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Lucio Magri
IL SARTO DI ULM Una possibile storia del PCI
Dal xx congresso del 1991, in cui fu decretata la ...
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Nahtjak89
Lucio Magri
IL SARTO DI ULM Una possibile storia del PCI
Dal xx congresso del 1991, in cui fu decretata la morte del Partito comunista italiano, sono passati diciotto anni. Fu una morte deliberata, accelerata dalla volontà di un "nuovo inizio". Quel nuovo inizio non c'è stato. Al suo posto si è verificata la perdita di un patrimonio politico, organizzativo e teorico fra i più complessi e strutturati del panorama mondiale. Il Pci, dalla sua fondazione nel 1921 alla lotta partigiana, dalla svolta di Salerno del 1944 alla destalinizzazione del 1956, dal lungo Sessantotto al compromesso storico e all'occasione – mancata per sempre – dell'alternanza democratica, ha attraversato e segnato quasi un secolo di storia italiana. Un cammino che Lucio Magri ripercorre senza mai perdere di vista gli ineludibili, spesso fatali, nessi con gli eventi della scena politica internazionale. Negli anni sessanta il partito aveva raggiunto la propria maturità, era in piena ascesa ed era impegnato nell'ambizioso progetto della "via italiana al socialismo". E negli anni ottanta – nonostante inerzie e ritardi – le potenzialità riformatrici, l'influenza e il seguito di questa grande forza progressista erano ancora enormi. Perché allora nel congresso del 1991 prevalse quella decisione? Perché fu imposta una perdita tanto precipitosa quanto assoluta? Con
rigore e passione, Il sarto di Ulm condensa un'originale e illuminante interpretazione storiografica del più grande partito comunista d'Oc cidente e l'esperienza politica e intellettuale di un militante "eretico".
IL SARTO DI ULM Dove devo andare, ora, io, un Trotta?...
JOSEPH ROTH, La cripta dei cappuccini
Introduzione
In una delle affollate assemblee che dovevano decidere se cambiare nome al Pci, un compagno rivolse a Pietro Ingrao una domanda: «Dopo tutto ciò che è successo e sta succedendo, credi proprio che con la parola comunista si possa ancora definire un grande partito democratico e di massa come siamo stati, ancora siamo e che vogliamo rinnovare e rafforzare per portarlo al governo del paese?». Ingrao, che già aveva ampiamente esposto le ragioni del suo dissenso da Occhetto e proposto di seguire un’altra strada, rispose, scherzosamente ma non troppo, usando un famoso apologo di Bertolt Brecht, Il sarto di Ulm. Quell’artigiano, fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo di volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al vescovo e gli disse: «Eccolo, posso volare». Il vescovo lo condusse alla finestra dell’alto palazzo e lo sfidò a dimostrarlo. Il sarto si lanciò e ovviamente si spiaccicò sul selciato. Tuttavia – commenta Brecht – alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare. Io, che ero presente, trovai la risposta di Ingrao non solo arguta, ma fondata. Quanto tempo, quante lotte cruente, quanti avanzamenti e quante sconfitte, furono necessari al sistema capitalistico – in un’Europa occidentale all’inizio più arretrata e barbarica di altre regioni del mondo – per trovare alla fine una efficienza economica mai conosciuta, darsi nuove istituzioni politiche più aperte, una cultura più razionale? Quali contraddizioni irriducibili marcarono, per secoli, il liberalismo tra ideali solennemente affermati (la comune natura umana, la libertà di pensiero e di parola, la sovranità conferita dal popolo) e pratiche che li smentivano in modo permanente (schiavismo, dominazione coloniale, espulsione dei contadini dalle terre comuni, guerre di religione)? Contraddizioni di fatto, ma legittimate nel pensiero: l’idea che alla libertà non potessero né dovessero accedere se non coloro che avessero per censo e cultura, perfino per razza e colore, la capacità di esercitarla saggiamente; e l’idea correlativa che la proprietà dei beni era un diritto assoluto e intoccabile e dunque escludeva il suffragio generale. Tutte contraddizioni che non tormentarono solo la prima fase di un ciclo storico, ma si erano riprodotte in forme diverse, nelle loro successive evoluzioni e gradualmente si erano ridotte solo per l’intervento di nuovi soggetti sociali sacrificati e di forze contestatrici di quel sistema e di quel pensiero. Se dunque la storia reale
della modernità capitalistica non era stata lineare, né univocamente progressiva, anzi drammatica e costosa, perché dovrebbe esserlo il processo del suo superamento? Questo appunto voleva significare l’apologo del sarto di Ulm. Tuttavia, scherzosamente ma non troppo, proposi subito a Ingrao due interrogativi che quell’apologo, anziché superare, metteva in luce. Siamo sicuri che il sarto di Ulm, se fosse sopravvissuto storpiato alla rovinosa caduta, sarebbe rapidamente risalito per riprovarci, e che i suoi amici non avrebbero cercato di trattenerlo? E comunque, quel suo azzardato tentativo, quale contributo effettivo aveva portato alla successiva storia dell’aeronautica? Questi interrogativi, in relazione al comunismo, erano particolarmente pertinenti e ostici. Anzitutto perché, nella sua costituzione teorica, pretendeva non di essere un ideale cui ispirarsi, ma parte di un processo storico già in corso, di un movimento reale che cambia lo stato di cose esistenti: comportava quindi, in ogni momento, una verifica fattuale, un’analisi scientifica del presente, una realistica previsione sul futuro, per non evaporare in un mito. In secondo luogo perché tra le precedenti sconfitte e gli arretramenti delle rivoluzioni borghesi, in Francia e in Inghilterra, e il crollo recente del «socialismo reale» occorre vedere una differenza pesante. Una differenza che non si misura nel numero dei morti o nell’uso del dispotismo, ma nel risultato: le prime hanno lasciato eredità, magari molto più modeste delle speranze iniziali, dovunque sono avvenute, comunque immediatamente evidenti; del secondo è invece difficile decifrare e misurare il lascito e individuare degni continuatori. Vent’anni dopo, questi interrogativi non solo non hanno trovato una risposta, ma non sono neppure stati seriamente discussi. O meglio, delle risposte le hanno trovate in una forma molto superficiale e dettata dalle convenienze: abiura o rimozione. Un’esperienza storica e un patrimonio teorico che hanno segnato un secolo sono stati così affidati, per usare un’espressione di Marx, alla «critica roditrice dei topi», che come si sa sono voraci e, in un ambiente adatto, si moltiplicano velocemente. La parola comunista torna certo ancora, in modo ossessivo e caricaturale, nella propaganda della destra più rozza. Resta nei simboli elettorali di piccoli partiti europei, per conservare il consenso di una minoranza affezionata a un ricordo, o per indicare genericamente un’avversione al capitalismo. In altre regioni del mondo, partiti comunisti continuano a
governare piccoli paesi, soprattutto a difesa della propria indipendenza dall’imperialismo, e uno, grandissimo, in cui serve a sostenere uno straordinario sviluppo economico, che però va in altra direzione. La Rivoluzione di ottobre è generalmente considerata una grande illusione, in qualche momento e agli occhi di pochi utile, ma nel complesso sciagurata (identificata con lo stalinismo e in una sua versione grottesca), comunque condannata dal suo esito finale. Marx, di recente, ha riconquistato un certo credito, come pensatore, per le sue lungimiranti previsioni sul capitalismo del futuro, ma del tutto amputato dall'ambizione di porvi fine. Ancor peggio, la dannazione della memoria tende ormai a procedere oltre: a estendersi all’intera vicenda del socialismo e, su per li rami, alle componenti radicali della rivoluzione borghese e alle lotte di liberazione dei popoli coloniali (che, come si sa, anche nel paese di Gandhi, non poterono essere sempre pacifiche). Insomma, «il fantasma che si aggirava» sembra finalmente sepolto: da alcuni con onore, da altri con odio non dimenticato, dai più con indifferenza perché non ha più nulla da dirci. L’orazione più graffiante, ma a suo modo più rispettosa, a questa definitiva sepoltura l’aveva anticipata uno dei maggiori cervelli avversari, Augusto Del Noce. Quando, anni fa, disse in sostanza dei comunisti: hanno perduto e vinto. Hanno perduto rovinosamente nella loro prometeica ambizione di rovesciare il corso della storia, di promettere agli uomini libertà e fratellanza, anche senza Dio e riconoscendosi mortali. Ma hanno vinto come potente e necessario fattore di accelerazione della globalizzazione della modernità capitalistica e dei suoi valori: il materialismo, l’edonismo, l’individualismo, il relativismo etico. Uno straordinario fenomeno di eterogenesi dei fini, che egli, cattolico conservatore e intransigente, pensava di aver previsto, ma del quale aveva poche ragioni per compiacersi. Chi però al tentativo del comunismo ha creduto, in qualche modo vi ha partecipato, e solitamente senza dare segnali di allarme, ha il dovere di renderne conto, anche a se stesso, di chiedersi se quella sepoltura non sia troppo frettolosa, se non occorre un altro certificato sul rigor mortis. Abbiamo tutti molti argomenti per aggirare l’ostacolo. Del tipo: sono stato un comunista italiano perché era prioritario per combattere il fascismo, difendere la democrazia repubblicana, sostenere le sacrosante rivendicazioni dei lavoratori; oppure, sono diventato comunista quando il legame con l’Unione Sovietica o l’ortodossia marxista erano ormai in discussione, oggi posso aggiungere una circoscritta autocritica al passato e una forte apertura al nuovo. Non basta? A mio parere non basta, perché
non rende conto di un’impresa collettiva che, nel bene e nel male, ha coperto molti decenni, e va considerata e compresa nel suo insieme. Non basta soprattutto per trarne una lezione utile per l’oggi e per il domani. Sento troppi ormai dire: era tutto uno sbaglio ma sono stati i migliori anni della nostra vita. Per alcuni anni, sotto botta, questo misto di autocritica e di nostalgia, di dubbio e di fierezza, soprattutto tra le persone semplici, mi è sembrato giustificato, anzi una risorsa. Ma col passare del tempo, e soprattutto tra intellettuali e dirigenti, mi pare ormai un accomodante compromesso con se stessi e con il mondo. E torno di nuovo e di più a chiedermi: ci sono argomenti razionali e convincenti per opporsi all’abiura e alla rimozione? O quanto meno ci sono buone ragioni e condizioni adatte per riaprire oggi criticamente una discussione sul comunismo, anziché archiviarla? A me pare di sì. Da quel fatale Ottantanove molta acqua è infatti passata sotto i ponti, turbolenta. Le novità che quella cesura storica esprimeva e ratificava sono emerse più chiare e definitive, e altre se ne sono aggiunte, rapide e inattese. Dal loro insieme è risultato un nuovo assetto dell’ordine mondiale, della società e della coscienza di chi ci vive. Ciò che restava in campo, vincente, non era solo il capitalismo, ma un capitalismo cui la vittoria permetteva di riaffermare, senza più condizionamenti cogenti, i suoi valori e meccanismi fondanti e cui una nuova rivoluzione tecnologica, e un salto nella globalizzazione, sembravano promettere espansione economica impetuosa e duratura, stabilità delle relazioni internazionali sotto la guida, condivisa o subìta, di una sola soverchiante potenza. Si poteva certo ancora discutere nel valutare il contributo che i conflitti e la competizione tra due sistemi del secolo scorso avevano dato alla democrazia e al progresso, o di ciò che erano costati a ciascuno e a tutti. Si poteva anche discutere dei correttivi da apportare al nuovo assetto per ridurne le peggiori conseguenze sociali, o per garantire al mercato restaurato trasparenza e correttezza, o per temperare l’unilateralismo della potenza dominante. Ma il sistema era ormai questo, non poteva essere contestato, anzi andava sostenuto a fin di bene e in coerenza con i suoi princìpi. E se mai, un giorno lontano, avesse anch’esso esaurito il suo compito, e dovesse essere superato, questo non avrebbe avuto comunque niente in comune con quanto le sinistre avevano fatto o pensato. Questa era la realtà, e ogni politico di buon senso doveva riconoscerla, o abbaiare alla luna.
Nel giro di pochi anni però il quadro è profondamente mutato. Anche questo è un fatto difficilmente contestabile. Si sono ripresentate, in forma nuova e in molti casi crescente, disuguaglianze di reddito, di qualità della vita, di potere, tra varie aree del mondo e all’interno di ciascuna di esse. Si è misurata l’incompatibilità tra il nuovo funzionamento del sistema economico e il permanere di grandi conquiste sociali da tempo acquisite: welfare universalistico, piena e stabile occupazione, democrazia partecipata nelle società più avanzate; il diritto all’indipendenza nazionale e qualche tutela dall’intervento armato, per i popoli sottosviluppati e i paesi più piccoli. Sono emersi, ovunque e in tutta la loro urgenza, problemi nuovi incombenti: degrado dell’ambiente naturale, che accelera il suo corso; e degrado morale che insieme a individualismo e consumismo, anziché riempire con nuovi valori e nuove relazioni umane un vuoto aperto dalla crisi irreversibile e in sé liberatrice di istituzioni millenarie, lo approfondisce e lo trasforma nella dicotomia tra sregolatezza e neoclericalismo. Altrettanto evidente, e nuova, avanza una crisi del sistema politico: reso impotente dal declino degli stati nazionali, surrogato da istituzioni estranee al suffragio popolare, a sua volta svuotato dalla manipolazione mediatica del consenso e dalla trasformazione dei partiti in macchine elettorali di riproduzione di un ceto. Anche sul piano produttivo i tassi di sviluppo per ora declinano, e gli equilibri appaiono instabili, qualcosa più di una congiuntura: la finanziarizzazione genera come figlia naturale la rendita, e come sorella la ricerca esasperata del profitto immediato; e quindi toglie allo stesso mercato un criterio sul cosa produrre e sul come verificare la propria efficienza. Infine, e come conseguenza di tutto ciò, un declino di egemonia, una moltiplicazione di conflitti, una crisi dell’ordine mondiale, cui è naturale supplire con l’impiego della forza, fino alla guerra, che a sua volta anziché risolvere aggrava ogni problema. Ammettiamo pure che il quadro così disegnato in poche righe sia eccessivamente fosco e soprattutto unilaterale, che tali tendenze preoccupanti siano ancora ai primi passi. E ammettiamo anche che altri elementi – per esempio le risorse dell’innovazione tecnologica, o l’ancor più sorprendente irruzione di nuovi e grandissimi paesi e i loro attuali successi – compensino o frenino tali tendenze. Ammettiamo infine che la nuova ampiezza della base sociale, che ha beneficiato di una precedente accumulazione diffusa, o altrove spera di beneficiare di un benessere finora negato, garantisca tuttora il consenso o generi comunque un timore
per mutamenti radicali ma non sicuri. Molte volte i comunisti hanno compiuto l’errore di analisi catastrofiche, di cui hanno pagato il prezzo. Ciò non toglie che una svolta si è compiuta, più e prima di quanto chiunque temesse o sperasse. Non solo in minoranze riottose o sofferenti, ma nel senso comune di massa, in una intellettualità diffusa, perfino in alcuni settori della classe dominante, il futuro del mondo e della civiltà sembra promettere poco di rassicurante. Non siamo nella temperie del Novecento, ma non si respira aria di Belle Époque (che peraltro, sappiamo, non finì affatto bene). Non a caso dunque, in pochi anni sono apparsi sulla scena movimenti di lotta sociale e di contestazione ideale, sorprendenti per estensione, durata, pluralità di soggetti e novità di tematiche. Movimenti dispersi e intermittenti, privi di un progetto unitario e di un’organizzazione; movimenti perciò sociali e culturali più che politici? Certamente, perché nascono da situazioni e soggettività le più diverse tra loro, e rifiutano organizzazione, ideologia, politica per come le hanno conosciute e, soprattutto, per come si presentano oggi. E tuttavia comunicano incessantemente tra loro, riconoscono avversari comuni cui danno nome e cognome, coltivano ideali e sperimentano pratiche che si contrappongono radicalmente all’ordine delle cose esistenti, ai valori, alle istituzioni, ai poteri che lo incarnano; su ogni terreno, il modo di produrre, di consumare, di pensare, il rapporto tra le classi, tra i sessi, i paesi, le religioni. In certi momenti, e su certi temi, come la guerra «preventiva» in Iraq, sono riusciti a mobilitare una parte larga dell’opinione pubblica. In questo senso sono pienamente politici e pesano. Possiamo perciò sentirci rassicurati? La «vecchia talpa» – finalmente liberata dal peso di dottrine e da discipline che potrebbero frenarla – ha ripreso a scavare e, nel lungo periodo, ci farà trovare in un «mondo nuovo»? Mi piacerebbe crederlo, ma ne dubito. Anche qui i fatti parlano abbastanza chiaramente. Da un lato occorre vedere in faccia, senza cupezza ma senza infingimenti, come per ora evolve la situazione reale. Non è lecito dire che volga gradualmente al meglio, né che la lezione delle cose stia producendo uno spostamento generale dei rapporti di forza a favore della sinistra. Per accennare qualche riferimento concreto: il matrimonio di convenienza tra l’economia asiatica e quella americana ha permesso alla prima un sorprendente decollo e garantito alla seconda di garantirsi profitti imperiali e continuare a consumare al di sopra dei propri mezzi, ma nel contempo ha contribuito
alla stagnazione europea, ed è sbucata in una grande nuova crisi. La guerra anziché stabilizzare il Medio Oriente ha «incendiato la prateria». L’unità europea, anziché progredire come forza autonoma, ha ripreso e accentuato la sua subalternità al modello economico anglosassone. E alla sua politica internazionale. In America Latina dopo parecchi anni sono al governo di molti paesi forze popolari e antimperialistiche, ma nell’Asia centrale, come nell’Est europeo, si moltiplicano invece i clienti degli Stati Uniti. In Europa ha vinto Zapatero, ma in Italia, dopo una breve e stentata vittoria di una larga coalizione di centrosinistra, è tornato Berlusconi in versione peggiore. In Germania i democristiani hanno ripreso la guida del paese, in Francia la gauche intera è in confusione, in Inghilterra il New Labour ha resistito a lungo sulla linea di Blair e se perderà sarà a vantaggio dei conservatori. I sindacati, dopo qualche segno di ripresa, si trovano quasi ovunque inchiodati a una difensiva perenne, e le condizioni reali dei lavoratori sono sotto la pressione di questo quadro politico e il ricatto della crisi economica e dei deficit di bilancio. Complessivamente, si può forse prevedere che dall’ammaccata politica in stile Bush si torni a una politica più prudente alla Clinton: poco a che fare con una vera svolta adeguata ai nuovi e pressanti problemi del mondo. Nell’economia come nella politica non c’è nessun New Deal in cammino, il riformismo è da tutti invocato, in tutte le versioni, e del tutto pallido e sfuggente. E tuttavia è in questa versione che resta al comando, per necessità o per scelta. Quanto alle forze che si oppongono e contestano il sistema, anche qui si può e si deve fare un bilancio veritiero, per ora non molto confortante. È certo importante che i nuovi movimenti sociali restino in scena, in certi casi si estendano a nuove regioni o contribuiscano a produrre qualche ricambio politico, e comunque abbiano portato all’attenzione problemi decisivi e sempre rimossi: l’acqua, il clima, la tutela dell’identità culturale, le libertà civili per le minoranze come immigrati o gay. Sarebbe dunque sbagliato parlare solo di riflusso o di crisi. Ma lo è altrettanto parlare, come in un certo momento si è fatto, di una «seconda potenza mondiale» in atto o in via di allestimento. Perché sulle grandi battaglie in cui erano unitariamente impegnati – la pace e il disarmo, l’abolizione del Wto o del Fondo monetario internazionale, la Tobin Tax, l’energia alternativa e il precariato – i risultati sono stati finora irrilevanti e l’iniziativa è declinata. Il pluralismo ha mostrato di essere oltre che una risorsa anche un limite. L’organizzazione, ripensata finché si voglia, non può per troppo tempo ridursi a Internet o alla replica dei forum. Rifiuto della politica, il potere
dal basso, la rivoluzione senza potere, anziché tappa di un percorso, verità parziali cui non rinunciare, rischiano di trasformarsi in una subcultura cristallizzata, in una retorica ripetitiva che ostacola una riflessione su se stessi e ogni definizione impegnativa delle priorità. Infine e soprattutto, certo non per colpa loro, ai nuovi movimenti si è affiancato un altro tipo di opposizione radicale alla modernità capitalistica, quello animato dal fondamentalismo religioso o etnico, che nel terrorismo trova la forma estrema, ma coinvolge e influenza masse imponenti. Se poi, tra le forze di opposizione, vogliamo concentrare lo sguardo sulle forze politiche organizzate dell’estrema sinistra, che hanno resistito al collasso del dopo Ottantanove, si sono impegnate in tentativi di rinnovamento, hanno fiancheggiato nuovi movimenti e lotte sindacali, il bilancio appare ancora più magro. Dopo anni di lavoro, in una società in ebollizione, queste forze restano marginali, divise tra loro e al loro interno, in termini elettorali si collocano tra il 3 e il 10%, e sono quindi costrette nel dilemma tra radicalismo minoritario o intese elettorali di cui subiscono il vincolo pesante. Insomma, a voler essere sinceri, si può dire, parafrasando alcuni classici del marxismo, che ci troviamo di nuovo di fronte a una fase nella quale «il vecchio mondo può produrre barbarie ma un mondo nuovo non appare in grado di sostituirlo». La ragione di questa impasse non è difficile da vedere, anche se è molto difficile da rimuovere. Neoliberismo e unilateralismo, contro cui in questa fase si combatte giustamente, sono l’espressione e una delle varianti di qualcosa di più profondo e permanente, che è intervenuto nel sistema portando all’estremo la sua originaria vocazione. Dominio dell’economia su ogni altra dimensione della vita individuale e collettiva; dominio nell’economia del mercato globalizzato, e nel mercato delle grandi concentrazioni finanziarie sulla produzione e, nella produzione, dei servizi rispetto all’industria, e di beni immateriali per consumi indotti rispetto ai bisogni reali; declino invece della politica, nella forma degli stati nazionali, sovrastati da compatibilità che la travalicano, e insieme svuotata dalla frammentazione e dalla manipolazione di quella volontà popolare che doveva orientarla e sostenerla; infine unificazione del mondo ma nel segno di una precisa gerarchia al cui vertice permane una soverchiante potenza. Un sistema dunque in apparenza decentrato, ma nel quale in ultima analisi le scelte più importanti sono concentrate nelle mani dei pochi che detengono decisivi monopoli: in ordine crescente, quello tecnologico, quello sulle
comunicazioni, quello finanziario, quello militare. A reggere il tutto – come sempre più di sempre – la proprietà nella forma di capitale, alla ricerca incessante e irrinunciabile del proprio accrescimento, processo che ha conquistato piena autonomia rispetto al territorio in cui si colloca e a ogni diversa finalità che lo vincoli; che attraverso l’industria culturale può direttamente conformare bisogni, coscienze, stili di vita; che può selezionare il ceto politico e intellettuale; che può condizionare politica estera, spese militari, indirizzi della ricerca; che, infine ma non per ultimo, può anche rimodellare i rapporti di lavoro scegliendo il dove e come reclutarlo e le forme più adatte a minarne il potere contrattuale. Rispetto alle fasi precedenti, la novità più rilevante sta dunque nel fatto che, anche nei momenti e per gli aspetti in cui entra in crisi o segna un fallimento, il sistema riproduce comunque le proprie basi di forza e di interdipendenza e riesce a destrutturare o ricattare i propri antagonisti. Evoca e insieme seppellisce il proprio becchino. Per contrastare e superare tale sistema bisogna sempre più definire un sistema a sua volta coerente, occorre la forza per imporlo, la capacità di gestirlo, un blocco sociale che può sostenerlo, tappe e alleanze adeguate all’ambizione. Quanto più ci si può e ci si deve liberare dal mito di una precipitazione catastrofica e della conquista del potere statuale da parte di una minoranza giacobina che approfitta dell’occasione, tanto meno ci si può affidare a una successione di rivolte disperse o di piccole riforme che spontaneamente si compongono in una grande trasformazione. Ecco perché mi pare che le cose stesse impongano a una sinistra, che oggi naviga in una grande confusione, una riflessione sulla «questione comunista». Non uso a caso entrambe queste parole. Dico riflessione – non recupero, né restauro – per sottolineare il fatto che una fase storica si è conclusa, e la fase nuova impone un’innovazione radicale di questa, come di ogni altra tradizione teorica o pratica (delle sue origini, dei suoi sviluppi, dei suoi esiti). Dico comunista, perché mi riferisco non solo o non tanto a testi variamente interpretati nei quali riscoprire verità offuscate ma permanenti, né nobili intenzioni da cui si è tralignato. Mi riferisco, specificamente e nel suo insieme, a un’esperienza storica che ha posto esplicitamente il tema di una rivoluzione anticapitalistica, guidata dalla classe operaia organizzata in un partito, ha raccolto, per decenni, intorno a questa impresa milioni e milioni di uomini, ha combattuto e vinto una guerra mondiale, ha governato grandi stati plasmandone la società e influendo indirettamente sulle vicende del
mondo e, alla fine, certo non a caso, è degenerata ed è stata duramente sconfitta. Nel bene e nel male ha segnato quasi un intero secolo. Fare un bilancio del comunismo del Novecento – quali che siano le convinzioni da cui si parte o le conclusioni cui si arriva, ma con spirito di verità, senza contraffazione dei fatti, senza giustificazioni e senza separarlo dal contesto. Distinguere il grano dal loglio, il contributo dato a decisivi e permanenti avanzamenti storici dai costi tremendi che questi hanno comportato, le verità teoriche intuite dagli abbagli del pensiero. Distinguere le varie fasi di un’evoluzione e cercare in ognuna non solo gli errori compiuti e i successivi elementi degenerativi, ma le loro cause soggettive e oggettive e anche le occasioni, che si offrivano realmente, per imboccare strade diverse per raggiungere il fine perseguito. Insomma ricostruire il filo di un’impresa titanica e di un declino drammatico, senza esibire una neutralità impossibile e senza sconti, ma cercando un’approssimazione alla verità. Per affrontare questi temi abbiamo tutti, oggi, lo straordinario privilegio di sapere come la vicenda si è conclusa e lo stimolo che nasce dalla consapevolezza di trovarci di nuovo in una crisi di civiltà. Usare il presente per capire meglio il passato, e capire bene il passato per orientarsi nel presente e nel futuro. Se si evita questo tipo di riflessione, se si considera il Novecento un cumulo di ceneri, se vi si espungono le grandi rivoluzioni, le aspre lotte di classe, i grandi conflitti culturali che l’hanno attraversato, il socialismo e il comunismo che l’hanno animato; o anche solo se si riduce il tutto a uno scontro tra «totalitarismi» e «democrazia» (senza distinguere diverse origini e diverse finalità dei totalitarismi e prescindendo dalla politica concreta della democrazia), non solo credo che si alteri la storia, ma che vengano a mancare alla politica passioni e argomenti per affrontare sia drammatici antichi problemi, che oggi si ripresentano, sia i nuovi che emergono ed esigono cambiamenti profondi e un discorso razionale. Perché il «secolo breve» è un’epoca grande e complicata, attraversata da tragiche contraddizioni ciascuna delle quali rinvia ad altre e reclama perciò una visione generale del contesto. Perché è ancora tanto vicino nella memoria collettiva da ostacolare il necessario distacco critico. Perché va controcorrente rispetto a un senso comune oggi prevalente, che non solo considera quel capitolo chiuso, ma più in generale nega che la storia possa essere, complessivamente e nel lungo periodo, decifrabile, negando così
l’utilità di collocarvi il presente e di apprestare categorie interpretative adeguate. Infine, perché, per contrastare questo senso comune, occorrerebbe più che non in altri momenti una rottura della continuità, essere capaci di far emergere già in partenza dalla lettura critica del passato i primi abbozzi di un’analisi calzante del presente e un progetto di azione futura (questo fu il punto di forza del marxismo, anche negli aspetti che presto si rivelarono caduchi). Ora, so benissimo di non avere affatto il tempo di vita, le competenze, le risorse di intelligenza per portare a un’impresa di questa portata un aiuto importante. Ma sento la responsabilità, non solo individuale ma per una intera generazione, di contribuirvi con quel poco di cui dispone. Il primo passo, per me, deve essere il lavoro di ricostruzione e di indagine su alcuni nodi cruciali della storia del comunismo italiano. La scelta non ha motivazione autobiografica, e non è provincialmente restrittiva. Al contrario, proprio in questa scelta, circoscritta a un oggetto concreto, è implicita un’ipotesi di lavoro che va controcorrente, che costringe, e forse alla fine permette, qualche conclusione generale. Mi spiego. Oggi prevalgono due letture diverse del comunismo italiano, opposte tra loro e ciascuna con finalità molteplici e mosse da diversi versanti. La prima lettura sostiene, in forma più o meno grezza, che il Pci, almeno dalla fine della guerra, è sempre stato, nella sostanza, un partito socialdemocratico, pur senza volerlo dire e forse senza neppure saperlo; la sua storia è stata una lunga marcia, troppo lenta ma costante, di autoriconoscimento; quel ritardo gli è costato la lunga esclusione dal governo del paese, ma quell’identità sostanziale gli ha assicurato la forza e poi garantito la sopravvivenza, malgrado la crisi. La seconda lettura sostiene che malgrado la Resistenza, la Costituzione repubblicana, il ruolo avuto nell’ampliamento della democrazia, malgrado alcune prove di autonomia e l’ostilità a ogni ipotesi insurrezionale, in ultima istanza il Pci era un’articolazione della politica sovietica e portava in cuore la prospettiva di quel modello: solo verso la fine, ha dovuto arrendersi e cambiare identità. Entrambe queste letture non solo sono contraddette da troppi fatti, ma cancellano quanto di più originale e interessante c’è stato in quella vicenda. Vorrei sostenere invece che il Pci ha rappresentato, in modo intermittente e senza svilupparlo pienamente, il tentativo più serio, in una certa fase storica, di aprire la strada a una «terza via»: di coniugare cioè riforme parziali, ricerca di ampie alleanze sociali e politiche, uso convinto della
democrazia parlamentare, con aspre lotte sociali, con una esplicita e condivisa critica della società capitalistica; di costruire un partito fortemente coeso, militante, ricco di quadri ideologicamente formati, ma di massa; di ribadire la propria appartenenza a un campo rivoluzionario mondiale subendone i vincoli ma conquistando una relativa autonomia. Non si trattava di una semplice doppiezza: l’idea strategica unificante era che il consolidamento e l’evoluzione del «socialismo reale» non costituiva un modello che un giorno sarebbe stato possibile applicare anche in Occidente, ma il retroterra necessario per realizzarvi, nel rispetto delle libertà, un altro tipo di socialismo. È questo tentativo che spiega la crescita della sua forza in Italia – che continuò anche dopo la modernizzazione capitalistica – e della sua influenza internazionale, anche dopo i primi e vistosi segni di crisi del «socialismo reale». Ma, allo stesso tempo, il suo successivo declino e il finale dissolvimento in una forza liberaldemocratica più che socialdemocratica obbligano a spiegare come e quando quel tentativo sia fallito. Permettono cioè di individuare le ragioni oggettive e soggettive di una parabola e di chiedersi se, come e quando si sono offerte strade migliori per correggerla. Se questo è vero, e si riuscisse a dimostrarlo concretamente, allora la storia del comunismo italiano potrebbe non essere solo la storia di un partito, ma potrebbe dirci qualcosa di importante sulla vicenda complessiva sia dell’Italia repubblicana, sia del movimento comunista in generale, permetterebbe di valutarla nella versione migliore e di cogliere a fondo i limiti invalicati. (Forse lo stesso interesse, in un contesto del tutto diverso, e per chi ne fosse capace, potrebbe avere l’altrettanto specialissima vicenda del comunismo cinese, oggi tanto ammirata per i suoi successi economici, ma del tutto inspiegata nel suo passato e indecifrabile nel suo futuro.) La seconda ragione per cui concentro l’attenzione sul comunismo italiano è meno importante ma non trascurabile. Sulla storia dei comunisti, italiani compresi, molti storici hanno lavorato con estrema serietà e ricchezza di informazione, riguardo al periodo tra la Rivoluzione russa e il secondo dopoguerra, in modo più episodico e pieno di lacune e di pregiudizi per quello successivo. In un caso e nell’altro, comunque, un bilancio complessivo e un giudizio equilibrato restano carenti. Colpiscono non tanto le controversie, più che giustificate, quanto la divaricazione tra l’accurata esplorazione della documentazione disponibile, e la pamphlettistica faziosa. Non c’è da stupirsene, ovviamente, perché nel loro
lavoro, sia in passato sia di recente hanno pesato prima un clima di scontro politico aspro, poi l’improvviso e inatteso crollo: l’uno o l’altro suggerivano ad alcuni la sobrietà dello specialista, o permettevano ad altri comode semplificazioni. Ma al di l di tutto ciò, un ostacolo si oppone alla ricerca e alla riflessione anche dello storico più scrupoloso e più acuto: la limitatezza e la difficile interpretazione delle fonti. I partiti comunisti infatti, per ideologia, forma organizzativa e per le condizioni in cui si trovavano a operare, sono stati assai poco trasparenti. Il dibattito sui temi fondamentali si concentrava in sedi molto ristrette spesso informali, i cui membri erano vincolati alla riservatezza e che, anche tra loro, si esprimevano in termini cauti, compatibili con la preoccupazione unitaria. Le scelte politiche tenevano in serio conto gli orientamenti dei militanti e gli stimoli di un dibattito spesso vivace e partecipato, ma erano da tutti infine accettate e difese sia pure con diverse sfumature. La selezione dei gruppi dirigenti teneva conto delle capacità realmente dimostrate, ma poi avveniva con la cooptazione dall’alto, in cui pesava anche il metro della fedeltà. In certi paesi, e in certi momenti, la comunicazione esterna, o verso la propria stessa base, non esitava a censurare i fatti né a fornire spiegazioni molto sommarie della politica adottata, perché prevaleva l’obiettivo di consolidare la mobilitazione e il consenso seppure a danno della verità. Ma anche quando e laddove, come in Italia, a partire dagli anni sessanta, crescevano gli spazi di tolleranza per qualche dissenso, per esempio nei comitati centrali, esso veniva espresso con un linguaggio prudente e in parte cifrato. Il lavoro di archiviazione, per tutti i livelli, era molto accurato, ma anche molto sobrio e spesso, volutamente o per dovere d’ufficio, autocensurato. Negli stessi momenti di «svolta», il principio sempre vigente è stato quello del «rinnovamento nella continuità». Chi invece veniva allontanato, o si allontanava dal partito – essendo il partito, per scelta propria e per imposizione dell’avversario, una comunità di vita – pativa un isolamento umano pesante che alimentava a lungo una reciproca faziosità. Per ricostruire la storia reale, senza equivoci e senza censure, non basta dunque una lettura seria dei giornali e dei documenti dell’epoca; qualche intervista postuma o l’accesso agli archivi finalmente aperti. Occorre anche la mediazione della memoria di chi ha partecipato come protagonista, o come osservatore direttamente informato, e può dire qualcosa di più su quel che i documenti tacciono o interpretarne, oltre alla lettera, il significato e il peso. Pensiamo, per fare un esempio estremo,
quanta luce avrebbe potuto portare sulla storia dell’ultimo quindicennio dell’Unione Sovietica un autentico resoconto dei fatti e delle discussioni, e un giudizio meditato, da parte di Gorbačëv, quando ormai c’erano tutte le condizioni per farlo. Sappiamo tutti però quante insidie comporta la memoria individuale, perché declina con l’età, o perché aver condiviso responsabilità rilevanti,o aver subìto un torto immeritato, può renderla selettiva o tendenziosa. Anziché parlare della storia che la nostra vita ci consente di conoscere per avvicinarsi alla verità, è facile rileggere questa storia con gli occhiali del proprio vissuto. Niente di male certo. Anzi, quando è fatto e dichiarato onestamente, anche questo uso della memoria può essere di grande aiuto. Proust, Tolstoj, Mann o Roth hanno contribuito alla comprensione della storia della loro epoca più acutamente degli storici loro contemporanei. Io ho però parlato di «mediazione della memoria» in senso diverso. Per scelta e per necessità. Non trovo molto interessante il mio vissuto e se lo fosse non avrei la capacità di comunicarlo. La mia incidenza nella politica è stata inoltre limitata, si è concentrata in precisi e rari momenti, si è esercitata più attraverso alcune idee, spesso troppo in anticipo ma ricorrenti, che in azioni dall’esito felice. Sento dunque il bisogno e l’utilità di una memoria disciplinata, con qualche verifica documentata dai fatti, con il confronto di memorie diverse, il più possibile oggettivizzata, come si trattasse della vita di un altro, perché ci si possa avvicinare a un’interpretazione plausibile di quanto è realmente accaduto o poteva accadere. L’autobiografia interverrà solo se strettamente necessaria. Da questo punto di vista credo di avere una condizione di vantaggio. Sono infatti diventato comunista, per ragioni di età, quando la temperie del fascismo e della Resistenza si era chiusa da un decennio, anzi dopo il XX congresso del Pcus e i fatti d’Ungheria, e dopo aver letto oltre a Marx, Lenin e Gramsci, anche Trockij e il marxismo occidentale eterodosso. Non posso dunque dire: l’ho fatto per combattere meglio il fascismo, oppure: dello stalinismo e delle «purghe» non sapevo nulla. Ci sono entrato perché credevo, come ho continuato poi a credere, a un progetto di cambiamento radicale della società di cui occorreva sopportare i costi. Devo quindi spiegare anzitutto a me stesso se avevo ragione di farlo. Ho militato in quel partito, mai in ruoli di potere, in diretto rapporto con il gruppo dirigente, durante quindici anni di un dibattito vivace e di esperienze importanti, cui ho partecipato con posizioni di minoranza ma con una certa influenza, e con piena conoscenza di ciò che vi accadeva. Anni decisivi, sui quali si sa
ancora troppo poco, o troppo è stato rimosso e su cui posso invece aggiungere qualcosa. Sono stato radiato dal partito nel 1970, con altri compagni, perché avevamo dato vita a una rivista, il manifesto, considerata inammissibile, perché di per sé incrinava il centralismo democratico, perché sollecitava esplicitamente una più netta critica del modello e della politica sovietica, infine perché chiedeva di ripensare la strategia del partito, accettando suggerimenti dei nuovi movimenti operai e studenteschi. Nessuno quindi può sospettarmi di aver taciuto, né di coltivare vecchie ortodossie. Ma a mia volta sono obbligato a chiedermi perché, per quali errori e limiti, tante buone ragioni e analisi, spesso lungimiranti, siano rimaste isolate e abbiano mancato l’obiettivo. Sono tornato con numerosi compagni nel Pci all’inizio degli anni ottanta, consapevole dei limiti di un estremismo sul quale ci eravamo illusi, ma non da pentito, perché la svolta dell’ultimo Berlinguer sembrava comporre molti dei contrasti che ci avevano divisi. Trovandomi questa volta nella Direzione del partito conservo conoscenza diretta del processo che ha prima limitato, poi svuotato quella svolta, mostrandone anche il ritardo e i limiti. Un periodo sul quale la reticenza è tuttora grande, e l’autocritica smodata non trova contrasto. Ho partecipato, questa volta in prima fila, alla battaglia contro la scelta di sciogliere il Pci, non perché troppo innovatrice, ma perché innovava nel modo e nella direzione sbagliata, liquidava cioè senza discernimento una ricca identità, apriva la strada non solo a una socialdemocrazia, a sua volta già in crisi, ma a una forza liberaldemocratica e moderata, mandava a casa un esercito non ancora allo sbando, suppliva con velleitario «nuovismo» al vuoto di elaborazione. Dopo tutto quel che è seguito, resto tra i pochi a credere che quell’operazione fosse del tutto infondata, ma sono tanto più costretto a chiedermi perché abbia prevalso. Ho partecipato infine, con qualche dubbio, alla costruzione di Rifondazione comunista, perché temevo che mancassero le idee, la volontà e la forza per prendere sul serio quel nome: temevo cioè una deriva massimalista e poi un accomodamento politicistico. Me ne sono allontanato, perché a quel progetto continuo a credere, ma non riconosco in quell’organizzazione, come nella diaspora della sinistra radicale, sufficiente determinazione e capacità di portarlo avanti. Di questa più recente tormentata vicenda quasi nessuno sa o capisce molto, e anche solo parlarne onestamente può quindi essere utile.
Sono così un particolare archivio vivente e in soffitta. Per una persona ormai anziana l’isolamento è dignitoso, ma per un comunista è il peccato più grave, di cui rendere conto. L’«ultimo dei mohicani» può essere un mito, il comunista solo, e arrabbiato, rischia il ridicolo se non si tira da parte. Ma se il peccato (perdonate l’ironica concessione alla moda e alla convenienza che oggi spinge tanti all’improvvisa ricerca di Dio) apre la via del Signore, proprio l’isolamento potrebbe permettere un utile distacco. Non posso affermare «non c’ero», non sapevo; qualcosa anzi l’ho detta quand’era scomodo, ho perciò la libertà di difendere ciò che non va ripudiato e di chiedermi ciò che si poteva fare o si potrebbe ancora fare al di là del bric-à-brac della politica di ogni giorno. Non è vero che la storia passata, dei comunisti e di tutti, era già tutta predeterminata, così come non è vero che il futuro è tutto in mano ai giovani che verranno. La «vecchia talpa» ha scavato e continua a scavare, ma, essendo cieca, non sa bene da dove viene e dove va, o se gira in circolo. Chi non vuole o non può affidarsi alla provvidenza, deve pur fare ciò che può per capirlo e così aiutarla.
1. L’eredità
Questo libro non vuole e non può essere una storia compiuta e specifica del Pci, che pure ne costituisce il privilegiato campo di indagine. È molto di meno e qualcosa di più. Di meno, perché si concentra su di un periodo preciso, dalla svolta di Salerno agli anni novanta, nel quale la particolare identità, culturale e politica, del Pci risulta meglio definita e nel quale, per la sua forza e la sua capacità, ha avuto un’incidenza rilevante in Italia e nel mondo. Di più, perché sceglie e isola alcuni passaggi decisivi di quello stesso periodo, per integrare un’informazione gravemente carente con l’aiuto della memoria personale, o comunque direttamente raccolta. O per correggere interpretazioni e giudizi, collocandoli il più possibile nel contesto storico generale, e usando il senno di poi, e la riflessione da esso stimolata, per trarne qualche elemento, non arbitrario, per quella che si chiama «storia controfattuale», e qualche suggerimento sul presente e sul futuro. Vorrei però premettere alcune considerazioni sia sulle generali e concrete vicende dalle quali il Pci era nato, che costituivano le sue risorse e gli opponevano dei limiti, sia su un patrimonio culturale, che si offriva al suo tentativo di innovazione. Organizzo queste considerazioni preliminari in due gruppi ovviamente distinti, ciascuno con un titolo volutamente provocatorio: «Il fardello dell’uomo comunista», che non offre scoperte originali, recupera fatti noti agli storici ma di recente rimossi o adulterati nella memoria collettiva e nella stessa cultura ufficiale; e «Il genoma Gramsci», cioè la straordinaria, sotterranea miniera di idee, che Gramsci offriva al Pci, sfruttata in modo fecondo, ma secondo convenienza e comunque solo in parte.
1.1 Il fardello dell’uomo comunista 1. Nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento, e fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, è emerso, in Europa ma non solo, un nuovo soggetto sociale, politico, culturale ben definito. Esso aveva alle spalle una lunga e travagliata gestazione: straordinari momenti di insorgenza rivoluzionaria (il 1848, la Comune) conclusi da altrettanto brucianti sconfitte, aspri e mai
del tutto superati conflitti ideologici (anarchici, neogiacobini, socialisti utopisti ecc.); varie esperienze pratiche (sindacali, cooperativistiche, comunitarie); il tutto inserito e modellato in contesti nazionali molto diversi tra loro. Alla fine però era emerso un protagonista indiscutibilmente egemone, il socialismo di orientamento marxista, organizzato in partito, e collegato a sindacati, cooperative, giornali, riviste, su scala nazionale e con espliciti e impegnativi legami internazionali: la Seconda internazionale. Sui suoi legittimi genitori non ci sono dubbi possibili. Esso è nato da un incontro storicamente determinato. Da un lato una nuova classe, che lo sviluppo economico rapidamente produceva e rapidamente escludeva, ben definita nel rapporto tra capitale e lavoro salariato. Questa classe andava proprio allora concentrandosi nella grande industria, era capace di rivendicazioni e lotte collettive, e al tempo stesso (avendo dietro di sé la Rivoluzione francese) non era più plebe indistinta e rassegnata, poiché aveva una confusa coscienza dei propri diritti sociali e politici. Dall’altro lato un pensiero forte, il marxismo, che a sua volta aveva radici nell’eredità insieme riconosciuta e criticata della cultura moderna, offriva a quel nuovo soggetto sociale non un generico sostegno, ma strumenti intellettuali robusti per comprendere le ragioni strutturali delle sue sofferenze, per decifrare e immettersi in un’interpretazione generale della storia, per dare fondamento e plausibilità a un progetto di trasformazione generale del sistema e lo chiamava quindi a darsi un’organizzazione politica e ad assumere il ruolo di futura classe dirigente. Tale incontro non fu privo di ostacoli e controversie, ancora dopo le aggregazioni organizzative e anche tra coloro che pur si dichiaravano sinceramente marxisti. Controversie teoriche (dal «marxismo della cattedra» influenzato dal meccanicismo positivistico o dall’eticismo kantiano, all’economicismo tradeunionista); controversie politiche (sul suffragio universale, sull’importanza del Parlamento, sul colonialismo, sulle questioni operaie). Su tutto questo non occorre soffermarsi, perché esiste una vasta letteratura, ma soprattutto perché le controversie non impedirono a quel soggetto in formazione di definire comunque, anche a prezzo di qualche mediazione e di qualche ambiguità, un’identità culturale e di darsi un indirizzo politico unitario. Utile invece, perché oscurato da successive e più aspre divisioni e oggi quasi dimenticato, è ricordare l’esito cui quel tentativo arrivò nel periodo del suo decollo, cioè la sua straordinaria ascesa, su ogni versante, nel corso di poco più di vent’anni, e i risultati ottenuti, molti dei quali permanenti.
Conquiste politiche: allargamento sostanziale in molti importanti paesi dell’accesso al voto, spazi di libertà di parola, di stampa e di organizzazione, pur pagando cruente repressioni, carcerazioni, esilii. Conquiste sociali: riduzioni dell’orario di lavoro, diritto alle «coalizioni dei lavoratori», cioè alla contrattazione collettiva, primi passi di assistenza sanitaria e previdenziale e di tutela di donne e bambini, istruzione elementare obbligatoria. Crescita organizzativa (in Germania quasi un milione di iscritti) e crescita elettorale (intorno al 1910 la socialdemocrazia raggiunse, in Germania ma non solo, oltre il 35% dei voti e divenne il primo partito in Parlamento). Infine successi culturali: il marxismo penetrò nelle università (oltre che nelle fabbriche, nelle carceri e fino in Siberia), formando gruppi dirigenti di grande valore e imponendo ai maggiori intellettuali che lo avversavano di confutarlo, ma prendendolo sul serio. Anche qualche insorgenza rivoluzionaria, contro stati autoritari, sconfitta ma non inutile, come in Russia nel 1905, o vincente, come in Messico. Una così sorprendente e rapida ascesa era connessa a un’unità di fondo che, al di là dei dissidi passati o di quelli in gestazione su alcuni punti, era sufficiente a definire un’identità, a mobilitare grandi speranze in grandi masse. Non c’era socialista, per quanto riformista e gradualista, che non credesse alla necessità e alla possibilità di un superamento del sistema capitalistico come obiettivo finale del suo impegno. Non c’era socialista, per quanto rivoluzionario e impaziente, che negasse l’importanza di battaglie parziali come strumenti per migliorare, se vincenti, le condizioni di vita dei lavoratori, o almeno, se sconfitte, ma ben combattute, per acquistare un grado più elevato di consenso e di mobilitazione alla propria causa. Non c’era infine socialista che negasse la necessità di una permanente e strutturata organizzazione politica, con una precisa connotazione di classe, e come sede per formare una coscienza di classe. La parola socialista e quella comunista non si presentavano quindi in quel contesto divergenti, tanto meno incomponibili, designavano anzi la differenza e la complementarietà tra una fase di transizione, più o meno lunga, e un approdo cui quella transizione doveva portare. Basta il semplice restauro della memoria di quella fase fondativa a dirci qualcosa di importante su tante sciocchezze che tormentano la discussione dei nostri giorni. Soprattutto quanto sia stato fondamentale il contributo del movimento operaio marxista alla nascita della democrazia moderna, nei suoi caratteri essenziali e distintivi: sovranità popolare, nesso tra libertà politica e condizioni materiali che la rendano esercitabile. Quanto sia stato
importante il nesso tra organizzazione, pensiero strutturato, partecipazione di massa per fare di una plebe, o di una moltitudine di individui, un protagonista collettivo della storia reale. Infine, quanto sia parimenti assurdo supplire oggi a un vuoto di analisi e di teoria riverniciando dietro nuovi nomi idee già logore e battute un secolo fa, come l’anarchismo; o usare parole antiche, come socialdemocrazia, per indicare idee o scelte del tutto diverse da ciò che erano nate per indicare. 2. Nel giro di pochi anni, però, quel movimento che sembrava avviato a essere una «potenza» precipitò in una crisi verticale, si ruppe in molti frammenti. Perché? Perché si scontrò con un evento tanto sconvolgente quanto difficile da leggere e da governare: la Prima guerra mondiale. Sembra ben strano, se non fosse rivelatore, che, ancor oggi, l’acceso dibattito sul Novecento, e in particolare sui suoi aspetti tragici, abbia trascurato o marginalizzato quel passaggio storico fondamentale e «costituente» per l’intero secolo. A dire il vero, l’incapacità di elaborare una convincente spiegazione di quella guerra, delle sue cause, della sua portata e delle sue conseguenze non è sorprendente in sé. L’intera generazione che la visse e vi partecipò con convinzione, presto ne misurò concretamente la tragedia: milioni e milioni di morti e di invalidi, economie demolite, stati e imperi che si dissolvevano, particolarmente nei paesi perdenti ma ovunque in Europa, colpirono l’intera società, quasi tutti gli strati sociali, certezze e culture che sembravano consolidate. La sorpresa era stata grande per tutti, perché ragioni e responsabilità di un tale disastro sembravano, in quel momento, inspiegabili, non c’era una crisi economica o sociale che spingesse a un conflitto militare di quelle dimensioni e a quei costi, la spartizione coloniale del mondo si era quasi conclusa con mediazioni accettate, la competizione tra le potenze per l’egemonia, pur evidente, si svolgeva sul terreno finanziario e tecnologico. Le stesse classi dominanti, pur da tempo impegnate in un riarmo a scopo dimostrativo, non prevedevano e non auspicavano una guerra mondiale, le alleanze tra loro apparivano casuali e contraddittorie al loro interno, fino all’ultimo riluttavano al passo decisivo. Ma poi, la scintilla di Sarajevo e una concatenazione quasi casuale di provocazioni fatte alla leggera avevano portato al precipitare di una guerra mondiale, alla quale i nuovi armamenti davano il carattere mai conosciuto di «guerra totale». E masse enormi vi parteciparono con la piena convinzione di «difendere la propria patria e la propria civiltà», sopportando il ruolo di «massa da macello». Questa duplice e contraddittoria coscienza («la guerra come incidente» o la
«guerra di difesa dall’aggressore») segnò a lungo la memoria collettiva, cui concorse anche la grande intellettualità. Più tardi intervenne, critica ma altrettanto limitativa, la teoria – Croce ne è un esempio – della «parentesi di irrazionalità»; infine, prevalse stabilmente la lettura della Prima guerra mondiale come lotta tra le «democrazie» occidentali (che però erano al momento anche le maggiori potenze coloniali) e gli imperi autocratici (peccato che il Kaiser e lo Zar combattessero in campi diversi e gli americani fossero intervenuti solo all’ultimo momento). È quest’ultima la lettura oggi codificata: la Prima guerra mondiale come anticipazione di uno scontro che poi si ripropose nella Seconda guerra mondiale e nella guerra fredda (non a caso un presidente della Repubblica italiana, brava persona, è di recente arrivato a chiamare «quarta guerra di indipendenza» quel primo conflitto che un papa aveva definito giustamente «inutile strage»). Sarebbe interessante approfondire questo discorso, dedicandolo ai tanti che assolvono il capitalismo e il liberalismo dalla responsabilità della faccia oscura del Novecento, compresi i legami che lo uniscono all’attuale teoria della guerra preventiva. Ma ci porterebbe lontano da ciò che ci interessa: le conseguenze della Prima guerra mondiale sul movimento operaio marxista, sulle sue divisioni e metamorfosi, sulla nascita del comunismo. Onestamente non si può dire che il movimento operaio sia stato sorpreso. Al contrario, già a cavallo tra i due secoli, non solo si sviluppò una discussione in cui il tema della guerra via via acquistava maggior rilievo, ma si andava direttamente al cuore del problema, se ne indagavano le cause, la si collegava a una lettura generale della fase storica, con una serietà di analisi e un impegno teorico di cui rimpiangere il livello. Chi ritualmente ripete che il marxismo è sempre stato prigioniero di uno schema e per sua natura sempre incapace di cogliere le continue trasformazioni del sistema che avversava, può qui trovare una delle possibili smentite: parlo del grande dibattito sull’imperialismo, nel quale il problema della guerra era parte e conclusione proprio di diverse analisi della grande trasformazione del capitalismo intervenuta negli ultimi decenni. Questa trasformazione già obbligava a rivedere molte delle previsioni contenute nel Manifesto di Marx, e delle strategie a esso legate, investiva e collegava fenomeni diversi e contraddittori. Tanto per citare i più importanti: il salto tecnologico, allora rappresentato dall’introduzione sistematica delle nuove scienze nella produzione (chimica, elettricità, comunicazioni a distanza, meccanizzazione agraria); la nuova
composizione sociale, per la concentrazione del lavoro operaio in grandi impianti industriali e le differenziazioni nelle sue capacità professionali, cui si affiancava il declino del ceto artigianale e commerciale, ma anche la crescita di un nuovo e non meno numeroso ceto medio legato a funzioni impiegatizie e ancor più a funzioni pubbliche; lo spazio maggiore per concessioni salariali, in parte offerto dai proventi di uno sfruttamento coloniale meno primitivo; la finanziarizzazione dell’economia con le società azionarie e i grandi trust sostenuti dalle banche. E poi l’istruzione generale, che riduceva l’analfabetismo ancora dominante ma creava barriere di classe non meno rigide; la rapida accelerazione degli scambi commerciali mondiali e l’esportazione di capitali anche oltre i confini degli imperi, che riapriva una competizione per l’egemonia, spingeva al riarmo e accresceva il peso politico delle caste militari per sostenerla; infine, l’allargamento del suffragio che imponeva e permetteva di cercare, e spesso di ottenere, il consenso con nuovi strumenti ideologici come il nazionalismo e il razzismo. Molto di tutto ciò fu avvertito dai gruppi dirigenti del movimento operaio con una serietà e un impegno scientifico invidiabili, ma li spingeva a interpretazioni diverse e a conclusioni, all’inizio non cristallizzate ma via via divaricanti (Lenin, Luxemburg, Hilferding, Kautsky, Bernstein e dietro di loro, partecipi, intellettuali e operai, partiti e loro frazioni, sindacati). Da una parte il nuovo capitalismo fu visto come conferma della possibilità di una via graduale, tutto sommato indolore, al socialismo, quasi un esito naturale dello sviluppo, da cui si deduceva la priorità affidata al parlamentarismo e al tradeunionismo: autoritarismo e guerra potevano intervenire nel percorso, ma erano evitabili e non l’avrebbero comunque interrotto. Da un’altra parte l’imperialismo fu visto come fase suprema e putrescente del capitalismo, l’avvio di una degenerazione: concentrazione del potere effettivo dietro la maschera di un parlamentarismo screditato e corrotto, sviluppo sempre più ineguale del mondo, antagonismo tra grandi potenze, proteso a cercare all’esterno risposte alle ricorrenti crisi di sottoconsumo, a raccogliere intorno a sé ceti medi oscillanti con il furore patriottico, e a isolare la classe operaia e i contadini. La guerra in questo caso era nel conto, ne andava denunciato il carattere imperialistico e poteva offrire un’occasione rivoluzionaria o sprofondarsi in una inutile strage. Entrambe le parti però non ritenevano la guerra imminente e, per ragioni opposte, non pensavano che avrebbe cambiato profondamente il corso delle cose. Perciò fu possibile per tutto il movimento socialista assumere un solenne impegno contro la guerra, ma non sviluppare una
campagna di mobilitazione di massa che forse, data l’incertezza dei governi, avrebbe potuto almeno rinviarla o permettere di non esservi coinvolti. Ma quando la guerra, quel tipo di guerra, scoppiò, travolse il mondo e travolse la Seconda internazionale. La maggioranza dei più importanti partiti che la componevano (con la timida eccezione di quello italiano) tradì l’impegno a opporvisi e a denunciarla. Lenin rimase solo. La parola tradimento non mi piace, e la sua ripetizione ossessiva rappresentò un ostacolo grave, successivamente, a ogni tentativo di dialogo o di convergenza, possibile e necessaria; in quel momento però era fondata. Non mi riferisco solo al voto dei parlamentari socialdemocratici sui crediti di guerra e al sostegno dei governi belligeranti, né solo alla passività e anzi allo stimolo con i quali i gruppi dirigenti contribuirono al furore patriottico dei loro militanti e dei loro elettori, all’equivoco della difesa della patria che ormai diventava volontà di vittoria. Mi riferisco al fatto che anche quando – di fronte ai morti, alla fame, all’uso cinico della «carne da macello» da parte delle caste militari – i popoli, non solo nei paesi perdenti, cominciarono ad aprire gli occhi e si produssero delusione, rabbia, diserzione, scioperi (anzi, anche dopo la conclusione della guerra), quei gruppi dirigenti mantennero ferma un’intesa con gli apparati burocratici e con la casta militare, per garantire la loro continuità e chiamarli a «garantire l’ordine». Rifiutarono sia un’improbabile rivoluzione sia un serio tentativo di democratizzazione politica e di riforme sociali, ruppero cioè con le proprie stesse radici. E ne pagarono il prezzo: come forza politica e come pensiero quella che ancora si chiamava socialdemocrazia rimase per decenni marginale, dispersa, impotente, e ritrovò un ruolo importante solo dopo la Seconda guerra mondiale, modificando in sostanza la propria identità socialista in liberaldemocratica, ala sinistra, nel bene e nel male, nel campo occidentale. Dall’altro lato chi sulla guerra aveva avuto ragione, e dalle insorgenze popolari sperava di intravedere l’esito di una rivoluzione socialista, dovette constatare la propria minorità, cercare scorciatoie e subire sconfitte e repressioni nell’Occidente europeo, si raggruppò intorno al pensiero leninista (convinto richiamo e insieme revisione profonda del marxismo originario) e intorno alla sola eredità effettiva che la guerra aveva lasciato: la rivoluzione, in un grande paese arretrato e destinato a un lungo isolamento, la Russia. Qui dunque nacquero la forza e il richiamo, e
altrettanto le difficoltà e i limiti, di un nuovo soggetto politico che decise di chiamarsi comunista, che ambiva a un ruolo mondiale, ed effettivamente lo esercitò per molti decenni. Arriviamo così al tema più controverso ma ineludibile di una vera nuova riflessione sulla questione comunista. Quello che segna il limite estremo tra revisione, critica e abiura e, paradossalmente, è rimasto marginale e implicito nel dibattito storico e politico degli ultimi anni: la lettura e il giudizio sulla Rivoluzione bolscevica e il suo consolidamento in un grande Stato e in una organizzazione internazionale. È stata una scelta sciagurata che portava già dall’origine in sé i cromosomi delle peggiori degenerazioni, e alla fine si è autodissolta dopo aver fatto danni pesanti? Allora non occorre spaccare il capello, ricostruire un processo storico nel suo contesto: basta individuare quei cromosomi, far parlare il fatto della sconfitta finale, lasciarlo al solo lavoro accademico, politicamente archiviarlo. La «spinta propulsiva» dell’Ottobre non si è mai esaurita, semplicemente non c’è mai stata. Oppure la Rivoluzione russa è stata un grande evento propulsivo per la democrazia e l’incivilimento, successivamente tradito dal potere personale e dalla burocratizzazione, senza rapporto con il contesto storico dal quale era originato e in cui si collocava? Allora basta una robusta denuncia dello stalinismo, una franca critica di chi non lo ha condannato in tempo, la fierezza dell’antifascismo, per sentirsi liberi di cominciare da capo, in «un mondo nuovo». La mia indagine sul comunismo italiano nella seconda parte del secolo vorrebbe appunto contribuire a una valutazione più seria e circostanziata di quel che la Rivoluzione russa ha avviato. Ma non potrebbe neppure cominciare, e risulterebbe falsata, senza un breve accenno alle vicende di quella fase: gli anni tra le due guerre. Perché proprio su quelli si sono accumulate nella memoria censure ed equivoci di cui occorre sbarazzarsi. E perché in quella vicenda il comunismo italiano ha poi trovato sia le risorse, sia i limiti, per la costruzione di un grande partito di massa e la ricerca di una propria «via al socialismo». 3. La Rivoluzione russa non ci sarebbe stata, né avrebbe retto, senza Lenin, il Partito bolscevico, il suo insediamento nella pur minoritaria ma concentrata classe operaia, il livello e la saldezza del suo gruppo dirigente, non diviso ma allargato dalla confluenza del gruppo trockista e dal rientro di tanti esuli già formati in vari angoli dell’Europa. Ma ancor meno ci sarebbe stata senza la guerra mondiale. Furono la disgregazione dello Stato
autocratico, la fame nelle città, i milioni di contadini semianalfabeti strappati ai loro villaggi per combattere, la loro insorgenza in un’armata in disfatta e la delegittimazione dei suoi vertici a renderla una scelta possibile. I soviet non furono l’invenzione di un partito, quanto una spinta organizzativa indotta dalla necessità e dalla rabbia, avevano alle spalle il 1905, e in essi si svolse un’effettiva lotta per l’egemonia nella quale si affermò un’autorità riconosciuta e prese forma un programma. Lenin, che pure aveva già elaborato la teoria dello sviluppo ineguale, e dunque della rottura a partire dagli anelli più deboli della catena, aveva resistito a lungo all’idea che essa potesse assumere un carattere socialista, tanto meno consolidarsi, in un paese economicamente e culturalmente arretrato (per questo aveva confutato l’idea trockista della rivoluzione permanente). Ancora all’inizio della guerra, era convinto che la Russia doveva e poteva essere il punto di innesto di una partita il cui esito si sarebbe giocato in Occidente, là dove il socialismo poteva contare su basi «più solide». La scelta di conquistare subito e direttamente il potere statale fu presa da lui, e contro molte esitazioni dei suoi compagni, quando non solo il potere esistente era in una crisi irrecuperabile. La maggioranza del popolo voleva fermamente la Repubblica, la terra, la pace immediata, che i partiti liberaldemocratici non volevano né potevano concedere. Il potere ai soviet e la conquista del Palazzo d’inverno avvennero su quel «programma minimo», cui si aggiungeva la nazionalizzazione delle banche, luogo e strumento del capitale estero. La rivoluzione non aveva alternative, se non la restaurazione del potere autocratico o la precipitazione nell’anarchia e nella dissoluzione dell’unità di uno Stato multinazionale. E infatti avvenne in forma relativamente incruenta (i feriti, nella presa del Palazzo furono meno numerosi di quelli che costò la ricostruzione successiva dell’evento per un film). E aveva, nel merito, un consenso nella popolazione larghissimo, per quanto poteva esserlo in un paese immenso, disperso, analfabeta, e mai unificato se non dal mito dello Zar e da una religione superstiziosa. Nulla a che fare con un atto giacobino, da parte di una minoranza che approfittando di un’occasione conquistava il potere. A quel programma ci si attenne, anche contrastando spinte più radicali, come nel caso della pace di Brest-Litovsk. A dar però poi forma al nuovo potere (deperimento dei soviet, sistema monopartitico, limitazione delle libertà, esecuzione della famiglia imperiale, polizia segreta) fu la vocazione, come oggi si dice, autoritaria del leninismo, o la coerente ed estrema applicazione di alcuni concetti
apertamente formulati da Marx («violenza come levatrice della storia», «dittatura del proletariato»)? A me non pare vero, o quanto meno mi pare una parte secondaria del vero. Basta rileggere e comparare due saggi di Lenin scritti a breve distanza tra loro per rendersene conto: Stato e rivoluzione, al cui centro c’è l’idea di una democrazia (che rimane pur sempre una dittatura come lo è ogni Stato) ma assume un carattere più avanzato perché fondato su istituzioni partecipative dirette, rappresenta la maggioranza del popolo e garantisce il contenuto di classe del nuovo Stato; e La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky in cui la dittatura proletaria appare invece «senza limiti» e l’istanza democratica viene assorbita nel partito che la rappresenta e l’organizza. Il ruolo decisivo lo ebbero invece due fatti enormi. Anzitutto la lunga e tremenda guerra civile con una straordinaria partecipazione di massa che confermò la legittimità della rivoluzione ma devastò il paese in ogni angolo, quanto e ancor più della guerra mondiale. Quella guerra civile non fu provocata né combattuta contro forze liberali o borghesi ma, nel modo più spietato, da armate zariste in nome della restaurazione, prevalentemente con il reclutamento delle popolazioni che avevano sempre gestito le repressioni imperiali, e con il sostegno dei governi inglese e francese. E fu vinta dai bolscevichi al prezzo di una ferrea militarizzazione, e lasciò dietro di sé caos nella produzione in ogni settore, campagne costrette all’autoconsumo, ancor più fame nelle città, proletariato industriale decimato e disperso, emigrazione degli strati tecnicamente qualificati (salvo una parte che dalla rivoluzione era stata conquistata e l’Armata rossa integrò senza remore). Anche una semplice organizzazione della sopravvivenza spingeva ormai verso un esercizio centralizzato e duro del potere. Seconda novità: l’esaurirsi del sommovimento di massa che in Occidente, soprattutto in Germania, per un breve momento sembrò annunciare una possibile rivoluzione, ma presto si dimostrò minoritario rispetto all’intera società. Non aveva obiettivi chiari, né una guida politica sicura, né quadri, si ripresentò a lungo, ma in rivolte disperse e occasionali, facilmente represse da apparati militari ancora in piedi e da corpi di volontari nazionalisti. Esecuzioni sommarie e assassini selettivi (da Rosa Luxemburg fino a Rathenau) vennero usati non solo per sbarrare la strada a una rivoluzione che non c’era, ma anche alla democratizzazione politica e a limitate riforme sociali. Già in quel momento pesò non poco l’insensata imposizione del trattato di Versailles e l’arroganza dei vincitori nel
gestirlo. Cambiava così tutto il quadro: la Rivoluzione russa, al di là dell’emergenza della ricostruzione, doveva affrontare insieme i problemi dell’accumulazione primitiva, dell’organizzazione di uno Stato quasi mai esistito, e ormai distrutto, della prima alfabetizzazione per un 80% della popolazione, in un totale e minaccioso isolamento. Lenin comprese, almeno in parte, la realtà. Liquidò seccamente entusiasmi e furori del comunismo di guerra, impose la Nep, che ebbe presto successo, avviò una politica estera prudente che poi portò al trattato di Rapallo. Giunse a proporre una collaborazione economica che garantisse a imprese capitalistiche estere la proprietà dei loro investimenti in Russia (subito rifiutata). Infine, quasi dal letto di morte, espresse la propria ostilità alla concentrazione del potere nelle mani di un capo. Ma la gravità del problema restava in campo, il consolidamento di uno Stato e di una società socialista, con le proprie sole forze, per un periodo probabilmente lungo, in un paese arretrato. Voglio con ciò giustificare ogni aspetto della Rivoluzione russa come obbligata conseguenza di fattori oggettivi e soverchianti; negare analisi e teorie sbagliate, errori politici macroscopici ed evitabili, che la segnarono dall’origine e in modo permanente? Tutto il contrario. Cerco di spiegare, o forse solo di spiegarmi, con i fatti, la dinamica del processo, collocarla in un contesto, e di commisurare alle difficoltà i successi che dall’inizio e a lungo quell’azzardo invece ottenne (così come si è fatto, e anch’io feci, ricostruendo il decollo della modernità borghese, le sue conquiste e i suoi errori). In questo caso: uno sviluppo economico rapido e rimasto ininterrotto per molti decenni (anche nel periodo della grande crisi mondiale degli anni trenta), un primo acculturamento di masse sterminate, la mobilità che promuoveva dal basso in alto, la redistribuzione del reddito pur nella dura povertà, la garanzia di elementari tutele sociali per tutti, una politica estera generalmente prudente e non aggressiva, tutto ciò insomma su cui in quegli anni non brevi si costruiva un alto grado di consenso e di mobilitazione all’interno, e, malgrado tutto, anche simpatia e prestigio all’esterno. E non voglio tacere alcuni errori fin dall’inizio evitabili che pesarono a lungo, che non furono recuperati anche quando potevano più facilmente esserlo e che oggi è utile, oltre che doveroso, riconoscere. Il primo errore, al quale lo stesso Lenin aprì la strada, fu quello dell’ossessione della «linea giusta», della centralizzazione delle decisioni
nel vertice della Terza internazionale, fino al dettaglio della tattica, applicata a situazioni molto diverse. Esso portò dall’inizio l’Internazionale comunista a decisioni oltre che gravemente sbagliate, oscillanti, come per esempio la gestione estremistica della politica in Germania (di cui furono direttamente responsabili Zinov’ev e Radek); o in quella cinese, avviata d’intesa con il Kuomintang, fino al momento in cui passò allo sterminio dei comunisti. Col tempo portò alla consuetudine, accettata dai vari partiti nazionali, di applicare alla lettera, e senza mediazioni, le direttive del partito guida, come avvenne nel caso del patto Molotov-Ribbentrop. Ne risultava compromesso uno dei migliori insegnamenti strategici della Rivoluzione russa, ossia la capacità di analisi determinata di una realtà determinata. Il secondo errore fondamentale riguarda la scelta, compiuta alla conclusione della Nep e per sostenere una pur necessaria rapida industrializzazione, della collettivizzazione forzata delle campagne. Anziché portare a una crescita produttiva agricola, da cui trarre, con mezzi accettabili e reciprocamente convenienti, risorse per l’industrializzazione, quella scelta, oltre i tragici costi umani, trasformò per sempre l’agricoltura in una palla al piede dell’economia sovietica. Cosa necessaria potevano essere la pianificazione centralizzata o il contenimento dei kulaki, cosa diversa erano la pianificazione e la collettivizzazione frettolose anche della piccola proprietà o le deportazioni di massa. Un terzo errore corretto in fatale ritardo, ma al quale lo stesso Lenin aveva aperto un varco, fu quello di additare come nemico principale, all’interno del movimento operaio, il cosiddetto «centrismo» (Kautsky e Bernstein in rotta con la loro destra, il socialismo austriaco, il massimalismo socialista in Italia). La socialdemocrazia aveva sicuramente contribuito a quell’errore: con impegni traditi, concessioni poi rinnegate, con alleanze senza princìpi; ma rifiutare di intervenire sulla vasta area di forze ancora incerte, a volte disponibili come interlocutori, imporre loro rapidamente «o di qua o di là», proporre esclusivamente un fronte unico dal basso che le escludeva, portò a un settarismo, a un’autosufficienza che neppure l’emergere del fascismo permise di superare prima che fosse tardi. Di tutti questi errori, Stalin non fu più responsabile dei suoi oppositori. Se non si considerano entrambe le facce della Rivoluzione russa, e del primo decennio del suo consolidamento, è impossibile decifrare l’ancor più contraddittoria fase del decennio successivo, il momento della prova più dura, l’impresa più rilevante: la resistenza al fascismo e la Seconda
guerra mondiale. La tesi centrale dell’attuale revisionismo storico, che è penetrata nella memoria diffusa e la altera totalmente, è quella che vede nel fascismo la risposta forsennata e delirante all’incombente minaccia del bolscevismo. Una tesi che non ha alcun fondamento. Il fascismo in Italia nacque sul tema della vittoria tradita e iniziò la sua campagna di violenza «contro i rossi» quando l’occupazione delle fabbriche, peraltro niente affatto orientata verso la «rivoluzione», si era già conclusa, rivolte contadine non ce n’erano o erano stati episodi isolati, il Partito socialista era nella confusione e si avviava a ripetute scissioni, il sindacato era guidato dall'ala più moderata. Trovò poi finanziamenti nel padronato e la complicità delle guardie regie, mentre la Chiesa aveva da poco concluso un patto con i liberali e guardava con diffidenza il nuovo partito di Sturzo. Mussolini si presentava dunque come definitiva garanzia dell’ordine. Arrivò infine al governo, senza alcuna situazione di emergenza, per investitura del re, e con l’appoggio diretto, in Parlamento, delle forze conservatrici tradizionali (in un certo momento perfino i Giolitti e i Croce) che pensavano di usarlo e domarlo semplicemente per restaurare il precedente e oligarchico assetto del potere. In Germania il nazismo, marginale e sconfitto per tutto il periodo durante il quale le turbolenze della sinistra erano state represse da governi socialdemocratici, da un esercito ricostruito e tornato politicamente attivo e da una maggioranza parlamentare decisamente conservatrice, crebbe all’improvviso sull’onda del rinato nazionalismo e della crisi economica aggravata dalle perduranti riparazioni di guerra. La violenza selettiva delle SA e l’antisemitismo ricevevano espliciti appoggi dall’alto. Raggiunse l’apice dei voti nel 1932, ma era di nuovo in calo quando Hitler fu fatto cancelliere da Hindenburg, con la complicità di von Papen e di Brüning, e con il decisivo sostegno degli stati maggiori prussiani. In Ungheria Horty andò al potere quando già la «Repubblica dei soviet» di Béla Kun era stata repressa. Franco più tardi avviò in Spagna la guerra civile contro un governo democratico moderato, legittimato dal voto, e tra le masse, più dei «bolscevichi», pesavano gli anarchici. Indubbiamente in tutti questi casi i comunisti avevano una qualche corresponsabilità, per non aver visto la gravità e la natura del pericolo e per non aver costruito, anzi per aver ostacolato, con la teoria del socialfascismo, l’unità delle forze che dovevano e potevano arginarlo. Ma le responsabilità delle classi dirigenti nella nascita del fascismo furono ben maggiori: per aver seminato culture, esacerbato ferite che ne avevano
costituito le premesse, per averlo agevolato e legittimato mosse non dall’intento di fronteggiare un’altra e maggiore minaccia, ma da quello di sradicare ogni possibile contestazione futura dell’ordine sociale e imperiale esistente. Comunque sia, a metà degli anni trenta, quando a tutto ciò si aggiunse la grande crisi economica, il fascismo prevaleva in gran parte d’Europa e già manifestava chiaramente non solo la propria essenza autoritaria, ma la propria vocazione aggressiva. Qui si colloca il momento più tragico della storia del Novecento e qui ebbero origine sia la straordinaria e positiva ascesa dell’Unione Sovietica, sia i germi di una sua possibile involuzione. I partiti comunisti erano in grave difficoltà ovunque ma particolarmente in Occidente, indeboliti organizzativamente ed elettoralmente, messi fuori legge, in esilio, in carcere o sterminati. L’Unione Sovietica, malgrado il successo dei primi piani quinquennali, si sentiva esposta a un’aggressione militare che da sola non poteva reggere. Fece dunque, in meno di due anni, una svolta politica e ideologica radicale, ben sintetizzata più tardi dallo slogan: «risollevare dal fango la bandiera delle libertà borghesi». Stalin non solo accettò, ma promosse quella svolta, il VII congresso dell’Internazionale la sancì, Togliatti, Dimitrov, Thorez la tradussero nell’esperienza dei Fronti popolari. Sulle vicende dei governi di Fronte popolare, molto brevi e mal elaborate sul piano strategico, ci sarebbero molte cose da approfondire. Sottolineo solo alcuni punti essenziali. Nei loro obiettivi immediati (impedire una nuova guerra mondiale, avviare una politica di riforme) furono sconfitti. Rappresentarono comunque in concreto il primo segnale di una grande mobilitazione democratica di popolo e di intellettuali contro il fascismo e a sostegno di nuove politiche economiche. In connessione, non pienamente consapevole, con il New Deal americano gettarono le prime pietre di un edificio che poi nella guerra fu costruito e portò alla vittoria: qualcosa più di un’alleanza militare. Se furono battuti ed entrarono in crisi non lo si può imputare all’estremismo dei partiti comunisti. Malgrado essi mettessero al primo posto la difesa dell’Unione Sovietica, anzi proprio per questo, i comunisti vi parteciparono con piena convinzione (in Spagna con eroismo) ma anche con una prudenza perfino eccessiva. In Francia conquiste sociali importanti, e permanenti, furono il prodotto di un grande movimento
rivendicativo dal basso, sul quale il Pcf intervenne «perché non si esagerasse». Il governo Blum, che i comunisti sostenevano dall’esterno ma lealmente, cadde rapidamente per le proprie incertezze in politica economica e finanziaria, la fuga dei capitali, lo sciopero degli investimenti. La vittoria di Franco in Spagna fu favorita dall’intervento esplicito e diretto del fascismo italiano e tedesco, e con la benevola neutralità degli inglesi, che si impose a Blum e fu poi imitata da Daladier. I comunisti cercarono con durezza di arginare la spinta anarchica alla radicalizzazione, e l’Unione Sovietica fu sola nel portare alla legittima Repubblica un sostegno per quanto poteva. La critica che si può loro applicare sta nel fatto che quella politica restò per loro una scelta legata anzitutto a un’emergenza, non incise profondamente nella strategia di lungo periodo. c) Il partito italiano, pur ridotto dalla repressione, costituì la maggioranza delle brigate internazionali in Spagna (insieme al piccolo Partito d’Azione), fu lì decimato ma formò una nuova leva di quadri che poi fu essenziale alla Resistenza in Italia, e lì cominciò a maturare, soprattutto in Togliatti, un primo abbozzo strategico di quell’idea della «democrazia progressiva», che riallacciava il tenue filo interrotto del congresso di Lione (guidato da Gramsci) ed era coerente con le sue originali Lezioni sul fascismo dei primi anni trenta. Al di là dei Fronti popolari, tanto più dopo la loro sconfitta, il vero elemento dirimente del decennio fu però la questione della guerra: come evitarla, come combatterla. Ed è su questo che oggi si sono riproposte tante reticenze, tante alterazioni dei fatti e del loro concatenamento. La follia aggressiva di Hitler poteva essere fermata in tempo. Un’amplissima documentazione storica testimonia che, malgrado il potere assoluto conquistato, la prospettiva della guerra, a tempi brevi, e apertamente esibita, trovava in Germania resistenze anche in poteri forti che potevano frenarla o rovesciarla. Innanzitutto il vertice delle forze armate, convinto che la guerra, almeno allora, la si perdeva, e lo faceva sapere. Militarizzazione della Renania, annessione dell’Austria, invasione dei Sudeti e occupazione di fatto dell’intera Cecoslovacchia: in ognuna di queste tappe di avvicinamento, una coalizione simile a quella che poi lo batté in guerra, anche solo mostrando determinazione, avrebbe interrotto il sogno hitleriano di dominio mondiale. Una tale coalizione difensiva fu ripetutamente proposta dall’Unione Sovietica e ripetutamente elusa o rifiutata dai governi occidentali. Perfino la Polonia, nuova vittima designata, negò un patto di difesa comune al governo di Mosca. Questi successivi cedimenti alimentarono il progetto nazista, Monaco ne è
l’esempio (non a caso Mussolini fu ritenuto un mediatore credibile, benché non neutrale). L'opinione pubblica tirava il fiato, perché non voleva rischiare una guerra. Ma già dopo poche settimane Hitler cancellò, indenne, il compromesso appena raggiunto. Viltà, incoscienza di chi doveva fermarlo? Non ci credo, e quasi nessuno successivamente ci ha creduto. Il fatto era che Chamberlain, e di rincalzo Daladier (Roosevelt era lontano, perché condizionato dall’opinione pubblica isolazionista, e da Wall Street che sempre più gli si opponeva), avevano un progetto, inconfessabile ma non privo di logica, quello di usare la Germania e indebolirla, deviando verso Est le sue pulsioni imperiali: due piccioni con una fava. A questo punto l’Urss siglò il patto di non aggressione con Ribbentrop, per evitare di diventare la vittima isolata, per guadagnare tempo, rovesciare il gioco. E le cose dimostrarono che aveva ragione; la Russia fu invasa poco dopo, ma come parte di una grande alleanza, militarmente adeguata. L’errore, semmai, fu quello di trascinare per un anno i partiti comunisti nella teorizzazione, ormai assurda, della guerra interimperialista, che oscurò il loro impegno antifascista e compromise in parte la stima conquistata sul campo. Errore a cui, più facilmente, il Pci poté sottrarsi. A confermare questa ricostruzione sta il fatto che anche dopo la dichiarazione di guerra e l’invasione della Polonia, inglesi e francesi non si mossero fino a quando il blitz tedesco attraverso il Belgio sfondò il fronte occidentale, la Francia crollò e il suo Parlamento (compresi ottanta deputati socialisti) concesse la fiducia al governo fantoccio Pétain. Olanda, Danimarca e Norvegia furono invase, la Svezia restò neutrale senza vietarsi neppure proficui commerci, Romania e Ungheria erano già al fianco della Germania, l’Italia, ingenua e furba come sempre, entrò in guerra per partecipare alla vittoria. L’Europa era in mano fascista, solo gli inglesi restavano intransigenti combattenti, protetti dal mare e sostenuti dagli aiuti americani, ma con prospettive incerte, e anche per merito di un conservatore intelligente e di carattere, Churchill. Le sorti del conflitto si rovesciarono nel momento in cui Hitler decise di invadere l’Urss. Col senno di poi è facile dire che, fra le tante, fu la maggiore tra le sue follie, ma spesso nella follia c’è una logica. Evidentemente Hitler era convinto che l’Unione Sovietica, al primo urto perdente, in breve crollasse, sul fronte interno più ancora che per debolezza militare, come era crollata la Francia, e come era crollata trent’anni prima la Russia dello Zar. Come poteva resistere una razza inferiore, male armata, dominata da un autocrate asiatico? Il suo crollo avrebbe assicurato alla Germania il controllo di un immenso paese, una riserva inesauribile di forza-lavoro e di materie prime.
A quel punto l’Inghilterra non avrebbe potuto resistere, gli Stati Uniti avrebbero avuto nuove ragioni per tenersi alla larga. E infatti molti anche tra i suoi avversari temevano che andasse così come Hitler era sicuro che andasse. Il primo urto vincente ci fu, forse anche perché Stalin non se lo aspettava così presto; i tedeschi arrivarono alla periferia di Mosca e ai confini delle regioni petrolifere. Ma a quel punto, anche per la geniale intuizione della «guerra patriottica», l’Unione Sovietica si mostrò capace di una miracolosa mobilitazione popolare e di una sorprendente capacità industriale, gli alleati ne capirono l’importanza vitale e mandarono armi e risorse, Leningrado tenne duro accerchiata e affamata con mezzo milione di morti, i tedeschi furono fermati sulla strada di Volokolamsk, furono circondati e annientati a Stalingrado: cominciò la lunga marcia verso Berlino. Nel frattempo, Roosevelt incoraggiò e utilizzò l’attacco a Pearl Harbor dei giapponesi per portare finalmente gli Stati Uniti in guerra, una lotta partigiana efficace emerse in Grecia e in Jugoslavia. Dopo Stalingrado per Hitler la guerra era persa. E nella vittoria l’Unione Sovietica aveva avuto un ruolo decisivo, pagando con ventuno milioni di morti. Il comunismo stato un mito? Ammettiamo pure che in parte lo sia stato, ma a quel punto il mito trovava buone ragioni per crescere. Inscrivere la Seconda guerra mondiale come scontro tra i due «totalitarismi» è una pura stupidaggine: il fiume di sangue non l’avevano prodotto i comunisti, l’avevano versato. Ma gli anni trenta, per i comunisti, ebbero anche un’altra faccia, di cui non si può tacere, e che nel lungo periodo si è dimostrata decisiva. Mi riferisco, ovviamente, all’esercizio del terrore interno, alla repressione massiccia e crudele di oppositori potenziali o supposti. Esso non solo rivelò senza veli la pratica autoritaria di un potere senza limiti ormai istituzionalizzato, ma rappresentò anche un vero salto di qualità nel contenuto, oltre che nel metodo, di cui Stalin portava una personale responsabilità, e innescò meccanismi difficilmente reversibili. Il salto di qualità non si misura solo sul numero dei morti e delle deportazioni, sull’arbitrio delegato a esecutori che spesso a loro volta rapidamente ne restavano vittime. Si coglie piuttosto in due nuovi aspetti che stabiliscono una differenza profonda rispetto al leninismo, sia pur estremizzato, e anche rispetto alle lotte brutali contro le opposizioni negli anni venti, perfino rispetto alla liquidazione dei kulaki, forma estrema di una lotta di classe. Primo aspetto: la repressione allora, soprattutto dal ’36 al ’38, si concentrò, oltre che sui resti di un’élite bolscevica ormai priva di influenza sulla società e sugli apparati, e
sinceramente disposta alla disciplina, sul partito stesso e, nel suo insieme, su coloro cioè che avevano seguito e applicato le scelte di Stalin e gli restarono fedeli. Dato irrefutabile: dei delegati al XVII congresso del Partito bolscevico, il «congresso dei vincitori» del 1934, dopo pochi anni quattro quinti erano stati uccisi o deportati, come accadde a 120 su 139 tra i membri del nuovo Comitato centrale. Il terrore raggiunse il suo culmine quando ormai le scelte economiche e politiche erano state applicate con successo, il pericolo, seppure incombente, era del tutto esterno. Un terrore quindi privo di base razionale, di giustificazione plausibile, che non rafforzava ma indeboliva il sistema a tutti i livelli (esempio estremo: la liquidazione proprio alla vigilia di una guerra, del gruppo dirigente dell’Armata rossa, fedele e competente, tre generali d’armata su cinque, centotrenta su centosessantotto generali di divisione e così via, a cascata). Lo stesso Stalin era promotore e vittima di quell’insensatezza: nelle memorie della figlia si ricorda che a ogni ondata di epurazioni egli era spinto da un giudizio critico sulla qualità dei quadri e da un sospetto nevrotico sulla loro fedeltà, dal timore della stabilizzazione di una casta burocratica, che si autoproduceva, e di apparati repressivi che via via agivano in proprio, e alla fine constatava che l’epurazione ne aveva promossi di più pericolosi di cui liberarsi in fretta. Secondo aspetto della novità che definiva lo stalinismo in senso proprio, collegato al primo, ma che non basta a spiegarlo: le giustificazioni addotte come prove per i verdetti più crudeli, nei processi più importanti, e le confessioni estorte. Agenti provocatori, complotti terroristi, spie dei fascisti o addirittura dei giapponesi fin dall’origine. Appare assurdo e quasi futile chiedere, come tanto spesso si è fatto e si continua a fare, alle generazioni che seguirono: che cosa sapevate, quanto sapevate di tutto ciò? A ogni livello, infatti, allora e dopo, come poteva qualcuno credere effettivamente che quasi l’intero gruppo di uomini che avevano diretto la Rivoluzione di ottobre già lavorassero per farla fallire, o che la maggioranza dei quadri sui quali Stalin si era affermato e l’avevano seguito si preparassero a tradire? Così si creava una rottura non solo tra fini e mezzi, ma una deformazione culturale profonda e duratura, la riduzione della ragione entro i confini più o meno ristretti imposti da una fede. Il volontarismo e il soggettivismo, nella coscienza non solo dei vertici ma delle masse, gettavano nel lontano futuro i semi che avrebbero prodotto il loro contrario: l’apatia delle masse e il cinismo della burocrazia. E tuttavia la forza di un ideale, i sacrifici compiuti in suo nome, i successi ottenuti per sé e per tutti, e altri che si delineavano, portavano anche i consapevoli non solo a giustificare i mezzi,
ma a considerarli transitori. Una catastrofe era stata fermata, uno spazio si apriva per conquiste democratiche e sociali e per la liberazione di nuovi popoli oppressi. Il mondo era effettivamente cambiato e, progredendo, avrebbe sanato quelle contraddizioni. Questa era l’eredità complessiva che il comunismo italiano raccoglieva. Le risorse che la storia gli offriva e insieme i limiti da superare per fondare un partito di massa e cercare di definire una propria strategia: non un modello da riprodurre, ma un retroterra necessario «per andare oltre». Non a caso, per tratteggiare questa eredità ho voluto riformulare l’espressione, volutamente ambigua, che Kipling rese famosa: «il fardello dell’uomo comunista». 1.2 Il genoma Gramsci Al momento del suo effettivo decollo, il Pci riceveva però in eredità anche una voce ancora in gran parte sconosciuta e segretata dal suo avversario fascista, una risorsa autonoma, i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, un cervello che aveva continuato a pensare, una miniera di idee. Sul pensiero di Gramsci tornerò a più riprese, per mettere in luce elementi che rimasero sempre in ombra nell’elaborazione e nella politica del Pci e invece offrono ancora, anzi soprattutto ora, spunti preziosi per una discussione sul presente, l’originale lettura della storia italiana, nella sua particolarità e insieme nel suo valore generale. Ora mi preme considerare la «fortuna» di Gramsci, cioè il come, il quanto, il quando, egli sia intervenuto e abbia inciso nella graduale definizione di una specifica identità e strategia del comunismo italiano, dapprima sotto traccia, poi in piena evidenza, infine declinando, fino alla riduzione a santone dell’antifascismo, esempio di moralità, poliedrico intellettuale. Parlare cioè, prima che di Gramsci, del gramscismo come genoma operante in una grande forza collettiva e nella cultura di un paese. I suoi Quaderni richiedevano una mediazione che li rendesse comprensibili e lasciasse un segno al di là di una ristretta cerchia di intellettuali. Le condizioni costrittive del carcere e la censura da aggirare, le ricorrenti malattie, la parzialità delle informazioni e dei testi cui aveva accesso obbligavano Gramsci a un linguaggio spesso allusivo, a scrivere in forma di appunti, ad avviare riflessioni sospese e riprese più tardi; non avrebbero perciò permesso a quegli scritti di raggiungere il fine che egli stesso si proponeva e che sosteneva lo sforzo eroico di un cervello che in solitudine continuava a pensare. Non bastava dunque uno scrupoloso
lavoro filologico che riproducesse fedelmente e ne interpretasse i singoli frammenti. Occorreva, fin dall’inizio, un rischioso e progressivo tentativo di enucleare gli elementi essenziali e ricostruire un filo conduttore in grado di penetrare in vaste masse e obbligare anche gli avversari a farvi i conti. Per restituire a Gramsci insomma il ruolo che aveva avuto, il capo e l’animatore di una grande impresa politica; e anche alle sue ricerche teoriche il carattere da lui stesso sottolineato, di una filosofia della prassi. Questa mediazione c’è stata, con effetti potenti: Gramsci è presto diventato, ed è rimasto, un punto di riferimento della ricerca politicoculturale, in Italia e nel mondo, tra i comunisti e non solo. Tale mediazione è stata compiuta non da qualche grande intellettuale, o da una scuola, ma con un’operazione intenzionale e organizzata promossa da Palmiro Togliatti e con la partecipazione di un grande partito. Conservazione perigliosa dei Quaderni, progressiva pubblicazione con un provvisorio raggruppamento degli appunti in grandi temi, studio collettivo fortemente sollecitato. La favola recente, che Togliatti avrebbe riservato la custodia dei Quaderni agli archivi sovietici per toglierli di circolazione, è un ridicolo rovesciamento della verità, così come è artificialmente esagerata la tesi che la loro prima edizione sia stata fortemente censurata e manipolata, quindi infedele. Certo l’obiettivo di Togliatti non era solo quello di tributare un omaggio a un grande amico, né solo quello di offrire un contributo alla cultura italiana. Era un obiettivo politico in senso forte, quello di usare un grande pensiero e un’autorità indiscussa per dare un’identità nuova al comunismo italiano. Qualcosa di simile era già avvenuto nel processo di formazione della socialdemocrazia tedesca e della Seconda internazionale: Marx letto e diffuso attraverso Kautsky e in parte con l’avallo del vecchio Engels. E comportava il prezzo di una lettura riduttiva. Togliatti stesso, poco prima di morire, lo riconobbe quando, in una recensione cui non venne dato gran peso, disse in sostanza questo: noi comunisti italiani abbiamo un debito con Antonio Gramsci, abbiamo costruito largamente su di lui la nostra identità e la nostra strategia, ma, per farlo, lo abbiamo ridotto alla nostra misura, alle necessità della nostra politica, sacrificando ciò che egli pensava «molto oltre». Quando parlo di lettura riduttiva non mi riferisco a manipolazioni o a censure del testo, che molti più tardi cercarono con accanimento e che il successivo ed esemplare lavoro di Valentino Gerratana dimostrò non aver avuto grande peso, quanto a una sapiente regia – pur necessaria al loro primo apparire – nel raggruppamento degli appunti, nella lunga cadenza
della loro pubblicazione e nei commenti che l’accompagnavano e la stimolavano. In tutto questo non è difficile cogliere il limite imposto e accettato dal contesto dell’epoca. Anzitutto lo sforzo, per lungo tempo, di non rendere troppo esplicito quanto in Gramsci innovava e modificava rispetto al leninismo o confliggeva con la sua versione staliniana; in secondo luogo lo sforzo di sottolineare in Gramsci quanto serviva alla valorizzazione della continuità lineare tra «rivoluzione antifascista» e «democrazia progressiva»; infine il rinvio, più o meno consapevole, a tempi più maturi di alcune tematiche anticipatrici. Così, l’attenzione si sarebbe concentrata su due grandi temi. Il primo, ovvero il Risorgimento italiano come «rivoluzione incompiuta», per la rimozione della questione agraria, e «rivoluzione passiva», per la scarsa partecipazione delle masse e la marginalizzazione delle correnti politiche e culturali più democraticamente avanzate, il cui sbocco era il compromesso tra rendita parassitaria e borghesia. Il secondo, ovvero l’autonomia relativa e il valore della «sovrastruttura», in polemica con il meccanicismo volgare, penetrato attraverso Bucharin anche nella Terza internazionale, e quindi la maggiore attenzione che occorreva dedicare al ruolo dell’intellettualità, dei partiti politici e degli apparati statali. Temi letti, non a caso, con una particolare curvatura interpretativa, inconsapevolmente selettiva. Da un lato enfatizzando ciò che giustamente collegava Gramsci ai Salvemini, ai Dorso e ai Gobetti (la fatale arretratezza del capitalismo straccione e della cultura nazionale bigotta), ma mettendo in ombra la critica del compromesso cavourriano, il rapido corrompimento del parlamentarismo nel trasformismo, le ambiguità del giolittismo, la polemica con il crocianesimo, i veleni insorgenti del nazionalismo, la «questione romana» come remora non ancora superata nella Chiesa, insomma quei processi parziali e distorti di modernizzazione, che avrebbero portato alla crisi dello Stato liberale e alla nascita del fascismo. Dall’altro lato, la giusta riaffermazione dell’autonomia della «sovrastruttura» tendeva a diventare una separazione della dinamica politico-istituzionale dalla sua base di classe e portava lo storicismo marxista a diventare storicismo tout court. Altri temi gramsciani restarono infine a lungo marginali nella riflessione teorica e ignorati in quella politica. Penso allo scritto su Americanismo e fordismo, anticipatore di ciò che non molto più tardi sarebbe arrivato anche in Italia, e già era visibile, come velleità, nella politica fascista. O alla giovanile passione di Gramsci per l’esperienza consiliare, del tutto diversa
da quella russa, che egli stesso aveva accantonato, scoprendone i limiti ma che, rivisitata, avrebbe non poco aiutato a interpretare l’imminente fase della Resistenza e, molto più tardi, l’insorgere del Sessantotto. Le conseguenze di quella riduttiva scoperta del pensiero di Gramsci non sarebbero state, nell’immediato e nel lungo periodo, solo di carattere culturale. Due in particolare: l’ostinazione nel non riconoscere e analizzare la portata e la rapidità del processo di modernizzazione dell’economia in Italia e in Europa; e la concezione del partito nuovo (partito di massa certamente, capace di «far politica» e non solo propaganda, educatore di un popolo, ma ancora lontano da quell’intellettuale collettivo, interlocutore di movimenti e istituzioni dal basso, promotore di una riforma culturale e morale che Gramsci riteneva importante in un paese rimasto indenne dalla riforma religiosa). Insomma, almeno in partenza, l’eredità gramsciana si offriva e veniva accettata come fondamento di una via di mezzo tra ortodossia leninista e socialdemocrazia classica, più che come sintesi superante dei loro comuni limiti: l’economicismo e lo statalismo. Un «genoma» appunto che poteva svilupparsi, o semplicemente agire sopravvivendo, imporsi pienamente o deperire. Lo vedremo all’opera. Tuttavia a me pare che l’interpretazione che Togliatti dall’inizio avviava di Gramsci non fosse né abusiva né immotivata. Non abusiva, perché il motore che muove e caratterizza i Quaderni è effettivamente la riflessione critica e autocritica sul fallimento della rivoluzione nei paesi occidentali (alla quale, lui come Lenin, aveva creduto), sulle sue cause e le sue conseguenze. Egli fu il solo, fra i marxisti della sua epoca, che non si limitò a spiegarla con il tradimento dei socialdemocratici, o con la debolezza e gli errori dei comunisti; e allo stesso tempo non ne trasse affatto la conclusione che la Rivoluzione russa era immatura e il suo consolidamento in Stato un errore. Cercò invece le cause più profonde per le quali il modello della Rivoluzione russa non poteva essere riprodotto nelle società avanzate, ma era il retroterra necessario (e il leninismo un prezioso contributo teorico) per una rivoluzione in Occidente di percorso diverso ed esito più ricco. Tutto il suo sforzo di pensiero infatti poggiava su due fondamenti, riassumibili in poche frasi. Innanzitutto un’analisi: «In Oriente lo Stato era tutto, la società civile primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte». In
secondo luogo un principio teorico, continuamente richiamato con una citazione di Marx tratta dalla prefazione a Per la critica dell’economia politica: «Una formazione sociale non perisce prima che si siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi più alti rapporti di produzione ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni di esistenza di questi ultimi siano state cavate nel seno stesso della società». La rivoluzione dunque è per Gramsci un lungo processo mondiale, per tappe, in cui la conquista del potere statale, pur necessaria, interviene a un certo punto secondo le condizioni storiche, e in Occidente presuppone comunque un lungo lavoro di conquista di casematte, la costruzione di un blocco storico tra classi diverse, ciascuna portatrice non solo di interessi diversi ma con proprie radici culturali e politiche. Nel contempo, tale processo sociale non è il risultato graduale e univoco di una tendenza già iscritta nello sviluppo capitalistico e nella democrazia, ma altrettanto il prodotto di una volontà organizzata e consapevole che vi interviene, di una nuova egemonia politica e culturale, di un nuovo tipo umano in avanzata formazione. Non era dunque abusivo il tentativo togliattiano di usare Gramsci come anticipatore e fondamento teorico del «partito nuovo» e della «via italiana al socialismo», in continuità con il leninismo e con la socialdemocrazia delle origini, ma da entrambi distinguibili. Parte di un processo storico mondiale avviato e sorretto dalla Rivoluzione di ottobre ma non imitazione tardiva del suo modello. Non abusivo, ma neppure immotivato, perché nasceva da grandi novità intervenute dopo la stesura dei Quaderni. La vittoria sul fascismo si era raggiunta, il ruolo decisivo che vi aveva svolto l’Unione Sovietica era riconosciuto, e vi avevano partecipato movimenti di resistenza armata in molti paesi dell’Europa orientale, occidentale e meridionale, già erano in corso potenti movimenti di liberazione anticoloniale e una rivoluzione in Cina; tutto questo obbligava il capitalismo a un compromesso e si aprivano anche in Occidente spazi a conquiste sociali e politiche di rilievo. Tuttavia la vittoria era stata ottenuta attraverso un’alleanza con stati e con forze ben diverse, in Europa con governi e leadership apertamente conservatori; la resistenza armata, a differenza del primo dopoguerra, non accennava a prolungarsi in un’insorgenza popolare e radicale; soprattutto emergeva nel mondo, nei fatti se non ancora negli orientamenti, la supremazia economica e militare di una nuova potenza che la guerra anziché logorare aveva lasciato intatta,
e con essa si era concluso a Jalta un patto per il dopoguerra che era un vincolo ma anche una garanzia. Anche chi, come Gramsci, era andato più avanti nella ricerca di una nuova strada, non poteva prevedere né l’una né l’altra di queste novità: né l’impetuosa avanzata del comunismo nel mondo, né il consolidamento del capitalismo in Occidente. Perfino Trockij, nella sua riconosciuta lucidità, poco prima di essere assassinato, prevedendo la guerra imminente e pur avendo detto che l’Unione Sovietica andava aiutata a resistere, aveva appuntato: «Se da una nuova guerra mondiale non si affermeranno una rivoluzione in Europa e un sovvertimento in Urss del potere burocratico, dovremo ripensare tutto». E appunto questo avrebbe fatto, non so dire in che modo, se fosse sopravvissuto, lo stesso Gramsci: riconoscere il quadro nuovo storicamente emerso, riconoscere i limiti imposti dai rapporti di forza nel mondo e in Italia, mobilitare tutte le nuove risorse per conservare e rafforzare in una nuova «guerra di posizione» la propria identità autonoma e comunista, per trasformare cioè una possibile nuova «rivoluzione passiva» in una nuova egemonia, ciò che – diceva – i mazziniani avevano mancato, anzi non avevano neppure tentato di fare, nel Risorgimento. Questa ricostruzione degli «antefatti», dei quali non sono stato partecipe né testimone, ma che ho solo tentato, tenendo in mano i libri e usando il senno del poi, non ha nulla di originale o poco conosciuto, serve però a restaurare la verità, a contrastare censure e giudizi oggi correnti come idola fori: da qui può e deve partire la riflessione sulla storia del comunismo italiano.
2. Un atto fondativo, la svolta di Salerno
2.1 La Liberazione Qual è la data più opportuna per segnalare la nascita di un nuovo Partito comunista, finalmente grande e con una peculiare identità, capace per questo di influire in modo rilevante sulla nascita di un nuovo Stato democratico, anch’esso con peculiari caratteri? Io scelgo una data e un fatto precisi: l’arrivo di Togliatti in Italia e la decisione che immediatamente propose, si può forse dire impose, al suo partito e a tutto l’antifascismo. Non solo per le decisive conseguenze che essa produsse nell’immediato, ma per il peso che mantenne nel lungo periodo. Permise alla resistenza armata di diventare un’insurrezione popolare e ne tracciò i confini, legò al comunismo grandi masse, abbozzò una strategia per il futuro. Per questo è rimasta elemento attivo e ha animato per decenni, in successivi passaggi storici, approfondimenti, diverse interpretazioni, aspre controversie; è stata chiamata a sostegno di feconde novità o come avallo di compromessi perdenti. Alla fine venne cristallizzata in un quadro oleografico, che si poteva appendere ai muri di un museo della unità nazionale, al quale erano possibili nuovi accessi o dal quale si potevano cancellare elementi imbarazzanti; cosicché nuove classi dirigenti potevano passarvi davanti con rispetto ma senza pensieri e senza emozioni. Qualcosa di simile era capitato alla grande icona del primo Risorgimento: l’incontro di Teano tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi, che da bambino trovai sulla copertina del mio libro di scuola. Ora però che anche la vicenda della Prima repubblica, del suo valore, dei suoi conflitti, della sua decadenza si è conclusa, e il Pci non c’è più, si dovrebbe staccare quel quadro dal muro, vederlo più da vicino, restaurarlo nell’originale, ricollocarlo nel suo contesto. Per farlo, abbiamo una grande risorsa. Su quel periodo – la Resistenza, il dopoguerra e la svolta di Salerno – molti storici hanno infatti, da tempo, condotto una seria ricerca e offerto una documentazione abbondante (Spriano, Agosti, Bocca, Pavone, Battaglia, e tanti altri anche a livello di storia locale). La memorialistica dei protagonisti è stata anch’essa, per una volta, ampia e schietta (Longo, Secchia, Amendola, Nenni, Parri, per citare quelli di maggior livello). Gli stessi archivi si sono rivelati meno avari e reticenti, e più verificabili
incrociandoli. Ma la contingenza politica spinge oggi invece in tutt’altra direzione: la Prima repubblica viene ricordata anzitutto come luogo delle tangenti e della partitocrazia che escludeva i cittadini, il Pci come quinta colonna dell’Unione Sovietica; e chi si oppone a queste rozzezze è a sua volta costretto a una versione edificante della Resistenza come epopea popolare spontanea senza distinzioni, o di un Pci che con l’Unione Sovietica aveva, già dai tempi di Togliatti, poco a che fare. Perciò il ricco materiale storiografico su quell’evento fondativo deve essere riproposto, riordinato e si devono riconsiderare meglio il suo significato e i suoi approdi. Quando Togliatti, nel marzo del 1944, sbarcò in Italia dopo un lungo esilio, la guerra mondiale non era ancora conclusa ma il suo esito vittorioso era già scontato. Al contrario era ancora del tutto incerto il futuro dell’Italia. La strada per la conquista della libertà, e la salvezza dell’unità e dell’indipendenza nazionale effettiva, non solo era ancora lunga e dolorosa, ma era ostruita da un muro contro il quale le forze antifasciste si scontravano e di fronte al quale erano in parte divise. Un muro formato non solo dalle macerie materiali e morali prodotte da una guerra perduta attraverso sconfitte ripetute e umilianti, ma rafforzato da più vecchie roccaforti e difeso da franchi tiratori decisi a tenerlo in piedi. L’Italia non era la Jugoslavia, dove una lunga lotta armata era riuscita dapprima a frenare il blitz tedesco in Russia, e si era poi avviata a vincere con le proprie forze una guerra nazionale e civile. Non era neppure la Francia, crollata per una sconfitta militare e ora governata da un governo parafascista imposto dagli invasori, ma che aveva alle spalle una lunga e ancor recente tradizione democratica, che aveva opposto già dal ’41 una lotta armata, che era riconosciuta come parte dell’alleanza internazionale vincitrice e aveva a Londra un proprio governo in esilio guidato da un uomo credibile, de Gaulle. L’Italia era invece stata, non a caso, il primo paese in cui il fascismo si era imposto con la forza, aveva governato per vent’anni, rimodellato lo Stato e la burocrazia che l’amministrava, costretto le opposizioni al carcere e all’esilio, messo radici nella cultura di massa. Era infine entrata in guerra insieme ai tedeschi, e stava ormai per essere più che «liberata, occupata dai vincitori». Il 25 luglio del ’43 il regime era caduto non per una rivolta del paese, ma per una crisi interna al suo gruppo dirigente, di cui il re aveva prudentemente e di mala voglia profittato. Il popolo scendeva subito in piazza a salutare la riconquistata libertà e soprattutto la guerra che finiva. Ma il potere fu assunto da
un’oligarchia che intendeva concedere poca libertà, faceva uscire col contagocce i prigionieri politici dal carcere, e in nome dell’emergenza di una «guerra che continua» censurava la stampa, vietava manifestazioni, minacciava di sparare o arrestava chi le tentava. Il suo intento era chiaro: trattare con gli alleati una pace separata che garantisse la continuità di uno Stato semiautoritario per mantenere l’immobilità delle masse e tutelare l’ordine sociale. La trattativa segreta si trascinò per settimane, mentre i tedeschi restavano liberi di occupare gran parte del paese, e si concluse con l’armistizio di Cassibile, le cui clausole rimasero segrete, non solo perché era una resa incondizionata, ma perché riconosceva al vincitore un potere pieno sulle vicende politiche nelle zone via via occupate, almeno fino alla fine della guerra, e concedeva una legittimazione formale al governo Badoglio, per la gestione della normale amministrazione. Non prevedeva un’intesa militare che affrettasse la cacciata dei tedeschi, dato che in quel momento gli alleati pensavano di avere ormai la strada aperta e di non aver bisogno di alcun aiuto italiano, che avrebbe poi dovuto essere risarcito. La conclusione fu disastrosa, al di là di ogni previsione. L’8 settembre, la fuga del re e di Badoglio senza impartire alcuna direttiva per contrastare i tedeschi, un esercito che si dissolveva, malgrado qualche episodio di resistenza eroico ma isolato, soldati sbandati che si affrettavano sulla strada di casa, un popolo in piena confusione, che non sapeva più se odiare il fascismo per la sua scelta di guerra, o la monarchia per la sua diserzione, nessun tentativo di mantenere Mussolini almeno in cattività, per impedirgli di raccogliere le sue forze al Nord. Tutto questo è da considerare solo come prodotto di fellonia e di incapacità? A me pare di no. Era anche lo sviluppo di un disegno già concepito e, se gli alleati avessero rapidamente occupato l’Italia e con l’appoggio di un papa la cui principale e non nascosta preoccupazione era il pericolo comunista, quel disegno avrebbe avuto qualche possibilità di riuscire (come avvenne in Giappone). Ma le cose non andarono così, perché il fronte si bloccò a lungo sulla linea di Cassino, lo sbarco di Anzio fallì, gli angloamericani dovevano spostare forze per lo sbarco in Normandia. Un fatto tragico, ma che dava tempo e ragioni per l’avvio, politico e militare, della lotta di liberazione nazionale. E la Resistenza mosse i primi passi. Nelle prime settimane con enormi difficoltà, impegnata a raccogliere armi abbandonate o strappate all’avversario, e a reclutare militari sbandati o giovani entusiasti in
montagna nella forma di bande ancora non coordinate. Ma già nei primi mesi del ’44 riuscendo a unire i partiti antifascisti in Comitati di liberazione come organi di direzione riconosciuta. E, soprattutto, promuovendo, su rivendicazioni economiche elementari, nei grandi centri del Nord scioperi di operai che, ancora non unificati con l’azione partigiana, ma via via politicizzati, la fiancheggiavano parallelamente, anche in risposta alle repressioni fasciste indiscriminate e alla leva forzata, e riuscendo così a spostare larghi settori dell’opinione pubblica. Nella primavera, il decollo della Resistenza italiana era ormai compiuto e in quel processo aveva svolto un ruolo decisivo la rete di quadri comunisti formati nel carcere o nella guerra di Spagna. Gli stessi alleati dovevano prenderne atto e considerarne l’utilità. All’arrivo di Togliatti questa era la situazione: la base su cui poteva far leva, ma dalla quale nascevano due nodi politici aggrovigliati da sciogliere rapidamente: quale carattere e quali obiettivi dare alla guerra di Liberazione e quali alleanze comporre per darle il maggior impulso possibile. Come vincere l’attendismo e coinvolgere la maggioranza del popolo nel proprio riscatto? Quale sbocco prevedere e costruire per il dopoguerra? In entrambi gli interrogativi le forze antifasciste, considerate nel loro insieme del Nord e del Sud, erano in quel momento aspramente divise e rischiavano la paralisi, se non la rottura. Consideriamoli distintamente, perché al Sud e al Nord l’uno o l’altro avevano un peso diverso, ma riconoscendo che tra loro esisteva un nesso. Il primo dissenso si concentrava sul rapporto da stabilire con la monarchia e con Badoglio, che gli alleati avevano legittimati e con cui collaboravano nelle zone occupate. Tutti i partiti antifascisti, al Sud come al Nord, rifiutavano, con maggiore o minore determinazione, quella attribuzione di legittimità ed escludevano di combattere sotto quelle bandiere. Ma mentre i partiti di sinistra (azionisti, socialisti, comunisti) chiedevano che si compisse, per sciogliere ogni equivoco e conquistare il consenso del popolo tradito, la scelta repubblicana e la formazione di un governo alternativo fondato sul Cln, le forze liberali e moderate volevano obbligare o persuadere Vittorio Emanuele ad abdicare per formare un nuovo governo con un nuovo premier, meno compromesso con il vecchio regime, ma in continuità con lo Stato a lui preesistente. Il partito democristiano (appena ricostituito attorno ai vecchi leader del Partito popolare) restava nel vago, sostanzialmente attendista (anche se alcuni giovani formatisi nell’Azione cattolica già erano attivi nella Resistenza). Lo stesso Partito comunista aveva un suo vivace dibattito interno: tutti escludevano un accordo con il
governo Badoglio, ma il gruppo dirigente insediato a Roma e diretto da Scoccimarro considerava questa una priorità, mentre quello milanese, diretto da Longo, suggeriva di non perdere troppo tempo in tali diatribe e risolverle nella pratica concentrandosi sullo sviluppo della resistenza armata. Gli stessi alleati erano divisi: Roosevelt, anche per le pressioni dell’opinione pubblica, era ostile al re e al suo governo, Churchill restava invece fermo nel sostenerli, guardava anzi con diffidenza se non con disprezzo le forze antifasciste (e gli inglesi erano, nel teatro italiano, la forza militare prevalente). Su questo nodo aggrovigliato Togliatti intervenne in pochi giorni, tagliandolo con la spada. Avanzò una proposta: la questione della Repubblica poteva restare aperta fino a che un referendum non l’avesse risolta a guerra finita, Badoglio poteva restare al suo posto ma con un governo cui partecipassero tutte le forze antifasciste e a patto che la guerra ai fascisti e ai tedeschi si facesse sul serio, senza ulteriori attendismi. Tanto seriamente da liberare una parte del paese almeno un momento prima dell’arrivo delle truppe alleate. Questa proposta fu in breve tempo accettata da tutti, con minore o maggiore convinzione, per la sua forza intrinseca: perché era un compromesso realistico, dettato dai rapporti di forza interni e internazionali, ma allo stesso tempo un rilancio dell’iniziativa di lotta armata e in vista di un’insurrezione popolare, chiedeva cioè a tutti uno sforzo massimo e a tutti garantiva uno spazio per competere in futuro. Ma questo non sarebbe probabilmente bastato senza l’autorità e la determinazione di chi l’aveva avanzata. L’autorità di Palmiro Togliatti, che era leader indiscusso della forza che si era conquistata un prestigio sul campo ed ebbe il coraggio di avanzarla in forma secca, senza alternative; e l’autorità di Iosif Stalin, che, dopo Stalingrado e con le sue armate in avanzata, godeva in quel momento di un’enorme popolarità non solo tra i comunisti e aveva già creato il fatto compiuto riconoscendo il governo Badoglio. Fin d’allora si è aperta una discussione su chi sia stato fra i due, in quella scelta, l’ispiratore e chi l’esecutore. Discussione artificiosa, almeno quella volta si è trattato di una convergenza convinta benché dettata da distinte intenzioni: Stalin voleva un potenziamento della Resistenza nei paesi europei ancora occupati dai tedeschi per accelerare la fine di una guerra che continuava a costare molti morti, non voleva compromettere l’accordo di Jalta, né essere trascinato a sostenere successive guerre civili dall’esito
improbabile in Europa occidentale; Togliatti era giustamente convinto che solo una lotta armata unitaria e una vera insurrezione popolare avrebbero permesso al Pci di diventare una forza grande e riconosciuta e consentito all’Italia di consolidare la propria indipendenza e di tagliare almeno alcune delle permanenti radici del fascismo. Già nell’immediato, infatti, quella scelta ottenne risultati importanti: un riconoscimento più esplicito da parte degli alleati del ruolo dell’Italia come paese cobelligerante e del diritto degli italiani di scegliere democraticamente il nuovo assetto istituzionale; la diffusione più rapida dei Comitati di liberazione nazionale; l’afflusso nell’azione partigiana di nuove regioni, di nuovi strati sociali (in particolare contadini) e di nuove correnti (in particolare i cattolici). Tutte condizioni che, nei mesi successivi, si sarebbero dimostrate vitali per superare il disorientamento prodotto dall’infausto «proclama Alexander» e il rallentamento dei rifornimenti militari che minacciava di comportare, dunque per affrontare il terribile inverno, e infine per preparare l’epopea del 25 aprile. C’era però un altro problema che, al suo arrivo, Togliatti doveva affrontare, meno immediato ma più complesso: quello di definire, per il dopoguerra, una prospettiva non solo tattica, ma strategica. Esso attraversava nel vivo le organizzazioni, e anche le coscienze individuali, che più erano impegnate nella Resistenza. Chi combatteva in montagna rischiando la vita, chi organizzava scioperi rischiando la deportazione, combatteva certo per cacciare i tedeschi e liquidare i loro sgherri, per la libertà e per il riscatto nazionale, ma era animato da obiettivi più radicali e aspirazioni più ambiziose: voleva che pagassero un giusto prezzo i vertici politici, economici e militari che il fascismo avevano sostenuto e di cui avevano fino alla fine profittato; volevano non solo la restaurazione delle istituzioni prefasciste, ma una democrazia aperta a un controllo popolare, una compartecipazione alla gestione delle imprese, in molti casi volevano l’avvio immediato di una trasformazione della società in senso socialista. Ma come, quando, entro quali limiti tali aspirazioni potevano essere soddisfatte, tenendo conto della collocazione internazionale in cui l’Italia si sarebbe trovata e dei rapporti di forza complessivi anche all’interno della società nazionale? Su questo terreno, Stalin non opponeva allora veti pregiudiziali, perché in quel momento credeva ancora nella possibilità di uno sviluppo dei rapporti internazionali, sul quale aveva trovato in Roosevelt un interlocutore, e temeva che prevalesse invece una nuova tendenza alla guerra fredda che
poteva diventare calda. Ma non agiva neppure da stimolo, perché la vittoria militare e il ruolo politico mondiale che aveva conquistato tanto più rafforzavano l’errore originario della sua concezione, cioè l’idea dell’autosufficienza dell’Unione Sovietica, come guida politica e come modello. Suggeriva perciò, ai partiti comunisti in Occidente, prudenza tattica entro una strategia e un’ideologia immutate. Togliatti, usando lo spazio che gli si offriva e la forza conquistata, pur riconoscendone limiti e contraddizioni, intervenne con coraggio per dare invece alla svolta di Salerno il valore di un punto di partenza per una rifondazione del comunismo italiano, l’abbozzo di una nuova strategia. Nei discorsi di Napoli, Roma, Firenze e poi ancora, dopo il 25 aprile, tirò fuori farina dal proprio sacco. Non si poteva e non si doveva più navigare – disse – con ambiguità di prospettiva, usare in modo indifferenziato le espressioni «democrazia socialista», «democrazia popolare», «democrazia progressiva». La prospettiva da assumere era quella di una Repubblica democratica, multipartitica, con piena garanzia della libertà di parola, di stampa, di religione, ma già orientata, nella sua Carta costituzionale, a un programma di profonde riforme sociali, segnata da una costante partecipazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni, garante dell’indipendenza nazionale, del rifiuto della guerra e di blocchi tra potenze. Non c’era contraddizione tra democrazia e socialismo, ma neppure una muraglia cinese da abbattere presto con una nuova insurrezione armata. Per percorrere questa strada era necessario un partito nuovo, un partito di massa, non solo perché grande ma perché vi si aderisce sulla base del suo programma e non di un’ideologia, perché capace di fare non solo propaganda ma politica, perché si regge sulla classe operaia ma cerca alleanze con diversi ceti sociali e con altre forze politiche che li rappresentino. Un partito coeso e disciplinato nell’azione, ma che lasci spazio alla discussione, saldamente ancorato a un movimento comunista mondiale, ma senza assumerlo come modello da imitare. Molte cose restavano da definire, e molte da chiarire, ma era il primo segno di una nuova identità da costruire subito, da assimilare subito. Già nei primi anni decisivi del dopoguerra quella scelta tempestiva di prospettiva e di collocazione ottenne due risultati grandi e duraturi: l’elaborazione di una Carta costituzionale tra le più avanzate d’Europa per ciò che garantisce e per i valori che l’ispirano, che, malgrado l’aspra divisione politica, fu votata a larghissima maggioranza nel 1948 e tuttora resiste, seppure un po’ diroccata da molti assalti; e la nascita di un grande
partito comunista, il maggiore in Occidente, la cui sola presenza stimolava quella di altri partiti popolari (e ciò assicurò una permanente e attiva partecipazione di massa alla politica italiana per decenni). Considerata nel contesto in cui intervenne, non si può negare che la svolta di Salerno raggiunse gli obiettivi prioritari che si prefissava e gettò le premesse di vari e possibili sviluppi successivi. Ma se la consideriamo nel più lungo periodo e rispetto alle speranze che aveva suscitato, analisi e giudizi devono essere più articolati. 2.2 I governi di unità nazionale, 1944-1947 Gli anni che vanno dal 1945 al 1948 non furono solo gli anni della Liberazione, della Repubblica, della nuova Carta costituzionale. Furono anche il periodo di transizione che doveva ridefinire in concreto l’assetto della società e dello Stato, i rapporti tra le classi e le rispettive condizioni di vita; impostare la ricostruzione economica e la collocazione internazionale del paese. A questo compito erano destinati governi di unità nazionale (con uno spazio di intervento crescente via via che il controllo degli alleati si faceva meno diretto) e, a partire dal 1946, insieme a un’Assemblea eletta dal popolo, che assolveva anche funzioni legislative. In entrambe le sedi la sinistra, e in primo luogo i comunisti, avevano un peso rilevante (tanto più rilevante per la mobilitazione di massa e il clima di generale entusiasmo creato dall’insurrezione nazionale, il vento del Nord). Ma su questo terreno dell’azione di governo e delle prime scelte legislative il bilancio fu assai magro, sia per gli obiettivi proposti, e tanto più per quelli raggiunti. La «democrazia progressiva» restava sulla carta, ben lontana dagli occhi, dagli interessi e dalle speranze degli uomini e delle classi, che avevano rischiato la vita o la deportazione, e anche dalle intenzioni di coloro che pure stavano fissandoli nella Carta costituzionale. Il potere non passava, né tutto né in parte, nelle mani del Cln, e questo era previsto. I partigiani avevano consegnato le armi, sia pure spesso mugugnando; anche questo era pattuito. Il disordine e singoli episodi di violenza erano attivamente contrastati, anzitutto dagli stessi comunisti (Longo in testa): e questo, alla fine di una guerra che era stata anche civile, era giusto. Ma non era né previsto né giusto che nella realtà quotidiana non si vedessero segni concreti di quello sradicamento del fascismo
continuamente promesso e richiesto, ma ora rimandato a tempi migliori. È indubbio che questa moderazione fosse il prodotto di fattori oggettivi pesanti. Anzitutto una situazione di emergenza assoluta, sia dell’apparato produttivo dissestato in ogni settore e nei servizi di cui aveva bisogno per riprendersi, sia dell’apparato dello Stato nelle sue più elementari funzioni di amministrazione. In secondo luogo, l’esito delle ripetute prove elettorali in cui per la prima volta dopo tanti anni l’insieme del popolo (comprese le donne) era stato chiamato a pronunciarsi: la sinistra mostrava di essere una minoranza, molto forte ma una minoranza, il paese era nettamente diviso in due (Nord e Sud). Nel referendum istituzionale la monarchia avrebbe perso per poco. Infine, la situazione internazionale mostrava i primi segni di crisi della Grande alleanza antifascista tra le grandi potenze. Non erano però ancora impedimenti assoluti. La situazione di sfascio dell’economia e dello Stato produceva difficoltà ma anche occasioni di riforma e comunque una delegittimazione delle classi che avevano contribuito a determinarla e ne avevano tratto spesso profitto. L’esito del voto assegnava comunque alla sinistra più del 40%, era molto difficile che si formasse un blocco conservatore e ancora più difficile che prevalesse, dato che in quel momento nel senso comune l'antifascismo restava comunque più forte dell’anticomunismo. La situazione internazionale era ancora in una fase di interregno, non a caso proprio tra il 1945 e il 1949 la Rivoluzione cinese trovò lo spazio di prevalere senza che esplodesse un conflitto più generale. Come mai allora, nel breve periodo di transizione tra Resistenza e guerra fredda non si riuscì a portare in porto un’operazione riformatrice, sia pure parziale e per il momento precaria, analoga a quella che si realizzò nel testo della Costituzione (a rischio e largamente inapplicata per almeno quindici anni, ma pur sempre in grado di lasciare un segno, una frontiera da cui ripartire)? Si può dire che i comunisti e Togliatti stesso abbiano fatto in quel caso e su quel terreno del loro meglio, come avevano fatto nella lotta di liberazione e con la svolta di Salerno? Con tutta la buona volontà, a me pare onesto dire di no. Non mi sogno affatto di rinfocolare vecchie polemiche già allora, e tanto più oggi, infondate e dannose. Per esempio sul disarmo dei partigiani, sul mancato passaggio del governo al Cln, sulla legge di amnistia, sul voto dell’articolo 7, sulle nazionalizzazioni mancate: tutto l’armamentario della discussione sulla «rivoluzione frenata». Voglio solo dire qualcosa su ciò che i comunisti al governo potevano
rifiutarsi di accettare o cercare di imporre, con ragionevolezza ma anche a rischio di una crisi di governo. Portando qualche esempio concreto. a) La politica economica. Dopo la breve e abbastanza inconcludente parentesi del governo Parri, con De Gasperi alla presidenza del Consiglio, la direzione effettiva della politica economica venne affidata a ministri e governatori competenti ma fedeli alla scuola liberale, un po’ invecchiata: Corbino, Einaudi. Essa si concentrava sul ritorno alla normalità: contenimento del salario operaio, del reddito contadino, delle pensioni, questa volta anche contenimento degli stipendi del pubblico impiego, restaurazione dell’autorità e dell’ordine nella vita delle imprese, stabilità monetaria, per permettere all’economia di funzionare. Ma portava in sé per il futuro anche una prospettiva più ambiziosa: sempre contenimento dei salari, ristrutturazioni e licenziamenti, ma anche stimoli agli investimenti e al rinnovamento tecnologico, destinando gli aiuti americani in gran parte alle grandi aziende private e riducendo gradualmente le barriere doganali. A questa linea la sinistra opponeva una parola d’ordine diversa, aumento dei consumi e aumento dell’occupazione: un accenno a Keynes (mai letto e mai meditato), privo di determinazioni precise. Ora, questa linea aveva ottenuto successi ma anche fallimenti. Nella crisi degli anni trenta, quando si trattava di affrontare una crisi di sottoconsumo a fronte di una sovrabbondante capacità produttiva e laddove era possibile lavorando sul deficit, quella linea aveva funzionato. Ma la crisi italiana era del tutto diversa, debolezze strutturali, arretratezza tecnologica, inflazione già galoppante: un coraggioso rilancio produttivo doveva quindi essere comunque sostenuto in partenza da elementi di pianificazione, che guidassero gli investimenti, e da una redistribuzione del reddito che equilibrasse i sacrifici della ricostruzione inevitabili per controllare l’inflazione. Senza di questo sarebbe stato impraticabile e non avrebbe trovato consenso. E infatti rimase una parola d’ordine generica, utile solo a sostenere lotte rivendicative, che ci furono, ma con scarsi risultati, e furono poi fiaccate dai licenziamenti e dalla disoccupazione. Non era possibile altro? Per esempio mettere subito in campo lotte e mobilitazioni per una riforma fiscale, dare ai lavoratori uno statuto dei diritti che regolasse la libertà di licenziamento e la contrattazione collettiva e che garantisse un minimo di potere sugli stessi piani di ristrutturazione e sui nuovi investimenti anziché riconsegnarlo intatto ai vecchi proprietari? Non era possibile proporre, e forse imporre, un primo ma importante stralcio di riforma agraria – non dico «la terra a chi lavora» – ma almeno l’abolizione dell’arcaica mezzadria, l’espropriazione del grande latifondo assenteista,
una maggiore stabilità nei contratti agrari? Non si poteva risolutamente usare, come leva di una programmazione e non come puro supporto ai monopoli privati, il grande patrimonio pubblico industriale e bancario che il fascismo era stato costretto a creare sotto la pressione della crisi degli anni trenta? Non si poteva, con il cambio della moneta e l’espropriazione dei profitti di guerra, risanare le finanze pubbliche e sostenere le spese della prima ricostruzione come negli altri paesi europei? Tutte battaglie rinviate, non ben definite, e comunque quasi mai rigorosamente condotte. Solo alla vigilia della rottura dell’unità nazionale il Pci accennò una campagna per un «nuovo corso» di politica economica, ma senza l’impegno che successivamente investì nel Piano del lavoro di Di Vittorio, quando ormai era troppo tardi. b) La ricostruzione dello Stato e dei suoi apparati. La burocrazia italiana sotto il fascismo era stata non solo ipertrofica, ma dal fascismo era stata selezionata, i suoi poteri ridisegnati e riscritta la legislazione che la vincolava. Il problema non poteva essere risolto in modo draconiano, non si poteva tenere buona parte dei burocrati fascisti in galera o mandarli tutti a casa. Ma nei suoi massimi livelli, nei posti di comando, poteva essere epurata e sostituita da un personale intellettuale, magari apolitico ma democratico. Si potevano smantellare subito le norme repressive del codice Rocco e dell’intero diritto penale, garantire l’autonomia della Magistratura nel suo insieme, e l’indipendenza di ogni giudice nei processi di cui era chiamato a occuparsi. Si poteva, pur senza interamente riformare l’intero impianto della scuola gentiliana, almeno abolire le barriere classiste che l’improntavano, e correggere i programmi scolastici nei punti di più evidente contrasto con la nuova Repubblica, limitare il potere delle baronie accademiche. Si potevano estendere l’autonomia e le competenze degli enti locali e ridurre il potere prefettizio. Insomma cominciare a mettere in pratica ciò che si stava scrivendo nella nuova Costituzione. Si poteva, ma non fu fatto, e neppure vigorosamente discusso in Parlamento e nel paese. c) La politica estera. È vero che fino alla conclusione del trattato di pace il peso dell’Italia nella politica internazionale era molto limitato. Ed è vero che all’orizzonte già si intravedeva la guerra fredda. Ma ciò non impediva ai comunisti, quando ancora erano al governo, in Italia e anche in Francia, di impostare un’iniziativa non solo propagandistica per ridurne l’impatto. Togliatti già dall’inizio aveva insistito sul tema dell’indipendenza
nazionale e nel rifiuto di nuovi blocchi di potenze. Ma ora si poteva forse andare oltre – a ben vedere anche nell’interesse dell’Unione Sovietica così come lui lo vedeva. Far avanzare cioè l’idea di un’Europa (che era stata il focolaio di due guerre mondiali ed era ora disarmata, senza velleità imperiali) come promotrice di un dialogo tra le grandi potenze e della costruzione di istituzioni mondiali garanti della legalità e della pace, cui poteva contribuire liberandosi dalla pesante responsabilità, che era stata storicamente anche sua, del colonialismo. C’era infatti uno schieramento di forze, minoritario ma consistente, da costruire intorno a questa ispirazione: stati (come la Svezia, la Finlandia, l’Austria) ormai impegnati stabilmente al neutralismo; grandi partiti socialdemocratici (quello tedesco di Schumacher o più prudentemente il Labour inglese), correnti culturali e politiche o leader autorevoli (come in Francia la terza forza radicaldemocratica, o settori cattolici, o Mendès France, o in un certo senso lo stesso de Gaulle) che per scelta morale e ideale, e in parte per orgoglio nazionale, riluttavano alla spartizione del mondo in due. Un dialogo tra tutte queste forze non era facile, eppure poteva mettere radici: solo un decennio dopo poteva incontrarsi con il neutralismo della Conferenza di Bandung, ma non fu tentato nel momento più favorevole, cioè quando la recente tragedia della guerra ammoniva i popoli e l’esito vittorioso della recente unità antifascista tra diversi sistemi sociali suggeriva di continuarla. 2.3 Il partito nuovo Ho accennato qualche critica della gestione di governo nei primi anni del dopoguerra, ma altre ne potrei fare, per mettere subito in evidenza un problema che poi sarebbe continuamente riaffiorato, in forma e in misura diverse, nel prolungato tentativo di una «nuova via al socialismo». Al centro della nuova strategia abbozzata da Togliatti era il nesso tra rivoluzione e riforme, tra autonomia e unità, conflitto sociale e politica istituzionale, come un lungo processo, un’avanzata per tappe, ciascuna legata a una fase storicamente determinata di una specifica storia nazionale, ma esplicitamente animata da una precisa finalità di lungo termine. Non era un concetto del tutto nuovo, era presente nel pensiero di Marx, in quello della Seconda internazionale nella sua fase migliore, ancor più in Gramsci, e Togliatti non esitava a riconoscerlo. La novità stava nel fatto di reinserirlo nel bagaglio del comunismo, e di integrarvi la
Rivoluzione di ottobre, il suo consolidamento e suoi futuri sviluppi. Ma per mettere quella strategia rigorosamente in pratica (come finora a nessuno era pienamente riuscito) per evitare cioè che quel nesso finisse semplicemente in un riformismo minimalista, sempre più subalterno alla compatibilità del sistema, o al contrario venisse vissuto solo come tattica, per accumulare forze in attesa di un momento favorevole per l’autentico salto rivoluzionario, occorrevano alcune premesse difficili. Occorreva, anzitutto, elaborare una visione un po’ più precisa del tipo di società al quale nel lungo periodo si aspirava. Occorreva anche la capacità di un’analisi della fase determinata nella quale ci si trovava e di ciò che essa offriva per fare dei passi in avanti e impedire passi indietro rispetto all’obiettivo finale. Occorreva conquistare un consenso largo e duraturo nella società, e soprattutto nella classe lavoratrice, intorno a un programma coerente, costruire un «blocco storico» che si impegnasse a perseguirlo riconoscendovi la prospettiva. Occorreva infine trasformare masse subalterne in una classe dirigente alternativa, capace di organizzare la lotta sociale e anche di gestire i parziali spazi di potere via via conquistati. Se una «rivoluzione», come diceva Mao, non è un «pranzo di gala», un riformismo forte non è un intelligente pragmatismo. All’indomani della guerra, nel Pci e in Italia tutto ciò non solo mancava ma non ve ne era neppure coscienza. Consideriamo anzitutto e soprattutto lo stato effettivo del «nuovo partito» che doveva essere lo strumento essenziale per superare la difficoltà. La parola d’ordine del partito di massa era divenuta una realtà, in un tempo incredibilmente breve e con un risultato del tutto superiore al previsto. Nel 1945 il Pci era un partito di 1100 000 iscritti, in gran parte militanti; nel 1946 raggiunse i due milioni. Largamente il maggiore in tutto l’Occidente (Francia compresa) e tra i primi nel mondo. Non era una forza effimera, legata solo all’emozione della liberazione né solo al mito dell’Urss, anzi conservò la stessa forza organizzativa ancora per molti anni, malgrado la delusione di sconfitte subite, e nelle condizioni della guerra fredda. Ma chi raccoglieva e quale era la sua fisionomia? La sua composizione sociale segnalava insieme una grande risorsa e una grande difficoltà. Era un partito di classe come forse non si era mai visto. Ma come era quella classe? Longo, dopo aver girato il paese, disse, nel suo modo brusco: non ancora un partito ma folla. Posso aggiungere, guardando le statistiche ma anche per ricordo vivo e diretto: una folla di lavoratori manuali dell’industria e delle campagne che spesso non avevano
frequentato per intero la scuola elementare, facevano fatica a leggere o a capire la lingua nazionale, non avevano vissuto esperienze sindacali, erano rimasti ai margini dell’informazione e della lotta politica, ancor prima del fascismo e anche in relazione al non expedit vaticano, e poi erano vissuti sulla retorica fascista. Ora compivano i primi passi dell’apprendimento, nelle sezioni di partito imparavano a scrivere, leggevano i primi libri o qualche giornale, ricevevano qualche rudimento della storia nazionale e, trascinati da nuova passione riempivano ogni sera le piazze per discutere in capannelli spontanei e farsi qualche idea. I quadri che dovevano organizzare e formare questo popolo erano poche migliaia, in certe regioni pochissimi, perciò importati da altri territori, essi stessi erano in prevalenza operai, formatisi nel lavoro clandestino e nella lotta partigiana, nella guerra di Spagna, oppure nella scuola straordinaria del carcere e del confino, dove si imparava l’asse del marxismoleninismo nella forma canonica plasmata negli anni trenta dal Comintern e sulla quale penetrava con fatica e per carisma il più complesso ragionamento togliattiano. C’era anche un certo numero di giovani intellettuali o di studenti reclutati negli anni immediatamente precedenti la guerra e spinti dal rifiuto del fascismo, o venuti direttamente dalle fila partigiane, spesso di valore e di buone letture ma più in campo artistico, letterario, cinematografico (che il regime lasciava passare) che non in campo di teoria economica o storico-politica. Il gruppo dirigente vero, quello chiamato a discutere e scegliere, era molto ristretto, di qualità e fede provata. Solo Togliatti (e Terracini, che era ai margini) aveva però vissuto da protagonista l’esperienza fondatrice dell’Ordine Nuovo torinese, nel complesso proveniva da esperienze eterogenee, era diventato comunista nel periodo oscillante della direzione bordighista, poi era stato amputato dalla dissidenza di Tasca e di altri, dalla carcerazione e infine si era consolidato, senza repressioni ma con travaglio, negli anni della piena ortodossia staliniana. Esso aveva accettato prima per disciplina, subito dopo con convinzione, ma non con piena consapevolezza, le scelte di Togliatti. In Secchia rimaneva, e più tardi lo ha reso esplicito, il dubbio che forse si poteva ottenere di più dalla lotta partigiana e comunque occorreva essere pronti a reagire a un probabile rigurgito reazionario. Longo non esitava a dire che «il socialismo si costruisce quando si ha il potere in mano cosa che ancora non abbiamo». Il partito di massa, per ragioni materiali e culturali, era dunque ancora lontano dall’essere il «partito nuovo» che Togliatti si proponeva, e ancor più lontano dall’«intellettuale collettivo» concepito da Gramsci: capace di
egemonia, suscitatore di una riforma culturale e morale che l’Italia non aveva mai avuto, classe operaia in via di diventare classe dirigente. Non aveva neppure quella ricchezza di esperienza, e quella capacità di discussione, cui era giunta, alla fine dell’Ottocento, la socialdemocrazia tedesca, né un gruppo dirigente simile a quello bolscevico prima della rivoluzione, concentrazione di cervelli unica in Europa, e rara nella storia politica di sempre. Per non dare a proposito di quella fase un peso immeritato all’impreparazione dei comunisti, va aggiunto che l’insieme delle forze politiche e sociali era altrettanto e forse ancor più impreparato a un compito di governo. Il partito socialista era diviso e oscillava tra posizioni contraddittorie: forzature estremiste di Basso e a volte anche di Morandi, la politique d’abord di Nenni, la rottura saragattiana alle porte. La Democrazia cristiana si dimostrò subito un grande collettore di voti, ma De Gasperi la guidava a fatica, con delega precaria del Vaticano. Il potere reale di orientamento delle masse cattoliche, in parte anche operaie e contadine, era saldamente in mano a un papa da sempre molto più preoccupato del comunismo che non del fascismo e che disponeva di una rete formidabile di quadri abituati a obbedire: i parroci di ogni paese, università, associazioni religiose ciascuna guidata da un assistente ecclesiastico. La borghesia produttiva industriale e agraria, delegittimata politicamente dalle connivenze con il fascismo ma forte nel suo potere economico, era pur sempre in gran parte, come avevano visto Gramsci, o Gobetti o Dorso, oltre che conservatrice, illiberale e in buona parte cialtrona e parassitaria (ben lontana da quel misto di reazione e di dinamismo modernizzante che da molti decenni era emerso in Germania e in Giappone). Gli apparati dello Stato, già prima del fascismo, erano obbedienti quanto inefficienti. La stessa intellettualità diffusa, anche quando non era fascista, era rimasta, aveva scelto di rimanere, provinciale, ai margini delle grandi discussioni e delle grandi controversie iconoclastiche, ma innovative, che avevano animato, nel bene e nel male, la prima metà del secolo in Europa e negli Stati Uniti. Gramsci era ancora sconosciuto, ma anche Pareto, Michels o Sraffa o Fermi lavoravano altrove (Machiavelli era già morto qualche anno prima). Insomma i partiti di massa erano più avanti della società che rispettivamente rappresentavano. Potevano raggiungere un accordo avanzato quando si trattava di definire i princìpi o gli assetti istituzionali: allora comunisti e socialisti incontravano un’élite intellettuale laica o
cattolica fortemente legata alla Resistenza (come Dossetti o Calamandrei). Ma quando si trattava di cambiare effettivamente l’assetto sociale, di scontrarsi con il tenace senso comune e concreti poteri nella società, la strada da percorrere era lunga, idee, forze e competenze ancora inadeguate. Già il fatto di educare, di organizzare grandi masse da secoli subalterne, di permettere loro di alzare la testa e di usarla, era di per sé una grande, duratura conquista. Per il Pci e per l’Italia. Non abbastanza per aggirare, o almeno superare agevolmente, il nuovo macigno che poteva subito bloccare il percorso: la guerra fredda e il connesso scontro politico frontale tra coloro che avevano fondato la Prima repubblica.
