LAURELL K. HAMILTON IL TOCCO DELLA NOTTE (A Caress Of Twilight, 2002) Per J., che mi ha portato innumerevoli tazze di ch...
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LAURELL K. HAMILTON IL TOCCO DELLA NOTTE (A Caress Of Twilight, 2002) Per J., che mi ha portato innumerevoli tazze di chai e, per la prima volta, ha assistito al procedimento dall'inizio alla fine. Lui mi ama ancora, e quelli di voi che hanno sposato un artista sanno quanto questo dica di noi due. 1 La luce lunare inargentava la stanza, tingendo il letto in cento sfumature di perla, indaco e nero. I due uomini stesi tra le coltri dormivano profondamente; così profondamente che, quando mi alzai tra loro e scivolai via, si mossero appena. La mia pelle brillava candida nel bacio della luna; il rosso puro dei miei capelli sembrava nero. M'infilai una veste di seta, perché stavo tremando. Può darsi che la California sia il Paese del sole, ma nell'umido buio della notte, quando l'alba è ancora un sogno lontano, fa freddo. E quella che alitava rugiada tra le persiane aperte era una notte di dicembre. Se fossi stata a casa mia, in Illinois, l'aria avrebbe avuto il pungente sapore della neve, così asprigno da fondersi sulla lingua, così gelido che respirato in fretta è una lama di ghiaccio rovente nei polmoni; quella per me era l'aria dei primi giorni di dicembre. Ma la brezza che agitava le tende alle mie spalle portava dentro il profumo degli eucalipti, e la certezza che a poca distanza c'era il mare: l'odore del salmastro, dell'acqua e di qualcos'altro, qualità indefinibili che parlavano di correnti amare non amiche dell'organismo umano. Niente di potabile. Anche in riva all'oceano si poteva morire di sete. Da tre anni mi trovavo sulla riva di quell'oceano, e ogni giorno morivo un poco. Non letteralmente - sarei sopravvissuta - ma la semplice sopravvivenza può essere piuttosto malinconica. Per nascita io ero la principessa Meredith NicEssus, e appartenevo alla suprema Corte di Faerie. Ero un'autentica principessa di Faerie, l'unica mai nata sul territorio americano. Quand'ero scomparsa dalla vita pubblica, tre anni addietro, la televisione e i giornali erano impazziti. I supposti avvistamenti della «principessa degli elfi americani» avevano rivaleggiato con quelli di Elvis redivivo. La mia presenza era stata segnalata in ogni angolo del mondo; in realtà, non mi ero mai mossa da Los Angeles. Mi nascondevo tra la gente sotto l'identità
di Meredith Gentry, Merry per gli amici. Una degli umani con antenati fey al servizio della Grey Detective Agency, agenzia specializzata in problemi soprannaturali e soluzioni magiche. La leggenda dice che un fey esiliato da Faerie langue, si dissolve e muore. Questo è vero e allo stesso tempo falso. Io ho abbastanza sangue umano tra i miei antenati da non essere infastidita nel sentirmi circondata dal metallo e dalla tecnologia. Ci sono fey minori che, costretti all'esilio nei luoghi edificati dagli umani, si ammalano e muoiono. E ci sono altri fey che in situazioni analoghe avvizziscono; sono quelli consapevoli che non tutte le farfalle sono farfalle; quelli che hanno visto il firmamento pieno di ali e di forme scagliose che fanno sussurrare agli umani storie di draghi e demoni; quelli che hanno visto i sidhe cavalcare su destrieri di luce e di sogni. Essi finiscono per morire, a volte, ma la maggior parte dei fey può farcela; non saranno troppo felici, forse, però sopravvivono. Io non ero stata esiliata; ero fuggita, perché non potevo difendermi dagli attentati. Non disponevo di capacità magiche, né di sufficienti protezioni a Corte. Avevo messo in salvo la vita, ma rinunciato a qualcos'altro. Avevo tagliato ogni contatto con Faerie. Avevo perduto la mia patria. Quella notte però, appoggiata al davanzale e con l'odore dell'oceano Pacifico nell'aria, guardai i due uomini, e ciò che vidi mi fece sentire a casa. Erano entrambi cortigiani sidhe appartenenti alla Corte Unseelie, l'oscura schiatta su cui un giorno o l'altro avrei potuto governare, se fossi riuscita a evitare i killer. Rhys dormiva a pancia sotto, con una mano penzoloni fuori del letto e l'altra nascosta tra i cuscini. Anche così rilassato, il braccio che potevo vedere era gonfio di bicipiti. I capelli erano una cascata di riccioli bianchi che accarezzava le spalle nude e scendeva lungo la schiena muscolosa. Il lato destro della sua faccia era premuto sul guanciale, così non vedevo le cicatrici dalla parte in cui gli mancava un occhio. La bocca era piegata in un mezzo sorriso anche nel sonno. Era bello, di una bellezza fanciullesca, e lo sarebbe stato per sempre. Nicca era sdraiato su un fianco. Da sveglio aveva una faccia abbastanza piacevole, addormentato sembrava un angelico putto, ingenuo e fragile. Anche il suo corpo era morbido e delicato, ma aveva mani callose per il continuo esercizio alla spada e una muscolatura longilinea sotto la pelle liscia pur essendo meno robusto delle altre guardie, più un cortigiano che un mercenario. Superava appena il metro e ottanta di altezza, grazie soprattutto alle lunghe gambe che gli davano l'agilità di un levriero. La sua pelle aveva il caldo colore bruno della cioccolata al latte, e i capelli lunghi fino
alle ginocchia erano appena più scuri, non castani ma di una tonalità che faceva pensare alle foglie del sottobosco, qualcosa in cui sembrava di poter affondare le dita e tirarle fuori fragranti, piene di nuova vita. Nella penombra lunare non potevo vedergli la schiena e neppure la sommità delle scapole, quasi tutto il suo corpo era nascosto dal lenzuolo, ma era la schiena ad avere qualcosa di sorprendente. Suo padre era stato un essere fornito di ali da farfalla, non un sidhe anche se pur sempre un fey. I cromosomi avevano segnato il dorso di Nicca con un disegno di ali, come un grande tatuaggio che appariva stranamente mobile, vibrante, più vivo di quanto una pittura a olio fatta da un artista avrebbe mai potuto essere. Dalle spalle alle natiche, e sul retro delle cosce fino alle ginocchia, la sua pelle era un mosaico di colori: strisce gialle, filamenti ocra, e «occhi» azzurri e neri simili a quelli sulle ali di una farfalla. Ma la penombra risucchiava via tutti i colori, cosicché i due erano soltanto forme anonime sul letto, una chiara e una scura, benché vi fossero persone molto più scure di Nicca tra i miei conoscenti. Come se quel pensiero fosse nato da un mio presentimento inconscio, la porta della camera da letto si aprì in silenzio. Doyle entrò e richiuse il battente alle sue spalle, come al solito senza fare il minimo rumore. Non avevo mai capito come ci riuscisse. Se fossi stata io ad aprire la porta, un fruscio l'avrei prodotto, per quanto lieve; ma, quando voleva, Doyle era capace di arrivare silenzioso come la notte, etereo e impossibile da scoprirsi finché non ti sentivi accapponare la pelle e cominciavi a capire che tra le ombre intorno a te c'era qualcosa. Il suo soprannome era Tenebra della regina, o semplicemente Tenebra. A lei bastava dire: «Dov'è la mia Tenebra? Fate venire qui la mia Tenebra». E ciò significava che qualcuno stava per vedersela brutta, o per morire. Ma ormai, stranamente, lui era la mia Tenebra. Nicca era bruno, ma Doyle era nero. Non del nero di una pelle umana, ma dell'assoluta oscurità del cielo notturno; in una stanza dalle luci spente non poteva sparire, perché era più scuro delle ombre create dalla luna. Stava venendo verso di me, coi jeans neri e la T-shirt dello stesso colore che gli aderivano come una seconda pelle. Non gli avevo mai visto indosso cose che non fossero nere, a parte i gioielli e le armi. Anche la sua fondina a spalla e la pistola erano nere. Mentre si avvicinava mi raddrizzai, scostandomi dalla finestra. Lui dovette contorcersi per girare intorno ai piedi del letto, perché i cassetti del comò erano aperti e ciò lasciava uno spazio largo meno di un palmo per le
sue gambe. Mi fece un certo effetto vederlo passare da lì senza neppure sfiorare le maniglie sporgenti. Doyle era trenta centimetri più alto di me e probabilmente cinquanta chili più pesante, ma io ci avrei inciampato una dozzina di volte mentre lui uscì da quella strettoia con la leggerezza di un refolo di fumo. Il letto era molto largo per la camera e, quando Doyle si fermò davanti a me, rimase poco spazio in cui muoversi. Lui riuscì a mantenere una certa distanza, come per evitare che perfino i nostri vestiti si toccassero. Era una distanza un po' artificiale tra noi; sarebbe stato più spontaneo che mi toccasse, e il fatto che prestasse tanta attenzione a non farlo mi mise a disagio. Ma avevo smesso di discutere con Doyle su dettagli di quel genere. Quando gli facevo una domanda lui rispondeva solo: «Io voglio essere speciale per te, non uno dei tanti». Dapprima mi era parso un nobile impulso, ormai cominciava a irritarmi. Lì presso la finestra c'era più luce, e potevo scorgere il profilo dei suoi zigomi alti, il mento un po' troppo sottile, le curve delle orecchie aguzze e il vago riflesso dei numerosi orecchini d'argento che portava fissati alla cartilagine su fino alle punte. Solo quelle punte rivelavano che Doyle era un sidhe di sangue misto, come me e come Nicca. Avrebbe potuto nascondersi quelle orecchie sotto i capelli, ma non lo faceva quasi mai. Le sue chiome corvine erano riunite in una treccia dietro la nuca, e così aderenti alla testa che visto di fronte poteva sembrare rapato a zero; in realtà gli arrivavano ai fianchi. «Ho sentito qualcosa», disse. La sua voce era bassa e oscura, come un succo di liquirizia per le orecchie invece che per la lingua. Lo guardavo da sotto in su. «Qualcosa, o io che mi muovevo in giro?» Piegò le labbra in quella specie di tic nervoso che potevo interpretare come un sorriso. «Tu.» Incrociai le braccia sul petto. «Ho due guardie del corpo nel mio letto e non ti sembro abbastanza protetta?» «Sono bravi ragazzi, ma non bravi quanto me.» Lo guardai, accigliata. «Stai dicendo che per la mia protezione non ti fidi di nessuno?» Le nostre voci erano quiete, serene, come quelle di genitori che parlassero in presenza dei figli addormentati. Non mi dispiaceva che Doyle si preoccupasse tanto; era uno dei più forti guerrieri sidhe, e averlo al mio fianco mi rassicurava. «Di Frost... forse», disse. Scossi il capo. I capelli mi erano ricresciuti abbastanza da solleticarmi le
spalle. «I Corvi della regina sono i guerrieri migliori che Faerie possa offrire, e tu vieni a dirmi che questi due non sono alla tua altezza. Razza di presuntuoso...» Lui non fece un passo avanti - eravamo già troppo vicini per questo - ma si accostò fino a toccare l'orlo della mia veste. Il chiaro di luna strappò riflessi al pendente della sua collana, un ragno appeso a una sottile catena d'argento, mentre il suo alito mi accarezzava la faccia. «Posso ucciderti senza che uno di loro si accorga di ciò che succede qui dentro.» Quella minaccia mi accelerò le pulsazioni. Sapevo che non mi avrebbe fatto del male. Lo sapevo, e tuttavia... Avevo già visto Doyle dare la morte a mani nude, senza armi, solo con la forza dei muscoli e della magia. Ferma dinanzi a lui, nell'intimità e nel buio, seppi che se avesse voluto uccidermi avrebbe potuto farlo, e nessuno sarebbe riuscito a impedirglielo. Non ero in grado di vincere un duello, ma c'erano altre cose che avrei potuto fare in quella vicinanza così stretta, cose che l'avrebbero distratto o disarmato ancora meglio di una mossa di lotta. Mi girai impercettibilmente verso di lui sfiorando col viso la curva del suo collo dove c'era l'arteria, e ne sentii le pulsazioni contro una guancia. Le mie labbra si mossero sulla sua pelle quando parlai. «Tu non vuoi farmi del male, Doyle.» Il suo labbro inferiore mi sfiorò un orecchio, quasi come un bacio ma non proprio. «Potrei uccidervi tutti e tre.» Dietro di noi ci fu un lieve scatto meccanico, quello del percussore di una pistola tirato indietro. Nel silenzio risuonò così nitido che sussultai. «Non credo che ti sarebbe così facile», disse Rhys. La sua voce era chiara, senza nessuna traccia di sonno. Era sveglio e teneva l'arma puntata verso la schiena di Doyle, o almeno fu ciò che supposi. Non arrivavo a vedere dietro il corpo di Doyle, e lui, non avendo occhi nella nuca, poteva soltanto immaginare ciò che stava facendo Rhys. «Con un revolver senza rinculo non c'è bisogno di tirare indietro il percussore prima di sparare, Rhys. Dunque potrei pensare che tu non abbia affatto la tua arma in mano», replicò Doyle con calma, perfino divertito. Non riuscivo a vederlo in faccia e a capire se quel tono corrispondesse alla sua espressione. Eravamo paralizzati in una specie di abbraccio. «Giusta deduzione», disse Rhys. «Ma dicono che il rumore del percussore sia comunque utile, come minaccia, e più chiaro di qualunque discorso.» Avevo ancora la bocca a contatto del collo di Doyle. «Una pallottola può passare da parte a parte lui e me, Rhys», gli ricordai. Non osavo muover-
mi, timorosa d'innescare conseguenze imprevedibili. Non volevo che succedesse un incidente. «Questo significa che dovrò sparargli alla testa», osservò Rhys. «Non scomodarti.» Il letto cigolò, nel buio. «La testa di Doyle l'ho già sotto mira io.» Era la voce di Nicca, e non era affatto calma. Anzi, il suo tono ansioso non mi piacque per niente. Se Rhys non aveva paura per la mia sorte, Nicca ne aveva abbastanza per tutti e due. E non dovevo guardarlo per sapere che la sua pistola era puntata esattamente sul bersaglio, col dito sul grilletto. Dopotutto era stato lo stesso Doyle a addestrarlo. Sentii la tensione abbandonare il corpo di Doyle, quando alzò la faccia abbastanza da non parlarmi più dentro l'orecchio. «Forse non riuscirei ad ammazzare voi due, ma potrei uccidere la principessa prima di essere colpito, e poi le vostre vite non varrebbero un soldo bucato. La regina vi condannerebbe a morte in un modo più doloroso di quello che potrei fare io, per non aver saputo difendere la sua erede.» Potevo vederlo in faccia. Nel vago chiarore lunare, i suoi occhi erano lontani; non mi guardava più, adesso. Era troppo occupato con la lezione che stava insegnando ai suoi uomini per pensare a me. Appoggiai la schiena al muro, ma lui non prestò attenzione a quel piccolo movimento. Gli appoggiai una mano in mezzo al petto e spinsi. Ciò lo fece raddrizzare ancora di più, ma non c'era posto in cui avrebbe potuto finire, se non sul letto. «Smettetela, tutti quanti!» esclamai, facendo risuonare la mia voce nella stanza. Fulminai Doyle con lo sguardo. «Tu, stammi lontano.» Mi rivolse un cenno del capo, più che un inchino, e indietreggiò, tenendo le mani scostate dal corpo per mostrare agli altri che non aveva armi in pugno. Andò tra il letto e il muro, dove aveva appena un po' più di spazio per muoversi. Rhys era appoggiato su un gomito e con l'altra mano teneva sotto tiro Doyle nei suoi lenti spostamenti per la camera. Nicca era in piedi dall'altra parte del letto e impugnava la rivoltella a due mani, nella posizione standard del tiratore. Entrambi continuavano a trattare la Tenebra della regina come una minaccia, e io non ne potevo più. «Sono stanca di questi giochetti, Doyle. Se non ti fidi degli uomini assegnati alla mia protezione, trovane altri, o fai in modo che Frost sia sempre con me. Ma falla finita.» «Se fossi stato uno dei nostri nemici, le tue guardie del corpo sarebbero ancora addormentate, e tu morta.» «Io ero sveglio», affermò Rhys. «Però, a dire il vero, mi era parso che tu
stessi ritrovando il buon senso e cominciassi a scopartela, lì contro il muro.» Doyle lo guardò, accigliato. «È proprio da te pensare qualcosa di tanto volgare.» «Se vuoi fartela, basta che lo dici. Domani notte può essere il tuo turno. Vuol dire che noi ce ne andremo a fare una passeggiata finché non avrai finito di divertirti.» Il chiaro di luna trasformava le cicatrici di Rhys in un panorama lunare, intorno alla benda nera dove avrebbe dovuto esserci il suo occhio destro. «Mettete giù le armi», dissi. Guardarono Doyle per avere conferma. «Mettetele giù, ho detto!» gridai. «Sono la principessa, l'erede al trono. Lui è il capo delle mie guardie, e quando io vi dico di fare una cosa, per la Dea, voi la fate.» Continuarono a guardare Doyle, che si decise ad annuire impercettibilmente. «Andate fuori», ordinai. «Tutti quanti, fuori di qui.» Doyle scosse il capo. «Non credo che sarebbe saggio, principessa.» Di solito mi facevo chiamare Meredith da loro, ma ormai avevo tirato in ballo il mio rango. E intendevo continuare a farlo pesare. «Allora i miei ordini non contano niente? È così che stanno le cose?» Rhys e Nicca avevano rinfoderato le pistole, ma nessuno dei due voleva incontrare il mio sguardo. L'espressione di Doyle era neutra, controllata. «Principessa, devi avere con te almeno uno di noi, ventiquattr'ore al giorno. I nostri nemici sono... ostinati.» «Il principe Cel sarebbe condannato a morte, se uno dei suoi killer mi ammazzasse mentre lui è ancora in punizione per aver tentato di eliminarmi. Abbiamo sei mesi di respiro.» Doyle scosse il capo. Io li osservai, l'uno dopo l'altro. Erano uomini attraenti, a loro modo perfino belli, ma all'improvviso avevo bisogno di essere sola. Sola per riflettere, sola per capire agli ordini di chi quei tre ubbidissero, se ai miei o a quelli della regina Andais. Avevo pensato che ubbidissero ai miei, ma in quel momento non ne ero più tanto sicura. Continuai a fronteggiarli. Rhys incontrò il mio sguardo, ma Nicca ancora non si decideva a farlo. «Allora, prendete ordini da me, oppure no?» «Il nostro primo dovere è tenerti in vita, principessa. La tua felicità viene al secondo posto», sentenziò Doyle. «Cos'è che vuoi da me?» ribattei. «Ti ho offerto di entrare nel mio letto,
e tu hai rifiutato.» Aprì la bocca e fece per parlare, ma io alzai una mano. «No, non voglio sentire un'altra delle tue scuse. Ho creduto a quella secondo cui volevi essere l'ultimo dei miei amanti invece del primo; ma se uno degli altri mi metterà incinta, costui, secondo la tradizione sidhe, diventerà mio marito. E in seguito io resterò monogama. Perciò stanotte ti sei giocato la possibilità di mettere fine al tuo millenario celibato. Non mi hai dato una sola ragione per cui valga la pena di correre un rischio di questo genere.» Incrociai le braccia sul petto, racchiudendole intorno ai seni. «Cerca di farti uscire di bocca la verità quando parli con me, Doyle, oppure resta fuori della mia camera da letto.» La sua faccia rimase inespressiva, ma negli occhi ebbe un lampo di rabbia. «Molto bene. Vuoi la verità? Allora guarda la finestra.» Sospirai, seccata, ma feci ugualmente quello che mi diceva e gettai un'occhiata alla finestra, dove le lunghe tende ondeggiavano alla brezza. Tenni le braccia strette al petto. «E allora?» «Sei una principessa dei sidhe. Non usare soltanto gli occhi.» Trassi un lungo respiro e lo lasciai uscire lentamente, perché non volevo reagire al suo tono. Irritarsi con Doyle non serviva a molto. Ero una principessa, ma ciò non mi dava nessun vantaggio con lui, non me l'aveva mai dato. Solitamente non facevo uso della mia magia: non lasciavo mai cadere gli scudi che dovevo tenere chiusi, per non vedermi circondata giorno e notte da visioni mistiche. Gli umani dotati di talenti psichici e le streghe devono concentrarsi e faticare molto per vedere il magico, altri esseri e altre realtà. Io ero parte di Faerie, e ciò significava che dovevo spendere parecchia energia per non vedere il magico, per non notare il turbinoso passaggio di altre creature e di realtà che non avevano rapporti col mio mondo e con ciò che stavo facendo. La magia chiama la magia, e senza gli scudi avrei potuto affogare nel flusso del soprannaturale che si dispiega giorno dopo giorno su questa terra. Abbassai gli scudi e guardai, con quella parte del cervello che vede le visioni e ci consente di sognare i sogni. Stranamente, non ci fu una grande differenza con quanto percepivo prima, però all'improvviso la mia visione notturna si amplificò e potei vedere il baluginante potere degli incantesimi protettivi, sulla finestra e sui muri. Fu in tutto quello scintillio che notai qualcosa, oltre le tende bianche, qualcosa di piccolo a contatto con la finestra. Quando spostai le tende, non vidi altro che le pallide strisce degli incantesimi di protezione. Guardai di lato, usando solo la mia visione perife-
rica per esaminare il vetro. Solo allora scorsi l'impronta della mano. Era piccola, più piccola di quella che avrei potuto lasciare io, e si trovava proprio sopra l'incantesimo protettivo. Cercai di guardarla direttamente, e quella scomparve. Mi sforzai allora di guardarla di nuovo con la coda dell'occhio, ma da vicino. Era un'impronta artigliata, umanoide ma non umana. Lasciai ricadere la tenda e parlai senza voltarmi. «Qualcuno ha cercato di forzare gli incantesimi protettivi mentre dormivamo.» «Già», annuì Doyle. «Io non ho sentito niente», disse Rhys. Nicca si strinse nelle spalle. «Neppure io.» Rhys sospirò. «Non siamo stati all'altezza delle necessità, principessa. Doyle ha ragione. Qualcuno avrebbe potuto entrare e ucciderti.» Io li guardai, poi mi rivolsi a Doyle. «Quando ti sei accorto del tentativo di manomissione degli incantesimi protettivi?» «Sono venuto qui per un semplice controllo.» Scossi il capo. «Non è questo che ti ho domandato. Sapevi già che era successo qualcosa, quando sei entrato?» «Te l'ho detto, principessa. Il mio era un controllo di routine.» Strinsi i denti. «Così non va bene, Doyle. Un sidhe non può mentire, non in modo diretto, e tu hai già cercato due volte di aggirare la mia domanda. Ora devi rispondermi. Per la terza volta: quando hai capito che qualcuno aveva cercato di forzare gli incantesimi?» Era a disagio, adesso, e un po' irritato. «Quando ti stavo parlando all'orecchio.» «E hai visto l'impronta attraverso la tenda.» «Sì», grugnì lui, secco. «Quindi fino a quel momento non sapevi che era successo qualcosa», lo accusò Rhys. «Sei venuto solo perché avevi sentito Merry muoversi per la camera.» La Tenebra della regina non replicò, ma non ce n'era bisogno. Il suo silenzio era sufficiente. «Questi incantesimi sono opera mia, Doyle. Li ho messi quando mi sono trasferita qui, e ogni tanto li rinnovo. È stata la mia magia, il mio potere, a tenere fuori quel qualcuno. E l'incantesimo lo ha ustionato, così ora abbiamo le sue... impronte digitali.» «Il tuo incantesimo ha resistito solo perché chi ci stava provando aveva scarsi poteri», precisò la Tenebra. «Chiunque altro avrebbe scardinato fa-
cilmente qualsiasi incantesimo protettivo messo da te.» «Può darsi, ma il punto è che tu non ne sapevi più di noi. Eri all'oscuro quanto noi.» «Non sei infallibile», sentenziò Rhys. «Ne prendiamo nota.» «Credete davvero che sia così semplice?» sbottò Doyle. «Allora riflettete su questo: stanotte nessuno di noi si è accorto che una creatura di Faerie cercava di entrare da quella finestra. Nessuno di noi l'ha sentito. Forse aveva scarsi poteri, però dietro aveva qualcuno che gli ha dato un grosso aiuto nascondendo del tutto la sua presenza.» Strinsi le palpebre. «Stai dicendo che i sicari di Cel mettono a repentaglio la vita del loro padrone, cercando ancora di uccidermi?» «Principessa, possibile che tu non abbia ancora capito come vanno le cose alla Corte Unseelie? Cel è l'amato figlio della regina, ed è stato per secoli il suo unico erede. Quando lei ti ha nominata coerede, lui è caduto in disgrazia. Ora Andais ha stabilito che salirà al trono chi di voi due avrà un figlio per primo. Ma cosa succederebbe se moriste entrambi? Cosa succederebbe se tu fossi uccisa dai sicari di Cel, e la regina fosse costretta a giustiziare suo figlio per tradimento? All'improvviso si troverebbe senza nessun erede.» «Andais è immortale», gli ricordò Rhys. «Ha dichiarato che potrebbe abdicare solo a favore di Merry o di Cel.» «Ma se qualcuno complottasse per eliminare sia il principe Cel sia la principessa Meredith, credete che costui esiterebbe ad ammazzare anche la regina?» «Nessuno oserebbe sfidare la regina», disse Nicca, a bassa voce. «C'è chi lo farebbe, se fosse sicuro di non essere preso», replicò Doyle. «E chi sarebbe così arrogante?» domandò Rhys. La Tenebra rise, un secco latrato che ci sorprese tutti. «Chi sarebbe così arrogante, dici? Rhys, sei un nobile delle Corti dei sidhe. Faresti meglio a chiedere chi non sarebbe così arrogante.» «Puoi pensare quello che vuoi, ma la maggior parte dei nobili ha paura della regina, una paura dannata... molta più paura di quanta ne abbiano di Cel», disse Nicca. «Tu sei stato il suo campione per millenni. Non sai cosa significa averla contro di te.» «Io lo so», mormorai. «Sono d'accordo con Nicca. Non conosco nessuno, a parte Cel, che rischierebbe di affrontare l'ira di sua madre.» «Noi siamo immortali, principessa; possiamo permetterci il lusso di aspettare il nostro momento. Chi può dire quale serpente velenoso stia a-
spettando da secoli di cogliere la regina in un momento di debolezza? Se lei fosse costretta a giustiziare il suo unico figlio, poi sarebbe debole.» «Io non sono immortale, Doyle. Perciò non so niente di quel genere di pazienza e di astuzia. Tutto ciò che sappiamo è che stanotte qualcuno ha cercato di oltrepassare i miei incantesimi protettivi, e si è bruciato una mano o una zampa. Il segno che ha lasciato può essere indicativo come un'impronta digitale.» «Ho visto incantesimi protettivi che feriscono chi va a sbatterci sopra, provocando ustioni o cicatrici, ma è la prima volta che ne trovo uno capace di prendere le impronte digitali», osservò Rhys. «È astuto», dichiarò Doyle. Da parte sua era un gran complimento. «Grazie.» Lo guardai, accigliata. «Se non avevi mai visto un incantesimo protettivo con questa caratteristica, come sapevi cos'era il segno che vedevi attraverso la tenda?» «È stato Rhys ad affermare di non aver mai visto niente del genere. Non l'ho detto io.» «Quindi lo avevi già visto?» «Io sono un killer, principessa, un cacciatore. Le tracce sono il mio mestiere.» «L'impronta della mano può contrassegnare il responsabile, ma non ci sono tracce da seguire, qui.» Doyle scrollò le spalle. «Peccato. Sarebbero state utili.» «Puoi fare in modo che una creatura di Faerie lasci tracce magiche?» volli sapere. «Sì.» «Ma lui le vedrebbe con la sua magia, e cancellerebbe l'incantesimo.» La Tenebra inarcò un sopracciglio. «Non ho ancora trovato un posto al mondo dove io non possa seguire una preda.» «Sei sempre così... perfetto», dissi. Doyle spostò lo sguardo sulla finestra, dietro di me. «No, mia principessa, temo di non essere perfetto. E i nostri nemici, chiunque siano, ora lo sanno.» La brezza stava diventando un vento che scuoteva le tende bianche. L'impronta della piccola mano artigliata era ben visibile sul baluginante incantesimo. Mi trovavo a mezzo continente di distanza dai confini di Faerie, avevo creduto che Los Angeles fosse abbastanza lontana da garantirci una certa sicurezza; ma se qualcuno mi voleva morta, niente poteva impedirgli di usare un aereo o qualcos'altro fornito di ali. Dopo anni di esi-
lio avevo finalmente con me un pezzettino della mia patria. E la mia patria non cambiava mai. Era sempre affascinante e sensuale, e molto pericolosa. 2 Il cielo che vedevo dalle finestre del mio ufficio era di un azzurro senza difetti, come se qualcuno avesse steso sull'atmosfera un immenso petalo di fiordaliso: il cielo più limpido che ricordassi di aver mai visto sopra Los Angeles. Gli edifici splendevano nella luce del mattino. Era uno dei rari giorni che autorizzavano la gente a convincersi che Los Angeles godeva di un'eterna estate, dove il sole brillava sempre, il mare era caldo e blu, e tutti sorridevano belli e felici. Ma in realtà i belli non erano tanti, e anche tra loro c'era chi si portava in giro una faccia assai poco felice (Los Angeles ha la più alta percentuale di omicidi dell'intera nazione: non è un dato felice, se ci pensate bene). L'oceano è più grigio che blu, e l'acqua è perennemente fredda. Le sole persone che vedete mettere un piede nel mare della California meridionale in dicembre senza una tuta da sub sono i turisti. Ogni tanto piove di brutto anche qui, e lo smog è peggiore di qualsiasi cielo coperto reperibile altrove. Quella era dunque la più vera e garantita giornata estiva che avessi visto in più di tre anni. Dobbiamo procurarcene qualcuna di più, se vogliamo che il mito sopravviva. O forse la gente ha bisogno di credere che qualche magica terra infine esista, e la California meridionale è questo, per molti. Più facile da visitare e meno pericolosa di Faerie, probabilmente. In verità, odiavo sprecare in ufficio una così bella giornata. Voglio dire, io ero una principessa, ma ciò significava forse che potevo fare a meno di lavorare? Ahimè, no. Un momento, però; ero una principessa di Faerie, e allora cosa m'impediva di far apparire un mucchio di soldi con la magia, invece di aspettare la busta paga a fine mese? Oh, sì, giuro che mi sarebbe piaciuto disporre di quel genere di magia, ma i titoli nobiliari non vi arrivano sempre accompagnati da denaro, terre e potere. Se un giorno fossi diventata regina, questo sarebbe cambiato; nel frattempo dovevo cavarmela da sola. Be', non esattamente da sola. Doyle sedeva su una poltroncina presso le finestre, alle spalle della mia scrivania. Vestiva come la notte precedente, con l'unica aggiunta di una giacca di pelle nera sopra la T-shirt e di un grosso paio di occhiali da sole; i suoi diversi e numerosi orecchini d'argento incastonati di diamanti brillavano in quella luce viva, riempiendo di ri-
flessi tutto l'ufficio. Una comune guardia del corpo si sarebbe preoccupata più della porta che della finestra, visto che ci trovavamo al ventitreesimo piano; ma Doyle doveva proteggermi da pericoli assai più articolati. L'essere che aveva lasciato la sua piccola impronta sulla mia finestra poteva esservi arrivato arrampicandosi come un ragno, oppure in volo. Seduta alla scrivania con le mani posate sul lucido piano di vetro, mi godevo il tepore del sole sulla schiena, mentre i riflessi dei diamanti di Doyle ravvivavano il verde delle mie unghie. Lo smalto era dello stesso colore della mia blusa di pelle e della corta gonna che mi fasciava le gambe. Tutta quella luce e quel verde facevano risaltare molto i miei fiammeggianti capelli rossi, le labbra di corallo, e soprattutto la triplice corona circolare degli occhi verde e oro. Stavo facendo un grande sfoggio di colori, ma una delle cose migliori del non dovermi più mascherare da semplice umana stava nel fatto che potevo mostrare i miei occhi, i miei capelli e la luminosità della mia pelle. Quel mattino ero stanca per la mancanza di sonno, mi dolevano gli occhi, e non riuscivo ancora a immaginare chi o cosa avesse cercato di forzare la mia finestra. Così, prima di venire in ufficio, mi ero truccata e vestita meglio del solito: se fossi morta quel giorno, contavo di conservare un buon aspetto. Ma avevo anche un ornamento di diverso genere - una lama di quindici centimetri - fissato alla pelle nuda sulla coscia destra. Bastava il contatto di quel ferro freddo a darmi un'arma in più contro il potere magico che un fey avrebbe potuto usare ai miei danni. Dopo i fatti della notte appena trascorsa, Doyle aveva insistito che lo portassi, e io non mi ero opposta. Avevo le gambe pudicamente incrociate. Non per il cliente che sedeva di fronte a me, ma per l'uomo nascosto nella cavità centrale sotto la scrivania. Be', non proprio un uomo: un goblin. La sua pelle era bianca come la luna, pallida quanto quella di Rhys o di Frost, o quanto la mia. I suoi capelli corti e riccioluti erano neri come quelli di Doyle, ma la sua altezza non superava il metro e venti: un bambolotto ornato da una striscia verticale di scaglie iridescenti lungo la schiena, con occhi a mandorla color celeste chiaro e pupille ellittiche da serpente. Nella sua perfetta boccuccia da cupido erano celati denti retrattili e una lunga lingua biforcuta che lo faceva parlare sibilando, tranne quando si concentrava. Kitto non si trovava a suo agio nella metropoli. Sembrava sentirsi un po' meglio quando poteva toccarmi, strisciare ai miei piedi, sedersi sulle mie ginocchia, rannicchiarsi contro di me quando dormivo. Quella notte era stato bandito dalla mia camera da letto perché Rhys non lo sopportava; erano stati i goblin a fargli perdere
l'occhio, qualche migliaio di anni prima, e lui non li aveva mai perdonati. Era già molto che riuscisse a tollerare Kitto fuori della camera da letto. In quel momento Rhys si trovava nell'angolo più lontano da me, presso la porta, dove Doyle gli aveva detto di piazzarsi. I suoi abiti erano coperti da un costoso impermeabile bianco identico a quello indossato nei film da Humphrey Bogart, di pura seta e tanto elegante quanto inadatto a tenere fuori l'acqua. Rhys amava svisceratamente il fatto che fossimo detective privati, e oltre all'impermeabile portava sempre in testa uno dei molti classici fedora di cui faceva collezione. La benda che aveva sull'occhio era una di quelle da giorno, bianca per intonarsi all'impermeabile e ai capelli, con un filo di piccole perle cucite sull'orlo. Kitto mi accarezzò una caviglia, coperta dalla calza; non si stava sforzando di essere amichevole, aveva soltanto bisogno del conforto che provava toccandomi. Davanti a me sedeva il mio primo cliente della giornata. Jeffery Maison era alto poco meno di un metro e novanta, atletico e largo di spalle, con mani robuste e ben curate, capelli castani e un sorriso troppo candido e perfetto per non essere frutto di costose attenzioni odontoiatriche. Era un bell'uomo, e in questo lo aiutava una simpatica espressione un po' noncurante. Se si era rivolto a un chirurgo estetico aveva perso tempo, perché aveva quel genere di faccia che potreste trovare attraente e poi dimenticare per sempre; due minuti dopo averlo visto uscire dalla porta vi sarebbe stato difficile ricordare uno solo dei suoi lineamenti. Se avesse indossato un abito meno costoso, lo avrei preso per un aspirante attore; ma un aspirante-qualcuno non avrebbe avuto addosso un completo di alta sartoria tagliato su misura. Il suo perfetto sorriso non fece una piega mentre lo osservavo, però ogni tanto i suoi occhi si spostavano alle mie spalle, e quelli non stavano sorridendo. Erano occhi preoccupati. Il suo sguardo continuava a notare la presenza di Doyle, e sembrava fare uno sforzo per non voltarsi a constatare anche quella di Rhys. Jeffery Maison si sentiva a disagio con due guardie del corpo in quella stanza. Non si trattava del genere di disagio che la maggior parte degli uomini prova nel guardare tipi robusti coi quali bisogna andare d'accordo oppure vedersela brutta. No. Maison stava solo pensando che tutti quegli spettatori gli davano fastidio. Dopotutto io ero un detective privato, non un pubblico ufficiale. Il suo fastidio era così evidente che per un attimo fui tentata di far saltar fuori da sotto la scrivania anche Kitto, esclamando: «Buh!» Non lo feci. Non sarebbe stato professionale. Ma quel pensiero mi divertì, mentre cercavo di distogliere l'attenzione di Jeffery Maison dalle guar-
die per portarlo su qualcosa di più vicino al lavoro. Solo quando Doyle ebbe precisato con la sua voce seria e profonda che il colloquio sarebbe avvenuto con tutti noi oppure con nessuno di noi, Maison si mise calmo. Troppo calmo. Rimase seduto lì e sorrise, ma non disse niente. Oh, in quanto a parlare, parlò. «Non avevo mai conosciuto nessuno il cui vero colore naturale dei capelli fosse lo scarlatto sidhe. È come se lei avesse un casco di rubini.» Io sorrisi, annuii e cercai di tornare agli affari. «La ringrazio, Mr Maison. Ma cosa la porta alla Grey Detective Agency?» Lui aprì quella bocca perfettamente revisionata e ci provò ancora una volta. «Mi è stato raccomandato di parlarle in privato, Ms NicEssus.» «Preferirei Ms Gentry. NicEssus significa figlia di Essus. È più una qualifica che un nome.» Il suo sorrisetto nervoso, autodeprecatorio, mi diede l'impressione di essere stato provato allo specchio. «Mi scusi, non sono abituato ad avere a che fare con una principessa di Faerie.» E subito tornò a un sorriso completo, di quelli che riempiono gli occhi di sincero e pulito buonumore, più un breve lampo di qualcos'altro che stava a me apprezzare o ignorare. Quello sguardo mi fu sufficiente. Ormai cominciavo a capire in che modo Maison trovasse i soldi per pagare il sarto. «Le principesse sono rare, di questi tempi», replicai, cercando di essere cordiale. Ma la verità era che la mancanza di sonno mi pesava, ed ero stanca. Non appena concluso il colloquio con Maison, decisi, mi sarei presa una pausa caffè. «Il verde della sua blusa mette in risalto il verde e oro dei suoi occhi. Non avevo mai visto iridi tricolori», continuò Maison. Rhys fece una risatina, nel suo angolo, senza neppure cercare di mascherarla da colpo di tosse. Aveva imparato a sue spese, proprio come me, l'arte di sopravvivere a Corte. «Anch'io ho le iridi tricolori, ma lei non mi ha detto quanto le trova sexy.» Rhys aveva ragione; era l'ora di smetterla con le formalità. «Non immaginavo che lo avrebbe apprezzato.» Maison sembrò confuso. Finalmente uno sguardo genuino, non studiato. Raddrizzai le gambe e mi piegai sulla scrivania. Kitto mi accarezzò un polpaccio, ma al ginocchio si fermò. Avrei dovuto dirgli due parole sul limite da rispettare quand'era sotto la scrivania, e il limite erano le ginocchia; se l'avesse superato, sarebbe tornato a casa. «Mr Maison, abbiamo al-
lungato la nostra giornata lavorativa e risistemato un certo numero di appuntamenti per favorirla. Siamo stati educati e professionali. Ma fare apprezzamenti sulla mia avvenenza non è educato né professionale.» Lui parve incerto, ma il suo sguardo era forse il più sincero da quand'era entrato dalla porta. «Credevo che fosse cosa educata complimentarsi coi fey per il loro aspetto. Mi è stato detto che è un'offesa grave ignorare un fey che sta cercando di essere attraente.» Lo guardai. Finalmente aveva detto qualcosa d'interessante. «La maggior parte della gente non sa molto della cultura fey, Mr Maison. Come mai lei ne sa qualcosa?» «La persona per cui lavoro voleva essere sicura che non avrei offeso la sua sensibilità. Avrei dovuto complimentarmi anche con gli uomini? Lei non mi ha avvertito che avrei dovuto farlo.» Lei. Lavorava per una donna, dunque. Era la prima informazione che mi forniva da quando si era seduto di fronte a me. «Chi è questa signora?» domandai. Maison guardò me, poi Rhys, gettò un'altra occhiata a Doyle, e finalmente tornò a guardare me. «Mi è stato ordinato di parlare solo con lei, Ms Gentry. Io... a questo punto, non so cosa fare.» Mi sentii un po' triste per lui. Evidentemente non era abituato a pensare con la sua testa, e la faccenda stava diventando penosa. «Perché non chiama la sua datrice di lavoro?» propose Doyle. Maison sobbalzò al suono di quella voce, ricca e profonda. Io non sobbalzai; ebbi un fremito. Nel tono della Tenebra si era insinuata una nota bassa, vibrante, che mi faceva tremare dentro. Trassi un lungo respiro, mentre Doyle continuava: «Dica a questa persona cos'è successo, e forse lei saprà suggerirle una soluzione». Rhys rise ancora. Doyle gli scoccò uno sguardo non troppo amichevole e lui smise di ridere, anche se dovette coprirsi la bocca con una mano e tossire. Non m'importò. Avevo l'impressione che, se avessimo continuato a prendere la cosa alla larga, Maison ci avrebbe fatto perdere tutta la giornata. Girai verso di lui il telefono della scrivania, sfiorai il tasto che apriva la linea esterna e gli porsi il ricevitore. «Chiami il suo capo, Jeffery. Vorrei capire cosa può fare la nostra agenzia per lei, se non le spiace.» Avevo usato deliberatamente il suo nome di battesimo. Certa gente reagisce meglio all'uso dei titoli formali, ma c'è chi ha bisogno di essere incoraggiata, e un modo per farlo è accorciare le distanze sociali.
Maison prese il ricevitore e compose un numero. «Salve, Marie», disse. «Sì, vorrei parlare con lei.» Qualche secondo di silenzio, poi raddrizzò le spalle. «Sì, certo, in questo momento sono seduto di fronte a Ms Gentry. Ma ha due guardie del corpo che rifiutano di uscire dall'ufficio. Devo parlare davanti a loro, oppure rinunciare al colloquio?» Tutti aspettammo, mentre lui emetteva mugolii di assenso e di diniego. Alla fine riagganciò e si appoggiò allo schienale unendo le mani in grembo, con un'espressione un po' preoccupata sulla sua bella faccia. «La signora dice che posso spiegarvi ciò che le serve, ma senza fare il suo nome. Non ancora.» Inarcai un sopracciglio e cercai di mostrarmi disponibile. «La sto ascoltando.» Lui gettò uno sguardo nervoso a Doyle, poi fece un sospiro. «La signora per cui lavoro è in una situazione piuttosto delicata. Vuole parlare con lei, ma dice che le sue...» Corrugò le sopracciglia, alla ricerca della parola migliore. Aveva l'aria di poterci mettere un po', così lo aiutai. «Le mie guardie.» Sorrise, chiaramente sollevato. «Sì. Le sue guardie verranno comunque a conoscenza della cosa, prima o poi, così tanto vale che sia prima.» Parve assai compiaciuto con se stesso per quella saggia scelta di parole. No, il pensiero indipendente non era la specialità di quell'uomo. «Perché non è venuta lei, qui in agenzia, a parlare con noi?» Il sorriso compiaciuto svanì, e Maison sembrò di nuovo perplesso. Confonderlo rallentava le cose, e io avrei preferito accelerarle. Il guaio era che si confondeva così facilmente che non riuscivo a immaginare come evitarlo. «La signora teme la pubblicità di cui lei è circondata, Ms Gentry.» Non avevo bisogno di domandargli di cosa stesse parlando. In quello stesso momento, giornalisti della stampa e della TV erano accampati fuori dell'edificio. Dovevamo tenere chiuse le tende per scoraggiarli dall'usare zoom telescopici. Com'era possibile che i mass media resistessero al bisogno di spiare una regale figlia prodiga, tornata a casa dopo essere stata data per morta? Questo sarebbe già bastato a meritare attenzione, ma aggiungeteci una dose di romanticismo e i giornalisti non avrebbero trovato nulla di più appetitoso di me. O dovrei dire di noi? La storia finita in pasto al pubblico era che io avevo deciso di uscire dal mio nascondiglio per cercarmi un marito alla Corte Unseelie. E il modo tradizionale di cercarsi un marito, per una nubile
di sangue reale, era di andare a letto con tutti i possibili candidati. Se uno di loro la ingravidava, lei lo sposava; in caso contrario, passava al successivo. I fey non avevano molti figli, e i fey reali ancora meno, perciò un accoppiamento che non produceva eredi non andava bene. Niente figli, niente matrimonio. Andais governava la Corte Unseelie da un migliaio di anni. Una volta mio padre aveva detto che per lei essere regina era la cosa più importante al mondo. Tuttavia Andais aveva promesso di abdicare, se io o Cel avessimo generato un erede. Come ho detto, i figli sono una cosa molto importante per i sidhe. Questo era il lato pubblico della storia. Ma nascondeva molte cose, come il fatto che Cel aveva cercato di eliminarmi e per quello si trovava in punizione. C'erano fatti che la stampa non sapeva, e che la regina voleva tenere segreti; così noi non ne parlavamo. Mia zia mi aveva detto di volere un erede del suo sangue, anche se quel sangue era misto come il mio. Una volta, quand'ero bambina, aveva cercato di affogarmi, con la scusa che io non ero abbastanza magica per lei e che di conseguenza non ero del tutto sidhe, benché non fossi neppure del tutto umana. La cosa migliore con mia zia era tenerla tranquilla; se lei era tranquilla, moriva un po' meno gente. «Posso capire che la sua datrice di lavoro non voglia vedersi trascinata nel circo dei mass media», dissi. Maison mi fece un altro brillante sorriso, ma il suo sguardo era sollevato, non libidinoso. «Allora lei accetta d'incontrarla in privato da qualche parte.» «La principessa non può incontrare nessuno, da sola», ammonì Doyle. Maison annuì. «Sì, questo lo capisco, ora. La signora per cui lavoro vuole soltanto evitare la stampa.» «A meno di usare degli incantesimi, cosa illegale contro i membri dell'ordine dei giornalisti, non vedo come sia possibile evitarli del tutto», dissi. Maison si accigliò ancora una volta. Io sospirai. A quel punto, mi auguravo solo che se ne andasse; senza dubbio il cliente successivo della giornata sarebbe stato meno confusionario, alla Dea piacendo. Il mio capo, Jeremy Grey, era una persona per cui il tempo è denaro. E noi avevamo più impegni di quelli cui potevamo far fronte. Forse avrei fatto meglio a dire a Maison di rivolgersi a un'altra agenzia. «Non sono stato autorizzato a pronunciare il nome della mia datrice di
lavoro. La signora ha detto che questo dovrebbe significare qualcosa per lei.» Mi strinsi nelle spalle. «Mi spiace, Mr Maison, ma non è così.» Il suo cipiglio si approfondì. «La signora era davvero sicura che questo le avrebbe detto qualcosa.» Scossi il capo. «Sono spiacente, Mr Maison.» Mi alzai. Kitto tolse la mano dalla mia gamba, per poter restare nascosto nello spazio sotto il piano della scrivania; la luce del sole non lo fondeva, contrariamente alla diceria popolare, ma lui soffriva di agorafobia. «La prego», disse Maison. «Sia paziente. Sono certo di non essermi saputo spiegare bene.» Incrociai le braccia sul petto, e non tornai a sedermi. «Sono spiacente, Mr Maison, ma abbiamo una mattinata piena d'impegni. Troppi, perché io possa giocare a rimpiattino con lei. O si decide a spiegarmi il problema della sua cliente, oppure saremo lieti di raccomandarle un'altra agenzia che faccia al caso suo.» Lui protese una mano verso di me, sfiorando la scrivania. Poi se la lasciò ricadere su un ginocchio. «La persona per cui lavoro desidera rivedere persone della sua razza», disse, e mi guardò come per spingermi a capire con la forza della sua volontà. Socchiusi le palpebre. «Cosa intende con persone della sua razza?» Non sapeva cosa dire, ma ci provò. «La signora per cui lavoro non è umana, Ms Gentry, ed è... consapevole di cosa potrebbe fare la suprema Corte dei fey.» La sua voce era supplichevole, come se mi stesse dando il più grosso indizio che poteva darmi, e sperasse che io capissi da sola il resto. Per fortuna, o per sfortuna, l'avevo capito. C'erano altri fey a Los Angeles, ma, a parte me e le mie guardie, una sola proveniva da una Corte dei fey: Maeve Reed, la dea dorata di Hollywood. Quello era l'appellativo di cui godeva da ormai molti decenni e, poiché non invecchiava e non poteva morire, avrebbe continuato a essere la dea dorata di Hollywood per chissà quanto tempo. Prima di cambiare nome tra gli umani, cent'anni addietro, Maeve era conosciuta come la dea Conchenn, ma improvvisamente un giorno sua maestà Taranis, il re della Luce e delle Illusioni, l'aveva scacciata dalla Corte Seelie ed esiliata da Faerie, proibendo inoltre a tutti gli altri fey di rivolgerle la parola. Conchenn doveva diventare una paria, ed essere trattata come se fosse morta.
Re Taranis era mio prozio, e teoricamente io ero al quinto posto nella linea di successione al suo trono. Io realtà, ero considerata persona non grata dal popolo della luce. Quei sidhe avevano chiarito fin da quand'ero in tenera età che il mio pedigree non era ideale e che nessuna percentuale di sangue Seelie avrebbe potuto farmi perdonare di essere per metà Unseelie. Così stavano le cose. Ma ormai io avevo una Corte che era la mia patria; non avevo affatto bisogno di quella gente. Un tempo, quand'ero bambina, il loro rifiuto mi pesava, ma da anni aveva smesso di farmi soffrire. Mia madre faceva parte della Corte Seelie, e lei mi aveva abbandonata. Mi aveva lasciata alla Corte Unseelie perché ero un fastidio per le sue ambizioni politiche. Io non avevo una madre. Non fraintendetemi. Neanche la regina Andais aveva la minima simpatia per me. Ancora non riuscivo a capire perché mi avesse riconosciuta come erede. Forse solo perché era rimasta a corto di consanguinei, cosa che può succedere quando una ne ha fatti fuori abbastanza. Aprii la bocca per pronunciare il nome di Maeve Reed, ma tacqui. Mia zia era la regina dell'Aria e delle Tenebre, e tutto ciò che veniva detto nel buio finiva a lei, prima o poi. Non ritenevo che Taranis avesse un potere equivalente, ma non ne ero sicura al cento per cento. Meglio essere cauti. Alla regina non importava niente di Maeve Reed, però ci teneva ad avere elementi utili per negoziare, o ricattare, Taranis. Nessuno aveva mai saputo il motivo dell'esilio di Maeve, perché Taranis l'aveva tenuto per sé. Dunque non gli sarebbe piaciuto affatto sapere che Maeve stava facendo qualcosa di proibito: aveva contattato un membro delle Corti e, secondo una legge non scritta, se una Corte bandiva qualcuno da Faerie anche l'altra Corte rispettava la punizione. Avrei dovuto rimandare subito Jeffery Maison da Maeve Reed con un messaggio di rifiuto secco e chiaro, ma non lo feci. Una volta, da bambina, avevo chiesto a un membro della Corte Seelie perché Conchenn fosse stata scacciata. Taranis aveva sentito, e mi aveva picchiata selvaggiamente fin quasi a uccidermi; picchiata come uno può fare con un cane che si sia trovato tra i piedi. E quei bellissimi e luminosi cortigiani erano rimasti a guardare lo spettacolo senza che uno solo, neppure mia madre, alzasse un dito per difendermi. Fu così che accettai d'incontrare Maeve Reed più tardi, in giornata, perché per la prima volta avevo la forza di sfidare Taranis. Ora, se lui mi avesse fatto del male, ciò avrebbe significato la guerra tra le Corti. Taranis era un egocentrico, ma neppure un'offesa al suo orgoglio lo avrebbe indotto a rischiare una guerra.
Naturalmente, conoscendo mia zia, non ci sarebbe stata una guerra vera e propria. Ma io ero sotto la sua protezione ufficiale, perciò farmi del male significava doverne rispondere a lei. Taranis poteva preferire una guerra aperta a una faida personale contro Andais. Dopotutto, era un re, e nelle guerre i re non vanno mai in prima linea. Se avesse costretto Andais a scegliere tra vendicare la mia morte oppure tacere e perdere la faccia, Taranis si sarebbe trovato in prima linea e solo. In quanto a me, stavo cercando di rimanere viva, e quando si dice che la conoscenza è potere non si dicono parole vuote. 3 Quando la porta si richiuse dietro Jeffery Maison, mi aspettavo che le due guardie discutessero la mia decisione. Non sbagliavo di molto. «Lungi da me criticarti, principessa», esordì Rhys. «Ma cosa succederà se il re verrà a sapere che hai violato il suo bando su Maeve Reed?» Sentendo pronunciare quel nome m'irrigidii. «Che voi sappiate, le parole dette alla luce del giorno possono arrivare al re, così come la regina può ascoltare i discorsi fatti durante la notte?» Rhys mi guardò con stupore. «Non lo so.» «Allora cerchiamo di non aiutarlo a scoprire i fatti nostri pronunciando troppi nomi ad alta voce.» «Non ho mai sentito dire che Taranis abbia questo potere», disse Doyle. «Be', speriamo che sia così, visto che adesso hai pronunciato anche il suo.» «Ho complottato per millenni contro il re della Luce e delle Illusioni, principessa, e molti di quei complotti sono stati fatti alla luce del giorno. Buona parte dei nostri alleati umani, nel corso dei secoli, si sono sempre rifiutati d'incontrare gli Unseelie dopo il tramonto. Sembravano convinti che incontrandoli di giorno noi dimostrassimo fiducia in loro, il che li induceva a fidarsi di noi. Taranis non ha mai dato segno di sapere ciò che stavamo facendo, di giorno o di notte», replicò Doyle. Inclinò la testa, e i suoi orecchini mandarono arcobaleni di riflessi per la stanza. «Credo che non abbia il dono della nostra regina. Andais può sentire ciò che viene detto nel buio, ma secondo me il re è sordo come un umano.» A chiunque altro avrei chiesto se ne fosse sicuro, ma con Doyle non era il caso. Se fosse stato incerto, ce l'avrebbe detto. Non aveva problemi di orgoglio.
«Dunque il re non può sentirci, a migliaia di chilometri da qui», disse Rhys. «Benissimo. Ma ora abbi la cortesia di spiegare a Merry le conseguenze della sua infelice idea.» «Quale infelice idea?» domandò la Tenebra. «Aiutare Maeve...» Rhys mi guardò, poi aggiunse: «L'attrice». Doyle corrugò la fronte. «Non ricordo nessuna con quel nome che sia stata esiliata dall'una o dall'altra Corte.» Ruotai la poltroncina per guardarlo. Sullo sfondo dell'intensa luce solare la sua faccia scura era illeggibile; gli occhiali celavano molto la sua espressione ma, occhiali o no, avrei scommesso che fosse un'espressione perplessa. Sentii la fodera satinata di Rhys frusciare mentre veniva verso di noi. Lo vidi inarcare un sopracciglio, ed entrambi ci voltammo a guardare Doyle. «Tu non sai di chi stiamo parlando, eh?» dissi. «Il nome che avete fatto, Maeve Qualcosa... dovrei conoscerlo?» «La dea dorata. È la regina di Hollywood. Da cinquant'anni», lo informò Rhys. Doyle ci fissò stolidamente. «Quella gente di Hollywood ha sempre avvicinato la nostra regina e la Corte, per venire lì a fare dei film, oppure perché gli lasciassero girare documentari sulle loro vite.» «Ma tu hai mai visto un film?» chiesi. «A casa tua, sicuro. È quella roba che danno alla TV, no?» Scambiai un'occhiata con Rhys. «Dobbiamo portarli al cinema, lui e quest'altro qui sotto.» Rhys sedette su un angolo della scrivania. «Sì, non appena potremo prenderci una serata libera, tutti e quattro.» Kitto tirò l'orlo della mia gonna, e io scostai la poltroncina per guardarlo in faccia. Per un secondo, un raggio di luce cadde sui suoi occhi a mandorla, facendo diventare trasparenti come l'acqua quelle iridi celesti e dandomi l'impressione di vedere giù sino in fondo ai globi oculari, in un posto dove vi era solo vuota luce bianca. Poi il goblin chiuse gli occhi, abbagliato da quel fulgore. Seppellì la faccia contro una mia coscia, stringendomi una caviglia con una piccola mano. «Non sssono mai sstato al cinema.» Stava sibilando, segno chiaro che l'idea lo sconvolgeva. Gli accarezzai la testa. I suoi riccioli neri erano morbidi come quelli dei sidhe, assai diversi dalle dure setole dei goblin. «Nel cinema c'è il buio», lo tranquillizzai. «Potrai rannicchiarti per terra accanto a me, se vuoi, senza
guardare lo schermo.» Lui mi strusciò la testa contro una coscia, come un gattone. «Davvero?» «Davvero.» «Ti piacerà», aggiunse Rhys. «A volte il pavimento è così sporco che i piedi ti ci restano appiccicati.» «Mi sporcherò i vestiti», si preoccupò Kitto. «Non avrei mai creduto che voi goblin aveste paura di sporcarvi. Il vostro mondo è pieno di scheletri e carne putrefatta.» «Lui è solo un mezzo goblin», lo difesi io. «Infatti, suo padre ha violentato una delle nostre donne», grugnì Rhys arrostendolo con lo sguardo, benché dalla sua posizione non vedesse di lui che un pallido avambraccio. «Sua madre era una Seelie, non una Unseelie», precisai. «E questo che importa? Suo padre ha montato con la forza una donna sidhe.» La voce di Rhys bruciava come una lama rovente. «E quanti dei nostri guerrieri sidhe hanno violentato altre donne, anche goblin, durante l'una o l'altra guerra?» domandò Doyle. Lo guardai, e non potei vedere niente dietro quegli occhiali neri. «Non ho mai toccato una donna che non avesse gradito le mie attenzioni», dichiarò Rhys mentre sulle sue guance stava affluendo un colore violaceo. «No, naturalmente, tu sei un membro della Guardia della regina, uno dei suoi Corvi, e c'è la tortura e la morte per un Corvo che osi toccare una donna, eccetto la regina stessa. Ma che mi dici dei guerrieri che non fanno parte della sua Guardia personale?» Rhys distolse lo sguardo, mentre il rossore gli saliva fino alle orecchie. «Sì, guarda da un'altra parte, proprio come tutti noi abbiamo fatto per secoli», concluse Doyle. Rhys era rigido, e il suo collo si stava gonfiando come se ogni muscolo si riempisse di rabbia. Quella notte, con un'arma in mano, non mi aveva fatto nessuna paura. In quel momento invece, seduto lì su un angolo della mia scrivania, era impressionante. Non si muoveva, non alzava le mani posate in grembo, ma sembrava trattenere sempre più a stento una tensione ormai sul punto di esplodere in qualche atto terribile... qualcosa che avrebbe devastato la stanza e sparso ovunque schegge di vetro, sangue e rottami. Non si era mosso di un millimetro, eppure la violenza riempiva l'aria come un bacio elettrico sulla pelle, l'urlante silenzio nell'occhio del ciclone, benché nulla fosse successo. Non ancora.
Ero tentata di voltarmi verso Doyle, ma non potevo distogliere gli occhi da Rhys, quasi che solo il mio sguardo lo tenesse fermo. Sapevo che non era vero, ma ero certa che se avessi guardato altrove, anche per un solo istante, qualcosa di molto brutto sarebbe accaduto. Kitto si era così schiacciato contro le mie gambe che potevo sentirlo tremare. Avevo ancora una mano posata tra i suoi riccioli, però non pensavo che ciò lo confortasse molto, perché per la tensione il mio braccio era rigido come il legno giù fino alla punta delle dita. La faccia di Rhys era diventata improvvisamente bianca, quasi che la sua pelle fosse il vetro di una bottiglia piena di latte. La corona circolare blu intorno alla sua unica pupilla brillava di luce al neon, e l'altra corona ancora più esterna, celeste chiaro, sembrava palpitare di vita propria. In lui c'era un forte accumulo di energia, così evidente che i capelli candidi e riccioluti sembravano smorti rispetto al resto del suo volto. Avevo già visto Rhys quando si lasciava saturare dal suo potere, e adesso non era una di quelle volte, ma cominciava a esserci vicino, troppo vicino per la capacità di sopportazione dell'uomo seduto alle mie spalle. D'un tratto non fui più curiosa di vedere come stesse reagendo Doyle. Sapevo soltanto una cosa: non volevo vedere un duello tra loro, non lì nel mio ufficio, e soprattutto non per un diverbio così stupido. «Rhys», dissi a bassa voce. Lui non mi guardò. Il suo unico baluginante occhio era fisso sulla figura dietro di me, come se non esistesse nient'altro. «Rhys», dissi ancora, in tono più urgente. Lui sbatté le palpebre e abbassò gli occhi su di me. Sentirmi dirigere addosso tutto il peso di quella rabbia m'indusse a spingere indietro la poltroncina, ma nell'istante in cui mi accorsi di averlo fatto mi fermai. Dovevo rimediare a quel gesto, anche se ormai non potevo negare di essermi ritratta da lui, così mi alzai, e questo fu il mio vero errore. Spostandomi avevo tirato fuori da sotto la scrivania Kitto, che continuava a starmi aggrappato alle gambe. Non appena il goblin fu visibile, lo sguardo furioso di Rhys cadde sulla sua figura pallida. Cadde su di essa, e s'indurì. Kitto sembrò avvertire quello sguardo, perché mi abbracciò le gambe così forte da farmi quasi cadere. Per non perdere l'equilibrio mi appoggiai alla scrivania, nello stesso momento in cui Rhys protendeva le mani baluginanti di potere verso il goblin e gli si gettava addosso. Sentii Doyle alzarsi dietro di me, ma non c'era più tempo. Avevo visto Rhys uccidere con un semplice gesto. Lo afferrai dall'impermeabile e sfruttai il suo stesso slancio per tirarlo giù di peso dalla scrivania e scaraventarlo contro il mu-
ro, accanto alle gambe di Doyle. Il muro rimbombò sotto l'impatto, ed ebbi un secondo per chiedermi cosa sarebbe successo se l'avessi mandato a finire contro la finestra. Con la coda dell'occhio vidi che Doyle aveva estratto la pistola, ma stavo ancora girando su me stessa sulla spinta del mio momento d'inerzia. Afferrai il coltello che avevo fissato alla coscia e, mentre Rhys si rialzava sulle mani e sulle ginocchia, gli premetti la parte posteriore della lama su un lato del collo. Sarebbe stato meglio se gli avessi storto un braccio dietro la schiena, o fatto qualsiasi cosa per accertarmi che non mi colpisse alle gambe, ma nel poco tempo che avevo non potei fare di meglio. Conoscevo la rapidità di reazione delle guardie, e avevo avuto solo pochi istanti per intervenire. Rhys s'immobilizzò, a testa bassa, ansimando ferocemente. Potevo sentire la sua spalla sinistra fremere contro le mie gambe. Era vicino, ma la punta del mio coltello gli stava facendo male. D'un tratto la pelle cedette e il sangue sgocciolò al suolo. Non era stata mia intenzione ferirlo; mi ero mossa troppo in fretta per essere accurata. Tuttavia lui questo non lo sapeva, e niente convince qualcuno che fate sul serio come la vista del suo sangue. «Speravo che saresti diventato più tollerante con Kitto, dandoti tempo, ma sembra il contrario.» La mia voce era morbida, quasi un sussurro, e pronunciavo ogni parola con cura, come se non mi fidassi di poterla controllare. In realtà avevo la gola così stretta da riuscire appena a tirare il fiato. Rhys girò la testa, ma io tenni la punta del coltello dov'era, lasciando che la sua carne premesse ancora di più sul ferro. Se s'illudeva che avrei scostato l'arma, si sbagliava. Smise di muoversi. «Ficcati in testa una cosa, Rhys: Kitto è mio, come siete miei tutti voi. Non permetterò che i tuoi pregiudizi lo danneggino.» Lui parlò con voce stridula, come se avesse finalmente capito che quel coltello lo avrei usato fino alle più estreme conseguenze. «Mi ammazzeresti per un goblin?» «Ti ammazzerei per impedirti di ferire chi sta sotto la mia protezione. Aggredendolo così, tu non mi hai mostrato nessun rispetto. La notte scorsa, Doyle non mi ha mostrato nessun rispetto. Se ho imparato qualcosa da mia zia e da mio padre, è che un capo non rispettato dai suoi è solo una marionetta. Non sarò qualcuno che tu fotti e coccoli. Io sarò regina, oppure non sarò niente per te.» La mia voce si era abbassata ancora di più, così le
ultime parole furono appena un sospiro. E in quel momento seppi che dicevo sul serio, e che se avessi dovuto spargere il sangue di Rhys per arrivare al potere, ebbene lo avrei ucciso. Conoscevo Rhys da un'intera vita; era un mio amante, e sotto diversi aspetti anche un mio amico. Però avrei potuto ucciderlo. Avrei sentito la sua mancanza e rimpianto la necessità di un atto simile, ma ormai sapevo di dover costringere le mie guardie a rispettarmi. Quegli uomini mi piacevano, e andavo a letto con qualcuno di loro; un paio potevo perfino dire di amarli, o quasi. Ma erano assai di meno quelli che avrei voluto vedere sul trono con me. Il potere assoluto, di vita e di morte... e di chi vi fidereste, se avesse tanto potere? Quale delle guardie era incorruttibile? Risposta: nessuno. Tutti hanno in fondo all'anima il loro punto oscuro, quel punto in cui sono tanto sicuri di sé da vedere soltanto la loro verità. Io mi fidavo del mio giudizio, ma a volte ero abbastanza lucida da dubitarne. Speravo che quei dubbi mi avrebbero mantenuta onesta. O forse stavo prendendo in giro me stessa. Forse nessuno può avere quel genere di potere e restare onesto e giusto. Forse quel vecchio detto è vero: il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe in modo assoluto. Avrei fatto del mio meglio, ma una cosa la sapevo per certa: se non avessi preso in pugno la situazione, le mie guardie avrebbero preso in pugno me. Potevo ottenere il trono, ma avrei perduto tutto il resto. Non era il trono ciò che io volevo, ma mi sarebbe piaciuto governare, cambiare le cose e farle andare meglio. E naturalmente era proprio quel desiderio il punto oscuro della mia anima, e l'inizio della corruzione. La convinzione di sapere cos'era meglio per tutti gli Unseelie. Che arroganza. Scoppiai a ridere. Risi così forte che dovetti sedermi sul pavimento. Stringevo in pugno il coltello insanguinato e guardavo le guardie che mi fissavano mute, con la preoccupazione scritta sulla faccia. Rhys non brillava più. Kitto mi toccò una spalla, esitante, come se temesse ciò che avrei potuto fare. Io lo presi tra le braccia, lo strinsi a me, e le lacrime che mi scendevano sulle guance smisero di essere lacrime d'ilarità. Stavo piangendo. Tenni stretto Kitto e il coltello insanguinato, e piansi. Non ero migliore degli altri. Il potere corrompe... lo fa sempre. Questa è la sua natura. Rimasi lì seduta lasciando che Kitto mi cullasse, e non mi opposi quando Doyle allungò una mano a sfilarmi, dolcemente, il coltello dalle dita. 4
Mi ritrovai seduta su una delle poltrone dei clienti, con una tazza di tè alla menta tra le mani. Di fronte a me c'era Jeremy Grey, il mio capo. Non so come avesse saputo che nel mio ufficio c'era burrasca, ma era entrato con l'aria del capitano di nave deciso a mettere la prua sulle onde, e aveva subito ordinato a tutti di andare fuori. Doyle, ovviamente, si era opposto obiettando che Jeremy non poteva garantire la mia sicurezza. «Neppure tu», aveva replicato lui. C'era stata una pausa di silenzio profondo, poi Doyle era uscito. Rhys l'aveva seguito, premendosi un fazzoletto sul collo per impedire che altro sangue macchiasse il suo impermeabile bianco. Kitto era rimasto perché io lo abbracciavo, ma ormai ero più calma e l'avevo fatto sedere ai miei piedi, con una mano sulle mie ginocchia e l'altra che mi accarezzava la parte anteriore di una gamba. Che un fey toccasse qualcuno troppo intimamente e troppo spesso era segno di nervosismo, ma io accarezzavo con moto circolare i suoi capelli, così tutto andava bene. Eravamo pari. Jeremy si appoggiò alla scrivania come se riflettesse su ciò che doveva dirmi. Indossava un completo di sartoria, tagliato alla perfezione sul suo metro e cinquanta di altezza. Era tre centimetri più basso di me, snello e robusto, con un portamento fin troppo mascolino. L'abito era un classico grigio fumo, più scuro ma dello stesso colore della sua pelle. I capelli, tagliati corti e all'ultima moda, erano invece un tantino più chiari dell'epidermide, ma non di molto. Anche i suoi occhi erano grigi. Se avesse sorriso sarebbe stata una buona pubblicità per il suo dentista, perché esibiva denti ancora più luminosi della camicia di seta che aveva scelto quel mattino. L'unica cosa che rovinava il suo aspetto impeccabile era il naso, lungo e ricurvo; aveva speso una cifra per ritoccarsi i denti e altri particolari somatici, ma non quell'imponente naso a becco. Non gli avevo mai fatto domande in merito, però ero presente il giorno in cui Teresa non ce l'aveva più fatta a tenersele dentro. D'altronde lei era umana, e non assimilava bene il concetto che curiosare sui dettagli corporei di un fey era offensivo. Implicare poi nella stessa frase che uno di quei dettagli non era molto affascinante... be', sarebbe stato meglio non farlo. Jeremy le aveva spiegato che, per i fey di razza trow, un naso grosso era come un grosso organo genitale per i maschi umani. Teresa era arrossita e non aveva più fatto domande. Io mi ero avvicinata e gli avevo accarezzato la punta del naso con
un'esclamazione ammirata. E lui era scoppiato a ridere. Jeremy incrociò le braccia sul petto facendo brillare l'oro del suo Rolex, e mi guardò. Tra i fey era scortese chiedere a qualcuno perché avesse avuto una crisi isterica. Anzi, era scortese notare che costui si stava comportando istericamente. Di solito tuttavia quella diplomazia si usava solo coi regnanti delle molte e varie razze fey. Era di prammatica fingere che il re, o la regina, non fosse fuori di testa; mai insinuare che secoli di accoppiamenti tra consanguinei avessero provocato dei danni. Jeremy inalò un profondo respiro, lo lasciò uscire e disse: «Come tuo datore di lavoro, devo chiederti se te la senti di affrontare gli appuntamenti che hai per oggi». Era un modo delicato di girare intorno a quella domanda e chiedermi cosa mi stesse succedendo senza chiedermelo. Accennai di sì e mi portai alla bocca la tazza di tè, non per bere ma solo per respirare l'aroma gradevole della menta. «È tutto a posto, Jeremy.» Lui inarcò le sopracciglia, anch'esse artificialmente riplasmate e ridotte. I trow sono forniti di un solo lungo sopracciglio che nasconde la fronte quasi per metà, ma il look sopraorbitale alla neanderthal non si accoppia bene con gli abiti firmati Armani e le scarpe di Gucci. Avrei potuto lasciare la cosa a quel punto, e per rispetto alla nostra cultura lui avrebbe dovuto accontentarsi della mia parola e considerare chiusa la situazione. Ma Jeremy era il mio capo e un amico da anni, da molto prima di venire a sapere che io ero una sidhe della Corte Unseelie. Mi aveva dato un lavoro perché apprezzava le mie capacità, non per la pubblicità che gli veniva dall'avere una vera principessa di Faerie tra il personale della sua agenzia. In effetti, la massiccia risonanza data dalla stampa alla mia presenza mi aveva resa inutile per il lavoro investigativo in incognito, a meno che non usassi un potente glamour per cambiare il mio aspetto. La maggior parte dei giornalisti specializzati nel seguire le vicende dei fey aveva nei cromosomi un pizzico di magia della quale si serviva sul lavoro. Se uno di loro avesse annusato il glamour, questo si sarebbe dissolto; talora solo per quel giornalista, ma non di rado, se questi aveva abbastanza talento psichico, per tutti gli umani presenti. E ciò poteva essere spiacevole o addirittura pericoloso, nel mezzo di un'operazione sotto copertura. Vivevo tra gli umani da abbastanza tempo per sentire che dovevo una spiegazione a Jeremy. «Non so esattamente cosa sia successo. Rhys ha cominciato a brontolare contro i goblin, poi ha fatto per saltare addosso a Kitto, e io l'ho mandato a ruzzolare contro il muro.» Jeremy parve sorpreso, e non lo trovai lusinghiero né molto educato.
Corrugai le sopracciglia. «Può darsi che io non sia un peso massimo, Jeremy, ma posso sfondare con un pugno lo sportello di un'auto senza fratturarmi un osso.» «Le tue guardie potrebbero probabilmente sollevare un'auto e sbatterla sul cranio di qualcuno.» Bevvi un sorso di tè. «Già, sono più forti di quello che sembrano.» Lui fece una risatina. «Anche tu, bella mia, non dai l'impressione di essere una sfasciacarrozze umana.» «Posso fare lo stesso complimento a te», replicai, alzando la tazza verso di lui in un brindisi. Jeremy fece lampeggiare il suo costoso sorriso. «Sì, ho sorpreso non pochi umani, ai miei tempi.» Il sorriso si spense. «Se mi avessi detto di badare agli affari miei, l'avrei fatto; ma mi hai sempre dato spiegazioni, così vorrei farti qualche domanda. Se non ti va di rispondere, dimmelo.» Feci segno di sì. «Come hai detto tu, sono stata io a cominciare. D'accordo, Jeremy, sentiamo.» «Non è sbattendo nel muro che Rhys si è sporcato di sangue l'impermeabile.» «Questa non è una domanda.» Lui scrollò le spalle. «Cosa lo ha ferito?» «Un coltello.» «Doyle?» Scossi il capo. «Io.» «Questo perché stava cercando di colpire Kitto?» Mi sarei limitata ad annuire, ma il suo sguardo era insistente. «Il fatto è che la notte scorsa le mie guardie non hanno voluto ubbidire ai miei ordini. Se non li costringo a rispettarmi, Jeremy, potrebbe accadermi di arrivare al trono ed essere una regina soltanto di nome. Non voglio rischiare la mia vita e quella della gente cui voglio bene solo per essere una specie di marionetta.» «Così hai messo il coltello alla gola di Rhys per chiarire un fatto?» «In parte. E in parte perché ho reagito d'istinto, senza pensare. Stava per fare del male a Kitto soltanto per via di una cosa successa molti secoli fa. Kitto non gli ha mai dato motivo di prendersela con lui.» «Il nostro gorilla dai capelli bianchi odia i goblin, Merry.» «Kitto è un goblin, sì. Ma non può farci niente.» Jeremy annuì. «Già, non può farci niente.» Ci guardammo.
«Cosa devo fare?» domandai. «Non stai parlando solo di Rhys, vero?» Ci scambiammo un altro sguardo, e io dovetti abbassare il capo, ma ciò significò incontrare gli occhioni celesti di Kitto alzati verso i miei. Ovunque guardassi c'era gente che si aspettava qualcosa da me. Kitto voleva che mi prendessi cura di lui. Jeremy, be', forse voleva solo che io fossi felice, credo. «In Illinois avevo creduto di essermi meritata il loro rispetto, ma negli ultimi tre mesi è come se fosse cambiato qualcosa.» «E cosa?» domandò lui. «Non lo so.» Kitto alzò la testa, facendo scivolare la mia mano giù sul suo collo. «Doyle», disse sottovoce. Lo guardai. «Cosa c'entra Doyle?» Abbassò gli occhi, come timoroso di guardarmi. Non era timido; si trattava di un atteggiamento abituale, un atteggiamento servile. «Doyle ha detto che avevi cominciato bene, ma poi non hai usato in nessun modo il tuo accordo coi goblin.» Rialzò un poco gli occhi. «Hai un trattato di alleanza coi goblin ancora valido per tre mesi soltanto, Merry. Nei prossimi tre mesi, se gli Unseelie andassero in guerra, la tua regina dovrà rivolgersi a te per avere l'aiuto dei goblin, non al nostro re Kurag. Doyle teme che tu voglia soltanto fare sesso con quelli che hai scelto come possibili padri per l'erede, senza fare nulla contro i tuoi nemici.» «Cosa vuole che faccia? Dovrei dichiarare guerra a qualcuno?» Kitto nascose la faccia contro un mio ginocchio. «Non lo so, padrona, ma so che gli altri seguono la guida di Doyle. È lui che devi vincere, non gli altri.» Jeremy si scostò dalla scrivania e ci venne accanto. «Trovo un po' strano che dei guerrieri sidhe parlino così liberamente in tua presenza. Senza offesa, Kitto, ma tu sei un goblin. Perché quelli dovrebbero fidarsi di te?» «Loro non si fidano di me, come tu dici, ma qualche volta parlano come se io non ci fossi. Lo fai anche tu.» Jeremy si accigliò. «Io parlo con te, Kitto, quando ho qualcosa da dirti.» Il goblin ci guardò entrambi. «Ma prima parlavate come se io fossi una cosa e non potessi capirvi, come un cane o una sedia. Tutti voi lo fate.» Fissando quella faccia innocente, sbattei le palpebre. Avrei voluto negarlo, ma tenni la bocca chiusa e pensai a ciò che aveva detto. Aveva ragione? Il colloquio tra me e Jeremy era una cosa privata. A Kitto era capitato di
trovarsi lì. Io non avevo chiesto la sua opinione, o il suo aiuto; a dire il vero, non avevo mai pensato che potesse essermi di qualche aiuto. Lo vedevo come uno di cui dovevo prendermi cura, un peso morto, non un amico; non, diciamolo pure, una persona. Sospirai e scostai la mano da lui. Ma subito Kitto spalancò gli occhi freneticamente e afferrò di nuovo la mia mano, rimettendosela sopra la testa. «Ti prego, non essere arrabbiata con me. Ti prego!» «Non sono arrabbiata, Kitto, anzi penso che tu abbia ragione. Ti ho trattato come un animale da compagnia, non come una persona. Questo non l'ho mai fatto con gli altri uomini. Mi sono approfittata di te. Scusami.» Lui si mise in ginocchio. «No, no, non volevo dir questo. A me piace che tu mi tocchi. Mi fa sentire più sicuro. È l'unica cosa che mi fa sentire sicuro in questo... posto.» L'espressione del suo volto era lontana, sperduta. Consegnai la tazza del tè a Jeremy, che la depose sul bordo della scrivania. Poi presi tra le mani la faccia di Kitto e lo costrinsi a guardarmi. «Dici che ti ho trattato come un cane, o una sedia, ma io cerco di trattarti come una persona e tu non vuoi neppure questo. Non capisco cosa vuoi da me, Kitto.» Mise le mani sopra le mie e se le premette con fermezza sulle guance. Aveva mani piccole; era l'unico maschio da me conosciuto che avesse mani più piccole delle mie. «Vorrei che tu mi toccassi sempre, Merry. Non smettere di farlo. Non m'importa che gli altri parlino come se io non ci fossi. Io li ascolto, e non dimentico le loro parole.» «Kitto...» mormorai. Lui mi si accoccolò in grembo come un bambino, costringendo le mie braccia a cingerlo perché non cadesse. Gli posai la mano sinistra sulle scaglie della schiena, e l'altra sulla curva liscia e senza peluria di una coscia. I sidhe non hanno molti peli, e i goblin-serpenti ne sono addirittura privi. La sua eredità mista aveva lasciato Kitto liscio come una statua di cera, un pupazzo quasi finto nella sua strana perfezione, con un aspetto eternamente infantile. Era tuttavia un risultato dell'ultima guerra tra i sidhe e i goblin, dunque la sua età superava i duemila anni. Conoscevo la nostra storia, conoscevo le date, ma tenendolo così tra le braccia come un ragazzino stentavo a crederci. Era quasi impossibile digerire il fatto che il bambolotto seduto sulle mie ginocchia fosse nato prima di Cristo. Doyle era molto più anziano, e anche Frost. Rhys, sotto un altro nome che non aveva mai voluto dirmi -, era stato adorato come Dio della Morte. Nicca aveva soltanto pochi secoli, ed era giovane al loro confronto. Galen
era settant'anni più vecchio di me, e negli ambienti di Corte questo lo si vedeva come se fossimo cresciuti insieme. Io ero diventata adulta e li avevo visti rimanere uguali. Loro erano immortali, io no. Io invecchiavo a un ritmo un po' più lento di un'umana pura, ma non molto. Dimostravo forse un paio di decenni meno della mia età. Vent'anni guadagnati erano una buona cosa, ma non come vivere per sempre. Guardai Jeremy per avere un accenno di come comportarmi col goblin. Lui allargò le braccia. «Non guardare me. Io non ho mai avuto un impiegato che viene a sedermisi in grembo per essere coccolato.» «Non vuole essere coccolato, non esattamente. Vuole essere rassicurato.» «Se conosci già tutte le risposte, Merry, perché non provvedi a rassicurarlo?» «Ho bisogno di un po' di tempo in privato con lui, se non ti spiace», dissi. Nel momento in cui chiesi un po' d'intimità, sentii il corpo di Kitto cominciare a rilassarsi contro il mio. Le sue braccia scivolarono sotto la mia blusa e mi circondarono il torace, unendosi dietro la schiena. A quella vista Jeremy tossicchiò, si raddrizzò il nodo della cravatta e poi il colletto della giacca. Tutti gesti che rivelavano un certo imbarazzo. «Bene, vi lascio alle vostre cose. Ma credo che non appena Doyle si accorgerà che sei sola - sola con Kitto - ti raggiungerà.» «Non ci serve molto tempo», dissi. «Be', le mie condoglianze.» Jeremy esitò come sul punto di aggiungere qualcosa, ci guardò, inarcò un sopracciglio, poi scosse il capo con un sospiro secco e andò alla porta. Quando fu uscito, abbassai lo sguardo sul goblin. Non avremmo fatto ciò che Jeremy ovviamente pensava che stessimo per fare. Non avevo mai avuto contatti sessuali con Kitto e non intendevo cominciare in quel momento. Dovevo condividere la carne con un goblin per cementare il trattato tra me e la sua gente, e condividere la carne poteva significare molte cose diverse per i goblin. Tecnicamente, il giorno in cui avevo concesso a Kitto di lasciarmi un'impronta dei denti su una spalla, c'era stata una condivisione della carne. E la cosa era finita lì. Ma poi quella che avrebbe dovuto restare come una cicatrice era scomparsa. Avevo mostrato a re Kurag quel segno quand'era fresco, però in seguito né io né Kitto avevamo detto parola sul fatto che era sparito. Senza la cicatrice, non c'era nessuna prova che
io appartenessi a Kitto. Lui era nel suo diritto, secondo la cultura goblin, quando si aspettava rassicurazione sotto forma di condivisione della carne, qualunque cosa ciò significasse per noi due. Da quel punto di vista ero stata fortunata col mio piccolo goblin: lui mi era sottomesso e le cose gli andavano bene così. Mio padre aveva fatto in modo che conoscessi tutte le culture che facevano parte della Corte Unseelie, e sapevo cos'era una vera rassicurazione e cosa non lo era, nel mondo di Kitto. Dovevo giocare onèstamente, senza imbrogliare. Avevo un forte sospetto che re Kurag non l'avrebbe presa bene scoprendo che non avevo nessun marchio di goblin visibile sul mio corpo, oltre al fatto - offesa aggiunta all'offesa - che Kitto non aveva rapporti sessuali con me. Così dovevo andare molto cauta per quanto riguardava le regole culturali e i tabù degli altri. Dovevo rassicurare Kitto e continuare la mia giornata lavorativa. C'erano altri due clienti da ricevere prima che fosse l'ora di uscire per recarmi da Maeve Reed, la quale, attraverso Jeffery Maison, aveva molto insistito affinché ci vedessimo nel pomeriggio e non di sera. Se per quel pomeriggio non ce l'avessi fatta, allora il colloquio sarebbe scivolato all'indomani mattina. Kitto si rannicchiò contro di me, con le sue piccole mani che mi premevano sulla schiena. Mi stava ricordando che era ancora lì, in attesa. La porta si aprì. Rhys ci guardò e si fermò subito, sulla soglia. «Vieni dentro, Rhys, unisciti a noi.» La mia voce era fredda, distante, irritata. Lui scosse il capo. «Chiederò a Doyle di sostituirmi qui.» «No», ribattei. Stava già per uscire di nuovo, esitò e si voltò a guardarmi negli occhi. «Tu sai che non posso condividerti con quel...» Si controllò, prima di grugnire goblin, e finì goffamente: «... con lui». «E se invece ti dicessi che devi condividermi con lui?» «Sono venuto qui per chiederti scusa, Merry. Se avessi ferito Kitto, avrei mandato all'aria il tuo trattato coi goblin. Mi dispiace aver perso la testa.» «Se questo fosse stato il primo incidente, accetterei le tue scuse. Ma non è il primo. Non è neppure il quindicesimo. A questo punto, le parole non bastano più.» «Cosa vuoi da me, Merry?» Aveva di nuovo un'aria seccata e ostile. «Voglio che tu mi distragga mentre rassicuro Kitto.» Lui scosse il capo così forte da far svolazzare i riccioli bianchi. Poi si
portò una mano al collo con una smorfia. Si era messo una benda, ma evidentemente gli faceva male. Tuttavia le ferite non gli duravano mai molto; da lì a un paio d'ore sarebbe guarito. «Ho giurato che non avrei mai più permesso a un goblin di toccarmi, Merry. Tu lo sai.» «Lui toccherà me, non te.» «No, Merry, no.» «Allora fai i bagagli e vattene.» Spalancò gli occhi. «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che non posso rischiare che tu faccia del male a Kitto e mandi all'aria il mio trattato coi goblin.» «Mi dispiace per il mio scatto.» «Ma non abbastanza per fare la pace con Kitto. Non abbastanza per comportarti come una guardia del corpo invece che come un bambino offeso e vendicativo.» Rimase sulla soglia, fissandomi. «Non puoi fare a meno di me solo perché preferisci questo... goblin.» Scossi il capo. «I goblin sono al mio fianco contro i miei nemici, ancora per i prossimi tre mesi. Ciò mi offre una sicurezza più completa di qualunque cosa potresti darmi tu. Nessuno rischierebbe di affrontare l'intera orda dei goblin. Il fatto che tu non riesca a vedere oltre i tuoi pregiudizi, tanto da non capire quanto sia importante, significa che non sei adatto a stare tra le mie guardie.» Strinsi a me Kitto con forza, facendogli appoggiare la testa sulla mia spalla, e costrinsi Rhys a guardarmi. La sua faccia era contratta dalla rabbia. «La sua gente ha fatto di me un invalido», disse, indicando Kitto. Si tolse la benda dall'occhio e venne avanti nell'ufficio. «Guarda come mi hanno ridotto quelli come lui!» continuò, agitando un dito accusatore. Kitto alzò la testa. «Non sono stato io a farti del male.» La mano di Rhys tremava quando la chiuse a pugno. Incombeva su di noi, sconvolto dalla rabbia e avido di sfogarla su qualcuno. «Non farlo», dissi a voce bassa, calma. Temevo che, se avessi alzato la voce, sarebbe esploso. Non volevo perderlo, ma ero decisa a impedire che facesse qualcosa a Kitto. Dalla porta provenne un rumore, ma il corpo di Rhys mi bloccava la visuale. Poi la voce di Doyle, profonda e nitida, chiese: «Abbiamo un problema?»
