ROSS MacDONALD IL SANGUE NON È ACQUA (The Zebra Striped Hearse, 1962) 1 Quella mattina m'ero assentato dall'ufficio per ...
23 downloads
551 Views
593KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ROSS MacDONALD IL SANGUE NON È ACQUA (The Zebra Striped Hearse, 1962) 1 Quella mattina m'ero assentato dall'ufficio per andare a bere un caffè, e tornando la trovai che m'aspettava davanti alla porta. Le donne che di solito incontro nel buio corridoio sono ragazze piene d'aspirazioni ma prive di reali prospettive, dipendenti dall'agenzia di modelle: ma quella era diversa. Aveva uno stile, per quanto anche lei fosse molto truccata, e doveva essere su per giù della mia età. Se un uomo ha buon senso, quando invecchia anche le donne che apprezza invecchiano con lui. Il male è che per lo più sono già sposate. — Sono la signora Blackwell — disse. — Voi dovete essere il signor Archer. Lo ammisi. — Mio marito ha appuntamento con voi tra una mezz'ora. — Consultò un orologetto da polso su cui scintillavano piccoli brillanti. — È già un po' che vi aspetto. — Scusate. Non prevedevo il piacere d'una vostra visita. L'unico appuntamento di stamattina è quello con vostro marito, il colonnello Blackwell. — Benissimo. Potremo parlare. Aveva molto fascino, ma non cercava di esercitarlo su di me. La feci passare nell'anticamera e poi nel mio ufficio, e le accostai una sedia. Sedette bene eretta, con la borsetta nera sotto il braccio, e si guardò attorno. Le fotografie di ricercati appese alle pareti parvero turbarla: forse la rendevano consapevole del luogo in cui si trovava e del mestiere che facevo per sbarcare il lunario. Mi piaceva molto: i suoi occhi scuri erano intelligenti e pieni di calore ma la bocca aveva una piega triste. Il suo viso era di chi ha conosciuto il dolore e sta per rinnovarne la conoscenza. — Forse, venendo qui, mi sono messa in una situazione falsa — disse. — Non dovete pensare che io e mio marito siamo in disaccordo: ma è così brutto quello che si propone di fare... — Non è entrato in particolari, per telefono. Vuole divorziare? — Dio buono! No di certo. Non ci sono problemi del genere nel nostro matrimonio. — Forse la sua protesta era un po' troppo violenta. — È per la
figlia di mio marito che mi preoccupo... Che ci preoccupiamo, anzi. — La vostra figliastra? — Sì; ma la parola non mi piace. Ho cercato di essere qualcosa di meglio d'una matrigna per lei. Ma sono capitata troppo tardi vicino ad Harriet: ha perduto sua madre quand'era bambina. — La madre è morta? — Pauline è viva e vegeta. Ma ha divorziato da Mark quando Harriet aveva undici o dodici anni. Un fatto del genere può essere molto penoso per una ragazzina alle soglie della pubertà: non ho saputo fare molto per Harriet. È adulta, ormai, e naturalmente mi considera con sospetto. — Perché? — È naturale, quando un uomo si risposa. Harriet e suo padre sono sempre stati molto uniti: m'intendevo meglio con lei, prima di sposarlo. — La signora cambiò posizione e spostò l'attenzione da se stessa a me. — Avete figli, signor Archer? — No. — Siete mai stato sposato? — Sì, ma non ha importanza: non siete venuta qui per parlare della mia vita privata... Anzi, non mi avete ancora detto perché siete venuta qui, e fra poco arriverà vostro marito. Guardò l'orologio e si alzò, forse senza rendersene conto: la tensione l'aveva spinta fuori della sedia. Le offrii una sigaretta, ma la rifiutò. Ne accesi una per me. — Avete un po' paura di lui, o mi sbaglio? — Vi sbagliate — replicò, decisa. — Ho paura soltanto di deluderlo: Mark ha bisogno di potersi fidare di me. Io non voglio fare niente alle sue spalle. — Eppure siete venuta qui. — Sì, ci sono venuta. — Tornò a sedersi. — Sarò sincera con voi, signor Archer. Il piano di battaglia di Mark non mi piace e gliel'ho detto. Ho fatto del lavoro in campo sociale e ho un'idea di quel che significa essere una ragazza al giorno d'oggi. È meglio lasciare che la natura faccia il suo corso: che Harriet sposi l'uomo che preferisce, se proprio vuole; così penso io. Ma mio marito si oppone alla scelta di sua figlia e si è deciso a ricorrere a qualcosa di drastico. — Il "qualcosa di drastico" sarei io? — Anche. Ha parlato perfino di pistole. Non che io prenda sul serio tutto quello che dice Mark — soggiunse in fretta la signora.
— Io prendo sempre sul serio le pistole. Cosa vorreste che facessi? Lo sguardo della signora era tornato alle fotografie sulle pareti: assassini, truffatori, bigami la guardavano con occhi sfrontati. — Be', non posso certo chiedervi di rifiutare l'incarico che Mark vuole darvi. Comunque, non servirebbe: si troverebbe un altro investigatore e lo sguinzaglierebbe sulle tracce di Harriet e del suo... amico. In realtà volevo soltanto spiegarvi la situazione: da Mark ne avrete un'idea piuttosto unilaterale. — Da voi, per ora, ne ho avuto un'idea assai vaga. Abbozzò un sorrisetto. — Cinque settimane fa Harriet è andata in Messico, annunciando di voler far visita a sua madre, che vive sul lago Chapala, e per dipingere un po'. Ma il fatto è che con sua madre non ha rapporti troppo cordiali, e del suo talento di pittrice non val la pena parlare. Secondo me è invece andata là appositamente per trovare un uomo, un uomo qualunque. Vi sembrerò cinica, ma lasciatemi aggiungere che, date le circostanze, avrei fatto anch'io la stessa cosa. — Che circostanze? — Il secondo matrimonio di suo padre con me. È subito stato evidente che Harriet non era felice con noi. Fortunatamente per lei e per noi tutti la sua piccola spedizione in Messico ha avuto successo: ha trovato un amico e l'ha riportato indietro vivo. — E questa preda ha un nome? — Si chiama Burke Damis ed è un giovane pittore. Non ha una posizione ma è attraente. Non ha denaro, ed è un altro dei motivi per cui Mark lo detesta, ma ha capacità artistiche, molto più di Harriet. E, dopotutto, lei avrà denaro sufficiente per due. Col talento di Burke e la sua prestanza, e col denaro e la devozione di lei, secondo me il matrimonio dovrebbe funzionare. — Harriet avrà del denaro? — Molto, e fra poco. Una sua zia le ha lasciato un patrimonio di cui verrà in possesso a venticinque anni. Ora ne ha ventiquattro, cioè quanti bastano per poter prendere decisioni e sottrarsi al dominio di Mark... — La donna fece una pausa, come accorgendosi d'essersi lasciata trasportare troppo lontano. — Non voglio malignare dietro le spalle di mio marito. È un brav'uomo, ma spesso sbaglia, per affetto. Non è la prima volta che manda all'aria una relazione di Harriet, ma se vi riuscisse anche ora ci troveremmo ad avere in casa una ragazza disperata. Non è un bene, per Harriet, vivere all'ombra di suo padre... Mark ha una personalità prepotente.
Come per sottolineare quell'osservazione, una profonda voce maschile provenne dall'anticamera. — Isobel, sei qui? — disse, al di là del vetro smerigliato. La donna trasalì come se l'avesse colpita la folgore; poi cercò di farsi piccola. — C'è un'altra uscita? — sussurrò. — No, purtroppo. Devo mandarlo via? — Non fareste che peggiorare le cose. Il marito stava abbassando la maniglia; al di là del vetro si scorgeva la sua sagoma confusa. — Ho visto la tua macchina nel parcheggio e voglio sapere: cosa fai qui, Isobel? La donna non rispose. Andò alla finestra e guardò fuori, ansiosa. Era molto agitata e qualcosa destò il mio istinto di protezione. Socchiusi la porta e scivolai fuori, chiudendola alle mie spalle. Era il mio primo incontro con il colonnello Blackwell: la sua telefonata del giorno prima era stata il nostro solo contatto. Poi avevo assunto qualche informazione sul suo conto, e avevo saputo che era un ex ufficiale dell'esercito, ritiratosi a vita privata. Blackwell era un omaccione che cominciava a perdere la sua battaglia contro l'età. Il suo viso bruno, da persona avvezza a vivere all'aperto, faceva parere prematura la chioma bianca. Si teneva dignitosamente eretto, ma il suo corpo cominciava a rattrappirsi: la giacca gli pendeva dalle spalle e il colletto della camicia era notevolmente troppo largo per il suo collo dai tendini rilevati. Le sopracciglia sporgenti erano la caratteristica più saliente del suo viso e gli davano l'aspetto d'un imperatore romano. Ancora nere, in contrasto con i capelli, si univano al centro formando una riga lungo tutta la fronte. Sotto, gli occhi erano stranamente incerti. Cercò, gridando, di soffocare quell'incertezza. — Voglio sapere cosa succede. Mia moglie è là dentro, vero? Lo guardai, fingendo di non comprendere. — Vostra moglie? Ci conosciamo? — Sono il colonnello Blackwell. Vi ho telefonato ieri. — Avete qualche documento d'identità? — Non c'è bisogno di documenti! Vi dico che sono Blackwell! — Il viso abbronzato era diventato rosso, poi paonazzo. Lasciai che si sfogasse. — Siete davvero il colonnello Blackwell? — chiesi ancora. — Da come siete arrivato, strillando, credevo che aveste
sbagliato uscio. Capita spesso. Una donna dall'alta capigliatura rossastra si affacciò alla porta del corridoio. Era la signorina Ditmar che gestiva la vicina agenzia di modelle. — Che succede? — Niente. Facevamo una gara d'urli. Questo signore ha vinto. La porta del mio ufficio si aprì. La signora Blackwell aveva ripreso il dominio di se stessa. — Chiedo scusa per tutti e due — disse, con uno sguardo a suo marito. — Non avrei dovuto venire qui a mettervi in imbarazzo, signor Archer. — Non è la prima volta: mi diverte. Gli occhi del colonnello avevano un'espressione offesa: come se la giovane moglie, rivolgendosi a me, l'avesse respinto. — Dobbiamo ricominciare in chiave più bassa? — fece, con un sorriso forzato. — Vada per la chiave più bassa, colonnello. Sentirsi chiamare con il suo grado gli fece bene. Girò lo sguardo per la mia anticamera, come se pensasse che fosse ora di farla tinteggiare. Anche a me lanciò un'occhiata dello stesso genere. — Vi raggiungo subito in ufficio. Prima accompagno mia moglie all'automobile. — Non occorre, vado da sola. — Insisto, mia cara. Le offrì il braccio e si allontanarono. Sebbene lui fosse più alto e arrogante, si aveva l'impressione che fosse la moglie a sostenerlo. Isobel Blackwell mi piaceva, ma mi sorpresi a sperare che suo marito non tornasse. 2 Invece tornò, con un'espressione alquanto contrariata. Strinsi la mano che mi porgeva sopra la scrivania, ma continuai a non trovarlo simpatico. Se ne rese conto, cosa sorprendente in un uomo del suo tipo, e fece un tentativo obliquo per chiedere la mia comprensione. — Non sapete che cosa sto passando... Le forze combinate delle donne della mia famiglia... — Fece una pausa e decise di non finire la frase. — La signora Blackwell mi stava appunto dicendo... — Non credeva di far male venendo qui. — A quanto mi è parso di capire la pensate diversamente circa il vostro aspirante genero. — Burke Damis non è il mio futuro genero. Non ho nessuna intenzione
di permettere il matrimonio. — Perché? Si accigliò. — Mia moglie pensa, come tutte le donne, che i matrimoni siano combinati dal cielo. A quanto pare vi ha reso partecipe di questa convinzione. — Vi ho solo fatto una domanda. Non volete accomodarvi, colonnello? Sedette, rigido. — Quell'uomo è un cacciatore di dote, e peggio. Sospetto che il suo mestiere sia sposare donne ricche e stupide. — Avete delle prove? — Le prove le ha stampate in faccia; sono nei suoi modi, nel genere di relazione che ha con mia figlia. È il tipo d'uomo che la renderebbe infelice, a dir poco. La preoccupazione per la figlia dava alla sua voce toni umani. — Harriet gli offre tutto... denaro, amore, le sue doti, che non sono poche. Damis non offre nulla. È un nulla, anzi: un uomo venuto da chissà dove, da Marte. Dice di essere un pittore, ma io m'intendo di pittura e non gli farei dipingere nemmeno i muri d'un fienile. Nessuno ha mai sentito parlare di lui: mi sono informato. — In che modo? — Ho chiesto di lui al direttore d'un museo di New York, ma il nome Burke Damis non gli dice niente. — In America i giovani pittori sono molti e ne spuntano sempre di nuovi. — Sicuro, e molti sono impostori. Burke Damis è appunto uno di quelli. Anzi, credo che anche il nome sia falso. — Che cosa ve lo fa pensare? — Ho cercato di farlo parlare della sua famiglia: ha risposto sempre evasivamente. Ha detto che veniva da Guadalajara, nel Messico, ma non è un messicano. Ha ammesso di essere nato negli Stati Uniti ma non ha voluto dire dove. Non ha voluto dirmi né chi era suo padre né cosa facesse, e nemmeno se ha dei parenti. Quando l'ho messo alle strette ha dichiarato d'essere orfano. — Forse lo è. I ragazzi poveri sono talvolta molto sensibili; specialmente di fronte a un interrogatorio. — Non è un ragazzo: ed è sensibile quanto un maiale selvatico. Il colonnello si passò una mano sulla testa, badando bene a non sciupare l'onda dei capelli bianchi, spazzolati meticolosamente. — Non so cosa vi abbia detto mia moglie, ma il fatto è che mia figlia, la mia figlia amatissi-
ma, per quanto riguarda gli uomini è una povera sciocca. Harriet ha un gran desiderio di sposarsi, ma disgraziatamente ha anche la specialità di scegliere sempre le persone meno adatte. Non fraintendetemi: vorrei che si sposasse, ma con un uomo perbene e al momento giusto. Quest'idea di mettersi con un individuo che conosce appena... — Da quanto tempo lo conosce, esattamente? — Da un mese, non di più. L'ha pescato ad Ajijic, sul lago Chapala. Son stato anch'io nel Messico, e so con che gente ci si può trovare immischiati, se non si sta attenti. Non è il posto adatto a una ragazza per bene: ora capisco che non avrei dovuto lasciarla andare. — Sareste riuscito a trattenerla? Un'ombra oscurò gli occhi del colonnello. — Non ho nemmeno provato. Harriet aveva passato un brutto inverno e vedevo che le occorreva un cambiamento. Credevo che sarebbe andata da sua madre, la mia ex moglie, che abita ad Ajijic. Avrei dovuto sapere che su Pauline non si può contare: l'ha abbandonata a se stessa. — Scusate se ve lo dico, ma parlate di vostra figlia come se non fosse normale. È forse mentalmente ritardata? — Tutt'altro. Harriet è una ragazza normalissima e intelligente. In gran parte l'ho educata io stesso: quando Pauline ha deciso di abbandonarci, sono stato padre e madre per lei. Mi addolora doverle dire di no, per questo matrimonio. Lei lo immagina come un paradiso: ma non durerebbe neanche sei mesi. Anzi, sei mesi forse sì: il tempo necessario perché quell'uomo metta le mani sul suo denaro. — Il colonnello mi lanciò un'occhiata obliqua. — Senza dubbio mia moglie vi ha detto che c'è di mezzo molto denaro. — Non mi ha detto quanto. — La mia defunta sorella Ada ha lasciato un patrimonio di mezzo milione di dollari ad Harriet che ne verrà in possesso al suo prossimo compleanno. E almeno altrettanto avrà quando io... non ci sarò più. Il pensiero della propria morte lo rattristava: poi la tristezza si mutò in collera. Si protese e batté un pugno sulla scrivania: — Non voglio che un ladro ci metta sopra le zampe! — Siete proprio sicuro che Damis sia un cacciatore di dote? — Conosco gli uomini, signor Archer. — Allora parlatemi degli altri individui che Harriet voleva sposare. Può essermi utile per capire il suo modo di comportarsi. — "E quello del padre", pensai.
— Uno era un uomo di quarant'anni con figli, che aveva già divorziato due volte. Poi c'è stato un tale con la barba che pretendeva d'essere un cantante. Un altro era un arredatore di Beverly Hills, un tipo equivoco. Tutti loro non cercavano che il denaro di Harriet: quando se lo sentirono dire si sono ritirati, più o meno spontaneamente. — E Harriet? — Ha capito. Ora li giudica come io li ho giudicati fin dal primo momento. Se potremo impedirle di agire precipitosamente, vedrà chiaro anche in Damis, come ci vedo chiaro io. — Dev'essere comodo avere i raggi X negli occhi. Mi scoccò uno sguardo malevolo da sotto le formidabili sopracciglia: — Quest'osservazione non mi piace. Se non sbaglio il mio problema vi lascia tiepido: mia moglie vi ha convinto facilmente. — Vostra moglie è una signora molto attraente e forse anche molto saggia. — Può darsi. Damis ha abbindolato anche lei: dopotutto non è che una donna. Ma mi stupisco che ci caschiate voi pure: mi era stato detto che la vostra era una delle migliori agenzie di Los Angeles. — Chi ve l'ha detto? — Peter Colton, dell'ufficio del Procuratore Distrettuale. Mi ha assicurato che non avrei potuto trovare di meglio. Ma devo dire che non state dimostrando doti da segugio. — Il segugio l'avete già fatto voi. Vi siete presentato con le conclusioni già belle e pronte. Ma non avete prove. — Tocca a voi trovarle. — Se ci sono. Non ho intenzione di fabbricarne per confermare i vostri pregiudizi: farò indagini sul conto di Damis, a patto che mi sia permesso dire la verità. Girò attorno il suo sguardo da imperatore romano. — Siete abituato a dettare le condizioni ai clienti, voi? — Le condizioni ci sono sempre. Qualche volta è necessario precisarle: ho una licenza da conservare, nonché una reputazione. Ricominciava a diventar rosso. — Se mi considerate una minaccia alla vostra reputazione... — Non ho detto questo: ho detto che ho una reputazione da salvaguardare. Mi fissò cercando di farmi abbassare gli occhi: ma aveva troppo bisogno del mio aiuto. — Naturalmente, quello che desidero è un'indagine impar-
ziale — disse. — Se avete avuto un'altra impressione mi avete frainteso. Mia figlia mi è immensamente cara, capitelo bene. — Vorrei sapere qualche altra cosa sul suo conto. Da quanto tempo è tornata dal Messico? — Da una settimana. — È il diciassette luglio: significa che è tornata il dieci? — Vediamo: era lunedì. Sì, è tornata con l'aereo il dieci luglio. Sono andato a prenderli all'aeroporto all'ora di pranzo. — C'era anche Damis? — Eccome! E sono cominciati i guai. Abbiamo avuto subito delle discussioni in famiglia: Harriet è molto ostinata e Isobel, come sapete, è dalla sua parte. — Avete parlato con Damis? — Sì, due volte. Lunedì scorso abbiamo pranzato all'aeroporto tutti e tre: lui parlava di pittura, e Harriet pendeva dalle sue labbra. Naturalmente a me non ha fatto impressione. Ma è stata la seconda volta che ho cominciato a sentire odore di marcio: è venuto a cena sabato sera; Harriet mi aveva già confidato che progettavano di sposarsi e ho colto l'occasione per parlargli a quattr'occhi. È stato allora che mi ha dato quelle risposte evasive. Ma su un punto, almeno, non è stato evasivo affatto: ha ammesso di non avere un centesimo. E al tempo stesso, girava per la mia casa come se ne fosse già il proprietario: gli ho detto che prima avrebbe dovuto vedermi morto. — Gli avete detto questo? — Più tardi, dopo cena. Figuratevi che l'ho scoperto in camera mia, intento a frugare nel mio guardaroba: gli ho chiesto cosa volesse e mi ha risposto con sfrontatezza che faceva uno studio sul modo di vivere dell'altra metà della gente. Ho replicato che non l'avrebbe scoperto a mie spese e a spese della mia famiglia. L'ho invitato a lasciare la casa e, giacché c'era, anche l'altra abitazione di mia proprietà, che occupa. Ma è arrivata Harriet che mi ha fatto... ritirare il suggerimento. — Damis vive in una casa che appartiene a voi? — Temporaneamente. Il primo giorno Harriet mi aveva convinto a metterla a sua disposizione. Diceva che lei aveva bisogno di un posto in cui dipingere e io ho acconsentito a lasciargli usare la villetta sulla spiaggia. — Ed è ancora lì? — Presumo. Non sono nemmeno sposati e già fa lo scroccone; ve lo ripeto: quell'uomo è un professionista.
— Molti giovani pittori sconosciuti non si peritano di accettare offerte: tutto quello che vogliono è luce da nord e denaro sufficiente per mangiare e comperare i colori. — A proposito — disse subito il colonnello — Harriet gli ha dato anche del denaro. Ieri, dopo aver telefonato a voi, ho guardato nel suo libro dei conti. — Esitò. — Non mi piace spiare, ma quando si tratta di difenderla... — Da che cosa cercate di difenderla, esattamente? — Dalla rovina. — La voce del colonnello era grave, minacciosa. — Dalla rovina completa. Ho qualche esperienza del mondo e so cosa può succedere se si sposa chi non si dovrebbe. Aspettai che si spiegasse, chiedendomi se alludesse alla sua prima moglie; ma non soddisfece la mia curiosità. — I giovani non approfittano mai delle esperienze dei loro genitori — riprese. — È un tragico spreco. Ho parlato ad Harriet fino a diventare rauco, ma quell'uomo l'ha completamente in pugno. Sabato sera ha detto che se dovesse scegliere fra me e Damis, se ne andrebbe con lui. Anche se la diseredassi. — Avete minacciato di diseredarla? — Sì. Disgraziatamente non controllo il patrimonio che le ha lasciato sua zia. Ada avrebbe fatto bene ad affidarlo a me. Ne dubitavo. Blackwell era un uomo tetro e preoccupato, poco adatto a svolgere la parte dell'equilibrato amministratore di un'altra creatura. — A proposito di denaro... — dissi. Parlammo del mio compenso e Blackwell mi diede duecento dollari di anticipo e l'indirizzo delle sue case di Bel Air e Malibu. Mi diede anche un'altra cosa che non avevo pensato di chiedergli: la chiave della villetta sulla spiaggia, staccandola dal proprio portachiavi. 3 La casa era in un punto isolato, a nord di Malibu. Più in giù, sotto lo stradone, contro le scogliere scure, una dozzina di piccoli edifici erano raggruppati, come per tener testa al mare. L'oceano era calmo, quella mattina, in bassa marea, ma il cielo era grigio e minaccioso. Lasciai la macchina contro un parapetto che si affacciava sul mare, insieme ad alcune altre. Una di esse, una Buick Special verde, era intestata ad Harriet Blackwell. Dal parcheggio, una passerella di legno conduceva dietro le villette. Trovai quella che cercavo, un edificio grigio col tetto a punta, e bussai al-
l'uscio scrostato dalle intemperie. Una voce d'uomo grugnì qualcosa all'interno. Bussai ancora e sentii dei passi sull'impiantito di legno. — Chi è? — Mi chiamo Archer. Sono venuto a vedere la casa. Aprì la porta. — E perché? — Vorrei prenderla in affitto. — Vi ha mandato qui il vecchio, eh? — Che vecchio? — Il colonnello Blackwell. Pronunciò quel nome molto chiaramente, come se fosse una parolaccia che non doveva sfuggirmi. — Non saprei. Io sono stato indirizzato qui da un'agenzia immobiliare di Malibu. Non mi hanno detto che la villetta fosse occupata. Era rimasto sulla soglia: un giovanotto dal torace ampio e muscoloso sotto il camiciotto. I capelli neri e lucidi gli scendevano sulla fronte dandogli un'aria scontrosa. Gli occhi azzurri erano emotivi e un po' imbronciati: avevano una forza potenziale che il ragazzo non si curava di sfruttare per me. Pareva che si sforzasse di non pensare al proprio aspetto attraente. Ma "ragazzo" non era la parola adatta: doveva avere almeno trent'anni, e trent'anni pieni d'esperienza. Aveva le mani, il viso e gli abiti sporchi di colori a olio. — Be', dopotutto ha il diritto di affittarla — borbottò. — Io posso andarmene da un giorno all'altro. Resterò solo finché non avrò finito il lavoro. — State dipingendo le pareti? Mi lanciò uno sguardo sprezzante. — Dipingo un quadro, amigo. — Ah, capisco. Siete un artista. — Già. Potete anche venire a vedere la casa, giacché ci siete. Come avete detto che vi chiamate? — Archer. Siete molto gentile. — I poveri non hanno scelta. — Sembrava che rammentasse a se stesso una verità. Si tirò da parte e mi fece entrare nella stanza principale. A parte la cucinetta, che era nell'angolo di sinistra, quel locale occupava tutto il piano superiore. Era spazioso e luminoso, con il soffitto a travi e il pavimento di legno lucido. I mobili erano moderni ed eleganti. Alla mia destra, una scala coperta da un tappeto e con la ringhiera di ferro battuto conduceva al piano inferiore. Di fronte c'era un caminetto di mattoni.
In fondo alla stanza, dinanzi a una vetrata in vista dell'oceano, c'era un cavalletto con una tela. — È una bella casetta — disse il giovane. — Quanto vi hanno chiesto, per l'affitto? — Cinquecento per il mese di agosto. Fischiò. — Non è quello che pagate anche voi? — Io non pago niente. Nada. Sono ospite del proprietario. — Abbozzò un sorriso che subito si mutò in una smorfia, quasi di pena. — Scusate, ma torno a lavorare. Guardate pure attorno: non mi disturbate. Attraversò la stanza, con l'andatura d'un animale che insegua la preda, e andò a piantarsi davanti al cavalletto. Ero un po' imbarazzato dalla sua indifferente ospitalità: m'ero atteso qualcosa di diverso; discussioni e magari violenza. Sentivo che c'era una gran tensione in lui, ma si controllava. Fissava la tela, intento. Si chinò, raccolse la tavolozza, intinse il pennello nel colore e lo portò sulla tela, delicatamente. Entrai nella cucinetta. Cucina a gas, frigorifero, acquaio d'acciaio inossidabile erano scrupolosamente puliti. Esaminai i credenzini, ben riforniti di scatolame e cibi d'ogni genere. Pareva proprio che Harriet giocasse a fare la brava massaia. Tornai nel locale principale e scesi la scala senza far rumore. In fondo, una porticina si apriva su una rampa esterna che conduceva alla spiaggia. Le camere da letto erano due: una grande, sul davanti, e una piccola sul retro, separate da un bagno. La stanza posteriore conteneva solo due letti gemelli con i materassi nudi. Nel bagno, gli apparecchi sanitari erano in ceramica rosa. Una borsetta di pelle col necessario per radersi e le iniziali B.C. in oro era appoggiata sul lavabo. Feci scorrere la chiusura lampo: il rasoio, usato di recente, era ancora umido. La camera da letto principale, come il locale superiore, aveva porte scorrevoli di vetro che si aprivano su una balconata. Sul grande letto, ricoperto di ciniglia gialla, erano piegati con cura abiti femminili: una gonna scozzese, un golf di chachemire, della biancheria. Sul cassettone c'era una borsetta di lucertola con fermaglio d'oro di fattura messicana. L'aprii e trovai un portafogli con alcune banconote e la patente di guida di Harriet Blackwell. Guardai nell'armadio a muro: non conteneva abiti femminili ma solo pochi indumenti maschili. L'unico completo era grigio e portava l'etichetta di un sarto di Calle Juárez, a Guadalajara. Una giacca e dei calzoni erano stati comperati in un grande magazzino di Los Angeles, e così pure le scarpe
nere. In un angolo vidi una valigia scura, sciupata, con uno scontrino della Mexicana Airlines attaccato alla maniglia. La valigia era chiusa: la sollevai. Mi parve che non contenesse nulla. In quel momento la porticina in fondo alle scale si aprì e comparve una ragazza bionda in costume da bagno bianco, con un paio d'occhiali scuri sul naso. Non mi vide finché non fu con me nella stanza. — Chi siete voi? — domandò stupita. Ero stupito anch'io: avevo davanti una ragazzona. Per quanto indossasse sandali da spiaggia senza tacco, i suoi occhi nascosti dalle lenti scure erano quasi al livello dei miei. Sorridendo, snocciolai le mie scuse e la mia storiella. — Mio padre non ha mai affittato questa casa. — Avrà cambiato idea. — Sì, e ne conosco il motivo. — La voce era stridula, troppo esile, per una ragazza così alta. — Qual è? — Non v'interessa. Si tolse gli occhiali rivelando uno sguardo cupo e qualcosa d'altro: ora capivo perché suo padre non poteva credere che un uomo l'amasse sinceramente e permanentemente: Harriet gli assomigliava troppo. Sembrava che se ne rendesse conto: anzi, forse non se ne dimenticava mai. Si passò le dita sulla fronte e cancellò il cipiglio: ma non poteva cancellare la sporgenza della fronte, che la rendeva brutta. Mi scusai ancora e salii di sopra. Il fidanzato di Harriet, o quello che era, stava applicando con la spatola del blu cobalto sulla tela, sudato e immemore. Mi misi alle sue spalle e lo guardai lavorare. Era uno di quei quadri di cui soltanto l'autore può dire il soggetto, quando è finito. Non avevo mai visto niente di simile: una massa nebulosa simile a un incubo in cui spiccavano chiazze vivide, come speranze o timori. Doveva essere molto bello, o molto brutto, perché mi dava i brividi. Si volse e mi vide. — Non sapevo che foste qui. Avete finito di guardare la casa? — Per il momento. — Vi piace? — Molto. Quando avete intenzione di andarvene? — Non so. Dipende. — Ora aveva un'espressione incerta. — Comunque, a voi non interessa prima d'agosto, vero?
— Potrebbe interessarmi. La ragazza parlò dalle scale. — Il signor Damis lascerà la casa alla fine della settimana. Lui si voltò, il suo sorrisetto amaro, d'autocompatimento. — È un ordine, signorina Colonnello? — No di certo, caro: io non do mai ordini. Ma sai bene quali sono i nostri progetti. — So quali dovrebbero essere. Harriet andò in fretta verso di lui, con la gonna scozzese che le svolazzava intorno. — Non vorrai dirmi che hai cambiato ancora idea? Burke, scuotendolo, abbassò il capo. — Per me è sempre difficile prendere delle decisioni, specialmente quando lavoro. Ma non è cambiato nulla. — Ne sono felice. — È facile renderti felice. — Lo sai che ti amo. Si era dimenticata di me, oppure non ci badava. Cercò di abbracciarlo ma lui la respinse con i palmi, badando a tenere le dita staccate dal golfino di lei. — Non toccarmi: sono sporco. — Mi piaci sporco. — Sciocca — fece Burke, senza troppa indulgenza. — Mi piaci sporco, ti amo, vorrei mangiarti. Con i tacchi, era più alta di lui: si chinò a baciarlo sulla bocca. Lui restò immobile ad assorbire la sua passione, le mani sempre lontane dal suo corpo. Baciandola, mi guardava e i suoi occhi erano spalancati e tristi. 4 — Volete sapere altro, signor Archer? — mi domandò, quando lei si staccò da lui. — No, grazie. Mi farò vivo fra qualche giorno. Harriet Blackwell mi lanciò un'occhiata strana. — Vi chiamate Archer? Dissi di sì. Mi volse le spalle con un movimento che mi ricordò suo padre. Damis era già tornato al suo quadro. Uscii, chiedendomi se fosse stata una buona idea quella di presentarmi alla casetta: scoprii subito che non lo era stata. Prima che fossi alla macchina Harriet mi raggiunse correndo sulla passerella di legno. — Siete venuto a spiarci, vero?
Mi prese per il braccio e lo scosse. — Cosa volete? Che cosa vi ho fatto, io, di male? — Niente, signorina Blackwell. E nemmeno io voglio farvi del male. — Non è vero. Mio padre vi ha incaricato di separarmi da Burke. L'ho sentito parlare con voi al telefono ieri. — Non si può far nulla in segreto, a casa vostra? — Ho il diritto di difendermi da chi congiura contro di me. — Vostro padre intende aiutarvi. — Oh, certo: distruggendo la sola felicità che io desidero. — C'era una punta d'isteria nella voce di Harriet. — Mio padre dice d'amarmi ma io credo che nel segreto del suo cuore mi detesti. Vuol vedermi sola e miserabile. — Ciò che dite non ha senso. Cambiò bruscamente umore. — E quello che fate voi ha senso? Insinuarsi in casa altrui fingendo di essere una persona diversa! — Cercavo di fare il mio lavoro: ma ho sbagliato e devo ricominciare. Ho qualcosa da dirvi, signorina Blackwell. Volete salire un momento in macchina per parlare con me? — Non è necessario che salga. Non abbiate paura di Burke, non gli ho detto chi siete. Non voglio turbarlo mentre lavora. Aveva un'aria da giovane moglie e glielo dissi. Parve compiaciuta. — Gli voglio bene: non è un segreto. Potete scriverlo nel vostro taccuino e fare un rapporto a mio padre sull'argomento. Amo Burke e lo sposerò. — Quando? — Molto presto. Ma non mi sogno nemmeno di dirvi dove e quando. Mio padre chiederebbe aiuto per lo meno alla Guardia Nazionale. — Vi sposate per far contenta voi stessa o per far dispetto a vostro padre? Scrollò le spalle. — Non c'è nulla che non farebbe per fermarci: me l'ha detto. — Io non sono qui per impedire il vostro matrimonio, signorina Blackwell: devo soltanto informarmi sul conto del vostro amico. — In modo che mio padre possa nuocergli? — Nel passato di Damis c'è qualcosa che può servire a vostro padre per nuocergli? — Voi ne siete convinto, vero? — No. Ho detto chiaro e tondo al colonnello Blackwell che non mi presterò ad alcun trucco né a fornire materiale per ricatti morali di qualsiasi
genere. Lo dico chiaro e tondo anche a voi. — E dovrei credervi? — Perché no? Io non ho niente contro di voi né contro il vostro amico. Se foste disposti a collaborare potremmo cavarcela in fretta: è uno di quegli incarichi che non mi piacciono. — Potevate fare a meno di accettarlo: ma immagino che l'abbiate fatto perché vi occorreva il denaro. — C'era una nota di sufficienza nella sua voce: la superiorità del ricco che non è mai costretto a far qualcosa per denaro. — Quanto vi dà, mio padre? — Cento al giorno. — Vi darò cinquecento doilari, la paga di cinque giorni, e dovrete promettere semplicemente di andarvene e di non occuparvi più di noi. Estrasse dalla borsetta il portafogli rosso. — Non posso farlo, signorina Blackwell. Inoltre, voi non ci guadagnereste nulla. Vostro padre si rivolgerebbe a un altro investigatore: e se ritenete che io sia pericoloso, dovreste conoscere qualcuno dei miei colleghi. Si appoggiò al parapetto bianco e mi studiò in silenzio, immobile sullo sfondo dell'oceano. Poi, come se si rivolgesse a un invisibile confidente, mormorò: — Possibile che siate onesto? — È possibile, e lo sono. Non sorrise. Non sorrideva mai. — Non so cosa fare: è una situazione assurda. — Perché? Proprio non v'interessano i precedenti del vostro fidanzato? — So tutto quello che c'è da sapere. — E cioè? — Che è un caro ragazzo, molto dotato, e che ha passato dei brutti momenti. Ora che si è rimesso a dipingere farà qualcosa di straordinario. Voglio aiutarlo. — Dove ha studiato pittura? — Non gliel'ho mai chiesto. — Da quanto tempo lo conoscete? — Da quanto basta. — E precisamente? — Tre o quattro settimane. — E avete già deciso di sposarlo? — Ho il diritto di sposare chi più mi piace. Non sono una bambina e nemmeno Burke è un bambino. — Questo l'ho capito.
— Ho ventiquattro anni — riprese, come per difendersi. — In dicembre ne avrò venticinque. — Ed erediterete un mucchio di quattrini. — Mio padre vi ha detto tutto, eh? Ma forse ha tralasciato qualcosa: Burke non bada al denaro, anzi lo disprezza. Andremo in Europa, o nel Sud America, e vivremo molto semplicemente. Lui lavorerà e io l'aiuterò. — C'erano delle stelle, nei suoi occhi, ma sbiadite e lontane. — Se pensassi che quel denaro potesse impedirmi di sposare l'uomo che amo, ci rinuncerei. — E Burke approverebbe? — Ne sarebbe felice. — Gliene avete parlato? — Abbiamo parlato di tutto, con franchezza. — Allora potreste dirmi da dove viene e tutto il resto. Ci fu un altro silenzio. Cambiò posizione, inquieta, come se si sentisse con le spalle al muro. Le stelle erano scomparse dai suoi occhi: malgrado le sue proteste era una ragazza preoccupata. — Burke non vuole parlare del suo passato: pensarci lo rende infelice. — Perché è orfano? — Anche per questo, credo. — Deve avere una trentina d'anni: a ventuno un uomo cessa di essere un orfano. Che cos'ha fatto da quando ha smesso di essere orfano di professione? — Ha sempre dipinto. — Nel Messico? — Anche. — Da quanto tempo era nel Messico, quando l'avete incontrato voi? — No so: da molto tempo. — E perché c'era andato? — Per dipingere. Ci muovevamo in circoli concentrici che racchiudevano il vuoto. — È già un po' che parliamo — osservai — e non mi avete detto niente che possa servire ad aiutare il vostro amico. — Cosa credete? Non ho ficcato il naso nei suoi affari: non sono un investigatore. Cercai di reagire. — Sentite, signorina Blackwell: comprendo il vostro logico desiderio di rompere con la vostra famiglia e crearvi una vita indipendente. Ma certo non vorrete fare un passo alla cieca...
— Parlate proprio come mio padre: sono stanca della gente che mi insegna quello che devo e quello che non devo fare. Potete tornare a dirglielo. Si faceva sempre più inquieta: capivo che non avrei potuto trattenerla a lungo. Tutto il suo corpo, appoggiato alla ringhiera, era in tensione. Era un corpo grande, ben costituito; non sarebbe rimasta zitella: non ne aveva la vocazione. Ma dubitavo che Harriet, il suo bel corpo e i suoi bei quattrini fossero fatti per Burke Damis. La piccola scena d'amore a cui avevo assistito era stata completamente unilaterale. S'era rabbuiata. — Perché mi guardate così? — Cerco di capirvi. — Non c'è niente da capire: sono una persona molto semplice. — Ma forse il vostro amico Burke non è altrettanto semplice. Consideratelo un consiglio: se foste mia figlia, e siete tanto giovane da poterlo essere, non vorrei vedervi correre a capofitto verso queste nozze... semplicemente perché vostro padre è contrario. Mi scoccò un'altra delle sue occhiate tipo colonnello Blackwell. — Siete un uomo insopportabile. — Quand'è così posso anche chiedervi di spiegarmi una cosa. La borsa da barba, in bagno, porta le iniziali B.C. Non sono quelle di Damis Burke. — Non ci ho mai fatto caso. — Non vi pare interessante? — No. — Ma era diventata pallidissima. — Sarà di qualche ospite precedente. Sono molte le persone che hanno abitato qui. — Nominatemene una con le iniziali B.C. — Bill Campbell — disse in fretta. — Chi sarebbe? — Un amico di mio padre: ma non so se sia mai stato qui. — E forse non sapete neanche se esiste, vero? Ero andato troppo oltre e l'avevo perduta. Lasciò il parapetto e si allontanò verso la casa. 5 Guidai fino alla stradone: all'incrocio c'era un bar friggitoria dall'insegna sbiadita. Entrai e sedetti vicino alla vetrata da cui potevo scorgere la strada della spiaggia: un donnone venne a prendere l'ordinazione, e saputo che desideravo solo un caffè si allontanò con aria vagamente sprezzante. Il cielo s'era schiarito ed era anche comparso il sole, simile a una piccola
luna acquosa. Anche il mare, da grigio s'era fatto azzurro. Bevvi con la massima lentezza il mio caffè. Due o tre macchine s'erano staccate dal gruppo di casette, ma non quella verde di Harriet. Dovetti ordinare una seconda tazza. Un furgone funebre riverniciato a strisce, tipo zebra, arrivò dallo stradone. Aveva un faro rotto e appena fermo scaricò, dal davanti e dal retro, quattro giovani e due ragazze che sembravano tutti fratelli. Avevano i capelli schiariti dall'acqua ossigenata e dal sole, lunghi gli uomini e corti le ragazze, sicché risultavano uniformi, e indossavano delle tute blu che probabilmente coprivano i costumi da bagno. Le facce erano abbronzate e scontrose. Entrarono, sedettero in fila davanti al banco, ordinarono sei birre e le bevvero mangiando panini portati da casa che estraevano dai sacchetti di carta. Mangiavano con calma, voraci. Tra un morso e l'altro talvolta il ragazzo più grande, che sembrava il capo, accennava alla marea, come se parlasse di qualche divinità della tribù. Alla fine si alzarono all'unisono, come un plotone, e andarono verso il loro carro funebre. Due ragazzi sedettero davanti; gli altri montarono dietro. Una delle ragazze, la più carina, mi fece una smorfia attraverso il finestrino laterale. Senza motivo, gliene feci una anch'io. Il furgone infilò la strada della spiaggia. — Vagabondi — borbottò la donna dalla cassa, quasi tra sé. — Non hanno proprio rispetto per nessuno: dipingere così, a strisce, un furgone mortuario. Non rispettano né i vivi né i morti. E come dovrei campare, io, secondo loro, se si portano da mangiare qui? Non so proprio dove andremo a finire. La macchina di Harriet comparve a metà della salita. Quando imboccò lo stradone vidi che la ragazza era al volante. Il suo amico, che sedeva vicino a lei, indossava l'abito grigio, con camicia e cravatta, e somigliava stranamente a un manichino da vetrina. La macchina si diresse verso Los Angeles. La seguii. L'abitato di Malibu la costrinse a rallentare: a Pacific Palisades eravamo vicinissimi, ma sul Sunset Boulevard a causa d'un semaforo la persi di vista. Ricordai che i Blackwell abitavano in collina e pensando che Harriet potesse essere andata a casa mi diressi verso Bel Air. Ma non potei trovare la casa dei Blackwell e dovetti tornare a un albergo per chiedere indicazioni. La casa era visibile anche dalla porta dell'albergo. Il barista in giacca
bianca me l'indicò: un grazioso edificio di stile spagnolo proprio in cima al declivio a terrazze. Tornai alla macchina e salii per la strada tortuosa verso la casa. Davanti c'era un giardino coltivato a rose: la Buick di Harriet era ferma nel viale inghiaiato. Oltre il tetto della macchina potevo scorgere la testa bianca di suo padre. La voce del colonnello arrivava fino alla strada e distinguevo parole isolate come imbroglio e scroccone. Avvicinandomi vidi che Blackwell aveva con sé una doppietta da caccia: Burke Damis scese dalla macchina e gli parlò. Non sentii cosa gli diceva, ma vidi il fucile alzarsi al livello del suo petto. Damis fece per afferrarlo. Il vecchio fece un passo indietro, con il fucile appoggiato saldamente alla spalla. Damis avanzò, sporgendo il petto come se sfidasse la minaccia dell'arma. — Dove credete di poter arrivare? Damis rise. — Ancora non avete visto niente, vecchio mio. Mentre si scambiavano quelle frasi scesi dalla macchina e andai verso di loro con cautela. Avevo paura di infrangere il precario equilibrio della scena. Potevo sentire il loro ansare e il mio passo che faceva scricchiolare la ghiaia. Né Blackwell né Damis mi guardarono. Non erano in contatto fisico ma le loro facce erano contorte come se le mani fossero unite in una stretta mortale. La doppia canna del fucile dominava la scena come un paio d'occhi vuoti e folli. — C'è un piccione sull'antenna della televisione — dissi in tono blando. — Se proprio volete sparare, colonnello, perché non cercate di prenderlo? O è contrario alla legge, da queste parti? Mi sembra di ricordare qualcosa del genere. Si volse verso di me con una smorfia torva. Anche il fucile si volse: l'afferrai per la canna e l'alzai verso il cielo inoffensivo. Quando ebbi tolto l'arma di mano a Blackwell, l'aprii: c'era una cartuccia in ciascuna canna. Mi spezzai un'unghia per estrarle. — Rendetemi il mio fucile — mugolò. Glielo resi, ma scarico. — Sparare non risolve niente: non l'avete imparato, in guerra? — Quest'individuo m'ha insultato. — Da quel che ho sentito, ci sono stati insulti da ambo le parti. — Non avete sentito quel che ha detto: ha fatto una sporca accusa.