3. Sul filo della Terza guerra mondiale
A questo punto del lavoro ho incontrato una difficoltà inattesa e diversa da ogni altra. Devo ora occuparmi infatti di un quindicennio di rischio estremo (la Terza guerra mondiale) che si è però concluso con la competizione relativamente pacifica tra due sistemi antagonisti. Tutto sembrava tornare come prima e invece è emerso un nuovo ordine mondiale destinato a durare trent’anni, nel quale tutto sembrava congelato e dal quale sono invece state poste le premesse di grandi trasformazioni che hanno aperto una nuova partita storica. Qui, sia la memoria individuale e collettiva, sia «il senno del poi», più che aiutare la riflessione critica, possono facilmente ostacolarla. La memoria, anziché smarrita, permane frammentata e irrigidita. Sono stati infatti anni nei quali la politica ha assunto un ruolo primario, come mai né prima né dopo, è diventata una passione collettiva, animata dalla convinzione che si dovesse difendere la civiltà in cui viviamo, o invece cambiarla alle radici: milioni di uomini, di ogni ceto e fede diversi, vi partecipavano assumendo un’identità consapevole, scegliendo un’appartenenza che consideravano permanente e che infatti è durata al di là del pensabile. Ma sono stati anche anni di scontro asperrimo, che proprio per questo tendevano a ridurre la politica a ideologia, a selezionare o a deformare i fatti per trovarvi una conferma, a far prevalere la propaganda sulle argomentazioni, la fedeltà sullo spirito critico. Intere generazioni custodiscono, per esperienza diretta o trasmissione orale, ricordi indelebili, che dubbi successivi o successive scelte portavano più facilmente ad archiviare con fierezza che non a sottoporre a un’analisi critica. Ancora oggi, in Italia, se si discute degli anni cinquanta, la destra usa schemi e linguaggio del 1948; e chi invece li rifiuta, preferisce sdrammatizzare quello scontro, lo considera una parentesi fatalmente imposta dall’esterno, che la convergente e sottaciuta saggezza di De Gasperi e di Togliatti ha governato e chiuso il prima possibile. Lo stesso capita al «senno di poi». Poiché la Terza guerra mondiale non c’è stata, la competizione tra i due sistemi allora in campo si è conclusa in modo incruento, quell’aspro periodo diventa acqua passata, privo di conseguenze irreversibili, che non ha nulla da dirci se non l’evidenza del suo esito. I grandi eventi della seconda metà del secolo – sui quali invece il dibattito e l’analisi si sono più volte riproposti – risultano così separati da ciò che
immediatamente li ha preceduti e, nel bene e nel male, segnati. Io stesso, che pure al comunismo mi sono avvicinato in quel periodo, sono stato complice di quella sottovalutazione, fermo sulle convinzioni di allora, e ho visto con fastidio autocritiche fatte in ritardo e improvvisate, che meritavano comunque una replica più documentata e meditata. Ora che sono costretto a farci i conti, e ho dovuto e potuto usare la memorialistica, ormai disponibile sebbene poco conosciuta, gli aggiornamenti storiografici, la pubblicazione di archivi segreti (da vagliare ma non privi di serie novità), mi sono reso conto di quale importanza quel periodo abbia avuto, se lo si considera nel suo complesso, di quanti giudizi sbagliati, o pregiudizi pesanti, occorra rivedere e soprattutto quanti interrogativi siano rimasti sorprendentemente elusi e richiedano una risposta più convincente. Anzitutto occorre metter fine a un equivoco paradossale. È evidente a tutti, e tutti riconoscono, che in quel quindicennio l’elemento sovrastante e cogente, anche nella politica interna di ciascun paese, sia stata la politica internazionale: la guerra fredda. E invece proprio sulla guerra fredda le omissioni sono state e restano particolarmente numerose e gravi, le interpretazioni più divergenti, l’evoluzione delle cose raramente considerata. Anzi, il significato stesso che si attribuisce a questa espressione è tanto generico che ogni discussione appare confusa e incerto ciò cui concretamente ci si riferisce. 3.1 La guerra fredda di lunga durata Per parlare seriamente di guerra fredda si devono distinguere due cose diverse: da un lato un fenomeno storico di lunga durata; d’altro lato un periodo più breve, nel quale si presentava già come prologo di una Terza guerra mondiale probabile, se non certa, a cui bisognava prepararsi e su cui misurare ogni cosa. Nel primo significato, la guerra fredda ha avuto date precise che ne fissano l’inizio e la fine, protagonisti principali costanti, ma carattere intermittente, forme mutevoli, diversi gradi di intensità. È cominciata nel momento stesso in cui classi e popoli, a lungo subalterni e sottomessi, hanno elaborato un’ideologia, costruito un’organizzazione e avuto condizioni favorevoli per diventare, attraverso una rivoluzione, Stato. Anzi uno Stato che in prospettiva, per territorio, risorse, energie, poteva diventare una
grande potenza cui altri stati potevano affiancarsi. Si apriva così, o poteva aprirsi nel mondo, una competizione tra due sistemi, che era sociale, economica, ideale ma al tempo stesso geopolitica. Alleanze, compromessi, ma prima di tutto forza armata e capacità economica per sostenerla, diventavano un fattore della competizione, sia che si volesse usarle per aggredire o come strumento di minaccia sia per resistere a tale minaccia. Essa esordì infatti, già dal 1918, con l'intervento, non formalizzato ma cruento, delle grandi potenze occidentali nella guerra civile russa. Vi ho già accennato, ma giova insistervi, perché avvenne prima che la rivoluzione prendesse forma stabile, e quando a ucciderla in fasce poteva essere solo la più truce reazione zarista. Poco prima di arrendersi, già i tedeschi imposero, a Brest-Litovsk, un’amputazione rilevante dell’ex impero russo, confermata poi a Versailles, anche se diversamente spartita (e tornata a essere un contenzioso ancora alla fine della Seconda guerra mondiale). Subito dopo, le potenze vincitrici promossero e sostennero una serie di attacchi in grande stile per abbattere la Repubblica sovietica, da ogni lato: l’armata di Kornilov dal Baltico, quella di Kolčak dalla Siberia, quella di Denikin dalla Crimea, dalla Georgia e dal Turkestan, di Pilsudski dalla Polonia. Ciò che non si sa, o è stato dimenticato, è il fatto che quel sostegno internazionale non si limitò alla solidarietà politica, ai finanziamenti, alla fornitura di armi o di consiglieri, a supporti logistici (di cui Churchill, allora già ministro della Guerra, rese pubblico un accurato inventario) ma ci fu anche impiego diretto di combattenti sul campo. Il ministro degli Esteri francese, Pichon, così valutò le truppe straniere, regolari o mercenarie, a fianco dei «bianchi» nel 1919: francesi 140mila, rumeni 190mila, inglesi 140mila, serbi 140mila. Americani e giapponesi evitarono un diretto coinvolgimento, ma assicurarono crediti e insieme occuparono Vladivostok e altri porti dell’Estremo Oriente per garantire le più tranquille vie di comunicazione. La satrapia dei capi impedì il coordinamento degli attacchi, la corruzione degli ufficiali e feroci ruberie e repressioni da parte di truppe racimolate anziché estendere alienarono loro il consenso di popolazioni incerte e trasformarono i primi successi in rovinose ritirate di fronte a un avversario male armato, organizzato strada facendo, ma che sapeva perché combatteva e aveva una solida guida. Alla fine l’intervento internazionale trovò l’ostilità della propria opinione pubblica stanca di guerre: i costi erano troppo pesanti, l’esito improbabile. L’esordio della guerra fredda non fu dichiarato, ma non fu per nulla
freddo: milioni di morti in combattimento, o di fame, o per epidemie. I bolscevichi ottennero una vittoria inattesa in un conflitto civile e insieme internazionale. Questa fu una delle cause non secondarie del dibattito che li divise negli anni venti, il dibattito più difficile e più trasparente della loro storia. Usare la forza per andare in aiuto alla spinta rivoluzionaria in altri paesi che sembravano in bilico e avrebbero rotto l’isolamento di un paese sempre più devastato? Oppure usarla per consolidare lo Stato sovietico e tentare «l’impossibile impresa» del socialismo in un paese solo? La tesi di Stalin, che prevalse, e non venne mai revocata, non comportava necessariamente, come si vide poi, aperture nella gestione del potere, rallentamenti nella pianificazione economica, ma comunque implicava una prudenza, una valutazione realistica dei rapporti di forza mondiale che sarebbero rimaste, salvo rare eccezioni, un tratto permanente della politica estera sovietica. Dopo un intermezzo di normalizzazione dei rapporti internazionali (trattato di Rapallo), la tendenza alla guerra fredda riprese rilievo, malgrado la minacciosa presenza di un terzo incomodo, il nazismo, che sparigliava le carte, negli anni trenta. Ma sotto traccia, nascosta nelle cancellerie. Un grande numero di fatti, di documenti, di memorie, di corrispondenze private sono ormai disponibili per capire come la lunga tolleranza che permise a Hitler di arrivare alla guerra, e in un primo tempo di prevalervi, fosse legata alla speranza e all’obiettivo di rivolgere la sua aggressione in direzione dell’Unione Sovietica. Un disegno insensato, perché se avesse avuto successo avrebbe reso quasi impossibile alle democrazie occidentali di battere poi il nazismo sul campo, le avrebbe costrette a compromessi insostenibili e aperto la strada a una violenza diffusa e senza limiti. La grande alleanza antifascista, in parte imposta dalla necessità, ma poi diventata convinta speranza per il futuro, poteva e doveva sbarazzare il campo da quella ricorrente ipoteca. Il che avvenne, ma per breve tempo e non del tutto. Già nel pieno della Seconda guerra mondiale qualche segnale del bacillo emerse, soprattutto dopo Stalingrado e l’avanzata dell’Armata rossa, quando la vittoria ormai si profilava e lo sguardo almeno di alcuni si andava spostando sul tema degli equilibri futuri. Penso all’intesa voluta da Churchill e accettata da Stalin sulle zone di influenza nell’Europa orientale, oppure alle divergenze sulle stesse strategie militari (il continuo e costoso rinvio del «secondo fronte», e poi la scelta di dove aprirlo, se sulla strada più breve ed efficace, in Normandia, come per fortuna avvenne, o per una via più lunga e impervia, il Mediterraneo e i
Balcani, per tenere a distanza l’Urss ma creando vertenze infinite). Del resto la guerra fredda, come fenomeno di lunga durata, rimase in campo per decenni, anche dopo che il pericolo di una Terza guerra mondiale si ridusse, la competizione si spostò su terreni non direttamente militari, sempre però interrotta da crisi regionali poco controllabili e sempre accompagnata dalla sciagurata corsa al riarmo. Insomma, essa attraversò l’intero «secolo breve» e si concluse solo quando uno dei due contendenti si autodissolse, nel 1989. Non voglio, con questo assedio intermittente, spiegare degenerazioni che alla fine portarono l’Unione Sovietica al collasso e avevano altre e grandi cause. Tanto meno voglio assolvere ritardi ed esitazioni che il Pci ebbe nel prenderne le distanze risolutamente, quando ormai era necessario e possibile farlo. Ma mi pare altrettanto disonesto ignorare come e quanto quella minaccia influì o spartirne salomonicamente le responsabilità. 3.2 La grande sorpresa C’è però un altro significato che si può attribuire all’espressione «guerra fredda»: quello che indica l’improvviso e sorprendente mutamento della situazione internazionale, cioè il profilarsi, già nel 1946, dell’effettivo pericolo di una Terza guerra mondiale. Pericolo che si aggravò rapidamente, e gradualmente fu poi superato. Come si spiega che pochi mesi dopo una guerra tremenda, costata milioni di morti e immani distruzioni, vinta da una coalizione in cui tutti erano necessari; dopo accordi siglati e solenni impegni a cooperare per una pace duratura, mentre stavano nascendo nuove grandi istituzioni per garantire la soluzione pacifica di eventuali contrasti, all’improvviso si sconvolgessero le alleanze, governi e popoli parlassero e si preparassero a una guerra ancor peggiore? A cosa e a chi, in che misura, si può attribuire la responsabilità di una svolta così sconvolgente? In quali atti concreti, in quale sequenza temporale e con quali argomenti una tale prospettiva andò radicandosi e quanto vicino arrivò a uno sbocco catastrofico? Quali prezzi immediati, ma duraturi, furono pagati per averla avviata come lotta di sopravvivenza tra civiltà incomponibili, in cui prima o poi la forza non poteva non avere l’ultima parola? Lavorando a lungo, e quasi ex novo, come oggi è possibile, su questi interrogativi mi sono formato un’opinione un po’ diversa e un po’ più
chiara di quella che avevo in partenza, che voglio esporre subito con nettezza. La «nuova guerra fredda» fu, soprattutto all’origine, una scelta libera, consapevole e unilaterale su cui conversero, seppure per ragioni diverse, tutte le grandi e molte delle piccole potenze del capitalismo occidentale, e via via integrò anche i paesi contro i quali esse avevano appena finito di combattere. Questa scelta ottenne presto il consenso attivo di molte forze politiche di sinistra, e penetrò gradualmente nella maggioranza dell’opinione pubblica, attraverso una campagna di propaganda imponente per molti aspetti manipolata. La colpa dei comunisti, e dei pochi socialisti loro alleati, non è stata quella di averla provocata o alimentata, ma di non averla vista, o voluto vederla in tempo; poi di avervi risposto in modo tale da favorirla, anziché ostacolarla, infine di aver compiuto, non a caso, molti errori che ne acuivano i rischi e ne accrescevano i costi per loro stessi. 3.3 La nuova guerra fredda Per stabilire una data precisa in cui la «nuova guerra fredda» è cominciata indicherei il giorno della morte di Franklin Delano Roosevelt, perché considerare Roosevelt, come si è soliti fare, l’uomo del New Deal e il promotore dell’alleanza antifascista è troppo e troppo poco. Troppo, perché quando, già dieci anni prima, divenne presidente aveva certo ben chiara la necessità di reagire con una svolta alla grande crisi economica che dagli Stati Uniti ormai si estendeva in tutto il mondo. Ma non aveva ben chiaro, né poteva proporre, un nuovo corso riformatore, tanto meno una teoria che gli desse basi solide. La nuova politica economica prese forma infatti gradualmente (Keynes le offrì dopo il 1935 una versione consapevole); al suo esordio ottenne rapidi successi, ma incontrò forti ostacoli e, nel 1938, rischiava di esaurirsi. Quanto alla guerra antifascista, l’opinione pubblica americana le era tanto ostile che per molti anni l’invasione giapponese in Asia proseguì senza ostacoli, e rispetto al conflitto contro Hitler in Europa Roosevelt dovette limitarsi a offrire un sostegno in prestiti e in armi; fino a che il bombardamento di Pearl Harbor gli permise nel 1942 di intervenire. Troppo poco, perché Roosevelt fu l’animatore di quel processo, mobilitò un mondo intellettuale, una nuova organizzazione sindacale, una spinta democratica radicale, che fece emergere un’«America possibile» e la guidò
in quattro campagne presidenziali vittoriose. E soprattutto perché entrambe queste esperienze – crisi e riforme economiche, coalizione internazionale antifascista – formarono in lui un pensiero e una volontà di lungo periodo, una prospettiva. L’aspra e volgare polemica che, subito dopo la sua scomparsa, lo accusò di aver spartito il mondo, concedendone gran parte alla minacciosa Unione Sovietica, è priva di ogni fondamento. Roosevelt non era né arrendevole, né sognatore. Era un borghese, come lo erano Keynes e in altro modo l’ultimo Schumpeter, convinto che il capitalismo poteva e doveva sopravvivere ed estendersi in una competizione pacifica e costruttiva, a condizione che un potere politico democratico sapesse regolare e indirizzare gli spontanei appetiti dei mercati e che il sistema coloniale gradualmente fosse abolito. Ed era altrettanto convinto che gli Stati Uniti avessero la forza e le idee per farlo. A Jalta non venne affatto spartito il mondo: al di là di negoziati specifici, rimasti spesso inconclusi, al centro vi fu una discussione di prospettiva e di metodo: il solenne impegno reciproco a escludere per i successivi decenni il ripetersi di una nuova guerra mondiale. Non a caso vi ebbe tanto peso il tema di una futura organizzazione internazionale, garantita dalle grandi potenze, che non finisse nella ridicola impotenza della Società delle nazioni. Su questo il dialogo diretto – come risulta dalle memorie dei partecipanti americani (Hopkins, Cordell Hull, indirettamente Sherwood Anderson)– fu particolarmente tra Roosevelt e Stalin. Lo stesso Stalin, nella dichiarazione conclusiva da tutti condivisa, lo chiarì bene: Fintanto che noi vivremo nessuno di noi tre vorrà trascinare il proprio paese in azioni aggressive; però tra dieci anni potrebbe accadere che non ci sarà più nessuno di noi; sorgerà una generazione che non conosce gli orrori della guerra, abbiamo pertanto il dovere di costruire un ordine capace di garantire la pace almeno per cinquant’anni, sforzarci di creare un’atmosfera che favorisca l’unità, tenere a questo riguardo un fronte compatto. Lo stesso «processo a Roosevelt», poco dopo, doveva però dimostrare che quella da lui rappresentata era solo una delle «Americhe possibili». E infatti a succedergli venne un presidente, da lui stesso scelto, che ne esprimeva una ben diversa, Harry Truman, il quale esordì dichiarando di non aver mai letto le carte di Teheran o di Jalta, cambiò rapidamente lo staff della politica estera, portò in primo piano un senatore repubblicano e conservatore (Vandenberg), e a Potsdam si lasciò sfuggire la frase
«dobbiamo smetterla di coccolare questi russi». A peggiorare le cose in fretta, intervenne, nell’agosto, al di là delle parole, un fatto enorme: la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Più o meno volutamente, quella scelta serviva non tanto a liquidare un Giappone già stremato, ma a esibire al mondo, e in particolare all’Urss, un nuovo rapporto di forza. Nell’establishment americano l’interrogativo fu subito esplicito: sarebbe stata l’Unione Sovietica capace di dotarsi della nuova arma e in quanto tempo? Cosa si poteva fare per impedirlo e anticiparlo? Su come mettere l’energia atomica sotto controllo internazionale, si aprì dunque, per iniziativa degli stessi scienziati che l’avevano costruita, un forte dibattito in cui intervennero anche paesi occidentali, ma non se ne fece niente. Tuttavia i tempi per elaborare una teoria sulla guerra preventiva non erano ancora politicamente maturi. La minaccia dell’uso della bomba restò lì, sospesa, fino a quando qualche anno dopo MacArthur propose di darle seguito. La corsa alla nuova guerra fredda non rallentò. A darle forma compiuta, già dal marzo del 1946, fu per primo Winston Churchill. Tutti hanno sentito parlare del suo famoso discorso di Fulton, ma quasi nessuno sa dove sia Fulton e perché quel discorso ebbe tanta risonanza. Churchill non era più capo del governo inglese, perché i laburisti avevano clamorosamente vinto le elezioni. Era un uomo molto autorevole, che sembrava però esporre solo il proprio parere. Di fatto Fulton era il piccolo centro del Missouri dove Truman era stato eletto e Churchill, prima di parlare, ebbe a Washington un incontro con lui, e il presidente attraversò l’America per andare a sentirlo dal palco dell’assemblea. Ne valeva la pena. L’analisi di Churchill era nuova e la sua proposta limpida. Testualmente: Abbiamo combattuto una lotta contro la guerra e contro la tirannide, la guerra l’abbiamo vinta, se vogliamo evitarne un’altra o di perderla, dobbiamo rimuovere un’altra tirannide, che sopravvive e tende a espandersi nel mondo. La minaccia viene dal comunismo, come Stato e come movimento, per batterlo non occorrono intese cedevoli, compromessi, ma unire una nuova alleanza, anzitutto tra i paesi anglosassoni, confermare e rafforzare la nostra supremazia, costruire una catena politica e militare che stringa dappresso la cortina di ferro, esercitare dall’esterno una pressione perché i popoli sottomessi dell’Europa orientale si liberino. Non dobbiamo concedere all’Urss quella cedevolezza che abbiamo concesso alla Germania producendo alla fine un disastro.
Quel discorso ebbe una grande eco (salvo, suppongo, in tanti paesi che da secoli erano «sottomessi» e cui lui non faceva cenno). Fu subito ripetuto in giro per l’Europa dallo stesso Churchill che, nel maggio del ’47, aggiunse: «Il nostro obiettivo è di realizzare l’unità delle nazioni dell’Europa intera, e lo scopo dell’Europa unita e democratica è di rappresentare presto una garanzia contro l’aggressione che la minaccia». Il discorso di Fulton sollevò efficaci e realistiche obiezioni all’interno stesso della classe dirigente americana ed europea (e anche tra i partiti socialdemocratici dell’Est, già classificati «sottomessi»). Questa l’obiezione formulata dal più autorevole commentatore politico americano, conservatore, Walter Lippmann: «Oggi Stati Uniti e Unione Sovietica non possono pienamente vincere una guerra tra loro, ma solo avventurarsi in un conflitto che andrebbe avanti all’infinito in un groviglio terribile di guerre civili, carestie, annichilimento e sterminio». Ma tra queste voci dissenzienti mancarono quelle di molti partiti socialisti europei che pure stavano al governo. Nel 1947, prima in un discorso, poi in un documento concertato con il nuovo segretario di Stato Acheson, Truman ufficializzò l’analisi e la proposta anticipata da Churchill, mettendoci il suo carico: «Il modello e i valori americani vanno estesi al mondo; per definirlo occorre aggiungere a fondamento delle tradizionali libertà la piena libertà di impresa; quindi la competizione non deve solo essere contro il comunismo ma anche con la socialdemocrazia». Il tutto fu presentato come «dottrina Truman» e chiamato strategia del containment. La parola non rendeva appieno l’idea, perché più che di contenimento si trattava di assedio (e infatti Kennan, che l’aveva inventata, subito si ricredette). Comunque, non si trattava solo di parole, anche se certe parole, sostenute dal potere, pesano. Via via procedevano i fatti, numerosi e inequivocabili, ma spesso ignorati e dimenticati. Una catena di basi americane, bombardieri atomici perennemente alzati in volo, la cacciata contemporanea dei comunisti da ogni governo cui ancora partecipavano. Ma anche fatti legati alla gestione specifica di singoli e importanti territori. Li elenco sommariamente, anche se qualcuno di loro meriterebbe un corredo di informazioni e riserverebbe, proprio nei dettagli, molte sorprese. L’occupazione americana, gestita senza alcuna consultazione, del Giappone, con il diritto permanente di una presenza militare diretta che dura tuttora, la scrittura quasi sotto dettatura della nuova Costituzione, la
conferma dell’imperatore Hirohito e dei grandi potentati economici che avevano sostenuto la guerra giapponese in tutta l’Asia. Il tentativo, altrettanto solitario, dei francesi, per ripristinare la colonia di Indocina, arruolando anche soldati giapponesi dispersi e, di fronte alle difficoltà, staccando il Vietnam dalla Cambogia e dal Laos e restringendo le ampie zone, ormai liberate dai nazionalisti di Ho Chi Minh, a un piccolo territorio ai confini con la Cina, che innescò una guerra lunga più di vent’anni. L’occupazione armata di inglesi e olandesi in Indonesia, per restaurare l’antica colonia, rovesciando il nuovo governo indipendente di Sukarno e, non riuscendovi del tutto, la sottrazione provvisoria delle isole più grandi e ricche. L’imposizione al governo iraniano di espellere ogni presenza sovietica e perfino di rompere semplici accordi commerciali, in base ai quali l’Urss acquistava petrolio a prezzi più alti di quelli praticati dalle società occidentali. Il rifiuto di libero passaggio garantito a tutti per i Dardanelli, premessa del ruolo che avrebbe poi assunto la Turchia. L’aggiustamento dei confini o la creazione di nuovi stati satelliti nel Medio Oriente, decisi autonomamente da francesi e inglesi, a garanzia delle risorse petrolifere. La resistenza tenace all’ingresso nell’Onu di nuovi paesi emergenti per mantenere una maggioranza dell’Assemblea, garantita dal blocco dei paesi sudamericani satelliti degli Stati Uniti, il permesso speciale concesso invece all’Argentina di Perón; più tardi la conferma, quasi per diritto ereditario, del seggio nel Consiglio di sicurezza a Chiang Kai-shek ormai confinato in un’isola protetta, Formosa. L’immobilismo garantito dalla repressione violenta in Africa (dal Madagascar al Kenya, dal Congo all’Algeria, dal Mozambico all’Angola). Potrei andare avanti, ma mi fermo qui, perché ho compiuto ormai il giro del mondo (salvo si intende l’Europa orientale, che per decenni è stata considerata, come vedremo, il solo esempio riconosciuto di «popoli oppressi»). Qualche parola in più va detta, però, a proposito di due situazioni per noi di grande importanza. Anzitutto la vicenda greca. Essa è intervenuta nel dibattito politico italiano e, a ragione, come un esempio negativo per mostrare l’impossibilità, e le infauste conseguenze, di un tentativo insurrezionalista destinato a fallire, una tentazione che i comunisti italiani
erano riusciti a evitare. L’argomentazione era convincente e i fatti successivi la confermavano. E tuttavia ha contribuito a oscurare nella memoria molte verità e a deformare il giudizio. Il caso greco infatti non è nato dall’insurrezione armata di una minoranza e i comunisti non vi avevano, originariamente, un ruolo preminente. In Grecia si era in realtà sviluppata per anni una resistenza di popolo e di esercito sempre più ampia e composita che aveva respinto l’aggressione fascista e combattuto l’occupazione tedesca fino a liberare il paese prima che arrivassero gli alleati. Questa lotta produsse una forte organizzazione che aveva il consenso della maggioranza del paese, l’Eam (il Fronte nazionale di liberazione greco), e come obiettivo quello di un governo liberamente eletto e unitario, ma senza il ritorno della monarchia che, a suo tempo, aveva consegnato il potere a un regime parafascista (Metaxas), e tanto più senza coloro che avevano apertamente collaborato con i tedeschi. Gli inglesi volevano quasi il contrario e lo imposero bombardando Atene, sparando su pacifiche dimostrazioni, usando prima la copertura di Papandreu, che si piegava, ma poi rifiutando anche un compromesso con i liberali e i moderati. Da qui nacque la guerriglia, che l’Unione Sovietica si era impegnata a non sostenere, e che solo jugoslavi e bulgari aiutavano da oltre frontiera. È stato il primo e il più cruento esempio di «zona di influenza» sancita con la forza esterna. La guerriglia è stata una risposta perdente all’imposizione armata di un altro paese. Ancor più trascurato, ma molto più importante fu ciò che avvenne nell’immediato dopoguerra in Cina. Per anni la Manciuria, cuore industriale del paese, era stata occupata dai giapponesi che, via via, presero il controllo delle grandi città (Pechino, Nanchino, Shanghai) con un seguito di orribili stragi. A questa occupazione si opposero due distinte forze di resistenza armata: nel Sud del paese, il governo ufficiale, da tempo legittimato solo da un esercito organizzato, guidato dal Kuomintang e internazionalmente riconosciuto in mancanza di meglio; e l’armata contadina di Mao, che aveva gradualmente conquistato vasti territori, soprattutto agricoli, e vi aveva introdotto riforme sociali e nuove istituzioni. Queste due forze non solo agivano indipendentemente, ma avevano alle spalle, dal 1926, ripetuti scontri con i quali l’esercito di Chiang cercava (e a volte sembrava riuscire) di annientare i comunisti e con loro l’incipiente ribellione contadina. Scontri che si ripeterono ancora nel corso della guerra mondiale, perché Chiang a volte tentava di trovare con i giapponesi un modus vivendi, così da avere le mani libere nel
contrastare un avversario non meno pericoloso. Le grandi potenze poco potevano e anche poco sapevano della Cina. Dopo Pearl Harbor, cercavano di aiutare la resistenza anzitutto fornendo aiuti cospicui al governo ufficiale, e un capo di Stato maggiore al suo esercito, il generale Joseph Stilwell, che cercò di coordinare tutte le varie forze disponibili ma incontrò una tale ostilità in Chiang da essere costretto ad andarsene. Quando il Giappone arrivò vicino al crollo si aprì quindi un problema politico enorme quanto intricato: chi e come poteva governare il paese più popoloso del mondo? L’ipotesi di partenza, ovviamente, anche in questo caso, era quella di un governo di coalizione e da Washington, che in quel settore rappresentava l’intera coalizione e aveva i mezzi per farlo, arrivarono successivamente due inviati (Hurley e poi Marshall), per verificarne la possibilità. Hurley volle incontrare prima Mao, che riteneva l’osso più duro, e riferì subito di aver trovato in lui un’incoraggiante disponibilità: a patto che si trattasse di un compromesso reale che rispettasse le forze in campo. Ma Chiang oppose a ogni trattativa tre pregiudiziali: che i comunisti si ritirassero dai territori da loro stessi liberati, abolissero le riforme già avviate e sciogliessero le proprie forze armate. L’accordo saltò così prima di cominciare e poco dopo Chiang fece partire un’offensiva verso il Nord per risolvere il problema con la forza. Marshall non poteva impedirlo, il nuovo governo americano non poteva e non voleva rompere l’alleanza in cui si era impegnato, e quindi lo sostenne nell’avventura con soldi, aerei e piloti, anche se ormai era consapevole che il Kuomintang era talmente diviso, corrotto, soprattutto privo di una base popolare, che non poteva vincere. La prima, e certamente la più importante partita della nuova guerra fredda fu via via perduta dai suoi promotori, anche se, proprio per questo, si incancrenì nel rifiuto di riconoscere la nuova Cina, il che si riflesse in una crisi dell’Onu e del Consiglio di sicurezza. Di fronte a questo innegabile insieme di fatti, alla loro sequenza, alle parole esplicite che li accompagnavano – quale che sia il giudizio che ognuno è libero di dare sull’ordine sociale e sull’ideologia dei due contendenti in campo – come si può negare che l’iniziativa della nuova guerra fredda sia quasi interamente venuta dalle grandi potenze occidentali e che il comunismo ne sia stato il nuovo nemico designato? «Come movimento e come Stato», per tornare alle parole di Churchill.
3.4 L’invenzione del Patto atlantico Il motore che alimentò quella svolta improvvisa e radicale, e poi ne orientò il decorso, non fu però solo geopolitico e militare. Vi intervennero altri fattori e altri strumenti, più direttamente connessi alle vicende interne di ogni paese, alla restaurazione e alla ridefinizione dell’assetto sociale di ciascuno, e alla gerarchia tra loro. Anzitutto il fattore economico, simboleggiato e avviato dal Piano Marshall. Qui l’analisi deve farsi più complessa e il giudizio meno drastico. L’offerta degli americani di aiuti economici ai paesi che dalla guerra erano usciti con un apparato produttivo disastrato, privi di risorse finanziarie necessarie anche solo per ricostruirlo, era in sé un’idea intelligente. Poteva collegarsi a politiche molto diverse tra loro: essere usata per sottrarre i paesi dell’Europa orientale all’influenza sovietica, isolandone l’economia nel momento per lei più difficile, oppure per aprire gradualmente gli scambi commerciali e culturali tra diversi sistemi economici; come contropartita offerta agli altri paesi capitalistici, in cambio di un loro rapido e pieno allineamento con la politica americana, oppure per aiutarli ad accettare il tramonto delle loro residue colonie, a modificare le loro politiche economiche e comporre i conflitti tra loro (quindi per rimuovere ciò che aveva portato al fascismo e a due guerre mondiali). Nel quadro della nuova guerra fredda il primo dei due significati doveva prevalere sul secondo e guidarne le scelte. In questo senso il Piano Marshall funzionò in pratica come acceleratore della svolta. L’offerta di aiuto fu, infatti, dall’origine, selettiva e apertamente subordinata a condizioni pesanti. Già prima che il Piano Marshall fosse proposto, l’Unione Sovietica, cioè il paese che della guerra aveva sopportato i costi più gravi, aveva chiesto non un aiuto, ma semplicemente un prestito agli Stati Uniti e qualche risarcimento ai paesi che l’avevano aggredita. Il credito non le fu concesso, anzi il Senato americano, ancor prima della fine della guerra, bloccò quella legge «affitti e prestiti» che l’aveva fino ad allora sostenuta. Quando poi il Piano Marshall venne precisato, l’Urss fu subito esclusa dai possibili beneficiari. Ciò nonostante, diversi paesi dell’Europa orientale, ancora pluripartitici, mostrarono un’aperta disponibilità; ma a loro, e solo a loro, vennero poste condizioni pesanti: di smantellare le riforme economiche ancora molto prudenti già attuate, di concordare con il donatore il dove e il come gli aiuti dovevano essere
impiegati, cosicché non se ne fece nulla. Quanto all’Europa occidentale, la contropartita politica era già implicita e volentieri accettata: fuori i comunisti da ogni governo, impiego degli aiuti prioritariamente concentrati sulla grande industria privata. Del resto il Patto atlantico era già in allestimento, come alleanza militare permanente a direzione americana. Aiuti economici e sicurezza in cambio di sovranità limitata: il nesso era esplicito. Sarebbe però fazioso e ingannevole tacere che nel Piano Marshall c’era qualcosa di più e di diverso, nel bene e nel male, con cui solo in un più lungo periodo i comunisti avrebbero comunque dovuto fare i conti. Al di là della sua aggressiva rozzezza, la svolta impressa da Truman nella politica americana non imponeva infatti un ritorno al liberismo ottuso di Hoover, né all’isolazionismo di Taft. La dura, e non dimenticata, lezione della grande crisi economica e il ruolo assunto dagli Stati Uniti nella guerra mondiale imponevano e permettevano loro un’ambizione più grande. Il conflitto con l’Unione Sovietica era l’obiettivo primario, ma anche lo strumento di un disegno più ampio per affermare un nuovo assetto del mondo, a egemonia americana. Perciò il Piano Marshall non era rivolto a restaurare nei paesi a economia già parzialmente avanzata una vecchia politica economica, o a ostacolare l’esportazione delle proprie tecnologie avanzate, o a ripristinare il vecchio protezionismo; era invece rivolto a stimolarne la modernizzazione e l’integrazione, entro i limiti di un ruolo subalterno (Germania, Giappone, Italia come e ancor più degli altri). Nel mondo sottosviluppato, la politica americana certo contribuiva a contrastare i movimenti di liberazione, ma non a impedire processi di decolonizzazione, preparando nuove forme di dipendenza. Dovunque poi, nello stile di vita, nella cultura di massa, nel tipo di consumo, mirava a estendere la way of life americana, depurata del progressismo del New Deal. Il tutto evidentemente entro i confini segnati da un anticomunismo intransigente e senza commistioni: al di là di quei confini c’erano la repressione, la collusione con regimi reazionari, la minaccia militare, perciò il riarmo e l’eventualità della guerra. Nel comporre il quadro della nuova guerra fredda c’era anche un altro elemento, il più sorprendente e rivelatore. Come e perché, soprattutto in Europa, quella svolta radicale e pericolosa riuscì a trovare un ampio consenso nell’opinione pubblica, che invece in origine nutriva altri sentimenti e altri timori? E anche in forze politiche che avevano attivamente partecipato alla guerra antifascista e condiviso le speranze di
pace e di dialogo, da essa apparentemente inseparabili? Ciò che sorprende non è il permanere di un anticomunismo che aveva lontane radici e giustificazioni rispettabili e che, a cessato pericolo, poteva rianimarsi intorno al tema della democrazia. Sorprende il fatto che questa competizione sociale, politica, culturale accettasse la rilegittimazione del riarmo e della guerra contro un nuovo nemico. Indubbiamente questo si può spiegare, e fu spiegato, con un crescente timore, fino all’isteria, di un’imminente aggressione sovietica. Timore totalmente privo di fondamenti, contraddetto dallo stato delle cose, e perfino da quanto dicevano molti fautori della guerra fredda, in America. Per quanto infatti si potessero attribuire a Stalin le intenzioni più subdole e le ambizioni più smodate, l’Unione Sovietica, soprattutto nei primi anni, non era in grado di aggredire nessuno al di là dei territori acquisiti ed essi stessi pericolanti. Usciva dalla guerra stremata. Aveva avuto 20 milioni di morti (per farsi un’idea, gli inglesi ne avevano avuti 350mila, gli americani 450mila, gli stessi tedeschi 7 milioni): intere generazioni di giovani sovietici erano decimate o invalide (solo dieci anni dopo, malgrado i territori recuperati, la popolazione tornò al livello dell’anteguerra). «Il soldato dalle mani callose e non monta destrier» aveva altro da fare che una nuova guerra per sopravvivere e ricostruire. L’industria era stata decentrata e andava riorganizzata. L’agricoltura, nelle zone fertili, era stata desertificata da ritirate e riconquiste, 70mila villaggi bruciati, le città diroccate. La gente soffriva spesso la fame e nel 1946-1947 ci fu una generale carestia. Il reddito pro capite era largamente sotto il livello del 1938. Venticinque milioni di persone erano senza tetto, la forza-lavoro per la prima volta scarseggiava e per questo l’esercito era stato di colpo ridotto da 12 a 2 milioni di uomini, i più tornavano a casa spesso a piedi o a cavallo, perché le ferrovie erano rotte e gli automezzi insufficienti. La capacità produttiva era scesa nel 1945 e ancora di più nel ’46 e nel ’47. L’Europa, invece, aveva poche armi ma un’industria ancora efficiente, perfino in Germania, per produrle. Ma, soprattutto, dietro e sopra di lei stavano gli Stati Uniti, con una produzione effettiva cresciuta del 40% nel corso della guerra, con un potenziale produttivo più che raddoppiato, tecnologie ulteriormente rinnovate, basi militari e truppe in tutto il mondo, spesso all’immediato confine dell’avversario. E con la bomba atomica. Per questo alcuni parlamentari e generali americani parlavano di guerra preventiva prima che questa schiacciante superiorità si riducesse. Qual era perciò il pazzo a Mosca che volesse mandare qualcuno a
occupare Place de la Concorde o Piazza San Pietro? Tuttavia non solo analfabeti e bigotti, ma anche un’opinione colta, in paesi bene informati, si convinse che l’aggressione dall’Est fosse alle porte. Perché? Certo, vi contribuì una grande manipolazione, costruita cinicamente su antichi fanatismi sconfitti ma non superati, e sulla convenienza, ben concreta, a meritarsi gli aiuti economici americani. Forse fu anche un investimento ideologico per il futuro. Eppure credo che al successo di quella mobilitazione abbia contribuito qualcosa di più concreto e meno confessabile. Da un lato agiva, in molti e fondamentali paesi europei, il timore di veder crollare, come stava crollando, quel sistema coloniale che per secoli aveva costituito un elemento fondante della propria identità nazionale, assicurato risorse e mercati, materie prime a prezzi irrisori e lavoro quasi non pagato, benefici in parte spartiti anche tra le classi subalterne. Faccio un solo esempio, estremo e documentato: l’Inghilterra. Diretta da un governo conservatore, negli anni trenta era stata talmente preoccupata che il mondo cambiasse da trascinare tutti alla lunga tolleranza verso il nazismo. Allora i laburisti vi si erano opposti e avevano sinceramente coltivato, durante la guerra, simpatia e tolleranza verso l’Unione Sovietica e, una volta al governo, realizzarono, ben più di altri socialisti europei, una profonda riforma del sistema economico-sociale sotto la spinta di Beveridge e di Bevan e l’ispirazione di Keynes. Tuttavia sul terreno della politica estera avvenne il contrario: accettarono e praticarono la linea suggerita da Churchill a Fulton e il loro ministro degli Esteri, Bevin, ne divenne uno degli esecutori più zelanti. La spiegazione semplice e chiara la troviamo in un appunto riservato inviato al governo dallo stesso Keynes, che testualmente dice: «È stupido pensare che l’Inghilterra possa sostenere il costo della costruzione dello stato sociale e quello oggi necessario per conservare e recuperare il proprio impero coloniale, il quale per lungo tempo costerà più di quanto rende: o l’una cosa o l’altra». Di fatto, per procrastinare quella scelta occorreva (e probabilmente non sarebbe bastato) lo «speciale sostegno» economico, politico e militare degli americani. Il sogno di salvare l’impero valeva bene, anche per i socialisti, «una messa», e portava molti loro elettori ad accettarla. Merita un cenno anche un altro caso limite, quello italiano. L’Italia non aveva colonie redditizie da recuperare, né avrebbe potuto recuperare il poco che aveva già perso ma, fin dall’inizio, anche qui era in gioco un particolare fattore internazionale. Non mi riferisco solo o tanto alla
questione di Trieste, di grande richiamo ma presto rappezzata dal trattato di pace, quanto alla controversia sull’Europa orientale. Non mi azzardo a considerarlo un fattore preminente, ma sono convinto che ebbe un valore rilevante quanto sottaciuto nell’evoluzione del maggior partito e nell’orientamento dell’opinione di massa: il ruolo della Chiesa in sé e l’orientamento del suo vertice di quel momento. C’era allora un papa che non solo aveva sempre considerato e ancora considerava i comunisti l’avversario principale e permanente, i «senza Dio», come poco dopo li definì nella Bolla di scomunica rivolta a loro e a chiunque mostrasse per loro simpatia e aiuto (il primo contatto diretto che Roosevelt prese con lui, avvenne a Roma nei giorni delle Fosse Ardeatine e della deportazione degli ebrei: il suo inviato riferì stupito che il papa, in quel momento, era soprattutto preoccupato per l’aggirarsi di gruppi partigiani comunisti nelle campagne circostanti). Questo stesso papa, due anni dopo si trovò di fronte un problema ben più drammatico e spinoso. Nell’Europa orientale, soprattutto in Ungheria, Slovacchia, Croazia, la gerarchia cattolica non solo aveva sostenuto, ma addirittura guidato, in prima persona, governi fascisti, accettato la deportazione degli ebrei e conservato enormi feudi ecclesiastici. In Polonia la situazione era meno pesante, una parte dei cattolici aveva appoggiato la resistenza contro i tedeschi, odiava non meno i russi e aveva sostenuto un nuovo tentativo di guerriglia contro il governo di unità nazionale. Lo scontro era dunque nelle cose e con così deboli argomenti da doversi coprire con uno spirito da crociata. Un brano – riportato nelle sue memorie da Paolo Spriano – del discorso ufficiale tenuto da Padre Lombardi in una manifestazione di 500mila giovani cattolici, a Piazza San Pietro, riferito alla Resistenza, rende bene cosa intendo per spirito di crociata: «Nel contempo avventurieri erano venuti da lontani e cattivi paesi con liste di gente da assassinare brutalmente. Migliaia e migliaia di italiani furono uccisi e dei loro cadaveri fu fatto scempio. Questo spettacolo orrendo si rinnovò in tutte le città d’Italia. Gli assassini ancora onorati saranno un giorno colpiti dalla Giustizia». E infatti la posizione di De Gasperi, moderato e antifascista, rispetto al Vaticano restò a lungo precaria quanto, in altri momenti, lo fu quella di Togliatti rispetto a Mosca. Già nelle elezioni del ’47 si stava autonomizzando una consistente dissidenza di una destra parafascista e la fiducia della Chiesa alla Dc non era affatto sicura: sia al vertice sia alla base, compresi i parroci, non meno importanti dei vescovi nell’orientare la loro gente. La legittimazione americana, l’accettazione di un blocco mondiale che fermasse i «rossi», era quasi premessa naturale per unire masse cattoliche,
una borghesia a lungo legata al fascismo, un apparato statale non effettivamente esautorato. Una volta imboccata a livello mondiale, come libera scelta e indiscutibile responsabilità, la strada della nuova guerra fredda era dunque ben difficile da bloccare e, per quanto insensata e pericolosa fosse, sono abbastanza chiari i meccanismi che l’alimentavano. Per seguirne l’evoluzione, valutarne i risultati e vedere più da vicino come in essa si mosse il Pci togliattiano occorre soffermarsi però anche sulla politica con la quale vi reagirono l’Unione Sovietica e il movimento comunista mondiale. E proprio qui diventa più facile, e più importante, cogliere una differenza tra due diverse fasi del quindicennio: 1946-1952, e 1952-1960.
4. I comunisti e la nuova guerra fredda
4.1 La replica di Stalin Ogni guerra si fa in due. Chiunque sia ad avviarla e ad alimentarla, c’è uno che lo deve fronteggiare: il comportamento dell’uno influisce su quello dell’altro e ne viene trasformato; il conflitto dopo fasi diverse si conclude con una vittoria o con un compromesso. Nel quindicennio della nuova guerra fredda, non posso evitare quindi di ricostruire e di valutare come il movimento e gli stati comunisti l’affrontarono e vi agirono. Questo mi permette, in partenza, di distinguere nettamente due fasi diverse: la fase che va dal 1945 al 1952, che fu anzitutto una corsa che portò al limite di una Terza guerra mondiale, e la fase che va dal 1952 all’inizio degli anni sessanta, nella quale quel pericolo gradualmente si attenuò e si aprì una nuova partita. Quanto alla prima fase: così come sono fermamente convinto che l’iniziativa aggressiva sia stata soprattutto responsabilità delle grandi potenze occidentali, altrettanto fermamente sono ormai convinto che la replica dei comunisti sia stata nel complesso poco intelligente e poco efficace. Errori su quasi tutti i terreni – di previsione, di analisi, di strategia, di tattica – che spesso, anziché contenere e contrastare, hanno offerto argomenti e occasioni all’avversario e fatto del male in casa propria. Errori la cui responsabilità si deve ascrivere a Iosif Stalin, perché in quel momento decisioni di portata mondiale spettavano a lui e da lui furono assunte. Pur avendo da sempre rifiutato la demonizzazione della sua opera, devo riconoscere che gli ultimi cinque anni della vita di Stalin furono anche i peggiori. Nei primi due anni del dopoguerra egli ha sottovalutato, o mostrato di sottovalutare, la portata e l’asprezza della svolta intervenuta nella politica americana, ha avuto, o voluto mostrare, ancora fiducia che la grande coalizione antifascista, pur tra insorgenti contrasti, potesse durare o essere ricostruita e a tale fiducia adeguò atti politici coerenti. Non diede infatti molto rilievo alla novità dell’arma atomica; né credito al dibattito che gli stessi scienziati che l’avevano costruita promossero per sottoporla a un controllo internazionale. Polemizzò con il discorso di Fulton ma senza
vedervi il preannuncio di una svolta generale e permanente nella politica americana. Criticò sobriamente ciò che gli inglesi avevano fatto in Grecia. Invitò i comunisti cinesi alla prudenza tanto da distribuire equamente, tra Mao e Chiang, le armi sottratte ai giapponesi sconfitti. Non accennò alcuna critica al modo in cui il Pci o il Pcf avevano concluso la lotta partigiana e partecipavano a governi di unità nazionale. Si mosse con moderazione nella stessa Europa orientale occupata dall’Armata rossa. Ritirò le poche truppe dall’Iran, non si immischiò nelle drammatiche vicende del Sudest asiatico. Ripropose l’unificazione della Germania come Stato disarmato e neutrale. Sconsigliò Tito dall’irrigidirsi sulla questione di Trieste e riconobbe il diritto alla formazione di uno Stato israeliano (tenendo fermo il pari diritto dei palestinesi ad averne uno proprio). Sostenne la necessità di accelerare la costruzione dell’Onu e di darle poteri di decisione. Insomma, nell’insieme, cercò di attenersi alla lettera e allo spirito degli incontri di Teheran e di Jalta. Ma nel ’47 quella fiducia non era più sostenibile, la nuova guerra fredda era ormai un’evidenza, l’Unione Sovietica e il movimento comunista dovevano scegliere una linea generale, almeno di medio periodo, per fronteggiarla. La linea non era obbligata. Anche senza rimettere tutto in discussione, senza rinunciare al ruolo già conquistato di potenza mondiale né al modello sociale già costruito, era invece possibile percorrere due strade. Una prima strada partiva dal rifiuto del terreno che l’avversario proponeva, quello del blocco contro blocco e della priorità del binomio ideologia-forza armata e puntava invece sulla competizione pacifica e sul binomio politica-lotte sociali. I comunisti avevano nel loro bagaglio storico una strategia di quel tipo, controfirmata da Iosif Stalin al VII congresso dell’Internazionale. Quella strategia era stata proposta troppo tardi, con forze ancora insufficienti e programmi ancora approssimativi, non era bastata a evitare la guerra ma aveva posto alcune condizioni per vincerla e per far crescere in grandi masse, nella resistenza al fascismo, un desiderio di trasformazione della società. A me pare ci fossero, almeno in partenza, dopo la guerra, le condizioni per confermarne l’impianto e svilupparne la forza persuasiva. Il suggerimento di Togliatti, inadeguato se rinchiuso nei confini di una piccola nazione sconfitta, avrebbe avuto ben altra possibilità di fronte all’insensata ipotesi di una nuova guerra e se fosse diventata una strategia internazionale, articolata in diverse versioni, in rapporto a diversi contesti storici e culturali. La società sovietica, benché stremata, manifestava in
quei primi anni una straordinaria mobilitazione per la ricostruzione. Nell’Europa occidentale i partiti comunisti mettevano nuove radici non solo per ciò che avevano fatto, ma perché il fardello della ricostruzione pesava drammaticamente soprattutto sulle condizioni di vita della povera gente. In alcuni partiti socialdemocratici, anche anticomunisti, avanzavano esperienze riformatrici che andavano in direzione del socialismo (Inghilterra, Scandinavia, Austria). In Italia i socialisti erano a fianco dei comunisti e dell’Unione Sovietica. Il pensiero economico era ormai trasformato dalla scossa impressa dalla grande crisi del ’29; i sindacati si ricostruivano più forti; la parte più autorevole dell’intellettualità (i francofortesi, Einstein, Picasso, Sartre, Curie, Russell ecc.) era critica rispetto a un semplice ritorno al passato. Perfino negli Stati Uniti il New Deal rooseveltiano, pur cancellato al vertice, manteneva una traccia vasta nella cultura e in una delle due grandi organizzazioni sindacali. La stessa élite conservatrice, come il già citato Lippmann, e perfino alcuni dei maggiori esponenti militari (Eisenhower, Bradley) consigliavano prudenza. Nella produzione culturale più popolare, nei film che vedevo da ragazzo, fino almeno agli anni cinquanta, cioè fino al maccartismo, il nemico portava divise tedesche e giapponesi, non russe, e il modello di uomo americano era prevalentemente ancora quello mite di Frank Capra. Infine, e soprattutto, era ormai in cammino il movimento di liberazione nel Terzo mondo: i cinesi, per conto loro, stavano costruendo, con la rivoluzione contadina, un nuovo grande Stato, senza alcun intervento sovietico; l’India nel ’47 conquistava l’indipendenza assumendo una collocazione neutrale, in Indonesia e in Vietnam il colonialismo era già in difficoltà, nel mondo arabo affioravano forze indipendentiste (civili nel Maghreb, militari in Egitto). Certo, per cogliere queste occasioni, per far coesistere e convergere queste forze, per far emergere cioè le contraddizioni interne alla logica della nuova guerra fredda, occorreva riconoscere la loro diversità, riprendere anche quelle bandiere delle libertà borghesi di cui Stalin stesso aveva parlato, e darne qualche testimonianza. Cosa impediva a un paese che aveva avuto la forza di tentare «la rivoluzione in un paese solo» di sperimentare, una volta divenuto una potenza mondiale, anche una modesta riforma di se stesso? Non appena, poco più tardi, una svolta in questa direzione fu compiuta, non a caso alla «guerra fredda» vennero meno le risorse, e la direzione delle cose lentamente cambiò. Né vale obiettare che, in partenza, questa strada era ostruita dalla superiorità militare americana, basata sul possesso della
bomba atomica, perché anzi l’iniziativa politica e sociale avrebbe ancor meglio impedito all’avversario una guerra atomica preventiva e offerto con più sicurezza il tempo necessario a recuperare un equilibrio anche in quel campo, come infatti avvenne. I cervelli per farlo c’erano. Stalin scelse invece una strada del tutto diversa. Per capirne le basi e la logica è forse utile usare un paradosso. Negli ultimi anni di vita, egli è stato la vittima principale di quel «culto della personalità» di cui era tanto vorace. Il prestigio enorme, gli elogi rituali ma anche convinti, le obbedienze scontate, non solo paralizzavano pensiero critico, dibattito e ricerca, in un movimento mondiale che si era ormai tanto esteso e diversificato da averne estremo bisogno, ma paralizzavano il cervello del leader, le doti di intelligenza e di intuito politico di cui aveva dato molte prove. Gli impedivano cioè di vedere le nuove risorse da lui stesso create, di valutare la situazione reale e di prevederne la dinamica. Anziché stimolarlo a cercare risposte nuove a una situazione nuova, lo portavano a riproporre idee cristallizzate e scelte del passato, in particolare l’idea che il «socialismo in un paese solo» potesse offrire un modello universalmente valido, da imitare alla lettera, e che ciò legittimasse, per un lungo periodo, il ruolo di guida all’Unione Sovietica come partito e come Stato (anzi, dopo la «guerra patriottica» anche come nazione). L’idea che a ogni avanzata del socialismo doveva corrispondere una lotta di classe più aspra e polarizzata. L’idea che il capitalismo fosse ormai in una crisi irreversibile e che avrebbe riprodotto una guerra interimperialista. Su questa base la replica alla nuova guerra fredda era già determinata. Il consolidamento dell’unità delle proprie forze, campo contro campo, sul piano ideologico e politico, diventava la priorità. Senza avventurismi, ma senza incrinature, in attesa che la crescita immancabile dell’economia sovietica e un recuperato equilibrio militare trascinassero i comunisti all’egemonia mondiale. La ricerca di alleanze, l’autonomia dei partiti comunisti, non potevano e non dovevano superare i confini di questa priorità. Questa strategia comportava un grande rischio: il «blocco contro blocco» poteva, anche senza che nessuno consapevolmente lo decidesse, passare dalla guerra fredda a una calda. In ogni caso rendeva l’immagine dei comunisti molto più simile a quella che gli avversari cercavano di cucire loro addosso.
4.2 L’errore del Cominform Il prologo tragico e pesante – perché si trascinò per anni – rimane quasi impossibile da spiegare razionalmente, se non come riflesso condizionato di apparati impazziti. Nel momento di una grande vittoria, del più diffuso consenso, in un contesto internazionale non ancora del tutto lacerato, in una società impegnata con spontanea vitalità nella propria ricostruzione, esplose una recrudescenza della repressione (più lontana dai riflettori che non nel passato, ma ancora più casuale nel scegliere le sue vittime). L’«affare di Leningrado», cioè l’eliminazione sommaria del gruppo dirigente della più grande ed eroica resistenza di tutta la guerra, coinvolse alla fine il maggior cervello dell’economia sovietica e il più fido collaboratore di Stalin in quel campo, Nikolaj Voznesenskij. Non pochi reduci dei campi di prigionia tedeschi, o garibaldini in Spagna poi confluiti nella resistenza di altri paesi, finirono in Siberia per il sospetto che avessero disertato o si fossero piegati al nemico mentre rischiavano la pelle nel combatterlo. Poi, via via, i medici accusati di complottare per uccidere i dirigenti politici che stavano curando, fino alla persecuzione dell’antica associazione ebraica, il Bund, in origine fiancheggiatrice della Rivoluzione bolscevica e ora, mentre si riconosceva lo Stato di Israele, accusata di sionismo. Quella stretta crudele e inutile creava il clima che avrebbe favorito la svolta politica del settembre del ’47 e l’avrebbe segnata. E infatti la svolta divenne esplicita, nell’incontro di Szklarska Poręba, nei pressi di Breslavia, da cui nacque il Cominform. Che non era la replica del Comintern, anzitutto perché a dargli vita furono chiamati solo alcuni dei partiti comunisti, quelli ritenuti più fedeli o quelli destinati a diventarne gli imputati (italiani e francesi). In secondo luogo perché si riuniva raramente, ebbe vita breve, emetteva direttive o sentenze, ma le decisioni venivano prese altrove. Ne fu protagonista assoluto Ždanov, che in quel momento Stalin considerava il suo portavoce, anche se spesso suonava sopra le righe, tanto che il suo Rapporto presentò, nel modo più rozzo, una nuova analisi della situazione e una nuova linea. È facile da riassumere. La divisione del mondo in due campi, fino ad allora presentata come un obiettivo degli avversari, e contrastabile, veniva ora considerata un fatto compiuto, cui adeguarsi e anzi da usare: o di qua o di là, non potevano esserci forze oscillanti, la ricerca di alleanze era secondaria o scivolosa.
L’Unione Sovietica rappresentava non solo la guida politica naturale, ma il modello compiuto da imitare e da proporre a tutti al più presto. Il campo capitalista stava già entrando in una nuova crisi economica e la guerra fredda sarebbe evoluta in guerra interimperialista, i suoi gruppi dirigenti si orientavano ormai verso un nuovo tipo di autoritarismo reazionario. Non aveva più senso quindi cincischiare intorno al concetto di «democrazia progressiva», che fatalmente declinava in parlamentarismo e oscurava la lotta di classe. L’unità politica doveva fondarsi su un’ideologia organica e codificata, il marxismo-leninismo-stalinismo di cui la «storia ufficiale del Pcus» era la sintesi compiuta. Anche la cultura in tutti i suoi settori (compresa scienza, letteratura, musica) doveva assumere un esplicito punto di vista politico ed esprimersi in forme semplici, vicine alla cultura popolare, evitando qualsiasi confronto con le culture occidentali, compreso il marxismo non ortodosso e le arti d’avanguardia «degenerate». A questa piattaforma, esposta in toni estremi, che lo stesso Stalin avrebbe evitato di assumere e a un certo punto ha un po’ corretto, non ci furono, nell’incontro di Szklarska Poreęba, resistenze o obiezioni rilevanti, solo qualche preoccupazione da parte di Gomulka, di Tito e di Dimitrov, che più tardi ne divennero i bersagli. I cinesi non c’erano e comunque erano abituati a non intromettersi. Critica e accuse, necessarie per stabilire un confine all’ortodossia; si riversarono, come vedremo, sui francesi e sugli italiani. Sul piano della politica estera e dei rapporti con l’Occidente a livello statuale, quelle del neonato Cominform furono prevalentemente parole, propaganda controproducente. Nei fatti, soprattutto nel corso dei primi anni, nessun accenno di intenzioni espansionistiche. (Lo stesso blocco di Berlino, che generò nel 1948 un momento di tensione, fu presentato come semplice atto di protesta contro l’arbitraria e unilaterale decisione di unificare la Germania occidentale in Stato permanente. E infatti quel blocco fu presto tolto, in perdita: perché anziché rilanciare la seria proposta di una Germania unita e neutrale, aiutò a creare un nazionalismo tedesco-occidentale e a mettere in evidenza l’impotenza sovietica.) Due fatti sono eloquenti in questa direzione. Il primo, più importante di ogni altro sul terreno geopolitico, riguarda la questione cinese, che era appunto, nel 1947, alla fase cruciale, con gli americani direttamente in campo e il loro Senato che chiedeva di investirvi di più. Il Cominform non se ne occupò particolarmente e l’Urss mantenne in proposito la prudenza di sempre. Il secondo riguarda la situazione italiana, protagonista a
Szklarska Poreęba ma in quanto imputata. A questo proposito disponiamo di una testimonianza interessante e anche divertente. Proprio in quelle settimane Pietro Secchia fu inviato, a capo di una delegazione, a Mosca con l’incarico di chiedere in sostanza: cosa ritenete che dovremmo fare di diverso? Secchia ebbe un incontro personale e riservato con i massimi vertici sovietici, di cui riferì vent’anni dopo. Egli anticipò subito francamente il suo parere, senza tacere la propria critica all’eccessivo parlamentarismo e moderatismo di Togliatti, aggiungendo che, in Italia, era possibile far crescere di molto la lotta di massa e, nel caso di iniziative repressive dell’avversario, c’erano le forze per contrastarle vittoriosamente, senza debordare nell’insurrezione. A quel punto Stalin, presente ma silenzioso, lo interruppe con poche eloquenti parole: arrivereste comunque a quel punto, e non è questo il momento. Capitolo chiuso: niente avventure. Ben altro peso ebbero invece le parole del Cominform all’interno del proprio campo, per normalizzare e orientare le proprie forze, a cui erano soprattutto rivolte, stati e partiti sulla cui obbedienza Ždanov contava. E infatti ebbero seguito, benché non sempre nel senso voluto, in fatti clamorosi. Primo in ordine di tempo, nel ’48, venne l’attacco a Tito, fino ad allora il più solido e forte dei partner dell’Urss, condotto con un’asprezza chiaramente tesa a rovesciarlo. Nonostante la lettura degli svariati documenti riservati, che entrambe le parti presto pubblicarono, non si coglie una discriminante politica che giustifichi questa rottura. Il nuovo modello di società socialista, l’autogestione, la polemica contro i blocchi e l’idea del non allineamento non esistevano neanche nella testa di Tito o di Kardelj. I motivi di diverbio sembravano perciò puntigliosamente futili: l’arroganza dei consiglieri tecnici o il tipo di aiuti economici che l’Urss inviava alla Jugoslavia, contatti segreti con alcuni dei suoi dirigenti militari ecc. Il nocciolo effettivo del conflitto era un altro e di grande rilievo. La Jugoslavia era stata il solo paese dell’Est capace di liberarsi, con una guerra tremenda contro nemici sia esterni, i fascisti italiani e i tedeschi, sia interni, i cetnici, i nazionalisti monarchici e gli ustascia croati. Causa e conseguenza di questa epopea era stata la nascita di una vera e nuova nazione, che unificava popoli, religioni ed etnie diverse, in guerra tra loro per secoli, e la formazione di un gruppo dirigente interetnico e perciò molto fiero. «Amo l’Unione Sovietica» scrisse Tito a Stalin «come amo la mia patria»: (implicitamente) riconosco come guida l’una, ma rivendico l’indipendenza dell’altra. Qui stava l’eresia, qui la forza che gli consentiva di trascinare il
popolo e sostenerla. Ma anche un principio che poteva contagiare altri paesi. La posta, a quel punto, si alzava di molto, diventava l’assetto delle democrazie popolari; qui si manifestò il punto più debole, e il prezzo maggiore, pagato in quegli anni, e mai più recuperato, dalla strategia di Stalin. La questione dell’Europa orientale era infatti vitale e insieme molto complicata. Quello era il settore attraverso il quale per due volte prima la Russia, poi l’Urss, erano state invase. Stalin, dopo aver liberato quei paesi, voleva avervi almeno «governi amici», ma essi erano ben diversi tra loro. Alcuni, come la Jugoslavia, la Cechia e in parte la Bulgaria si erano rigenerati con la Resistenza antifascista, altri, come la Polonia, avevano combattuto i tedeschi ma, in quanto cattolici e nazionalisti, odiavano altrettanto i russi e per mesi lo mostrarono con piccole lotte armate. Altri, infine, erano stati dall’origine fascisti o parafascisti e avevano direttamente partecipato fino all’ultimo alla guerra dalla parte degli invasori nazisti, come l’Ungheria di Horthy, la Romania monarco-reazionaria, la Slovacchia di monsignor Tiso. L’accordo segreto Stalin-Churchill, con le sue ridicole percentuali di influenza paese per paese, non garantiva molto e lo stesso Churchill l’aveva subito fatto saltare in Grecia. Il solo fattore comune nell’area era che ovunque era passata l’Armata rossa per arrivare a Berlino. Dapprima Stalin usò questa forza morale e materiale con saggezza e tenendo conto delle diversità. Non poteva né voleva transigere sul principio dei «paesi amici», ma accettò l’idea di un nuovo esperimento chiamato «democrazia popolare», stupidamente considerato in Occidente un trucco verbale per coprire semplici regimi di occupazione. Non era così. I partiti comunisti nazionali cercarono di dargli un contenuto, Dimitrov di darne una definizione teorica, affermando che non indicava una versione della dittatura del proletariato, ma era una nuova strada al socialismo. Essi potevano contare su due punti di forza, ben oltre l’evidente ruolo di garanzia offerta dalla presenza sovietica. Da un lato la vitalità sociale e l’influsso ideale prodotte dal vento dell’antifascismo, che non solo avevano rafforzato i comunisti e rivitalizzato altre forze organizzate, più o meno di sinistra, comunque democratiche (partiti socialdemocratici, partiti di piccoli contadini). Il principio del multipartitismo e della rappresentanza eletta non poteva quindi essere brutalmente soppresso. Da un altro lato, quasi ovunque, le grandi proprietà terriere, industriali, finanziarie erano state molto tempo, e in gran parte, nelle mani di tedeschi ora fuggiaschi, o di loro agenti e
complici. Questo rendeva possibile una redistribuzione di terre tra molti piccoli contadini, o la nazionalizzazione di grandi impianti industriali e delle banche, in dosi consistenti e senza grandi conflitti. I tanti fascisti o collaborazionisti fuggiti, o da epurare, liberavano molte posizioni in apparati burocratici che non avevano mai sentito l’odore della democrazia. Lo stesso Fejtö, certamente anticomunista ma studioso serio, convenne che quel tentativo nella maggioranza dei casi fu condotto con convinzione e gradualità e ottenne consenso e risultati (salvo l’occhiuta attenzione sovietica sugli apparati militari e di polizia di cui diffidava). Qualche difficoltà intervenne con la proposta del Piano Marshall, soprattutto per le condizioni che imponeva, ma la musica cambiò del tutto con la svolta del Cominform, esplicitamente e senza mediazioni: le democrazie popolari dovevano trasformarsi pienamente in società socialiste, il pluripartitismo diventare, con le buone o con le cattive, apparente, l’economia essere statalizzata, con qualche prudenza quanto alla collettivizzazione della terra. Per non parlare della politica estera: ce n’era una sola, e si sapeva a chi spettava deciderla. Le relazioni commerciali e culturali con l’Occidente dovevano essere ridotte e sorvegliate. Più che una cortina di ferro una cintura di castità. Ma Ždanov non sarebbe ancora bastato, anche se non fosse presto morto: a completare l’opera intervenne Berija. Per vincere ogni obiezione, cautelarsi per il futuro e dare credibilità alla scomunica di Tito, restato in sella, seguì infatti la vicenda orrenda dei processi inventati e delle condanne, talvolta a morte, di titoisti al vertice dei vari partiti comunisti: Rajk, Kostov, Gomulka, Kádár, Clementis (poco più tardi Slánský). Credo che questo, la «normalizzazione» brutale dell'Europa orientale, sia stato il prezzo più grave pagato alla svolta del Cominform, il favore più grande fatto ai fautori della guerra fredda, quello che più a lungo riprodusse la spirale repressione-rivolta e anche quello che ebbe maggior influenza negativa sull’opinione pubblica occidentale, ostacolò lo sviluppo o produsse un regresso nelle idee e nelle forme organizzative dei partiti comunisti. Più difficile è esprimere un giudizio sull’ultimo capitolo della direzione staliniana, la guerra di Corea. Da tempo viene catalogata come esempio della tendenza dell’Unione Sovietica a esportare il comunismo– appena ne avesse la forza – con l’invasione armata ed è una delle leggende metropolitane di cui i fautori occidentali della nuova guerra fredda furono
molto prolifici. La vicenda è invece lunga e complicata, ma poiché costituì il momento più acuto del pericolo di guerra mondiale, è necessario ricostruirla sulla base di fatti documentati e non sulle opposte propagande. La Corea era stata per molti anni occupata e schiavizzata dai giapponesi e negli anni della guerra sebbene con difficoltà si erano costituiti focolai di resistenza, più numerosi al Nord per la vicinanza con la Cina e la Manciuria, ma diffusi in tutto il paese e molto compositi. Verso la fine della guerra vi arrivarono per primi i russi che, su richiesta americana, si fermarono però al 38° parallelo. Gli americani arrivarono in agosto e occuparono il Sud ma, non trovando forze locali cui appoggiarsi, trattarono con l’ex governatore giapponese e insediarono al governo Syngman Rhee, amico dei fascisti giapponesi e legato ai grandi proprietari. Al Nord, invece, i Comitati di liberazione avviarono una riforma agraria e chiamarono a dirigerli Kim Il Sung, che aveva combattuto nella resistenza in Manciuria. L’accordo concluso da tempo tra gli alleati (unificazione del paese entro due anni dalla pace e con libere elezioni) divenne perciò difficile da attuare, in particolare Rhee decise di far nascere, con elezioni truccate e molti morti, un governo per conto suo, rapidamente riconosciuto dall’Onu oltre che da Truman. Unificazione ed elezioni controllate furono rinviate sine die, da Rhee escluse e cominciarono dunque frizioni o piccole penetrazioni di frontiera da entrambe le parti. Dopo un attacco dal Sud, il Nord, meglio organizzato, decise di tagliare il nodo e dilagò fin quasi a Seul. Stalin lo poteva impedire ma, sottovalutando il rischio, lasciò fare e a quel punto intervenne direttamente un esercito americano di spedizione, legittimato dal Consiglio di sicurezza, dal quale l’Urss era assente da tempo per protesta contro il rifiuto di riconoscere la nuova Cina. Gli americani però non si contentarono di restaurare il vecchio confine, lo varcarono. Arrivarono allora, di rincalzo per il Nord, «volontari cinesi» che sfondarono il fronte fino a Seul. Gli americani raddoppiarono l'impegno e sfondarono a loro volta, con molti morti dalle due parti. Un ragionevole compromesso era possibile e poi si è realizzato. Ma il comandante MacArthur era convinto che occorresse sciogliere il nodo con la spada, cacciare i comunisti da tutta la Corea e dalla Cina limitrofa. Per farlo occorreva l’arma atomica e chiese apertamente di usarla. Le cose non si sarebbero più fermate, si partiva per una guerra generale. Truman, ormai a fine mandato, e sconsigliato dagli alleati e dal suo stesso Stato maggiore, negò però il permesso sulle atomiche. Seguì un armistizio non più rotto. Giudichi il lettore questa sequenza dei fatti, la leggerezza degli uni, l’aggressività degli altri. Una cosa è comunque evidente: quando l’aria
diventa satura di gas, un’esplosione può avvenire anche senza una decisione lucida, e indipendentemente dal merito, per autocombustione e concatenazione casuali, basta una scintilla. Allora infatti si rimase per più di due mesi sull’orlo del baratro e a posteriori si può dire che fortunatamente si concluse il periodo più acuto della nuova guerra fredda perché, per una delle inattese contingenze della storia, proprio in quel momento intervennero due novità decisive al vertice delle grandi potenze: la morte di Stalin e l’elezione di Eisenhower. Di entrambe, soprattutto della prima, non si potevano immaginare le conseguenze. 4.3 Gli anni duri L’evoluzione della situazione internazionale in quella fase, la più dura, della nuova guerra fredda, esercitò un’esorbitante incidenza sulla nostra politica nazionale. Ma poiché a un grande partito resta pur sempre un certo spazio di pensiero e di comportamenti autonomi, anche allora, in un paese che aveva riconquistato indipendenza e libertà, è bene ricostruire come il Pci togliattiano si sia mosso, quali risultati abbia ottenuto e quali prezzi abbia pagato. Una linea, le sue capacità di tenuta e le risorse di cui poi dispone per il futuro si valutano anche nelle difficoltà. È indubbio che la svolta della politica americana, la minaccia di guerra ormai direttamente rivolta all’Unione Sovietica, la piattaforma con la quale il Cominform chiedeva di replicarvi, e di riflesso, in Italia, lo spostamento radicale della Democrazia cristiana, l’incipiente scissione del Partito socialista e subito dopo quella del sindacato, colpivano direttamente la linea avviata a Salerno da Togliatti. Lo spazio in cui muoversi era realmente molto stretto. Togliatti non solo non voleva, ma non poteva fare nemmeno un cenno di defezione dal proprio campo, Stalin non l’avrebbe tollerato. La base del partito e anche il suo gruppo dirigente l’avrebbero sconfessato. Non lo consigliava neppure Nenni, che nei suoi diari ricorda un suo incontro con Gomulka nel quale riservatamente criticava Togliatti «per la sua politica troppo morbida». Lo chiedevano i molti intellettuali che diventarono leoni dopo il 1956, ma nel giorno della morte di Stalin sinceramente proclamavano il loro lutto, riconoscevano di aver da lui «imparato tutto». La scelta di Togliatti fu dunque quella della «riduzione del danno». Accettare critiche, promettere correzioni, ma tentare di salvare l’essenziale della linea politica su cui si
era fino ad allora mosso: la «via democratica», dentro i limiti segnati dalla Costituzione. Una scelta sostanzialmente giusta, credo, il che di per sé non vuol dire sia stata applicata al meglio, con adeguato coraggio, ed evitando errori evitabili. Consideriamo anzitutto la politica interna di quegli anni, che cominciò con una grave e non incolpevole sconfitta, il 1948, e si concluse con un importante successo, il 1953. Togliatti, come e più di Stalin, non vide né valutò la portata della «nuova guerra fredda», o non volle riconoscerla apertamente. Nel gennaio del 1947, quando la Dc già manifestò l’intenzione di far a meno dei comunisti al governo, e ancora dopo, quando effettivamente li cacciò, Togliatti si mostrava convinto che alla rottura si potesse presto porre riparo. Non poteva trattarsi di un’astuzia propagandistica per addebitare una responsabilità, perché anzi De Gasperi esibiva quella rottura come un merito agli elettori che voleva conquistare. Più ragionevolmente si può vedere in quella pazienza un obiettivo importante: guadagnare, prima dello scontro prevedibile, il breve tempo necessario perché la Carta costituzionale, già definita, fosse finalmente approvata dal Parlamento a larga maggioranza. Il gioco valeva la candela. Perché il testo costituzionale, nei principi e negli ordinamenti, era tra i più avanzati d’Europa, costituiva un argine permanente contro tentazioni reazionarie, e perché nel voto si formalizzava un «arco costituzionale» che legittimava tutte le forze della Resistenza. Due risultati molte volte rimessi in discussione, o contraddetti coi fatti, ma che effettivamente ressero per decenni. Ma quando si leggono i discorsi dell’epoca, si capisce che dietro quella fiducia e quel rinvio, c’era anche l’errata convinzione che in Italia la sinistra era ormai socialmente ed elettoralmente troppo forte, unita, destinata a crescere, perché la Dc potesse governare a lungo senza il suo sostegno. Quella convinzione portò, ancor prima della svolta del Cominform, a un errore politico madornale, cioè alla decisione, suggerita da Nenni, ma accettata dal Pci, di andare alle prossime elezioni politiche con una sola lista, e con una campagna elettorale in cui si esibiva la sicurezza di vincere. Questo offriva alla Dc la possibilità di presentarsi come baluardo, il solo adeguato a far confluire cattolici e liberali, grande patronato, ceti medi, piccoli contadini, in nome dell’Occidente e della libertà. E infatti le elezioni presero il carattere di un referendum, i «rossi» da una parte, guidati dai comunisti e asserviti a Mosca, i democratici dall’altra. E a gestirle, più ancora della Dc come partito, furono Gedda,
Padre Lombardi, l’Azione cattolica e i parroci dal pulpito, più l’intera stampa «indipendente», allora tutta padronale. La sconfitta era prevedibile ma fu invece vissuta come amara sorpresa. Quelle che non erano prevedibili erano le sue dimensioni: la sinistra ridotta al 31%, la Dc salita al 48,5% e con la maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento. Non bastavano perciò a spiegarla un errore tattico, né la lusinga dei pochi soldi del Piano Marshall, ci si trovava di fronte a un dato di lungo periodo, la via democratica non appariva tanto più facile di quella insurrezionale. Occorreva, almeno sul piano dell’analisi, darle maggiori spiegazioni, per definire la prospettiva. Quella riflessione non fu avviata e restò carente a lungo, anche quando gli spazi cominciarono a diventare meno stretti. Non mancarono però, per merito proprio di Togliatti, alcune scelte politiche, concrete ed efficaci, proprio dopo il ’48. La prima scelta fu compiuta in un momento tragico, quando un attentato portò Togliatti quasi alla morte. Esplose una sollevazione popolare di protesta come non si era mai vista, e più non si rivedrà, che mostrò come la forza e il radicamento sociale del Pci, anche dopo la sconfitta elettorale restassero immutati. Tanto più che la sua frase nel letto d’ospedale «restate calmi» – cui tutto il gruppo dirigente seppe attenersi, mentre il governo mostrò un volto sproporzionatamente repressivo – offrì al Pci una rilegittimazione democratica. Seconda scelta. La campagna per la pace, soprattutto nel suo secondo tentativo, che, proprio per l’impostazione nuova e originale datale da Togliatti (raccolta di firme contro l’uso della bomba atomica, cioè il suicidio dell’umanità), raccolse sedici milioni di firme (il doppio dei voti ottenuti dal Fronte popolare). Si ottennero firme ben lontane dai comunisti, come quelle di La Pira, di Gronchi, perfino di Valletta. Terza scelta. La battaglia, fino allo stremo, contro la «legge truffa» nel 1952-53. Curiosamente si è venuta oggi appannando la memoria di quel passaggio, che ebbe invece un’importanza decisiva. Certo quella legge era apparentemente meno maggioritaria di quelle con cui oggi siamo abituati a votare: il premio scattava infatti solo a favore di una coalizione che prendesse più del 50% dei voti reali; sempre apparentemente, l’intenzione con cui De Gasperi l’aveva concepita non era quella di evitare una coalizione con l’estrema destra ma, al contrario, quella di non essere costretto dal Vaticano, secondo la proposta Sturzo, a usarla per governare ogni volta che fosse necessario. Il veleno stava altrove, nel fatto che il premio avrebbe consentito alla coalizione centrista, sicura allora di avere,
benché risicato, oltre il 50%, di ottenere una maggioranza parlamentare oltre il 65%, sufficiente cioè per modificare la Costituzione. E ciò di cui si discuteva in Consiglio dei ministri, o sotto la pressione dell’Ambasciata americana, era appunto come trovare una qualche forma di messa fuori legge del Pci, o una qualche forma di limitazione del diritto di sciopero o della libertà di manifestazioni di massa. Lo sottolineo perché chi non l’ha direttamente vissuta non sa quanto già fosse avanzata in Italia, a quel tempo, la pratica capillare di repressione. Nel corso di pochi anni molto spesso scioperi o manifestazioni popolari pacifiche si concludevano con cariche violente della polizia, in una serie di casi (Melissa, Torre Maggiore, Fucino, Modena fra i tanti esempi possibili) la polizia picchiava, sparava e uccideva contadini entrati in terre incolte, operai che bloccavano la chiusura di fabbriche. In fabbrica gli operai venivano licenziati o isolati in reparti-confino per il solo fatto di essere iscritti alla Fiom, intellettuali di prestigio come Guido Aristarco e Renzo Renzi finivano nel carcere militare e condannati a due anni per aver scritto una sceneggiatura sull’invasione della Grecia che offendeva l’onore dell’esercito, ad altri si ritirava il passaporto, le assunzioni al lavoro comportavano quasi sempre il consenso del parroco o dei carabinieri, perfino l’acquisto a rate dei libri Einaudi, non solo l’Unità in tasca, portava a essere schedati dal padrone. Chi crede che esageri o generalizzi questi aspetti quotidiani e molecolari della persecuzione, può leggersi i rapporti di polizia dell’epoca, preoccupanti e grotteschi, e oggi disponibili all’Archivio di Stato. Riporto solo due esempi. Tra i grotteschi, un rapporto dei carabinieri di zone mezzadrili: Si desidera che venga disciplinato in primo luogo il diritto di sciopero. Le vivaci agitazioni contadine hanno avuto come pretesto da un lato le ben note rivendicazioni economiche, ma dall’altro la trasgressione delle ordinanze prefettizie che vietano l’esposizione di bandiere sulle aie in occasione della trebbiatura. Occorre la giusta repressione di questo arbitrio inammissibile che costringe i proprietari a subire in casa propria la violenza comunista con la minaccia di non potere altrimenti realizzare il raccolto. [1950] Tra gli esempi preoccupanti, una relazione annuale del vertice di polizia: La inadeguatezza delle leggi attuali non potrà mai essere compensata dall’azione delle forze dello Stato, perché essa costituisce una barriera insormontabile. Pertanto sarebbe urgente procedere all’emanazione di
leggi per la disciplina dello sciopero, per colpire gli organizzatori della rivolta, per infrenare la libertà di stampa, per la disciplina giuridica dei sindacati e per la maggiore libertà d’azione degli organi di polizia. [1952] Questo produceva, e ne conservo anche memoria diretta, nella vita concreta del paese, il vento della nuova guerra fredda, quando già il pericolo dei «comunisti al potere» era stato archiviato dalle elezioni del ’48; questo fa capire come e quanto si procedesse ormai oltre i limiti della Costituzione e dunque in quale direzione sarebbe andata una sua revisione. Per metterlo in evidenza Togliatti avanzò la richiesta ragionevole di ridurre il premio di maggioranza al di sotto del tetto che permetteva di manomettere la Carta. De Gasperi rifiutò seccamente. Da quel punto partì una mobilitazione d’emergenza del partito di massa, si formarono al suo fianco liste minori guidate da figure simboliche dell’antifascismo (Parri e Calamandrei per i democratici, Corbino per i liberali) e il risultato fu straordinario: andò a votare il 93,8% degli elettori, la legge truffa non scattò, per 50mila voti di scarto, la Dc perse quasi il 10% dei suoi voti, i saragattiani furono dimezzati, repubblicani e liberali di governo quasi cancellati. Da allora il «doppio Stato» sprofondò nel complotto (anche se gli abusi polizieschi continuarono a sopravvivere di fatto, almeno fino al soprassalto del governo Tambroni e dei morti di Reggio Emilia). La Costituzione repubblicana si era insomma radicata nella coscienza del popolo. La «riduzione del danno», per questo aspetto, la politica interna, aveva dunque funzionato. Con qualche omissione. Ancor oggi per esempio non riesco a capire l’indifferenza, quasi la diffidenza, che Togliatti e il Pci mantennero in quegli anni verso un travaglio che attraversò il mondo cattolico, politico ed ecclesiale, ben prima del papato di Roncalli: il ritiro di Dossetti, che pure aveva raccolto una maggioranza relativa nella Dc, aveva votato contro il Patto atlantico, e rifiutato la politica economica Einaudi-Pella; la lotta anti-Gedda nei vertici della Gioventù cattolica (Carretto, Mario Rossi) e quella tra i giovani democristiani che portò Chiarante e me fino al Pci, e altri a tentare una nuova corrente di sinistra nella Dc. Così come non mi è mai riuscito di capire la tenace ruggine di Togliatti verso i riformisti di sinistra come Lombardi o Foa, o liberali progressisti come Ernesto Rossi. La «riduzione del danno» fu invece assai più difficile da tentare ed ebbe esiti molto più modesti su altri terreni: le relazioni internazionali, la costruzione e la gestione del partito, la formazione ideologica e culturale
dei suoi quadri e dei suoi militanti. Un trinomio di questioni in quel momento importante quanto indissolubile. Su questo la svolta proposta e imposta dal Cominform era esigente e lo spazio di autonomia offerto ai vari partiti ancor più ristretto. Ma è anche giustificato chiedersi se sia stato sfruttato del tutto al meglio e quale prezzo sia stato comunque pagato. Alla riunione di Szklarska Poreęba, dove sedeva come «imputato», Longo rispose alle critiche aspre con dignitosa prudenza. Ammise che il Pci aveva commesso seri errori politici, senza specificarli. Si dichiarò disposto a correzioni non fondamentali, a dare maggiore risalto ai successi dell’Urss nell’edificazione del socialismo, a dedicare maggior impegno alla lotta di classe rispetto a quelle parlamentari, a una maggiore vigilanza nei e sui gruppi dirigenti. Al ritorno in Italia, in una riunione della Direzione, riferì con tono ancor più sdrammatizzante ciò che era avvenuto; Togliatti fece altrettanto aggiungendo che comunque i fondamenti della linea del Pci dovevano essere salvaguardati; gli altri dirigenti, salvo qualche preoccupazione di Terracini, accettarono questo orientamento solo con qualche accento autocritico in più. Poiché la mozione conclusiva approvata a Szklarska Poreba, unico testo reso pubblico, non accennava alle accuse rivolte al Pci, lo choc nel partito fu molto attutito e tanto più lo rimase dopo l’attentato a Togliatti, nel luglio 1948, quando Stalin mandò un telegramma di critica al partito per non aver abbastanza protetto il suo leader, riconfermandogli così la sua fiducia. Ma la prima tempesta venne nel 1949, con la condanna di Tito, che a tutti si chiedeva di sottoscrivere. Il gruppo dirigente del Pci non esitò a scegliere da che parte stare e ripeto che non poteva evitarlo, ma c’era, come c’è sempre, modo e modo di farlo. In quel caso fu il peggiore. Particolarmente gli italiani, infatti, potevano criticare duramente Tito con argomenti forti: i guai che il suo nazionalismo aveva provocato nella vicenda di Trieste, il rifiuto radicale e frettoloso del concetto stesso di Democrazia popolare e di un minimo di pluralismo, la proposta arrogante di una Federazione balcanica che, in pratica, era un’annessione della Bulgaria alla Jugoslavia, l’incitamento e il sostegno offerto all’avventura dell’insurrezione greca, le critiche esplicite e ripetute all’opportunismo di Togliatti, perfino, a voler esagerare, il rifiuto a ricercare un confronto e un compromesso per salvare l’unità. Era materia sufficiente, in un clima di guerra fredda, per sostenere una condanna e condividerla. Il partito del resto era sorpreso, più che contrario, qualcuno qua e là chiedeva spiegazioni, ma solo il segretario di Reggio Emilia, Magnani,
manifestando il suo disaccordo, si era dimesso per dissenso dalla sua carica (insieme a Cucchi), ma senza ribellarsi alla disciplina. C’era dunque bisogno per il Pci di dire che Tito era una spia, venduto agli americani, che la Jugoslavia era passata dall’altra parte, cosa che sarebbe stata subito smentita dai fatti? C’era bisogno di trasformare una dimissione in un’espulsione con disonore di «due pidocchi»? Nel momento in cui si puntava a rafforzare una maggiore unità tra i partiti e i paesi comunisti per opporsi alla guerra fredda era utile esasperare il «tradimento» di uno dei più forti tra loro? Si poteva temere che un’argomentazione più sobria e veritiera della condanna di Tito avrebbe provocato una nuova condanna e una nuova scomunica del Cominform, questa volta rivolta al Pci o nel Pci? Non lo credo. Forse si poteva temere un dibattito, un momento di tensione, ammettiamo anche una sostituzione di Togliatti da segretario, nel caso di una defezione del gruppo dirigente: in quell’eventualità estrema e improbabile egli sarebbe tornato leader al momento del viaggio di Chruščëv a Belgrado, o dopo il XX congresso, con moltiplicata credibilità, come avvenne a Gomulka. Invece, gestita in quel modo rozzo, la vicenda oscurò l’idea del «partito nuovo». Né ci si fermò lì. Non meno grave è stato non aver manifestato almeno un dubbio, una preoccupazione sulla liquidazione di molti dei dirigenti dei paesi dell’Est e le insensate accuse loro rivolte. Ma che miracolo è mai questo socialismo che ottiene straordinari successi guidato da spie e da traditori? Qui si varcavano i confini della necessità, intervenivano errori inutili e rivelatori. Ripensando in seguito a questo passaggio, tra il 1948 e il 1950, ho capito che quelli non furono semplici episodi, ma i primi segnali di un pericolo generale: la prematura cancellazione dell’identità originale del Pci, pericolo che Togliatti riuscì poi a evitare con grande abilità, tenacia, con grande coraggio, e anche notevole fortuna, ma mostrando qualche incertezza di fondo e pagando prezzi elevati per il futuro. Mi riferisco all’influsso effettivo che la svolta ždanoviana esercitò sulle forme organizzative, il regime interno, l’ideologia, la formazione dei quadri, in sostanza, il mito dell’Unione Sovietica, e all’idolatria di Stalin, che per alcuni anni non solo perdurarono ma raggiunsero una vetta. Paolo Spriano, nell’ultimo e per alcuni aspetti il più acuto dei suoi scritti, dedica un intero capitolo a questo tema, partendo dall’indubbiamente straordinaria commozione di fronte alla morte di Stalin e cercandone una spiegazione. Non fu un mito – dice Spriano – ma un amore cieco, assoluto,
desideroso di una conferma dell’oggetto amato. E per spiegarlo si appoggia da un lato su una citazione di Gramsci: «Nelle masse in quanto tali la filosofia non può essere vissuta che come una fede»; dall’altro su un contesto storico, il ricordo indelebile della vittoria sul fascismo, tanto più necessario da custodire in un momento di dure sconfitte. Questa spiegazione, però, non solo non mi pare convincente, ma porta fuori strada, diventa facilmente giustificazione o rimozione indifferenziata di un processo molteplice e contraddittorio. Sul piano teorico quella citazione di Gramsci è infatti abusiva. Letta correttamente, cioè nel quadro del suo pensiero, è evidente che essa non indica affatto una necessità, tanto meno una leva da usare: al contrario indica un limite cui le masse sono inchiodate per secolare ignoranza, ma dal quale devono essere liberate. Il partito come intellettuale collettivo, promotore di una rivoluzione culturale e morale che trasformi il proletariato in classe dirigente, ha per Gramsci quindi come compito prioritario di affrancare il proletariato dalle fedi, di coinvolgerlo nel mondo della razionalità come ormai è storicamente possibile; per questo si fonda sul materialismo storico, sul «socialismo scientifico». Con vari livelli di semplificazione, certo, e modificandosi anch’esso in rapporto alla situazione e all’analisi dei fatti, ma sempre nel rispetto della realtà e con un onesto rapporto con la verità. Il partito può anche azzardare previsioni ancora non sicure che animino la speranza, e su cui la fiducia può provvisoriamente sorreggersi nei momenti difficili, ma non imporre credenze che la realtà contraddice o nasconde; perché, ripetuto troppe volte, e troppo a lungo, ciò dapprima lessa le intelligenze e poi rende cinici coloro stessi che le offrono. Questo è stato proprio un fattore importante nell’involuzione delle società socialiste, la differenza tra leninismo e stalinismo. Sul piano storico è altrettanto inesatto dire che il mito dell’Unione Sovietica fosse tutto fondato sulla memoria ancora recente della vittoria nella guerra, spontanea e irresistibile. Certo vi concorsero elementi oggettivi, lo scontro tra i blocchi, l’altrettanta virulenza dell’ideologia opposta e le persecuzioni che l’accompagnarono nella vita quotidiana, ma è indubbio che esso è anche frutto di una grande operazione organizzativa e culturale, imposta dalla svolta del Cominform, e che il Pci condusse con intelligenza per contenerne gli effetti, ma altrettanto spesso per propria convinzione e in forme sbagliate. Perché, se no, il Pci pagò un prezzo inferiore, in termini di iscritti e poi di
voti, a quello di altri partiti occidentali e conservò per il futuro anticorpi efficaci? E perché, d’altra parte, negli anni successivi, mise tanto tempo e tanta fatica per liberarsi di stereotipi ideologici, e ancor più di forme organizzative, acquisiti proprio in quegli anni? Quell’operazione merita dunque un’analisi più accurata, nel bene e nel male. Quelli furono gli anni in cui l’organizzazione prese una forma più stabile e formò i quadri che l’avrebbero diretta per decenni. Per limitarmi all’essenziale, e schematizzando, anche per memoria diretta mi pare possibile distinguere due linee di sviluppo. La prima, positivamente originale, nacque dalla scelta che fu di Togliatti, ma che anche Secchia, allora gestore principale del partito, condivise e promosse, della costruzione di un «partito di popolo», il contrario dunque della selezione di un’avanguardia, ristretta prevalentemente alla classe operaia. Parlo dello sforzo massimo di reclutare, e rendere attivi, con l’invenzione dei più vari strumenti, nuovi soggetti, strati sociali, esperienze di vita, rimasti sempre ai margini della politica. Parlo anzitutto delle donne, in prima persona, come militanti, ma anche in sedi e su problemi loro propri, di cui l’Udi era il grande promotore, ma non il solo. Parlo anche del proselitismo nelle famiglie, tra le generazioni, le amicizie, il vicinato, che oltre ad allargare un’area di influenza fondava un’appartenenza permanente, un impegno reciproco tra persone. Parlo dell’estensione delle funzioni dell’organizzazione a campi diversi dalla politica in senso stretto, ma da essa contagiabili: il tempo libero, la cultura popolare, il divertimento, lo sport e dunque le case del popolo, l’Arci, le bibliotechine. Non meno importante era la crescita e la differenziazione, a diversi livelli, di organi di stampa. Anzitutto il quotidiano, sostenuto dalla diffusione, dalle feste in ogni paesino e con lavoro volontario, che a volte raggiungeva una tiratura di più di un milione di copie; ma poi anche mensili e settimanali, colti o popolari, da Vie Nuove a Noi Donne, dal Calendario del Popolo a Rinascita a Società. Non un esercito, insomma, ma una vera comunità, legata da idee, affetti ed esperienze comuni. Anche qui sono indicativi certi rapporti dei carabinieri. Ne ho recentemente ritrovati alcuni che, data l’ora tarda cui avvenivano le riunioni, sospettavano l’intenzione del lavoro clandestino, altri che segnalavano il pericolo che le case del popolo «attraessero più degli oratori parrocchiali, perché lasciavano anche ballare». Invece questo modello, il partito di popolo, contrastava l’idea della setta, l’odio del vicino, la diffidenza verso il «non credente», e permetteva a volte di vivere allegri con due lire in tasca, di sentirsi protetti da una solidarietà e di essere utili anche se si avevano limitate capacità personali. Senza tutto questo era
impensabile tenere insieme, con quel clima intorno, e anche in zone «bianche», due milioni e mezzo di iscritti, di cui 500mila giovani e giovanissimi. Andavi la sera in bicicletta o in motorino a fare la riunione, il commento del giornale, il tesseramento; poi tornavi tardi a mangiare una trippa o a fare una partita a boccette al caffè della Camera del lavoro: perché anche il sindacato era parte di quella controsocietà. Chi contrappone l’antico Pci militarizzato e cupo ai «nuovi movimenti di oggi», o non ne sa niente o è uno stupido: casomai la somiglianza era esagerata. Questo tipo di «partito del popolo» permetteva allora di mantenere legami con la società, di poterla capire e rifletterla. Malgrado avesse, occorre riconoscerlo, un suo limite non trascurabile, perché riduceva, per necessità e per scelta, il numero e l’importanza dell’organizzazione politica sul luogo di lavoro, che veniva delegato al sindacato e ristretto alle sue funzioni più immediate. Ma c’era un’altra realtà in cammino, con pochi attriti, anzi comunicante con la prima ma ben diversa (parlo degli anni duri, fino al ’54 e oltre). Era l’altrettanto gigantesco impegno per la selezione dei dirigenti, a ogni livello, i funzionari di professione, pagati meno di un operaio medio, senza tutele sociali ma tenuti a una disciplina rigida, vagliati da successive scuole di partito, soppesati anche nella loro vita più privata, promossi solo per cooptazione dall'alto, e formati non tanto sui «classici del marxismo» o altri libri (come era avvenuto nella «scuola del carcere») ma anzitutto e soprattutto sul «breve corso di storia del Pcus», dal quale nessuno sgarrava. La costruzione di questo, per così dire, secondo partito, era di fatto affidata con larga delega a Secchia, vicesegretario emerso da una consultazione diretta, responsabile della commissione di organizzazione che aveva una molteplicità di compiti. Intendiamoci, Secchia non aveva un carattere caporalesco e autoritario, si circondava anche di giovani intelligenti (Bufalini, Di Giulio, Pirani), aveva un rapporto continuo e umanamente comprensivo, condivideva il nucleo della politica togliattiana, pur con non poche riserve sulla sua gestione. Era un quadro formato della Terza internazionale nei primi anni trenta, non della sua degenerazione burocratica-repressiva: per lui il partito vero doveva essere inteso come un’avanguardia disciplinata, composta anzitutto dai quadri di origine operaia e legata in modo indissolubile alle scelte e ai destini dell’Unione Sovietica e del suo capo, perciò pronta ad affrontare ogni temperie. Non un soldato, tanto meno un aspirante deputato o sindaco, ma un rivoluzionario di professione, intelligente e creativo entro i limiti stabiliti e accettati. Alla
costruzione di questo tipo umano assegnava la priorità e, in quello scorcio di tempo, il modello funzionava. Il mito dell’Urss, il culto di Stalin, la rigidità ideologica nasceva, reciprocamente moderata, ma reciprocamente alimentata da questo binomio: fede ingenua e Compagnia di Gesù. Gli intellettuali erano meno ingenui, ma spesso più intransigenti e, anche quando eccellevano negli studi storici, tanto più erano spinti, per schivare collisioni, a occuparsi di ricerche specialistiche e a evitare di misurarsi con il moderno pensiero mondiale, spesso marxista, ma non ortodosso, e a tenersi entro i confini della storia e della cultura democratica italiana. Vicende come quelle della lotta al titoismo o della liquidazione delle democrazie popolari si incrociavano perciò, come causa e come effetto, su questa grande e duplice operazione e la segnavano. Anche su questo processo poliedrico, ricco e contraddittorio, come nella più generale storia internazionale, si è arrivati, proprio nello stesso momento, a un passo che poteva essere irreversibile. Nel tardo autunno del 1950 infatti, fu comunicata da Longo, Secchia e D’Onofrio a Togliatti convalescente, la notizia di una proposta esplicita di Stalin di trasferirlo fuori d’Italia a dirigere e a «rilanciare» il Cominform. Né l’origine, né il carattere univoco e imperativo, né l’intenzione della proposta sono del tutto chiari. L’origine, perché Togliatti stesso confidò anni dopo a Barca il suo sospetto che un suggerimento fosse venuto da qualcuno in Italia. Il carattere imperativo, perché, sapendo com’era fatto Stalin, è dubbio che alla fine lui stesso l’avrebbe lasciata cadere; l’intenzione, perché in parte poteva essere mossa anche dalla volontà di cambiare un poco l’orientamento e la funzione del Cominform, come era avvenuto nel Comintern, e non solo da quella di togliere a Togliatti la direzione del Pci. Di fatto però era questa seconda la conseguenza più sicura della proposta e così Togliatti la interpretò; e, infatti, comunicò subito a Longo, Secchia e D’Onofrio il suo deciso rifiuto prima di andarne a discutere a Mosca. Giunto a Mosca, chiese che prima di decidere ne discutesse, lui assente, l’intera Direzione del Pci, sicuro di avere un supporto alla sua riluttanza. Intanto mandò, prima dell’incontro finale, una memoria a Stalin. La memoria diceva chiaramente che la proposta non lo convinceva – parlava in terza persona, per addolcire il rifiuto – e portando argomenti oggettivi e non rigidi: che era tornato in Italia da pochi anni, aveva avviato la costruzione di un grande partito, assunto ormai un ruolo pubblico riconosciuto, e il suo lavoro doveva perciò proseguire per non
compromettere tutto; aggiungeva anche la difficoltà personale a riprendere la via dell’esilio cui era stato destinato per troppi anni e il desiderio di ricostruirsi una vita familiare. Nel frattempo però gli fu portata una notizia che lo lasciò «stupefatto»: la Direzione in Italia aveva deciso di accettare la proposta di Stalin, con un voto quasi unanime (il no del solo Terracini, l’astensione di Longo). Stretto tra due fuochi gli sembrava impossibile sottrarsi. Ma tenne duro, con abilità. Anzitutto riuscì a convincere la Direzione del Pci, Secchia compreso, a modificare un po’ la decisione, chiedendo di rinviarne di alcuni mesi l’attuazione, a dopo le elezioni. Nel colloquio finale Stalin, dicendo che questo rinvio voleva dire liquidarla, e pur mostrando disappunto, accettò il rinvio. La vicenda si chiuse quindi felicemente, e nessuno ne seppe più nulla. Nel suo svolgimento, però, si rivelarono le doti di intelligenza e la tenacia di Togliatti e di nuovo il suo coraggio; ma si può misurare anche il suo isolamento, il pericolo di restare in secca minoranza perfino dentro il vertice del suo partito. Insomma dimostrava che la disciplina rispetto all’Unione Sovietica esprimeva ormai qualcosa di più di un semplice amore nel cuore delle masse e coinvolgeva ben più degli anziani quadri «del tempo della clandestinità». La «riduzione del danno» aveva permesso all’identità del Pci di sopravvivere, ma gli anni duri della «nuova guerra fredda» ne avevano bloccato lo sviluppo e la strada futura era ancora in salita.
5. Lo choc del XX congresso
Dal 1952 la «nuova guerra fredda» entra in una seconda fase, cambia carattere e direzione, si conclude con un parziale compromesso. La svolta, pur partendo da Mosca, non ha il carattere improvviso e sconvolgente che aveva avuto quella delle origini. Si avviò a piccoli passi, si sviluppò in modo intermittente e conobbe momenti di arresto, forse non era pienamente consapevole in coloro che vi contribuirono, non si estese in modo uniforme nelle varie regioni del mondo, e solo a un certo punto accelerò e venne avvertita dalla generale opinione pubblica. Ma la sua portata divenne evidente non appena si poté considerare nel suo insieme l’intero decennio. Il pericolo incombente di una Terza guerra mondiale, che pure talvolta riaffiorava, di fatto era scongiurato. Restavano in campo due blocchi, più articolati al loro interno, e che riaprivano qualche canale di comunicazione e di contrattazione tra loro; erano entrati in campo nuovi stati che rifiutavano la disciplina di entrambi. Non meno importante era che tutto ciò non fosse stato solo frutto di una correzione nella politica internazionale delle grandi potenze, e dei rispettivi gruppi dirigenti, ma fosse anche il prodotto e a sua volta stimolasse trasformazioni profonde dell’economia, della cultura, dei rapporti sociali che solo più tardi si sarebbero pienamente manifestate ma già allora agivano. In sintesi, il graduale passaggio a un equilibrio bipolare, a una competizione pacifica tra due sistemi, nella quale lo scontro armato veniva circoscritto in ambiti regionali, governati da due grandi potenze, e nella quale assumevano un ruolo di primo piano altri fattori: l’egemonia ideale e culturale, lo sviluppo economico e il conflitto sociale, la qualità della vita e l’efficienza delle istituzioni. Prima di ricostruire questo processo, è necessario riconoscere un fatto che ne costituì al tempo stesso la necessaria premessa e l’ipoteca non più recuperata: «l’equilibrio del terrore». Un’altra delle grandi omissioni e delle irrisolte ipocrisie ancora oggi presenti nel dibattito politico e culturale. Non a caso ho assunto il 1952 come data che segna un discrimine perché fu «l’anno della Bomba». Con la maiuscola, per sottolineare la novità che essa rappresentava, in due sensi. L’atomica sganciata su Hiroshima era solo nelle mani degli americani, mostrava una superiorità militare
rilevante, che essi potevano utilizzare per esercitare una minaccia,o per vincere alla fine una guerra eventuale con l’Unione Sovietica. Non aveva però, neppure nella versione aggiornata col plutonio, una capacità devastatrice tale da impedire che una guerra si protraesse e costasse un altissimo prezzo per chi la scatenava. D’altra parte le informazioni scientifiche necessarie a produrla erano abbastanza diffuse, l’intelligence sovietica era in grado di procurarsene altre con lo spionaggio, e aveva scienziati e tecnici per realizzare la bomba, si trattava solo di tempi, e tempi brevi. Infatti nel 1949 essa riuscì a farne esplodere una sperimentale; restava da apprestarne un arsenale e costruire i mezzi per trasportarla lontano, tempi ancora più brevi. Questa era stata una delle ragioni della concitazione con cui la nuova guerra fredda si avviò, della proposta precipitosa di MacArthur di usare le bombe atomiche, e delle resistenze dei governi europei ad accettarle. Già da anni gli americani avevano, o credevano di avere, una replica molto più efficace per recuperare e rendere più duratura la supremazia. La soluzione del problema doveva venire dalla bomba termonucleare all’idrogeno, che poteva avere un effetto distruttivo più di mille volte superiore a quello di Hiroshima, poneva problemi teorici ancora irrisolti e risorse tecnologiche molto più avanzate. Da tempo era quindi all’opera un nuovo gruppo di ricerca guidato non più da Oppenheimer o da Fermi, che non volevano più saperne e di cui si diffidava, ma da Teller che ne era entusiasta e fidato. Avvenne invece l’imprevedibile, come solo di recente Žores Medvedev (fisico, fratello dello storico Roj e come lui dissenziente e perseguitato e perciò tanto più attendibile) ci ha raccontato, ed è di estremo interesse. Teller perseguì l’obiettivo, fidando sulla supremazia tecnologica più che sulla fisica teorica. Stalin, per acume o per caso, radunò invece, nell’isolamento, tutti i grandi fisici teorici e i matematici puri. E mentre gli americani persero molto tempo ad approntare congegni troppo pesanti e che richiedevano materie rare e costosissime, i sovietici, coordinati da Sacharov, Tamm e Landau trovarono ai problemi teorici risposte avanzatissime che permettevano di aggirare le difficoltà tecnologiche. Nel 1952 arrivarono a una bomba termonucleare in agosto, alcuni mesi prima degli americani. Nel contempo stavano avanzando rapidamente nella ricerca missilistica che infatti, dopo pochi anni, si manifestò con il lancio del primo satellite, aggirando dunque la difficoltà dei grandi bombardieri e la mancanza di basi avanzate. Ecco allora il doppio salto di qualità: entrambe le potenze avevano ormai bombe terribili e capacità di usarle, tanto terribili che usarle non voleva più dire vincere, ma suicidare il
mondo intero. Un vero «equilibrio del terrore» che impediva la guerra totale a chiunque non fosse pazzo. Piaccia o meno, gli effetti di una tale novità non potevano non essere grandissimi e duraturi. Sotto quell’ombrello e con quell’ipoteca la mia generazione ha vissuto per interi decenni. Ma a segnarne il percorso, le fasi successive, infine l’esito, doveva intervenire la politica, in tutte le sue forme e con tutti i suoi soggetti. E infatti l’intero scenario cominciò subito a ridefinirsi. 5.1 L’avvio della destalinizzazione Per cominciare vorrei concentrarmi su ciò che avvenne tra il 1952 e i primi anni sessanta nella politica e nella società sovietica e che va, approssimativamente, sotto il termine di destalinizzazione. Anzitutto perché ebbe un’influenza diretta e molto importante sugli sviluppi del Partito comunista e di tutta la sinistra italiana. In secondo luogo e soprattutto perché in quegli anni l’Unione Sovietica assunse realmente il ruolo di superpotenza, ed espresse la «spinta propulsiva» della Rivoluzione russa nella storia mondiale per la seconda e ultima volta. I primi segnali di svolta emersero ben prima e in forma ben più episodica di quello strappo clamoroso che poi si compì nel 1956, ma sono importanti per capirlo e valutarlo. Paradossalmente se ne vede qualche traccia ancora prima della morte di Stalin e, ambiguamente, vi contribuì egli stesso. Fu lui infatti a convocare dopo oltre dieci anni un congresso del partito. Lui a imporre, in quel congresso, un sommovimento nella struttura e nella composizione del gruppo dirigente che da un lato rafforzava ancora il suo potere assoluto, rendendo il Politburo pletorico e saltuarie le sue riunioni, ma dall’altro declassando, e perfino criticando apertamente i suoi più antichi e fidati collaboratori, come Berija e Molotov, e inserendo in posizioni di rilievo personaggi più giovani e meno compromessi, tra i quali Chruščëv. Nel suo ultimo scritto, Problemi economici del socialismo, la contraddizione si può cogliere in pieno, da un lato l’assenza di ogni accenno alla restaurazione della legalità e di ogni concreta proposta di riforma economica, mentre continuavano nei fatti insensate persecuzioni; dall’altro lato affermazioni che rovesciavano la linea del Cominform: l’evitabilità della guerra, la possibilità di diverse vie al socialismo, anche pacifiche, l’utilità della presenza di un settore affidato al mercato anche in Urss al fine di una più esatta determinazione dei prezzi. Alcune di queste affermazioni vennero riprese e ufficializzate nella relazione introduttiva
del XIX congresso affidata a Malenkov. Morto Stalin, senza un erede designato, il potere si trasferì nelle mani di una direzione collegiale che non poteva essere più eterogenea: Berija, Molotov, Kaganovič, Vorošilov – i più autorevoli ma col piombo nelle ali – Malenkov, Chruščëv, Bulganin, Micojan – più giovani ma al momento non classificabili. Tuttavia, e proprio questo è significativo, l’intero gruppo, per convinzione o per necessità, scelse una via di rinnovamento: affermò pubblicamente il principio della direzione collegiale, l’esigenza di riforme economiche a favore dell’agricoltura e dei consumi popolari, soprattutto avviò nei fatti, e non solo a parole, la liberazione di prigionieri politici, e la cancellazione dei procedimenti ancora in corso contro «i medici e l’Alleanza ebraica». A questo spingevano sia la situazione economica, che dopo una forte ripresa si trovava in nuove difficoltà, sia il timore di ciascuno di finire tra le vittime di una nuova lotta per il potere. Anche Berija consentiva, ma avendo conservato un grande peso negli apparati di repressione non ancora smantellati, costituiva una minaccia e fu presto l’ultima vittima dei suoi metodi. Seguì lo smantellamento e l’epurazione dell’onnipotente polizia segreta, e l’affidamento di un ruolo di garanzia all’esercito, alla cui testa tornava Žukov. Un secondo segnale di rinnovamento venne dalla politica agraria. Chruščëv, che ne era competente, scoperchiò brutalmente la pentola di una crisi mai superata sul piano produttivo e di cui i contadini pagavano il prezzo. La colpa non era più addebitabile solo alla guerra, c’era qualcosa da fare, e subito. Furono perciò adottate riforme, non coordinate in un disegno, ma immediatamente incisive: fu concessa ai contadini la libertà di produrre e di vendere ciò che volevano nel piccolo pezzo di terra a loro privatamente assegnato; furono alzati i prezzi che lo Stato pagava a kolchoz e sovchoz per ciò che portavano all’ammasso e abbassati quelli che essi dovevano pagare per prodotti industriali (beni di consumo, attrezzature). Infine si decise la messa a cultura di nuove terre non coltivate, chiamando giovani volontari: il primo anno, con poca esperienza, poche macchine, pochi concimi, il risultato fu deludente, ma già l’anno dopo divenne incoraggiante. Su questo Chruščëv acquistò un prestigio e una popolarità che ancora non aveva, fino a diventare primo nella segreteria del partito. Parallelamente Malenkov fu giudicato, dopo solo un anno, inconcludente come capo di governo e, dall’inchiesta postuma sull’«affare Leningrado», emerse una sua responsabilità diretta. Perciò, pur rimanendo nel Politburo, fu sostituito nel massimo incarico.
