubre soffiava su Banon. Laviolette, sotto il piumino giallo, guardava avvicinarsi la colazione portata dalle mani paffute di Rosemonde. «Pensa di poter buttar giù qualcosa?» domandò lei. «Ci proverò.» Si scostò e si ritirò davanti al medico legale che sorrideva con tutti i suoi denti finti. Il dottor Grégoire Rabinovitch, accreditato allo stato civile, braccio destro della procura, aveva le labbra avide, l'incarnato bruno e,
completamente calvo, il cranio ammaccato da numerosi incidenti bellici e automobilistici. Gli ispettori giovani io chiamavano "Testarotta". Era sfaccettata come un diamante, ma, all'interno, il cervello era intatto. Svegliatosi alle due, giunto a Banon alle quattro del mattino, aveva poi lavorato, assistito dal medico locale, su cadaveri non più freschi, e non sembrava. «Grazie» disse «della sua generosa sollecitudine. Sei, in un colpo solo, caspita!» Notò il vassoio, la tazza blu e la caffettiera, il piatto guarnito di pane tostato con uccellini. «Fortunato mortale» esclamò «che pranzi con due tordi su canapè!» «Sono una delizia» grugnì Laviolette, che li amava molto caldi, molto rosolati e molto croccanti, tali e quali glieli avevano presentati sul vassoio. «Posso parlare senza guastarle l'appetito?» «Certamente» disse Laviolette. «Ebbene, a priori e malgrado il loro stato, posso già anticiparle che i suoi cadaveri, quelli della cappella e quello bell'e fresco del congelatore... la cui morte risaliva comunque a circa due giorni... ebbene, posso già affermare che sono stati tutti appesi per i piedi e svuotati del sangue.» «Come, svuotati del sangue?» «Come maiali. Gli hanno rigirato un coltello, lentamente, nella carotide, per far scorrere bene il sangue.» «Vuole dire... che sono stati sgozzati... da vivi?» «All'incirca. Nel bagagliaio della mia auto ho dei contenitori per visceri. Per almeno tre di loro, i più vecchi, l'analisi non dirà nulla, ma sui più recenti fornirà dati interessanti. Con ogni probabilità, erano o molto ubriachi o molto drogati quando hanno cominciato a sgozzarli.» "Ecco perché" pensò Laviolette "c'era bisogno di una persona insignificante che s'infilasse dappertutto, che non desse nell'occhio... Questo genere di faccende capita solo a me. Gli altri hanno sempre dei bei casi semplici di criminali o di protettori con le pance piene di piombo. Mentre io incoccio sempre in storie pazzesche. Sgozzati come maiali. Domando e dico!" «Quando avremo il risultato delle analisi?» chiese. «Consegnerò subito i contenitori» disse Rabinovitch. «Per le analisi più semplici, domani mattina. Per quelle più complesse, fra... diciamo quattro o cinque giorni.» «Cioè per Natale» constatò Laviolette amaramente. «Proprio così» disse Rabinovitch, congedandosi. «Per Natale. Per Natale» ripeté, fregandosi le mani.
Il mercato era in pieno svolgimento quando lui scese in strada. I mediatori salivano soltanto due volte all'anno a Banon, i due lunedì a cavallo di Natale. Negli altri periodi bisognava portare il raccolto da loro, a Forcalquier. L'odore consueto della casa era accentuato da quello particolarmente intenso di quella mattina. Nella scala, il profumo di tartufo andava incontro a Laviolette, come un blocco compatto. Sullo sfondo buio, ognuno a un tavolo, "officiavano" dei personaggi quasi mitici: i mediatori di tartufi. Uno, alto, col monocolo, piuttosto anziano, asseriva di mantenersi in forma per le signore mangiando ogni mattina due o tre tartufi cotti sotto la cenere. Metteva da parte i suoi acquisti in un ampio cesto di vimini dove li deponeva con cura. L'altro, genere filibustiere, inalberava un sorriso tutto d'oro. Davanti alla sua chiostra di denti preziosi si presentavano piccoli piccoli come Cappuccetto Rosso al cospetto del lupo travestito da nonna. Sfilavano là davanti col proprio sacchetto o paniere, con una fifa boia, e non pretendevano il resto. Soprattutto quelli, numerosi, che, senza avere mai posseduto una sola tartufaia in vita loro, non facevano neppure tutti i mercati. Li si riconosceva dal viso tagliente, dall'aria più diffidente della maggior parte dei proprietari. S'incastravano a sandwich fra uno o due grossi produttori, col loro mezzo chilo, un chilo a volte, in una busta trasparente. Il mediatore dai denti d'oro ammucchiava tutto alla rinfusa, gettandoli dall'alto, in grandi sacchi opachi da pane. Poco dopo, per portarli fino all'auto, avrebbe issato quei sacchi sulle spalle, senza riguardi. Cavava, per pagare poco e male, un grosso portafoglio logoro che si rifiutava di uscire di tasca. Non era simpatico a nessuno. Defraudava. Ma prendeva tutto, come capitava, grossi e piccoli, maturi e acerbi, mentre l'altro, quello col monocolo, trovava da ridire. A volte, con unghia sospettosa, faceva saltare una scheggina da un bel tartufo e se lo trovava "erborinato", cioè non molto maturo, il prezzo calava subito dai trenta ai quaranta franchi al chilo. Nella baraonda Laviolette riconobbe tutti, e lì al banco, come in attesa del Messia, un gruppo di signori ben vestiti, alcuni con apparecchi fotografici, scorgendolo gli andò incontro. Erano cambiati i tempi. Ancora di recente sarebbero stati in trenta a far prosperare gli affari di Rosemonde. Oggi non bevevano più che succhi di frutta e inoltre, salvo i tre corrispondenti dei quotidiani regionali, la stampa francese ed estera era rappresentata unicamente da tre inviati di agenzie internazionali. L'indomani, le loro rifritture, rivedute e abbellite, sarebbero
state rivendute ai giornali e ai settimanali, allungate o abbreviate, secondo la solita prassi di colla e forbici. C'era da aspettarsi che la verità venisse collegata a vaghe reminiscenze di cronaca. «Signori» disse Laviolette «se volete farmi un favore, aspettatemi stasera in gendarmeria; vi farò il punto della situazione. Per il momento ho da lavorare.» Andò a mescolarsi ai tartufai che odoravano di bosco. Era persuaso che qualcuno, in quella folla circospetta, sapesse qualcosa di determinante, qualcosa che non avrebbe confidato a nessuno. Laviolette credeva all'osmosi delle intelligenze. Se un pensiero, un'idea, un'ossessione, albergava in uno di quegli uomini, aggirarsi fra loro avrebbe permesso forse di impregnarsene, di venirne più o meno a conoscenza. «Lasciate passare l'Uillaoude!» esclamò qualcuno. Ognuno si scostò galantemente e forse con un pizzico di panico, davanti alla vecchia tutta busto la cui altezza raggiungeva appena la vita degli uomini, ma che, così ricurva, occupava col suo bastone la base di un metro cubo. Dal basso, la sua testa storta vi considerava con un occhio porcino da gelarvi il sangue. Scuoteva il capo a ogni passo veloce che la sospingeva verso il mediatore dai denti d'oro. Nessuno rideva. L'Uillaoude aveva gettato il suo sacchetto di tartufi sul piatto della stadera. «Avvicinami il giogo» diceva con voce stridula. «Lo fai apposta a portarmene una col giogo così usato che non si vedono le tacche. Come se non ti conoscessi. Cosa? Hai solo questa?» «Le faccio buon peso, Uillaoude.» E in effetti le arrotondava i novecentottanta grammi a un chilo e le pagava trecentoventi franchi, la tariffa dei migliori. Non bisognava scherzare con l'Uillaoude. Lei conveniva che in passato, per "restituire il piacere", aveva gettato qualche malocchio. «Ma adesso» diceva «con la "utomobile", la tele, i missili... quello non si attacca più. Mi sono ritirata dagli affari.» Quella frase, in bocca sua, era carica di un significato oscuro. «Oh» aggiungeva con noncuranza «ritorneranno quei tempi! Ritorneranno.» «L'Uillaoude» aveva detto Laviolette a Rosemonde, la prima volta che aveva visto la vecchia «un "Uillaou", in provenzale, è il lampo... L'Uillaoude, deve essere "veloce come il lampo", no? Il nome sarebbe abbastanza plausibile, visto il suo passo precipitoso.» «Non è per questo» aveva risposto Rosemonde. «È stata colpita dal ful-
mine nella tempesta del millenovecentoventiquattro che ha ucciso due persone. L'ha resa tutta storta. Ecco perché la chiamano "l'Uillaoude".» Quel giorno, brontolava davanti al mediatore, sui miseri trecentoventi franchi che aveva appena riscosso. «Maledizione! Avrei dovuto andare ad Apt, come mio nipote. Non so come faccia, ne aveva forse dieci chili, il bricconcello.» «E allora» disse il mediatore offeso «non poteva venderli a me? Crede che ad Apt gli daranno di più?» «Ah, ti dico quello che mi ha detto: "Io vado ad Apt. Mi conviene di più".» Voltava le spalle, se n'andava, schizzando a quella velocità caratteristica che la scarica di un fulmine un tempo doveva averle impresso. Gli uomini le cedevano il passo precipitosamente, persino quelli che parevano troppo immersi in una conversazione spensierata per badarle. Uno di loro, addirittura, le apriva con galanteria la porta, affinché uscisse più alla svelta. L'Alta Provenza non si era data un gran daffare per accogliere le famiglie dei morti. Sulla piazza, sotto il cielo basso, gli impiegati comunali scacciavano le automobili venute da fuori, poiché occupavano il posto degli abeti natalizi che avrebbero eretto e decorato. Le famiglie quasi si scusavano che i loro figli fossero stati uccisi proprio sotto Natale. E gli impiegati dicevano piuttosto, con il loro atteggiamento, che era proprio vero, che era molto seccante, che loro, per via di quelle cinque grosse macchine sulla piazza, avevano perso un'ora buona a ricercarne i proprietari, alla gendarmeria. Del resto, ritornavano a testa china. I due uffici erano affollati di gente. I gendarmi trascrivevano le generalità. Tutta quella povera gente era stata avvisata all'alba, dalla polizia. Erano saltati chi su un aereo, chi su un'automobile. Arrivavano infreddoliti, sfiniti, disorientati, disperati. Reclamavano il figlio, la figlia, la nipote. Volevano vedere la salma. Li calmavano con delle buone parole. I due ispettori e i gendarmi tentavano di mitigarne il dolore, facendogli precisare dei dettagli, interrogandoli con sollecitudine. Fra loro e la disgrazia, crepitavano le macchine per scrivere, che attutivano i pianti e le grida delle madri. Nessuno era ansioso di accompagnare tutta quella gente davanti ai cadaveri disposti il più dignitosamente possibile nelle casse di legno bianco del falegname del paese. Il maresciallo capo informava a voce bassa Laviolette sull'identità dei genitori delle vittime. Erano presenti il ragionier Spirage-
orgevitch, in cappello color melone e ombrello da gentleman britannico, e la sua massiccia moglie occhialuta, un vero armadio, che mordeva il fazzoletto con stoicismo. Ben Amozil, commerciante alle Halles di Parigi, il cui figlio era diventato operaio zincatore per fargli dispetto, un lungo semita che si teneva la testa fra le mani e non smetteva di scuoterla. Era solo. "Divorzio proficuo" precisò Viaud. Un grasso spagnolo di Irun venne presentato a Laviolette come lo zio della scomparsa Incarnacion Chinchilla. Aveva più l'aria di un vedovo che di uno zio. Avevano dovuto aspettare l'arrivo dell'aereo da Londra a Marignane, dove due ispettori erano andati a prelevare la madre di Patricia MacAdarash. Quanto all'ultimo morto, quello del congelatore, non rispondeva a nessuna richiesta di ricerca da parte delle famiglie. Era senza documenti. La perquisizione nell'antro di Montsalier non aveva fornito indicazioni. L'interrogatorio dei suoi compagni non aveva chiarito nulla. Nulla di più del resto che per gli altri cadaveri. Gli hippy vivi si erano rapidamente ripresi. Vale a dire: erano ridiventati definitivamente muti. Avevano rilasciato una sola dichiarazione preliminare, debitamente registrata dal cancelliere del sostituto, che si riduceva a questo: che se ne fregavano di vivere o di morire e che sputavano moralmente sulla faccia di tutti gli sbirri. Questa era la cosa che bisognava capire bene. E inoltre, avevano un'ultima osservazione da aggiungere: che gli assassini sono l'emanazione diretta dello Stato capitalista che li secerne e che, di conseguenza, sono vittime al pari delle loro vittime. D'accordo. Non potevano trattenerli contro la loro volontà, tanto più che puzzavano come i loro consimili morti. Accompagnarono le famiglie all'ospedale in furgone, per il riconoscimento delle salme. Si svolse tutto nel modo più decente, a parte lo spagnolo di Irun. Volle gettarsi, per stringerla a sé, sul cadavere della nipote rabberciato a malapena per la circostanza. Fra le mani dei tre gendarmi che lo cinturavano, gridava parole d'amore inframmezzate di baci a quella povera cosa inerte che era lì perché aveva voluto sfuggirgli. Viaud sostenne Claire davanti alla bara del fratello che riconobbe ufficialmente, come aveva voluto fare la notte prima nella necropoli. Gli altri non rispondevano subito alla domanda del poliziotto. Erano riluttanti, a volte, a rifare in senso inverso - persino il tizio così giudiziosamente educato, persino il brillante allievo di scienze politiche, persino la ragazza sensuale, affascinante - il cammino percorso in precedenza. Alle quattro tutto era finito. E i parenti potevano prendere accordi per riportare nella cripta di famiglia quei figli che erano scappati. Claire aveva
gli occhi asciutti, adesso. Sembrava dura, decisa. «Se ne va?» le domandò Laviolette. «No. Resto. Lui non ha più bisogno di me. Delle esequie si occuperanno i miei zii. Io resto. Scoprirò l'assassino. L'ucciderò. Glielo giuro. L'ucciderò.» «Su, su» disse Laviolette. «Non vorrà mica andare in prigione?» Lo considerò con disprezzo. «Aveva proprio ragione, mio fratello, di voler sfuggire questa società.» Adesso che possedevano i cadaveri, e non più degli anonimi scomparsi, le forze di polizia spiegavano le armi pesanti. I gendarmi diffondevano i dati segnaletici; gli ispettori interrogavano tutti gli abitanti di Banon, foto alla mano: "Ha incontrato quest'uomo o questa ragazza assieme a qualcuno? Dove? Quando? A chi assomiglia questo o questa con cui lui o lei stava parlando? Riconosce questa foto? Quest'individuo le ha mai rivolto la parola? Detto qualcosa? Che cosa?". C'erano così sessanta domande di base il cui esame ulteriore delle risposte avrebbe permesso di arricchire il dossier in attesa di meglio. Alle sette, Laviolette e il maresciallo Viaud, faccia a faccia nell'ufficio di gendarmeria, si facevano reciprocamente queste tre domande rimaste senza risposta: «Perché degli hippy? Perché appesi per i piedi? Perché salassati?» «Quando potremo» disse Laviolette «rispondere esattamente a queste tre domande, arriveremo diritti al colpevole. Ma c'è un'altra cosa che mi rode: come mai l'assassino aveva una chiave della cappella? L'ha fatta fare? L'ha ereditata? Era stata lasciata in custodia ai suoi avi?» «Questa chiave, in ogni caso, circoscrive il problema» disse il maresciallo Viaud. «Che sia un erede, un depositario o che l'abbia fatta fare, il possessore della chiave è qualcuno del paese.» «Non necessariamente di Banon» argomentò Laviolette «comunque dei dintorni. Portare a spasso un cadavere in un veicolo qualunque, non lo si può fare senza rischi su un percorso molto lungo. D'altronde, indiscutibilmente, parecchie persone sanno chi possiede questa chiave.» «Non si tratta più» disse Viaud che tracciava sulla carta militare un cerchio intorno a Banon «non si tratta più soltanto di fare dei cerchi sempre più stretti intorno all'omicida.» «Perché» fece Laviolette pensieroso «un abitante del paese avrebbe ucciso dei vagabondi, riducendoli in uno stato così raccapricciante?» «Un pazzo?» avanzò il maresciallo.
