Wilbur Smith
IL SETTIMO PAPIRO The Seventh Scroll 1995
Ancora una volta, dedico questo romanzo a mia moglie Danielle. ...
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Wilbur Smith
IL SETTIMO PAPIRO The Seventh Scroll 1995
Ancora una volta, dedico questo romanzo a mia moglie Danielle. Insieme abbiamo vissuto molti anni felici e pieni d'amore, eppure io sento che, in realtà, siamo solo all'inizio e che molti altri anni di gioia ci attendono. L'imbrunire avanzava dal deserto e ombrava di violaceo le dune. Attutiva tutti i suoni come un fitto manto di velluto, e la sera era tranquilla e silenziosa. Dal punto in cui si trovavano, sulla cresta della duna, potevano scorgere l'oasi e il complesso di piccoli villaggi che la circondavano. Le costruzioni erano bianche, con i tetti piatti, e le palme da dattero svettavano sugli edifici, a eccezione della moschea islamica e della chiesa copta. I due bastioni della fede si fronteggiavano sulle sponde opposte del lago. L'acqua si andava oscurando. Uno stormo di anatre scese obliquamente e, tra spruzzi bianchi, si posò accanto ai canneti. L'uomo e la donna erano una coppia non molto ben assortita. Lui era alto, un po' curvo, e i capelli argentei riflettevano gli ultimi raggi del sole. Lei era giovane, poco più che trentenne, snella e flessuosa, con i capelli folti e ricci trattenuti sulla nuca da una striscia di pelle. «È ora di scendere. Alia ci starà aspettando.» L'uomo sorrise affettuosamente alla seconda moglie. Quando la prima era morta, aveva avuto la sensazione che con lei se ne fosse andata la luce del sole. Non aveva previsto quell'ultimo periodo di felicità nella sua vita. Adesso aveva lei e il suo lavoro: era un uomo felice e appagato. All'improvviso la donna si scostò e tolse la striscia di pelle che le tratteneva i capelli folti e scuri, li scosse e rise. Era un suono gradevole. Poi si lanciò correndo giù per il pendio, con le gonne lunghe che ondeggiavano intorno alle gambe brune e tornite. Riuscì a mantenere l'equilibrio solo per metà della discesa ripida, poi la forza di gravità la fece ruzzolare. Dall'alto della cresta, l'uomo sorrise con indulgenza. A volte sua moglie era ancora una bambina; altre volte invece era una donna, seria e dignitosa; Wilbur Smith
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lui non sapeva bene quale preferisse, ma l'amava comunque. La donna si fermò ai piedi della duna e si sollevò a sedere; poi, scrollandosi la sabbia dai capelli, si abbandonò a una risata. «Tocca a te», gli gridò. L'uomo la segui con più calma: data l'età, si muoveva con cautela, un po' rigidamente. Non perse l'equilibrio e, quando arrivò in fondo al pendio, aiutò la moglie ad alzarsi. Non la baciò, sebbene fosse tentato. Non rientrava nelle consuetudini arabe dimostrare affetto in pubblico, sia pure per una moglie amatissima. Lei si rassettò le vesti e si legò di nuovo di capelli prima di dirigersi verso il villaggio. Costeggiarono i canneti dell'oasi, superando i ponticelli traballanti che scavalcavano i canali per l'irrigazione. I contadini che tornavano dai campi, quando lo incontravano, lo salutavano con rispetto. «Salam aleikum, daotari! La pace sia con te, dottore.» Onoravano tutti i sapienti, ma soprattutto lui per la bontà che da anni dimostrava nei loro confronti. Molti avevano addirittura lavorato per suo padre. Non aveva importanza che fossero in maggioranza musulmani, mentre lui era cristiano. Quando arrivarono alla villa, la vecchia governante Alia li accolse con una serie di borbottii e di smorfie. «Siete in ritardo. Siete sempre in ritardo. Perché non avete orari regolari come le persone per bene? Abbiamo una posizione da mantenere.» «Vecchia madre, hai sempre ragione», scherzò l'uomo. «Che cosa faremmo se non ci fossi tu!» La governante se ne andò, continuando a fare smorfie per nascondere l'affetto e la preoccupazione. Mangiarono insieme sulla terrazza, un pasto molto semplice: olive, pane azimo, formaggio caprino e datteri. Quando terminarono era buio, ma le stelle della sera brillavano come candele. «Royan, mio fiore.» L'uomo sfiorò la mano della moglie. «È ora di metterci al lavoro.» Si alzò da tavola e si avviò verso lo studio che comunicava con la terrazza. Royan Al Simma andò direttamente alla grande cassaforte d'acciaio che stava contro la parete di fondo e formò la combinazione. La cassaforte era fuori posto in quella stanza, fra i libri antichi, i papiri, le statue, i manufatti e i corredi funerari che l'uomo collezionava da una vita. Quando il pesante sportello d'acciaio si aprì, Royan indietreggiò per un momento. Avvertiva sempre una certa soggezione nel posare gli occhi su quella reliquia del passato, persino dopo un breve intervallo di poche ore. Wilbur Smith
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«Il settimo papiro», mormorò, e si fece forza per toccarlo. Era vecchio di oltre tremila anni, scritto da un genio che era polvere da più di tre millenni, ma che lei aveva imparato a conoscere e rispettare come rispettava e conosceva suo marito. Le parole erano eterne e le parlavano dall'Oltretomba, dai Campi Elisi, dalla presenza della grande trinità Osiride, Iside e Horus - in cui aveva creduto devotamente, come Royan credeva in un'altra Trinità più recente. Portò il rotolo di papiro al lungo tavolo dove il marito Duraid era già al lavoro. Lui alzò lo sguardo quando la moglie glielo posò accanto, e per un momento Royan gli vide negli occhi la stessa eccitazione che l'aveva colpita. Lui voleva sempre il papiro sul tavolo, anche quando non era necessario: infatti avrebbe potuto lavorare con le fotografie e i microfilm. Era come se sentisse il bisogno della presenza invisibile dell'antico autore mentre studiava i testi. Poi scacciò quella sensazione e tornò a essere lo scienziato freddo e obiettivo. «La tua vista è migliore della mia, mio fiore», disse. «Che cosa ti sembra questo carattere?» Royan si chinò sulla sua spalla e studiò il geroglifico che lui le indicava sulla fotografia del rotolo. Rifletté per un momento, prese la lente dalla mano di Duraid e tornò a esaminarlo. «Mi sembra che Taita abbia aggiunto un altro crittogramma di sua invenzione, per esasperarci.» Parlava dell'antico autore come se fosse un caro, e talvolta irritante, amico che si divertiva a giocar loro strani scherzi. «Allora dovremo venirne a capo», dichiarò soddisfatto Duraid. Quel gioco gli piaceva. Era il lavoro della sua vita. Continuarono nella frescura della notte, le ore in cui lavoravano meglio. A volte parlavano arabo, altre volte inglese. Per loro le due lingue erano quasi la stessa cosa. Usavano meno spesso il francese, la loro terza lingua comune. Avevano studiato in università inglesi e americane, così lontane dal loro Egitto. Royan amava l'espressione «il nostro Egitto», che Taita usava spesso nei papiri. Provava una strana affinità per l'antico egizio. Dopotutto era una sua discendente diretta: era cristiana copta, e non apparteneva alla razza araba che aveva conquistato l'Egitto meno di quattordici secoli prima. Gli arabi erano nuovi venuti nel suo Egitto, mentre la sua stirpe risaliva al tempo dei faraoni e delle grandi piramidi. Alle dieci Royan preparò il caffè; lo riscaldò sulla stufa a carbonella che Wilbur Smith
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Alia aveva lasciata accesa prima di tornare al villaggio dalla sua famiglia. Lo bevvero, dolce e carico, nelle tazze sottili piene per metà di fondi. E intanto parlarono come vecchi amici. Per Royan, infatti, il loro era un rapporto fra vecchi amici. Aveva conosciuto Duraid quando era tornata dall'Inghilterra con un dottorato in archeologia e aveva ottenuto un posto presso il Dipartimento Antichità Egizie, di cui lui era il direttore. Era la sua assistente quando Duraid aveva aperto la tomba nella Valle dei Nobili, la tomba della regina Lostris della dinastia ramesside, che risaliva al 1780 circa avanti Cristo. E aveva condiviso la sua delusione quando avevano constatato che la tomba era stata saccheggiata in tempi antichi e depredata di tutti i tesori. Erano rimasti soltanto gli affreschi meravigliosi che coprivano le pareti e i soffitti. Royan stava lavorando sulla parete dietro il plinto dove in origine si trovava il sarcofago, e fotografava gli affreschi, quando una sezione d'intonaco era caduta, rivelando la nicchia con i dieci vasi di alabastro sigillati. Ognuno conteneva un rotolo di papiro; e tutti erano stati scritti e nascosti lì da Taita, lo schiavo della regina. Da quel momento le loro vite, quella di Duraid e la sua, avevano ruotato intorno a quei rotoli di papiro. Sebbene ci fossero alcuni danni e qualche segno di deterioramento, nel complesso erano rimasti straordinariamente intatti dopo tre millenni e mezzo. Contenevano la storia affascinante di una nazione attaccata da un nemico più forte, armato di cavalli e di carri ancora sconosciuti agli egizi di quel tempo. Schiacciate dalle orde degli hyksos, le popolazioni nel Nilo erano state costrette a fuggire. Guidate dalla loro regina, la Lostris della tomba, avevano seguito verso sud il grande fiume fin quasi alla sorgente, tra le montagne impervie degli altipiani etiopi. Là, fra quelle montagne, Lostris aveva sepolto il corpo mummificato del marito, il faraone Marnose, ucciso in battaglia contro gli hyksos. Molto tempo dopo, la regina Lostris aveva guidato il suo popolo verso nord, fino all'Egitto. Armati di carri e cavalli, divenuti guerrieri irriducibili nei desolati territori africani, gli egizi avevano ridisceso le cataratte del grande fiume per sfidare gli invasori e alla fine avevano trionfato, strappando loro la corona doppia dell'Alto e Basso Egitto. Era una vicenda che avvinceva Royan, e continuava ad avvincerla mentre decifravano ogni geroglifico che il vecchio schiavo aveva tracciato Wilbur Smith
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sul papiro. Avevano impiegato molti anni, lavorando di notte nella villa dell'oasi dopo aver terminato il normale orario al museo del Cairo; ma finalmente erano riusciti a decifrare i dieci rotoli, eccettuato il settimo. Il settimo papiro era l'enigma che l'autore aveva avvolto con strati di stenografia esoterica e di allusioni così oscure da risultare incomprensibili dopo tanto tempo. Alcuni dei simboli utilizzati non comparivano in nessuno delle migliaia di testi che i due avevano studiato nel corso della loro attività. Per entrambi era ormai evidente che Taita voleva che i rotoli non venissero letti e compresi da occhi diversi da quelli della regina amatissima. Era l'ultimo dono che le aveva fatto perché lo portasse con sé nell'Oltretomba. C'era stato bisogno di tutta l'abilità, l'immaginazione e l'ingegnosità di cui disponevano: ma finalmente il traguardo sembrava prossimo. La traduzione presentava ancora lacune, e il significato di molti passi era tutt'altro che sicuro; eppure avevano riordinato le «ossa» del manoscritto in modo da poter scorgere il contorno dell'essere che rappresentava. Duraid bevve un sorso di caffè e scosse la testa come aveva fatto tante altre volte. «La responsabilità mi fa paura», disse. «Che cosa ne faremo delle conoscenze che abbiamo acquisito? Se dovessero cadere in mani sbagliate...» Bevve un altro sorso e sospirò prima di riprendere a parlare. «Anche se lo porteremo alle persone giuste, chi crederà a questo materiale vecchio di tremilacinquecento anni?» «Perché dobbiamo portarlo a qualcun altro?» chiese Royan con una sfumatura di esasperazione nella voce. «Perché non facciamo da soli quel che c'è da fare?» In momenti come quello le differenze tra loro spiccavano più nette. Duraid aveva la prudenza dell'età, lei l'impetuosità della giovinezza. «Tu non capisci», borbottò lui. Era una frase che irritava profondamente Royan, che vi leggeva l'atteggiamento arabo di superiorità maschile nei confronti delle donne. Royan aveva conosciuto l'altro mondo, dove le donne avevano il diritto di essere trattate da eguali. Era una creatura presa tra due universi, quello arabo e quello occidentale. Sua madre era un'inglese di buona famiglia: aveva lavorato presso l'ambasciata britannica al Cairo durante il periodo inquieto successivo alla seconda guerra mondiale, sposando poi un giovane ufficiale dello stato maggiore del colonnello Nasser. Era un'unione inverosimile, conclusasi quando Royan era ancora un'adolescente. Wilbur Smith
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La madre aveva insistito per tornare in Inghilterra, a York, per la nascita di Royan: voleva che la figlia avesse la cittadinanza britannica. Dopo che i genitori si erano separati, sua madre aveva fatto in modo che la figlia studiasse in Inghilterra; Royan però aveva sempre trascorso le vacanze al Cairo con il padre, il quale aveva fatto una magnifica carriera culminata con la nomina a ministro nel governo Mubarak. E, per l'affetto che gli portava, Royan aveva finito per considerarsi più egiziana che inglese. Era stato suo padre a combinare il matrimonio con Duraid Al Simma: l'ultima cosa che aveva fatto per lei prima di morire. A quel tempo, Royan sapeva delle precarie condizioni di salute del padre, e non se l'era sentita di contrariarlo. L'educazione moderna le aveva fatto desiderare di opporsi all'anacronistica tradizione copta dei matrimoni combinati, ma la famiglia e la Chiesa erano contro di lei. E così aveva acconsentito. Il matrimonio con Duraid non era stato insopportabile come lei aveva temuto. Anzi sarebbe stato soddisfacente, se Royan non avesse mai conosciuto l'amore romantico: ma c'era stata la relazione con David, quando studiava all'università. David l'aveva prima trascinata in un vorticoso delirio sensuale, e poi se n'era andato, lasciandola in preda alla disperazione. L'aveva abbandonata per sposare una bionda ragazza tipicamente inglese, approvata dai suoi genitori. Royan provava rispetto e simpatia per Duraid, ma a volte, la notte, ardeva dal desiderio del contatto con un corpo maschile solido e giovane come il suo. Duraid stava ancora parlando, e lei non l'aveva ascoltato. Royan si riscosse e gli dedicò tutta la sua attenzione. «Ho parlato di nuovo al ministro, ma penso che non mi abbia creduto. Penso che Nahoot l'abbia convinto che sono un po' matto.» Duraid sorrise mestamente. Nahoot Guddabi era il suo vice, ambizioso e ben ammanigliato. «Comunque il ministro dice che non ci sono fondi disponibili e che dovrò cercare un finanziamento indipendente. Ho passato di nuovo in rassegna l'elenco dei possibili sponsor, e l'ho ristretto a quattro nomi. C'è il Getty Museum, ovviamente, ma non mi piace avere a che fare con una grande istituzione impersonale. Preferisco dover rispondere a un uomo solo: così è più facile prendere decisioni.» Per Royan quel discorso non era affatto una novità, eppure la sua espressione era intenta e partecipe. «Poi c'è Herr von Schiller. È ricco e ha interesse per l'argomento, ma non lo conosco abbastanza bene per fidarmi completamente di lui.» Wilbur Smith
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S'interruppe. Royan aveva ascoltato abbastanza spesso quelle riflessioni per essere in grado di prevederle. «E l'americano? È un collezionista famoso», disse, anticipando il marito. «Peter Walsh è un tipo difficile. La smania di accumulare lo rende poco scrupoloso. Mi fa un po' paura.» «Allora, chi resta?» chiese Royan. Duraid non disse nulla: entrambi conoscevano la risposta. Rivolse nuovamente l'attenzione al materiale sparso sul tavolo da lavoro. «Ha un'aria così innocente. Un vecchio rotolo di papiro, fotografie e quaderni, una stampata di computer. È difficile credere che potrebbero essere pericolosi, se finissero nelle mani sbagliate.» Sospirò di nuovo. «Si potrebbe quasi sostenere che sono armi letali.» Rise. «Mi lascio trasportare dalla fantasia, forse perché è così tardi. Vogliamo tornare al lavoro? Potremo preoccuparci del resto quando avremo risolto tutti gli enigmi creati da quel vecchio briccone di Taita, e avremo completato la traduzione.» Prese la prima fotografia dal mucchio che gli stava davanti: un estratto della sezione centrale del rotolo. «E una vera disgrazia che il papiro risulti guasto proprio qui.» Prese gli occhiali da lettura e li inforcò prima di leggere ad alta voce. Vi sono molti gradini da ascendere sulla scala della dimora di Hapi. Con grandi sforzi e fra terribili traversie raggiungemmo il secondo gradino e non procedemmo oltre, perché qui il principe ricevette una rivelazione divina. In sogno suo padre, il Faraone defunto, gli apparve e comandò: «Ho viaggiato molto e sono stanco. E qui che voglio riposare per tutta l'eternità». Duraid si tolse gli occhiali e guardò Royan. «Il secondo gradino. Per una volta, ecco una descrizione molto precisa. Qui Taita non è tortuoso come al solito.» «Torniamo alle foto del satellite», propose Royan, prendendo il foglio lucido. Duraid girò intorno al tavolo e si fermò alle sue spalle. «Mi sembra logico: l'elemento naturale che costituiva un ostacolo in una gola doveva essere una serie di rapide o una cascata. Se fosse la seconda cascata, sarebbe qui...» Royan puntò l'indice sulla foto del satellite nel punto dove il fiume serpentino si snodava fra i massicci scuri dei monti. Wilbur Smith
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D'un tratto alzò la testa. «Ascolta!» disse in tono allarmato. «Che c'è?» Anche Duraid alzò gli occhi. «Il cane.» «Maledetto bastardo. La notte continua ad abbaiare. Ho deciso di sbarazzarmene.» In quel momento le luci si spensero. Marito e moglie rimasero paralizzati per lo stupore. Il ritmo sommesso del vecchissimo generatore diesel nella baracca in fondo al palmeto era cessato. Quel suono faceva parte della notte nell'oasi al punto che lo notavano soltanto quando non c'era. I loro occhi si abituarono alla luce fioca delle stelle che penetrava dalla porta della terrazza. Duraid attraversò la stanza e prese la lampada a petrolio dallo scaffale dove la teneva per quell'eventualità. L'accese e guardò la moglie con un'aria di comica rassegnazione. «Dovrò scendere a...» «Duraid», l'interruppe lei. «Il cane!» L'uomo rimase in ascolto per un momento, poi si limitò ad alzare un sopracciglio, perplesso. Il cane taceva. «Sono sicuro che non è il caso di allarmarsi», la rassicurò. Si diresse verso la porta e, istintivamente, la moglie gli gridò: «Sii prudente!» Lui scrollò le spalle, noncurante, e uscì sulla terrazza. Per un istante Royan pensò che fosse l'ombra della vite sul traliccio che si muoveva nella brezza notturna del deserto: ma era una notte calma. Poi si accorse che una figura umana camminava sulle pietre a passo rapido e senza far rumore, e si portava alle spalle di Duraid mentre questi girava intorno alla vasca dei pesci al centro della terrazza. «Duraid!» gridò Royan, facendolo voltare di scatto. «Chi sei?» disse Duraid, mentre sollevava la lampada. «Che cosa vuoi?» L'intruso si avvicinò in silenzio. Era avvolto dal tradizionale dishdasha che arrivava alle caviglie, e la ghutrah bianca gli copriva la testa. Nella luce della lampada, Duraid vide che s'era tirato un lembo del copricapo sulla faccia, per mascherarsi. Lo sconosciuto le voltava le spalle e quindi Royan non scorse il coltello che stringeva nella destra, tuttavia non poté aver dubbi sul movimento fulmineo verso l'alto che mirava allo stomaco di Duraid. Con un gemito, Duraid si piegò; allora l'aggressore liberò la lama e lo colpì ancora. Ma questa volta Duraid lasciò cadere la lampada e gli afferrò il braccio. Wilbur Smith
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La fiamma della lampada era fioca. I due uomini lottavano nel buio, eppure Royan vedeva la chiazza scura che si allargava sulla camicia bianca del marito. «Scappa!» le gridò lui. «Vai! Cerca aiuto! Non riesco a bloccarlo...» Il Duraid che Royan conosceva era un erudito mite e gentile: l'assalitore era molto più forte, non c'erano dubbi. «Va', ti prego! Salvati, mio fiore...» La voce s'indeboliva, anche se Duraid teneva ancora serrato il braccio dell'aggressore. Fino a quel momento lo shock e l'indecisione avevano paralizzato Royan; d'un tratto però la donna parve spezzare l'incantesimo che la immobilizzava e si slanciò verso la porta. Spronata dal terrore e dalla necessità di chiedere aiuto per Duraid, attraversò la terrazza con la sveltezza di un gatto, mentre il marito continuava a lottare con l'intruso. Scavalcò il muretto di pietra, corse fra le palme, e per poco non finì fra le braccia del secondo uomo. Le dita protese di quest'ultimo le sfiorarono il viso: sulle prime, Royan riuscì a divincolarsi, poi però l'uomo trovò il cotone sottile della camicetta e vi si aggrappò. Royan lanciò un grido quando scorse un lungo lampo argenteo alla luce delle stelle: un coltello. Quella vista la spronò a raddoppiare gli sforzi. Il cotone si strappò, e fu libera, ma non abbastanza pronta da sfuggire alla lama. Sentì la trafittura al braccio, e sferrò un calcio con tutta la forza del panico e della sua giovanile energia. Avvertì poi l'urto del piede, e l'impatto le intorpidì il ginocchio e la caviglia. L'aggressore gridò e cadde. Fuggì attraverso il palmeto. All'inizio corse senza una meta o una direzione, corse semplicemente per arrivare lontano il più possibile. Poi, a poco a poco, riuscì a dominare il panico. Si guardò alle spalle, ma nessuno la seguiva. Quando raggiunse la riva del lago rallentò per risparmiare energia e si accorse del rivolo caldo di sangue che le scorreva sul braccio e sgocciolava dalle punte delle dita. Si fermò, appoggiandosi con la schiena al tronco ruvido di una palma; strappò una striscia di cotone dalla camicetta lacerata e si fasciò il braccio. Tremava tanto per lo shock e lo sforzo che anche la mano indenne si muoveva incerta. Annodò con i denti e la mano sinistra la rozza benda, e l'emorragia rallentò. Non sapeva da che parte dirigersi; poi scorse la luce fioca della lampada alla finestra della casupola di Alia, al di là del più vicino canale d'irrigazione. Si allontanò dalla palma e si avviò da quella parte. Dopo Wilbur Smith
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meno di cento passi, sentì una voce chiamare dal palmeto. Parlava arabo: «Yusuf, la donna è venuta verso di te?» Subito una torcia elettrica si accese nell'oscurità, più avanti, e un'altra voce rispose: «No, non l'ho vista». Ancora pochi secondi e Royan gli sarebbe finita addosso. Si accovacciò e si guardò intorno disperatamente. C'era un'altra torcia elettrica che stava attraversando il palmeto, seguendo il suo stesso percorso. Probabilmente era l'uomo che aveva colpito con il calcio, ma dal movimento del fascio luminoso si capiva che si era ripreso e camminava senza difficoltà. Era bloccata da due lati. Si voltò verso la riva del lago. Là c'era la strada, e forse avrebbe trovato un veicolo. Perse l'equilibrio sul terreno accidentato e cadde graffiandosi le ginocchia, tuttavia si rialzò prontamente e proseguì. Quando inciampò per la seconda volta, la mano sinistra toccò un masso levigato grosso come un'arancia. Royan lo afferrò, decisa a usarlo a mo' di arma. Sebbene il braccio avesse ricominciato a dolere, la preoccupazione per Duraid la spronava. Sapeva che era ferito gravemente perché aveva visto la forza e la direzione dell'affondo del coltello. Doveva trovare aiuto. Dietro di lei i due uomini con le torce battevano il palmeto, e Royan non riusciva a conservare il vantaggio. Guadagnavano terreno, e lei sentiva che si chiamavano l'uno con l'altro. Finalmente raggiunse la strada. Con un lieve gemito di sollievo uscì dal fosso e salì sulla superficie di ghiaia chiara. Si accorse che le gambe tremavano tanto che stentavano a reggerla, ma si avviò in direzione del villaggio. Non era ancora arrivata alla prima curva quando vide due fari che venivano lentamente verso di lei, lampeggiando tra le palme. Si mise a correre in mezzo alla strada. «Aiuto!» urlò in arabo. «Vi prego, aiutatemi!» La macchina superò la curva e, prima che i fari l'abbagliassero, Royan vide che si trattava di una piccola Fiat scura. La donna si fermò al centro della carreggiata, agitando le braccia nella luce dei fari come se fosse su un palcoscenico. La Fiat le si fermò davanti. Royan corse alla portiera dalla parte del guidatore e premette la maniglia. «Per favore, mi aiuti...» La portiera si aprì dall'interno con tanta violenza da farle perdere l'equilibrio. Il guidatore balzò a terra, afferrò Royan per il braccio ferito e Wilbur Smith
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spalancò la portiera posteriore. «Yusuf! Bacheet!» gridò in direzione del palmeto. «L'ho presa!» Royan sentì le grida di risposta e vide le torce puntare verso di loro. Il guidatore allora le spinse la testa verso il basso, cercando di farla salire in macchina. Fu in quel momento che Royan si ricordò del sasso. Si girò leggermente, si puntellò, poi avventò il pugno contro la testa dell'uomo e lo colpì alla tempia. Senza neppure un lamento, l'uomo stramazzò sulla ghiaia e rimase immobile. Royan lasciò cadere la pietra e corse via, lungo la strada, ma si accorse di essere troppo visibile: infatti si stava muovendo nella luce dei fari. I due uomini nel palmeto gridarono ancora e balzarono sulla strada dietro di lei, quasi a spalla a spalla. Girò la testa per un attimo e vide che stavano guadagnando terreno rapidamente. Si rese conto che l'unica possibilità stava nel lasciare la strada per avventurarsi nel buio. Si voltò, scese la banchina, e si trovò immersa fino alla vita nelle acque del lago. Nell'oscurità e nella confusione aveva finito per disorientarsi. Non aveva capito di aver raggiunto il tratto in cui la strada fiancheggiava la banchina al margine dell'acqua. Risalire sulla strada era ormai impossibile. Però Royan sapeva che davanti a lei c'erano ciuffi folti di papiri e di canne che potevano offrirle un riparo. Avanzò sino a che il fondo non le mancò sotto i piedi e fu costretta a nuotare. Nuotò a rana, goffamente, intralciata dalle gonne lunghe e dal braccio ferito. Tuttavia i suoi movimenti lenti e furtivi non agitavano la superficie e, prima che gli uomini raggiungessero il punto dove aveva disceso la banchina, arrivò a un canneto. Si portò nel punto in cui le canne erano più fitte e si lasciò affondare. Prima che l'acqua le coprisse le narici sentì sotto i piedi il fango molle. Rimase immobile. Solo la parte superiore della testa sporgeva dalla superficie, e la faccia era rivolta nella direzione opposta alla riva. Sapeva che i suoi capelli scuri non avrebbero riflesso la luce di una torcia elettrica. Sebbene l'acqua le coprisse le orecchie, udì le voci eccitate degli uomini sulla strada. Avevano puntato le torce verso l'acqua, nel canneto, per cercarla. Per un momento un fascio di luce le sfiorò la testa, e Royan respirò profondamente per immergersi, ma il raggio si allontanò quasi subito. Non l'avevano individuata. Il fatto che non l'avessero vista neppure nella luce diretta della torcia le Wilbur Smith
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diede il coraggio di alzare leggermente la testa in modo che un orecchio fosse scoperto e le permettesse di captare le voci. Parlavano arabo, e Royan riconobbe la voce di quello che si chiamava Bacheet. Sembrava che fosse il capo, perché dava gli ordini. «Tuffati, Yusuf, e tira fuori quella puttana.» Lei sentì Yusuf che scivolava giù per la banchina. Poi uno scroscio quando finì nell'acqua. «Più avanti», ordinò Bacheet. «In quel canneto laggiù, dove punto la torcia.» «E troppo profondo. Sai che non sono capace di nuotare. Finirò sott'acqua.» «Là! Proprio davanti a te, in mezzo alle canne. Vedo la testa!» lo incoraggiò Bacheet, e Royan temette che l'avessero scoperta. Affondò il più possibile sotto la superficie. Yusuf sguazzava pesantemente, avvicinandosi al nascondiglio di Royan. D'un tratto però esplose un tremendo baccano. «Dio mi protegga!» gridò l'uomo, atterrito, mentre uno stormo di anatre decollava fragorosamente dall'acqua e si avventava nel cielo buio. Yusuf tornò verso la riva. A nulla valsero le minacce e le insistenze di Bacheet: l'uomo si rifiutò di continuare la caccia. «La donna è meno importante del papiro», protestò mentre risaliva sulla strada. «Senza quello non vedremo un soldo. Sappiamo dove trovare la donna, più tardi.» Royan girò leggermente la testa e vide le torce spostarsi lungo la strada, in direzione dei fari dell'auto. Sentì sbattere le portiere, poi il motore rombò e la macchina si diresse verso la villa. Era troppo sconvolta e impaurita per abbandonare il nascondiglio. Temeva che uno di quegli uomini fosse rimasto sulla strada ad aspettarla. Restò in punta di piedi, con l'acqua che le lambiva le labbra, e continuò a tremare più per lo shock che per il freddo, decisa ad attendere il levar del sole prima di muoversi. Solo più tardi, quando vide il chiarore del fuoco illuminare il cielo e le fiamme guizzare fra i tronchi delle palme, dimenticò la prudenza e si trascinò a riva. S'inginocchiò nel fango, rabbrividendo e ansimando per la debolezza dovuta al sangue perduto e alla reazione alla paura, e scrutò le fiamme attraverso il velo dei capelli bagnati e dell'acqua che le scorreva negli Wilbur Smith
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occhi. «La villa!» mormorò. «Duraid! Oh, Dio, ti prego! No! No!» Si alzò con uno sforzo immane e si avviò barcollando verso la sua casa che bruciava. Bacheet spense i fari e il motore dell'auto prima di arrivare alla svolta che portava al viale della villa e lasciò che la macchina scendesse in silenzio e si fermasse sotto la terrazza. I tre scesero dalla Fiat e salirono i gradini di pietra. Duraid giaceva ancora dove l'aveva lasciato Bacheet, vicino alla vasca dei pesci. Gli passarono accanto senza degnarlo di un'occhiata ed entrarono nello studio buio. Bacheet mise sul tavolo il borsone di nylon e l'aprì. «Abbiamo già sprecato troppo tempo. Adesso dobbiamo sbrigarci.» «La colpa è di Yusuf», protestò il guidatore della Fiat. «Ha lasciato scappare la donna.» «Tu potevi bloccarla sulla strada», ringhiò Yusuf. «E non hai saputo fare di meglio.» «Basta!» ordinò Bacheet. «Se volete essere pagati, non fate altri sbagli.» Puntò il raggio della torcia sul papiro che era rimasto sul tavolo. «Eccolo qui.» Ne era certo perché gli avevano mostrato una fotografia in modo che non vi fossero errori. «Vogliono tutto, le mappe e le foto. E anche i libri e le carte, tutto quel che c'è sul tavolo e che loro usavano per lavorare. Non dimenticate niente.» Caricarono tutto nel borsone e Bacheet chiuse la lampo. «Adesso il daotari. Portatelo qui.» Gli altri due uscirono sulla terrazza e si chinarono sul corpo, lo afferrarono per le caviglie e lo trascinarono nello studio. La schiena di Duraid batté sui gradini di pietra della soglia e il sangue lasciò una lunga scia rossa sulle piastrelle. «Prendete la lampada!» ordinò Bacheet. Yusuf tornò sulla terrazza e raccattò la lampada a petrolio che Duraid aveva lasciato cadere. La fiamma s'era spenta. Bacheet accostò la lampada all'orecchio e la scosse. «Piena», disse in tono soddisfatto, e svitò il tappo. «Bene», ordinò agli altri due. «Portate in macchina la borsa.» Mentre si affrettavano a uscire, Bacheet spruzzò di petrolio la camicia e i pantaloni di Duraid, poi andò agli scaffali e versò il resto del combustibile Wilbur Smith
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sui libri e sui manoscritti. Lasciò cadere la lampada vuota e si frugò nel dishdasha per prendere una scatola di fiammiferi, ne accese uno e lo accostò alla chiazza di petrolio sulla libreria. Il fuoco si appiccò immediatamente, e le fiamme salirono, arricciando le pagine dei manoscritti. Allora Bacheet si voltò, tornò verso Duraid, accese un altro fiammifero e lo lasciò cadere sulla camicia intrisa di sangue e di petrolio. Un manto di fiamme azzurre avvolse il petto di Duraid, cambiò colore quando cominciò a intaccare la stoffa di cotone e la carne, per diventare infine arancio mentre un fumo scuro s'innalzava lentamente. Bacheet corse alla porta, attraversò la terrazza e scese i gradini. Quando salì sul sedile posteriore della Fiat, il guidatore aumentò al massimo i giri del motore e sfrecciò via lungo il viale. Il dolore fece rinvenire Duraid. Doveva essere molto intenso per richiamarlo dal luogo tenebroso al limitare della vita in cui era sprofondato. Gemette. La prima cosa che sentì quando riprese i sensi fu l'odore della sua carne che bruciava. Poi la sofferenza lo investì. Un tremito violento lo scosse. Aprì gli occhi e si guardò. La camicia si carbonizzava e fumava, e il dolore era il più intenso che avesse provato in vita sua. Si rese conto vagamente che la stanza era avvolta dalle fiamme. Il fumo e le ondate di calore lo investivano, e riusciva appena a distinguere i contorni della porta. Il dolore era così terribile che Duraid si augurava che finisse. Avrebbe voluto morire per non doverlo più sopportare. Poi pensò a Royan, tentò di pronunciare il suo nome con le labbra ustionate e annerite, ma non ci riuscì. Fu il pensiero della moglie a dargli la forza di muoversi. Rotolò su se stesso e il calore gli assalì la schiena, rimasta al riparo fino a quel momento. L'uomo gemette e, con grande fatica, strisciò un po' più vicino all'uscita. Ogni movimento gli costava uno sforzo terribile e provocava nuove sofferenze lancinanti, ma, quando Duraid si rotolò ancora una volta sul dorso, si rese conto che una corrente di aria pura veniva risucchiata attraverso il vano della porta e alimentava le fiamme. L'aria dolce del deserto gli diede la forza sufficiente per rotolarsi giù dai gradini e finire sulle pietre fresche della terrazza. Wilbur Smith
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Gli abiti e il corpo erano ancora in fiamme. L'uomo si batté debolmente le mani sul petto per cercare di spegnerle, ma anche le mani erano annerite e deformate. Allora ricordò la vasca dei pesci. Il pensiero d'immergere il suo corpo torturato in quell'acqua fredda lo spronò a compiere un ultimo sforzo. Strisciò sulle pietre come un serpente dalla spina dorsale fracassata. Il fumo pungente che saliva dalla sua carne carbonizzata lo soffocava strappandogli dolorosi accessi di tosse. Eppure Duraid proseguì, ostinato. Lasciò sulla pietra brandelli di pelle ustionata mentre si rotolava e piombava nella vasca. Vi fu un sibilo di vapore e una piccola nube gli oscurò la vista, tanto che per un momento credette di essere diventato cieco. Il tormento dell'acqua fredda sulla carne bruciata fu così intenso da farlo ripiombare nell'incoscienza. Quando riprese i sensi, alzò la mano sgocciolante e scorse una figura che saliva barcollando la scala in fondo alla terrazza. Proveniva dal giardino. Per un momento pensò che fosse un fantasma creato dalla sofferenza, ma quando la luce dell'incendio la investì in pieno riconobbe Royan. I capelli bagnati le cadevano in disordine sul viso, grondavano d'acqua del lago ed erano chiazzati di fango e di alghe verdi. Il braccio destro era avvolto in stracci che lasciavano filtrare il sangue, tanto diluito dall'acqua sporca al punto da apparire rosa. Non lo vide. Si fermò al centro della terrazza e fissò inorridita la stanza che bruciava. Duraid era ancora lì dentro? Si mosse, ma il calore era come una muraglia solida che le impediva di avanzare. In quel momento il tetto crollò, innalzando verso il cielo notturno una colonna rombante di scintille e di fiamme. Royan indietreggiò, riparandosi il viso con un braccio. Duraid tentò di chiamarla, ma neppure un suono uscì dalla gola riarsa dal fumo. La donna si voltò e prese a ridiscendere la scala. Duraid comprese che stava per andare in cerca di aiuto: fece uno sforzo supremo e un crocidio gli sfuggì dalle labbra ustionate. Royan si girò di scatto, lo fissò e urlò. La testa di Duraid non aveva più nulla di umano. I capelli erano completamente bruciati, e la pelle ciondolava a brandelli dalle guance e dal mento: attraverso la maschera annerita e incrostata si scorgevano alcune chiazze di carne rossastra. La donna indietreggiò come se avesse di fronte un mostro orrendo. «Royan», gracchiò Duraid. La voce era a stento riconoscibile. L'uomo sollevò una mano verso la moglie in un gesto supplichevole e lei, senza Wilbur Smith
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indugiare, corse alla vasca e la strinse. «In nome della Vergine, che ti hanno fatto?» singhiozzò. Quando poi cercò di tirarlo fuori dall'acqua, la pelle della mano di Duraid le rimase fra le dita come un orribile guanto chirurgico, lasciando nuda la carne viva. Royan si lasciò cadere in ginocchio e si tese sopra la vasca per prenderlo fra le braccia. Sapeva di non avere la forza di sollevarlo senza causargli altre lesioni orrende. La sola cosa che poteva fare era tenerlo abbracciato e cercare di confortarlo. Era consapevole che suo marito stava per morire: nessuno poteva sopravvivere in simili condizioni. «Presto verranno ad aiutarci», gli sussurrò in arabo. «Qualcuno vedrà le fiamme. Fatti coraggio, marito mio, presto verrà qualcuno.» Duraid si torceva convulsamente fra le sue braccia, torturato dalle lesioni mortali e straziato dallo sforzo di parlare. «Il papiro?» La voce era appena intelligibile. Royan guardò il rogo che avviluppava la loro casa e scosse la testa. «È sparito», disse. «Bruciato o rubato.» «Non arrenderti», mormorò Duraid. «Tutto il nostro lavoro...» «È sparito», ripeté Royan. «Nessuno ci crederà se non avremo...» «No.» La voce era fievole ma decisa. «Fallo per me. È il mio ultimo...» «Non parlare così», lo supplicò lei. «Guarirai.» «Prometti!» disse Duraid. «Promettilo!» «Non abbiamo un finanziatore. Sono sola. Da sola non posso farcela.» «Harper», sussurrò l'uomo. Royan si accostò ancora di più, fino a sfiorare con l'orecchio le labbra devastate dal fuoco. «Harper», ripeté lui. «Un uomo forte... duro... intelligente...» La donna comprese. Harper... Ma certo: era il quarto nome nell'elenco dei finanziatori che Duraid aveva compilato. Sebbene fosse l'ultimo, Royan sapeva che, per suo marito, l'ordine delle precedenze era rovesciato. Nicholas Quenton-Harper era in realtà la sua prima scelta. Aveva parlato spesso di quell'uomo con rispetto e calore, a volte addirittura con reverenza. «Ma che cosa devo dirgli? Non mi conosce. Come farò a convincerlo? Il settimo papiro è sparito...» «Fidati di lui», bisbigliò Duraid. «È un brav'uomo. Fidati di lui.» C'era un'invocazione disperata nella sua voce. «Promettilo!» Allora Royan si ricordò del quaderno nell'appartamento alla periferia del Cairo e del materiale su Taita nei dischetti del suo computer. Non tutto era scomparso. «Sì, prometto. Te lo prometto, marito mio.» Wilbur Smith
