Isabel Allende Il Piano infinito (El plan infinito, 1991) Traduzione di Edda Cicogna
Al mio compagno, William C. Gordon...
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Isabel Allende Il Piano infinito (El plan infinito, 1991) Traduzione di Edda Cicogna
Al mio compagno, William C. Gordon, e alle altre persone che mi hanno confidato i segreti delle loro vite. Anche a mia madre per il suo affetto incondizionato e l'implacabile matita rossa con cui mi ha aiutata a correggere questa storia. I.A.
Grazie alla vita, che mi ha dato tanto, mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto... VIOLETA PARRA, Cile.
Sono solo sulla sommità della montagna all'alba. Nella nebbia lattiginosa scorgo ai miei piedi i corpi degli amici, alcuni sono rotolati lungo il declivio come rossi fantocci smembrati, altri sono pallide statue sorprese dall'eternità della morte. Ombre misteriose si inerpicano verso di me. Silenzio. Aspetto. Si avvicinano. Sparo contro le oscure sagome in pigiami neri, fantasmi senza volto, sento il rinculo della mitragliatrice, la tensione arde le mie mani, incrociano l'aria le scie incandescenti delle vampe, ma non un solo suono. I nemici si sono fatti trasparenti, le pallottole li attraversano senza fermarli, continuano ad avanzare implacabilmente. Mi circondano... silenzio... Il mio grido mi risveglia e continuo a gridare, gridare... Gregory Reeves.
PRIMA PARTE
Andavano per le vie dell'ovest senza fretta e senza meta precisa, mutando rotta secondo il capriccio di un istante, al segnale premonitore di uno stormo d'uccelli, alla tentazione di un nome ignoto. I Reeves interrompevano il loro erratico peregrinare ove li cogliesse la stanchezza o incontrassero qualcuno disposto ad acquistare la loro impalpabile mercanzia. Vendevano speranza. Così percorsero il deserto nell'una e nell'altra direzione, valicarono le montagne e una mattina videro apparire il giorno su una spiaggia del Pacifico. Più di quarant'anni dopo, nella lunga confessione in cui passò in rassegna la propria esistenza e tirò le somme dei suoi errori e successi, Gregory Reeves rievocò per me il suo ricordo più antico: un bimbo di quattro anni, lui stesso, che fa la pipì su una collina al tramonto, l'orizzonte tinto di rosso e ambra dagli ultimi raggi del sole, alle spalle le sommità dei monti e giù in basso una vasta piana dove il suo sguardo si perde. Il liquido caldo sgorga come un'essenza del suo corpo e del suo spirito, ogni goccia, immergendosi nella terra, marca il territorio con il suo segno. Il bimbo prolunga il piacere, gioca con lo zampillo, tracciando un cerchio color topazio nella polvere, assorbe l'intatta pace della sera, lo compenetra l'immensità del mondo con un sentimento di euforia, perché lui è parte di quel paesaggio nitido e colmo di meraviglie, incommensurabile geografia tutta da esplorare. A breve distanza la famiglia lo attende. Si sente bene, per la prima volta ha coscienza della felicità: è un momento che non dimenticherà mai. Lungo il corso della sua vita, Gregory Reeves provò in momenti diversi quella folgorazione davanti alle sorprese del mondo, quella sensazione di appartenere a un luogo splendido dove tutto è possibile e dove ogni cosa, dalla più sublime alla più orrenda, ha la propria ragione d'essere, nulla accade per caso, nulla è inutile, come predicava a gran voce suo padre, arso da fervore messianico, con un serpente acciambellato ai suoi piedi. E ogni volta che provava quella scintilla di consapevolezza, ricordava il tramonto sulla collina. La sua infanzia era stata un'epoca troppo lunga di confusione e penombra, tranne quegli anni di vagabondaggio con la famiglia. Suo padre, Charles Reeves, guidava la piccola tribù con severità e norme precise, tutti uniti, ciascuno impegnato nei propri compiti, premio e castigo, causa ed effetto,
disciplina basata su una scala immutabile di valori. Il padre vegliava come l'occhio di Dio. I viaggi determinavano la sorte dei Reeves senza alterarne la stabilità, perché consuetudini e norme erano precise. Fu quello il solo periodo in cui Gregory si sentì sicuro. La rabbia iniziò più tardi, quando scomparve il padre e la realtà cominciò a deteriorarsi in maniera irreparabile. Il soldato si mise in marcia la mattina col suo zaino in spalla e a metà pomeriggio si era già pentito di non aver preso l'autobus. Era partito fischiettando allegramente, ma col passare delle ore le ossa gli dolevano e i versi della canzone si intrecciavano alle parolacce. Era la prima licenza dopo un anno di servizio sul Pacifico e tornava al paese con una cicatrice nel ventre, segni di un attacco di malaria e povero come era sempre stato. Aveva appeso la camicia a un ramo per improvvisare un po' d'ombra, sudava, e la sua pelle aveva i riflessi di uno specchio oscuro. Pensava di sfruttare ogni istante di quelle due settimane di libertà, passare la notte giocando al biliardo con gli amici e ballando con le ragazze che avevano risposto alle sue lettere, dormire a sazietà, svegliarsi con l'aroma del caffè appena filtrato e delle frittate dolci di sua madre, l'unico piatto appetitoso della cucina di casa, tutto il resto sapeva di gomma bruciata, ma a chi poteva importare l'abilità culinaria della donna più bella nel raggio di cento miglia, una leggenda vivente dall'alta figura statuaria e gli occhi gialli da leopardo. Da molto tempo non passava anima viva in quel deserto, quando sentì alle spalle l'ansito di un motore e individuò da lontano la sagoma incerta di un camion che ondeggiava, nel riverbero luminoso, come un faticoso miraggio. Aspettò che si avvicinasse per chiedere un passaggio, ma quando fu più vicino cambiò idea, spaventato da quella inusitata apparizione, un rottame dipinto a colori sfacciati carico all'inverosimile di una montagna di fagotti, sormontato da una gabbia di polli, con un cane legato a una corda, e sul tetto un megafono e un cartello su cui si leggeva a lettere cubitali: "Il Piano infinito". Si fece da parte per lasciarlo passare, vide che si fermava pochi metri più avanti e al finestrino si affacciò una donna dai capelli color pomodoro che gli fece cenno di salire. Non sapeva se rallegrarsi, si avvicinò esitante, calcolando che sarebbe stato impossibile entrare nella cabina dove viaggiavano pigiati tre adulti e due bambini, e che sarebbe stata necessaria una abilità da acrobati per inerpicarsi sulla parte posteriore. La portiera si aprì e il conducente saltò a terra. "Charles Reeves," si presentò cortese ma con inequivocabile autorità. "Benedict... signore... King Benedict," replicò il giovane asciugandosi la
fronte. "Siamo un po' stretti, come vede, ma dove si sta in cinque si sta anche in sei." Anche gli altri passeggeri scesero; la donna dalla zazzera rossa si avviò verso alcuni arbusti seguita da una bimbetta sui sei anni che, per guadagnare tempo, si stava già abbassando le mutande, mentre il bimbo più piccolo faceva boccacce allo sconosciuto, mezzo nascosto dietro l'altra viaggiatrice. Charles Reeves staccò una scala dalla fiancata del camion, salì agilmente sopra il carico e sciolse il cane, che saltò giù con un balzo temerario e si mise a correre intorno annusando i cespugli. "Ai bambini piace viaggiare dietro, però è pericoloso, non devono stare soli. Lei e Olga li sorveglierete. Sistemeremo Oliver davanti in modo che non le dia fastidio, è ancora un cucciolo, ma è già viziato come un animale adulto," decise Charles Reeves, facendogli cenno di salire. Il soldato lanciò lo zaino sulla montagna di fagotti e si arrampicò, poi tese le braccia per prendere il bambino più piccolo che Reeves aveva sollevato sopra la testa, un bimbo magro dalle orecchie a sventola e un irresistibile sorriso che gli riempiva la faccia di denti. La donna e la bambina, di ritorno, salirono anch'esse dietro, gli altri due entrarono nella cabina e poco dopo il camion si mise in marcia. "Io mi chiamo Olga e questi sono Judy e Gregory," si presentò la donna dalla chioma incredibile, riassettandosi la gonna mentre distribuiva mele e biscotti. "Non si sieda sopra quella cassa, c'è il boa e dobbiamo lasciar liberi i fori per l'aria," aggiunse. Il piccolo Gregory smise di mostrare la lingua non appena si rese conto che il viaggiatore tornava dalla guerra; un'espressione riverente rimpiazzò la smorfia beffarda e cominciò a interrogarlo sugli aerei da combattimento, finché la sonnolenza lo vinse. Il soldato provò a conversare con la donna dai capelli rossi, ma questa rispondeva a monosillabi e lui non osò insistere. Si mise a canterellare canzoni del suo paese, occhieggiando la cassa misteriosa, finché tutti gli altri non si addormentarono sulla pila dei fagotti, e poté allora osservarli a suo agio. I bambini avevano i capelli quasi bianchi e gli occhi così chiari che visti di profilo potevano sembrare ciechi, mentre la donna aveva il colorito olivastro di certe razze mediterranee. La blusa era sbottonata in alto, gocce di sudore le bagnavano la scollatura e scendevano come un lento filo lungo la fessura tra i seni. Aveva sollevato un braccio per appoggiare il capo su un cassone, scoprendo i peli scuri dell'ascella e una macchia umida sul tessuto. Distolse gli occhi, timoroso di essere sorpreso e che lei interpretasse male
la sua curiosità; fino ad allora quelle persone erano state gentili, troppo gentili, pensò, ma con i bianchi non si può mai essere sicuri. Dedusse che i piccoli erano figli dell'altra coppia, per quanto, a giudicare dall'età che i Reeves dimostravano, potevano anche esserne i nipoti. Passò in rivista il carico e giunse alla conclusione che la famiglia non stava traslocando, come aveva pensato in un primo tempo, ma che viaggiava nella propria dimora permanente. Osservò che portavano con sé un recipiente con una notevole riserva d'acqua e un altro con del combustibile e si chiese come potessero procurarsi la benzina, da tempo razionata a causa della guerra. Tutto era disposto con un ordine meticoloso, utensili e attrezzi pendevano da ganci e uncini, le valigie erano collocate in appositi compartimenti, non c'erano oggetti sparpagliati, ogni involto portava un'indicazione e c'erano diverse casse di libri. Ben presto il calore e il traballio della marcia lo sfinirono e si addormentò addossato alla gabbia dei polli. Si svegliò a pomeriggio avanzato, sentendo che si fermavano. Sulle sue ginocchia il corpo del bambino quasi non pesava, ma l'immobilità gli aveva intirizzito i muscoli e si sentiva la gola secca. Per alcuni istanti non capì dove si trovasse, portò una mano alla tasca dei calzoni in cerca della fiaschetta di whisky e ne bevve un lungo sorso per schiarirsi le idee. La donna e i bambini erano coperti di polvere e il sudore segnava righe scure lungo le guance e il collo. Charles Reeves aveva abbandonato la strada e ora si trovavano in una macchia di alberi, unica ombra in tanta desolazione; si sarebbero accampati lì per lasciar raffreddare il motore, però l'indomani potevano accompagnarlo a casa, spiegò al soldato che adesso si sentiva più tranquillo; quella strana famiglia cominciava a ispirargli simpatia. Reeves e Olga tirarono giù dal camion alcune casse e sistemarono due vecchie tende da campo, mentre l'altra donna, che si presentò come Nora Reeves, preparava la cena su una sgangherata cucina a kerosene aiutata dalla figlia Judy, e il ragazzo cercava legna per il fuoco, con il cane alle calcagna. "Andiamo a caccia di lepri, papà?" supplicò tirando il padre per i calzoni. "Oggi non abbiamo tempo, Greg," rispose Charles Reeves prendendo un pollo dalla gabbia e tirandogli il collo con un colpo deciso. "Carne non se ne trova. Conserviamo i polli per le occasioni speciali..." spiegò Nora, quasi scusandosi. "Oggi è un giorno speciale, mamma?" domandò Judy. "Sì, cara, il signor King Benedict è nostro ospite." All'imbrunire l'accampamento era pronto, il pollo bolliva nella pentola e ognuno era intento nelle proprie occupazioni alla luce della lampada a
petrolio e al calore del fuoco: Nora e i ragazzi facevano i compiti, Charles Reeves sfogliava una copia sgualcita del "National Geographic" e Olga infilava collane di perline colorate. "Servono per la buona sorte," spiegò all'ospite. "E anche per l'invisibilità," disse la bambina. "Come?" "Se le capita di diventare invisibile, si mette una di queste collane così tutti potranno vederla," spiegò Judy. "Non le dia retta, sono storie da bambini," rise Nora Reeves. "È la verità, mamma!" "Non contraddire tua madre," la interruppe seccamente Charles Reeves. Le donne sistemarono la tavola, un'asse coperta da una tovaglia, piatti di maiolica, bicchieri di vetro e impeccabili tovaglioli. Quello sfoggio parve al soldato poco adatto a un accampamento, a casa sua si mangiava con stoviglie di latta, ma si astenne dal fare commenti. Tirò fuori dalla sacca della carne in scatola e timidamente la porse al suo anfitrione, non voleva dare l'impressione di pagare la cena, ma nello stesso tempo non voleva approfittare dell'ospitalità senza contribuire in qualche modo. Charles Reeves sistemò la carne al centro della tavola, assieme ai fagioli, al riso e al piatto con il pollo. Si presero per mano e il padre benedisse la terra che li ospitava e il cibo loro donato. Non si vedevano bevande alcoliche e l'ospite non si azzardò a tirar fuori la fiaschetta di whisky pensando che forse i Reeves erano astemi per motivi religiosi. Lo colpì il fatto che nella sua breve preghiera il padre non avesse nominato Dio. Osservò che mangiavano con delicatezza, tenendo le posate con la punta delle dita, ma nelle loro maniere non c'era nulla di pretenzioso. Dopo aver cenato riposero le stoviglie in una bacinella piena d'acqua per lavarle il giorno seguente, chiusero la cucina e diedero a Oliver gli avanzi della cena. Intanto si era fatta notte fonda, la fitta oscurità vinceva la luce delle lampade e la famiglia si sistemò attorno al fuoco che illuminava il centro dell'accampamento. Nora Reeves prese un libro e lesse ad alta voce un'intricata storia di egiziani che evidentemente i bambini già conoscevano, visto che Gregory la interruppe. "Non voglio che Aida muoia chiusa nella tomba, mamma." "È solo un'opera, figlio." "Non voglio che muoia!" "Stavolta non morirà, Greg," assicurò Olga. "Come lo sai?" "L'ho visto nella mia sfera."
"Sei sicura?" "Assolutamente sicura." Nora Reeves guardava il libro con aria costernata, come se cambiare il finale fosse per lei una difficoltà insormontabile. "Di che sfera si tratta?" chiese il soldato. "La sfera di cristallo dove Olga vede tutto quello che nessun altro può vedere," spiegò Judy col tono che si usa con un minorato. "Non tutto, solo alcune cose," chiarì Olga. "Può vedere il mio futuro?" chiese Benedict con tale ansia che anche Charles Reeves alzò lo sguardo dalla sua rivista. "Che cosa vuol sapere?" "Vivrò fino alla fine della guerra? Tornerò sano e salvo?" Olga si diresse al camion e tornò poco dopo con una sfera di vetro e uno stinto panno ricamato di velluto che collocò sul tavolo. L'uomo avvertì un brivido superstizioso e si chiese se fosse per caso capitato in una setta diabolica, di quelle che rapivano neonati per strappargli il cuore durante le loro messe sataniche, soprattutto bimbi neri, come affermavano le comari al suo paese. Judy e Gregory si avvicinarono curiosi, ma Nora e Charles tornarono alle loro letture. Olga fece cenno al soldato di sedersi di fronte a lei, circondò la sfera con le dita dalle unghie malamente dipinte, la scrutò a lungo, quindi prese le mani del suo cliente e con grande attenzione esaminò le palme chiare solcate da linee. "Lei vivrà due volte," disse infine. "Come due volte?" "Non so. Posso soltanto dirle che vivrà due volte, o due vite." "Allora non morirò in guerra." "Se muore, di sicuro resuscita," disse Judy. "Morirò o no?" "Suppongo di no," disse Olga. "Grazie, signora, grazie..." Il viso gli si illuminò, quasi lei gli avesse consegnato un certificato irrevocabile di permanenza nel mondo. "Andiamo, ormai è ora di dormire, domani partiremo presto," interruppe Charles Reeves. Olga aiutò i bambini a mettersi il pigiama e subito si ritirò con loro nella tenda più piccola, dove Oliver li seguì. Dopo un poco Nora Reeves si affacciò carponi al limitare della tenda per dare un'ultima occhiata ai figli prima di andarsene a letto. Steso accanto al fuoco, King Benedict ascoltò le loro voci. "Quell'uomo mi fa paura, mamma," sussurrò Judy.