«Grazie allo scatto di Rhys di poco fa, ora devo rinnovare il mio patto con Kitto. Così gli ho chiesto di distrarmi mentre facciamo quello che va fatto.» «Sarei felice di pensarci io, principessa», disse Doyle. «Oh, sì, tu sei bravo coi preliminari, a patto che poi non si debba approfondire il gioco. Be', lasciami dire che questo comincia a darmi sui nervi.» «Da stasera Frost sarà libero dal suo ultimo incarico. Ha detto all'attricetta cui faceva da bodyguard di cercarsi un sostituto per tenere alla larga i fan.» «Credevo che Frost fosse contento di quel contratto di lavoro», dissi. Ci stavamo parlando col corpo di Rhys ancora tra noi. «Dopo quanto è accaduto la notte scorsa, ho deciso che ci serve un uomo in più. L'ho già mandato a casa di Ms Reed, per dare un'occhiata al posto.» «Un'occhiata al posto?» domandai, perplessa. «Stiamo parlando di una sidhe della Corte Seelie, che un tempo era una dea e oggi non appartiene più a nessuna Corte. Potrebbe essersi convinta di non avere più nessun legame con le nostre leggi. Non sarei una buona guardia del corpo se ti lasciassi entrare in casa sua senza certe precauzioni.» «Così hai tolto Frost da un lavoro, il cui contratto appartiene alla nostra agenzia, e lo hai assegnato a un altro incarico... senza informarne me, e neppure Jeremy?» Silenzio. «Lo prendo come un sì.» Guardai Rhys, accigliata. «Vuoi scostarti, per favore? Questa tua sceneggiata minacciosa comincia ad annoiarmi.» Lui parve un po' sorpreso, come se supponesse che avrei dovuto tremare davanti al suo dito puntato. O forse quella scena non era per me. Kitto era pallido, e molto spaventato. «Muoviti!» ordinai. «Fai come dice la principessa», aggiunse Doyle. Soltanto allora Rhys si fece da parte, con riluttanza. Guardai Doyle, che era entrato di un paio di passi. «O Rhys mi aiuta a distrarmi mentre rassicuro Kitto, o fa i bagagli e se ne torna in Illinois.» Doyle apparve molto sorpreso. Non era un'espressione che si vedesse spesso sulla faccia della Tenebra della regina. Servì a migliorare un poco il mio umore. «Credevo che tu gradissi le attenzioni di Rhys.» «È bello averlo nel mio letto, ma questo non importa. Se non può controllare i suoi impulsi verso Kitto, prima o poi finirà per fargli del male. Tu
sai che Kurag non avrebbe mai voluto stringere un accordo con me. Ha cercato di tirarsene fuori fin dall'inizio. Io gli ho forzato la mano per ottenere questa alleanza, ma se Kitto fosse ferito - o peggio - Kurag lo userebbe come scusa per annullarla.» Accarezzai una guancia del goblin, voltandomi verso Rhys. «E se Kurag mi mandasse un secondo goblin a sostituirlo, credi che per me sarebbe migliore di Kitto? In ogni modo, è la mia carne che io gli offro, non quella di Rhys o la tua.» «Questo è abbastanza vero, principessa», disse Doyle. «Ma se tu mandi Rhys a casa, la regina farà venire qui un'altra delle sue guardie, e probabilmente qualcuno che tu gradiresti molto meno di Rhys.» «Non importa. Rhys farà quello che chiedo, oppure è fuori. Sono stanca delle sue scenate.» La Tenebra fece un sospiro così profondo che anche dall'altra parte della stanza potei vedere il suo petto sgonfiarsi. «In tal caso sarò io a occuparmi della sorveglianza, mentre Rhys farà quello che deve fare.» Rhys si voltò. «Non starai dicendo che devo farlo?» «La principessa NicEssus, che si sta accingendo alla condivisione della carne, ti ha dato un ordine preciso. Se non lo esegui, la principessa ti ha già comunicato la punizione.» Rhys fece qualche passo verso Doyle. Stava cominciando a calmarsi. «Mi metteresti fuori, per una cosa simile? Io sono una delle tue guardie migliori.» «Detesto perderti, in questa situazione, ma non posso andare contro i desideri della principessa», replicò la Tenebra. «Non è quello che hai detto la notte scorsa.» «Lei ha ragione, Rhys. Hai messo in pericolo la nostra alleanza coi goblin. Se non puoi controllare i tuoi sentimenti per Kitto, sei un rischio per tutti noi. La principessa ha fatto bene a metterti di fronte alle tue paure.» «Non ho paura di lui!» esclamò Rhys, puntando un dito su Kitto. Quest'ultimo si rannicchiò contro di me, come colpito fisicamente dall'ira dell'altro. «Tutto l'odio insensato emerge da una radice di paura», sentenziò Doyle. «Molto tempo fa i goblin ti hanno ferito, e tu hai paura di finire ancora nelle loro mani. Puoi odiarli, se vuoi, e avere paura di loro quanto ti pare, ma sono nostri alleati, perciò devi trattarli come tali.» «Non aiuterò quel... coso ad affondare i denti in una principessa Unseelie.» «Se prima avessi saputo controllarti, non sarei stata costretta a fare una
cosa simile, adesso», replicai. «Sei tu la causa di questo mio dolore, Rhys, e se io devo sopportarlo, il meno che tu puoi fare è di renderlo non completamente spiacevole.» Lui andò alla finestra e guardò fuori. «Non so se riuscirò a farlo.» «Tu provaci», ribattei. «Ma dovrai provarci davvero. Non potrai mettere un piede in mare, dichiarare che l'acqua è fredda e tornartene a casa. Dovrai entrare nell'acqua fino al collo. Se non potrai sopportarlo, vuol dire che ne parleremo, ma prima dovrai provarci.» Rhys appoggiò la fronte al vetro della finestra. Alla fine rialzò la testa, raddrizzò le spalle e si voltò verso l'interno della stanza. «Farò del mio meglio. Solo, dimmi che lui non mi toccherà.» Guardai la faccetta pallida del piccolo goblin e i suoi occhi spaventati. «Rhys, per quanto tu possa non crederlo, Kitto non ha nessuna voglia di toccarti. Non più di quanto tu voglia toccare lui.» Rhys fece un cenno di assenso. «Va bene. Togliamoci il pensiero. Abbiamo dei clienti che stanno aspettando.» Riuscì a sorridere debolmente. «Misteri da risolvere, e malvagi da punire.» Gli sorrisi. «Questo è lo spirito giusto.» Doyle chiuse la porta e ci si appoggiò contro. «Io non interverrò, salvo in caso di pericolo.» Era la prima volta che la Tenebra della regina mi stava proteggendo non da una forza esterna ma da una delle mie guardie. Rhys venne verso di me; la benda che aveva intorno al collo era sporca di sangue. Forse Doyle non era lì per proteggere me e Kitto da Rhys. Forse, solo forse, era lì anche per proteggere Rhys da me. 5 Rhys depose l'impermeabile di seta sulla mia scrivania, e venne a piazzarsi di fronte a noi. Kitto si rannicchiò a palla contro di me fissandolo da sotto in su, come un coniglio rannicchiato tra l'erba fissa il predatore e si augura che, se starà abbastanza fermo, lui non lo vedrà. La fondina in pelle della pistola di Rhys era bianca sullo sfondo bianco della camicia; solo il calcio nero dell'arma stonava con quei toni candidi e cremosi. «Consegna la pistola a Doyle, per favore», dissi. Rhys gettò un'occhiata al suo capitano, che era tornato a sedersi sulla poltroncina presso le finestre.
«Credo che tu stia innervosendo il piccoletto», disse la Tenebra della regina. «Ah, sì? Che peccato.» La voce di Rhys era tagliente. Alzando lo sguardo su di lui, mi accorsi che il potere si agitava dentro di me. Non mi opposi alla rabbia né alla magia. Lasciai che mi riempissero gli occhi, finché non sentii che la luce ne sprizzava fuori facendone brillare i colori più di ogni altra cosa nella stanza. «Bada a quello che fai, Rhys, o tra un minuto sarai fuori di qui, e non ti darò un'altra possibilità.» La mia voce era bassa, rigida. Stavo trattenendo la magia, così come si controlla il respiro per non mettersi a urlare. Dovevo avere la faccia di chi dice sul serio, perché lui si voltò e andò da Doyle. Gli porse l'arma col calcio in avanti, poi drizzò le spalle e rimase lì qualche secondo, con le mani sui fianchi. Aveva l'aria di sentirsi improvvisamente insicuro senza la pistola. Se avesse avuto di fronte un pericolo mortale sarei riuscita a capirlo, ma Kitto non era una minaccia per lui. Tornando verso di me, il suo respiro era così roco che me ne accorsi subito. La rabbia l'aveva abbandonato, e ciò che restava era una paura malcelata. Doyle diceva bene. Rhys aveva paura di Kitto o, meglio, dei goblin. Era come una fobia per lui. Una fobia basata su un fatto reale, dunque di quelle quasi impossibili da guarire. Nel fermarsi davanti a me aveva un'espressione diffidente, ma dietro c'era un'incertezza così vulnerabile che fui tentata di dirgli no, non è necessario che tu faccia questo. Ma avrei mentito. Doveva farlo. Se non avessimo preso provvedimenti, prima o poi Rhys avrebbe perso il controllo e ferito Kitto, o peggio. Non potevamo mettere a rischio il trattato. E Kitto era stato affidato a me. Non ero ben sicura di dove avrebbero potuto spingersi i miei doveri se Rhys l'avesse ucciso in una crisi di panico. Non volevo trovarmi costretta a condannare a morte uno che conoscevo da tutta la vita. Avrei voluto rassicurare Rhys, dirgli che tutto andava bene, ma non intendevo neppure apparire debole. Così restai seduta lì, con Kitto rigido per la tensione accoccolato sulle mie ginocchia, e non dissi niente. «Finora sono sempre uscito dalla stanza, quando tu... ti occupavi di lui», disse Rhys. «Ora cosa succede?» Non ne potevo più, e all'improvviso smisi di preoccuparmi dei suoi sentimenti. Abbassai lo sguardo su Kitto. «Io ti offro la piccola carne o il sangue debole», dichiarai. «Piccola carne» era gergo goblin e significava preliminari sessuali. «Sangue debole» voleva dire scalfire la pelle al punto di far uscire il san-
gue, oppure strappare via un piccolo pezzo di carne con un morso. C'era anche la possibilità che Kitto scegliesse qualcosa per cui non mi sarebbe stata necessaria nessuna distrazione. Negli ultimi tempi avevo cercato d'insegnargli delle alternative ai preliminari sessuali e ai morsi che si usavano tra i goblin, cose meno violente benché con lo stesso significato sociale. Lui abbassò gli occhi, evitando lo sguardo di tutti, e sussurrò: «La piccola carne». «Accetto.» Rhys corrugò le sopracciglia. «Che state dicendo?» Inarcai un sopracciglio. «Bisogna sempre negoziare coi goblin prima del sesso, Rhys. Se non lo fai, ti ritrovi con qualche brutta ferita.» Lui mi guardò duramente. «Io ero loro prigioniero quella notte. Non avevo la possibilità di negoziare niente.» Sospirai e scossi il capo. La maggior parte dei sidhe, Seelie o Unseelie, non sapeva niente delle altre culture fey. Era quel genere di presunzione a convincerli ancora di più che le usanze delle altre razze erano stupide cose da selvaggi. «Secondo le leggi goblin, avresti potuto negoziare. Se ti avessero torturato, allora no, in questo caso avresti dovuto limitarti a soccombere, anche se in realtà ci sarebbe stato spazio per un certo negoziato perfino sotto la tortura. Col sesso, però, c'è sempre spazio per negoziare. È una loro usanza.» Il cipiglio di Rhys si approfondì. Quel suo unico occhio era confuso, pieno di dolore. Io misi sul pavimento Kitto e mi alzai davanti a Rhys, tenendo il goblin tra me e lui. Per una volta il sidhe non parve irritarsi della vicinanza del piccolo individuo da lui tanto odiato. «I goblin sono dei violentatori, e non c'è modo di salvarsi da questo, ma puoi dettare loro i termini della cosa, ciò che possono fare e ciò che non possono fare.» Le mani di lui si alzarono verso le sue cicatrici facciali, ma si fermarono a mezz'aria prima di toccarle. «Vuoi dire che...» E lasciò non detto il resto della frase. «Che avresti potuto impedire loro di sfigurarti per sempre?» La mia voce era stata molto morbida nel dirlo. Desideravo e insieme temevo d'informarlo su tale particolare fin da qualche mese prima, quando avevo saputo come aveva perso l'occhio. La sua faccia si riempì di orrore. Gli sfiorai una guancia e mi alzai in punta di piedi, attirando il suo volto verso il mio. Lo baciai sulle labbra con leggerezza, appena un saluto della mia bocca alla sua; poi mi protesi
finché i nostri corpi non furono a stretto contatto, e con le mani intorno alla sua faccia continuai a baciarlo e a stringerlo contro di me. A questo punto gli diedi un leggero bacio sulla cicatrice. Lui indietreggiò, facendomi inciampare. Solo le braccia di Kitto intorno alla mia vita m'impedirono di cadere. «No», mormorò Rhys. «No.» Non smisi di stringerlo. «Vieni da me, Rhys.» Ma lui fece un altro passo indietro. Doyle si era portato alle sue spalle senza che nessuno di noi lo notasse, e Rhys smise d'indietreggiare quando urtò addosso al suo capitano. «Se ora fallisci, Rhys, dovrai tornare a Faerie», ammonì la Tenebra. Lui guardò Doyle, poi me. «Non ho fallito. È solo che... non so...» «La maggior parte dei sidhe non sa niente della cultura goblin», dissi. «Nessuno li conosce, e questo è uno dei motivi per cui i goblin sono guerrieri così temuti. Avremmo potuto vincere le guerre dei goblin centinaia di anni prima, se qualcuno si fosse preso il disturbo di studiarli. E non intendo sotto tortura. Non s'impara la cultura degli altri, torturandoli.» Doyle appoggiò le mani sulle spalle di Rhys e cominciò a spingerlo di nuovo verso di noi. Ora non sembrava più spaventato, solo un po' stordito, come se un pezzo del suo mondo si fosse spaccato lasciandolo ad annaspare con un piede nel vuoto. Quando la Tenebra lo fece fermare davanti a noi, toccai il volto di Rhys. Lui sbatté le palpebre, come stupito di trovarmi ancora lì. «Non sei sfigurato, Rhys. Sei bello.» Attrassi la sua faccia verso la mia, ma venticinque centimetri di differenza di altezza ostacolarono le mie intenzioni. Potei baciarlo sulla bocca, ma non sull'occhio. Mi alzai per la seconda volta in punta di piedi e stesi tutto il mio corpo lungo quello di lui. Il braccio di Kitto mi cingeva la vita, e il goblin si trovò intrappolato tra di noi, impossibilitato a muoversi da quella pressione. Contrariamente a quanto avrebbe fatto poco prima, Rhys non gridò; così anch'io finsi di non accorgermene. Volevo finire quello che avevo cominciato. Lo baciai lentamente su un lato del volto fino a toccare il bordo della cicatrice. Lui s'irrigidì, e credo che solo le mani di Doyle lo trattennero dal fuggire ancora. Chiuse gli occhi con forza, come un condannato a morte che non volesse vedere l'arrivo della pallottola. Mossi la bocca lungo la cicatrice fino a sentire le irregolarità più grezze della pelle sotto le labbra. Gli diedi un bacetto sull'orbita vuota, un tempo occupata da un occhio bello come l'altro. Lui era così teso tra le mie braccia che ogni tanto fremeva. Tornai a ba-
ciare gli ispessimenti della cicatrice, stavolta aprendo le labbra. Rhys emise una specie di guaito. Sporsi la lingua e leccai quella carne indurita. Un altro suono indecifrabile gli uscì dalla gola, e non era un gemito di dolore. Accarezzai pian piano con la lingua l'intera zona della cicatrice. Il suo respiro si spezzava in ansiti brevi e secchi. Le sue mani abbassate lungo i fianchi erano strette a pugno, ma non per l'ira. Gli leccai la pelle intorno all'orbita finché le ginocchia non gli si piegarono, e allora fu Kitto ad afferrarlo circondandogli la vita con le braccia. Benché fosse piccolo, lo tenne in piedi senza sforzo apparente. Baciai Rhys sulla bocca, e lui mi restituì il bacio come se stesse affogando e avesse bisogno del mio respiro per vivere. Finimmo in ginocchio sul pavimento, con Doyle in piedi accanto a noi e Kitto ancora abbracciato alla cintura di Rhys, che mi stringeva tra le braccia così forte da imprigionare un braccio del goblin tra noi due. Poi qualcosa, forse una fibbia, ferì la pelle di Kitto, perché lo sentii mandare un lamento. Quel lieve suono bastò a distrarre Rhys, che staccò la bocca dalla mia e si guardò intorno. Soltanto allora si accorse che il goblin gli stava abbracciato alla cintura; mandò un grido strozzato e si scostò goffamente da noi. Stavo per dirgli che aveva fatto abbastanza da accontentarmi, ma con mia sorpresa Kitto mi precedette. «Io mi dichiaro soddisfatto.» Sbattei le palpebre. «Ma non hai ancora avuto niente.» Il goblin annuì più volte, guardandomi con quei sonnolenti occhi celesti. «Io sono soddisfatto», ripeté. Parve sul punto di dire di più, poi ci ripensò e annuì ancora. Fu Rhys che obiettò: «Non hai ancora avuto il tuo pezzo di carne». «No. Ma è mio diritto farne a meno.» «Perché vorresti rinunciare?» domandò l'altro, ancora seduto sul pavimento e con un'espressione sconvolta e intimorita sulla faccia. «Merry ha bisogno di tutte le sue guardie per essere al sicuro. Non voglio che ne perda una per colpa mia.» Rhys lo guardò. «Rinunci al tuo pezzo di carne e sangue, perché io possa rimanere qui?» Kitto sbatté le palpebre, poi abbassò gli occhi a terra. «Sì.» «Provi compassione per me?» Nella voce di Rhys riaffiorò una lama di rabbia. Il goblin rialzò lo sguardo, palesemente stupito. «Compassione di te? Tu sei bello, e puoi avere il corpo di Merry e dividere il suo letto. Hai la possibilità di diventare un re. Le cicatrici che secondo te rovinano la tua faccia
sono un segno di grande bellezza tra i goblin, e un simbolo di valore, perché dicono che sei sopravvissuto a un grande dolore.» Scosse il capo. «Sei un guerriero sidhe. Nessuno fa il prepotente con te, salvo la regina. Guarda me, guerriero, guardami.» Allargò le sue deboli braccia. «Io non ho artigli, non ho preziosi denti acuminati. Sono come un umano tra i goblin.» Per la prima volta, nella voce di Kitto vi fu amarezza. L'amarezza di secoli di soprusi in una cultura che apprezzava la violenza e le torture fisiche, secoli di vita in un corpiciattolo troppo molle secondo i loro standard. Lui era nato per essere una vittima tra i goblin. Protese quelle mani delicate verso Rhys, e sulla sua faccetta c'era una rabbiosa, indignata richiesta di giustizia. Kitto sapeva bene cos'era, e cosa non era. Tra i goblin era la preda di tutti. Non c'era da stupirsi che volesse stare con me, anche in quella terribile grande città. 6 Se domandate alla gente, specialmente ai turisti, dove abitano i personaggi ricchi e famosi della California meridionale, tutti vi diranno Beverly Hills. Ma Holmby Hills è un posto non meno riservato, pieno di alti muri eretti per bloccare la visuale ai curiosi che passando in macchina da quelle parti allungano il collo nel tentativo di scorgere qualcosa. Holmby Hills non è l'indirizzo alla moda che era un tempo, né il posto scelto dalle giovani stelle in ascesa che cercano casa, ma in una cosa non è cambiato: occorre denaro per vivere dietro quei muri e quei cancelli, molto denaro. A pensarci bene, forse è per questo che i nuovi ricchi generalmente non cercano casa a Holmby Hills: non possono permetterselo. Maeve Reed poteva permetterselo. Era una stella di prima grandezza, ma per nostra fortuna non rientrava in quel due per cento di star su cui vive la stampa scandalistica. Se fosse stata, diciamo, Julia Roberts, avremmo dovuto aggirare i suoi segugi della stampa così come facevamo coi miei; una banda di assatanati reporter al giorno era più che sufficiente. C'erano modi per aggirare la stampa che non richiedevano l'uso della magia, per esempio un rugginoso furgone bianco che per la maggior parte del tempo restava inutilizzato in un angolo del garage. La Grey Detective Agency lo usava per la sorveglianza quando l'altro furgone avrebbe dato troppo nell'occhio. Se la situazione era tranquilla, usavamo il furgone buono; se intorno alla sede c'erano dei giornalisti, uscivamo dal sotterraneo su quello scalcinato rottame. I giornalisti avevano deciso di stare dietro al
furgone buono tutte le volte che lo vedevano uscire, in base alla teoria che dentro potevano esserci la principessa e i suoi gorilla. Questo ci dava la possibilità di usare il rottame in circostanze come quella, anche se a Holmby Hills avrebbe dato nell'occhio come un disco volante. Uno dei finestrini posteriori era chiuso con un pezzo di cartone e del nastro adesivo. La ruggine decorava la vernice bianca come un cancro marrone, qua e là bucherellata. Sia il cartone sia i buchi rugginosi servivano per le telecamere e l'equipaggiamento elettronico, oltre che come feritoie per eventuali scontri a fuoco. Al volante c'era Rhys; noi stavamo nel retro. Rhys si era nascosto i capelli bianchi sotto un berretto, e un'ottima barba finta celava la sua bella faccia fanciullesca; con la visiera abbassata sugli occhi, anche la sua cicatrice si vedeva poco. Le mie guardie erano ormai conosciute quanto me, così a volte dovevamo farci truccare bene prima di uscire. Ma Rhys amava giocare al detective; si era travestito come se quella fosse una delle solite giornate di lavoro, dimenticando tutti i travagli emotivi delle ultime ore. Kitto stava accovacciato sul pavimento, sotto le mie gambe. Doyle sedeva sul lato destro del veicolo, io a sinistra, e Frost occupava il posto di mezzo. Visti così, seduti, i due Corvi della regina erano esattamente della stessa altezza. In piedi, Frost era sei o sette centimetri più alto di Doyle. Aveva spalle un po' più larghe e un torace più massiccio. Non era una gran differenza, e non la si notava molto quand'erano vestiti, ma era pur sempre una differenza. La regina Andais li trattava come se fossero due facce della stessa moneta: la sua Tenebra e il suo Gelo Assassino. Frost indossava un paio di larghi pantaloni grigi, abbastanza lunghi da coprire la parte superiore delle scarpe, lucide come specchi, una camicia bianca con due strisce di pizzo sul davanti e il colletto alto. La giacca, grigio pallido, nascondeva una fondina a spalla contenente una pistola così voluminosa che io non sarei riuscita a tenerla in mano, e meno ancora a usarla. I suoi capelli argentei erano uniti dietro la nuca in una semplice coda di cavallo, lasciando in piena evidenza i lineamenti forti e mascolini del volto, quasi troppo bello per essere guardato. In quel momento i capelli gli ricadevano su una spalla e sul petto, mentre girato a mezzo verso Doyle gli faceva il suo rapporto, e io allungai una mano per toccarli; avevano una lucentezza metallica, tanto da sembrare duri e rigidi, invece erano meravigliosamente morbidi. Avevo avuto spesso tutta quella bellezza satinata
sparsa sul mio corpo nudo; c'era una parte di me convinta che i capelli di un uomo dovessero essere lunghi almeno fino alle ginocchia. E i sidhe della Corte Unseelie erano molto fieri dei loro capelli. Un fianco di Frost premeva contro il mio, com'era inevitabile nello spazio ridotto del sedile; ma la sua coscia aderiva alla mia per tutta la lunghezza, e ciò sarebbe stato evitabile. Avevo sollevato una ciocca di capelli davanti agli occhi e li facevo ondeggiare guardando il mondo attraverso quei riflessi argentati, quando Doyle domandò: «Ci stai ascoltando, principessa Meredith?» Sussultai e lasciai cadere i capelli. «Sì, sto ascoltando.» L'espressione della sua faccia diceva chiaramente che non ci credeva. «Allora sii così gentile da ripeterlo, se non ti spiace.» Avrei potuto dirgli che ero una principessa e non dovevo ripetere niente, ma sarebbe stato infantile, e inoltre qualcosa avevo ascoltato, anche se con un orecchio solo. «Frost ha visto della gente di Kane e Hart oltre il muro. Questo significa che le fanno da guardie del corpo o stanno svolgendo per lei un lavoro che richieda talento psichico.» A Los Angeles, la Kane and Hart Agency era l'unico vero concorrente della Grey Detective Agency. I fratelli Kane erano due, un esperto di arti marziali e uno psichico; i fratelli Hart invece erano due dei più potenti maghi umani che avessi mai conosciuto. La loro agenzia faceva più lavoro di sorveglianza della nostra, anche se ultimamente noi avevamo incrementato quell'attività. Doyle continuò a guardarmi. «E?» «E cosa?» domandai. Frost rise, un puro suono mascolino che esprimeva divertimento assai più delle parole. Conoscevo il motivo di quella risata senza bisogno che me lo dicesse: era compiaciuto perché la sua vicinanza mi aveva distratto. Tra le guardie del corpo con cui andavo a letto, Frost era quello che mi distraeva di più. Si girò verso di me con la risata che ancora gli brillava negli occhi; l'espressione divertita migliorava la perfezione della sua faccia e lo faceva sembrare più umano. Alzai un dito a toccargli il viso, sfiorandolo appena. La sua espressione allegra si sciolse pian piano, lasciando quegli occhi grigi pieni di tenere parole non dette, cose non ancora fatte. Sostenni il suo sguardo. Aveva occhi grigi, non tricolori come i miei o quelli di Rhys; ma naturalmente non erano soltanto grigi, erano mutevoli come le nuvole in un giorno di pioggia, e ad agitarne le sfumature non era il vento, bensì l'umore. Li sentii morbidi come le ali di una colomba quan-
do piegò la testa per baciarmi. Le pulsazioni mi strinsero la gola fino a mozzarmi il fiato. Le sue labbra sfiorarono le mie lasciandovi un bacio gentile che tremò sulla pelle. Poi mise termine a quel momento tenero scostandosi di qualche centimetro; ci guardammo a vicenda, e tra noi ci fu una muta consapevolezza. Andavamo a letto insieme da tre mesi. Lui si occupava della mia sicurezza, io lo avevo introdotto al XXI secolo. Avevo guardato il solenne Frost mentre imparava di nuovo a sorridere e a ridere. Condividevamo cento piccole cose intime, dozzine di scherzi, mille nuove scoperte sul mondo in generale, e niente di tutto questo era bastato a spingere uno di noi oltre l'orlo. Poi all'improvviso quello scambio di sguardi e quel bacio gentile, e fu come se i miei sentimenti per lui raggiungessero la massa critica, quasi che io avessi atteso ancora un ultimo contatto e un ultimo sguardo prima di capire. Amavo Frost, e dallo stupore del suo volto mentre mi guardava seppi che per lui era lo stesso. La voce di Doyle s'insinuò in quel momento, facendoci sussultare. «Ciò che non hai sentito, Meredith, è che la proprietà di Maeve è protetta da incantesimi. Tutti gli incantesimi che soltanto una dea, vivendo sullo stesso pezzo di terra per oltre quarant'anni, avrebbe potuto fare.» Con lo sguardo fisso su Frost, sbattei le palpebre e cercai di scacciare l'incantesimo che avevo nella testa, per interessarmi a quello che Doyle stava dicendo. L'avevo sentito, ma non ero tanto sicura che m'interessasse, non ancora. Se Frost e io fossimo stati soli, avremmo parlato; ma non eravamo soli, ed essere innamorati l'uno dell'altra non cambiava molto. Voglio dire, cambiava tutto, e niente. Amare qualcuno ci cambia dentro, però i membri della famiglia reale raramente si sposano per amore; si sposano per cementare trattati, per prevenire guerre o forgiare nuove alleanze economiche. Nel caso dei sidhe, ci sposiamo per avere eredi. Avevo fatto l'amore con Rhys, Nicca e Frost per circa tre mesi e non ero incinta. Se uno di loro non mi avesse dato un figlio, non avrebbe potuto sposarmi. I tentativi andavano avanti da tre mesi, ma perché una sidhe restasse incinta occorreva in media almeno un anno. Fino a quel momento non mi ero preoccupata, ma ad angustiarmi non era il fatto di non essere incinta, bensì che cominciavo a rischiare di perdere Frost. Nello stesso momento in cui terminai quel pensiero seppi che non potevo permettermi di pensare in quel modo. Avrei dato il mio corpo all'uomo il cui seme mi avesse fatto rimanere in-
cinta. Il mio cuore poteva andare dove voleva, ma il mio corpo era legato a un obbligo. Se fosse stato Cel a diventare re, avrebbe avuto il potere di vita e di morte sull'intera Corte. Avrebbe voluto uccidere me, e chiunque lui vedesse come una minaccia alla sua autorità. Frost e Doyle non sarebbero sopravvissuti. Forse a Rhys e Nicca sarebbe andata meglio; Cel non sembrava preoccupato del loro potere, e probabilmente li avrebbe lasciati vivere. O forse no. Mi scostai da Frost e scossi il capo. «Cosa c'è che non va, Meredith?» domandò lui. Mi prese la mano mentre la allontanavo dalla sua faccia. La tenne tra le dita e la strinse forte, quasi fino a farmi male, come se avesse visto qualcuno di quei pensieri nei miei occhi. Se non potevo parlare di amore davanti agli altri, ancora meno potevo ricordargli qual era il prezzo da pagare per essere una principessa. Dovevo restare incinta. Dovevo essere la prossima regina della Corte Unseelie, altrimenti saremmo morti tutti. «Principessa», mormorò Doyle. Guardai oltre le spalle di Frost per incontrare i suoi occhi. E qualcosa in quegli occhi mi disse che lui, almeno, aveva seguito i miei pensieri. Ciò significava che aveva capito cosa provavo per Frost. Non mi piacque che la cosa fosse tanto evidente agli altri; l'amore, come il dolore, dovrebbe essere privato, salvo che lo si voglia deliberatamente condividere. «Sì, Doyle?» dissi, e la mia voce suonò roca, come se avessi bisogno di schiarirmi la gola. «Incantesimi di quella potenza impediscono a un altro fey di vedere tutta la magia che c'è in un posto. Frost ha guardato meglio che poteva, ma data la forza di quegli incantesimi non sappiamo quali sorprese magiche possono attenderci oltre il muro della residenza di Ms Reed.» Stava parlando di cose normali, ma nella sua voce c'era una nota dolce. In chiunque altro avrei detto che si trattava di pietà. «Vuoi dire che non dovremmo entrare?» domandai, mentre sfilavo la mano da quella di Frost. «No. Dico solo che il suo desiderio d'incontrarsi con te, insieme con tutti noi, è alquanto interessante.» Il furgone si fermò davanti a un grande cancello. Rhys si voltò verso di noi per quanto glielo permetteva la cintura di sicurezza. «Io voto per tornarcene a casa. Se re Taranis scopre che abbiamo parlato con lei, s'incavolerà di brutto. Cosa possiamo venire a sapere qui che valga quello che
stiamo rischiando?» «La sua messa al bando fu un grande mistero, quando accadde», ricordò Doyle. «Sì», annuì Frost, appoggiandosi allo schienale. Aveva uno sguardo distante, come se volesse allontanarsi da me. Io mi ero ritratta, e lui non la stava prendendo bene. «A quell'epoca correva voce che lei avrebbe potuto diventare la prossima regina Seelie, e poi all'improvviso fu esiliata.» Scostò la gamba dalla mia, mettendo così tra noi una distanza anche fisica. Vidi la sua faccia diventare fredda e dura, arrogante, la vecchia maschera che aveva portato a Corte per tutti quegli anni, e questo mi ferì. Gli presi una mano tra le mie. Lui mi guardò corrugando le sopracciglia, stupito. Mi portai la sua mano alle labbra e gli baciai le nocche delle dita l'una dopo l'altra finché non lo vidi irrigidirsi, col fiato mozzo. Quel giorno era la seconda volta che mi sentivo le lacrime agli occhi, ma li tenni ben aperti per ricacciarle indietro, e riuscii a non piangere. Frost ricominciò a sorridere, visibilmente sollevato. Era di nuovo felice, e questo mi fece piacere. È inevitabile volere che la gente da noi amata sia felice. Rhys ci stava osservando con espressione del tutto neutra; la notte passata era stato il suo turno, quella successiva sarebbe stato il turno di Frost, e per lui non era un problema. Doyle colse il mio sguardo, e la sua espressione non era neutra, ma preoccupata. In quanto a Kitto, che accovacciato sul pavimento mi scrutava dal basso, sulla sua faccia non c'era nulla che potessi capire. Benché fosse in parte sidhe, in realtà era qualcos'altro, e non riuscivo mai a immaginare cosa sentisse o pensasse. Frost mi stringeva la mano e sembrava felice così; felice che non gli voltassi le spalle. Di tutti loro, Doyle era il solo che sembrava capire i miei pensieri e le mie emozioni. «Cosa importa il motivo per cui è stata esiliata?» domandò Rhys. «Forse non importa o forse importa molto», replicò la Tenebra della regina. «Non lo sapremo finché non potremo chiederglielo.» Sbattei le palpebre. «Chiederglielo, così? Senza che nulla ci autorizzi a domandarle qualcosa di tanto personale?» Lui annuì. «Tu sei sidhe, ma in parte umana. Puoi spingerti dove per noi non sarebbe appropriato.» «Conosco la buona educazione sidhe, e non posso sbatterle lì una domanda personale come se niente fosse», obiettai. «Sappiamo che sei una personcina ben educata, ma Maeve non ti conosce, e sa che gli umani sanno essere più franchi dei sidhe.»
Guardai Doyle, mentre le dita di Frost mi accarezzavano le nocche delle dita. «Stai dicendo che dovrei essere sfacciatamente umana?» «Sto dicendo che dobbiamo usare tutte le armi a nostra disposizione. La tua eredità mista può darci un vantaggio, oggi.» «Sarebbe quasi come mentire, Doyle.» «Quasi», annuì lui. Poi un sorrisetto gli curvò le labbra. «I sidhe non possono mentire, Meredith, ma rimescolare la verità è una nostra tradizione di antica data.» «Come tu sai bene», ribattei. Il sarcasmo della mia voce fu udibile anche col rumore del motore. Il sorriso lampeggiò candido sulla sua faccia scura. «Come tutti sappiamo bene, principessa, come tutti sappiamo bene.» «Resto convinto che la cosa non vale il rischio», disse Rhys. Scossi il capo. «Ne abbiamo già parlato. Penso che valga la pena di rischiare.» Guardai Frost. «E tu?» Fu a Doyle che lui si rivolse. «Tu che ne pensi? Io non voglio rischiare la vita di Meredith in cambio di niente, però abbiamo un dannato bisogno di alleati, e una sidhe esiliata da Faerie un secolo fa potrebbe essere disposta a fare molte cose pur di tornare in patria.» «Stai dicendo che Maeve vuole aiutare Meredith a diventare regina?» «Se Meredith fosse regina, potrebbe permettere a Maeve di tornare a Faerie. Non credo che Taranis rischierebbe una guerra per una sidhe tornata dall'esilio.» «Pensi davvero che una sidhe della Corte Seelie verrebbe a stare alla Corte Unseelie?» domandai. Frost abbassò lo sguardo su di me. «Qualunque pregiudizio Maeve abbia contro gli Unseelie, lei non tocca la carne di un fey da un secolo.» Si portò la mia mano alla bocca e mi baciò la punta delle dita, alitando il fiato su ciascun polpastrello. Ciò mi fece correre un fremito sulla pelle. Parlò mentre le sue labbra ancora mi toccavano. «So cosa significa anelare il contatto fisico di un sidhe e non poterlo avere. E io avevo intorno a me tutta la Corte e il resto di Faerie, come una specie di consolazione. Non riesco a immaginare come sia stata la solitudine di Conchenn in tutti questi anni.» Le sue ultime parole furono un sussurro. Negli occhi aveva il grigio scuro delle nuvole in tempesta. Mi costò uno sforzo, ma distolsi l'attenzione da Frost per rivolgermi a Doyle. «Secondo te ha ragione? Anche tu pensi che Maeve voglia cercare un modo di tornare a Faerie?»
Lui scrollò le spalle, facendo frusciare la pelle della sua giacca. «Chi può dirlo? Ma dopo un secolo d'isolamento, io lo vorrei.» Accennai di sì. «Va bene, allora. Siamo d'accordo. Andiamo.» «Non siamo d'accordo», mi corresse Rhys. «Io vengo, ma protesto.» «Bene, protesta quanto vuoi, ma i voti sono tre contro uno.» «Se là dentro ci succederà qualcosa di brutto, voglio poterti dire che te l'avevo detto.» Allargai le braccia. «Se saremo ancora abbastanza vivi da poter parlare, potrai dirmelo.» «Per la Dea, se dovessi lasciarci la pelle il mio fantasma tornerà a tormentarti.» «Se là dentro c'è qualcosa che può ammazzarti, Rhys, è probabile che io diventi un fantasma ancora prima di te.» Lui mi diede uno sguardo che quella barba rendeva ancora più fosco. «Questo non mi rassicura, Merry, non mi rassicura per niente.» Ma si voltò verso il cancello e aprì il finestrino, per premere il pulsante del citofono e annunciare il nostro arrivo. Avrei scommesso che lei ne era già informata. Aveva avuto quarant'anni per riempire d'incantesimi quella proprietà. Conchenn, la dea della bellezza e del carisma, sapeva che eravamo lì. 7 Ethan Kane non era alto quanto sembrava. In realtà aveva la stessa statura di Rhys, ma pareva più grosso, come se il suo corpo occupasse uno spazio che non aveva nulla a che fare con le dimensioni fisiche. Era bruno, coi capelli corti, e portava occhiali senza montatura che sulla sua faccia risultavano quasi invisibili. Con quelle spalle larghe, il portamento atletico, la mascella quadrata e una fossetta sul mento lo si sarebbe potuto definire un bell'uomo. Gli abiti che indossava erano di sartoria, cosicché non sfigurava accanto alle star per cui lavorava. Aveva tutto, insomma, fuorché la personalità. Dava sempre l'idea di disapprovare qualcosa, e quella perpetua espressione cupa azzerava il suo fascino. Ci stava aspettando davanti alla larga porta d'ingresso a due battenti della villa di Maeve Reed, coi piedi saldamente allargati a terra, una mano stretta intorno all'altro polso e il solito cipiglio sulla faccia. Noi ci fermammo ai piedi della breve scalinata marmorea che conduceva a quella porta. Gli uomini di Kane erano schierati tra le eleganti colonne che soste-
nevano il portico della facciata. Come veranda era splendida e di notevole effetto, ma troppo grandiosa per metterci qualche sedia e bere tè freddo nelle calde sere d'estate. Era un porticato fatto per essere guardato, non per viverci. Gli uomini di Kane che vedevo lì erano quattro, tutti molto robusti. Di loro, tre mi erano sconosciuti. L'altro, Max Corbin, era sulla cinquantina e lavorava come guardia del corpo a Hollywood da tutta la vita. Raggiungeva quasi il metro e novanta ed era costruito come un baule, tutto angoli retti, comprese le mani dalle nocche granitiche. Portava i capelli grigi piuttosto lunghi, il che gli conferiva un look alla moda, ma se li era tagliati così anche quarant'anni addietro. Gli avevano rotto il naso tante volte che non era facile dire da quale parte fosse storto. Probabilmente avrebbe pagato qualsiasi cifra, se un chirurgo gli avesse detto che c'era una possibilità di raddrizzarlo; d'altra parte era convinto che gli desse un'aria da duro, e aveva ragione. «Ehi, Max», lo salutai. Annuì. «Salve, Ms Gentry. O forse dovrei dire principessa Meredith?» «Ms Gentry mi va ancora bene.» Sorrise, ma fu solo un breve lampo di buonumore prima che la voce di Kane c'interrompesse. La faccia di Max tornò quella impassibile della guardia del corpo professionista; era l'espressione che diceva Noi non vediamo niente e non sentiamo niente, ma vediamo tutto e reagiremo in un batter d'occhio. I vostri segreti sono al sicuro con noi, e anche il vostro corpo. Chi fa quel mestiere non trova lavoro a Hollywood se ha la reputazione di uno che parla coi rappresentanti della carta stampata o con chiunque altro. «Cosa ti porta qui, Meredith?» Kane e io non ci conoscevamo abbastanza da chiamarci per nome, ma lui aveva questa abitudine coi colleghi e, per quanto fosse irritante, io dovevo adeguarmi. «Ms Reed ci ha invitati, Ethan. E tu, come mai da queste parti?» Sbatté le palpebre. Il modo in cui mosse le spalle mi fece capire che qualcosa lo irritava, a meno che non fosse la fondina della pistola a dargli fastidio. «Ci occupiamo della sorveglianza per conto di Ms Reed.» Sorrisi. «Cominciavo a immaginarmelo, già. Ma sembra che lavoriate qui da poco tempo.» «E cosa te lo fa pensare?» Lasciai che il mio sorriso si allargasse. «Vedo che hai con te i tuoi uo-
mini migliori. Se la Kane and Hart fosse impegnata a fondo da molto tempo con Ms Reed, lo avremmo saputo.» Il suo cipiglio si approfondì. «Non abbiamo soltanto questi quattro impiegati, Meredith, e tu lo sai.» Aveva pronunciato il mio nome come se fosse una parolaccia. Annuii. Lo sapevo. «C'è una ragione per cui ci stai tenendo qui fuori, Ethan? Ms Reed ci tiene molto a vederci oggi pomeriggio; non di sera, ma di pomeriggio.» Accennai col capo verso il sole, che sfiorava le cime degli eucalipti ai limiti della proprietà, piuttosto distanti da lì. «È tardo pomeriggio, Ethan. Se ci tieni ancora qui, si farà notte.» Era un'esagerazione, avevamo ancora ore di luce diurna, ma ero stanca di stare in giro. «Riferisci il motivo della tua visita, e forse vi faremo entrare», replicò Ethan. Sospirai. Non avevo nessuna voglia di dirgli cose che non lo riguardavano, e non m'importava se ciò mi dava un'aria irritante ai suoi occhi. Frost era un paio di passi dietro di me, sulla sinistra, e Doyle alla stessa distanza sulla destra, entrambi molto rilassati, ma in realtà attenti a ogni minimo movimento delle guardie sotto il colonnato. Rhys era quasi di fronte a Max e gli stava sorridendo. Erano entrambi fanatici di Humphrey Bogart. Quei due avevano trascorso una lunga giornata insieme, in servizio di guardia a due diversi clienti, ed erano diventati amici; ogni tanto si scambiavano vecchi film polizieschi in bianco e nero. Kitto si guardava bene dal fronteggiare una di quelle guardie del corpo. Stava dietro di me, quasi nascosto anche se non del tutto. Sembrava molto fuori posto lì, coi suoi pantaloni corti e il giubbotto rosso e giallo da ragazzino. Si era messo un paio di occhiali neri, ma ciò non lo salvava dal sembrare il nipotino di qualcuno. Inoltre non riusciva mai a togliersi di dosso quell'atteggiamento timoroso e sottomesso, da vittima. Non riuscivo a capire come avesse fatto a sopravvivere tra i goblin. Quando ebbi guardato gli altri, tornai a fissare Kane, piazzato lì in cima alla scala come una versione body-building di Napoleone, e scossi il capo. «Ethan, quello che vuoi sapere è perché Ms Reed ci ha chiamato benché sia sotto contratto con te. Ti stai chiedendo se per caso sei sul punto di essere sostituito.» Fece per protestare. «Ethan, per favore», lo interruppi. «Risparmiami le chiacchiere, e io ti risparmierò queste uggiose preoccupazioni. Ms Reed non ci ha detto esattamente il perché di questo invito, ma vuole parlare con me. Non le inte-
ressano le mie guardie. Così presumo si possa dire che non abbia bisogno delle guardie del corpo della nostra agenzia.» Se il suo cipiglio si fosse approfondito ancora, avrebbe potuto venirgli un crampo alla fronte. «Noi non affittiamo soltanto guardie del corpo, Meredith. Siamo anche detective. Perché Ms Reed ha bisogno di te?» La frase non detta - Quando ha già noi - aleggiò nell'aria tra me e lui. Scossi le spalle. «Non lo so, Ethan, davvero non lo so. Ma se adesso ti decidi a farci entrare potremo scoprirlo, tutti insieme.» Il suo cipiglio si ammorbidì, lasciandolo con un'espressione più giovanile, e un po' perplessa. «Questo è... simpatico da parte tua, Meredith.» Poi tornò a guardarmi insospettito, come chiedendosi a cosa mirassi. «Posso essere molto simpatica con chi me ne dà la possibilità.» Max disse, ma a voce bassa perché Kane non potesse sentirlo: «E fino a che punto puoi essere simpatica?» Fu Rhys a rispondergli: «Oh, può essere molto, molto simpatica». I due condivisero una di quelle risate mascoline alle quali le donne non partecipano mai, perché sentono di esserne l'oggetto. «Cosa c'è di tanto divertente?» sbottò Kane con voce secca come una frustata, di nuovo cupo in faccia. Max scosse il capo, come se non si fidasse della sua voce. Alla fine Rhys disse: «Stavamo solo scherzando tra noi, Mr Kane». «Non siamo qui per scherzare. Siamo qui per tutelare la sicurezza dei nostri clienti», ribatté Ethan. Ci guardò l'uno dopo l'altro. «E non saremmo all'altezza della nostra professione se vi lasciassimo entrare in casa armati.» Scossi il capo. «Sai che Doyle non mi lascerebbe andare da nessuna parte senza le mie guardie, e sai anche che loro non consegneranno le armi.» Lui sorrise di un sorriso sgradevole. «Allora non entrerete.» Coi miei tacchi di otto centimetri sul vialetto asfaltato, col sole che cominciava a farmi imperlare la pelle di sudore, non avevo voglia di perdere altro tempo con quell'individuo. Così feci la cosa meno professionale che avrei potuto fare. Cominciai a gridare a voce spiegata: «Maeve Reed, Maeve Reed, venga fuori! C'è la principessa Meredith col suo seguito!» E poi continuai a ripetere la prima parte: «Maeve Reed, venga fuori!» Ethan Kane cercò di azzittirmi un paio di volte, ma io avevo una voce ben allenata a parlare in pubblico, assai più acuta della sua. Gli uomini di Ethan non sapevano cosa fare. Non stavo aggredendo nessuno, mi limitavo a gridare.
Dopo cinque minuti di quella confusione, una giovane donna aprì la porta. Era Marie, disse, la segretaria privata di Ms Reed. Volevamo avere la cortesia di entrare? Sì, volevamo. Occorsero altri dieci minuti per attraversare la soglia di casa, perché Ethan insistette ancora per requisire le nostre armi. Marie dovette accennare alla possibilità che Ms Reed avrebbe rinunciato ai servizi della sua agenzia, per convincerlo a farsi da parte. Max e Rhys ridevano così forte che preferimmo lasciarli fuori, aggrappati l'uno all'altro come una coppia di ubriachi. Almeno qualcuno si stava divertendo. 8 Il soggiorno di Maeve Reed era più largo del mio appartamento. Il tappeto candido si stendeva come un mare di vaniglia giù per gli scalini della zona centrale, incavata, fin davanti al caminetto, cosi largo che vi si sarebbe potuto arrostire un piccolo elefante. La mensola del camino occupava buona parte della parete, di nudi mattoni rossi ma ornata da stucchi in gesso. Di fronte a essa s'incurvava un divano bianco semicircolare a venti posti. Cuscini di seta dorata, ocra e crema erano sparsi ad arte qua e là. Alcune sedie bianche attorniavano un tavolino di legno chiaro, sul quale era deposta una scacchiera di dimensioni triple rispetto al normale, e una lunga lampada Tiffany a stelo forniva una zona di colore rosa in quella sala altrimenti monocromatica. Un largo quadro moderno a lato del caminetto riecheggiava il colore della lampada, e sul lato rialzato del pavimento, opposto all'ingresso, vi era un secondo gruppetto di sedie bianche e di cuscini. Al centro di quelle sedie sorgeva un albero di Natale, anch'esso bianco; dai suoi rami nivei pendevano file di lampadine bianche, dorate e argentee che avrebbero dovuto ravvivare la stanza, ma in realtà non le offrivano niente: l'albero era solo un oggetto d'arte senza significato e senza vita. Sopra un tavolino, accostato a un angolo forse per fare più posto all'alberello, vi erano due alte caraffe, piene di tè e limonata con ghiaccio. Sparsi nella sala c'erano altri dipinti, per la maggior parte dello stesso tono rosato della lampada. Tutto l'insieme sembrava l'opera di un arredatore e non diceva molto di Maeve Reed, salvo che poteva permettersi di pagare qualcun altro per dare stile alla sua casa. Quando in una stanza non c'è niente che stoni col resto, comprese
le piccole luci natalizie dell'albero, allora non è reale. È soltanto un palcoscenico. Marie era alta, snella, vestita con un completo giacca-pantalone bianco madreperla che non si adattava alla sua pelle olivastra e ai capelli bruni. Coi tacchi a spillo superava il metro e ottanta, e il sorriso la faceva sembrare più giovane. Non che ne avesse bisogno, perché doveva avere poco più di vent'anni. «Ms Reed ci raggiungerà tra poco», disse. «Gradite qualcosa da bere?» E con un gesto c'invitò in direzione del tavolino dei rinfreschi. In realtà avrei più che gradito, ma la regola imponeva di non accettare mai nulla da mangiare e da bere, se a offrirlo era un altro fey, sconosciuto o dalle intenzioni non ancora ben chiare. Non era del veleno che bisognava aver paura, ma degli incantesimi. «Grazie, non abbiamo sete... Marie. Posso chiamarla per nome?» Lei sorrise ancora e annuì. «Allora sedete, prego. Mettetevi comodi, mentre io avverto Ms Reed che siete qui.» A passi graziosi scese gli scalini e scomparve oltre la porta di un corridoio bianco, che conduceva da qualche parte nelle viscere della casa. Mi girai a guardare Kane e il robusto individuo che si era portato dietro. Gli altri li aveva lasciati all'esterno con Max e Rhys. Marie non aveva offerto niente alle guardie del corpo, evidentemente perché i collaboratori stipendiati erano considerati alla stregua della servitù. Ciò m'induceva a chiedermi: se non si presumeva che noi fossimo destinati a essere collaboratori stipendiati, allora cosa stavamo facendo lì? Possibile che Maeve Reed volesse soltanto una visita di società da parte di un'altra cortigiana sidhe? Avrebbe violato il bando cui sottostava da un secolo, rischiando le ire del suo re, per fare quattro chiacchiere? Non ci credevo, però avevo visto sidhe altolocati delle due Corti fare cose altrettanto stupide per ragioni ancora più banali. Scesi gli scalini e raggiunsi il lungo divano. Kitto mi seguiva come un'ombra. «Andiamo, ragazzi, mettiamoci tutti a sedere e facciamo finta di essere buoni amici.» Oltrepassai di tre o quattro metri l'estremità del divano e sedetti tra i cuscini, sistemandomi la gonna. Kitto si accovacciò ai miei piedi, anche se la Dea sapeva che lì non mancava certo lo spazio. Ma non lo feci rialzare, perché nonostante i suoi occhiali neri vedevo che era piuttosto nervoso. Quel grande salone bianco sembrava aver innescato la sua agorafobia. Si stringeva a me, circondandomi le gambe con un braccio come se fossero il suo orsacchiotto. Gli uomini non si erano mossi da sotto l'ampia arcata d'ingresso, e si
guardavano a vicenda. «Signori, sedetevi. Coraggio», insistetti. «Una guardia del corpo degna di questo nome non si rilassa, sul lavoro», sentenziò Ethan. «Sai bene che non siamo una minaccia per Ms Reed. Non so da chi tu voglia proteggerla, comunque non si tratta di noi.» «Quelli che stanno con te possono ingannare i giornalisti, Meredith, ma io lo so cosa sono.» «E cosa saremmo?» La voce profonda di Doyle creò una strana eco nella sala e sotto l'arcata. Ethan trasalì, sorpreso. Dovetti nascondere il viso per non rivelare che quella sua buffa reazione nervosa mi aveva fatto ridere. «Voi siete Unseelie!» esclamò Ethan, facendo sibilare irosamente l'ultima parola. Li guardai. Doyle era di fronte a lui e mi dava le spalle. Non potevo capire cosa stesse pensando, e probabilmente non l'avrei capito neanche vedendolo in faccia: la Tenebra della regina aveva la più stolida faccia da poker di chiunque avessi conosciuto. Frost era vicino a uno dei gorilla di cui non conoscevo il nome, con l'espressione arrogante che un tempo si compiaceva di esibire a Corte. Anche l'altro aveva una faccia illeggibile, a parte un fremito nervoso intorno a un occhio. Ma Ethan non nascondeva i suoi sentimenti; gli tremavano le mani dalla voglia di agire, e fissava Doyle con odio. «Sei soltanto geloso, Ethan», dissi. «Geloso che le più importanti star preferiscano avere accanto un guerriero sidhe invece di te.» «Avete gettato loro addosso un incantesimo», mi accusò. Inarcai un sopracciglio. «Mi credi capace di una cosa simile?» «Se non tu, loro.» Accennò ai miei uomini. Fu un gesto iroso, ma sembrava anche preoccupato di come Doyle l'avrebbe presa. «Ethan, Ethan», disse in tono di paziente rimprovero un'altra voce, dalla porta di fondo del soggiorno. «Ti ho già detto che questo non è vero.» A parlare era stato uno dei due fratelli Hart e, quando scese gli scalini per venire verso di me, il suo portamento mi disse che si trattava di Julian. Jordon e Julian Hart erano gemelli identici; entrambi portavano corti i capelli bruni, riuniti in dozzine di ispidi spunzoni solidificati dalla lacca, molto alla moda, molto curati. Erano alti un metro e ottantacinque e attraenti come modelli, professione che una decina di anni addietro aveva con-
sentito loro di guadagnare molto denaro, prima che decidessero di creare l'agenzia investigativa. Julian indossava una blusa di seta ricamata color borgogna, sopra un paio di pantaloni a strisce che potevano sembrare ordinari finché non si notava l'etichetta prestigiosa. I suoi mocassini neri, portati senza calze, lasciavano vedere le caviglie abbronzate mentre si muoveva graziosamente per la stanza. Portava un paio di occhiali gialli che indosso a chiunque altro avrebbero stonato orribilmente col vestito, ma su di lui apparivano perfetti. «No, no, mia cara Merry, resta pure seduta, vengo io da te», disse, ignorando il fatto che mi ero limitata a salutarlo con un gesto, senza accennare ad alzarmi. Girò intorno al divano, facendo palpitare le ciglia verso i quattro muscolosi individui sotto l'arcata. «Ethan, tesoro, ti ho detto tante volte che i guerrieri sidhe non farebbero lo sforzo di alzare una paglia per portarci via il lavoro. Sono così esotici, così belli, molto più attraenti del nostro personale.» Prese la mia mano e vi depose un negligente bacetto prima di scivolare a sedere al mio fianco, passandomi subito un braccio intorno alle spalle come se fossimo una coppia. «Tu sai come vanno le cose a Hollywood, Ethan», proseguì, girando appena il capo verso di lui. «Per le star, una guardia del corpo sidhe significa pubblicità garantita. Gente che non aveva mai avuto bisogno di protezione oggi viene aggredita da legioni di fan solo perché si è affittata una scorta alla moda.» «La mia esperienza conferma questa teoria», assentì Frost. Il gorilla senza nome di fronte a lui sembrava preoccupato. Che razza di storie Ethan aveva raccontato ai suoi uomini sugli Unseelie? «E chi non vorrebbe farsi accompagnare da te, Frost?» disse Julian in tono insinuante. Frost si limitò a guardarlo con una luce neutra negli occhi grigi. Julian rise e mi strinse a sé. «Sei la ragazza più fortunata che conosco, Merry. Sei sicura di non volermi prestare uno dei tuoi splendidi guerrieri?» «Solo se mi assicuri che Adam ucciderebbe soltanto te.» «Via, Adam non è poi così follemente geloso.» E scosse il capo, ridacchiando ancora. Adam Kane era il fratello più anziano di Ethan, nonché l'amante di Julian. Stavano insieme da ormai cinque anni. Quand'erano tra amici, e non c'erano estranei a fare commenti ostili, tubavano come una coppietta di sposini. Julian fece sfarfallare le mani nell'aria. «Ma non state lì come statue, miei cari. Venite a sedervi con noi, su.»
Mi voltai. Nessuno accennava a muoversi. «Doyle e Frost resteranno lì, finché ci restano Ethan e il vostro uomo», dissi. «Frank è la nostra ultima recluta», m'informò Julian. L'uomo era piuttosto giovane, con una faccia ingenua da campagnolo. Non gli si adattava il nome Frank. Un Cody, forse, o un Josh. «Piacere di conoscerti, Frank», dissi. Lui mi guardò, controllò con un'occhiata di traverso l'espressione ancora accigliata di Ethan, e mi rivolse un breve cenno del capo. Non sembrava molto sicuro che mostrandosi amichevole con noi non avrebbe rischiato il posto. «Ethan», disse Julian. «Tutti i soci anziani hanno discusso il tuo atteggiamento verso i sidhe. Sei sotto per tre voti contro uno.» La sua voce aveva perso il tono sdolcinato di poco prima. Era seria, bassa, e conteneva qualcosa di simile a una minaccia. Mi domandai che razza di minaccia potesse essere. Ethan era uno dei soci fondatori della ditta. Era possibile licenziare un socio? «Ethan», continuò Julian. «Siediti.» Stavolta parlava con un tono di comando che non gli avevo mai sentito. Per un secondo mi domandai se avessi sbagliato gemello. Jordon era freddo e calcolatore, Julian più sottile, scherzoso e diplomatico. Scrutai il suo profilo, la curva del sorriso che gli piegava appena l'angolo della bocca, le guance un po' più morbide. No, era Julian. Cos'era successo dietro le quinte della Kane and Hart per mettere quella durezza nella sua voce? Di qualunque cosa si trattasse bastò, perché Ethan cominciò a scendere gli scalini. Frank gli tenne dietro. Doyle e Frost attesero un momento, poi li seguirono lentamente intorno alla stanza. Ethan andò a sedersi all'estremità del divano più lontana da me. Frank sedette come se non fosse sicuro di averne il permesso, abbastanza lontano da Ethan per non urtargli i piedi. Doyle sedette accanto a me dalla parte opposta rispetto a Julian, e accennò a Frost di accomodarsi sulla curva del divano. «Meredith ha bisogno di concentrarsi», lo sentii mormorare. D'un tratto mi resi conto che da un po' di tempo mi stava chiamando Meredith. In precedenza ero sempre stata «la principessa» o «Principessa Meredith», anche se all'inizio della nostra conoscenza, quand'era venuto a cercarmi a Los Angeles talvolta mi aveva chiamato Meredith. Poi aveva preso le distanze nel modo di esprimersi, quando le aveva prese anche fisicamente. Era chiaro che a Frost non piaceva come ci eravamo seduti, ma dubito che qualcun altro ci stesse facendo caso. La rigidità delle sue spalle diceva
molto a chi sapeva quale libro leggere, ed era un libro che avevo impiegato del tempo per imparare a leggere. Doyle conosceva l'umore dei suoi uomini come lo può conoscere un buon capo. Kitto sembrava inconsapevole di tutto, ma era difficile dire cosa il piccolo goblin notasse o non notasse. Julian stava a contatto del mio fianco destro, molto più vicino di Doyle, anche se aveva scostato il braccio con cui mi cingeva per lasciare che la spalla di Doyle sfiorasse la mia. Ora la sua mano era sulla spalliera del divano, e toccava la schiena di Doyle. Era innamorato di Adam, questo lo sapevo, ma sapevo anche che non scherzava affatto quando mi aveva chiesto di prestargli uno dei miei guerrieri. Forse lui e Adam avevano un accordo particolare, o forse nessuno poteva passare accanto a un sidhe senza farsi venire certi pensieri. Forse. Julian era adesso un po' rigido e silenzioso accanto a me, come se stesse concentrandosi per non muovere troppo la mano. Doyle avrebbe tollerato il suo tocco, ma non se questo avesse passato i limiti. La Tenebra della regina aveva le stesse regole per chiunque fosse a fare approcci con lui. Un migliaio di anni di celibato forzato avevano costretto lui e molte altre guardie della regina ad avere reazioni particolari quando venivano toccati. Se l'atto non veniva completato, allora la carezza diventava molto simile a una tortura. Rhys e Galen avevano invece regole diverse: loro preferivano qualcosa, a niente del tutto. Ethan guardò le altre guardie del corpo, poi il suo sguardo scivolò su Kitto e si riempì di disgusto. «Qualche problema?» gli domandai. «È solo che non mi piacciono i mostri, neppure quelli che sembrano dei bambolotti.» Julian tolse il braccio dalla spalliera e si piegò in avanti, voltandosi verso il socio. «Devo rimandarti a casa, Ethan?» «Non sei mio padre... o mio fratello», replicò lui, mettendo molta enfasi nell'ultima parola. Forse non gradiva che Julian se la facesse con suo fratello? Julian si appoggiò di nuovo allo schienale, come se stesse pensando a qualcos'altro. «Meglio non tirar fuori i nostri fatti privati di fronte a estranei, non importa quanto simpatici. Ma se questo incarico non ti è troppo gradito, vuol dire che chiederò a Adam di venire a sostituirti. Non vuole avere problemi con Meredith qui presente.» «Non vuole avere problemi con un sacco di cose», borbottò Ethan, e stavolta l'ostilità della sua voce era diretta contro il socio.
«Chiamerò Adam e gli dirò che stai rientrando in agenzia.» Julian tirò fuori un piccolo cellulare da una tasca interna della blusa. «Questa operazione è stata affidata a me», si affrettò a dire Ethan. «Tu sei qui solo per il caso che ci serva un aiuto magico.» Julian sospirò, guardando il telefono che aveva in mano. «Se ne sei il responsabile, allora agisci come tale. Perché in questo momento stai imbarazzando queste brave persone.» «Persone?» Ethan si alzò, facendo del suo meglio per torreggiare su di noi. «Queste non sono persone. Sono creature non umane.» Alle sue spalle risuonò una cristallina voce da soprano: «Ebbene, Mr Kane, se è così che lei la pensa, forse ho fatto un errore nel rivolgermi alla vostra agenzia». Maeve Reed era sulla soglia del corridoio, al bordo del tappeto color vaniglia. Non sembrava affatto di buonumore. 9 Maeve Reed stava usando la magia per apparire più umana. Era alta e snella, indossava un paio di pantaloni ocra aperti verticalmente sui fianchi a mostrare due strisce di pelle nuda. La blusa a maniche lunghe dai riflessi aurei era sbottonata nella metà superiore e lasciava in vista un bel po' di pelle bronzea nello spazio tra i seni piccoli e fermi. Se io avessi cercato d'indossare quegli abiti, avrei fatto saltare le cuciture sui fianchi e sul petto. Lei aveva la linea delle modelle di alta moda, con la differenza che non doveva fare la fame o frequentare una palestra per entrare nella taglia 42. Un sottile nastro marrone intorno alla fronte fermava i suoi capelli biondi, lunghi fino alla vita. C'era poco da dubitare che avesse un'abbronzatura integrale; del resto gli immortali non dovevano temere il cancro alla pelle. Il suo trucco era così leggero e studiato che dapprima mi diede l'impressione di non avere nulla sul viso, ovale e fine, molto attraente. E i suoi occhi erano di un azzurro straordinario. Era bella, quando venne verso di noi, ma ciò che vedevo era una bellezza umana. Maeve ci stava nascondendo le sue vere fattezze. Forse era una vecchia abitudine, ormai, o forse aveva le sue ragioni. Julian si era già alzato ad accoglierla prima che arrivasse al divano. Le mormorò qualcosa all'orecchio, per scusarsi di Ethan e del suo sfortunato commento sui «non-umani». Lei scosse il capo, facendo ondeggiare gli orecchini d'oro. «Se è così che
la pensa sui fey, credo che si sentirebbe più a suo agio lavorando altrove.» Anche Ethan si era alzato, girando intorno al divano. «Non ho problemi per quanto riguarda lei, Ms Reed. Lei è della Corte Seelie, la personificazione della bellezza e della femminilità.» Poi accennò col capo verso di noi, un po' troppo drammaticamente, mi parve. «Loro invece sono creature delle tenebre, e non dovrebbero avere il permesso di entrare in questa casa. Sono un pericolo per lei, e per chiunque altro.» «E fino a che punto lo siamo per i tuoi affari?» domandai, nella pausa di silenzio un po' pesante seguita a quelle parole. Ethan si girò dalla mia parte, probabilmente per dirmi qualcosa di altrettanto indelicato. Julian lo afferrò per un braccio; parve una stretta molto ferma, vista da dove sedevo io. Ethan reagì come se fosse stato schiaffeggiato, e per un momento pensai che gli sarebbe saltato addosso. «Ora vai, Ethan», disse Julian, a voce bassa. Lui si liberò dalla presa e rivolse un rigido inchino a Ms Reed. «Vado. Ma voglio che lei capisca che so che i Seelie sono diversi dagli Unseelie.» «Io non metto piede alla Corte Seelie da oltre un secolo, Mr Kane. Non ne farò parte mai più.» Ethan si accigliò. Doveva aver pensato che Ms Reed si sarebbe detta d'accordo con lui. Di solito era antipatico e scostante, ma non quanto lo era stato quel pomeriggio; dovevamo aver fatto davvero un danno ai suoi affari. Mormorò qualche altra parola di scusa e uscì in fretta. Quando la porta si fu chiusa alle sue spalle, domandai: «È sempre così?» Julian si strinse nelle spalle. «È molta la gente che Ethan non ama.» «Comincio a sentirmi terribilmente sola, ora che Ethan se n'è andato, sai?» gli disse Maeve. Sbattei le palpebre nel vedere quanto fosse misurato il sorriso sul suo bel viso. Sembrava sincera, con quegli occhioni azzurri colmi di luce. Si stava sforzando di apparire affascinante e nello stesso tempo umana. Le sarebbe stato più facile essere affascinante, se avesse rimosso il glamour con cui celava il suo aspetto sidhe per avere una bellezza umana. Julian mi gettò un'occhiata, poi rivolse tutto il calore del suo sorriso su Maeve Reed; a suo modo, anche lui usava un glamour. Poi compresi con stupore che si era davvero avvolto in un incantesimo personale. Avrebbe potuto essere una macia di tipo inconscio, ma ne dubitavo; il genere di glamour che un umano può avere è generalmente accidentale, e quello non era il caso di Julian. Li guardai mentre si proiettavano a vicenda lievi ondate di magia, e d'un
tratto mi accorsi che quella di Maeve non era diretta a lui, né a noi. Mi voltai e vidi che dietro di me c'era Frank. La stava guardando come se non avesse mai visto una donna, o almeno non come quella. Maeve Reed cercava di avere un fascino disumano, unito a una bellezza umana, a beneficio non nostro ma delle sue guardie del corpo umane. Avrebbe usato effetti speciali più complessi, se lo spettacolo fosse stato per noi. «Ms Reed, lei non sarà mai sola», la blandì Julian, mentre la prendeva per un gomito e la pilotava lontano da noi. «Lei non è soltanto una nostra cliente, ma una delle più preziose creature che ci sia stato dato il privilegio di servire. Daremmo la vita per lei. Cosa può fare di meno un uomo, quando adora una donna?» Pensai che come sviolinata fosse eccessiva, ma non conoscevo Maeve Reed come la conosceva lui. Forse i complimenti smaccati le piacevano. Lei esibì un delicato imporporarsi delle guance che, come mi accorsi, era magico e non reale; potevo sentirlo nell'aria. A volte sono gli effetti magici più sottili a richiedere più magia. Fece scivolare un braccio sotto quello di lui e abbassò la voce abbastanza da non lasciarci udire ciò che gli stava dicendo. Oh, avremmo potuto origliare, ma sarebbe stato scortese, senza menzionare il fatto che probabilmente lei avrebbe sentito l'incantesimo. Non volevamo ficcare il naso nelle faccende della dea. Non ancora. Quando si rivolsero di nuovo a noi, entrambi sorridenti, entrambi affascinanti, lei gli stringeva ancora il braccio con molta fermezza. Qualcosa negli occhi di Julian stava cercando di mandarmi un messaggio, ma non potevo leggere molto dietro quelle sue lenti gialle. «Ms Reed mi ha persuaso a restare al suo fianco per la durata della vostra visita», disse, inarcando un sopracciglio. E finalmente ricevetti il messaggio: Maeve Reed aveva assoldato la Kane and Hart perché la proteggessero da noi. Aveva paura della Corte Unseelie, al punto che non osava restare sola con noi senza un sostegno, sia magico sia fisico. Benché la sua magia permeasse quella casa, quei prati, quei muri di cinta, Maeve ci temeva. Qualcuno potrebbe pensare che i fey non sono così superstiziosi, specialmente verso altri fey, e invece spesso lo sono. Mio padre diceva che ciò deriva dal fatto che non sanno quasi niente della cultura degli altri gruppi o razze di fey. L'ignoranza genera la paura. Nella proprietà di Maeve c'era tanta di quella magia che, fin da quando avevamo oltrepassato il cancello, avevo alzato uno schermo per non sentirla. Era una cosa che s'imparava a fare quando si trascorreva troppo tempo
dentro e intorno luoghi stracolmi di potere. Bisognava isolarsi, altrimenti il suo costante contatto ottundeva la percezione del grado di pericolosità di quegli incantesimi. Isolarsi era un rischio, ma era molto meglio rischiare il contatto improvviso di un incantesimo pericoloso che perdere del tutto la capacità di vederlo. Inoltre, se si cercava di sentirli tutti, il risultato era che non si sentiva niente. Osservai la faccia sorridente e illeggibile di Maeve Reed e scossi il capo. Mi voltai verso Doyle e cercai di domandargli con lo sguardo fino a che punto potessi permettermi di essere umana e sfacciata. Lui sembrò capire, perché assentì impercettibilmente. Lo interpretai come il permesso di essere umana e sfacciata quanto volevo. E mi augurai che il significato del suo assenso fosse quello, perché stavo per offendere mortalmente la dea dorata di Hollywood. 10 M'incamminai intorno al divano per presentarmi alla dea. Kitto mi seguì, e dovetti dirgli di tornare a sedere. Lasciato a se stesso, mi sarebbe rimasto incollato al fianco come un cagnolino devoto. Sorrisi a Julian, e poi a Maeve. «Le assicuro che per me è un privilegio conoscerla, Ms Reed.» Le porsi la mano, e lei tolse il braccio da quello di Julian per il tempo di stringerla. Quello che mi offrì fu solo la punta delle dita: un contatto, più che una stretta di mano. Avevo conosciuto molte donne che non sapevano stringere la mano agli altri, ma Maeve non ci aveva neppure provato. Forse supponeva che le avrei preso la mano e mi sarei inchinata; ma se aspettava di vedermi genuflettere, la sua sarebbe stata una lunga attesa. Io avevo una regina e una soltanto. Maeve Reed poteva essere una regina a Hollywood, ma quella non era la stessa cosa. Sapevo di avere una faccia perplessa, ma dovevo ammettere di non riuscire a capire cosa ci fosse dietro quella di lei, per quanto avvenente fosse. E avevamo bisogno di saperlo. «Lei ha assunto la Kane and Hart perché la protegga da noi, non è così?» Maeve mi scrutò con aria tra il sorpreso e il divertito, incredula, con gli occhi spalancati e le belle labbra lucide di rossetto aperte in una piccola O. Era un'espressione da cinepresa, fatta per essere proiettata su uno schermo alto sei metri; era una faccia studiata per incantare il pubblico e i pezzi grossi degli studios.
Era una faccia meravigliosa, ma non così meravigliosa. «Un semplice sì o no sarà sufficiente, Ms Reed.» «Mi scusi», disse lei. Tono contrito, viso triste, occhi un pochino confusi. Ma la sua stretta sul braccio di Julian era troppo ferma e smentiva quella confusione esibita. «La Kane and Hart si trova qui per proteggerla da noi?» Lei fece quella che la rivista People aveva definito la sua «risata-dacinque-milioni-di-dollari», quella in cui gli occhi s'increspano e la sua faccia brilla, con la bocca aperta solo un poco. «Che strana idea. Le assicuro, Ms Gentry, che non ho paura di lei.» Aveva evitato la risposta diretta. Non aveva paura di me, questo doveva essere vero, perché tra noi è tabù mentire. Se nel furgone Doyle non mi avesse suggerito di essere sfacciata, avrei sorvolato, perché insistere su quel tasto sarebbe stato più che scortese; sarebbe stato offensivo, e i fey potevano duellare a morte per molto meno. Ma il rispetto delle regole ci si poteva aspettare solo tra i sidhe di alto rango. Noi confidavamo sul fatto che Maeve mi ritenesse essere stata allevata dai selvaggi: Unseelie e umani. «Ha paura delle mie guardie, allora?» domandai. La risata le faceva ancora brillare il viso, e i suoi occhi scintillarono quando mi domandò: «Chi le ha dato questa assurda idea?» «Me l'ha data lei.» Maeve scosse il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli biondi intorno al corpo. L'eco della risata continuava a farle brillare il viso, e i suoi occhi erano solo un po' più azzurri. All'improvviso compresi che quella non era brillantezza facciale della risata, che ormai doveva essere svanita, ma un tipo di glamour molto sottile. Lei si rendeva fisicamente luminosa di proposito, soltanto un poco. E se brillava, significava che stava usando la magia per convincermi a crederle. Mi accigliai, perché in realtà non avvertivo magia usata contro di me; di solito, quando un sidhe usa la magia contro un altro sidhe, questi lo sente. Mi voltai allora per gettare uno sguardo alle mie guardie. Doyle e Frost erano in piedi, con aria addirittura imperiosa. Kitto stava sul divano dove l'avevo lasciato; una sua piccola mano stringeva la spalliera, come se toccare una cosa qualunque fosse meglio di niente. Mi chiesi se sentisse cose che io non potevo sentire. Ero solo in parte fey; sapevo di aver perduto qualche lato prezioso della mia eredità sidhe. Avevo guadagnato qualcosa - per esempio la capacità di usare la magia
quand'ero circondata dal metallo -, ma per ogni guadagno c'era stata una perdita. «Ms Reed, glielo chiedo un'altra volta. Lei ha assunto la Kane and Hart perché la protegga dalle mie guardie?» «Ciò che ho detto a Julian e ai suoi uomini è che ho dei fan troppo insistenti.» Non mi preoccupai di guardare Julian per averne conferma. «Posso credere che questo sia ciò che ha detto alla Kane and Hart. Ora, Ms Reed, qual è la vera ragione per cui li ha assunti?» Mi fissò con orrore teatrale, o forse era veramente inorridita. Si voltò verso Frost e Doyle, e chiese: «Non le avete insegnato l'educazione?» «Ha tutta l'educazione che le occorre», rispose Doyle. Negli occhi di Maeve brillò una luce: paura, forse. Tornò a guardare me, e nel profondo dei suoi occhi azzurri quella luce rimase. Aveva paura, molta paura. Ma di cosa? «Ha davvero ingaggiato Julian e i suoi uomini a causa di qualche fan troppo agitato?» domandai. «La smetta», sussurrò. «Crede davvero che noi le faremo del male?» «No», rispose, e lo disse troppo in fretta, come se fosse sollevata di poter dare finalmente una risposta diretta. «Allora perché ha paura di noi?» «Perché mi sta facendo questo?» replicò. Nella sua voce c'era tutta la tristezza di ogni donna che avesse mai fatto quella domanda all'uomo da cui era stata tradita. La sua sofferenza mi diede una stretta al cuore. Julian sembrava colpito. «Credo che tu le abbia fatto abbastanza domande, Meredith.» Scossi il capo. «No, non ho finito.» Cercai quegli occhi pieni di tristezza e dissi: «Ms Reed, lei non deve nascondersi da noi». «Non so cosa stia dicendo.» «Questa è troppo vicina a essere una bugia», la rimproverai, a bassa voce. I suoi occhi diventarono all'improvviso due cristalli fulgidi, e compresi che erano così azzurri perché li vedevo attraverso un velo di lacrime. Poi le lacrime scivolarono giù lungo le guance abbronzate e, mentre cadevano, l'azzurro di quegli occhi fremette, cambiò, e le iridi diventarono tricolori come le mie. C'era un anello esterno ancora di un ricco azzurro, ma fulgido
come uno zaffiro, poi un sottilissimo anello di rame fuso, e quindi un altro di oro liquido intorno al nero della pupilla. Ma ciò che rendeva i suoi occhi unici anche tra i sidhe erano le mobili strisce dorate che partivano dall'interno per svanire nella candida cornea, simili a lente frecce di luce. I suoi occhi erano un cielo azzurro in tempesta percorso da fulmini d'oro. Nei quarant'anni da quand'era una stella del cinema, nessuna macchina da presa li aveva mai visti. I suoi occhi veri. Suppongo che qualche agente o produttore l'avesse convinta, molto tempo addietro, a nascondere il meno umano dei suoi tratti somatici. Io avevo nascosto il mio aspetto reale per ben tre anni, e doverlo fare aveva quasi ucciso una parte di me. Maeve Reed lo faceva da decenni. Teneva il volto girato rispetto a Julian, come se non volesse farli vedere a lui. Le presi la mano con cui stringeva il braccio dell'uomo. Cercò di opporsi a quel gesto, ma io non la forzai; continuai a esercitare una pressione sulla mano finché lei non la tolse da lì spontaneamente. Poi la strinsi nella mia; posai un ginocchio al suolo davanti a lei e me la portai alle labbra. Su quella pelle abbronzata deposi il più leggero dei baci, e dissi: «Lei ha gli occhi più belli che io abbia mai visto, Maeve Reed». Lei tolse anche l'altra mano dal braccio di Julian e rimase lì a guardarmi, mentre le lacrime rotolavano sulle sue guance come gocce di cristallo. Lentamente lasciò evaporare il resto del glamour. L'abbronzatura cominciò a svanire, o a cambiare, lasciando il posto a una morbida sfumatura d'oro. I suoi capelli diventarono più chiari, sempre più chiari, fino ad assumere un colore biondo platino. Non seppi immaginare perché se li fosse scuriti in quella tinta biondo-miele. Entrambi i colori rientravano negli standard umani. Tenni le sue mani nelle mie mentre si strappava di dosso un secolo di bugie, e poi fu davanti a me, piena di luce. In quel momento nella stanza sembrarono esserci molti più colori, e un profumo di fiori selvatici che crescevano soltanto in una terra a migliaia di chilometri da lì. Lei stringeva le mie mani come se fossero la sua sola ancora, come timorosa di svanire in quella luce e quel profumo, se l'avessi lasciata andare. Rialzò la testa, chiuse gli occhi, e la sua luce dorata riempì il soggiorno come se un nuovo sole fosse sorto davanti a me. Emanava luce e piangeva, e stringeva le mie mani così forte da farmi male. A un certo punto mi accorsi che stavo piangendo anch'io, e che la sua luce aveva risvegliato la mia, cosicché la mia pelle palpitava di un pallido chiarore lunare. Maeve s'inginocchiò accanto a me, guardando con stupore le mie mani e
le sue, la luce bianca che si fondeva in quella dorata. Cominciò a ridere di gioia, un po' istericamente. Dopo un poco, miste a quella risata, potei udire alcune parole: «E io pensavo... che a essere pericolosi... fossero gli uomini». D'un tratto si piegò verso di me e premette la bocca sulla mia. Quel bacio mi sorprese tanto che, per un secondo, restai semplicemente paralizzata. Cosa avrei fatto se mi avesse dato il tempo di pensare non lo so, perché subito si alzò e fuggì via, uscendo dalla stessa porta da cui era entrata. 11 Julian uscì subito dopo Maeve. A farci compagnia rimase solo il giovane Frank, in piedi accanto alla porta con aria sperduta. I suoi occhi sembravano più larghi di prima in quella faccia pallida e stupita. C'era da credere che quel ragazzo non avesse mai visto una sidhe in tutto il suo potere. Io ero ancora in ginocchio, e il bagliore bianco cominciava ad abbandonare la mia pelle quando Doyle venne accanto a me e mi chiese: «Principessa, ti senti bene?» Alzai lo sguardo e mi resi conto che anch'io dovevo avere un'aria un po' stordita. Dopo l'imprevisto bacio della padrona di casa, continuavo a sentire uno strano calore sulle labbra. Era qualcosa che sapeva di sole e di primavera. «Principessa?» Mugolai un assenso. «Sto bene.» Ma avevo la voce roca, e dovetti schiarirmi la gola un paio di volte. «È solo che non avevo mai...» Cercai di mettere quel pensiero in parole. «La sua bocca aveva un sapore come di sole. E fino a questo momento avrei giurato che il sole non avesse nessun sapore.» Doyle si chinò accanto a me. «È una cosa che crea sempre problemi essere toccati da chi ha il potere degli elementi.» Lo guardai, accigliata. «Lei ha detto che credeva di dover avere paura degli uomini. Cosa può significare?» «Pensa a quando tu eri qui da tre anni, da sola... e moltiplicalo per un secolo.» «Vuoi dire che era attirata da me?» Scossi il capo, prima che lui potesse rispondere. «No, non da me. Era attirata dal primo sidhe che avesse mai toccato in un centinaio di anni.» «Non sottovalutarti, Meredith. In ogni modo, non ho mai sentito dire che
Conchenn amasse le donne, perciò sì, quello che l'ha sconvolta è stato il contatto con la carne sidhe.» Sospirai. «Non posso biasimarla.» Poi mi venne un altro pensiero. «Credi che ci abbia invitato qui per chiedermi se io voglia condividere con lei uno di voi?» Le sopracciglia di Doyle s'inarcarono, dietro gli occhiali da sole. «È un sospetto che non mi era venuto.» Ci rifletté per un momento. «Suppongo che sia possibile», ammise, perplesso. «Ma chiederle se questa è la ragione sarebbe il massimo dell'indelicatezza. Comunque noi non siamo tuoi amanti, bensì potenziali mariti scelti dalla nostra regina.» «Ma cent'anni sono lunghi, Doyle, lo hai detto tu stesso. Abbastanza da far dimenticare certi scrupoli a chiunque.» Dietro di noi ci furono dei movimenti. La porta dell'atrio si era aperta, e Frost andò a controllare. Tornò in soggiorno accompagnato da Rhys. «Cosa state combinando voialtri, qui dentro?» «Che vuoi dire?» replicai. Rhys accennò col capo verso me e Doyle, ancora accovacciati sul tappeto; sulla mia pelle c'era ancora un ricordo di chiarore lunare. Lasciai che la Tenebra mi aiutasse ad alzarmi in piedi. Ero stranamente debole. Maeve mi aveva colta impreparata, è vero, ma ero stata toccata assai più a lungo da altri sidhe senza poi sentirmi così scossa. «Maeve si è spogliata del suo glamour», gli spiegai. Rhys spalancò gli occhi. «Ho sentito qualcosa fin da fuori. Davvero si è tolta il glamour davanti a voi?» Accennai di sì. Lui fece un fischio tra i denti. «Santa Dea.» «Il punto è proprio questo», disse Doyle. Rhys lo guardò. «Quale punto?» «Tutti noi siamo stati venerati come divinità, nel passato, ma in un passato molto lontano. Per Conchenn però si tratta appena di trecento anni fa. Era ancora venerata come una dea in Europa, quando ci fu chiesto di... trasferirci oltreoceano.» «Stai dicendo che lei ha più potere perché è stata adorata abbastanza di recente?» domandò Rhys. «Non più potere. Direi più... energia, più intensità.» Agitai le mani nell'aria. «Non lo so. Rhys ha capito cosa intendo.» Lui venne avanti nel soggiorno e scese i tre gradini. «Sì, so cosa vuoi dire. Ha più carica per la sua magia.»
Finalmente Doyle annuì. «Questo ha un senso.» Anche Frost si avvicinò a noi e, mentre la Tenebra lo guardava attraverso gli occhiali neri, lui esitò, accigliato. «Vorrei aggiungere una cosa, capitano.» I due uomini si misurarono con lo sguardo. «Qual è il problema, tra voi due?» intervenni. «Se Frost ha qualcosa da dire, che lo dica.» Frost continuò a guardare Doyle, come in attesa. Alla fine quest'ultimo si decise ad annuire. Frost lo ringraziò con un mezzo inchino. «Ho visto dei film sul televisore di Meredith. Ho visto come gli umani reagiscono alle stelle del cinema. Il modo in cui adorano gli attori è una specie di venerazione divina.» Rhys mormorò: «Lord e Lady, se qualcuno volesse dimostrare che Maeve si fa adorare...» Lasciò nell'aria il resto della frase. Doyle la completò per lui. «Secondo la legge federale, potremmo essere estromessi dagli Stati Uniti. Una delle condizioni per la nostra permanenza qui è che nessuno di noi si faccia mai adorare come un dio.» Scossi il capo. «Lei non si fa adorare come una divinità. Ha scelto una professione lecita, per guadagnarsi da vivere.» Gli uomini ci pensarono per qualche momento, poi Doyle mormorò: «Non è un'infrazione alla lettera della legge, ma...» «Non credo che Maeve intendesse aggirare la legge», dissi. Lui scosse il capo. «Non sto affermando il contrario ma, qualunque fosse la sua intenzione, Maeve ha tratto un beneficio dall'adorazione di molti esseri umani, almeno negli ultimi quarant'anni. Una stella del cinema umana non può ricevere un beneficio da questo scambio di energie, però Maeve è una sidhe, e sa perfettamente come usare questa energia.» «E allora cosa dire delle modelle e degli attori europei che hanno sangue sidhe nelle vene?» domandai. «E delle famiglie reali, in Europa? I sidhe si sono sposati con tutta la nobiltà europea per cementare accordi, nel corso dei secoli. E oggi costoro non traggono un beneficio dai loro ammiratori umani?» «Non sono un esperto in materia legale», replicò la Tenebra. «Io posso fare un'ipotesi abbastanza solida», osservò Rhys. Doyle gli diede un'occhiata dura, visibile anche attraverso gli occhiali neri. «Non siamo pagati per fare ipotesi.» La barba finta di Rhys si allargò in un sogghigno. «La mia puoi averla gratis. Non la metterò sulla nota spese.»