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Anche se il viso mutilato non poteva più rivelare un'espressione umana, nella voce c'era un'eco di soddisfazione quando mormorò: «Mio fiore...» Poi reclinò la testa in avanti e le morì fra le braccia. I contadini del villaggio trovarono Royan ancora inginocchiata accanto alla vasca. Lo stringeva, gli parlava sottovoce. Ormai le fiamme si stavano placando e la luce fioca dell'alba era più forte del loro chiarore. Tutti i dirigenti del museo e del Dipartimento Antichità Egizie parteciparono al servizio funebre nella chiesa dell'oasi. Anche il ministro della Cultura e del Turismo, Atalan Abou Sin, il superiore di Duraid, era arrivato dal Cairo a bordo della sua Mercedes nera. Atalan Abou Sin rimase in piedi dietro a Royan e, sebbene fosse musulmano, si unì agli altri nel mormorare le risposte delle preghiere. Nahoot Guddabi era accanto allo zio: sua madre era la sorella minore del ministro, e una volta Duraid aveva commentato con sarcasmo che questo compensava abbondantemente la mancanza di qualifiche e di esperienza del nipote nel campo dell'archeologia, nonché la sua inettitudine come amministratore. Era una giornata calda. Fuori c'erano più di trenta gradi, e persino nell'interno della chiesa copta l'atmosfera era opprimente. Tra le nuvole d'incenso e il salmodiare monotono del prete nerovestito che intonava le parole antiche del rito, Royan si sentiva soffocare. I punti al braccio destro stringevano e bruciavano, e ogni volta che guardava la bara nera davanti all'altare dorato la visione spaventosa della testa calva e ustionata di Duraid le appariva davanti agli occhi; allora vacillava, aggrappandosi al banco per non cadere. Poi la cerimonia finì, e Royan trovò un po' di sollievo all'aria aperta. Ma i suoi doveri non erano terminati. Era la vedova e doveva prendere posto dietro il feretro mentre la processione si avviava verso il cimitero fra le palme, dove i nonni e i genitori di Duraid lo attendevano nel mausoleo di famiglia. Prima di tornare al Cairo, Atalan Abou Sin si premurò di rivolgerle qualche parola di condoglianze. «È davvero terribile, Royan. Ho parlato personalmente al ministro degli Interni. Troveranno i mostri responsabili di questo delitto, mi creda. Si prenda pure un lungo periodo di riposo prima di tornare al museo», disse. «Tornerò in ufficio lunedì», rispose Royan. Il ministro prese un taccuino Wilbur Smith
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dalla tasca interna dell'abito scuro, lo consultò e fece un'annotazione prima di guardarla di nuovo. «Allora venga a trovarmi nel pomeriggio al ministero. Alle quattro», concluse. Poi raggiunse la Mercedes, mentre Nahoot Guddabi si avvicinava per salutare Royan. Sebbene avesse la carnagione giallastra e borse color caffè sotto gli occhi, era un uomo elegante, alto, con i capelli folti e ondulati e i denti candidi. Indossava un abito impeccabile ed era circondato da un sentore di colonia di lusso. Aveva un'espressione solenne e triste. «Era un brav'uomo, e avevo la massima stima per lui», mormorò a Royan, che annuì senza rispondere a quella menzogna sfacciata. C'era stata pochissima simpatia fra Duraid e il suo vice: Duraid non aveva mai permesso a Nahoot di lavorare sui rotoli di Taita, e soprattutto non gli aveva mai dato accesso al settimo papiro, e questo aveva acceso fra loro un accanito antagonismo. «Spero che chiederà la promozione a direttore, Royan», le disse. «Ha tutte le carte in regola per diventarlo.» «Grazie, Nahoot, è molto gentile. Finora non ho avuto la possibilità di pensare al futuro. Ma non presenterà domanda anche lei?» «Naturalmente.» Nahoot annuì. «Tuttavia ciò non significa che nessun altro debba farlo. Forse mi soffierà l'incarico.» Sorrise con aria compiaciuta e sicura. Royan era una donna in un mondo arabo, e lui era il nipote del ministro. Sapeva di essere favorito. «Amici in competizione?» le chiese. Royan sorrise mestamente. «Amici, almeno. In futuro, avrò bisogno di tutti quelli che potrò trovare.» «Sa di averne molti. Nel dipartimento tutti le sono affezionati.» Questo, almeno, era vero. Nahoot continuò con disinvoltura: «Posso offrirle un passaggio fino al Cairo? Sono sicuro che mio zio non obietterà». «La ringrazio; ma ho la mia macchina, e stanotte devo fermarmi nell'oasi per sbrigare certi affari lasciati in sospeso da Duraid.» In realtà, Royan contava di tornare quella sera stessa all'appartamento di Giza; tuttavia, per ragioni di cui non era molto sicura lei stessa, voleva che Nahoot rimanesse all'oscuro delle sue intenzioni. «Allora ci vediamo lunedì al museo.» Royan lasciò l'oasi appena riuscì a sottrarsi ai parenti, agli amici di famiglia e ai contadini, molti dei quali avevano a lungo lavorato per la Wilbur Smith
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famiglia di Duraid. Si sentiva stordita e isolata: le condoglianze e le parole di consolazione le sembravano del tutto prive di significato. Nonostante l'ora tarda, la strada che attraversava il deserto era trafficata: file e file di veicoli viaggiavano in entrambe le direzioni. Royan sfilò il braccio ferito dalla benda che lo sosteneva perché non la impacciasse mentre guidava e procedette ad andatura sostenuta. Erano le cinque del pomeriggio passate quando scorse la linea verde sullo sfondo scabro del deserto: l'inizio della stretta fascia di terra irrigata e coltivata lungo il Nilo, la grande arteria dell'Egitto. Come sempre il traffico diventò più intenso nei pressi della capitale: era ormai quasi buio quando arrivò a Giza, nell'appartamento affacciato sul fiume e sui grandi monumenti di pietra, che spiccavano in tutta la loro maestosità contro il cielo serotino. Quei monumenti rappresentavano per Royan il cuore e la storia della sua terra. Lasciò la vecchia Renault verde di Duraid nel garage sotterraneo del palazzo e salì con l'ascensore all'ultimo piano. Entrò nell'appartamento e rimase immobile sulla soglia. Qualcuno aveva messo a soqquadro il salotto; persino i tappeti erano stati spostati, e i quadri giacevano a terra. Stordita, avanzò fra i mobili sfasciati e i ninnoli rotti. Mentre procedeva nel corridoio, guardò nella camera da letto e vide che anche lì la situazione non era diversa. I suoi capi di vestiario e quelli di Duraid erano sparpagliati sul pavimento e le ante degli armadi erano socchiuse; una era stata divelta dai cardini. Il letto era rovesciato e le lenzuola e i cuscini erano stati gettati tutto intorno. Sentì l'odore che proveniva dalle boccette di profumo e dai barattoli di cosmetici frantumati nel bagno, ma non ebbe il coraggio di entrare. Sapeva già che cosa avrebbe trovato. Proseguì nel corridoio fino alla grande stanza che serviva da studio e da laboratorio. Nel caos, la prima cosa che notò, con una fitta di rammarico, fu lo scempio compiuto dai vandali ai danni dell'antica scacchiera che Duraid le aveva regalato in occasione delle nozze. La scacchiera di caselle di giaietto e di avorio era spaccata a metà e i pezzi erano stati scagliati in giro con violenza tanto rabbiosa quanto inutile. Si chinò e raccolse la regina bianca. La testa era spezzata. Tenne la regina nella mano sana e, muovendosi come una sonnambula, raggiunse la sua scrivania accanto alla finestra. Il computer era fracassato. Avevano sfondato il monitor e fatto a pezzi la tastiera: probabilmente Wilbur Smith
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avevano usato un'accetta. Le bastò un'occhiata per capire che nel disco fisso non era rimasta alcuna informazione. Era irreparabile. Guardò il cassetto dove teneva i dischetti. Come tutti gli altri, era stato tolto e buttato sul pavimento. E tutti erano vuoti, naturalmente: oltre ai floppy erano spariti i quaderni e le fotografie. Gli ultimi legami con il settimo papiro erano scomparsi. Dopo tre anni di lavoro, era sparita persino la prova della sua esistenza. Royan si accasciò sul pavimento. Si sentiva sconfitta ed esausta. Il braccio ricominciava a farle male, era sola e vulnerabile come non era mai stata in vita sua. Non aveva mai pensato che avrebbe sentito così disperatamente la mancanza di Duraid. Le spalle cominciarono a tremarle, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Cercò di dominarle, ma le bruciavano le palpebre. Le lasciò scorrere. Rimase seduta in mezzo alle macerie della sua vita e pianse fino a quando non si sentì completamente svuotata. Poi si raggomitolò sulla moquette e sprofondò in un sonno di spossatezza e di disperazione. Il lunedì mattina era riuscita a ristabilire un minimo d'ordine nella sua vita. I poliziotti erano venuti nell'appartamento a raccogliere la denuncia, e lei aveva rimediato a gran parte del disordine. Aveva persino incollato la testa alla regina bianca. Quando uscì dall'appartamento e salì sulla Renault verde il braccio le faceva meno male. Si sentì più ottimista, sicura di ciò che doveva fare. Arrivò al museo; per prima cosa andò nell'ufficio di Duraid e s'irritò nel vedere che Nahoot era già lì e stava impartendo ordini a due guardie della sicurezza per portar via gli effetti personali del morto. «Poteva essere così gentile da lasciar fare a me», esordì Royan in tono freddo. Nahoot le rivolse il suo sorriso più accattivante. «Mi scusi... Volevo rendermi utile...» Fumava una grossa sigaretta turca, e Royan detestava quell'odore pesante, muschiato. Andò alla scrivania di Duraid e aprì il cassetto in alto a destra. «Qui c'era l'agenda di mio marito, e adesso non c'è più. L'ha vista?» «No, nel cassetto non c'era niente.» Nahoot guardò i due agenti per avere conferma e quelli scossero la testa. Non aveva molta importanza, pensò Royan: l'agenda non conteneva alcunché d'interessante. Duraid aveva sempre contato su di lei perché registrasse e immagazzinasse i dati di rilievo, e quasi tutti erano nel suo computer. Wilbur Smith
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«Grazie, Nahoot», disse. «Farò quel che resta da fare. Non voglio trattenerla.» «Se ha bisogno d'aiuto, Royan, me lo faccia sapere.» Nahoot accennò un inchino e uscì. La donna non impiegò molto tempo per ultimare il lavoro nell'ufficio di Duraid. Chiese alle guardie di portare le scatole nel suo ufficio e di accatastarle contro il muro. Lavorò anche durante l'ora di pranzo per sistemare tutto; quando ebbe finito, le restava un'ora prima dell'appuntamento con Atalan Abou Sin. Se doveva mantenere la promessa fatta a Duraid, sarebbe rimasta assente per diverso tempo, e quindi voleva congedarsi dai suoi tesori prediletti. Quindi si diresse verso quella zona dell'enorme costruzione che era accessibile al pubblico. Martedì era una giornata di gran folla, e le sale del museo erano piene di gruppi di turisti che seguivano le guide come le pecore seguono il pastore. S'intruppavano intorno ai reperti più famosi e ascoltavano le guide che recitavano in tutte le lingue le spiegazioni imparate a memoria. Royan passò in mezzo a quel mare di braccia e di volti bruciati dal sole. Uomini e donne sfoggiavano gli stili, i colori e le sgraziate Reebook caratteristici dei turisti di tutto il mondo. Le sale del piano che ospitava i tesori di Tutankhamon erano così affollate che Royan vi trascorse pochissimo tempo. Riuscì a raggiungere la vetrina che conteneva la maschera aurea del faraone adolescente e, come sempre, lo splendore e la carica romantica di quell'oggetto le fecero battere più forte il cuore. Eppure, mentre gli stava davanti, stretta fra due turiste grasse e sudate, per l'ennesima volta si chiese: se un re debole e insignificante è stato sepolto con una maschera così straordinaria sul volto mummificato, con quale fasto devono essere stati deposti nei loro templi funerari i grandi ramessidi? Ramesse II, il più grande di tutti, aveva regnato sessant'anni, accumulando tesori funerari provenienti da tutti gli immensi territori conquistati. Royan andò a rendere omaggio al vecchio re. Dopo trenta secoli Ramesse II dormiva con un'espressione rapita e serena sul viso scarno. La pelle aveva una lieve lucentezza marmorea, le ciocche rade dei capelli erano bionde, tinte con l'henné, e le mani, colorate con la stessa sostanza, erano lunghe, sottili ed eleganti. Tuttavia era coperto solo da uno straccio Wilbur Smith
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di lino. I saccheggiatori di tombe avevano tolto le bende della mummia per impadronirsi degli amuleti e degli scarabei, e il corpo era seminudo. Quando era stato scoperto, nel 1881, nella cachette delle mummie reali nella grotta di Deir el-Bahari, soltanto un pezzo di papiro fissato al petto proclamava la sua identità. Royan pensava che in tutto questo ci fosse una morale: però, mentre stava di fronte a quei miseri resti, si chiese ancora una volta, come aveva fatto tanto spesso Duraid, se lo scriba Taita aveva detto la verità e se quindi, fra le montagne remote dell'Africa selvaggia, un altro grande faraone dormiva indisturbato, circondato dai suoi tesori intatti. Il pensiero le dava brividi di eccitazione e le faceva accapponare la pelle. «Ti ho fatto una promessa, marito mio», mormorò in arabo. «Lo farò per te, perché sei stato tu ad aprire la strada.» Diede un'occhiata all'orologio mentre scendeva la scalinata principale. Le restavano quindici minuti prima dell'appuntamento con il ministro, e sapeva esattamente come avrebbe passato quel tempo. Ciò che intendeva rivedere si trovava in una delle sale laterali meno frequentate. Di rado le guide conducevano lì i turisti, se non per raggiungere più rapidamente la statua di Amenofi. Royan si fermò davanti alla vetrina che andava dal pavimento al soffitto: era piena di piccoli oggetti, utensili e armi e amuleti e vasi e strumenti: i più recenti risalivano alla xx dinastia del Regno Nuovo, e cioè al 1100 avanti Cristo, mentre i più vecchi appartenevano al periodo nebuloso del Regno Antico, intorno al 3000 prima di Cristo. La catalogazione del materiale era approssimativa, e molti dei reperti non erano mai stati descritti. In fondo, sul ripiano più basso, c'erano in mostra gioielli, anelli e sigilli. Accanto a ogni sigillo stava la rispettiva impressione in cera. Royan s'inginocchiò per esaminare uno dei manufatti. Il piccolo sigillo blu di lapislazzuli, al centro, era inciso splendidamente. Il lapislazzuli era per gli antichi una pietra rara e preziosa perché non si trovava nell'impero egizio. L'impronta nella cera raffigurava un falco con un'ala spezzata, e la legenda era chiara: TAITA - SCRIBA DELLA GRANDE REGINA. Sapeva che era lo stesso uomo perché aveva usato il falco ferito come autografo nei rotoli, e Royan si chiedeva chi aveva trovato quel piccolo oggetto e dove fosse stato rinvenuto. Magari qualche contadino l'aveva rubato nella tomba perduta del vecchio schiavo e scriba: ma lei non Wilbur Smith
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l'avrebbe mai accertato. «Mi stai prendendo in giro, Taita? È una frode complicata? In questo momento ridi di me nella tua tomba, dovunque essa sia?» Royan si chinò fino a toccare il vetro con la fronte. «Mi sei amico, Taita, oppure sei il mio avversario implacabile?» Si rialzò e si sistemò la gonna. «Vedremo. Starò al tuo gioco, e vedremo chi dei due sarà più astuto», promise. Il ministro la fece aspettare pochi minuti. Poi il segretario l'accompagnò nello studio. Atalan Abou Sin portava un abito di lucida seta scura ed era seduto alla scrivania, sebbene Royan sapesse che preferiva una veste più comoda e un cuscino posato sui tappeti. Il ministro notò la sua occhiata e sorrise con l'aria di scusarsi. «Ho un incontro con certi americani, questo pomeriggio...» Royan gli era affezionata. Era sempre stato gentile con lei e le aveva fatto ottenere il posto nel museo. Molti uomini nella sua posizione avrebbero opposto un rifiuto alla richiesta di Duraid di avere come assistente una donna, la moglie, per di più. S'informò della sua salute e Royan indicò il braccio fasciato. «Mi toglieranno i punti fra dieci giorni.» Per un po' conversarono educatamente. Solo gli occidentali erano tanto maldestri da venire subito «al sodo». Comunque, per non mettere in imbarazzo il ministro, Royan approfittò della prima occasione per spiegargli le sue intenzioni. «Ho bisogno di restare sola per un po', di riprendermi dalla perdita di mio marito e di decidere che cosa fare, ora che sono vedova. Le sarei grata se prendesse in considerazione la mia richiesta di sei mesi di congedo non retribuito. Voglio andare da mia madre, in Inghilterra.» Atalan si dimostrò premuroso. «La prego, non ci lasci per troppo tempo. Il suo lavoro è stato prezioso. Abbiamo bisogno di lei perché ci aiuti a continuare l'opera di Duraid.» Tuttavia non riuscì a nascondere del tutto il sollievo. Royan sapeva che si era aspettato di vederla presentare la domanda per ottenere la direzione. Di certo il ministro ne aveva discusso con il nipote, però era troppo gentile per trovare soddisfazione nel dirle che l'incarico non le sarebbe stato assegnato. La realtà dell'Egitto stava cambiando, molte donne occupavano posizioni diverse da quelle tradizionali, ma in misura limitata e comunque piuttosto lentamente. Sia Atalan sia Royan sapevano che la direzione doveva essere affidata a Nahoot Guddabi. Wilbur Smith
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Il ministro l'accompagnò alla porta dell'ufficio e le strinse la mano. Quando entrò nell'ascensore, Royan provò un senso di liberazione. Aveva lasciato la Renault al sole nel parcheggio del ministero. Aprì la portiera: all'interno il calore era così intenso che avrebbe potuto cuocervi il pane. Aprì tutti i finestrini e smosse la portiera per scacciare l'aria surriscaldata, ma il sedile le scottò le cosce quando si mise al volante. Appena uscì dal cancello fu inghiottita dal traffico del Cairo. Si accodò a un autobus sovraccarico che eruttava di continuo nubi di fumo bluastro contro la Renault. Il problema del traffico sembrava non avere soluzione. Lo spazio per parcheggiare era così scarso che i veicoli erano fermi sul bordo della strada in triplice o quadruplice fila, e riducevano a un rigagnolo il flusso al centro. Quando l'autobus che la precedeva frenò, costringendola a fermarsi, Royan sorrise al ricordo di un vecchio aneddoto: si diceva che certi automobilisti, dopo aver parcheggiato accanto al marciapiede, erano stati costretti ad abbandonare le loro macchine perché impossibilitati a districarle dal caos. Forse c'era un pizzico di verità nella storiella, perché qualcuna delle auto che vedeva non si era palesemente mossa da settimane. I parabrezza erano coperti di polvere e molte gomme erano sgonfie. Diede un'occhiata allo specchietto retrovisore. C'era un taxi bloccato a pochi centimetri dal suo paraurti posteriore e, dietro a quello, il traffico era fermo. Solo i motociclisti avevano libertà di movimento. Mentre Royan continuava a guardare nello specchietto, ne vide uno che serpeggiava nell'ingorgo con una spericolatezza da suicida. Era in sella a una Honda 200 rossa piuttosto malconcia, e così coperta di polvere che il colore si riconosceva a stento. Sul sellino posteriore c'era un passeggero e sia lui sia il guidatore avevano metà della faccia nascosta dai lembi dei copricapi bianchi per ripararsi dalla polvere e dai gas di scarico. La Honda passò sulla destra, infilandosi nello stretto varco fra il taxi e le macchine parcheggiate. Il taxista fece un gesto osceno con pollice e indice e invocò Allah a testimone del fatto che il motociclista era pazzo e scemo. La Honda rallentò leggermente quando arrivò a fianco della Renault verde. Il passeggero si sporse, gettò qualcosa attraverso il finestrino aperto e lo lasciò cadere sul sedile accanto a quello di Royan. Poi l'uomo alla guida della moto accelerò così bruscamente che la Honda s'impennò, svoltò e s'infilò in un vicolo, evitando per un soffio d'investire una vecchia. Quando il passeggero si voltò a guardarla, il vento scostò il lembo di Wilbur Smith
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stoffa bianca: allora Royan riconobbe l'uomo che aveva visto per l'ultima volta nella luce dei fari della Fiat, sulla strada che fiancheggiava l'oasi. «Yusuf !» Mentre la Honda spariva, Royan abbassò lo sguardo sull'oggetto che aveva lasciato cadere sul sedile. Aveva la forma di un uovo e la superficie metallica segmentata era dipinta di un verde militare. Aveva visto tanto spesso oggetti come quelli nei vecchi film di guerra alla televisione che la riconobbe immediatamente: era una bomba a mano, e nello stesso istante si accorse che la sicura a spillo era stata tolta e che sarebbe esplosa tra pochi secondi. Senza riflettere, afferrò la maniglia della portiera e spinse con tutto il suo peso. La portiera si spalancò, Royan si lanciò sulla strada, il piede le scivolò sull'acceleratore e la Renault fece un balzo in avanti, andando a sbattere contro la parte posteriore dell'autobus. E mentre Royan finiva lunga distesa sulla strada, sotto le ruote del taxi, la bomba esplose. Dalla portiera aperta uscirono una vampata, una colonna di fumo e una pioggia di frammenti. Il finestrino posteriore andò in pezzi e la tempestò di schegge di vetro, mentre il rombo della detonazione le trafiggeva dolorosamente i timpani. Al fortissimo rumore fece seguito un silenzio rotto solo dal tintinnio dei frammenti di vetro che cadevano. Poi venne un tumulto di urla e di lamenti. Royan si sollevò a sedere e si strinse al petto il braccio ferito: c'era caduta sopra con tutto il suo peso e i punti di sutura le facevano un gran male. La Renault era semidistrutta, ma la borsa a tracolla era stata scagliata fuori della portiera, finendo sulla strada. La donna si rialzò barcollando e si mosse a fatica per raccoglierla. Tutto intorno dilagava la confusione. Qualche passeggero dell'autobus era stato ferito e un frammento aveva colpito una bambina che stava camminando sul marciapiede. La madre urlava e asciugava con la sciarpa il viso insanguinato della figlioletta che si dibatteva e gemeva disperata. Nessuno badava a Royan, però lei sapeva che la polizia sarebbe arrivata entro pochi minuti: era sempre in stato di allerta per reagire prontamente agli attentati dei fondamentalisti. Sapeva che se l'avessero trovata sul posto l'avrebbero bloccata per giorni e giorni per interrogarla. Si mise la borsa in spalla e si avviò con tutta la rapidità consentita dalla gamba ammaccata verso il vicolo dov'era sparita la Honda. In fondo alla strada c'era un bagno pubblico. Si chiuse in un gabinetto, si Wilbur Smith
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appoggiò alla porta e cercò di riprendersi dallo shock. Doveva far ordine nei propri pensieri. Sopraffatta dall'orrore e dalla desolazione dell'uccisione di Duraid, non aveva pensato ai rischi che lei stessa correva. E la consapevolezza del pericolo in cui si trovava era giunta nel modo più feroce. Le vennero in mente le parole che uno dei sicari aveva pronunciato nell'oscurità in riva al lago: «Sappiamo dove trovare la donna, più tardi». L'attentato era fallito per poco, e certamente ce ne sarebbe stato un altro. «Non posso tornare all'appartamento», pensò, «e neppure alla villa, che ormai è distrutta... Senza contare che mi cercherebbero subito laggiù...» Ignorando il fetore che la circondava, Royan restò chiusa nel gabinetto per più di un'ora, valutando i suoi prossimi movimenti. Quando ne uscì, si diresse verso i lavabo malconci. Si pulì la faccia sotto il rubinetto, si pettinò, rinfrescò il trucco, e si rassettò l'abito meglio che poteva. Percorse a piedi qualche isolato; tornò indietro e si guardò alle spalle per essere certa di non essere seguita prima di fermare un taxi. Si fece lasciare nella via dietro la sua banca e fece l'ultimo tratto a piedi. Mancavano pochi minuti alla chiusura quando la fecero entrare nell'ufficio del vice cassiere. Ritirò tutto il denaro che c'era sul suo conto e che ammontava a meno di cinquemila lire egiziane. Non era una gran somma, ma Royan aveva un deposito anche presso la Lloyds Bank di York, nonché la Mastercard. «Avrebbe dovuto preavvertirci, per ritirare qualcosa dal deposito», disse in tono severo il funzionario. Royan si scusò e recitò la parte della bambina smarrita in modo così convincente che quello si rabbonì e le consegnò il pacchetto con il passaporto britannico e i documenti bancari della Lloyds. Duraid aveva molti parenti e amici che sarebbero stati lieti di ospitarla; tuttavia lei preferiva restare nell'ombra, lontana dai luoghi che frequentava abitualmente. Scelse uno degli alberghi a due stelle per turisti lontano dal fiume, dove sperava di passare inosservata in mezzo alle comitive di stranieri. In quel genere di alberghi il ricambio dei clienti era continuo; quasi tutti si fermavano per poche notti prima di proseguire per Luxor e Assuan e visitare i monumenti. Non appena rimase sola nella camera singola telefonò all'ufficio prenotazioni della British Airways. C'era un volo per Heathrow l'indomani mattina alle dieci. Prenotò un biglietto di sola andata in classe economica e Wilbur Smith
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diede il numero della sua Mastercard. Ormai erano le sei passate, ma la differenza oraria fra l'Egitto e la Gran Bretagna significava che avrebbe trovato ancora gli uffici aperti. Controllò il numero nella rubrica: l'università di Leeds, dove aveva completato gli studi. Ebbe risposta al terzo squillo. «Facoltà di Archeologia, ufficio del professor Dixon», disse una voce austera da maestrina inglese. «E lei, signorina Higgins?» «Sì. Con chi parlo?» «Sono Royan. Royan Al Simma... Royan Said.» «Royan! Non la sentivamo da un secolo! Come sta?» Chiacchierarono per un po', ma Royan pensava a quanto sarebbe costata la telefonata. «C'è il professore?» chiese a un certo punto. Il professor Percival Dixon aveva più di settant'anni e avrebbe dovuto andare in pensione da tempo. «Royan, è proprio lei? La mia allieva preferita!» Royan sorrise. Anche alla sua età, Dixon era rimasto un libertino. Tutte le studentesse carine erano le sue preferite. «È una telefonata internazionale, professore. Voglio sapere se la sua offerta è ancora valida.» «Santo cielo, pensavo che avesse detto che non era possibile. Come?» «La situazione è cambiata. Le racconterò tutto quando ci vedremo... se ci vedremo.» «Certo, saremmo felici se venisse a parlare con noi. Quando può partire?» «Sarò in Inghilterra domani.» «Santo cielo, è un po' un'improvvisata. Non so se possiamo organizzare tanto in fretta...» «Sarò ospite di mia madre, che vive nei pressi di York. Mi passi di nuovo la signorina Higgins: le darò il numero del telefono.» Dixon era uno degli uomini più geniali che conosceva, però era capacissimo di scrivere in modo sbagliato un numero telefonico. «La chiamerò fra qualche giorno.» Riattaccò e si sdraiò sul letto. Era esausta e il braccio le faceva male, ma cercò di stendere i suoi piani in modo da includere tutte le eventualità. Due mesi prima il professor Dixon l'aveva invitata a tenere una conferenza sulla scoperta e sullo scavo della tomba della regina Lostris e sul ritrovamento dei papiri. Erano stati quel libro, ovviamente, e soprattutto la nota conclusiva a interessarlo. La pubblicazione aveva Wilbur Smith
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destato grande curiosità. Avevano ricevuto richieste d'informazioni da egittologi professionisti e dilettanti di tutto il mondo, addirittura da Tokyo e Nairobi, e tutti mettevano in discussione l'autenticità del romanzo e la sua base storica. A quel tempo Royan si era opposta all'idea che un autore di narrativa avesse accesso alle trascrizioni, soprattutto perché non erano ancora completate. Pensava che l'operazione avrebbe ridotto un serio argomento di studio e di ricerca al livello di un divertimento popolare, più o meno come aveva fatto Spielberg con la paleontologia in Jurassic Park. Ma, alla fine, si era trovata sola. Persino Duraid si era schierato contro di lei. C'entrava il denaro, ovviamente. Il dipartimento era sempre a corto dei fondi necessari per svolgere le sue attività meno spettacolari. Quando si trattava di un progetto imponente, come quello di spostare i templi di Abu Simbel al di sopra del lago formato dalla diga di Assuan, le nazioni della terra erano pronte a versare decine di milioni di dollari. Le spese operative quotidiane del dipartimento non ottenevano lo stesso appoggio. In ultima analisi, la loro parte di diritti d'autore sul Dio del fiume perché quello era il romanzo - si era dimostrata sufficiente per finanziare quasi un anno di ricerche e di esplorazioni, ma non per questo la posizione di Royan era mutata. L'autore si era concesso troppe libertà con i fatti esposti nei rotoli, e aveva attribuito ai personaggi storici caratteristiche non suffragate da prove. In particolare, pensava Royan, aveva ritratto Taita, l'antico scriba, come un poseur vanaglorioso, e lei se n'era risentita. Certo, se l'autore si era proposto di rendere gli eventi leggibili e gradevoli per un vasto pubblico, in tutta onestà bisognava ammettere che il risultato era ottimo. Tuttavia la preparazione scientifica di Royan si ribellava alla «banalizzazione» di una cosa assolutamente unica e così meravigliosa. Sospirò e scacciò quel pensiero. Il danno era fatto; continuare a rivangarlo serviva soltanto a irritarla. Si dedicò ai problemi più pressanti. Se accettava la proposta da Dixon, allora aveva bisogno delle diapositive che erano tuttora nel suo ufficio al museo. E, mentre stava ancora cercando il sistema migliore per entrarne in possesso senza andare a prenderle personalmente, lo sfinimento la vinse. Si addormentò sul letto, completamente vestita. Alla fine la soluzione del problema risultò semplicissima. Telefonò Wilbur Smith
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all'amministrazione e chiese che la scatola con le diapositive le venisse recapitata all'aeroporto per mezzo di un segretario. E così avvenne. Tuttavia, nel consegnarle la scatola al banco del checkin della British Airways, l'incaricato del museo non poté esimersi dall'informarla di ciò che era accaduto. «Quando abbiamo aperto, questa mattina, quelli della polizia sono venuti al museo», le disse. «Volevano parlare con lei, dottoressa.» Evidentemente avevano accertato a chi era intestata la Renault distrutta. Royan ringraziò il cielo perché aveva il suo passaporto britannico: se avesse cercato di lasciare il Paese con quello egiziano l'avrebbero fermata. Probabilmente la polizia aveva dato disposizione a tutti gli uffici immigrazione. Passò il controllo passaporti senza difficoltà e poi, quando arrivò nella zona partenze, andò all'edicola e studiò i giornali. Tutti i quotidiani locali pubblicavano la notizia dell'attentato contro la sua macchina, e quasi tutti avevano ripreso anche l'assassinio di Duraid, istituendo un legame fra i due avvenimenti. Un giornale alludeva a un coinvolgimento dei fondamentalisti. El Arab portava in prima pagina una grande foto di Royan e Duraid, fatta il mese prima in occasione di un ricevimento organizzato per un gruppo di tour operator francesi. Royan provò una stretta al cuore nel vedere la foto del marito, bello e distinto, con lei che gli teneva il braccio sorridendo. Acquistò tutti i giornali, e li portò a bordo dell'aereo. Durante il volo, passò il tempo scrivendo sul taccuino tutto ciò che Duraid le aveva detto a proposito dell'uomo che ora doveva trovare. Duraid le aveva spiegato che il bisnonno di Nicholas aveva avuto il titolo di baronetto per la sua carriera di ufficiale nel servizio coloniale britannico. Da tre generazioni la famiglia aveva mantenuto stretti legami con l'Africa e soprattutto con le colonie britanniche del nord, l'Egitto, il Sudan, l'Uganda e il Kenya. Secondo Duraid, anche sir Nicholas aveva prestato servizio in Africa e negli Stati del Golfo con l'esercito del suo Paese. Parlava correntemente l'arabo e lo swahili ed era un rispettabile archeologo nonché zoologo dilettante. Come suo padre, suo nonno e il suo bisnonno, aveva fatto numerose spedizioni nel Nord-africa per raccogliere esemplari ed esplorare le regioni più remote. Aveva scritto diversi articoli per varie pubblicazioni scientifiche e aveva persino tenuto alcune conferenze alla Royal Geographical Society. Quando il fratello maggiore era morto senza lasciare figli, sir Nicholas Wilbur Smith
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aveva ereditato il titolo e la tenuta di famiglia a Quenton Park. Aveva rassegnato le dimissioni dall'esercito per dirigere la proprietà, ma soprattutto per occuparsi del museo creato nel 1885 dal bisnonno, il primo baronetto. Il museo ospitava una delle maggiori collezioni private di fauna africana, e altrettanto famosa era la collezione di manufatti dell'Egitto e del Medio Oriente. Dai racconti di Duraid, tuttavia, Royan aveva dedotto che nel carattere di sir Nicholas doveva esserci una vena avventurosa al limite della legalità. Evidentemente non aveva paura di correre grossi rischi pur di arricchire la collezione di Quenton Park. Duraid lo aveva conosciuto diversi anni prima, quando sir Nicholas l'aveva reclutato come agente speciale per una spedizione illecita che aveva lo scopo di «liberare» un certo numero di bronzi punici dalla Libia di Gheddafi. Sir Nicholas ne aveva venduti alcuni per rifarsi delle spese della spedizione, ma i più belli li aveva conservati per la sua collezione privata. In tempi più recenti, c'era stata un'altra spedizione che aveva comportato un attraversamento illegale del confine iracheno per portar via un paio di bassorilievi di pietra sotto il naso di Saddam Hussein. Duraid aveva confidato a Royan che sir Nicholas ne aveva venduto uno per una somma enorme, cinque milioni di dollari, e aveva usato quel denaro per la gestione del museo; ma il secondo bassorilievo, il più bello, era ancora in suo possesso. Le due spedizioni erano avvenute anni prima che Royan conoscesse Duraid e, ascoltando il racconto del marito, lei era rimasta assai impressionata dalla disponibilità di Duraid nei confronti dell'inglese. Sir Nicholas possedeva di certo una notevole capacità di persuasione, giacché, se Duraid e lui fossero stati colti sul fatto, senza dubbio sarebbero entrambi stati giustiziati sommariamente. Come aveva spiegato Duraid, in quelle due occasioni soltanto l'abilità di Nicholas e la rete dei suoi amici e ammiratori sparsi nel Medio Oriente e nel Nord-africa avevano determinato il buon esito delle imprese. «È un po' un diavolo», aveva detto Duraid, scuotendo la testa e tradendo una palese nostalgia per quei momenti così eccitanti. «Ma è utile averlo al fianco quando le cose si mettono al brutto. Abbiamo passato momenti esaltanti, ma, quando ci ripenso, rabbrividisco al pensiero dei rischi che abbiamo corso.» Wilbur Smith
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Royan si era chiesta spesso quali pericoli un collezionista appassionato fosse disposto ad affrontare per esaudire i propri desideri. Sembrava che non ci fosse proporzione tra rischio e ricompensa... Poi sorrise del proprio atteggiamento virtuoso. L'avventura in cui si proponeva di coinvolgere sir Nicholas non era esattamente priva di rischi, e gli avvocati ne avrebbero discusso all'infinito la legalità. Sorrideva ancora quando si addormentò, sopraffatta dalle tensioni degli ultimi giorni. L'hostess la svegliò per raccomandarle di allacciare la cintura: stavano per atterrare all'aeroporto di Heathrow. Dall'aeroporto, Royan telefonò alla madre. «Ciao, mamma, sono io.» «Sì, lo so. Dove sei, tesoro?» Sua madre sembrava imperturbabile come sempre. «A Heathrow. Vengo a stare da te per un po'. Ti va bene?» «Figurati.» Sua madre ridacchiò. «Cambierò le lenzuola al tuo letto. Con che treno arrivi?» «Ho dato un'occhiata all'orario. Ce n'è uno che parte da King's Cross: dovrei essere a York questa sera alle sette.» «Verrò a prenderti alla stazione. Che cos'è successo? Hai litigato con Duraid? È abbastanza vecchio per essere tuo padre. L'avevo detto che non sarebbe durata.» Royan rimase per un attimo in silenzio. Non era il momento giusto per dare spiegazioni. «Ti dirò tutto quando ci vedremo stasera.» Nel buio freddo della sera novembrina, Georgina Lumley aspettava Royan sul marciapiede della stazione. Seduto ai piedi della donna, infagottata nella vecchia giacca Barbour verde, stava Magic, il suo cocker spaniel. I due formavano una coppia inseparabile anche quando non vincevano coppe per le gare di riporto. Agli occhi di Royan rappresentavano un quadretto sereno e piacevole della parte inglese del suo parentado. Georgina le baciò sbrigativamente la guancia. «Non mi sono mai piaciute le smancerie sentimentali», diceva spesso in tono soddisfatto. Prese una delle borse della figlia e la precedette verso il parcheggio e il vecchio Land Rover infangato. Magic fiutò la mano di Royan e scodinzolò. Poi, con fare dignitoso e condiscendente, le permise di accarezzargli la testa; a ogni modo, proprio Wilbur Smith
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come la padrona, non era molto sentimentale. Per un po' viaggiarono in silenzio. Poi Georgina accese una sigaretta e chiese: «Allora, che è successo a Duraid?» Per un momento Royan non riuscì a rispondere: poi la diga cedette e confidò tutto alla madre. C'erano venti minuti di macchina fra la città di York e il piccolo villaggio di Brandsbury, e Royan parlò ininterrottamente. Sua madre si limitava a qualche mormorio d'incoraggiamento e di consolazione; e quando Royan pianse nel raccontare la morte e i funerali di Duraid, Georgina le accarezzò la mano. Era tutto finito quando arrivarono al cottage. Royan s'era sfogata a piangere ed era di nuovo padrona di sé. Mangiarono la cena che Georgina aveva preparato e lasciato nel forno. Royan non riusciva a ricordare quando era stata l'ultima volta che aveva assaggiato il pasticcio di carne e rognone. «E adesso che intendi fare?» chiese Georgina, versando nel suo bicchiere la birra rimasta nella bottiglia. «Per essere sincera, non lo so.» E mentre lo diceva, Royan si chiese malinconicamente perché tante persone usavano quella frase particolare per introdurre una bugia. «Al museo mi hanno dato sei mesi di congedo e il professor Dixon mi ha organizzato una conferenza all'università. Ed è tutto, per il momento.» «Bene», approvò Georgina e si alzò. «Ho messo una borsa d'acqua calda nel tuo letto, e la camera è a tua disposizione per tutto il tempo che vorrai.» Dette da lei, quelle parole corrispondevano a una dichiarazione appassionata di affetto materno. Nei giorni seguenti, Royan riordinò le diapositive e gli appunti per le conferenze. Ogni pomeriggio accompagnava Georgina e Magic a fare lunghe passeggiate in campagna. «Conosci Quenton Park?» chiese alla madre durante una di quelle escursioni. «Abbastanza bene», rispose Georgina con entusiasmo. «Io e Magic ci andiamo quattro o cinque volte a stagione. La selvaggina è di prim'ordine, ci sono i fagiani e le beccacce più belli dello Yorkshire. C'è un percorso che si chiama "The High Larches' ed è famoso: gli uccelli volano così alti da mettere in difficoltà i più abili tiratori d'Inghilterra.» «Conosci il proprietario, sir Nicholas Quenton-Harper?» s'informò Royan. Wilbur Smith