"Perché, figlia mia?" "Perché è nero come una scarpa." "Non è il primo nero che vedi, Judy, lo sai che c'è gente di colore diverso ed è bene che sia così. Noi bianchi siamo una minoranza." "Io vedo più bianchi che neri, mamma." "Questo è solo un pezzo di mondo, Judy. In Africa ci sono più neri che bianchi. In Cina hanno la pelle gialla. Se noi vivessimo a sud del confine saremmo bestie rare, la gente per strada rimarrebbe sbalordita di fronte ai tuoi capelli così chiari." "Però quell'uomo mi fa paura." "La pelle non conta niente. Guardagli gli occhi. Sembra un uomo buono." "Ha gli occhi come Oliver," osservò Greg con uno sbadiglio. Verso la fine della Seconda Guerra Mondiale la vita era dura. Gli uomini partivano ancora per il fronte con un certo entusiasmo e spirito d'avventura, ma la propaganda patriottica non rendeva più sopportabile la solitudine delle donne, per loro l'Europa era un incubo remoto, erano stanche di lavorare per mantenere la famiglia, di dover allevare da sole i figli, e del razionamento. Non si vedeva prosperità e ancora si spostavano, lungo le grandi strade, contadini in cerca di nuove terre, la spazzatura bianca, come li chiamavano per distinguerli da altri poveri come loro, ma molto più disprezzati: i neri, gli indios e i braceros, i braccianti messicani. Benché gli unici beni terreni dei Reeves fossero il camion e il suo contenuto, godevano di una situazione migliore, apparivano meno rozzi e disperati, le loro mani erano prive di calli e la pelle, pur rovinata dalle intemperie, non era una suola secca come quella dei lavoratori dei campi. Quando attraversavano le frontiere di stato i poliziotti li trattavano senza alterigia, perché sapevano distinguere i sottili livelli della povertà e in quei viaggiatori non scorgevano traccia di miseria. Non li obbligavano a scaricare il camion e ad aprire i bagagli, come facevano con i contadini cacciati dalle loro proprietà dalle tormente di polvere, dalla siccità o dal progresso della tecnica, né li provocavano con insulti cercando pretesti per usare loro violenza, come facevano con i latini, i neri e i pochi indios sopravvissuti ai massacri e all'alcool, ma si limitavano a chiedere dove fossero diretti. Charles Reeves, uomo dal viso ascetico e dallo sguardo ardente che si imponeva per la sua presenza, rispondeva che era un artista e che stava portando i suoi quadri in una città vicina per venderli. Non menzionava l'altra mercanzia per non creare confusione e trovarsi
obbligato a dare lunghe spiegazioni. Era nato in Australia e dopo aver girato mezzo mondo su navi di contrabbandieri e trafficanti, era sbarcato una notte a San Francisco. Di qua non mi muovo, decise, ma la sua natura di vagabondo non gli permetteva di starsene tranquillo in un posto fisso e una volta esaurite le novità, riprese il suo cammino per il resto del paese. Suo padre, un ladro di cavalli che scontò la pena confinato a Sidney, gli aveva trasmesso la passione per quegli animali e gli spazi aperti, l'aria libera ce la portiamo nel sangue, diceva. Innamorato della vastità dei paesaggi e della leggenda eroica della conquista del West, dipingeva terre senza fine, indios e cow-boy. Di questa sua piccola produzione di quadri e delle predizioni di Olga viveva la famiglia. Charles Reeves, Dottore in Scienze Divine, come lui stesso si presentava, aveva scoperto il significato dell'esistenza attraverso una rivelazione mistica. Raccontava che si trovava solo nel deserto, come Gesù di Nazareth, quando un Maestro, materializzatosi sotto forma di una vipera, lo aveva morso alla caviglia, guardino la cicatrice. Era rimasto agonizzante per due giorni e proprio mentre sentiva il gelo della morte salire dal ventre al cuore, la sua mente d'improvviso si aprì e dinnanzi ai suoi occhi febbricitanti apparve la mappa perfetta dell'universo con le sue leggi e i suoi segreti. Al risveglio era guarito dal veleno e la sua mente era entrata in una dimensione superiore dalla quale non intendeva ridiscendere. In quel luminoso delirio il Maestro gli ordinò di divulgare l'Unica Verità del Piano infinito e lui lo fece con disciplina e dedizione malgrado i pesanti inconvenienti che la missione comportava, come diceva sempre a chi lo ascoltava. Tante volte ripeté il racconto che finì per crederci, e ormai non ricordava più di essersi procurato la cicatrice cadendo dalla bicicletta. Dalla predicazione e dalla vendita di libri ricavava pochissimo denaro, appena sufficiente a pagare l'affitto per il locale delle riunioni e pubblicare le sue opere in poche copie di modeste edizioni. Il predicatore non contaminava il suo impegno spirituale con rozzi calcoli commerciali, com'era il caso dei numerosi ciarlatani che a quel tempo vagavano per il paese terrorizzando la gente con la minaccia dell'ira divina per spillarne i miseri risparmi. Né ricorreva all'ignobile espediente di intimorire l'uditorio fino a creare un clima di isteria, incitando i presenti a espellere da sé il Maligno rotolandosi a terra con la schiuma alla bocca, tanto più che negava l'esistenza di Satana, e quelle scenate lo ripugnavano. Chiedeva un dollaro per entrare ad ascoltare le sue prediche e altri due all'uscita, perché alla porta Nora e Olga montavano la guardia con una pila dei suoi libri e nessuno osava passar loro davanti senza comprarne un
esemplare. Tre dollari non erano una cifra esagerata, considerando i benefici acquisiti dagli ascoltatori che si allontanavano confortati dalla certezza che le loro disgrazie erano parte di un disegno divino, come pure che le loro anime erano particelle dell'energia universale, che non vivevano abbandonati a se stessi, né il cosmo era uno spazio buio dominato dal caos, esisteva un Grande Spirito Unificatore che dava un significato all'esistenza. Per preparare i suoi sermoni, Reeves si avvaleva delle briciole di informazione di cui poteva disporre, della sua esperienza e della sua sicura intuizione, oltre che delle letture della moglie e delle proprie ricerche sulla Bibbia e sul "Reader's Digest". Durante la Grande Depressione si guadagnò da vivere dipingendo murales negli uffici postali, e conobbe così quasi tutto il paese, dalle terre umide e calde, dove ancora risuonavano gli echi dei lamenti degli schiavi, fino alle gelide montagne e alle alte foreste, ma tornava sempre a ovest. Aveva promesso alla moglie che il loro peregrinare avrebbe avuto termine a San Francisco, dove sarebbero giunti in un luminoso giorno d'estate di un ipotetico futuro, avrebbero scaricato il camion per l'ultima volta e lì si sarebbero stabiliti per sempre. Benché il lavoro dei murales si fosse esaurito da tempo, di tanto in tanto gli capitava di dipingere una insegna per un negozio oppure un quadro allegorico per una parrocchia, allora i viaggiatori si trattenevano per qualche tempo nel medesimo luogo e i bambini avevano l'occasione di farsi degli amici. Facevano gli spacconi davanti ai coetanei invischiandosi in esagerazioni e bugie così grandi, che finivano per trovarsi loro stessi tremanti dinnanzi alla paurosa visione di orsi e coyote che li assalivano di notte, di indios che li inseguivano per fargli lo scalpo, di briganti che il padre scacciava a schioppettate. Dai pennelli di Charles Reeves sbocciavano con stupefacente facilità una bionda formosa con una bottiglia di birra in mano, o un fremente Mosè aggrappato alle Tavole della Legge, ma queste opere impegnative erano rare e, generalmente, si limitava a vendere soltanto modeste tele montate con l'aiuto di Olga. Preferiva dipingere la natura di cui era appassionato, rosse cattedrali in pietra viva, aride pianure desertiche e coste a picco, ma nessuno comprava quello che poteva guardare con i propri occhi e che gli rammentava le durezze della propria sorte. Perché appendere alla parete le stesse cose che si scorgevano dalla finestra? Il cliente sceglieva sul "National Geographic" il paesaggio che più rispondeva alle sue fantasie oppure quello i cui toni di colore si accordavano con i vecchi mobili del salotto. Quattro dollari in più davano diritto a un indio o a un cow-boy, e il risultato era un pellerossa ornato di piume sulle gelide cime tibetane, o due
cow-boy con ampi sombrero e stivali a tacchi alti che si sfidavano a duello sulla sabbia madreperlata di una spiaggia della Polinesia. Olga non aveva bisogno di molto tempo per copiare il paesaggio della rivista, Reeves in pochi minuti disegnava a memoria la figura umana e i clienti pagavano in contanti e se ne andavano con il quadro ancora fresco. Gregory Reeves avrebbe giurato che Olga era sempre stata con loro. Molti anni più tardi chiese quale fosse il suo ruolo nella famiglia, ma nessuno fu in grado di rispondergli perché a quel tempo suo padre era morto e non si era più affrontato quell'argomento. Nora e Olga si erano conosciute su una nave di profughi che da Odessa le aveva portate nel Nordamerica attraverso l'Atlantico; si erano poi perse di vista per molti anni e il caso le aveva riunite quando Nora era già sposata e l'altra aveva stabilmente scelto la vocazione di guaritrice. Fra loro parlavano russo. Erano completamente diverse, introversa e timida l'una, esuberante l'altra. Nora, ossa lunghe e movimenti lenti, aveva un viso da gatta e avvolgeva a crocchia i lungi capelli chiari, non usava trucco né ornamenti, e appariva sempre in perfetto ordine. Nei polverosi viaggi in cui scarseggiava l'acqua per lavarsi ed era impossibile stirare un abito, riusciva a presentarsi linda come la bianca tovaglia inamidata della sua tavola. Il suo carattere riservato si accentuò con gli anni, a poco a poco si distaccò dalle cose terrene elevandosi a una dimensione ove nessuno poté raggiungerla. Olga, di parecchi anni più giovane, era una bruna ben piantata, bassa di statura, dalle forme tondeggianti, vita stretta e gambe corte ma ben fatte e provocanti. Un cespuglio di capelli tinti all'henné le cadeva sulle spalle come una stravagante parrucca dai vari toni vermigli, portava tante collane da sembrare un idolo coperto di cianfrusaglie, aspetto che la favoriva nelle sue funzioni divinatorie, mentre la sfera di cristallo e i tarocchi sbocciavano come estensioni naturali dalle sue mani, dalle dita cariche di anelli. Non aveva nessun interesse intellettuale, leggeva solo le pagine di cronaca nera dei giornali e qualche romanzo romantico, tantomeno coltivava la propria chiaroveggenza con studi specialistici, dato che la considerava un talento viscerale. Lo si possiede o non lo si possiede, è inutile cercare di acquisirlo attraverso i libri, diceva. Nulla sapeva di magia, astrologia, cabale e altri argomenti propri del suo mestiere, conosceva appena i nomi dei segni zodiacali, però al momento di usare la sfera da maga o le carte truccate risultava un portento. La sua non era scienza occulta, bensì arte di fantasia, fatta in gran parte d'intuizione e di astuzia. Era sinceramente convinta dei propri poteri sovrannaturali,
avrebbe scommesso la testa sulle sue profezie, e se non si realizzavano aveva sempre sulla punta della lingua una scusa ragionevole, generalmente si trattava di un'interpretazione sbagliata delle sue parole. Chiedeva un dollaro in anticipo per indovinare il sesso dei bambini nel ventre della madre. Faceva stendere a terra la donna, col capo rivolto a nord, le posava una moneta sull'ombelico e faceva oscillare sul suo ventre un pezzetto di piombo legato a un filo da pesca. Se questo pendolo improvvisato si muoveva nel senso delle lancette dell'orologio sarebbe nato un bimbo, al contrario, una bambina. Lo stesso metodo applicava a vacche e giumente gravide, facendo oscillare il pendolo sulla groppa dell'animale. Pronunciava il suo verdetto, lo scriveva su un foglio e lo conservava come prova decisiva. Una volta tornarono in un casale dove erano stati mesi prima e una donna, accompagnata da una processione di curiosi mal disposti, si presentò per reclamare il suo dollaro. "Mi aveva assicurato che avrei avuto un maschietto e guardi cosa è venuto fuori, un'altra bambina. Ne ho già tre!" "Non può essere. È sicura che le ho pronosticato un maschio?" "Certo, vuole che non sappia quello che mi ha detto, se l'ho pagata per questo!" "Ha capito male," replicò Olga con un tono che escludeva ogni replica. Si arrampicò sul camion, frugò un po' nel suo baule e tirò fuori un pezzo di carta che mostrò ai presenti e su cui stava scritta una sola parola: femmina. Un profondo sospiro di ammirazione si levò dai visitatori, compresa la madre che si grattò la testa confusa. Olga non dovette restituire il dollaro e inoltre rafforzò la propria reputazione di indovina, non fu sufficiente la sera e parte della notte per attendere alla fila di clienti disposti a conoscere la propria sorte. Tra gli amuleti e le pozioni che offriva, la più richiesta era la sua "acqua magnetizzata", un liquido miracoloso contenuto in rozzi flaconi di vetro verde. Spiegava che si trattava solo di acqua comune, dotata però di poteri curativi perché impregnata di fluidi psichici. Compiva questa operazione nelle notti di luna piena e, secondo quanto avevano constatato Judy e Gregory, si trattava semplicemente di riempire i flaconi, tapparli con un turacciolo e apporvi le etichette, però lei assicurava che così facendo caricava l'acqua di forza positiva, e doveva essere vero, perché le bottiglie si vendevano come pane appena sfornato e chi le utilizzava non si era mai lagnato dei risultati. A seconda dell'uso prestava diversi servizi: bevendola ripuliva i reni, usata per i massaggi alleviava i dolori artritici, e sui capelli migliorava la concentrazione mentale, tuttavia non aveva efficacia nei
drammi passionali, come gelosia, adulterio o celibato involontario, su questo punto la maga era molto chiara e avvertiva i clienti. Era tanto scrupolosa nelle sue ricette quanto nelle questioni di denaro, sosteneva che non esiste un buon rimedio che sia gratuito, tuttavia non chiedeva compenso per assistere una partoriente, le piaceva far venire al mondo i bambini, niente era paragonabile all'istante in cui affiorava la testa del neonato dalla sanguinante apertura materna. Offriva i suoi servigi di levatrice nelle fattorie isolate e nelle zone più povere dei villaggi, particolarmente nei quartieri dei neri, dove l'idea di partorire in ospedale era ancora una novità. Mentre attendeva accanto alla futura madre, cuciva pannolini e preparava scarpine per il bambino e solamente in queste rare occasioni addolciva il suo impiastricciato viso da fattucchiera. Cambiava il tono della voce per incoraggiare la paziente nei momenti più difficili e per cantare la prima ninna-nanna alla creatura che aveva fatto venire al mondo. Dopo qualche giorno, quando la madre e il figlio avevano imparato a conoscersi l'un l'altra, tornava dai Reeves, accampati poco lontano. Nell'accomiatarsi segnava su un quaderno il nome del bambino, era una lunga lista e li chiamava tutti suoi figliocci. Le nascite portano fortuna, era la sua brusca spiegazione al non chiedere compensi. Aveva un rapporto fraterno con Nora, e da zia brontolona con Judy e Gregory, che considerava suoi nipoti. Trattava Charles Reeves come un socio, con un miscuglio di petulanza e di buonumore, non si erano mai toccati, sembrava che non si guardassero neppure, però agivano in concerto, non solo nel lavoro dei quadri, ma in tutto ciò che facevano assieme. Assieme amministravano il denaro e le risorse familiari, consultavano le mappe e stabilivano il percorso, andavano a caccia, perdendosi per ore nel folto del bosco. Si rispettavano e ridevano delle stesse cose, lei era indipendente, avventurosa, il suo carattere era deciso quanto quello del predicatore, era fatta del suo stesso acciaio, e proprio per questo non la impressionavano né il carisma né il talento artistico di quell'uomo. Era il vigore virile di Charles Reeves, che sarebbe stata anche più tardi la caratteristica di suo figlio Gregory, l'unica cosa che in certi momenti la soggiogava. Nora, la moglie di Charles Reeves, era uno di quegli esseri predestinati al silenzio. I suoi genitori, ebrei russi, le avevano dato la migliore educazione che potevano permettersi; aveva preso il diploma da maestra e, pur avendo lasciato la professione con il matrimonio, si manteneva aggiornata studiando storia, geografia e matematica per insegnare ai figli, visto che era impossibile mandarli a scuola, con la vita da zingari che