«Lei non ci crede e io neppure. Comunque, è la versione che daremo fra poco ai giornalisti.» Contemplava l'ingrandimento fotografico dei cinque cadaveri allineati sul marmo della cappella protestante. Non riusciva a staccarne lo sguardo. Il gruppetto era stato misurato col nastro di un decametro che la Giudiziaria aveva svolto fino al pavimento verticalmente alla testa delle vittime, cosa che attenuava l'orrore dello scenario, conferendogli un tocco archeologico. «È strano...» commentò Laviolette. Viaud andò a sporgersi sopra la sua spalla. «Guardi» disse Laviolette «i cadaveri sono deposti, se così possiamo dire, in ordine cronologico: il primo, Constantin Spirageorgevitch, a sessanta centimetri dalla parete di fondo; il secondo, Incarnacion Chinchilla, a un metro da Constantin. Un metro c'è anche fra Ismael Ben Amozil e Patricia MacAdarash. Ma allora, perché il cadavere di Jérémie Piochet, che è il più recente, si trova inserito fra le due ragazze, invece di venire subito dopo Ismael, visto che c'era ancora posto? Perché l'hanno intercalato?» «È vero, ma in questa faccenda c'è una montagna di cose sconcertanti. Una di più, una di meno... Ho una spiegazione» esclamò. «Jérémie Piochet amava una delle due ragazze, l'assassino lo sapeva e per una sorta di pietà postuma...» Laviolette lasciò errare il suo sguardo pesante sul maresciallo capo. Era un uomo di trent'anni, tutto roseo e fresco, con una moglie giovane e un bambino piccolo. Vedeva il mondo sotto la luce idilliaca di casa propria dove tutto era normale. «Lei dovrebbe» disse Laviolette «far partecipi i giornalisti della sua seducente spiegazione. Non la finirebbero più di farci dei castelli sopra.» Viaud sorrise. «Qualsiasi spiegazione umana è plausibile» disse. «Ma naturalmente, non comunicheremo le nostre osservazioni alla stampa. Posso farli entrare?» «Visto che proprio dobbiamo...» sospirò Laviolette. 18 Nei grandi abeti tagliati alla base per ravvivare la piazza, palloncini luminosi multicolori e ghirlande oscillavano al vento della tempesta con il loro aspetto festoso. La neve fischiava attraverso i rami. C'era lo stesso
tempo della notte fra il sabato e la domenica precedenti. Per tutta la serata carri funebri color amaranto si erano aggirati intorno a quegli alberi, chiedendo ai passanti e ai curiosi la strada dell'ospedale per prendere in consegna il loro morto rilasciato dalle autorità. Ogni famiglia aspettava per seguire, per sistemare finalmente in una vera veglia funebre chi a dispetto di tutto era stato la speranza della loro vita. A causa del tempo, lo spettacolo di quel corteo non attirò i banonesi. Alle nove, quando Laviolette rientrò dalla gendarmeria, restava poca gente fuori. Ognuno, i piedi al caldo davanti al televisore, sognava serene consolazioni vicino a materne annunciatrici. Rosemonde gettò un'occhiata d'insieme alla sala vuota. «Credo» disse «che alla fine saremo soli ancora una volta... Col tempo che c'è... Le servo la minestra?» Stava già ritirandosi per andare a prepararla. Ma ritornò. «A proposito» fece «un'ora fa ha telefonato il suo amico Brèdes.» «Il marchese? Cosa voleva?» «Che lo chiamasse appena possibile.» Laviolette si diresse verso l'apparecchio e compose il numero. «Sei tu, Laviolette?» «Salve, Brèdes! Vuoi invitarmi al cenone?» «Ci ho pensato, ma non ti ho chiamato per questo. Ti ho chiamato perché mi è capitato qualcosa. Dimmi un po', è un fatto incredibile! Dissanguati, sei sicuro?» «Come lo sai?» domandò Laviolette. «Oh, semplicissimo. La figlia della mia mezzadra è inserviente all'ospedale. Stamattina, stava strofinando i lavabi, quando il medico legale e quello di Banon sono entrati a pisciare insieme. Parlavano del loro lavoro: "Dissanguati! Come dei maiali!". È andata a riferirlo alla madre. Da allora, non smettono di terrorizzarsi a vicenda.» «Attenzione» strillò Rosemonde dalla cucina. «Se è un segreto, quando nevica, ci sono delle interferenze. A Banon, con tutte quelle antenne riceventi, si sente tutto dappertutto.» Strillava per sovrastare il rumore della frittura di crostini che faceva saltare in padella, con un filino d'aceto. «Cosa dice la tua Rosemonde?» domandò Brèdes. «Ti manda un saluto.» «Bene, baciala per me. Senti, ho fatto un'ipotesi completamente folle: un'idea barocca. Ti ricordi che l'altro giorno ti ho parlato di un libro che mi
era scomparso? Ebbene, mi viene in mente cosa stavo leggendo ai miei ospiti per divertirli, e...» «Non dire una parola di più» troncò Laviolette. «Ma...» «Non dire una parola di più! Laviolette aveva trent'anni di esperienza alle spalle. Ciò vale quanto un radar, un ecogoniometro, un computer... La presenza di tutta Banon, per lui, era palpabile nel tumulto agitato della tempesta. Gli sembrava che mille ricevitori fossero alzati e che dall'altro capo del filo l'assassino trattenesse il respiro.» «I muri hanno orecchi?» domandò Brèdes. «Se fossero soltanto i muri! Aspetta. Resta dove sei. Sei ben a casa, no?» «Nella biblioteca. Tranquillo, i piedi al caldo.» «Va bene, tappati dentro! Aspettami. Vengo.» «Vieni? Con questo tempo?» «Ho le catene. Non ti preoccupare. Vengo, ti dico!» Riagganciò. «Non prima di aver buttato giù un piatto di minestra» disse Rosemonde. «Ah, no, no!» «Ma è una crema di acetosella con del tartufo grattugiato.» «Mia cara Rosemonde, deve abituarsi. Uno sbirro è così. Non demorde mai.» Era già fuori, la sciarpa a mo' di tuareg, all'altezza degli occhi, il cappello calcato sugli orecchi, il pesante cappotto ben stretto e abbottonato. La tempesta lo investì come fosse nudo. La Vedette verde mela era mimetizzata vicino ai platani martoriati. Ma la Mercedes, massiccia come un carro armato, era assente. Dove poteva essere la brava Claire con un tempo simile? Cercava l'assassino? La notte si profilava già tremenda. Dalle aree cicloniche soffiava un geyser di neve, e da noi il fenomeno significa che gli elementi sarebbero precipitati a tutta forza. Laviolette s'installò al volante. "Avresti dovuto arrotolartene una quand'era il momento" si disse. "Prima di sapere. Adesso sei sulla breccia." Mentre scendeva verso Dauban, fra le strisce molli della neve che intasava il parabrezza, si ripeteva i rudimenti: "Una deposizione deve essere raccolta nel più breve tempo possibile. Per quanto si può, seduta stante, prima che l'impressione immediata del testimone si sbiadisca...". La tempesta saliva verso Val-Martine, verso le colline fossili del Revestdes-Brousses. Spazzava il fondo di Dauban come il ventre di un'onda, pri-
ma di andare a schiantarsi sui contrafforti di Vachères dove mugghiavano i castagneti di Gordes. Erano dense nubi nere sfuggite alla depressione principale che gravitava sulla Scandinavia e trasportate dal vento fino a noi, in bande profondamente squarciate. A tratti, nei varchi del cielo basso, appariva l'Orsa, coricata su Lure, o talvolta il Trapezio di Orione. Ma tutto si richiudeva di colpo e i serbatoi di neve allora si svuotavano al suolo. Al ronzio degli otto cilindri, Laviolette sobbalzava sulla scia funebre delle sue catene. Ma grazie a tale precauzione superò senza incidenti il costone ghiacciato che sboccava a Saint-Laurent. I pensieri del commissario non erano per niente rosei. "L'assassino ha saputo della scoperta dei cadaveri assieme a me e a tutta Banon. Sa che noi sappiamo, tramite l'autopsia, tutto ciò che li riguarda... Inoltre, sta cercando quale dettaglio o quale testimone possa condurci a lui. È intelligente almeno quanto me e Brèdes messi insieme. Brèdes può aver costruito una teoria erronea, ma forse è giusta. Io brancolo nel buio più assoluto, ma l'assassino, quello sa se le supposizioni di Brèdes lo minacciano o no. Anche se non ha captato, attraverso la rete colabrodo del telefono di Banon, la prima comunicazione a Rosemonde, ha avuto tutto il giorno per immaginare che Brèdes mi avrebbe chiamato. Di conseguenza..." Distinse oltre lo stagno, nella valle di Aubenas, le luci dei mezzadri di Brèdes, a trecento metri da lì. Nel contempo, deviava in un sentiero di terra, al di là dei quattro enormi cedri dalle fronde gonfie come vele auriche. Al loro interno, la tempesta vi mugghiava senza posa. Oltre quella cortina di alberi, i fari della Vedette rivelarono il prato spelacchiato e le sedie arrugginite, dove nessuno si sedeva più dopo la morte del vecchio marchese, dieci anni prima. Brèdes aveva avuto la buona idea di illuminare a giorno la galleria coperta che costeggiava il maniero. La neve, cadendo alla rinfusa, lacerava i suoi lenzuoli da fantasma sulle tegole a quattro file della bigattiera. Laviolette parcheggiò in prossimità dei gradini concavi che comunicavano con la galleria. Sbatté la portiera. Posò il piede sul primo scalino. In quel momento tutto si spense. «Merda!» Non distingueva nemmeno più la punta delle scarpe, nemmeno più i catarifrangenti della Vedette, nemmeno più i lumi della fattoria lontana dove andava a morire una nuvola bassa. Era sicuro di rompersi la faccia se ritornava all'automobile, distante appena sei metri. «Brèdes» gridò a squarciagola «accendi la luce.»
Ottenne solamente la risposta cupa dei cedri che resistevano al vento come prue di navi. «Brèdes!» Dopo quegli appelli senza effetto l'angoscia s'impadronì di lui. Rimpianse di esserci andato da solo. Un odore di motore caldo stagnava al suolo, ma non era quello del suo veicolo. Braccia in avanti, cercò la sua auto a tastoni. Se la mancava, fosse solo di cinquanta centimetri, si sarebbe messo a girare in tondo in quella notte che trasformava in deserto compatto la ridente campagna. Aveva tutto nel portaoggetti del cruscotto: l'accendino, la borsa di tabacco, una vecchia torcia elettrica per la quale pregò il cielo che funzionasse ancora. Scontrò la Vedette. Il paraurti, col ginocchio. «Merda» gemette. Accese la luce interna, scoprì la torcia, l'accese. Ne uscì una luce gialla, fioca, limitata ai due gradini di pietra, davanti ai passi di Laviolette. «Brèdes!» La porta del lungo corridoio era spalancata, la neve vi entrava come fosse casa sua. Laviolette avanzò. Dirottato dalla corrente d'aria, fluttuava un fumo di caminetto, misto a un altro sentore. «Brèdes!» Proprio nel momento di quell'appello la torcia lo tradì. Ma fece in tempo ad accorgersi di un chiarore diffuso proveniente dalla sinistra, verso la stanza dove aveva pranzato l'altro giorno; anche quell'entrata era spalancata. Ci s'infilò, vide che nel focolare stavano morendo alcuni tizzoni già inceneriti. La luce non veniva da lì, ma da un fuoco nella biblioteca, attraverso la porta bassa, anch'essa aperta. Volle gettarsi verso quell'uscita, ma una panca gli sbarrò la strada. Il tempo di tenersi il ginocchio e di gridare "Dio incasinato!" che sbucò davanti alle fiamme e distinse l'amico, lungo bocconi vicino al leggio. Vide le sue mani che cercavano di ghermire qualcosa. Sentì, in quella direzione, un curioso gluglù di bottiglia che si svuota. Lo rivoltò prontamente. Ai bagliori del fuoco, la sorgente rossa della carotide tagliata gli apparve come in un incubo. Brèdes aveva gli occhi aperti. Laviolette brancolò per due secondi. Col pollice cercò il foro dell'arteria - non compiva più quel gesto da trent'anni - vi penetrò in profondità, e avvitò il dito. Nel contempo passò il braccio libero sotto la nuca dell'amico per sostenerlo. Mentre eseguiva con precisione quegli interventi, avvertì come un fru-
scio di rettile che sgusciava lì intorno. Qualcuno osservava, qualcuno temporeggiava. Di colpo, nei lampi morenti dei pochi tizzoni che sfavillavano ancora, una massa scura si delineò sotto lo stipite basso, all'entrata della biblioteca. Emergeva lentamente dall'altra parte del corridoio. Era una forma compatta, senza collo, senza spalle, senza testa, coperta fino alla vita da una reticella nera a pois come la veletta di una vedova. Il commissario, testa eretta, sapeva che il suo sguardo stava incrociando quello dell'assassino, profondamente celato nell'ombra dell'involucro. Ci fu un sospiro di rimorso represso, l'apparizione svanì. Poi uno strano passo scivolò lungo il corridoio. Un passo danzante che se ne infischiava dell'oscurità e si avviava oltre speditamente. Laviolette ebbe il tempo di valutare la propria impotenza. Se toglieva il pollice dall'arteria, se dava la stura alla carotide, i quattro litri e mezzo di sangue che l'amico doveva ancora contenere si sarebbero svuotati in due minuti, in centoventi pulsazioni. Sentì, nelle pause del vento, un motore recalcitrante che stentava a partire. Percepì delle manovre maldestre, poi, alla fine, la vettura che si allontanava. Trenta secondi, quaranta... Ai riflessi delle fiamme, distingueva al polso la lancetta dei secondi del cronometro che avanzava a scatti. «Mi senti?» disse. Fissava, diritto negli occhi, quello sguardo già rassegnato. Brèdes batté le ciglia. «Chi è?» disse Laviolette. «Tu lo sai. Chi è? Fammi un segno qualunque. Un battito di ciglia ogni lettera dell'alfabeto.» Cominciò a farlo con molta lentezza. Ma Laviolette pensò in un attimo che l'irrigazione del cervello fosse già cessata, che intorno all'arteria aperta i capillari e i vasi ausiliari sarebbero stati insufficienti, non avrebbero avuto il tempo di reagire, di supplire. Sessanta secondi. In quella posizione, col peso di quel corpo, non avrebbe mai potuto trascinarsi fino al telefono dello studio. Era tutto incastrato, mani e piedi bloccati, senza scampo, vicino a quei focolare confortevole, come avesse dovuto tenere un moribondo contro una parete verticale, a quattromila metri di altezza. Contò i battiti delle ciglia. Alla lettera F, Brèdes perse la conoscenza. Allora, centimetro dopo centimetro, ansimando per lo sforzo come una locomotiva, Laviolette si mosse per trasportare l'amico con un solo braccio, l'altro impegnato a comprimere l'arteria. Si trascinava in ginocchio. Trascinava il compagno sotto di sé, di mattonella in mattonella, chieden-
dogli perdono a ogni piè sospinto. Davanti alla porta chiusa dello studio dovette rinunciare. Stava lì, miseramente piegato in due. In una posizione tale che la maniglia della porta gli era inaccessibile. Con una mano cercava a tentoni. Trovò, infine. Il lento strisciare ricominciò nel vago bagliore indiretto del focolare della biblioteca. Il telefono luccicava su una mensola, a più di un metro e mezzo dal pavimento. Impacciato dal cappotto, Laviolette fu costretto a sollevare il peso dell'amico con un solo braccio, lungo il tavolo, per potersi piegare appena e avvicinarsi all'apparecchio. E sotto il naso aveva sempre il quadrante fosforescente dell'orologio e l'allegra lancetta dei secondi. Piantò i ginocchi sotto le ascelle di Brèdes floscio come un fantoccio. Alzò il ricevitore. Come un cieco, contando i fori del disco, con mano tremante, chiamò la gendarmeria. Quando Viaud e tre agenti, armati di potenti lampade a batteria, schizzarono fuori dall'auto, fu un miracolo se Laviolette riuscì a gridare: «Di qua!» Lo trovarono, stravolto, curvato in due, il pollice infilato nella carotide dell'amico. Ansava, a bocca aperta, come un vecchio vittima di un'aggressione. Viaud si chinò sul corpo di Brèdes. «È morto» annunciò. Guardò Laviolette che non lo sentiva e non smetteva di premere accanitamente il pollice. «Non è possibile» mormorò alla fine. «Ho fatto quello che ho potuto. Ho fatto tutto quello che ho potuto. Nessuno avrebbe potuto fare di più.» Grosse lacrime colavano sulle sue guance da duro. Viaud gli prese dolcemente il braccio per toglierlo da quella posizione. Si sentì un rumore di tubo che si stasa. Una crosta di sangue inguainava la mano di Laviolette come un guanto da incubo. 19 «Il libro che era su! leggio, il libro che lei voleva bruciare perché puzzava di eresia. Si ricorda? Come si chiamava?» La mezzadra, cupa e rigida, guardava Laviolette in faccia. Sua figlia, quella che all'ospedale aveva sentito la conversazione fra i medici, la reggeva con tutto il suo peso di donna sana. Il marito, come tutti i contadini da qui a dicembre, era in campagna, a scavare tartufi.
«Lo sapevo» diceva la donna. «Lo sapevo che bisognava bruciarlo. Rideva quando glielo dicevo. Che Dio l'assista!» Era il suo grido da montanara oppressa dalla disgrazia. Si intuiva che aveva amato Brèdes come un'istituzione, più della propria famiglia. «Mamma» disse con dolcezza la figlia «hanno premura. Digli il nome del libro.» «Le Grand Albert» ansimò. Laviolette cercò nella memoria cosa gli rammentasse quel titolo. Sì... C'era. Alberto il Grande, alchimista del tredicesimo secolo. Avevano approfittato del suo nome per affibbiargli qualche decina di trattati di stregoneria in tutte le lingue europee. Cosa celava quel libro? Chi l'aveva in mano? Come scovare l'esemplare identico o cercare qualche elemento che conducesse alla soluzione del problema? Viaud e i due gendarmi si erano già alzati. Stavano ripiegando il verbale dove avevano trascritto la deposizione della mezzadra. Né lei né il marito né la figlia avevano visto o sentito nulla. I cani non avevano abbaiato. C'è da dire che più di trecento metri separavano il maniero dalla fattoria. Lassù, alla bigattiera, la Giudiziaria e gli ispettori frugavano la casa, alla ricerca del libro o di qualsiasi altro indizio. Laviolette esitava a innescare l'immenso apparato giudiziario e poliziesco che avrebbe dovuto smuovere per ritrovare, in una biblioteca qualsiasi, il gemello di quel libro. E inoltre... come accertarsi che sarebbe stato il gemello? Come persuadere un numero incredibile di scettici che avrebbero esitato a gettarsi in quella faccenda, per timore del ridicolo? Un trattato di stregoneria! È mai possibile! La Bibliothèque nationale, la Mazarine... Tutti i vecchi fondi di biblioteca di Francia e di Navarra da ispezionare, da sondare nelle loro liste spesso incomplete... Vabbe', pazienza! Bisognava andarci. Porse a Viaud un testo da diffondere a tutte le polizie, a tutti i distaccamenti. Col telefono della fattoria chiamò in alto loco, per giustificare il più possibile le sue ricerche. In pratica non avevano nessun altro indizio tranne quel filo sottile e la segnalazione, molto vaga, di un'automobile con le catene, la notte prima, sulla piazza di Banon. Nell'uscire all'aria fresca dell'alba fu assalito dal ricordo dell'amico morto. Stropicciò la cartina da sigarette che gettò a terra senza riempirla. «Comunque, è troppo da stupidi» proferì. «Averne viste tante. Avere rischiato tanto. E venire a farsi ammazzare proprio a Vachères. In tutta questa quiete. E da un macellaio. Se almeno fossi stato più attento!»