All’interno della direzione collegiale si profilava, già così, una gerarchia. Nella politica estera sovietica, sulla quale ovviamente si concentrava l’attenzione del mondo dopo la morte di Stalin, i segnali di novità furono all’inizio molto più modesti, forse perché Molotov vi aveva particolare competenza. La proposta di riunificazione della Germania come paese neutrale, che non era nuova e poneva un obiettivo tanto ambizioso da non poter ottenere nessun riscontro, se non dopo che si fosse creata una diversa situazione internazionale. L’incontro, dopo anni, dei ministri degli Esteri delle potenze vincitrici, che fu solo un segno di buona volontà senza contenuti e senza risultati. Il trattato di pace con l’Austria, impegnata alla neutralità, e il ritiro delle truppe occupanti, da tempo in calendario. Anzi, questi piccoli passi furono contraddetti da scelte che rivelavano una continuità tra le peggiori. Più di ogni altra, l’ostilità mostrata dall’Urss verso il governo di Mossadeq, che aveva nazionalizzato il petrolio iraniano, e fu poi rovesciato da un colpo di Stato organizzato dalla Cia, e più tardi impiccato. Il Partito comunista iraniano aveva condiviso tale ostilità, sulla base del principio del Cominform secondo cui era sospetto tutto ciò che si muoveva senza o contro l’opinione dei comunisti. Lo sottolineo perché da quella vicenda, dimenticata, iniziò, in lotta contro lo scià riportato sul trono dall’Occidente, l’avvicinamento tra masse iraniane e clero fondamentalista che oggi è il fenomeno generale che ben conosciamo. Proprio dalla politica estera, però, poco dopo venne il primo clamoroso strappo e, di riflesso, la prima incrinatura nel vertice sovietico. Il 26 maggio del 1955, Chruščëv sbarcò a Belgrado per riallacciare rapporti di amicizia con la Jugoslavia e riconoscerne nuovamente il carattere di società socialista. Al ritorno a Mosca dichiarò apertamente che la scomunica di Tito era stata un grande errore. Era un atto simbolico pieno di significato, perché implicitamente riconosceva che anche lo Stato guida poteva sbagliare, e tanto più perché ammetteva non solo la possibilità di diverse vie al socialismo, ma anche forme diverse di organizzazione della società (nel caso della Jugoslavia l’autogestione delle imprese, sia pure guidata dal Partito comunista e nel quadro di un piano). Altrettanto grande era la novità di questa riconciliazione sul piano della politica internazionale, perché Tito era reduce da una grande conferenza internazionale – a Bandung, presenti più di venticinque stati e partiti – da lui promossa insieme con Zhou Enlai, Sukarno, Nehru e Nasser, e dalla
quale prendeva forma il «campo dei paesi non allineati». La ricostruzione, sommaria ma puntigliosa dei primi anni della «destalinizzazione» ci fa capire che il XX congresso non fu un’alzata di ingegno di Chruščëv, episodio di una lotta per il potere, meteora che apparve col Rapporto segreto e si spense con l’intervento in Ungheria, ma l’evento più clamoroso in un processo lungo, tormentato, intrecciato con le trasformazioni della società e ostacolato da poteri e sentimenti radicati. Un processo che va considerato e giudicato nel suo insieme, e collocato in un determinato contesto storico. Solo così se ne possono capire valore e limiti, successi permanenti e nodi irrisolti e solo così si possono correttamente analizzare i singoli fatti che compongono il quadro. 5.2 Il XX congresso e il Rapporto segreto Il XX congresso del Pcus si svolse nel febbraio del 1956, per dieci giorni, ma in due fasi del tutto diverse, per argomento e modalità. La prima fase occupò quasi tutti i dieci giorni, aperta da una relazione di Chruščëv che tentava un’analisi della situazione internazionale e della società sovietica, avanzava una linea da adottare per l’una e per l’altra, citava Stalin, morto da poco, solo due volte e di sfuggita, era proposta a nome dell’intero gruppo dirigente e fu confermata da tutto il dibattito, sia pure con accenti diversi. Essa fu approvata con voto unanime e venne subito pubblicata. La seconda fase occupò invece poche ore, si limitò a un discorso di Chruščëv, cui non seguì né dibattito né voto, si diffuse lentamente, attraverso molti canali e in molte versioni: per questo va ancora sotto il nome di Rapporto segreto e fu interamente dedicato alla denuncia implacabile delle colpe di Stalin e del culto della personalità che egli aveva coltivato e ottenuto. Una divisione così netta in due fasi tanto diverse, per contenuto e modalità, una denuncia dello stalinismo in forma così rozza e tanto personalizzata erano utili? Non si poteva inserire quel discorso sul passato, con la necessaria durezza autocritica, in una riflessione più articolata e seria sulla storia dell’Unione Sovietica, per dare una base più forte alla valorizzazione di ciò che si voleva conservare, e più chiara di ciò che ora si doveva e poteva innovare? Questi interrogativi furono presenti da subito, tra i comunisti, tra i loro amici, anche tra quelli più convinti nel considerare il XX congresso, nel suo complesso, uno storico passo avanti. Non furono mai approfonditi, a mio parere, e ancora oggi non trovano
risposte adeguate. Una risposta al primo interrogativo fu trovata nel fatto che mentre sulla generale piattaforma discussa dal congresso era d’accordo l’intero gruppo dirigente, il Rapporto segreto fu un’iniziativa a sorpresa decisa in corso d’opera e a rischio personale da Chruščëv. Tale risposta indubbiamente conteneva qualcosa di vero – tanto che, un anno più tardi, quel gruppo si lacerò definitivamente – ma non regge. Tutte le ricerche e le memorie successive convergono infatti nel dire che, sia pure alla vigilia del congresso, quel Rapporto era stato comunicato, salvo particolari, a tutti i membri del Politburo e da essi più o meno convintamene accettato. Ancor meno regge la tesi che esso fu segreto, con l’intenzione di restringere l’ambito dei destinatari e ridurre l’impatto sulle grandi masse all’interno e all’estero. Perché esso fu subito letto e diffuso in assemblee di tutti gli iscritti aperte agli altri cittadini, venne inviato agli altri partiti comunisti liberi di usarlo e, alla fine, pubblicato sui giornali americani, su Le Monde, sull’Unità. Mai, nella storia dell’Unione Sovietica, un documento fu letto e discusso da tanta gente nel mondo (altro che segreto). Questo ci dice cose molto interessanti. Anzitutto che quello strappo era inevitabile, nessuno poteva frontalmente opporsi, per il semplice fatto che, aperta da tempo la diga delle scarcerazioni e delle riabilitazioni, migliaia e poi centinaia di migliaia di reduci dai campi, e famiglie che avevano subìto una perdita irreparabile, avrebbero rappresentato, senza un risarcimento politico e un reinserimento al lavoro, una forza disgregatrice nella società. In secondo luogo, che qualsiasi riforma, qualsiasi nuova mobilitazione sarebbe rimasta bloccata e inerte senza una scossa traumatica, tale da modificare il modo di pensare quotidiano della gente e permettere la sostituzione di quadri e di procedure cristallizzate nei decenni. Certo c’erano tanti lavoratori e militanti che del ritratto di Stalin sul muro, o nel cuore, non volevano fare a meno, c’erano molti intellettuali che avrebbero voluto che l’autocritica si estendesse ad altri partiti e altri leader, che con lui si erano compromessi, c’era qualche grande figura, Mao, Thorez, Togliatti, ognuno a suo modo, che diffidavano della grossolanità del discorso di Chruščëv. Ma tutti convergevano almeno su un punto: non si poteva liquidare Stalin in tutto ciò che aveva fatto e detto, e tanto meno addebitare ogni degenerazione al culto della personalità. Tutto molto giusto ma, secondo me, che devo pure fare le mie piccole autocritiche, in questi attacchi c’era anche la rimozione di un fatto. Nel Rapporto segreto, tra un sacco di cose che conoscevo da tempo e avevo digerito, per esempio quelle attinenti alla liquidazione di Trockij e di Bucharin, era emerso un
elemento nuovo che, credo, perfino Togliatti non aveva saputo o non voleva sapere: la dimensione di massa dell’esercizio del terrore, l’assenza di criteri nell’esercitarlo, la prevalenza tra le vittime di comunisti, anzi di comunisti di comprovata fedeltà. Era quello l’elemento che esigeva la denuncia drastica e recalcitrava alla spiegazione razionale (per quale necessità, con quale motivazione, a qual fine?). Quando, dopo tanti anni, ho riletto quel testo mi sono accorto di un aspetto che, come la Lettera rubata di Poe, era messo tanto in evidenza da sfuggire all’attenzione. La critica dello stalinismo, pur così dettagliata e drastica, si imponeva un’autocensura netta, perché si arrestava al confine inviolabile degli anni venti, nulla diceva della svolta fondamentale della costruzione del socialismo in un solo paese, che non andava valorizzata come autosufficienza, e nulla diceva né della trasformazione del regime interno del partito, né della forzatura nella collettivizzazione della terra, né dell’errore compiuto con la teoria del socialfascismo, poi corretta dal VII congresso dell’Internazionale. Insomma, si ometteva tutto ciò che era alle origini dello stalinismo ma che, al tempo stesso, poteva mettere in evidenza le condizioni oggettive che vi avevano contribuito, conquiste e traguardi che comunque aveva raggiunto. Proprio questo offriva una chiave di lettura del valore e del limite del XX congresso, quando infatti ho ripreso in mano la piattaforma iniziale, e le scelte concrete in cui essa fu tradotta in pratica, mi sono trovato davanti diverse sorprese. La più semplice e immediata viene dal tono di baldanzoso ottimismo della relazione introduttiva, dello stesso Chruščëv. Era un ottimismo propagandistico e di maniera, rivolto ad attutire il colpo della denuncia cui ci si preparava e che certamente avrebbe ferito l’anima dei comunisti e offerto argomenti ai loro avversari? Questa ipotesi è smentita dai fatti, perché, sia pure con molti travagli, il XX congresso nel suo insieme ottenne alla fine un consenso tra i comunisti, diffuse in loro una nuova fiducia, almeno per anni rinsaldò l’unità fra i loro partiti e, paradossalmente, fu considerato dall’avversario non come l’inizio di un disfacimento, ma come l’avvio di una nuova fase espansiva che obbligava anche loro a cercare un dialogo, e ad attrezzarsi a una nuova sfida. Cito tra tutti il giudizio di uno storico dell’Unione Sovietica, noto per serietà e acume, autore di una biografia di Stalin e di una di Trockij e di orientamento trockista, Isaac Deutscher, che, modificando molti giudizi, nel XX congresso vide il segnale che l’Urss, pagati prezzi terribili, poteva
riformarsi. In realtà in quell’ottimismo, certamente esagerato e anche generatore di molte illusioni, c’era una base reale. Infatti, nel momento in cui, in parte per l’equilibrio del terrore, in parte per la nuova politica sovietica, l’armatura della «nuova guerra fredda» gradualmente cadeva, emergeva eloquente un mondo nuovo che essa aveva nascosto. Dopo anni di containment e rollback, i comunisti governavano, o si avviavano a governare un terzo del mondo, gli imperi coloniali erano stati travolti e le potenze occidentali erano ancora impantanate, con crescenti difficoltà, a difendere ciò che ne restava, era sorto un ampio gruppo di nuovi stati molto poveri e fragili ma «non allineati» e che, anzi, nutrivano più simpatia per il socialismo che per coloro da cui si erano liberati. Nasceva una nuova cultura, non marxista ortodossa, che portava in primo piano il tema del Terzo mondo (la teoria della dipendenza) e quello dei diritti sociali come base necessaria della democrazia (il keynesismo trionfante). Quanto all’economia, la situazione dei paesi dell’Est non era quella disegnata dall’autopropaganda, ma il ritmo di sviluppo, con alti e bassi, restava nel complesso notevole; la ricerca scientifica aveva mostrato punte di eccellenza benché stentasse a tradursi in diffuso progresso tecnologico. Sul piano della democrazia politica non si vedevano ancora passi avanti, ma il ripristino della legalità e una maggiore tolleranza nella censura era considerato giustamente un passo significativo. Tutto questo non era solo una promessa, in parte era già in atto con il contributo della «destalinizzazione». Così una fede si incrinava, ma una speranza poteva sopperirvi. Ricordo che allora quasi non trovavi compagno che, pur ferito nel suo passato, o, come me, già con dubbi sul futuro, non pensasse e non dicesse: comunque stiamo andando avanti. Almeno per il breve-medio periodo la «nuova guerra fredda» era stata perduta da chi l’aveva promossa. Ma sempre rileggendo quel XX congresso, la prospettiva che si proponeva, e le scelte concrete che Chruščëv compiva, anche dopo essersi liberato dei suoi oppositori, già allora si poteva intravedere, e oggi è assolutamente chiaro, che vi mancava l’idea di una riforma complessiva della società e dello Stato, perché non toccava né la questione della democrazia politica né quella della statalizzazione totale e centralizzata dell’economia. Questo non vuol dire che in Chruščëv mancasse una volontà innovativa, o che non abbia introdotto, con più o meno successo, parziali ma coraggiose riforme, o che procedesse per improvvisazioni senza bussola, come gli rimproverarono i suoi oppositori, tanto meno che fosse un burocrate che
parlava di comunismo senza crederci. Era un contadino energico, irruente, di limitata cultura, che aveva combattuto da soldato semplice nella guerra civile, si era formato governando una regione agricola, curioso del mondo esterno e con una voglia reale di cambiare le cose che non andavano. Credeva nella coesistenza pacifica sia pure a modo suo, cercò per esempio una distensione con la potenza rivale, non più vista come il regno del male, tentando di stabilire almeno un contatto per evitare la guerra atomica «per errore», ma anche reagendo ai suoi atti di arroganza (come nella vicenda dell’aereo-spia U2). Avanzò qualche proposta di disarmo reciproco e controllato; sostenne i movimenti di liberazione nazionale (come quello palestinese, algerino o cubano) accettandone l’indipendenza fino al punto di tollerare l’assorbimento e perfino la dissoluzione imposta ai partiti comunisti locali (come in Egitto); in particolare riuscì a costruire un accordo sostanzioso con la Cina, rimasta fino ad allora «lontana» e che tornò poi a esserlo ancor di più, anche per colpa sua; mostrò qualche interesse al dialogo con la socialdemocrazia europea che non trovò riscontro. Non era una politica estera lineare e non corrispondeva a mutamenti nella politica economica interna che le sarebbero stati complementari, ma contribuì alla riduzione della guerra fredda e a costruire qualche importante alleanza (per esempio con l’India di Nehru, nel Medio Oriente, e poi con l’ancora indefinita rivoluzione cubana). Anche sul piano della politica economica e sociale avviò delle riforme. Una riforma dell’industria: raggruppandola non più per settori governati dal centro ma per regioni relativamente autonome. Era una scelta di decentramento che, pur trovando accanite resistenze nell’apparato del Gosplan, nell’immediato ebbe un effetto di stimolo dell’attività e di riduzione degli sprechi ma che, dopo pochi anni, produsse un corporativismo localistico a cui si reagì con una restaurazione di fatto dei vecchi ministeri. Come disse il direttore di un grande complesso (l’Uralmas), «le innovazioni organizzative servono a poco se la scienza non ci fornisce strumenti più precisi di calcolo della produttività e le imprese non hanno maggiori possibilità di metterli in opera». Di quella riforma rimase prevalentemente traccia solo in un dibattito tra scuole di pensiero economico, acceso e importante come quello degli anni venti, ma a differenza di allora del tutto indifferente per la direzione politica e l’opinione pubblica. Una nuova riforma dell’agricoltura ebbe maggior peso effettivo. Confermò ed estese la possibilità dei kolchoz, non più solo dei singoli contadini, di
decidere cosa produrre e come vendere quanto superava il minimo obbligatorio fissato per l’ammasso; e smantellava le Smt (cioè gli organismi statali che avevano in proprietà i mezzi meccanici, provvedevano alla loro manutenzione, ne disponevano l’impiego) trasferendone la proprietà alle cooperative. Era una riforma apprezzata e radicale, poteva aprire una strada nuova per la produttività e la distribuzione del reddito, che però trascurava ciò che doveva esserne il presupposto, cioè competenza imprenditoriale dal basso, capacità per riparare i mezzi in avaria o acquistarne di nuovi, concimi sufficienti e convenienti, reti allargate per trasportare lontano e conservare i prodotti, mercati e prezzi per venderli. Cosicché alle grandi speranze, proprio in questo settore, non corrisposero risultati brillanti e duraturi. Più innovativa nelle intenzioni, e in questo caso più generosa di successi, fu la riforma della scuola. Essa finanziò e organizzò una formidabile crescita dell’accesso all’istruzione, una seconda campagna di alfabetizzazione a livelli superiori (in pochi anni si triplicò il numero dei licenziati alla scuola media, e si portarono gli studenti universitari a oltre due milioni l’anno). Ma soprattutto, per la prima volta al mondo, la nuova scuola sperimentava l’idea della contemporaneità tra scuola e lavoro, che non solo doveva estendere l’istruzione prolungata anche agli strati sociali più umili, ma stabilire nel processo formativo eguaglianza di opportunità e mobilità sociale verso l’alto, senza distinzione di origine. Proprio questo aspetto più avanzato rimase però attuato solo parzialmente. Prima e più di tutte queste riforme, a creare consenso e stimolare partecipazione, soprattutto nel popolo, furono però alcune scelte che oggi definiremmo «stato sociale»: aumento moderato ma costante del salario reale, fermo da tempo; riduzione del distacco tra il reddito degli operai e quello dei tecnici; miglioramento diffuso della copertura sanitaria, aumento delle pensioni e degli aventi diritto a percepirle. Questo rimase il fiore all’occhiello del sistema per decenni. Su due punti, già indicati, la spinta innovatrice si ridusse a poco, o addirittura divenne fuorviante. In primo luogo la persistenza del soffocante intreccio tra Stato e Partito, il loro potere diretto e assoluto sull’economia e nella società e il carattere piramidale della loro struttura. Il passo avanti compiuto al XX congresso con il ripristino della legalità non fu mai cancellato malgrado qualche arbitrio di fatto ma circoscritto. Ma i confini che la legge segnava tra legalità e illegalità non si spostavano di molto, gli spazi di libertà di stampa, di parola, e le possibilità reali di influire sulle
decisioni restavano ristretti, o concessi di volta in volta bizzarramente dall’alto (come simboleggiano, con segno opposto, la pubblicazione del libro di Solženicyn e il divieto al romanzo di Pasternak o la soppressione di Novi Mir). In secondo luogo la crisi dell’ideologia nella forma di una dissociazione. Da una parte l’ideologia ufficiale, il marxismo-leninismo, non a caso appaltato a Suslov, diventava via via un semplice catechismo, demarcazione rispetto a ogni eresia, incapace di stimolare passioni nel popolo e tanto più ostacolo alla ricerca degli intellettuali, un guscio vuoto. Dall’altro lato, a questo vuoto suppliva un’idea generale che ispirava Chruščëv e divenne sempre più esplicita. L’idea cioè che la competizione tra socialismo e capitalismo si risolvesse e si riducesse a una gara nei risultati economici: il socialismo sarebbe finalmente compiuto e al comunismo verrebbero aperte le porte, quando l’Unione Sovietica avesse raggiunto e superato i livelli produttivi degli Stati Uniti. Un traguardo improbabile, anche se molti in Occidente al momento lo presero sul serio, e che, soprattutto, toglieva al marxismo la sua forza motrice, cioè la fiducia in una società qualitativamente diversa; perpetuava il maggior errore di Stalin, cioè l’autosufficienza della Rivoluzione russa; e offriva una nuova e più povera giustificazione al ruolo dello Stato guida. Inoltre la definizione dello Stato monopartitico come Stato «di tutto il popolo» – che apparentemente ambiva ad attenuare l’asprezza del termine «dittatura del proletariato» e confutava la teoria staliniana dell’inasprimento della lotta di classe, giustificazione di ogni arbitrio – in realtà rifiutava di riconoscere le «contraddizioni all’interno del popolo» e quindi ogni conflitto sociale o culturale. Nella versione Chruščëviana volutamente grossolana: «il socialismo del gulash». Qui nascevano le premesse della futura glaciazione brežneviana, cioè della sostituzione, tra le masse, dell’ipersoggettivismo staliniano con l’apatia politica e ideale e, tra i quadri, del timore delle epurazioni con il cinismo burocratico. La parabola del Chruščëvismo, dagli iniziali successi al defenestramento quasi silenzioso nel ’64, era dunque scritta nelle sue premesse. 5.3 Polonia o Ungheria Non si può concludere una storia e un’analisi della «destalinizzazione» senza un’appendice dedicata a ciò che, immediatamente dopo il XX congresso, accadde nell’Europa orientale. Uso il termine Europa orientale
perché i due avvenimenti più drammatici, la crisi polacca e quella ungherese, furono gli aspetti più vistosi di un problema più vasto e potevano rapidamente coinvolgere una ben più estesa area del mondo, che aveva assunto un ruolo simbolico nell’intera guerra fredda. La spada del Cominform, nel 1948, aveva di colpo liquidato il tentativo di costruzione graduale di una società socialista nella forma originale delle «democrazie popolari», che poteva includere il multipartitismo e l’economia a due settori, cosicché le differenze risultavano, anziché ridotte, brutalmente cancellate. Tutti erano stati integrati, nella politica estera e nella struttura economica, entro il sistema sovietico. È evidente quale choc doveva produrre il XX congresso. La speranza di riforme profonde e di un ricambio di gruppi dirigenti era più che legittima e incontenibile; soddisfarla, restaurando di colpo la situazione precedente, non solo era difficile, ma probabilmente, nel concreto, avrebbe portato alla restaurazione di regimi precedenti la guerra, e alla loro integrazione nel blocco economico e militare atlantico. Il vertice sovietico non seppe e forse non volle cercare una soluzione intermedia e governarla; i governi locali, oltre a sentirsi bersaglio obbligato di qualsiasi rinnovamento, erano frastornati dal XX congresso. Una svolta poteva partire solo da una protesta dal basso, spontanea, priva di leader e di programmi definiti. Cominciò in Polonia, seguì in Ungheria. Ma assimilare l’una all’altra è del tutto abusivo. Non solo fu diversa la conclusione, furono diverse le premesse, la dinamica, i soggetti in campo, gli obiettivi e, alla fine, anche la situazione internazionale circostante. Alla fine della guerra, la Polonia era stata il paese cui era più difficile assicurare un governo. Aveva opposto a Hitler una resistenza eroica e tragicamente repressa, ma divisa. Era animata da un’antica e frustrata fierezza nazionale, perché da secoli stretta tra due grandi e arroganti imperi. Detestava, più che i comunisti, i russi, che prima di liberarla avevano accettato la sua spartizione, ma ancor più odiavano i tedeschi che l’avevano invasa e massacrata. Componente dello spirito nazionale era l’identità cattolica, stretta tra protestantesimo e chiesa ortodossa. Il Partito comunista era quindi minoritario, ma aveva incorporato la fierezza nazionale e messo radici tra gli operai e anche tra i contadini poveri, cui aveva concesso le terre ormai svuotate dai tedeschi fuggiaschi, e aveva un leader riconosciuto e forte che non a caso, ai tempi del Cominform, era finito in carcere. La rivolta polacca iniziò il 28 giugno del 1956, in un centro minore, nella forma di uno sciopero operaio su rivendicazioni salariali, e quando
divenne manifestazione politica fu represso dalla polizia, con ventotto morti. Già poche settimane dopo, al processo contro i suoi promotori, trapelò l’intenzione del governo di non usare oltre la maniera forte, i giudici riconobbero fondati i motivi dello sciopero e le condanne furono molto lievi. Ma questo non bastava. Infatti, poco dopo, la protesta ripartì da Varsavia e divenne apertamente politica. Il potere, per aprire un dialogo, scarcerò Gomulka e lo reintrodusse nel Comitato centrale, ma il movimento continuò nella protesta. Quasi per intero il Politburo di Mosca partì allora per Varsavia, con l’intenzione di promettere, o di imporre, un intervento dell’Armata rossa. Al suo arrivo trovò che Gomulka era stato eletto all’unanimità dal Comitato centrale segretario del partito. Si svolse quindi un’aspra trattativa, per un’intera notte, Gomulka tenne duro, i sovietici si convinsero e si raggiunse un serio compromesso. Chruščëv riconosceva la piena indipendenza nazionale della Polonia, l’autonomia del partito nel definire una propria via al socialismo, la destituzione di Rokossovskij (di nazionalità polacca ma generale russo) dal comando dell’esercito. Gomulka confermò da parte sua l’impegno a mantenere alla Polonia il carattere di una società socialista e la fedeltà al Patto di Varsavia. A riportare l’ordine contribuirono subito misure economiche a favore dei salari e la revisione del piano di investimenti a sostegno di migliori consumi. Un contributo definitivo arrivò dall’«invito alla calma» del cardinale Wyszyński, da tempo ritiratosi per protesta in un monastero, che tornò al suo posto e trattò con il Vaticano un miniconcordato, in cui era riconosciuta la libertà religiosa, la scuola pubblica laica, ma la possibilità di istruzione religiosa a chi la voleva. Tutto si concluse con elezioni monopartitiche ma con pluralità di candidati che, senza costrizione, come riconobbero tutti, portò il 98% della popolazione a votare. Un esito positivo e sorprendente, pur nei limiti di un compromesso. La vicenda polacca parlò subito agli ungheresi. Ma qui già le premesse erano diverse. L’Ungheria era stata governata per vent’anni da un ammiraglio fascista, dopo che una rivoluzione improvvisata era naufragata nel sangue. Fino all’ultimo era stata a fianco dei nazisti, il forte nazionalismo era stato storicamente guidato dall’aristocrazia, e usato per assicurarle una partnership nell’impero austro-ungarico, l’intellettualità era molto brillante, cosmopolita e di orientamento liberale, la proprietà terriera prevalentemente parassitaria, parte dei contadini legati a una Chiesa qui particolarmente reazionaria, anche perché proprietaria di grandi feudi ora espropriati, le imprese industriali erano state da tempo in mano ai tedeschi
ora fuggiti o espulsi. L’Armata rossa era arrivata non come liberatrice, ma come esercito vittorioso e come tale si era atteggiata; il Partito comunista era perciò debole (il 14% dei voti alle prime libere elezioni) e il suo gruppo dirigente cronicamente diviso. Dopo l’eliminazione di Rajk, aveva preso il potere Rákosi, uomo legato a Berija, capo di fatto di una polizia segreta (l’Avo), che usava con mano ruvida. Malenkov perciò l’aveva sostituito con Nagy, uomo più aperto, ma di non grande energia né acume, e Chruščëv, nel ’55, mentre si preparava al XX congresso, con un incomprensibile errore aveva permesso a Rákosi di tornare al vertice. Gli avvenimenti polacchi accesero dunque gli animi, senza poter suggerire un orientamento né trovare chi lo gestisse. Il primo segnale di contestazione venne dall’università, prevalentemente da insegnanti e intellettuali più o meno sulla linea di Gomulka. Ma già il giorno dopo furono gli studenti a prenderne la testa e alzando il tiro negli obiettivi (Nagy subito al governo, smantellamento della polizia politica, più ampia libertà di espressione) e soprattutto convocando, per il 23 ottobre, una manifestazione di massa cui chiedevano, con piccole assemblee di strada e volantini, agli operai di partecipare. Prendeva inizio una vera rivolta di massa veloce, ma a tappe distinte, non facile da ricostruire in modo oggettivo. Infatti i racconti sono molto ricchi, molto numerosi e molto spesso contraddittori. Forse l’informazione più completa e attendibile è rintracciabile sulla stampa americana, ovviamente presente dati i suoi mezzi, fin dall’inizio e con più inviati, e in alcune opere di storici, che l’hanno vagliata e riordinata. Userò prevalentemente questi materiali, senza trascurare rapporti di giornalisti appassionati e coraggiosi che, via via, dall’Italia «accorsero al fronte». Il 23 ottobre la manifestazione di piazza indetta dagli studenti, prima proibita poi «sorvegliata», ebbe subito carattere di massa, soprattutto giovani e allievi ufficiali, ma gli operai non c’erano ancora. Partendo dal monumento a József Bem, si diresse verso il Parlamento e verso la radio, che rifiutò di comunicare le richieste avanzate, mentre il nuovo segretario del partito, Gerő, che aveva sostituito in fretta Rákosi, ma era una sua controfigura, pronunciò un discorso arrogante e intimidatorio, tale da esacerbare gli animi. Più di 200mila persone riempivano ormai tutte le strade. Cominciarono isolati tafferugli, fu abbattuta la statua di Stalin, si lanciarono petardi, corse voce di un morto imprecisato, fu tentata l’occupazione della radio. Alla polizia e all’esercito presenti arrivò, non si sa da chi e come, l’ordine di usare le armi. La polizia politica le usò,
provocando le prime vittime, ma l’esercito in gran parte si rifiutò di farlo, anzi alcuni reparti consegnarono le armi ai giovani. Cominciarono veri conflitti e dalle fabbriche, particolarmente dalla più importante, la Cespal, arrivarono in camion gli operai. Era ormai una vera rivolta, nella quale via via s’inseriva l’«antica pancia reazionaria» della capitale. Nella notte Gerő fece due gravi errori, chiese aiuto al comandante delle truppe sovietiche presenti in Ungheria, Timonov, e contemporaneamente nominò Nagy Primo ministro, senza darne comunicato al paese e impedendogli di dire che non era stato lui a chiamare quelle truppe. I carri sovietici arrivarono a Budapest. E contemporaneamente arrivarono Suslov e Mikojan che, non capendo il senso di un intervento che aggravava la situazione senza risolverla, esonerarono Gerő e lo mandarono a Mosca. E infatti quei carri armati, o per ordini non si sa di chi, o semplicemente perché così volevano, restarono inattivi, anzi spesso colloquiavano dalle torrette con i rivoltosi. Il salto di qualità nella violenza e nella confusione avvenne la mattina del 25 ottobre, quando forti reparti della polizia politica spararono raffiche dai tetti sulla piazza del Parlamento gremita di dimostranti frammisti ai carri armati sovietici, sui quali erano stese bandiere ungheresi, facendo centinaia di morti. I carri sovietici, convinti di essere attaccati dai controrivoluzionari, spararono sui tetti fino a far tacere i poliziotti assalitori. Mentre la rivolta rompeva gli argini, molti carri sovietici venivano incendiati, i soldati non sapevano che fare, cominciava la caccia isolata al comunista, si assaltavano le sedi di partito; anziché definirsi svaniva nel nulla la ricerca di un accordo e la possibilità di imporlo. In un estremo, quanto tardivo tentativo, i sovietici emisero, il 30 ottobre, da Mosca, un comunicato impegnativo ancor più concessivo sulla questione dell’indipendenza di quanto non fosse il testo firmato con Gomulka e ottennero, a sostegno e a dargli solennità, la firma dei cinesi. Nel documento era previsto anche il ritiro definitivo di tutte le truppe straniere dall’Ungheria e da ogni altro paese l’avesse voluto. Si saprà più tardi che quel comunicato fu votato a maggioranza nel Politburo di Mosca, ma solo grazie ai voti aggiuntivi di Žukov e Konev, rispettivamente ministro della Difesa e comandante in capo del patto di Varsavia. Ormai però non c’era più interlocutore che potesse fermare la spontaneità della rivolta, che via via cambiava i propri obiettivi e i propri dirigenti: ora si chiedeva diffusamente l’uscita dal patto di Varsavia, immediate elezioni e una nuova costituzione; il cardinal Mindszenty invitava a rovesciare ovunque il comunismo e decideva di fondare subito un partito cattolico; il comandante della «guardia nazionale», e consigliere militare di Nagy,
divenne un generale dello Stato maggiore di Horthy; la voce dell’America lanciava appelli incalzanti alla rivolta in tutti i paesi dell’Est e prometteva un sostegno che non sarebbe mai venuto. Nagy esitò a lungo, poi accolse gran parte di queste richieste, compreso il ritorno al multipartitismo e la libertà di scelta nelle proprie alleanze internazionali. Si aprì così un dilemma, ben oltre il punto di partenza, e drammatico. Lasciare l’Ungheria al suo destino, ormai quello, rivolto a Occidente, con forte probabilità che l’imitassero altri stati consimili, come la Slovacchia e la Romania, o invaderla pagando un prezzo ancora più pesante? La seconda scelta guadagnava terreno, ma non era ancora compiuta alle due e mezzo del 30 ottobre; alle quattro venne l'annuncio dell’occupazione anglo-franceseisraeliana del canale di Suez. A questo punto la partita cambiava regole e posta. Non era più in gioco l’Ungheria, ma l’intero equilibrio mondiale, il vincitore o il vinto della «nuova guerra fredda», il rovesciamento di Chruščëv. E infatti, consultati o di loro iniziativa, tutti i paesi comunisti, Cina e Jugoslavia comprese, chiedevano una soluzione drastica. E drastica fu: contro una resistenza disperata che gli americani, dopo averla invocata, si guardavano bene dal sostenere e che si concluse con un migliaio di morti, ungheresi ma non solo. Inglesi, francesi, israeliani furono convinti presto a tornarsene a casa da Suez. Quel finale era obbligato? Al contrario: fu la conclusione inevitabile di una serie di errori colossali dei comunisti, sia a Budapest sia a Mosca, e di contrapposte ipocrisie. La mia tesi (come atti successivi avrebbero confermato) è che la vicenda ungherese del ’56 segna una tragica e costosa battuta di arresto, ma non la fine di una tendenza alla distensione, che sarebbe durata. La Polonia ne definisce meglio il valore e il limite, infatti Kádár, che ne assunse a Budapest la dura eredità, si mosse sostanzialmente per anni più o meno come Gomulka. Ricordo un incontro diretto e ristretto che ebbi con lui, in cui accompagnavo Emanuele Macaluso. Ricordo anzitutto la sua faccia affascinante, composta e tragica, specchio di una vita che l’aveva portato in carcere a opera dei suoi compagni e l’obbligava, poi, a riparare i danni di un dramma cui era stato estraneo. Eravamo lì a parlare con lui perché, nel 1963, volevamo evitare un’assemblea mondiale dei partiti comunisti che doveva anzitutto scomunicare la Cina (nuovo trauma) e sapevamo che anche Kádár non la desiderava. Ci rispose che giudicava quella conferenza
inopportuna, ma non poteva rifiutarla nettamente. E quando chiedemmo perché, il suo braccio destro, direttore del quotidiano del partito, ci rispose così: «Qui da noi si dice che se, allacciando il panciotto, sbagli un’asola, il modo più semplice e rapido di riparare l’errore è quello di cominciare da capo, ma noi non siamo in grado di farlo».
6 Il Pci nella destalinizzazione
I primi segnali di svolta nella politica sovietica, e di una minore asprezza della guerra fredda, a partire dal 1952, e soprattutto dopo la morte di Stalin, aprirono uno spazio molto maggiore al Pci; la lotta vincente contro la «legge truffa» avrebbe dovuto incoraggiarlo a utilizzarlo subito. La via intrapresa con la svolta di Salerno non solo poteva essere confermata più apertamente, ma poteva essere sviluppata e precisata. Non si può invece negare che il Pci, e lo stesso Togliatti, pur avvertendo l’importanza del processo che si era avviato, anziché intervenirvi attivamente e all’avanguardia, lo seguiva con un po’ di passività e a volte con qualche incertezza. Almeno fino allo strappo intervenuto nel 1956. Quando dico incertezza, mi riferisco soprattutto alla politica interna, cioè al modo in cui intervenne su una crisi, confusa ma reale, che si era aperta nelle forze al governo: tanti mesi perduti mettendo in primo piano «l’affare Montesi», aperture dapprima concesse al pessimo governo Pella e presto giustamente ritirate, l’atteggiamento ondivago assunto rispetto ai prodromi dell’«apertura a sinistra»; la sopravvalutazione dell’elezione di Gronchi e l’indifferenza invece verso la nuova sinistra democristiana, all’inizio distinta dal fanfanismo, verso le prime iniziative di Mattei, di Saraceno, della Svimez, verso alcune minoranze cattoliche che, fuori dal partito e dalla gerarchia, anticipavano l’ispirazione del papato giovanneo. Quando invece dico immobilismo, mi riferisco a tre fatti più corposi, che offrivano una vera occasione di discussione e di rinnovamento e invece furono affrontati con grande prudenza. L’iniziativa di Chruščëv, la sua autocritica rispetto alla condanna di Tito, avrebbe permesso anche al Pci non solo una propria autocritica di quella scomunica, totalmente condivisa, ma una critica generale della riunione di Szklarska Poreęba, in cui lo stesso Pci era stato sul banco degli imputati. Tutto ciò fu evitato. La sconfitta alla Fiat del 1954 poteva inoltre incoraggiare una ricerca e un’iniziativa nuove sui processi ormai in atto nelle tecnologie e nell’organizzazione del lavoro, e invece fu letta, almeno in partenza, come pura conseguenza della repressione vallettiana. Infine, la rimozione di Secchia dalla commissione di organizzazione, che derivava da un dissenso reale, e come tale andava in qualche misura spiegata, venne invece ridotta alla triste vicenda Seniga, anch’essa tenuta segreta: cosicché fino all’VIII congresso un riassetto dei gruppi dirigenti rimase sostanzialmente bloccato
e i metodi di gestione del partito divennero solo un po’ più elastici e tolleranti. Sarebbe ingeneroso non vedere che tale impaccio nasceva anche da ragioni oggettive. In Italia la nuova guerra fredda si trascinò più a lungo e, nel ’54’55, ebbe anzi un ritorno di fiamma. Il governo Scelba-Saragat ripropose le pratiche della repressione poliziesca (nello stesso giorno della sua nascita ci furono quattro morti durante una manifestazione a Mussomeli), e si aggiunse l’esclusione per legge dei comunisti da ogni posto di rilievo nella pubblica amministrazione; licenziamenti e punizioni nelle fabbriche per ragioni politiche divennero ancor più sistematici; la censura diretta o nascosta ai danni delle attività culturali fu più stringente; una prima e ancora limitata ondata di assunzioni al lavoro dell’industria fu politicamente discriminatoria; le divisioni aspre tra le confederazioni, e l’influenza della Coldiretti e della Federconsorzi accentuavano la difficoltà delle lotte sociali. Infine era cresciuto, anziché attenuarsi, l’intervento diretto dell’ambasciata americana: l’affacciarsi di un eventuale allargamento dell’alleanza di governo al Partito socialista era visto con preoccupazione ed esigeva una ancor più netta discriminazione dei comunisti. A ostacolare il rinnovamento contribuivano anche fattori soggettivi. Gli anni duri avevano lasciato un segno, la chiusura del partito in se stesso e l’irrigidimento ideologico portavano a ricercare, paradossalmente, uno sbocco più in termini di manovra politica al vertice e in Parlamento, che di un allargamento degli interlocutori sociali e culturali. Il Pci arrivava dunque alla grande temperie del 1956 in condizioni non ottimali. 6.1 Togliatti e il Rapporto segreto Il «partito nuovo» di Togliatti però aveva precorso molte delle novità che emergevano più chiaramente nel ’56 dal XX congresso e, grazie a quella che ho definito «riduzione del danno», erano rimaste vitali nei suoi cromosomi, l’evitabilità della guerra, la molteplicità delle vie al socialismo (compresa la «via democratica»), la necessità di superare la guerra fredda e di cercare vaste alleanze, una maggiore autonomia della cultura e dell’arte, una pianificazione economica meno rigida e centralizzata. Vederle finalmente legittimate dall’Unione Sovietica e già confermate da qualche fatto, soprattutto dai successi delle lotte anticolonialiste e dal recuperato
equilibrio militare, costituiva quindi una grande soddisfazione e una speranza. E alla lunga questo elemento prevalse. Altrettanto non si può dire del Rapporto segreto. Anzi su questo versante il Pci, a tutti i livelli, era esposto ancor più di altri. Era un partito di massa, che si scontrava con un altro grande partito di massa, la Dc, che controllava tutti i mezzi di comunicazione; ed era articolato in un «partito di popolo» e un «partito di quadri», il cui cemento era una forte fede comune. Tale fede gli aveva permesso di resistere all’incessante pressione dell’avversario, di allargare il proselitismo anche in fase di riflusso del movimento di massa, di sopportare persecuzioni e sacrifici, di far prevalere l’unità sulla concorrenza nel rapporto con l’alleato socialista (che già manifestava qualche incrinatura), una fede, per di più, fondata sulla memoria della lotta antifascista e sulla fiducia nell’Unione Sovietica impersonata dal suo capo, Iosif Stalin. La demolizione improvvisa di Stalin apriva perciò una lacerazione profonda nel cuore e nel cervello di ogni militante. Non solo, né forse soprattutto, per le cose che venivano rivelate, alcune attutite dall’incredulità, altre ascritte alle necessità della storia, ma perché rivelate dallo stesso partito sovietico, con brutalità e senza nessuna spiegazione. Ben più del timore di esserne coinvolto come corresponsabile, o del fastidio per la rozzezza del linguaggio Chruščëviano, fu la preoccupazione per la prevedibile sofferenza e per il disorientamento del partito che spiega quindi la malcelata ostilità iniziale di Togliatti verso il Rapporto segreto e l’ingenuità, in lui sorprendente, con cui si illuse di poter evitare lo scoglio tacendo il fatto o mettendo in dubbio l’attendibilità delle versioni che, per qualche mese, via via trapelavano del testo. Del Rapporto segreto non riferì nulla alla Direzione del partito, e pare alla stessa segreteria; ancora al successivo rapporto al Comitato centrale del 13 marzo, dedicato al XX congresso, non vi fece cenno. Anche quando i primi stralci del testo erano ormai già apparsi sul New York Times, e non smentiti, Togliatti li definì «una manovra abbastanza sguaiata» di «scimmie urlatrici». Al consiglio nazionale del 3 aprile, in preparazione delle ormai prossime elezioni amministrative, per evitare la «patata bollente» dedicò uno spazio limitato al XX congresso; il che provocò un evidente disagio nell’assemblea e spinse Amendola e Pajetta a intervenire con toni esplicitamente diversi, per insistere sull’esigenza di un profondo rinnovamento; ma nelle conclusioni, con un richiamo a ciò che «Stalin ha fatto di buono, malgrado certi errori», strappò alla platea un’ovazione che
rispecchiava il tormentato stato d’animo del partito. Questa ostinata reticenza servì forse a contenere al minimo un arretramento (–0,8%) alle elezioni, concentrato nelle grandi città del Nord e nei quartieri popolari, il che indicava come il dissenso, l’emorragia maggiore, si sviluppasse più contro la liquidazione di Stalin che a favore di un suo inasprimento. Ma quando il testo integrale venne pubblicato in America e poi in Francia, cioè all’inizio di giugno, Togliatti, a differenza di Thorez, non insistette più nell'ignorarlo: al contrario prese il toro per le corna e, senza alcuna discussione preventiva in Direzione, pubblicò una lunga intervista su Nuovi Argomenti, interamente dedicata al tema della «destalinizzazione». Se si rilegge quell’intervista prescindendo dal contesto in cui si collocava, gli interlocutori principali cui era rivolta – cioè il partito e il suo travaglio, l’attacco dell’avversario che voleva liquidare con Stalin l’intera Rivoluzione russa – si può facilmente sminuirne il valore. Le cose che si dicevano in quell’intervista non erano del tutto nuove (salvo una); gli approfondimenti storici di cui si affermava l’urgenza omettevano alcuni punti scottanti, la coerenza del ragionamento spesso non era impeccabile nella sua logica interna né in rapporto ai fatti cui si applicava. Tuttavia, nella situazione data, considero tuttora quell’intervista un piccolo capolavoro politico. Essa parte, e alla fine si conclude, con un postulato, cioè con un’affermazione che non ha bisogno di dimostrazione perché si offre come un’evidenza. Il postulato era che gli errori di Stalin, comunque si voglia giudicarli ed elencarli, non hanno impedito alla Rivoluzione russa di gettare le basi strutturali di una nuova società socialista, né di vanificarne il valore propulsivo. Quella società, malgrado l’estrema arretratezza da cui partiva, i diciotto anni su quaranta passati in guerra o nella ricostruzione, malgrado l’isolamento e la permanente minaccia che la pressavano, in pochi decenni ha creato un sistema produttivo moderno e dinamico, ha alfabetizzato un intero paese, unito etnie diverse del vecchio impero, vinto un’aggressione drammatica, creato un’élite scientifica di alto livello, ottenuto un grande consenso popolare, una partecipazione politica appassionata, e si è estesa infine a nuovi paesi, creando un nuovo equilibrio mondiale. Tutto ciò è sotto gli occhi di tutti e persiste. Gli errori, compresi gli arbitrii e i delitti, possono aver frenato o in certi casi deviato il processo, ma non l’hanno interrotto né snaturato. E la stessa autocritica, benché discutibile per certi suoi aspetti, testimonia, anziché una crisi, una forza raggiunta e contribuisce al suo ulteriore sviluppo.
Il postulato, in sé, rassicurava la gran parte dei militanti e anche il gruppo dirigente sovietico; poteva essere criticato, ma non del tutto negato, dagli avversari onesti; permetteva una discussione seria anziché disorientamento e rissa. A questa discussione l’intervista nel suo complesso portava argomenti nuovi, cercando di orientarla senza soffocarla. Mi pare utile ricordarne alcuni punti senza tacerne alcune debolezze. 1) Del Rapporto segreto Togliatti prendeva finalmente atto, non cercava di nascondere la gravità delle rivelazioni che conteneva: non solo errori gravi, ma anche arbitrii e crudeltà di cui Stalin era stato a lungo il principale responsabile e che non erano imposti da necessità oggettive, ma avevano portato inutili danni. Anzi, dopo tanta reticenza, egli andava oltre la semplice ammissione. «Non si può attribuire tutto al “culto della personalità” e poi riprodurlo alla rovescia: attribuire ogni colpa a Stalin dopo avergli attribuito ogni merito.» Senza attenuare le critiche occorreva perciò vedere come e dove quelle deviazioni avevano tratto origine e perché erano durate così a lungo, occorreva un’analisi storica più approfondita e più equanime. In questo modo Togliatti rispondeva all’inquietudine dei militanti, che non volevano gettare per intero al macero una fiducia cui avevano tanto concesso, e infine rivolgeva una critica a Chruščëv, che non poteva respingerla perché sollecitata all’interno dell’Unione Sovietica e ancor di più dal partito cinese e da quello jugoslavo. 2) Egli stesso avviava questa riflessione storica, violando il tabù che imponeva di limitare la critica di Stalin alle vicende degli ultimi anni trenta. Indicava infatti come origine dello «stalinismo» alcuni errori già compiuti negli anni venti, come per esempio le modificazioni intervenute nella gestione verticistica del partito, oppure il carattere troppo sbrigativo della pur giusta scelta di collettivizzazione agricola. Stabiliva una ulteriore distinzione tra le illegalità compiute nel ’37-’38, nel quadro di una lotta senza quartiere contro un reale pericolo di sovversione e terrorismo, e gli abusi compiuti nel secondo dopoguerra senza giustificazioni e senza criterio. Ancora, citava grandi svolte positive, di cui Stalin era stato promotore, come quella del VII congresso, o grandi risultati ottenuti sotto la sua guida, come la guerra vittoriosa e l’eroica mobilitazione di massa che l’aveva resa possibile. Ometteva però di citare la svolta del Cominform e i suoi riflessi nel Pci. 3) In un altro capitolo importante dell’intervista, l’omissione diventava però contraddizione: il problema della democrazia. Togliatti si impegnava
con efficacia nel mettere in risalto, più di quanto non facesse da anni, il carattere limitato e formale delle istituzioni politiche classicamente parlamentari. E per poter contrapporvi senza troppo facili smentite la superiorità della «democrazia socialista» ridefiniva il concetto di «dittatura del proletariato» richiamando il Lenin di Stato e Rivoluzione (democrazia fondata sui soviet), ben diverso da quello espresso nell’opuscolo su La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky. Era una novità non da poco, che dava al concetto di «via democratica» una qualificazione più avanzata e trovava eco positiva alla sua destra e alla sua sinistra. Ma si poteva credibilmente affermare che in Unione Sovietica il potere sostanziale era effettivamente nelle mani dei soviet? 4) Una contraddizione analoga si riproduceva in un passaggio successivo e importante dell’argomentazione. Là dove Togliatti coraggiosamente affermava che gli errori del passato non possono essere attribuiti solo alla sfera politica, ma dovevano necessariamente essere visti come causa e prodotto anche di alcuni fenomeni di parziale «degenerazione» in alcuni punti della società (burocratizzazione di alcuni settori dell’amministrazione, mortificazione delle masse in una parte dell’economia). Non c’è dubbio infatti che questa affermazione risultava persuasiva, al partito e a molti altri perché, più ancora di una recriminazione, vi emergeva una autentica volontà riformatrice. Ma ben difficilmente essa poteva essere accettata dai sovietici, che infatti su quel passaggio rivolsero una critica netta, concentrata prevalentemente sull’uso del termine «degenerazione» di vago sapore trockista, e che non fece danno. Piuttosto è da rilevare che essa mal si conciliava con un’altra affermazione che la seguiva: «La nostra riflessione critica riguarda istituzioni e comportamenti della politica (la sovrastruttura), non il sistema sociale (che è stato ed è pienamente e coerentemente socialista)». 5) Sorgeva comunque un’ulteriore domanda. Se gli errori di Stalin erano disseminati in un tempo lungo, e nell’ultima fase erano più evidenti e più nocivi, perché non sono stati riconosciuti e rimossi prima? A questa domanda Togliatti rispondeva in modo sincero ed efficace. Prima della sua morte scalzare Stalin dal suo ruolo non era solo pericoloso per chiunque tentasse di farlo, ma avrebbe raggiunto un risultato opposto a ciò che ci si proponeva. Tanto forte infatti era, non solo la sua autorità, ma il suo prestigio tra il popolo che un tale tentativo avrebbe prodotto non una correzione, ma una lotta e una crisi in tutta la società. Anche dopo la sua morte occorreva perciò preliminarmente avviare una correzione nei fatti e
verificare una convergenza solida nel nuovo gruppo dirigente collegiale. Dopo di questo, era necessaria una scossa, e doveva essere traumatica, per smantellare un modo di pensare e di agire ormai radicato a tutti i livelli del potere. Lo stesso Togliatti si chiedeva: se il nodo del problema era il «culto della personalità», non si sarebbe potuto moderare prima i toni dell’apologia, frenarne alcune manifestazioni? Ma rimandava l’onere della risposta «ai dirigenti sovietici, che conoscevano meglio le cose». Evitava invece di porla a se stesso e al suo partito che, per esempio a proposito della rottura con Tito o dei processi sommari che ne erano seguiti, non avevano affatto mostrato moderazione o espresso perplessità. 6) La conclusione dell’intervista, a proposito dei rapporti tra partiti comunisti, e del ruolo guida dell’Unione Sovietica dopo il XX congresso, contiene forse il punto di innovazione più avanzato e fecondo. Togliatti non si limitava a sottolineare il principio ormai acquisito dell’indipendenza di ogni partito comunista, dell’«unità nella diversità», tra vie molteplici al socialismo. Forniva a questo principio una base più solida e una maggiore portata. L’estensione del campo socialista a molti paesi, in diverse aree del mondo, rendeva non solo l’autonomia una condizione indispensabile per salvaguardare l’unità, ma permetteva di usare le diversità, legate a storie, stratificazioni sociali, tradizioni molteplici, come una risorsa per l’arricchimento e lo sviluppo dell’intero movimento. Non erano modi diversi per arrivare a un traguardo già definito e prescritto, ma un modo di definire meglio e spostare più avanti il traguardo stesso. Per questo, oltre la definizione di «vie nazionali» o di «partiti nazionali», introduceva il termine di «policentrismo». Purtroppo la situazione storica e il livello dell’elaborazione non permettevano però ancora di definire bene i soggetti di tale policentrismo. Tanto meno di dire come, quanto e perché ciascuno di essi – i paesi comunisti, il Terzo mondo, l’Occidente – potessero contribuire a questa crescita polifonica. E l’accenno restò tale a lungo, né si tentò di svilupparlo prima che fosse troppo tardi. Tutta l’intervista, insomma, è un esempio di come si possa superare una situazione di difficoltà e lacerazioni non con una semplice mediazione, ma con un coraggioso passo in avanti. Infatti il Pci, nel suo insieme, alla base e al vertice, anche se le ferite non erano ancora rimarginate, vi si riconobbe; le critiche di Chruščëv, all’intervista furono marginali, anzi furono bilanciate dal riconoscimento del «grande» contributo che essa portava; interlocutori o avversari obiettarono, ma con rispetto.
A metà dell’anno la situazione era quindi cambiata, la discussione non era spenta ma costruttiva, semmai il centro del dissenso, anche per le minoranze, si spostava su un altro terreno, più fecondo: dal Rapporto segreto, a ciò che il Partito comunista italiano aveva fatto e doveva fare per rinnovarsi anch’esso. E il merito va riconosciuto a Togliatti, perché se si legge la raccolta integrale dei verbali della Direzione – cui peraltro, per esperienza, non do un gran credito – ci si stupisce della mediocrità, del carattere reticente ed esclusivo del dibattito collegiale in quei mesi. 6.2 La seconda tempesta Fu però una calma precaria, tra due tempeste. Così come nel primo caso ad alzare le onde fu il Rapporto segreto, nel secondo caso furono la vicenda polacca e quella ungherese ad alzare onde non meno alte, anche se questa volta esse investirono i gruppi dirigenti e il rapporto con gli intellettuali e con gli altri partiti più che le grandi masse popolari. (In questa periodizzazione francamente non so dove collocare un fatto indubbiamente rilevante per il Pci e per la politica italiana, cioè la fine dell’unità d’azione tra comunisti e socialisti. Mi è difficile collocarlo, ma ne accenno qui, perché, a differenza di quanto ormai tutti pensano e dicono, tale rottura iniziò prima e indipendentemente dal XX congresso, si approfondì gradualmente negli anni successivi ma in rapporto alle questioni del governo, e nel 1956 trovò solo l’occasione per esprimersi in modo clamoroso nell’incontro di Pralognan tra Nenni e Saragat su una proposta di unificazione tra loro, che tardò dieci anni e ne durò ancora meno. È illuminante aggiungere che quell’incontro avvenne prima della crisi di Ungheria e dell’invasione sovietica e non come loro conseguenza.) Delle vicende polacche e ungheresi, di cui ho già parlato, resta da discutere come si riflessero sul Pci e nel Pci. Che non è poco, perché in Italia quelle vicende non solo accesero dibattito e passioni, ma restano, ancor più oggi, impresse nella memoria in forma dilatata, come l’evento centrale della seconda metà del secolo, la grande occasione che allora, rifiutando una rottura con l’Urss, il Pci perse per sbloccare la democrazia italiana, evitare la perenne conventio ad excludendum, formare una grande forza socialdemocratica capace di sottrarre il governo del paese al monopolio democristiano. Io, che pure sono stato con altri radiato dal Pci, molti anni dopo, non solo
ma soprattutto per ciò che avevo scritto sull’invasione di Praga e sulla irriformabilità ormai dell’autocrazia sovietica, sono del tutto in dissenso con questa posizione, anzi la considero dirimente nella ricostruzione della storia del Pci e della politica italiana. Mi guardo bene dal negare che di fronte a quella rivolta nell’Europa orientale i comunisti, e in particolare i loro dirigenti, Togliatti compreso, abbiano capito poco, assunto posizioni sbagliate e mal motivate, e abbiano subìto perciò conseguenze negative rilevanti. A questo caso è adeguato applicare la celebre massima di Fouché, uomo cinico ma politico acuto: «Questo è peggio di un crimine, è un errore». Qual era l’errore? Alla radice dell’errore credo vi fosse la lontana abitudine a navigare a vista, usando come bussola princìpi molto astratti e disciplina verso autorità superiori cui spettavano le scelte maggiori. E la conseguente difficoltà di esercitare effettivamente un’autonomia solo da poco conquistata. È facile dire, come fu detto, «siamo da una parte e restiamo sulla barricata anche quando essa sbaglia»; l’aveva già detto Turati: resto col partito anche quando ha torto. Ma qual era la parte che si voleva sostenere? È ovvio, il movimento comunista in una situazione delicata di transizione e tuttora pressato dalla guerra fredda. Ma quando in quella parte si determina una situazione di crisi confusa e incerta, in un punto circoscritto e lontano ma di grande valore strategico, come difendo la barricata e contribuisco a risolvere quella crisi e a rafforzare la mia parte? Ci sono tanti modi di stare in una barricata, perfino se sei dentro a sparare e rifiuti ogni diserzione: puoi sostituire i capi, puoi arretrare la barricata o fare una sortita, puoi cercare una tregua, puoi trasmettere messaggi per far accorrere altri. Tanto più se sei lontano, puoi mandare aiuti, puoi favorire un buon compromesso o anche solo salvare il resto del fronte. Ma per scegliere fra tante possibilità e agire, non bastano declamazioni di solidarietà o sbrigative condanne. Essenziale è sapere, dire, o almeno dirsi, la verità dei fatti, prevedere la loro probabile dinamica, valutarne le conseguenze, considerando anche il contesto in cui il conflitto si colloca. E comunicare in misura appropriata queste verità alle masse di cui cerchi il sostegno e che ti assumi la responsabilità di dirigere. Forse questa è la più grande differenza di Lenin rispetto a Stalin, e a tanti altri politici prima e dopo di lui. Ma è proprio questo che, in quelle settimane cruciali, il Pci non seppe fare prendendo una serie di abbagli, e traendone conclusioni sbagliate nel contenuto e nei tempi. Il primo abbaglio fu di assimilare l’origine,
l’evoluzione, in qualche misura perfino l’esito della vicenda polacca e di quella ungherese, per il solo fatto che comunque si trattava di rivolte, inaccettabili in quanto tali, contro un governo socialista, al di là dei suoi sbagli. Lo sciopero e la manifestazione di Poznan´ erano una protesta di operai che rivendicava un più equo salario, il diritto di scioperare, la correzione di un piano economico che imponeva esagerati sacrifici. La repressione poliziesca era stata perciò ingiusta, come lo erano quelle di Scelba, ed era giusto che Di Vittorio e la Cgil lo avessero detto. Ma il partito polacco capì la lezione, ne trasse conseguenze pratiche, e quando la sommossa si estese a Varsavia e assunse un carattere più esplicitamente politico, portò al vertice un uomo appena liberato dal carcere, che seppe strappare ai sovietici un efficace compromesso, che recuperò consenso soprattutto tra gli operai e un avallo del primate cattolico. Era un compromesso che poteva estendersi ad altri paesi dell’area, e su questa prospettiva il Pci poteva e doveva attivamente scommettere, in sostanziale coerenza con il XX congresso. E non lo fece. La crisi ungherese aveva invece tutt’altro retroterra. Lì il Partito comunista era traballante e diviso già da prima, la dinamica della rivolta evolveva per tappe. Trovare una soluzione che non fosse una disfatta e non innescasse un processo dissolutivo su larga scala, nel momento in cui partiva l’aggressione in Egitto, era molto più difficile. L’essenziale è questo. Se vi era una minima possibilità di arrivare a una soluzione con strumenti politici e non militari, occorreva un aiuto esterno, pagando anche un prezzo da entrambe le parti, ma evitando una ripresa della guerra fredda o una sua pessima conclusione. A questo «aiuto» politico i sovietici non erano ostili, infatti il primo intervento delle loro truppe fu deciso localmente e solo dimostrativo. Anzi portarono al governo Nagy e destituirono Gerő. Il documento che alla fine proposero per un compromesso era ancor più concessivo di quello concluso con i polacchi. Ma tutto ciò avvenne sempre in ritardo, inseguì anziché prevenire l’evoluzione dalla protesta alla rivolta, dalla rivolta allo scontro armato, dalla rivendicazione di maggior democrazia a quella del rovesciamento di campo. In un paese in cui preesistevano, non tanto complotti, ma sedimenti reazionari che si riattivavano. Il Pci, e in generale l’opinione di sinistra italiana, non capì e non seguì questa dinamica, né tanto meno intervenne per favorire una soluzione. Sbagliò Di Vittorio a leggere, già il 25 ottobre, la prima presenza militare sovietica a Budapest come una repressione e nel vedere solo come protesta
politica democratica una protesta che cominciava già ad assumere i caratteri di un’ingestibile jacquerie; e sbagliò Togliatti classificando dall’inizio la protesta come una controrivoluzione in atto, facendo di ogni erba un fascio. Quando poi ogni possibilità fu bruciata e Chruščëv, sollecitato da tutti i partiti comunisti, decise la vera invasione, il Pci lo sostenne. Doveva invece proprio in quel momento rompere con l’Urss, disertare il campo comunista mondiale ormai degenerato? Già allora pensai di no e rimango di tale parere per una serie di ragioni. Più altre tre della cui importanza solo più tardi mi sono accorto. Prima considerazione. La rottura di un legame, su cui il Pci si era costituito, fatta nel momento in cui l’Urss aveva già avviato un rinnovamento e il campo a esso collegato mostrava corposi successi (una tendenza che i fatti di Ungheria non avevano interrotto e sarebbe continuata per anni), sarebbe risultata non solo incompresa, ma inaccettabile per la grande maggioranza dei quadri, dei militanti e degli elettori comunisti. Sicuramente ne sarebbe seguita una lotta e una dissoluzione del Pci. Forse ne sarebbe sorto un altro più duro, minoritario, certo legato all’Urss, e ci sarebbe stata una modesta scissione a destra, orientata a confluire nel Psi. Non credo affatto che ne sarebbe nata una grande forza socialdemocratica alla svedese, ma probabilmente una socialdemocrazia alla francese, costretta a governare stabilmente con la Dc, in un ruolo subalterno. Lo prova il fatto che il Psi non riuscì assolutamente a occupare lo spazio che la situazione sembrava offrirgli, e anzi subì presto una scissione a sinistra e le minoranze democratiche e progressiste, che pure avevano intellettuali di valore, restarono politicamente disperse e irrilevanti come sempre. Seconda considerazione. Già all’inizio del 1957 il gruppo dirigente sovietico si divise. Non era solo uno strascico del Rapporto segreto, ma una divaricazione politica generale connessa alle riforme da introdurre, ai fatti intervenuti nell’Europa orientale, alla versione che si dava della coesistenza pacifica. Ancor più che di divisioni, sapemmo dopo, si trattava di una rottura inconciliabile. Una maggioranza del Politburo, cioè della sede da cui il potere si irradiava, era ormai decisa a rovesciare Chruščëv. E Chruščëv, all’inizio del ’57, tentò un azzardo fuori da ogni prassi: radunò in poche ore su aerei militari il numero sufficiente di membri del Comitato centrale per convocarne una seduta straordinaria. Vi prevalse e ottenne l’espulsione del gruppo antipartito. Basta ricordarne i nomi – Molotov,
Vorošilov, Kaganovič, Malenkov – per aver chiaro il tipo di controsvolta che avrebbero impresso alla politica dell’Urss, che era ormai una grande potenza e aveva l’armamento necessario per restarlo. Se l’Ungheria fosse stata lasciata alla sua deriva, o addirittura avesse proposto crisi analoghe in paesi limitrofi, l’esito di quello scontro a Mosca era già prevedibile e si sarebbe concluso in modo opposto. Quale effetto avrebbe subito avuto tutto ciò nel rapporto con la Cina che dopo la liquidazione di Liu Shaoqi evolveva in tutt’altra direzione? Tanto più che la guerra a Suez prometteva un rilancio della guerra fredda? Terza considerazione. Pur ammettendo che il ricambio si fosse poi evoluto in un nuovo compromesso, anticipando di otto anni l’era di Brežnev e di Suslov – di cui parleremo – sarebbe stato un bene per i comunisti e per tutti? Pur avendo indicato tutti i limiti del Chruščëvismo, e la parabola cui era destinato, credo proprio di no. Si può quindi discutere pacatamente la tesi secondo la quale il Pci ha avuto in Italia una funzione di consolidamento della democrazia, evolvendo gradualmente, come ha fatto, verso la socialdemocrazia e poi la liberaldemocrazia, e meglio avrebbe fatto se fosse stato più consapevole e rapido nel farlo (anche se i tempi più recenti permettono di contestare questa visione). Ma dire che lo strappo, il mutamento di identità e di campo, andava compiuto nel 1956 mi pare del tutto insensato, un’autocritica poco riflettuta, dettata da un bisogno di togliersi dalle spalle il peso di una speranza delusa,o di una responsabilità oggi infamante. Non parlo neppure dell’eventualità di un intervento americano, che oggi molti considerano quasi doveroso, e avrebbe semplicemente portato allo sterminio atomico reciproco. Tuttavia gli errori commessi in quei mesi di fronte alla crisi ungherese ebbero subito almeno tre conseguenze notevoli. Aprirono la strada, o comunque accelerarono, uno spostamento del Partito socialista non solo e non tanto verso una partecipazione a governi diretti sempre dai democristiani, ma anche l’accettazione di una politica moderata, e produssero una scissione che lo spinse ancor di più a un’integrazione subalterna. Allontanarono dal Partito comunista intellettuali di rilievo, preziosi portatori di diverse culture; anche se non si può tacere che essi stessi non solo espressero a voce alta e in forme inusuali un dissenso, ma lo assunsero come leva per proporre una radicale rimozione del gruppo dirigente e di Togliatti. Tentarono inoltre, larvatamente, di coinvolgere Di Vittorio – che non lo voleva – con il risultato di indebolire l’autorità di
quell’importante risorsa del rinnovamento sindacale. Infine offrirono agli avversari un argomento, riproposto ossessivamente, per imputare al Pci una permanente doppiezza e inchiodarlo per sempre all’opposizione, e quindi trovare un alibi, anch’esso ossessivamente riproposto, alla loro piena complicità con gli Stati Uniti, anche nei momenti più truci del loro interventismo nel mondo: complotti, colpi di Stato, stragi, aggressioni dirette, dal Guatemala al Brasile, al Cile, all’Indonesia, al Vietnam e al Medio Oriente, per citarne qualcuna. 6.3 L’VIII congresso Come era avvenuto a giugno, anche a dicembre del 1956, Togliatti ebbe l’intelligenza e la capacità di proporre una propria piattaforma di rinnovamento, anziché opporvisi o esserne travolto. E recuperare. Il suo Rapporto all’VIII congresso, come sempre senza autocritiche vistose, introdusse molte novità. Separò nettamente l’una dall’altra la crisi polacca e la tragedia ungherese, ammise che alla loro origine c’era l’originaria fragilità della rivoluzione socialista in quei paesi e in tutta l’area, l’imperdonabile errore di aver a un certo punto loro imposto una «servile e accelerata» imitazione del modello sovietico, l’ottusa resistenza dei dirigenti all’impulso dato dal XX congresso, che aveva permesso alle forze reazionarie lo spazio per una rivolta e in Ungheria la possibilità di prevalere, proprio nel momento in cui le potenze occidentali tentavano un rilancio della guerra fredda. Quanto al tema dell’Urss come Stato guida, riconosceva non solo errori passati, ma il fatto che essa aveva dovuto edificare il socialismo fra tremende difficoltà, portandone il segno; vi era riuscita e perciò rimaneva il pilastro del movimento comunista mondiale, sempre più esteso. Quanto alla «via italiana al socialismo», il suo rapporto all’VIII congresso andava oltre le primitive definizioni. Attenuava cioè il suo carattere di «via nazionale», collegandola di più alle trasformazioni storiche intervenute nel mondo e che la consentivano. Soprattutto cercava di definirla meglio, come una strategia e non come una tattica. Non più i classici «obiettivi intermedi», rivolti ad accumulare forze per una futura rottura rivoluzionaria, ma «riforme di struttura», conquiste permanenti, casematte che prefiguravano una prospettiva socialista, prodotte da esperienze di lotta dal basso e introdotte nell’ordinamento facendo leva sui princìpi più
avanzati già inseriti nella Costituzione repubblicana: non ancora il socialismo ma un suo avvicinamento. In questo modo stabiliva un netto confine rispetto al parlamentarismo socialdemocratico e insieme combatteva l’attesa dell’ora X: la rivoluzione era un processo, che a un certo punto poteva e doveva tradursi nella conquista pacifica del potere statale e nella sua gestione democratica, proprio in quanto già sorretta soggettivamente e oggettivamente nella società. Certo il problema non risultava così risolto, ma solo spostato. Perché rimaneva aperto l’interrogativo: se e quando queste riforme – intrinsecamente anticapitalistiche, prodotte da una lotta di classe, guidate da un partito comunista – avessero aperto una crisi di sistema, e ne avessero cambiato il tratto dominante, come si sarebbe potuto configurare un salto e organizzare un nuovo principio ordinatore? Togliatti non doveva né poteva offrire una risposta, perché questa poteva prendere corpo solo in rapporto alla situazione concreta nella quale l’interrogativo si ponesse. Al momento, in Italia e in Occidente, tale situazione era ben lontana, ed egli poteva solo camminare sul filo sottile, che lui stesso tracciava, tra riformismo gradualista e rivoluzione socialista. La debolezza maggiore di quel suo Rapporto era però altrove. Stava nell’incapacità di vedere quale trasformazione profonda si stesse già in quel momento avviando nella società occidentale, di prevederne l’evoluzione e di stimolare una ricerca per fronteggiarla e per usarne le contraddizioni. Non voglio banalizzare, come a volte abbiamo fatto in molti, una critica del Pci ancora inchiodato all’idea del capitalismo italiano come capitalismo straccione. Certo Togliatti già all’VIII congresso si distingueva (a differenza del Pcf) dagli stereotipi sul capitalismo putrescente ormai incapace di ogni sviluppo, o dall’idea dell’impoverimento assoluto che colpiva la maggioranza dei lavoratori, riconosceva i mutamenti rilevanti che stavano avvenendo nella tecnologia e nell’organizzazione del lavoro in fabbrica e stimolava un aggiornamento delle piattaforme rivendicative. Ma in sostanza riproponeva l’immagine di un capitalismo monopolistico chiuso in se stesso, che sequestrava il profitto prodotto dal progresso tecnologico e introduceva classiche disuguaglianze ed esclusioni. Un’immagine ancora adeguata alla realtà delle cose, ma solo se si guardava la coda del treno che si era messo in moto, non la forza e la direzione della locomotiva che lo tirava. Soprattutto, un’immagine cui sfuggiva il generale sommovimento sociale e culturale che si annunciava. Insomma quasi il contrario di quello sforzo
che Gramsci, pur nel chiuso di un carcere, aveva fatto con il suo saggio Americanismo e fordismo: formidabile, anche se azzardata anticipazione, non a caso lasciata a lungo in archivio. Tutto ciò, nel suo valore e nel suo limite, fu l’VIII congresso: frutto di una battaglia tra conservatori e rinnovatori. Così come, in Unione Sovietica, il XX congresso ebbe come primo e tangibile risultato un ricambio di quadri, un ripristino della legalità, la liberazione dei prigionieri politici, l’allentamento delle maglie della censura, nel Pci l’VIII congresso produsse un ricambio generazionale, la scelta finalmente acquisita di una «via democratica», senza sapere bene ancora come percorrerla, un clima interno più aperto e tollerante verso la discussione e la ricerca, ma sempre nella forma ormai codificata del centralismo democratico. Forse un piccolo ma divertente episodio autobiografico può darne un esempio. Alla fine del ’58, iscritto da poco, tornai da Roma a Bergamo come segretario cittadino. Contemporaneamente entrarono nel partito i dirigenti locali di primo piano della Gioventù cattolica, subito cooptati nel Comitato federale. Alla vigilia del IX congresso scrissi insieme a Michelangelo Notarianni un articolo pubblicato su Rinascita: niente di speciale, solo una maggiore sottolineatura del nesso, necessario e reciproco, tra democrazia e socialismo. Al congresso provinciale venne, per presiederlo a nome del centro, Luciano Lama. Come era consuetudine, Eliseo Milani, segretario della federazione, e io portammo a pranzo in un buon ristorante l’illustre ospite. A un certo punto del pranzo Lama, che evidentemente non ricordava il mio nome, mi chiese: hai letto quell’intervento su Rinascita di quei due trockisti? Capii subito di chi parlava e fremetti: trockista a me? Gli risposi però tranquillamente: «Non ho bisogno di leggerlo perché l’ho scritto io». Alcuni anni prima, un simile sospetto sarebbe stato un’imputazione che preludeva all’emarginazione, invece ridemmo insieme della sua gaffe e continuammo cordialmente a parlare. Questo dice bene quanto i margini concessi al dissenso fossero limitati, ma anche quanto la tolleranza fosse cresciuta. E infatti l’anno dopo fui promosso alla segreteria regionale del partito. Ciò non toglie che, per i primi anni, l’innovazione stentasse. Il IX congresso fu sostanzialmente ripetitivo, centrale fu l’interessante ma inconcludente «operazione Milazzo» in Sicilia; la discussione politica sul centrosinistra era confusa e oscillante; le elezioni del ’58 segnalavano più stabilità che nuove avanzate, l’ottimismo dei compagni era concentrato sul
lancio dei satelliti e poi di una cagnetta dentro uno di loro. Non c’è di che stupirsene, né troppo da lamentarsene. Una vera innovazione, in una grande organizzazione, non viene mai per partenogenesi, cresce sull’onda di grandi spinte sociali e culturali e quegli ultimi anni cinquanta, in Italia, non ne offrivano molte. Il miracolo economico era appena all’inizio e permetteva ai padroni qualche concessione senza lotta, il governo democristiano si muoveva verso forme sottili di regime, ma senza una direzione precisa, i socialisti aspiravano a parteciparvi, ma incontrando ancora molte resistenze e interni contrasti, la coesistenza pacifica si arenava, la battaglia algerina si infiammava ma il suo primo risultato era l’ascesa di de Gaulle e l’esautoramento del Parlamento in Francia. Occorre onestamente aggiungere che anche Togliatti aveva messo un po’ il freno. Faccio tre esempi. Anzitutto la sua impegnata relazione al convegno dedicato a Gramsci nella quale sottolineava la genialità del suo pensiero, ma anche la sua perfetta continuità rispetto a Lenin. In secondo luogo un intervento a Mosca (dove avvertiva una certa diffidenza, che si aggiungeva alle critiche aperte che gli erano state rivolte da Parigi e da Pechino), nel quale riesumò un linguaggio apologetico nel fare il punto sull’Unione Sovietica, il suo eccezionale sviluppo produttivo anche in agricoltura, fino a condividere l’idea di Chruščëv, secondo la quale in dieci o quindici anni l’economia americana sarebbe stata raggiunta e superata. In terzo luogo la lettura quasi unanime dell’ascesa al potere di de Gaulle come segnale di una classica restaurazione conservatrice e autoritaria e non di una modernizzazione dall’alto, che comprendeva anche l’indipendenza dell’Algeria. (Su questo punto io esordii con un’interpretazione opposta in un lungo saggio su Nuovi Argomenti, senza però subire alcuna critica.) Sotto traccia, o ai margini del partito, si avviavano però una ricerca e una discussione molto feconde, che dimostrarono già allora una grande utilità: penso al grande fervore con cui alcuni settori sindacali (Trentin e il suo ufficio studi, Garavini a Torino, Leonardi a Milano), ma anche qualche organizzazione periferica del partito (Minucci e l’Unità di Torino), portarono avanti la riflessione sulla nuova organizzazione del lavoro in fabbrica; o penso all’introduzione, sul piano culturale, di «nuove fonti», la lettura del Capitale portata in primo piano, le varie discussioni nate tra giovani intellettuali pro o contro il pensiero di Della Volpe, la penetrazione della letteratura marxista eterodossa (il primo Lukács, Korsch) o il dibattito francese (Sartre e Merleau-Ponty, Hippolyte, Kojève; Husserl recuperato attraverso Banfi e i suoi allievi). Di tutte queste piccole
eterodossie era partecipe la Federazione giovanile e il suo settimanale Nuova Generazione, che andarono incontro a qualche grana. Ma a dare a tutto ciò rilevanza e valore politico, a far emergere la «via democratica» come problema, e non come formula già stabilizzata, fu ben altro. La ripresa cioè della lotta operaia, prima tra gli elettromeccanici milanesi, poi a Mirafiori, poi tra i tessili; la ribellione antifascista partita da Genova, rapidamente estesasi ovunque, con la sorprendente irruzione dei giovani (le «magliette a righe»), cui seguì come sempre la repressione (i morti di Reggio Emilia) ma questa volta non passivamente subita; le emigrazioni di massa dal Sud al Nord che sconvolgevano tutta l’organizzazione nei centri di partenza ma fornivano nuova linfa politica nei luoghi di arrivo. Infine l’improvviso emergere di nuovi stili di vita, di nuovi bisogni che lo sviluppo economico finalmente permetteva di soddisfare, ma prima ancora stimolava e rivendicava; da ultimo il maturare di una nuova, sebbene tormentata e indefinita, maggioranza di governo, l’elezione di Giovanni XXIII a papa e di Kennedy a presidente degli Stati Uniti.
7. Il caso italiano
Il Pci arrivava agli inizi degli anni sessanta in condizioni promettenti. Rappresentava ormai un quarto degli elettori e conservava quasi due milioni di iscritti, per lo più attivi; era parte di un movimento internazionale che governava un terzo del mondo, ma nel quale aveva finalmente acquisito una propria autonomia; raccoglieva simpatia, o almeno attenzione, nei paesi e nei movimenti che si stavano liberando dal colonialismo; manteneva un’influenza rilevante nel sindacato senza pi considerarlo una «cinghia di trasmissione»; era incoraggiato, e a sua volta incoraggiava, una classe operaia più estesa e che dava nuovi segnali di combattività; incontrava una generazione politicizzata e un’intellettualità nella quale finalmente penetrava un marxismo non più dogmatico e canonico; avviava un dialogo con minoranze cattoliche gradualmente affrancate dall’anticomunismo «assoluto» di papa Pacelli; governava con buoni risultati, oltre la corretta amministrazione corrente, importanti regioni del paese. Soprattutto era ormai unito e convinto su una strategia univocamente definita, almeno nei suoi princìpi, dall’VIII congresso: la «via italiana». Era ancora inchiodato all’opposizione dai vincoli imposti all’Italia dalle alleanze già contratte, ma il nuovo rapporto di forza mondiale lo garantiva da un intervento americano armato, se e quando avesse conquistato un ruolo di governo in modo pacifico e legale. Tutto questo lo obbligava e gli permetteva di verificare con i fatti, almeno nel medio periodo, se la «via democratica al socialismo» era praticabile in Occidente, portava là dove voleva andare, senza perdersi per strada. Si apriva quindi per il Pci, per quel Pci, una partita nuova, nella quale erano in gioco l’identità faticosamente costruita e la sua futura esistenza. Anzi, a ben vedere, la posta era ancora più alta. Perché proprio in quel momento, se non interveniva in Occidente qualche mutamento, se lo scontro fra i blocchi restava solo una «guerra condotta con armi nuove», in altre parti del mondo (in Urss o nei paesi non allineati) potevano presto prevalere, e già si intravedevano, tendenze di ripiegamento o di divisione. Forse solo in Italia sembravano esistere alcune condizioni– forze e volontà – per avviare un tale mutamento. Ma era realmente una partita aperta? Cinquant’anni dopo, sappiamo come si è conclusa. Il Pci, come forza organizzata e come pensiero compiuto, è
morto. E pressoché nessuno ne rivendica l’eredità. Non è morto per un improvviso colpo apoplettico, cioè trascinato nel crollo dell’Unione Sovietica, dalla quale aveva da tempo preso le distanze. Né per estenuazione, perché ha mantenuto fino alla scomparsa una forza elettorale notevole (il 28%), e un peso nella società e nel sistema politico. È morto per libera scelta, con l’ambizione di un «nuovo inizio». Quel nuovo inizio non c’è stato, e ormai è chiaro a tutti che, se anche avesse avuto maggiore successo, sarebbe stato l’inizio di una cosa del tutto diversa. Questo è un fatto: così evidente e ormai così duraturo che non si può rimuovere, ma che va spiegato. Perché una forza che negli anni sessanta raggiungeva la propria maturità, era ancora in piena ascesa e si impegnava in un tentativo originale e ambizioso, dopo anni di ulteriori successi cominciò a declinare, fino a dissolversi? Chi considera proprio quel tentativo una pura illusione, o addirittura vi sospetta una manovra di copertura necessaria per traghettare il grosso dell’esercito su altre e più solide sponde, ovviamente nutre scarso interesse per ciò che il Pci discusse e fece in quel lungo decennio, e ne riferisce in modo sommario. Semmai concentra il suo interesse sull’esperienza successiva dell’unità nazionale, infelice ma necessaria premessa di un’altra storia, finalmente con i piedi per terra. Una storia dalla quale l’ambizione di un’alternativa di sistema veniva gradualmente rimossa e dopo la quale cominciava la transizione a un sistema politico bipolare, tra due schieramenti in competizione tra loro, ma entrambi entro i confini dell’ordine generale delle cose del mondo. Chi invece, come me, è tra i pochi a pensare che quel tentativo, fatto a tempo debito, avesse qualche fondamento, potesse essere condotto in modo diverso, e si potesse concludere, seppur senza un pieno successo, con risultati fecondi e lasciando un’eredità tuttora di qualche valore, deve dedicare particolare attenzione proprio a quel lungo decennio durante il quale molte cose erano in movimento, la partita tra un capitalismo in difficoltà e un comunismo impegnato a ridefinirsi sembrava, e forse era, effettivamente aperta. E a sua volta, trova oggi un sostegno nei fatti: il Pci è morto da tempo, ma l’Italia non sta troppo bene. Non è un argomento bastevole. Che altri tentativi abbiano deluso, tanti soggetti e tanti progetti nati tutti sull’enfasi del «nuovo» si siano finora rivelati incapaci di definirlo e siano presto apparse versioni restaurate di un ancor più fragile passato, o mediocre gestione delle cose come stanno, fino a provocare più depressione che speranze, non è infatti sufficiente a dimostrare che quella lontana ambizione fosse giusta e plausibile. Anzi, non esime neppure dal
chiedersi se essa non fosse, già al suo debutto, minata da errori profondi e bloccata da ostacoli insormontabili. La prima cosa da dimostrare dunque è che, almeno in una fase iniziale, una partita fosse realmente aperta. Solo una ricognizione della realtà di quel momento è in grado di far capire, e giudicare ciò che allora nel Pci vivacemente si discusse e le scelte che vi prevalsero. Anche a rischio di ripetere in qualche punto cose già conosciute e non dimenticate, non è inutile ricostruire il quadro complessivo di quel decennio, che fu poi definito il «caso italiano», rivisto però con il senno del poi. Cominciando con una periodizzazione. Parlando di un «caso italiano» mi riferisco a un periodo al cui centro sono gli anni sessanta, ma che si estende più a lungo: per certi aspetti include vicende che li hanno preceduti, per altri si prolunga nei primi anni settanta. E al suo interno unisce due fasi diverse (la fase 1960-1965 e quella 1968-1974) connesse però da molti fili e convergenti nel produrre un nuovo quadro generale. L’Italia infatti, nell’intero periodo, fu investita da due distinti e complessi sommovimenti, che trasformarono profondamente la società e la politica. Il primo fu caratterizzato dal cosiddetto «miracolo economico», dalla riscossa sindacale e dal tentativo di fare dell’una cosa e dell’altra la leva, con i governi di centrosinistra, di un «riformismo dall’alto». Il secondo fu caratterizzato dalla contestazione studentesca e dalle lotte operaie rivolte a produrre «dal basso» un nuovo ordine sociale. Entrambi questi tentativi furono sconfitti rispetto alle loro maggiori finalità, ma lasciarono segni profondi e duraturi, aprendo comunque nell’immediato qualcosa che somigliava a una crisi di sistema. In entrambi il Partito comunista non poté, in parte non volle, assumere un ruolo diretto di promozione e di direzione, come aveva avuto nella Resistenza e nella fondazione della Repubblica. Contribuì però ad avviarli, a sostenerli o a condizionarli, ne fu a sua volta coinvolto e attraversato. Solo alla fine ne raccolse i frutti, trovandosi però sulle spalle la responsabilità di proporre uno sbocco accettabile a quel conflitto sociale. E di definire, imporre o rifiutare un ruolo di governo che le cose stesse ambiguamente gli offrivano. Senza avere forza e idee sufficienti a farvi fronte. Conviene dunque analizzare distintamente questi sommovimenti, e solo alla fine riconoscere i fili che li uniscono e le conclusioni cui insieme approdarono.
7.1 Il miracolo economico Il prodotto nazionale lordo dell’Italia tra il 1953 e il 1964 crebbe, a prezzi costanti, da 17mila a 30mila miliardi; il reddito medio annuo pro capite da 350mila a 571mila lire. Un tasso di sviluppo dapprima del 5%, poi oltre il 6% fino agli anni settanta, con un solo anno di intervallo, il 1964. Un tale fenomeno non si era mai visto, e non si sarebbe mai più riproposto. Anche altri paesi capitalistici nello stesso periodo erano in espansione ma restava non meno sorprendente il fatto che l’Italia, in partenza notevolmente più arretrata, scarsa di risorse naturali, finanziarie e tecnologiche, non solo riuscisse ad agganciarsi a quel treno, ma si inserisse tra i vagoni di testa: poco più lenta del Giappone, eguale alla Germania, un po’ più veloce della Francia, molto più dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. Per questo fu coniata, e importata dall’estero, l’espressione «miracolo economico». Essa rende l’idea ma, in entrambe le parole che la compongono, non è adeguata. Di miracoli in economia non se ne conoscono, a parte la storia dei pani e dei pesci, eccezionale come la natura del suo autore. E nel nostro caso il «miracolo» non fu solo economico ma si accompagnò a grandi e molteplici trasformazioni sociali, politiche e istituzionali tra le quali va trovato un filo conduttore. Il processo fu messo in moto da due eventi politici, la rivoluzione antifascista e la guerra fredda, che congiuntamente permisero la brusca liquidazione del protezionismo (antica eredità del capitalismo italiano resa molto più pesante dall’autarchia fascista). E obbligarono a puntare sugli scambi con paesi più avanzati, geograficamente vicini, diventati politicamente solidali e in quel momento impegnati nella ricostruzione postbellica. Poteva essere un salto nel buio. E infatti una parte del padronato, che temeva di non reggere la competizione, e una parte dei lavoratori, che temevano i licenziamenti, riluttavano. Ma gli Stati Uniti avevano buone ragioni economiche per cercare sbocchi e buone ragioni politiche per integrare nel blocco dei loro clienti l’Italia, paese a rischio. Sollecitavano perciò quella scelta e promettevano di sostenerla (lo fecero anche con il Giappone e, più tardi, insieme con il Giappone, nell’Asia del Sudest). Quella precoce scelta liberista che segnò la nuova Europa come alleata subalterna del blocco atlantico. Tale scelta offriva indubbiamente all’Italia mercati in quel momento propensi a importare beni a buon prezzo, ma non bastava però a garantirle la possibilità di competervi, tanto che l’espansione vera si avviò con
qualche ritardo e molte difficoltà. Gli aiuti americani nei primi anni servirono quasi solo per l’emergenza alimentare, per il mantenimento delle truppe di occupazione, e poi per sanare il buco della finanza pubblica (dato che si voleva evitare il cambio della moneta) e dunque per frenare un’inflazione galoppante. Il vero motore del «miracolo», dai primi anni cinquanta e per molto tempo, fu un altro. Ricorrendo a un linguaggio un po’ maoista lo definirei con lo slogan «usare l’arretratezza come risorsa dello sviluppo». In modo un po’ più aulico: un’originale edizione di una nuova «accumulazione primitiva». Più prosaicamente: il binomio salto tecnologico e salari molto bassi. Salto tecnologico non vuol dire solo applicazione di attrezzature e di forme di organizzazione del lavoro migliori nella ricostruzione di un apparato produttivo già esistente e in parte fuori uso (come avvenne in Germania o in Francia). Vuol dire rivoluzionare l’una cosa e l’altra e coinvolgervi grandi isole escluse dalla modernità: passare cioè rapidamente da una base industriale ristretta, in parte semiartigianale, a un’industria di tipo fordista (nelle sue punte di eccellenza già alla soglia dell’automazione), e poi estenderla a nuovi settori e a nuovi tipi di prodotti e di consumo. Saltando i gradini intermedi che altri avevano saliti nel tempo e con fatica. Questo e solo questo poteva assicurare grandi e rapidi aumenti di produttività a un certo numero di imprese e possibilità di penetrare nel mercato estero. Gli Stati Uniti potevano appunto offrire l’occasione: attrezzature, conoscenze tecnologiche, organizzative e gestionali, e anche un po’ di investimenti diretti. Ovviamente a chi fosse in grado di pagarla e di usarla e fosse disposto ad accettare la loro guida. Era comunque un salto molto difficile, soprattutto in partenza. Tanto che molti paesi semisviluppati (non parliamo neppure del Terzo mondo) non poterono neppure tentarlo se non molto più tardi. I paesi delle «grandi rivoluzioni» lo compirono senza aiuti ma, con successo, solo in certi settori e sappiamo a quali prezzi e isolandosi dall’economia mondiale. Occorreva infatti trovare il preliminare finanziamento, poi per un lungo periodo dedicare quasi per intero l’incremento di produttività all’autofinanziamento di nuovi investimenti, o alle infrastrutture necessarie. Solo molto più tardi, e con parsimonia, cederne una parte al consumo, ma sempre in funzione di un modello dello sviluppo industriale imposto dal mercato estero. Occorreva inoltre disporre di una potenziale capacità imprenditoriale, di un buon numero di lavoratori professionalizzati e di tecnici convertibili, oltre che del sostegno di un potere pubblico capace di arrivare prima e dove il privato non era in grado, o non aveva interesse, di arrivare.
Il capitalismo italiano del dopoguerra disponeva di alcune di tali condizioni. L’Italia era in complesso un paese arretrato ma molto diseguale, per il sedimento di storie diverse. Antiche eccellenze in sonno nelle «cento città»; zone di industrializzazione concentrata e di lunga data; un’agricoltura ancora predominante e in generale molto povera, ma anch’essa differenziata: il latifondo assenteista, la piccola proprietà contadina non ovunque miserabile, una mezzadria esosa ma spesso civilizzata da contadini evoluti, e anche grandi proprietà agricole trasformate dal lontano dispotismo illuminato. Gran parte della popolazione era semianalfabeta, ma c’era anche, per una minoranza, una scuola tradizionalista ma di qualità, e persino isole prestigiose di ricerca scientifica, per esempio nel campo della fisica; la cultura era stata rinchiusa nel provincialismo dal fascismo, ma non in tutti i settori e veniva comunque da una grande tradizione cosmopolita. La famiglia era ancora fortemente patriarcale, ma in molti casi era una famiglia allargata, che funzionava come collettivo di lavoro, donne comprese, sede di risparmio e di protezione sociale, e avrebbe continuato transitoriamente a esserlo, anche a lunga distanza, durante le doglie del parto del nuovo; dominava una morale, soprattutto sessuale, molto repressiva, formata dalla Controriforma e imposta dalla tradizione e dalle convenzioni, ma non interiorizzata in tutti, perciò disponibile alla secolarizzazione. In questo grande e multiforme arcipelago di modernità e di arretratezza due elementi ebbero un effetto decisivo e sinergico nell’avviare un particolare modello di espansione. Il primo veniva, paradossalmente, da un’eredità lasciata dal fascismo. Una figura economica anomala, inventata per fronteggiare il crack degli anni trenta secondo la logica di quel regime: grandi imprese industriali, e quasi tutte le maggiori banche, di proprietà pubblica ma gestite come imprese autonome. Nel loro insieme configuravano un «terzo polo», una vera e propria «economia mista». Dapprima, forse per un caso fortunato, ma dopo la Liberazione certamente per effetto del clima politico, questi enti anomali furono prevalentemente guidati da uomini di vario orientamento ma intraprendenti, decentemente onesti e consapevoli del proprio ruolo (Beneduce, Menichella, Mattioli, Senigallia, Saraceno, infine Mattei), che si impegnarono a trovare e investire grandi risorse pubbliche nella produzione industriale per dotare il paese di una moderna industria di base: piano siderurgico basato non più sulla rottamazione ma sul minerale, ricerca petrolifera estesa presto alla
produzione della petrolchimica e alle fibre sintetiche ecc. Su un altro e più scivoloso versante, a supplire una Borsa striminzita e speculativa, la raccolta di risparmio delle banche semi pubbliche fu dedicata, attraverso Cuccia e Medio Banca, a riorganizzare una finanza privata e a governare mediazioni e gerarchie tra finanza e grandi gruppi industriali. Il fatto che, più tardi, l’una cosa e l’altra si siano rovesciate in strumento di un perverso intreccio tra pubblico e privato, risorsa di un potere clientelare per intercettare consenso, controllo del sistema informativo, che le fece diventare un freno allo sviluppo, non deve nascondere che, nella fase del decollo, questa economia mista assolse un compito propulsivo potente. Secondo e decisivo fattore dello sviluppo furono però il blocco permanente del salario e la capacità di sacrificio, ma anche di iniziativa, del proletariato. Questo aspetto del «miracolo» è stato più volte riconosciuto ma, a mio parere, non sufficientemente analizzato. Nel 1946 il salario reale in Italia era del 40% inferiore rispetto a quello del 1938. L’inflazione vanificava quasi ogni aumento strappato con lotte anche dure. Solo nel 1950, a ricostruzione compiuta, il salario tornò al livello dell’anteguerra. Nel 1959 era mediamente cresciuto di circa il 6-7%, mentre la produttività del lavoro aveva fatto un balzo di oltre il 50%. Questo dato è già in sé eloquente. L’accumulazione qualcuno doveva pur pagarla, e il potere dominante decise che a pagarla fossero per primi gli operai e i contadini, e che loro fossero gli ultimi a trarne qualche vantaggio. La scelta non aveva neppure bisogno di essere dichiarata e discussa, era imposta anzitutto dalla disoccupazione, dai licenziamenti, dalla chiusura di fabbriche obsolete. Lo Stato vi contribuiva semplicemente garantendo con brutalità «l’ordine pubblico» e con una spesa pubblica avara e selettiva. Ma c’è molto di più. Come tutti sanno la disoccupazione, entro un certo limite, esercita una potente funzione come calmieratrice del salario e come stimolo all’intensità del lavoro, alimenta i profitti e gli investimenti. Oltre quel limite, al contrario, restringe il mercato interno, deprime il risparmio e obbliga a sfamare in qualche modo una popolazione inattiva, produce quindi stagnazione e depressione e, in quel momento appunto, l’eccedenza di braccia superava di molto quel limite (particolarmente per l’espulsione dalle campagne, dove il lavoro non garantiva ormai, in molti casi, neppure la semplice sussistenza). Al contrario, proprio quell’eccedenza si trasformò in una risorsa. Grazie a tre grandi flussi migratori, diversi tra loro ma egualmente preziosi per lo sviluppo quanto drammatici per chi vi era costretto.
Il primo flusso si orientò prevalentemente verso l’estero, che appunto di braccia aveva allora bisogno. Da uno a due milioni di lavoratori dapprima oltreoceano (Australia e Argentina in particolare), subito dopo verso il Nord Europa (Francia, Belgio, Germania quando l’ondata di esuli tedeschi dai paesi occupati si esauriva). Era gente spinta dalla necessità a vivere in baracche, facendo i lavori più pesanti, con orari eccezionalmente lunghi, che tirava la cinghia per mantenere la famiglia rimasta al paese o per mettere da parte qualche soldo con l’obiettivo di tornare un giorno a casa, costruirsi una casetta abusiva, sfuggire così non solo al disagio ma anche a un ambiente ostile. Quella fatica, quei soldi strappati di bocca, servivano di aiuto alla bilancia dei pagamenti o si raccoglievano in piccoli libretti di risparmio. Un bell’esempio di «azionariato popolare». Un secondo flusso migratorio fu di «prossimità». Cioè dalla campagna verso le città vicine, con l’intenzione di rimanerci, conservando alle spalle un collegamento attivo con una parte di famiglia restata in campagna e con un pezzo di terra. Quel tipo di migrazione avvenne nell’Italia centrale ma poi si estese. Giovani mezzadri in terre avare, ma già trasformate a forza di braccia e il cui prodotto era ormai un po’ meglio diviso, avevano il bisogno ma anche la capacità di trovare un impiego in piccole imprese, negli interstizi del mercato, e con salari inferiori di un terzo rispetto ai minimi contrattuali. Oppure con moglie e figli lavoravano, tutti a domicilio, mattina e sera, a commesse di medie imprese, a cottimo, con vecchi macchinari dismessi dalla stessa impresa e attraverso intermediari che ritagliavano una propria quota e poi si trasformavano anch’essi in piccoli imprenditori. Oppure i lavoratori urbanizzati aprivano una piccola attività commerciale, gravata da affitti pesanti. Il reddito di tutti era integrato in molti casi dall’autoconsumo del prodotto, con il loro stesso contributo stagionale, nel vecchio pezzo di terra familiare. Qualcosa di analogo, ma non del tutto, avveniva in certe aree irrigue del Mezzogiorno, con il lavoro precario, di braccianti a giornata, prestato stagionalmente a vari padroni, integrato da qualche sussidio strappato con lotte e accordi locali e organizzato anch’esso da «caporali». Nel complesso una zona «grigia» tra campagna e città, lavoro agricolo e altre mille attività: un modello specifico di accumulazione primitiva in proprio, basato sull’autosfruttamento, che nell’immediato contribuiva allo sviluppo e all’urbanizzazione, e da cui, più tardi, sarebbe nata la Terza Italia delle piccolissime imprese e dei «distretti». E con lei un nuovo tipo di ceto medio, croce e delizia definitiva del «modello italiano».
Il terzo e ultimo grande flusso migratorio, il più impetuoso, mosse dal Sud al Nord del paese: prima soprattutto verso le grandi concentrazioni metropolitane, subito dopo in territori limitrofi. Esso ebbe, rispetto al primo, molte affinità per i sacrifici che imponeva: la vita in baracche costruite con materiali racimolati, senza servizi, né domestici né urbanistici (le famose Coree), oppure ore e ore di viaggio tra casa e lavoro, impiegati nell’edilizia senza contratto, lunghi orari e tanti incidenti, separati dalla famiglia, con la grande diffidenza della popolazione locale. Rispetto al secondo flusso, il terzo ebbe in comune l’intenzione di inserirsi stabilmente nel nuovo territorio, facendosi raggiungere appena possibile dai congiunti, tutti legati alla speranza, poi realizzata, di conquistare un posto fisso nell’industria in espansione, che prometteva stabilità e forse un futuro miglioramento. Su questo, e per questo, la selezione accurata delle assunzioni, la minaccia di licenziamento per i riottosi, i premi antisciopero ebbero, per alcuni anni, una grande efficacia, anche quando gli organici assorbivano nuova manodopera. La maggiore novità di questa terza ondata, stava però nel fatto che essa si mosse in una fase economica ormai diversa, una novità molto importante. Si stava concludendo, alla fine degli anni cinquanta, il ciclo «dell’accumulazione primitiva» e prendeva forma definita un nuovo modello di sviluppo, molto originale. La costruzione di una moderna grande industria di base prevalentemente pubblica era già compiuta o progettata: nella siderurgia erano in attività Conegliano e Bagnoli, si costruiva Taranto; nel settore petrolifero Mattei aveva concluso o stava trattando accordi con l’Algeria o in Medio Oriente, scontrandosi con le «sette sorelle» e finendo ammazzato; nella petrolchimica erano in cantiere l’Anic di Ravenna, o la Raffinazione di Gela. Nell’industria privata dominava la Fiat con il gigantesco e modernissimo ciclo di Mirafiori per la produzione della 600, e trascinava la gomma, creava un indotto, aveva bisogno di infrastrutture adeguate. Dalla petrolchimica dilagavano i mille prodotti in plastica. L’industria tessile introduceva macchinari automatizzati e stimolava la produzione di fibre sintetiche. La parte dell’agricoltura modernizzata chiedeva concimi e macchine agricole, che la Federconsorzi commercializzava e trasferiva, con l’aiuto pubblico, anche a una fascia di coltivatori diretti sotto l’egida della Coldiretti di Bonomi. Ancor più recente era la moltiplicazione, quasi dal nulla, di nuove imprese, prima medie, presto grandi, che saltavano dal semiartigianato alla produzione in grande serie nei vari settori degli elettrodomestici. Tutte insieme chiamavano lavoratori senza grande
qualificazione e senza pretese, anche in centri piccoli, prima di poter loro offrire una residenza decente. Una tale espansione dell’industria manifatturiera produceva, e avrebbe presto moltiplicato, due grandi conseguenze, sociali e culturali oltreché economiche. Anzitutto ridisegnava la mappa del potere reale, quello che non si ferma entro le mura di Montecitorio, ma penetra nella società, ne regola i conflitti e vi orienta il consenso. Tornava così sulla scena come soggetto autonomo e organizzato la grande borghesia industriale e finanziaria. Dalla guerra essa era uscita delegittimata politicamente ed economicamente indebolita. Non era in grado di reggere la competizione nel mercato internazionale né di esprimere un’egemonia politica e culturale, né di governare un conflitto sociale tornato libero di manifestarsi. Aveva poi recuperato un controllo in fabbrica appoggiandosi sulla coalizione raccolta dalla Democrazia cristiana, che la dominava. Il decollo dello sviluppo economico era stato però, come abbiamo visto, trainato dall’industria pubblica e sostenuto dalle scelte del potere politico, dai suoi apparati. Ma dalla metà degli anni cinquanta il grande capitale si ritrovò pronto ad assumere un ruolo di comando, con un suo programma esplicito. Impedire che l’impresa pubblica, assolto il suo compito, pretendesse di assumere una funzione di guida per il futuro. Evitare un sistema fiscale che spostasse l’equilibrio dalla tassazione indiretta a quella diretta e limitasse il profitto. Prolungare il contenimento delle rivendicazioni sindacali e orientare la spesa pubblica là dove era direttamente necessaria alla competitività delle imprese. Esso aveva la proprietà diretta della stampa a sostenerlo (a parte il Giorno di Baldacci finché durò). E aveva la spregiudicatezza necessaria per minacciare la mobilitazione di tutta l’Italia reazionaria che permaneva. Già De Gasperi lo aveva allora definito il «quarto partito» con cui fare i conti. Una seconda conseguenza del boom industriale riguardava il rapporto tra produzione e consumo. Si potrebbe parlare di «consumismo precoce», non era solo un fenomeno congiunturale, ma strutturale. Lo sviluppo industriale, e gli investimenti futuri, erano infatti ormai strettamente legati alle esportazioni e queste erano prevalentemente orientate al mercato comune europeo, che all’inizio era, e sarebbe in gran parte e a lungo restato, una semplice unione doganale (salvo un residuo protezionismo nell’agricoltura, a vantaggio dei paesi più forti). Le esportazioni erano orientate perciò verso paesi limitrofi, complessivamente più avanzati
dell’Italia che restava ancora un paese mediamente povero. Questi paesi assorbivano soprattutto beni di consumo durevoli e di massa, automobili, televisioni, elettrodomestici, arredamento. Nella stessa direzione, a sua volta, si orientavano, attraverso il messaggio mediatico (l’esordio della televisione), le scelte o le aspirazioni del consumo interno, anche da parte di chi ancora mancava di beni primari, individuali e ancor più collettivi. La parola consumismo va usata, in questo caso, con sobrietà. Perché in quella fase si indirizzava a soddisfare bisogni, nel concreto sociale, essi stessi primari: un piccolo mezzo di trasporto, in assenza di trasporti pubblici, per andare al lavoro o fare una modesta vacanza, un televisore come prima finestra sul mondo dopo secoli di isolamento. Però innestavano una tendenza, già in atto nel modello americano, al prevalere dell’individuale sul collettivo, all’affermarsi del simbolo di status rispetto ai bisogni reali, insomma verso un nuovo stile di vita. E la spesa pubblica, per ragioni economiche ma anche di integrazione sociale, contribuiva a sostenere quella tendenza. Nel 1959, per esempio, lo Stato destinò 36 miliardi alle ferrovie ormai obsolete e carenti, e 2000 miliardi alle strade e soprattutto alle autostrade; la sanità rimase a lungo gestita dal sistema mutualistico, che escludeva gran parte della popolazione ed era direttamente finanziata non dal fisco, ma dai lavoratori. Il «consumismo» quindi precedeva «l’opulenza» e tanto più una redistribuzione più equa del reddito. Potrei continuare a elencare gli aspetti del sommovimento sociale e culturale che il miracolo economico italiano, lasciato alla sua spontaneità, determinava e precorreva. Ma quanto ho detto basta a far capire come esso riproducesse in forma nuova un intreccio tra modernità e arretratezza; quali squilibri e ragioni di conflitto territoriale e di classe, tra Nord e Sud, tra capitale e lavoro, tra vecchio e nuovo ceto medio, alimentasse. Per completare il quadro, va però aggiunto un altro elemento, spesso trascurato. Questo sommovimento economico non lasciava affatto immune il blocco politico e sociale sul quale la Democrazia cristiana aveva costruito la sua indiscussa supremazia. Quel blocco si era faticosamente affermato come coalizione di emergenza per sbarrare la strada al «pericolo comunista», con il sostegno pieno ma vincolante degli americani, di un ceto medio ancora non immune dall’influenza parafascista, ma soprattutto di grandi masse cattoliche, in prevalenza contadine, mobilitate dalla Chiesa pacelliana, ma anche segnate da antiche esperienze solidaristiche o dalla partecipazione recente alla Resistenza. De Gasperi era riuscito a consolidarne l’unità con l’appoggio del cardinal Montini e l’esercizio del
potere statale. Ma già nel 1953 aveva conosciuto una secessione a destra, poi riassorbita con il successo dell’economia. Quello stesso successo però – migrazioni, urbanizzazioni, la burocrazia che restava indietro nel reddito e nel riconoscimento sociale, la riconquistata autonomia della grande borghesia, l’espulsione dalle campagne – creava molte incrinature e stimolava interessi divergenti. Declinando la guerra fredda, il «pericolo comunista» perdeva parte della sua forza unificante. Lo stesso Vaticano già diffidava del processo di secolarizzazione, e per di più al pontificato ascendeva un uomo conosciuto come prudente conservatore, ma non un clericale, portato a guardare il mondo piuttosto che a intervenire nella politica italiana. La supremazia era quindi minacciata, il regime democristiano doveva ridefinire la sua base di forza. Mi spiace doverlo riconoscere, perché tra lui e Moro le mie simpatie vanno al secondo. Ma fu Fanfani che solo fra tutti, democristiani e no, capì per primo il problema che si proponeva, ed ebbe l’intelligenza e il coraggio, se non di risolverlo, di attrezzarsi per affrontarlo. Prima, e invece di cercare una risposta costruendo nuove alleanze politiche, fece il possibile per costruire un nuovo blocco sociale. Era antipatico, io penso pericoloso, ma un politico di alta levatura e audace, non un politicante, né un moderato. E infatti partì presto, lavorando sulla società e sugli interessi contrastanti che la percorrevano. E costruendo anzitutto un vero partito. In sostanza tentando un compromesso per niente storico, ma non irrilevante e in alcuni aspetti duraturo. Forse è più esatto dire, molti compromessi, rivolti in diverse direzioni. Quanto alla presenza pubblica nell’economia Fanfani non solo non la ridusse ma la consolidò, l’occupò direttamente con uomini a lui legati e obbedienti, la unificò sotto un unico ministero e ne affermò l’autonomia nella contrattazione sindacale (l’Intersind). In cambio permise e favorì che alcune imprese pubbliche, le più efficienti, anziché diventare la guida di una programmazione, si integrassero progressivamente nel concerto dell’industria privata e altre, invece, divenissero una riserva del clientelismo e dell’assistenzialismo e «socializzassero» le perdite con deficit coperti dallo Stato e mai ben calcolati. Nelle città cresciute tumultuosamente, la grande prateria dell’edilizia, nata come promessa alle case popolari con l’Ina casa, fu nei fatti abbandonata alla rendita e alle costruzioni libere da vincoli urbanistici, senza piani regolatori, e nel contempo sostenuta, attraverso le banche, con prestiti a lungo termine e agevolazioni fiscali, dalla domanda privata individuale e da pseudocooperative. Si formava così un «blocco edilizio» che legava
parte del ceto medio, in particolare impiegati pubblici, alla generale difesa dei diritti di proprietà. Sia alla piccola e media azienda agraria, nella sua parte più vivace, sia all’impiego statale furono poi concessi miglioramenti di reddito e particolari condizioni di favore, soprattutto pensionistiche, o nuove assunzioni in una scuola non ancora riformata. Per regolare la dinamica salariale, via via che la repressione o la disoccupazione perdevano efficacia, fu attivata per alcuni anni, sotto la copertura di un’apparente contrattazione aziendale, la pratica degli accordi separati e dei sindacati amici dei padroni. Particolarmente intelligente e anticipatore fu l’uso della televisione pubblica, totalmente controllata, con un orientamento semiclericale, ma di buona qualità e ben diretta. Infine, e soprattutto, l’invenzione di un tipo speciale di welfare state, basato principalmente su trasferimenti monetari verso gli esclusi, non come diritti universali, ma come sussidi concessi a determinate zone, o assegnati di fatto in cambio di voti: sostegno dei prezzi agricoli spesso per prodotti figurativi, pensioni di invalidità spesso presunte, crediti a fondo perduto per piccole imprese mai nate. Il partito-Stato e l’incrocio perverso tra pubblico e privato avevano così messo radici nella società, prima ancora di decidere le alleanze, anzi alternando governi diversi: il centrismo di ferro di Scelba, alleanze variabili con partiti minori, governi «balneari», o convergenze occasionali con la destra. L’egemonia del fanfanismo sopravvisse anche quando la gestione centralistica e autoritaria del suo inventore spinse la maggioranza della Dc a limitare il suo potere personale. Era infatti un’espressione del miracolo economico e una risposta preventiva ai problemi che insorgevano. Anch’esso un esempio dell’intreccio tra modernità e arretratezza. 7.2 La ripresa operaia L’intero edificio però poteva durare se e fino a quando reggeva il suo pilastro fondamentale, cioè l’acquiescenza di quella classe che aveva pagato i costi dello sviluppo e vi aveva contribuito. Se cerchiamo un filo conduttore dell’intero decennio, una chiave di lettura delle sue alterne vicende, credo si debba e si possa trovarla nella lunga e
peculiare «ripresa operaia». Il termine ripresa è appropriato, perché rimanda a vecchie radici, ma può risultare limitativo, perché sottovaluta grandi novità in cammino. Per radici lontane, che sembravano estirpate, intendo il nesso forte tra lotte economiche, coscienza di classe e lotta politica; e intendo il protagonismo delle iniziative dal basso, che irrompeva oltre gli equilibri istituzionali e travalicava i propri gruppi dirigenti. Ciascuno di questi aspetti era nello spirito dei tempi. Infatti qualcosa del genere era presente anche in lotte che, negli stessi anni, si svilupparono in diversi paesi europei, per esempio Inghilterra e Germania, ma là un aspetto escludeva l’altro e comunque non vi contribuiva (la frammentazione degli shop stewards inglesi era cosa ben diversa dalla concertazione e dalla cogestione strappata dai tedeschi). Da noi invece subito i vari aspetti si sommavano e si intrecciavano. Non a caso. In Italia infatti la resistenza al fascismo era cominciata dagli scioperi del ’43 e del ’44 che, pur rivolti alla conquista del pane quotidiano, le offrirono un sostegno di massa nelle grandi città: lotte economiche e politiche si mescolavano e formavano una rinnovata coscienza di classe. Gli operai difesero in armi i grandi impianti industriali dallo smantellamento tentato dai tedeschi in fuga e cercarono di costruire, nel vuoto di potere in fabbrica creato dal collaborazionismo o dall'espatrio dei padroni, un’esperienza consiliare effimera ma non dimenticata. Ancora nel dopoguerra rimasero in campo con lotte sociali che, nella generale povertà, raggiungevano limitati risultati salariali, ma strappavano diritti non più cancellati: contrattazione dei licenziamenti collettivi, parziali forme di scala mobile, commissioni interne come organi riconosciuti e regolati. Da tutto questo era nato un tipo particolare di organizzazione sindacale. Un sindacato che per i primi anni unì, sulla base di un Patto sottoscritto dall’intero arco delle forze antifasciste, una grande organizzazione che conservò per sempre la forma di una Confederazione, sia al centro che sul territorio, per ostacolare spinte corporative di settore, o di professione, e per consentire di lottare uniti su grandi temi di protezione sociale o a difesa della democrazia costituzionale. Al suo primo congresso del 1947, quel sindacato aveva 5700000 iscritti: in pratica più della metà dei lavoratori dell’industria erano sindacalizzati. Votarono 4900000 iscritti. Così attribuiti: 2600000 alla corrente comunista, 1100000 alla corrente socialista, 650mila a quella cristiana, 200mila alle correnti laiche minori. La scissione del 1948 fu, quasi per intero, un riflesso della rottura delle alleanze di governo e della guerra
fredda, gli americani vi intervennero direttamente e la finanziarono. L’unità tra socialisti e comunisti garantì però alla Cgil di conservare la sua forza organizzativa, di mantenere un peso, e di prendere qualche iniziativa incisiva, per esempio con la proposta di un Piano del lavoro; e permetteva ai collettivi operai qualche resistenza esemplare, come l’occupazione e la gestione delle Reggiane con il sostegno dell’intera città. Non bastò però a evitare un autentico e totale collasso del potere contrattuale e delle vertenze. Quel collasso era il prodotto di fattori oggettivi soverchianti: la nuova ondata di licenziamenti per ristrutturazione o chiusura di intere fabbriche; una repressione concertata tra Stato e padroni particolarmente rivolta a stroncare il conflitto sociale; più tardi, ma non meno efficace, la differenziazione sociale all’interno della classe operaia, connessa alle trasformazioni tecnologiche o alle disparatissime dimensioni delle imprese. L’espulsione quasi totale dalle fabbriche delle precedenti avanguardie completava lo sradicamento delle esperienze passate. Anche quando lo sviluppo economico divenne evidente, e offriva ormai qualche margine di miglioramento, la situazione su questo fronte restò quindi a lungo immodificata: il «silenzio» degli operai si prolungò fin quasi al 1960. A esso contribuirono i «nuovi sindacati» nati dalla scissione del ’48 che, per qualche anno, furono attivi collaboratori del potere padronale, firmavano accordi separati, rompevano gli scioperi. Per valutare il peso dell’orientamento del sindacalismo cattolico durante quegli anni, e quello che ebbe invece, successivamente, la sua correzione, mi sembra utile e sufficiente un fatto. Un fatto sconosciuto o trascurato, che ho ricostruito con la memoria e con una puntigliosa documentazione, e voglio citare. Tutti ricordano la drammatica sconfitta della Fiom alla Fiat nel 1955: nell’elezione della commissione interna essa aveva sempre ottenuto la maggioranza assoluta; di colpo cadde al 35% dei voti, contro il 51% della Cisl e il 25% della Uil, ancor più ligia al padrone. Si aprì subito un dibattito sulle ragioni di quella sconfitta sia nella Cgil sia nel Pci: quanto si doveva alla repressione, quanto alla presenza di sindacati compiacenti, quanto alla nuova organizzazione del lavoro e ai ritardi della Cgil stessa nel capirla e nell’affrontarla? La questione era difficile da dirimere perché tutto vi aveva contribuito. Ma, tre anni dopo, nuove elezioni alla Fiat offrirono una chiave di lettura. Pastore, segretario nazionale della Cisl, sostenuto da Donat-Cattin, dichiarò che non avrebbe presentato candidati a elezioni truccate e manipolate e ottenne una maggiore correttezza. Il risultato fu però sorprendente. La Fiom recuperò qualche punto, ma la Cisl
crollò da 20mila a 7mila voti, e i suoi iscritti a Torino passarono da 18mila a poco più di un migliaio; il suo posto venne occupato da un autentico sindacato giallo, il Sida. Questo semplice dato diceva già tutto: che finora la Cisl doveva il successo in Fiat a un ruolo di copertura, che essa stava assumendo una nuova collocazione, ma anche che l’acquiescenza operaia non era più legata solo ai ricatti, era diventata consenso passivo, un’ideologia sotto cui covava la rabbia individuale. Si poteva romperlo solo adeguando le piattaforme, costruendo un’iniziativa dal basso sorretta da una memoria, fornendo una nuova coscienza di classe e una rinnovata motivazione ideale. Per dirla in termini gramsciani la «questione cattolica» non era più solo una questione contadina, era anche una «questione operaia». Nel passaggio agli anni sessanta, quella passività venne meno, quasi all’improvviso, ed emerse invece una combattività oltre ogni previsione, di cui faccio la semplice cronaca dei fatti. La prima ondata di un’evidente ripresa operaia cominciò nel 1960 con la vertenza di settore degli elettromeccanici – non a caso a Milano dove il filo della memoria non era stato del tutto rimosso. La piattaforma rivendicativa sul piano salariale era prudente, ma toccava altri aspetti dell’erogazione di lavoro, soprattutto di per sé implicava il riconoscimento di principio della contrattazione aziendale integrativa. Su questo i padroni facevano muro. Uno di loro lanciò un appello ai colleghi: «in fabbrica alla fine uno solo deve decidere» e il contratto nazionale deve bastare da solo fino alla sua scadenza. La vertenza si prolungò per mesi, dal settembre al febbraio successivo e nella lunga trattativa via via la base diceva la sua, le aziende più combattive trascinavano le altre. A dicembre un’emozionante invenzione: il Natale in piazza. Si avviavano, verso piazza del Duomo, due cortei distinti, 100mila operai, quello della Cgil e quello della Cisl, che strada facendo si fondevano. La gente in piazza solidarizzava. C’era per la prima volta una partecipazione organizzata di studenti. Il cardinal Montini scese a benedire i lavoratori. A quel punto l’Intersind firmò un protocollo di accordo preliminare. Le aziende private vi si piegarono a una a una. Era la prima vittoria sindacale e politica dopo molti anni, l’unità aveva trovato gambe. Nel 1961 e nei primi mesi del 1962, il rinnovo di diversi contratti nazionali di categoria ottenne aumenti tra il 7 e il 13%, e si aprirono vertenze aziendali all’Alfa, alla Siemens, alla Cge, che incontrarono la stessa resistenza padronale proprio sul tema della contrattazione integrativa. La Fiat tentò di prevenirla con un accordo separato con il sindacato giallo. I
sindacati metalmeccanici decisero allora di anticipare i tempi del loro contratto nazionale ormai in scadenza e indissero uno sciopero per il 7, il 9 e il 10 luglio. Il primo giorno lo sciopero riuscì pienamente in quasi tutte le aziende torinesi, tranne la Fiat, dove fallì. Ma in poche ore crebbe una campagna collettiva di convinzione e di attacco verbale contro i crumiri, davanti alla fabbrica ma anche nei centri residenziali, da parte degli operai stessi, in massa. Il secondo giorno anche la Fiat si vuotò. Intervenivano giovani, studenti o emarginati che manifestarono e si scontrarono con la polizia, ovunque erano protagonisti lavoratori meridionali alla loro prima esperienza. Il 29 dicembre l’Intersind firmò un accordo che riconosceva il diritto di contrattazione articolata sui sistemi di cottimo, il premio di produzione collettivo, i ritmi di lavoro alla catena. Il contratto nazionale fu firmato in febbraio, ma solo dopo lo sciopero generale di tutta l’industria. Si ottennero miglioramenti economici, a vario titolo, del 32% rispetto al contratto precedente. Non meno importante era la novità introdotta nell’assetto contrattuale che superava, su un terreno avanzato, una lunga querelle sulla quale il sindacato si era a lungo diviso tra «generalisti» e «aziendalisti». Il contratto di categoria rimaneva infatti per garantire norme valide per tutti, in particolare nella definizione dei livelli retributivi minimi, ma si poteva integrare con accordi aziendali su questioni inerenti specifiche condizioni di lavoro, o con salari migliori correlativi, ma non subordinati, all’andamento economico delle imprese. Non meno importante era il fatto che a quei risultati avesse contribuito non solo lo sciopero della «nuova classe operaia», ma la partecipazione attiva, dal basso, che spesso andava oltre i limiti delle tradizionali vertenze. Nel 1963 le lotte aziendali si estesero e si raggiunse nazionalmente la punta massima di ore di sciopero. Questa semplice cronistoria della ripresa sindacale è già sufficiente a illuminare un elemento che ne spiega il carattere improvviso e l’ampiezza. Alla troppo lunga compressione del salario si congiungeva la rabbia accumulata dallo spaesamento e dai tremendi sacrifici imposti dalle emigrazioni, e la nuova fatica connessa all’organizzazione tayloristica del lavoro. Appena aperto un varco alla lotta, tutto ciò contribuiva a comporre una miscela esplosiva, a darle in partenza un carattere radicale di «lotta di liberazione». E quel varco si apriva per il fatto che ormai, almeno in alcune regioni, il mercato del lavoro si avvicinava alla piena occupazione. Le ragioni degli operai erano contrastabili, non più confutabili. Ma questo non sarebbe bastato senza il concorso di altri fattori. Anzitutto la ripresa
del conflitto sociale interveniva in un paese dove, a differenza che altrove, esistevano un forte sindacato e un forte partito che mantenevano viva un’ispirazione di classe e un antagonismo autentico al sistema sociale dominante. Nello stesso tempo gli operai avevano ormai, sia pure con difficoltà e ritardi, la capacità di vedere, e la volontà di adeguarsi ai nuovi caratteri che il conflitto di classe veniva assumendo. E lo sostenevano con convinzione, infatti a quella nuova ondata contribuivano in primo piano sindacalisti e politici, comunisti (come Di Vittorio, finché visse, Trentin, Minucci), socialisti (come Foa e anche Santi), intellettuali (come Panzieri e Leonardi) e tanti altri. In secondo luogo lo spostamento del mondo cattolico si mostrò più profondo e duraturo di quanto sembrasse all’inizio. Già l’apertura avvertibile nella Mater et Magistra di Giovanni XXIII aveva offerto uno spazio nuovo nella Cisl e poi nelle Acli. Ma presto la Pacem in Terris e la promozione del Concilio preparavano qualcosa di più. In terzo luogo, ma immediatamente, la svolta generazionale. I giovani degli anni sessanta, in Italia come altrove, accettavano sempre meno il vincolo dell’autorità stabilita, subivano la suggestione di nuovi stili di vita e vi si adeguavano per quanto lo consentiva un livello di reddito che ancora li escludeva; ma qui tutto questo non si limitava alla musica o ai comportamenti privati, si coniugava al ricordo dell’antifascismo e allo scontro ideologico mai risolto, ci si buttava perciò in politica, sia pure istintivamente e spesso fuori dalle organizzazioni. Il moto popolare, suscitato nel luglio del 1960 dal connubio tra Tambroni e i fascisti, si estese a tutto il paese, pagò con i suoi morti, ma prevalse: e i «giovani con le magliette a righe» ne furono protagonisti. Nell’immediato tutto ciò si riflesse in una crescita elettorale del Pci, ma nella società fu il preludio di un nuovo sommovimento più ampio e diverso, il lungo Sessantotto che in Italia non fu solo studentesco ma anche operaio, durò anni e più tardi coinvolse ancor più estesi strati sociali. Se si esclude, o si sottovaluta, un tale filo conduttore, non si capisce nulla del «caso italiano», tanto meno di ciò che il Pci discusse e il ruolo effettivo che esercitò, e ancor meglio poteva esercitare, nel subbuglio degli anni sessanta.
8. Il centrosinistra
Il centrosinistra, cioè una maggioranza di governo fondata anzitutto sull’alleanza tra democristiani e socialisti, fu l’espressione politica di quel sommovimento economico e sociale e il tentativo di offrirgli una risposta adeguata. Il Partito socialista fu il promotore di quel tentativo, ma anche la vittima principale del suo fallimento. Confesso che qualche anno fa mi sarebbe stato difficile evitare una critica non solo dura del centrosinistra, ma sbrigativa e un po’ faziosa. Alla critica penso tuttora di non poter rinunciare, perché ha trovato via via un riscontro pieno nei fatti. E più evidenti e durature si sono dimostrate le conseguenze negative di quella politica. Ma ora sento di doverla fare con uno spirito diverso e ponendomi interrogativi nuovi, per una ragione legata al presente che non è affatto ovvia, e potrebbe in apparenza spingere in una direzione contraria, cioè verso quel tipo di demolizione indifferenziata e ingenerosa di una storia complessa, che rimprovero a tanti di fare a proposito del comunismo italiano. Oggi, mentre la parola comunista, in tutte le sue versioni, è generalmente rimossa e considerata compromettente, la parola socialista è inflazionata. Una folla si contende il diritto di appropriarsene per trovare una tradizione con cui legittimarsi, o semplicemente per potersi collegare a partiti europei che ancora contano e meritano riguardo. Ma a vedere bene, il destino non è poi tanto diverso, per entrambi i casi. Infatti la parola socialista viene ormai usata con significati diversi o più spesso nessun significato, e nella più totale indifferenza rispetto alla storia complessa che ha alle spalle. Kautsky, Rosa Luxemburg o Bernstein, Bauer o de Man; Palme, Guy Mollet o Tony Blair, Nenni e Turati o Saragat; Lombardi o Basso fino a Craxi: tutti convivono in un minestrone nel quale non si riconoscono i sapori. Il socialismo italiano ha invece una storia interessante e originale, fatta di grandi lotte, di meritate sconfitte, di tentativi riusciti e falliti; ed è approdato a una conclusione umiliante. Uno dei passaggi cruciali di quella storia è stata proprio l’esperienza del centrosinistra, che va quindi considerata con serietà e valutata nel suo svolgimento e nelle sue conseguenze, sia immediate sia di lungo periodo. Si cominciò a parlarne con molto anticipo, attraversò fasi diverse e si presentò in diverse versioni. La proposta partì nel 1955 da Rodolfo Morandi che la concepì come il primo passo di una svolta politica che non
poteva ancora coinvolgere i comunisti, ma escludeva una rottura con loro. La Democrazia cristiana, salvo una piccola minoranza, non la prese sul serio. Il Vaticano e gli americani le opposero un veto senza esitazione, considerandola un pericoloso inganno. Gli eventi del ’56 e l’incontro di Pralognan permisero di riparlarne; ma quando Saragat si affrettò a chiarire che si trattava solo di un allargamento della maggioranza centrista, di un passaggio del Psi nel campo atlantico, la maggioranza dei socialisti si mostrò nettamente contraria, e contemporaneamente nella Dc, esautorato Fanfani, prevalse la corrente dorotea che, nel suo complesso, non era certo disposta a rinunciare alla supremazia democristiana e cercava con spregiudicatezza alleanze occasionali e subalterne. Lo stesso Moro, nel 1959, disse chiaro: «Chi non è contro il comunismo è forzato a essere con il comunismo. Bisogna dunque che l’onorevole Nenni scelga, sapendo che le mezze misure non bastano. Fino ad allora il Psi non può essere utilizzato per la difesa della democrazia italiana». Tra il 1957 e il 1959, i governi Zoli e Segni, succeduti a Scelba, erano sostenuti dai voti dell’estrema destra. E all’inizio del 1960, L’Osservatore Romano ancora scriveva: «Il socialismo, anche nelle sue forme più temperate, anche se ripudiasse Marx e la lotta di classe, non può conciliarsi con la professione di cattolicesimo». La vicenda, drammatica e grottesca, del governo Tambroni rese però evidente a tutti che non si poteva più navigare a vista. Le grandi novità intervenute nell’economia, nel conflitto sociale, la svolta in atto nella Chiesa, il nuovo quadro internazionale rendevano necessaria, e urgente, una novità nell’assetto e nei programmi di governo. Si trattava di decidere quali e con chi. A quel punto, 1961, il «centrosinistra» emerse come problema immediato e politico, da affrontare in tempi brevi, ma era inevitabile, e fu presto chiaro, che esso poteva essere affrontato con intenzioni politiche e piattaforme programmatiche diverse, anzi alternative tra loro: la proposta avanzata da Morandi nel 1955, oppure quella emersa dall’incontro di Pralognan e dalle chiose che Saragat vi aveva aggiunto. L’aspetto più interessante della situazione stava proprio in questa iniziale ambiguità, che poteva risolversi in un modo o nell’altro. Infatti in prima battuta, quando ancora si trattava di discutere, prima di scegliere, e le forze reali non erano ancora tutte mobilitate, l’ipotesi di centrosinistra fu assunta in una versione molto avanzata e trainata da uomini, oltreché autorevoli, intelligenti. Mi riferisco a due impegnativi convegni nazionali: quello di San Pellegrino, promosso dalla Dc – relatori Ardigò e Saraceno – e quello
di Roma promosso dagli amici del Mondo, e da Mondo Operaio, con contributi di Scalfari, Lombardi, Manlio Rossi Doria ed Ernesto Rossi. Volutamente, in entrambi i convegni, la discussione metteva un po’ da parte i temi più direttamente politici, particolarmente quelli internazionali, si concentrava sull’analisi della situazione economico-sociale, per definire soprattutto un programma di politica economica. In questo ambito era però molto coraggioso, sia nell’esplicita denuncia dei fenomeni negativi che lo sviluppo affidato solo al mercato stava producendo e avrebbe prodotto, sia nella proposta che avanzava per correggerli. Era un discorso sinceramente riformatore: nazionalizzazione dell’energia elettrica e lotta alla sacche di rendita; priorità della questione meridionale come questione nazionale; critica del consumismo indotto; innovazione dei patti agrari; riforma urbanistica. Su tutto dominava l’idea di una programmazione economica nella quale le imprese pubbliche assumessero un ruolo di avanguardia, senza rinunciare all’efficienza ma coordinate da un «piano». Su quella piattaforma i due convegni sostanzialmente convergevano. Non era illegittimo pensare dunque a un placet di Moro, di Nenni, di Vanoni e in parte di La Malfa. Seguii entrambi i convegni con vero interesse ma anche con diffidenza. La diffidenza, devo riconoscerlo, era forse in parte dovuta al mio pregiudizio ideologico per l’uso della generica parola riformismo, che apriva la strada a un pragmatismo adattabile a molti usi. Ma non era priva di ragioni: non riuscivo a vedere come quell’indirizzo programmatico potesse affermarsi senza rompere i reali equilibri politici, come potesse piegare l’intransigenza della Confindustria, escludendo in linea di principio ogni tipo di apporto dei comunisti e delle forze che essi organizzavano, la partecipazione convinta del sindacato, e scontando un immobilismo nelle scelte internazionali. Ricordo che uscendo da San Pellegrino, in uno scambio di idee con il mio vecchio amico Granelli, gli dissi, come mi aveva insegnato a dire Giorgio Amendola: chi avrà più filo tesserà più tela. Ma il mio interesse non era bloccato dalla diffidenza, e infatti mi impegnai con fiducia nel settore sul quale avevo un incarico preciso, cioè la questione urbanistica, sulla quale il Pci pesava molto grazie alla consonanza di tanti intellettuali, per sostenere i tentativi di Giolitti e del suo braccio destro, Giannotta, di far passare la proposta di legge urbanistica di Sullo che poi invece fu liquidata. Ma «breve fu la vita felice di Francis Macomber». Dopo il crollo di Tambroni i socialisti furono ancora lasciati sullo zerbino d’ingresso. Si formò un governo FanfaniSaragat, e il Psi lo sostenne solo con un’astensione non riconosciuta e non
contrattata, che Moro, forse senza accorgersi dell’ironia, chiamò delle «convergenze parallele». Il primo tentativo esplicito di un accordo politico tra Dc e Psi si realizzò finalmente nel 1962, lasciò ancora il Psi fuori dal governo, ma si impegnò su alcune riforme auspicate a San Pellegrino. Era anch’esso guidato da Fanfani che, non più segretario del partito, si era spostato a sinistra e, per temperamento, era abituato a fare presto ciò che voleva o doveva fare. Arrivò in aiuto anche la nota aggiuntiva del ministro del Tesoro La Malfa, che proponeva un Comitato per la programmazione economica, di fatto affidato a Saraceno. Cosicché in tempi rapidi si realizzò la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’introduzione della cedolare di acconto sulle plusvalenze finanziarie per ostacolare l’evasione fiscale, e fu istituita la scuola media unica. Paradossalmente perciò il momento in cui il centrosinistra apparve più incisivo e risoluto fu quello in cui il parto non era ancora stato portato a termine. A vedere bene, però, già in quel momento si poterono misurare gli ostacoli e gli avversari che gli si opponevano e lo condizionavano. La nazionalizzazione dell’industria idroelettrica era un obiettivo storico di tutta la sinistra ed era difficile mobilitare l’opinione pubblica per contrastarla a viso aperto: perché l’Edison e i suoi satelliti gestivano una risorsa naturale, e perciò oggettivamente pubblica, con impianti da tempo ammortizzati, gestendoli come una rendita monopolistica, e agendo ormai come gruppi finanziari. Essa trovò però il modo non solo di parare il colpo ma di snaturarne la finalità attraverso il meccanismo dell’indennizzo. Su pressione della Banca d’Italia e della destra democristiana fu infatti deciso di concedere un gigantesco indennizzo, non al vasto popolo di piccoli azionisti, nella forma di obbligazioni, e quindi al servizio di un piano pubblico di investimenti a lungo termine e di priorità stabilite, ma direttamente ai ristretti gruppi che controllavano l’industria elettrica. I quali li spesero, e in molti casi li dissiparono, nelle direzioni più disparate e alla ricerca delle più immediate convenienze, il che accelerò la formazione di una finanza a scatole cinesi, che integrò pubblico e privato. La morte violenta di Mattei, l’ascesa di Cefis al vertice dell’Eni e poi il suo passaggio alla Montecatini, avrebbero simboleggiato quel fenomeno e anticipato una permanente oligarchia economica potente e spesso corrotta. Quanto alla cedolare di acconto, primo tassello di una riforma fiscale mai portata a termine, ben presto fu emendata in modo tale da sollecitare l’esportazione clandestina di capitali, che poi rientravano dall’estero
godendo di un vantaggio fiscale. La guerra preventiva della destra in tutte le sue componenti non si fermava però qui. Assunse il carattere di una forte mobilitazione politica, che faceva leva soprattutto sulla proposta in cantiere di riforma urbanistica. Quella riforma non solo voleva mettere fine alla sostanziale irrilevanza dei piani regolatori, ma separava il diritto di proprietà della terra dal diritto di edificazione: quando un terreno diventava area edificabile poteva essere acquistato a prezzo agricolo dal comune, che avrebbe concesso il diritto di costruzione a prezzi che includevano le spese di urbanizzazione. Si liquidava così la rendita arbitraria, assicurata a proprietari o a costruttori dal passaggio di un terreno agricolo ad area fabbricabile attraverso una variazione del piano regolatore, spesso ottenuta con la corruzione e comunque riversando sul comune la spesa di urbanizzazione. La razionalità di tale riforma era, e sarebbe ancora, indiscutibile; assicurava una gestione onesta e civile in una fase di tumultuosa migrazione verso la città, una garanzia per la protezione di un territorio così ricco di risorse artistiche e paesaggistiche. Ma la destra riuscì a convincere non solo speculatori e imprenditori, ma tanti piccoli proprietari, che si trattava di una minaccia di esproprio generale della terra, e a convincere tanti piccoli proprietari di casa che gliela si voleva portar via. Quel tema venne assunto come simbolo di una tendenza generale a liquidare il mercato e la proprietà. L’effetto immediato di questa campagna fu il blocco di tutti i punti del programma concordato: istituzione delle regioni, adozione di un piano economico, oltre che ovviamente qualsiasi discussione delle scelte internazionali che in quel momento arrivavano al nodo del riarmo atomico della Germania. Il centrosinistra arrivò così alle elezioni politiche del 1963 già in crisi: ancor prima di nascere. E i dati elettorali acuirono i contrasti. Andarono avanti i comunisti, un po’ indietro i socialisti, molto indietro i democristiani decimati nel loro elettorato conservatore. Ma la novità più importante stava nel fatto che, a quel punto, Moro fu spinto a chiarire la sua prospettiva politica. Egli nutriva simpatia e interesse verso i Saraceno o gli Ardigò, ma non era disponibile a mettere a repentaglio l’unità e la supremazia della Dc. Come era nella sua natura, lo fece senza aprire minuziose contese sui vari contenuti dei programmi, che si potevano aggiustare o rinviare a seconda della necessità. Alzò invece il tiro sull’impostazione politica e di principio dalla quale il centrosinistra non
poteva prescindere. Disse chiaramente che rispetto ai comunisti non c’erano incertezze tollerabili, che le regioni si sarebbero fatte se e quando i socialisti avessero garantito di non allearsi con loro, che il centrosinistra era un allargamento, e non l’abbandono, del centrismo e dell’atlantismo. E per dimostrare che faceva sul serio sostenne Segni nella sua elezione a presidente della Repubblica con i voti delle destre. I socialisti ebbero uno scatto d’orgoglio, e nel giugno del 1963 – la notte di San Gregorio – il loro Comitato centrale respinse la proposta di un governo Moro con la loro diretta partecipazione. Il rifiuto venne dalla sinistra socialista ma anche da Lombardi e da Giolitti, più riservatamente da Santi; De Martino stava con Nenni ma esitava perché entrambi temevano che, se si fosse rotto, il dialogo con la Dc sarebbe stato difficile da ricucire. La questione fu affidata a un congresso straordinario del Psi, che si svolse a novembre e rovesciò nuovamente la decisione, riaprendo la trattativa con Moro per la formazione di un governo organico. Lombardi si adeguò, convinto che essenziale era discutere il programma. Nella trattativa Moro usò la propria abilità secondo lo schema consueto: confermò gli impegni precedentemente presi e sui quali sapeva che Lombardi era pronto a morire: la riforma urbanistica, l’elaborazione di un piano economico quinquennale, ma in una versione addolcita e senza stabilire scadenze né precisare gli strumenti attuativi; ricominciò a vincolare l’attuazione delle regioni, ma senza dire quando e come si sarebbe messa in pratica; accantonò la questione del riarmo atomico, rinviandola a quando si sarebbe meglio chiarita e così via. La composizione del governo assegnò ai socialisti il ruolo di guardiani e gestori appunto di impegni che già si sapeva difficilmente sarebbero stati mantenuti (per esempio Giolitti al ministero del Bilancio e alla programmazione quasi privo di potere, Mancini ai Lavori pubblici per portare avanti una legge urbanistica che non si sarebbe mai fatta). Così il governo Moro decollò, nella reticenza e nella diffidenza. Un terzo dei parlamentari socialisti gli votò contro, fu soggetto a provvedimenti disciplinari, e ne seguì una scissione che già in sé modificava non poco il panorama politico. Togliatti a quella scissione era ragionevolmente contrario, perché temeva che avrebbe spinto il Partito socialista sempre più lontano. Ma in un incontro riservato non riuscì a convincere la sinistra socialista a rinunciarvi. In un colloquio ancor più riservato e personale, Basso gli spiegò il perché: «Se ci trovassimo di fronte solo a un passo verso posizioni realmente socialdemocratiche, potremmo restare dentro per
condizionarlo e correggerlo; ma in realtà è scattata una corsa al governo che rapidamente porterà il Psi a cambiare natura e base sociale e a questo non si può partecipare senza esservi coinvolti e trasformati». In effetti, vista a distanza, per quella rottura, in quelle condizioni, si possono usare le parole di Gramsci sul ’21: «È una sciagura ma è necessaria». Pochi mesi dopo, la verità delle cose emerse in modo più chiaro. Una lettera, riservata ma al contrario più che pubblica, del ministro del Tesoro Colombo, dichiarò che la situazione economica era tanto grave, la reazione dei mercati tanto minacciosa, da imporre una sospensione di programmi ambiziosi e anzi l’adozione immediata di una manovra deflazionista per fermare la rincorsa del salario. Carli, dalla Banca d’Italia, lo chiedeva a sua volta. Il governo andò in crisi e si fece l’ennesima «verifica». La svolta imposta dalla Dc era ora più pesante. Lombardi e Giolitti misero di nuovo in discussione l’accordo e infatti non accettarono posti da ministro; mormorii alimentati da incontri tra il presidente della Repubblica e i vertici militari e la pesantezza del ricatto confindustriale suggerirono a Nenni di andare avanti, riuscirono a piegare le resistenze al vertice e alla base di un partito ormai in confusione. Un anno dopo, il colpo di grazia: il dissennato tentativo di una rapida fusione con il Psdi, che divenne subito contesa di potere, si decompose in breve tempo, e lasciò i socialisti decimati e senza prospettiva. Il Partito socialista cominciò a riemergere dieci anni dopo, ma da nuovi lombi e con cromosomi trasformati. Dopo un tentativo di ritorno a sinistra diretto da De Martino, l’elezione di Craxi sostenuta da Signorile e De Michelis. Tutto in questa vicenda sembra chiaro, intenzioni e risultati, comprese le responsabilità di ognuno. E invece no. Non è assolutamente detto che, in quella situazione reale, le cose dovessero andare come sono andate e non altrimenti. Non vorrei essere frainteso. Pensare che, alla fine degli anni cinquanta, il Psi potesse o dovesse marciare al passo del Pci, rinunciando ad affermare più nettamente una propria autonomia di pensiero e a rivendicare un proprio ruolo, che rifiutasse perciò, in linea pregiudiziale e di principio, una possibile intesa di governo con la Dc, è un’astrazione, un’ipotesi scolastica di scarsa utilità. Giusto o sbagliato, più o meno pericoloso che fosse, quel tentativo era offerto dalle cose e radicato nelle teste di chi doveva decidere se farlo. È però legittimo interrogarsi sulla famosa «notte di San Gregorio» e la sua conclusione. Essa non era uno scatto di orgoglio, velleitario e immotivato.