facevano. Durante i viaggi leggeva riviste e libri esoterici, ma senza la presunzione di analizzare quelle letture, limitandosi a passare le informazioni al Dottore in Scienze Divine perché le utilizzasse. Non dubitava minimamente che suo marito fosse dotato di poteri paranormali che gli permettevano di scorgere ciò che è occulto e scoprire la verità, là dove il resto della gente vedeva soltanto ombre. Si erano conosciuti quando entrambi non erano più molto giovani e il loro rapporto ebbe sempre un tono controllato e maturo. Nora era inadatta alla vita pratica, la sua mente si perdeva in sogni di un'altra realtà, più intenta alle possibilità spirituali che alle vicende quotidiane. Amava la musica, e i momenti più luminosi della sua esistenza anodina erano state le opere liriche a cui assistette in gioventù; serbava ogni particolare di quegli spettacoli come tesori, poteva chiudere gli occhi e risentire quelle voci magistrali, commuoversi alle tragiche passioni dei personaggi e apprezzare i colori e la struttura delle scene e dei costumi. Leggeva le partiture immaginando le singole scene come parte della propria vita, i primi racconti che i suoi figli ascoltarono furono gli amori maledetti e le morti fatali della lirica universale. In quell'atmosfera esasperata e romantica si rifugiava quando le volgarità della vita la opprimevano. Quanto a Charles Reeves, aveva percorso tutti i mari e si era guadagnato da vivere con lavori diversi, aveva vissuto più avventure di quante potesse raccontarne, lasciato dietro di sé parecchi amori falliti e alcuni figli seminati qua e là, di cui nulla sapeva. Nel vederlo arringare un gruppo di attoniti parrocchiani Nora si innamorò di lui. Era ormai rassegnata al suo destino di zitellona, come tante altre donne della sua generazione sui cui passi la sorte non aveva messo un fidanzato e che non avevano avuto il coraggio di andarselo a cercare, ma questo innamoramento improvviso in età già matura le diede il coraggio di superare la sua naturale modestia. Il predicatore aveva preso in affitto una sala accanto alla scuola dove lei insegnava, e stava distribuendo inviti per la sua conferenza quando lei gli rivolse il primo sguardo. La colpirono il suo viso nobile e il suo atteggiamento deciso e, spinta da curiosità, andò ad ascoltarlo, aspettandosi un ciarlatano come ne passavano tanti senza lasciare altra traccia che alcuni fogli scoloriti incollati al muro, e invece trovò una sorpresa. In piedi davanti all'uditorio, di fronte a un'arancia appesa al soffitto con un filo, Reeves spiegava la posizione dell'uomo nell'universo e nel Piano infinito. Non minacciava castighi né prometteva salvezza eterna, si limitava a offrire soluzioni pratiche per migliorare la convivenza, placare l'angoscia e preservare le risorse del pianeta. Tutte le creature possono e debbono vivere in armonia, assicurava, e per provarlo
sollevava il coperchio della cassa del boa e se lo attorcigliava attorno al corpo, come un idrante da pompiere, tra lo stupore degli ascoltatori che mai avevano visto un serpente così lungo e così grasso. Quella sera Charles Reeves tradusse in parole i sentimenti confusi da cui Nora era oppressa e che non sapeva esprimere. Aveva scoperto gli insegnamenti di Bahà Ullah e adottato la religione Bahai. I concetti orientali di amorosa tolleranza, di unità fra gli uomini, di ricerca della verità e rifiuto dei pregiudizi cozzavano contro la sua rigida formazione ebraica e contro la ristrettezza provinciale del suo ambiente, ma nell'ascoltare Reeves tutto le apparve facile, non c'era bisogno di consumarsi il cervello in contraddizioni essenziali, visto che quell'uomo conosceva le risposte e poteva farle da guida. Abbagliata dall'eloquenza del discorso non notò la genericità del contenuto. Si sentì commossa e riuscì a vincere la timidezza per avvicinarsi a lui quando lo vide solo, con l'intenzione di chiedergli se conosceva la religione Bahai e, in caso non la conoscesse; offrirgli le opere di Shogi Effendi... Il dottore in Scienze Divine conosceva l'effetto eccitante dei suoi sermoni su certe donne e non esitava ad approfittare di tale vantaggio, tuttavia la maestra lo attirò in maniera diversa, c'era qualcosa di limpido in lei, una qualità trasparente che non era solo innocenza, ma autentica rettitudine, un tratto luminoso, freddo e incontaminato, come il ghiaccio. Non solo desiderò prenderla fra le braccia, anche se quello fu il primo impulso nel vedere il suo strano viso triangolare e la pelle coperta di lentiggini, ma anche penetrare la materia cristallina di quella sconosciuta e accendere le braci addormentate del suo spirito. Le propose di mettersi in cammino con lui e Nora accettò all'istante, con la sensazione di essere stata presa per mano una volta per sempre. In quel momento, quando intravvide la possibilità di affidargli la propria anima, iniziò quel processo di abbandono che avrebbe segnato la sua vita. Partì senza accomiatarsi da nessuno, con una borsa di libri come unico bagaglio. Qualche mese dopo, quando si accorse di essere incinta, si sposarono. Se in verità esisteva una potenziale fiamma al di sotto della sua flemmatica apparenza, solo suo marito lo seppe. Gregory si portò dietro per tutta la vita la medesima curiosità che aveva attratto Charles Reeves in quella sala affittata in un villaggio povero dell'est, mille volte tentò di abbattere le muraglie che isolavano sua madre e risvegliarne i sentimenti, ma non essendovi mai riuscito decise che in lei non vi era nulla, era vuota e incapace di amare veramente, tutt'al più esprimeva una vaga simpatia per l'umanità in genere. Nora si abituò a dipendere dal marito, trasformandosi in una creatura
passiva che svolgeva le proprie funzioni meccanicamente, mentre la sua anima rifuggiva dagli impegni materiali. Era tanto forte la personalità di quell'uomo che, per lasciargli spazio, lei si cancellò dal mondo, convertendosi in un'ombra. Prendeva parte alla routine della convivenza, ma contribuiva ben poco all'energia del piccolo gruppo, interveniva solo nell'istruzione dei bambini e nei problemi di igiene e salute. Era arrivata in quel paese su una nave di emigranti e durante i primi anni, fino a che la sua famiglia non riuscì a superare la cattiva sorte, si alimentò poco e male; quel periodo di miseria le lasciò per sempre nella memoria la spina della fame, aveva la mania dei cibi nutrienti e delle vitamine. Spiegava ai figli alcuni aspetti della religione Bahai con lo stesso tono che usava per insegnare loro a leggere o a elencare i nomi delle stelle, senza la minima intenzione di convincerli, si appassionava solamente quando parlava di musica, in quelle occasioni la sua voce si animava e un rossore le tingeva le guance. In seguito accettò di educare i figli alla religione cattolica, secondo il costume del quartiere spagnolo in cui le capitò di vivere, sembrandole necessario che Judy e Gregory si integrassero nell'ambiente in cui vivevano. Già avevano da sopportare troppe differenze di razza e di costumi per mortificarsi ulteriormente con le ignote credenze della sua fede Bahai. D'altronde, considerava le religioni fondamentalmente uguali, la preoccupavano soltanto i valori morali, in ogni modo Dio era al di sopra della comprensione umana, era sufficiente sapere che il cielo e l'inferno erano simboli del rapporto dell'anima con Dio: la vicinanza al Creatore conduce alla bontà e al tranquillo godimento, la lontananza produce malvagità e sofferenza. In contrasto con la sua tolleranza religiosa non cedeva di un millimetro sui princìpi di decenza e cortesia, lavava la bocca col sapone ai figli quando pronunciavano parolacce e li lasciava senza cibo se usavano malamente la forchetta; per lo più i castighi erano però inflitti dal padre, mentre lei si limitava a rimproverarli. Un giorno sorprese Gregory a rubare una matita in un negozio e lo riferì al marito, il quale obbligò il bambino a restituirla e a chiedere scusa e poi gli scottò il palmo della mano con un fiammifero, sotto lo sguardo impassibile di Nora. Gregory ebbe una piaga viva per una settimana, ben presto scordò il motivo della punizione e chi gliela aveva inflitta, l'unica cosa che gli rimase nella memoria fu la rabbia contro la madre. Molti decenni dopo, quando si riconciliò con l'immagine di lei, poté ringraziarla dentro di sé per i tre fondamentali doni che gli aveva lasciato: l'amore per la musica, la tolleranza e il senso dell'onore.
Il caldo è implacabile, il paesaggio è arido, non piove dall'inizio dei tempi e il mondo appare coperto da una tenue polvere rossiccia. Una luce inclemente deforma i profili degli oggetti, l'orizzonte si perde nel polverio. E uno di quei paesetti senza nome uguale a tanti altri, una lunga strada, un caffè, una solitaria pompa di benzina, un posto di polizia, le solite misere botteghe e case di legno, una scuola sul cui tetto sventola una bandiera stinta dal sole. Polvere e ancora polvere. I miei genitori sono andati al magazzino per comprare le provviste della settimana. Olga è rimasta per prendersi cura di me e di Judy. Nessuno passa per strada, le persiane sono chiuse, la gente aspetta che l'aria si rinfreschi per tornare alla vita. Mia sorella e Olga dormicchiano su una panca sotto la tettoia del negozio, stordite dal calore, le mosche le tormentano ma loro non si difendono neppure più e lasciano che gli camminino sul viso. Nell'aria aleggia un inaspettato aroma di zucchero tostato. Grandi lucertole azzurre e verdi assorbono immobili il sole, ma quando cerco di afferrarle, scappano a rifugiarsi sotto le case. Sono scalzo e sento la terra calda sotto la pianta dei piedi. Gioco con Oliver, gli tiro una vecchia palla di pezza, me la riporta, la tiro nuovamente e così mi allontano, svolto l'angolo e mi trovo in un vicolo stretto, ombreggiato in parte dalle artigianali grondaie delle case. Vedo due uomini, uno è grassoccio e ha un colorito rosa acceso, l'altro ha i capelli gialli, indossano tute da lavoro, sono sudati e hanno camicie e capelli madidi. Quello grasso tiene stretta una bimbetta negra, non deve avere più di dieci o dodici anni, con una mano le tappa la bocca e con l'altro braccio la tiene sospesa in aria, lei scalcia un po' e poi resta quieta, ha gli occhi arrossati nello sforzo di respirare attraverso la mano che la soffoca. L'altro mi volge la schiena e armeggia nei pantaloni. Sono entrambi molto seri, concentrati, tesi, ansimanti. Silenzio, sento soltanto l'ansimare altrui e il battito del mio cuore. Oliver è scomparso, le case anche restano soltanto loro sospesi nella polvere, come muovendosi al rallentatore e io, paralizzato. L'uomo dai capelli gialli si sputa due volte sulla mano e si avvicina, allontana le gambe della bambina, due stecchi sottili e bruni che pendono inerti, adesso non posso più vederla, schiacciata tra i corpi massicci dei violentatori. Voglio fuggire, sono terrorizzato, ma nello stesso tempo voglio vedere, so che sta succedendo qualcosa d'importante e di proibito, sono testimone di un violento segreto. Mi manca il fiato, tento di chiamare mio padre, apro la bocca e la voce non esce, inghiotto fuoco, un grido mi riempie dentro e mi soffoca. Devo fare qualcosa, tutto dipende da me, la decisione giusta salverà quei due, la bimba negra e me, che sto morendo, ma non trovo alcuna soluzione né
posso fare un gesto, mi sono fatto di pietra. In quel momento odo da lontano il mio nome, Greg, Greg, e Olga appare nel vicolo. C'è una lunga pausa, un minuto eterno in cui nulla succede, tutto è quieto. E allora che l'aria vibra per il lungo grido, il rauco e terribile grido di Olga e poi i latrati di Oliver e la voce di mia sorella come un sibilo di ratta, finalmente riesco a tirare il fiato e anch'io mi metto a gridare, disperato. Sorpresi, gli uomini lasciano la bambina, che tocca terra e si mette a correre come un coniglio spaventato. Ci guardano, l'uomo dai capelli gialli ha tra le mani qualcosa di bruno, qualcosa che sembra appartenere al suo corpo, e cerca di infilarlo dentro i pantaloni, alla fine si voltano e si allontanano, non sembrano turbati, ridono e fanno gesti osceni, ne vuoi un po' anche tu, stupida puttana, gridano a Olga, vieni che te lo mettiamo. Sulla strada restano le mutandine della bambina. Olga afferra per la mano Judy e me, chiama il cane e camminiamo in fretta, no, corriamo verso il camion. Il paese si è svegliato e la gente ci guarda. Il Dottore in Scienze Divine si era rassegnato a diffondere le sue idee tra contadini ignoranti e lavoratori poveri che non sempre erano capaci di seguire il filo del suo complesso discorso, ma certo non gli mancavano i seguaci. Pochissimi assistevano alle sue prediche per fede, la maggior parte andava per semplice curiosità, in quei paraggi i divertimenti erano scarsi e l'arrivo del Piano infinito non passava inosservato. Dopo aver sistemato l'accampamento andava in cerca di un locale. Gli capitava di averlo gratis se si appoggiava a persone conosciute, in caso contrario doveva prendere in affitto una sala o sistemarsi in un negozio o in un granaio. Siccome non aveva denaro, lasciava in garanzia la collana di perle con fermaglio di diamanti di Nora, unica eredità di sua madre, impegnandosi a pagare alla fine di ogni riunione. Frattanto sua moglie inamidava lo sparato e il collo della camicia al marito, stirava il suo vestito nero, reso lucido dal troppo uso lustrava le scarpe, spazzolava il cappello a cilindro e preparava i libri, mentre Olga e i bambini andavano a distribuire casa per casa volantini che invitavano al Corso che Cambierà La Vostra Vita, Charles Reeves, Dottore in Scienze Divine, Vi Aiuterà a Raggiungere la Felicità e ad Ottenere Prosperità. Olga faceva il bagno ai bambini e li vestiva con gli abiti della domenica e Nora indossava il suo abito azzurro dal collo di pizzo, severo e fuori moda, ma ancora decente. La guerra aveva cambiato l'aspetto delle donne, si portavano gonne strette al ginocchio, giacche con le spalline, scarpe ortopediche, elaborati chignon, cappelli di piume e velette. Col suo vestito
monacale Nora sembrava un'irreprensibile nonnina di inizio secolo. Neanche Olga seguiva la moda, ma nel suo caso non si poteva accusarla di bigottismo, sembrava piuttosto un pappagallo. Per lo più in quel villaggio ignoravano raffinatezze di quel tipo, l'esistenza scorreva nel lavoro dall'alba al tramonto, gli unici piaceri erano qualche bicchiere d'alcool, in certi Stati ancora clandestino, rodei, cinema, un ballo di quando in quando, e seguire alla radio le vicende della guerra e del baseball, per cui qualunque novità attirava i curiosi. Charles Reeves doveva competere con i Revivals che annunciavano il risveglio del cristianesimo, il ritorno ai princìpi fondamentali dei dodici apostoli e all'interpretazione letterale della Bibbia, con evangelizzatori che percorrevano il paese con i loro tendoni, orchestre, fuochi d'artificio, gigantesche croci illuminate, cori di fratelli e sorelle acconciati da angeli, e trombe per diffondere ai quattro venti il nome del Nazareno, esortando i peccatori a pentirsi perché Gesù si era messo in cammino con la frusta in mano per fustigare i farisei del tempio, e chiamando a combattere le dottrine di Satana, quali la teoria dell'evoluzione, malefica invenzione di Darwin. Sacrilegio! L'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio e non delle scimmie! Compra un buono per Gesù! Alleluja, alleluja! ululavano gli altoparlanti. Nelle tende si affollavano parrocchiani in cerca di redenzione e di festa, tutti cantando, molti ballando e qualcuno anche contorcendosi negli spasimi dell'estasi, mentre i sacchetti delle offerte venivano riempiti fino all'orlo dagli oboli di chi acquistava biglietti per il cielo. Nulla di altrettanto grandioso offriva Charles Reeves, ma grandi erano il suo carisma, il suo potere di convinzione e il fuoco del suo discorso. Impossibile ignorarlo. A volte qualcuno avanzava verso il palco pregandolo di liberarlo dal dolore o da insopportabili rimorsi, e allora Reeves, senza pose esagerate da santone, con semplicità, ma anche con grande autorità, poneva le mani attorno al capo del penitente e si concentrava per portargli sollievo. Molti credevano di scorgere scintille fra le palme delle sue mani e i beneficiari del trattamento assicuravano di avere avvertito una scarica di corrente nel cervello. Alla maggior parte del pubblico era sufficiente ascoltarlo una volta per iscriversi al corso, comprare i suoi libri e convertirsi in adepto. "La Creazione è regolata dal Piano infinito. Niente succede per caso. Noi esseri umani siamo parte fondamentale di quel piano perché siamo collocati nella scala evolutiva fra i Maestri e le altre creature, siamo intermediari. Dobbiamo avere coscienza del nostro posto nel cosmo," iniziava Charles Reeves galvanizzando l'uditorio con la sua voce profonda, vestito di nero da capo a piedi, solenne davanti all'arancia appesa al