Doyle abbassò gli occhiali appena quel tanto perché l'altro potesse guardarlo negli occhi. Rhys scoppiò a ridere. Poi disse: «Scommetto che chiunque abbia ereditato sangue sidhe può guadagnare potere dall'adorazione degli umani. Può anche darsi che non ne sia consapevole. Ma come spiegate la sopravvivenza delle case reali con una maggiore percentuale di sangue sidhe? Sono tutte ancora al governo, mentre quelle che vantavano tra i loro antenati pochi sidhe hanno perso sostenitori e non sono più al potere». In quel momento Julian tornò nel soggiorno. «Ms Reed gradirebbe continuare la riunione in piscina, se nessuno ha obiezioni.» «Non ho niente in contrario a stare all'aperto, in una bella giornata come questa», dissi. «Neppure io», aggiunse Doyle. Gli altri si dissero d'accordo, tutti salvo Kitto. Era ancora aggrappato al divano. Dovetti andare a prenderlo per mano, e lui mormorò: «Là fuori ci sarà molto spazio, e molta luce». Kitto aveva trascorso secoli negli oscuri e affollati tunnel dei sotterranei goblin. Mi ero sempre chiesta perché nelle vecchie storie i goblin combattessero sotto un cielo notturno, come se portassero con sé quell'oscurità fuori del sottosuolo. Se erano tutti infastiditi dalla luce come Kitto, forse non riuscivano a battersi bene negli ambienti molto illuminati. O forse quella era una caratteristica personale di Kitto. Non avrei dovuto fare ipotesi del genere basandomi su un solo goblin. Me lo portai dietro per mano come un bambino. «Resta sempre vicino a me. Se ti sentirai a disagio, Frost ti riporterà nel furgone.» «C'è qualche problema?» domandò Julian. «Soffre di agorafobia.» «Santo cielo!» «Se ci tiene a restare a Los Angeles, dovrà farsela passare.» Julian fece un cenno di assenso, quasi un inchino. «Come credi. Lui è un vostro... impiegato.» Kitto era l'unico di noi che non lavorasse per l'agenzia; non era adatto per quel genere di attività. Non avrei saputo dire quale lavoro avrebbe saputo fare, ma certo non la guardia del corpo, o il detective. Tuttavia non corressi Julian. «Sei sicura che non avrà difficoltà?» domandò premurosamente lui. Strinsi con fermezza la mano del goblin. «Sono sicura.» «Allora seguitemi prego, principessa, signori.» Si avviò lungo il corrido-
io da cui era fuggita Maeve, e noi lo seguimmo. Doyle insistette per tenere la testa del gruppetto, e volle che Frost restasse alla retroguardia. Mi trovai così nel mezzo, con Rhys che mi camminava accanto. Nonostante la tesa del cappello abbassata sugli occhi e il colletto dell'impermeabile bianco tirato su, la barba finta distrusse del tutto l'imitazione di Humprey Bogart, ma il suo tono noncurante fu perfetto quando disse: «Non preoccuparti di nulla quando sei con me, piccola». 12 Julian ci condusse attraverso stanze lussuose una più dell'altra, finché non sbucammo sul retro della villa. La piscina era di forma irregolare, azzurra e scintillante come un pezzo di cielo. Maeve sedeva sotto un grande ombrellone, strettamente avvolta in un accappatoio di seta bianca. Prima di chiuderselo sul petto ci aveva lasciato intravedere un costume da bagno bianco e oro, ma ora ne emergevano soltanto i piedi, dalle unghie ben curate. Stava fumando, o meglio aspirava furiose boccate da una sigaretta, che schiacciò nel portacenere prima di averla consumata a metà. Julian accorse ad accendergliene subito un'altra raccogliendo l'accendino d'oro dal vassoio su cui c'era anche un pacchetto di sigarette. Farle quel servizio era la parte più leggera del suo lavoro... la più dura, pensai, era quella di calmarle i nervi. Lei aveva indossato il solito glamour, come una vecchia sottoveste ancora sexy. Era tornata a essere Maeve Reed, la stella del cinema, anche se in una versione alquanto stressata. Sembrava sull'orlo di una crisi di nervi. Le altre guardie del corpo, compresi Frank e Max, si erano scaglionate intorno all'ombrellone e avevano un'aria minacciosa. Una parte di quella minaccia era diretta a noi, ma non la prendemmo come una cosa personale, almeno non io. Per i miei uomini non avrei garantito al cento per cento; comunque, qualsiasi cosa pensassero la stavano tenendo per sé. Maeve insistette che tutti noi sedessimo al sole. Non ero sicura del motivo, ma potevo immaginarlo. I superstiziosi pensavano che i cortigiani Unseelie non sopportassero la luce del sole. In effetti, per qualcuno ciò era vero, però le mie guardie non avevano problemi del genere. Gli occhi di Kitto erano un po' più sensibili, ma niente che non si potesse rimediare con un paio di occhiali. Julian sedette su una piccola sedia da giardino accanto alla lunga sedia a sdraio imbottita di Maeve, che insistette perché lui si avvicinasse a lei fino
a sfiorarle una spalla. Il resto della Kane and Hart era in piedi alle loro spalle: tre muscolosi paggi armati di pistola. Maeve aveva voluto che uno di loro trascinasse fin lì per me un'altra pesante sedia a sdraio, uguale alla sua. Io ero un po' troppo piccola e con una gonna troppo corta per distendermi su una specie di lettino come quello, ma decisi di adattarmi alle circostanze. Dovevo solo fare attenzione a non mostrare troppo le gambe e la sottoveste. Se intorno a me ci fossero stati soltanto dei fey, non ci avrei badato, ma essendoci anche degli umani dovevo restare entro i normali standard del comportamento umano. Qualche anno addietro avevo scoperto che se una ragazza lascia arrivare fino alle mutandine lo sguardo degli uomini, questi si fanno delle strane idee e poi ci provano. I maschi fey si limitano ad apprezzare ciò che vedono, senza fare commenti. Doyle e Frost rimasero in piedi dietro di me, come brave guardie del corpo. Rhys invece si era allontanato con Marie, la segretaria privata di Maeve, per andare a togliersi il trucco dalla faccia. Maeve era parsa affascinata dal fatto che lui usasse un espediente umano invece del glamour per sfuggire all'attenzione dei giornalisti. In quanto a lei, c'era da supporre che avesse un glamour migliore di quello solitamente usato dagli Unseelie, perché neppure i giornalisti dotati di talento psichico l'avevano mai vista diversa dalla stella del cinema che tutti conoscevano. La parola inglese «glamour» deriva dal termine Faerie che significa letteralmente fascino, ovvero l'incantesimo che avvolge la persona allo scopo di attrarre chi la guarda. Ma forse vedere la verità dietro la facciata di una star non era ciò che la stampa desiderava. Kitto sedeva accanto a me su una sedia di vimini, con una mano su un bracciolo della mia. Julian cercava di mantenere una certa distanza da Maeve, mentre Kitto era sempre alla ricerca di un contatto con qualche parte del mio corpo. Una donna sulla sessantina uscì da una porta secondaria della villa; indossava una divisa da cameriera, con tanto di grembiulino bianco e cuffietta di pizzo, ma la sua gonna era decentemente lunga e portava scarpe ortopediche. Aveva un vassoio pieno di bicchieri e offrì da bere a tutti, ma noi rifiutammo. Soltanto Maeve continuò a bere lo scotch che aveva lì, scuro come il vino. Aveva cominciato allungandolo col ghiaccio, ma poi non aveva messo altri cubetti nel bicchiere. Benché quei pochi minuti le fossero bastati per finire un quinto della bottiglia, in lei non ci furono cambiamenti. Era fey, e poteva buttare giù qualunque cosa senza diventare neppure alticcia; ma un quinto di scotch era un quinto di scotch, e mi au-
gurai che avesse bevuto abbastanza da calmarsi i nervi e la smettesse. Non smise. «Ora mi sentirei di bere rum e coca. Qualcuno di voi vuole farmi compagnia?» «No, grazie», dissi. «So che i tuoi uomini stanno lavorando - i tuoi e i miei - perciò non dovrebbero bere. L'alcol rallenta i riflessi», osservò, mettendo nella voce un po' del tono sexy della vecchia Maeve, ma una pallida imitazione della sua solita seducente sensualità. Evidentemente l'esperienza di poco prima con me non l'aveva scossa molto. «Ma tu e io possiamo lasciarci andare.» «Sto bene così, ma grazie per la tua offerta.» La piega di un cipiglio apparve sulla sua fronte liscia. «Detesto bere da sola.» «È che non sono molto portata per lo scotch o il rum.» «Abbiamo una cantina molto ben fornita. Sono certa che potremo trovare qualcosa che soddisfi i tuoi gusti.» Sorrise. Non il sorriso smagliante di quando avevamo cominciato la visita, ma sempre un sorriso. Era un segnale incoraggiante, però scossi il capo. «Scusami, Maeve. Ma, sul serio, io non bevo mai così presto.» «Presto», ripeté lei, inarcando le sopracciglia accuratamente depilate. «Dolcezza, è presto a Los Angeles, ma qui si avvicina l'ora di cena. Accettare un drink è del tutto lecito.» Sorrisi e mi strinsi nelle spalle. «Grazie, ma sto bene così, davvero.» Lei si accigliò, poi rivolse un cenno del capo alla cameriera, che tornò in casa. Per prenderle rum e coca, supposi. «Non mi piace per niente bere da sola», ripeté. «Sono sicura che tuo marito potrebbe farti compagnia.» «Conoscerete Gordon più tardi, dopo che avremo finito di parlare d'affari.» Stavolta il suo tono non era provocante. «E di quali affari si tratta?» volli sapere. «Ne parleremo in privato, noi due da sole.» Scossi il capo. «L'abbiamo già chiarito col tuo galoppino stamattina, in ufficio. Le mie guardie del corpo mi seguono ovunque.» Gettai un'occhiata al suo personale muro di muscoli. «Sono sicura che tu mi capisci.» Annuì, spazientita. «Naturalmente, capisco, ma non potrebbero andarsene a una certa distanza mentre tu e io parliamo... tra noi ragazze?» Inarcai un sopracciglio a quel tra noi ragazze, ma sorvolai. Mi voltai verso Doyle e Frost. «Voi che ne dite?» «Suppongo che potremmo sederci sotto quell'ombrellone laggiù, mentre
tu e Ms Reed fate due chiacchiere... tra voi ragazze», disse Doyle, inzuppando d'incredulità le ultime parole. Nascosi il mio sorriso girandomi verso Kitto, che non aveva nessuna voglia di andarsene sotto l'altro ombrellone. Non persi neppure tempo a chiederglielo. «Doyle e Frost andranno a sedersi laggiù, ma Kitto dovrà restare con me.» Maeve scosse il capo. «Questo non è accettabile.» Mi strinsi nelle spalle. «È il massimo che avrai, se insisti per stare all'aperto a questo modo.» Inclinò il capo di lato. «Questo è dannatamente scortese da parte di una principessa dei sidhe. Diciamo pure che sei piuttosto rude, anzi maleducata, per una cortigiana del tuo rango.» Repressi l'impulso di gettare un'occhiata a Doyle. «Potrei dirti che è perché sono stata allevata tra gli umani.» «Potresti dirmelo, ma non penso che ti crederei.» La sua voce era calma, quasi irritata. «Nessuna umana sarebbe mai stata favorita dalla Lady e dal Lord, come tu hai dimostrato di essere poco fa.» Rabbrividì, e si strinse l'accappatoio intorno alle spalle. La temperatura superava i trenta gradi all'ombra, e il sole era quasi un sole estivo. Se Maeve aveva freddo, non era quel genere di freddo da cui ci si ripara mettendosi qualcosa addosso. Le rivolsi l'inchino migliore che potevo, semidistesa su quella sdraio. «Troppo gentile.» Lei scosse il capo, facendo ballare i lunghi capelli biondi intorno al corpo. «Non ringraziarmi, perché io non ho nessuna intenzione di ringraziarti per quello che mi hai fatto.» Fui sul punto di dirle che si era trattato di un incidente, ma ci ripensai. Maeve aveva deliberatamente usato la magia per cercare di convincermi. Era un grave insulto, se fatto a una sidhe di sangue nobile. Non usavamo mai stratagemmi così rozzi, tra sidhe di alto rango. Ciò mi diceva senza mezzi termini che mi considerava una fey minore, alla quale non si applicavano le formalità del galateo sidhe. Maeve mi stava guardando incuriosita, e compresi di essere rimasta in silenzio troppo a lungo. «I sidhe si stanno chiedendo da decenni perché ci hai lasciato», dissi. «Non vi ho lasciato, Meredith. Sono stata buttata fuori.» Quella, almeno, era una cosa che mi sarebbe piaciuto conoscere. «Il tuo esilio è stato lo spauracchio di tutti i giovani sidhe della Corte Seelie: Se
non compiaci il re, farai la fine di Conchenn.» «È questo che credono? Che sono stata esiliata perché non ho compiaciuto il re?» «Quando il re è costretto a dirlo, questo è ciò che dice: che non lo hai compiaciuto.» Rise, con un sarcasmo così derisorio che sentirlo era quasi doloroso. «Suppongo di non averlo compiaciuto, ma nessuno ha mai detto che questo esilio così ferreo è una punizione troppo dura per non aver semplicemente compiaciuto il re?» Annuii. «Mi è stato detto che qualcuno ha criticato la severità della punizione. Avevi molti amici a Corte.» «Avevo degli alleati. Nessuno ha dei veri amici a Corte.» Su questo dovevo darle ragione. «Come preferisci. Avevi molti alleati a Corte. Mi è stato detto che hanno discusso il destino che ti è stato riservato.» «E poi?» In quella domanda c'era un po' troppo interesse. Sembrava davvero volerlo sapere. Mi sarebbe piaciuto dirle: Tu rispondi alle mie domande, e io risponderò alle tue, ma sarebbe stato rozzo. Sottigliezza, questo era ciò che occorreva. La sottigliezza non era mai stata tra le mie doti naturali, ma qualcosa avevo imparato, alla fine. «Io sono stata picchiata, per aver chiesto il motivo del tuo esilio», le rivelai. Maeve sbatté le palpebre. «Cosa?» «Quand'ero una bambinetta, domandai perché eri stata esiliata, e il re mi picchiò a sangue per averlo chiesto.» Parve stupita. «Nessuno glielo aveva mai chiesto prima?» «Sì, un altro glielo aveva chiesto.» L'espressione della sua faccia m'incoraggiava a continuare, ma m'interruppi. Non volevo lasciare che lei cambiasse discorso, perché intendevo sapere il motivo del suo esilio. Tuttavia in quei cent'anni se lo era tenuto per sé, e non credevo che sarebbe stato facile indurla a rompere il silenzio. «Nel periodo in cui frequentavo la Corte Seelie, la gente aveva smesso da un pezzo di domandarselo.» «Cos'è successo ai miei alleati a Corte?» Era una domanda molto diretta, e non potevo ignorarla o girarci intorno. «Il re ha ucciso Emrys», dissi. «Dopo questo fatto, tutti avevano troppa paura per fare domande sul tuo destino.» Era difficile dirlo, ma mi parve che impallidisse sotto l'abbronzatura. Spalancò gli occhi, prima di abbassarli sulle sue ginocchia. Cominciò a be-
re, ma si accorse che nel bicchiere non c'era niente. «Nancy!» chiamò. La cameriera apparve quasi come per magia. Aveva un vassoio con un alto bicchiere di rum e coca e un paio di occhiali dalla montatura bianca. Ripiegati su un braccio portava tre costumi da bagno della mia misura, e quando ce li mostrò vidi che erano costosi, alla moda, e minuscoli. La maggior parte della mia biancheria intima copriva più di quei costumi, e io avevo lingerie di tutti i generi. Sembravano normalissimi costumi da donna, benché eleganti, ma l'apparenza poteva essere ingannevole. Con gli indumenti si possono fare incantesimi molto particolari, per esempio del genere che entra in funzione solo quando vengono indossati; incantesimi molto sgradevoli, per la maggior parte. Per la prima volta cominciai a chiedermi non tanto se Maeve desiderasse unirsi alla nostra Corte quanto se alla Corte Seelie ci fosse gente che mi voleva morta. Era possibile che la mia morte potesse comprarle la fine dell'esilio? Sì, a patto che fosse il suo re in persona a desiderare la mia morte. Per quanto ne sapevo, Taranis mi detestava; ma non aveva motivo di temermi, perciò la mia morte non significava nulla per lui. Maeve aveva smesso di parlare. Guardava la piscina, ma non credo che la vedesse davvero. Rimase zitta così a lungo che alla fine fui io a rompere il silenzio. «Perché questi costumi da bagno, Ms Reed?» «Credevo che avessimo cominciato a darci del tu.» Ma non mi guardò, e la sua voce aveva un tono piatto, come se non stesse ascoltando né le mie parole né le sue. Sorrisi. «Va bene. Perché questi costumi, Maeve?» «Ho pensato che tu volessi qualcosa di più comodo, tutto qui.» La sua voce era sempre piatta. Dava l'impressione che quel dialogo se lo fosse preparato, ma che ormai non le importasse più. «Grazie, sto bene così.» «Posso far portare dei costumi anche per i tuoi accompagnatori.» Finalmente si decise a guardarmi nel parlare, ma la sua voce era sempre inespressiva. «Grazie, non importa», replicai, con abbastanza enfasi su quel non importa che pensai avesse afferrato il sottinteso. Maeve depose il bicchiere sul tavolino, raccolse gli occhiali da sole, e allungò una mano a prendere l'altro drink. Ne bevve un quarto in un solo lungo sorso, e poi mi guardò. Gli occhiali erano grandi, con una larga
montatura bianca, e avevano lenti a specchio, cosicché ci vedevo solo dei distorti riflessi di me stessa. Le nascondevano gli occhi e tutta la parte superiore della faccia. Il glamour non le serviva; aveva qualcos'altro per nascondersi. Si chiuse meglio l'accappatoio intorno al collo e sorseggiò ancora il rum scuro. «Neppure Taranis avrebbe osato condannare a morte Emrys.» La sua voce era bassa, ma chiara. Mi parve che facesse del suo meglio per non credermi. L'arrivo dei costumi e del drink le aveva dato abbastanza tempo per riflettere bene sulla notizia che le avevo dato. Non le era piaciuta, così cercava di non prenderla per vera. «Non lo ha condannato a morte», dissi, e la guardai, in attesa che domandasse qualcos'altro. Spesso dicendo poco si può imparare qualcosa. Lei alzò lo sguardo dal bicchiere, facendo scintillare al sole le lenti a specchio. «Ma hai detto che Taranis lo ha fatto uccidere.» «No, ho detto che lo ha ucciso.» Era difficile vederlo dietro quegli occhiali, ma mi parve che si accigliasse. «Stai giocando con le parole, Meredith. Emrys era uno dei pochi, a Corte, che io potessi chiamare amico. Se non è stata un'esecuzione, allora cosa? Stai alludendo a un assassinio?» Scossi il capo. «Niente affatto. Il re lo ha sfidato a duello.» Sobbalzò come se l'avessi colpita, rovesciandosi un po' di rum sull'accappatoio. La cameriera le offrì un tovagliolo di lino. Maeve le consegnò il bicchiere e si asciugò la mano, ma come se non prestasse nessuna attenzione a ciò che stava facendo. «Il re non accetta sfide personali. La sua vita è troppo preziosa perché voglia rischiarla in un duello.» Mi strinsi nelle spalle, guardando la mia immagine imitarmi nelle lenti di lei. «Mi limito a riferire un fatto. Non chiedermi di spiegarlo.» Lei gettò il tovagliolo sul vassoio, ma non riprese il bicchiere. Si piegò in avanti. «Giuramelo. Giurami su ciò che hai di più caro che il re ha ucciso Emrys a duello.» «Te lo giuro su ciò che ho di più caro. L'ha ucciso a duello.» Si lasciò ricadere all'indietro contro la spalliera, come se tutta l'energia l'avesse abbandonata. Le sue mani tenevano ancora debolmente chiusi i bordi dell'accappatoio, ma sembrava come semisvenuta. «La signora si sente bene?» si preoccupò la cameriera. «Ha bisogno di qualcosa?» «No. Sto bene.» Maeve le accennò debolmente che poteva andare.
«Dunque avevo ragione.» La sua voce era appena un mormorio. «Avevi ragione su cosa?» domandai, anch'io a bassa voce. Mi ero raddrizzata a sedere sulla sedia a sdraio, accostandomi di più a lei per accertarmi che mi sentisse. Sorrise, allora, ma di un sorriso freddo in cui non c'era nessun divertimento. «No, non avrai i miei segreti così facilmente.» Corrugai le sopracciglia, e non stavo fingendo. «Non so cosa vuoi dire.» La sua voce suonò più ferma, più sicura di sé quando parlò. «Perché sei venuta qui oggi, Meredith?» Mi trassi di nuovo indietro. «Sono venuta perché me lo hai chiesto tu.» «Hai sfidato l'ira di Taranis solo per fare visita a un'altra sidhe? Non ci credo.» «Sono un'erede al trono Unseelie. Pensi davvero che Taranis oserebbe farmi del male?» «Il re ha sfidato Emrys a duello solo perché lui aveva osato chiedergli cosa l'avesse spinto a punirmi. Tu stessa sei stata picchiata, da bambina, per avergli chiesto il motivo del mio esilio. Ora sei seduta qui a parlare con me. Lui non crederà mai che io non ti abbia rivelato quel motivo.» «Ma tu non mi hai rivelato niente», dissi, e cercai di non mostrarmi contrariata. Maeve fece un altro pallido sorriso. «Taranis non crederà mai che io non abbia condiviso il mio segreto con te.» «Pensi pure ciò che vuole. Se mi facesse del male, sarebbe la guerra tra le Corti. Non credo che il tuo segreto valga questo prezzo.» Rise, ancora una volta derisoria. «Io credo invece che per questo segreto il re rischierebbe la guerra tra le Corti.» «La rischierebbe soltanto se potesse sedersi tranquillamente dietro le linee, e lasciar combattere gli altri. Ma in questo caso la regina Andais sarebbe costretta a sfidarlo a duello, faccia a faccia. Non penso che Taranis vorrebbe giocarsi la vita così.» «Sei un'erede al trono delle tenebre, Meredith. Non hai idea del potere che c'è dietro il trono della luce.» «Conosco la Corte Seelie, e sono d'accordo che quando uno si scontra col potere della luce poi ne ha paura. Ma tutti hanno paura delle tenebre, Maeve, tutti.» «Stai dicendo che il re della Corte Seelie ha paura della Corte Unseelie?» La sua voce grondava oltraggiata incredulità. «So che tutti alla Corte Seelie temono gli sluagh.»
Maeve si appoggiò allo schienale. «Tutti li temono, in entrambe le Corti.» Aveva ragione. Per quanto la Corte Unseelie fosse tenebrosa e terribile, gli sluagh erano ancora peggio. Tra gli sluagh c'erano esseri che anche gli Unseelie temevano. Erano una fogna di incubi troppo spaventosi da contemplare. «E chi tiene le redini degli sluagh?» domandai. Lei parve incerta, ma infine rispose: «La regina». «Gli sluagh possono essere mandati a punire chi commette certi crimini, senza un preavviso e senza un processo. Uno di questi crimini è l'assassinio di sidhe di alto rango.» «Una legge che non è stata applicata spesso», precisò lei. «Ma se Taranis facesse uccidere un'erede al trono della regina, non credi che lei ricorderebbe l'esistenza di quella piccola legge?» «Neppure Andais oserebbe mandare gli sluagh contro il nostro re.» «E nello stesso modo il vostro re non oserebbe far uccidere un'erede di Andais.» «Credo che tu sbagli, Meredith, perché lui oserebbe.» «E per quel crimine, Andais gli scatenerebbe addosso gli sluagh. Perfino al re della Luce e delle Illusioni non resterebbe che fuggire davanti a loro.» Maeve prese il bicchiere dal vassoio che la cameriera continuava a tenerle a portata di mano. Bevve un lungo sorso, prima di dire: «Non credo che il re sarebbe così lucido da vedere le cose sotto questa luce... e non voglio essere la causa di una guerra tra le Corti». Bevve un altro sorso. «Per anni ho desiderato che l'arroganza di Taranis fosse punita, ma non dagli sluagh. Questo non lo augurerei a nessuno, neppure a lui.» Poiché io stessa ero stata aggredita dagli sluagh, non potevo negare che fossero terribili. Ma non lo erano poi tanto. Se non altro, si accontentavano di uccidere l'avversario, o magari di mangiarlo vivo, ma la cosa finiva lì. Non lo torturavano, non gli davano una morte lenta e dolorosa. C'erano cose peggiori che essere ammazzati dagli sluagh. E io sapevo qualcosa che Maeve ignorava. Il re degli sluagh, Sholto - il Signore di Ciò-che-passa-attraverso, il Signore delle Ombre... detto anche l'Ombroso, ma solo alle sue spalle -, non era molto fedele ad Andais; anzi, non lo era a nessuno. Era uno che manteneva la sua parola, ma per molti anni Andais aveva sbagliato politica nei suoi confronti, e ormai si trovava a dipendere pesantemente, pericolosamente, dal potere deterrente degli sluagh. Avrebbero dovuto restare a disposizione solo come ultima risorsa,
ma parlando con Doyle e Frost avevo saputo che erano stati usati un po' troppo spesso. Non era buon segno. Il fatto che Andais fosse ricorsa a loro significava che le altre sue armi si erano smussate e indebolite. Maeve non lo sapeva. Nessuno alla Corte Seelie lo sapeva, salvo che non ci fossero spie... ipotesi, in effetti molto probabile. Comunque, Maeve non lo sapeva. «Pensi davvero che il re verrà a sapere che noi due abbiamo parlato?» domandai. «Non lo so per certo, ma lui è un dio, o almeno lo era una volta. Temo che ci scoprirà.» «Bene. Io voglio sapere perché sei stata esiliata... ma anche tu vuoi qualcosa da me. Qualcosa per cui sei disposta a rischiare la vita. Di che si tratta, Maeve? Cosa può essere tanto importante per te?» Si piegò in avanti, tenendosi chiuso l'accappatoio, finché non percepii l'odore di burro di cacao della sua pelle e quello del rum nel suo alito. Fu all'orecchio che mi sussurrò: «Voglio un figlio». 13 Restai china in avanti sfiorando il petto di lei con una spalla, perché non volevo che mi vedesse in faccia. Un figlio? Lei voleva un figlio? E perché rivolgersi a me? Avevo pensato a molte cose che Maeve Reed potesse desiderare; un figlio non era in quella lista. Alla fine la guardai. «Cosa vuoi da me?» Quella era la domanda. Lei tornò ad appoggiarsi all'indietro, con un piccolo moto della testa che mi ricordò il suo atteggiamento provocante di poco prima. «Te l'ho detto cosa voglio, Meredith.» Corrugai la fronte. «So cosa mi hai detto, Maeve, ma non vedo...» Ci provai di nuovo. «Non so come io possa aiutarti.» Misi una certa enfasi su quell'io, perché mi auguravo che non stesse pensando a quello che invece sicuramente pensava. Io avevo gli uomini. Girò lo sguardo su quelli intorno a noi, comprese le sue guardie del corpo. «Ora capisci perché desideravo discuterne in privato, no?» C'era una vaga traccia di supplica nella sua voce. Sospirai. Volevo essere razionale, volevo essere cauta. Ma capivo perché aveva preteso molta discrezione. Ci sono cose che vanno oltre l'appartenenza a partiti politici diversi, razze diverse, religioni diverse, e una di tali cose è una richiesta di aiuto da-donna-a-donna. Pur facendo tutte le
mosse sbagliate, Maeve aveva chiesto il mio aiuto di donna. Non potevo fingere d'ignorarlo. «Si può fare», dissi. Maeve inclinò la testa. «Si può fare cosa?» «Parlare in privato.» Sentii Doyle e Frost muoversi dietro di me. Non che si fossero spostati, neppure di un passo, ma erano così tesi che dovevano aver sussultato. «Principessa...» cominciò la Tenebra. «Va bene così, Doyle. Tu e gli altri potete andare a sedere sotto quell'ombrellone, mentre noi ragazze parliamo delle nostre cose.» Maeve corrugò le sopracciglia, e le sue labbra tinte di un rosa pallido s'incresparono in un broncio grazioso. Stava ritrovando l'autocontrollo. O forse aveva vissuto tanti anni come la sensuale dea di Hollywood da non riuscire più a comportarsi in altro modo. «Speravo in un'intimità maggiore di pochi passi.» Le sorrisi con tutta la mia pazienza. «Ti sei già rivelata capace di usare la magia contro di me, allo scopo di convincermi. Sarei una stupida, se mi fidassi di te.» Il broncio sparì, sostituito da due labbra strette quasi con rabbia. «E tu ti sei rivelata capace di superare la mia magia. Non sono così stupida da giocarmi la mia fortuna una seconda volta.» Ero abbastanza sicura di non aver affatto superato la sua magia. Non si poteva dire che in risposta all'uso della sua magia le mie naturali capacità si fossero risvegliate. Da parte mia non c'era stato niente di deliberato; non ero sicura al cento per cento che avrei saputo rifarlo, se ci avessi riprovato. Ma se Maeve credeva che potessi farlo, non sarei stata io a dissuaderla. Credesse pure che io fossi molto potente, e paranoica; non intendevo andare dove i miei uomini non avrebbero potuto vedermi. Potente e paranoica... erano caratteristiche della regalità. «Le mie guardie saranno fuori portata di udito, laggiù, mentre noi parliamo. Questa è tutta l'intimità che posso darti, per una chiacchierata in privato tra noi ragazze.» «Tu non ti fidi di me.» «Perché dovrei?» Sorrise. «Non dovresti, infatti. Decisamente non dovresti.» Scosse il capo e sorseggiò il suo rum, poi mi guardò da sopra l'orlo del bicchiere. «Hai rifiutato tutti i rinfreschi. Per paura del veleno o della magia.» Annuii.
Lei rise. Una risata cristallina, divertita. L'avevo udita più di una volta, guardando i suoi film. «Ti do la mia parola che niente di quello che c'è qui può farti del male di proposito.» Era una precisazione della quale avrei fatto volentieri a meno. Significava che se qualcosa mi avesse fatto del male non sarebbe stata colpa sua, e che lì c'era qualcosa che avrebbe potuto farmi del male. Fui costretta a sorridere. Quei doppi sensi erano tipici della Corte dei sidhe, dove l'onore era così importante che si poteva duellare a morte per difenderlo. «Voglio la tua parola d'onore che nessuna cosa, nessuna persona, nessun animale o creatura di qualche genere mi farà del male finché sono qui», dissi. Lei rimise il broncio. «Via, Meredith. Un giuramento così solenne? Hai la mia parola che ti proteggerò con tutte le mie capacità.» Scossi il capo. «Voglio la tua parola che nessuna cosa, nessuna persona, nessun animale o creatura di qualche genere mi farà del male.» «Finché sei qui», aggiunse lei. Accennai di sì. «Finché sono qui.» «Se tu omettessi questo dettaglio, io sarei responsabile della tua sicurezza sempre, ovunque andassi.» Ebbe un brivido, e non mi parve finto. «Tu andrai alla Corte Unseelie, e quello non è un posto dove io possa garantire la tua sicurezza.» «Questo vale per tutti, Maeve. Non prendertela.» Si accigliò ancora. «Non me la prendo, Meredith. Non rientra nelle mie capacità tutelarti in quegli oscuri e tenebrosi corridoi.» Scrollai le spalle. «Ci sono luce e risate anche alla Corte delle tenebre, proprio come ci sono pianti e dolori in quella della luce.» «Scusami, ma non posso credere che alla Corte Unseelie esistano la gioia e le meraviglie che abbelliscono la Corte Seelie.» Mi voltai a guardare Doyle e Frost. Fu un lungo sguardo, poi tornai a girarmi verso Maeve, lasciando che la sua bellezza mi riempisse gli occhi. «Oh, non lo so, Maeve. Anche alla Corte delle tenebre ci sono momenti di gioia.» «Ho sentito parlare delle depravazioni che avvengono alla Corte della regina Andais.» Scoppiai a ridere. «Hai vissuto troppo tra gli umani, se parli di depravazioni con tanto disgusto. Le gioie della carne sono una benedizione che può essere condivisa, non una maledizione da cui guardarsi.» «Come quel furfante della tua guardia del corpo e la mia dolce Marie
dovrebbero sapere.» Stava guardando oltre le mie spalle, con un sorriso. Rhys e Marie venivano verso di noi. I riccioli bianchi di Rhys gli ricadevano di nuovo fino alla cintura; il suo bel volto fanciullesco era senza barba, e si era rimesso la benda bianca orlata di perle. Sorrideva, e il suo unico occhio scintillava di umorismo, come se avesse appena sentito una barzelletta molto divertente. Marie gli teneva dietro; i suoi capelli non erano più tanto in ordine, e lo stesso si poteva dire del suo completo bianco, ma lei non appariva affatto allegra. Se Maeve avesse avuto ragione, Marie avrebbe dovuto sorridere. Rhys aveva dei difetti, ma quello di non mettere un sorriso sulla faccia di una ragazza non era tra essi. Non lo si poteva mai prendere sul serio, a letto o fuori del letto, come le altre guardie, e a letto era molto divertente. Mi accorsi di aver aggrottato la fronte. Se Rhys aveva fatto sesso con Marie, come avrei dovuto prenderla? Dopotutto lui era mio, esclusivamente mio per ordine della regina. Cercai di sentirmi urtata, gelosa, o almeno seccata che Rhys avesse messo le mani addosso a Marie, e non ci riuscii. Forse perché andavo a letto anche con altri uomini; forse perché, per essere gelosi, occorre aver seguito la retta via della monogamia. In ogni modo, senza che ne capissi il motivo, la cosa non m'importava. Rhys poggiò un ginocchio al suolo davanti a me, costringendo un po' rudemente Kitto a scostarsi; ma il fatto che riuscisse a toccare il piccolo goblin era in realtà un buon segno. Mi prese una mano e se la portò alle labbra, con un sogghigno. «L'amabile Marie mi ha offerto i suoi favori.» Inarcai un sopracciglio. «E?» «E sarei stato scortese se avessi ignorato la sua offerta.» Dal punto di vista fey aveva ragione. «Lei è umana, non fey», dissi. «Gelosa?» Scossi il capo, con un sorriso. «No.» Lui si rialzò con un movimento fluido, dandomi un tranquillo bacetto su una guancia. «Lo sapevo che eri più fey che umana.» Marie si era chinata accanto a Maeve. Ci dava le spalle e stava scuotendo il capo. Maeve si rivolse a Rhys, accigliata. «Marie dice che tu l'hai rifiutata.» «Le ho dimostrato che la trovo deliziosa», replicò lui. «Ma non hai dato seguito alla cosa.» «Sono stato assegnato come amante alla principessa Meredith. Perché
dovrei guardare le altre donne? Ho dedicato alla tua segretaria le attenzioni che era doveroso offrirle, né più né meno.» Il buonumore era sparito dalla sua faccia, e sembrava piuttosto irritato. Maeve diede un colpetto su una mano a Marie e la rimandò in casa. La ragazza evitò con cura di guardarci. Mi parve imbarazzata. Forse non era abituata a essere respinta, ma avevo la netta impressione che fosse stata la stessa Maeve a chiederle di provarci con Rhys. Mi alzai. «Ne ho abbastanza di questi giochetti.» Maeve protese una mano verso di me, ma io mi scostai. «Per favore, Meredith. Non volevo offenderti.» «Hai ordinato alla tua segretaria di sedurre uno dei miei uomini. Hai cercato di sedurre me, e non certo perché mi desideri, ma per acquistare il controllo su di me.» «Quest'ultima cosa non è vera», affermò, alzandosi in piedi con un movimento flessuoso. «Ma non neghi di aver incaricato la tua dipendente di sedurre il mio uomo.» Si tolse i grossi occhiali da sole perché potessi vedere com'era confusa. Avrei scommesso che stava recitando. «Sei della Corte Unseelie», disse. «Vizi e tentazioni sono cosa di tutti i giorni per te.» Stavolta fui io a restare confusa. «Cosa c'entrano i vizi della Corte Unseelie? Tu hai insultato me, e uno dei miei uomini.» «Sei della Corte Unseelie», ripeté lei. Scossi il capo. «E questo cosa c'entra?» «Voi avete rifiutato di mettervi in costume da bagno», replicò lei, a disagio, abbassando gli occhi. «Cosa?» «Se Marie lo avesse visto nudo, avrebbe potuto dirmi se il suo corpo è puro, a parte quella cicatrice.» Corrugai le sopracciglia. «Nel nome del Lord e della Lady, ma di cosa stai parlando?» «Tutti voi siete della Corte Unseelie, Meredith. Devo accertarmi che non siate... impuri.» «Vuoi dire deformi», sbottai, senza cercare di nascondere l'ira. Lei annuì appena. «E perché mai i nostri corpi, comunque siano, dovrebbero fare qualche differenza per te?»
«Te l'ho detto ciò che voglio.» Assentii, e fui abbastanza corretta da non dare voce al suo segreto davanti a tutti, benché il cielo sapesse che lei non meritava quella cortesia. «Se chi mi aiuterà in questo compito sarà impuro, allora...» Maeve mi guardò, come invitandomi a intuire la fine di quella frase. Mi accostai per sibilare, più che sussurrare, in modo che gli altri non sentissero: «Avresti un bambino deforme». Nessun glamour poteva nascondere l'odore di burro di cacao, liquore e fumo di sigaretta dei suoi capelli e della sua pelle. All'improvviso mi sentii invasa dalla nausea. Indietreggiai così bruscamente che inciampai addosso a Rhys, e sarei caduta se lui non mi avesse sostenuto. «Cosa c'è che non va?» mi domandò sottovoce. Scossi il capo. «Sono stanca di stare qui con questa donna.» «Allora andiamo via», disse Doyle. Scossi di nuovo il capo. «Non ancora.» Presi Rhys a braccetto. «Devi dirmi perché sei stata esiliata, Maeve. Devi dirmi tutta la verità, qui e subito, oppure me ne vado e non mi vedrai mai più.» «Se lui sapesse che ti ho parlato di questo, mi ucciderebbe.» «Se sapesse che sono stata qui, gli basterebbe per essere sicuro che mi hai parlato proprio di questo. O pensi che potresti convincerlo che sono venuta a chiederti l'autografo?» Ormai sembrava spaventata davvero; ma non m'importava. «Dimmelo, Maeve. Dimmelo, altrimenti noi ce ne andiamo, e non troverai nessun altro fuori da Faerie disposto ad aiutarti.» «Meredith, ti prego...» «No. Tu e la tua nobile e pura Corte Seelie, capaci solo di guardarci dall'alto in basso. Se un bambino nasce deforme lo uccidete, o almeno è questo che facevate un tempo, prima che tutti voi smetteste di avere figli. Poi anche i mostri sono diventati preziosi. E lo sai cosa succedeva a quei bambini? Lo sai cos'è successo negli ultimi quattrocento anni a quei vostri piccoli Seelie nati deformi? Perché, e non fingere d'ignorarlo, l'accoppiamento tra consanguinei ha questa conseguenza anche tra gli immortali.» «Io non... no, non lo so.» «Sì, che lo sai. Tutti voi, eletti figli della luce, lo sapete. Mia cugina la teneste, perché era in parte brownie. Non la buttaste fuori, perché i brownie sono Seelie... non sidhe, tuttavia creature della luce. Ma quando le vostre lucenti e pure sidhe partoriscono delle mostruosità, cosa succede? Dove le mandano?» Stava piangendo, umide e silenziose lacrime d'argento. «Non lo so.»
«Sì, invece, lo sai. Quei neonati finiscono alla Corte Unseelie. Noi accogliamo quei disgraziati, quei puri Seelie cui accade di essere mostruosi. Li alleviamo, perché accettiamo tutti. Nessuno viene buttato fuori a calci dalla Corte Unseelie, nessun povero bambino il cui solo crimine è di essere nato da genitori che non si preoccupano di studiare l'albero genealogico almeno quel tanto da evitare di sposarsi coi loro dannati parenti.» Anch'io stavo piangendo, ma la mia era rabbia, non tristezza. «Posso giurarti che io, Frost e Rhys siamo fisicamente puri. Questo rende la cosa più facile? Ti rassicura? Se tu avessi soltanto voluto andare a letto con uno degli uomini, non avresti cercato di vedere anche me in costume da bagno, ma invece ti interessava. Perché vuoi un rito della fertilità, Maeve. Hai bisogno di me, e di almeno un uomo.» Ero troppo irritata per chiedermi se qualcuno a parte Maeve avesse udito la mia voce e capito di cosa stavo parlando. Ma non me ne importava. Voltai le spalle a Rhys, accostandomi a lei abbastanza da sputarle le parole in faccia. «Dimmi perché sei stata esiliata, Maeve. Dimmelo subito, o ti lasceremo come ti abbiamo trovata. Sola.» Lei annuì, piangendo. «Va bene, va bene. La Lady mi protegga, ma ti dirò quello che vuoi, se giuri che mi aiuterai ad avere un figlio.» «Giura prima tu.» «Giuro che ti dirò la verità sul motivo per cui sono stata esiliata dalla Corte Seelie.» «E io giuro che, quando mi avrai detto perché sei stata esiliata dalla Corte Seelie, io e i miei uomini faremo tutto ciò che potremo per aiutarti ad avere un figlio.» Si asciugò gli occhi col dorso di una mano; era un gesto infantile. Sembrava molto scossa, e mi chiesi se fosse possibile che uno di quei poveri sfortunati bambini fosse stato partorito da Conchenn, la dea della bellezza e della primavera. E in tal caso, il pensiero di aver dato via quel suo unico figlio non l'aveva mai tormentata? Mi auguravo di sì. 14 «Un centinaio di anni fa, il supremo re di Faerie, Taranis, cominciò a pensare di lasciare sua moglie, Conan di Cuala. Erano sposati da oltre un secolo, e lei non gli aveva ancora dato un erede.» Nella voce di Maeve si era insinuata la nota cantilenante di chi racconta una favola. «Alla fine decise che avrebbe dovuto cercarne un'altra.»
A me piaceva ascoltare una buona storia raccontata alla vecchia maniera, ma volevo togliermi dal sole, e non intendevo restare lì tutto il giorno. «Così la ripudiò», la interruppi. Maeve sorrise, e non perché quel ricordo la rendeva felice. «Mi chiese di prendere il posto di lei, come sua legittima sposa. Io rifiutai.» Prese a parlare con me, semplicemente, senza quella cantilena. Forse non era così affascinante, ma una semplice conversazione sarebbe stata più rapida. «Non è questo il motivo del tuo esilio, Maeve. Almeno un'altra sidhe aveva già rifiutato la proposta matrimoniale di Taranis, e lei fa ancora parte della Corte della luce.» Bevvi un sorso di limonata e la guardai. «Edain rifiutò perché amava un altro. Io avevo un motivo diverso.» Non stava guardando me o Kitto, né altri, mi parve. I suoi occhi erano fissi nel vuoto, come se sfogliasse le pagine di quei ricordi. «E il motivo qual era?» chiesi. «Conan era la seconda moglie del re. Ma dopo un secolo di matrimonio non era ancora rimasta incinta.» «E allora?» Bevvi un altro po' di limonata. Lei ne approfittò per buttare giù un lungo sorso di rum, poi mi guardò. «Dissi di no a Taranis perché avevo capito che era sterile. Non si trattava della consorte reale, era il re che non poteva farle partorire un erede.» La limonata mi andò di traverso, e la sputacchiai sulle mie ginocchia e addosso a Kitto; lui mi guardò come paralizzato, con il liquido che gli colava sugli occhiali da sole e lungo un braccio. Arrivò la cameriera, con dei tovaglioli di carta; ne presi una manciata e le accennai di allontanarsi. Stavamo parlando di cose che nessuno doveva ascoltare. Quando potei parlare senza tossire, dopo che Kitto e io ci fummo asciugati, domandai: «E questo glielo dicesti in faccia?» «Sì», rispose Maeve. «Sei più coraggiosa di quello che sembri.» O più stupida, aggiunsi dentro di me. «Lui pretese che gli dicessi perché non intendevo sposarlo. Gli risposi che volevo un figlio, e che secondo me lui non poteva dare figli a una donna.» La guardai, cercando di chiarire le implicazioni di quelle parole. «Se quello che dici è vero, i cortigiani di sangue nobile potrebbero esigere dal re il sacrificio supremo. Potrebbero costringerlo a offrire la vita nel corso della prossima grande cerimonia sacra.» «Sì», confermò Maeve. «E quella stessa notte lui mi scacciò.»
«Per paura che tu lo dicessi a qualcuno.» «Senza dubbio non ero la sola ad avere quel sospetto», disse lei. «Adaria ebbe dei figli con altri due cortigiani, dopo che per secoli aveva diviso il suo letto senza nessun risultato.» Finalmente capivo perché mio zio Taranis mi avesse picchiata in pubblico per aver chiesto di Maeve. Era in gioco la sua stessa vita. «Potrebbe abdicare al trono», mormorai. Lei abbassò il bicchiere per darmi un'occhiata scettica. «Non essere ingenua, Meredith, non è da te.» Accennai di sì. «Ovvio, hai ragione. D'altra parte, è probabile che lo stesso Taranis non voglia credere a questa verità. Lo si dovrebbe costringere ad accettare l'idea che è sterile, e l'unico modo sarebbe di sottoporlo al giudizio dei nobili. Questo significa che tu dovresti indurre un numero sufficiente di loro a votare per quella decisione.» Scosse il capo. «No, Meredith. La situazione è ancora più grave. E io non sono certo la sola a sospettarlo. Soltanto la sua morte restituirebbe la fertilità alla nostra gente. Tutto il nostro potere discende dal re, come il vostro dalla regina. Io credo che l'incapacità di Taranis di generare figli abbia condannato tutti noi alla sterilità.» «Ci sono ancora dei bambini alla Corte Seelie», osservai. «Ma quanti di loro sono di sangue puro?» Ci pensai un momento. «Non saprei dirlo. Per la maggior parte erano già nati quando andai a stare là.» «Nessuno», affermò Maeve. Si piegò in avanti, e il suo linguaggio corporale esprimeva serietà, non seduzione. «Tutti i bambini nati da noi negli ultimi seicento anni sono di sangue misto. Frutto di violenze da parte di nemici durante le guerre contro gli Unseelie, o altri come te nati da unioni miste. Sangue misto, e sangue più forte, Meredith. Il nostro re ci ha condannati a morte come popolo, perché è troppo orgoglioso per abbandonare il trono.» «Se abdicasse perché è sterile, i cortigiani potrebbero pretendere ugualmente che sia ucciso per assicurare la fertilità agli altri.» «E lo farebbero, se scoprissero che io gli ho fatto presente il suo piccolo problema già un secolo fa.» Maeve aveva ragione. Se Taranis avesse ignorato di essere sterile, avrebbero potuto perdonarlo e permettergli di abdicare. Ma averlo saputo per un secolo e non aver fatto niente... avrebbero voluto vedere il suo sangue sparso sui campi, per una cosa simile.
Un mormorio di voci mi fece voltare. Dalla villa era uscito un uomo, che stava parlando cordialmente con le guardie sedute sotto l'altro ombrellone. Quando venne verso di noi, scoprì i denti bianchi in un sorriso. Il resto di lui appariva così insalubre che il candore di quel sorriso faceva risaltare ancora di più gli occhi infossati nelle orbite scure, la pelle grigiastra e la magrezza della sua faccia avvizzita. La malattia l'aveva minato al punto che mi occorse qualche secondo per riconoscere in lui Gordon Reed. Era il regista che aveva trasformato Maeve da piccola comparsa in una stella del cinema. Ebbi un'improvvisa visione del suo corpo in putrefazione, con soltanto quei denti così bianchi intatti nella tomba. All'istante seppi che quella macabra visione era realistica, perché l'uomo stava morendo. La domanda era: loro lo sapevano già? Maeve gli porse una mano. Lui prese quelle morbide dita dorate tra le sue, già quasi scheletriche, e depose un bacio sulla pelle di pesca. Cosa doveva aver provato nel vedere la sua giovinezza andarsene, la sua maturità crollare verso la vecchiaia e la morte, mentre lei restava immutata? Si girò verso di me, senza lasciarle la mano. «Principessa Meredith, è un piacere averla con noi, oggi.» Erano parole civili, molto normali, come se quello fosse un pomeriggio qualsiasi in piscina. Maeve gli diede un colpetto sulla mano. «Siediti, Gordon.» Si spostò per lasciargli la sedia a sdraio e si accovacciò sul bordo della piscina, un po' come Kitto aveva fatto con me. Lui sedette pesantemente, e solo un momentaneo fremito intorno agli occhi fu il segno che stava soffrendo. Lei si tolse gli occhiali da sole e continuò a guardarlo. Sembrava studiare ciò che era rimasto dell'uomo alto e attraente che aveva sposato. Lo studiava come se ogni particolare di quel volto macilento le fosse prezioso. Quello sguardo mi bastò. Lo amava. Lo amava davvero, ed entrambi sapevano che stava morendo. Maeve appoggiò una guancia su quella mano rinsecchita e mi guardò coi suoi grandi occhi azzurri un po' troppo luminosi, un po' troppo colmi di luce. Non era il glamour, ma lacrime che non sapeva trattenere. La sua voce fu bassa e precisa. «Gordon e io vogliamo un bambino, Meredith.» «Quanto...» Tacqui. Non potevo chiederlo, non di fronte a lui. «Quanto tempo resta a Gordon?» finì Maeve per me. Accennai di sì. «Sei...» La voce le si spezzò. Cercò di ricomporsi, ma infine fu Gordon a rispondere. «Sei settimane, forse tre mesi al massimo.» La sua voce era
calma, rassegnata. Accarezzò i capelli satinati di Maeve. Lei si voltò ancora verso di me. Lo sguardo dei suoi occhi non era rassegnato, né calmo. Era frenetico. Ecco perché, dopo un centinaio di anni, lei aveva voluto sfidare l'ira di Taranis per cercare l'aiuto di un'altra sidhe. Conchenn, la dea della bellezza e della primavera, sentiva che il tempo le stava sfuggendo tra le dita. 15 Era buio quando tornammo al mio appartamento. Avrei voluto dire «casa mia», ma non lo era. Non era mai stata casa mia. Era un appartamento con un'unica camera da letto, scelto quando non immaginavo che avrei avuto un coinquilino. E invece cercavo di dividerlo con altre cinque persone; dire che eravamo a corto di spazio era un eufemismo terribile. Stranamente non avevamo parlato molto durante il ritorno in agenzia, né dopo aver lasciato il furgone per la mia auto. Non sapevo cosa rendesse silenziosi i miei compagni, ma la vista di Gordon Reed in quelle condizioni, con un piede nella fossa, aveva smorzato molto il mio entusiasmo. A dire la verità, ciò non era dovuto tanto all'aspetto fisico di Gordon quanto al modo in cui Maeve lo guardava. Una immortale innamorata profondamente di un mortale. Storie del genere non hanno mai un lieto fine. Avevo guidato nel traffico come un automa, in un silenzio rotto soltanto dagli ansiti di Doyle. Non era quello che si dice un passeggero tranquillo, ma essendo senza patente non aveva molta scelta. Di solito i suoi piccoli attacchi di panico mi divertivano, essendo tra le poche occasioni in cui lo vedevo sperduto e indifeso, e ciò mi confortava. Di solito. Quella sera, quando entrammo tra le pareti rosa pallido del mio soggiorno, sentivo che niente avrebbe potuto tirarmi su di morale. Ero, come sempre, in errore. Innanzitutto, fummo accolti dal ricco profumo del pane appena sfornato e dello stufato, il genere di stufato rimasto lì a insaporirsi per tutto il giorno; e non c'è niente come il pane fatto in casa. Poi, dalla piccola cucina uscì Galen, diretto all'ancora più ridotto angolo-pranzo. In genere, di Galen notavo per prima cosa il sorriso, che era eccezionale; o forse i capelli verde pallido che gli si arricciavano dietro le orecchie. In quel momento ciò che notai subito fu invece il suo abbigliamento. Non aveva camicia né maglia. Si era appeso al collo e allacciato dietro la schiena un grembiulino da cucina col bordo in pizzo bianco, così traforato che potevo intravedere i capez-
zoli, la peluria verde scuro che gli decorava la parte superiore del torace e la più sottile striscia di peluria che scendeva lungo l'addome per sparire nei jeans. Ci voltò le spalle per finire di apparecchiare la tavola, mettendo in mostra un'epidermide senza una pecca di un biancore perlaceo appena sfumato di verde. Il grembiule non nascondeva nulla della schiena robusta, delle spalle larghe e della forma perfetta delle braccia. La sottile treccia di capelli che gli arrivava alla cintura si curvava sulla sua pelle come una carezza. Non mi ero accorta di essermi fermata di botto, un passo oltre la soglia. Poi Rhys disse: «Se ti scostassi un momento, potremmo entrare anche noi». Mi sentii arrossire, e subito mi tolsi di mezzo per lasciar passare gli altri. Galen continuò ad andare e venire dalla cucina come se non avesse notato la mia reazione, e forse era davvero così. Con lui non si poteva mai dire. Sembrava inconsapevole di quanto fosse bello. Il che, a pensarci bene, era parte delle sue attrattive. L'umiltà era una caratteristica rara nei nobili sidhe. «Lo stufato è pronto, ma il pane va lasciato raffreddare un poco prima di tagliarlo», disse. Tornò in cucina senza aver realmente guardato nessuno di noi. Un tempo ci saremmo salutati con un bacio, prima che intervenisse un piccolo problema. Galen era stato ferito durante una delle solite punizioni di Corte, subito prima di Samhain, o - come la chiamano ora - Halloween. Potevo ancora vedere la scena con gli occhi della mente: Galen incatenato alla roccia, quasi nascosto dalle ali di farfalla dei piccoli demi-fey che gli si affollavano addosso. Sembravano davvero farfalle riunite intorno a pozzanghera e occupate a succhiare il liquido, con le ali che si muovevano lente. Solo che non succhiavano acqua, ma il suo sangue. Gli avevano azzannato la carne per farla sanguinare, e il principe Cel, per un suo particolare motivo, aveva ordinato loro di dedicarsi soprattutto al suo scroto; voleva far sì che io non potessi prendere Galen nel mio letto finché non fosse guarito. Le ferite dei sidhe si rimarginano con gran rapidità, a vista d'occhio... a parte alcune. Così i segni di morsi erano scomparsi del tutto dalla sua pelle, fuorché le ferite allo scroto. E per il momento Galen doveva essere considerato a tutti gli effetti impotente. Lo avevamo portato da ogni medico che conoscessimo, tradizionale o dedito alla magia. Gli esponenti della medicina tradizionale non erano riusciti a far niente per lui; i guaritori avevano soltanto potuto dire che si trat-
tava di qualcosa di magico. Gli stregoni del XXI secolo esitavano a usare il termine «maledizione». Nessuno faceva più fatture; erano troppo negative per il karma. Chi gettava una maledizione prima o poi se la vedeva tornare addosso, inevitabilmente. Non si poteva fare neppure la magia nera, almeno del genere teso a procurare il male, senza pagare un prezzo. Nessuno era esente da quella legge, neppure gli immortali. Era uno dei motivi per cui le maledizioni erano così rare. Guardai Galen che si dava da fare in cucina con indosso il grembiule dall'orlo di pizzo, ed ebbi una stretta al cuore. Andai dietro di lui e gli passai le braccia intorno alla cintura, premendo il mio petto contro la sua schiena. A quel contatto lui s'immobilizzò, poi le sue mani scivolarono lentamente lungo le mie braccia e se le strinse al corpo. Posai una guancia sulla pelle calda tra le sue scapole. Era la cosa più vicina a un abbraccio che avessi avuto da lui nelle ultime settimane. Trovava doloroso ogni genere di rapporto fisico con me, in ogni senso. Accennò a scostarsi, e io lo strinsi ancora più forte. Avrebbe potuto costringermi a lasciarlo, ma non lo fece. Si limitò a restare lì e lasciò andare le mie braccia. «Merry, ti prego.» La sua voce era tesa e rigida. «No», mormorai, stringendomi a lui. «Lascia che io mi metta in contatto con la regina Niceven.» Scosse il capo, facendo sbattere la treccia contro la mia faccia. L'odore dei suoi capelli era pulito, dolce. Mi tornò in mente quando li portava lunghi fino alle ginocchia, come gli altri sidhe di Corte. Rimpiangevo ancora che se li fosse tagliati. «Non voglio che tu resti in debito con quella creatura», disse, con una serietà insolita in lui. «Ti prego.» «No, Merry, no.» Cercò di spingermi via, ma non volli lasciarlo andare. «E cosa succederà, se non ci fosse nessuna cura fuorché l'aiuto di Niceven?» Mi poggiò una mano su un braccio, non per accarezzarmi ma per scostarlo e andarsene. Galen era un guerriero sidhe, avrebbe potuto sfondare uno dei muri maestri dell'edificio. Non ero in grado di trattenerlo, se non voleva. Tornò sulla soglia del cucinotto, fuori della mia portata. I suoi occhi verdi non vollero saperne di voltarsi verso di me, e si concentrarono sull'affresco che ornava una parete dell'angolo-pranzo: un volo di farfalle
sopra un prato. Le farfalle gli ricordavano i demi-fey, o non vedeva neppure ciò che aveva davanti? Oppure qualunque cosa era meglio che guardare me? Gli avevo già chiesto più volte di lasciare che parlassi con la regina Niceven, per farmi dire cosa gli aveva fatto. Ma continuava a proibirmelo; non voleva che mi trovassi in debito con lei solo per averlo aiutato. Lo avevo supplicato, avevo perfino pianto, cosa che con chiunque altro avrebbe funzionato, ma lui teneva duro. Ciò che non voleva era sentirsi responsabile, se poi il debito con Niceven mi fosse costato caro. Restai lì a guardare quel bellissimo corpo che avevo amato fin da bambina. Galen era stata la mia prima passione. Se fosse guarito, avremmo potuto spegnere quel fuoco che bruciava tra noi fin da quand'ero adolescente. All'improvviso compresi di aver affrontato la situazione nel modo sbagliato. Kitto aveva detto che, secondo Doyle, io non facevo altro che farmi scopare, senza sfruttare il potere che avevo guadagnato. Non si stava riferendo ai goblin. Chi ero io, la futura regina degli Unseelie, oppure no? E se dovevo essere regina, perché diavolo continuavo a chiedere a questo e quello il permesso di fare qualcosa? Con chi mi mettevo in debito non era affare di Galen. Neppure un poco. Mi voltai verso il soggiorno. Gli altri ci stavano guardando. Se fossero stati umani, avrebbero fatto finta di guardare qualcos'altro, o abbassato gli occhi su una rivista, o si sarebbero comunque dati un contegno. Ma erano fey. Se qualcuno faceva qualcosa davanti ai fey, loro guardavano. Chi avesse desiderato intimità, avrebbe dovuto andare altrove. Quella era la loro cultura; la nostra cultura. Soltanto Kitto non c'era, e io sapevo dov'era andato: nella sua cuccia extralarge, il comodo letto per cani con una copertura simile a una piccola tenda. L'avevo messo in un angolo del soggiorno, girandolo in modo che dall'apertura si potesse vedere la televisione, una delle poche meraviglie tecnologiche che lui sembrava apprezzare. «Doyle», dissi. «Sì, principessa.» La sua voce era neutra. «Mettimi in contatto con la regina Niceven.» Annuì, e si alzò per andare in camera da letto. Lo specchio più largo dell'appartamento era lì. Avrebbe cercato di contattare la demi-fey attraverso lo specchio, così com'era in grado di contattare ogni altro sidhe. Poteva funzionare, oppure no. I demi-fey non trascorrevano molto tempo sotto i tumuli di Faerie; preferivano l'aria aperta. Se non erano vicino a una super-
ficie riflettente, l'incantesimo dello specchio non avrebbe funzionato. Si potevano tentare altri incantesimi, ma lui cominciava sempre con quello dello specchio. Forse con un po' di fortuna avremmo trovato la piccola regina in volo presso una polla d'acqua stagnante. «No», disse Galen. Fece due rapidi passi, non verso di me ma per intercettare Doyle. Lo prese per un braccio. «No, non posso permetterle di fare questo.» La Tenebra della regina lo guardò negli occhi, e Galen non batté ciglio. Io trattenni il fiato. O Galen era più coraggioso di quello che avrei supposto, oppure più stupido. Propendevo per la seconda cosa. Semplicemente, non capiva la politica. Aveva afferrato il braccio di Doyle per impedirgli di uscire dalla stanza senza pensare che ciò poteva significare un duello tra loro. Avevo visto la Tenebra combattere, e anche Galen: sapevo chi avrebbe vinto. Ma Galen aveva agito senza pensare; si limitava a reagire, e questa, ovviamente, era la sua grande debolezza. Ed era stato il motivo per cui mio padre non aveva voluto che lo sposassi. Galen non era abbastanza sottile da sopravvivere agli intrighi di Corte; quella capacità gli mancava. Ma Doyle non si offese. Il suo sguardo passò da Galen a me. Inarcò un sopracciglio, come a chiedermi cosa dovesse fare. «Ti stai comportando come se fossi già re, Galen», dissi, con voce che suonò dura perfino a me, perché sapevo che non pensava niente del genere. Ma dovevo prendere il controllo della situazione prima che la Tenebra decidesse di agire. Dovevo essere io a comandare lì, non Doyle. Lo sguardo stupito di Galen quando si girò verso di me era genuino, come lui. Quasi ogni altro Corvo della regina sarebbe riuscito a controllare meglio la sua espressione. Lui aveva sempre dipinta sulla faccia ogni emozione. «Non capisco cosa vuoi dire.» E probabilmente non lo capiva. Sospirai. «Io do un ordine a una delle mie guardie, e tu gli impedisci di eseguirlo. Chi, se non un re, scavalcherebbe gli ordini di una principessa?» Parve confuso e lasciò andare il braccio di Doyle. «Non vedevo la cosa in questo modo.» La sua voce era giovane e poco sicura di sé. Aveva settant'anni più di me, ma politicamente era ancora un bambino, e lo sarebbe stato sempre. L'ingenuità faceva parte del fascino di Galen. Era anche uno dei suoi difetti più pericolosi. «Fai quello che ti ho chiesto, Doyle.» La Tenebra eseguì l'inchino più profondo che mi avesse mai rivolto. Poi andò in camera da letto, davanti allo specchio.
Galen lo guardò sparire nella stanza. «Merry, ti prego. Non metterti nelle mani di quella creatura per colpa mia.» Scossi il capo. «Galen, io ti voglio bene, ma pochi sono politicamente ingenui come te.» Lui si accigliò. «Che significa?» «Significa, mio caro, che io tratterò con Niceven. Se lei chiederà un prezzo troppo alto, non potrò pagarlo. Ma lascia che sia io a condurre la cosa. Non farò nessuna sciocchezza.» Galen storse la bocca. «Non mi piace. Tu non sai cos'è diventata Niceven, da quando Andais ha cominciato a perdere la sua autorità sulla Corte.» «Se Andais lascia che il potere le sfugga, c'è chi non aspetta altro per impadronirsene. Questo lo so.» «E come? Come puoi sapere queste cose, quando sei lontana dalla Corte mentre accadono?» Sospirai ancora. «Se il potere va a pezzi tra le mani di Andais al punto che il suo stesso figlio può complottare all'ombra del trono, e se la situazione si è deteriorata al punto che lei deve usare gli sluagh come polizia interna invece di tenerli da parte come ultimo deterrente, allora molti si arrampicano per arraffare quei pezzi. E non esitano a farne l'uso che gli conviene.» Galen mi guardò senza capire. «Questo è proprio ciò che è successo in questi tre anni, ma tu non eri là. Allora come hai...» Una luce di stupore gli apparve negli occhi. «Tu hai una spia.» «No, Galen, non ho spie. Non ho bisogno di essere a Corte per sapere cosa succede quando una regina è debole. La natura non tollera il vuoto.» Mi guardò, accigliato. Non aveva nessun desiderio di potere, nessuna ambizione politica. Era come se quella parte di lui mancasse, e poiché gli mancava del tutto non la capiva negli altri. Io l'avevo sempre saputo, ma non mi ero resa conto di quanto fosse profonda la sua incomprensione. Lui non poteva concepire che io vedessi il disegno del mosaico senza aver visto tutte le tessere una per una. Poiché non poteva farlo, non capiva come qualcun altro ci riuscisse. Gli sorrisi, e mi sentii triste. Gli sfiorai una guancia con una carezza; avevo bisogno di toccarlo per sentire che era reale. Non avevo mai capito la profondità del suo problema, e ciò mi dava l'impressione di non averlo mai conosciuto davvero. La sua guancia era calda e concreta, come sempre. «Galen, ora tratterò
con Niceven. Devo farlo, perché lasciare che una delle mie guardie sia ferita da altri è un'offesa a me e a tutti noi. Non si può permettere ai demi-fey di svirilizzare un guerriero sidhe.» Curvò le spalle sotto il peso di quella parola, e distolse lo sguardo. Gli toccai il mento per farlo voltare verso di me. «E io ti voglio, Galen. Ti voglio come una donna può volere un uomo. Non metterò un'ipoteca sulla mia possibilità di arrivare al trono, ma farò tutto il possibile per risanarti.» Un afflusso di sangue al volto aggiunse colore al tono verdolino della sua pelle, cosicché invece di arrossire diventò arancione. «Merry, io non...» Gli posai un dito sulle labbra. «Devo farlo. E tu non mi fermerai, perché io sono la principessa. L'erede al trono sono io, non tu. Tu sei una delle mie guardie, non di più. Credo di essermelo dimenticato per un po', ma non lo dimenticherò di nuovo.» Aveva l'aria preoccupata. Si scostò la mia mano dalle labbra e la girò a palmo in su. Poi vi depose un bacio, e quel leggero contatto mi fece fremere. Galen era così digiuno di politica che farlo diventare re sarebbe stata quasi una condanna a morte. Un disastro, non solo per lui ma per l'intera Corte, e per me. No, non potevo averlo come re, però potevo averlo come amante. Per un po' di tempo, prima di trovare il mio vero consorte, avrei potuto avere luì nel mio letto. Avrei spento il fuoco che continuava a bruciare tra noi, lo avrei spento con la carne dei nostri corpi. E mentre lui sollevava la bocca dalla mia mano, lo sguardo di quei pallidi occhi verdi avrebbe potuto indurmi a gettare via le mie possibilità di arrivare al trono. Non lo avrei fatto, ma ero decisa ad avere quegli occhi fissi su di me mentre giacevo sotto di lui. Gli diedi un bacetto sulle nocche delle dita, perché non mi fidavo a fare di più. «Vai, finisci di apparecchiare la tavola. Credo che il pane si sia raffreddato, ormai.» Lui sorrise all'improvviso, un lampo del suo vecchio sogghigno. «Non saprei... da qui mi sembra ancora piuttosto caldo.» Scossi il capo e lo spinsi verso la cucina, ridacchiando. Forse avrei potuto tenerlo come l'equivalente maschile di una concubina reale. I sidhe esistevano da molti millenni, e nella lunga storia della Corte c'era di certo un precedente del genere. 16
Durante la cena parlammo di cosa fare quando Niceven avrebbe richiamato. Doyle le aveva lasciato un messaggio per chiederle di mettersi in contatto, ed era abbastanza sicuro che sarebbe stata spinta dalla curiosità ad accettare, così com'era sicuro che lei immaginava già cosa volessimo. «Niceven ha previsto la nostra chiamata. Ha un piano. Non so ancora quale possa essere, ma ne ha uno.» La Tenebra sedeva tra me e la finestra, che aveva deciso di lasciare aperta per far entrare l'aria di mare, chiudendo solo le tende. In dicembre, sulla costa della California, di sera c'è una brezza non più fresca di quella della tarda primavera o dell'estate in Illinois. A noi che venivamo di là occorreva uno sforzo d'immaginazione per ricordare che era inverno. «Niceven è un animale», disse Galen, spingendo indietro la sedia. Mise nel lavandino il suo piatto vuoto e cominciò a far scorrere l'acqua, dandoci le spalle. «Non sottovalutare i demi-fey a causa di ciò che ti hanno fatto, Galen», lo ammonì Doyle. «Usano i denti perché ci provano gusto, non perché non abbiano le spade.» «Spade lunghe come stuzzicadenti», borbottò Galen. «Non fanno certo paura.» «Dammi una lama lunga come uno stuzzicadenti, e taglierò a fette un uomo», replicò Doyle, con la sua voce profonda. «Sì, ma tu sei la Tenebra della regina», intervenne Rhys. «Hai studiato ogni arma conosciuta agli umani e agli immortali. Dubito che la gente di Niceven sia arrivata a tanto.» Doyle guardò l'uomo dai capelli bianchi seduto a tavola di fronte a lui. «E se quelle piccole spade fossero le tue sole armi, Rhys, non cercheresti di capire come puoi usarle contro i tuoi nemici?» «I sidhe non sono nemici dei demi-fey.» «I demi-fey, come i goblin, sono appena tollerati in entrambe le Corti, e neppure troppo. E i piccoli fey non hanno la reputazione di ferocia che protegge i goblin dagli alti e bassi della sorte.» Per qualche ragione, parlare dei goblin rendeva difficile non guardare Kitto; invece di sedersi con noi, si era accovacciato sotto il tavolo. Quando ebbe finito il suo piatto di stufato, tornò a rannicchiarsi nella sua cuccia da cane extralarge. Dopo quel pomeriggio nella piscina dei Reed sembrava scosso; troppo sole e aria fresca in una sola volta per un goblin.
«Nessuno fa del male ai demi-fey», disse Frost. «Sono le spie della regina. Una farfalla, una mosca, un uccello, qualunque piccola cosa potrebbe essere un demi-fey. Il loro glamour è impenetrabile anche per i più abili di noi.» Doyle annuì, masticando un boccone di stufato; quindi bevve un sorso di vino rosso. «Tutto ciò che avete detto è vero, ma una volta i demi-fey erano molto più rispettati nelle Corti. Non erano soltanto spie, ma veri alleati.» «I sidhe, alleati dei piccoli fey?» domandò Rhys. «Perché mai?» Risposi io. «Se i demi-fey lasciassero la Corte Unseelie, ciò che resterebbe di Faerie comincerebbe a svanire.» «Questa è una vecchia favola per bambini», replicò Rhys. «Come la leggenda secondo cui l'Impero Britannico cadrebbe se i corvi abbandonassero la Torre di Londra. L'Impero Britannico è già caduto, e gli inglesi continuano a rimpinzare di cibo quei poveri corvi. Li fanno ingrassare come tacchini.» «Si dice anche che quando i demi-fey vanno altrove, Faerie li segue», disse Doyle. «Questo che significa?» volle sapere Rhys. «Mio padre diceva che i demi-fey sono strettamente legati alla struttura di Faerie, la materia che ci rende diversi dagli umani. Nei demi-fey c'è più magia che nel resto di noi. Non possono essere esiliati da Faerie, perché portano Faerie con sé ovunque vadano.» Galen stava appoggiato al tavolo da lavoro del cucinotto, con le braccia conserte sul petto. Si era tolto il grembiulino vezzoso, forse perché aveva capito che mi metteva in imbarazzo. In effetti, il suo petto nudo non era seducente come appariva attraverso quella stoffa sottile orlata di pizzo; poco prima, mentre lo guardavo, non ero riuscita a concentrarmi sul cibo. La seconda volta che non ero riuscita a trovarmi la bocca con una cucchiaiata di stufato, Doyle aveva seguito la direzione del mio sguardo e chiesto a Galen di togliersi quel grembiule. «Questo però non vale per le altre razze di piccoli fey», sentenziò Galen. «La regola anzi è: più piccoli sono i fey, più sono dipendenti da Faerie, e più è probabile che allontanandosi da Faerie muoiano. Mio padre era un pixie, perciò so di cosa parlo.» «Un pixie piccolo o grosso?» domandò Rhys. Galen sorrise. «Abbastanza grosso.» «Ci sono diverse razze di pixie», intervenne Frost, ignorando quelle battute di spirito, forse perché non le aveva capite.
Amavo Frost, ma il senso dell'umorismo non era la sua specialità. Naturalmente una ragazza non ha sempre bisogno di ridere. «Non ho mai conosciuto un pixie che non appartenesse alla Corte Seelie», disse Rhys. «Hai saputo perché tuo padre fu condannato all'esilio da Taranis e dalla sua combriccola?» «Soltanto tu sei capace di parlare della Corte Seelie come di una combriccola», osservò Doyle. Rhys scrollò le spalle con un sogghigno. «Allora, cosa aveva fatto tuo padre?» Il sorriso lasciò il viso di Galen, ma poi tornò. «Mio zio mi raccontò che mio padre aveva sedotto una delle concubine del re.» Il sorriso sparì definitivamente. Galen non aveva mai conosciuto suo padre, perché questi aveva ripetuto l'impresa con una delle dame di compagnia di Andais, e la regina l'aveva condannato a morte. Non gli avrebbe mai sentenziato la pena capitale, se avesse saputo che la dama era incinta; anzi, il pixie sarebbe stato accolto tra i nobili cortigiani e avrebbe potuto sposare la sidhe da lui sedotta. Era già accaduto con coppie miste ancora più improbabili. Purtroppo però il temperamento di Andais l'aveva indotta a emettere la sentenza troppo in fretta, e Galen era rimasto orfano ancora prima di nascere. Se Rhys fosse stato umano, avrebbe chiesto scusa per aver intavolato un argomento così doloroso per uno dei presenti; ma lì non c'erano umani, e noi non trovavamo indelicato discuterne. Se la cosa avesse fatto soffrire Galen, lui l'avrebbe detto e noi saremmo passati ad altro. Ma aveva accettato di parlarne, così non c'era problema. «Tratta Niceven da regina, da pari a pari», si raccomandò Doyle. «Questo la lusingherà, e la indurrà a sbilanciarsi.» «È una demi-fey, non può aspettarsi di essere trattata con deferenza da una principessa sidhe», grugnì Frost. Quell'idea era bastata a farlo accigliare con insolita severità. «La mia bisnonna era una brownie, Frost», ricordai. Avevo parlato con voce mielata, per fargli capire che volevo ammorbidirlo. Lui invece non la prese bene. Tuttavia, per quanto potesse sembrare tetragono negli atteggiamenti, sapevo che era una delle guardie più sensibili. «Una brownie è un membro utile di Faerie», replicò. «Quella razza ha una storia lunga e rispettabile. I demi-fey sono dei parassiti. Galen ha detto bene: sono animali.» Mi chiedevo cos'altro avrebbe detto Frost su quell'argomento. Quali altre razze di Faerie avrebbe denigrato?
«In Faerie non c'è nulla d'inutile», dichiarò Doyle. «Tutto ha il suo posto e il suo scopo.» «E qual è lo scopo dei demi-fey?» ribatté Frost. «Credo che siano l'essenza di Faerie. Se dovessero andarsene, l'intera Corte Unseelie comincerebbe a svanire più in fretta di quanto non stia già succedendo.» Assentii e mi alzai, per mettere nel lavandino anche il mio piatto. «Questa era anche la convinzione di mio padre, e non ho ancora trovato conferma che avesse idee sbagliate.» «Essus era un saggio», annuì Doyle. «Sì», mormorai. «Lo era.» Galen mi prese il piatto di mano. «Ci penso io.» «Tu hai preparato la cena. Non devi anche fare i piatti.» «Per il momento non sono utile in molte altre cose.» Nel dirlo fece un sorriso, che però non raggiunse gli occhi. Gli lasciai prendere il piatto per potergli accarezzare il viso. «Farò quello che posso, Galen.» «È proprio quello che temo», replicò. «Non voglio che tu sia in debito con Niceven, non per me. Non è una buona ragione per dovere un favore a quella creatura.» Mi voltai verso il soggiorno. «Perché la chiami creatura? Non mi sembra che la reputazione dei demi-fey fosse così brutta, l'ultima volta che sono stata a Corte.» «I cortigiani di Niceven sono diventati una banda di torturatori al servizio della regina, o di Cel. E non si può pretendere di essere rispettati, se si diventa una minaccia.» «Non capisco. Quale minaccia? Tutti avete sempre detto che i demi-fey non sono una minaccia.» «Io non l'ho mai detto», obiettò Doyle. «Ma quello che i demi-fey hanno fatto a Galen non era una cosa nuova, benché con lui siano stati più... feroci. In altre occasioni li ho visti versare meno sangue.» Galen stava sciacquando i piatti; poi li metteva nella lavastoviglie. Sembrava fare più rumore del necessario, come se non volesse più ascoltare la nostra conversazione. «Sai che attraversare la strada della regina significa essere mandati nell'Anticamera della Mortalità, per essere torturati da Ezekial e dai suoi sgherri», disse Doyle. «Sì.»
«Ultimamente Andais ha cominciato a minacciare i cortigiani di consegnarli ai demi-fey. In effetti la Corte di Niceven, che un tempo era una delle Corti di Faerie, con tutti i suoi cerimoniali e le formalità, oggi è ridotta a un'altra banda di esseri equivoci che vengono fatti uscire dalla loro tana e mandati a tormentare gli altri.» «Gli sluagh non sono semplicemente 'esseri equivoci'», replicai. «Hanno una Corte, e le loro usanze. Per un migliaio di anni sono stati una delle più grandi forze deterrenti a disposizione degli Unseelie.» «Molto più di un migliaio di anni», mi corresse Doyle. «Ma hanno mantenuto la loro pericolosità, le loro usanze, il loro potere.» «Gli sluagh sono ciò che resta dell'originale Corte Unseelie. Loro erano Unseelie prima che esistesse questa parola. Non sono stati loro a unirsi a noi, ma noi a unirci a loro. Anche se oggi sono assai pochi quelli tra noi che lo ricordano, o che sono disposti ad ammettere di ricordarlo.» «Do ragione a quelli che affermano che gli sluagh sono l'essenza della Corte Unseelie, e che se andassero via noi svaniremmo», intervenne Frost. «Sono loro, non i demi-fey, a detenere il nostro potere primordiale.» «Nessuno lo sa per certo», osservò Doyle. «E non credo che la regina voglia rischiare di scoprirlo», disse Rhys. Doyle annuì. «Neppure io.» «Questo significa che i demi-fey sono in una posizione simile a quella degli sluagh», sospirai. Doyle mi guardò. «Spiegati.» L'improvviso peso di quello sguardo oscuro avrebbe potuto farmi agitare, a disagio, ma resistetti. Non ero più una bambina, da lasciarmi intimidire dall'uomo alto e nero che spaventava gli avversari di mia zia. «La regina farebbe qualsiasi cosa per tenere dalla sua parte gli sluagh, pronti a muoversi ai suoi ordini. Ma non si può dire lo stesso per i demi-fey? Se lei teme che perderli renderebbe il declino degli Unseelie più rapido di quanto già sia, non farebbe di tutto pur di tenere anche loro alla sua Corte?» Doyle mi fissò a lungo, e alla fine annuì. «Forse.» Si piegò verso di me, posando le mani sul tavolo quasi sparecchiato. «Galen e Frost dicono bene su una cosa. Niceven non reagisce come una sidhe. È abituata a seguire i comandi di un'altra regina, e quindi a cedere la sua autorità reale a una sidhe. Dobbiamo fare in modo che lei ti veda sotto questo aspetto, Meredith.» «In che senso?» «Bisogna ricordarle in ogni modo che sei l'erede di Andais.»
«Ancora non capisco.» «Quando Cel contatta i demi-fey, lo fa come figlio di sua madre. Le sue richieste sono solitamente sanguinarie quanto quelle di lei, o peggio. Ma tu intendi chiederle aiuto, per guarire una persona. Questo ti mette in una posizione di debolezza, perché stai chiedendo un favore a Niceven e non puoi offrirle in cambio molto potere.» «Va bene, questo lo capisco. Ma cosa possiamo farci?» «Fatti vedere a letto coi tuoi uomini. Ammucchiali intorno a te per fare più effetto, come farebbe la regina. È un modo di mostrarle il tuo potere, perché Niceven invidia Andais per la sua disponibilità di uomini.» «Niceven non può amare i demi-fey che preferisce?» «No. Ha avuto tre figli da un solo marito, che è il suo re. Non può liberarsi di lui.» «Non sapevo che Niceven avesse un re», disse Rhys. «Lo sanno in pochi. È re solo di nome.» Benché le nostre fossero chiacchiere superficiali, quel concetto aveva qualcosa d'inquietante. Portarmi a letto le mie guardie era piacevole, ma essere costretta a sposare una di loro soltanto perché mi aveva messa incinta... E se il padre di mio figlio fosse stato uno che non rispettavo? Il pensiero di Nicca legato a me per sempre mi spaventava. Era bello e gentile, ma nelle vesti di re non avrebbe avuto l'energia e la capacità di aiutarmi molto. Il suo carattere poteva portarlo a essere una vittima, più che un sostegno. Ciò mi fece venire un altro pensiero. «Nicca sta lavorando come guardia del corpo?» chiesi. «Sì», rispose Doyle. «Ha rimpiazzato Frost.» «E la nostra cliente come l'ha presa, questa sostituzione?» Doyle guardò Frost, che scrollò le spalle. «Non si può dire che sia in pericolo. Vuole solo avere accanto un guerriero sidhe perché tutti vedano che è una star. Un guerriero sidhe o l'altro fa lo stesso, per i suoi scopi.» «Che genere di messinscena dobbiamo organizzare per Niceven?» «Quella che ti sembra più teatrale», rispose lui. Inarcai le sopracciglia e cercai d'immaginarla. «Non includermi nello show», disse Galen. «Non voglio vedere quella creatura, neppure da lontano.» Aveva caricato e acceso la lavastoviglie, e il rumore della macchina lo accompagnò mentre tornava a sedersi al tavolo. Evidentemente voleva aiutarci a preparare lo spettacolino, pur non essendo disposto a partecipare. «Non è facile. Tu e Rhys siete i soli di questo gruppo cui non dà fastidio
fare sesso in pubblico. Frost e Doyle sono molto schivi in certe cose, davanti agli estranei.» «Per questa sera, mi offro volontario», annunciò la Tenebra. Frost lo guardò. «Vuoi dare spettacolo di fronte ai demi-fey?» Aveva un'aria incredula. Doyle si strinse nelle spalle. «Sembra che sia necessario.» «Io posso stare sul letto, com'è già accaduto durante alcune chiamate della nostra regina, ma non intendo dare uno spettacolo indecente. Non per Niceven.» «Questo sta a te. Ma se non vuoi recitare la parte dell'amante di Meredith, come in effetti sei, almeno non rovinare il nostro show. Forse sarebbe meglio che tu aspettassi in soggiorno, mentre parliamo coi demi-fey.» Frost strinse i suoi occhi grigi. «Oggi mi hai già tenuto in disparte, mentre aiutavi Meredith. Lo hai fatto per due volte. Ora mi suggerisci di non farmi vedere sul letto mentre tu reciti la parte del suo amante. E poi, Tenebra? Mi chiederai di prendere il mio posto a letto con lei, stanotte, quando sarà il momento di fare sul serio e non per finta?» «Sarebbe mio diritto farlo.» Fissai Doyle. La sua faccia era impassibile, neutra. Aveva appena detto che voleva venire a letto con me quella notte, o stava solo provocando Frost? Quest'ultimo si alzò, incombendo sul tavolo. Doyle rimase seduto e lo osservò con calma. «Credo che dovrebbe essere Meredith a decidere chi andrà a letto con lei questa notte», disse Frost. «Non siamo qui perché Meredith si diverta a scegliere», replicò la Tenebra. «Siamo qui per darle un figlio. Voi tre avete avuto tre mesi per provarci, e lei non è ancora incinta. Volete forse negarle la possibilità di avere un figlio - e di essere regina - sapendo che sarà Cel il re, se fosse lui ad avere per primo un erede, e che vorrà vederci morti tutti quanti?» Sulla faccia di Frost s'inseguirono troppe emozioni perché potessi seguirle. Alla fine chinò il capo. «Non vorrei mai che succedesse qualcosa di male a Meredith.» Allungai una mano e gliela appoggiai su una spalla. Quel tocco lo fece voltare verso di me. I suoi occhi erano colmi di sofferenza, e compresi che era geloso. Per quanto io ci tenessi all'affetto che ci univa, non aveva nessun diritto di essere geloso di me in quel modo. Non ancora. E nello stesso momento mi accorsi con stupore che il pensiero di non averlo più tra le mie braccia faceva soffrire anche me. Non ero in grado di affrontare quel
senso di perdita, così come non sapevo affrontare la sua gelosia. «Frost...» cominciai. Non sapevo bene cosa avrei detto, ma proprio allora dalla camera da letto provenne un tintinnio di campanelle, che subito divenne acuto e insistente. Quel rumore improvviso mi fece accelerare le pulsazioni, e non in modo piacevole. Tolsi subito la mano dalla spalla di Frost, e restammo lì a guardarci l'un l'altra mentre Galen e Kitto andavano in camera. «Devo andare, Frost.» Cercai una parola di scusa, ma non seppi dirla. Lui non se l'era meritata, e io non gliela dovevo. «Vengo con te», disse. «Per la mia regina farò quello che non farei per nessun altro.» Lo guardai a occhi spalancati. E seppi che non stava parlando di Andais. 17 Quando Frost e io entrammo in camera, Doyle si era inginocchiato sul copriletto color borgogna e stava parlando allo specchio. «Ti manderò la nostra immagine non appena la principessa sarà con noi, regina Niceven.» Lo specchio era un vortice di nebbia. Salii sul letto e mi piazzai davanti a Doyle, leggermente di lato. Rhys sedette dietro di noi, contro la spalliera, in mezzo a un mucchio di cuscini purpurei, malva, rosa e neri. Non potevo dirlo per certo, ma sembrava nudo, a parte pochi cuscini ben disposti. Non avevo idea di come avesse fatto a spogliarsi così in fretta. Frost prese posizione alle mie spalle, ma semidisteso da un lato, cosicché io venni a trovarmi tra lui e Doyle. Doyle eseguì qualche gesto di comando con le mani, e la nebbia si dissolse. Niceven sedeva su un delicato trono di legno, sagomato in modo che le sue ali riposassero oltre lo schienale senza danneggiarsi. La sua faccia era un delicato triangolo di pelle bianca, ma quel biancore non aveva nulla in comune col mio o con quello di Frost o di Rhys. La sua epidermide era in realtà di un grigiore cadaverico, e bianco-grigiastri erano anche i capelli elaboratamente arricciolati come quelli di un'antica bambola; a tenerli scostati dal viso aveva una sottile corona, pervasa dal freddo scintillio che solo i diamanti potevano dare. La sua gonna era bianca, vaporosa; la larghezza di quell'abito avrebbe dovuto nasconderle del tutto il corpo, ma la trasparenza era tale che lasciava vedere i piccoli seni appuntiti, la magrezza scheletrica delle costole e le sottili gambe accavallate. Indossava mutande che sembravano fatte con petali di fiori. Presso il suo trono stava accovac-
ciato un topo bianco, che rispetto alle dimensioni di lei era grosso come lo sarebbe stato un pastore tedesco accanto a me. Niceven gli accarezzava il pelo tra le orecchie. Alle sue spalle era in piedi un trio di dame di compagnia, ciascuna abbigliata con vesti dal diverso colore e intonate alle loro ali sgargianti, rispettivamente: rosa e rosso, giallo-narciso e rosso-iris. I loro capelli erano neri, biondi e castani. Niceven sembrava essersi data da fare molto più di noi per confezionare quella piccola scena. Io mi sentivo piuttosto ordinaria con la mia gonna e blusa verde, ma non m'importava molto. Dopotutto era un colloquio di lavoro. «Regina Niceven, è gentile da parte tua rispondere alla nostra chiamata.» «A dire il vero, principessa Meredith, in questi tre mesi mi aspettavo che tu chiamassi. Il tuo affetto per il cavaliere verde è ben noto a Corte. Mi sorprende che tu abbia tardato tanto a metterti in contatto con me.» Era molto formale. E dovetti notare che non era formale soltanto il suo eloquio. Lei portava la sua corona; io non avevo una corona, non ancora. Lei sedeva sul suo trono, io in mezzo a un letto non troppo ordinato. Lei aveva le sue dame di compagnia schierate intorno come un silenzioso coro greco; e il topo, non bisognava trascurare il topo. Io avevo soltanto Doyle e Frost ai lati, e Rhys tra i cuscini dietro di me. Niceven stava cercando di mettermi in svantaggio, ma era una partita tutta da giocare. «In verità abbiamo cercato l'aiuto di curatori qui, nel mondo dei mortali. Solo di recente ci è venuto da pensare che sarebbe stato opportuno mettersi in contatto con te.» «Una testardaggine poco conveniente la tua, principessa.» «Forse. Ma tu sai perché ho chiamato, e cosa desidero.» «Non sono una buona fatina che realizza i desideri, Meredith», replicò lei ignorando il mio titolo, un insulto deliberato. Bene, potevo togliermi i guanti anch'io. «Se così ti piace dire, Niceven. Allora sai cosa voglio.» «Vuoi una cura per il tuo cavaliere verde», disse lei, accarezzando con una mano il muso rosa del suo topo. «Proprio così.» «Il principe Cel ha insistito molto che Galen si tenesse le sue ferite.» «Come ben sai, il principe Cel non governa più la Corte Unseelie.» «Questo è vero. Ma non è certo che tu vivrai abbastanza da diventare regina, Meredith.» Anche stavolta aveva sorvolato sul mio titolo.