A quel punto infatti una piattaforma e una raccolta di forze riformiste si era già definita, e altrettanto chiaro era lo schieramento che la bloccava, la piega che quell’esperienza aveva ormai preso e i prezzi che il Psi avrebbe pagato. Interrompere l’alleanza era più che giustificato, anzi era la condizione per rilanciarla in futuro in modo diverso. La maggioranza degli elettori, degli iscritti, dei possibili alleati era d’accordo. Anche leggendo gli Atti del successivo congresso socialista, nel quale si ricucì l’intesa tra Nenni, Lombardi e De Martino ci sono molti più argomenti a favore di uno strappo, che non a favore della continuità. Non a caso Nenni poteva giustificare la proposta di un ingresso ancor più esplicito nel governo quasi solo enfatizzandone l’importanza in sé (la politique d’abord) o con il timore di sortite eversive della destra (timore che poi, nelle sue memorie, riconobbe esagerato). Che cosa sarebbe accaduto se la scelta emersa nella «notte di San Gregorio» non fosse stata sostanzialmente revocata quasi prima dell’alba? Con ogni probabilità la Dc per il momento non si sarebbe piegata. Ma ancor più sicuro è che il «tentennar di sciabole» del generale De Lorenzo (con gli americani impelagati nel Vietnam, la ripresa elettorale della sinistra in Europa, il sindacato rivitalizzato, con l’esperienza Tambroni alle spalle, la Dc divisa, il Concilio vaticano in corso, in contemporanea con il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia) non aveva credibilità. Si sarebbero piuttosto formati governi centristi deboli, con il compromettente e precario soccorso in Parlamento della destra e il sostegno di una Confindustria incerta. Il Pci sarebbe diventato ancor più guardingo e più coraggioso rispetto agli eventi di Praga. Il Psi non avrebbe subìto la scissione e avrebbe riaperto un dialogo al suo interno. E ancor più si può riflettere su come si sarebbero svolte le cose se si fosse arrivati, tre anni dopo, alla grande ondata di lotte operaie, studentesche, e di ancor più vasti settori democratici, potendo dare a tutto questo l’obiettivo del rovesciamento di un governo conservatore, debole e privo di consenso. È ragionevole pensare che la storia italiana avrebbe potuto prendere una strada diversa, meno irta di pericoli e più ricca di opportunità riformatrici. Anche se, a quel punto, dati i condizionamenti internazionali, il Psi avesse accettato un compromesso, del tutto diversi sarebbero stati i rapporti di forza su cui costruirlo e diverso chi ne avrebbe assunto la guida. Se si accetta che il Psi, negli anni sessanta, poteva realisticamente prendere una strada diversa da quella che prese, è inevitabile però chiedersi perché invece imboccò, e mantenne, quella che effettivamente lo portò in un vicolo cieco. Qualcosa mi pare si possa accennare proprio perché
suggerisce una riflessione in sé significativa. Escludo un elemento che forse ha avuto un peso, ma marginale, cioè il ruolo che può aver giocato, in certi momenti, o in certi dirigenti del Partito socialista, una sottile, repressa e non sempre ingiustificata vena di anticomunismo. Probabilmente quella vena è sempre esistita, soprattutto nella componente ex azionista, per rispettabili ragioni ideologiche e che il Pci senza volerlo aveva contribuito ad alimentare con un atteggiamento di sufficienza. Paradossalmente proprio la successiva politica delle larghe intese con la Dc può averla risvegliata più che cancellata, ma non è comunque possibile ritenere che chi aveva affiancato i comunisti nei momenti aspri della guerra fredda, del Cominform, si lasciasse dominare da quel sentimento nel momento in cui l’anticomunismo declinava, si affacciava la coesistenza pacifica e l’Unione Sovietica, pur restando criticabile, era ancora in ascesa. La spinta a insistere nell’esperienza del centrosinistra, pagandone prezzi crescenti, nasceva dunque altrove e deve essere presa in seria considerazione. Anzitutto proprio in quel momento le due maggiori forze socialiste europee, il Labour inglese e la Spd tedesca, che avevano mantenuto una base di classe e un formale legame con il marxismo, hanno compiuto, esplicitamente e con forte impegno, una grande svolta. Gli scritti di Crosland e la linea politica di Gaitskell in Inghilterra, e il nuovo programma fondamentale della Spd a Bad Godesberg non contenevano più alcun riferimento al marxismo, né una finalità propriamente socialista. Un tale spostamento non solo era implicito, ma era esplicitamente affermato come necessario per aderire a un nuovo tipo di struttura sociale, raccogliere il consenso di un vasto ceto medio, poter ambire a un ruolo di governo dal quale da troppo tempo erano stati ormai esclusi. Entrambi quei grandi partiti consideravano loro compito permanente ridistribuire nella società i benefici di uno sviluppo economico che il neocapitalismo aveva assicurato e avrebbe assicurato in futuro. Dopo molto tempo, con fatica, e solo quando furono maggioritari su quel piano avrebbero ottenuto qualcosa, ma proprio a condizione di militare nel campo atlantico. Niente potrebbe renderne meglio l’idea di una frase delle memorie di Kissinger: «Durante l’intero periodo della guerra in Vietnam non ricordo alcuna critica di qualche leader europeo [...]. Brandt e Wilson decisero volontariamente di non fare commenti al riguardo». Sul piano ideologico il Psi, durante il centrosinistra, fu molto più prudente nell’enunciare una svolta altrettanto radicale, anche se non poteva non
essere influenzato dall’analisi che l’accompagnava; sul piano politico però temeva che proporre qualcosa che incrinasse il consenso americano lo avrebbe riportato fuori dalla «stanza dei bottoni». Benché cominciasse la distensione, per accedere al governo era necessaria una rigorosa disciplina di campo e proprio l’accesso al governo era per loro ormai una priorità assoluta. Ciò che univa e spingeva la maggioranza «autonomista» era infatti proprio l’idea che senza partecipazione al governo non c’era speranza di cambiare qualcosa nella società e di conquistare consenso. Di questo Nenni era totalmente convinto, e anche Lombardi, nonostante le sue ostinazioni sul programma, non riusciva a dissentire. Perciò alcuni erano portati a transigere nella definizione degli accordi, altri a fidarsi troppo delle promesse scritte sulla carta, tutti a nascondere anche a se stessi l’andazzo reale delle cose. Moro era un maestro nell’afferrare la corda per trascinarli: le cose non sono mature, lo saranno presto, continuiamo insieme con tenacia e pazienza vincendo resistenze e rimuovendo ostacoli. Ho voluto sottolineare, in quella lontana vicenda, un implacabile meccanismo, perché sarebbe tornato ancora ad agire nei governi di unità nazionale degli anni settanta; Craxi imparò più tardi a usarlo alla rovescia negli anni ottanta, con gesti di rottura controllati e revocabili. Oggi è diventato il modo di ragionare per tutti. Prima si tenta di vincere le elezioni con un programma generico, poi, se si vincono, si deciderà il da farsi, e ci si sforzerà di convincere la gente che è giusto farlo, o inevitabile. È un discorso che andrà ripreso.
9. Il Pci di fronte al neocapitalismo
Mi inoltro in un terreno minato. La cartografia offerta dai verbali o dagli storici è approssimativa e incompleta, i segnali lasciati dai viaggiatori spesso reticenti e tendenziosi. Per la ricostruzione e il giudizio devo dunque usare anche la memoria personale, che non mi manca, ma di cui è legittimo diffidare. Perché in quel periodo non ero solo un osservatore informato, ma parte in causa, non in ruolo di protagonista, piuttosto come truppa irregolare o sotterraneo istigatore. Perciò, a posteriori, sono meno gravato da responsabilità, ma facilmente tendenzioso. Per evitare tale rischio ho solo tre risorse. La prima è quella di inserire nel racconto, quando hanno almeno un minimo rilievo, cose che io stesso in quel periodo ho detto e fatto, applicandovi il medesimo criterio critico riservato ad altre e diverse posizioni, cioè riconoscendo errori e rivendicando meriti. Senza cioè falsa modestia, né versioni di comodo. La seconda risorsa è quella di usare, contro la mia faziosità, come controveleno, la presunzione di chi si pretende ancora intelligente quanto basta per individuare le ragioni degli errori che ha condiviso e la parte di verità importanti che vi si mescolavano e sono state riconosciute o represse. La terza risorsa, ovvia ma ancor più importante, è l’impegno ad attenersi il più possibile a fatti documentabili. 9.1 Destra e sinistra Il quadro generale della situazione italiana nel primo quinquennio degli anni sessanta dovrebbe già di per sé rendere evidenti sia le occasioni sia le difficoltà che il Pci si trovava davanti. In quel contesto si allargava infatti per il partito lo spazio come forza di opposizione sociale e politica, e anche per conquistare una relativa egemonia culturale. Per occuparlo, esso era attrezzato; non solo per lunga tradizione ma anche per recenti aggiornamenti. Anziché contrastare infatti con acribia propagandistica il nuovo cordone sanitario, che si tentava di costruirgli intorno con il mito del benessere ormai a portata di mano, il Pci lo contrastò nella società con la ripresa di lotte operaie unitarie e vincenti, con il rilancio dell’antifascismo militante, della lotta antimperialista e del tema della
pace, infine con un nuovo interesse e una rilettura verso ciò che avveniva nel mondo cattolico (al di là della Democrazia cristiana). Anche sul terreno specificatamente politico, Togliatti anziché gridare al «tradimento» dei socialisti, segnalò i rischi e le velleità che quell’operazione comportava, ma anche l’interesse per i propositi riformatori che dichiarava, riservando un giudizio alla prova dei fatti. Il balzo in avanti che realizzò, unico in Europa, nelle elezioni del 1963 (cui si accompagnavano una flessione socialista e un forte arretramento della Dc) premiò e misurò questa opposizione efficace. La prima mano della partita sembrava vinta. Che c’era allora da discutere e su cui dividersi? E invece da discutere c’era molto. Dire che c’era un problema di strategia irrisolto e ineludibile sarebbe, più che eccessivo, inesatto. La «via democratica» era già stata delineata con la svolta di Salerno, era sopravvissuta alla stretta del Cominform e alla guerra fredda, era stata confermata e chiarita all’VIII congresso. Ma proprio da lì veniva in evidenza un vuoto, perché la svolta di Salerno doveva il suo valore al fatto che, oltre che un’affermazione di principio, era stata una politica. Era cioè collegata a una situazione storicamente determinata, accettava rischi e riconosceva confini. Comportava perciò scelte precise e priorità di obiettivi, alleanze praticabili: la promozione di una resistenza armata, l’unità in essa dell’antifascismo, la Costituzione e la Repubblica, una collocazione internazionale. Ora, in un’economia trasformata, in un nuovo ordine mondiale, con nuovi soggetti sociali in campo, in una crisi generale degli equilibri politici, non bastava riaffermare dei princìpi, né accrescere le proprie forze sull’onda di un conflitto sociale, né profittare delle difficoltà dell’avversario per acquisire nuovi elettori. Anzi, quanto più tale opposizione si affermava, tanto più diventava necessario valutare la nuova fase, e definire programmi, alleanze politiche e sociali, forme organizzative adeguate per offrirle uno sbocco. Attuare la Costituzione? Certo, ma un po’ vago. L’esigenza di un ripensamento di fondo non era del resto avvertita solo dalla sinistra italiana. In tutta Europa era in atto, bene o male, un acceso dibattito. In alcuni grandi partiti socialdemocratici: Brandt e il nuovo programma di Bad Godesberg nella Spd tedesca; Crosland e Gaitskell (il «nuovo labour» in prima edizione) in Inghilterra; l’ascesa di Palme in Svezia e di Kreisky in Austria. Ma, in modo tormentato, anche in alcuni partiti comunisti qualcosa si muoveva: in Francia la contesa tra il vertice del Pcf e il dissenso dei giovani e di molti intellettuali (chiamati gli italianisants), che si concluse con molte espulsioni o abbandoni, costrinse
comunque a riannodare il filo della «unità della gauche»; nel partito spagnolo la rottura di Carrillo con Claudín e Semprún. Ancor più nella sinistra intellettuale, al di qua e al di là dell’atlantico: Sweezy, Baran, Galbraith, Marcuse, Wright-Mills, Friedman, Braverman, Strachey, Thompson e la «New Left», Mallet, Touraine, Sartre, Gorz, con Les Temps Modernes, e tanti altri. Si discuteva delle novità anche nel e sul Terzo mondo: da Fanon ai teorici del neocolonialismo della dipendenza, della polarizzazione (Samir Amin, Gunder Frank). Analisi e risposte sarebbero state molto divergenti, spesso opposte, ma il tema era comune: che interpretazione dare del neocapitalismo, e come rispondervi? Perciò quando parlo di «caso italiano» non intendo affatto un’anomalia – perché più che mai l’Italia era ormai parte di un processo mondiale – ma una specificità di enorme interesse per tutti. Soprattutto in Italia, infatti, il neocapitalismo si presentava con un intreccio molto stretto e reciproco tra modernizzazione e arretratezza, che si sarebbe manifestato, in modo ancor più complesso ed esplosivo, nell’ultima parte del decennio. Quella casuale contemporaneità di fenomeni, che altrove si erano affermati in sequenza temporale, aveva all’inizio permesso il decollo, più tardi poteva facilitare una modernizzazione perversa e una triste americanizzazione, in una fase di trapasso convergeva in destabilizzazione e crisi. Qui più che altrove dunque si presentava la necessità e forse la possibilità di definire una nuova prospettiva, di medio periodo, che non fosse un adeguamento subalterno all’andamento delle cose. Di questo c’era da discutere nel Pci. E si discusse, bene o male, ma con grande passione e vivacit?. Il primo consiglio che la memoria mi dà al riguardo è un consiglio di prudenza. Ricostruire quella discussione, chiarirne i contenuti, individuare le diverse forze che vi parteciparono, valutarne l’approdo e le conseguenze, è compito delicato. Comprimere infatti, entro schemi semplificati e tempi raccorciati un dibattito, che invece fu un processo lungo, complesso, coinvolse tante personalità e migliaia di militanti, anziché aiutare a coglierne la sostanza, ne riduce l’importanza e amputa tutto ciò che emerse in modo confuso ma che col tempo si sarebbe dimostrato preveggente e prezioso. Dico processo, per molte ragioni. La discussione infatti, diventata poi lotta politica, si sviluppò, nel corso di cinque anni cruciali, gradualmente, attraverso molte fasi: perché non aveva alle spalle schieramenti già definiti in partenza, al contrario nacque dalla convergenza progressiva, e mai compiuta, di esperienze e culture molteplici; perché a lungo si sviluppò sul terreno della ricerca e dell’analisi, più che su quello di una divergenza
politica consapevole; perché su molti nodi importanti le posizioni di ciascuno evolvevano, i raggruppamenti erano mutevoli, e le leadership erano semplici punti di riferimento, non comportavano alcuna fedeltà; perché il confronto interno al partito era intrecciato con quello che si svolgeva ai suoi margini o, fuori di lui, in una più vasta sinistra (dai Quaderni Rossi alla Rivista Trimestrale); perché, infine, l’unità del partito non era solo un vincolo da rispettare, ma un valore largamente introiettato. Due momenti importanti, utili a datare l’inizio e poi la fine di quella fase, possono dare un’idea del carattere inizialmente aperto e mobile di quel confronto, della sua schiettezza. La riunione del Comitato centrale del 1961 discusse il rapporto di Togliatti che tornava dal XXII congresso del Pcus, in cui Chruščëv aveva riproposto, con ulteriore asprezza, le accuse retrospettive allo stalinismo, probabilmente per reagire o per prevenire una restaurazione strisciante di vecchi modi di pensare e di gestire il potere. Togliatti era del tutto ostile a quella proposta, non perché ignorasse l’esigenza di un rinnovamento, sia in Urss sia nel Pci, ma perché considerava inutile e fuorviante rilanciarlo con una nuova replica del Rapporto segreto. Ma dapprima, anziché proporre un altro tipo di sforzo innovativo, evitò di nuovo di parlare del punto più scottante del congresso cui aveva assistito e di cui tutti parlavano. Gran parte del Comitato centrale mostrò subito disagio e irritazione: non si voleva ricominciare a discutere delle colpe di Stalin, ma non si sopportava più quel metodo dell’autocensura, si voleva discutere più francamente del modello sovietico e soprattutto si voleva fare, più coraggiosamente, il punto sul rinnovamento del Pci. Per la prima volta, quel disagio si espresse in una critica esplicita cui partecipavano anche membri del gruppo dirigente. Aldo Natoli, isolato ma autorevole, propose addirittura la convocazione di un congresso straordinario. Ma fu Giorgio Amendola a prendere la testa del dissenso, sostenuto da Pajetta e da Alicata. Togliatti si irrigidì e minacciò uno scontro aperto. Le sue conclusioni polemiche non furono né votate né pubblicate, successivamente vennero sostituite da un documento collettivo di tutt’altro tono. Togliatti non solo lo subì, ma ne accettò l’ispirazione, tanto che da quel momento prese parte attiva, e vistosa, a una riflessione innovativa, pubblicando un saggio sulla formazione del gruppo dirigente del Pci negli anni venti, in cui rovesciava tanta parte delle versioni canoniche e mistificanti del passato, e pubblicando su Rinascita l’intero e polemico carteggio, del 1926, tra Gramsci e lui, mai riconosciuto vero e ora proposto in forma integrale. Il diritto a quel tipo di riflessione spregiudicata sulla tradizione non restò riservato solo a lui o ai massimi
dirigenti. Seguì più tardi un confronto aperto sull’esperienza dei fronti popolari (se recuperarla come modello o riconoscerne i limiti) tra Emilio Sereni, uno dei capi storici, e un signor nessuno come me, sulle pagine di Critica Marxista. E più tardi in un volume ufficiale sulla teoria del partito mi fu consentito di sostenere che nel leninismo vi fosse qualche punta di giacobinismo di troppo, ottenendo qualche rabbuffo ma anche molti elogi. Aggiungo un particolare sulla vicenda di quel burrascoso Comitato centrale, di cui mi sono accorto solo di recente nelle scorribande cui sono costretto tra i vari testi. Nell’intervento di Amendola era contenuto, e fu poi pubblicato, un passo nel quale chiedeva il diritto per tutti alla pubblicità del dissenso e l’utilità che si formassero, non correnti organizzate, ma maggioranze e minoranze sui temi più importanti. E lo fece con parole quasi letteralmente identiche a quelle per le quali, quattro anni dopo, all’XI congresso fu crocefisso Ingrao. Un secondo esempio di confronto politico non ancora irrigidito, ma ormai aspro, è del 1965. Era convocata un’importante conferenza operaia nazionale. Barca doveva tenere la relazione introduttiva come responsabile della commissione di massa. Per impostare quell’Assemblea, si convocò un seminario ristretto a Frattocchie: partecipavano Amendola, Reichlin, Trentin, Garavini, Minucci, Scheda, Pugno, oltre allo stesso Barca, a me e qualche altro. L’ordine del giorno era impegnativo, perché si discuteva non della situazione sindacale contingente, ma del peso e del significato da assegnare alla classe operaia, e alle sue nuove lotte, in relazione alla crisi economica che si profilava e più in generale nella strategia del partito. Molti temi vi erano connessi e intorno a essi si era già sviluppata una discussione accesa. La discriminante principale si collocava tra chi considerava quelle lotte, non solo per la loro ampiezza ma per la qualità dei loro obiettivi e della loro forma, asse fondamentale su cui costruire un’egemonia politica e sociale, ed embrioni di una democrazia più partecipata dentro e fuori la fabbrica; e chi invece le considerava tradizionalmente come una delle molteplici spinte rivendicative che emergevano nella società per le sue arretratezze e che, sommandosi, potevano produrre un nuovo rapporto di forza sul terreno politicoistituzionale. Da una parte e dall’altra vi erano accenti e priorità diverse, per così dire trasversali: per esempio, c’era chi attribuiva maggiore importanza all’azione diretta in fabbrica, chi sottolineava il nesso reciproco tra la lotta in fabbrica e una svolta di politica economica, e per questo attribuiva importanza al ruolo del partito, e chi segnalava la necessità di estendere le nuove forme di lotta a regioni e soggetti sociali
ancora arretrati ma ormai trasformati, soprattutto nel Mezzogiorno. Amendola però, sentendosi in minoranza in quel cenacolo, non andava tanto per il sottile. Ciò che lo preoccupava era la tendenza complessiva in direzione di una politica troppo centrata sul conflitto di classe, cosa che a suo avviso poteva restringere il fronte delle alleanze, sviare l’attenzione dalle rivendicazioni immediate e sottovalutare nel contempo l’azione parlamentare e i rapporti tra le forze politiche. Dunque una deviazione potenziale dalla classica «via italiana». Se lo interpreto bene: il pericolo di un rigurgito di «ordinovismo» e al tempo stesso una rigidità nei programmi che li rendeva interessanti ma astratti. Criticò duramente quindi l’insieme del seminario e riportò la questione alla Direzione del partito, dove chiese e ottenne la convocazione del Comitato centrale al fine di impegnare non più la solita «lotta sui due fronti», ma di porre un argine chiaro a una pericolosa «tendenza di sinistra». Longo fu incaricato, con tale mandato, di introdurlo. Ma, secondo costume, commissionò ad alcuni compagni dell’apparato centrale materiali per preparare la sua relazione. Io assolsi il mio compito riproponendo in modo più ragionevole le mie convinzioni, in particolare sul tema di una politica economica coerente con le lotte di massa. Era solo un contributo, seppure di tredici pagine, ma Longo, uomo immune dal pregiudizio, le trovò convincenti e ne inserì gran parte nel proprio Rapporto. Niente di speciale, se non il fatto che la «lotta su di un solo fronte» per il momento risultò sospesa. Chi conosceva tutta la vicenda del seminario di Frattocchie restò sorpreso, gli altri no. Amendola, sulla porta del Comitato centrale mi fermò e mi disse paro paro: non credere che non mi sia accorto di cosa hai fatto, non lo dimenticherò. Barca fu quindi confermato relatore alla Conferenza di Genova, moderò un po’ i termini ma mantenne la propria bussola, per questo Amendola lo criticò nelle conclusioni ma fu a sua volta criticato in Direzione da Ingrao, da Reichlin e da altri. Fu però una vittoria di Pirro perché proprio da quel momento la discussione politica assunse i caratteri di una lotta esplicita tra due orientamenti. Ho insistito, con esempi concreti, sconosciuti o dimenticati, sul carattere aperto e fluttuante che il confronto mantenne a lungo, non per offrire una «faccia bonaria» della vita interna del Pci, che oggi al contrario viene presentato come una caserma. Ma perché, a distanza di anni, mi pare utile pormi un interrogativo che ho sempre eluso in me stesso: era fatale che, pur prendendo la forma di orientamenti diversi, ma non irrigiditi in fazioni, quei dissensi non potessero dar luogo a un pluralismo responsabile, e dovessero invece precipitare in uno scontro intollerante, a volte in
meschine ostilità personali? Per stabilirlo, occorre chiarire meglio i contenuti su cui la differenza era affiorata chiaramente. Contenuti emersi non solo in sedi e occasioni ufficiali, ma attraverso scritti, convegni, riviste, battibecchi e colloqui personali, e che quindi storici e memorialisti hanno trascurato o ignorato. Non bastano gli archivi, nei loro sommari e selettivi resoconti, per renderne conto e ragione. Cercherò di farlo come è possibile, intrecciando ricordi, personali e di altri, testi che essi mi permettono di selezionare, e sforzandomi di rendere più chiaro possibile il filo che li legava. 9.2 Le tendenze del neocapitalismo In un partito comunista, nei momenti cruciali, la linea politica si è sempre fondata sulla definizione preliminare della fase. Così avvenne nei primi e negli ultimi anni venti, a metà degli anni trenta, nel 1944, nel 1948, nel 1956 e, in qualche misura, anche dopo il 1960. Il confronto mosse infatti i primi passi partendo dall’analisi del capitalismo e delle sue tendenze. Non si può dire che cominciò all’improvviso, perché già molti spunti erano emersi, ma prese evidenza nel convegno dell’Istituto Gramsci del 1962. Quel convegno, affollato, ebbe ampia risonanza, soprattutto nel partito, ma non solo, ed è rimasto inciso nella memoria, tuttavia in versioni molto deformate. Basta la semplice rilettura degli Atti, pubblicati in due grossi volumi, per accorgersene e stupirsene. Non è vero per esempio che Giorgio Amendola, promotore effettivo e principale relatore di quel convegno, vi abbia riproposto la tradizionale visione di un capitalismo «straccione», incapace di promuovere uno sviluppo produttivo durevole. Anzi, al centro del convegno, vera novità da tutti condivisa, era finalmente la constatazione che l’Italia aveva compiuto un salto di qualità permanente da paese agrario-industriale a paese industrializzato. E la relazione di Trentin, da tutti apprezzata e condivisa, completava il quadro analizzando criticamente gli strumenti che la sociologia americana aveva offerto, e stava sperimentando, per governare il conflitto sociale di fabbrica e cooptare il consenso di nuovi ceti medi, con attenzione agli ambigui riflessi che ciò aveva in Italia nel sindacalismo cattolico. Il dissenso che si manifestò apertamente, con vari accenti, nel corso del dibattito, negli interventi di Foa, di Libertini, di Parlato, mio, e di altri, verteva su due punti importanti. Primo punto. Nella relazione di Amendola, e ancor più nelle sue
polemiche conclusioni, lo sviluppo dell’economia italiana, e l’industrializzazione che ne era stata motore e risultato, convivevano con squilibri territoriali e arretratezze tanto pesanti, che non potevano protrarsi a lungo, senza interventi correttivi e senza una svolta politica che coinvolgesse la forza comunista. Perciò si poteva e doveva incalzare il centrosinistra via via che si dimostrava incapace di realizzare ciò che aveva promesso, sfidare la classe dominante nel nome di uno sviluppo più esteso e di una redistribuzione più equa del reddito verso tutti coloro che restavano esclusi dai suoi benefici. Per questo occorrevano lotte sociali vigorose, con obiettivi immediati e realizzabili, senza andare a caccia di farfalle in un futuro ancora lontano, e occorreva consolidare la democrazia entro i suoi classici confini. Secondo punto. L’industrializzazione e lo sviluppo a essa connesso, oltre a essere indubbiamente l’aspetto più vistoso e immediatamente importante delle trasformazioni in atto, in questo esauriva le novità, oppure inseriva l’Italia in un mutamento molto più generale e profondo del sistema capitalistico? Nel primo caso, ovviamente, occorreva più che mai ribadire, aggiornandola, la linea che il Pci aveva da tempo definito e che ora si poteva finalmente portare a un primo traguardo. Nel secondo caso, era necessario concentrare l’attenzione sulle tendenze di più lungo periodo, vedere in esse le contraddizioni su cui far leva, e le difficoltà da superare, ridefinire su quella base alleanze, programmi, soggetti cui rivolgersi, forme organizzative: tener fermi alcuni princìpi ma elaborare un’innovazione teorica e pratica. Su questa seconda ipotesi convergeva, ancora ai primi passi, una critica «di sinistra» dentro e fuori il partito. Nel suo intervento conclusivo Amendola non ignorò affatto l’importanza e la sostanza del dissenso e replicò con fermezza, ma abilmente. Non a caso scelse il mio intervento – così annota letteralmente Luciano Barca nel suo diario – «come testa di turco». Non solo perché, ovviamente, ero il meno autorevole tra i molti dissenzienti, ma perché, in parte per il breve tempo a disposizione dell’argomentazione, in parte per la suggestione di recenti letture, effettivamente, pur avendo ottenuto qualche consenso, avevo offerto un ampio spazio alla sua critica. Avevo infatti dato importanza, nell’analisi, al fenomeno del consumismo individualistico come tratto del neocapitalismo, il che si prestava particolarmente all’accusa di astrattezza e di ideologismo, di fronte a un paese nel quale il benessere era ben lontano e tanti bisogni vitali erano ancora insoddisfatti. Mi resi presto conto dell’equivoco che avevo contribuito a creare, e che forse era in parte anche nella mia testa, e approfittai dell’occasione che mi offriva una
proposta di pubblicazione su Les Temps Modernes di Sartre, per ampliare e correggere il testo. Cercai cioè di chiarire che il consumismo a mio parere non era il prodotto di una spinta culturale, ma del modo di produzione, dell’uso capitalistico dei grandi e nuovi strumenti di comunicazione di massa e, soprattutto, della parcellizzazione e dell’alienazione del lavoro; e d’altra parte che, già ai suoi primi passi il fenomeno stava aprendo una contraddizione nel mondo cattolico e perciò aveva un rilievo immediatamente politico. Quel chiarimento serviva a salvarmi l’anima e mettere a punto il mio personale modo di pensare di allora, cui ancor oggi riconosco un carattere premonitore. Ma non cambiava affatto il dato di fondo del convegno dell’Istituto Gramsci: erano emersi temi più avanzati, e una sinistra che ci lavorava sopra, benché ancora incapace, al di là dell’analisi, di offrire una concreta linea politica. Al contrario la destra aveva la capacità di esprimerne una, magari insufficiente, ma chiara. 9.3 Modello di sviluppo e riforme di struttura Su questi tre punti, tra il ’63 e il ’64, la discussione nel Pci cominciò ad assumere il carattere di una competizione esplicitamente politica, si formarono due correnti di opinione, una delle quali riconobbe come riferimento Pietro Ingrao, che allora tirò fuori la farina dal proprio sacco. Anche di questo la memoria che si tramanda, oltre che scarsa, è molto confusa e approssimativa. Occorre quindi integrarla e correggerla. È mai esistito un «ingraismo»? E, nella misura in cui è esistito, quali posizioni lo caratterizzavano? Sul primo interrogativo la mia risposta, anzi la mia testimonianza giurata, è precisa e comprovabile. L’ingraismo come gruppo politico minimamente organizzato o comunque consapevolmente coeso non è mai esistito, è un’invenzione postuma, magari inconsapevole, dei suoi avversari e il frutto di una stampa che aveva bisogno di semplificazioni. In lunghi anni di discussione, e anche nella fase conclusiva in cui la discussione divenne scontro politico aspro, non c’è mai stata una sola riunione, sia pur ristretta, per decidere un comportamento comune, tanto meno per vincolare a una disciplina. Ingrao stesso negava anche agli amici più stretti che l’ingraismo potesse o dovesse esistere, non per prudenza ma per convinzione. Esprimeva schiettamente in Direzione le idee di cui via via si andava convincendo, più raramente, e in forma più sfumata, pubblicava articoli o interveniva nel pubblico dibattito sulla stampa del partito, ma evitava di
organizzare le sue posizioni in una piattaforma. Molti vi si riconoscevano, e contribuivano a caratterizzarle più nettamente, altri le condividevano, ma a volte ne prendevano le distanze, a seconda delle sedi in cui legittimamente si trovavano e nella forma che giudicavano opportuna. Di ingraismo è dunque legittimo parlare come di una corrente senza confini precisi, molecolarmente diffusa, gradualmente convergente su temi importanti e con un’ispirazione culturale visibilmente comune. È praticamente impossibile tracciarne i confini, stabilirne gli aderenti: in certi momenti o su certi temi questo o quello vi si integrava o si allontanava. Era comunque un fatto politico rilevante perché, per la prima volta, si manifestava, in un partito comunista, la presenza di una sinistra «non dogmatica e non stalinista». Un leader molto autorevole e molto popolare non la dirigeva ma la ispirava e ne costituiva il collante. Tutto qui. I contenuti e le proposte su cui quella «sinistra ingraiana» venne caratterizzandosi, e finì col configgere non solo con Amendola, ma con la maggioranza del gruppo dirigente, sono stati tramandati, e si sono fissati nella memoria collettiva in una versione altrettanto deformata, per certi aspetti falsificante, soprattutto confusa e incomprensibile. Cosicché l’ingraismo fu archiviato e liquidato come una deviazione generosamente utopica, che avendo in testa un’alternativa anticapitalistica e insieme un democraticismo radicale, negava l’importanza di obiettivi intermedi, contrapponeva al parlamentarismo la democrazia diretta e la lotta sociale, considerava i socialisti non più alleati recuperabili ma ormai inglobati nel sistema dominante, sovvertiva insomma, senza forse saperlo, l’impianto della via togliattiana al socialismo. Come sempre avviene, questa diventò storia dei vincitori: dei vincitori interni, che così potevano compiacersi di aver sottratto Ingrao e tanti altri da una transitoria tentazione; e storia dei vincitori esterni che incessantemente chiedevano al Pci di accelerare il passo per diventare al più presto quella forza robusta, pienamente riformistica di cui l’Italia soffriva la mancanza e che il Psi non riusciva a essere. Ingrao? Uno spirito nobile e un grande sognatore: l’immagine è diventata così canonica che anche lui in certi momenti vi si è concesso. La verità dei fatti era molto diversa. L’ingraismo, a metà degli anni sessanta, era molto meno eversivo e la battaglia che si svolgeva nel Pci era molto più concreta di quanto non si creda. Lo scontro propriamente politico si sviluppò per gradi intorno a tre questioni molto concrete e connesse tra loro: «modello alternativo di sviluppo», riforme di struttura, giudizio sul centrosinistra.
Il concetto di modello alternativo di sviluppo non era affatto un’astrazione e il proporlo non dimostrava affatto che noi sottovalutassimo l’importanza del problema delle riforme, anzi dimostrava che lo prendevamo fin troppo sul serio. Proprio la crisi economica, con la quale il sistema aveva reagito alla prima ondata delle lotte sindacali e all’annuncio di qualche riforma che colpiva rendita e profitto, poneva un problema scottante. Se ciascuna riforma non avesse provocato un effetto propulsivo a livello di produzione, se nel loro insieme queste non avessero creato una massa d’urto e una coerenza necessaria per offrire anche al mercato un nuovo quadro di compatibilità che sostituisse quello precedente, se non si fossero affiancate a un intervento diretto dello Stato, coordinato in un piano effettivo, e se non fossero state sostenute da una pressione sociale, presto si sarebbe arrivati a un blocco e si sarebbero offerte le basi di una controffensiva di destra. Perciò criticavamo l’espressione di Pajetta «opposizione per mille rivoli» e quella di Amendola «le lotte di massa si misurano anzitutto in soldoni». Del resto Lombardi, in quel periodo, diceva pressoché la nostra stessa cosa, peccato che sostenesse un governo che faceva il contrario. Un piano dunque? Certo, un piano, organico e vincolante, ma non «alla sovietica». Bensì l’uso dell’economia mista, imprese pubbliche vincolate e sostenute da precise priorità democraticamente definite, ma misurate sul mercato nella loro efficienza, e poi coperte nei deficit di bilancio, ma solo nella misura necessaria e verificabile dalle perdite che conseguivano in relazione agli obiettivi, non immediatamente remunerativi, da raggiungere. Una spesa pubblica a sua volta orientata a privilegiare i consumi collettivi e vitali. Un’economia privata libera di concorrere, ma orientata dalla domanda che le si offriva e liberata dal peso delle troppe rendite, che le sottraevano risorse. Il tutto sostenuto da una partecipazione dei lavoratori, cui si riconosceva un diritto di controllo e ai quali si offriva una qualità diversa delle condizioni di lavoro. Non erano compiti di un giorno o di un anno. Ma non era questo l’orizzonte di una via democratica al socialismo? Non era questo un obiettivo di fase sul quale fondare un’ambizione di governo? Forse si esagerava, forse le tappe dovevano essere più lente. Ma non si era fuori tema: riforme strutturali e non solo correttive, un nuovo meccanismo di sviluppo e non solo uno sviluppo più accelerato, una modernità diversa e non solo l’inseguimento della modernità data. E infatti, alla vigilia del centrosinistra, fu proprio la sinistra comunista a sostenere a fondo la riforma urbanistica proposta da Sullo, e assunta come bandiera anche da Giolitti e Lombardi, la sinistra che criticò nel merito le «cattedrali nel deserto» (gigantesche e modernissime quanto dissipatrici);
che pose sul tappeto l’idea del welfare universalistico che cancellasse privilegi corporativi; che segnalò l’urgenza della riforma fiscale per permettere forti investimenti pubblici produttivi, senza aggravare oltre misura il debito pubblico (può darsi che Napolitano ricordi un documento sul sistema pensionistico che mi chiese e che io provai a stilare studiando la sobrietà e la coerenza dell’esperienza svedese). Ovviamente, quando fu invece chiara la deriva in cui il centrosinistra era trascinato, non ci accontentammo di denunciarla, ma ne traemmo la conclusione che se quella operazione politica era fallita nelle sue speranze riformatrici, non era affatto fallito il tentativo democristiano di spostare il Psi in un altro campo. E sarebbe stato difficile farlo tornare sui suoi passi. Proprio su questo punto la discussione nel Pci assunse un carattere immediatamente politico e si manifestò apertamente un diretto conflitto di opinioni tra Amendola e Ingrao. Nell’ottobre del 1965, infatti, Amendola vide nella situazione economica e politica la possibilità e la necessità di una grande iniziativa nuova. In una serie di articoli su Rinascita sviluppò in proprio il seguente ragionamento: «il miracolo economico», incalzato dalle lotte operaie vincenti, era arrivato a una stretta. Si sarebbe esaurito senza una svolta politica che il Partito socialista, da solo, non era capace di imporre. Su questo poteva nascere e prevalere una controffensiva minacciosa della destra politica e sociale. Non si poteva dunque traccheggiare, né chiudersi nella difensiva. Occorreva un intervento deciso che sparigliasse le carte. Tale intervento poteva e doveva venire dal Pci, proponendosi e proponendo ai socialisti un partito unico della sinistra. La proposta sconcertò non poco il partito e lo stesso gruppo dirigente. E provocò una serie di interventi, di vario segno ma generalmente critici. Bobbio espresse subito un apprezzamento per l’intenzione, ma disse che l’unificazione non era possibile se non su una base chiaramente socialdemocratica. Non poteva infatti essere legata a un’emergenza politica, doveva avere un profilo strategico, che investisse il passato e il futuro lontano, la premessa dunque era un ripensamento, da parte dei comunisti, sulla scissione di Livorno del 1921. Amendola accettò la garbata provocazione e alzò il tiro in un secondo intervento. Proprio nella difficoltà che Bobbio segnalava, scrisse, stava il valore della propria proposta: essendosi ormai dimostrato, in cinquant’anni, che comunisti e socialdemocratici non erano stati capaci di fare il socialismo in nessun paese europeo, era arrivato per gli uni e per gli altri il momento di ripensare a fondo le proprie scelte e le proprie strategie. Questo provocò una reazione opposta, interventi critici a catena. Ne cito qualcuno perché
diversi tra loro. Lelio Basso: «Il fossato ideologico e politico tra socialdemocrazie e marxismo rivoluzionario si è allargato anziché ristretto». Romano Ledda: «Non possiamo mettere sullo stesso piano nella storia del secolo le responsabilità e il ruolo dei comunisti e dei socialdemocratici, in Europa e ancor di più nel resto del mondo, per il passato e per il presente». Io stesso, per una volta moderato nella polemica: «Il problema posto da Amendola è reale, una riflessione sulla rivoluzione in Occidente è necessaria e impone a tutti un rinnovamento, ma il rinnovamento in cui noi siamo impegnati non va certo nella stessa direzione verso la quale i socialisti si sono orientati, non è con una operazione verticistica ed eclettica che si può risolverlo, anzi fallirebbe». Quando la questione arrivò nella Direzione del partito Amendola non cambiò parere, ma rimase in minoranza. Per trovare una mediazione fu quindi composta una commissione, che elaborò un documento che dichiarava quella proposta sbagliata perché immatura, ma sottolineava la necessità di riallacciare un’intesa con i socialisti. Ingrao disse chiaramente e ripetutamente che si trattava di una mediazione banale e solo di parole, perciò lui dissentiva. Al successivo Comitato centrale più di uno votò contro, altri si astennero. A questo si aggiunse la vicenda della Conferenza di Genova e a quel punto fu chiaro che la discussione era diventata competizione tra due linee diverse, da tutti percepibili. E percepite. Il dibattito era stato così lungo, vivace e pubblico, la sensibilità era ormai così acuita che bastava un accenno, una sfumatura, un linguaggio per essere assegnato o depennato da una lista. A dire il vero però senza acrimonia. Chi era tanto bravo da non emettere nessun segnale era visto come un furbacchione. Alla vigilia del congresso, cioè nella stesura delle tesi, la tensione sembrò allentarsi e, nel corso stesso del congresso, tutti i punti più caldi della lunga discussione vennero ripresi con prudenza perfino eccessiva, o addirittura rimossi. Lo scontro esplose all’improvviso, e solo a un certo punto, su una questione che, almeno da cinque anni, era stata solo accennata, da sponde diverse, e anzi sembrava in parte sdrammatizzata dalla pratica.
10. L’XI congresso
10.1 La legittimità del dissenso Bastò una frase e bastò un applauso. Pochi giorni prima dell’apertura del congresso ci fu un contatto tra Longo e Ingrao per stabilire una sorta di gentlemen agreement – almeno così risulta dal diario di Barca che fu il messaggero. Longo si disse preoccupato che venisse, in quella sede di fatto internazionale, un attacco alla politica della coesistenza pacifica; Ingrao assicurò che da parte sua non sarebbe venuto, non per prudenza ma per convinzione. E infatti ancor oggi ribadisce di non aver mai nutrito simpatie per le impazienze «guerrigliere». Per essere chiaro, su quell’impegno, ed evitare in generale di essere male interpretato, la mattina del suo intervento fece leggere al segretario il testo già scritto (questo lo so, fin da allora, di prima mano). Longo non manifestò irritazione né chiese correzioni. A loro volta i cosiddetti ingraiani più autorevoli (Reichlin, Rossanda, Pintor, Natoli, Trentin) fecero discorsi molto misurati, riferiti principalmente ai settori di loro competenza, o tacquero. Il terzo giorno salì alla tribuna Ingrao. Il suo intervento, al contrario di quanto si disse in seguito, ribadiva con schiettezza ed efficacia, ma senza demagogia né toni accesi, le sue posizioni sui punti che già erano stati ampiamente discussi. Ma alla fine pronunciò una frase che occorre citare precisamente: «Sarei insincero se tacessi che il compagno Longo non mi ha persuaso rifiutando di introdurre nel nostro partito il nuovo costume della pubblicità del dibattito, cosicché siano chiari a tutti i compagni non solo gli orientamenti e le decisioni che prevalgono e impegnano, ma anche il processo dialettico di cui sono il risultato». Nella quasi totalità l’assemblea reagì con un grande e insistito applauso e quando Ingrao, nell’emozione, alzò alto il pugno, l’applauso divenne quasi un’ovazione. Al tavolo folto della presidenza al contrario pressoché tutti rimasero irrigiditi e a braccia conserte. Da quel momento il clima del congresso cambiò totalmente. Nei successivi interventi in aula, ma ancor più nella riservata commissione politica, si susseguirono attacchi durissimi, quasi tutti rivolti a denunciare un frazionismo in atto,o a segnalare il pericolo di una divisione del partito. In un partito comunista,
quel tipo di attacco rivolto più o meno esplicitamente a un dirigente di quel livello, era quasi una scomunica, comunque un invito a schierarsi intorno al segretario. Si può a ragione essere increduli oggi sul fatto che parole così misurate e un semplice applauso – di per sé emotivo, in parte manifestazione di affetto, ben più di un voto – scatenassero una così dura reazione, aprissero ferite per molti anni non più rimarginate, e poi in concreto provocassero una selezione severa nel rinnovo delle funzioni dirigenti. Per di più dopo anni in cui il dissenso era stato largamente tollerato su questioni ben più rilevanti, ma proprio per questo, quello scontro, all’esterno, già allora fu letto come occasione e strumento di una lotta di potere. Non credo invece che fu così. La stretta improvvisa, che pure considero sbagliata e produsse conseguenze negative per tutti, aveva una logica e una motivazione politica e teorica rilevante. Intervenne quando ai molti temi, sui quali si era discusso e che restavano aperti, si aggiunse la questione scottante della riforma del partito e delle sue regole. Merita dunque una riflessione specifica, che va oltre la pura ricostruzione dei fatti, richiede l’azzardo di un’interpretazione. Nella storia del movimento operaio di ispirazione marxista la questione del partito, del suo ruolo, delle sue forme organizzative, è sempre stata dirimente, un pilastro della teoria della rivoluzione, in stretta connessione con la questione della democrazia in generale. Già ben prima della Rivoluzione d’ottobre, e della rottura storica tra socialdemocratici e comunisti, tra Kautsky e Bernstein, tra Bernstein e Rosa Luxemburg, tra bolscevichi e menscevichi, tra Rosa Luxemburg e Lenin, e ancora dopo tra Lenin e Trockij, tra Lenin e Stalin, tra Gramsci e Togliatti, tra Togliatti e Secchia, tra stalinismo e Chruščëvismo, tra Chruščëv, e Mao Zedong, tra Mao e i suoi antichi compagni. Potrei aggiungere anche fra i socialisti: tra il potere del gruppo parlamentare e quello del sindacato in Inghilterra, o tra Nenni, Morandi e Basso in Italia. Ciò non avveniva a caso. Perché, mentre la borghesia si era costituita e affermata come classe attraverso il potere economico e la supremazia culturale, e solo a conclusione espresse istituzioni politiche che non avevano bisogno di partiti in senso forte; il proletariato non poteva formarsi come classe dirigente, tanto meno ambire al potere e gestirlo, senza un’organizzazione politica permanente. Ma come garantirsi che tale organizzazione fosse tanto autonoma e compatta da non essere assorbita e decapitata dal potere dominante e insieme tanto democratica da non diventare essa stessa titolare di un nuovo potere burocratico e privilegiato?
Questa questione si ripresenta oggi non solo aperta, ma in forma più grave. Possiamo infatti, oggi più che mai, verificare come la democrazia, senza autentici partiti, degeneri e sia manipolabile, e insieme vediamo come quelli che si chiamano partiti siano ormai degenerati in apparati professionali e concorrano al potere con lo spettacolo e il denaro. Mi basta per ora sottolineare l’importanza che il problema della forma partito aveva per una forza politica come il Pci, che univa milioni di uomini e di voti in una società complessa, e camminava sul filo tra lotte sociali e istituzioni parlamentari. E mi basta dimostrare che, in quel passaggio degli anni sessanta, esso si mostrasse più che mai ineludibile, imponesse di fare qualche passo in avanti e forse permetteva di farlo. Il Pci infatti aveva empiricamente trovato soluzioni parziali e via via mutevoli al problema. Cioè la scelta del partito di massa, che era sopravvissuta alla pressione del Cominform con l’invenzione dei «due partiti» (quello di popolo e quello di quadri), cementati da una fede comune, grande militanza, ideologia e pedagogia, gruppo dirigente di buon livello e legittimato da un grande passato. Dopo l’VIII congresso quel partito si era rinnovato ulteriormente con la leva uscita dalla Resistenza, offrendo via via maggiori spazi al dibattito e alla ricerca, alle esperienze locali. Ma conservava inalterata una propria «Costituzione»: tutelava l’unità del vertice cui restava il diritto di dire la prima e l’ultima parola sulle scelte importanti, la trasmissione della linea avveniva dall’alto verso il basso, ogni livello era libero di discuterla, ma poi era a sua volta vincolato a trasmetterla collegialmente; la selezione dei quadri (un po’ meno quella dei parlamentari) avveniva per cooptazione seppur attenta alle capacità e alle doti dimostrate. Soprattutto negli ultimi anni di quel periodo, la libertà di parola era larga, la possibilità di incidere sulle decisioni limitata: insomma un regime di «democrazia protetta». Il che non vuol dire una democrazia di facciata. Cito tre episodi per segnalarne il valore e il limite. Il primo mi riguarda personalmente. Quando, nel 1961, ero membro della segreteria regionale lombarda, fui incaricato di preparare le tesi per una Conferenza regionale del partito e stesi un testo che, riconosco francamente, era pieno di spunti interessanti ma azzardato e improprio. Non fui localmente contrastato, ma quando una sera arrivò Amendola per il placet, nella notte lo lesse e lo buttò nel cestino. Non trovai, ragionevolmente, chi mi sostenesse, e coscienziosamente mi dimisi
dall’incarico. E così restò stabilito. Ma questo bastò perché Togliatti convocasse nel suo ufficio di Roma sia me sia il gruppo dirigente di Milano, e per una intera mattinata mi diede modo di spiegare le mie ragioni e concluse: idee interessanti ma discutibili, e anziché liquidarmi mi chiamò a Roma, nella commissione di massa diretta da Napolitano dove venni accolto e via via valorizzato. Il secondo esempio riguarda Rossana Rossanda. Da anni dirigeva la Casa della cultura di Milano facendone un vivace centro di confronto con le parti più avanzate del mondo intellettuale, senza nascondere affatto la propria propensione a dare priorità ai temi della ricerca scientifica o al nuovo pensiero marxista ai limiti dell’eterodossia, in esplicita alternativa rispetto ai filoni classici della politica culturale comunista centrata sugli intellettuali tradizionali, sul filone storicistico, sulla produzione cinematografica e sulle «belle arti». Alicata aveva tutte altre propensioni, ma questo non impedì né a lui né ad altri di affidarle, nel 1962, la responsabilità nazionale del settore. Nel nuovo incarico, come lei stessa racconta, trovò non pochi ostacoli, e diversi limiti che non doveva superare. In sostanza, chi aveva qualcosa da dire di utile, la penna e le sedi per farlo, trovava non solo tolleranza ma otteneva, il che è ciò che conta, un interesse reale. Il terzo esempio riguarda gli spazi offerti alle organizzazioni locali, soprattutto là dove governavano. La politica urbanistica impostata, dopo Dozza, dal comune di Bologna, con lo stimolo di architetti come CamposVenuti o di Cervellati, era del tutto diversa da quella dei comuni della costa, rossi ma molto sedotti dalla politica del «mattone facile», generosa di risultati e di consensi nell’immediato, ma pessima in prospettiva. Il centro lasciava fare entrambi. Insomma il partito in quegli anni non aveva funzionato male. Devo dire sinceramente che non sentivo la minima tentazione di un’organizzazione che, per allargare la democrazia, passasse attraverso le correnti organizzate. Nel momento in cui si presentavano problemi nuovi, però, linee generali da ridefinire, una pluralità di posizioni nel gruppo dirigente, la «democrazia protetta» era insufficiente per dirimerle. Più importante ancora era lo stato reale del partito nel suo complesso. Non tutto era rose e fiori, anche qui le mutazioni della società incidevano. Mentre i voti crescevano, gli operai erano tornati alla lotta, molti giovani alla politica, gli iscritti al partito erano in pochi anni scesi da 2100000 a 1600000, la
Fgci da 358mila a 170mila, in fabbrica le cellule calavano nel numero e nel ruolo. Questo declino graduale ma costante non era spiegabile con un dissenso o come una disillusione. Non era più addebitabile allo choc del 1956, ormai digerito, né era espressione di una critica al moderatismo, perché il Pci aveva animato le lotte del 1960, e il 1968 era ancora lontano, tanto meno dipendeva da una concorrenza dei partiti di governo, che infatti declinavano ancora di più. Particolarmente in quel momento, si poteva e doveva trovare la causa principale del declino organizzativo nel modo di essere e di operare del partito, legare ciò che esso chiedeva e ciò che offriva, quotidianamente, ai nuovi soggetti in campo. Soprattutto i giovani non erano attratti, né vedevano l’utilità, di un impegno fatto soprattutto di riunioni, di campagne elettorali, di proselitismo; non avevano più bisogno di una pedagogia elementare che la scuola poteva dar loro, quanto di una formazione più complessa e di una informazione più ampia. Volevano capire e partecipare effettivamente all’elaborazione della politica, e contribuirvi con le loro esperienze, e volevano dirigenti anche periferici capaci di guidare le loro lotte, di condividere le loro forme di espressione, le loro stesse emozioni, non volevano solo sentirli parlare di quando erano in montagna o di come gestivano il consiglio comunale. Tutto questo ci era finora in buona parte sfuggito. In certi momenti ci eravamo scontrati su come funzionava il partito sovietico, ma poco interrogati sullo stato reale del partito italiano. Eravamo tutti dei dirigenti o dei chierici. Parlavamo tutti di centralità operaia, non vedevamo che sempre meno operai diventavano dirigenti del sindacato o del partito. Ingrao, da solo, ebbe, forse senza piena consapevolezza e adeguata argomentazione, il coraggio di capire e di porre sul tavolo l’argomento. E propose un primo passo per affrontarlo. Niente di dirompente, almeno in apparenza, perché non metteva in discussione il centralismo democratico, cioè il dovere non solo di accettare ma di sostenere e applicare la «linea prevalente» con disciplina, senza rimetterla continuamente in causa. Ma la sua non era neppure una semplice richiesta di libera espressione del dissenso. Chiedeva che la «linea prevalente» fosse il risultato misurabile di un’esplicita dialettica da tutti comprensibile, fosse quindi successivamente sottoposta a una verifica dei fatti e, di fronte a nuovi sviluppi della situazione, potesse essere precisata o corretta con il concorso di tutti. In sostanza propose il ritorno al centralismo democratico così come l’aveva pensato e praticato Lenin, prima dell’emergenza della guerra civile e della
carestia, e com’era stato operante ancora per gran parte degli anni venti, con Stalin già al potere. In concreto: congressi, e anche «campagne di discussione tra l’uno e l’altro», cui tutti partecipavano anche con piattaforme collettive, sulle quali si votava e si decideva, ma poi tutti dovevano attenersi alle decisioni prese, partecipando agli organi esecutivi. Dagli ultimi anni venti, questa «costituzione» era stata modificata, e il XX congresso del Pcus, così come avvenne in tutti gli altri partiti comunisti, l’aveva certo depurata da abusi e arbitri, ma senza tornare al modello vigente. Lo stesso Ingrao proponeva ora un leggero restauro. In quel momento un simile tentativo era possibile. Perché la cultura comune era forte, il gruppo dirigente era riconosciuto e aveva retto a molte burrasche, i quadri erano formati nello spirito dell’unità, non erano catturati dalle ambizioni di carriere istituzionali e vivevano ancora liberamente fatica e sacrificio. Tant’è vero che l’espressione di dissensi al vertice non aveva provocato scompiglio. Un rischio però c’era, come in ogni riforma, anche perché non c’era più Togliatti. E qui si misura l’importanza dell’applauso a Ingrao insistito e generale dell’assemblea. Per così dire «a rovescio». Perché proprio il fatto di non essere stato preceduto o organizzato da un’azione frazionistica, né raccolto sulla base di una piattaforma politica ben definita, mostrava che l’ingraismo si era diffuso come un virus, e che Ingrao disponeva non di una forza, ma di carisma. Non c’erano quindi vie di mezzo: quel virus o lo si stroncava o lo si accettava come una componente, uno stimolo con cui convivere. Non si trattava di una lotta per il potere, ma di una diffusione del potere. Bisognava fidarsi reciprocamente. Ma il gruppo dirigente del partito non si fidò. Non si fidò non delle ambizioni di Ingrao, che non erano per natura grandi, ma della natura e della pericolosità del virus. Non tanto Amendola (che si tenne in seconda fila nell’attacco), ma i cosiddetti centristi (Pajetta, Alicata, i segretari di grandi regioni) chiamarono a raccolta intorno al segretario e lo convinsero (come più tardi ho saputo) che era in corso un attacco contro di lui. Seguì quindi un’epurazione accurata e selettiva, che colpiva le punte estreme e più esposte (Rossanda, Pintor, Coppola, Milani ecc.), isolava Ingrao in sedi istituzionali; Berlinguer, che era stato fino ad allora a capo della segreteria nazionale, fu accusato di eccessiva tolleranza, mandato a dirigere il Lazio e sostituito da Napolitano nel suo ruolo chiave. Qualche altro si allontanò senza lasciare indirizzo. Io non fui rimosso perché non c’era niente da cui rimuovermi, né degradato perché non avevo alcun
grado da togliermi; ma ero considerato un suggeritore ascoltato e fui semplicemente confinato nel mio ufficio, senza aver assolutamente niente da fare. Dopo pochi mesi, quando andai da Amendola per dirgli che non potevo andare in pensione a trentadue anni, e gli chiesi di mandarmi a lavorare in qualsiasi piccola federazione, mi rispose senza sorridere: devi fare una quarantena perché sei un giovane intelligente, abbiamo lavorato bene insieme, ma devi ancora imparare la disciplina bolscevica. Raccolsi le mie carte e me ne andai da Botteghe Oscure, per riflettere e studiare in disparte. Credo non sia stato per me inutile. A confermare che l’ingraismo non era una frazione resta il fatto che nessuno dei «puniti» protestò, e nessuno difese nessuno. Semplicemente ci perdemmo a lungo di vista, conservando le amicizie più vicine. Mi sia permesso, per ragioni affettive un ricordo strettamente personale: nell’agosto di quell’anno, il giro della Sardegna, ancora selvaggia, in tenda, con Luigi Pintor che vi era stato confinato, non per concertare complotti, ma per rimetterci in forze con bagni stupendi. 10.2 Urss e Cina In politica, come nella vita di ciascuno, non sono importanti solo i problemi che si affrontano e le scelte che si compiono, è altrettanto importante ciò che si elude o si ignora. Non posso quindi tacere che nell’intenso dibattito di quegli anni è rimasto quasi un vuoto di analisi, di riflessione e di iniziativa intorno a un grande problema. Tale vuoto riguarda l’intera sinistra, italiana ed europea, ma i comunisti italiani ne pagavano un prezzo maggiore benché avessero maggiori possibilità per poter contribuire a colmarlo. Mi riferisco a ciò che nel mondo, anzi in una certa parte del mondo, stava accadendo. L’affermazione sembra paradossale, perché alcuni aspetti e momenti delle vicende mondiali furono non solo drammaticamente evidenti, ma produssero una grande ripresa dell’internazionalismo, formarono e orientarono intere generazioni: la guerra e l’indipendenza dell’Algeria, la rivoluzione cubana vittoriosa e subito minacciata, la repressione nel Congo e quella ancor più feroce in Indonesia, soprattutto l’inizio della guerra in Vietnam. Su tutto questo il Pci, più di ogni altro partito, si mobilitò a fondo e discusse liberamente (per esempio sulla natura e il ruolo delle «borghesie nazionali», o sul pericolo del neocolonialismo come sbocco
possibile di alcune lotte di liberazione), senza mai negare però l’importanza della coesistenza, quindi anche della lotta per la pace e il disarmo. Il vuoto di cui parlo riguarda invece l’incipiente crisi del movimento comunista mondiale, la rottura tra l’Unione Sovietica e la Cina popolare, e in particolare i due grandi eventi che la simboleggiavano e la resero irreversibile: il fallimento del Chruščëvismo e l’ascesa al potere di Brežnev e Suslov in Urss, e la Rivoluzione culturale cinese. È vero che l’importanza e il significato di quegli eventi apparvero più chiaramente in seguito e solo oggi, forse, possiamo capire appieno quale peso abbiano avuto nel modellare il mondo in cui viviamo. Ma è altrettanto vero che quella crisi del movimento comunista mondiale mosse i primi passi all’inizio degli anni sessanta e che allora il corso delle cose poteva essere, se non rovesciato, contenuto o corretto; allora il Pci aveva un’influenza per cercare di intervenirvi, o almeno per rendere più solida e originale la propria collocazione in un mondo in generale tumulto. Non seppe adeguatamente capirlo né farlo. Togliatti ne portava, all’inizio, qualche responsabilità, ma ebbe poi il grande merito di cercare di porvi rimedio. Parlo di responsabilità perché tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, quando il dissidio tra Chruščëv e Mao era già latente ma non consumato, il Pci si preoccupò principalmente di difendere l’autonomia della «via italiana» e frenò la discussione sul valore generale che aveva oltre i nostri confini. Pur avendo più volte affermato che una «democrazia più avanzata», oltre la pura forma del pluripartitismo e del parlamentarismo, era un problema che riguardava anche le società socialiste, anzi solo esse erano meglio in grado di realizzarla, evitò di offrire questo tema al dibattito internazionale. Cosa che invece tentò di nuovo di fare Tito, ponendo in discussione l’esperienza dell’autogestione jugoslava. Ma Tito era troppo sospetto per le vicende passate, la Jugoslavia troppo piccola per avere un peso, l’esperienza dell’autogestione troppo claudicante. A sua volta la «via italiana» era troppo avara di risultati e troppo identificata con il gradualismo e il parlamentarismo, per essere accettata come modello stimolante, anziché giudicata, sia dai sovietici sia dai cinesi, pericolosamente «revisionista», cavallo di Troia della socialdemocrazia. Il merito di Togliatti si coglie invece nel memoriale di Jalta, cioè negli appunti che mandò a Chruščëv per preparare un incontro chiarificatore con il gruppo dirigente sovietico. Rileggendo quegli appunti mi sono accorto in
grande ritardo della vera novità che esso conteneva. Togliatti ribadiva i termini essenziali della strategia del Pci in Italia, offriva una ricognizione sulla situazione europea che rendeva plausibile applicarla anche ad altri paesi occidentali; ma esprimeva anche e soprattutto una premonizione illuminante, di cui spesso le grandi personalità sono capaci proprio alla vigilia della morte. Proprio lui, che da anni era stato oggetto delle più esplicite e rozze polemiche cinesi, voleva dire a Mosca: attenzione, se il dissenso tra Urss e Cina continua e si approfondisce, se non troviamo il modo di ristabilire un dialogo, di capirci meglio, e soprattutto non riusciamo a collaborare sul piano internazionale, tutto sarà compromesso. Di questo voleva discutere, e non fece in tempo a discutere. I sovietici non potevano e non volevano capirlo, infatti non pubblicarono il testo. Ma non lo capirono neppure i suoi compagni in Italia, che pubblicarono quel testo subito, gli diedero grande risonanza, ma non ne inserirono il punto essenziale nell’agenda dell’imminente congresso. In effetti, tra il 1958 e il 1962, il dissenso tra l’Urss e la Cina era progressivamente cresciuto, dapprima in modo mascherato, con tentativi di conciliazione falliti, ma poi pubblicamente e in modo sempre più aspro. Non era facile discuterne, perché si esprimeva in termini volutamente deformati e ingannatori, e spesso in contraddizione con le scelte effettive. Era credibile l’esibito recupero di Stalin, da parte di chi a Stalin aveva quasi sempre disobbedito, sia nella tattica sia nella strategia? Era possibile distinguere tra chi credeva nella coesistenza (Urss) e chi la rifiutava, visto che per i cinesi «l’equilibrio del terrore» era più che mai necessario, per garantirsi da minacciati atti di forza degli americani? Era possibile denunciare, giustamente, la pretesa di Mosca a esercitare il ruolo di Stato guida, da parte di coloro che ogni giorno accusavano chi tentava una «nuova via al socialismo» di deviare dall’ortodossia leninista? Viceversa, era ragionevole accusare i cinesi di volere una rottura, per le parole che pronunciavano, mentre la rottura era in atto nei fatti, a causa del ritiro dei tecnici sovietici, che moltiplicava le loro difficoltà, e il rifiuto improvviso a concedere loro la protezione atomica? Insomma sarebbe bastata l’esibizione della verità dei fatti per contenere una polemica artificiosa ed esprimere una posizione autonoma, attiva e non inefficace, tirandosi dietro molti partiti che non accettavano la polarizzazione tra chi aveva ragione e chi aveva torto. Le cose sarebbero diventate più chiare, e sarebbe stato più utile partecipare sobriamente, ma con maggiore impegno, alla discussione di fondo.
A metà ottobre del ’64, Chruščëv fu liquidato, in modo per fortuna incruento, ma con il solito metodo del colpo di palazzo; la spiegazione di Mosca formulava solo l’accusa al personalismo della sua gestione e alle sue riforme improvvisate in agricoltura o nell’organizzazione del partito, in generale non riuscite, ma alle quali nessuno si era opposto. Il Pci criticò il metodo, ma non si occupò della sostanza: cosa e perché Chruščëv aveva fallito e cosa voleva il nuovo gruppo dirigente? Bastò una rassicurazione sul fatto che la linea del XX congresso non sarebbe cambiata, e tutto finì lì. Eppure il XX congresso era stato importante anche per le sue promesse, per la speranza suscitata di riforme sostanziali, per l’illusione di un forte sviluppo economico in base al quale avrebbe vinto la competizione pacifica. La sua sconfitta doveva essere quindi analizzata. E la sostituzione di Chruščëv con un gruppo dirigente, forse meno avventuroso, ma nettamente più grigio e burocratico, non prometteva alcunché, se non una stabilità che sarebbe durata venti anni, ma avrebbe portato l’Unione Sovietica al suo definitivo declino. Non lo si poteva prevedere, né dire, ma un certo allarme doveva pur prodursi. L’anno dopo cominciò in Cina la Rivoluzione culturale. La si poteva criticare e temerne gli sbocchi, oppure apprezzarla come nuova speranza. Ma, finalmente, il contenuto reale dello scontro tra Cina e Urss, politico e strategico, era chiaro, e si doveva discuterne seriamente. Attribuire a Mao una sconsiderata conversione all’estremismo era da ciechi. Egli partiva da una constatazione semplice e fondata. Anche dopo la conquista del potere statale, e nella sua gestione, la lotta di classe poteva riprodursi non perché, come diceva Stalin, le vecchie classi diventavano più aggressive e pericolose, ma perché all’interno stesso del nuovo potere, cioè nel partito, poteva oggettivamente emergere un nuovo strato sociale, arrogante e privilegiato, separato da una grande massa che sarebbe restata a lungo molto povera e poco coltivata. Non si poteva impedirlo con una lotta di fazioni nel partito, né con un multipartitismo di cui non esistevano le basi. Né si poteva aspettare che lo sviluppo economico risolvesse gradualmente il problema, perché lo aggravava. Occorreva dunque stimolare dal basso una contestazione del privilegio, e costruire nelle nuove generazioni, che non avevano vissuto la guerra rivoluzionaria, una tensione ideale verso l’eguaglianza e la partecipazione democratica. Perciò occorrevano ciclicamente nuove ondate rivoluzionarie, con l’ideologia e la pratica. Il proletariato doveva restare il protagonista diretto della propria rivoluzione. Questa era la lezione vera da trarre dall’esperienza della Rivoluzione russa, dalle sue glorie e dalla sua involuzione. Di qui la sfida: «Ribellarsi è
giusto». Era difficile liquidare la verità contenuta in questo ragionamento. C’erano però anche motivi forti per criticare la scelta. Due in particolare. Anzitutto, perché la ribellione non degenerasse in anarchia distruttiva e violenta, occorreva un riferimento che l’orientasse e ne stabilisse i confini. E se tale riferimento non poteva darlo il partito, che anzi era il bersaglio, doveva venirle da un capo carismatico, in questo caso Mao stesso. Se non che il carisma produce il culto e il culto produce un potere ancora più discutibile e dà alla ribellione il carattere di una fede, anzi di una mistica della quale molti e diversi, in conflitto tra loro, si considerano legittimi interpreti. Una divisione tra «ribelli» via via più violenta. La seconda questione era la base materiale di questo rilancio rivoluzionario. Mao, più di ogni altro, era consapevole dell’arretratezza dell’economia della Cina, e del ruolo fondamentale che vi giocavano le sterminate masse contadine, ma non poteva e non voleva addossare sulle loro spalle il peso principale di un’accumulazione primitiva. E infatti con loro aveva fatto una rivoluzione, riunificato un grande paese che il colonialismo e i signori della guerra avevano distrutto. Non attraverso una colossale jacquerie, ma attraverso zone liberate, nelle quali aveva introdotto prime concrete riforme: l’affrancamento delle donne da una condizione servile, l’esproprio delle grandi proprietà terriere, la distribuzione delle terre ai contadini, aiutati e stimolati ad aggregarsi in cooperative; la costruzione di un esercito disciplinato ma senza privilegi. Aveva inoltre educato, con l’esempio, le masse all’egualitarismo, organizzato un partito con un’ideologia compatta, ma consapevolmente creativa, e aveva inserito la sua guerriglia nel quadro dell’alleanza antifascista, appoggiandosi ai risultati migliori dell’Unione Sovietica, senza però subordinarvisi. Ma, conquistato il potere, doveva pur sempre affrontare il problema di un’industria di base, di cui i contadini stessi avevano bisogno e di cui il paese aveva altrettanto bisogno per unificarsi realmente, così come di una scuola che, oltre che alfabetizzare, producesse le competenze necessarie a un moderno sviluppo. L’insuccesso del «grande balzo in avanti», del 1958, aveva mostrato che non bastava una forzatura soggettivistica per risolvere il problema. Si trattava di modernizzare il paese distribuendone il costo e senza abbandonare, o rinviare a un lontano futuro, l’obiettivo di una società nuova. La Rivoluzione culturale avrebbe dovuto risolvere questo problema, creare nelle coscienze gli anticorpi per prevenire la burocratizzazione, sradicare l’individualismo e il privilegio che della modernizzazione erano i naturali
compagni. Ma bastavano le ribellioni dei giovani, in particolare degli studenti, a risolverlo? No. E Mao ne era consapevole, infatti predicava che la maggioranza dei quadri doveva essere criticata, ma era buona e da recuperare, quindi la ribellione non doveva diventare giustizia sommaria. Che protagonisti dovevano presto diventare gli operai, senza danneggiare la produzione, e andavano coinvolti i contadini, rispettandone le convinzioni e imparandone l’austerità. Tuttavia, nella pratica, la ribellione degli studenti assumeva facilmente la forma di processi sommari e umilianti, «l’esperto e rosso» diventava facilmente «esperto in rosso». Quando il movimento investiva fabbriche e campagne mobilitava le coscienze, ma disorganizzava la produzione, e quando coinvolgeva l’esercito, poteva cancellare i gradi ma esercito restava, con una propria disciplina e un proprio gruppo dirigente. L’ideologia stessa non poteva richiamarsi al marxismo ortodosso e insieme accompagnarsi al revisionismo radicale nel suo punto essenziale, cioè l’assioma che il comunismo nasceva dalla materialità dei processi produttivi. Si poteva anticipare e forzare quei processi, tentare di evitare un «passaggio attraverso il capitalismo», ma non evitare di farci i conti. E infatti Mao stesso, nel 1968, diede un colpo di freno: la Rivoluzione culturale aveva prodotto risultati essenziali, la sua ispirazione non andava cancellata, ma doveva concludersi senza disperdersi. Per qualche tempo questo ritorno graduale alla normalità fu gestito con oculatezza ed equilibrio (a parte lo strappo indecifrabile della liquidazione di Lin Biao) gestito da Mao finché visse, poi da Zhou Enlai e Hua Guofeng. Oggi sappiamo invece che seguì un Termidoro. E la storia cinese prese una strada del tutto diversa. Già tra il 1966 e il 1968 su tutto questo c’era molto da capire e da discutere. E invece tutto il Pci poco ne capì e poco ne discusse. Il conflitto sinosovietico fu esorcizzato per tenersene fuori. Ce ne accorgemmo solo dopo l’invasione sovietica in Cecoslovacchia e quando la Rivoluzione culturale cinese ormai si stava concludendo, e non bene. Cioè a cose fatte. Questa è una responsabilità comune dell’XI congresso. E la frettolosa epurazione, che a esso era seguita, produsse sì una discussione ma in ritardo e piena di abbagli. La maggioranza blindata continuò, pur criticandone singole scelte, a fiancheggiare l’Unione Sovietica in attesa, senza crederci veramente, di una sua graduale e improbabile autoriforma; a parlare di un «nuovo governo mondiale», senza curarsi del campo nel quale il Pci era nato e sul quale poteva ancora esercitare un’influenza. Solo un’esigua minoranza valorizzò la Rivoluzione culturale e il contagio che
poteva produrre nel mondo, ma quando ormai essa aveva compiuto il suo ciclo e in fiduciosa, quanto infondata, attesa che ne sarebbe presto venuta un’altra. Le conseguenze di quel ritardo e di quella rimozione, nel lungo termine, dovevano essere pesanti, e lo furono.
11. Il lungo Sessantotto italiano
Negli anni sessanta un secondo e più grande sconvolgimento scosse l’Italia. Questa volta «dal basso più che dall’alto». Sto parlando, ovviamente, del lungo Sessantotto italiano. Intendiamoci, il Sessantotto fu un fenomeno mondiale. In rapida successione esplose in quasi tutti i grandi paesi dell’Occidente un grande movimento di contestazione, sconvolgente e variegato, incisivo e sconfitto, radicale e confuso, come lo era stato, a metà del secolo precedente, il 1848. Pressoché ovunque, questa volta, il suo motore furono gli studenti, la sua sede principale le università. Ma la contestazione non aveva, fin dall’inizio, il carattere di un cahier de doléances rivolto a ottenere questa o quell’altra riforma della scuola e della condizione studentesca. Investiva in radice tutti gli aspetti dell’istituzione: metodi di insegnamento, modalità e criteri della selezione, finalità prioritaria a essa assegnata (fabbrica del consenso, formazione delle competenze di cui il mercato del lavoro aveva bisogno). In tutti questi aspetti riconosceva infatti e rifiutava un carattere comune: l’autoritarismo rivolto a perpetuare l’ordine sociale stabilito, a detrimento della libertà di immaginare una società diversa e contribuire a costruirla. Perciò la contestazione studentesca rappresentava la rivolta di un’intera generazione, che rifiutava, oltre la scuola, valori, regole, stili di vita e le varie istituzioni che li presidiavano da secoli. Un patrimonio che lo stesso sviluppo capitalistico aveva usato, e insieme incrinato, e una nuova cultura aveva già demistificato. Era qualcosa di meno della critica del capitalismo in quanto struttura portante del sistema, ma anche qualcosa di più, perché pretendeva di superare «d’un balzo» tutte le servitù e i vincoli che esso poneva nella vita collettiva e fin nel profondo della vita individuale quotidiana (in questo senso si trovava in sintonia con la Rivoluzione culturale cinese in versione mitizzata). L’antiautoritarismo era una grande risorsa, perché permetteva di unire, in modo non corporativo, esigenze e motivazioni diverse, di riconoscere e alimentare altri conflitti in quel momento in pieno sviluppo (contro il razzismo, contro l’insensata e sanguinosa guerra in Vietnam); e anche perché, nelle sue forme di lotta (per esempio l’occupazione delle università, o le comuni giovanili) poteva essere, oltre che un obiettivo rivendicato, una pratica quotidiana collettiva. In questo senso la
contestazione lasciò un segno indelebile sui modi di pensare, sulle relazioni interpersonali, sulla famiglia, sull’accettazione acritica delle istituzioni politiche rappresentative, in parte anche sul decollo di un nuovo e più radicale femminismo. Al tempo stesso l’antiautoritarismo era però un limite pesante quando e lì dove si scontrava con le architravi del sistema: il modo di produzione economica e lo Stato. Ossi molto più duri da erodere e insieme meccanismi e poteri che non bastava smantellare, anzi occorreva saper alternativamente controllare e modificare, per garantire migliori condizioni di vita e maggiori diritti alla gran parte della popolazione. Tanto più era un limite pesante perché la condizione giovanile è transeunte, e coloro stessi che rifiutavano una forma sociale erano poi destinati, in una società che sopravviveva, a diventarvi privilegiati. Perciò il Sessantotto, come rivolta giovanile, rapidamente si estese a livello mondiale, lasciò ovunque un segno più o meno profondo, ma rapidamente rimase isolato, si divise al suo interno, declinò senza più repliche. C’è però un altro aspetto del Sessantotto come fenomeno mondiale, ancor più contraddittorio, ma non meno importante, e che abbiamo tutti trascurato. Il Sessantotto si aprì con l’offensiva del Têt, che avviò la fase della vittoria vietnamita e dell’umiliazione americana; erano ancora in atto tentativi di imitazione della rivoluzione cubana in America latina, in Cina Mao aveva messo un freno alla Rivoluzione culturale ma senza misconoscerne il merito e il significato; in Francia la rivolta studentesca aveva per un momento trascinato quasi l’intero paese, de Gaulle era rapidamente prevalso ma pagando dei prezzi; il nazionalismo arabo era stato militarmente sconfitto dall’attacco israeliano ma politicamente rinsaldato; sul piano economico il «miracolo» stava esaurendosi e sarebbe seguita la crisi monetaria e la prolungata stagnazione. Se tutto questo stimolava speranze, già si intravedevano in cammino altre e più pesanti novità. L’invasione della Cecoslovacchia stroncava ogni ottimismo sulla capacità di autoriforma economica e politica in Unione Sovietica; l’evoluzione delle cose in Cina lasciava intendere un nuovo corso nella sua politica interna, la rottura tra Pechino e Mosca diventava irreversibile, modificando l’intero equilibrio mondiale; la morte del Che fondava un mito, ma ratificava la sconfitta in un intero continente; i socialdemocratici vittoriosi al governo, in Germania e in Inghilterra, non accennavano un vero ripensamento sulla disciplina atlantica. Insomma, un mondo in totale subbuglio, ma la crisi era di un campo e anche dell’altro. Quanto bastava per avviare una riflessione nuova sul carattere e sull’importanza di una rivoluzione in Occidente, ma non certo per vederla alle porte.
Se si esclude o si sottovaluta tutto questo, come allora facemmo tutti (la nuova sinistra, ma anche il Pci), una discussione sul Sessantotto resta non solo monca ma totalmente falsata. 11.1 La centralità operaia In questo quadro è utile sottolineare e indagare la particolarità del nostro Sessantotto, diverso da ogni altro per durata, qualità, protagonisti e risultati. Forse per l’ultima volta, e più che mai, si può parlare legittimamente di un «caso italiano». Che infatti, al contrario del solito, attirò l’attenzione fuori dai nostri confini, pur non avendo la «spettacolarità» del maggio francese. Questa particolarità sta, per così dire, in un «felice incontro», in gran parte spiegabile con la storia precedente e in parte casuale. Molti conflitti sociali, molte forme e molti soggetti di una contestazione, molte rotture culturali, che il capitalismo in trasformazione portava con sé e doveva affrontare, erano già in precedenza emersi in vari paesi, in tempi distinti, o comunque non in sintonia tra loro; il sistema aveva potuto affrontarli separatamente per neutralizzarli, a volte per trarne stimoli. Soprattutto il sistema era ancor prima riuscito a evitare, o a porre ai margini, la presenza di organizzazioni sindacali e politiche che potessero offrire alla protesta una rappresentanza o almeno una solida sponda. In Italia invece, per diversi anni intorno al Sessantotto, molte spinte contestatrici si presentarono contemporaneamente, al loro punto più alto, e con qualche capacità non solo di sommarsi ma anche di interagire tra loro. Quando ancora la base materiale che le originava era corposa e le loro buone ragioni riconoscibili anche da vaste masse; quando ancora erano forti, anzi in ascesa, sindacati di classe e partiti che mantenevano un’ispirazione anticapitalista, e i governi in carica erano screditati e traballanti. Prima di azzardare un giudizio complessivo su quel sommovimento, tuttora assai controverso, è necessario ricostruire il carattere e il percorso dei vari movimenti che vi concorsero, e il modo in cui le grandi organizzazioni vi reagirono. Non a caso parto dalle lotte operaie. Perché non è vero, o lo è solo in minima parte, lo schema rimasto poi fissato nella memoria. Non è vero cioè che la rivolta studentesca abbia anticipato nei tempi, marcandone il carattere radicale, il conflitto sociale, e che questo sia stato poi frenato
dalla saggezza del sindacato e represso dagli apparati comunisti. Questo schema si può forse applicare al maggio francese. La vicenda italiana è invece molto più complessa e ha diverse fasi; soprattutto, qui, c’è stato al centro il conflitto diretto tra capitale e lavoro, la sua sede primaria la fabbrica, il suo protagonista la classe operaia in carne e ossa. So benissimo il rischio che corro usando oggi l’espressione «centralità della classe operaia». Troppe volte è stata usata per indicare la fiducia in qualcosa che doveva ancora arrivare, troppe volte per indicare qualcosa che stava già declinando o si presentava in forme ormai tanto molteplici da toglierle significato. Vorrei dunque fosse subito chiaro che, riferendomi al Sessantotto italiano, quando parlo di classe operaia ne parlo in senso maledettamente concreto. Un popolo di salariati, che in gran parte svolgevano un lavoro manuale e frammentato, inseriti in un ciclo produttivo sempre più rigidamente organizzato, concentrato in aziende mediograndi, dove tutti si sentivano partecipi di un collettivo e via via di una classe; prevalentemente lavoratori del settore industriale, in un momento nel quale l’industria nel suo complesso occupava ormai la maggioranza relativa della forza-lavoro e trascinava l’economia del paese. Prescindo totalmente da una convinzione ideologica che porta a riconoscere la primogenitura di una classe che, per convinzione e senza miti, ho sempre portato in me; in quel momento ha trovato una conferma, ma nella società attuale riconosco debba essere quanto meno ripensata. Mi riferisco invece a un fatto concreto e indiscutibile, cioè a un ciclo di lotte, operaie appunto, che si sviluppò per oltre un decennio e che, per dimensione e qualità, parlò a molti altri movimenti, scosse profondamente gli equilibri dell’economia e della politica. Le origini, come ho già ricordato, risalgono alla ripresa sindacale tra il 1960 e il 1963, nella quale erano già affiorate rivendicazioni non puramente salariali ma sull’organizzazione del lavoro, forme di lotta che già portavano in sé l’esigenza di una riduzione dal basso non solo del dispotismo del padrone ma anche del verticismo del sindacato, in un intreccio permanente tra contratto nazionale e vertenze aziendali. In ogni aspetto tali lotte avevano raggiunto risultati significativi. Correlativamente era intervenuta la ripresa dell’antifascismo militante e la politicizzazione di molti giovani. Movimento, sindacato, partito marciavano insieme e insieme si rinnovavano. Frutto diretto e importante di quell’esperienza avviata dal Pci era stato uno spostamento forte nella cultura e nella pratica delle organizzazioni sociali cattoliche (sia la Cisl sia le Acli).
Padronato e governo avevano reagito, nel 1964-66, con la stretta deflazionistica, l’esportazione dei capitali e con limitate ma incisive innovazioni tecnologiche, principalmente rivolte ad aumentare la produttività, riducendo l’occupazione e intensificando il lavoro. In un solo anno, per esempio, la Pirelli aveva aumentato complessivamente la produzione del 28%; e la Fiat di Mirafiori l’aveva raddoppiata, a occupazione invariata e salari bloccati. Altre imprese, che non volevano o non sapevano fare altrettanto, licenziavano. Tutto questo, transitoriamente, era servito a restringere i margini alle vertenze; ma, socialmente, aveva aumentato la rabbia operaia e politicamente stroncato le gambe alle promesse riformatrici del centrosinistra. Appena quindi l’economia, nel biennio seguente, accennò una ripresa, le vertenze aziendali ripresero e rapidamente si estesero, concentrate su cottimi e ritmi. Con una novità: poiché la ristrutturazione investiva ormai anche il lavoro degli impiegati e dei tecnici, altrettanto frammentato e intensificato, in molti casi la spinta rivendicativa si estendeva a figure professionali da sempre propense ad astenersi. Già nel 1967: Italsider, Rex, Zanussi, Dalmine, Lebole, Magneti Marelli, Tosi, Autobianchi, più inattesa Marzotto. Nel corso di un anno, 3878 accordi integrativi furono conclusi positivamente. La Fiat, come al solito, fu un caso a sé, ma questa volta in meglio. Infatti, nel marzo 1968, cercò di prevenire la vertenza aziendale, con un’intesa con il proprio sindacato di comodo; Fim e Fiom lo respinsero, e 100mila operai scioperarono e ne strapparono uno migliore: era la prima volta dopo quattordici anni. Ma c’è di più, ormai quasi dimenticato. Tra il 1967 e il 1968 si avviarono due lotte generali: quella sul sistema pensionistico, sempre rimasto non ben definito, oltre che diseguale e avaro; e quella per l’abolizione delle gabbie salariali che permettevano di pagare un salario inferiore del 20% nelle regioni del Sud. Il risultato che le concluse fu rilevante: diritto a una pensione dell’80% del salario finale dopo 40 anni di lavoro, e diritto alla pensione dopo 35 anni di lavoro; abolizione totale delle gabbie entro il 1975. Non meno rilevante era il modo in cui quel risultato fu raggiunto: perché le tre confederazioni avevano all’inizio siglato un’ipotesi di accordo contestato dalle organizzazioni di base, la Cgil dovette proclamare da sola un nuovo sciopero generale, tanto imponente da trascinare tutti fino al successo. Così si arrivò al rinnovo dei contratti nazionali di lavoro, «l’autunno caldo», un vero salto di qualità. La piattaforma rivendicativa, con alla testa
i metalmeccanici, era insolitamente ambiziosa: aumenti salariali consistenti ed eguali per tutti, riduzione del lavoro da 48 a 40 ore settimanali, parità normativa per operai e impiegati, diritto ad assemblee in fabbrica, remunerate. Ancor più nuove furono le forme di lotta, le sedi delle decisioni e i loro titolari. Quanto alle forme di lotta, allo sciopero si affiancarono manifestazioni di piazza imponenti per coinvolgere l’opinione pubblica, la lotta proseguiva anche nel corso delle trattative, un pacchetto di ore di sciopero era affidato alla gestione delle singole fabbriche o di loro settori, a loro sostegno intervenivano cortei interni improvvisati, per trascinare gli incerti e interrompere il ciclo produttivo; inoltre, spontaneamente, autoriduzione dei ritmi o fermate a singhiozzo. Non era luddismo: era il modo di rendere gli scioperi più costosi per il padrone e meno costosi per gli operai. Quanto a chi decideva, non inconcludente assemblearismo, ma consultazione preventiva e collettiva sulle piattaforme di partenza, elezioni dirette di delegati di reparto su lista bianca e cui tutti i lavoratori da rappresentare avevano diritto al voto; delegati che costituivano insieme un consiglio di fabbrica. Alla stessa trattativa nazionale con la controparte, potevano assistere ampie delegazioni dei consigli che, spesso, con applausi o fischi l’influenzavano. Alcuni dati parlano da soli: nel 1965 c’erano, nell’industria metalmeccanica, mille commissioni interne un po’ anchilosate e controllate dall’alto in rappresentanza di 500mila lavoratori, nel 1972, 4300 consigli di fabbrica in rappresentanza di un milione di lavoratori e controllati da basso. Dal 1968 al 1972 la Cgil e la Cisl, che guidavano la lotta e ne erano sospinte, passarono da 4 milioni di iscritti a 5 milioni e poi a 6 milioni in due anni. Per misurare l’effetto contagio e lo spostamento politico che via via si produsse anche fuori dai confini dell’industria vale un dato ancor più impressionante: nel pubblico impiego la Cgil aveva, nel 1968, 4mila iscritti, nei primi anni settanta 90mila. Questi dati dimostrano non solo quale dinamica espansiva si metteva rapidamente in moto quando l’iniziativa dal basso alzava il tiro e la qualità dei suoi obiettivi e reciprocamente il sindacato accettava di farsene attraversare per poterla efficacemente rappresentare. Erano lotte sindacali? Certo, e quel soggetto sociale non poteva farne a meno. Ma quando si guarda agli obiettivi e ai risultati di quella lotta, alle forme che assumevano, allo spirito generale che le ispirava, al livello della partecipazione che le accompagnava, ai quadri che rapidamente si formavano, non si può negarne il valore politico. In questo intreccio, diciamo pure ambiguità, tra concertazione sindacale e
radicalità dell’ispirazione e spesso dei comportamenti, stava la forza del movimento. Che infatti durò ancora dopo il suo apogeo, strappò conquiste importanti (per esempio lo Statuto dei lavoratori, le 150 ore retribuite per il recupero scolastico, l’inquadramento unico tra impiegati e operai); consolidò l’unità sindacale (la Flm, il Patto di unità di azione tra le Confederazioni). Quel che più conta è il fatto che essa fornì, implicitamente, un suggerimento di strategia politica complessiva, che Gramsci aveva da tempo elaborato, l’idea cioè che, in Occidente soprattutto, la rivoluzione doveva avanzare, ancor prima della conquista del potere statale, come movimento sociale; qui la classe operaia doveva acquisire la capacità di una classe dirigente, conquistare casematte, porsi obiettivi intermedi, stabilire non solo alleanze ma un blocco storico egemonico. Ma in questa ambivalenza tra il sindacale e il politico, delle lotte operaie più avanzate, era contenuta anche una contraddizione. Quanto più cresceva e si imponeva una spinta rivendicativa, quanto più il potere padronale veniva eroso in fabbrica e l’organizzazione del lavoro sconvolto, quanto più emergeva la necessità di migliorare la condizione di vita degli operai (e con loro di grandi masse disperse ma egualmente sacrificate) anche fuori dalla fabbrica, tanto più emergevano, di fronte al movimento, due ostacoli enormi e tra loro connessi. In primo luogo, come sempre, il ricatto della crisi economica, particolarmente stringente in un momento in cui lo sviluppo capitalistico per conto suo stava entrando in fase precaria e l’industria era ormai inserita in un mercato internazionale sul quale doveva competere. D’altro lato c’era la necessità di reperire le risorse per finanziare lo «stato sociale», di imporre un quadro normativo e di trovare le capacità gestionali per orientare tali risorse alla soddisfazione di bisogni collettivi, secondo una precisa scala di priorità. Per un verso o per l’altro era destinato a venire sul tappeto il problema di una svolta profonda della politica, e in particolare della politica economica, come supporto essenziale anche per la tenuta e lo sviluppo del movimento. Nell’immediato quel problema appariva ed era insolubile. Le forze di governo erano arrivate al Sessantotto in piena involuzione: i socialisti avevano tentato in modo dissennato l’unificazione con i socialdemocratici e ne uscirono in stato comatoso. La Democrazia cristiana era più che mai inchiodata alla preoccupazione di conservare comunque il potere e divisa da una rissa interna. Per un dialogo serio con loro non c’era spazio. Questo, in astratto, poteva essere un vantaggio per l’opposizione di
sinistra, ma segnali preoccupanti cominciavano a venire anche dalla società. Non mi riferisco tanto alla «strategia della tensione», sulla quale tornerò. Mi riferisco ai moti eversivi di massa che esplosero in particolare a Reggio Calabria e a L’Aquila, che dimostravano come in zone di degrado sociale, di clientelismo e di tollerata malavita, la rivolta di per sé poteva orientare il popolo in direzione campanilistica e reazionaria. Meno vistoso, ma forse ancor più allarmante, fu quello che avvenne a Battipaglia, perché qui i fascisti c’entravano ben poco, la spinta alla ribellione non era di tipo campanilistico, né di masse emarginate. Era una delle poche zone di più evidente sviluppo, ma nelle forme degenerate che esso assumeva al Sud: sottosalario, lavoro precario, clientelismo, caporalato. Quando furono annunciati licenziamenti delle industrie del tabacco, l’intera società si ribellò, occupò la stazione ferroviaria per farsi sentire, fu duramente repressa dalla polizia e andò a incendiare il comune, emblema di tutti i vizi. Contro tutto e contro tutti, istituzioni e partiti, una moderna jacquerie in una società modernizzata, specchio di una parte importante del paese, nella quale non bastavano i sindacati e le vertenze per esprimere e incanalare un’incontenibile e legittima rabbia. Le elezioni del 1972 fotografarono dunque i rapporti di forza reali: il Pci arrestò la sua avanzata, l’insieme della sinistra arretrò per il crollo del Psi e l’umiliante risultato del manifesto e della lista di Labor, la Dc resse ma spostandosi a destra, il Movimento sociale fece un balzo in avanti. La stabilità del governo non fu certo recuperata, ma si arrivava a un governo Andreotti-Malagodi sostenuto dal Msi. La classe operaia non chinava ancora la testa: nel contratto di quell’anno conquistò l’inquadramento operai-impiegati unico, le vertenze integrative non si fermavano (nel 1973 le ore di sciopero furono inferiori solo rispetto al picco del 1969). Sappiamo quale risposta, proprio nel 1972, il Pci elaborò per offrire uno sbocco politico del movimento: l’unità nazionale. Si poteva fare qualcosa di assai diverso nei contenuti e nei protagonisti, perché il mondo e la società erano del tutto nuovi, ma simile nello schema di ragionamento e di comportamento a quello che Togliatti era riuscito a fare a conclusione della guerra antifascista, in condizioni molto più difficili? E cioè stare dentro il movimento di lotta, acquistarvi credibilità, dirigerlo con il suo consenso, non alla rapida «rivoluzione» ma a una tappa di avvicinamento, il cui lontano obiettivo oltre che dichiarato risultasse evidente? Prima di scartare questa possibilità, dato che la si può scartare
con seri argomenti, dobbiamo completare la ricognizione di quel lungo Sessantotto. 11.2 Studenti e dintorni Coprotagonista del Sessantotto italiano fu, ovviamente, il movimento degli studenti, che esplose, improvviso e impetuoso, con qualche ritardo rispetto a quello di altri paesi (Stati Uniti e Germania), coevo del maggio francese. Nel suo aspetto di rivolta generazionale, culturale e soprattutto morale e nella sua componente antimperialista, vi si riconoscevano e si riproducevano gli stessi orientamenti e caratteri, ma con una specificità nazionale che nel tempo si dimostrò rilevante. Anzitutto per la sua storia precedente, e soprattutto per la condizione materiale da cui muoveva. Già a partire dalla guerra di Liberazione, ma ancora per i quasi due decenni che la seguirono, un gran numero di giovani e di giovanissimi, insieme o avversi tra loro, era stato partecipe e protagonista di lotte politiche molto dure, con un alto tasso di convinzioni ideologiche, e su discriminanti di classe. Antifascisti contro fascisti prima, comunisti contro cattolici poi. Si erano così formate organizzazioni politiche giovanili di massa e fortemente militanti. I «baschi verdi» di Piazza San Pietro guidati dalla Giac geddiana e presenti in ogni parrocchia, mezzo milione di iscritti alla Fgci di Berlinguer fino a tutti gli anni cinquanta. Gli studenti e soprattutto gli universitari in quanto tali ne erano restati marginali: per il semplice fatto che fino a quell’epoca i figli degli operai e dei contadini dopo le elementari andavano a lavorare o lavoravano in famiglia, e all’università arrivavano solo i figli dei borghesi. Almeno dopo il 1948, i giovani universitari cattolici non sentivano più la necessità di impegnarsi nella lotta politica quotidiana, gli studenti comunisti erano pochi. Quando io andavo a scuola, le rare e sparute manifestazioni studentesche erano promosse da una minoranza parafascista su Trieste italiana. Nel 1960 però, come abbiamo visto, emerse una nuova leva giovanile partecipe in prima fila nella ripresa delle lotte operaie, animata dal nuovo antifascismo militante, e con precoci motivazioni antimperialiste (il Congo, la Palestina, Cuba, ancor prima del Vietnam). In piazza c’era anche una minoranza di studenti, ma non in quanto studenti. Il bilancio di questa storia è semplice: in Italia si stava formando una nuova generazione, fortemente politicizzata e orientata a sinistra. Anche una
parte della gioventù cattolica, dopo la rottura del suo gruppo dirigente con Gedda, cominciava a spostarsi verso il movimento operaio. Ma tutti chiedevano ai partiti di sinistra di rinnovarsi, infatti li sostenevano ma non si iscrivevano. Senza tale rinnovamento, una minoranza intellettualmente di qualità cercava nuovi maestri o formava conventicole dissidenti (operaisti, marxisti-leninisti, trockisti). I cosiddetti «gruppi» nel corso del Sessantotto avevano già qui, come in Francia, i loro futuri dirigenti. La Fgci, prima di venir «normalizzata» all’XI congresso, si sforzava di riconoscerli e di dialogare. Non meno specifica, ma ancor più importante, fu la condizione materiale della scuola e degli studenti che vi vivevano a muovere la contestazione. Questo, oltre a spiegare la forza e il carattere del movimento studentesco di allora, era e rimane ancora una questione nazionale mai seriamente risolta. In Italia la scuola di massa aveva gli stessi problemi che ovunque, anzi ancor più acuti e numerosi. Come la nuova industrializzazione, essa nacque in pochi anni, senza alcuna riforma né adeguati finanziamenti. Il libro di Rossana Rossanda, L’anno degli studenti, offre un quadro efficace della situazione. La scuola media unica e obbligatoria, esistente da tempo in quasi tutti i paesi avanzati, fu introdotta solo nel 1960 ma, per renderla accessibile ci si limitò ad abrogare il latino e ad assumere nuovi insegnanti formati come sempre. Il ceto medio, ormai un po’ più agiato, per antica ambizione e in previsione di un’incessante richiesta di impieghi più qualificati, fece ogni sforzo per mandare i propri figli fino all’università, i cui accessi erano progressivamente liberalizzati. Anche chi non poteva permetterselo, trovava qualche lavoretto per non essere tagliato fuori nella corsa per la futura carriera in mancanza di un titolo di studio, magari simbolico, ma richiesto (gli studenti lavoratori). Così, nel 1967, gli studenti universitari erano ormai mezzo milione. Tale ondata si riversava in ventitré città universitarie, più o meno equivalenti per numero a quelle d’inizio secolo. I professori ordinari, i «baroni», che nel 1923 erano 2mila per 43mila studenti, erano saliti a 3mila per 450mila studenti, ed erano tenuti a 50 ore di insegnamento effettive l’anno (esami compresi). Le aule erano insufficienti a contenere anche solo la minoranza degli studenti frequentanti. Laboratori e biblioteche erano difficilmente accessibili. Alla laurea arrivava così uno studente su quattro, gli altri tre avevano perso il proprio tempo o si parcheggiavano fuori corso, fino a rinunciare. In Parlamento la sinistra aveva chiesto ordinamenti e finanziamenti per sanare questo stato intollerabile di cose, ma era stata
subito bloccata, non solo dalla mancanza di soldi, ma dall’ottusa resistenza, contro il tempo pieno e contro il decentramento del potere, da quegli stessi baroni che spesso erano anche parlamentari del centrodestra e non volevano certo rinunciare al doppio incarico. Ma se anche non fossero state bloccate, quelle proposte modernizzatrici avrebbero aggravato un altro problema scottante: il mercato del lavoro non era in grado di assorbire un numero crescente di laureati, tanto più con capacità professionali limitate e comunque inadatte ai ruoli richiesti. Infine, meno avvertita ma ancor più scandalosa, la discriminazione sociale di fatto, su cento laureati, solo uno proveniva da una famiglia operaia o contadina: altro che scuola democratica, i lavoratori finanziavano gli studi per i figli dei borghesi, i quali, se riuscivano a farcela avrebbero preteso, proprio per quel titolo, spesso formale, uno stipendio molto più alto del loro. Quest’ultimo dato serviva a mettere in luce il ruolo sociale non solo dell’università ma di tutta la struttura scolastica. Chi arrivava all’università e perché una «mortalità» così elevata? Il disastro veniva anche dai livelli scolastici inferiori. La scuola media ha per sua natura un duplice compito: quello di formare una generale capacità intellettuale, una visione del mondo, e di fornire la base di conoscenze per una specializzazione professionale di alto livello e a sua volta creativa. La scuola tradizionale (quella gentiliana), con i propri contenuti, metodi, strutture (i licei), aveva assolto in passato seriamente il compito di formare un’élite, trasmettendo un sapere molto lentamente aggiornato. Ed era aiutata a farlo dalla famiglia agiata, che non solo forniva ai ragazzi un precoce allenamento alla fatica intellettuale, ma essa stessa, quasi sempre, era abituata a tener viva una propria cultura. La scuola di massa sovvertiva tutto questo. In primo luogo perché la trasformazione incessante sia della cultura e delle relazioni sociali, sia delle tecnologie produttive, rendeva ormai impossibile e inutile la trasmissione di un sapere antico, e fissato, di predeterminati profili professionali. Imponeva, al contrario, per l’uno e l’altro aspetto, l’acquisizione di una capacità critica capace di orientarsi di fronte a problemi morali o a tecnologie sempre in evoluzione. In secondo luogo perché il sapere della tradizione non poteva più essere trasmesso, e tanto meno poteva essere assimilato da chi non aveva il background della classe dirigente. In terzo luogo perché la sponda della famiglia, anche di quella agiata, era ormai crollata: se la vecchia generazione tentava di imporre il proprio modo di vedere, la cosa non era neppure ascoltata, fino a
rinunciarvi; ma ancor più essa aveva poco da dire, perché la specializzazione professionale, l’incalzare delle nuove culture, gradatamente allontanavano anche gli adulti dall’esercizio intellettuale. Come è stato dimostrato da precise statistiche, tutto ciò che si impara a scuola (salvo quanto rientra nella ristretta pratica quotidiana) in meno di dieci anni si dimentica. Il neoanalfabetismo degli anziani si somma con le carenze dell’insegnamento e, poi, con la ultraframmentazione del lavoro e della stessa ricerca. La scuola tradizionale, semplicemente stipata ma non cambiata, esclude di fatto le classi subalterne, per evitare stermini si adatta a essere «facile» per tutti, alla fine diventa un «gran casino» culturale e comportamentale, delega la formazione verso l’alto a sedi «di eccellenza», verso il basso ai mass media. Produce insomma un semilavorato informe, destinato a mansioni ripetitive, e un’eterna confusione. Così era, fin dall’inizio, la scuola di massa che arrivò in Italia, dove non esistevano alcuni correttivi, da tempo apprestati in altri paesi, per ridurre il danno almeno dal punto di vista del sistema (le costose università di avanguardia e l’importazione selezionata dei cervelli negli Stati Uniti, le Grandes Écoles e gli Institutes in Francia, le eccellenti scuole tecniche in Germania). Questa condizione materiale della scuola rende chiare sia le ragioni della radicale contestazione degli studenti, sia l’irresponsabile cecità del governo, e anche della sinistra, rispetto a un problema tanto fondamentale per il futuro del paese. Problema che andava affrontato proprio allora, quando c’era una rivolta sociale che lo permetteva, e quando si era alla ricerca di una nuova definizione degli stili di vita e alla vigilia di una nuova rivoluzione tecnologica (informatica, biogenetica). Torniamo ora al movimento degli studenti nel cui percorso, schematicamente, mi pare si possano distinguere tre diverse fasi, senza dimenticare che a volte una si sovrapponeva all’altra o ne conservava traccia evidente. La prima fase (1967-1969) fu anzitutto spontanea e di massa: in pochi mesi si allargò, con maggiore o minore dimensione e con diversi accenti, a tutto il paese, appunto come movimento specificatamente studentesco. Nelle idee era largamente debitore ai tedeschi, nella pratica agli americani, in entrambe le cose alla breve ma folgorante vicenda del maggio francese. L’elemento unificante era dunque l’antiautoritarismo, reso subito evidente dalla forma di lotta principale, l’occupazione il più permanente possibile dello spazio universitario. Qui il movimento teneva le sue frequenti assemblee autonome, qui interveniva anche nel corso delle lezioni, qui quasi viveva per discutere, per decidere, anche per conoscersi e
divertirsi; a volte veniva cacciato dalla polizia chiamata dai rettori, e presto tornava. Ma l’attenzione, più che in altri paesi, fu rivolta all’inizio a un oggetto preciso e a un avversario diretto: i metodi e i contenuti dell’insegnamento, la condizione materiale e morale dello studente. Anzi, nelle esperienze pilota (Trento, Venezia, la facoltà di architettura a Milano), il primo passo era legato alla realtà specifica di una disciplina o di una situazione (che cos’è la sociologia, a cosa deve indirizzarsi l’architettura, che tipo di sociologo o di architetto?). Non a caso il primo momento di provvisorio coordinamento nazionale fu offerto dall’occupazione di palazzo Campana a Torino, che elaborò il testo Contro l’università, Potere studentesco. Ciò nondimeno era da subito un movimento di contestazione, partiva cioè da una situazione concreta, era capace di individuare i punti specifici del disagio della massa studentesca, sapeva mobilitarla e sapeva produrre non solo una critica, ma una lotta vincente, anzitutto contro l’arroganza e la negligenza del corpo accademico e contro regolamenti e strutture organizzative soffocanti quanto putrescenti. Occupazioni, interventi critici o derisori nel corso delle lezioni, erano già in sé in grado di dimostrare che «il re è nudo»; ma il movimento era capace anche di cogliere, via via, la logica generale che stava alla base di tutta l’istituzione e, al di là di questa, il ruolo generale che essa svolgeva e avrebbe continuato ad assolvere, nel sistema sociale, anche se, e quando, fosse modernizzata. In questo si poteva cogliere un’analogia con il percorso delle lotte operaie: rivendicazioni immediate, insubordinazioni dal basso, richiesta di potere. Ma anche una diffidenza profonda per ogni tipo di organizzazione strutturata, per ogni tipo di delega, per il concetto stesso di «obiettivo intermedio», quindi la rimozione di ogni analisi del quadro complessivo che giustamente si voleva sovvertire, ma che non si poteva sovvertire d’un colpo solo. Questo rifiuto era connaturato a un movimento spontaneo, di studenti, in un certo senso fecondo, perché lo garantiva dal corporativismo di un ceto comunque privilegiato, ne faceva un soggetto politico. Fecondo particolarmente nella sua fase nascente. In fondo, anche nella guerra partigiana era stata presente, forse maggioritaria tra i giovani, l’idea di combattere per la libertà, ma anche l’idea che il rischio della loro vita, e le armi che impugnavano, avrebbero trascinato l’intero paese e avrebbero cambiato la società. Come allora, il Pci avrebbe potuto far tesoro di quelle aspirazioni e insieme orientarle entro i limiti di una precisa situazione storica, se ne fosse stato parte interna e riconosciuta. Del resto la rivolta
operaia ora insorgente avrebbe assunto quell’estensione e quei caratteri, prima delineati, senza un sindacato disposto a trasformarsi per poterla rappresentare e la forza per dirigerla? Pesante fu invece l’incapacità del Pci nel non riconoscere la portata del movimento degli studenti nella sua fase nascente. Lasciato a se stesso il movimento fece del suo meglio, ma il suo meglio non bastava, anzi era pieno di trabocchetti. La seconda fase (tra il 1969 e il 1971) comincia appunto con un grande rischio, sostanzialmente evitato, e prosegue con una grande occasione, purtroppo sprecata. Il rischio evitato fu consapevolmente prodotto dalle forze reazionarie e dagli apparati dello Stato. Parlo della strage di Milano alla Banca nazionale dell’agricoltura, un passaggio su cui è bene soffermarsi, perché attraversa l’intera storia italiana. La «strategia della tensione» corre e ricorre per anni. Bombe e attentati, spesso molto cruenti, precedettero e seguirono il 12 dicembre 1969 (da Peteano a Brescia, a Bologna). Sappiamo che in tutti era presente una provocazione fascista e una corresponsabilità di servizi deviati dello Stato. Anzi, anche quando mancava l’aspetto terroristico, la «strategia della tensione» aveva percorso l’intero decennio e oltre: dal Piano Solo al Sifar, da De Lorenzo, a Miceli, a Borghese, alla P2, la faccia oscura del potere interveniva nella politica italiana. Ma piazza Fontana ebbe un peso e un carattere particolare. Non tanto perché in questo caso i servizi partecipavano, non si sa ancora bene come, alla progettazione oltre che al depistaggio, ma soprattutto perché essa fu assunta e utilizzata dal vertice come occasione per rivolgere un attacco politico preciso, che credeva di essere risolutivo, contro il movimento di massa degli studenti e soprattutto degli operai (la coincidenza delle date è eloquente). Non mi interessa qui sapere se Pinelli fu spinto giù incidentalmente o con intenzione assassina, né ricostruire la scandalosa e maldestra incriminazione del «ballerino anarchico». Mi interessa che, a poche ore dall’attentato, lo stesso ministro dell’Interno fece trapelare che l’indagine aveva ragioni per orientarsi verso sinistra, e partì una forsennata campagna di stampa per accreditarlo, alimentata ogni giorno dalle «indagini». E mi interessa che l’intera campagna di controinformazione ricadde sulle spalle dell’estrema sinistra e di un piccolo settore di intelligencija democratica. Essa non ebbe successo perché l’operazione era grossolana e dilettantesca, ma il Pci a lungo si limitò a dire «si faccia luce» e, quando luce già c’era, non impugnò il complotto per attaccare a fondo e nel suo insieme il lato oscuro del regime. Con questo aprì un fossato incolmabile con il movimento studentesco; peggio, rinunciò a una delle sue armi classiche, quella della mobilitazione
democratica. Il movimento ne fu stimolato invece che screditato, ma vi rimasero più che mai impresse due convinzioni: che le istituzioni erano marce e pronte a tutto, e che il Pci, se non un nemico, era un avversario, o comunque un interlocutore malfidato. Una sua parte si convinse che alla violenza dello Stato occorreva contrapporre una violenza difensiva. L’idea della lotta armata era ancora lontana, o oggetto di pure chiacchiere, ma è vero che nel senso comune ormai ogni manifestazione che si concludesse senza un piccolo scontro con la polizia era una «passeggiata». A me sembrava una sciocchezza, ma quante corse ho fatto per tenermene fuori, vergognandomene un po’: era saggezza o inguaribile moderatismo? L’occasione mancata fu invece offerta dall’«autunno caldo» degli operai. L’evidenza dei fatti convinse la massa degli studenti, e non solo coloro che l’attendevano da tempo, che bisognava «andare agli operai» (come i narodniki andavano ai contadini) e insieme con loro costruire una nuova organizzazione politica, di cui gli uni e gli altri mancavano. Quella svolta esprimeva un’esigenza reale, non un’abusiva invenzione ideologica. Se era vero, come era vero o comunque ritenuto tale, che non si poteva veramente cambiare la scuola, tanto meno i suoi sbocchi, senza cambiare la società nel suo complesso, era naturale che gli studenti cercassero di saldarsi con gli operai, proprio in quel momento «magico» per entrambi. E se era vero che gli uni e gli altri portavano già in sé aspirazioni ed esperienze che le forze tradizionali non potevano o non volevano rappresentare, era naturale che si proponessero insieme di colmare tale vuoto. Non tutti, ovviamente, misero in pratica questa scelta, che era terribilmente dura, perché comportava non «gioia e rivoluzione» ma un sacrificio di lavoro quotidiano, continuo e disagiato, per superare un muro di diffidenza ostinata, trovare un linguaggio comune, saper dire qualcosa su problemi che non si conoscevano e in un ambiente sconosciuto. Ma l’esodo ci fu. Migliaia di giovani studenti passarono più di un anno ai cancelli delle fabbriche, nei bar frequentati dagli operai, a imitarli e facendoli sentire fieri di sé. Trasmisero qualcosa del proprio entusiasmo, del loro rifiuto ad accettare l’autorità costituita, riuscirono a reclutare in collettivi politici qualche migliaio di operai disorganizzati cui subito attribuivano un ruolo dirigente, e in qualche situazione aiutarono la formazione di organismi autonomi dal sindacato (alla Pirelli, a Mirafiori, a Porto Marghera, a Bologna) e dai partiti, anche se non in aperto conflitto con loro. Liquidare quell’esperienza come una velleità irrilevante, se non nociva, negarne soprattutto il valore etico e formativo è sciocco e ingeneroso, anche se
spesso vi contribuisce qualcuno che l’ha vissuto. Per quanto si voglia e si debba criticamente ripensarla e criticarla, almeno per quella fase, resta una medaglia, non una croce. Quando però si sposta l’attenzione sul modo concreto con cui quel tentativo fu messo in pratica, e sui risultati che ne sortirono, il giudizio deve essere più severo e, anche nel mio caso, per quel poco che vi contribuii, autocritico. Gli studenti andavano alle fabbriche proclamando sinceramente «la classe operaia deve dirigere tutto». Ma in realtà, senza volerlo, si presentavano per suggerire agli operai cosa dovevano fare. E quello che suggerivano era non poco sbagliato. Sbagliato, anzitutto perché negavano in radice l’utilità concreta di una lotta sindacale, che per sua natura, per quanto avanzata sia, deve concludersi con un risultato sancito da un accordo e dal quale, se è buono, successivamente ripartirà quando i rapporti di forza lo permetteranno, o deve essere difeso al meglio se viene cancellato. La «rivoluzione permanente» sempre aperta e sempre avanti è una sciocchezza che si può permettere solo chi può fare a meno del posto di lavoro e non ha figli da mantenere. Negare questo portava a uno scontro frontale con il sindacato, a negarne in sé la funzione, proprio in un momento in cui il sindacato si apriva allo stimolo di base e garantiva che le lotte più avanzate non restassero isolate nei punti più alti dell’apparato industriale. Sbagliato, inoltre, perché equiparavano tutte le organizzazioni politiche esistenti, tutta la loro storia passata, rendendo così totalmente astratta la possibilità di imporre una svolta politica in tempi non biblici e rinunciando a chiedersi come mai, malgrado tante contestazioni dal basso, il Pci mantenesse e anzi accrescesse la sua forza tra gli stessi ceti popolari. Continuare a dire che il Pci stava dall’altra parte, ormai da decenni, e poi constatare che manteneva un consenso tanto ampio tra i lavoratori, era come dire che gli operai erano tanto imbecilli da non capire l’evidenza. Comunque era un modo per ribadire che ogni obiettivo intermedio, ogni cambiamento parziale del potere e delle condizioni di vita, era velleitario. Nel segno di questa esperienza e di questa ormai diffusa convinzione nacquero e si insediarono, soprattutto nel movimento studentesco, gruppi politici organizzati, minoritari ma non esigui, sostenuti da una militanza generosa e assidua, e guidati spesso da dirigenti di valore. Che però, avendo assunto in se stessi, e confermato a livello del movimento, una visione tanto deformata delle cose, intravisto all’orizzonte una rottura rivoluzionaria che non era a portata di mano, furono incapaci di trarre dall’esperienza lo stimolo per analisi più complesse e strategie nuove.
Cosicché, paradossalmente, un movimento di massa, nato dalla modernità e dalle sue nuove contraddizioni, ansioso di proporre o anticipare una linea ancor più alternativa di quelle finora presentate e tentate, si dava una rappresentanza politica, ideologica, forme organizzative, ripescandole dall’antico armamentario dell’estrema sinistra: spontaneismo, operaismo, trockismo; o assumeva versioni mitiche di tentativi suggestivi ma appena sconfitti, come la teoria dei fuochi guerriglieri («uno, dieci, cento Vietnam»), la Rivoluzione culturale fuori dallo stesso contesto maoista e così via. Tutte ideologie che non stavano in piedi, e tanto più si dovevano reggere con il settarismo e quindi crescenti conflitti tra un gruppo e l’altro. Da una grande stagione di lotte sociali e di tumulto culturale, il movimento studentesco usciva così, anziché rafforzato, indebolito nella sua estensione e nella sua intensità. Il grande esodo in «terra santa» non era riuscito. Indebolito ma non ancora spento. Nelle università le occupazioni a volte, e non ovunque, riprendevano. Le manifestazioni antifasciste o per il Vietnam raccoglievano decine di migliaia di giovani. Anche le scuole medie si erano mosse. Iniziò allora una terza fase (1970-1972), anch’essa significativa perché, in ritardo e senza successo alcuno, tentò nuove esperienze dalle quali si può trarre qualche spunto di riflessione. Lascio da parte la vicenda di una stretta minoranza che cominciò ad attrezzarsi per scontri armati. Avremo occasione di parlarne più avanti, quando tale tendenza acquistò purtroppo un ruolo rilevante. Il grosso del movimento, compresi «i gruppi» che vi erano integrati, prese due direzioni. Una parte, soprattutto quella organizzata nei «gruppi» o da essi raccolta tra ceti popolari dispersi, cercò di rilanciare il conflitto sociale, questa volta fuori dalla fabbrica, sul tema dei bisogni collettivi, anzitutto la mancanza di case e gli affitti esosi. Lo stesso tentativo che fecero le confederazioni sindacali, con metodi del tutto diversi, ma risultati parimenti deludenti. La parola d’ordine era «prendiamoci la città», la pratica l’occupazione delle case vuote (a volte non ancora completamente costruite) e dello sciopero degli affitti. Vari stabili nelle grandi città (Milano, Roma, Torino) furono occupati e tenuti per un certo periodo malgrado tentativi duri di sgombero da parte della polizia e, in alcuni quartieri, un certo numero di inquilini smisero di pagare il fitto per la casa che già avevano. Il punto debole di entrambe le esperienze non fu solo che mancavano le forze per renderle un po’ più che esemplari, ma il fatto che si concentravano sulle case popolari, di proprietà comunale, dove si sperava che l’ente locale ratificasse l’occupazione e non
promuovesse sfratti. In questo modo però si sollevava la legittima protesta di altre famiglie, altrettanto disagiate, ma in lista di attesa per potervisi insediare; a volte accadeva che qualcuno commercializzasse l’occupazione abusiva, cosicché si creavano conflitti fra poveri e diatribe tra gli stessi occupanti. Alla fine la polizia arrivava a mettere ordine. All’opposto le vertenze aperte dai sindacati senza grandi mobilitazioni, con un governo sempre più conservatore, ottennero solo briciole, anzi una variazione della legge urbanistica che limitava la rigidità dei piani regolatori e rilanciava così la speculazione edilizia. Un’altra parte del movimento, soprattutto a Milano, era tornato all’università con il progetto di un «uso alternativo parziale dell’istituzione». Ripartire dall’università: non solo per occuparla e protestare, ma per organizzarvi seminari, anche corsi permanenti, legati alle differenti facoltà, per ridefinire i contenuti dell’insegnamento rivolgendoli all’analisi della società, alla critica dei ruoli e delle professioni intellettuali, per formare anche una cultura politica, tenere aperte le aule alla sera per gli studenti lavoratori. Il tentativo non decollò in modo soddisfacente e non fu di lunga durata, in molti casi si declassò a rivendicazioni molto più modeste e discutibili: l’esame collettivo, il voto assicurato. Probabilmente perché era in ritardo, e non corrispondeva ormai a una partecipazione adeguata, la logica del «gruppo politico» lo soverchiò. Vale la pena rifletterci, per constatare che esistevano alcune condizioni favorevoli perché, avviato prima, su scala più larga e maggiore convinzione potesse dare dei frutti; e soprattutto per non cancellare dalla memoria il valore in sé di quelle che ho appena definito «condizioni favorevoli». Mi riferisco al sommovimento che il Sessantotto aveva prodotto nel mondo intellettuale dentro e fuori dall’università. Lotte operaie, lotte studentesche, lotte democratiche e internazionaliste, avevano inciso negli strati intellettuali e nelle istituzioni nelle quali lavoravano e si organizzavano. In sostanza era in corso, non marginale, una riflessione critica individuale e collettiva sul ruolo che ciascuno era chiamato a svolgere e sulla cultura in base alla quale lo svolgeva. Elenco alcuni esempi di un fenomeno più vasto: Medicina democratica con alla testa Maccacaro, concentrata sulla salute in fabbrica e sulla priorità della prevenzione, ma che parlava del diritto alla salute in generale a migliaia di giovani medici, che non cercavano ancora una ricca nicchia in cliniche private; Psichiatria democratica, con alla testa Basaglia e il gruppo
triestino, che lottava contro l’istituzione manicomiale e in generale proponeva una riflessione sul rapporto tra malattia e salute in campo mentale; le iniziative «scandalose» dei giovani pretori del lavoro che poi avrebbero avuto seguito con Magistratura democratica, che contestavano la rigida gerarchia delle procure e i limiti opposti all’indipendenza del giudice; i comitati di redazione dei giornalisti che volevano maggiore libertà rispetto ai padroni della stampa (non tanto editori quanto gruppi industriali), o rispetto alla feudalità democristiana nel settore televisivo; la contestazione dei registi cinematografici sull’uso commerciale dei festival, o la discussione tra i migliori scienziati rispetto alla mistificata neutralità della scienza; perfino la pressione della polizia per la propria smilitarizzazione e la formazione di un proprio sindacato, o il «felpato» raggrupparsi di una sinistra nel corpo diplomatico. A tutto questo corrispondeva, nell’università, una novità, che all’inizio nel corpo accademico non c’era: non solo un atteggiamento più democratico dei docenti verso la contestazione studentesca, ma anche la disponibilità di molti a partecipare a un rinnovamento delle proprie discipline e del rapporto tra loro. Insomma c’erano risorse per dare all’università un nuovo committente per lo sviluppo del suo ruolo formativo e l’orientamento della ricerca, senza venir meno ai compiti riproduttivi delle competenze necessarie alla società e all’economia. C’era, e rimane, molto da discutere sull’assetto da dare alla scuola per assolvere questi nuovi compiti. Educazione permanente, rapporto scuolalavoro, formazione dei docenti, qualità e quantità di finanziamenti necessari. Del resto, sempre, una nuova scuola nasce non da una legge o da burocrazie, ma da un grande movimento culturale, e in rapporto a nuove egemonie presenti nella società. Oggi, dopo quasi quarant’anni, abbiamo finalmente la scuola disegnata dalla signora Moratti, un’importazione in ritardo dall’America, come quella degli hamburger ormai decaduti anche là. I riformisti nel nostro paese sono gente seria, concreta, che ha bisogno di tempo per pensare e ancora di più per agire. Si possono vedere dunque nel movimento studentesco, e in generale nel Sessantotto italiano, tutti i difetti che si vuole, come anch’io ho fatto; si può anche – e io mi guarderò bene dal farlo – scaricarne tutta la responsabilità e tutti gli errori sulle sue stesse spalle. Ma negare che abbia offerto risorse straordinarie, suggerimenti premonitori, a me pare colpevole e ottuso.