Si sforzò di ricostruire il loro ultimo incontro. Ripassò nella mente tutta la conversazione riguardante quel libro, la sua scoperta sul leggio, la sua scomparsa. Tutta la conversazione... È difficile ricostruire in un sol colpo una chiacchierata, nel conforto di un pomeriggio, quando, lontano dagli affanni, si scalda dolcemente un calice di fine champagne nel cavo della mano... Toccò il braccio di Viaud che stava per diffondere le istruzioni. «Aspetti» esclamò. «Mi sto concentrando. Mi scusi. Il solo pensiero non basta più. Bisogna che ricerchi le idee parlando, come la gente del popolo. È una massima di Stendhal, grosso modo... Aspetti. Mi ha detto... Mi ha parlato di Bébé Fabre, un amico d'infanzia che conoscevamo bene... Il padre di Brèdes aveva trovato quel libro su un leggio, comprato da questo Bébé... Aspetti, nel trenta... Nel trenta, mi diceva...» Di colpo contrasse le dita sulla manica del maresciallo. «Ci siamo! Ci sono! "Ne ho un altro!" Ecco cosa ha risposto Bébé Fabre al padre di Brèdes quando quello gli proponeva di restituirgli il libro. "Ne ho un altro! Ne ho un altro!"» «Quarantacinque anni fa» disse Viaud, tutto avvilito. «Quarantacinque anni» ripeté Laviolette. «Cosa sono per un libro quarantacinque anni? Soltanto gli uomini passano e si avvicendano. Non immagina il numero di cose che possono non cambiare in quarantacinque anni. Maresciallo, mi accompagni a Manosque. Con il furgone.» «Lei ha bevuto, commissario, con rispetto parlando...» «Nessun rispetto. Sono un vecchio balordo. Ho lasciato uccidere il mio amico per sclerosi cerebrale. Mi porti a Manosque spontaneamente, altrimenti sono costretto a ordinarglielo. Dormirò nel furgone, sulla cuccetta regolamentare. Guardi, qui c'è la borsa del tabacco. Le sa arrotolare le sigarette?» Viaud sorrise. «Si impara a far di tutto in gendarmeria!» «Bene, me ne faccia una. Non ho più la forza... Ci passerò io la lingua alla fine...» Si allungò sulla cuccetta del furgone e tirò due boccate. Viaud, misericordioso, gli tolse la sigaretta di bocca prima che cadesse sulla cravatta. Si addormentò proferendo quell'ingiunzione che ripeteva a iosa: «Sempre sulla breccia! Sempre sulla...» Rallentati dai camion del Dipartimento Strade, che sgomberavano la neve, arrivarono a Manosque verso le dieci. Era una città talmente congestio-
nata di automobili, con un tale disordine nelle vie strette, che per il furgone era impossibile circolare. Svegliarono Laviolette che dormiva, bocca aperta, con un asfissiante rumore di mola da arrotino. Tornò subito alla realtà. Si orientò. Portò i gendarmi verso Aubette, attraverso Chacundier. Cammin facendo, indicò trionfalmente, in fondo a rue Danton, una specie di conigliera in mattoni rossi, chiusa da una porticina col saliscendi, la cui base era a brandelli come una mendicante. «Notate: quarantacinque anni. Quarantacinque anni! Quando mi mandavano qui, in vacanza, da mia nonna, giocavo con una bambina di dieci anni, adorabilmente precoce, che cercava in tutte le maniere di stuzzicarmi il pisello. Poverina! Avevo sette anni. Proprio qui. In questa capanna. Su una grossa pietra che deve esserci ancora. Ci si sedeva sopra e mi faceva stare in piedi davanti a lei. E guardate! La porta. È la stessa: non ha una scalfittura in più. Era già così tarlata. E i mattoni così corrosi: riconosco quella spaccatura che assomiglia a una melanzana. Quarantacinque anni! Vedete cosa sono quarantacinque anni?» Ma un'abbazia non è una conigliera... Un sindaco, un giorno, aveva visto un certo esteta estasiarsi per le tegole provenzali a fila quadrupla di quel convento, usato per mezzo secolo da Bébé Fabre come deposito di oggetti alla rinfusa. I sindaci sopportano difficilmente che si ammirino Se cose che non capiscono. Al riguardo poi era particolarmente minaccioso. Ormai teneva d'occhio quel capolavoro e si era ripromesso che alla prima occasione... Laviolette, disorientato, cercava una qualche traccia della sua infanzia su quella terrazza a mosaici, piena zeppa di grosse automobili. Scorse un vecchio su una panchina, che disegnava e cancellava instancabilmente degli arabeschi, rimestando nella polvere un bastone da passeggio. «Una volta esisteva ben un convento qui?» «Come no! Ne resta persino una traccia.» Additava grandi muri rintonacati d'ocra e un po' panciuti. «E l'albero...» Laviolette si girò. Non avevano osato toccare il platano che protendeva verso i tetti le nodosità massicce dei suoi muscoli di legno. Ma il resto, chiostro a merletto, Angeli Bouffaréous del tredicesimo secolo che ammuffivano, un tempo, per l'ombra alta delle mura, tutto era servito da rinforzo per consolidare la piattaforma di quel bel parcheggio elettorale. Ave-
vano, comunque, perpetuato il ricordo di quel massacro con una graziosa centina neoprovenzale coperta di tegole nuove, da cui pendeva una lanterna di ferro battuto. «Ha conosciuto Bébé Fabre?» domandò Laviolette. «Certo che l'ho conosciuto. C'è ancora sua sorella.» «Come? Cosa dice? Sua sorella?» «Sua sorella, proprio. Era la sorella di latte della buonanima di mia madre. Veleggia verso i centodue anni. Le hanno lasciato un pezzo del convento, senza di che sarebbe morta. Toh! Sta laggiù: quella porticina. Proprio affianco alla centina. Le risponderà la domestica. Deve soltanto battere con forza.» «Ve l'avevo detto» proclamava Laviolette ai gendarmi «che quarantacinque anni non erano niente.» Alcune donne con la sporta si fermavano con curiosità a osservare lo spiegamento di gendarmi. Andarono a bussare alla porticina. Il battente massiccio, senza fronzoli, non si chiudeva più da parecchio tempo. La mano di Fathma, tre volte alzata, importunò delle voci lontane nel cuore delle mura. Cominciarono ad arrampicarsi su per una di quelle scale fatte per collegare cinquanta stanze e duecento metri di corridoi gelati. L'avevano amputata di tre quarti del dovuto. Qualcuno, lassù, si spolmonava a gridare di entrare e di salire. Finalmente videro una testa devastata dalle disgrazie, gli occhi cerchiati sino alle pinne del naso, sporgersi a pelo delle balaustre con un effetto impressionante. «Salgano, signori, salgano» ripeteva quella testa come decapitata. «Non abbiano paura. Sono la governante.» Doveva sapere lo sconcerto che produceva, ma era lieta di tanto imprevisto: tre agili gendarmi, in fila indiana e, nettamente distanziato, un individuo cubico, in sciarpa e cappotto, che li seguiva. Su loro richiesta, la donna li precedette sino a una porta nascosta, molto piccola, nell'angolo di un'alta parete tutta bianca che penetrava per un metro e mezzo nello spessore delle mura. Ci s'infilarono come in un sotterraneo, i due gendarmi più alti s'incurvarono un poco, per evitare il frontone. Si trovarono in una cucina che sapeva di pepe. La centenaria era seduta su una comune sedia, ben appoggiata con i gomiti sulla tela cerata del tavolo rotondo. A centodue anni si è lisci come avorio ingiallito. Sembra che l'erosione dell'aria abbia avuto finalmente il tempo di esercitare il proprio dominio,
mentre di solito è frustrata dalla deplorevole brevità della vita umana. La vegliarda aveva la colonna vertebrale ricurva, ma l'occhio vivo e indagatore. Era completamente calva, senza più neppure un pelo, salvo due magre punte di battetti alla cinese, che s'inumidivano all'angolo della bocca rientrante. "Avremmo potuto ucciderla" pensò Laviolette "a sbucare tutti e quattro così. Questa semplice visita, con tre gendarmi, assomiglia a una perquisizione in piena regola." «Entrino, signori, entrino. Non metto più fuori il naso da quindici anni, ma so tutto quello che avviene. Tutto quello che avviene.» «Ci sente?» mormorò Laviolette alla zitella che aveva avuto tante disgrazie e usava scampoli di tenerezza non utilizzata per vegliare su quel monumento. «Come?» disse la cameriera. «E perché vuole che io non ci senta?» proferì la centenaria. La sua voce si modulava su un arpeggio di cristallo spezzato come se uscisse da un carillon. «Signora» disse Laviolette «sono qui per parlarle di una storia molto vecchia...» Nel sottotetto, i libri dormivano il loro ultimo sonno. Quando la biblioteca di Bébé era stata abbattuta come tutto il resto, li avevano scaricati lì, in disordine. Riempivano vecchi bauli, madie, vasi e persino una curiosissima bara nera senza coperchio le cui sei maniglie erano fregiate di aquile bicipiti. Il vento dei conventi abbandonati soffiava nell'orditura del tetto e il frastuono anacronistico della città moderna risuonava, senza una reale importanza, intorno a quei travetti vecchi di quattrocento anni, impregnati di un odore di monaca in abito di faille, che nessuna distruzione aveva potuto cancellare. I gendarmi rovesciavano le casse, scartabellavano, esclamavano. «Non lasciatevi distrarre» diceva il maresciallo Viaud che sfogliava anche lui nel suo angolo. «State cercando una cosa sola, Le Grand Albert, e ricordatevi quello che ha detto la vecchia: non è un grosso libro e ha un aspetto modesto.» Il frastuono della città si era ovattato e il cielo si era rabbuiato quando lo scovarono. Lo scoprì Viaud, bello sottile, marrone, di un marrone umile e sudicio, nel cassetto di un comò panciuto, sotto duemila lettere d'amore,
annodate da nastri rosa e azzurri, che puzzavano di morte peggio di un vecchio cimitero. Dovevano essere state comperate col mobile stesso e dormirvi da allora. Probabilmente ce l'aveva infilato Bébé Fabre, Le Grand Albert, libro di un certo valore, e lì l'aveva scordato. Laviolette e i tre gendarmi stavano chini su quel volume sporco. Sapeva della fuliggine del caminetto sulla cui cappa aveva dovuto trascorrere la maggior parte della sua vita, fra la pendola e la scatola del sale. Laviolette sospirò e se lo mise in tasca. Viaud rilasciò alla centenaria una ricevuta nella debita forma. Tornarono al furgone. Laviolette si allungò sulla cuccetta e si addormentò seduta stante. Ma la sua mano, sul libretto, non si rilasciava. A Banon, era notte fonda. La gendarmeria brillava con tutte le luci. All'ufficio operativo quattro gendarmi e gli ispettori Guyot e Leprince, incaricati di assistere Laviolette, erano zelantemente chini intorno al tavolo centrale. «Ah» giubilò Laviolette davanti a quello spettacolo, a quella stretta collaborazione fra la gendarmeria nazionale e la polizia giudiziaria «che bel quadretto! Bisognerebbe scattare una foto.» Si voltarono tutti alla sua battuta. «Maresciallo, venga a vedere» disse il maresciallo ordinario «credo che abbiamo trovato qualcosa. Non siete stati fermati da un cumulo di neve, stamattina?» «Sì, ma...» «Subito dopo "Capitarne"? Sul versante nord della "Ramade"? Prima di Vachères?» «Sotto Vachères» precisò Viaud. «Proprio così.» «La neve c'era da ieri sera alle nove. Abbiamo raccolto la testimonianza di un commerciante di uova che non ha potuto passare.» «Ah, d'accordo» fece Viaud, sedendosi e togliendosi il chepì. L'altro parve un po' sconcertato per quell'indifferenza. Viaud lo rilevò. «Intende dire che l'assassino non può essere venuto dalla parte di Vachères? Non è un'indicazione determinante.» «Un momento, maresciallo. È proprio quello che stavamo focalizzando quando è entrato lei. Se vuole dare un'occhiata...» Viaud si fece avanti. Il maresciallo ordinario, munito di una riga, gli indicava dei punti che nominava via via. «Tutte le testimonianze concordano» disse «anche il registro degli inter-
venti del Dipartimento Strade che abbiamo consultato: ieri sera, un'ora prima del delitto, tutte le vie di comunicazione con la bigattiera erano bloccate da cumuli di neve, salvo quella che ritorna a Banon.» Viaud volle parlare. «Ma anche intorno a Banon» proseguì il maresciallo ordinario «tutte le strade erano bloccate. Guardi: abbiamo messo delle croci dove si erano formati cumuli di neve: sulla SS 440, a nord, nella curva a U dei Brieux; sulla SS 550, a sud, nelle gole delle Mares Basses; sulla strada forestale della Biscarle; sulla SP 5, verso il Clos du Gardon; sulla SP 51 e la SP 201, all'altezza di Riaille; sulla SP 12, a Grand-Valernes, sotto la distilleria. Significa che Banon e lo scenario del delitto erano isolati dalla neve. Quindi» terminò trionfalmente«che l'assassino non poteva venire che da Banon.» «A meno che» opinò Laviolette «non si fosse appostato sotto i cedri della bigattiera prima che si formassero i cumuli.» «In tal caso» affermò vivacemente il maresciallo ordinario «nel fuggire dopo il misfatto si sarebbe impantanato. Non avrebbe corso il rischio di aspettare fino al mattino per svignarsela. Quindi sarebbe tornato a Banon. Non tarderemo a sapere se qualche forestiero ha passato la notte qui, a causa della neve. Qualcuno l'avrà ben visto. O ieri sera, o stamattina molto presto.» «Più o meno sospettavamo che il colpevole fosse a Banon» disse Viaud. «Il suo ragionamento è giusto, ma non ci fa progredire un granché.» «Un momento» intervenne l'ispettore Guyot. «C'è un concatenamento nei fatti: stamattina, sotto i cedri della bigattiera, il suolo era ghiacciato, ma ieri sera, a quel riparo, era ancora abbastanza soffice perché restassero impresse delle tracce di ruote. Le condizioni quindi erano ideali per procedere ad accertamenti. Abbiamo rilevato i solchi di un'automobile con catene. Il guidatore ha effettuato parecchie manovre, forse nella speranza di confondere le tracce. Non immaginava di facilitarci il compito. In effetti, i signori» disse indicando i gendarmi «ci hanno fatto notare, sono abituati, che si poteva benissimo determinare la circonferenza delle ruote misurando la distanza che separa due impronte della chiavetta delle catene. Mi segue?» «Perfettamente» disse Laviolette, che cominciava a intravedere qualcosa. «Dunque, abbiamo misurato la distanza da un'impronta di chiavetta all'altra e abbiamo trovato la circonferenza della ruota. Quindi abbiamo
misurato il passo fra i due pneumatici anteriori, poi fra i due posteriori e infine, è stato un po' più difficile ma l'impronta delle chiavette ci ha aiutati, la distanza fra l'asse della ruota anteriore e quello della ruota posteriore.» Il maresciallo ordinario, un giovane di neppure trent'anni che fremeva d'entusiasmo, troncò la parola all'ispettore Guyot. «Siamo anche riusciti a misurare la profondità delle tracce lasciate rispettivamente dal treno anteriore e da quello posteriore. Ed ecco la nostra intima convinzione: non può trattarsi che di una 4 CV.» «Sarebbe come dire» riprese il flemmatico ispettore «che l'accesso a Banon e allo scenario del delitto essendo impedito dalla neve, le tracce della 4 CV rilevate sotto i cedri sono inevitabilmente quelle di un'automobile in sosta a Banon, o frazione o fattoria circostanti, la notte scorsa, fra il ventuno e il ventidue dicembre. Può essere partita dopo lo sgombero delle strade, ma quella ci sostava prima.» «I testimoni Bec e Biscarle hanno esitato nelle descrizioni» disse Viaud. «Si ricorda? La notte in cui l'hippy è stato messo nel congelatore, hanno avuto l'impressione di veder girare sulla piazza sia una Volkswagen, sia una 4 CV...» «Non è tutto» riprese Guyot. «A quelle vecchie auto capita sempre di trovare un meccanico che forza il tappo della scatola del cambio invece di avvitarlo a mano. Risultato: una leggera perdita d'olio. Quella non ha fatto eccezione. Sotto i cedri dove ha sostato, c'era una piccola, oh! piccolissima macchia d'olio per terra. Abbiamo prelevato il campione per le analisi.» «L'avete già dato alla Giudiziaria?» chiese Laviolette. «L'hanno portato via stamattina.» «Ma» osservò un gendarme «pensavo che tutti gli oli fossero uguali.» L'ispettore Guyot fece un mezzo sorriso. «Tutti gli oli nuovi...» replicò. «Ma i nostri laboratori potranno confrontare il grado di usura dell'olio campione con quelli che preleveremo eventualmente su un certo numero di 4 CV, secondo le esigenze dell'inchiesta.» Il maresciallo capo Viaud emise un enorme sospiro. «Bene, la via è bell'e tracciata: censire tutte le 4 CV di Banon e campagna. Richiedere al giudice un mandato per poter perquisire ogni macchina. Controllare gli orari di ogni proprietario...» «Fare dei prelievi da tutti i motori. Ma crede che ce ne siano tante di quelle vecchie macchine a Banon?» «Ne circolano ancora tante» disse Viaud. «Un po' per risparmiare, un po' per dimostrare che si è autisti provetti e in grado di guidare vent'anni lo
stesso veicolo; un po' anche per paura del fisco; di solito, per lasciare la macchina in ordine alla moglie.» «Una dozzina, forse» calcolò il maresciallo ordinario. «Cerchiamo di non sperarci troppo» disse Laviolette. «Il proprietario può avere prestato l'automobile. Possono avergliela rubata la notte e riportata la mattina. Quanto alla perizia sull'olio... Mi immagino più o meno cosa potrebbe ricavarne un avvocato in assise...» «Perché non si siede, commissario?» fece il maresciallo ordinario. «Mi scusi» rispose Laviolette. «Se mi siedo, mi addormento...» Due gendarmi erano già in marcia verso il Registro Pubblico per individuare nello schedario centrale, dai libretti di circolazione di Banon, tutti i tipi di Citroen 4 CV. «No» disse Laviolette «credetemi, signori, la verità sta qui dentro.» Agitò davanti a sé il libro marrone che non aveva perso l'odore di fuliggine. «Comunque, mi ci dedicherò subito...» «La faccio riaccompagnare» suggerì Viaud. «Sta scherzando? Ci sono cinquecento metri... Se n'andò. I gendarmi e gli ispettori restarono in silenzio. Quando furono sicuri che Laviolette era lontano, tutti quegli uomini, di cui nessuno raggiungeva i trentacinque anni, emisero un sospiro.» «Quanto ha dormito, secondo voi, negli ultimi tre giorni?» considerò Viaud. «Non so: cinque ore, sei...» «Più due mezz'ore nel furgone. Scommettiamo che...» «Inutile» fece Guyot. «Sapete qual è il suo motto? "Sempre sulla breccia e immantinente sono i capisaldi della polizia." Quando ha un caso per le mani, bisogna estirparglielo pezzo per pezzo, come una zecca dalla pelle di un cane. E per di più, il tizio che hanno ucciso è un suo amico.» «Eppure mi piacerebbe strappargli il caso dalie grinfie» affermò Viaud. Si diresse verso la sala radio. Quello che non diceva neppure lui era che, da tre giorni, contava soltanto un'ora di sonno in più di Laviolette. Una pattuglia avrebbe potuto arrestare Laviolette, se l'avesse giudicato dall'aspetto. Strascicava i piedi, beccheggiava un po' da un albero all'altro, senza però toccarli. Parecchie di quelle ipotetiche 4 CV caracollarono sulla piazza, lo sfiorarono, orientandosi per trovare la strada di casa; tutte accompagnate da un funebre rumore di catene: "Tacatacà... Tacatacà...".
Rosemonde aspettava col mento sul pugno. «Toh! Guardalo, se non è bello!» «Sono partiti tutti?» domandò Laviolette. «Chi, tutti?» «I giocatori di bocce.» «Certo, sono le undici. Guardi, la neve ricomincia a cadere.» «Come me» ironizzò. «Peccato, m'avrebbe fatto piacere parlare con quei signori.» Rosemonde crollò le spalle. «Gli avrebbe fatto piacere! Se non l'aiuto, non arriva neanche in cima alle scale.» «Rosemonde del mio cuore! Non scherzo chiamandola così. Non ho mai provato tanto piacere a rientrare in una casa; è perché c'è lei...» «Non vorrà dire...» Lui scosse la testa. «È disinteressato» disse. «È perché, lei mi capisce... Mi hanno ucciso un amico. Lo sa che mi hanno ucciso un amico?» «So che hanno ucciso ancora qualcuno.» «Be', lei deve aiutarmi. Ho ancora un lavoro da fare, stasera.» «Si sieda. Le preparo un caffè bello forte.» «Lo berrò volentieri. Senza sedermi. Se mi siedo mi addormento.» Andò ad appoggiarsi alla mensola del caminetto, si avvicinò alla luce, aprì il libro, si mise a sfogliarlo. Si reggeva appena in piedi. Rosemonde lo sorvegliava attentamente, pronta ad afferrarlo per il bavero se accennava a cadere. Il libro trasudava sempre più odore di fuliggine, quella fuliggine dei caminetti dove bruciarono ciarpame e cose immonde, il cui ricordo è murato sotto le cripte di famiglia. Laviolette, senza vergogna, girava le pagine umettandosi il pollice. Avvertiva un gusto di vipera in stufato, arricchito da quel fondo di cedrina sotto cui la mascheravano le streghe di una volta. Rosemonde era leggermente indietreggiata. Di colpo, lo sentì emettere un enorme sospiro. Il commissario si raddrizzò un poco. La fatica si disegnò sui suoi tratti, ma lo sguardo rifletteva un'orribile sorpresa. E quell'espressione si cancellò soltanto dopo aver richiuso il libro. «Rosemonde, ho capito...» disse semplicemente. Si avvicinò al telefono. Cavò un'agendina di tasca, cercò un numero. Lo compose sul disco. «Pronto? Combassive! Sì, sono io e a quest'ora! E ti chiamo a casa, sì:
sei davanti al televisore? No, scusami, scherzavo. Ecco: ho bisogno di un mandato. Io non posso procurarmeli qui, ma tu puoi. Il giudice? Lo svegli... A Digne si riaddormenterà in fretta. Che me lo porti la pattuglia. Sì, non appena possibile. Mi serve per perquisire le macchine... Quante?» Mise la mano sul ricevitore. «Rosemonde, quanti proprietari di tartufaie ci sono a Banon?» Rosemonde fece cenno di non saperlo. «Trenta? Quaranta?» calcolò la donna. «Cinquanta!» dichiarò Laviolette all'apparecchio. «Ma no! Muoio di sonno. Ho la tendenza a scherzare. Vuoi farmi un piacere, anche se non rientra nei tuoi compiti? Ho paura di crollare prima di arrivarci. Sì? Grazie. Allora telefona alla Giudiziaria. Di' che li voglio qui, domattina presto. Alle cinque o alle sei, se possibile. Ma so benissimo, vecchio mio, che è l'antivigilia di Natale e che c'è gente in licenza. Infatti dovevo fare il cenone con quell'amico che hanno assassinato. Sì. D'accordo... E grazie per avere accettato quest'incarico di fiducia. Abbassò il telefono e mise il libro in tasca.» «Vuole che l'aiuti a salire le scale?» «Attenta, Rosemonde! Potrei dire di sì...» «Potrebbe... E perché no? Lo contemplava con un sorriso sottile.» «Lei cosa risponderebbe?» «Ah» disse «chi lo sa? Risponderò poi...» 20 Laviolette si svegliò alle otto, in camera sua, la testa sgombra. L'ambiente sapeva di tartufo, le lenzuola olezzavano di lavanda e lui respirava il profumo di Rosemonde. Nevicava. Si allungò a prendere il libro sul tavolino. Rilesse il passaggio. Era completamente sbalordito. Non credeva ai propri occhi. «Occorrono due elementi» disse ad alta voce. «Prima di tutto che sia matto e poi che abbia bisogno di soldi... Un proprietario di una 4 CV che ha delle tartufaie e grosse esigenze di soldi... Riconosci che ciò restringe abbastanza il problema...» «Cosa vuole che riconosca?» fece Rosemonde, fresca come una rosa, entrando con la colazione. «Ho bussato, ma non mi ha sentita.» Dalle otto del mattino fino alle otto di sera gli dava del lei. «L'aspettano giù» disse.