Doyle si mosse, scostandosi da Rhys, e restò in piedi al bordo del letto senza però uscire dal limite della mia visuale e di quella della regina. Come se i due avessero progettato quella mossa, Rhys si alzò dai cuscini e mostrò senza equivoci di essere nudo. Sollevò la lunga treccia di capelli di Doyle e cominciò a slacciare il nodo che la teneva ferma. Gli occhi di Niceven seguirono quel movimento, poi tornarono su di me. «Cosa stanno facendo?» «Si preparano ad andare a letto», dissi, benché non ne fossi sicura al cento per cento. Le delicate sopracciglia grigie di Niceven si aggrondarono. «Sono le ore... le ventuno, nella zona dove vi trovate. La notte è troppo giovane per sprecarla andando a dormire adesso.» «Non ho detto che andiamo a dormire», precisai, con voce piatta. Lei fece un respiro così profondo che potei vedere gonfiarsi il suo magro torace. Cercò di concentrarsi su di me, ma il suo sguardo continuava a tornare sugli uomini. Rhys stava disfacendo la treccia di Doyle. Io avevo visto Doyle coi capelli sciolti soltanto una volta; li ricordavo come un mantello nero che avvolgeva il suo corpo, simile a una cosa viva. Niceven li osservava furtivamente, come se le costasse fatica ricordare la mia presenza. Non avrei saputo dire se a interessarla fossero i capelli di Doyle o la nudità di Rhys. Della nudità dubitavo, perché a Corte non era affatto insolita. D'altra parte forse stava guardando gli addominali scolpiti di Rhys, o ciò che si trovava più in basso. Frost si raddrizzò, si tolse la giacca e cominciò a sfilarsi la fondina a spalla. Gli occhi di lei lo studiavano, intenti. «Niceven», dissi. Dovetti ripetere il suo nome due volte prima che mi guardasse. «Come posso fare per curare Galen?» «Non è certo che tu diventerai regina. Se fosse il principe Cel a salire al trono, conosceremmo la sua ira per averti aiutato.» «E se diventassi regina io, conoscereste la mia.» Sorrise. «Dunque bisogna trovare una strada tra i due cani che lottano. Io ti aiuterò oggi, perché in passato ho aiutato Cel. Così la situazione andrà in pareggio.» Ripensai alle grida di Galen, e al dolore che gli avevo visto negli occhi in quegli ultimi mesi, e mi dissi che risanarlo non sarebbe bastato a far tornare le cose in pareggio. Ma quella era politica di Faerie, non terapia, così tacqui. Il silenzio non è una menzogna; un peccato di omissione, ma non una menzogna. La nostra cultura ci consente di omettere, finché uno ci rie-
sce. «Come si può curare Galen?» domandai. Niceven scosse il capo, facendo oscillare i riccioli e scintillare i diamanti della corona. «No, prima parliamo del prezzo. Cosa mi puoi dare per avere il tuo cavaliere verde risanato?» Frost e Doyle mi vennero accanto. «Avrai la benevolenza della regina degli Unseelie, e questo dovrebbe essere sufficiente», disse Frost, con voce fredda come il suo nome. «Lei non è ancora regina, Gelo Assassino.» La voce di Niceven era piena di ostilità e di rabbia; aveva il sapore di un vecchio conto in sospeso. C'era qualcosa di personale tra i due? Vidi Doyle sul punto di muoversi e lo fermai con un'occhiata. Quella sera tra lui e Frost c'era tensione. Farci vedere mentre litigavamo tra noi non ci avrebbe giovato. Doyle rimase accanto a me, limitandosi a guardare Frost. Non era uno sguardo amichevole. Toccai una spalla di Frost, stringendo piano. Lui ebbe uno scatto e s'irrigidì, voltandosi a fissare la Tenebra. Poi vide che ero stata io a toccarlo e si rilassò, lentamente. Nel girarmi verso lo specchio, vidi che Niceven mi scrutava con espressione astuta. Mi aspettavo che dicesse qualcosa, ma tacque. Stava aspettando che tornassi agli affari. «Cosa vuole la regina Niceven dei demi-fey dalla principessa Meredith della Corte Unseelie, in cambio della cura per il suo cavaliere?» Avevo volutamente usato i nostri titoli nella stessa frase per sottolineare che sapevo che lei era regina e io no. Speravo che questo le facesse dimenticare l'intervento di Frost. Mi guardò per qualche secondo, poi fece un breve cenno di assenso. «Cosa vuole offrirci la principessa Meredith della Corte Unseelie?» «Una volta hai detto che daresti molto per un lungo sorso del mio sangue.» Apparve sorpresa, prima di ricomporre il viso in un'espressione illeggibile. «Il sangue è sangue, principessa. Perché dovrebbe importarmi del tuo?» Bene. Stava contrattando. «Hai detto che sapevo di magia e di sesso. O mi hai dimenticato così in fretta, regina Niceven?» Mi mostrai contrita, a occhi bassi. «Significava così poco per te?» Scossi il capo, e i capelli lunghi fino alle spalle mi ricaddero davanti al viso. La guardai attraverso quella cortina di riflessi luminosi color rubino. «Se il sangue dell'erede al trono
non significa niente per te, allora non ho niente da offrirti.» Lasciai che mi vedesse gli occhi, sapendo l'effetto che avevano le mie iridi tricolori oltre un sipario di capelli rossi come il sangue, uniti alla pelle di candido alabastro. Ero cresciuta tra creature abituate a usare la loro bellezza come un'arma. Non avrei mai osato fare lo stesso con un altro sidhe, perché erano tutti più belli di me, ma con Niceven, i cui occhi affamati fissavano i miei uomini, potevo usare ogni espediente per fare breccia nella sua fantasia. Niceven abbatté una mano su un bracciolo del trono, con un colpo che fece sobbalzare il topo bianco. «Per Flora, sei dello stesso sangue di tua zia. Il principe Cel non ha mai padroneggiato la bellezza come lei sa fare, e come fai tu.» Le rivolsi un inchino col capo, poiché non è mai facile inchinarsi stando seduti. «Un complimento grazioso da una regina amabile.» Lei fece le fusa, sorridendo e accarezzando il topo, appoggiata all'indietro in una posa che mostrava meglio il suo corpo attraverso l'abito. Più che magra era cadaverica, e dava l'impressione di essere sul punto di morire di fame. Ma pensava di avere un bel corpo, e io non potevo disilluderla con la mia espressione. Dietro di me Frost era immobile. Si era tolto la giacca, la cintura e la fondina, ma nient'altro; aveva ancora perfino le scarpe. Non intendeva spogliarsi per Niceven. Doyle invece si era tolto la fondina e la camicia. L'anello d'argento fissato al suo capezzolo sinistro rifletteva la luce, e Niceven poteva vederlo anche di profilo. Rhys aveva preso una spazzola e lavorava sui lisci capelli neri del collega come se stesse stirando una sciarpa. I tre uomini si mossero intorno a me, preparandosi ad andare a letto. Poi mi lasciarono sola con Niceven. Questo significava che non avevano altro da offrirmi, e che avrei dovuto spremermi le meningi. Buono a sapersi. Feci lampeggiare un sorriso curvando le labbra. «Un sorso del mio sangue per curare il mio cavaliere. Sei d'accordo?» «Tu cedi molto alla leggera il liquido della vita, principessa.» Si stava facendo cauta. «Offro solo ciò che mi appartiene.» «Il principe pensa di essere il padrone della Corte.» «Io so di essere padrona solo del corpo in cui abito. Tutto il resto è presunzione.» La regina rise. «Tornerai in patria, affinché io possa nutrirmi?»
«Sei d'accordo che nutrirti di me un'altra volta sia il prezzo per la cura del mio cavaliere?» Annuì. «Sono d'accordo.» «E cosa daresti per poterti nutrire una volta alla settimana?» L'atmosfera della camera si fece improvvisamente tesa. Sentii gli uomini accanto a me irrigidirsi e prestai attenzione a non guardarli. Ero una principessa, e non dovevo chiedere il permesso delle mie guardie. O avevo autorità, o non l'avevo. Gli occhi di Niceven si strinsero in due pallide fiammelle. «Cosa significa, potermi nutrire una volta alla settimana?» «Significa esattamente ciò che ho detto.» «Perché dovresti volermi offrire il tuo sangue una volta alla settimana?» «Per un'alleanza tra noi.» Frost si spostò verso di me, sul letto. «Meredith, no...» Stava per dire qualcosa di sbagliato e rovinare tutto. Io ebbi il barlume di un'idea, e mi parve buona. «No, Frost», dissi. «Non devi dirmi di no. Sono io quella che dice sì o no. Non dimenticarlo.» Gli diedi un'occhiata che sperai capisse, il cui significato era: Chiudi quella dannata bocca, e non rompermi le uova nel paniere. Lui strinse le labbra in una linea sottile, ovviamente contrariato, ma rimase lì a rimuginare. L'importante era che stesse zitto. Sentii Doyle espellere il fiato con forza e girai appena gli occhi verso di lui. Quello sguardo bastò. Mi rivolse un impercettibile assenso, e lasciò che Rhys continuasse a spazzolargli i lunghi capelli. C'era un'ondulazione in quella chioma nera, notai, forse perché era stata ritorta in una treccia, e per un momento la vista di Rhys, così pallido e chiaro accanto a tutta quella tenebra, mi distrasse. Fu Doyle a farmi tornare coi piedi per terra schiarendosi la gola, e mi voltai di nuovo verso lo specchio. Niceven rise, con quella sua vocetta sottile da campanella stonata, come se avesse visto qualcuno cadere e farsi male. «Scusami per la distrazione, regina Niceven.» «Se fossi attesa da compagni di letto come i tuoi, non allungherei oltre questa conversazione.» «E se tu fossi attesa dal mio sangue ogni settimana? Ti piacerebbe?» Lei tornò seria. «Sei insistente. Non è da fey.» «Sono in parte brownie, e noi siamo più insistenti dei sidhe.» «Sei anche in parte umana.» Sorrisi. «Gli umani sono come i sidhe in questo; alcuni sono più insi-
stenti di altri.» Non mi restituì il sorriso. «Per un altro sorso del tuo sangue io curerò il cavaliere verde, ma nulla di più. Un sorso, una cura, e avremo chiuso.» «Per un sorso del mio sangue, re Kurag dei goblin è diventato mio alleato per sei mesi.» Le sue delicate sopracciglia s'inarcarono. «Questi sono affari che riguardano i goblin e i sidhe, non noi. Noi siamo demi-fey. A nessuno importa con chi ci alleiamo. Non combattiamo guerre, non sfidiamo a duello. Noi facciamo gli affari nostri, e gli altri fanno i loro.» «Allora rifiuti un'alleanza?» «Penso che la cautela sia l'unica cosa che c'interessa qui, principessa, per quanto tu possa essere saporita.» Nei negoziati vengono prima le buone maniere, ma se queste non funzionano ci sono altre opzioni. «Tutti vi lasciano in disparte, regina Niceven, perché vi giudicano troppo piccoli per preoccuparsi di voi.» «Il principe Cel ci giudicava abbastanza grossi per rovinare i tuoi piani col cavaliere verde.» Nella voce di lei cominciava a udirsi un po' di rabbia. «Sì, e cosa vi ha offerto per fare quel lavoro?» «Il sapore della carne sidhe, la carne del cavaliere, e il suo sangue. Quella sera abbiamo banchettato, principessa.» «Vi ha pagato col sangue di un altro, quando il suo corpo era pieno di sangue appena un po' meno nobile di quello della regina Andais. Voi non avete mai assaggiato Andais, vero?» Niceven apparve innervosita, quasi spaventata. «La regina ha contatti solo coi suoi amanti, o i suoi prigionieri.» «Quanto deve irritarti vedere sprecato un dono così prezioso.» Contrasse in un broncio le piccole labbra argentee. «Se solo lei volesse prendere nel suo letto qualcuno della mia gente. Ma noi siamo...» «Troppo piccoli», finii io per lei. «Sì», sibilò. «Sì, sempre troppo piccoli. Un potere troppo piccolo per meritare un'alleanza. Un potere troppo piccolo per essere usati da lei, fuorché come sue spie.» Le sue minuscole mani si strinsero a pugno. Il topo bianco si acquattò come se sapesse cosa stava per arrivare. Anche il terzetto di dame dietro il suo trono tremò, come a una raffica di vento gelido. «E ora fate il lavoro sporco per suo figlio», dissi. La mia voce era accuratamente neutra, quasi compiaciuta. «Se non altro lui ci ha cercati per fare il suo lavoro.» La rabbia, in quella figura così minuta e delicata, aveva qualcosa di spaventoso. Era una rabbia
che sembrava farle occupare più spazio, anche se non in senso fisico. E in quella rabbia appariva perfino più regale. «Io ti sto offrendo ciò che la regina non ti offrirebbe mai. Ti sto offrendo ciò che il principe non ti offrirebbe mai.» «E cosa sarebbe?» «Sangue reale. Vero sangue dei regnanti della Corte Unseelie. Alleati con me, regina Niceven, e avrai quel sangue. Non una sola volta, ma molte volte.» I suoi occhi diventarono sottili come fessure, pieni di un fuoco freddo come i diamanti della sua corona. «Cosa ci guadagneremo, tu e io, da una simile alleanza?» «Tu avresti il consiglio e l'aiuto degli altri miei alleati.» «I goblin hanno poco a che fare con noi.» «E i sidhe?» «Quali di loro?» «Come alleata a un'erede al trono, guadagneresti in rango. Nessuno potrebbe più farti delle prepotenze, per timore che tu venga da me a chiedere il mio aiuto.» Mi teneva puntati addosso i suoi occhietti scintillanti. «E tu cosa guadagneresti da questa alleanza?» «Fareste la spia per me, come ora la fate per la regina.» «E Cel?» «Non fareste più nulla per lui.» «Questo non gli piacerebbe.» «Non è necessario che gli piaccia. Se sarai mia alleata, offendere te sarà come offendere me. La regina ha decretato che io sono sotto la sua protezione. Farmi del male, ora, significa ricevere una condanna a morte.» «Così lui mi offende e tu intervieni. E poi?» «Minacci di portare la tua intera Corte qui a Los Angeles, da me.» Niceven fremette. «Non desidero portare la mia gente nella città degli uomini.» Lo aveva detto come se ci fosse una sola città degli uomini, la città. «Potreste vivere nel giardino botanico, acri di terra aperta. Qui c'è spazio per voi, Niceven, te lo giuro.» «Ma io non voglio lasciare la Corte.» «Ovunque i demi-fey vanno, Faerie li segue.» «La maggior parte dei sidhe questo l'ha dimenticato.» «Mio padre si è assicurato che io conoscessi la storia di tutti i fey. I de-
mi-fey sono i più stretti alleati della materia che è Faerie, il vero elemento che ci rende diversi dagli umani. Tu non sei un leprecauno o un pixie, che avvizziscono e muoiono lontano da Faerie. Tu sei Faerie. Non è forse stato detto che, quando svanirà l'ultimo demi-fey, non ci sarà più Faerie?» «Una superstizione», replicò lei. «Forse. Ma se voi lasciaste la Corte Unseelie, e la Corte Seelie tenesse i suoi demi-fey, gli Unseelie sarebbero indeboliti. Cel non ricorda le nostre tradizioni, ma la regina sì. Se Cel vi offendesse al punto d'indurvi a fare i bagagli e andarvene, la regina interverrebbe.» «Ci ordinerebbe di restare.» «Non può ordinare a un'altra regina di fare niente. Questa è la nostra legge.» Niceven sembrava nervosa. Temeva Andais. Tutti la temevano. «Non voglio irritare la regina.» «Neppure io.» «E credi davvero che la regina punirebbe suo figlio, se lui ci facesse andare via, invece di rovesciare la sua rabbia su di noi?» Aveva di nuovo accavallato le gambe e incrociò le braccia sul petto, dimentica di flirtare e dimentica di essere regale, nella sua paura. «Dov'è Cel, adesso?» le domandai. Ridacchiò; una piccola risata spiacevole. «In punizione per sei mesi. Si fanno scommesse sul fatto che non resterà sano di mente dopo sei mesi d'isolamento e di sconforto.» Scrollai le spalle. «Avrebbe dovuto pensarci prima di diventare una persona così malvagia.» «Tu sei baldanzosa, ma se Cel uscirà pazzo sarà il tuo nome quello che griderà. Sarà la tua faccia quella che vorrà rompere.» «Attraverserò il ponte quando ci arriverò.» «Cosa?» «È un modo di dire umano. Significa che mi occuperò del problema se e quando si presenterà.» Niceven sembrò pensarci con molta attenzione, poi chiese: «Come mi offrirai il tuo sangue? Non credo che noi due potremmo andare avanti e indietro ogni settimana tra Faerie e il mare occidentale». «Potrei inzupparne un pezzo di pane, e mandarne l'essenza a te con un incantesimo.» Scosse il capo, facendo ondeggiare i riccioli intorno alle spalle. «L'essenza non è la stessa cosa.»
«Tu cosa suggerisci?» «Se ti mandassi uno della mia gente, lui potrebbe agire come mio sostituto.» Ci pensai un momento. Sentivo accanto a me la tesa immobilità di Frost, e il rumore quasi rabbioso della spazzola che Rhys passava sui capelli di Doyle. «D'accordo. Dimmi qual è la cura per il mio cavaliere, e manda il tuo sostituto.» Lei rise, in un tintinnio di campanelle stonate. «No, principessa. Conoscerai la cura dalla bocca del mio sostituto. Se te la dessi ora, prima di essere pagata, potresti ripensarci.» «Ti ho dato la mia parola. Non posso ritirarla.» «Ho trattato per troppo tempo coi grandi di Faerie per credere che tutti mantengano la loro parola.» «È una delle nostre leggi più rigide», replicai. «Chi manca di parola viene emarginato.» «A meno che non abbia amici potenti, i quali si assicurano che non si sparga la voce.» «Cosa stai dicendo, regina Niceven?» «Dico solo questo, che la regina ama molto suo figlio, e ha infranto più di un tabù per salvarlo.» Ci guardammo, e seppi senza bisogno di chiederglielo che Cel aveva mancato di parola più di una volta. Ciò sarebbe dovuto bastare per farne un emarginato, e cancellare il suo diritto al trono. Andais aveva già sanzionato con le sue stesse mani la rovina di suo figlio, ma non mi ero mai resa conto fino a che punto. «Quando arriverà il tuo sostituto?» domandai. Niceven sembrò pensarci un poco, allungando una mano verso il topo. L'animale si affrettò ad avvicinarsi di nuovo, con le lunghe vibrisse che fremevano e le orecchie protese, come se non fosse sicuro che sarebbe stato trattato bene. Lei lo accarezzò dolcemente. «Tra pochi giorni.» «Non siamo sempre in casa per ricevere i visitatori. Mi dispiacerebbe che il tuo inviato non fosse accolto con l'ospitalità che merita.» «Lascia un vaso di fiori davanti alla tua porta, così lui potrà rifocillarsi.» «Lui?» «Credo che un lui ti compiacerà di più, non è vero?» Feci un cenno di assenso, perché non ero sicura che m'importasse. Si trattava di condividere il sangue, non il sesso, perciò non avevo preferenze, o almeno così credevo. «Sono sicura che la regina sarà saggia nella sua
scelta.» «Parole cortesi, principessa. Resta da vedere se avrai azioni cortesi da far seguire a queste parole.» I suoi occhi saettarono su di noi, fermandosi su Doyle e Rhys. «Sogni piacevoli, principessa.» «Anche a te, regina Niceven.» Un'emozione cupa la fece aggrondare, a occhi stretti, indurendole la faccia come una maschera. Se avesse alzato le mani per togliersela, non me ne sarei stupita. Ma non lo fece. Parlò con voce crepitante come scaglie di pesce sulla pietra. «I miei sogni sono fatti miei, principessa, e non li rivelo a nessuno.» Le rivolsi un altro mezzo inchino. «Non volevo offenderti.» «Nessuna offesa, principessa, è solo la mera invidia che alza la sua spiacevole testa.» Dopo quelle parole, lo specchio tornò una semplice lastra di vetro. Rimasi seduta a guardare la mia immagine riflessa. Un movimento mi fece spostare gli occhi su Rhys e Doyle, ancora inginocchiati dietro di me. I muscoli delle braccia di Rhys si contraevano mentre spazzolava i capelli di Doyle. Immobile, Frost mi fissava nello specchio con espressione così dura che dovetti voltarmi. Gli altri due sembravano badare solo a ciò che facevano. «Niceven ha chiuso la comunicazione. Potete smetterla di recitare», dissi. «Non ho ancora finito di spazzolare bene questi capelli», replicò Rhys. «È per questo che ho rinunciato a farmeli crescere sino ai fianchi. Prendersene cura da soli è quasi impossibile.» Separò una nuova ciocca di capelli, la sollevò e cominciò a spazzolarla con l'altra mano. Doyle mantenne il silenzio, mentre l'altro si occupava dei suoi capelli con la serietà e la concentrazione di un bambino. In Rhys non c'era però nulla di bambinesco mentre sedeva lì nudo, circondato da un mare di capelli neri e di cuscini multicolori. Il suo corpo era muscoloso, pallido, lucente, bello da guardare. Ma non era in stato di eccitazione; la nudità non significava sesso per i sidhe, non sempre. Un piccolo movimento di Frost mi fece voltare. I suoi occhi avevano lo scuro grigiore del cielo prima della tempesta. Era irritato; lo si vedeva in ogni linea della sua faccia, nella tensione delle spalle, nel modo in cui sedeva cauto e fermo, scintillante di energia. «Scusa se ti ho sconvolto, ma sapevo di dovermi comportare così davanti a Niceven.»
«Hai reso fin troppo chiaro che qui sei tu a comandare, e che io devo limitarmi a ubbidire.» Aveva la voce roca per la rabbia. «Non posso permettermi di apparire debole di fronte a nessuno, in questo momento. Anche Doyle si tiene in bocca la sua opinione, in pubblico, non importa quanto sia contrario.» «Approvo tutto ciò che hai fatto oggi», dichiarò Doyle. «Sono felice di saperlo.» Lui mi diede uno sguardo piatto, rovinato solo dal movimento ritmico impresso alla testa dai colpi di spazzola. È difficile apparire minacciosi mentre si è nelle mani di qualcuno che ci pettina i capelli. Lo fissai con occhi altrettanto vuoti. Ero stanca di quei giochetti. Il fatto che permettessi loro di farli, e li giocassi anch'io piuttosto bene, non significava che li trovassi divertenti. «Per oggi ne ho avuto abbastanza di questi giochi di potere. Non ne sopporterò altri, specialmente dalle mie guardie.» Doyle sbatté le palpebre. «Lascia perdere i miei capelli, Rhys. Meredith e io dobbiamo parlare.» Rhys si fermò, ubbidiente, e ricadde a sedere tra i cuscini, con la spazzola in mano. «In privato», aggiunse la Tenebra. Frost sobbalzò come se fosse stato colpito. Fu la sua reazione, più che le parole di Doyle, a farmi sospettare che ormai stessimo parlando di qualcosa di diverso e più personale. «Questa è la mia notte con Meredith», affermò Frost. La sua rabbia sembrava volata via sulle ali di possibilità che lui non aveva previsto. «Se tu stessi parlando con Rhys potresti chiedergli di aspettare di nuovo il suo turno. Ma io non ho un turno, perciò è mio diritto chiedere di avere questa notte», disse la Tenebra. Frost si alzò, quasi inciampando per la fretta nel poco spazio che c'era ai piedi del letto. «Oggi mi hai trattenuto dall'aiutarla, e ora prendi il mio posto a letto con lei. Se non ti conoscessi, ti accuserei di essere geloso.» «Puoi accusarmi di quello che vuoi, Frost, ma sai bene che non sono geloso.» «Forse sì e forse no. Ma sei qualcosa, e questo qualcosa ha a che fare con Meredith.» Doyle fece un profondo sospiro, con espressione quasi ferita. «Forse ho pensato che facendole aspettare le mie attenzioni sarei apparso più attraente agli occhi della principessa. Oggi ho visto che c'è più di un modo per perdere il favore di una donna.»
«Parla chiaro, Tenebra.» Doyle era in ginocchio, mezzo nudo, con le mani sulle cosce, circondato dal lago dei suoi capelli. Avrebbe dovuto apparire inerme, o femminile, o qualcosa del genere, ma non era così. Aveva l'aria di un essere scolpito nella tenebra, nato dalla materia dello spazio originale ancora prima della luce. L'anello d'argento fissato al capezzolo mandava brevi riflessi, ma quelli che usava come orecchini erano coperti dai capelli, così quello scintillio era l'unica cosa che risaltava in lui. Mi restava difficile distogliere lo sguardo da quel barlume di colore. «Non sono cieco», disse Doyle. «Ho visto come lei ti guardava nel furgone, e anche tu l'hai visto.» «Sei geloso.» Scosse il capo. «No, ma tu hai avuto tre mesi e non c'è nessun figlio. Lei è una principessa, e potrebbe diventare regina. Non può permettersi d'impegnare il suo cuore dove non ci sarà un matrimonio.» «Così arrivi tu e le conquisti il cuore, eh?» La voce di Frost era più accalorata di quanto fosse mai stata su altri argomenti. «No, ma le fornisco una probabilità in più. Se fossi stato più attento a come andava tra voi, mi sarei fatto avanti prima.» «Oh, e tra le sue braccia le farai dimenticare tutto di me, è così?» «Non sono così arrogante, Frost. Te l'ho già detto, c'è più di un modo di perdere l'amore di una donna, e aspettare troppo a lungo è uno di questi. Se c'è qualche possibilità che Meredith non si leghi per sempre a te, o a Galen, allora qualcosa deve succedere subito. Non più tardi, ma subito.» «Cosa c'entra Galen con tutto questo?» domandò Frost. «Se hai bisogno di domandarmelo, non sono il solo a essere cieco», replicò la Tenebra. Frost ebbe un'espressione confusa. Alla fine si accigliò e scosse il capo. «Questo non mi piace.» «Non è necessario che ti piaccia.» Per quanto la conversazione fosse interessante, io ne avevo abbastanza. «State parlando come se non ci fossi, o non avessi niente da dire in merito.» Doyle si girò verso di me, serio in viso. «Hai qualche obiezione che io venga a letto con te stanotte?» mi chiese, con la stessa voce neutra che avrebbe usato al ristorante per ordinare il pranzo, come se la mia risposta lo lasciasse indifferente. Ma sapevo che talvolta usava quella voce neutra quando i suoi sentimen-
ti non erano affatto neutri. Era un modo di prendere le distanze dall'emotività eccessiva: agire come se una cosa non fosse importante. E forse cessava di esserlo. Lo guardai, dalle spalle larghe al petto dove scintillava quel barlume di argento, dagli addominali scolpiti al profilo dei jeans che gli fasciavano la parte inferiore del corpo. Non avevo mai visto Doyle nudo. Mai. Lui non si adeguava allo stile di Corte, dove spesso si esibiva la nudità; neppure Frost l'aveva mai fatto. Guardai Frost. Si era riunito i capelli in una coda di cavallo, e la sua faccia era spoglia e disadorna, se una cosa tanto bella poteva chiamarsi disadorna. Aveva su un braccio la giacca e la fondina, completa di pistola. Si nascondeva ancora dietro quella maschera di arroganza che era abituato a portare a Corte. Il fatto che la portasse anche lì davanti a me, in casa mia, mi fece male. Desideravo accostarmi a lui, stringerlo tra le braccia, appoggiargli una guancia sul petto e dirgli di non andarsene. Desideravo sentire il suo corpo contro il mio. Desideravo svegliarmi nella nuvola dei suoi capelli d'argento. Mi mossi verso di lui, allora, ma non nel modo in cui avrei voluto. Mi avvicinai, ma non mi fidavo di me stessa tanto da toccarlo. Temevo che, se l'avessi fatto, non l'avrei più lasciato andare. «Questa notte, Frost, ho la possibilità di soddisfare quella curiosità che molte dame di Corte, oltre me, hanno avuto.» Si voltò per non dovermi guardare in faccia. «Ti auguro buon divertimento», mormorò, ma non sembrava molto sincero. «Io ti voglio, Frost.» Quelle parole lo fecero voltare verso di me, stupito. «Anche se nel mio letto ci sarà Doyle, continuerò a volerti. Quando tu non sei con me, io soffro. Non l'avevo capito fino a oggi.» Non potevo nascondere quella sofferenza, e alla fine smisi di provarci. Alzò una mano per sfiorarmi una guancia, ma si fermò a qualche centimetro dalla mia pelle. «Se questo è vero, allora Doyle ha ragione. Tu sarai regina. Alcune cose... per te non contano quanto altre. Tu devi essere regina prima di ogni altra cosa.» Appoggiai la faccia contro la sua mano aperta, e anche quel piccolo tocco mi fece fremere. Lui ritrasse la mano e se la sfregò sui pantaloni, come se qualcosa gli fosse rimasto attaccato alla pelle. «Domani notte, principessa.»
Accennai di sì. «Domani notte, mio...» M'interruppi, per paura della parola che avrei potuto usare. Frost si voltò senza dire altro, chiudendo con fermezza la porta dietro di sé. Sentii dei piccoli rumori e mi voltai. Rhys era scivolato sull'altro lato del letto, presso la finestra, e stava raccogliendo gli indumenti che nella fretta aveva gettato al suolo. «È la vostra prima notte. Sarà meglio che non sia un'ammucchiata.» «Non avevo progettato un'orgia di gruppo», disse Doyle. Rhys rise. «Ne sono sicuro.» Si fece strada intorno al letto, con la spazzola in equilibrio sul mucchio dei vestiti che si stringeva sull'addome a coprire le sue nudità. Era una scenetta piacevole. «Un po' di aiuto con la porta, per favore», mormorò. Solo in quel momento mi resi conto che intendeva andarsene. Stava dimostrando la sua delicatezza, e io lo ignoravo; un insulto mortale tra i fey. Andai ad aprirgli la porta, come se lui fosse così ostacolato dai vestiti da non poter usare una mano. Ma prima di aprirla mi alzai in punta di piedi e lo baciai. Per qualche momento rimasi così, aggrappata al suo collo, e gli accarezzai la schiena fino alla curva delle natiche, lasciando che leggesse nei miei occhi quanto lo vedevo bello. Sorrise, e mi diede uno sguardo timido con l'unico occhio buono; la timidezza era finta, ma non il suo piacere. Restai in punta di piedi abbastanza da posare la fronte sulla sua. Giocherellai con le dita tra i riccioli che gli ricadevano dietro la nuca, e lo sentii fremere sotto quel tocco. Poi ricaddi sui talloni e mi scostai dalla porta per lasciarlo uscire. Rhys scosse il capo. «Questa era la sua idea di un bacio d'addio, Tenebra.» Gettò uno sguardo a Doyle, ancora in ginocchio sul letto. «Divertitevi, ragazzi.» Ma la sua faccia non era allegra e baldanzosa come quel saluto. Lasciò che io recuperassi la mia spazzola dal mucchio degli indumenti e se ne andò. Solo quando ebbi chiuso la porta alle sue spalle fui improvvisamente consapevole di essere sola con Doyle. Doyle, che non avevo mai visto nudo. Doyle, che quand'ero bambina mi faceva paura. Doyle, che era stato la mano destra della regina per mille anni. Lui provvedeva alla mia sicurezza. Tutelava la mia persona e la mia vita, ma in qualche modo non era mai stato mio. In qualche modo non sarebbe mai stato mio finché non avessi toccato il suo corpo scuro e visto tutta la sua nudità davanti a me. Non avrei saputo dire perché questo fosse così importante, ma lo era. Tenendosi a distanza da me, aveva in un certo senso mantenuto intatte le sue scelte; come
se pensasse che, dopo esser stato a letto con me, non avrebbe più avuto scelte. Il che non era vero. Io ero stata col mio fidanzato di un tempo, Griffin, per sette anni, e alla fine lui aveva avuto ancora tutte le sue scelte, tra le quali non c'ero più io. Fare sesso con me non era stata una di quelle esperienze che cambiano la vita, per lui. Perché avrebbe dovuto essere diverso con Doyle? «Meredith.» Aveva pronunciato il mio nome non so quante volte, ma per una volta la sua voce non era neutra. In quella semplice parola c'era incertezza, c'era una domanda, e una speranza. Pronunciò di nuovo il mio nome, e io mi voltai a guardare il letto e ciò che mi aspettava tra le lenzuola color borgogna. 18 La Tenebra della regina sedeva sul bordo del letto più vicino a me, dalla parte dello specchio. Era come perduto nel sogno nero dei suoi capelli. Quasi tutti gli altri sidhe che conoscevo avevano capelli che contrastavano col colore della pelle o degli occhi, ma Doyle era tutto d'un pezzo. Le chiome sciolte gli cadevano intorno come una nuvola nera, cosicché la sua pelle d'ebano era quasi invisibile tra le sue pieghe; una lunga ciocca penzolava sulla faccia, e gli occhi sparivano in quella tenebra. Sembrava un pezzo di notte venuto in vita. Con una mano spostò i capelli all'indietro e cercò di fermarli dietro un orecchio appuntito. Gli orecchini brillarono come stelle sullo sfondo scuro. Avanzai verso di lui fino a urtare le caviglie nel letto. Le mie ginocchia premettero sul materasso, ma tutto ciò che sentivo era la grana dei suoi capelli schiacciati tra la mia carne e la spessa stoffa delle coltri. Lui girò la testa e sentii quei fili sottili scivolarmi sulla pelle. Spinsi più forte per intrappolarli contro il letto. Doyle girò lo sguardo su di me, e nei suoi occhi c'erano colori che non esistevano in nessun altro angolo della stanza, come uno sciame di lucciole brillanti, azzurre, bianche, gialle, verdi, rosse, porpora e di altri colori che non avevano nome. I puntolini danzavano e roteavano, e per un secondo potei quasi sentirli volare intorno a me, come il leggero vento prodotto dal passaggio di una nuvola di farfalle. Poi caddi, e lui mi prese al volo. Rinvenni tra le sue braccia, sulle sue ginocchia, dove mi aveva deposta. Quando potei parlare, sussurrai: «Perché?» «Io sono un potere su cui puoi contare, Meredith, e voglio che non lo
dimentichi. Un re deve avere qualcosa di più del suo seme da offrire.» Accarezzai il suo petto e gli passai le mani intorno al collo. «Stai facendo un provino per me?» Sorrise. «Lo stiamo facendo tutti, io e gli altri quattro. Qualcuno di loro può averlo dimenticato nell'esaltazione della carne e del sesso, ma tu devi ricordarlo sempre. Stai scegliendo un padre per i tuoi figli, un re per la Corte, e una persona che desideri legare a te per sempre.» Nascosi la faccia nella curva del suo collo. Aveva una pelle calda, e sentivo sulla fronte le pulsazioni dell'arteria. Anche il suo odore era caldo, molto caldo. «Ci ho pensato», mormorai, con la bocca contro la sua carne. Mi accarezzò uno zigomo col mento. «E quali conclusioni hai raggiunto?» Mi scostai per guardarlo in faccia. «Che Nicca sarebbe una vittima, e inadatto al trono. Che Rhys è amabile a letto, ma non riesco a vederlo come re. Che mio padre aveva ragione, e Galen sarebbe ancora più disastroso. E che a Corte ci sono più cavalieri che preferirei uccidere, piuttosto che essere legata a loro per il resto della vita.» Mi appoggiò le labbra sul collo, ma senza ancora baciarmi davvero. Parlò con la bocca a contatto della mia pelle, cosicché le sue parole erano piccoli movimenti e piccoli baci. «Restiamo ancora Frost... e io.» La carezza delle sue labbra mi faceva fremere e contorcere, seduta sulle sue ginocchia. Doyle trasse un lungo respiro e mi passò le mani intorno ai fianchi. «Merry», sussurrò sulla mia pelle. Il suo respiro era caldo e fiero, le sue dita mi scavavano nei fianchi, nelle cosce, nell'addome. In quelle mani c'era una tale forza che avrebbe potuto affondare le dita dentro il mio corpo, squarciandomi la carne e strappandomela via dalle ossa, come se fossi stata un frutto maturo e succoso. Era come se qualcosa in me aspettasse che le sue dita mi penetrassero nelle viscere per squartarmi, mandando un'onda di piacere attraverso le sue braccia e dentro di lui. Mi sollevò, trascinandomi sul letto. Io attesi che aderisse a me con tutto il corpo, ma non lo fece. Rimase carponi, sulle mani e sulle ginocchia, incombendo su di me come una giumenta sopra il puledro, ma non c'era niente di materno nel modo in cui mi guardava. Aveva rovesciato i capelli tutti su una spalla, e la parte superiore del suo corpo era esposta alla luce. La pelle brillava come ebano lucidato. Il suo respiro profondo, rapido, faceva scintillare e danzare l'anello del capezzolo. Alzai una mano a toccarlo e, mentre palpeggiavo quel pezzetto d'argen-
to, Doyle emise un suono dall'interno del suo petto, un grugnito, una sorta di ringhio bestiale che echeggiava nel suo corpo snello e muscoloso. Si mise a cavalcioni delle mie cosce, con le labbra tirate indietro a scoprire i denti candidi, mentre quel mugolio roco gli scaturiva dalla gola come un avvertimento. Nel sentirlo, le mie pulsazioni accelerarono; ma non avevo ancora paura. Non ancora. Lui si chinò sulla mia faccia e ansimò: «Scappa!» Mi limitai a fissarlo, col cuore che mi pulsava in gola. Lui gettò indietro la testa e ululò, un suono che echeggiò e continuò a echeggiare in quella piccola stanza. Mi sentii rizzare i peli su tutto il corpo, e per un secondo smisi di respirare, perché conoscevo quel suono. Era il solitario, nitido e maligno richiamo dei Segugi di Gabriel, gli oscuri cani della Caccia Selvaggia. Doyle abbassò la faccia a pochi centimetri dalla mia e grugnì: «Scappa!» Rotolai via da sotto di lui mentre mi fissava con quegli occhi neri, il corpo immobile ma così teso che sembrava vibrare nella promessa di un'azione violenta, trattenuta a stento, imbrigliata, frenata, ma pur sempre lì nell'attesa di esplodere. Mi ero trascinata sul lato sbagliato del letto, la porta da cui si usciva nel soggiorno era dall'altra parte: ero in trappola tra la finestra e la Tenebra. Io avevo già giocato a giochi di caccia e cattura. Alla Corte Unseelie c'era una quantità di creature cui piaceva dare la caccia alla preda, ma quella era finzione, gioco, preliminare. La luce negli occhi di Doyle era famelica; ma un'espressione famelica può sembrare simile all'altra, finché non è troppo tardi. La voce gli uscì con uno sforzo dai denti stretti allo spasimo. «Tu... non... stai... fuggendo!» E nel ringhiare l'ultima parola balzò a quattro zampe su di me, come un vortice nero. Mi tuffai verso il bordo del letto, rotolai e caddi sul pavimento di fronte alla porta del soggiorno. Balzai in piedi e avevo già le dita sulla maniglia quando il suo corpo mi piombò addosso. Restai schiacciata contro il battente, che rimbombò sotto l'urto del mio peso. Lui mi costrinse a lasciare la maniglia, con tale forza che non potei resistere un istante. Gridai. Doyle mi strappò via dalla porta con uno strattone che mi fece volare sul letto. Cercai di scivolare giù di lato, ma lui era già lì, con la parte inferiore del corpo premuta contro il mio ventre, e mi tenne inchiodata contro il bordo del letto. Potei sentire la sua erezione attraverso i jeans, molto più
spessi delle mie mutandine. La porta si aprì, dietro di noi, e Rhys mise dentro la testa. Doyle gli rivolse un ringhio ferino. Rhys mi domandò: «Hai gridato?» Era maledettamente serio. Aveva la pistola in mano, anche se non la stava puntando verso di noi. «Vattene!» grugnì la Tenebra. «Me ne vado se me lo ordina la principessa, non tu, signor mio.» Rhys si strinse nelle spalle. «Scusa, Merry, ti stai divertendo oppure...» Fece un gesto vago con la pistola. «Io... non ne sono sicura.» Avevo una voce sfiatata. La pressione del membro eretto di Doyle sul mio ventre era eccitante, anche la promessa di violenza era eccitante, ma solo se si trattava di una promessa, di un gioco. Le mani di Doyle sulle mie cosce tremavano, tutto il suo corpo tremava nello sforzo di non finire ciò che aveva cominciato. Gli toccai dolcemente la faccia. Lui sussultò come se lo avessi colpito e si voltò a fissarmi. Lo sguardo dei suoi occhi non aveva più molto di umano. Erano come gli occhi di una tigre, belli, indifferenti, affamati. «Ci stiamo divertendo qui, Doyle, oppure pensi di divorarmi?» La mia voce era un po' più ferma, adesso. «È la prima volta che vorrei non fidarmi di me stesso, mentre metto la bocca in posti così teneri.» Mi occorse qualche momento per capire che mi aveva frainteso. «Non intendevo in senso figurato, Doyle. Volevo dire: io sono cibo?» La mia voce era calma, discorsiva. Schiacciata contro il letto dal suo corpo fissavo i suoi occhi ancora animaleschi, selvaggi, e dal mio tono avrei potuto essere in ufficio a parlare di lavoro. Lui sbatté le palpebre e vidi che aveva un'espressione confusa. Compresi che gli stavo chiedendo di pensare troppo profondamente. Aveva scatenato una parte di se stesso che non emergeva mai così, senza controllo. Quella parte non pensava come una persona. Mosse l'addome e lo premette ancora più forte contro il mio. Il suo gesto mi fece gridare, ma non di dolore. «È questo che vuoi?» domandò. La sua voce era quasi normale, sfiatata ma quasi normale. Cercai di leggere sul volto qualcosa che potesse rassicurarmi. C'era una luce nei suoi occhi, un barlume del Doyle che era stato. Feci un profondo respiro e risposi: «Sì». «L'hai sentita. Vai fuori.» La sua voce tornò ad abbassarsi in un ringhio,
ogni parola più cupa e sempre più cupa. «Ne sei sicura, Merry?» insistette Rhys. Avevo quasi dimenticato la sua presenza. Annuii. «Sono sicura.» «Allora possiamo chiudere la porta, ignorare i rumori e confidare che tu stia bene?» Guardai negli occhi di Doyle e non vi trovai niente fuorché una necessità, la necessità più cruda che avessi mai visto in un essere umano. Andava oltre il desiderio ed era un istinto primordiale, come il bisogno di cibo o di acqua. Per lui, quella notte, non esisteva altro. Se gli avessi voltato le spalle, avremmo potuto diventare amanti, ma lui non si sarebbe mai più lasciato andare fino a quel punto. Avrebbe chiuso quella parte di sé per sempre, e sarebbe stata una piccola morte. Io avevo sopportato quella piccola morte per anni, morendo un pezzo dopo l'altro sulla riva del mare umano. Doyle mi aveva trovata e riportata a Faerie, restituendo la vita a tutte quelle parti di me cui avevo rinunciato per passare per un'umana, o per una fey minore. Se gli avessi voltato le spalle, lui avrebbe mai ritrovato quel pezzo di se stesso? «Va bene così, Rhys», dissi. Ma non stavo guardando lui, guardavo Doyle. «Ne sei davvero sicura?» La Tenebra si voltò e gli rispose con una voce quasi troppo bassa e animalesca per capirla. «L'hai sentita. Ora esci.» Rhys ci rivolse un breve inchino e chiuse la porta. Doyle abbassò di nuovo quegli occhi su di me. Grugnì, più che parlare. «È questo che vuoi?» Mi stava offrendo un'ultima possibilità di dire di no. Ma il suo ventre premeva sul mio, le sue dita mi affondavano nelle cosce mentre lo diceva. La sua mente e la sua bocca cercavano di darmi una via d'uscita, anche se il suo corpo non lo voleva. Dovetti chiudere gli occhi mentre tremavo sotto la sua pressione. Lui grugnì contro la mia faccia, e quel suono attraversò il suo corpo e vibrò nel mio, come se il suono potesse viaggiare in posti che non si erano ancora toccati. Ancora una volta, mentre il suo corpo mi schiacciava, costringendo piccoli gemiti a uscirmi dalla gola, Doyle ringhiò: «È questo che vuoi?» «È questo che voglio.» Una delle sue mani mi lasciò la coscia e afferrò le mie mutandine su un fianco. La seta cedette con un suono umido, come di carne tagliata. Il mio corpo s'inarcò quando Doyle premette la ruvida stoffa dei jeans sulla mia
carne nuda. Si piegò contro di me facendomi gridare, metà di piacere e metà di dolore. Mi lasciò stesa sul letto solo per il tempo di togliersi i pantaloni. Aprì la cintura, il bottone, la lampo e l'indumento scivolò giù finché non lo vidi nudo per la prima volta: il suo membro era lungo e robusto, perfetto. Mise un dito dentro di me, strappandomi un grido, ma non era per quello che l'aveva fatto. Quando mi trovò umida e aperta spinse il membro dentro di me e, benché fossi umida, dovette faticare per entrare. Io stavo gridando sotto di lui prima che fosse riuscito a penetrarmi a fondo. Me ne sentii riempita, in ogni centimetro, e fremetti solo per l'impressione che mi dava quella carne dura e forte dentro di me. Poi cominciò a uscire e a rientrare nel mio ventre, e in me arrivarono piccole onde di piacere. Guardai la nera lunghezza del suo organo scivolare dentro e fuori della mia carne bianca, e bastò quella vista a farmi gridare. La mia pelle prese a emanare luce come se avessi ingoiato la luna, e la sua pelle nera luccicò in risposta, piena di tutti i colori che erano stati nei suoi occhi. Era come se lui fosse un'acqua nera che rifletteva il chiarore della luna, e io fossi quella luna. Sotto la sua pelle danzavano colori luminosi, e la stanza brillò, avvampò, palpitando come se entrambi bruciassimo di fiamme colorate. Proiettavamo ombre sui muri e sul soffitto, quasi che fossimo al centro di una grande luce, di una grande fiamma, e diventammo quella luce, quella fiamma, quel calore. Avevo l'impressione che la mia pelle si fondesse con la sua, e sentivo quelle luci danzanti scivolarmi nella carne. Affogavo nella sua aura oscura mentre lui veniva sommerso dal mio chiaro bagliore, e a un certo punto di quella fusione lui mi portò a urlare, a urlare, a urlare, sconvolta da un piacere così intenso che sconfinava nel dolore. Sentivo che anche lui gridava, sentivo il suo ululato acuto come una sirena, ma in quel momento non m'importava. Avrebbe potuto tagliarmi la gola e me ne sarei andata con un sorriso. Tornai in me solo dopo che Doyle mi era crollato addosso, respirando a fatica e con la schiena coperta da uno strato di sudore denso e appiccicoso. Alzai le mani e mi trovai le dita piene di sangue, che baluginava come rosso neon sullo sfondo del bagliore sempre più fioco. In quegli ultimi momenti, quando non ero più me stessa, lo avevo graffiato con ferocia. Mi accorsi di un rivolo caldo e vidi che avevo il segno dei suoi denti su una spalla, sanguinante, doloroso, ma non troppo, non ancora. Niente poteva
farmi male mentre il corpo di Doyle era sopra di me, col suo membro ancora dentro di me, ed entrambi stavamo imparando di nuovo a respirare, di nuovo a essere nei nostri corpi. Le sue prime ansanti parole furono: «Ti ho fatto male?» Toccai con le mani insanguinate il morso sulla mia spalla, mescolai quei colori al neon come se mescolassi della pittura e alzai le dita verso la sua faccia. «Credo che potrei farti la stessa domanda.» Lui si portò una mano dietro la schiena per tastarsi i graffi fatti da me, come se fino a quel momento non li avesse sentiti. Si girò su un gomito e guardò il sangue che gli era rimasto sulle mani. Poi gettò indietro la testa e rise, rise finché non collassò ancora su di me e, quando finì di ridere, pianse. 19 Restammo abbracciati sopra i capelli di Doyle. Mi sembrava di giacere nuda su una pelliccia che mi accarezzava il corpo. Gli posavo la testa su una spalla, e lui era caldo e muscoloso contro di me. Gli accarezzai l'addome e la curva di un fianco, in un gesto pigro non esattamente sensuale, forse solo per sapere che era di carne come me. Per qualche minuto non facemmo altro che toccarci. Lui aveva un braccio imprigionato sotto la mia schiena, per tenermi a sé ma non troppo stretta. Gli occorreva un po' di spazio per accarezzarmi con l'altra mano, e mi lasciava lo spazio per toccare lui. Voleva sentire le mie mani sul suo corpo; era come se non avesse bisogno tanto del sesso quanto di essere toccato. Io sapevo che gli umani potevano soffrire per la mancanza di contatto fisico. I neonati a volte ne morivano, anche se tutte le altre loro necessità venivano esaudite. Ma non avevo mai saputo che questo bisogno fosse forte anche nei sidhe, specialmente in un individuo granitico come la Tenebra della regina. Stava disteso accanto a me, sorrideva, mi passava le dita sullo stomaco e intorno alla depressione dell'ombelico. Con la coda dell'occhio scorsi qualcosa sullo specchio dell'armadio, dietro la sua testa. La mia blusa di pelle verde era appesa lì, davanti al vetro, come se qualcuno l'avesse gettata sull'angolo dello sportello. Lui si accorse che qualcosa mi aveva distratta. Alzò una mano a sfiorarmi il contorno di una guancia. «Cosa stai guardando?» Gli sorrisi. «Mi chiedevo solo come abbiamo fatto a scaraventare la mia
blusa sopra lo specchio.» Girò la testa per quanto glielo permetteva il peso dei nostri due corpi sui suoi capelli. Il suo sorriso si allargò mentre tornava a guardare me. «E il tuo reggiseno, hai visto dov'è finito?» Accennai ad alzarmi su un gomito per controllare il resto della stanza oltre il suo corpo. Lui mi tenne giù, premendomi una mano su una spalla. «Dietro di te.» Mi voltai, senza uscire del circolo delle sue braccia. Il mio reggiseno verde, intonato alla blusa e alle mutandine, penzolava scompostamente dal filodendro in vaso posto sul piccolo armadio laccato di nero in un angolo della stanza. Aveva l'aspetto di una decorazione natalizia di cattivo gusto. Scossi il capo, con una mezza risata. «Non ricordavo di aver avuto tanta fretta.» Doyle girò la mano libera intorno al mio fianco sinistro e giù fino alla natica, attraendomi contro il suo corpo. «Ad avere fretta ero io. Volevo vederti nuda. Volevo sentire il contatto della tua pelle sulla mia.» E mi strinse, facendomi aderire a lui. La forza delle sue braccia mi diede un brivido, ma quando mi premette il membro contro l'addome quella sensazione sopraffece ogni mio pensiero. Passai le mani sulla morbida solidità delle sue natiche e lo attirai a me con energia. Lui mi accarezzò la schiena fino all'osso sacro e corrispose a quella pressione finché non dovetti domandarmi se il membro non gli facesse male, nella stretta tra i nostri corpi. Lo sentivo che continuava a ergersi, schiacciato contro il mio stomaco, pur essendo ancora morbido e cedevole. Lui mi aprì le gambe, e io non potei trattenere un ansito. D'un tratto mi accorsi di sentire il prurito della magia, e un momento più tardi una voce estranea riempì la camera: «Bene, bene, ma che bella scenetta». Ci voltammo di scatto verso lo specchio. Seduta sul bordo del suo letto a migliaia di chilometri da lì, mia zia Andais, regina dell'Aria e delle Tenebre, ci stava guardando. 20 La regina indossava un elaborato abito da sera nero, con orli satinati che scintillavano nella luce dei candelabri, sottili nastri per trattenere i merletti, lunghi guanti di seta nera sulle candide braccia, ed eleganti spalline di pizzo. I suoi capelli corvini erano pettinati sopra la testa, e da quelle chiome intrecciate pendevano delicate spirali di riccioli a incorniciare il collo fles-
suoso. Le sue labbra avevano il colore del sangue fresco, e gli occhi tricolori sottolineati da un ombretto pesante sembravano enormi nel suo volto magro. Vederla vestita da sera non era una novità. Andais aveva un debole per le feste da ballo, e ogni scusa era buona. La cosa nuova era che il letto dietro di lei fosse vuoto. La regina non dormiva mai sola. Per qualche istante restammo paralizzati davanti a quegli occhi che ci fissavano. Poi Doyle mi strinse un braccio, e io parlai, quasi senza pensare. «Maestà, è un piacere vederti, anche se non mi aspettavo la tua chiamata.» La mia voce era neutra, o quanto più neutra potevo. La buona educazione avrebbe imposto di avvertire, prima d'introdursi così nell'intimità altrui; non si poteva mai sapere cosa gli altri stessero facendo. «Devo prenderlo come un rimprovero, nipote?» Aveva un tono freddo, quasi irritato. Non avevo detto niente per farle saltare la mosca al naso; almeno, non mi sembrava. Mi sedetti più comodamente contro il corpo di Doyle. Avrei preferito mettermi qualcosa addosso, ma sapevo che vestirmi, mentre lei non mostrava di trovare sconveniente la mia nudità, poteva implicare sottilmente che avessi della diffidenza o dell'ostilità nei suoi confronti. Il fatto che questo fosse vero era una preoccupazione mia, non sua. «Non intendevo affatto criticarti, zia Andais. Mi limitavo a osservare che mi trovi impreparata a ricevere la tua chiamata, stanotte, perché non me l'aspettavo.» «Non è notte, nipote, è mattina, benché non ancora l'alba. Vedo che tu non hai dormito più di me.» «Anch'io come te, zia, ho avuto da fare cose più divertenti che dormire.» Lei si toccò la gonna dell'abito da sera. «Sì, un'altra festicciola.» Non sembrava entusiasta di quell'avvenimento mondano. Avrei voluto domandarle se fosse successo qualcosa di spiacevole, ma non osai. Era una domanda troppo personale da fare alla regina, e lei era un tipo che si offendeva facilmente. Trasse un lungo respiro che fece ondeggiare la parte anteriore del suo abito, come se non fosse molto aderente al petto, un bustino senza un busto. Se una donna non è molto prosperosa può preferire quegli abiti che sembrano fluttuare intorno al corpo. Era un problema che io non avevo. Rialzò quei suoi occhi drammatici su di noi. La luce d'infelicità si dissolse, sfumando in un'espressione che mi era assai più familiare in lei. Malizia. «Tu perdi sangue, mia Tenebra.»
Guardai Doyle e mi accorsi che era di profilo, rivolto più verso di me che verso di lei, e ciò le consentiva di vedergli la schiena e i segni delle mie unghie sulla pelle nera. «Sì, mia regina», assentì lui con voce neutra e perfettamente controllata. «Chi ha ferito la mia Tenebra?» volle sapere lei. Ma i suoi occhi erano già su di me, e con uno sguardo assai poco amichevole. «Io non le vedo come ferite, mia regina», disse Doyle. Gli occhi di Andais saettarono su di lui, poi tornarono a me. «Sei una ragazza molto indaffarata, Meredith.» Mi scostai da Doyle per sedere più o meno in posizione eretta. «Pensavo che tu volessi sapermi appunto molto occupata, zia Andais.» «Non ricordo di averti mai visto i seni prima d'ora, Meredith. Sono un po' troppo voluminosi per una sidhe, ma molto ben fatti.» Nei suoi occhi non c'erano sentimenti come la libidine o la cortesia, soltanto una luce pericolosa. Tutto ciò che aveva detto fino a quel momento costituiva preliminari formali. Non aveva mai visto i miei seni nudi, perciò poteva essere lecito che ne elogiasse l'aspetto, ma solo nel caso che io stessi cercando di essere attraente, il che non era: mi aveva sorpresa senza vestiti per caso. Non avvertivo niente di libidinoso nell'atteggiamento di mia zia, e questo non perché lei preferisse i maschi. C'era qualcosa di più, e di strano, dietro quel suo modo di fare. «E tu, mia Tenebra, dall'ultima volta che ti ho visto nudo sono trascorsi tanti secoli che non ricordo neppure come sei fatto. C'è qualche ragione per cui mi volti la schiena? Perché ti stai nascondendo ai miei occhi? C'è forse una... deformità che rovina questo tuo corpo oscuro?» Era suo diritto fare complimenti fuori luogo a Doyle, ma domandargli se fosse deforme, e invitarlo a mostrarsi a lei, era offensivo. Se fosse stata un'altra, le avrei detto di andare all'inferno. «Non c'è niente di deforme qui, zia Andais», dissi, e sapevo che il mio tono non era più neutro. La capacità di mascherare la voce, affinata nei miei anni di permanenza a Corte, se n'era andata. Avrei dovuto ritrovarla, e presto. Lei mi gratificò di uno sguardo gelido. «Non sto parlando a te, principessa Meredith. Sto parlando alla mia Tenebra.» Aveva usato il mio titolo, non il mio grado di parentela, non il mio nome, ma il titolo. Era brutto segno. Doyle mi strinse ancora il braccio, stavolta più forte, come per avvertirmi di badare a quello che dicevo. Rispose ad Andais, ma non a parole. Ro-
tolò sulla schiena, sollevando le ginocchia unite per celare il basso ventre agli occhi di lei, poi le abbassò lentamente, come un sipario che si scostasse. C'era calore negli occhi di Andais, vero calore e vera lussuria. «Per la Dea! Ne avevi di segreti da nascondermi, mia Tenebra.» Lui si voltò a guardarla. «Niente che tu non avresti potuto scoprire, negli ultimi mille anni.» Era la sua voce a non essere neutra, ora: solo un piccolo cambiamento nel tono, una leggera inflessione di rimprovero, ma non lo avevo mai visto perdere il controllo fino a quel punto dinanzi ad Andais. Fu il mio turno di avvertirlo, stavolta, appoggiandogli una mano sullo stomaco; appena un tocco per ricordargli a chi stavamo parlando. Non credo che la mia faccia rivelasse la paura che mi si torceva come una serpe di ghiaccio lungo la schiena. Forse re Taranis non avrebbe osato farmi del male per timore di Andais, ma lei poteva farmi uccidere in un accesso d'ira. Magari poi se ne sarebbe pentita, ma i morti restano morti. Lo sguardo che diede a Doyle mi fece contrarre la mano sulla sua pelle, appena una pressione delle unghie. Bastò a far reagire il suo corpo, e io sperai che bastasse ad ammonirlo di andarci piano. «Attento, Tenebra, o mi distrarrai al punto di farmi dimenticare perché ho chiamato.» «Aspettiamo le notizie che vorrai darci, regina Andais», dissi io. Lei mi guardò, allora, e un po' di quel calore le abbandonò lo sguardo. Sotto di esso vidi perplessità, e stanchezza. Quello di Andais non era un volto facile da leggere, forse perché aveva sempre intorno gente con cui doveva andare molto cauta. «Il Senzanome è libero.» Doyle spostò i piedi sul pavimento e si alzò a sedere. All'improvviso il fatto che fosse nudo non importava più a nessuno. Il Senzanome era la cosa peggiore di entrambe le Corti, Seelie e Unseelie. Era l'ultimo grande incantesimo che le due Corti avevano collaborato a fare. Per poter vivere in questa nostra nuova terra, i sidhe si erano spogliati di tutto ciò che avevano di troppo spaventoso e di famelico. Nessuno ci aveva chiesto di farlo, ma non volevamo essere buttati fuori dall'ultima terra che accettava di accoglierci, così avevamo deciso di sacrificare una parte di ciò che eravamo, allo scopo di diventare più... umani. Qualcuno affermava che il Senzanome era ciò che ci stava condannando a svanire, ma non era vero. Il Senzanome era soltanto un male necessario, allo scopo di non trasformare l'America in un altro campo di battaglia.
«Lo hai visto libero, mia regina?» domandò Doyle. «No, naturalmente.» «E chi è stato a liberarlo?» «Potrei raccontarti una bella storia, ma alla fine la risposta è, semplicemente, che non lo so», disse Andais, ed era ovvio che non le piaceva dirlo, così come che quella era la verità. Si sfilò uno dei guanti neri con un gesto brusco, e cominciò ad arrotolarlo e srotolarlo tra le mani. «Sono pochissimi a Faerie quelli che potrebbero fare una cosa simile», osservò Doyle. «Credi che non lo sappia?» sbottò lei. «Cosa vuoi che facciamo, mia regina?» «Non lo so, ma l'ultima volta che abbiamo saputo qualcosa di lui stava viaggiando verso ovest.» «Pensi che verrà qui?» «È poco probabile», rispose Andais, sbattendosi il guanto su un braccio. «Ma il Senzanome è quasi inarrestabile. È tutto ciò che noi abbiamo scartato, dunque contiene una grossa quantità di potere. Se sta venendo a cercare Meredith, avrete bisogno di tutto il tempo che vi resta, per prepararvi.» «Credi davvero che sia stato liberato per dare la caccia alla principessa?» «Se fosse stato liberato senza uno scopo, avrebbe devastato il territorio in cui si trovava. Ma non l'ha fatto.» Andais si alzò, lasciandoci vedere la sua schiena quasi nuda. Poi si voltò bruscamente verso di noi. «È svanito dalla nostra vista, dalla vista di tutti, molto in fretta. Non possiamo localizzarlo, e ciò significa che quella cosa sta ottenendo aiuto da qualcuno posto molto in alto.» «Ma il Senzanome è parte delle Corti, parte di ciò che voi eravate. Dovreste poterlo localizzare, così come potete localizzare la vostra ombra», dissi io. E subito mi resi conto che avrei fatto meglio a restare zitta. La rabbia le riempì la faccia, le mani attanagliate ai gomiti, l'intero corpo. Stava tremando di rabbia. Per un momento pensai che fosse troppo irritata per parlare. Doyle si alzò, spostandosi davanti a me. «Hai avvertito la Corte Seelie, mia regina?» «Non è necessario che tu la nasconda ai miei occhi, Tenebra. Lo sforzo che sto facendo per risparmiarle la vita è così grande che potrei perdere la mia.» Andais fece una pausa. «Sì, la Corte Seelie sa quello che è successo.»
«Le due Corti si uniranno per dare la caccia al Senzanome?» domandò lui. Continuava a stare davanti a me, e ciò mi costringeva a sbirciare da un lato del suo corpo come una bambina. Mi spostai dove potevo vedere lo specchio, ma entrambi m'ignorarono. «No.» «Ma sarebbe per il bene di entrambe, senza dubbio», disse Doyle. «Taranis fa delle difficoltà. Si comporta come se il Senzanome fosse fatto solo di energia Unseelie. Finge che tutto questo non riguardi la luce.» Andais fece una smorfia, come se avesse dovuto mandar giù un boccone amaro. «Non riconosce la nostra parentela, così non farà niente, perché darci il suo aiuto sarebbe come ammettere che il Senzanome è stato fatto anche da lui.» «Questa è idiozia.» La regina annuì. «Lui ha sempre avuto più interesse per l'illusione di purezza, che per la purezza.» «C'è qualcosa che può fermare il Senzanome?» domandò Doyle sottovoce, come se stesse pensando tra sé. «Non lo sappiamo, perché lo imprigionammo senza averlo esaminato. Ma è pieno di magia antica, molto antica, cose che non tolleravamo più neppure tra gli Unseelie.» Andais sedette sullo bordo del letto, con uno scatto nervoso. «È un'arma potente nelle mani di chiunque l'abbia liberato e lo stia nascondendo alla nostra vista... sempre che riesca a controllarlo.» «Cosa vuoi che io faccia, mia regina?» chiese la Tenebra. L'espressione di lei non era più ostile. «E se ti chiedessi di tornare in patria, tornare qui da me, per proteggermi? E se ti dicessi che non mi sento sicura senza te e Frost al mio fianco?» Lui poggiò un ginocchio al suolo. La sua faccia era seminascosta dai capelli sciolti. «Sono ancora il capitano dei Corvi della regina.» «Verresti?» domandò lei, con voce morbida. «Se tu me lo comandi.» Seduta sul letto, mi sforzai di mantenere un'espressione neutra. Mi strinsi le ginocchia tra le braccia e cercai di nascondere i miei pensieri. Se fossi riuscita a non pensare a niente, sarebbe stato più facile. «Dici che sei sempre il capitano dei miei Corvi, ma sei ancora la mia Tenebra o adesso appartieni a un'altra?» Doyle tenne il capo chino e rimase zitto. Io continuavo a non pensare. Andais mi scoccò un'occhiata assai poco amichevole. «Mi hai rubato la mia Tenebra, Meredith.»
«Cosa vuoi che ti dica, zia Andais?» «Fai bene a ricordarmi che sei del mio sangue. E vedere i segni che lasci sulla schiena di un uomo mi fa pensare che tu lo sia ancora più di quanto credessi.» Niente, niente, dovevo pensare al niente. Immaginai un vuoto, come guardare attraverso un vetro e dentro un altro vetro, e poi dentro un altro e un altro. Chiarore, niente. «Il Senzanome è stato liberato per un motivo, Tenebra. Finché non saprò qual è questo motivo, dovrò proteggere i miei interessi. La bella Meredith fa parte dei miei interessi. Conto ancora di avere un erede da lei.» Andais mi guardò, sempre senza nessuna cordialità. «Doyle è magnifico come sembra, a letto?» Mi sforzai di avere un tono neutro come la mia faccia. «Sì.» La regina sospirò. «È un peccato, perché non voglio dei cuccioli come eredi.» «Dei cuccioli?» ripetei. «Lui non ti ha detto niente? Doyle ha due zie, la cui vera forma è quella di cagne. Sua nonna era una dei segugi della Caccia Selvaggia. Segugi infernali, come li chiamano oggi gli umani, anche se, come sai, noi non abbiamo niente a che fare con l'inferno. Un sistema religioso del tutto diverso.» Ripensai all'ululato e allo sguardo famelico negli occhi della Tenebra. «Sapevo già che Doyle non è un sidhe di sangue puro.» «Suo nonno era un phouka, e così malvagio che in forma di cane si accoppiò con una cagna della Caccia Selvaggia, e sopravvisse per raccontare quella storia.» Andais sorrise, e fu un sorriso di una malizia dolciastra. «Doyle è un miscuglio genetico come me, allora.» La mia voce era ancora neutra; un punto per me. «Ma sapevi che è in parte cane, prima di accoglierlo nel tuo letto?» Durante quel dialogo, lui continuava a restare in ginocchio, coi capelli che gli nascondevano la faccia. «Prima che lui entrasse nel mio ventre, sapevo che discendeva in parte dalla Caccia Selvaggia», dissi. «Davvero?» Dal suo tono era chiaro che Andais non mi credeva. «Ho sentito l'ululato dei segugi uscire dalla sua bocca.» Mi scostai i capelli per lasciarle vedere il segno dei suoi denti sulla spalla, molto vicino alla base del collo. «Sapevo che agognava la mia carne in più di un modo, prima di permettergli di soddisfare quella fame.»
Gli occhi di lei si fecero di nuovo duri. «Tu mi sorprendi, Meredith. Non ho mai pensato che avessi abbastanza stomaco per la violenza.» «A me non piace ferire gli altri. La violenza in camera da letto, quando tutti sono d'accordo, è diversa.» «Io non l'ho mai trovata diversa», ribatté lei. «Lo so.» «Come riesci a farlo?» domandò. «Come riesco a fare cosa, mia regina?» «Come riesci a sembrare così indifferente, del tutto indifferente, mentre in qualche modo mi stai dicendo: 'Vai all'inferno' col sorriso sulle labbra.» «Non lo faccio apposta, zia Andais, credimi.» «Almeno non cerchi di negarlo.» «Tu e io non ci raccontiamo bugie», dissi, e stavolta la mia voce era stanca. «Alzati, Tenebra, e mostra la schiena ferita alla tua regina.» Lui si alzò senza una parola, diede le spalle allo specchio e scostò di lato i capelli. Andais venne più vicino allo specchio e protese una mano guantata, dandomi per un attimo l'impressione che quella mano sarebbe sbucata dalla nostra parte del vetro come un'immagine tridimensionale. «Ti ho sempre giudicato un carattere dominante, Doyle, e a me non piace essere dominata.» «Non mi hai mai chiesto cosa mi piacesse fare, mia regina», replicò lui, con la schiena rivolta allo specchio. «Non avrei mai pensato che tu fossi così dotato, lì in basso.» Andais sembrava avida adesso, come una bambina che non avesse avuto ciò che voleva per il suo compleanno. «Voglio dire, tu discendi da cani e da phouka, e loro non hanno un sesso di quel genere.» «La maggior parte dei phouka ha più di una forma, mia regina.» «Cani e cavalli, qualche volta aquile, sì, lo so. Ma cosa c'entra con...» S'interruppe a metà della frase, e un sorriso apparve in un angolo delle sue labbra coperte di rossetto. «Stai dicendo che tuo nonno poteva trasformarsi in un cavallo, oltreché in un cane?» Doyle rispose sottovoce: «Sì, regina». «Sei dotato come un cavallo.» Andais cominciò a ridere. Lui non disse nulla, e si limitò a scrollare le spalle robuste. Io ero troppo stupita dalla sua risata per unirmi a essa. Non era sempre cosa saggia divertire la regina.
«Mia Tenebra, il tuo sesso è eccezionale, ma tu non sei un cavallo.» «I phouka sono mutaforma, mia regina.» La risata si spense, ma la voce di lei era ancora allegra quando domandò: «Stai dicendo che puoi cambiare forma?» «Ho detto qualcosa del genere?» replicò Doyle in tono piatto. Vidi diverse emozioni susseguirsi sulla faccia di Andais, quasi troppo rapide per poterle distinguere: stupore, curiosità, e infine una sorta di dura avidità. Lo guardava come un accattone può guardare un mucchio di monete d'oro, con una bramosia muta, egoista, bestiale. «Quando tutto questo sarà finito, Tenebra, e se non avrai dato un figlio alla principessa, vedremo se sei davvero il cavallo che ti vanti di essere.» Credo che a quelle parole la mia impassibilità andò a pezzi, ma cercai di tenerla insieme. «Non mi sto vantando, mia regina», disse Doyle in un sussurro. «In questo momento non so bene cosa voglio di più, Tenebra. Se tu mi dessi un erede con Meredith, io non conoscerei mai le gioie dell'alcova con te. Inoltre continuo a pensare ciò che ho sempre pensato, e mi riferisco alla ragione per cui ti ho sempre tenuto fuori del mio letto.» «Posso osare chiederti qual è?» «Puoi osare. E potrei perfino risponderti.» Il silenzio si prolungò per un paio di secondi, poi Doyle disse: «Cosa pensi che sia stato a tenermi fuori del tuo letto, in tutti questi anni?» Si voltò a mezzo, per poterla guardare. «Tu saresti stato un re di fatto, non solo di nome. E io non condivido il potere con nessuno.» Andais spostò lo sguardo da lui a me. Io sentivo che il mio sforzo di mostrarle un'espressione neutra era fallito. «E tu, Meredith? Come ti senti all'idea di avere un vero re, uno che pretende di condividere il tuo potere, e non solo il tuo letto?» Pensai a diverse risposte, le scartai tutte, e cercai con molta cautela di dirle la verità. «So condividere meglio di te, zia Andais.» Lei mi piantò addosso uno sguardo che non riuscii a decifrare. Le risposi con un'espressione aperta, lasciando che i miei occhi confermassero ciò che le avevo detto. «Sai condividere meglio di me. Questo cosa significa, dal momento che io non condivido affatto?» «È la verità, zia Andais. Voglio dire esattamente questo, né più né meno.» Mi guardò per un lungo momento. «Taranis non condivide il potere con
nessuno.» «Lo so.» «Non puoi essere un comandante, se non comandi.» «Sto imparando che una regina deve governare i sudditi, cioè dare loro un governo. Questo non significa dare a chi le sta intorno ordini indiscutibili. Sto imparando che il consiglio delle mie guardie, che tu saggiamente mi hai assegnato, merita di essere ascoltato.» «Io ho dei consiglieri», replicò lei, quasi sulla difensiva. «Li ha anche Taranis.» Andais si appoggiò alla spalliera del letto. Sembrava un po' spenta, mentre la sua mano nuda giocherellava con uno dei nastrini del vestito. «Ma né io né lui ascoltiamo nessuno. Il re è nudo.» Quell'ultima frase mi colse impreparata. La mia faccia dovette mostrarlo, perché lei commentò: «Sembri sorpresa, nipote mia». «Non mi aspettavo che tu conoscessi quella favola.» «Una volta avevo un amante umano, cui piacevano le favole per bambini. Me le leggeva, quando non riuscivo a prendere sonno.» Nella voce di lei c'era una nota sognante, un rimpianto genuino. In tono più discorsivo continuò: «Il Senzanome è stato liberato. L'ultima volta che è stato visto andava verso ovest. Dubito che arriverà fino al mare occidentale, ma ho pensato di farvelo sapere comunque». Detto ciò, Andais fece un gesto, e la sua immagine sparì. Io continuai a guardare lo specchio. «Puoi modificare questo vetro, in modo che nessuno abbia la nostra immagine senza prima avvisarci?» «Sì», rispose Doyle. «Fallo.» «La regina potrebbe aversene a male.» Annuii, scrutando la mia faccia spaventata nello specchio, perché ormai, non dovendo fingere, potevo sembrare spaventata come mi sentivo. «Tu fallo, Doyle. Fallo. Non voglio altre sorprese per stanotte.» Andò allo specchio e fece dei piccoli gesti sulla cornice. Io avvertii un leggero prurito sulla pelle, mentre risalivo sul letto. Doyle voltò le spalle allo specchio e mi guardò, esitante. «Vuoi ancora compagnia?» Gli tesi le braccia. «Vieni a letto. Voglio dormire stretta a te.» Lui sorrise e scivolò tra le lenzuola. Si girò contro di me, cingendomi tra le braccia, e il suo corpo aderì al mio, col petto, con l'addome, col ventre, con le cosce. Mi strinse dolcemente, e io mi mossi per cercare altri punti di
contatto con la sua pelle satinata. Poco dopo, mentre stavo per scivolare nel sonno, lui mormorò: «Non t'importa che mia nonna fosse una cagna della Caccia Selvaggia, e mio nonno un phouka?» «No.» La mia voce era impastata dalla sonnolenza. Poi domandai: «Potrei davvero avere dei cuccioli?» «È improbabile.» «Okay.» Stavo quasi dormendo quando lo sentii stringersi più forte a me, come se la protettrice fossi io e non il contrario. 21 Non accadeva spesso che la Grey Detective Agency fosse chiamata sulla scena di un delitto. In passato ci era capitato di aiutare la polizia quando qualcuno si serviva della magia per scopi illeciti, ma solitamente nelle vesti di consiglieri o per montare una trappola ai danni del criminale. Avrei potuto contare sulle dita delle mani il numero di scene del delitto che avevo visto, e mi sarebbero rimaste fuori ancora due dita. Quel giorno dovetti aggiungere al conteggio un altro dito. Il cadavere della ragazza era già su una barella. Aveva i capelli biondi appiccicati alla faccia, un po' più scuri dov'erano stati bagnati dall'acqua dell'oceano. Il cortissimo abito da sera, di sottile stoffa celeste, era azzurro scuro sul lato dove le onde l'avevano inzuppato, e un nastro bianco applicato sul petto lo stringeva abbastanza da mettere in evidenza il décolleté. Le sue lunghe gambe erano nude, abbronzate. Le unghie dei piedi erano azzurro chiaro, intonate allo smalto di quelle delle mani. Le labbra avevano una strana sfumatura bluastra, ma si trattava di rossetto, non di qualche conseguenza della morte. «Quel colore per i rossetti è chiamato asphyxiation.» Mi voltai verso la donna alta che stava venendo verso di me. La detective Lucinda Tate camminava con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Cercò di salutarmi col solito sorriso, ma non ne fu capace; aveva uno sguardo preoccupato, e il suo sorriso morì prima di nascere del tutto. Di solito aveva un'espressione cinica e la battuta pronta, ma quel giorno il cinismo l'aveva lasciata portandosi via ciò che restava del suo buonumore. «Scusa, Lucy, cos'è che dicevi del suo rossetto?» chiesi. «Lo chiamano asphyxiation. Si suppone che sia il colore delle labbra di
un cadavere morto per asfissia. Davvero ironico.» Guardai di nuovo la ragazza. Aveva chiazze bluastre intorno agli occhi, al naso, e alle labbra. Provai lo strano bisogno di ripulirle via il rossetto e controllare se le labbra avevano davvero lo stesso colore. Non lo feci, ma quell'impulso mi fece prudere le mani. «Allora è soffocata», dissi. Lucy annuì. «Già.» Corrugai le sopracciglia. «Non è affogata?» «Ne dubito. Nessuno degli altri è affogato.» «Gli altri?» «Jeremy è dovuto andare all'ospedale, per stare con Teresa.» «Cos'è successo?» domandai. «Teresa ha toccato un rossetto che una delle donne stava per mettersi, prima di morire. È andata in iperventilazione, tanto da non riuscire più a respirare. Se non avessimo avuto dei paramedici sulla scena, avrebbe potuto perdere la vita. Non avrei dovuto chiedere a una delle chiaroveggenti più potenti della costa occidentale di collaborare a questa dannata faccenda.» Si voltò a guardare Frost, che si teneva un po' in disparte con una mano chiusa sul polso dell'altra in un atteggiamento tipico da guardia del corpo. L'effetto era guastato dai capelli argentei che gli svolazzavano intorno, come se il vento cercasse di scioglierli dalla coda di cavallo. La sua camicia rosa pallido era intonata al fazzoletto nel taschino della giacca bianca, a sua volta intonata ai pantaloni. Ai piedi aveva morbidi mocassini color crema. Lo si sarebbe detto più un indossatore di moda che una guardia del corpo, se ogni tanto il vento non avesse scoperto la fondina di pelle nera sotto tutto quel bianco e rosa. «Jeremy mi diceva che stamattina sei arrivata alquanto in ritardo», disse Lucy. «Hai dormito poco stanotte, Merry?» «Già, molto poco.» Non stetti a spiegarle che era stato Frost a tenermi sveglia, quella notte. Eravamo lì a parlare di cose senza importanza, tanto per rompere il silenzio che ci pesava addosso accanto al povero corpo della ragazza. Abbassai lo sguardo su quel viso, amabile anche nella morte. Era di corporatura snella, non molto robusta, di quella snellezza che si raggiunge con la dieta più che con l'esercizio fisico. Se avesse saputo che quella notte sarebbe morta, il giorno prima avrebbe fatto uno strappo alla dieta? «Quanti anni aveva?» domandai.
«La sua carta d'identità dice ventitré.» «Sembra più vecchia.» «La dieta e il troppo sole hanno questo effetto.» Ogni traccia di umorismo l'aveva abbandonata. Lucy era seria quando si voltò a guardare la piccola altura dietro di noi. «Sei pronta per vedere il resto?» «Sicuro, ma mi lascia un po' perplessa il fatto che tu ti sia rivolta alla nostra agenzia. È una cosa triste, ma sembra che si sia uccisa da sola, o sia soffocata per qualche ragione. Perché hai chiamato Jeremy e tutti noi?» «Non ho chiamato quelle tue guardie del corpo.» Per la prima volta vidi dell'ostilità sulla sua faccia. Accennò col capo verso Rhys, che si trovava sul tratto di spiaggia più vicino al mare. Frost sembrava a disagio, ma Rhys aveva l'aria di godersela un mondo. Stava guardando tutto con vivace attenzione, sorrideva, e mugolava il ritornello di Hawaii Five-O tra i denti. O almeno, era quello che aveva continuato a mugolare fin da quando si trovava lì, dove poteva guardare da vicino i poliziotti in uniforme che si bagnavano le scarpe tra le onde alla ricerca di eventuali oggetti nascosti dalla sabbia. In precedenza aveva canticchiato la sigla di Magnum P.I. finché Frost non gli aveva detto di piantarla. Da buon fanatico di Bogart, Rhys preferiva i film gialli in bianco e nero, ma poiché Bogie ne aveva fatto solo un numero limitato lui estendeva la sua passione anche ai vecchi telefilm polizieschi a colori. Si voltò verso di noi e ci salutò con una mano, sorridendo. Gli orli dell'impermeabile bianco gli frustarono le gambe quando il vento lo investì di fronte, mentre risaliva la spiaggia nella nostra direzione. Aveva dovuto togliersi il fedora marrone perché non gli volasse in mare. «Quel tipo lì, Rhys, è un fanatico delle scene dei delitti», borbottò Lucy. «Sembra che si diverta molto, come se la vista di un cadavere fosse qualcosa di eccitante.» Non sapevo come spiegarle che nell'antichità Rhys era stato adorato come Dio della Morte, perciò i cadaveri non gli facevano né caldo né freddo. Ma non era cosa che riguardasse la polizia. Dissi: «È un appassionato di film gialli». «Questo non è un film», replicò lei. «Perché sei così di malumore, Lucy? Hai visto scene di delitti molto peggiori di questa. C'è qualcosa che ti preoccupa?» «Aspetta di vedere quello che ho visto io. Poi non avrai più bisogno di chiedermelo.» «Non puoi dirmelo a voce? Per favore.»
Rhys si fermò accanto a noi, allegro come un bambino la mattina di Natale. «Salve, detective Tate. Non ho visto capillari spezzati negli occhi della ragazza, né escoriazioni sulla pelle che gli indumenti lasciano esposta. Lei ha capito come ha fatto a morire soffocata?» «Lei ha già guardato il corpo?» La voce di Lucy era fredda. Lui annuì, sempre sorridendo. «Pensavo che fossimo qui per questo.» La donna gli puntò un dito sul petto. «Lei non è stato invitato qui. Abbiamo invitato Merry, Jeremy, e Teresa, ma...» Gli batté il dito sullo sterno. «Non lei.» Il sorriso di Rhys si affievolì, e i suoi occhi tricolori diventarono freddi. «Merry deve avere due guardie del corpo con sé, ovunque vada.» «Sì, questo lo so.» Lucy gli batté ancora il dito con forza sul petto, costringendolo a fare un passo indietro. «Ma non voglio voi sulla scena di un delitto.» «Conosco le regole, detective. Non ho alterato eventuali prove. Mi sono tenuto alla larga, finché gli uomini della scientifica e il fotografo non hanno finito di lavorare.» Il vento spostò sulla faccia di Lucy i suoi capelli neri, e lei dovette toglierseli dagli occhi. «Allora resti alla larga anche da me, Mr Rhys.» «Cos'ho fatto di male?» «Se la gode, quando vede questa roba.» Il tono di Lucy era sferzante. «Ma qui non c'è nulla di divertente.» Si voltò e risalì la spiaggia verso la scalinata che portava alla strada, sulla sommità del piccolo promontorio, dove c'era un locale pubblico e un parcheggio asfaltato. «Chi l'ha accarezzata contropelo?» mi domandò Rhys. «Qualcosa che hanno trovato lassù, in cima alla scala, l'ha fatta incavolare, e aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno. Quel qualcuno sei tu.» «Perché io?» Frost ci aveva raggiunti. «Perché lei è umana, e gli umani si dolgono per i defunti. Non ci scherzano sopra come fai tu.» «Questa è una bugia», replicò Rhys. «Molti poliziotti scherzano durante il lavoro più sporco, e so che lo fanno anche i medici durante le autopsie.» «Ma non se ne vanno canticchiando sulla scena di un crimine.» «A volte lo fanno», insistette Rhys. Cercai di spiegargli meglio la cosa. «Gli umani canticchiano, o fischiettano, o fanno battute di cattivo gusto in presenza di un cadavere, ma solo per non lasciarsi impressionare. Tu canticchi perché sei felice. Tutto questo non ti preoccupa.»
Lui guardò la ragazza sulla barella. «A lei non importa più. È morta. Potremmo mettere in scena un'opera di Wagner sopra di lei, e non gliene importerebbe niente.» Gli toccai una spalla. «Rhys, non sono i morti quelli di cui devi preoccuparti, ma i vivi.» Lui mi guardò, corrucciato. «Cerca di essere meno allegro di fronte agli umani, quando guardi i loro morti», gli consigliò Frost. «E va bene, ma non capisco perché dovrei fingere.» «Fai conto che la detective Tate sia la regina Andais e che le dia fastidio vederti canticchiare intorno a un cadavere», suggerii. Notai che quel pensiero gli attraversava la faccia, ma poi scrollò le spalle. «Posso mostrarmi meno allegro quando c'è in giro quella detective, ma ancora non capisco perché dovrei.» Mi voltai verso Frost, con un sospiro. «Tu lo capisci?» «Se ci fosse una mia parente su questa barella, proverei qualcosa per la sua morte.» Tornai a rivolgermi a Rhys. «Capisci?» Lui si strinse nelle spalle. «Quando c'è in giro la detective Tate, sarò triste.» «Serio in faccia potrà bastare.» Ebbi un'improvvisa visione di lui che scoppiava in lacrime sopra il successivo cadavere che avremmo trovato. «Non esagerare.» Rhys fece un sogghigno, e io seppi che meditava di fare esattamente ciò che temevo. «Sto parlando sul serio, Rhys. Se non ti comporti bene, la Tate potrebbe non farti più avvicinare a una scena del crimine.» Tornò subito serio; quello gli importava. «Okay, okay, farò il bravo. Ma mi sembra che ci stia chiamando.» La detective Tate si era voltata verso di noi, e il vento ci portava la sua voce mista alle strida dei gabbiani. Era a metà della scalinata, e per un momento fui stupita che le sue parole ci arrivassero così forti e chiare: «Coraggio, gente. Non abbiamo tutto il giorno». «In realtà, lo abbiamo», osservò Rhys. M'incamminai sulla sabbia verso la scalinata. Mi ero già pentita di aver messo un paio di scarpette coi tacchi alti, e non protestai quando Frost mi offrì il braccio. «Abbiamo cosa?» domandai. «Abbiamo tutto il giorno», rispose Rhys. «Abbiamo l'eternità. I morti non vanno da nessuna parte.»