11.3 Il Concilio ecumenico Per completare il quadro del Sessantotto italiano occorre almeno accennare a un altro evento, il Concilio ecumenico vaticano II. Dico solo accennare, non perché ne sottovaluti l’importanza e la complessità, ma al contrario perché costituisce un passaggio fondamentale di una «storia parallela», quella della Chiesa, e della religione in generale, della sua evoluzione e poi della sua involuzione. Una questione che la politica e la cultura laica si erano illuse di poter considerare irrilevante, politicamente chiusa con la formula «libera Chiesa in libero Stato», culturalmente destinata alla marginalità dall’indiscutibile affermarsi della scienza e della tecnologia. E che, invece, ha continuato a interagire con la storia dell’Italia e del mondo, nel bene e nel male, fino agli attuali conflitti tra i vari fondamentalismi. Dal pontificato di Pio XII, a quello di Giovanni XXIII, a quello di Wojtyla, a quello di Ratzinger (per non parlare dell’islam, o della moltiplicazione di nuove sette o di nuove superstizioni) c’è tutta una specifica storia: chi, come me, non crede che tutte queste fasi siano state dettate dallo Spirito santo, o almeno che i suoi suggerimenti terrebbero conto della realtà in cui l’azione pastorale si trova a operare, non può evitare di indagare questo nesso. In particolare a proposito dell’Italia, dove la questione religiosa ha avuto, e mantenuto, un peso politico diretto attraverso un partito fondato sul principio dell’unità dei cattolici e attraverso una rete potente e vitale di tante organizzazioni di massa. E in particolare a proposito della religione cattolica, la quale, tra le altre, ha per sua natura sempre legato fede e opere, aspirato a dare alle «opere» come fondamento un «diritto naturale», cioè ad affermare una coerenza tra fede e ragione, entrambe con una propria storia. Per ora mi limito a concentrare l’attenzione su alcune tendenze che riguardano specificatamente gli anni sessanta e il sommovimento del Sessantotto. Furono infatti gli anni durante i quali una svolta profonda nell’orientamento, religioso e non solo politico, della Chiesa e una spinta altrettanto profonda verso la trasformazione della società favorivano il dialogo e persino alcune convergenze, ma si trovavano di fronte un ostacolo che non seppero superare, per limiti reciproci. Sul versante della Chiesa, un primo e parziale varco fu aperto da due encicliche di Giovanni XXIII (la Mater et Magistra e soprattutto la Pacem in Terris): l’affermazione della pace come valore prioritario, e la distinzione tra errore ed errante. Sul versante comunista vi corrispose Togliatti, con la
ridefinizione della questione cattolica. Già questo primo varco permise e stimolò uno spostamento nei comportamenti, se non ancora nella cultura, di ampi settori di due grandi organizzazioni sociali, la Cisl e le Acli, che parteciparono, non senza incertezze, alla ripresa operaia del 1960. Questo non impedì alla Democrazia cristiana, non per ragioni confessionali ma di convenienza politica, di usare l’apertura verso i socialisti per un ancor più esplicito sbarramento anticomunista, né di ridurre i propositi riformistici tanto da far fallire l’intera operazione. La vera svolta avvenne con la convocazione del Concilio, deciso e impostato dallo stesso papa Roncalli e, con maggior prudenza, proseguito da papa Paolo VI. Fu una svolta radicale sul piano religioso ancor più che politico, ma anche qui non occorre scomodare lo Spirito santo, la si può leggere anche con strumenti profani. Il Concilio fu ispirato e guidato dall’acquisizione di due novità storiche che imponevano e permettevano alla Chiesa una coraggiosa riforma. La prima novità, la più evidente e ineludibile, era la seguente. La Chiesa cattolica si era considerata sempre una «Chiesa universale» e a lungo lo era stata, attraverso la mediazione, spesso atroce, del ruolo imperiale che l’Europa occidentale esercitava nel mondo, in quanto portatrice della civiltà. Questa pretesa di universalità, evidente nel Medioevo, era stata profondamente incrinata da eresie e scismi, ma tutti tra cristiani, fratelli separati da Roma e tra loro; ed era contraddetta dal fatto che la Chiesa era presente in continenti ancora dominati da religioni diverse, ma che essa doveva e poteva considerare «terra di missione». Ma l’universalità, da tempo più apparente che reale, era ormai crollata anche nella sua apparenza, nel momento in cui i popoli coloniali si erano liberati, o stavano liberandosi dal dominio coloniale e rivendicavano una propria autonomia storica e culturale. Se la Chiesa romana continuava a presentarsi a quei popoli, identificandosi come proiezione religiosa della civiltà che li aveva dominati, era destinata non a convertirli ma a perderli. Anche là dove aveva messo diffuse radici, poteva conservarle solo riconoscendo l’autonomia e l’identità delle chiese nazionali. Riconoscendole, non solo era costretta a moderare il carattere sempre più accentratore del primato papale, ma anche a misurarsi con la realtà in cui esse agivano, dominata innanzitutto dal problema dell’assoluta povertà e da quello delle guerre locali. La seconda novità storica, ancora solo in parte riconosciuta, era la seguente. Anche nei paesi «cristiani», anzi anche in quelli nei quali aveva sempre mantenuto un’indiscussa egemonia di massa, o addirittura
controllava il governo, era ormai evidente alla Chiesa una propria crescente difficoltà: diminuivano le vocazioni, la partecipazione assidua alle pratiche religiose, cresceva la separazione tra fede dichiarata e stili di vita. Tutti fenomeni legati alla trasformazione sociale (il crollo del mondo contadino, l’influsso dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, le migrazioni, il declino della famiglia e della sua capacità formativa e via dicendo). Lo stesso potere dominante, anche quando e dove continuava a presentarsi come partito cattolico, lo era più per convenienza che per convinzione profonda, era cattolico perché conservatore, non conservatore perché cattolico. L’americanismo non era più il discutibile garante della religione osservante, ma il veicolo della «secolarizzazione» di fatto. Per resistere a questo declino non bastava più, quindi, il richiamo a un’ortodossia obsoleta: anche coloro, i più, che non sapevano, o non volevano, prendere atto che ormai bisognava fare i conti non solo con i comportamenti «devianti» ma con i processi oggettivi da cui originavano, e ripensare i valori da proporre per distinguere il bene dal male, non potevano non convenire che occorreva rimettere al primo posto il lavoro pastorale e mobilitare un gran numero di laici, in un nuovo sforzo di evangelizzazione. Queste erano le basi e le finalità del Concilio, ciò da cui nacque un serio tentativo di riforma: riforma della liturgia e della sua lingua, autonomia delle comunità di base, nuovo rapporto tra laici e gerarchia, priorità di temi come l’eguaglianza, la solidarietà, la non violenza, il «popolo di Dio», la critica al consumismo e all’edonismo, all’ateismo, non tanto come dottrina ma come pratica. Non a caso tanta parte del Concilio fu stimolata, in punta di dottrina, dal cardinal Lercaro e, attraverso di lui, da Giuseppe Dossetti. Questo spiega come mai, per alcuni anni almeno, certi sindacalisti cattolici furono i più radicali nelle nuove lotte operaie, tanti cattolici furono dirigenti spesso estremi del movimento studentesco, molte chiese locali divennero anima del dissenso, la Lettera a una professoressa di don Milani fece più effetto degli scritti di Marcuse. Ma in questa grande e sottovalutata riforma si annidava anche una contraddizione non risolta e che poi pesò. Anzi una duplice contraddizione: una tra l’estremismo del Sessantotto e l’ineliminabile tendenza di ogni cattolico alla moderazione quando l’estremismo assumeva caratteri violenti e quando pretendeva di sovvertire il mondo senza sapere che cosa farne, di cambiare il mondo prima di cambiare le coscienze; l’altra quando il cambiamento del mondo investiva, come stava
appunto investendo ora, direttamente e radicalmente capisaldi su cui una cultura cattolica era vissuta per secoli e secoli: il valore permanente della famiglia sia pure riformata e ridefinita, oppure il rifiuto del libertinismo e del permissivismo come connotati della libertà. Contraddizioni destinate a esplodere, anzi a favorire un neointegralismo, in assenza di una cultura e di una politica capace di superarle in avanti. Ma di tutto ciò cultura e politica della sinistra non solo non furono capaci, ma non si resero conto. Il valore e i limiti del Concilio vaticano II quasi non furono discussi. Su tutti i fronti: paradossalmente scivolarono come acqua sul vetro proprio in quel partito che in nome dei cattolici governava. Dossetti se ne era andato, dicendo che per cambiare la politica occorreva prima cambiare un po’ la Chiesa. Quando c’era provvisoriamente riuscito non trovò nessuno all’appuntamento.
Proprio l’ampiezza e la radicalità di questo quadro ponevano un problema estremamente arduo e incalzante. Mi spiego. Il movimento di contestazione era cresciuto sull’onda di una rapida e distorta fase di sviluppo economico e di trasformazioni sociali, denunciandone sia le vecchie ingiustizie, sia le nuove contraddizioni, alienazioni e sudditanze che produceva o annunciava. Tale contestazione metteva in crisi lo sviluppo su cui era nata: creava disordine e incertezza in punti vitali dell’apparato produttivo, paralizzava le università che dovevano creare nuovi quadri e assicurarne il consenso, incrinava o rendeva incerti il funzionamento delle pubbliche istituzioni. Metteva così in crisi lo sviluppo di cui aveva ancora bisogno: per strappare nuove conquiste materiali, per rendere stabile ciò che aveva ottenuto, tanto più per estenderlo al gran numero di coloro che avevano il diritto di rivendicarlo, infine e soprattutto per raggiungere almeno qualcuno degli obiettivi più ambiziosi che l'animavano. Nella sua fase spontanea e ascendente il movimento aveva rimosso o rifiutato questo tipo di problemi perché li considerava un freno, un varco aperto al parlamentarismo, alla delega; e aveva nutrito la speranza che la contestazione si sarebbe estesa per contagio, fino a scardinare il sistema e creare un nuovo potere. Ma già nel 1970, questa speranza era logorata e non a caso vari gruppi si erano organizzati al suo interno, in concorrenza tra loro, ma tutti con l’ambizione di formare un partito e con la convinzione che una rottura rivoluzionaria era all’ordine del giorno. Quella convinzione era senza fondamento; ma il problema di una svolta politica
forte, con programmi avanzati, era reale, ineludibile. A tenere aperto per anni questo problema, rendendolo più difficile da risolvere, c’era poi un altro fattore, ben più generale, che molti hanno tardato a riconoscere e valutare. Proprio all’inizio degli anni settanta, infatti, cominciava ad affiorare una crisi profonda e strutturale dell’intero assetto capitalistico (cui il movimento contribuiva in minima parte). La fase dell’espansione economica rapida e costante si stava esaurendo. Come tutte le crisi della storia capitalistica, anche questa, più graduale e meno vistosa, ma non meno importante di altre, aveva due facce, e due tempi. Da un lato esponeva il sistema a un rischio e a dei conflitti, ma dall’altro lo costringeva a ristrutturarsi nelle tecnologie, nella composizione di classe, nella gerarchia dei poteri. E poteva avere due esiti: un compromesso più avanzato o una più dura restaurazione dell’originaria matrice. Dare un reale sbocco politico al movimento del Sessantotto voleva dunque dire cambiar rotta in un mare agitato e pericoloso, non cambiarla voleva dire essere trascinati dal nuovo vento che cominciava a soffiare. A questo punto mi pare di aver gli elementi per tornare al centro della mia riflessione: il Partito comunista.
12. Il Pci di fronte al Sessantotto
La particolarità del lungo Sessantotto italiano stava anche nel fatto che dentro e di fronte a sé trovava come stimolo, sostegno o condizionamento una grande organizzazione politica, influente nelle istituzioni ma ancor più nella società, non in declino ma ancora in ascesa, con oltre un milione e mezzo di iscritti, in maggioranza operai, costruita attraverso decenni, attraverso grandi lotte vittoriose, persecuzioni, ammaestranti sconfitte, inchiodata all’opposizione perché comunista e decisa a restarlo. Era facile ignorarlo nell’immaginario, meno facile toglierlo di scena. Ancor più importante era il fatto che tale forza aveva assunto, difeso, via via sviluppato una particolare identità che la distingueva anche all’interno di quel movimento mondiale in cui era nata e del quale era tuttora partecipe. Di tale identità ho ripetutamente parlato in relazione a molteplici e travagliate situazioni. Ma è utile per l’ultima volta riassumerne in modo schematico e con un linguaggio elementare, come si poteva fare in una qualsiasi sezione, i princìpi costitutivi. Eccone l’elenco. L’obiettivo che ci proponiamo e riteniamo raggiungibile è quello di una grande svolta nella storia umana. Cioè il superamento della società capitalistica non solo per ridistribuire il reddito più equamente e migliorare le condizioni di vita delle masse povere, ma per socializzare la proprietà privata dei grandi mezzi di produzione, e orientarli verso obiettivi comuni; e attraverso ciò superare gradualmente il lavoro salariato, la divisione della società in classi, la contrapposizione permanente tra lavoro manuale, comunque puramente esecutivo, e lavoro intellettuale e creativo, la divisione tra governanti e governati. Creare così una comunità di individui liberi ed eguali, ma in solidarietà tra loro: un nuovo tipo umano. Perciò siamo un partito di classe, ma di una classe che vuole e può abolire le classi, anche se stessa. Perciò il nostro traguardo è il socialismo, ma come fase di transizione verso una società ancora superiore. In questo senso siamo un partito rivoluzionario. In paesi nei quali una dominazione aveva bloccato lo sviluppo, la rivoluzione ha dovuto assumere forme violente e avvalersi di istituzioni politiche autoritarie. È però riuscita a realizzare avanzamenti economici, maggiore eguaglianza e maggiore cultura, e anche ad aiutarci a battere la
barbarie fascista; noi abbiamo fiducia che questo permetta loro di sviluppare una democrazia più ampia, di combattere forme burocratiche, e in questo ciò che avviene nelle regioni più avanzate come la nostra può offrire a sua volta un sostegno e uno stimolo. La condizione di tutto è la pace e l’indipendenza di tutti i popoli. Non ci sono modelli da imitare, ciò che occorre è una solidarietà antimperialista e un confronto reciproco tra esperienze diverse e sempre più avanzate verso il socialismo. In Occidente, dove la società è molto complessa, e lo sviluppo economico più elevato, sarà più facile dare fin dall’inizio al socialismo istituzioni pluralistiche e libertà senza limitazioni, ma la conquista del potere statale non può e non deve avere il carattere di una rottura improvvisa e violenta, sarà il punto di arrivo di un lungo processo di lotta politica e sociale, attraverso il quale la classe operaia acquista progressivamente una capacità dirigente, sottrae al potere casematte, realizza alleanze, conquista perciò un duraturo consenso nella maggioranza del popolo. Perciò occorrono tappe successive e obiettivi intermedi. Le riforme non equivalgono a riformismo, se è chiaro un disegno che evidenzia una prospettiva; se la democrazia non si identifica con il parlamentarismo, se la conquista di voti si intreccia con le lotte di massa e attraverso queste si assicurano a tutti le condizioni materiali per potersi esprimere liberamente e consapevolmente e, infine, se a tutto questo processo si affianca la costruzione di una forza politica organizzata e stabile. Questo insieme di convinzioni, unite da un nesso logico, cresciute su esperienze reali, penetrate come chiodi nella testa di milioni di uomini, era qualcosa di più di una affermazione di valori proclamati guardando la luna. Era lo scheletro di una strategia, di un pensiero collettivo che cementava l’unità e suscitava solidali speranze. Conteneva molte lacune, problemi irrisolti, più volte era stato contraddetto da scelte non sempre giustificabili, da avvenimenti che incrinavano quella fiducia, da autocritiche tardive e parziali. Ma negli anni sessanta era ciò che di più plausibile era in circolazione, trovava punti di appoggio nella realtà. Il lungo Sessantotto, insieme lo negava e lo confermava. La difficoltà era di tradurre princìpi generali in una politica effettiva. Di inserirli cioè in una situazione storicamente determinata, evitare avventure, ma avere il coraggio di qualche rischio, e la pazienza di non rincorrere compromessi prematuri né contrarre alleanze insicure. E, in quella
situazione che ho descritto, la possibilità di errori era infatti grande ancor più delle opportunità. Era per il Pci un problema di contenuti, di organizzazione e di tempi ben scelti. 12.1 Il prologo Occorre fare qualche passo indietro, riconsiderare ora alla luce del Sessantotto quanto era accaduto nel Pci negli anni immediatamente precedenti. Anzitutto non è vero che il Pci sia stato estraneo al movimento, impreparato alle sue tematiche, e per questo privo di autorità per influirvi o della capacità di imparare quanto di nuovo elaborava come idee e come esperienze. Non ci sarebbe stato certo l’autunno caldo, con quei suoi caratteri avanzati, senza la ripresa operaia dei primi anni sessanta, basta un raffronto con la grande occupazione delle fabbriche nel maggio francese, e il modo in cui si era conclusa, per rendersene conto. Forse neppure la contestazione studentesca avrebbe avuto una politicizzazione così rapida e di sinistra, né un così accentuato interesse per il marxismo senza la mobilitazione antifascista e le incessanti lotte anticolonialiste di quegli stessi anni, e senza la graduale ripresa di un marxismo spesso eterodosso, comunque non dogmatico, in parte importato dall’estero, ma che nel Pci aveva ormai trovato larga accoglienza. Tuttavia non si può misconoscere che quella lunga seminagione, e l’influenza che poteva derivarne nel e sul movimento, andò in parte dispersa, in parte sradicata, per scelta volontaria, o per semplice incapacità, e anche per sfortuna. Quando dico scelta volontaria mi riferisco alla conclusione dell’XI congresso, inutilmente repressiva del dissenso. Confesso che, quando ero ancora nel Pci, non troppo disciplinato ma inoffensivo, e tanto più dopo esserne stato radiato, ho ripetutamente avuto la tentazione della recriminazione, che forse mi ha portato a giudizi troppo trancianti, cioè a non vedere anche le ragioni di ciò che mi sembrava, ed effettivamente era, sbagliato. E quando ai grandi trionfi subentrava un lento declino mi veniva di pensare: «Vous l’avez bien voulu, vous l’avez voulu, George Dandin...». Oggi non è più tempo di recriminazioni e mi viene il sospetto che ciò su cui recriminavo non fosse tanto importante come credevo. Ma il fatto resta, e va ricordato per capire come andarono le cose. I cosiddetti ingraiani erano stati a lungo accusati di sopravvalutare il valore politico e
sindacale delle nuove lotte operaie, oscurando così la questione delle alleanze e i problemi di altri settori sociali. Tre anni dopo, nel 1969, una tale critica sarebbe apparsa assurda; semmai il partito aveva sbagliato a non dire la sua e a non costruire una presenza diretta in fabbrica nel rispetto dell’autonomia sindacale. A lungo essi furono anche accusati di astrattezza e di presbiopia, di andare a caccia di contraddizioni nuove del neocapitalismo, di cercare un modello diverso di sviluppo, mentre nel nostro paese restavano ben più gravi arretratezze da combattere, più tradizionali forze da mobilitare, più tradizionali ceti medi di cui temere la defezione. Anche queste accuse tre anni dopo si dimostravano smentite dai fatti. Il tema della riforma del partito era stato il più grande casus belli: si poteva ancora pensare, in pieno Sessantotto, che la forma partito potesse ritrovare credito nella nuova generazione presentandola immutata? Non mi importa stabilire melanconicamente chi aveva ragione: forse, in modo pieno, nessuno. Ciò che conta è il fatto che il partito si era amputato di idee, spunti, energie che potevano aiutarlo a stabilire un dialogo con il nuovo movimento e ad avere anche argomenti più persuasivi per criticarlo quando era il caso. L’esempio forse più chiaro è quello della Federazione giovanile, che aveva tentato, magari con errori, di spingersi avanti, ed era stata normalizzata e intimidita, proprio poco prima di quando nelle assemblee studentesche, per intervenire senza sembrare estranei, bisognava essere giovani. Ciò che mi colpì allora, come misura più che di ostilità, di indifferenza, fu un piccolo episodio. Quando eravamo ancora in un angolo senza protestare né tramare, Rossana e io (ma lei era ancora parlamentare e si era occupata della scuola), di fronte al maggio francese o all’occupazione delle università italiane corremmo sul posto, per seguire i fatti, interpretarli. Ci lavorammo mesi e pubblicammo ciascuno un piccolo libro: lei L’anno degli studenti, io Considerazioni sui fatti di maggio. I due libri furono subito pubblicati e vendettero entrambi più di 20mila copie, molte città ci invitarono a discuterli. Ebbene non un solo dirigente del partito ci chiamò per sapere qualcosa di più o per discuterne un po’. Non meno, anzi più importante tra le risorse con cui arrivare al Sessantotto, e invece rimasta largamente inutilizzata, fu quella che offriva Togliatti. La sorte ha voluto che proprio in un momento cruciale, in cui si trattava di verificare la rotta, egli sia morto. Si è tante volte discusso del ruolo della personalità nella storia, spesso esagerandolo, spesso cancellandolo, senza mai arrivare a una conclusione, perché ovviamente
quel ruolo muta a seconda del momento e a seconda della personalità. Nel caso di cui stiamo parlando, credo fosse rilevante: per la coincidenza in Togliatti del grande intellettuale e del grande politico (coincidenza di cui ormai si è perduta traccia); per le esperienze straordinarie e mutevoli su cui si era formato e che poi aveva vissuto (con Gramsci, l’Ordine Nuovo e la suggestione della Rivoluzione russa e del leninismo ancora vivente; la nascita del regime fascista, il VII congresso e la Direzione del Comintern, la guerra civile spagnola, l’epoca del terrore, la grande vittoria dell’antifascismo e la costruzione del partito nuovo; la stretta del Cominform, la destalinizzazione e la faticosa conquista di un’autonomia per affermare una «via italiana al socialismo»). Per tutto questo aveva un’autorità che gli permetteva di tenere unito il partito, mediando senza sopprimere le molte tensioni che vi si producevano. Già questo sarebbe bastato a dare all’XI congresso un segno diverso. Ma c’era di più. Prima della morte non a caso Togliatti aveva chiesto di liberarsi dalle funzioni operative come segretario di partito, non per stanchezza, credo, ma per l’esigenza di pensare più liberamente e più «in grande». E aveva cominciato a farlo. In poco più di un anno aveva individuato un’agenda di problemi, e propose alcuni spunti su cui indirizzare il partito. E, prima di morire, aveva, per così dire, lasciato in una bottiglia consegnata al mare alcuni messaggi che sperava arrivassero e fossero raccolti dai suoi successori. A due di questi messaggi ho già accennato, la necessità di ricomporre una qualche intesa tra Unione Sovietica e Cina, e la necessità di recuperare il pensiero di Gramsci in ciò che «andava molto oltre». C’era però, in quell’immaginaria bottiglia anche altro. In primo luogo una rilettura della questione cattolica che era al tempo stesso una ridefinizione della questione comunista. Tale ridefinizione aveva avuto una maturazione un po’ più lenta ed era emersa in un modo un po’ curioso, apparentemente casuale, che forse nessuno conosce. Il tema era stato continuamente presente nell’elaborazione della strategia comunista, in momenti diversi e con diverse versioni. La questione cattolica come questione contadina, al tempo del congresso di Lione; l’intesa con la Democrazia cristiana, pagando il prezzo del voto sull’articolo 7, per ottenere da questa l’approvazione di una Costituzione molto avanzata, e proteggere il suo carattere antifascista dal violento anticomunismo vaticano che la insidiava; la lotta contro il clericalismo nel momento più aspro della guerra fredda; il riconoscimento statutario del diritto di militare nel partito anche a chi non era marxista e ateo, ma accettava il suo programma politico; l’incalzante tentativo di stabilire una collaborazione sulla questione della pace nel
momento in cui la guerra poteva distruggere l’intera specie umana. Dopo l’elezione a papa di Roncalli, dopo le sue encicliche e l’avvio del Concilio ecumenico, si poteva andare più avanti. E Togliatti scelse di andare molto più avanti e di alzare il livello del discorso. L’occasione gli fu offerta da una proposta di emendamento, frutto di un innocente complotto, di cui fui il promotore. Al X congresso fu affidato a Romano Ledda e a me un lavoro certosino: quello consueto di selezionare tra le centinaia di piccoli emendamenti alle tesi, che arrivavano dalle sezioni o da singoli compagni, quelli che avevano il minimo interesse per farli arrivare fino all’assemblea. Era quasi scontato che quel lavoro era inutile, perché non c’era poi tempo di discutere gli emendamenti, e niente di importante passava. Un po’ credendoci, un po’ per interrompere la noia di quell’inutile lavoro, infilai tra gli altri un emendamento di mano mia, e con una firma qualsiasi, che diceva: «Una coscienza religiosa sofferta può portare un contributo alla rivoluzione socialista». Rendendoci però conto che non era acqua fresca, andammo da Togliatti per chiedergli se era opportuno metterlo tra quelli da mandare avanti. Egli ci pensò un poco e poi disse: senza tanto discuterne, infilatelo direttamente nelle tesi che saranno approvate. Poteva essere un modo per farlo passare come irrilevante, e infatti non attirò alcuna attenzione. Ma la sua intenzione non era questa. Pochi mesi dopo infatti, quando Eliseo Milani e io gli chiedemmo di venire a Bergamo, come tante volte aveva promesso e non mantenuto, accettò e stabilì lui stesso il tema: «La nuova questione cattolica». E pronunciò in un teatro straripante un discorso che rimase famoso ma solo come una semplice apertura al dialogo, mentre scarsa fu la coscienza della sua portata. Partendo dalle poche parole inserite nelle tesi, diede loro un significato ben maggiore, collegato a un’analisi del tutto nuova. Riproduco letteralmente un ampio passo del testo, perché ne vale la pena: Il destino dell’uomo in una società capitalistica sviluppata, in cui la uniformità delle tecniche crea una superficiale uniformità della vita degli uomini, li avvilisce, li rende estranei a se stessi, limita e sopprime la loro iniziativa, la loro effettiva possibilità di scelta e di sviluppo. Porta la solitudine dell’uomo moderno, che anche quando può disporre di tutti i beni della terra pur non riesce più a comunicare con gli altri uomini, si sente chiuso in un carcere dal quale non può uscire.
A questo egli legava la necessità di una società socialista che per la prima volta assume un volto nuovo più ricco. L’uomo non è più solo e l’umanità diventa davvero una vivente comunità, solo attraverso il molteplice sviluppo della persona, di tutti gli uomini e la loro organica partecipazione a un’opera comune [...]. Perciò il mondo cattolico non può essere insensibile a questa nuova dimensione dei problemi del mondo; e la aspirazione a una società socialista non solo può farsi strada in uomini che abbiano un’autentica fede religiosa, ma trovare in loro uno stimolo, posti di fronte ai drammatici problemi del mondo contemporaneo. Il che si riflette nella concezione del socialismo stesso, come società che chiama tutti gli uomini a lavorare assieme e li chiama tutti a contribuire parimenti con l’opera loro per decidere insieme il destino di tutta l’umanità. Ci troviamo qui di fronte sia a una critica della modernità capitalistica (non al suo inseguimento), a una contraddizione tra una chiesa non clericale e l’Occidente capitalistico, che sarebbe emersa nel Concilio vaticano, sia ai temi più radicali che sarebbero emersi nella contestazione del Sessantotto (ma con il risoluto rifiuto di quella risposta anarchica e individualista che conteneva in sé). Un ultimo messaggio di Togliatti pregnante e premonitore riguardava appunto la questione giovanile. Sintetico ma sorprendente. Nel 1964, ancor prima che la contestazione esplodesse nel mondo, in un messaggio scritto e inviato alla Fgci, Togliatti scriveva senza esitazione: Oggi le nuove generazioni devono da noi venir considerate in tutto il mondo come una forza rivoluzionaria. Si può infatti parlare di generazione nuova quando si manifestano nell’orientamento ideale e pratico degli uomini e delle donne che si affacciano alla vita elementi omogenei accumulatisi, e in essi maturano nuovi problemi e nuove esperienze riguardo alla loro vita di oggi e di domani, e risposte nuove cominciano a venir date, e si avvia in loro un processo di sviluppo che parte da determinate posizioni fondamentali, su queste si deve lavorare per giungere a lotte di carattere fondamentale. È un linguaggio analogo a quello usato di fronte all’avvio spontaneo della lotta partigiana, con la stessa volontà di parteciparvi, e la stessa fiducia di poterla guidare, conoscendone limiti e rischi, ma sapendo quanto essa fosse il pilastro necessario di una più complessa e meno esaltante operazione politica nell’immediato. Anziché ribadire un canone ormai consolidato, ciascuno di questi
messaggi, e il loro insieme, scrutavano il futuro, e suggerivano stimoli per affrontarlo. Ma poco ne arrivò, ancor meno se ne capì il valore e ancor meno furono approfonditi. Da parte di tutti. Così il Pci arrivò al Sessantotto meno attrezzato di quanto poteva essere. 12.2 Praga resta sola La prima, e la più spinosa questione che si pose al Pci proprio nel 1968 fu quella della primavera di Praga e dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia. Praga non era Budapest, Dubcek non era né Gerő né Nagy. Il tentativo di riforma era stato deciso dalla maggioranza del Partito comunista e sostenuto dalla maggioranza sia dei militanti sia del popolo. Il suo obiettivo dichiarato non era quello di sovvertire il sistema socialista, tanto meno di rompere le alleanze internazionali e i legami con l’Unione Sovietica. Era quello di dare al socialismo un assetto politicamente meno intollerante verso ogni dissenso e meno centralistico nella gestione dell’economia (nelle versioni più estreme ma minoritarie vi era anche l’idea di lasciare qualche spazio al mercato, senza rinunciare alla pianificazione, e di attivare gli scambi con l’estero, per quanto fosse possibile, senza esserne subalterni). Era un rilancio della rivoluzione? Certamente no. Solo una correzione della versione imposta dal Cominform nel 1947, una ripartenza di quella «democrazia popolare» concepita da Dimitrov, con la tolleranza dello stesso Stalin, che aveva avuto buoni risultati. La Cecoslovacchia aveva capacità economica e una base di consenso politico sufficiente per tentarlo ed evitare di essere sospinta oltre i limiti delle intenzioni espresse. Dubček aveva buoni argomenti per affermare che si muoveva proprio nella direzione indicata dal XX congresso. E infatti nell’incontro con Brežnev tutto sembrava avviato a un’intesa. C’erano dei rischi? Certamente, soprattutto se quel tentativo fosse rimasto isolato e anzi osteggiato dai suoi alleati. Ma proprio questo spingeva l’Unione Sovietica di Brežnev e di Suslov all’improvviso intervento militare; non il timore che fallisse, ma il timore che avesse successo, e con ciò stimolasse altri paesi, e la stessa Unione Sovietica, a procedere, nel modo e con il ritmo adeguato a ciascuno, a quelle riforme promesse e necessarie che si erano arenate. L’invasione non era quindi un «errore», né solo un limite opposto all’indipendenza nazionale; era la clamorosa
negazione dell’«unità nella diversità», della possibilità di «diverse vie al socialismo» in dialogo tra loro e schierate insieme contro l’imperialismo. Una cruenta riaffermazione del partito guida, e della «sovranità limitata». Proprio per questo essa provocò, nei partiti comunisti del mondo, reazioni del tutto diverse da quelle provocate dalla crisi ungherese. Approvarono l’intervento, oltre a coloro che vi avevano partecipato, i partiti comunisti di Siria, Cile e, con qualche esitazione, Cuba e Vietnam che dell’aiuto sovietico non potevano fare a meno. Espressero invece un dissenso esplicito, solo più tardi attenuato, i partiti comunisti di Francia, Svezia, Norvegia, Finlandia, Spagna, Austria, Belgio, Romania, India, Belgio, Marocco, Australia e, soprattutto, Jugoslavia e Cina. Il Pci di Longo fu il più netto nella condanna, quello che più la accompagnò apertamente con un apprezzamento del tentativo di Dubcek, e la ribadì alla Conferenza di Mosca del 1969, astenendosi dal voto su una parte della mozione finale. Fin dall’inizio però diversi dei suoi più autorevoli dirigenti (Amendola, Pajetta) non erano convinti di quel voto, per limitarne il valore si introdusse quindi, gradualmente, la «teoria» dell’errore correggibile e, soprattutto, venne ribadito che quell’«errore» non doveva incrinare la solidarietà con l’Unione Sovietica e la fiducia sul suo futuro. Ci si illuse a lungo che presto la frattura tra dissidenti cecoslovacchi e Mosca si sarebbe sanata, che Dubcek non sarebbe stato epurato e si diede molto credito, nel 1969, alle concilianti posizioni assunte da Husák in quel senso. Le cose presero tutt’altra direzione: quella della totale restaurazione. E non se ne fece gran caso. Ciò doveva avere conseguenze molto rilevanti. Anzitutto sul piano internazionale. Quella era infatti l’ultima occasione per intervenire come forza attiva nel movimento comunista internazionale, per non rassegnarsi a tenersene a distanza, anziché intervenire sulla sua crisi avviando un dibattito aperto, continuo, incalzante, sui punti reali di dissenso, per ricostruire l’«unità nella diversità» non solo fondata su un comune nemico. Gli americani erano nel pantano di una guerra che si avviavano a perdere e già si attrezzavano per riassorbirne gli effetti. I cinesi avevano posto un freno agli estremismi della Rivoluzione culturale ma senza rinnegarne il valore, erano nel pieno di una discussione sulla strada da prendere, lo sarebbero restati per anni: la liquidazione di Lin Biao, la coabitazione conflittuale tra la Banda dei quattro e Zhou Enlai, poi la liquidazione dei primi e la coabitazione convergente tra Zhou Enlai e Hua Guofeng. E poi il graduale recupero di Deng.
L’illusione dei «fuochi guerriglieri», dopo la morte del Che, stava svanendo in America Latina, ma senza niente su cui puntare mentre partivano i golpe militari preparati e sorretti dagli Usa. A Cuba l’aiuto sovietico era indispensabile, ma il tipo di sviluppo economico e di forme politiche sul quale puntare era in discussione. Nasser non era ancora morto (avvelenato?), anzi dopo la guerra del Kippur aveva alimentato un nazionalismo arabo anticolonialista ma non islamista. Perfino in Urss le cose non erano immobili, la glaciazione era incompiuta, come si deduce dalla discussione dell’Assemblea dell’Accademia delle scienze (pubblicata), dal dibattito promosso dagli economisti di Novosibirsk sulla linea generale da assumere nella pianificazione, e dalle risorgenti difficoltà nei risultati economici. Erano tutti sintomi di un malessere. Non era quello il momento per usare un effettivo prestigio di cui il Pci godeva per aprire un confronto di fondo, e franco, senza clamorose rotture ma senza reticenza? Anche in Italia non le reticenze, quanto il declassamento del «caso Praga» producevano conseguenze. Certo il movimento giovanile non vi dedicava grande attenzione, proprio perché del «socialismo reale» non aveva alcuna fiducia, subì il fascino della Rivoluzione culturale per il suo messaggio antiautoritario, separandola dalla storia concreta che le stava alle spalle e anche quando ormai si stava concludendo. Il Psiup in sostanza solidarizzò con i carri armati di Mosca. Ma intellettuali, mondo cattolico, gli stessi socialisti, ormai coinvolti nello sfascio dell’unificazione con Saragat, non erano affatto insensibili al tema, e i democristiani, in stato confusionale, vi si aggrapparono come alibi del proprio ostinato anticomunismo. Negli stessi militanti comunisti, dal vertice alla base, quella «mezza misura» intorno alla questione di Praga nell’immediato soddisfaceva un po’ tutti, ma nel più lungo periodo, e nel fondo delle coscienze, era progressivamente destinata a creare un nuovo tipo di «doppiezza» tra ciò che si diceva e ciò che si pensava: dopo anni di speranze sul «comunismo che vinceva nel mondo» ora si continuava a credere che sarebbe avanzato in Italia, ma assai meno che stava vincendo nel mondo così come l’avevano sognato. Per fortuna c’era il Vietnam e il Sessantotto per celare quella doppiezza ma, proprio dopo la vittoria in Vietnam, la «vecchia talpa» avrebbe cominciato a scavare, all’inverso. Perciò continuo a credere alla particolare importanza della vicenda praghese.
12.3 Il partito e i movimenti La seconda questione che il Pci si trovò ad affrontare è quella del rapporto con i nuovi conflitti sociali. Essa fu dominante tra il 1967 e il 1970 e qui analisi e giudizi devono essere più articolati: non si può equiparare il ruolo che esso esercitò nella lotta operaia a quello che ebbe nella contestazione studentesca. Quanto alle lotte operaie le critiche devono essere molto più misurate. Certo non mancò nel Pci chi espresse scetticismo e preoccupazione. Amendola, per esempio, giunse a negare la possibilità di ottenere, e tanto più di gestire, il diritto di assemblea in fabbrica, quando quel diritto era già stato ottenuto. E Di Giulio, alla VII conferenza operaia a Torino, presentò una relazione, efficace nella denuncia, ma che poteva essere stata scritta dieci anni prima. Le due vertenze generali su pensioni e gabbie salariali vennero valorizzate, ma quasi tacendo del misero accordo siglato dalle confederazioni, della rivolta di base, anche nel partito, che lo fece saltare, e dello sciopero promosso dalla sola Cgil che portò a superarlo. Malgrado le lotte di fabbrica si estendessero e si inasprissero ben prima dell’autunno caldo, il Pci non concentrò sforzi e attenzione per costruire e mobilitare una propria organizzazione politica in fabbrica, che anzi continuava a declinare. Altre preoccupazioni o prudenze erano più comprensibili e meritavano una legittima discussione. Lo stesso Trentin nutriva dubbi sugli aumenti eguali per tutti e temeva che il sistema delle qualifiche troppo appiattito potesse produrre nel tempo effetti pericolosi (ma con molta saggezza accettò ciò che il movimento sollecitava). Le iniziali resistenze alla sostituzione delle commissioni interne con l’elezione diretta, su lista bianca, di delegati di reparto che confluivano in consigli di fabbrica, furono presto liquidate. In complesso il Pci fu presente e attivo nelle lotte operaie, attraverso i suoi militanti, senza frenarne l’inventiva e portandovi una grande forza. Ma lo fece in sostanza delegando tutto al sindacato e lasciandogli le mani libere. Nell’immediato fu una gran fortuna, perché a tirare erano le grandi fabbriche e certe categorie come i metalmeccanici, e perché in quella fase organizzazioni come la Fim svolgevano un ruolo più di stimolo che di freno. Ma la delega portava con sé, in prospettiva, anche dei limiti. Anzitutto perché quando si trattò di mettere in moto le piccole aziende e soprattutto di estendere la lotta ad altri aspetti della condizione operaia (casa, salute), la mobilitazione diretta del partito era necessaria. In secondo
luogo perché la delega (non l’autonomia) ostacolava la crescita di una soggettività politica in senso proprio tra gli operai. Si polemizzò a lungo con il pansindacalismo, ma il pansindacalismo era proprio una supplenza della mancanza di impegno in prima persona dell’organizzazione politica. Cosicché il partito era spinto a occuparsi soprattutto di elezioni e di futuri governi, avendo in fabbrica largo consenso ma non vera egemonia e forti legami organizzativi. Mentre proprio tra gli operai un discorso che univa radicalità e concretezza poteva meglio prevalere, e proprio gli operai avevano una naturale autorità per parlare a tutti i movimenti. Si misurarono i prezzi di tutto questo attraverso molti segnali: la difficoltà di dare un segno di sinistra alla protesta sociale nel Mezzogiorno (Reggio Calabria, L’Aquila, Battipaglia), la scarsa mobilitazione e gli scarsi risultati delle lotte sui bisogni collettivi, la difficoltà di trasformare la combattività sociale delle organizzazioni cattoliche in nuove scelte nelle elezioni del 1972, l’ambigua forma dell’unità sindacale a livello confederale (che si limitò a un semplice patto di unità d’azione al vertice, ipotecato da un gruppo dirigente paritetico, nel quale le forze ancora legate ai partiti di governo prevalevano nettamente e i comunisti o il Psiup avevano in tutto il 20%). Il che non toglie che, dal conflitto sociale del ’68’69, sia nato, pur con contraddizioni e ambiguità ricorrenti, un sindacato tra i più influenti e con il maggior numero di aderenti in tutta Europa. Diverso, e ben meno soddisfacente è il bilancio che si deve fare sul rapporto del Pci con la contestazione studentesca. Su questo terreno il partito non fu solo insufficiente e incerto, ma radicalmente mancò nell’analisi, nella proposta, nei risultati. Perse cioè un’occasione che non esito a definire storica. Nella fase iniziale, a differenza del Pcf, non si mostrò ostile, e non ne ignorò l’importanza. Longo incontrò un gruppo di studenti romani dopo gli scontri di Valle Giulia, per capirne gli orientamenti, scrisse un lungo articolo di cui non ho colto il valore se non di recente, rileggendolo anche con gli occhiali di ciò che la scuola è oggi diventata. Longo infatti in quell’articolo non si limitò a incoraggiare il movimento, e a mostrarsi interessato a coglierne le ragioni, ma disse di considerarlo un fenomeno positivo, al di là di qualche punta estremista che criticava; positivo per il suo significato politico. Anzi, proprio per questo, inserì nell’articolo una sorta di autocritica dell’XI congresso, perché di fronte a fenomeni così nuovi, diceva, il partito stesso doveva discutere e cambiare qualcosa in se stesso, con coraggio: «Noi crediamo spesso che le nostre assemblee
perdano di solennità se lasciano trasparire contrasti e dissensi anche aspri, che invece sono una ricchezza». Molti rimasero stupiti di tanta audacia. Due settimane dopo, però, prima Amendola, poi Bufalini espressero un giudizio e un orientamento molto diverso, se non opposto. La sostanza era questa: il movimento studentesco era certo il prodotto di disagi effettivi ed esprimeva una spinta progressiva, ma portava con sé, coerentemente alla sua base sociale, un’ideologia ribellistica, con punte irrazionaliste. Occorreva perciò distinguere tra la massa studentesca e pericolose avanguardie, che ne avevano assunto la direzione, condurre una lotta «su due fronti»: riproporre cioè la nostra linea di ammodernamento della scuola, sostenuto con adeguati finanziamenti, per far partecipare gli studenti alla gestione, ma non civettare con posizioni che contestavano l’istituzione in quanto tale, e non concedere nulla alla loro pretesa di assumere un ruolo propriamente politico. Questa, progressivamente, e malgrado qualche resistenza, fu la posizione che prevalse. Ma era appunto sbagliata e inefficace (infatti la Fgci crollò a 64mila iscritti). Era sbagliata l’analisi. Anzitutto perché il movimento nasceva certo dal disagio di una condizione materiale, ma quel disagio non era solo connesso all’arretratezza o all’insufficienza delle strutture disponibili. Era cioè rivolto a un obiettivo molto più grande, la contestazione dell’istituzione scolastica, il suo rapporto con gli sbocchi professionali che prometteva ma non soddisfaceva né per numero né per qualità. Tant’è vero che la contestazione era scoppiata prima in paesi dove le attrezzature c’erano e le scuole erano moderne da tempo. In secondo luogo; era sbagliata soprattutto perché la sua radicalità era un fenomeno di massa, spontaneo e non determinato dai «gruppuscoli». Perciò si estendeva alla famiglia, ai costumi, ai valori codificati, viaggiava per il mondo e raccoglieva ogni suggestione «ribelle». Pensare di aggirarla senza farci i conti era insensato, voleva dire solo attendere che si esaurisse dopo aver demolito qualche ostacolo e imposto nuovi spazi di libertà individuale, che ripiegasse sui piccoli privilegi che le erano in origine destinati. Ma a veder bene e a saperci lavorare sopra, nella radicalità era presente un bene prezioso. Perché solo così un vasto gruppo sociale, proveniente prevalentemente da una classe agiata e benpensante, evitava il rischio di assumere un carattere corporativo, rivolto soprattutto a difendere e migliorare i propri privilegi, anzi trasferiva il proprio disagio materiale e morale in una critica generale della società e tentava di collegarsi con i bisogni e le lotte delle classi subalterne.
Proprio in questo stava forse la risorsa maggiore che quel movimento offriva al Pci. Perché per un partito che si considerava rivoluzionario, ma concepiva la rivoluzione come un processo di lunga durata, il problema non era solo quello di cogliere l’opportunità contingente di una ventata giovanile di protesta per raccogliere voti o reclutare militanti. Il problema stava nel darle un carattere permanente, il valore della «conquista di una casamatta» fondamentale. Per sua natura infatti un movimento di studenti ha un carattere provvisorio, chi lo promuove e vi partecipa è destinato presto a trovare una collocazione nella società e a coprirvi, a vari livelli, il ruolo che la sua origine di classe gli assicura. Per conservare e rendere permanente il meglio di quel patrimonio di criticità, quella collocazione politica che la ventata di protesta aveva generato, occorreva quindi trasformare profondamente l’istituzione – metodi, contenuti, finalità – non solo allargarne gli accessi, modernizzarla. Insomma, una «riforma di struttura» orientata a costruire una nuova società, e costantemente capace di trasferire a nuove leve quella stessa ispirazione, a livelli sempre superiori. In quel momento, e forse solo in quel momento, esistevano condizioni favorevoli per farlo. Perché gli operai e i tecnici chiedevano a loro volta di cambiare l’organizzazione del lavoro e rifiutavano il ghetto permanente delle mansioni inferiori; molti intellettuali ripensavano il proprio ruolo; molti giovani docenti erano insoddisfatti di ciò che dovevano insegnare. E perché il sapere era destinato ad assumere un peso crescente sia nella produzione, sia negli stili di vita, sia nell’esercizio della cittadinanza; la scienza era avviata a un nuovo balzo in avanti e nel contempo era ormai sempre meno neutrale. Voglio dire con questo che la radicalità del movimento studentesco doveva essere accettata e alimentata così come si presentava, usata come ariete per una generale rottura rivoluzionaria? Esattamente il contrario. Voglio dire invece che una «rivoluzione» nella scuola poteva essere in effettiva sintonia con il livello della lotta operaia e coinvolgere altri soggetti. Intreccio tra studio e lavoro, produzione di una cultura positivamente alternativa, educazione permanente, sia professionale sia generalmente educativa, erano obiettivi straordinariamente anticipatori, ma al tempo stesso concretamente sperimentabili, soggettivamente maturi, e anche materialmente sostenibili. Su questo il Pci aveva le risorse per sostenere una competizione all’interno del movimento stesso, per paradosso poteva collocarsi alla sinistra del movimento proponendo fatti e non parole. Questo, forse, aveva intuito con
anni di anticipo Togliatti quando aveva attribuito un ruolo rivoluzionario non a «questa nuova generazione» ma alle «nuove generazioni» che, aggiungo io, non avrebbero potuto trasmettere l’una all’altra un’esperienza senza una base strutturale che la alimentasse. Il Pci, pur essendo all’opposizione in Parlamento, poteva realizzare, se sorretto da una spinta dal basso, qualche riforma strutturale, come infatti avvenne con lo Statuto dei lavoratori. Non poteva provarci a fondo a proposito della scuola? Non aver voluto e saputo farlo, o tentarlo, nel momento in cui la contestazione era di massa, e cercava una propria strada, impedì al Pci di acquisire un ruolo rilevante nel movimento studentesco. E quando esso entrò in una fase calante, si aprì soggettivamente tra radicalità frustrata e moderatismo predicatorio un fossato profondo. I comunisti nelle assemblee quasi non avevano diritto di parola, o erano considerati una forza politica di opposizione cui si poteva dare un voto, ma un’opposizione di «sua maestà», cui non si riconosceva l’autorevolezza. Così ci ritrovammo, oggettivamente, una scuola più facile, ma non trasformata, più accessibile ma ancor meno capace di offrire sbocchi, meno autoritaria ma più frammentata e svuotata di capacità formative. Non una «casamatta» conquistata e difesa da nuove truppe, ma una casamatta bombardata che sarebbe stata restaurata alla benemeglio. 12.4 Longo, Berlinguer Prima di procedere e riflettere su un nuovo ciclo, è necessario chiedersi perché il Pci, nel momento più favorevole, si sia mosso abilmente, ma con tanti ritardi e incertezze. Non tutto era già scritto nel passato, né tutto già predeterminato per il futuro. Ci sono stati in quegli anni ritardi che si potevano recuperare, errori che potevano essere evitati, difficoltà reali che potevano meglio essere affrontate. Mi limito a due esempi, connessi tra loro, forse non determinanti, ma comunque significativi, sui quali varrebbe la pena riflettere a distanza, con informazioni più complete, in modo più sereno con maggiore disponibilità al dubbio. In primo luogo la successione a Longo e il modo in cui avvenne. In un partito comunista, di massa, in un momento tumultuoso, il problema di chi dirigeva era fondamentale. Il «segretario», allora, era l’espressione di una storia, aveva l’ultima parola nelle scelte decisive, si cambiava quando moriva o per un grande trauma.
Il Pci in particolare era stato da sempre il partito di Togliatti e lui gli aveva impresso un marchio indelebile. Era però morto da poco, anziano ma non esausto, anzi in una fase di ritrovata creatività. La sua improvvisa e recente scomparsa era quindi stata un colpo non piccolo. L’elezione al suo posto di Longo non incontrò però alcuna difficoltà, non solo perché era da sempre il vicesegretario, ma perché la sua vita e le sue doti di equilibrio, di fermezza e di tolleranza, gli avevano guadagnato una vasta popolarità e una generale fiducia. Non aveva la statura di Togliatti, e non pretendeva di averla. Per ragioni di età era destinato a essere un segretario di transizione ma non per questo era un semplice gestore della normale amministrazione. Anzi, era un «togliattiano» particolare (così come lo erano, con minore prudenza, anche Amendola e Ingrao). Il suo percorso biografico aveva segnato la sua particolarità: era stato tra «i giovani» che, negli anni trenta, differenziandosi, avevano più insistito sul ritorno degli esiliati in Italia per organizzare la lotta clandestina, al prezzo di finire presto in carcere; era stato comandante delle Brigate garibaldine in Spagna, e capo effettivo della guerra partigiana. Perciò la sua attenzione, pur nel quadro della «via democratica», era rivolta al movimento di massa più che alle sottigliezze parlamentari; sosteneva la politica delle larghe alleanze, ma vi anteponeva l’unità della sinistra. Non a caso quindi aveva reagito alla contestazione studentesca nel modo che ho già descritto. E non a caso nel 1969 e negli anni seguenti, fin che visse, mostrò nella Direzione del partito la propria contrarietà a precipitare operazioni di governo e a concedere troppo credito alla Dc come forza progressiva. Ma, già alla fine del 1968, fu colpito da un male che gli impediva di dirigere il partito e questo gli sconsigliava di assumere posizioni che divergessero da quelle che prevalevano nel gruppo dirigente, e lo obbligava a risolvere rapidamente il problema di un’ulteriore successione. La sua scelta al riguardo era invero già maturata prima, tanto che aveva imposto a un Berlinguer riluttante di entrare in Parlamento, per preparare una sua graduale investitura quando fosse venuto il momento. Ma il momento venne subito e la scelta non era scontata. La grandissima popolarità che poi Berlinguer avrebbe conquistato negli anni ha convinto tutti che era ovvio, dall’inizio, che dovesse diventare il segretario. Ma in partenza non lo era affatto, perché non aveva alle spalle un grande cursus honorum. Aveva spesso salito la scale della gerarchia e dei riconoscimenti, ma poi era tornato indietro: ancor di recente aveva perso il ruolo di coordinatore della segreteria perché accusato di
«conciliatorismo» ed era retrocesso a dirigere il Comitato regionale del Lazio. Lo aveva sostituito Napolitano, uomo più vicino ad Amendola. Amendola però si mostrò un politico fine, era un irruente uomo di potere, ma non un vanitoso. E promosse un’operazione realistica: rinunciò subito a porre una propria candidatura – ponendo così fuori causa tutti quelli della sua generazione e rinunciando a mettere Napolitano in pista – e propose: tutti intorno a Enrico, ma senza rimettere in discussione l’equilibrio effettivo uscito dall’XI congresso. Dunque affiancandogli, come gruppo dirigente reale, Chiaromonte, Bufalini, Pajetta, Napolitano, Di Giulio. In parte uomini suoi o sulla via di avvicinarsi a lui. Per me resta un mistero il perché chi era invece sinceramente vicino a Longo (i Natta, i Tortorella, molti «ex ingraiani») allora e dopo evitarono di farsi valere e sentire, per quasi un decennio. In questo quadro, anche se lo avesse voluto, Berlinguer avrebbe avuto ben poco spazio per tentare subito una ricucitura delle ferite aperte con la sinistra del partito, o per correggere l’orientamento prevalente. 12.5 La radiazione del manifesto Non si può però onestamente ignorare l’attribuzione di un’altra parte di responsabilità. Come poteva pesare politicamente una sinistra comunista che, pur avendo ormai ottimi argomenti, non aveva né la forza né la volontà di manifestarsi in modo incisivo? Pietro Ingrao, proprio di recente, nelle sue memorie, in interviste e in interventi, è stato molto prodigo di autocritiche sul passato. Molte di queste autocritiche non mi convincono affatto, come si può capire in questo stesso testo. Altre le trovo ingenerose verso se stesso, perché sommandole sembra che egli sia stato quasi sempre, pur con buone intenzioni, dalla parte del torto, il che non è vero. Una di queste autocritiche però mi sembra importante, e un’altra l’approvo anche se mi pare un po’ monca. Esse mi permettono di parlare della nascita del manifesto, della radiazione dal partito dei suoi promotori, delle sue conseguenze. E di parlarne senza reticenza, anche manifestando i miei dubbi ricorrenti. La cosa importante che oggi Ingrao dice è di considerare non solo come un atto di slealtà, ma un errore politico, il fatto di aver interrotto subito e per tanti anni la battaglia aperta prima e durante l’XI congresso. Una rinuncia,
la sua, grave per lui, per molti che lo sostenevano, e per tutto il partito. Consideriamola dunque in dettaglio nel suo svolgimento e nelle sue conseguenze. Dopo quella dura sconfitta Ingrao, personalmente, accettò di non dire nulla sulle emarginazioni immeritate (non mi riferisco affatto alla mia), e politicamente accettò un lungo silenzio anche su cose nuove che intervenivano e che potevano interromperlo. I cosiddetti «ingraiani» ovviamente si dispersero. Solo i sindacalisti, che peraltro giustamente non si erano troppo esposti, ebbero la possibilità di portare avanti idee ed esperienze già avviate, nella zona franca dell’autonomia sindacale. Trentin, Garavini, Pugno, per esempio, in sintonia con Foa e i suoi amici, ebbero un’influenza importante nelle lotte operaie. Riuscirono anche a costruire un nuovo tipo di sindacato, in particolare tra i metalmeccanici, e a formare quadri di valore, a Torino, a Bologna, a Brescia e altrove. Altri non avevano altrettanto spazio o strumenti, ma non erano comunque arresi né pentiti (penso a luoghi come la Puglia, Venezia, Bergamo, Napoli, Roma e a molti intellettuali). Al primo stimolo serio, e nelle sedi legittime, potevano tornare in campo a discutere. Solo alcuni però – si potrebbero contare sulle dita di due mani – forse perché avevano posizioni più radicali, essendo stati più duramente emarginati, forse perché emarginati in quanto su posizioni più radicali, mantenevano un rapporto amicale costante tra loro e consideravano la battaglia sospesa ma non conclusa. In particolare Pintor, Rossanda, io e qualche amico nostro. Fra tutti comunque, Ingrao compreso, la dispersione non aveva affatto lasciato né recriminazione né astio: ci eravamo lasciati «così senza rancor». Nell’agosto del 1967, andando in macchina a Bari per qualche giorno di mare, Reichlin e io deviammo per Scilla, dove Ingrao era in vacanza, per salutarlo e per saggiarne le intenzioni future. Non ci apparve particolarmente combattivo. A muovere le acque furono il maggio francese e le occupazioni delle università in Italia. Rossana e io ci andammo. Io poi tornai a Parigi per tre mesi a raccogliere esperienze e resoconti per una riflessione meditata; Rossana andò in giro per le università più vivaci. Fummo stimolati, eccitati, ma basta leggere i libri che subito scrivemmo per constatare che lo sguardo era lucido, senza alcun raptus rivoluzionario, ci erano chiari i limiti e le difficoltà delle «rivoluzioni proclamate», e non solo gli errori del Pcf. Le basi per una discussione costruttiva nel partito c’erano. Per questo, alla fine dell’estate, chiesi a Ingrao un incontro ristretto e privato, ma collettivo. L’incontro si svolse a casa di Rossana. Partecipanti: Ingrao stesso, Reichlin, Trentin, Garavini, Castellina, Pintor,
Rossanda e io. Quella fu la prima riunione di una «frazione» mai nata e che si sciolse prima di nascere. Perché in effetti si trattava di verificare la disponibilità a una decisione semplice e preliminare. L’interrogativo posto era il seguente: «Con tutto ciò che ci bolle intorno, non è logico riprendere in termini nuovi, al XII congresso ormai imminente, una discussione generale come quella prematuramente soffocata nel 1966?». La verifica fu subito chiara. I più autorevoli tra i presenti, quelli cioè che avrebbero potuto darle un peso, ritenevano che una tale iniziativa – anche condotta individualmente, senza piattaforme comuni vincolanti e con gli accenti autonomamente scelti – avrebbe subito creato tensioni e sospetti, e anziché aiutare avrebbe ostacolato i movimenti in atto e poteva renderli ancora più invisi al partito e a i suoi dirigenti. Altri, tra i quali io, obiettammo che invece un congresso del Pci appiattito e non innovativo avrebbe creato un fossato tra partito e movimento, e non avrebbe fornito al partito forze, linguaggio, analisi necessari per conquistarvi peso, autorità, e anche per correggerne gli errori. Ovviamente se l’esito di quell’incontro fosse stato meno netto, il manifesto non sarebbe nato e al XII congresso si sarebbe aperta una discussione interessante, anche se non necessariamente polarizzata. Forse tra la «messa cantata» del monolitismo e lo «sparate sul quartier generale» una via di mezzo si poteva tentare. La critica che sento di poter fare a Ingrao, o ad altri, è di non averci provato, anche se so che, se ci avessero provato, i risultati sarebbero stati incerti e avrebbero molto condizionato ciò che alcuni di noi ormai pensavano o volevano dire. Fallito quel tentativo di intesa, non restava altra strada che quella di esprimere un dissenso molto radicale ma molto minoritario. Se fossimo restati quei quattro gatti che noi stessi ci credevamo può darsi che avremmo ritenuto non ne valesse la pena. A incoraggiarci invece fu una sorpresa. Spontaneamente, senza alcuna intesa preventiva, in diversi congressi provinciali emersero dalla base posizioni e domande che convergevano con le nostre e, in alcuni casi, il dissenso arrivò a rappresentare una percentuale consistente (Cagliari, Bergamo, Venezia, Roma, Napoli). Certo il filtro sapiente dell’apparato avrebbe portato al congresso nazionale solo una minima parte di tale disagio, tuttavia non lo poteva cancellare: vi confluivano in buona parte ingraiani di sempre, ma anche giovani militanti, personalità del partito che ingraiani non si erano mai sentiti (Natoli, Caprara), intellettuali dispersi ma di livello (Luigi Nono, Luporini e altri). Gli interventi di Natoli, Pintor,
Rossanda al congresso nazionale di Bologna, benché tutti pronunciati «all’alba», come notarono i giornali, ebbero ascolto, un certo successo, e molta eco esterna. Rileggendo oggi gli atti di quel congresso l’impressione è quella di una complessiva inadeguatezza rispetto alla situazione che esso aveva di fronte. Relazione, dibattito, conclusioni furono ripetitive tra loro e anche rispetto a congressi precedenti. Il gruppo dirigente ancor più coeso del solito. Elementi di dissenso erano presenti solo nei nostri sparuti interventi, e anche quelli, ai quali avevo contribuito, non mi paiono oggi il meglio di cui eravamo già allora capaci: interessanti spunti di analisi, ma proposta politica e programmatica tutta riassunta nell’affermazione che ci si trovava di fronte a una crisi di sistema, all’Ovest ma ormai anche all’Est, cui bisognava opporre un’alternativa di sistema. La riposta critica contenuta nelle conclusioni di Berlinguer fu misurata nei toni ma senza mostrare alcun interesse all’apertura di una vera discussione. La rivolse soprattutto a Rossanda, usando una graffiante citazione di Machiavelli che ironizzava su «coloro che parlano di reami inesistenti»; senza tenere conto che anche lui stesso, in particolare quando parlava dell’Unione Sovietica, della Cina o della rivolta giovanile, ancor più evitava, nel bene e nel male, di fare i conti con la realtà. All’indomani del congresso ci trovammo dunque di fronte a una scelta molto difficile. Comunque si era espresso un dissenso netto, e si era formato un gruppo molto minoritario ma coeso. Potevamo semplicemente tornare al silenzio, in attesa di occasioni migliori, oppure lavorare in modo semiclandestino alla formazione di una piccola frazione. Entrambe queste strade le escludevamo. La prima perché era proprio quello il momento (o almeno così ci sembrava) nel quale le scelte politiche erano pressanti e sia il partito sia i movimenti esigevano e permettevano un confronto aperto su problemi di fondo; la seconda perché, da sempre, eravamo sinceramente convinti che le microfrazioni portano a competere per la conquista di piccoli poteri interni o conducono a miniscissioni e, in entrambi i casi, viziano il pensiero e fanno danni per tutti. Il nostro obiettivo, probabilmente velleitario, era invece di contribuire, magari con un’insubordinazione rispetto a codici consolidati, a un rinnovamento dell’intero Pci da cui dipendevano gli sviluppi del «caso italiano». Credemmo di aver trovato una terza via pubblicando una rivista, che non voleva organizzare forze ma produrre idee, offrire un canale di comunicazione tra movimenti insorgenti e una tradizione preziosa, ragionando criticamente su entrambi i versanti. Non a caso, in partenza, il
progetto era quello di un mensile destinato alle librerie, quindi di poche migliaia di copie. Cercammo un editore, tra quelli di prestigio vicini alla sinistra (Einaudi, Feltrinelli, Laterza), che gentilmente opposero un rifiuto per non guastare i rapporti con il Pci nel suo complesso. Trovammo solo un tipografo intraprendente di Bari che cercava di esordire nel campo editoriale, Coga. Paradossalmente fu lui il fondatore del manifesto perché con l’istinto dell’imprenditore ci propose un patto leonino ma originale: noi gli davamo la rivista completa, impaginata e corretta, gratis, fatta con il lavoro volontario e una sede pagata raccogliendo abbonamenti, lui la stampava, la distribuiva tenendosi per intero gli incassi e, idea azzardata, la mandava anche in edicola. Aveva fatto meglio di noi le previsioni, perché dal primo numero, in due ristampe, il manifesto vendette oltre 50mila copie. Proprio il successo cambiò di fatto il suo carattere, un po’ com’era avvenuto con l’applauso della platea che aveva raccolto Ingrao all’XI congresso. Il manifesto anche per questo divenne un fatto politico, in Italia e fuori, oltre le intenzioni, e forse anche oltre il merito. Il gruppo dirigente del partito, dapprima in incontri privati, cercò di persuaderci a desistere, poi vietò l’iniziativa in nome della regola che escludeva la legittimità di frazioni; e poiché una rivista di per sé non era una frazione, aggiunse che il raccogliere abbonamenti, definire un preciso gruppo di collaboratori permanenti, e intervenire su temi di attualità politica la configuravano di fatto. Per dare un peso al divieto furono convocati due successivi comitati centrali. A questo punto, consapevoli che il rischio era quello della radiazione, avemmo tutti un momento di esitazione. A farci andare avanti comunque non furono né orgoglio né leggerezza. Furono un fatto di metodo e poi un fatto di merito. Di metodo, cioè la pubblicazione sulla stampa di partito di autorevoli articoli (per esempio quello di Bufalini) che non solo denunciavano il pericolo del frazionismo o criticavano qualche singolo articolo, ma sprezzantemente giudicavano tutto ciò che scrivevamo come pure sciocchezze di cui non valeva la pena discutere. Di merito, perché, in modo non pubblico, emerse invece il vero punto sul quale la mediazione veniva considerata impossibile: cioè la questione praghese e il giudizio sull’Unione Sovietica. Ma erano proprio i punti sui quali l’iniziativa del manifesto si proponeva non ovviamente di ottenere ragione, ma almeno di stimolare un confronto riconoscendoli come problemi reali. Così continuammo, e si arrivò rapidamente alla radiazione dal partito di Natoli, Pintor, Rossanda e mia in quanto direttore della rivista. Il Comitato
centrale votò a favore della decisione con soli due voti contrari e cinque astensioni. Subito dopo, a livello di federazione, furono pubblicamente radiati Castellina, Caprara e Bronzuto, alcuni altri furono energicamente «consigliati» di andarsene in silenzio (Parlato, Barra, Zandegiacomi, Milani). Noi evitammo di sollecitare altri a fare altrettanto, anche perché non ci era chiaro che forma dare all’iniziativa intrapresa. Su quella decisione di radiazione, non solo Ingrao, ma anche molti altri che la votarono, hanno successivamente compiuto un’autocritica, considerandola retrospettivamente un errore, perché il Pci era in grado di neutralizzare, senza provvedimenti amministrativi, un piccolo gruppo di dissenzienti; anzi, evitandola, avrebbe dimostrato ancor meglio il proprio carattere di forza democratica. Queste autocritiche tardive mi hanno fatto piacere, anche perché so in coscienza che noi non intendevamo far male al partito dividendolo, ma anzi pensavamo di aiutarlo in quel rinnovamento di cui aveva effettivo bisogno. Tuttavia, a distanza di tempo, mi paiono un po’ fuorvianti. Le conseguenze di quella radiazione infatti, nell’immagine del Pci e nel rapporto con gli altri partiti e con l’opinione pubblica, furono limitate e di breve durata, perché anzi, liberandosi, pur con un metodo riprovevole, di un gruppo di estrema sinistra, il Pci si mostrava rassicurante. Altri gruppi di «nuova sinistra», in concorrenza tra loro ma tutti «comunisti», guardarono alla nostra radiazione senza simpatia, anzi videro l’arrivo di un possibile concorrente in più, e di un equivoco in meno, di cui il Pci si era fino ad allora avvalso. Per tutti, che fossimo estromessi o fossimo tollerati come riserva indiana, non faceva molta differenza. E così era, infatti. Le conseguenze negative erano anche altre, e meritano un minimo di riflessione. Anzitutto a quel provvedimento pesante è seguita nel Pci, al di là dell’intenzione, una campagna massiccia per mettere in difficoltà tutti coloro che condividevano in parte le cose che dicevamo, e per mobilitare l’intero apparato nella lotta «su un solo fronte». Fu una campagna a dire il vero molto aspra e prolungata: per molto tempo gran parte del gruppo dirigente del Pci ci tolse personalmente il saluto, sull’Unità uscivano corsivetti intitolati: «Chi li paga?». E sembrandole poco rispondersi: «la Confindustria», arrivò a sospettare «la Confagricoltura», cioè, agli occhi dei militanti più semplici, il peggio del peggio. Questo cordone sanitario di ostilità ci stimolò a elaborare un documento ambizioso, che definisse compiutamente un’identità meno contingente e un’analisi coerente (le «Tesi del manifesto») che riempì un intero numero
della rivista, diffusa in 75mila copie e che, rilette quarant’anni dopo, colpiscono per la preveggenza. Ma ci spinse anche a scelte politiche immediate precipitose e nocive. Per esempio la proposta di una rapida unificazione dei vari gruppi della nuova sinistra che, oltre a essere impraticabile, ci trascinava a rincorrere un estremismo ingenuo, che non ci apparteneva, e poi a presentarci alle elezioni politiche senza alcuna possibilità di successo. Scelte che ci cucivano addosso proprio l’immagine deformata contro cui il gruppo dirigente del Pci polemizzava. Molto presto tentammo e gradualmente riuscimmo a ritrovare la nostra ispirazione, che era quella di cerniera tra la sinistra tradizionale e i movimenti. Ma non esito a riconoscere, per lealtà, che io stesso, che nell’impresa avevo un ruolo rilevante, fui corrivo a quegli errori, tentai poi energicamente di correggerli. Ma porto con me il dubbio che forse aveva ragione Natoli nel suggerire di non cedere alla tentazione di dare alla rivista una proiezione organizzativa in tempi brevi. Per ora mi premeva chiarire che l’impatto negativo di quella radiazione, la ragione per cui essa è stata un rilevante errore, non riguarda solo o soprattutto una questione di tolleranza del dissenso, ma una questione più di sostanza: se quel nostro dissenso esprimesse qualcosa di vero o di utile, e quindi se non valesse la pena di tenerne conto e di usarlo come contributo alla politica del Pci. Solo così infatti evitarla sarebbe servito a cambiare un po’ le cose e ad affrontare un po’ meglio il difficilissimo passaggio degli anni settanta, all’inizio così generoso di successi e alla fine così pieno di amarezze. Anche solo sul piano dell’immagine, non poteva che giovare al Pci l’avere e accettare al suo interno un’area di dissenso di sinistra, culturalmente non dogmatica e politicamente non legata a Brežnev.
13. Verso il finale di partita
Il momento più delicato e impegnativo, in una partita di scacchi, è quello del centro partita, con un’apparente parità di forze, molti pezzi ancora sul tavolo, in collocazioni non codificate dalla teoria, quando ognuno ha elaborato un proprio piano e ci si avvicina alla fase finale. È proprio qui che a un bravo giocatore occorre un massimo di audacia per portare a fondo il suo attacco, ma anche una grande accortezza per vedere i propri punti deboli, giudicare le forze dell’avversario e prevederne le mosse, dunque anche la flessibilità nell’adeguarvi le proprie originarie intenzioni. Ho messo questo strano titolo al capitolo, perché il problema che devo ora affrontare è quello della politica del Pci negli anni settanta, un decennio all’inizio ricco di grandi successi, ma che presto mise in evidenza fragilità e difficoltà che si sarebbero incontrate per portarli a buon fine. Il partito proseguì a testa bassa sulla strada imboccata e, tre anni dopo, subì una secca sconfitta, sia elettorale sia nel rapporto di massa, non solo esterna, ma interna, non solo transitoria ma duratura. Arrivato insomma al suo apogeo, quando aveva le risorse per una correzione, non volle o non seppe riconoscerla e adottarla in tempo per ridurre i danni e poi recuperare. Questo del resto è uno dei prezzi che si pagano per l’eccessiva mancanza di una dialettica interna. I fatti salienti, che disegnarono l’intera parabola, sono noti o almeno accessibili a tutti. Su ciascuno di essi esiste una letteratura abbondante – storiografica, memorialistica, diari – fino ai dettagli e ai retroscena, tuttavia mancava allora, e manca tuttora, una visione generale non troppo faziosa di ciò che è accaduto, certo discutibile ma documentabile e coerente. Mancano cioè: 1) una realistica valutazione del peso che ogni evento importante ha avuto, e del rapporto causa-effetto, univoco o reciproco, tra loro: per esempio, non mi pare plausibile l’opinione diffusa secondo la quale l’omicidio di Moro ha decretato la fine dei governi di unità nazionale; 2) l’individuazione precisa di una causa principale alla quale altre e minori si collegarono nel produrre sia gli iniziali successi, sia il rapido fallimento di quel tentativo politico: per esempio non mi pare convincente che esso sia addebitabile solo a errori di cattiva gestione tattica di una politica giusta; 3) la considerazione dell’incidenza che tornava ad avere, in forme nuove, quanto avveniva a livello mondiale: un’amputazione che falsa la realtà; 4) infine, e di conseguenza, la
consapevolezza piena che quel decennio non è stato una parentesi ma, al contrario, ha gettato le fondamenta di una vera rottura storica, che si è poi effettivamente compiuta. Di tutto questo oggi non si discute, mentre una riflessione è necessaria, non solo per capire il passato, ma direttamente il mondo in cui viviamo – la globalizzazione neoliberista e unipolare – e per trarre qualche suggerimento per il futuro. Se è vero, com’è vero, che il declino e poi la dissoluzione del Pci non hanno lasciato spazio a una sinistra più forte e intelligente, ma più povera e con meno idee, e se è vero che l’Italia stessa, come economia, come società, come democrazia partecipata è degradata, credo che, proprio in quegli anni, il caso italiano sia stato ancora interessante, ma questa volta in negativo. 13.1 La crisi economica Una delle grandi novità degli anni settanta, non la sola, fu la «crisi» economica che investì l’intero capitalismo occidentale, improvvisa, generale e duratura, com’era stato il «miracolo» dell’impetuoso sviluppo. Ho messo la parola crisi tra virgolette perché le si può attribuire molti significati. Gli economisti lo sanno e infatti usano termini diversi (congiuntura negativa, stagnazione, recessione, depressione) e quando usano la parola crisi quasi sempre la uniscono in un binomio con la parola ristrutturazione. Tuttavia trovano non poche difficoltà, nel concreto, a scegliere tra un’espressione e l’altra, o oscillano a lungo prima di decidersi. Tutta la storia del capitalismo è infatti punteggiata da un continuo alternarsi di successi e di difficoltà, tra i quali si manifestano momenti di crisi. Ciascuna ha cause, durata e conclusioni diverse dall’altra, esiste però una linea di demarcazione tra due tipi di crisi. Ci sono strette congiunturali generalmente di uno o pochi paesi, più o meno acute, che si possono rapidamente risolvere con appropriate misure, o fasi di stagnazione più estese, che possono però essere sbloccate con più tempo e interventi più energici, senza toccare le strutture portanti del sistema vigente. Su questo terreno l’elaborazione teorica e l’esperienza politica hanno fatto molti passi avanti e hanno trovato soluzioni spesso soddisfacenti. Non sempre e non ovunque, ma soprattutto quando la situazione era loro favorevole ed entro l’ambito cui erano rivolte. Per
esempio: le politiche keynesiane negli anni trenta aiutarono effettivamente la ripresa americana tra il ’34 e il ’38, ma fallirono nella Francia del Fronte popolare, ebbero la maggiore efficacia nella Germania nazista finalizzate però alla guerra e, nel secondo dopoguerra, trionfarono nello stabilizzare e prolungare lo sviluppo in atto, ma in Inghilterra anziché produrlo lo bloccarono. Per questo Keynes, dopo aver scritto un libro geniale sulla necessità dell’intervento pubblico contro la ricorrente tendenza dei capitalisti a preferire la liquidità rispetto all’investimento, subito contrastò chi tendeva a credere di aver trovato nella costante politica di espansione della domanda una medicina miracolosa, buona in ogni circostanza, per tutte le malattie e per sempre. Ci sono state però crisi di tipo ben diverso, per portata e per natura. Nella storia del «capitalismo reale» ne sono ben visibili e riconosciute almeno tre. Quella che dopo una lunga incubazione (il colonialismo, la recinzione delle terre, aspri conflitti sociali tra borghesia e aristocrazia e guerre napoleoniche) portò alla grande industria tessile e poi ferroviaria, al libero commercio, all’egemonia inglese nel mondo. Quella che, dal 1878 al 1890, stimolò e poi fiancheggiò l’irruzione della scienza nell’industria (chimica, elettricità), l’integrazione tra industria e banche, la definitiva spartizione del mondo, il nazionalismo, e aprì la strada alla Prima guerra mondiale. Infine la Grande depressione del ’29, nata dalla sovrapproduzione fordista, che si estese al mondo, contribuì alla nascita del fascismo e fu superata solo dopo un altro conflitto mondiale. Situazioni diverse, sequenze diverse, soprattutto esiti diversi: rilanci impetuosi, crolli, emarginazioni. Ma un tratto comune: in ciascuno di questi casi la crisi economica, oltre a essere pesante e contagiosa, si intrecciò e si concluse con profonde trasformazioni della struttura sociale, della gerarchia tra gli stati, della divisione sociale del lavoro, spesso con guerre, combattute o minacciate, con rivoluzioni sconfitte o vincitrici. Il capitalismo ne uscì spesso rilanciato, altre volte dovette accettare un compromesso, in ogni caso dovette trasformarsi. I pensatori più acuti si dedicarono con passione a questo tipo di crisi, cercando di decifrarne il segreto, perché vi si nascondeva una tendenza storica. Nessuno ne venne a capo, tutti ebbero l’onestà di riconoscerlo. Marx, che più si spese nel cercare linee di tendenza che sorreggessero la sua speranza rivoluzionaria, ogni volta che ne trovava una aggiungeva che però altri fattori potevano neutralizzarla, ribadiva la sua fiducia nel futuro, ma non escludeva che si finisse nella comune rovina. Keynes prevedeva,
senza provare a spiegare il come e il perché, l’eutanasia del capitalismo. Schumpeter, che pur era un conservatore, e assegnava alle crisi il compito di una salutare distruzione, però alla fine pensava che capitalismo e socialismo sarebbero arrivati a un positivo incontro. Non sarò certo io a rincorrere ridicolmente quel segreto. Ma ciò che mi pare necessario dire è che oggi, se non allora, si può certamente affermare che nel 1970 è cominciata una crisi proprio di questo tipo. E si può aggiungere che fino al 1982 la crisi ha svolto il suo ruolo specifico, di disordinare e distruggere ciò che si opponeva alla ristrutturazione capitalistica e che almeno questo fatto si poteva capire un po’ di più e un po’ meglio. Per usare, con altra intenzione, un’espressione che aborro: si poteva limitare un eccesso di provincialismo e di politicismo, e decifrare qualcosa del «piano del capitale», di cui lo stesso capitale non aveva ancora idea, ma il decorso dell’economia mondiale forniva già qualche segnale, e qualcuno lo ha notato. I prodromi di quella crisi si annunciarono già negli ultimi anni sessanta e ovunque: un calo prolungato dei profitti e degli investimenti e un rallentamento della produttività per addetto. Governi e padroni non vi dettero troppo peso; in ogni paese si attribuiva la cosa a diversi fattori, ma i margini di tolleranza erano ancora ampi e il recupero non sembrava difficile. In Francia, dove non esisteva scala mobile, gli aumenti salariali furono ottenuti e furono assorbiti in due anni, con una piccola svalutazione; in Inghilterra i laburisti ridussero un po’ le tasse e un po’ la spesa sociale; in Italia preoccupavano i diritti strappati dai lavoratori sull’organizzazione del lavoro più che non gli aumenti salariali concessi e, quanto al salario, si pensava di ripetere la manovra che aveva avuto successo nel 1964 (intensificazione del lavoro, un po’ di deflazione, la minaccia sull’occupazione). Normale amministrazione. Le preoccupazioni dei governi erano più politiche che non economiche. Il vero annuncio del ballo che cominciava venne nel 1971. Nixon, all’improvviso, comunicò che il valore del dollaro non era più legato e garantito da una base aurea. Era una scelta di enorme importanza, perché faceva crollare l’intero edificio costruito a Bretton Woods per assicurare una sostanziale stabilità del cambio tra le monete, pur in presenza di una rapida crescita del commercio internazionale. Ed era una scelta rivelatrice, perché non era presa alla leggera ma nasceva da uno stato di necessità. Gli Stati Uniti infatti erano oberati dall’enorme spesa legata alla guerra in Vietnam (da cui invece altri paesi, soprattutto il Giappone rampante, traevano vantaggio), e dal deficit di bilancio connesso alla politica della
«grande società», con la quale Johnson aveva tentato di recuperare il dissenso dei lavoratori, delle minoranze sociali e dei giovani. Dovevano inoltre fronteggiare una significativa riduzione del tasso di produttività (dal 4 al 3 e poi all’1%) e una ormai efficace concorrenza dei paesi il cui sviluppo, per ragioni politiche ed economiche, essi stessi avevano sostenuto per un quarto di secolo. In Italia non si dette gran peso a quella novità, né a ciò che rivelava. Padroni e governo si sentivano liberati da una gabbia e quindi più liberi di manovrare il valore della propria moneta secondo convenienza; e comunque al dollaro rimaneva di fatto il ruolo di moneta principe, cui si riferivano gli scambi, e la fiducia sulla solidità dell’economia americana era incrollabile. Solo qualche isolato attribuì all’evento il significato di una svolta della situazione economica: ricordo per esempio, con qualche orgoglio, un editoriale apparso sul manifesto con il titolo hemingwayano «Breve la vita felice di Lord Keynes». Forse il titolo era ingiusto, perché Keynes stesso aveva a suo tempo intuito la fragilità dell’accordo di Bretton Woods, ma la sostanza era giusta, perché segnalava la fine del periodo aureo delle politiche che avevano abusato del suo nome e delle illusioni di crescita permanente che avevano prodotto. Un secondo campanello di allarme giunse presto, e questa volta fu avvertito da tutti, anche se dapprima con un’esagerazione emotiva, e poi rimosso. Nel 1974, e poi di nuovo nel 1979, i paesi petroliferi, finalmente d’accordo tra loro, e giudicando che l’equilibrio internazionale ormai lo consentisse, alzarono enormemente il prezzo del petrolio. Il colpo era duro per l’intera economia capitalistica, che in quel momento era vorace di petrolio e si era giovata del suo prezzo miserabile alla fonte. Non per tutti egualmente. Era doloroso in particolare per i paesi del Terzo mondo, che di petrolio avevano comunque bisogno e non avevano più mezzi per pagarlo; era meno grave per gli Stati Uniti, che producevano in casa almeno parte del fabbisogno e avevano giacimenti inutilizzati ma che i nuovi prezzi permettevano di sfruttare; al contrario fu una fortuna in due casi, l’Inghilterra e ancor più la Norvegia, che furono stimolate a scoprire risorse nelle loro acque territoriali traendone grandi vantaggi. Era certamente molto pesante per paesi come l’Italia, particolarmente legati alle esportazioni, con un’industria molto caratterizzata dalla chimica pesante, dalla plastica, dalla produzione e dal consumo di automobili. Il nuovo prezzo del petrolio innescò però un altro processo non meno importante e meno avvertito. I paesi petroliferi non avevano la capacità di usare efficacemente l’afflusso di capitali per il loro sviluppo interno, né la
volontà di usarli per migliorare le condizioni di vita dei propri poveri; tanto meno avevano sia la capacità sia la volontà di tradurli in investimenti produttivi nei paesi sottosviluppati. Quindi li trasformarono prevalentemente in titoli finanziari, ritrasferiti in Occidente e impiegati là dove sembravano più sicuri e permettevano rendimenti maggiori. Ma, poiché negli Stati Uniti ancora restavano limiti e barriere ai movimenti di capitali, si formò una gigantesca liquidità, che prese il nome di petroldollari, senza patria, concentrata nella City, e vagolante alla ricerca di rendite speculative. Alla fine gli Stati Uniti, per recuperare in parte un controllo sul dollaro, dovettero piegarsi accettando una piena libertà di circolazione. Lì cominciò quella finanziarizzazione, che poi si integrò nell’economia reale, assumendone la guida, di cui oggi misuriamo costi e successi. Nell’immediato tutto questo ebbe due effetti nefasti. Da un lato parte di quei capitali, non trovando impieghi produttivi in un’economia mondiale avara di investimenti, si lanciò nella speculazione sui cambi, moltiplicando gli effetti di ogni variazione scelta o obbligata nel valore di ogni moneta. Dall’altro lato, sotto la tutela delle grandi organizzazioni mondiali (Fmi, Banca mondiale) fu offerta come prestiti a bassi interessi, che poi crebbero, ai paesi sottosviluppati. I quali furono così spinti a rovesciare l’industria sostitutiva dell’importazione in industria esportatrice e, non essendo in grado di tenere il passo di una competizione di cui il loro sistema economico e politico era incapace, accumularono un debito gigantesco i cui interessi assorbivano gran parte delle esportazioni, in un circolo vizioso su cui il sottosviluppo si ripropose e la povertà si estese. Un analogo circolo vizioso si produsse nei paesi dell’Est europeo e in Urss, che tentarono anch’essi di supplire, con prestiti e importazioni di impianti «chiavi in mano», alla propria incapacità di autonoma modernizzazione. Tutti questi fattori, e altri cui poi accennerò, crearono in tutta l’area capitalistica, non un crollo, ma un succedersi sempre più ravvicinato di crisi congiunturali, in un trend rivolto al ribasso, ma soprattutto una situazione nuova e incontrollata, che nessuno sapeva da che parte prendere: fu chiamata stagflazione. Tentavano la deflazione, o i licenziamenti, per combattere un’inflazione ormai stabilmente di due cifre, rialzare il livello del profitto e abbassare il salario, ma presto constatavano che la resistenza operaia era dura da battere; che la disoccupazione in un mercato del lavoro frammentato, o per le coperture sociali difficilmente
liquidabili, non aveva grandi effetti sul salario e aumentava la spesa assistenziale; infine, e forse soprattutto, che la deflazione in casa propria, in un mercato integrato, si sommava a quella di altri creando anziché rilancio depressione. Allora tentavano un rilancio della spesa pubblica, del consenso, delle agevolazioni alle imprese (un prudente keynesismo), ma presto constatavano che, in un mercato aperto, l’aumento della domanda veniva soddisfatto da importazioni e produceva più inflazione che nuovi investimenti. Insomma un circolo vizioso su entrambi i fronti e tra loro. Infine, le svalutazioni competitive: per un momento davano un sollievo, ma fino a quando altri paesi reagivano allo stesso modo, dopo emergevano gli effetti inflazionistici sui quali la speculazione internazionale traeva la sua parte, tanto più in quei paesi dove, bene o male, salari e interessi sul debito pubblico erano indicizzati. Non in tutti i paesi interessati la crisi economica si presentava egualmente grave o fuori controllo: ed è utile tenerlo presente perché le differenze si sono riprodotte anche nella successiva ristrutturazione. Il Giappone per esempio aveva di fatto la possibilità di contenere senza esplicite misure protezionistiche le importazioni e di accrescere invece le proprie esportazioni attraverso filiali delle proprie imprese, che riassemblavano i loro prodotti all’interno del mercato cui erano rivolte (soprattutto gli Stati Uniti). Oppure la Germania poteva reggere meglio di altri la propria competitività industriale, perché si basava sulla qualità più che sul prezzo dei propri prodotti, o perché poteva più facilmente liberarsi di un surplus di forza-lavoro straniera, quindi era meno obbligata a far fluttuare la propria moneta, anzi cominciava a esportare capitali. All’inverso altre economie potevano illudersi di evitare la crisi, approfittando nell’immediato dell’abbondante offerta di prestiti che davano l’illusione della ricchezza ma con ciò indebitandosi e accettando vincoli che più tardi li avrebbero portati a una depressione più grande e a un’inflazione galoppante. Complessivamente comunque, a fine decennio la disoccupazione raggiunse livelli che ricordavano gli anni trenta, il debito pubblico raggiunse dimensioni conosciute solo in tempo di guerra, il tasso di sviluppo in Occidente si ridusse della metà, altalenando, il salario reale rimase bloccato e anzi decrebbe, lo stato sociale divenne più costoso e subì i primi attacchi. Di riflesso, gradualmente ma con forti sostegni, si affermarono un inatteso recupero di egemonia nell’economia accademica delle teorie neoliberali, maggiore potere delle istituzioni finanziarie
internazionali apparentemente autonome ma di fatto governate dagli Stati Uniti e dal capitale finanziario, e i governi (fossero diretti dai conservatori o dai socialdemocratici) finirono con l’allinearsi, più o meno, a quelle posizioni. Una sola vera eccezione si può riconoscere, quella di due piccoli paesi, Svezia e Austria, dove due forti leader (Palme, Kreisky) impostarono e realizzarono una risposta diversa che, oltre ad attutire molto la crisi, salvò l’impianto di un modello alternativo, ribadì cioè la priorità della piena occupazione e anzi estese le coperture sociali. Ma un’eccezione, appunto, basata su una collocazione internazionale neutralista, una profonda fiducia popolare e su uno stato sociale perfettamente funzionante. Ed erano due paesi piccoli e marginali. Da questo quadro già si possono trarre alcune conclusioni utili per la comprensione e il giudizio sulla vicenda italiana. Certo non è affatto scontato che una perturbazione economica grave porti necessariamente la sinistra alla sconfitta, né che il capitalismo abbia in partenza tutti gli strumenti per fronteggiarla rapidamente, per risolverla a proprio vantaggio e per imporre una ristrutturazione come meglio crede. La crisi del ’29 portò al New Deal e assicurò a Roosevelt ben tre conferme alla presidenza, o portò invece al nazismo in Germania e alla guerra e, alla fine, a un compromesso positivo tra i due sistemi in competizione. Ma è certo che sempre una tale crisi impone, in un senso o nell’altro, scelte difficili, programmi alternativi coerenti e coraggiosi, una forte e stabile base di consenso nella società, leadership di grande statura capaci di sostenere forti scontri o di costruire compromessi reali, la capacità di guardare al futuro. Tutto ciò è molto difficile averlo o costruirlo, sempre e per tutti. Nel nostro caso, e nel periodo di cui parliamo, lo era particolarmente. Perché la crisi economica investiva un insieme di paesi, ai quali eravamo ormai collegati, dovevamo fronteggiarla in un paese relativamente piccolo e l’Europa era solo un mercato comune ed era politicamente subalterna. Perché dovevamo e volevamo muoverci entro i limiti di una democrazia rappresentativa e fragile, che può funzionare al meglio quando si tratta di ridistribuire la prosperità o di sostenerla, ma funziona molto meno quando si tratta di pagare prezzi immediati in nome di progetti futuri, di smantellare poteri incardinati e di sostituirli con altri funzionanti, di costruire compromessi convincenti e vantaggiosi per chi ti sostiene, e imporli a chi non è disposto a compromessi se non avari e a parole. Perché, oltretutto, non eravamo, in un senso o nell’altro,
consapevoli della realtà in cui ci muovevamo, tanto meno ne avevamo rese consapevoli le masse; e dunque non conoscevamo il minimo, che essa ci imponeva di raggiungere senza capitolare, né il massimo, che ci permetteva di proporci. Visto a posteriori, e usando la metafora scacchistica da cui sono partito, non esistevano le condizioni di una transizione al socialismo, che non poteva ormai avvenire in un ambito nazionale, ma erano inadeguate limitate riforme correttive; si trattava di evitare una sconfitta e di usare un’effettiva forza, ormai acquisita, per strappare «una patta», che consolidasse quanto ottenuto, di lasciare aperta una strada, di evitare un declino, conservare e rimuovere un’identità su cui far leva e affrontare lo scontro successivo profondamente e a lungo. Nel 1944 Togliatti ci riuscì. Negli anni settanta Berlinguer non ci riuscì, per errori non solo suoi, dei quali fu poi consapevole, ma su cui non si può tacere. Anche in quella fase di crisi, però, come sempre, oltre l’aspetto della «distruzione» dell’assetto preesistente, e al caos, covavano e cominciavano a profilarsi elementi di una successiva ristrutturazione. Nella fase finale, o immediatamente seguente, della guerra antifascista per esempio già erano mature le condizioni della futura guerra fredda, dell’egemonia americana in Occidente, dell’unificazione del mercato europeo, insomma di un nuovo assetto capitalistico e di un mondo bipolare. Su quel futuro anche Togliatti non era stato lucido (a differenza di Gramsci). Ora di nuovo cominciavano a emergere i segnali di un nuovo assetto: un’accelerazione della globalizzazione che integrava nuovi paesi, un salto tecnologico, una diversa composizione di classe e così via. Prima che esso prendesse forma, occorreva intellettualmente interrogarsi su quelle tendenze latenti per attrezzarsi a fronteggiarle per tempo.
13.2 Un matrimonio mai consumato Il Pci venne così a trovarsi davanti a due problemi molto difficili. Due problemi distinti, non esattamente contemporanei, ma che rapidamente e sempre di più s’intrecciavano l’uno all’altro e reagivano a vicenda. Entrambi esigevano risposte in tempi brevi e chiarezza di obiettivi per il lungo periodo. Innanzitutto il problema di offrire uno sbocco politico adeguato a un conflitto sociale, cui aveva variamente contribuito e dal
quale proveniva gran parte dei suoi vecchi e nuovi elettori, evitando però un collasso produttivo e una vincente controffensiva reazionaria. In secondo luogo il problema di fronteggiare una recessione economica e un caos finanziario di dimensione internazionale e di lunga durata. La responsabilità di affrontarli gravava di fatto quasi per intero sulle sue spalle, perché, anche per colpa sua, era l’unico ad avere la forza per provarci e qualche attitudine intellettuale a porseli. Accusare il Pci, e in particolare Berlinguer, di essersela assunta, e averla usata unicamente per aprirsi una strada al governo e togliersi di dosso la pregiudiziale che per principio lo escludeva, a me pare perciò ingiusto e fuorviante. Altrettanto ingiusto leggere nelle sue scelte l’inconfessata intenzione di liberarsi di una identità comunista. Questo non impedisce però di esprimere, anzi rende più incisiva, la critica della sua politica degli anni settanta, nel suo insieme e in quasi tutti i suoi passaggi. Io per esempio, dall’inizio, riconobbi che essa affrontava problemi reali, conteneva anche parziali verità, ma sostenni che era in radice sbagliata la risposta che a quei problemi offriva. Errori tattici o di gestione successivi, difficoltà imprevedibili, sabotaggi opposti da altri soggetti certamente aggravarono le cose, ma sono anch’essi rivelatori di un errore e anche di una fragilità che stavano alla base di un disegno tenacemente perseguito per quasi dieci anni e che lo destinavano all’insuccesso. 13.3 I primi passi di una politica La linea politica che Berlinguer elaborò per rispondere a questi complicati problemi, e applicò per tappe ma con tenacia, prese forma ben prima di assumere il nome di «compromesso storico». Mosse i primi passi già nel 1970, in modo prudente e su vari terreni, ma non è tuttavia impossibile cogliervi subito un filo conduttore e valutarne l’importanza. Il filo conduttore della prima tappa era implicito ma coerente nel suo obiettivo, che infatti fu raggiunto prima del previsto. Il ragionamento era semplice e aveva dalla sua la forza del buon senso. Per imporre una svolta al governo del paese, in tempi ragionevolmente brevi come le cose chiedevano, per via democratica e senza correre il rischio di scontri precipitosi e perdenti, la premessa necessaria, se non sufficiente, da porre era la conquista di una forza elettorale tale che non si potesse governare l’Italia senza e contro il Pci. Questa era la priorità. Per conquistarla,
Berlinguer pensava, non bastava un ulteriore rilancio del conflitto sociale, sia pure con rivendicazioni legittime e sentite, che interessavano però principalmente strati proletari e avanguardie già spostate a sinistra. Occorreva spostare una parte disagiata del ceto medio, arroccato nei suoi piccoli privilegi e legato a un’ideologia tradizionale, e neutralizzare l’ostilità crescente della moderna borghesia scossa dalle lotte operaie. Di questo si discusse a più riprese apertamente e vivacemente nella Direzione del partito. Come risulta dai verbali, per una volta utili, Berlinguer direttamente propose una novità che si esprimeva, preliminarmente, in un giudizio molto più preoccupato sulla situazione economica e sulle spinte a destra che produceva nella società. Per arginarla occorreva, non promuovere, ma frenare rivendicazioni e vertenze sul versante dello stato sociale, che il sindacato stava avviando. E quando Lama disse che tali vertenze non chiedevano salario per gli operai, ma diritti per tutti, Berlinguer, per essere più chiaro, gli replicò: «Si tratta comunque di salario indiretto». Una scelta così netta non era opportuno comunicarla al partito e avrebbe acceso critiche nei sindacati di categoria, ancora impegnati sul fronte dei contratti. Ma l’eco sarebbe certamente arrivata a orecchie ben disposte. All’esterno, con un documento pubblicato sull’Unità, fu rivolto un segnale più generico: il Pci era una forza nazionale pronta ad aiutare il paese in difficoltà. E quel segnale fu recepito e apprezzato da una parte dei padroni. Perché la Confindustria era divisa tra una parte ottusa, che detestava i sindacati e portava i capitali all’estero, e grandi imprese consapevoli della necessità di tenere aperto il dialogo. Questa parte, la più potente, infatti faceva nuovi investimenti tecnologici, come sempre per ridurre il numero degli occupati, ma non potendo più ottenere un taglio del salario grazie alla sola disoccupazione, avviava una nuova strategia, lenta nell’immediato, ma piena di futuro. Esternalizzava alcuni pezzi della produzione verso l’indotto non protetto socialmente, e contemporaneamente differenziava i propri impieghi di capitale assumendo la figura di holding finanziarie. Tutto questo non era favorito dallo scontro, aveva bisogno di sponde politiche. Cosicché i grandi giornali, di sua proprietà, e anche esteri, cominciarono subito a parlare del Pci come di una forza «responsabile». Un secondo passo, sempre nel senso del recupero di opinione moderata, fu compiuto nel 1971 e poi nel 1972. Riguardava i rapporti politici e con il governo. Ho già detto che quello era, al momento, un campo di Agramante: lo spazio per farvi irruzione e portare a casa qualcosa era più
ampio. Il Pci rinunciò quindi consapevolmente a esercitare una pressione sui socialisti, allora dubbiosi, perché decidessero di porre termine ai governi di centrosinistra; anzi si mostrò pronto a un atteggiamento di attesa e disposto a giudicare caso per caso il loro operato. Moderò le critiche al famoso «decretone», che di fatto era una manovra deflazionistica e di contenimento della spesa pubblica. In cambio ottenne poco dopo alcuni provvedimenti di legge importanti che da decenni chiedeva: l’attuazione delle regioni, già prescritta nella Costituzione, l’imposta progressiva sui redditi, lo stanziamento di mille miliardi da spendere subito per la costruzione di case popolari su terreni espropriati a prezzi agricoli. Non era poco e si poteva presentare come prova di un successo dell’opposizione. Tuttavia a guardare un po’ più a fondo in quei provvedimenti già si vedeva in anticipo come le «riforme» fatte a metà, non garantite da un potere politico modificato, messe in mano ad apparati statali inefficienti o ostili, e volutamente poco chiare nel testo potessero restare sulla carta, o contenere punte velenose. Per esempio, l’imposta progressiva sul reddito, con scatti automatici delle aliquote indifferenti all’inflazione, stralciando le rendite finanziarie, e priva di norme e strutture per colpire l’evasione e l’elusione, finiva con il punire il lavoro dipendente, sul quale le imprese funzionavano come esattori, mentre privilegiava invece le varie forme di lavoro autonomo, i guadagni di borsa, il lavoro nero, i liberi professionisti. Altro esempio: la nascita delle regioni – senza una corrispondente riduzione degli apparati centrali né una ridefinizione delle reciproche competenze, e senza un’autonomia e una responsabilità fiscale – poteva via via ripetere l’esperienza delle regioni autonome da tempo istituite, cioè offrire occasioni nuove al clientelismo e aprire un buco nero nel bilancio pubblico, come infatti avvenne in molti casi. Comunque, prima che ci si potesse rendere conto di tutto ciò, l’effetto di immagine era positivo, e quando ce ne accorgemmo il danno era ben difficile da riparare (anzi ce lo portiamo in parte ancora sulle spalle). Un ultimo esempio: non legato a una legge ma a un’importante direttiva del governo, che imponeva alle imprese pubbliche di destinare il 40% degli investimenti al Mezzogiorno. Doveva essere il volano dell’industrializzazione delle zone depresse. Di fatto, non essendoci alcun piano a indirizzarli, quegli investimenti furono destinati a creare grandi fabbriche avulse dal territorio, in settori ormai maturi. Procurarono nell’immediato occupazione nell’edilizia, rimasero «grattacieli nel
deserto» e aprirono voragini di debito delle imprese pubbliche o sacche di parassitismo. Terzo passo nella definizione di una politica del Pci, per necessità più che per scelta, mal gestito ma concluso con successo: la lunga odissea della legge sul divorzio e il referendum che cercava di abrogarla. La questione del divorzio anticipava, nella situazione italiana, quella ancor più delicata dell’aborto, mentre faceva irruzione, minoritario ma diffuso nella società, un nuovo movimento, frutto tardivo del Sessantotto ma di straordinario valore: il femminismo, di tipo nuovo, non più legato solo all’emancipazione, ma alla differenza di genere, come valore da riconoscere e non come ineguaglianza cui porre riparo. Emergeva così l’occasione, favorita da un referendum, per una di quelle grandi discussioni di massa che disegnano il profilo di un intero popolo. Una discussione sul rapporto tra etica individuale e collettiva. Il punto dal quale il movimento femminista partiva era esplosivo, e solo apparentemente di metodo: «il personale è politico». E, in quel passaggio storico, era rivoluzionario. Perché il neocapitalismo cominciava a invadere e rimodellare, anzi era costretto a rimodellare, tutte le dimensioni della vita: cultura, formazione della coscienza e degli stili di vita e di consumo, rapporti interpersonali, struttura della famiglia, stabilità degli insediamenti territoriali, e metteva perciò in crisi strutture e istituzioni plurisecolari. Se è vero che il personale è politico, era evidente quindi che la politica e soprattutto l’economia a loro volta erano capaci di condizionare direttamente il personale. Come affrontare questa crisi accettandone gli aspetti liberatori da ormai insopportabili gerarchie e vincoli imposti, ma superarla in avanti integrando libertà, solidarietà e responsabilità? Questa discussione fu elusa e ce la troviamo di fronte oggi non solo impoverita, ma in forme drammatiche e degenerate, cioè come scontro tra fondamentalismi religiosi o etnici in conflitto tra loro, e tutti insieme alimentati dalla lotta comune contro il cosiddetto relativismo etico, la libertà svuotata da valori, e la cultura dell’effimero. Ma il discorso è troppo complesso. Mi limito a considerare come il Pci affrontò la battaglia sul divorzio, cosa di per sé non priva di interesse. Togliatti era stato sempre riluttante a toccare il problema. All’inizio degli anni sessanta le donne del partito e quelle dell’Udi avevano rotto l’embargo, impegnandosi in un’elaborazione concentrata sul tema di una radicale riforma del diritto di famiglia, per eliminare tutti quegli elementi che scandalosamente ancora permanevano nella legislazione e ribadivano l’assoluta potestà dell’uomo.
Oggi sembra un’ovvietà, allora era una battaglia coraggiosa e cruciale. Basta rivedere il film Divorzio all’italiana, o la vicenda di Coppi e della «dama bianca» per rendersi conto di quanto il patriarcato non fosse un residuo inoperante di norme in disuso, ma restasse protetto dal diritto. Più eloquente ancora è una frase solenne di Pio XII – mai rinnegata – che ribadiva un punto di dottrina: «Ogni famiglia è una società di vita, ogni società di vita ben ordinata vuole un capo, ogni potestà di un capo viene da Dio. Dunque la famiglia fondata da voi ha un capo che Dio ha investito di autorità». Tale concezione non trovava riscontro solo nel diritto ineguale che regolava e puniva i comportamenti sessuali, ma si estendeva al diritto di proprietà, alla scelta di residenza, all’educazione dei figli. Era quindi il primo bastione da abbattere. E su questo il gruppo dirigente del Pci si allineò e fu presentata una nuova proposta di legge, subito contrastata dalla Dc. Ma in quel progetto era presente anche una proposta a favore del divorzio: e su questo, per primo, Togliatti pose un veto. Il timore era ovviamente di alimentare uno scontro con il mondo cattolico proprio nel momento in cui stava uscendo dal «pacellismo». C’era un’altra ragione, più rispettabile, il timore di trovare nel paese un dissenso delle donne stesse, o comunque di esporle a un rischio, nel senso che i rapporti di forza e la condizione materiale delle donne (un milione di loro era appena stato espulso dal mondo del lavoro e molte di più lavoravano a «intermittenza» e per salari minimi) le rendessero il soggetto più debole ed esposto così che il divorzio, più che affermare la loro libertà, le avrebbe esposte a un rischio e a un ricatto maggiori. La società stava però cambiando; e il Sessantotto, su questo terreno del costume, aveva lasciato tracce indelebili. La piena occupazione si era estesa a molte regioni, la scolarità di massa aveva raggiunto le donne. Il tema del divorzio era maturo e poteva essere vincente. La bandiera di quella battaglia fu assunta da liberali e socialisti in Parlamento, agitata con efficacia notevole da Pannella, il Pci non poté sottrarsi e la nuova legge passò. Il Vaticano reagì però con intransigenza e Fanfani vide nel referendum abrogativo un’arma per recuperare l’unità tra i democristiani e vincere nel paese. Di fronte al referendum, Berlinguer sapeva di dover impegnare il partito, ma era convinto che ostacolasse qualsiasi dialogo con la Dc e, soprattutto, era convinto di perderlo. Perciò sperò che si riuscisse a evitarlo e tentò per diverse vie e attraverso diversi interlocutori (il Vaticano attraverso Bufalini, la Dc attraverso Moro, Andreotti, alla fine Cossiga) di trovare
qualche intesa. Bufalini e Barca, suoi uomini di fiducia, vi furono impegnati come inviati segreti. La trattativa fu confusa, intermittente, e comunque destinata a fallire. Ma alla fine il Pci portò al referendum le sue truppe compatte, trascinò anche i «cattolici del dissenso». I suoi timori furono felicemente contraddetti dai fatti e la vittoria fu più larga di ogni previsione. Il Pci raccolse la sua parte di frutti in quanto compartecipe, ma anche perché, essendosi mosso in seconda fila, convinse la controparte di essere molto meno laicista degli altri. Il prezzo del successo non era però piccolo. Quel modo di gestire infatti la partita del divorzio lasciò ai liberalradicali l’egemonia in una battaglia nella quale la libertà individuale era nettamente prevalente; radicò in vari strati dell’opinione pubblica l’idea che quando il Pci parlava dell’incontro con le masse popolari cattoliche considerava un passaggio obbligato e interlocutori principali Vaticano e Democrazia cristiana. Fu anche il primo passo per un nuovo modo di far politica, caratterizzato da una rete di contatti permanenti, non solo di vertice ma personali e spesso segreti, come sempre era stata la diplomazia tra stati.
14. Il compromesso storico come strategia
Incoraggiato da questi primi successi parziali, Berlinguer decise che si poteva e si doveva elaborare e offrire, al partito e al paese, una proposta politica organica e di lunga portata. E lo fece pubblicando su Rinascita un saggio, in tre puntate, cui dava il valore di una piattaforma strategica e infatti vi si attenne per tutti gli anni settanta. Quel saggio convinse e impegnò l’intero gruppo dirigente del Pci, senza obiezioni, salvo quelle di Longo; e la base del partito, dopo qualche sconcerto, lo assunse e si sforzò di sostenerlo. Anche coloro che più tardi mostrarono perplessità sulle scelte che la mettevano in pratica (Ingrao e Natta, per esempio), non contestarono l’impianto di quella proposta politica. Fino a quando, diversi anni dopo, constatandone con coraggio l’insostenibilità e i cattivi risultati, Berlinguer stesso si assunse la responsabilità di modificarla profondamente, incontrando non poche resistenze. Merita quindi un’analisi attenta. Io l’ho riletto e meditato ancor di recente, pronto a ricredermi sulla critica netta che all’epoca espressi. Non ho però trovato ragioni per correggerla, anzi mi è parsa ancor più giustificata: ciò che è seguito non è stato casuale, provocato da eventi imprevedibili, prodotto da errori tattici o responsabilità di soggetti ostili, ha piuttosto contribuito ad accelerare e aggravare sia la sconfitta sia le sue conseguenze. Ma la debolezza, e le contraddizioni di quel progetto politico sono ben visibili, oggi più che mai, nella sua impostazione di partenza. E mi sforzo di dimostrarlo. La prima puntata del saggio era quasi interamente dedicata alla tragica vicenda cilena, che in quel momento turbava l’animo di ogni compagno, per trarvi una lezione. Già la scelta di quella premessa era discutibile, e la ricostruzione dei fatti era, consapevolmente o meno, piegata a improprio sostegno di una scelta politica. Era indubbio che nel disastro cileno avevano pesato debolezze o ingenuità di Allende e dei suoi compagni. Allende era diventato presidente – e presidente voleva dire responsabile pieno del governo del Cile – in modo costituzionalmente ineccepibile, cioè con un voto popolare, largamente maggioritario, ma con solo il 39% dei voti. Aveva di fronte un Parlamento nel quale disponeva di una maggioranza occasionale e che, più che sostenerlo, lo ostacolava. È altrettanto vero che le sue intenzioni e i suoi provvedimenti non avevano
affatto un carattere rivoluzionario, si concentravano contro poteri avidi (monopoli stranieri da tempo imposti e tuttora predatori) e oligarchie agrarie insopportabili; ma dietro quegli interessi, forti, ce ne erano altri ancora più forti, internazionali, e soprattutto il Cile era parte di una regione del mondo semicoloniale, nella quale tutti gli equilibri erano in quel momento minacciati. L’esercito aveva rinnovato la sua fedeltà alla Costituzione, ma era pur sempre una casta separata, formata negli Stati Uniti. I rischi di un contrattacco reazionario erano dunque reali. Probabilmente Allende li ha sottovalutati, anche perché una parte dei suoi sostenitori di sinistra lo spingeva ad andare più avanti e più in fretta. Era però altrettanto indubbio che il sostegno popolare non gli mancava, anzi cresceva, intellettuali e tecnici da tutta l’America Latina arrivavano per aiutarlo, i partiti oppositori erano divisi, privi di una base di massa, anche se, proprio per questo, gran parte della popolazione era spoliticizzata e oscillante. E infatti Allende non fu rovesciato né da una coalizione parlamentare, né da mobilitazioni popolari. Fu prima logorato da un caos economico volutamente organizzato dall’estero, poi da jacqueries corporative altrettanto eterodirette. E alla fine, poiché tutto ciò non bastava, da un colpo di Stato militare, suggerito e finanziato dagli Usa, che operò una gigantesca e sanguinaria repressione e si concluse con un duraturo governo dispotico. Lo stesso Berlinguer, nel suo scritto, riconosceva tale dinamica con parole pesanti: «I caratteri dell’imperialismo, particolarmente quello nordamericano, restano quelli della sopraffazione, lo spirito di aggressione e conquista, la tendenza a opprimere i popoli ogniqualvolta le circostanze lo suggeriscano». Ma allora come sarebbe potuto bastare a impedirlo, come lui suggeriva, «un migliore rapporto» con una parte della Dc cilena, impotente e spesso complice? E soprattutto, esistevano o potevano crearsi le condizioni per esercitare quel tipo di minaccia in Italia, e in Europa, dove proprio allora tornavano almeno formali istituzioni democratiche (Grecia, Portogallo) e in un momento nel quale gli Stati Uniti erano paralizzati dalla guerra vietnamita che stavano perdendo? Certo anche qui da noi c’era una crisi economica e politica, ma di tutt’altro genere e ben più controllabile. Assumere l’esperienza cilena come un esempio, come era stato fatto a suo tempo con il caso greco, non era solo una forzatura, ma era fuorviante. Un ostacolo a capire sia altre difficoltà reali con le quali fare i conti, sia la possibilità di cambiamento che la situazione offriva. Indizio di un’incertezza nell’analisi che alla fine si sarebbe riflessa in un’incertezza della proposta.
Nella seconda puntata del saggio, nella quale affronta di getto il tema della situazione italiana e dell’obiettivo di fase che il Pci si proponeva, Berlinguer stesso cambiava di tono e alzava il tiro. Qui, e per un buon tratto di strada, il suo ragionamento era coerente, ben argomentato e si può quindi sintetizzarlo senza rischio di alterarlo. L’Italia – diceva – attraversava una fase di crisi profonda e cruciale: crisi del sistema economico, che dopo un lungo periodo di espansione non era più in grado di garantirla; crisi degli equilibri sociali, che di conseguenza non potevano più estendere il benessere, né ridistribuirlo più equamente con la sola pressione sindacale; crisi delle istituzioni, paralizzate dai corporativismi e spesso inquinate da corruzione o da poteri occulti; crisi del sistema politico ormai privo di maggioranze stabili e capacità di governo. In tutto ciò riaffioravano vecchie arretratezze della società italiana e si manifestavano nuove contraddizioni, proprie del tipo di modernizzazione del capitalismo italiano e del capitalismo in generale. Ma si poteva anche vedere il prodotto di grandi lotte, difensive e offensive, che avevano contrastato quel sistema, conquistato nuovi diritti, affermato nuovi valori, nuovi soggetti sociali, nuovi stati; in sostanza nuovi rapporti di forza in Italia e nel mondo. Se una tale crisi si fosse avvitata su se stessa, se fosse rimasta nelle mani di una classe dirigente alla ricerca di una restaurazione, avrebbe messo a rischio la stessa democrazia. Per evitarlo, era necessaria e possibile una svolta profonda nel governo del paese, nei suoi indirizzi programmatici, nell’assetto del potere. Per rendere più chiaro cosa intendesse per «svolta», Berlinguer aggiungeva due cose. Anzitutto «occorrono riforme strutturali orientate verso il socialismo»: una seconda tappa della democrazia progressiva. In secondo luogo (citando Togliatti e Longo) «è sbagliato identificare la via democratica con il parlamentarismo: il Parlamento può adempiere il suo compito solo se l’iniziativa parlamentare dei partiti del movimento operaio è collegata alle lotte di massa e alla crescita di un potere democratico nella società e in tutti i settori dello Stato». E anche quando sottolineava la necessità di raccogliere, a sostegno della svolta, una maggioranza della popolazione, e a tal fine un incontro tra masse comuniste, socialiste, cattoliche, citava nell’ordine: l’unità della classe operaia rispettando le diversità dei ruoli e di tradizioni culturali; l’alleanza con un ceto medio non indifferenziato ma nella sua parte progressiva e libera dal corporativismo; infine donne, giovani, intellettuali, cioè nuovi soggetti emersi nella lotta.
Fino a questo punto il discorso si presentava non solo coerente rispetto all’identità storica del comunismo italiano, ma assumeva anche un carattere più nettamente offensivo. La sola critica che gli si poteva muovere – e allora gli mossi – concerneva la sommarietà nell’analisi della crisi e della situazione internazionale (in particolare la situazione del movimento comunista mondiale); ancora più l’assenza di un giudizio sullo stato reale del movimento di massa, e di ogni concreta priorità programmatica che servisse da discriminante per misurare la svolta. Non è una critica irrilevante, perché quelle reticenze lasciarono le mani troppo libere nello stabilire un rapporto tra strategia e tattica, tra alleanze e contenuti. Nella terza puntata del saggio, Berlinguer tentava appunto di completare l’esposizione del suo progetto indicando, in termini più ravvicinati, come e da dove dovesse partire. Ma proprio qui emersero subito le contraddizioni che ne cambiavano il segno, ne compromettevano sia la logica sia il realismo. L’asse portante di quell’ultima parte era sintetizzato in una frase che poi divenne famosa: «Non si può governare e trasformare il paese con una maggioranza del 51%». Presa nel suo insieme, e letta alla luce di tutto ciò che la precedeva, quell’affermazione era inoppugnabile. Non si può infatti «governare e trasformare» un paese socialmente, territorialmente, culturalmente complesso, rispettando la Costituzione, se non si dispone, anche in Parlamento, di una forza sufficiente per deliberare e gestire riforme profonde, che toccano interessi diffusi o abitudini radicate, e di un tempo abbastanza lungo perché tali riforme producano gli effetti desiderati. Inoppugnabile ma ambigua. Perché cosa succede, e cosa si fa se non esiste ancora una simile forza, ma c’è un vuoto di governo, e una crisi pericolosa incalza? Si resta all’opposizione, aspettando che la crisi stessa produca le condizioni di una vera svolta e lavorando per costruirle? Oppure si separa il binomio governo-trasformazione e, almeno in partenza, si accetta di partecipare a una maggioranza eterogenea, su di un programma minimo, la cui attuazione resta incerta, rinviando a un secondo tempo una vera svolta, nella speranza che la dinamica stessa della collaborazione, e gli avanzamenti da essa prodotti nella coscienza di massa, consentano traguardi più avanzati, e conquistando nel frattempo almeno la propria legittimazione come forza di governo? È evidente che non si trattava di una scelta astrattamente di principio, ma lo è altrettanto che non si trattava solo di una tattica adattabile, passo passo, secondo
convenienza. Era una scelta strategica da fare in anticipo, sulla base di un’analisi concreta, in una fase storicamente determinata. Togliatti per esempio scelse in anticipo la partecipazione a governi di unità nazionale e ne accettò anzi una versione forse ancor più moderata del necessario. Lo fece però sulla base di una valutazione dei rapporti di forza in un paese che usciva dal fascismo, aveva perso la guerra, aveva le armate occidentali in casa, e forse anche sperando che l’unità dei grandi paesi vincitori durasse un po’ di più. Ma lo fece soprattutto perché pensava che l’azione immediata di governo, cui peraltro erano disponibili tutte le forze della Resistenza, non fosse la cosa essenziale. Essenziale era invece la conquista della Repubblica e soprattutto di una Carta costituzionale avanzata e condivisa. E questo ottenne anche con l’apporto dei Dossetti, dei Lazzati, dei La Pira. Un «compromesso storico» c’era stato, e noi siamo ancora oggi a difenderlo dallo smantellamento. Non era però questa la situazione degli anni settanta. Sia la crisi economica, sia il conflitto sociale, non potevano trovare una soluzione «in avanti» separando «governo da trasformazione». E infatti Berlinguer aveva appena finito di scriverlo, anzi proponeva una «svolta nella società e nello Stato». Ma anche accettando, come ci si predisponeva a fare, una separazione dei tempi, cioè l’ipotesi di una fase di transizione che aprisse la strada a più ambiziosi traguardi, tale ipotesi era possibile, e a che condizioni? Il tema centrale, in questo caso, diventava quello delle forze politiche e della loro disponibilità e su questo, infatti, si spostò l’attenzione dell’ultima parte del saggio che aveva molti tratti di quei «reami immaginari» che Berlinguer pure detestava. «Immaginario» era, anzitutto, dare per scontata l’unità della sinistra, cui dedicava non a caso solo un breve accenno. L’unità con il Psi si era rotta ormai da più di dieci anni sul piano politico, era stata più volte pericolante anche nel sindacato e nelle amministrazioni locali, poteva negli anni settanta essere ricostruita, ma con un lavoro paziente e di esito incerto. A condizione di non alimentare, con un rapporto preferenziale con la Dc, il sospetto che si volesse declassare il Psi a un ruolo marginale e subalterno. Non meno immaginario era considerare l’estrema sinistra ormai ininfluente e facilmente controllabile. Era indubbio che fosse ormai disorientata e dispersa, ma proprio nella sua crisi affiorava qualche disponibilità a un confronto (per esempio cito il tentativo interessante della nascita del Pdup, il Partito di unità proletaria, e del ripensamento in Avanguardia operaia o nell’Mls, il Movimento lavoratori per il socialismo). Soprattutto esisteva ancora, disorganizzata ma
estesa, una vasta area giovanile formatasi tra il 1968 e il 1970, che aveva dato molti voti al Pci come unica forza parlamentare di opposizione, ma non era affatto arresa, e che avrebbe reagito a governi di larga coalizione e di basso profilo nei modi più imprevedibili, ma certo non con simpatia. L’ipotesi di una maggioranza di governo che includesse il Pci in tempi ragionevolmente brevi si fondava quindi essenzialmente su un’intesa diretta tra i due maggiori partiti, la Dc e il Pci. L’immaginario qui prevaleva ancor di più, anzi era contraddetto da un’evidenza riconosciuta. Un mese prima, infatti, la stessa Rinascita aveva pubblicato in allegato un numero speciale del Contemporaneo, dedicato proprio all’analisi della Dc. Vi intervenivano alcuni dei dirigenti più autorevoli, come Chiaromonte e Natta, insieme ad alcuni specialisti, come Chiarante e Accornero. Rileggendolo colpisce una cosa: tutti convergevano da molte angolature in analisi severe. La Dc era ormai ben diversa, dicevano, da quella originaria. Meno clericale ma insieme meno religiosa. Fortemente radicata nella società, ma attraverso molti canali clientelari, protezioni sociali, esercizio accorto del potere, sostegno alle imprese, presentandosi come garanzia di stabilità economica e amministratrice sperimentata della spesa pubblica. Insomma un partito-Stato costruito in trent’anni, capace di mediazioni. Per questo era cronicamente divisa in diverse correnti organizzate, ciascuna delle quali aveva rapporti organici con certi ceti, certi territori, certi settori dell’apparato statale e delle imprese pubbliche, ma unita fortemente dalla necessità di una propria supremazia. La sua forza principale stava nell’espansione economica di cui poteva vantarsi, cui aveva contribuito e di cui sapeva con sapienza distribuire i vantaggi. Questo non significava che la Dc fosse una fortezza inespugnabile e non penetrabile. Il declino dello sviluppo economico infatti rendeva anche per lei più ristretti i margini di mediazione tra gli interessi che rappresentava. Il ciclo di lotte operaie aveva chiaramente inciso sugli orientamenti e sui comportamenti di grandi organizzazioni sociali a lei tradizionalmente collaterali, come la Cisl e le Acli (perfino il mondo contadino, sottoposto alla pressione dell’industria alimentare e agli iniqui accordi imposti dai più grandi paesi europei, sfuggiva ormai al totale controllo della Coldiretti e della Federconsorzi). L’alleanza parlamentare centrista ormai sfaldata, e i sempre più ricorrenti tentativi di sopperirvi con accordi provvisori e sottobanco con l’estrema destra, aprivano tensioni al suo interno più che offrire una soluzione. Soprattutto la svolta segnata dal Concilio, benché
superficialmente rimossa, agiva nelle esperienze della Chiesa di base e creava qualche riflesso perfino tra molti intellettuali vicini al suo vertice. In un convegno quasi sconosciuto ma impegnativo (a Lucca, già nel 1967), da sponde diverse, Ardigò e Del Noce avevano posto l’interrogativo: «La gente semplice si chiede: “Come mai dopo decenni di governo di un partito cattolico l’impronta cristiana nella società declina?”». E tuttavia il rifiuto di una vera intesa con il partito comunista, ormai diventato più forte e considerato meno minaccioso, restava immotivato e intransigente, proprio perché tale forza di per sé poteva mettere in discussione il partitoStato, minacciarne la supremazia nell’esercizio del potere che ne costituiva il vero cemento. Infatti quell’intesa non si realizzò. E mai si sarebbe potuta realizzare senza passare da una crisi e da una rottura della Dc, che liberasse forze prigioniere al suo interno. Di tale evidenza però il gruppo dirigente del Pci, e Berlinguer, rifiutò di prendere atto e di trarre, sia pure a suo modo, le conseguenze. Al contrario si veniva convincendo che solo da uno spostamento complessivo e graduale della Dc, attraverso un’esperienza comune di governo, potesse nascere un incontro tra masse comuniste, socialiste e cattoliche. Berlinguer, alla fine del suo saggio, aggirò quindi il problema con un sofisma e scrisse: La Dc non è una realtà metafisica, ma un soggetto storico mutevole, è nata in opposizione al vecchio Stato liberale e conservatore, è stata travolta dal fascismo, poi ha partecipato alla guerra di Liberazione, ha contribuito alla stesura della Costituzione, poi ancora ha partecipato alla guerra fredda dalla parte opposta alla nostra anche nelle forme peggiori. Oggi può di nuovo cambiare e sta a noi aiutarla o costringerla a farlo. Concluse dunque la sua riflessione con una proposta impegnativa e ravvicinata per il governo del paese: un «nuovo grande compromesso storico» del quale i due maggiori partiti erano i naturali protagonisti. In cosa consistesse il compromesso, e come potesse diventare «storico», restava ovviamente abbastanza misterioso. A me non è chiaro il perché di quell’azzardo. Forse egli credeva realmente di aver trovato una via di uscita in una situazione tanto pressante e complicata. Forse dai suoi rischi pensava di essere garantito per un eccesso di fiducia nella forza propulsiva e nella saldezza dei princìpi del proprio partito. Più probabilmente, e una cosa non esclude l’altra, non prevedeva di trovarsi tanto presto di fronte a una scelta immatura, né a offerte democristiane tanto misere, e sopravvalutava la straordinaria abilità di Moro nel dire e non dire, nel
promettere e nel procrastinare. Di fatto, più che trovare una via di uscita aveva messo la mano in una tagliola, dalla quale si sarebbe sottratto troppo tardi.
15. Dall’apogeo alla sconfitta
Tra le letture cui questo lavoro mi ha obbligato, ho casualmente incontrato una frase che può sintetizzare in modo amaro e insieme arguto ciò che è accaduto al Pci negli anni settanta. La frase è di Ramsay MacDonald, un Primo ministro inglese che guidò un governo di grande coalizione intorno agli anni trenta. Alla fine, non brillante, di quel tentativo, un giornalista americano gli chiese: «In sintesi che insegnamento può trarne?». MacDonald rispose caustico: «Avevo già imparato quanto sia frustrante essere a lungo esclusi dal governo, ma poi ho capito che c’è di peggio: andare al governo e accorgersi che non si può fare quasi nulla». A parte l’arguzia, quella frase lapidaria si può applicare anche a esperienze simili vissute dalla sinistra in altri paesi, tra i quali il nostro: dal centrosinistra degli anni sessanta, fino alla situazione attuale. Rispetto a quella vissuta dal Pci a metà degli anni settanta risulta però ancor più pertinente. L’esperienza si avviò con la sorprendente vittoria nel giugno del 1975, alle elezioni regionali e amministrative, che cambiava radicalmente i rapporti di forza politici e sembrava aprire al Pci, dopo decenni di esclusione pregiudiziale, la strada del governo del paese. I comunisti arrivarono infatti d’un balzo al 33,5% dei voti, diventando preminenti in nuove regioni e in quasi tutte le grandi città (salvo Palermo e Bari). Tre milioni di voti in più rispetto alle elezioni del 1972, in prevalenza giovanili, non tutti dati con intenzioni collimanti, ma con la comune volontà di cambiare lo stato delle cose. Il Partito socialista ottenne il 12% e sembrava orientato, anche se ancora indeciso, a interrompere la sua subalterna partecipazione a governi guidati dalla Dc. Il Pdup prese quasi il 2% essendosi presentato in dieci regioni su quindici. La Democrazia cristiana invece era calata al 35%, perdendo due milioni di voti, non a favore della destra e dei liberali, ma della sinistra o dei partiti laici di centrosinistra. Essendo le elezioni politiche ormai prossime, era evidente a tutti che non ci sarebbe più stata la possibilità di governare il paese senza la partecipazione, o almeno il consenso, dei comunisti. Questo stesso successo metteva però in luce problemi fino ad allora trascurati o volutamente elusi. Anzitutto, e paradossalmente, perché veniva troppo presto. Il «compromesso storico», asse della politica assunta dal Pci, era sempre stato volutamente ambiguo sui tempi: indicava una strategia di lungo, o almeno di medio periodo (di questo Berlinguer era convinto, e polemizzava con chi lo smentiva),
oppure era una proposta di governo immediata, necessaria per affrontare una crisi incalzante (come credevano non pochi degli altri dirigenti, per esempio Amendola)? Ora quel nodo andava sciolto, nel giro di pochi mesi o al massimo di un anno. Da qui discendeva un altro problema. La sinistra nel suo insieme era ormai al 47%, il Partito socialista rifiutava di tornare al governo con la Dc e comunque considerava preliminare un’intesa con i comunisti. Come interpretare questa novità: come una scelta precaria se non maliziosa di cui diffidare, o come una leva da usare per mettere la Dc alle corde e obbligarla a una svolta netta, se non all’opposizione? A questo proposito, in un editoriale sul neonato ma già autorevole quotidiano la Repubblica, Eugenio Scalfari disse la sua con particolare brutalità. Vale la pena citarlo, perché esprimeva l’orientamento anche di ambienti intellettuali e sociali che non venivano dalla sinistra tradizionale: L’ultimo congresso democristiano ha dimostrato che la Dc è ora un’espressione degradata di una grande alleanza di clientele parassitarie. Fino a quando non avrà cambiato natura, cioè non sarà diventata il partito dei cattolici democratici, anziché la rappresentanza di arciconfraternite di potere, ogni ipotesi di «compromesso storico» è inattuale. Perciò bisogna andare al prossimo voto politico con uno schieramento e un programma di un governo della sinistra. Poco dopo De Martino, segretario del Psi, avrebbe avanzato la stessa proposta rendendola per il Pci più digeribile: con la Dc si poteva e si doveva tener aperto un dialogo, ma partendo dalla forza e dalle idee di una sinistra unita. In tale versione la proposta non comportava svolte o rinunce per nessuno. Anche chi, come Berlinguer, era convinto che l’obiettivo strategico restava un incontro con i cattolici, e riteneva possibile un mutamento della Dc che lo permettesse, non aveva, almeno in apparenza, ragioni per non compiere un primo passo usando la forza di una sinistra unita. Ma le ragioni della diffidenza invece, a voler essere seri, c’erano. Per imboccare quella strada, senza leggerezza, infatti occorreva superare due ostacoli rilevanti. L’errore è stato di non averli riconosciuti per superarli quando ancora forse si era in tempo. Innanzitutto, per ricostruire un’unità politica tra comunisti e socialisti abbastanza solida e durevole da reggere uno scontro, fosse pur transitorio, con la Dc, non bastava mettere indietro le lancette dell’orologio. Troppa acqua era passata sotto i ponti, sul piano ideologico e su quello
dell’insediamento sociale. Occorreva, da una parte e dall’altra, almeno una parziale correzione sia nel giudizio sull’Unione Sovietica e la sua evoluzione, sia rispetto alla disciplina atlantica. E occorreva altrettanto, da parte degli uni, moderare la passione acquisita del disporre sempre e comunque di «qualche bottone da spingere» nelle stanze di governo e, da parte degli altri, contenere la fretta di ottenere una visibile legittimazione come forza di governo. Su entrambi questi punti si offrivano spazi di innovazione e nuove difficoltà. Entrambi i blocchi internazionali erano in crisi e le loro leadership indebolite; ma per lo stesso motivo la politica di coesistenza era in difficoltà e ogni blocco era preoccupato di mantenere il controllo al proprio interno. Parimenti, il nuovo assetto del potere locale prodotto dai risultati del 1975, là dove esistevano già risorse e capacità, offrì alle forze di sinistra possibilità di iniziativa e di successo in molte città; ma in altre zone e in molti centri periferici produceva la moltiplicazione di occasioni allettanti ma ambigue: spingeva cioè a inventare larghe convergenze ovunque fosse possibile e purchessia, con il metodo della spartizione partitica e chiudendo un occhio sulle voci di spesa. Questo spiega perché il Pci considerò frettolosamente una trappola, o comunque poco affidabile, la proposta di un rapporto privilegiato a sinistra; e perché, dopo, i sostenitori socialisti dell’alternativa di sinistra collaborarono alla liquidazione di De Martino per sostituirlo con Craxi, che non nascondeva tutt’altre intenzioni. L’ulteriore problema che il 1975 mise in luce, il più importante, era la carenza di programma. Il tema di un nuovo governo e di nuove alleanze venne all’ordine del giorno proprio nel momento in cui era più difficile affrontarlo. La crisi strutturale, che investiva da tempo l’intera economia internazionale, arrivò al punto più acuto in Italia proprio nel 1975. Non è detto che situazioni di crisi acuta rendano impossibile una svolta riformatrice, a volte è accaduto il contrario. Ma per farlo occorrono in partenza un’elaborazione di idee, una capacità di gestione, una solidità di alleanze di governo, una comprensione e un consenso nel paese, anzitutto tra coloro che ti hanno votato e devono essere disposti ad attendere i frutti delle riforme. Questo lavoro non era stato compiuto e quasi neppure avviato. Paradossalmente, il bagaglio programmatico con cui si era arrivati al centrosinistra negli anni sessanta era stato più coraggioso e concreto di quello con il quale la sinistra arrivò al 1975. Colmare tale ritardo programmatico e mobilitare un blocco sociale a esso coerente era la priorità assoluta.