«Chi?» «Un mondo di gente: un furgone di poliziotti venuto da Digne che sto riscaldando a forza di caffè; il maresciallo Viaud e i due ispettori. Ci sono pure i giornalisti. Ne fanno di domande!» «Rispondi» disse Laviolette. «Soprattutto che non s'inventino nulla. E fa' salire il maresciallo, gli ispettori e la pattuglia.» «Ah, dimenticavo. Sono appena arrivati, ci sono anche i tre agenti della Giudiziaria.» «Vedi, Rosemonde? Gli affari riprenderanno.» «Faccio salire tutti?» «Non i giornalisti. Quelli, distraili un po'.» Il branco, nelle scale, faceva tremare i gradini. La camera, per quanto grande, fu presto piena. «Un consiglio di guerra» esclamò Laviolette soddisfatto. «Fa un po' Luigi XIV sul letto di morte, ma non temete, serve per guadagnare tempo.» Firmò il riscontro del mandato di perquisizione. Rosemonde portava delle sedie per tutta quella gente. Erano ancora di quelle belle sedie di paglia verde e gialla che un tempo, in Provenza, non uscivano mai dalle camere da letto. Ci si sedeva sopra, in fila, lungo le pareti, soltanto per vegliare i morti. Duravano cento anni. I ragazzi della Giudiziaria, come sempre, scalpitavano d'impazienza. Non vedevano l'ora di trovare il bandolo della matassa che avrebbe condotto il colpevole in corte d'assise. Quei tre erano talmente consci delle loro facoltà incontestabili che Laviolette, a volte, gli augurava di fallire. «Signori» disse «credo che stiamo cominciando a circoscrivere il problema, anche se non significa averlo risolto... Non ci saranno voluti soltanto sette cadaveri per arrivarci. Dite pure che non c'è da esultare...» Seguì il loro sguardo inchiodato sul libro sudicio, solitario sul marmo venato del comodino. «No» disse. «Non illudetevi che seduta stante vi riveli quello ho trovato qui dentro. Non mi va che mi prendiate per il sedere apertamente.» «L'assassino» obiettò pacato l'ispettore Guyot «deve sapere che lei possiede il libro. Può tentare di ucciderla per appropriarsene. Il rischio...» «Pregherà per me» troncò Laviolette. «Ma bando agli scherzi. Immagino che, come me, non abbiate dormito molto. Allora? Chi comincia?» Si guardarono tutti. «Abbiamo il risultato delle autopsie delle prime sei vittime» esordì Gu-
yot, «Vuole che gliele legga?» «Vada al sodo. Riassuma il contenuto, all'incirca. Per una volta, credo che non siano determinanti, sebbene molto significative.» «Le cinque vittime» riprese Guyot «sono state sgozzate con un arnese tagliente che non è né un rasoio né un coltello né uno strumento chirurgico qualsiasi. Il dottor Rabinovitch propende, nelle sue conclusioni, cito, "per un grosso trincetto con cui i calzolai tagliano le suole di para. Qualcosa di solido e di vero acciaio. Probabilmente antico. La lama, dalla punta leggermente ricurva a falce e affilata su entrambe le facce." Le vittime» proseguì «sono state appese per le caviglie e totalmente svuotate del sangue. Poco prima del decesso, avevano fumato dell'hashish, fatto un buon pasto e bevuto della grappa.» «Lei dice: cinque?» «Esattamente. La sesta vittima è stata uccisa in modo diverso. A colpi di oggetto contundente. Una chiave inglese, molto probabilmente, abbastanza lunga. E non aveva fumato hashish né bevuto una sola goccia di alcool.» «Chi?» domandò Laviolette. «Il sunnominato Jérémie Piochet.» Laviolette rivide il viso puro di Claire e i suoi occhi, e la sua severa persona in quel mantello scozzese che il sostituto procuratore le invidiava e che sottolineava il suo corpo da Venere callipigia. Faceva la posta all'assassino. Aveva promesso di ucciderlo... Laviolette si sentiva a disagio. «Vorrei...» cominciò. Ma si ricredette. «Continui, la prego.» «Più o meno è tutto. A causa dell'avanzata decomposizione dei cadaveri, non potevamo chiedere... La data del decesso di ognuno corrisponde, all'incirca, dice il dottor Rabinovitch, all'epoca della loro scomparsa. Avevano camminato parecchio nella loro vita. A piedi nudi. Il corno cutaneo dei talloni presentava uno spessore anomalo. Nonostante l'hashish, erano in ottime condizioni fisiche.» «Gli rimanevano residui di sangue sufficienti per poterli analizzare?» Guyot s'immerse nella pratica e cercò alla fine del rapporto. «Sì, per tre di loro, i più recenti. E in particolare per il corpo nel congelatore. Gli altri... nello stato in cui erano...» Il maresciallo capo cavò un libretto di tasca. «Noi attualmente» disse «abbiamo identificato nove proprietari di una 4
CV a Banon o nelle fattorie e frazioni circostanti. Due sono già fuori causa. Il primo vegliava uno zio morto a Varages, nel Var, in compagnia di sette persone. Il secondo, la sua auto è sulle zeppe da quattro giorni nel garage di Martel, in attesa di un ricambio originale. È il parroco...» «D'accordo. E gli altri sette?» «Gli altri sette, eccoli.» Viaud si alzò per porgergli una lista. «Per quei sette» disse «date le circostanze, ho preferito sospendere le investigazioni prima di averla consultata.» Laviolette, che spulciava la lista, gli lanciò uno sguardo pesante. «Credo» disse «che lei abbia fatto bene...» «Noi» fece Guyot «io e Leprince, siamo andati a interrogare gli hippy di Montsalier.» «Come, interrogare? Allora hanno risposto?» Guyot e Leprince assunsero un'aria colpevole. «C'erano tre ragazze e un solo ragazzo» disse Guyot. «Ci eravamo vestiti male e avevamo portato del vino... Ci siamo un po' sacrificati...» «Poveri bambini! Dovete essere sfiniti.» «Be', a conti fatti, non tanto. Quelle olandesi e quelle tedesche, per quanto hippy, conservano un certo senso pratico. Avevano degli ottimi piumini.» Laviolette alzò gli occhi al cielo. Dov'erano finiti i giorni quando i testimoni venivano persuasi a forza di minacce, o addirittura a pedate in culo? Quando gli si mostrava, a seconda delle loro esitazioni, il paradiso spalancato o l'abisso dell'inferno? Oggi, ci si fa l'amore. Che tempi! «Spero almeno che non vi siate sacrificati invano?» «Per niente. Verso la mattina, gli abbiamo offerto una sigaretta di hashish, perché erano in astinenza da tre giorni.» «Attenti a quello che dite» esclamò il commissario. Guyot crollò le spalle. Indubbiamente, quei poliziotti di sottoprefettura, bisognava rieducarli. Lanciò sul letto un pacchetto iniziato di sigarette piatte che Laviolette fiutò con molta ripugnanza. Gli venne voglia di arrotolarsene una. «Un surrogato» disse Leprince. «Una trovata del tecnico del laboratorio, un giorno che era sfaccendato: sono fatte con della clematide secca e dell'artemisia. Sono schifose.» «Ma adesso viene il bello» riprese Guyot. «Nel giro di dieci minuti, si trovavano nel paradiso dell'hashish che ci descrivevano con dovizia di par-
ticolari.» "Erano in pieno nirvana. Ci hanno raccontato che esiste un sentiero hippy che cinge il mondo. Un sentiero non tracciato. Conosciuto soltanto dagli iniziati che possiedono l'itinerario. E costellato da vivai di hashish. E Banon è uno di questi." «Chi è l'iniziato?» domandò Laviolette. «Non lo sapevano, quelle» disse Guyot. «Parola d'onore. L'ignoravano. Eppure ci abbiamo rimesso il pacchetto. Vero, Leprince?» «Già» annuì Leprince, ondeggiando la testa a quel ricordo. «Maresciallo» disse Laviolette «crede possibile che venga coltivata la canapa indiana sul territorio di Banon senza che lei lo sappia?» Viaud fece un cenno di diniego. «Il colore della canapa è così caratteristico nei nostri paesi che un semplice ciuffo si noterebbe come una muleta in un prato verde.» «Mi scusi, maresciallo» intervenne Guyot «ma ci sono stati due casi di stupefacenti negli annali: uno nel Var, l'altro nell'Aude. È una questione di spazi. Cento o duecento cespi, non raggruppati, ma sapientemente sparsi dappertutto... In mezzo a cento ettari... Per esempio: nella lavanda, nelle patate... o intorno a quei capanni assediati dai rovi che ci capita spesso di vedere... Arrivano all'altezza dei cardi... della cicuta maggiore...» «Ma bisogna innaffiarli» obiettò Viaud. «Certamente. Ma un uomo su un trattore mentre rimorchia una di quelle solforatrici per parassiti che contenesse soltanto acqua, crede che lo si noterebbe nei suoi spostamenti da un campo all'altro?» Leprince rinforzò: «Le due ragazze sembravano sicure del fatto loro. Ci hanno ripetuto un sacco di volte: "Soltanto dagli iniziati. Noi, non lo sappiamo. Siamo pivelle".» Laviolette meditò qualche minuto in silenzio, arrotolandosi la prima della giornata. «Be'» disse alla fine «ecco chi cerchiamo: un uomo con una proprietà attraversata dall'invisibile sentiero hippy, un uomo con delle terre abbastanza vaste per nascondere, all'occorrenza, qualche centinaia di cespi di canapa...» «Con i pochi» disse Viaud «che restano oggi a coltivare la terra, hanno tutti più di trecento ettari...» «L'individuo in questione» riprese Laviolette «è pazzo, intelligente e calcolatore insieme. Un po', insomma, come tutti noi. La cosa non serve a fornirci il suo identikit... Però sappiamo che guida una di quelle 4 CV che
figurano sulla lista. Coltiva tartufaie e ha grosse necessità finanziarie...» «Perché poi grosse?» domandò Viaud. «Già! Se lo sapessi, conoscerei il colpevole. Deve essere qualcuno un po' strozzato dal Crédit agricole...» «Lo sono tutti» sospirò Viaud. «L'esame dei conti non risulterebbe probante... Ma... Come sa che coltiva una tartufaia?» Il commissario eluse la domanda. «Insomma» fece «seppure con qualche sotterfugio, chi stiamo cercando commette il delitto più comune del mondo: uccide con l'intento di procurarsi un surplus nelle entrate.» «Ma questo sotterfugio, lo conosce soltanto lei?» «Il motivo gliel'ho già spiegato» disse Laviolette. «E adesso, se permettete, vado a fare la doccia, la barba e a cambiarmi...» «E noi?» dissero insieme gli agenti della Giudiziaria. «Ah, voi! È vero. Ho la tendenza a dimenticarvi...» Non c'era proprio nulla da fare. L'avrebbero riportata ancora loro la palma... La polizia scientifica. Aspettò che Viaud, Guyot e Leprince fossero usciti per comunicare le istruzioni ai tre moschettieri... Rivide Digne con emozione. Indubbiamente era l'unica città che amava. Forse perché si sviluppava con molta lentezza. La città più "Montaigne" del mondo. Si compiacque di avere qui la casa, il giardino e la tomba. Bussò, col cuore in gola, alla porta del giudice istruttore. Lo studio era sempre lo stesso, ma il giudice Chabrand s'era perso nelle vastità del mondo, alla ricerca di un po' di assoluto. Al posto di quel poeta mal ricompensato sedeva con molta tranquillità un uomo normale, gaudente e cordiale. Fece accomodare Laviolette, incrociò le mani e l'ascoltò sino alla fine. «Ma mi sta raccontando una storia incredibile» esclamò sbalordito. «È sicuro delle sue deduzioni?» «Attualmente» rispose Laviolette «tre agenti della Giudiziaria procedono ai sondaggi necessari. E vede fin dove spingo le precauzioni e il dubbio, a che punto arrivi la mia fiducia: non li ho informati su quello che cercavo. Ho semplicemente precisato che l'analisi doveva includere tutte le reazioni chimico-fisiche.» Il magistrato oscillò la testa. «La sua professione e la mia sono sempre più difficili» disse. «Siamo noi» ribatté il commissario «che diventiamo sempre più diffici-
li.» «Allora» chiese il giudice «le spicco un mandato?» Laviolette rifletté a lungo prima di rispondere. Si alzò. Andò sino alla finestra da dove, così sovente, aveva contemplato i tetti di Digne, in compagnia del giudice Chabrand. Infine ritornò verso l'interlocutore. «Due» finì col dire. 21 Non si erano predisposti per la solita partita di bocce. Non ne avevano voglia. Attorniavano la stufa di Rosemonde in un capannello infreddolito e inquieto, poiché il tempo ondeggiava tra il flagello della neve e quello della pioggia, a tratti acquoso, a tratti glaciale. I piedi, nelle scarpe, non erano stati più caldi dopo il risveglio di quella mattina, quando tre ragazzi in giubbotto nero avevano consegnato a ognuno un bel mandato che autorizzava la Squadra Giudiziaria a indagare nelle loro tartufaie. «Per me» fece Polycarpe Bleu «sicuramente stanno cercando una bomba russa.» «Sì, forse» esclamò Sidoine Pipeau. «Non c'è nessun forse. Lei crede a tutto quello che le fanno vedere. A me, mi fanno proprio ridere con i loro lanciamissili. Gli altri... Gli altri! Sono già là. È tutto pieno là intorno e lassù in cima. Strapieno.» Bleu, col suo tic impressionante, non parlava molto spesso ma quando apriva la bocca diventava subito Cassandra sugli spalti di Ilio. «I russi» disse «ne fabbricano di perforanti.» «Sì, perforanti» si permise di dubitare Pascalon Bayle. «Esattamente. Perforanti. E grossi come un uovo d'oca. E di tutte le forme. Forse ce n'è uno nel pallone con cui giocano i bambini. Forse ce n'è uno magari in quel ceppo di faggio che hai lasciato a Deffens, ti ricordi, Sidoine? Tre anni fa. Quello che non sei riuscito a spaccare. Quello che forse pesava seicento chili. Ti ricordi? Forse è per questo. Chi penserebbe mai a un ceppo di faggio?» «Tu?» disse Rosemonde che ascoltava, la testa sul pugno, il seno posato sul banco. «Perché io sono un veggente. Vedo lontano.» «Come no» disse Rosemonde. «Non fidarti: possono essercene nello zucchero del tuo caffè.» «Non dirlo neppure per scherzo.»
«Per impedire a un asino di ragliare, ci vuole un bel fascio di fieno» sospirò Rosemonde. «Fascio di fieno. Proprio così. Ma se lo cercherai non lo troverai. È fieno. Non è altro che fieno. E puoi sparpagliarlo. Non c'è niente. Quel fieno puoi persino darlo da mangiare al gregge, perciò vedi?» Subivano il suo fascino. Dimenticavano quasi il motivo che li faceva rinunciare alla loro sacrosanta partita a bocce. Diede libero sfogo, per due volte, al proprio tic, sconcertando tutti. Aveva brandito davanti a sé due pugni stretti l'uno contro l'altro. «E gli americani, allora? Ne fabbricano di piccoli così. E girano. Là fuori, in cielo, da cinque anni forse. Facendo il pelo proprio a Lure.» Il suo indice teso imitava il moto rotatorio di un satellite intorno alla Terra. Di colpo l'immobilizzò e anche la sua parola rimase sospesa. Aveva appena scorto Laviolette, il quale, entrato in punta di piedi, appendeva il soprabito all'attaccapanni e faceva gesti incoraggianti. «Continui, continui. Soprattutto non disturbatevi per me.» Si sedeva in mezzo a loro che si spostavano precipitosamente e gli riservavano ampio spazio. «Grazie, grazie! Non allontanatevi troppo. Restate al caldo. Oh, non ho bisogno di tanto spazio!» Cominciò ad arrotolarsi una sigaretta pacatamente. «E allora? Niente bocce, stasera?» Irradiava talmente calma che persino Rosemonde si sentiva a disagio. Quanto ai sette commensali della partita a carte, stavano dimenando le chiappe sulle sedie di paglia. Nessuno preferiva essere il primo a rispondere. Uno si puliva il cannello della pipa con lo scovolo; l'altro si scaldava le mani alle fiamme della nafta. Omer Bleu agguantava Le Provençal e l'apriva alla pagina della cronaca locale. Virgile Bayle da un fiammifero ricavava uno stuzzicadenti, senza rinunciare al suo sorriso di superiorità, da uomo pieno di donne. Pascalon Bayle centellinava il caffè nel bicchiere facendo molto rumore con la bocca. Avevano tutti quello sguardo limpido, candido e diritto che un tempo gli avevano ordinato di opporre durante un eventuale interrogatorio. "Guardateli" pensò Laviolette. "La luce del giorno non è più pura del fondo del loro cuore." Osservava attentamente tutti quei visi impassibili. «Tutto sommato» disse «avete fatto bene a non cominciare la partita. Ho una storiella da raccontarvi e credo che interesserà a tutti. Rosemonde, mi
dà una grappa speciale? Muoio di sete.» Si stravaccò per accendere la sua "roba sopraffina". «Metta un po' il catenaccio, Rosemonde. Nel caso che qualche giornalista...» «Ho mal di testa» annunciò Rosemonde «salgo in camera. Mi chiamerà quando avrà finito, per venire a chiudere.» «Eccoci qua. Adesso siamo a nostro agio: fra gente di compagnia. Badate, avrei potuto farvi convocare in gendarmeria, ma sarebbe stato di cattivo gusto. Preferisco che ci spieghiamo fra noi: amichevolmente. Ebbene, vi dirò subito la verità, vi metterà più a vostro agio. Vi rammentate quei sei hippy che hanno trovato? Cinque nella cappella protestante e uno nel congelatore dell'Hôtel des Fraches? Vi ricordate? E vi ricordate anche del marchese di Brèdes che è stato ucciso, due notti fa? Benissimo. Tutti questi delitti sono opera di una sola persona. Una persona che respira fra noi, qui, stasera...» «Ehilà» disse Omer Bleu. Fu l'unico a sbottare. Bisogna riconoscere che si comportavano da veri basso-alpini. Avevano incassato quella rivelazione con facce di pietra, senza un raschio di gola, né di scarpe sul pavimento. Poteva sembrare una classe studiosa intenta ad ascoltare l'enunciato di un problema. Unica cosa, l'"Ehilà" di Omer Bleu significava proprio: "Impicciati dei fatti tuoi". «E allora» proseguì Laviolette «non mi resta più che indovinare quale. Oh, non abbiate paura, è questione di tempo e di pazienza... A questo punto, vi devo delle scuse: avrei dovuto portare io stesso i mandati di perquisizione. Ma non preoccupatevi, i miei ragazzi sono abituati, non combineranno nessun guaio.» Omer Bleu tentennò la sua lunga testa sotto il berretto di tela cerata. «Nessun guaio! Nessun guaio! È delicata una tartufaia... Se ci tagliano le recinzioni... io, personalmente, esprimo tutte le mie riserve...» Laviolette leggeva chiaramente nei loro occhi ciò che pensavano: "Il primo che si lascia andare a una domanda, è fottuto". Avevano le bocche a forma di portafoglio cucito. «Vedo» proseguì il commissario «che state morendo dalla voglia di sapere come sia arrivato a questa conclusione. Eh, state morendo? Ditelo.» L'unica risposta alla sua domanda fu quella della stufa a nafta che soffocava e del vento che sciabordava sotto la porta. «Non vi farò soffrire. La notte in cui il cadavere dell'hippy è stato messo nel congelatore, Biscarle e Jules Bec, mentre si recavano dai pompieri,
hanno visto svoltare sulla piazza una 4 CV. E la notte dell'omicidio del marchese des Brèdes abbiamo identificato l'automobile dell'assassino che l'aveva nascosta sotto i cedri. Era pure una 4 CV. Siccome l'assassino ha firmato i suoi delitti per come li commette, lo stesso individuo, cioè quello della 4 CV, è colpevole di sette omicidi. Mi seguite? Ora, seguitemi ancora bene. Di 4 CV, a Banon, ne abbiamo identificate nove. Una appartiene a Séraphin Calandre, il fabbro. Nella notte di lunedì, che è quella in cui hanno assassinato Brèdes, vegliava uno zio morto a Varages. La seconda è quella del parroco. Dal quindici dicembre si trova sulle zeppe nell'officina di Martel.» «È senza motore» disse a precipizio Sidoine Pipeau. Quell'osservazione superflua sollevava un po' l'ambiente. Faceva da valvola di scarico alla tensione che vi regnava. «Giusto. Stanno aspettando il motore. La terza, i gendarmi l'hanno individuata nell'accampamento degli zingari a Plan-de-Trabuc. È priva di ruote, di portiere, di batteria e di bobina. Serve da conigliera. La quarta, nella rimessa di Gabriel Coupier, appartiene a un morto. La vedova la lucida tutti i giorni, versando un sacco di lacrime: "Il povero Gabriel che amava tanto la sua macchina".» Omer Bleu abbozzò un gesto di dubbio. «No» proseguì Laviolette. «Anche quella è sulle zeppe, senza olio né benzina: abbiamo controllato. Nessuno la usa dalla morte di Gabriel.» Levò la mano a dita divaricate. «Cinque» fece. «Ne restano cinque. Le cinque che sono su questo elenco. E sottolineo che è compilato in ordine alfabetico senza tener conto di alcuna preferenza. Fatelo circolare, signori. Prendetelo. Non abbiate vergogna.» Ma mostravano una notevole ripugnanza a impossessarsene. «No, no! Ce lo legga» disse Alyre Morelon «è più comodo.» Laviolette aprì la lista ed elencò. Bayle Pascalon Bleu Polycarpe Morelon Alyre Pipeau Albert Pipeau Sidoine.