Mi accorsi che stava fissando l'alta detective bruna con un'espressione lontana, quasi sognante sulla faccia. «Sai una cosa, Rhys?» Mi guardò, inarcando un sopracciglio. «Lucy ha ragione. Sei un fanatico delle scene del crimine.» Sogghignò ancora. «Non lo sono, neppure una frazione di quello che ero un tempo.» «E con questo cosa vorresti dire?» Rhys non rispose. Accelerò il passo davanti a noi, con le sue scarpe basse. Io guardai Frost. «Cosa voleva dire?» «Una volta Rhys era chiamato il Signore delle Spoglie.» «Che significa?» domandai, barcollandogli addosso, coi tacchi conficcati nella sabbia. «Spoglie è una parola poetica. È un sinonimo di cadaveri.» Lo fermai, afferrandogli il braccio con le mani, e alzai la testa verso di lui. Cercai di vedergli bene gli occhi, attraverso i suoi capelli bianchi e i miei, rossi, che il vento ci sbatteva sulla faccia. «Quando un sidhe è chiamato il Signore di qualcosa, significa che ha potere su quella cosa. Allora cos'è che stai dicendo? Che Rhys poteva dare la morte? Questo lo sapevo già.» «No, Meredith. Sto dicendo che poteva far uscire dalla tomba i cadaveri morti da tempo, quelli non completamente putrefatti, per farli combattere al nostro fianco in battaglia.» Sbattei le palpebre. «Non sapevo che Rhys avesse questo genere di potere.» «Non ce l'ha più. Quando il Senzanome fu creato, Rhys perse la capacità di arruolare un esercito di morti. Tra noi non c'era più bisogno di combattenti di quel genere; se li avessimo utilizzati contro gli umani, saremmo stati espulsi da questa terra.» Frost esitò, poi aggiunse: «Quasi tutti noi perdemmo i nostri poteri più oscuri, e il loro insieme andò a formare il Senzanome. Ma non conosco nessuno che ne abbia perduto uno più terribile di quello di Rhys». Guardai l'ex Signore delle Spoglie: camminava più avanti di noi, coi riccioli bianchi agitati dal vento intorno al colletto bianco del suo impermeabile. Era stata una bella caduta, quella da dio che poteva mettere in marcia eserciti di morti a... a Rhys. «È per questo che non ha mai voluto dirmi il suo vero nome, il nome con cui era adorato?» «Quando perse il suo potere, prese il nome di Rhys, e disse che l'altro
nome era morto insieme con la sua magia. Tutti, compresa la regina, hanno sempre rispettato la sua decisione. Ognuno di noi, avendo perduto una parte di se stesso per cederla a quell'incantesimo, poteva capire il suo stato d'animo.» Mi tolsi le scarpe, fermandomi in equilibrio su un piede e poi sull'altro. Sulla sabbia avrei camminato meglio scalza. «Come avete fatto a mettervi tutti d'accordo per creare il Senzanome?» «Quelli che avevano il comando decretarono la morte di chiunque si fosse opposto.» Avrei dovuto immaginarlo. Tenni le scarpe con una mano e passai l'altro braccio intorno a quello di Frost. «Come fece Andais a convincere Taranis di quella necessità?» «Questo è un segreto che soltanto la regina e Taranis conoscono.» Frost alzò una mano a scostarmi i capelli dalla faccia. «A differenza di Rhys, a me non piace vedermi intorno la morte e la tristezza. Non vedo l'ora che arrivi stanotte.» Mi voltai a baciargli la mano. «Anch'io.» «Merry!» mi chiamò Lucy Tale dalla sommità della scalinata; Rhys era quasi arrivato alla sua altezza. Lei si voltò e scomparve alla vista, con Rhys che la seguiva. Diedi di gomito a Frost. «Sarà meglio affrettarci.» «Sì», annuì. «Non mi fido a lasciare il senso dell'umorismo di Rhys alle prese con la sensibilità della detective.» Ci scambiammo un'occhiata sulla spiaggia ventosa e accelerammo il passo verso la scala. Penso che entrambi sperassimo di arrivare prima che Rhys dicesse qualcosa d'indelicato, o peggio. Ed ero la prima a non credere che avremmo fatto in tempo. 22 Qualche cadavere era chiuso in sacchi, bozzoli di plastica dai quali non sarebbe nata nessuna crisalide. Ma poi la polizia era rimasta a corto di contenitori e si era limitata ad allineare i corpi sulla pista da ballo del locale. A un primo sguardo non mi resi conto di quanti fossero. Più di cinquanta. Anzi, forse un centinaio, forse perfino di più. Non fui capace di cominciare a contarli, di farli diventare soltanto cose messe in fila nella vasta sala, così smisi di provarci. Cercai di smettere del tutto di pensare. Cercai di fingere di essere di nuovo a Corte e che quella fosse una delle
macabre sorprese che la regina si divertiva a fare. Non era prudente mostrarsi contrariati, disgustati, inorriditi o anche solo spaventati dai suoi piccoli spettacoli. Se uno lo faceva, rischiava che lei lo costringesse a partecipare alla cosa. I suoi spettacoli in effetti si accentravano più sul sesso e sulla tortura che sulla morte, e la semplice morte per soffocamento non era abbastanza sofisticata per i gusti di Andais, così il disastro che avevo davanti non l'avrebbe compiaciuta. Probabilmente l'avrebbe visto come uno spreco: tutte quelle persone che avrebbero potuto ammirarla, tutte quelle persone che lei avrebbe potuto terrorizzare. Finsi che la mia vita dipendesse dal mostrare una faccia indifferente, respingendo ogni emozione. Era l'unico modo che conoscevo per camminare tra quei corpi senza avere un attacco isterico. La mia vita dipendeva dal non diventare isterica. Lo ripetei dentro di me come un mantra - la mia vita dipende dal non avere un attacco isterico, la mia vita dipende dal non avere un attacco isterico - e ciò mi aiutò a camminare lungo le file, mi aiutò ad abbassare lo sguardo su quell'orrore senza mettermi a gridare. I corpi che non erano stati coperti avevano tutti le labbra dello stesso colore bluastro della ragazza sulla spiaggia, con la differenza ovvia che in quel caso non si trattava di rossetto. Tutti erano morti soffocati, ma non all'istante. Non erano caduti magicamente e pietosamente lì dove si trovavano. Su alcuni di loro c'erano segni di unghie, come se si fossero artigliati alla gola o al petto nel tentativo d'inalare aria nei polmoni che non funzionavano più. Nove corpi sembravano diversi dagli altri. Non riuscivo a capire di cosa si trattasse, ma continuai ad andare avanti e indietro di fronte al nono, uno dei tanti stesi in fila. Frost, che dapprima era rimasto al mio fianco, in quel momento era al bordo della pista da ballo e cercava di non intralciare gli uomini in uniforme, poliziotti in borghese e paramedici che si aggiravano indaffarati ovunque. Ricordavo di essere rimasta sorpresa anche la prima volta nel vedere quanti addetti ai lavori potevano affollarsi sulla scena di un delitto. Alle spalle di Frost c'era qualcosa coperto da una tovaglia, ma non aveva la forma di un corpo umano. Mi occorse qualche secondo per riconoscerlo come un albero di Natale. Qualcuno aveva gettato una tovaglia sulle sue luci spente, come si mette una mano sugli occhi di un innocente per risparmiargli una vista sgradevole. Poteva sembrare ridicolo, ma non lo era. In qualche modo sembrava giusto coprire le allegre decorazioni di quella sala. Nasconderle, perché nulla le sciupasse.
Frost sembrava inconsapevole dell'albero dietro di lui, e poco interessato al resto. Rhys invece prestava molta attenzione a tutto. Lui era rimasto al mio fianco. Non canticchiava più, e non sorrideva. Si era azzittito fin da quand'eravamo entrati in quel carnaio. Anche se carnaio sembrava la parola sbagliata per descriverlo. Carnaio implicava sangue, carne dilaniata e squarciata. Lì dentro tutto era stranamente pulito, quasi impersonale. No, non impersonale... freddo. Avevo conosciuto individui che si divertivano a massacrare, e costoro gioivano letteralmente nel provocare ferite, assaporando la sensazione della lama che entrava nella carne. Invece non c'era gioia selvaggia in quella scena; c'era soltanto morte, fredda morte, come se la Nera Falciatrice avesse percorso ogni angolo del locale. «Cosa c'è in questi nove che li rende diversi?» Non mi accorsi di aver messo quel pensiero in parole finché Rhys non mi rispose. «Questi sono morti senza agitarsi, non hanno segni di unghie né di lotta. Questi nove, e soltanto questi, sono... caduti dove stavano ballando.» «Nel nome della Dea, Rhys, cos'è successo qui dentro?» «Lei cosa accidenti sta facendo qui, principessa Meredith?» Entrambi ci voltammo verso il lato opposto della sala. L'uomo che stava arrivando tra le file di cadaveri era di bassa statura, un po' stempiato, robusto, e con un'espressione rabbiosa che non prometteva niente di buono. «Il tenente Peterson, se ricordo bene, non è così?» La prima - e unica volta che avevo incontrato Peterson stavo cercando di convincere la polizia che un afrodisiaco fey era stato usato sugli esseri umani. La polizia mi aveva informato che gli afrodisiaci e i filtri d'amore erano cose che non funzionavano. Io avevo dovuto provare loro che funzionavano, e ciò aveva scatenato il caos nel Los Angeles Police Department. Il tenente era uno degli uomini che avevo messo a contatto con l'afrodisiaco per dimostrarne l'effetto: avevano dovuto ammanettarlo per togliermelo di dosso. «Non faccia tanto la svenevole con me, principessa. Cosa accidenti sta facendo qui?» Sorrisi. «Anch'io sono felice di vederla, tenente.» Lui non sorrise. «Se ne vada, subito, prima che la faccia buttare fuori.» Rhys mi si avvicinò di un passo. Lo sguardo di Peterson saettò su di lui, poi tornò su di me. «Ho già visto i suoi due gorilla. Se fanno una mossa sbagliata, immunità diplomatica o no, li faccio sbattere dentro.» Mi accorsi che anche Frost cominciava a venire verso di me. Scossi il capo e lui si fermò. Era accigliato, non approvava affatto; ma non doveva
approvare, doveva solo lasciarmi spazio. «Lei ha mai visto tanti morti?» gli domandai, con voce pacata. «Cosa?» Gli ripetei la domanda. Scosse il capo. «Questo che c'entra, adesso?» «È orribile», dissi. «Sì, è orribile. E questo che accidenti c'entra?» «Lei sarebbe più amichevole, se la scena del crimine non fosse così orribile.» Peterson emise una specie di latrato che avrebbe potuto essere una risata, ma troppo roco per esserlo. «Be', all'inferno, principessa, io sono già amichevole. Lo sono quanto più non potrei esserlo, con un'assassina come lei che si nasconde dietro l'immunità diplomatica.» E scoprì i denti in un sorriso ringhioso. Tre mesi prima, quando mi avevano portata al Los Angeles Police Department ero sospettata di aver ucciso un uomo che aveva cercato di violentarmi. Non ero colpevole, ma senza l'immunità diplomatica avrei potuto trascorrere qualche tempo in cella, o almeno finire sotto processo. Non intendevo sprecare una parola per convincere Peterson della mia innocenza. Non mi aveva creduto tre mesi prima e non mi avrebbe creduto in quel momento. «Perché queste nove persone sono le sole che sembrano morte sul colpo?» gli domandai. Corrugò le sopracciglia. «Cosa?» «Perché questi nove corpi sono gli unici senza segni di lotta?» «Questa è un'indagine di polizia, e io sono l'ufficiale più anziano sul posto. L'indagine è affidata a me, e non m'importa un corno se lei è uno dei nostri consiglieri civili di quella merda magica. Non m'importa neppure se in passato qualcuno ha detto che lei ci è stata utile. Lei non ha mai fatto un accidente per me, e io non ho bisogno dell'aiuto di nessun dannato fey. Perciò, per l'ultima volta, se ne vada all'inferno fuori di qui.» Io avevo cercato di essere cortese. Avevo cercato di essere professionale. Quando le buone maniere non servono, si può sempre ricorrere a quelle meno buone. Allungai una mano verso di lui, come per toccargli la faccia. Reagì come pensavo che avrebbe reagito. Fece un balzo indietro. Ebbi cura di mostrarmi stupita. «Che le prende, tenente?» «Non mi tocchi.» La sua voce era più bassa. E, compresi, molto più pericolosa di quando sbraitava.
«Non è stato il contatto della mia pelle a farla uscire di testa l'altra volta, tenente. Sono state le Lacrime di Branwyn.» La sua voce si fece ancora più bassa. «Non... mi... tocchi... mai... più.» C'era qualcosa di terribile nei suoi occhi. Aveva paura di me, molta paura, e questo lo riempiva di odio. Rhys fece un passo avanti, senza mettersi proprio fra il tenente e me, ma quasi. Non lo fermai. Non è mai rassicurante avere di fronte un uomo col sangue agli occhi per l'odio. «Ci siamo incontrati solo una volta, tenente. Perché lei mi odia?» Era una domanda così diretta che neppure un umano l'avrebbe fatta. Ma io non lo capivo, non riuscivo a capirlo, perciò dovevo chiedere. Lui abbassò lo sguardo, nascondendomi gli occhi come se non si fosse aspettato che vedessi così profondamente nel suo animo. La voce gli uscì tra i denti. «Dimentica che ho visto quello che lei ha lasciato su quel letto... solo un mucchio di carne dilaniata, tagliata a pezzi. Senza le impronte dei denti non lo avremmo neppure riconosciuto. E si chiede perché non voglio farmi toccare da lei?» Scosse il capo e mi guardò con occhi inespressivi, occhi da poliziotto. «Ora se ne vada, principessa. Prenda i suoi due scagnozzi e se ne vada. Sono l'ufficiale al comando qui, e non vi voglio tra i piedi.» La sua voce era calma, troppo calma per un uomo in piedi nel mezzo di quella scena. «Tenente, sono stata io a chiamare la Grey Detective Agency.» Lucinda Tate era entrata dalla stanza adiacente. «E chi l'ha autorizzata?» «Non ho mai avuto bisogno di una speciale autorizzazione per farli intervenire, prima d'ora.» Lucy si avvicinò lungo le file di cadaveri, e quando si fermò accanto a noi Peterson dovette alzare lo sguardo, perché la collega era di tutta la testa più alta di lui. «La chiaroveggente, lo capisco. Capisco anche Mr Grey, perché è un mago ben noto. Ma perché lei?» M'indicò con un pollice. «I sidhe sono famosi per il loro uso della magia, tenente. Ho pensato che più teste avessimo messo al lavoro, meglio sarebbe stato.» «Lei ha pensato. Be', non pensi, detective. Si limiti a seguire la procedura. La procedura dice che deve consultarsi col capo della squadra, cioè con me. E io dico che questa persona non è la benvenuta.» «Tenente, io...» «Detective Tate, se vuole far parte di questa squadra deve seguire i miei ordini, le mie disposizioni, e senza discutere con me. È chiaro?»
Vidi che Lucy si sforzava di mandare giù quelle parole aspre. Alla fine disse: «Sì, signore, è chiaro». «Bene», annuì lui. «I pezzi grossi possono dire quello che vogliono, ma qui davanti alle telecamere c'è in gioco la mia faccia, e io dico che siamo alle prese con gli effetti di una specie di gas tossico o di veleno. Quando avranno finito le analisi sugli altri corpi, sapranno di cosa si tratta, e allora toccherà a noi cercare chi è stato. Prima bisogna scoprire cosa, e poi chi. Non c'è bisogno degli elfi e delle favole per risolvere questo delitto. Il colpevole è solo un altro pazzoide figlio di puttana, mortale come tutti quanti in questa sala.» Peterson inclinò la testa in modo strano, guardando me, Rhys e Frost poco più in là. «Chiedo scusa, ho sbagliato. Mortale come tutti gli esseri umani di questa sala. Adesso voialtri prendete il vostro culo immortale e lo portate fuori di qui. Subito.» Guardò Lucy. «E se mi accorgo che qualcuno della mia squadra ha parlato con questa gente, gli farò rapporto. È chiaro a tutti?» «Sì, signore.» Gli rivolsi un sorriso affascinante. «La ringrazio, tenente. Detestavo stare qui tra tutti questi morti. È una delle cose peggiori che abbia mai visto in vita mia, e le sono grata per avermi autorizzata ad andarmene, quando non sapevo più che scusa trovare per scappare via.» Continuai a sorridere mentre mi sfilavo l'unico guanto da chirurgo che mi ero messa. Non avevo toccato nessuno dei cadaveri, perché non volevo portare con me il ricordo del contatto della loro carne morta. Anche Rhys si tolse i guanti, e lui aveva toccato qualcosa. Ci avviammo verso il sacchetto dove andavano gettati i guanti usati; prima di uscire, non potei fare a meno di voltarmi. «Grazie ancora, tenente, per avermi mandata via. Sono d'accordo con lei. Non so cosa diavolo stessi facendo qui.» Detto ciò, presi la porta, con Rhys e Frost che mi seguivano come due ombre chiare. 23 Soltanto quando fui seduta al volante dell'Acura mi resi conto che non sapevo quale fosse la nostra destinazione. Guardai le chiavi che avevo in mano e cercai di ricordarlo, ma invano. «Dove dobbiamo andare?» Gli uomini si scambiarono un'occhiata, poi dal sedile posteriore Rhys disse: «Lascia che guidi io, Merry». Si sporse in avanti tra i sedili e mi prese gentilmente le chiavi di mano.
Non protestai. Il mondo sembrava pieno di un ronzio acuto, come se avessi le orecchie piene di api. Rhys tenne aperto lo sportello per me; scesi e girai intorno al veicolo per risalire dall'altra parte. Frost aprì dall'interno e attese che fossi a bordo, prima di tornare a sedersi sul retro. Era una fortuna che con noi ci fosse Rhys. Frost non sapeva guidare. «Allacciati la cintura», mi avvertì Rhys. Non era da me dimenticare la cintura di sicurezza. Mi occorsero due tentativi prima di riuscire a metterla. «Cosa mi sta succedendo?» «Shock», diagnosticò Rhys, mentre ingranava la marcia. «Shock? Perché?» Fu Frost a rispondere, piegandosi in avanti verso di me. Le mie guardie del corpo non mettevano mai la cintura di sicurezza; avrebbero potuto restare decapitati e non per quello morire, così suppongo che volare fuori sfondando il parabrezza non li preoccupasse molto. «Lo hai detto anche tu, al poliziotto. Non avevi mai visto niente di così orribile come in quella sala da ballo.» «Tu hai visto di peggio?» Esitò per un momento, poi rispose: «Sì». Guardai Rhys, che stava rallentando prima di uscire sulla Pacific Highway. Da lì si godeva una splendida vista dell'oceano. «E tu?» «Io cosa?» Gli diedi un'occhiata di rimprovero. «Hai visto di peggio?» «Sì. Ma non ho intenzione di parlarne.» «Neppure se te lo chiede la tua dolce Merry?» «Soprattutto se me lo chiede la mia dolce Merry. Se fossi abbastanza incavolato, potrei cercare di sconvolgerti con gli orrori che ho visto. Ma non sono incavolato con te, perciò non voglio farti star male.» «Frost?» «Sono sicuro che Rhys ha visto cose molto peggiori delle mie. Io non ero ancora nato all'epoca delle prime battaglie che la nostra gente combatté contro i Firbolg.» Sapevo che i Firbolg erano i primi abitanti semidivini delle isole britanniche e dell'Irlanda. Mi era stato raccontato che i nostri antenati li avevano sconfitti, diventando così i nuovi padroni di quella terra. Erano fatti accaduti migliaia di anni prima di Cristo. Ma venivo a sapere solo in quel momento che Rhys era più vecchio di Frost, più vecchio di quasi tutti i sidhe. E che era stato uno dei primi di noi a giungere su quelle isole, comunemente ritenute la patria originale di tutti i sidhe.
«Rhys è più vecchio di te?» chiesi a Frost. «Sì.» Mi voltai a guardare l'altro sidhe, che all'improvviso sembrava molto interessato alla guida. «Rhys?» «Sì», disse, senza distogliere gli occhi dalla strada. Aveva preso una curva troppo velocemente, e doveva lavorare con lo sterzo. «Quanti anni hai più di Frost?» «Non ricordo», rispose, in tono vago. «Sì, che te lo ricordi.» Mi gettò uno sguardo in tralice. «No, non è così. È passato troppo tempo, Merry. Non ricordo in quale anno sia nato Frost.» «Ricordi in quale anno sei nato?» domandai a Frost. Lui sembrò fare uno sforzo di memoria, poi scosse il capo. «Non credo. Rhys ha ragione su una cosa. Dopo un certo tempo si dimentica.» «Stai dicendo che cominciate a perdere parte della vostra memoria?» «No», rispose Frost. «Ma l'anno in cui uno è nato finisce per non avere nessuna importanza. Sai che non festeggiamo i compleanni.» «Be', sì, ma non mi ero mai chiesta il perché.» Mi rivolsi a Rhys. «Allora tu hai visto scene peggiori di quella su al night club, o al ristorante, o qualunque genere di locale sia?» «Sì.» La parola fu secca, tagliente. «Se ti chiedessi di parlarmene, lo faresti?» «No.» Aveva un'espressione quasi truce. Ci sono dei no che possono diventare sì, e ci sono i NO. Quello di Rhys era di quest'ultima categoria. Lo lasciai in pace. D'altra parte non ero sicura di voler ascoltare orribili storie di massacri, specialmente se erano peggiori di quello che ci eravamo lasciato alle spalle. Non avevo mai visto una cosa del genere, e mi auguravo di non doverla rivedere mai più. «Rispetto i tuoi desideri.» Rhys mi guardò come se non si fidasse. «È bello, da parte tua.» «Non c'è bisogno di sfottere.» Scrollò le spalle. «Scusa, Merry. Neppure io mi sento troppo bene, in questo momento.» «Credevo che a restare sconvolta fossi soltanto io.» «Non è il pensiero di tutti quei morti a darmi fastidio. È il fatto che Peterson si sbaglia», replicò Rhys. «Non c'entrano i gas o i veleni. Niente del genere.»
«Cosa vuoi dire? Hai visto qualcosa che mi è sfuggito?» Non rispose subito, e io guardai Frost, che però si appoggiò all'indietro sul sedile posteriore per uscire dal mio campo visivo. «Okay, voi due. Sentiamo, cos'è che avete visto?» Rhys continuò a guardare la strada. Frost non aprì bocca. Per un poco ci fu silenzio. «Qualcuno mi dica qualcosa», sbottai. «Sembra che tu stia meglio», osservò Frost. «Sì. Non c'è niente come incavolarsi un po' per schiarirsi la testa. Ora fatemi il favore di dirmi cosa avete visto che a me è sfuggito.» «Tu eri troppo schermata per vedere qualcosa di magico», disse Rhys. «Puoi scommetterci che lo ero. Sai quanta spazzatura magica c'è sulla scena di un delitto? Soprattutto se è un'esecuzione di massa? Ci sono sciami di esseri incorporei che vengono attirati da posti di quel genere. Piombano là come avvoltoi per nutrirsi di quelli rimasti vivi, per risucchiare il loro orrore, la loro sofferenza. Si può entrare puliti in un posto così e uscirne con una quantità di spiriti attaccati addosso.» «Sappiamo cosa possono fare gli spiriti che volano nell'aria», assentì Frost. «Probabilmente meglio di me», ribattei. «Ma voi siete sidhe, e a voi gli esseri spirituali non si attaccano.» «Non quelli piccoli», mi corresse Frost. «Ma ho visto altri della nostra razza quasi posseduti da esseri incorporei. Può succedere, specialmente se si lavora con la magia nera.» «Be', sono abbastanza umana da poter essere infettata da quelle cose. Non è necessario che faccia qualcosa per attirarle, basta che mi azzardi ad abbassare gli scudi.» «Mentre eravamo lì hai cercato di sentire il meno possibile», osservò Rhys. «Faccio il detective privato, non sono una psichica di professione. Non sono neppure un mago o una strega. Non avrei dovuto intervenire sul posto, oggi. Non avrei potuto essere di aiuto.» «Saresti riuscita a notare qualcosa, abbassando gli scudi appena un poco», disse Rhys. «Bene, la prossima volta cercherò di essere più coraggiosa. Ora sentiamo, cosa avete visto?» Frost sospirò abbastanza forte da farmelo sentire. «Io ho notato i resti di un incantesimo potente, molto potente. Scivolavano qua e là sulle pareti
della sala, come degli echi.» «Te ne sei accorto non appena siamo entrati?» «No. Non volevo toccare i morti, così ho frugato intorno con altri sensi, non con la vista o col tatto. Poi ho, come dici tu, abbassato i miei scudi. Soltanto allora ho visto palpitare dei colori sospetti.» «Hai capito di che incantesimo si trattava?» domandai. Lui scosse la testa. «Io lo so.» La voce di Rhys mi fece voltare di colpo. «Cos'hai detto?» «Chiunque avrebbe potuto vedere i resti di quella magia. Bastava concentrarsi. Anche Merry li avrebbe visti, se avesse voluto.» «Per lei non avrebbe significato niente, come non significava niente per me. Anzi, le sarebbe stato più difficile sopportare la vista di quella scena.» «Su questo non discuto», replicò Rhys. «Ciò che intendo è che io ho abbassato gli scudi e ho guardato i cadaveri. Nove di loro sono morti all'istante, gli altri hanno avuto il tempo di lottare, di spaventarsi, di cercare una via di fuga. Ma la loro è stata la fuga, come potrei definirla... di un branco di animali impazziti. Nessuno ha cercato di uscire da una porta o di spaccare una finestra non appena ha visto cosa succedeva. Ma forse è perché non potevano vedere niente.» «Stai parlando per enigmi», disse Frost. «Sì, parla chiaro, Rhys, per favore», lo pregai. «E se non fossero fuggiti proprio perché non avevano capito che nella sala c'era qualcuno?» «Cosa vuoi dire?» «Quasi tutti gli umani mancano della capacità di vedere gli esseri incorporei, di qualunque genere.» «Già, ma se stai suggerendo che siano stati degli esseri incorporei a fare strage al night club, allora non posso essere d'accordo», replicai. «Gli esseri incorporei non hanno l'energia fisica per ammazzare così tante persone. Potrebbero agire su una persona molto sensibile alla loro presenza, ma anche questo è discutibile.» «Non parlo di esseri incorporei, Merry, ma di un diverso genere di entità.» Sbattei le palpebre. «Stai parlando di spettri?» Lui annuì. «Gli spettri non fanno queste cose, Rhys. Possono spaventare qualcuno fino a causargli un collasso cardiaco, se questi ha il cuore debole, ma
nient'altro. I veri spettri non fanno del male alla gente. Se uno riporta un danno fisico, significa che ha avuto a che fare con qualcosa di diverso da uno spettro.» «Dipende dallo spettro di cui stiamo parlando, Merry.» «Che significa? C'è soltanto un genere di spettri.» Per guardarmi doveva voltare la testa quasi del tutto, poiché il suo unico occhio buono era dall'altra parte. Molto spesso si girava soltanto a metà verso di me, se parlavamo mentre guidava, anche se con l'occhio destro non poteva vedermi, perché quello era un movimento istintivo. In quel momento fece lo sforzo di guardarmi con l'occhio sinistro. «Questo è ciò che credi tu.» Avevo sempre pensato che Rhys fosse uno dei sidhe più giovani, perché non mi aveva mai fatta sentire come se vivessi nel secolo sbagliato. Era uno dei pochi ad avere una casa fuori dei tumuli di Faerie, con contratti per le forniture di gas e di elettricità, e la patente di guida. In quel momento mi guardava come se fossi una bambina e non potessi capire. «Smettila», dissi. Si voltò verso la strada. «Cosa dovrei smettere?» «Detesto quando uno di voi mi guarda così, come se fossi troppo giovane e non potessi capire le vostre esperienze. Si, d'accordo, non avrò mai mille anni, ma ho passato i trenta, e secondo gli standard umani sono una persona adulta. Fatemi il favore di non trattarmi da bambina.» «Allora smettila di comportarti come se lo fossi», mi rimproverò lui, ancora con quel tono da insegnante deluso. Era già fin troppo fastidioso quando lo faceva Doyle, non avevo bisogno che ci si mettesse anche lui. «E in che modo avrei agito come una bambina? Solo perché non ho abbassato gli scudi per guardare tutto quell'orrore?» «No, perché hai detto che c'è un solo genere di spettri, come se questa fosse una verità. Credimi, Merry, non tutte le ombre che se ne vanno in giro sono di origine umana.» «Per esempio?» volli sapere. Rhys trasse un lungo respiro e contrasse le mani sul volante. «Cosa succede a un immortale quando viene ucciso?» «Si reincarna, come tutti gli altri.» Sorrise. «No, Merry. Se può essere ucciso, per definizione non è immortale. I sidhe dicono di essere immortali, ma non è vero. Ci sono cose che possono ucciderci.» «Non senza l'aiuto della magia», replicai.
«Non importa come, Merry. Ciò che importa è che può essere fatto. E questo ci riporta alla domanda: cosa succede agli immortali che muoiono?» «Non possono morire davvero, se sono immortali.» «Esattamente», annuì lui. Corrugai le sopracciglia. «Okay, mi arrendo, cosa significa?» «Sta parlando degli antichi», intervenne Frost. «Sì», confermò Rhys. «Però quelli non sono spettri», obiettò Frost. «Sono ciò che rimane delle prime divinità.» «Andiamo, ragazzi!» esclamò Rhys. «Pensateci un momento. Uno spettro umano è ciò che resta di un umano dopo la morte, prima che questi passi nel dopovita. Oppure è solo una parte dello spettro che resta indietro perché viene trattenuta da qualcosa. Ma è comunque il residuo spirituale di un essere umano, giusto?» Entrambi accennammo di sì. «Allora i resti delle prime divinità non sono veri e propri spettri di quelle divinità?» «No», rispose Frost. «Perché se qualcuno scoprisse il loro nome e desse loro dei seguaci, esse potrebbero teoricamente 'tornare in vita'. Gli spettri umani non hanno questa possibilità.» «Il fatto che gli umani non abbiano questa possibilità rende meno spettrali gli antichi?» domandò Rhys. Cominciavo a sentirmi girare la testa. «D'accordo, va bene, diciamo che in giro ci sono gli spettri di antiche divinità. Questo cosa c'entra?» «Ti ho detto di aver riconosciuto l'incantesimo. In realtà non è esattamente vero. Ma in passato ho visto l'ombra di un antico addosso a un fey. Era come se il fey fosse diventato mortale. La vita gli era stata risucchiata via.» «I fey sono immortali», dissi. «Tutto ciò che può essere ucciso, anche se poi si reincarna, è mortale, Merry. La lunghezza della sua vita non cambia questo fatto.» «Allora stai dicendo che spettri di questo genere hanno assalito quel night club?» «I fey sono più difficili da uccidere degli umani. Se quel posto fosse stato pieno di fey, qualcuno sarebbe potuto sopravvivere, sarebbe riuscito a proteggersi, ma... sì, sto dicendo che secondo me è successo questo.» «Un night club della California sarebbe stato attaccato dagli spettri di
antiche divinità, che avrebbero ammazzato un centinaio di persone?» «Sì.» «Non potrebbe essere stato il Senzanome?» Rhys parve pensarci un momento, poi scosse il capo. «No. Se fosse stato il Senzanome, l'edificio non sarebbe rimasto in piedi.» «Ha il potere di farlo?» «È portato a distruggere tutto.» «Quand'è stato che hai visto una cosa di questo genere?» «Prima della nascita di Frost.» «Dunque, poche migliaia di anni fa.» «Sì.» «Chi chiamò gli spettri, allora? Chi fece l'incantesimo?» «Un sidhe, che poi morì ancora prima che l'Inghilterra fosse governata dai normanni e dai loro discendenti.» Frugai nei miei ricordi di storia. «Prima del 1066.» «Sì.» «Oggi è ancora in vita qualcuno in grado di fare quell'incantesimo?» «Probabilmente. Ma è proibito farlo. Per un sidhe che osi farlo c'è la morte immediata. Senza processo, senza possibilità di fare appello contro la sentenza.» «Chi rischierebbe una cosa simile per uccidere un gruppo di umani sulla costa del mare occidentale?» domandò Frost. «Nessuno», rispose Rhys. «Come puoi essere certo che a farlo siano stati questi antichi spettri?» volli sapere. «C'è sempre la possibilità che qualche mago umano abbia usato un incantesimo che somigli a quello, ma resto convinto che sono stati gli antichi spettri.» «Questi spettri prendono le vite altrui per portarle al loro padrone?» domandò Frost. «No, tengono per sé quelle vite, e se ne nutrono. In teoria, se fosse data loro la possibilità di nutrirsi ogni notte, potrebbero diventare di nuovo 'vivi', diciamo, per mancanza di una parola migliore. Hanno bisogno dell'aiuto di un mortale per farlo, e una volta che uno di essi si è nutrito abbastanza, può pervenire alla massima forza. Può convincere un gruppo di fanatici da qualche parte a adorarlo come un demonio, e indurli a fare sacrifici. Per diventare così forte, però, uno spettro dovrebbe nutrirsi di un numero enorme di vite. Ma limitarsi a prendere la vita risucchiandola dalla
bocca delle vittime umane è una cosa più rapida, non richiede il consumo di energia che richiederebbe il bere sangue sacrificale da una conca.» «E non è mai capitato che uno di loro sia arrivato alla massima forza?» «No, sono sempre stati fermati prima di arrivare a tanto. Però, a quanto ne so io, non sono mai stati lasciati liberi di nutrirsi direttamente... fuorché una volta, e anche allora in una situazione controllata, dove furono imprigionati di nuovo non appena l'incantesimo ebbe termine. Se fossero lasciati liberi, senza controllo...» «Cosa potrebbe fermarli?» domandai. «L'incantesimo va ripetuto a rovescio.» «Noi potremmo farlo?» «Non lo so. Dovrei parlare con qualcuno degli altri, a casa.» «Rhys, tu hai detto che l'unico in grado di fare questo incantesimo era un sidhe, morto prima dell'arrivo dei normanni. È possibile, allora, che a riprovarci sia di nuovo uno di noi?» chiesi, sottovoce perché mi era venuto un dubbio orribile. Ci fu qualche momento di silenzio. Poi: «È questo il pensiero che mi spaventa. Perché, se fosse un sidhe e la polizia potesse dimostrarlo, significherebbe essere scacciati dal primo all'ultimo fuori del territorio americano. Un articolo del trattato firmato tra noi e Jefferson dice che, se usassimo la magia a danno degli interessi nazionali, saremmo considerati fuorilegge e dovremmo andarcene». «È per questo che non hai detto una parola in presenza della polizia?» domandai. «Una delle ragioni.» «E l'altra?» «Merry, loro non hanno la possibilità di fare niente. Non possono fermare quelle cose. Non sono neanche sicuro che tra i sidhe oggi viventi ce ne sia uno capace di farlo.» «Dev'esserci almeno un sidhe, invece», insistetti. «Come puoi dirlo?» domandò Rhys. «È stato un sidhe a liberarli. Lui li può fermare.» «Forse», concesse Rhys. «O forse, il motivo per cui gli spettri hanno ammazzato un centinaio di persone in pochi minuti è che questo sidhe ne ha perso il controllo. E quando ha perso il controllo, è probabile che loro lo abbiano ucciso.» «Be', se un sidhe ha sguinzagliato questi spettri, perché hanno colpito qui in California, e non nell'Illinois, dove si trovano i sidhe?»
Rhys si voltò ancora una volta con tutta la faccia. «Merry, non ci arrivi? E se quelli cercassero di uccidere te, ma senza che la cosa sia fatta risalire a Faerie?» «Ma l'abbiamo già fatta risalire a Faerie!» esclamai. «Solo perché io sono qui. Molto cortigiani hanno dimenticato chi sono stato, e io non gliel'ho mai ricordato, perché dopo che creammo il Senzanome persi il potere di essere ciò che ero prima.» Rhys non poté celare la sua amarezza. Poi rise. «Sono uno dei pochi sidhe ancora vivi ad aver visto cosa faceva Esras. Io c'ero, e chiunque abbia risvegliato gli antichi si è dimenticato di me.» Rise ancora, ma come se quello sprezzante divertimento gli facesse dolere la gola. «Si sono dimenticati di me. E può darsi che adesso io li faccia pentire di questa piccola dimenticanza.» Lo guardai. Non avevo mai visto Rhys così pieno di... una sorta di feroce avidità. Non era mai troppo serio, se poteva evitarlo. Lo scrutai mentre guidava il furgone durante il viaggio di ritorno a casa mia, dove avremmo dovuto prelevare Kitto. Sulla sua faccia c'era un'espressione diversa, ed era cambiato qualcosa anche nel portamento delle sue spalle, nel modo in cui teneva il volante tra le mani. Mi accorsi solo allora che non lo conoscevo a fondo. Si nascondeva dietro un velo di umorismo, d'indifferenza, ma c'era molto, molto di più. Era una mia guardia del corpo, un mio amante, e non lo conoscevo affatto. Non ero sicura se gli dovessi delle scuse, o se fosse lui a dovere delle scuse a me. 24 Il viaggio di ritorno fino a El Segundo fu privo di storia, a dir poco. Quel mattino, quando Kitto si era svegliato, aveva un gonfiore violaceo intorno agli occhi e la sua epidermide sembrava afflosciata, come se durante la notte avesse perso peso. Non me l'ero sentita di farlo venire con noi sulla spiaggia, dove il cielo aperto avrebbe potuto causargli un attacco di agorafobia. Dopo essere stata informata della località del massacro avevo lasciato decidere a lui, e Kitto aveva preferito tornarsene a letto nella sua cuccia da cani coperta. Usciti dal parcheggio m'incamminai su per le scale, con Frost davanti a me e Rhys alle spalle. Mentre giravamo intorno alla piscina, Frost disse: «Se il piccoletto non riesce a adattarsi, dovrai rimandarlo da Kurag». «Lo so», annuii. Salimmo l'ultima rampa di scale e ci avviammo verso la mia porta. «Mi preoccupa il pensiero del sostituto che Kurag vorrà man-
darci. Quando mi offrì Kitto, si aspettava che io restassi offesa. Il fatto che l'abbia accettato e mi sia dichiarata soddisfatta lo ha molto stupito.» «Per gli standard dei goblin, Kitto è disgustoso», disse Rhys. Mi voltai a guardarlo. Non aveva ancora ritrovato il suo abituale modo di fare; sembrava di umore piuttosto cupo. Sapevo che Rhys ignorava quasi tutto della cultura goblin, ma non gli chiesi come facesse a sapere cosa considerassero bello. Quand'era stato in mano ai goblin che gli avevano rovinato la faccia, quelli dovevano avergli messo addosso le femmine che dal loro punto di vista erano le più attraenti. I goblin apprezzavano molto gli arti e gli occhi in sovrappiù, e Kitto non corrispondeva a quei valori estetici. «Lo so, e inoltre non è imparentato in nessun modo con la casa reale», replicai. «Kurag si aspettava che io rifiutassi, e questo gli avrebbe dato una scusa per dichiarare non valido il nostro trattato.» Eravamo alla porta. Accanto a essa c'era un piccolo geranio in vaso, rosa pallido. Galen si era accollato la maggior parte dei lavori domestici, e quel giorno avrebbe dovuto acquistare altre piante adatte ad accogliere i piccoli fey alati, mentre andava in giro alla ricerca di un appartamento più grande. Avremmo già cambiato casa, se l'affitto non fosse stato un problema, ma la vera difficoltà stava nel fatto che nei quartieri di un certo prestigio non si veniva accolti troppo facilmente. La maggior parte dei palazzi imponevano dei limiti sul numero di adulti che potevano risiedere in un appartamento, e sei adulti era oltre quel limite. Io continuavo a rifiutarmi di chiedere denaro alla Corte, perché nessuno concede finanziamenti senza pretendere qualcosa in cambio. Frost pensava che io fossi soltanto testarda, ma Doyle era dell'opinione che i favori avevano sempre un prezzo. Ero abbastanza sicura di sapere quale favore avrebbe preteso Andais - non uccidere suo figlio, se fossi salita al trono - e si trattava di un favore che non avrei potuto garantirle. Sapevo bene che Cel non mi avrebbe mai accettata come regina, finché fosse stato vivo. Che Andais non lo capisse era tipica cecità materna. Cel era un malato di mente, incurabile, ma sua madre lo amava, il che era più di quanto io potessi dire di mia madre. Frost aprì la porta ed entrò per primo, dopo aver controllato gli incantesimi protettivi. Sulla soglia fummo accolti da un profumo di lavanda e di incenso. Il nostro altare occupava un angoletto del soggiorno, dove chiunque era libero di usarlo. Non che ci fosse bisogno di un altare. Uno può trovarsi in campagna, o in mezzo ai boschi, o in una metropolitana affolla-
ta, e la divinità è sempre con lui... se ci fa attenzione, e se la invita nel suo cuore. Ma l'altare era un gradevole aiuto psicologico. Un posto dove cominciare la giornata con un momento di comunione spirituale. Molta gente pensa che i sidhe non abbiano nessuna religione... voglio dire, un tempo sono state divinità loro stessi, no? Be', una specie. Venivano adorati come divinità. Ma quasi tutti i sidhe riconoscono l'esistenza di un potere più grande di loro. Molti sono devoti alla Dea e al Consorte, o a una variazione di questa fede. La Dea è l'origine di ogni vita, e il Consorte di tutto quello che è maschio; sono il modello di ciò che discende da loro. Lei, soprattutto Lei, è il più grande potere del pianeta, superiore a ogni cosa che sia carne, non importa quanto spirituale quella carne sia stata un tempo. A parte il fumo che usciva dal piccolo bruciatore di incenso sull'altare, posto accanto a un'artistica coppa piena di acqua, nell'appartamento non si muoveva nient'altro; ma non si aveva l'impressione che fosse vuoto. Nelle vicinanze c'era il lieve tintinnio di una magia. Probabilmente Doyle era allo specchio e stava parlando con qualcuno. Quel giorno aveva deciso di restare a casa e cercare di scoprire informazioni sul Senzanome da qualche nostro amico a Corte. La sua magia era così sottile da consentirgli di contattarli senza essere rilevato da estranei. Io non avrei saputo farlo. Rhys chiuse la porta e c'indicò due foglietti attaccati al battente con lo scotch. Il primo diceva: Sono uscito a cercare casa. Spero che i fiori vi piacciano. Ed era firmato Galen. L'altro: Conto di finire oggi il mio lavoro di guardia del corpo. Era firmato Nicca. «La sua attrice non corre nessun pericolo», commentò Frost, mentre si levava la giacca. «Sono convinto che sia stato il suo agente a consigliarle di andare in giro con una guardia del corpo, per cercare di puntellare una... come la definiscono, carriera in declino.» Assentii. «I suoi ultimi due film sono stati dei fallimenti, sia di botteghino sia artistici.» «Questo non lo so. Ma i giornalisti le stanno dietro più per fotografare noi che lei», replicò Frost. «E lei vi porta con sé ovunque vi siano telecamere davanti cui esibirvi.» Avrei voluto levarmi le scarpe col tacco alto, ma dovevamo tornare al più presto in agenzia. Così andai subito alla cuccia di Kitto e mi chinai per dargli un'occhiata, attenta a non smagliarmi le calze contro le fibbie delle scarpe. Ciò che vidi fu solo la sua schiena che occludeva l'apertura. «Kitto, sei
sveglio?» Lui non si mosse. Gli toccai la schiena, e la pelle era fredda. «Santo cielo! Rhys, Frost, qui è successo qualcosa.» Rhys fu subito accanto a me. Frost lo seguì a ruota e tastò la schiera del goblin. «È in ipotermia.» Allungò una mano a cercargli le pulsazioni sul collo e attese una lunga, interminabile, manciata di secondi prima di diagnosticare finalmente: «Le pulsazioni sono molto deboli e lente». Afferrò Kitto e cominciò a tirarlo fuori. Il piccolo corpo era inerte e floscio, privo di reazioni come un cadavere. «Kitto!» gridai, scuotendolo. Continuò a tenere gli occhi chiusi, e io mi accorsi che potevo vedere il blu delle sue pupille da rettile dietro le palpebre abbassate, come se la pelle fosse trasparente. Poi sbatté le palpebre, ma i suoi occhi si rovesciarono all'indietro. Stava sussurrando qualcosa, e mi chinai per sentire meglio. Era il mio nome: «Merry, Merry...» ripetuto senza sosta. Aveva addosso soltanto un paio di mutande, e mi accorsi di vedere le sue vene attraverso la pelle e la carne dei muscoli. Nel suo petto si muoveva un'ombra scura, e compresi che si trattava del cuore. Riuscivo a vedere anche quello. Era come se il suo corpo fosse di gelatina, oppure... Guardai Frost. «Sta svanendo», mormorai. Lui annuì. Rhys era andato in camera da letto, e tornò fuori seguito da Doyle. I due si chinarono accanto a noi, ma l'espressione della loro faccia diceva più delle parole. «No.» Strinsi i denti. «Non è possibile che sia in condizioni disperate. Dobbiamo fare qualcosa.» I due si scambiarono un'occhiata, con l'aria di chi ha dei pensieri così sgradevoli che preferisce tacerli, aspettando che sia un altro a metterli in parole. Afferrai Doyle per un braccio. «Cosa possiamo fare?» «Non sappiamo come si può impedire a un goblin di svanire.» «Sua madre era una sidhe. Cerchiamo di salvarlo come faremmo con un sidhe.» La Tenebra mi guardò sdegnato, come se li avessi insultati tutti. «Non fare tanto il superiore con me, Doyle. Non possiamo lasciarlo morire solo perché lui è un sangue misto più di quanto lo siamo noi.» La sua espressione si ammorbidì. «Merry, un sidhe svanisce solo se lo
vuole lui. E una volta che il processo è cominciato, non lo si può fermare.» «No! Dev'esserci qualcosa che lo impedisca.» Ci guardò, accigliato. «Occupatevi di lui mentre cerco di contattare Kurag. Se non possiamo salvarlo come sidhe, forse potremo salvarlo come goblin.» Frost depose Kitto tra le mie braccia. Io sedetti per terra in modo da tenerlo in grembo. Non fu difficile riuscirci. Avevo trascorso una buona parte della vita in compagnia di creature più piccole di Kitto, ma nessuna di loro aveva avuto un aspetto così sidhe. Gli appoggiai una guancia sulla fronte. «Kitto, ti prego, ti prego, torna indietro. Torna, in qualunque posto tu sia andato. Per favore, Kitto, è Merry che te lo chiede.» Lui aveva smesso di mormorare il mio nome. Aveva smesso di fare qualsiasi rumore, e il suo peso, dal modo in cui si afflosciava contro di me... sembrava morto. Non svenuto, ma morto. C'è qualcosa nel peso di un morto che il corpo di un vivo non ha. Ovviamente dev'essere lo stesso, ma non sembra mai lo stesso. Doyle fece ritorno borbottando tra sé. «Kurag non è vicino a uno specchio, e neppure a una polla d'acqua. Non posso raggiungerlo, Merry, mi spiace.» «Se Kitto fosse un sidhe, cosa faresti per salvarlo?» «I sidhe non svaniscono per nostalgia di Faerie», replicò Doyle. «I sidhe svaniscono solo quando vogliono farlo.» Con quel corpo freddo stretto fra le braccia, sentii che mi venivano le lacrime agli occhi; ma piangere non sarebbe servito a niente, dannazione. Dovevo parlare con Kurag, e subito. Cos'era che i guerrieri goblin avevano sempre addosso? «Dammi il tuo coltello, Frost.» «Cosa?» «Il mio coltello è schiacciato sotto il corpo di Kitto. Ho bisogno di una lama, subito.» «Fai come ti ha chiesto», ordinò Doyle. A Frost non piaceva fare cose che non capiva, ma allungò una mano dietro la schiena e si sfilò dalla fondina il pugnale, lungo quanto il mio avambraccio. Me lo porse. Tolsi il braccio da sotto le gambe di Kitto. «Tieni ferma la lama.» Frost s'inginocchiò, afferrando l'arma con tutte e due le mani. Io feci un profondo respiro, appoggiai un dito sulla punta e premetti verso il basso. Bastò un attimo perché il sangue sgorgasse.
«Merry, non...» «Gira la lama di piatto e tienila ferma, Frost. Questo è ciò che ti chiedo. Non posso reggere il coltello e Kitto. Fallo, per favore.» Lui aggrottò le sopracciglia, ma rimase in quella posizione mentre passavo il dito sanguinante sulla superficie cromata. Il sangue non vi aderiva, ma lasciava qua e là delle macchiette tondeggianti. Abbassai gli scudi che mi avevano impedito di vedere gli spettri e la magia, come se mi sfilassi via dal corpo uno strato di pelle vecchia. La magia palpitò un momento, come lieta di essere libera, e io la proiettai sulla lama. Immaginai Kurag, la sua faccia, la sua voce, i suoi modi sgarbati. «Kurag, io ti chiamo. Kurag l'Uccisore, io ti chiamo. Kurag, re dei Goblin, io ti chiamo. Tre volte ti chiamo, tre volte ti nomino. Vieni da me, Kurag, rispondi sul tuo coltello.» La lama scintillava sotto l'irregolare patina di sangue, ma era solo uno scintillio di metallo. «Sono secoli che un sidhe non chiama un goblin con la lama», disse Rhys. «Non risponderà.» «Il richiamo triplo è molto potente», osservò Doyle. «Tuttavia alcuni goblin hanno la capacità d'ignorarlo, e tra loro anche Kurag.» «Ma io ho qualcosa che lui non ignorerà.» Mi chinai sulla lama e vi alitai sopra il fiato caldo, facendola appannare. Sul metallo c'era adesso una nebbia macchiata di sangue. La nebbia si schiarì, e il sangue scomparve sotto la superficie come assorbito. Ciò che guardavo non era uno specchio; una lama cromata offre sempre un riflesso scadente, poco definito, come uno schermo televisivo regolato male, e non c'erano manopole con cui regolare la sintonia. Inoltre avrei potuto vedere soltanto una fetta di faccia, piuttosto distorta. D'un tratto sulla faccia della lama voltata verso di me apparve una striscia di pelle giallastra coperta di bubboni, e due occhi posti l'uno sopra l'altro. La metà superiore della superficie metallica era meno liscia, e il terzo occhio di Kurag era visibile come il sole attraverso uno strato di nuvole. La sua voce fu udibile con estrema chiarezza; risuonò nella stanza come un boato roco che mi fece trasalire per la sorpresa. «Meredith, principessa dei sidhe, è il tuo dolce fiato quello che mi ha sfiorato la pelle?» «Ti saluto, Kurag, re dei Goblin. E saluto anche te, Gemello di Kurag, carne del re dei Goblin.» Kurag aveva attaccato al corpo un gemello parassita che consisteva in un occhio violetto, una bocca, due piccole gambe, due braccia, e un minuscolo ma funzionante organo genitale. La bocca po-
teva respirare, ma non parlare. Per quanto ne sapevo, io ero l'unica che avesse mai riconosciuto la sua esistenza come essere indipendente e diverso dal re. Non avevo dimenticato quanto ero rimasta inorridita nell'accorgermi che intrappolato su un lato del corpo di Kurag c'era un altro individuo. «È trascorso molto tempo dall'ultima volta che un sidhe ha chiamato i goblin con la lama e il sangue», disse Kurag. «Quasi tutti i guerrieri che combatterono al nostro fianco dopo quella grande alleanza hanno dimenticato questo vecchio trucco.» «Mio padre mi ha insegnato molti trucchi», replicai. Kurag e io sapevamo benissimo che mio padre lo aveva contattato spesso con la lama e il sangue. Mio padre era stato l'ambasciatore non ufficiale di Andais presso i goblin, perché nessun altro voleva quel lavoro. Mi aveva portato con sé alla collina dei goblin molte volte, quand'ero bambina. La sua risata echeggiò nella stanza come se non uscisse dalla lama bensì dai muri. «Cosa vuoi da me, Merry, figlia di Essus?» Il re dei Goblin mi aveva offerto il suo aiuto, e questo era tutto ciò di cui avevo bisogno. Gli descrissi le condizioni fisiche di Kitto. «Sta svanendo.» Kurag imprecò in una variante della sua lingua, l'alto goblin. Compresi quasi ogni parola di ciò che disse. Qualcosa sulle mammelle nere di non so chi. «Il marchio ti lega a Kitto. La tua forza dovrebbe sostenerlo.» La mano che si passò sulla faccia attraversò la lama come un fantasma giallo. «Questo non sarebbe dovuto succedere.» Mi venne un dubbio. «E se il marchio fosse guarito?» «Il marchio non guarisce, ma cicatrizza.» «È guarito, Kurag. Non ho nessuna cicatrice addosso.» I suoi occhi arancione erano molto vicini alla lama, e molto larghi. «Questo non può essere.» «Non sapevo che farmelo guarire sarebbe stato un problema. Kitto non mi ha detto niente.» «Il marchio di un amante non guarisce mai, Merry. Diventa una cicatrice, sempre. Almeno, tra la nostra gente», disse. Non vedevo la sua espressione in quel riflesso così ridotto, ma all'improvviso lui grugnì rumorosamente e disse: «Gli hai permesso di mordere la tua carne bianca solo una volta?» «Sì», risposi. «E il sesso?» Sembrava insospettito. «L'accordo prevedeva che condividessimo solo la carne. Condividere la carne vera, tra i goblin, è più importante del sesso.»
«Che i Segugi di Gabriel mi portino via. Sì, noi diamo valore alla carne, ma cos'è un piccolo morso senza sesso? Affondare i denti e il membro virile nella carne, ragazza Merry, questo è il prezzo.» «Kitto dorme spesso accanto a me, Kurag. Sta quasi sempre con me, e mi tocca. Sembra che abbia bisogno di toccarmi.» «Se toccarti è tutto ciò che ha avuto da te...» Passò di nuovo all'alto goblin, cosa che quelli della sua razza facevano raramente; era considerato ineducato usare un linguaggio che l'interlocutore non conosceva. Mio padre me ne aveva insegnato un po', ma era passato troppo tempo, e Kurag parlava troppo in fretta per le mie modeste capacità. Quando ebbe finito quel rumoroso sfogo, Kurag fece una pausa per tirare il fiato e tornò alla lingua di Corte. «Per voialtri, nobili e potenti sidhe, noi goblin andiamo bene quando si tratta di farci combattere le vostre guerre, ma non siamo abbastanza buoni per fare sesso. A volte vi odio tutti; odio anche te, Merry, che sei una delle mie preferite.» «Anch'io ti voglio bene, Kurag.» «Non prendermi in giro. Se tu avessi fatto sesso con Kitto regolarmente, il marchio si sarebbe cicatrizzato. Lui ha bisogno di molta carne vera per vivere lì, nelle terre occidentali. O carne vera o sesso, ma senza questo il suo legame con te è troppo debole, ecco perché ora sta morendo.» Abbassai lo sguardo sul corpo freddo e immobile tra le mie braccia, e mi accorsi che non era troppo freddo. Non come poco prima. «Si sta scaldando», dissi. Sottovoce, come se non osassi crederci. Doyle tastò la faccia di Kitto. «È più caldo.» «Sei tu, Tenebra?» gli domandò Kurag. «Sono io, re dei Goblin.» «Sta davvero svanendo? Non credo che Merry abbia mai visto qualcuno svanire.» «Sta svanendo», confermò Doyle. «Allora perché è più caldo? Se svanisce, dovrebbe diventare sempre più freddo.» «Merry lo tiene tra le braccia da qualche minuto. Credo che sia questo a scaldarlo.» «Allora forse non è troppo tardi. È abbastanza forte per il sesso?» «È quasi privo di conoscenza», lo informò Doyle. Kurag disse una parola che a quanto sapevo nessun goblin avrebbe augurato a qualcun altro: impotente. Era il loro peggiore insulto personale. «Kitto può affondare i denti nella carne di lei?»
Guardammo il piccolo goblin. Era più caldo, sì, ma ancora non aveva fatto un movimento. «Non credo», dissi. «Sangue, allora. Può bere il sangue?» domandò Kurag. «Forse.» «Versandoglielo in bocca, potremmo fargliene bere un po'», suggerì Doyle. «Se non lo soffochiamo.» «È un goblin, Tenebra. Non può morire soffocato dal sangue.» «Dovrà essere il sangue di Merry?» intervenne Rhys. «Conosco questa voce. Sei il vecchio... Rhys», disse Kurag, e quella pausa di silenzio conteneva un nome che nessuno usava più. «Dovresti tornare a farci visita, sidhe. Le femmine parlano ancora di te. Questo è un grande segno di apprezzamento, da parte delle femmine goblin.» Rhys impallidì a quelle parole. Non replicò. Kurag fece udire una risata sgradevole. «Sì, dovrà essere il sangue di Merry. Più tardi, se qualcun altro di voi vorrà condividere il sangue e la carne con Kitto, si senta libero di farlo. I sidhe hanno sempre un ottimo sapore.» Mi guardò coi suoi occhi arancione. «Se il sangue lo resuscita, Merry, allora dagli la carne. Vera carne, stavolta.» All'improvviso i suoi occhi si fecero più grandi sulla lama. Doveva aver appoggiato il naso sul suo coltello. «Pensavi di avere i goblin come alleati per sei mesi senza andare a letto con uno di noi. Hai condiviso la carne, così non posso dire che tu abbia mentito sul nostro patto. Ma ne hai violato lo spirito. Tu lo sai, e lo so anch'io.» Appoggiai il dito ancora sanguinante sulle labbra di Kitto, tingendole di rosso mentre parlavo al suo re. «Se lo prendessi nel mio letto, allora avrebbe una possibilità di diventare re... re di tutti gli Unseelie. Questo ha più valore di un'alleanza di sei mesi.» Gli occhi di Kitto palpitarono, la sua bocca si mosse. Gli infilai il dito tra le labbra e tra i denti, e il suo corpo sussultò. «Oh, no, non mi avrai così facilmente, Merry, ragazza mia. Tu dagli la tua carne, come avresti dovuto fare finora, e avrai gli altri tre mesi di alleanza, come d'accordo. Finiti quelli, le tue battaglie saranno soltanto tue.» Kitto cominciò a succhiarmi il dito come un poppante, dapprima piano, poi con energia sempre maggiore, mentre i suoi denti mi scalfivano la pelle. «Mi sta ciucciando il dito, Kurag.» «Se fossi in te, glielo toglierei di bocca, prima che te lo stacchi. È ancora fuori di cervello, e i goblin possono mordere l'acciaio.»
Kitto fece resistenza, e la sua bocca cercò di trattenermi il dito. Quando riuscii a liberarlo, i suoi occhi cominciavano ad aprirsi. «Kitto», lo chiamai. Non reagì nell'udire il suo nome, né agli schiaffetti che gli davo, ma era più caldo e si muoveva. «Sembra che si sia ripreso.» «Bene, molto bene. Io ho fatto la mia parte, Merry. Il resto tocca a te», disse Kurag. Distolsi lo sguardo da Kitto e cercai gli occhi di Kurag sulla lama. «Te ne starai lì senza far niente e aspetterai di vedere chi vince, è così?» «Cosa c'importa chi siede sul trono degli Unseelie? A noi importa solo chi siede su quello dei goblin.» Doyle s'intromise con la sua voce profonda. «E se i seguaci di Cel progettassero la guerra contro i Seelie?» Si chinò, appoggiandomi una mano su una spalla, e strinse le dita. Compresi che mi avvertiva di non interromperlo. «Cosa stai borbottando, Tenebra?» «Io so molte cose dei sidhe. Cose che i goblin non conoscono.» «Tu non sei a Corte, adesso.» «Ho più orecchie di quello che credi.» «Spie, vuoi dire.» «Non l'ho usata io questa parola.» «Bravo, fai pure i giochetti che ti piacciono tanto. Ma quando parli con me devi essere chiaro.» «Alla Corte Unseelie c'è chi pensa che Andais debba essere impazzita, per aver nominato Meredith sua erede. Loro credono che con una mortale sul trono tutti diventeremo mortali, e sarà la nostra fine. Stanno parlando di fare guerra ai Seelie, prima che gli Unseelie diventino mortali senza poteri. La nostra forza dipende dai nostri re e dalle nostre regine, e tu lo sai.» «Quello che mi stai dicendo basta a convincermi che il mio popolo deve subito allearsi coi seguaci di Cel.» «Se i goblin saranno alleati di Meredith, allora nessuno alla Corte di Andais oserebbe mettersi contro di lei. Gli Unseelie sfideranno i Seelie solo se convinti di avere l'appoggio dei goblin.» «A noi cosa importa se i sidhe si ammazzano a vicenda?» «Tu sei legato dalla tua parola, dal sangue, dalla terra, dall'acqua, dal fuoco e dall'aria ad aiutare i legittimi eredi del trono Unseelie in tutte le questioni di guerra. Se sarà Merry a sedere sul trono, e se i rinnegati Unseelie si rivolteranno contro di lei mentre tu stai in disparte senza far niente, allora il tuo giuramento ti ricadrà sulla testa.»
«Non puoi mettermi paura, sidhe.» «Il Senzanome cammina di nuovo sulla terra, e tu pensi che dovresti aver paura di me? Cose molto più terribili di me usciranno dalle profondità e cadranno giù dal cielo, e chi ha infranto giuramenti solenni come il tuo pagherà il prezzo che dovrà pagare.» Era difficile dirlo da quell'immagine confusa, ma Kurag sembrava preoccupato. «Ho sentito le tue parole, Tenebra, ma Merry tace. Sei tu, adesso, il burattinaio che la manovra?» Intervenni io. «Mi sto occupando del tuo goblin, Kurag, e devo usare la lingua per una cosa più urgente che dirti quello che già sai.» «Io ricordo il mio giuramento, ragazza.» «Non sto parlando di questo, Kurag. È vero che i sidhe non forniscono notizie ai tumuli dei goblin, ma entrambi sappiamo che voi avete altri mezzi.» Stavo alludendo ai fey minori di Corte, ospiti o servi che fossero, i quali riferivano tutto ai goblin, a volte per un preciso tornaconto, altre volte per il senso di potere che ciò gli dava. Mio padre aveva promesso a Kurag che avrebbe mantenuto il segreto sulla sua rete di spie. Io però non avevo dato la mia parola a nessuno; ero libera di rivelare a chiunque i segreti dei goblin, anche se non l'avevo mai fatto. «Parla chiaro, principessa, e non fare giochetti con questo vecchio goblin.» «Ti ho già parlato chiaro, Kurag, re dei Goblin.» Lui sospirò rumorosamente. «Merry, ragazza, sei proprio figlia di tuo padre. Essus era il mio sidhe preferito. La sua perdita è stata dolorosa per la Corte Unseelie, perché aveva tanti amici.» «Questo significa molto detto da te, Kurag.» Non lo ringraziai, perché i vecchi fey non tollerano essere ringraziati; è quasi un tabù per noi. «Intendi onorare tutti i giuramenti fatti da tuo padre?» «No. Con alcuni non sono d'accordo, e di altri non ne so niente.» «Credevo che lui ti dicesse tutto», borbottò Kurag. «Non sono più una bambina. So che mio padre aveva i suoi segreti, ed ero giovane quando lui morì. Non ero ancora pronta per sapere certe cose.» «Tu sei saggia quanto bella. Che tristezza. Mi piaceresti di più se fossi un po' più stupida. Voglio che le mie femmine siano meno intelligenti di me.» «Oh, Kurag, vecchio rubacuori!» Rise a tali parole, stavolta una risata vera, contagiosa. Io risi con lui. Mentre i suoi occhi cominciavano a sparire sulla lama, disse ancora: «Pen-
serò a ciò che tu e la tua Tenebra avete detto, e anche a quello che mi disse tuo padre. Ma dovrai dare al mio goblin ciò di cui ha bisogno, altrimenti fra tre mesi la farò finita con te». «Tu non la farai mai finita con me, Kurag, finché non sarai riuscito a scoparmi. O almeno, questo è ciò che mi dicesti quando avevo sedici anni.» Rise ancora, ma poi disse: «Una volta pensavo che certe cose sarebbero andate meglio se tu fossi diventata la mia regina, ma comincio a credere che tu sia troppo pericolosa per lasciarti avvicinare al trono». 25 Disteso sul lenzuolo color borgogna, Kitto sembrava un fantasma, e i suoi riccioli neri lo facevano sembrare ancora più pallido. Continuava ad aprire e chiudere gli occhi come fiori blu indecisi se sbocciare, ma le sue iridi ovali erano visibili anche dietro le palpebre abbassate. Gli toccai una spalla nuda. «È ancora... quasi trasparente.» «I fey minori svaniscono nel vero senso della parola», disse Doyle. Era in piedi accanto a me, davanti allo specchio dell'armadio. Ai piedi del letto, Rhys abbassò lo sguardo sul goblin. «Non credo che potrete fare del sesso. Non sembra in grado di alzarsi.» Dopo un attimo aggiunse: «Alzarsi lui, cioè, non il suo affare». Lo guardai. Non voleva fare lo spiritoso, anzi aveva l'aria preoccupata. «Hai intenzione di protestare perché sto per offrire il mio corpo a un goblin?» «Servirebbe a qualcosa?» domandò. «No.» Mi rivolse una versione rachitica del suo sogghigno. «Allora ci converrà accettare l'inevitabile. Comunque non credo che stanotte tu e lui farete cigolare le molle del letto. A guardarlo sembra che sia più di là che di qua.» «Infatti. E Merry dovrà condividere la carne con Kitto per riportarlo tutto di qua», aggiunse Doyle. Sedetti sul bordo del letto, e Kitto rotolò verso di me come il mare attratto dalla luna. Si rannicchiò al mio fianco con un sospiro molto simile a un gemito. «Non può strapparmi via un morso di carne, se non è cosciente.» «Metti del potere in lui, come hai fatto col pugnale», suggerì Doyle. «Rendilo consapevole di te, col metodo che hai usato con Kurag.»
Abbassai lo sguardo sul goblin. Sembrava addormentato, ma la sua pelle emanava ancora quella sepolcrale sensazione di abbandono della vita. Gli accarezzai una spalla. Lui si strinse di più a me, senza svegliarsi. Mi chinai su di lui, accostando la bocca a pochi millimetri dalla sua spalla. Alla fine del colloquio con Kurag, dopo aver usato la magia per contattarlo, avevo automaticamente rialzato i miei scudi. Schermarmi era come respirare per me. Dovevo concentrarmi solo per abbassarli, in ubbidienza al meccanismo psichico appreso fin da quando avevo imparato a leggere. Ma quello non era un incantesimo; era qualcosa di meno, e anche qualcosa di più. Le streghe umane la chiamavano magia naturale, cioè la naturale capacità di agire senza addestramento e senza sforzo. Accumulai magia, energia, nel mio respiro e la soffiai attraverso la sua pelle. Gli ordinai di svegliarsi e di guardarmi. Kitto aprì gli occhi, e finalmente mi vide. «Merry», sussurrò, con voce roca. Gli sorrisi, scostando i riccioli dalla sua fronte pallida. «Sì, Kitto, sono io.» Anche lui sorrise, accigliato, come se stesse soffrendo. «Cos'è successo?» «Hai bisogno di prendere la mia carne.» Lui continuò a restare accigliato, con l'aria di non capire. Mi tolsi la blusa e cominciai a sbottonarmi la camicetta. Forse avrei fatto prima a tirarmi su la manica, ma non volevo sporcare di sangue la stoffa bianca. Anche il reggiseno era bianco, però non sarebbe stato difficile tenerlo pulito, con un po' di attenzione. Kitto spalancò gli occhi. «La carne?» «Lascia il tuo marchio sul mio corpo, Kitto.» «Ci siamo messi in contatto con Kurag», gli spiegò Doyle. «Dice che stai male perché il marchio che avevi lasciato su Meredith è guarito. È la sua energia a sostenerti quando sei lontano da Faerie, perciò hai bisogno di condividere ancora la sua carne.» Kitto guardò la Tenebra. «Non capisco.» Lo toccai, per farlo voltare verso di me. «Non preoccuparti. Ora deve importarti solo il sapore della mia pelle.» Alzai un braccio davanti alla sua faccia e glielo passai lentamente sulle labbra, mentre i nostri corpi si sfioravano. Poco dopo era in ginocchio sul letto, con l'altra mano dietro la sua testa per sostenerla, e gli feci accostare la bocca alla parte superiore del braccio destro, poco sotto la spalla. Durante il sesso, mordersi è una cosa
eccitante, anche a sangue. Ma quello era un morso a freddo, e io non ero psicologicamente predisposta. Sarebbe stato doloroso, e avrei preferito essere in una posizione più comoda, con qualcosa da mettermi tra i denti. Le sue pupille erano diventate fessure nere. Si era immobilizzato, ma non si trattava di un'immobilità statica. In lui vibrava un miscuglio di emozioni primitive: necessità fisiche, ansia, e soprattutto una fame atavica, cieca, terribile. Qualcosa in lui, mentre fissava la carne bianca della mia spalla, mi costrinse a ricordare che suo padre non era un goblin, ma un goblinserpente. In altri momenti Kitto sembrava caldo e del tutto mammifero, ma quella era la selvaggia rigidità di un rettile. Pur avendo il corpo di un sidhe in miniatura, la sua tensione me lo fece vedere come un serpente pronto a colpire, ed ebbi paura di lui. Un attimo dopo scattò con una velocità così disumana che dovetti fare uno sforzo per non balzare indietro. Fu come essere azzannata al braccio da un grosso cane, e vacillai sotto l'impatto di quel corpo. Ma non provai un vero e proprio dolore, non in quei primi momenti. Da un angolo della sua bocca uscì un rivolo di sangue che mi scese lungo il braccio. Poi lui affondò con più forza i denti nella carne, quasi che cercasse l'osso per spaccarmelo, e allora gridai. Accecata dal dolore, rotolai giù dal letto e mi contorsi per allontanarlo, ma Kitto continuò a restarmi addosso senza mollare la presa, e il sangue ruscello anche sul mio petto, sporcando il reggiseno bianco. In una pausa tra un ansito e l'altro riuscii a trovare la forza per smettere di gridare. Lui era un goblin, lottare e urlare non facevano che aumentare la sua sete di sangue. Ripresi fiato e gli soffiai in faccia. Continuò ad azzannarmi il braccio, con gli occhi chiusi e il volto contratto in un'espressione estatica. Soffiai di nuovo, con forza, come si usa fare quando un cane o un gatto mordono in un modo che non è più tanto per gioco. Agli animali domestici, di solito, non piace sentirsi soffiare negli occhi. Ciò lo indusse, se non altro, ad aprirli. Vidi che il raziocinio tornava in quegli occhi, e il suo spirito riprendeva possesso del corpo, scacciando la bestia. Aprì la bocca, e il mio braccio fu libero. Indietreggiai contro l'armadio, mentre il dolore diventava così forte da mozzarmi il fiato. Avevo una gran voglia di maledirlo furiosamente, ma quando vidi l'espressione della sua faccia tenni la bocca chiusa. Il sangue gli impiastrava la faccia come rossetto spiaccicato intorno alle labbra, e gli colava sul mento e lungo il collo. Il suo sguardo era di nuovo limpido, ma benché fosse padrone di sé continuava a far saettare la sua sottile lingua biforcuta avanti e indietro, tra i denti. Poi si gettò sul letto e ri-
mase disteso lì, nella penombra. Io restai seduta per terra, perdendo sangue. Doyle si chinò accanto a me con un tovagliolo, e mi bendò alla meglio la ferita. Non tanto per fermare il sangue quanto per impedire che continuassi a sporcare tutto ciò che toccavo. Nell'aria si sparse un profumo di fiori, piacevole ma un po' troppo intenso. Doyle guardò lo specchio. «Qualcuno sta chiedendo il permesso di parlare attraverso il vetro.» «Chi è?» «Non saprei. Niceven, forse.» Guardai il mio braccio insanguinato. «È uno spettacolo che possiamo lasciarle vedere?» «Se non mostri sofferenza mentre ti fascio, sì.» Sospirai. «Grande. Aiutami a sedere sul bordo del letto.» Lui mi sollevò tra le braccia, per depormi nella posizione richiesta. «Non avevo bisogno di tutto questo aiuto.» «Le mie scuse. Non sapevo quanto ti dolesse la ferita.» «Sopravvivrò.» Mi strinsi meglio il fazzoletto intorno al braccio. Kitto si ripiegò intorno a me, con la faccia ancora sporca di sangue. Aveva scalciato via le lenzuola, cosicché chi ci avesse guardato dallo specchio non avrebbe visto i suoi calzoncini. Sarebbe sembrato nudo. Mi si strinse addosso, scosso da fremiti, mentre faceva saettare la lingua per leccarsi il sangue dalle labbra e dal mento. Le sue mani mi accarezzavano i fianchi e le cosce. Kurag poteva dire quello che voleva, ma prendere la carne in quel modo era sesso, per i goblin. «Rispondi alla chiamata, Doyle, e poi cercami qualcosa per fermare il sangue.» Lui sorrise e mi rivolse un inchino. Poi allungò una mano a toccare lo specchio, e nella cornice apparve l'immagine di un uomo dal naso a becco, con la pelle azzurra come i fiordalisi. Non aveva niente in comune con Niceven, e potevo star certa che non avrebbe apprezzato affatto lo spettacolo che gli stavo offrendo. Quello era Hedwick, il segretario di Taranis. 26 Hedwick non aveva ancora alzato lo sguardo verso lo specchio. Sedeva
alla sua scrivania chino in avanti, col volto seminascosto, e stava leggendo quella che sembrava una lista. «I saluti del supremo re Taranis il Tonante alla principessa Meredith NicEssus. Questo è per informarti che Sua Maestà si aspetta di vederti a Corte per il ballo.» Mentre diceva ciò non aveva ancora guardato nella mia camera. Anzi, stava addirittura muovendo una mano per oscurare lo specchio, quando io parlai. Dissi l'unica cosa che probabilmente non si sarebbe mai aspettato di sentire: «No». La sua mano si abbassò, e il suo sguardo si alzò con un lampo irritato verso la mia camera. L'irritazione lasciò il posto allo stupore, poi al disgusto. Forse era la vista del goblin sul letto. Forse era lo spettacolo che offrivo io grondante di sangue. Comunque fosse, quello che vide non gli piacque. «Sei la principessa Meredith NicEssus, non è così?» La sua voce grondava sdegno, come se avesse difficoltà a crederci. «Sì.» «Allora ci vediamo al ballo.» La sua mano si alzò di nuovo per spegnere lo schermo. «No», dissi ancora. Lui abbassò la mano e mi scrutò severamente. «Ho molti altri inviti da trasmettere, principessa, perciò non ho tempo per le spiritosaggini.» Gli sorrisi, ma il mio sguardo si stava indurendo, anche se sotto quella rabbia strisciava un certo compiacimento. Hedwick era sempre stato un piccolo borioso leccapiedi, e io sapevo che gli davano l'incarico di diramare gli inviti ai fey minori, gente di poca importanza. Era un altro a occuparsi dei contatti sociali più rilevanti. Che fosse Hedwick a invitarmi era un insulto; il modo in cui lo faceva era un doppio insulto. «Non sto facendo dello spirito, Hedwick. Non posso accettare un invito di questo genere.» Lui s'impettì, alzando una mano a sistemarsi la vaporosa cravatta bianca. Si vestiva come se il XVII secolo non fosse ancora finito. Quel giorno, almeno, non portava la parrucca incipriata, cosa per cui gli fui grata. «Il supremo re in persona comanda la tua presenza, principessa», disse nel suo solito tono, come se dovessi sciogliermi dall'emozione per l'onore che mi veniva fatto. «Io sono Unseelie, e non ho nessun supremo re», lo informai. Doyle arrivò col cassetto del necessario per il pronto soccorso. Lo tene-
vo sempre ben fornito, anche se i morsi delle altre guardie non erano mai stati così profondi. Lo sguardo di Hedwick passò su Doyle, poi tornò su di me, accigliato. «Tu sei una principessa Seelie.» Doyle passò dal lato della ferita, alla mia destra. Sistemò meglio il tovagliolo e applicò una leggera pressione sulla ferita. Restai un momento senza fiato quando mi premette la stoffa sul morso, ma la mia voce mantenne un tono normale. Riuscii a mostrarmi del tutto indifferente, mentre Doyle cominciava a togliere quella rozza fasciatura e Kitto si agitava contro di me. «Ho accettato che il mio titolo alla Corte Unseelie soverchiasse quello che ho alla Corte Seelie. Ora che sono l'erede al trono Unseelie, non posso più riconoscere mio zio quale mio re. Se lo facessi, sarebbe come riconoscerlo re anche degli Unseelie, il che non è.» Hedwick appariva perplesso. Era un bravo esecutore di ordini, abile nel lusingare quelli superiori a lui, e altezzoso con gli inferiori. Io lo stavo costringendo a pensare. Non era abituato a maneggiare situazioni così complicate. Si lisciò di nuovo la cravatta, e alla fine, con aria molto meno sicura di sé, disse: «Come preferisci. Comunque re Taranis ti ordina di presenziare al ballo, fra tre giorni». A quelle parole, lo sguardo di Doyle saettò su di me. Sorrisi e scossi impercettibilmente il capo. Avevo capito. «Hedwick, la sola testa coronata che può comandare la mia presenza è la regina dell'Aria e delle Tenebre.» Lui s'irrigidì, con aria testarda. «Il re comanda la presenza di chiunque gli sia inferiore, e tu non sei ancora una regina, principessa Meredith», replicò, con una forte enfasi su quel non. Doyle tolse il tovagliolo per controllare se la mia ferita sanguinasse ancora. Evidentemente aveva smesso, perché la Tenebra prese un tubetto di antisettico per disinfettarla. «Se fossi un'erede di re Taranis, lui potrebbe darmi ordini, ma non lo sono. Sono un'erede della regina Andais. Soltanto lei mi può dare ordini, perché mi è superiore di rango.» Hedwick fece una smorfia nell'udire il vero nome della regina. Tutti i Seelie avevano quel tabù: mai pronunciare il suo nome, come se temessero che così l'avrebbero evocata. «Stai dicendo che sei superiore di rango al re?» m'interrogò, con aria profondamente offesa.
Doyle cominciò a ripulirmi la ferita con una garza; per quanto fosse delicato, ogni volta che mi sfiorava sentivo una fitta di dolore in tutto il braccio. Strinsi i denti e mi sforzai di non mostrarlo. «Sto dicendo che il rango della Corte Seelie non significa più niente per me, Hedwick. Quand'ero soltanto una principessa della Corte Unseelie potevo avere lo stesso rango anche alla Corte Seelie. Ma ora potrei diventare regina. E se devo regnare, non posso avere un rango inferiore in un'altra Corte.» «Ci sono molte regine alla nostra Corte, e tutte riconoscono Taranis come loro re supremo.» «Ne sono al corrente, ma loro fanno parte della Corte Seelie, e non sono sidhe. Io faccio parte della Corte Unseelie e sono sidhe.» «Tu sei la nipote del re», disse Hedwick, ancora cercando di orizzontarsi nel labirinto araldico in cui lo avevo risucchiato. «Mi fa piacere che qualcuno se ne ricordi, ma sarebbe come se Andais chiamasse Eluned e le chiedesse di riconoscerla come suprema regina.» «La principessa Eluned non ha legami di parentela con la Corte Unseelie», replicò lui, terribilmente sdegnato. Sospirai, mentre Doyle finiva di disinfettarmi la ferita. «Hedwick, cerca di capire questo: io sarò regina della Corte Unseelie. Io sono l'erede al trono. Re Taranis non può ordinarmi niente, perché io non sono la sua erede.» «E rifiuti di presentarti, come il re ti comanda?» Aveva ancora l'aria di non credere alle sue orecchie. Evidentemente non aveva capito ciò che gli stavo ripetendo. «Il re non ha nessun diritto di darmi ordini. Sarebbe come se il presidente degli Stati Uniti ordinasse a te di presentarti da lui.» «Tu presumi di essere superiore a ciò che sei, Meredith.» Lasciai che l'ira trasparisse sul mio viso. «E tu mi stai facendo perdere la pazienza, Hedwick.» «Osi davvero rifiutare di ubbidire al re?» Lo stupore scaturiva dalla sua voce, dalla sua faccia, dal suo atteggiamento. «Sì, perché non è il mio re, e non può comandare niente e nessuno fuori del suo regno.» «Stai dicendo che rinunci a tutti i titoli che hai alla Corte Seelie?» Doyle mi toccò un braccio per indurmi a guardarlo. I suoi occhi dissero: Cautela, adesso. «No, Hedwick, e che tu mi dica questo è una grave offesa. Sei solo un piccolo funzionario, un portamessaggi, niente di più.» «Sono il segretario del re», ribatté lui, ergendosi in tutta la sua altezza
benché fosse seduto. «Consegni messaggi ai fey minori e agli umani di basso rango. Tutti gli inviti importanti vengono affidati a Rosmerta, e tu lo sai. Mandarmi un invito per tua bocca, invece che attraverso di lei, è stato un insulto.» «Tu non meriti le attenzioni di Dama Rosmerta.» Scossi il capo. «Il tuo messaggio è inappropriato, Hedwick. Sarà meglio che torni dal tuo padrone, e te ne faccia dare un altro. Uno che abbia migliori possibilità di essere ascoltato.» Detto ciò, feci un cenno col capo a Doyle. Lui si alzò e oscurò lo specchio troncando a metà un'indignata concione di Hedwick. Poi si voltò verso di me con un sogghigno. «Ben fatto.» «Hai appena insultato il re della Luce e delle Illusioni», disse Rhys. Era pallido. «No, Rhys. È stato lui a insultare me. E ha fatto di peggio. Se avessi accettato l'ordine di Taranis, questo sarebbe stato interpretato come la mia ammissione che, una volta sul trono degli Unseelie, io lo accetterò come re dei Seelie e degli Unseelie.» «Non potrebbe esser stato un errore del segretario?» domandò Frost. «Forse si è limitato a usare le stesse parole con tutti quelli della sua lista?» «Forse. Ma anche così è sempre un insulto.» «Un insulto, va bene. Ma a Merry conviene inghiottire qualche rospo, pur di restare nelle grazie del re», replicò Rhys. Si era seduto dall'altra parte del letto, come se si sentisse le gambe deboli. «No. Non possiamo permettercelo», affermò Doyle, deciso. Tutti lo guardammo, e lui proseguì: «Non capisci, Rhys? Merry dovrà governare il regno rivale di quello di Taranis. Deve chiarirgli le regole fin da ora, altrimenti lui la tratterà sempre come un'inferiore. Per la nostra stessa sicurezza, lei non deve apparire debole». «Cosa farà il re?» domandò Frost. La Tenebra sì voltò verso di lui, e si scambiarono uno dei loro lunghi sguardi. «In tutta franchezza, non lo so.» «Qualcuno lo ha mai sfidato così?» volle sapere Frost. «Non lo so», rispose Doyle. «No», dissi io. Mi guardarono. «Così come voi girate intorno ad Andais come se fosse una vipera pronta a colpire, tutti sono altrettanto timorosi di Taranis.» «Non ha l'aria pericolosa come la nostra regina», osservò Frost.
Scrollai le spalle, ma subito una fitta di dolore me ne fece pentire. «Taranis è come un grosso bambino prepotente che le ha avute tutte a suo modo per troppo tempo. Se non ottiene ciò che vuole, s'infuria. I servi e i suoi lacchè vivono con la paura di quelle sfuriate. È risaputo che ha ucciso degli innocenti, in un accesso di rabbia. A volte se ne pente, altre volte no.» «E tu gli hai appena gettato in faccia un guanto di sfida pesante come un mattone», disse Rhys, fissandomi dai piedi del letto. «Una cosa che ho sempre notato del temperamento di Taranis è che non colpisce mai chi è potente. Se è vero che le sue sfuriate sono incontrollabili, perché se la prende con chi è troppo debole per reagire? Le sue vittime sono sempre inferiori come capacità magiche o per importanza politica, o gente che non ha forti alleati tra i sidhe.» Scossi il capo. «No, lui sa sempre contro chi scagliarsi. Non è uno sciocco. Non mi attaccherà finché vede che posso tenergli testa. Mi rispetterà, e forse comincerà a temermi.» «A temere te?» si stupì Rhys. «Ha paura di Andais... e anche di Cel, perché Cel è pazzo e nessuno può prevedere cosa farebbe se salisse al trono. Probabilmente Taranis ha creduto di potermi controllare. Ora starà cominciando a ripensarci.» «È interessante che questo invito venga dopo che abbiamo parlato con Maeve Reed», commentò Doyle. Accennai di sì. «Così pare, vero?» I tre uomini si scambiarono un'occhiata. Kitto stava disteso intorno a me, più quieto. «Non credo che per Meredith sarebbe saggio partecipare a questo ballo», osservò Frost. «Sono d'accordo», annuì Doyle. «Mi associo», disse Rhys. Li guardai. «Non intendo andarci. Ma perché adesso siete così seri?» Doyle sedette accanto a me, costringendo Kitto a scostarsi un poco. «Taranis è riflessivo come te, quando si tratta di politica?» Mi accigliai. «Non lo so. Perché?» «Penserà che hai rifiutato per la ragione vera, oppure gli verrà il dubbio che il motivo sia stato ciò che ti ha detto Maeve?» Ancora non avevo rivelato a nessuno il segreto di Maeve, e loro non mi avevano fatto domande. Probabilmente credevano che lei mi avesse chiesto di non parlarne, ma non era così. Si trattava di una di quelle informazioni che possono causare la morte di chi le possiede. Ma, inatteso come un fulmine a ciel sereno, ecco questo invito a Corte. Merda.
«Non avevo intenzione di rivelarvi ciò che mi ha detto Maeve, perché è un'informazione pericolosa. Pensavo che non avremmo mai avuto rapporti con la Corte Seelie, e che la cosa non avrebbe riguardato noi. Non avevo mai avuto inviti di nessun genere da Taranis, che mi ha sempre ignorata. Ma se avremo a che fare con lui, allora è necessario che sappiate.» Rivelai loro perché Maeve era stata esiliata. Rhys si prese la testa tra le mani e non aprì bocca. Frost mi guardava a occhi sgranati. Anche Doyle era senza parole. Fu Kitto a parlare. «Taranis ha condannato la sua gente.» «Se è davvero sterile, allora sì, li ha destinati a estinguersi, come popolo», disse Doyle. «La loro magia muore, perché il loro re è sterile come un campo disseccato», aggiunse Frost. «Credo che sia questa la paura di Andais, per gli Unseelie. Ma lei ha partorito un figlio, mentre Taranis non ne ha mai avuto uno.» «È per questo che lei desidera tanto che io o Cel abbiamo figli», dissi. Doyle annuì. «Credo anch'io, benché abbia tenuto per sé il motivo per cui vi ha sempre messo l'uno contro l'altra.» «Taranis ci ucciderà tutti.» La voce di Rhys era calma, ma molto sicura. Lo guardammo. Voltarci continuamente verso chi apriva bocca era come assistere a una partita di tennis. Lui si tolse le mani dalla faccia. «Deve uccidere tutti quelli che sanno della sua sterilità. Se gli altri Seelie scopriranno che li ha condannati, pretenderanno che faccia il grande sacrificio, e che il suo sangue sia sparso per restituire loro la fertilità.» Sostenere lo sguardo fosco di Rhys e replicare a quelle parole era difficile, specialmente se in fondo pensavamo tutti la stessa cosa. «Allora perché Maeve Reed è viva e vegeta?» domandò Frost. «Julian Hart ci ha detto che non ci sono stati attentati alla sua vita, di nessun genere.» «Non so spiegarmelo», ammise Rhys. «Forse perché non ha modo di parlare con gli abitanti di Faerie. Nessun Seelie oserebbe sfidare il bando messo su di lei. Ma Meredith non teme di essere punita da Taranis, e inoltre può parlare a gente che conta. Gente che le crederebbe, e che sarebbe disposta ad agire di conseguenza.» Per un poco restammo lì, a riflettere. Poi Doyle ruppe il silenzio. «Frost, chiama Julian Hart e digli che potrebbero esserci dei guai». «Non potrò dirgli perché», osservò Frost.
«No», confermò la Tenebra. Frost annuì e andò in soggiorno, dove c'era il telefono. Mi rivolsi a Doyle. «Hai parlato a qualcun altro di questa faccenda?» «Solo a Barinthus», rispose lui. «La coppa d'acqua sull'altare, eh?» Doyle accennò di sì. «Una volta era il governatore dei mari intorno alle nostre isole, perciò una chiamata con l'uso dell'acqua non è intercettabile da altri.» Lo sapevo anch'io. «Mio padre era solito chiamare Barinthus in quel modo. Come se la passa?» «È il tuo più forte alleato tra gli Unseelie e, quando può, cerca di portare gente dalla tua parte.» Lo guardai dritto in quei suoi occhi neri. «Cos'è che non mi stai dicendo?» Lui distolse lo sguardo, imbarazzato. «Una volta non sapevi leggermi in faccia a questo modo.» «Ho fatto pratica. Cosa non mi hai detto?» «Hanno cercato di assassinarlo, per due volte.» «Che il Lord e la Lady ci proteggano! Due tentativi pericolosi?» «Abbastanza pericolosi da indurlo a parlarmene, ma non tanto da avere successo. Barinthus è uno dei più vecchi di noi. È una creatura dell'elemento acquatico. Non è facile uccidere l'acqua.» «Come hai detto, Barinthus è il mio principale alleato. Se lo uccidessero, anche gli altri mi lascerebbero.» «Lo temo anch'io, principessa. Ma molti si domandano quali saranno le condizioni mentali di Cel, quando uscirà da questo tormento. Temono che diventerà del tutto pazzo, e nessuno vuole un pazzo sul trono. Barinthus dice che per questo motivo qualche seguace di Cel potrebbe sorvolare sulla paura che tu lo contamini con la tua mortalità.» «Devono essere alla disperazione», commentai. «Non loro. Quelli che sono alla disperazione stanno parlando di dichiarare guerra alla Corte Seelie. Ciò che non ho detto a Kurag è che progettano di farlo in ogni caso, non importa chi di voi due salirà al trono. Vedono la pazzia di Cel, la tua mortalità e la debolezza della regina come sintomi che gli Unseelie sono sulla via del tramonto, come popolo. Il motivo per cui vogliono la guerra è che questa sarà la nostra ultima opportunità di sconfiggere i Seelie e unificare le due Corti.» «Se avessimo una guerra su larga scala sul territorio americano, i militari
umani interverrebbero», disse Rhys. «Sarebbe una violazione del trattato che ci consente di stare in questa nazione.» «Lo so», sospirò Doyle. «E loro pensano che Cel sia pazzo?» borbottò Rhys. «Barinthus ti ha detto chi è l'eminenza grigia dietro l'idea di fare guerra ai Seelie?» «Siobhan.» La comandante delle guardie di Cel. «Di Siobhan ce n'è una sola», cercò di consolarmi Doyle. «Grazie al Lord e alla Lady», aggiunse Rhys. Siobhan era l'equivalente di Doyle. Pallida come una lebbrosa, con capelli simili a una ragnatela e di piccola statura, dal lato fisico non aveva nulla in comune con lui. Ma così come accadeva quando la regina diceva: «Dov'è la mia Tenebra? Mandatemi la mia Tenebra» e qualcuno perdeva sangue o moriva, Cel usava Siobhan nello stesso modo. Non aveva nessun soprannome; era soltanto Siobhan. «Odio essere pignola, ma, che voi sappiate, ha ricevuto qualche punizione per aver cercato di assassinarmi su ordine di Cel?» domandai. «Sì, ma sono trascorsi dei mesi, Meredith, e la punizione è finita», rispose Doyle. «Quanto è durata?» volli sapere. «Un mese.» Scossi il capo. «Un mese, per aver attentato alla vita di una sidhe di sangue reale. Che razza di messaggio è per tutti quelli che vogliono vedermi morta?» «A darle l'ordine è stato Cel, Meredith, e lui sta sopportando sei mesi di una delle nostre peggiori punizioni. Nessuno si aspetta che la sua mente resti intatta. È questa la vera punizione.» «A te è mai capitato di restare per un mese sotto le tenere cure di Ezekial?» domandò Rhys. Ezekial era il torturatore di Corte, da ormai molte vite dei mortali. Ma era mortale lui stesso. La regina lo aveva visto svolgere quelle mansioni al servizio di un governante umano, e ne era rimasta così ammirata che gli aveva offerto un lavoro. «Non sono mai stata nell'Anticamera della Mortalità per un mese intero, no, ma ci ho passato la mia parte di tempo. Ezekial si lamentava sempre che doveva prestarmi più attenzione degli altri. Si dedicava da troppi secoli alla tortura degli immortali, e aveva paura di ammazzarmi per sbaglio.