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«Lo vedo qualche volta a caccia. Non lo conosco. Ma è un ottimo tiratore», spiegò Georgina. «Conoscevo il padre prima di sposare papà.» Sorrise in un modo allusivo che sorprese Royan. «Un buon ballerino. Abbiamo ballato qualche giga insieme, e non soltanto sulla pista.» «Mamma, sei scandalosa!» Royan rise. «Oh, lo ero», ammise tranquillamente sua madre. «Ma ormai non mi capitano più molte occasioni.» «Quando andrete di nuovo a Quenton Park, tu e Magic?» «Fra due settimane.» «Vorrei venire con te.» «Certo. Il guardacaccia è sempre in cerca di battitori. Venti sterline e il pranzo più una bottiglia di birra a giornata.» Georgina s'interruppe e squadrò la figlia con aria interrogativa. «Che significa questa storia?» «Ho saputo che nella tenuta c'è un museo privato con una collezione di antichità egizie famose in tutto il mondo. Vorrei dare un'occhiata.» «Non è più aperta al pubblico. Si può visitare solo su invito. Sir Nicholas è un tipo strano, misterioso...» «Non potresti procurarmi un invito?» chiese Royan. Ma Georgina scosse la testa. «Perché non lo chiedi al professor Dixon? Va spesso a caccia a Quenton Park, ed è grande amico di sir Nicholas.» Passarono dieci giorni prima che il professor Dixon fosse pronto. Royan si fece prestare il Land Rover della madre e andò a Leeds. Il professore l'abbracciò calorosamente e la condusse nel suo ufficio per offrirle il tè. Royan provava un senso di nostalgia nel ritrovarsi in quella stanza piena di libri, carte e manufatti antichi. Parlò a Dixon dell'assassinio di Duraid e il professore ne fu sconvolto al punto da indurla a cambiare repentinamente argomento. Si concentrarono sulle diapositive che Royan aveva preparato per la conferenza. Dixon rimase affascinato da ciò che lei gli mostrava. Fu solo poco prima di congedarsi che Royan ebbe l'occasione di affrontare l'argomento del museo di Quenton Park. Dixon non si dimostrò affatto reticente. «Mi sorprende che non l'abbia visitato quando studiava qui. E una collezione sensazionale, incominciata dalla famiglia più di un secolo fa. Ecco, andrò a caccia nella tenuta giovedì prossimo, e parlerò con Nicholas, Wilbur Smith
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anche se quel poveretto al momento non è nelle condizioni migliori. L'anno scorso ha vissuto una spaventosa tragedia personale. Ha perduto la moglie e due figliolette in un incidente d'auto sulla MI.» Scosse la testa. «Molto doloroso. C'era Nicholas, al volante. Penso che si ritenga responsabile.» Dixon accompagnò Royan al Land Rover. «Dunque, ci vediamo il ventitré», disse nel salutarla. «Immagino che saranno presenti almeno cento persone, e chiamerò anche un cronista dello Yorkshire Post. Hanno sentito parlare delle sue conferenze e vogliono intervistarla. Ottima propaganda per la facoltà. Lei accetterà, vero? Se potesse venire con un paio d'ore d'anticipo per l'intervista...» «Probabilmente ci vedremo prima del ventitré», lo interruppe Royan. «Mia madre e il suo cane andranno a caccia a Quenton Park giovedì prossimo, e lei mi ha fatta ingaggiare come battitore per quella giornata.» «Allora terrò gli occhi aperti», promise Dixon, e la salutò con la mano mentre lei partiva in una nube di fumo. Il vento soffiava gelido dal nord. Le nubi turbinavano una sull'altra, pesanti, bluastre e grigie, così basse che sfioravano le creste della collina: precedevano la bufera. Sotto la vecchia giacca Barbour che Georgina le aveva prestato, Royan indossava tre maglioni, eppure continuava a rabbrividire. Era troppo abituata al caldo della valle del Nilo: e due paia di calzettoni da pescatore non bastavano a evitare che il freddo le intorpidisse i piedi. Per quel percorso, l'ultimo della giornata, il capo guardacaccia aveva spostato Georgina dalla solita posizione dietro la linea dei fucili, dove lei e Magic dovevano prendere gli uccelli feriti, alla linea dei battitori. Avevano tenuto per ultimo il meglio, e stavano battendo «The High Larches». Il guardacaccia aveva bisogno della collaborazione di tutti coloro che poteva inserire nella linea per stanare i fagiani dell'ampio tratto di terreno in cima alle colline e spingerli a lanciarsi in volo sopra la valle dove i tiratori attendevano nelle loro postazioni. A Royan quel comportamento pareva assai illogico: che senso aveva allevare e nutrire i fagiani fin da piccoli e poi, quando erano adulti, compiere tanti sforzi per far sì che fosse difficile colpirli? Georgina però le aveva spiegato che più gli uccelli passavano in alto e più i cacciatori erano soddisfatti e disposti a pagare per il privilegio di ucciderli. «Non puoi immaginare quanto sono disposti a spendere per una giornata Wilbur Smith
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di caccia», aveva detto alla figlia. «Oggi, per esempio, nelle casse della tenuta entreranno quasi quattordicimila sterline. La caccia costituisce una parte importante del reddito. A parte il divertimento di lavorare con i cani e i battitori, è una cosa che rende bene a molti abitanti della zona.» Al punto in cui era arrivata, Royan non era sicura che fosse granché piacevole svolgere mansioni di battitore. Camminare in mezzo ai rovi fitti era difficile; era scivolata più di una volta e aveva i gomiti e le ginocchia infangati. Il fosso che le stava davanti era pieno per metà d'acqua, e sulla superficie c'era uno strato sottile di ghiaccio. Si avvicinò con fare impacciato, usando il bastone per tenersi in equilibrio. Era stanca perché avevano già fatto cinque percorsi altrettanto faticosi. Guardò la madre e si meravigliò nel vedere che aveva l'aria di gradire quella tortura. Camminava felice, dando ordini a Magic con un fischietto e facendogli segnali con le mani. Sorrise a Royan. «E' l'ultima tappa, tesoro. Ormai è quasi finito.» Royan si sentiva umiliata all'idea che il suo disagio apparisse così evidente, e si servì del bastone per scavalcare il fosso fangoso. Ma sbagliò a calcolarne la larghezza e finì nell'acqua gelida che le arrivava alle ginocchia e che entrò fin dentro i suoi stivali alla Wellington. Georgina rise e le tese l'estremità del suo bastone per aiutarla a uscire dal fango. Royan non poteva fermarsi a vuotare gli stivali - avrebbe fatto perdere tempo alla linea -, quindi proseguì. «Fermi sulla sinistra!» L'ordine del capo guardacaccia fu trasmesso attraverso il walkie-talkie, e la linea si arrestò, obbediente. L'abilità del guardacaccia consisteva nel far alzare in volo gli uccelli dal fitto sottobosco non in uno stormo ammassato bensì in un flusso costante che doveva passare sopra i cacciatori appostati e lasciar loro la possibilità, dopo che avevano sparato con una doppietta, di prendere la seconda dall'addetto alla ricarica e di tenersi pronti in attesa che un altro uccello apparisse nel cielo. L'entità delle mance incassate dal guardacaccia e la sua reputazione dipendevano dal modo in cui «mostrava» gli uccelli ai cacciatori appostati. Durante quella breve pausa, Royan poté riprendere fiato e guardarsi intorno. Attraverso un varco nel boschetto di larici che dava il nome al percorso, poteva vedere la valle. Ai piedi delle colline c'era un grande prato: la distesa dell'erba verde era interrotta da tratti di neve grigiastra, rimasta lì dalla settimana precedente. Wilbur Smith
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In fondo al prato, il guardacaccia aveva piantato una fila di paletti numerati. All'inizio della caccia i partecipanti avevano tirato a sorte per decidere il numero dei paletti da cui avrebbe sparato ognuno di loro. Adesso ognuno stava accanto al proprio paletto, con l'addetto alla ricarica che teneva pronto il secondo fucile per consegnarglielo non appena il primo fosse rimasto scarico. Tutti guardavano con attenzione l'altura da cui sarebbero venuti i fagiani. «Qual è sir Nicholas?» chiese Royan alla madre, e Georgina indicò l'estremità più vicina della fila dei cacciatori. «Quello alto», rispose; nello stesso momento la voce del guardacaccia ordinò attraverso la radio: «Piano, verso sinistra, ricominciate». I battitori martellarono il suolo con i bastoni. Nessuno gridava o lanciava richiami in quell'operazione delicata. «Avanzate lentamente. Fermatevi appena gli uccelli prendono il volo.» Passo per passo la linea avanzò. Tra i rovi e le felci davanti a lei, Royan sentì il movimento furtivo di numerosi fagiani che avanzavano, riluttanti a involarsi fino a che non venivano costretti a farlo. Sul percorso dei battitori c'era un altro fosso, invaso da una macchia quasi impenetrabile di rovi. Alcuni dei cani più grossi, come i labrador, esitavano ad avventurarsi nella barriera spinosa. Georgina fischiò e Magic rizzò le orecchie. Era bagnato fradicio e il suo mantello era un intriso di fango, lappe e spine. La lingua rosata gli pendeva dall'angolo della bocca, la coda ondeggiava. In quel momento era il cane più felice di tutta l'Inghilterra: faceva il lavoro per il quale era stato allevato. «Su, Magic», ordinò Georgina. «Vai là dentro e stanali.» Magic si tuffò nel tratto più folto e spinoso e sparì. Per un minuto, si sentì sbuffare e cercare nel fosso: poi vi furono uno starnazzare violento e un frullo d'ali. Due fagiani parvero esplodere dai cespugli. La prima era la femmina, una creatura di misero aspetto e della grandezza di una gallina; ma il maschio che la seguiva da vicino era magnifico. La testa aveva una calotta di verde iridescente, mentre le guance e i barbigli erano scarlatti. La coda, a fasce cannella e nere, era lunga quasi quanto il corpo, e il resto del piumaggio formava una tavolozza di colori smaglianti. Mentre s'innalzava in volo, luccicava contro il cielo grigio come una gemma inestimabile lanciata dalla mano di un imperatore. Royan soffocò un'esclamazione di fronte a tanta bellezza. Wilbur Smith
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«Guarda come vanno!» La voce di Georgina era carica di eccitazione. «Che coppia di crackerjack! La coppia più bella che si sia vista oggi. Scommetto che nessuno dei cacciatori le toccherà una sola piuma.» I due fagiani volarono in alto, sempre più in alto, la femmina seguita dal maschio, fino a che all'improvviso una potente folata non li prese entrambi, lanciandoli lontano, sopra la valle. I battitori si godettero quel momento: avevano faticato molto per arrivarci. Mentre il vento disperdeva le loro voci, incitarono gli uccelli a proseguire: amavano vedere un fagiano che, con il suo volo alto e veloce, riusciva a frustrare le aspettative dei cacciatori. «Avanti!» esclamarono. «Via!» Questa volta la linea si arrestò spontaneamente: tutti seguivano il volo della coppia che procedeva nel vento. Nel fondovalle i cacciatori avevano alzato la testa, e i loro visi non erano che pallide macchioline sullo sfondo verde. Con trepidazione quasi palpabile, guardarono i fagiani raggiungere la velocità massima: a un certo punto non poterono più battere le ali e le bloccarono in un profilo proteso all'indietro mentre cominciavano a scendere nella valle. Era il tiro più difficile che potesse capitare: una coppia di fagiani che volavano alti con un vento di bufera in coda e poi scendevano, passando sopra la linea dei cacciatori in modo da essere quasi fuori portata per una doppietta calibro dodici. Per gli uomini schierati sul prato si trattava di calcolare velocità e direzione nelle tre dimensioni dello spazio. Il tiratore più abile poteva sperare di colpirne uno: ma chi avrebbe osato pensare di centrarli entrambi? «Scommetto una sterlina!» gridò Georgina. «Una sterlina che ce la faranno tutti e due a passare.» Ma nessuno dei battitori accettò la scommessa. Il vento spingeva dolcemente i fagiani di lato. Erano partiti diretti verso il centro della linea, ma adesso stavano andando alla deriva verso l'estremità più lontana. Royan vide i cacciatori che si preparavano quando sembrò che i fagiani si dirigessero verso di loro, per poi rilassarsi nel momento in cui una folata spinse in avanti i volatili. Il sollievo degli uomini schierati era evidente: uno dopo l'altro si sentivano esentati dalla sfida di provare quel tiro impossibile sotto gli sguardi attenti dei compagni di caccia. Alla fine, sulla linea di volo dei fagiani, rimase solo l'uomo alto Wilbur Smith
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all'estremità della fila. «Il fagiano è suo, signore», esclamò in tono irridente uno degli altri cacciatori e Royan si accorse di trattenere istintivamente il respiro. Nicholas Quenton-Harper sembrava ignaro dell'avvicinarsi dei fagiani. Era completamente rilassato, un po' curvo, con la doppietta sotto il braccio destro e le canne puntate verso terra. Nel momento in cui la femmina raggiunse un punto del cielo a sessanta gradi da lui, Nicholas Quenton-Harper si mosse per la prima volta. Con eleganza noncurante alzò la doppietta in un ampio arco. Nell'attimo in cui il calcio gli toccò la guancia e la spalla, sparò. Ma il fucile non smise di muoversi: continuò infatti a descrivere il resto dell'arco. La distanza fece sì che il suono dello sparo tardasse a giungere fino a Royan. Vide le canne che sobbalzavano nel rinculo, e uno sbuffo di fumo azzurrognolo. Poi Nicholas abbassò l'arma, la femmina di fagiano rovesciò la testa all'indietro e chiuse le ali. Non vi fu il solito turbine di piume: era stata colpita alla testa e uccisa sul colpo. E mentre cominciava a precipitare verso terra, Royan sentì il rombo dello sparo. Toccava ora al maschio. Questa volta, quando imbracciò il fucile con lo stesso gesto disinvolto, Nicholas inarcò la schiena per puntarlo in alto, e la sua figura si piegò dalla vita in su come un arco teso. Ancora una volta, all'apice del movimento, la doppietta gli sussultò fra le mani. «Mancato!» pensò Royan con un misto di soddisfazione e di disappunto, mentre il fagiano proseguiva il volo, apparentemente illeso. Era combattuta fra il desiderio che quella creatura mirabile si salvasse e la speranza che l'uomo riuscisse nell'intento. A poco a poco il profilo del fagiano cambiò: il volatile piegò le ali all'indietro e roteò in volo. Royan non poteva sapere che la pallottola gli aveva trapassato il cuore: pochi secondi più tardi morì in aria e le ali bloccate persero la rigidità. Mentre il fagiano precipitava verso terra, un coro spontaneo di acclamazioni risuonò lungo la linea dei battitori, fioco ma entusiastico nel vento gelido del nord. Persino gli altri cacciatori proruppero in grida di elogi: «Bel tiro, signore!» Royan non si associò agli evviva, tuttavia per un momento dimenticò la stanchezza e il freddo. Poteva apprezzare solo in modo vago l'abilità dei due tiri, però era impressionata e quasi intimidita. Era la prima volta che vedeva quell'uomo, eppure le sembrava che corrispondesse alle speranze di Duraid. Wilbur Smith
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Era quasi buio quando l'ultimo percorso terminò. Un vecchio camion militare scese rombando la pista della foresta, lungo la quale attendevano i battitori stanchi e i loro cani, poi rallentò, e tutti si arrampicarono a bordo. Georgina aiutò Royan a salire, poi la seguì insieme a Magic. Sedettero su una delle lunghe panche di legno e Georgina, dopo aver acceso una sigaretta, partecipò alle chiacchiere dei sottoguardacaccia e dei battitori. Royan rimase seduta in silenzio. Era soddisfatta di aver resistito sino alla fine di una giornata così faticosa. Era stanca ma rilassata, e stranamente contenta. Per una giornata intera non aveva pensato al furto dei papiro, all'uccisione di Duraid e al nemico invisibile e sconosciuto che la minacciava di morte. Il camion scese la collina e rallentò quando arrivò in fondo. Si fermò per lasciar passare un Range Rover verde. Quando i due veicoli si affiancarono per un momento, Royan girò la testa, guardò oltre il finestrino aperto del lussuoso fuoristrada e incontrò gli occhi di Nicholas Quenton-Harper, seduto alla guida del mezzo. Era la prima volta che si trovava abbastanza vicina da vederne i lineamenti, e si stupì che fosse così giovane. Si era aspettata un uomo dell'età di Duraid; invece non aveva più di quarant'anni. C'erano solo pochi fili argentei alle tempie dei capelli folti e spettinati. Il volto era abbronzato e segnato dalle intemperie, tipico di un uomo abituato a vivere all'aperto. Gli occhi brillavano, verdi e penetranti sotto le sopracciglia, la bocca era larga ed espressiva. In quel momento sorrideva di una battuta che il conducente del camion gli aveva gridato con il pesante accento dello Yorkshire, ma nei suoi occhi c'era un senso di tristezza e di tragedia. La donna rammentò ciò che le aveva detto il professor Dixon: QuentonHarper aveva perduto da poco la moglie e due figlie. Royan provava pena per lui. «Non sono la sola a soffrire», pensò. Quenton-Harper la guardò dritto negli occhi, e lei lo vide cambiare espressione. Era una donna attraente, e capiva quando un uomo se ne rendeva conto. Aveva fatto colpo, ma non se ne rallegrava. Il dolore per la morte di Duraid era ancora troppo acuto e straziante. Distolse lo sguardo e il Range Rover passò oltre. La conferenza all'università andò benissimo. Royan era una buona parlatrice e ovviamente conosceva bene l'argomento. Affascinò gli ascoltatori con la descrizione dell'apertura della tomba della regina Lostris Wilbur Smith
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e della successiva scoperta dei papiri. Gran parte degli intervenuti aveva letto il libro e, quando si giunse alle domande, furono in molti a voler appurare la veridicità della storia raccontata. Royan dovette rispondere con prudenza, evitando di parlare dell'autore in modo troppo severo. Più tardi il professor Dixon invitò a cena Royan e Georgina. Era felice del successo ottenuto dalla sua ex allieva e ordinò una preziosa bottiglia di chiaretto per festeggiare. Rimase un po' sconcertato quando lei ne rifiutò un bicchiere. «Oh, povero me, avevo dimenticato che è musulmana», disse per scusarsi. «Sono copta», lo corresse Royan. «E non si tratta di un precetto religioso: il sapore non mi piace.» «Non si preoccupi», intervenne Georgina. «Io non ho la stessa tendenza al masochismo di mia figlia. Deve averlo preso dalla famiglia del padre. Le darò una mano a finire quest'ottimo vino.» Sotto l'effetto benigno del chiaretto, il professore diventò espansivo e parlò degli scavi archeologici cui aveva partecipato nel corso di vari decenni. Solo quando arrivarono al caffè si rivolse a Royan. «Santo cielo, quasi dimenticavo di dirglielo. Mi sono accordato perché lei possa andare a visitare il museo di Quenton Park in qualunque pomeriggio di questa settimana. Basterà che il giorno prima telefoni alla signora Street; l'aspetterà. È l'assistente di sir Nicholas.» Royan ricordava il percorso per raggiungere Quenton Park da quando Georgina l'aveva portata là per partecipare alla caccia, ma adesso era sola a bordo del Land Rover. Il cancello principale era di ferro battuto, massiccio e lavorato. Un po' più avanti la strada si divideva, e una serie di cartelli indicava la direzione delle varie destinazioni: QUENTON HALL - PRIVATO, UFFICIO AMMINISTRATIVO e MUSEO. La strada che portava al museo s'incurvava attraverso il parco, dove branchi di cervi pascolavano sotto le querce spoglie. Attraverso la nebbiolina, Royan aveva infine scorto la grande casa. Secondo la guida che il professore le aveva prestato, era stata progettata nel 1693 da sir Christopher Wren, e il grande maestro dell'architettura dei giardini, Capability Brown, aveva creato i giardini sessant'anni più tardi. Il risultato era la perfezione. Il museo sorgeva in un boschetto di faggi, poco meno d'un chilometro oltre la casa. Era una costruzione ampia, evidentemente ingrandita più Wilbur Smith
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volte nel corso degli anni. La signora Street l'attendeva all'entrata laterale. Si presentò mentre la faceva entrare. «Mi chiamo Street.» Era una donna di mezza età con i capelli grigi, molto sicura di sé. «Ho assistito alla sua conferenza, lunedì sera. Affascinante. Le darò una guida ma, come vedrà, i reperti sono ben catalogati e descritti. E un lavoro che mi tiene impegnata da circa vent'anni. Oggi non ci sono altri visitatori, e avrà il museo tutto per lei: lo giri a suo piacere. Me ne andrò stasera alle cinque, quindi avrà tutto il pomeriggio. Se posso esserle utile, il mio ufficio è in fondo a questo corridoio. Non esiti a rivolgersi a me.» Fin dal momento in cui entrò nel settore zoologico africano, Royan provò un senso di stupore e di meraviglia. La sala dei primati ospitava una collezione completa di tutte le specie di scimmie del continente, dal grande gorilla maschio con la schiena argentata al delicato colobo con il lungo manto fluente di pelliccia bianca e nera; sebbene alcuni degli esemplali avessero più d'un secolo, erano conservati e presentati in modo magnifico, inquadrati in diorami dipinti dei rispettivi habitat naturali. Era evidente che il museo doveva avere alle dipendenze un piccolo esercito di artisti e d'imbalsamatori espertissimi. Royan poteva intuire quanto tutto ciò doveva costare, e concluse ironicamente che i cinque milioni di dollari ricavati dalla vendita del bassorilievo rubato erano stati spesi bene. Entrò nella sala delle antilopi e si guardò intorno, rapita dallo spettacolo degli splendidi esemplari lì radunati. Si fermò davanti al diorama d'un gruppo familiare della grande antilope nera della varietà angolana ormai quasi estinta, l'Hippotragus niger variarli. Mentre ammirava il maschio dal manto nerissimo e dal petto bianco con le lunghe corna a scimitarra, si rammaricò che fosse morto per mano di un esponente della famiglia Quenton-Harper. Poi si corresse. Senza la passione del cacciatore collezionista che l'aveva ucciso, forse le generazioni future non avrebbero mai potuto ammirare quell'essere così maestoso. Passò nella sala adiacente, riservata all'elefante africano, e si soffermò al centro, di fronte a una coppia di zanne d'avorio così enormi da sembrare impossibile che fossero appartenute a un animale vivente. Sembravano piuttosto le colonne marmoree di un tempio ellenico dedicato ad Artemide, la dea della caccia. Si chinò a leggere la scheda stampata.
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ZANNE DI ELEFANTE AFRICANO, LOXODONTA AFRICANA. ABBATTUTO NELL'ENCLAVE DI LADO NEL 1899 DA SIR JONATHAN QUENTON-HARPER. PESO ZANNA SINISTRA: 130 KG; PESO ZANNA DESTRA: 135 KG; LUNGHEZZA ZANNA MAGGIORE: 3,45 M; CIRCONFERENZA ZANNA MAGGIORE: 80 CM. SI TRATTA DELLA PIÙ GRANDE COPPIA DI ZANNE MAI PRESA DA UN EUROPEO. Erano alte il doppio di lei, e avevano una circonferenza che superava quella del suo girovita di oltre venti centimetri. Stava ancora riflettendo sulle dimensioni e sulla forza dell'essere cui erano appartenute quelle zanne, quando entrò nella sala egizia. Si fermò di colpo nel vedere la statua al centro della sala: era una figura in lucido granito rosso, alta cinque metri e raffigurava Ramesse II. Il dioimperatore incedeva sulle gambe muscolose, indossando solo i sandali e un gonnellino. Nella mano sinistra portava quel che restava di un arco da guerra: la parte superiore e quella inferiore dell'arma erano spezzate. Ma era l'unico danno che la statua aveva subito in tanti secoli. Il resto era perfetto: il plinto recava addirittura i segni dello scalpello. Nel pugno destro il faraone stringeva un sigillo con il suo cartiglio reale. Sulla testa maestosa spiccava la corona doppia dell'Alto e del Basso Egitto. L'espressione del volto era serena ed enigmatica. Royan riconobbe immediatamente la statua, perché la gemella si trovava nella sala grande del museo del Cairo; le passava davanti ogni giorno per arrivare al suo ufficio. La collera l'assalì. Era uno dei tesori più grandi del suo Egitto, ed era stata rubata da un luogo sacro del suo Paese. Il suo sosto non era lì, bensì sulle rive del grande Nilo. Tremante per 'emozione, Royan si avvicinò per esaminare meglio la statua e leggere l'iscrizione geroglifica alla base. Al centro del cartiglio reale spiccava il monito arrogante: «Io sono il divino Ramesse, signore di diecimila carri. Temetemi, nemici dell'Egitto». Royan non aveva letto a voce alta la traduzione: fu una voce profonda a farlo, una voce che parlò alle sue spalle e la fece trasalire. Non aveva sentito arrivare nessuno. Si girò di scatto e se lo trovò lì, così vicino da poterlo toccare. Teneva le mani affondate nelle tasche di un cardigan blu piuttosto sformato, con un buco in un gomito, e portava un paio di jeans stinti e Wilbur Smith
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pantofole di velluto, lise anche se ornate d'un monogramma. Era quel genere di aristocratica sciatteria coltivato da molti giovani inglesi: preoccuparsi in maniera eccessiva del proprio aspetto veniva considerato volgare. «Mi scusi, non volevo spaventarla.» L'uomo sorrise pigramente. Aveva i denti candidi ma un po' storti. La sua espressione cambiò di colpo quando la riconobbe. «Oh, è lei.» Royan avrebbe dovuto sentirsi lusingata: eppure, negli occhi dell'uomo, c'era un lampo che la offendeva. «Nick Quenton-Harper. E lei dev'essere l'ex allieva di Percival Dixon. Mi sembra di averla vista alla caccia, giovedì scorso. Non faceva da battitrice?» Aveva modi franchi e amichevoli, e Royan si placò un poco. «Sì. Sono Royan Al Simma. Credo che lei conoscesse mio marito Duraid Al Simma.» «Duraid! Certo, lo conosco. Un tipo eccezionale. Abbiamo passato insieme molto tempo nel deserto. Uno dei migliori. Come sta?» «È morto.» Royan non avrebbe voluto mostrarsi così arida, ma quelle furono le sole parole che riuscì a trovare. «Mi rincresce moltissimo. Non lo sapevo. Quando è successo, e come?» «Di recente, tre settimane fa. È stato assassinato.» «Oh, mio Dio.» Royan vide l'espressione di solidarietà nei suoi occhi e ricordò che anche lui aveva sofferto molto. «Gli avevo telefonato al Cairo non più di quattro mesi fa... Hanno scoperto il colpevole?» Lei scosse la testa e distolse lo sguardo nel tentativo di nascondere le lacrime. «Lei ha una collezione veramente straordinaria.» Nicholas accettò di buon grado quel cambio di argomento. «Grazie soprattutto a mio nonno. Era un collaboratore di Evelyn Baring. Baring il presuntuoso, come lo chiamavano i suoi numerosi nemici. Agiva per conto della Gran Bretagna durante...» Royan l'interruppe. «Sì, ho sentito parlare di Evelyn Baring, primo conte di Cromer, console generale britannico dell'Egitto dal 1883 al 1907. Grazie ai pieni poteri che gli erano stati accordati, fu in pratica il dittatore incontrastato del mio Paese per l'intero periodo. E aveva numerosi nemici, come ha detto lei.» Socchiuse leggermente gli occhi. «Dixon mi ha detto che era una dei suoi allievi migliori. Ma non mi aveva avvertito dei suoi sentimenti nazionalisti. È evidente che non aveva bisogno che le traducessi Wilbur Smith
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l'iscrizione di Ramesse.» «Mio padre faceva parte dello stato maggiore di Gamal Abdel Nasser», mormorò lei. Nasser aveva contribuito in maniera decisiva a spodestare il re Faruk nonché a spezzare il potere britannico in Egitto. Più tardi, in qualità di presidente, aveva nazionalizzato il Canale di Suez nonostante lo sdegno degli inglesi. «Ah!» Nicholas Quenton-Harper sorrise. «Siamo sui lati opposti della barricata. Ma la situazione è diversa, ora. Non siamo nemici, vero?» «Oh, no», esclamò lei. «Duraid la stimava moltissimo.» «E anch'io lo stimavo.» Cambiò di nuovo argomento. «Siamo molto orgogliosi della nostra collezione di ushabti reali. Ci sono esemplari provenienti da gran parte delle tombe dei re, a partire dall'Antico Regno fino all'ultimo Tolomeo. Mi permetta di mostrargliele.» Royan lo seguì fino all'enorme vetrina che occupava un'intera parete della sala. C'erano ripiani e ripiani affollati di statuine che anticamente erano state collocate nelle tombe per fungere da servitori e schiavi dei sovrani che si trovavano nel mondo delle ombre. Con una chiave, Nicholas aprì le ante e tese una mano per prendere il più interessante degli oggetti. «Questo è l'ushabti di Maya, che servì sotto tre faraoni, Tutankhamon, Ay e Harmais. Proviene dalla tomba di Ay, che morì nel 1343 circa avanti Cristo.» Le porse la statuina e Royan lesse i geroglifici vecchi di tremila anni come se fossero i titoli del giornale di quel mattino. «Io sono Maya, tesoriere dei due regni. Risponderò per il divino Faraone Ay. Possa egli vivere per sempre!» Parlò in arabo per mettere alla prova Nicholas, il quale rispose nella stessa lingua: «A quanto pare, Percival Dixon mi ha detto la verità. Lei doveva essere un'allieva eccezionale». Assorti in quell'argomento di comune interesse, continuarono a parlare alternativamente in arabo e in inglese, mentre l'antagonismo si andava smorzando. Fecero il giro della sala, indugiando davanti a ogni vetrina per esaminare minuziosamente gli oggetti che vi erano contenuti. Era come se fossero stati trasportati a ritroso nel passato per interi millenni. Le ore e i giorni sembravano avere perso qualsiasi importanza... perciò rimasero sorpresi quando la signora Street venne a interromperli. «Io vado, sir Nicholas. Pensa lei a chiudere e ad attivare l'antifurto? Le guardie della sicurezza sono già in servizio.» Wilbur Smith
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«Ma... che ora è?» esclamò Nicholas, lanciando con un'occhiata al Rolex Submariner d'acciaio che aveva al polso. «Le cinque e quaranta! Il tempo è volato.» Sospirò enfaticamente. «Vada pure, signora Street. Ci scusi se l'abbiamo trattenuta.» «Non dimentichi d'inserire l'allarme», gli raccomandò lei. Poi si rivolse a Royan. «A volte è così distratto quando pensa alle sue passioni.» Il suo affetto per sir Nicholas era chiaramente quello d'una zia indulgente. «Mi ha dato abbastanza ordini per oggi. Sparisca!» disse Nicholas con un sorriso. Poi si rivolse di nuovo a Royan. «Non posso lasciarla andar via senza mostrarle qualcosa che aveva coinvolto anche Duraid. Può restare ancora per qualche minuto?» Royan annuì e lui fece il gesto di prenderle il braccio, ma subito lasciò ricadere la mano. Nel mondo arabo è un insulto toccare una donna, anche in modo casuale e inoffensivo. Royan si accorse del gesto di cortesia, e lo apprezzò. Nicholas la precedette oltre una porta su cui c'era scritto: PRIVATO RISERVATO AL PERSONALE, e imboccò un lungo corridoio in fondo al quale c'era il suo ufficio. «Il sancta sanctorum», scherzò, mentre si scostava per farla passare. «Scusi il caos. Uno di questi anni dovrò decidermi a mettere ordine. Mia moglie aveva l'abitudine di...» S'interruppe e lanciò uno sguardo alla foto incorniciata d'argento che stava sulla scrivania. Nicholas e una bella donna bruna erano seduti su un plaid sotto i rami di una quercia. Con loro c'erano due bambine, e tutte e due somigliavano molto alla madre. La più piccola era sulle ginocchia di Nicholas, la maggiore stava in piedi dietro di loro e teneva per le brighe un pony. Royan guardò Nicholas per un attimo e riconobbe l'angoscia devastante nei suoi occhi. Per non farlo sentire in imbarazzo, si mise a osservare il resto della stanza che evidentemente fungeva da studio e da laboratorio. Era spaziosa e confortevole: si capiva bene che apparteneva a un uomo, e riusciva a illustrare adeguatamente le contraddizioni del proprietario, avventuriero e studioso al contempo. In mezzo ai libri e ai pezzi da museo spiccavano diversi mulinelli e una canna Hardy per la pesca del salmone. Da una fila di ganci fìssati alla parete pendevano una giacca Barbour, una custodia di tela per fucile e una cartucciera di cuoio con le iniziali N. Q.-H. Royan riconobbe alcuni dei quadri incorniciati alle pareti. Erano acquerelli originali dell'Ottocento, opera del viaggiatore scozzese David Roberts, e altri di Vivant de Denon, che aveva accompagnato in Egitto Wilbur Smith
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l'armée de l'orient di Napoleone. Erano vedute affascinanti dei monumenti, eseguite prima degli scavi e dei restauri realizzati in tempi moderni. Nicholas si accostò al camino, gettò un pezzo di legno sulle braci agonizzanti e lo smosse fino a che non si accese. Quindi fece cenno a Royan di portarsi vicino alle grandi tende che coprivano metà di una parete. Con un gesto di prestigiatore, tirò il cordone infiocchettato che apriva le tende ed esclamò soddisfatto: «E di questo che ne pensa?» Royan studiò il magnifico bassorilievo. I particolari erano bellissimi, la realizzazione splendida; ma lei non lasciò trasparire l'ammirazione. Si espresse in tono neutro. «Hammurapi, sesto re della dinastia amorrea, intorno al 1780 avanti Cristo.» Finse di studiare i lineamenti finemente cesellati dell'antico re, prima di continuare. «Sì, probabilmente proviene dal sito del suo palazzo a sud-ovest della ziqqurat di Assur. Doveva essere una coppia di fregi, e valgono all'inarca cinque milioni di dollari ciascuno. Secondo me, sono stati rubati al santimonioso padrone della Mesopotamia moderna, Saddam Hussein, da due bricconi privi di scrupoli. Ho sentito dire che l'altro bassorilievo si trova attualmente nella collezione di un certo Peter Walsh, nel Texas.» Nicholas la fissò, sbalordito, poi scoppiò in una risata. «Accidenti! Avevo fatto giurare a Duraid di mantenere il silenzio, ma lui deve averle parlato della nostra avventuretta.» Era la prima volta che Royan lo sentiva ridere. La risata gli saliva alle labbra con naturalezza, e aveva un suono gradevole e cordiale, privo di affettazione. «Ha ragione per quanto riguarda l'attuale proprietario del secondo fregio», le spiegò. «Ma il prezzo è stato sei milioni, non cinque.» «Duraid mi aveva parlato anche della vostra visita nel massiccio del Tibesti, nel Ciad e nella Libia meridionale», disse Royan, e Nicholas scosse la testa con ironica contrizione. «A quanto pare non ho segreti per lei», commentò. Poi si diresse verso un grande armadio, un magnifico esempio di marqueterie francese, probabilmente del Seicento. Aprì le ante e disse: «Ed ecco quello che Duraid e io portammo via dalla Libia senza il consenso del colonnello Muhammar el-Gheddafi». Prese uno dei bronzetti e glielo porse. Raffigurava una madre che allattava un bambino ed era ricoperto dalla patina verde dell'antichità. Wilbur Smith
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«Annibale, figlio di Amilcare Barca; 203 circa avanti Cristo», disse. «Furono trovati da un gruppo di tuareg in uno dei suoi accampamenti sul fiume Bagradas, l'odierno Medjerda, nel Nord-africa. Annibale doveva averli nascosti prima di essere sconfitto dal generale romano Scipione. C'erano più di duecento bronzetti, e io ne ho ancora cinquanta dei più belli.» «E gli altri li ha venduti?» chiese Royan mentre ammirava la statuetta. Poi continuò in tono di disapprovazione: «Come ha potuto separarsi da oggetti così belli?» Nicholas sospirò, a disagio. «Purtroppo ho dovuto farlo. È triste, ma la spedizione per recuperarli mi è costata un patrimonio. Per coprire le spese sono stato costretto a vendere parte del bottino.» Andò alla scrivania, prese dall'ultimo cassetto una bottiglia di whisky Laphroaig e la posò accanto a due bicchieri. «Posso offrirlo anche a lei?» chiese, ma Royan scosse la testa. «Non le do torto. Persino gli scozzesi ammettono che dovrebbe essere bevuto solo quando c'è una temperatura sottozero, su una collina e mentre soffia la bufera, dopo aver inseguito e abbattuto un cervo di dieci anni. Posso offrirle qualcosa di più indicato per una signora?» «Ha una Coca-Cola?» chiese lei. «Sì, però fa male, anche peggio del Laphroaig. Con quel contenuto di zucchero è davvero un veleno.» Royan prese il bicchiere che le porgeva e lo alzò in un brindisi. «Alla vita!» disse. Poi continuò, a voce più bassa: «Ha ragione. Duraid mi aveva parlato delle statuette...» Rimise il piccolo bronzo punico nell'armadio e tornò verso di lui. «Ed è stato Duraid che mi ha chiesto di parlarle. Pochi istanti prima di morire, mi ha raccomandato di farlo.» «Ah! Quindi non si tratta di una coincidenza. Ho la sensazione di essere la pedina ignara di una partita oscura e nefanda.» Nicholas indicò la sedia davanti alla scrivania. «Sieda», la invitò. «E mi dica tutto.» Si appollaiò sull'angolo della scrivania, con il bicchiere di whisky in una mano e una gamba che dondolava pigramente come la coda di un leopardo in riposo. Sebbene sorridesse, le scrutava il viso con i penetranti occhi verdi, e lei pensò che le sarebbe stato difficile mentirgli. Trasse un respiro profondo. «Ha sentito parlare dell'antica regina egizia Lostris del Secondo periodo intermedio, al tempo delle invasioni degli hyksos...?» Wilbur Smith
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Nicholas rise con un certo sarcasmo e balzò in piedi. «Oh, allora parliamo del Dio del fiume, no?» Andò allo scaffale e prese una copia del romanzo. Sebbene fosse stato molto sfogliato conservava ancora la sovraccoperta sulla quale c'era una veduta sognante e quasi surreale, in sfumature pastello, verde e rosa violaceo, delle piramidi viste dal Nilo. Lo posò sulla scrivania davanti a lei. «L'ha letto?» chiese Royan. «Sì.» Nicholas annuì. «Ho letto quasi tutte le opere di Wilbur Smith. Mi diverte. È venuto un paio di volte a caccia qui a Quenton Park.» «Evidentemente le piacciono le storie in cui il sesso e la violenza la fanno da padrone.» Royan fece una smorfia. «Che ne pensa in particolare di questo libro?» «Devo ammettere che mi ha imbrogliato. Mentre lo leggevo, mi auguravo che si basasse su fatti provati. Perciò avevo telefonato a Duraid.» Nicholas riprese il volume e l'aprì a una delle ultime pagine. «La nota dell'autore era convincente, ma quella che non sono mai riuscito a dimenticare è l'ultima frase...» Lesse ad alta voce: «... e mi rimane l'emozione di pensare che ancora oggi tra le montagne abissine presso la sorgente del Nilo vi sia, intatta, la tomba di un faraone egizio». Nicholas buttò il libro sulla scrivania con un gesto quasi rabbioso. «Mio Dio! Non immagina quanto ho desiderato che fosse vero, e come mi sono augurato di avere la possibilità di scoprire la tomba di Marnose. Dovevo parlare con Duraid. Quando mi assicurò che erano tutte frottole mi sentii defraudato. Le mie attese erano diventate così vive che provai una cocente delusione.» «Non sono frottole», lo contraddisse Royan. Poi si affrettò a correggersi: «Be', almeno non tutto». «Capisco. Allora Duraid mi ha mentito?» «No», ribatté lei, accalorandosi. «Non mentiva: ritardava il momento della verità. Non era ancora pronto a riferirle l'intera storia. Sarebbe stato incapace di rispondere a tutte le domande che lei gli avrebbe rivolto. Intendeva cercarla al momento opportuno. Il suo nome era in cima all'elenco dei potenziali finanziatori.» «Duraid non conosceva le risposte, ma immagino che le conosca lei.» Nicholas sorrideva con aria scettica. «Sono caduto in trappola una volta e non intendo farlo ancora.» «I rotoli esistono. Nove sono ancora nelle camere blindate del museo del Wilbur Smith