— Mai abbastanza sporca — disse Damis. Mi rivolsi a lui. — Zitto. I suoi occhi erano cupi e decisi. — Non riuscirete a farmi star zitto. E nemmeno lui. — C'è mancato poco. Un fucile calibro dodici, a questa distanza, è la fine. — Dateglielo. A me non importa affatto. Aveva proprio l'aria di chi se ne infischia: ma sotto i miei occhi sembrava a disagio. Montò nella macchina di Harriet e sbatté la portiera. Blackwell si diresse verso la casa e io lo seguii. La veranda era ornata da una profusione di fucsie in tinozze di legno. — Siete stato lì lì per commettere un omicidio, colonnello. Dovreste tenere sempre le armi scariche e chiuse a chiave. — È così che le tengo. — Allora, la chiave dovreste buttarla via. Guardò il fucile come se non si rendesse conto di averlo fra le mani. Improvvisamente, gli si erano formate delle borse sotto gli occhi. — Che cosa è successo? — domandai. — Lo sapete bene. Mi sono trovato davanti questo scroccone che vuol portarmi via la cosa più preziosa, mia figlia. Qualche minuto fa Harriet mi ha annunziato che parte con lui per sposarlo. Mi ha accusato d'essere un piccolo Hitler con la mia Gestapo privata. L'accusa, proveniente da mia figlia, mi ha fatto male; ma quell'individuo ne ha fatta una peggiore. — E cioè? — Non la ripeterò a nessuno. Ha fatto una sporca insinuazione sul mio conto: io sono sempre stato impeccabile nei mìei rapporti con gli altri, specialmente con mia figlia. — Non ne dubito. Voglio solo cercare di scoprire cosa passa per la testa di Damis. — È uno squilibrato — dichiarò Blackwell. — Dev'essere pericoloso. Secondo me, erano in due. Una porta sbatté e Harriet comparve dietro le fucsie color porpora. Si era cambiata e indossava un vestito a quadretti e un cappellino con veletta grigia. La veletta mi preoccupò, forse perché annullava la distanza fra mogli e vedove. Harriet reggeva una cappelliera azzurra e una pesante borsa, pure azzurra. Il padre le andò incontro. — Lascia che ti aiuti, cara — disse, allungando la mano verso la borsa.
Lei si ritrasse. — Grazie, posso fare da me. — Non hai altro da dirmi? — Abbiamo già detto tutto quel che c'era da dire. Io e Burke sappiamo quello che pensi di noi: andremo lontano, in un posto in cui tu non sia tentato di tormentarci. — Gli occhi giovani e freddi di Harriet si posarono su di me, poi sul fucile. — Non mi sento al sicuro nemmeno fisicamente. — Il fucile è scarico — la rassicurai. — Nessuno è stato ferito e non succederà nulla. Vorrei che rifletteste prima di partire, signorina Blackwell. Pensateci almeno un giorno. Non si degnò di parlarmi direttamente. — Richiama il tuo segugio — disse a Blackwell. — Io e Burke ci sposeremo e tu non hai il diritto di impedirlo. Ci sono dei limiti legali anche a quello che può fare un padre. — Non vuoi ascoltarmi, cara? Io non intendo far nulla che... — Allora smettila. La calma del colonnello mi aveva stupito; ma non si controllava tanto da poterla serbare a lungo. Il demone della collera lo riprese all'improvviso. — Hai fatto la tua scelta: io me ne lavo le mani! Vattene col tuo ganzo e rotolati nel fango con lui. Non leverò un dito per salvarti. Harriet parlò dall'alto della sua rabbia gelida. — Stai dicendo delle sciocchezze. Andò alla macchina, reggendo i bagagli come se fossero armi, Damis glieli prese di mano e li caricò nel baule dell'automobile, accanto alla sua valigia. Isobel Blackwell era uscita dalla casa e scendeva i gradini della veranda. Passando tra me e suo marito gli premette una mano sulla spalla, forse per solidarietà, forse per ammonirlo. Poi raggiunse Harriet. — Vorrei che tu non facessi questo a tuo padre. — Non gli sto facendo nulla. — Ne soffre: lo sai che ti vuol bene. — Io non gliene voglio. — Sono sicura che ti pentirai d'aver detto questo, Harriet. Quando avverrà, faglielo sapere. — Perché dovrei curarmene? Lui ha te. Isobel scrollò le spalle come se non considerasse il possesso di una come lei una cosa importante. — Tu conti di più. Gli spezzerai il cuore. — In tal caso, dovrà passarci sopra. Mi dispiace per te. — In un improvviso accesso sentimentale Harriet abbracciò l'altra donna. — Sei stata buona con me, più di quel che io meritassi.
Isobel le batté leggermente una mano sulla spalla fissando Damis. Il giovane era stato a osservare come lo spettatore di un giuoco su cui avesse fatto una modesta scommessa. — Spero che avrete cura di lei, signor Damis. — Posso provare. — Dove andrete? — Lontano di qui. — Questo non vuol dir nulla. — Non intendevo dire qualcosa. Il paese è grande e libero. Andiamo, Harriet. La ragazza si sciolse dall'abbraccio della matrigna e si mise al volante della sua macchina. Damis salì al suo fianco. Mentre si allontanavano, presi nota del numero di targa della macchina. Nessuno dei due si guardò indietro. Blackwell si avvicinò, camminando un po' incerto sulla ghiaia. — Li avete lasciati andare — mi disse, in tono d'accusa. — Non potevo fermarli. Non potevo far uso della forza. — Avreste potuto seguirli. — A che scopo? Avete detto che volete lavarvene le mani. — Forse sarebbe bene che lo facessi davvero — intervenne sua moglie. — Non puoi andare avanti così; non puoi diventar pazzo. Prendi le cose come sono. — Non sto affatto diventando pazzo. Non sono mai stato tanto sano in vita mia. Ricominciava a infuriarsi: la moglie gli appoggiò una mano sul braccio, gentilmente. — Vieni dentro: hai bisogno di calmarti. — Lasciami stare. — Allontanò la mano. — Voglio che Darnis sia messo in prigione, capite? — disse a me. — Per far questo bisogna provare che ha commesso un reato. — Portare una ragazza oltre confine per scopi immorali non è reato? — Ha fatto questo? — Ha fatto venire mia figlia dal Messico... — Ma il matrimonio non è considerato scopo immorale. Stranamente, Isobel Blackwell ridacchiò. Il colonnello si volse. — Ti sembra buffo, eh? — È meglio ridere che piangere. È meglio sposarsi che bruciare. Cito le parole che tu dicesti a me, ricordi? Il tono era serio ma nelle sue parole c'era dell'ironia. Blackwell andò
verso la casa, con il suo fucile. Sbatté la porta con tale violenza che il piccione fuggì dall'antenna della televisione. Isobel allargò le braccia. — Cosa devo fare? — Dategli un tranquillante. — Mark si è nutrito di tranquillanti tutta la settimana. Ma non gli fanno nulla. Se continua così, andrà a pezzi. — È per gli altri che mi preoccupo. — Parlate di quel giovanotto... Damis? — Parlo di tutti quelli che si mettono sulla strada di vostro marito. Mi sfiorò il braccio. — Non crederete che Mark sia veramente capace di fare del male a qualcuno! — Voi lo conoscete meglio di me. — Credevo di conoscerlo bene. Ma in quest'ultimo anno è cambiato. È sempre stato buono e gentile: non mi pareva adatto alla carriera militare e l'esercito la pensava come me, a quanto pare, perché dopo la guerra l'hanno messo in pensione, contro la sua volontà. Nello stesso periodo la sua prima moglie, Pauline, ha chiesto il divorzio. — Perché, se non sono indiscreto? — Dovreste chiederlo a lei. Un giorno, è andata nel Nevada, ha divorziato e ha sposato un altro, un ex dentista che si chiama Keith Hatchen. Da allora, ha vissuto nel Messico. Immagino che avesse il diritto di essere felice. Ma il povero Mark è rimasto con ben poco per riempire la sua vita, a parte gli sport, i fucili e la storia della famiglia Blackwell, che da anni tenta di scrivere. — E Harriet — aggiunsi. — E Harriet. — Comincio a immaginare il quadro. Dite che in quest'ultimo anno è cambiato: c'è stato qualcosa di nuovo, a parte la relazione di Harriet con Damis? — Il matrimonio di Mark con me, avvenuto lo scorso autunno — rispose Isobel con un sorrisetto. — Ma voi non dovete esercitare un influsso malefico! — Grazie. Non lo esercito. — Avevo l'impressione che foste sposata da anni. — Era in parte una domanda e in parte un'espressione di simpatia. — Sì? Naturalmente io ero già stata sposata. E conosco Mark e Harriet da molto tempo, praticamente da quando lei era in fasce. Vedete, il mio defunto marito Ronald era molto amico di Mark. Erano parenti.
— Allora, probabilmente siete al corrente di molte cose che non mi avete detto. — Tutte le donne hanno dei segreti. Non lo sapete per esperienza, signor Archer? Mi piaceva il suo modo di schermirsi, anche se rimanevo a bocca asciutta. Indicai la casa con un gesto. — Credete che mi convenga continuare? — Certo. Mark ha bisogno di un uomo che lo guidi e lo consigli. Non che accetti volentieri d'esser guidato. Ho apprezzato il vostro modo di risolvere la crisi, poco fa. Avrebbe potuto succedere qualcosa di grave. — Vorrei che se ne rendesse conto anche vostro marito. — Se ne rende conto, anche se non vuole ammetterlo. — Gli occhi scuri erano carichi di comprensione. — Ci avete aiutato tutti, signor Archer, e ci aiuterete ancora se resterete con noi. Informatevi sul conto di Damis. Se potrete dichiararlo abile, moralmente parlando, farò di tutto per far accettare il matrimonio a Mark. — Non vorrete suggerirmi per caso d'imbiancare Damis? — No di certo. M'interessa la verità, qualunque possa essere. A noi tutti interessa la verità. E ora scusatemi ma voglio andare da mio marito. In questo periodo, sembra che il mio solo compito sia tenergli la mano. Non si lamentava, esattamente, ma distinsi nella sua voce una nota di rassegnazione. Quando si volse per andarsene, snella nel suo abito di lino, mi sorpresi a cercare di stimare la sua età. Se aveva conosciuto i Blackwell sin da quando Harriet era in fasce, e li aveva conosciuti per mezzo del suo primo marito, doveva essersi sposata più di vent'anni prima. Il che faceva pensare che avesse oltrepassato la quarantina. Be', anch'io. 6 Usai la chiave di Blackwell per entrare nella casetta sulla spiaggia. Nulla era cambiato nella grande stanza al primo piano, ma nel camino c'era della cenere nera, di carte bruciate. Quando cercai di raccoglierla, si dissolse. Il dipinto era sempre sul cavalletto, ancora umido. Nella luce che entrava obliqua dalle vetrate, la chiazza di blu cobalto aggiunta per ultimo da Damis mi fissava come un occhio. Indietreggiai, sempre osservando il quadro e cercando di capirlo. Poi scesi la scala ed entrai nella camera da letto matrimoniale. Le porte dell'armadio a muro erano spalancate. L'avevano vuotato. Non c'era niente nel
cassettone, e niente nel bagno, se non degli asciugamani puliti. La seconda camera da letto era vuota. Tornai in quell'altra e la perquisii accuratamente. Il cestino della carta straccia era stato vuotato, il che spiegava probabilmente le ceneri nel camino. Damis si era dato da fare per cancellare le proprie tracce. Ma aveva trascurato un pezzo di carta, inserito, ripiegato, tra il vetro della porta e la sua cornice, probabilmente per evitare che tintinnasse. Era carta spessa gialla, ripiegata più volte. Svolgendola vidi che si trattava di una di quelle buste che le linee aeree danno ai passeggeri per tenerci i biglietti. Era della Mexicana Airlines, con le istruzioni per il volo scritte a macchina all'interno della linguetta. Il signor Q.R. Simpson, dicevano le istruzioni, avrebbe lasciato l'aeroporto di Guadalajara alle 8,40 del 10 luglio per arrivare all'International di Los Angeles alle 13,30 dello stesso giorno. Frugai ancora un po' nella stanza ma non trovai null'altro e tornai di sopra. Il quadro mi attirò di nuovo: ma stavolta lo vedevo diverso, potente e minaccioso, un assalto di forze oscure. Ebbi l'impulso di prenderlo e trovare un esperto a cui mostrarlo. Se Damis era un artista noto, il suo stile sarebbe stato riconoscibile. Ma non potevo trasportarlo: era ancora bagnato e si sarebbe sciupato. Andai a prendere la mia macchina fotografica in automobile. Vicino c'era il furgone zebrato vuoto. Il cielo s'era schiarito e alcuni bagnanti erano sparsi sulla spiaggia come cadaveri dopo una catastrofe. Al di là dei cavalloni i sei ragazzi aspettavano inginocchiati, in atteggiamento di preghiera, su certe loro tavole galleggianti. Una grande onda si alzò verso di loro. Cinque o sei ragazzi si lasciarono trasportare, rizzandosi in piedi, come statue su un azzurro declivio semovente. La sesta ragazza fu meno àbile: l'onda la travolse. Perse la tavola da surf e nuotò per riprenderla. Ma invece di lanciarla ancora in mare, la riportò sulla spiaggia, tenendola sulla testa. La lasciò sulla spiaggia e si arrampicò sulle rocce, verso il parcheggio. Aveva il busto e le spalle d'una giovane amazzone, ma rabbrividiva ed era vicina alle lagrime. Era la ragazza che la mattina mi aveva dedicato una smorfia e in un certo senso ci conoscevamo. — Avete fatto un bel tuffo — osservai. Mi guardò come se non mi avesse mai visto e non mi vedesse nemmeno in quel momento. Ero un membro di un'altra tribù e specie. Estrasse dal retro del furgone un soprabito da uomo e l'infilò. Era un bel capo costoso, di tweed, ma aveva delle striature salmastre, come se fosse
stato immerso nel mare. Le dita della ragazza tremarono sui bottoni scuri di pelle intrecciata. Uno, il primo in alto, mancava. La ragazza rialzò il collo del soprabito sulla nuca, a cui i capelli biondi aderivano come un elmetto d'oro. — Se avete freddo, nella mia macchina c'è il riscaldamento — le proposi. Sbuffò, e mi volse la schiena coperta di tweed. Caricai la macchina fotografica con una pellicola a colori e presi qualche foto del quadro di Damis. Andando all'aeroporto lasciai il rullino da un amico fotografo di Santa Monica che promise di svilupparmelo in fretta. Il gentilissimo impiegato della Mexicana Airlines fece qualche ricerca e venne a dirmi che il signor Q.R. Simpson il 10 luglio era effettivamente arrivato da Guadalajara. Così pure Harriet Blackwell. Burke Damis no. Potevo solo supporre che Damis fosse entrato negli stati Uniti col nome di Simpson, ma tenni quell'idea per me. Siccome non poteva aver lasciato il Messico senza una tessera turistica non trasferibile, né esser entrato negli stati Uniti senza un documento di cittadinanza, era probabile che Q.R. Simpson fosse il vero nome di Damis. Il cortese impiegato mi disse che l'equipaggio dell'aereo del 10 luglio era di nuovo arrivato all'aeroporto proprio quel pomeriggio. I piloti non potevano saper nulla dei passeggeri. La hostess e il cameriere, forse al corrente, se n'erano già andati. Ma la mattina dopo dovevano ripartire: se fossi arrivato all'aeroporto un po' prima della partenza, forse avrebbero potuto dirmi quel che volevo sapere del signor Simpson. Confortato da quella cortesia latina, andai all'ufficio della Dogana e Immigrazione, dove i funzionari di servizio guardarono la mia licenza come se fosse qualcosa che dovevo aver trovato in una scatola di detersivi. Sentendo il bisogno di parlare con un amichevole rappresentante dell'autorità, mi diressi in macchina verso il centro della città. Peter Colton era nel suo bugigattolo, uno degli uffici del Procuratore Distrettuale, dietro una porta su cui stava scritto: CAPO DELLA SQUADRA OMICIDI. Peter era diventato vecchio in servizio. I segni della disciplina e delle preoccupazioni rigavano come sciabolate le sue guance. I suoi occhi triangolari luccicarono nel guardarmi al di sopra degli occhiali, scivolati in giù, sul naso aggressivo. — Siediti, Lew. Come va? — Benone. Son venuto a ringraziarti di avermi raccomandato al colonnello Blackwell.
Mi sbirciò, perplèsso. — Non sembri troppo riconoscente, però. Ti fa tribolare? — Be', certo mi ha affidato un caso singolare. Anzi, non so se sia un caso o no: forse è tutta immaginazione di Blackwell. — Non mi è mai parso un tipo fantasioso. — Lo conosci da molto tempo? — Dopo la guerra, sono stato sotto di lui in Baviera, e ho scontato i miei peccati: dirigeva un reparto staccato della Military Police. — E com'era, lavorare per lui? — Brutto — dichiarò Colton. — Comandare gli piaceva troppo. Non ne aveva avuto abbastanza in guerra. Un amico a Washington, o un nemico, l'aveva fatto rimanere nelle retrovie. Non so se fosse per proteggere Blackwell o le truppe. Ne era amareggiato, comunque, e si sfogava sui suoi uomini. Ma è un somaro e non lo prendevamo troppo sul serio. — In che senso si sfogava sugli uomini? — In tutti i modi. Era un tremendo pignolo e applicava alla lettera i regolamenti. Poi, ostacolava al massimo la fraternizzazione. I miei uomini dovevano occuparsi di omicidi, violenze e mercato nero: ma lui pretendeva che passassimo le serate a visitare cabaret per evitare che gli innocenti americani fraternizzassero con le Fräulein mangiatrici d'uomini. — È un puritano? — Già, e per di più era nella sua famiglia che si fraternizzava troppo: sua moglie s'interessava ad altri uomini. Poi ho saputo che hanno divorziato. — Che tipo era, la moglie? — Mica male, a quell'epoca; ma non l'ho conosciuta molto bene. Perché? — La figlia, Harriet Blackwell, alcune settimane fa è andata nel Messico per farle visita e ha conosciuto un pittore che a papà non piace. Si chiama Burke Damis, o forse Q.R. Simpson. La ragazza se l'è rimorchiato qui e vuole sposarlo. Blackwell teme che il giovanotto miri ai quattrini. Mi ha incaricato di indagare sul suo conto. — Perché i due nomi? Uno è uno pseudonimo? — Non lo so con precisione. Ma sono certo che il giovanotto è entrato nel nostro paese, la settimana scorsa, col nome di Q.R. Simpson. Può darsi che sia il suo vero nome. — E vorresti che io controllassi? — Sarebbe gentile da parte tua.
Colton prese una penna a sfera e la puntò verso di me. — Sai benissimo che non posso spendere tempo e denaro del pubblico per una faccenda privata del genere. — Nemmeno per un vecchio amico? — Blackwell non è mio amico: gli ho dato il tuo nome per levarmelo dai piedi. — Grazie. Mi riferivo a me stesso — precisai — ma forse sono presuntuoso. Una domanda all'Ufficio Indagini criminali di Stato non ti farà perdere troppo tempo, e può darsi che si evitino anche dei guai, alla lunga. Dici sempre che è meglio prevenire i delitti piuttosto che punirli. — Che delitto si tratterebbe di prevenire, qui? — Magari un assassinio per interesse, ma non dico che sia probabile. A me importa soprattutto risparmiare a una giovane ingenua un sacco di eventuali guai. — E risparmiare a te stesso un sacco di ricerche. Cosa vuoi sapere, esattamente? — Se questo Q.R. Simpson, o Burke Damis, è incensurato. Colton scrisse i nomi su un foglietto: ero riuscito a destare la sua curiosità. — Potrei informarmi a Sacramento — borbottò e sbirciò l'orologio a muro. Erano quasi le quattro. — Se i circuiti non sono troppo carichi potremo avere una risposta prima di chiudere. Vuoi aspettare fuori? Lessi un giornale in anticamera, da cima a fondo, comprese le inserzioni. Alle cinque in punto Peter Colton si affacciò e mi chiamò con un cenno. Aveva in mano un foglio di telescrivente. — Nulla sul conto di Burke Damis — annunziò. — Quincy Ralph Simpson è un altro affare. È ricercato da un paio di settimane. Sua moglie dice che è scomparso da due mesi. — Sua moglie? — È lei che ha denunciato la scomparsa. Vive al nord, nella contea di San Mateo. 7 Era il crepuscolo quanto il jet si abbassò sulla penisola. Le luci delle città erano sparse come gemme d'una collana infranta sull'orlo cupo della baia. Alla punta c'era San Francisco, remota e brillante: una città di sogno. Presi un tassì fino a Redwood City. L'agente di servizio al pianterreno del Palazzo di giustizia era un giovanotto con le guance rosse e gli occhi
né intelligenti né stupidi. Mi guardò senza compromettersi. Gli mostrai la mia licenza e gli dissi che m'interessavo di un certo Quincy Ralph Simpson. — All'ufficio del Procuratore Distrettuale di Los Angeles mi hanno detto che è scomparso. — Lo avete trovato? — fece, dopo aver ruminato la mia frase. — Forse. Avete una foto di Simpson? — Ora guardo. — Andò in un ufficio attiguo e tornò a mani vuote. — Mi dispiace ma non c'è. Comunque, posso dirvi com'è Simpson. Media altezza, media corporatura, capelli neri. Il colore degli occhi non lo so. Nessuna cicatrice e nessun segno particolare. — Età? — Su per giù la mia. Io ho ventinove anni. È il vostro uomo? — Può darsi. Simpson è ricercato per qualche reato? — Abbandono del tetto coniugale, forse, ma nessun reato, che io sappia. Cosa vi fa pensare che sia ricercato? — Il fatto che potete descrivermelo. — Lo conosco. Cioè, l'ho visto qui alla polizia. — A far che? Si protese, con una specie di confidenziale ostilità. — Io non posso raccontare quello che vedo qui attorno, amico. Se volete sapere qualcosa andate al piano di sopra. — Il capitano Royal è al piano di sopra? — Non è in servizio. Lo conoscete? — Abbiamo lavorato insieme. Potete darmi almeno l'indirizzo della signora Simpson? Prese un elenco telefonico e me lo mise davanti: Q.R. Simpson figurava al numero 2163 di Marvista Drive: l'autista del tassì mi disse che era verso Luna Bay e che ci sarebbero voluti cinque dollari. La casetta di Simpson aveva un'aria abbandonata e squallida. Il piccolo tratto erboso davanti all'ingresso era riarso e spoglio alla luce dei fari. Sotto la tettoia c'era una Ford vecchio modello mancante del vetro posteriore. Dissi all'autista di aspettare e andai a suonare il campanello. Venne ad aprire una donna giovane. La porta era sbilenca e aprirla del tutto non doveva essere facile. La donna era una bruna molto snella, con gli occhi scuri e avidi e l'aria ansiosa. Indossava un vestito nero, molto corto. — Cosa volete? — Siete la signora Simpson? Vorrei parlarvi di vostro marito. — Fate pure: vi sto a sentire. — Inclinò la testa, in un'irritata parodia
d'interesse. — Avete denunciato la sua scomparsa. — Già. Sono due mesi interi che non lo vedo. E sto benissimo. Chi ha bisogno di lui? — La voce della donna era carica di pena e risentimento. — Chi c'è in quel tassì? — fece, guardando dietro di me. — Solo l'autista. Gli ho detto di aspettarmi. — Credevo che fosse Ralph — disse, in tono mutato. — Che avesse paura di entrare in casa. — Non è Ralph. Avete detto che non lo vedete da due mesi; pure ne avete denunciato la scomparsa solo due settimane fa. — Ho voluto dargli corda. Se n'è andato altre volte, ma non è mai restato via tanto a lungo. Ho dovuto tornare a lavorare al motel e mi hanno consigliato di andare alla polizia. Per quel che ci ho guadagnato! Non fanno niente, se non è successo qualcosa. — La donna fece una smorfia. — Siete un poliziotto anche voi? — Un investigatore privato. — Le dissi il mio nome. — Oggi ho incontrato un tale che potrebbe essere vostro marito. Posso entrare? — Entrate. — Si spostò di fianco e mi fece passare in un piccolo soggiorno, pulitissimo ma arredato con quei mobili di plastica che si disintegrano prima di averne potuto pagare l'ultima rata. M'invitò con un cenno a sedere sul divanetto e sedette a sua volta. — Dove l'avete visto? — A Malibu. — C'era un quadro a olio appeso al muro, sopra il televisore. Si capiva che era un ritratto della signora Simpson, ma doveva essere opera di un dilettante. Andai a guardarlo più da vicino. — È somigliante. L'ha fatto vostro marito? — Già. È il suo hobby, dipingere. Avrebbe voluto dedicarsi seriamente alla pittura, ma un suo amico, un vero pittore, gli ha detto che non ha la stoffa. Questa è la storia della sua vita: Ralph comincia tutto e non conclude nulla. Dunque adesso se la spassa a Maiibu mentre io son qui a logorarmi per pagare le rate della casa? Non risposi subito. Sul televisore c'era un fascicolo intitolato L'Arte dell'indagine. Lo presi e lo sfogliai: molte frasi erano sottolineate. — Un'altra delle grandi idee di Ralph — sbuffò la donna. — Era sicuro di diventare un grande investigatore e di far quattrini. Naturalmente, non è riuscito a nulla. Un tale, un poliziotto che conosceva, gli ha detto che con i suoi precedenti... — La donna si coprì la bocca con la mano. Deposi il fascicolo. — Ralph è pregiudicato?
— No, no. Era un modo di dire. — Gli occhi della donna s'erano fatti duri, sulla difensiva. — Non mi avete detto cosa fa mio marito a Maiibu. — Non sono nemmeno certo che fosse vostro marito. Descrissi Burke Damis e mi parve di vedere un lampo negli occhi della donna. Ma disse: — No, non è lui. — Vorrei esserne certo. Non avete una sua foto? — No. Non se n'è mai fatte fare. — Neppure quando vi siete sposati? — Ci hanno fotografato ma non abbiamo avuto i quattrini per ritirarle. Eravamo a Reno, vedete, e Ralph non sa stare lontano dai tavoli da gioco. Per questo non siamo mai riusciti a metter via un soldo. — Che mestiere fa Ralph, signora Simpson? — Quello che capita. Non ha finito gli studi e ha dovuto arrangiarsi. È un cuoco abbastanza bravo, ma non gli piace lavorare la sera. Ha fatto anche il barista ma ha smesso per lo stesso motivo. È stato assunto più volte come domestico di casa privata, con ottimi salari, ma è troppo orgoglioso per fare quel lavoro. Forse — aggiunse con amarezza — è troppo orgoglioso per qualsiasi lavoro, ed è per questo che m'ha piantato. — Quando se n'è andato? — Due mesi fa, la sera del diciotto maggio. Era tornato lo stesso giorno dal Nevada ed è ripartito per Los Angeles. Credo che sia venuto a casa solo per cercare di farsi dare la macchina. Ma io gli ho detto che si sbagliava se credeva di potermi lasciare a piedi. Alla fine s'è deciso a prendere l'autobus. L'ho accompagnato alla stazione. — Cosa andava a fare a Los Angeles? — Non so. Mi ha raccontato una storiella, per farsi dare la macchina, ma non ci ho creduto. Ha detto che faceva delle ricerche per la polizia, figuratevi. Ha sempre desiderato poter fare il poliziotto. — ...Ma non ha potuto farlo a causa dei suoi precedenti. — Ralph non ha precedenti. — Me l'avete detto voi. — Avete capito male. Comunque, sono stanca e ne ho abbastanza. — La signora Simpson si alzò in piedi di scatto. — Potete anche andarvene: tanto, non è Ralph l'uomo che avete conosciuto a Malibu. — Non ne sono proprio sicuro. — Potete credermi. — Vi crederò. Ma ditemi almeno un'altra cosa, signora Simpson. Ralph non ha mai parlato di voler andare nel Messico?
— No. Se ci fosse stato me l'avrebbe detto. — E non ha mai parlato di voler lasciare il paese? — Ultimamente no. Però... un momento. Credo che abbia portato con sé il suo certificato di nascita: questo può voler dire che aveva intenzione di lasciare gli Stati Uniti, vero? — Sicuro. Ha portato il certificato con sé a Los Angeles? — Credo di sì, me l'aveva fatto cercare un paio di settimane prima. Ci ho impiegato delle ore. Voleva portarlo con sé nel Nevada. Diceva che gli occorreva per cercar lavoro. — Che lavoro? — Non so. Probabilmente, erano fandonie. — La donna mi sbirciò dall'alto, inquieta. — Credete che abbia lasciato il paese? Prima che potessi rispondere, il telefono squillò in un'altra stanza. La donna uscì in fretta. Sentii la sua voce. — Parla Vicky Simpson. Vi fu una lunga pausa. — Non ci credo — disse. Un'altra pausa. — Non può essere. Non può essere morto. La raggiunsi in cucina. Era appoggiata al tavolo coperto di formica e teneva stretto il ricevitore, a occhi sbarrati. — Chi è, signora Simpson? — Un poliziotto... — balbettò. — Dice che Ralph è morto. Non può esser vero. — Lasciate che gli parli io. — Presi il ricevitore. — Sono Lew Archer, investigatore privato autorizzato. Lavoro in collaborazione con l'ufficio del Procuratore Distrettuale. — Abbiamo appunto avuto una richiesta da loro, stasera. — La voce dell'uomo era lenta e incerta. — Abbiamo qui un cadavere non identificato. Ha telefonato il capo della Squadra Omicidi, un certo Colton, mi pare. Lo conoscete? — Sì. Con chi parlo? — Sergente Wesley Leonard, ufficio dello sceriffo di Citrus County. Abbiamo già chiesto l'aiuto a Los Angeles per questo cadavere. Il signor Colton ci ha domandato se per caso non era un certo Ralph Simpson, che risulta scomparso. Forse abbiamo perduto la circolare relativa — concluse il sergente in tono di scusa. — Credete che la signora Simpson sarebbe disposta a venir qui per vedere se si tratta di suo marito? — Perché no? I connotati concordano?
— Concordano. Altezza, peso, età... Tutto. — Com'è morto? — È difficile dirlo. Il bulldozer l'ha conciato piuttosto male. — Un bulldozer? — Ora vi spiego. Stanno costruendo una nuova autostrada a ovest della città. Lo Stato ha espropriato alcune case, che sono rimaste a lungo vuote e quel poveraccio è stato sepolto appunto nel cortile di una di quelle case. Ma non era sepolto profondamente: la settimana scorsa, quando hanno demolito l'edificio, un bulldozer l'ha riportato in luce. — Da quanto tempo era morto? — Da un paio di mesi, dice il medico, ma non è piovuto ed è in buone condizioni, l'importante è stabilire chi è. Quando potrebbe venir qui, la signora Simpson? — Stasera, se riesco a caricarla su un aereo. — Benissimo. Chiedete di me, al Palazzo di giustizia di Citrus Junction: sergente Wesley Leonard. Quando ebbi riattaccato il ricevitore, la donna parlò. — Io non mi muovo. — Ralph potrebbe essere morto. — Non ci credo. E se è morto non voglio vederlo. — Qualcuno deve pur identificarlo. — Identificatelo voi. Era sconvolta, terrorizzata, le feci bere dell'acqua e pian piano riuscii a calmarla e a convincerla. Trovai due posti sul volo delle dieci e mezzo per Los Angeles e a mezzanotte giungevamo a Citrus Junction con la macchina che avevo lasciato all'International Airport. Malgrado la vicinanza con Los Angeles, Citrus Junction era una cittadina di campagna. Tutti i negozi erano chiusi, fuorché un paio di bar. Trovai il Palazzo di giustizia e l'agente di servizio mi disse che il sergente Leonard era all'obitorio, svoltato l'angolo. Feci entrare Vicky tutta tremante nell'anticamera, satura dell'odor di rose e di formaldeide. Ci venne incontro un uomo massiccio di mezza età, dall'aspetto amichevole. — Sono Leonard. — Archer. E questa è la signora Simpson. Disse alcune parole di circostanza; poi lasciammo Vicky Simpson e Leonard mi condusse nella sala delle autopsie. Il morto era sul tavolo smaltato. Non lo descriverò: comunque, non somigliava affatto a Burke Damis, e
non doveva mai avergli somigliato. Il medico, un ometto calvo coi baffi macchiati di nicotina, gli si affaccendava attorno. Attesi che avesse finito e che il morto fosse coperto con un telo gommato. — Cos'avete trovato, dottore? — Una ferita al ventricolo sinistro. Sembra prodotta con un punteruolo. — Si tolse i guanti di gomma e andò a lavarsi le mani. — Secondo me le contusioni del capo sono state prodotte molto tempo dopo la morte, dal bulldozer. — Quando è stato dissotterrato? — Venerdì. Vero, Wesley? Il sergente annuì. — Nel pomeriggio. — Avete fatto un esame preliminare il giorno stesso? Il medico si voltò a guardarmi, asciugandosi le mani e le braccia. — Non mi è stato chiesto. Il Procuratore Distrettuale e lo sceriffo, che è anche magistrato inquirente, sono entrambi a Sacramento, per un convegno. — Inoltre — interloquì Leonard, ansioso di salvare la faccia — all'esterno la ferita non si vedeva affatto. Era semplicemente un puntino sul petto, a sinistra. Non toccava a me insegnar loro il mestiere. E poi, volevo che collaborassero. — Avete trovato il punteruolo? Leonard allargò le braccia. — Non si può trovare gran che, quando è passato un bulldozer. Arrivando, non avete visto com'è conciata quella zona? Dissi che avevo visto. — Siete pronti per la signora Simpson, adesso? Feci entrare la donna. Rimanendo sola si era un po' calmata. Ebbe la forza di attraversare la stanza e di guardare la povera testa maciullata. — È lui, è Ralph. — Lo dimostrò accarezzando i capelli polverosi. Guardò Leonard. — Cosa gli è successo? — L'hanno ucciso due mesi fa, con un punteruolo. — Volete dire che in tutto questo tempo... era già morto? — È morto da due mesi. Si volse barcollando. L'accompagnai fuori. — Chi può averlo ucciso, signora? — E come posso saperlo? Non ero mai stata a Citrus Junction. — Ralph aveva detto che stava facendo delle ricerche per la polizia, no? — domandai. — L'aveva detto, ma chissà se era vero.
— Aveva delle amicizie poco raccomandabili? — No. Non era un uomo di quelli. — Come mai aveva dei precedenti penali? Scosse la testa. — Era un ragazzo, quando è successo. Andava ancora alla scuola superiore. L'hanno pescato a fumare marijuana e l'hanno mandato in una casa di prevenzione. Non c'è stato altro. — Ne siete sicura? — Ne sono sicura. — Non l'avete mai sentito parlare di Burke Damis? È l'uomo che ho incontrato a Malibu, quello che vi ho descritto. Damis è un pittore, e a quanto pare si è servito del nome di vostro marito. — Perché avrebbe dovuto fare una cosa simile? — Forse perché si vergognava del suo. Pare che abbia usato il nome di Ralph Simpson per attraversare il confine col Messico, la settimana scorsa. Siete certa di non averlo mai sentito nominare? — Certissima. — E non avete riconosciuto la descrizione? — No. A questo punto non conoscerei nemmeno mio fratello se me lo vedessi davanti. Non volete lasciarmi in pace? Leonard entrò nella stanza. Era un brav'uomo e si offerse di ospitare Vicky per il resto della nottata. Disse che sua moglie ne avrebbe avuto cura. Io tornai a casa, a Los Angeles, per una doccia calda, una bibita fresca e un letto. 8 Mi svegliai tardi, accaldato e con la bocca arida, e subito il caso Blackwell mi tornò alla mente, rendendomi di cattivo umore. I casi, in realtà, erano due: uno apparteneva a me e uno alle autorità, ma erano in relazione. Il legame era sottile ma ben preciso: la busta delle linee aeree col nome Q.R. Simpson che Burke Damis o chi altri aveva lasciato nella casetta sulla spiaggia. Volevo andare più a fondo della faccenda senza l'interferenza della polizia perché poteva anche darsi che Damis fosse venuto in possesso della busta, e persino che avesse usato quel nome del tutto innocentemente. Ero diventato un gran frequentatore di aeroporti. Prima di uscire estrassi il mio certificato di nascita dalla piccola cassaforte che tenevo in camera da letto. Non prevedevo di doverne avere bisogno, ma sarebbe stato me-
glio averlo con me. Il cortesissimo giovanotto della Mexicana Airlines mi salutò come un fratello da tempo non visto. Il personale di bordo che m'interessava era già arrivato all'aeroporto, disse. L'hostess e il cameriere erano al ristorante a prendere un caffè. Lui era alto e bruno; la hostess piccola e carina, piuttosto grassoccia e con i capelli rossi. Entrambi indossavano l'uniforme delle Airlines e senza dubbio li avrei visti. Li scorsi subito, difatti, nella caverna piena di mormorii del ristorante, seduti al banco. Accanto alla ragazza c'era uno sgabello vuoto e io l'occupai. Era certamente carina, benché il rosso dei suoi capelli fosse artificiale: come tutte le hostess delle linee americane era tanto truccata che avrebbe potuto benissimo presentarsi su un palcoscenico. — Signorina Gomez? — domandai. — Sì, signore. Vi occorre qualcosa? — Vorrei una piccola informazione. La settimana scorsa un uomo e una donna di mia conoscenza hanno fatto il volo da Guadalajara a Los Angeles. È stato lunedì dieci luglio. Forse ve li ricorderete: la donna ha la vostra età ed è molto alta, e bionda. Porta spesso gli occhiali neri ed è piuttosto elegante. Si chiama Harriet Blackwell. La ragazza annuì. — Ricordo benissimo la signorina Blackwell. Sì. Una ragazza molto gentile. La signora seduta davanti a lei stava poco bene e la signorina si è occupata per tutto il tempo del suo bambino. — Si rivolse al cameriere. — Ti ricordi la signorina alta che è stata così gentile col bambino? — Sì. — Sta bene, la signorina Blackwell? — mi domandò la hostess con sollecitudine. — Credo. Ma perché me lo chiedete? — Dopo l'atterraggio, l'ho vista alla dogana... sembrava molto agitata, m'è parso che stesse per svenire. Mi sono avvicinata e le ho chiesto se si sentiva bene. L'uomo che era con lei ha risposto che stava benissimo. Non gradiva... non voleva che io facessi delle domande, così sono andata via. — Potete descrivermi quell'uomo? — Certo. — La ragazza descrisse Burke Damis. — Un bel giovanotto — concluse con una traccia d'ironia nella voce. — Come si chiamava? — Non ricordo. — Si volse al suo compagno e gli parlò rapidamente in spagnolo, ma il cameriere si strinse nelle spalle: non ricordava nemmeno
lui. — Chi potrebbe saperlo? — Voi, forse — replicò. — Avete detto che sono vostri amici... — Ho detto che li conoscevo. Sull'aereo erano seduti vicini? — Sì. Sono saliti assieme a Guadalajara. Li ho notati, pensando che fossero in luna di miele. Ma avevano nomi diversi. — Lui come si chiamava? — Vi ho detto che non ricordo. Se potessi trovare l'elenco dei passeggeri... — Cercatelo, vi prego. — Siete un poliziotto? — Un investigatore. — Capisco. Dove posso trovarvi? — Sull'aereo, se c'è un posto per me. — Guardai l'orologio: mancava mezz'ora alla partenza. — Non è mai completo a metà settimana. La hostess aveva ragione. Acquistai dal mio cortese amico un biglietto di andata e ritorno per Guadalajara, senza precisare quando sarei tornato. Da un altro impiegato mi feci rilasciare una tessera turistica messicana: era molto indaffarato e notai che diede appena un'occhiata al mio certificato di nascita. — Ve la compilo subito: il vostro aereo partirà fra poco. Prima di partire feci l'indispensabile telefonata al colonnello Blackwell. Rispose al telefono al primo squillo, come se fosse in attesa vicino all'apparecchio. — Sono Archer. Avete notizie di vostra figlia? — No, e non ne aspetto. — La sua voce si elevò tremula dall'abisso della depressione. — Nemmeno voi, suppongo. — No, ma ho seguito una pista. Mi ha condotto nell'area della Baia, iersera. — È là che sono andati? — Può darsi, ma non è per quel motivo che ci sono andato io. In breve, è stato commesso un omicidio in cui può darsi che sia implicato Damis. — Un omicidio? — La voce non si sentiva quasi più. Divenne un sussurro affrettato. — Non mi vorrete dire che Harriet è stata uccisa? — No. Si tratta di un certo Simpson, assassinato a Citrus Junction due mesi fa. Sto cercando di scoprire in che rapporti era con Damis, e di appurare l'identità e i precedenti di Damis. Secondo me, l'unica cosa da farsi è andare nel luogo in cui Harriet l'ha conosciuto e partire di lì. Se siete d'ac-
cordo, prendo l'aereo per il Messico. Vi fu un lungo silenzio. Fuori della cabina telefonica l'altoparlante annunziava già il mio volo. — Pronto, colonnello? — Pronto. Partite per il Messico, avete detto. Quando? — Tra cinque minuti. Vi costerà circa duecento dollari... — Il denaro non ha importanza. Se credete che sia utile, andate pure. — Non posso garantirvi nessun risultato, ma val la pena di provare. Potete darmi l'indirizzo della vostra ex moglie, ad Ajijic? — Non ha un indirizzo, ma qualsiasi membro della comunità americana dovrebbe essere in grado di indicarvi dove abita. Pauline non è mai stata tipo da nascondersi. — Il suo cognome è Hatchen? — Precisamente. Buona fortuna. — Pareva depresso. L'aereo era mezzo vuoto. Ebbi un posto vicino al finestrino e notai che la hostess dai capelli rossi accompagnandomi mi guardava in modo strano. Dopo una decina di minuti di volo venne a sedersi accanto a me, nel posto vuoto. Teneva in mano un giornale ripiegato. — Ho trovato la lista dei passeggeri del volo del dieci luglio... L'uomo che era con la signorina Blackwell si chiamava Simpson. Q.R. Simpson. — È quello che pensavo. — Lo pensavate? — Pareva pallida, sotto il trucco. Il suo sguardo era accusatore. — Allora perché non mi avete detto che il señor Simpson era morto? — Non lo sapevo. — Era una mezza verità, o una mezza bugia; si trattava di stabilire di quale versione di Simpson stessimo parlando. — Chi vi ha detto che è morto, signorina Gomez? Mi mise sotto il naso il giornale, che era il Times del mattino, e indicò con un'unghia color carminio un articolo in fondo alla prima pagina. Il titolo diceva: IDENTIFICATO IL CADAVERE Il cadavere di Quincy R. Simpson, dissepolto a Citrus Junction venerdì scorso, durante i lavori di scavo per la nuova autostrada, è stato identificato ieri notte dalla vedova. La vittima, scomparsa da due mesi, viveva nella contea di San Mateo. La morte è stata provocata da una ferita al cuore, inferta con un arpione da ghiaccio.