'Che noia lavorare su di te, principessa. Tu sei così delicata, così fragile, così umana.'» Rhys fece una smorfia. «Imiti molto bene la sua voce.» «A lui piace parlare, mentre lavora.» «Scusa, Merry, hai fatto le tue esperienze. Ma grazie a questo puoi immaginare cosa abbia significato per Siobhan restare sotto le sue cure per un mese.» «Sì, Rhys, capisco. Ma mi sentirei meglio se fosse stata giustiziata.» «La regina odia perdere qualunque sidhe di alto rango», mi fece notare Doyle. «Lo so. Non siamo molti, noi di sangue nobile.» Ma la cosa non mi piaceva affatto. Se uno cerca di ammazzare un erede al trono, la punizione dovrebbe essere la morte. Essere pietosi significa solo dargli la possibilità di riprovare. E Siobhan era di quelli capaci di riprovare. «Perché Siobhan vuole la guerra contro i Seelie?» domandai. «Perché le piace la morte», disse Rhys. Lo guardai con aria interrogativa. «Non ero il solo che passava per una divinità della morte, e non sono il solo ad aver perso molto potere quando decidemmo di eliminare quel genere di magia riunendola nel Senzanome. Anche Siobhan si chiamava in un altro modo, a quei tempi.» Quel discorso mi fece venire in mente una cosa. «Sarà meglio che tu riferisca a Doyle ciò che hai visto sulla scena del delitto, questa mattina.» Rhys parlò a Doyle delle antiche divinità e dei loro spettri. Quella notizia lo mise di cattivo umore. «Non ce lo vedo Esras a fare una cosa del genere, ma so che la regina ha già ordinato di farlo, in passato. Uno degli accordi tra noi e i Seelie era che certi incantesimi non sarebbero stati usati mai più. Questo era uno di essi.» «In teoria, se si potesse dimostrare che un sidhe di una Corte o dell'altra ha fatto questo incantesimo, sarebbe un motivo per stracciare il trattato di pace tra noi?» Doyle parve pensarci. «Non lo so. In linea generale, sì; ma nessuna delle due Corti vorrebbe una guerra totale.» «Siobhan la vuole», replicai. «E mi vuole morta. Potrebbe essere stata lei?» Per qualche lungo momento, gli altri ci pensarono in silenzio. Kitto giaceva accanto a me, immobile. «Lei vuole la guerra, e non avrebbe il minimo scrupolo a infrangere gli
accordi», disse infine Doyle. «Ma se abbia il potere di fare certe cose, non lo so.» Guardò Rhys. «Una volta ce l'aveva. Diavolo, ce l'avevo anch'io. Ma questa strage al night club avrebbe richiesto la sua presenza qui, in California. Non si possono mandare altrove quegli spettri, in un posto lontano dal loro guardiano magico dove costui non può controllarli. Altrimenti andrebbero in giro ad ammazzare la gente, ma a casaccio. Non attaccherebbero Merry, né nessun altro bersaglio preciso.» «Sei sicuro?» chiese Doyle. «Sì, di questo sono sicuro.» «Barinthus avrebbe parlato di Siobhan, se avesse saputo che era assente dalla Corte?» «Mi ha detto solo che lei era una spina nel fianco.» «Allora è là», dissi. «Questo non le impedirebbe di assentarsi per breve tempo.» «Ma in tal caso avrebbe diretto gli spettri su di te», mi fece notare Rhys. «E se la mia morte fosse solo un obiettivo secondario? E se il vero scopo dietro di essa fosse la guerra tra le Corti?» «In tal caso, perché non scatenare le antiche divinità nell'Illinois, su una delle Corti?» domandò Doyle. «Perché chiunque sia stato desidera la guerra, non vedersi scoperto e condannato a morte.» La Tenebra annuì. «Questo è vero. Se la regina scoprisse che qualcuno ha usato uno degli incantesimi proibiti, lo condannerebbe a morte nella speranza di placare Taranis.» «E lui si lascerebbe placare, perché nessuno dei due vuole una guerra totale», aggiunse Rhys. «Così, allo scopo di far scoppiare la loro piccola guerra, questi traditori non devono farsi punire», dissi. «Pensateci. Se le Corti avessero la dimostrazione che c'è al lavoro una magia sidhe, senza poter capire da quale parte stia la colpa, i sospetti monterebbero da entrambe le parti.» «Siobhan non è capace di liberare il Senzanome», affermò Rhys. «Ne sono certo.» «La regina non ha forse detto che Taranis si è rifiutato di aiutare a cercarlo?» replicai. «Si è rifiutato di ammettere che una cosa tanto orribile possa essere parte della sua Corte?» «Sì, l'ha detto», confermò Doyle. «E se il colpevole fosse qualcuno della Corte Seelie? Avremmo più dif-
ficoltà a identificarlo?» «Forse.» «Stai dicendo che questo traditore è un Seelie?» domandò Rhys. «Forse. O forse abbiamo due traditori. Siobhan potrebbe aver scatenato le antiche divinità, e qualcuno dell'altra Corte aver liberato il Senzanome.» «Ma perché liberare il Senzanome?» chiese Rhys. «Se uno potesse controllarlo, avrebbe accesso ai più primordiali e spaventosi poteri di Faerie», mormorò Doyle, come parlando tra sé. «Chi riuscisse a controllarlo sarebbe invincibile.» «Qualcuno sta preparando la guerra», dissi. Doyle fece un lungo sospiro. «Dovrò informare la regina riguardo gli spettri degli antichi. Le parlerò anche delle speculazioni che abbiamo fatto sul Senzanome.» Guardò me. «E finché non saremo sicuri che le antiche divinità non siano state aizzate contro di te, resterai all'interno degli incantesimi protettivi.» «Pensi che gli incantesimi fermeranno gli spettri?» Lui corrugò la fronte e interrogò con lo sguardo Rhys, che si strinse nelle spalle. «Ho visto gli spettri liberati durante una battaglia campale. So che gli incantesimi protettivi possono tenere fuori tutto ciò che intende ferire, ma non so quanto potenti possano diventare quelle creature. Specialmente se viene concesso loro di nutrirsi. Potrebbero diventarlo tanto da spezzare quasi ogni barriera magica.» «Grazie, questo è rassicurante», dissi. Doyle mi guardò, serio in viso. «Non ho intenzione di confortare nessuno, Merry. Solo di essere onesto.» Poi sorrise. «D'altra parte, tutti noi daremmo la vita per proteggerti, e siamo piuttosto duri da uccidere.» «Ma non credi che avreste la meglio», obiettai. «Come si può sconfiggere una cosa invisibile e intoccabile, che però può vederci e toccarci? Una cosa che può succhiarci la vita dalla bocca, come noi vuotiamo una lattina di birra? Come la combatti?» «Parlerò alla regina anche di questo argomento.» Doyle si alzò e andò verso il bagno, dove c'era uno specchio più piccolo; evidentemente voleva parlarle in privato. Sulla porta si fermò. «Chiama Jeremy e digli che non torneremo in agenzia. Finché non sapremo qualcosa di più su questa minaccia, penseremo soltanto a proteggerti.» «E i soldi per vivere dove li troviamo?» domandai. Sospirò, sfregandosi gli occhi come se fosse stanco. «Il tuo desiderio di non avere debiti con nessuno è ammirevole, e mi trova d'accordo. Ma sa-
rebbe meglio se prendessimo uno stipendio dalla Corte e ci preoccupassimo solo della politica di Corte. Quando questa politica viene a stravolgere la tua vita, Meredith, non puoi continuare ad andare in ufficio come niente fosse.» «Non voglio i soldi della regina.» «Lo so, lo so. Chiama Jeremy e spiegagli che dovrai accudire Kitto. Se gli dici che Kitto stava svanendo e che hai dovuto salvarlo, Jeremy capirà.» «Non credi che dovremmo dirgli degli spettri degli antichi?» «Questi sono affari dei sidhe, Meredith, e lui non è un sidhe.» «Sicuro, ma se i sidhe si faranno guerra, questo riguarderà tutti i fey. La mia bisnonna era una brownie. Tutto ciò che voleva era restare a casa sua, nella terra degli umani, e vivere in pace, ma fu uccisa in una delle ultime grandi guerre. Se gli altri fey saranno coinvolti, non hanno il diritto di saperlo prima?» «Jeremy è stato esiliato da Faerie, perciò non sarà coinvolto in niente.» «Stai ignorando la mia argomentazione.» «No, Meredith, non la ignoro, ma non so che opinione farmene. E finché non lo saprò non dirò niente.» Doyle girò l'angolo. Sentii la porta del bagno aprirsi e richiudersi. Rhys mi appoggiò una mano su una spalla. «È bello da parte tua affermare che tutti i fey, non solo i sidhe, devono aver il diritto di voto. Molto democratico.» «Non venire a insegnarmi a vivere, Rhys.» Lui abbassò la mano. «Posso anche essere d'accordo con te, Merry, ma la nostra opinione non conta molto. Quando tu sarai sul trono, forse questo cambierà, ma in questo momento non è concepibile, in nessun regno di Faerie, che un regnante sidhe accetti d'includere i fey minori nelle nostre discussioni politiche. Se ci sarà una guerra, glielo diremo quando l'avremo decisa, non prima.» «Non è giusto», ribattei. «No, ma è così che noi facciamo le cose.» «Lascia che io arrivi al trono, e forse questo cambierà.» «Oh, Merry, stai dicendo che rischiamo la vita per te solo perché, quando sarai regina, tu faccia incavolare tutti i sidhe? Possiamo contrastarne qualcuno, ma non tutti.» «I fey minori sono molto più numerosi dei sidhe, Rhys.» «Ciò che conta non è il numero, Merry.»
«E cos'è che conta?» «La forza. La forza delle braccia, la forza della magia, la forza dell'autorità. Noi sidhe abbiamo tutto questo. Ecco perché, mia cara principessa, dominiamo i fey da millenni.» «Ha ragione», mormorò Kitto. Mi voltai a guardarlo. Era sempre pallido, ma non più trasparente in quel modo spaventoso, cadaverico. «I goblin sono grandi guerrieri», dissi. «Sì, ma non grandi stregoni. E Kurag teme i sidhe. Tutti quelli che non sono sidhe temono i sidhe.» «Non sono sicura che questo sia vero.» «Io lo sono», disse lui, e si rannicchiò ancora più vicino a me, stringendosi intorno al mio corpo con tutta la sua forza. «Lo sono.» 27 Dopo l'emozione che mi era costata l'esperienza con Kitto, ero così sfinita che decisi di andare a letto sebbene fosse primo pomeriggio. Dissi a Doyle che, se voleva, avrebbe potuto unirsi a me e a Frost; ma quest'ultimo si chiamò fuori, così anche la Tenebra dichiarò che aveva altro da fare. Gli ricordai che l'ultima notte era stato Frost a giacere con me, ma lui rispose che avremmo dormito e basta, perciò cosa importava chi fosse nel mio letto? Nessuno dei due si lasciò convincere dalle mie argomentazioni. Così rimasi in camera con la sola compagnia di Kitto. Lo feci però sdraiare in quello che di solito era il mio lato del letto, così se si fosse stretto a me non mi avrebbe toccato la spalla ferita dal suo morso. Avevo preso due compresse di analgesico, ma mi faceva ancora piuttosto male, e la sentivo pulsare. La prima volta che Kitto mi aveva messo il suo marchio non era stato così doloroso. Forse era buon segno. Lo speravo. Avrei odiato soffrire in quel modo senza nessuno scopo reale. Jeremy non aveva preso bene la notizia che nessuno di noi sarebbe tornato in ufficio, finché non gli avevo spiegato che Kitto era stato a un passo dalla morte. La notizia lo aveva lasciato ammutolito, abbastanza a lungo perché dovessi chiamarlo sottovoce. «Jeremy?» «Sono qui, Merry. Stavo solo rivangando dei brutti ricordi. Ho già visto dei fey svanire. Fai quello che devi fare per prenderti cura di lui. Qui in ufficio ce la caveremo in qualche modo. Teresa dovrà restare tutta la notte in ospedale, in osservazione. L'hanno riempita di sedativi perciò non so cosa
avranno da osservare.» «Si riprenderà?» Aveva esitato. «Probabilmente. Ma non l'avevo mai vista ridotta in queste condizioni. Suo marito mi ha accusato di averla messa in pericolo. Esige che non la mandi mai più sulla scena di un delitto. Non posso biasimarlo.» «Pensi che Teresa sarà d'accordo con lui?» «Non so se questo avrà qualche importanza. Ho preso una decisione. La Grey Detective Agency non farà più collaborazioni con la polizia. Sono un buon mago, ma non avevo la minima idea di quello che sarebbe successo oggi. Ho potuto sentire i resti di un incantesimo, e niente di più. Ho detto alla detective Tate ciò che ho sentito, ma il tenente Peterson non ha voluto neanche ascoltarmi. Ha già deciso che è un crimine in cui la magia non c'entra. Insolito, ma niente affatto magico.» La sua voce mi era parsa stanca. «Ho idea che ti converrebbe andartene a letto, magari in dolce compagnia.» «Ti stai offrendo volontaria?» Jeremy aveva riso. «Merry la Generosa, sempre pronta a tirar su di morale i fey della vecchia Los Angeles» «Se capiterai da queste parti in cerca di un abbraccio amichevole, sarai il benvenuto.» Aveva taciuto un momento. «Me l'ero quasi dimenticato.» «Dimenticato cosa?» «Quanto sia bello un tuo abbraccio amichevole, di quelli che gli umani credono intimità da amanti. Non mi dispiacerebbe dormire accanto a te, rannicchiati l'uno accanto all'altra.» «Se ne avrai bisogno...» «È troppo tempo che sono tra gli umani, Merry. Non penso più come un trow. Non credo che potrei dividere il letto con te senza che la cosa diventi sessuale.» Non avevo saputo cosa replicare a quelle parole. Quando mi svegliai, la luce che filtrava dalle tende si stava intorbidendo nel crepuscolo. Ero ancora distesa a fianco di Kitto, e lui si stringeva a me con la stessa forza di prima; era come se non ci fossimo mossi per tutto il pomeriggio. Restai a giacere lì per un poco, per sentire cosa mi trasmetteva il mio corpo dopo quella lunga immobilità. Il dolore alla spalla era lontano, e si lasciava ignorare. Il respiro di Kitto era profondo, regolare. Cos'era stato a svegliarmi?
Poi qualcuno bussò di nuovo alla porta. E aprì, prima che io potessi parlare. Galen mise dentro la testa. Vide che ero sveglia e sorrise. «Come sta Kitto?» Mi sollevai su un gomito e abbassai lo sguardo sul goblin. Lui emise un mugolio e si avvicinò finché non rimase di nuovo nessuno spazio tra il suo corpo e il mio. «Sembra che stia meglio, ed è caldo.» Gli passai una mano tra i riccioli. La sua testa si mosse come a seguire il contatto delle mie dita, ma non si svegliò. «È successo qualcosa?» Galen aveva un'espressione che non riuscivo a leggere. «Be', non esattamente.» Corrugai le sopracciglia. «Cosa c'è?» Stavamo parlando a bassa voce per non disturbare Kitto. Galen entrò nella camera e chiuse la porta senza far rumore, poi venne a fermarsi ai piedi del letto. Indossava una camicia a maniche lunghe, il cui colore verde pallido faceva apparire più intenso quello della pelle e dei capelli. I pantaloni erano jeans lavati al punto di essere ormai quasi bianchi. Su una gamba erano bucati, e lasciavano vedere il verde di una coscia. D'un tratto mi accorsi che aveva parlato mentre ero distratta in altri pensieri. «Scusa, cos'hai detto?» Galen fece biancheggiare i denti in un sogghigno. «Il rappresentante della regina Niceven è arrivato. Ha l'ordine tassativo di farsi pagare secondo l'accordo, prima di rivelarci la segreta cura che potrebbe guarirmi.» Il mio sguardo tornò al buco nei pantaloni, poi risalì lungo il suo corpo finché non ritrovai quegli occhi verde erba. Il calore che vidi in essi mi fece fremere. Kitto si mosse al mio fianco, e i suoi occhi si aprirono. Occhi blu. Il rumore della porta, le chiacchiere e i movimenti non lo avevano svegliato; a fargli spalancare gli occhi era stato quel lieve irrigidirsi del mio corpo in reazione alla vicinanza di Galen. Gli spiegai brevemente che c'era l'inviato di Niceven. Kitto non avrebbe avuto problemi con la presenza di un demifey. Lo immaginavo, e glielo avevo domandato solo per sicurezza. La regina Niceven a lui non lo aveva chiesto, e non tanto perché lo sapesse già, quanto perché non le importava niente. Galen tornò alla porta e la aprì del tutto. Una figuretta volò dentro. Aveva all'incirca le dimensioni di una bambola Barbie. Le sue ali erano larghe il doppio del suo corpo e di un giallo splendente, con strisce e chiazze blu
e rosso-arancio. Quando si fermò a mezz'aria sul letto, proprio sulla mia verticale, vidi che anche la sua pelle era gialla, un po' più smorta delle ali. Il suo unico indumento era un gonnellino color limone. «La regina Niceven dei demi-fey manda i suoi saluti alla principessa Meredith degli Unseelie. Io sono conosciuto come Sage, il fortunato fey prescelto come ambasciatore di sua maestà nelle Terre Occidentali», annunciò. Aveva una voce cristallina come una campanella, dal suono allegro. Il suo aspetto mi fece sorridere, e seppi subito che si trattava di un glamour. «Niente glamour tra noi, Sage, perché è come una bugia.» Lui si premette le piccole mani perfette sul cuore, mentre le ali acceleravano mandandomi in faccia una corrente d'aria. «Glamour? Io, un umile demi-fey userei un glamour davanti a una sidhe della Corte Unseelie?» Era stato attento a non negare l'accusa; aveva semplicemente aggirato la risposta. «Puoi toglierti il glamour, oppure ti sarà tolto», replicai. «Dopo potrai rimetterlo, ma all'inizio dei nostri rapporti voglio vedere con chi o cosa ho a che fare.» Sage volò più vicino, così vicino che il vento delle sue ali mi spostava ciocche di capelli sulla faccia. «Mia amabile signora, tu mi ferisci. Io sono avvenente come tu mi vedi.» «Se questo è vero, allora atterra sopra di me e metti alla prova la verità delle tue parole. Se sei davvero quello che sembri, il contatto della mia pelle non ti cambierà. Ma se hai detto il falso, sfiorandomi apparirà il tuo vero aspetto.» La stessa forma di quelle parole era un incantesimo particolare. Avevo detto il vero e ci credevo, e di conseguenza quella diventava una matrice di verità. Quando lui avrebbe toccato la mia pelle sarebbe stato costretto a rivelarsi per ciò che era. Mi alzai a sedere e protesi una mano. Il lenzuolo ricadde intorno ai miei fianchi. Kitto si rannicchiò contro di me, con gli occhi spalancati fissi sul fey volante. Guardava quella figuretta come un gatto affascinato da un uccello. Sapevo che i goblin erano capacissimi di cannibalizzare gli altri fey. L'espressione sulla faccia di Kitto sembrava dire che per lui i demi-fey erano una leccornia. «Tutto bene, Kitto?» Sbatté le palpebre, e il suo sguardo si staccò dal fey volante per risalire su di me, prima sui seni nudi, poi sul volto. Il suo sguardo famelico rimase immutato. Questo mi spaventò. Qualcosa dovette apparire nei miei occhi,
perché subito Kitto abbassò la faccia e la nascose tra le lenzuola, contro il mio fianco. «Il sapore della carne ha reso baldanzoso il nostro piccolo goblin.» Sulla porta c'era Doyle. Il demi-fey si girò a mezz'aria e gli rivolse un inchino. «Tenebra della regina, è un onore incontrarti.» Doyle gli rispose con un cenno del capo, per pura cortesia. «Sage, è una sorpresa vederti qui.» Il minuscolo uomo volante si alzò di quota per poterlo guardare allo stesso livello dei suoi occhi, ma gli rimase a buona distanza, come un insetto timido. «Perché sorpreso, Tenebra?» La sua voce non era più una campanella allegra. «Non immaginavo che Niceven potesse separarsi dal suo amante preferito.» «Non sono più tale, Tenebra, e tu lo sai bene.» «Non lo sei da quando il tuo posto è stato preso da un amante più fertile, che è riuscito a farla partorire ed è così diventato suo marito. Ma lei non si è dimenticata di te, benché per legge non possa averti, e ti costringe a esserle fedele.» Sage volò un poco più in alto e più vicino. «Tu pensi che poiché non siamo sidhe non abbiamo nessuna morale», esclamò, irritato. Si sarebbe potuto credere che in un ometto così piccolo l'ira apparisse ridicola, ma non era così. Aveva la voce stridula come un vento secco tra le spine, acida e pericolosa. «Ora che non sei più l'amante della regina, la tua virilità si sta arrugginendo?» replicò Doyle. Non lo avevo mai udito così caustico: stava deliberatamente provocando Sage. Ma non lo avevo mai neppure visto fare qualcosa che non fosse calcolato per uno scopo, perciò non intervenni. Quella diatriba aveva un sapore personale; cosa poteva aver fatto quel piccolo individuo alla Tenebra della regina per meritarsi tutto quel livore? «Ho avuto grande successo con tutte le femmine più belle del nostro regno, Tenebra.» Sage volò quasi sulla faccia di Doyle. «E tu, uno degli eunuchi della regina, sei mai stato altro che arrugginito nelle tue parti basse?» «Guarda chi c'è in questo letto, Sage. Dimmi se c'è un uomo o un fey che non venderebbe l'anima per lei.» L'ometto volante non si voltò a guardare me e Kitto. «Non sapevo che ti
piacessero i goblin, Tenebra. Credevo che fossero la passione di Rhys.» «Per quanto tu finga di essere più ottuso di quello che sei, Sage, conosci bene il significato delle mie parole.» «Le voci corrono, Tenebra. Esse dicono che tu fai la guardia alla principessa ma non condividi il suo letto. Si fanno molte speculazioni sul perché tu non approfitti di quella bellezza, mentre altri se la spartiscono.» Il demifey si avvicinò tanto a Doyle da sfiorargli la faccia con le ali. «Si dice che forse c'era più di una ragione se la regina Andais non ti ha mai voluto nel suo letto. Corre voce che tu sia un eunuco vero, e non solo per ordine reale.» Il rapido sbattere di quelle ali m'impediva di vedere il volto di Doyle. Mi accorsi che sebbene sembrassero ali di farfalla il loro movimento era più rapido, e anche di un genere molto diverso. «Ti giuro solennemente di aver preso piacere con la principessa Meredith nel modo in cui un maschio prende piacere con una femmina.» Sage stava battendo le ali; d'un tratto perse la coordinazione e per un secondo cadde verso il basso. Si riprese subito e tornò a innalzarsi di fronte agli occhi di Doyle. «E così ora non sei più l'eunuco della regina, ma l'amante della principessa.» La sua voce era bassa e maligna. Quel colloquio era decisamente qualcosa di personale. «Come hai detto tu, Sage, le voci corrono. E secondo tali voci, sembra che Niceven abbia rubato una pagina dal libro di Andais. Tu eri il suo amante preferito, prima che il suo capriccio di una notte con Pol la lasciasse gravida di un figlio. E quando le fu proibito di frequentare il tuo letto, proibì a te di frequentare il letto di ogni altra femmina. Perché, se lei non poteva averti, non dovevano averti neppure le altre.» Sage sibilò come un'ape irritata. «Se tu potessi cambiare posto con me, Tenebra, ti divertiresti molto più di quanto non ti diverta adesso.» «Cosa vuoi dire?» domandò Doyle. Ma dal tono della voce avrei detto che capiva benissimo il significato delle parole del demi-fey. «Mi sono fatto beffa di te e dei tuoi per secoli. I grandi guerrieri sidhe, i grandi corvi dell'antichità, ridotti a eunuchi di Corte. Oh, sì, mi sono fatto beffa di voi. Mi sono vantato delle mie prodezze amorose nel letto della mia regina, sussurrandole nelle vostre orecchie come un veleno.» Doyle lo guardò senza parlare. Sage svolazzò a una certa distanza da lui, andando avanti e indietro nell'aria come uno che camminasse sul pavimento. «Ora cosa mi fruttano quelle prodezze d'amore? Che senso c'è nel doverla vedere in tutta la sua
bellezza, quando non la posso più toccare?» Si voltò verso Doyle. «Oh, ci ho pensato per molti anni, Tenebra, e so come questo ha tormentato anche te. Non credere che io non veda l'ironia della mia sorte, solo perché non sono un sidhe.» Si avvicinò di nuovo alla faccia di Doyle, e la sua voce fu un sussurro che riempì il silenzio della stanza. «Un'ironia così amara da strangolarmi, Tenebra, un'ironia capace di farmi impazzire, un'ironia che mi fa venir voglia di uccidermi pur di liberarmene.» «Allora svanisci, Sage. Svanisci e falla finita.» Il piccolo fey volò più indietro. «Svanisci tu, Tenebra. E falla finita tu. Io sono qui per ordine della regina e come suo sostituto. Se volete una cura per il cavaliere verde, dovete trattare con me.» La sua voce era piena di minaccia. Galen entrò dalla porta, ancora aperta. «Voglio essere curato, ma non a qualsiasi prezzo.» Il suo volto, di solito sorridente, era fosco. «Basta così», dissi con voce morbida, non irritata. Tutti si voltarono a guardarmi. Notai che tutti gli altri, compreso Nicca, erano venuti sulla soglia. «A trattare con Niceven sono stata io, non Doyle. Mi sono accordata io, e soltanto io, per la cura di Galen. E il prezzo della cura è il mio sangue.» Sage volò verso il letto, fermandosi davanti a me. «Un sorso del tuo sangue blu, una cura per il tuo cavaliere verde, come la mia regina mi ha ordinato.» La sua voce non aveva più il tintinnio da campanella. Era una voce normale, seppure sottile e acuta. I suoi occhi erano diventati neri e piatti come quelli di un pupazzo. Non c'era niente di amichevole in quella graziosa faccetta da giocattolo. Protesi ancora la mano, e lui atterrò sul palmo. Era più pesante di quello che sembrava, più solido. Ricordavo che Niceven era molto leggera, più ossa cave che muscoli; lei era cadaverica proprio come appariva. Sage era più... carnale, o forse il suo corpo snello conteneva più sostanza di quello di Niceven. Le sue ali rallentarono, e potei così vedere che erano assai simili a quelle di una farfalla. Mi mandavano addosso un leggero vento mentre lui mi guardava; chissà se battevano a ritmo col cuore. I suoi capelli giallastri erano selvaggiamente scompigliati, sporchi, e cadevano in lunghe ciocche appiccicose intorno a quella faccia triangolare, lunghi fino alle spalle. Un tempo Andais lo avrebbe punito per esserseli lasciati crescere tanto: solo i maschi sidhe potevano avere i capelli lunghi; erano un simbolo di stato sociale, di regalità, un privilegio. Le sue mani non erano più grandi dell'unghia del mio pollice. Se ne ap-
poggiò una su un fianco snello, lasciando ciondolare l'altra, con un piede davanti all'altro, in atteggiamento di sfida. «Se avremo un po' d'intimità, potrò riscuotere il prezzo e darti la cura per il tuo cavaliere», disse, in tono petulante. Sorrisi, e la vista del mio sorriso riempì di odio la sua faccia. «Non sono un bambino che tu possa guardare con aria di superiorità, principessa. Sono un uomo.» Fece un gesto secco, iroso. «Un uomo piccolo al tuo confronto, ma adulto. Non mi piace essere osservato con quel sorrisetto, come se fossi un bambino capriccioso.» Era esattamente quello che pensavo, nel vederlo tanto pieno di sfida e di testardo orgoglio, pur così piccolo di fronte a noi grandi. L'avevo trattato davvero come un bambolotto, un giocattolo, un bambino. «Ti chiedo scusa, Sage. Hai ragione. Tu sei un fey e un adulto, nonostante le dimensioni.» Mi fissò, accigliato. «Sei di sangue reale, e chiedi scusa a me?» «Mi è stato insegnato che la vera regalità sta nel capire cos'è giusto o sbagliato e nel riconoscerne la differenza, non nella falsa perfezione.» Sage girò la testa di lato, con una mossa da uccello. «Ho sentito dire che tratti la gente con giustizia, come tuo padre prima di te.» La sua vocetta sembrava pensosa. «È bello sentir dire questo di mio padre.» «Tutti ricordiamo il principe Essus.» «Sapere che altri hanno un buon ricordo di mio padre mi rende felice.» Sage mi scrutò con attenzione, benché l'effetto non fosse quello che mi avrebbe fatto essere guardata così da qualcuno delle mie dimensioni. La sua idea del contatto oculare sembrava quella di fissarmi soltanto l'occhio destro, benché sapesse interpretare il significato del mio sorriso, segno che poteva vedermi l'intera faccia. Dovevo ammettere di non essere abituata a trattare coi demi-fey. Mio padre li aveva conosciuti bene e rispettati, ma io non ero stata alla Corte di Niceven com'ero stata alla Corte di Kurag e di altri. «Il principe Essus aveva la nostra stima, principessa, ma il tempo va avanti e così dobbiamo fare noi.» Sage appariva quasi triste. Mi guardò e riassunse un'espressione arrogante. Dovetti sforzarmi di non ridere di quella minuscola creatura così piena di sé. Non era più divertente né graziosa; era una persona come tutte le altre nella stanza. Solo che mi riusciva ancora difficile crederci. «Ora dobbiamo restare soli perché io esegua i comandi della mia regina. Poi avrai la cura per il cavaliere verde.» Guardai Doyle e Galen, con noi in camera da letto. Gli altri erano ancora
fuori. Frost stava già scuotendo il capo. «Le mie guardie non mi permettono di restare sola col membro di una delle Corti.» «Credi che dovrei sentirmi lusingato se mi vedono come una potenziale minaccia?» In piedi sulla mia mano, Sage si voltò a indicare Doyle. «La Tenebra mi conosce da molto tempo e sa di cosa sono capace, o crede di saperlo.» Tornò a girarsi verso di me, coi piedi nudi che scivolavano in modo strano sulla mia pelle. «Ma per questa missione devo restare in privato con te.» «No», disse Doyle. Sage si alzò in volo e, fluttuando a pochi pollici dalla mia mano, si voltò ancora verso Doyle. «Devi capire una cosa, Tenebra. Eseguire gli ordini della mia regina è tutto ciò che mi resta. Fare esattamente ciò che vuole è la sola cosa che mi appaga. Quello che farò stasera in questa stanza è la cosa più vicina alla degustazione delle delizie femminili che io abbia fatto da molto tempo. Non penso che chiedere di farlo in privato sia pretendere troppo.» Le guardie non erano entusiaste di quell'idea, ma alla fine accettarono. Soltanto Kitto rimase stretto intorno a me, arrotolato tra le lenzuola. Sage indicò il goblin. «Anche lui.» «Oggi è stato sul punto di svanire», obiettai. «Sembra che stia fin troppo bene.» «Il suo re, Kurag, mi ha informato che il mio corpo, il mio sangue, la mia carne e la mia magia sono ciò che sostiene Kitto qui tra gli umani. Ha bisogno di restare a contatto fisico con me ancora per un po' di tempo.» «Tu lo butti giù dal letto a calci, quando vuoi accoppiarti con uno dei tuoi guerrieri sidhe.» «No», ribatté Kitto a bassa voce. «Ho il privilegio di restare quando loro si accoppiano. Ho visto la loro luce creare ombre sui muri, così forte che tutto brillava.» Sage si abbassò a fluttuare sopra la faccia di Kitto. «Goblin, in tempo di guerra la tua gente mangia la mia.» «Il forte mangia il debole. È così che va il mondo», replicò lui. «Il mondo dei goblin», sbottò Sage. «È l'unico che conosco.» «Ora sei lontano da quel mondo.» Kitto si rannicchiò sotto le lenzuola finché di lui restarono visibili solo gli occhi. «Merry è il mio mondo, ora.» «Questo nuovo mondo ti piace, goblin?»
«Io sto al caldo e al sicuro, e lei ha il mio marchio addosso. È un mondo buono.» Sage fluttuò lì dov'era per qualche momento, poi fece ritorno sulla mia mano che continuava ad attenderlo. «Se il goblin dà la sua più solenne parola d'onore che non parlerà a nessuno di quanto vedrà o sentirà qui dentro, avrà il permesso di restare.» Kitto lo promise, ripetendo parola per parola. «Va bene», acconsentì Sage. Guardò il mio corpo, e benché lui non fosse più alto di un palmo provai lo sgradevole impulso di coprirmi. Si leccò le pallide labbra con la lingua, piccola e rossa. «Prima la riscossione del sangue, poi la cura.» Il modo in cui disse cura mi fece desiderare di non aver lasciato uscire le guardie, accettando di restare indifesa. Era piccolo come una Barbie, ma in quel momento ebbi paura di lui. 28 Sage volò via dalla mano e si gettò verso i miei seni. Io alzai l'altro braccio per sbarrargli la strada, e lui fu costretto ad atterrare sul polso. Subito mi affrettai ad allungare il braccio per allontanarlo di nuovo da me, poi presi il lenzuolo con la mano libera e me lo tirai sul petto. Lui fece una smorfia, seccato. «Mi stai negando il tuo sangue?» «Ho visto cos'hanno fatto al mio cavaliere quelli della tua razza. Sarei sciocca a lasciarti mettere la bocca sulla mia carne prima di aver visto se sei capace di mordermi con la dovuta gentilezza.» Sedette sul mio polso a gambe incrociate, con le mani appoggiate da una parte e dall'altra per puntellarsi. In quella posizione sembrava pesare di più. Non molto, ma me ne accorsi. «Sarò sempre molto gentile, bella signora.» La sua voce era un tintinnio di campanelle nella calda brezza estiva. Aveva labbra simili a piccoli petali rossi, ma un momento prima non era stato così. Si distese sul mio avambraccio come su un divano, e mi appoggiò quella morbida boccuccia floreale sulla pelle. Le sue piccole mani mi accarezzarono la fine peluria del polso, così come un amante di dimensioni normali avrebbe fatto, e si mossero per creare musica dalla mia epidermide... una musica senza suono che solo lui poteva udire, ma che io sentivo. Echeggiava nella mia carne, nel mio braccio, e vibrava su verso la spalla e il resto del corpo.
Con un movimento brusco lo scaraventai in alto, e lui ronzò sopra di me come un'ape infuriata. «Perché l'hai fatto? Ci stavamo divertendo.» «Niente glamour, te l'ho detto», lo rimproverai, accigliata, stringendomi il lenzuolo al petto. «Se mi nutrirò senza il glamour non sarà neppure lontanamente così piacevole per te.» Sage scrollò le spalle esili, con una mossa brusca che lo fece ondeggiare a mezz'aria. «Per me è lo stesso, per gli scopi di Niceven è lo stesso, ma non sarà lo stesso per te, bella principessa. Permettimi di risparmiarti ogni sconforto e sofferenza, e di farne un'amichevole condivisione di piacere.» Se mi avesse trovato in una giornata diversa, senza il morso di Kitto che mi faceva male, gli avrei detto di non fare tante storie, succhiare il sangue che doveva portare alla sua regina e togliersi dai piedi. D'altra parte, non potevo evitare di pensare che i goblin non potevano fare glamour di nessun genere, perciò Kitto non aveva avuto scelta; senza il naturale glamour del sesso non avrebbe potuto addolcire magicamente quel morso. Sage invece mi stava offrendo una scelta. Feci un lungo sospiro e accennai di sì. «Solo quel poco glamour che basti a rendere la cosa indolore, Sage, ma niente di più. Se tenterai qualcosa di diverso chiamerò le guardie, e quello che ti faranno non ti piacerà.» Emise un suono che avrebbe voluto essere villano, ma che ne venne fuori col ridicolo squittio di una farfalla che cercasse di ragliare come un asino. «Tenebra sta aspettando da secoli che io faccia un passo falso, principessa. Lo so bene, forse meglio di te, quello che mi deve.» «Ho notato che sembra esserci una questione personale, tra voi due.» «Personale? Puoi dirlo forte.» Sorrise, e riuscì a sembrare divertito e crudele allo stesso tempo, come se immaginasse cose terribili che gli sarebbe piaciuto fare. Avrei potuto chiedergli di quella faccenda personale, ma non lo feci. Mi sarebbe stato detto da Doyle, o non l'avrei mai saputo. Non credevo che Doyle l'avrebbe presa bene, se fosse venuto a sapere che mi ero informata dei fatti suoi da un fey che lui odiava. Una cosa era spettegolare sugli amici con un amico, un'altra lasciare che un nemico mi rivelasse i segreti di un mio amico alle sue spalle. Non era lecito. «Puoi nutrirti, Sage, e puoi usare un po' di glamour per rendere la cosa sopportabile. Ma non esagerare.» «Hai bisogno di pensare alle guardie per sentirti protetta? Hai il tuo goblin qui, accanto a te. Non credi che potrebbe afferrarmi e farmi a pezzi, se
volessi nuocerti?» «I goblin non riescono a far niente contro un forte glamour, e tu lo sai bene.» Si appoggiò una mano sul cuore, spalancando gli occhi. «Sono soltanto un demi-fey. Non posso avere il glamour di un signore sidhe. Perché un goblin dovrebbe temermi?» «I demi-fey di ogni razza hanno glamour potenti, come tutti sanno. Da secoli ne fanno uso per portare i viandanti fuori strada, nelle notti buie, e mandarli a finire in una palude.» «Un tuffo nell'acqua non ha mai ucciso nessuno», replicò Sage, fluttuando più vicino a me. «Salvo quando in quell'acqua ci sono le sabbie mobili. Voi siete fey Unseelie, e ciò significa che veder affogare nel fango qualche sventurato vi diverte più di ogni altra cosa.» Incrociò sul petto le braccia, sottili come una matita. «E non è lo stesso quando sono i fuochi fatui Seelie a guidare i viaggiatori negli acquitrini? Non di rado costoro hanno degli sfortunati incidenti, e non dirmi che i Seelie corrono a cercare una corda per tirarli all'asciutto. Magari spargono qualche lacrimuccia per il mortale annegato, ma ancora prima che l'ultima bolla sia salita in superficie se ne vanno, ridacchiando tra loro, alla ricerca di altri viandanti cui far luce. È vero che non li conducono nelle zone più pericolose, ma neppure li avvertono quando il pericolo è ovunque.» Sage atterrò sul mio ginocchio destro. «E poi, è così ingiusto condurre alla morte qualche collezionista di insetti armato di retino, che se mi catturasse mi chiuderebbe in una giara o m'inchioderebbe su una tavoletta per mettere il mio cadavere in cornice?» «Hai glamour sufficiente per sventare una sorte di questo genere.» «Sì, mia gentile fanciulla, ma cosa mi dici delle farfalle e degli insetti, dei quali noi demi-fey sappiamo assumere l'aspetto? Uno sciocco armato di retino può farne strage.» Non potevo dargli torto. Non del tutto, almeno. «Stai usando il glamour, adesso?» «Una principessa sidhe dovrebbe saperlo, quando viene ingannata», replicò lui, ancora a braccia conserte. Sospirai. «Va bene, non hai glamour, ma non posso ammettere che ti creda in diritto di condurre alla morte un entomologo solo perché acchiappa qualche farfalla.» «Ah.» Sage alzò lo sguardo su di me. «Ma sei d'accordo, in parte, altri-
menti non mi avresti chiesto del glamour.» Sospirai ancora. Al college avevo fatto il terribile errore di scegliere entomologia; non mi rendevo conto che prima di finire il corso avrei dovuto uccidere molti insetti. Ricordavo ancora il carosello delle farfalle chiuse a morire in una giara. Erano tra le cose più belle che avessi mai visto. Vive avevano una magia, morte non erano che fragili straccetti. Alla fine avevo chiesto quanti insetti avrei dovuto portare all'esame, inchiodati su una tavoletta, e mi ero limitata a uccidere soltanto quelli. Era inutile andare a cercarli vivi, quando il college disponeva di collezioni complete di generi e specie. Non avevo più scelto altri corsi di biologia dove bisognasse raccogliere esemplari viventi. Guardai il demi-fey sul mio ginocchio e non trovai nulla da dire che non mi facesse sentire un'ipocrita. Io non avrei mai ucciso qualcuno perché andava a caccia di insetti, ma se avessi avuto ali di farfalla sulla schiena e fossi vissuta volando di fiore in fiore, certo avrei visto la morte di una farfalla con occhi diversi. Forse, quando uno è piccolo come una Barbie, l'uccisione di creature altrettanto piccole appare orribile, come per noi l'assassinio di esseri umani. O forse no. Ma non me ne sentivo abbastanza sicura da volerne discutere. 29 Ammucchiai i cuscini alle mie spalle per potermi appoggiare all'indietro. Avevo dovuto far scostare Kitto, che poi aderì di nuovo a me con le gambe e le braccia, ma notai che stavolta non distoglieva gli occhi da Sage. Scrutava il demi-fey come se diffidasse di lui e si aspettasse qualche mossa pericolosa, o forse si stava solo chiedendo che sapore avesse. Qualunque cosa gli passasse per la testa, non era affatto amichevole. Sage non parve notare lo sguardo ostile del goblin. Mentre mi mettevo comoda si limitò a svolazzare a poca distanza da me. Quando mi fui coperta i seni col lenzuolo, alzai la mano sinistra verso di lui. Curvai le dita all'insù perché gli fosse più comodo sistemarsi sul palmo e sceglierne uno da cui prelevare il sangue. Niceven mi aveva chiesto di fare in quel modo quando avevo dato il sangue a lei, e se così era andato bene per la regina sarebbe andato bene anche per Sage. Tuttavia c'era in lui qualcosa che m'innervosiva. Era ridicolo preoccuparsi di un esserino che avrei potuto spiaccicare sul muro con un ceffone ma, sciocco o no che fosse, non potevo negare di sentirmi così. Non stetti a indagare oltre; mi co-
prii i punti più vulnerabili e gli accennai di avvicinarsi. Sage atterrò sul mio polso. S'inginocchiò sul palmo e passò le braccia intorno al dito medio; poi cominciò ad accarezzarlo, con un movimento allo stesso tempo piacevole e inquietante. A un certo punto dovette accorgersi che mi ero irrigidita, perché domandò: «Mi hai dato il permesso di usare il glamour, è così?» Non mi fidavo della mia voce, e mi limitai ad annuire. Sorrise, e la sua boccuccia tornò a essere un fiore dai petali rossi, mentre i suoi occhi diventavano caldi e sinceri. Ora mi sentivo rilassata, come se una mano carezzevole mi avesse liberata dal nervosismo. Non la scacciai, perché mi ero detta d'accordo e il dolore alla spalla era scomparso. Nessun dolore. Kitto si strinse a me, premendo le gambe contro le mie. Tolsi l'altra mano da sotto il lenzuolo e gli accarezzai i riccioli; erano incredibilmente morbidi. Lui appoggiò la faccia al mio fianco destro, e quel contatto sulla pelle nuda mi fece fremere. Credo che chiunque mi avesse toccata in quel momento avrebbe prodotto in me la stessa reazione. Guardai Sage. «Sei molto bravo.» Avevo la voce roca. «Devo esserlo», replicò lui, muovendo le mani su e giù lungo il mio dito. Non era più un tocco gradevole; era erotico, come se in quel dito vi fossero stati nervi di cui non avevo mai sospettato l'esistenza. Sapevo che era soltanto un glamour, la naturale magia di Faerie, ma mi faceva stare bene, molto bene. Arrendersi al glamour di qualcuno, se tale glamour è di genere sensuale, può essere un'esperienza meravigliosa. I sidhe non lo fanno tra loro, perché operare un glamour su un altro sidhe in una situazione intima è considerato un grave insulto. Ma i fey minori lo praticano senza scrupoli, e quasi sempre quando giacciono con un sidhe. Forse è un sintomo d'insicurezza. Forse è solo un modo per dire: «Guarda quanto ho da offrire». Sage strinse il mio dito tra le braccia e fu come se toccasse una parte del mio corpo molto più larga, molto più intima. Il bacio che mi diede sul polpastrello mi lasciò l'impressione di essere toccata da una bocca morbida e satinata. Una bocca assai più grande della sua, con labbra spesse e tumide. Dovetti aprire gli occhi e guardarlo per assicurarmi che fosse ancora così piccolo. Ero sprofondata all'indietro tra i cuscini, con la mano posata in grembo, e lui stava in ginocchio sul mio palmo roseo. Kitto intrecciò le gambe alle mie e potei sentire contro un fianco il suo membro che diventava sempre più rigido. Per un momento mi chiesi se il
glamour stesse agendo anche sul goblin, ma proprio allora Sage mi morse il polpastrello. Azzannò la mia carne come se stesse mangiando una mela, ma il dolore fluttuò via, e quando lui cominciò a succhiare la ferita fu come se avesse un tubo collegato con la mia vulva. Ogni risucchio della sua bocca mi spandeva nettare nella parte più sensibile del mio corpo. Sage si nutrì aspirando sempre più in fretta e più forte, e fu come se mi stimolasse tutto l'interno del ventre. Il calore che mi riempiva le parti basse era quello che preludeva all'orgasmo. Il demi-fey mi aveva trascinata sull'orlo di un precipizio che non avevo visto, e dovevo decidere se tirarmi indietro o lasciarmi precipitare nell'abisso della voluttà. Ma non potevo più pensare. Non potevo più decidere niente. C'erano soltanto sensazioni, il crescente tumulto del piacere, il peso del calore che dilagava nel corpo. Poi quel calore esplose dentro di me, attraverso di me, fuori di me. Gridai, ma non era la voce del dolore quella che mi scaturiva dalle labbra. Stavo urlando di piacere e mi contorcevo sul lenzuolo, imprigionata tra la bocca di Sage che mi azzannava il ventre e il corpo di Kitto premuto contro le mie gambe. Il goblin montò sopra di me e mi cavalcò, scosso dai miei sussulti selvaggi, mentre una delle sue mani saliva a toccarmi un seno. Era un tentativo di assaggio più che una carezza, ma nello stato di eccitazione in cui ero mi parve molto sensuale. Gridai ancora quando lui mi sollevò una gamba per inforcarmi, e il suo sesso premette contro il mio, ma senza entrare. Eravamo entrambi nudi, entrambi eccitati, e io non protestai. Kurag aveva detto che dovevo dare a Kitto vero sesso, e per un goblin ciò significava solo una cosa: reciprocità. Ma sapevo anche che i goblin non facevano sesso senza versare sangue. In quel momento non c'era dolore, non c'erano ferite. Alzai lo sguardo e mi accorsi che Sage volava sopra di noi. Stava brillando, emetteva luce morbida come se avesse una candela accesa dentro il corpo. I suoi occhi erano gemme nere ardenti, e le venature delle sue ali luccicavano di una fiamma oscura. Le loro chiazze gialle, blu e rossoarancio riflettevano colori come una cascata di schegge di vetro in una fulgida giornata di sole. Avevo ancora abbastanza autocontrollo da afferrare Kitto per i capelli, e gli feci abbassare la faccia davanti alla mia. «Solo sangue, Kitto. Non devono mancarmi pezzi di carne, quando avremo finito.» «Sì, padrona», mormorò lui. Gli lasciai andare i capelli, e gli occhi che abbassò su di me diventarono
pozzi di luce blu dove le nere pupille galleggiavano. Avevo l'impressione di nuotarci dentro, ma sapendo che quello era l'effetto del glamour di Sage non mi preoccupai. Offrii tutta me stessa a quell'illusione e me ne lasciai travolgere. Il membro di Kitto entrò in me, e io ero più che umida, più che pronta. Lo sentivo molto più grosso di quello che mi era parso, e nel muoversi mi riempiva e si gonfiava ancora. Lui si puntellava sopra di me a braccia tese, lontano con la faccia ma ventre a ventre con me. Poi si fermò qualche momento, ansando, e in uno dei suoi occhi blu apparve una lacrima, una sola. Io sapevo cos'era ciò che i goblin chiamavano sesso, e non avevo mai sentito dire che nel farlo piangessero. Attraverso il glamour vidi Kitto - dietro tutta quella magia vidi ciò che lui era davvero - e alzai una mano, una mano che già cominciava a emettere luce bianca. Toccai quella lacrima cristallina e feci ciò che i goblin fanno coi preziosi fluidi corporali: me la portai alle labbra. Bevvi quella goccia di liquido salato, e lui mandò un mugolio gutturale. Poi cominciò a muovere il membro virile dentro di me. A ogni spinta sembrava che diventasse più grosso, più largo, arrivando a toccare parti di me che non erano mai state toccate né si supponeva dovessero essere toccate. Lo guardai mentre entrava nel mio corpo, e vidi che cominciava a emanare una luminosità bianca, perlacea. Lo spinse a fondo, palpitante di luce, e mi accorsi che quell'effetto non era dovuto al glamour del demi-fey. Sotto di lui anch'io ero avvolta in un'aura pallida come il chiaro di luna, e solo per un altro sidhe la mia carne avrebbe potuto brillare così. Nella sua pelle s'inseguivano riflessi colorati, quasi che l'arcobaleno ballasse dentro di lui e ogni tanto schizzasse alla superficie, simile a un fuoco d'artificio visto attraverso un'acqua cristallina. Nei gusci di vetro dei suoi occhi c'erano soltanto fiamme blu. I suoi riccioli oscillavano intorno alla testa come se un vento li scompigliasse, e il vento era lo stesso Kitto. Era un sidhe. Nel nome della Dea, era un sidhe. Mi versò addosso un'ondata di luce e di magia che per un momento mi rese cieca. Tutto ciò che potevo vedere erano lampi bianchi e vortici di arcobaleno. Tutto ciò che potevo sentire era il mio ventre fuso nel suo, quasi che i nostri organi genitali uniti fossero l'unica cosa solida, mentre il resto di noi aveva la consistenza della luce. Il piacere sensuale fremeva in me come una risata, denso quanto la pura gioia, soddisfacente come la realizzazione di tutto ciò che avessi mai sognato.
Il risveglio da quelle sensazioni fu lento. Kitto era crollato sopra di me. Eravamo ancora ventre a ventre, e i nostri corpi continuavano a mandare luce come due fuochi accesi prima di una notte invernale. Fuochi che avrebbero tenuto al caldo e al sicuro la casa e la famiglia, nelle lunghe ore di buio. Stralci di colore si aggiravano ancora per la camera, come pezzi di arcobaleno fuggiti da un prisma sorpreso da un raggio di sole. Ma non c'era sole, né prismi di cristallo, soltanto noi. Be', no, non soltanto noi. Intorno al letto c'erano le guardie, con le mani alzate e i palmi rivolti verso di noi. Mi concentrai e vidi la barriera invisibile che avevano costruito per racchiuderci. Era un circolo sacro, un circolo di potere. «La prossima volta che decidi di evocare tanta energia da tirar fuori un'isola dal mare, Meredith, un piccolo preavviso sarebbe gradito», disse la voce profonda di Doyle. Alzai lo sguardo su di lui, sbattendo le palpebre. Era il più vicino a me. «Abbiamo fatto dei danni?» «Ti abbiamo fermata in tempo, ma credo che più tardi si verificherà una scossa sismica con epicentro in questa zona, abbastanza forte da interessare i notiziari. Dovremo accertarci che la struttura dell'edificio regga.» Kitto nascose la faccia tra i miei seni e mormorò: «Mi dispiace». «Non te la prendere, Kitto. Siamo noi a doverti chiedere scusa», lo confortai. «Ti consideravamo un goblin, visto che lo sei a metà. Non abbiamo mai pensato che per l'altra metà tu potessi essere uno di noi.» Kitto girò la faccia per gettare uno sguardo a Doyle, poi la nascose di nuovo. «Non capisco», mormorò. Parlava sul mio sterno e, dopo quello che avevamo fatto, il contatto della sua bocca sulla pelle mi fece fremere. Avevo la voce un po' ansante quando gli dissi: «Tu sei un sidhe, Kitto. Un vero sidhe. I tuoi poteri si sono svegliati». Lui scosse il capo, ancora con la faccia tra i miei seni. «Io non ho poteri.» Gli presi la testa tra le mani e gliela feci alzare. «Tu sei un sidhe, uno dei Luminosi. Avrai dei poteri, adesso.» Spalancò gli occhi, come spaventato all'idea. «Ti aiuteremo», disse Galen, dall'altra parte del letto. «T'insegneremo a controllare la tua magia. Non è difficile. Se ci riesco io, può farlo chiunque.» E sorrise di quella battuta. Kitto non sembrava per nulla convinto.
Un movimento m'indusse a voltarmi, e vidi che Sage era atterrato sul disordinato mucchio dei cuscini. Emanava ancora una certa luminosità, come una bambola ingioiellata. Ma la sua faccia era bagnata di lacrime, e le strisce umide gli stavano colando fino al mento. Aveva un'aria sconvolta. «Che tu sia dannata, principessa, tu e questo nuovo principe. Ho visto il paradiso oggi, e ho capito quanto sia bello, ma resto qui su questa misera terra. Finora non avevo mai capito cosa significhi per voi essere sidhe, e per me non esserlo.» Si coprì la faccia con le mani e pianse, chinandosi di lato su un cuscino di seta. Le sue ali pendevano inerti dietro di lui, come dimenticate. Kitto mi toccò il petto, causandomi una fitta di dolore. Vidi che mi aveva morso tra i seni, non proprio nel mezzo, lasciandomi il suo marchio alla base del seno sinistro. Non me n'ero accorta finché non l'aveva sfiorato. Non era profondo come quello sulla spalla, perché non ce n'era stato bisogno. Il sesso aveva smorzato la sua fame di carne. Avrebbe dovuto guarire bene e in fretta, ma in qualche modo sapevo che non sarebbe stato così. In qualche modo sapevo che avrei portato il suo marchio sul cuore per sempre. «Mi dispiace», mormorò lui, come se mi avesse letto nella mente. Scossi il capo, sfiorandogli una guancia liscia come la seta. «Sono onorata di portare il tuo marchio, Kitto. Non dubitarne.» Fece un sorriso timido, allungò le braccia e si sollevò da me come aveva fatto all'inizio del nostro amplesso. Mi accorsi che sulla pelle bianca del suo petto c'erano macchie di sangue, il mio. Mi aveva morso più a fondo di quello che credevo. Poi lo guardai meglio e vidi che le mie unghie gli avevano lasciato graffi profondi dalle clavicole ai fianchi. Uno dei suoi capezzoli era stato squarciato e perdeva sangue più del morso che lui aveva dato a me. Fui io, stavolta, a dire: «Mi dispiace». Lui scosse il capo, e il suo sorriso non era più timido. «Tu mi hai marchiato, e tra la mia gente non c'è complimento più grande. Possano i marchi non sparire mai.» Seguii con un dito uno dei graffi che aveva sul petto, e lui rabbrividì. «Tu sei della nostra razza, Kitto. Ora lo sei.» Doyle sembrò intuire ciò che volevo, perché si tirò su la T-shirt per mostrare al goblin i segni delle unghie che avevo lasciato sulla sua pelle nera. «Sei un sidhe Unseelie», precisai. Kitto si tolse da sopra di me. Il suo membro era diventato molle mentre
parlavamo. Si sdraiò sul letto, con un braccio sopra il mio addome, e guardò gli uomini in piedi intorno a noi. «Mia madre era una Seelie. La sua gente mi lasciò per morto, davanti al tumulo dei goblin», disse con voce piatta, come se quella fosse una realtà che tutti conoscevano da un pezzo. Doyle riabbassò la maglietta. «Noi non siamo Seelie.» Non spense il circolo di potere che racchiudeva il letto, anzi vi entrò. Kitto parve intimorito ma non si oppose, quando l'altro lo prese per le spalle e lo tirò a sedere. La Tenebra depose un casto bacio sulla fronte dell'ometto. «Tu hai assaggiato il sangue della nostra Corte, e hai versato il tuo. Ora ricevi il nostro bacio e sii benvenuto tra noi.» L'uno dopo l'altro le guardie vennero a baciare la fronte di Kitto. Ancora prima che tale cerimonia finisse, lui stava piangendo. Ma quando l'ultimo dei miei cavalieri fu tornato al suo posto, Sage si alzò nell'aria con un grido stridulo, sbattendo furiosamente le ali. «Vi odio, tutti.» Le sue parole grondavano tanto veleno da essere quasi incomprensibili. «Ora fatemi uscire da questo maledetto circolo.» Doyle praticò nel circolo magico un'apertura abbastanza larga per il demi-fey. Il piccolo alato volò subito fuori, e lui la richiuse. Sage si fermò solo davanti alla porta della camera da letto. Pensavo che uno degli uomini gliela avrebbe aperta, ma il battente si mosse come di sua volontà e lui si affrettò a oltrepassare la soglia. Nella penombra del soggiorno si voltò, ancora avvolto dall'aura luminosa della sua magia. «La regina ha avuto il suo prezzo, ma tu non hai ottenuto la cura che avevi chiesto. Essa è nel mio corpo, dove lei l'ha messa. Io volevo condividerti col goblin per assicurarmi il suo silenzio, non per essere sostituito da lui», sibilò, come un gatto arrabbiato. «Chi immaginava che un goblin potesse essere sidhe? Avrei dovuto esserci io tra le tue braccia, non lui. Ciò che poteva essere fatto con un glamour piacevole non può diventare solo uno sgradevole baratto.» Sibilò ancora e scomparve nell'ombra. La porta si chiuse con un tonfo secco dietro di lui. Noi restammo a guardarla, perplessi. «Intendeva davvero dire quello che ha detto?» domandò Galen. «Costringere una principessa sidhe a fare sesso con uno dei suoi uomini compiacerebbe molto Niceven», disse Doyle. Inarcai le sopracciglia. «E perché?» «Meglio non approfondire», replicò lui. Abbassò lo sguardo su Kitto. «Per stasera, bando alle preoccupazioni. Abbiamo trovato una recluta imprevista, sangue nuovo. Questa notte lasceremo da parte ogni pensiero tri-
ste.» Come festicciola di cortigiani di Faerie fu modesta. Ordinammo per telefono una cena tenendo presenti i gusti di Kitto, con numerose bottiglie di vino buono, e facemmo le ore piccole a tavola. Fu poco dopo l'alba che una scossa di terremoto - 4,4 gradi sulla scala Richter - fece tremare le case di El Segundo. La nostra zona era lontana dalla faglia, e ciò probabilmente valse a salvare l'intera città. Durò quasi un minuto, senza gravi danni agli edifici; non vi furono vittime, solo qualche ferito. Ma aggiunse un aspetto interamente nuovo alla mia idea di sesso sicuro. 30 Il primo giorno del mio forzato isolamento in casa, al riparo dei nostri incantesimi protettivi, avevo ricevuto una chiamata da Dama Rosmerta. Il suo abito di seta rosa e oro s'intonava alla sfumatura dorata della sua pelle e dei capelli biondi. Con me era stata quanto più garbata e diplomatica possibile, forse per rimediare alla scortesia di Hedwick. Aveva precisato che il trattenimento in questione era il ballo di Yule. Io avevo declinato l'invito. Se pure avessi partecipato a un ballo, le avevo detto, sarebbe stato il ballo della Corte Unseelie. Rosmerta aveva represso una smorfietta, dicendo che lei, naturalmente, capiva. Nessuno di noi si sentiva obbligato a dare una mano nell'indagine per la strage del night club, perché Peterson aveva proibito alla Grey Detective Agency d'intromettersi nel caso. Irritato da quel comportamento, Jeremy aveva detto a Teresa che non era affatto tenuta a rivelare alla polizia ciò che aveva scoperto. Ma Teresa si era sentita in dovere di aiutare; uscita dall'ospedale in compagnia di suo marito Ray era andata alla stazione di polizia, dove aveva trovato un detective cui fare rapporto. La nostra psichica aveva detto di aver sentito la gente soffocare, di averla sentita morire, e di aver visto gli spettri: forme biancastre che succhiavano la vita dalle loro vittime. Il funzionario di polizia aveva commentato che, come tutti sapevano, gli spettri non facevano attività dannose di quel genere. Poi Peterson era entrato nell'ufficio, aveva preso il rapporto scritto e l'aveva gettato nel cestino della spazzatura, alla presenza di Teresa. Solitamente la polizia aspettava che il solerte cittadino uscisse, prima di riservare quel trattamento alle sue dichiarazioni. Teresa era riuscita a trascinare via suo marito prima che lui si facesse ar-
restare per aggressione a pubblico ufficiale. Ray aveva giocato per i RAMS, quand'erano la squadra di Los Angeles, ed era ancora fisicamente in forma, con spalle larghe come un armadio e una stretta di mano simile a una morsa idraulica. Così ci eravamo trovati con un sacco di tempo libero. No, non facevamo sesso tutto il giorno. Quel mattino ci dedicammo a Sage. Io avevo pagato il prezzo richiesto dalla regina Niceven, ma ancora non ci era stata data la cura. Perché Sage si era rifiutato di farlo, la sera prima? Per quale motivo il fatto che Kitto si fosse rivelato un sidhe aveva cambiato tutto per il demi-fey? Parlava sul serio, dicendo che doveva fare sesso con me per poterci dare questa cura? Sage non volle rispondere a tali domande. Per tutta la mattina svolazzò qua e là in cerca di un'uscita dall'appartamento, evitando di parlarci, ma l'appartamento era piccolo anche per uno alto quanto una bambola Barbie. Più tardi cercò di filarsela da una finestra, ma passò troppo vicino a Galen, che lo intercettò al volo con una mano come se fosse una mosca. Non credo che avesse voluto colpirlo davvero. Sage ruzzolò sul tappeto e giacque immobile, una cosuccia color burro rancido avvolta dalle sue fragili ali. Poi si alzò lentamente su un gomito, prima che mi fossi inginocchiata accanto a lui. «Stai bene?» gli domandai. Mi guardò con un odio così crudo in quei piccoli occhi da pupazzo che mi ritrassi d'istinto. Alzandosi in piedi vacillò un poco, ma subito allargò le ali per mantenere l'equilibrio. Rifiutò la mano che gli avevo offerto e rimase lì coi pugni sui fianchi, mentre torreggiavamo su di lui, fissandoci dal basso in alto. «Se io muoio, cavaliere verde, la cura muore con me. Meglio che te lo ricordi, prima di colpirmi un'altra volta.» «Non volevo farti male», replicò Galen, ma nei suoi occhi c'era qualcosa che non era affatto gentile, non era da lui. Forse i demi-fey non avevano ferito soltanto la sua virilità. «Questa è troppo vicina a una bugia», ribatté Sage levandosi in volo con un violento frullare di ali. Quando fu salito di quota fino all'altezza degli occhi di Galen, rallentò il battito e rimase a fluttuare lì, con le ali che lavoravano più lente ma con abbastanza forza da agitare i riccioli intorno al volto di Galen. «Non intendevo colpirti così forte.» La voce di Galen era bassa, piena di rabbia controllata. C'era una durezza in lui che non conoscevo. Una parte di me si dolse di quel tono, un'altra parte ebbe un palpito di speranza. For-
se perfino un eterno ragazzo come lui poteva imparare dalle lezioni della vita qualcosa che gli sarebbe stato utile, se fosse diventato re. Ma forse stava solo imparando a odiare. Era una lezione che gli avrei risparmiato volentieri. Vidi che si scambiavano sguardi arroventati dall'odio. Sage sarebbe potuto passare per il fidanzato di Barbie, ma la sua rabbia non mi faceva più ridere. Che riuscisse a destare emozioni così negative in Galen era una cosa che mi spaventava un po'. «E va bene, ragazzi, ora giochiamo lealmente», dissi. Loro si voltarono verso di me. Mi parve di aver spezzato la tensione. «Cerchiamo di capirci. Cosa intendevi, dicendo che la cura morirebbe con te?» Fermo a mezz'aria, Sage unì le braccia sul petto ma senza incrociarle, come se quella posizione fosse incompatibile col volo. «Intendevo, principessa, che la regina Niceven ha lasciato un dono nel mio corpo. La cura per il tuo uomo è chiusa dentro di esso.» E allargò le braccia, con una specie di sarcastico inchino. «Perché non ti spieghi meglio?» intervenne Doyle. «Cosa significa, esattamente? Niente giochi di parole, solo la verità, e tutta quanta.» Sage girò su se stesso per guardare Doyle negli occhi. Avrebbe potuto limitarsi a girare la testa, ma credo che gli piacesse fare un po' di scena. «Vuoi la verità, Tenebra, tutta quanta?» «Sì», rispose Doyle a bassa voce, senza rabbia, ma con un tono che avrebbe fatto impallidire molti sidhe. Sage rise, una gioiosa e tintinnante risata che riuscì quasi a strapparmi un sorriso. Era bravo con quel suo glamour, più di quanto avrei creduto possibile in un demi-fey. «Oh, ti arrabbierai molto più di così, quando saprai ciò che ha fatto la mia cara regina.» «Parla chiaro, Sage», dissi. «Non farmi perdere altro tempo.» Lui fece una giravolta verso di me, avvicinandosi tanto da farmi vento alla faccia con le ali. «Chiedilo per favore.» Il suo tono era chiaramente offensivo. Galen s'irrigidì, e Rhys gli mise una mano su una spalla. Mi accorsi che non ero la sola a non fidarsi di lasciar avvicinare troppo Galen a un demifey. «Per favore», mormorai. Avevo un sacco di difetti, ma il falso orgoglio non era tra questi. Non mi costava niente dire «per favore» a quel piccoletto. Lui sorrise, ovviamente soddisfatto. «Poiché me l'hai chiesto coi dovuti
modi... la cura è qui, dove la regina Niceven l'ha messa», disse, afferrandosi l'organo genitale attraverso il sottile gonnellino. Mi accorsi di aver spalancato gli occhi. «In che modo Meredith otterrà la cura?» volle sapere Doyle. La sua voce era piatta, del tutto atona. Sage sorrise. Anche su una faccia non più larga del mio pollice sapevo riconoscere la libidine, quando la vedevo. «Nello stesso modo in cui la regina l'ha data a me.» «Niceven non ha il permesso d'intrattenere rapporti sessuali, fuorché con suo marito», gli fece notare Doyle. «Ah, ma ogni regola ha le sue eccezioni. Tu dovresti saperlo, Tenebra, meglio di altri.» Doyle sembrò arrossire, anche se col puro color notte della sua pelle era difficile dirlo. «Se Andais verrà a sapere che la vostra regina ha infranto il voto matrimoniale, si metterà male per Niceven.» «I demi-fey non avevano mai avuto queste regole, prima che Andais diventasse gelosa della fertilità di Niceven, che aveva avuto tre figli: tre demi-fey di sangue puro, uno dei quali generato con Pol. Ma Andais decise che quel rapporto doveva essere permanente. Andais ha sempre invidiato la fertilità di Niceven, tutta la Corte lo sa.» «Al tuo posto starei molto attento prima di dire cose tanto pericolose», lo avvertì Rhys. Non c'era minaccia nella sua voce, solo una semplice verità. Sage la spazzò via con un gesto delle piccole mani. «Avete chiesto una cura per il cavaliere verde, e la cura è una sola. La regina ha dovuto giacere con me, per mettere l'incantesimo dentro di me. Andais l'aveva informata che il cavaliere verde doveva essere curato con tutti i mezzi; non le sembrava importare quali potessero essere tali mezzi.» Scossi il capo. «No. Nessun rapporto sessuale, non con te.» Sage si alzò nell'aria. «Allora il tuo cavaliere verde resterà impotente.» Scossi ancora il capo. «Lo vedremo.» Stavo cominciando ad arrabbiarmi davvero, e non mi accadeva spesso. Nelle Corti era un lusso che solo i più potenti potevano permettersi; io non ero mai stata abbastanza potente. Forse non lo ero ancora, ma era da vedersi. «Doyle, chiama la regina Niceven. Dobbiamo parlare.» La rabbia era filtrata anche nella mia voce. Sage si avvicinò tanto da scompigliarmi i capelli col vento delle ali. «Non c'è nessun altro modo, principessa. La cura per quell'afflizione ti è
stata mandata, e non potrà esserti mandata una seconda volta.» Gli diedi un'occhiataccia. «Non sono una tavola imbandita per il banchetto di tutti. Sono una principessa della Carne, e l'erede al trono Unseelie. Non faccio la prostituta per Niceven.» «Solo per Andais», replicò. Fui sul punto di schiaffeggiarlo, ma non ero sicura che un ceffone l'avrebbe lasciato vivo, e non volevo ammazzarlo, non in uno scatto d'ira. Se avessi fatto del male a Sage, sarebbe stato di proposito. «Doyle, contatta Niceven, subito.» Lui non discusse; uscì e andò in camera da letto. Io gli andai dietro, seguita dagli altri. Sage aveva ancora qualcosa da dire. «Cosa stai pensando di fare, principessa? Cosa credi di poter fare? Una notte con me è un prezzo troppo alto da pagare per la virilità del tuo cavaliere verde?» Lo ignorai. Niceven era già nello specchio quando girai intorno al letto. Quel giorno indossava un abito nero, così trasparente che il suo corpo sembrava fluorescente sotto l'ombra della stoffa; le maniche e il colletto erano ornati di lustrini. I capelli le ricadevano intorno al corpo, lunghi sino ai fianchi magri, ma erano finissimi e strani, simili a ragnatele che la più lieve corrente d'aria poteva smuovere. Le sue pallide ali erano chiuse. Dietro il suo trono c'erano le tre dame di compagnia, vestite però di sottovesti sottili come se fossero state a letto fino a un momento prima. Ognuna di quelle sottovesti era intonata alle ali: rosso e rosa, giallo narciso e rosso iris. I capelli che incorniciavano le loro facce erano scarmigliati, a confermare l'impressione che si fossero appena alzate. Il topo bianco era accanto a lei, col suo collarino ingemmato. Che Niceven non portasse la corona, né gioielli, significava che aveva dovuto affrettarsi per rispondere alla nostra chiamata. «Principessa Meredith, a cosa devo questo inaspettato onore?» Nella sua voce c'era solo una traccia di altezzoso distacco. Era evidente che avevamo tirato giù dal letto lei e tutto il suo seguito. «Regina Niceven, mi avevi promesso la cura per Galen, se avessi nutrito il tuo servo. Io ho onorato la mia parte del patto, ma tu non hai fatto lo stesso con la tua.» Si raddrizzò un poco, con le mani unite in grembo e le caviglie intrecciate. «Sage non ti ha dato la cura?» Sembrava davvero perplessa. «No.» Il suo sguardo lasciò il mio viso e cercò l'ometto, che era sceso ad appol-
laiarsi sulla maniglia dell'armadio, per restare nel campo visivo dello specchio. «Sage, cos'è questa storia?» «Ha rifiutato la cura», rispose quest'ultimo, allargando le braccia come a dire che non era colpa sua. Niceven si rivolse a me. «È vero?» «Credevi davvero che lo avrei accolto nel mio letto?» «È un amante meraviglioso, principessa.» «Per una della tua statura, forse. Ma non per me. Non è abbastanza grosso.» «Neppure tutto intero, lo è», disse Rhys, dall'altra parte della camera. Gli scoccai un'occhiata dura. Lui scrollò le spalle con aria di scusa, e tornò a guardare lo specchio. «Se le dimensioni sono l'unico problema, si può rimediare», dichiarò Niceven. «Altezza reale, non credo che questo sarebbe opportuno», obiettò Sage. «A meno che Meredith giuri di non rivelare il nostro segreto.» «Allora che giurino, tutti loro», replicò lei. Scossi il capo. «Noi non giuriamo niente. Se non ci dai subito la cura per il mio cavaliere, ti accuseremo di aver mancato di parola. E chi manca di parola non ha una vita politica molto lunga, tra i fey.» «La cura è lì e attende che tu la prenda, principessa. Non è colpa mia, se non vuoi approfittarne.» Feci un passo verso lo specchio. «Il sesso è un dono molto più grande della condivisione del sangue, Niceven, e tu lo sai bene.» Nei pallidi occhi di lei lampeggiò la rabbia, e il suo volto parve farsi ancora più sottile. «Tu dimentichi il mio rango, Meredith, e vuoi farti superiore a quello che sei.» «No, sei tu a crederti superiore, Niceven. Mantieni il tuo titolo solo per bontà di Andais, e lo sai. Ti trascinerò dinanzi a mia zia con l'accusa di spergiuro, se non mi darai immediatamente la cura per Galen.» «Non mi farò influenzare dall'ira, Meredith, per quanto tu mi provochi», replicò. «Rivelati per ciò che sei, Sage.» «Mia regina, credo che non sia prudente.» «Non ti ho chiesto di dirmi ciò che pensi, ti ho detto di farlo.» Seduta sul trono, Niceven si piegò in avanti. «Subito!» Non c'era bisogno di un interprete per cogliere la minaccia. Sage chiuse del tutto le ali e si gettò dalla maniglia dell'armadio, come se volesse suicidarsi. Ma non cadde. All'improvviso diventò alto, sempre
più alto. La sua statura arrivò a un metro e quaranta, poi a uno e cinquanta. Le ali che erano state un delicato spettacolo di ricami satinati erano adesso ampi tendoni vitrei, opachi, solidamente fissati alla parte posteriore del suo corpo. Sotto la sua pelle giallastra come il burro si vedevano muscoli duri, e quando si voltò a guardarmi vidi che quegli occhi neri erano sfaccettati come diamanti. Le labbra rosse apparivano turgide, larghe. C'era qualcosa di terribilmente sensuale in lui mentre se ne stava lì, con le ali che riempivano tutto quell'angolo della camera. «Non è bello, Meredith?» disse Niceven, con voce colma di desiderio. Sospirai. «Può darsi che lo sia all'occhio, ma nelle sue dimensioni attuali il sesso diventa un prezzo eccessivo, perché chiunque mi farà partorire un erede diventerà re.» Dovetti spostarmi di lato per guardare lo specchio oltre un'ala di Sage. «È una manovra per arrivare al trono degli Unseelie, Niceven? È a questo che miri? Non immaginavo che tu fossi così ambiziosa.» «Non miro a nessuno scopo», ribatté lei. «Bugiarda, oltreché violatrice della parola data», disse Doyle, che non si era mosso da dove stava, come per ricordarle che lui era al mio fianco. Niceven lo gratificò di un'occhiata ostile. «Modera i termini, Tenebra.» «Dai a Meredith la cura che ti sei impegnata a dare.» «La regina Andais ha detto che il cavaliere verde dev'essere curato con qualsiasi mezzo.» Doyle scosse il capo. «Non si sarebbe mai sognata di permetterti una manovra di questo genere. Si dice che i demi-fey abbiano grandi ambizioni, ma erano voci, pettegolezzi... finora. Alla regina non piacerebbe affatto un re demi-fey, specialmente un tuo burattino.» Niceven gli rivolse un sibilo, e in quell'atto parve davvero aliena, come mi era sempre sembrata al di là delle apparenze. Il topo bianco si era accucciato più lontano da lei, intimorito dal suo temperamento irritabile. «Hai una scelta, regina Niceven», intervenni. «Puoi darmi la cura per Galen come hai promesso, oppure rivelerò il tuo complotto alla regina Andais.» Niceven mi fissò, a occhi stretti. «Se ti darò la cura, tu non parlerai di questo alla regina?» «Siamo alleati. Gli alleati si proteggono a vicenda.» «Non ho accettato nessuna alleanza basata soltanto su una dose del tuo sangue ogni settimana, Meredith. Fai sesso con Sage, e io sarò tua alleata.» «Dammi la cura per Galen, e prenditi un po' del mio sangue ogni setti-
mana, diventando così mia alleata. Altrimenti mia zia Andais saprà cos'hai cercato di fare qui.» Niceven non era più rigida di rabbia, appariva spaventata. «Se io non avessi ordinato a Sage di rivelarti il nostro segreto, non avresti niente con cui ricattarmi.» «Forse. O forse una goccia di seme virile nel posto sbagliato potrebbe causarti dei grossi problemi.» «Cosa vuoi dire?» «Il padre di Galen era un pixie, e non molto più grosso di Sage nella sua forma vera. Nelle Corti ci sono state strane mescolanze. Credo che la tua pretesa di farmi montare da uno dei tuoi uomini sarebbe vista da Andais come un grave tradimento della sua fiducia.» Lei sputò, e il topo si tolse di mezzo. Anche le sue dame di compagnia indietreggiarono. «Fiducia. Cosa ne sanno i sidhe della fiducia?» «All'incirca quanto i demi-fey.» Lei mi scoccò uno sguardo pieno di odio, ma mi aspettavo una reazione di quel genere e piegai le labbra in un sorriso. «Ti avevo chiesto un'alleanza perché tu e i tuoi faceste la spia per me.» Guardai Sage, alto quasi quanto me. «Ma ora vedo che avete anche altre capacità. Le vostre spade non sono pungiglioni di api, ma qualcosa di assai più efficace.» Niceven si agitò sul trono, un piccolo movimento che rivelava il suo nervosismo. «Non capisco, principessa Meredith.» «Credo che tu abbia capito, invece. Voglio ancora un'alleanza, ma il vostro contributo andrà oltre lo spionaggio.» «In che modo? Hai spade ben più grandi di quella di Sage al tuo servizio.» Toccai una spalla del demi-fey; lui sobbalzò come se gli avessi fatto male, ma sapevo che non era così. Mi appoggiai a lui, e lo sentii irrigidirsi. «È vero ciò che dice la regina, Sage? La tua spada è così piccola?» Lei mi fissò con aria fosca. «Non è questo che intendeva dire, e tu lo sai.» «Davvero?» Passai le dita sul braccio di Sage. Lui fremette sotto la mia carezza. Vidi la gelosia accendersi sul volto della regina, prima che la mascherasse. «Niceven, Niceven, non cedere ad altri ciò che hai di più prezioso.» Lei si accigliò ancora di più. «Non credo di capire.» Sfiorai i capelli di Sage, fini come tela di ragno e soffici come piume, più morbidi di qualsiasi cosa avessi mai toccato. «Non offrirti mai di cede-
re ciò che non puoi permetterti di perdere.» Niceven scosse il capo. «Non ti capisco, principessa.» «Sii pure testarda, allora. Ma sappi questo: io ti propongo un'alleanza, una vera alleanza, in cambio di un sorso di sangue alla settimana. Tu cesserai di spiare per conto di Cel e dei suoi.» «Può darsi che il principe Cel sia rinchiuso, principessa, ma Siobhan non lo è, e lei fa più paura di quanto ne faccia Cel.» Notai la forma di quella frase. «Più paura a qualcuno, ma non a te.» Niceven abbassò la testa. «Trovo la follia di Cel più spaventosa dell'efferatezza di Siobhan. Da una persona crudele sai cosa aspettarti, ma un pazzo scombina tutti i tuoi piani.» Annuii. «La tua saggezza ti fa credito, regina Niceven.» «Per dare la possibilità a uno dei miei uomini di essere re di tutti gli Unseelie accetterei qualunque rischio, ma se la posta è solo un po' di sangue dovrò pensarci.» «No, accetta l'alleanza subito, oppure informerò la regina delle tue ambizioni.» Lo sguardo di lei fu veleno puro. «Bada che lo farò, Niceven, non fraintendermi. L'alleanza, altrimenti ne risponderai ad Andais.» «Non mi lasci scelta», ringhiò. «Esatto.» «Alleanza, allora. Ma penso che entrambe ce ne pentiremo.» «Forse», replicai. «Ora la cura di Galen, e per oggi i nostri affari saranno terminati.» Niceven si rivolse a Sage. «Dai la cura alla principessa.» Lui corrugò le sopracciglia. «E come, mia regina, se non mi è permesso dargliela come tu l'hai data a me?» «Anche se io te l'ho data con un contatto più intimo, sarà sufficiente che una parte del tuo corpo entri nel suo.» «Niente sesso», dissi io. Lei mi gettò uno sguardo seccato. «Un bacio, Meredith. Un bacio, senza che tu sia obbligata a provarne piacere.» Dovetti spostarmi accanto a Doyle perché Sage potesse voltarsi. Le sue ali riempivano tutto lo spazio tra l'armadio e il letto. Quando il demi-fey fu girato, gli andai davanti. Le sue ali si alzavano sopra le sue spalle come due collinette dorate cosparse di gemme; i suoi capelli d'oro avevano un tono più brillante del giallo pallido dell'epidermide. Sembrava quasi irreale
nella sua bellezza, finché non lo si guardava negli occhi. Nel nero scintillante di quelle iridi non c'era soltanto rabbia, ma malvagità. Mi fece ricordare che era soltanto una versione più grande delle bestie alate che avevano selvaggiamente azzannato Galen. «Niente morsi, niente sangue», lo avvisai. Lui rise, scoprendo denti un po' troppo acuminati per tranquillizzarmi. «È una strana richiesta, da parte di una principessa sidhe.» «Voglio che non resti nessuno spazio alla possibilità che tu mi fraintenda, Sage. Voglio che questo sia molto chiaro tra noi.» Dallo specchio, Niceven disse: «Non ti farà male, principessa». Sage voltò la testa verso di lei. «Un po' di sangue insaporisce il bacio.» «Per noi, forse, ma tu farai esattamente ciò che la principessa ti ordina. Se lei dice niente sangue, allora niente sangue.» «Dovremmo inchinarci a una principessa sidhe?» domandò lui. «Tu non ti inchini alla principessa, Sage. Ti stai inchinando a me», disse Niceven, con uno sguardo che gli fece scomparire un po' di malignità dagli occhi. Le spalle di Sage si abbassarono. Le sue ali si rilassarono fino a toccare l'armadio. «Come la mia regina ordina, così sarà fatto.» Non parve entusiasta nel dirlo. «Hai la mia parola che lui non ti farà male», dichiarò Niceven. Assentii. «Ho la parola della regina.» Sage mi guardò. «Ma non la mia.» «La mia parola è la tua», sibilò Niceven, con voce bassa e pericolosa. L'espressione sulla faccia di Sage era così ostile che, se Niceven l'avesse vista, potevo supporre che non ne sarebbe stata compiaciuta. Lui le dava le spalle, e per un istante nei suoi occhi vi fu qualcosa che sembrava tristezza, qualcosa, oserei dire, di umano. Scomparve subito, ma quel breve sguardo mi diede da pensare. Forse la piccola Corte di Niceven non era più felice di quella di Andais. Presi tra le mani la faccia di Sage, non con gesto amichevole ma per tenerne sotto controllo i movimenti. La sua pelle era liscia come quella di un lattante, incredibilmente delicata sotto le mie dita. Non avevo mai toccato un demi-fey in quel modo, anche perché la loro piccolezza non offriva molto da toccare. Mi piegai verso la sua faccia; lui rimase fermo, con le mani sui fianchi, ad aspettare che completassi l'atto. Inclinai la testa di lato ed esitai, con la bocca a pochi centimetri dalla sua. Le labbra mi sembravano più rosse di quelle umane, e mi chiesi se
fossero diverse anche al tatto. Poi le premetti con le mie, ed ebbi la risposta. Erano soltanto labbra, morbide e satinate, compatte come un frutto maturo. Era interessante, ma in quel contatto non mi fu trasmessa nessuna magia. Mi scostai, sempre tenendogli la faccia tra le mani, e guardai Niceven nello specchio. «Non ho ricevuto nessun incantesimo, nessuna cura.» «Il suo corpo è entrato nel tuo?» domandò lei. «Vuoi dire la lingua?» «Proprio quella, visto che sembravi decisa a non volere nient'altro dentro di te.» «No, non me l'ha messa in bocca.» «Dalle un bacio, Sage, uno vero, e facciamola finita con questa storia.» Lui fece un gran sospiro, agitando la testa tra le mie mani. «Come la regina comanda.» Mi prese tra le braccia e mi attrasse a sé. Eravamo troppo vicini perché potessi tenergli la faccia con le mani, così lo abbracciai anch'io, ma dietro la sua schiena trovai l'ostacolo delle ali e non seppi come stringerlo. «Più in basso, dove le ali si uniscono al dorso», mi disse, come se avesse capito il problema. Forse era un problema che aveva già avuto con altri non demi-fey. Spostai le mani più in basso e trovai il punto dove i montanti delle ali si collegavano al corpo. La sua schiena sembrava normale, a parte l'insolita levigatezza dell'epidermide. Ma non avrebbe dovuto avere dei grossi muscoli preposti al movimento delle ali? Ci baciammo, e stavolta lui rispose al bacio; le sue braccia mi strinsero con forza e mi spinse la lingua in bocca. Subito mi accorsi che quella lingua era insolitamente calda. Lo strano calore mi riempì la bocca e poi la gola, come un torrente che mi scendesse giù nello stomaco e nel ventre, nelle gambe, finché non ne fui riempita e avvampai da capo a piedi. Fu la voce di Niceven che mi riportò coi piedi per terra. «Hai avuto la cura, principessa. Dalla al tuo cavaliere verde, prima che si raffreddi.» Sage e io ci scostammo, non senza una certa riluttanza. Mi voltai a cercare Galen e lo trovai davanti a me; si era avvicinato senza aspettare che lo chiamassi. Alzai le mie mani ancora calde, bollenti, a toccargli le braccia; anche attraverso le maniche della camicia potei sentire la sua pelle che le attirava, assorbendo il mio calore. Aveva il respiro affannoso ancora prima di chinarsi ad accogliere il mio bacio. Le nostre bocche si toccarono, e fu come se la sua fosse affamata del ca-
lore che era dentro di me. Le labbra si sigillarono alle labbra, affinché nulla dell'incantesimo che fluiva da me a lui sfuggisse all'esterno. Le lingue si cercarono senza posa, mentre il calore mi riempiva la gola come un liquore inebriante. Era dolce più del miele, uno sciroppo che scaturiva dal mio corpo per riversarsi in quello di Galen. Lui lo beveva dalla mia bocca, risucchiando la magia dentro di sé. D'un tratto il calore dell'incantesimo si mescolò a una sensazione di diverso genere, non meno eccitante, e con un gridolino mi arrampicai addosso a lui stringendo le gambe intorno alla sua cintura. Lui gemette quando il mio ventre aderì al suo, ma non per il piacere sensuale. In fretta mi rimise coi piedi al suolo, scostandomi un poco da sé. Aveva il fiato mozzo. «Non ho nessuna reazione virile», ansimò. «Avrai la reazione virile tra due giorni da stanotte, o prima», spiegò Niceven. Io stavo ancora vacillando, e il respiro mi usciva in una serie di rantoli affannosi. Riuscivo appena a sentire le loro parole sopra le pulsazioni del sangue nelle orecchie, così fu Doyle a farsi avanti per prendere in mano la situazione. «Voglio la tua parola, Niceven, che Galen sarà guarito tra due giorni da oggi.» «Hai la mia parola.» Lui annuì. «Ti ringraziamo.» «Non ringraziarmi, Tenebra, non ringraziarmi.» Niceven sparì, e lo specchio tornò a essere soltanto uno specchio. Galen sedette pesantemente sul bordo del letto. Respirava ancora a fatica, e dovette fare uno sforzo per sorridermi. «Tra due giorni.» Cercai di accarezzargli la faccia, ma la mano mi tremava tanto che non ne fui capace. Lui la prese e se la portò a una guancia. «Due giorni», ripetei. Annuì, sempre sorridendo e con la mia mano stretta nella sua. Ma non potei restituirgli il sorriso, perché avevo visto l'espressione di Frost: arrogante, irata, gelosa. Poi questi si accorse che lo stavo guardando e si voltò. Mi nascondeva la faccia perché non riusciva a controllare i suoi sentimenti. Frost geloso di Galen. Non era una buona notizia. 31
Quella era la notte di Frost, e lui s'impegnò come se volesse farmi dimenticare tutti gli altri. Gli stavo leccando l'addome quando la voce di Andais uscì dallo specchio, come in un incubo. «Non mi piace che la visuale mi sia impedita da qualcuno, specialmente dalla mia Tenebra. Ti do un minuto, poi ci penserò io.» Dopo un sussulto di sorpresa, scendemmo dal letto, rischiando di cadere mentre ci affrettavamo a coprirci con il lenzuolo. «Mia regina, Doyle non è qui», disse Frost. «Lo chiameremo subito, se avrai la bontà di aspettare un poco». Lei fece udire un grugnito non molto amichevole. «Stanotte la mia pazienza è agli sgoccioli, mio Gelo Assassino. Vi do due minuti per trovarlo e schiarire questo specchio, o dovrò farlo io.» «Provvediamo immediatamente, mia regina.» Io ero già sulla porta. «Doyle. C'è la regina allo specchio. Vuole vederti, subito.» Nella mia voce doveva esserci tutta l'urgenza che sentivo, perché Doyle si alzò dal letto nudo com'era e raccolse i jeans senza perdere tempo. Entrò in camera da letto tirandosi su la lampo mentre Frost pregava la regina di dargli un altro minuto. Quando toccò la cornice dello specchio, il vetro lampeggiò di luce nebulosa e poi si schiarì. L'immagine che apparve era piuttosto oscura. Dapprima non potei vedere molto, a parte un paio di individui seminudi dal dorso lucido di sudore, ma fu abbastanza da togliermi la voglia di vedere il resto della scena. C'erano torce accese, pesanti muri di pietra, e nell'aria vibrava un gemito tremulo, come se chiunque si stava lamentando fosse già oltre la capacità di urlare, la capacità di proferire parole, la capacità di fare qualunque cosa fuorché gemere senza speranza. Quand'ero bambina immaginavo che i lamenti dei fantasmi fossero simili ai versi che echeggiavano nell'Anticamera della Mortalità. Poi avevo appreso con stupore che i fantasmi non si lamentavano in quel modo, non quelli da me incontrati. «Come ti permetti di bloccarmi la vista, Doyle? Come hai osato?» «Ho chiesto io a Doyle di fare questo incantesimo», dissi, dietro le spalle dei due uomini. «Sento la voce della nostra piccola principessa, ma non la vedo. Se dobbiamo litigare, voglio vederla in faccia.» La sua voce era colma di umori accesi come una caldaia con le valvole otturate sul punto di esplodere. Gli uomini si scostarono per darmi visibilità, inginocchiata sul letto com'ero, tra i cuscini e le coltri sfatte. Anche Andais comparve improvvi-
samente nell'inquadratura. Era in piedi nel bel mezzo dell'Anticamera della Mortalità, come avevo supposto. Qualcuno aveva girato lo specchio del reparto tortura in modo che non si vedesse niente della strumentazione, ma Andais si era accertata che quel poco fosse abbastanza orribile. Era coperta di sangue, come se qualcuno gliene avesse versato un secchio sulla testa. La sua faccia era cosparsa di roba rossastra che stava seccando, e piccoli pezzi di carne le costellavano tutto un lato dei capelli incollati in lunghe ciocche appiccicose. Mi occorse qualche secondo per capire che il sangue era tutto ciò che indossava. Ne aveva addosso uno strato molto grumoso, e in quella penombra non si capiva subito che era nuda. Tossicchiai per schiarirmi la gola un paio di volte, mentre Doyle le dava spiegazioni. «Il fatto è che abbiamo avuto delle chiamate a ore poco opportune, mia regina. La principessa era stanca di essere interrotta da questi seccatori.» «Chi ti ha chiamata, nipote?» Sperai che la voce mi uscisse col giusto tono disinvolto, senza strani tremiti. «I segretari di Taranis, un paio di volte.» «Ah, lui. E cosa vuole da te?» domandò Andais, quasi sputando la parola lui. «Sono stata invitata al ballo di Yule... ma ho rifiutato», aggiunsi in fretta. Non volevo farle pensare che meditassi di snobbare la sua Corte. «Che insopportabile presunzione. Davvero tipico di Taranis.» «Se posso permettermi un commento personale, mia regina», intervenne Doyle con voce mielata, «non sembri molto di buonumore, nonostante il fatto evidente che ti sei presa qualche piacevole distrazione. Qualcosa ti ha guastato la serata?» La Tenebra aveva intuito giusto. Avevo visto Andais tornare dalle sue sedute di tortura canticchiando, lorda di sangue ma rilassata e serena. Quella avrebbe dovuto essere una serata divertente, per i suoi gusti, ma evidentemente qualcosa era andato storto. «Mi sono occupata di quelli che ritenevo capaci di risvegliare il Senzanome e di sguinzagliare gli spettri delle antiche divinità. Li ho interrogati a lungo. Se fosse stato uno di loro a divertirsi in quel modo, a quest'ora lo avrebbe confessato.» Andais sembrava stanca, e la sua rabbia stava sbollendo. «Sono sicuro, mia regina, che li hai interrogati con molta sottigliezza», disse Doyle. Lei lo guardò con aria dura. «Mi stai prendendo in giro?»