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Cairo. Sono stata io a scoprirli nella tomba della regina Lostris.» Royan aprì la borsa a tracolla, vi frugò e prese un mucchietto di foto a colori, formato 15 x 10. Ne scelse una e la porse. «E un'istantanea della parete di fondo della tomba. S'intravedono i vasi di alabastro nella nicchia. Fu scattata prima che li portassimo via.» «È una bella foto, ma potrebbe essere stata fatta dovunque.» Lei ignorò il commento e gli porse un'altra fotografia. «I dieci papiri nel laboratorio di Duraid al museo. Riconosce i due uomini in piedi dietro il banco?» Nicholas annuì. «Duraid e Wilbur Smith.» L'espressione scettica aveva lasciato il posto al dubbio e alla perplessità. «Che diavolo sta cercando di dirmi?» «Sto cercando di dirle che, a parte le numerose licenze poetiche dell'autore, tutto ciò che è scritto nel romanzo ha almeno un fondamento di verità. Comunque il papiro che più ci riguarda è il settimo, quello rubato dagli uomini che hanno ucciso mio marito.» Nicholas si alzò. Si avvicinò al camino, aggiunse un altro pezzo di legna e lo batté rabbiosamente con l'attizzatoio, come se volesse sfogare l'emozione. Parlò senza voltarsi. «Che significato aveva quel particolare papiro rispetto agli altri nove?» «Era quello che conteneva la descrizione della sepoltura del faraone Marnose e, pensiamo, le indicazioni che potrebbero permetterci di trovare la tomba.» «Lo pensa o ne è sicura?» Lui si voltò di scatto, stringendo l'attizzatoio come un'arma. In quello stato d'animo incuteva paura. La bocca era atteggiata in una linea rigida e gli occhi brillavano. «Molti brani del settimo papiro sono scritti in una specie di codice, una serie di versi enigmatici. Duraid e io li stavamo decifrando quando...» S'interruppe e trasse un respiro profondo. «Quando è stato assassinato.» «Ma avrà senza dubbio un copia di un reperto tanto prezioso!» Nicholas la fissò così cupamente da intimidirla. Lei scosse la testa. «Tutti i microfilm e gli appunti sono stati rubati con il rotolo originale. Poi gli assassini di Duraid sono andati nel nostro appartamento al Cairo e hanno distrutto il computer che avevo usato per trascrivere i risultati di tutte le nostre ricerche.» Nicholas buttò l'attizzatoio nel secchio del carbone e tornò alla scrivania. «Quindi non ha l'ombra di una prova. Non ha modo di dimostrare che Wilbur Smith
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quanto ha detto è vero.» «No», ammise lei. «Tranne quel che ho qui dentro.» Si batté l'indice sulla fronte. «E ho un'ottima memoria.» Nicholas si accigliò, passandosi le dita fra i capelli folti e ricci. «Allora perché si è rivolta a me?» «Sono venuta per darle una possibilità di arrivare alla tomba del faraone Marnose», rispose Royan con molta semplicità. «Le interessa?» Di colpo, lui cambiò atteggiamento. Sorrise, come avrebbe potuto sorridere un monello. «In questo momento non c'è altro che desidero di più.» «Allora dovremo concludere un accordo di lavoro», disse lei, con fare deciso. «Anzitutto le dirò che cosa voglio: poi lei farà altrettanto.» Fu un negoziato impegnativo. Era l'una del mattino quando Royan riconobbe di essere esausta. «Non riesco più a pensare in modo lucido. Possiamo ricominciare domattina?» Non avevano ancora raggiunto un accordo. «E già domani mattina», le fece notare lui. «Però ha ragione. Non ci avevo pensato. Può dormire qui. Abbiamo ventisette camere da letto, dopotutto.» «No, grazie.» Royan si alzò. «Andrò a casa.» «Le strade saranno ghiacciate», l'avvertì Nicholas; poi notò la sua espressione irriducibile e alzò le mani in segno di resa. «Sta bene, non insisto. Domani a che ora? Ho un appuntamento alle dieci con i miei legali, però verso mezzogiorno dovrei essere libero. Perché noi due non facciamo un pranzo di lavoro qui? Nel pomeriggio avrei dovuto andare a caccia a Ganton, ma annullerò l'impegno. Così sarò a sua disposizione per tutto il pomeriggio e la sera.» L'incontro fra Nicholas e i suoi legali si svolse l'indomani mattina nella biblioteca di Quenton Hall. Non fu né facile né piacevole, ma lui non si aspettava che lo fosse. Quello era stato l'anno in cui il suo mondo aveva cominciato a crollare. Strinse i denti al ricordo: l'anno si era aperto con quel momento fatale di stanchezza e di disattenzione a mezzanotte su quell'autostrada ghiacciata, e con i fari accecanti del camion che piombava verso di loro. Non si era ancora ripreso dalla sciagura quando aveva subito un nuovo colpo: il rapporto finanziario dei Lloyd's, la famosa compagnia Wilbur Smith
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d'assicurazioni della quale Nicholas era un name, ossia un socio non sottoscrittore, come d'altronde lo erano stati suo padre e suo nonno. I Lloyd's names, membri dei cosiddetti syndicates, cioè dei gruppi operativi, s'impegnano a finanziare l'attività assicurativa della società, dividendo fra loro le quote di rischio; così, per mezzo secolo, la famiglia di Nicholas aveva goduto di un reddito regolare e sostanzioso proprio grazie ai profitti ottenuti dal gruppo operativo di cui faceva parte. Naturalmente Nicholas sapeva che, in caso si verificassero perdite, la sua parte di responsabilità finanziaria nel syndicate sarebbe stata assai rilevante. La cosa tuttavia non lo aveva mai preoccupato più di tanto perché non c'erano mai state perdite da coprire in cinquant'anni... cioè fino a quell'anno. Con il terremoto in California e le richieste di risarcimento danni accolte a carico di aziende chimiche multinazionali, le perdite del syndicate erano ammontate a più di ventisei milioni di sterline. Nicholas doveva sborsare due milioni e mezzo, e, se una parte di denaro era già stata versata, restava comunque ancora una somma consistente da racimolare nel giro di otto mesi al massimo. Senza contare le sgradite sorprese che l'anno nuovo avrebbe potuto portare «Insomma, a conti fatti, dobbiamo mettere insieme ancora due milioni e mezzo», disse uno dei legali. «Non dovrebbe essere difficile, dato che Quenton Hall è piena di oggetti di valore. E poi c'è il museo. Quanto possiamo ragionevolmente aspettarci di ricavare dalla vendita di qualche pezzo?» Nicholas rabbrividì al pensiero di vendere la statua di Ramesse, i bronzetti e il bassorilievo di Hammurapi. Si rendeva conto che, disfandosene, avrebbe onorato i suoi debiti, ma dubitava di poter vivere senza quegli oggetti. Era disposto a tutto o quasi, pur di non separarsene. I due avvocati chinarono la testa sugli elenchi. «Ah ! Sì, eccoli. Un paio di Purdey in ottime condizioni, stimati quarantamila sterline.» «Ho anche un po' di calzini e mutande usati», dichiarò Nicholas. «Perché non elencate anche quelli?» Gli avvocati ignorarono la frecciata. «Poi c'è la casa di Londra.» Il più anziano continuò, imperturbabile: era abituato alle sofferenze altrui. «Quella di Knightsbridge. Valore, un milione e mezzo.» «Non certo in questo momento finanziario», lo contraddisse Nicholas. «È più realistico parlare di un milione.» L'avvocato prese un appunto sul bordo del documento. «Naturalmente Wilbur Smith
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vogliamo evitare, se appena è possibile, di mettere in vendita l'intera tenuta», mormorò. Fu un incontro difficile, che si concluse senza una decisione precisa e lasciò Nicholas stizzito e frustrato. Congedò gli avvocati e salì nell'appartamento di famiglia per fare la doccia e cambiare la camicia. Poi, come per un ripensamento e senza una ragione precisa, si fece la barba e si frizionò il viso con l'after shave. Attraversò il parco e lasciò il Land Rover nel parcheggio del museo. La neve s'era trasformata in nevischio e gli copriva la testa di gocciole gelide. Royan l'aspettava nell'ufficio della signora Street. Sembrava che andassero molto d'accordo. Nicholas si fermò davanti alla porta per ascoltare la sua risata. Lo faceva sentire un po' meglio. Il cuoco aveva mandato un pranzo caldo dalla Hall. Sembrava convinto che un pasto sostanzioso servisse a tenere a bada il brutto tempo. C'erano una zuppiera di minestrone all'italiana e una Lancashire hotpot con mezza bottiglia di Bordeaux rosso per lui e una caraffa di spremuta d'arance per lei. Mangiarono davanti al fuoco, mentre la pioggia batteva sui vetri. Nicholas chiese all'ospite di fornirgli i particolari dell'uccisione di Duraid. Lei non omise nulla; parlò anche delle sue ferite e rimboccò la manica per mostrargli la medicazione che copriva la cicatrice della coltellata. Lui ascoltò attentamente quando lei gli raccontò del secondo tentativo di ucciderla per le vie del Cairo. «Ha qualche sospetto?» chiese poi. «C'è qualcuno che potrebbe essere il mandante?» Ma Royan scosse la testa. «Non c'era stato nessun avvertimento», disse. Finirono di pranzare in silenzio, assorti nei loro pensieri. Mentre prendevano il caffè, Nicholas suggerì: «Bene. E il nostro accordo?» Continuarono a discutere per circa un'ora. «È difficile riconoscerle una parte del bottino, se prima non saprò quale sarà il suo contributo», protestò Nicholas mentre versava altro caffè. «Dopotutto dovrò finanziare e condurre la spedizione.» «E dovrà credere che il mio contributo sarà importante, altrimenti non ci sarà bottino, come lo chiama lei. Comunque può star certo che non le dirò niente di più fino a che non avremo concluso un accordo, e l'avremo confermato con una stretta di mano.» «Sono condizioni piuttosto dure», fece lui, e Royan gli rivolse un sorriso malizioso. Wilbur Smith
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«Se non le piacciono, nell'elenco dei possibili finanziatori ci sono altri tre nomi.» «Sta bene», tagliò corto Nicholas con una finta aria da martire. «Accetto la proposta. Ma come faremo a calcolare due parti eguali?» «Io sceglierò il primo esemplare di ogni manufatto archeologico che riusciremo a recuperare, lei il secondo, e così via.» «E se fossi io a scegliere per primo?» chiese Nicholas, inarcando un sopracciglio. «Tiriamo a sorte», propose Royan, e lui prese dalla tasca una sterlina. «Che cosa vuole?» Lanciò la moneta e, mentre era in aria, Royan esclamò: «Testa!» «Accidenti!» borbottò lui mentre recuperava la moneta e la rimetteva in tasca. «E così, la prima scelta del bottino spetta a lei. Ammesso che il bottino ci sia.» Tese la mano attraverso il tavolo. «Potrà farne ciò che vuole. Potrà addirittura donarla al museo del Cairo, se è ancora affetta da questa mania stravagante. D'accordo?» chiese, e le tese la mano. «D'accordo!» confermò Royan. E soggiunse: «Socio». «Adesso mettiamoci al lavoro. Basta con i segreti fra noi. Mi riveli tutti i particolari che ha tenuto nascosti.» «Porti qui il libro.» Lei indicò la copia del Dio del fiume e, mentre Nicholas andava a prenderlo, scostò i piatti sporchi. «La prima cosa che dobbiamo considerare sono le parti del libro che Duraid aveva rivisto.» Royan andò alle ultime pagine del romanzo. «Ecco. È qui che Duraid ha incominciato l'operazione per fuorviare i lettori.» «Ottimo modo di esprimersi.» Nicholas sorrise. «Ma cerchiamo di restare sul semplice. Mi ha già fuorviato abbastanza.» Royan non sorrise. «Conosce come procede il romanzo fino a questo punto. La regina Lostris e il suo popolo vengono cacciati dall'Egitto per opera degli hyksos e dei loro carri. Viaggiano verso sud, lungo il fiume, sino alla confluenza del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro. In altre parole, fino all'odierna Khartum. Tutto questo segue piuttosto fedelmente i papiri.» «Lo ricordo. Proceda.» «Nelle stive delle navi fluviali trasportano il corpo mummificato del marito della regina Lostris, il faraone Marnose. Dodici anni prima, mentre era moribondo a causa di una freccia degli hyksos che gli aveva trafitto un Wilbur Smith
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polmone, Lostris gli aveva promesso di trovare un luogo sicuro dove seppellirlo con tutti i suoi tesori. Quando arrivano a Khartum, la regina decide che è venuto finalmente il momento di mantenere l'impegno. Manda il figlio, il quattordicenne principe Memnone, con uno squadrone di carri in cerca del sito adatto. Memnone è accompagnato dal suo mentore, il narratore della storia, l'instancabile Taita.» «Bene. Ricordo questa parte. Memnone e Taita consultano gli schiavi shilluk che hanno catturato e, seguendo i loro consigli, scelgono di procedere lungo il ramo sinistro del fiume, quello che oggi è conosciuto come Nilo Azzurro.» Royan annuì e continuò a raccontare: «Si diressero verso oriente e si trovarono di fronte a un'imponente catena montuosa, così alta che la descrissero come un 'bastione azzurro'. Fino a questo punto, il romanzo è una trascrizione abbastanza fedele dei papiri ma, a questo punto...» Royan piegò l'angolo della pagina per segnarla -, «incomincia l'intervento di Duraid. Voglio dire in questa descrizione delle colline...» Nicholas intervenne senza lasciarle il tempo di continuare. «Ricordo che, quando l'ho letto la prima volta, ho pensato che in realtà non descrive esattamente la zona dove il Nilo Azzurro esce dagli altipiani etiopi. Non ci sono colline. C'è solo la ripida scarpata occidentale del massiccio. Il fiume ne esce come un serpente dalla tana. Chi ha lasciato quella descrizione non conosceva il corso del Nilo Azzurro.» «E lei conosce la zona?» chiese Royan. Nicholas rise e annuì. «Quand'ero più giovane, e ancora più stupido di adesso, mi venne l'idea grandiosa di scendere con un'imbarcazione la gola dell'Abay dal lago Tana fino alla diga di er-Roseires, nel Sudan. Abay è il nome etiope del Nilo Azzurro.» «Perché voleva farlo?» «Perché non era mai stato fatto. Il console britannico, maggiore Cheesman, ci aveva provato nel 1932 e per poco non era annegato. Pensavo che avrei potuto realizzare un documentario, scrivere un libro sul viaggio e guadagnare una fortuna con i diritti d'autore. Convinsi mio padre a finanziare la spedizione. Era il genere d'impresa pazzesca che solleticava la sua fantasia. Voleva addirittura parteciparvi. Studiai il corso del fiume Abay, non solo sulle carte geografiche. Comprai un vecchio Cessna 180 e sorvolai la gola: ottocento chilometri dal lago Tana alla diga. Come ho detto, avevo vent'anni ed ero matto.» Wilbur Smith
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«E come andò a finire?» Royan era affascinata. Duraid non gliene aveva mai parlato, ma era il tipo di avventura che poteva aspettarsi da uno come Nicholas. «Reclutai otto miei amici dell'Accademia militare di Sandhurst, e dedicammo al tentativo le vacanze natalizie. Fu un fiasco. Resistemmo appena due giorni in quelle acque furiose. La gola è l'angolo più infernale della terra, per quanto ne so. È profonda il doppio del Grand Canyon del Colorado e altrettanto accidentata. Sfasciò i nostri kayak prima ancora che avessimo percorso trenta chilometri degli ottocento dell'intero percorso. Dovemmo abbandonare l'equipaggiamento e arrampicarci sulle pareti della gola per tornare alla civiltà.» Per un momento assunse un'aria seria. «Perdemmo due membri della spedizione. Bobby Palmer annegò e Tim Marshall cadde dalle rupi. Non riuscimmo neppure a recuperare i loro corpi. Sono ancora laggiù, da qualche parte. Dovetti dare la notizia ai genitori...» Nicholas s'interruppe al ricordo di quei momenti angosciosi. «Qualcuno è mai riuscito a navigare nella gola del Nilo Azzurro?» chiese Royan per distrarlo. «Sì. Vi tornai dopo qualche anno. Questa volta non ero il capo, ma soltanto un membro della spedizione ufficiale delle forze armate britanniche. Ci vollero l'esercito, la marina e l'aviazione per battere il fiume.» Lei lo guardava con ammirazione. Nicholas aveva veramente navigato sull'Abay. Era come se fosse stata guidata fino a lui da un destino misterioso. Duraid aveva avuto ragione. Probabilmente non c'era uomo al mondo più qualificato per portare a termine un compito come quello che si erano prefissi. «Quindi conosce la gola meglio di chiunque altro. Cercherò di fornirle un'indicazione generale di quello che Taita scrisse effettivamente nel settimo papiro. Purtroppo è la parte del manoscritto che ha subito qualche guasto, e Duraid e io siamo stati costretti a estrapolare la descrizione da varie parti del testo. Dovrà dirmi se corrisponde al territorio così come lo conosce.» «Proceda», l'invitò Nicholas. «Taita descrive la scarpata più o meno come ha fatto lei: una parete a perpendicolo da cui emerge il fiume. Gli egizi furono costretti ad abbandonare i carri che non potevano affrontare il terreno ripido e Wilbur Smith
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accidentato del canyon; dovettero procedere a piedi, conducendo per le redini i cavalli da soma. Ben presto la gola diventò così ripida e pericolosa che alcuni animali caddero dalle piste aperte dalle capre selvatiche e precipitarono nel fiume sottostante. Ma questo non scoraggiò gli uomini, che proseguirono agli ordini di Memnone.» «Sì, è un tratto particolarmente pericoloso, lo ricordo bene.» «Poi Taita racconta che incontrarono una serie di ostacoli, e li descrive come 'gradini'. Duraid e io non sapevamo con certezza che cosa fossero. Ma pensavamo che fossero cascate.» «Nella gola dell'Abay non mancano né gli uni né le altre», commentò Nicholas. «Questa è la parte importante della sua testimonianza. Taita ci dice che, dopo aver viaggiato per venti giorni, risalendo la gola, arrivarono al 'secondo gradino'. Qui il principe ricevette un messaggio del padre defunto, sotto forma di un sogno nel quale Marnose sceglieva il sito per la propria tomba. Taita ci dice che non proseguirono. Se riuscissimo ad accertare che cosa lo fermò, questo c'indicherebbe con precisione fin dove erano penetrati nella gola.» «Prima di continuare, abbiamo bisogno di mappe e di fotografie delle montagne prese dai satelliti. Dovrò anche consultare i miei appunti e il diario della spedizione», decise Nicholas. «Dato che cerco di tenere aggiornati gli archivi del museo, penso di avere anche fotografie e carte geografiche recenti. Chiederò alla signora Street di cercarle.» Poi si alzò, sbadigliando. «Questa sera prenderò i miei diari e li rileggerò. Anche mio bisnonno andò a caccia in Etiopia nel secolo scorso. So che attraversò il Nilo Azzurro presso Debre Markos nel 1890, mi pare. Cercherò anche i suoi appunti: sono conservati negli archivi. Può darsi che abbia scritto qualcosa di utile.» Accompagnò Royan al vecchio Land Rover verde e, mentre lei accendeva il motore, le disse attraverso il finestrino aperto: «Sono sempre convinto che dovrebbe fermarsi alla Hall. Dev'esserci un'ora e mezzo di macchina per arrivare a Brandsbury, e fra andata e ritorno sono tre ore al giorno. Avremo parecchio da lavorare prima di poter partire per l'Africa». «Che ne direbbe la gente?» chiese lei mentre inseriva la marcia. «Me ne sono sempre infischiato», le gridò dietro Nicholas. «A che ora ci vedremo domani?» «Devo andare dal dottore a York, per farmi togliere i punti al braccio. Wilbur Smith
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Non arriverò prima delle undici.» Royan si affacciò dal finestrino per gridare la risposta. Il vento le agitava intorno al viso i capelli scuri. Nicholas aveva sempre preferito le brune: Rosalind aveva quella misteriosa aria orientale... Si sentiva colpevole per il paragone, ma era difficile liberarsi del ricordo di Royan. Era la prima donna che aveva destato il suo interesse dopo la morte di Rosalind. Il sangue misto lo attraeva. Era abbastanza esotica per solleticare la sua passione per l'Oriente, ma abbastanza inglese per parlare la sua lingua e capire il suo sense of humour. Era colta e conosceva le cose che più lo interessavano; inoltre ne ammirava lo spirito. Di solito le orientali erano abituate fin dalla nascita a essere docili e discrete. Ma Royan era diversa. Georgina aveva telefonato al suo medico di York e aveva preso appuntamento per far togliere i punti dal braccio di Royan. Partirono dal cottage di Brandsbury dopo colazione. Georgina era al volante, e Magic stava seduto in mezzo a loro. Quando svoltarono nella strada del villaggio, Royan notò un grosso camion MAN fermo vicino alla posta, ma poi non ci pensò più. Giunte in aperta campagna, incontrarono una serie di banchi di nebbia, in certi tratti così fitta da ridurre la visibilità a meno di trenta metri. Ma Georgina non era disposta a fare concessioni al tempo, e lanciò il Land Rover sferragliante alla massima velocità che, comunque, come pensò con sollievo Royan, non superava i novanta all'ora. Si voltò per controllare la strada dietro di loro e vide che il camion MAN le stava seguendo. Soltanto la cabina, simile alla torretta di un sottomarino, emergeva dal basso mare di nebbia che lo circondava. Mentre lo guardava, un banco più fitto lo inghiottì, e Royan si girò di nuovo per ascoltare la madre. «Questo governo è un branco di nullità incompetenti.» Georgina socchiuse le palpebre nel fumo della sigaretta che le penzolava dalle labbra. Guidava con una mano sola e con l'altra accarezzava il manto serico di Magic. «Non m'interessa se i ministri si sbattono fra di loro, ma quando cominciano a fare brutti scherzi alla mia pensione, mi arrabbio sul serio.» La pensione del Foreign Service era l'unica fonte di reddito di Georgina, e non era molto. Wilbur Smith
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«Non vorrai un governo laburista, mamma, di' la verità», scherzò Royan. Sua madre era sempre stata ultraconservatrice. Georgina esitò, poi evitò di scegliere. «Io dico solo che ci vorrebbe di nuovo Maggie.» Royan si girò in silenzio sul sedile e guardò di nuovo attraverso il lunotto posteriore. Il camion era ancora dietro di loro: torreggiava nella nebbia e nella scia di fumo azzurrognolo che Georgina si lasciava alle spalle come un aereo a reazione. Fino a quel momento era rimasto a distanza, ma all'improvviso accelerò. «Credo che voglia superarti», disse Royan a Georgina. Il cofano massiccio del camion era a qualche metro dal loro paraurti posteriore. Il radiatore sfoggiava il logo cromato MAN ed era più alto dell'abitacolo del Land Rover, quindi Royan non poteva scorgere la faccia del guidatore. «Vogliono tutti sorpassarmi», protestò Georgina. «È la storia della mia vita.» E rimase ostinatamente al centro della strada. Royan si voltò di nuovo e vide che il camion si avvicinava ancora di più. Il guidatore cambiò marcia e fece rombare minacciosamente il motore gigantesco. «E meglio che tu gli dia strada. Credo che faccia sul serio.» «Che aspetti», borbottò Georgina, stringendo fra le labbra il mozzicone di sigaretta. «La pazienza è una virtù. E qui non posso farlo passare. Poco oltre c'è un ponte di pietra molto stretto. Conosco la strada come il bagno di casa mia.» In quel momento, il camionista suonò il clacson: essendo così vicino, il rumore fu assordante. Magic balzò sul sedile posteriore e abbaiò indignato. «Stupido mascalzone», imprecò Georgina. «Che cosa crede di fare? Annota il numero di targa. Lo denuncerò alla polizia di York.» «La targa è coperta dal fango. Non riesco a leggerla, ma sembra straniera. Tedesca, direi.» Come se il camionista avesse sentito la protesta, rallentò leggermente fino a che tra i due veicoli ci fu una distanza di venti metri. Royan s'era girata sul sedile per osservarlo. «Così va meglio», disse soddisfatta Georgina. «È ora che quell'unno impari le buone maniere.» Poi sbirciò nella nebbia davanti a sé. «Ecco il ponte...» Per la prima volta Royan riuscì a vedere l'interno della cabina del Wilbur Smith
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camion. Il guidatore portava un passamontagna di lana blu che gli lasciava scoperti soltanto gli occhi e il naso e gli dava un'aria sinistra, malefica. «Attenta!» gridò Royan. «Ci viene addosso!» Il rombo del motore del grosso camion divenne un muggito che le avvolse come il fragore di un mare in tempesta. Per un momento, Royan vide soltanto l'acciaio lucido. Poi il muso del camion le investì da tergo. L'impatto violento ributtò Royan contro la spalliera del sedile. Si rialzò e vide che il camion aveva sollevato il Land Rover come una volpe solleva un uccello tra le fauci, e lo trasportava sulle barre d'acciaio che proteggevano il radiatore cromato. Georgina lottò con il volante, cercando di mantenere il controllo, ma fu inutile. «Non riesco a tenerlo. Il ponte! Cerca di saltar giù...» Royan premette il pulsante della cintura di sicurezza e afferrò la maniglia della portiera. I muretti di pietra del ponte sembravano correre verso di loro a una velocità terrificante. Mentre il Land Rover slittava attraverso la strada, la portiera si spalancò nella stretta di Royan. In quel momento, però, il fuoristrada venne scagliato contro le colonne in muratura che stavano all'ingresso del ponte. Le due donne urlarono all'unisono mentre il veicolo si accartocciava. L'urto le gettò in avanti. Il parabrezza andò in frantumi; il Land Rover, rimbalzando via dalle colonne, si rovesciò, scivolò giù per la banchina e prese a rotolare. Royan fu catapultata attraverso la portiera aperta e volò via. Il pendio dell'argine attutì la caduta, lasciando però la donna senza fiato. Rimbalzò e ruzzolò, e infine cadde nelle acque gelide del fiumicello. Un attimo prima di finire sott'acqua con la testa, guardò il cielo e il ponte, e scorse per l'ultima volta il camion prima che si allontanasse rombando. Trainava due enormi rimorchi, più alti del guardrail del ponte. Entrambi i rimorchi erano coperti da un pesante telone di nylon verde trattenuto da funi. Royan ebbe appena una fuggevole visione di un grande marchio rosso con il nome dell'azienda dipinto sul fianco del rimorchio più vicino. Ma prima che potesse imprimersi il nome nella mente, affondò e il freddo e la forza della caduta le svuotarono l'aria dai polmoni. Risalì alla superficie del fiume e si accorse che era stata trascinata più a valle. Intralciata dagli indumenti fradici, raggiunse la riva e s'issò, aggrappandosi al ramo di un albero. S'inginocchiò nel fango, tossì e risputò l'acqua che aveva inghiottito e Wilbur Smith
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cercò di scoprire se l'urto le aveva causato qualche lesione. Poi dimenticò se stessa quando sentì i lamenti terribili della madre uscire dal rottame rovesciato del Land Rover. Si rimise in piedi affannosamente e avanzò sull'erba bagnata e coperta di brina verso il fuoristrada capovolto ai piedi dell'argine. La carrozzeria era accartocciata e sfondata, e il lucido metallo argenteo luccicava dove la vernice verde scura si era scrostata. Il motore era bloccato, ma le ruote anteriori giravano ancora nell'aria quando Royan raggiunse il fuoristrada. «Mamma! Dove sei?» gridò, e i singulti terribili non si placarono. Si appoggiò al veicolo per sostenersi e proseguì in direzione del suono. Aveva paura di ciò che avrebbe potuto trovare. Georgina era seduta sulla terra bagnata e stava appoggiata con la schiena alla fiancata del fuoristrada. Teneva le gambe allungate: quella sinistra era storta, e la punta del piede era conficcata nel fango in un angolo innaturale. Evidentemente la gamba era fratturata al ginocchio o poco più sotto. Ma non era quella la causa della disperazione di Georgina. Teneva Magic sulle ginocchia e stava china su di lui, prostrata da un'irrefrenabile sofferenza che erompeva in un lamento incessante. Il petto del cocker spaniel era rimasto schiacciato fra il metallo e la terra. La lingua gli pendeva dall'angolo della bocca, che pareva atteggiata in un ultimo sorriso, ma il sangue sgocciolava dalla punta rosea e Georgina cercava di asciugarlo con la sciarpa. Royan si sedette accanto alla madre e le cinse le spalle con un braccio. Non l'aveva mai vista piangere. La strinse a sé e cercò inutilmente di placare il suo dolore. Rimase lì per qualche tempo, poi la vista della gamba fratturata di Georgina e la paura che il guidatore del camion potesse tornare a finire l'opera la spinsero ad agire. Risalì la banchina e si piazzò in mezzo alla strada per fermare la prima macchina di passaggio. Quando si rese conto che Royan era in ritardo di due ore, Nicholas si preoccupò e telefonò alla stazione di polizia di York. Per fortuna aveva notato il numero di targa del Land Rover, un numero facile da ricordare, perché era formato dalle stesse iniziali di sua madre e da un tredici malaugurante. Dovette attendere mentre l'agente controllava il computer, ma finalmente ebbe la risposta. «Purtroppo, signore, quel Land Rover ha avuto Wilbur Smith
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un incidente questa mattina.» «Che cos'è successo a chi lo guidava?» chiese bruscamente Nicholas. «La guidatrice e la passeggera sono state portate allo York Minster Hospital.» «Come stanno?» «Mi dispiace, signore, ma questo non lo so.» Nicholas impiegò quaranta minuti per arrivare all'ospedale e quasi lo stesso tempo per rintracciare Royan. Era nel reparto chirurgia donne, seduta accanto al letto della madre che non si era ancora ripresa dagli effetti dell'anestesia. Royan alzò la testa quando si fermò accanto a lei. «Come va? Che diavolo è successo?» «Mia madre ha una gamba fratturata. Il chirurgo ha dovuto metterle un chiodo nel femore.» «E lei come sta?» «Qualche livido e qualche graffio. Niente di grave.» «Com'è successo?» «Un camion... ci ha buttate fuori strada.» «Non l'ha fatto apposta, vero?» Nicholas rabbrividì al ricordo di un altro camion su un'altra strada, durante un'altra notte. «Io credo di sì. Il guidatore portava un passamontagna. Ci è piombato addosso da tergo. Sembrava proprio deciso a provocare un incidente.» «L'ha detto alla polizia?» Lei annuì. «Pare che il camion fosse stato rubato questa mattina, molto prima dell'incidente. Il guidatore è stato fermato in uno dei cafés Little Chef. È tedesco e non parla inglese.» «È la terza volta che tentano di ucciderla», commentò rabbiosamente Nicholas. «Da questo momento ci penserò io.» Andò nella sala d'attesa dell'ospedale e telefonò. Il capo della polizia della contea era un suo amico, come lo era l'amministratore dell'ospedale. Quando Nicholas tornò, Georgina aveva ripreso i sensi. Era ancora stordita nel momento in cui la trasferirono nella stanza privata che lui aveva prenotato. Il chirurgo ortopedico arrivò dopo pochi minuti. «Ciao, Nick, che ci fai qui?» chiese, e Royan si meravigliò nel vedere quanta gente conosceva Quenton-Harper. Il chirurgo si rivolse a Georgina. «Come si sente? Avevamo una bella frattura composta. L'osso era ridotto in coriandoli. Siamo riusciti a mettere Wilbur Smith
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tutto a posto, ma dovrà restare qui almeno una decina di giorni.» «Bene», disse Nicholas a Royan mentre lasciavano Georgina che dormiva. «Che cos'altro ci vuole per convincerla? La mia governante le ha preparato una stanza alla Hall. Non intendo lasciarla più andare in giro da sola. La prossima volta che cercheranno di farla fuori potrebbero essere più fortunati.» Lei era ancora troppo scossa e sconvolta per discutere. Salì docilmente sul Range Rover e lasciò che Nicholas la portasse prima a farsi togliere i punti e poi a Quenton Park. Quando arrivarono, lui insistette perché salisse nella sua camera. «Il cuoco le farà portare la cena. E prenda il sonnifero che le ha dato il medico. Se dà la chiave del cottage di sua madre alla signora Street, domani manderò qualcuno a Brandsbury per ritirare la sua roba. Per il momento, la governante le ha preparato una camicia da notte, una vestaglia e uno spazzolino da denti nella sua camera. E non voglio vederla né sentirla fino a domattina.» Era piacevole sapere che Nicholas aveva assunto il controllo della sua vita. Per la prima volta dopo la terribile notte all'oasi, Royan si sentiva sicura e protetta. Ma fece un ultimo gesto d'indipendenza e di sfida: buttò nel gabinetto la compressa di Mogadon. La camicia da notte stesa sul cuscino era lunga, di seta pura, con splendidi pizzi di Cambrai ai polsi e allo scollo. Royan non ne aveva mai indossata una così lussuosa e sensuale: di certo era appartenuta alla moglie di Nicholas, e quel pensiero suscitò in lei sensazioni confuse. Si sdraiò sul letto matrimoniale e si addormentò quasi subito, indifferente sia al pensiero di essere sola su quell'enorme materasso sia alla sensazione di trovarsi in un ambiente del tutto sconosciuto. L'indomani mattina una giovane cameriera venne a svegliarla e le portò il Times e una teiera piena di Earl Grey; pochi minuti dopo tornò con il suo borsone. «Sir Nicholas la prega di fare colazione con lui in sala da pranzo alle otto e mezzo.» Mentre faceva la doccia, Royan si guardò nel grande specchio che copriva una parete del bagno. A parte la cicatrice della coltellata sul braccio, aveva un livido scuro sulla coscia, un altro sul fianco sinistro e sulla natica, conseguenza dell'incidente. Era spellata in molti punti; infilò Wilbur Smith
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cautamente un paio di pantaloni e, zoppicando un po', scese la scalinata principale per raggiungere la sala da pranzo. «Prego, si serva.» Nel momento in cui era arrivata sulla soglia, Nicholas aveva alzato gli occhi dal giornale e le aveva indicato i piatti allineati sulla credenza. Mentre si serviva di qualche cucchiaiata di uova strapazzate, Royan sollevò lo sguardo e riconobbe il quadro appeso alla parete davanti a lei: era un Constable. «Ha dormito bene?» Nicholas non attese la risposta e continuò. «Ha telefonato la polizia. Hanno trovato il MAN abbandonato in una piazzola vicino a Harrogate. Lo stanno esaminando, ma non sperano di scoprire granché. Abbiamo a che fare con qualcuno che sa il fatto suo, almeno così sembra.» «Devo telefonare all'ospedale», disse Royan. «Ho già chiamato io. Sua madre ha passato una notte tranquilla. Ho avvertito che andrà a trovarla questa sera.» «Questa sera?» Lei si voltò. «Perché così tardi?» «Ho intenzione di metterla al lavoro. Voglio rifarmi di quel che mi costerà.» Si alzò quando Royan si avvicinò al tavolo e le scostò la sedia per farla accomodare. Quella cortesia la mise un po' a disagio, ma non fece commenti. «Il primo attacco contro lei e Duraid nella villa dell'oasi... Non abbiamo elementi utili da sfruttare, a parte il fatto che gli assassini sapevano esattamente che cosa volevano e dove l'avrebbero trovato.» Royan era sconcertata dal brusco cambio d'argomento. «Poi c'è il secondo attentato, quello al Cairo. La bomba a mano. Chi sapeva che quel pomeriggio sarebbe andata al ministero, a parte il ministro?» Lei rifletté. «Non ne sono sicura. Mi pare di averlo detto al segretario di Duraid, forse a uno degli assistenti.» Nicholas aggrottò la fronte e scosse il capo. «Quindi metà del personale del museo era al corrente dell'appuntamento.» «Più o meno. Sì. Mi dispiace.» Lui rifletté un momento. «Sta bene. Chi sapeva che sarebbe partita dal Cairo? E che sarebbe stata ospite di sua madre?» «Uno degli impiegati dell'amministrazione mi ha portato le diapositive all'aeroporto.» «Gli ha detto con quale volo sarebbe partita?» Wilbur Smith
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«Assolutamente no.» «Non ha parlato con altri, del suo viaggio?» «No. Cioè...» Royan esitò. «Sì?» «Ho spiegato al ministro, durante il nostro colloquio, che desideravo venire in Inghilterra e per questo gli ho chiesto un periodo di congedo non retribuito. Ma non può essere stato lui!» L'espressione di Royan era carica di orrore. Nicholas alzò le spalle. «Succedono tante cose strane. Naturalmente il ministro sapeva tutto del lavoro che lei e Duraid stavate facendo sul settimo papiro.» «Non conosceva i particolari, ma... Sì, sapeva a grandi linee che cosa intendevamo fare.» «Passiamo a un'altra domanda. Tè o caffè?» Le versò il caffè nella tazza, poi continuò: «Mi ha detto che Duraid aveva fatto un elenco dei possibili finanziatori di una spedizione. Potrebbe essere una lista di indiziati?» «Il Getty Museum», rispose lei, e Nicholas sorrise. «Possiamo cancellarlo dall'elenco. Quelli non vanno in giro a lanciare bombe a mano per le vie del Cairo. Chi altro c'era?» «Gotthold Ernst von Schiller.» «Amburgo. Industria pesante. Raffinerie di metalli e di leghe. Produzione di minerali.» Nicholas annuì. «E il terzo nome?» «Peter Walsh... il texano», disse lei. «Già», ammise Nicholas. «Vive a Fort Worth. Ha una catena di fast food e un'organizzazione di vendite per corrispondenza.» Quando si trattava di acquistare antichità importanti o di finanziare esplorazioni archeologiche, c'erano pochissimi collezionisti abbastanza ricchi per competere con le grandi istituzioni. Nicholas li conosceva tutti: era un gruppo di un paio di dozzine di uomini in accanita concorrenza fra loro. In varie occasioni si era battuto con ognuno di loro nelle sale d'asta di Sotheby's e Christie's, per non parlare di altri ambienti meno salubri in cui si vendevano le antichità «fresche», dove per «fresco» s'intende «appena estratto dal suolo». «Quelli sono due banditi. Sarebbero capaci di divorare i loro figli. Che cosa farebbero se la vedessero come un ostacolo sulla via per arrivare alla tomba di Marnose? Forse uno di loro si era messo in contatto con Duraid dopo la pubblicazione del romanzo, come ho fatto io...» Wilbur Smith
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«Non so. Può darsi.» «Non credo che si siano lasciati sfuggire l'occasione. Dobbiamo dare per certo che tutti e due sappiano che Duraid era sulle tracce di qualcosa. Metteremo i loro nomi nell'elenco delle persone sospette.» Nicholas guardò il piatto di Royan. «Basta così? Un altro po' di uova? No. Bene, andiamo al museo e vediamo che cosa ci ha trovato la signora Street.» Quando entrarono nello studio, Royan fu colpita nel vedere come Nicholas si era organizzato in così poco tempo. Doveva aver lavorato tutta la notte, trasformando la stanza in una specie di comando militare. Al centro c'era un grande cavalletto con un tabellone sul quale era appuntata una serie di foto scattate dai satelliti. Royan si avvicinò per osservarle, poi diede un'occhiata al resto del materiale. Oltre a una carta su larga scala che mostrava la stessa area dell'Etiopia sud-occidentale, c'erano elenchi di nomi e indirizzi, liste di equipaggiamenti e provviste che evidentemente Nicholas aveva usato nelle precedenti spedizioni africane, fogli di calcoli delle distanze e qualcosa che sembrava un preventivo. E c'era una scheda con la dicitura ETIOPIA INFORMAZIONI GENERALI. Non lesse tutta la scheda: erano cinque fogli protocollo a interlinea uno. Comunque rimase impressionata dalla meticolosità della preparazione. Decise di studiare tutto il materiale alla prima occasione; per il momento si accomodò su una delle due sedie che Nicholas aveva messo accanto a un tavolo, di fronte alla lavagna. Lui prese dal tavolo una canna con la punta d'argento e la brandì. «Silenzio in aula», disse, e batté sulla lavagna. «Anzitutto deve convincermi che riusciremo a ritrovare le tracce di Taita, una pista che si è raffreddata da moltissimi secoli. Consideriamo per prima cosa le caratteristiche geografiche della gola dell'Abay.» Nicholas indicò il corso del fiume sulle foto scattate dal satellite. «In questo tratto si è scavato il letto attraverso i plateaux alluvionali di basalto. In certi punti le pareti sono perpendicolari, alte dai centoventi ai centocinquanta metri su entrambe le sponde. Il fiume non è riuscito a erodere gli strati intrusivi di scisti ignei più duri, ed essi formano una serie di gradini giganteschi. Credo che abbia ragione lei: i 'gradini' di cui parla Taita devono essere cascate, in realtà.» Tornò al tavolo e, nei mucchi di carte che lo coprivano, pescò una foto. «Questa l'ho fatta nella gola durante la spedizione delle forze armate, nel Wilbur Smith