Secondo il sergente Wesley Leonard, dell'ufficio dello sceriffo di Citrus County, la polizia sospetta che l'uccisione sia opera di una banda di malviventi. — Avete detto che siete un investigatore — commentò la signorina Gomez. — State indagando su questo delitto? — Pare proprio di sì. — Povera signorina Blackwell. Sembrava tanto innamorata di quell'uomo! Per tutto il tempo, anche mentre teneva in braccio il bambino della signora, seguitava a guardarlo come se fosse un angelo. — Non era un angelo. — Era un criminale, un gangster? — Ne dubito. — Ma il giornale dice che il delitto è opera di una banda di malviventi. — I criminali ammazzano anche i cittadini qualsiasi. Aggrottò la fronte e poco dopo, richiamata dalle necessità del servizio, si allontanò. Volavamo sopra il mare, in vista della costa. L'aria era perfettamente trasparente. Col tramontar del sole, le ombre delle colline si allungarono sulle aride vallate. Poi comparvero il verde e il bruno dei primi campi coltivati a scacchiera, a sollievo dell'occhio e della mente. La desolazione cessava. Arrivammo sopra Mazatlán nella luce rossa del tramonto. Una volta a terra fummo riuniti nella palazzina dell'aeroporto: per il controllo delle nostre tessere turistiche, ci fu detto. La fila di passeggeri cominciò a muoversi lentamente in avanti, nel gran caldo, e quando fu il mio turno presentai la tessera all'uomo in camicia bianca che sedeva dietro la scrivania. Aveva la faccia butterata, e questo dava una particolare intonazione alla sua domanda. — Certificado de vacunación di vaccinazione, señor? Non l'avevo. Nessuno mi aveva detto che occorresse. Era un'osservazione sciocca ma la feci. Si protese verso di me, quasi addolorato. — Dovete avere la vacunación. Non posso permettervi di entrare... — Come posso fare? — Vi vaccineranno ahora; subito, qui. Chiamò un inserviente in divisa verde oliva che mi accompagnò in un ufficio all'altra estremità della palazzina. Una donna bruna in camice bianco attendeva seduta a una scrivania, e mi rivolse un sorriso materno. — Vaccinazione?
— Già. Annotò il mio nome e indirizzo su una scheda. — Non preoccupatevi: non vi farò male. Rimboccate la manica, prego. Vibrò l'ago abilmente. — Bravo — disse poi. — Ci sono certi che si sentono male. — Parlate bene l'inglese. — Sicuro. Ho lavorato sei anni a Fresno, in California. E ho una figlia sposata a Los Angeles. Potete abbassare la manica: probabilmente domani avrete la reazione. Abbottonai il polsino della camicia e mi rimisi la giacca. — Ne fate molte, di queste vaccinazioni lampo? — Due o tre al giorno. La gente non ha quasi mai il certificato. — Un tizio che conosco è passato di qui, proveniente da Los Angeles, al massimo due mesi fa — dissi, pensando alla possibilità di sapere qualcosa. — Chissà se avete vaccinato anche lui. — Descrissi Burke Damis. L'infermiera storse la bocca. — Mi sembra di ricordarmelo. Aveva dei gran bicipiti, come i vostri. Ma l'idea della vaccinazione non gli piaceva. Chiacchierava, per non pensarci. — Quando è passato di qui? — Non ricordo esattamente. Posso guardare, se mi dite il nome. — Quincy Ralph Simpson. Andò a guardare in uno schedario e tornò con un foglio. — Simpson, ecco qui. L'ho vaccinato il venti maggio. Significava che Burke Damis era entrato nel Messico due giorni dopo che il vero Simpson aveva lasciato per sempre la sua casa. Probabilmente significava pure che Simpson era stato ucciso tra il diciotto e il venti maggio, forse dall'uomo che gli aveva anche rubato il nome. 9 Quando arrivammo a Guadalajara pioveva forte. Nonostante il giornale che mi tenevo sopra la testa, la breve camminata dall'aereo al terminal fu sufficiente a incollarmi la giacca alla schiena. Scambiai alcuni dollari bagnati con dei pesos asciutti e dissi al cassiere di chiamarmi un autista che parlasse l'inglese, se possibile. L'inserviente che mandò alla ricerca tornò poco dopo con un uomo in impermeabile di plastica che mi sorrise cordialmente. — Buonasera, signore. Dove volete andare?
— Ad Ajijic, se c'è un albergo. — Sissignore; c'è un'ottima posada. Mi condusse attraverso il parcheggio, che era tutto una pozzanghera, a una Simca quasi nuova. Sedetti accanto al posto di guida, tutto gocciolante. — Che acqua! — Sissignore. Corremmo per una mezz'ora, durante la quale l'autista mi intrattenne con vari brani della sua autobiografia. Aveva imparato l'inglese a Central Valley. Alla fine emergemmo da una gola incassata fra le colline scure su una strada che costeggiava il lago. Potevo vedere l'acqua agitata sotto la pioggia. Scorgemmo un campanile e poi un villaggio: quando lo raggiungemmo non pioveva quasi più. Benché fossero passate le dieci, sotto i portoni delle case c'erano ancora molti bambini. I loro genitori passeggiavano sulle strade acciottolate, che si stavano già asciugando. Quando fummo alla posada mi sentii come a casa mia. L'impiegato, un grosso americano che si chiamava Stacy, fu ben contento di vedermi. Il vestibolo era deserto: io, Stacy e l'autista eravamo i soli esseri umani in vista. Stacy mi colmò di attenzioni. — Certo che posso sistemarvi, signor Archer. Potrete scegliere la casetta che più vi piace. — Datemene una qualunque. Credo che mi fermerò una notte sola. Parve deluso. — Mando il mozo a prendere il vostro bagaglio. — Non ne ho. — Ma siete tutto bagnato! — Lo so. Per fortuna il vestito è di quelli che si lavano e non si stirano. — Non potete aspettare che vi si asciughi addosso! — Fece una smorfia di compassione. — Sentite, voi avete su per giù la mia corporatura. Vi presterò dei calzoni e un maglione. A meno che non vogliate andare subito a letto. — Non ne avrei l'intenzione. Siete molto gentile. Mi condusse attraverso il giardino umido alla mia casetta. Era pulita e accogliente: nel caminetto era preparata della legna. Stacy mi lasciò con la raccomandazione di usare l'acqua di bottiglia anche per lavarmi i denti. Accesi il fuoco e appesi il mio abito inzuppato vicino al camino. Stacy tornò poco dopo con una bracciata d'indumenti asciutti. La sua gran faccia gommosa era arrossata dalla generosità e probabilmente dall'alcool. I calzoni di flanella che mi diede mi erano larghi di vita, ma li strinsi con la mia cintura e indossai il maglione, che era azzurro e con una
grande "S" sul petto. — Vi sta benissimo — commentò Stacy, osservandomi soddisfatto. Forse gli pareva di vedere se stesso senza la pancia e con dieci anni di meno. Stacy sapeva dove abitavano gli Hatchen e lo spiegò in uno spagnolo rapido al mio autista. Poco dopo il tassì si fermava in una strada senza nome: la casa degli Hatchen era cintata e il cancello era chiuso: dovetti suonare il campanello più volte prima di ottenere una risposta, poi un uomo venne ad aprire e mi puntò la luce d'una torcia elettrica in faccia. — Quien es? Siete americano? — Sì. Mi chiamo Archer. Siete il signor Hatchen?' — Il dottor Hatchen. Non ci conosciamo, vero? È successo qualcosa? — Non proprio. Negli Stati Uniti, la figlia di vostra moglie, Harriet, è fuggita con un giovanotto che dice di chiamarsi Burke Damis. Forse lo conoscete. Sono venuto a informarmi sul suo conto per incarico del colonnello Blackwell. Siete disposti a parlare con me, voi e la signora Hatchen? — Non possiamo rifiutarci, suppongo. Venite domattina. — Forse domattina non sarò più qui: non potreste dedicarmi un po' di tempo stasera?... Cercherò di fare in fretta. — Va bene. Pagai l'autista e seguii Hatchen attraverso un giardino cintato. Era un ometto già anziano che camminava con passi lunghi e decisi. Prima di entrare in casa si fermò. — Che significa che Harriet è fuggita con Damis? — si informò. — Vuole sposarlo. — Ed è un male? — Dipende da quello che verrò a sapere sul suo conto. Ho già scoperto qualcosa di dubbio. — Per esempio? — Aveva il viso magro e due occhi pronti e attenti. — A quanto pare è venuto qui sotto falso nome. — Niente di strano: i boschi di Chapala son pieni di gente che vive in incognito. Ma entrate: a mia moglie interesserà. Accese la luce della veranda e mi fece passare in un soggiorno in cui c'era una donna seduta sul divano in atteggiamento studiato. Una massa di capelli biondicci era sistemata in precario equilibrio sulla sua testa. Il suo abito nero scollato accentuava il candore grassoccio delle spalle. Le linee classiche del mento e della gola erano sfocate dal tempo. — Il signor Archer, Pauline. Mia moglie — presentò Hatchen con orgoglio.
La donna mi strinse la mano con una degnazione da regina in esilio. — Accomodatevi — disse, indicando il divano. — A che cosa dobbiamo il piacere? — Il signor Archer è mandato dal caro vecchio Mark. — Che gioia. E cosa fa di bello il caro vecchio Mark? Aspettate, non ditemelo: lasciatemelo indovinare. — La donna alzò l'indice, davanti al naso. — È preoccupato per Harriet. — Siete un'indovina, signora Hatchen. Sorrise appena. — È la solita vecchia storia. Le è stato sempre addosso come una chioccia. — Pare che Harriet sia scappata per sposare quel Damis — interloquì il marito. — Non me ne meraviglio. Son contenta che abbia avuto tanto coraggio. Anzi, signor Archer, a proposito di spiriti... — agitò il dito. — Keith e io stavamo proprio per bere un liquore. Volete farci compagnia? Hatchen era rimasto in piedi in mezzo alla stanza. — Hai già avuto la tua razione, cara. Sai cosa ha detto il medico... — Il medico è a Guadalajara e io sono qui. Sii gentile, va' a prepararci qualcosa da bere. L'uomo scrollò le spalle e si rivolse a me. — Cosa prendete? Il whisky non è gran che ma il gin è ottimo. — Gin, allora. Lasciò la stanza con un'occhiata nervosa a sua moglie, come se temesse che potesse darsi alla fuga. La donna dedicò a me l'intera gamma dei suoi fascini. — Forse penserete che sono una strana madre, che non mi occupo affatto del bene di mia figlia, eccetera. Fatto sta che sono una specie di rifugiata. Tredici anni fa sono fuggita da Mark e dalla sua casa, ho cominciato una nuova esistenza dedicata all'amore e alla libertà. Il nostro matrimonio era stato uno sbaglio: avevamo pochissime cose in comune. A me piace il movimento, l'eccitazione, la gente che ha il senso della vita. — Mi squadrò. — Voi sembrate un uomo che ha il senso della vita: mi meraviglio che siate amico di Mark. — Non ho detto di essere suo amico: sono un investigatore privato, signora Hatchen. Il colonnello mi ha incaricato di fare indagini sui precedenti di Damis. Speravo che avreste potuto aiutarmi. — Conosco appena quel giovanotto. Per quanto, sin dal principio, abbia notato che Harriet gli faceva gli occhi dolci.
— Quando è stato il principio? — Qualche giorno dopo l'arrivo di mia figlia, poco più d'un mese fa. Ero stata veramente contenta di vederla. Povera Harriet! Ho sempre sperato che superasse la sua fase di brutto anatroccolo, e in un certo senso l'ha superata. Dopotutto è mia figlia. — La donna si passò l'indice sulla fronte, poi sul naso e la bocca. — Peccato che abbiamo così poco in comune. Keith e io abbiamo fatto del nostro meglio per accoglierla bene, ma i nostri amici e il nostro modo di vivere non le piacevano: pochi giorni dopo essere arrivata ha lasciato la mia casa. — Per andare con Damis? — Harriet non farebbe mai una cosa simile. Bada molto alle convenzioni. Ha affittato uno studio vicino al lago: credo che anche lui ne avesse uno da quelle parti e senza dubbio passavano molto tempo insieme. — Conoscevate già Burke Damis prima che incontrasse Harriet? — No, e non si sono incontrati in casa nostra. L'avevamo visto in giro, naturalmente, ma è stata Harriet a presentarcelo, qualche giorno dopo il suo arrivo. — Dove l'avevate visto? — Per lo più alla Cantina. Credo che anche Harriet l'abbia conosciuto là. E un posto frequentato dagli artisti. — L'avevate visto alla Cantina prima che Harriet lo conoscesse? — Oh, sì, parecchie volte. — Si faceva chiamare Burke Damis? — Credo: ma dovreste chiederlo a quelli della Cantina. È in questa stessa strada. — Ci andrò. Prima che Harriet arrivasse, Damis aveva cercato di mettersi in contatto con voi? — No, mai. Non lo conoscevamo. — La donna socchiuse gli occhi. — Mark sta forse cercando di darmi la colpa di qualcosa? — No, ma pensavo che Damis potesse aver fatto dei progetti su Harriet prima che arrivasse. — Fatto progetti? — È una ragazza danarosa, no? — Damis non l'ha saputo da noi, se è questo che pensate. — E niente dimostra che abbia fatto in modo di conoscerla? — Ne dubito. Si sono conosciuti alla Cantina e lei era sopraffatta dalla gratitudine, povera ragazza. — Perché dite povera ragazza?
— Ho sempre avuto compassione di Harriet. È stata trattata male, da noi due. Penserete che sono stata ben egoista a lasciare lei e Mark quando era ancora una bambina, vero? Ma non avevo scelta: mi spezzava il cuore voltar la schiena ad Harriet, ma era la figlia di suo padre e non potevo far niente per cambiare la situazione, a meno di commettere un delitto. Non crediate che non ci abbia pensato! Ma un divorzio nel Nevada mi è parso più civile. Keith... — fece un gesto verso la cucina dove qualcuno stava spezzando del ghiaccio — ...era là per lo stesso motivo. A proposito, quanto c'impiega? — Avrà voluto darci la possibilità di parlare. — Già, è un uomo molto discreto. Sono stata veramente felice con lui, non crediate che non lo sia stata. — C'era una punta di sfida nella voce della signora Hatchen. — D'altro canto non crediate che non mi sia sentita colpevole verso mia figlia: quando ci ha fatto visita, il mese scorso, la vecchia sensazione di colpa è ritornata. Era così evidente che voleva qualcosa da me... Qualcosa che non potevo darle; e se avessi potuto, lei non avrebbe saputo prenderla. Harriet mi accusa ancora di averla abbandonata, come dice lei. Ho cercato di spiegarle, ma non vuole ascoltare critiche sul conto del padre. Mark ha sempre dominato ogni suo pensiero. Si è fatta prendere da una crisi isterica, e anch'io, probabilmente. Abbiamo litigato e se n'è andata. — A questo punto era proprio matura per Damis. Ne ho conosciuti altri, come lui. Approfittano di ragazze e donne in crisi, che si sottraggono alla protezione delle loro famiglie. — Lo descrivete come un tipo equivoco. — Lo è. Il nome Q.R. Simpson non vi dice nulla? Quincy Ralph Simpson? Scosse la testa. — Dovrei conoscerlo? — Non me l'aspettavo, veramente. — Che nome? — domandò il marito dalla soglia, ed entrò reggendo un vassoio con tre bicchieri colmi. — Quello con cui Burke Damis ha attraversato due volte il confine: Quincy Ralph Simpson. — Mai sentito. — Provate a prendere i giornali della California. — Ma noi non li prendiamo. — Distribuì le bibite con un inchino e sedette. — Siamo felicemente sfuggiti ai giornali della California, alle bombe nucleari e alle tasse sul reddito...
Sorseggiai la mia bibita. Il gin era ottimo ma non riusciva a scaldarmi: c'era qualcosa di freddo e sperduto in quella stanza e in quella gente. Dopo un po' mi alzai e anche Hatchen si alzò con me. — Cos'era quella storia di Simpson e dei giornali? — Simpson è stato ucciso con un punteruolo un paio di mesi fa. Il suo cadavere è stato trovato la settimana scorsa. — E dite che Damis si serviva del suo nome? — Sì. — Sospettano che l'assassino sia lui? — Lo sospetto io. — Povera Harriet — fece la signora Hatchen, scostando il bicchiere dalle labbra. 10 La Cantina era costituita da parecchi locali e una volta doveva essere stata una casa privata. Quel martedì sera alle undici e mezzo era quasi tornata alle origini. Un bevitore solitario, un omaccione con i capelli giallastri che gli scendevano fin sul colletto, era seduto in un angolo dietro la pedana dell'orchestra, deserta. Non c'era nessun altro. Alle pareti erano appesi molti piccoli dipinti a olio. Chiazze, punti e vortici variopinti ricordavano le forme che si dissolvono sulla retina nel dormiveglia. Sentii che mi stavo avvicinando a Burke Damis e presi a spostarmi da quadro a quadro cercando il suo stile e la sua firma. — Las pinturas sono in vendita, señor — disse una voce dolce, alle mie spalle. Apparteneva a un giovane messicano in grembiule da cameriere, col naso schiacciato e due occhi neri che bruciavano d'intelligenza. — Mi dispiace ma non ho intenzione di comperare. — Nessuno compra. Quest'estate ci sono pochi turisti. — Come mai? Si strinse nelle spalle. — Chi può capire la migrazione degli uccelli? Io so soltanto che è duro campare onestamente. Studiavo, ma mio padre ha perduto le sue reti e ho dovuto smettere. Ho provato la boxe, ma non è per me. — Si toccò il naso. Mi aveva snocciolato in due parole la sua storia e m'aspettavo che mi chiedesse del denaro. Comunque, mi piaceva. — Qualcosa da bere, señor?
— Una birra chiara. — Bueno. Di scura non ne abbiamo. Ci sono soltanto tre bottiglie di birra chiara e un litro di tequila. Passò sorridendo in un altro locale, tornò con una bottiglia e un bicchiere e versò con destrezza il contenuto dell'una nell'altro. — Sai versare bene. — Sissignore. So anche preparare i Martini, e tutti i tipi di bibite. Lavoro ai ricevimenti, qualche volta, e per questo so parlare bene l'inglese. Se qualche vostro amico avrà bisogno d'un cantinero vi prego di raccomandare José Perez della Cantina. — Mi dispiace, ma non ho amici da queste parti. Sono di passaggio. — Un artista por ventura? — chiese, con un'occhiata al maglione di Stacy. — Ne vengono molti, qui. Anche il mio principale è un artista. — Guardò il bevitore solitario. — Vorrei parlargli. José attraversò la sala e disse qualcosa in spagnolo all'uomo dai capelli lunghi. Questi prese il suo bicchiere e venne verso di me arrancando come se il locale fosse pieno d'acqua, o di tequila. — Ah! — fece. — Un americano, se non sbaglio. — Non vi sbagliate. Mi chiamo Archer. Si abbandonò su una sedia. — Io sono Chauncey Reynolds. È un piacere avere un cliente. — Gli altri, dove sono finiti? — Où sont les neiges d'antan? Questo posto era sempre pieno, quando l'ho rilevato. Credevo di aver messo mano su una miniera d'oro. Poi la gente ha smesso di venire. Se continua così, chiuderò e tornerò a lavorare. — Era come se dettasse un ultimatum a se stesso. — Dipingete? — Dipingo. Ma fortunatamente ho anche una piccola rendita. Nessuno campa con la pittura. Per guadagnarsi da vivere con la pittura bisogna prima morire. Van Gogh, Modigliani, tutti i più grandi hanno dovuto morire. — E Picasso? — Picasso è l'eccezione che conferma la regola. Bevo alla sua salute. — Alzò il bicchiere e bevve. — Voi che mestiere fate, signor Archer? — L'investigatore. Depose il bicchiere di scatto e mi guardò con sospetto. — Vi ha mandato qui Gladys? — Non conosco nessuna Gladys. Chi è?
— La mia ex moglie. Ho divorziato da lei a Juárez, ma il tribunale di New York non riconosce il divorzio. Ecco perché son qui: per sempre. — A me interessa un giovanotto che si chiama Burke Damis. — Per quale motivo è ricercato? — Non è ricercato. — Non scherziamo. Leggo molti libri gialli e conosco la vostra espressione. Avete l'aria di un segugio che sta per afferrare la preda. — Come vi esprimete bene. Conoscete Damis, vero? — Solo superficialmente. Veniva spesso qui, specialmente prima che io rilevassi il posto. — Avete mai parlato con lui? — Non abbiamo mai chiacchierato a lungo. È simpatico ma non lo conosco bene: di solito è con altra gente. È ancora ad Ajijic? — No. Potete dirmi il nome di qualcuna delle persone con cui era di solito? — Per lo più con Bill Wilkinson. Potete trovarlo al The Place. Bill s'è messo a frequentarlo da quando ho litigato con sua moglie. Io non odio le donne, ma... — Nemmeno Damis le odia, mi pare. L'avete mai visto con qualcuna? — Sempre. Passava molto tempo con Annie Castle. Ma è stato prima che si mettesse con la biondona. Come si chiamava? — Aggrottò la fronte, cercando di ricordare. — Non ha importanza. Chi è Annie Castle? — Ha un negozio di articoli folcloristici dall'altra parte della plaza. Damis ha lo studio nella stessa casa. Sapete bene, la vicinanza... Annie è abbastanza carina, se vi piace il tipo bruno e serio. Ma lui l'ha lasciata quando è comparsa la piccola biondona. — Che significa "piccola biondona"? — Quien sabe? Una ragazzona che non è ancora donna, capite? — Si aiutò con un sorso. — Forse, quando riuscirà ad avere una personalità diventerà una ragazza d'eccezione. La bellezza non è tanto nei lineamenti quanto nello spirito, sapete, negli occhi. Per questo è così difficile dipingerla. — Siete un osservatore — l'incoraggiai. — Dovete averla studiata bene, quella ragazza. — Sicuro. Come si chiamava? Blackstone, mi pare. Me l'ha presentata sua madre, qualche tempo fa; ma è un po' che non si vede. Tengo particolarmente d'occhio le donne alte, perché anch'io sono un po' fuori misura.
Mi alzai, mi feci dire come raggiungere The Place e mi avviai. Era mezzanotte e i bambini erano stati inghiottiti dai portoni. C'erano ancora attorno alcuni passanti. 11 The Place era chiuso. Arrendendomi a quel fatto e al suono della campana che suonava il quarto, tornai passo passo nella piazza centrale e mi fermai davanti a un'insegna su cui era scritto DA ANNE - ARTICOLI FOLCLORISTICI. Le imposte erano chiuse, ma lasciavano filtrare una lama di luce. Si sentivano inoltre dei tonfi ritmici. Bussai alla porticina e i rumori smisero. Vi furono dei passi, poi l'uscio si socchiuse. Una ragazza sbirciò fuori. — Cosa volete? È tardi. — Lo so, signorina Castle. Ma dovrei ripartire in aereo domattina e ho pensato che siccome eravate sveglia... — So chi siete — disse in tono d'accusa. — Le notizie volano, ad Ajijic. — Posso anche dirvi che siete venuto qui inutilmente. Burke Damis ha lasciato Ajijic qualche tempo fa. È vero che gli ho affittato uno studio per un breve periodo, ma non so niente sul suo conto. — È strano: sapete tutto di me e non mi avete mai visto. — Non c'è niente di strano: il cameriere della Cantina è mio amico. Ho insegnato a tessere a sua sorella. Ora, se volete togliere il piede dalla porta, potrò tornare a lavorare. Non mi mossi. — Lavorate fino a tardi. — Lavoro sempre. — Anch'io, quando svolgo un'indagine. Vedete che abbiamo qualcosa in comune? Inoltre, tutti e due siamo preoccupati per Burke Damis. — Preoccupati? — La voce della ragazza s'era fatta stridula. — Non capisco. — Neanch'io, signorina Castle. Dovrete spiegarmi. — Non ho niente da spiegare. — Siete innamorata di Burke Damis? — No di certo! — esclamò con passione, rivelandosi. — È la cosa più assurda che mi sia mai stata chiesta.
— Io sono pieno di domande assurde. Volete permettere che entri a farvene qualcuna? Siete una ragazza seria e dovete capire che stanno succedendo delle cose gravi. Non sono venuto in volo da Los Angeles per divertimento. — Che cosa sta succedendo? — Fra l'altro, Burke è fuggito con una ragazza che non sa quello che fa. Vi fu un silenzio. — Conosco Harriet Blackwell e sono d'accordo con voi! È una ragazza ignorante dal punto di vista emotivo, che praticamente gli si è buttata tra le braccia. Ma io non posso farci niente. — Nemmeno se vi dico che è in pericolo? — In pericolo con Burke? Impossibile. — Secondo me è più che possibile, e la cosa mi preoccupa. Mi si fece più vicina e colsi il luccichio dei suoi occhi. Aveva un odore tenue e pulito, senza profumi. — Siete venuto veramente dagli Stati Uniti per farmi delle domande sul conto di Burke? — Sì. — Ha... ha fatto qualcosa ad Harriet Blackwell? — Non so. Sono scomparsi. — Che cosa vi fa pensare che le abbia fatto qualcosa? — Ve lo dirò, se voi me lo direte. Se non sbaglio abbiamo la stessa idea. — Mi fate dire cose che non penso. — Non ci sarei costretto, se voleste parlarmi. — Forse è meglio — decise. — Entrate, signor Archer. — Sapeva persino il mio nome. La seguii nel retrobottega. In un angolo c'era un telaio a mano di legno, su cui era avviata una stoffa variopinta. Le pareti e i mobili erano coperti di stoffe simili. Anne Castle indossava una gonna messicana multicolore e una camicetta ricamata, e portava agli orecchi grosse boccole d'oro. Il taglio corto dei suoi capelli sottolineava la modestia della sua altezza e l'originalità del viso. Gli occhi erano scuri e intelligenti, più caldi di quel che la voce m'avesse lasciato pensare. — Dovevate dirmi che cos'aveva fatto Burke — cominciò quando fummo seduti su un divanetto. — Preferirei sentire prima voi, per motivi psicologici. — Volete dire che forse, dopo avervi sentito, potrei rifiutarmi di parlare? — Qualcosa del genere. — È una cosa tanto tremenda? Un delitto? — Pareva una bambina che
nomina ciò che più teme per sentirsi dire che non esiste. — Forse. Come mai parlate di delitti? — Avete detto che Harriet Blackwell è in pericolo. — Tutto qui? — Sì, certo. — Si era esposta troppo e volle coprire la sua ritirata con delle proteste. — Sono sicura che vi sbagliate. Sembravano innamorati l'uno dell'altra. E certo Burke non è un violento. — Lo conoscete bene, signorina Castle? Esitò. — Prima mi avete chiesto se sono innamorata di lui. — Chiedo scusa se sono stato troppo brusco. — Non importa. Ma è così evidente? O l'avete saputo dal proprietario della Cantina? — Mi ha detto che vedevate spesso Burke, prima che arrivasse Harriet Blackwell. — Sì. E da allora ho cercato di levarmelo dal cuore, ma senza troppo successo. — Sbirciò il telaio, nell'angolo. — Perlomeno, ho lavorato molto. — Volete raccontarmi la storia dal principio? — Se insistete. Ma non so a cosa possa servire. — Come avete conosciuto Burke? — Nel modo più naturale. Appena arrivato qui è capitato nel mio negozio. La stanza che aveva alla posada non lo soddisfaceva per via della luce e cercava un posto dove dipingere. Disse che non dipingeva da qualche tempo e che moriva dalla voglia di farlo. Per combinazione avevo un locale che non mi serviva e ho acconsentito ad affittarglielo per un mese. — Lo voleva solo per un mese? — Un mese o due. Non sapeva bene. — Questo è accaduto due mesi fa? — Sì. Quando penso a tutti i cambiamenti che sono avvenuti in questi due mesi! — Gli occhi di Anne li riflettevano. — Comunque, il giorno in cui si è trasferito qui dovetti andare d'urgenza a Guadalajara, con una delle mie ragazze, che soffre di cuore e aveva urgente bisogno di cure. Burke venne con noi e rimasi meravigliata della sua gentilezza. Dopo averla accompagnata all'ospedale andammo al Copa de Leche a pranzare e cominciammo a far conoscenza. Burke mi parlò dei suoi progetti. La sua pittura è ancora astratta, ma cerca di servirsene per penetrare più profondamente nella vita. — Anne arrossì. — Burke parla molto, per essere un pittore. — Non me ne sono accorto. Chi ha pagato il pranzo, quel giorno?
Il rossore della ragazza si accentuò. — Sapete molte cose sul suo conto, vero? Ho pagato io. Burke non aveva denaro. L'ho anche accompagnato al negozio di articoli per belle arti e ho lasciato che facesse acquisti per quattrocento pesos, a mio nome. Gliel'ho proposto io, e non lo rimpiango. — Vi ha restituito il denaro? — Certo. — Prima o dopo essersi messo con Harriet Blackwell? — Prima. Almeno una settimana prima del suo arrivo. — E dove ha preso i denari? — Aveva venduto un quadro a Bill Wilkinson, cioè a sua moglie... È lei che ha i quattrini. Ho cercato di persuaderlo a non venderlo, o se proprio voleva, di cederlo a me. Ma era deciso a darlo a lei, e lei era decisa ad averlo. Gliel'ha pagato tremilacinquecento pesos, più di quanto avrei potuto permettermi io. In seguito Burke si è pentito della vendita e ha cercato di riavere il quadro dai Wilkinson. So che c'è stata una discussione. — Quando è avvenuto tutto questo? — Un paio di settimane fa. Ma a me l'hanno soltanto riferito. Burke e io non ci parlavamo già più, e con i Wilkinson non ho mai avuto a che fare. Bill Wilkinson è un ubriacone che ha sposato una donna più vecchia di lui e si fa mantenere. — Anne fece una pausa, forse accorgendosi di avere incidentalmente alluso ai propri rapporti con Damis. — Sono gente pericolosa. Burke si è lasciato intrappolare da loro per qualche tempo... — O viceversa? — No di certo. Cos'avrebbe da guadagnare, un uomo come Burke, da un tipo come Bill Wilkinson? — Ha venduto un quadro a sua moglie per tremilacinquecento pesos, no? — Il quadro è molto buono — si difese Anne. — L'hanno pagato poco. Burke non è mai soddisfatto dei suoi lavori, ma persino lui ha ammesso che è il genere di pittura tragica a cui aspira. Non è come gli altri suoi dipinti: è figurativo. — Figurativo? — È il ritratto di una fanciulla, Burke l'ha intitolato Ritratto di una sconosciuta. Gli ho chiesto se conosceva quella donna: mi ha risposto che forse l'aveva vista, forse soltanto sognata. — Voi cosa ne pensate? — Penso che l'abbia conosciuta, e ritratta a memoria. Non ho mai visto nessuno dipingere con tanto impegno, anche dodici o quattordici ore al
giorno. Dovevo interromperlo per farlo mangiare e lo trovavo intento a dipingere, col viso madido di lacrime e di sudore. Dipingeva fino a non vederci più, poi andava per la città a ubriacarsi. Dovevo metterlo a letto alle ore piccole e alla mattina era di nuovo in piedi a dipingere. — Bel mese, dovete aver passato. — Meraviglioso — sussurrò. — Lo amavo. Lo amo ancora. — La sua voce era colma di passione. Rimanemmo per un poco in silenzio. Anne era una donna attraente, con quel tipo di onestà che è espresso già dai lineamenti del viso. Si alzò e aprì un piccolo bar a muro. — Posso offrirvi qualcosa, signor Archer? — No, grazie. Ho ancora da fare. Quando noi due avremo finito andrò a cercare i Wilkinson. Voglio dare un'occhiata al ritratto che hanno comperato. Anne richiuse con forza lo sportello del bar. — Non abbiamo ancora finito? Che altro volete sapere, da me? — Se Damis non vi ha mai parlato della sua vita passata. — Non molto. So che viene dal Middle West e che ha studiato in varie scuole d'arte. — Ve ne ha nominata qualcuna? — Può darsi, ma non ricordo. Forse è stato in quella di Chicago: conosceva bene la collezione della Pinacoteca. Ma quasi tutti i pittori la conoscono. — Dove ha vissuto prima di venire nel Messico? — Negli Stati Uniti, un po' dappertutto. — Sappiamo che Burke è venuto qui dalla California. Vi ha mai parlato della contea di San Mateo, o della zona della Baia, in generale? — So che è stato a San Francisco. Conosceva benissimo gli El Greco di quel museo. — A quanto pare Burke parla soltanto di pittura. — Parla di tutto, ma non della sua vita. Ha una strana reticenza in proposito. Mi ha detto soltanto che è stato molto infelice e che io l'ho reso felice per la prima volta, da quando era bambino. — E perché, allora, vi ha voltato le spalle così bruscamente? — È una domanda che mi fa molto male, signor Archer. — Lo so e vi chiedo scusa. Cerco di capire come mai Harriet Blackwell è entrata a far parte del quadro. — Non me lo so spiegare — sospirò Anne. — È comparsa a un tratto.
— Burke non ve ne aveva mai parlato, prima che arrivasse? — No. Si sono conosciuti qui. — E lui, prima, non sapeva nemmeno che esistesse? — Volete insinuare che la stava aspettando, o qualcosa di simile? — Non voglio insinuare niente: faccio soltanto delle domande. Dove si sono conosciuti? — A una festa in casa dei Wilkinson. Io non c'ero e non posso dirvi chi li ha presentati e chi dei due ha preso l'iniziativa. So che è stato un amore a prima vista. — Anne aggiunse seccamente: — Da parte di Harriet, almeno. — E da parte di Burke? Aggrottò la fronte e per un attimo parve quasi brutta. — È difficile dirlo. Mi ha lasciato di punto in bianco. Ha cominciato a passare tutto il suo tempo con lei e alla fine sono partiti. Pure, le poche volte che li ho visti insieme, ho avuto l'impressione che non fosse attratto da lei. — Su che cosa si basa quest'impressione? — Dal modo in cui la guardava, la sua espressione... Sembrava un uomo che eseguisse un compito; che l'eseguisse con fredda efficienza. Ma può darsi che fossi prevenuta. Ne dubitavo, il giorno prima avevo visto anch'io sulla faccia di Burke la mancanza d'interesse, nella casetta di Malibu, quando Harriet gli era corsa incontro. — Non parlavano come fanno gli innamorati, come facevamo Burke e io quando eravamo insieme. Parlavano del denaro che aveva il padre di Harriet e della bella villa che possedeva sul lago Tahoe. Cose del genere. — Cosa dicevano della casa al lago Tahoe? — Harriet gliela stava descrivendo particolareggiatamente, come se dovesse vendergliela. So che sono cattiva con lei, ma era penoso ascoltarla parlare delle travi di quercia, del camino di pietra, della finestra panoramica sul lago. Il peggio era che Burke beveva quelle parole. — Harriet parlava di portarlo in quella casa con sé? — Mi pare di sì. Ha detto, ricordo, che sarebbe stato il luogo ideale per una luna di miele. — Questa è forse la cosa più importante che mi avete detto. A proposito, come avete fatto a sentire? La ragazza parve imbarazzata: — Sarà meglio che ve lo confessi: ho origliato. Non avrei voluto farlo, ma Burke per parecchie sere ha condotto Harriet nello studio, quando non aveva ancora traslocato, e le mie buone intenzioni non hanno resistito. Dovevo sentire quello che si dicevano. —
La voce di Anne assunse un tono ironico. — Lei parlava dei fiumi di denaro del padre e Burke pendeva dalle sue labbra. Chissà: forse avrà avuto un'infanzia misera. — Mi piacerebbe dare un'occhiata allo studio che gli avete affittato. — Se ci tenete... Lo studio si apriva sul cortile ed era luminoso e spoglio. — Quando Burke se n'è andato ha tolto tutti gli arredi — spiegò. — È stato domenica scorsa. — Ma Burke è partito per Los Angeles soltanto il giorno dopo. — Avrà passato l'ultima notte con lei, non so. Andai nel bagno, attiguo al locale. Era pulito e completamente vuoto. Tornai dalla ragazza. — Damis non ha lasciato proprio nulla. Quando è venuto qui aveva un bagaglio? — Soltanto gli abiti che indossava, piuttosto malconci. L'ho persuaso a farsi fare un completo a Guadalajara. Sì, l'ho pagato io. — Avete fatto molto per lui! — Nada. — Vi ha dato qualcosa in cambio? Qualche ricordo? Anne esitò. — Burke mi ha regalato un piccolo autoritratto. È soltanto uno schizzo. Gliel'ho chiesto e me l'ha dato. — Posso vederlo? Anne chiuse lo studio e mi condusse dall'altra parte del cortile, nella sua camera da letto. Un disegno in bianco e nero era appeso alla parete, in una cornicetta di bambù. Era troppo stilizzato per consentire una perfetta somiglianza e un occhio era più grande dell'altro, ma si riconosceva benissimo Burke Damis. — Devo chiedervi un grande favore: potete darmi questo schizzo? Vi prometto che ve lo renderò. — Ma a cosa può servire? Voi conoscete già Burke. — Lo conosco ma non so chi sia. — Credete che usi un falso nome? — Credo che ne usi almeno due. Uno è Burke Damis; l'altro è Quincy Ralph Simpson. Quando era con voi non si è mai fatto chiamare Simpson? Scosse il capo. — È venuto nel Messico come Simpson, e ne è partito con lo stesso nome. Ma lo strano è che il vero Quincy Ralph Simpson è morto due mesi fa, colpito al cuore con un punteruolo. L'hanno trovato a Citrus Junction, vici-
no a Los Angeles, Burke non vi ha mai parlato di Citrus Junction? — Mai. — Anne si lasciò cadere a sedere sul letto. — Volete dirmi che è stato Burke a uccidere quell'uomo? — Burke per ora è il maggiore indiziato. Ha lasciato gli Stati Uniti poco dopo la scomparsa di Simpson, e una cosa è certa: che si è servito dei suoi documenti. — Chi era Simpson? — Un ometto insignificante che aspirava a diventare investigatore. — Dava forse la caccia a Burke per qualche... delitto? La voce di Anne era soffocata, piena d'angoscia. — Avete accennato anche prima a un delitto: come mai? Guardò lo schizzo appeso al muro, poi me. — Burke ha ucciso una donna? — sussurrò. — Non è improbabile — replicai in tono neutro. — Chi era? — Voi lo sapete? — Burke non mi ha detto il suo nome, né altro. Ha detto solo... — Anne si alzò cercando di disciplinare i suoi pensieri. — Non so se posso ricostruirlo esattamente. Era la prima sera che stavamo insieme. Burke era triste, amaro. A un certo punto ha detto che portava sfortuna alle donne, che non dovevo avere a che fare con lui, se ci tenevo al mio collo... Ha detto che era successo alla sua ultima donna. — Che cosa le era successo? — Era stata strangolata. Per questo Burke aveva dovuto lasciare gli Stati Uniti. — Vi ha fatto capire di essere responsabile della sua morte, allora. L'ha confessato esplicitamente? — No. È stata più una specie di minaccia, un avvertimento. Forse voleva spaventarmi. Ma non mi ha mai fatto del male. È molto forte, Burke, e avrebbe potuto. — E in seguito ha ripetuto quella confessione o minaccia? — No; io ci ho ripensato spesso ma non ne abbiamo più parlato. Ho sempre avuto un po' paura di Burke, ma questo non mi ha impedito di amarlo. Lo amerò sempre, qualunque cosa abbia fatto. — Due delitti... Non è da tutti commettere due delitti. Si torceva le mani, pallida e scossa come se attraversasse un momento di nausea morale. — Non posso credere che Burke sia così. — Le donne non credono mai il peggio degli uomini che amano.