Doyle s'inchinò quanto la breve distanza dallo specchio gli consentiva. «Non me lo permetterei mai, mia regina.» Andais si passò una mano sulla faccia, impiastrandosi ancora più di sangue. «Non è stato un sidhe della nostra Corte a fare queste cose, mia Tenebra.» «Allora chi, se la nostra gente non c'entra?» domandò Doyle, ancora piegato in due. «Non siamo gli unici sidhe.» «Vuoi dire qualcuno della Corte di Taranis?» domandò Frost. Lo sguardo di Andais lampeggiò su di lui, mentre stringeva le palpebre con aria assai poco amichevole. «Sì, voglio dire questo.» Anche Frost s'inchinò. «Non intendevo mancarti di rispetto, maestà.» Senza muoversi dalla sua scomoda posizione, Doyle domandò: «Hai informato il re del pericolo?» «Rifiuta di credere che qualcuno, nella sua bella Corte luminosa, possa fare una cosa simile. Dice che nessuno della sua gente saprebbe mai rievocare le antiche divinità, e che nessuno toccherebbe il Senzanome, perciò questa faccenda non ha niente a che fare con loro. Il Senzanome è un problema Unseelie, e gli antichi sono spettri, dunque anche questo è un problema Unseelie.» «E cosa, esattamente, potrebbe essere un problema Seelie?» chiesi. Odiavo riportare l'attenzione di Andais su di me, ma volevo saperlo. Se nessuno dei due era un problema Seelie, quale altra cosa avrebbe potuto esserlo? «Questa, nipote, è una buona domanda. Da qualche tempo sembra che a Taranis non piaccia sporcarsi le mani con cose di poca importanza. Non so cosa ci sia che non va in lui, ma si è rinchiuso sempre più nel suo piccolo paradiso privato, fatto di sogni e di magia.» Andais incrociò le braccia, con aria pensosa. «Dev'essere stato qualcuno della sua Corte. Dev'essere così.» «Cosa possiamo fare perché si occupi della faccenda?» domandai. «Non lo so. Vorrei saperlo.» Fece un gesto seccato. «Oh, per favore, voialtri due, alzatevi. Sedete sul letto. Mettetevi comodi.» Frost e Doyle ubbidirono e sedettero accanto a me. Frost era sempre nudo, ma il suo sesso non era più in stato di eccitazione come prima che la regina chiamasse; sedeva con le mani in grembo, nascondendoselo pudicamente. Alla mia sinistra, Doyle era immobile come un erbivoro della savana che cercasse di non attirare l'attenzione di un predatore. Non mi capitava spesso di pensare alla Tenebra come a una preda - era senza dubbio
un predatore - ma quella notte la sola predatrice ci stava guardando dallo specchio. «Sposta le mani, Frost, lascia che io ti guardi tutto.» Lui esitò una frazione di secondo, poi lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Rimase seduto lì, a occhi bassi, non più a proprio agio nella sua nudità. «Sei proprio bello. Me l'ero dimenticato.» Andais si accigliò. «Sembra che mi stia dimenticando molte cose, negli ultimi tempi», aggiunse, con una certa tristezza. Poi la sua voce riacquistò vigore, tornando quella di sempre. Solo il tono ci fece irrigidire, quasi tremare, ed era un tremito di anticipazione poco gradevole. «Oggi non mi sono divertita affatto. Quella era gente che rispettavo, o che mi piaceva, o che mi era preziosa, e adesso non saranno mai più miei alleati. Mi temono, più di quanto mi temessero prima, e farsi temere non è lo stesso che farsi rispettare. Questo ho dovuto impararlo, alla fine. Datemi qualcosa di piacevole da ricordare, questa notte. Lasciate che vi guardi tutti e tre insieme. Fatemi vedere la luce della vostra pelle che illumina la notte come fuochi d'artificio.» Restammo muti per qualche momento, poi Doyle parlò. «Io ho già avuto la mia notte con la principessa. E Frost ha chiarito che non vuole condividerla con altri, stanotte». «La condividerà, se io gli dico di condividerla», ribatté Andais. Era difficile discutere con lei, ingrumata di sangue e nuda come una terribile bestia primitiva, ma ci provammo. «Vorrei chiederti di non farlo, altezza reale», disse Frost. Non aveva l'aria arrogante. Sembrava quasi spaventato. «Tu vorresti chiedere? Vorresti chiedere? E cos'è che vorresti chiedere a me?» «Niente», mormorò lui, chinando la testa finché i capelli non gli nascosero il viso. «Assolutamente niente.» Sembrava amareggiato e triste nel dirlo. «Zia Andais...» Provai a mantenere il tono di voce pacato e tranquillizzante di chi cerca di convincere un pazzo a non far scoppiare la bomba sull'aereo. «Per favore, non abbiamo fatto niente per dispiacerti. Abbiamo fatto tutto il possibile per compiacerti. Perché vuoi punirci per questo?» «Non stavate facendo sesso, poco fa?» «Sì, ma...» «Stanotte vuoi fare sesso con Frost, vero?» «Sì.»
«Ieri notte hai fatto sesso con Doyle, giusto?» «Be', sì, ma...» «Allora che differenza fa se adesso fai sesso con tutti e due?» La sua voce si stava alzando. Era di nuovo sul punto di perdere la calma. La mia si abbassò, facendosi per contro più ragionevole ancora. «Non sono mai stata con loro due insieme, altezza reale, e un ménage à trois dev'essere fatto con cura, per non rovinare il gioco. Credo che Doyle e Frost siano entrambi troppo dominanti per potermi condividere senza problemi.» Annuì. «E va bene.» Io e i due uomini sospirammo, rilassandoci. «Allora sostituisci uno di loro con uno degli altri. Fammi vedere qualcosa d'interessante, nipote, qualcosa che mi tiri su di morale, stanotte.» Avevo fatto del mio meglio sul piano raziocinante, lei era stata d'accordo, e non aveva funzionato. Guardai i due seduti accanto a me. «A questo punto, sono aperta ai vostri suggerimenti.» Speravo che Andais interpretasse suggerimenti come la scelta tra chi invitare, o tra chi sostituire. E speravo che gli uomini capissero invece che cercavo una via d'uscita da quella situazione. «Nicca è il meno dominante», disse Frost, dopo una breve riflessione. «O Kitto», fece notare Doyle. «Kitto ha avuto il suo turno oggi, e a Nicca toccherà solo tra due notti. Penso che possiamo decidere di anticipare il turno di Nicca, piuttosto di concedere a Kitto due turni consecutivi.» «Decidere?» borbottò la regina. «Perché dovreste essere voi uomini a decidere qualcosa? Non sei tu a scegliere tra loro, Meredith?» «Non proprio. Abbiamo dei turni precisi, e solitamente li rispettiamo.» «Turni?» Sogghignò. «E in base a cosa avete stabilito questi turni?» «In ordine alfabetico», risposi, cercando di non mostrarmi stupita per quelle domande. «Ha fatto una lista... e fa sesso in ordine alfabetico!» Andais cominciò a ridere, dapprima emettendo dei brevi suoni di gola e poi scoppiando in una rumorosa risata. Si piegò in due, con le mani sui fianchi, e rise finché al sangue che aveva sulla faccia non si mescolarono le strisce chiare delle lacrime. Le risate genuine sono contagiose, di solito. Quella, stranamente, non lo fu. O piuttosto, non lo fu per noi. Potei udire qualcun altro, fuori campo, che si univa alla risata. Ezekial e i suoi assistenti dovevano essere del pare-
re che fosse una cosa molto divertente; i torturatori hanno un senso dell'umorismo particolare. Le risate si placarono e infine Andais si raddrizzò, asciugandosi gli occhi. Credo che stessimo tutti trattenendo il respiro, nell'attesa di quello che avrebbe detto. Lei ansimò, con voce ancora distorta dal riso. «Mi hai dato il primo momento buono di questa giornata, Meredith, e vi premierò rimandando a più tardi la mia richiesta. Anche se non capisco perché v'imbarazzi tanto fare davanti a me quello che farete quando vi lascerò. Non vedo la differenza.» Saggiamente ci tenemmo in bocca la nostra opinione. Tutti e tre, suppongo, stavamo pensando che se lei non vedeva la differenza sarebbe stato inutile spiegargliela. La regina tolse la comunicazione, lasciandoci a guardare le nostre facce nello specchio. Io avevo un'aria stordita, come incredula di essermela cavata. L'espressione di Doyle non diceva niente. Frost si alzò in piedi e ruggì di rabbia, così forte da far tremare le pareti e indurre gli altri a precipitarsi dentro con le armi in pugno. Rhys si guardò intorno, accigliato. «Cos'è successo?» Frost si voltò verso il nuovo venuto e, sebbene fosse nudo e disarmato, in lui c'era qualcosa di spaventoso. «Non siamo animali, da esibirci per il suo divertimento!» Doyle si alzò, accennando agli altri di lasciarci soli. Rhys mi guardò e io scrollai le spalle. Quelli che erano entrati uscirono, e chiusero la porta. La Tenebra si accostò a Frost e prese a mormorargli qualcosa. A tratti, pur con modi pacati, il suo tono si faceva insistente. «Qui siamo al sicuro», sentii che gli diceva. «Finché siamo qui, lei non può approfittarsi di noi.» Frost rialzò la testa e lo afferrò per le spalle, con forza tale che le sue dita bianche sembravano affondare nella pelle nera dell'altro. «Ancora non capisci? Quelli di noi che non riusciranno a dare un figlio a Meredith torneranno a essere i giocattoli di Andais, i pupazzi che lei lascia in disparte senza neppure giocarci. Non ce la farò a sopportarlo di nuovo, Doyle.» Lo scosse, una volta o due. «Non posso tornare a fare quella vita, non posso!» Mi aspettavo che Doyle si liberasse dalla sua presa e lo spingesse via, ma non lo fece. Alzò le mani e strinse le braccia dell'altro. Attraverso i capelli d'argento di Frost scorsi uno scintillio di lacrime. Lentamente lui cadde in ginocchio, con le mani che scivolavano giù lungo le braccia dell'altro ma senza lasciarlo. Poi gli appoggiò la fronte su un fianco. «Non lo sopporto, Doyle. Non ce la faccio. Preferisco morire. Mi
lascerò svanire, prima che succeda.» E dopo l'ultima roca parola cominciò a piangere, scosso da singhiozzi che sembravano salire dalle profondità del suo corpo. La Tenebra lo lasciò piangere e, quando lui si fu placato, mi aiutò a metterlo a letto. Lo facemmo distendere tra noi due, girato verso di me e con Doyle che alle sue spalle si stringeva a lui. Non c'era niente di sessuale. Lo tenemmo così mentre lui scivolava in silenzio verso il sonno. Guardai Doyle: aveva un'espressione più selvaggia di quella di Andais lorda di sangue. Quella notte vidi nascere un terribile proposito, o forse era nato molto tempo addietro senza che io lo notassi. Neppure Doyle sarebbe tornato da Andais. Lo lessi nei suoi occhi. Entrambi ci stringemmo a Frost, e alla fine ci addormentammo. Più tardi, in piena notte, la Tenebra ci lasciò. Io aprii gli occhi nel sentirlo scendere dal letto, ma Frost non se ne accorse. Doyle mi baciò dolcemente la fronte, poi accarezzò con leggerezza i capelli di Frost. «Lo prometto», mormorò. La sua voce profonda era appena udibile, come un sospiro. Mi svegliai abbastanza da domandare: «Cosa prometti?» Si limitò a sorridere, scosse il capo e uscì, chiudendo la porta in silenzio. Tornai a rannicchiarmi accanto a Frost, ma il sonno mi era passato; i miei pensieri non erano abbastanza tranquilli da conciliarlo. Solo quando dalla finestra ormai filtrava la grigia luce dell'alba potei chiudere gli occhi. Sognai di essere con Andais nell'Anticamera della Mortalità. Sui letti di trazione e alle pareti erano incatenati i miei amanti, uniche forme bianche nella penombra arrossata dalle braci ardenti, in attesa che la tortura cominciasse. La regina venne da me e cercò di convincermi a unirmi a lei per torturarli, ma io rifiutai e non le permisi di toccarli. Andais mi minacciò, e io continuai a oppormi, ed era come se il mio rifiuto le impedisse per qualche motivo di dare inizio alla tortura. Stavo ancora rifiutando quando un gemito di Frost mi svegliò. Mi accorsi che si agitava, come in preda a un incubo; lo feci uscire dal sonno con tutta la cautela di cui ero capace, accarezzandogli un braccio. Lui si svegliò con un grido strozzato e mi fissò con occhi vacui e folli. Il grido fece accorrere di nuovo gli uomini dal soggiorno. Accennai loro di non allarmarsi e strinsi a me Frost. «Va tutto bene. Non aver paura. Era solo un sogno.» Lui ansimò ancora, con la faccia sepolta contro il mio corpo e stringendomi tra le braccia fino a farmi male. «Non era un sogno. È una cosa vera.
Una cosa che non posso dimenticare.» Doyle fu l'ultimo a uscire. Incontrai i suoi occhi neri mentre chiudeva lentamente la porta e d'un tratto seppi cosa aveva promesso. «Ti proteggerò, Frost», mormorai. «Non puoi farlo.» «Ho promesso di proteggervi, tutti voi.» Alzò una mano e mi chiuse le labbra con un dito. «Non prometterlo, Merry, non promettere questo. Non impegnarti a fare una cosa che non hai speranza di fare. Nessun altro ti ha sentito. Io lo dimenticherò. Tu non hai detto niente.» La faccia di Doyle era una forma scura sulla porta quasi chiusa. Scossi il capo. «Ma io l'ho detto, Frost, e lo penso davvero. Trasformerò la Terra dell'Estate in un deserto, prima di permettere che lei ti riprenda», dissi. E nel momento in cui quelle parole lasciarono la mia bocca vi fu un leggero suono, benché non fosse un suono, quasi che l'aria intorno a noi avesse trattenuto il respiro. Fu come se in quel momento la realtà si congelasse, e subito dopo riprendesse a esistere, ma un po' diversa da ciò che era stata. Frost scese dal letto e non volle guardarmi. «Finirai per farti ammazzare, Merry.» Andò nel bagno senza voltarsi, e pochi secondi dopo sentii scorrere l'acqua della doccia. Doyle aprì la porta quel tanto che bastava per salutarmi con la sua pistola, come se fosse una spada, toccandosi la fronte con la canna e poi riabbassandola. Gli risposi con un cenno del capo. Lui mi mandò un bacio con l'altra mano e chiuse la porta. Non avevo capito del tutto quello che era successo; sapevo però cosa significava. Avevo giurato di proteggere i miei uomini da Andais. Ma avevo sentito il mondo sussultare, come se il destino stesso fosse passato su un altro binario. Qualcosa era cambiato nella ben orchestrata sinfonia dell'universo. Era cambiato perché io avevo giurato di proteggere i miei uomini. Quella semplice decisione aveva cambiato le cose. Io avevo spostato il destino su un altro corso, ma non avrei saputo se fosse meglio per me, oppure peggio, finché non sarebbe stato troppo tardi. 32 Stavamo parlando del rito della fertilità per Maeve Reed, quando lo specchio vibrò ancora; ma stavolta il suono fu il rintocco di una campana, uno solo, lungo e nitido come uno squillo di tromba.
Doyle andò in camera. «È qualcuno che non conosciamo», disse. Tornò dopo qualche momento, con una strana espressione. «Chi è?» domandò Rhys. Lui ci guardò, perplesso. «La madre di Meredith.» «Mia madre?» Mi alzai, lasciando cadere a terra le note che stavo prendendo. Feci per chinarmi a raccoglierle, ma Galen mi afferrò la mano. «Vengo con te?» Credo che di tutti gli uomini soltanto Galen sapesse quali erano i miei veri sentimenti verso mia madre. Feci per rispondergli di no, poi cambiai idea. «Sì, preferisco avere qualcuno accanto.» Mi offrì il braccio, e lo presi in modo molto formale. «Vuoi anche la mia compagnia?» domandò Doyle. Guardai gli altri e cercai di decidere se mi sarebbe piaciuto di più impressionare mia madre o insultarla. Con gli uomini che erano lì nel soggiorno avrei potuto fare una cosa o l'altra, o magari entrambe allo stesso tempo. In camera da letto non c'era spazio per tutti, così optai per Galen e Doyle. Con mia madre, non avevo certo bisogno che qualcuno mi desse protezione. Almeno non il genere di protezione fornito dalle guardie del corpo. La Tenebra ci precedette, per dirle che la principessa sarebbe arrivata tra un momento. Galen e io aspettammo fuori della porta ancora per qualche secondo, poi entrammo. Lui mi scortò fin davanti allo specchio e andò a sedersi sul lenzuolo color borgogna, tenendosi in disparte con discrezione. Doyle invece si scostò un poco, ma rimase nel campo visivo dello specchio; non gli interessava mostrarsi discreto. Guardai Besaba, mia madre. Sapevo che aveva capelli ondulati lunghi fino ai fianchi, ma dall'immagine che lei mi stava mostrando era impossibile capirlo. Li aveva riuniti al di sopra della testa in un'acconciatura elaborata, a più strati, racchiusa in una rete ornata di foglie d'oro che nascondeva quasi del tutto il loro modesto colore castano. Qualche sidhe di sangue puro aveva i capelli scuri quanto i suoi, ma non certo così opachi. Credo che li nascondesse perché erano uguali a quelli di sua madre, mia nonna, che era metà umana e metà brownie; odiava che le fossero ricordate le sue origini. Anche i suoi occhi erano castani, color cioccolata, ombreggiati da lunghe ciglia. La pelle del volto era liscia e perfetta. Aveva sempre trascorso ore a curarsela - bagni nel latte, creme, lozioni - ma niente di ciò che pote-
va fare le avrebbe mai dato il puro candore lunare, o la morbida abbronzatura dorata delle altre cortigiane. Non avrebbe mai avuto la pelle di una sidhe, mai. Sua sorella Eluned aveva quella pelle luminosa. Ed era la pelle, più che i capelli o gli occhi, a rivelare che mia madre non era una sidhe di sangue puro. Il suo abito color crema era appesantito da fitti ricami in filo d'oro e di rame. La scollatura quadrata metteva abilmente in risalto i suoi seni senza mostrarne troppo, ma c'era un motivo se le femmine sidhe sceglievano con attenzione gli abiti fatti per valorizzare il petto: non avevano molto materiale da mostrare in quelle ricche scollature. Il suo trucco era assai studiato, ma anche senza di esso sarebbe stata sempre eternamente bella. Non c'era stato un solo colloquio tra noi durante il quale non avesse fatto di tutto per ricordarmi che lei era una principessa Seelie, mentre io ero qualcosa di diverso. Io ero troppo piccola, troppo formosa e umana, mentre i miei capelli - oh, Dea, questa poi! - per quanto fossero luminosi erano rossi, colore che si trovava solo alla Corte Unseelie. La guardai, guardai la sua bellezza, e mi dissi che avrebbe potuto passare per un'umana. C'erano fotomodelle umane così alte e snelle, eppure lei aveva soltanto quello per dimostrare di essere più sidhe di me. Era vestita in modo troppo elaborato per una chiamata a sua figlia. La cura con cui si era preparata m'indusse a chiedermi se sapesse quanto la detestavo. Poi dovetti riflettere che era sempre abbigliata così, sempre studiata in ogni dettaglio. Io indossavo un paio di shorts e una maglietta che mi lasciava scoperto l'ombelico. Gli shorts erano neri, la maglietta rosso sangue, e la mia pelle brillava tra quei due colori. I miei capelli, tagliati all'altezza delle spalle, cominciavano ad avere l'ondulazione di quando li lasciavo crescere, anche se non l'ondulazione fitta e quasi riccioluta di quelli di mia madre o di mia nonna. Il loro colore era appena una sfumatura più scuro di quello sanguigno della maglia. Non portavo gioielli, ma il mio stesso corpo era un gioiello. La mia pelle brillava come avorio lucido, i miei capelli erano una cascata di rubini, e in quanto agli occhi, avevo iridi tricolori. Guardai la mia bella ma troppo umana madre ed ebbi un'intuizione improvvisa. Era stato solo dopo il mio ingresso nell'età adulta che lei aveva cominciato a denigrare il mio aspetto. Oh, sì, i miei capelli li aveva sempre odiati, ma si era dedicata a umiliarmi con maggiore impegno solo dopo la pubertà; perché solo allora si era senti-
ta minacciata. Ma non avevo mai capito fino a quel momento - vedendola seduta là, elegante nel suo abito Seelie, mentre io indossavo roba da quattro soldi - di essere più attraente di lei. Non feci altro che guardarla, dunque, perché mi ero accorta di poter riscrivere una parte della mia infanzia nello spazio di pochi secondi. Non ricordavo neppure quanto tempo fosse trascorso dall'ultima volta che l'avevo vista. Forse era lo stesso per lei, perché per qualche momento mi osservò con aria sorpresa, quasi stupefatta. Credo che in qualche modo avesse convinto se stessa che io non ero così luminosa. Si riprese in fretta, perché dopotutto e prima di tutto era una cortigiana, una politicante. Sapeva adattare l'espressione facciale a qualsiasi capriccio del re, senza battere ciglio. «Figlia, che piacere vederti.» «Principessa Besaba, Sposa della Pace, ti saluto», replicai, omettendo deliberatamente ogni riferimento ai vincoli di sangue. La sola madre che avessi conosciuto era mia nonna materna; sarei stata felicissima di rivedere lei. La donna seduta su quel seggio rivestito di seta era un'estranea per me, e lo era stata sempre. Parve perplessa, ma il tono delle sue parole fu cordiale. «Principessa Meredith NicEssus, la Corte Seelie ti saluta.» Dovetti sorridere. Aveva ricambiato il mio insulto. NicEssus significa figlia di Essus. I sidhe perdono il secondo nome dopo la pubertà, o comunque prima dei vent'anni, quando i loro poteri magici si manifestano. Poiché i miei non si erano manifestati così presto, io ero rimasta NicEssus fin dopo la trentina. Ma le Corti sapevano che alla fine i miei poteri erano arrivati, sapevano che avevo un altro titolo. Lei lo aveva deliberatamente ignorato. Bene. D'altronde ero stata io la prima a punzecchiare. «Sarò sempre la figlia di mio padre, ma non sono più NicEssus.» Mi dipinsi sulla faccia un'espressione pensosa. «Il re non ti ha detto che i miei poteri si sono manifestati?» «Naturalmente, me l'ha detto», replicò lei, mostrandosi contrita e sulla difensiva allo stesso tempo. «Oh, scusami. Poiché non hai usato il mio nuovo titolo, ho creduto che non lo conoscessi.» Lasciò che la rabbia emergesse per un istante sul suo volto amabile, poi sorrise, di un sorriso sincero come il suo affetto per me. «So che ora sei principessa della Carne. Congratulazioni.»
«Grazie, madre.» Si agitò sullo scranno, come se l'avessi sorpresa di nuovo. «Be', figlia, non dovremmo lasciar passare tanto tempo tra una chiacchierata e l'altra.» «Hai proprio ragione», assentii, mantenendo un'espressione piacevole e illeggibile. «Ho sentito che sei stata invitata al ballo di Yule, quest'anno.» «Sì.» «Non vedo l'ora d'incontrarti qui, per parlarci di persona.» «Mi stupisce che non ti abbiano detto che ho dovuto rinunciare all'invito.» «Me l'hanno detto, e l'ho trovato difficile da credere.» Le sue mani restarono graziosamente posate sui braccioli, ma si piegò un poco in avanti, rovinando quella posa così perfetta. «Molti sarebbero stati onorati di un simile invito.» «Sì, ma forse saprai che ora sono l'erede della Corte Unseelie, madre, non è vero?» Si raddrizzò e scosse il capo. Mi domandai se tutte quelle foglie d'oro sulla testa non fossero pesanti. «Sei la seconda nella linea ereditaria, non l'erede vera. Tuo cugino è ancora il vero erede a quel trono.» Feci un sospiro e smisi di fingermi cordiale, optando per l'indifferenza. «Mi sorprende, madre. Solitamente sei meglio informata.» «Non so cosa tu voglia dire.» «La regina Andais ha reso pari me e il principe Cel. Resta solo da vedere chi avrà un figlio per primo. Se ho preso da te, madre, sarò sicuramente io.» «Il re tiene molto che tu partecipi al ballo.» «Mi stai ascoltando, madre? Sono l'erede al trono Unseelie. Se tornerò a casa sarà per partecipare al ballo della Corte Unseelie.» Lei fece un gesto con le mani, poi sembrò ricordare la sua posa e le riabbassò con cura sui braccioli. «Potresti tornare nelle grazie del re, Meredith, se partecipassi al nostro ballo. Potresti essere di nuovo la benvenuta a Corte.» «Sono già benvenuta a Corte, madre. E come potrei tornare nelle grazie del re, se non ci sono mai stata?» Mosse ancora le mani. Se cedeva all'impulso di gesticolare a quel modo, doveva essere più nervosa di quello che sembrava. Aveva sempre detestato gesticolare; pensava che fosse indice di bassa estrazione sociale. «Potresti tornare alla Corte Seelie, Meredith, pensaci, ed essere una vera principessa
Seelie, alla fine.» «Io sono l'erede al trono, madre. Perché dovrei unirmi a una Corte dove sono soltanto quinta nella linea ereditaria, quando in un'altra Corte posso regnare?» Scartò quell'argomentazione con un gesto. «Non puoi paragonare la Corte Seelie, neppure lontanamente, con la Corte Unseelie, Meredith.» La guardai. Così bella, e così rigidamente snob. «Stai dicendo che è meglio essere l'ultima dei reali alla Corte Seelie, piuttosto che la regina della Corte Unseelie?» «E tu vuoi dire che è meglio regnare all'inferno che in paradiso?» ribatté lei, quasi ridendo. «Ho trascorso anni in entrambe le Corti, madre. Non c'è molta differenza tra le due.» «Come puoi dire questo a me, Meredith? Anch'io ho passato anni alla Corte oscura, e so quanto sia sgradevole.» «Ho avuto le mie esperienze alla Corte luminosa, e so solo che il mio sangue è rosso sul marmo venato di oro, così com'è rosso sui pavimenti di marmo nero.» Lei si accigliò, con aria confusa. «Non capisco...» «Se mia nonna non avesse intercesso per me, tu avresti continuato a restare in disparte, lasciando che Taranis picchiasse a sangue tua figlia? Avresti continuato a tacere finché non mi avesse uccisa davanti ai tuoi occhi?» «Questa è una cosa odiosa da dire, Meredith.» «Rispondi a ciò che ti ho chiesto, madre.» «Avevi fatto una domanda molto impertinente al re, e questo non è stato saggio da parte tua...» Avevo avuto la mia risposta. La risposta che avevo sempre conosciuto. Passai ad altro. «Perché è così importante per te che io partecipi a questo ballo?» «È il desiderio del re», disse. Anche lei, come me, parve sollevata di lasciarsi alle spalle la spinosa questione che avevo intavolato. «Non ho intenzione di offendere la regina Andais e tutta la mia gente snobbando il loro ballo. Penso che tu possa capire che le cose devono andare così.» «Capisco solo che non sei cambiata. Sei sempre testarda e decisa a fare la difficile in ogni cosa.» «Neppure tu sei cambiata, madre. Cosa ti ha offerto il re per convincer-
mi a partecipare al ballo?» «Non so cosa tu voglia dire.» «Sì, lo sai. Per te non è abbastanza avere il titolo di principessa. Vuoi salire di rango, avere più potere. Cosa ti ha offerto il re?» «Questo riguarda me e lui, a meno che tu non venga al ballo. Vieni, e te lo dirò.» Scossi il capo. «Come esca non mi sembra molto appetitosa, madre.» «E questo cosa dovrebbe significare?» Ormai era molto irritata e non faceva niente per nasconderlo, cosa che, da parte di un'arrampicatrice sociale della sua statura, era l'insulto supremo. Io ero una dei pochi sidhe che riteneva di poter insultare impunemente. Con sua sorella e con altri invece ci andava coi piedi di piombo. «Significa, cara madre, che non parteciperò al ballo della Corte Seelie.» Feci un cenno a Doyle e lui interruppe bruscamente la comunicazione, facendo sparire mia madre a metà di una parola. Lo specchio emise quasi subito quel rintocco di campana, lungo e nitido come uno squillo di tromba, ma ora sapevamo chi stava chiamando, e per lei non eravamo in casa. 33 Il mattino successivo, Dama Rosmerta chiamò di buon'ora; tanto di buon'ora che eravamo tutti a letto. Fui svegliata da un tintinnio di campanelle che echeggiava nella penombra della camera, e da un profumo di rose quasi soffocante. Quello era il biglietto da visita di Rosmerta. Evidentemente stava cercando di svegliarci da qualche tempo, e alla fine aveva fatto ricorso alle campanelle e al profumo. Cercai di alzarmi a sedere, ma ero così imprigionata tra i capelli di Nicca e le braccia di Rhys che non ci riuscii. Rhys aprì l'occhio buono e mi guardò insonnolito, sbattendo la palpebra. «Che ore sono?» «È presto.» «Presto quanto?» «Se sposti il braccio e mi lasci guardare l'orologio, saprò dirtelo.» «Oh, scusa», mugolò, tra le lenzuola purpuree. Tolse di mezzo il braccio. Mi sedetti e controllai l'orologio. «Le otto.» «Per il Consorte! Cosa ci può essere di così importante?» Nicca si sollevò su un gomito, cercò di spostarsi i capelli dietro la schie-
na e fallì, perché io e Rhys ci stavamo sopra. A me piaceva la sensazione di quei capelli che mi avvolgevano il corpo, ma cominciavo a ricordare perché non me li ero mai lasciata crescere tanto. Ci spostammo abbastanza da consentire a Nicca di recuperare i suoi capelli. Lui se li gettò dietro la schiena come una mantellina un po' scompigliata, semidisteso su un fianco. Rhys si girò supino, non per esibire la sua virilità - anche se fu ciò che fece - ma per poter guardare lo specchio con l'occhio buono. Nicca rimase dietro di me, puntellato su un gomito. Seduta tra loro due, io cercai di tirar fuori da sotto i loro corpi un po' di lenzuolo per coprirci. La nudità era indifferente ai cortigiani Unseelie, ma non sempre ai Seelie; tra questi ultimi la vanità umana era stata più contagiosa. Eravamo ormai pronti a ricevere la chiamata, quando ci rendemmo conto che uno di noi avrebbe dovuto toccare lo specchio. «Merda», mormorò Rhys. Rotolò giù dal letto per sfiorare la cornice e fu svelto a balzare di nuovo al suo posto, quasi stessimo posando per una macchina fotografica con lo scatto automatico. Non appena lui fu sul letto il suo peso mi strappò il lenzuolo dalle mani e me lo fece ricadere in grembo. Solo allora Rhys si accorse di essere sopra le coltri, non sotto. Avevamo meno di un secondo per decidere se farci sorprendere mentre lottavamo con le lenzuola quando lo schermo si sarebbe acceso, oppure mostrarci placidamente in posa. Rhys restò lungo disteso davanti a me con un braccio dietro la testa, senza nulla celare della sua muscolosa nudità. Io mi appoggiai all'indietro su Nicca come se fosse lo schienale di una sedia. Lui si piegò alle mie spalle usandomi come paravento per nascondersi almeno il ventre. Dama Rosmerta apparve sullo specchio. Indossava un pesante abito di seta pieno di ricami, di un rosa più scuro di quello del giorno prima, quasi fucsia. Le sue trecce bionde erano fermate da nastrini rosa intonati al vestito. Era tutta rosa e dorata, perfetta come una bambola. Negli occhi tricolori aveva uno sguardo limpido e vivace, come se fosse sveglia da ore. Il suo sorriso s'incrinò leggermente quando ci vide; aprì la bocca, ma la voce non uscì. Allora corsi in suo aiuto. «C'è qualcosa che desideri, Dama Rosmerta?» «Ah, sì, sì.» Ricordare i suoi doveri contribuì a restituirle l'autocontrollo. «Re Taranis vorrebbe invitarti a una festa in tuo onore, qualche giorno prima di Yule. Siamo davvero spiacenti del malinteso riguardo il ballo. Naturalmente ci rendiamo conto che devi presenziare alle festività della
tua Corte.» Sorrise, giusto quanto bastava per comunicare: Un piccolo errore da parte nostra, ma ora abbiamo rimediato. Poteva perfino essere sincera. Io ero stanca. Rhys e Nicca avevano cominciato a condividere la stessa notte a letto con me, e ciò significava che il mio consumo di energia era doppio. Tuttavia, dato che non dovevamo andare al lavoro, potevamo permetterci di fare le ore piccole. Ma ecco che arrivava Dama Rosmerta, fresca come una rosa alle otto del mattino. Era scoraggiante. Perché il re insisteva tanto per vedermi prima di Yule? Era per causa di Maeve? Stava succedendo qualcos'altro? Perché d'un tratto si occupava di me? In passato non aveva mai neppure badato alla mia esistenza. «Dama Rosmerta», dissi, cercando di non apparire stanca come mi sentivo. «Scusa se non ti sembro molto rispettosa nel dirlo, ma prima di accettare o declinare l'invito a una festa avrei bisogno di farti una domanda.» «Naturalmente, principessa», replicò lei, con un breve inchino di cortesia. «Perché la mia presenza è tanto importante per il re da dare una festa in mio onore, qualche giorno prima di Yule? L'intera Corte è indaffarata da mesi nei preparativi per il ballo. La servitù e i funzionari devono aver avuto una crisi di nervi al pensiero di organizzare una festa pochi giorni prima di quell'importante evento. Perché il re ha tanto bisogno di vedermi?» Il suo sorriso non s'incrinò neppure un istante. «Questo dovresti domandarlo al re in persona.» «Ti sarei davvero grata, allora, se tu fossi così gentile da mettermi in comunicazione con lui» Il suo bel viso fu attraversato da un'espressione confusa. Suppongo che per molti sidhe fosse ovvio il fatto di non poter comunicare direttamente col re, ma c'erano in ballo troppe cose importanti perché io potessi permettermi quel rispetto dell'etichetta. Rosmerta si riprese, non con la rapidità di cui l'avrei creduta capace, ma infine disse: «Chiederò a sua maestà se può parlare con te. La sua giornata è molto piena, però, dunque non posso farti nessuna promessa». «Non ti chiederei mai di fare promesse a nome di Taranis, Dama Rosmerta. Sono sicura che la sua agenda è molto piena, ma ho davvero bisogno di una risposta alla mia domanda. Non potrei intervenire alla festa senza quella risposta, e credo che averla dalla bocca del re faciliterebbe molto le cose.» Sorrisi, scimmiottando il suo piacevole sorriso professionale.
«Gli riferirò il messaggio. Potrebbe decidere di contattarti quasi subito, nel qual caso ti suggerisco di approfittare dell'intervallo per fornirti di un abbigliamento più confacente al tuo rango.» Anche nel dire ciò, il suo sorriso sopravvisse, ma una breve luce d'incertezza nello sguardo mi lasciò capire che non era sicura dell'opportunità di darmi consigli di quel genere. O forse era stata la mia faccia a comunicarle quel concetto mentre stava parlando. «Credo che mi presenterò al re come si conviene, Rosmerta», annuii, lasciando fuori deliberatamente il dama. Dopotutto lei era una cortigiana di rango inferiore al mio. Che io le facessi la cortesia di darle il suo titolo era appunto quello, una cortesia. Non ero obbligata a farlo. «Non volevo essere irrispettosa, principessa Meredith.» Non stava più sorridendo. La sua faccia si era chiusa in quella fredda maschera di cui le donne sidhe erano capaci. Ignorai la frase, perché dire qualunque cosa sarebbe stato come accusarla di mentire. Forse davvero non aveva voluto essere irrispettosa, forse non aveva saputo trattenersi e basta. «Bene, Dama Rosmerta. Allora attendo notizie dal re. Pensi che mi chiamerà prima che io abbia il tempo di alzarmi e prepararmi per la giornata?» «Non mi sono resa conto che ti avrei svegliata, principessa. Sono spiacente.» Lo sembrava davvero. «Mi accerterò che ti sia dato il tempo di alzarti e provvedere alle tue... necessità mattutine.» Arrossì un poco, e io mi chiesi quale parola era stata sul punto di usare invece di necessità, oppure quali pensava che fossero le mie necessità mattutine. All'improvviso compresi che Rosmerta pensava che stessimo facendo sesso, non dormendo. Andais doveva essersi lasciata sorprendere spesso dalle chiamate dei Seelie in flagrante delicto. Forse si aspettavano lo stesso da me. «Ti ringrazio per la premura, Dama Rosmerta. Può essere imbarazzante doversi alzare dal letto di primo mattino per rispondere a un re.» Lei sorrise e mi rivolse un inchino di cortesia, così profondo che quasi sparì sotto il bordo dello specchio. Rosmerta era l'immagine della formalità più compita, e un inchino così profondo da parte sua era un complimento, poiché con esso riconosceva che io mi trovavo a breve distanza dal trono. Era bello sapere che alla Corte Seelie qualcuno me lo concedeva. Quando vidi che non si rialzava compresi, con un po' di ritardo, il perché. «Puoi alzarti, Dama Rosmerta, e ti ringrazio.» Nel raddrizzarsi lei vacillò qualche istante, ma era colpa mia che l'avevo
lasciata in quella posizione troppo a lungo. Non era stata mia intenzione. Avevo dimenticato che l'etichetta della Corte Seelie era simile a quella della Corte inglese: una volta inchinatosi a un membro della famiglia reale, uno non poteva rialzarsi senza il suo permesso. Era trascorso molto tempo da quando avevo lasciato la Corte Seelie, e mi stavo arrugginendo sul protocollo. La Corte Unseelie era molto meno formale. «Riferirò la tua richiesta a sua maestà, principessa Meredith. Ti auguro una buona giornata.» «Buona giornata anche a te, Dama Rosmerta.» Lo specchio si spense. I due uomini accanto a me si rilassarono, e li sentii sospirare. Rhys unì le mani dietro la testa, incrociò le caviglie e domandò: «Che ne pensi? Forse dovremmo ingioiellarci un po', per essere più alla moda di Corte?» Guardai il suo corpo e ripensai alla sensazione della mia lingua che gli leccava l'addome sempre più in basso. Dovetti chiudere gli occhi e scacciare quel pensiero. «No, Rhys. Intanto vestiamoci. Degli accessori ci preoccuperemo poi.» Lui mi rivolse un sogghigno. «Oh, non saprei, Merry. Non sei tentata nemmeno un poco di averci con te sul letto quando lui chiamerà? Tu, vestita coi nostri corpi.» Stavo per rispondere di no, quando mi accorsi che era una bugia. «Un po' tentata, sì. Ma sarà meglio non fare sciocchezze.» Il suo sogghigno si allargò. «Se insisti...» «Tu sei quello che tesseva le sue lodi. Perché questo voltafaccia, adesso?» «È un individuo che può mettere paura, benché sia pomposo e pretenzioso. D'altra parte una volta non era così, anche se col passare dei secoli è diventato più... umano, nel peggior senso della parola.» Il suo sogghigno si spense. «Cosa stai pensando?» domandai. «Mi tornano alla mente i vecchi tempi. Taranis era uno col quale ci si faceva volentieri quattro risate, vuotando boccali di birra.» Inarcai le sopracciglia. «Taranis? Capace di alzare il gomito in qualche bettola? Non ce lo vedo.» «Tu lo conosci solo da una trentina di anni. Non è più al meglio di se stesso.» Rhys si alzò. «Vado io nella doccia?» «Se tu la fai per primo oggi, domani ci vado prima io», disse Nicca.
«Sicuro... se sarai abbastanza svelto.» Rhys entrò nel bagno. Nicca mi passò un braccio intorno alla vita e mi fece voltare verso di sé. «Lasciamo che lui faccia la doccia.» Alzò una snella mano bruna ad accarezzarmi il collo, poi si rovesciò all'indietro tirandomi sopra di sé. Il lenzuolo era scivolato via, e vidi che aveva un'erezione già solida e piena. Ridacchiai. «Non sei mai stanco?» «Di questo, mai.» La sua faccia tornò seria, un po' meno tenera. «Quando faccio l'amore con te non posso fare a meno di pensare che è la prima volta che sto con una donna senza avere paura.» «Cosa vuoi dire?» «La regina fa paura, Meredith, e vuole che i suoi uomini siano sottomessi. Io non sono un tipo dominante, ma la sua idea del sesso non mi piace.» Mi piegai su di lui e lo baciai dolcemente. «Anche noi non ci andiamo coi guanti, a letto.» Lui mi abbracciò con improvvisa energia. «No, Meredith, tu non sei così. Tu non mi fai paura.» Mi tenne sopra di sé e io mi rilasciai, lasciando che mi stringesse forte. Quasi troppo forte, quasi fino a farmi male. Gli accarezzai i fianchi e le parti della schiena che potevo raggiungere, finché non cominciò a rilasciarsi; le sue braccia non erano più così rigide. Solo pochi giorni addietro avevo pensato di rimandare Nicca a casa, perché non volevo che diventasse re. Non era in grado di essere un re, e questo non aveva niente a che fare con la sua capacità d'ingravidare una donna. Continuai ad accarezzarlo con dolcezza, finché quel suo improvviso panico non si sciolse. Quando fu calmo cominciò ad accarezzarmi anche lui, e io cercai la sua bocca, il suo corpo. Mi auguravo che Taranis non chiamasse proprio mentre facevamo l'amore, ma il rapporto sessuale stava levando dagli occhi di Nicca quello sguardo ferito. Avevo bisogno di vedere i suoi occhi castani fissi nei miei, senza nient'altro che il sorriso in essi. Quando Rhys uscì dal bagno con un asciugamano arrotolato intorno ai fianchi, stavamo per finire. Imprecò sottovoce. «È troppo tardi perché io dia il mio contributo?» «Sì», dissi, e diedi a Nicca il bacio della separazione. «E adesso la doccia me la faccio io.» Scivolai giù dal letto e andai nel bagno prima che Nicca potesse protestare. Li lasciai lì che ridacchiavano e, quando chiusi la porta, stavo ridendo anch'io. C'era un modo migliore di cominciare la giornata?
34 Quel pomeriggio, Maeve e Gordon Reed si presentarono alla nostra porta. Erano trascorsi solo pochi giorni, ma per Gordon sembrava che fossero stati anni. La sua pelle, da cerea, era diventata grigia. Doveva aver perso ancora peso, perché l'ossatura forte che un tempo gli aveva dato un aspetto imponente ormai lo faceva apparire uno scheletro avvolto in una carta sottile. In quella faccia tesa i suoi occhi erano grandi, cerchiati, con uno sguardo sempre sofferente. Era come se il cancro lo avesse svuotato della carne, risucchiandogliela dall'interno. Maeve mi aveva detto al telefono che suo marito stava peggio, molto peggio, ma non eravamo comunque preparati a quello che vedemmo. Nessuna parola può descrivere il declino di un uomo verso la morte. Frost e Rhys erano scesi in strada ad aspettare la loro auto, per aiutare Gordon a salire le brevi scale fino al mio appartamento. Maeve era dietro di loro, con la faccia seminascosta da un largo paio di occhiali da sole e un foulard di seta sui capelli biondi. Indossava una pelliccia lunga fino alla caviglia e chiusa al collo, come se avesse freddo. Sembrava l'archetipo di una star del cinema hollywoodiano in incognito. Ma chi aveva più diritto di lei di avere quell'aspetto? Gli uomini condussero Gordon in camera da letto, perché potesse riposare mentre noi avremmo eseguito la prima parte del rito della fertilità. Maeve cominciò subito a camminare avanti e indietro nel soggiorno. Si era messa una sigaretta tra le labbra, e stava per far scattare l'accendino quando la pregai di non fumare in casa mia. «Meredith, per favore, ne ho bisogno.» «Allora puoi fumare sul pianerottolo.» Lei abbassò gli occhiali da sole, mostrandomi i suoi famosi occhi azzurri. Si era di nuovo avvolta nel glamour umano, per sembrare meno sidhe possibile. Continuò a fissarmi mentre sbottonava la pelliccia scoprendo il suo snello corpo abbronzato. Era nuda, a parte gli stivaletti. «Sono uno spettacolo adatto per i tuoi vicini di casa?» Scossi il capo. «Il tuo glamour può farti passare inosservata anche se girassi nuda in mezzo all'autostrada, perciò richiuditi la pelliccia e porta quella sigaretta e il tuo nervosismo fuori di qui.» Lasciò cadere a terra la pelliccia, restando lì in splendida posa come una statua su un piedistallo di visone. «Come puoi essere così crudele?» «Questa non è crudeltà, Maeve, e lo sai bene. Hai trascorso troppi secoli
alla Corte di Taranis per pensare che sono crudele se non voglio che il mio appartamento puzzi di fumo.» Mi mise il broncio. Io ne ebbi abbastanza. «Quando tornerò qui dentro, avvolta dalla magia del rito, voglio trovare Conchenn, la dea della bellezza e della primavera, e non un'appassita star sull'orlo di una crisi di nervi. E niente glamour. Voglio vedere quegli occhi baciati dalla luce in tutta la loro gloria.» Aprì la bocca, per protestare, suppongo. La fermai alzando una mano. «Risparmiati quello che stai per dire, Maeve, e fai quello che devi fare perché il lavoro di oggi vada a buon fine.» Si rimise gli occhiali da sole, e con voce molto più piccola disse: «Sei cambiata, Meredith. In te c'è una durezza che prima non c'era». «Non durezza, autorità», precisò Doyle. «Lei sarà regina, e ora comincia a capirlo.» Maeve lo guardò, poi guardò me. «D'accordo. E perché ti sei messa quel bikini? Credevo che dovessimo fare sesso, non andare alla spiaggia.» «Lo so, sei piena di rabbia e di dolore per tuo marito, e questo ti spinge a fare delle sciocchezze. Ma c'è un limite alle sciocchezze, Maeve. Non superarlo.» Abbassò la testa, continuando a rigirarsi tra le dita la sigaretta spenta e l'accendino. «Non sto cercando di fare la dannata primadonna, ma sono disperatamente preoccupata per Gordon. Riesci a capirlo questo?» «Lo capisco, ma potrei già essere in giardino, a prepararmi per il rito, se non fossi costretta a stare qui per discutere con te.» Le voltai le spalle, deliberatamente, sperando che capisse l'antifona. «Doyle, hai esteso i nostri incantesimi protettivi a includere il giardinetto dietro il palazzo, come ti ho chiesto?» «Sì, principessa, è tutto pronto.» Trassi un lungo respiro. Quello era il momento che mi preoccupava di più. Avrei dovuto scegliere uno degli uomini per fargli svolgere il ruolo di consorte durante il rito, ma chi? Non sapevo quale di loro sarebbe stato il più adatto. La mia incertezza aumentò quando Galen si fece avanti, un po' esitante ma con voce chiara. «Sono di nuovo in possesso della mia virilità, Merry.» Tutti, tranne Maeve, ci voltammo a guardarlo. Lui parve un po' a disagio sotto quel nostro scrutinio, ma stava sorridendo con tranquillità e nei suoi occhi c'era uno sguardo che non gli vedevo da molto tempo. «Non lo dico per guastarvi la festa, ma come facciamo a sapere se è davvero guarito?» intervenne Rhys. «Maeve e Gordon potrebbero non ave-
re un'altra possibilità di ripetere il rito.» «Se Galen dichiara di essere abbastanza guarito per fare ciò che va fatto, io gli credo», replicò Doyle. Guardai la Tenebra. La sua faccia era la solita maschera illeggibile. Di rado parlava senza essere sicuro di ciò che diceva. «Come puoi esserne certo?» domandò Frost. «Meredith ha bisogno di un consorte per la sua Dea. Chi può essere più adatto del cavaliere verde, appena ritornato alla vita?» Sapevo che «uomo verde» era uno dei soprannomi del Consorte della Dea, quando lo si considerava genericamente un dio della foresta. Guardai Galen: non c'era dubbio che lui fosse verde. «Se Doyle pensa che Galen può andare, d'accordo», dissi. Non mi parve che Frost fosse lieto di quella scelta, ma tutti gli altri la accettarono e lui tenne la bocca chiusa. A volte è il massimo che si possa chiedere. 35 Durante la preparazione del rito dovevo essere sola. A Doyle non piaceva lasciarmi senza protezione, anche per poco, ma i nostri incantesimi protettivi erano stati estesi oltre il muro esterno fino al piccolo e trascurato giardinetto sul retro del palazzo. E che fosse trascurato era un fatto positivo per le mie attuali necessità, perché significava che lì non erano stati usati erbicidi o pesticidi da molto tempo. Quel mattino avevamo costruito un circolo rituale. Aprii un ingresso nella sua parete energetica, entrai e lo richiusi dietro di me. Così mi trovavo non solo tra gli incantesimi protettivi di casa mia ma all'interno di un circolo protettivo. Niente di magico avrebbe potuto penetrare oltre quella barriera, niente che fosse meno potente di una divinità oppure dello stesso Senzanome. Gli spettri affamati che stavano facendo stragi ne sarebbero stati fermati; non erano più divinità. Il giardino era stato fatto per scopi soltanto ornamentali, come nella maggior parte dei condomini cittadini della California meridionale. Qualcuno ci aveva piantato una ventina di alberi di limoni, che nonostante l'assenza di cure erano coperti di foglie verdi. Quella non era ancora la stagione della fioritura, e avrei preferito il contrario. Ma nel momento in cui mi addentrai tra i limoni, calpestando lo strato di erbacce e foglie secche, all'improvviso tutto cambiò. Gli alberi mormorarono tra loro come vecchie
signore che si chinassero l'una verso l'altra sotto il sole caldo della primavera. Gli eucalipti piantati lungo il viale, fuori del muro del giardino, emanarono un odore di resina che si dilatò nell'aria, mescolandosi con l'intenso profumo dei limoni. Un largo lenzuolo di cotone era stato disteso al suolo, nel piccolo spiazzo centrale. Maeve si era offerta di portare delle lenzuola di seta, ma a noi bastava soltanto qualcosa che facesse parte della terra, animale o vegetale. Qualcosa di uno spessore sufficiente a coprire le asperità del terreno, ma non tale da separarci da esso. Avevamo ancora bisogno di sentire la terra sotto i nostri corpi. Mi sdraiai sul lenzuolo come se volessi prendere il sole. Vi premetti sopra tutto il corpo, con le braccia e le gambe allargate, e poi mi lasciai sprofondare nella stoffa morbida, dentro l'erba, dove le foglie e gli stecchi formavano uno strato di piccole cose dure, e ancora più giù nel terreno solido e compresso. C'era dell'acqua lì, senza la quale gli alberi di limoni sarebbero morti, ma il suolo appariva secco come un osso, come se non fosse mai stato toccato dalla pioggia. Il vento accarezzò il mio corpo, mi riportò indietro. Giocava sulla mia pelle, faceva frusciare le foglie secche e le erbe oltre i bordi del lenzuolo. Le foglie sussurravano e si zittivano a vicenda. L'odore degli eucalipti si mescolava con quello caldo dei pini di bosco. Mi girai sulla schiena per guardare gli alberi che si muovevano al vento e per sentire il calore del sole sulla parte anteriore del corpo. Non so cosa fu, se un rumore o qualcos'altro, a farmi capire che non ero più sola, ma quando voltai la testa appoggiando la guancia sui miei capelli, lui era lì. Galen era immerso nel fogliame che lo avvolgeva, visibile perché era l'unica cosa immobile nel verde delle piante scosse dal vento. I suoi capelli chiudevano il volto in un alone di riccioli verdi; la treccia sottile in cui aveva arrotolato quelli più lunghi gli serpeggiava giù lungo il petto nudo. Quando uscì dall'intreccio dei rami potei vedere che non indossava niente. La sua pelle liscia e perfetta era di un bianco appena sfumato di verde, come il lucido interno di una conchiglia. Il suo torace appariva più snello senza le vesti, e dalla cintura si allargava in alto verso le spalle e in basso nella curva dei fianchi. Il suo membro virile era più grosso di quello che avrei pensato, lungo e robusto, e mentre lo guardavo si stava ergendo, come se fosse stimolato dalla carezza del mio sguardo. Le sue gambe erano lunghe e muscolose mentre si avvicinava. Credo di aver dimenticato di respirare per un paio di secondi. Non ero
stata davvero sicura che sarebbe venuto. Mi ero stancata di sperare. Ma finalmente era lì. Alzai gli occhi verso il volto e trovai il suo sorriso. Il sorriso che mi aveva fatto battere il cuore più forte fin da quando stavo appena cominciando a guardare gli uomini. Mi sedetti sul lenzuolo e gli tesi una mano. Avrei voluto correre da lui, ma avevo paura di uscire dal circolo degli alberi, del vento e della terra. E non osavo distogliere lo sguardo, perché se avessi sbattuto le palpebre Galen sarebbe svanito tra il verde come un sogno d'estate. Si fermò al bordo del lenzuolo, appena fuori della mia portata, e protese lentamente una mano verso la mia finché le nostre dita non si sfiorarono, e quel tocco leggero mandò un fremito simile a una nuvola di farfalle nel mio corpo. Quella sensazione mi strappò un ansito. Galen si lasciò cadere in ginocchio sul lenzuolo, con le braccia lungo i fianchi, e non fece nessun tentativo di toccarmi. Mi alzai anch'io nella sua stessa posizione. In ginocchio, l'uno davanti all'altra, ci guardammo, così vicini che non avremmo avuto bisogno delle mani per toccarci. Lui avvicinò le dita alla mia spalla sinistra, e potei avvertire la sua aura, il suo potere, come un respiro caldo che emanava dal corpo. La sua mano scivolò lungo il confine della mia aura, e i due campi energetici emisero bagliori di luce, attraendosi. Avevo temuto che sarebbe stato difficile svegliare la magia, ma avevo dimenticato. Avevo dimenticato cosa significasse in realtà essere fey, essere sidhe. Eravamo magia, com'erano magia la terra e gli alberi. Bruciavamo della stessa invisibile fiamma che teneva unito il mondo. E quella fiamma calda ondeggiava tra noi, riempiva l'aria tutto intorno con una fulgida energia che palpitava come un rumore di ali. Fu mentre l'energia saliva e cresceva che ci baciammo. Fluttuò tra le nostre bocche quando lui si chinò su di me, e io alzai la faccia per incontrare le sue labbra. Lui era velluto caldo contro la mia bocca, dentro la mia bocca, e il suo potere mi scese in gola e nelle viscere. Quando avevamo condiviso l'incantesimo curativo di Niceven il potere era stato secco e rovente, quasi doloroso. Questo invece era un calore molto più dolce, il primo alito della primavera dopo un lungo inverno. Le mani di Galen trovarono il bikini che indossavo e portarono i miei seni allo scoperto nella carezza del vento. Lui staccò le labbra prima di approfondire il bacio e abbassò la faccia sul mio petto, prendendo in bocca prima un capezzolo e poi l'altro per succhiare il potere che ne sprigionava.
Mi prese i seni con le mani a coppa, stringendo le dita finché non gridai. Poi la sua carezza mi scivolò sui fianchi, raggiunse l'orlo dello slip e me lo abbassò lungo le cosce. Dovette distendermi all'indietro e sollevarmi le gambe l'una dopo l'altra per sfilare del tutto il piccolo indumento. Giacqui dinanzi a Galen, per la prima volta completamente nuda per lui, nel vento che scivolava sui nostri corpi. Chino sopra di me, puntellandosi con un braccio, mi guardava in silenzio. Io gli accarezzai il petto, l'addome, il ventre, e alla fine toccai la carne calda del suo membro eretto. Lo presi tra le mani, solido e forte, e lui chiuse gli occhi, scosso da un brivido. Quando li riaprì, le sue iridi verdi erano piene di una luce oscura, una misteriosa consapevolezza che mi mozzò il respiro e fece contrarre l'interno del mio basso ventre. Gli strinsi il membro dolcemente, glielo accarezzai, e lui inarcò la schiena, rovesciando la testa all'indietro tanto che non potei vedere se avesse gli occhi aperti o chiusi. Gli abbassai orizzontalmente l'organo virile mentre lui fissava il cielo, e la sua estremità entrò nella mia bocca con un moto improvviso che lui accompagnò con un roco ansito gutturale. Girai gli occhi verso l'alto per poterlo guardare in faccia quando lui distolse lo sguardo dal cielo e lo abbassò su di me. Aveva le labbra semiaperte, un'espressione quasi selvaggia. Il respiro gli uscì in un breve rantolo che cominciò dal suo stomaco, gli contrasse il torace e uscì dalle sue labbra in una parola. Era il mio nome, e lo disse come una preghiera, stringendomi le spalle. Scosse il capo. «Sto per venire.» Mi affrettai a staccare la bocca dal suo membro, e poi lo feci sdraiare supino. M'inginocchiai a cavalcioni delle sue gambe e abbassai gli occhi su di lui. Avevo atteso a lungo quel momento. Gli accarezzai il corpo solo con lo sguardo, memorizzando i punti in cui la sua pelle cambiava colore da verde pallido a un colore più intenso, fino a quello verde scuro dei capezzoli sul suo torace. Passai le mani lungo la parte anteriore del suo corpo, assaporando la morbidezza dell'epidermide che a tratti sembrava velluto, a tratti pelle scamosciata, ma non c'erano parole per descrivere la morbidezza della sua grana, e come fosse solida e ferma la carne. Ma non era la sua carne che avevo aspettato in tutti quegli anni, era la sua magia. Richiamai il mio potere come un caldo respiro che mi usciva dai pori, e la sua aura si sollevò come un'onda per mescolarsi alla mia. La mia magia e la sua fluirono insieme come due correnti oceaniche, l'una dentro l'altra, vorticando insieme. Mossi il mio corpo sopra quello di Galen prendendo lentamente il suo
membro dentro di me, un centimetro dopo l'altro, finché la penetrazione non fu completa. Lui sussurrò il mio nome, e mi chinai a baciarlo, accettando la sua lingua nella mia bocca come la sua virilità era nel mio ventre, stretti nel più intimo degli abbracci. Il vento passava sulla mia schiena come una mano fredda. Mi alzai a sedere, con gli occhi sul volto di Galen. Potevo sentire di nuovo la voce degli alberi. Li sentivo parlare l'uno con l'altro, sussurrandosi segreti oscuri nati nelle profondità del suolo, e potevo sentire anche la voce della terra sotto di noi. Sentivo le profondità del mondo che si torcevano in una poderosa danza sotto il corpo di Galen. Diventammo parte di quella danza. I nostri corpi avevano un solo ritmo, coi miei fianchi che si muovevano avanti e indietro mentre i suoi si alzavano e si abbassavano, finché non sentii che il suo membro era rigido come più non avrebbe potuto e allora lo strinsi dentro il mio ventre con tutta me stessa, come nel timore che se non l'avessi tenuto stretto con la mia carne sarebbe svanito. Poi il calore dilagò tra le mie gambe alzandosi in un'onda che mi saturò il corpo, quasi che fossi uscita dalla mia stessa pelle per disperdermi nel vento e nel mormorio degli alberi. La sola cosa che mi teneva ancorata alla terra era il membro duro e caldo di Galen. Anche lui era uscito dalla sua pelle, trasformandosi in magia pura che si irradiava all'esterno, e per un luminoso momento non fummo più fatti di carne e ossa, né corpi reali. Eravamo il vento, eravamo gli alberi che scuotevano le chiome come aquiloni ancorati, con pensieri di terra e di luce solare. Eravamo il dolce profumo sempreverde degli eucalipti, e l'odore caldo e denso dell'erba bruciata dal sole. Quando ormai non potevo più sentire il mio corpo e ricordare chi fossi, cominciai a tornare in me stessa. Le mie membra tornarono solide, e Galen era ancora dentro di me. Anche il suo corpo tornò solido sotto il mio, ed entrambi ansimammo in cerca di aria, ridendo, l'una tra le braccia dell'altro. Poi scivolai di lato e giacqui accanto a lui, con una guancia posata sul suo petto per sentire il battito del cuore. Quando trovammo la forza di alzarci e camminare tornammo in casa, in cerca di Maeve e di Gordon, per offrire loro la magia che avevamo trovato. 36 Era Conchenn in tutta la sua gloria quella che attendeva il bacio della magia nella mia camera da letto. Accanto alla sua luminosa presenza, Gor-
don Reed sembrava ancora più uno scheletro grigio. La sofferenza sul suo volto mentre la guardava era orribile da vedere. Anche attraverso il bagliore della magia che pulsava dentro di noi la sua debilitazione era evidente. Non potevo dargli la guarigione, ma speravo di poter alleviare il suo dolore. «Profumate di vita selvatica», disse Maeve. «Da te emana il calore della terra, Meredith. Posso vederlo come una luce verde, anche attraverso le palpebre.» I suoi occhi si offuscarono e cominciò a piangere, con lacrime di cristallo che sulla sua pelle assumevano riflessi dorati. «Il tuo uomo verde sa di cielo, di vento, e di luce solare. Lui è una luce gialla nella mia testa.» Sedette sul bordo del letto, come se le gambe non la reggessero più. «Voi ci portate la terra e il cielo, voi ci portate la madre e il padre, voi ci portate il dio e la dea.» Avrei voluto dire: Non ringraziarci, non ti abbiamo ancora dato un figlio. Ma tacqui, perché potevo sentire la magia dentro il mio corpo, e la sentivo in quello di Galen, che mi teneva per mano. Era il crudo potere della vita stessa, l'eterna danza della terra fertilizzata dai semi che davano frutti. Quel ciclo non poteva essere fermato, perché se qualcosa l'avesse fatto si sarebbe fermata la vita. Maeve si spostò a sedere accanto a Gordon e gli prese una mano, grigia e scarna, tra le sue, contornate di luce. Galen e io andammo di fronte a loro; m'inginocchiai al fianco di Gordon, mentre Galen si avvicinava a Maeve. Li baciammo nello stesso istante, e le nostre labbra toccarono le loro come se fosse l'ultimo movimento di una danza perfetta. Il potere si riversò da noi a loro in un'ondata che ci fece rizzare i peli sul corpo e riempì la stanza col ronzio vibrante di un fulmine pronto a colpire. L'aria era così densa di magia che stentavamo a respirarla. Galen e io ci facemmo indietro, e potei vedere con gli occhi della mente che i nostri due ospiti brillavano, pieni del fuoco della terra e dell'oro del sole. Maeve stava già baciando le labbra sottili del marito quando li lasciammo, chiudendo la porta dietro di noi, senza rumore. Sentimmo il momento della loro unione come un vento che scaturiva da sotto la porta e ci toccava tutti. In quell'improvviso silenzio, Doyle sentenziò: «Hai avuto successo, Meredith». «Ancora non puoi saperlo per certo», replicai. Lui mi guardò. Si limitò a guardarmi, come se quello che avevo detto fosse ridicolo.
«Doyle ha ragione», disse Frost. «Un potere come quello non fallisce.» «Se avessi tanto potere di fertilità, perché non sono ancora incinta?» Ci fu un'altra pausa di silenzio. Non stordito, stavolta, ma imbarazzato. «Non lo so», ammise infine Doyle. «Dobbiamo continuare a tentare, nient'altro», aggiunse Rhys. Galen annuì solennemente. «Più sesso. Dobbiamo fare più sesso.» Io li guardai con severità, ma non potei mantenere a lungo quel cipiglio, e scoppiai a ridere. «Se facessimo più sesso di così, non avrei la forza di camminare.» «Possiamo portarti a braccia dove vuoi», disse Rhys. «Sì», confermò Frost. Li guardai entrambi. Ero quasi sicura che stessero scherzando. Quasi. 37 Il giorno seguente stavamo finendo di pranzare quando giunse la chiamata di Taranis. Mandai giù in fretta gli ultimi pezzi di macedonia mentre Doyle parlava con lui. Maeve era incinta; la magia aveva lavorato in fretta dentro di lei, e quella era una cosa che Taranis non poteva sapere. Non ancora. Ma temevo ciò che avrebbe fatto quando ne sarebbe stato informato. Quel pensiero non mi aiutava certo ad affrontare con meno apprensione il colloquio con lui. Avevo scelto un abito da pomeriggio color porpora reale, con una camicetta bianca a collo alto e una cravattina di cordone dorato. Era molto femminile, molto tranquillizzante, e di uno stile rimasto di moda da molti decenni. L'unica cosa cambiata nel corso del tempo era la lunghezza della gonna. A volte, trattando con la Corte Seelie, era meglio non entrare troppo bruscamente nel XXI secolo. Andai a sedermi sul letto, rifatto a regola d'arte, e non fu un caso che il porpora del mio abito andasse d'accordo col colore del copriletto e dei cuscini neri, borgogna e porpora sparsi su di esso. Sul viso non avevo un filo di trucco, a parte un po' di rossetto; preferivo apparire il più semplice possibile. Avevo incrociato le caviglie, benché fossero troppo in basso perché lui potesse vederle, e tenevo le mani in grembo. Non apparivo molto formale, ma quello era il meglio che potevo ottenere senza una camera riservata alle comunicazioni. Doyle stava in piedi alla mia destra, e Frost a sinistra. La Tenebra indossava i suoi soliti jeans neri e una T-shirt dello stesso colore, cui aveva ag-
giunto un paio di stivaloni lunghi fino alla coscia, con l'orlo ripiegato appena sopra il ginocchio. Si era perfino tirato fuori della scollatura la sua sottile collana col pendente a forma di ragno, che luccicava in piena vista su uno sfondo nero. Il ragno era parte del suo abbigliamento, il suo simbolo, e una volta avevo visto la pelle di un umano che si dilettava di magia nera spaccarsi mentre dalla ferita sciamavano fuori tanti ragni uguali a quello del pendente e lo ricoprivano come una massa brulicante. La sfortunata vittima era l'uomo che il tenente Peterson mi accusava di aver ucciso. Frost aveva fatto una scelta più tradizionale e indossava una tunica bianca lunga fino alla caviglia, dagli orli pesantemente ricamati con filo dorato, argenteo e bianco. I ricami erano a motivi floreali, e così perfetti che si distinguevano i tralci di vite e le rose rampicanti, le campanule e le violette. Una larga cintura di pelle bianca, con la fibbia d'argento, gli stringeva la tunica alla vita, e da essa pendeva la sua spada, Geamhradh Po'g, Bacio d'Inverno. Di solito lasciava a casa quella sua arma incantata, perché non poteva fermare le pallottole moderne; non aveva quel genere di magia. Ma per un colloquio col re la spada era perfetta. Aveva un'impugnatura di osso intagliato, con inserti di argento. L'osso aveva una patina simile all'avorio antico, ricco e caldo, come legno pallido lucidato da secoli di uso. Entrambi facevano il possibile per tenersi discosti e non torreggiare fisicamente su di me, ma non era facile, anche se mi fossi alzata in piedi. In effetti stavamo cercando di fornire un quadro amichevole, ma in caso di necessità loro due avevano il compito di rappresentare l'altra faccia della medaglia, un po' come il poliziotto buono e il poliziotto cattivo nella stanza degli interrogatori. Taranis, il re della Luce e delle Illusioni, sedeva su un trono d'oro. Era vestito di luce. La sua veste era il movimento della luce solare tra le foglie, una morbida luminosità punteggiata di ombre e riflessi multicolori, come un campo stellato che apparisse al tramonto oltre l'arcobaleno. La sopravveste era di un giallo violento, il bagliore dei raggi di sole in piena estate tra le chiome degli alberi. Non si poteva capire cosa fossero quel verde e quell'oro, se stoffa o luce pura, e i colori sfumavano in altri a ogni suo movimento. Anche l'alzarsi e abbassarsi del petto a ogni respiro li faceva danzare. I suoi capelli ricadevano in onde di luce d'oro intorno a una faccia così brillante che solo gli occhi non abbagliavano lo sguardo. Le iridi erano in tre diverse sfumature concentriche di azzurro lucente, come tre circoli di tre diversi oceani, ciascuno colmo dei riflessi del cielo, e come quelle su-
perfici d'acqua da cui sembravano rubati anch'essi mutavano colore al passaggio delle correnti che ribollivano dietro. Erano tante le parti di lui che si muovevano, e non in sincronia tra loro. Dava l'impressione di essere immerso in diverse qualità di luce provenienti da varie regioni del mondo, riunite in una sola immagine. Taranis era un collage di luci che balenavano e palpitavano e fluttuavano, e mai nella stessa direzione. Dovetti chiudere gli occhi; era una vista che stordiva. Ebbi l'impressione che se lo avessi guardato troppo a lungo mi sarebbe venuto mal di capo. Mi domandai se anche Doyle e Frost subissero lo stesso effetto sgradevole, o se fosse solo una mia impressione. Ma non era cosa da chiedere in presenza del re. Ciò che dissi fu: «Taranis, i miei occhi in parte mortali non possono sopportare il tuo splendore senza esserne sopraffatti. Vorrei pregarti di schermare la tua gloria, per poterti guardare senza svenire». La voce con cui mi rispose era una musica, come se cantasse una bella canzone, ma stava solo parlando. Dentro di me sapevo che non era la cosa più melodiosa che avessi mai sentito, ma le mie orecchie udirono parole capaci di penetrare fin nelle ossa. «Qualunque cosa di cui tu abbia bisogno per rendere piacevole questa conversazione ti sarà data. Guardami, ora sono più comprensibile ai sensi mortali.» Riaprii gli occhi, con cautela. Era sempre molto brillante, ma gli effetti luminosi non si muovevano rapidamente; li aveva attenuati, e la sua faccia non abbagliava come prima. I suoi contorni erano più solidi, meno radianti. Ricordavo di quale colore fossero i suoi capelli, e non era il colore che vedevo in quel momento. Ma almeno la sua immagine non mi faceva più girare la testa. Be', eccetto gli occhi. Aveva ancora gli stessi occhi in cui giocava la luce azzurra del cielo e del mare. Sorrisi, e domandai: «Dove sono quegli affascinanti occhi verdi che ricordo fin dalla mia infanzia? Avrei piacere di vederli ancora. O la memoria m'inganna e gli occhi che ricordo sono di un altro sidhe? Quegli occhi erano verdi come smeraldi, verdi come le foglie d'estate, verdi come le profondità di uno stagno immobile nell'ombra». Erano stati i suoi cortigiani a insegnarmi come si doveva parlare con Taranis, dopo averlo fatto per secoli e aver visto che anche la regina lo faceva. Il primo di quegli insegnamenti era: adulare Taranis non è mai uno sbaglio; se le parole sono dolci alle sue orecchie, lui tende a crederle vere. Specialmente se la voce è quella di una donna. Fece una risatina musicale, e i suoi occhi tornarono subito come io li
rammentavo. Sembrava che le iridi fossero un fiore dai molti petali, ciascuno dei quali di una differente gradazione di verde, alcuni orlati di bianco e altri di nero. Finché non avevo visto i veri occhi di Maeve Reed avevo pensato che quelli di Taranis fossero i più belli, tra quelli di tutti i sidhe che conoscevo. Riuscii a fare un sorriso sincero. «Sì, i tuoi occhi sono splendidi come li rammentavo.» L'immagine che mi stava offrendo era quella di un essere fatto di luce aurea, con capelli dorati che gli scendevano in morbide ondulazioni intorno alle spalle. I suoi occhi verdi sembravano quasi fluttuare in tutto quell'oro, come fiori sull'acqua. Per quanto fossero occhi straordinari, tuttavia, il resto di lui non lo era. Se avessi cercato di scattargli una foto, su di essa avrei visto soltanto quegli occhi al centro di bagliori sfocati. Le macchine fotografiche non si lasciavano incantare così facilmente dalla magia. «Ti saluto, principessa Meredith. Principessa della Carne, a quanto ho sentito dire. Congratulazioni. Questo tuo potere è davvero spaventoso. Esso costringerà i sidhe della Corte Unseelie a pensarci due volte prima di sfidarti a duello.» La sua voce era scesa a un tono quasi normale, benché piuttosto melodioso. «Fa piacere essere capace di difendersi, alla fine.» Mi parve che lui si accigliasse, ma era difficile dirlo, con quel volto così brillante. «Mi spiace che tu abbia conosciuto momenti pericolosi alla Corte oscura. Ti assicuro che la Corte Seelie non ti renderà la vita così difficile.» Sbattei le palpebre e feci uno sforzo per esibire un'espressione gradevole. Ricordavo bene com'era stata la vita per me alla Corte Seelie, e le difficoltà che mi avevano costretta a trasferirmi altrove. Il mio silenzio si era prolungato troppo, perché il re disse: «Se verrai alla festa in tuo onore, ti garantisco che la troverai piacevole e ben organizzata». Trassi un lungo respiro e sorrisi. «Sono molto onorata di questo invito, re Taranis. Una festa in mio onore alla Corte Seelie è una grande sorpresa.» «Una sorpresa piacevole, spero.» Rise, e la sua risata fu ancora una melodia gioiosa. Dovetti sorridere nel sentirla. Era così contagiosa che per poco non scoppiai a ridere anch'io. «Oh, molto piacevole, altezza reale», dissi, e lo pensavo davvero. Certo, era molto bello sentirsi invitare da una persona così luminosa a una festa in mio onore all'affascinante Corte della luce. Non poteva esserci niente di
meglio. Chiusi gli occhi e lasciai uscire piano il fiato, mentre Taranis continuava a parlare con una voce sempre più musicale e penetrante. Mi concentrai sulla respirazione, non sulla sua voce. Sentivo il mio respiro entrare e uscire dal corpo. Mi sforzai di controllarlo finché non fu quasi doloroso trattenerlo, e infine lo feci defluire dai polmoni in un lento rivolo d'aria. Nel silenzio che avevo lasciato s'introdusse la voce pacata di Doyle. Potei sentire una parte di ciò che disse, mentre eseguivo gli esercizi di respirazione e tornavo consapevole di quanto accadeva all'esterno del mio corpo. «La principessa è sopraffatta dalla tua presenza, re Taranis. Lei è, dopotutto, relativamente giovane. È difficile fronteggiare il tuo potere senza esserne influenzati.» Doyle mi aveva già avvertito che Taranis aveva un forte glamour personale e non esitava a farne uso abituale con gli altri sidhe. Nessuno aveva il coraggio di dirgli che ciò era illecito, perché lui era il re e quasi tutti lo temevano. Lo temevano troppo per accusarlo di barare. Era stato l'avvertimento di Doyle a indurmi a ricorrere a un esercizio di respirazione, senza rischiare di oppormi apertamente al glamour. Avevo trascorso la maggior parte della vita a contatto di individui che disponevano di un glamour più persuasivo del mio, ed ero stata costretta a imparare il modo di liberarmene. A volte dovevo ricorrere a metodi troppo evidenti, come il controllo della respirazione. Molti sidhe avrebbero preferito soccombere all'incantesimo, piuttosto di mostrare quanto stentavano a respingere il potere di un altro sidhe. Io non avevo mai potuto permettermi quel genere di orgoglio. Riaprii gli occhi lentamente e sbattei le palpebre finché non mi sentii di nuovo a contatto con la realtà. Sorrisi. «Le mie scuse, re Taranis, ma Doyle ha ragione. La tua fulgida presenza rischia davvero di sopraffarmi.» Anche lui sorrise. «Le mie sincere scuse, Meredith. Non volevo metterti a disagio.» Forse non voleva farlo, ma di certo voleva che io intervenissi alla sua piccola festa. Lo voleva tanto da cercare di persuadermi con la magia. Ciò che io volevo, e molto, era invece domandargli perché ci tenesse tanto che andassi da lui. Ma Taranis sapeva bene chi mi aveva allevata, e nessuno aveva mai accusato mio padre di essere meno che educato. Esplicito talvolta, ma sempre educato. Non potevo fingere di essere un'umana ignorante, come avevo fatto con Maeve Reed; lui non ci sarebbe cascato. Il problema era che senza fargli domande dirette non ero sicura di riuscire a
sapere ciò che volevo. Ma non importava. Il re era troppo occupato ad ammaliarmi per preoccuparsi d'altro. Non volevo cercare di lottare col glamour di uno dei maggiori illusionisti che fossero mai esistiti in entrambe le Corti. Prima tentai la strada della verità. «Ricordo i tuoi capelli come un tramonto tessuto in onde. Molti sidhe hanno i capelli di un biondo dorato, ma soltanto i tuoi hanno il colore del sole calante.» Corrugai la fronte in un grazioso cipiglio, espressione che le donne usano da secoli con buoni effetti. «O forse ricordo male? La maggior parte dei miei ricordi di te quando non eri avvolto nel glamour sono i ricordi di una bambina. Forse ho soltanto sognato quel colore, quella bellezza.» Non me n'ero mai lasciata incantare; nessuna delle mie guardie ci avrebbe creduto; Andais mi avrebbe presa a schiaffi per una manipolazione così ovvia. Ma nessuno di noi aveva mai ricevuto i salamelecchi sociali cui Taranis era abituato. Per secoli la gente gli aveva parlato in quel modo, o con parole ancora più mielate. Se qualcuno continua a sentirsi dire quanto è bello, quanto è amabile e quanto è perfetto, è davvero colpa sua se alla fine comincia a crederci? Se uno ci crede, non è più in grado di sentirsi manipolato. Ciò che si sente dire gli sembra la verità. Il segreto era che io pensavo davvero che la sua forma reale fosse più attraente di quello show di luci. Ero onesta, e nello stesso tempo adulatrice. Poteva essere una combinazione potente. Fu come se le ondulazioni dorate fossero assorbite da ogni singola ciocca di capelli, cosicché la sua vera chioma non apparve subito, ma poco alla volta, come uno striptease. Il suo colore autentico era quello del tramonto, quando l'intero cielo è pieno di sangue. Ma tessute in esso c'erano ciocche di quel rosso-arancio che appare talvolta quando il sole sta scendendo sotto l'orizzonte. E qua e là spuntavano altre ciocche simili a gialli raggi solari, che scintillavano tra le onde più solide dei suoi capelli. Mi accorsi di aver trattenuto il fiato. Non avevo mentito dicendo che il suo aspetto naturale era più spettacolare dell'illusione. «Così ti piace di più, Meredith?» La sua voce era ricca di tonalità quasi tangibili, come se avessi potuto afferrarne manciate intere: non riuscivo a immaginare cosa avrei sentito stringendola tra le braccia; qualcosa di spugnoso e dolce, forse. Come ricoprirsi di zucchero filato, che si fonde e diventa appiccicoso. Tornai in me quando Doyle mi toccò una spalla. Taranis aveva usato
qualcosa di più che un semplice glamour. Il glamour cambia le apparenze di una cosa, ma si ha sempre la scelta tra accettarlo o respingerlo. Il glamour poteva far apparire una crosta secca come un pasticcino, ed è più probabile sentirsi invogliati a mangiare il pasticcino che la crosta, ma si deve sempre scegliere se mangiarla. Il glamour cambia solo l'esperienza. Non costringe a scegliere di accettarla. Ciò che Taranis aveva fatto era d'impormi una scelta. «Mi avevi chiesto qualcosa, altezza reale?» «L'ha chiesta», disse Doyle, e la sua voce mi ricordò cose dolci e scure, come il miele spalmato sul pane nero. Compresi che era un tocco di glamour a farmi pensare questo. Ma la Tenebra non stava cercando di controllarmi; voleva solo aiutarmi a contrastare il potere del re. «Ti ho chiesto se mi farai l'onore di partecipare a una festa data in tuo onore.» «È un onore che ti dia tanto disturbo per me, maestà. Un mese o due fa sarei stata felice di partecipare. Oggi sono molto occupata. I preparativi per Yule e tutto il resto, sai. Non ho uno stuolo di servitori che provvedono a far filare lisce le mie attività, come te.» Sorrisi, ma dentro di me stavo gridando, indignata. Possibile che osasse tentare di manipolarmi come se fossi un'ingenua umana o una fey minore? Quello non era trattare gli altri da pari a pari. Non avrei dovuto esserne sorpresa, mi aveva sempre trattata in un modo meschino. Non mi vedeva come una uguale; perché avrebbe dovuto comportarsi come se lo fossi? Potevo far sembrare i miei capelli di un diverso colore, e così anche la pelle, e apportare piccoli cambiamenti al mio aspetto. Era un genere di glamour che padroneggiavo alla perfezione. Ma ciò non aveva niente in comune con l'immenso potere che Taranis mi stava rovesciando addosso con tanta indifferenza. Cosa sapevo fare meglio di Taranis? Avevo la mano della Carne, e lui no, ma quella era una cosa che poteva solo uccidere, e solo al contatto. Io non volevo ucciderlo, soltanto tenerlo a bada. La sua dolce voce continuò: «Gradirei molto la tua compagnia prima di Yule». La mano di Doyle posata sulla mia spalla strinse un poco. Io reagii a quel tocco, e la sensazione della sua pelle mi diede forza. In cosa ero più brava di Taranis? Alzai una mano a cercare quella di Doyle, e le sue dita s'intrecciarono alle mie. La sua mano era molto reale, molto solida. Mi aiutava a respingere
quella voce pesante e quella fulgida bellezza. «Detesto doverti dire di no, altezza reale, ma senza dubbio la mia visita potrà essere rimandata di qualche giorno.» Il suo potere m'investì in un'ondata più rude. Se fosse stato una fiamma, mi avrebbe dato fuoco; se fosse stato acqua, sarei affogata. Era persuasione, quasi una forma di seduzione, e io non seppi più ricordare perché non volessi andare alla Corte Seelie. Certo che sarei andata. Un improvviso movimento m'impedì di dire sì. Doyle si era seduto dietro di me, con le gambe ai lati delle mie, cosicché il mio corpo era incuneato contro il suo. Ciò mi fu d'aiuto a non cedere, ma non sarebbe bastato se le nostre mani non fossero state sempre unite. La pressione della sua pelle contro la mia mano era più preziosa di quella del suo intero corpo coperto dagli indumenti. Allungai di lato l'altra mano, alla cieca, e Frost la prese. Me la strinse, e anche questo fu d'aiuto. Tornai a guardare lo specchio. Taranis era ancora un essere scintillante, bello come un'opera d'arte, ma non si trattava del genere di bellezza che mi faceva battere forte il cuore. Era quasi come se stesse facendo di tutto perché io non lo prendessi sul serio. Sembrava alquanto ridicolo con quella maschera scintillante e gli abiti fatti di luce solare. Il suo potere m'investì ancora, come uno schiaffo caldo in piena faccia. «Vieni da me, Meredith. Vieni da me fra tre giorni, e ti mostrerò una festa come non hai mai visto.» Stavolta a salvarmi fu la porta, aprendosi. Era Galen. Guardò Doyle sul letto, e Frost che mi teneva la mano. «Hai chiamato, Doyle?» Io non avevo sentito la Tenebra dire niente. Probabilmente non ero riuscita a sentire nient'altro che la voce del re, per qualche secondo dopo che aveva smesso di parlare. Ritrovai la mia. «Manda qui Kitto. Così com'è, per favore.» Galen inarcò un sopracciglio ma si limitò a inchinarsi, fuori del campo visivo dello specchio, e andò a prendere il goblin. Non a caso lo avevo chiesto così com'era. Kitto indossava ben poca roba quando si rannicchiava nella sua cuccia. Aveva bisogno che la sua pelle nuda toccasse la mia, e non volevo chiedere alle guardie di spogliarsi. Kitto venne in camera vestito solo di un paio di mutande; dal punto di vista di Taranis doveva essere indecente. Pensasse pure ciò che voleva. Kitto ci gettò uno sguardo interrogativo; fu molto attento a non guardare lo specchio. Io spostai la mano di Doyle a contatto del mio collo e protesi
la mia verso Kitto. Lui venne da me senza far domande. La sua piccola mano mi strinse le dita, e io lo feci chinare perché si accovacciasse ai miei piedi. Lo attrassi contro i miei polpacci nudi. Non portavo calze, solo dei sandali purpurei intonati al vestito. Kitto si strinse alle mie gambe, e il calore di quel corpo e di quelle braccia che aderivano alla mia carne sotto la gonna mi diede forza. Fu in quel momento che compresi perché Andais parlava alla Corte Seelie coperta di corpi nudi. Avevo sempre pensato che lo facesse per insultare Taranis, ma forse il motivo era un altro. Forse l'insulto proveniva dal re, e non dalla regina. «Ti ringrazio per l'onore che mi fai, Taranis, ma in tutta coscienza non posso intervenire a una festa prima di Yule. Sarò molto onorata di partecipare, dopo che l'attività così intensa per le celebrazioni di Yule sarà passata.» La voce mi usciva molto chiara, molto ferma, quasi secca. Doyle cominciò ad accarezzarmi su tutte le parti scoperte del collo e delle braccia. In un'altra occasione le sue carezze sarebbero state seducenti, in quel momento erano una cosa che mi teneva ancorata. Il re m'investì con tutto il suo potere, plasmandolo a forma di una frusta il cui colpo feriva e allo stesso tempo m'inondava di piacere. Emisi un ansito roco, e se avessi potuto muovermi, se avessi potuto parlare, mi sarei gettata verso lo specchio gridando di sì. In quel momento disperato accaddero tre cose. Doyle mi baciò il collo, Kitto mi leccò dietro il ginocchio, e Frost sedette sul letto portandosi la mia mano alle labbra. Il contatto delle loro bocche fu come se tre ancore m'impedissero di andare alla deriva. Frost scivolò sul pavimento e si mise le mie dita in bocca, forse perché solo in quella posizione poteva nascondere il suo gesto a Taranis. Non ne ero sicura, ma non m'importò. La sensazione dell'interno della sua bocca era come un guanto di velluto intorno alla mia carne. Feci un sospiro un po' tremulo... e potei di nuovo pensare, un poco. Doyle mi passò le dita sulla nuca e su fino alla sommità del cranio, grattandomi il cuoio capelluto. Ciò che avrebbe potuto essere quasi doloroso servì a schiarirmi la mente. «Ho cercato di essere cortese, Taranis, ma tu sei stato rude nell'uso della tua magia, e ora io dovrò esserlo nell'uso delle parole. Perché è così importante che io venga da te, e perché prima di Yule?» «Tu sei mia parente. Voglio rinnovare la nostra conoscenza. Quello di Yule è il periodo delle riconciliazioni.» «Non mi hai mai considerata degna di nota, in vita mia. Perché adesso
vuoi rinnovare la nostra conoscenza?» Il suo potere sembrava riempire la stanza, e fu come se stessi cercando di respirare qualcosa di più solido dell'aria. Non riuscivo a respirare. Non riuscivo a vedere quasi niente. Il mondo si restringeva, schiacciato dalla luce; tutto era luce. Un dolore acuto mi riportò alla coscienza così bruscamente che gridai. Kitto mi aveva morso una gamba per avere la mia attenzione, con la foga di un cane, ma l'atto aveva funzionato. Gli accarezzai la faccia. «Questo colloquio è finito, Taranis. Sei stato insopportabilmente scortese. Nessun sidhe fa questo a un altro sidhe. Lo si fa solo coi fey minori.» Frost si alzò in piedi per spegnere lo specchio, ma Taranis disse: «Ho sentito molte cose su di te, Meredith. Volevo vedere coi miei occhi cosa sei diventata». «E cos'hai visto, Taranis?» «Ho visto una donna dove una volta c'era una ragazzina. Ho visto una sidhe dove una volta c'era una fey minore. Ho visto molte cose, ma le tue domande resteranno senza risposta finché non ti vedrò di persona. Vieni da me, Meredith, e facciamo conoscenza.» «Per essere franca, Taranis, riesco a stento a pensare dinanzi al tuo potere. Tu lo sai e io lo so. E questo da grande distanza. Sarei una sciocca a lasciarti fare questo a distanza ravvicinata.» «Ti do la mia parola che non userò su di te nessuna costrizione, se verrai alla mia Corte prima di Yule.» «Perché prima di Yule?» «Perché dopo Yule?» «Perché tu sembri volerlo molto, e questo mi rende sospettosa sui tuoi motivi.» «E così, visto che io voglio molto una cosa, tu decidi di deludermi, soltanto per questo.» «No. È perché tu vuoi troppo quella cosa, e sembri intenzionato a fare tutto ciò che è in tuo potere per averla. Questo mi fa paura.» Anche attraverso la sua maschera di luce dorata vidi che corrugava le sopracciglia. Non seguiva la mia logica, benché a me apparisse chiara. «Mi hai fatto paura, Taranis. Questo è un semplice fatto. Non mi metterò nelle tue mani. Non finché non avrai fatto qualche giuramento molto serio... per regolare il tuo modo di comportarti con me e coi miei.» «Se verrai prima di Yule, giurerò quello che vorrai.» «Non verrò prima di Yule. E anche dopo, dovrai giurare quello che ti
chiederò, altrimenti non verrò affatto.» Taranis cominciò a palpitare di luce, e i suoi capelli sembrarono gonfiarsi, rossi come il sangue. «Mi stai sfidando?» «Non m'interessa sfidarti, perché non hai nessun potere su di me.» «Io sono Ard-Ri, il supremo re.» «No, Taranis. Sei il supremo re della Corte Seelie. Alla Corte Unseelie, la regina è Andais. Tu non sei il mio Ard-Ri. Io non appartengo alla tua Corte. Me lo hai chiarito tu stesso quand'ero bambina.» «Tu conservi i vecchi rancori, Meredith, quando io ti tendo la mano in pace.» «Non mi lascio incantare dalle belle parole, o dalle belle visioni. Quand'ero bambina tu mi hai picchiato fin quasi ad ammazzarmi. Non puoi biasimarmi se ora ti temo, specialmente quando ti stai dando tanta pena per farmi paura.» «Non è questo che volevo insegnarti», replicò lui, senza negare di avermi picchiata. «E cosa volevi insegnarmi, allora?» «A non discutere col tuo re.» Mi abbandonai alle piacevoli sensazioni scatenate dalle mani di Doyle e dalla sua bocca che mi baciava il collo, dalla lingua di Frost che mi leccava il palmo, e dai denti di Kitto che mi mordicchiavano dolcemente una gamba. «Non sei il mio re, Taranis. La mia regina è Andais, e io non ho re.» «Tu cerchi un re, Meredith, o così sento dire.» «Cerco un padre per i miei figli, e lui sarà re della Corte Unseelie.» «Ho sempre detto ad Andais che il suo sbaglio è di non avere un re, un vero re.» «E tu saresti quel re, Taranis?» «Sì», rispose lui, e mi accorsi che ci credeva davvero. Non seppi cosa replicare a quella dichiarazione. Alla fine dissi: «Io cerco un re di diverso genere, uno che capisca che una vera regina vale più di molti re». «Tu mi stai insultando», dichiarò, e la luce che era stata amichevole divenne dura, tanto che desiderai un paio di occhiali da sole per difendermi da quello sguardo ostile. «No, Taranis. Tu hai insultato me, e la mia regina, e la mia Corte. Se non hai niente di meglio da dire, allora non abbiamo niente di cui discutere.» Feci un cenno a Frost, e lui spense lo specchio prima che fosse Taranis a farlo.