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1976. Le darà un'idea dell'aspetto di alcune delle cascate.» Le passò la foto in bianco e nero: c'erano pareti altissime sui due lati e una cascata che sembrava precipitare dal cielo e faceva apparire minuscoli gli uomini seminudi e le imbarcazioni in primo piano. «Non immaginavo che fosse così!» Royan era sbalordita. «E non rende giustizia alla splendida desolazione della gola», precisò lui. «Dal punto di vista di un fotografo, non esiste un posto in cui ci si possa piazzare per ritrarla interamente. Ma almeno può rendersi conto che la cascata dovette bloccare la schiera degli egizi che risalivano il fiume a piedi o con i cavalli da soma. Di solito ci sono piste lungo le cataratte, aperte dagli elefanti e da altri animali selvatici nel corso dei secoli. Però non c'è modo di superare cascate come questa, o di girare intorno ai dirupi.» Royan annuì e Nicholas continuò: «Persino scendendo il fiume dovemmo calare con le corde le imbarcazioni e l'equipaggiamento a ogni serie di cascate. Non fu semplice». «Ammettiamo che fosse una cascata a impedire loro di proseguire. La seconda cascata, per chi arriva da ovest», disse lei. Nicholas riprese la canna e sulle foto del satellite seguì il corso del fiume dal cuneo scuro della diga di er-Roseires nel Sudan orientale. «La scarpata sale sul lato etiope del confine, dove incomincia la gola vera e propria. Là non ci sono strade o centri abitati, ma solo due ponti, molto più a monte. Per ottocento chilometri non c'è niente, se non le acque ribollenti del Nilo e nere rocce basaltiche.» Fece una pausa perché Royan s'imprimesse nella memoria le sue parole. «È uno degli ultimi luoghi veramente selvaggi della terra, e ha la fama di essere abitato da animali feroci e da uomini più feroci ancora. Ho indicato le cascate principali che appaiono nelle viscere della gola, qui sulla foto del satellite.» Le mostrò: ognuna era segnata chiaramente da un cerchio tracciato con un pennarello rosso. «Questa è la seconda cascata, circa duecento chilometri più a monte del confine sudanese. Dobbiamo considerare comunque un certo numero di fattori, non ultimo la possibilità che il fiume abbia cambiato corso nei tremila anni e più trascorsi da quando lo visitò il nostro amico Taita.» «Ma non può essere sfuggito da una gola profonda milleduecento metri!» protestò Royan. «Credo che sia sufficiente per tener prigioniero persino il Nilo.» Wilbur Smith
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«Sì, ma di sicuro il letto esistente si è modificato. Nella stagione della piena, il volume e la forza delle acque sono qualcosa d'indescrivibile. Il fiume sale di venti metri e scorre alla velocità di dieci nodi o più.» «E lei lo ha navigato?» chiese Royan in tono un po' dubbioso. «Non nella stagione della piena: niente e nessuno potrebbe sopravvivere in quel periodo.» Fissarono entrambi la foto in silenzio, pensando a come dovesse essere terribile quel tratto di fiume nel periodo della sua furia. Poi Royan chiese: «E la seconda cascata?» «È qui, dove uno degli affluenti si getta nell'Abay. È il Dandera, che scorre a trecentocinquanta metri di altitudine ai piedi del monte Sancai nella catena del Choke, qui, centosessanta chilometri a nord della gola.» «Ricorda il punto in cui si getta nell'Abay? Lo ricorda dal tempo della sua esplorazione?» «Sono passati troppi anni, ed eravamo nella gola da oltre un mese, quindi tutto sembrava confondersi in un unico incubo. La prontezza di riflessi era affievolita dal panorama monotono dei dirupi e della giungla fitta che copriva le pareti, i nostri sensi erano storditi dal caldo, dagli insetti, dal rombo dell'acqua e dalla fatica di remare... eppure ricordo la confluenza del Dandera e dell'Abay per due ragioni.» «Sì?» Royan si tese verso di lui, ma Nicholas scosse la testa. «Perdemmo un uomo, in quel punto. L'unico, nella seconda spedizione. La corda si spezzò e lui precipitò per trenta metri. Si sfracellò su uno spuntone di roccia.» «Mi dispiace. E qual è l'altra ragione per cui ricorda quel posto?» «C'è un monastero copto, costruito nella parete rocciosa, centoventi metri al di sopra della superficie del fiume.» «Nelle profondità della gola?» chiese lei, incredula. «Perché hanno costruito un monastero proprio lì?» «L'Etiopia è uno dei più antichi Paesi cristiani della terra: fra chiese e monasteri, conta più di novemila luoghi di culto, e molti si trovano in zone altrettanto remote e quasi inaccessibili fra le montagne. In quello del fiume Dandera, a quanto pare, è sepolto san Frumenzio, che, nel III secolo, introdusse il cristianesimo in Etiopia. Secondo la leggenda, naufragò sulle rive del mar Rosso e fu condotto ad Aksum, dove convertì il re Ezanà.» «Lei ha visitato il monastero?» «No, che diavolo!» Nicholas rise. «Eravamo troppo occupati a Wilbur Smith
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sopravvivere, troppo impazienti di uscire dall'inferno della gola per avere il tempo di fare i turisti. Scademmo le cascate e proseguimmo verso valle. Del monastero ricordo soltanto gli scavi nella parete del dirupo, in alto sopra il fiume, e le figure lontane dei monaci biancovestiti che si affacciavano ai parapetti delle caverne per guardarci passare. Alcuni di noi si sbracciarono per salutarli, e rimasero male quando non ebbero risposta.» «E come faremo a raggiungere quel punto, senza una spedizione in piena regola?» chiese lei, fissando sconsolata il tabellone. «Si sta già scoraggiando?» Nicholas sorrise maliziosamente. «Aspetti d'incontrare le zanzare che vivono da quelle parti. Sono così grosse che possono sollevarla di peso e portarla nella loro tana per divorarla in pace.» «Non scherzi... Come faremo a scendere?» «I monaci vengono riforniti di viveri dagli abitanti dei villaggi dell'altopiano. A quanto pare c'è una pista aperta dalle capre che scende lo strapiombo. Ci dissero che occorrono tre giorni per scendere il sentiero e arrivare in fondo alla gola.» «Saprebbe trovare la strada?» «No, ma ho qualche idea in proposito. Ne parleremo più tardi. Prima dobbiamo decidere che cosa ci aspettiamo di trovare laggiù, dopo tremila anni...» Nicholas la fissò, intento. «Ora tocca a lei. Mi convinca.» Le porse la canna dalla punta d'argento, si lasciò cadere sulla sedia e incrociò le braccia. «Per prima cosa dobbiamo tornare al libro.» Royan posò la canna e prese la copia del Dio del fiume. «Ricorda il personaggio di Tanus?» «Certo. Era il comandante delle armate della regina Lostris e portava il titolo di Grande Leone d'Egitto. Guidò l'esodo quando gli egizi furono cacciati dagli hyksos.» «Era anche l'amante segreto della regina e, se dobbiamo credere a Taita, il padre del principe Memnone.» «Tanus fu ucciso durante una spedizione punitiva contro un re etiope, Arkoun, in alta montagna. Il corpo fu mummificato e Taita lo portò alla regina.» «Esattamente.» Royan annuì. «E questo mi porta a un altro indizio scoperto da Duraid e da me.» «Nel settimo papiro?» Nicholas disincrociò le braccia e si protese. «No, non nei rotoli: nelle iscrizioni della tomba della regina Lostris.» Wilbur Smith
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Royan frugò nella borsa e mostrò un'altra foto. «È l'ingrandimento di una sezione degli affreschi della camera sepolcrale, il tratto di parete che più tardi cadde e andò perduto quando furono scoperti i vasi di alabastro. Duraid e io giudicammo significativo il fatto che Taita avesse messo l'iscrizione al posto d'onore, sopra il nascondiglio dei rotoli.» Nicholas prese dal tavolo una lente d'ingrandimento per studiare la foto. Royan continuò: «Ricorderà che Taita amava gli enigmi e i giochi di parole e si vantava di essere il più grande dei giocatori di bao...» Nicholas alzò gli occhi dalla lente. «Lo ricordo. E ritengo fondata la teoria che il bao fosse l'antenato degli scacchi. Ho almeno una dozzina di scacchiere nella collezione del museo: alcune provengono dall'Egitto, altre da località più a sud.» «Sono d'accordo con lei. I due giochi hanno in comune molte regole, ma il bao è più rudimentale. Si gioca con pietruzze colorate di rango diverso. Bene, credo che Taita non seppe resistere alla tentazione di sfoggiare la sua abilità di enigmista e la sua ingegnosità. Credo inoltre che fosse così pieno di sé da lasciare indicazioni circa l'ubicazione della tomba del faraone, sia nei rotoli sia negli affreschi che sostiene di aver dipinto con le sue mani nella tomba dell'amata regina.» «Pensa che questo sia un indizio?» Nicholas batté la lente sulla fotografia. «La legga», disse lei. «È in geroglifici classici, non troppo difficili in confronto ai suoi codici misteriosi.» «Il padre del principe, che non è il padre, il donatore dell'azzurro che lo uccise», tradusse lentamente Nicholas, «vigila eternamente, tenendosi per mano con Hapi, sul testamento di pietra e sulla via che conduce al padre del principe, che non è il padre, il donatore del sangue e delle ceneri.» Nicholas scosse la testa. «No, non ha senso», protestò. «Devo aver fatto un errore di traduzione.» «Non si disperi. Sta cominciando a fare conoscenza con Taita, campione dei giocatori di bao ed enigmista scaltro quant'altri mai. Duraid e io ci siamo scervellati per settimane...» gli assicurò Royan. «Per capirci qualcosa, torniamo al libro. Tanus non era ufficialmente il padre del principe. Tanus, però, in quanto amante della regina, ne era il padre biologico. Sul letto di morte, Tanus consegnò a Memnone la spada azzurra che gli aveva inflitto la ferita mortale nel corso del duello con il re etiope. Un duello descritto nel libro...» Wilbur Smith
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«Già, ricordo. Quando ho letto per la prima volta quel brano, ho pensato che la spada azzurra fosse probabilmente una delle più antiche armi di ferro. A quell'epoca doveva essere quasi un prodigio d'arte degli armaioli. Un dono degno di un principe... Dunque il padre del principe, che non è il padre è Tanus?» Nicholas sospirò, rassegnato. «Per il momento accetto la sua interpretazione.» «Grazie per la fiducia che ha in me», disse Royan in tono sarcastico. «Ma continuiamo con l'enigma di Taita. Il faraone Marnose era il padre di Memnone soltanto di nome; non era il padre biologico. Di nuovo il padre che non era il padre. Marnose lasciò al figlio la corona doppia, rossa e bianca, dell'Alto e Basso Egitto... il sangue e le ceneri.» «Questo posso accettarlo più facilmente. E il resto dell'iscrizione?» Nicholas era chiaramente affascinato. «L'espressione tenendosi per mano è ambigua nell'antica lingua egizia. Potrebbe significare anche 'molto vicino' oppure 'in vista di' qualcosa.» «Continui. Finalmente ha destato la mia attenzione», la incoraggiò lui. «Hapi è il dio o la dea ermafrodita del fiume, secondo il genere che adotta in ogni particolare momento. In tutti i papiri, Taita usa Hapi come nome alternativo del fiume.» «Quindi, se mettiamo insieme il settimo papiro e l'iscrizione della tomba della regina, che interpretazione ne ricava?» «Molto semplicemente questa: Tanus è sepolto in vista del fiume o molto vicino, alla seconda cascata. C'è un monumento di pietra, o un'iscrizione, sulla tomba o nella tomba, che indica la strada per raggiungere quella del faraone.» Nicholas esalò un respiro fra i denti. «Saltare da una conclusione all'altra mi sfinisce. Che altri indizi mi ha scovato?» «È tutto», disse lei, e Nicholas la fissò incredulo. «È tutto? Non c'è altro?» chiese, e Royan scosse la testa. «Supponiamo che finora abbia avuto ragione», riprese lui dopo una breve pausa. «Supponiamo che il fiume abbia conservato la configurazione di tanti secoli fa. Supponiamo che Taita ci stia indirizzando verso la seconda cascata, al fiume Dandera. Che cosa dobbiamo cercare, quando arriveremo là? Se c'era un'iscrizione scolpita nella pietra, sarà ancora intatta, oppure sarà stata erosa dalle intemperie e dall'azione del fiume?» «Howard Carter aveva indizi altrettanto vaghi per arrivare alla tomba di Tutankhamon», fece osservare Royan. «Un frammento di papiro di dubbia Wilbur Smith
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autenticità.» «Howard Carter doveva cercare solo nell'area della Valle dei Re, e nonostante questo ci mise dieci anni», ribatté Nicholas. «Qui stiamo parlando dell'Etiopia, un Paese grande il doppio della Francia. Quanto tempo crede che impiegheremo?» Lei si alzò bruscamente. «Mi scusi, ma devo andare a trovare mia madre all'ospedale. È chiaro che qui sto perdendo tempo.» «Non è ancora l'orario di visita.» «Mia madre è in una stanza privata.» Royan si avviò verso la porta. «L'accompagno io con la macchina», propose Nicholas. «Non si disturbi. Farò chiamare un taxi», replicò lei in tono gelido. «Un taxi ci metterà un'ora.» Royan si rabbonì quanto bastava per permettergli di accompagnarla con il Range Rover. Viaggiarono in silenzio per un quarto d'ora, poi lui parlò. «Non sono bravo a scusarmi. Non ho molta pratica. Comunque mi dispiace. Sono stato troppo brusco. Non volevo. Mi sono lasciato trascinare dall'eccitazione del momento.» Lei non rispose. Dopo un po' Nicholas continuò: «Dovrà decidersi a parlare con me, a meno che voglia corrispondere esclusivamente per iscritto, e sarà piuttosto difficile nella gola dell'Abay». «Avevo l'impressione che non le interessasse più andarci.» Royan guardava fisso davanti a sé. «Sono un bruto», ammise Nicholas, e Royan gli lanciò un'occhiata. Lo vide sorridere in modo irresistibile, e rise. «Immagino che dovrò rassegnarmi all'idea. Lei è un bruto.» «Siamo ancora soci?» «Per il momento è l'unico bruto su cui posso contare, quindi dovrò accontentarmi.» Nicholas la fece scendere all'entrata principale dell'ospedale. «Passerò a prenderla alle tre», disse, e proseguì verso il centro di York. Fin dai tempi dell'università, Nicholas aveva un appartamentino in una delle viuzze dietro la cattedrale. La costruzione era registrata a nome di una società nelle isole Cayman, e il telefono con il numero riservato non passava attraverso un centralino interno. Era impossibile scoprire che il proprietario era lui. Prima di conoscere Rosalind, l'appartamento aveva avuto una parte importante nella sua vita di relazione, ma ormai Nicholas lo usava solo per trattarvi affari riservati e clandestini. Era lì che aveva Wilbur Smith
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pianificato e organizzato le spedizioni in Libia e in Iraq. Da mesi non usava l'appartamento, che era freddo, odoroso di muffa, poco invitante. Accese il fuoco a gas nel camino e riempì il bricco. Poi, quando ebbe davanti una teiera fumante, chiamò una banca di Jersey e subito dopo una delle Cayman. «Un topo saggio ha una tana con più di un'uscita.» Era una massima di famiglia, tramandata di generazione in generazione. Doveva esserci sempre qualcosa da parte, per ogni eventualità. Aveva bisogno di fondi per la spedizione, e gli avvocati avevano già bloccato quasi tutto. Diede le parole d'ordine e i numeri di conto ai direttori delle due banche e chiese di provvedere a certi trasferimenti. Lo sorprendeva sempre vedere con quanta facilità si potevano combinare le cose, quando si aveva il denaro. Consultò l'orologio. In Florida era ancora mattina presto, ma Alison rispose al secondo squillo. Alison, una biondina efficiente e piena di vitalità, dirigeva la Global Safari, una società che organizzava spedizioni di caccia e pesca nelle località più remote del mondo. «Ciao, Nick. Non ti fai vivo da più di un anno. Pensavamo che non ci amassi più.» «Sono rimasto per un po' fuori del giro», ammise lui. In quale modo si può comunicare agli altri che tua moglie e le tue due figlie sono morte? «Etiopia?» Alison non sembrava sconcertata dalla richiesta. «Quando vorresti partire?» «Andrebbe bene la settimana prossima?» «Vuoi scherzare? Là lavoriamo con un solo cacciatore, Nassous Roussos, ed è prenotato per due anni.» «Non c'è nessun altro?» insistette lui. «Devo andare e tornare prima delle grandi piogge.» «Che trofei t'interessano? Nyala di montagna?» «Ho intenzione di raccogliere esemplari per il museo lungo il fiume Abay», tagliò corto Nicholas. Alison esitò, poi disse con riluttanza: «Sia chiaro che non siamo noi a raccomandarlo. C'è solo un cacciatore che può accompagnarti con un preavviso così breve, ma non so neppure se ha un campo sul Nilo Azzurro. E' russo, e abbiamo notizie contraddittorie sul suo conto. Certuni dicono che era del KGB e faceva parte dei gorilla di Menghistu». Menghistu era lo «Stalin nero» che aveva deposto e probabilmente Wilbur Smith
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assassinato l'anziano imperatore Hayla Sellase, e in quattordici anni di dispotico dominio aveva messo in ginocchio l'Etiopia. Quando il suo protettore, l'impero sovietico, si era dissolto, Menghistu era stato spodestato e aveva ottenuto asilo politico all'estero. «Sono così disperato che potrei addirittura andare a letto con il diavolo», borbottò Nicholas. «Comunque ti prometto che non mi lamenterò con te.» «D'accordo, allora, niente proteste.» Alison gli diede un nome e un numero di telefono di Addis Abeba. «Ti amo, Alison», disse Nicholas. «Vorrei che fosse vero», rispose lei, e riattaccò. Nicholas sapeva bene che telefonare ad Addis Abeba non sarebbe stato semplice. Alla fine, però, ottenne la comunicazione. Gli rispose una donna dal dolce accento etiope, che passò all'inglese quando lui le chiese di Boris Brusilov. «Al momento è fuori per un safari», rispose la donna. «Io sono woizero Tessay, sua moglie.» In Etiopia, la moglie non assume il cognome del marito. Nicholas ricordava quella lingua quanto bastava per sapere che il nome significava «signora Sole», un nome molto grazioso. «Però, se si tratta di un safari, posso aiutarla io», disse la signora Sole. Nicholas andò ad attendere Royan davanti all'entrata dell'ospedale. «Come sta sua madre?» «La gamba va bene. Ma è ancora disperata per Magic, il suo cane.» «Dovrà procurarle un cucciolo. Uno dei miei guardacaccia alleva magnifici cocker spaniel. Ci penserò io.» Nicholas s'interruppe, poi chiese gentilmente: «Come farà a lasciare sua madre? Voglio dire, se andremo in Africa...» «Le ho già parlato. C'è una donna della sua parrocchia che starà con lei fino a che non sarà di nuovo in grado di cavarsela da sé.» Royan si girò sul sedile per squadrarlo. «Ha combinato qualcosa, dall'ultima volta che ci siamo visti», disse in tono d'accusa. «Glielo leggo in faccia.» Nicholas fece lo scongiuro anti malocchio usato dagli arabi. «Allah mi salvi dalle streghe!» «Oh, andiamo!» Lui riusciva a farla ridere con tanta facilità che Royan non capiva se fosse un bene o un male. «Mi dica quale asso nasconde nella manica.» «Aspetti che torniamo al museo.» Nicholas non si lasciò smuovere, e lei Wilbur Smith
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fu costretta a frenare l'impazienza. Non appena entrarono, lui la condusse attraverso la sala egizia, l'accompagnò in quella dei mammiferi africani e la fece fermare davanti a un diorama con le antilopi impagliate. C'erano alcune delle varietà più piccole e di media taglia: impala, gazzelle di Grant e di Thomson, gerenuk e altre. «Madoqua harperii», disse indicando un animaletto minuscolo in un angolo del diorama. «Il dik-dik di Harper, conosciuto anche come dik-dik striato.» Era una bestiola apparentemente priva d'interesse, non molto più grande di una grossa lepre. Il manto bruno era striato di marrone scuro sulle spalle e sul dorso, e il naso era allungato in una proboscide pensile. «Non è molto bello.» Royan espresse con prudenza la sua opinione: non voleva offendere Nicholas, che sembrava straordinariamente orgoglioso di quell'esemplare. «Che cos'ha di speciale?» «Speciale?» ribatté lui in tono meravigliato. «Questa donna vuol sapere che cos'ha di speciale?» Alzò gli occhi al cielo e Royan rise di nuovo. «È l'unico esemplare conosciuto. È uno degli animali più rari della terra, così raro che con ogni probabilità è ormai estinto. Così raro che molti zoologi lo considerano un falso e ritengono che non sia mai esistito. Pensano che la buonanima del mio bisnonno, dal quale prende il nome, lo ■ avesse, per così dire, 'inventato'. Un esperto insinuò addirittura che lui avesse preso la pelle di una mangusta striata, montandola poi sulla sagoma di un comune dik-dik. Riesce a immaginare un'accusa più ingiusta?» «C'è da inorridire al solo pensiero», rise lei. «Proprio così. Ed ecco perché andremo in Africa a dare la caccia a un altro esemplare di Madoqua harperii: per vendicare l'onore della famiglia.» «Non capisco.» «Venga con me e capirà.» Nicholas la ricondusse nello studio e prese dalla scrivania un volume rilegato in cuoio rosso. La copertina era sbiadita e macchiata dall'acqua e dal sole tropicale, gli angoli e il dorso erano sfrangiati e ammaccati. «È il diario di caccia del vecchio sir Jonathan», spiegò nell'aprirlo. Fra le pagine erano pressati fiori selvatici e foglie che dovevano essere lì da quasi un secolo. Il testo era illustrato da disegni tracciati con un inchiostro giallastro e che mostravano uomini, animali e paesaggi. Wilbur Smith
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«'2 febbraio 1902'», lesse Nicholas. «'Accampati sul fiume Abay. Seguito per tutto il giorno le tracce di due grossi maschi d'elefante. Non li abbiamo raggiunti. Caldo intenso. Miei uomini esausti. Abbandonata la caccia, fatto ritorno al campo. Durante la marcia, avvistata una piccola antilope che pascolava sulla riva. L'ho abbattuta con un colpo del Rigby piccolo. Osservata da vicino è risultata appartenere al genere Madoqua rhyncho-tragus, ma era una specie che non avevo mai visto, più grande del dik-dik comune e con il manto striato. Credo che sia sconosciuta alla scienza.'» Alzò gli occhi dal diario. «Il bisnonno Jonathan ci ha offerto il pretesto ideale per andare nella gola dell'Abay.» Chiuse il volume e proseguì: «Come mi ha fatto notare, per preparare una spedizione nostra ci vorrebbero mesi, e costerebbe un patrimonio. E dovremmo ottenere l'approvazione e l'autorizzazione del governo etiope. In Africa spesso occorrono addirittura anni». «Non credo che il governo etiope sarebbe disposto a collaborare se sospettasse le nostre vere intenzioni», ammise Royan. «D'altra parte, esiste un certo numero di società regolari che organizzano safari di caccia in tutto il Paese. Hanno tutti i permessi, i contatti a livello governativo, i veicoli, l'equipaggiamento e l'appoggio logistico necessari per andare e venire anche nelle zone più remote. Le autorità sono abituate ai cacciatori stranieri che partecipano alle spedizioni organizzate da queste società, mentre due ferengi che vanno in giro soli a curiosare si vedrebbero piombare addosso i militari e tutto il resto come un branco di bufali inferociti.» «Quindi viaggeremo come due cacciatori di dik-dik?» «Ho già fatto le prenotazioni con un organizzatore di safari di Addis Abeba. Il mio piano è questo: dividere il nostro progetto in tre fasi distinte e separate. La prima sarà la ricognizione. Se troveremo la pista buona, torneremo con uomini ed equipaggiamento nostri, e sarà la seconda fase. La terza fase, naturalmente, consisterà nel portare il bottino fuori dell'Etiopia, e in base alle esperienze del passato le assicuro che non sarà la parte più facile dell'operazione.» «E come farà...» attaccò Royan, ma lui alzò le mani per interromperla. «Non me lo chieda perché per il momento non ho neppure la più vaga idea di quel che potremmo fare. Una fase alla volta.» «Quando partiamo?» Wilbur Smith
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«Prima che glielo dica, mi permetta di farle ancora una domanda. La sua interpretazione dell'enigma di Taita... era contenuta negli appunti che sono stati rubati nell'oasi?» «Sì. Era tutto negli appunti o nei microfilm. Mi dispiace.» «Quindi i cattivi sanno tutto quello che ha spiegato a me?» «Sì, purtroppo.» «Allora, alla domanda: 'Quando partiamo?', io rispondo: 'Tout de suite'. Al più presto possibile. Dobbiamo entrare nella gola dell'Abay prima che la concorrenza ci preceda. Ormai hanno nelle mani le sue conclusioni e le sue ipotesi da quasi un mese. Per quel che ne sappiamo, possono essere già in viaggio.» «Quando partiamo?» ripeté lei, impaziente. «Ho prenotato due posti sul volo della British Airways per Nairobi di sabato prossimo, cioè fra due giorni. A Nairobi prenderemo il volo dell'Air Kenya che ci porterà ad Addis Abeba lunedì verso mezzogiorno. Abbiamo appena il tempo sufficiente per equipaggiarla. Questa sera andremo a Londra e alloggeremo in casa mia. È a posto con le vaccinazioni contro la febbre gialla e l'epatite?» «Sì, ma non ho equipaggiamento e ho pochissimi capi di vestiario. Ho lasciato il Cairo piuttosto in fretta.» «Provvederemo a Londra. Il guaio è che in Etiopia fa abbastanza freddo per evirare una scimmia di bronzo sugli altipiani, e nella gola fa tanto caldo che sembra d'essere in una sauna.» Nicholas andò al tabellone e cominciò a spuntare gli oggetti nell'elenco. «Dobbiamo incominciare subito il trattamento profilattico contro la malaria. Andremo in un'area dove prospera il Plasmodium falciparum resistente alla clorochina, quindi le farò prendere il Mefloquine... Poi, che altro c'è? Be', è chiaro che tutti i suoi documenti sono in ordine, altrimenti non sarebbe qui. Avremo bisogno dei visti d'ingresso per l'Etiopia; ma ho un conoscente che può provvedere in ventiquattr'ore.» Appena ebbe terminato la Usta, mandò Royan a riempire il borsone con i pochi effetti personali che aveva portato dal Cairo. Quando furono pronti a lasciare Quenton Hall, fuori era buio; Nicholas comunque si fermò allo York Minster Hospital perché Royan potesse salutare la madre. L'attese per un'oretta nel pub Red Lion dall'altra parte della strada, e quando la donna risalì a bordo del Range Rover sentì un vago odore di Theakstons Bitter Ale. Era un piacevole aroma di lievito, e Wilbur Smith
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lei si sentiva così a suo agio che, dopo essersi sistemata sul sedile, si addormentò. La casa di Nicholas a Londra era a Knightsbridge e, sebbene si trovasse in una delle zone più di moda, era molto meno grandiosa di Quenton Hall. Royan in un certo senso la preferiva, anche se si trattava di abitarci solo per un paio di giorni. Vedeva poco Nicholas, occupato con gli impegni dell'ultimo momento, incluse parecchie visite agli uffici governativi di Whitehall. Tornò con pacchi di lettere di presentazione per alti funzionari, ambasciate britanniche e alti commissari di tutta l'Africa orientale. «Basta chiederlo a qualunque inglese», pensava lei con un sorriso. «Non esistono più privilegi delle classi superiori e la rete delle vecchie amicizie non domina più il Paese.» Nicholas le aveva consegnato una sorta di lista della spesa, così lei se ne andò in giro a fare acquisti. Persino mentre camminava per le vie della capitale più sicura del mondo, Royan si sorprendeva a guardarsi alle spalle: entrava e usciva dalle toelette per signore e dalle stazioni della metropolitana per accertarsi che nessuno la seguisse. «Ti comporti come una bambina atterrita che va in giro senza papà», si rimproverò. La sera provava comunque un incredibile senso di sollievo quando sentiva la chiave girare nella serratura, e doveva fare uno sforzo per trattenersi dal corrergli incontro per la scala. Il sabato mattina, quando un taxi li lasciò davanti al settore partenze dell'Heathrow Terminal 4, Nicholas lanciò uno sguardo di approvazione ai loro bagagli. Lei aveva ancora un unico borsone di tela non più grande del suo, e portava un'altra borsa a tracolla. Il fucile da caccia era nella logora custodia di cuoio con il monogramma. Cento cartucce erano riposte in un caricatore separato, e in più lui aveva una cartella di pelle che sembrava una reliquia vittoriana. «Viaggiare con poco bagaglio è una delle virtù più grandi. Il Signore ci salvi dalle donne con una montagna di valigie», disse. Rifiutò l'aiuto di un facchino, buttò tutto su un carrello e lo spinse personalmente. Royan fu costretta ad allungare il passo per stargli dietro, mentre attraversava l'affollata sala partenze. Miracolosamente, la calca si aprì Wilbur Smith
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davanti a lui. Nicholas abbassò su un occhio la tesa del panama e sorrise maliziosamente alla ragazza al banco del check-in, che diventò di colpo premurosissima. La scena si ripeté quando furono a bordo. Le due hostess ridacchiavano ogni volta che lui parlava, gli offrivano champagne e lo circondavano di attenzioni con evidente irritazione degli altri passeggeri, inclusa Royan. Decise d'ignorare Nicholas e le hostess, e si mise tranquilla per godersi il lusso del sedile reclinabile di prima classe e del videoschermo in miniatura. Cercò di concentrarsi sull'immagine di Richard Gere, ma il suo pensiero tornava sempre ad altre immagini, quelle di canyon selvaggi e di antiche steli. Solo quando Nicholas le urtò leggermente il gomito, si voltò a guardarlo con una certa alterigia. Lui aveva piazzato una piccola scacchiera da viaggio sul bracciolo: inarcò un sopracciglio e chinò la testa in segno d'invito. Quando atterrarono all'aeroporto Jomo Kenyatta di Nairobi erano ancora impegnati nella battaglia. Erano in parità con due vittorie ciascuno, ma lei aveva un vantaggio di un alfiere e due pedoni nella partita decisiva. Royan era molto soddisfatta di sé. Lui aveva prenotato due bungalow nel giardino del Norfolk Hotel, uno per ciascuno. Royan si era buttata sul letto da cinque minuti quando la chiamò con il telefono interno. «Stasera andremo a cena con l'alto commissario britannico. È un vecchio amico. Si vesta in modo informale. Può essere pronta per le otto?» A quanto pareva, non era necessario adattarsi a condizioni di vita troppo scomode quando si viaggiava per il mondo in compagnia di quell'uomo. La trasferta da Nairobi ad Addis Abeba era relativamente breve, e il paesaggio sottostante si dispiegava in sequenze così affascinanti che Royan non staccò mai gli occhi dal finestrino dell'aereo dell'Air Kenya. La sommità candida del monte Kenya era eccezionalmente libera dalle nubi, e la neve che ammantava i picchi gemelli scintillava nel sole. I deserti bruni della regione della frontiera settentrionale erano punteggiati solo dalle colline verdi che circondavano l'oasi di Marsabit e lontano, sulla sinistra, dalle acque luccicanti del lago Rodolfo. Finalmente il deserto lasciò il posto agli altipiani centrali dell'antica terra d'Etiopia. «In Africa, soltanto gli egizi avevano una civiltà ancora più antica», commentò Nicholas mentre osservava lo spettacolo insieme a Royan. Wilbur Smith
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«Erano una razza già evoluta quando noi, popoli dei climi settentrionali, vestivamo ancora di pelli non conciate e vivevamo nelle caverne. Erano cristiani quando gli europei erano ancora pagani e veneravano gli antichi dei, Pan e Diana...» «Erano civilizzati quando Taita passò di qui, quasi quattromila anni fa», riconobbe Royan. «Nei suoi papiri lì descrive come se fossero quasi suoi pari da un punto di vista culturale, il che è un atteggiamento piuttosto insolito, dato che disprezzava come inferiori tutte le altre nazioni del mondo a lui contemporaneo.» Vista dall'alto, Addis Abeba era simile a tante altre città africane, un miscuglio di vecchio e nuovo, di stili architettonici tradizionali ed esotici. C'erano tetti di paglia accanto alle lamiere e alle piastrelle, e i muri rotondi dei vecchi tucul costruiti con argilla e canne contrastavano con le forme rettangolari e le linee geometriche delle costruzioni in mattoni a molti piani; i caseggiati e le ville dei ricchi, gli uffici governativi e la grandiosa sede imbandierata dell'OUA, l'Organizzazione dell'unità africana. Le caratteristiche distintive della campagna circostante erano le piantagioni di eucalipti, gli onnipresenti blue gums che fornivano legna da ardere, l'unico combustibile a disposizione di tanti abitanti di quella terra povera e dilaniata dalla guerra, sconvolta nel corso dei secoli da eserciti di saccheggiatori e, in tempi più recenti, da varie dottrine politiche d'importazione. Dopo Nairobi, a quell'altitudine l'aria era fresca e dolce. Royan e Nicholas lasciarono l'aereo e si avviarono attraverso la pista per raggiungere il terminal. Non appena entrarono, ancora prima che si fossero avvicinati ai funzionari dell'immigrazione, qualcuno chiamò. «Sir Nicholas!» Si voltarono entrambi e videro una donna alta e giovane che veniva loro incontro con la grazia di una danzatrice. Il bel volto scuro era rischiarato da un sorriso di benvenuto. Portava le lunghe gonne tradizionali che mettevano in risalto l'armoniosità dei suoi movimenti. «Benvenuti nella mia Etiopia. Sono woizero Tessay.» Guardò Royan, incuriosita. «E lei deve essere woizero Royan.» Tese la mano e Nicholas notò che le due donne si trovavano simpatiche a prima vista. «Se volete darmi i passaporti, sbrigherò le formalità mentre riposate nella lounge dei VIP. C'è un signore dell'ambasciata britannica che la sta aspettando per salutarla, sir Nicholas. Non so come sia stato informato del suo arrivo.» Wilbur Smith
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Nella lounge dei VIP c'era una sola persona. Portava un abito tropicale di buon taglio e la cravatta a strisce diagonali arancioni, gialle e blu degli ex allievi di Sandhurst. Si alzò e andò subito incontro a Nicholas. «Nicky, come va? È un piacere rivederti. Devono essere passati dodici anni, no?» «Salve, Geoffrey. Non immaginavo che ti avessero spedito qui.» «Sono l'addetto militare. L'ambasciatore mi ha mandato a riceverti appena ha saputo che eravamo a Sandhurst insieme.» Geoffrey guardò Royan con palese interesse, e Nicholas si rassegnò a presentarli. «Geoffrey Tennant. Si guardi da lui. È il peggior libertino a nord dell'equatore. Nessuna ragazza è al sicuro a meno di un chilometro da lui.» «Ehi, calma», protestò Geoffrey, anche se sembrava lusingato dalla descrizione di Nicholas. «Non creda a una sola parola di quel che racconta costui, dottoressa Al Simma. È un famigerato prevaricatore.» Geoffrey prese in disparte Nicholas e gli fece un rapido riepilogo della situazione nel Paese, soprattutto nelle zone lontane dalla capitale. «L'ambasciatore è un po' preoccupato. Non gli sorride l'idea che voi due andiate in giro da soli. Nel Gojam circola un rispettabile numero di delinquenti allo stato brado. Gli ho risposto che sai badare a te stesso.» Woizero Tessay tornò quasi subito. «Ho sdoganato i vostri bagagli, inclusi il fucile e le munizioni. Ecco il vostro permesso temporaneo. Tenetelo sempre con voi finché restate in Etiopia. Ecco i passaporti, con i visti d'entrata. Tutto in regola. Il vostro aereo per il lago Tana parte fra un'ora, quindi abbiamo tempo per il check-in.» «Se mai avrà bisogno di un lavoro, si rivolga a me», la complimentò Nicholas. Geoffrey Tennant li accompagnò fino all'uscita delle partenze e strinse loro la mano. «Se posso fare qualcosa, sono a disposizione. 'Servire per comandare', Nicky.» «Servire per comandare?» chiese Royan mentre raggiungevano l'aereo. «È il motto dell'accademia di Sandhurst», spiegò lui. «È molto bello, Nicky», mormorò lei. «Ho sempre pensato che Nicholas sia più dignitoso e appropriato.» «Sì, ma Nicky ha un suono così dolce...» Nell'aria rarefatta, il bimotore Otter che li portava a destinazione rollava e beccheggiava nelle correnti che salivano dalle montagne sottostanti. Sebbene fossero cinquemila metri sopra il livello del mare, il terreno era Wilbur Smith
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abbastanza vicino per vedere i villaggi e i tratti coltivati che li circondavano. Sfruttata da secoli in modo irrazionale e soggetta al pascolo incontrollato delle mandrie domestiche, la terra aveva perso vigore, e le rocce, simili a ossa, spuntavano attraverso il sottile strato rosso di humus. L'altopiano che stavano sorvolando era però dilaniato da un abisso mostruoso, come se la terra avesse ricevuto nelle viscere un poderoso colpo di spada. «Il fiume Abay!» Tessay si sporse sul sedile per battere la mano sulla spalla di Royan. L'orlo della gola era tagliato nettamente, e i pendii discendevano a un angolo superiore ai trenta gradi. Le pianure spoglie del pianoro lasciavano il posto alle pareti fittamente alberate della gola. Erano visibili le sagome a candelabro delle euforbie giganti che s'innalzavano sopra la giungla. In certi punti, le pareti erano crollate in pendii di rocce frantumate, in altri si ergevano in alture e guglie che l'erosione aveva scolpito mostruosamente in figure di umanoidi torreggianti e di altre fantastiche creature di pietra. La gola scendeva e scendeva; l'aereo la sorvolò fino a che poterono scorgere, millecinquecento metri più in basso, il serpente scintillante che si snodava nelle profondità. La forma a imbuto delle pareti superiori costituiva un secondo orlo dove raggiungevano i dirupi perpendicolari della subgola, centocinquanta metri sopra il Nilo. Laggiù, fra gli strapiombi terribili, il fiume scavava nell'arenaria rossa lanche scure e lunghi tratti serpentini. In certi punti la gola era ampia almeno sessanta chilometri, in altri si restringeva a meno di dieci, ma l'impressione complessiva che se ne ricavava era sia d'infinita grandiosità sia di immane desolazione. In quel luogo, l'uomo non aveva lasciato segni. «Fra poco sarete laggiù», disse Tessay in un tono intimidito che era quasi un sussurro. Tacquero entrambi. Le parole erano superflue di fronte a quella natura selvaggia. Quasi con sollievo videro la parete settentrionale venire loro incontro. I monti della catena del Choke si ergevano contro l'azzurro cielo africano, più alti della quota cui volava il piccolo, fragile aereo. Il bimotore virò e scese, e Tessay indicò al di là della punta dell'ala destra. «Il lago Tana», spiegò. Era uno specchio d'acqua grande e bellissimo, lungo più di ottanta chilometri e costellato d'isole che ospitavano ciascuna un monastero o una chiesa antica. Quando si abbassarono per atterrare Wilbur Smith
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videro i preti biancovestiti che si spostavano da un'isola all'altra a bordo delle piccole imbarcazioni tradizionali di papiro. L'Otter si portò sulla pista di terra battuta in riva al lago e sollevò una lunga nube di polvere. Si girò e fermò i motori accanto all'edificio malconcio del terminal che aveva il tetto di paglia. Il sole era così fulgido che Nicholas prese un paio di occhiali dal taschino della giacca color kaki e l'inforcò non appena mise piede sulla scaletta. Vide i muri biancastri del terminal crivellati dai segni dei proiettili e degli shrapnel. Sull'erba, al bordo della pista, c'era la carcassa bruciata di un carro armato russo T35. Il cannone della torretta puntava verso est, e l'erba era cresciuta fra i cingoli arrugginiti. Gli altri passeggeri si accalcavano impazienti dietro di lui, e dalle loro voci traspariva l'ansia d'incontrare i parenti e gli amici che li aspettavano sotto gli eucalipti intorno alla costruzione. C'era un solo veicolo, un Land Cruiser Toyota color sabbia. Sulla portiera, dalla parte del guidatore, campeggiava uno stemma rotondo con la testa di un nyala di montagna dalle lunghe corna a cavatappi, e sotto un nastro con la scritta WILD CHASE SAFARIS. Al volante c'era un bianco. Quando Nicholas scese la scaletta dietro le due donne, l'uomo uscì dal fuoristrada e andò loro incontro. Indossava un abito da caccia kaki molto sbiadito. Era alto e magro e camminava con passo scattante. «Dev'essere sulla quarantina», si disse Nicholas, calcolando l'età dai peli brizzolati che spiccavano nella corta barba. «Un tipo duro», pensò poi. I capelli rossastri erano tagliati molto corti, gli occhi erano di un celeste gelido. Una cicatrice bianca gli attraversava la guancia e saliva a distorcere il naso. Tessay gli presentò Royan, e l'uomo accennò un secco inchino mentre le stringeva la mano. «Enchanté», disse lui in un francese davvero non perfetto. Quindi guardò Nicholas. «Questo è mio marito, alto Boris», lo presentò Tessay. «Boris, questo è alto Nicholas.» «Parlo malissimo l'inglese», spiegò Boris. «Me la cavo meglio con il francese.» «C'è poco da scegliere», pensò Nicholas, ma sorrise con disinvoltura e disse: «Allora parleremo in francese. Bonjour, monsieur Brusilov. Lieto di fare la sua conoscenza». E tese la mano. La stretta di Boris era forte, anche troppo. Trasformava il saluto in una Wilbur Smith