soffitto e con il boa ai piedi come una grossa cima marinara arrotolata. L'animale era totalmente abulico e, in assenza di provocazioni dirette, se ne stava sempre immobile. "State ben attenti, se volete comprendere i princìpi del Piano infinito, ma se non li capite non importa, basta seguire i miei precetti. L'universo intero appartiene alla Suprema Intelligenza che lo ha creato ed è così immensa e perfetta che mai l'essere umano potrà conoscerla. Al di sotto di essa stanno i Logi, delegati della luce e incaricati di portare a tutte le Galassie particelle della Suprema Intelligenza. I Logi sono in contatto con i Maestri Funzionari attraverso i quali i messaggi e le norme del Piano infinito arrivano agli uomini. L'essere umano è composto da Corpo Fisico, Corpo Mentale e Anima. La più importante è l'Anima, che non appartiene all'ambiente terrestre, ma opera da lontano, non è dentro di noi ma regge la nostra vita." A questo punto, quando gli ascoltatori, storditi dalla sua retorica, cominciavano a scambiarsi occhiate di timore o di scherno Reeves tornava a galvanizzare l'uditorio indicando l'arancia per spiegare l'aspetto dell'Anima che ondeggiava nell'etere, come un confuso ectoplasma che solo esperti occultisti potevano vedere. Per provarlo invitava alcune persone del pubblico a guardare fissamente l'arancia e a descriverne l'aspetto. Invariabilmente tutti descrivevano una sfera gialla, cioè una semplice arancia, mentre lui, invece, vi vedeva l'Anima. Poi presentava i Logi che si trovavano in sala allo stato gassoso e quindi invisibili, e spiegava che erano loro a mantenere in movimento la perfetta macchina dell'universo. In ogni epoca e in ogni regione i Logi eleggevano Maestri Funzionari per comunicare con gli uomini e diffondere le volontà della Suprema Intelligenza. Lui, Charles Reeves, Dottore in Scienze Divine, era uno di questi. La sua missione consisteva nell'insegnare le norme ai semplici mortali, e una volta attuata questa tappa sarebbe passato a far parte del gruppo privilegiato dei Logi. Affermava che ogni azione o pensiero dell'uomo è importante, perché ha un suo peso nel perfetto equilibrio dell'universo, per cui ogni persona ha la responsabilità di seguire esattamente i comandamenti del Piano infinito. Enumerava quindi le regole della sapienza minima, mediante le quali si evitavano errori grossolani, capaci di rovinare il progetto della Suprema Intelligenza. Coloro che in una sola conferenza non riuscivano a intendere tutte queste cose, potevano seguire il corso di sei sessioni, dove avrebbero appreso le norme per una buona vita, compresa la dieta, gli esercizi fisici e mentali, i sogni guidati e i diversi sistemi per ricaricare le batterie energetiche del Corpo Fisico e del Corpo Mentale, per assicurarsi così un destino dignitoso
e la pace dell'Anima dopo la morte. Charles Reeves era in anticipo sul suo tempo: Venti anni più tardi molte delle sue idee sarebbero state divulgate in lungo e in largo da diversi mentalisti in California, l'ultima frontiera a cui giungono gli avventurieri, i disperati, gli anticonformisti, coloro che fuggono la giustizia, i geni incompresi, i peccatori impenitenti e i folli senza speranza, e dove proliferano tutte le possibili formule per evitare l'angoscia del vivere. Non si può tuttavia incolpare Charles Reeves di avere iniziato questi stravaganti movimenti. C'è qualcosa in quel territorio che sconvolge gli spiriti. O forse quanti vennero a popolare la regione erano così presi nella ricerca di fortuna o di un facile oblio, che le loro anime rimasero sperdute e le stanno ancora cercando adesso. Innumerevoli ciarlatani si erano arricchiti offrendo formule magiche capaci di colmare quel doloroso vuoto che lascia l'assenza dello spirito. Quando Reeves predicava, molti avevano già scoperto il modo di far soldi vendendo impalpabili rimedi per la salute del corpo e il sollievo dell'anima, ma lui non era uno di questi, onorava la propria austerità e il proprio decoro, e si guadagnò così il rispetto dei suoi seguaci. Olga, invece, intravvide la possibilità di utilizzare i Logi e i Maestri Funzionari per qualcosa di più redditizio, magari per acquistare un locale e formare una loro Chiesa, ma né Charles né Nora condivisero mai questa idea egoistica, per loro la divulgazione della propria verità era soltanto una pesante e fatale responsabilità morale e in nessun caso un affare da venditori ambulanti. Nora Reeves avrebbe potuto indicare i giorno preciso in cui perse la fiducia nella bontà umana ed ebbero inizio i suoi silenziosi dubbi sul significato dell'esistenza. Era una di quelle persone capaci di ricordare date insignificanti, e quindi a maggior ragione le rimasero impresse le due bombe di proporzioni cataclismatiche che misero fine alla guerra con il Giappone. Negli anni che seguirono si vestì a lutto per quell'anniversario, proprio quando il resto del paese si lanciava nelle celebrazioni. Si spense il suo interesse anche per le persone più vicine, è indubitabile che l'istinto materno non era mai stato una delle sue principali caratteristiche, ma a partire da quel momento parve staccarsi completamente dai suoi figli. Si allontanò anche dal marito, senza il minimo chiasso, con tanta discrezione che egli non poté rimproverarle nulla. Si isolò in un chiostro segreto dove riuscì a restare immune dalla realtà fino alla fine dei suoi giorni; circa quarant'anni più tardi morì convertita in principessa degli Urali senza avere mai preso parte alla vita. Quel giorno si festeggiava la sconfitta definitiva
del nemico dagli occhi a mandorla e dalla pelle gialla, come mesi prima si era celebrata quella dei tedeschi. Era la fine di una lunga contesa, i giapponesi erano stati vinti dall'arma più potente della storia, che uccise in pochi minuti centotrentamila esseri umani e ne condannò altrettanti a una lenta agonia. La notizia dell'accaduto produsse un silenzio inorridito nel mondo, ma i vincitori sommersero la visione dei cadaveri ustionati e delle città ridotte in polvere con una gazzarra di bandiere, sfilate e bande musicali, anticipando il ritorno dei combattenti. "Si ricorda di quel soldato nero che raccogliemmo per strada? Sarà ancora vivo? Tornerà a casa anche lui?" chiese Gregory alla madre prima di andare a vedere i fuochi artificiali. Nora non rispose. Erano di passaggio in una città e mentre i suoi familiari ballavano tra la folla, lei rimase sola nella calma del camion. Durante gli ultimi mesi le notizie provenienti dall'Europa avevano minato il suo sistema nervoso e la devastazione atomica la fece definitivamente sprofondare nello smarrimento. La radio non parlava d'altro, giornali e cinematografo mostravano immagini dantesche dei campi di concentramento. Ella seguiva passo passo il minuzioso resoconto delle atrocità commesse e delle sofferenze accumulate, pensando che in Europa i treni continuavano a viaggiare, portando implacabili il loro carico ai forni crematori, mentre in nome di un'altra ideologia in Giappone migliaia di uomini morivano anch'essi ridotti a calce viva. Non avrei mai dovuto mettere al mondo dei figli, mormorava spaventata. Quando Charles Reeves arrivò euforico con la notizia della bomba, le sembrò un'oscenità rallegrarsi per un simile massacro, anche suo marito sembrava aver perso il cervello, come tutti gli altri. "Niente sarà più come prima, Charles. L'umanità ha commesso qualcosa di più grave del peccato originale. Questa è la fine del mondo," commentò sconvolta, senza però perdere la sua lunga consuetudine alle buone maniere. "Non dire sciocchezze. Dobbiamo applaudire i progressi della scienza. Per fortuna le bombe non sono nelle mani dei nemici, ma nelle nostre. Adesso nessuno oserà affrontarci." "Torneranno a usarla e sarà finita con la vita sulla terra!" "La guerra è finita e sono stati evitati mali peggiori. Se non avessimo gettato la bomba, i morti sarebbero stati molti di più." "Ma sono morte centinaia di migliaia di persone, Charles." "Quelli non contano, erano tutti giapponesi," rise il marito. Per la prima volta Nora dubitò della qualità della sua anima e si chiese
se egli era realmente un Maestro, come diceva. A notte molto avanzata la famiglia ritornò. Gregory si era addormentato in braccio al padre e Judy aveva in mano un pallone dipinto a stelle e strisce. "Finalmente la guerra è finita. Adesso avremo burro, carne e benzina," annunciò Olga raggiante agitando i resti di una bandiera di carta. Anche se passò quasi un anno tra la depressione di sua madre e l'agonia del padre, Gregory avrebbe ricordato i due eventi come uno solo, nella sua mente i due fatti sarebbero stati sempre collegati, segnarono l'inizio del disastro che pose fine all'epoca felice della sua infanzia. Quando Nora sembrava essersi ripresa e non parlava più dei campi di concentramento e delle bombe, poco dopo si ammalò Charles Reeves. All'inizio i sintomi erano allarmanti, però contava sulla sua robustezza e non volle accettare il tradimento del suo corpo. Si sentiva giovane, poteva ancora cambiare una ruota del camion in pochi minuti o stare diverse ore su una scala a dipingere un murale senza formicolii nella schiena. Quando la bocca gli si riempì di sangue lo attribuì a una spina di pesce che gli si era forse piantata in gola, e la seconda volta che capitò non lo disse a nessuno, comprò un flacone di latte di magnesia che beveva quando sentiva lo stomaco in fiamme. Poi non mangiò più e sopravviveva nutrendosi di pane bagnato nel latte, di zuppe brodose e pappe da neonato, perse peso, gli si annebbiarono gli occhi, non vedeva più distintamente la strada e toccò a Olga prendere il volante. La donna capiva quando l'infermo non sopportava più gli scossoni del viaggio, allora si fermava e si accampavano. Le ore sembravano lunghe, i bambini passavano il tempo gironzolando nei dintorni, perché la madre aveva messo via i quaderni e non faceva più loro lezione. Nora non aveva preso in considerazione il fatto che Charles Reeves fosse mortale, non arrivava a capire perché si spegnesse la sua energia, che era anche la propria. Per molti anni suo marito aveva controllato ogni aspetto della sua esistenza e di quella dei suoi figli, le regole minuziose del Piano infinito, che egli manipolava a suo piacere, non lasciavano spazio a dubbi. Al suo fianco sicuramente erano privi di libertà, però non erano neppure assediati da inquietudini o timore. Non c'è motivo di allarmarsi, si diceva; in realtà Charles non ha mai avuto molti capelli e quelle rughe profonde non sono nuove, le ha segnate il sole da molto tempo, è molto magro, certo, ma appena si rimette a mangiare come prima in pochi giorni si riprenderà, si tratta certamente di un'indigestione – vero che oggi sta molto meglio? domandava senza rivolgersi a qualcuno in particolare e Olga osservava senza far commenti. Non cercò di curare Reeves con le sue bevande e i
suoi cataplasmi, si limitava a bagnargli la fronte con panni umidi per abbassare la temperatura. Man mano che il malato peggiorava, la paura entrò inesorabile nella famiglia, per la prima volta avvertirono di andare alla deriva e percepirono le dimensioni della loro debolezza e vulnerabilità. Nora si ritrasse in se stessa come un animale bastonato, incapace di trovare una qualsiasi soluzione, cercò conforto nella sua fede Bahai e lasciò a Olga il peso dei problemi quotidiani, compresa l'assistenza al marito. Non osava toccare quel vecchio sofferente, era per lei uno sconosciuto, impossibile riconoscere in lui l'uomo che l'aveva sedotta con la sua vitalità. Si sgretolarono l'ammirazione e la dipendenza, che erano state le basi del suo amore, e non sapendo costruirne altre, il rispetto si trasformò in ripugnanza. Non appena poté trovare una scusa plausibile si sistemò nella tenda dei bambini e Olga andò a dormire con Charles Reeves per assisterlo durante la notte, come diceva. Gregory e Judy si abituarono a vederla semisvestita nel letto del padre, ma Nora ignorò la situazione, disposta a fingere indefinitamente che nulla fosse cambiato. Per un certo tempo si sospese la divulgazione del Piano infinito, perché il Dottore in Scienze Divine non aveva il coraggio di comunicare agli altri la speranza, visto che lui stesso incominciava a perdere la propria e a chiedersi in segreto se realmente lo spirito trascende la realtà e se basta un mal di pancia per ridurlo a pezzi. Non poteva neanche dedicarsi alla pittura. I viaggi continuarono fra grandi privazioni e senza uno scopo preciso, quasi cercassero qualcosa che sempre si trovava altrove. Olga occupò con naturalezza il posto del padre, e gli altri non si domandarono se questa era la migliore soluzione, era lei a stabilire il percorso, a guidare il camion, portava a spalla i bagagli più pesanti, riparava il motore quando faceva le bizze, cacciava lepri e uccelli e, con la medesima autorità, impartiva ordini a Nora o assestava un paio di sculacciate ai bambini quando non ubbidivano. Evitava le grandi città, dove spietati erano l'organizzazione e lo zelo della polizia, a meno che non potessero accamparsi in zone industriali o presso gli scali, dove trovava sempre dei clienti. Lasciava i Reeves sistemati nelle tende, prendeva i suoi arnesi da negromante e si avvicinava per vendere le proprie arti. In viaggio usava rozzi pantaloni da operaio, camicia e berretto, ma per svolgere il suo lavoro di chiaroveggente recuperava dal suo baule una sgargiante gonna a fiori, una blusa scollata, tintinnanti collane e stivali gialli. Si truccava a colpi di pennello, senza il minimo ritegno: guance da pagliaccio, bocca rossa, palpebre azzurre, l'effetto di quella maschera, dei vestiti e dell'incendio dei suoi capelli era scioccante e ben pochi si azzardavano a
respingerla per timore che un maleficio li mutasse in statue di sale. Aprivano la porta, si trovavano dinnanzi a quella grottesca apparizione con una sfera di cristallo in mano e rimanevano a bocca aperta per lo stupore, di quella incertezza lei approfittava per introdursi in casa. Riusciva molto simpatica se aveva bisogno di esserlo, spesso tornava all'accampamento con del dolce o della carne avuti in regalo da clienti soddisfatti non solo per il futuro promesso dalle carte magiche, ma soprattutto per la scintilla di buonumore che lei accendeva nella noia perenne delle loro vite. In quel periodo di grandi incertezze la maga affinò il talento, sotto la pressione delle circostanze sviluppò forze sconosciute e crebbe tanto da convertirsi in quella matrona formidabile che tanta influenza avrebbe avuto nella giovinezza di Gregory. Entrando in una casa le bastava annusare l'aria qualche secondo per impregnarsi del clima, avvertire le presenze invisibili, cogliere le orme delle disgrazie, interpretare i sogni, udire i sussurri dei morti e comprendere le necessità dei vivi. Apprese presto che le storie si ripetono con ben poche varianti, le persone sono molto simili, tutti provano amore, odio, viltà, sofferenza, allegria e timore nello stesso modo. Neri, bianchi, gialli, tutti uguali sotto la pelle, come diceva Nora Reeves, la sfera di cristallo non distingueva razze, solo dolori. Tutti volevano sentire la medesima buona fortuna, non perché la credessero possibile, ma perché immaginarla serviva da consolazione. Olga scoprì anche che esistono solo due tipi di malattie: quelle mortali e quelle che guariscono da sole al momento opportuno. Attingeva ai suoi flaconi di pillole di zucchero di diverso colore, alla sua borsa di erbe e alla sua scatola di amuleti per vendere salute ai malati recuperabili, convinta che, se il paziente si impegnava mentalmente a guarire, era assai probabile che ciò avvenisse. La gente aveva più fiducia in lei che nei gelidi chirurghi degli ospedali. I suoi unici interventi importanti erano quasi tutti illegali: aborti, estrazioni di denti, suture di ferite, ma aveva occhio e mani sicure, di modo che mai si trovò in un impiccio serio. Le bastava uno sguardo per percepire i segnali della morte e in tal caso non interveniva, in parte per scrupolo e in parte per non pregiudicare la propria professione di guaritrice. La sua esperienza nei problemi della salute non servì ad aiutare Charles Reeves, perché gli era troppo vicina, e se vide sintomi fatali non volle ammetterlo. Per orgoglio o per paura il predicatore rifiutò di rivolgersi a un medico, sentendosi capace di vincere la sofferenza con la forza dell'ostinazione, ma un giorno svenne, e da allora la scarsa autorità che gli rimaneva passò completamente nelle mani di Olga.