A tale elencazione, Omer Bleu e Virgile Bayle ritrovarono di botto la voce, belli e contenti di scarrozzare in vecchie Dauphine che toccavano terra per mancanza di ammortizzatori. «Sì, e allora?» disse Omer. «E allora, è una coincidenza» esclamò Virgile. «Non ci sono soltanto 4 CV qui.» Laviolette spiegò quindi dell'abbondante nevicata che isolava Banon, la notte in cui Brèdes fu assassinato. «La cosa esclude un intervento esterno a Banon...» In realtà, egli non aveva soltanto carte vincenti nel suo gioco. Esisteva un'altra possibilità: una 4 CV non ancora identificata dai gendarmi che fosse stata imboscata nel garage di una qualsiasi residenza secondaria, chiusa tutto l'anno, di cui x avrebbe avuto la chiave, utilizzata soltanto in quelle poche occasioni. D'altro canto, l'olio del motore prelevato al suolo, sotto i cedri, non aveva potuto essere identificato: "olio di cambio miscelato" dichiarava il rapporto. Restava il fatto che l'utente della 4 CV era inevitabilmente proprietario di tartufaie e aveva assistito alla festa degli ex combattenti in casa di Brèdes; altrimenti, questi non sarebbe stato assassinato. Laviolette scrutava gli interlocutori in piena faccia, uno dopo l'altro. Ma era difficile apparire più normali, più scialbi, più impassibili di quanto fossero. Chi era l'assassino? Chi racchiudeva la propria follia sotto la maschera di tutti i giorni, come in un cofanetto ben chiuso col lucchetto. Sotto quale parvenza "rispettabile" viveva? Caricandosi la pipa senza tremare con le mani? Bevendo con moderazione? Tenendo bene la destra con l'automobile? Scavando tartufi? Discutendo i prezzi? Accudendo alle proprie api? Mettendo da parte, per venderli l'anno seguente se le quotazioni fossero migliori, i suoi sei o sette barili di essenza di lavanda? Tutti avrebbero dovuto chiedere: "Ma cosa cerca nelle nostre tartufaie?". Niente. Neppure una parola. Stava finendo la sigaretta. Fuori, il vento modulava la sua voce in sordina attraverso le tavole mal combaciate delle soffitte, contro le persiane dai cremonesi arrugginiti, sui singhiozzi di ferro delle banderuole dissestate. «Chi?» riprese Laviolette. «Vi confesso che l'ignoro. Dovrei, in linea di massima, escludere Omer Bleu e Virgile Bayle che hanno la Dauphine... Ma chi me lo dice che non gli hanno prestato una 4 CV? Oh, lo so, siete tutti fratelli stizziti. Ma fino a che punto? Di fronte a me, siete tutti solidali. Vi parlerò francamente: qui c'è un assassino e sei uomini che lo sanno.» Lasciò loro una prima possibilità interrompendosi per arrotolare un'altra
sigaretta. Non ci fu fremito ne! pubblico. «Ho la sensazione che voi protestiate» disse ironicamente. «Eppure, vivendo tutti insieme da così tanto tempo, non potete ignorare chi sia il proprietario di quel trincetto. Non potete ignorare chi sia in ristrettezze economiche al punto da coltivare, a tempo perso, qualche cespo di canapa, per venderla agli hippy di passaggio. Non potete ignorare soprattutto chi di voi possieda quel "velo magico" che mi sono visto davanti il giorno della morte di Brèdes. Per fortuna, signori, sono basso-alpino e ho avuto una nonna che era una vera enciclopedia, altrimenti sarei ancora qui ad annaspare per saperlo. Ma voi sapete tutto. Eh? Lo sapete?» No, non sapevano niente. Il loro sguardo era incollato agli occhi di Laviolette, come se raccontasse una storia straordinariamente interessante della quale morivano dalla voglia di conoscere la fine. Non si voltavano gli uni verso gli altri. Si isolavano. Si ignoravano. Sebbene fossero tutti radunati intorno alla stufa, sembrava che all'improvviso li separasse una enorme distanza. «Ma c'è una cosa che ignorate, che sei su sette di voi ignorano: è perché lui uccide. Voi ignorate che è pazzo. Abbiamo a che fare con un pazzo. La cosa riesce a entrare nel vostro cervello ottuso?» Un notevole sangue freddo dominava gli interlocutori del commissario. Li scrutava con insistenza e non distingueva che tratti immobili, rughe austere, sguardi sperduti. Non si fingeva neppure più di fumare. Ci si sforzava e si riusciva a non sembrare pazzi. «Domani» disse Laviolette «resterò tutto il giorno in gendarmeria, accanto al telefono... Se per caso... qualcuno di voi, preso da rimorsi, provasse degli scrupoli tardivi... Ecco, per stasera vi ho detto tutto. Ma» aggiunse con vivacità «che la cosa non ci impedisca di fare la nostra partita a bocce.» Con un ampio gesto indicava i tavoli e i giochi. Incontrò facce disgustate. Si mossero tutti insieme, si calcarono il berretto, si alzarono a prendere le canadesi dall'attaccapanni. Si scusavano... Veramente, no... Non ne avevano voglia, e poi si faceva tardi, e poi domani era la vigilia di Natale. Col cenone, la notte sarebbe stata lunga... Stavano già varcando la soglia. Il vento gonfiava i ginepri sulle aie. Aghi sottili strappati ai rami sbucavano dalla porticina sbilenca, andavano a morire sulle giacche degli uomini. «Aspettate» ingiunse Laviolette, come se all'improvviso rammentasse un
particolare dimenticato. «Mi preoccupa un po' il fatto di non potervi assegnare una certa protezione... Purtroppo, non ho abbastanza uomini e voi siete troppo numerosi. Quindi... cercate di stare all'erta. Perché l'assassino, di cui ignorate tutto, può immaginarsi... a torto, sicuramente. Ma come si fa a sapere con i pazzi? Sono imprevedibili... Secondo me, ha già individuato quello o quelli di voi che cederanno e domani verranno a trovarmi... Che dico, domani! Perché non subito? C'è il telefono da Rosemonde. Mi si può chiamare in qualsiasi momento. Di nascosto. In forma anonima. Be', se l'assassino avesse quest'idea? Non vi vedo pronti al congedo. Volete che vi racconti com'è morto il mio amico, il marchese des Brèdes?» Insaccandosi nel collo, fecero segno di no, che non volevano. Non importava, glielo raccontò ugualmente. Il buio. La mancanza di corrente. Il fruscio dei cedri. Il gluglù della carotide che sfoga. Come l'aveva tamponata col pollice. L'ombra sotto il terribile velo nero che aveva esitato nel vano della porta, mentre si chiedeva se non avrebbe ucciso anche lui... Il tempo interminabile che gli era occorso, con l'amico sul braccio, per raggiungere il telefono. La sua mano, inguantata di sangue fino al polso, come da un merletto rosso. Si stupiva lui stesso di quell'improvviso attacco di lirismo. «L'assassino» proseguì, mentre uscivano in fila indiana «ha già ucciso sette persone, sembra, con gusto... Sa che uno di voi, o più di uno, presenta per lui un pericolo incombente. Quindi...» Un leggero pigia-pigia turbò l'ordine dei sette uomini sulla soglia. Un flusso e riflusso avanti e indietro, e viceversa. Ognuno teneva le mani sprofondate nelle tasche, il berretto ben calcato. Uscirono tutti da lì, diritti impalati. Laviolette si era infilato il cappotto, messo la sciarpa. Li accompagnava, suadente, insistente, nella speranza assurda che uno di loro, alla fine, lo afferrasse per il bavero o gli mollasse un pugno sul muso per interrompere la sua litania. Ma no! Non la smettevano più di soppesare il pro e il contro. Eppure, quella notte, dominava l'emergenza. Quell'assassino... di cui erano soltanto sicuri di non esserlo loro... Quella stradina dove abitavano, tortuosa, dove mancava sempre una lampada... Quella fattoria, a Pampaligouste... Quella graziosa villa, ma alla fine di un viale oscuro di pini silvestri dalle ombre molto insidiose... Non mancavano i motivi per meditarci a fondo. Sulla piazzetta con la fontana dormivano le due Dauphine senza ammortizzatori e le cinque 4 CV grigie e blu stinto a forza di essere passate sotto il torchio delle stagioni. E in mezzo a quelle, una soprattutto dal paraurti
rabberciato col fil di ferro... Il faro sinistro penzolante fuori del suo sito come un occhio enucleato... Formarono un cerchio davanti alle auto, segnando il passo, congelati, smarriti. «C'è solo una cosa da fare...» disse infine Omer Bleu. «Riaccompagniamoci.» «Come, riaccompagniamoci?» «Partiamo tutti insieme» spiegò Omer Bleu. «Prima riaccompagniamo Pascalon Bayle a Largue, che è più lontano... Aspettiamo, tutti insieme, che sia entrato, che abbia richiuso la porta... Dopo... non ci riguarda più. Ripartiamo, sempre tutti insieme, portiamo Sidoine Pipeau alla Mute; poi Albert Pipeau alla Confrérie, e così via... E gli ultimi due, sono mio... fratello e Alyre Morelon che abitano quasi in faccia...» «Sì. Ma gli ultimi due, giustamente... se uno uccide l'altro?» «Di' un po', sta' attento a come parli.» «No, è tanto per dire.» «Se uno uccide l'altro» spiegò Omer Bleu «non se la caverà, perché si capirà subito che è lui.» Bisognava vederli intorno alle loro macchine che di colpo si trasformavano in ghigliottine; bisognava vederli, quegli uomini maturi ed esperti, battere i piedi, mani in tasca, nel vento della notte. "Hanno una fifa boia" pensava Laviolette. "Sono già arrivato a un buon punto." Li guardava con interesse valutare le possibilità di sfuggire all'omicida. Francine badò bene a trattenere il respiro a quell'asserzione. Grazie a Dio, nel buio pesto della notte d'inverno, dietro le persiane chiuse, nessuno poteva vederla impallidire. «Ma perché uno di quelli lì?» «Vallo a capire» esclamò Alyre. «Prima di tutto, pare che la macchina dell'assassino sia una 4 CV, e che siano sospette soltanto le nostre.» «Lo vedi! Te lo dico sempre di sbarazzarti della 4 CV. Di prendere la mia R 16 e per me di comperarmi una Porsche.» Alyre continuò: «Deve esserci anche una questione di soldi, perché hanno chiesto delucidazioni al Crédit agricole sui nostri conti.» «I nostri conti! Ma non ne hanno il diritto.» «Il diritto, mia povera Francine! Con i loro mandati giudiziari, come li chiamano. Stanno guastando tutte le nostre tartufaie. Non credi?»
«Non sei mica tu?» avanzò Francine. Lei non credeva a una parola, ma doveva fingere di battere i denti, di essere rigida di paura, dalla testa ai piedi. Intuiva che lui alzava le spalle sul guanciale. «Cosa vuoi che sia io» disse l'uomo. «Grosse esigenze di soldi... Sai bene che non ne ho... Soltanto che il commissario dà l'impressione di pensare che tutti noi sappiamo qualcosa e che l'assassino lo sappia, e che, un bel giorno, ne sgozzerà ancora uno... o due... Stasera, per la paura, ci siamo riaccompagnati tutti. È strano quel commissario. Cosa pretende che ne sappiamo? Lo sai tu che hai ereditato dei veli dall'Uillaoude? Eppure sono quindici giorni che mi pongo la questione. L'assassino, Francine, è quello che mi ha rovinato Roseline. Vedi che facevo bene a chiuderla. E ancora, lo sai tu che hai grosse esigenze di soldi? Lo sai tu che hai ereditato la chiave della cappella protestante? Tu hai già visto, in mezzo a noi, qualcuno abbastanza matto da coltivare quell'erba, quell'erba, tu lo sai... eh!» «Canapa indiana...» ansimò Francine. Si accasciò su un fianco e riuscì a dissimulare il terrore sotto un enorme sospiro di stanchezza. «Taci e dormi» aggiunse fingendo di sbadigliare. «Ne parleremo domani...» Si raggomitolò su di sé con un lungo brivido d'angoscia. Risentiva ancora quella voce, l'ultima volta che aveva accordato i suoi favori riluttanti: "Francine, sei la mia rovina! Ma amo solo te!". Erano trascorsi quasi sei mesi. Quando, per caso, lo incontrava, lui le sussurrava: "Sto risparmiando, Francine. Sto risparmiando. La prossima volta, ti darò un fermaglio di brillanti. Accetteresti per un fermaglio di brillanti? Di', accetteresti?". "Vedremo" diceva lei. E tirava diritto. Nei letto coniugale, con infinite precauzioni, lei si tolse l'anello che amava tanto persino lì, ma che le scottava al dito, ormai. Lo unì, sul comodino, alla collana di perle e all'orologio con bracciale incastonato di diamantini. Lasciò riposare la mano qualche secondo su quel mucchietto di gioielli. Tanto per l'anello, tanto per la collana, tanto per l'orologio... Una corvè d'amore ogni volta... Ma che piacere si può provare con una donna che non ne prova affatto? "Gli uomini credono sempre..." La chiave della cappella protestante. Certo che la conosceva. Un giorno, davanti a lei, ne aveva staccata una, che pendeva, enorme, dal chiodo del calendario delle Poste. Le aveva detto ridendo: "Vedi, Francine, questa è la
chiave di Barbablù". A poco a poco doveva essersene convinto. Essersi chiesto a lungo a cosa gli sarebbe potuta servire. Doveva aver trovato finalmente... La donna rifletteva a gran velocità: "Confesserà. Risaliranno fino a me. Scopriranno il gioielliere di Marsiglia dove ha comprato i miei gioielli... Verrò screditata. E allora, Paul... Santo cielo, Paul!". Paul, suo figlio, il suo orgoglio... Quella carriera che sognava per lui, quel bel matrimonio, quella posizione elevata... Tutto ciò stroncato di netto da una madre che avrebbero citato in corte d'assise, come testimone principale... Forse come complice. Ritirò precipitosamente la mano dai gioielli. Bisognava restituirglieli, restituirglieli. Non gettarli via... Che li ritrovino da lui, al momento della perquisizione. Se li trovavano da lui, avrebbe potuto accusare Francine finché voleva, nessuno gli avrebbe creduto. Ma, d'altronde, dei gioielli così splendidi! Ma Paul! Il cuore di Francine sussultava fra l'amore per i gioielli e l'amore per il figlio. Trascorse, ad ascoltare il vento, una notte tremenda. Ma, al mattino, aveva preso una decisione. 22 La mattina del 24 dicembre, gli agenti della Squadra Giudiziaria, armamentario a tracolla, ripresero sotto le querce da tartufo le ricerche sospese per la notte. Tutta Banon si dette il cambio, bighellonando intorno ai campi ai quali i gendarmi proibivano l'accesso. "Le nostre tartufaie" gemevano i banonesi esacerbati "non sono mai state così ben protette dalle razzie. Ma cosa cercano?" "Altri morti" dicevano. Allettata dal carnaio della cappella protestante, la fantasia popolare sperava ancora di più. I giornalisti passavano il tempo a interrogare gente che non sapeva nulla, ma che aveva tantissimo da riferire. Laviolette, come aveva annunciato alla compagnia, non abbandonò il telefono, alla gendarmeria. Tutta la notte, le forze di polizia avevano sorvegliato da lontano e discretamente le case dei cinque sospetti. Il loro rapporto si riduceva a due lettere: NN. Alle undici, uno specialista venuto da Marsiglia a prelevare i reperti portò qualche ulteriore precisazione. Prima di tutto, Laviolette aveva avuto ragione. Le tracce dei piedi scalzi rilevate nell'area della cappella prote-
stante non dicevano nulla; i calzini, dei quali si erano potuti ricostruire il disegno, la materia e la forma, erano i più comuni del mondo, si vendevano sui mercati. Cento banonesi, come minimo, se li infilavano ogni mattina. Una cosa, però: avevano tagliato una testa di cardo argentato che presentava sugli aculei uno o due filamenti infinitesimali, più o meno spessi come ragnatela. Sottoposti ai raggi del microscopio, i resti erano stati identificati come frammenti di tessuto. Ma nelle infinite campionature che avevano consultato, non se n'era trovato nessuno che fosse simile. Tutto quello che si poteva supporre era che si trattasse di vera pura lana, cioè senza trama di cotone né di qualsiasi poliammide. In ogni caso, si trattava di un tessuto o rarissimo o vecchissimo. «Ah, un'altra cosa» tossicchiò lo specialista. «Il dottor Rabinovitch esprime qualche dubbio. Le manderà i risultati ufficiali, certo, però l'esame del corpo del marchese des Brèdes e della sua ferita lo porta, fin da adesso, a credere che l'arma del delitto, e forse degli altri delitti, può non essere un trincetto da calzolaio. Si tratterebbe piuttosto di un coltello speciale per sgozzare i maiali...» «Ah, bene» sospirò Laviolette. «In effetti mi sembrava che quel dottor Rabinovitch fosse troppo ottimista...» A mezzogiorno gli portarono una porzione di stracotto che riscaldò sulla stufa a nafta e una bottiglia di Château de Pinet che gli raccomandava Rosemonde. Masticò e bevve in mezzo al fruscio di dieci chili di carte e di foto, che via via compulsava. Aveva sistemato davanti a lui, contro il telefono, l'orribile negativa realistica che raffigurava l'interno della cripta dove erano allineati i cadaveri e gustava pensierosamente lo stracotto, senza smettere di meditare su quella visione. Alle tre, i battitori delle tartufaie vennero a riferire sulla loro missione e a dire che ritornavano a Marsiglia. Purtroppo avevano dissotterrato alcuni tartufi che però avevano scrupolosamente lasciato sul posto. «Avvertirò i proprietari» disse il maresciallo Viaud. Alle venti, Laviolette dichiarò forfait. Nessuno dei suoi compagni di bocce aveva chiamato. Nessuno si era fatto vivo. Con tali premesse, pensava, non rimaneva che attendere il risultato delle analisi, cioè tre o quattro giorni. Rientrò da Rosemonde per la sua serata di Natale. La donna aveva messo delle sassifraghe su una tovaglia e riunito due tavolini perché fossero più a loro agio. Il tutto sapeva di buona cucina. «Immagino» disse lei «che se ne infischi del cenone e della messa di
mezzanotte. Ma io, si figuri, dopo quindici anni che il mio povero papà è morto e cinque che mio figlio gira il mondo, è la prima volta che non rimango da sola, la sera di Natale... E poi, per quello che devo dirle, mi piacerebbe che avesse bevuto un po'...» Gli servì tutto quello che gradiva. Cibi cioè non poco indigesti e nocivi: foie gras, una crema di tartufi ai capperi, una pollastra con salsa tartufata. C'era soltanto uno champagne anonimo - dono di un villeggiante di Reims - che riposava in cantina da quattro anni. Rosemonde l'aveva messo a raffreddarsi nella neve, a nord del cortile. "Nel frigo" asserì "il freddo lo rende sempre un po' aspro." "Che donna!" diceva lui fra sé. La osservava andare e venire nella superba rotondità del suo sedere. «E adesso» annunciò «prima del budino che sformerò, vorrei parlarle... Non si metterà a ridere?» «Oh» esclamò Laviolette «io che ti ammiro tanto!» «Non è bello due donne che si vendono...» La sua riflessione le velava lo sguardo. Laviolette si arrotolava una sigaretta. Con goffaggine, se ne fumava anche lei una alla menta. La schiacciò nervosamente nel portacenere. «Non è neppure bello una donna che origlia alle porte...» «Origli alle porte?» «Due volte. L'altro giorno, quando parlava ai suoi uomini in camera. E ieri sera, quando parlava ai miei clienti. Era superbo.» «Di' un po', Rosemonde, non vuoi mica parlarmi degli hippy?» «Ah, non ha bevuto abbastanza.» «Rosemonde, se vuoi parlare alla Giustizia, fallo senza preamboli. Ci sono due uomini in me. Il secondo non potrà mai essere ubriaco. E, inoltre, mi hanno ucciso Brèdes a cui volevo molto bene.» «Non dica così, mi fa rabbrividire. Mi sembra di vedere qualcun altro in lei.» «Tu vedi: "Un forestiero vestito di scuro che ti assomiglia come una goccia d'acqua". Dimmi cosa sai.» «Quello che immagino. È perché l'ho sentita parlare di "bisogno di soldi". Ho capito che, ieri sera, cercava di sapere quale dei sette avesse un grosso bisogno di soldi. È sicuro che sia uno di quelli?» «Al novanta per cento.» Rosemonde sospirò. «Un cliente sette volte assassino! Crede che la cosa mi lasci indifferente? Mi sento le gambe molli. Forse sono seduta sulla sedia che occupa di