— Che prove ci sono contro di lui? — Quello che vi ho detto, e quello che voi avete detto a me. — Ma non c'è nulla di concreto. Burke può aver soltanto "parlato". — Non è questo che avete pensato subito, e nemmeno in seguito! Mi avete chiesto se c'era di mezzo un delitto. E io devo dirvi che è così. Ho visto il cadavere di Ralph Simpson ventiquattr'ore fa. — Ma non sapete chi fosse la donna! — Non ancora. Non ho notizie sulla vita di Burke: per questo sono venuto ad Ajijic, e per questo vi chiedo di prestarmi il suo ritratto. Un mio conoscente fa il critico d'arte a Los Angeles e conosce molti giovani pittori, anche di persona. Voglio mostrargli lo schizzo per vedere se può dare un nome al vostro amico. — Credete proprio che Burke Damis non sia il suo vero nome? — Se è un fuggiasco, come pare, non si servirà certamente delle proprie generalità. Come vi ho detto, è entrato in Messico col nome di Simpson. E poi c'è un'altra piccola prova. Non avete mai notato un completo per barba che Burke teneva in un astuccio di pelle? — Sì. Possedeva solo quello. — Ricordate che iniziali c'erano sopra? — Non ci ho mai badato. — B.C. — dissi. — Non sono le iniziali di Burke Damis e vorrei proprio sapere a quale nome corrispondono. Forse con questo ritratto potrò scoprirlo. — Prendetelo — disse la ragazza. — E non occorre che me lo riportiate. Non avrei dovuto nemmeno appenderlo. Lo staccò e me lo consegnò. Era molto buona: quando dissi che volevo andare dai Wilkinson, portò fuori dal cortiletto la sua Volkswagen e insistette per accompagnarmi. Mi condusse fino al cancello della proprietà dei Wilkinson, sul lago. Poi girò la macchina e tornò verso il villaggio. Pensavo che non l'avrei più riveduta e mi dispiaceva. 12 Dalla casa usciva della musica. Era una vecchia musica romantica degli anni venti, penetrante e dolce come il profumo dei gelsomini nell'aria. La porta d'ingresso era fiancheggiata da folti cespugli. Bussai e mi rispose una voce di donna: — Sei tu, Bill? Non dissi nulla. Dopo un attimo d'attesa venne ad aprire. Era bionda e
snella, e indossava qualcosa di diafano. Nel pugno aveva una calibro 38 puntata contro il mio stomaco. — Cosa volete? — Ho bisogno di parlarvi. Mi chiamo Archer e mi fermo qui solo stanotte. So che non sarebbe l'ora adatta per disturbarvi, ma... — Non mi avete ancora detto cosa volete. — Sono un investigatore privato e compio indagini su un delitto. — Qui non c'è stato nessun delitto — rispose bruscamente. — Il delitto ha avuto luogo al nord. — E che cosa vi fa pensare che io ne sia al corrente? — Sono venuto per chiedervi se sapete qualcosa, ecco tutto. Si fece indietro e mosse la pistola intimandomi d'entrare. — Venite dove c'è luce, che voglio vedervi. Entrai in una sala tanto grande che gli angoli più lontani erano bui. La musica di Gershwin sgorgava in nostalgiche cascate da un massiccio giradischi. La donna bionda era pesantemente truccata, fuori moda, come se stesse intrattenendo dei fantasmi. Il suo viso triangolare aveva la tesa immobilità che spesso è prodotta dalla chirurgia plastica. Mi squadrò lentamente con gli occhi seminascosti dal trucco. Riconobbi quel modo di guardare: l'avevo visto dozzine di volte al cinema, nei tempi andati, e anche recentemente, frequentando una cineteca di Long Beach dove si proiettavano vecchissimi western. Cercai inutilmente di ricordarmi il suo nome d'arte. — Non è di Claude Stacy, quel maglione? — domandò. — Me l'ha prestato lui. I miei abiti erano bagnati. — Gliel'ho regalato io. Siete amico di Stacy? — Conoscente. — Il suo nome d'attrice m'era tornato in mente a un tratto. — Siete Helen Holmes, vero? Si illuminò di soddisfazione gelida. — Vi ricordate di me? Credevo che tutti mi avessero dimenticato. — Ero un vostro ammiratore. Il suo sorriso era immobile. — In premio potete sedervi e chiedermi quel che vi pare. Cosa volete bere? — Gin e soda, giacché siete tanto gentile. Si diresse verso un bar addossato a una parete, dietro il quale stavano degli scaffali pieni di bottiglie. — Venite a sedervi al bar: si sta meglio. Presi posto su uno degli alti sgabelli, e l'osservai mescolare le bibite. Re-
stò dietro il banco a bere la sua, come una barista. — Non voglio perder tempo in preamboli — dissi. — Sono qui per Burke Damis. Lo conoscete, signora Wilkinson? — Un po'. È amico di mio marito. O meglio, lo era. — Perché lo era? — Hanno litigato, poco prima che Damis partisse. — Per quale motivo? — Fate delle domande molto precise. Se proprio volete saperlo hanno litigato per me. — Sbatté le ciglia. — Temevo proprio che si sarebbero ammazzati. Ma Bill s'è accontentato di bruciare il quadro. In questo modo s'è vendicato di lui e di me. — Alzò una mano, come una testimone. — Non chiedetemi per che cosa. Non c'è stato nulla. È soltanto che Bill non si sente sicuro del mio amore. — Ha bruciato il Ritratto di sconosciuta? — Sì, e non gliel'ho perdonato. L'ha fatto a pezzi e l'ha gettato nel camino a bruciare, Bill sa essere molto violento, certe volte. Sorseggiò la sua bibita passandosi di tanto in tanto la lingua sulle labbra. Mi faceva pensare a un gatto selvatico, malefico. — Damis ha saputo che il suo quadro era stato distrutto? — Gliel'ho detto io. Ne è stato sconvolto: è arrivato persino a piangere. Pare che lo considerasse la sua opera migliore. — Ho sentito dire che s'era offerto di ricomprarlo. — Già, ma io non ho voluto separarmene. — Tra le palpebre socchiuse, gli occhi della donna erano attenti. — Con chi altri avete parlato? — Con alcune persone del villaggio. — Anche con Claude Stacy? — No, non ancora. — Perché v'interessa tanto quel quadro? — M'interessa tutto quel che riguarda Damis. — Avete accennato a un delitto avvenuto al nord. Volete parlar chiaro? Le dissi quel che era successo a Quincy Simpson: parve quasi delusa, come se si fosse attesa il peggio. — È una cosa nuova per me — disse. — Non posso dirvi niente di quel Simpson. — Torniamo al quadro, allora. Damis l'ha chiamato ritratto. Non vi ha mai detto chi fosse il soggetto? — Mai — replicò. — E non potete fare nessuna ipotesi? Dovete aver avuto un motivo per comperare quel dipinto e per volerlo tenere.
Scrollò le spalle. — Non so chi fosse quella donna — dichiarò, con troppa enfasi. — Io credo che lo sappiate, invece. — Davvero? Cominciate a diventare piuttosto noioso. È tardi e ho mal di testa. Bevete e andatevene. Lasciai il bicchiere dov'era, sul banco del bar. — Mi dispiace di avere insistito. Non... — Venite, vi accompagno — mi interruppe. Era stato un colloquio molto breve: la seguii riluttante. — Avrei voluto farvi anche qualche domanda sul conto di Harriet Blackwell. Pare che Damis l'abbia conosciuta qui, a casa vostra. — E con ciò? — fece, e spalancò la porta. — Fuori. La sbatté alle mie spalle. La camminata per tornare al villaggio fu lunga, ma in un certo senso mi fece piacere perché mi diede la possibilità di riflettere con calma. Avrei scommesso che Helen Holmes sapeva chi era la donna del ritratto e che legame c'era fra lei e Damis. Mi chiesi che cosa ci fosse stato fra Helen e Damis. Quando arrivai alla posada erano le due e mezzo. Claude Stacy dormiva vestito su un divanetto. Lo scossi e lui fece una smorfia, come un grosso bambino disturbato nella culla. — Cosa c'è? — Stanotte ho fatto la conoscenza di una vostra amica: Helen Wilkinson. Mi ha parlato di voi. — Davvero? — Trasse di tasca un pettinino e se lo passò tra i capelli radi. — Spero che ne abbia parlato bene. — Molto — mentii. — Oh, Helen ha simpatia per me. Se Bill Wilkinson non fosse arrivato prima, forse avrei potuto sposarla io. — Ci pensò sopra. — È stata una diva del cinema, sapete, e ha messo da parte un bel po' di denaro. Bill era in casa? — Non credo: non l'ho visto. Che mestiere fa? — Nessuno. Deve avere una ventina d'anni meno di Helen — spiegò Stacy. — Non lo si direbbe: Helen è così ben conservata. E Bill s'è lasciato andare terribilmente. Era bello come un dio greco. — Lo conoscete da molto tempo? — Anni e anni. Ha sposato Helen un paio d'anni fa, quando i suoi genitori hanno smesso di mandargli quattrini. Non voglio dire che l'abbia sposata per i quattrini. Se vede Helen guardare un altro uomo, diventa pazzo.
— Guarda gli altri uomini, lei? — Temo proprio. Guardava molto anche me, un tempo. — Arrossì di vanità. — Naturalmente non mi sognerei mai di portar via la moglie a un altro. Bill sa che può fidarsi. — Stacy sbadigliò. — Ma, se posso chiedervelo, come mai avete conosciuto Helen Wilkinson? — Sono andato a casa sua. — Così, come niente? — Sono un investigatore privato. S'irrigidì. — Credevo che foste un turista — osservò, risentito. — Sono venuto qui per indagare sul conto di un uomo che si fa chiamare Burke Damis. Credo che abbia passato una notte o due anche da voi. — Una sola — disse Stacy. — Dunque è proprio vero? Non ci volevo credere: è talmente un bel giovane! — Che cosa non volevate credere? — Che avesse ucciso sua moglie. Non è per questo che gli date la caccia? Cercai di non dimostrare la mia sorpresa. — Certe voci si diffondono in fretta, eh? A voi chi l'ha detto? — L'ho sentito in giro, come si dice. Bill Wilkinson ha detto a qualcuno, al The Place, che avrebbe denunciato Damis come straniero indesiderabile, il governo è piuttosto rigido con gli indesiderabili: non esita a mandarli oltre confine. — Dunque Wilkinson ha denunciato Damis? — Non credo che l'abbia denunciato, ma ha minacciato di farlo. Probabilmente è per questo che Damis è scappato in fretta. Gli siete alle calcagna? — Veramente, è ancora ben lontano. M'interessano, queste voci. Cosa si diceva, esattamente? — Solo che Damis, ma non è il suo vero nome, era ricercato per l'assassinio di sua moglie. — Come sapete che non è il suo vero nome? — Io non so niente. Sono tutte voci. Ho tormentato Bill ed Helen per avere altri particolari, ma si sono sempre rifiutati di parlare... — Allora la sanno lunga in proposito? — Penso di sì. In maggio hanno passato una settimana in California. È stato allora che è avvenuto il delitto, no? Forse avranno letto i resoconti sui giornali. Ma se sapevano tutto, non capisco come mai abbiano fatto amicizia con quell'uomo. Sono stati amici per la pelle, per un certo periodo,
prima che Bill si mettesse contro Damis. Helen, poi, gli faceva gli occhi dolci. — Ma Damis aveva già una ragazza. O due; o tre. Stacy sorrise, indulgente. — A Helen queste cose non importano. — Conoscete la ragazza con cui Damis è partito? Harriet Blackwell? — L'ho vista una volta, a una festa. — La festa in cui ha conosciuto anche Damis? — Precisamente, in casa dei Wilkinson, Helen m'ha detto che era stato Damis a chiederle di invitarla. — Damis ha chiesto a Helen di invitare Harriet a quella festa? — Proprio così. — Per poterla conoscere? — A quanto pare. Io ripeto solo quello che mi è stato detto. Quel colloquio cominciava a deprimermi. Stacy aveva un'espressione malsana, come se vivesse di quei frammenti d'altre vite. — Ditemi, signor Stacy — decisi — c'è un tassì, nel villaggio? — Sì, ma sarà difficile che riusciate a farlo venir fuori alle tre di mattina. Perché? — Devo tornare dai Wilkinson e non mi sento di andarci a piedi. — Vi accompagnerò io. — Siete molto ospitale. — Non è nulla: per me è un diversivo. Però non dovete dire a Bill e a Helen che vi ho portato laggiù. È una conoscenza importante, per me, capite. — Certo. Portò la sua vecchia Ford davanti all'ingresso e partimmo. Quando fummo in vista della proprietà, Stacy spense il motore e lasciò che entrassi da solo. I Wilkinson stavano litigando e le loro voci si sentivano fin dal giardino. Mi fermai fuori della porta ad ascoltare. Lei lo chiamava alcolizzato; lui le dava della svergognata. Helen replicò che se non fosse stato attento a quel che diceva avrebbe divorziato e l'avrebbe lasciato a chiedere l'elemosina per le strade, Bill dichiarò che gli avrebbe fatto un favore. Dopo un po' la lite si spense. Misi tutta l'energia che mi restava nel pugno e bussai. Stavolta venne ad aprire Bill Wilkinson. Era un uomo alto, sulla trentina, che dimostrava più della sua età. Il suo fiato sapeva d'alcool; aveva gli occhi iniettati di sangue.
— Non so chi siate. Andatevene — fece. — Datemi un minuto solo. Sono un investigatore privato e sono venuto in aereo da Los Angeles per assumere informazioni sul conto di Burke Damis. Ho saputo che siete suo amico. — Balle. Veniva solo a scroccare da bere. Quando ho scoperto il suo gioco l'ho buttato fuori. Negli occhi del beone brillava una punta di pazzia. — Qual era il suo gioco? — Cercava di entrare nelle mie grazie per poter arrivare a mia moglie. Ma non l'ho tollerato. — Damis ha ammazzato la sua, si dice. — In primavera, quando eravamo a San Francisco, l'ho letto sui giornali con questi occhi. C'era la foto della morta e tutto. Ma quando veniva qui a scroccare non sapevamo chi fosse: l'abbiamo capito solo quando abbiamo visto il quadro. — Era il ritratto di sua moglie? — Precisamente. Helen l'ha riconosciuta, poveretta. Quel serpente l'aveva strangolata con le sue mani. Wilkinson fece un versaccio significativo. Sua moglie chiamò dall'interno. — Chi è, Bill? Con chi stai parlando? — Con uno di Los Angeles, un investigatore. La donna arrivò correndo. — Non parlargli. — Se ne ho voglia gli parlo — replicò lui, con l'aria di un ragazzino capriccioso. — Ho sistemato Damis definitivamente. — Non ti occupare di Damis! — Sei tu che mi hai costretto. Se non avessi cercato di ricattarlo, per farti... — Taci. Sei un cretino. Si fronteggiavano, e la collera creava una specie di vuoto intorno a loro. L'uomo aveva la metà degli anni di lei, ed era grande il doppio, ma la donna era più forte: il suo viso teso era privo d'espressione. — Ascolta, Bill. Quest'uomo è venuto qui un'ora fa e ho dovuto cacciarlo via. Ha cercato di approfittare di me. Lo sguardo lento dell'ubriaco gravitò verso di me. — È vero? — Nemmeno per sogno! — Ora mi dà della bugiarda e tu lo sopporti? Bill mi vibrò un pugno. Scansai e gliene mollai uno nello stomaco. Sedette a terra comprimendoselo con le mani. Non avrei mai dovuto picchiar-
lo: si mise a vomitare. — Maledetto vagabondo — sibilò la donna. Prese la pistola da un tavolo e sparò. Il proiettile bucò una piega del maglione di Stacy, sul mio fianco. Mi volsi e scappai di corsa. 13 Alla mattina Stacy mi accompagnò all'aeroporto. Non volle essere ricompensato né indennizzato per il doppio foro al maglione. Disse che avrebbe fornito argomento di conversazione. Salii sull'aereo e dormii fino a Los Angeles. Arrivammo poco dopo la una: faceva caldo, più che nel Messico. Lo smog gravava sulla città come il coperchio d'una pentola a pressione. Mi murai in una cabina telefonica e feci parecchie chiamate. Il colonnello Blackwell non aveva avuto nessuna notizia di Harriet. Era possibile che i due fossero a Tahoe, convenne, e mi disse che la sua casa era sul lago, dal lato del Nevada. Interruppi le sue domande ansiose con la promessa di andare più tardi a casa sua. Poi chiamai Arnie Walters a Reno. Arnie ha un'agenzia che lavora in quella zona del Nevada. Arnie non c'era ma dissi di che si trattava a Phyllis, sua moglie, ex poliziotta lei pure. Le descrissi Harriet e Damis e le chiesi di farli cercare nella zona del lago Tahoe e a Reno, facendo particolare attenzione alla casa di Blackwell e alle cappelle specializzate in matrimoni. — Se trovate Damis, fatelo arrestare — conclusi. — È ricercato per l'omicidio di sua moglie. Ma badate che è pericoloso. Chiamai il fotografo al quale avevo lasciato il film del quadro di Damis. Le diapositive erano pronte. Finalmente, telefonai al critico d'arte, Manny Meyer, che mi disse di andare pure da lui: sarebbe rimasto in casa per un'altra oretta ed era disposto ad aiutarmi. Andai a ritirare le diapositive a Santa Monica e mi diressi verso Westwood Street. Manny abitava in una grande casa moderna e il suo studio era quello d'un uomo per il quale solo l'arte ha importanza. Le pareti erano tappezzate di riproduzioni di opere d'arte o occupate da scaffali zeppi di libri; in un angolo c'era un pianoforte a coda. Manny era un ometto d'aspetto insignificante, sempre malvestito. Sembrava assonnato. — Dunque vuoi che cerchi di riconoscere un pittore dallo stile, vero? Non è facile. Sai quanti sono i pittori? — Sorrise. — Qui potresti trovarne
cinquecento nel raggio di un chilometro, scommetto. E tutti sono geni della più bell'acqua. — Questo mio genio si è fatto un autoritratto, il che dovrebbe facilitarti le cose. — Se lo conosco di persona. Trassi lo schizzo dalla mia borsa e glielo mostrai. Lo studiò attentamente. — Sì, credo di conoscerlo. Fammi vedere le diapositive. Le tolsi dalla loro busta e Manny le scrutò contro luce. — Lo conosco. Ha un suo stile, per quanto ci sia stato un cambiamento, forse in peggio. Del resto non me ne meraviglio. Quando si volse a guardarmi, Manny aveva gli occhi tristi. — Si chiama Bruce Campion e ho visto alcuni suoi quadri a una mostra di giovani artisti, l'anno scorso, a San Francisco. Gli ho anche parlato. Ma ho saputo che in seguito ha avuto dei guai e che ora è ricercato dalla polizia per aver ucciso la moglie. Era sui giornali di San Francisco: mi meraviglio che tu non li abbia visti. — Non li prendo. — Fai male. Ti saresti risparmiato tempo e fatica. — Manny riunì lo schizzo e le diapositive e me li porse. — State per prenderlo? — Tutt'altro. Non si sa dove sia. — Mi fa piacere. Campion è un bravo pittore, tanto bravo che non mi interessa cosa può aver fatto. Tu vivi in un mondo dove tutto è o bianco o nero. Il mio invece è un mondo di chiaroscuri e detesto il meccanismo della punizione. Secondo me, non è facile che un omicida ripeta il suo delitto. 14 Percorsi il Sunset Boulevard e feci arrampicare la macchina fino alla casa di Blackwell, a Bel Air. Fu il colonnello stesso ad aprirmi, allontanando con un gesto una camerierina in uniforme. — Avete saputo qualcosa? — Le notizie non sono troppo buone. Mi afferrò per le braccia e mi scosse: lo respinsi. — Calmatevi. — Ah, dovrei essere calmo? Sono già quarantott'ore che mia figlia se n'è andata. Avrei dovuto trattenerli con la forza. Avrei dovuto uccidere quell'uomo, stenderlo con un colpo... — Tutto questo è assurdo — interruppi. — Ho assolutamente bisogno di parlarvi. Possiamo andare dentro?
Sbatté le palpebre come un uomo che si svegliasse da un incubo. — Sì, certo. Nel salotto in cui mi fece entrare c'era un'atmosfera da museo. Ritratti di antenati col naso dei Blackwell mi scrutavano dall'alto delle pareti. Ci sedemmo e feci al colonnello un breve resoconto del mio viaggio nel Messico. — Ho potuto stabilire che Damis è ricercato dalla polizia e viaggia sotto falso nome — conclusi. — Il suo vero nome è Bruce Campion e ha commesso un omicidio. Per un attimo Blackwell mosse la bocca senza riuscire a parlare. — Che cosa avete detto? — farfugliò poi. — Il vero nome di Damis è Campion. È ricercato dalla polizia della contea di San Mateo per aver strangolato sua moglie, la primavera scorsa. Blackwell era stravolto. Gli occhi gli si annebbiarono: scivolò in ginocchio, giù dalla poltrona, poi cadde pesantemente di fianco. Andai alla porta e chiamai la cameriera che arrivò correndo. Qundo vide il suo padrone per terra si lasciò sfuggire un grido: — È morto? — No, è svenuto. Portate un po' d'acqua e un asciugamano. Fu di ritorno nel giro di trenta secondi con un catino d'acqua. Ne spruzzai un po' sul viso del colonnello e gli umettai l'ampia fronte. Aprì gli occhi, mi riconobbe e ricordò quel che gli avevo detto. Emise un gemito strozzato e parve svenire nuovamente. Lo sferzai in faccia con l'asciugamano bagnato. La camerierina mi guardava con occhi sbarrati, come se stessi commettendo un delitto di lesa maestà. — Dov'è la signora Blackwell? — le domandai. — Un giorno la settimana presta la sua opera all'ospedale. Oggi è quel giorno. — Sarà bene avvertirla. — Lo faccio subito. Devo chiamare anche il medico? — Non occorrerà, a meno che il colonnello non soffra di cuore. Non ha mai avuto infarti, crisi cardiache? Fu il colonnello stesso a rispondermi. — Non ero mai svenuto in vita mia. — Sedette, faticosamente, appoggiandosi contro lo schienale della poltrona. — Non sono più giovane... quello che mi avete detto mi ha sconvolto. — Ciò non significa che Harriet sia morta, sapete. — È quello che ho creduto lì per lì. — Blackwell vide la cameriera che
l'osservava e cercò di ricomporsi. — Andate pure, Letty. E portate con voi questo catino. — Sissignore. — La ragazza trottò fuori. Blackwell si issò sulla poltrona. — Dobbiamo fare qualcosa — sussurrò. — Lo penso anch'io. Ho già avvertito un investigatore che opera nella zona di Reno. Dovremmo estendere le ricerche all'intero sud-ovest, se non a tutto il paese. Ci vorrà molto denaro. Alzò una mano fiacca. — Non importa. Tutto quel che occorre. — È anche ora di avvertire la polizia. Bisogna informarli di quello che sappiamo. Potreste parlare con Peter Colton. — Sì. Lo farò. — Si alzò, barcollando come se il peso degli anni gli fosse caduto addosso tutto in una volta. — Concedetemi un attimo: non mi sono ancora del tutto ripreso. — Andate a bere qualcosa. Io devo fare una telefonata importante: posso usare il vostro telefono? — C'è un apparecchio nel salotto di Isobel. Là potrete parlare in privato. Era una simpatica stanzetta le cui porte-finestre si aprivano su un terrazzino. I mobili erano vecchi più che antichi: non si accordavano con l'opulenza stile Novecento del salotto grande e pensai che Isobel doveva averli conservati come avanzi di un periodo meno opulento della sua vita al quale non aveva voltato le spalle. Chiamai il Palazzo di giustizia di Redwood City e chiesi del capitano Royal, capo della Squadra Omicidi di San Mateo, che già conoscevo. — Ho notizie di Bruce Campion, che è accusato di avere strangolato la moglie nel maggio scorso, nella vostra circoscrizione. Giusto? — Giustissimo. È stato il cinque di maggio. Dov'è adesso? Sentii uno scatto: Royal aveva messo in moto il registratore. Vi fu un secondo scatto, forse quello d'un altro ricevitore che veniva staccato. — Ho cercato di ricostruire i suoi movimenti — dissi. — Il venti maggio ha fatto il volo da Los Angeles a Guadalajara. — La polizia dell'aeroporto l'avrebbe fermato — osservò Royal con una punta d'impazienza. — Si è servito di documenti falsi e d'un altro nome: Quincy Ralph Simpson. — Quincy Ralph Simpson è stato ucciso a Citrus Junction due mesi fa: l'ho saputo ieri. Volete dirmi che è stato Campion? — Non si può evitare di pensarlo. Campion deve avere attraversato il confine con i documenti di Simpson, che in quei giorni doveva essere già
morto. — Adesso è ancora nel Messico? — No. Ha passato due mesi ad Ajijic, sul lago Chapala, facendosi chiamare Burke Damis, ma alla fine qualcuno l'ha riconosciuto. Nel frattempo ha irretito una ragazza americana, certa Harriet Blackwell. Nove giorni fa è tornato a Los Angeles con lei, sempre servendosi del nome di Simpson. Poi ha ripreso quello di Burke Damis e ha trascorso una settimana in una casetta di proprietà dei Blackwell, vicino a Malibu. È probabile che la ragazza sia al corrente dei suoi precedenti e cerchi di proteggerlo: è impossibile che non si sia resa conto dei suoi cambiamenti di nome, anche se lui l'ha stregata. — E sono ancora insieme? — Probabilmente. Hanno lasciato la casa dei Blackwell quarantott'ore fa con la macchina di Harriet, una Buick Special verde. — Dettai a Royal il numero di targa. — Poco prima Campion aveva avuto un alterco col padre della ragazza: c'è mancato poco che non gli sparasse. — Chi? — Il padre, Mark Blackwell. È un colonnello in pensione che ha molto denaro e voce in capitolo in certi ambienti, immagino. Sto appunto telefonando dalla sua casa di Bel Air. — È il vostro cliente? — Sì. Prima di tutto si tratta di trovare la ragazza e toglierla dai pericoli. Non dovrebbe essere difficile individuarla: è una bionda di ventiquattr'anni, alta quasi un metro e ottanta, ben vestita, bel corpo, faccia un po' deformata dalla fronte troppo sporgente: è un difetto di famiglia. Immagino che conosciate già i connotati di Campion. — Sì, ma non abbiamo nessuna fotografia. — Io possiedo un suo autoritratto: cercherò di farvene avere una copia oggi stesso. C'è la possibilità che Campion e la ragazza siano tornati verso il Messico, ma potrebbero anche essersi rifugiati nel Nevada: dicevano di volersi sposare, e nel Nevada sposarsi non è difficile. Forse si saranno già sposati, o si faranno passare per marito e moglie. — La ragazza dev'essere matta, se sa cos'ha fatto Campion a sua moglie e vuole sposarlo ugualmente — osservò Royal. — Non è detto che lo sappia: probabilmente Campion le avrà raccontato qualche frottola per spiegare i cambiamenti di nome, e lei gli avrà creduto: è innamorata pazza. Per di più, è in rivolta contro il padre: come ho detto, ha ventiquattr'anni, ma lui la tratta come se ne avesse quattro, comandan-
dola a bacchetta, alla militare. — E così, se l'è svignata con un criminale — commentò Royal. — Credete che sia in pericolo? — Forse voi potete dirlo più di me, capitano. Dipende dalle mire di Campion. Harriet a venticinque anni erediterà una forte somma di denaro, quindi, se il giovanotto vuole i quattrini, Harriet è al sicuro per almeno sei mesi. Ha ucciso la moglie per denaro? — No, che ci risulti. Anzi, non siamo riusciti affatto a capire il movente del delitto. Può darsi che sia uno squilibrato: molti di questi presunti artisti sono degli squilibrati. I Campion vivevano come barboni in una vecchia rimessa, a Luna Bay, figuratevi. — La voce di Royal era sprezzante. — Campion ha mai dato segni di squilibrio? — Non saprei. Però ha dei precedenti: un anno in campo di lavoro per aver aggredito un ufficiale durante la guerra di Corea. Questo significa che è un violento. Inoltre, con la moglie non andava d'accordo. Come movente può bastare. — La moglie chi era? — Una certa Dolly Stone, vent'anni, bionda e carina. Ma avreste dovuto vederla quando l'abbiamo trovata. Campion l'aveva conosciuta sul lago Tahoe, l'estate scorsa. Si sono sposati a Reno in settembre. Dev'essere stato un un matrimonio di necessità, perché Dolly a quell'epoca aspettava già il figlio. Difatti il bambino è nato in marzo, a sei mesi dal matrimonio: due mesi dopo, Campion l'ha strangolata. — Il lago Tahoe seguita a saltar fuori — osservai. — I Blackwell hanno una villa laggiù, e anche Simpson ha vissuto da quelle parti, prima che l'assassinassero, in maggio. — Cosa ci faceva? — Ho il sospetto che indagasse sulla morte di Dolly Campion. A proposito, che ne è stato del bambino? — L'ha preso con sé la madre della ragazza. Sentite, Archer, potremmo continuare tutto il giorno, a forza di domande e risposte, e io ho da fare. Passate di qui? — Appena mi sarà possibile. Telefonai ancora a Reno, ad Arnie Walters. Volevo informarlo di quel che avevo saputo e dirgli di assegnare altri uomini alle ricerche. L'aveva già fatto, mi riferì Phyllis, perché Campion e Harriet Blackwell erano stati visti a State Line la sera precedente. Chiamai l'aeroporto e prenotai un posto sul primo apparecchio per Reno:
se continuavo così, mi avrebbero iscritto nei ruoli del personale viaggiante. Mentre mi alzavo, vidi sulla scrivania un giornale piegato: potevo leggere parte di un titolo che m'incuriosì: UOMO DI SAN MATEO... Era una copia del Citrus Junction News Beacon del giorno precedente: la spiegai. Il titolo prendeva l'intera pagina e diceva: UOMO DI SAN MATEO ASSASSINATO QUI LA POLIZIA SOSPETTA UNA VENDETTA TRA BANDE RIVALI L'articolo in sé era scritto male e stampato peggio e non mi diceva niente che io già non sapessi. Avevo ancora il giornale in mano quando Blackwell entrò nella stanza: sembrava il fantasma di uno dei suoi antenati. — Che cosa fate con quel giornale? — domandò, torvo. — Mi chiedevo come mai fosse arrivato in casa vostra. — Non vi riguarda. — Me lo strappò di mano e l'arrotolò. — Sono parecchie le cose che non vi riguardano. Per esempio, io non intendo spendere quattrini per sentire diffamare me e mia figlia presso la polizia. — Mi sembrava d'aver sentito lo scatto d'un altro apparecchio: in casa vostra siete tutti abituati ad ascoltare le telefonate degli altri? — Questo è un insulto. Ritiratelo. Blackwell tremava, in preda a un accesso di collera. Si vibrò un colpo sulla gamba con il giornale arrotolato, come preparandosi a colpirmi. — Non posso modificare i fatti, colonnello — dissi. — Se quello che sentivate non vi piaceva, avreste potuto smettere di ascoltare. — Volete insegnarmi quello che devo fare in casa mia? — Prendetela come volete... — Allora uscite. Andatevene, capito? — Vi sentiranno fino a Tarzana. Non volete che vostra figlia sia ritrovata? — La troverò senza il vostro aiuto: siete licenziato. — Vi ho già fornito il mio aiuto — precisai. — Mi dovete trecentocinquanta dollari, fra onorari e spese. — Vi firmo subito un assegno. — Un assegno si può bloccare: voglio contanti. — Cercavo di guada-
gnar tempo, nella vaga speranza che Blackwell si calmasse come aveva già fatto un'altra volta. Non volevo piegarmi davanti a lui, ma ci tenevo a continuare le indagini. Stavo per concludere, e la conclusione di un caso, per uno come me, è come un amore al quale non si sa rinunciare anche a costo di soffrire. — Non ho contanti in casa — stava dicendo. — Dovrò andare a incassare un assegno all'albergo. — Va bene, aspetterò. — Aspetterete fuori — intimò. — Non voglio che si spii in casa mia. Aspetterete nella vostra macchina. Uscii, con Blackwell alle calcagna. Lo vidi tirar fuori dalla rimessa la sua Cadillac nera e allontanarsi giù per la collina. Passai dieci brutti minuti chiedendomi cosa avrei dovuto fare. Volevo assolutamente andare a Tahoe, ma mi dispiaceva viaggiare a mie spese. Isobel Blackwell, al volante di una piccola macchina straniera, imboccò il viale, venendo dalla strada. Scesi dall'automobile per salutarla: mi sorrise. — Signor Archer! Che bella sorpresa. — La cameriera non vi ha avvertito? — Sono uscita dall'ospedale in anticipo: sono preoccupata per Mark. — E avete ragione: è svenuto poco fa. Poi s'è ripreso e s'è messo a urlare. — Mark è svenuto? — Gli ho dato una notizia che l'ha sconvolto: Harriet è nel Nevada con quell'uomo. Il vero nome di Damis è Campion, ed è ricercato a Redwood City per aver ucciso la moglie. Le ci volle un minuto per assimilare quell'informazione. Poi si volse verso la casa e vide l'autorimessa vuota. — Dov'è Mark? — È andato all'albergo a cambiare un assegno per pagarmi. Mi ha licenziato. — E perché mai? — Forse tanto lui quanto io abbiamo fatto troppo servizio militare: lui dalla parte di chi comanda e io da quella di chi obbedisce. — Ma non capisco: volete dire che non vi sentite più di lavorare per Mark? — Non me l'ha chiesto: ed è difficile che lo faccia. — So benissimo che ha un brutto carattere — mormorò. — Ditemi esattamente cos'è successo.
— Ho telefonato da casa vostra a un ufficiale di polizia. Il colonnello ha ascoltato la conversazione all'altro apparecchio e alcuni mìei apprezzamenti sul suo modo di trattare Harriet non gli sono piaciuti. — Tutto qui? — In superficie. Ma naturalmente è rimasto scosso dalla notizia che gli ho dato circa Damis-Campion. Non so come, ha cercato di prendersela con me, come se fossi io colpevole di tutto. Isobel annuì. — È il suo modo di reagire alle avversità, e in questi ultimi tempi è peggiorato. Sono preoccupata per lui, signor Archer. Non so se saprà resistere a questa faccenda. — Io invece mi preoccupo per Harriet. Ieri sera è stata vista a State Line con Campion e ho messo degli agenti di Reno sulle loro tracce. Avremmo la possibilità di arrestare lui e salvare lei, se non dovessi smettere. Strinse la borsetta al petto, come se fosse un bambino da proteggere. — Quell'uomo è un assassino, avete detto? — Così risulta alla polizia. Mi mise una mano sul polso. — Sono io che vi chiedo di continuare le indagini — sussurrò. — Mi accettate come cliente? — Ne sono ben lieto. — Allora siamo d'accordo. — La sua mano scivolò dal mio polso alle mie dita e le strinse. — Lasciate che sia io a informare Mark. A tempo e luogo. — Volentieri. Entrò in casa, ne uscì, mi diede del denaro e rientrò. La Cadillac di Blackwell arrivò nel viale. Il colonnello scese e mi pagò: il suo colorito era migliorato e il suo alito sapeva di whisky. Mi guardò come se volesse parlarmi, ma non disse una parola. 15 Arnie Walters era ad aspettarmi con la macchina all'aeroporto di Reno. Era un uomo sulla cinquantina, dal viso onesto, che possedeva tutte le qualità dell'investigatore di prim'ordine. Mentre andavamo a State Line, Arnie, guidando, mi mise al corrente della situazione. Un certo Sholto, che faceva il guardiano di varie ville del lago durante l'assenza dei proprietari, aveva parlato con Harriet la sera prima. La ragazza si era presentata alla casa di Sholto per farsi dare la chiave della villa del padre, e gli aveva raccomandato di non avvertire il
colonnello che lei era lì. Campion era con lei, ma era rimasto in macchina, nella macchina della ragazza. — A quanto pare hanno passato la notte alla villa — concluse Arnie. — Nell'acquaio ci sono dei piatti sporchi usati di recente. Parecchi segni dimostrano che i due progettano di tornare: lui ha lasciato la valigia nel vestibolo. A ogni modo la casa è sorvegliata. — E la valigia della ragazza? — Non c'è. E non c'è nemmeno l'automobile. — Questa faccenda non mi piace. Arnie staccò gli occhi dalla strada per guardarmi. — Ma pensi davvero che l'abbia condotta qui per farla fuori? — Non si può escludere. — Quali sono state le circostanze dell'uccisione di sua moglie? — L'ha strangolata. Non conosco ancora i particolari. — L'ha uccisa per interesse? — La polizia di San Mateo dice di no. Parlano soltanto d'incompatibilità di carattere, o qualcosa di simile. Evidentemente sono stati costretti a sposarsi: la ragazza aspettava un bambino. Il matrimonio è avvenuto a Reno nel settembre scorso, il che significa che la zona non è sconosciuta a Campion. — Credi che possa ripetere la stessa cosa? — Qualcosa di simile. — Ma che tipo è, quest'uomo? — Ti confesso che sono perplesso sul suo conto. Pare che sia un bravo pittore, a quanto dice un critico che sa il fatto suo. — È uno psicopatico? Sono molte le ragazze che si lasciano affascinare dagli psicopatici. — È difficile dirlo. Tutt'e due le volte che l'ho visto, Campion sembrava normale. E dire che la seconda volta lo stavano provocando: il padre di Harriet lo minacciava con un fucile. Ma a volte gli psicopatici sono bravi attori. — È un bell'uomo? — Disgraziatamente sì. Ho con me un suo schizzo, un autoritratto. Non è una foto ma è somigliante e val la pena di mandarlo attorno. Quando l'avrai fotografato me lo renderai. — Sicuro. Lascialo nella macchina. Lo farò avere ai miei informatori perché sia affisso tra le foto del ricercati. Presto o tardi, se si nasconde in questa zona, lo pescheremo. Ma capirai che può benissimo essere lontano,
a quest'ora; e così la ragazza. Per un po' restammo in silenzio mentre la macchina correva in mezzo alla campagna. A un certo punto scorsi tra gli alberi un lembo di lago: eravamo nel pieno della stagione e i motoscafi s'incrociavano nel sole pomeridiano. Non potei fare a meno di pensare che il lago Tahoe era freddo e profondo: Harriet poteva essere là in fondo, sotto quell'acqua azzurra. La villa di suo padre era in mezzo a un boschetto, al termine d'una strada asfaltata. Era un bell'edificio di pietra e legno: dei gradini di cemento, delimitati da una ringhiera di ferro, scendevano a zig-zag verso il lago. Dagli alberi uscì un uomo che aveva l'aspetto massiccio dell'ex poliziotto, Arnie me lo presentò: era uno dei suoi uomini e si chiamava Jim Hanna. Entrammo insieme nella casa. La valigia di Campion era nel vestibolo, sotto una testa imbalsamata di daino. Allungai la mano ma Arnie mi fermò: — Inutile perder tempo, Lew: non contiene altro che del materiale per dipingere, un servizio per barba e dei vecchi indumenti. Il giovanotto non è ricco. Il grande soggiorno era arredato con bei pezzi rustici, tappeti Navajo, pelli e teste d'animali che ci guardavano dall'alto con tristi occhi di vetro. La finestra panoramica che Harriet aveva descritto a Campion incorniciava il lago azzurro e il cielo azzurro. La manovra della ragazza aveva avuto successo, pensai. Visitammo le altre stanze, comprese le sei camere da letto al primo piano. I materassi erano scoperti. Un armadio a muro, nel corridoio, era pieno di lenzuola, federe e asciugamani, nessuno dei quali era stato usato. Lasciai Arnie e Hanna nella casa e scesi i gradini di cemento verso il lago. L'acqua era molto bassa, quell'anno, e dopo l'ultimo gradino c'era una striscia ghiaiosa. Mi misi a percorrerla. Le onde suscitate dalle imbarcazioni lambivano le pietre rendendole lustre. Cercavo qualche traccia di Harriet; eppure, quando la trovai, ne fui sconvolto. Era qualcosa che sembrava un lembo di grigia rete da pesca, impigliato in alcuni rametti galleggianti, a circa cinque metri dalla riva. Mi svestii dietro un albero, e quando fui in mutande entrai nell'acqua: in contrasto con l'aria estiva era ghiacciata. L'oggetto trattenuto dai rametti non contribuì a riscaldarmi: era il cappellino di Harriet, e la veletta galleggiava sotto il sole. Liberai il cappello e, tenendolo fuori dell'acqua con la sinistra, tornai a terra. Là scoprii che sulla fodera di seta inzuppata c'era del sangue coagulato a cui aderiva una ciocca di capelli biondi. Erano lisci, lunghi una
quindicina di centimetri, come quelli di Harriet, ed erano stati strappati alla radice. Mi vestii e tornai alla villa a mostrare agli altri quel che avevo trovato. Arnie fischiò piano. — A quanto pare siamo arrivati tardi. — Resta da provare: com'è la polizia, in questo posto? — Le giurisdizioni sono sei o sette, attorno al lago. Il denaro a disposizione viene suddiviso, e così le responsabilità. — Non si può chiedere aiuto al Procuratore Distrettuale di Reno? Sarà necessario ricorrere al laboratorio. — E si dovrà dragare il lago. Non è il loro territorio ma vedrò quel che potrò fare. Vuoi tornare in città con me? — Vorrei parlare con Sholto. Abita qui? — A quattro chilometri, sulla strada per State Line. Ti lascerò là. La casetta a scatola di Sholto era arretrata rispetto alla strada. Attorno zampettavano alcune galline. Sholto, un uomo magro e agile d'età indefinita, era intento ad aggiustare degli attrezzi nel cortiletto e ci piantò in faccia due occhi azzurri che spiccavano nel viso cotto dal sole. — Salve, signor Walters. L'avete trovata? — Non ancora. Vi presento il mio collega Lew Archer che deve farvi qualche domanda. Ma prima voglio farvi vedere un ritratto. — Arnie gli presentò l'autoritratto di Campion che aveva portato con sé dalla macchina. — È questo l'uomo che avete visto con Harriet Blackwell? — Sembra proprio lui. Ma c'è qualcosa di strano negli occhi: perché uno è più grande dell'altro? — È lui stesso che si è disegnato così. — L'ha fatto lui? Gli dà un'aria strana: e pensare che è un bel giovane. Arnie gli tolse il ritratto di mano. — Grazie, Hank. Volevo che fosse identificato. — È un delinquente? — È ricercato. — Spero che la signorina Blackwell non si trovi nei pericoli: è una signorina nervosa: non so come la prenderebbe. — Era nervosa iersera, quando le avete parlato? — Eccome. Ho pensato che fosse a causa di suo padre: forse aveva paura che il colonnello venisse a sapere che era stata qui con il giovanotto. Ma le ho assicurato che non avrei fiatato. Dopotutto, non è la prima volta che la signorina viene quando lui non c'è. — Con uomini?