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competizione, ma Nicholas se l'aspettava. Conosceva quel tipo d'uomo; e gli strinse la mano in modo che Boris non potesse schiacciargli le dita. Continuò a trattenerlo senza permettere che lo sforzo alterasse il suo sorriso pigro. Boris fu il primo a ritirare la mano, e negli occhi chiari apparve una sfumatura di rispetto. «Dunque siete venuto per un dik-dik?» chiese con aria quasi sprezzante. «Quasi tutti i miei clienti vengono in cerca di elefanti, o almeno di nyala di montagna.» «Un po' troppo grossi per il mio carattere», sorrise Nicholas. «I dik-dik andranno benissimo.» «È mai stato nella gola?» chiese Boris. L'accento russo sopraffaceva le parole francesi e le rendeva difficili da comprendere. «Sir Nicholas era uno dei capi della spedizione del 1976», intervenne soavemente Royan, e Nicholas trovò divertente quell'intromissione: la donna aveva notato subito l'antagonismo fra i due uomini, ed era venuta in suo soccorso. Boris sbuffò e si rivolse alla moglie. «Hai portato tutte le provviste che avevo ordinato?» chiese. «Sì, Boris», rispose lei. «Sono a bordo dell'aereo.» Nicholas pensò che woizero Tessay aveva paura del marito... e probabilmente a ragione. «Allora carichiamole. Ci attende un lungo viaggio», disse Boris. I due uomini presero posto sui sedili anteriori del Toyota, e le donne dietro, con molti sacchi di provviste. Nicholas sorrise tra sé; era il tipico atteggiamento africano: prima gli uomini, e che le donne si arrangino. «Non volete fare il percorso turistico, vero?» chiese Boris in tono quasi minaccioso. «Il percorso turistico?» «Lo sbocco del lago e la centrale elettrica», spiegò Boris. «Il ponte portoghese sulla gola è in un punto dove nasce il Nilo Azzurro.» Ma, prima che potessero rispondere, li avvertì: «Allora non arriveremo al campo prima di notte inoltrata». «Grazie per il suggerimento», rispose educatamente Nicholas. «Però ho già visto tutto quanto.» «Bene», disse Boris in tono di approvazione. «Andiamo.» La strada puntava verso ovest, al di sotto delle alte montagne. Quello era il Gojam, la terra dei montanari, una zona piuttosto popolosa. Incontrarono molti uomini lungo la strada: procedevano con i greggi di capre e di pecore Wilbur Smith
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e portavano sulle spalle i lunghi bastoni. Uomini e donne indossavano gli shammas, i tipici scialli di lana, ampi calzoni bianchi e sandali. Avevano volti belli e orgogliosi, e i capelli acconciati in aureole folte. Gli occhi erano fieri come quelli delle aquile. Alcune delle donne più giovani che incontravano nei villaggi erano autentiche bellezze. Quasi tutti gli uomini erano armati: portavano due spade nei foderi intarsiati d'argento, e fucili d'assalto AK47. «Così si sentono grandi uomini», ridacchiò Boris. «Molto coraggiosi, molto macho.» Le capanne del villaggio erano tucul rotondi, circondati da piantagioni di eucalipti e di agave. I nuvoloni violacei ribollivano sopra le vette della catena del Choke e l'investivano con brevi acquazzoni. Come monete argentee, le grosse gocce battevano contro il parabrezza del fuoristrada e trasformavano la strada in un torrente di fango. Le condizioni della strada erano spaventose. In certi punti si trasformava in un canalone roccioso che neppure le quattro ruote motrici del Toyota potevano affrontare, e Boris era costretto a deviare attraverso i pendii. Spesso erano costretti a procedere a passo d'uomo, sbatacchiati sui sedili quando le ruote sobbalzavano sul terreno accidentato. «Quei maledetti negri non pensano neppure a riparare le strade», borbottò Boris. «A loro piace vivere come animali.» Nessuno degli altri rispose, ma Nicholas guardò le donne nello specchietto retrovisore. I loro volti erano impenetrabili, e nascondevano l'irritazione che forse provavano per quel commento. Via via che proseguivano, la strada, già pessima, peggiorò ulteriormente. A un certo punto, Nicholas notò che la superficie molle e fangosa era stata alterata dalle ruote e dai cingoli di un traffico intenso. «Traffico militare?» chiese, alzando la voce per farsi sentire nel fragore della pioggia. «In parte», borbottò Boris. «Lungo la gola ci sono molti sciftà, banditi e ribelli. Ma in maggioranza il traffico è legato alla prospezione mineraria. Una grossa compagnia ha ottenuto concessioni nel Gojam e si prepara a cominciare le trivellazioni.» «Non abbiamo incontrato veicoli civili», osservò Royan. «Neppure autobus pubblici.» «Siamo appena usciti da una fase terribile della nostra storia così lunga e travagliata», spiegò Tessay. «La nostra economia si basa sull'agricoltura. Wilbur Smith
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Una volta eravamo il granaio dell'Africa; ma quando Menghistu s'impadronì del potere, ci spinse nell'abisso della miseria. Affamare il popolo era per lui un'arma politica, e noi ne soffriamo ancora moltissimo. Sono pochi quelli che possono concedersi il lusso di un veicolo a motore: in maggioranza si chiedono come faranno a sfamare i figli.» «Tessay è laureata in economia all'università di Addis Abeba», rise Boris. «È molto intelligente e sa tutto. Potete chiederle quello che volete: storia, religione, economia...» A quel commento ironico, Tessay si chiuse di nuovo nel silenzio. A metà del pomeriggio, la pioggia finalmente smise di cadere e un sole timido s'affacciò fra le nubi. Boris fermò il Toyota in un tratto deserto di campagna. «Sosta», annunciò. «Breve fermata per fare pipì.» Le due donne scesero e si allontanarono fra le rocce. Quando tornarono, si erano cambiate: tutte e due indossavano gli shammas e i pantaloni abbondanti in uso nel Paese. «Tessay mi ha regalato un costume tradizionale del Tigrai», annunciò Royan, e girò su se stessa per mostrarlo a Nicholas. «È bellissimo», disse lui. «Inoltre con i pantaloni starà molto più comoda.» Il sole si stava abbassando nel cielo quando imboccarono una strada che discendeva in una valle rocciosa, percorsa da un fiume le cui rive scoscese erano vistosamente erose. Al di sopra del fiume era annidata un'altra chiesa bianca con la croce copta di legno sul tetto di paglia. Era circondata dal villaggio formato da tucul. «Debra Mariam», annunciò soddisfatto Boris. «La collina della Vergine Maria. Il fiume è il Dandera. Ho mandato avanti i miei uomini con il camion grande. Prepareranno il campo e ci aspetteranno. Stanotte dormiremo qui e domani seguiremo il fiume verso valle fino all'inizio della gola.» I collaboratori di Boris avevano montato le tende in un boschetto di eucalipti poco oltre il villaggio. «La seconda tenda è la vostra», disse Boris indicandola. «Andrà benissimo per Royan», rispose Nicholas. «Ma ne occorre un'altra per me.» «Dik-dik e tende separate.» Boris lo squadrò con gli occhi celesti. «Diavolo di un uomo. È sensazionale.» Gridò ai suoi di montare la tenda di Nicholas accanto all'altra: i teli Wilbur Smith
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laterali quasi si toccavano. «Forse troverà il coraggio durante la notte», disse a Nicholas con un sorriso malizioso. «Non voglio che debba fare troppa strada.» La doccia era formata da un bidone appeso ai rami bassi di un eucalipto e circondata da uno schermo di tela. Royan l'usò per prima e tornò allegra e rinfrescata, con un asciugamano umido avvolto intorno alla testa. «Tocca a lei, Nicky», disse a Nicholas mentre passava accanto alla sua tenda. «L'acqua è piacevolmente calda.» Era ormai buio quando Nicholas ebbe finito di fare la doccia e di cambiarsi, ed entrò nella tenda-sala da pranzo, dove gli altri erano seduti intorno al fuoco sulle sedie pieghevoli. Le due donne stavano un po' in disparte e parlavano a voce bassa. Boris teneva i piedi sul tavolo e aveva in mano un bicchiere. Indicò la bottiglia di vodka quando Nicholas entrò nel cerchio della luce del fuoco. «Si serva pure. Il ghiaccio è nel secchiello.» «Preferisco una birra», rispose Nicholas. «Il viaggio mi ha fatto venir sete.» Boris alzò le spalle e gridò al capo dei servitori di prendere una bottiglia dal frigorifero portatile. «Lasci che le dica una cosa, un piccolo segreto», disse poi a Nicholas, mentre si versava un'altra vodka. «Ormai il dik-dik striato non esiste più, anche ammettendo che un tempo esistesse. Sta sprecando tempo e denaro.» «Benissimo», dichiarò tranquillo Nicholas. «Tanto, il tempo e il denaro che spreco sono miei.» «Anche se qualcuno ha visto un dik-dik striato secoli fa, questo non vuol dire che adesso lei ne troverà un altro. Potremmo andare nelle piantagioni di tè in cerca di elefanti. È là che ho visto tre maschi appena dieci giorni fa. E tutti avevano zanne che dovevano pesare almeno quarantacinque chili.» Mentre discutevano, il livello della vodka scendeva come quello del Nilo al termine della piena. Quando Tessay annunciò che la cena era pronta, Boris prese la bottiglia e si diresse al tavolo barcollando un po'. Durante il pasto, partecipò alla conversazione solo per protestare con Tessay. «L'agnello è crudo. Perché non stai attenta che il cuoco lo arrostisca come si deve? Maledetti scimmioni, bisogna sorvegliare tutto quello che fanno.» «Il suo agnello è poco cotto, alto Nicholas?» chiese Tessay senza Wilbur Smith
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guardare il marito. «Posso dire al cuoco di rimetterlo sul fuoco.» «No, va benissimo così», le assicurò Nicholas. «A me l'agnello piace al sangue.» Prima che la cena terminasse, la bottiglia di vodka era vuota, e Boris aveva la faccia gonfia e arrossata. Si alzò senza pronunciare una parola e sparì nell'oscurità in direzione della tenda, barcollando e saltellando un po' per riprendere l'equilibrio. «Scusatelo», disse Tessay. «Fa così soltanto la sera. Di giorno è normale. E la vodka è una tradizione russa.» Sorrise, ma i suoi occhi avevano un'espressione triste. «È una bella notte, ed è troppo presto per andare a dormire. Vi piacerebbe fare una passeggiata fino alla chiesa? È antica e famosa. Dirò a un servitore di portare una lanterna, così potrete ammirare gli affreschi.» Il servitore li precedette, illuminando la strada. Un vecchio prete li accolse sotto il portico della costruzione circolare. Era magro e aveva la carnagione così scura che nel buio si scorgevano solo i denti. Portava una magnifica croce copta d'argento massiccio, tempestata di corniole e di altre pietre semi preziose. Royan e Tessay s'inginocchiarono per chiedere la sua benedizione e il prete, mormorando una preghiera in amharico, si chinò e toccò le loro guance con la croce. Quindi li condusse nell'interno. Le pareti del portico erano coperte da magnifici affreschi, ottenuti utilizzando solo i colori primari. Le macchie blu violetto, verdi e rosse brillavano come gemme alla luce della lanterna. Lo stile ricordava quello bizantino. I santi avevano enormi occhi a mandorla e grandi aureole dorate. Sull'altare, fra gli arredi di bronzo e di similoro, la Vergine allattava Gesù Bambino, mentre i tre Magi e numerosi angeli stavano inginocchiati in atto di adorazione. Nicholas prese la polaroid dalla tasca della giacca e regolò il flash, poi fece il giro del portico e fotografò gli affreschi, mentre Tessay e Royan s'inginocchiarono davanti all'altare. Quando ebbe terminato di fare le fotografie, Nicholas sedette in uno dei banchi di legno e attese in silenzio, osservando i visi assorti delle due donne che la luce delle candele accendeva di riflessi dorati. La bellezza del momento lo commuoveva. «Vorrei avere una fede come quella», pensò. «Deve essere un vero conforto nei momenti difficili. Sarebbe bello riuscire a pregare così per Wilbur Smith
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Rosalind e per le bambine...» Non resistette più. Uscì, andò a sedere sotto il portico e si mise a contemplare il cielo notturno. A quelle altitudini, nell'aria rarefatta e non inquinata, le stelle erano così fitte e brillanti che era difficile distinguere le singole costellazioni. Dopo un po' la sua tristezza si placò. Era bello essere di nuovo in Africa. Quando finalmente le due donne uscirono, Nicholas consegnò al prete una banconota da cento birr e una foto che lo ritraeva e che il vecchio mostrò di apprezzare più del denaro. Poi i tre ridiscesero la collina, paghi del quieto silenzio che li circondava. «Nicky!» Royan lo scosse per svegliarlo, e quando lui si sollevò a sedere e accese la torcia elettrica si accorse che lei si era buttata addosso lo scialle di lana sopra il pigiama a righe prima di entrare nella tenda. «Che c'è?» le chiese. Ma prima che Royan potesse rispondergli, sentì una voce rauca e rabbiosa che gridava insulti nella notte, poi l'urto inequivocabile di un pugno. «La sta picchiando», disse Royan, indignata. «Deve farlo smettere.» Dopo il colpo si levò un grido di dolore, quindi una serie di singhiozzi angosciati. Nicholas esitò. Solo uno sciocco s'intromette fra marito e moglie, e di solito i due fanno causa comune e si schierano contro di lui. «Deve fare qualcosa, Nicky. La prego!» Controvoglia, Nicholas si alzò. Dormiva con i boxer addosso e non si preoccupò di cercare le scarpe. Royan, scalza anche lei, lo seguì in fondo al boschetto dove c'era la tenda di Boris. All'interno, la luce di una lanterna ingigantiva le ombre sulla tela. Nicholas vide che Boris aveva afferrato la moglie per i capelli e la trascinava per terra urlando in russo. «Boris!» Dovette gridare il nome per tre volte per attirare la sua attenzione. Videro il movimento delle ombre sulla tela quando l'uomo lasciò Tessay e spalancò l'entrata della tenda. Indossava solo un paio di mutande. Il torace era snello e muscoloso, il petto solido, coperto di pelo color rame. In terra, dietro di lui, Tessay era distesa bocconi e singhiozzava, coprendosi la faccia con le mani. Era nuda, e il suo corpo era agile e flessuoso come quello di una pantera. «Che diavolo succede?» chiese Nicholas. Cominciava a infuriarsi nel vedere la sofferenza e l'umiliazione di quella donna graziosa e gentile. Wilbur Smith
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«Voglio dare a questa puttana negra una lezione di buone maniere», ribatté Boris, con la faccia ancora gonfia e arrossata dall'alcool e dalla rabbia. «Non è affar suo, inglese, a meno che non voglia pagare per divertirsi un po' con lei.» Rise, una risata sguaiata. «Come va, woizero Tessay?» Nicholas fissò negli occhi Boris, per risparmiare alla donna l'ulteriore umiliazione di essere guardata, nuda, da un altro uomo. Tessay si sollevò a sedere e piegò le ginocchia contro il petto, poi le cinse con le braccia per nascondersi. «Tutto a posto, alto Nicholas. Se ne vada, per favore, prima che succeda un guaio serio.» Il sangue le colava da una narice alla bocca e le colorava di rosa i denti. «Ha sentito mia moglie, bastardo d'un inglese? Se ne vada! Pensi agli affari suoi, prima che dia anche a lei una lezioncina di buone maniere.» Boris si avvicinò barcollando e premette la mano aperta contro il petto di Nicholas, il quale si mosse con la prontezza e l'eleganza di un matador che evita la prima carica furiosa del toro. Si spostò a lato e sfruttò lo slancio di Boris per lasciarlo proseguire nella direzione in cui era avviato. Il russo perse completamente l'equilibrio, avanzò traballando nello spiazzo davanti alla tenda, andò a sbattere contro una delle sedie pieghevoli e finì a terra. «Royan, accompagni Tessay nella sua tenda!» ordinò Nicholas a voce bassa. Royan corse a prendere un lenzuolo da una branda, lo drappeggiò sulle spalle di Tessay e l'aiutò ad alzarsi. «No, per favore», singhiozzò la donna. «Non sapete come diventa quando si riduce in questo stato. Farà del male a qualcuno.» Sebbene Tessay continuasse a piangere e a protestare, Royan la condusse con risolutezza fuori della tenda. Nel frattempo però Boris s'era rialzato. Con un muggito di rabbia, afferrò la sedia pieghevole; quindi con uno strattone divelse una gamba e la brandì. «Ha voglia di giocare, inglese? E va bene, giochiamo!» Si diresse verso Nicholas, mulinando nell'aria la gamba della sedia come se fosse un bastone ninja. Poi, con un sibilo, il legno si avventò verso la testa di Nicholas; e quando questi lo schivò, Boris invertì la direzione per colpire l'avversario al petto, sotto il braccio alzato. Se l'avesse centrato, gli avrebbe di certo rotto qualche costola, ma anche questa volta Nicholas lo evitò. Girarono l'uno intorno all'altro, studiandosi; poi Boris caricò di nuovo. Wilbur Smith
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Fortunatamente la vodka gli aveva annebbiato i riflessi, altrimenti il russo sarebbe stato pressoché imbattibile; avvantaggiato quindi dalla scarsa lucidità di Boris, Nicholas riuscì a schivare la gamba della sedia. Poi si raddrizzò, concentrando nel pugno tutte le sue forze, e centrò il russo allo stomaco, appena al di sotto dello sterno. Boris esalò il fiato in un potente rutto. La gamba della sedia gli sfuggì dal pugno. Si piegò in due e si accasciò, si strinse le mani sullo stomaco e, ansando, rimase immobile nella polvere. Nicholas si chinò su di lui. «Non ci si comporta così, vecchio mio», gli sibilò in inglese. «Non si picchiano le signore. Che non succeda mai più.» Quindi si raddrizzò e, rivolto a Royan, disse: «Porti Tessay nella sua tenda e non la lasci andare». Si scostò con le dita i capelli dalla fronte. «E adesso, se non ha obiezioni, possiamo dormire un po'?» Durante la notte, la pioggia riprese a cadere. Le gocce tambureggiavano sulla tela e i lampi rischiaravano l'interno delle tende, facendo divampare una luce strana, quasi irreale. Ma quando Nicholas andò alla tenda-sala da pranzo, l'indomani mattina, le nubi erano sparite e il sole splendeva allegramente. L'aria dolce della montagna odorava di terra bagnata e di funghi. Boris accolse Nicholas con bonaria cordialità. «Buongiorno, inglese. Ci siamo divertiti, questa notte. Mi viene ancora da ridere quando ci penso. Che storielle piacevoli. Uno di questi giorni dovremo bere ancora un po' di vodka e raccontarci altre storielle.» Poi gridò: «Ehi, signora Sole, porta qualcosa da mangiare al tuo nuovo innamorato. Ha fame, dopo lo spasso di stanotte». Tessay era chiusa e taciturna mentre sovrintendeva i servitori che portavano la colazione. Un occhio era gonfio, semichiuso, un labbro tagliato. Non guardò Nicholas neppure una volta. «Noi andremo avanti», spiegò giovialmente Boris mentre bevevano il caffè. «I servitori sbaraccheranno il campo e ci seguiranno con il camion grande. Con un po' di fortuna, stanotte potremo accamparci sul ciglio della gola, e domani cominceremo la discesa.» Mentre salivano sul Toyota, Tessay riuscì a parlare sottovoce a Nicholas per un momento, senza il rischio che Boris la sentisse: «Grazie, alto Nicholas. Ma è stato imprudente. Lei non conosce Boris. Stia molto attento. Lui non dimentica e non perdona». Wilbur Smith
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Dal villaggio di Debra Mariam presero una strada secondaria che seguiva il Dandera verso sud; quella che avevano percorso il giorno prima dal lago Tana era indicata sulla carta topografica come «strada principale», eppure era dissestata e a tratti quasi intransitabile. La pista su cui si trovavano adesso era segnata come «strada secondaria non percorribile in tutte le condizioni meteorologiche». Per complicare le cose, sembrava che gran parte del traffico pesante che aveva dissestato l'arteria principale fosse passato anche di lì. Arrivarono in un punto dove un veicolo enorme era rimasto impantanato nel terreno fradicio di pioggia, e gli sforzi per liberarlo avevano lasciato tratti di terra profondamente solcata nonché uno scavo simile al cratere prodotto da una bomba. Sembrava una vecchia fotografia di una delle battaglie delle Fiandre. Per due volte anche il Toyota rimase bloccato nel fango. Ogni volta il camion grande li raggiungeva, e tutti i servitori scendevano per spingere e tirare il fuoristrada. Anche Nicholas si tolse la camicia per lavorare nel fango con gli altri. «Se avesse ascoltato il mio consiglio», borbottò Boris, «non saremmo qui. Non c'è selvaggina dove volete andare, e non ci sono neppure strade degne di questo nome.» Nel primo pomeriggio si fermarono in riva al fiume per mangiare. Nicholas scese alla lanca più vicina per ripulirsi del fango e del sudiciume accumulati negli sforzi per liberare il Toyota. Royan lo seguì giù per il pendio e sedette su una roccia mentre lui si toglieva la camicia e s'inginocchiava per lavarsi con la fredda acqua di montagna. Il fiume era d'un giallo fangoso, gonfio d'acqua piovana. «Non penso che Boris abbia bevuto la storiella del dik-dik striato», lo avvertì lei. «Tessay mi ha detto che ha molti sospetti sulle nostre intenzioni.» Rimase a guardarlo con interesse mentre Nicholas si sciacquava il petto e le braccia. Dove il sole non l'aveva toccata, la pelle era bianca e senza difetti, e il vello del petto era folto e scuro: un corpo piacevole da guardare, pensò. «È il tipo che frugherebbe volentieri nei nostri bagagli se ne avesse la possibilità», ammise Nicholas. «Non ha portato con sé qualcosa che potrebbe dargli un'indicazione? Niente carte o appunti?» «Solo la foto del satellite. Gli appunti sono tutti nella mia stenografia personale. Non ci capirà niente.» «Stia molto attenta quando parla con Tessay.» Wilbur Smith
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«È una cara ragazza, non certo un tipo subdolo», ribatté Royan in difesa della nuova amica. «Sarà vero, ma è sposata con il caro Boris, e gli è sottomessa. Non mi fido di nessuno dei due.» Nicholas si asciugò con la camicia, l'indossò e l'abbottonò. «Andiamo a mangiare.» Tornarono indietro e trovarono Boris che stappava una bottiglia di vino bianco sudafricano. Ne riempì un bicchiere per Nicholas. Raffreddato nel fiume, era energico e aveva un aroma fruttato. Tessay offrì pollo arrosto freddo e pane injera, il pane azimo etiope. Le fatiche di quella mattina persero significato quando Royan si sdraiò sull'erba accanto a Nicholas, e insieme contemplarono un avvoltoio che volava alto nel cielo azzurro. Il rapace li vide e volteggiò incuriosito, girando la testa per osservarli. Gli occhi erano circondati da una maschera nera come quella dei briganti, e le caratteristiche penne caudali a cuneo giocavano con il vento come le dita di un pianista giocano con i tasti d'avorio. Quando venne il momento di ripartire, Nicholas le diede la mano per aiutarla ad alzarsi. Fu uno dei loro rari contatti fisici, e Royan gli tenne le dita per un secondo o due più di quanto sarebbe stato necessario. Le condizioni della pista non migliorarono quando si avvicinarono al ciglio della gola, e l'avanzata continuò per ore fra sobbalzi e scossoni. La strada scavalcò un'altura e poi cominciò a scendere in tornanti il pendio opposto. A metà della discesa, dopo aver superato una stretta curva fiancheggiata da un'alta banchina, trovarono un enorme camion diesel fermo di traverso che bloccava quasi completamente la carreggiata. Sebbene avessero seguito le tracce del convoglio fin dal giorno prima, era il primo veicolo che incontravano e Boris fu colto di sorpresa. Lanciò una bestemmia in russo e frenò così bruscamente che per poco i passeggeri non furono catapultati dai sedili. Il fuoristrada però non poteva fermarsi su quel pendio ripido e scivoloso, e Boris fu costretto a cambiare marcia: innestò la prima e sterzò verso lo stretto varco fra il camion e la banchina. Royan, che era sul sedile posteriore, guardò dal finestrino e vide l'alta fiancata del camion diesel. C'erano il nome e il logo della ditta dipinti in scarlatto sullo sfondo verde. Un forte senso di déjà-vu la sopraffece mentre guardava quell'immagine. Aveva visto di recente lo stesso marchio, ma la memoria la tradiva. Non riusciva a ricordare il tempo e il luogo; sapeva soltanto che quel ricordo indistinto rivestiva un'importanza vitale. Wilbur Smith
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Il fianco del Toyota strusciò contro il metallo del camion. Poi passarono oltre. Boris si sporse dal finestrino e agitò minacciosamente il pugno. Il camionista era uno del posto: con ogni probabilità era stato reclutato ad Addis Abeba dal proprietario del veicolo. Sogghignò delle smanie di Boris e si sporse a sua volta per tendere il pugno, aggiungendo come tocco pittoresco l'indice alzato. «Mangiamerda!» ruggì inviperito Boris senza fermarsi. «È inutile parlare con questa gente. Non capiscono un tubo. Scimmioni!» Per il resto del massacrante tragitto Royan rimase in silenzio, scossa e turbata dalla convinzione di aver già visto l'emblema del cavallo alato rosso, con il nome dell'azienda scritto in un gagliardetto: «PEGASUS EXPLORATION». Si stavano ormai avvicinando alla conclusione della tappa, quando passarono davanti a un cartello sul bordo della pista. I pali che lo sostenevano erano piazzati in una base di cemento, e il disegno era di qualità così elevata che doveva essere opera di un professionista. Nella parte superiore del cartello, una freccia indicava una strada nuova, spianata dai bulldozer, che si dirigeva verso destra. Sotto c'era una scritta: PEGASUS EXPLORATION CAMPO BASE - UN CHILOMETRO STRADA PRIVATA VIETATO IL TRANSITO AI VEICOLI NON AUTORIZZATI Il cavallo scarlatto era impennato al centro del cartello con le ali spiegate per prendere il volo. Royan soffocò un'esclamazione quando il ricordo indistinto riaffiorò con chiarezza. Ora sapeva dove aveva visto il rosso cavallo volante. In un attimo si sentì trasportata nelle acque gelide di un fiume inglese, lanciata lontana dal Land Rover mentre il colossale camion passava rombando sul ponte sopra di lei. Per una frazione di secondo, rivide il cavallo rosso che scalpitava sulla fiancata. «È lo stesso!» Stava per gridare, ma si dominò. Il terrore di quel momento ritornò con violenza. Si accorse di ansimare, e il cuore le batteva come dopo una lunga corsa. «Non può essere una coincidenza», si disse in silenzio. «E non mi sbaglio. È la stessa società: Pegasus Exploration.» Wilbur Smith
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Rimase assorta e chiusa in se stessa per gli ultimi chilometri della tappa, finché la pista non finì all'improvviso sul ciglio della scarpata e Boris si fermò sul bordo erboso e spense il motore. «Non possiamo andare oltre con i veicoli. Stanotte ci accampiamo qui. Il camion grande ci segue a poca distanza. Monteranno il campo appena ci raggiungeranno. Domani scenderemo a piedi nella gola.» Mentre smontavano, Royan tirò Nicholas per il braccio. «Le devo parlare», mormorò, e lo seguì quando lui si avviò lungo la riva. Nicholas trovò un punto dove sedettero a fianco a fianco con le gambe che penzolavano nel vuoto. Accanto a loro il fiume giallo e gonfio sembrava presagire ciò che lo attendeva. Le fredde acque di montagna scorrevano più veloci, turbinavano intorno alle rocce, e si raccoglievano per lanciarsi nel vuoto. Il dirupo era una parete di roccia alta poco meno di trecento metri, così scoscesa che, nella luce della sera, l'abisso sottostante era un luogo buio e misterioso. Il fondo era nascosto dall'ombra e dagli spruzzi delle cascate. Mentre guardava, Royan si sentì assalire dalla vertigine; si scostò dal bordo e si appoggiò istintivamente alla spalla di Nicholas. Solo nell'istante in cui si toccarono, si rese conto di ciò che stava facendo, e si scostò intimidita. Le acque fangose del Dandera balzavano dall'orlo dell'abisso e si trasformavano miracolosamente in eterei veli di brina. Turbinavano come le gonne di una sposa che danza, e gli arcobaleni luminosi vi brillavano come un ricamo di perline. Le colonne di spruzzi candidi si attorcevano e si mutavano in forme bellissime ed effimere, fino a quando non investivano le cengie di lucida roccia nera ed esplodevano verso l'esterno in altre nubi bianche che mascheravano con la loro opalescenza le profondità oscure dell'abisso. Royan dovette compiere uno sforzo di volontà per distogliere il pensiero da quello spettacolo impressionante e riportarlo alla realtà del presente. «Nicky, ricorda quel che le ho detto del camion che ha spinto dal ponte il Land Rover?» «Certo.» La scrutò con un'espressione perplessa. «La vedo sconvolta. Che c'è, Royan?» «Il camion aveva un marchio sulle fiancate dei rimorchi.» «Sì, me l'ha detto. Verde e rosso. Mi ha detto di non aver avuto la possibilità di leggere la scritta.» Wilbur Smith
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«Era lo stesso marchio del camion che abbiamo incontrato nel pomeriggio. Ho visto il simbolo più o meno dallo stesso angolo visivo dell'altra volta, e ho ricordato. Il Pegaso rosso. Il cavallo alato.» Nicholas continuò a fissarla per qualche istante. «È sicura?» «Assolutamente!» Lei annuì con forza. L'uomo girò lo sguardo sul magnifico panorama della gola. C'era una distanza di sessantacinque chilometri dalla riva opposta, ma nell'aria lavata dalia pioggia sembrava così vicina da dare l'impressione che fosse possibile toccarla. «Una coincidenza?» chiese dopo un po'. «La pensa così? Allora è una coincidenza molto strana. Pegaso nello Yorkshire e nel Gojam? È disposto ad accettarlo?» «Non ha senso. Il camion che ha investito il Land Rover di sua madre era stato rubato...» «Ma era stato rubato davvero?» chiese Royan. «Siamo sicuri?» «Si spieghi meglio.» «Se avesse deciso di assassinare qualcuno, conterebbe sulla possibilità di rubare un camion nel parcheggio di una tavola calda?» Nicholas scosse la testa. «Continui.» «Immagini di aver dato disposizioni affinché un suo camion venga lasciato apposta in un determinato luogo, e di fare in modo che il suo autista denunci il preteso furto solo dopo che lei si sia assicurato un buon margine di vantaggio sulla polizia.» «È possibile», ammise lui con scarso entusiasmo. «Chi ha fatto assassinare Duraid e ha tentato di uccidermi in altre due occasioni dispone evidentemente di risorse considerevoli. Può organizzare le cose in Egitto e in Inghilterra. Inoltre è in possesso del settimo papiro. Ha i nostri appunti e le nostre traduzioni che gli indicano questo posto sul fiume Abay. Supponiamo che abbia il controllo di una società come la Pegasus: allora non è affatto strano che possa essere qui in Etiopia, come ci siamo noi in questo momento.» Per un po', Nicholas rimase in silenzio. Raccolse una pietra e la scagliò nel vuoto. La guardarono precipitare e rimpicciolire fino a quando non sparì nei veli di spruzzi. All'improvviso si alzò e tese la mano per aiutarla. «Venga.» «Dove andiamo?» «Al campo base della Pegasus. Andiamo a fare due chiacchiere con il Wilbur Smith
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capo cantiere.» Boris protestò rabbiosamente quando Nicholas si mise al volante del Toyota e accese il motore. «Dove diavolo crede di andare?» «Ad ammirare il panorama.» Nicholas inserì la marcia. «Torniamo fra un'ora.» «Ehi, inglese, il mio furgone!» Boris li rincorse, ma Nicholas accelerò. «Mi metta in conto il noleggio», gridò, e sorrise allegramente nello specchietto. Arrivarono al cartello che annunciava la svolta, e seguirono la pista oltre il dosso. Il campo della Pegasus si trovava dall'altra parte. Nicholas si fermò sulla cresta dell'altura e lo studiò in silenzio. Un'area di oltre quattro ettari era stata diboscata e spianata. Era circondata dal filo spinato e l'unico cancello era chiuso. Tre grossi camion diesel verdi e rossi erano parcheggiati in fila all'interno della recinzione. C'erano altri veicoli più piccoli e una torre mobile per trivellazioni. Il resto dello spiazzo era pieno di materiale per la prospezione e di scorte. C'erano mucchi di aste per trivella e cassette d'acciaio, casse di legno con pezzi di ricambio, e parecchi bidoni di gasolio, nafta e fango artificiale per perforazioni. I grandi bidoni e le scorte erano ammucchiati con un senso dell'ordine sorprendente in quel paesaggio roccioso. Appena al di là del cancello, si scorgeva una dozzina di costruzioni di lamiera ondulata, nonché una strada tracciata con precisione militare. «Un complesso ben organizzato», commentò Nicholas. «Andiamo a vedere chi lo dirige.» Al cancello c'erano due guardie armate che indossavano le uniformi mimetiche dell'esercito etiope. Si mostrarono sorpresi nel veder arrivare il Land Cruiser sconosciuto e, quando Nicholas suonò il clacson, uno di loro si fece avanti con l'AK47 imbracciato. «Voglio parlare con il direttore», disse Nicholas in arabo, con un tono abbastanza altezzoso e autoritario da mettere a disagio la sentinella. Il soldato borbottò qualcosa, poi tornò indietro e consultò il collega. Prese la ricetrasmittente e parlò con fare concitato. Dopo cinque minuti, la porta della baracca più vicina si aprì e ne uscì un bianco. Indossava una tuta kaki e un berretto. Gli occhi erano nascosti dagli occhiali a specchio. La faccia era coriacea e abbronzata, la figura bassa e tozza, e le maniche rimboccate mettevano in mostra le braccia robuste e pelose. Disse poche parole alle guardie, uscì e raggiunse il Toyota. Wilbur Smith
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«Sì? Che c'è?» chiese con l'accento texano, senza togliersi dalle labbra il mozzicone spento del sigaro. «Mi chiamo Quenton-Harper.» Nicholas smontò e tese la mano. «Nicholas Quenton-Harper. Piacere.» L'americano esitò, poi prese la mano come se temesse di prendere la scossa. «Helm», disse. «Jake Helm di Abilene, Texas. Sono il capo cantiere.» La mano era quella di un artigiano, con il palmo calloso, tessuti cicatriziali sulle nocche, e mezzelune di grasso nero sotto le unghie. «Scusi il disturbo, ma ho qualche problema con il mio furgone. Ho pensato che forse qui c'è un meccanico che può dargli un'occhiata.» Nicholas sorrise, ma l'uomo non l'incoraggiò. «Non rientra nella politica dell'azienda», rispose scuotendo la testa. «Ma sono disposto a pagare per...» «Ha sentito, amico? Ho detto di no.» Jake si tolse il sigaro dalla bocca e l'esaminò attentamente. «La sua azienda, la Pegasus. Può dirmi dov'è la sede centrale? Chi è il direttore?» «Ho molto da fare e lei mi fa perdere tempo.» Helm rimise il sigaro fra i denti e fece per voltarsi. «Andrò a caccia nella zona per le prossime settimane. Mi dispiacerebbe ferire qualcuno dei suoi dipendenti con una pallottola vagante. Può dirmi dove lavorerete?» «Io dirigo una prospezione, e non do informazioni sui miei movimenti. Sparisca!» Si girò, tornò al cancello e diede ordini alle guardie prima di rientrare nell'ufficio. «C'è un'antenna parabolica per le comunicazioni via satellite, sul tetto», osservò Nicholas. «Mi chiedo con chi sta parlando in questo momento il nostro amico Jake.» «Qualcuno del Texas?» chiese Royan. «Non è detto. È probabile che la Pegasus sia una multinazionale. Se Jake è texano, non significa che debba esserlo anche il suo capo. Non è stata una conversazione molto istruttiva, purtroppo.» Nicholas riaccese il motore e invertì la marcia. «Ma il cattivo di questa storia è qualcuno della Pegasus, allora riconoscerà il mio nome. Li abbiamo informati del nostro arrivo. Vedremo che cosa abbiamo stanato dai cespugli.» Wilbur Smith
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Quando tornarono alle cascate del Dandera, videro che il camion di Boris era arrivato. Le tende erano state piantate e il cuoco aveva preparato il tè. Boris fu meno cordiale del cuoco, e mantenne un silenzio imbronciato mentre Nicholas cercava di placarlo elogiando il Toyota. Solo dopo la prima vodka della serata si rabbonì quanto bastava per parlare di nuovo. «I muli dovevano essere qui ad aspettarci, ma per questa gente il tempo non conta. Non possiamo cominciare la discesa nella gola prima che arrivino.» «Bene, mentre aspettiamo avrò la possibilità di controllare il mio fucile», commentò Nicholas in tono rassegnato. «In Africa non conviene aver fretta. Ci si logora i nervi.» La mattina seguente non s'era ancora vista neppure l'ombra dei muli. Dopo aver fatto colazione, Nicholas prese la custodia del fucile. Mentre estraeva l'arma dalla fodera di panno verde, Boris gliela prese dalle mani per esaminarla. «È vecchio?» «Fu fabbricato nel 1926,» spiegò Nicholas. «Mio nonno diede precise istruzioni per la sua realizzazione.» «A quei tempi ci sapevano fare. Non come le porcherie prodotte in serie che sfornano oggi.» Boris sporse le labbra con aria critica. «E un MauserOberndorf. Bellissimo. Ma la canna è stata cambiata, no?» «Quella originale s'era rovinata. È stato necessario sostituirla con una Shilen. Può tranciare le ali a una zanzara a cento passi di distanza.» «Calibro 7 x57, vero?» chiese Boris. «275 Rigby, per la precisione», lo corresse Nicholas. Il russo sbuffò. «La cartuccia è la stessa, ma voi inglesi dovete chiamarla in un modo diverso.» E sogghignò. «Spara una pallottola da 150 grani alla velocità di 850 metri al secondo. È un ottimo fucile, uno dei migliori.» «Non immagina neppure quanto sia importante per me la sua approvazione», mormorò Nicholas in inglese, e Boris ridacchiò e gli rese l'arma. «È una spiritosaggine inglese. Mi piacciono, le spiritosaggini inglesi.» Quando Nicholas lasciò il campo portando il piccolo fucile nella custodia, Royan lo seguì sino al fiume e lo aiutò a riempire di sabbia bianca due sacchetti di tela. Lui li posò su una roccia in modo che Wilbur Smith
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formassero un supporto solido, e tuttavia non rigido, per il fucile. Scelse il fianco scoperto della collina come fondo scuro, si fermò a poco meno di duecento metri e piazzò un cartone su cui aveva fissato con l'adesivo un bersaglio del tipo Bisley. Tornò da Royan e si mise dietro la roccia dove stava l'arma. Royan non era preparata al fragore del primo sparo di quel fucile elegante e quasi femminile. Trasalì e si sentì fischiare le orecchie. «Che cosa orribile», esclamò. «Come fa ad avere il coraggio di uccidere qualche povero animale con un cannone come quello?» «È un fucile», ribatté Nicholas, mentre osservava con il binocolo l'esito del colpo. «Si sentirebbe meglio se usassi un fucile poco potente o se uccidessi gli animali a bastonate?» La pallottola aveva colpito sette centimetri più a destra e cinque centimetri più in basso del centro. Mentre regolava il mirino telescopico, cercò di spiegare: «Un cacciatore dotato di princìpi morali fa il possibile per uccidere gli animali nel modo più rapido e pulito. E questo significa avvicinarsi al massimo, usare un'arma di potenza adeguata e prendere bene la mira». Il secondo colpo arrivò esattamente due centimetri e mezzo al di sopra del centro. Nicholas voleva che sparasse sette centimetri e mezzo più in alto, a quella distanza. Regolò di nuovo il mirino. «Comunque, non capisco perché voglia uccidere le creature del buon Dio», protestò Royan. «Questo non riuscirò mai a spiegarglielo.» Prese la mira con cura e sparò. Nonostante il modesto ingrandimento della lente, vide che la pallottola aveva colpito esattamente sette centimetri e mezzo sopra il centro del bersaglio. «Ha qualcosa a che fare con l'impulso atavico che pochi uomini, per quanto si ritengano civili, possono negare completamente.» Sparò una seconda volta. «C'è chi lo sfoga nei consigli d'amministrazione, sui campi da golf o da tennis, su un fiume pieno di salmoni, nelle profondità degli oceani oppure a caccia.» Sparò un terzo colpo per confermare i primi due, e continuò. «In quanto alle creature di Dio, Dio le ha date a noi. Lei è una credente... Sa che cosa c'è scritto negli Atti degli apostoli?» «Mi dispiace, non lo so.» Royan scosse la testa. «Me lo dica lei.» «'... ogni sorta di quadrupedi, di rettili della terra e di volatili del cielo'», Wilbur Smith