Voglio citare un giudizio sintetico, coraggioso e lungimirante che Luigi Longo, ormai malandato, espresse alla Direzione del Pci proprio quando si discussero i risultati di quelle elezioni: «La nostra proposta di “compromesso storico” è enigmatica e ambigua, tale ambiguità di proposta probabilmente ha ora contribuito al successo elettorale, ma resta inattuabile e porterà alla nostra passività». 15.1 Il dilemma del 1976 A far venire i nodi al pettine furono, nel 1976, le elezioni anticipate, provocate da una richiesta di De Martino di «equilibri più avanzati», che annunciava l’uscita del Partito socialista dal governo. Berlinguer la definì una trappola. Il giudizio sulle intenzioni era ingeneroso, ma la previsione risultò azzeccata. Il risultato di quelle elezioni fu infatti doppiamente sorprendente. Per un verso segnò una nuova avanzata del Pci (dal 33,5 al 34,4%) apparentemente contenuta, ma in realtà più consistente, perché questa volta partecipavano anche le regioni autonome, finora riserva di voti della Dc. Ma, per altro verso, contro le previsioni, la Democrazia cristiana ottenne anch’essa un corposo recupero, tornando al 38,8% a danno dei suoi alleati minori. A questo punto non esisteva più, neppure in termini matematici, una maggioranza senza che il Pci vi partecipasse. Di un’intesa diretta e immediata tra democristiani e comunisti (cioè una diarchia tra i maggiori partiti) non era neppure il caso di parlare, tanto più che la Dc, in campagna elettorale, aveva cercato e ottenuto consensi moderati proprio con l’obiettivo esplicito di impedire ai comunisti di entrare nel governo (Montanelli aveva scritto con successo «turiamoci il naso» e torniamo a votare democristiano). Poteva la Dc smentire la propria posizione? Un alt, inoltre, era arrivato da una riunione comune dei governi atlantici, in America, da cui era stato escluso Moro, che rappresentava il governo italiano, ma non era considerato affidabile. D’altra parte per un governo delle sinistre mancavano sia i numeri (48%), sia la volontà politica, perché il Psi, che l’aveva prospettato, era indebolito, l’estrema sinistra era marginale, divisa al suo interno e in buona parte riluttante, e i socialdemocratici non accettavano di sostenerlo. La scelta quindi diventava un duro dilemma. O tornare subito alle elezioni, con schieramenti e programmi alternativi, e ripeterle fino a che si creasse un
nuovo rapporto di forza, oppure dar vita a un governo di emergenza sostenuto da uno schieramento molto vasto e composito che escludesse le ali estreme e agisse per (e fino a quando) i problemi più urgenti del paese fossero risolti e le relazioni tra i partiti si fossero modificate. La prima scelta – per la quale non pochi, io tra loro, propendevamo – era probabilmente giusta ma, oltreché improbabile, rischiosa. Improbabile perché implicava una svolta radicale e improvvisa nella strategia del Pci, che si considerava invece vincitore. Rischiosa perché, come abbiamo visto, arrivava in ritardo, senza aver cioè costruito l’unità della sinistra né tra i partiti né nel paese, senza aver definito un programma comune convincente e di largo respiro, e dunque poteva provocare un’instabilità protratta e senza sbocchi. La seconda scelta – il governo di larghe intese – si poteva forse tentarla, come prima fase di una svolta più avanzata; la partecipazione dei maggiori partiti di sinistra, esplicita e con effettivi poteri in rapporto al loro peso, doveva esserne il logico corollario. Anche questa soluzione era però difficile e di esito incerto. Difficile, perché la Dc era ben lontana dall’accettarla a viso aperto, in quanto poneva fine alla sua supremazia e incrinava la sua unità. E dunque scontava un aspro braccio di ferro per imporgliela. Di esito incerto perché, per sua natura, un governo di coalizione e transitorio è del tutto inadeguato ad affrontare problemi reali, le cui origini erano lontane e la cui soluzione necessariamente toccava interessi corposi e richiedeva tempi lunghi. Nell’incertezza, all’improvviso emerse, e fu accettata senza visibili resistenze, una soluzione in ogni senso bizzarra: un governo monocolore democristiano, senza alcun accordo programmatico vincolante, senza neppure una maggioranza parlamentare riconosciuta, sostenuto da una «non sfiducia» del Pci e del Psi. La prima bizzarria era di principio. Governi di minoranza si erano già visti, raramente, in altri paesi di democrazia parlamentare, ma sempre retti da una forza prevalente e vicina alla maggioranza, che otteneva a viso aperto il necessario sostegno di una forza minoritaria a lei affine. Un governo monopartitico con una forza del 38%, a fronte di uno schieramento del 48%, e basato sulla «non sfiducia» non si era visto mai. Cosicché, di fatto, quel governo la cui prima novit doveva consistere nella legittimazione del Pci, al contrario legittimava il diritto, quasi monarchico, della Dc a governare, anzi a governare da sola, persino senza maggioranza. La seconda bizzarria stava nell’esistenza di un «governo di emergenza», non
corredato da un «programma di emergenza», né limitato a una precisa scadenza temporale; e composto tutto da uomini già da tempo al potere con le più diverse alleanze. La terza bizzarria, non meno importante, stava nel fatto che a qualsiasi programma che tale governo avesse la bontà di presentare alle camere non corrispondeva comunque una mutazione nei centri di potere effettivo extraistituzionali e nei vertici della burocrazia che dovevano assicurarne l’applicazione. Alla sinistra veniva offerto un ruolo simbolico, la presidenza di alcune commissioni parlamentari che, come tutti sanno, da sempre avevano potere su qualche «leggina» o nel proporre emendamenti marginali (potere reale e diretto: niente). Non sono mai stato in grado, né lo sono oggi, di appurare chi abbia concepito una tale soluzione. Alcuni dirigenti sia del Pci, sia della Dc di allora mi hanno detto con sincerità che l’idea nacque nelle loro fila. Sta di fatto che essa fu largamente accettata. E che, per la sinistra, era una «proposta a perdere»: assumere la responsabilità di governo ma in un ruolo fittizio. Non un matrimonio di convenienza, neppure un’alleanza, solo un adulterio occasionale. Al di là di questa divisione dei poteri – che già in sé comportava frequenti dissensi, o precari compromessi, e concedeva alla Dc un ruolo soverchiante nella funzione di governo – occorre poi considerare anche gli uomini in carne e ossa cui tale ruolo veniva assegnato. Anzitutto la scelta del presidente del consiglio, che in una situazione tuttora così poco definita assumeva un valore ancor più importante. La scelta di Giulio Andreotti fu proposta da Moro e accettata con l’argomento che essa offriva una garanzia e una copertura a una destra democristiana riottosa, forte nella società, e che poteva in ogni momento rivendicare coerenza con la linea proclamata in campagna elettorale e sancita dal recupero di milioni di voti. L’argomento aveva un peso, ma non era molto convincente. Andreotti non era un uomo di paglia, né un trasformista. Dietro l’apparenza della flessibilità e dell’estremo realismo, la sua biografia politica mostrava un’identità e una collocazione politica coerente e coriacea, in nome della quale, pur essendo quasi sempre membro del governo, aveva spesso scelto di organizzare una minoranza nel partito e di dissentire dalla sua politica. Era un degasperiano di destra, aveva costruito la sua corrente non a caso in Sicilia e nel Lazio, era sempre stato uomo di fiducia della parte più tradizionale della gerarchia ecclesiastica, aveva ripetutamente cercato, nel limite del possibile, il sostegno dei partiti di destra o di centrodestra quando occorreva. Aveva stabilito legami di fiducia con l’insieme del padronato industriale e agrario e con il mondo finanziario comprese figure
ambigue. Ma soprattutto, grazie alla permanenza al governo in ruoli decisivi, era l’uomo di maggior fiducia rispetto a Washington, aveva acquisito un’eccellente conoscenza del funzionamento della pubblica amministrazione e l’amicizia dei suoi vertici. Nel governo «della non sfiducia» era inoltre fiancheggiato, là dove occorreva, da uomini di varie correnti, prevalentemente dorotei, ma a lui affini. Quella che prendeva le redini dello Stato era dunque una Dc che certo era cambiata ma, politicamente, non in meglio. È vero che parallelamente muoveva dei passi una leadership politica diversamente orientata: Moro e Berlinguer in dialogo tra loro. Non era solo apparenza, perché li univa un importante elemento comune, l’esigenza di guardare più lontano, di trasformare gradualmente una intesa provvisoria, imposta dalla necessità, in una convergenza duratura e più di sostanza. Ma, a parte il fatto, banale ma non irrilevante, che l’uno e l’altro non avevano competenza né interesse per incidere fortemente sull’azione effettiva di governo, tale dialogo produceva tra loro simpatia e fiducia meritate, ma poi approdava a rinvii o a mezze intese. Per due ragioni impedienti. La prima dipendeva dal fatto che la rispettiva funzione nel proprio partito era fortemente asimmetrica. Berlinguer disponeva nel Pci di una fiducia illimitata che gli permetteva di decidere, quando voleva e anche quando sbagliava. Moro, al contrario, nella Dc era autorevole, ma come ispiratore o come mediatore. Due episodi mostravano bene tale asimmetria: la dichiarazione di Berlinguer sul sentirsi più sicuro nell’alleanza atlantica, che fu accettata senza rampogne mentre era ambigua e gratuita; e il discorso di Moro in Parlamento in difesa arrogante e obbligata di coloro che erano compromessi nello scandalo Lockheed. La seconda e più importante ragione dello stop and go nel loro dialogo stava nel fatto che entrambi guardavano lontano ma in direzioni diverse. Per Moro un periodo di collaborazione doveva rendere possibile un nuovo assetto politico nel quale Dc e Pci democraticamente rappresentassero due progetti alternativi; per Berlinguer invece doveva aprire la strada a un compromesso che rappresentasse una svolta, un avvicinamento a un nuovo assetto sociale con il contributo dinamico sia dei comunisti che dei cattolici. Erano prospettive diverse. L’una doveva passo dopo passo realizzare ciò che il centrosinistra aveva fallito, e implicava che il Pci, forza di gran lunga maggioritaria della sinistra italiana, andasse ben oltre l’autonomia da Mosca e il rispetto della Costituzione italiana, modificasse cioè la sua identità di forza comunista e accettasse l’appartenenza al campo delle
democrazie occidentali. L’altra ribadiva, anzi voleva rendere più visibile, seppure graduale, una «via italiana al socialismo» e un superamento dei blocchi. Per l’uno e per l’altro non si trattava di parole ma di convinzioni profonde, radicate in una storia e condivise da coloro che tuttora rappresentavano. A dirimere un tale dissenso non bastava certo un’operazione politica improvvisata sotto la spinta di uno stato di necessità: la sincera ma generica dichiarazione di Moro sulla necessità di una «terza fase», o le più impegnative iniziative di Berlinguer (per esempio il discorso sull’«austerità» o lo scambio di lettere con monsignor Bettazzi) cadevano nel vuoto, o peggio davano luogo a travisamenti e contestazioni. Quali erano allora le forze reali di cui la sinistra disponeva per condizionare l’effettiva azione di un governo concepito in modo tanto sbilanciato? Erano due, e rilevanti: una rappresentanza parlamentare del 48%, ma di fatto messa ai margini, e la pressione nella società di un sindacato fortemente cresciuto e unito da un patto federativo. Ma ancor prima che il governo Andreotti si insediasse, o immediatamente dopo, quei due punti di forza mostrarono le loro crepe e quel tipo di governo li indeboliva ulteriormente. La ritrovata unità politica tra socialisti e comunisti, che aveva prodotto lo scioglimento delle camere, pur con molte riserve, divenne improvvisamente precaria così come improvvisamente era sembrata rinascere. La liquidazione di De Martino e l’elezione di Craxi vennero pensate e presentate come rinnovamento necessario, dopo la sconfitta elettorale subita dal Psi, e come segnale di autonomia politica per arginare lo strapotere dei due maggiori partiti, non come una svolta di linea politica rispetto all’unità della sinistra. Perciò vi contribuì gran parte dei lombardiani e degli stessi demartiniani. Ma Craxi, come Andreotti, non era un uomo di paglia, era un politico capace e con idee ben caratterizzate. Nenniano da sempre, e nella versione prevalsa durante il centrosinistra, l’autonomia che più gli premeva non era quella dalla Dc ma quella dal Pci: la sua convinzione profonda era che per contrastare la supremazia democristiana era pregiudiziale cambiare i rapporti di forza nella sinistra, perciò per prima cosa occorreva gradualmente sfilarsi dalla «grande coalizione». Lo fece a poco a poco e con prudenza via via che il suo potere si consolidava, ma senza titubanze e nascondimenti. Anche nel sindacato la situazione stava mutando, la sua forza
organizzativa era cresciuta in ogni settore, e reggeva, ma non altrettanto la sua volontà e capacità di lotta. La crisi economica rendeva più difficili le vertenze dal basso, che pure continuavano, e più magri i loro risultati. Per non limitarsi a una pura resistenza, e trovare sostegno nell’intero mondo del lavoro, il sindacato doveva trovare uno spazio influendo sulla politica economica, così come del resto le imprese avevano bisogno del consenso del sindacato per normalizzare le relazioni in fabbrica, e di risorse pubbliche per ristrutturarsi. Ma per affrontare tale nuovo tipo di contrattazione – che a questo punto diventava trilaterale – il padronato, pur diviso tra molti interessi, disponeva di un’efficace risorsa: una sperimentata affinità con il ceto politico già insediato al governo e nell’amministrazione pubblica e il ricatto esercitato da potenti centri di potere internazionali. Al sindacato si poneva invece una particolare difficoltà. Ad assumere un ruolo di guida e di trascinamento non erano più il sindacato «dei consigli» e le grandi categorie industriali, bensì, oggettivamente, le confederazioni. Una realtà notevolmente diversa. Esse erano organizzazioni radicate profondamente su basi territoriali, a differenza di quasi tutti gli altri paesi, e questo era una preziosa risorsa contro il corporativismo, di categoria o di mestiere, e per l’unificazione del mondo del lavoro su obiettivi comuni. Si erano però a lungo aspramente divise per il collateralismo di ciascuno con i partiti in conflitto tra loro. La grande ondata di lotta degli anni sessanta le aveva riavvicinate fino a portarle a un patto federativo che nelle intenzioni doveva presto procedere fino all’unificazione organica, com’era già avvenuto per i metalmeccanici. Ma, al contrario, quella tendenza si era presto inceppata, perché le confederazioni non erano state coinvolte in quella dialettica, tra apparati sindacali e autonomia operaia, che aveva trasformato il modo di pensare e di agire delle maggiori categorie dell’industria. Tentarono di replicarla con i consigli di zona e avviando grandi vertenze sui temi della casa o della sanità che però, per resistenze interne o per la diffidenza dei maggiori partiti, non ebbero successo. Costruirono quindi un gruppo dirigente dall’alto, viziato da una pariteticità che alterava la rappresentanza reale. Portavano in sé strati sociali moderati e in qualche caso rapporti clientelari e, tra loro, residui di precedenti conflitti ideologici. Tutto ciò frenava la pressione quando si trattava di entrare in conflitto con un «governo amico». E d’altro lato anche la parte più combattiva e radicale, avendo conquistato autonomia anzitutto rispetto ai partiti, diffidava di ogni tipo di contrattazione con la politica istituzionale (il pansindacalismo).
Trovandosi di fronte a un governo capace di proporre una svolta riformatrice, tutti questi problemi potevano essere forse risolti, ma il «governo della non sfiducia», diviso nelle intenzioni, vago o deludente nei programmi e nelle scelte, non poteva che aggravarli. In nome dell’unità del sindacato ogni mediocre compromesso poteva passare e la più variegata insoddisfazione manifestarsi tra i lavoratori. Se consideriamo tutti questi elementi nel loro insieme, mi pare chiaro che il marchingegno politico inventato come primo passo per ottenere dalla Dc una svolta a sinistra, riconcedendole quasi tutte le leve del potere, era fin dall’inizio destinato non solo a fallire, ma a favorire una restaurazione. «Buscar levante por el ponente»: a Cristoforo Colombo l’azzardato tentativo era riuscito oltre ogni logica, perché fortunosamente aveva scoperto non una nuova rotta ma un intero continente sconosciuto, con pochi e ospitali abitanti. Era del tutto improbabile che il miracolo si ripetesse ora e qui, dove tutti i continenti erano conosciuti e ben presidiati da gente che non si accontentava di perline. 15.2 La grande coalizione e il suo fallimento La «grande coalizione» fu assai breve, meno di tre anni. Quasi ogni giorno intervenivano ragioni di contrasto, composti con precari o ambigui compromessi, ed emergevano segnali di disagio, a volte di protesta o di rivolta, nel paese. Ovviamente, essendovi ormai coinvolte, le maggiori forze della sinistra riluttavano a prenderne chiaramente atto, si rimpallavano le responsabilità, ma via via si convincevano che «così non si poteva andare avanti». È sorprendente invece come e quanto, tra loro e in ciascuno di loro, allora e ancora dopo la sua conclusione, su quell’esperienza non si sia aperto un dibattito e una riflessione. Ognuno prese una strada, per proprio conto, e su quel passato preferì sorvolare. Ma nella memoria storica, soprattutto riguardo a periodi tanto burrascosi, e a volte drammatici per tutti, i vuoti non durano a lungo. In una prima e lunga fase il vuoto fu riempito da un’abbondante produzione di testimonianze e di rivelazioni molto partigiane, di polemiche contingenti piene di omissioni e spesso di versioni di comodo, non solo sui giudizi ma anche sui fatti e sulla loro sequenza temporale. Poi, nel lungo periodo, ha prevalso, come sempre, la memoria dei vincitori che, di recente, ha assunto il carattere di un discorso coerente, penetrato nel senso
comune e tra gli stessi intellettuali. Un discorso facile, sintetizzabile in poche righe, perché ormai a ogni ricorrenza, a ogni commemorazione che ne offra il destro, viene ripetuto e sempre più considerato acquisito. In esso la «grande coalizione» degli anni settanta viene integrata, addomesticata e anzi rivalorizzata. Quella breve esperienza – si dice – è nata in uno stato di necessità, è stata gestita non bene perché immatura e dunque con molti fraintendimenti e concessioni troppo generose alla Dc, ma ha dato anche risultati positivi, perché ha sostenuto le istituzioni democratiche in un momento di pericolo e realizzato alcune importanti riforme. Si è poi interrotta per il terrorismo e per lo sciagurato e imprevisto assassinio di Moro, che forse si poteva evitare con una maggiore flessibilità nelle trattative. Sarebbe durata di più e avrebbe dato frutti ben maggiori – perché la sua ispirazione era buona e sorretta da un processo storico in cammino – se Berlinguer non vi avesse intempestivamente posto fine, e anzi l’avesse rilanciata sulla linea che Craxi suggeriva, e non avesse invece ribadito la particolare identità comunista del suo partito, né si fosse irrigidito nel suo personale moralismo. Così si sarebbe prima e meglio approdati a una democrazia dell’alternanza, al governo tra destra e sinistra entrambe nell’ambito di una società capitalistica e dell’alleanza atlantica. Non di una sconfitta quindi si deve parlare, ma di un primo passo avanti, ancora insufficiente ma positivo per la sinistra e per tutti. Il discorso fila e, naturalmente, ha avuto sempre più successo, perché offre un retroterra storico alle attuali convenienze politiche. Il punto debole, soprattutto quando lo si applica alla vicenda di trent’anni fa, sta però nel fatto che, come spesso si legge all’inizio di un film, «ogni riferimento a cose o a persone realmente esistenti è puramente casuale». Per metterlo in dubbio, basta richiamare i passaggi essenziali di quel triennio, metterli in ordine logico e temporale, aggiungere quel che all’epoca era rimasto sconosciuto, e solo più tardi è stato rivelato, o che ho potuto raccogliere da confidenze dei protagonisti o dalla consultazione di archivi. E soprattutto farlo con spirito di verità, anche in questo caso, distinguendo il poco grano dal molto loglio. Riconosco che anch’io, allora e dopo, ho trascurato analisi accurate. Avendo infatti detto subito che la strategia del compromesso storico era sbagliata in radice, e avendo, tanto più dopo il 1976, previsto il suo fallimento, ho dato per scontato il suo approdo; e perciò non ho dedicato una riflessione adeguata alla forma specifica che ha assunto nell’esperienza di governo, in cui ha preso forma concreta. Ci provo ora.
15.3 Omissioni, reticenze, bugie Il primo passo, modesto ma utile, è quello di sgombrare il campo della memoria collettiva da errori grossolani nella cronaca dei fatti. Elenco dunque quelli più importanti. È evidentemente falso che milioni di uomini, che con le loro lotte e il loro voto avevano portato il Pci a essere necessario per governare il paese, fossero mossi dalla semplice intenzione di creare finalmente le condizioni di una possibile alternanza per il futuro. Infatti anche coloro che si erano convinti della giustezza del progetto berlingueriano non solo speravano, ma volevano una svolta profonda nella politica economica e sociale, nella collocazione internazionale, nel modo di governare, nella distribuzione del potere. Magari un compromesso, ma non una coabitazione subalterna. Semmai, la parte più giovane e combattiva, meno abituata alla disciplina e alla delega, chiedeva di poter partecipare alle decisioni e di vederne i risultati in tempi brevi. Il semplice fatto di vedersi davanti un governo democristiano monocolore non poteva quindi che trasformare entusiasmo e speranze in diffidenza o in vigile attesa. Una parte minore di elettori, più moderata, aveva scelto di votare a sinistra per la prima volta, con l’idea che il Pci avrebbe aiutato a ristabilire ordine, e onestà, ma a suo modo anch’essa voleva un governo nuovo, capace di decidere, e non le finezze del dico e non dico. La delusione cominciò a diffondersi fin dall’inizio: già alla festa dell’Unità di settembre, quando Berlinguer tentò di valorizzare il governo nella grande piazza calò il gelo. Non è del tutto falsa, ma viziata dall’omissione, la tesi secondo la quale il «governo della non sfiducia» fosse imposto da uno stato di necessità senza alternative. L’omissione sta nel fatto che quello stato di necessità, reale, stringeva la Dc quanto la sinistra, perché la riserva di voti della destra conservatrice era stata saccheggiata già il 20 di giugno e quella reazionaria, anch’essa logorata, non era più disposta al soccorso gratuito. Chi impediva dunque alla sinistra, per un momento unita, di dire: se l’emergenza impone una grande e temporanea coalizione, allora tutti dentro o tutti fuori? Riconosco che ben difficilmente la Dc avrebbe accettato una tale soluzione, e perfino che, allo stato delle cose, se l’avesse accettata è molto dubbio che si andasse lontano, ma se la rifiutava, e si
fossero dovute ripetere le elezioni, la responsabilità del blocco era sua. Si può obiettare, e nel Pci si obiettò, che i socialisti si sarebbero presto sottratti all’impegno, ma non è vero, perché, subito dopo il 20 giugno, questa era la proposta di De Martino, ancora segretario del partito, Lombardi la condivideva, Nenni non aveva nulla da proporre di diverso, se non un umiliante ritorno al centrosinistra già fallito. Infatti la svolta del Psi e l’elezione di Craxi si realizzarono dopo, proprio in corrispondenza alla nascita del governo monocolore democristiano e per il timore di un soffocante duopolio. Lo «stato di necessità» aveva un’altra giustificazione, il divieto americano. Questo è un argomento serio perché in altri momenti, prima e dopo, tale divieto costituiva una minaccia incombente, ma non lo era però nel 1976. Gli americani avevano i loro guai di cui occuparsi, politici ed economici: la sconfitta in Vietnam, l’impeachment di Nixon, l’instabilità in America Latina e in Medio Oriente, la crisi del petrolio e quella del dollaro. In Europa la rivoluzione portoghese, il crollo dei colonnelli in Grecia, l’acuita concorrenza con le economie emergenti, il sorprendente rilancio della socialdemocrazia francese con Mitterrand che siglava un «programma comune» con il Pcf. Non per questo, certo, l’interesse per la situazione italiana scemava tra i vertici americani, tanto meno la loro contrarietà a un ingresso del Pci nel governo. Esercitavano perciò pressioni ufficiali e soprattutto incoraggiavano qualche complotto, ma che potessero programmare un intervento più pesante, non era seriamente credibile e la «strategia della tensione» si era mostrata controproducente. È del tutto contestabile che, nella fase della sua formazione e del suo primo decollo, il nuovo governo abbia fornito qualche segnale incoraggiante ai propri generosi alleati, è vero piuttosto il contrario. Sul piano del metodo anzitutto: Andreotti presidente, l’assegnazione dei ministeri principali, più che un governo monocolore definivano una coalizione andreottiana-dorotea. Non solo: le scelte, non potendo ancorarsi a un programma esplicitamente concordato né a un'alleanza esplicita, venivano prese momento per momento, su tavoli diversi, e il più delle volte su nessun tavolo, ma attraverso incontri personali e riservati, con mediatori delegati (Chiaromonte, Barca, Di Giulio, Evangelisti e Galloni), con incerto mandato, per definire un programma che non veniva mai. Era, e sarebbe rimasto, un metodo prevalente, anziché un confronto aperto di fronte alla pubblica opinione, una diplomazia segreta e vuota. Quanto al
contenuto, l’immediata decisione fu quella di una corposa svalutazione della moneta, forse inevitabile, che comportava un brusco aumento dei prezzi. E Andreotti, non a caso, vi affiancò un colpo di mano, non concordato con nessuno: un decreto legge che sospendeva le vertenze sindacali aziendali, congelava provvisoriamente parte della scala mobile, alzava anche alcune tariffe che interessavano i lavoratori. A quelle misure si opposero i partiti di sinistra e i sindacati. Il governo fece marcia indietro ma non del tutto, e comunque il segnale era arrivato nelle fabbriche, ci furono alcuni scioperi spontanei già nei mesi successivi e poi scioperi regionali dimostrativi. Subito dopo, nel febbraio del 1977, esplose un movimento di rivolta giovanile, breve ma intenso, di cui ancora oggi si discute con idee opposte ma, a mio parere, altrettanto sbagliate. Non è vero che ebbe i caratteri di una ripresa del Sessantotto, come non è vero che rappresentò l’epifania di un fenomeno che poi ritroviamo nei recenti movimenti pacifisti, antiliberisti o ambientalisti. A segnare le distinzioni concorrono molti elementi di fatto. Fu un movimento prevalentemente studentesco e radicalmente contestativo, mosso più dalla delusione e dalla rabbia, in una fase di riflusso generale, che da una smisurata speranza di un mondo nuovo. Fu di massa, ma concentrato in alcune zone del paese, quelle metropolitane e non tutte (in particolare Roma, Bologna, Firenze e Torino) e durò pochi mesi anche se lasciò tracce profonde. L’università o la piazza furono il suo habitat, ma la sua base sociale fu nuova e disomogenea: intorno agli studenti si aggregarono, o cercarono di aggregarsi, vari spezzoni di emarginati (giovani disoccupati, sindacalismo di base nelle ferrovie e nella sanità, laureati senza lavoro), mentre gli operai non solo erano pochi ma non erano più il soggetto cui ci si rivolgeva; ne era inoltre parte, ma con obiettivi, cultura, pratiche politiche del tutto distinte, anzi spesso opposte, un grande protagonista che gli sarebbe sopravvissuto (il nuovo femminismo radicale). Quanto alle forme di lotta, lo spontaneismo assoluto si alternava a una spinta organizzativa di tipo quasi militare. Era un movimento non solo plurale ma divaricato, destinato quindi a dissolversi, ma anche a formare convinzioni durature in migliaia di giovani. Su molti temi e soggetti nuovi che in quel movimento affiorarono per la prima volta e gli sopravvissero (il femminismo, l’ambientalismo, la crisi della politica, la critica delle ideologie dogmatiche e degli apparati burocratici) dovrò tornare, ma ora mi preme chiarire quali siano state specificamente le sue origini, la dinamica che prevalse nella sua
evoluzione, soprattutto l’impatto che ebbe in quella fase sulla complessiva situazione politica. Di nuovo basta la semplice cronologia dei fatti. A condizione che si vada oltre i resoconti dei giornali (tutti concentrati sugli episodi più vistosi), e si filtri la memoria emozionata di chi li ha direttamente vissuti. Una vera rivolta, come fenomeno di massa, esplose improvvisa e apparentemente casuale in un giorno e in un luogo precisi: l’assalto furibondo al palco di Lama che tentava di parlare, senza alcun accordo preventivo, nell’università di Roma occupata. Ma aveva alle sue spalle due fondamentali premesse che la spiegano e la segnarono. Da un lato la formazione del governo Andreotti e il ruolo subalterno che il Pci aveva assunto accettandola. Da una generazione che si era formata nel «lungo Sessantotto» e lo aveva prolungato, malgrado il riflusso, in altre lotte (per la casa, contro la disoccupazione, contro le trame oscure del «doppio Stato» e contro gli scandali ricorrenti e impuniti), quella soluzione politica era perciò vissuta non come un compromesso, ma come una provocazione e un mercimonio. Tale sentimento e tale convinzione non erano il prodotto né misuravano la forza di estremisti votati alla lotta armata, ma erano condivisi da una grande maggioranza di quelli che avrebbero partecipato, in modi e finalità diversi, al Settantasette. A questo si intrecciava un altro processo, del quale è stata trascurata l’importanza, la crisi della «nuova sinistra». Non è vero che le formazioni politiche extraparlamentari dei primi anni settanta fossero gruppuscoli di esaltati, ormai destinati a sparire producendo solo irrazionalità dispersa. Tra il 1969 e il 1972 avevano assunto un ruolo rilevante tra gli studenti, in fabbriche importanti e tra gli intellettuali, alcune organizzazioni vere e proprie. Avevano formato quadri, avevano diversi quotidiani, un’influenza nel dibattito intellettuale. Nel riflusso esse si scontrarono con una difficoltà grande, perché si incrinava la speranza fondamentale che, in modi diversi, li aveva animati tutti: quella di una rivoluzione imminente. Questo portò alla scomparsa dei gruppi più piccoli o più dogmatici, mentre i maggiori, non solo erano sopravvissuti, ma tentarono di fare i conti con la politica. E infatti non rifiutarono di partecipare alle elezioni con un cartello nel quale anche Lotta continua insisté per essere presente. Il cartello era precario ma unito sulla parola d’ordine «governo delle sinistre», in netto dissenso dal «compromesso storico», ma non ostile alla ricerca di una sponda istituzionale. L’insuccesso di quel tentativo portò Lotta continua a una divisione irriducibile tra femministe e fautori della lotta armata, e il suo gruppo
dirigente decise di sciogliere l’organizzazione. Altre organizzazioni (il manifesto-Pdup, Avanguardia operaia, l’Mls) rimasero in campo, cercando di impedire che la rivolta del ’77 si dividesse e naufragasse nella sterile contrapposizione tra una proposta politica alternativa, ormai smentita dai fatti, e l’illusione di una rivolta estremistica sempre più tentata dalla violenza. Che non fosse una pura velleità lo dimostra il fatto che in gran parte del paese la competizione di linee, a volte dura, fu reale, la deriva estremistica non era affatto scontata e restò in molte situazioni arginata, anche perché la Federazione giovanile comunista accettò un dialogo. Era comunque troppo poco. Il vertice del Pci ci mise del suo: ancora una volta non dimostrò alcuna volontà di tener conto di quella rivolta giovanile, di distinguere in essa rischi reali e critiche fondate, di correggere qualcosa della propria politica; fece di ogni erba un fascio ed espresse una condanna rozza di ciò che esisteva alla sua sinistra: «Untorelli, diciannovisti, collusi con la reazione». All’assalto al palco di Lama seguì quindi una grande manifestazione a Roma, nella quale, senza più argini, l’ala estremista, chiamata in complesso Autonomia, oltre che predicare la lotta armata, prese in mano il comando e assaltò due armerie. La polizia, o «servizi deviati» al suo interno, cercarono l’occasione per lo scontro frontale. A Bologna, nel mese di settembre, la rivolta pensava di celebrare la propria affermazione, con la tesi che l’Italia era ormai un regime autoritario, gestito dal binomio Pci-Dc, il che giustificava uno scontro tra proletariato giovanile e Stato in via di fascistizzazione. Alcuni intellettuali, in Italia e in Francia, ne furono sedotti. Ma a Bologna si celebrò invece, proprio sulla questione delle forme di lotta e della violenza, l’impotenza e si produsse la rottura del movimento. Che infatti rapidamente si dissolse. Ma non senza conseguenze. Una rottura incolmabile tra Pci e sindacato da un lato e quella parte di gioventù che si era loro opposta dall’altro. Un’incrinatura nelle forze che avevano tentato di sottrarsi a tale polarizzazione (crisi di Avanguardia operaia, separazione dal Pdup, «da sinistra», dell’area allora guidata da Vittorio Foa; infine allontanamento tra il Pdup e il giornale da cui era nato, il manifesto). La conseguenza fu la permanenza di un’area di compagni e di simpatizzanti, incerti e tentati dalla lotta armata o dal ritiro dall’attività politica. Un retroterra potenziale dell’incipiente terrorismo. 6) Non è vero che la classe operaia sia rimasta salda nella sua fiducia verso il partito, il sindacato e il governo da loro sostenuto. Anzi è vero il contrario, e proprio di questo ci si doveva soprattutto preoccupare. Non
parlo di rivolta, ma certo di un disagio e di un malcontento crescente. Il 24 gennaio del 1978 uscì una lunga intervista su Repubblica nella quale Lama offriva al governo tre anni di tregua nelle rivendicazioni sindacali, un parziale congelamento della scala mobile, il diritto di licenziare le «parecchie decine di migliaia di lavoratori che sono di fatto in esubero rispetto alle necessità delle fabbriche». Berlinguer non ne sapeva nulla (i lavoratori ovviamente ancor meno) e, non pubblicamente, protestò. Lama mandò una smentita al giornale, che non cambiava però la sostanza. Moro stesso fece sapere che anche lui era sorpreso e considerava quell’offerta di Lama un ostacolo a ottenere dal suo partito il consenso per una svolta politica. Tuttavia il 14 febbraio si svolse all’Eur un’Assemblea generale del sindacato. La parola assemblea è un eufemismo, in realtà era una riunione congiunta dei consigli direttivi delle confederazioni, allargati a un certo numero di operai da loro invitati. Le offerte al governo erano le stesse avanzate da Lama edulcorate nelle parole (mobilità anziché licenziamenti). La sinistra sindacale (Trentin, Carniti) riluttante si allineò ottenendo come contropartita l’impegno dei partiti e del Parlamento a elaborare piani di settore per la ristrutturazione industriale che garantissero l’occupazione in generale e in particolare il sostegno al Mezzogiorno. Si offriva il certo per l’incerto: basta vedere che fine hanno fatto quei piani di settore. Gli operai comunque fecero un ultimo investimento di fiducia: lotta di settore a sostegno di una ristrutturazione industriale che desse posti di lavoro e investimenti non finanziati prevalentemente dal loro sacrificio. Qualcosa ottennero: acquedotti a irrigazione in alcune zone del sud. Tutto il resto rimase sulla carta. Cosicché, quando il contratto nazionale dei metalmeccanici fornì l’occasione, una grande manifestazione a Roma passò davanti a Botteghe Oscure, questa volta non solo per salutare ma per protestare. 7) Di tutto questo Berlinguer era, e non poteva non essere, consapevole. Mandò quindi, direttamente e per iscritto, una lettera a Moro (e per conoscenza ad Andreotti) con un messaggio chiaro e non equivocabile: «Così non si può andare avanti. Il governo della non sfiducia va superato. Occorre passare a una vera coalizione di governo, di cui il Pci sia parte esplicita, con un programma ben definito. Su questo occorre un chiarimento e una scelta». Come al solito il messaggio fu raccolto solo in parte. Tutti accettarono che si discutesse di un programma, e lo si rendesse noto. Per settimane quella discussione si trascinò, arrivando a una conclusione che non accontentava nessuno, perché era vaga. Ma, obtorto
collo, tutti la firmarono. Il vero ostacolo stava però nell’accettare o meno che un programma comune si accompagnasse con la partecipazione di tutti al governo che doveva metterlo in pratica. Era o non era una condizione dirimente? Dare una risposta precisa all’interrogativo non è semplice, perché in quel passaggio l’incertezza era reale da ambo le parti. Nella Direzione del Pci molti si erano opposti a un chiarimento con carattere ultimativo e, per il momento, Berlinguer aveva accettato un compromesso, dicendo: per ora inaspriamo la critica al governo. Lui stesso andò in Parlamento a farla, e con una durezza che costrinse Andreotti a dimettersi, senza sapere quale altro governo si potesse fare. Nel colloquio diretto e riservato (ma questa volta anche in un discorso pubblico a Mantova) Moro disse che personalmente considerava ormai il Pci una forza democratica, degna di governare; non era però in grado per ora di far approvare dalla Dc una sua partecipazione diretta al governo. Il colloquio si concluse quindi rinviando la decisione definitiva al momento in cui Andreotti si fosse presentato in Parlamento insieme ai suoi ministri. E qui rimane una zona d’ombra che, almeno io, non sono in grado di chiarire. Perché, da un lato, è noto, e testimoniato da molti, il fatto che Moro affrontò tre giorni di vivace dibattito per convincere il Consiglio nazionale della Dc a consentire, almeno, che si formalizzasse l’esistenza di una maggioranza e di un programma comune; ma dall’altro Chiaromonte, che seguì la vicenda, rivela nelle sue memorie di sapere per certo che proprio Moro disse in privato ad Andreotti di fare il contrario (cioè di comporre un governo che al Pci non piacesse) perché, con l’affare Lockheed in corso, il pericolo principale era una rivolta interna alla Dc. Fatto sta che il nuovo governo risultò, se possibile, peggiore del primo, e il gruppo dirigente del Pci, quando vide la lista dei ministri, era ormai orientato a non sostenerlo. Ho insistito su questi dettagli perché sia chiaro che, in quella fatale mattina del 16 marzo 1978 (la mattina del rapimento di Moro), la «grande coalizione» era già in una crisi irrecuperabile. 8) È dunque un’autentica e consapevole falsità dire che a interrompere il cammino di un faticoso ma fecondo tentativo fu il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. Anzi è vero il contrario. Quell’atto sciagurato servì a prolungare il governo della «grande coalizione», ormai boccheggiante, per quasi un anno, durante il quale si costruirono le condizioni politiche di una nuova edizione del centrosinistra. L’evidenza di questi fatti è tale che sembrerebbe inutile inoltrarsi nel ginepraio di confessioni, memorie, atti processuali, inchieste parlamentari,
che è fiorito su quel drammatico evento. Per scrupolo mi sono letto gran parte di quel materiale e ne ho tratto qualche convinzione. Proprio dai fatti ormai accertati emergono alcuni problemi trascurati, ma importanti, sia per valutare l’evento sia per gettare luce sui suoi lati più oscuri. Ne elenco alcuni. Perché quel sequestro, e ancor di più quell’assassinio, quando ormai era chiaro a tutti il fallimento della «grande coalizione» e prevedibile la sua crisi definitiva? Che interesse potevano ormai avere a favorirlo o provocarlo, eventuali «forze oscure» che si opponevano alla partecipazione ormai fuori causa dei comunisti al governo? Perché d’altro lato le Brigate rosse, avendo come obiettivo una generale destabilizzazione del sistema e l’allargamento della propria base di consenso, dopo aver ottenuto da Moro, con lunga e rischiosa segregazione, dichiarazioni brucianti e credibili rivelazioni (la scelta più destabilizzante e la vittoria più riconoscibile), lo hanno invece ucciso e hanno occultato e distrutto la parte più scottante dei verbali dei suoi interrogatori? Come si spiegano la trascuratezza e l’inefficienza con le quali gli apparati dello Stato da tempo affrontavano il terrorismo e affrontarono poi la sua iniziativa più pericolosa? Perché la scelta della «fermezza» esibita da tutti i partiti di governo, anziché produrre una maggiore unità ha portato a divisioni e sospetti tra loro? Non ho la presunzione di fornire a questi interrogativi risposte esaurienti e credo che nessuno potrà darle finché molti scheletri non usciranno dall’armadio. Ma alcune cose si possono dire e provare. Anzitutto sulla reale natura delle Brigate rosse, chiarendo radicati equivoci. L’idea che le Br fossero da lungo tempo la facciata e lo strumento di un grande complotto di altre forze reazionarie che le governavano è assurda. Decine, anzi centinaia di persone – se si considerano gli arrestati e i nuovi reclutati – non ne uccidono altre centinaia (spesso incolpevoli), né sono disposte a morire o a passare la vita in prigione, senza un’identità ideologica forte che le sorregga; e non potevano avvicendarsi in un’organizzazione che vive come una comunità senza accorgersi, per anni, di essere usate per tutt’altri fini. Altrettanto infondate e fuorvianti mi paiono però sia la tesi secondo la quale le Br nacquero e degenerarono come parte di un «album di famiglia» – e questa famiglia era il Pci –, sia la tesi che di loro ormai si sa già tutto. Al Pci e alla sua lunga storia si possono fare molte accuse a proposito dell’insurrezione armata come parte integrante di un processo rivoluzionario, ma mai, in qualsiasi fase o paese, gli si è potuto imputare una condiscendenza verso il terrorismo, cioè verso un’azione cruenta, fuori dal contesto di una guerra di popolo e non sostenuta da ampie masse. E
infatti il gruppo promotore delle Br, in tutto il suo sviluppo, non ebbe dirigenti o militanti prodotti da quella storia: in maggioranza provenivano da generazioni senza un passato politico, molto spesso addirittura venivano dalle file del movimento cattolico. Qual era dunque l’origine di quel gruppo, qual era e restò il suo elemento fondativo? Di questo si sa tutto. L’organizzazione nacque tardi rispetto ai veri conflitti sociali degli anni sessanta, da cui presto si separò e a cui dedicò limitate attenzioni. La sua ideologia fu e rimase quella sudamericana del «fuoco guerrigliero» (quando già era stata sepolta anche da Castro, e Guevara, nel tentativo di riassumerla, era morto nell’isolamento). A congelare e a riprodurre in modo sempre più delirante quell’ideologia fu, però, la scelta organizzativa compiuta nel 1970: la clandestinità. Non è vero che sempre l’organizzazione è il prodotto dell’ideologia, può accadere anche il contrario, e accadde. Basta rileggere le autobiografie, pur spesso discordanti, di Franceschini, di Curcio, di Moretti per convincersi di questo meccanismo. La clandestinità, soprattutto in un piccolo gruppo isolato, forma le teste: una vita separata, la necessità del segreto, il pericolo costante, la necessità dell’armamento e del gesto esemplare per comunicare un messaggio al popolo, e la necessità di scegliere i bersagli commisurandoli alla propria forza più che alle loro colpe, di dover via via alzare il tiro per farsi sentire, di reclutare nuovi militanti per colmare le perdite subite, producono una versione estremizzata del «fuoco guerrigliero» e rendono l’organizzazione autoreferenziale. L’analisi della realtà viene deformata e diventa strumentale. Così si spiega molto del sequestro Moro: per le Br non contava molto destabilizzare il potere statale e politico (che per loro era già fatale nelle cose), importava soprattutto dare una dimostrazione di forza che permettesse di aggregare buona parte di quei militanti che, dopo il Settantasette, erano incerti e così avviare un processo che alla fine convincesse le masse dell’utilità della lotta armata. Qualcosa del genere dopo il sequestro Moro si avviava: nuovi gruppi armati improvvisati, gli omicidi casuali. Per questo un compromesso vero, che sancisse non il loro riconoscimento ma la loro credibilità operativa, era particolarmente pericoloso, avrebbe facilmente potuto avviare una barbara escalation. Tutto questo non esclude affatto l’ipotesi dell’infiltrazione e dell’inquinamento, solo la riduce e ne fornisce una chiave di lettura parziale ma convincente. Nessun gruppo clandestino è impermeabile alla penetrazione. È dimostrato anche nel caso del Pci, dell’antifascismo, fin dagli anarchici e dai carbonari. Nel caso delle Br ci sono indizi chiari in materia, si tratta di cogliere e decifrare quelli più evidenti.
Un primo indizio ci è offerto, nel 1974, dalla vicenda dell’arresto a Pinerolo dei due maggiori leader, Curcio e Franceschini. Una telefonata anonima, certa, mise qualcuno delle Br in guardia, con ventiquattr’ore di anticipo, della trappola preparata per loro, ma l’avvertimento non arrivò. Il che dimostra molte cose: certamente che erano penetrabili, non da James Bond, ma anche da un personaggio ambiguo e squallido come frate Mitra; certamente che non possedevano canali di protezione e di comunicazione interna che li garantissero in casi di emergenza; probabilmente che c’erano e restavano tra loro dei collusi; probabilmente che gli apparati dello Stato erano orientati, sul nascere, non a stroncare il fenomeno terroristico, ma a congelarlo e a selezionare gli arresti, al fine di far prevalere in esso un carattere militarizzato e privarlo di una compiuta direzione. Il che è avvenuto fino all’omicidio di Moro. Un secondo indizio di collusione, e ben più importante ma difficile da decifrare, riguarda proprio la vicenda Moro. Lasciamo da parte la forma del sequestro. Cioè il fatto che, in piena fase terroristica, la protezione del più importante uomo politico del paese sia stata tanto inefficace: ogni mattina gli stessi orari, gli stessi percorsi, nessuna osservazione a distanza dell’ambiente circostante. Il nodo della vicenda è un altro. Dalla parte delle Br: la collocazione della base organizzativa a portata del Sismi, la «fortunosa» e inutile scoperta del rifugio di via Gradoli, la tormentata e incerta decisione dell’esecuzione finale, quando Moro aveva già «parlato», e un tentativo di mediazione divideva il governo e, soprattutto, il rinvio sine die a rendere pubbliche le rivelazioni che gli erano state strappate. Dalla parte dello Stato: infiltrati all’improvviso scomparsi e muti, la commedia del lago della Duchessa, intelligence in vacanza, gli stenogrammi degli interrogatori rimasti per anni in via Montenevoso e poi sequestrati e censurati dai carabinieri, e poi segretati anziché essere trasmessi al magistrato. Pur lanciando incerti sospetti, una conclusione appare chiara. Nella vicenda Moro c’è stata una convergenza più o meno consapevole di due tendenze: quella delle Br – che non a caso da quel momento si divisero e che si sarebbero sciolte dopo disperate e insensate esecuzioni a casaccio – ad anteporre la ricerca di un esito eclatante a ogni razionalità politica, e la necessità dello Stato non certo di far rapire Moro, ma di evitare le conseguenze di quanto egli aveva già detto o di quanto, se di nuovo libero, poteva dire o fare (Andreotti, privatamente, lo avrebbe più tardi onestamente riconosciuto: da Moro liberato poteva nascere un gran guaio). Ai margini, Craxi, che senza mai assumersi la responsabilità di una
proposta attendibile e praticabile, usò un discorso «umanitario» per mettere sotto tiro la «fermezza» del Pci e affermare il carattere libertario del nuovo Psi. Ora si può capire meglio perché quell’evento non solo confermò la fine di un’alleanza già in corso; ma ricadde sulle spalle del Pci e contribuì alla formazione di un nuovo assetto politico. Permette infine di misurare la gravità del fatto di non aver mai affrontato a fondo la questione del «doppio Stato», prima di assumere un ruolo di governo. Non è perciò falso, ma del tutto inesatto, dire che la rottura formale della «grande alleanza» sia stata decisa dal Pci in modo precipitoso e drastico. Se si fa attenzione alle date e si consultano gli archivi, pare vero piuttosto il contrario, e lo devo dire anche se non mi piace. Il 7 gennaio del 1979 Berlinguer tirò le somme e propose alla Direzione la decisione di interrompere l’esperienza della grande coalizione. Pertini cercò di rappezzare le cose dando un incarico a La Malfa. Il tentativo fallì però perché nessuno ormai ci credeva. Si compose dunque un governo Dc-PsdiPsi che fu bocciato e allora si concordò di andare a nuove elezioni politiche. Il 30 marzo si tenne il XV congresso, dove Berlinguer disse finalmente, senza subordinate, che «il Pci resterà all’opposizione di ogni governo che lo escluda», ma confermò la «larga intesa» come prospettiva per cui battersi. Su tale linea il partito andò alle elezioni del 3 giugno 1979 e pagò da solo il prezzo di un fallimento comune. Perse il 4% dei suoi voti, particolarmente nelle zone operaie e tra i giovani. Il risultato elettorale non indicò però, di per sé e nel suo complesso, uno spostamento a destra del paese: la Dc, il Psi, anche l’estrema destra non guadagnarono pressoché nulla, le perdite del Pci andarono a vantaggio dell’estrema sinistra, divisa in varie liste, particolarmente a favore dei radicali e del Pdup (che era rimasto solo, dopo una scissione e senza un giornale, e tutti davano perciò per morto). La vera sconfitta del Pci più che elettorale era politica e sarebbe venuta in piena luce nei mesi successivi. Il partito socialista craxiano non si limitò più ad accentuare la sua distanza dal Pci, ma rese esplicita una svolta ideologica (rottura con il marxismo ancor più netta di quella compiuta dalle altre socialdemocrazie, perché compiuta in nome dell’improbabile Proudhon, per stabilire una distinzione rispetto a tutta la storia passata del socialismo italiano), e una svolta radicale di strategia politica (l’alleanza di governo competitiva ma permanente con la Democrazia cristiana). Il congresso della Dc a sua volta rovesciò Zaccagnini, affidandosi a Piccoli e a Forlani, e approvò un documento impegnativo nel cui preambolo escludeva in linea di principio un’intesa di
governo con il Pci. Partecipe, anzi regista della svolta fu Donat-Cattin: lo registro perché egli aveva conservato un rapporto particolare con la Cisl e le Acli e quindi apriva la strada a una crescente incrinatura tra le confederazioni sindacali. Solo nel 1980, Berlinguer decise una vera e radicale svolta, incontrando un grande consenso nella base del partito e una forte resistenza nel vertice, resistenza che, al solito, Amendola per primo aveva resa limpida con un articolo su Rinascita, che aveva avuto grande eco. Perché era un pamphlet contro «tutti i cedimenti compiuti, dal Sessantotto in avanti, a favore dell’estremismo».
16. Quel che bolliva in pentola. In Italia
Ho dedicato molto spazio agli anni settanta e alla politica del Pci che ne era protagonista, ma concentrandomi sulla vicenda che dominava la scena politica, ho dedicato finora attenzione insufficiente, o addirittura eluso, fenomeni e tendenze che, latenti e oscillanti, già in quegli anni muovevano i primi passi e, solo più tardi, avrebbero assunto un’importanza decisiva. 16.1 Il miracolo al ribasso Una prima tendenza in incubazione era la forma specifica assunta, nell’economia italiana, dalla generale crisi economica e quindi il ruolo che via via ha svolto il potere capitalistico. Anzitutto occorre evitare alcuni equivoci che oscurano sia il percorso delle cose, sia il suo effettivo approdo e le sue conseguenze di lungo periodo. Quando si parla della crisi economica nel caso italiano non si parla di una recessione permanente, né di immobilismo strutturale, privo perciò di alternative possibili. Il reddito nazionale già dice qualcosa al riguardo. Negli anni settanta continuò a crescere, con alti e bassi, ma con una media annuale del 3,7%: quasi la metà degli anni sessanta, ma pur sempre superiore a quella dei grandi paesi europei (Francia 2,8%, Inghilterra 1,8%). D’altro lato non va ignorato che, in partenza, l'Italia, pur restando complessivamente meno avanzata e molto più squilibrata al suo interno, disponeva di notevoli risorse non ancora sfruttate e le sue stesse zone di arretratezza, se aggredite, potevano trasformarsi in risorse. Faccio qualche esempio. La pressione fiscale era ancora inferiore al 30% del Pil (10 o 15% in meno rispetto agli altri paesi avanzati), quindi offriva ampi margini per aumentare gli introiti. Inoltre, pur essendo l’Italia un paese mediamente povero, il risparmio netto delle famiglie era del 20% (meno elevato del Giappone, ma più degli altri paesi avanzati). Si trattava di decidere a chi chiedere queste risorse e a cosa destinarle utilmente. La grande industria, sia privata sia pubblica, aveva acquisito capacità, conoscenze, e soprattutto potenzialità per tenere il passo di un nuovo salto tecnologico, che già si avviava nel mondo. In molti settori: quello dell’elettronica, dai beni di consumo all’informatica (Olivetti); quello della
chimica, dai prodotti di base alla chimica fine, e all’industria farmaceutica (Eni e Montedison); quello energetico, dall’energia fossile a quella alternativa (Enea), forse anche la stessa siderurgia di qualità e la nuova cantieristica. Perfino l’agricoltura, ormai meno frammentata, e già meccanizzata, poteva dar luogo a una moderna industria alimentare di qualità; il patrimonio artistico e ambientale, ben governato, offriva la base per un afflusso turistico non disordinato; l’edilizia, disboscata dalla rendita, permetteva nuova occupazione e riorganizzazione urbana, il trasporto su rotaia conveniva ai lavoratori utenti ma, nel loro insieme, anche alle imprese. Tutto ciò dunque non era «fuori portata», ma richiedeva coraggiose riforme strutturali, una programmazione coerente, un’amministrazione statale efficiente e un padronato lungimirante. Ma la strada effettiva fu, dall’inizio, tutt’altra, per la mancanza di una svolta politica, ma anche per l’ottusità del padronato. Il primo passo del padronato, misura della sua mediocrità, fu compiuto nel 1970, ancor prima che la crisi internazionale si presentasse sulla scena. Nella lettura e nella risposta di fronte alle lotte del 1969, infatti, prevalse l’idea che la causa del blocco dello sviluppo, l’ostacolo di cui occorreva sbarazzarsi in fretta, fossero solo gli aumenti salariali strappati dagli operai. Io non fui tra quelli, nell’estrema sinistra, che consideravano la crisi incipiente una pura invenzione dei padroni, tanto meno tra coloro che, nel Pci, si preoccupavano soprattutto dei ceti medi rimasti fuori dal bottino. Gli aumenti del costo del lavoro nelle grandi imprese infatti erano stati consistenti (+19%), e le vertenze ancora aperte li stavano estendendo ad altre imprese, causa evidente di una riduzione dell’autofinanziamento. Ma l’importanza che si attribuiva loro, e le risposte che si offrivano, erano false, parziali e velleitarie. False perché quegli aumenti inconsueti erano solo conseguenza di una lunga e insopportabile compressione durata decenni e, malgrado loro, il costo del lavoro restava in Italia più basso che nei paesi concorrenti. Parziali, perché il lascito del ’69 non consisteva tanto nell’aumento salariale quanto nella contestazione delle condizioni del lavoro e del dispotismo padronale in fabbrica e perché i salari erano decurtati dalla necessità di far fronte a nuovi ed essenziali bisogni (casa, trasporti, sanità), che la spesa pubblica non garantiva. Velleitarie, perché la forza accumulata dai sindacati e dai consigli di fabbrica, sostenuti ormai anche dallo Statuto dei lavoratori, non permetteva tagli del salario o intensificazione brutale del lavoro. Infatti dal 1970 al 1973 le ore di sciopero erano ancora vicine al livello degli anni precedenti; e quando lo
sciopero non bastava o era represso, subentrava la crescita dell’assenteismo. Lo scontro frontale quindi, a differenza del 196465, faceva ancor più danni ai padroni che agli operai. Il governo, sotto la pressione dell’avanzata della destra alle elezioni, cercò di dare una mano a quell’oltranzismo padronale (con il «decretone», che alzava le tariffe cominciando a lasciar correre l’inflazione), ma senza risultati, anche perché, malgrado tutto, la produzione industriale, grazie ai precedenti investimenti, nel 1970 continuava a crescere. Nel 1971, però, il vento cominciò un poco a cambiare, l’utilizzazione degli impianti a diminuire. Bisogna riconoscere che, in quella stretta incipiente, il sindacato, o meglio proprio i suoi settori più avanzati, mostrarono più lungimiranza del governo, dei partiti e dei padroni. Senza piegarsi al diktat, né arroccarsi sulla pura difensiva, proposero un nuovo tipo di lotta e nuove priorità nelle piattaforme. Su due direttrici: in fabbrica concentravano le rivendicazioni non su una surenchère salariale, ma sui problemi normativi (l’inquadramento unico, la contrattazione delle qualifiche, le 150 ore per l’istruzione); fuori dalla fabbrica, proposero nuove forme organizzative (i comitati di zona) rivolte a ottenere soddisfazione di bisogni sociali che univano le varie categorie, Nord e Sud, occupati e disoccupati, che interessavano anche le parti non parassitarie del ceto medio. Le confederazioni accettarono tale linea ma senza convinzione e con poca preparazione, e incontrando la diffidenza dei partiti, Pci compreso, che vi vedevano una invasione di campo. Tutti parlavano di «un patto dei produttori», ma da parte sindacale non c’era la forza di imporlo, il padronato non era pronto a concedere nulla né dei suoi interessi, né delle sue alleanze politiche (la Dc) o sociali (la rendita cui esso stesso partecipava). Comincia qui una seconda fase, di cui a tutti sfuggì l’importanza. Il governo, cioè di fatto la Dc, dopo il distacco del dollaro dalla base aurea e l’oscillazione delle monete, e soprattutto dopo il rialzo del prezzo del petrolio, capì che l’immobilismo e lo scontro frontale non bastavano a superare una crisi molto più generale e complessa. Con il governo Colombo e il rinnovato sostegno socialista cominciò quindi una stagione nuova, che fallì anch’essa, ma non senza lasciare la traccia di un «riformismo bastardo». Un tratto che caratterizzò l’intera gestione dell’economia del decennio: nessun «compromesso storico» ma vari
compromessi, spesso con la coda avvelenata. Una parte del padronato l’accettò ponendovi limiti precisi, un’altra la sabotò con la fuga dei capitali e lo sciopero di nuovi investimenti («il cavallo non beve», allora si disse). Quali riforme e con quali risultati? Sottovalutarle è un errore. Alcune riforme furono sostanziose, soprattutto quelle che non toccavano direttamente il sistema economico, ma offrivano contropartite sul piano istituzionale all’opposizione in cambio di maggior moderatismo. L’istituzione delle regioni in tutto il territorio nazionale; la legge applicativa del referendum; la scuola media unica e obbligatoria per tutti fino ai quattordici anni; la Corte costituzionale; l’impegno per tutti i comuni di definire piani regolatori; la riforma fiscale. Erano tutti provvedimenti imposti dalla Costituzione ma sempre lasciati in sospeso, ottenerne l’applicazione non era cosa da poco, ma premessa di una democrazia diffusa e partecipata di cui anche una nuova politica economica avrebbe potuto giovarsi. Anche in questo ambito non tutto era limpido. Prendo per esempio le due riforme più importanti. All’istituzione delle regioni non si affiancò il decentramento dei poteri ministeriali, né una definizione precisa delle materie a loro effettivamente delegate, né responsabilità diretta nella gestione del bilancio; cosicché mentre alcune regioni cercavano di imitare i Länder tedeschi, altre, più numerose, erano trascinate a seguire la «strada siciliana» (cioè grandi risorse strappate allo Stato per una gestione assistenziale e la spartizione del potere clientelare). La riforma tributaria, a sua volta, metteva fine a una fiscalità centrata tutta sulle imposte indirette e si spostava su imposte personali, con una scala di aliquote decisamente progressiva. Ma l’accertamento del reddito e l’esazione erano affidati direttamente alle imprese, cioè agivano realmente sul lavoro dipendente, mentre tutti gli altri tipi di reddito potevano facilmente evadere le imposte, anzi spesso potevano legalmente eluderle, perché le rendite finanziarie godevano di un’aliquota fissa, e perciò molti potevano godere di aliquote privilegiate. Cosicché il gettito complessivo restò ridotto e l’intenzione redistributiva si rovesciava nel suo contrario (pagavano più tasse i lavoratori dei loro padroni). L’aspetto peggiore del «riformismo bastardo» si coglie però ancor meglio in altre misure di politica economico-sociale. L’estensione oltre ogni limite delle sovvenzioni alle industrie statali o di crediti agevolati concessi a quelle private, separata però da ogni obiettivo e vincolo che non fosse quello di salvare imprese in fallimento (la socializzazione delle perdite) o quello di avviare la nascita di grandi impianti per offrire temporanea
occupazione nelle zone depresse, che poi si rivelavano privi di mercato e non avevano effetti moltiplicatori duraturi sull’economia circostante. Per questi compiti nascevano anzi apposite istituzioni (la Gepi, l’Efim, infine l’Egam). Alla testa di tutte le imprese o i consorzi venivano poi messi dirigenti scelti dal governo e dai partiti che lo sostenevano, ma spesso vagolavano tra il pubblico e il privato (Cefis fu il caso tipico). Fu il trionfo di quello che un brillante libretto definì la «razza padrona»: collusione perversa di pubblico e privato nei posti chiave dell’economia. Nell’immediato quella politica economica funzionò come stimolo alla domanda, alla produzione e anche come parziale tutela dell’occupazione e del salario. Ma, nel medio periodo, produsse non solo un crescente deficit pubblico ma una degenerazione ulteriore di quel settore pubblico dell’economia che in passato aveva svolto un ruolo propulsivo. Insomma un keynesismo monco e perverso: il paradosso di Keynes (spesa pubblica in deficit per riattivare l’espansione, anche scavando buche e poi ricoprendole) fu assunto alla lettera senza garantire affatto che quella spesa e quell’occupazione transitoria sarebbero state seguite da uno sviluppo capace di riassorbire il deficit e di stabilizzare l’occupazione. Il padronato non solo tollerò questa politica, ma la utilizzò attivamente a proprio vantaggio, come pozzo a cui attingere e come strumento per l’organica collusione tra pubblico e privato. Anche le conseguenze perverse di quella politica – inflazione e svalutazione della moneta – nell’immediato convenivano soprattutto alla parte più potente, cioè alla grande industria: facilitava le esportazioni, riduceva il salario reale, facilitava i licenziamenti, riduceva in valore reale anche l’indebitamento pregresso. Ma non poteva durare. Nel 1974-75 l’inflazione superò il 20%, la svalutazione della lira dovette balzare di colpo del 16%. La scala mobile era uno scudo ormai molto ridotto per i lavoratori, ma anche il ceto medio, in particolare il pubblico impiego ormai cresciuto, ne soffriva; la domanda interna si restringeva e le imprese ne subivano il contraccolpo. La crisi prendeva così la forma della recessione. Una tale situazione si rifletteva anche sugli equilibri politici, come dimostravano i risultati delle elezioni del 1975. Nel breve intermezzo che separa il governo di centrosinistra ormai agonizzante e il governo della non sfiducia, si realizzarono quindi due seri tentativi di compromesso diretto tra le parti sociali, l’accordo tra Lama e Agnelli sulla scala mobile integrale e il punto unico di contingenza, e l’intesa, accettata dal governo, su un uso più esteso della cassa
integrazione. Nel loro nucleo, e nelle intenzioni proclamate, erano ambedue compromessi seri e ben orientati (e infatti Agnelli, presidente di Confindustria, fu allora e dopo aspramente criticato nelle sue file). Ma a guardare più da vicino se ne scorge anche l’ambiguità. L’accordo sulla scala mobile proteggeva sul serio i salariati, in particolare la loro parte più debole, ma conteneva una grave omissione per l’immediato e un rischio per il futuro. L’omissione stava anche nel fatto che la nuova scala mobile trascurava gli effetti del prelievo fiscale sul salario. Il rischio, in prospettiva, era invece che il punto unico di contingenza, sempre in un quadro di inflazione galoppante, portava a un eccessivo appiattimento delle remunerazioni che via via offriva ai padroni uno spazio per aumenti individuali, con contropartite nei comportamenti di chi li accettava, e quindi alla lunga avrebbe aperto un’incrinatura nelle maestranze e alla fine aiutò l’attacco alla scala mobile in generale. D’altra parte, l’uso della cassa integrazione era anch’esso in partenza un’idea buona. Proteggeva gli operai in esubero per i periodi durante i quali si realizzava una ristrutturazione delle tecnologie o dei prodotti, ma non interrompeva il rapporto di lavoro e doveva concludersi con il loro rientro. A condizione però che la cassa integrazione fosse realmente collegata a una ristrutturazione che non tagliava gli organici, e proprio per questo fosse «a rotazione». Ma proprio queste condizioni non venivano imposte da chi pagava, cioè dallo Stato. Al contrario, i periodi del congedo furono allungati, di rotazione non se ne parlava e quindi, di fatto, la cassa integrazione si trasformò in un sussidio di disoccupazione, per lo più in un periodo durante il quale i cassaintegrati si preparavano ad accettare lavoro altrove, a salari più bassi o addirittura in nero. Quei due compromessi potevano dunque funzionare come un modo del capitale di continuare la politica passata e premessa di una ristrutturazione da cui traeva vantaggio riversandone il costo sullo Stato, oppure come premessa di una svolta effettiva della politica economica. Si arrivava così al dunque dopo aver bruciato molte risorse, né bastavano più misure anticongiunturali o anche una semplice politica anticiclica. Occorreva guardare più lontano, definire un nuovo assetto del potere e un nuovo modello di sviluppo. I grandi paesi capitalistici erano consapevoli del problema, stavano muovendo passi per risolverlo: Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Svezia (più lentamente l’Inghilterra). Ognuno per strade diverse, o addirittura divergenti, in relazione ai diversi orientamenti delle classi che ne assumevano la guida, e con risultati più o
meno veloci. Ma tutti con un elemento comune, una sinergia virtuosa, imposta o promossa, tra intervento pubblico e poteri forti dell’economia. L’idea che la «globalizzazione neoliberista» sia nata spontaneamente dalle leggi del mercato è una favola metropolitana. In Italia la crisi economica aveva bisogno più che altrove di riforme strutturali, di un nuovo assetto istituzionale, di un nuovo progetto, per governare la crisi e non uscirne «al ribasso». Invece non ci si provò nemmeno. Ho già parlato del ritardo e delle carenze che il «compromesso storico» portava con sé sul piano programmatico; e anche del muro che la Dc opponeva a vere riforme. Occorre però aggiungere, come spesso accade nella storia, una buona dose di sfortuna: il caso volle che la vittoria elettorale che rendeva impossibile governare senza i comunisti, e la breve unità della sinistra vennero a coincidere con il momento più grave della crisi economica, il che rendeva le scelte più stringenti e difficili. Ma occorre anche in questo passaggio aggiungere la responsabilità pesante del padronato, per vecchie ottusità e nuovi interessi corporativi. In verità un barlume di consapevolezza della necessità di scegliere tra continuità o rischiose innovazioni c’era anche da quella parte. Me lo fa pensare un curioso episodio, rimasto riservato fino a tempi recenti e assente in tutti i verbali. All’inizio dei governi di unità nazionale Guido Carli, nuovo presidente di Confindustria, chiese un colloquio diretto con Luigi Longo, del quale conosceva autorità e autonomia di giudizio. Ciò che sorprende di quel colloquio è il fatto che Carli non chiese affatto al Pci di avallare nuovi sacrifici degli operai o una generica riduzione della spesa sociale, ma disse: «Le misure congiunturali o assistenziali non bastano più; o voi comunisti riuscite a moralizzare la spesa pubblica e l’amministrazione, a imporre una politica economica rigorosa ed efficiente, a disboscare le rendite, oppure non c’è motivo che una certa parte del paese debba accettare la vostra partecipazione al governo». Certo quel che intendeva per moralizzazione ed efficienza era diverso da quel che la sinistra attribuiva alle stesse parole; ma l’importanza del problema era riconosciuta: occorreva uscire dalla palude, rompere la continuità con il passato. Se però, come riferisce il diario di Barca, Longo ascoltava con «un occhio ironico», era per un altro motivo. Perché ciò che diceva Carli era del tutto contraddetto da ciò che il padronato diceva e faceva ogni giorno. I segnali erano evidenti. La stessa famiglia Agnelli per la prima volta si era impegnata in politica (Umberto nelle liste democristiane, in una campagna elettorale che aveva come obiettivo prioritario il tenere i comunisti fuori dal governo, Susanna nelle liste repubblicane proprio nel
momento in cui La Malfa si impegnava a legittimare i finanziamenti occulti dei petrolieri). I grandi giornali chiedevano come Montanelli di «votare Dc turandosi il naso». Grande sobrietà del padronato nel parlare del caso Sindona, del Banco ambrosiano, più tardi della P2, in cui tanti di loro erano compromessi. Per l’intera legislatura resistenze contro una vera riforma urbanistica; polemica complessiva contro l’industria pubblica in deficit ma non contro le agevolazioni creditizie concesse a pioggia, né sui «grattacieli nel deserto» cui partecipavano; nessuna campagna per un aumento della ricerca scientifica sostituita dalla fuga dei cervelli e dall’acquisto di brevetti esteri; riorganizzazione della grande finanza privata secondo il modello delle scatole cinesi e del «salotto buono», cui avevano accesso anche i maggiorenti della «razza padrona». Scalfari predicava bene, ma la grande borghesia italiana nel suo complesso razzolava male. E infatti, nel periodo dell’unità nazionale, la politica economica continuò senza svolte significative: generoso finanziamento pubblico in deficit, per sostenere le imprese in fallimento e per ridurre l’impatto sociale di quelle capaci di ristrutturarsi. Vediamone alcuni aspetti per non fare di ogni erba un fascio. Un nuovo progetto, socialmente equo, economicamente plausibile, si doveva misurare su tre questioni. In primo luogo, nell’immediato, la distribuzione del reddito: chi doveva sostenere il peso dei debiti già accumulati, dove trovare le risorse per un tipo di sviluppo nuovo ma insieme dinamico? Berlinguer fece in proposito un discorso rilevante e coraggioso: parlò di «austerità» generando a sinistra, come a destra, diffidenza o ironia. Io non fui tra quelli che ne negavano il valore, anzi avevo già usato a mio modo la stessa parola, per il valore che aveva in prospettiva, come critica del consumo indotto e puro simbolo di status e perché indicava un problema reale. Spostare reddito, in quel momento, a favore dei consumi collettivi, dei bisogni primari e dell’estensione del sistema produttivo, senza comprimere la domanda complessiva, era condizione necessaria di un futuro benessere e incivilimento. Il suo discorso era però, non a caso, elusivo, evitava di precisare a chi l’austerità dovesse principalmente essere imposta. Indifferentemente al paese (come Amendola sostenne), per dimostrare il senso di responsabilità della classe operaia di fronte all’interesse nazionale? Oppure con criterio selettivo e rigoroso: garanzia del salario reale e dell’occupazione, agevolazioni più generose in denaro e servizi ai più poveri; più pesanti e proporzionali prelievi sui redditi privilegiati e sui consumi opulenti. Politica dei redditi? Sì, politica dei
redditi, ma non attraverso un vincolo alla contrattazione, bensì con un sistema fiscale finalmente effettivo e l’autodeterminazione del sindacato (che in Italia, come in Svezia, non era corporativo). Su questo la Dc faceva muro insieme con i padroni. Ma anche il Pci, a parte Trentin e la Flm, esitava. Sia per non rompere l’intesa politica appena raggiunta, sia perché era pericoloso distinguere nel vasto arcipelago dei privilegi i sacrosanti diritti dei più poveri, le posizioni di rendita grandi o piccole, l’evasione fiscale nel mondo della piccola impresa, fino ai maggiori patrimoni e ai capitali pronti alla fuga. L’amministrazione pubblica, per inefficienza o complicità, non era attrezzata per garantire l’osservanza delle misure fiscali contro evasioni ed erosioni. In sostanza quindi non se ne fece quasi niente. Il secondo nodo da sciogliere era più importante e più difficile. A cosa destinare le risorse ancora reperibili secondo un progetto coerente? Quale prospettiva credibile offrire in cambio di eventuali sacrifici per renderli accettabili? La difficoltà più evidente e pesante era legata alla questione della programmazione. Il potere pubblico in Italia era molto vasto: nella grande industria e nelle banche. In passato era stato capace di stimolare e guidare il decollo in una economia dissestata. Doveva essere possibile in astratto assumerlo come architrave di una programmazione là dove gli investimenti necessari erano imponenti e a resa differita, ma anche a sostegno dell’iniziativa privata, con ricerca e sovvenzioni contrattate, per sfruttare appieno competenze ed esperienze verso i settori del futuro. Nella realtà molta acqua era però passata sotto i ponti, limacciosa. Proprio l’industria pubblica era ormai oberata dai debiti (11mila lire di debito a fronte di mille lire di fatturato) per i salvataggi che aveva dovuto compiere, per i grandi impianti avviati senza discernimento e perché a dirigerla era arrivata una nuova generazione abituata a obbedire tacendo. Le banche spesso concedevano prestiti con il sostegno pubblico a imprese con loro ormai indebitate e che rischiavano l’insolvenza. Non credibile, neppure serio, parlare dunque di programmazione senza la volontà e il potere di rivoluzionare l’intera impalcatura. Il beneplacito della Democrazia cristiana al risanamento nel suo santuario era improbabile; i padroni avevano tutto l’interesse a usarlo come parco di manutenzione. I sindacati, in nome dei posti di lavoro erano costretti a essere flessibili. A ben vedere, la programmazione incontrava in quel momento anche altri ostacoli, non solo in Italia. Il mercato internazionale non esprimeva ancora
attendibili previsioni per il futuro, sulle quali orientare impegnativi investimenti. Di più: superata ormai la soglia dei bisogni primari, e acquisita la capacità della produzione di orientare essa stessa i consumi, decidere una scala di priorità verso la quale indirizzare ricerca e investimenti diventava ormai una scelta più libera e complessa, in cui si esprimeva una o un’altra cultura e una o un’altra civiltà, sul cosa produrre oltre che sul modo di produrlo. Problemi resi ancora più complessi se si considerava l’enorme differenza tra le condizioni materiali e i diversi valori ormai presenti e attivi nel mondo, o le nuove questioni da risolvere o lasciare insolute, per esempio quella ambientale. Non si può onestamente dire che questo tema della programmazione sia stato del tutto rimosso nel confronto politico degli ultimi anni settanta. Sia pure in modo molto riduttivo, e con povertà di idee, il Pci fece il tentativo di porlo al centro di una nuova politica economica. Emergevano spesso nel suo gruppo dirigente ipotesi diverse circa gli strumenti e gli obiettivi, c’era chi continuava a nutrire comunque fiducia nell’intervento pubblico e nella possibilità di rivolgerlo al meglio (gli amendoliani più stretti) e chi (orientati da Franco Rodano e influenti su Berlinguer) riteneva necessario porgli argini più stretti e si illudeva di agire invece indirettamente sulla qualità dello sviluppo, con pacchetti di domanda sociale. Da tale discussione, che rimase assai generica e di vertice, non sortì alcun disegno organico e il confronto con la Dc e con il governo si trascinò senza molto costrutto. Fu però strappato un impegno che, nel 1977, si concretò in una legge approvata dal Parlamento: la legge destinava fondi per finanziare piani di ristrutturazione settoriale. Tali piani non erano però coordinati tra loro né precisamente definiti. Soprattutto, il compito di precisarli venne affidato a un comitato di ministri e la loro applicazione agli apparati amministrativi. I sindacati vi credettero, e aprirono varie vertenze, anche con mobilitazioni e scioperi, ma il risultato pratico fu del tutto deludente: un piano esecutivo per la costruzione di centrali nucleari (che si avviò e poi rimase interrotto e inoperante per l’opposizione della popolazione). Per il resto le risorse stanziate rimasero inutilizzate o vennero distribuite a pioggia: la programmazione restò nel complesso una velleità. Meno univoco deve essere il giudizio sul terzo aspetto di ciò che doveva rappresentare una svolta riformatrice, cioè la costruzione di un moderno «stato sociale». Era una questione incalzante, sia per offrire ai lavoratori una contropartita visibile alla moderazione salariale, sia per offrire nuova occupazione non parassitaria e un generale sostegno alla produzione. Un
solo tentativo, in quella direzione, si può dire che andò realmente in porto, sia pure alla fine della legislatura, con una legge organica e innovativa. Un nuovo sistema sanitario, tra i più avanzati in Europa, pubblico e universalistico, doveva garantire a tutti, gratuitamente, le cure e promuovere anche la prevenzione. Attuarlo non era però facile, non solo per la spesa che comportava, ma anche per la realtà con la quale doveva misurarsi. L’organizzazione sanitaria precedente presentava infatti due Italie. Nel Nord del paese, già al tempo delle «mutue», era prevalso un sistema pubblico parziale ma discretamente funzionante e nel quale si era inserita una generazione di medici che ci credevano e non perseguivano lauti stipendi. Ma nel Centrosud permaneva largamente una sanità privata intoccabile, spesso governata da logiche speculative, che lasciava al pubblico i compiti più difficili e costosi e assorbiva quelli più redditizi, che lo Stato risarciva «a piè di lista». Se a ciò si aggiunge il sistema spartitorio nella gestione regionale, l’uso ipertrofico dell’ospedalizzazione, la mancanza di un piano sanitario nazionale, il rigonfiamento del consumo di farmaci inutili, le crescenti ed esose parcelle della professione privata, è facile vedere le radici di future inefficienze. Comunque un principio generale era passato e rimase incancellato. Dal punto di vista della crisi economica, però, non era la sanità l’aspetto più rilevante del tentativo di un nuovo welfare. Nell’immediato altri erano o potevano essere più incisivi e non a caso fallirono. Mi riferisco in particolare alla questione della casa. Le case erano spesso sovrabbondanti dove non servivano o mancanti dove le immigrazioni interne le rendevano necessarie. Il livello degli affitti era ormai la voce più pesante nei bilanci familiari delle masse. L’edilizia privata, gravata dalla rendita fondiaria, quando ne costruiva di nuove le offriva a costi insostenibili. L’edilizia pubblica e popolare, che negli anni 1962-67 aveva, malgrado tutto, costruito annualmente 361mila abitazioni, nel 1972-74 era scesa a 198mila, e nel 1977 a 140mila. Il suo rilancio era un acuto problema sociale ma anche un problema produttivo decisivo, con molte ramificazioni. In apparenza furono prese dal governo decisioni importanti al riguardo. Si stanziarono risorse importanti per l’edilizia pubblica, la si incoraggiò con il diritto di acquistare a prezzo agricolo le aree a essa destinate e così coprire anche le spese per l’urbanizzazione e i servizi. Ma bastarono una normativa piena di trabocchetti e ostacoli, una pervicace ostilità dell’apparato amministrativo centrale e locale e la resistenza passiva degli
imprenditori, per sabotare il progetto e rovesciarne l’intenzione: su mille miliardi destinati alle case popolari solo 24 arrivarono al bersaglio, il resto andò in vario modo all’acquisto di case private o a cooperative fasulle, com’era sempre avvenuto e avvenne anche dopo. Con una distorsione non solo sociale, ma anche economica. Perché allontanava luogo di residenza da luogo di lavoro, sovradimensionava l’alloggio acquistato in vista di figli futuri o di convenienze patrimoniali, o alimentava il ripiegamento verso il piccolo abusivismo. In sostanza un fallimento. Sempre al tema della casa fu dedicata un’altra riforma mal riuscita: alle case in affitto fu imposto un «equo canone», che doveva essere accessibile e garantire la mobilità aprendo al mercato un gran numero di alloggi, il cui canone di affitto era bloccato fin dal dopoguerra e che erano perciò degradati o inaccessibili. Ma mancando nella legge una norma che stabilisse la giusta causa per lo sfratto a fine contratto, e in carenza sempre più grave di una edilizia pubblica, il risultato di quel vincolo dell’«equo canone» nella pratica si rovesciò rispetto all’intenzione: tante case tenute vuote dai loro padroni, per poterle all’occasione vendere meglio, oppure contratti in nero che sfuggivano totalmente al fisco. Della scuola e della ricerca scientifica, che avrebbero avuto un ruolo essenziale per una nuova prospettiva di sviluppo, non parlo perché non c’è niente da dire. Se non notare che la scuola di massa senza riforme di metodi e di programmi e con pochi finanziamenti portò alla «scuola facile», a uno scadimento della formazione culturale e professionale, a un nuovo tipo di differenziazione di classe al suo interno, alla disaffezione di insegnanti malpagati e spesso precari. Mentre l’incuria e la scarsità di investimenti pubblici nella ricerca scientifica e tecnologica non fu sostituita con una crescita della ricerca privata, ma con l’importazione di brevetti, l’esportazione di cervelli, l’acquisizione da parte delle grandi multinazionali delle imprese e dei mercati più promettenti. In questo vuoto di una svolta politica e riformatrice, cui aveva a lungo contribuito e che aveva sfruttato, il capitalismo italiano trovò alla fine il modo e la possibilità di definire e di imporre una propria via d’uscita. Non era certo un lucido progetto, con l’ambizioso obiettivo di riprodurre un nuovo miracolo economico e di partecipare con un ruolo di primo piano a un futuro assetto mondiale, ma un adattamento pragmatico per non restarvi del tutto esclusi. Un adattamento per il quale disponeva di condizioni reali e che aveva esso stesso costruito nel decennio, cercando e trovando sostegni necessari. Per questo, ed entro limiti precisi, rifiuto il termine di
restaurazione o di immobilismo, e ho usato l’espressione paradossale di «miracolo al ribasso». Una ristrutturazione c’è stata, all’italiana, e il padronato, a ranghi sparsi, ma con lucidità, via via che i governi di un’unità nazionale fallivano, assunse il ruolo di protagonista. Questa ristrutturazione economica avanzava su due fronti, e per due iniziative parallele. La grande e media industria moderna, ma ormai matura, trovò i mezzi e la possibilità di reggere e anche di rammodernarsi riducendo (mediamente di un terzo) i propri organici, ma non la complessiva produzione. Non tanto o non solo con gli strumenti classici dei licenziamenti e dell’intensificazione del lavoro, né solo con sovvenzioni a tassi bassi, ma con la cassa integrazione permanente e soprattutto con l’esternalizzazione di parti del processo produttivo, affidate a una rete diffusa di aziende piccole o medie, formalmente autonome ma sostanzialmente dipendenti, dove i salari erano più bassi, i diritti poco garantiti, la produzione più flessibile. Parallelamente, venivano introdotte nuove forme di organizzazione del lavoro già inventate e sperimentate in Giappone, o in Svezia, per aumentare così la produttività, accorciare la catena di comando e investire più direttamente i lavoratori di responsabilità nella qualità del prodotto finale; veniva anche reso più autonomo l’apparato commerciale. Infine prime ma vistose delocalizzazioni internazionali (Polonia, Brasile) dove il costo del lavoro era molto basso o si poteva sperare in nuovi mercati. La Fiat è l’esempio più chiaro di questa strategia aziendale: da allora l’occupazione nella grande industria è sempre stata calante, quale che fosse la congiuntura. Il motore di ritrovati avanzi di bilancio era la riduzione dei costi e in parte questi avanzi si trasferivano in impieghi estranei al core business, particolarmente attratti dalla finanza. L’altra faccia, negativa, di tale ristrutturazione non era solo un’occupazione minore, che in parte diventava disoccupazione e in altra parte occupazione meno pagata e meno garantita, ma anche il progressivo sacrificio di imprese e settori, che potevano rappresentare l’avanguardia del progresso tecnologico, e richiedevano però grandi investimenti a resa differita. Esempi tipici: informatica e chimica (Olivetti, Montedison, le maggiori imprese farmaceutiche, l’industria alimentare). Il secondo fronte della ristrutturazione industriale si collocò al versante opposto. La crescita esponenziale delle piccole e piccolissime imprese che avevano già avuto un ruolo rilevante nel decollo del miracolo italiano, connesso all’emigrazione stabile e di prossimità, prevalentemente nelle
zone contadine mezzadrili dotate di latenti capacità imprenditoriali. Negli anni dello sviluppo imprese di questo tipo erano cresciute e si erano differenziate. Almeno una parte di loro, con l’aiuto di un ambiente sociale favorevole e il sostegno delle amministrazioni locali, oltre che consolidarsi avevano, per così dire, scoperto per loro conto i vantaggi della specializzazione territoriale, che un grande economista dell’inizio del secolo, Alfred Marshall, aveva teoricamente capito. In qualche caso si avvalevano ormai di tecnologie avanzate e avevano trovato il collegamento diretto con il mercato internazionale. La loro base comune erano salari bassi ed evasione fiscale, ma molto spesso anche elevata professionalità e fantasia imprenditoriale. Negli anni settanta la crisi, la nuova divisione internazionale del lavoro, i nuovi consumi individuali permisero a questo modello di estendersi a molte nuove regioni, ulteriormente differenziandosi nella dimensione delle imprese, e nel tipo di specializzazione. Trovando una grande occasione negli spazi interstiziali di mercato che la ristrutturazione dei paesi più avanzati abbandonava e i nuovi paesi in via di sviluppo non erano ancora in grado di conquistare. Si chiamarono distretti industriali, ovunque nel mondo visti con grande interesse, anche se intorno a loro, o in altre zone, pullulavano piccole imprese semiclandestine a lavoro tutto in nero. Era «l’arma segreta» del capitalismo italiano. Ciò non toglie che nel suo complesso quel tipo di ristrutturazione portava con sé costi sociali, politici e debolezze economiche non più recuperati. L’elenco è facile, perché per molti aspetti ci rimane ancora sotto agli occhi. Incrinature crescenti nel mondo del lavoro salariato e quindi mutamento oggettivo nei rapporti di forza tra classi (differenziali salariali, lavoro precario o nero, cooptazione dei quadri più attivi e intelligenti nel medio ceto imprenditoriale e nel mondo frammentato dei servizi). Decadenza dei settori più nuovi e avanzati dell’industria, quelli che avrebbero definito e comandato il futuro. Riproduzione in forma nuova degli squilibri territoriali, base di altre e più degenerate novità: compenetrazione tra malavita ed economia, collusione tra malavita e politica. Stabilizzazione quasi strutturale dell’evasione e mercanteggiamento diffuso tra denaro, tolleranza fiscale e consenso elettorale. Come somma di tutto, una voragine nel debito pubblico consolidato: 20-25% del Pil negli anni sessanta; 41% nel 1972; 60% nel 1975; 80% nel 1979, fino oltre al 100% nel 1988. Non è legittimo parlare di un «miracolo al ribasso»?
17. Quel che bolliva in pentola. Nel mondo
17.1 L’ultima guerra fredda Il vuoto più importante, che balza agli occhi maggiormente nell’analisi di quel periodo, riguarda l’evoluzione della situazione internazionale. Come era già avvenuto nel 1946, il Pci, ma anche i suoi critici di sinistra, non si accorsero che stava già allora cominciando una nuova fase della guerra fredda, né che bisognava attrezzarsi per farci i conti, intervenirvi quanto prima possibile, quando era ancora ai primi passi. Eravamo tutti giustamente in piazza per sostenere la lotta dei vietnamiti e poi esaltarci del suo successo, o per denunciare la repressione del legittimo governo cileno. Ma vedevamo nell’una cosa e nell’altra la conferma di una spinta rivoluzionaria in atto e di un imperialismo in crisi, ormai costretto a contrastarla con il puro ricorso alla forza. Ci dividevamo tra chi ne traeva come conseguenza la necessità alla prudenza, e la possibilità di costruire più ampie alleanze, e chi invece suggeriva di accelerare il passo per sostenere quella spinta mondiale e portarvi il contributo attivo dell’Occidente che ancora le mancava. Ma il quadro complessivo e realistico della situazione, il nuovo treno che si stava mettendo in moto nel mondo, ci sfuggiva. E infatti quando venne sul tappeto il tema della svolta di governo in Italia, le questioni di un’attiva e nuova politica estera furono messe all’ultimo posto dell’agenda. La prima cosa da dire è che, all’inizio, l’ultima fase della guerra fredda si presentò come competizione tra due potenze entrambe in crisi, al loro interno e nel proprio sistema di alleanze: crisi economica, crisi geopolitica, crisi di egemonia (sempre però al riparo dell’equilibrio del terrore atomico). Ai temi della crisi economica aggiungo subito due considerazioni. La prima è che la classe dirigente delle maggiori nazioni occidentali ebbe la capacità di accorgersi presto della sua portata. I loro governi non erano certo affatto solidi. Nixon aveva vinto le elezioni presidenziali ma già nelle prime settimane dichiarò: «Questo paese è nell’anarchia» e, in certa misura, lo era effettivamente perché si trovava impantanato in una guerra costosa e perdente; la rivolta giovanile e il movimento antirazzista avevano
scosso la fiducia popolare, in Europa le socialdemocrazie, arrivate al governo sull’onda dell’espansione economica e dell’estensione del welfare, si trovavano in difficoltà nel momento in cui l’espansione declinava. Ma trovarono, nel 1973 e soprattutto nel 1975, una sede informale – inventata da Kissinger e denominata Trilateral Commission – in cui potenti politici, grandi imprenditori, autorevoli accademici si riunivano per definire un’analisi e concordare una linea immediata per non precipitare nel disordine. Il nome era un po’ inesatto, perché Stati Uniti e Giappone erano partecipi come reali potenze, l’Europa invece era, e sarebbe rimasta a lungo, solo un mercato comune e un soggetto politico non autonomo. Ma la Trilateral comunque diede risultati importanti. Anzitutto escluse la facile idea che la crisi fosse addebitabile essenzialmente al rialzo del prezzo del petrolio ed escluse di fronteggiarla con il protezionismo e la difesa delle singole monete (esperienze sciagurate fatte negli anni trenta). In secondo luogo impegnò tutti, per l’immediato, a perseguire due obiettivi preliminari: riduzione del salario reale e del disordine in fabbrica, contenimento della spesa sociale che aveva già superato i livelli di guardia. Di fatto, in modi diversi e diversa misura, quei due obiettivi furono assunti e in parte realizzati con l’alternanza di inflazione e di deflazione e con il logoramento dei sindacati. A ciò la Trilateral aggiunse due consigli: quello di una concertazione libera, ma permanente, tra le politiche economiche dei vari stati, e quello della graduale costruzione di organismi regolatori dell’economia mondiale, sovranazionali più che internazionali. Tali consigli non furono subito messi in opera, anzi molto spesso i vari paesi ricorsero alla svalutazione delle singole monete per fronteggiare situazioni di emergenza e agevolare temporaneamente le esportazioni. Ma nel più lungo periodo si crearono o rafforzarono organismi potenti con una guida americana riconosciuta, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, che stimolavano e proteggevano lo sviluppo di una finanza privata mondiale, e la moltiplicazione di enormi imprese transnazionali. Infine si promosse, senza enunciarla ma in modo organizzato e finanziato, una controffensiva teorica che mettesse fine all’indiscussa egemonia del pensiero economico keynesiano. Questo obiettivo venne perseguito all’inizio in grande disordine: fiorirono molte scuole di pensiero (quella di Chicago fu solo una tra le tante) presto confutate e sostituite (i libri acuti e ironici di Paul Krugman offrono una rassegna di tale confusione e dei mezzi usati per alimentarla), ma il sedimento che rimase fu quello della supremazia di un generico orientamento neoliberista, nei governi, nelle
università, nei media. Una seconda osservazione, banale ma trascurata, deve essere aggiunta, per sottolineare la prolungata precarietà del processo reale in atto sul terreno economico. In quasi tutti i grandi paesi occidentali, al di qua e al di là dell’Atlantico, la stagnazione, pur senza precipitare se non raramente in recessione, durò a lungo (il tasso di sviluppo del Pil, negli anni ottanta e ancora dopo, fu in Europa mediamente più basso che negli anni settanta). Anche laddove, in Inghilterra e Stati Uniti, il programma massimo neoliberista poté essere applicato più radicalmente e velocemente, i risultati furono deludenti e nei primi anni allarmanti (la crisi del 1982). Nello stesso periodo l’inflazione, arrivata al suo picco, fu contenuta ma non spenta. Crebbero vistose disuguaglianze sociali e la disoccupazione arrivò a livelli che ricordavano gli anni trenta, o fu compensata da lavori a basso salario o precari. In sostanza divenne presto evidente che da quel tipo di crisi il capitalismo non sarebbe uscito solo spremendo di più i lavoratori a vantaggio del profitto. Aveva bisogno di una ristrutturazione più profonda, che gli permettesse di recuperare un tasso superiore di incremento della produttività generale, e di mercati più vasti che le offrissero uno sbocco. Problemi non facili da risolvere. Nel dopoguerra una soluzione di tali problemi era stata relativamente semplice. Il motore era già disponibile: il compimento dell’industrializzazione fordista, rivolta al consumo dei nuovi beni individuali di massa, e la sua esportazione ai paesi sconfitti, o semidistrutti, ma capaci di parteciparvi, politicamente integrati ed economicamente aperti a un mercato comune (Europa occidentale, Giappone). Ma ora le cose erano molto più complicate. Il potere del sindacato, pur indebolito, rendeva meno efficace l’effetto della disoccupazione sul costo del lavoro. Ma anche quando e dove si riusciva a ottenerlo, il più restava da fare. Il problema di un nuovo salto tecnologico non era già risolto e da imitare, perché riguardava l’economia dominante, ormai incalzata dai paesi alla cui modernizzazione aveva contribuito. Essa disponeva certo di una riserva cui attingere per affrontarlo: il ruolo del dollaro come moneta mondiale e, ancor di più, il patrimonio di conoscenze e di capitale umano accumulati per decenni con il sistema militarindustriale. Ma per attingervi, come già si era avviata a fare (la produzione e l’uso dei computer), occorreva tempo e poi capacità di estenderlo in modo conveniente all’insieme dell’apparato produttivo (anzi all’inizio costava più che rendere). Soprattutto, l’industria, dove la produttività
poteva crescere più facilmente, aveva ormai ridotto il suo peso, si estendeva invece il settore dei servizi nel quale gli incrementi di produttività erano più lenti e meno redditizi. Vi sopperivano la finanza e la delocalizzazione, ma occorreva allora trovare una nuova divisione internazionale del lavoro, e integrare nello sviluppo una nuova e grande zona del mondo. Tale zona esisteva, ma era economicamente arretrata e politicamente poco affidabile. Ecco perché agli inizi degli anni settanta, a mio parere, il problema essenziale, anche ai fini dell’economia capitalistica, era già geopolitico. Chi e come poteva organizzare, imprimendogli il proprio segno, un nuovo ordine mondiale? Il mondo era ancora diviso in due campi, organizzati intorno a due grandi potenze, e fuori da loro ne restava una grande parte, liberatasi dal dominio coloniale, del tutto incerta soggettivamente e oggettivamente inadeguata, nel definire il proprio futuro. Questa era la partita che si è giocata in quel periodo, rispetto alla quale allora la sinistra europea fu inconsapevole e priva di iniziativa. Il suo esito fu determinato più che dalla forza del capitalismo, da una dissoluzione di coloro che fino ad allora si erano proposti di contrastarlo, con qualche successo. 17.2 Crisi all’Est Il fattore principale di quel dissolvimento furono la crisi dell’Unione Sovietica e la totale incapacità del suo gruppo dirigente, anzi la sua intransigente avversione, ad attuare, o anche solo a cercare, una qualsivoglia innovazione nell’economia, nelle istituzioni politiche, nell’ideologia, nell’organizzazione del partito, nelle alleanze internazionali. Era insomma qualcosa di più di una crisi economica che, anzi, per diversi anni tardò a emergere: era crisi di un intero sistema. Ma della sua natura, della sua portata e delle sue conseguenze, quasi nessuno in Italia e altrove si accorse, o almeno ne discusse seriamente. Il gruppo dirigente del Pci – e anche non pochi militanti – era convinto che ormai l’Urss avesse poco a che fare con il socialismo, ma continuava ad avere fiducia nella sua tenuta come grande potenza. Rendeva più evidente il proprio dissenso rispetto a quel tipo di società, ma si guardava bene dal dare un contributo alla sua evoluzione, mantenendo piuttosto invece un rapporto diplomatizzato. Le socialdemocrazie europee a loro volta
trovavano una conferma della loro convinzione di sempre circa il carattere irrevocabilmente autoritario di quel regime, ma anche una ragione più rassicurante per convivervi. Anche chi, come me e l’intero gruppo del manifesto, fin dal Sessantotto praghese, aveva senza reticenze affermato che l’Unione Sovietica non era più da considerarsi un paese socialista per la sua struttura di classe oltre che per le sue istituzioni politiche, e non dava credito alla sua capacità di autoriformarsi nella continuità, non prevedeva però un suo crollo a breve termine, né si soffermava sulle sue eventuali conseguenze. Si accontentava dello slogan suggestivo «dallo stalinismo si esce a sinistra» senza molto interrogarsi sul come, sul quando, su quali forze, con quali tappe, ciò potesse realizzarsi. Oggi invece sappiamo tutti che quella crisi, in meno di vent’anni, sarebbe diventata il crollo di quello Stato, di quella società, di quella potenza, senza guerra ma anche senza eredi. Come e perché concretamente tutto ciò sia avvenuto e con quali conseguenze è problema di grande complessità (come e più del crollo della Seconda internazionale di fronte alla Prima guerra mondiale). È però utile e possibile anticipare qualcosa di ciò che già era avvenuto negli anni settanta e gli ha dato il via. La lunga «glaciazione brežneviana», del cui ruolo nefasto si è parlato troppo poco, non era immobilismo, o lo era solo in apparenza. Quando uno resta fermo mentre la realtà corre, non ha energie per tenerne il passo, prima resta indietro, poi si sforza in ritardo, infine si demoralizza e si ritira. E proprio questo è avvenuto. Sul piano strettamente economico negli anni settanta l’Urss sembrava stare mediocremente bene rispetto alla crisi dell’Occidente. La stabilità politica e il ritorno alla pianificazione centralizzata (dopo gli ultimi tentativi improvvisati, lasciati a metà e spesso falliti, di riforma e di decentramento fatti da Chruščëv) assicurarono per alcuni anni un tasso di sviluppo rispettabile, comunque superiore a quello dei paesi occidentali. Ma già quello sviluppo era malato: restava come sempre concentrato sull’industria pesante e quella militare, senza curarsi molto della loro produttività; nuovi settori industriali innovativi (chimica, petrolchimica, elettronica per i quali esistevano materie prime abbondanti, raffinate competenze scientifiche, tecnici capaci) erano trascurati; il sistema dei prezzi restava arbitrario; l’industria leggera di beni di consumo di massa era ancora la cenerentola o produceva beni di cattiva qualità. L’agricoltura migliorava, dopo lungo ristagno, grazie all’estensione delle terre coltivabili e alla maggiore autonomia lasciata ai contadini (frutti di precedenti iniziative di Chruščëv) ma quando quegli spazi anziché allargati vennero ridotti, per la mancanza di concimi
(prodotti da un’industria chimica stagnante) e di una meccanizzazione adatta al bisogno, l’agricoltura tornò a declinare. Il sistema dei trasporti, lacunoso e lento, rendeva aleatorie le commesse tra le industrie e, tanto più, l’approvvigionamento delle città. Potrei continuare, ma già questo mostra l’impasse strutturale. La pianificazione centralizzata aveva ottenuto risultati straordinari, quando si trattava di costruire ed estendere le basi dell’industrializzazione, o di rispondere a bisogni essenziali, non poteva però più funzionare quando l’economia era diventata complessa e i bisogni, individuali e collettivi, potevano essere guidati ma non imposti, ancor meno se si trattava di stabilire convenienti rapporti di scambio con paesi amici e la questione della produttività del lavoro e della qualità del prodotto diventava perciò essenziale. Parallelamente la statalizzazione di ogni attività produttiva aveva avuto un senso per evitare la rapida formazione di diverse classi sociali (quando ancora un uso efficace del fisco era impossibile) e funzionava, quando una mobilitazione politica e ideale straordinaria spingeva a lavorare anche senza grandi e diffusi incentivi materiali. Ma non funzionava più quando, lentamente, si estendeva l’area delle minuscole attività di servizio e quando il ricordo della rivoluzione era ormai lontano, il pericolo di guerra diminuito e anzi i gruppi dirigenti collaboravano a spoliticizzare le masse per assicurare la stabilità del potere. Si raggiungeva così un perverso compromesso tra disciplina politica e apatia sociale. Una tale impasse del sistema economico si trasferiva immediatamente sul piano geopolitico. Perché ormai il ciclo delle lotte di liberazione nazionale si stava concludendo e i nuovi stati, che ne erano risultati, avevano bisogno non solo di un sostegno militare, o di armamenti, ma di un sostegno tecnico, organizzativo, anche ideale, per sottrarsi alla lusinga e agli interessi che il neocolonialismo offriva loro attraverso la mediazione di una borghesia «compradora» già preesistente o reclutata all’interno stesso del movimento di liberazione. Brežnev fu il vero affossatore della Rivoluzione russa, proprio nel momento in cui le si offrivano altre strade da percorrere. 17.3 Kissinger, geniale quanto cattivo Proprio sul versante geopolitico, si giocò in anticipo e fu per i comunisti in
gran parte perdente, già negli anni settanta, la partita del nuovo ordine mondiale. Se infatti è vero che la crisi economica del capitalismo e la sua ristrutturazione avevano bisogno di un nuovo e grande spazio da integrare, allora è importante capire che questo spazio gli fu offerto, in anticipo, da una crisi del campo avversario, e riconoscere che l’occasione fu colta con un’intelligenza e un’intuizione politica misconosciuta. La situazione geopolitica all’inizio degli anni settanta per gli Stati Uniti era difficile tanto quanto quella economica. So che oggi parlare male di Kennedy è come parlare male di Garibaldi. Però Garibaldi, pur sconfitto, lasciò dietro di sé l’unità d’Italia. Kennedy, invece, si presentò come un nuovo Roosevelt ma non lo fu affatto. Le riforme sociali (la Grande società) furono un effettivo compromesso – realizzato di fronte alla spinta del movimento antirazziale, della rivolta giovanile e delle vittime del Vietnam – ma furono concepite e fatte da un presidente conservatore, Johnson, che lo sostituì dopo il suo assassinio. Sulla politica estera invece Kennedy fu inconcludente e per certi aspetti deprecabile. Di fronte al muro di Berlino, pessimo in sé ma ultima ratio per arginare il crollo della Ddr, anziché rispondere, come il piano Rapacki offriva, cioè con una trattativa ragionevole sulla riunificazione della Germania come Stato neutrale e senza atomiche, rispose con un rilancio del clima della guerra fredda. Alla rivoluzione cubana, che all’origine non era affatto comunista né un’appendice di Mosca, Kennedy rispose con lo sbarco insensato alla Baia dei Porci e quando Chruščëv, con analogo avventurismo, mandò i missili a Cuba, ai confini degli Usa (in verità come da tempo si trovavano già quelli americani ai confini dell’Urss), minacciò una guerra calda (Chruščëv risolse ragionevolmente il problema, ritirando i missili ma ottenendo una garanzia contro un futuro attacco militare, con il dissenso di Castro che non voleva compromessi). Soprattutto fu Kennedy che diede il via al conflitto vietnamita rompendo gli accordi di Ginevra sulla riunificazione del paese e mandando i «berretti verdi» a sostegno di un governo che si rifiutava di trattare. E Johnson, subito dopo la sua morte, continuò sulla stessa strada, prima stimolando e finanziando il cruento golpe militare in un grande paese latino americano, il Brasile, contro il governo legittimo di Goulart, poi, pur convinto ormai, come McNamara, che si trattava di una tragica insensatezza, guidò l’escalation in Vietnam. E nel 1965 il colpo di Stato militare in Indonesia portò al massacro di circa 800mila comunisti. Comunque questo non bastava, nel 1970, a controllare il mondo, anzi logorava ancor di più il prestigio americano: in Vietnam le cose per loro
volgevano al peggio, in America Latina Allende vinceva le elezioni, le guerriglie continuavano endemiche, Cuba si era ancor più legata all’Urss. Il misto di repressione e di reale intelligenza politica cominciò dopo, dispiace dirlo, con Nixon e con il suo cervello, Kissinger. Kissinger non era più schizzinoso dei suoi predecessori nell’uso dell’arbitrio e della forza, al contrario. Ma sapeva fare analisi e usare molteplici strumenti. In America Latina, dove l’equilibrio tra potenze non imponeva alcun vincolo concreto, il primo passo della reconquista non conobbe infatti limiti: ristabilire l’ordine con ogni mezzo. Quindi una serie rapida e impressionante di colpi di Stato, senza risparmio di morti e di torture, messi in atto, per interposta ma fedele persona, dai militari: Cile, Uruguay, Perù, Argentina. Reazione dei governi europei? Nessuna. Poca gente in piazza a protestare, molto più tardi rituali espressioni di solidarietà con le Madri di maggio, commozione per i canti degli Inti-Illimani o richieste postume di punire i colpevoli, quelli locali e ormai decrepiti, ovviamente, non quelli del Dipartimento di stato, rispettabile alleato. Ripetizione di vecchi scenari? Non esattamente. C’era una novità che non cogliemmo. I colpi di Stato militari degli anni settanta avevano nuovi protagonisti e obiettivi meno ottusi. I militari non erano più il semplice braccio armato e ben pagato, ideologicamente parafascista, che agiva per ristabilire il potere di una oligarchia di proprietari assenteisti. Tanto meno inaffidabili populisti alla Perón. Erano formati in accademie militari negli Usa, modernamente addestrati alla guerra antisommossa e alla repressione interna, e i loro consulenti economici avevano studiato in università americane. Con violenza inaudita conquistarono il potere e lo gestirono poi direttamente, non per ristabilire il vecchio ordine ma per guidare una nuova élite manageriale e costruire un nuovo indirizzo economico, sostituendo al vecchio un tipo nuovo di industrializzazione dipendente, cioè non più rivolta a sostituire le importazioni ma ad alimentare le esportazioni. Un tale obiettivo non era facile realizzarlo di slancio, aveva bisogno di finanziamenti che in effetti il mercato mondiale forniva, del sostegno delle multinazionali e di una classe dominante che reinvestisse i propri denari, anziché solo mangiarseli nell’ozio o portarli nelle banche americane. Nei primi anni ottanta allo sviluppo subentrò quindi subito la crisi del debito, ma Fondo monetario e Tesoro americano intervennero nel costoso salvataggio ottenendo in cambio il diritto di dettare il proprio dominio nelle politiche economiche. Un secondo e più sottile tipo di reconquista si realizzò nell’ancor più
difficile teatro mediorientale. Qui la posta era alta: il petrolio. Ma il controllo politico più difficile. Malgrado la sconfitta militare subìta nello scontro con Israele del 1967, il fallimento dello Stato confederato EgittoSiria, le ambiguità del partito Ba’th iracheno, i ricambi e le scissioni nel Fln algerino, la guerra civile in Libano, il nazionalismo arabo laico e progressista era ancora forte. Nasser era saldamente al potere e manteneva un’alleanza con l’Unione Sovietica che, in cambio, gli aveva concesso lo scioglimento del Partito comunista egiziano, piccolo ma dotato di quadri molto qualificati. L’Arabia Saudita era il solo alleato solido per gli americani nel mondo arabo, grazie alla rete di interessi finanziari. Quanto a Israele, pur garantendogli sostegno militare, ancora erano incerti ad assumerlo come diretto rappresentante, nel timore di alienarsi ancor più ogni simpatia del mondo arabo. Qualche anno dopo il loro maggiore partner nell’area, lo scià di Persia, sarebbe stato rovesciato dal fondamentalismo islamico, non violento ma accesamente ostile all’Occidente. L’occasione che si offrì agli americani fu la (sospetta) morte di Nasser nel 1970. Un suo successore non era stato designato: Sadat era formalmente vicepresidente ma, nella gerarchia reale, risultava decimo. Seppe però profittare del suo ruolo provvisorio per un semicolpo di Stato, cioè mandando in carcere i suoi concorrenti. Avendo basi fragili nel partito nasseriano, e limitato consenso di massa per l’incalzare dei Fratelli musulmani, cercò appoggio politico e finanziario esterno, rimandò a casa i militari sovietici, che ritenne più compromettenti che utili. Kissinger gli offrì una crescente intesa che si concluse, dopo qualche schermaglia sul Sinai, con il riconoscimento e una sostanziale intesa con Israele. Il processo influì su giordani e iracheni, che più tardi furono spinti dagli americani a una guerra decennale con l’Iran. A questo punto per gli Usa il rapporto con Israele poté diventare più esplicito e corposo, una specie di mandato fiduciario. Un altro pezzo del Terzo mondo, mai quietato, fu così comunque messo sotto controllo. Il Pakistan, sempre al limite della guerra con l’India, era da tempo integrato nella Seato, l’organizzazione difensiva dell’Asia sudorientale, anche se passava spesso per varie mani. L’Indonesia era ormai uno Stato militare e un alleato sicuro. Rimaneva decisivo però l’Estremo Oriente. Taiwan e Corea erano state spinte, per avere un consenso di base, a fare una riforma agraria (altro indizio di un imperialismo non stupido) e poi, con l’aiuto economico che giungeva loro in quanto basi per la guerra nel Vietnam, erano divenuti
piccoli paesi capitalisti «rampanti». Il Giappone era un alleato molto fedele ma sul piano economico un concorrente che esportava molto e importava poco, non certo un’area in cui espandersi. Il vero problema aperto, e a rischio, per un nuovo ordine mondiale era dunque quello cinese: gigantesco mercato per il futuro, avversario temibile per le sue dimensioni e per la rivoluzione comunista che aveva compiuto costruendo uno Stato e avendo avviato un proprio sviluppo. Gli americani avevano finora rifiutato di riconoscerla e posto il veto all’ingresso nell’Onu di un paese con un miliardo di abitanti. A loro volta i cinesi consideravano gli americani il nemico principale, criticavano i sovietici proprio perché accettavano la coesistenza pacifica con loro. Come già sappiamo i rapporti tra i cinesi e i sovietici non erano mai stati facili. Fin dall’origine il problema principale che, a intermittenza, provocava tensioni tra loro stava nel fatto che la Rivoluzione cinese, come quella jugoslava, era comunista, e perciò si sentiva sorella di quella russa, la riconosceva come punto di riferimento ideologico e architrave di una comune azione nel mondo, ma era anche una rivoluzione nazionale, realizzata con le proprie forze e rivendicava dunque un proprio spazio di autonomia: anche negli anni della più stretta collaborazione (la guerra in Corea, i primi passi dell’industrializzazione), la cooperazione non era per i cinesi un dovere, ma il frutto di una scelta e di una convergenza. Il primo sintomo di una divergenza si manifestò già nel 1956, intorno al giudizio su Stalin, poi però durante la crisi ungherese venne messa da parte e, anzi, il rapporto Urss-Cina, per un breve momento, assunse quasi il carattere di una partnership. La divergenza riemerse all’inizio degli anni sessanta, in forma più grave, come critica, che portava in sé il rifiuto di principio dello «Stato guida», della gestione troppo conciliante nei rapporti con l’America. A questo punto Chruščëv commise l’errore più grave della sua vita: decise di sospendere ogni aiuto economico e militare alla Cina e di ritirare i tecnici di cui essa aveva bisogno. Tale decisione fu fatale, non solo perché creò alla Cina difficoltà non più dimenticate, ma perché trasferì un’aspra discussione ideologica e politica in una rottura tra stati. Era quello che Togliatti disperatamente temeva, ancor prima della Rivoluzione culturale. Della Rivoluzione culturale, ora mi basta rilevare che il suo aspetto più dannoso non fu quello di aver condotto una critica radicale al modello sociale e politico emergente in Urss, ma di averla assunta come nemico principale nella contesa mondiale. Mentre allo ždanovismo Zhou Enlai e
Tito avevano risposto con Bandung, cioè con una politica estera difensiva e autonoma, ma efficace, alla rottura tra Urss e Cina (che di colpo cancellava la novità più grande negli equilibri geopolitici nella seconda metà del Novecento) la Cina della Rivoluzione culturale non poteva opporre nessuna politica estera. La strategia dei «tre mondi», elaborata da Lin Biao, non aveva base reale e infatti non fu praticata neppure ai tempi più impetuosi della Rivoluzione culturale. Al Terzo mondo non aveva mezzi e messaggi da proporre, se non le massime del libretto rosso. Infatti la sua politica estera, tra stati o partiti, fu di estrema prudenza. La Cina diffidava o condannava i vari movimenti guerriglieri sparsi per il mondo, diffidava di Cuba quando ancora essa non era del tutto dipendente da Mosca; era disponibile a trattare intese economiche vantaggiose con governi di destra, era scettica rispetto alla costruzione di nuovi partiti comunisti, perché temeva giustamente di trarne più grane che sostegni. La sola cosa giusta ed efficace che poteva fare per contribuire alla lotta antimperialista era un aiuto concreto ai vietnamiti in guerra. E la fece, paradossalmente fianco a fianco con l’Urss ma senza guardarsi in faccia. Ho al riguardo un ricordo, in sé irrilevante, ma rivelatore, da portare. Nel 1970, subito dopo la radiazione dal Pci, io e gli altri compagni del manifesto chiedemmo un contatto con il Partito comunista cinese, per capire e per farci capire. L’incontro non solo fu accettato, ma ci si chiese di andare a Parigi dove era presente un alto dirigente cinese. Questo ci pareva un buon segno perché noi non eravamo certo degli ortodossi rispetto a nessuno. La discussione ci pareva interessante. Fummo accolti con grande cortesia e simpatia, ma quando si passò a discutere, i cinesi furono molto formali e reticenti nel parlare della loro esperienza, della loro attuale situazione, dei loro progetti; ci rivolsero invece molte e informate domande su Fanfani, il centrosinistra italiano e la sua prevedibile politica estera, meno domande ci fecero sul Pci e sulle ragioni della nostra radiazione; ancor meno sulle nostre intenzioni e le nostre capacità, quasi nessuna sui movimenti di massa in Italia e in Occidente, nessuna del tutto sui piccoli gruppi marxisti-leninisti, che in Italia si presentavano come loro rappresentanti. Tornammo quindi da Parigi non poco delusi, salvo la cena squisita. Perché, delle due l’una: o in Cina c’era ormai una situazione così incerta e complessa che non si poteva parlarne schiettamente; o i cinesi erano convinti che una «Rivoluzione culturale», un appello alla ribellione, non potevano avvenire senza una guida carismatica, capace di provocarla realmente e poi di governarla, e senza un potere già conquistato, che si poteva processare ma non travolgere. Convinti insomma che a lungo si
doveva «contare sulle proprie forze». In verità erano vere entrambe le cose. Personalmente tornai con l’idea che c’era qualcosa del nostro discorso da rivedere, non tanto su di loro ma sulla situazione mondiale. Tuttavia, una prova d’appello, per quanto riguarda il rapporto interstatale tra Urss e Cina ancora esisteva, anzi di nuovo si offriva. In Urss Chruščëv, autore principale del misfatto, era stato deposto, il nuovo gruppo dirigente aveva grandi risorse materiali da offrire e interesse a trarne in cambio l’enorme disponibilità di manodopera, volenterosa ma ormai qualificata. C’era lì un grande mercato, un apparato industriale ancora ai primi passi, un potenziale grande alleato. La Cina era ancora minacciata dagli Stati Uniti, era esclusa dall’Onu, aveva grande bisogno di risorse naturali e di competenze primarie. Quanto alla Rivoluzione culturale, già nel 1968, Mao senza affatto rinnegarla o liquidarla, aveva deciso di frenarne il radicalismo. Non erano occasioni momentanee. L’economia sovietica fruiva ancora di un residuale sviluppo. In Cina, per quasi dieci anni, sia Mao che Zhou Enlai tentarono di garantire e di lasciare in eredità un equilibrio tra radicalismo dei princìpi e realismo della politica. L’evoluzione della guerra vietnamita stava arrivando alla sua fase più acuta, ma mostrava anche la possibilità di essere vinta. Molti partiti comunisti, non solo il Pci, riluttavano ormai alla disciplina di campo, condividevano l’idea togliattiana di lasciare intatta la solidarietà internazionale, senza però cancellare differenze e autonomie. Il Pci, in quanto grande partito in Occidente, e per l’influenza che esercitava in molti altri paesi, non poteva ovviamente imporre nulla, ma assumere un’iniziativa. Non doveva dunque essere evidente la necessità e la possibilità di ricucire un minimo di convergenza tra Cina e Urss, utile a tutti? La strada imboccata fu opposta: l’invasione di Praga con la connessa teoria della «sovranità limitata» e d’altra parte la liquidazione di Lin Biao con l’accusa di essere, proprio lui, un complice dell’Unione Sovietica, mostrano tutta questa cecità. Qui si inserisce e si può misurare l’intelligenza politica, non solo nel merito della scelta, ma nella velocità con cui fu applicata, di Henry Kissinger, che non tentò affatto di usare rozzamente le divisioni dell’avversario, ma ne fece la leva avvolgente di una nuova strategia. Nel pieno della guerra vietnamita, e pur continuando l’altalena tra aperture e irrigidimenti verso l’Unione Sovietica, all’improvviso, nel 1972, un presidente americano cercò e ottenne un colloquio diretto con Zhou Enlai e
Mao Zedong, cioè con il nemico più irriducibile. Non era una semplice offerta di distensione, ma una svolta storica. In poco più di un quinquennio seguirono novità enormi. Il riconoscimento della Cina da parte degli Stati Uniti. Il suo ingresso nell’Onu, anzi nel Consiglio di sicurezza (fregandosene degli strilli di Formosa e della Corea). Da parte cinese, a partire dal 1978, la definizione di alcune zone speciali, dove potevano nascere imprese in joint-venture e operanti sul libero mercato internazionale (soprattutto destinate a esportare i loro prodotti in America), che trainavano l’intera economia del paese, con il solo vincolo della non convertibilità del cambio. Con prudenza, perché la proprietà statale delle industrie nelle altre regioni restava intatta, così come il possesso della terra ai contadini, abilitati comunque, individualmente o in cooperative, a vendere il raccolto. Le ulteriori tappe del processo avvennero più tardi, ma è indiscutibile, quanto misconosciuto, il fatto che si trattava del mutamento di un intero sistema. Un mutamento che prima di prendere piena evidenza economica, era stato anticipato e deciso da una svolta geopolitica già nei primi anni settanta. Deng ne fu l’ingegnere, quando assunse gradualmente il ruolo dirigente, e non esitò a sintetizzarlo in uno slogan: «Non importa il colore del gatto, essenziale è che prenda i topi». Ma la scelta di indirizzo fu fatta prima, Mao presente. Di recente in America è stato pubblicato una specie di resoconto del suo colloquio di allora con Nixon: l’autenticità del testo a me pare dubbia. Ma una frase di Mao fu più tardi riportata da Nixon e mai smentita: «Se avessi dovuto votare in America avrei votato per lei. Perché, in Occidente, gli uomini di destra fanno ciò che dicono, mentre quelli di sinistra dicono una cosa e ne fanno un’altra». In forma provocatoria e scherzosa quella frase rivelava che Mao non stava facendo abile diplomazia, ma una scelta impegnativa e rischiosa per tutti. La resistenza che oppose a un brusco sommovimento nel gruppo dirigente cinese e la fiducia, che proclamò fino alla fine, sui risultati della Rivoluzione culturale, fanno pensare che Mao ritenesse possibile mettere un argine alla restaurazione capitalistica, che considerava già in atto in Urss e sempre possibile anche in Cina, che ritenesse la partita aperta e impossibile da vincere con l’immobilismo. La breve vita che gli rimase, e anche la sua tendenza mentale a considerare la storia nella longue durée, affidata alla lotta di classe, gli impedirono di definire confini e meccanismi adeguati per «volgere un male in bene» (da noi si dice «far di necessità virtù»), soprattutto di prevedere la piega che poi avrebbero preso le cose. Ma del
fatto che la sua Cina stava facendo una scelta storica e rischiosa era consapevole e consenziente. Il vero argine, da non incrinare, che rimase dopo la sua morte, e ancora non crolla ma con effetti discutibili, fu, paradossalmente, la saldezza di un potere esclusivo e piramidale del partito. Lo ricordo solo come tema di discussione, la cosa certa è che la globalizzazione neoliberistica, in cui oggi viviamo, bolliva in pentola già negli anni settanta. Forse poteva essere meglio contenuta e condizionata ai suoi primi passi. La sinistra europea ignorava del tutto la questione. Se ho usato l’espressione «dissolvimento del campo socialista» è proprio tenendo conto delle conseguenze immediate, che la rottura definitiva tra Urss e Cina, e le strade che l’una e l’altra avevano imboccato, ebbero anche in altre situazioni periferiche, ma essenziali sul terreno politico e ideale: le difficoltà del Vietnam dopo la vittoria, i problemi economici di Cuba, l’isolamento dei palestinesi. 17.4 Il nuovo vento dell’Ovest Nel 1980, quando una lunga fase di conflitto stava concludendosi, senza produrre alcun nuovo ordine, emerse, improvvisa e inattesa, in una parte dell’Occidente, una nuova leadership politica che, gradualmente, si sarebbe non a caso imposta e alla quale si oppose, sempre in Occidente, un tentativo di tutt’altro segno che invece, sempre non a caso, rapidamente fallì e venne abbandonato. Il primo fatto, il più importante, fu l’ascesa al potere quasi contemporanea di una nuova destra in Inghilterra e, soprattutto, negli Stati Uniti. Da decenni eravamo abituati a considerare che l’alternanza al governo tra conservatori e socialdemocratici nei paesi occidentali non introduceva svolte importanti e permanenti. La politica economica e quella internazionale potevano cambiare, ma non erano sostanzialmente determinate dal fatto che al governo fosse un partito o un altro. Tra conservatori moderati e socialisti liberali le distanze erano limitate e sulle scelte essenziali (fedeltà atlantica, coesistenza pacifica, welfare state nel limite del possibile) definivano un compromesso da tempo accettato, un binario dal quale nessuno voleva o poteva uscire. I conflitti si dislocavano in aree periferiche del mondo e venivano poi ricomposti o circoscritti. Era il frutto di una cultura egemone e di un rapporto di forza. La nuova destra
di Reagan usciva invece da quei confini, e proponeva senza veli la rottura di quel compromesso. Concentriamoci per ora sugli obiettivi politici dichiarati e poi messi subito in pratica. Il primo obiettivo esplicito era di liberare il mercato dai vincoli e dai costi che sempre più ne ostacolavano la forza espansiva e l’efficienza: superare il compromesso sociale e le procedure che lo garantivano, le rigidità del mercato del lavoro, spostare risorse, con il fisco o con il bilancio, dalle renumerazioni all’accumulazione, liberarsi da imprese poco redditizie o in procinto di diventarlo. Reagan realizzò questa prima parte, destruens, del programma rapidamente e con modalità permanenti: riduzione dei salari reali, disoccupazione di massa o spostamento dei lavoratori in ruoli inferiori e in zone dove il sindacato non aveva radici, aumento dell’orario di lavoro o reclutamento del lavoro femminile o di immigrati privi di diritti, riduzione delle spese e delle prestazioni assistenziali, a fronte di una riduzione delle tasse per le classi più agiate, sanzioni per gli scioperi in molti settori e smantellamento delle organizzazioni sindacali. Ma questo non bastava a garantire una ripresa dell’economia, né della supremazia americana, anzi rischiava di provocare una depressione. Occorreva allargare il mercato dentro e fuori nuovi confini, una maggiore produttività, che invece stagnava, dunque un salto tecnologico, che battesse concorrenti internazionali, ormai competitivi, e soggetti imprenditoriali capaci di usarlo. Occorrevano strumenti efficaci per ottenere il consenso di una maggioranza della popolazione colpita nelle sue sicurezze. I primi passi in questa direzione furono compiuti sostenendo nuovi settori produttivi (informatica e biotecnologie), grandi imprese multinazionali, finanziarizzazione e conquista di un monopolio dell’industria culturale di massa, per orientare il senso comune, esportando brevetti e importando cervelli. I primi passi, già avviati, non davano rapidi frutti e richiedevano un motore che li alimentasse. Il vero motore fu trovato in un secondo obiettivo: l’ulteriore rilancio, pianificato ed esibito, della guerra fredda, già da Carter, in varie forme, ma in particolare con la corsa al riarmo di un nuovo tipo, simboleggiato da progetti minacciosi ed esibiti: la bomba al neutrone, lo scudo missilistico, le «guerre stellari». Questa scelta era fondamentale su due fronti. Il complesso militar-industriale, finanziato da risorse pubbliche, gestito da imprese private, da una parte aveva la funzione e la capacità di accelerare il salto tecnologico, che non garantiva profitti a breve termine, e dall’altra parte imponeva all’Unione Sovietica, se voleva mantenere un equilibrio, spese militari che la mettessero definitivamente in crisi. Complessivamente, quella scelta ricostruiva,
all’interno degli Usa, il mito di una «missione americana» per la riunificazione del mondo e, al loro esterno, proiettava di nuovo un’idea della supremazia americana, cui si consegnavano le decisioni politiche essenziali. Sul piano economico, assicurava agli Usa il ruolo di rifugio per capitali di cui avevano bisogno, per colmare i loro insorgenti disavanzi. In sostanza, la nuova destra era ideologicamente convinta che ormai fosse necessario, e possibile, rovesciare la grande svolta prodotta dalla Seconda guerra mondiale e dal New Deal rooseveltiano. Resta da capire come un disegno così esplicito sia rimasto incontrastato, anche quando ancora in concreto offriva ai cittadini americani più pene che speranze e metteva in discussione particolarmente il modello consolidato nei paesi europei. La risposta è ovvia: l’Europa, che sola aveva le risorse per opporsi o per correggere quella strategia, non era un soggetto politico unitario e la sinistra europea mancava di idee, di forze e di volontà per proporre un’alternativa. A concreta verifica di questo giudizio sul vento che cominciava a soffiare dall’Ovest servì la quasi contemporanea vicenda francese. La Francia era in quel momento il solo paese che, per dimensione e orientamento politico, potesse promuovere in Europa una resistenza alla nuova destra anglosassone. Aveva alle spalle un ventennio di governo gollista, certamente non di sinistra, ma più di ogni altro autonomo dalla disciplina atlantica, e un apparato statale centralizzato ma efficiente, orientato a intervenire sul terreno dell’economia e dotato di strumenti per farlo. Nei decenni precedenti la sinistra si era aspramente divisa: da un lato un Partito comunista forte (il 25% dei voti) ma isolato per il suo dogmatismo ideologico e la sua sudditanza alla politica sovietica, dall’altro un Partito socialista che era stato forte ma che poi si era talmente compromesso nei governi della Quarta repubblica e nella guerra colonialista in Algeria da trovarsi ridotto al lumicino. E una legge elettorale maggioritaria presidenzialista rendeva impossibile aspirare al governo senza ricomporre quel conflitto. Ma nel 1971, sorprendentemente, proprio in Francia sembrò partire un nuovo corso. L’iniziativa venne da Mitterrand, leader prestigioso e capace, anche se privo di forze organizzate e con un passato politico non del tutto limpido. Egli rilevò – senza cambiargli il nome – il Partito socialista dal fallimento e si propose di rifondarlo raccogliendo gruppi di intellettuali o di sindacalisti senza partito. Il tentativo ebbe un certo successo e il suo promotore ebbe l’intelligenza di proporre al Pcf un’intesa duratura per puntare alla presidenza della Repubblica. I
comunisti a loro volta ebbero l’intelligenza non solo di accettare la proposta ma di suggerirne una forma ancora più impegnativa, elaborando e firmando un «programma comune». E, per ottenerlo, ridussero molto il loro dogmatismo e il loro legame con Mosca e accettarono la candidatura di Mitterrand alla presidenza della Repubblica. Il programma comune era un po’ antiquato, ma impegnativo e corposo. Al suo centro c’era l’idea di un «keynesismo di sinistra»: aumenti di salario, estensione della spesa sociale e dell’intervento pubblico per promuovere uno sviluppo che avrebbe colmato il deficit iniziale, limitate nazionalizzazioni. L’esatto contrario del programma reaganiano. I socialisti vi aggiungevano, in modo un po’ generico, la prospettiva dell’autogestione. In pochi anni la sinistra unita francese, unica in Europa, conquistò così molti voti. Il successo era promettente, ma creò un’incrinatura politica. Gli elettori che tornavano a sinistra, dopo la defezione verso il gollismo, erano ovviamente più consoni al Partito socialista, che recuperò le sue forze tradizionali nel ceto medio e anche qualche «compagno di strada» dei comunisti (che infatti calarono dal 25% al 20%). A questo punto il Pcf commise un errore grave. Non sopportò l’eventuale perdita del suo primato e pensò di evitarla recuperando in parte la propria immagine tradizionale. Mitterrand ne approfittò per mettere un po’ da parte il «programma comune». Né gli uni né gli altri si impegnarono a colmare i vuoti del programma: scarsa mobilitazione della lotta sindacale, poche idee per adeguare il progetto ai tempi e coinvolgere nuovi soggetti sociali, soprattutto indifferenza per le questioni internazionali e per la «questione europea». Nel 1981 comunque Mitterrand vinse le elezioni presidenziali, i comunisti calarono al 15%, ma il programma fu lealmente applicato, il Pcf entrò nel governo. Bastarono però pochi mesi per accorgersi delle difficoltà di una politica riformatrice, tanto più in un momento di crisi economica. Il potere non è fatto solo di voti, ma della compattezza di chi lo esercita, della mobilitazione di massa che suscita e lo sostiene, dei rapporti di forza internazionali in cui si inserisce. Agli aumenti salariali (e misure analoghe) i padroni risposero con licenziamenti massicci e fughe di capitali, il franco divenne il bersaglio conveniente di una finanza mondiale alla ricerca di profitti speculativi e dovette essere svalutato due volte, i sindacati erano divisi o incerti, i leader del Sessantotto si erano già trasformati in nouveaux philosophes, cantori dell’Occidente e di un nuovo anticomunismo. In poco tempo i socialisti cambiarono allora di colpo la politica economica in senso ultraliberale, Mitterrand costruì un «asse di ferro» tra la Francia e la Germania (dove i democristiani erano tornati al potere con Kohl). La
politica verso il Terzo mondo si avvilì a una collaborazione, spesso torbida, con i governi corrotti delle ex colonie africane. Pochi anni dopo le elezioni politiche furono vinte da Chirac. I comunisti portarono pazienza ma poi dovettero sfilarsi. Né si trattava di un caso isolato: Craxi e Gonzáles andavano nella stessa direzione di Mitterrand. I laburisti inglesi, che tentavano di resistere alla Thatcher con lotte dure e perdenti, subirono una scissione e non tornarono al governo se non dodici anni dopo. L’alternativa europea al reaganismo era fallita prima di cominciare. La realtà stava quindi dimostrando due cose. Da un lato dimostrava che l’applicazione del keynesismo, in un singolo paese integrato in un mercato internazionale non più regolato, produceva più inflazione, disoccupazione, deficit commerciale che non nuovi investimenti e nuovo lavoro. Forse, intelligentemente rivisitato, poteva funzionare se fosse stata la scelta dell’intera Europa e se il consenso popolare fosse stato pronto a sopportare il medio periodo e ad apprezzare riforme essenziali ma non costose. Condizioni che comunque non c’erano e nessuno aveva cercato di costruire. Dall’altro lato dimostrava che, se costrette dalle cose a rinunciare all’ispirazione di partenza, le sinistre non si sarebbero fermate a metà strada, cioè alla classica socialdemocrazia. Erano strette in un bivio: o isolarsi in una resistenza senza progetto, accettando un lungo declino o, come generalmente avvenne, spostarsi ben più a destra, verso la liberaldemocrazia, e di fatto limitarsi ad accettare il modello americano, cercando di contenerne qualche eccesso o di ottenerne qualche vantaggio. Il disordine mondiale era ancora grande ma la situazione non era affatto eccellente.