— Non saprei. Questo è il primo che ho visto. Che intenzioni hanno? — Vogliono sposarsi. In che modo si comportavano quando c'eravate voi? — Non li ho visti insieme. Lei è venuta qui da sola, a farsi dare la chiave. L'uomo è rimasto in macchina. — Sholto spinse indietro il suo berretto e si grattò la testa come per favorire lo sviluppo d'un'idea. — Dopo, sono rimasti seduti in macchina per un po': mia moglie dice che discutevano. — Ha sentito cosa dicevano? Sholto si volse verso l'interno della casetta. — Molly! — chiamò. Sulla soglia comparve una donnina bruna con un bimbo in braccio. — Cosa c'è, Hank? — Ieri sera, quando la signorina Blackwell è venuta a prendere la chiave e poi è rimasta seduta in macchina con quell'uomo... hai sentito cosa dicevano? — Litigavano, te l'ho detto. Feci un passo verso di lei. — L'uomo ha picchiato la signorina? — Io non l'ho visto. Ma discutevano: lei non voleva andare alla villa, lui sì. — Lei non voleva andarci? — Proprio. Diceva che l'uomo voleva servirsi di lei, approfittare del suo amore. Lui protestava, diceva che voleva solo seguire il suo destino, o qualcosa di simile. Parlavano difficile. — Com'era lui? Eccitato? — Macché. Calmo e gelido. Era la signorina, che sembrava agitata. — L'uomo la minacciava, signora Sholto? — Non posso dirlo. Anzi, cercava di calmarla. Infatti, quando sono andati via, la signorina era calma. — Chi guidava, dei due? — Lui. Mentre erano seduti, al volante c'era lei, ma poi hanno cambiato posto. Quando sono partiti guidava l'uomo. — A che ora sono partiti? — Non so. L'orologio non funziona. Quando me ne comperi uno nuovo, Hank? — Sabato. — Come se ci credessi — disse serenamente la donna, e si ritirò in casa. Sholto si rivolse a me. — Era già quasi buio quando sono partiti: potevano essere le otto. Non sapevo che ci fosse qualcosa sotto, diversamente avrei telefonato al colonnello. Credete che quel tipo abbia fatto qualcosa
alla signorina Harriet? — Certe prove lo fanno sospettare. La signorina Blackwell aveva il cappello, quando l'avete vista ieri sera? — Sì, un cappellino con la veletta. L'ho notato perché da queste parti le ragazze non vanno in giro col cappello, per lo più. — L'ho trovato poco fa nel lago, sporco di sangue e con dei capelli attaccati. Gli occhi di Sholto quasi scomparvero tra le rughe segnate dal sole. — L'uomo che era con lei si chiama Campion ed è implicato in altri due delitti — ripresi. — Anzitutto ha ucciso sua moglie, che da ragazza si chiamava Dolly Stone e l'estate scorsa ha passato un po' di tempo qui. Avete mai sentito parlare di una Dolly Stone o Dolly Campion? — No, signore. — E Quincy Ralph Simpson lo conoscevate? Sua moglie mi ha detto che è stato nella zona un paio di mesi fa. — Sì — disse subito Sholto. — Ralph lo conoscevo. Ha lavorato dai Blackwell, in maggio, mi sembra. Il colonnello ha aperto la villa presto, quest'anno, in aprile. Diceva che voleva far ammirare alla sua seconda moglie l'arrivo della primavera. — Sholto fece una pausa e sbirciò il sole che tramontava, come se volesse cercare di orientarsi nel presente. — È successo qualcosa a Ralph Simpson? — È l'altra vittima. Non sappiamo con certezza se l'ha ucciso Campion, ma ci sono molte probabilità che sia così. Cosa faceva dai Blackwell, Simpson? — Il cuoco. Ma non c'è rimasto a lungo. — Come mai? Sholto allontanò col piede un pezzo di legno. — Non mi piace parlar male d'un morto, ma ci sono state delle voci. Si diceva che avesse preso qualcosa. Non che io ci abbia creduto: Ralph poteva essere un giocatore, ma questo non vuol dire che fosse un ladro. — Era un giocatore? — Già. Non sapeva star lontano dai tavoli da gioco. Credo che avesse perso tutto il suo denaro e fosse stato costretto a restar qui accettando il primo lavoro che gli è capitato. Certo, doveva avere avuto un motivo per adattarsi a fare il cuoco... Un giovanotto intelligente come lui. E ora mi dite che è morto — concluse Sholto, quasi con risentimento. — Lo conoscevate bene? — Abbiamo chiacchierato un po' alla villa, quando ho dovuto riparare il
pavimento di linoleum della cucina. Ralph Simpson era un ragazzo molto simpatico, pieno d'idee. — Che idee? — Di ogni genere. L'uomo nello spazio, la bomba atomica, la reincarnazione... aveva un'opinione di tutto. E poi conosceva un sistema per far saltare il banco, al tavolo da gioco, e cercava di raccogliere il capitale. — In che modo? — Non me l'ha detto. — Cosa aveva rubato, dai Blackwell? — Non so. È una storia che non si è mai saputa bene. — A voi, chi ne ha parlato? — Kito; fa il domestico in una delle altre ville. Ma non ci si può sempre fidare di questi orientali. — Mi piacerebbe parlargli. — Non c'è. La famiglia ha chiuso la villa il mese scorso ed è tornata a San Francisco. — Sapete l'indirizzo? — L'ho in casa, scritto da qualche parte. Sholto entrò e tornò con un indirizzo che trascrissi sul mio taccuino. — Non potete dirmi altro, di Simpson? — Non mi pare. — E non c'è nessuno che possa parlarmi di lui? — Be', Ralph aveva una ragazza. Ma non vorrei che sua moglie lo sapesse. A dir la verità, non aveva mai parlato d'una moglie: credevo che fosse scapolo. — Ormai, non ha più importanza — dissi, con la penna a sfera sospesa sul taccuino aperto. — Chi è la ragazza? — Lui la chiamava Fawn, non so il cognome. L'ho vista un paio di volte nelle case da gioco insieme a Ralph, e un paio di volte dopo. Non vado a giocare — aggiunse, con uno sguardo furtivo verso la casa — non ne ho i mezzi. Ma mi piace guardare quelli che giocano. — Potete descrivermi la ragazza? — Sembra un cerbiatto. Ha grandi occhi nocciola e i capelli biondi. — Cosa fa, per vivere? — Non so dove lavori, né se lavora. Magari, non sarà più qui: la gente si sposta facilmente. — Quando l'avete vista, l'ultima volta? — Un paio di settimane fa, al Solitaire. Aveva accalappiato un tipo an-
ziano, e lo portava in giro, da una macchina all'altra. Sì, sono quasi sicuro che era al Solitaire. 16 Sholto mi depositò davanti al club e andò via, sul suo traballante furgoncino. La strada principale di State Line era un susseguirsi di piccoli locali di frontiera e di grandi padiglioni fieristici. Visto di là, il lago sembrava artificiale, e circondato da montagne di cartapesta. Entrai nel club, dove i frequentatori del tardo pomeriggio si divertivano, se si può dire che chi gioca si diverte. Maneggiavano carte e dadi come peccatori che pregassero il cielo di concedere una grazia, anche piccola. Tiravano convulsamente le manopole delle macchinette come se avessero avuto davanti dei cervelli elettronici capaci di rispondere a tutte le domande. "Sto invecchiando? Sono un fallito? Sono un immaturo? Lei mi ama? Perché lui mi detesta? Vieni, fortuna, inondami di vita, libertà e felicità." Al bar c'erano parecchi uomini e alcune donne. Aspettai il mio turno e chiesi a uno dei baristi indaffarati dove fosse il sorvegliante del locale. — Il signor Todd? L'ho visto adesso. — Girò lo sguardo per la vasta sala. — Eccolo lì che parla con quel signore col cappello. Mi avviai tra le file di macchine mangiasoldi verso Todd, un uomo atletico con i capelli grigi e gli Occhi grigi, intento a placare un cliente ubriaco e inviperito. Attesi, mentre lo accompagnava fuori con gentile fermezza, poi lo raggiunsi e gli mostrai la mia licenza. Me la rese sorridendo. — Sono stato nella Polizia stradale di California. Cercate qualcuno? — Parecchia gente. — Gli feci la completa descrizione di Harriet e di Campion. — Non mi sembra di averli visti: perlomeno, non insieme. Ma da questo locale passa tutto il paese. — Teneva gli occhi fissi sull'ubriaco, che attraversava la strada barcollando. — Allora proviamo con qualcosa di più facile — ripresi. — Cerco anche una certa Fawn, una bionda piccola e carina, mi si dice. So che ha frequentato questo locale. Todd parve interessato. — Cosa volete da lei? — Ho da farle delle domande. Conosceva un uomo che è stato ucciso in California. — È implicata?
— Non ho motivo di crederlo. — Mi fa piacere: è una brava ragazza. — Allora la conoscete? — Certo. Viene sempre. Il suo cognome è King, se non si è risposata. — È già venuta, oggi? — Non ancora: probabilmente di giorno dorme. — Dove? — Non so. So soltanto che lavorava dal parrucchiere in fondo a questa strada. Provate a chiedere là. Dal parrucchiere mi diedero l'indirizzo che desideravo. Fawn abitava piuttosto distante e decisi di prendere a nolo una macchina. Trovai una Ford, nuova all'occhio e vecchissima all'orecchio, e mi avviai. La casa aveva un aspetto provvisorio, da motel, e l'appartamento occupato da Fawn era al primo piano. Salii la scala, che era esterna, e trovai la porta che cercavo: dentro qualcuno cantava, quando bussai s'interruppe bruscamente. La ragazza venne ad aprirmi, con l'espressione ancora ispirata dal canto: i suoi occhi scuri erano innocenti e perplessi. — Chi siete? — Mi manda Ralph Simpson. — Senti senti! Sono almeno due mesi che non so più niente di lui. — Si fece da parte. — Entrate. Parliamo un po' di Ralph. Era un appartamentino d'un solo locale contenente un letto ancora disfatto, un giradischi portatile, una toletta carica di boccette e cosmetici. Il calendario appeso alla parete era rimasto fermo all'aprile. Sedetti sul letto. — Quando avete avuto sue notizie l'ultima volta? — Un paio di mesi fa, come vi ho detto, verso la metà di maggio. È stato quando ha perso l'impiego e non sapeva dove andare. Ha dormito qui da me: poi, al mattino, gli ho dato il denaro per l'autobus. Da allora non l'ho più visto. — Dovete essere molto amici. — Non come credete: siamo come fratello e sorella, io e Ralph. Ci conosciamo da quando eravamo ragazzini a San Francisco e lui era come un fratello maggiore, per me. Comunque, non porterei mai via alla moglie un uomo sposato. Ma s'era messa in posa davanti a me, come per dimostrarmi che avrebbe potuto farlo. — Io non sono sposato — dissi.
— Me lo chiedevo proprio. — Sedette di fianco a me. — Non sembrate sposato, ma neanche scapolo. — Ho avuto una moglie, che somigliava un po' a voi. — Come si chiamava? — Non ricordo. — Era troppo penoso, per me, pronunciare quel nome, e comunque non era quello il posto adatto. — Non vi credo: cosa le è successo? — Niente. Mi ha lasciato, perché me lo meritavo. Ha sposato un altro e ha avuto dei bambini. Oltre tutto, non le piaceva il mio mestiere. — Io non bado al mestiere d'un uomo. Cosa fate, a proposito? — L'investigatore. — Interessante. — Ma s'era irrigidita e i suoi occhi si erano riempiti di sfiducia. — Non abbiate paura di me — dissi. — Sono un investigatore privato di Los Angeles. — È un lavoro che ha sempre attratto anche Ralph. È così che vi siete conosciuti? — In un certo senso. Ma parliamo di lui: potete dirmi qualcosa dell'impiego che ha perduto? — Ralph lavorava in una casa privata. Fa anche quello quando non trova di meglio. Era da certa gente piena di quattrini, là sul lago. Una sera mi ha fatto visitare la casa, quando la famiglia era fuori. Dovreste vedere che roba. — Ho visto la villa dei Blackwell. — Blackwell: proprio loro. — Quanto tempo è rimasto dai Blackwell, Ralph? — Circa una settimana, non lo so con precisione. Ho abbastanza da fare a pensare ai fatti miei. — Perché l'hanno licenziato? — A me non ha detto che l'avevano licenziato, ma che se n'andava perché ormai aveva ottenuto quel che voleva. Comunque, la famiglia tornava al sud. — Non capisco. — Chiudevano la villa e tornavano a Los Angeles, o dove abitano, Ralph credeva che si sarebbero fermati di più, ma hanno cambiato idea. — Dico che non capisco l'osservazione di Ralph: cosa significa che "aveva ottenuto quel che voleva"? — Non so. A Ralph piace fare il misterioso. Ralph Simpson, il grande
investigatore! — Faceva forse qualche indagine dai Blackwell? — Così diceva: non che io beva al cento per cento quello che dice Ralph. Va molto al cinema, sapete, e certe volte confonde i film con la realtà. — Ditemi un po' cosa vi ha detto esattamente Ralph. — Be'... non ricordo bene. Da come parlava, era tutt'una cosa con la tragedia di Dolly. Ralph era rimasto scosso: voleva bene a Dolly. — Parlate della Dolly che ha sposato Bruce Campion? La forza che, senza volerlo, avevo messo nella mia domanda la spinse in piedi, lontano da me. Andò dall'altra parte della stanza e si mise accanto alla toletta in un atteggiamento di difesa. — Perché gridate in questo modo? Ho dei vicini, ricordatevelo. Scommetto che siete qui per l'assassinio di Dolly. È vero? — Sì. Anche Ralph era venuto qui per quello? — Suppongo. Ma Ralph non vale niente come investigatore. È ora che qualcuno si occupi davvero della faccenda. Dolly era una brava ragazza: non meritava di morire. Venne piano piano verso di me, e vidi che i suoi occhi erano lucidi di lagrime — Conoscete Bruce Campion? — domandai. — Non posso dire di conoscerlo. Un giorno Ralph mi ha condotto da loro, quando Dolly viveva con lui. A quell'epoca ne era innamorata pazza: lo seguiva come un cagnolino. — E Campion, come la trattava? — Bene. Non che le badasse molto, intendiamoci. Io credo che la tenesse con sé perché aveva bisogno d'una modella. Avrebbe voluto che anch'io posassi per lui: gli ho risposto che non ero ancora tanto affamata. — Ma perché Campion aveva sposato Dolly se la voleva soltanto come modella? — Oh, voleva ben di più. Vogliono sempre di più, loro. A ogni modo, ha dovuto sposarla: aspettava un bambino. — Ve l'ha detto Dolly? — Non c'è stato bisogno che me lo dicesse: l'ho visto, quando sono andata da lei con Ralph ai primi di settembre. Non erano ancora sposati, ma già ne parlavano. Almeno, ne parlava lei. Ralph ha portato una bottiglia e abbiamo fatto un brindisi alla loro felicità. Non è servito a molto, vero? Dolly è morta e lui è ricercato. — Fawn mi toccò la spalla. — È stato pro-
prio Bruce a ucciderla? — Tutte le prove sono contro di lui. — Ralph dice di no. Dice che ci sono delle altre prove ma che i poliziotti le tengono segrete. Non so se sia vero o se siano tutte fantasie: con Ralph non si può mai dire, specialmente quando c'è di mezzo un amico. — Vi ha detto anche quali sarebbero queste altre prove? — No. Gli piace molto fare il misterioso. — Vi ha mostrato qualcosa? — No. — Cos'aveva con sé quando se n'è andato? — Gli abiti che portava addosso. Quando è venuto qui non faceva conto di rimanere: poi ha trovato quel lavoro. — La ragazza esitò. — A momenti mi dimenticavo del fagotto: Ralph me l'ha portato un paio di giorni prima di lasciare l'impiego. Mi ha detto di non aprirlo, e non l'ho aperto: però l'ho tastato. Pareva che contenesse degli indumenti. — Che indumenti? — Non so. Era un grosso fagotto. — La ragazza allargò le braccia. — Ho cercato di farmi dire cosa fosse, ma Ralph non ha voluto parlare. — Poteva essere roba rubata? Scosse la testa. — No di certo: Ralph non è un ladro. — Che uomo è? — Credevo che lo conosceste. — Non bene come voi. Parve riflettere. — Ralph mi piace e non voglio criticarlo. Ha molte idee: il male è che non ne realizza nessuna. Continua a cambiare perché non sa decidere cosa vuol essere. Ricordo che quando eravamo bambini voleva diventare un grande avvocato penalista. Ma non è riuscito nemmeno a finire la scuola superiore. Tutta la sua vita è stata così. — Da quanto tempo conosce Campion? — Da più di dieci anni: erano insieme in Corea. Ne parlavano, quel giorno che siamo stati al capanno di Campion. — M'interessa, quel capanno. Sapreste ritrovarlo? — Adesso? — Adesso. Guardò la sveglia che era sulla toletta. — Ma ho un appuntamento. Aspetto una persona. — Lasciatela perdere. — Comunque, non ci trovereste Bruce. L'ha tenuto solo l'estate scorsa.
Qualcuno gli aveva permesso di servirsene. — Vorrei vederlo ugualmente. Resistette un po', ma poi si lasciò convincere. Partimmo nella mia Ford a nolo verso i boschi, in alto c'erano tante stelle, quasi quante ne avevo viste nel Messico. La sera si andava facendo fredda. — Vi dispiace accendere il riscaldamento? — fece la ragazza. E poi: — Non so nemmeno come vi chiamate. — Lew Archer. — È un bel nome. — Fece una pausa. — Credete che Campion si nasconda in quel capanno? — Può darsi. E potrebbe essere pericoloso: mi dispiace di non essere armato. Rise nervosamente. — Cercate di spaventarmi: a me è sembrato un po' tocco, con tutti quei discorsi d'arte che fa. — Non è tocco. Forse è qualcosa di più complicato. — Cosa significa? — È ora che ve lo dica, Fawn. Non hanno ucciso soltanto Dolly: anche Ralph Simpson è stato assassinato nel maggio scorso, poco dopo che l'avete visto voi. Campion è il principale indiziato. Aveva trattenuto il respiro e continuava a trattenerlo, irrigidita. Poi, a un tratto, emise il fiato, insieme a un fiotto di parole. — Non può essere. Forse Campion avrà ucciso Dolly, non si sa mai cosa può fare un uomo a sua moglie. Ma non avrebbe mai toccato Ralph. Per Ralph, Bruce era un dio. Non c'era nessuno che stimasse di più. — E lui, cosa pensava di Ralph? — Gli voleva bene. Andavano molto d'accordo. Ralph era orgoglioso di avere per amico un vero artista. Anche lui avrebbe voluto fare l'artista. — Gli artisti non sono amici facili. — Ma questo non vuol dire che ammazzino la gente. — Per la prima volta il significato di quel che avevo detto colpì la ragazza. Rabbrividì. — È proprio morto, Ralph? — L'ho visto all'obitorio. Mi dispiace, Fawn. — Povero Ralph. Ora, non farà più fortuna. Rimanemmo in silenzio per un certo tempo. Poi, lei cominciò a piangere piano. A un certo punto disse: — Tutti i miei amici muoiono: mi sento come una vecchia. Ora correvamo tra gli alberi e si scorgevano dei lembi di lago, lucente come acciaio levigato.
Aspettai che Fawn fosse un po' più calma. — Parlatemi di Dolly — la incitai. — Cosa dovrei dirvi? — La voce della ragazza era rauca. — È venuta qui la primavera scorsa a cercare lavoro. Per un po' ha lavorato in uno dei club. Ma non ce l'ha fatta, così s'è cercata un uomo. È la solita vecchia storia. — Ma stavolta è finita in modo diverso. La conoscevate bene? — Abbastanza. Era una ragazza di campagna. Siamo diventate amiche quando ha perso il posto. Poi Ralph l'ha presentata a Campion. — Ralph aveva un debole per lei, avete detto? — Be', non proprio. Dolly era bella, ma Ralph non le ha mai fatto la corte: si contentava di aiutarla. Dolly non conosceva nessuno: non era di queste parti. — Di dov'era? — Vediamo un po'... Una volta m'ha detto da dove veniva. Era un paese nella zona degli aranceti. Poveretta, parlava sempre dei fiori d'arancio. — Citrus Junction? — Proprio. Come fate a saperlo? — Ralph è stato ucciso a Citrus Junction. 17 Il capanno sorgeva su un promontorio boscoso che sporgeva sul lago, sotto la strada. Lasciai la macchina in cima al sentiero e dissi a Fawn di restar dentro, senza farsi vedere. Si accucciò sul sedile, sbirciando come un coniglio selvatico spaurito da sopra l'orlo della portiera. Io scesi pian piano per il viottolo. La luce delle stelle filtrava tra le conifere scure creando un'atmosfera fantomatica. Dalla finestra del capanno usciva un fascio di luce. Mi accostai e guardai dentro: un uomo che non era Campion stava davanti al camino acceso e parlava con qualcuno che non vedevo. — Mangia, Angelo — diceva. — Mangia tutto. Bisogna tenersi su. A meno che non ci fosse qualcuno nelle cuccette, che erano in ombra, contro la parete opposta, l'uomo sembrava solo. Era piccolo, con la testa bruna e un collo sottile, da ragazzo. Aveva indosso una camicia scozzese, un panciotto rosso e calzoni di cotone. Si mosse e vidi che teneva un giovane falco appollaiato sulle nocche della mano sinistra, guantata.
L'uccello era intento a strappare col becco dei brandelli da una cosa rossa che l'uomo teneva tra il pollice e l'indice. — Ingozzati — riprese l'uomo, con indulgenza. — Papà vuole che diventi grosso e forte. Aspettai che l'uccello avesse terminato il pasto, poi andai a bussare alla porta. L'ometto venne ad aprire e guardò fuori curiosamente, da dietro gli occhiali. Gli occhi a pagliuzze dorate del falco restarono impassibili: non ero che un altro essere umano. — Scusate se vi disturbo — dissi a tutti e due. — Un certo Bruce Campion ha abitato qui, se non sbaglio. Gli occhi dell'uomo s'indurirono. — È vero. L'estate scorsa, prima di partire per l'Europa, ho prestato a Campion questo mio capanno. Mi ha detto di averci passato l'agosto e parte del settembre. Poi s'è sposato ed è andato via. — Sapete cos'abbia fatto, dopo? — No. Non ho mantenuto nessun contatto con i miei amici del paese. Ho passato tutto un anno in Europa e nel Medio Oriente. — Campion è vostro amico? — Ammiro il suo talento. — Capivo che l'ometto pesava le parole. — Cerco di aiutare i giovani di talento, quando posso. — L'avete visto, ultimamente? La domanda parve disturbarlo. Guardò il falco, che teneva ancora sul pugno, come se l'uccello potesse aiutarlo. — Non per offendervi, ma mi sentirei più a mio agio se sapessi che siete autorizzato a farmi queste domande. — Sono un investigatore privato e collaboro con la polizia. — Gli dissi il mio nome. — Collaborate in che cosa? — Indaghiamo su un paio di delitti; forse tre. Inghiottì e si fece pallido, come se avesse inghiottito il proprio sangue. — In tal caso, accomodatevi. Non abbiate paura di Michelangelo: le persone gli sono indifferenti. Ma quando entrai l'uccello balzò in aria: trattenuto da una funicella di cuoio fissata alle zampe, restò librato un attimo, sbattendo le ali, poi tornò sul pugno che il suo padrone gli tendeva. Ci sedemmo, con il rapace fra noi. — Io sono il dottor Damis — si presentò l'uomo. — Edmund B. Damis, insegno storia dell'arte a Berkeley.
— È là che avete conosciuto Campion? — L'ho conosciuto anni fa, a Chicago. Io insegnavo all'Istituto d'Arte dove lui studiava. Apprezzavo il suo modo di dipingere, come ho detto, e mi sono tenuto in contatto con lui. O meglio, lui s'è tenuto in contatto con me. Notavo che cercava di mantenere le distanze. — È un bravo pittore, mi si dice. È anche un brav'uomo? — Non tocca a me giudicarlo. Vive come può. Io stesso, ho scelto la via più facile: insegno per vivere e dipingo la domenica e nelle vacanze. Campion vive per il suo lavoro: non pensa ad altro. — Scusate, dottor Damis, il vostro secondo nome è Burke, per caso? — Precisamente. — Sapete che Campion si fa chiamare Burke Damis? Arrossì di dispetto. — Sarei molto contento che lasciasse in pace me e le cose mie. — Le cose vostre? — Questo capanno, voglio dire. Quando se n'è andato, l'ha lasciato sporco come un porcile. Ho impiegato tutta la settimana scorsa a pulirlo. Francamente, ne ho abbastanza di Bruce, della sua vita inquieta e delle sue relazioni. — Parlate delle sue relazioni con le donne? — Già. Le ha sempre considerate sue prede legittime: meglio parlar d'altro. — Preda è una parola drammatica: mi fa pensare al vostro falco. Annuì, come se avessi fatto a entrambi un complimento. — A proposito di donne — dissi. — La moglie di Campion è stata strangolata due mesi fa. Campion è ricercato per il delitto. Lo sapevate, dottor Damis? — No. Sono tornato la settimana scorsa dall'Italia, e sono venuto direttamente qui. — Era pallidissimo, ora, e quasi tremante. — Ho perduto i contatti col paese e con gli amici. — Ma con Campion siete stato in contatto. — Chi ve lo dice? — Chiamatela intuizione. Parlereste in modo diverso se non l'aveste veduto da un anno. Quando e dove l'avete visto? — Stamattina — mormorò, a occhi bassi. — Bruce è venuto stamattina. Nella notte aveva fatto a piedi il giro di mezzo lago, ed era in condizioni pietose.
— Perché è venuto da voi? — In cerca di rifugio, suppongo. Ha ammesso di essere nei guai, ma non mi ha detto quali e giuro che non sapevo niente di sua moglie. Voleva restar qui con me, ma non ne vedevo la possibilità. Non gli devo niente: fra noi, è sempre stato lui a prendere e io a dare. Inoltre, ho raggiunto un punto cruciale nell'addomesticamento del mio falco. — Accarezzò l'uccello. — Quando se n'è andato, Campion? — Verso mezzogiorno. Gli ho dato da mangiare: naturalmente non immaginavo di ospitare un fuggiasco. — Come se n'è andato? — Ha preso la mia macchina — confessò Damis, a malincuore. — Volete descrivermela? — È una Chevrolet trasformabile rossa, col tetto a quadri rossi e neri. Targa della California numero TKU 37964. — Mentre prendevo nota del numero, Damis soggiunse: — Bruce ha promesso di rendermela entro ventiquattr'ore: sa che senza un mezzo di trasporto non posso muovermi di qui. — Immagino che se n'infischi. Cercherò di farvela riavere. Volete che denunzi il furto? — Non è stato un furto: sono stato sciocco, ma gliel'ho prestata volontariamente. — Vi ha spiegato perché volesse la macchina e dove fosse diretto? — No. — Damis esitò. — Però, ripensandoci... ho un'idea di dove volesse andare. In un primo tempo aveva proposto di lasciarmi la macchina a Berkeley, nella mia rimessa. Questo fa pensare che fosse diretto da quella parte. — Era solo, quando è venuto qui e quando se n'è andato? — Oh, sì, senza dubbio. — Non ha parlato della ragazza con cui era? — No. In pratica ha parlato pochissimo. Chi è questa ragazza? — È una bionda, alta, che si chiama Harriet Blackwell. Ma forse dovrei dire era. — Mai sentita nominare. Le è accaduto qualcosa? — Tutto fa pensare che sia in fondo al lago. Damis era scosso e dovette trasmettere quella sensazione al suo uccello. Il falco allargò le ali: l'uomo lo placò accarezzandolo. — Non vorrete dire che è stato Bruce ad affogarla? — balbettò. — Qualcosa del genere. Non presentava per caso segni di lotta? Graffi in
faccia, per esempio? — Sì, aveva la faccia graffiata. E anche i suoi abiti erano in disordine. — Erano bagnati? — Pareva che fossero stati bagnati. In generale, Campion dava l'impressione di aver passato una brutta nottata. — Ne passerà di peggiori — dissi. — Può anche darsi che torni qui, e forse sarebbe opportuno mettere un agente di guardia. Avete qualcosa in contrario? — Anzi. Non sono un vigliacco, ma... — L'espressione preoccupata di Damis completò la frase. — Ma non è facile che ritorni — feci, per rassicurarlo. — E proprio per questo vorrei che mi suggeriste dove cercarlo. — Non saprei. Ha vissuto a Carmel, Santa Barbara, San Diego, Los Angeles e in chissà quanti altri posti. Non saprei dove potrebbe essere. A meno che — aggiunse dopo un attimo di riflessione — non sia andato da sua sorella. — Campion ha una sorella? — Sì, ma è difficile che sia da lei. È un tipo che si dà molte arie, mi dicono. Non vanno d'accordo. — Dove abita, la sorella, e come si chiama? — Devo guardare. Non l'ho mai conosciuta, ma ho il suo indirizzo perché Campion se ne serve per ricevere la posta quando è in giro. Portando con sé il falco, Damis andò a una scrivania, prese un'agenda sgualcita e la sfogliò. Mi avvicinai: Bruce Campion era il primo nome sulla pagina dellla "C". Scarabocchiati attorno c'erano vari indirizzi. Erano tutti cancellati con dei tratti di penna fuorché uno: "Menlo Park, presso signora Jurgensen, Schoolhouse Road 401". Lo trascrissi. — Credevo che fossimo amici — commentò Damis, con gli occhi fissi sul rapace — ma col passar degli anni ho capito com'erano i nostri rapporti: Bruce si faceva vivo solo quando gli occorreva qualcosa... un prestito o una raccomandazione. Ora sono stanco di lui. Spero di non vederlo più. 18 Tornai a State Line e telefonai ad Arnie Walters da una cabina pubblica. Mi rispose lui stesso. — Sono Lew Archer — dissi. — Ho altre notizie di Campion. Guida una Chevrolet rossa...
— Lo sappiamo — interruppe Arnie in fretta. — È stato visto a Saline City mentre parlava con l'impiegato di un motel. Un poliziotto l'ha riconosciuto ma non l'ha arrestato subito: voleva controllare i connotati con quelli del bollettino diramato da noi ed era convinto che avrebbe passato la notte al motel. Ma quando è tornato, Campion se l'era svignata. Questo è accaduto nel giro delle ultime due ore: hai notizie più recenti? — No. Siete in vantaggio su di me. Hai il nome del motel? — I Viaggiatori, di Saline City. — E Harriet? — Per ora non ne sappiamo niente. Cominceremo a dragare il lago domattina: il laboratorio di polizia ha stabilito che il sangue nel cappellino era del suo tipo, il B, ma questo non vuol dire molto. — Chi ti ha detto a quale tipo appartiene il suo sangue? — Ho telefonato a suo padre — disse Arnie. — Voleva venire subito qui, ma credo di averlo convinto a non farlo. Se questa faccenda non si risolve presto, quello crepa. — E io pure. A mezzanotte ero a Saline City e cercavo il motel I Viaggiatori. Era dalla parte occidentale della città, al limite delle piane di sale. Tubi rossi al neon delineavano la sua facciata senza nasconderne lo squallore. Entrai e suonai il campanello del banco, perché il vestibolo era vuoto. Una specie di giovanotto con i capelli grigi uscì dal retro. — Camera a un letto? — Non mi occorre una camera: devo chiedervi delle informazioni. — È per l'assassino? — bofonchiò. — Ho già detto tutto quel che sapevo ai poliziotti. Devo stare tutta la notte a ripetere la stessa storia? Gli diedi un biglietto da cinque dollari: lo scrutò con sguardo miope e lo mise in tasca. — Be', se è proprio così importante. Cosa volete sapere? — Quello che vi ha detto Campion. — È così che si chiama? Campion? Ha detto che il suo nome era Damis. Ha passato la notte qui, un paio di mesi fa, e voleva che guardassi le schede per stabilirlo. — È veramente stato qui, un paio di mesi fa? — Già. Mi ricordavo la sua faccia. — L'impiegato si batté sulla fronte con orgoglio. — Ho una memoria straordinaria per le facce. Naturalmente non sapevo in che data fosse stato qui: ho dovuto guardare le schede. — E avete trovato? — Sì, ma a lui non è servito. Se n'è andato mentre ero là dentro a cerca-
re. L'autopattuglia si è fermata qui, come fa sempre verso le otto, e quel tipo deve essersi spaventato. — Mi piacerebbe vedere la scheda di registrazione. — L'hanno presa i poliziotti. Hanno detto che era una prova. — Che data portava? — Cinque maggio; questo me lo ricordo. Era una prova: Dolly Campion era stata uccisa la sera del cinque maggio. — Siete sicuro che l'uomo di quella sera è lo stesso con cui avete parlato oggi? — Volevano saperlo anche i poliziotti. Non potevo esserne sicuro al cento per cento: i miei occhi non sono poi tanto buoni. Sembrava lo stesso uomo, e parlava nello stesso modo, ma può darsi che fosse un imbroglione: per esempio, aveva detto che il suo nome era Damis, e ora si viene a sapere che è una bugia. — Comunque, la sera del cinque maggio, è stato qui col nome di Damis? — Sì, sono stati qui. — Sono? — La signora non ho potuto vederla. È arrivata dopo, con la sua macchina, quando già lui aveva fissato la stanza. Quel tipo aveva detto che sua moglie sarebbe arrivata dopo, e io non ci ho visto niente di strano. La mattina lei è partita presto. — Come fate a ricordarvi tutto questo, se non siete nemmeno certo che si tratti dello stesso uomo? — Be', in un certo senso me l'ha rammentato lui. Ma a sentirglielo dire me ne sono ricordato benissimo. Gli occhi dell'impiegato erano vitrei e solenni di stupidità. — Ma quell'uomo potrebbe esser venuto un'altra sera, no? E ora potrebbe dire che era il cinque maggio. E l'uomo che ha firmato il cinque maggio potrebbe esser stato un altro. Mi rendevo conto di parlare come un accusatore che cercasse di confondere un testimone, il mio testimone infatti era completamente confuso. — Be', sì — borbottò. — Vi ha detto perché gli interessasse tanto stabilire la data? — No, non l'ha detto. Ha detto solo che era importante. — Vi ha dato del denaro? — Non occorreva. Ho detto subito che l'avrei aiutato: dopotutto, era un
cliente. — Ma prima l'avevate visto solo una volta? — Precisamente. La sera del cinque maggio. — La voce dell'uomo era testarda. — A che ora è arrivato, quella sera? — Non saprei. Ma non troppo tardi. — Ed è rimasto qui tutta la notte? — Non so. Non stiamo mica a spiare i clienti, noialtri. — L'uomo sbadigliò. — Come vi chiamate? — Nelson Karp. — Io mi chiamo Archer, sono un investigatore privato e devo chiedervi di restituirmi i cinque dollari che vi ho dato. Mi dispiace. Probabilmente sarete chiamato a testimoniare in un processo per omicidio e bisogna che possiate dire alla Corte di non aver ricevuto denaro da nessuno. Karp estrasse di tasca la banconota e la mise sul banco. — Avrei dovuto saperlo — bofonchiò. — Ho detto che mi dispiace: del resto, lo Stato paga i testimoni. Non dissi in che modo irrisorio, e Nelson Karp si rallegrò alquanto. — Quando Campion è partito, da che parte si è diretto? — Verso il ponte di San Mateo: ho sentito i poliziotti che lo dicevano. Hanno telefonato da qui. Uscii e guardai al di là delle pianure in cui i mucchi di sale si alzavano come piramidi. Le luci della penisola ammiccavano nella bruma: non ero a più di venti chilometri da Menlo Park. Tornai nell'ufficio e feci una chiamata alla signora Jurgensen, sorella di Campion, dando alla centralinista il nome di John Smith. Sentii l'apparecchio squillare tredici volte, poi una voce d'uomo rispose: — Pronto. — C'è una chiamata per la signora Jurgensen — disse la voce della centralinista. — La signora Jurgensen non c'è. Volete lasciar detto qualcosa? — Volete lasciar detto qualcosa, signore? — chiese a me la centralinista. Non volevo. — No — risposi secco. Campion conosceva la mia voce come io conoscevo la sua. Poco dopo l'una, parcheggiavo la macchina in Schoolhouse Road, a Menlo Park. Era una strada ampia e tranquilla e le case erano del genere fattoria, fiancheggiate da querce annose. Bayshoore era un mormorio lon-
tano. A quell'ora quasi tutte le case erano al buio, ma una finestra del 401 era illuminata. Girai intorno all'edificio: i miei passi erano attutiti dall'erba umida di rugiada. Seminascosto da un cespuglio, sbirciai nella stanza illuminata, la cui finestra era schermata da una tenda di sottili stecche di bambù. Era una vasta cucina rustica e un grande camino prendeva quasi tutta una parete. Davanti al camino c'era un divano su cui Campion dormiva tranquillamente. Indossava ancora il suo abito grigio, tutto sciupato e macchiato di fango, o sangue. Aveva il viso graffiato e la barba non rasa. Il suo braccio destro penzolava a terra e sfiorava una pistola di medio calibro. Senza dubbio avrei dovuto chiamare la polizia: ma volevo prenderlo io stesso. Dietro la casa c'era una rimessa, abbastanza grande per tre macchine. La raggiunsi ed entrai per la porta laterale, che non era chiusa a chiave. Una delle due automobili che ospitava era una Chevrolet rossa. Era quella del dottor Damis: lessi il nome sul cartoncino attaccato all'asta del volante, alla luce della mia piccola torcia elettrica. Le chiavi erano infilate nel cruscotto: le tolsi e le intascai. Mi guardai attorno cercando un'arma. Appeso al muro c'era un armadietto di attrezzi e vidi che potevo scegliere fra parecchi martelli. Ne presi uno leggero e lo soppesai: andava bene. Tornai alla Chevrolet e infilai un fiammifero fra il pulsante del clacson e il volante. Cominciò a urlare come la tromba dell'arcangelo Gabriele. Corsi alla porta laterale, aperta, e mi appiattii di fianco, contro la parete, sorvegliando la parte posteriore della casa. Il locale era zeppo di sonori decibel che minacciavano di cacciarmi fuori. Campion uscì dalla casa e attraversò correndo il giardino, col revolver in pugno. Prima di giungere alla rimessa si fermò e si guardò intorno, come se sospettasse un trucco. Ma la forza del clacson era troppa: doveva farla tacere. Mi spostai in modo da non essere scorto e quando vidi la figura di Campion profilarsi nel riquadro della porta mi tenni pronto. Lo colpii alla nuca, col martello, non troppo forte e non troppo piano. Cadde sulla sua pistola. Gliela tolsi di sotto e me la misi in tasca. Poi feci tacere la tromba. Un uomo imprecava forte nel giardino attiguo. Uscii. — Cosa succede? — fece, illuminandomi con una torcia elettrica. — Voi non siete Thor Jurgensen.
— No. Dove sono gli Jurgensen? — Passano la serata fuori: volevo proprio sapere chi c'era in casa loro. — Venne verso lo steccato: era un omaccione in pigiama di seta, dall'aria sospettosa. Gli sorrisi: ero contento di me. — C'era un tale, ricercato dalla polizia. Io sono un investigatore e l'ho appena messo fuori combattimento. — È il fratello di Evelyn? — Già. Dovreste telefonare allo sceriffo di Redwood City. Ditegli di mandare una macchina. 19 Royal e io aspettammo fuori della camera dell'ospedale che Campion riprendesse i sensi. Ci volle quasi un'ora ed ebbi il tempo di mettere al corrente il capitano dei movimenti miei e di Campion. Quello che avevo saputo a Saline City non gli fece nessun effetto. — Sta cercando di fabbricarsi un alibi per l'assassinio di sua moglie — commentò. — O di stabilirne uno. Dovreste accertare se quella scheda di registrazione è autentica: ora è in mano alla polizia di Saline City. — Alibi come questi valgono un soldo la dozzina, e voi lo sapete — dichiarò. — Campion può benissimo essere andato a quel motel, e perfino averci passato parte della notte: ma può anche essere tornato a Luna Bay per far fuori la moglie. Sono solo sessanta chilometri. — Sarà facile controllare. — Sentite, ho altre cose per la testa. Mettetevi d'accordo con l'agente Mungan, se volete. È lui che dirige la sottostazione di Luna Bay e che ha in mano tutte le prove. Non protestai: Royal era un buon poliziotto ma testardo. Rimanemmo per qualche minuto in silenzio finché un giovane medico in camice bianco uscì dalla stanza e disse che, data l'importanza del caso, il paziente poteva essere interrogato. Entrammo: era una camera come tutte le altre, ma alle finestre c'erano delle grosse sbarre. Campion era disteso nel letto e ci guardava: vidi che ci riconosceva, uno dopo l'altro, ma non parlò. Aveva la testa bendata e un alone rosso intorno agli occhi. I graffi spiccavano sulle sue guance pallide. L'ombra di Royal cadde su di lui. — Cosa ne hai fatto di Harriet Blackwell, Campion? — Non ne ho fatto niente.
— È stata vista per l'ultima volta in tua compagnia. L'hai uccisa? — Non ho ucciso nessuno. — E tua moglie Dolly? — Non l'ho uccisa io. — Andiamo, Campion! Sappiamo la verità. Tutto quello che dirai potrà essere usato contro di te, è vero, ma ti consiglio di cantare, di confessare tutto spontaneamente. Ti gioverà. — Sicuro. Mi metteranno un cuscino sulla sedia, nella camera a gas, e profumeranno il cianuro. Royal si protese sul letto, nascondendo con le sue larghe spalle il viso di Campion. — Lo sai che ti aspetta la camera a gas, eh? E allora perché non racconti tutto? Di' la verità sulla morte di Dolly e farò il possibile per salvarti la pelle. — Non ho bisogno di favori. E gira alla larga, poliziotto, che ti puzza il fiato. La mano di Royal scattò in alto: — Pezzo di... — Ma s'interruppe e si scostò, con uno sguardo laterale a me. — Avanti, picchia — incitò Campion. — Siete fatti apposta per picchiare, voialtri, no? Vi ho sempre odiato, tutta la vita. Vendete la giustizia al miglior offerente, e chi paga sono sempre i poveri. Mi misi tra i due: Royal era paonazzo, Campion aveva chiuso gli occhi. Glieli feci riaprire con una domanda. — Come mai c'era del sangue nel cappellino di Harriet? — Che cappello? — Quello che ho ripescato oggi nel lago. Cosa faceva, nel lago? E perché c'era del sangue insieme a dei capelli biondi? — Domandatelo a lei: il cappello è suo. — Dov'è Harriet, Campion? — Non so. Volete un consiglio? Sparite. Sto male e ho bisogno di riposo. — Non vi preoccupa la sorte della vostra fidanzata? — La mia che? — Dovevate sposarvi, no? Perché l'avete condotta a Tahoe? Forse perché il lago è profondo, da quella parte? Mi guardò con aria ironica e infastidita. — Perché non vi ci buttate? — È quello che ha fatto Harriet? Con un po' d'aiuto da parte vostra? — Non so cos'abbia fatto Harriet. Io non l'ho toccata. — E quei graffi che avete sulla faccia?