Si trovavano a est di Los Angeles, dove era concentrata la popolazione latina, e lei prese la decisione di portarlo in ospedale. A quell'epoca l'atmosfera della città era già carica dell'influenza messicana, malgrado l'ossessione tipicamente americana di vivere in perfetta salute, bellezza e felicità. Centinaia di migliaia di immigrati imprimevano il loro segno all'ambiente con il disprezzo del dolore e della morte, la povertà, il fatalismo e la sfiducia, le loro violente passioni, e anche con la musica, i cibi piccanti e l'audacia dei colori. I latini erano relegati in un ghetto, ma la loro influenza aleggiava ovunque, non appartenevano a quel paese né mostravano di desiderarlo, sebbene la loro segreta aspirazione fosse che i figli vi si integrassero. Apprendevano l'inglese a metà e lo trasformavano in uno Spanglish dalle radici così solide che col tempo finì per essere accettato come lingua chicana. Aggrappati alla loro tradizione cattolica e al culto delle anime, a un ammuffito sentimento patriottico e al machismo, non potevano assimilare la cultura del paese e, per una o due generazioni, restavano relegati ai servizi più umili. Gli americani li consideravano gente malevola, imprevedibile, pericolosa e molti imprecavano perché diavolo non si riusciva a bloccarli alla frontiera, se no a che serve la dannata politica, cazzo, però li usavano come mano d'opera a basso costo, da tenere comunque sotto sorveglianza. Gli immigrati accettavano il loro ruolo di emarginati con una certa dose di superbia: piegati sì, spezzati mai, amico. Olga aveva frequentato quel quartiere in diverse occasioni e lì si sentiva a suo agio, masticava con disinvoltura lo spagnolo e quasi nessuno si accorgeva che la metà del suo vocabolario si componeva di parole inventate. Pensò che lì avrebbe potuto guadagnarsi da vivere con la sua arte. Giunsero col camion fino alla porta dell'ospedale e mentre Nora e Olga aiutavano il malato a scendere, i bambini, saltati a terra, affrontavano gli sguardi curiosi della gente che si faceva avanti per osservare quello strano veicolo con simboli esoterici dipinti a colori squillanti sulla carrozzeria. "Che cos'è?" si informò qualcuno. "Il Piano infinito, non vede?" rispose Judy indicando la scritta sulla parte superiore del parabrezza. Nessuno chiese più niente. Charles Reeves fu ricoverato in ospedale, e pochi giorni dopo gli tolsero metà dello stomaco e gli suturarono i fori che aveva nell'altra metà. Frattanto Nora e Olga si sistemarono provvisoriamente con i bambini, il cane, il boa e i loro bagagli, nel cortile di Pedro Morales, un generoso messicano che anni prima aveva studiato il corso completo della dottrina di Charles Reeves e ostentava sulla parete della sua abitazione un diploma
che lo accreditava come Spirito Superiore. L'uomo era massiccio come un mattone, con tratti decisi da meticcio e una maschera orgogliosa che si trasformava in un'espressione bonaria quand'era allegro. Nel suo sorriso fiammeggiavano diversi denti d'oro che si era fatti mettere in segno di eleganza dopo essersi fatto cavare quelli sani. Non permise che la famiglia del suo maestro si trovasse allo sbaraglio – le donne non possono restare senza una protezione, ci sono tanti malviventi da queste parti, disse – però in casa sua non c'era posto per tanti ospiti, visto che aveva sei figli, una suocera demente e alcuni parenti riuniti sotto il suo tetto. Aiutò i Reeves a montare le tende e a installare la cucina a kerosene nel suo cortile, e offrì il suo aiuto senza offendere la loro dignità. Si rivolgeva a Nora chiamandola doña con gran deferenza, però chiamava Olga, che considerava più prossima alla propria condizione, semplicemente señorita. Immacolata Morales, sua moglie, era rimasta impermeabile ai costumi stranieri e, a differenza di molte sue compatriote in quella terra straniera che si truccavano, tenendosi in equilibrio su tacchi a spillo, con i riccioli bruciati dalla permanente e dall'acqua ossigenata, si manteneva fedele alle tradizioni indigene. Era piccola, sottile e forte, con un viso tranquillo e privo di rughe, portava i capelli raccolti in una treccia che le scendeva sulla schiena fin sotto la cintura, indossava grembiuli semplici e scarpe di tela, fatta eccezione per le feste religiose, quando esibiva il vestito nero e i suoi orecchini d'oro. Immacolata era la colonna della casa e l'anima della famiglia Morales. Quando il suo cortile si riempì di ospiti non si turbò, semplicemente aumentò la quantità di cibo con generosi trucchi aggiungendo altra acqua ai fagioli, come diceva, e ogni sera invitava i Reeves a cena, la prego comare, venga con i ragazzi ad assaggiare questi fagioli, che non vada sprecato il chili, guardate che ce n'è in abbondanza, benedetto Dio, offriva timidamente. Un po' vergognosi, i Reeves si sedevano all'ospitale tavola dei Morales. A Judy e Gregory occorsero diversi mesi per comprendere le regole della vita sedentaria. Si videro circondati da una calorosa tribù di bimbetti dalla pelle scura che parlavano un inglese abborracciato e che non tardarono a insegnargli la loro lingua, cominciando con chingada, fottuta, la parola più squillante e utile del loro vocabolario, anche se non era prudente pronunciarla davanti a Immacolata. Coi Morales impararono a orientarsi nel labirinto delle strade, a mercanteggiare, a distinguere al primo sguardo i ragazzi nemici, a nascondersi e a fuggire. Con loro andavano a giocare al cimitero e a osservare da lontano le prostitute e da vicino le vittime di incidenti mortali. Juan José, della stessa età di Gregory,
aveva un fiuto infallibile per le disgrazie, sapeva sempre dove avvenivano gli scontri automobilistici, gli investimenti, le risse a coltellate e le morti. Egli riuscì a individuare in pochi minuti il posto preciso dove un marito, abbandonato dalla moglie che aveva seguito un venditore ambulante, si era suicidato buttandosi sotto un treno, per non dover sopportare la vergogna di essere chiamato cornuto. Qualcuno lo vide fumare con calma in piedi in mezzo ai binari e gli gridò che si scostasse perché arrivava il locomotore, ma lui non si mosse. La voce giunse alle orecchie di Juan José prima che si verificasse la tragedia. I ragazzi Morales e i Reeves furono i primi a comparire sul luogo della morte e, una volta superato il primo spavento, aiutarono a raccogliere i pezzi del cadavere, finché la polizia non li scacciò di lì. Juan José conservò un dito per ricordo, ma quando cominciò a vedere il defunto da tutte le parti capì che doveva separarsi dal suo trofeo. Ormai però era tardi per restituirlo ai parenti, perché i frammenti del suicida erano stati sepolti da alcuni giorni. Il ragazzo, terrorizzato dall'anima in pena, non sapeva che fare del dito, gettarlo nella spazzatura o darlo al boa dei Reeves non gli parve un modo rispettoso di riparare alla malefatta. Gregory consultò segretamente Olga e questa suggerì la soluzione perfetta: lasciarlo discretamente sopra l'altare della chiesa, luogo consacrato dove nessuna anima, nella saggezza del suo giudizio, poteva sentirsi offesa. Lì lo trovò Padre Larraguibel, che tutti chiamavano semplicemente padre per la difficoltà di pronunciare il suo nome, un sacerdote basco dall'anima tormentata ma con un gran senso pratico, il quale lo gettò nel gabinetto senza fare commenti. Aveva abbastanza problemi con i suoi numerosi parrocchiani per perder tempo indagando sull'origine di un dito solitario. I fratelli Reeves andarono a scuola per la prima volta nella loro vita. Erano gli unici biondi con gli occhi azzurri in un insediamento di immigrati latini dove la regola di sopravvivenza era parlare spagnolo e correre velocemente. Agli alunni era proibito usare la lingua nativa, dovevano imparare l'inglese per potersi integrare rapidamente. Quando a qualcuno sfuggiva una parola meticcia che arrivava alle orecchie della maestra, riceveva un paio di sculaccioni. Se a Cristo bastò l'inglese per scrivere la Bibbia, al mondo non c'è bisogno di un'altra lingua, era la spiegazione per un così drastico provvedimento. Per sfida i ragazzi parlavano castigliano in ogni possibile occasione e chi non lo faceva era qualificato come "leccaculo", il peggiore epiteto del repertorio studentesco. Judy e Gregory non tardarono a percepire l'odio razziale e temettero di essere ridotti in polpette alla prima sbadataggine. Il primo
giorno di scuola Gregory era talmente spaventato che non gli usciva la voce neppure per pronunciare il proprio nome. "Abbiamo due nuovi alunni," disse la maestra con un sorriso, felice di poter avere un paio di bambini bianchi fra tanti scuri. "Desidero che li trattiate bene, li aiutiate a studiare e a conoscere le regole di questa istituzione. Come vi chiamate, cari?" Gregory rimase muto, aggrappato al vestito della sorella. Infine Judy lo tolse dall'imbarazzo. "Io sono Judy Reeves e questo è quel tonto di mio fratello," annunciò. Tutta la classe, professoressa compresa, scoppiò a ridere. Gregory sentì qualcosa di caldo e appiccicaticcio nei pantaloni. "Va bene, andate a sedervi," venne loro ordinato. Due minuti dopo Judy cominciò a stringersi il naso e a guardare suo fratello con espressione poco amabile. Gregory fissò lo sguardo a terra e tentò di immaginare che non si trovava lì, che viaggiava sulle strade con il camion, all'aria libera, che suo padre non era ancora ammalato e quella maledetta scuola non esisteva, era solo un incubo. Ben presto anche gli altri bambini avvertirono l'odore e si scatenò una cagnara. "Vediamo... chi è stato?" domandò la professoressa con il suo sorriso falso che sembrava incollato ai denti. "Non c'è motivo di vergognarsi, può capitare a tutti... chi è stato?" "Io non me la sono fatta addosso e neppure mio fratello, lo giuro!" gridò Judy con aria di sfida. Un coro di battute e di risate accolse la sua affermazione. La maestra si avvicinò a Gregory e gli sussurrò all'orecchio di uscire dalla classe, ma lui si afferrò al banco con entrambe le mani, la testa incassata tra le spalle e le palpebre strette, rosso per la vergogna. La donna cercò di tirarlo via per un braccio, prima con calma e poi a strattoni, ma il bambino si teneva attaccato alla seggiola con la forza della disperazione. "Va' a farti fottere," ululò Judy alla professoressa nel suo spagnolo recente. "Questa scuola è una merda!" aggiunse in inglese. La donna restò sbalordita per la sorpresa e la scolaresca ammutolì. "Fottuta fottuta, fottuta! Andiamocene, Greg," e i due fratelli uscirono dall'aula tenendosi per mano, lei col mento all'insù e lui tenendolo incollato al petto. Judy portò Gregory a un distributore di benzina, lo nascose dietro alcuni bidoni di olio e si diede da fare per lavargli i pantaloni con una pompa in modo che nessuno lo vedesse. Si avviarono verso casa in silenzio. "Com'è andata?" chiese Nora Reeves stupita di vederli di ritorno così
presto. "La maestra ha detto che non dobbiamo tornare. Noi siamo molto più intelligenti degli altri alunni. Quei mocciosi non parlano neppure come gli altri, mamma! Non sanno l'inglese." "Che storia è questa?" interruppe Olga, "e perché Gregory ha i vestiti inzuppati?" Fu così che il giorno dopo dovettero tornare a scuola, trascinati per un braccio da Olga, che li accompagnò fino all'aula, li costrinse a scusarsi con la maestra per gli insulti pronunciati, e intanto avvertì gli altri ragazzi che dovevano stare molto attenti a non molestare i Reeves. Prima di uscire affrontò la compatta massa dei marmocchi bruni facendo il gesto di maledire: i due pugni serrati e l'indice e il mignolo puntati come corna. Il suo strano aspetto, il suo accento russo e quel gesto ebbero il potere di placare le belve, almeno per un certo tempo. Una settimana dopo Gregory compì sette anni. Non lo festeggiarono, in realtà nessuno se ne era ricordato perché l'attenzione della famiglia era rivolta al padre. Olga, l'unica che andasse ogni giorno all'ospedale, portò la notizia che Charles Reeves era finalmente fuori pericolo ed era stato trasferito in una corsia dove poteva ricevere visite. Nora e Immacolata Morales lavarono i bambini tirandoli a lucido, misero loro i vestiti migliori, pettinarono i ragazzi con la brillantina e posero nastri alle crocchie delle bambine. In processione si avviarono verso l'ospedale con semplici mazzi di margherite del giardino di casa e un vassoio di involtini di pollo e fagioli fritti con formaggio. La corsia era vasta come un capannone, con letti identici su entrambi i lati e al centro un eterno corridoio che percorsero in punta di piedi fino al punto in cui si trovava il malato. Il nome di Charles Reeves, scritto su di un cartoncino ai piedi del letto, permise di identificarlo, diversamente non lo avrebbero riconosciuto. Si era trasformato in un estraneo, era invecchiato di mille anni, aveva la pelle color della cera, gli occhi infossati entro le orbite ed emanava un odore di mandorle. I bambini, stretti gomito a gomito, rimasero con i fiori in mano, senza sapere dove posarli. Immacolata Morales, arrossendo, coprì il piatto degli involtini col suo scialle, e Nora Reeves incominciò a tremare. Gregory avvertì che qualcosa di irreparabile si era verificato nella sua vita. "Sta molto meglio, presto potrà mangiare," disse Olga sistemando l'ago del siero entro la vena del malato. Gregory retrocesse fino al corridoio, scese le scale a balzi e poi si mise a correre verso la strada. Sulla porta dell'ospedale si accovacciò con la testa
fra le ginocchia, abbracciandosi le gambe, tutto raggomitolato, ripetendo fottuta, fottuta, come una litania. Quando arrivavano, gli immigrati messicani si presentavano a casa di amici o parenti, dove spesso si ammucchiavano diverse famiglie. Le leggi dell'ospitalità erano inviolabili, per i primi giorni un riparo e il cibo non erano negati a nessuno, ma poi ciascuno doveva cavarsela da solo. Venivano da tutti i paesi a sud del confine in cerca di lavoro, senza altri averi che gli abiti che indossavano, un fagotto sulle spalle e la ferma intenzione di migliorare le proprie condizioni in quella Terra Promessa, dove si diceva che il denaro crescesse sugli alberi e chiunque avesse una certa abilità poteva diventare un capitano d'industria con una Cadillac e una bionda appesa al braccio. Non gli avevano detto, però, che per ogni fortunato ne restavano per strada cinquanta e altri cinquecento ritornavano sconfitti, e che non sarebbero stati loro i beneficiati, che il loro destino era aprire la strada per i figli e i nipoti che sarebbero nati in quella terra ostile. Non sospettavano le privazioni dell'esilio, che i padroni avrebbero profittato di loro e le autorità li avrebbero perseguitati, quanti sforzi sarebbe costato riunire la famiglia portare con sé i bimbi e i vecchi, il dolore di dire addio agli amici e di abbandonare i propri morti. Neppure li avevano avvertiti che ben presto avrebbero perduto le loro tradizioni e che il distruttivo logorarsi della memoria li avrebbe lasciati senza ricordi, né che sarebbero stati i più umiliati tra gli umili. Ma se anche lo avessero saputo, forse avrebbero comunque intrapreso il viaggio verso il nord. Immacolata e Pedro Morales chiamavano quelli come loro "fil di ferro bagnati", una combinazione tra "fil di ferro" e "schiena bagnata" come erano chiamati gli immigranti illegali, e raccontavano, scoppiando dalle risate, come avevano passata la frontiera molte volte, o attraversando a nuoto il Rio Grande o tagliando i fili di ferro del confine. In diverse occasioni erano andati in vacanza nella loro terra, entrando e uscendo con i figli di tutte le età e perfino con la nonna, che avevano fatto venire dal suo villaggio quando rimase vedova e le si scombussolò il cervello. Dopo alcuni anni riuscirono a legalizzare i documenti, e adesso i loro figli erano cittadini americani. Alla loro tavola c'era sempre posto per i nuovi arrivati e i bambini crebbero ascoltando storie di poveri diavoli che attraversavano la frontiera nascosti come fagotti nel doppio fondo di un camion, saltavano da treni in corsa, o si trascinavano sotto terra lungo vecchie fognature, sempre col terrore di essere sorpresi dalla polizia, la temuta Migra, e rimandati al loro paese ammanettati, dopo essere stati schedati come
criminali. Molti morivano sotto le pallottole delle guardie, altri di fame e di sete, alcuni asfissiati in scompartimenti segreti dei veicoli dei coyote, il cui lavoro consisteva nel trasportare gente disperata dal Messico a un paese oltre frontiera. All'epoca in cui Pedro Morales fece il primo viaggio fra i latini esisteva ancora il sentimento di riappropriarsi di un territorio che da sempre era stato loro. Violare la frontiera non costituiva per loro un delitto, ma un'avventura animata da un senso di giustizia. Pedro Morales aveva allora vent'anni, aveva appena terminato il servizio militare e siccome non voleva seguire la strada del padre e della nonna, miseri contadini in un'azienda di Zacatecas, preferì intraprendere il cammino verso il nord. Arrivò così a Tijuana dove sperava di ottenere un contratto come bracero, come chiamavano lì i lavoratori dei campi a giornata, perché gli agricoltori americani avevano bisogno di mano d'opera a basso costo, ma si trovò senza soldi, non poté aspettare di compiere le formalità o di corrompere qualche funzionario e poliziotto, né gli piacque quel paese di frontiera dove, a suo parere, gli uomini erano privi di onore e le donne erano senza dignità. Era stanco di andare qua e là a cercare lavoro e non volle chiedere aiuto né accettare elemosine. Infine si decise ad attraversare la recinzione che delimitava il confine, tagliando con delle pinze il filo di ferro, e si mise a camminare in linea retta seguendo il sole, secondo le indicazioni di un amico con più esperienza di lui. Così arrivò nella California del Sud. Nei primi mesi gli andò male, guadagnarsi da vivere non gli riuscì facile come gli avevano detto. Passò di fattoria in fattoria raccogliendo frutta, fagioli o cotone, dormendo per strada, nelle stazioni ferroviarie, nei cimiteri delle automobili, nutrendosi di pane e birra, dividendo gli stenti con migliaia di uomini nella sua stessa situazione. I padroni pagavano meno di quanto avevano promesso e al primo reclamo si rivolgevano alla polizia, sempre pronta a intervenire contro i clandestini. Pedro non poteva fermarsi per molto tempo in nessun posto, la Migra gli stava alle calcagna, ma alla fine si tolse il sombrero e i sandali, adottò i jeans e il berretto a visiera e imparò a mettere assieme un certo numero di frasi in inglese. Non appena si fu sistemato nella nuova terra ritornò al suo paese per cercare la fidanzata della sua infanzia. Immacolata lo aspettava con l'abito da sposa inamidato. "I gringo sono tutti suonati, mettono pesche nella carne e marmellata sulle uova fritte, portano i cani dal parrucchiere, non credono nella Vergine Maria, gli uomini lavano i piatti a casa e le donne lavano le automobili per strada, con reggiseno e calzoni corti, gli si vede tutto, però
se non attacchiamo briga con loro possiamo vivere bene," spiegò Pedro alla fidanzata. Si sposarono con le abituali feste e cerimonie, passarono la prima notte nuziale nel letto dei genitori della ragazza, prestato per l'occasione, e il giorno dopo presero il bus diretto al nord. Pedro aveva un po' di soldi ed era già esperto nel passare la frontiera, ma era ugualmente spaventato, non voleva esporre la moglie a nessun pericolo. Si raccontavano storie raccapriccianti di furti ed eccidi da parte di banditi, di corruzione della polizia messicana e maltrattamenti da parte di quella americana, storie capaci di scoraggiare l'uomo più macho. Immacolata, invece, camminava felice, un passo dietro il marito, col fagotto delle sue cose in equilibrio sul capo, protetta dalle disgrazie dallo scapolare della Vergine di Guadalupe, una preghiera sulle labbra e gli occhi spalancati per vedere il mondo che le si apriva innanzi, come un magnifico cofanetto colmo di sorprese. Non era mai uscita dal suo villaggio e non sospettava che le strade potessero essere interminabili, ma nulla riuscì a scoraggiarla, né le umiliazioni, né le fatiche, né i tranelli della nostalgia e quando si trovò finalmente sistemata col suo uomo nella misera stanza di una pensione dall'altra parte del confine, credette di aver varcato la soglia del paradiso. Un anno dopo nacque il primo figlio, Pedro ottenne un posto in una fabbrica di caucciù a Los Angeles e seguì un corso serale di meccanica. Per aiutare il marito, in seguito, Immacolata andò a lavorare in un'industria d'abbigliamento, fino a che le gravidanze e i figli la obbligarono a restare a casa. I Morales erano persone a posto e senza vizi, facevano rendere il denaro e impararono a utilizzare i vantaggi di quel paese in cui loro sarebbero sempre stati stranieri, ma nel quale per i figli vi sarebbe stato un posto. Erano sempre disposti ad aprire la loro porta per dare aiuto ad altri, la loro casa divenne un punto di riferimento per la gente di passaggio. Oggi a te, domani a me, a volte capita di dare, altre di ricevere, è la legge naturale della vita, diceva Immacolata. Sperimentarono l'effetto moltiplicatore della generosità, non mancò loro né la fortuna né il lavoro, i figli crebbero sani e le amicizie riconoscenti, col tempo superarono le miserie dell'inizio. Cinque anni dopo il suo arrivo in città, Pedro aprì in proprio un'officina meccanica. All'epoca in cui i Reeves andarono a vivere nel loro cortile erano la famiglia più stimata del quartiere, Immacolata era diventata una madre universale e Pedro veniva consultato dalla comunità per la sua rettitudine. In questo ambiente dove a nessuno veniva in mente di rivolgersi alla polizia o alla giustizia per risolvere i propri problemi, egli fungeva da arbitro nelle controversie e da giudice nelle dispute.