solito.» «Anch'io, non prendertela e dimmi piuttosto...» «Non mi è nata all'improvviso... Ci ho pensato tutta la notte...» Le sollevavano il petto certi sospiri, tanto che, ogni volta, sotto la camicetta aperta, la punta di un seno andava a premere contro il suo calice di champagne. «Un uomo con grosse esigenze di soldi, chi può essere? Uno che gioca? Si saprebbe... Uno con un figlio prodigo? Hanno tutti dei figli modello ben sistemati o sui punto di esserlo...» "Un uomo con una moglie spendacciona? Lo sono tutte, ma senza fantasia, tanto che non superano le loro possibilità. Ma, per esempio, qualcuno con un legame che gli costava un occhio? Una donna che aveva gli occhi più grandi della bocca? Non di qui? Noti, se non è di qui, non lo sapremo mai..." «Lo sapremo» affermò Laviolette. «Ci metteremo del tempo, ma lo sapremo.» «Però, e questa è una mia congettura, se fosse di qui?» «Ah, se fosse di qui, sarebbe più facile...» «Stamattina alle cinque» disse Rosemonde «forse ho avuto un barlume. Volevo venire a svegliarla in camera... Ma... ho degli scrupoli... Mi versi un po' di champagne. Mi sembra di svelare un intimo segreto...» Bevve due terzi del calice. «È bello fresco. Scivola giù. È buono. Le ho parlato di Francine Morelon?» «Sì, l'altra sera. La moglie di Alyre?» «Va' a sapere. Quella tizia non ama per così dire nessuno, a parte gli uomini e suo figlio, ma io, chissà perché, le vado a genio. In ogni caso, quando deve fare una telefonata un po' delicata, viene da me. Mi fa un sorriso complice. Mi stringe la mano e mi dice "Come va?" come se avessimo un mucchio di segreti in comune. A volte, addirittura, mi chiedo... mi tiene la mano così tanto nella sua.» «D'accordo. Questa è un'altra faccenda» grugnì Laviolette. «Oh, una semplice impressione... Allora, quel giorno... La mia storia è in due tempi; e io ho riflettuto proprio su questi due tempi. Insomma, la prima volta, forse un anno e mezzo fa, lei viene, tutta pimpante, come al solito, con i suoi gioielli (è questo che è importante: i suoi gioielli). L'Alyre se ne mostra sempre fiero: "Francine ama da matti i gioielli. Ci rovina con i suoi gioielli. Ne avrà forse per centomila franchi". "Sì, cosa, centomila
franchi" gli rispondo. Allora lui alza le spalle: "Vecchi franchi, naturalmente". Insomma, quel giorno, a! banco, eravamo d'agosto, c'era un... tipaccio, la barba tutt'intorno al collo, con i pantaloncini bianchi, caro mio, che facevano così sporco. Stava bevendo una birra. Molto lentamente. Si godeva il fresco. Francine finisce la sua telefonata discreta... Mi chiede quanto mi deve, mi bacia (cosa che non faceva mai), lancia un'occhiata assassina al tipaccio del banco e se ne va volteggiando col suo culone... Il tizio la guarda uscire, emette un mezzo fischio e si volta verso di me. Mi fa: "Dica un po', si tratta bene la sua amica". Non so se se ne è accorto, commissario, ma non mi piace troppo che, qui da me, si lodi un'altra merce che non sia la mia, oppure che la si tratti come se io non esistessi... "Perché?" gli faccio io in tono arrogante. "Perché? Ha visto i suoi gioielli? I suoi gioielli? Escono da Fanta-Bijou, come i miei." "Non so" dice il tipaccio con calma "da dove escano i suoi che non ho visto, ma quello che so è che quei gioielli sono veri. La collana non è di buon gusto né del più fine luccichio, ma da un gioielliere che sappia vendere non deve essere costata meno di sei testoni, metta quattro per l'orologio incastonato di brillanti, e non siamo lontani dalla verità." Mi sembrava di aver appena sentito in testa le campane di Westminster. "Non vorrà mica dirmi che Francine oggi aveva addosso dieci milioni di gioielli, eh? E tanto per cominciare, cosa ne capisce lei?" "Oh" risponde lui con modestia "non un granché, ma insomma... quando porto il tight, sono primo commesso da Van Cleef." Caro mio! A bruciapelo, me lo spara! Mi getta cinque franchi sul banco e mi volta il sedere con i suoi calzoncini sozzi, il suo portafoglio che sporge dalla tasca e i suoi polpaccetti striminziti...» «Tu dici, Rosemonde, che lei non aveva ancora l'anello? Cerca di ricordare bene? Quando succedeva questo?» «Nell'agosto dell'anno scorso, le ripeto. Perciò quasi diciotto mesi fa, ma aspetti! Quest'anno, in luglio, lei ritorna...» «Aveva l'anello?» «No, non ancora. Ma vedrà. Prende il telefono... Gliela faccio corta. Dice: "Ce l'hai?". Ero in cucina. Facevo un po' di rumore con le pentole, perché, Dio mi guardi, non immaginasse che l'ascoltavo. Ma non prendeva precauzioni oppure sono io che ho l'orecchio troppo fino. Ho anche sentito: "D'accordo. Allora preparalo, passerò a prenderlo". E ancora dopo: "No, no. Fra quattro giorni, col trattore. Quando porterò la lavanda". Quello che hanno detto, in fondo non aveva tanta importanza. Quello che ne aveva, era il tono con cui veniva detto. E soprattutto il fatto che, nel congedarsi,
mi ha dato cinquanta centesimi, la tariffa urbana. Di conseguenza, aveva chiamato qualcuno di qui... Allora, passando da un argomento all'altro, proprio nel ricordarmi la cosa stanotte, mi sono detta che, siccome lei sta cercando qualcuno che abbia grossi problemi di soldi, sarei stupita se quello di Banon che è in relazione con la tizia non fosse un po' preso per il collo...» Laviolette era in piedi. Si dirigeva verso l'attaccapanni. Prendeva il soprabito, il cappello, la sciarpa lavorata a maglia, di recente, da un'ammiratrice distratta, o che lo credeva alto come De Gaulle. «Ma dove va?» chiese Rosemonde, allarmata. «C'è ancora il budino. E il caffè? E i sigari che le ho comprato.» «Dopo.» «Dopo che cosa?» «Dopo la "mia" messa di mezzanotte.» Aveva fatto un triplo giro con la sciarpa che l'imprigionava come una gogna e dal centro della stanza concluse: «Perché... se non me ne occupo subito, la tua amica, la vedo con un nuovo gioiello... Una bella collana rossa... di sangue!» L'oca in salsa tartufata cominciava a girare sullo spiedo del focolare, nella sala da pranzo. La tovaglia era apparecchiata tutta in bianco, con le posate del servizio. La casa era piena di gente: la madre di Alyre, il padre e la madre di Francine e sua sorella divorziata, che si lisciava la gonna occhieggiando il pastore. Ma il pastore a bocca aperta e Alyre affianco, davanti al televisore a colori, contemplavano Romy Schneider che si denudava con parsimonia una spalla per Philippe Noiret in panama. Chiamarono dal basso. Roseline, svegliata di soprassalto, sosteneva il ruolo delle oche in Campidoglio. I cani da caccia lanciavano i loro latrati senza speranza. I caproni, nella stalla, suonavano la campanella. «Chi è?» gridò Alyre nello spiraglio della porta, con un occhio sempre fisso sulla spalla di Romy Schneider, già rivestita. «Polizia» disse Laviolette. Il pastore, con un senso di colpa, balzò sul televisore per spegnerlo. Laviolette, sebbene venisse da una lauta cena, tracannò, aprendo la porta, una tale zaffata di buoni odori che forse si sarebbe rimesso a tavola.
«Non disturbatevi. Non disturbatevi. Non abbiate paura. È il nostro mestiere entrare e uscire. Poiché tutti quelli che si occupavano dell'oca nella sala da pranzo erano accorsi, alla notizia, sulla soglia della cucina.» «Venga avanti» disse Alyre. «Prende qualcosa?» «No. Senza complimenti. Sua moglie è qui?» «No» fece Alyre. «È uscita.» «Per andare dove?» «Sai dov'è andata, tu, Proserpine?» La sorella che si lisciava la gonna avanzò verso il commissario, già piuttosto allarmata, così pareva. Laviolette valutò subito che si trattava di una sorella riservata, una sorella complice, una di quelle sorelle con le quali ci si confida. La sua aria diceva: "Rivolgetevi a me". Rispose con noncuranza: «In effetti, mi ha detto che aveva una o due commissioni da fare e che dopo, in quanto assessore, era obbligata ad assistere alla messa di mezzanotte. Ci ha raccomandato di mettere l'oca sullo spiedo verso le dieci... Quindi, vede...» «Venga un po' qui, lei» disse Laviolette. La portò fuori, sotto la loggia, senza riguardi per le sue braccia nude. «Chi ha offerto» domandò a bassa voce «i gioielli a sua sorella?» La donna trasalì, indietreggiò, stava per sbottare. La bloccò subito. «La vita di sua sorella dipende dalla sua risposta.» «Questo non lo so proprio» esclamò con disperazione. Rientrarono tutti e due. «Non è il momento di scherzare» tuonò Laviolette. «Sua moglie, Alyre, è nel mirino dell'assassino. Se sa dov'è, lo dica immediatamente e partiamo. Ha bisogno di noi... e lo ignora» aggiunse. Voleva salvaguardare nel contempo la suscettibilità e la nomea dell'uomo. Ma Alyre era lontano da tutte queste cure. Era pallido. Il collo della sua camicia pulita palpitava sul pomo d'Adamo. «Tu non sai nulla, Proserpine, non sai proprio nulla?» «L'unica cosa che so, è che se n'è andata a piedi...» «Come a piedi? Di solito prende sempre la macchina.» «Gliel'ho domandato. Mi ha risposto: "Non vado lontano e poi ho bisogno di camminare...".» I vecchi, sulla soglia della sala da pranzo, seguivano con ansia la conversazione ma non fiatavano. Da parecchio tempo dovevano averli pregati seccamente di non immischiarsi di nulla, in nessun caso. Il pastore era sconvolto quanto Alyre. Immaginare i cinquantatré chili di Francine, per
strade e sentieri, alla mercé di qualcuno, lo esasperava, gli impediva di controllarsi. «Roseline» suggerì. «È vero» esclamò Alyre. «Roseline sarà in grado. Appena la si porta fuori, se c'è qualcuno della famiglia che non è rientrato ne segue le tracce.» «Ebbene, allora, la porti fuori subito» ordinò Laviolette. Conosceva l'incredibile velocità dell'assassino nel colpire. Aveva ancora negli orecchi il suo fruscio, la notte della morte di Brèdes, rivedeva il velo... Sollecitava l'azione. «Su, venga. La tiri fuori, questa Roseline. Non c'è un minuto da perdere.» Andarono tutti al porcile. Il furgone dei gendarmi aspettava davanti all'atrio. Viaud era sceso mettendosi agli ordini. Alyre e il pastore, con la canadese del giorno di festa, ritornavano dal porcile tirati da Roseline che grugniva fiutando il vento. Il corteo si mosse. In testa, Roseline batteva da una scarpata all'altra, trascinando a destra e a sinistra con la sua cordicella un po' Alyre, un po' il pastore. Al loro seguito, il furgone procedeva lentamente, in prima. Così equipaggiati, attraversarono Banon, dove coloro che si recavano a casa di qualcuno per il cenone, o alla messa di mezzanotte, li guardavano passare con stupore. «Oh, Alyre! Andate a messa insieme?» Erano i frizzi gioiosi dei colleghi o dei commensali, già bevuti a dovere prima di accogliere il Redentore. «Non avete visto Francine?» «Uuuh, senti! Se l'avessimo vista, l'avremmo trattenuta.» «Non faccia domande» pregò il pastore. «Sa benissimo che Roseline...» E in effetti Roseline non teneva conto di niente e di nessuno. Se ne andava, grugnendo, frenando di colpo da sprizzare scintille, così bruscamente che il pastore e Alyre si tenevano sulle natiche per non travolgerla, nello slancio. L'animale esplorò tutta Banon. Deviò due o tre volte per strette viuzze dove il furgone s'infilava a stento. Sbucò sulle aie dove, all'improvviso, il vento freddo si scagliò sul pastore e su Alyre. La vasta campagna stava lì davanti, sotto la luna, come un favoloso quadro d'autore. Roseline non esitò. Incappò nelle rose selvatiche, attraverso i solchi ghiacciati di un sentiero incassato. Era un sentiero di terra sgomberato ieri mattina dal Dipartimento Strade.
Procedettero alcuni minuti, fra due cumuli di neve, alti in certi punti ottanta centimetri. «So dove stiamo andando» esclamò Viaud. «Lo temo anch'io» mormorò Laviolette accanto a lui. «Non abbiamo più bisogno di Roseline... Questo sentiero non ha più diramazioni. Ci conduce belli diritti verso la casa di un indiziato.» «Lo so» disse Laviolette. «E so chi. Ed è proprio questo che mi preoccupa...» «Ci sono tutti i motivi.» «No, lei non capisce. Mi passa per la mente un terribile sospetto: e se Francine correva semplicemente verso un appuntamento galante? Cosa ne dice? Se, invece di arrestare l'assassino, andiamo a effettuare una constatazione di adulterio? E col marito sulle nostre tracce? Cosa ne penserebbe, maresciallo?» Viaud crollò la testa gravemente. «Non credo. Sento dell'altro. Non si respira un'aria allegra. In ogni caso, possiamo già fare a meno della collaborazione del marito, della scrofa e del pastore, poiché sappiamo dove siamo diretti...» Era più facile da dire che da fare. Né il marito né il pastore né soprattutto Roseline volevano demordere. «Va bene. Caricateli a bordo» ordinò Laviolette. «Tanto peggio per loro se assisteranno a qualcosa di spiacevole.» Ma la scrofa? Alyre e il pastore non intendevano né ritornare né abbandonare la bestia legata a un albero. In sei, riuscirono a infornare l'enorme Roseline nel furgone. Ripartirono finalmente, a velocità più sostenuta. Claire era vissuta nell'angoscia tutto il giorno. Quella mattina, quell'ispettore magro ed elegante che alloggiava all'albergo si era di nuovo seduto vicino a lei, nell'atrio. Tentava da due giorni di persuaderla, con tutti i crismi di una corte discreta, che passare con lui due o tre ore in una camera non sarebbe stata una cosa grave né per l'uno né per l'altra. Un uomo che accarezza simili propositi si lascia sempre sfuggire qualcosa. Ha bisogno di sembrare molto importante. "Non avrò molto tempo per farle la corte" aveva detto. "Stiamo per arrestare l'assassino. Non restano che cinque sospetti in lizza... Non pensa che io e lei potremmo affrettare un po' le cose?" Cosa aveva risposto? "Non ci conti" o qualche altra insulsaggine. Nel pomeriggio, come tutta Banon, era andata a gironzolare, con Mambo al guinzaglio, verso le tartufaie che stavano battendo...
E adesso, sotto la sua finestra, riconoscibile dagli stivali, dal mantello, dalla camminata, aveva appena sorpreso Francine che attraversava la piazza. Dove stava andando? Era troppo presto per la messa. E poi, una come Francine va a messa? E a piedi! Da quando abitava a Banon, salvo in un'occasione ben precisa, aveva sempre visto quella donna sbattere la portiera dell'automobile... Tutti quei segni annunciavano l'epilogo... Bisognava risolversi... risolversi... L'ansietà, il peso delle sue responsabilità la schiacciavano. La fabbrica... L'azienda... Avere brigato tanto per vedersela strappare brutalmente dalle mani? No, non era possibile... Sui suoi tacchi di lusso, nel suo vestito di Saint-Laurent, si muoveva lentamente, da un capo all'altro della stanza. Di colpo si decise. Lasciò la stanza, uscì inosservata dall'albergo dove il baccano delle cucine orchestrava il brusio allegro del caffè pieno zeppo. Nelle scale ottenne il silenzio devoto dello sguattero foruncoloso che s'irrigidì sull'attenti, per cederle il passo. Sulla piazza, l'enorme Mercedes scintillava, torva, accanto agli abeti un po' brilli. S'installò al volante e si allacciò la cintura. 23 L'uomo, disteso sul letto, vestito di tutto punto, si abbandonava al silenzio. Poco dopo si sarebbe messo in marcia; ma nell'attesa, prima di recarsi, senza timori, alla messa di mezzanotte come ogni anno, bisognava camuffarsi, non dare adito, non frequentare altri uomini; non dover parlare né rispondere né sorridere. Ogni dieci minuti, all'incirca, l'ampia camera che aveva conosciuto tanta gioia risuonava, come pelle d'asino, di un botto sordo che faceva tremare tutto: muri, pareti, soffitto. La casa ondeggiava, in preda a una qualche misteriosa convulsione. Si aveva l'impressione di cadere in un vuoto d'aria. A ogni avvisaglia ci si diceva: "Questa volta ci siamo". Ma no, non c'eravamo. Eppure ci voleva una gran bella conoscenza del fenomeno per non temerlo ogni volta. L'uomo mostrò i denti in un riso muto al ricordo di tutte quelle, grasse e magre, bionde e brune, che di colpo si erano staccate da lui per correre, a chiappe nude, verso la porta, sotto il maglio del destino. "È la casa, stupida! Torna qui" Era la casa, curiosamente incurvata a falce di luna. I tetti avevano seguito la forma a corno. Trecento anni fa, sia per ignoranza, sia che avessero
voluto tentare il Signore o aggiungersi una penitenza, i frati minori avevano eretto la casa su una dolina in formazione. Poiché quella terra è come una gruviera in fermentazione. A volte scoppia come una pasta troppo farcita. Si squarcia in un bel buco vertiginoso, in fondo al quale le acque dell'eternità del mondo scintillano e mormorano al loro passaggio fra il cielo e il mare. Avevano risanato gli edifici alla meno peggio nel corso dei secoli, secondo il lento capriccio di quella fantasia geologica. Da più di cento anni ormai, il suolo non si era mosso. Ma non si era mai potuto evitare quello schiocco da corda di contrabbasso, quella repentina impressione di elasticità della terra, che si succedevano a intervalli regolari, nei profondi abissi. L'uomo, tutto vestito a festa, che giaceva sul letto, era nato in mezzo a quei sussulti del terreno subito reingurgitati. Vi era cresciuto. Ci si era sposato. Era solo. La moglie aveva portato il figlio dai suoi genitori, a Saint-Michel-l'Observatoire. "A te" aveva detto "ancora ancora mi ci abituerei, sono forte. Ma alla tua casa, non è possibile." L'uomo respirava con parsimonia. Bisognava mantenersi quieti. Sperava e aveva paura. Aveva una fifa boia, ma il suo sesso gli batteva sulla pancia. Francine! Gli bastava immaginarla per trovarsi in quella condizione. Sospirò. Era passato molto tempo dall'ultima volta... E per arrivare alla prossima mancavano ancora cinquemila franchi alla somma necessaria per offrirle il fermaglio di brillanti indispensabile perché concedesse un appuntamento... C'era stata la stagione dei tartufi, già insperata... Purtroppo gli effetti non si sarebbero visti che l'anno seguente e, per prima cosa, si dovevano trattare ancora parecchi alberi... Ma dopo... Avrebbe potuto coprire Francine di quei gioielli tanto desiderati. E del resto, non ce ne sarebbe stato più bisogno, poiché, in quel momento, avrebbe amato solo lui. Bastava che ci fosse soltanto una prossima volta... Immaginava tutto quello che le avrebbe fatto. Sarebbe stato così attento, si sarebbe così prodigato che lei avrebbe finito per godere. Sì... Avrebbe sentito tutto il suo corpo palpitare nell'orgasmo. Era questo che perseguiva. Era contro quel blocco immobile che lui adoperava le sue forze: quel braccio che lei si teneva davanti agli occhi, per tutto l'atto; quel corpo inerte, privo di reazioni, muto come un libro chiuso. Ah, in nome di Dio! Non era possibile. Stringeva i pugni. Il suo sesso si rivoltava come se l'avessero infilato in un anello di ferro rigido. La casa gonfiò il suo petto elastico. Si sentì cullato come su un'amaca. Risuonarono dei colpetti alla porta, giù in basso. Due colpi rapidi, intervallati. Restò fermo. Soprattutto non bisognava soccombere alla tentazione...