Si passò la mano sulle guance. — La notte scorsa ho vagato per i boschi: mi sono graffiato urtando nei cespugli. — Avanti, parla, Bruce! — incitò Royal. — Mi chiamo Campion: sono Bruce soltanto per gli amici. — Che amici? — feci. — Ralph Simpson vi chiamava Bruce? — Cosa? — Ralph Simpson vi chiamava Bruce? Eravate amici? — Sì. — E allora perché gli avete portato via i documenti? Campion girò gli occhi verso di me. — Non glieli ho portati via. Ralph me li ha prestati. — La stessa sera che l'avete fatto fuori con il punteruolo? La bocca di Campion divenne rettangolare. Potevo vedere la lingua rossa ripiegata dietro i denti. Si mise a gridare e gli occhi gli si rivoltarono. Si vedeva solo il bianco, venato di rosso, e Campion continuava a urlare. Royal e io ci scambiammo un'occhiata mortificata. Ci sentivamo colpevoli. Il medico apparve, rimorchiando un'infermiera. — Vi ricordo che questo è un ospedale, capitano — disse. — Vi ho dato il permesso di interrogare quest'uomo, ma ora devo pregarvi di lasciare la stanza. Uscimmo. 20 Passai la notte in un motel di Camino Real, e alla mattina mi misi subito in cammino per Luna Bay. Patrick Mungan, che dirigeva la sottostazione di polizia, era un uomo che conoscevo e del quale mi fidavo. Speravo che la fiducia fosse reciproca. Quando mi vide entrare nel suo ufficio mi accolse con un largo sorriso: — Ho sentito che hai fatto il nostro lavoro, Lew. — Qualcuno deve pur farlo. Il capitano Royal m'ha detto che hai in mano le prove dell'omicidio di Dolly Campion. — Quel poco che c'è. — Mungan si alzò: era un omaccione e vicino a lui anch'io mi sentivo piccolo e smilzo, cosa tutt'altro che spiacevole. — Siediti. — Chiamò un giovane agente e l'incaricò di procurare del caffè. — Come mai t'interessi tanto del caso Campion? — Un certo Blackwell di Los Angeles mi ha incaricato di assumere in-
formazioni su Bruce Campion, che aveva conosciuto nel Messico sua figlia Harriet intrecciando una relazione con lei, sotto falso nome. Tre giorni fa sono scappati insieme nel Nevada dove lei è scomparsa. Tutto fa pensare che sia la seconda vittima di Campion, o la terza. Raccontai a Mungan del cappellino ripescato dal lago e della fine di Simpson. Mi ascoltò serio e intento. — Non so niente di quella Blackwell — disse infine. — Ma per quanto riguarda Ralph Simpson non vedo per quale motivo Campion avrebbe dovuto ucciderlo. Può darsi benissimo che gli avesse prestato i documenti: erano amici. Quando nell'autunno scorso i Campion si sono trasferiti qui, è stato Simpson che ha trovato loro la casa, a volerla chiamare casa. Ma non potevano permettersi di meglio. Avevano passato un brutto inverno. — In che senso? — In tutti i sensi. Erano a corto di quattrini. La moglie aspettava il bambino e lui non lavorava, a meno che non si chiami lavorare dipingere quadri. Per un po' hanno dovuto farsi assistere dalla beneficenza pubblica, ma quando gli amministratori hanno scoperto che Campion usava parte del denaro per comperare i colori, gli hanno tolto l'assistenza. Ralph Simpson li ha aiutati più che ha potuto. Quando il bambino è nato, in marzo, è stato lui a pagare il medico. — Interessante. — Già. A quel tempo ho pensato che potesse essere il padre. Dopo la morte di Dolly gliel'ho chiesto. Ma ha negato recisamente. — È sempre possibile, però. Era amico di Dolly prima che lei conoscesse Campion. Anzi, ho saputo ieri sera che è stato Simpson a presentarli l'uno all'altra. Se fosse stato Simpson a metterla nei guai e avesse lasciato Campion a tenere il sacco, Campion avrebbe avuto un motivo per ucciderli entrambi. Hai qualche ragione valida per credere che il padre del bambino sia un altro? Ricordati che Dolly era già innanzi nella gravidanza, quando Campion l'ha sposata, in settembre. Un uomo non sposa una donna che sta per avere un figlio, se non è responsabile. — Ammetto che sarebbe insolito. Ma Campion è un tipo insolito. — Già — fece Mungan, e sospirò. — Personalmente dubito che i due omicidi, quello di Dolly e quello di Simpson, siano in relazione. Non dico che non lo siano: dico solo che ho i miei dubbi. — Devono essere in relazione, Pat. Simpson è stato ucciso un paio di settimane dopo Dolly. Due settimane che, a quanto pare, ha trascorso a indagare sulla morte di lei. Aggiungi il fatto che'è stato trovato sepolto nel
paese della ragazza. — Citrus Junction? — Già. — Forse era andato a vedere il bambino — disse Mungan, pensoso. — È a Citrus Junction, sai. La madre di Dolly è venuta a prenderlo. — Dopotutto, vedo che adotti la mia idea. — Val la pena di pensarci. Se vai da quelle parti, potresti far visita alla signora Stone e dare un'occhiata al pupo. Ha solo quattro mesi, beninteso, e non credo che possa rassomigliare a qualcuno. Il giovane agente tornò con un contenitore di cartone pieno di caffè caldo e Mungan riempì tre bicchieri, pure di carta. Senza che ci fosse bisogno di dirglielo, l'agente prese il suo e uscì. — Poco fa volevo dire che se questi delitti hanno un nesso non è a causa di Carnpion, come pensi tu — riprese Mungan dopo il primo sorso. — Non è l'opinione ufficiale, e per questo ti prego di tenerla per te, ma in certi ambienti si dubita che sia stato veramente lui a uccidere Dolly. — In che ambienti? — In questo. — Mungan lanciò un'occhiata alla porta chiusa. — È quel che penso io, personalmente. Anche Ralph Simpson aveva dei dubbi e me li ha esposti. Sapeva che si poteva sospettare anche di lui stesso, ma continuava a dire che non era stato Campion a uccidere Dolly. Simpson era uno di quei tipi che a volte parlano senza sapere quello che dicono, ma ora che è morto devo dare maggior peso alla sua opinione. Sorseggiai il mio caffè senza dir nulla. — Intendiamoci, Lew, non dico che Campion non abbia ucciso sua moglie. Quando una donna si fa ammazzare, nove volte su dieci il colpevole è l'uomo che ha vicino, l'amico, o il marito, o l'ex. Lo sappiamo tutti. Dico soltanto, e probabilmente non dovrei, che non abbiamo nessuna vera prova a carico di Campion. — E allora perché è stato accusato? — Perché è uno stupido. Si è lasciato prendere dal panico ed è scappato; naturalmente è stato come ammettere la propria colpevolezza. Ma non abbiamo prove a suo carico. Dopo averlo trattenuto ventiquattr'ore ho consigliato che fosse rilasciato, ma quell'idiota è scappato la sera stessa. Il Gran Giurì era in seduta e il Procuratore Distrettuale gli ha presentato d'urgenza il caso e ha ottenuto che Campion venisse dichiarato indiziato. Non l'avrebbero mai fatto, se non fosse fuggito. Ma questa è solo la mia opinione, non ufficiale — concluse Mungan.
— E qual è l'opinione non ufficiale di Royal? — Il capitano si tiene le sue opinioni per sé. Aspira a diventare sceriffo e non si diventa sceriffi mettendosi contro le autorità. Mungan finì il caffè, accartocciò il bicchiere e lo gettò nel cestino della carta straccia. Feci altrettanto. — Esattamente, quali prove avete contro Campion? Mungan fece una smorfia. — Abbiamo soltanto dei sospetti, la sua mancanza di alibi e la sua fuga. Inoltre, ci sono le prove puramente negative: nella baracca non c'erano segni di scasso e nulla dimostrava che Dolly avesse cercato di sfuggire al suo assassino. Era là per terra, in camicia da notte, con una delle proprie calze attorno al collo. — Sul letto? — Non c'erano letti. Ti mostrerò la foto del locale. Mungan andò nella stanza vicina e tornò con parecchie fotografie. Una era un primo piano di una giovane bionda il cui viso si era trasformato in una maschera grottesca per la pressione interna del sangue. La calza era quasi nascosta dalla carne del collo. Nelle altre fotografie il posto della donna sul pavimento era stato sostituito da una sagoma della sua figura tracciata col gesso. Le foto mostravano da vari punti di vista una stanza contenente un divano, una vecchia culla, un tavolo da cucina con due sedie, una cucina a gas, un cavalletto e alcune tele vicino all'unico finestrone. La finestra, che in realtà era la porta chiusa da un vetro di quella che un tempo era stata un'autorimessa, aveva in basso, in un angolo, una fenditura triangolare. Altre tele erano appese alle pareti. — Come mai la finestra è rotta, Pat? — Ralph diceva che era rotta da parecchie settimane. Campion non s'era mai deciso a ripararla. Era troppo superiore, lui, troppo occupato con i suoi pennelli per curarsi della moglie e del figlio. — Non hai simpatia per Campion, vero? — È un vagabondo buono a nulla. Mungan gettò le foto sulla scrivania. Estrasse un bottone dalla tasca del camiciotto e cominciò a rigirarlo tra le dita, pensoso. Era un grosso bottone scuro, fatto di strisce di pelle intrecciate e aveva attaccati dei fili scuri. Avevo visto un bottone simile, in quegli ultimi giorni, ma non ricordavo dove. — Il bimbo dormiva nella stessa stanza, eh? — C'era solo quella. Vivevano come straccioni. — E che ne è stato del bambino, la sera del delitto?
— Stavo per dirtelo. È una delle cose strane della faccenda, e uno dei motivi che ci hanno fatto sospettare di Campion fin dal principio. Qualcuno, presumibilmente l'assassino, ha tolto il bimbo dalla culla e l'ha piazzato in un'automobile ferma davanti alla casa più vicina, sulla strada. La donna che ci abita, una donna di colore, si è svegliata all'alba e ha sentito il bimbo piangere. Sapeva di chi era, lei e Dolly erano buone vicine, e naturalmente l'ha portato dai Campion. È così che il cadavere è stato scoperto. — E Campion dov'era quella notte? Lo sai? — Ha detto di esser stato fuori a bere finché non hanno chiuso i bar e poi in giro in macchina. È una di quelle storie che non si possono né provare né smentire. Non ha potuto o voluto nominare i bar o i luoghi in cui è stato. Ha detto solo che verso l'alba si è addormentato in macchina in un vicolo. Questo non esclude che possa essere colpevole. Comunque, l'abbiamo arrestato alle nove di mattina, mentre tornava a casa in macchina. Aveva bevuto, non c'è dubbio: gliel'ho sentito nel fiato. — A che ora è stata uccisa Dolly? — Fra le tre e le quattro del mattino. Il magistrato inquirente è andato sul posto alle otto e ha detto che non poteva esser morta da più di quattro o cinque ore. Ha controllato la temperatura del corpo e il contenuto dello stomaco e tutto concordava. — Come faceva a sapere a che ora aveva mangiato, la morta? — Campion ha detto che avevano mangiato insieme, alle sei di sera. Aveva portato un paio di panini imbottiti di carne, bella dieta per una donna che allatta... Il barista che glieli ha venduti ha confermato la circostanza. A quanto pare Campion e Dolly avevano litigato per il cibo; così, lui ha preso tutto il denaro che c'era in casa ed è andato a ubriacarsi: ormai, da mesi non andavano più d'accordo. L'ha ammesso lo stesso Campion: proprio come se volesse mettersi in cattiva luce. — Non ha parlato di un'altra donna? — No. Cosa pensi, Lew? — Forse potremo provare che non ha detto la verità sulle sue attività di quella notte. Hai parlato con Royal, stamattina? — Ha telefonato per dirmi che avevate preso Campion: vuole che vada a Redwood City per aiutarlo nell'interrogatorio. — Campion ha ammesso qualcosa, sinora? — Non parla affatto: Royal è sempre più avvilito. — Ti ha parlato del motel I Viaggiatori di Saline City? — Non mi ha detto una parola. — Mungan aveva l'aria stupita.
— L'impiegato di notte, Nelson Karp, dice che Campion ha passato al motel la notte del cinque maggio, con una donna, come Burke Damis e signora: Burke Damis è un altro dei nomi di cui si è servito Campion. La polizia di Saline City ha prelevato la scheda di registrazione iersera, dopo che Campion era stato visto al motel. A quanto pare il nostro uomo cercava di stabilire il proprio alibi. — Vero o finto? — Potrai scoprirlo più in fretta di me. Mungan si alzò e mi fissò, serio in viso. — Se Campion aveva un alibi, perché non l'ha detto subito? — Domandaglielo. — Lo farò. Il bottone con cui aveva giocherellato gli cadde di mano e rotolò a terra. Lo raccolsi. — Anche questo è una prova, Pat? — Onestamente, non lo so. Il bambino l'aveva in pugno quando la negra l'ha trovato nella sua automobile. Non si sa da dove venga. Cercavo ancora di ricordarmi dove avessi visto un bottone o dei bottoni come quello. Tentai di pescare nella memoria ma non riuscivo a cavarne altro che l'odore e il rumore del mare. — Puoi darmelo? — No. Una volta ho letto che per mezzo d'un bottone è stato scoperto un assassino; per questo provo una sensazione speciale. — Anch'io. — Dunque me lo tengo. — Mi sorrise. — Hai la barba lunga: vuoi usare il mio rasoio elettrico, prima di andartene? Lo estrasse da un cassetto. Andai nella toletta e mi rasai la barba: non feci che scoprire la solita vecchia faccia da cercatore di guai. 21 Dopo aver raggiunto l'aeroporto di San Francisco, presi un jet per Los Angeles, recuperai la macchina, che avevo lasciato a quell'aeroporto, e filai attraverso gli aranceti verso Citrus Junction. Prima di tutto andai a vedere il bambino. La nonna abitava a ovest della città, proprio in mezzo al caos creato dai costruttori della strada. Arrivai a pomeriggio inoltrato. I bulldozer lavoravano nella polvere come carri armati in una terra di nessuno. Una gran siepe separava la casa dalla strada e la polvere onnipresente ne
aveva reso grigie le foglie. L'edificio era a un piano, modesto e non troppo ben tenuto. Bussai alla porta. Venne ad aprirmi una donna che pareva troppo giovane per essere una nonna. L'abito fluttuante e i tacchi a spillo parevano indossati per mettere in risalto la sua figura snella. Aveva gli occhi azzurro cielo e un viso da bambina appena segnato da rughe sottili. — La signora Stone? — Sono io. Le dissi il mio nome e occupazione e le spiegai perché volevo parlarle. — Ho arrestato Campion, ieri sera — conclusi. — Ora si trova a Redwood City. — Ha confessato? — L'espressione ansiosa l'invecchiò di colpo. — Non ancora. Abbiamo bisogno di sapere altre cose e voi potete aiutarci. — Entrate. Mi fece accomodare in un salotto dalle finestre ermeticamente chiuse. Era buio, là dentro, ma invece di aprire, la signora Stone accese la luce. — Scusate se c'è polvere dappertutto. È difficile tenere la casa pulita con i lavori che stanno facendo. Mio marito avrebbe voluto vendere, ma non avremmo riavuto il denaro che abbiamo speso. Fortunati quelli dall'altra parte della strada: lo Stato li ha espropriati. Ma da questa parte non compra. Aveva ben ragione di lamentarsi: uno strato di polvere grigia copriva tutti i mobili, che anche senza polvere sarebbero stati squallidi. Sedetti in una poltrona e la signora Stone si accomodò su un divanetto. — Cosa volete sapere? — Cominciamo da vostro genero. L'avete conosciuto? — L'ho visto una volta e mi è bastato. Li abbiamo invitati per Natale, avevamo tacchino arrosto e tutto, ma quel Campion sembrava in mezzo ai lebbrosi. Si è portato via in fretta la povera Dolly come se fossimo in quarantena. — Avete litigato? — Potete scommetterci. Cos'aveva, per fare tanto il superbo? Dolly mi disse che vivevano in una vecchia rimessa e noi siamo proprietari di questa casa da vent'anni. Gli ho chiesto cos'avesse intenzione di fare per mia figlia e quando si sarebbe messo a lavorare. Lui ha risposto che l'aveva sposata, no? E che per lei non aveva intenzione di far altro. Quanto al lavoro, l'aveva già: non guadagnava molto, ma se la cavavano, con l'aiuto degli
amici. Ho detto che mia figlia non era un caso pietoso e che non doveva vivere di carità, e lui ha ribattuto che quello lo pensavo io. Figuratevi un po', parlarmi in modo simile, mentre lei era in quelle condizioni! Ho cercato di convincerla a piantarlo e a restare da me, ma Dolly non ha voluto: era troppo leale. — Come mai vostra figlia l'aveva sposato, signora? — È la solita storia, Dolly era una ragazza innocente, non era mai stata via da casa. Quell'uomo l'ha sedotta e ha dovuto riparare. — La signora Stone parve un po' allarmata da quel che aveva detto. Abbassò gli occhi e aggiunse: — In parte è stata colpa mia, ne convengo: non avrei dovuto lasciarla andare via sola a vent'anni. Ma lavorava alla lavanderia, con suo padre, e non era contenta: voleva una vita migliore, voleva fare l'estetista. Non posso darle torto: una ragazza bella come lei, poteva andare lontano. Fece una pausa: forse pensava che anche lei stessa avrebbe potuto andare lontano. Forse ricordava fin dove era arrivata Dolly. — Anche a me sarebbe piaciuto fare l'estetista: Jack ha un buon salario, alla lavanderia, ma in questi ultimi anni spuntarla è stata un po' dura, con l'inflazione e tutto. E adesso abbiamo anche da pensare al bambino. Alzò gli occhi al soffitto. — Mi piacerebbe vederlo — dissi. — È di sopra che dorme. Perché volete vederlo? — Mi piacciono, i bambini. — Non si direbbe. Del resto, oramai non piacciono più neanche a me. Si perde l'abitudine di badare a tutti i loro bisogni. Comunque — aggiunse con voce più dolce — è un conforto per noi, povero piccolo. È tutto quel che ci resta di Dolly. Venite a dargli un'occhiata... Ma cercate di non svegliarlo. La seguii su per la scala rivestita di gomma. La stanza del bambino era calda e in penombra. Il piccolo dormiva, scoperto, nella vecchia culla che avevo visto nelle fotografie di Mungan. Come Mungan aveva predetto, non rassomigliava a nessuno in particolare. Il suo respiro era calmo. La nonna lo coprì col lenzuolino. — Questa era la culla di Dolly — sussurrò. — Gliel'avevamo mandata a Natale. E ora è tornata qui. — È un bel bambino. — Rassomiglia alla mia figliola, che era molto bella. Chi avrebbe detto che si sarebbe accontentata d'un Bruce Campion! E pensare che c'erano tanti ragazzi, qui, e tutti le stavano attorno. Ma a Dolly i ragazzi non interessavano. Voleva andarsene per sempre da Citrus Junction. Inoltre, le pia-
cevano le persone più anziane: non si sentiva a suo agio con quelli della sua età. Ma in una cittadina come questa, gli anziani decenti sono già sposati. — Dolly aveva forse qualche amicizia con uomini anziani d'altro genere? — No di certo. È sempre stata una brava ragazza, finché non ha conosciuto quel Campion. — E gli amici di Tahoe? C'erano altri uomini, oltre Campion, nella vita di vostra figlia? La signora Stone scosse il capo. — Credo di sapere cosa volete insinuare. È un'altra delle sue sporche bugie. — Le bugie di chi? — Di Campion. A Natale, quando sono stati qui, ha cercato di far credere a mio marito che il padre del bambino non era lui e che aveva sposato Dolly per bontà di cuore. — E ha detto chi fosse il padre? — No di certo, perché era lui stesso. L'ho chiesto a Dolly e me l'ha confermato. Allora Campion ha fatto un voltafaccia e l'ha ammesso. — Cos'ha detto, esattamente? — Che non voleva discutere: che sarebbe stato ai patti. Un bel coraggio, aveva! Gli ho detto il fatto suo ed è stato allora che se n'è andato insieme a Dolly, per impedirle di vuotare il sacco. Ma io ho subito capito chi fosse: un ubriacone, un uomo con le mani bucate... L'interruppi. — Dolly non vi ha mai parlato di un certo Quincy Ralph Simpson? — Simpson? No, mai. Ma... non è l'uomo che hanno trovato sepolto nel cortile di Jim Rowland? — Sì. Era un amico di vostra figlia. — Non ci credo. — Però lo era. È stato lui a presentarla a Campion. E quando si sono sposati li ha aiutati molto, anche con denaro. Mi meraviglio che vostra figlia non ve ne abbia parlato. — Non ci scrivevamo troppo spesso, a dire il vero. — Quando avete visto per l'ultima volta Campion? — A Natale, ve l'ho detto. — Non l'avete visto in maggio? — No. Jack m'ha accompagnato in quel posto, il giorno che hanno trovato Dolly, ma Campion l'ho sfuggito, come se fosse una vipera.
— Non è venuto a Citrus Junction, quando la polizia l'ha rilasciato? — Che ne so? Non si è certo presentato da noi. — Forse è stato qui di fronte, a seppellire Simpson: chiunque abbia seppellito Simpson deve avere avuto un motivo per scegliere la casa di fronte alla vostra. La signora Stone mi scrutava, a occhi socchiusi. — Perché? Non conoscevamo nemmeno quel poveretto. — Ma lui conosceva Dolly. Quando è stata uccisa, e voi avete portato qui il bambino, forse teneva d'occhio la vostra casa. — Ma perché avrebbe dovuto farlo? — C'è chi pensa che fosse il padre del bambino. — Non ci credo. — Ma dopo una pausa la signora soggiunse: — Che tipo d'uomo era Ralph Simpson? Di lui so soltanto quello che ho letto sui giornali. Che è stato ucciso e sepolto nel cortile dei Rowland. — Non l'ho conosciuto ma pare che non fosse un cattivo uomo. Era leale e generoso e doveva avere del coraggio. Ha passato i suoi ultimi giorni a cercar di scoprire l'assassino di Dolly. — Bruce Campion? — Lui non credeva che l'assassino fosse Campion. — E nemmeno voi lo credete. — Era diventata ostile, angolosa: io stavo cercando di sottrarle il suo peggior nemico. — Ma vi avverto che vi sbagliate. Io so che è stato lui. Lo sento. E so che Campion è il padre del bambino. Dolly non mi avrebbe detto una cosa per l'altra. — Certe volte le figlie non dicono la verità alle madri. — Può essere. Ma se il padre fosse stato questo Simpson, perché non avrebbe sposato mia figlia? Sentiamo un po'. — Era già sposato. — Ora so che vi sbagliate. Dolly non si sarebbe mai messa con un uomo sposato. La sola volta che l'ha fatto... — La signora Stone spalancò gli occhi come se qualcuno l'avesse spaventata. Strinse le labbra. — Parlatemi un po' della sola volta in cui Dolly s'è messa con un uomo sposato. — Non è mai capitato. — L'avete detto voi. — Ho detto che non l'ha fatto mai. Pensavo a un'altra cosa. Cercai d'indurla a parlare, ma senza successo. Allora cambiai argomento. — Mi sembra d'aver capito che la casa di fronte non era occupata, quan-
do hanno sepolto Simpson. — Sicuro. I Rowland hanno traslocato al principio dell'anno e la casa è rimasta vuota per dei mesi. Un vero peccato: ci entravano i ragazzi, e i vagabondi, spaccavano i vetri, spaccavano tutto. A ogni modo, poi l'hanno demolita. Mi è proprio dispiaciuto vedere abbattere la casa dei Jaimet. — Dei Jaimet? La signora fece un gesto in direzione della strada. — Parlo della stessa casa, Jim Rowland l'ha comprata dalla signora Jaimet quando le è morto il marito. In origine era la casa della fattoria Jaimet: tutta questa parte della città un tempo apparteneva alla fattoria Jaimet. Ma ora è storia passata. — Che tipo è questo Rowland? — Non c'è niente da dire sul suo conto. È un meccanico, una bravissima persona. — Dolly lo conosceva? — Naturalmente. Hanno vissuto di fronte a noi tre o quattro anni. Ringraziai la signora Stone e andandomene mi fermai dall'altra parte della strada. Gli sterratori avevano interrotto il lavoro ma la polvere gravava ancora nell'aria. Attraverso di essa potevo vedere gli alberi sradicati, i mucchi di macerie. Non avrei potuto dire dov'era stata la casa dei Rowland. 22 M'informai al Palazzo di giustizia e seppi che Vicky Simpson, lasciata la casa ospitale di Wesley Leonard, s'era trasferita al Valencia Hotel, nella Main Street, dopo essersi fatta inviare dei fondi dal suo principale. Ci andai. L'albergo era vecchiotto e tranquillo. Vicky abitava nella camera 338, al terzo piano. Quando bussai alla porta mi rispose con voce stanca. — Chi è? — Lew Archer. Vi ricordate? Le molle d'un letto emisero un rumore di protesta. La donna aprì la porta e scrutò fuori. Il suo viso s'era affilato. — Che cosa volete? — Parlarvi. Lasciatemi entrare: ho bisogno del vostro aiuto. Si scostò con riluttanza dalla porta e andò a sedersi sul letto. Chiusi l'uscio. — Perché non mi avete detto che Ralph era amico dei Campion? — È semplice: non volevo che lo sapeste.
— Ma perché? Non vi capisco: senza dubbio anche voi desiderate che questa faccenda sia risolta. — Non sarà mai risolta. Ralph è morto: questo non si può cambiare. Presi l'unica sedia e sedetti. — Era implicato nell'assassinio di Dolly? È per questo che non volevate parlare? Dovete aver riconosciuto Campion, dalla descrizione che vi ho fatto. Dovevate sapere che Dolly era stata uccisa e sapevate che Ralph era suo amico. — Non nel modo che pensate voi... era più che altro il suo consigliere finanziario. — Dolly non sapeva che farsene di un consigliere finanziario: era una poveretta. — Questo lo credete voi. Invece io so che aveva un bel po' di quattrini, quando è stata uccisa. Almeno mille dollari in contanti, me l'ha detto Ralph. Non sapeva come investirli e aveva chiesto consiglio a lui. — Non può essere, Vicky. I Campion non avevano denaro. Mi è stato detto persino che quando è nato il piccolo, vostro marito ha dovuto pagare il medico. — Non ha dovuto. Aveva avuto una buona giornata alle corse e ha dato loro il denaro. Quando vinceva un po' di quattrini, Ralph credeva d'essere Babbo Natale. Comunque Dolly glieli ha resi, prima che l'uccidessero: è con quel denaro che Ralph ha potuto pagarsi il viaggio sino a Tahoe. Era una storia strana: tanto strana che poteva essere vera. — Ralph ha proprio visto il denaro che Dolly diceva di avere? — Sì, l'ha visto. Dolly gli aveva chiesto di tenerglielo, perché voleva servirsene come anticipo per comprare una casa a rate. Ma Ralph non ha voluto prendersi quella responsabilità: le ha consigliato di metterlo in banca. Dolly però aveva paura che Bruce lo scoprisse e lo spendesse. Come l'altro denaro: quello che aveva quando s'erano sposati. — Aveva del denaro? — E perché credete che l'avesse sposata, Campion? Ne aveva molto, stando a quello che diceva Ralph. Almeno altri mille dollari. Bruce li ha presi e li ha dissipati. Dolly aveva paura che facesse lo stesso con quel nuovo denaro. — Ma da dove venivano tutti questi quattrini? — Ralph diceva che era un uomo a darli a Dolly. Ma non sapeva chi. — Era forse il padre del bambino? Vicky abbassò gli occhi. — Ho sempre creduto che il padre del bambino
fosse Bruce. — Bruce dice di no. Vicky, sapete chi potesse essere il padre? — No. — Non sarà stato Ralph? — No. Non c'è mai stato niente fra lui e Dolly. Anzitutto, Ralph aveva troppo rispetto per Bruce. — Ma il bambino era stato concepito molto tempo prima che Dolly sposasse Campion. E poi, voi mi avete detto che Dolly confidava a Ralph i suoi problemi finanziari. Non voleva che le conservasse i suoi mille dollari? — Sì, e forse Ralph avrebbe dovuto farlo. — Vicky si guardò intorno come se qualcuno avesse potuto spiarla e abbassò la voce. — Io credo che sia stata uccisa per quel denaro. — Da Bruce, volete dire? — O da lui o da altri. — Ralph l'ha detto alla polizia? — No. — E voi nemmeno? — Dovevo andarmi a cercare guai? Ne capitano già abbastanza, di guai, senza andarseli a cercare. Mi alzai. — Avevate paura che fosse stato Ralph a ucciderla. Vicky distolse lo sguardo. — L'agente Mungan l'aveva chiamato alla polizia e gli aveva fatto una quantità di domande. Poi, subito dopo, Ralph era partito per il Nevada. Era naturale che avessi paura. — Dov'era Ralph la notte che Dolly è stata uccisa? — Non so. È stato fuori fino a tardi e quando è rientrato non mi sono svegliata. — Gli avete chiesto se era stato lui a ucciderla? — No di certo. Ma continuava a parlare del delitto. Era così sconvolto e agitato che non riusciva nemmeno a reggere la tazza del caffè. Quando hanno messo dentro Bruce, Ralph continuava a dire che non era stato lui a commettere il delitto. — Ralph aveva visto Campion prima di partire per il lago Tahoe? — Sì. La mattina, quando l'hanno rilasciato, Bruce è venuto subito a casa nostra. Se ci fossi stata io, non l'avrei lasciato entrare. — Che cosa è successo quella mattina fra Ralph e Bruce? — Non so. Ero al lavoro, Ralph mi ha telefonato verso mezzogiorno per dirmi che partiva per il lago Tahoe. Forse Bruce sarà andato con lui. È
scomparso il giorno stesso e non l'ho più visto. Un paio di giorni dopo era scritto su tutti i giornali che era fuggito e che il Gran Giurì l'accusava del delitto. — Lo considerava indiziato — corressi. — È molto diverso. — È quello che ha detto Ralph quando è tornato dal lago. Credevo che una settimana d'assenza l'avrebbe calmato: invece era più agitato che mai, addirittura ossessionato. — Voleva molto bene a Bruce, eh? — Erano come fratelli, da quando erano stati insieme in Corea. Bruce è forse meglio di Ralph, ma, non so come, era Ralph che badava a lui. Avere Bruce per amico gli sembrava una cosa meravigliosa: si sarebbe tolto anche la camicia per dargliela. Anzi, in pratica l'ha fatto più d'una volta. — Gli avrebbe anche dato il certificato di nascita per uscire dal paese? Alzò il capo di scatto. — Gliel'ha dato? — Bruce dice di sì. O Ralph gliel'ha dato volontariamente o Bruce se l'è preso con la forza. — E l'ha ucciso? — Dubito che Campion abbia ucciso qualcuno. A quanto pare non aveva nessun motivo per uccidere Ralph, e il denaro che Dolly aveva getta una nuova luce sul caso. È un movente per chiunque sapesse che lei l'aveva. — Ma perché possono avere ucciso Ralph? — Forse perché sapeva chi aveva ucciso Dolly. — E perché non l'ha detto, allora? — Forse non ne era sicuro. Io credo che stesse facendo delle indagini, tanto nella zona del lago che qui, a Citrus Junction. Quando è tornato da Tahoe non vi ha detto nulla dei Blackwell? — Dei Blackwell? — Nella voce di Vicky c'era solo perplessità. — Parlo del colonnello Mark Blackwell e di sua moglie. Sono stati loro a darmi in mano questa faccenda perché la loro figlia Harriet si era messa con Campion. Hanno una villa sul lago Tahoe e avantieri notte Harriet era là insieme a Campion. Poi è scomparsa, ma abbiamo trovato nel lago il suo cappellino insanguinato. Campion non ha dato spiegazioni. Vicky si ritrasse. — Io non so niente — mormorò. — Per questo vi informo. La cosa più interessante è che Ralph ha passato una settimana dai Blackwell, nel maggio scorso. Ha lavorato in casa loro come cuoco. Poi l'hanno licenziato; per furto, a quanto si dice. — Ralph aveva i suoi difetti, ma non ha mai rubato in vita sua — protestò Vicky.
— Vi risulta che abbia riportato dal Tahoe un fagotto di indumenti? — Nessun fagotto: aveva soltanto il soprabito, un soprabito scuro. Ma so che non l'aveva rubato. Non ha mai rubato niente, Ralph. — Non m'interessa che l'avesse rubato o no: l'importante è sapere dove l'aveva preso. — Ha detto che gliel'avevano dato. Ma la gente non regala dei soprabiti come quello. Era di Harris tweed: un capo di lusso, che non poteva valere meno di cento dollari, nuovo. Ed era ancora in ottime condizioni: mancava soltanto un bottone. — Com'erano, quei bottoni? — Di pelle scura. Avrei voluto cercarne uno uguale, perché Ralph potesse indossare il soprabito, ma diceva di lasciarlo com'era, perché non se lo sarebbe messo. — Gli occhi di Vicky si riempirono di lacrime. — Diceva che non se lo sarebbe messo, e aveva ragione. — Partendo l'ha portato con sé? — Sì. L'aveva sul braccio quando è salito sull'autobus. Non so perché se lo fosse portato dietro: faceva caldo e comunque mancava quel bottone. — Quale bottone era, Vicky? — Il primo in alto. — La donna si puntò un dito contro il petto. Mi dispiacque di non avere con me il bottone di Mungan. Ora ricordavo dove ne avevo visti di simili: erano attaccati a un soprabito come quello che mi aveva descritto Vicky, e lo aveva avuto addosso una delle ragazze del furgone funebre zebrato. 23 Tornai sulla costa e raggiunsi la spiaggia a sud dell'incrocio delle strade statali 101 e 101 bis. Alcuni bagnanti ricordavano il furgone bianco e nero, ma non sapevano chi fossero i proprietari. Fui più fortunato con la pattuglia stradale di Malibu. Il proprietario del furgone funebre era stato multato la settimana precedente per aver guidato con un solo faro acceso. Si chiamava Ray Buzzell e abitava in un canyon sopra la città. Ci andai. La casa era in pietra e legno, con ampie vetrate. Nella rimessa, a due posti, c'era una piccola Fiat ma nessun furgone funebre. Una donna dai capelli d'un rosso violento aprì la porta prima che ci arrivassi e uscì. Aveva un viso bello ma duro, accuratamente truccato come se aspettasse visitatori, pantaloni aderenti e un bicchiere semipieno di Martini
in mano. A giudicare dal suo modo di parlare, non doveva essere il primo. — Ciao! — disse. — Ci conosciamo? — No. Siete la signora Buzzell? — Sicuro. Sicuro. Volete bere? — No, grazie. C'è Ray? Aggrottò la fronte. — La gente cerca sempre Ray. Ha fatto qualcosa? — Spero di no. Dove posso trovarlo? Fece un ampio gesto, che comprendeva l'intera costa. — Chi lo sa? È da stamattina che non lo vedo. È via con la sua banda, non pensa ad altro che ai bagni. Certe volte non si fa vedere per giorni interi. — Si consolò col resto del Martini. — Davvero non volete bere? Dovete essere un pastore evangelico ambulante. — Sono un investigatore ambulante, invece. E compio indagini su un omicidio. Forse vostro figlio potrà aiutarmi. Si fece più vicina. — Ray è implicato in un omicidio? — Non credo. Ma forse sa qualcosa che può essermi utile. Verrà a casa per cenare? — Non lo so. Qualche volta sta fuori tutta la notte con la sua banda: hanno dei sacchi a pelo nel furgone funebre. Non mi perdonerò mai di avergli lasciato comperare quell'orrore — sbottò, esasperata. — Praticamente ci vive dentro. — Tornò al nocciolo del discorso. — Cosa significa, che Ray può sapere qualcosa? Chi hanno ammazzato? — Un certo Ralph Quincy Simpson. — Mai sentito nominare. E nemmeno Ray lo conosce: ne sono sicura. — L'ultima volta che Simpson è stato visto vivo, aveva con sé un soprabito scuro, di Harris tweed, a cui mancava un bottone. Questo, due mesi fa. L'altro giorno ho visto una ragazza della banda di Ray con indosso quel soprabito, o un soprabito identico. — Mona? — Era una bionda. — È Mona Sutherland, la ragazza di Ray. — Allungò una mano e mi strinse il braccio, come una cieca. — Ho paura. — Non avevo intenzione di spaventarvi e non credo che vostro figlio sia implicato nell'omicidio: ma devo sapere da dove viene quel soprabito. — Ve lo dirò: Ray l'ha trovato sulla spiaggia. — Quanto tempo fa? — Circa due mesi. L'ha portato a casa e l'ha spazzolato perché era pieno di sabbia. Per questo mi sono tanto spaventata: voi avete detto due mesi.
Si appoggiava a me pesantemente, aggrappata al mio braccio. — Ray non può avere ucciso qualcuno — riprese. — È un po' difficile da governare ma non è cattivo. Ed è tanto giovane. — Nessuno sospetta di lui, signora Buzzell. È un testimone, e il soprabito è una prova. Può essere significativo sapere come Ray l'ha avuto. Ma non posso stabilirlo se non gli parlo. Dovete pur avere un'idea del luogo in cui lo posso trovare. — Stamattina l'ho sentito dire che avrebbe passato la notte a Zuma. Hanno portato via della roba da cuocere... Ma quello che dice Ray e quello che fa sono due cose diverse. Non posso più stargli dietro. Il furgone funebre, vuoto, era parcheggiato insieme ad altre macchine sullo stradone sopra Zuma. Lasciai anch'io la mia automobile e scesi sulla spiaggia a cercare il suo proprietario. I bagnanti avevano acceso qua e là dei fuochi, facevano pensare a bivacchi di tribù nomadi o a sopravvissuti alla guerra nucleare. Sei ragazzi stavano accucciati intorno a uno dei fuochi, avvolti nelle coperte. Li riconobbi perché una delle ragazze indossava il soprabito di tweed. Videro che mi avvicinavo ma non ci fecero caso: appartenevo al mondo degli adulti. — Cerco Ray Buzzell — dissi. Uno dei giovani si mise la mano dietro l'orecchio. — Chi? — fece. Era un ragazzone di diciassette o diciott'anni, dai lineamenti pesanti: alla luce del fuoco, pareva un indiano. — Ray Buzzell — ripetei. — Mai sentito nominare. Gli altri ragazzi scoppiarono a ridere. — Sei tu, Buzzell, vero? — Dipende. — Il ragazzo si alzò, lasciando cadere la coperta. Anche gli altri tre ragazzi si alzarono. — Cosa volete? — Devo farvi alcune domande circa il soprabito che la signorina Sutherland indossa. — Conoscete i nostri nomi? Con chi avete parlato? Fece un passo verso di me e i suoi compagni lo seguirono incrociando le braccia sul petto per mettere in vista i bicipiti. Con un po' di judo avrei potuto metterli tutti e quattro fuori combattimento, ma non volevo far loro del male. Ero un emissario della tribù degli adulti. Mostrai rapidamente il distintivo d'agente speciale che conservo come
ricordo d'un vecchio guaio al porto di San Pedro. — Fra l'altro, ho parlato con tua madre. Dove hai trovato quel soprabito? — L'ho tessuto sott'acqua con le alghe. — Smettila di fare lo spiritoso, Ray. Sei mai stato a Citrus Junction? — Ci sarò passato. — E ti sei magari fermato il tempo sufficiente a uccidere e seppellire un uomo? — Seppellire un uomo? — Era sgomento. — Si chiamava Quincy Ralph Simpson. La settimana scorsa è stato trovato sepolto a Citrus Junction. Era stato ucciso con un punteruolo. Lo conoscevi? — Non l'ho mai visto, vi assicuro. Del resto, è già un paio di mesi che abbiamo questo soprabito. — La voce di Ray era tornata indietro di cinque anni. — Vero, Mona? La ragazza bionda annuì. I suoi occhi erano spalancati e sgomenti. Con dita nervose si sbottonò il soprabito e lo gettò via. Ray Buzzell lo raccolse e me lo consegnò. I suoi movimenti avevano perso ogni sicurezza. Il soprabito era pesante e sapeva di mare. Lo piegai sul braccio. — Dove l'hai preso, Ray? — Sulla spiaggia. Non è il primo relitto che troviamo sulla spiaggia. Vero, Mona? La ragazza annuì, sempre senza parlare. — Era tutto inzuppato e c'erano delle pietre nelle tasche — riprese Ray. — Come se qualcuno l'avesse buttato a mare perché andasse a fondo. Ma la corrente era forte e le onde l'hanno spinto a terra. Era ancora in buono stato e ho deciso di tenerlo. — Su che spiaggia l'avete trovato? — domandai. — Io lo so — interloquì Mona. — È stato il giorno che abbiamo avuto l'alta marea e io avevo paura ad andare in acqua. Eravamo in quella spiaggetta privata sopra Malibu, dove c'è la friggitoria, dall'altra parte dello stradone. — Sì — convenne Ray. — Ci abbiamo mangiato l'altro giorno. — Vi ho visto — dissi. — E ora vediamo se si può stabilire in che giorno avete trovato il soprabito. — Non è possibile: è passato tanto tempo. — Ray scosse la testa. La ragazza si alzò e gli toccò il braccio. — E le tavole della marea, Ray? Avevamo forza sei e cinque, quel giorno. Non è capitato spesso, quest'anno. Hai le tavole in macchina, vero?