Olga aveva ragione, almeno in parte. Un mese dopo l'operazione Charles Reeves uscì dall'ospedale sulle proprie gambe, però la sua intenzione di tornare a vagabondare per le strade appariva assurda, essendo evidente che la convalescenza sarebbe stata molto lunga. Il medico gli prescrisse tranquillità, dieta e controllo continuo, alla vita nomade nemmeno pensarci per un bel po' di tempo, forse per anni. I risparmi erano terminati da molto tempo. e la famiglia doveva una discreta somma ai Morales. Pedro non voleva sentir parlare di questo argomento perché col suo Maestro aveva un debito spirituale, impossibile da estinguersi. Charles Reeves non era uomo che potesse accettare la carità, neppure da un buon amico e discepolo, né potevano continuare a stare accampati nel cortile di casa di altra gente, e nonostante le suppliche dei bambini, che vedevano allontanarsi per sempre la possibilità di abbandonare l'incubo scolastico, il camion venne venduto, dopo aver tolto l'insegna e il megafono. Con i soldi recuperati e altri ottenuti in prestito, i Reeves poterono comprare una casupola in rovina ai margini del quartiere messicano. I Morales mobilitarono i loro parenti per aiutare a ricostruire la baracca. Fu un fine settimana incancellabile per Gregory Reeves, la musica e i cibi latini sarebbero rimasti per sempre legati nella sua mente all'idea di amicizia. Il sabato all'alba si vide arrivare una carovana di veicoli d'ogni genere, dalla camionetta guidata da un omaccione dal sorriso contagioso, fratello di Immacolata, a una colonna di biciclette che trasportavano cugini, nipoti e amici, tutti provvisti di strumenti e materiale da costruzione. Le donne installarono grandi tavole sul terreno e, rimboccatesi le maniche, cucinarono per quella folla di persone. Volavano per aria le teste mozzate dei polli, si ammonticchiavano i pezzi di maiale e di vacca, bollivano il granoturco, i fagioli e le patate, cuocevano le frittate danzavano i coltelli tritando, tagliando e pelando, brillavano al sole i vassoi con la frutta e stavano al riparo dell'ombra quelli colmi di pomodori e cipolle, salsa piccante, insalata di aguacate. Dalle pentole salivano aromi di sughi succulenti, dalle brocche e dalle bottiglie si mescevano tequila e birra, e dalle chitarre sbocciavano le canzoni della generosa terra d'oltre frontiera. I bambini correvano sfrenatamente assieme ai cani attorno alle tavole; le bimbe, più composte, aiutavano a servire i cibi; un cugino minorato dal sereno viso orientale lavava i piatti; la nonna demente seduta sotto un albero si univa al coro delle contadine con la sua voce da cardellino. Olga distribuiva tacos tra gli uomini e teneva a bada i bambini. Durante tutto il fine settimana, fino a sera inoltrata, lavorarono
allegramente sotto la direzione di Charles Reeves e Pedro Morales, segando, inchiodando e saldando. Fu una baldoria di sudore e di canti e il lunedì la casa si risvegliò con i muri ben rinforzati, le finestre nei propri cardini, le lastre di zinco sul tetto e un pavimento di tavole nuove. I messicani tolsero le tavole della scorpacciata, raccolsero i loro arnesi, le chitarre e i figli, salirono sui loro veicoli e scomparvero tornando da dove erano venuti, discretamente, in modo che nessuno li ringraziasse. Quando i Reeves entrarono nella nuova casa, Gregory chiese se sarebbe rimasta in piedi, non credendo alla solidità delle pareti. Quel paio di modeste stanze parve ai bimbi una villa, mai prima d'allora avevano avuto un tetto solido sul capo, ma solamente il telo di una tenda o il cielo. Nora sistemò la sua cucina a kerosene, mise nella sua stanza la vecchia macchina da scrivere e nella sala, al posto d'onore, il fonografo a manovella per ascoltare opere e musica classica, e si dispose a iniziare una nuova tappa della sua vita. Olga, senza molte spiegazioni, decise di separarsi da loro. All'inizio si sistemò nel cortile dei Morales col pretesto che la casa dei Reeves era molto lontana e la sua clientela non sarebbe arrivata fin là, poco dopo prese in affitto una stanza sopra un garage, all'altra estremità del quartiere, dove appese un'insegna offrendo i suoi servizi di indovina, levatrice e guaritrice. La voce delle sue capacità si diffuse rapidamente e la sua reputazione si rafforzò quando fece scomparire per sempre la barba e i baffi della padrona del magazzino. In quel paese, dove neppure gli uomini avevano molti peli sul viso, la magazziniera era bersaglio delle beffe più crudeli, fino a che Olga non intervenne liberandola con un decotto di sua invenzione, lo stesso che prescriveva per curare la scabbia. Quando finalmente la barbuta poté ostentare le sue guance alla piena luce del giorno, le male lingue dissero che almeno i peli le davano un'aria interessante, mentre senza peli era soltanto una signora con un viso da pirata. Corse voce che come guariva con i suoi incantesimi e i suoi unguenti, allo stesso modo la guaritrice poteva fare del male con le sue stregonerie, e la gente la trattò con rispetto. Judy e Gregory andavano sempre a trovarla e lei compariva ogni tanto dai Reeves la domenica all'ora di pranzo, però le sue visite si diradarono e infine cessarono del tutto. A poco a poco in famiglia si smise di pronunciare il suo nome, perché quando accadeva, l'aria si caricava di tensione. Judy, distratta da tante novità, non ne sentiva la mancanza, ma Gregory mantenne i contatti con lei. Charles Reeves tornò a guadagnarsi da vivere dipingendo. Partendo da
una fotografia riusciva a riprodurre un'immagine abbastanza fedele se si trattava di uomini, la migliorava nel caso delle signore cui cancellava i segni dell'età, ne attenuava l'eredità indigena o africana, ne schiariva la pelle e i capelli e le abbigliava con vesti di gala. Non appena si sentì nuovamente in forze ritornò anche alle sue prediche e a scrivere i libri che lui stesso stampava. Nonostante gli ostacoli economici che intralciavano l'iniziativa, Il Piano infinito proseguì il suo corso, con alti e bassi, ma con tenacia. Il pubblico era composto soprattutto da operai e dalle loro famiglie, molti dei quali capivano appena l'inglese, ma il predicatore apprese alcune parole chiave in spagnolo e quando gli mancavano i termini ricorreva a una lavagna su cui disegnava le sue idee. All'inizio partecipavano solo amici e parenti dei Morales, più interessati a osservare da vicino il boa che agli aspetti filosofici della conferenza, ma ben presto si sparse la voce che il Dottore in Scienze Divine era molto eloquente e sapeva tracciare a gran velocità "delle caricature graziosissime, figuratevi, bisogna vedere come le fa, così subito, senza neppure guardare", e i Morales non dovettero insistere per riempire la sala. Quando si rese conto delle precarie condizioni in cui vivevano i suoi vicini, Reeves passò settimane nella Biblioteca a studiare le leggi e poté così offrire agli ascoltatori, oltre all'appoggio spirituale, consigli per navigare nelle acque ignote del sistema. Grazie a lui gli immigrati seppero che, nonostante fossero considerati illegali, godevano di alcuni diritti di cittadinanza, potevano rivolgersi all'ospedale, seppellire i loro morti nel cimitero della contea – benché preferissero sempre riportarli nel proprio paese d'origine – e che avevano numerosi altri vantaggi che fino a quel momento non conoscevano. In quel quartiere Il Piano infinito era in competizione con gli orpelli del cerimoniale cattolico, gli sfarzi e i piatti dell'Esercito della Salvezza, la volubile poligamia dei mormoni e i riti delle sette chiese protestanti del circondario, compresi i battisti che si immergevano vestiti nel fiume, gli avventisti che regalavano torte al limone ogni domenica e i pentecostali che camminavano con le mani sollevate per ricevere lo Spirito Santo. Poiché non era necessario rinunciare alla propria religione, visto che nel Corso di Charles Reeves tutte le dottrine erano accettate, il Padre Larraguibel della Chiesa di Lourdes e i pastori delle altre sette non poterono protestare, benché una volta tanto si trovassero tutti d'accordo e ciascuno dal proprio pulpito accusasse il predicatore di essere un ciarlatano privo di serietà. Fin dal primo incontro, quando il camion dei Reeves depositò il suo
carico nel cortile dei Morales, Gregory e Carmen, la figlia minore della famiglia, divennero amici intimi. Uno sguardo fu sufficiente per stabilire una complicità che sarebbe durata tutta la vita. La bambina era più giovane di un anno, ma appariva molto più sveglia riguardo ai problemi concreti, a lei sarebbe toccato svelare al ragazzo i sistemi e i trucchi della sopravvivenza nel quartiere. Gregory era alto, magro, biondissimo, e lei piccola, paffuta, del colore dorato dello zucchero di canna. Il ragazzo aveva cognizioni inconsuete, poteva mettersi in mostra raccontando le trame delle opere liriche, descrivendo i paesaggi del "National Geographic" oppure recitando versi di Byron; sapeva acchiappare un'anitra, sventrare un pesce e calcolare in un batter d'occhio che distanza percorre un camion in quarantacinque minuti se viaggia a trenta miglia all'ora, tutte cose di scarsa utilità nella sua nuova situazione. Sapeva infilare un boa in un sacco, ma non era in grado di andare a comprare il pane dietro l'angolo, non era mai vissuto con altri bambini né era mai entrato in un'aula scolastica, non aveva il minimo sospetto della malvagità dei bambini o delle tremende barriere razziali, perché Nora gli aveva insegnato che le persone sono buone – il contrario è un errore di natura – e sono tutte uguali. Gregory vi credette finché non andò a scuola. Il colore della sua pelle e la sua completa mancanza di malizia irritavano la maggior parte dei ragazzi, che appena potevano gli si lanciavano addosso, per lo più nel bagno, lasciandolo mezzo stordito per le botte. Non sempre era innocente, spesso provocava gli scontri. Con Juan José e Carmen Morales inventavano scherzi pesanti, come togliere con una siringa il ripieno alla menta dai confetti di cioccolata, rimpiazzandolo con la salsa più piccante della cucina di Immacolata per offrirli alla banda di Martínez, come se fumassimo il calumet della pace, per diventare amici, okay? Dopodiché dovettero nascondersi per una settimana. Ogni giorno, non appena suonava la campana dell'uscita, Gregory correva verso casa come un fulmine, seguito da un branco di ragazzi decisi a farlo fuori. Aveva le gambe così veloci che di solito si fermava a metà della corsa per insultare i suoi avversari. Quando la sua famiglia era accampata nel cortile dei Morales non c'era paura, perché la casa era vicina, Juan José era con lui e nessuno poteva raggiungerlo in un tratto breve, ma quando si trasferirono nella nuova proprietà la distanza era dieci volte maggiore e le possibilità di arrivare in tempo alla meta si riducevano in misura preoccupante. Cambiava il percorso, prendeva scorciatoie diverse e conosceva nascondigli dove poteva restare rannicchiato fino a che non si stancavano di cercarlo. Una volta si nascose in parrocchia,
perché durante la lezione di religione il Padre aveva raccontato che fin dal Medio Evo esisteva la tradizione del diritto di asilo nelle chiese, però la banda di Martínez lo inseguì all'interno dell'edificio e, dopo una tremenda corsa scavalcando le panche lo afferrarono di fronte all'altare e lo presero a calci dinnanzi agli occhi impassibili delle statue dei santi, sotto le aureole di ottone dorato. Accorse alle grida l'energico curato che si incaricò di togliere i nemici di dosso a Gregory tirandoli per i capelli. "Dio non mi ha salvato," gridava il bambino più infuriato che indolenzito, indicando il Cristo insanguinato davanti all'altare. "Come no? Non sono venuto io ad aiutarti, ingrato?" ruggì il parroco. "Troppo tardi! Guardi come mi hanno conciato!" urlava indicando i lividi. "Dio non ha tempo per le mascalzonate. Alzati e pulisciti il naso," gli ordinò il Padre. "Lei ha detto che qui si è al sicuro..." "Certo, purché il nemico sappia che si tratta di un luogo sacro, ma codesti vagabondi non sospettano di aver commesso un sacrilegio." "La sua chiesa da quattro soldi non serve a nulla!" "Attento a quello che dici, guarda che ti faccio saltare i denti, disgraziato ragazzo!" lo minacciò il Padre sollevando la mano. "Sacrilegio! Sacrilegio!" riuscì a ricordargli Reeves e questo ebbe la virtù di calmare l'impeto del sangue basco nelle vene del sacerdote, che respirò a fondo per acquietare l'ira e si sforzò di parlare in modo più adatto alla santità del suo abito. "Ascolta, figliolo, devi imparare a difenderti. Aiutati, che Dio t'aiuta, come dice il proverbio." E a partire da quel giorno il brav'uomo, che in gioventù era stato un contadino attaccabrighe, si chiuse con Gregory nel cortile della sacrestia per insegnargli a tirare di boxe senza tanti riguardi per le regole della cavalleria. La sua prima lezione consistette in tre princìpi inappellabili: l'importante è vincere, chi colpisce per primo colpisce due volte e vai diritto alle palle, figliolo, e che Dio ci perdoni. Ad ogni modo il ragazzo decise che il tempio era meno sicuro del fidato grembo di Immacolata Morales e rafforzò la fiducia nei propri pugni nella stessa misura in cui vacillava la sua fede nell'intervento divino. Da quel momento, se si trovava nei guai, correva a casa dei suoi amici, saltava il recinto del cortile ed entrava in cucina, dove aspettava che Judy arrivasse a salvarlo. Con la sorella poteva camminare tranquillo perché era la bambina più graziosa della scuola, tutti i ragazzi erano innamorati di lei e nessuno avrebbe
commesso la sciocchezza di fare una prepotenza a Gregory in sua presenza. Carmen e Juan José Morales cercavano di far da tramite tra il loro nuovo amico e il resto della ragazzaglia, ma non sempre ci riuscivano perché Gregory appariva diverso, non solo per il suo colore, ma perché era orgoglioso, testardo e sornione. Aveva la testa piena di racconti di indios, animali selvaggi, protagonisti delle opere liriche e di teorie circa le anime che apparivano sotto forma di arance ondeggianti, Logi e Maestri Funzionari, di cui né il Padre né le insegnanti volevano ascoltare i particolari. Inoltre alla più piccola provocazione perdeva il controllo e si lanciava avanti, con gli occhi chiusi e i pugni stretti, si batteva alla cieca e perdeva quasi sempre, a scuola era quello che le prendeva di più. Ridevano di lui, del suo cane – un bastardo dalle zampe corte e di brutto aspetto – e anche di sua madre, che si vestiva all'antica e distribuiva opuscoli sulla religione Bahai o sul Piano infinito. Ma le burle peggiori erano dirette al suo temperamento sentimentale. Il resto dei ragazzi aveva interiorizzato gli insegnamenti machisti dell'ambiente: gli uomini devono essere spietati, coraggiosi, dominatori, solitari, veloci di mano e superiori alle donne in ogni senso. Le due norme fondamentali, apprese dai bambini sin dalla culla, erano che gli uomini non si fidano mai di nessuno e non piangono per nessuna ragione. Gregory invece ascoltava la maestra parlare delle foche del Canada sterminate a colpi di bastone dai cacciatori di pelli oppure il Padre accennare ai lebbrosi di Calcutta e subito, con gli occhi velati di lacrime, decideva di andare al nord a difendere i cetacei o nell'Estremo Oriente come missionario. Viceversa lo stordivano di colpi senza strappargli una lacrima, era così orgoglioso che preferiva essere fatto a pezzi piuttosto che chiedere pietà, solo per questo gli altri ragazzi non lo consideravano un dannato finocchio. Nonostante tutto era un ragazzo allegro, capace di far musica con qualsiasi strumento, con una memoria infallibile per le barzellette, il più ricercato dalle ragazzine durante la ricreazione. In cambio delle sue lezioni di boxe il Padre volle essere aiutato nelle messe della domenica. Quando Gregory ne parlò in casa dei Morales dovette sopportare un'ondata di beffe da parte di Juan José e dei suoi fratelli, fino a che Immacolata non li interruppe per annunciare che, visto che si burlavano di lui, anche suo figlio Juan José avrebbe fatto il chierichetto, e con grande onore, Deo Gratias. I due amici passavano ore in chiesa spargendo incenso a denti stretti, suonando campanelle e recitando latinorum sotto lo sguardo attento del sacerdote, che anche nei momenti culminanti della cerimonia li sorvegliava col famoso terzo occhio