Non quella sera... Forse mai più... Era il suo lato pauroso, era il richiamo irresistibile a spingerlo davanti alla ghigliottina, verso il risveglio all'alba. Soffriva che non fosse già mezzanotte, che il campanile non suonasse la messa. Gli pareva che la Chiesa dovesse proteggerlo. In lui, la fede dell'infanzia ardeva ancora come un cero, attraverso il suo corpo rovinato dalle tentazioni del mondo. Soffriva di non potersi più confessare ormai... In basso, i colpi aumentavano, perdevano qualsiasi ritmo convenzionale, denunciavano smarrimento, panico... Alcuni sassolini crepitarono contro l'imposta. Restò calmo. Una voce gutturale, indignata, sconosciuta, lo investiva di ingiurie, lui, la casa, il paese. Se ne mescolava un'altra. I suoi zoccoli di legno si trascinavano sulle lastre ghiacciate della corte. Si alzò in silenzio, andò a spiare attraverso le persiane. Due poverelle, giovani e scarmigliate, l'una affiancata all'altra, procedevano sul sentiero di Montsalier. Maledisse quel sentiero invisibile, fonte di tutte le sue disgrazie. I primi tempi, gli hippy chiedevano vino, formaggio, patate. Saldavano il conto. Un giorno, ridendo, parlarono di hashish e che potevano pagarlo. Dimenticarono un pacchetto di semi, in un angolo del tavolo, come per distrazione... Era il periodo in cui faticava a colmare i buchi che i gusti di Francine praticavano nel suo bilancio. E di argomento in argomento... La cosa più difficile, sulle prime, era di resistere alle ragazze. Mancavano sempre di soldi per comperarsi la canapa. Allora si offrivano. Era la sua più bella prova d'amore a Francine: si rifiutava. Riservava le preziose sigarette a chi era solvibile, le altre... Sopportava la vista di quelle ragazze abili nell'esibire parte di corpi sovente superbi sotto gli stracci. Sopportava di vederle accarezzarsi davanti a lui, nella speranza che avrebbe ceduto e le avrebbe rifornite di droga gratis o quasi. Ma no! Si conservava per amore di Francine. Le ragazze lo mollavano coprendolo d'insulti, scarmigliate, disorientate... Si era assopito due minuti. Un rumore argentino ben conosciuto lo strappò dal sonno. Qualcuno armeggiava con la chiave sotto la pietra fossile, accanto alla porta. Balzò alla finestra. Al chiaro di luna, una sagoma in mantellina gli voltava la schiena, fluttuava affrettandosi verso l'atrio. Qualcuno di familiare e nel contempo di sconosciuto. Qualcuno di cui si sentivano scricchiolare gli stivali flosci. Stava per chiamare. Cambiò idea. Scese, senza rumore, per la scala di pietra. Il soggiorno era più illuminato del solito, durante quelle notti. Per Natale, aveva alimentato il fuoco con più generosità. L'anima incandescente dei
ceppi squartati si rifletteva sul noce del tavolo dove baluginava un piccolo fascio di luce che disseminava di stelle il bilanciere dell'orologio. Si avvicinò senza capire, e solo quando posò la mano su quella fredda realtà la verità gli folgorò la mente. Aprì la porta. Laggiù, a cento metri, sotto la teoria dei faggi, c'era Francine in fuga. Pensò di chiamarla, trattenerla, approfittare, magari, dell'occasione. Ma il piccolo fascio luminoso nel palmo della mano era freddo come un cadavere. C'era tutto: l'anello, la collana, il braccialetto col suo orologio tempestato di brillanti. Regnava un silenzio così profondo nel suo cuore che credeva di sentire il ticchettio di quell'orologio battergli in mano. Pezzi della sua vita crollavano intorno a lui come muri di pietra, a mano a mano che si figurava l'avvenimento. Se persino i gioielli non esercitavano più su Francine alcun potere, non sussistevano quindi più speranze di averla nel suo letto, tutta per sé per una notte intera; l'opportunità, finalmente, di trovare la chiave del suo orgasmo, di dominare le sue zone erogene così mutevoli, così fugaci, così accanitamente dissimulate... Capì due cose allo stesso tempo: che non l'avrebbe avuta mai più e che per lui rappresentava un pericolo mortale, il testimone ideale... Scagliò i monili contro Sa parete. Un'oscillazione della fattoria sulle fondamenta sottolineò il gesto, come un'eco. Nel suo furore, fu subito tentato di correrle dietro per strangolarla. Ma sotto l'orgoglio calpestato la prudenza del bracconiere sopravviveva ancora. In un attimo immaginò il modo radicale di ucciderla senza destare sospetti. Poco prima, attraverso le persiane, aveva notato che Francine vacillava sugli stivali. Ora, ieri mattina, il Dipartimento Strade aveva sgomberato la strada d'accesso, ma su entrambi i lati della scarpata permaneva una ripida trincea di neve alta dai sessanta agli ottanta centimetri. Infagottata com'era, Francine non avrebbe superato agevolmente la barriera e, se riusciva, sarebbe stato facile raggiungerla a piedi... Ma non le avrebbe permesso di superarla. L'avrebbe incalzata accelerando, rallentando, a scatti, frenando bruscamente. Avrebbe capito troppo tardi perché non l'acciuffava, perché non la schiacciava. Moriva di sfinimento. Le avrebbe fatto scoppiare il cuore. Le avrebbe fornito l'occasione di dimostrare che ne aveva uno... Avviò la 4 CV. Il suo esile sorriso crudele gli riapparve sul viso. La luna esplorava Lure. Folleggiava con una nuvola veloce che l'avvolgeva nelle sue volute, la vomitava fuori dai suoi lembi e finalmente si stac-
cava da quella corsa e la lasciava regnare sola in cielo dove offuscava le stelle. In quel chiarore, il furgone della gendarmeria raggiunse a fari spenti la cima della dolina che accoglieva la campagna di Frères. Una luce vegliava. Attraverso i faggi radi o all'improvviso fitti che la schermavano con la loro trama chiara di alberi invernali, si indovinava la casa come in filigrana. Vi si accedeva dopo tre ampi tornanti, accentuati un tempo dai monaci, sui fianchi di quell'immenso imbuto, e di recente rettificati dai bulldozer. Il Dipartimento Strade era passato la mattina prima e un muretto di neve, alto sessanta centimetri e il doppio nelle curve, disegnava il tracciato. Il fosso della distilleria, in compenso, che tagliava la strada ad angolo retto, brillava di una crosta di ghiaccio. In alto, contro le lamiere di un capannone, era ormeggiata un'automobile chiara, che luccicava al chiaro di luna. "Che relitto" disse fra sé Laviolette. Gli alti alberi fremevano per un motivo conosciuto solo da loro. Il maresciallo Viaud, i due gendarmi, Alyre e il pastore scendevano dal veicolo scosso dai saltellamenti di Roseline che girava in tondo. Erano tutti immobili ai bordi della dolina, come uno stato maggiore sovrastante un campo di battaglia. "Un campo di battaglia d'amore" pensò Laviolette. "Quella Francine è venuta a trovare l'amante di nascosto, a festeggiare il Natale con lui... Il fatto che non abbia adoperato la sua macchina prova eccome che vuole passare inosservata... E io, come una testa di rapa, seguo la scrofa che grida all'assassino... All'assassino! Santo Dio!" Il velo che gli mascherava la verità si squarciava bruscamente davanti ai suoi occhi, con un rumore sinistro. S'imbavagliò la bocca con la mano per soffocare l'orrore. «Che cos'ha?» disse Viaud. In lontananza, verso la fattoria, alla fine della tettoia, sul lato destro prima dei tre tornanti, formica nera sul terreno bianco, una donna correva. A tratti cercava di scavalcare la scarpata per fuggire in piena campagna, ma scivolava sulla neve ghiacciata. Lanciata alle sue calcagna, a meno di dieci metri, a fari spenti, una 4 CV traballava, a velocità ridotta, forzando la marcia su quelle catene da incubo. «Francine» urlò Alyre. Lui e il pastore, seguiti da due gendarmi, si gettarono attraverso la neve, verso quella figura sottile che correva. Era troppo lontana per sentirli. Era
troppo lontana perché potessero aiutarla. Cadde. La 4 CV si avventò su di lei per toccarla, aumentando il frastuono. "Le farà scoppiare il cuore" si disse Laviolette. "Prima di averla raggiunta, sarà morta. Sono proprio il re dei fessi." Francine si rialzava, riprendeva la corsa, un po' sconnessa, un po' disordinata. La 4 CV muggiva dietro di lei, scivolando... frenando... scivolando... frenando... «Francine» urlava Alyre. Precedeva tutti gli altri di cinquanta metri. Vedeva chiaramente la 4 CV che ringhiava dietro Francine, ma che accelerava soltanto quel poco necessario perché la preda fosse obbligata a correre più forte delle sue possibilità. Quattrocento metri separavano ancora Alyre da Francine, e cinquecento i gendarmi distanziati dalla 4 CV. L'uomo, al volante, doveva essere così ostinato in quella caccia da non distinguere, in lontananza, sotto la luna, quei quattro uomini che urlavano, gesticolavano, convergevano verso di lui. Lassù, in cima alla dolina, stavano Laviolette, conscio della sua impotenza, e Viaud, che dava ordini ai suoi uomini con il walkie-talkie. «Appena siete a tiro, mirate alle gomme.» «Non arriveranno in tempo» osservò il commissario. Alle loro spalle, nel furgone, Roseline emetteva gridi spaventosi cercando di sfondare le pareti. Un'intuizione repentina colse Laviolette. Aggirò il furgone e liberò la scrofa che per poco non lo mandò a gambe all'aria. Senza guardare né a destra né a sinistra, Roseline fiondò diritta verso quella forma scura che, a oltre cinquecento metri, vacillava davanti alla 4 CV, e ne era letteralmente spinta. Roseline lanciava vere urla di guerra. «Guardi» gridò Laviolette. Indicava lassù, contro le lamiere della distilleria, il veicolo che aveva confuso con un relitto e che a sua volta si stava muovendo. Precipitava, a fari spenti, sul fosso ghiacciato con uno slalom vertiginoso che lo proiettava da una carreggiata all'altra. Si bloccò bruscamente, all'incrocio del borro dissestato e della strada principale. «La Mercedes di Claire» ansimò Laviolette. «Cosa sta facendo qui?» domandò Viaud. Francine, correndo e vacillando, superava senza vederla la macchina imboscata fra i sorbi. Dietro di lei, a dieci metri, passò anche la 4 CV. Solo allora la Mercedes si avviò, mettendosi sulla scia di quest'ultima. Di colpo
accese tutte le luci, i quattro fari e gli antinebbia. Accelerò, riacciuffò la 4 CV. In cima alla dolina, Laviolette e Viaud percepirono un rumore sordo. La 4 CV, proiettata da un scarpata all'altra, zigzagò, riprese l'equilibrio, ruggì tentando di scappare. Ma ormai la Mercedes la urtava di nuovo, più forte. La vetturetta si afflosciò sugli ammortizzatori e s'inchiodò. La Mercedes indietreggiò di dieci metri, prese la rincorsa, ritornò a tutto gas contro l'ostacolo. Francine, durante quell'intermezzo, aveva distanziato il suo inseguitore di venti metri. Cadde, restò distesa al suolo. Sentì su di sé un alito caldo emesso da un enorme soffio di caldaia. Roseline si coricò contro di lei, dalla parte da dove veniva il pericolo. Lo stridio indimenticabile della lamiera martirizzata echeggiò nella notte. Era la Mercedes che sfondava la 4 CV, che l'ormeggiava contro la scarpata di neve, che indietreggiava, che ritornava al rombo della prima marcia. Come un carro armato, spazzò il veicolo leggero e la scarpata di neve. Trascinò davanti a sé per tre metri la sua preda e la stampò infine contro il tronco di un immenso faggio, che fremette sino alla punta dei rami. «Sparate alle gomme» urlava Viaud. Si succedettero quattro detonazioni. La Mercedes si bloccò sulle ruote. Alyre e il pastore si abbattevano senza fiato sul corpo di Francine. Alyre le baciava le gambe; il pastore, tremante, le cercava il cuore sotto il reggipetto. Mai avrebbe dimenticato quell'istante... «È viva» gridò ad Alyre. «È viva.» «E Roseline?» domandò Alyre. L'animale gli leccò la faccia a riprova che reggeva la stanchezza. Erano lì, tutti e tre, a occhi sbarrati: Roseline, Alyre, il pastore. Viaud e Laviolette si precipitarono giù dai tornanti; i gendarmi correvano verso la Mercedes. Nella notte era piombato il silenzio, salvo il povero gemito di un uomo che credeva di urlare. Riuscirono a estrarlo dalla 4 CV accartocciata, a coricarlo sulla neve. Sotto la luna, il suo viso da selvaggio seduttore era sempre così meraviglioso da contemplare. Impiegò dieci minuti a morire, nello scheletro delle sue ossa spezzate. Credette di gridare tre volte, cercando di sollevarsi: «Un prete! Voglio un prete.» Ma non era che un mormorio. Solo Laviolette lo intese. Mentre lo reggeva nella morte, pensava alla carotide di Brèdes. Ma ciò non lo consolava. Illesa, slacciando la cintura, Claire Piochet scendeva dalla Mercedes,
andava a contemplare la sua vittima moribonda, ansiosa davanti a quelle labbra che si muovevano ancora. «Gliel'avevo detto, commissario, che sarei arrivata prima di lei...» Laviolette non rispose subito. Prima chiuse gli occhi di Albert Pipeau, l'uomo pieno di donne. Pipeau, suonatore di flauto, non ne avrebbe più suonati. Si raddrizzò lentamente. Scrutò il viso di Claire, i suoi occhi, che bisognava essere pazzi per non innamorarsene. «Claire» disse «la arresto per l'omicidio di Albert Pipeau, ma anche per l'assassinio di Jérémie Piochet, suo fratello.» «Non le sarà facile dimostrarlo» replicò con la massima calma. «Non si preoccupi, riuscirò a convincere intimamente una giuria. Ha un ottimo movente e ha commesso un sacco di errori. Su, mettetele le manette. Se le merita.» «Esigo un avvocato» proclamò Claire. «Tutto quello che vuole» disse Laviolette. «Rispettiamo la notte di Natale. Parleremo più tardi.» La campana, al paese, chiamava i fedeli. Un gendarme si era affrettato a trasmettere un messaggio, ordinando una vettura per Albert. Risalirono tutti, lentamente, verso il furgone. Il grugno di Roseline si trascinava nella neve, tanto era prostrata dalle sciagure umane. Si intuiva che preferiva essere scrofa. La issarono, nuovamente, sul veicolo. Il respiro di Francine a poco a poco si calmava. Ognuno, accasciato sui sedili, riprendeva fiato. Claire si contemplava i polsi rinchiusi nei braccialetti d'acciaio. Francine la squadrò un attimo. «Alyre» disse di colpo. «Dammi la mano. Credo che parlerò.» E parlò. 24 «Rosemonde» disse Laviolette «togli il catenaccio. Ti racconto una storia d'amore. Ne hai diritto. Mi aspettano in gendarmeria per la conferenza stampa, ma tu meriti la precedenza...» Aveva già la valigia e il sacco blu mare accanto a sé, sulla panca. Si arrotolava una sigaretta. «Vedi, Rosemonde, quell'Albert Pipeau, quell'uomo pieno di donne, ne voleva una sola e lei non lo voleva.» «Chi?» domandò Rosemonde come se l'avessero punta. «C'era una don-
na che non voleva Albert?» «Francine.» Rosemonde si batté sulla coscia. «È la seconda volta che ho l'impressione di sentire nella testa le campane di Westminster.» Restò due secondi pensierosa. «Il più bell'uomo nel raggio di trenta chilometri, e la donna più calda del paese... E allora... allora non era ipocrisia?» «Cosa vuoi dire?» «Questo: sembra che quella bella signora non potesse sopportare la sua pelle, sembra che non potesse sopportarlo a tre metri di distanza. È la cosa che ripeteva in continuazione. È io mi dicevo: "Si atteggia un po'. È evidente". Non credo ai miei orecchi. Eppure, ne ho visto di cose! Quando eravamo a una riunione o a una festa e loro stavano abbastanza vicini, a volte, come si fa tra amici d'infanzia, le posava la sua bella mano sulla spalla. Ah, bisognava vederla, si annientava sotto quel peso, allontanava la spalla, come se gliel'avessero sporcata nel toccarla. Indietreggiava imbarazzata in tutta la sua persona, come...» disse Rosemonde cercando un paragone «come le corna di una lumaca, quando per caso ci metti il dito sopra...» «Si ritraeva...» «Esatto. Si ritraeva. Lo avvertivo benissimo. Si sarebbe ritratta in quel modo fino a diventare una palla. Un riccio.» «Ritratta fin nell'anima...» precisò Laviolette. «Esatto. Fin nell'anima. Allora era vero. Allora non era ipocrisia? Era vero? Avrei dovuto immaginarmi che non poteva recitare così bene.» «Cosa vuoi farci, mia cara Rosemonde, da quanto ci ha raccontato, Francine, con una profusione di particolari inauditi, credo che la paura che aveva appena provato l'avesse frastornata come fosse champagne... era l'unica pelle che la raggelava fino al midollo. "Una pelle" dice "che mi faceva l'effetto di un serpente."» «Albert» ripeté Rosemonde con fervore. «Ragazze hippy, borghesi, contadine, giovani, meno giovani, villeggianti, parigine; l'amante del generale che comandava la base; alcune che non posso citare... Una notte che non dormivo, ho tenuto il conto soltanto di quelle che conoscevo: deve averne possedute centocinquanta.» Restò pensierosa alcuni secondi. «Ha fatto bene ad approfittarne.» «Sì» riprese Laviolette «centocinquanta, ma non Francine. Oh, nota che
da principio non le badava molto. Non stava al primo posto nelle sue bramosie...» «Perdio! La Francine non è vistosa. Certo che a forza di guardarla gli uomini cominciano a pensare: "Eh, però...".» «Si era ripromesso: "L'avrò quando voglio. Fa la distaccata, ma basterà tenerla ferma...". Insomma, quello che gli uomini pensano in quei momenti...» «Ma... Mi scusi se la interrompo... Le ha confessato tutto questo davanti ad Alyre, da quanto ho potuto capire?» «Come no. Tutto, naturalmente.» «Ma che atteggiamento aveva Alyre?» «Il migliore del mondo: le teneva la mano e se la mangiava con gli occhi. Cerca di capire: aveva rischiato di perderla.» Rosemonde alzò lo sguardo al soffitto e batté le mani schioccandole come un applauso. «E poi, un giorno, Albert ha creduto che fosse il momento buono. Era d'agosto. Stava portando la lavanda alla distilleria. Sai che guida il trattore, no? Lei racconta: "Ero tutta sudata. Ero tutta piena di spighe di lavanda. Avevo un vestitino sporco e un reggiseno che non si presentava meglio. Albert era solo. Mi sono passata il fazzoletto nel reggiseno per togliermi i fiori di lavanda che mi davano fastidio. D'accordo, riconosco che ho fatto male...". Senza dire né ahi né bai, col pretesto di aiutarla a scendere dal trattore, quello l'ha sollevata e le si è incollato addosso, e subito, con la mano e col resto, è andato a cercarne le intimità. Neppure lei ha detto ahi né bai; ha alzato il ginocchio con un colpo secco contro le sue parti sensibili, lui ha mollato immediatamente la presa. Francine è corsa verso l'alambicco nel cui focolare c'era una sbarra incandescente. Se n'è impadronita e gli ha detto: "Se tenti di mettermi le mani addosso, ti faccio una croce sul muso che lo rimpiangerai per sempre. Nessuno ti guarderà mai più".» «Esagerava un po'.» «È quello che ho tentato di dirle, ma mi ha risposto: "Andrebbe a letto, lei, con un serpente?". Credi che lui se l'è tenuto per detto? L'ha preso per un capriccio. Ha creduto che avesse le mestruazioni. Ha creduto qualsiasi cosa invece della verità. Te la faccio breve. A poco a poco, lei occupa i suoi pensieri, lui va a letto con altre, ma di una sola... Insomma... mi capisci... La osserva. Alyre parla sempre con orgoglio della bigiotteria della moglie. Quello ha la mania di decantare Francine. Un giorno, a una fiera, Albert compera forse centocinquanta franchi di bigiotteria. Ci prova con le