Salimmo al furgone zebrato. Ray prese un libretto sciupacchiato e Mona lo esaminò alla luce del cruscotto. — È stato il diciannove maggio — sentenziò infine. — Non può esser stato nessun altro giorno. La ringraziai. Li ringraziai entrambi; ma quella che aveva cervello era lei. Tornando a Los Angeles mi chiesi cosa facesse Mona in quella compagnia. Ma forse, se avessi conosciuto suo padre e sua madre, avrei smesso di chiedermelo. 24 Imboccai il Sunset Boulevard e mi diressi verso il mio ufficio. Guidavo automaticamente nel traffico serale, vagliando tra me i fatti che avevo appurato, o i semi-fatti. Uno dei semi-fatti era diventato certezza da quando avevo saputo che il soprabito di tweed era stato trovato vicino alla casa sulla spiaggia dei Blackwell. Il caso Blackwell, il caso Dolly Campion e il caso Ralph Simpson erano strettamente connessi. Dolly, Ralph e probabilmente anche Harriet erano stati uccisi dalla stessa mano e il soprabito poteva essere usato per identificarla. Giunto in ufficio lo distesi sulla scrivania, bene in luce, e l'osservai. I bottoni di pelle erano identici a quello che Mungan mi aveva mostrato. Nel punto in cui era stato strappato il primo in alto c'erano dei pezzetti di filo corrispondenti a quelli attaccati al bottone di Mungan. Non dubitavo che un tecnico del laboratorio di polizia, con un microscopio, avrebbe potuto stabilirlo inequivocabilmente. Rivoltai l'indumento, spargendo sabbia sulla scrivania. All'interno c'era un'etichetta "Harris", e, subito sotto, quella del venditore: "Cruttworth Ltd., Toronto". Cercai invano la marca d'una tintoria. Forse il soprabito non era mai stato pulito. Lo ripiegai e chiamai il servizio di segreteria telefonica: seppi che qualche ora prima mi avevano telefonato Arnie Walters e Isobel Blackwell. La telefonata più recente, invece, era quella del sergente Wesley Leonard. Lo chiamai. Rispose lui stesso, al primo squillo. — Archer. Volevate parlarmi, sergente? — Sì; ho scoperto qualcosa di scottante. — Era un uomo semplice e la sua voce era impaziente, piena d'orgoglio. — Anch'io. Ho trovato il soprabito che Ralph Simpson aveva con sé quando ha lasciato la sua casa: spero che ci condurrà all'assassino. E voi cos'avete scoperto?
— Non posso spiegarvelo per telefono. Dissi che sarei andato a casa sua. Lo trovai sotto il portico illuminato e mi parve più alto e più giovane di quel che ricordassi. C'era un luccichio nei suoi occhi e aveva le guance arrossate come se la scoperta gli avesse fatto salire la temperatura. La signora Leonard ci aveva preparato dei panini e qualche bibita: ci lasciò soli e io mi resi conto di non aver mangiato. Mentre Leonard parlava feci sparire parecchi panini. — Ho trovato l'arma del delitto — annunziò il sergente. — Sin da quando è stato dissepolto il cadavere di Simpson ho messo una squadra di carcerati della Contea a frugare sul luogo: stamattina uno di loro ha rinvenuto un punteruolo per ridurre in pezzetti il ghiaccio da mettere nelle bibite e me l'ha portato. Ora è al Palazzo di giustizia, chiuso a chiave: più tardi ve lo mostrerò. — Siete proprio certo che sia l'arma del delitto? — L'ho portato oggi stesso a Los Angeles, al laboratorio. Hanno cercato le tracce di sangue e la reazione è stata positiva. Inoltre, si adatta alla ferita esistente nel corpo di Simpson. — Impronte? — No. Solo quelle del carcerato che l'ha trovato. Ma ho di meglio. Il punteruolo faceva parte d'un servizio per bar che è stato venduto qui in città nell'ottobre scorso. Non ho avuto difficoltà a scoprirlo perché il negozio di casalinghi è uno solo, quello di Drake, e il signor Drake ha riconosciuto subito il punteruolo. La persona che l'ha comprato è una signora di Citrus Junction, una donna che mia moglie conosce da anni. — Chi è? — Non tanto in fretta: non so se posso dirvelo. È una persona incensurata, ma ora le cose non sono troppo chiare, per lei e per suo marito: non è solo il punteruolo che li mette in rapporto col delitto. Abitano proprio di fronte al luogo in cui è stato trovato il cadavere. — Stiamo parlando degli Stone? Leonard mi guardò, sorpreso. — Li conoscete? — Ho fatto visita alla signora questo pomeriggio. Lui non c'era. Abbiamo parlato della figlia, Dolly, e di quello che le è successo. Leonard fece un viso lugubre. — Brutto colpo, per gli Stone: secondo me, dopo la disgrazia hanno perso la testa. Forse Simpson era implicato nel delitto e l'hanno ucciso per vendetta. — È un movente ammissibile. Simpson conosceva bene Dolly e Cam-
pion. Avete interrogato gli Stone? — Non ancora. Ho parlato con lo sceriffo e abbiamo deciso di aspettare il Procuratore Distrettuale che tornerà da Sacramento domani. Non dobbiamo fare passi falsi, dice lo sceriffo. — La fronte del sergente era imperlata di sudore: ansia distillata. — Qualcuno dovrebbe interrogare gli Stone, però. — Lo penso anch'io. Disgraziatamente ho le mani legate finché non torna il Procuratore. — Ma io no. Mi scrutò, come chiedendosi se poteva fidarsi di me. Poi vuotò il bicchiere di limonata che aveva sorseggiato e si alzò. — E va bene. Volete prima vedere il punteruolo? Con la mia macchina raggiungemmo il Palazzo di giustizia. Leonard tolse il punteruolo dalla cassaforte del suo ufficio e lo mise sul tavolo, sotto una lente d'ingrandimento a braccio flessibile. Un cartellino con le iniziali di Leonard era fissato all'impugnatura, con del fil di ferro sigillato da un piombino. L'impugnatura era quadrata e la punta aguzza e sudicia. — Dovrebbe esserci anche un cavatappi; in genere, questi arnesi vengono venduti in coppia — spiegò Leonard. — Se il cavatappi ce l'hanno gli Stone, siamo a posto. — Forse. Sono gente che può usare un servizio da bar d'argento? — Non avevo mai saputo che bevessero, ma non si può mai sapere. — Allora posso mostrar loro il punteruolo e chiedere spiegazioni? — Direi di sì. — Leonard si asciugò la fronte. — Ma non parlate di me e non fate accuse. Non voglio che si spaventino e fuggano. Lo lasciai a casa sua e proseguii verso la villetta degli Stone. La luce era ancora accesa. Venne ad aprirmi un uomo magro, in pigiama. — Il signor Stone? Oggi sono venuto a parlare con vostra moglie. Come richiamata dalle mie parole, la signora Stone si affacciò a una porta: era in vestaglia e aveva il viso e il collo unti di crema. — È quell'investigatore, Jack. Accomodatevi, signor Archer. Mi fecero passare nel soggiorno e restammo per un attimo a guardarci, in un'atmosfera di tensione. — Come mai venite a quest'ora? — domandò la signora Stone. — Avete scoperto qualcosa? Mi tolsi di tasca il punteruolo. — Lo conoscete? — Lasciatemelo guardare. — La donna allungò la mano e lo prese. Suo
marito si protese a sua volta. — Sembra quello che hai comprato per la signora Jaimet — osservò. — È proprio quello. Cos'è questo cartellino? — Serve per riconoscerlo. Dove l'avete comprato, signora Stone? — Ai Casalinghi Drake: fa parte d'un servizio che ho regalato alla signora Jaimet per le sue nozze, Jack diceva che era troppo caro, ma io volevo che fosse proprio qualcosa di bello. La signora è sempre stata buona con noi e con Dolly: cos'erano, in confronto, dodici dollari? — Guardava suo marito ed era come se parlasse a lui, non a me. A un tratto si rabbuiò. — Ma come mai l'avete voi? L'ho mandato come dono di nozze alla signora Jaimet, che non abita più in città. — Abitava qui? — Proprio di fronte, dall'altra parte della strada. Siamo stati buoni vicini per quasi vent'anni. Poi, quando suo marito è morto, ha venduto la casa ai Rowland e si è trasferita a Santa Barbara. Però si è sempre tenuta in contatto con noi... La signora Stone interruppe il marito. — Signor Archer, non avete ancora risposto alla mia domanda: chi vi ha dato questo punteruolo? Glielo presi delicatamente e me lo misi in tasca. — Mi dispiace, signora Stone, ma non posso rispondervi. Saprete presto di che si tratta. — È per l'uomo che hanno trovato qui davanti? — Non posso dirvi né sì né no. Però può essere una cosa importante per voi: può condurre alla scoperta dell'assassino di Dolly. — Non capisco. — Nemmeno io. Se capissi non sarei qui a farvi domande. La signora Jaimet conosceva Dolly? — L'ha sempre conosciuta. — D'improvviso la signora Stone sedette sul divano. La rete del tempo s'era incisa sulla sua faccia, in linee profonde. — Quando si è trasferita a Santa Barbara l'ha invitata persino a farle visita. Ma mia figlia non ha voluto andarci. E dire che la signora Jaimet avrebbe potuto fare molto per lei. — In che modo? — La signora Jaimet è una persona colta; suo marito era il preside della scuola superiore. Davano a Dolly dei libri da leggere, l'invitavano a fare delle gite. Le volevano un gran bene; quindi, se pensate che la signora abbia a che fare con la morte di Dolly, siete fuori strada. — Siete fuori strada — ripeté il marito. — La signora Jaimet era una seconda madre, per Dolly, dato che non aveva figli propri.
Gli occhi celesti della signora Stone s'erano fatti fissi e intenti. — Quell'uomo che hanno trovato era stato ucciso con un punteruolo — mormorò. — Era scritto sul giornale. Il punteruolo che avete qui... quello che ho regalato alla signora Jaimet... Non può essere lo stesso, vero? — Può essere lo stesso. — Non capisco. Come può trovarsi immischiata in un delitto una donna come quella, una vera signora? Jsobel Jaimet è una persona distinta, che ha delle ottime conoscenze. Anzi, si è proprio sposata bene, la seconda volta: un cugino del primo marito, che è stato un pezzo grosso nell'esercito. — Come si chiama, il secondo marito? — Vediamo: l'ho sulla punta della lingua. — Non si chiama Blackwell, per caso? — Proprio così: il colonnello Blackwell! Lo conoscete? 25 Il sergente Leonard mi aspettava davanti a casa sua, impaziente. — Hanno confessato? — Non avevano niente da confessare. La signora Stone ha regalato quel servizio da bar a una vicina, per il suo matrimonio: la signora Jaimet. — La signora Jaimet? Ma è assurdo. Non può aver niente a che fare con questa storia. Lei e suo marito erano due dei nostri cittadini più importanti. Quando il signor Jaimet è morto, c'è stato un articolo in prima pagina, sul giornale. — Di che cosa è morto? — Di diabete. Si è rotto una gamba nella Sierra ed è rimasto senza insulina prima che potessero riportarlo nell'abitato. È stata una grande perdita per la città. E altrettanto grande quando la signora Jaimet è andata via. — Il sergente parve riflettere. — Gli Stone vi hanno detto dov'è, adesso? Accesi una sigaretta, prima di rispondere. Fra il mio dovere verso la legge e verso un uomo che si fidava di me, e il mio dovere verso una cliente di cui non mi fidavo più, era difficile scegliere. — Mi pare che abbiano detto che s'è sposata a Santa Barbara, l'anno scorso. Sarebbe bene che parlaste voi stesso con loro. — Già. Ci andrò domattina — Leonard si grattò la testa. — Ora che mi viene in mente... I Jaimet abitavano davanti agli Stone e Simpson è stato trovato sepolto in quello che era stato il loro cortile. Che ne dite? — È una faccenda che non mi piace — dichiarai, ed ero sincero. Cam-
biai subito argomento. — Ho quel soprabito in macchina, se volete dargli un'occhiata. — Sì. Portatelo qui. Stendemmo il soprabito sul tappeto del soggiorno. Mentre gli dicevo quel che sapevo, Leonard si inginocchiò a esaminarlo, dentro e fuori. — Peccato che non ci siano marche di tintoria — osservò. — Si potrà forse rintracciare il proprietario interrogando il venditore, a Toronto. Si alzò, con le mani sui fianchi, poi tornò a inginocchiarsi: — Qualche volta le vecchie tintorie mettono la marca all'interno delle maniche — fece. Rivoltò la manica destra: sulla fodera erano scritte, con l'inchiostro indelebile, parecchie cifre e lettere: BX1207. Il sergente si alzò per la seconda volta, sorridendo. — Son stato fortunato, a guardare. — Conoscete questa marca, sergente? — Non è del luogo. Ma a Los Angeles c'è uno della polizia che ha una collezione completa di questi marchi. — Sam Garlick. — Lo conoscete anche voi? Me ne occuperò domattina stessa. Lasciai il soprabito da Leonard e raggiunsi Bel Air. A casa Blackwell le luci erano accese e davanti all'ingresso posteggiava un tassì. Al rumore dei miei passi sulla ghiaia l'autista si scosse e mi guardò, sospettoso. Proprio in quel momento la porta si aprì e una bionda uscì, salutando Isobel Blackwell. Quando si voltò riconobbi Pauline Hatchen, la madre di Harriet. Potei vedere bene anche Isobel, prima che rientrasse: era completamente vestita di scuro, e il trucco non era sufficiente a celare il pallore delle sue guance e le sue occhiaie scure. Non si accorse di me. Quando Pauline fu vicina al tassì mi riconobbe. — Il signor Archer! — fece. — Son contenta di vedervi: a ogni modo vi avrei telefonato. L'altra sera, ad Ajijic, non mi ero resa ben conto della situazione. — Siete venuta con l'aereo? — Sì. Quest'oggi. — Si guardò intorno, come volesse interrogare la notte calma e immensa. Le luci di casa Blackwell si andavano spegnendo, progressivamente. — Dove possiamo andare, per parlare? — Va bene la mia macchina? Vorrei restare qui: ho bisogno di parlare con Isobel Blackwell, prima che vada a letto. — Va bene. — Pauline Hatchen si rivolse all'autista. — Vi dispiace aspettare ancora un po'? L'uomo scrollò le spalle. — Siete voi che pagate, signora. Raggiungemmo la mia macchina. Pauline sembrava molto stanca: sedet-
te vicino al posto di guida, raccogliendosi attorno alle gambe la pelliccia di leopardo, e io chiusi la portiera. Poi andai a sedermi accanto a lei. — Vorrete parlare di Harriet, immagino. — Sì. Avete sue notizie? — Non si sa nulla di buono. — Me l'ha detto anche Isobel; ma credevo che non mi avesse detto tutto. È sempre stata speciale per decidere che cosa gli altri devono sapere e che cosa non devono sapere. Ho avuto il mio da fare a ottenere che si svegliasse e scendesse a parlarmi. Ma si capisce, non è la madre di Harriet, lei. Qui sta la differenza: il sangue non è acqua. — La conoscete bene? — La conosco da molti anni, il che non è la stessa cosa, vero? Il suo primo marito, Ronald Jaimet, era cugino di Mark e uno dei suoi migliori amici. Mark ha sempre tenuto molto alla famiglia, e naturalmente ci vedevamo spesso. Ma Isobel e io non siamo mai state amiche: ho sempre avuto l'impressione che invidiasse la mia posizione di moglie di Mark. Ronald era una brava persona, ma in fondo non era che un insegnante. — Com'è morto? — In un incidente in montagna. Mark era con lui. Perché non vi fate raccontare da Mark com'è andata? Ma dimenticavo che non c'è: è andato al lago Tahoe a seguire le ricerche da vicino. — Pauline si protese verso di me e i suoi abiti emisero un sottile profumo. — Qual è la situazione, laggiù, signor Archer? — Stanno cercando Harriet. È stata vista da quelle parti, e io stesso ho trovato nel lago il suo cappellino, macchiato di sangue. — Questo significa che è stata uccisa? — Spero di no. Non si può far altro che aspettare. — Voi credete che sia morta. — La voce di Pauline era bassa e atona. — È stato Burke Damis a ucciderla? — Lui dice di no. — Infatti, cosa avrebbe avuto da guadagnare? — Non sempre si uccide per profitto. Rimanemmo per qualche attimo in silenzio: mi pareva di sentire la sofferenza della donna che avevo accanto. — Sapete, signor Archer — riprese a un tratto. — Ho ricevuto una lettera di Harriet. — Una lettera? Quando? — Ieri, ma l'ha scritta domenica scorsa, prima che succedesse... quello
che è successo. È stata spedita la mattina di lunedì da Pacific Palisades, a giudicare dal timbro postale. — Coma mai vi ha scritto? — È una lettera strana, appassionata. Mia figlia mi parla del suo amore per Burke, un amore divorante. Dopo tanto tempo, cerca la mia comprensione. Non ha scritto solo per il denaro. — Che denaro? — Harriet mi chiede di prestarle cinquemila dollari per potersi sposare. Fa conto di rendermeli a gennaio, quando entrerà in possesso dell'eredità. Lotta per non perdere ciò che ha di più prezioso, capite? — Anche Campion. Per lui, la cosa più preziosa erano i cinquemila dollari. — Campion? — Il vero nome di Burke è Campion. Al momento è in prigione a Redwood City. E i cinquemila dollari, signora Hatchen? Sareste stata disposta a prestarli a vostra figlia? — Certo. Lo sono ancora, se è viva e può servirsene. Li ho portati con me: ieri pomeriggio sono andata con Keith a Guadalajara a ritirarli dalla banca. Ho ancora parte del denaro che mi ha versato Mark all'atto del divorzio. Adesso li ho lasciati nella cassaforte dell'albergo. — Harriet non ne avrà bisogno certamente: comunque, non credo che l'idea sia stata sua. — Mi volsi a fissare Pauline alla luce del cruscotto: — Siete una donna generosa, signora Hatchen. Strinse le labbra. — Non guardatemi: sono una brutta vecchia che cerca di riscattare il passato. Ma sono tornata qui con quindici anni di ritardo. Non avevo il diritto di lasciare Harriet: se fossi rimasta sarebbe stata più felice. — Come mai avete divorziato dal colonnello Blackwell, signora? Per Isobel, forse? — No. Mark non le badava. Non badava a nessuna donna, neanche a me. — La voce di Pauline s'era fatta aspra. — Mark era un figlio di mamma e basta. Vi parrà strano che io dica una cosa simile di un militare, ma è vero. "Sua madre era vedova di un colonnello, che venne ucciso nella Prima guerra mondiale. Mark era il suo unico figlio maschio, la sua sola ragione di vita. "Passò con noi il primo anno di matrimonio, e io fui costretta a starmene in disparte a vedere Mark ballare come voleva lei. Inoltre, come marito, Mark era un fallimento: se sapeste come ho dovuto lottare per avere un fi-
glio! "Quando sua madre morì, credetti che si sarebbe attaccato a me. Ma mi illudevo. Trasferì invece la sua fissazione sulla povera piccola Harriet. È terribile vedere una persona tramutare una bambina in una marionetta, una specie di automa. Mark controllava le sue letture, i suoi giochi, le amiche, anche i suoi pensieri. La costringeva a tenere un diario che leggeva, e quando era in guerra doveva mandarglielo periodicamente. Riuscì a confonderla al punto che la poverina non sapeva più se era una femmina o un maschio, e se lui era suo padre o il suo innamorato. "E quando tornò dalla guerra fu anche peggio; la guerra aveva deluso Mark, che però lasciò malvolentieri il servizio attivo. Comunque, aveva un mucchio di quattrini, e poteva permettersi di dedicare tutto il suo tempo ad Harriet: concepì l'idea di farne una specie di donna-uomo. Le insegnò a sparare, a scalare le montagne. Prese persino a chiamarla Harry. "Mi dava la nausea. Non sono mai stata un tipo aggressivo, ma finalmente lo costrinsi ad ascoltarmi. Gli dissi che se non si fosse fatto curare da uno psichiatra avrei chiesto il divorzio. Naturalmente lui pensava che la pazza fossi io. Forse lo ero stata davvero, a rimanere dodici anni con lui. Mi disse di chiedere pure il divorzio, che lui e Harriet non avevano bisogno di me. La bambina aveva solo undici anni a quell'epoca. Avrei voluto portarla via, ma Mark disse che me l'avrebbe contesa in tribunale con ogni mezzo. Così persi mia figlia, e ora è perduta davvero." Rimanemmo ancora in silenzio nel buio; poi cercai d'alleggerire l'atmosfera: — C'è anche la possibilità che Harriet sia sana e salva — dissi. — Forse lei e Campion possono aver deciso di viaggiare separatamente. Questo spiegherebbe perché lui si rifiuta di dire che ne è stato di vostra figlia. Può darsi che a quest'ora Harriet sia nel Messico. — Non ci credete nemmeno voi, vero? — sussurrò. — È una delle tante possibilità. Se avrò notizie vi avvertirò subito. Dove andrete ad abitare? — Non so. Per ora ho fissato una camera all'albergo Santa Monica. Isobel mi ha invitato a stare con lei, ma è impossibile: non andiamo d'accordo, non siamo mai andate d'accordo. Lei pensa che io sia una sciocca svaporata, e forse lo sono. Io penso che lei sia un'ipocrita. — Come mai? — Semplice: ha sempre finto di disprezzare il denaro e tutto ciò che il denaro può dare. Vita semplice e alti pensieri, era il suo motto. Ma ho notato che alla prima occasione ha acciuffato Mark e i suoi quattrini.
— Un'ultima domanda, signora Hatchen. Che cosa succede del patrimonio lasciato ad Harriet dalla zia Ada, se vostra figlia non vive tanto da poterselo godere? — Immagino che ritorni a Mark. Tutto finisce per tornare a Mark. 26 La cameriera, riluttante, mi fece entrare. Aspettai nell'anticamera contando i riquadri del pavimento di legno e desiderando di non aver mai visto Isobel Blackwell né preso il suo denaro, e di non aver mai avuto simpatia per lei. Finalmente comparve, con lo stesso abito scuro. — Spero che l'importanza di quel che dovete dirmi giustifichi l'ora — disse, senza sorridere. Mi condusse nel salotto, sotto gli occhi degli antenati. — Venendo qui, vi ho fatto un favore. Se non foste mia cliente, ci sarebbero dei poliziotti, al posto mio, e dei giornalisti. — Che significa? — Gli occhi di Isobel erano annebbiati. — Spiegatemelo, vi prego. Ho preso dei sonniferi e non sono molto lucida. Cosa dicevate dei poliziotti e dei giornalisti? — Saranno qui domani. Vorranno sapere, fra l'altro, se avete un punteruolo da ghiaccio con l'impugnatura quadrata, d'argento. — Sì, l'abbiamo. Non l'ho visto, ultimamente, ma dev'essere da qualche parte, in cucina o in uno dei bar portatili. — Vi dico subito che non c'è. Lo ha il sergente Wesley Leonard della polizia di Citrus County. L'osservavo attentamente e la vidi sinceramente perplessa. — Che cosa significa? È una specie di minaccia? Sembra quasi che vogliate... — È un avvertimento, signora Blackwell. La voce di Isobel si fece stridula. — È successo qualcosa a Mark? — È successo qualcosa a Ralph Simpson e a Dolly Stone. Credo che sappiate di chi parlo. — Dolly Stone? Ma sono anni che non la vedo. — Spero che possiate provarlo, perché è stata assassinata nel maggio scorso. Scosse lentamente il capo, come se volesse schivare un fatto. — Forse scherzate. — Ma mi fissò e vide che non scherzavo. — Come? Come è stata uccisa? — È stata strangolata da mani sconosciute.
Isobel Blackwell si guardò le mani: erano magre e ben curate ma le nocche denunziavano anni di lavoro. — Non pensate che io c'entri. Non sapevo nemmeno che Dolly fosse morta. Un tempo siamo state molto intime: posso dire che fosse quasi una figlioccia, per me. Gli Stone erano miei vicini: avevo notato nella bambina istinti antisociali e ho fatto del mio meglio per aiutarla. — Parlate come foste un'assistente, signora Blackwell. — Lo sono stata prima di sposarmi. — Con Ronald Jaimet? Alzò le sopracciglia. — A un tratto scopro che siete molto informato sui fatti miei. — A un tratto i fatti vostri sono al centro di questo caso: la scomparsa di Harriet, la morte di Dolly e di Ralph Simpson, che è stato pugnalato con un punteruolo da ghiaccio... — Il mio punteruolo? — Così pensano alla polizia. E lo penso anch'io. Non che vi accusi di aver pugnalato personalmente Simpson! — Troppo buono. — Ma resta il fatto che lo conoscevate, quasi certamente sapevate della sua morte e non avete detto nulla. — Parlate dello stesso Ralph Simpson che ha lavorato da noi a Tahoe, in estate? — Proprio di lui; un paio di giorni dopo avervi lasciato è stato colpito a morte e seppellito nel cortile della casa che un tempo era la vostra, a Citrus Junction. — Ma è pazzesco. — Lo sapevate, vero? — No. Siete in errore. — C'è un articolo sulla morte di Simpson, sulla prima pagina del giornale di Citrus Junction che ho visto nel vostro salotto. — Non l'ho letto. Prendo il giornale per avere notizie dei vecchi amici, ma raramente lo leggo. Non capivo se era sincera o no. La sua faccia era diventata una maschera rigida, gli occhi erano velati. La colpa può produrre simili cambiamenti; ma anche la paura dell'innocente. — Torniamo a parlare di Dolly — proposi. — Quali erano le tendenze antisociali che avevate notato in lei? — Dobbiamo proprio parlarne? Ho appena saputo della sua morte: è do-
loroso dover frugare nelpassato. — Il passato è la chiave del presente. — Siete filosofo — osservò, con ironia. — Comunque, Dolly a quattro o cinque anni non legava con gli altri bambini, i suoi rapporti con gli adulti erano strani, e andava peggiorando: lo notavo anche nei contatti con mio marito. Ronald e io cercavamo di darle tutto quel che non poteva avere dai suoi genitori... libri, svaghi, la compagnia di persone comprensive... — Poi vostro marito è morto e voi ve ne siete andata. — Ormai avevo già perduto Dolly — si difese Isobel. — Aveva cominciato a sottrarre denaro dal mio borsellino e a mentire in proposito. E poi faceva anche altre cose di cui preferisco non parlare. È morta: nihil nisi bonum. — Vorrei che mi parlaste di queste altre cose, invece. — Dirò così: non ero più in grado di proteggerla da certi influssi morbosi... A scuola, se la faceva con gli elementi peggiori. A quindici anni, era già matura. Isobel non continuò. La sua bocca era seria, gli occhi tristi. Poteva darsi, pensai, che Dolly avesse cercato di accalappiare Ronald Jaimet, prima che morisse. Un uomo di mezza età, senza figli, può fare simili salti nel buio. Sono salti da suicida, ma a un diabetico non è difficile uccidersi: basta che dimentichi la sua dieta e la sua dose. Per un diabetico non è difficile nemmeno divenire vittima d'un assassino. — Avete un'espressione strana — osservò Isobel. — Sto pensando alla morte di Ronald Jaimet. — A quanto pare stasera non volete risparmiarmi proprio nulla. Se volete saperlo, Ronald è morto per un incidente. E siccome capisco quel che pensate, vi dico subito che i suoi rapporti con Dolly erano puri. Conoscevo bene mio marito. — Ma io non l'ho conosciuto. In quali circostanze è morto? Il colonnello Blackwell era con lui, vero? — Erano in gita sulla Sierra. Ronald cadde e si ruppe una caviglia. Quel che è peggio, ruppe anche la siringa con la dose quotidiana d'insulina. Mark lo trasportò giù dalla collina fino a Bishop, ma quando vi giunsero mio marito ormai era in coma. — Questa è la versione di Mark. — È la verità. Ronald e Mark erano buoni amici, oltre che cugini. — Non avviene spesso che un diabetico vada a fare delle escursioni.
— Ronald non poteva vivere in mezzo ai riguardi, come avrebbe dovuto. La sua escursione annuale era importante per lui, come uomo. E poi c'era Mark che lo considerava un fratello. Lo portò sulle spalle per chilometri e chilometri di sentieri di montagna, fino alla jeep: c'impiegò una notte e un giorno. Quando io e Harriet finalmente giungemmo all'ospedale, a Bishop, lo trovammo in uno stato pietoso. S'incolpava di non aver saputo impedire l'incidente. La vostra idea che sia colpevole della morte di Ronald... — Non ho detto niente di simile, signora. È un'idea vostra. — Mia? — Isobel si passò una mano sul viso, stancamente. — Scusatemi, sono molto stanca e confusa. Quei sonniferi... e poi ho dovuto parlare con Pauline, la madre di Harriet, che è arrivata da Guadalajara: non è stato un colloquio piacevole. — Cercò di sorridere. — Mi dispiace ma devo continuare a farvi le mie domande — dissi. — Che tipo di domestico era Ralph Simpson? — Abbastanza bravo, mi sembra. Ma è stato così poco tempo da noi che è difficile dirlo. Ricordo che a Mark sembrava poco rispettoso: a Mark piace essere trattato come un essere superiore. — Ho sentito dire a Tahoe che Simpson era stato licenziato per furto. — Furto di che cosa? — Forse di un soprabito — insinuai. — Tornando a casa dal lago, Simpson aveva con sé un soprabito da uomo; aveva detto a sua moglie che glielo avevano regalato. Era di Harris tweed scuro, con bottoni di pelle intrecciata. Uno dei bottoni mancava. Sapete qualcosa di questo soprabito? — No. Ma voi sì, evidentemente. — Vostro marito non ha mai comperato indumenti a Toronto? — No, che io sappia. — C'è stato, qualche volta? — Certo. Ci siamo passati anche durante il viaggio di nozze. Ma perché questo soprabito è così importante per voi? — Ve lo dirò se mi lascerete dare un'occhiata agli abiti di vostro marito. Scosse il capo. — Non posso, senza il suo permesso. — Quando tornerà? — Credo che resterà a Tahoe finché non troveranno Harriet. — Allora può darsi che debba restarci a lungo. È molto probabile che sia morta e sepolta come Simpson, oppure in fondo al lago. Nello sgomento, il viso di Isobel era persino brutto. — Voi credete che Damis l'abbia uccisa? — È il principale indiziato.
— Ma non è possibile. Non può averlo fatto. — Dice la stessa cosa anche lui. — Gli avete parlato? — Sì. L'ho raggiunto la notte scorsa: ora è sotto custodia a Redwood City. Credevo che con questo il caso fosse concluso; invece, a quanto pare, seguita ad allargarsi. Il vero nome di Damis, come forse saprete, è Campion; aveva sposato Dolly Stone nel settembre scorso. In marzo Dolly ha avuto un bambino e due mesi dopo è stata strangolata. La polizia ritiene che sia stato Campion. — È incredibile. — Quello che per me è incredibile, signora Blackwell, è che voi foste completamente ignara di tutto questo. — Vi assicuro che lo ero. Non avevo rapporti con Dolly. — Provate a pensarci: Bruce Campion, alias Burke Damis, ha sposato l'anno scorso la vostra figlioccia. Quest'anno voleva sposare la vostra figliastra, con la vostra approvazione, ed è arrivato al punto di fuggire con lei. Sono coincidenze che a volte si verificano, ma io non le accetto tanto facilmente. Isobel mi guardava fisso. — Sospettate di me — sussurrò. — Ci sono costretto. Voi avete cercato di bloccare le mie indagini su Campion. Vedevate di buon occhio il suo matrimonio con Harriet. — Solo perché quella poverina non aveva nessun altro. Avevo paura di quel che avrebbe potuto succederle se avesse continuato a restar sola. — Forse volevate fare la parte del Padreterno, con lei come con Dolly? Forse è stata Dolly a presentarvi a Campion, e siete stata voi a proporgli di sposare Harriet? — Giuro che non l'avevo mai visto prima di sabato sera, quando è venuto qui. Ammetto, però, che m'è piaciuto: tutti possono sbagliare. Comunque, cosa avrei potuto guadagnare, occupandomi dei matrimoni del signor Damis-Campion? Era una domanda retorica ma io potevo rispondere. — Se vostro marito avesse diseredato Harriet, o se Harriet fosse stata uccisa, avreste potuto ereditare tutto il suo patrimonio. Se fossero morti prima Harriet e poi vostro marito, avreste potuto ereditare i patrimoni di tutt'e due. — Mio marito è vivo e vegeto. Inoltre, io gli voglio sinceramente bene. Volevo bene anche a Harriet. — Immagino che abbiate voluto bene anche al vostro primo marito: pure, gli siete sopravvissuta.
Gli occhi di Isobel si riempirono di lacrime: — Non potete credere cose simili di me. Le dite soltanto. — Non le dico per divertimento. Ci sono stati due delitti, o tre o quattro. Ralph Simpson, Dolly, Harriet, Ronald Jaimet. Voi li conoscevate tutti: tre erano vostri intimi. — Ma non sappiamo se Harriet è stata uccisa. Ronald, di certo, non lo è stato. Vi ho detto in quali circostanze è morto. — Già, me l'avete detto. — Mio marito può confermare il mio racconto in ogni particolare. Non mi credete? Che donna credete che io sia? Siete venuto qui per maltrattarmi? — Questo è niente in confronto a quello che vi aspetta. Finora sono riuscito a tacere il vostro nome alla polizia... — Avete fatto questo per me? — Siete mia cliente, dopotutto. Volevo darvi la possibilità di giustificarvi: non ve ne siete servita. — Capisco. — Una specie di smorfia dolorosa l'invecchiò di colpo. — Che motivo avrei dovuto avere per uccidere Simpson e seppellirlo nel cortile della mia vecchia casa? — Potreste averlo ucciso per difendervi da qualche minaccia; forse gli avete dato un appuntamento laggiù sapendo che la casa era vuota, e l'avete ucciso in un impeto di collera. — È un quadro interessante. Perché mai avrei dovuto dare un appuntamento a un uomo come Simpson? — Forse perché sapeva qualche cosa sulla fine di Dolly Campion. — Mi accusate di averla uccisa? — La bocca della signora Blackwell tremava. — Non risponderò più alle vostre domande. — Io credo di sì. Sentite, signora. La notte in cui Dolly è stata strangolata, è accaduta una cosa strana: strana se la si considera in rapporto al delitto. L'assassino, compiuta la sua opera, ha notato che nella culla c'era il bambino di Dolly che forse si sarà messo a piangere... Qualunque criminale sarebbe fuggito. Quello, invece, non è fuggito Anzi, ha corso un rischio notevole portando via il piccolo e mettendolo nell'automobile di una vicina, dove era certo che sarebbe stato trovato. — Tutto questo mi è nuovo. Non so nemmeno dove ha avuto luogo il delitto. — Vicino a Luna Bay, nella contea di San Mateo. — Non ci sono mai stata.
Le lanciai una domanda da un altro campo: — E al motel I Viaggiatori di Saline City, ci siete stata? — Mai. — I suoi occhi non cambiavano. — Per tornare alla notte in cui è stata uccisa Dolly, una donna, anche in un momento simile, potrebbe pensare alla sicurezza di un bambino; potrebbe pensarci anche il padre del bimbo. Sono quasi certo che non si tratta di Campion. Chi può essere, secondo voi? — Non lo so. — Io credo di sì. Ho le prove che l'assassino indossava il soprabito di tweed di cui vi ho parlato. A quanto pare uno dei bottoni penzolava. Il bambino l'ha afferrato, mentre l'omicida lo portava verso l'automobile: la vicina gli ha trovato il bottone in pugno. Feci una pausa e ripresi: — Ora avete capito perché sia di vitale importanza l'identificazione di quel soprabito. Domani la polizia ve lo mostrerà: siete certa di non averne mai visto uno simile? Siete certa che vostro marito non abbia comprato un soprabito a Toronto, da Cruttworth? Ora gli occhi di Isobel erano cambiati: le sue labbra erano diventate quasi bluastre. Si alzò, barcollando, e corse fuori. La seguii e la vidi attraversare un corridoio, poi la camera da letto padronale e rifugiarsi nel bagno. La sentii vomitare, al buio. Nella grande camera da letto una luce era accesa. Aprii l'armadio a muro e trovai gli abiti di Mark Blackwell. Aveva una ventina di vestiti, appesi in fila come piatti e docili servitori. Rivoltai il polso di una delle giacche. Scritta sulla fodera con inchiostro indelebile c'era la stessa marca di tintoria che Leonard aveva scoperto sulla manica del soprabito: BX1207. 27 La cameriera comparve sulla soglia. — Che cosa succede? — domandò, perplessa. — La signora Blackwell sta male. Cercate di aiutarla. La ragazza corse verso il bagno. Attesi finché non sentii le voci delle due donne, poi attraversai di nuovo la casa cercando il telefono di cui m'ero già servito. Il giornale di Citrus Junction con l'articolo sulla morte di Simpson in prima pagina era ancora sulla scrivania di Isobel Blackwell. Pensai che se la donna fosse stata colpevole l'avrebbe fatto sparire. Arnie Walters mi rispose con un grugnito.
— Sono Archer: hai visto Blackwell? — Oh, Lew! Era ora. Ho sentito che hai preso Campion, ieri notte... — Voglio sapere se hai visto Blackwell, il padre di Harriet. — No. Avrei dovuto vederlo? — Ieri mattina è partito per Tahoe: almeno, così ha detto. Informati, per favore, e richiamami: sono in casa di Blackwell. Tu sai il numero. — Mi svegli a metà della nottata e non mi dici nemmeno se Campion ha confessato. — Campion nega tutto e io sono propenso a credergli: non è un angioletto, intendiamoci, ma qualcuno deve averlo scelto come capro espiatorio. — Chi? — Sto cercando di scoprirlo. Quanto ad Harriet, può darsi che l'abbiano aggredita dopo che si è separata da Campion: aveva del denaro e una macchina nuova. Bisognerebbe cercare quella macchina; per esempio nei parcheggi degli aeroporti di Reno e San Francisco. — Credi che sia partita in aereo? — Non è da escludersi. Occupati anche di questo, ma richiamami subito per Blackwell: devo sapere se l'hanno visto a Tahoe. Isobel Blackwell parlò alle mìe spalle mentre abbassavo il ricevitore. — Sospettate di tutto e di tutti? Si era lavata il viso che senza trucco era pallidissimo. I suoi capelli erano bagnati sulle tempie. Venne avanti lentamente e sedette sulla poltrona da cui m'ero appena alzato. — Purtroppo ci sono costretto — risposi. — Per quanto riguarda me, sono soltanto una donna disgraziata. Lo so sin da quando l'uomo che amavo mi ha detto che soffriva di diabete e non poteva avere figli. Poi è morto e questo ha confermato la mia sfortuna. Avevo deciso di non sposarmi più per non soffrire ancora. "Poi, quest'estate, Mark è venuto a dirmi che aveva bisogno di me. Era nei guai. Mi sono concessa di sentire che, una volta di più, ero necessaria a qualcuno. Avevo sempre avuto dell'affetto per Mark, così infantilmente goffo. Comunque, l'ho sposato, ed eccomi qui." Volse la testa per incontrare i miei occhi. — Quando si è disgraziati si ha paura di muoversi per timore che la casa ci crolli addosso — mormorò. Provavo per quella donna un oscuro sentimento che forse non era solo pietà. — Signora Blackwell — dissi. — Vostro marito era nei guai a causa di una ragazza, l'estate scorsa?
— Sì. L'aveva trovata al lago Tahoe e dopo un certo tempo lei gli aveva detto che aspettava un bambino. Voleva estorcergli del denaro, naturalmente. A Mark non importava il denaro, ma temeva che in seguito la ragazza chiedesse qualcosa di più: il matrimonio, per esempio. Oppure che lo trascinasse davanti ai tribunali, il che l'avrebbe rovinato. Mark bada moltissimo a quel che pensa la gente. Forse avrà voluto sposarmi pensando di far tacere così la ragazza. — Testardamente, evitava di pronunziare il suo nome. — Ha avuto il coraggio di dirvi tutto questo? — Non proprio. Ma i suoi motivi erano chiari: Mark si rivela facilmente, specie quando ha paura. Quando è venuto a casa mia, a Santa Barbara, aveva molta paura. La ragazza, o uno dei suoi amici, aveva minacciato di denunziarlo. — Sapevate che la ragazza era Dolly Stone? — No. — La parola era stata quasi vomitata. — Non avrei mai sposato Mark... — Perché l'avete sposato? — Come vi ho detto, volevo essere ancora utile. Mark aveva senza dubbio bisogno di me, e anche Harriet. Mark era così disperato: diceva che io sola potevo salvarlo, e gli ho creduto. — Non l'avete salvato dall'uccidere Dolly, però. Ormai ve ne sarete resa conto. — L'ho capito poco fa, quando avete parlato del suo soprabito e mi sono sentita male. Sto male anche adesso. Un pallore verdastro le aveva invaso la faccia. — Naturalmente ho mentito quando ho detto di non aver mai visto quel soprabito — riprese. — Mark l'ha comperato quando eravamo in luna di miele, a Toronto, e l'ha portato con sé anche in primavera, a Tahoe. Ralph Simpson l'avrà trovato là e l'avrà detto, chiedendo denaro. Mark avrà preso il punteruolo che ci avevano regalato gli Storie... — La voce della signora Blackwell si ruppe. La vidi rabbrividire. Mi trovai inginocchiato accanto a lei; la tenevo fra le braccia e le sue lagrime mi bagnavano il colletto. Dopo un po' cessarono: Isobel si ritrasse. — Scusatemi: devo aver perduto il controllo. Mi rialzai. Vi fu una pausa di silenzio. — Non dovrò... non dovrò testimoniare su queste cose? — rispose infine. — Il punteruolo, il soprabito e Dolly? — Non si può costringere una moglie a deporre contro il marito. Ci sarà
la pubblicità, naturalmente, ma cercherò di aiutarvi. Se volete, parlerò io con i poliziotti, al posto vostro. — Vi ringrazio — mi disse. La sua mente si fermò alla parola poliziotti. — Poco fa, per telefono, avete detto ai poliziotti di Tahoe di arrestare Mark? — Ho soltanto chiesto a un mio collega di Reno di dirmi se vostro marito è laggiù. Mi telefonerà. — E poi? — Se c'è, vostro marito sarà arrestato. — È là certamente: era così preoccupato per Harriet... — O per la propria pelle — osservai. — Può darsi benissimo che vostro marito stamattina sia andato via con l'intenzione di non tornare più. A che ora è partito, a proposito? — Molto presto. Mi ha lasciato un biglietto: poche parole in cui mi diceva che non si sentiva di restare qui ad aspettare e che andava a Tahoe. Sono certa che c'è andato. Lasciai cadere l'argomento, aspettando la telefonata di Arnie. Passò un po' di tempo. Sedetti vicino alla porta-finestra e guardai il cielo schiarirsi pian piano. Isobel Blackwell aveva appoggiato intanto la testa sulle braccia, incrociate sulla scrivania. Taceva, ma dal ritmo del suo respiro capivo che era sveglia. — C'è una cosa che vorrei sapere — dissi a un tratto. — È possibile che Mark abbia ucciso Ronald Jaimet? Rispose senza alzare la testa. — È impossibile. Erano amici. Mark ha affrontato una fatica enorme per portare giù Ronald dalla montagna. Quando è arrivato a Bishop era esausto. — Questo non prova nulla. Non avete mai sospettato che l'incidente sia stato provocato? — No. So come è morto Ronald e so quanto ne ha sofferto Mark: come vi ho detto, era completamente sconvolto. — Un delitto può sconvolgere: un primo delitto. Quando Ronald è morto Mark era innamorato di voi? — No di certo. — Ne siete sicura? — Ne sono sicura: era infatuato di una... ragazza. — Dolly Stone?