18. I fatali anni ottanta
Confesso che a questo punto sono stato per settimane e mesi bloccato nel mio lavoro da un dubbio profondo. Dopo ciò che era accaduto, ciò che stava accadendo e sarebbe accaduto nel giro di pochi anni – in Italia e nel mondo, sul piano politico, economicosociale e culturale – esisteva ancora per il Pci una possibilità effettiva di incidere sull’ulteriore corso delle cose, o quanto meno di conservare gran parte delle sue forze e l’essenziale della sua originale identità per il futuro? Era un dubbio legittimo, ma la scelta che ne conseguiva era molto pesante, perché, implicitamente, portava a giudicare velleitario e irrilevante il tentativo compiuto da Berlinguer di imprimere una svolta nel 1980, e a legittimare la successiva decisione di Occhetto di ratificare la fine del Pci nel 1989. Ho quindi passato al setaccio sia la mia memoria personale di quel decennio, sia la storiografia e la memorialistica che hanno prevalso. E ne ho tratto la convinzione che la storia degli anni ottanta è stata meno lineare e scontata di quanto si creda. A tale convinzione mi hanno persuaso, per così dire, due «sorprese». Prima sorpresa: non solo il numero e l’importanza degli eventi di cui quel decennio è stato zeppo, ma anche il fatto che, nella maggioranza dei casi, quasi nessuno li avesse previsti né si sia sforzato di leggerne la dinamica e le immediate conseguenze. Che in un breve lasso di tempo si sia verificato un rivolgimento così esteso e così radicale, senza una grande guerra e senza una catastrofe economica, significa che esso era il risultato di tendenze già da tempo all’opera, e tanto più è interessante vedere come siano alla fine emerse e si siano sviluppate e sommate. D’altra parte, se tanti nuovi eventi sono giunti inattesi e sono stati a lungo poco discussi, ciò vuol dire che non erano scontati, ma erano il frutto di complessi tentativi, riusciti o falliti, sui quali intervenivano ulteriori scelte politiche giuste, sbagliate o suicide dei vari protagonisti ancora in campo. Qui interviene la seconda e più importante «sorpresa»: quanta parte dell’esito finale era già segnata in anticipo e in tutti i suoi aspetti, e quanta invece poteva svilupparsi in modi diversi e portare a diversi approdi, in rapporto alla storia specifica che ciascun paese aveva alle spalle, alle risorse materiali e umane di cui disponeva, alle strategie politiche con cui gestiva la propria crisi? Mettere tutto insieme in archivio sotto la generica
voce «la morte del comunismo» non corrisponde ai fatti. Intendiamoci: che negli anni ottanta la storia del comunismo come movimento mondiale, ispirato dalla Rivoluzione di ottobre, si sia conclusa, è inoppugnabile. È anche innegabile il fatto che ciò si riflettesse pesantemente su tutte le forze che di tale storia erano state partecipi, anche su quelle che gradualmente avevano compiuto autonome esperienze ed elaborato autonome tradizioni culturali. Su questo piano dunque niente sorprese: gli anni ottanta portavano là dove era fatale portassero, a una crisi complessiva del comunismo del XX secolo. Ma è altrettanto vero che una crisi, quando investe grandi e radicate forze, può essere affrontata in molti modi, produrre esiti diversi, liquidare del tutto il passato o salvarne una parte come risorsa per il futuro. Basta ripensare alla Rivoluzione francese nel lungo periodo, per cogliere questa evidenza. Ed entro tali limiti ho trovato negli eventi degli anni ottanta molti spunti per una riflessione non scontata. Faccio alcuni esempi. Non era scontato o prevedibile che a guidare l’Unione Sovietica arrivasse all’improvviso Gorbačëv, né il suo tentativo estremo e radicale di riformare il sistema, né il suo rapido fallimento, né che quel fallimento aprisse la strada a una dissoluzione dello Stato e della società nel torbido regime di Eltsin. Così come non era scontato o prevedibile che in Cina, messa in frigorifero la rivoluzione maoista senza però rinnegarla, e con una prudente continuità politica del potere, si consolidasse uno Stato-continente, ed esplodesse uno sviluppo destinato a farla diventare un pilastro della nuova economia mondiale. Non era scontato che la straordinaria esperienza jugoslava si tramutasse, con lo stimolo europeo, in un feroce conflitto etnico, né che la situazione mediorientale, con l’intervento attivo di Israele e degli Stati Uniti, marcisse tragicamente per la nascita del fondamentalismo religioso. Né era scontato che l’Europa, anziché imboccare la strada suggerita da Delors sul piano economico e da Brandt sul piano politico, accettasse supina la logica reaganiana o comunque si rassegnasse all’impotenza politica dandosi istituzioni separate dalla sovranità popolare. In questo contesto – nel quale la «crisi del comunismo» dominava ormai la scena ma le varianti possibili nel suo percorso non erano ancora cancellate – tornò a emergere, nel bene e nel male, l’originalità del comunismo italiano, in forma nuova, con molti contrasti, in fasi successive e distinte.
18.1 Il secondo Berlinguer Alla vigilia degli anni ottanta, già per conto suo, il Pci si trovava in difficoltà serie. Il risultato delle elezioni politiche del 1979 di per sé non era quel dramma che la stampa descriveva. Il partito conservava il 30% dell’elettorato, due punti in più del 1972; aveva cioè perso, rispetto al massimo raggiunto, meno di quanto nello stesso periodo avessero perso i maggiori partiti socialdemocratici europei; e buona parte dei voti perduti erano andati a favore dell’estrema sinistra, non a destra. Un segnale più preoccupante si poteva però cogliere dall’analisi del voto: perché le defezioni erano avvenute nelle aree metropolitane e nell’elettorato operaio e giovanile che erano stati i settori trainanti dei precedenti successi. Il problema maggiore però era un altro, lo spostamento politico nei due grandi interlocutori sui quali il Pci aveva costruito il proprio disegno: la Dc e il Psi di nuovo uniti in una coalizione di governo, competitiva al proprio interno, ma esplicitamente e fermamente decisi a tenerne fuori i comunisti. Al Pci venivano così a mancare non solo alcuni deputati in Parlamento, ma una prospettiva politica credibile. In un primo tempo il suo gruppo dirigente rifiutò di prenderne atto. Da un lato per la riluttanza a compiere un’autocritica esplicita sul recente passato, dall’altro perché era convinto che il nuovo centrosinistra fosse troppo diviso e incapace di governare un paese tuttora in crisi, quindi era transitorio. Occorreva tallonarlo e incalzarlo fino a quando la necessità di una grande coalizione, depurata dai suoi limiti, si sarebbe nuovamente riproposta. Al suo interno si aprì tuttavia un conflitto, più tattico che strategico, nelle sedi riservate, ma spesso aspro. Il suo oggetto principale era il giudizio sull’evoluzione del Psi e sul «nuovo corso» avviato da Craxi. Dirigenti autorevoli pensavano che esso fosse reversibile facendo leva sulle estese alleanze nel sindacato, nelle cooperative e negli enti locali (chiudendo un occhio sulla questione morale) e che la ricollocazione governativa del Psi potesse anzi alla fine risultare utile per logorare la supremazia democristiana, sottrarle il consenso del ceto medio più moderno, costruire una nuova unità a sinistra e trovare un canale di comunicazione con la sinistra europea. Altri dirigenti, vicini a Berlinguer, giudicavano invece il craxismo molto più severamente, quasi il pericolo maggiore, come laboratorio di un nuovo tipo di anticomunismo e sintomo di una vorace redistribuzione del potere e coltivavano invece qualche speranza nelle
contraddizioni sociali e politiche del mondo cattolico che attraversavano ancora la stessa Democrazia cristiana. Entrambe quelle posizioni mancavano di fondamento. Perché la svolta sia del Psi sia della Dc non era solo dettata da uno stato di necessità, o da pure convenienze di potere, esprimeva tendenze più profonde della società e convinzioni più radicate. Rimettere nel gioco di governo un Pci ancora così forte, e legato all’idea di rilevanti riforme, comportava concessioni cui la classe dominante, anche quella più moderna, ormai si opponeva, e un governo con i comunisti avrebbe incontrato l’ostilità sia dei governi atlantici ormai spostati più a destra, sia del Vaticano ormai saldamente guidato dal papa polacco. Comunque, per tutti loro, era un rischio inutile portare soccorso al Pci, quando finalmente sembrava in difficoltà. Un dialogo poteva riaprirsi solo dopo averne ridotto la forza e modificato l’identità. A rendersi conto della situazione reale, e a dare respiro al dibattito, intervenne, nel 1980, una svolta proposta da Enrico Berlinguer. Su questa svolta, sui suoi contenuti, sul modo in cui venne concretamente applicata, sul suo valore e i suoi limiti, i suoi iniziali successi e il suo sostanziale fallimento finale, una discussione vera è mancata allora e non c’è più stata. Al contrario si sono accumulati tanti equivoci che soffocano i fatti e deformano i giudizi. Anzi, peggio; più o meno consapevolmente essa è stata cancellata nella memoria attraverso un curioso meccanismo. La morte commovente e improvvisa di Berlinguer ne ha fatto rapidamente un mito. Il mito, meritato e positivo, di un uomo integerrimo, modesto, tenace, leale sostenitore della Costituzione democratica di cui l’Italia aveva e avrebbe ancora bisogno. Per questo la sua opera politica veniva assunta in blocco. I suoi sostenitori considerarono un’offesa mettere in evidenza ciò che distingue, in Berlinguer, l’idea del «compromesso storico» dal tentativo estremo compiuto negli ultimi anni della sua vita per rivederne l’impianto. Di questo si sono giovati anche i suoi critici per rendere omaggio alle sue personali virtù ma soprattutto per sostenere che quelle stesse virtù, negli ultimi anni, lo spinsero a una rigidità ideologica e a un furore moralistico che gli impedivano di svolgere un vero ruolo politico incisivo. Per gli uni e per gli altri, una vera svolta nel Pci o del Pci non c’è mai stata: un «secondo Berlinguer» non è mai esistito. Perciò nei libri di storia se ne parla poco o se ne parla in modo edificante. Il mio parere è certamente diverso e più problematico. Credo infatti, e spero di poter dimostrare che:
nei primi anni ottanta Berlinguer tentò una vera svolta, strategica e non solo tattica, culturale e non solo politica; l’ispirazione della svolta non era solo e soprattutto rivolta a recuperare un’identità del passato ma anche a rinnovarla profondamente per fare i conti con una realtà in rapida e pericolosa trasformazione; non si riduceva a una denuncia o a buone intenzioni, ma in grande parte diventava azione politica concreta e per anni ottenne risultati rilevanti; fu ostacolata e alla fine vanificata non solo da fattori oggettivi soverchianti, di cui già ho parlato, né solo dall’opposizione degli avversari; ma anche dalla resistenza e dal dissenso interni al partito che lo stesso Berlinguer aveva modellato; la svolta non prese mai una forma organica e compiuta; ma non per questo fu meno radicale: emerse piuttosto attraverso una serie di scelte eloquenti; fu una proposta animata e spesso imposta da Berlinguer in base a un suo personale ripensamento, al suo potere carismatico in consonanza con un sentimento popolare, e facendo leva su occasioni che la situazione gli offriva; per questo ritengo legittimo usare l’espressione «un secondo Berlinguer» senza considerarlo un’icona, ma anche senza ridurlo a sognatore di «reami immaginari». 18.2 Il recupero del conflitto di classe Dove cogliere i primi segnali di una svolta? La vulgata giornalistica, e anche la successiva storiografia, li hanno visti, alternativamente, in due momenti: il XIV congresso del 1979, che sanzionò la decisione del Pci di non sostenere più in futuro governi che lo escludessero; oppure la riunione straordinaria della Direzione dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980, nella quale fu avanzata la proposta di un «governo degli onesti» imperniato sul Pci. Due decisioni che l’opinione pubblica effettivamente interpretò come fine di un ciclo politico. Tuttavia tale datazione a me pare inesatta e fuorviante. La decisione del congresso infatti non escludeva affatto una rapida riedizione delle «larghe intese», a certe condizioni. E la proposta successiva di un «governo degli onesti» non aveva alcuna possibilità di realizzarsi: chi erano gli «onesti» e quanti erano disponibili a partecipare a un governo guidato dal Pci? Non si vedeva insomma una nuova politica, ma solo lo sforzo di tenere alcune porte
aperte. La svolta effettiva cominciò invece a manifestarsi in alcuni atti concreti. In prima battuta, l’opposizione vincente del Pci alla decisione del nuovo governo di tagliare una piccola quota dei salari per finanziare nuovi investimenti, che i sindacati avevano accettato e invece i lavoratori respingevano. Subito dopo, e ben più impegnativa, la presenza diretta di Berlinguer in quella che fu forse la più importante vertenza aziendale che si ricordi. Nell’estate del 1980 la Fiat inviò a 15mila dipendenti 15mila lettere di licenziamento. Gli operai si ribellarono in massa, bloccarono la produzione e i cancelli della fabbrica per 35 giorni. Furono sostenuti da uno sciopero dimostrativo di solidarietà dell’intera categoria. A tutti era chiaro che si trattava di una prova generale e insieme dell’annuncio di una controffensiva dei padroni rivolta a recuperare ciò che nel 1969 erano stati costretti a concedere o a tollerare. Sul piano sindacale era dall’inizio evidente che per i lavoratori quello scontro era destinato a non finire bene. Per una serie di ragioni. La Fiat era realmente in difficoltà. Non per una crisi congiunturale di mercato o di produttività, reale ma superabile; ma perché essa stessa aveva ormai creato un esubero di manodopera, costruendo una rete di imprese cui dava in appalto funzioni produttive con lavoro precario o sottopagato. Quei 15mila licenziamenti non erano solo destinati ad allontanare le «teste calde», ma erano lavoratori che, dentro le mura della fabbrica, non servivano più; erano la ratifica di un fatto compiuto e di un piano di ristrutturazione che ricattava anche migliaia di altri, che infatti più tardi avrebbero subìto lo stesso destino. I sindacati, soprattutto le confederazioni, in parte non volevano e in parte non potevano generalizzare il conflitto quanto sarebbe stato necessario per imporre un diverso tipo di ristrutturazione, perché la disoccupazione era già un problema generale. Tra i lavoratori dipendenti era inoltre cresciuto uno strato di impiegati e di tecnici che nel 1969 erano stati solidali con gli operai, malgrado la richiesta di aumenti uguali per tutti, e ora erano più incerti perché erano minacciati ma non direttamente colpiti e, soprattutto, avevano duramente pagato il costo dell’inflazione galoppante unita al punto unico di scala mobile. Nella città circostante, la semplice eventualità di dissesto della Fiat, che era da sempre il suo fiore all’occhiello, influenzava l'orientamento dell’opinione pubblica silenziosa ma non indifferente. A un certo punto intervenne, con il consenso del governo, la proposta di un
accordo bidone, ma efficace. I licenziamenti furono ritirati e sostituiti, ma in sostanza estesi, dalla proposta di cassa integrazione per 23mila dipendenti. Perché dico bidone? Perché quella colossale cassa integrazione non prevedeva alcun impegno dell’azienda con il governo, che doveva finanziarla, di riassumere più tardi parte consistente dei lavoratori sospesi. Anzi era a «zero ore» anziché a «rotazione», diventando di fatto così un prelicenziamento, con un reddito parzialmente assicurato dallo Stato, in attesa di trovare occupazione altrove e a condizioni peggiori. Su questa base nasce, organizzata e spontanea insieme, la manifestazione dei «quarantamila» nel centro di Torino per chiedere la ripresa del lavoro. Anche l’Flm, pur sapendo che si trattava di una sconfitta, e malgrado un esteso dissenso operaio, firmò, si può dire impose, l’accordo. Ho ricostruito nel dettaglio la vicenda per far emergere un interrogativo essenziale. Perché, in una vertenza così compromessa in partenza, Berlinguer andò ai cancelli per sostenere gli operai senza riserve? Perché, dopo essere stato dubbioso e lontano da lotte vincenti, ora si comprometteva in uno scontro probabilmente perdente, raccogliendo un commovente entusiasmo operaio ma aprendo un fossato (come subito disse Romiti) con il padronato più moderno e potente? Basta leggere le cose che disse davanti a quei cancelli per capirlo senza alterarlo. È falso quello che pubblicò la stampa. Egli non incitò in alcun modo all’occupazione della Fiat. Disse agli operai: «Spetta a voi decidere sulla forma della vostra lotta, a voi e ai vostri sindacati giudicare gli accordi accettabili. Ma sappiate comunque che il Partito comunista sarà al vostro fianco, nei momenti buoni e in quelli non buoni». Era un linguaggio che non si sentiva da anni. L’affermazione rinnovata del carattere del partito, nazionale e di classe. Non erano però parole di circostanza. Esprimevano una scelta meditata e convinta, implicitamente autocritica. Comunque evolvesse la situazione politica, o qualunque strada si aprisse per il Pci, la premessa necessaria era ricostruire un rapporto di fiducia reciproca con i lavoratori, contare sulla loro combattività, senza intaccare l’autonomia sindacale, ma senza rinunciare a una presenza in prima persona del partito nelle lotte di massa. La scelta trovò conferma ancor più chiara negli anni seguenti, e questa volta con maggiore successo: la battaglia sulla scala mobile, che tenne il centro dell’attenzione per tutti i primi anni ottanta. Per un breve momento, la situazione economica, aiutata dalla riduzione del prezzo del petrolio, sembrò allentarsi, ma le illusioni di una ripresa
svanirono presto. L’inflazione restava a due cifre, la stretta deflazionista degli Stati Uniti e la crisi del debito nei paesi in via di sviluppo rendevano più aspra la concorrenza sul mercato internazionale. Perciò la sconfitta operaia alla Fiat fu vissuta, e assunta dall’intero padronato italiano, come un esempio e, dai lavoratori, come un pesante ricatto. Diminuiva lo spazio per la contrattazione aziendale anche là dove la produttività cresceva ma riducendo l’occupazione, tanto più laddove non cresceva e la concorrenza si concentrava sui prezzi. L’evasione fiscale, nell’ormai esteso mondo del lavoro autonomo, e l’ormai incontrollata pressione del debito pubblico spingevano verso l’alto le aliquote fiscali pagate particolarmente dal lavoro dipendente. La questione salariale tornava in primo piano e, nel contempo, la disoccupazione, concentrata sui giovani e il lavoro nero, non solo indeboliva il potere contrattuale del sindacato, ma trasferiva i loro effetti sul reddito familiare. Un solo argine difendeva in parte la condizione operaia: l’accordo firmato pochi anni prima da Agnelli e Lama sulla scala mobile. Partì dunque, dal 1981, una campagna di stampa che si proponeva di essere «persuasiva», per costruire il consenso almeno di una parte del sindacato e dell’intellettualità democratica. Non chiedeva la radicale abrogazione della scala mobile, ma una correzione dei suoi aspetti perversi, concentrando il tiro sull’eccessivo appiattimento salariale che essa provocava, sul fatto che proteggeva solo una parte dei lavoratori escludendone altri, e rinnovando la richiesta di una «politica dei redditi». Questi argomenti, pur ponendo problemi reali, non erano solidi, e lasciavano trasparire ben più radicali intenzioni. Non era vero che la scala mobile proteggeva una parte privilegiata di operai, anzi proteggeva un poco la massa crescente dei lavoratori che, nelle piccole imprese, non avevano alcun potere contrattuale. Non era vero che l’appiattimento salariale punisse particolarmente le competenze, perché al contrario era ormai diffuso il «fuori busta», che premiava la fedeltà o il crumiraggio. Era vero invece che in altri paesi europei la scala mobile non c’era, ma era compensata da altri strumenti di protezione (il salario minimo per legge, decenti sussidi di disoccupazione anche per i giovani disoccupati, borse di studio). Non era vero soprattutto che il salario reale in Italia crescesse, anzi declinava per il peso di oneri indiretti. Ma la mistificazione maggiore in quella campagna contro la scala mobile era un’altra: il facile ritornello sulla «politica dei redditi» ancora una volta usato come il torero usa il suo drappo rosso. In una situazione persistente di «stagflazione», una «politica dei redditi» era una necessità ed era già in
atto: in parte imposta dal nuovo mercato del lavoro, in parte imposta dal potere pubblico. Sostegno ideologico e materiale ai consumi relativamente superflui, salvataggio di imprese decotte e aiuti a pioggia, e senza vincoli, alle grandi imprese esportatrici, tolleranza rispetto a una gigantesca evasione fiscale, trasferimenti monetari assegnati a fini clientelari, protezione e privilegi concessi alle varie forme di rendita: tutto al di fuori di ogni piano di sviluppo, dunque in gran parte riversato sul debito pubblico, al prezzo di una lievitazione dei tassi di interesse che, a loro volta, contribuivano all’inflazione. Lo smantellamento della scala mobile, e con essa l’indebolimento di un potere contrattuale del sindacato, era insomma un prezzo da pagare, necessario perché l’economia non affondasse e altri interessi venissero invece protetti. La campagna di «persuasione» era penetrata in certi settori del sindacato (la Cisl e la corrente socialista della Cgil) e in una parte del ceto medio; ma ancora non tanto da ottenere il consenso nella classe operaia e nell’intellettualità democratica più avvertita. Nel 1982 la Confindustria aumentò quindi la pressione minacciando di sottrarsi unilateralmente all’accordo del 1975. E da Palazzo Chigi venne la sciagurata risposta. Nel 1983, appena diventato presidente del consiglio, Bettino Craxi avocò infatti al governo il diritto di dirimere la questione, conquistando per sé la patente di decisionista e per il Partito socialista un ruolo di punta ben superiore al misero 11% di voti che aveva appena raccolto. Craxi infatti emise un decreto che tagliava ope legis di alcuni punti la scala mobile. I lavoratori capirono che non si trattava solo di alcuni spiccioli, ma della facoltà concessa al potere politico di governare direttamente la dinamica salariale, cioè della fine della scala mobile come diritto regolato da accordi tra parti sociali. Un’ondata di scioperi spontanei attraversò quindi l’Italia, e i consigli di fabbrica convocarono una manifestazione nazionale a Roma. Berlinguer non solo condivise e sollecitò quelle proteste, ma denunciò l’illegittimità costituzionale del decreto. La Cgil, a rischio di una scissione, decise di assumere la paternità della manifestazione, che infatti fu imponente e alla quale aderirono anche organizzazioni locali della Cisl. Il Pci portò la questione in Parlamento, ricorrendo allo strumento dell’ostruzionismo (che aveva usato due sole volte in passato, contro la legge truffa e contro il Patto atlantico) e annunciando un eventuale ricorso al referendum. Non si può onestamente negare che quella lotta intransigente segnasse una svolta di metodo e di merito. Né si può onestamente sostenere che
produsse un isolamento rispetto alle grandi masse, restringesse anziché estendere l’area di opposizione del paese. Se si può, e si deve, riconoscervi un punto di debolezza, questo stava nel fatto che a essa non corrispondeva un adeguato sforzo per affiancarle una convincente proposta di politica economica alternativa. 18.3 La questione morale Un secondo elemento, poco dopo, caratterizzò la svolta di Berlinguer. Si rivolgeva a una parte più estesa del paese, ma anch’esso in forma radicale e volutamente «scandalosa», la «cosiddetta» questione morale. Ho aggiunto l’aggettivo «cosiddetta» con un’intenzione duplice: polemica e allo stesso tempo personalmente autocritica. Polemica verso i molti che su di essa hanno costruito la leggenda di un Berlinguer moralista e per questo incapace di formulare una vera politica e portato solo alla denuncia e alla predica. Autocritica, perché, all’epoca, non ho capito tutto il valore politico di quella sua scelta, né lo spunto che offriva per un nuovo sviluppo della riflessione comunista sul tema della democrazia, più sul binario di Marx e Gramsci che su quello di Togliatti. Anzi vi vedevo un’eccessiva parentela con le invettive di Salvemini, di Dorso, perfino di Silvio Spaventa contro Depretis o contro Giolitti; e temevo il pericolo di un allontanamento dal tema centrale del conflitto di classe. E invece non era così. Per capirlo basta rileggere il testo della lunga intervista concessa da Berlinguer a Scalfari nel 1981: I partiti hanno degenerato e questo è all’origine dei guai in Italia. I partiti oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificante conoscenza della vita e dei problemi della gente, ideali e programmi pochi e vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, spesso contraddittori, talvolta loschi, comunque senza rapporto con i bisogni umani emergenti. Senza smantellare tale macchina politica ogni risanamento economico, ogni riforma sociale, ogni avanzamento morale e culturale è precluso in partenza. Moralismo? Era una critica radicale dell’intero sistema politico. Quindi il rovesciamento, in un punto decisivo, dell’analisi su cui si era costruita la proposta del compromesso storico e tanto più l’esperienza dei governi di unità nazionale; ma anche una correzione del giudizio, a suo tempo
plausibile, che Togliatti aveva dato sui grandi partiti che avevano partecipato all’antifascismo, e si erano incontrati nella scrittura della Costituzione, proprio per il loro carattere di massa e per le tradizioni ideali che ancora li attraversavano. Un rovesciamento del tutto realistico e perciò facilmente comprensibile alla maggioranza dell’opinione pubblica, in quel momento più che in ogni altro. In quegli anni infatti passavano, o erano appena passati sotto gli occhi di tutti, in una sequenza incalzante, fatti clamorosi e inoppugnabili. La scoperta dei finanziamenti occulti ai partiti di governo da parte delle grandi imprese o della finanza in cambio di favori. L’oscura gestione dei soccorsi ai terremotati prima nel Belice, più tardi in Irpinia. L’abusivismo edilizio e la manipolazione dei piani regolatori. La pratica diffusa del voto di scambio ottenuto con le raccomandazioni personali o con sussidi concessi a pioggia. La consuetudine sempre più sistematica delle «pastette» accademiche o la lottizzazione delle Unità sanitarie e della televisione pubblica. Le malversazioni nelle giunte comunali e regionali come nel caso di Torino e di Genova. E questa era ancora minutaglia cui ci si era abituati o piegati. Poi vennero gli scandali maggiori, che arrivavano al vertice. L’affare Lockheed in cui furono coinvolti, non solo in Italia, diversi membri del governo e che lambì il Quirinale. La gigantesca tangente sulle importazioni petrolifere, con la mediazione dell’Eni, che finì prevalentemente in mani socialiste. L’affare Sindona e quello del Banco ambrosiano in cui emersero la collusione tra mafia, finanza e politica e che si conclusero con due assassinii. (Mi ha raccontato un testimone diretto di un incontro tra la commissione parlamentare di indagine e Sindona, in carcere, che, a una domanda di un membro democristiano, il finanziere ripose gelido: «A lei io non rispondo perché lei sa come con voi io sia stato generoso».) Infine, e più esplosiva oltre ogni altra immaginabile, la scoperta della P2. Quasi casualmente due giovani magistrati scoprirono l’esistenza di una loggia massonica segreta, che non trattava solo affari ma si proponeva di realizzare una revisione della Carta costituzionale. E trovarono parte dell’elenco degli affiliati. C’è ancora da trasalire nel leggerli: 45 parlamentari di tutti i partiti, eccetto evidentemente il Pci che ne era il bersaglio, tra i quali due ministri, l’intero gruppo dirigente dei tre servizi segreti, 195 alti ufficiali dei corpi armati, tra i quali dodici generali dei carabinieri e cinque generali della guardia di finanza, padroni o dirigenti dei giornali e della televisione, vertici della Magistratura concentrati in
sedi capaci di affossare inchieste e processi. Criticare Berlinguer per aver sollevato la questione morale, e per avervi dato troppo peso, è dunque insensato. Semmai si può fargli la critica opposta: di averlo fatto con un certo ritardo, cioè quando ai fenomeni degenerativi troppi si erano abituati e ne traevano personale vantaggio e il sistema si era ormai costruito molte reti di protezione. Inoltre di non aver pienamente compreso che questa tendenza alla corruzione non era un’anomalia né una particolarità italiana. La storia passata, e i processi in atto in tutto il mondo, dimostravano che essa si ripresentava e si accentuava, per ragioni strutturali, nell’evoluzione del sistema capitalistico, così come burocrazia e autoritarismo politico procedevano in un sistema socialista da una troppo prolungata compressione del pluralismo politico e delle libertà individuali. Comunque, quella battaglia diede i suoi frutti, sia sul piano elettorale sia nel segnare la «diversità» del Pci. Maggiori poteva darne se fosse durata più a lungo, si fosse estesa a tutti i livelli, e fosse andata più a fondo. 18.4 Lo strappo Un terzo elemento distintivo della svolta di Berlinguer riguardò la collocazione internazionale del Pci, e il suo rapporto con l’Unione Sovietica. L’occasione fu offerta – è più esatto dire imposta – da due decisioni con le quali Brežnev si illuse di poter reagire alla nuova politica estera di Reagan (il cui obiettivo dichiarato era quello di sottrarre all’Unione Sovietica il ruolo di grande potenza) rincorrendolo sul suo stesso terreno. Nel dicembre 1979 l’ingresso dell’Armata rossa in Afghanistan a sostegno di un «governo amico», che non riusciva a domare una rivolta; nel 1981 la minaccia di un analogo intervento in Polonia per costringere il generale Jaruzelski a proclamare lo stato di assedio con cui soffocare un’impetuosa protesta operaia. Considerati in sé, nessuno dei due interventi obbligava il Pci a un atto di rottura. L’intervento in Afghanistan era compiuto in difesa di un governo di dubbia legittimità, ma che aveva esteso i diritti delle donne, laicizzato lo Stato e la scuola, contro una guerriglia fondamentalista, i talebani, organizzati in Pakistan e finanziati dagli Usa. Infatti Amendola si opponeva alla sua condanna. Berlinguer invece giustamente vedeva che la posta in gioco reale era il controllo strategico dell’Asia centrale e convinse
la Direzione non solo a condannarlo, ma a introdurre nella condanna il rifiuto generale di ogni politica di potenza. La repressione in Polonia era più grave, perché la minaccia di intervento armato era indirizzata a una protesta operaia sostenuta dalla Chiesa in nome della libertà religiosa. Ma tuttavia, con lo stato d’assedio, Jaruzelski aveva evitato l’intervento esterno con un incruento stato di emergenza e con l’intenzione di cercare un compromesso. L’invasione della Cecoslovacchia di Dubcek era stata molto più grave. La novità che spinse Berlinguer ad andare oltre la semplice condanna era un’altra: il ripetersi di quelle singole scelte esprimeva e misurava ormai la realtà di un sistema incapace di riconoscere e di affrontare la propria crisi se non con le armi. Due giorni dopo, perciò, la riunione della Direzione pronunciava una dura critica, ma egli andò in televisione e fece una dichiarazione ben più esplosiva. Senza consultare nessuno e assumendosene personalmente la responsabilità. Non mi riferisco ovviamente al giudizio sugli avvenimenti polacchi, ribadito in modo più netto e visto come segnale di una generale difficoltà delle democrazie popolari. Mi riferisco a una frase, di ben altra portata, pronunciata davanti a milioni di persone: «La spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data di inizio nella Rivoluzione di ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, si è esaurita. Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude». Per il merito, e per il metodo, quella dichiarazione creò uno sconcerto e una resistenza nei militanti e anche nel gruppo dirigente, ma Berlinguer non la corresse e ottenne il consenso della Direzione con un solo voto contrario, quello di Armando Cossutta. E Cossutta rese pubblico il suo dissenso nella forma più drastica, cioè affermando che non si trattava di una correzione ma di un vero strappo nella storia del Pci. Anche chi, come me, considerava invece quella scelta urgente e feconda, non può negare che di strappo si trattasse. Uno strappo vistoso non è mai piacevole, ma si può affrontarlo in molti modi e con diverse conseguenze. Faccio un esempio banale, ma molto frequente, e in quel caso pertinente. Quello di una giacca di ottimo taglio e di buon tessuto, ancora complessivamente in buono stato, alla quale sei affezionato, ma alla quale si sono logorati i gomiti, e infatti temevi da tempo che si rompesse. Quando un gomito cede puoi fare molte cose. Puoi ignorare il buco, metterci un punto provvisorio se non è troppo visibile, perché consideri che la giacca non tiene più o è fuori moda. Puoi farlo
rammendare in modo che non si veda, fino a quando potrai acquistarne una diversa, che hai già visto in vetrina, ma di qualità forse più scadente e non proprio di tuo gusto. O puoi far applicare ai gomiti pezzi di pelle appropriati, che la rendano resistente e fors’anche più bella. Questa era più o meno la situazione del Pci dopo lo «strappo» del 1981 e l’opzione di Berlinguer fu la terza: il buco non si poteva più nascondere, ma poteva essere l’occasione di un radicale restauro. L’impresa però era molto ardua. Imponeva anzitutto una risposta a complessi interrogativi sul terreno storico e teorico. Ricognizione del passato. La spinta propulsiva dell’ottobre c’era stata realmente, aveva prodotto risultati importanti da utilizzare, o era stata una breve e generosa illusione viziata dalla matrice leninista e poi naufragata nello stalinismo? Comunque quando e perché si era esaurita ed erano falliti i suoi tentativi di riforma? Di conseguenza, il legame con quell’esperienza, che il Pci aveva mantenuto, pur senza assumerla come modello, andava liquidato come un errore di cui pentirsi, o doveva essere considerato criticamente nelle sue diverse fasi e per averlo troppo a lungo mantenuto? Analisi del presente e della prospettiva futura. Cosa lasciava dietro di sé l’esaurimento della spinta propulsiva? Un capitalismo vincente, cui non si poteva e non si doveva contrapporre un sistema alternativo, o invece si aprivano nuove contraddizioni, emergevano forze, bisogni, finalità per costruire un nuovo tipo di società? Di conseguenza, la critica dell’Unione Sovietica poteva fermarsi alla mancanza di pluralismo e alla statalizzazione integrale dell’economia, o doveva estendersi alla progressiva rinuncia dell’originaria ambizione di perseguire la transizione verso un nuovo modello di civiltà che meritasse la parola comunista, o almeno le desse un senso? Dal semplice elenco di questi interrogativi appare evidente che lo «strappo» era per il Pci solo il punto di partenza di un lavoro di rielaborazione culturale rifondativa, senza il quale la «diversità comunista» era destinata a impallidire. Il Pci aveva a questo riguardo risorse cui attingere: quella parte del pensiero di Marx sul comunismo come obiettivo finale, che lui stesso si era rifiutato di approfondire per non fare il «pasticciere dell’avvenire» e che le rivoluzioni del Novecento non erano storicamente in grado di assumere; quella parte del pensiero di Gramsci sulla rivoluzione in Occidente che lo stesso Togliatti riconosceva ancora non utilizzato, un marxismo antidogmatico riemerso negli anni sessanta dentro e fuori dal partito; gli stimoli migliori affiorati nell’esperienza del lungo Sessantotto
italiano prima che rifluisse; un’originale tradizione del socialismo italiano e l’autentico travaglio che il neocapitalismo aveva fatto emergere nel mondo cattolico travolto dalla secolarizzazione. Era comunque un lavoro controcorrente che esigeva tempo, grandi cervelli, grande e univoca determinazione, molta schiettezza per penetrare nel senso comune. Berlinguer non aveva la genialità di Gramsci, né la statura di Togliatti. Era però consapevole del problema, e in due scritti lo riconobbe. Da un lato cercò di stabilire un argine al «nuovismo» liquidazionista: «Non ci può essere invenzione, fantasia, creazione del nuovo, se si comincia dal seppellire se stessi, la propria storia e realtà». Dall’altro lato chiarì il carattere innovatore della ricerca in cui impegnarsi: «È necessaria per noi una rivoluzione copernicana: l’ingresso di nuovi soggetti finora esclusi dalla nostra politica come le donne, i giovani, i pacifisti, ne deve cambiare i termini e i modi». Vaste programme, avrebbe potuto ironicamente commentare, com’era suo solito, il generale de Gaulle. Lo strappo però poneva un altro problema, che esigeva invece una risposta e una iniziativa a breve termine. Se la fase propulsiva dell’Unione Sovietica era ormai esaurita, era logico prevedere che anche il suo ruolo di grande potenza declinasse. Veniva perciò meno quell’equilibrio bipolare che aveva governato il mondo, senza che ne esistesse un altro pronto a sostituirlo, senza che si fossero compiuti passi avanti nel disarmo o che l’Onu avesse assunto maggiore autorità. Anzi Reagan contava proprio sul rilancio della corsa al riarmo per imporre al suo avversario una spesa militare che esso non era in grado di sostenere, cioè come modo efficace per trasformare in collasso il declino dell’Urss. Il problema della pace e della guerra tornava in primo piano più che mai. Tutti sanno che nella storia l’egemonia di una potenza o di una civiltà sulle altre non si impone sempre e solo con una guerra, anche se solitamente nasce e si conclude con la guerra. E tutti ormai sanno che la supremazia degli Stati Uniti aveva molti modi e strumenti per affermarsi, ma dovrebbero sapere che in quel momento entrambe le potenze in conflitto, ormai diseguali, avevano in mano però un bottone per trascinare il mondo a un comune olocausto. Io considero il maggior merito politico e intellettuale di Berlinguer, negli ultimi anni della sua vita, quello di avere segnalato il pericolo e di avere effettivamente fatto il tentativo di scongiurarlo. La forza di un partito di opposizione in un paese di secondo rango non permetteva grandi risultati, ma quel tentativo non era velleitario e neppure inutile. Quel che ottenne è dovuto al fatto di essere stato condotto con il carattere di una svolta: dalla
semplice predicazione della coesistenza pacifica, e ancor di più dal tiepido atlantismo del 1975, a una linea di pacifismo attivo e una proposta di disarmo bilaterale. Il primo passo concreto in tale direzione fu compiuto con una «tournée» per incontrare i maggiori esponenti della sinistra nel Terzo mondo: in Cina, dove fu, dopo tante polemiche, accolto come un capo di Stato, a Cuba, per un lungo colloquio con Fidel, nel Nicaragua già aggredito dai Contras (oltre ai ripetuti interventi a sostegno dei palestinesi massacrati in Libano). Quei contatti gli servirono non solo per ricostruire un rapporto di amicizia incrinato, ma per misurare l’influenza e il prestigio che il Pci ancora manteneva in partiti e stati diversi tra loro e diversi da lui, ma uniti dalla volontà di rianimare l’ispirazione di Bandung. Era un successo insperato, ma ottenuto proprio per la proposta politica che offriva. Ben altra accoglienza e risultato ebbe il tentativo analogo di convergenza sul tema della pace e del disarmo tra le sinistre europee. Con alcuni leader europei ma di piccoli paesi o di scarso potere (Palme, Brandt, Benn, Kreiski) trovò una sintonia. Ma non nei grandi partiti e nei grandi paesi. La discriminante fu presto chiara, concreta, intorno alla scottante questione dei missili «di teatro», vicenda rimasta nella memoria manipolata, amputata e alla fine cancellata. Il Consiglio atlantico decise, come orientamento di massima, l’installazione di missili a medio raggio ai confini dell’Urss, quindi in grado di colpirla in pochi minuti per evitare una facile ritorsione. Brežnev, al solito grezzo, replicò installando subito missili atomici equivalenti. Il Patto atlantico a sua volta ne avviò l’installazione in Germania e in Italia (mentre in Francia e in Inghilterra c’erano da tempo, costruiti in proprio). La situazione dunque si aggravava perché dietro quelle decisioni stava il problema del «primo colpo». Un freno venne per fortuna da due novità. Brežnev morì e, al vertice dell’Unione Sovietica, lo sostituì Andropov, che aveva un altro orientamento e un’altra intelligenza. Egli avanzò una proposta che sparigliava le carte, quella di una riduzione bilaterale e controllabile dei missili di teatro fino alla loro scomparsa. A sostegno della proposta, primo passo di un disarmo atomico graduale ma bilaterale, nacque, dal basso, il movimento di massa più esteso e più incisivo dai tempi del Sessantotto in quasi tutta l’Europa. Anche in Italia, all’inizio dal basso, un movimento fu promosso dal Pdup e da gruppi cattolici, ma l’adesione fu subito ampia e visibile: una manifestazione a Roma, poi il blocco della base di Comiso, represso dalla polizia con dure bastonate.
Berlinguer ci mandò un telegramma di solidarietà e da quel momento il Pci mobilitò tutta la sua forza, in Sicilia con l’impegno di Pio La Torre (che presto venne assassinato dalla mafia), e con una nuova manifestazione a Roma, questa volta unitaria e veramente imponente. La proposta di Andropov fu bloccata dal rifiuto dell’Inghilterra e della Francia di accettare che le loro armi atomiche venissero considerate parte di un’intesa sul disarmo, ma il movimento servì ad allentare per pochi anni la tensione e come stimolo a un accordo solenne sul disarmo (Helsinki 1985), che il Congresso americano si rifiutò però di ratificare. Si può quindi onestamente negare che il Pci di Berlinguer abbia assunto in quegli anni un nuovo ruolo internazionale, abbia raggiunto qualche risultato, e contribuito attivamente a porre le basi di un nuovo tipo di pacifismo? E che ben altri l’abbiano sabotato? 18.5 Un bilancio provvisorio La rassegna dei discorsi, delle intenzioni, delle scelte prevalse tra il 1980 e il 1985, dimostrano che il Pci in quel periodo ha effettivamente tentato una svolta profonda, culturale e politica, che non si limitava a enunciare buone intenzioni ma trovava il modo di tradurle in iniziativa politica concreta, cioè di produrre lotte di massa e un’opposizione incisiva al governo, in Parlamento e nel paese, e che infine il suo tratto dominante non era quello di un ritorno al passato, né la denuncia del presente, ma quello di una ricerca innovativa. Il dubbio nasce, ed è più che legittimo, su un altro terreno. Quello dell’efficacia. Valutare una nuova politica sulla base delle intenzioni che la animano, del progetto che propone, dell’ascolto che ottiene, o anche dei suoi iniziali successi, è sempre un azzardo. Ancor più lo è nel caso del tentativo di Berlinguer. Molte delle innovazioni strategiche avevano la forma di orientamenti o di princìpi più che di una piattaforma precisa, sorretta da un’analisi adeguata e da esplicite autocritiche. Alcune delle aspre lotte ingaggiate avevano basi forti e quindi ottenevano innegabili risultati, ma il loro esito finale era ancora incerto. La linea politica aveva certo un filo conduttore coerente, ma lasciava scoperte questioni in quel momento premonitrici ma decisive: per esempio la scuola, la televisione commerciale e l’industria culturale, l’insorgente degrado ambientale: cioè quel tema della cultura diffusa sulla
quale la nuova destra avrebbe costruito il suo decollo. Il motore della svolta era Berlinguer, forte di un largo consenso e un’autorità nel suo partito e anche oltre, ma incerta era la convinzione del gruppo dirigente e incerta, più che il consenso, la capacità del partito di tradurla in iniziativa. Tutti questi nodi si potevano sciogliere con molto tempo e molta determinazione, e invece nel 1984 Berlinguer morì. Di qui nascono interrogativi pesanti. Quanto di ciò che quel tentativo si proponeva era raggiunto o raggiungibile? Cercare una vera risposta sulla base dei dati di fatto disponibili e delle esperienze già compiute nel 1985 non sarebbe serio; ancor meno formulare su quella base limitata una previsione sugli anni seguenti. Ciò che si può e si deve fare è solo un aggiornamento della situazione reale in cui il Pci si trovò dopo cinque anni dalla svolta del 1980, cercare da un lato i punti di forza recuperati e promettenti, e dall’altro le difficoltà emerse: definire insomma l’eredità che Berlinguer lasciava ai suoi successori. A questo dedicherò qualche breve riflessione concentrata su quanto è decentemente provabile. Per cogliere i punti di forza è opportuno banalmente partire da una corretta valutazione dei risultati elettorali. È nata allora ed è ormai da tutti accettata infatti l’idea che dal 1979 il Pci entrò in una fase di costante e forte declino elettorale, come accadeva a tutti i partiti comunisti. Tale idea è falsa, e particolarmente lo è se ci si riferisce agli anni del «secondo Berlinguer», per deprezzare l’efficacia della svolta da lui compiuta. Nelle elezioni generali infatti del 1983 il Pci prese il 30%: nuovamente di più che nel 1972, mentre in Europa il Pcf passava dal 25% al 15%, i maggiori partiti socialdemocratici europei persero molti voti, in Italia la Dc crollò al 33% e il Partito socialista, malgrado le leve di governo conquistate, restava inchiodato all’11%. Il risultato più sorprendente venne nel 1984: il Pci arrivò al 33,3%, primo partito italiano. Si è detto e ripetuto che quel successo era apparente, perché legato all’emozione, al sentimento e al rispetto generato da una morte inattesa e trasmessa «in diretta». Il che è certamente vero, ma è una spiegazione che deve a sua volta essere spiegata. Il sentimento può trascinare un popolo di militanti, il rispetto può esprimersi in molti modi, ma non è affatto detto che conquisti un elettorato più vasto e si esprima in un voto a favore di una politica, soprattutto nel momento in cui assume un carattere più netto e viene contestata da ogni parte. Questo succede solo se l’emozione si incontra con correnti di consenso, magari non per tutti eguali fra loro ma molto vaste.
Più che nei numeri, del resto, il consenso si misura nell’intensità. Per questo consiglio al lettore di ricordare, o di vedere per la prima volta, il film del funerale di Berlinguer, che testimonia con le immagini, non solo una partecipazione sterminata, molteplice, commossa, ma un popolo in piedi. Nel quale confluivano: un rinnovato rapporto di fiducia con la classe operaia; la denuncia della corruzione politica; l’apertura di dialogo con il nuovo femminismo; l’autonomia finalmente inequivocabile rispetto alla disciplina dei blocchi internazionali e il rilancio del pacifismo, unite alla volontà di non abbandonare l’obiettivo di una trasformazione generale del sistema sociale. In ciascuno di questi elementi restavano aperti molti problemi e si presentavano grandi ostacoli, che non ho nascosto e non nasconderò. Ma rappresentare il Pci del 1984 indebolito e in rapido declino, politicamente isolato e separato dal paese, immobile nel pensiero e nell’iniziativa, mi pare abusivo. Navigando controcorrente esso aveva invece conquistato, o almeno consolidato la sua forza e aperto qualche nuovo varco. La «svolta» non era insomma stata priva di risultati concreti, anche se restava tuttora una scommessa. Quali erano i punti di debolezza che durante quegli stessi anni anziché essere rimossi erano diventati ancor più evidenti e ipotecavano il futuro? Ovviamente, anzitutto e soprattutto, il rapporto di forza complessivo che si era ormai affermato sul piano economico, sociale, culturale, non solo in Italia, ma nel mondo, durante gli anni precedenti e che andava avanti. Potrei aggiungere semplicemente che la svolta intervenuta nella politica del Pci negli anni ottanta avrebbe avuto ben altre risorse e ben maggiori risultati se fosse intervenuta, com’era possibile, dieci anni prima, quando la situazione era molto più aperta, e le forze sulle quali essa poteva influire molto più ampie e incisive. Mi limito a considerare lo stato reale delle cose: la maggiore difficoltà che la svolta di Berlinguer incontrò, esitò a riconoscere, o forse non aveva la forza di affrontare, cioè la questione del partito. Anche qui è utile partire dai numeri e dalla loro analisi. Secondo la logica, una nuova politica – più nettamente di opposizione, rivolta soprattutto a stimolare una mobilitazione sociale e culturale, finalmente attenta alle trasformazioni in atto con spunti innovativi ma senza cedimenti ideali – avrebbe dovuto conquistare più militanti che occasionali elettori, più partecipazione che diffusa simpatia, più tra giovani che tra vecchi, più nelle zone geografiche dove il conflitto sociale e culturale, pur declinante, era stato già duro, e suscitare invece dubbi laddove la simpatia verso
l’Unione Sovietica aveva antiche radici. Ma i dati organizzativi non rispettavano la logica. Il consenso elettorale reggeva, e per una fase cresceva, ma gli iscritti al partito gradualmente continuavano a diminuire: la composizione sociale, il livello e la qualità della partecipazione, le classi di età, i luoghi di radicamento non corrispondevano a una svolta politica che invece aveva bisogno di uno strumento adeguato per superare il muro del monopolio mediatico e la rete delle clientele di cui l’avversario disponeva. A molti era perciò evidente, anche allo stesso Berlinguer, il problema delle sacche di resistenza, di incomprensione, o di passività che limitavano l’efficacia del suo tentativo di innovazione. Egli era però convinto, a ragione, di poter contare su una popolarità, e una sintonia, nella base del partito, tali da permettergli non solo di procedere, ma di farlo con discorsi e scelte molto nette, con poche mediazioni, disposto anche a pagarne il prezzo o a mettersi da parte. E persuaso che, sommandosi e diventando esperienze concrete, il partito sarebbe cambiato senza lacerarsi. L’intendance suivra non era solo un’invenzione napoleonica, era riaffiorata più volte nella pratica dei partiti comunisti, con effettivi risultati nel bene e nel male. Ma questa volta c’era un’altra faccia della realtà, nella questione del partito, che sfuggiva. La peculiarità del Pci, sulla quale Togliatti aveva fatto leva, era quella di essere «un partito di massa» che «faceva politica», agiva nel paese, ma si insediava anche nelle istituzioni e le usava per realizzare risultati e costruirci delle alleanze. Era un elemento costitutivo di una via democratica. Una medaglia che aveva però un suo rovescio. Non mi riferisco solo, o soprattutto, alle tentazioni di parlamentarismo, all’assillo di arrivare comunque a una collocazione di governo, ma a un processo più lento. Nel corso di decenni, e particolarmente in una fase di grande trasformazione sociale e culturale, un partito di massa diventa più che mai necessario, così come la sua capacità di porsi problemi di governo. Ma da quella stessa trasformazione viene molecolarmente modificato a sua volta, nella propria composizione materiale. Per esempio: la formazione delle nuove generazioni, anche tra le classi subalterne, avveniva ormai prevalentemente nella scuola di massa e ancor più attraverso l’industria culturale; gli stili di vita e i consumi coinvolgevano l’intera società, compresi coloro che non potevano accedervi ma nutrivano la speranza di arrivarci; le «casematte» del potere politico crescevano di importanza ma si decentravano in molte sedi e favorivano coloro che le occupavano; il
ceto politico, anche quando restava all’opposizione e incorrotto, via via che l’isteria anticomunista si attenuava, stabiliva rapporti quotidiani, se non di amicizia, di commistione, di abitudini e di linguaggio con la classe dirigente. Tutti fenomeni anche positivi, perché una via democratica trae vantaggio da un più alto livello di istruzione generale, da un’individualità più libera dalle costrizioni della povertà o delle superstizioni, da una moltiplicazione delle sedi del potere pubblico. Ma anche moltiplicazione di meccanismi integrativi e omologanti. Il Sessantotto stesso aveva iniettato nella società elementi libertari e antagonisti, ma aveva seminato l’idea che un sistema sociale si può cambiare senza un progetto, un’organizzazione e un potere alternativo, ma solo con movimenti spontanei, intermittenti e contestativi. L’esperienza del compromesso storico, per ragioni simmetriche, aveva accelerato il processo di omologazione nella costituzione materiale del partito. Quale era quindi di fatto il Pci su cui Berlinguer tentava di costruire una nuova politica? La massa di militanti condivideva il suo nuovo indirizzo e ci credeva, ma faticava a capirlo, e a praticarlo. Le sezioni erano da tempo disabituate a essere sedi di lavoro di massa, di formazione quotidiana di quadri, erano straordinariamente attive solo nell’organizzazione delle feste dell’Unità, e ancora di più nelle scadenze elettorali nazionali e locali; le cellule sul luogo di lavoro erano poche e delegavano quasi tutto al sindacato. Nei gruppi dirigenti diffusi la distribuzione dei ruoli era molto cambiata: il maggior peso e la selezione dei migliori si erano trasferiti dalle funzioni politiche a quelle amministrative (comuni, regioni, organizzazioni parallele, come le cooperative). Quindi maggiore competenza, ma minore passione politica; più concretezza ma orizzonte politico più ravvicinato. Gli intellettuali erano stimolati alla discussione ma era declinata la loro partecipazione all’organizzazione politica e la stessa discussione tra loro era spesso eclettica. Un'eccezione si presentava solo nel settore femminile dove un legame diretto tra vertice e base creava un fecondo subbuglio. Ovviamente il tramonto del partito di massa, ideologicamente definito, legato a una precisa base sociale e da essa alimentato non colpiva solo il Pci. Altri partiti veri, come un tempo la Dc, avevano da molto tempo perduto quei caratteri ed erano degenerati quasi per scelta, cioè per perseguire l’obiettivo del potere comunque. Ma ciò non toglie che anche il Pci era minacciato da una divaricazione tra ciò che pensava e ciò che era. Fino al livello intermedio comunque, il tentativo di Berlinguer negli anni
ottanta di ribadire una diversità riscuoteva un consenso prevalente, anche se non sempre totale né attivo. Altro discorso merita il vertice del partito. E va fatto, senza schematismi, nel bene e nel male. Il gruppo dirigente reale, il cui peso andava oltre le cariche, non era composto da parvenus. Contava ancora su quadri di notevole valore formati ai tempi della clandestinità, in grande maggioranza rappresentava la generazione che aveva partecipato all’esperienza partigiana e gestito le grandi lotte di resistenza negli anni più duri della guerra fredda. Erano stati così selezionati all’ VIII congresso. L’ XI congresso aveva emarginato una minoranza, ma le nomine di Longo e poi di Berlinguer, come segretari, erano nate dall’intenzione di garantire un certo equilibrio tra orientamenti diversi, sia pure senza sdoganare la sinistra ormai dispersa. Nella lunga e perdente fase del compromesso storico non si può onestamente dire che il nuovo segretario avesse trovato un’opposizione (salvo che, paradossalmente, nello stesso Longo). Le sole critiche intermittenti erano state espresse da Giorgio Amendola, ma rientrarono senza lacerazioni, perché in parte accolte. E infatti Berlinguer evitò un ricambio nel gruppo dirigente, se non con il contagocce e senza dargli un preciso carattere politico. Il quadro cambia però profondamente di fronte alla svolta del 1980: questa volta l’unità del gruppo dirigente non era più reale. Sia la scelte che spesso compiva in solitudine, sia la linea generale che nel loro insieme quelle scelte lasciavano trasparire, trovarono al vertice dissensi espliciti, e a volte aspri. Berlinguer non defletteva e sfidava i suoi critici a contestarlo pubblicamente, essi non ritenevano di avere la forza per farlo. Ma poiché quei dissensi si intrecciavano con dubbi o renitenza dei quadri intermedi (ancora speranzosi che fosse possibile riannodare il filo spezzato delle larghe intese, e soprattutto giungere a una riconciliazione con Craxi) impedivano al partito una scossa chiarificatrice, senza la quale il reclutamento di forze nuove era assai difficile. Il modo di pensare e di lavorare del Pci non rendevano sicuri i suoi propositi né chiamavano a parteciparvi. Si apriva così un circolo vizioso. Ho ragione di credere (uso questa espressione perché non è corretto attribuire impegnative intenzioni a qualcuno che non può più smentirle) che proprio negli ultimi mesi della sua vita Berlinguer fosse deciso a rompere tale circolo vizioso: fosse cioè convinto della necessità di aprire una vera battaglia politica nel partito e sulla forma partito. Se fosse vissuto qualche anno di più molte cose sarebbero andate altrimenti.
Resta però un punto delicato da chiarire. Non è detto in qual senso egli potesse contare pienamente sul sostegno di una vasta maggioranza del gruppo dirigente per contrastare la cosiddetta «destra». Tra i suoi sostenitori c’era anche qualche nostalgico del compromesso storico, e non pochi che ritenevano comunque necessario, in tempi difficili, mantenere l’immagine di una piena unità che non c’era. I suoi oppositori non erano più solo gli amendoliani di sempre, che ora si chiamavano miglioristi, ma anche parte di coloro che erano sempre stati considerati centristi, fedeli di Longo: personaggi di spicco come Bufalini, Lama, Pajetta, Di Giulio, Perna, per certi aspetti lo stesso Cossutta. Anche la vecchia-nuova sinistra (Ingrao, Trentin, per esempio) che pure condividevano la svolta conservavano ancora qualche comprensibile ruggine verso il suo promotore. Mettendo insieme, in un provvisorio bilancio, la situazione del Pci nel 1985, i successi riscossi e gli ostacoli emersi in quei cinque anni, non posso onestamente trovare un quadro coerente e già assestato, una tendenza prevalente che consentisse un giudizio sicuro. E tuttavia vi trovo gli elementi per formulare un’ipotesi non campata per aria sulla quale commisurare e spiegare le vicende degli anni successivi. Che è la seguente. La svolta tentata da Berlinguer era esplicitamente mossa da un ambizioso obiettivo di medio periodo: contribuire a un effettivo passo in avanti sulla via democratica al socialismo in Italia e in Europa. Una tale ambizione, per ragioni oggettive e immaturità soggettive, al vaglio dei fatti non reggeva, l’obiettivo era fuori portata, tuttavia la forza che era riuscito a conservare, le nuove scelte e le nuove idee che vi erano penetrate permettevano al Pci di non essere travolto dalla crisi dell’Unione Sovietica, di evitare la dissoluzione e l’abiura, dunque di tenere in piedi e rifondare in Italia una sinistra di ispirazione comunista rilevante e vitale. Anche tale obiettivo era difficile, ma non impossibile. Se una tale sinistra fosse stata ancora in piedi nel momento del disfacimento della Prima repubblica, lo svolgimento non solo della storia del Pci, ma anche quello della democrazia italiana avrebbe assunto caratteri diversi da quelli che oggi constatiamo.
19. Natta, il conciliatore
È indiscutibile che gli ultimi anni ottanta segnarono una linea di demarcazione tra due epoche. Si poteva considerare conclusa la fase pluridecennale nella quale la storia del mondo si evolveva fondamentalmente entro il quadro di un assetto bipolare: la competizione tra due sistemi economici, due ideologie (coinvolgendo centinaia di milioni di uomini animati da idee comuni e impegnati in grandi lotte) aveva assunto il carattere di una sfida tra stati, legati in blocchi, che rappresentavano un punto di riferimento per altri stati esistenti o in via di formazione. La competizione si esercitava su diversi obiettivi, in diversi modi, in diverse regioni ma era stimolata, frenata e garantita dall’equilibrio tra due grandi potenze. Ora, invece, emergeva un nuovo assetto, un mondo unificato e diseguale, affidato alla spontaneità del mercato, in realtà governato dal potere di fatto di una potenza dominante in base alle forze armate, ma altrettanto attraverso la supremazia finanziaria, il vantaggio tecnologico, il monopolio mediatico: gli americani. È anche indiscutibile che un mutamento così grande, senza una grande guerra, non poteva essere improvviso, né realizzato dalla volontà di vertici politici, ma doveva procedere per tappe ed essere basato su tendenze e processi multipli, radicati nella società. Il vero salto di qualità nell’assetto del mondo avvenne però solo alla fine del decennio, con una precipitazione che nessuno prevedeva, prodotta non da un travolgente successo della ristrutturazione capitalistica, che anzi incontrava delle difficoltà e poco poteva offrire o promettere, ma dal collasso del suo antagonista di sempre e dalla compiacente passività della sinistra europea. Da uno sconvolgimento così grande, e alla fine così precipitoso, il Pci non poteva uscire indenne; e tanto meno aveva la forza di impedirlo. Mi resta tuttavia il solito interrogativo: ancora nella seconda metà degli anni ottanta – quando la crisi del comunismo in generale si accelerava e la prevalenza di un nuovo egemonismo diventava più visibile – il Pci non aveva la possibilità di prendere una strada diversa per conservare in vita, pur su basi ridotte, una forza corposa di ispirazione comunista e parallelamente per incidere sulla situazione internazionale? La scomparsa di Berlinguer doveva avere, ed ebbe, un peso rilevante. Trovargli un successore non era facile. Il gruppo che aveva idee e
collegamenti per ambire a una nuova leadership era la cosiddetta «destra», che infatti, riservatamente, si riunì per proporre come segretario Napolitano o Lama, che avevano però espresso, in più occasioni, una linea diversa da quella di Berlinguer. Questa scelta non aveva la maggioranza, anche gli incerti la consideravano rischiosa, tanto che quella riunione si concluse con la decisione di non provarci neppure. D’altra parte i sostenitori di Berlinguer, pur avendo i numeri per imporsi, non erano omogenei tra loro e non avevano una candidatura cui attribuire un significato politico ben riconoscibile. Si ripiegò quindi su una larga consultazione, affidata a Pecchioli e Tortorella. Il metodo già implicava la scelta: prevalse a larga maggioranza un uomo di grandi virtù (cultura, correttezza, esperienza, autonomia di giudizio), ma anche di grande prudenza nel manifestare o provocare dissensi, non per conformismo, ma perché preoccupato in primo luogo dell’unità del partito e dei riflessi che ogni contrasto poteva avere sulla pubblica opinione, Alessandro Natta. Che da tempo si era messo in disparte, non ambiva a fare il segretario, nel partito godeva di grande rispetto ma limitata popolarità, e che scelse come braccio destro Aldo Tortorella, uomo di fervide idee ma di altrettanta prudenza. Se si vuol sintetizzare in poche parole e in modo un po’ scherzoso l’ispirazione dei brevi anni della segreteria di Natta, si può dire che egli voleva portare avanti la politica di Berlinguer ma limitandone le asprezze e, quanto più possibile, con il consenso di Giorgio Napolitano. In anni normali, e quando esiste un’unità di fondo, questo tipo di sforzi conciliatori, che non escludono differenze tattiche, possono riuscire. Ma quelli non erano anni normali. Il primo segnale di difficoltà emerse subito nella gestione del referendum sulla scala mobile e nel giudizio sul suo esito, nel 1985. La decisione di indire un referendum era stata presa da Berlinguer e avversata dalla destra del partito. E in effetti era molto azzardata, anche se a suo tempo la condivisi. In un referendum abrogativo di una legge è chiamato infatti a decidere l’intero corpo elettorale e, in questo caso, non c’era una maggioranza direttamente colpita dalla legge nei suoi interessi, anzi una parte ne traeva vantaggio. Tutti i partiti e i giornali la difendevano, presentandola come una necessità imposta dalla crisi economica, dunque vincere su quel terreno, malgrado la grande mobilitazione dei lavoratori e il suo valore democratico, era estremamente difficile. Tanto più quando ormai mancava
colui che l’aveva promosso e serpeggiava la sfiducia anche tra le fila di quelli che dovevano sostenerla. Natta accettò la prova, anzitutto per onorare l’impegno assunto da Berlinguer, ma non seppe ottenere una mobilitazione forte dal partito e non volle imporla a tutti coloro che non erano convinti: una parte del sindacato, delle organizzazioni dei commercianti, le regioni rosse. Il risultato negativo non fu quindi una sorpresa, né del tutto incolpevole. E tuttavia fu una sorpresa il fatto che, solo contro tutti e non compatto, il Pci ottenesse comunque al referendum il 46% dei voti: il che mostrava una grande forza e non comportava una recriminazione. Invece fu letto e vissuto, da chi non aspettava che l’occasione, come la prova che l’ultimo Berlinguer, con la sua svolta, aveva un po’ esagerato e andava corretto. Così si espresse la destra del partito e non fu contrastata. Se occorre convincersene basta leggere un intero noioso numero di Critica Marxista, del 1985, che riuniva una serie di saggi su Berlinguer scritti da quasi tutti i maggiori dirigenti. È facile cogliervi che, a parte un articolo di Garavini, e sia pure con accenti diversi, lo sforzo comune era quello di ristabilire una sostanziale continuità tra la linea del compromesso storico e la svolta degli anni ottanta. Quel quadro idilliaco, giustificato dall’occasione celebrativa, non ebbe gran peso, anzi passò inosservato. Non altrettanto inosservata passò invece, in Comitato centrale, una richiesta, anche se molto prudente, di correzione in senso moderato della recente linea politica, richiesta condivisa anche da una parte della segreteria. Infatti costituì la base di un congresso anticipato del partito che si svolse a Firenze nel 1986. Più che un compromesso, esso fu una riconciliazione che semplicemente tacitava, per il momento, recenti dissensi e, quanto al futuro, correggeva la svolta, senza dirlo esplicitamente. Non credo di esagerare in questa critica, e non avrei diritto di farlo. Anche io infatti ero partecipe e silente: in parte perché ero appena rientrato nel partito e non volevo fare la mosca cocchiera, in parte perché non capivo il meccanismo che si metteva in moto. Rileggendo oggi il ponderoso volume degli Atti di quel congresso mi sono convinto che quella critica non può e non deve invece essere taciuta. La prima cosa che mi ha colpito è l’insufficienza, se non la voluta rimozione, dell’analisi della realtà (ciò che Togliatti considerava la base essenziale di una giusta politica). Mi limito a indicare come esempi alcuni punti importanti sui quali l’analisi era carente o ingannevole: la natura e la durata del reaganismo, l’evidente spostamento a destra dei paesi europei e
dei maggiori partiti socialdemocratici, la crisi del campo comunista e, almeno all’inizio, l’importanza del tentativo di riforme radicali di Gorbačëv in Urss e di Deng in Cina. Sul piano economico e sociale le novità non erano minori. Ma non si trattava solo della introduzione di nuove tecnologie (il postfordismo nell’industria), o di redistribuzione del reddito che escludeva ben oltre «un terzo della società». Si trattava della «finanziarizzazione» del capitale e dell’unificazione mondiale dei mercati sotto la direzione e gli interessi delle multinazionali. Sul piano culturale proprio negli stessi anni si estese e approfondì, fino al senso comune, l’offensiva dell’individualismo e del consumismo e, parallelamente, si estesero il potere della televisione commerciale e la dequalificazione della scuola, al fine di omologare quella stessa libertà tanto proclamata. Molti di questi temi erano già emersi nella riflessione di Berlinguer, altri la travalicavano. Nell’insieme offrivano un quadro della situazione meno favorevole, ma anche qualche possibilità. Al congresso di Firenze, e anche dopo, se ne discusse molto poco, in qualche aspetto non se ne discusse affatto. Tanta «parsimonia» di analisi non era dovuta a insipienza o alla volontà di sottovalutare ciò che di nuovo stava accadendo, anzi, anche nel Pci, come ovunque, la sovrabbondante retorica del nuovo cominciava a svolgere il ruolo di un velo messo sopra la sostanza. Era invece, più o meno consapevolmente, funzionale per rendere plausibile e accettata una correzione della linea e della pratica politica. L’obiettivo principale che il Pci assumeva, appunto a partire dal congresso di Firenze, era infatti nuovamente la formazione, in tempi brevi, di una nuova maggioranza di governo, chiamata «governo di alternativa democratica», per fronteggiare la crisi del paese. Un obiettivo del quale una ritrovata unità con il Psi fosse promotrice, ma senza escludere uno schieramento ancora più vasto. In apparenza non era una gran novità: nella sostanza era una ripresa del discorso avviato dieci anni prima, depurato dagli errori di subalternità e dal moderatismo programmatico e ricondotto entro i confini di un governo di emergenza, chiamato anche governo di programma. Non era stato del resto Berlinguer stesso il primo a parlare di «alternativa democratica»? Il difetto di questo obiettivo era però che non aveva ormai alcuna base nella situazione reale e per questo doveva censurarla. Come è facile dimostrare, anche limitandomi alla situazione italiana.
Quanto ai rapporti politici, il Psi, la Dc, i partiti laici – pur in quotidiana competizione tra loro – si erano ulteriormente spostati a destra, sotto la pressione politica e ideologica dell’onda neoliberista che ormai trascinava buona parte dell’Europa. Per questo la conventio ad excludendum dei comunisti dal governo anziché venir meno si rafforzava. Di più: dato che essa appariva sempre meno giustificata e la situazione economico-sociale restava estremamente critica (disoccupazione al 14%, debito pubblico pregresso ormai superiore al Pil) la base di consenso elettorale dei partiti di governo ristagnava e a volte cedeva. Essi erano quindi costretti a serrare le fila e a usare ancora maggiormente gli strumenti di un clientelismo capillare e sistematico, a introdurre nuove dosi di spesa pubblica e di tolleranza verso l’evasione fiscale, infine a coprire il tutto con un’operazione di falsificazione di immagine. Craxi fu abilissimo maestro («la barca va», il consenso politico lo guadagna la personalità del leader», «l’uso che egli può fare dei media», con il contorno di quelli che lo stesso Formica definì «nani e ballerine»). Come si poteva, in questa situazione, pensare anche solo credibile un «governo di alternativa» a partire nuovamente da un’intesa tra i partiti, con quei partiti? E su quale programma comune doveva reggersi un «governo di programma»? E non è tutto. Per quattro anni Berlinguer aveva tentato una politica e l’aveva messa in opera attraverso scelte per certi versi dirompenti: la «questione morale»; la battaglia sulla scala mobile, il dialogo con i giovani, a partire dall’esperienza del pacifismo e della critica del consumismo, e con il nuovo femminismo che investiva la concezione della famiglia e le forme della politica. Lo strappo dall’Unione Sovietica e l’apertura verso la socialdemocrazia collegati con una proposta di politica estera autonoma da entrambi i blocchi e di disarmo bilaterale. Base e conseguenza di tutte queste scelte di Berlinguer era una duplice convinzione: la necessità per il paese di una politica profondamente nuova, graduale ma strutturale; e quindi la connessa necessità di costruirne le condizioni nella società e nella cultura prima e più che con la manovra politica. Senza estremismi e con lo sforzo di stabilire alleanze, ma altrettanto con una chiara opposizione e reali movimenti di massa. Ciò dava un senso all’espressione «governo di alternativa democratica», che non a caso si era accompagnata con l’espressione «imperniato sul Partito comunista», o con quella di «nuova tappa della via italiana al socialismo». Non esito a ripetere che, dopo quello che era accaduto e stava accadendo nella situazione concreta degli ultimi anni ottanta, anche quel tentativo
berlingueriano peccava di ottimismo, pativa di qualche astrattezza e mostrava non pochi punti di debolezza. Doveva essere approfondito, completato e sostenuto da un partito che ancora non c’era, ma quanto meno conteneva il riconoscimento della situazione e cercava di intervenirvi per modificarla. Al contrario, il tentativo che riportava in primo piano il tema di un’intesa di governo a breve termine tra i partiti metteva ai margini i nuovi terreni del conflitto sociale e politico, non solo era ancora più astratto, ma comportava prezzi maggiori. Per esempio rinunciava a usare la forza di quel 46% che aveva votato sì al referendum sulla scala mobile. Rinunciava a conquistare la guida del movimento pacifista non ancora spento; o a rafforzare i legami con il movimento delle donne, che infatti perse il suo carattere di massa (in un momento nel quale invece la crisi colpiva anzitutto le loro condizioni materiali); rinunciava ad assumere la testa del nuovo movimento ambientalista, trascinando mille incertezze sulla questione energetica e lasciando così spazio a un partito verde. Rinunciava infine, e soprattutto, ad aprire un ampio dibattito nel e sul partito, che restò soffocato dal conciliatorismo prevalente al vertice. In questa analisi puntigliosa, forse eccessivamente critica, della leadership di Natta, che mi posso permettere perché fui corresponsabile per non averla contraddetta, ho volontariamente tralasciato di occuparmi di una novità sancita all’unanimità al congresso di Firenze. Mi riferisco alla frase: «Il Pci è parte integrante della sinistra europea». Era una frase importante, perché ambiva a definire la collocazione internazionale del partito in un momento nel quale gli equilibri mondiali erano in rapida ridefinizione. Ma anche tanto generica da essere ambigua. Indicava l’urgente necessità di un dialogo tra le varie famiglie della sinistra, al di là di vecchi steccati, per far svolgere all’Europa il ruolo di una terza forza nel superamento dell’assetto bipolare; dialogo al quale il Pci poteva portare un contributo in base alla sua tradizione e al suo rinnovamento, e anche per l’influenza ancora rilevante che conservava nei paesi emergenti? Oppure indicava la disponibilità a aderire all’Internazionale socialista, quale che fosse l’esito di un acceso dibattito che proprio allora la attraversava? Nel primo caso significava uno sviluppo delle più recenti iniziative di Berlinguer (disarmo, multipolarismo, critica dell’egemonismo di ogni grande potenza). Nel secondo, avviava una nuova scelta di campo e la graduale liquidazione di una diversità comunista (almeno quanto bastava per ottenere il placet di Craxi alla nuova affiliazione).
La scelta in questo bivio non era ancora compiuta. Comunque è evidente il senso generale del congresso di Firenze: una parziale e non esplicita correzione della svolta berlingueriana, per moderarne l’asprezza e l’ambizione strategica. Il bilancio si poté farlo in tempi brevi: quando, nel 1987, il Pci patì per la seconda volta una sconfitta elettorale, passando dal 30% del 1983, e dall’eccezionale 33,3 del 1984, al 26,6% dei voti. Quel risultato delle elezioni costituiva per il Pci un'indubbia e inattesa sconfitta, ma non ancora una rotta. I voti perduti non erano andati a rinforzare i partiti di governo ma si orientavano verso una costellazione di forze minoritarie e instabili alla sua sinistra. C’erano però altri segnali di cui preoccuparsi. In varie competizioni locali l’arretramento era più accentuato, si logoravano o venivano meno esperienze amministrative guidate dalla sinistra unita. Si approfondiva la crisi del sindacato per le divisioni al suo interno e le difficoltà insorgenti nel mercato del lavoro. Nel mondo cattolico si consolidavano tendenze e organizzazioni neointegraliste. Il peso di un debito pubblico ormai fuori controllo limitava le possibilità e ricattava ogni proposta di una politica economica progressista. Come causa ed effetto di tutto ciò la coalizione di governo di centrosinistra assumeva il carattere di un patto di potere siglato dalle correnti più conservatrici dei vari partiti che la componevano (il cosiddetto Caf, Craxi-Andreotti-Forlani). Cosicché la prospettiva di una «alternativa democratica», già inconsistente in origine, svaniva ogni giorno di più. Quanto allo stato del partito, le cose peggioravano: nel numero degli iscritti e in particolare nella composizione anagrafica. Non mancavano quindi le ragioni, i temi, gli stimoli perché nel Pci si aprisse una coraggiosa discussione politica e strategica, che fu invece evitata, con il concorso di diverse responsabilità. Il cambiamento che le cose sollecitavano si ridusse quindi a un ricambio generazionale. L’occasione venne offerta da un malanno cardiaco, non grave, che colpì Natta. Egli fu infatti gentilmente invitato a dimettersi e, da gentiluomo, accettò l’invito senza esprimere quell'amarezza che più tardi rese esplicita. Divenne segretario Achille Occhetto e intorno a lui si formò un gruppo dirigente eterogeneo per formazione tranne che su di un punto: la retorica del «nuovismo». Non uso questa espressione in modo ironico o sprezzante; perché anticipava un’ideologia, una linea politica, un metodo, un tipo di organizzazione che alla fine sarebbero prevalsi, e portarono allo scioglimento del Pci. Prima di parlare di questi ulteriori sviluppi credo necessario però aprire
una parentesi, per occuparmi dell’evento di maggiore rilevanza nella storia mondiale di quegli anni, ancor più rilevante sull’evoluzione del comunismo italiano. Mi riferisco a ciò che, proprio tra il 1985 e il 1990, accadde in Unione Sovietica.
20. Andropov, Gorbačëv, Eltsin
L’11 marzo del 1985 Michail Gorbačëv venne eletto segretario del Pcus. Fu per tutto il mondo una grande sorpresa, e per la sinistra una grande speranza. La sorpresa era comprensibile, ma esagerata; la speranza aveva fondamenta reali, ma fragili. La svolta si era avviata prima, subito dopo la morte di Brežnev, per uno stato di necessità (il profilarsi di una crisi economica e di un malcontento diffuso), e per l’ascesa al vertice di Jurij Andropov. Ma all’inizio non era evidente. La crisi economica infatti era ancora occultata, non solo dalle statistiche ufficiali ma dal fatto che il tasso reale di sviluppo, misurato con metro quantitativo, continuava a non essere inferiore a quello dell’Occidente (il malessere sociale, infatti, nasceva non da tagli al salario o allo stato sociale, ma dalla pessima qualità dei prodotti, dai privilegi delle nomenclature, dalla crescita del lavoro nero e della criminalità). Quanto ad Andropov, ciò che appariva a prima vista, e rendeva il giudizio incerto era il fatto che fosse, da tempo, il capo del Kgb, e in quanto tale poteva annunciare una stretta autoritaria. Anche la sua età avanzata e il suo cattivo stato di salute sembravano escludere che potesse essere il promotore di un rinnovamento. E invece accadde il contrario. Sarebbe interessante – per me impossibile – ricostruire la sua biografia per spiegarlo. Quel che è certo comunque è che proprio la lunga esperienza di capo dei servizi segreti gli permetteva di avere una veritiera conoscenza dello stato reale delle cose, di prevedere i pericoli mortali che minacciavano l’Unione Sovietica se non metteva in opera una trasformazione profonda e strutturale. E fu lui ad avviarla. Lo testimoniano alcune scelte immediate. Le nuove proposte di politica estera: per esempio quella dello smantellamento bilaterale dei missili di teatro in Europa, o quella di un governo di unità nazionale in Afghanistan accompagnato dal ritiro di tutte le forze armate straniere. Oppure, in politica interna, la scelta di Gorbačëv, giovane dirigente di secondo piano, di limitata esperienza e poco conosciuto, ma intelligente e critico, come suo braccio destro e, in prospettiva, delfino. Ma se si vuol cogliere la radicalità e il senso concreto delle intenzioni di Andropov, è utile leggere un ampio scritto uscito in occasione del centenario di Marx.
Anzitutto perché, per la prima volta, dal vertice massimo veniva presentata al popolo un’analisi veritiera della situazione, traendo le somme del passato e un impegno per il futuro. L’analisi di Andropov era cruda, il socialismo in Urss – scriveva – non era affatto realizzato: «Nonostante la socializzazione dei mezzi di produzione, i lavoratori non sono i veri padroni della proprietà statale. Essi avevano ottenuto di essere padroni ma non lo sono mai diventati. Chi sono allora i padroni in Urss? Tutti coloro che, avendo una concezione privatistica camuffata, si rifiutano di trasformare il mio in nostro e desiderano vivere alle spalle degli altri, alle spalle della società». È difficile immaginare una critica più aspra al ceto burocratico e parassitario, al corporativismo avido di privilegi, all’economia sommersa che profittava dell’inefficienza pubblica per acquisire profitti immeritati. L’impegno che ne derivava, rivolto soprattutto alle masse, era a sua volta non demagogico: Per uscire da una stagnazione economica occorre uno sviluppo non solo quantitativo ma qualitativo, che migliori la qualità del lavoro e offra ai consumatori ciò di cui hanno realmente bisogno. Perciò occorre mettere in discussione non la pianificazione in sé, ma una pianificazione fondata sul comando amministrativo, indifferente allo sviluppo tecnologico, alla qualità dei beni prodotti e incapace di valutare i risultati degli investimenti. Basta con la «decretazione comunista» sulla quale le direzioni aziendali costruiscono le loro carriere, distribuendone parte ai loro diretti dipendenti. Erano solo spunti, ma mostravano: la volontà di riaffermare l’idealità socialista proprio nel momento in cui criticava una sua applicazione deviata; e la volontà di restituire alla lotta di classe un ruolo centrale. La malattia e la morte non gli permisero di fare di più, e la successiva elezione di Černenko mostrò quanto forte fosse la resistenza di chi difendeva lo status quo. Nel frattempo la stagnazione economica perdurava, la gerontocrazia divenne per tutti insopportabile e finalmente emerse la candidatura di Gorbačëv alla guida del Pcus. Minoritario in partenza infatti, nel Politburo, Gorbačëv divenne segretario per un intervento risoluto di Gromyko, il personaggio più conosciuto e autorevole della vecchia guardia, che conosceva abbastanza il mondo per capire che se l’Urss non «si dava una mossa» poteva presto soccombere. Il nuovo segretario, oltre che governare un paese in crisi, era dunque condizionato da molte parti. Ebbe però il coraggio di «lanciare il cuore oltre la siepe» annunciando al paese una «Perestrojka».
20.1 La Perestrojka La parola, nel vocabolario russo, è molto generica, può indicare un modesto aggiustamento quanto una mezza rivoluzione. Perciò fu accettata e usata quasi da tutti, ma non tutti le davano lo stesso significato. Gorbačëv (come ha più tardi rivelato Ševardnadze) fin dal 1978 era convinto che l’intero sistema fosse ormai «marcito». E impugnò quella parola come una bandiera cui rimase fedele per diversi anni di aspre battaglie politiche, per indicare la necessità di una «grande riforma», che doveva trasformare l’intero sistema senza rinnegarne i tratti fondativi. Una simile impresa era riuscita al capitalismo occidentale a metà del secolo, per fronteggiare la grande crisi economica e il fascismo dilagante in Europa, e dare nuovo assetto a se stesso e al mondo ma – non dimentichiamolo – passando attraverso una guerra mondiale, nel corso di alcuni decenni e usando come stimolo e come argine l’emergere di nuovi antagonisti. Poteva riuscire all’Unione Sovietica, in una situazione ben più compromessa sia al suo interno sia nell’equilibrio mondiale? Almeno per salvare la sua sopravvivenza come Stato? Potenzialmente l’Urss disponeva ancora di notevoli risorse per destreggiarsi nella modernità senza esserne travolta. Ne cito solo alcune. Aveva una grande riserva di materie prime (petrolio, gas, metalli rari) da usare o da esportare senza troppe difficoltà. Terre abbondanti in rapporto alla densità demografica che, se ben coltivate e ben distribuite, potevano garantire una piena autonomia alimentare. Un apparato industriale potente ma tecnologicamente ormai arretrato, e soprattutto incongruo rispetto ai nuovi bisogni dei consumatori e incurante della produttività. Aveva però conoscenze e capacità scientifiche per recuperare le arretratezze rimanenti e aveva un livello di istruzione medio, che permetteva di formare nuovi quadri tecnici, tanto da potersi estendere ai settori di avanguardia. Un’esperienza di pianificazione sempre più ossificata ma che nel passato, quando era necessario, aveva mostrato anche la capacità di perseguire tempestivamente obiettivi prioritari e di lunga portata. Un popolo deluso e demotivato, perché insoddisfatto nei suoi bisogni e spinto alla passività politica, ma non smanioso di conquistare un benessere apparente. Tutte queste opportunità erano già disponibili ai tempi del XXI congresso, permanevano ancora negli anni ottanta e anzi, se ne offriva una nuova. Per tutta la sua storia l’Unione Sovietica aveva dovuto sopportare il peso economico (e di riflesso la rigidità ideologica) della corsa agli armamenti,
dapprima per fronteggiare minacce esterne, poi per garantire un equilibrio bipolare. La spesa militare era del tutto sproporzionata in rapporto al suo reddito. Nel periodo della «coesistenza pacifica» tale pressione si era un po’ ridotta, ma poi l’insensata politica della «sovranità limitata» e le costose e inutili avventure in Afghanistan o nel corno d’Africa offrirono a Reagan un invito a nozze. Con il suo faraonico progetto di definitiva supremazia militare basata sulle nuove tecnologie (bomba al neutrone, scudo antimissili, guerre stellari) egli contava soprattutto di imporre all’Urss uno sforzo economico che la portasse al fallimento. Ma questa volta la minaccia militare era in parte un bluff. Il Vietnam e l’Afghanistan avevano dimostrato che le armi sofisticate non bastavano a piegare una diffusa guerriglia. Tanto più assurda era un qualche tipo di aggressione atomica preventiva contro un paese dalle dimensioni dell’Urss, dotato di un apparato bellico come quello di cui già disponeva. Per un lungo periodo perciò, rinunciando a inutili avventure imperiali, la sicurezza dell’Urss non era in pericolo ed essa poteva contenere la propria spesa militare e spostare risorse umane e materiali su altri settori. Ma considerandole un po’ da vicino, e nel concreto, ci si accorge che ciascuna delle opportunità di cui ho appena parlato, per essere sfruttata, implicava riforme strutturali; e che il successo in un campo implicava passi in avanti in altri. Se la crisi era crisi di un sistema ormai marcito, per fronteggiarla occorreva una riforma complessiva del sistema. Tutto questo aiuta a spiegare perché Gorbačëv ascese al potere, perché il suo tentativo ottenne all’inizio vistosi risultati e largo consenso, ma incontrò ostacoli crescenti sui quali si logorò, e alla fine subì una sconfitta, che contribuì al collasso del paese. Una «grande riforma» infatti – molti esempi storici lo insegnano – non è più facile di una rivoluzione. Occorrono l’audacia e la forza per demolire quanto è ormai «marcito» e degenerato. Ma occorre anche un estremo realismo nel riconoscere la situazione effettiva e quindi idee chiare su cosa parallelamente sostituire a ciò che via via si demolisce, perché un nuovo sistema funzioni: gli obiettivi possibili, i tempi necessari per realizzarli, le forze motrici che sostengono un lungo processo. L’audacia a Gorbačëv non mancò. Il primo obiettivo che si propose era quello, necessario, di liberare la società e il partito da quella gabbia di divieti, di conformismo, di omertà, che era cresciuta nel ventennio brežneviano e aveva messo basi profonde in un gigantesco apparato burocratico (16 milioni di persone). Obiettivo raggiunto nel modo più
semplice, cioè concedendo di fatto, e stimolando, la libertà di parola e di stampa. In pochi mesi: l’esplosione di un dibattito tra gli intellettuali in ogni campo, la moltiplicazione spontanea di nuovi organi di stampa critici, premiati da vendite straordinarie, la facoltà per la televisione di dire il vero e a volte di trasmettere in diretta dibattiti vivaci nel vertice del partito. Era una vera riforma strutturale, premessa di ogni altra. Trovò un ampio consenso. Quelli che non ne erano persuasi non avevano né il coraggio né gli argomenti per opporvisi, e quando ci provavano animavano ancor di più la discussione. Già da quella novità però, a ben vedere, trasparivano problemi. La discussione coinvolgeva anzitutto gli intellettuali, in ogni campo, che esprimevano le posizioni politiche più diverse, poco conciliabili, ma erano ben lontani dal costituire una nuova classe dirigente. Le masse ne erano interessate, ma anche diffidenti. A Mosca cominciava a circolare tra la gente comune una frase graffiante: «Di giornali ne leggo molti, ma i negozi restano vuoti». Lo smantellamento di un sistema ormai anchilosato era avviato e non arrestabile. Incalzava però il problema di costruirne uno diverso, come prospettiva mobilitante per decine di milioni di persone, capace da subito di ottenere qualche risultato nel migliorare le condizioni di vita quotidiana e perciò consolidare un largo consenso, attivare una partecipazione, avviare una bonifica delle istituzioni. Non si può dire che Gorbačëv non ci abbia provato. Al XXVII congresso (alla fine del 1986) propose infatti un ambizioso e articolato progetto di riforme, centrato soprattutto sulle questioni economiche. La sua proposta toccava problemi reali ma, quasi in ogni punto, annunciava una scelta radicale e incompiuta. Soprattutto mancava di indicare gli strumenti di applicazione, i soggetti cui attribuire responsabilità, i tempi necessari. Qui si coglie subito la differenza con Deng. Faccio solo due esempi tra i tanti possibili. Per aumentare la produttività del lavoro, rinnovare le tecnologie, spostare investimenti verso l’industria leggera e migliorare la qualità dei beni di consumo, bastava concedere una crescente autonomia alle singole imprese, senza un sistema fiscale che ne premiasse i risultati o li ridistribuisse, e senza un piano vincolante che ne orientasse le scelte? Oppure in questo modo si otteneva al contrario di incentivare un ulteriore vantaggio per grandi imprese oligopolistiche, spingendole a produrre le cose di sempre, nel modo di sempre, con nuovi impianti inutili e alzando i prezzi? O bastava tollerare la nascita di un’imprecisa iniziativa privata o cooperativa, in assenza sia di imprenditori
sia di un mercato, e senza porre né limiti né trasparenza ai bilanci, né garanzie contrattuali, per impedire che si tramutassero in economia sommersa e speculativa? Queste evidenti carenze di un programma economico iniziale non permettevano certo una sua facile messa in opera, né promettevano rapidi e vistosi risultati. Tuttavia quel programma era incoraggiante e correggibile. La parte migliore, ma non esigua, dei dirigenti di azienda era infatti favorevole ad assumere maggiori responsabilità e, al tempo stesso, era consapevole dei rischi di disorganizzazione che potevano derivare da una troppo precipitosa liquidazione della pianificazione. E, all’altro estremo, la maggioranza dei lavoratori chiedeva subito solo una maggiore disponibilità di beni di consumo elementari ma di buona qualità, la riduzione dei privilegi concessi alla nomenclatura, la lotta alla criminalità e alle speculazioni. Tutti traguardi raggiungibili, a condizione che il potere politico li realizzasse, prima di andare oltre. E infatti al XXVII congresso del Pcus Gorbačëv ottenne un forte successo, anche se molti attendevano una verifica dei fatti. Quando, meno di due anni dopo, si constatò che i risultati tardavano a venire e il consenso popolare declinò, quasi tutti, Gorbačëv compreso, non si fermarono troppo a spiegarne correttamente le ragioni, ma le attribuirono all’incapacità del personale e delle istituzioni politiche vigenti. Nacque dunque l’idea di anteporre a ogni altra una riforma politica. A mio parere era una scelta giusta e, al tempo stesso, incauta. Giusta, perché una grande riforma politica era impossibile senza un idoneo ricambio della classe dirigente, senza la partecipazione attiva di grandi masse, nuove istituzioni, un nuovo modo di pensare e di agire dell’una e delle altre. Incauta, per ragioni altrettanto evidenti ma sottovalutate e opposte. Da settant’anni l’Unione Sovietica si era retta su un potere politico il cui motore e gestore era un unico partito (lo Stato era solo un suo strumento, il suo braccio secolare). Si trattava però di una forma peculiare di partito, che garantiva la propria unità anche con la repressione del dissenso, ma organizzava e attivava molti milioni di persone dentro e fuori i suoi confini, diffondeva o imponeva una visione del mondo, un’ideologia condivisa, otteneva una mobilitazione quasi permanente di tutto un popolo per fronteggiare grandi emergenze (la difesa patriottica), o per raggiungere grandi obiettivi (industrializzazione rapida, alfabetizzazione, protezione sociale per tutti, ascesa a grande potenza, lotta al colonialismo). Negli ultimi decenni però il partito, restando unico e autoritario, aveva via via
cambiato ruolo e natura. Dietro il cambiamento del nome che pareva riconoscere una pluralità di idee e di interessi («partito di tutto il popolo») si formava un ceto dominante che saldava in un blocco nomenclatura politica e tecnocrazia, riduceva l’ideologia a un catechismo cui pochi credevano, incoraggiava la passività delle masse offrendo loro in cambio tolleranza per l’assenteismo e di conseguenza per il lavoro nero. Serviva perciò a poco, per superare questo muro, separare il partito dallo Stato, limitandone il potere, se prima o contemporaneamente non si riusciva a farvi rinascere un’identità ideale e a ricostruire un rapporto con le masse svantaggiate. Serviva poco concedere parziali spazi alle candidature plurime, a micropartiti a base locale, o a singoli demagoghi che poi convergevano in coalizioni unite solo nell’obiettivo di indebolire il Pcus. O meglio, serviva solo per segmentare la politica e creare un vuoto di potere; l’ambizione di una grande riforma imponeva, almeno per la fase di transizione, una guida politica unita e determinata. In sostanza la rifondazione politica, a differenza di ogni altra, esigeva molto tempo e molto lavoro. E invece proprio la riforma della politica, oltre che improvvisata, si realizzò pezzo per pezzo, senza un progetto né una coerenza, come somma di fatti compiuti, espressione di iniziative locali, di interessi e di posizioni contraddittorie, a volte casuali. Da un sistema autoritario e ultracentralizzato a una diaspora i cui effetti si trasferivano su tutti i problemi: l’economia, l’unità nazionale, la politica internazionale. 20.2 Il collasso È legittimo parlare di un naufragio della Perestrojka, quando è cominciato e perché è avvenuto? Nei giudizi di allora, e nella memoria ancora dominante, è prevalsa una versione approssimativa e edificante. In Gorbačëv si vede solo o soprattutto l’artefice dell’estensione della democrazia a una gran parte del mondo (di cui la caduta del muro di Berlino fu il simbolo) e il promotore di una ricostruzione del mercato mondiale. Lo sfascio dell’Unione Sovietica come Stato; l’ascesa al potere, in ciò che ne restava, di una nuova oligarchia corrotta, frutto non delle imprese vitali ma della più grande rapina della storia; il crollo della produzione, le disuguaglianze scandalose, la tragedia prolungata per decine di milioni di persone ricacciate nella povertà, prive di protezioni, la riduzione della speranza media di vita, l’esplosione di conflitti etnici cruenti e tuttora non risolti: tutto ciò viene considerato come «effetti
collaterali», transitori e inevitabili, di una grande impresa civilizzatrice, l’ultimo frutto avvelenato del lontano 1917. Io penso che questo giudizio e anche questa analisi dei fatti siano una falsità. Il periodo felice della Perestrojka durò solo tre anni; dopo d’allora cominciò il suo fallimento, via via più palese e più rapido. Il tentativo non sarebbe neppure cominciato se Gorbačëv non fosse diventato segretario del Pcus, da questa investitura aveva tratto la forza per «abbattere la gabbia», imporre la libertà di parola e di stampa, promuovere l’idea di una «grande riforma». Aveva cioè alle spalle un partito che organizzava quasi venti milioni di persone, di ogni ceto, in ogni regione, che esercitava un potere in tutti i gangli della società e dello Stato, abituato alla disciplina e all’unità. Piaccia o non piaccia questo era stato il motore di straordinari e vincenti mobilitazioni di un intero popolo. Ma ora, già alle prime esperienze, ci si accorse che per funzionare le riforme dovevano avere un contenuto preciso e che il partito, di cui era segretario, era al tempo stesso necessario ma inadeguato. Proprio per questo fu convocato un congresso anticipato, con l’obiettivo di trasformarlo, limitandone i compiti gestionali, ma rianimando su nuove basi la sua cultura e la sua tensione ideali. Tra il 1988 e il 1989 le cose andarono in tutt’altro modo. Già prima del 1988 la situazione era peggiorata. La prima scossa di Gorbačëv aveva suscitato, soprattutto tra i giovani, una speranza di rinnovamento che, priva di un’esperienza e di una linea già elaborata, andava in ogni direzione e si manifestava nella nascita di molti micropartiti (di non oltre 5mila militanti); e più ancora nella fioritura di migliaia di associazioni politiche mutevoli e su terreni disparati. Il partito ne diffidava e si chiudeva in difesa, con il risultato di subire piccole ma ripetute scissioni e un numero crescente di diserzioni. I danni più gravi vennero però nel corso del congresso. Non mi riferisco al riemergere di un’opposizione, sempre latente ma per la prima volta esplicita, dei nostalgici del passato. Mi riferisco a due fatti molto più importanti. Anzitutto la divaricazione tra coloro che avevano condiviso la Perestrojka e sostenuto Gorbačëv. Una divaricazione grave, perché non circoscritta a temi immediati, a particolari problemi, a questioni organizzative o organigrammi, ma perché attraversava il vertice e investiva la strategia. Non si può né fondare, né rifondare un partito senza un gruppo dirigente relativamente coeso, senza una visione del passato e del presente, senza finalità comuni condivise dalla maggioranza dei suoi militanti, anzi, quanto più si vuole permettere e stimolare una libera discussione al suo
interno, tanto più occorre avere un comune sentire. Gli uomini di Gorbačëv, o almeno molti tra loro, si scoprirono invece divisi, proprio su questo, in due campi. Da un lato stavano quelli convinti della necessità che anche profonde riforme non dovessero cancellare il carattere socialista del sistema, non bisognava né condannare in blocco la storia passata né concedere al mercato, e alla proprietà privata, un ruolo preminente. Non solo per fedeltà ai princìpi, ma per impedire la disorganizzazione economica e politica del paese. Dall’altro lato stavano quelli convinti che ormai bisognava andare in fretta fino in fondo, cioè orientarsi a chiudere la parentesi aperta dalla Rivoluzione di ottobre e costruire un nuovo sistema coerente, assumendo come modello le democrazie occidentali, finalmente accessibile anche all’Unione Sovietica: dunque largo spazio al mercato, pluripartitismo parlamentare, apertura economica e culturale al mondo. Senza di questo le riforme sarebbero rimaste sulla carta, sarebbero state sabotate dalle potenti forze della conservazione, non avrebbero raggiunto risultati effettivi. Questa seconda posizione era minoritaria nel partito e nel paese. Gorbačëv contribuì a criticarla e, per il momento, chinò la testa. Ma anche la prima aveva poco da rallegrarsi: perché portare avanti una riforma profonda e complessiva e insieme salvare il sistema socialista era un compito estremamente arduo. Culturalmente occorreva inventare un sistema socialista del tutto nuovo; praticamente occorreva non solo il consenso, ma la partecipazione attiva di milioni di persone, anzitutto nelle classi popolari, e occorreva invece la neutralizzazione di chi sul socialismo aveva sempre giurato, ma nel socialismo aveva coltivato privilegi, o scarico di responsabilità. Insomma, una battaglia. Emergeva però un altro aspetto del congresso del 1988. Una buona parte dei delegati si tenne fuori dallo scontro, passivi e diffidenti, in parte per il timore corporativo di rischiare il ruolo conquistato, in parte per una ragione più profonda: non sapeva che dire. Prendo per esempio il giudizio sul passato. Finché si trattava di scegliere tra la nostalgia di Stalin e la liquidazione di Lenin e della sua rivoluzione, era facile suscitare una discussione, o addirittura una rissa. Se però si trattava di discernere, in una storia lunga e complessa, il bene dal male, la discussione non era possibile, per una ragione molto semplice: perché il quadro medio del partito quella storia reale non la conosceva; aveva per anni studiato il testo elaborato e imposto da Stalin, poi il rapporto segreto di Chruščëv, e qui finivano le sue conoscenze. Gorbačëv non aveva neppure tentato di colmare il buco,
parlava di un ritorno a Lenin, ma come se Lenin fosse riducibile all’invenzione della Nep. La conseguenza di questi fatti fu pesante. Il fallimento di una rivitalizzazione del partito si coniugava con la rottura del suo gruppo dirigente. Ma non per questo il partito spariva, semplicemente si indeboliva ulteriormente e cercava di perpetuarsi in periferia nella forma di gruppi di pressione sempre più lontani e indifferenti rispetto alla direzione centrale, premessa inconsapevole dei successivi secessionismi. Gorbačëv cercò di reagirvi cambiando l’agenda della Perestrojka, cioè trasferendo la riforma del potere politico su una nuova priorità, la democratizzazione dello Stato (maggiori poteri ai soviet delle repubbliche eletti con il voto popolare e un’effettiva pluralità di candidati). Anche qui intenzioni ottime, risultati pessimi. Le elezioni furono per il Pcus una sconfitta, malcelata dalla legge elettorale. Soprattutto nelle metropoli, nei soviet si formarono coalizioni di piccoli partiti o di singoli demagoghi uniti soprattutto dall’obiettivo di emarginare il Pcus. Ancora più importante fu l’accorpamento di tutta la Russia in una sola unione, che diventava così, per le sue stesse dimensioni, il contraltare del governo centrale. Il potere politico era ormai del tutto frammentato, non solo orizzontalmente (cioè tra varie feudalità regionali), ma anche verticalmente: soviet con facoltà legislative nei rispettivi territori, in continua competizione sulla divisione delle risorse con lo Stato; soviet della Federazione russa molto più influente rispetto a ogni altro, governo centrale quasi esautorato, trentasette ministeri che non sapevano a chi chiedere ordini e ne facevano volentieri a meno. Ognuno di questi centri e livelli pretendeva che le proprie leggi, entro i rispettivi confini, prevalessero sulle altre. La democratizzazione frettolosa diventava confusione. Tutto questo avrebbe impresso un’accelerazione e una moltiplicazione dei conflitti etnici e religiosi che, due anni più tardi, produssero la fine dell’Unione Sovietica e offrirono l’ascesa al potere, per quanto restava, di Boris Eltsin, regista e inventore di un nuovo populismo che, in nome della libertà, finì col bombardare il Parlamento e, in nome del popolo, rapinava il patrimonio pubblico per spartirselo con oligarchi corrotti e spesso mafiosi. Mi interessa constatare che già nel 1990 il collasso era in atto: l’economia disorganizzata precipitò nella recessione, ciò che veniva prodotto trovava difficoltà a essere distribuito, la criminalità e la speculazione crescevano, un vero Stato ormai non esisteva. Gorbačëv perdeva sempre più un’effettiva autorità, il solo potere che gli
restava era in politica estera. Quest’ultima merita un discorso un po’ particolare: perché in essa emergono più chiaramente sia gli aspetti migliori della Perestrojka, sia le pesanti responsabilità dell’Europa (e particolarmente della sinistra europea) nel non averli colti nel proprio stesso interesse ma, anzi, sabotati, e infine alcune illusioni che rendevano lo stesso Gorbačëv incerto nel gestirli. Già dal 1985, l’Unione Sovietica aveva assunto l’idea di un assetto del tutto nuovo delle relazioni internazionali: disarmo atomico graduale, ma reciprocamente verificabile; autodeterminazione di ogni Stato; composizione delle controversie affidate all’Onu; democratizzazione dell’Onu e delle altre grandi istituzioni; scioglimento progressivo dei blocchi. E per dare credibilità alla proposta aveva cercato accordi immediati, che spesso sorprendevano gli stessi americani per le concessioni cui si rendeva disponibile. Di più: dopo qualche esitazione aveva ritirato l’Armata rossa dall’Afghanistan e ridotto unilateralmente la spesa militare; si dimostrava interessato a maggiori scambi economici. La controparte si mostrava compiaciuta, ma faceva orecchio da mercante: il piano di modernizzazione degli armamenti americani procedeva, l’offensiva dei talebani in Afghanistan anche, la tremenda guerra tra Iraq e Iran durava sanguinosa con il consenso politico e finanziario dell’Occidente. La questione palestinese continuava senza che nessuno, anche dopo il massacro in Libano e in Giordania, si impegnasse a imporre a Israele il rispetto delle risoluzioni ripetutamente votate all’Onu. La proposta di pace cominciava quindi a diventare una resa strisciante. E senza contropartite. Tra il 1989 e il 1990 è proprio questo che avvenne. Gorbačëv non si spese nello sforzo di condizionare politicamente la piena e giusta indipendenza dei paesi dell’Est europeo, ma impedendo il loro passaggio da un blocco all’altro e governando i rapporti economici tra loro e l’Urss. Della demolizione del muro di Berlino, che diventò subito un mito, non si può non apprezzare la fine del divieto di libero transito, ma è più che sensato discutere dell’opportunità di una riunificazione delle due Germanie nella forma di una pura e immediata annessione dell’una da parte dell’altra (che la stessa Spd non condivideva). Altrettanto clamorosa fu l’assenza di un’iniziativa sovietica di fronte alla guerra per il Kuwait: anche in questo caso non c’era niente da obiettare alla decisione, avallata dall’Onu, di restaurare le frontiere di uno Stato indipendente. È già più dubbio che questo dovesse essere ottenuto con una
grande armata e massicci bombardamenti. Ma soprattutto c’è moltissimo da obiettare sul fatto che si facesse una guerra, e poi un blocco inumano, per rispettare la legalità internazionale nel Kuwait, senza imporre niente a proposito del destino dei palestinesi o delle alture del Golan. Rimproverare a Saddam favolosi e inesistenti armamenti e consentire a Israele le armi atomiche. Su questi arbitrii, una posizione dura e limpida dell’Unione Sovietica avrebbe avuto, sull’Onu e sul campo, un peso, e invece mancò. Quello che più mi stupisce, in tutto ciò, è che l’Europa non si sia resa conto di quanto le convenisse trovare un interlocutore economico e politico all’Est per non limitarsi a un ruolo subalterno al nuovo impero americano; e che dal canto suo Gorbačëv credesse, come disse, di poter convertire Reagan alla linea di Roosevelt con il buon esempio. Insomma troppo tardi si accorse che di per sé la democrazia non era la lampada di Aladino.
21. La fine del Pci
Arrivo ora all’ultima tappa del mio lavoro: la fine del Pci. Ci arrivo in condizioni pessime. Anzitutto, e soprattutto, perché, dopo un breve intervallo, riprendo la penna in mano nel momento in cui vivo un dramma personale profondo. È scomparsa la mia amatissima compagna, Mara: non solo un dolore ma un’amputazione di me stesso, che non si rimarginerà, rende opaca l’intelligenza e fiacca la volontà. E proprio sul letto di morte mi ha imposto la promessa di continuare a campare senza di lei almeno fino a quando non avrò finito il lavoro che avevo cominciato durante gli anni delle sue sofferenze. E so che se lo sospendessi ora non sarei più capace di mantenere la promessa. In secondo luogo, per caso, mi trovo ad affrontare il tema più complesso, a sua volta doloroso, della fine del Pci proprio nel momento in cui non il Pci ma l’intera sinistra sembra scomparsa, o è in totale confusione; e contemporaneamente riaffiora una seria crisi dell’avversario che l’aveva sconfitta e dunque sarebbe più che mai necessaria. Di più, l’Italia in generale, che per decenni era stata un laboratorio di dibattito politicoculturale e di lotte sociali interessanti per tutto il mondo, è oggi declassata al rango di un paese minore e a volte un po’ indecente: appare quindi improbabile che, nel caos di una crisi mondiale, di qui si avvii un nuovo ciclo storico; è invece probabile che da qui, per il momento, maturi piuttosto il peggio. Nel lungo periodo, se la crisi attuale di sistema si rivelerà duratura, occasioni nuove potrebbero offrirsi, ma nel breve tempo è difficile vedere anche solo da dove cominciare: la strada per la ricostruzione di una vera sinistra è lunga, un problema di generazioni. Ma forse proprio questa constatazione spinge a chiedersi se il Pci non possedesse ancora un patrimonio di idee e di forze per rendere la propria fine meno frettolosa e meno sterile. Vorrei provare a rispondere. Con due avvertenze. Da qui in poi sarò costretto a usare la memoria personale per colmare i vuoti degli archivi e anche della recente storiografia, con tutti i rischi che ne derivano. D’altra parte dovrò talvolta inserire riferimenti autobiografici, dato che in quelle vicende ho avuto un ruolo e una responsabilità non irrilevanti.
21.1 L’operazione Occhetto Sono sicuro, per averlo tentato, che se domandassi, anche a persone competenti, quando è cominciata la fine del Pci, riceverei molte e differenti risposte: nel 1979, dopo il fallimento del compromesso storico sul quale si era impegnato tanto e a lungo; nel 1984, quando morì Berlinguer, il solo leader di grande livello, e che portò via con sé il tentativo di opporre resistenza efficace al vento che spirava; nel 1989, ovviamente, con l’avventura della Bolognina, che doveva portare alla rinascita e invece portò in breve al disastro; nel 1991, con una scissione che si dimostrò più corposa del previsto e mandò comunque molta gente incerta verso il disimpegno. In ciascuna di queste risposte riconosco qualcosa di vero, perché tutti quei passaggi contribuirono, in sequenza, al decorso di una malattia mal diagnosticata e mal curata. Ma se si vuole, come voglio, stabilire l’elemento scatenante di una vera fase terminale balza agli occhi la scelta compiuta da Occhetto alla Bolognina, a condizione che la si integri con ciò che immediatamente l’ha preceduta e resa possibile, e con ciò che l’ha seguita nei due anni successivi. L’«operazione Occhetto» cominciò nel corso del XVIII congresso, con molta audacia e idee poco chiare come, a suo tempo, la Perestrojka di Gorbačëv. E percorse la stessa parabola: un rapido avvio con largo consenso, poi difficoltà e aspre contese, infine, tre anni dopo, un fallimento. L’inizio della svolta non fu, come a suo tempo quelle di Togliatti e di Berlinguer, espressa con scelte concrete e rischiose dalle quali via via nasceva una nuova strategia, ma attraverso una revisione ideologica ostentata. La revisione non era molto argomentata, ma radicale. Investiva anzitutto la visione del proprio passato. In un’intervista Occhetto disse: «Il Pci si sente figlio della Rivoluzione francese (precisando, quella del 1789, ma escludendo gli infausti giacobini) e non, come si è sempre detto, erede della Rivoluzione di ottobre». Poco dopo, in un discorso, investiva Togliatti definendolo «incolpevole complice di Stalin». E infine anche Berlinguer: «una terza via non esiste, noi non pensiamo di inventare un altro mondo. Questa è la società in cui viviamo e in questa società vogliamo lavorare per cambiarla». Anche la lotta di classe cessava di avere un ruolo primario, «perché ormai le principali contraddizioni della nostra epoca riguardano l’insieme dell’umanità». Insomma a essere «superata»
era la via democratica al socialismo, il socialismo come formazione sociale distinta e antagonista rispetto al capitalismo. Di tanta furia iconoclasta si accorse e si preoccupò perfino un vecchio e autorevole liberale come Bobbio, che scrisse sulla Stampa: Mi domando se ciò che avviene nel Pci non sia una vera inversione di rotta. Si ha l’impressione che ci sia molta confusione. La precipitazione con cui si sta buttando a mare il vecchio carico mi pare sospetta. Si resta a galla sì, ma è vuota la stiva. Ci si illude se si crede che si possano trovare facilmente nuove mercanzie a ogni porto. Attenzione, c’è molta merce avariata in giro, molto materiale fuori uso che passa per nuovo. Non si poteva dire meglio; ma a Bobbio sfuggiva un elemento importante. Dietro a quella iconoclastica revisione ideologica c’era un progetto politico fin troppo elementare. Smantellando la «diversità» comunista Occhetto, ma non solo lui, era persuaso di poter far crollare finalmente la conventio ad excludendum e di aprire la strada a un governo con dentro il Pci, molto migliore di quello esistente. Ma proprio qui emergeva il suo punto più debole. Per nutrire infatti una tale speranza, e renderla credibile, occorreva non solo trascurare la realtà, ma costruirsene una di fantasia. Bisognava cioè ignorare: che l’assetto bipolare del mondo saltava, come in effetti stava saltando, ma non dava affatto luogo a un sistema multipolare, bensì a un mondo dominato da una sola potenza; che quella potenza da tempo perseguiva una linea neoliberista, e una restaurazione di classe, e là dove non arrivava a farlo pacificamente aveva le armi per imporlo; che il nuovo capitalismo finanziarizzato e globalizzato non premiava ma escludeva dal benessere la maggioranza dei popoli e delle persone; che in Italia in particolare si profilava una bancarotta, quindi un conflitto sociale, e il sindacato era diviso e indebolito; che i partiti di governo resistevano all’idea di inserire i comunisti nel governo non per dissensi ideologici, ma per difendere interessi e modo di governare su cui da sempre si reggeva il loro potere. E così via. Per questo nel XVIII congresso, quando si trattava di discutere e decidere sui programmi, o sulle alleanze, sulla situazione internazionale vera, nel «Progetto Occhetto» si trovava un vuoto pneumatico.
21.2 L’unanimità sorprendente Malgrado tutto ciò – la drastica liquidazione di una tradizione teorica spesso rivista ma tuttora radicata, il vuoto di analisi sulle novità emergenti, l’assenza di una proposta politica di cui nulla si capiva se non il fatto che doveva essere nuova – il «nuovo corso» di Occhetto ottenne un consenso quasi unanime al XVIII congresso. Prima di procedere oltre, è opportuno decifrare le ragioni di tale sorprendente unanimità, che spiega molte delle vicende immediatamente successive. Sarebbe ingeneroso e fuorviante affermare che Occhetto l’abbia ottenuta soprattutto perché era segretario in un partito nel quale il segretario, sulle questioni essenziali e in una fase congressuale, non poteva essere smentito per non incrinare l’unità. Se l’era invece guadagnata anche con l’intelligenza politica, e con una lucida lettura del partito che doveva governare, che gli permetteva di misurare, in ogni settore, ciò che poteva promettere per avere un placet e ciò che doveva invece negare per non esserne prigioniero. I miglioristi non amavano la sua retorica movimentista, né le sue improvvise e solitarie imprudenze (tanto da avergli votato contro quando era stato fatto vicesegretario), ma a loro offriva ora la fine della berlingueriana «diversità comunista» e la richiesta di aderire all’Internazionale socialdemocratica, non però un cessate il fuoco nei confronti della politica di Craxi, che avrebbe suscitato una reazione in vasti settori del Pci. Sulla benevolenza di Natta e Tortorella, Occhetto sapeva di poter contare, perché loro l’avevano appena fatto segretario del partito. Conoscendo il loro legame affettivo con Togliatti e Berlinguer, abbassò il tono delle critiche dirette e, anzi, le compensò con una ripetuta e generica valorizzazione di quel che avevano fatto per distinguersi dal campo sovietico (l’affermazione della democrazia come valore universale). Erano compromessi condotti sul filo del rasoio, ma funzionavano. Molto più difficile è spiegare il consenso, o almeno la non belligeranza, verso il «nuovo corso occhettiano», dell’ala sinistra del partito. L’ingraismo dopo l’XI congresso si era dissolto, era rimasto quasi silente nel periodo del compromesso storico, non aveva sfruttato appieno l’occasione offerta dall’ultimo Berlinguer, aveva trovato un modesto aiuto
nella confluenza del Pdup nel 1985: in condizioni normali non si poteva comunque considerarlo una componente del Pci attiva e riconosciuta. Ma la svolta di Occhetto, sancita nel XVIII congresso, non rientrava nella normalità. Già definiva uno strappo: uno strappo che se fosse stato contestato avrebbe trovato seguito e rotto l’unanimità. Non sto parlando di un’eventualità astratta, ma di un tentativo già in opera di cui nessuno sa nulla, e che oggi sento il dovere di rivelare. Prima del congresso la fisionomia del «nuovo corso» era già ben chiara e un gruppo di compagni di una certa notorietà e autorevolezza, a ragione o a torto, decisero di opporvisi «da sinistra», non in nome della conservazione ma di un rinnovamento ben diverso e a tal fine elaborarono la bozza di una mozione alternativa (corredata da un documento più ampio per sostenerla). Ingrao, Garavini, un po’ meno risoluto Bassolino e io stesso, che per questo fui inviato nella ristretta commissione per la stesura delle tesi congressuali. A quel punto Occhetto si guardò bene dall’appellarsi al centralismo democratico, si mosse invece con innegabile abilità. Chiamò Ingrao a un incontro diretto e generosamente gli chiese: «Cosa volete che introduca nel mio discorso per rinunciare alla mozione alternativa?». Ingrao all’incirca rispose: «Una forte sottolineatura della questione ambientale e, coerentemente, una forte denuncia delle multinazionali che hanno ormai in mano le grandi scelte dell’economia». Occhetto lo promise e infatti fece onore all’impegno, a modo suo, con alcune frasi altisonanti, ma generiche, tra le quali fece scalpore quella dedicata all’Amazzonia. Ingrao si sentì da parte sua vincolato, cosicché il documento alternativo, in poche ore, fu messo nel cassetto. Il solo contraddittore che aveva davanti era Cossutta, il che, senza volerlo, gli faceva comodo. Bisogna aggiungere che la platea congressuale fu molto soddisfatta, perché ne trasse l’impressione che il nuovo corso aveva unito il partito, gli avrebbe aperto la strada a un’iniziativa dinamica e ottenuto risultati rilevanti. Io, e forse non solo io, ero convinto del contrario, ma mi rassegnai a un silenzio-assenso: ripensando alla mia vita politica credo che tra i tanti errori, quello fu l’unico caso in cui l’errore si mischiava a viltà. Su un punto infatti Occhetto aveva ragione, il Pci non poteva sopravvivere su una linea di continuità. Per opporsi, occorrevano un’analisi e una linea del tutto diverse, ma organiche e altrettanto innovative, occorreva correre quindi il rischio di una contrapposizione frontale. Ma la realtà è molto meno manovrabile delle parole. Nei mesi successivi al congresso emersero infatti due novità inquietanti. Anzitutto, come ho
detto, crisi economica, disordine istituzionale, spinte secessioniste, già annunciavano il fallimento della Perestrojka e lo sfascio dell’Unione Sovietica (e della sua area di influenza), non solo come regime ma anche come Stato. In secondo luogo, in Italia, il «nuovo corso» occhettiano aveva riscosso simpatia e incoraggiamenti, ma non aveva affatto modificato né le alleanze né la politica delle forze al governo. Occhetto, come Gorbačëv, si trovava dunque di fronte a un bivio: o modificare la propria linea, oppure accelerarne subito il passo e renderla più visibile con atti politici clamorosi e rischiosi. Questa è la base razionale della Bolognina, la chiave di lettura per capire i tempi, il modo e il contenuto di un atto che altrimenti appare l’avventura di un demiurgo. 21.3 La Bolognina, i sì e i no I tempi. Occhetto avanzò la sua esplosiva proposta subito dopo la caduta del muro di Berlino perché, più o meno lucidamente, era consapevole che quell’evento, almeno sul piano simbolico, offriva l’ultima occasione per poter presentare lo scioglimento del Pci come parte di una grande avanzata democratica, che legittimava la sua storia e la sua funzione, e non come parte e riconoscimento di una resa generale. Il modo. Se quella proposta avesse seguito l’iter normale, cioè legittimo (discussione in Direzione, poi nel Comitato centrale, poi inevitabilmente nelle sezioni), non solo i tempi si sarebbero allungati, ma rischiava di non passare. Occorreva dunque mettere il partito di fronte a un fatto compiuto e non reversibile, se non al prezzo di liquidare chi l’aveva avanzata. Il contenuto. Sommava due scelte dirompenti. L’apertura della fase costituente di un nuovo partito della sinistra, nel quale il Pci era pronto a confluire, e il cambiamento dell’attributo comunista come stimolo e logica conseguenza di tale costituente. Il cambiamento del nome era già stato precedentemente ipotizzato da qualcuno, ma era stato esplicitamente escluso soprattutto per evitare che venisse visto come conseguenza di una sconfitta, analoga a quella imposta in altri partiti comunisti, anziché come riconoscimento della specificità del comunismo italiano e premessa di un suo meritato rilancio. Ma secondo lui, ormai chiarito tale equivoco, la decisione di un nome nuovo poteva favorire la costruzione di una nuova e grande forza riformatrice, che raccogliesse varie componenti sociali e culturali, e finalmente sbloccasse il sistema politico italiano.