che secondo la gente aveva sulla nuca per vedere i peccati degli altri. A lui piaceva che uno dei suoi aiutanti fosse bruno e l'altro biondo, pensava che quella integrazione razziale era sicuramente gradita al Creatore. Prima della messa i ragazzi preparavano l'altare e poi riordinavano la sacrestia, al momento di andarsene ricevevano in dono un pane all'anice, ma il vero premio erano le sorsate clandestine del vino cerimoniale, un liquore invecchiato, dolce e forte come sherry. Una mattina fu tanto l'entusiasmo che senza accorgersene fecero fuori la bottiglia e rimasero senza vino per l'ultima messa. Gregory ebbe l'ispirazione di sottrarre qualche centesimo dalla colletta e uscire sparato a comprare della Coca Cola. La agitarono per eliminare il gas e poi riempirono l'ampolla del vino. Durante la messa si comportarono come pagliacci e neppure le occhiate truci del sacerdote riuscirono ad impedire bisbigli, risate, spintoni e squilli di campanelle fuori tempo. Quando il Padre sollevò la coppa per consacrare la Coca Cola, i ragazzi si sedettero sugli scalini dell'altare perché per il gran ridere non riuscivano a stare in piedi. Qualche istante dopo il sacerdote bevve il liquido con reverenza, assorto nelle parole della liturgia, e al primo sorso si rese conto che il diavolo aveva messo la mano sul Calice, a meno che quella volta la Consacrazione avesse prodotto un evidente cambiamento nelle molecole del vino, idea che il suo senso pratico gli fece immediatamente scartare. Aveva una lunga esperienza dei casi della vita e continuò imperterrito la messa, senza un gesto che rivelasse ciò che era successo. Portò a termine il rituale senza fretta, uscì dignitosamente seguito dai due chierichetti che camminavano a balzelloni e, appena arrivati in sacrestia, si tolse uno dei suoi pesanti sandali di cuoio e si dedicò a somministrare loro una sonora lezione. Quello fu il primo di molti anni difficili per Gregory Reeves, un tempo di incertezze e timori, durante il quale molte cose cambiarono, ma anche di birichinate, amicizie, sorprese e scoperte. Non appena la mia famiglia si organizzò nelle nuove usanze e mio padre si sentì più forte, iniziò la sistemazione della baracca. Dopo l'aiuto dei Morales e dei suoi amici non appariva più in rovina, mancavano però alcune essenziali comodità. Mio padre installò un primitivo sistema di illuminazione elettrica, costruì una capanna per il gabinetto e lui e io assieme ripulimmo il terreno dalle pietre e dalle erbacce perché mia madre potesse impiantare l'orto di verdure e fiori che sempre aveva desiderato. Costruì anche un piccolo ripostiglio sul bordo dell'avvallamento, dove terminava la proprietà, per riporre gli arnesi e
l'equipaggiamento per i viaggi, non aveva perso l'illusione di tornare un giorno ai suoi vagabondaggi con un altro camion. Poi mi ordinò di scavare un buco, affermava che secondo un filosofo greco ogni uomo prima di morire deve procreare un figlio, scrivere un libro, costruire una casa e piantare un albero e lui aveva già soddisfatto alle prime tre richieste. Scavai senza alcun entusiasmo dove lui mi indicò, non mi piaceva contribuire alla sua morte, ma non osai rifiutarmi né lasciare il lavoro a metà. "Una volta, quando viaggiavo nella pianura astrale, fui condotto in un locale molto grande, come una fabbrica," spiegava Charles Reeves ai suoi ascoltatori. "Lì vidi molte macchine interessanti, alcune non erano terminate e altre erano assurde, i criteri meccanici erano sbagliati e non avrebbero mai funzionato bene. Chiesi a un Logo a chi appartenessero. Queste sono le tue azioni incompiute, mi spiegò. Ricordai che in gioventù avevo avuto l'ambizione di fare l'inventore. Quelle macchine grottesche erano il prodotto di quel tempo e da allora stavano immagazzinate lì aspettando che io me ne servissi. I pensieri prendono forma, più definita è un'idea, più concreta è la forma. Non si devono lasciare idee o progetti incompiuti, devono essere distrutti, per non sprecare energia che sarebbe meglio utilizzata in un altro campo. Bisogna pensare in modo costruttivo, ma attento." Io avevo ascoltato molte volte questo racconto, mi infastidiva quell'ossessione di completare tutto e dare a ogni oggetto e pensiero una collocazione precisa perché, giudicando da quello che vedevo attorno a me, il mondo era puro disordine. Mio padre uscì di buon mattino e tornò con Pedro Morales su un camion che trasportava un salice di discrete dimensioni. Poi tutti e due lo scaricarono a fatica e lo piantarono nella fossa. Per diversi giorni osservai l'albero e mio padre, aspettando che a un certo momento il primo seccasse o il secondo cadesse fulminato, ma visto che non succedeva nulla di tutto ciò, conclusi che gli antichi filosofi erano dei ciarlatani. Il timore di rimanere orfano ricorreva nella mia mente con frequenza. Nei sogni Charles Reeves mi appariva come uno scheletro scricchiolante dalle vesti oscure con un grosso serpente attorcigliato ai piedi, e quando mi svegliavo lo ricordavo come lo avevo visto in ospedale, ridotto pelle e ossa. L'idea della morte mi terrorizzava. Da quando ci eravamo stabiliti in città mi perseguitava un presentimento di pericolo, le regole usuali andarono in pezzi, anche le parole persero il loro abituale significato e dovetti apprendere altri codici, altri gesti, una strana lingua piena di erre e i lunghe sonore. Le strade senza fine e i vasti paesaggi furono sostituiti da un susseguirsi di stradicciole rumorose, sudicie, maleodoranti e tuttavia anche
affascinanti, dove le avventure nascevano ad ogni passo. Impossibile resistere al fascino delle strade, in esse si svolgeva l'esistenza, erano scenari di lotte, di amori e di affari. Ero incantato dalla musica latina e dall'abitudine di raccontare storie. La gente parlava della propria vita con toni da leggenda. Credo di avere imparato lo spagnolo solo per non perdere una parola di quei racconti. Il mio posto preferito era la cucina di Immacolata Morales tra la fragranza delle pentole e i problemi della famiglia. Non mi stancavo di quell'eterno circo, ma sentivo anche il segreto bisogno di recuperare il silenzio della natura in cui ero cresciuto, andavo in cerca di alberi, camminavo ore per salire su una piccola collina dove per qualche momento tornavo a sentire il piacere di esistere nella mia pelle. Per il resto del tempo il mio corpo risultava un impiccio, dovevo proteggerlo da continue minacce, mi pesavano come zavorra i capelli chiari, il colore della mia pelle e i miei occhi, il mio scheletro da uccellino. Dice Immacolata Morales che io ero un bimbo allegro, pieno di forza e di energia con un tremendo gusto per la vita, ma io non mi ricordo così, nel ghetto sperimentai il malessere di essere diverso, non riuscivo a integrarmi, volevo essere come gli altri, sciogliermi nella moltitudine, diventare invisibile e così muovermi tranquillo per le strade o giocare nel cortile della scuola, libero dalle bande di ragazzi bruni che scaricavano su di me le aggressioni che loro stessi ricevevano dai bianchi non appena sporgevano il naso fuori dal loro quartiere. Quando mio padre uscì dall'ospedale, apparentemente ricominciammo una vita normale, ma l'equilibrio familiare era spezzato. Pesava anche l'assenza di Olga, mancavano il suo baule di tesori, i suoi utensili da negromante, i suoi strepitosi vestiti, la sua risata sfrontata, i suoi racconti, la sua instancabile operosità, senza di lei la casa era come un tavolo zoppo. I miei genitori seppellirono l'episodio sotto una coltre di silenzio e io non osai chiedere spiegazioni. Mia madre diventava ogni istante più silenziosa e solitaria, mentre mio padre, che aveva sempre controllato il suo carattere, divenne rabbioso, imprevedibile, violento. È colpa dell'operazione, la chimica del suo Corpo Fisico è alterata, per questo la sua Aura si è offuscata, ma ben presto starà bene, lo giustificava mia madre usando il gergo del Piano infinito, ma con un tono privo della minima convinzione. Non mi sentii mai a mio agio con lei, quell'essere sbiadito e amabile era molto diverso dalle madri degli altri bambini. Le decisioni, i permessi e i castighi provenivano sempre da mio padre, le consolazioni e le risate da Olga, le confidenze erano con Judy. Mi univano a mia madre soltanto libri e quaderni di scuola, la musica e la passione di osservare le costellazioni in
cielo. Non mi toccava mai, io mi abituai alla sua distanza fisica e al suo temperamento riservato. Un giorno persi Judy, e sperimentai il panico della solitudine assoluta, che vinsi solamente diversi decenni più tardi quando un amore insperato allontanò quella specie di maledizione. Judy era sempre stata una bambina aperta e simpatica, che mi proteggeva, mi dava ordini, mi teneva attaccato alle sue gonne. La notte io scivolavo nel suo letto e lei mi raccontava favole o inventava per me dei sogni con istruzioni precise su come sognarli. Le forme di mia sorella addormentata, il suo calore e il ritmo del suo respiro accompagnarono la mia prima infanzia, accoccolato al suo fianco dimenticavo la paura, vicino a lei nulla poteva farmi male. Una notte di aprile, quando Judy stava per compiere nove anni e io ne avevo sette, aspettai che tutto fosse silenzio e uscii dal mio sacco da notte per introdurmi nel suo, come facevo sempre, ma mi trovai davanti a una feroce resistenza. Coperta fino al mento e con le mani aggrappate al sacco mi assalì gridando che non mi voleva, che non mi avrebbe mai più lasciato dormire con lei, che erano finiti i racconti, i sogni inventati e tutto il resto, e che io ero troppo grande per quelle stupidaggini. "Che ti succede, Judy?" supplicai spaventato, non tanto per le sue parole quanto per il rancore nella sua voce. "Va' all'inferno e non toccarmi più per il resto della tua vita!" e scoppiò a piangere con il viso rivolto al muro. Mi sedetti a terra accanto a lei senza sapere cosa dire, rattristato ben più dal suo pianto che dal suo rifiuto. Dopo un bel po' di tempo mi alzai e in punta di piedi aprii la porta a Oliver, e da quel giorno dormii abbracciato al mio cane. Nei mesi seguenti ebbi la sensazione che esistesse in casa mia un mistero dal quale io ero escluso, un segreto tra mio padre e mia sorella, o forse tra loro e mia madre, o fra tutti e Olga. Intuii che era meglio ignorare la verità e non cercai di scoprirla. L'atmosfera era così tesa che facevo in modo di stare lontano da casa il più possibile, andavo a trovare Olga o i Morales, facevo lunghe camminate nella campagna allontanandomi per parecchie miglia e tornavo al tramonto, per nascondermi nel piccolo magazzino tra gli arnesi e i fagotti, e piangevo ore e ore senza sapere perché. Nessuno mi chiese nulla. L'immagine di mio padre cominciò a cancellarsi e fu sostituita da quella di uno sconosciuto, un uomo ingiusto e rabbioso che mentre accarezzava Judy picchiava me al più piccolo pretesto e mi teneva lontano da sé, vai a giocare fuori, i ragazzi devono farsi robusti per la strada, grugniva. Nessuna somiglianza tra il predicatore bello e carismatico di un tempo e
quel vecchio rancoroso che passava le giornate su una poltrona ascoltando la radio, mezzo svestito e con la barba lunga. Allora non dipingeva già più né poteva dedicarsi al Piano infinito, la situazione in casa peggiorò a vista d'occhio e di nuovo Immacolata Morales si fece viva con i suoi intrugli piccanti, il sorriso generoso e la sua capacità di cogliere le necessità degli altri. Olga mi dava del denaro con la raccomandazione di metterlo di nascosto nel portafoglio di mia madre. Questa strana forma di introito continuò per molti anni, senza che mia madre facesse mai il minimo commento, come se non si accorgesse di quel misterioso moltiplicarsi di banconote. Olga aveva il dono di imprimere intorno a sé il suo stravagante sigillo. Era un uccello migratore e avventuroso, ma ovunque si fermasse, anche per poche ore, riusciva a creare l'illusione di un nido stabile. Possedeva poche cose, ma sapeva disporle attorno a sé in maniera che, se lo spazio era piccolo, bastava un baule a contenerle, se era più grande si dilatavano fino a riempirlo. Sotto una tenda, in un qualsiasi angolo della strada, in una capanna o in prigione, dove in seguito andò a finire, era come una regina nel suo palazzo. Quando si separò dai Reeves trovò in affitto a prezzo modico un locale, un porcile sordido con l'aspetto malinconico comune a tutto il quartiere, ma riuscì a dargli luce con colori appropriati, trasformandolo in poco tempo in punto di riferimento per chi chiedeva un indirizzo: tre isolati più avanti, giri a destra e quando vede una casa tutta dipinta svolti a sinistra, ed è arrivato. La scala d'ingresso e le due finestre vennero decorate secondo il suo stile, pendagli di conchiglie e cristalli chiamavano i passanti col loro tintinnare di campane, luci multicolori evocavano un eterno Natale e il suo nome in caratteri corsivi coronava quella strana pagoda. I proprietari della casa si stancarono di esigere un poco di discrezione e finirono per rassegnarsi ai fronzoli dell'edificio. In breve nessuno, nel raggio di varie miglia, ignorava dove vivesse Olga. All'interno l'abitazione presentava un aspetto altrettanto strampalato, aveva diviso la stanza in due parti con una tenda, in una riceveva la clientela e nell'altra aveva messo il letto e i vestiti appesi a dei chiodi alla parete. Utilizzando le proprie doti artistiche e la cassetta di colori a olio dei tempi del suo lavoro con Charles Reeves, ricoprì le pareti con i segni dello Zodiaco e con scritte in caratteri cirillici, che producevano una forte impressione sui visitatori. Comprò mobili di seconda mano e in un volo di fantasia li trasformò in divani orientali; sugli scaffali erano allineate statuine di santi e maghi, anfore con le sue pozioni, candele e amuleti; dal
soffitto pendevano fasci di erbe disseccate e non era facile muoversi tra i tavolini bassi dove conservava bastoncini di incenso di dubbia qualità, comprati nelle botteghe dei pakistani. Quell'aroma dolciastro gareggiava perennemente con quello delle piante e delle pozioni medicinali, dei filtri d'amore e dei ceri per gli incantesimi. Aveva ricoperto le lampade con scialli frangiati, stesa a terra una pelle di zebra tarlata e accanto alla finestra regnava tronfio un grande Budda di gesso dorato. In quell'antro si ingegnava a cucinare, vivere e svolgere la sua attività, il tutto in uno spazio minimo che per arte e fantasia si adeguava alle sue necessità e ai suoi capricci. Conclusa la decorazione della casa cominciò a spargere la voce che vi sono donne capaci di sviare il corso delle disgrazie, di scrutare nell'oscurità dell'anima, e che lei era una di queste. Poi si sedette ad aspettare, ma non per molto, perché la gente già era informata della cura alla magazziniera barbuta e ben presto i clienti si accalcarono per chiedere i suoi servizi. Gregory andava a trovare Olga in ogni momento. Alla fine delle lezioni usciva di corsa, inseguito dalla banda di Martínez, un ragazzo un po' più grande che era però in seconda, non aveva imparato a leggere e non riusciva a farsi entrare in testa l'inglese, ma aveva già il fisico e l'atteggiamento di un bravaccio. Oliver aspettava abbaiando accanto al chiosco dei giornali, nel coraggioso impegno di trattenere i nemici e dare vantaggio al suo padrone per seguirlo poi come una freccia fino alla meta finale. Per sviare Martínez il ragazzo soleva dirottare verso la casa di Olga. Le sue visite all'indovina erano una festa. A volte si nascondeva sotto il letto senza che lei lo vedesse, e dal suo nascondiglio assistette a uno dei suoi straordinari consulti. Il proprietario del bar "I tre amici", donnaiolo e vanitoso, con baffetti da attore cinematografico e una fascia elastica per trattenere la pancia, si presentò turbato alla fattucchiera in cerca di sollievo a un segreto male. Lei lo ricevette avvolta nella sua tunica da astrologa nella stanza appena illuminata da lampadine rosse e profumata d'incenso. L'uomo si sedette davanti alla tavola rotonda dove lei riceveva i clienti e raccontò, con esitanti preamboli e implorando la massima discrezione, che soffriva di bruciori continui ai genitali. "Vediamo, faccia vedere," ordinò Olga e si mise a esaminarlo a lungo con una lampadina tascabile e una lente, mentre Gregory sotto il letto si mordeva le labbra per non scoppiare a ridere. "Ho preso le medicine che mi hanno prescritto all'ospedale, ma niente. Sono quattro mesi che sto male da morire, signora." "Ci sono malattie del corpo e malattie dell'anima," diagnosticò la maga
tornando sul suo trono a capotavola. "Questa è una malattia dell'anima, perciò non guarisce con medicine normali. Si paga con la stessa moneta con cui si è peccato." "Eh?" "Lei ha fatto un cattivo uso del suo organo. A volte gli errori si pagano con malattie e altre volte con mali morali," spiegò Olga, che era al corrente di tutte le chiacchiere del quartiere, conosceva la cattiva reputazione del suo cliente e la settimana precedente aveva venduto polvere per la fedeltà alla sconsolata sposa del barista. "Posso aiutarla, ma l'avverto che ogni consultazione le costerà cinque dollari e che non sarà molto piacevole. Ad occhio posso calcolare che saranno necessarie almeno cinque visite." "Se può servirmi a migliorare..." "Deve pagarmi quindici dollari in anticipo. Così siamo sicuri che non si pentirà per via, guardi che una volta iniziata la cura deve essere portata a termine, altrimenti il membro le si restringe e diventa come una ciliegia appassita, capisce?" "Come no, signora cara, come comanda lei," assentì terrorizzato il dongiovanni. "Può tenere la camicia, ma di sotto si tolga tutto," ordinò lei prima di scomparire dietro il paravento a preparare gli elementi necessari per la cura. Sistemò l'uomo in piedi al centro della stanza, lo circondò con un cerchio di candele accese, gli sparse delle polveri bianche sul capo, mentre recitava una litania in una lingua sconosciuta, poi unse la zona malata con qualcosa che Gregory non riuscì a vedere, ma che era indubbiamente di rapido effetto, perché dopo pochi secondi il poveretto saltava come una scimmia e gridava a pieni polmoni. "Non esca dal cerchio," avvertì Olga mentre aspettava tranquillamente che le fitte passassero. "Ahi che puttanata, mammina! È peggio della salsa di peperoncino piccante..." gemette il paziente quando riprese fiato. "Se non fa male non guarisce," sentenziò lei, che conosceva i benefici del castigo per liberarsi dalla colpa, pulire la coscienza e guarire le malattie nervose. "Adesso le metterò qualcosa di rinfrescante," e lo spennellò abbondantemente con tintura blu di metilene, poi gli legò un nastro rosa e gli ordinò di tornare la settimana seguente senza togliersi il nastro per nessun motivo, e di darsi la tintura tutte le mattine. "Ma come farò a... be', lei mi capisce, con quel laccio lì."