maniere dolci. "Ce n'era almeno mezzo chilo" dice Francine. Lei gli ride in faccia.» Laviolette si accese una sigaretta e riprese: «La faccenda si mette male. Francine diventa un astro nella mente di Albert. Quando si sveglia, di notte, nel traballio della casa, invece di attingere fra quei centocinquanta ricordi concreti, ne sceglie uno che è astratto. Arrossisce quando la incontra. Comincia a perdere colpi vergognosamente nelle sue notti d'amore, l'ha confessato a Francine. Conosciamo il giorno in cui ha ritirato cinquantamila franchi dalla banca; il giorno in cui ha comperato quell'orologio con bracciale a Marsiglia, da un gioielliere di rue de Rome. In che giorno ha aperto lo scrigno davanti a Francine abbagliata? Le donne che amano i gioielli riconoscono subito quelli veri anche se non ne hanno mai avuti. Da allora, ci sono due insonni a Banon. Albert non dorme più a causa di Francine. Francine non dorme più a causa del bracciale. "Dopotutto... No, non è possibile! No, non posso! È fantastico quell'orologio." Te la racconto in due parole, ma i suoi tentennamenti occupano un'intera pagina del rapporto. Tre mesi! Tre mesi dopo gli telefona: "Martedì, in rue Sylvabelle, alle dieci, se porti il bracciale".» S'interruppe per arrotolarsi un'altra sigaretta e respirò profondamente. «Comincia proprio qui, cara Rosemonde, la storia d'amore. Poiché Albert, sempre ottimista, si è detto che, in un batter d'occhio, sarebbe caduta ai suoi piedi. "Ora" dice Francine "se non avessi tenuto stretto in mano il bracciale, credo che sarei morta di disgusto. Ci ho messo otto giorni a lavarmi moralmente. Non osavo più toccarmi la pelle. Tenevo le mani lontane da me per non sfiorarmi. Mi sono giurata: mai più." Albert stringe fra le braccia un sacco di patate. È completamente stordito. Sei mesi dopo, è la volta della collana. Otto mesi dopo, nuovo sacrificio di Francine. Stringe di nuovo un sacco floscio. Cosa vuoi farci? Quando due pelli sono incompatibili, ci puoi mettere di mezzo Dio onnipotente, non potrà porvi rimedio. E la pelle di Albert provocava revulsione alla pelle di Francine...» «E dire che tante altre si struggevano per lui... e lui non le ha neppure guardate.» «Cosa vuoi, Rosemonde, come dice Molière: "Il mondo, cara Agnese, è una strana cosa". Insomma, ecco: è il momento in cui Albert comincia a seminare qua e là, nei suoi terreni, qualche pianta di canapa indiana, poiché il buco che ha fatto nel suo conto in banca, difficilmente può tapparlo. Ci sono le scadenze del Crédit agricole. La lavanda si vende male. L'azienda per gli interventi sul mercato agricolo ne ha appena ritirati ancora
duecento tonnellate... Il miele è scuro, perché le api hanno bottinato troppo sui fiori di quercia. I marsigliesi lo rifiutano. Tuttavia, Francine lo ossessiona, lo soggioga sempre più. In fondo, è la storia di Pigmalione, un greco che voleva animare una statua.» «Capisco» disse Rosemonde. «Sogna soltanto la prossima volta. Si mette a giocare ai cavalli o al lotto. Dice fra sé: "Vedrai, la prossima volta andrà bene. Non è possibile che non giri".» «Come sa che è così?» «Mia cara Rosemonde» disse passando la lingua sulla sigaretta «non c'è un uomo su cento che, un giorno, non se lo sia detto per una donna... Così, lui anticipa. Preleva ancora sessantamila franchi sul suo conto, tre mesi prima di una scadenza per la quale li teneva di riserva, e corre a Marsiglia per comprare l'anello.» «Che baldracca!» soffiò Rosemonde. «In maggio si ritrovano entrambi in rue Sylvabelle, per la terza e ultima volta. Con lo stesso risultato negativo, come dicono gli scienziati. Non so se ti rendi conto che, nel frattempo, Albert si è letteralmente rovinato. Deve porre sulla proprietà la prima ipoteca della sua vita. La stagione dei tartufi è stata catastrofica e Frantine adesso è nella sua testa come un cancro che ingigantisce.» «Una bella baldracca!» ripeté Rosemonde. «È a questo punto che Albert, veterano della guerra d'Algeria, viene invitato dal mio amico Brèdes al ricevimento degli ex combattenti. Tutti hanno bevuto, tutti sono un po' brilli; il tempo è brutto, sono un po' inoperosi. Vagano da una stanza all'altra. Qualcuno scorge un libro sul leggio, lo sfoglia... Suppongo che Brèdes l'abbia visto. Si avvicina. Suppongo che gli dica... mi sembra di sentirlo» fece con malinconia «disinvolto, aria un po' da gran signore, possiamo dirlo adesso che è morto... "Guardate questo libro. Toh, c'è proprio qualcosa che interessa i tartufai. Aspettate. È molto divertente. Ve lo leggo." E glielo legge.» Trasse di tasca il volume sporco, marrone. «Te lo tradurrò anche, perché è in vecchio francese, ma ecco cosa dice...» Aprì il libro. Ricetta per avere profusione di tartufi aspergendo le tartufaie di sangue umano.
«Che orrore» esclamò Rosemonde. Laviolette continuò imperturbabile. Se disponete di qualche pinta di sangue umano fresco e lo spargete sulle tartufaie, vi troverete ad avere un raccolto mai visto per abbondanza. I monaci di Yeusefilt lo tramandano nelle loro cronache. A quell'epoca, un folto gruppo di contadini fu accerchiato dai conti nelle suddette tartufaie di Yeusefilt e ne fu fatto uno scempio così strabiliante che il lavoro ingrato dei monaci incaricati della sepoltura avveniva nella terra impregnata di sangue come dopo una pioggia battente. E venne l'anno nuovo e poi un'abbondante e benedetta raccolta di tartufi come mai se ne vide. I conti di Taillerang che allora languivano nel Périgord presero l'abitudine, a ogni occasione, di compiere un simile scempio di contadini nelle loro tartufaie, e se ne trovavano molto bene. «Mio Dio» ansimò Rosemonde. «Non è possibile. Non era pazzo fino a questo punto.» «Un momento. Ti leggo due pagine di orrore che deve meditare chi vuole sperimentare la ricetta...» Proseguì la lettura: Ma l'interessato dovrà sempre badare che, così facendo, tratta con l'Angelo nero e dovrà durante la sua opera badare a questi con qualche artificio appropriato... Laviolette afferrò, al suo fianco, un plico accuratamente legato e numerato. "Corpo del reato n. 12." Ne trasse con precauzione un oggetto leggero come una libellula che dispiegò davanti a Rosemonde e fece danzare sulla mano come una marionetta. Era il cappello di paglia nero e la sua funebre veletta a pois. «Mio Dio» disse Rosemonde. «È il velo dell'Uillaoude. La mia povera madre che si era fidata di lei, che aveva fatto affidamento su di lei! Trent'anni dopo mi si gela ancora il sangue.» «Eccolo, "l'artificio appropriato". Con quello, mentre innaffiava le sue tartufaie col sangue delle vittime, si proteggeva dal diavolo. Hanno faticato a trovarlo in casa sua: l'aveva appeso alla catena del pozzo. A metà strada
fra il parapetto e l'acqua, venti metri più in basso. Col coltello... Me ne ha parlato Alyre dopo che l'aveva visto, quel velo, la sera in cui la sua scrofa è stata aggredita. Roseline deve avere sorpreso Albert all'opera... Di fronte a quei centottanta chili che si avventavano su di lui, al buio, ha avuto solo il tempo di mollare tutto e di difendersi a pietrate. Se Alyre mi avesse detto prima...» «Mio Dio» gemette Rosemonde. «Come possono ancora esistere nella testa di un uomo simili orrori?» «Quando in testa si ha un chiodo fisso, tutto è possibile. Albert, come tutti, ascolta ridacchiando, ma ha la mente un po' fragile e, inoltre, non dimenticare, è nipote dell'Uillaoude. Ha succhiato il latte del paranormale sin dall'infanzia, assieme al dialetto sibillino. Porta la cravatta, ha l'automobile, è pieno di donne, ma sotto sotto è suonato come una campana. Insomma. Frega il libro. Forse per attingervi qualche altra ricetta. E in quel periodo, non dimenticarlo, la sua clientela hippy per la canapa aumenta. Gli affari vanno bene. Chi andrebbe a sospettare Albert Pipeau nella solitudine della campagna di Banon? Ci vanno di sera. Fumano. Bevono un po'. Si stravaccano. Si assopiscono. Albert rilegge il passo fatidico. Presto lo sa a memoria. Si rammenta anche che in famiglia ammazzano maiali di padre in figlio. Ai travetti della stalla c'è ancora appesa la carrucola con un enorme uncino che serviva a issare la bestia prima di sventrarla. Guarda anche la grossa chiave della cappella protestante, agganciata al chiodo del calendario delle Poste. Ogni anno, si getta il calendario e ci si rimette la chiave, meccanicamente. Chissà da quando. È lì da generazioni. Porta un'etichetta. Nessuno sa perché sia lì. "Una raccolta così abbondante che mai se ne vide" si racconta Albert. Gli manca un milione per offrire un fermaglio di brillanti a Francine... Chissà. Se con una straordinaria raccolta di tartufi... E la mostruosa idea cresce nella sua mente: "Se provassi?". E, una sera...» «La prego...» gemette Rosemonde coprendosi la faccia. «Te la faccio corta per riguardo alla tua sensibilità... Ma lo vedo, lo vedo, con la sua 4 CV traballante, viaggiare di notte, col cadavere nascosto in un sacco, sul sedile posteriore, per andare a deporlo nella cappella protestante; e il secchio di sangue mischiato a sabbia, accanto a lui, per andare a spargerlo sulle tartufaie. Argomento probante: le analisi dei prelievi hanno rivelato sotto sette alberi diversi notevoli tracce di sangue umano; uno, addirittura, corrispondeva al gruppo sanguigno di una vittima. E forse Albert avrebbe conosciuto la sua quarta notte con Francine se non si fosse fatto
pizzicare come un pollo, sulla piazza di Banon, la notte dell'incidente d'auto. Ma forse anche se fra tutti quei delitti, tutto sommato poetici, non se ne fosse commesso uno vero, uno sordido, uno con un motivo del tutto plausibile. Uno, come li ama il pubblico, assolutamente decente: un delitto con i soldi per movente. Claire Piochet come ha conosciuto Albert? Non parla. Gli indizi sono tenui contro di lei. Ma comunque credo che il pubblico ministero avrà la sua pelle. Negli ultimi sei mesi, se ne ritrovano le tracce a Banon, in due riprese; deve aver seguito il fratello, cercato di persuaderlo, supplicato di ritornare a casa.» «Perché, cosa voleva fare lui?» «Jérémie Piochet è morto vittima di quest'articolo del codice: "Nessuno è obbligato a restare in comunione di beni". Sua madre è deceduta sei mesi fa. Lascia venti milioni (nuovi franchi), costituiti da una fabbrica di materie plastiche nell'Ain. Ora, Jérémie Piochet ne ha abbastanza di quella fabbrica e di quella società. Ama gli amici, la vita da vagabondo, la libertà, gli ideali, le ragazze. Ma, l'autopsia lo dimostrerà, non fuma hashish. Voleva, ci ha informati l'avvocato di famiglia, donare la sua parte ad alcune comunità. Ora, l'officina vale venti milioni. Un gruppo gli sta appresso come acquirente. Jérémie vuole vendere. Jérémie non è obbligato a restare in comunione di beni. Per Claire, che è ingegnere chimico, la fabbrica è tutta la sua vita. È proprio questa vita che Jérémie minaccia, poiché la sorella non ha i mezzi per riscattare la sua parte. Quando? Come l'ha ucciso? In un momento di collera? Con premeditazione? In ogni caso, ha ucciso Albert perché non possa parlare, quindi si conoscevano, quindi avevano fatto comunella. Sto dicendo che forse Albert avrebbe potuto cavarsela? Che avrebbe potuto continuare ancora a lungo la concimazione delle tartufaie? Sì, ma c'è il cane di Jérémie. Il bassotto che non lo mollava, che non conosceva sua sorella e che lei probabilmente ha perso dopo l'omicidio. Il bassotto cerca il suo padrone. Il bassotto scopre la cappella protestante di cui nessuno si è preoccupato, per via del fitto boschetto che la maschera da così tanto tempo che tutti se ne sono dimenticati. E quale più bel posto, domando io, di una cappella per nascondere cadaveri? Chi andrebbe a pensare a una cappella? Nessuno. Salvo l'ineguagliabile Roseline che sbuffa da tempo davanti a quel boschetto di lauri. Quella Roseline... Mi farò fotografare vicino a lei, prima di andarmene... È lei il vero segugio della vicenda...» Riprese: «Claire ha commesso quattro errori: doveva eliminare il cane. Doveva uccidere Jérémie con la stessa arma che adoperava Albert e nella
stessa maniera. Il fatto che non vi abbia provveduto depone a suo favore: l'omicidio non era senz'altro premeditato ed è probabile che non conoscesse i metodi di Albert, quindi che non fosse sua complice negli altri omicidi. Secondo, il cadavere non era allineato come gli altri. Non era collocato in ordine cronologico, ordine che fino allora Albert - per quale motivo? aveva scrupolosamente rispettato. Terzo, doveva sbarazzarsi dell'arma del delitto. L'abbiamo rinvenuta nel baule della Mercedes. È una chiave inglese. Claire l'aveva accuratamente pulita e lavata. Ma il microscopio elettronico è come il rimorso di lady Macbeth: con quello affiora tutto in superficie. Grazie a quello abbiamo anche scoperto il quarto errore di Claire. La notte dell'omicidio, ha appeso il cappotto ai cardi argentati che si rizzavano nel giardino della cappella. Ci ha lasciato - oh, Rosemonde... grosso come una ragnatela - un filo di tessuto identico a quello del cappotto che abbiamo sequestrato nella sua stanza, al momento della perquisizione. E quel cappotto, Rosemonde, si dà il caso che in Francia, le abbiamo censite, lo portino solo cento persone in questo momento e nessuna di loro poteva trovarsi nella cappella protestante all'epoca in cui Jérémie Piochet vi è stato trasportato. Ecco tutto.» Mandò un profondo sospiro e riprese: «E quanto a me, mia cara Rosemonde, dovrei dare le dimissioni dalla polizia, perché se il mio amico Brèdes è morto, è colpa mia...» «Come, colpa sua?» «Sì. Perché, il mattino che stavo per andare a pranzo dal marchese, sono passato sulla piazza dove giocavano a bocce, e Alyre Morelon aveva appena portato là Roseline e Roseline gridava all'assassino, e sai davanti a chi gridava all'assassino, tirando all'indietro più che poteva? Ebbene, davanti ad Albert Pipeau. Lo vedo come fosse adesso. Gli ho stretto la mano e aveva gli occhi terrorizzati. Perché, capisci, i Pipeau, di padre in figlio sono sempre stati degli ammazzamaiali. E ai maiali, quando arriva il macellaio, bisogna non farglielo vedere. Roseline gridava all'assassino proprio perché ne vedeva uno. La cosa avrebbe dovuto mettermi una pulce nell'orecchio, in seguito, ripensandoci...» Si alzò. Le aveva detto tutto all'incirca. Il povero Mambo, seduto sulla panca, aspettava rassegnato che stabilissero la sua sorte. «Cosa ne farà?» disse Rosemonde. «Oh, ho una specie di rifugio a Piégut, dove ce ne sono già otto. Me li cura un guardiacaccia in pensione. Non starà male.» «Me lo lasci per ricordo» fece Rosemonde.
«Perché per ricordo? Godiamo di licenze in polizia... E a Banon non ho il divieto di soggiorno.» «Non da me, in ogni caso... Oh, sono tanto sconvolta per tutta la faccenda. Pensa veramente che sia per questo che Albert ha commesso così tanti delitti? Pensa che fosse pazzo al punto di credere a quegli sciocchi libri per fattucchiere?» «E allora per che cosa, secondo te?» «Per solitudine» affermò Rosemonde. Non riuscì a cavarne altro. All'ultimo mercato di dicembre, l'ultimo dell'anno, l'Uillaoude, stracarica di due cesti di tartufi, mentre gli altri facevano fatica ad arrivare al chilo giornaliero, irruppe davanti al mediatore, in mezzo a una cerchia allargatasi per incanto. «Sono quelli di suo nipote, Uillaoude?» «Cosa credi? Che li lasci perdere? Questa roba mi spetta, ho su un'ipoteca, e ce ne sono più di quanti potrebbe benedirne un prete.» «Senta, li porti un po' ad Apt, se non le dispiace, eh? Crollava le spalle.» «Io sono qui per farti un favore. Ne raccolgo otto chili al giorno. Tutti dagli ottanta ai cento grammi e rotondi come una palla. Tartufi da emiri arabi. Sentili un po'. Annusami quest'aroma.» Ma come se l'Uillaoude lo costringesse a mangiarli, il mediatore indietreggiava inorridito. Le sue labbra si arricciavano sui denti d'oro. «Ah, va'!» ribatté lei con commiserazione. «Riprendo la mia strada. Visto che non l'avete ancora finita di credere alle streghe. Quando penso che un giovanotto della tua età crede a quella storia!» «Ma la polizia...» «La polizia. Tu ci credi alla polizia? Io ti dico che quei delitti sono ancora opera della CIA. E mio nipote, poveretto, l'hanno ucciso perché non parlasse.» Alla fin fine era questa la versione dei fatti che doveva prevalere a Banon. Il pastore captava nel bilanciere dell'orologio il suo ultimo fantasma della serata e l'accompagnava fino allo scarico del lavello: hop! «Devo andarmene» annunciò lui «ma ritornerò... A pensarci bene, finirò legge. E poi, a Banon, comprerò lo studio del dottor Lagardère che è diventato vecchio. Farò il notaio, come mio padre, perché, a conti fatti, le li-
bere professioni...» Francine, che riponeva le stoviglie nella credenza, restò con le braccia in aria. Voltata verso il pastore, cercava d'immaginarlo al meglio, con una cravatta firmata, un anello con sigillo e le unghie curate e i capelli tagliati. «Ah, tu?» disse Alyre. Si sentiva a disagio. Gli mancava qualcosa. Sua moglie, con il collo nudo, senza collana di perle; il braccio nudo, senza orologio; le dita nude, soltanto con una vera da pochi soldi; la moglie gli sembrava povera e la cosa gli stringeva il cuore. Quando il pastore ebbe lasciato la stanza, domandò: «Dimmi un po', Francine... In fondo, quei trecentomila franchi che abbiamo alla cassa di risparmio o in buoni del Tesoro... E quei pochi Luigi d'oro che sono appesi in un sacco nella mangiatoia di Roseline... Cosa ne pensi, se li convertissimo in gioielli? In fondo, i diamanti si conservano... Acquistano valore... E in caso di rivoluzione...» Francine ruotò bruscamente verso di lui. Piangeva. «Vuoi che ti dica una cosa, Alyre? Ti amo.» Alyre si voltò. Uscì nella corte. Si diresse verso il porcile dove Roseline stava grufolando dolcemente in attesa del suo saluto. Era contento come una pasqua. FINE