La mattina del 12 novembre del 1989 Occhetto si presentò quindi inatteso a una piccola assemblea di reduci della Resistenza in un quartiere di Bologna. Prese la parola senza accennare al nome, ma ribadendo che, ormai, la caduta del muro mostrava quanto il mondo cambiasse velocemente e quanto il Pci dovesse rinnovarsi per non restare in coda. Era però presente, gradito ospite, un giovane redattore dell’Unità che alla fine della riunione, non innocentemente, gli chiese: «Rinunciamo anche al nome comunista?». E lo sciagurato rispose: «Tutto è possibile». In poche ore i giornali furono informati e non faticarono a decifrare la frase; la mattina dopo uscirono con grossi titoli, con o senza interrogativo: «Il Pci cambia nome». Io trasecolai, ed entrando a Montecitorio incontrai Natta e gli chiesi: «Ma tu lo sapevi?». Lui, alzando le braccia tristemente, mi rispose: «Niente affatto». Vent’anni dopo, malgrado ripetuti interrogatori, non sono riuscito a sapere chi tra gli altri sapesse qualcosa, e quanto sapesse. Mi sono fatto così quest’idea: pienamente al corrente dell’iniziativa erano i più fidati amici del segretario (Petruccioli, Mussi, la famiglia Rodano), alcuni altri erano stati consultati in via di ipotesi, ma la maggioranza, anche tra i dirigenti più importanti, ne sapeva quanto me, cioè nulla. Il giorno stesso Occhetto convocò la segreteria e con una succinta relazione chiese l’adesione collettiva. Notando però un certo disagio, e qualche lacrima, mostrò una pagina vuota, destinata alle sue dimissioni se l’adesione gli veniva rifiutata. E infatti l’ottenne, anche se a termine di statuto la segreteria era abilitata solo a funzioni esecutive e non a importanti scelte di linea politica (tutto doveva essere rinnovato salvo le consuetudini di Botteghe Oscure). La mattina dopo la questione venne discussa nella Direzione, alla quale fu offerta un’argomentazione più ampia ma senza alcuna variante. Io salii tra i primi sul palco per dichiarare un no secco, sia alla rinuncia della parola comunista, che nel caso del comunismo italiano era ingiustificata e che le novità in atto nel mondo permettevano di arricchire; sia alla costituente di un nuovo partito, per il quale non vedevo apporti significativi pronti, e che rischiava perciò di disgregare quello che esisteva anziché crearne uno più grande. Il primo giorno il mio no restò solo, l’Unità uscì con il titolo: «Solo Magri contro». Nei due giorni successivi se ne aggiunsero altri due (Castellina e Cazzaniga) e due astensioni (Chiarante e Santostasi), anche se qualche altro intervento (Natta, Tortorella) avanzò delle riserve ma evitò un voto. Ingrao era in Spagna ma sarebbe tornato rapidamente ed espresse il suo totale dissenso, dando maggior consistenza e visibilità a un’opposizione
così sparuta. Ma il piano terra era pieno di giornalisti e televisioni e la notizia si sparse per tutto il paese fin dalla prima ora, suscitando, per la prima volta, un intervento attivo e pubblico della base comunista: animati comitati federali, assemblee di sezione partecipatissime, alcune autoconvocate, qualche rumorosa manifestazione di protesta davanti a Botteghe Oscure, dichiarazioni contrastanti tra gli intellettuali. Ciascuno voleva dire la sua, e neppure con tanto garbo. Il 20 novembre si riunì un Comitato centrale che durò tre giorni. Clima teso, centinaia di iscritti a parlare. Il segretario voleva un pronunciamento chiaro da parte di ciascuno e, infatti, presentò un brevissimo ordine del giorno: sì o no alla proposta nel suo insieme, da esprimere con un voto. A cui seguì la convocazione di un congresso. Qualcuno cercò di evitare il congresso per il lodevole timore che irrigidisse le rispettive posizioni: preoccupazioni sagge, ma proposta velleitaria. Più tardi si disse che a imporre il congresso fu Pietro Ingrao. Non è vero. Il congresso era inevitabile, per una ragione di legittimità: un Comitato centrale è eletto da un partito che c’è, non ha il diritto di farne un altro; e per una ragione di buon senso: un popolo in ebollizione non si quieta facendolo discutere ma non decidere. Sia il dibattito al Comitato centrale, sia quello che percorse il XIX congresso, convocato all’istante, fu evidentemente e ovviamente partecipato e agitato, ma a dire il vero non molto interessante né creativo, cose già sentite e riverniciate, ma poca sostanza. Eviterò dunque di riferirne in dettaglio. Tuttavia emersero due novità che ebbero un gran peso, sia sulle vicende immediate sia su quelle di lungo periodo. Anzitutto, l’area del dissenso era di gran lunga più estesa e più tenace del previsto. Lo dimostrano i numeri. Nella Direzione nazionale i no netti erano stati tre (quattro quando arrivò Ingrao), più due astensioni espresse e qualcuno che scelse di non votare. Al Comitato centrale invece su 326 presenti ci furono 219 sì, 73 no e 34 astensioni. Nel congresso di Bologna i delegati del no rappresentavano il 33%, un terzo degli iscritti. I numeri inoltre non dicevano tutto. Molti altri elementi mi consentono di ritenere che, al momento, il dissenso era ancor più vasto. L’eccezionale mobilitazione, a favore del segretario, degli apparati di federazione e degli amministratori locali, qualche volta usando lievi forzature del regolamento. L’accentuata disparità del voto nelle regioni: schiacciante maggioranza del sì nelle regioni rosse, che ormai costituivano più di un
terzo del partito, ma un’ampia, e in qualche caso maggioritaria, opposizione in altre importanti città. L’unanime pressione della stampa di partito e anche dei giornali indipendenti, mentre al dissenso mancava ogni strumento organizzativo e ogni organo di informazione. Due sondaggi (per quel che valgono i sondaggi in casi come questo) condotti tra gli elettori registravano un no del 73%. Infine, ma non per ultimo, rilevante tendenza a un esodo silenzioso: gli iscritti al partito, tra il 1989 e il 1990, calarono di quasi 400mila. Ma una seconda novità emersa dalla battaglia sul campo giocava invece contro gli oppositori, e contribuiva a un generale disagio. Il fronte del no, oltre che improvvisato, era arrivato alla Bolognina politicamente e culturalmente eterogeneo. Era unito sul no alla proposta di Occhetto, ma non aveva elaborato, né aveva voglia di elaborare, una proposta alternativa comune e convincente. Mancava di una riflessione sul passato (non liquidazionista ma critica), di un’analisi del presente (non di comodo, ma consapevole delle novità in atto nella società e nel mondo). Cosicché finiva per apparire più come resistenza o freno, piuttosto che come un progetto innovatore più serio e più ambizioso, costruito sul meglio del patrimonio del Pci. Tale situazione di fatto poneva a tutti un problema politico delicato e complesso. Il congresso si era concluso con l’approvazione della proposta di Occhetto, che aveva quindi il pieno diritto di metterla in atto e di chiedere a tutto il partito di fare altrettanto, senza ulteriori consultazioni e dissociazioni o nuove verifiche. Ma politicamente il rischio era grande. Fare un nuovo partito più ampio, cominciando col perdere un terzo del proprio e con un subbuglio permanente. D’altra parte anche gli oppositori avevano bisogno di tempo per definire meglio la propria proposta e un proprio gruppo dirigente, centrale e periferico; e soprattutto per decidere cosa fare in futuro. Perciò prevalse un compromesso: avviare la Costituente ma nel contempo accettare che il dibattito restasse aperto a una prova di appello, cioè a una verifica congressuale nell’anno seguente, nella quale solo gli iscritti avevano diritto di voto. Quel mezzo rinvio avrebbe certamente protratto una competizione vivace, ma anche sollecitato una discussione più seria: in effetti quella fu la fase più interessante e meno scontata della vicenda aperta dalla Bolognina. Vale la pena ricostruirla, perché fu male riportata e più tardi dimenticata. La maggioranza era ben decisa a non cambiare strada e infatti affidò a un membro della segreteria il compito di avvicinare forze esterne e ottenere
da loro un consenso di massima, per mostrare che l’idea della costituente era feconda e per ridurre così lo spazio di un’eventuale scissione. Ma la caccia non dette i risultati sperati. I piccoli partiti mostrarono interesse ma nessuna intenzione di sciogliersi. Gli intellettuali autorevoli erano divisi ma complessivamente pieni di dubbi sul proprio impegno diretto. La «sinistra dispersa e sommersa» aveva maturato uno scetticismo per la forma partito in quanto tale e comunque rifiutava di partecipare a un conflitto ancora irrisolto. Decisivo però era l’effetto della svolta nei e sui grandi interlocutori. La Dc e soprattutto Craxi (ago della bilancia) vedevano nello scioglimento del Pci ben più che uno stimolo a mettersi loro stessi in discussione, per rifondare la politica, ovvero l’occasione di una crisi che dimensionasse la sua forza: solo dopo si apriva la possibilità di un dialogo per loro vantaggioso. Tra i cattolici prevalevano al momento le nuove organizzazioni integraliste, il papa seguiva da protagonista l’avvento di Solidarnosc nella sua Polonia e il collasso dei paesi dell’Est. I cattolici del dissenso vicini al Pci avevano compiuto la loro scelta già anni prima: si sentivano più utili come indipendenti che potevano agire su nuovi movimenti attivi nell’azione sociale. Il bravo Petruccioli tornava quindi dalle sue spedizioni con il carniere semivuoto e questo provocava un’incrinatura mai sanata nella maggioranza. Una parte, i miglioristi, era convinta che non si sarebbe tratto un ragno dal buco se non cambiando giudizio e comportamenti rispetto al Psi. Ma Occhetto non ne era persuaso perché sapeva che questo era un nervo scoperto nella sua base e poteva allargare il dissenso. Appunto ciò che Craxi aspettava prima di sbilanciarsi. Anche il «fronte del no» non stava però troppo bene o almeno aveva molte cose da chiarirsi per assumere una fisionomia più precisa e decidere il da farsi. Nel mese di giugno tenne un’assemblea per discuterne. E lì cominciarono a manifestarsi i sintomi di un’incrinatura. Ingrao e Bertinotti avanzarono all’improvviso la proposta di accantonare, per il prossimo congresso, la questione del nome per concentrare l’attenzione sul tema del programma e della linea politica. Santostasi, che era il coordinatore e il relatore, e io con lui, non condividevamo tale proposta. Non solo e non tanto per il suo valore simbolico, né solo perché il nome era parte integrante di una svolta politica e culturale avviata già un anno prima; ma perché archiviare o ribadire la parola comunista era un problema aperto, richiedeva anche a noi uno sforzo per darle un significato più ricco e ripensare criticamente il passato. Non doveva essere accantonata, ma
discussa. Santostasi pose la scelta al voto con una secca mozione e la proposta fu respinta a larga maggioranza. Ma dietro di essa già affiorava un problema più scottante, sul quale quasi tutti erano incerti: cosa avremmo fatto, dopo il nuovo congresso, e cosa avremmo potuto minacciare per influire sul suo esito? Tutto questo aprì la strada a qualche tentativo, timido e riservato, tra maggioranza e opposizione, alla ricerca di qualche compromesso. Uno spiraglio esisteva, proposto in un articolo da Michelangelo Notarianni: si poteva pensare a una soluzione federativa, nella quale una minoranza comunista fosse riconosciuta, alla condizione, però, che si trovasse una base comune sulla linea politica più ravvicinata. Sull’idea dell’organizzazione federata, la maggioranza non mostrò alcuna disponibilità e non si concluse nulla. Anche perché, nel frattempo, intervenne, in agosto, la questione del Kuwait e della partecipazione italiana alla guerra che doveva risolverla: per la prima volta un buon numero di parlamentari del Pci ruppe la disciplina di partito in aula. A questo punto diventava ancora più necessario per il «fronte del no» elaborare una piattaforma più approfondita, prima di precipitare nelle scelte organizzative. E fu deciso per l’autunno un ampio e prolungato seminario per produrla e assumerla. L’incarico di stendere un testo fu affidato a me e mi impegnò per tutta l’estate. Lo portai a termine in modo collettivo e con numerose consultazioni. Il seminario si svolse ad Arco di Trento, a fine settembre, con una partecipazione numerosa come non mai e un metodo inusuale e interessante. Poiché il testo era molto ampio, ambizioso e concertato, non ci fu una relazione introduttiva e personale per illustrarlo. Fu consegnato la prima sera ai partecipanti e si lasciò loro anche l’intera mattinata per leggere e riflettere. Il risultato sembrò incoraggiante, l’apprezzamento fu generale, nel dibattito non ci furono dissensi, e poiché il testo non era insignificante, né ripetitivo, il consenso non rappresentava una mediazione al ribasso. A un certo punto di quel seminario però scoppiò un fulmine che fece saltare tutto. Il fulmine evidentemente covava da tempo e, come si fa per gli uragani, si può dargli un nome: il nome è «comunque». Salì in tribuna Armando Cossutta che parlò bene della piattaforma proposta, ma «comunque», se il partito cambiava il proprio nome, lui e altri ne avrebbero fatto un altro, comunista. Poco dopo intervenne Ingrao che pure avendo fino a sera approvato il testo, comunicò che «comunque» egli avrebbe partecipato alla costituente proposta da Occhetto. Con quei
due «comunque» ogni potere di contrattazione, ammesso che fosse possibile, veniva meno. L’esito del XX congresso, a Rimini, era gi scontato: una messa cantata alla quale sarebbe seguita una scissione e che non merita neppure una cronaca. 21.4 Le tre scissioni Separazioni e scissioni hanno punteggiato l’intera storia del movimento operaio, in quasi ogni paese e in molte epoche: tra socialisti e comunisti, ma anche all’interno di entrambi. In ogni caso le scissioni sono costate un prezzo pesante. Gramsci, che ne era uno dei promotori, disse di quella del 1921: è stata necessaria, ma anche una sciagura. Ciò non vuol dire che tutte abbiano portato un eguale disastro, o siano nel tempo state egualmente sterili o irreversibili. E neppure che tutte siano state il semplice riflesso di un grande conflitto ideologico e politico. In buona parte le loro conseguenze erano più o meno pesanti, più o meno definitive, anche in rapporto al contesto in cui si collocavano, a chi e perché le produceva, al progetto che le animava. Quella del 1991, che colpiva il Pci, fu una delle peggiori. Bertinotti, molto più tardi, ne offrì una fotografia seducente ma ingannevole, con una semplice frase: «I passeri con i passeri, i merli con i merli». Se dalla scissione, infatti, fossero via via emersi da un lato un forte partito riformista legato alla migliore tradizione socialdemocratica e, dall’altro lato, un partito comunista realmente rifondato, la frase di Bertinotti sarebbe stata appropriata. Purtroppo però non era questo che stava avvenendo, tanto meno quello che sarebbe avvenuto. In realtà le rotture furono due, anzi tre. La prima, più importante e più ovvia, era la nascita immediata di due nuovi partiti a contendersi l’eredità. Quello ideato da Occhetto, che si chiamava Partito democratico della sinistra, con il simbolo della Quercia; e quello promosso da Garavini, Cossutta, Libertini, Serri e Salvato che, dopo molto discutere, prese il nome di Rifondazione comunista. Una seconda frattura era meno importante e visibile, ma invece aveva effetti indiretti rilevanti. Parlo della frattura fra quasi tutti i dirigenti nazionali e locali, che avevano condotto la battaglia del no (e invece aderirono al Pds, e ci rimasero per molti anni generalmente insoddisfatti e silenziosi), e la loro base che prevalentemente si diresse invece verso Rifondazione. Anche per questo Occhetto, ma non
solo lui, si convinse che la scissione sarebbe fallita o si potesse rapidamente riassorbirla. I nuovi soci però al Pds non arrivavano ancora e non arrivarono neppure quando, poco dopo, il vento di Tangentopoli cominciava a smantellare il Psi e la Dc (mentre Rifondazione raccolse in pochi mesi 119mila militanti), cosicché l’esordio del nuovo «grande partito» nel 1992 raccolse il 16% dei voti alle elezioni politiche, e si trovò più che dimezzato nei suoi iscritti. Questa seconda frattura pesò anche su Rifondazione, non in termini quantitativi ma nel suo progetto politico. Le adesioni infatti che raccoglieva provenivano dalla base popolare militante, formatasi in compiti operativi o in vertenze sindacali, legata da un senso di appartenenza, molto entusiasta, ma non abituata alla riflessione politica e giustamente arrabbiata con il «nuovismo» e i suoi risultati. Per farne un partito, anzi per rifondarlo – Togliatti lo sapeva – occorrevano organizzazione, pensieri chiari, lotte dure ma poca demagogia; soprattutto un gruppo dirigente capace di pedagogia e ricco di idee e di prestigio, unito dall’esperienza e solidale. In mancanza di questo un popolo staccato all’improvviso da un partito di massa, che si sentiva tradito, poteva facilmente cadere nel massimalismo o irrigidirsi in un culto acritico del passato. Una terza scissione era ancor meno visibile ma a mio parere forse la più grave; perché colpiva non solo il Pci ma la democrazia italiana. La democrazia italiana era nata già gracile in origine per i ritardi e il carattere elitario del Risorgimento, poi frenata dal non expedit vaticano e dall’analfabetismo, infine irreggimentata e compromessa dal fascismo, che era a sua volta, non dimentichiamolo, un regime reazionario di massa. Il Pci aveva dato un contributo essenziale alla rinascita democratica e al suo compimento. Anche per il fatto in sé di esistere come partito di massa, cioè radunando milioni di uomini, educandoli e coinvolgendoli in una partecipazione politica attiva, cementandoli con una cultura comune che dava la fiducia di poter cambiare il mondo con l’azione collettiva. La maggioranza di loro apparteneva alle classi subalterne che, sempre e ovunque, sono le più lontane e diffidenti rispetto alle istituzioni, ancor più lontane dai problemi internazionali. Un partito di questo carattere e queste dimensioni (con il supporto di molteplici organizzazioni collaterali) era unico in Europa. Nel corso dei decenni, però, quei caratteri erano molto impalliditi: nel bene (per esempio l’allentarsi del dogmatismo ideologico e
della struttura gerarchica) ma ancor più nel male (la separazione tra dirigenti e lavoratori, il professionismo politico, la scarsità di giovani, l’assimilazione della cultura corrente). Alla fine degli anni ottanta il partito di massa era quindi ormai un’altra cosa. Resta però il fatto che il Pci non solo conservava il 28% dei voti, ma aveva 1400000 iscritti, in parte ancora attivi e politicizzati, il 40% dei quali era iscritto da oltre vent’anni, proveniva dal mondo proletario, e custodiva una memoria. Era quello che anche Occhetto chiamava lo «zoccolo duro», una risorsa e un vincolo. Che occorresse un rinnovamento del partito più che ogni altra cosa era evidente, ma lo era anche il fatto che uno strappo improvviso, anche simbolico, dell’identità, se non provocava ribellione per abitudine alla disciplina, avrebbe prodotto un esodo. E l’esodo ci fu, colossale: complessivamente, se si guardano le cose da vicino e non ci si basa solo su comunicazioni ufficiali, circa 800mila persone si allontanarono dalla politica attiva. E poiché non è vero che le classi subalterne restano per natura legate alla sinistra – mentre è vero invece che se non le convince e orienta un’organizzazione, le orienta la televisione – l’esodo, di tale ampiezza e di queste classi è peggiore della scissione e apre un varco alla demagogia populista. A questo punto posso ben dire che il mio lavoro è terminato, essendo venuto meno l’oggetto principale. Posso anche dire che era utile farlo. Ho restaurato la memoria sul comunismo del Novecento, e del Pci in particolare, colmando delle lacune, confutando le manipolazioni. Forse posso anche pensare di aver fornito argomenti seri per dimostrare che il comunismo novecentesco non è stata una sciagura né ha lasciato solo un mucchio di ceneri. Non ho nascosto, né mi sono nascosto nulla di quanto sapevo o che ho pensato. Questo principale obiettivo è stato raggiunto. Un altro obiettivo però – direi meglio, una speranza – l’ho mancato. Speravo di trovare nella concreta esplorazione di un lontano passato, qualche forte appiglio per capire meglio e dare significati più vasti alla parola «comunismo». Di tali appigli non ne ho trovati a sufficienza, né sul piano del pensiero né su quello dell’esperienza. Marx, al riguardo, era stato molto cauto. Quando gli si chiedevano i tratti di una società comunista si concedeva solo qualche accenno. Gramsci vi aveva aggiunto il tema del «nuovo tipo umano». Togliatti aveva detto che il pensiero di Gramsci permette di «andare oltre» la democrazia progressiva. Il movimento del Sessantotto aveva espresso la stessa esigenza ma spesso nella pratica contraddicendola. I grandi partiti del movimento operaio (comunisti come
socialdemocratici) l’avevano in sostanza accantonata: la parola comunista, come quella socialista, riferite a un traguardo finale, erano usate come equivalenti: indicavano entrambe, in modo diverso, una lunga transizione senza troppo occuparsi verso dove. Questo era comprensibile perché i tempi non erano maturi: lo sviluppo economico, la lotta di classe, l’istruzione di massa avrebbero di per sé definito l’obiettivo e permesso di raggiungerlo. Ormai però era passato più di un secolo: economia opulenta, istruzione, governo dello Stato non producevano affatto una nuova civiltà, tanto meno un «rovesciamento della storia» o un «nuovo e superiore tipo umano». Era giunto quindi il momento di chiarire che cosa significava dire comunismo, in opposizione al capitalismo dei nostri tempi, e di precisare le finalità e le forze capaci di affermarlo; oppure adeguarsi al corso delle cose. La debolezza della sinistra di ogni paese e di ogni scuola era questa, quasi incolmabile. Poteva cercare di colmarla, in tempi lunghi, solo l’Occidente avanzato. Altri paesi avevano ancora altri temi di cui occuparsi e se ne occuparono bene (Cina) o crollarono (Urss). Ma ancora una volta la sinistra europea disertò la prova. E la disertò sciogliendosi o arrendendosi. Lo stesso fece il Pci, che aveva resistito nella sua diversità e, disertando, pagò il prezzo più alto trovandosi di fronte, inatteso, il fenomeno Berlusconi (come a suo tempo la relativa arretratezza dell’Italia aveva prodotto per prima il fascismo). Da quanto più in alto (e più inconsapevolmente) si cade, tanto più ci si fa male. Non posso esorcizzare questa delusione, poiché la storia reale deve essere riconosciuta per ciò che è stata. Ma, in questo caso, consente di essere affiancata, per concludere, da un tentativo di «storia controfattuale». La storia controfattuale non è un’elucubrazione costruita in tempi e in base a esperienze successive. Deve essere applicata alla situazione cui si dedica, sulla base di idee già allora presenti, tanto da poter ipotizzare una possibilità che non si è realizzata ma poteva realizzarsi. È legittimo in questa chiave tornare a chiedersi: esisteva qualche possibilità che, ancora negli anni ottanta, il Pci non finisse in un collasso? Aveva ancora un patrimonio culturale non utilizzato, ma ormai utilizzabile, cui ricorrere (mi riferisco in questo caso al «genoma Gramsci»)? Ed erano mature contraddizioni o forze nella realtà su cui far leva per avviare una rifondazione comunista anziché una liquidazione (mi riferisco alla globalizzazione neoliberista già in atto)? A me pare di sì. E per non sembrare un matto o un visionario ricorro a un piccolo espediente.
Pubblico, come appendice di questo libro, larga parte di un testo scritto nel 1987 senza apportarvi correzione alcuna. È un testo non personale, ma già destinato a essere la base di una mozione collettiva da presentare al XVIII congresso del Pci, in alternativa a quella di Occhetto. Due anni dopo fu riassunto e integrato nella piattaforma discussa e accettata da tutta l’Assemblea del fronte del no, che rappresentava un terzo del Pci. Poi venne di nuovo chiuso in un cassetto. Doveva essere un buon cassetto, perché vent’anni dopo, almeno a me, non sembra tanto invecchiato.
Appendice
Una nuova identità comunista (1987)
La crisi e la ristrutturazione che abbiamo vissuto e stiamo vivendo non è certo la prima nella storia del moderno capitalismo; altre, non meno innovative e ancor più drammatiche hanno segnato il suo sviluppo. Da ciascuna di esse il capitalismo è uscito profondamente trasformato e spesso ne ha tratto slancio per una nuova espansione o nuove forme di dominio. In ciascuna di esse, reciprocamente, il movimento operaio e le forze progressiste hanno subìto in questo o quel paese colpi tremendi e sono state ovunque costrette a rivedere profondamente le loro precedenti teorie, le loro piattaforme programmatiche, le loro forme organizzative. Ma sempre, nel passato, alle crisi e alle modificazioni del sistema è corrisposto, sia pure in modo diseguale ed entro un certo tempo, un consolidamento e uno sviluppo generale del movimento operaio e della sinistra, in termini di forza organizzata, di spazi di potere, di egemonia culturale. Questo avvenne alla fine del secolo scorso, dopo la Prima guerra mondiale, negli anni trenta. Per esempio la fase più buia degli anni trenta fu anche quella della grande mobilitazione intorno all’Urss, e delle grandi lotte di massa dei fronti popolari, e anche la stagione di un nuovo pensiero borghese progressista (Roosevelt, Keynes); senza parlare della grande ondata che ne seguì. Nel nostro caso non è, o pare non essere, più così. Una crisi economica e un’instabilità politica del sistema che durano ormai da anni si sono accompagnate a un declino delle forze politiche e culturali che in vario modo gli si opponevano e avrebbero dovuto approfittarne. Dire che ciò si deve al fatto di essersi trovati impreparati a capirne il senso e a rispondervi è vero ma non basta: non solo anche questo va spiegato, ma va soprattutto spiegato come e perché all’iniziale sconcerto non sia ancora seguita una ripresa di iniziativa e di pensiero. Una spiegazione plausibile, e del resto riconosciuta, è questa. L’aspetto forse più nuovo della grande trasformazione che stiamo vivendo, e certo il più importante rispetto al tema che stiamo discutendo, sta in qualcosa che va oltre la crisi e la ristrutturazione capitalistica, e le dà un carattere
qualitativamente nuovo: e cioè in quello che correntemente viene chiamato «passaggio epocale dalla società industriale alla società postindustriale». Ovviamente tale affermazione va presa con molta cautela e con molte qualificazioni, evitando di considerare del tutto nuovo ciò che matura da tempo, o di scambiare per generale e compiuto ciò che tuttora è solo una tendenza. È per esempio evidente che gran parte dei fenomeni che definiamo «postindustriali» sono gradualmente cresciuti già all’interno della fase storica precedente dominata ancora dal modello fordista dell’industrializzazione di massa. Può servire ricordarlo perché allora si poté concretamente verificare che essi potevano e possono avere una espressione «di sinistra» se e quando trovano referenti culturali, sociali, politici che lo permettano. Ancor più evidente è il fatto che in molte regioni del mondo proprio ora stanno decollando processi di industrializzazione o ci si sforza di rimuovere gli ostacoli che la frenano; e che negli stessi paesi avanzati dell’Occidente l’industria non solo continua a occupare in forme tradizionali buona parte del lavoro sociale, ma tuttora nell’industria si applicano con maggiore successo le innovazioni, si realizzano i maggiori incrementi di produttività, si organizzano le maggiori concentrazioni di potere, e qui resta dunque il centro che trascina e dirige l’insieme. Anche questo è utile notarlo per non perdere di vista una parte importante della realtà e delle sue contraddizioni. Anzi, come poi diremo, l’elemento decisivo per capire il mondo, e intervenirvi, è forse, ancora una volta, la compresenza strutturata di questa molteplicità di livelli e di forme di produzione, questo «sviluppo ineguale» e la dialettica che ne consegue. Tuttavia è un fatto che: 1) il peso della produzione industriale tende ormai, almeno in Occidente, a declinare, in termini di occupazione e di valore, rispetto alla produzione di servizi non destinabili alla vendita o di beni immateriali; 2) che nella stessa produzione industriale la produttività dipende sempre meno dal lavoro generico direttamente impiegato o dalla massa fisica di capitale investito, e sempre più dal livello delle competenze, dall’organizzazione del consumo, da ciò insomma che avviene fuori dai suoi recinti; 3) che questi fenomeni incidono in forme meno esplicite e dirette, ma altrettanto e ancor più coercitive del passato, sulle società arretrate, proponendo o imponendo un modello tecnologico e di consumo per loro difficilmente adottabile, e una divisione internazionale del lavoro in cui non possono integrarsi utilmente o addirittura che le disgrega.
La ristrutturazione capitalistica degli ultimi anni ha enormemente accelerato questi processi di lungo periodo. Ha accelerato infatti l’impiego di nuove tecnologie (spesso da tempo disponibili) prevalentemente per il risparmio di lavoro e dunque con il restringimento delle basi industriali; ha accelerato l’espansione dei servizi e la produzione di beni immateriali; ha condizionato la nuova industrializzazione dei paesi emergenti con la sostituzione di materie prime naturali, con la trasformazione intensiva e il recupero dei settori industriali e maturi, o con lo spostamento delle risorse di capitali nuovamente entro il circuito della metropoli per permetterle di vivere «al di sopra delle proprie possibilità». In questo senso, e per questo, si può dire che il «passaggio al postindustriale» costituisce già l’orizzonte entro il quale occorre misurarsi. Ciò che domina la scena è un capitalismo che cerca di sopravvivere alle ragioni storiche da cui è nato, di guidare con i suoi valori e le sue regole un’epoca successiva. Ciò pone al marxismo teorico, in tutte le sue varianti, e al movimento operaio, in tutte le sue componenti, problemi radicalmente nuovi e inquietanti proprio rispetto alla prospettiva di fondo, alle finalità in base alle quali sono nati. Per un verso, infatti, sembra offrire rinnovate e inattese giustificazioni storiche al sistema capitalistico: perché il mercato assicura flessibilità, rapidità, decentramento delle decisioni così come sono richiesti dall’incessante trasformazione delle tecnologie, dei moduli organizzativi, della domanda di consumo; perché la funzione imprenditoriale può di nuovo estendersi a un gran numero di soggetti sia pure integrati e diretti dalle scelte dei grandi gruppi; perché infine la concorrenza accesa tra gli individui stimola la formazione sempre più necessaria di competenze, e un forte impegno lavorativo anche là dove l’organizzazione tayloristica di lavoro non può imporlo. Per altro verso, sembra rendere sempre più obsoleta la polarizzazione della società in due classi rese contrapposte dalla proprietà dei mezzi di produzione e dalla lotta per la divisione del pluslavoro: perché articola e frammenta le figure interne al lavoro salariato, estende il lavoro autonomo o semiautonomo o precario, fa emergere soggetti e contraddizioni esterni al mondo produttivo. Da qui ha tratto forza l’offensiva culturale di cui il neoliberismo è solo la componente più esplicita, ed è nata quella che viene presentata, e in parte è, una crisi del marxismo. L’idea stessa di rivoluzione socialista e di società comunista, in tutte le sue
forme possibili – si dice – non ha più fondamento perché il capitalismo appare meglio in grado di assicurare uno sviluppo proprio grazie ai, e non a dispetto dei, suoi elementi portanti (mercato, profitto, individualismo), grazie cioè a quei suoi «spiriti animali» che rappresentano più che mai il motore del progresso, gli offrono la necessaria «base materiale». E d’altra parte, se mai in futuro non fosse più così – si aggiunge – un mutamento di sistema non avrebbe comunque più alcuna parentela con l’apparato concettuale del marxismo, tutto interno all’orizzonte della società industriale. Sono convinzioni ormai largamente diffuse anche nei grandi partiti della sinistra che appunto considerano necessario governare, impossibile modificare in radice, in questa fase storica ma forse per sempre, la formazione economico-sociale capitalistica. Ma sono convinzioni diffuse anche nei nuovi movimenti (pacifisti, ambientalisti, femministi) che contestano radicalmente la società presente ma spesso considerano marginale o fuorviante definirla o modificarla in quanto capitalistica, e per principio si collocano al di qua o al di là del problema. Si può obiettare (anzi è decisivo obiettare, proprio per non dissipare un patrimonio storico e teorico prezioso) che l’ipotesi di questo passaggio storico era non solo ben presente in Marx ma era fondativa della sua idea di società comunista. Egli è stato forse il solo pensatore che abbia colto con tanto anticipo il nesso storico capitalismo-industrialismo e abbia legato il superamento dell’uno al superamento dell’altro. «Lo sfruttamento del lavoro vivo diverrà una ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza», la «produzione per la produzione» perderà ogni senso quando la misura del progresso sarà anzitutto «l’arricchimento dei bisogni propriamente umani e in particolare il bisogno generalizzato di una attività non alienata». Questa e solo questa previsione gli permetteva di vedere nel capitalismo la necessaria premessa del comunismo (contro ogni concezione «primitiva»), e insieme di concepire il comunismo come rovesciamento e non come sviluppo della storia precedente, regno della libertà opposto a quello della necessità, «critica dell’economia politica». E questa era la base materiale necessaria a dare carattere di progetto razionale e non di vuota utopia alle idee tanto radicali della sua concezione del comunismo: superamento dei rapporti mercantili, del lavoro alienato o della divisione sociale del lavoro, della democrazia delegata. Il fatto che la storia dell’uomo stia superando la
soglia dei bisogni elementari, che le tecnologie consentano una riduzione del lavoro necessario, che il livello di istruzione e la velocità delle informazioni consentano una diffusione del potere e un decentramento delle decisioni, che la quantità non sia più il solo né il prevalente criterio di misura del progresso, dovrebbe oggi rendere per la prima volta storicamente maturo un discorso sul comunismo nel suo originario e più ricco significato liberatore. Tutto ciò è vero, lo andiamo sostenendo dal 1968 e siamo tuttora convinti che proprio qui vada ricercata anzitutto la possibilità attuale di una identità comunista come recupero e insieme come innovazione profonda. Ma l’esperienza, proprio del Sessantotto e del suo riflusso pratico e teorico, ci ha ormai insegnato che le cose sono meno evidenti e molto più complesse. Anzitutto anche questo riferimento a Marx è troppo semplificato e come tutti i «ritorni alle origini», a «qualcosa che c’era e che non è stato compreso o è stato tradito», è arbitrario. Non è irrilevante né casuale il fatto che Marx stesso non abbia voluto, né potuto elaborare una teoria della rivoluzione che integrasse quegli aspetti più radicali della prospettiva di liberazione che pure oggi ci paiono più attuali. La sua teoria della rivoluzione non uscì mai dallo schema proposto nel Manifesto del 1848: non solo la tematica dei manoscritti, ma anche le più fondate riflessioni dei Gründrisse o sul programma di Gotha non servirono mai a fondare una vera teoria della transizione. La rottura rivoluzionaria doveva aprire la strada a un mutamento radicale di orizzonte storico, ma doveva avvenire prima che esso maturasse, in forza di contraddizioni e di soggetti ancora del tutto interni alla fase dell’industrialismo: l’incapacità del sistema di garantire lo sviluppo permanente delle forze produttive, la conquista del potere da parte di un proletariato reso sempre più esteso e unificato dalla produzione industriale. Il resto veniva da sé, o comunque non poteva essere tematizzato senza fare i «pasticcieri dell’avvenire». Questo schema non fu mai criticato o ripensato nella teoria e nella storia concreta del movimento operaio. Anche chi, come Lenin, concentrò tutta la sua riflessione teorica sull’intreccio tra modernità e arretratezza, sulla necessità di alleanze sociali, sui limiti della coscienza operaia spontanea, e a volte tentò di cimentarsi con i temi più radicali del pensiero di Marx (Stato e rivoluzione) non ruppe mai quell’orizzonte: la coscienza spontanea andava superata con uno strumento esterno e puramente soggettivo (il partito), le alleanze invece si costruivano fondamentalmente sul «completamento della rivoluzione borghese», «l’estinzione dello
Stato» si affidava a una idea salvifica dello sviluppo tecnologico. Ma soprattutto la storia concreta legò ancora di più movimento operaio e industrialismo. Le rivoluzioni di questo secolo sono avvenute in aree del mondo ancora alle soglie dello sviluppo industriale, e mentre il movimento operaio occidentale ha potuto e dovuto mettere radici stimolando lo sviluppo capitalistico e ridistribuendone il prodotto con gli strumenti della lotta sindacale e della democrazia politica. Tutto ciò ha accentuato nel «marxismo reale» una visione economicista del progresso, e una enfatizzazione del ruolo dello Stato come unica alternativa possibile al dominio del mercato. Una società postindustriale, le sue nuove contraddizioni costituiscono già per questo una inquietante novità rispetto a una tradizione consolidata attraverso decenni. Che utilità, che possibilità dunque può avere l’insistere su un’identità comunista se si tratta di cose così diverse? Ma c’è di più. L’elemento fondante del marxismo non è solo il fatto di essere una critica della società capitalistica e l’affermazione di una società diversa come astrattamente possibile, ma di presentarsi come «movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti». La sua coerenza teorica, la sua efficacia pratica dipendevano e dipendono dalla possibilità di dimostrare: a) che la dialettica reale della società capitalistica produce contraddizioni materiali che portano alla sua dissoluzione; b) che queste contraddizioni materiali si esprimono nella lotta di classi sociali che per liberarsi da un’oppressione debbono sovvertire l’ordine esistente e che hanno in sé però la reale capacità di costruirne uno diverso; c) che infine e per tutto ciò è necessaria una rottura, più o meno violenta, più o meno graduale, dei meccanismi del sistema e la messa in opera di meccanismi diversi, un potere politico e di classe diverso, di transizione appunto, senza i quali un altro sistema non sarà mai «maturo». Se tutto ciò non era vero, o non fosse più vero, parlare di marxismo, di comunismo, non avrebbe senso. Il ruolo centrale che il marxismo affidava alle contraddizioni interne allo sviluppo industriale non era dunque legato solo alla contingenza storica, ma al suo statuto teorico: era lo sviluppo industriale del capitalismo a produrre un soggetto sociale, il proletariato, che nella duplice e contraddittoria figura (un massimo di espropriazione, e un massimo di legame con la produzione moderna) ha insieme un bisogno radicale di liberarsi, ma anche una capacità di liberarsi, e liberare con sé l’insieme degli uomini. Certo restava oscuro, sul piano teorico, come questo salto dialettico potesse compiersi, in base a quali forze materiali il
proletariato potesse uscire da questa dicotomia che portava in sé, tra la pura negatività della totale alienazione e la «cattiva positività» di un progresso tecnico governato da altri (forse solo Gramsci affrontò sul serio questo tema appunto allargando la sua attenzione al rapporto tra proletariato e «forme che precedono», tra base produttiva e sovrastruttura, tra rivoluzione politica e riforma culturale). Si poteva nutrire dei dubbi, sul piano storico, sul carattere realmente socialista della società e del potere sovietico, o rispettivamente sul carattere effettivamente alternativo delle esperienze socialdemocratiche. Ma era comunque nell’insieme evidente al senso comune che era in atto un processo storico nel corso del quale la classe operaia non solo materialmente cresceva, ma affermava gradualmente un ruolo politico e culturale di classe dirigente, era il motore di grandi processi di sviluppo economico e democratico. Cosa rimane allora di questa identità forte del marxismo e della sinistra in generale nel momento in cui l’industrialismo declina senza che si sia determinata una rottura rivoluzionaria nelle società più avanzate, e senza che le rivoluzioni compiute in quelle arretrate abbiano prodotto un solido punto di riferimento e un modello credibile di società alternativa e anzi sono esse stesse messe in difficoltà dalla pressione concorrenziale del capitalismo moderno? La crisi della società continua a esprimersi in contraddizioni materiali dirompenti o produce solo un disagio, una infelicità atomizzata? E queste contraddizioni materiali sono o no riconducibili in ultima analisi al rapporto di produzione e si polarizzano in forze sociali oppresse ma insieme capaci di diventare dirigenti, oppure le diverse prospettive dipendono da una pluralità non gerarchizzabile di contraddizioni e tornano a misurarsi entro il circuito delle élite come loro «coscienza infelice» e loro opzioni possibili? E queste forze sociali sono unificabili in un progetto comune, il sistema produce o no il suo becchino nella forma di un antagonismo di classe? Infine, e forse soprattutto, continua a essere necessaria una rottura di sistema, cioè un potere economico e politico diverso, oppure è ormai possibile realizzare la graduale affermazione di un diverso assetto sociale nelle maglie del vecchio senza rovesciarne il potere, utilizzandone e orientandone la forza propulsiva? Su questi interrogativi si colloca il nuovo e più problematico discrimine tra identità comunista e, da un lato utopismo radicale, dall’altro liberaldemocrazia.
Nessuno è in grado di rispondere oggi a tutti questi interrogativi in modo teoricamente rigoroso ed empiricamente fondato; e soprattutto rispondere a ciascuno di essi in modo egualmente convincente. Ma qualche risposta comunque è possibile intravederla. Proviamo a fare qualche esempio, senza alcuna pretesa di compiutezza e sistematicità, riferendoci alle «grandi questioni della nostra epoca», in particolare a quelle più nuove e apparentemente più lontane dal tradizionale conflitto di classe, considerandole però nelle loro manifestazioni più prosaiche, empiricamente avvertibili, così come si presentano e operano già oggi. Sviluppo e natura Nessuno nega ormai che la minaccia del disastro ambientale costituisce un problema dirompente della nostra epoca, una contraddizione già materialmente vissuta e insieme un elemento dell’immaginario collettivo. È una novità non da poco che costringe grandi masse e non solo inquiete avanguardie a riconsiderare globalmente il senso dello sviluppo e a valutarlo con altri parametri. La produzione umana, e l’espansione demografica, si è sempre fondata sul presupposto non espresso che la natura fosse una risorsa pressoché inesauribile da usare, e nel contempo una realtà non intaccabile dalle conseguenze del processo produttivo impiegato per renderla usabile. Tale convinzione non è venuta meno, anzi è diventata ancor più assoluta quando, negli ultimi secoli, l’impiego della scienza e della tecnica ha impresso alla crescita della produzione, del consumo, della popolazione un ritmo esponenziale. Proprio il mito della scienza e della tecnica alimentava la fiducia nella loro illimitata capacità di riassorbire i disastri che essa stessa produceva. E non era solo un mito: perché anche dal punto di vista ambientale, il saldo tra ciò che sviluppo economico e demografico garantiva (igiene, salute, protezione dalle catastrofi) e i prezzi che comportava era largamente e indiscutibilmente positivo. Ora sappiamo tutti che comincia a non essere più così: che molte risorse naturali si esauriscono prima e più di quanto si possa farne a meno; che la produzione ha effetti rapidamente crescenti di distruzione dell’ambiente naturale; che tutto ciò già determina un peggioramento non solo rispetto ai bisogni umani nuovi e qualitativi ma anche rispetto ai bisogni più elementari di salute e di vita; e che se questo tipo di sviluppo quantitativo e febbrile dovesse continuare prepara in tempi relativamente brevi una vera catastrofe.
Già meno chiara forse è la consapevolezza di due altri fatti altrettanto evidenti. Da un lato il fatto che il disastro ambientale non riguarda solo le zone del mondo a sviluppo intensivo, ma si riflette, e anzi si accentua, nelle zone arretrate del mondo come effetto congiunto della pressione demografica e della disgregazione del vecchio tessuto economico fondato sull’autoconsumo: è insomma figlia dello sviluppo e del sottosviluppo insieme. Dall’altro lato, il fatto che la questione ambientale non tocca ormai solamente l’ambiente naturale esterno all’uomo ma anche il suo ambiente sociale (è cioè connesso al suo stile di vita e non solo al ritmo dello sviluppo produttivo) e addirittura l’uomo stesso come specie biologica (sia per gli effetti diretti della produzione sulla salute fisica e psichica sia per le possibilità nuove e inquietanti offerte dalla manipolazione genetica ed etica). Proprio questi due fatti rendono contraddittoria e fragile in radice ogni posizione fondamentalista, ogni critica romantica dello sviluppo e obbligano a stabilire una connessione tra questione ambientale e critica sociale, a porsi il problema di una diversa qualità dello sviluppo. Non basterebbe bloccare infatti la crescita quantitativa per arginare il disastro ambientale nel terzo mondo senza ricorrere a feroci misure malthusiane, ed è del tutto illusorio ottenere da quei paesi politiche ambientali semplicemente negando loro la possibilità di una pur costosa modernità. E non si può arginare la minaccia di un uso disumano e repressivo dell’ingegneria genetica in nome di una conservazione dell’umano naturale, perché l’indebolimento della selezione naturale che deriva dalla capacità di far sopravvivere i più deboli obbligherà a trovare strumenti nuovi per evitare una decadenza biologica. È tuttavia significativo che un alto grado di consapevolezza sulla dimensione e la portata di questi problemi si traduca molto poco, e spesso per niente, nei comportamenti individuali e collettivi, entri solo episodicamente nell’orizzonte delle scelte e dei programmi. Ma è proprio qui che entra in gioco la «questione capitalismo» come sistema economico, e anche come forma politica. Il capitalismo, per sua natura, è un sistema fondato su alcuni meccanismi fondamentali che costituiscono la sua legittimità storica e che hanno garantito il suo straordinario dinamismo: il mercato come criterio di orientamento, l’impresa come soggetto delle decisioni, il profitto come motivazione e come verifica dei risultati. Il capitalista oggi si chiama «imprenditore», non è solo un organizzatore della produzione, adotta certe
innovazioni, rispettando quei meccanismi, quegli stimoli, quelle regole. Ma tutto ciò, oltre ad altre implicazioni su cui torneremo, ha un nesso stringente con la questione ambientale. Perché è questa logica di fondo – e non le degenerazioni pur rilevanti in certe epoche e in certi paesi del «capitalismo di rapina» – che obbliga a concepire la produzione essenzialmente come produzione di merci e a calcolare la produttività, soprattutto se non solo entro ristretti limiti temporali e all’interno del processo produttivo in senso stretto. Costi indiretti, o di lungo periodo, non possono entrare nel calcolo economico da parte della grande maggioranza di coloro che compiono le scelte effettive, così come un processo di sviluppo che non passi attraverso l’espansione di merci vendibili e consumabili non può essere che casuale e marginale rispetto al sistema. Si può obiettare che le nuove frontiere aperte dalla moderna tecnologia e dal livello delle conoscenze sembrano ormai consentire uno sviluppo meno vorace di risorse, o che la moltiplicazione di beni e servizi non materiali può rendere meno pesanti le ricadute ambientali dello sviluppo. Che insomma la contraddizione sviluppo/ambiente nella società postindustriale è assai meno cogente. Il che è assolutamente vero e offre la base materiale per una diversa logica dello sviluppo stesso. Ma la realtà è lì a dimostrare che non a questo spinge il sistema con le sue scelte di investimento e di localizzazione, con il suo modello di consumi, con l’ulteriore frantumazione degli innumerevoli soggetti presenti sul mercato, e la concentrazione estrema del potere di pianificazione della ricerca, delle tecnologie, delle strategie nelle mani di centri per loro natura ulteriormente separati dal destino dei territori e delle popolazioni su cui operare. E così si risparmiano a volte certe materie prime scarse e perciò ormai più costose, ma per sostituirle con prodotti artificiali il cui effetto sull’ambiente o la salute non sono meglio conosciuti né meno pericolosi; si smantellano alcuni grandi impianti nocivi e di difficile gestione nelle metropoli ma si localizzano in modo ancor più incontrollato in altre regioni, o si sostituiscono con una produzione ultradecentrata ma ancor più inquinante; si affianca al consumo di beni materiali quello di servizi e beni immateriali ma in forme non meno degradanti dell’ambiente urbano e naturale (il fast food, il traffico urbano, il turismo di massa); si limita e si regola un poco l’uso selvaggio di concimi chimici ma si moltiplicano le monoculture per esportazione o le forme forzate di allevamento e la riduzione delle specie viventi; la stessa ricerca farmaceutica e biologica appare sempre più dominata da gruppi di
interesse e indirizzi che ne rendono i risultati incerti e inquietanti; le grandi città industriali si svuotano per il decentramento ma per lasciare il vuoto dei ghetti, o il degrado di una vita caotica, o peggio ancora emerge la moderna mostruosità delle megalopoli del Terzo mondo. Una nuova spinta al consumismo nasce in parte anche da questa necessità di proteggersi e di sottrarsi, per chi lo può e individualmente, dalle conseguenze di questo impoverimento collettivo, in una spirale perversa. A tale meccanismo economico se ne somma uno politico-culturale. Per quanto la questione ambientale possa essere o diventare infatti grave, e per quanto cresca la consapevolezza di tale gravità, essa comunque si presenta, nei suoi aspetti rilevanti, come problema di lungo periodo, concerne soggetti numerosi quanto dispersi, chi ne paga le conseguenze è spesso lontano da chi genera le cause, o in un preciso territorio si presenta come insieme di bisogni contraddittori. Rispetto a tutto ciò una forma di potere politico per sua natura disadatta a pianificare, vincolata dal consumo immediato, sensibile alla pressione di gruppi sociali circoscritti ma decisi più che a un movimento di opinione largo ma fluttuante, oltre che, ovviamente, subordinata ai grandi interessi privati, è organicamente impotente, produce regolamenti che restano grida, proclama intenzioni che anche quando si attuano sono già scavalcate da fatti enormemente più forti. E gli stessi movimenti ambientalisti oscillano per questo, in ogni momento, tra il radicalismo dell’obiettivo specifico, e il trasformismo nelle collocazioni politiche, dietro un’efficace e a volte positiva cultura apocalittica si mantiene una sostanziale reticenza nel prender campo sugli assetti decisivi. Certo, come sempre, non si tratta di contraddizioni assolute. Così come è stato possibile in parte e in certi momenti governare politicamente la distribuzione del reddito o costruire lo stato sociale modificando la spinta autonoma del sistema, è forse possibile realizzare «politiche ambientali», via via che se ne impone la necessità e se ne prende coscienza, anche in questo sistema. Ma in questo caso è ancora più difficile farlo. Perché una politica ambientale non può solo o prevalentemente intervenire a valle del processo produttivo, per ridistribuire risorse che esso rende disponibili e possono essere variamente impiegate: in quel caso infatti, nella forma cioè dell’intervento vincolistico o riparatore, essa diventa, oltre che inefficace, enormemente costosa. E perché le sorti dell’ambiente dipendono appunto da scelte di lungo periodo, a produttività differita e solo globalmente misurabile.
Occorre un potere capace di intervenire a monte, nel programmare ricerca, nel determinare scelte strategiche di investimento e di localizzazione, nell’orientare la stessa divisione internazionale del lavoro; e occorre educare e organizzare una coscienza di massa capace di concepire, di vivere come propria una diversa priorità di bisogni, di incorporare una prospettiva globale e a lungo termine. La questione ambientale dunque non solo offre a un progetto comunista un nuovo terreno su cui fondare la sua critica del sistema, ma anche una spinta che lo trasforma e arricchisce qualitativamente, lo porta a superare una subalternità all’economicismo; nel contempo la questione ambientale ha bisogno di un progetto e di una forza organizzata comunista per unire soggetti e interessi contrastanti, per individuare la vera radice dei problemi, per affermare un potere capace di affrontarli nel loro insieme, infine per cambiare la testa stessa della gente. Abbondanza e povertà, bisogni e consumi La storia della società è stata finora dominata dal problema della penuria: non solo la grande maggioranza degli uomini era costretta a vivere ai limiti della sopravvivenza, ma l’appropriazione del plusprodotto da parte di élite dominanti costituiva la base materiale dell’incivilimento. Il grande merito storico del capitalismo sta proprio nella sua capacità di orientare gran parte di questo plusprodotto al fine dell’accumulazione, di accelerare dunque in modo straordinario lo sviluppo di forze produttive, di creare così le basi materiali per una più ampia e generale soddisfazione dei bisogni elementari, e di coinvolgere una parte crescente della società nel circuito dell’incivilimento (istruzione, mobilità, socializzazione del lavoro). Non per questo la storia del capitalismo è storia di diffusione del benessere. Anzi, in certe fasi (l’«accumulazione primitiva», il colonialismo, la prima rivoluzione industriale) proprio la priorità assunta dal processo di accumulazione, la necessità di creare lavoro salariato generico, ha prodotto forme di ineguaglianza e di sfruttamento ancora più generalizzate e brutali. Ma nell’ultimo secolo la convergenza di due grandi spinte (la necessità del sistema di creare sbocchi di mercato alla propria capacità produttiva, e la lotta di grandi masse rese più consapevoli e organizzate dalla produzione moderna e rese dallo Stato moderno più capaci di pensare politicamente) ha creato le condizioni per una crescita
effettiva del benessere e spesso per una maggiore eguaglianza. Il fordismo, il welfare state, la rivoluzione anticoloniale hanno rappresentato il punto più alto di questa relazione tra sviluppo, benessere, eguaglianza. Qui il movimento operaio ha trovato il terreno favorevole per le proprie lotte più efficaci, ma qui in certi momenti è sembrata venire meno la necessità di un mutamento di sistema. Cosa avviene, da questo punto di vista, del benessere, nella fase che ora si avvia della «società postindustriale»? Il primo elemento che colpisce è il riprodursi di una tendenza all’ineguaglianza e alla povertà anche dal semplice punto di vista dei bisogni elementari. Non solo sembra di nuovo crescere la distanza nelle condizioni di vita tra Nord e Sud del mondo, ma una parte notevole del Sud, presa nella tenaglia tra pressione demografica e disgregazione delle forme tradizionali di autoconsumo, precipita ulteriormente sotto il livello di sopravvivenza, entra in una spirale di degrado. Anche nelle regioni più avanzate del mondo, del resto, dopo una fase di relativo appiattimento, il ventaglio nella distribuzione del reddito torna ad allargarsi, e una fascia consistente della società viene emarginata e decade al di sotto del minimo storico vitale. Sembra la contraddizione più tradizionale fra tutte quelle possibili. Ma tradizionale non è affatto. Non lo è anzitutto perché questa ingiustizia, questa povertà non si presentano come «residuo», o come fenomeno transitorio, ma al contrario come prodotto diretto, come altra faccia della modernità e dei meccanismi che la governano (ma su questo torneremo più avanti). Non lo è, d’altra parte, perché questa nuova ingiustizia, questa nuova povertà, si traducono in processi cumulativi di emarginazione, creano un soggetto sociale sterminato e senza speranza, spingono a processi degenerativi (il fanatismo integralistico, o l’imbarbarimento di nuove masse marginali, nel Terzo mondo; i conflitti razziali, la violenza diffusa, il rifiuto politico, nella stessa metropoli) che possono aprire la strada a una spirale di repressione e di rivolta. Mettere tutto ciò ai margini, considerarlo problema secondario, pensare di affrontarlo con gli strumenti dell’assistenza o degli aiuti senza mettere in discussione qualcosa di profondo del nostro modo di vivere, di produrre, di consumare, sembra, oltre che illusorio, insensato. Ecco un «modernissimo» terreno che si offre a una ripresa del pensiero e della lotta comunista: la saldatura organica tra il movimento operaio, i nuovi soggetti che emergono dalle contraddizioni qualitative della società postindustriale, e questa grande massa emarginata e impoverita.
Ma la riflessione sul «benessere» non può fermarsi qui, e se si ferma qui quella saldatura sarebbe ben difficile. La fiducia in un rapporto lineare tra sviluppo e benessere, in una crescente diffusione del benessere, viene oggi messa in discussione anche da altri non meno importanti elementi che riguardano la qualità oltre che la quantità del consumo, la corrispondenza tra consumo e bisogni, i meccanismi stessi attraverso cui i bisogni si formano. E dunque diventa problematica anche per quei paesi, o per quei settori sociali che comunque partecipano a un processo di arricchimento o nutrono la speranza di accedervi. Presupposto fondamentale della razionalità del modo di produzione capitalistico è infatti stata l’esistenza di un sistema di bisogni autonomamente determinato, fondamento della razionalità della domanda e quindi del mercato. Tale autonomia è sempre stata parziale e problematica, non fosse altro che per il fatto che la priorità dei bisogni da soddisfare dipendeva dalla distribuzione del reddito, cioè da quali bisogni potevano tradursi in domanda effettiva. E tuttavia finché la maggioranza dei bisogni primari restava da soddisfare, lo sviluppo produttivo aveva un sicuro punto di riferimento cui commisurarsi, e le politiche di accrescimento e di redistribuzione del reddito consumabili immediatamente si traducevano in un incremento del benessere individuale e collettivo. Ormai però questo presupposto comincia a venire meno. Nel momento infatti in cui la capacità produttiva, almeno in alcune aree del mondo, travalica largamente i bisogni elementari, e l’apparato produttivo e l’organizzazione sociale diventano sempre più capaci di orientare il consumo e di formare bisogni nuovi, il benessere reale dipende dal fatto che gli individui e la società, avendo il reddito necessario, possano effettivamente riconoscere i loro bisogni e tradurli in consumo, e che gli individui e la società siano capaci di arricchire la qualità dei loro stessi bisogni. Proprio questo fatto consentirebbe un salto straordinario nell’incivilimento: l’arricchimento dei bisogni propriamente umani, della personalità, delle relazioni, da sempre connotato del privilegio signorile, potrebbe per la prima volta nella storia rappresentare l’obiettivo dell’intera società. La circolazione dell’informazione, la crescita generalizzata del livello culturale, l’affrancamento dell’individuo da secolari e statici sistemi di relazione aprirebbe la strada alla valorizzazione, anche nel consumo,
della sua libertà; potrebbe togliere al consumo stesso il suo carattere ripetitivo, predeterminato, passivo; potrebbe soprattutto sottrarre il consumo alla pura logica dell’appropriazione individuale (ciò che si sottrae agli altri) e farne la mediazione del rapporto con gli altri. Le stesse nuove tecnologie, pur ancora così segnate dalla storia passata e dal sistema attuale, sembrano offrire strumenti importanti in questo senso: perché permettono una progressiva riduzione del tempo di lavoro necessario e perché danno la possibilità di una enorme differenziazione del prodotto. La «qualità» è nell’ordine delle cose possibili dalla parte del soggetto che consuma, come dalla parte delle cose da consumare. Ma non è però questa la linea di tendenza già oggi visibile nel «capitalismo postindustriale». Tutto al contrario la tendenza è di rendere la differenziazione veicolo dell’illusione, dell’effimero, di una serialità ancor più esasperata; di accentuare ancora di più la subalternità del consumo a imperativi esteriori e mutevoli: di perpetuare modelli di consumo elitari in una ripetizione di massa squallida e d’accatto. Il primo fenomeno da considerare è infatti quello della «induzione del consumo»: una produzione che può orientare il consumo secondo le priorità che le sono più facili e più convenienti. Non è un fenomeno nuovo: era presente ai classici dell’economia e se ne discute diffusamente da tre decenni. Nuovo però è il salto compiuto dai mezzi di informazione di massa, dalla loro forza manipolatrice, dalla loro interconnessione con i grandi centri del potere economico, che rende sempre più possibile trasformare il consumo in una funzione della produzione e imporre modelli di consumo su scala mondiale dotati di una capacità impressionante di omologazione e profondamente radicati nella coscienza di massa. Nuovo è il fatto che la moltiplicazione del consumo individuale per la soddisfazione anche di bisogni elementari (la mobilità, l’alimentazione) superata una certa soglia produce nel complesso uno scadimento qualitativo nella soddisfazione di quegli stessi bisogni. Nuovo è il fatto che altri consumi ormai in parte sganciati da bisogni elementari sono molto più facilmente manipolabili. Nuovo è il fatto che alcuni bisogni, la cui priorità è indiscutibile e crescente (salute, istruzione, qualità dell’organizzazione urbana) per il fatto stesso che possono essere soddisfatti solo nella forma di una produzione e di un consumo collettivo restano marginali e compressi dal meccanismo dell’induzione. Nuovo infine è il fatto che l’intreccio tra individualismo e massificazione spinge e costringe alla ricerca di consumi «posizionali». Simboli sempre più vuoti in una ricerca
alla differenziazione che immediatamente si autovanifica. Ma non meno importante, e meno discusso, è ciò che avviene nel processo più profondo della formazione dei bisogni. L’idea di una natura, di un bisogno umano fuori dalla storia, che chiede solo i mezzi necessari per esprimere la sua ricchezza non ha alcuna base reale. Il bisogno umano, oltre la soglia della necessità, è prodotto e specchio delle relazioni sociali. Il privilegio del consumo signorile non stava solo nel fatto di poter soddisfare i propri bisogni, ma nel fatto di trovarsi spesso nella condizione di formarli in modo relativamente più creativo e significante, proprio in relazione alla funzione sociale svolta e al sistema di valori che la governavano. Ebbene una società in cui il lavoro salariato, anche quando è meno faticoso, resta in gran parte parcellizzato ed esecutivo, e in cui lo stesso lavoro direttivo e creativo ha come riferimento assolutamente dominante il reddito e il profitto; una società in cui la scuola si subordina sempre più seccamente alla formazione professionale e specialistica, e come strumento formativo viene non integrata ma soppiantata dai mezzi di informazione veloci e dal loro messaggio passivizzante; una società in cui gli intellettuali perdono autonomia e sono assorbiti nel circuito produttivo; una società, in cui vecchi schemi di relazione interpersonale si disgregano per lasciar posto all’atomizzazione individuale e anche le sfere più private della vita sono invase dalla logica del mercato, per sua natura produce un soggetto incapace di esprimere bisogni qualitativamente ricchi, oltre la sfera di una semplice moltiplicazione del consumo materiale. Anziché generalizzare la faccia positiva del consumo signorile, liberandolo dal suo limite parassitario e privilegiato, generalizza la povertà sostanziale del consumo di massa e sottrae anche al privilegio la sua qualità. Se tutto ciò è vero ne consegue che: 1) si offrono nuove e più ricche ragioni di critica alla società in cui viviamo, e basi più solide su cui costruire una società diversa facendo leva su grandi bisogni che il consumo opulento mortifica, sull’infelicità diffusa che il blocco e l’impoverimento dei bisogni alimenta, e su possibilità reali che il livello storico ormai consente; 2) che questa critica investe più direttamente e radicalmente che mai i fondamenti di un certo modo di produzione e di una certa struttura del potere, «l’alienazione del consumo» non deriva solo da meccanismi culturali o dal dominio dell’universo tecnologico, l’una e l’altro sono legati a una contraddizione di classe anche se in essa non si esauriscono; 3) che però quanto accade sul terreno del consumo ostacola e
paralizza la formazione e l’unificazione di un soggetto sociale alternativo, e dunque oggi più che mai non si esce dal circolo vizioso dell’integrazione e della rivolta, senza l’intervento di una mediazione politica forte, senza un soggetto capace di incidere sui grandi apparati che formano la coscienza individuale e collettiva, e capace di promuovere una riforma morale e culturale, una critica della vita quotidiana, un nuovo «tipo umano». Non è questa una base forte per un progetto e una identità comunista radicalmente rinnovati ma non meno antagonisti? La questione del lavoro La più grande novità che il capitalismo ha introdotto nella storia della società riguarda certamente il lavoro: da un lato la progressiva trasformazione di tutto il lavoro vivo in salariato (lavoro per la produzione di merci ed esso stesso merce), dall’altro l’incorporazione incessante del lavoro vivo in capitale, la sua incorporazione in un sistema di macchine. L’industria è stata il terreno e il veicolo più efficace di questo processo. Qui la separazione piena tra lavoro e proprietà dei mezzi di produzione, tra funzioni direttive e organizzative e lavoro esecutivo e generico, tra il lavoro e il suo prodotto, la supremazia del «lavoro morto» sul «lavoro vivo», hanno permesso i più straordinari incrementi di produttività; qui la parcellizzazione delle mansioni e l’impoverimento conseguente del contenuto professionale individuale si è tradotto in un enorme incremento della capacità sociale del lavoro; qui infine il lavoro salariato acquisiva in termini di omogeneità e di coesione un potere collettivo di contrattazione che compensava il declino del potere individuale connesso alla professionalità. Tutto ciò ha consentito non solo un miglioramento del salario reale ma anche un miglioramento delle condizioni di erogazione del lavoro: riduzione continua e generalizzata della giornata lavorativa e della fatica fisica, contrattazione dei ritmi e dell’ambiente, relativa tutela della stabilità di impiego e dell’inquadramento. Il taylorismo e la contrattazione sindacale hanno rappresentato il punto alto di tale processo nel suo duplice aspetto: sia l’estrema parcellizzazione ed estraniazione del lavoro (l’operaio massa), sia il controllo operaio sulle condizioni della sua erogazione in fabbrica e la crescita di un’identità collettiva e di un peso politico dei lavoratori organizzati. D’altra parte, anche la trasformazione del lavoro autonomo o
dell’autoconsumo in lavoro salariato e per il mercato, sia pure attraverso fasi drammatiche di sradicamento e di impoverimento, nel complesso offriva contropartite vantaggiose in termini di reddito e soprattutto di mobilità e di affrancamento dell’individuo da relazioni sociali soffocanti. Cosa succede dal punto di vista del lavoro e delle sue forme, con il graduale declino dell’industria e con il tramonto della grande fabbrica come modello organizzativo dell’industria stessa? Un’occasione storica assolutamente nuova si offre per la liberazione umana: sia come liberazione dal lavoro, sia come liberazione del lavoro. Un’ulteriore riduzione della giornata lavorativa, ancora possibile, e anzi necessaria per dar lavoro a tutti offre ormai lo spazio non solo al riposo e allo svago, ma anche all’espansione di interessi e di attività sociali oltre la figura del lavoro necessario, del «lavoro per un reddito»: anzi, senza di questo il tempo libero si distorce in un vuoto frustrante e frenetico (qui la questione del lavoro liberato, del lavoro per sé, si intreccia a quella della qualità del consumo). Diventano d’altra parte sempre più necessarie e possibili, per l’individuo e per la società, attività produttive in settori nei quali il lavoro salariato non è in grado di garantire né un controllo dell’impegno, né la partecipazione e la qualità di iniziativa necessaria: è il caso di grandi servizi collettivi (sanità, istruzione), dell’informazione e delle attività culturali, dell’organizzazione del tempo libero. Nelle stesse attività industriali l’introduzione di nuove tecnologie più complesse, la differenziazione e la flessibilità del prodotto, l’estensione delle funzioni organizzative, di progettazione, di controllo della qualità, spingono non solo al superamento delle grandi concentrazioni produttive, ma a un decentramento delle decisioni operative, richiedono non solo competenze maggiori ma un superiore grado di partecipazione e collaborazione attiva. Infine, l’elevamento medio del livello culturale, o almeno del tempo di vita destinato alla formazione, e la disponibilità generale di circuiti informativi veloci consentirebbero maggiore mobilità dei ruoli, e una socializzazione più ampia della gestione e delle strategie produttive (le stesse principali funzioni imprenditoriali sono sempre più connesse a capacità organizzative integrate e a flussi di informazioni, più che a capacità individuali di rischio e di comando). Ora, alcuni di questi processi, di valorizzazione e di ricomposizione del lavoro, sono andati e vanno effettivamente avanti per la forza stessa delle
cose anche nel contesto dell’attuale sistema sociale: crescita di una imprenditoria diffusa nei servizi e nella stessa industria come momenti decentrati di un ciclo produttivo che la grande concentrazione dirige o negli interstizi di mercato per essa non convenienti; crescita, anche all’interno della grande impresa, dello strato di lavoratori coinvolti sia pure perifericamente nel management; crescita delle mansioni e dei ruoli ad alto contenuto professionale un po’ in tutti i settori. I sorprendenti successi in termini di produttività del «modello italiano» in certi settori, e di quello (del tutto diverso) giapponese in altri, si devono appunto, per generale riconoscimento, in gran parte alla capacità sociale di promuovere e mobilitare queste nuove e diverse energie creative del lavoro. Non è questa comunque la tendenza principale. Abbiamo di fronte agli occhi infatti due fenomeni macroscopici, inquietanti e strettamente connessi. Il primo fenomeno è quello della nuova disoccupazione di massa e del precariato. L’offerta di lavoro in tutto l’Occidente cresce notevolmente, malgrado l’ormai raggiunta stabilità demografica, per spinte sociali profonde e irreversibili, connesse alla riduzione del ruolo produttivo e riproduttivo della famiglia, all’allungamento della vita, all’insopprimibile bisogno di ciascuno, e delle donne in particolare, di avere una propria base autonoma di sostentamento e un proprio autonomo terreno di socializzazione. Le occasioni di impiego invece complessivamente ristagnano o non offrono un livello di reddito o una qualità di lavoro da tutti accettabile. Una parte notevole e per ora crescente della popolazione non trova dunque lavoro stabile, e contemporaneamente una parte della domanda di lavoro non viene soddisfatta se non da immigrati. Il fatto che il problema dell’occupazione o della sottoccupazione non insorga per una brusca caduta congiunturale, ma si presenti come una tendenza cronica e graduale, che colpisce particolarmente certi soggetti (giovani, donne, anziani) i quali trovano modo di sopravvivere con la protezione del reddito familiare o nelle maglie del welfare, rende il fenomeno meno immediatamente esplosivo. Ma contemporaneamente, e nel lungo periodo, più grave: perché si traduce in una emarginazione sistematica e permanente dal normale circuito del mercato del lavoro e si riflette in spinte di disgregazione che inquinano l’insieme della vita sociale (droga, violenza diffusa, manovalanza criminale). Ora, non c’è dubbio che in buona parte tutto ciò sia legato a una specifica fase di crisi economica e di ristrutturazione produttiva: la riduzione ormai
più che decennale dei tassi generali di sviluppo, il salto tecnologico orientato soprattutto al risparmio di lavoro, il declino irreversibile di certi settori produttivi tradizionali, la distruzione di vecchie professionalità o di vecchi ruoli che procede all’inizio più velocemente della creazione di nuovi. Per questo verso la disoccupazione potrebbe, o potrà, essere ridimensionata da una ripresa dello sviluppo, dal decollo di nuovi settori produttivi, da efficaci processi di conversione professionale e di creazione di nuove capacità. E occorre semplicemente chiedersi – come faremo più avanti – a che punto siamo da questo punto di vista; se, quando e a che prezzo un nuovo sviluppo estensivo sia in vista. Ma a noi pare che nella nuova disoccupazione e nel precariato si possa e si debba intravedere qualcosa di più profondo e di più permanente che attiene proprio alla generale questione del lavoro e della sua qualità in una società postindustriale. È riconosciuto ormai generalmente che almeno nel settore industriale e nella produzione di beni materiali vendibili l’occupazione, nei paesi avanzati, non potrà tornare a crescere stabilmente, quali che siano gli andamenti congiunturali o i tassi generali di sviluppo. Che insomma il ristagno, se non la rapida caduta di quel tipo di occupazione nelle metropoli, è fenomeno irreversibile. Si possono recuperare processi troppo avanzati e degenerativi di deindustrializzazione (è quanto gli Stati Uniti cercano di fare, quanto in certe regioni, come il mezzogiorno d’Italia, è urgente fare). Si possono sostituire certe industrie e certi prodotti fatalmente declinanti come siderurgia o petrolchimica di base, con altre industrie e altri prodotti. Ma è un fatto che l’attuale rivoluzione tecnologica per sua natura (e non solo per le finalità congiunturali cui è rivolta) è molto più efficace nel determinare un modo più efficiente di produrre gli stessi beni, che non nel crearne di nuovi; che quelli nuovi che crea incontrano una domanda assai meno espansibile, e rapidamente vengono prodotti a un costo, e con un contenuto di lavoro decrescente; che insomma la produttività cresce in questo campo più rapidamente della produzione, libera lavoro prima e più di impiegarne di nuovo. L’industria insomma non solo perderà peso relativo nell’insieme del lavoro sociale, come è ovvio e avviene da tempo, ma non conoscerà più nei paesi avanzati una fase di sensibile espansione occupazionale. È d’altra parte dubbio che questa tendenza possa essere rovesciata da un processo di allargamento dello sviluppo moderno a nuove aree del mondo.
Perché, al di là dei limiti che questa possibilità incontra nell’attuale configurazione del mondo (e su cui torneremo come problema cruciale della fase attuale) il fatto è che, a differenza di quaranta anni fa, la velocità di applicazione della nuova tecnologia è ormai tale, e la supremazia tecnologica tanto poco traducibile in stabili flussi di merci, che nuovi processi di industrializzazione si traducono in minacciosa concorrenza nel settore di beni di consumo prima e più di quanto assorbano dalla potenza dominante beni di investimento. Un nuovo tipo di divisione internazionale del lavoro non si tradurrebbe comunque in una complessiva e rilevante espansione della base industriale della metropoli, ma avrebbe più probabilmente la forma di uno scambio tra beni materiali e conoscenze o di speculazioni finanziarie. L’interrogativo di fondo e di lungo periodo che si pone per le società avanzate è dunque questo: se e come un nuovo tipo di produzione e di consumo, non beni materiali e industria ma beni immateriali e servizi, possa offrire, nel lungo periodo, sbocco adeguato e soddisfacente all’offerta di lavoro, così come è storicamente avvenuto con il passaggio dall’economia agraria a quella industriale. Sull’ipotesi offerta da questa analogia è ben lecito nutrire dubbi. Anzitutto, infatti, quello che si chiama settore dei «servizi» conosce già da tempo, nelle società avanzate, una espansione costante e per certi versi già ipertrofica. Anzi, in certi servizi tradizionali, sviluppatisi al riparo dell’impiego burocratico e sulle risorse crescenti garantite dall’incessante crescita industriale, i costi si dimostrano sempre più insostenibili e contemporaneamente proprio le nuove tecnologie consentono per la prima volta una razionalizzazione del lavoro che mette in luce un esubero occupazionale. Poiché si tratta di settori spesso ancora in ritardo rispetto al bisogno reale, e poiché in essi la struttura istituzionale garantisce meglio la stabilità del diritto al lavoro, è possibile che tale tendenza venga contrastata ma è comunque difficile che una maggiore efficienza in «quei» servizi produca nuova occupazione in modo consistente e in forma stabile. L’attenzione e la speranza deve quindi concentrarsi sui servizi di tipo nuovo: quelli che sostituiscono residuali zone di autoconsumo, quelli di sostegno esterno alle imprese industriali (ricerca applicata, assicurazioni e finanza, consulenza, marketing, assistenza giuridica), quelli soprattutto che producono nuovi beni immateriali (formazione, informazione, salute, attività culturali, gestione del territorio). Ma proprio qui emerge la constatazione di fondo. Come hanno notato
Alfred Sauvy e Giorgio Ruffolo, perché un nuovo settore assorba occupazione più velocemente e a condizioni migliori di quanto ne liberi il declino del vecchio occorrono due condizioni: che la produttività del nuovo settore sia mediamente superiore a quella del settore precedente così che si possano offrire salari migliori lasciando un margine al suo sviluppo; e che la produzione del nuovo settore cresca pi rapidamente della sua produttività. Nel caso della produzione industriale, a suo tempo ciò si è puntualmente verificato. Non altrettanto facile è che si verifichi nel caso dei «nuovi servizi». Alcuni di questi nuovi servizi, infatti, sostituiscono con lavoro salariato un precedente lavoro fuori mercato (il fast food, i servizi personali), o rispondono a nuove domande sociali e individuali (dai guardiani, ai servizi connessi alla congestione urbana) e per quanto utili e necessari possano essere hanno comunque un livello di produttività notevolmente più basso di ogni attività industriale. Altri (i servizi alle imprese e le attività finanziarie o di distribuzione) non producono nuovi beni, sono parte del costo di produzione, e per quanto possa essere alta la loro redditività almeno in parte si traduce in parassitismo e in freno dello sviluppo. Altri servizi infine, i più nuovi e promettenti, si presentano come produzione di beni immateriali nella quale la forma del lavoro salariato stabile è assai meno congrua che nell’industria e la traduzione in merci effettivamente vendibili è almeno parziale, e nei quali, nel contempo, sia la produzione che il consumo hanno carattere sociale, redditività differita, utilità indiretta e diffusa. Complessivamente dunque in questi nuovi servizi la produttività in termini capitalistici è relativamente bassa: e poiché il mercato del lavoro funziona appunto come un mercato, le occasioni di lavoro o si offrono a livelli salariali e in condizioni peggiori (e si rivolgono dunque a un settore marginale e non protetto della società) o si espandono a un ritmo relativamente contenuto e comunque insufficiente a soddisfare l’offerta crescente. Complessivamente dunque, è ragionevole ritenere che nelle società avanzate il lavoro salariato occupabile stabilmente e con una normale retribuzione tenda, se non a ridursi, a ristagnare. Sembra assumere dunque valore strutturale e strategico centrale il tema della redistribuzione del lavoro. In sé un’operazione sociale di questo tipo non è inconcepibile per un sistema capitalistico: anzi per quasi un secolo è stata una tendenza ricorrente. Ma ciò grazie alla generale crescita della produttività diretta del lavoro, che in parte veniva tradotto in riduzione d’orario. Ma quando complessivamente tale crescita non avveniva, la
tendenza del sistema, che puntualmente e in modo più permanente ora si verifica, è invece quella di ridurre il tempo di lavoro complessivo nella forma della disoccupazione endemica, della sottoccupazione, del part time, del lavoro precario per le mansioni generiche, e di estendere invece la giornata di lavoro per le occupazioni ad alta qualifica e stabili. Né si tratta solo del selvaggio interesse del capitalista, perché anche da parte dei lavoratori non è possibile ridurre l’orario rinunciando al reddito. E dunque non è possibile cercare e ottenere una riduzione consistente dell’orario se e fino a quando non si trova il modo di accrescere la produttività personale anche in settori dove il lavoro salariato funziona male, e non si trova il modo di assicurare un maggiore benessere anche al di fuori della mediazione del reddito, con lo sviluppo di forme moderne di lavoro fuori mercato, con la valorizzazione di attività socialmente utili anche fuori dalla forma di merci vendibili. Considerazioni analoghe valgono anche per il secondo grande fenomeno che abbiamo di fronte: il quale non riguarda la quantità ma la qualità del lavoro. Ciò cui assistiamo nelle società più avanzate in questa fase è, sotto questo profilo, una nuova polarizzazione del lavoro occupato. Da un lato un processo di valorizzazione e di arricchimento delle professionalità e delle competenze che resta però circoscritto entro una minoranza della società, che è anch’esso estremamente differenziato e gerarchizzato al suo interno e che soprattutto paga la maggiore valorizzazione professionale al prezzo di una più totale resa all’atomizzazione degli specialismi e di una più rapida subordinazione all’obiettivo produttivo (l’intellettuale-massa, il funzionario del capitale, la cooperazione professionale), cosicché l’arricchimento della personalità attraverso il lavoro risulta più apparente che reale, si misura più in termini di reddito o di potere che non di libertà e di significato. Su questo versante il modello giapponese è paradigmatico e predice un futuro. Dall’altro lato un processo di nuova parcellizzazione, dequalificazione e subordinazione del lavoro che assume forme estreme nell’occupazione precaria, nel proletariato frantumato dei servizi, ma che continua anche nell’occupazione stabile e nella grande impresa e ormai si allarga ben oltre l’area del lavoro manuale e direttamente produttivo, cioè nel lavoro impiegatizio, nel commercio, nella sanità e nel pubblico impiego, l’immagine della società informatizzata come una società ad alte qualifiche, di lavoro creativo e partecipato è pura mistificazione. Su questo versante la società americana è un buon esempio: il successo vantato nella creazione di milioni di nuovi posti di lavoro porta il segno della nuova
dequalificazione, a volte oltre il limite che segna l’irreversibile disadattamento sociale e il nuovo analfabetismo. Non vogliamo sostenere che tutto l’orizzonte del lavoro si esaurisca oggi in questi fenomeni, né che non sia possibile, anche su questo terreno, concepire o imporre politiche occupazionali o di valorizzazione del lavoro, con qualche efficacia, anche all’interno del sistema attuale. Vogliamo solo sostenere: a) che anche nel futuro postindustriale il conflitto di classe tra lavoro e capitale trova ragioni di cui alimentarsi, nuove e diverse ma non meno corpose; b) che i grandi temi della occupazione e della sua qualità appaiono ancor più e non meno connessi alla logica di fondo del capitalismo; c) che ancora più di ieri o di oggi si porrà il tema del graduale superamento, e non solo della tutela, del lavoro salariato e forse anche il tema ancor più radicale del lavoro liberato; d) infine che le trasformazioni strutturali del mercato del lavoro indeboliscono l’omogeneità e il potere immediato del mondo del lavoro, e che la sua unificazione e il suo destino dipenderanno in futuro meno che in passato dallo strumento sindacale, avranno sempre più bisogno di un progetto politico, e di strumenti che incidano direttamente sulla struttura dello Stato, dell’economia, delle stesse strategie tecnologiche, degli apparati formativi. Non è questa una base abbastanza solida su cui ricostruire una identità comunista, proprio a partire dall’aspetto più radicale e insieme meno sviluppato della critica marxista del capitalismo: la liberazione del lavoro umano dal suo carattere di merce? L’impotenza del sovrano L’ubriacatura neoliberista che ha caratterizzato l’intero decennio sta ormai sfumando. Non per l’avvicendarsi delle mode, ma per l’evidenza dei fatti. Le grandi contraddizioni sociali di cui abbiamo appena parlato sono ormai sotto gli occhi di tutti e lasciano ben poco spazio alla fiducia acritica che il mercato e gli «spiriti animali» dell’individualismo, liberati dai troppo soffocanti vincoli della politica e dell’intervento pubblico, preparino un futuro migliore per la collettività e per lo stesso individuo. Anche chi non pensa affatto necessario, e anzi ritiene sbagliato e pericoloso, mettere in discussione il sistema capitalistico come fondamento dell’economia, è spinto comunque di nuovo a riconoscere l’opportunità che esso venga regolato ed equilibrato da un potere politico autonomo ed efficace. Insieme con il neoliberismo comincia a declinare la recente fortuna del suo amico-nemico, il movimentismo. La fiducia infatti che a correggere le
spinte selvagge del mercato e della competizione individuale bastassero la forza del conflitto sociale diffuso e la crescita molecolare di nuove culture antagoniste e di nuovi movimenti di solidarietà sociale è anche essa ormai duramente intaccata dall’evidenza dei fatti: troppo forte si rivela ogni giorno la logica complessiva che governa il sistema a dispetto della sua apparente articolazione, e troppo forte, soprattutto, la sua capacità di frammentare, integrare, addirittura rovesciare nel suo esito, anche ciò che gli si oppone o lo contesta. Torna dunque all’ordine del giorno la questione della democrazia in senso forte: la democrazia cioè non solo come sistema di garanzie per l’autonomia e la libertà di azione dei singoli e dei gruppi, ma anche come forma politica e istituzionale capace di condensare una volontà e un interesse generale e dotata di strumenti efficaci per farlo prevalere. Proprio su questo terreno, però, la sinistra occidentale si trova oggi in una situazione abbastanza paradossale: nel momento in cui potrebbe celebrare un pieno successo e una ritrovata unità, verifica una nuova e inquietante impotenza. Spieghiamoci meglio. La moderna democrazia è nata in diretto rapporto con il sistema capitalistico, e ne portava dentro di sé il segno come una contraddizione costitutiva: eguaglianza politica tra individui diseguali nel loro potere reale e nei loro diritti effettivi. Il diritto «astrattamente eguale» del cittadino copriva la realtà del dominio di classe, garantiva il suo carattere oggettivo; ma nel contempo offriva un principio e uno strumento potente a chi quel dominio voleva limitare. La storia del pensiero e delle istituzioni politiche degli ultimi due secoli in Occidente è tutta dominata dalla tensione di queste due logiche: la logica dello Stato liberale come garante della competizione tra soggetti diseguali per fortuna, talenti e potere, e la logica del suffragio universale come strumento per correggere quella disuguaglianza e permettere a tutti l’esercizio dei propri diritti essenziali. Non era solo competizione tra le ragioni della libertà politica e quelle della giustizia sociale. Perché la stessa libertà politica non aveva vita reale se e fino a quando la generalità dei cittadini non disponeva delle condizioni minime di istruzione, di reddito, di sicurezza per esercitarla; e perché, d’altro lato, in ogni momento in cui sentiva minacciata la sostanza del suo dominio sociale la classe dominante si mostrava disposta a revocare quelle istituzioni politiche che pure aveva per prima inventato. Si può dunque dire che almeno da un secolo, nella storia dell’Occidente, il movimento operaio, che pure era nato fuori e contro quel sistema politico,
ne è diventato il protagonista e il garante. Tutto il movimento operaio. Anche chi, come Lenin, più insisteva sui limiti della democrazia borghese, sull’illusione del parlamentarismo, e sulla necessità di una «dittatura proletaria», non solo riconosceva lo Stato rappresentativo come «terreno enormemente più favorevole per la lotta di classe» ma insisteva in modo ossessivo sul fatto che il socialismo ha bisogno di forme ancora più radicali e diffuse di democrazia politica. Cosicché, vero paradosso del nostro secolo, anche gli stessi elementi formali delle costituzioni liberali furono spesso difesi da movimenti che ne criticavano i limiti, con maggior sacrificio ed efficacia di quanto non facessero i loro più convinti apologeti. E tuttavia ciò che divise il movimento operaio per una intera epoca fu proprio anzitutto la questione della democrazia politica: la convinzione dei leninisti che si fosse ormai esaurita la fase storica in cui la democrazia poteva convivere con un assetto capitalistico e la convinzione che una democrazia socialista potesse organizzarsi e crescere anche negando, e anzi solo negando, a lungo, l’esercizio dei diritti politici universali. Si può sostenere che quelle convinzioni nacquero in una fase storica che le giustificava, e si inserirono in un movimento reale che comunque nei fatti contribuì grandemente a un processo generale di liberazione e di emancipazione, anche politica. Ma è indubbio che esse furono formulate, e poi praticate, come una teoria generale, come una nuova e superiore forma di potere politico. E su questo terreno il leninismo ha subìto una dura sconfitta che solo oggi appare in tutta la sua portata. Da un lato infatti, in Unione Sovietica, le speranze di Lenin in una superiore democrazia (i consigli, la revoca del mandato, l’estinzione dell’apparato statale come forza separata) non si scontrarono solo con le specifiche difficoltà della costruzione del socialismo in un paese isolato e arretrato, ma si mostrarono via via incompatibili con una forma politica (il partito unico, il potere centralizzato, l’identificazione tra il dissenso e il nemico di classe) che si consolidava in privilegio burocratico, passivizzava politicamente le masse, cristallizzava il pensiero critico nel dogmatismo, e alla fine paralizzava lo stesso dinamismo sociale e produttivo. La storia ha così dimostrato che l’esercizio pieno della democrazia politica per il socialismo non è meno, ma ancor più importante di quanto non lo sia stato per il capitalismo. Dall’altro lato, in Occidente, prima la lotta antifascista, poi l’esperienza del welfare hanno dimostrato che la democrazia politica, anche in una società borghese e nella forma dello Stato rappresentativo, offre ancora
spazio enorme per una modificazione concreta dei rapporti sociali, può tradursi in conquiste ben reali e corpose (l’istruzione di massa, la contrattazione sindacale, il sistema assistenziale), e consente una crescita permanente di organizzazione e di coscienza in grandi masse sfruttate. Una lunga e travagliata controversia storica sembra oggi dunque venuta a piena evidenza e a una risoluzione. Tutti i paesi di capitalismo maturo (anche Spagna, Grecia, Portogallo, domani forse Corea e Taiwan e Brasile) sono ormai retti da istituzioni di democrazia rappresentativa che nessuna forza politica, nessuna componente culturale di rilievo propone di sovvertire. Lo Stato decide la destinazione e organizza la spesa di oltre la metà del reddito nazionale e interviene in non pochi settori produttivi. La scuola, la sanità, le pensioni sono organizzate largamente come servizi pubblici per tutti. Il livello di istruzione e di informazione garantiscono un peso all’opinione pubblica. Ci sono potenti organizzazioni sindacali e di categoria e una pratica permanente di conflitto sociale. E d’altra parte, proprio in Unione Sovietica si è avviata una riflessione autocritica, che giustamente si definisce rivoluzionaria, proprio a partire dal tema della democrazia politica. In questo senso dicevamo che la sinistra occidentale potrebbe celebrare una propria vittoria storica, e intorno a essa ricostruire una nuova unità: una forma politica per la quale ha a lungo lottato e che è anzitutto una sua conquista storica si afferma come modello universale, si offre come lo strumento realisticamente migliore per la trasformazione e il progresso della società. Sembrerebbe così che, almeno sul terreno delle istituzioni politiche, una critica di sistema non abbia più senso, che il problema di una «terza via» non esista proprio, che un’identità e una tradizione comunista siano scomparse, giustamente e senza rimpianti, riassorbite nel grande filone del pensiero democratico senza aggettivi. Ma come spesso accade il momento dell’atteso successo rischia di essere anche quello dell’amaro risveglio. Giunto alla sua matura e generale espressione, quando sembrava ormai dotato dei poteri per intervenire sull’insieme della società, per rendere effettivo l’esercizio della sovranità popolare e reale l’eguaglianza dei diritti dei cittadini, lo Stato democratico rappresentativo sembra gradualmente regredire, in forma nuova, alle sue origini: cioè a una apparenza dietro la quale cresce e opera incontrastato tutt’altro dominio di fatto. Non pensiamo solo o soprattutto all’attacco ideologico e pratico contro
l’intervento pubblico in economia, contro le politiche di sostegno dell’occupazione, contro il sistema assistenziale universalistico, contro i livelli di regolamentazione del mercato del lavoro e di contrattazione sindacale: attacco che ha ottenuto risultati gravi e duraturi ma potrebbe comunque essere connesso a una determinata fase economica e a un certo transitorio rapporto di forze politiche. E non pensiamo neppure solo al fatto che in un’altra e maggioritaria parte del mondo, economicamente sottosviluppata, la storia politica recente procede all’inverso, e dagli stati sorti da grandi movimenti di liberazione si regredisce verso oligarchie sorrette dal privilegio e dall’arbitrio, o a teocrazie fanatiche: tutto ciò potrebbe essere il riflesso di una impasse economica e di una dipendenza culturale che la democrazia politica nei paesi leader potrebbe e dovrebbe appunto cercare di modificare. Ci riferiamo a qualcosa di più profondo, generale, e intrinseco alle istituzioni politiche del capitalismo che si avvia a essere postindustriale: e cioè alla crescente, strutturale, irrilevanza della politica. Quella che era, nel bene e nel male, il centro forte della decisione, lo strumento di un’egemonia corazzata di forza, il terreno privilegiato del conflitto più aspro, tende a diventare rito vuoto, mediazione e ratifica di ciò che già è avvenuto, supporto amministrativo di un potere che è altrove. È l’evidenza empirica degli ultimi decenni, e non solo di qualche anno, a mettere in allarme. Non è forse vero che negli ultimi decenni in Europa coalizioni e forze diverse che si alternavano alla direzione dei governi in sostanza hanno fatto le stesse politiche in certe determinate fasi, e altre politiche in altre fasi seguendo vincoli e impulsi più forti di loro? È privo di significato il fatto che il paese a capitalismo avanzato nel quale lo Stato ha operato con più efficacia un intervento programmato sullo sviluppo economico, sia, per generale riconoscimento, il Giappone, cioè il paese con un sistema politico senza alternanza, comitato delle grandi forze economiche, sorretto da un consenso costruito sulla più organizzata rete di clan e di clientele, e su un grande conformismo di massa? Insomma se la gente dà sempre meno credito e passione alla politica è anche perché la politica, prima ancora che estranea e corrotta, le appare inutile. Cosa c’è dietro a tutto questo? C’è, come molti credono, solo o soprattutto un fenomeno di inefficienza e di anchilosi di una macchina amministrativa che per essere troppo cresciuta e aver troppo ceduto alla logica dell’assistenzialismo, quanto alle sue finalità, e alla logica burocratica,
quanto al suo funzionamento, oltre a essere costosissima è diventata anche inefficace? C’è una congestione e una paralisi della decisione politica, una incapacità organica di stabilire priorità e di imporle, proprio per l’eccessiva diffusione dei poteri democratici e quindi per la resistenza opposta da mille diritti di veto presenti nella società? Certo, c’è anche tutto questo: e già basterebbe per dirci che l’attuale sistema politico-istituzionale è arrivato a una crisi di funzionamento che comporta innovazioni e scelte non neutrali. Ma vi sono anche fenomeni più profondi, connessi proprio alla trasformazione epocale di cui stiamo parlando. Il primo ordine di fenomeni nasce dal processo di globalizzazione dell’economia e del soggetto reale che domina tale processo, la finanza e la grande impresa multinazionale. È curioso come un fatto così macroscopico e travolgente per la configurazione del potere reale resti tanto marginale nella riflessione politica, e venga accettato da tutta la sinistra con entusiasmo acritico o comunque come evento neutrale, rispetto al quale c’è ben poco da fare. L’unificazione progressiva dei mercati e delle tecnologie non è di per sé una novità. Nuovi però sono non solo l’enorme accelerazione di questa spinta ma i meccanismi di potere che la governano e se ne alimentano. Anzitutto la crescita impetuosa di centri internazionali di direzione, politici oltre che economici, dotati di potere normativo e non solo di mercato: la Comunità economica europea, il Fondo monetario internazionale, la concertazione delle banche centrali, l’unificazione di fatto di un sistema internazionale della ricerca scientifica. Queste strutture verso le quali si trasferisce la parte più importante, più strategica, del potere politico sono organicamente autonome da ogni forma di controllo o di influenza democratica. Non solo perché le istituzioni che dovrebbero garantire tale rapporto non hanno potere reale (il Parlamento europeo) o lo negano in linea di principio (il Fondo monetario); ma perché se anche esistessero, o avessero potere, si tratterebbe comunque di un potere formale perché non corrisponderebbe a un soggetto politico minimamente capace di organizzarsi, capire, partecipare. Ciò che avanza è una sorta di Stato federato «per conquista regia», dove il re è una ristretta oligarchia economica e tecnocratica, cui si contrappone un «popolo» frantumato da storie nazionali, diviso da interessi locali e corporativi, e come corporazione capace solo di opporre resistenza settoriale (si pensi alla politica agricola europea, o alla babele delle organizzazioni sindacali e dello stato sociale). Al suffragio universale, architrave e vanto della
moderna democrazia, sfuggono così totalmente le scelte decisive. In secondo luogo va considerata la realtà nuova della finanza e delle multinazionali. Non solo il loro peso, nei singoli paesi e settori, è enormemente cresciuto, ma sono cambiati la loro base e il loro ruolo. La grande concentrazione economica ha sempre meno – come ancora aveva qualche tempo fa – una base nazionale prioritaria, e una prioritaria caratterizzazione industriale. È una potenza innanzitutto finanziaria, multisettoriale, il cui teatro operativo è mondiale, o almeno continentale, la cui funzione è anzitutto di produrre capacità organizzative, piani di ricerca, organizzazione di mercato, che integra apparati informativi e formativi, organizza una miriade di imprese dipendenti, orienta scelte di governi e di grandi istituzioni. È quindi un centro di potere privato che assorbe pienamente in sé un ruolo di pianificazione sociale dello sviluppo, con una propria base di massa (l’azionariato popolare) e un proprio sistema di formazione del consenso. Ecco una parte ancor più sostanziale del potere politico che sfugge al suffragio universale. Non si tratta più solo del grande capitale che soffoca l’esercizio democratico, o che dispone di strumenti per alternarne il gioco: ma più semplicemente di un grande capitale che requisisce direttamente il potere statale, svuota il significato reale della democrazia. Pensare di «governare» questo potere con gli strumenti tradizionali di cui lo Stato nazionale dispone, o di limitarlo con regole tipo la legislazione antitrust, è abbastanza patetico. Infine, globalizzazione vuol dire anche omologazione del modello di consumo, integrazione del sistema informativo, circolazione libera del risparmio: una massa cioè di microdecisioni uniformate da meccanismi e convenienze oggettive che il sistema di potere determina e che limitano radicalmente, dal basso oltreché dall’alto, le possibilità reali di scelta e di intervento di quello che costituzionalmente continua a definirsi Stato nazionale democratico. Per contrastare questo trasferimento di potere reale lo Stato democratico dovrebbe mettere in campo una volontà forte, essere capace di perseguire progetti incisivi e di lungo periodo. Ma interviene qui il secondo e non meno grave ordine di fenomeni che minacciano una crisi della democrazia. Elenchiamone qualcuno senza stabilire una gerarchia, né approfondire i nessi che li unificano. Il declino della grande fabbrica, la segmentazione delle figure
professionali, la molteplicità spesso casuale e arbitraria della distribuzione del reddito, il fatto stesso che l’ingiustizia sociale si concentra su settori o in zone marginalizzate e subalterne rendono il conflitto sociale sempre meno unificato e trasparente, e tolgono alla democrazia politica il soggetto coeso e organizzato che per decenni l’ha animata. La diffusione pervasiva e martellante dei mezzi di informazione e di intrattenimento di massa non solo rende, come è ovvio, il consenso manipolabile, ma forma un’opinione pubblica di per sé atomizzata, una coscienza politica oscurata dall’eccesso di stimoli e dati confusi e uniformi, oscillante ed effimera. Questi elementi oggettivi, in cui si inserisce una crisi delle ideologie connessa allo spirito generale della società, producono il declino dei partiti di massa come organizzazioni di militanti capaci di unificare interessi e comportamenti in una cultura e in un progetto. La stessa enorme estensione dell’intervento pubblico in mille campi della vita sociale, il suo ruolo di gestore di gran parte del reddito nazionale, diventano la sede di uno scambio, di uno specifico mercato tra una società corporativizzata che scambia consenso con tutele e favori, e un ceto politico professionale che si trasforma esso stesso in una corporazione. La politica in senso forte, per quanto ancora ne può sopravvivere, si separa da questa macchina del consenso, si isola nel circuito di un potere parallelo, di una classe dirigente reale molto ristretta che unifica élite governative, tecnocratiche, economiche, ma per sua natura interpreta le spinte oggettive che vengono dal mercato e solo in questa direzione riesce a operare con incisività. La democrazia senza egemonia si tramuta in rito, regno dell’effimero, degenera nel mercato corporativo, e nel migliore dei casi limita il suo orizzonte alla buona gestione amministrativa di compiti e obiettivi che non è essa a determinare. E un potere parallelo, oligarchico, cresce non solo come fatto, ma come necessità. Non per questo compiti e funzioni dello Stato si riducono: esso perde però un ruolo di propulsione e di sintesi, e il popolo che lo legittima ne è sempre meno il sovrano, al più ne è la controparte. Il leviatano non è meno invasivo, ma è ormai addomesticato. Si può anche ritenere che tutto ciò non sia poi così grave: che, se si sanno correggerne le manifestazioni degenerative, questa «politica leggera», questo Stato riportato a un ruolo di garanzia e di amministrazione, questo potere rimesso nelle mani di coloro che sanno, lasci tanto più libera una società vitale, e allontani finalmente lo spettro del totalitarismo e delle ideologie totalizzanti. Noi non lo crediamo, perché l’universo che ne esce
non è meno totalitario nella sua apparente complessità. Ma certo è comunque che con questo tipo di istituzioni politiche l’idea di «governare» lo sviluppo, di cambiare di segno alla modernità secondo un progetto collettivo, non ha un fondamento credibile. Riemergono così nella realtà più moderna, e per strade nuove, alcuni temi classici e radicali della critica marxista allo Stato borghese. Il carattere mistificato, illusorio, alla lunga l’insostenibilità di una democrazia che non sappia e non voglia aggredire i santuari di un potere economico sempre più centralizzato e determinante, trasferire sotto il controllo pubblico ciò che la socializzazione delle forze produttive già rende intrinsecamente pubblico e che ormai va ben oltre le funzioni redistributive del reddito e investe il meccanismo stesso dell’accumulazione, le scelte fondamentali di allocazione delle risorse. Non si può pianificare tutto, certo: ma è altrettanto assurdo che la pianificazione già possibile divenga, con il puro pretesto del mercato, una funzione del privato. La necessità di un effettivo internazionalismo che faccia corrispondere al processo di unificazione mondiale una forza reale capace di gestirlo, controllarlo democraticamente e capace, altresì, di valorizzare in tale processo la peculiare ricchezza delle identità nazionali contro una pura omologazione che poi alimenta il risorgente particolarismo. Non ci si può illudere di condizionare un processo in atto di unificazione sovranazionale se a unificarsi culturalmente e organizzativamente sono solo le classi dominanti: le istituzioni, per essere democratiche, devono non solo sancire certi diritti ma essere occupate da forze reali capaci di farli valere. Infine la necessità di un soggetto politico collettivo, capace di imporre un disegno complessivo e a lungo termine sulle spinte immediate e gli interessi particolaristici, e capace di promuovere una riforma culturale e morale anche tra coloro che vogliono cambiare la società ma sono continuamente condizionati dai suoi valori e dai suoi meccanismi. La democrazia non vive senza un sovrano collettivo, e questo sovrano collettivo non può esistere nella forma di una moltitudine atomizzata, di una somma confusa di spinte e di culture eterogenee: la frammentazione non è pluralismo, è uniformità mascherata. Questi temi classici, tuttavia, si ripropongono in forma del tutto nuova, o tanto antica che se ne è perduta memoria. Perché la soluzione statalista, finora dominante nella cultura del movimento operaio, si è non solo già
rivelata insufficiente e costosa, ma appare anch’essa più che mai impotente a risolvere il problema della democrazia. Un potere pubblico gestito come potere burocratico ormai si avvita in una spirale di inefficienza e di arbitrio che provoca nelle masse il rifiuto del pubblico come tale. Una sovranità popolare ristretta entro i confini dell’esercizio elettorale, della scelta di una rappresentanza, non solo emargina quella parte del popolo che non esercita altri poteri di fatto, ma produce in essa un regresso nelle culture subalterne, la spinge a rivendicare tutela non a esercitare governo, trasforma la sovranità in consenso, e il consenso in mercato. Governare la società dal centro o con le leggi è pura illusione. Uno sviluppo della democrazia coincide ormai con la riappropiazione quotidiana e articolata delle varie funzioni di governo, con una socializzazione del potere, con un graduale deperimento della separatezza dello Stato. E tutto ciò, d’altra parte, non è possibile senza rimettere in discussione anche quanto dello statalismo si è riflesso nelle forme organizzative del movimento operaio: e cioè il partito, come sede e strumento esclusivo della politica, sovrapposto a un movimento di massa come sede e strumento del conflitto economicosociale, anziché come stimolo e sintesi di un complesso sistema di movimenti politici, autonomi e permanenti, attraverso cui una molteplicità di soggetti concorrono a saldare un nuovo blocco storico. Proprio la ricchezza offerta da un terreno democratico ormai lungamente arato, la molteplicità e il livello culturale dei soggetti politici confusamente ma attivamente presenti nella società, le mille articolazioni del potere statale sedimentato da una successione di esperienze e di lotte, la molteplicità ormai insopprimibile anche se subalterna dei soggetti nazionali che emerge dalla crisi dei sistemi imperiali offrono un materiale straordinario per una simile difficilissima impresa di ricostruzione della democrazia su basi nuove. Insomma, per riassumere un po’ rozzamente: riconoscere la democrazia come valore universale non implica affatto ritenere superata la vecchia affermazione leninista e poi soprattutto togliattiana, di un nesso tra democrazia e socialismo. Anzi, si può oggi più e meglio precisare, di un nesso reciproco, in base al quale non solo un elemento è essenziale all’altro, ma conferisce all’altro un contenuto e una forma diversi. Non ha tutto ciò qualcosa a che fare con la ricerca di una «terza via»? Non è una base forte per rifondare un’identità comunista anche sulla questione più complessa e controversa delle istituzioni e delle forme della politica? Le varie considerazioni e il ragionamento complessivo che abbiamo
sommariamente proposto sulle «grandi contraddizioni» della nostra epoca bastano, ci pare, a definire in modo abbastanza solido, non soggettivistico, un campo di possibilità, ma non offrono alcuna ragionevole certezza. Da un lato infatti esse permettono di affermare con convinzione che: la società capitalistica così come esce dalle sue nuove trasformazioni non si presenta né unificata, né sorretta da una stabile egemonia. Al contrario già oggi è percorsa, e ancor più lo sarà, da grandi conflitti materiali e ideali che non riguardano solo zone periferiche e marginali, né esprimono solo bisogni di liberazione ancora storicamente immaturi e dunque organicamente minoritari, ma nascono anche in punti alti della modernità e coinvolgono il grosso del corpo sociale. Se la profondità di questi conflitti non viene compresa e valorizzata, se non si offre loro una prospettiva razionale essi possono produrre un imbarbarimento e un regresso generale; le contraddizioni che oggi percorrono la società sono e saranno sempre meno seccamente riconducibili al conflitto tra capitale e lavoro. Lo stesso conflitto tra capitale e lavoro si può esprimere pienamente solo arricchendosi di contenuti e di finalità più complesse, assumendo in sé la critica alla qualità dello sviluppo e non solo alla sua quantità e alla distribuzione del suo prodotto. Nuovi soggetti e nuovi bisogni (l’ambiente, la liberazione della donna, la valorizzazione del genere, il senso del lavoro e del consumo) non solo devono essere riconosciuti nella loro novità e irriducibile autonomia, ma sono essenziali per dare alla lotta delle masse lavoratrici una vera autonomia e una capacità egemonica, una concreta pienezza al suo progetto di liberazione. E tuttavia queste varie contraddizioni non sono meno ma ancor più profondamente del passato connesse alle strutture e ai valori portanti del modo capitalistico di produzione: pongono cioè in termini ancor più radicali il problema del suo superamento e offrono la base per risolverlo. Se non si coglie questo nesso, e intorno a esso non li si unifica, non solo i nuovi movimenti e soggetti appaiono destinati alla sconfitta ma entrano in contraddizione tra loro e diventano partecipi di una rivoluzione passiva. In questo senso la lotta di classe continua a essere il motore, il nodo di un’alternativa; una società diversa non può essere, se mai lo è stata, il prodotto di una rottura improvvisa, di una rivoluzione dall’alto, deve piuttosto avanzare come lungo processo di trasformazione del modo di produrre e di consumare, delle tecnologie, delle idee, degli stili di vita individuali e collettivi. E tuttavia questa nuova società non cresce molecolarmente tra le maglie della società esistente (come avvenne per la rivoluzione borghese):
ha bisogno di un potere, di un progetto, di una organizzazione; è una trasformazione sociale che non solo deve concludersi con, ma deve anche procedere da, un antagonismo, un’egemonia, una rottura politica. Ebbene, tutto ciò offre indubbiamente una base solida e un possibile ascolto di massa sia per il recupero pieno, sia per la rifondazione, di una identità comunista. Soprattutto rende niente affatto realistica, ma del tutto astratta, l’idea che la sinistra possa oggi proporsi come alternativa credibile omologandosi ulteriormente nel sistema: perché questo vorrebbe dire rinunciare a parlare, se non retoricamente, dei problemi più acuti, separarsi dai bisogni delle masse più oppresse, perdere una motivazione forte del proprio impegno. Ma proprio le stesse considerazioni che abbiamo proposto fanno emergere un’altra faccia della realtà che non è possibile, né onesto, censurare. Esse infatti costringono a riconoscere realisticamente che: le forze sociali antagoniste al sistema appaiono oggi largamente divise, strette nell’alternativa tra subalternità e rivolta, tra integrazione e utopismo, una prospettiva unificante è ancora molto al di là della loro pratica e della loro cultura. A quanto abbiamo già accennato in proposito parlando delle società avanzate si aggiunge infatti la realtà, nel Terzo mondo, dell’involuzione delle borghesie nazionali, della nuova contraddittorietà della questione agraria, e dell’emergere come figura dominante di una sterminata massa di proletariato urbano precario e marginale; e si aggiunge la difficoltà, nei paesi del «socialismo reale», di un protagonismo sociale della classe operaia e delle grandi masse ancora passive e pervase da spinte contraddittorie; i grandi riferimenti politici possibili per contrastare questa frammentazione vivono comunque ancora una fase di crisi profonda proprio culturale e di identità. A quanto abbiamo osservato in proposito sulla sinistra occidentale, va aggiunto ciò che accade in Unione Sovietica: uno straordinario e inatteso tentativo di riforme e di svolta che nasce però sulla base di un modello e dunque sconta la necessità per un periodo non breve di assestamento, di recupero e di efficienza. Gorbačëv parla, sinceramente e giustamente, di «più socialismo e più democrazia», ma è difficile che questo possa diventare immediatamente evidente e avere successo, produrre riforme anziché crisi; la ridefinizione di un’identità comunista appare un lavoro teorico e culturale di lunga lena, che implica la riconversione di un modo di pensare
consolidato in decenni, deve crescere entro un orizzonte dominato da nuove idee borghesi e da vecchie idee operaie, sconta un periodo di ricerca, rischi di eclettismo e di errore, ha bisogno di un lungo sforzo di educazione, prima di assumere la forza di una cultura diffusa, di una visione del mondo, di un radicato senso comune. In conclusione, per tornare all’interrogativo di partenza, ci sembra di poter dire questo. La rifondazione di una identità antagonista, per il Pci e per tutta la sinistra europea, è una condizione necessaria e possibile di una ripresa politica, ma è una condizione ardua da realizzare, e di per sé non sufficiente. Al contrario essa stessa può avvenire solo se e nella misura in cui, in un orizzonte di tempo più ravvicinato, si possa prevedere il perdurare e l’acuirsi di una crisi del sistema, in termini economici e politici, rispetto a se stesso e al suo funzionamento, e si offrano quindi concrete possibilità di intervenirvi per imporre alcune parziali ma incisive modificazioni degli assetti esistenti su cui una più lontana prospettiva possa crescere e definirsi. Se invece avessimo di fronte, nel prossimo futuro, un sistema capitalistico economicamente in sviluppo, politicamente abbastanza stabile, è ben difficile che le grandi forze di sinistra riescano a esprimere nuovamente una identità forte e antagonistica sul terreno della prospettiva lontana. Le «grandi contraddizioni della nostra epoca», in tal caso, probabilmente, si esprimeranno a lungo come disagio diffuso, esperienze di lotta disperse, testimonianze culturali eccentriche, rischiando a lungo di contribuire a una involuzione più che a un superamento dell’attuale società. E una forza come il Partito comunista italiano ben difficilmente potrà evitare sia il declino che l’omologazione. Ecco perché la riflessione sul Pci, e in generale sulla sinistra europea, per avere qualche serietà, deve trovare il suo principale terreno di verifica nell’analisi, nella previsione, nella proposta «di fase». La forma partito La questione del partito è quella rispetto alla quale si deve onestamente riconoscere che la svolta di Occhetto ha più giustificazioni, ma anche quella rispetto alla quale essa propone la soluzione più discutibile e pericolosa. La giustificazione sta nel fatto che su questo problema la riflessione
teorica collettiva è stata particolarmente povera e l’innovazione pratica timida e inconcludente. Il rinnovamento c’è stato, ma affidato alle cose, il nuovo si è sovrapposto al vecchio e ha proceduto senza progetto e senza vere scelte. Senza l’iniezione di nuove energie, nuove esperienze, culture e senza una rottura delle forme organizzative, lo «strumento» appare quindi ormai a tutti incapace di mettere a frutto anche la migliore delle politiche. Ma l’interrogativo è allora: in cosa deve consistere una rottura di continuità, e in che direzione deve andare? Quali sono cioè i veri «mali» da correggere ed estirpare, e quale partito serve nella società trasformata, per trasformarla? Quella che avanza è l’idea del moderno «partito leggero» non nel senso del partito dei pochi (questa semmai sarebbe una conseguenza non voluta). Ma nel senso di: un partito in cui iscritti e militanti perdono peso effettivo rispetto all’elettorato e alle associazioni federate; che utilizza le competenze così come le offre il mercato intellettuale; che aggrega forze su issues e programmi specifici; che, in sostanza, si propone di ascoltare, di interpretare la società (una sua parte), più che trasformarla, strumento più che soggetto, soprattutto rappresentanza istituzionale e collettore elettorale. Ora, non c’è dubbio che ciò costituisce una rottura profonda non solo di alcune forme organizzate della tradizione comunista – quelle su cui più facilmente e giustamente si è accanita la critica delle cose (centralismo, militanza politica come pratica assorbente, disciplina ecc.) – ma del suo fondamento teorico. Dell’idea cioè che il partito non deve essere solo «per i lavoratori», ma dei lavoratori, lo strumento attraverso il quale una classe per sua natura collocata in ruoli subalterni, e con una cultura subalterna, si trasforma via via, ma direttamente, in classe dirigente: lo strumento dunque senza il quale, a differenza della borghesia, il proletariato non può costituirsi in classe «per sé». Anzi, si può aggiungere che una tale rottura risulta ancora più radicale rispetto alla concezione gramsciana di quanto non lo sia rispetto allo stesso pensiero leninista. Perché nel partito leninista rimaneva pur sempre (almeno fino al socialismo realizzato) la dicotomia vera tra la massa proletaria confinata alla sua logica economicocorporativa e mobilitata alla politica nei momenti e su obiettivi generalissimi, e il partito di quadri portatore di una «scienza della rivoluzione» fondamentalmente identificata in una scienza della presa del potere. Mentre Gramsci mette al centro, come premessa dell’egemonia, la rivoluzione intellettuale e morale, cioè la autoeducazione collettiva di
un’intera classe, e addirittura cerca un fondamento materiale di questo processo nella dialettica tra proletariato e intellettuali, e tra pratica operaia e valori premoderni presenti nella società e nella cultura. Il partito è sede e strumento di tutto ciò appunto non solo in quanto di massa e militante, ma in quanto «intellettuale collettivo». Una tale concezione, a dire il vero, non si è mai tradotta in un partito reale (non lo fu neppure il partito nuovo di Togliatti nei suoi momenti migliori), ma non restò neppure confinata nei libri: prima e soprattutto dopo Gramsci uno degli elementi originali del movimento operaio italiano (perfino il vecchio socialismo prampoliano) fu proprio il suo carattere di agente di civilizzazione, di forza ideale che dava quel fondamento nuovo di cultura e moralità collettiva che la rivoluzione borghese in Italia non aveva avuto. Una rottura insomma non piccola. La prima constatazione che ci viene subito da fare però è che la rottura oggi proposta non è affatto tale rispetto al tipo di partito che domina la politica in Occidente, e rispetto anche a ciò che il Pci è spesso divenuto nei fatti e tende spontaneamente a essere. La «forma partito» come oggi si presenta nelle moderne democrazie occidentali è tendenzialmente proprio quella che si propone come «innovazione» vacua e apparente. E questo ci aiuta meglio a comprenderla. Perché guardando ai fatti si vede facilmente che un tale «partito leggero» – anche quando è di sinistra – non è leggero affatto e che il suo modo di «ascoltare la società» è di tipo assai particolare. È un «partito leggero» che sopperisce alla fragilità dei suoi legami di massa e alla precarietà del suo tessuto culturale con una forte accentuazione del ruolo personale del «leader»; che è gestito da apparati di potere non meno stabili e separati di quelli antichi (parlamentari quasi inamovibili, tecnici dell’informazione e dell’amministrazione, amministratori locali, manager delle cooperative, burocrazie sindacali) cioè pezzi dell’establishment; che deve costruire il consenso prevalentemente con l’uso dei media (o meglio cercandone il non disinteressato sostegno) e mediando corporazioni varie, buone e cattive. La conseguenza diretta è la passivizzazione politica delle classi subalterne al suo esterno (l’assenteismo nel voto) e al suo interno (come può chi non sa, chi non ha potere, diventare dirigente?). La conseguenza indiretta è un tipo di consenso elettorale che non regge, e non può reggere a prove di governo aspre, dunque una necessaria autoriduzione dei programmi, un «ascolto della società» che seleziona e rispetta i fondamentali rapporti di forza esistenti. Il «riformismo di basso profilo» diventa non una scelta, ma una necessità. Non stiamo descrivendo
solo i partiti conservatori e centristi (che poi in Italia assumono specificamente il carattere del partito-Stato) ma anche la moderna tendenza degli stessi partiti «progressisti: dal Partito democratico americano, a quelli socialisti francese o spagnolo. In parte è anche la tendenza già in atto nel Pci. Tutti sanno quindi, e alcuni dicono, in Occidente, che proprio questo è il punto di maggiore debolezza della sinistra: una ristrettezza della democrazia organizzata che l’espone all’assenteismo elettorale della povera gente, al ricatto dei media, all’egemonia culturale dell’avversario. Tutto ciò non avviene a caso, o per errori, ma in ragione diretta proprio con quelle novità della società cui si vorrebbe e si dovrebbe far fronte rinnovando la forma partito. Schematicamente, perché già a questi stessi fenomeni abbiamo accennato: a) la segmentazione del corpo sociale. La stessa classe operaia si articola, per il decentramento, in sedi fisiche, funzioni produttive, livelli produttivi molto più differenziati; ed è di continuo impoverita nelle sue avanguardie dalla maggiore mobilità sociale (spontanea o coatta). Cresce il peso di lavoratori – intellettuali, ma fortemente condizionati dalla cultura che li forma e dal ruolo che assolvono. Gli intellettuali in senso proprio sono parte organica di apparati potenti e strutturati. Gran parte della «povera gente» è costituita da emarginati (disoccupati, anziani, lavoratori precari). I «nuovi soggetti» legati a contraddizioni trasversali sono per loro natura fisicamente dispersi e spesso confliggenti; b) il ruolo assunto dai mezzi di informazione di massa non solo permette la manipolazione delle scelte politiche, ma informa culture, stili di vita, valori anche e soprattutto delle classi subalterne, forma e trasforma di continuo il senso comune, comunque dà all’opinione pubblica un carattere spontaneamente confuso e oscillante. Questo è il tipico popolo delle «primarie», architrave della macchina elettorale negli Stati Uniti; c) il potere di fatto, dietro la apparente complessità, e anzi grazie a essa, è molto concentrato, e si presenta con l’oggettività delle sole scelte apparentemente razionali e possibili; d) infine, ma non per ultimo, la scelta stessa, giusta e obbligata della «democrazia» e delle sue regole, comporta un prezzo: la stabilizzazione per decenni – anche nelle forze di sinistra – di un personale politico diffuso e professionalizzato, integrato nella sua quotidianità ai modi di pensare, di agire, spesso ai privilegi dei ceti dominanti. In sostanza: non è vero solo che i partiti «occupano» lo Stato e la società; è vero anche che ne
«sono occupati». È per questo che, proprio oggi, e in conseguenza delle trasformazioni già in atto, per fare non dico la rivoluzione, ma anche vere riforme, è più di ieri necessaria una soggettività organizzata, autonoma, capace di autotrasformazione dei protagonisti stessi di un mutamento possibile. In questo senso il tema del partito non solo di «massa» ma militante, intellettuale collettivo, non è assolutamente archiviabile; e limitarsi a rinnovarlo, anziché problematizzarlo, vuol dire semplicemente arrendersi al continuismo assoluto. E in questo senso, d’altra parte, appare assurdo liquidare un’esperienza che pure è stata vitale. In che cosa può consistere, allora e invece, una innovazione vera, teorica e pratica? Un partito «di massa, militante, intellettuale, collettivo», il Pci lo è stato solo in parte, da tempo non lo è più, e comunque, nel modo in cui era stato pensato non potrebbe e non dovrebbe esserci. Sul primo punto. Partiamo da alcune constatazioni di fatto che riguardano, più che ciò che pensa di sé, la sua costituzione materiale. Su questo occorrerebbe una grande ricerca e un’analisi diffusa. Ma alcuni dati sono immediatamente evidenti. La composizione per età. La media dei 1400000 iscritti supera ormai i cinquanta anni. Gli iscritti con meno di 25 anni (1,9%) sono inferiori per numero a quelli con più di 80 anni. Quelli con meno di 30 anni (cioè la vera forza dinamica della società) sono meno di quelli con più di 70 anni. La Federazione giovanile, dopo un tentativo di rifondazione che aveva dato qualche risultato, ha ripreso a declinare. La composizione di classe. In apparenza il partito è ancora larghissimamente a base operaia e popolare. La sua composizione sembra stabile nei decenni. Dico in apparenza però perché è molto cresciuta ovviamente la percentuale dei pensionati, ed è irrilevante la presenza delle nuove figure professionali del lavoro dipendente. Ma soprattutto perché si è incredibilmente accentuata la difficoltà a rappresentare quella composizione sociale nelle funzioni dirigenti. Se si pensa quale straordinaria fioritura di élite operaie si sia avuta negli anni settanta, colpisce quanto poco ne sia rimasto nei gruppi dirigenti del Pci. E tanto più si ha ragione di temere che questa tendenza si aggravi in una fase in cui spontaneamente quelle élite non si formano più.
L’attività politica delle strutture di base è diventata fondamentalmente ristretta, si concentra su obiettivi di autoriproduzione (tesseramento) o di propaganda (campagne elettorali, feste dell’Unità), e nei casi di maggior vitalità (piccoli e medi centri) sulle vicende dell’amministrazione locale. Al contrario il rapporto con lotte e sedi di conflitto reali appare logorato o delegato: al sindacato, ai movimenti (pacifista o ecologista) alla cui vicenda quotidiana si è relativamente estranei. La sola eccezione positiva, non a caso, è quella delle donne comuniste. I gruppi dirigenti periferici vivono crescenti difficoltà: la loro base di selezione si restringe, difficilmente provengono da esperienze reali di lotta sociale e culturale, la loro vita materiale è dura ma senza grandi risarcimenti di ruolo e ideali. Il potere reale è diviso da una molteplicità di apparati tra i quali quello di partito non è né il più numeroso né il più valorizzato. Il gruppo dirigente centrale ha perduto l’autorità indiscussa, ben prima della recente crisi, e comunque agisce per impulsi, messaggi, più che attraverso un meccanismo efficace di discussione, decisioni, verifica della loro attuazione e dei loro risultati. L’attività formativa si è molto indebolita, sia nei confronti dei quadri di base, sia come capacità di elaborazione, trasformazione del ceto intellettuale. La forma ormai tipica del rapporto partito-intellettuali è quella degli indipendenti, comunque degli «esperti» separati dalla vita politica attiva. La stampa di partito vive una crisi evidente, la stessa informazione politica è mediata dagli organi indipendenti. L’elenco potrebbe continuare: ma queste osservazioni bastano a convincere che, sulla questione del partito, delle sue forme organizzative, una rottura è necessaria. Essa ovviamente non può compiersi in termini di restaurazione di una concezione classica: perché due punti decisivi dello stesso discorso gramsciano sul partito (il suo carattere di soggetto «totalizzante», il suo ruolo pedagogico) sono messi in discussione, oltre che dall’esperienza, dalle novità sociali. Una soggettività antagonista non si esaurisce più nel partito, il partito ne è solo una componente, sia pure essenziale. Ma con quali funzioni, e dunque con quali forme organizzative? Il problema non è solo tra i più complessi e difficili da affrontare, ma è anche impossibile risolverlo a tavolino senza un’esperienza in progress, senza poter aver chiaro quali sono le forze che via via si possono mettere
in campo e cui dare adeguate forme organizzative: ciò che si può e si deve avere soprattutto è una certa chiarezza sulla direzione in cui si vuole trovare risposta. Qualche punto, in modo molto problematico, e con qualche accentuazione azzardata, vorremmo però proporlo. Una nuova forma partito, per esistere, e con i caratteri che diciamo, ha bisogno di qualcosa che se non prima, quanto meno insieme con lei, cresca fuori di lei; cosicché il «limite» del partito (concetto giusto ma insieme equivoco) non sia semplicemente rappresentato dalla società come insieme amorfo, o dalla individualità atomizzata. Ha cioè bisogno di una democrazia organizzata, di movimenti di massa, che pur partendo da tematiche e conflitti precisi abbiano la permanenza e la forza di essere soggetti politici e siano riconosciuti come tali. E dunque il rapporto tra partito e massa (il cosiddetto carattere di massa del partito) non si presenti più come la sovrapposizione di una «coscienza generale» alla spontaneità economico-corporativa e tanto meno come sovrapposizione dell’apparato politico-istituzionale a un’opinione pubblica atomizzata cui si chiede solo il consenso. Negli ultimi due decenni esperienze embrionali in questa direzione in Italia ci sono state, straordinariamente ricche: nella classe operaia soprattutto (i consigli degli anni settanta), poi nel pacifismo e nell’ambientalismo degli anni ottanta, infine e soprattutto attraverso il movimento delle donne. Oggi quasi solo quest’ultimo ha conservato questo tipo di tensione. L’ambientalismo è stato troppo presto risucchiato nella scorciatoia elettoralistica, il pacifismo ha vissuto una fase di declino, la crisi della struttura consiliare in fabbrica è grave. E tuttavia su questi e altri terreni permane, e in certi casi nasce per la prima volta (lotta alla mafia, volontariato sociale su sanità o droga, immigrati) una evidente potenzialità di autorganizzazione sociale. Il Pci, per cultura e per modo di lavorare, non ha mai riconosciuto a fondo la necessità di questa dialettica: in certi casi ne ha diffidato, in altri ha cercato di assorbirla, in altri ha stabilito un rapporto esclusivo con le sue espressioni istituzionali. Ora, la linea che punta a una unificazione dei movimenti in un partito, o alleanze elettorali (del tipo appunto americano), è la falsa soluzione al problema. Al contrario occorre riconoscere l’autonomia dei movimenti, lavorarci «dentro», e d’altra parte affermare reciprocamente la propria autonomia, confrontarsi con loro e non solo «rappresentarli». Senza questa dialettica non esistono i «materiali» su cui e grazie ai quali costruire una nuova egemonia.
Ma per questo occorre anche creare le condizioni strutturali e istituzionali minime per la crescita di una democrazia organizzata, di una soggettività collettiva. Mi riferisco anzitutto alle due grandi strutture che condizionano la soggettività in una società moderna in modo sempre più pervasivo. Se non si rompe il carattere centralistico-burocratico della scuola (che la rende ormai incapace di creare alcuno spirito critico, alcuna identità personale e nel contempo approfondisce di nuovo il solco tra élite e classi subalterne), ma senza cadere nella logica della scuola come strumento di trasmissione delle esigenze del capitale e del mercato, non è possibile che qualsiasi esperienza di massa superi il confine del particolarismo e del gruppo di pressione. Nel contempo se non si affranca il sistema dei mezzi di comunicazione non solo dai più pesanti poteri che lo dominano ma dalla logica che li costituisce come puro mercato, la costituzione di una soggettività autonoma diventa insolubile. Questa premessa porta a novità radicali nella concezione del «partito nuovo» di Togliatti e tanto più nelle nostre attuali forme organizzative. La prima delle quali riguarda il significato stesso della parola «partito di massa». In realtà il «partito di massa» è stato caratterizzato dalla compresenza di due realtà abbastanza separate: il partito di quadri che, attraverso un tessuto militante molto attivo ed entusiasta ma relativamente poco partecipe dell’elaborazione politica generale, si collegava a un «popolo comunista» principalmente sul terreno delle grandi opzioni ideologiche (l’antifascismo, il socialismo reale) e della pratica rivendicativa immediata (sindacato, cooperative, associazioni di categoria). Oggi questa separazione è diventata più profonda: ceto politico e opinione pubblica. Occorre allora, quantomeno distinguere tra partito e istituzioni, spostare l’accento sul partito come agente e organizzatore della società, sul suo ruolo di promotore del conflitto e di stimolo di una riforma intellettuale e morale. Quello che Gramsci chiamava (spero di non essere stupidamente equivocato) «spirito di scissione», non a caso lamentando proprio nella storia italiana la mancanza della Riforma religiosa, o dell’Illuminismo, come basi fondanti di una nuova diffusa identità collettiva. Qualcosa di più che una semplice autonomia culturale, e molto di più di una generica scelta di valori fondanti: è la fusione di valori, analisi della realtà, progetto di trasformazione che dia un senso profondo alla politica e che per ciò stesso
sia in ogni momento, giorno per giorno, strumento di critica e di trasformazione della vita personale. Fondamento etico e non solo intellettuale. Non è questo il senso radicale della critica delle donne alla politica maschile; non questa la radice dell’inattesa e spesso fondamentalista ripresa della presenza religiosa nella vita sociale; non è questa la nuova e maggiore «miseria» dei moderni partiti di sinistra e di ciascuno di noi, anche quando ci proclamiamo comunisti? Esaurita la spinta pericolosa del populismo e quella altrettanto fallace del «partito chiesa» è rimasta la realtà del partito come settore dell’apparato pubblico. C’è un fondamento, una base materiale per affrontare la rifondazione di questa tensione ideale, che diventa, diceva Marx, forza materiale, in una società così frammentata e secolarizzata, senza il corto circuito del fondamentalismo? Probabilmente la risposta va ricercata nel fatto che finalmente emergono contraddizioni sociali-qualitative le quali consentono al partito delle classi subalterne di uscire dai confini dell’integrazione o della rivolta, di esprimere un punto di vista radicalmente antagonistico ma anche «in positivo». Perciò è di decisiva importanza, e noi non intendiamo rimuoverlo, il tema del rapporto con altre culture, altre soggettività esterne e a volte conflittuali con la nostra tradizione: a una condizione, che non si avvilisca alla banalità del «contagio», dell’eclettismo, che si cerchi realmente una sintesi provvisoria in ogni momento, e in questo rapporto ciascuno valorizzi la sua ricchezza e identità.
Indice Il sarto di Ulm ................................ Errore. Il segnalibro non è definito. Introduzione............................................................................................ 4 1. L’eredità ........................................................................................... 20 1.1 Il fardello dell’uomo comunista ................................................... 20 1.2 Il genoma Gramsci ....................................................................... 38 2. Un atto fondativo, la svolta di Salerno .............................................. 44 2.1 La Liberazione ............................................................................. 44 2.2 I governi di unità nazionale, 1944-1947 ....................................... 51 2.3 Il partito nuovo ............................................................................ 55 3. Sul filo della Terza guerra mondiale ................................................. 60 3.1 La guerra fredda di lunga durata .................................................. 61 3.2 La grande sorpresa ....................................................................... 64 3.3 La nuova guerra fredda ................................................................ 65 3.4 L’invenzione del Patto atlantico ................................................... 72 4. I comunisti e la nuova guerra fredda ................................................. 78 4.1 La replica di Stalin ....................................................................... 78 4.2 L’errore del Cominform ............................................................... 82 4.3 Gli anni duri ................................................................................. 88 5. Lo choc del XX congresso ...............................................................100 5.1 L’avvio della destalinizzazione ...................................................102 5.2 Il XX congresso e il Rapporto segreto ........................................105 5.3 Polonia o Ungheria .....................................................................111 6 Il Pci nella destalinizzazione .............................................................118 6.1 Togliatti e il Rapporto segreto.....................................................119 6.2 La seconda tempesta ...................................................................125 6.3 L’VIII congresso .........................................................................130 7. Il caso italiano..................................................................................135 7.1 Il miracolo economico ................................................................138 7.2 La ripresa operaia........................................................................147 8. Il centrosinistra ................................................................................153 9. Il Pci di fronte al neocapitalismo......................................................163 9.1 Destra e sinistra...........................................................................163 9.2 Le tendenze del neocapitalismo ..................................................169 9.3 Modello di sviluppo e riforme di struttura...................................171 10. L’XI congresso ..............................................................................176 10.1 La legittimità del dissenso.........................................................176 10.2 Urss e Cina................................................................................182
11. Il lungo Sessantotto italiano ...........................................................189 11.1 La centralità operaia ..................................................................191 11.2 Studenti e dintorni .....................................................................197 11.3 Il Concilio ecumenico ...............................................................208 12. Il Pci di fronte al Sessantotto .........................................................213 12.1 Il prologo ..................................................................................215 12.2 Praga resta sola .........................................................................220 12.3 Il partito e i movimenti..............................................................223 12.4 Longo, Berlinguer .....................................................................227 12.5 La radiazione del manifesto ......................................................229 13. Verso il finale di partita .................................................................236 13.1 La crisi economica ....................................................................237 13.2 Un matrimonio mai consumato .................................................244 13.3 I primi passi di una politica .......................................................245 14. Il compromesso storico come strategia ..........................................251 15. Dall’apogeo alla sconfitta ..............................................................259 15.1 Il dilemma del 1976 ..................................................................262 15.2 La grande coalizione e il suo fallimento....................................268 15.3 Omissioni, reticenze, bugie .......................................................270 16. Quel che bolliva in pentola. In Italia ..............................................282 16.1 Il miracolo al ribasso.................................................................282 17. Quel che bolliva in pentola. Nel mondo .........................................296 17.1 L’ultima guerra fredda ..............................................................296 17.2 Crisi all’Est ...............................................................................299 17.3 Kissinger, geniale quanto cattivo ..............................................301 17.4 Il nuovo vento dell’Ovest ..........................................................309 18. I fatali anni ottanta .........................................................................314 18.1 Il secondo Berlinguer ................................................................316 18.2 Il recupero del conflitto di classe ..............................................318 18.3 La questione morale ..................................................................323 18.4 Lo strappo .................................................................................325 18.5 Un bilancio provvisorio ............................................................330 19. Natta, il conciliatore .......................................................................337 20. Andropov, Gorbačëv, Eltsin...........................................................345 20.1 La Perestrojka ...........................................................................347 20.2 Il collasso ..................................................................................351 21. La fine del Pci ................................................................................357 21.1 L’operazione Occhetto ..............................................................358 21.2 L’unanimità sorprendente .........................................................360
21.3 La Bolognina, i sì e i no ............................................................362 21.4 Le tre scissioni ..........................................................................368 Appendice Una nuova identità comunista (1987) ...............................373 Abbondanza e povertà, bisogni e consumi ........................................384 La questione del lavoro .....................................................................389 La forma partito ................................................................................408