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citò Nicholas. «'E risuonò una voce che gli diceva: "Orsù, Pietro, uccidi e mangia!"'» «Avrebbe dovuto fare l'avvocato», gemette lei in tono di finta disperazione. «O il prete.» Nicholas andò a prendere il bersaglio. Gli ultimi tre colpi avevano disegnato una minuscola rosetta simmetrica sette centimetri e mezzo sopra il centro, e i fori si toccavano. Batté la mano sul calcio del piccolo fucile. «Ecco il mio tesoro, Lucrezia Borgia.» Era il nome che aveva dato all'arma, a causa sia della sua bellezza sia della capacità di uccidere che essa dimostrava. Lo rimise nella custodia di cuoio. Tornarono indietro insieme. Arrivati in vista del campo, Nicholas si fermò. «Ci sono visite», disse, e alzò il binocolo. «Ah, ah! Abbiamo stanato qualcosa dal sottobosco. C'è un camion della Pegasus e, se non sbaglio, uno dei visitatori è quel simpaticone di Abilene. Andiamo a vedere che succede.» Quando si avvicinarono, si accorsero che c'era più di una dozzina di soldati armati intorno al camion rosso e verde, e che Jake Helm e un ufficiale etiope erano seduti sotto la tenda-sala da pranzo, e parlavano con Boris. Non appena Nicholas entrò, Boris lo presentò all'etiope occhialuto. «Questo è il colonnello Tuma Nogo, responsabile militare del Gojam.» «Piacere di conoscerla», disse Nicholas, ma il colonnello non lo ricambiò. «Voglio vedere il suo passaporto e il porto d'armi», ordinò in tono arrogante, mentre Jake Helm masticava soddisfatto il mozzicone puzzolente del sigaro spento. «Sì, certo», rispose Nicholas, e andò nella sua tenda a prendere la borsa. Tornò, l'aprì sul tavolo e sorrise all'ufficiale. «Sono sicuro che vorrà vedere anche la lettera di presentazione del ministro degli Esteri britannico, e quella dell'ambasciatore britannico ad Addis Abeba. Poi ce n'è un'altra, dell'ambasciatore d'Etiopia alla Corte di san Giacomo, e questo firmati è del vostro ministro della Difesa, generale Siye Abraha.» Il colonnello fissò costernato quella montagnola di carte intestate ufficiali e di sigilli scarlatti. Dietro le lenti della montatura d'oro i suoi occhi avevano un'espressione confusa e vagamente impaurita. «Signore!» Balzò in piedi e salutò militarmente. «Non sapevo che fosse Wilbur Smith
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amico del generale Abraha. Nessuno mi aveva informato. La prego di scusare il disturbo.» Salutò di nuovo. L'imbarazzo lo rendeva maldestro. «Sono venuto solo per comunicarle che la Pegasus sta svolgendo operazioni di trivellazione e a volte usa esplosivi. Può esserci qualche pericolo, perciò stia attento. E ci sono anche molti banditi e fuorilegge, gli sciftà, attivi nella zona.» Il colonnello Nogo era agitato. S'interruppe e trasse un respiro profondo per rinfrancarsi. «Vede, ho avuto l'ordine di fornire una scorta ai dipendenti della Pegasus. Se lei incontrasse qualche problema o se avesse bisogno di assistenza per qualsiasi ragione, non deve far altro che rivolgersi a me.» «È molto gentile, colonnello.» «Non la trattengo, signore.» Nogo salutò una terza volta e indietreggiò verso il camion della Pegasus, conducendo con sé il texano. Jake Helm non aveva pronunciato una sola parola da quando erano arrivati. Se ne andò senza salutare. Il colonnello Nogo rivolse a Nicholas un quarto saluto militare dal finestrino mentre il camion ripartiva. «Bene», disse Nicholas a Royan, ricambiando il saluto con un cenno noncurante. «Credo che abbiamo segnato un punto. Adesso, almeno, sappiamo che il signor Pegasus ha qualche motivo per non volerci fra i piedi. Credo che possiamo aspettarci presto una nuova mossa.» Tornarono da Boris, che era rimasto sotto la tenda, e Nicholas gli disse: «Ci mancano soltanto i muli». «Ho mandato tre uomini al villaggio per cercarli. Dovevano essere qui già ieri.» I muli arrivarono il giorno dopo, sul presto. Erano sei, grossi e solidi, e ognuno era accompagnato da un uomo che indossava i tipici pantaloni e lo scialle. A metà mattina, gli animali erano carichi, pronti per incominciare la discesa nella gola. Boris si fermò all'inizio del sentiero e guardò la valle. Per una volta sembrava intimidito dall'immensità dello strapiombo e dallo splendore grandioso del panorama. «Entrerete in un'altra terra e in un altro tempo», disse con un'aria pensosa che non gli era abituale. «Dicono che il sentiero abbia duemila anni... Il vecchio prete nero della chiesa di Debra Mariam vi racconterà che la Madonna passò di qui quando fuggì da Israele dopo la Wilbur Smith
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crocifissione.» Poi scosse la testa. «Questa gente è disposta a credere qualunque cosa», soggiunse, e si avviò sul sentiero. La pista fiancheggiava la parete rocciosa, e scendeva in modo tale che, a ogni passo, s'incontrava un gradino di roccia così alto da stirare i tendini e i muscoli dell'inguine e delle ginocchia e scuotere la spina dorsale. Erano costretti a servirsi delle mani per affrontare i tratti più accidentati e ripidi. Pareva impossibile che i muli carichi riuscissero a seguirli: eppure balzavano da ogni gradino di pietra, atterravano pesantemente sulle zampe anteriori e poi si raccoglievano per compiere un altro salto. La pista era così stretta che le some ingombranti da un lato strusciavano contro la parete di roccia e dall'altro sporgevano sull'abisso. Quando il sentiero cambiava direzione, i muli non riuscivano a svoltare in un unico tentativo; erano costretti a indietreggiare e ad affrontare la pista sudando per il terrore e roteando gli occhi. I conducenti li incitavano con grida furiose e frustate. In certi punti, il sentiero entrava nella massa della montagna, incuneandosi in sporgenze e guglie di roccia che il tempo e l'erosione avevano distaccato dalla parete. Erano varchi così stretti che i conducenti erano obbligati a scaricare i muli e a trasportare le some, per ricaricarle dall'altra parte. «Guardi!» esclamò sbalordita Royan, e tese il braccio per indicare qualcosa nel vuoto. Un avvoltoio nero salì dal profondo volteggiando sulle grandi ali, passò accanto a loro, e girò la minacciosa testa glabra e rosea per guardarli con gli impenetrabili occhi neri prima di allontanarsi. «Sfrutta le correnti d'aria calda che salgono dalla valle», spiegò Nicholas. Indicò una sporgenza lungo la parete. «Là c'è un nido.» Era un mucchio di fuscelli accatastati su un cornicione inaccessibile. Gli escrementi degli uccelli che l'avevano abitato per secoli avevano tracciato sulla roccia sottostante striature bianche, e anche a quella distanza giungevano le zaffate d'interiora putride e di carne marcia. Per tutta la giornata proseguirono sul sentiero scosceso, scendendo lungo la muraglia terribile. Era pomeriggio inoltrato ed erano appena a metà della discesa, quando il sentiero ripiegò ancora una volta su se stesso e sentirono il rombo. Il suono diventò più forte, per trasformarsi poi in un ruggito tonante allorché, superato l'angolo di un'altra sporgenza, giunsero in vista delle cascate. Il vento creato dalla corsa dell'acqua li investì, costringendoli a cercare Wilbur Smith
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un appiglio. Gli spruzzi volavano intorno a loro, ma la guida etiope continuò a precederli fino a quando non ebbero l'impressione di essere sul punto di venire trascinati nel fondo-valle, ancora lontano decine di metri. Poi, miracolosamente, le acque si aprirono. Si ritrovarono, dietro l'imponente velo traslucido, in un recesso profondo della roccia bagnata e tappezzata di muschio, scolpita dalla forza delle acque nel corso dei millenni. L'unica luce filtrava attraverso la cascata, ed era verde e misteriosa come quella di una grotta sottomarina. «Stanotte dormiremo qui», annunciò Boris, divertito del loro stupore. Indicò i fasci di legna da ardere ammucchiati in fondo alla caverna, e la parete annerita dal fumo sopra il focolare di pietra. «I mulattieri che portano viveri e rifornimenti ai preti del monastero si servono di questo posto da secoli.» Quando si addentrarono nella caverna, il rombo della cascata si smorzò in un borbottio lontano. Il pavimento di roccia era asciutto. I servitori accesero il fuoco e la grotta diventò un alloggio caldo, confortevole e quasi romantico. Nicholas individuò il posto più comodo e stese il sacco a pelo in un angolo in fondo; con naturalezza, Royan srotolò il suo lì accanto. Erano tutti e due stanchissimi per la lunga discesa; dopo cena si sdraiarono e rimasero a guardare la luce del fuoco che guizzava sulla volta. «Pensi un po'», mormorò Royan. «Domani seguiremo le orme del vecchio Taita.» «E addirittura della Vergine Maria.» Nicholas sorrise. «E un mostro di cinismo.» Lei sospirò. «E scommetto che probabilmente russa.» «Lo scoprirà a sue spese», disse Nicholas, ma Royan si addormentò per prima. Il suo respiro era gentile e regolare, e lui lo sentiva vagamente, nonostante il suono dell'acqua. Da molto tempo non aveva avuto una bella donna sdraiata al suo fianco. Quando fu sicuro che dormisse profondamente, tese la mano e le sfiorò la guancia. «Dolci sogni, piccola», mormorò con tenerezza. «Oggi ti sei stancata molto.» Era così che molto spesso aveva fatto addormentare la figlia più piccola. Dato che i mulattieri si erano alzati molto prima dell'alba, poterono rimettersi in marcia non appena ci fu luce a sufficienza. Wilbur Smith
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Quando il primo sole investì la parte superiore della parete di roccia, erano ancora abbastanza in alto per avere una visione panoramica del fondovalle. Nicholas prese in disparte Royan e lasciò che il resto della carovana li precedesse. Trovò un posto per sedere e srotolò la foto presa dal satellite. Si orientarono individuando le vette e le caratteristiche topografiche della zona, e incominciarono a capire qualcosa del paesaggio che si estendeva sotto di loro. «Da qui non possiamo vedere l'Abay», osservò Nicholas. «È in fondo alla subgola. Probabilmente riusciremo a scorgerlo solo quando gli saremo quasi sopra.» «Se abbiamo identificato con esattezza la nostra posizione attuale, il fiume deve formare due anse intorno a quell'altura laggiù...» «Sì, e la confluenza tra il Dandera e l'Abay è sotto quei dirupi.» Nicholas usò il pollice come scala rudimentale. «A venticinque chilometri da qui.» «Si direbbe che il Dandera abbia cambiato corso molte volte durante i secoli. Vedo almeno due canaloni che sembrano antichi letti di fiume...» Royan li indicò. «Li vede? Ora sono ricoperti dalla vegetazione.» Scosse la testa, avvilita. «Oh, Nicholas, è un'area così grande e confusa... Come potremo trovare l'unico ingresso di una tomba nascosta lì in mezzo?» «Una tomba? Quale tomba?» chiese incuriosito Boris, che aveva risalito il sentiero per cercarli. Non l'avevano sentito avvicinarsi, e adesso era in piedi accanto a loro. «Di quale tomba state parlando?» «La tomba di san Frumenzio, è ovvio», rispose Nicholas senza scomporsi. «Il monastero non è dedicato al santo?» chiese Royan con la stessa disinvoltura mentre arrotolava la fotografia. «Da.» Boris annuì. Sembrava deluso, come se si fosse aspettato qualcosa di più interessante. «Sì, san Frumenzio. Ma non vi permetteranno di visitare la tomba, non vi lasceranno entrare nella parte più interna del monastero. Possono andarci soltanto i preti.» Si tolse il berretto e si grattò i corti capelli ispidi, che emisero un suono raspante come se fossero di filo metallico sotto le sue unghie. «Questa settimana c'è la cerimonia di Timkat, la benedizione del tabot. Ci sarà parecchio movimento. Lo troverete interessante ma non potrete entrare nel sancta sanctorum e neppure vedere la tomba. Non ho mai incontrato un Wilbur Smith
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bianco che l'abbia vista.» Alzò gli occhi verso il sole. «Dobbiamo proseguire. Sembra vicino, ma ci vorranno altri due giorni per arrivare all'Abay. Laggiù il terreno è molto brutto. Sarà una marcia lunga anche per un famoso cacciatore di dik-dik.» Rise soddisfatto della battuta e s'incamminò sul sentiero. Via via che si avvicinavano alla base della parete di roccia, l'inclinazione della pista diminuì. I gradini erano meno alti e più distanziati. Procedere diventò quindi più facile; ma l'aria era cambiata. Non era più quella tonificante della montagna, bensì l'aria languida e snervante dell'equatore, e aveva l'odore e il sapore della giungla. «Che caldo», disse Royan, e si liberò dello scialle di lana. «Saranno almeno dieci gradi in più», confermò Nicholas e si sfilò il vecchio maglione militare, spettinandosi i capelli. «E possiamo star certi che farà più caldo ancora prima che raggiungiamo l'Abay. Dobbiamo scendere per altri mille metri.» Il sentiero seguì il Dandera per un tratto. A volte si trovavano decine e decine di metri al di sopra dell'acqua, e poco dopo sguazzavano in un guado, immersi fino alla vita, e dovevano aggrapparsi ai panieri dei muli per non essere trascinati via dalla corrente. Poi la gola del Dandera diventò troppo profonda e scoscesa per continuare a seguirla. Gli strapiombi scendevano nelle lanche scure. Lasciarono il fiume e la pista si attorse come un serpente moribondo fra le colline erose e le alture di pietra rossa. Un paio di chilometri più avanti ritrovarono il fiume che scorreva in mezzo alla fitta foresta. Le liane pendevano sulla superficie e il muschio arboreo sfiorava le loro teste, incolto come la barba del vecchio prete di Debra Mariam. I cercopitechi grigioverdi strillavano dalle cime degli alberi e sgranavano gli occhi, indignati da quell'invasione del loro territorio segreto. A un certo punto, un grosso animale si mosse rumorosamente nel sottobosco, e Nicholas lanciò un'occhiata a Boris. Il russo scosse la testa e rise: «No, inglese, non è un dik-dik. È solo un kudu». Sul pendio sopra di loro, il kudu si fermò a guardarli. Era un grosso maschio dalle corna a cavatappi, un esemplare magnifico con la giogaia ornata dal pelo folto e le orecchie ritte a forma di tromba. Li guardava con occhi sorpresi. Boris zufolò e cambiò atteggiamento. Wilbur Smith
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«Quelle corna sono lunghe almeno un metro e mezzo. Farebbero una bella figura nel Rowland Ward.» Alludeva al registro della selvaggina che rappresentava la bibbia dei cacciatori di trofei. «Non vuole prenderlo, inglese?» Corse al mulo più vicino, tolse il Rigby dalla custodia e tornò per offrirlo a Nicholas. «Lo lasci andare.» Nicholas scosse la testa. «A me interessano solo i dik-dik.» Con uno scatto della coda bianca a piumino, il kudu sparì oltre il dosso, e Boris sputò nel fiume con aria disgustata. «Perché ha cercato di convincerla a ucciderlo?» chiese Royan mentre proseguivano. «Una foto di un paio di corna da primato come quelle avrebbe avuto il posto d'onore sul suo opuscolo pubblicitario. Sarebbero arrivati altri clienti.» Continuarono a seguire la pista tortuosa e, nel tardo pomeriggio, si accamparono in una radura sopra il fiume, dove era evidente che altre carovane avevano sostato spesso prima di loro. Di certo, il percorso era suddiviso in tappe stabilite da molto tempo. Ogni viaggiatore impiegava tre giorni per arrivare dall'alto delle cascate al monastero, e tutti si accampavano negli stessi posti. «Mi dispiace, qui non c'è la doccia», disse Boris ai clienti. «Se volete lavarvi c'è una lanca dopo la prima ansa, verso monte.» Royan guardò Nicholas con aria implorante. «Sono così accaldata. Per favore, può mettersi di guardia, in modo che possa sentirmi se la chiamo?» E così Nicholas si sdraiò sulla riva muscosa appena a valle dell'ansa: non poteva vedere Royan, ma era abbastanza vicino per sentirla sguazzare e lanciare gridolini nell'abbraccio freddo dell'acqua. A un certo momento girò la testa e si accorse che la corrente doveva aver sospinto la donna verso valle, perché scorse attraverso gli alberi la schiena nuda e la curva di una natica candida e luccicante. Distolse gli occhi con un senso di rimorso, ma rimase sbalordito dall'intensità dell'eccitazione che gli aveva causato quella visione fuggevole di pelle morbida chiazzata dalla luce del sole che filtrava tra gli alberi. Quando Royan gli venne incontro lungo la riva, canticchiando e asciugandosi i capelli, gli gridò: «Tocca a lei. Vuole che adesso sia io a montare la guardia?» «No, ormai sono abbastanza cresciuto.» Nicholas scosse la testa, ma Wilbur Smith
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quando lei gli passò accanto notò la luce maliziosa nei suoi occhi, e si chiese se si rendeva conto di essersi spinta tanto avanti verso valle, e se sapeva che cosa aveva visto lui. Era un pensiero che lo solleticava. Si avviò da solo verso la lanca e, mentre si spogliava, si guardò e si sentì in colpa nel vedere quanto Royan l'aveva eccitato. Dopo la morte di Rosalind, nessun'altra donna gli aveva fatto lo stesso effetto. «Un bel bagno freddo non ti farà male, ragazzo mio.» Buttò i jeans su un cespuglio e si tuffò. Mentre sedevano intorno al fuoco dopo il pasto serale, Nicholas alzò la testa all'improvviso. «Soffro di allucinazioni?» chiese. «No», rise Tessay. «E davvero un canto. I preti del monastero vengono ad accoglierci.» Poi videro le torce che salivano in fila e palpitavano fra gli alberi. I mulattieri e i servitori si affollarono e presero a cantare e a battere ritmicamente le mani per salutare la delegazione del monastero. Le profonde voci maschili s'innalzarono, poi si abbassarono fino a un bisbiglio, quindi salirono di nuovo, bellissime e ossessionanti: era il suono dell'Africa nella notte, e faceva scorrere brividi lungo la spina dorsale di Nicholas. Poi scorsero le vesti candide dei preti che fluttuavano come falene nella luce delle torce. I servitori caddero in ginocchio quando il primo dei religiosi entrò nel campo. Erano giovani accoliti, scalzi e a capo scoperto, seguiti dai monaci che indossavano tonache lunghe e alti turbanti. Poi si scostarono per formare una guardia d'onore per la falange dei diaconi e dei preti dai paramenti vistosamente ricamati. Ognuno di loro portava una pesante croce copta montata su un alto bastone e lavorata in argento. A loro volta, diaconi e preti si scostarono salmodiando per far passare il palanchino sorretto da quattro giovani accoliti che lo deposero al centro del campo. Le tende di seta cremisi e gialle scintillavano nella luce delle lanterne e delle torce. «Dobbiamo andare a rendere omaggio all'abate», bisbigliò Boris a Nicholas. «Si chiama Jali Hora.» Quando si accostarono al palanchino, le tende si aprirono teatralmente e un'alta figura scese a terra. Tessay e Royan s'inginocchiarono in segno di rispetto e giunsero le mani. Boris e Nicholas rimasero in piedi, e quest'ultimo osservò l'abate con Wilbur Smith
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interesse. Jali Hora era di una magrezza scheletrica. Le gambe sembravano stecche di tabacco conciato: erano nere come il catrame, storte, con i tendini disseccati e i muscoli scarni. La veste verde era ricamata con fili d'oro che scintillavano nella luce del fuoco. Portava un copricapo alto e piatto, ornato da un motivo di croci e di stelle. Il volto era nero come la fuliggine, la pelle raggrinzita e scavata dall'età. Dietro le labbra contratte si scorgevano pochi denti storti e ingialliti. La barba era di un sorprendente bianco argenteo, ed erompeva come la spuma di una tempesta sulle vecchie ossa del mento. Un occhio era di un azzurro opaco, accecato dall'oftalmia tropicale, ma l'altro brillava come quello d'un leopardo in caccia. Cominciò a parlare con voce alta e tremula. «Una benedizione», spiegò Boris a Nicholas. Entrambi chinarono la testa rispettosamente. I preti salmodiavano le risposte ogni volta che il vecchio faceva una pausa. Quando ebbe terminato la benedizione, Jali Hora tracciò il •segno della croce in quattro direzioni, girandosi lentamente verso ognuno dei punti cardinali, mentre due chierici agitavano vigorosamente gli incensieri e inondavano la notte di nuvole dal profumo intenso. Le due donne andarono a inginocchiarsi davanti all'abate, il quale le toccò leggermente sulle guance con la croce d'argento, cantilenando una benedizione in falsetto. «Dicono che abbia più di cent'anni», sussurrò Boris a Nicholas. I debteras biancovestiti portarono uno sgabello d'ebano africano, scolpito in modo così splendido che Nicholas lo osservò con una certa avidità. Probabilmente risaliva a qualche secolo prima e avrebbe certo arricchito in maniera considerevole la collezione del museo. I due debteras presero Jali Hora per i gomiti e lo fecero sedere sullo sgabello. Poi tutti gli altri sedettero a terra intorno a lui, e si voltarono a guardarlo con attenzione. Tessay prese posto ai suoi piedi e, quando suo marito parlò, tradusse in amharico le frasi. «È un grande piacere e un onore rivederla, santo padre.» Il vecchio annuì, e Boris continuò: «Ho portato un nobile inglese di sangue reale a visitare il monastero di san Frumenzio». «Calma, vecchio mio!» protestò Nicholas, ma l'intera congregazione l'osservava con attenzione e interesse. «E adesso che devo fare?» chiese sottovoce a Boris. Wilbur Smith
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«Perché pensa che quello sia venuto fin qui?» Boris sogghignò malignamente. «Vuole un dono. Denaro.» «Talleri di Maria Teresa?» Royan notò che per una volta Nicholas era disorientato. Non si aspettava quella scena, e Boris se la spassava nel vederlo a disagio. «Le usanze sono cambiate dal tempo del suo bisnonno. Jali Hora accetta i bigliettoni verdi americani.» «Quanto?» «Lei è un nobile di sangue reale, e andrà a caccia nella valle dell'abate. Come minimo, cinquecento dollari.» Nicholas rabbrividì e andò a prendere la borsa da uno dei panieri. Tornò, s'inchinò all'abate e mise il mazzetto di banconote nella mano protesa. L'abate sorrise mettendo in mostra i mozziconi ingialliti dei denti, e disse qualcosa. Tessay tradusse: «Ha detto: 'Benvenuto al monastero di san Frumenzio e alla stagione di Timkat'. Le augura buona caccia sulle rive del fiume Abay». Di colpo, i religiosi cambiarono atteggiamento, cominciando a ridere e a sorridere, mentre l'abate guardava Boris come se attendesse qualcosa. «Il santo abate dice che il viaggio gli ha fatto venir sete», spiegò Tessay. «Quel vecchio diavolo ama il brandy», sibilò Boris, e chiamò il capo dei servitori. Una bottiglia di brandy fu piazzata cerimoniosamente sul tavolo pieghevole davanti all'abate, di fronte alla vodka di Boris. Si scambiarono un brindisi e l'abate tracannò una sorsata che gli inondò di lacrime l'occhio sano. Con voce rauca, rivolse una domanda a Royan. «Le ha chiesto, woizero Royan: 'Da dove viene, figliola, dato che segue la vera via di Cristo salvatore?'» «Sono egiziana e seguo l'antica religione», rispose Royan. L'abate e tutti i preti annuirono e sorrisero con aria di approvazione. «Siamo tutti fratelli e sorelle in Cristo, egiziani ed etiopi», disse l'abate. «La stessa parola 'copto' deriva dal termine greco per 'egiziano'. Per oltre milleseicento anni l'abuna, il vescovo d'Etiopia, fu sempre nominato dai patriarca del Cairo. Solo l'imperatore Hayla Sellase cambiò la consuetudine nel 1959, ma noi continuiamo a seguire la vera strada che conduce a Cristo. Sii la benvenuta, figlia mia.» Il debtera versò altro brandy, e il vecchio lo bevve tutto d'un fiato. Persino Boris sembrava molto colpito. «Ma dove lo mette, quella vecchia Wilbur Smith
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tartaruga pelle e ossa?» chiese a voce alta. Tessay non tradusse, abbassò gli occhi e il suo viso di madonna lasciò trasparire l'angoscia che provava per l'insulto al vecchio religioso. Jali Hora si rivolse a Nicholas. «Vuole sapere quali animali è venuto a cacciare nella sua valle», spiegò Tessay. Nicholas si fece coraggio e rispose. Vi fu un lungo momento d'incredulità. Poi l'abate sghignazzò allegramente e i preti gli fecero eco con le loro risate. «Un dik-dik. E venuto per cacciare un dik-dik. Ma un animale così piccolo dà poca carne.» Nicholas lasciò che superassero il primo trauma, poi mostrò una foto dell'esemplare impagliato del Madoqua harperii custodito nel museo. Lo mise sul tavolo davanti a Jali Hora. «Questo non è un dik-dik comune. È un dik-dik sacro», annunciò in tono solenne e facendo cenno a Tessay di tradurre. «Permettetemi di raccontarvi la leggenda.» Tutti tacquero alla prospettiva di una storia interessante e ricca d'implicazioni religiose. Persino l'abate, che si stava portando il bicchiere alle labbra, lo posò sul tavolo e girò lo sguardo dell'unico occhio sano dalla foto alla faccia di Nicholas. «Quando Giovanni Battista stava per morire di fame nel deserto», attaccò, e alcuni preti si segnarono nel sentire il nome del santo, «era rimasto trenta giorni e trenta notti senza cibo...» Nicholas tirò in lungo la storia, indugiando sulla fame patita dal Battista con un'abbondanza di particolari molto apprezzata dagli ascoltatori, i quali gradivano che i loro sant'uomini soffrissero in nome della virtù. «Alla fine, il Signore ebbe pietà del suo servitore e mise una piccola antilope tra le acacie, in modo che restasse impigliata per le corna, e così parlò al santo: 'Ho preparato un pasto per te, perché tu non muoia. Prendi la carne e mangia'. E dove il Battista toccò la bestiola, i segni delle dita le s'impressero sul dorso, per tutte le generazioni future.» Gli ascoltatori tacquero, impressionati. Nicholas porse la foto all'abate. «Vede le impronte delle dita del santo?» Il vecchio studiò con attenzione la fotografia, l'accostò all'occhio sano e alla fine sentenziò: «È vero. I segni delle dita del santo sono ben visibili». La passò ai diaconi che, incoraggiati dal riconoscimento dell'abate, espressero meraviglia per l'immagine dell'animale insignificante con il manto di pelame striato. Wilbur Smith
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«Qualcuno dei vostri uomini ha visto questo dik-dik?» chiese Nicholas. Uno dopo l'altro, i diaconi scossero la testa. La foto passò agli accoliti accosciati per terra. All'improvviso uno di loro balzò in piedi saltellando, agitò la foto e balbettò: «Io ho visto questa creatura sacra! L'ho vista con i miei occhi!» Era un giovane poco più che adolescente. Gli altri proruppero in risate incredule; uno tolse la foto dalla mano del ragazzo e la sventolò al di fuori della sua portata. «Il ragazzo ha la testa vuota, e spesso è posseduto dal demonio e dalle convulsioni», spiegò Jali Hora in tono di rammarico. «Non fate caso al povero Tamre!» Con gli occhi stralunati, Tamre corse lungo la fila degli accoliti e cercò disperatamente di riprendere la foto, ma quelli se la passavano di continuo e gli impedivano di afferrarla, lo deridevano e lo burlavano per le sue smanie. Nicholas si alzò per intervenire. Disapprovava quel comportamento nei confronti d'un ragazzo deficiente. Ma in quell'attimo qualcosa scattò nella mente di Tamre, che cadde a terra come se fosse stato colpito da una mazzata. Inarcò la schiena e cominciò a sussultare irrefrenabilmente, roteò gli occhi e la bava gli spuntò sulle labbra contratte in un rictus ghignante. Prima che Nicholas potesse avvicinarsi, quattro compagni lo sollevarono di peso e lo portarono via. Le loro risate si persero nella notte. Gli altri si comportarono come se non fosse successo niente di anormale, e Jali Hora chiese con un cenno al suo debtera di riempirgli ancora il bicchiere. Era tardi quando finalmente Jali Hora si congedò e salì sul palanchino con l'aiuto dei diaconi. Portò con sé la bottiglia con il brandy avanzato, stringendola con una mano scheletrita, mentre con l'altra impartiva benedizioni. «Gli ha fatto una buona impressione, milord inglese», commentò Boris. «Ha apprezzato la storia di Giovanni Battista, ma ha apprezzato ancora di più i dollari.» Quando ripartirono, l'indomani mattina, il sentiero seguì il fiume per un tratto; ma, dopo un chilometro e mezzo, le acque scorsero più veloci attraverso lo stretto varco fra gli alti dirupi rossi e precipitarono in un'altra cascata. Nicholas abbandonò la pista e scese fino al ciglio delle cascate. Wilbur Smith
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Cinquanta metri più sotto c'era una profonda fenditura nella roccia, larga quanto bastava perché il fiume turbolento potesse passare oltre. La distanza era così modesta che avrebbe potuto superarla con il lancio di una pietra. In quell'abisso non c'erano sentieri né appigli; tornò indietro e raggiunse il resto della carovana che si allontanava dal fiume, addentrandosi in un'altra valle fittamente alberata. «Probabilmente era il corso del Dandera, prima che ne aprisse uno nuovo attraverso la strettoia», disse Royan, indicando il terreno erto sui lati della pista, e i macigni erosi dall'acqua che lo costellavano. «Penso che abbia ragione», ammise Nicholas. «Quei dirupi sembrano intrusioni di calcare nel basalto e nell'arenaria. L'intera zona è stata squarciata dall'erosione e dai continui mutamenti del fiume. Può star certa che gli strapiombi di calcare sono crivellati da grotte e sorgenti.» Adesso la pista scendeva rapidamente verso il Nilo Azzurro, e perdeva circa cinquecento metri d'altitudine in pochi chilometri. I fianchi della valle erano coperti di vegetazione e in molti punti piccole sorgenti sgorgavano dal calcare e scorrevano nel vecchio letto del fiume. Il caldo cresceva di continuo. Ben presto anche la camicia kaki di Royan si macchiò di sudore fra le scapole. A un certo punto, scorsero un rivoletto d'acqua limpida che sgusciava da un'area di boscaglia sul fianco della collina, si gettava nel ruscello e lo trasformava in un piccolo fiume. Poi superarono un angolo della valle e si accorsero di aver raggiunto, insieme al fiumicello, il ramo principale del Dandera. Si voltarono a guardare la gola e scorsero il punto dove il fiume era uscito dall'abisso, grazie a una stretta arcata nella parete. La roccia che circondava la breccia era d'uno strano colore rosato, liscia e lucida, ripiegata su se stessa, e sembrava la mucosa all'interno di due labbra umane. La roccia aveva un colore e una consistenza così insoliti da colpire sia Royan sia Nicholas. Si soffermarono per studiarla mentre i muli proseguivano e lo scalpiccio degli zoccoli e le voci degli uomini echeggiavano e riverberavano in quel luogo fuori del mondo. «Sembra un mascherone mostruoso che erutti l'acqua dalla bocca», mormorò Royan mentre guardava la spaccatura e le strane formazioni rocciose. «Immagino che gli antichi egizi guidati da Taita e del principe Memnone fossero molto scossi quando lo videro. Dovettero attribuire chissà quali connessioni mistiche a questo fenomeno naturale.» Wilbur Smith
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Nicholas rimase in silenzio a guardarla in viso. Gli occhi erano scuri, l'espressione solenne. In quel momento gli rammentava un ritratto che faceva parte della sua collezione a Quenton Park: il frammento di un affresco proveniente dalla Valle dei Re che raffigurava una principessa ramesside. «Perché ti sorprendi?» si chiese. «Nelle sue vene scorre lo stesso sangue.» Royan si girò verso di lui. «Mi dia una speranza, Nicky. Mi dica che non l'ho sognato. Mi dica che troveremo ciò che stiamo cercando, che vendicheremo la morte di Duraid e che porteremo a termine la sua opera.» Il viso sembrava splendere sotto il lieve velo di sudore. Nicholas fu assalito dall'impulso quasi irresistibile di prenderla fra le braccia e di baciarle le labbra socchiuse. Invece si voltò e ricominciò a scendere il sentiero. Non osava guardarla prima di aver ritrovato l'autocontrollo. Dopo un po' sentì il suo passo leggero che lo seguiva. Procedettero in silenzio. Era così assorto che il panorama apertosi d'un tratto davanti a lui lo colse di sorpresa. Si trovavano su un cornicione che dominava la subgola del Nilo. Sotto di loro, c'era un immenso calderone di rocce rosse, profondo centocinquanta metri. Il ramo principale del fiume leggendario era un torrente verde che precipitava nell'abisso buio: infatti era così profondo che la luce del sole non vi penetrava. Accanto a loro, le acque meno abbondanti del Dandera compivano lo stesso salto, e cadevano candide come una piuma di egretta che si attorceva nel vento della gola. Laggiù le acque si mescolavano e ribollivano in vortici di spuma, giravano su se stesse come una grande ruota, pesanti e viscose, fino a quando non trovavano la gola d'uscita e vi si avventavano con violenza irrefrenabile. «E lei ha affrontato tutto questo con una barca?» chiese Royan con voce carica di ammirazione. «A quel tempo eravamo giovani e sciocchi», rispose Nicholas con un sorriso triste, ombrato dai ricordi. Rimasero a lungo in silenzio; poi Royan mormorò: «Capisco perché fermò Taita e il principe mentre risalivano il fiume». Si guardò intorno e indicò la gola verso est. «Di certo non avrebbero mai potuto risalire la Wilbur Smith
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subgola. Dovettero seguire la linea in cima ai dirupi, proprio dove siamo in questo momento.» Il pensiero conferì alla sua voce una sfumatura di eccitazione. «A meno che non siano saliti lungo l'altra sponda del fiume», suggerì Nicholas, e lei si oscurò. «Non ci avevo pensato. È possibile, ovviamente. Come potremmo attraversarlo, se non trovassimo tracce da questa parte?» «È un problema che prenderemo in considerazione soltanto se ci saremo costretti. Abbiamo già abbastanza guai così, senza andare in cerca di altri.» Tacquero di nuovo e rifletterono sull'enormità e l'incertezza del compito che si erano assunti. Poi Royan si scosse. «Dov'è il monastero? Non lo vedo.» «Nel dirupo, sotto i nostri piedi.» «Ci accamperemo là?» «Ne dubito. Raggiungiamo Boris e sentiamo che intende fare.» Seguendo la pista, ritrovarono la carovana dei muli a una biforcazione. Un ramo si distaccava dal fiume e scendeva in una conca boscosa, l'altro continuava a seguire l'orlo della roccia. Boris li aspettava. Indicò il sentiero che si allontanava dal fiume. «C'è un posto adatto per accamparci, lassù tra gli alberi. Ci sono stato l'ultima volta che sono venuto a caccia.» C'erano numerosi fichi selvatici che ombreggiavano la radura, e anche una sorgente di acqua purissima. Per ridurre il carico al minimo, Boris non aveva portato le tende nella gola. Non appena i suoi uomini ebbero scaricato i muli, li mise al lavoro per costruire tre piccole capanne e per scavare una latrina, molto lontano dalia fonte. Mentre si svolgevano i lavori, Nicholas chiamò Royan e Tessay con un cenno, e tutti e tre si avviarono per esplorare il monastero. Arrivata al bivio, Tessay li guidò sul sentiero che fiancheggiava il precipizio. Poco dopo giunsero a un'ampia scala di roccia che scendeva nel dirupo. Un gruppo di monaci biancovestiti stava salendo, e Tessay si fermò a parlare con loro. Quando proseguirono, spiegò: «Oggi è Katera, la vigilia della festività di Timkat. Sono molto emozionati; è uno degli avvenimenti principali dell'anno religioso». «E che cosa celebra?» chiese Royan. «Non fa parte del calendario ecclesiastico egiziano.» «È l'Epifania etiope, e celebra il battesimo di Cristo», spiegò Tessay. Wilbur Smith
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«Durante la cerimonia, il tabot verrà portato al fiume per essere riconsacrato e rivitalizzato, e gli accoliti riceveranno il battesimo, come Gesù lo ricevette dalla mano di Giovanni Battista.» Scesero la scala. I gradini erano scavati dal passaggio d'innumerevoli piedi scalzi nel corso dei secoli. Il grande calderone del Nilo ribolliva e sibilava, lanciando spruzzi decine e decine di metri più in basso. All'improvviso sbucarono su un'ampia terrazza scavata nella pietra viva; una sporgenza di roccia rossa che formava un tetto per il chiostro, sostenuto dagli archi creati dagli antichi costruttori. La parete interna della lunga terrazza coperta era crivellata dagli ingressi delle catacombe. Nel corso dei secoli era stata scavata per formare i corridoi, le celle, i vestiboli e le chiese e i sacelli della comunità monastica che l'aveva abitata per più di mille anni. Sulla terrazza si scorgevano vari gruppetti di monaci. Alcuni ascoltavano uno dei diaconi che leggeva a voce alta una copia miniata delle Scritture. «Molti sono analfabeti», sospirò Tessay. «È necessario leggere e spiegare la Bibbia persino ai monaci, perché tanti non sono in grado di leggerla da sé.» «Proprio come avveniva nell'ambito della Chiesa bizantina», commentò Nicholas. «Ancora oggi, questa è la Chiesa della Croce e del Libro, di riti complicati e sontuosi in un mondo prevalentemente illetterato.» Mentre si aggiravano nel chiostro, incontrarono altri gruppi di monaci che, sotto la direzione di un maestro, salmodiavano salmi e inni in amharico. Dall'interno delle celle e delle grotte giungevano le voci che si levavano nella preghiera, e l'aria era satura dell'odore della presenza umana che si protraeva da secoli. Era l'odore del fumo di legna e dell'incenso, del cibo stantio e degli escrementi, del sudore e della pietà, della sofferenza e della malattia. Fra i gruppi di monaci c'erano i pellegrini, giunti lì per pregare il santo o per chiedergli di guarirli dalle malattie e dai tormenti. C'erano bambini ciechi che piangevano tra le braccia delle madri, lebbrosi con la carne che cadeva dalle ossa, uomini colpiti dalla malattia del sonno o da qualche altra terribile infermità tropicale. I gemiti e i lamenti si mescolavano ai canti dei monaci, e al fragore lontano del Nilo che precipitava nel calderone. Arrivarono finalmente all'entrata della cattedrale di san Frumenzio. Era un'apertura rotonda come la bocca di un pesce, ma i bordi erano ornati da Wilbur Smith