Per qualche secondo restammo in silenzio, poi Doyle disse: «Si è sempre considerato un uomo irresistibile con le donne». «Vuoi dire che questa era una specie di seduzione?» Sentii che scrollava le spalle. Poi le sue braccia mi circondarono, e mi strinse a sé. «Per Taranis, chiunque non sia affascinato da lui è un problema. Deve prendersela con tutti quelli che non lo venerano. Deve tormentarli, come chi si stuzzica un bruscolo nell'occhio la cui presenza lo infastidisce senza requie.» «È per questo che Andais parla con lui nuda e coperta di uomini?» «Sì», rispose Frost. «È senza dubbio un insulto da parte di Taranis, verso un'altra regnante.» Frost scrollò le spalle. «Entrambi hanno cercato di sedursi a vicenda, oppure di ammazzarsi, per secoli.» «Omicidio o seduzione... c'è una terza alternativa?» «Loro l'hanno trovata, questa terza alternativa», mi disse Doyle in un orecchio. «Una pace instabile. Credo che Taranis voglia controllarti... e attraverso di te prendere il controllo della Corte Unseelie.» «Perché insiste tanto su Yule?» domandai. «Una volta, durante le celebrazioni per Yule c'erano dei sacrifici», ricordò Kitto. «Per assicurarsi che la luce sarebbe tornata, uccidevano il Sacro Re, e così rendevano possibile la rinascita del Re Quercia, la rinascita della luce.» Rimanemmo qualche secondo in silenzio. Fu Frost a spezzarlo. «Pensate che i nobili della sua Corte si siano finalmente insospettiti sul perché lui non ha figli?» «Non ho sentito neppure un vago accenno che lo confermi», disse Doyle. Ciò significava che aveva le sue spie in quella Corte. «È stato sempre un re a essere sacrificato per un re», osservò Kitto. «Mai una regina.» «Forse Taranis vuole cambiare le usanze», replicò Doyle. «Non devi andare alla Corte Seelie prima di Yule, Meredith. Non c'è una ragione per farlo.» Mi appoggiai al suo corpo, abbandonandomi al conforto del solido circolo delle sue braccia. «Sono d'accordo», mormorai. «Qualunque cosa Taranis stia progettando, non voglio esserne parte.» «Siamo tutti d'accordo su questo», disse Frost. «Sì», aggiunse Kitto. Era una decisione unanime, ma per qualche motivo non molto tranquil-
lizzante. 38 Tornati in soggiorno, trovammo la detective Lucy Tate che sorseggiava il tè seduta sulla poltrona rosa, con aria tutt'altro che allegra. Galen era sul divano e cercava di essere affascinante, cosa che in genere gli riusciva bene. Lucy era però insensibile a ogni suo sforzo. Tutto in lei, dalla rigidezza delle spalle al modo in cui incrociava le lunghe gambe, all'incapacità di stare ferma coi piedi, diceva che era irritata, o nervosa, o entrambe le cose. «Era ora, dannazione!» esclamò quando ci vide uscire dalla camera da letto. Il suo sguardo critico ci esaminò tutti e tre, da capo a piedi. «Non siete abbigliati in modo un po' troppo impegnativo, per un piccolo sollazzo pomeridiano?» Io guardai Galen, sul divano, e Rhys e Nicca dall'altra parte della stanza. Kitto andò a infilarsi nella cuccia del cane senza una parola. Non vedevo Sage, e mi chiesi se fosse fuori della porta tra le piante in vaso sistemate nel corridoio. Galen ne aveva comprato delle altre, per mettere di buonumore il demi-fey. Non si poteva dire che ci fosse riuscito, ma Sage passava un sacco di tempo tra quelle piante. I tre uomini che mi avevano attesa nel soggiorno risposero al mio sguardo interrogativo con espressioni innocenti. Troppo innocenti. «Cosa le avete detto?» Rhys scrollò le spalle, spingendosi via dal muro al quale era appoggiato. «Dirle che stavi facendo un po' di sesso con Doyle e Frost era l'unico modo d'impedirle di aprire la porta prima che tu finissi il tuo colloquio telefonico.» Lucy protese di scatto la tazza di tè in direzione di Galen, che gliela tolse di mano appena in tempo. «State dicendo che mi avete fatto aspettare tutto questo tempo mentre lei chiacchierava al telefono?» li accusò, con voce pericolosamente piatta, rigida e chiara. La sua faccia aveva assunto un insalubre colore paonazzo. Galen si alzò e andò a portare la tazza di tè in cucina, tenendole sotto una mano a coppa perché non lasciasse una scia di gocce sul tappeto. «Una chiamata importante dalla Corte di Faerie», le spiegai io. «Avrei preferito che tu facessi intrusione in un mènage à trois, piuttosto d'interrompere quella chiamata. Credimi.»
Lucy parve vedermi per la prima volta. «Sembri scossa.» Mi strinsi nelle spalle. «Affari di famiglia... una faccenda importante.» Mi guardò in silenzio per parecchi secondi, come se stesse riorganizzando i suoi pensieri. Alla fine scosse il capo. «Rhys ha detto bene. Solo la minaccia di trovarvi in flagrante delicto mi avrebbe trattenuta qui tanto a lungo. Ma gli affari di famiglia non sono urgenti come il lavoro della polizia, dannazione.» «Sei qui per lavoro?» le chiese Doyle, aggirandomi mentre attraversava il soggiorno. «Sì», rispose lei, e si spostò davanti alla poltrona per bloccargli il passo. La Tenebra continuò a muoversi verso il tavolo da pranzo per evitare un confronto, ma il confronto era ciò che Lucy voleva, e la detective incrociò le braccia sul petto con aria bellicosa come se volesse sfidare qualcuno a duello. «Cosa c'è che non va, Lucy?» domandai, andando a sedermi sull'angolo più lontano del divano. Se voleva mantenere il contatto oculare con me, avrebbe dovuto girare intorno al divano e venirmi di fronte. Fu ciò che fece, e tornò a sedersi rigidamente sulla poltrona rosa. Si piegò in avanti, con le mani unite, le dita intrecciate come se lottasse con se stessa. Glielo chiesi ancora: «Cos'è successo?» «C'è stato un altro omicidio di massa, ieri notte.» Lucy era una che di solito ti guardava dritto negli occhi, ma non quel giorno. Quel giorno il suo sguardo si spostava qua e là per l'appartamento senza fermarsi troppo a lungo su niente. «È come quello che abbiamo visto noi?» Annuì. Lasciò per un momento lo sguardo su di me, poi si voltò a guardare la televisione, e la fila di ortaggi che Galen aveva messo in crescita sul davanzale della finestra. «Esattamente lo stesso, salvo il posto.» Doyle venne a inginocchiarsi dietro il divano e mi poggiò il mento su una spalla. Credo che si fosse chinato così per non doverci guardare dall'alto. «Jeremy ci ha informato che i dipendenti dell'agenzia non hanno il permesso di collaborare al caso. Il vostro tenente Peterson non sembra soddisfatto di noi.» «Non so cosa abbia ottenuto finora la squadra di Peterson, ma non credo che stia facendo dei passi avanti. So solo che se parlo con voi di questo caso potrei perdere il lavoro.» Lucy si alzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro nell'esiguo spazio del soggiorno, tra la poltrona rosa e la
finestra, il divano e il tavolo da pranzo. «Ho sempre desiderato entrare nella polizia.» Scosse il capo, passandosi una mano tra i folti capelli castani. «Ma preferirei perdere il lavoro che vedere un'altra scena come quella.» D'un tratto si gettò a sedere sulla poltrona rosa, e mi guardò, a denti stretti e con espressione seria. Aveva preso la sua decisione. Glielo vidi scritto in faccia. «Avete seguito il caso, sui giornali o alla TV?» «I notiziari continuano a parlare di una misteriosa fuga di gas, per quello che è accaduto al night club», disse Doyle, col mento sulla mia spalla. La sua voce profonda mi vibrava nelle ossa, lungo la spina dorsale. Dovetti fare uno sforzo per non mostrare l'effetto che mi faceva. «Il secondo caso è accaduto in uno di quei raduni... rave, mi pare che li chiamino.» «Già. Una partita di ecstasy alterata. Almeno, questa è la storia che abbiamo lasciato filtrare alla stampa», disse Lucy. «Non volevamo che i giornalisti mettessero insieme due più due, e scatenassero il panico in tutta la città. Ma ciò che abbiamo trovato in quel rave era praticamente uguale alle prime due scene del crimine.» «Alle prime due?» domandai. Lucy annuì. «Il primo episodio probabilmente non avrebbe destato troppa attenzione, se non fosse successo in un quartiere molto riservato della città. Le vittime sono state sei, adulti che partecipavano a una cena. Ci sta lavorando una squadra che è già rassegnata a mettere la faccenda nella pila dei casi non risolti. Tuttavia si trattava di persone di una certa levatura sociale, così quand'è esploso il caso del night club c'è stato un forte allarme ed è stata messa a nostra disposizione una vera e propria task force. Ne avevamo bisogno, ma non l'avremmo mai ottenuta così in fretta se quattro delle prime vittime non fossero stati amici di qualche pezzo grosso.» La sua voce era stanca e amareggiata. «Il primo luogo del crimine era una residenza privata?» domandai. Lucy unì le mani con forza e smise di agitare il piede. Era demoralizzata, ma si stava calmando. «Sì, e in precedenza non c'erano stati altri casi simili, per quanto abbiamo potuto accertare. Sì. Continuo a sognare che da qualche parte c'è un locale notturno per drogati, vittime di qualcosa che non è una partita di roba tagliata male, dove centinaia di corpi si stanno putrefacendo in questo dicembre così caldo. L'unica cosa peggiore di una di queste scene recenti sarebbe trovarne una vecchia.» Scosse il capo, passandosi ancora la mano tra i capelli. «La prima era una residenza privata, sì. Le vittime erano la coppia che abitava nella villa, due ospiti e due domestici.»
«A che distanza si trova questa villa dal night club che abbiamo visitato?» «Dal night club a Holmby Hills c'è circa un'ora di strada.» Mi accorsi che Doyle si era immobilizzato, dietro di me. Il silenzio parve allargarsi su di noi come un cerchio di onde su uno stagno. Tutti noi tenemmo gli occhi su Lucy Tate, e credo che facemmo uno sforzo per non guardarci a vicenda. «Hai detto Holmby Hills?» domandai. «Sì. Perché questo ha fatto suonare un campanello nella testa a tutti quanti?» Guardai Doyle. Lui guardò me. Rhys appoggiò una spalla al muro come se la cosa non significasse niente, ma non poté nascondere la luce che si era accesa nei suoi occhi. Il mistero si approfondiva, o forse emergeva, se tale parola aveva un senso. Rhys non poteva evitare di trovarlo eccitante. Galen sparì in cucina. Frost venne a sedersi accanto a me sul divano, con una faccia da cui non traspariva nulla. Nicca sembrava sinceramente perplesso, e compresi che non aveva mai saputo in quale zona abitava Maeve Reed. «Non illudetevi di prendermi in giro con quell'aria da innocentini», disse Lucy. «Quando ho detto Holmby Hills mi avete guardata come se avessi calpestato una merda. Ora non potete starvene lì seduti, e tenervi in bocca quello che avete pensato.» «Non siamo tenuti a parlarti dei fatti nostri, detective», replicò Doyle. Lei mi guardò. «Anche tu vuoi cucirti la bocca, Merry? Io rischio la mia carriera venendo qui a parlare con voi.» «Quello che stai dicendo è un po' strano», ribatté Doyle. «Perché mai la tua carriera dovrebbe essere in pericolo, per il semplice fatto che vieni qui a fare due chiacchiere? Avete già le informazioni che vi ha dato Teresa, e l'assicurazione di Jeremy che si è trattato di un incantesimo. Cos'altro potremmo dirti più di questo?» Lucy lo guardò storto. «Non sono stupida, Doyle. Ci sono fey ovunque, in questo caso. Peterson non li vede solo perché non vuole vederli. Il primo incidente è accaduto a Holmby Hills, a due passi dalla villa di Maeve Reed. Lei è una sidhe reale; esiliata o no, è sempre fey. Abbiamo chiamato tutti gli ospedali dello Stato in cerca di decessi che mostrassero gli stessi sintomi delle nostre vittime. Sembra che una persona abbia rischiato di morire in quel modo. Ma per ora non ci sono stati nuovi casi.» «Avete un sopravvissuto?» domandò Rhys.
Lei gli gettò un'occhiata, poi tornò a guardare Doyle e me. «Non ne siamo sicuri. È vivo, e migliora giorno per giorno.» Si mordicchiò un labbro. «Siete disposti a condividere con me quello che sapete, se vi dico che il nostro potenziale superstite è un fey?» Non sapevo cosa pensassero gli altri, ma io non cercai neppure di mascherare la mia perplessità. La detective sorrise, un sorriso quasi soddisfatto, come se sapesse di averci nelle sue mani. «Questo fey non vuole contattare il Bureau of Human and Fey Affairs. Sembra molto ansioso di evitarlo. Secondo il tenente Peterson, i fey non avrebbero niente a che fare col caso, sarebbe solo una coincidenza che Maeve Reed abiti nei pressi del primo incidente. Lui ha interrogato il fey, ma afferma che se fosse stato vittima di un evento dello stesso genere anche lui sarebbe morto.» Lucy guardò tutti noi. «Io non la penso così. Ho visto fey guarire da ferite che avrebbero ucciso qualunque essere umano. Ho visto uno di voi cadere dal tetto di un edificio e andarsene via con le sue gambe.» Scosse il capo. «No, questa faccenda ha qualcosa a che fare col vostro mondo. È così?» Rimasi in silenzio, e mi sforzai di non guardare gli altri. «Siete disposti a parlare con me, a dirmi tutta la verità, se io vi faccio parlare con questo fey sopravvissuto? Non è coinvolto, secondo il tenente Peterson. Perciò, tecnicamente, se Peterson venisse a saperlo non potrebbe farmi perdere il posto. O deferirmi alla disciplinare. Anzi, questo stesso fey sarebbe la mia copertura: visto che lui non vuole parlare con le autorità fey, io ho cercato altri fey che tentino di farlo ragionare, di aiutarlo ad ambientarsi nella grande città.» «Pensi che venga da fuori città?» domandai. «Oh, sì, ce l'ha scritto sulla faccia: Non sono mai stato nella grande città. Ha gridato di paura la prima volta che il monitor delle pulsazioni ha mandato un beep.» Lucy scosse i folti capelli intorno alla faccia. «Proviene da un posto dove non hanno mai visto moderne apparecchiature tecniche. Le infermiere hanno dovuto portare via il televisore dalla sua camera, perché gli è quasi venuto un colpo quando lo ha visto acceso.» Ci guardò l'uno dopo l'altro, e infine tornò a me. «Dimmi quello che sai, Merry, per favore. Non dirò niente al tenente. Non posso neppure farlo. Per favore, aiutatemi a fermare questa cosa, qualunque cosa sia.» Guardai Doyle, Frost, Rhys. Galen uscì dalla cucina in quel momento, ma alzò subito le mani e scosse il capo. «Non mi sono occupato di questa roba da detective, ultimamen-
te, perciò non chiedetemi di votare.» Con sorpresa di tutti, Nicca disse: «Alla regina non piacerebbe per niente quello che state pensando di fare». «La regina non ci ha mai detto di non collaborare con la polizia», ribatté Doyle. «Non ve l'ha mai detto?» La voce di Nicca sembrava sottile, più giovane del suo corpo alto e robusto. Mi voltai, sul divano, perché lui potesse vedermi bene in faccia. «No, Nicca. La regina non ci ha mai detto di non parlare con la polizia.» Lui lasciò uscire un profondo sospiro. «Okay.» La sua voce era ancora infantile. Gli adulti gli avevano detto che non sarebbe finito nei guai, e lui ci credeva. «Rhys, parlale di quell'incantesimo, come ne hai parlato a me», dissi. Lui lo fece. Noi sottolineammo che non si poteva affermare che qualcuno, nelle due Corti, fosse in grado di fare quell'incantesimo, e che poteva benissimo essere stato un mago umano, o una strega. In ogni caso, eravamo sicuri che non fosse stato qualcuno della Corte Unseelie. «E come potete esserne sicuri?» volle sapere Lucy. «Credimi, la regina non deve rispettare i diritti civili di nessuno quando interroga la gente», spiegai. «E va sempre sino in fondo.» «E voi fino a che punto potete andare sino in fondo?» «Cosa vuoi dire?» «Ho sentito parlare di ciò che la regina fa alla vostra gente», disse Lucy. «Voi potete essere altrettanto efficaci senza lasciare segni visibili?» A quelle parole inarcai un sopracciglio. «Ci stai chiedendo di fare quello che mi sembra tu stia chiedendo?» «Vi sto chiedendo d'impedire che questa cosa succeda ancora. Il fey che è all'ospedale non parlerà con la polizia; non vuole parlare neanche con l'assistente sociale mandato dal Bureau of Human and Fey Affairs. Si è spaventato non appena gli ho detto che potevo farlo parlare personalmente col vostro ambasciatore, se con l'assistente sociale umano non era a suo agio. Il fatto che si sia turbato soltanto al sentir menzionare l'ambasciatore mi fa pensare che avrebbe ancora più paura di voi.» «Perché?» domandai. «L'ambasciatore non è un sidhe.» «Cosa ti aspetti che ricaviamo da questo fey?» domandò Doyle. «Mi aspetto che riusciate in qualche modo a farlo parlare. Abbiamo avuto oltre cinquecento morti, quasi seicento. Inoltre, da quello che dice Rhys,
se queste cose non vengono fermate, se lasciamo che continuino a nutrirsi, potrebbero rigenerarsi, o qualcosa di simile. Non voglio che un'orda di vecchie divinità appena rinate, e col vizio di uccidere, si aggirino nella mia città. Devono essere fermate ora, prima che sia troppo tardi.» Eravamo d'accordo con lei, ma prima facemmo una telefonata. Chiamammo Maeve Reed, e le facemmo sapere che gli spettri delle antiche divinità erano stati evocati per ucciderla. Ciò significava che il responsabile era qualcuno della Corte Seelie e, soprattutto, che costui agiva col permesso del re. 39 Lucy dovette mostrare il suo distintivo più volte per farci passare oltre i metaldetector senza consegnare le armi. E i miei uomini furono costretti a mostrare i documenti che li identificavano come guardie della regina, prima che l'infermiera responsabile del reparto ci lasciasse entrare. Ma alla fine arrivammo al letto che ospitava un uomo... be', un maschio, comunque. Era una povera creatura deforme. Anche Sage era piccolo, ma perfettamente proporzionato. Lui era fatto per avere quelle dimensioni, mentre nell'essere che giaceva lì con le braccia fuori del lenzuolo c'era qualcosa che non andava, lo si capiva al primo sguardo. Appartenevo alla Corte Unseelie, ed erano molte le forme fisiche di cui potevo almeno dire che - piacevoli o no - erano giuste. Ma quell'essere aveva un aspetto che mi fece rizzare i peli sul collo e distogliere lo sguardo, come se fosse orribile, anche se in effetti non lo era. A provare disagio non ero soltanto io. Rhys e Frost si erano girati, dandogli le spalle. La loro reazione faceva pensare che lo conoscessero, o che sapessero cosa gli era accaduto. Nessuno sembrava capace di sopportarne la vista. Che avesse infranto qualche antico tabù? Doyle era stato l'unico a non distogliere lo sguardo, ma questo era tipico di lui. Galen mi gettò un'occhiata, perplesso e a disagio quanto me. Kitto rimase al mio fianco, come insisteva sempre per fare, tenendomi per mano con l'aria di un bambino in cerca di conforto. Mi costrinsi a osservare quell'essere, a cercare di capire cosa ci fosse in lui che mi dava la pelle d'oca. A giudicare dalla posizione dei piedi sotto il lenzuolo, non superava il mezzo metro di altezza, e dava il sospetto che dal suo corpo fosse stato amputato qualcosa, anche se all'apparenza sembrava intero. Aveva la testa troppo grande per un torace così rachitico, con e-
normi occhi liquidi anch'essi troppo grandi per quella faccia. Era come se gli occhi fossero ciò che restava di un'altra faccia. Il naso aveva le stesse proporzioni degli occhi, ma poiché il resto del volto era rimpicciolito anche il naso appariva abnorme. Dava l'impressione che quegli occhi e quel naso fossero l'unica cosa rimasta intatta di una faccia diventata più piccola, raggrinzita e malconcia. Nicca avanzò tra noi, e abbassò su di lui uno sguardo impietosito. «Oh, Bucca, cosa ti è successo?» La figuretta sotto il lenzuolo rimase immobile qualche momento, poi sollevò a fatica un braccio esile e magro come uno stecco. Allungò la debole mano verso quella robusta e abbronzata di Nicca, e lui gliela strinse con cautela. Kitto lo stava guardando con le lacrime agli occhi. «Bucca-Dhu, BuccaDhu, cosa sei tu, qui?» Dapprima pensai che Kitto avesse lasciato fuori una parola o due da quella frase, poi compresi che non era così. Aveva chiesto esattamente ciò che voleva chiedere. «Voi due lo conoscete», disse Doyle. La sua non era una domanda. Nicca annuì, stringendo con dolcezza la piccola mano. Poi si rivolse al degente in una lingua stranamente musicale che ricordava le antiche lingue celtiche. Parlò troppo in fretta perché riuscissi a seguirlo, ma non era gallese o scozzese, né gaelico o irlandese, benché ricordasse un po' tutti quei dialetti. Kitto si fece avanti e disse qualcosa anche lui, ma non nella stessa lingua. Mi parve che parlasse in una forma medievale dell'inglese, con espressioni e desinenze abbandonate da secoli. Notai l'espressione mesta di Kitto e mi accorsi che trovare lì quell'individuo, così malridotto, lo rattristava molto, ma questo fu tutto ciò che potei capire. Gli altri sembravano a conoscenza di quei linguaggi arcaici. Alla fine, Doyle vide la mia faccia perplessa e mi fornì una breve spiegazione. «Nicca lo ha già conosciuto, in una forma non troppo diversa da quella che ha oggi. Ma Kitto ricorda che in un passato ancora più lontano era fisicamente uguale a noi, un sidhe. Una volta, Bucca era adorato come un dio.» Guardai quella figura striminzita e seppi cosa mi aveva fatto accapponare la pelle. I suoi grandi occhi castani, il naso forte e dritto... erano molto simili a quelli di Nicca. Avevo sempre pensato che il colorito scuro dell'epidermide di Nicca gli fosse venuto dalla sua discendenza demi-fey; ma, davanti a quel poveretto, compresi di essermi sbagliata.
Non potei reprimere un moto di sgomento. Era come se qualcuno avesse preso un sidhe per comprimerlo in qualcosa non più grosso di un coniglio. Non avevo parole per descrivere l'orrore che giaceva in quel letto di ospedale. Ero incapace d'immaginare cosa l'avesse ridotto così. «Com'è successo?» domandai sottovoce, e subito desiderai non averlo fatto, perché Bucca girò verso di me quel volto scarno dai grandi occhi e rispose, con un chiaro accento inglese: «Sono stato io a fare questo a me stesso, ragazza. Io, e soltanto io». «No!» esclamò Nicca. «Questo non è vero, Bucca.» Il piccolo individuo scosse il capo. Aveva capelli neri, tagliati corti, e non sembrava capace di sollevare la testa dal cuscino. «Qui vedo facce che conosco, Nicca, oltre la tua e quella del goblin. Ci sono altri che una volta erano adorati, e poi rinunciarono ai loro seguaci. Non si sono ridotti come me. Io rifiutai di abbandonare il potere, perché avevo paura che sarebbe stata la mia rovina.» Rise, di una risata roca e sofferente. «Ora guarda, Nicca, dove mi hanno portato il mio orgoglio e la mia paura.» Ero confusa, per dirla con un eufemismo, ma, come sempre nella società fey, le domande che giudicavo necessario fare sarebbero parse troppo scortesemente dirette. Bucca girò quella sua testa così pesante e guardò Kitto. «L'ultima volta che ti ho visto pensai che tu fossi un piccoletto.» Lo scrutò con occhi stranamente autoritari. «Sei cambiato, goblin.» «È un sidhe», spiegò Nicca. Bucca sembrò sorpreso, poi rise. «Ho combattuto duramente per molti secoli allo scopo di mantenere puro il nostro sangue, d'impedire le mescolanze. A quel tempo ti giudicavo un essere impuro, Nicca.» Quest'ultimo continuò a dare pacche amichevoli sulla mano del piccolo essere. «È stato molto tempo fa.» «Non permettevo che nessuno col sangue di Bucca-Dhu si unisse agli altri sidhe. Ora tutto ciò che resta di quella discendenza è gente come te, non di sangue puro.» Girò ancora la testa, con uno sforzo visibile. «E tutto ciò che resta dei Bucca-Gwidden sei tu, goblin.» «Ci sono altri come me tra i goblin, Bucca-Dhu. E vedi la pelle chiara come la luna di questi sidhe? I Bucca-Gwidden sono ricordati.» «Essi possono condividerne la pelle, ma non i capelli o gli occhi. No, goblin, quelli non esistono più, ed è stata colpa mia. Non volevo che nessuno del nostro popolo si mescolasse agli altri sidhe. Volevo che restassimo il popolo nascosto, e seguissimo le antiche usanze. Oggi delle antiche
usanze non resta niente, goblin.» «Lui è un sidhe, riconosciuto come tale dalla Corte Unseelie», disse Doyle. Bucca sorrise, ma non con allegria. «Anche adesso, tutto ciò che posso dire è che non immaginavo che la Corte Unseelie sarebbe caduta così in basso da accettare goblin tra i suoi ranghi. Perfino moribondo come sono, e dopo aver visto l'ultimo della mia gente morire prima di me, non posso riconoscerlo come un sidhe. Non posso.» Tolse la mano da quella di Nicca e chiuse gli occhi, ma non come se avesse sonno. Sembrava piuttosto che non volesse vedere. Lucy Tate aveva atteso paziente in disparte fino a quel momento. «Qualcuno può spiegarmi cosa sta succedendo?» Doyle scambiò un'occhiata con Frost e Rhys, ma nessuno di loro aprì bocca. Mi strinsi nelle spalle. «Non guardare me. Sono confusa quanto te.» «Anch'io», disse Galen. «Mi è parso che parlassero cornish o bretone, ma con un accento troppo arcaico per me.» «Era cornish», assentì Doyle. «Credevo che non ci fossero mai stati goblin in Cornovaglia», osservò Galen. Kitto distolse lo sguardo dal letto e si voltò verso l'alto cavaliere. «I goblin non erano un solo popolo, così come voi sidhe non eravate soltanto due Corti separate. Una volta noi eravamo qualcosa di più. Io ero un goblincornish, perché mia madre era una Bucca-Gwidden, una sidhe cornish, prima di unirsi alla Corte Seelie. Quando vide la forma che suo figlio aveva preso, lei seppe cosa fare, e mi lasciò tra i serpenti della Cornovaglia.» «Ci sono nidi di serpenti ovunque nelle Isole», disse Bucca con voce spessa. «Perfino in Irlanda, nonostante ciò che i seguaci di Padrig vogliono farvi credere.» «La maggior parte dei goblin è in America, oggi», disse Kitto. «Aye, perché nessun'altra terra li ha voluti», annuì Bucca. «Aye», confermò Kitto. «Okay. Qualunque cosa stia succedendo, vecchi ricordi di famiglia o quello che sono, non m'interessa», sbottò Lucy. «Voglio sapere perché questo Bucca, che si è fatto registrare come Nick Bottom - nome che ho controllato: è quello di un personaggio di Sogno di una notte di mezza estate -, è venuto a finire qui, più morto che vivo.» «Bucca», mormorò Nicca.
La piccola figura aprì gli occhi. Erano così pieni di stanchezza che dovetti distogliere lo sguardo. Sembrava di guardare dentro un tunnel dove c'era qualcosa peggiore dell'oblio, peggiore della morte. Il suo accento si appesantì per l'emozione. «Io non posso morire. Tu questo lo capisci, Nicca, non posso morire. Ero il re del mio popolo, e non posso neppure svanire, come altri. Ma sto svanendo.» Alzò un braccio pietosamente sottile. «Sto svanendo così, come se la mano di un gigante mi stritolasse.» «Bucca, per favore, dicci perché sei stato attaccato dagli spettri affamati», disse Nicca con voce tenera. «Quando questa carne cui sto attaccato svanirà, diventerò uno di loro. Sarò uno dei Famelici.» «No, Bucca.» Lui alzò quel braccio sottile. «No, Nicca, questo è ciò che accadde alla maggior parte degli altri, ai più forti. Noi non possiamo morire, ma non possiamo vivere, perciò restiamo nel mezzo.» «Non abbastanza buoni per il paradiso, né abbastanza cattivi per l'inferno», commentò Doyle. Bucca lo guardò. «Sì.» «Mi ha sempre interessato apprendere qualcosa sulla cultura fey, ma torniamo a quell'aggressione», disse Lucy. «Mi dica chi l'ha aggredita, Mr Bottom, o Mr Bucca, o comunque lei si chiami.» Lui la guardò con diffidenza, sbattendo le palpebre. «Mi hanno attaccato al primo segno di debolezza.» «Potrebbe dare un resoconto più completo?» domandò Lucy. Aveva estratto il suo taccuino, e una matita. «Li hai evocati tu», disse Rhys. Era la prima volta che si voltava verso il letto, la prima volta che guardava davvero Bucca, da quand'eravamo entrati. «Aye», assentì Bucca. «Perché?» domandai. «Era parte del prezzo che dovevo pagare per riunirmi alla Corte, a Faerie.» Ci ammutolimmo. Per un momento sembrò che avesse un senso. Era stata Andais, o qualcuno per ordine di Andais. Ecco perché nessuno era potuto risalire fino a lei. E si spiegava anche perché nessuno della sua gente ne sapesse niente. Lei non aveva usato uno della sua gente. «A chi dovevi pagare quel prezzo?» domandò Doyle.
Lo guardai, sul punto di dire: Lo sappiamo tutti. Poi Bucca rispose: «A Taranis, naturalmente». 40 Tutti ci voltammo verso il letto, come la scena al rallentatore di un film. «Hai detto Taranis?» domandai. «Sei sorda, ragazza?» «No. Soltanto sorpresa.» Bucca corrugò le sopracciglia. «Perché?» Sbattei le palpebre, cercando di pensarci. «Non credevo che Taranis fosse pazzo fino a questo punto.» «Allora non lo conosci bene.» «Non vede Taranis da quand'era bambina», gli spiegò Doyle. «Allora chiedo scusa.» Bucca mi guardò. «Sembri una sidhe Seelie.» Non seppi come prendere quel complimento. Non sapevo neppure, date le circostanze, se fosse un complimento. Lucy si spostò su un lato del letto. «Lei sta dicendo che il re della Corte Seelie le ha chiesto di evocare quegli spettri affamati?» «Aye.» «Perché?» chiese lei. Sembrava che quel giorno tutti volessimo fare quella domanda. «Intendeva uccidere Maeve Reed.» Lucy lo fissò con occhi vacui. «Okay, qui io mi perdo. Perché mai il re dovrebbe volere morta la dea dorata di Hollywood?» «Il perché non lo so, e non m'interessa», replicò Bucca. «Taranis mi aveva promesso di darmi abbastanza potere da recuperare un po' di quello che avevo perduto. Alla fine mi ero deciso a unirmi alla Corte Seelie. Ma lui ha detto che avrebbe mantenuto la promessa solo se Maeve fosse morta, e purché io potessi controllare i Famelici. Molti di loro erano dei miei vecchi amici; pensavo che fossero come me, e che avrebbero approfittato volentieri di una possibilità di tornare al mondo. Ma non sono più BuccaDhu, né sidhe, e neppure fey. Sono cose morte, mostri morti.» Chiuse gli occhi e sospirò, rabbrividendo. «La prima volta che mi sono mostrato debole, loro mi hanno attaccato; e ora si nutrono, non per tornare ciò che erano un tempo ma perché hanno fame. Si nutrono per lo stesso motivo per cui un lupo si nutre. Perché vuole mangiare. Se ritroveranno abbastanza vita per tornare qualcosa di simile ai sidhe, saranno così spaventosi che nep-
pure la Corte Unseelie riuscirebbe a essere altrettanto orribile.» «Perché non ha raccontato tutto questo all'assistente sociale, o all'ambasciatore?» domandò Lucy. «È stato solo quando ho visto Nicca, e anche il goblin, che ho saputo di essere stato uno stupido. Il mio tempo è finito, ma la mia gente sopravvive. Finché qualcuno del mio sangue va ancora in giro, i Bucca-Dhu non sono morti.» I suoi occhi si riempirono di lacrime. «Ho cercato di salvare me stesso, anche se ciò significava distruggere ciò che restava della mia gente. Ho commesso un errore, un terribile errore.» Fu lui ad allungare la mano verso Nicca, stavolta, e questi la prese tra le sue. «Come possiamo fermarli?» chiese Doyle. «Io li ho evocati, ma non posso rimandarli via. Non ne ho la forza.» «Puoi rivelarci l'incantesimo?» «Aye, ma questo non significa che voi possiate farlo.» «Lascia che siamo noi a preoccuparci di questo», replicò la Tenebra. Bucca ci rivelò in che modo aveva progettato di rimandare via gli spettri. Lucy prese nota per iscritto. Noi ci limitammo ad ascoltare. Non era questione tanto di parole magiche quanto di intenzioni magiche, e di sapere a quali obiettivi mirare. Quando ebbe finito di dirci tutto ciò che sapeva sui Famelici, gli domandai: «Sei stato tu a nascondere il Senzanome alle ricerche della Corte Unseelie?» «Ragazza, non hai fatto attenzione a ciò che ho detto? È Taranis che lo ha voluto liberare.» Quella mezza ammissione mi sorprese. «Hai liberato il Senzanome, per suo ordine?» «Ho evocato i Famelici, con un po' d'aiuto da parte di Taranis. E lui ha liberato il Senzanome, con un po' d'aiuto da parte mia.» «È lui il potere occulto che si nasconde dietro questi disastri», disse Doyle. «Perché Taranis è arrivato a fare una cosa simile?» domandai. «Credo che volesse riprendere un po' della magia contenuta nel Senzanome. E forse lo ha fatto. Ma non ha funzionato come lui sperava.» «Così Taranis controlla il Senzanome», osservò Galen. «No, ragazzo, ancora non l'hai capito? Taranis lo ha liberato, gli ha ordinato di uccidere Maeve, ma non lo controlla più di quanto io controlli i Famelici. Lo ha fatto di nascosto, ma ora è quella cosa stessa che si sta na-
scondendo. Taranis non era preoccupato quando l'ha capito, te lo dico io... era dannatamente spaventato, e non senza motivo.» «Cosa vuoi dire?» «Quando ho tentato di mandare i Famelici contro gli incantesimi protettivi di Maeve, loro non hanno cercato di raggiungerla; si sono rivoltati subito contro di me, e poi hanno cercato altre prede. Io ho visto la cosa che voi chiamate il Senzanome. Sfonderà i suoi incantesimi, ma cosa farà dopo che l'avrà uccisa?» «Non lo so», mormorai. «Farà tutto quello che gli piacerà», grugnì Bucca. «Quando avrà ucciso Maeve Reed, il Senzanome non avrà più uno scopo», disse Rhys. «Sarà un enorme potere senza controllo e distruggerà tutto ciò che avrà intorno.» «Tu sì che sei un tipo in gamba», replicò Bucca. Guardai Rhys. «Come puoi esserne certo?» «Ho ceduto la maggior parte della mia magia a quella cosa. So cosa farà, Merry. Dobbiamo impedirgli di uccidere Maeve. Finché lei è viva, cercherà di ucciderla; e continuerà a nascondere la sua presenza, perché questo gli serve a raggiungere il suo scopo. Una volta che lei sarà morta, si scatenerà su tutta la città. L'energia più aliena che i fey abbiano mai avuto impazzerà nella California meridionale. Quella cosa passerà sopra Los Angeles come Godzilla attraverso Tokio.» «Come posso fare per convincere Peterson che una magia antica sta per devastare la città?» domandò Lucy. «Non provarci», sospirai. «Non ci crederebbe mai.» «Allora cosa dobbiamo fare?» «Cercheremo di tenere in vita Maeve. Forse la convinceremo che l'Europa è il posto migliore per lei, in questa stagione dell'anno. O forse non resterà che farla spostare da un luogo all'altro, finché non riusciremo a escogitare qualcos'altro.» «Non è una cattiva idea», approvò Rhys. «Mi rimangio quello che ho detto, ragazza», disse Bucca. «Anche tu sei una tipa in gamba.» «Lieta di sentirlo», replicai. «Qualcuno ha un cellulare?» Lucy aveva il suo. Me lo feci consegnare, e lei cercò il numero di Maeve Reed sul suo taccuino. Lo composi, e a rispondere fu Marie, la sua segretaria privata. La giovane donna era in preda a un attacco isterico. Cominciò subito a
gridare: «È la principessa, è la principessa!» Julian Hart le prese il telefono. «Meredith, sei tu?» «Sì, Julian. Che sta succedendo?» «Qui c'è qualcosa, una cosa tanto psichicamente grossa che non riesco neppure a capire quanto. Sta cercando di passare attraverso i nostri incantesimi protettivi, e credo che ci riuscirà.» Mi diressi alla porta. «Stiamo arrivando, Julian. Ci faremo precedere dalla polizia.» «Non mi sembri sorpresa, Meredith. Tu sai cos'è questa cosa?» «Sì.» E glielo dissi, mentre correvamo verso le nostre auto nel parcheggio dell'ospedale. Gli dissi cos'era, ma non sapevo se ciò che potevo dire gli sarebbe stato di qualche aiuto. 41 Quando arrivammo alla villa di Maeve Reed trovammo l'intera proprietà circondata dalla polizia. Automobili di servizio, auto prive di contrassegni, veicoli armati delle forze speciali, e ambulanze in attesa a quella che si poteva sperare fosse una buona distanza di sicurezza. Ovunque c'erano uomini con le armi spianate, perfino sul muro di cinta dalla parte della strada. Il guaio era che non vedevano niente su cui sparare. Una donna in armatura completa da guerriglia urbana e la scritta S.W.A.T. sulla schiena era dietro una barriera di auto, all'interno di un pentagramma e di un circolo che aveva tracciato col gesso sull'asfalto. Quello di Los Angeles era stato uno dei primi dipartimenti di polizia ad accludere streghe o maghi alle sue squadre speciali. Nello stesso momento in cui si spense il motore potei sentire il suo incantesimo. Doyle, Frost e io eravamo sull'auto di Lucy, e la Tenebra non aveva sopportato bene quella corsa selvaggia nel traffico. Barcollò fuori dallo sportello e andò a inginocchiarsi dietro una siepe. Agli umani avrebbe potuto sembrare che pregasse... e in un certo senso era così. Stava rinnovando il suo contatto con la terra. Doyle soffriva conseguenze di quel genere dentro quasi ogni mezzo di trasporto umano. Poteva viaggiare lungo sentieri magici che mi avrebbero fatto gridare di spavento, ma quel tragitto così veloce nelle strade di Los Angeles l'aveva quasi messo fuori combattimento. Frost stava benissimo. Le altre guardie, e con loro Sage, uscirono dal furgone. Doyle ci aveva esortati a passare da casa mia per prendere delle armi. Lucy si era opposta,
ma lui aveva detto che finché il glamour del Senzanome non fosse stato infranto le pallottole non gli avrebbero fatto niente. Le aveva assicurato che là avevamo qualcosa in grado di eliminare quel glamour, sempreché fosse possibile farlo. Lucy aveva deciso che valeva la pena di allungare il percorso. Via radio aveva avvertito i colleghi che senza un aiuto magico di qualche genere la polizia non sarebbe riuscita a vedere la cosa, e meno che mai a spararle. A quanto pareva l'avevano presa in parola. La strega doveva aver tentato qualcosa di semplice, e quando quello non aveva funzionato si era risolta a eseguire col gesso il suo disegno, che stava completando con le rune e i simboli interni. Non appena lo mise in funzione produsse un'ondata di energia, che mi fece fremere la pelle e si dilatò come una raffica di vento sollevando dal suolo una nuvola di polvere. L'incantesimo si allargò verso il muro di cinta e trovò il bersaglio. All'improvviso si poté vedere una massa d'aria fungoidale simile a un'onda di calore sull'asfalto. Solo che quella massa ondeggiava e premeva sul muro, sollevandosi fino a un'altezza di sei o sette metri dal suolo. Non ero sicura che gli agenti privi di talenti psichici avrebbero visto qualcosa, ma gli ansiti e le imprecazioni che si udirono in tutta la strada mi dissero che mi ero sbagliata. Lucy guardò quella cosa traslucida. «Dobbiamo sparare?» domandò. «Sì», rispose Frost. Quello che stavamo dicendo ebbe poca importanza. L'ufficiale al comando dell'operazione, chiunque fosse, diede un ordine e all'improvviso esplosero ovunque colpi di arma da fuoco, con un fracasso infernale. Le pallottole passavano attraverso quella forma traslucida come se non ci fosse. Cominciai a chiedermi dove andasse a finire tutto quel piombo, perché avrebbe continuato a viaggiare fino a colpire qualcosa. Poi qualche agente cominciò a gridare: «Cessate il fuoco, smettete di sparare», su e giù per tutto lo schieramento. Quel repentino silenzio mi lasciò un ronzio nelle orecchie. La forma baluginante continuava a premere contro il muro di cinta, o piuttosto contro gli incantesimi difensivi di cui era impregnato. Non sembrava essersi accorta delle pallottole, e neppure della polizia. «Cosa sta facendo?» domandò Lucy. «Si trova in una dimensione intermedia, tra la nostra e un'altra», spiegò Doyle. Mentre assistevamo alla breve sparatoria era tornato accanto a noi. «È un genere di glamour che un tempo consentiva ai fey di nascondersi a-
gli occhi dei mortali.» Lucy si voltò verso di me. «Tu sei capace di farlo?» «No», risposi. «Neppure gli altri sidhe possono», aggiunse Doyle. «È una delle capacità di cui ci siamo privati, quando abbiamo creato il Senzanome.» «Io non sono mai stata in grado di fare una cosa simile», dissi. «Sei nata dopo che avevamo apportato alla nostra natura due mutazioni, come quella che ha dato origine al Senzanome», disse Doyle. «Non ti si può biasimare se sei meno potente di quello che noi eravamo una volta.» «La strega gli ha tolto una parte del glamour», commentò Frost. «Ma non abbastanza», replicò Doyle. I due si guardarono. «No», dissi. «No a qualunque cosa stiate pensando.» Mi guardarono. «Merry, dobbiamo fermarlo, e fermarlo qui.» «No», ripetei. «Dobbiamo tenere in vita Maeve Reed. È questo il nostro obiettivo. Nessuno ha parlato di uccidere il Senzanome. Voglio dire, lui non può morire, no?» I due si scambiarono un altro sguardo. Rhys si avvicinò a noi. «No, non può morire.» «È una cosa reale?» domandò Lucy. Rhys esitò. «In che senso?» «È abbastanza solido da essere colpito dalle nostre armi?» «Oh, sì. È abbastanza solido per questo, una volta privato della magia che lo protegge.» «Dobbiamo strappargli via quella magia», disse Doyle. «E come?» domandai. Ebbi una stretta allo stomaco, al pensiero di quello che poteva costarci. «Dovrà essere ferito», rispose Frost. Lo guardai, e capii che mi stava nascondendo qualcosa. Lo presi per un braccio. «Come lo si può ferire?» I suoi occhi si ammorbidirono mentre mi guardava. Il grigio passò dal colore delle nuvole in tempesta a quello del cielo dopo la pioggia, quando il sole sta per far breccia. Vidi quei colori passare nei suoi occhi come nubi spinte dal vento. «Un'arma impregnata di potere potrebbe ferirlo, se il guerriero fosse abbastanza abile.» Gli strinsi il braccio più forte. «Cosa vuol dire abbastanza abile?» «Capace di non farsi ammazzare mentre colpisce.»
«Non abbiamo tempo da perdere», sbottò Rhys. «Uno di noi, con un'arma potente e la capacità di usarla, deve andare a colpirlo.» Continuai a stringere il braccio di Frost, ma guardai Doyle. «Chi c'è sulla lista di quelli 'abbastanza abili'?» «Ora non essere offensiva», disse Rhys. «Doyle e Frost non sono i soli, qui, capaci di battersi.» I due gli diedero un'altra occhiata poco amichevole. «Non sono mai stato la guardia preferita della regina, ma una volta ero il preferito in battaglia.» «Io sono come Merry», affermò Galen. «Sono nato quando i vecchi tempi erano finiti da un pezzo. Ho avuto delle buone spade, ma nessuna di loro era un'arma impregnata di potere.» «Questo perché abbiamo perduto la capacità di fabbricare armi di quel genere», disse Frost. «Siamo diventati più carne e meno spirito dopo ogni mutazione della nostra natura. Questo ci ha permesso di sopravvivere, anche di prosperare, ma non senza un prezzo.» Mi strinsi a Frost e trovai la sua spada, Geamhradh Po'g, Bacio d'Inverno. Frost era il solo a indossare una tunica. Tutti gli altri portavano abiti comuni, T-shirt, jeans e stivali, fuorché Kitto che si era infilato un giubbotto sopra i calzoni corti. Non erano gli abiti più adatti, ma le loro armi erano valide. Frost aveva una seconda spada in un fodero obliquo, sulla schiena, lunga quasi quanto ero alta io. E sapevo che sotto la sua tunica c'erano altre armi. Aveva sempre portato parecchie lame con sé, salvo quando la regina glielo proibiva. Doyle teneva la pistola in una fondina a spalla, ma a casa aveva preso una spada e dei pugnali in piccoli foderi fissati alle braccia. Le lame corte scintillavano argentee contro la sua pelle, mentre la spada era nera come lui. La lama era di ferro puro, non di acciaio. Non avevo mai saputo di cosa fosse fatta l'elsa; si trattava di un metallo, ma non avrei saputo dire quale. Il nome della spada era Bàinidhe Dub, Follia Nera. Se qualcuno che non fosse Doyle avesse cercato di usarla, sarebbe impazzito per sempre. I pugnali affibbiati agli avambracci erano gemelli, ricavati da un'unica fusione, ed erano armi da lancio leggendarie, di cui si diceva che colpissero sempre il bersaglio. I loro nomignoli, a Corte, erano Snick e Snack. Sapevo che i loro veri nomi erano altri, ma non li avevo sentiti mai chiamare altro che così. Galen aveva una spada al fianco, ed era una buona spada, ma senza nulla
di magico, a differenza delle grandi armi. Sul fianco opposto portava un pugnale, piuttosto lungo, per bilanciare la spada. Sotto il giubbotto aveva una pistola in una fondina a spalla, e un'altra di calibro diverso in una fondina a cintura, dietro la schiena. Io mi ero allacciata sull'abito da pomeriggio una cintura cui era appesa la fondina con la mia pistola. Rovinava la linea del vestito, ma se le cose si fossero fatte difficili preferivo avere un pessimo look e restare viva, piuttosto che crepare con eleganza. Avevo anche due coltelli in foderi allacciati sotto la gonna, e una pistola più piccola in una fondina alla caviglia. Non ero mai stata giudicata meritevole di ricevere una spada, anche non magica, in nessuna delle due Corti. Rhys portava di traverso sulla schiena la spada che usava fin dai vecchi tempi, Uamhas, Morte Spaventosa. Si era agganciato al fianco anche la sua ascia, perché con un occhio solo la sua percezione delle distanze non era adatta all'uso della spada. Aveva anche dei coltelli da lancio, ma non mi sarebbe piaciuto trovarmi dalle parti del bersaglio contro cui li avesse lanciati. Quando si perde un occhio, non c'è molto con cui poterne compensare la mancanza. Nicca aveva una spada simile a quella di Galen, dotazione standard dei cavalieri, bella, mortale, ma senza potere. Portava una doppia fondina a spalla, con due pistole, e sapevo che le usava alla perfezione con entrambe le mani. Ma aveva anche una terza pistola, dietro la schiena, e una daga appesa dalla parte opposta rispetto alla spada. Kitto non ne sapeva abbastanza di armi da fuoco e non volevamo rischiare che si sparasse in un piede; aveva una corta spada che portava di traverso sulla schiena, sopra la sua T-shirt di Vil Coyote. Sage esibiva una sottile spada che scintillava argentea nella luce del sole. Non aveva voluto dircene il nome. «Sapere il nome di una cosa significa avere potere su di essa», aveva dichiarato. Vi fu un fracasso di schianti, e il terreno ebbe un sussulto quando una parte del muro di cinta della villa crollò verso l'interno. Il Senzanome stava barando. Non perdeva tempo ad attaccare gli incantesimi protettivi di Maeve: sfondava tutto ciò cui erano applicati. Attraversò lo squarcio, mentre risuonavano altri colpi di arma da fuoco e un ufficiale gridava: «Non sparate, non sparate!» Doyle s'incamminò da quella parte. «Userò i coltelli da lancio. Devono colpire il bersaglio, com'è nella loro natura.» «Puoi avvicinarti abbastanza, e restare fuori della sua portata?» doman-
dò Frost. «Credo di sì», rispose la Tenebra, continuando a camminare. Frost mi fece scostare da sé, premendomi cortesemente una mano su una spalla. «Vado con lui. Se cade, devo essere là.» «Prima baciami», dissi. Lui scosse il capo. «Se tocco le tue labbra, non mi muoverò più di qui.» Mi diede un bacio leggero sulla fronte, poi si affrettò dietro Doyle. Rhys mi prese tra le braccia mentre ero troppo sorpresa per reagire, e mi baciò con passione travolgente, impiastrandosi metà della faccia col mio rossetto. Quando mi rimise coi piedi a terra ero senza fiato. «Io non corro il rischio che tu mi rubi tutto il coraggio con un bacio, Merry. Non mi ami abbastanza per questo», disse, e corse a raggiungere gli altri due prima che potessi pensare a una replica. La polizia mise insieme una squadra di agenti dello S.W.A.T. per spalleggiare i miei uomini, quindi il gruppo attraversò lo squarcio nel muro di cinta e sparì alla vista. Stranamente, anche il Senzanome era scomparso, come se una volta dentro la proprietà di Maeve qualcosa avesse assorbito il suo scintillio, che avrebbe dovuto vedersi anche dalla strada. «E se andassimo a prendere Maeve per portarla fuori?» suggerì Galen, in quel pesante silenzio. «Non siamo in grado di uccidere il Senzanome, ma almeno questo potremmo farlo.» Lucy si diede una manata sulla fronte. «Che idiota! Davvero idiota. Avremmo dovuto evacuare Ms Reed, prima di tutto.» «Il Senzanome la seguirà», dissi. «A meno che non facciate venire qui un elicottero, potremmo non riuscire a portarla via abbastanza in fretta.» Lucy sembrò soppesare varie ipotesi, l'una dopo l'altra. «Dovrei essere in grado di far arrivare un elicottero. I Reed hanno un sacco di appoggi in questa città.» «Nel frattempo dacci qualche uomo, e cercheremo di entrare dal retro», tagliò corto Galen. «Vengo con voi», dissi. Lui scosse il capo, con aria decisa. «No, Merry, tu no.» «Sì, invece. Mio padre mi ha insegnato che un capo non chiede mai ai suoi di fare qualcosa che non farebbe lui stesso.» «Tuo padre era un brav'uomo... ma tu sei mortale, Merry. Noi non lo siamo.» «I poliziotti lo sono, tutti quanti, e loro non si tirano indietro.»
Scosse nuovamente il capo. «No.» Dovetti discutere ancora, ma alla fine l'ebbi vinta io, perché gli uomini che avrebbero potuto costringermi a cedere erano tutti all'interno del muro sfondato, ad affrontare la cosa che eravamo venuti a distruggere. 42 Oltrepassare il muro di cinta sul retro della villa fu più facile del previsto. Era alto, ma non troppo, e non avevamo il problema di mettere a tacere l'allarme. La polizia era già lì. Io fui aiutata a scendere nello stretto spazio dietro una siepe di camelie verdi così fitta che formava un secondo muro, e nascondeva quasi del tutto l'edificio davanti a noi. La stagione della fioritura delle camelie era ancora lontana, ed erano solo alti cespugli dalle foglie lisce come cera. Che non graffiassero troppo potei sperimentarlo sulla mia faccia mentre Lucy e Galen mi facevano attraversare quei dannati cespugli. Avrei preferito fare da sola, ma quei due volevano assicurarsi che non inciampassi. Un agente in uniforme andò a sbirciare dietro l'angolo della casa e tornò a sussurrarci che là c'era una porta a vetri, scorrevole: ingresso facile. Girammo l'angolo, e stavamo per entrare alla ricerca di Maeve Reed quando accadde qualcosa di spaventoso. Il Senzanome diventò visibile. Il suo glamour crollò con un contraccolpo così forte che fece vacillare ogni fey della zona. Ostacolata dalla siepe di camelie, non potei vedere ciò che accadeva nel vasto giardino posteriore della villa. Ma due poliziotti spalancarono gli occhi e cominciarono a urlare. Gli altri poliziotti erano impalliditi, ma cercarono di calmare i due colleghi, finché uno di questi ultimi non cadde in ginocchio artigliandosi la faccia come se cercasse di cavarsi gli occhi con le dita. Il poliziotto più vicino a lui cercò di fermarlo e allontanargli le mani dal volto. Un altro afferrò il collega che urlava e cominciò a schiaffeggiarlo, imprecando tra i denti a ogni ceffone finché l'agente non smise di gridare e si sedette sull'erba, gemendo. Gli altri due poliziotti e Lucy, pallidi in faccia ma pronti a tutto, avevano estratto le pistole. Galen e io ci eravamo scostati dall'edificio quando il glamour del Senzanome era sparito, e guardammo come affascinati l'enorme cosa che stava tra le aiuole, oltre la piscina. Io fui tentata di voltarle le spalle. Era in parte umana, ma solo quel poco che bastava per renderla più orrida che se fosse
stata del tutto disumana. Alla fine non potei fare a meno di guardarla. Come si può descrivere l'indescrivibile? C'erano tentacoli e occhi e braccia e bocche e denti... c'era troppo di tutto. Ma ogni volta che cercavo di capirne la forma, quella forma cambiava. Avrei potuto chiudere gli occhi, riaprirli subito e trovarla così diversa da non ricordare cos'era stata prima. Forse non ero attrezzata coi sensi adatti per vedere davvero il Senzanome. Forse la mia mente non poteva contenere la sua immagine, e quello era il meglio che il mio povero sistema nervoso riusciva a percepire. Potei solo pensare che, se quella sussultante montagna di orrore era la versione protettiva che il mio cervello mi concedeva di vedere, la cosa migliore per restare sana di mente era non guardarla affatto. Lucy si voltò verso di noi con la faccia contorta, come se la vista del Senzanome le avesse fatto male agli occhi. «E noi dovremmo uccidere quell'essere?» «Fermarlo», la corresse Galen. «Non si può uccidere la magia.» Lei scosse il capo, strinse più salda la pistola e mirò con risolutezza contro quell'enorme bersaglio. Le radio degli uomini in uniforme presero vita. L'ordine diramato a tutti quanti era: se potete vedere il nemico, potete cercare di ucciderlo. Sparate. Ebbi un secondo per chiedermi dove potesse essere Maeve, prima che Galen si gettasse su di me e mi trascinasse lunga distesa a terra. Subito dopo, una pioggia di pallottole provenienti da ogni angolo del giardino posteriore cadde su di noi. Uno dei due poliziotti che urlavano si liberò dal collega che cercava di tenerlo giù e, non appena balzò in piedi, il suo corpo si scosse in una danza scomposta e ricadde morto davanti a noi. In quel momento il fuoco amico era ancora più pericoloso del Senzanome. Lucy gridò nella sua radio: «Ci state sparando addosso! Non abbiamo ancora messo al sicuro i civili! Cessate il fuoco, a meno che voialtri dannati idioti non riusciate a vedere su cosa state sparando!» La sparatoria continuò. Lucy gridò ancora: «Agente a terra, agente a terra, colpito dal fuoco amico, ripeto, colpito dal fuoco amico!» Gli spari si diradarono, poi cessarono del tutto. Noi restammo bocconi sull'erba, in attesa. Mi sembrava molto importante poter respirare, come se fino a quel momento avessi dovuto farne a meno, o forse era il corpo sanguinante del poliziotto ucciso a rendermi così difficile la respirazione, quasi che la colpa della sua morte fosse anche mia. Quando la situazione sembrò permetterlo Lucy si alzò cautamente in ginocchio. Qualcun altro si azzardò a imitarla, poi uno dei più giovani si alzò
in piedi. Visto che non cadeva morto, anche noi facemmo altrettanto. «Guardate», disse un agente. Stava indicando il Senzanome. Il suo orrido corpaccione sembrava perdere sangue. Ruscelli vermigli scivolavano giù dalla sua «testa», se si poteva chiamarla così. «Merda!» esclamò Lucy. «Avremmo bisogno di armi anticarro per buttare giù quella dannata cosa.» Ero d'accordo con lei. «Quanto ci vorrà per far arrivare qualche unità della Guardia Nazionale?» «Troppo», rispose. La sua radio squittì qualcosa d'inintelligibile. Lei ascoltò, poi disse: «L'elicottero è in volo. Dobbiamo cercare Ms Reed e portarla fuori del muro di cinta». Non dovemmo faticare molto per trovarla; fu Maeve a trovare noi. Lei e Gordon Reed uscirono da dietro l'angolo est della villa con tutta la velocità che lui poteva sostenere. Dietro di loro c'era Julian Hart. Il pericolo maggiore in quei primi momenti fu che i tre non riuscissero a restare padroni dei propri nervi, nel vedere la cosa che troneggiava in mezzo al prato. Noi cercavamo di non lasciarci prendere dal panico, ma il cuore mi batteva forte, e anche tutti gli altri avevano gli occhi sbarrati, avidi soltanto di fuggire oltre il muro di cinta. Maeve Reed mi afferrò le mani. «È stato Taranis? Ha saputo tutto?» «Non sa niente di tuo figlio.» Lei si accigliò. «Allora...» «Ha scoperto che ci siamo visti.» «Ms Reed...» Un agente venne verso di noi. «Dobbiamo portarla fuori della sua proprietà.» Lei mi baciò su una guancia e lasciò che l'agente la portasse fino al muro e la consegnasse a un altro agente appollaiato sopra di esso. Poi toccò a Gordon Reed. Il poveretto non aveva la forza di parlare. Riusciva a stento a tirare il fiato, con Julian che lo sosteneva, mentre l'agente sulla cima del muro calava Maeve all'esterno. Quando i due furono in salvo, domandai a Julian: «Dove sono i tuoi uomini?» Scosse il capo. «Tutti quelli che erano qui sono morti, a parte Max. E lui è troppo malconcio per camminare. L'ho lasciato nascosto in casa, per poter portare fuori i Reed.» Non seppi cosa dire, ma un poliziotto indicò il muro a Julian. «Lei è il prossimo.» Così non ebbi bisogno di dire niente, e anche Julian si mise al
sicuro all'esterno. La maggior parte dei poliziotti aveva già abbandonato il terreno della villa, quando Lucy gridò: «Oh, mio Dio!» e mi fece voltare verso il Senzanome. I capelli bianchi di Rhys si agitavano sullo sfondo dei colori più scuri del mostro. Qualcosa a metà tra un braccio e un tentacolo l'aveva afferrato per il torace. La lama della sua ascia lampeggiò al sole mentre lui la abbatteva contro un occhio largo quanto una Volkswagen. L'occhio sbatté la palpebra, il mostro mandò un urlo, e così anche Rhys. «Portate Merry via da qui», ordinò Galen. Poi corse in aiuto del compagno. 43 Non attesi che Lucy o Nicca mi fermassero, e corsi dietro Galen. I miei sandali non erano fatti per quegli sforzi, e dove il sentiero lastricato curvava verso la piscina li scalciai via. Kitto era alle mie spalle, e Nicca, seguito da Sage, non era molto più lontano. Anche Lucy e l'ultimo poliziotto in uniforme stavano venendo con noi. Ma ciò che vedemmo ci costrinse a fermarci come raggelati. Il Senzanome non aveva gambe, e tuttavia si muoveva su quella brulicante massa di escrescenze, che gli sbucavano dal corpo in una successione continua impossibile da seguire con gli occhi. Sentivo il grido che mi saliva in gola, ma temevo che se avessi cominciato a urlare non avrei più potuto smettere... come il poliziotto rimasto in stato confusionale presso il muro. A volte l'unica cosa che c'impedisce di avere un attacco isterico è la testardaggine, o la necessità di fare qualcosa. Rhys era ancora stretto alla carne del mostro, ma aveva smesso di muoversi. Le sue braccia penzolavano pallide, a mani vuote, e sapevo che se aveva lasciato cadere tutte le sue armi doveva essere privo di sensi, oppure... rifiutai di completare quel pensiero. Non c'era il tempo per pensare l'impensabile. I poliziotti in armatura antisommossa che erano arrivati sul posto insieme con gli altri agenti giacevano qua e là, come giocattoli rotti e buttati via. La piscina si trovava dietro il mostro, che nel suo cammino di distruzione aveva abbattuto gli spogliatoi. I capelli argentei di Frost oscillavano. Aveva un braccio penzoloni, come inutilizzabile, e stretto contro la base del Senzanome continuava a lot-
tare. D'un tratto riuscì ad affondare Bacio d'Inverno tra le fauci di una bocca zannuta, ma un tentacolo schizzò fuori del mostro e lo mandò a sbattere nel muro. Frost rimase a giacere là tra le piante, immobile e stordito. Solo la mano di Galen m'impedì di correre da lui. «Guarda», disse Galen. Nel punto dove la spada era rimasta piantata nella carne si stava dilatando una chiazza bianca. Quando fu larga quanto un grosso tavolo mi accorsi che era fatta di materiale congelato. Bacio d'Inverno teneva fede al suo nome. Ma il Senzanome colpì la spada e la mandò a rotolare via tra le aiuole. La chiazza biancastra rimase, cessando però di crescere. Mi guardai intorno in cerca di Doyle, e vidi con sgomento che giaceva come senza vita sulle mattonelle turchesi accanto alla piscina. Sotto di lui si era allargata una pozza di sangue. D'un tratto alzò un braccio, ma il mostro lo colpì con una delle escrescenze e lo fece rotolare nell'acqua. Doyle sparì alla vista senza neppure agitare una mano, affondando come un sasso. Galen mi fece girare verso di sé, stringendomi un braccio così forte da far male. «Giurami che non ti avvicinerai alla sua portata.» «Galen...» Mi scrollò. «Giuralo, devi giurarlo!» Non l'avevo mai visto così risoluto, e seppi che non mi avrebbe mai lasciato e non sarebbe corso ad aiutare i compagni finché non lo avessi accontentato. «Lo giuro.» Si chinò a darmi un bacio feroce, quasi brutale, poi mi consegnò a Kitto. «Stai con lei, tienila in vita.» Lui e Nicca si scambiarono uno sguardo ed estrassero le armi. Lucy e il poliziotto puntarono le pistole e cominciarono a sparare. Non colpire Rhys era facile. Le parti del mostro cui mirare erano fin troppo estese. Spararono fino a svuotare i caricatori. Il Senzanome si diresse verso di loro con rapidità, e Lucy riuscì a fuggire dentro la villa, ma il poliziotto fu afferrato da una gigantesca mano artigliata, da cui spuntavano anche nasi e bocche. Gli enormi artigli affondarono nel suo corpo, facendo schizzare in aria getti di sangue in archi color cremisi. Le urla dell'uomo, acute e orribili, durarono solo pochi secondi, poi ci fu soltanto un brusco silenzio, e io potei udire il rumore degli indumenti lacerati, della carne che si strappava, e lo schiocco umido delle ossa spezzate, mentre il mostro spaccava in due lo sventurato e ne scagliava i pezzi verso di noi.
Kitto mi trascinò distesa sulle mattonelle turchesi e mi protesse col suo piccolo corpo prima che quei poveri resti ci colpissero, ma entrambi fummo insozzati di sangue da capo a piedi. Quando potei di nuovo alzare la testa per guardare cosa succedeva, vidi che Nicca e Galen si stavano allargando ai due lati del Senzanome, ciascuno armato di spada e di pugnale. Forse cercavano di attirare la sua attenzione su due obiettivi diversi, ma come si poteva distrarre una cosa fornita di così tanti occhi, teste e braccia? Non so se le altre spade lo avessero colpito in modo per lui doloroso oppure se fosse solo stanco di essere stuzzicato, ma a quel punto passò all'offensiva usando non i suoi arti multipli bensì la magia. Nicca fu improvvisamente avvolto da una nebbia bianca. Quando la nebbia si dissolse, lui giaceva a terra, immobile. Non ebbi modo di vedere se respirava ancora, perché il Senzanome deviò in direzione di Galen, che lo attese a pie fermo. Nessuno aveva mai accusato Galen di essere un codardo. Gridai il suo nome, ma lui non si voltò, e io non volevo distrarlo dal combattimento; sentivo però di doverlo aiutare in qualche modo. Lottai per rialzarmi da terra, e finalmente Kitto smise di aggrapparsi a me per sostenermi. Quella di Galen non era un'arma magica, era necessario che facessi qualcosa. Mi mossi verso di lui, e Kitto cercò d'impedirlo afferrandomi per una manica. Mi voltai, ma i miei piedi nudi scivolarono sulle mattonelle lorde di sangue, e caddi bocconi, per metà dentro un'aiuola. Le mie mani ne uscirono sporche di terra e del sangue ancora fresco che la stava concimando. Il palmo della sinistra cominciò a prudere, poi a bruciare. Quello era il sangue del Senzanome, velenoso come il resto di lui. Mi tirai in piedi, sfregandomi le mani sulla gonna per ripulirle da quel sangue malefico, ma servì a poco. Il bruciore mi stava penetrando nella mano, nella carne del braccio e su lungo le vene, come se il mio sangue diventasse metallo fuso e ardente, un sangue che ribolliva sotto la mia pelle. Gridai di dolore, e Kitto si strinse a me per essermi d'aiuto, ma subito anche lui urlò e mi lasciò andare, vacillando indietro. La parte anteriore della sua T-shirt era inzuppata di sangue fresco. Si afferrò la maglietta e la scostò dalla pelle, abbastanza perché vedessi sanguinare i segni che gli avevano lasciato le mie unghie, assai peggio di quanto avessero sanguinato originariamente. Mio cugino Cel era principe del Vecchio Sangue; poteva richiamare in vita ogni ferita, per quanto antica fosse, ma non in modo più grave di ciò
che era stata la ferita originale. Quanto era successo con Kitto era qualcosa di diverso. Una volta Doyle mi aveva detto che avrei dovuto avere una seconda mano di potere, ma non c'era modo di sapere quando si sarebbe manifestata e quale sarebbe stata. Il dolore nel mio corpo stava scemando, mentre Kitto sanguinava. Ma io non volevo che fosse Kitto a sanguinare, volevo che a sanguinare fosse il Senzanome. Se avessi dovuto toccare il mostro perché quella nuova mano di potere funzionasse, sarei morta. La mia intenzione era di provarci con la magia, così come si prova l'efficacia di un'arma. Sparare da lontano prima di essere costretta a sparare da vicino. E finché c'erano munizioni, continuare a sparare. Protesi la mano sinistra verso il mostro, a palmo avanti, e pensai non alla parola sangue ma al sangue. Pensai al suo sapore salato, un po' metallico, alla sensazione di averlo fresco e sparso al suolo in grande quantità, e a come si addensava nel raggrumarsi. Pensai all'odore del sangue - quel sentore che poteva far accapponare la pelle - e al modo in cui quello fresco sgocciolava uscendo dalla carne spaccata, simile a un hamburger crudo. Pensai al sangue e cominciai a camminare verso il Senzanome. 44 Avevo fatto solo pochi passi quando il dolore tornò. Il sangue mi ribollì nelle vene, e caddi in ginocchio con la mano ancora protesa verso il mostro... ma avrei scommesso che Kitto aveva smesso di sanguinare. Mentre gridavo vidi un gigantesco occhio girarsi verso di me, fissandomi come se mi vedesse per la prima volta. Il dolore mi annebbiò la vista e infine mi rubò la voce e l'aria dai polmoni. Stavo soffocando per il dolore. Poi diminuì, solo un poco, e quindi un po' di più. Quando la vista mi si schiarì, il sangue sgorgava fuori da alcune ferite in quella montagna di carne, e non come fosse sangue ma con la velocità dell'acqua, rapido e abbondante. Il mio dolore sparì del tutto, mentre il liquido rosso ruscellava da ogni ferita che il mostro aveva ricevuto quel giorno. Ogni foro di pallottola, ogni taglio di lama luccicava scarlatto. Il sangue cominciò a piovere giù tutto intorno all'enorme corpo. Il Senzanome cominciò a muoversi verso di me, poderoso, snervante da vedersi come una montagna che rotolasse nella mia direzione. Sapevo che, se mi avesse raggiunta, sarei stata uccisa; così dovevo impedire che succedesse.
Cominciai a pensare non al sangue, ma alle ferite; non pensai più sanguina, ma muori. Volevo che lui morisse. Una nuova ferita si aprì lungo uno dei suoi fianchi, poi un'altra, e un'altra ancora. Era come se una lama invisibile lo stesse squarciando. Il sangue ne uscì in grande quantità, finché il Senzanome non fu coperto da uno strato rosso da cima a fondo. Poi il sangue ne scaturì come un'ondata quasi nera, come da una diga che crollasse inondando le aiuole. Si allargò in una massa vorticosa che m'investì con forza, facendomi crollare in ginocchio in mezzo a quel turbinare di sangue caldo. E ne sgorgava altro ancora. Più il mostro perdeva sangue, più io mi calmavo. Il mio corpo fu invaso dall'immobilità, quasi dalla pace. Accovacciata in quel lago di sangue guardai il mostro vacillare verso di me, ma non avevo paura. Non sentivo niente, non ero niente, fuorché magia. In quel momento io vivevo, respiravo, ed ero un incantesimo. La mano del Sangue mi dominava, mi usava, nello stesso modo in cui io avevo cercato di usare lei. Con la magia antica, chi sia il padrone e chi sia il servo non è mai certo. Il Senzanome ormai torreggiava su di me come una grande montagna sanguinolenta, e una delle sue protuberanze si allungò nella mia direzione. La cosa distava solo pochi metri quando vi fu un suono ansante, una specie di gemito spaventato, e poi il mostro scoppiò; non andando a pezzi, ma come se anche l'ultima goccia del sangue in esso contenuto schizzasse fuori all'istante. L'atmosfera diventò sangue, e mi parve di respirare sott'acqua. Per un momento pensai che sarei affogata, poi rantolai in cerca di aria respirabile, sputando sangue. Qualcosa di pesante mi colpì alla testa, e caddi sul terreno inzuppato. Anche nello spasimo della morte il mostro aveva cercato di portarmi con sé. La faccia sporca di Kitto con un altrettanto insanguinato Sage su una spalla fu l'ultima cosa che vidi, prima che l'oscurità inghiottisse il mondo. 45 Mi svegliai fluttuando. Galleggiavo a mezz'aria, e dapprima pensai che fosse un sogno. Poi vidi Galen che fluttuava anche lui, appena fuori della mia portata. Tutti i fey nel giardino posteriore della villa erano sospesi a breve distanza dal suolo. La magia era ovunque, scivolava nell'aria come una corrente di fuochi artificiali, fioriva intorno a noi nei più fantastici stormi di uccelli che mai mortale avesse visto nel cielo. I morti si alzarono, fecero qualche passo e cominciarono a svanire. Era come guardare i sogni
o gli incubi di qualcun altro sotto il sole splendente della California. Era un incantesimo allo stato grezzo, senza che una mano lo regolasse o vi mettesse ordine; era semplicemente magia, ovunque. E quella magia stava penetrando in Rhys, in Frost, in Doyle, in Kitto, in Nicca, perfino in Sage. Vidi un albero fantasma fluttuare sopra il corpo di Nicca e svanire dentro di lui. Sage era coperto di rampicanti in fiore. I poliziotti morti si diressero a passo di marcia verso Rhys ed entrarono nel suo corpo, mentre lui gridava. Frost era coperto da ciò che sembrava neve. Cercò di spazzarla via col braccio buono, ma su di lui continuò a caderne ancora. Vidi Doyle seminascosto dietro qualcosa di nero e serpentino. Poi la magia finì per trovare anche Galen e me, che galleggiavamo a pochi centimetri l'uno dall'altra. Fummo investiti da odori e fiotti di colori. Sentii un profumo di rose, e su un polso mi apparve una goccia di sangue come se fossi stata punta da una spina. Mi parve che gli altri stessero recuperando ciò che avevano ceduto al Senzanome, ma né Galen né io gli avevamo dato niente. Credevo che quella cosa ci avrebbe ignorati e oltrepassati, ma mi sbagliavo. La magia era stata liberata allo stato brado, e cercava qualcun altro in cui entrare. Una cosa simile a un grande uccello sorse da quello sfacelo sanguinoso e venne da me come se avesse uno scopo. Galen gridò: «Merry!» e la forma baluginante mi colpì ed entrò in me, ma non uscì dall'altra parte. Per un istante vidi il mondo attraverso cristallo e nebbia, sentii un odore di bruciato, poi tutto tornò oscurità. Quando Galen e io riprendemmo conoscenza per la seconda volta, gli altri avevano già seppellito il Senzanome nel suolo, nell'acqua e nella stessa aria. L'avevano imprigionato in quegli elementi nel pieno senso della parola. Non poteva essere ucciso, ma non sarebbe più riuscito a rinascere e andarsene in giro libero. Maeve Reed ci aveva graziosamente concesso di usare una parte della sua proprietà come terreno di sepoltura, anche se non fu esattamente quello che noi facemmo. Il Senzanome trovò sepoltura nella sua terra, ma in realtà non fu sepolto in nessuna terra. Fu intrappolato in una zona intermedia, tra la nostra dimensione e quella attigua. Maeve ci offrì l'uso permanente della sua casa per gli ospiti, una dépendance più grande di molte villette monofamiliari. Ciò risolse la mia necessità di trovare un appartamento più spazioso, e lei poté averci a portata di mano nell'eventualità che Taranis la attaccasse ancora. Avevo sempre pensato che Andais fosse la più pazza dei due, ma ho
cambiato idea. Taranis è disposto a fare qualsiasi cosa per salvarsi; non è così che deve agire un buon re. Bucca-Dhu è in custodia protettiva degli Unseelie. Abbiamo dovuto dire tutto ad Andais. Abbiamo così un testimone di ciò che Taranis ha fatto, ma non è abbastanza per detronizzare un regnante millenario. Gestire questa situazione sarà un piccolo incubo politico. Tuttavia non può essergli permesso di restare al potere. Nel frattempo, Taranis continua a insistere che io vada alla sua Corte, in visita. Non credo che lo farò. In quanto agli spettri affamati, Rhys li ha eliminati senza problemi. Ha riavuto i poteri che la creazione del Senzanome gli aveva tolto, e così anche tutti gli altri. Ma questo quali conseguenze avrà? Una delle conseguenze è che Rhys parla alle stanze vuote. Ma se sono vuote, perché dall'aria escono voci che gli rispondono? Frost si diverte a congelare i vetri della mia finestra in piena estate, alitando sui vetri magici disegni di ghiaccio dedicati a me. Doyle può scomparire davanti ai nostri occhi, in modo così completo che nessuno riesce più a trovarlo. So che in realtà non è invisibile, ma agli effetti pratici lo è di certo. Nicca può far sbocciare un albero mesi prima della sua stagione... magari solo perché ha bisogno di un po' di ombra. Kitto parla ai serpenti, adesso; scivolano fuori dell'erba per salutarlo, come voi salutereste un re. È piuttosto snervante accorgersi di quanti serpenti riescono a vivere in un posto dove avreste pensato che non ce n'era neppure uno. Sage mantiene un bocciolo di gelsomino fresco e fragrante senza bisogno di acqua da ormai due settimane. Lo tiene dietro un orecchio, e non c'è nessun segno che stia appassendo. Per ciò che riguarda me e Galen - toccati da tanta magia allo stato brado, della quale neppure una briciola era nostra -, ancora non sappiamo nulla. Doyle pensa che i nuovi poteri emergeranno un poco alla volta. La mia seconda mano di potere è comunque arrivata. Tutto ciò che occorre è che qualcuno abbia avuto una piccola ferita, e io posso fargli uscire dal corpo tutto il sangue. Ora sono la principessa della Carne e del Sangue. Nessuno aveva più visto la mano del Sangue dei tempi di Balor dall'Occhio Diabolico. Per quelli di voi poco aggiornati nella mitologia preceltica, sono cose risalenti a migliaia di anni prima di Cristo. La regina Andais è compiaciuta di me. Era tanto di buonumore che sono riuscita a farmi assegnare in permanenza i miei uomini. Il principe Cel ha una guardia privata, lei ha la sua. Io non dovrei avere la mia? Andais è stata d'accordo, così tutti quelli che verranno a stare con me sono miei. Ho promesso a Frost che li proteggerò, tutti. Una principessa deve sem-
pre mantenere le sue promesse. Andais sta dunque per mandare altri guardiani per tutelare la mia sicurezza. Le ho chiesto che mi consentisse di sceglierli, ma questo non ha riscosso la sua approvazione. Le ho chiesto allora di lasciarli scegliere a Doyle, ma lei ha rifiutato anche questo. Credo che la regina dell'Aria e delle Tenebre abbia i suoi progetti, e che mi manderà chi fa comodo a lei. Non mi resta che aspettare e vedere chi si presenterà alla mia porta. Ci sono state finalmente dolci notti col mio cavaliere verde. La mia Tenebra è ancora pericolosa come sempre, ma sotto sotto vedo in lui la sofferenza e la decisione di rendere le cose migliori per noi. Rhys è cambiato, e non è più un amante così ridanciano. Non gli va più di condividermi con Nicca. È come se col ritorno dei suoi poteri fosse diventato più serio, più riservato. C'è molto di più in lui, adesso: più magia, più desiderio, più forza. Nicca è sempre soltanto Nicca. Amabile, gentile, ma non abbastanza forte. Anche Kitto è cresciuto e cambiato. È più forte. E ho visto aumentare i suoi poteri con un po' di timore e meraviglia. Poi c'è Frost. Si può dire che mi ama, perché il suo è amore. Ma io non sono ancora incinta. Ho eseguito un rito della fertilità che ha portato la vita nel grembo di un'altra sidhe, ma il mio rimane vuoto. Perché? Se non fossi fertile, quell'incantesimo sarebbe fallito, invece ha avuto successo. Devo restare incinta quanto prima, altrimenti tutto il resto non conterà. Le celebrazioni per Yule sono arrivate e sono passate, e Cel resterà in prigionia solo per altri due mesi. Alla sua liberazione sarà diventato ancora più pazzo di prima? Getterà alle ortiche ogni prudenza pur di ammazzarmi? Meglio che io resti incinta prima che lui esca. Rhys ha suggerito di comprare un sicario che uccida Cel nel momento in cui tornerà libero. Se non fosse per la rabbia e il dolore della regina, potrei quasi essere d'accordo. Quasi. M'inginocchio davanti al mio altare e prego. Prego per avere una guida, e per un po' di fortuna, la buona fortuna. La gente è solita augurare agli altri semplicemente la fortuna, ma dimentica di precisare di che genere. Bisogna sempre stare molto attenti quando si prega, perché la divinità ascolta, e di solito ci dà quello che abbiamo chiesto, non quello che intendevamo chiedere. Che la Dea ci mandi la buona fortuna e un inverno fertile.
RINGRAZIAMENTI A Shauna Summer, la mia nuova curatrice editoriale, per la sua professionalità. A Darla Cook, che ha corretto questo romanzo quando non c'era tempo di mandarlo ad altri. Al mio gruppo di scrittura: Tom Drennan, Rhett McPherson, Deborah Millitello, Marella Sands, Sharon Shinn, e Mark Sumner. Grazie per aver avuto pazienza con me, mentre il mio lavoro andava a pezzi e si ricostruiva. FINE