Annuì, sgomenta. — Non è quel che pensate. Allora i suoi sentimenti per Dolly erano paterni. Le faceva dei regali, quando veniva a farci visita; la portava a spasso, qualche volta. Lei lo chiamava zio. — Avete usato la parola infatuato. — Non avrei dovuto: è la parola che usava Ronald, in realtà. Considerava la cosa con ingiustificata severità. Fu lui a farla cessare, anzi. — In che modo? — Ne parlò a Mark. Io non ero presente ma so che fu un colloquio spiacevole. Comunque, la loro amicizia sopravvisse. — Ma Ronald no. Isobel si alzò, rossa di collera. — Avete un'immaginazione malsana e una lingua malevola. — Può darsi. Ma non stiamo parlando di cose immaginarie. Quel colloquio ebbe luogo molto tempo prima della morte di Ronald? — Non voglio parlarne. Lo squillo del telefono sottolineò il rifiuto di Isobel. Andai a rispondere. — Sono Arnie, Lew. Blackwell non è stato visto. Sholto ha assistito tutto il giorno alle operazioni di dragaggio e dice che Blackwell non viene alla villa dalla metà del maggio scorso. Hai capito? — Ho capito. — C'è dell'altro: è stata trovata la macchina di Harriet. Era abbandonata sullo stradone a nord di Malibu: l'ho saputo adesso dalla polizia stradale. Che significa, secondo te? — Che dovrò andarci subito: voglio vedere quella macchina. — E Blackwell? Cosa dobbiamo fare, se arriva? — Non arriverà. Ma se arrivasse, non perderlo di vista. La voce di Arnie era quasi risentita. — Mi sarebbe utile sapere di che si tratta, esattamente. — Si sospetta che Blackwell abbia ucciso Dolly Stone e Ralph Simpson. Ma forse ha commesso anche altri due delitti: probabilmente è armato e pericoloso. 28 Quando giunsi a Malibu era l'alba e faceva freddo. Il furgone funebre zebrato era ancora parcheggiato di fianco alla strada, a Zuma. Ma ormai non m'interessava più. Alla polizia seppi che la macchina di Harriet era stata trovata dieci chi-
lometri più in su. — Era proprio davanti alla friggitoria — specificò l'agente di turno, dopo aver consultato i suoi appunti. — La padrona dice che è stata là tutto il giorno. Ora è stata portata in un'autorimessa. Se volete vederla, apre alle otto. Mi rimisi in auto e corsi verso la friggitoria. Era lo stesso locale in cui ero stato seduto a bere caffè tanto tempo prima, al principio delle indagini. La macchina di Harriet era stata abbandonata a cento metri dalla casetta sulla spiaggia di suo padre. Lasciai l'automobile nel parcheggio vicino a una Cadillac nera. La marea era alta e l'oceano scintillava come mercurio. Stormi di pellicani volavano in lontananza, alti nel cielo. La Cadillac aveva il nome di Blackwell sul cartellino fissato all'asta del volante. Scesi verso la casa, conscio di ogni rumore e dei miei stessi passi. Poi sentii soltanto il bussare del mio pugno sull'uscio. Un bussare ripetuto. Alla fine mi decisi a entrare usando la chiave che avevo ancora in tasca. Nulla era cambiato nella grande stanza a vetrate. Solo, qualcuno aveva fatto a brandelli il dipinto di Campion, e il sole passava attraverso gli squarci. Andai verso la scala. — Blackwell! — chiamai. — Siete qui? Nessuna risposta. Chiamai Harriet. La mia voce echeggiava per la casa: mi sembrava di essere un medium illuso che cercasse di evocare dei fantasmi. Scesi con riluttanza e con riluttanza ancora maggiore entrai nella camera da letto principale e poi nel bagno. Sentii l'odore del sangue prima ancora di vederlo. Accesi la luce. Nel lavabo c'era una salvietta inzuppata e greve di sangue coagulato. La sollevai per un angolo e la lasciai ricadere. Spruzzi di sangue rigavano il linoleum del pavimento. Andai ad aprire la porta che dava nella camera da letto posteriore: la serratura era stata forzata. Blackwell era là, seduto in maniche di camicia sull'orlo del materasso scoperto. Il suo viso era bianco, fuorché dove lo chiazzava la barba scura. Mi guardò come se fossi un ladro. — Dovevate esser voi — commentò. — Chi avete ucciso? — Nessuno. — Il suo volto era chiuso come se un fascio di luce l'avesse colpito. — Di chi è il sangue che c'è in bagno? — Mio. Mi sono tagliato radendomi. — Sono almeno ventiquattr'ore che non vi radete. Si toccò il mento, con aria assente. Sentivo che cercava di riempire il
vuoto esistente fra sé e la realtà. — È stato ieri. Mi sono rasato ieri. È sangue vecchio. Oggi non è morto nessuno. — E ieri chi è morto? — Io. — Fece una smorfia nell'invisibile fascio di luce. — Non avete avuto quella fortuna: alzatevi. Si alzò, ubbidiente. Lo tastai dappertutto, per quanto detestassi toccarlo: non aveva armi. Gli dissi di sedere e sedette. Non c'era più collera in lui, ma solo una specie di sconforto. — È stata una brutta notte — mormorò. — Ma non so nemmeno perché lo dico a voi: non avete simpatia per me. Non cercai di fingere. — È un bene che siate in grado di parlare: potete confessare addirittura, così non dovrete più pensarci. — Confessare? Non ho niente da confessare. Il sangue che c'è in bagno è vecchio. Non sono stato io, a versarlo. — E chi è stato? — Forse qualche vandalo che si è introdotto in casa. In questi anni abbiamo avuto molti atti di vandalismo. — In questi anni, abbiamo avuto molti delitti. Cominciamo dal primo: perché avete ucciso Ronald Jaimet? Mi guardò col viso di un bimbo dai capelli bianchi, orribilmente devastato dall'età. — È morto di diabete, perché non aveva potuto iniettarsi la sua dose di insulina. È stato un incidente. — Com'è accaduto? — Ronald e io avevamo avuto una disputa; una disputa amichevole. Gli è scivolato il piede su un sasso e l'ho visto cadere giù dal sentiero: ho sentito il rumore secco della caviglia che si spezzava. — A che proposito avevate avuto quella disputa? — Oh, per niente. Ronald mi punzecchiava a causa dell'affetto che avevo per una sua giovane protetta. È vero che volevo bene a quella ragazza, ma non c'era altro. Non le avevo mai... fatto nulla. I miei sentimenti erano puri e lo dissi a Ronald. Forse l'ho spinto, quasi per gioco, perché credesse quel che diceva. Non volevo farlo cadere. — E non avevate intenzione di ucciderlo? Parve riflettere. — Se avessi avuto intenzione di ucciderlo, l'avrei lasciato là, in montagna. — Aggiunse, come per convincermi: — Ronald era il mio cugino preferito. Somigliava molto a mia madre. Cambiai argomento. — Quando avete cominciato ad avere rapporti con Dolly Stone?
Distolse gli occhi. — Ah. Quello. — Si lasciò cadere sul letto raggomitolandosi con la testa sul cuscino. — Giuro che non l'ho mai toccata quando era una ragazzina: semplicemente, la adoravo da lontano. Era come una principessa fatata. E dopo che Ronald è morto non ho cercato di avvicinarla: non l'ho più vista fino alla primavera scorsa, quando l'ho incontrata a Tahoe. Ormai era una donna. L'ho invitata a casa mia solo per mostrargliela. Ma ero troppo felice: e lei ci stava. Ritornò più d'una volta, di sua iniziativa. Vivevo in un'alternativa di felicità e di disperazione; quando c'era lei ero felice, quando non c'era ero disperato. Poi si rivoltò contro di me e fu la desolazione più profonda. — È stato quanto s'è accorta di aspettare un bambino? — Sì. L'estate scorsa è stato un inferno. Avevo paura di perdere Dolly e avevo paura di quel che avrebbe potuto succedere se avessi cercato di trattenerla. Ero completamente nelle sue mani. Dovevo sopportare tutto quello che mi diceva: mi chiamava sporco vecchiaccio. Poi mia figlia Harriet mi ha raggiunto alla villa e la nostra relazione è diventata impossibile. Dolly non voleva più venire da me ma continuava a minacciarmi di dire tutto ad Harriet. — Vi ricattava? — Non proprio. Le diedi del denaro, però; molto denaro. Poi, per un lungo periodo non seppi più niente di lei. Ma ero sempre sulle spine: da un momento all'altro la cosa poteva diventar pubblica. Ho saputo che si era sposata soltanto questa primavera. — Nel frattempo voi avevate sposato Isobel per precauzione. — Non solo per precauzione — protestò. — Isobel era una vecchia amica... Le voglio veramente bene. — Che fortuna, per lei. Mi guardò con occhio malevolo, ma poi nascose il volto nel cuscino. — Sentiamo il resto, Blackwell — incitai. Ma lui continuava a tacere. — Allora parlerò io, e sarò breve perché la polizia è ansiosa di trovarvi. Questa primavera Dolly ha cominciato a chiedervi altro denaro: aveva passato un brutto inverno. Avete deciso di far cessare le domande e l'incertezza. La notte del quindici maggio siete andato da lei: il marito non c'era, era fuori con un'altra donna. Dolly vi avrà lasciato entrare, immagino, pensando che le portaste del denaro. L'avete strangolata con una delle sue calze. Blackwell emise un grugnito, come se sentisse la calza intorno al proprio collo. — Poi avete visto il bambino, il vostro bambino. Non vi siete sentito di
lasciarlo là, insieme alla madre morta: forse l'avete fatto per il suo bene: io lo spero. Comunque l'avete portato via e l'avete messo nell'automobile di una vicina. Il piccolo ha afferrato un bottone del vostro soprabito, che probabilmente era già quasi staccato. Era ancora nel suo pugno quando la vicina l'ha trovato. A causa di quel bottone siete stato scoperto. "Quanto il marito di Dolly è stato accusato dell'omicidio, il suo amico Ralph Simpson ha cercato di scoprire la provenienza del bottone. Forse sapeva della vostra relazione con Dolly e immaginava da dove venisse. Vi seguì a Tahoe, si fece assumere da voi e probabilmente trovò il soprabito dove l'avevate nascosto. Forse vi affrontò. Lo licenziaste e veniste qui. Invece di portare il soprabito alla polizia, come avrebbe dovuto, Simpson vi seguì ancora, portandolo con sé. Forse s'illudeva di potersela cavare da solo: o forse anche lui voleva del denaro. Tentò di ricattarvi?" Mugolò qualcosa d'inarticolato nel cuscino. — Comunque, ora non importa — dissi. — Si saprà al processo. Si saprà che prima d'andare all'appuntamento con Simpson avete preso in casa un punteruolo da ghiaccio. Secondo me, non a caso avete scelto quel punteruolo, dono di nozze dei genitori di Dolly. E senza dubbio non per caso avete seppellito la vostra vittima nel cortile della casa che era stata di Ronald Jaimet. Non so quali fossero i vostri motivi: non credo che potreste spiegarmeli, anche se voleste. Emise un gemito e si volse a guardarmi, con un solo occhio, inespressivo come un mollusco nell'occhiaia profonda. Ne approfittai. — È di Harriet il sangue che c'è nel bagno? — Sì. — L'avete uccisa? — Sì. Le ho tagliato la gola. — La voce era sorda, atona. — Perché? Perché sapeva quel che avevate fatto e dovevate farla tacere? — Sì. — E che cosa ne è stato del suo corpo? — Non lo saprete mai. — Dalla gola del colonnello uscì una specie di risata stridula. — Sono uno sporco vecchiaccio, come diceva Dolly. Perché non mi ammazzate? Avete la pistola, no? — No. E anche se l'avessi non vi ammazzerei. Non siete così importante per me. Dov'è il corpo di vostra figlia? La risata si ripeté, più forte: divenne un rantolo. — Prendetemi un po' d'acqua, vi prego. Per compassione mi diressi verso il bagno. Poi sentii il furtivo fruscio
della sua mossa. Blackwell aveva infilato una mano sotto il cuscino: la ritrasse stringendo una pistola che alzò verso di me. — Uscite di qui, o sparo. Non vorrete essere il quinto. Indietreggiai fuori della porta. — Chiudete e restate là dentro. Ubbidii ai suoi ordini. Il bagno era orrendamente familiare. La salvietta giaceva sempre nel lavabo, come una vittima. Sentii il colpo di pistola echeggiare dall'altra parte. Quando raggiunsi il colonnello, lo trovai con l'arma ancora in bocca. Era come se si fosse addormentato fumando quella pipa di forma stravagante. 29 A mezzogiorno ero di nuovo da Isobel Blackwell. Per tutta la mattinata le macchine della polizia erano andate su e giù per la strada della spiaggia, e i poliziotti erano entrati e usciti dalla casetta. Avevo raccontato la mia storia, e quella di Blackwell, fino ad avere la gola asciutta. Se avevo dei dubbi sulla sincerità del colonnello, cercai di respingerli: ero stanco morto e non vedevo l'ora di mettere la parola fine a quella faccenda. I poliziotti avevano portato via il cadavere del colonnello; poi, insieme avevamo cercato quello di Harriet, in casa e nelle vicinanze, su e giù per la spiaggia. Eravamo andati a Malibu a esaminare la sua macchina, ma inutilmente. — Si ritiene che Harriet sia stata gettata in mare — dissi a Isobel. — Vostro marito avrà pensato di disfarsi del suo corpo come del soprabito. E, come il soprabito, probabilmente alla prima forte marea tornerà a terra. Eravamo in salotto, in penombra, con le tende tirate e le luci spente. Forse Isobel non voleva che vedessi la sua faccia; o forse non voleva vedere la mia, temendo che fossi mostruoso come le cose che dovevo dire. — Mi dispiace, signora Blackwell, ma ho pensato che avreste preferito saperlo da me piuttosto che dalla polizia o dai giornali. — Sarà sui giornali? — Sì. Ma non è detto che dobbiate leggerli. Appena sarete in grado, dovreste fare un viaggio, distrarvi. — Anche a me stesso quel consiglio pareva sciocco. Isobel se ne stava immobile. — Come ha potuto uccidere Harriet? — sussurrò incredula. — L'amava tanto. — L'amava in modo malsano.
Scosse la testa, lentamente. — Posso capire che abbia ucciso Dolly, perché la considerava una minaccia. Anche Ralph Simpson lo minacciava, e lo stesso Ronald può esser stato considerato pericoloso. Ma Harriet era sua figlia. — Harriet sapeva dei suoi rapporti con Dolly? — Temo di sì. Mark aveva l'orribile abitudine di confessarsi con gli altri. La primavera scorsa deve essersi confidato con lei, almeno in parte. Forse avrà pensato che la cosa avrebbe potuto venire a galla, e che era meglio preparare Harriet. Ma non ottenne il risultato sperato. — Come lo sapete? — Harriet venne da me. Disse che doveva parlare con qualcuno. Era sconvolta: non l'avevo mai vista in quelle condizioni. Sembrava addirittura una bimbetta tremante. Ho pensato che non fosse opportuno incoraggiarla a lasciarsi andare in quel modo: le ho detto che doveva sopportare la situazione, dato che la sopportavo anch'io. — E lei? — Si alzò e lasciò la stanza. Non ne abbiamo mai più parlato. Ma certo Mark aveva sbagliato a confessarsi con Harriet: non aveva fatto che rendere peggiori i rapporti fra noi tre. — Quando è accaduto, tutto questo? — Verso marzo o aprile. Mark era preoccupato per la nascita del bambino, immagino, e pensò bene di parlarne con Harriet. Quanto a lei, capisco la sua reazione: deve aver pensato che Dolly l'avesse sostituita nel cuore di suo padre. Un paio di mesi dopo, lei stessa s'è attaccata al vedovo di Dolly. Credete che sapesse quel che faceva? — Sì — dissi — e anche Campion sapeva quel che faceva, ma nessuno dei due l'ha detto all'altro. Io credo che Campion si sia messo con Harriet, nel Messico, proprio perché era la figlia di Mark. Sospettava che Mark avesse ucciso sua moglie, e ha allacciato una relazione con Harriet per poterlo avvicinare. Certamente non avrebbe lasciato il Messico, con un mandato di cattura spiccato a suo nome, se non avesse sperato di potersi scagionare. — Ma perché non ha mai detto nulla? — Ha detto qualcosa, lunedì nel pomeriggio, quando vostro marito gli ha puntato contro il fucile. Ma io non ho afferrato il messaggio. Da allora, non ha più parlato perché sapeva che non sarebbe stato creduto. Campion è un giovanotto strano, che odia l'autorità costituita e ha un certo suo orgoglio. Ma ora parlerà e quando lo farà voglio esserci. Se credete potrete
rimborsarmi le spese e gli onorari. — Lo farò con piacere. — Siete una donna generosa. Dopo tutto quello che ho dovuto dirvi la scorsa notte... M'interruppe con un gesto. — Mi avete aiutato, signor Archer. Siete stato anche crudele, ma in realtà mi avete preparato... a questo. Cosa avrà da dire, Campion, secondo voi? — Probabilmente ha commesso l'errore di parlare con Harriet, alla villa, accusando Mark dell'assassinio di Dolly. La ragazza non l'ha sopportato. Ha visto distrutta in un attimo l'immagine del padre. Deve esser stato un colpo anche il sapere che Campion non aveva fatto che servirsi di lei, che l'aveva avvicinata solo a causa della moglie morta. Avranno litigato violentemente. Campion è stato graffiato in viso, Harriet è stata colpita alla testa, e non so come il suo cappellino sia finito nel lago. Non doveva star male, perché ha avuto la forza di guidare fino a Malibu... ma questo, Campion non lo sa. A giudicare dal suo atteggiamento dell'altra sera, deve aver temuto di averla uccisa, o ferita gravemente. — Harriet è andata in macchina da Tahoe a Malibu? — A quanto pare. Ci ha impiegato più di ventiquattr'ore. Forse, strada facendo, si sarà fatta curare la ferita alla testa. Ha raggiunto la casetta sulla spiaggia ieri mattina e ha telefonato a suo padre: forse, per telefono l'avrà accusato di omicidio, o gli avrà chiesto di scagionarsi. Il colonnello vi ha lasciato un biglietto per mettervi su una falsa strada, è andato alla casetta e l'ha uccisa. Ha portato il cadavere fino al mare e l'ha abbandonato alla marea. "Ma aveva ucciso sua figlia; il sangue versato era quello di Harriet. Paralizzato dall'orrore, non ha saputo risolversi a cancellare le tracce del suo ultimo delitto. È rimasto in quella stanza tutto il giorno e tutta la notte, incapace anche di uccidersi. Forse, prima di farlo voleva parlare con qualcuno. Sono arrivato io." — Sono contenta che siate arrivato voi, signor Archer. E sono contenta che Mark non vi abbia fatto del male. Isobel si alzò dalle rovine della sua vita e mi porse la mano. Dissi che sarei tornato a visitarla. Non tentò di dissuadermi, nemmeno con un moto del capo. 30
Campion era stato trasferito nelle prigioni di San Mateo, ma continuava a non voler parlare. Dopo qualche scambio d'idee col capitano Royal e col suo capo e qualche telefonata a Los Angeles ebbi il permesso d'interrogarlo da solo. Royal lo condusse nel locale degli interrogatori e ci lasciò soli, chiudendosi alle spalle la porta d'acciaio, blindata. Campion era rimasto in piedi: non salutò e non fece nessun cenno. Le nottate cattive avevano lasciato tracce d'incubo sul suo viso: mi guardò come se potessi aggredirlo da un momento all'altro. — Come state, Campion? Sedetevi. — È un ordine? — È un invito — dissi, conciliante. — Mark Blackwell ha confessato di avere ucciso vostra moglie: ve l'ha detto il capitano Royal? — Me l'ha detto, ma ormai è tardi: vi denunzierò per arresto ingiustificato. — Non mi pare una buona idea: siete sempre vulnerabile. — Quando mi lasceranno uscire? Ho da lavorare. — Prima dovete parlare. Se foste stato sincero con la polizia non sareste qui. — Figuriamoci! Conosco i poliziotti: mettono dentro i pesci piccoli e lasciano fuori quelli grossi. — Sedette dietro il tavolo di metallo, con aria risentita. Sedetti anch'io. — Sentite, Campion, malgrado tutto vi considero un uomo serio. Avete passato dei brutti momenti, me ne rendo conto, ma avreste potuto risparmiarveli se aveste avuto un po' di fiducia nel prossimo. — Di chi avrei potuto fidarmi? — Di me, per esempio. E anche di Royal: non è un poliziotto cattivo. Perché non ci avete detto la verità, avant'ieri notte? Ci avete lasciato credere che Harriet fosse morta e che l'aveste affogata. — Anche se avessi detto il contrario, non mi avreste dato retta. — Ma non ce ne avete dato nessuna possibilità. E nemmeno ad Harriet: forse avreste potuto salvarla. Batté il pugno destro sul tavolo. — Ho tentato. Ho tentato di trattenerla: ma non so nuotare bene. Nel buio, l'ho perduta di vista. — Sembra che stiamo parlando di due cose diverse: quando l'avete perduta di vista? — Quella sera, al lago. Era martedì, mi sembra. Quando le ho detto che sospettavo che suo padre avesse ucciso Dolly, è diventata come pazza. Mi
ha aggredito, ho dovuto colpirla per difendermi dalle sue unghiate. È stata una brutta scena ed è diventata anche peggiore quando a un tratto è corsa fuori e si è buttata nel lago. Mi sono tuffato anch'io, ma ormai era scomparsa. Allora ho perso la testa. — È andata proprio così? Mi piantò gli occhi negli occhi. — Lo giuro. Non l'ho detto né a voi né a Royal perché temevo che l'avreste presa per una confessione di colpa. — Si guardò il pugno e l'aperse lentamente. — Anche adesso, non posso provare di non aver ucciso Harriet e di non averla gettata nel lago. — Non dovete provarlo: non è annegata a Tahoe. Se quella notte aveva intenzione di uccidersi, poi ha cambiato idea. Evidentemente, quando ve ne siete andato è uscita dall'acqua. — Allora è viva! — È morta, ma non siete stato voi a ucciderla: è stato suo padre. L'ha confessato, insieme agli altri suoi delitti, prima di spararsi un colpo di pistola. — Dio mio! Perché l'ha fatto? — Dio solo lo sa. Probabilmente Harriet l'avrà accusato di avere ucciso Dolly. Varie emozioni si alternavano sul viso di Campion: incredulità, sollievo, rimorso. Cercò di cancellarle passandovi la mano. — Non avrei mai dovuto dire ad Harriet di suo padre — mormorò. — E ora capisco che avrei dovuto essere sincero con voi. Ma credevo che lavoraste per Blackwell, che voleste difenderlo a ogni costo. — Ci sbagliavamo tutt'e due, sul conto l'uno dell'altro. Volete dirmi anche le altre cose che non so? — Giacché ci sono... — In Corea avete avuto un guaio — cominciai. — Che cosa è stato? — È avvenuto dopo la guerra. Eravamo in Giappone, e aspettavamo che ci trasportassero in patria. — Campion fece un gesto impaziente. — Per dirla in breve, ho picchiato un ufficiale: era un colonnello. Mi aveva visto dipingere, e pretendeva che gli facessi il ritratto. Siccome rifiutavo, ha cominciato a minacciarmi. Una volta gli sono saltato addosso. Ho dovuto scontare un anno; però non gli ho fatto il ritratto — concluse Campion con amara soddisfazione. — Odiare è una cosa che vi riesce bene. Si può sapere che cosa amate, al mondo? — La vita della fantasia: è l'unica, per me. Quando cerco di fare qualco-
sa di reale guasto tutto. Per esempio, non avrei mai dovuto sposare Dolly. — Perché l'avete fatto? — Non è facile spiegarlo: me lo sono chiesto più volte anch'io, da quando mi trovo in questo pasticcio. La cosa principale naturalmente è stata il denaro: sarei un ipocrita se lo negassi. Dolly aveva un po' di quattrini, una specie di dote: io volevo preparare una serie di quadri per una mostra e per farlo avevo bisogno di fondi. Si ha sempre bisogno di fondi, non so come sia. Così, abbiamo concluso un patto. — Sapevate che aspettava un bambino? — Era uno dei motivi che m'induceva a sposarla. — Per lo più, gli uomini pensano l'opposto. — Io no. Mi piaceva l'idea di avere un bambino, ma non volevo essere il padre di qualcuno. Non m'importava chi potesse essere il padre, purché non si trattasse di me. Vi sembra assurdo? Dipenderà dal fatto che il mio genitore se l'è battuta e ci ha lasciati soli quando io avevo quattro anni. — C'era un antico risentimento nella voce di Campion. Si schiarì la gola. — Sentiamo la prossima domanda. — Per tornare a Dolly... non capisco quali fossero i vostri sentimenti per lei. — Non li capivo nemmeno io. Ho cominciato ad averne compassione. Ho sperato che la compassione diventasse qualcosa di più... è il mio solito sogno. — Bruce fece una smorfia d'auto-compatimento. — Invece niente: conoscete la pietà che raggela? Strano a dirsi, non mi sono mai comportato da marito, con Dolly. Però mi piaceva dipingerla. È il mio modo di amare la gente. Per il resto non valgo molto. — Ritenevo che foste un dongiovanni. Arrossì. — Ho fatto anch'io la mia parte, con le donne. Ma in vita mia ho voluto bene a una sola. E non è durato: ero troppo confuso. — Come si chiamava? — Che importanza ha? Si chiamava Anne. — Anne Castle. Mi guardò stupefatto. — Come lo sapete? — Me l'ha detto lei. Duo o tre giorni fa sono stato ad Ajijic: mi ha parlato di voi con grande affetto. — Be' — osservò — è una cosa che fa bene, tanto per cambiare. Come sta, Anne? — Probabilmente starebbe bene se non fosse tanto preoccupata per voi: la vostra partenza con Harriet le ha spezzato il cuore. Il meno che possiate
fare è scriverle. Rimase in silenzio per un po': forse componeva tra sé la lettera. A giudicare dall'espressione assorta, non gli riusciva facile. — Se Anne contava tanto, per voi, perché vi siete messo con Harriet? — chiesi. — Non ho conosciuto Harriet nel Messico, come a quanto pare voi credete. L'ho conosciuta in casa mia, a Luna Bay, parecchie settimane prima. Era venuta a vedere Dolly e il bambino: lei e Dolly erano vecchie amiche. Ma quel pomeriggio Dolly non c'era: aveva portato il bambino alla visita di controllo mensile. Harriet rimase a guardarmi dipingere: era lei stessa una dilettante e il mio lavoro l'interessava: era una ragazza che si eccitava facilmente. — E allora? Campion mi guardò a disagio. — Non potevo evitare di pensare a tutto quello che avrebbe potuto fare per me, con un po' d'incoraggiamento. Come al solito, ero a corto di quattrini ed era chiaro che lei era ricca. Dissi a me stesso che sarebbe stato piacevole avere una mecenate. Avrei potuto smettere di preoccuparmi per la bolletta della luce e dedicarmi interamente al mio lavoro. Prima che Dolly tornasse col piccolo, le fissai un appuntamento. Ci trovammo quella sera stessa e poco dopo diventammo amanti. "Non sapevo a che cosa andavo incontro. Harriet si comportava come se non fosse mai stata con altri uomini. L'intensità del suo amore mi faceva paura. Veniva da Tahoe un paio di volte la settimana e frequentava i motel. Avrei dovuto avere il buon senso di mettere fine a quella situazione. Sentivo che sarebbe successo qualcosa." — Che cosa? — Non so. Ma Harriet era troppo seria e appassionata. Non avrei dovuto ingannarla. — Sospettavate che il padre del bambino fosse Blackwell? Esitò. — Forse sì, più o meno inconsapevolmente. Harriet disse qualcosa, una volta che teneva il bimbo in braccio. Lo chiamò fratellino: ma io non mi resi conto del significato di quella parola, pensai che fosse un vezzeggiativo. — Dolly non ve lo disse mai? — No: non ne parlavamo. Non m'interessava sapere chi fosse il padre del piccolo: sentivo che se fosse rimasto anonimo l'avrei amato di più. Ma mettendomi con Harriet ho rovinato tutto: avrei dovuto restare a casa a proteggere Dolly e il bimbo.
Campion parlava a voce bassa. Si alzò e si batté il pugno destro sul palmo della mano sinistra. Così, stringendo assieme le due mani, andò alla finestra. — La notte in cui Dolly fu uccisa ero con Harriet — disse, senza voltarsi. — Al motel I Viaggiatori? — Sì. Quella sera scoppiò fra noi un alterco e a metà della nottata Harriet ripartì per il lago Tahoe. Io rimasi al motel e mi ubriacai. Mi aveva portato una bottiglia di whisky di suo padre. — E il motivo dell'alterco? — Voleva che divorziassi a Reno per sposarla. Non vi nascondo che ero tentato di farlo. Ma quando fu il momento mi avvidi che non potevo: non amavo Harriet, non amavo nemmeno Dolly, ma avevo fatto un patto con lei, avevo promesso di dare il mio nome a suo figlio, e continuavo a sperare che avrei imparato ad amare quel piccino. Ma era già troppo tardi: quando mi ripresi dalla sbornia e fui in grado di tornare a casa, Dolly era morta, il bambino era scomparso e mi aspettavano i poliziotti. — Perché non avete detto subito dove avevate trascorso la notte? Era un alibi. — Non sembrava che ce ne sarebbe stato bisogno: mi interrogarono e mi lasciarono andare. Appena libero mi misi in contatto con Harriet, che era a Tahoe: disse che per nessun motivo avrei dovuto accennare a lei o alla sua famiglia. Naturalmente lo faceva per proteggere suo padre, ma non lo disse. Mi convinse che avrei fatto bene a nascondermi e passai un paio di brutte settimane nella loro casa al mare. Volevo andare in Messico e Ralph mi prestò il suo certificato di nascita: ma non avevo denaro. "Alla fine Harriet mi diede la somma necessaria per il viaggio: disse che mi avrebbe raggiunto laggiù e che avremmo finto di non conoscerci, per poi riprendere la nostra relazione. Avremmo potuto restare nel Messico o addentrarci nel Sud America. Forse avrà visto la possibilità di legarmi a sé per tutta la vita. E io fui tentato di nuovo: sono un individuo ambivalente." — Mi chiedo quali fossero i motivi di Harriet: avete detto che forse voleva proteggere suo padre: sapeva, allora, che aveva ucciso Dolly? — Credo di no. — Bruce s'era voltato e si toccava piano i graffi che aveva sul volto. — Pensate alla reazione che ha avuto l'altra sera, quando le ho parlato dei miei sospetti. — Quando avete cominciato ad averli? — Sono nati lentamente. Simpson aveva fatto il nome di Blackwell pri-
ma che io lasciassi Luna Bay. L'estate scorsa aveva visto Dolly con lui. A Ralph piaceva atteggiarsi a investigatore e s'interessò molto del bottone di pelle trovato sul luogo del delitto. Ne parlarono anche alla polizia: voi ne sapete qualcosa? — Fin troppo. — Gli riassunsi la storia del soprabito vagante. — Dunque è stato Blackwell a uccidere Ralph. Povero Ralph. — Campion si lasciò cadere su una sedia e per un po' rimase in silenzio, fissando un punto davanti a sé. — Non avrebbe dovuto immischiarsi con me: io sono un portatore di peste, moralmente parlando. — È un'idea — commentai. — Ma mi stavate dicendo dei vostri sospetti sul conto di Blackwell. Non parlò subito. — È stato Ralph che mi ha fatto pensare a lui, in un primo tempo. Poi cominciai a mettere in rapporto frasi, accenni, avvenimenti. Infine fu l'interessamento di Harriet per il bambino e il fatto che l'avesse chiamato "fratellino". Nello stesso periodo Dolly cominciò a ricevere del denaro: io non capivo i rapporti esistenti fra Dolly e Harriet. In superficie, parevano amiche: ma c'era molta ostilità fra loro. — Era naturale, se Dolly sapeva della vostra relazione con Harriet. — Non lo sapeva: comunque i loro rapporti sono sempre stati i medesimi, fin dal primo giorno in cui Harriet venne a casa nostra. Si trattavano come due sorelle che si odiano ma non vogliono ammetterlo. Ora ne capisco il motivo: Harriet sapeva dell'intimità esistente fra Dolly e suo padre, e Dolly sapeva che lei sapeva. — Ma non mi avete ancora detto come l'avete sospettato voi. — Ebbi un'intuizione nel Messico, dopo l'arrivo di Harriet. Eravamo nel mio studio e non so come cominciammo a parlare della villa di suo padre a Tahoe. — Campion voltò la testa di lato come se udisse una voce lontana. — Per quanto fossi ricercato dalla polizia, voleva che la sposassi. Fantasticava di tornare negli Stati Uniti, dove avremmo potuto vivere felici nella sua villa. Cominciò a descriverla, quasi liricamente: cosa strana, mi resi conto di aver già sentito quella descrizione. — Da Harriet? — Da Dolly. Dolly soleva parlarmi della buona vecchia signora che le aveva fatto tante gentilezze l'estate precedente; mi aveva descritto minuziosamente la sua casa... il soffitto a travi, la vista del lago, l'arredamento dei locali. Improvvisamente capii che era la casa di Blackwell, che Blackwell era "la buona vecchia signora" e probabilmente anche il padre del bambino. Non fiatai, ma decisi di tornare negli Stati Uniti con Harriet. Vo-
levo saperne di più sul conto della buona vecchia. Ci sono riuscito. 31 Scendendo dal tassì all'aeroporto di San Francisco vidi una donna che mi pareva vagamente di conoscere ferma davanti al terminal, con una valigia. Indossava un abito a giacca un po' fuori moda e un berretto: era Anne Castle. — Signor Archer! — fece, scorgendomi. — Volevo cercarvi ed eccovi qui. Non mi avrete seguito da Los Angeles? — Potrei pensare la stessa cosa di voi. Siamo qui per lo stesso motivo, credo: Bruce Campion, alias Burke Damis. Annuì gravemente. — Ieri ho sentito un annuncio che lo riguardava, diffuso dalla radio di Guadalajara: ho lasciato tutto e sono partita. Voglio aiutarlo anche se ha ucciso sua moglie: devono pur esserci delle circostanze attenuanti. Il suo sguardo era franco e deciso: sentii d'invidiare Campion. — Il vostro amico è innocente: sua moglie è stata uccisa da un altro. — No! — Sì. Gli occhi le si riempirono di lagrime, ma sorrideva. La condussi al bar dell'aeroporto e in breve la misi al corrente di quel che sapevo. Le dissi tutto con sincerità, senza cercare di difendere Campion. Mentre parlavo dei progetti del pittore di sposare Harriet per il denaro e del fatto che era in parte responsabile della sua fine, Anne m'interruppe posandomi una mano sul braccio. — Iersera ho visto Harriet: non è morta. Suo padre non ha detto la verità: o forse non era in sé. Ne sono sicura. — Dove l'avete vista? — All'aeroporto di Guadalajara, quando sono andata a prenotare il mio posto. Potevano essere le nove e mezzo. Aspettava che le consegnassero la valigia: evidentemente era appena arrivata con l'aereo da Los Angeles. — Le avete parlato? — Ho cercato: ma non mi ha riconosciuto, o ha finto di non riconoscermi. Ha voltato le spalle ed è corsa verso il tassì. Non l'ho seguita. — Come mai? — Sentivo di non averne il diritto — rispose Anne, convinta. — E, a dir la verità, ero anche un po' spaventata. Aveva un'espressione terribile.
32 La trovai il lunedì pomeriggio in un villaggio del Michoacàn, dal nome azteco. Anche la chiesa aveva delle figure azteche scolpite nella pietra. Era inginocchiata per terra davanti all'altare, con un rebozo nero sulla testa, e fissava le immagini dei santi. Quando pronunziai il suo nome, balzò in piedi. — Vi ricordate di me, signorina Blackwell? — Sì. Chi vi ha detto...? — Ho saputo dal posadero che siete stata qui tutto il giorno. — Non dico questo. — Fece un gesto impaziente. — Chi vi ha detto che ero nel Messico? — Vi hanno visto... altri americani. — Non vi credo. Vi ha mandato mio padre perché vuole che torni, vero? Aveva promesso che non l'avrebbe fatto. Ma non mantiene mai le sue promesse, lui. — Questa promessa ha cercato di mantenerla, Harriet. Vostro padre è morto: s'è ucciso venerdì mattina. — Non è vero! Non può essere vero! Si coprì il viso con le mani e scorsi i cerotti color carne che le bendavano i polsi. — Io ero presente. Prima di uccidersi ha confessato di aver ucciso Ralph Simpson e Dolly. Ha detto di avere ucciso anche voi. Perché può averlo fatto? Gli occhi di Harriet brillavano come pietre bagnate, fra le dita. — Non lo so. — Io sì. Sapeva che eravate stata voi a commettere quei due delitti: ha cercato di assumersene la responsabilità perché non foste punita. Poi si è chiuso per sempre la bocca: a ogni modo non credo che volesse continuare a vivere. La morte di Ronald Jaimet può essere stata qualcosa di meno d'un omicidio, ma certo di più d'un incidente. E deve essersi reso conto che era stata la sua relazione con Dolly a provocare indirettamente il suo assassinio e quello di Simpson. Non aveva altra prospettiva che il vostro processo e la fine del nome dei Blackwell. Quella che ora attende voi. Staccò le mani dal viso. Aveva lo sguardo fisso, gli occhi vitrei. — Odio il nome dei Blackwell. Anch'io ho fatto del mio meglio per troncare questa mia cosiddetta vita. Ma la prima volta l'acqua era troppo
gelida. La seconda, mio padre ha sfondato la porta del bagno e mi ha fermato. Ha bendato i miei polsi e mi ha mandato qui. Ha detto che mia madre mi avrebbe accolto. Ma quando sono andata a casa sua ad Ajijic, lei non ha voluto nemmeno uscire per parlarmi. Ha mandato Keith al cancello, a dirmi che era andata via e aveva portato con sé il denaro. — Keith Hatchen ha detto la verità. Vostra madre era corsa in California per aiutarvi. Aspetta a Los Angeles: le ho parlato io stesso. — Non è vero. — La pena le salì per la gola, tempestosamente. — Siete tutti bugiardi e traditori. Tutti mi hanno tradito, compreso mio padre. — Vostro padre ha fatto del suo meglio per difendervi, Harriet: vi voleva molto bene. — E allora perché mi ha tradito con Dolly Stone? — Harriet aveva alzato l'indice come un giudice accusatore. — È stata lei ad aizzarlo contro di me, quando eravamo ancora bambine. Io non ero tanto piccola, ma lei sì. Era bella, come una bambola. Una volta mio padre le comperò una bambola grande come lei. Ne comperò una anche a me: ma io non la volevo: ero troppo grande per le bambole. Io volevo mio padre. — La voce di Harriet era divenuta quasi un piagnucolio infantile. — Prima mi ha rubato il padre, poi il marito. — Credevo che fosse il marito di Dolly, Bruce! Scosse il capo. — Non era un vero matrimonio. L'ho capito subito, fin dal primo giorno. — Perché eravate andata da loro? — Me l'aveva chiesto mio padre: aveva paura di andare lui stesso ma pensava che nessuno avrebbe potuto trovar da ridire se fossi andata io e se avessi dato a Dolly del denaro. Comunque, dovevo vedere il bambino: il mio fratellino. Speravo che vedendolo qualcosa sarebbe cambiato in me: quando mio padre me ne aveva parlato ero rimasta così... scossa. E là c'era Bruce: m'innamorai subito di lui. Anche lui s'innamorò: cambiò soltanto in seguito. — Come mai cambiò? — Fu lei, con i suoi trucchi e i suoi stratagemmi. Bruce cambiò tutt'a un tratto, una notte. Eravamo in un motel, dall'altra parte della Baia. Lui beveva il whisky di mio padre e disse che non avrebbe lasciato Dolly perché aveva fatto un patto e non poteva romperlo. Così, lo ruppi io per lui. Alzò i pugni, li avvicinò e ruppe qualcosa d'invisibile. Poi lasciò ricadere le braccia. I suoi occhi s'incupirono. — Dopo averla uccisa portai via il denaro: avevo visto dove lo nascondeva, sotto il materasso della culla. Do-
vetti smuoverlo e il bambino cominciò a piangere. Lo presi in braccio per calmarlo e d'improvviso sentii l'impulso prepotente di portarlo fuori e di fuggire con lui. Imboccai la strada, ma mi sentii prendere dal panico. Era così buio che quasi non potevo muovermi: lo misi in un'automobile, perché nessuno potesse fargli del male. — Nemmeno voi? — Nemmeno io. Sono contenta che almeno il mio fratellino sia salvo. — Era come una domanda. — Sì, è salvo. L'ho visto l'altro giorno a Citrus Junction, in casa di sua nonna. — Anch'io volevo andare a vederlo — riprese — la notte che uccisi Ralph Simpson. È strano come certe cose c'inseguano. Lo sentii piangere, in casa di Elizabeth Stone. Avevo già alzato la mano per bussare alla porta, ma a un tratto mi sono vista com'ero: una orribile donna che aveva in macchina un cadavere. — Ralph Simpson. — Sì. Quella sera era venuto a casa mia per parlare con mio padre: io avevo riconosciuto il soprabito che aveva con sé e lo bloccai. Acconsentì a fare un giro in macchina con me, per discutere. Gli dissi che Bruce era nascosto nella casetta sulla spiaggia e lo condussi lì. Lo pugnalai con il punteruolo da ghiaccio che gli Stone avevano regalato a mio padre. Volevo gettare il suo corpo in mare, ma poi cambiai idea: temevo che Bruce venisse a sapere tutto. Gettai in acqua solo il soprabito e andai a Citrus Junction. — Perché avete scelto la casa di Isobel per seppellirlo? — Era un buon posto: sapevo che non c'era nessuno. — Gli occhi di Harriet, l'intero viso, parvero cercare disperatamente un motivo. — E poi, tutto restava in famiglia. — Volevate che la colpa ricadesse su Isobel? — Forse. Non so. Non sempre so perché faccio le cose, specialmente la sera. Sento di doverle fare, e le faccio. — È per questo che indossavate il soprabito di vostro padre la sera che avete ucciso Dolly? — Era in macchina, e avevo freddo. — Rabbrividì a quel ricordo. — Non l'ho fatto perché fosse incolpato lui. Amavo mio padre: ma lui non mi amava. — Vi amava al punto di morire, Harriet. Scosse il capo e cominciò a tremare, più forte. Le circondai le spalle col braccio e c'incamminammo verso la porta della chiesa.
Fuori, una mendicante ci tese la mano. Le diedi del denaro: ad Harriet non potevo dar nulla. Imboccammo la strada, asciutta come il letto d'un fiume in secca: era il crepuscolo. FINE