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una fitta bordura di stelle, croci e teste di santi. I ritratti, eseguiti in ocra e in toni terrosi, erano primitivi, tuttavia la loro infantile semplicità li rendeva ancor più affascinanti. Gli occhi dei santi erano grandissimi e delineati con il carboncino, le loro espressioni serene e benevole. Un diacono dalla lurida veste di velluto verde sorvegliava l'ingresso, ma, quando Tessay gli parlò, sorrise e accennò loro di entrare. L'architrave era così bassa che Nicholas dovette chinarsi per passare; poi si raddrizzò e si guardò intorno sbalordito. La volta della caverna era alta al punto che si perdeva nell'oscurità. Le pareti di roccia erano coperte da affreschi; una schiera celestiale di angeli e arcangeli sembrava palpitare nella luce delle candele e delle lucerne. Erano nascosti parzialmente dai lunghi arazzi appesi alle pareti, anneriti dalla fuliggine dell'incenso e con i bordi laceri e sfrangiati. Uno di quegli arazzi raffigurava san Michele che incedeva su un cavallo bianco, un altro ritraeva la Vergine, inginocchiata ai piedi della croce, mentre sopra di lei il corpo pallido di Cristo sanguinava dalla ferita aperta nel costato. Quella era la navata esterna della chiesa. Nella parete di fronte l'accesso alla navata mediana era protetto da due solidi battenti di legno che però in quel momento erano aperti. Avanzarono sul pavimento di pietra passando fra i postulanti e pellegrini laceri e inginocchiati che si abbandonavano al dolore o all'estasi religiosa. Nella luce fioca delle lampade e nel fumo azzurrino dell'incenso sembravano anime che languivano per l'eternità nel buio del purgatorio. Arrivarono ai tre gradini di pietra che conducevano alla porta interna; ma due diaconi li bloccarono, e uno di loro si rivolse a Tessay in tono severo. «Non vogliono lasciarci entrare neppure nel qiddist, la navata mediana», spiegò Tessay in tono di rammarico. «Più oltre c'è il magdas, il sacrario.» Scrutarono al di là delle guardie e, nell'oscurità del qiddist, scorsero vagamente la porta del sancta sanctorum. «Solo i preti possono entrare nel magdas, perché contiene il tabot e dà accesso alla tomba del santo.» Delusi e frustrati, uscirono dalla caverna e tornarono sulla terrazza. Cenarono sotto un cielo pieno di stelle. L'aria era ancora calda e soffocante, e imperversavano nugoli di zanzare che i repellenti di cui tutti s'erano cosparsi bastavano a malapena a tenere lontane. Wilbur Smith
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«E così, inglese, l'ho portato dove lei voleva. Adesso come farà a prendere l'animale che è venuto a cercare?» Ancora una volta la vodka aveva reso bellicoso Boris. «Alle prime luci voglio che mandi in giro i suoi cacciatori per battere il territorio più a valle», disse Nicholas. «Di solito i dik-dik sono attivi di prima mattina e poi di nuovo nel tardo pomeriggio.» «Vuole insegnare a suo nonno come si spella un gatto?» Boris pasticciò la metafora e si versò un'altra vodka. «Dica loro di cercare le tracce.» Nicholas insistette di proposito. «Immagino che le tracce della varietà striata siano molto simili a quelle del dik-dik comune. Se trovano qualche indizio, devono sedersi in silenzio sul bordo della macchia di cespugli più fitti e attendere gli eventuali movimenti degli animali. I dik-dik non si allontanano mai dal loro territorio.» «Da! Da! Glielo dirò. Ma lei che cosa farà? Passerà la giornata al campo con le signore, inglese?» Boris sorrise subdolo. «Un pizzico di fortuna, e presto non ci sarà più bisogno di capanne separate.» Sghignazzò. Tessay, a disagio, si alzò con il pretesto di dover andare in cucina per controllare il cuoco. Nicholas ignorò la spiritosaggine volgare. «Royan e io esploreremo la boscaglia lungo le rive del Dandera. Mi è sembrato un habitat molto adatto ai dik-dik. Dica ai suoi di stare alla larga dal fiume: non voglio che disturbino la selvaggina.» L'indomani lasciarono il campo alle prime luci dell'alba. Nicholas portava il Rigby e uno zaino leggero. Condusse Royan lungo la sponda del Dandera. Procedevano lentamente e si fermavano a intervalli di una dozzina di passi per osservare e ascoltare. Le macchie e i boschetti erano pieni dei suoni e dei movimenti degli uccelli e dei piccoli mammiferi. «Gli etiopi non hanno una vera tradizione come cacciatori, e immagino che i monaci non disturbino mai la fauna della gola.» Nicholas indicò le tracce di una piccola antilope nella terra umida della riva. «Un tragelafo di Menelik», spiegò. «Esiste solo in questa parte del mondo. È un trofeo molto ambito.» «Spera veramente di trovare il dik-dik del suo bisnonno?» chiese lei. «Sembrava così deciso quando ne ha parlato con Boris.» «No, naturalmente.» Nicholas sorrise. «Credo che il vecchio l'avesse Wilbur Smith
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fabbricato. Sarebbe stato più giusto chiamarlo 'chimera di Harper'. Probabilmente si servi davvero della pelle di una mangusta striata. Noi Harper non ci atteniamo sempre alla verità.» Si soffermarono a guardare una nettarina che svolazzava intorno a un ciuffo di fiori gialli di un rampicante. Il piumaggio del minuscolo uccello splendeva come una tiara di smeraldi. «Comunque ci fornisce un ottimo pretesto per andare in giro nella boscaglia.» Nicholas si voltò per assicurarsi che fossero abbastanza lontani dal campo, poi indicò a Royan di sedere su un tronco caduto. «Dunque, facciamoci un'idea chiara di quel che stiamo cercando. Mi dica.» «Stiamo cercando le rovine di un tempio funerario o della necropoli in cui vivevano gli operai mentre scavavano la tomba del faraone Marnose.» «Qualunque tipo di costruzione in pietra o mattoni», annuì lui. «Ma soprattutto una specie di colonna o di monumento.» «Sì, il testamento di pietra di Taita», confermò Royan. «Dovrebbe essere coperto di geroglifici scolpiti. Probabilmente è usurato dalle intemperie, o è crollato, oppure è avvolto dalla vegetazione... Non lo so. Stiamo pescando alla cieca...» «Bene, perché stiamo ancora qui a poltrire? Mettiamoci al lavoro.» A metà della mattinata, Nicholas trovò le tracce di un dik-dik lungo la riva del fiume. Si piazzarono contro uno dei grandi alberi e attesero pazienti nell'ombra della foresta sino a che non furono ricompensati dalla visione fuggevole di una di quelle piccole creature. Passò vicino a loro, agitando la proboscide. Si muoveva con eleganza sugli zoccoletti fragili, strappava ogni tanto una foglia da un ramo basso e la masticava con impegno. Ma il manto era di un grigio uniforme, privo di striature. Quando lo vide sparire nel sottobosco, Nicholas si alzò. «È la varietà comune», mormorò. «Proseguiamo.» Poco dopo mezzogiorno, raggiunsero il punto dove il fiume usciva fra le rocce color carne della breccia, e le esplorarono finché non furono bloccati dai dirupi. La roccia scendeva a perpendicolo nell'acqua, e sul ciglio non c'erano appigli che permettessero di spingersi oltre. Tornarono allora verso valle e raggiunsero l'altra riva passando su un ponte sospeso di liane e di corde ispide di lino che doveva essere stato costruito dai monaci. Ancora una volta cercarono di raggiungere la breccia. Nicholas tentò addirittura di passare a guado intorno alla prima sporgenza di roccia rosea Wilbur Smith
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che sbarrava il cammino, ma la corrente era troppo forte e minacciava di trascinarlo via. Dovette rinunciare. «Se non ce la facciamo noi, è molto improbabile che ci fossero riusciti Taita e i suoi operai.» Tornarono fino al ponte sospeso e trovarono un angolo ombroso vicino all'acqua per consumare il pranzo che Tessay aveva fatto preparare. Il caldo meridiano era così intenso da stordire. Royan bagnò nel fiume il fazzoletto da collo e se lo passò sulla faccia mentre si sdraiava accanto a Nicholas. Steso sul dorso, Nicholas studiava con il binocolo ogni centimetro di roccia rosata, alla ricerca di un crepaccio o di un'apertura nella superficie. Poi, sempre osservando la parete, disse: «Leggendo il Dio del fiume mi è sembrato di capire che Taita abbia chiesto aiuto per scambiare il corpo di Tanus, il Grande Leone d'Egitto, con quello del faraone». Abbassò il binocolo e guardò Royan. «Mi è parso un comportamento davvero oltraggioso, in rapporto all'epoca e alle credenze del periodo. È una traduzione fedele dei papiri? Taita scambiò veramente le due mummie?» Royan rise e si girò verso di lui. «Il suo amico Wilbur ha una fantasia surriscaldata. La base per l'intero passo è una sola riga dei papiri: 'Per me era un re più di quanto lo fosse mai stato il Faraone'.» Tornò a girarsi sul dorso. «E un buon esempio delle mie obiezioni al romanzo, che mescola realtà e fantasia in un viluppo inestricabile. Per quanto ne so, Tanus riposa nella sua tomba, e il faraone nella sua.» «Peccato!» sospirò Nicholas. «Mi piaceva, quel tocco romantico...» Poi diede un'occhiata all'orologio e si alzò. «Venga, voglio fare una ricognizione lungo l'altro lato della valle. Ho adocchiato un terreno interessante durante la marcia di ieri.» Era già pomeriggio inoltrato quando tornarono al campo, e Tessay uscì in fretta dalla cucina per accoglierli. «Vi stavo aspettando. Abbiamo ricevuto un invito da parte dell'abate Jali Hora per partecipare a un banchetto che si terrà nel monastero in occasione di Katera, la vigilia di Timkat. I servitori vi hanno preparato la doccia, e l'acqua è calda. Avete giusto il tempo per cambiarvi prima che scendiamo al monastero.» L'abate inviò un gruppo di giovani accoliti a scortarli nella sala dei banchetti. I giovani arrivarono nel breve crepuscolo africano. Portavano le Wilbur Smith
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torce per rischiarare il cammino. Royan riconobbe uno di loro: era Tamre, il ragazzo epilettico. Quando gli rivolse un sorriso cordiale, lui si avvicinò timidamente e le offrì un mazzo di fiori selvatici che aveva colto in riva al fiume. Lei era impreparata a quel gesto di cortesia, e senza riflettere lo ringraziò in arabo. «Shukran.» «Taffadali», rispose immediatamente il ragazzo, usando il genere esatto per la risposta e un accento che rivelava la sua ottima conoscenza della lingua. «Come mai parli così bene l'arabo?» gli chiese Royan incuriosita. Il ragazzo chinò la testa, imbarazzato, e mormorò: «Mia madre è di Massaua, sul mar Rosso. L'arabo è la lingua della mia infanzia». Quando si avviarono verso il monastero, Tamre seguì Royan come un cagnolino. Scesero la scala e arrivarono alla terrazza illuminata dalle torce. Lo stretto chiostro era affollato; mentre procedevano fra la calca, con gli accoliti che aprivano loro il passaggio, innumerevoli facce nere gridavano saluti in amharico e molte mani si tendevano per toccarli. Si chinarono per passare sotto la bassa architrave dell'ingresso della cattedrale. La navata era rischiarata da lucerne a olio e da torce, e gli affreschi con gli angeli e i santi sembravano danzare nella luce incerta. Il pavimento di pietra era coperto da uno strato di canne appena tagliate che alleviava, con il suo dolce profumo, l'aria pesante e fumosa. A quanto pareva, l'intera comunità dei religiosi era seduta su quel tappeto spugnoso. Tutti accolsero l'entrata del gruppetto di ferengi con grida di benvenuto e benedizioni. Accanto a ogni figura assisa c'era una fiasca di tej, l'idromele tipico della zona; bastava guardare le facce soddisfatte e sudate per capire che la bevanda aveva già cominciato a fare effetto. I visitatori furono condotti nel posto lasciato libero per loro, proprio davanti ai battenti lignei del qiddist, la navata mediana. Gli accoliti li invitarono a sedere; subito dopo, altri monaci arrivarono dalla terrazza portando fiasche di tej e le posarono davanti a ognuno di loro. Tessay si sporse per bisbigliare: «È meglio lasciare che sia io ad assaggiare per prima il tej. La gradazione alcolica, il colore e il sapore variano da un posto all'altro: spesso è imbevibile». Prese la sua fiasca e, dopo averne preso un sorso, sorrise. «E molto buono. Se non eccedete, andrà tutto benissimo.» Wilbur Smith
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I monaci seduti intorno a loro li esortavano a bere, e Nicholas alzò la fiasca. Tutti applaudirono e risero quando assaggiò la bevanda. Era leggera e gradevole, con un forte bouquet di miele selvatico. «Niente male!» commentò, ma Tessay lo avvertì: «Più tardi offriranno sicuramente il katikala. Bisogna stare attenti: lo ricavano dal grano fermentato ed è così potente da spaccare la testa». Adesso i monaci concentravano su Royan le loro premure. Erano molto colpiti dal fatto che fosse una cristiana copta, una vera credente; e la sua bellezza non passava inosservata in quella compagnia di religiosi votati al celibato. Nicholas si chinò a sussurrarle: «Dovrà simulare per farli contenti. Si porti la fiasca alle labbra e finga di bere, altrimenti non le daranno pace». Quando Royan alzò la fiasca, i monaci gridarono soddisfatti e brindarono. Lei riabbassò la fiasca e bisbigliò a Nicholas: «È delizioso. Sa di miele». «È venuta meno al voto di astinenza», la rimproverò lui ridendo. «Solo una goccia», ammise lei. «E comunque, non ho mai pronunciato voti.» Gli accoliti s'inginocchiarono a turno davanti agli ospiti, offrendo loro bacinelle d'acqua calda per lavarsi la mano destra prima del banchetto. All'improvviso si sentirono una musica e un rullo di tamburi; dalla porta aperta del qiddist arrivarono i coristi. Si schierarono lungo le pareti laterali della navata, mentre l'intera congregazione cercava di scrutare l'interno della camera mediana. Finalmente in cima ai gradini apparve Jali Hora, il vecchio abate. Indossava una tonaca lunga di raso cremisi e una stola ricamata di filo d'oro. In testa portava una corona massiccia: sebbene brillasse come oro, Nicholas sapeva che era ottone dorato, e le pietre multicolori che la ornavano erano sicuramente di pasta di vetro. Jali Hora alzò il bastone pastorale sovrastato dalla croce d'argento. Scese un grande silenzio. «Ora reciterà il rendimento di grazie», spiegò Tessay, e chinò la testa. La preghiera di Jali Hora fu lunga e fervida; la voce in falsetto si alternava con le risposte devote dei monaci. Quando terminò, due debteras splendidamente abbigliati lo aiutarono a scendere i gradini e lo fecero sedere sul jimmera, lo sgabello scolpito posto al centro del cerchio di diaconi anziani e di preti. Wilbur Smith
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L'atmosfera religiosa lasciò il posto a un'allegria conviviale quando una processione di accoliti arrivò dalla terrazza. Ognuno portava sulla testa un cesto piatto grande quanto una ruota di carro. Ne posarono uno al centro di ogni cerchio d'invitati. Poi, a un segnale di Jali Hora, con un movimento all'unisono tolsero i coperchi ai cesti di canna. I monaci proruppero in esclamazioni gioiose perché ogni cesto conteneva un basso bacile d'ottone pieno di pane azimo, l'injera. Due accoliti arrivarono dalla terrazza: reggevano a stento un paiolo fumante pieno di litri e litri di wat, uno spezzatino di montone grasso insaporito da spezie. Allora inclinarono il pentolone su ciascuna delle ciotole d'injera per versare il wat bruno-rossiccio, con la superficie che luccicava di grasso caldo. I presenti si buttarono voracemente sul cibo. Spezzavano l'injera e l'intingevano nel wat, l'usavano per raccogliere pezzi di carne e se lo buttavano nelle bocche che restavano aperte mentre masticavano. Trangugiavano poi il boccone con lunghe sorsate di tej, prima di attingere altro wat con il pane azimo. Ben presto tutti si ritrovarono con un braccio unto fino al gomito e il mento impiastricciato di sugo mentre masticavano e bevevano, ridendo fragorosamente. Gli accoliti addetti al servizio posarono accanto a ogni ospite grosse forme di un altro tipo l'injera, compatte e friabili, diverse dalla varietà che avevano mangiato fino a quel momento, più gommosa e formata da sottili sfoglie grigiastre. Nicholas e Royan cercarono di dimostrare il loro gradimento per il cibo senza tuttavia ingozzarsi come tutti gli altri. Nonostante il suo aspetto, il wat era davvero saporito e l'injera secco e giallino si rivelò indispensabile per eliminare un po' di grasso. I bacili di ottone si vuotarono in poco tempo, e rimase solo l'intruglio avanzato di pane e grasso. A questo punto, gli accoliti ritornarono, barcollando un po' sotto il peso di altri paioli, traboccanti di wat di pollo al curry. Lo servirono nei bacili sopra gli avanzi del montone, e i monaci ripresero a mangiare di buon appetito. Mentre s'ingozzavano di pollo, le fiasche di tej furono riempite di nuovo e i monaci diventarono ancora più chiassosi. «Non ce la faccio più a resistere», mormorò Royan a Nicholas. «Chiuda gli occhi e pensi all'Inghilterra», la consigliò lui. «E la star della Wilbur Smith
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serata, non la lasceranno scappare.» Quando il pollo finì, gli accoliti tornarono con altri paioli; questi erano pieni fino all'orlo di piccante wat di manzo, che venne versato sugli avanzi del montone e del pollo. Il monaco che stava nel cerchio di fronte a Royan vuotò la fiasca e, quando un accolito si avvicinò per riempirla, gli accennò di stargli lontano e gridò: «Katikala!» Il grido fu ripetuto da altri monaci. «Katikala! Katikala!» Gli accoliti si affrettarono a uscire e tornarono con dozzine di bottiglie di un liquido trasparente come il gin e con ciotole d'ottone grandi come tazze. «Attenti a berlo», raccomandò Tessay. Nicholas e Royan riuscirono a versare di nascosto il contenuto delle loro ciotole sulle canne; ma i monaci tracannavano avidamente. «Boris sta bevendo la sua parte», commentò Nicholas rivolgendosi a Royan. Il russo aveva la faccia scarlatta e sudata: sogghignava come un idiota mentre continuava a bere. Animati dal katikala, i monaci cominciarono a giocare. Uno di loro avvolgeva un po' di wat di bue in una sfoglia d'injera; poi, reggendolo con la mano destra, si girava verso il compagno seduto accanto a lui. La vittima apriva al massimo la bocca e il premuroso monaco glielo cacciava in gola. Naturalmente, il boccone era così grosso che per trangugiarlo il malcapitato correva il rischio di soffocare. A quanto pareva, le regole del gioco stabilivano che il monaco non doveva usare le mani per mettere in bocca l'involtino d'injera e wat, non doveva lasciar colare il grasso sulla tonaca e neppure sputacchiarlo su chi gli stava vicino. Le contorsioni, gli ansiti e i boccheggiamenti della vittima suscitavano l'ilarità più incontrollata. Quando, alla fine, riusciva a trangugiare un boccone, per ricompensa gli veniva accostata alle labbra una ciotola di katikala, che doveva tracannare prontamente. Jali Hora, ormai riscaldato da tej e katikala, si alzò barcollando. Teneva alto nella destra un involtino d'injera grondante. Quando incominciò ad attraversare la navata, con la corona storta sulla testa, in un primo momento non capirono le sue intenzioni. Tutti lo guardavano incuriositi. All'improvviso Royan s'irrigidì e sussurrò inorridita a Nicholas: «No! Per favore, no. Mi salvi, Nicky. Non può permetterlo». «E il prezzo che deve pagare per il ruolo di protagonista», ribatté lui. Jali Hora stava continuando ad avanzare a passi incerti verso di lei. Il sugo Wilbur Smith
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dell'involtino gli scorreva sull'avambraccio e sgocciolava dal gomito. L'orchestrina schierata lungo la parete laterale attaccò una musica vivace. Quando l'abate si fermò davanti a Royan, oscillando come un'antica carrozza molleggiata, il ritmo aumentò e i tamburi suonarono freneticamente. L'abate presentò il suo dono. Allora, con un'ultima occhiata * di disperazione a Nicholas, Royan affrontò l'inevitabile. Chiuse gli occhi e spalancò la bocca. Fra le grida d'incoraggiamento e le esortazioni degli strumenti musicali, si sforzò di masticare. Diventò rossa in viso e i suoi occhi si riempirono di lacrime. A un certo momento, Nicholas pensò che stesse per dichiararsi sconfitta e per sputare il boccone sulle canne. Ma a poco a poco, un morso alla volta, lo inghiottì. Poi, esausta, tirò un respiro di sollievo. Il pubblico si entusiasmò: tutti applaudivano e gridavano. L'abate si lasciò cadere in ginocchio davanti a lei e, rischiando di perdere la corona, l'abbracciò. Poi, senza lasciarla, le sedette accanto. «Sembra che abbia fatto un'altra conquista», commentò Nicholas in tono asciutto. «Credo che le salterà sulle ginocchia da un momento all'altro, se non si affretta a scappare.» Royan reagì con prontezza: si tese, afferrò una bottiglia di katikala e una ciotola che riempì fino all'orlo. «Bevi, amico!» esclamò, accostandogli la ciotola alle labbra. Jali Hora accettò la sfida, ma dovette lasciarla per poter bere dalla sua mano. All'improvviso, Royan trasalì con tanta violenza da rovesciare il liquore rimasto nella ciotola sulla veste del vecchio. Impaludi, e prese a tremare come se fosse in preda alla febbre alta. Fissava la corona che era scivolata sugli occhi dell'abate. «Che c'è?» chiese Nicholas a voce bassa ma incalzante, mentre la sosteneva per un braccio. Nessuno dei presenti aveva notato il turbamento di Royan, ma lui coglieva ormai al volo i suoi stati d'animo. Lei continuò a fissare la corona. Lasciò cadere la ciotola e strinse il polso di Nicholas, che rimase sorpreso dalla sua forza. La stretta era dolorosa, e Royan gli aveva piantato le unghie nella carne al punto di lacerare la pelle. «Guardi la corona! La gemma! La gemma azzurra!» ansimò. E Nicholas la vide fra le sgargianti schegge di vetro e gli ornamenti di granati e cristalli di rocca semipreziosi. Aveva la grandezza di un dollaro Wilbur Smith
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d'argento ed era un sigillo di ceramica azzurra, perfettamente rotondo e lucidissimo. Al centro era inciso un carro da guerra egizio, sovrastato dal disegno inconfondibile del falco con l'ala spezzata. Intorno alla circonferenza c'era una legenda in geroglifici. Nicholas impiegò pochi attimi per leggerlo. IO COMANDO DIECIMILA CARRI IO SONO TAITA, COMANDANTE DELLA CAVALLERIA REALE Royan desiderava disperatamente fuggire dall'atmosfera opprimente della caverna. L'involtino di wat che l'abate l'aveva costretta a inghiottire s'era mescolato ai pochi sorsi di tej che aveva bevuto. La nausea era aggravata dall'odore delle ciotole semipiene di grasso freddo e dai vapori acri del katikala. Alcuni monaci, ubriachi, avevano cominciato a vomitare, e il lezzo si aggiungeva al profumo soffocante dell'incenso. Ma Royan era al centro dell'attenzione dei monaci: l'abate le sedeva accanto e le accarezzava il braccio nudo, mentre recitava in amharico ingarbugliati brani sacri che Tessay aveva ormai rinunciato a tradurre. Guardò speranzosa Nicholas, ma quello taceva e sembrava ignorare ciò che lo circondava. Sapeva che stava pensando al sigillo di ceramica della corona dell'abate, perché continuava a guardarlo con aria assorta. Avrebbe voluto restare sola con lui per parlare di quella scoperta straordinaria; l'eccitazione controbilanciava le sofferenze dello stomaco sovraccarico. Sentiva di avere le guance in fiamme e, ogni volta che alzava gli occhi verso la corona del vecchio, il suo cuore palpitava. Royan doveva compiere uno sforzo per trattenersi dal tendere la mano, afferrare il sigillo azzurro e strapparlo dall'incastonatura per osservarlo meglio. Sapeva che sarebbe stata un'imprudenza attirare l'attenzione sul piccolo oggetto di ceramica; tuttavia, quando si guardò intorno, vide che Boris non era completamente assorto dalla sua ciotola di katikala. Ma fu proprio Boris a offrirle il pretesto che stava cercando. Il russo cercò di alzarsi, ma le gambe lo tradirono: si piegò in avanti, finì con la faccia nel bacile d'injera pieno di grasso e cominciò a russare rumorosamente. Allora Tessay si rivolse a Nicholas con aria supplichevole. «Alto Nicholas, che devo fare?» Nicholas osservò lo sgradevole spettacolo del cacciatore steso bocconi. Wilbur Smith
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Nei capelli rossicci c'erano briciole di pane e ritagli di spezzatino di bue. «Penso che per stasera il principe azzurro abbia bevuto abbastanza», mormorò. Si alzò, andò a chinarsi su Boris e l'afferrò per il polso: lo sollevò prima a sedere, poi in piedi, e se lo caricò sulla spalla come un vigile del fuoco che porta in salvo qualcuno. «Buonanotte a tutti!» augurò ai monaci, che in maggioranza non erano in grado di rispondere, e portò via Boris con la testa e i piedi che ciondolavano. Le due donne dovettero allungare il passo per stargli dietro. Nicholas percorse la terrazza e salì la scala di pietra senza mai fermarsi. «Non mi ero accorta che alto Nicholas fosse così forte», ansimò Tessay. I gradini erano ripidi e l'andatura sostenuta. «Neppure io», ammise Royan con uno strano senso d'orgoglio, e sorrise fra sé mentre si avvicinavano al campo. «Non essere sciocca», si disse. «Non è il tuo uomo e non hai motivo di vantarti.» Nicholas scaricò Boris sulla branda nella capanna dal tetto di paglia e indietreggiò. Ansimava, e il sudore gli scorreva sulle guance. «È un ottimo modo per procurarsi un attacco di cuore», commentò. Boris gemette, si girò, e vomitò sul cuscino e sulle lenzuola. «E con questa scenetta amabile, auguro a tutti buonanotte e dolci sogni», disse Nicholas a Tessay, e uscì nella calda notte africana. Aspirò con sollievo il profumo della foresta e del fiume, poi si voltò quando Royan gli strinse il braccio. «Ha visto...?» esclamò lei, emozionata, ma Nicholas si portò l'indice alle labbra per farla tacere, lanciò un'occhiata di avvertimento in direzione della capanna di Boris. I due si avviarono verso la capanna di Royan. «Ha visto?» ripeté lei non appena fu entrata. Non riusciva più a trattenersi. «Ha potuto leggerlo?» «'Io comando diecimila carri'», recitò Nicholas. «'Io sono Taita, comandante della cavalleria reale'», concluse lei. «È passato di qui. Oh, Nicky, Taita è passato di qui! È la prova che stavamo cercando. Adesso sappiamo che non stiamo sprecando tempo.» Si sedette sulla branda e si strinse le spalle con le mani. «Crede che l'abate ci permetterà di esaminare il sigillo?» Nicholas scosse la testa. «Penso di no. La corona è uno dei tesori del Wilbur Smith
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monastero. Probabilmente non lo farebbe neppure per lei, che pure è la sua beniamina. E comunque non sarebbe prudente mostrare un eccessivo interesse. È chiaro che Jali Hora non ha la più lontana idea del significato del sigillo. E, a parte questo, è meglio non mettere sull'avviso Boris.» «Probabilmente ha ragione.» Royan si spostò sul letto per lasciargli spazio. «Sieda.» Quando lui si fu accomodato, gli chiese: «Da dove crede che provenga il sigillo? Chi l'avrà trovato? Dove e quando?» «Calma, calma, mia cara. Sono quattro domande e non so rispondere a nessuna di esse.» «Provi a immaginare! Faccia qualche ipotesi. Butti là un paio d'idee.» «Sta bene», disse lui. «Il sigillo è stato fatto a Hong Kong: là c'è una fabbrichetta che li sforna a migliaia. Jali Hora l'ha comprato per dieci rupie in un negozio di souvenir per turisti a Luxor quando è andato in vacanza in Egitto il mese scorso.» Royan gli diede un pugno sul braccio con una certa energia. «Non scherzi», ordinò. «Vediamo se riesce a fare di meglio», propose Nicholas mentre si massaggiava il braccio. «D'accordo, ecco qui. Taita lasciò cadere casualmente il sigillo nella gola, mentre lavorava alla costruzione della tomba del faraone Mamose. Quasi tremila anni dopo un vecchio monaco, uno dei primi a vivere nel monastero, lo trovò. Naturalmente non sapeva leggere i geroglifici. Lo portò all'abate, e quello dichiarò che era una reliquia di san Frumenzio, e lo fece incastonare nella corona.» «E vissero tutti felici e contenti», concluse Nicholas. «Niente male, davvero.» «Riesce a trovare qualche lacuna?» chiese Royan. L'uomo scosse la testa. «Allora è d'accordo? Questo prova che Taita passò di qui, e che le nostre teorie sono fondate.» «Forse non è il caso di parlare di prove. Diciamo che indica quella direzione.» Lei si girò sul letto per guardarlo in faccia. «Oh, Nicky, sono così emozionata. Lo giuro, stanotte non riuscirò a chiudere occhio. Non vedo l'ora che arrivi domani per poter uscire a continuare le ricerche.» Le brillavano gli occhi e le guance erano sfumate di rosa; le labbra socchiuse lasciavano scorgere la punta della lingua. Wilbur Smith
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Questa volta Nicholas non seppe trattenersi. Si tese verso di lei, lentamente, lasciandole tutto il tempo di tirarsi indietro se voleva evitarlo. Royan non si mosse, ma nella sua espressione radiosa passò un lampo di angoscia. Lo guardò negli occhi, come se cercasse di essere rassicurata. Quando le loro labbra furono a un paio di centimetri di distanza, Nicholas si fermò, e fu lei a compiere l'ultimo movimento. Le due bocche si unirono. All'inizio fu un bacio tenero, un mescolarsi lieve di respiri; poi divenne più ardente. Per un lungo attimo si divorarono con passione. La bocca di Royan era morbida e dolce come un frutto maturo. All'improvviso lei gemette e con un enorme sforzo di volontà si staccò e si svincolò. Si fissarono, scossi e confusi. «No», mormorò Royan. «Ti prego, Nicky. Non ancora. Non sono pronta.» Lui le prese una mano e le baciò le punte delle dita, assaporando il profumo e il sapore della pelle. «A domattina.» La lasciò andare e si alzò. «Molto presto. Preparati», disse, e uscì dalla capanna. La mattina dopo, mentre Nicholas si vestiva, la sentì muoversi nell'altra capanna, e quando fischiettò sommessamente davanti alla porta lei uscì, vestita e impaziente di cominciare. «Boris non si è ancora svegliato», disse Tessay, portando la colazione. «Be', non mi sorprende», commentò Nicholas senza alzare lo sguardo dal piatto. Lui e Royan erano ancora un po' impacciati nel ritrovarsi insieme: il ricordo di come si erano separati la sera precedente era vivo in entrambi. Il loro umore, comunque, cambiò ben presto, lasciando il posto all'eccitazione dell'attesa, quando Nicholas si caricò in spalla il fucile e lo zaino e si avviò con Royan nella valle. Erano in cammino da un'ora quando lui si guardò alle spalle e aggrottò la fronte. «Qualcuno ci segue.» Prese Royan per il polso e la guidò dietro una lastra di arenaria. Si addossò alla roccia e le indicò di fare altrettanto. Poi, all'improvviso, spiccò un balzo per afferrare la figura scarna, avvolta in uno shamma biancosporco, che li seguiva furtivamente. L'uomo cadde in ginocchio con un grido e cominciò a balbettare per il terrore. Wilbur Smith
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Nicholas lo rimise in piedi di peso. «Tamre! Perché ci segui? Chi ti ha mandato?» chiese in arabo. Il ragazzo girò gli occhi verso Royan. «No, effendi, ti prego, non farmi male. Non avevo cattive intenzioni.» «Lascialo andare, Nicky, o gli causerai un altro attacco», intervenne Royan. Tamre corse a rifugiarsi dietro di lei, le prese la mano e sbirciò Nicholas come se temesse per la propria vita. «Calmati, Tamre», lo rassicurò Nicholas. «Non ti farò niente se non mi dirai bugie. Altrimenti ti picchierò fino a quando non ti resterà un solo brandello di pelle sulla schiena. Chi ti ha ordinato di seguirci?» «Non mi ha mandato nessuno», gemette il ragazzo. «Sono venuto a mostrarvi dove ho visto l'animale sacro con i segni delle dita del Battista sul mantello.» Nicholas lo fissò per un momento e si mise a ridere. «Mi venga un accidente se il ragazzo non è davvero convinto di aver visto il dik-dik del mio bisnonno.» Poi, con una smorfia feroce, aggiunse: «Ricorda che cosa ti succederà se stai mentendo». «No, è tutto vero, effendi», singhiozzò Tamre, e Royan intervenne. «Non spaventarlo. È innocuo. Lascialo in pace.» «E va bene, Tamre. Ti darò una possibilità. Guidaci dove hai visto l'animale sacro.» Tamre non lasciò la mano di Royan. Procedette al suo fianco; dopo cento passi aveva dimenticato il terrore e le sorrideva timidamente. Per un'ora li guidò lontano dal Dandera, sul terreno elevato che dominava la valle, fino a una zona di arbusti fitti e di creste di arenaria corrosa dalle intemperie. I rami spinosi degli arbusti erano intrecciati, e crescevano così vicini a terra che sembrava impossibile passare. Ma Tamre li condusse a un sentiero, largo appena quanto bastava per evitare che le spine uncinate dalle punte rosse li graffiassero. Tamre si fermò di colpo e trattenne Royan, poi indicò in basso. «Il fiume!» annunciò in tono solenne. Nicholas li raggiunse e zufolò per la sorpresa. Il ragazzo li aveva condotti verso ovest in un ampio cerchio, e li aveva riportati al Dandera in un tratto dove scorreva ancora nel letto del profondo burrone. Erano sul ciglio del precipizio. Nicholas notò subito che, sebbene la sommità fosse ampia meno d'una trentina di metri, si allargava più in basso. Dalla superficie dell'acqua le pareti di roccia che emergevano Wilbur Smith
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assumevano la forma di una fiasca di tej per tornare poi a restringersi vicino al punto in cui si trovavano loro. «È là che ho visto l'animale sacro.» Tamre indicò l'altro lato dell'abisso, dove l'acqua di una sorgente usciva serpeggiando dagli arbusti spinosi. Drappeggi di muschio, nutriti dalla fonte, pendevano dall'orlo della parete concava, e l'acqua vi sgocciolava e cadeva nel fiume, una sessantina di metri più sotto. «Se l'hai visto là, perché ci hai condotti su questa riva del fiume?» chiese Nicholas. Tamre sembrava sul punto di scoppiare in pianto. «Perché da questa parte è più facile. Dall'altra non vi sono sentieri fra i cespugli, e le spine avrebbero ferito woizero Royan.» «Non fare il prepotente», raccomandò Royan a Nicholas, e passò un braccio intorno alle spalle del ragazzo. Nicholas scrollò la testa. «A quanto pare voi due vi siete alleati ai miei danni. Be', visto che siamo qui, tanto vale sederci per un po' e vedere se compare il dik-dik.» Scelse un punto all'ombra di uno degli alberi stenti che si sporgevano nell'abisso e usò il cappello per rimuovere dal suolo le spine cadute fino a che non ci fu spazio sufficiente per sedere. Quindi si appoggiò con la schiena al tronco e posò il Rigby sulle ginocchia. Era passato mezzogiorno, e il caldo era soffocante. Tese la borraccia dell'acqua a Royan e, mentre lei beveva, lanciò un'occhiata a Tamre e suggerì in inglese: «Potrebbe essere l'occasione buona per scoprire che cosa sa questo ragazzo del sigillo di Taita. È cotto di te. È pronto a dirti tutto ciò che vuoi sapere. Interrogalo». Royan incominciò a parlare con gentilezza al ragazzo; ogni tanto gli accarezzava la testa come se fosse un cagnolino. Gli parlò del banchetto della sera precedente, della bellezza della chiesa sotterranea, dell'antichità degli affreschi e degli arazzi e alla fine accennò alla corona dell'abate. «Sì, sì, è la pietra del santo», dichiarò prontamente il ragazzo. «La pietra azzurra di san Frumenzio.» «Da dove viene?» chiese lei. «Lo sai?» Tamre sembrava imbarazzato. «Non lo so. È molto antica, forse è antica quanto Cristo. Così dicono i preti.» «Non sai quando fu trovata?» Lui scosse la testa; poi, ansioso di compiacerla, suggerì: «Magari è caduta dal cielo». Wilbur Smith
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«Già, magari.» Royan lanciò un'occhiata a Nicholas, che alzò gli occhi e abbassò la tesa del cappello per coprirsi la faccia. «Forse san Frumenzio la donò al primo abate quando stava per morire», disse Tamre. «O forse era nella sua bara quando lo seppellirono.» «È tutto possibile, Tamre», ammise Royan. «Hai mai visto la tomba di san Frumenzio?» Il ragazzo si guardò intorno con aria colpevole. «Solo i preti ordinati possono entrare nel magdas», bisbigliò abbassando la testa. «Tu l'hai vista, Tamre», lo accusò Royan in tono gentile senza smettere di accarezzargli la testa. Era sorpresa dal senso di colpa del ragazzo. «A me puoi dirlo. Non lo racconterò ai preti.» «Una volta sola», ammise lui. «Gli altri ragazzi mi hanno mandato a toccare la pietra del tabot. Altrimenti mi avrebbero picchiato. Sono stati i nuovi accoliti a costringermi.» Cominciò a balbettare per l'orrore, al ricordo di quell'iniziazione. «Ero solo e avevo tanta paura. Era mezzanotte passata, quando i preti dormivano. C'era buio. Lo spettro di Frumenzio si aggira nel magdas. Mi hanno detto che, se ero indegno, il santo mi avrebbe folgorato.» Nicholas si rialzò il cappello dalla faccia e si raddrizzò lentamente. «Parola mia, questo ragazzo dice la verità. È stato davvero nel magdas.» Poi si rivolse a Royan. «Continua a interrogarlo. Può darsi che ci dia qualche indicazione utile. Chiedigli della tomba di san Frumenzio.» «Hai visto davvero la tomba del santo?» chiese lei, e il ragazzo annuì energicamente. «Sei entrato nella tomba?» Questa volta Tamre scosse la testa. «No, ci sono le sbarre all'ingresso, e solo l'abate può entrare nella tomba, il giorno della festa del santo.» «Hai guardato attraverso le sbarre?» «Sì, ma era molto buio. Ho visto la bara. E di legno dipinto. C'è la faccia di san Frumenzio.» «Era un nero?» «No, un bianco con la barba rossa. Il dipinto è molto antico, i colori sono sbiaditi, il legno è marcio e sgretolato.» «La bara è posata sul pavimento della tomba?» Tamre si concentrò per ricordare, poi scosse la testa. «No, è su un ripiano di pietra, nella parete.» «Ricordi qualche altra cosa della tomba?» Royan cercava di pungolargli Wilbur Smith
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la memoria, ma Tamre scosse la testa. «Era molto buio e l'apertura fra le sbarre è piccola», disse in tono di scusa. «Non ha importanza. La tomba è nella parete in fondo al magdas?» «Sì, è dietro l'altare e la pietra del tabot.» «E anche l'altare è di pietra?» «No, è di legno. Cedro. Ci sono le candele e una grande croce, e le corone dell'abate e il calice e il pastorale.» «È dipinto?» «No, ma è intagliato. Ci sono molte figure, ma sono diverse da quelle all'interno della tomba.» «Che cos'hanno di diverso? Dimmelo, Tamre.» «Non lo so. Le facce sono strane, i vestiti differenti. Ci sono i cavalli.» Il ragazzo sembrava perplesso. «Sono diversi, insomma.» Per un po' Royan cercò di ottenere una descrizione più chiara, ma Tamre era sempre più confuso e si contraddiceva. Perciò cambiò argomento. «Parlami del tabot», propose, però Nicholas intervenne. «No, spiegami tu che cos'è il tabot. Corrisponde al tabernacolo degli ebrei?» Royan si voltò verso di lui. «Sì, almeno per la chiesa egiziana. Di solito è custodito in una cassa ingemmata e avvolto in un drappo d'oro ricamato. L'unica differenza è che nel tabernacolo ebraico sono incisi i dieci comandamenti, mentre nella nostra religione porta le parole di consacrazione della chiesa che lo custodisce. È il cuore della chiesa.» «Che cos'è la pietra del tabot?» Nicholas aggrottò la fronte, concentrandosi. «Non lo so», ammise lei. «La nostra chiesa non ha una pietra del tabot.» «Chiedilo al ragazzo!» «Tamre, parlami della pietra del tabot.» «È alta così, quadrata, e larga così.» Tamre indicò un'altezza poco superiore alle sue spalle, e una larghezza corrispondente a quella delle sue mani allargate. «E il tabot sta sopra la pietra?» provò a indovinare Royan. Tamre annuì. «Perché ti hanno mandato a toccare la pietra e non il tabot?» chiese Nicholas, ma Royan scosse la testa per farlo tacere. «Lascia parlare me. Sei troppo duro con lui.» Si rivolse di nuovo al Wilbur Smith
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ragazzo. «Perché proprio la pietra anziché l'arca del tabot che sta sopra?» Tamre alzò le spalle, rassegnato. «Non lo so. Mi hanno detto così, ecco.» «Com'è la pietra? E dipinta?» «Non lo so.» Il ragazzo sembrava disperato all'idea di non poterle dare risposte soddisfacenti. Desiderava ardentemente fornirle le indicazioni che la interessavano.