"Dovrà comportarsi esattamente come un santo. Questo le è capitato per aver svolazzato di fiore in fiore. Perché non si accontenta di sua moglie? Quella povera donna si è guadagnata il paradiso, lei non la merita," e con quest'ultima raccomandazione di buona condotta lo congedò. Gregory scommise un dollaro con Juan José e Carmen Morales che il proprietario del bar aveva il pisello azzurro ornato con un nastro da compleanno. I ragazzi passarono una mattinata arrampicati sul tetto de "I tre amici" spiando nel bagno attraverso un foro per comprovare il fatto fenomenale con i propri occhi. Poco dopo tutto il quartiere conosceva la storia e da allora il barista dovette sopportare il nomignolo di Piffero Azzurro che lo avrebbe accompagnato fino alla tomba. Siccome a volte Olga non gli apriva perché era occupata con i clienti, Gregory si sedeva sulla scala e faceva l'inventario dei nuovi addobbi della facciata, meravigliandosi per la capacità della donna di rinnovarsi ogni giorno. A volte lei si affacciava, coperta solo da una vestaglia, i capelli scarmigliati come un viluppo di alghe rosse, gli dava dei biscotti o una moneta, non possiamo vederci oggi, Greg, devo lavorare, torna domani, gli diceva con un rapido bacio sulla guancia. Il piccolo si allontanava deluso, ma capiva che lei aveva impegni improrogabili. C'erano molti tipi di clienti: disperati che cercavano di migliorare la loro sorte, donne incinte disposte a usare qualsiasi mezzo per opporsi alla natura, ammalati sfiduciati dalla medicina tradizionale, amanti abbandonati che desideravano vendicarsi, solitari tormentati dal silenzio e gente comune che voleva soltanto un massaggio un amuleto, una lettura del palmo della mano o tè di fiori orientali per il mal di testa. Per ognuno Olga disponeva di una dose di magia e illusione, senza soffermarsi a considerare la legittimità dei suoi metodi, perché in quel quartiere nessuno conosceva né dava importanza alle leggi dei gringo. L'indovina non aveva figli propri e nel suo cuore aveva adottato quelli di Charles Reeves. Non si offese per l'indifferenza di Judy, perché sapeva che appena ne avesse sentito il bisogno la bambina sarebbe andata da lei, e gradì in silenzio la fedeltà di Gregory, che ricompensava con carezze e regali. Attraverso di lui si teneva al corrente della situazione dei Reeves. Molte volte il bimbo le chiese perché non andava a trovarli, ma ottenne solo risposte vaghe. Una volta in cui l'indovina non poté riceverlo, credette di udire la voce di suo padre attraverso la porta e il cuore quasi gli scoppiò nel petto, si vide in piedi sull'orlo di un abisso senza fine, sul punto di togliere il coperchio a una cassa piena di orrori. Si allontanò di corsa senza
volersi accertare di quello che temeva, ma la curiosità fu più forte e a metà strada tornò indietro per nascondersi e aspettare che uscisse il cliente di Olga. Scese la notte senza che la porta si aprisse e alla fine dovette tornare a casa. Al ritorno trovò Charles Reeves che leggeva il giornale sulla sua poltrona di vimini. Quanto visse realmente mio padre? Quando incominciò a morire? Negli ultimi mesi ormai non era più lui, il suo corpo era talmente cambiato che riusciva difficile riconoscerlo e il suo spirito non si trovava più lì. Un soffio malefico animava quel vecchio che continuava a chiamarsi Charles Reeves, ma che non era mio padre. Per questo io non ho brutti ricordi. Judy, invece, è piena di odio. Abbiamo parlato di questo ma non ci siamo trovati d'accordo né sui fatti né sulle persone, come se ciascuno fosse il protagonista di un racconto diverso. Vivevamo assieme nella stessa casa nello stesso periodo, tuttavia la sua memoria non ha registrato le stesse cose della mia. Mia sorella non capisce perché io resti aggrappato all'immagine di un padre saggio e a un'epoca felice in cui ci si accampava all'aria aperta sotto la profonda cupola di un cielo pieno di stelle o si cacciavano anatre, rannicchiati tra i giunchi all'alba. Giura che le cose non sono mai state così, che ci fu sempre violenza nella nostra famiglia, che Charles Reeves era un ciarlatano da quattro soldi, un venditore di menzogne, un degenerato che morì da vizioso e non ci lasciò niente di buono. Mi accusa di aver rimosso il passato, dice che preferisco ignorare i suoi vizi, dev'essere vero perché io non sapevo che fosse alcolizzato e pieno di cattiveria, come sostiene lei. Non ricordi come per qualsiasi sciocchezza ti frustava con un cinturone di cuoio? mi ripete Judy. Sì, però non gli serbo rancore per questo, a quei tempi tutti i ragazzi venivano picchiati, faceva parte dell'educazione. Judy la trattava meglio, sembra che non ci fosse l'abitudine di picchiare tanto le bambine. E poi io ero molto inquieto e testardo, mia madre non poté mai piegarmi, per questo cercò di liberarsi di me in più di un'occasione. Poco prima di morire, in uno di quei rari incontri in cui riuscimmo a parlare senza ferirci, mi assicurò che non lo fece per mancanza di affetto, mi aveva sempre voluto molto bene, disse, ma non poteva badare a due bambini e, naturalmente, preferì restare con mia sorella, che era più docile, me invece non riusciva a controllarmi. A volte sogno il cortile dell'orfanotrofio. Judy era molto migliore di me, su questo non c'è dubbio, una bimbetta tranquilla e simpatica, era sempre disposta a obbedire e aveva la civetteria naturale delle bambine graziose.
Fu così fin verso i tredici o quattordici anni, poi si trasformò. Prima ci fu l'odore di mandorle. Arrivò inavvertitamente quasi impercettibile all'inizio, un alito tenue che passava senza lasciare tracce, così leggero che mi riusciva impossibile stabilire se l'avevo sentito realmente o se era solo il ricordo della visita all'ospedale, quando operarono mio padre. Poi ci fu il rumore. Il cambiamento più grosso fu questo rumore. Prima, al tempo dei viaggi in camion, il silenzio era parte della vita, ogni suono aveva un suo spazio preciso. Sulla strada si udiva solo il motore del veicolo e a volte la voce di mia madre che leggeva, quando ci accampavamo sentivamo il crepitio della legna sul fuoco, il mestolo nella pentola, le lezioni scolastiche, brevi dialoghi, le risa di mia sorella che giocava con Olga, il latrare di Oliver. Di notte il silenzio era tanto denso che il gracchiare di una civetta o l'ululare di un coyote sembravano fragorosi. Secondo mio padre, così come ogni cosa ha il suo posto, ogni suono ha il suo momento. Si indignava quando qualcuno interrompeva la conversazione: durante i suoi sermoni si doveva trattenere il fiato, perché anche un involontario colpo di tosse provocava un suo sguardo di ghiaccio. Alla fine tutto si sconvolse nella mente di Charles Reeves. Nelle sue peregrinazioni astrali deve avere trovato non so quale hangar pieno di opere mal riuscite e di invenzioni demenziali, e anche stanze zeppe di odori, di sapori, gesti e parole prive di senso, altre piene fino a scoppiare delle intenzioni più diverse, e una dove il fragore del disastro risuonava come i rintocchi di una mostruosa campana di ferro. Non mi riferisco ai suoni del quartiere: il traffico della strada, il gridare della gente, le ruspe degli operai che costruivano il distributore di benzina, ma alla confusione che segnò i suoi ultimi mesi. La radio, che prima accendevamo solo per ascoltare notizie della guerra e musica classica, ci assordava ora giorno e notte con ogni sorta di inutili messaggi, partite di pallone e canzoni volgari. Al di sopra di questo strepito mio padre protestava gridando per delle sciocchezze, dava ordini contraddittori, ci chiamava in ogni momento, leggeva ad alta voce i suoi sermoni o passi della Bibbia, tossiva, sputava in continuazione e si soffiava il naso creando un'ingiustificata confusione, piantava chiodi nel muro e giocherellava con i suoi arnesi come se stesse sistemando un lavoro incompiuto, mentre in realtà quelle frenetiche attività non avevano un fine preciso. Anche quando dormiva era rumoroso. Quell'uomo, prima così accurato nei modi e nel vestire, si addormentava di colpo sulla tavola, con la bocca piena di cibo, scosso da un russare profondo, ansando e mormorando quasi fosse perduto nel labirinto di chissà quali lussuriosi deliri. Basta, Charles, lo svegliava
mia madre turbata quando lo sorprendeva nel sonno a palparsi il sesso, è la febbre, ragazzi, aggiungeva per tranquillizzarci. Mio padre delirava, certamente, la febbre lo attaccava di sorpresa in qualunque momento del giorno, ma di notte non trovava quiete, al mattino era madido di sudore. Mia madre lavava le lenzuola ogni mattina, non solo per il sudore dell'agonia, ma anche per le macchie di sangue e di pus dei foruncoli. Sulle sue gambe si formavano ascessi purulenti, che lui curava con arnica e compresse di acqua calda. Da quando si era ammalato mia madre non dormiva nel suo letto, passava la notte adagiata su una poltrona, coprendosi con uno scialle. Gli ultimi giorni, quando ormai mio padre non poteva più alzarsi, Judy rifiutava di entrare nella sua camera, non voleva vederlo, e non c'era minaccia o premio che potessero portarla accanto all'infermo, io potei avvicinarmi a poco a poco, prima osservandolo dalla soglia e poi sedendomi sul bordo del letto. Era emaciato, la pelle verdastra attaccata alle ossa, gli occhi infossati nelle orbite, solo il soffio asmatico del suo respiro indicava che era vivo. Toccavo la sua mano, lui sollevava le palpebre e il suo sguardo non mi riconosceva. In certi momenti la febbre calava e lui sembrava resuscitare da una lunga morte, beveva un poco di tè, chiedeva di accendere la radio, si alzava e faceva alcuni passi incerti. Una mattina uscì mezzo svestito nel cortile a guardare il salice e mi indicò i rami teneri, sta crescendo e vivrà per piangermi, disse. Quel giorno, tornando da scuola, Judy e io vedemmo di lontano l'ambulanza nel vicolo di casa. Io corsi, ma mia sorella si sedette sul marciapiede, abbracciata alla borsa dei libri. Nel cortile si erano già raccolti alcuni curiosi, Immacolata Morales nel portico aiutava due infermieri a far passare una barella attraverso la soglia troppo stretta. Entrai in casa e mi aggrappai alla veste di mia madre, che mi respinse sconvolta, come presa da nausea. In quell'istante sentii un'intensa folata di odore di mandorle e uno squallido vecchio comparve ben ritto in piedi, sull'uscio della stanza. Era vestito solo di una camicia, era scalzo, con i pochi capelli che ancora gli rimanevano arruffati sul capo, gli occhi fiammeggianti nella demenza della febbre, un filo di saliva che scendeva dalla commessura delle labbra. Con la mano destra si appoggiava alla parete, con la sinistra si masturbava. "Basta Charles, finiscila!" gli ingiunse mia madre. "Basta, per favore, basta," supplicò nascondendo il viso tra le mani. Immacolata Morales abbracciò mia madre mentre gli infermieri prendevano mio padre, lo portavano sotto il portico e lo sistemavano nella barella coprendolo con una coperta e legandolo con due cinghie. Lanciava maledizioni e tremende
parolacce, un linguaggio che prima di allora non gli avevo mai sentito. Lo accompagnai all'ambulanza, però mia madre non mi permise di andare con loro, la macchina si allontanò ululando in una nube di polvere. Immacolata Morales chiuse la porta di casa, mi prese per mano, chiamò Oliver con un fischio e incominciò a camminare. Per strada incontrammo Judy che era sempre immobile nel medesimo posto, sorridendo in modo strano. "Andiamo, bambini, vi comprerò lo zucchero filato," disse Immacolata Morales, trattenendo le lacrime. Fu quella l'ultima volta che vidi mio padre vivo, dopo qualche ora morì all'ospedale, distrutto da inarrestabili emorragie interne. Quella notte dormii con Judy in casa degli amici messicani. Pedro Morales non c'era, aiutava mia madre nelle pratiche funebri. Prima che ci sedessimo per la cena, Immacolata condusse in disparte me e mia sorella e ci spiegò, meglio che poté, che non dovevamo più preoccuparci, il Corpo Fisico di nostro padre aveva finito di soffrire e il suo Corpo Mentale era volato al Piano Astrale, dove certamente si era riunito con i Logi e i Maestri Funzionari, dei quali faceva parte. "Cioè, se ne è andato in cielo con gli angeli," aggiunse con dolcezza, molto più a suo agio con i termini della sua fede cattolica che con quelli del Piano infinito. Judy e io restammo con i ragazzi Morales, che dormivano in due o tre per letto, tutti nella stessa stanza. Immacolata permise a Oliver di entrare, era mal abituato e se restava fuori avrebbe inscenato un pandemonio di guaiti. Io incominciavo a ciondolare sfinito da emozioni contrastanti, quando udii nell'oscurità la voce di Carmen sussurrare di farle posto, e sentii il suo corpo piccolo e tiepido scivolare al mio fianco. Apri la bocca e chiudi gli occhi, mi disse, e sentii che mi metteva un dito sulle labbra, un dito unto con qualcosa di vischioso e dolce, che io succhiai come una caramella. Era latte condensato. Mi sollevai un po' e misi anch'io il dito nel barattolo per dargliene e così restammo leccando e succhiando, fino a che il dolce non finì. Poi dormii tranquillo, nauseato dallo zucchero, con il viso e le mani impiastricciate, abbracciato a lei, con Oliver ai piedi, accompagnato dal respiro e dal calore degli altri bambini e dal russare della nonna demente legata con una lunga corda alla vita di Immacolata Morales, che dormiva nella stanza vicina. La morte del padre sconquassò la famiglia, in poco tempo si perse la rotta e ognuno dovette navigare solo. Per Nora la vedovanza fu un tradimento, si considerò abbandonata in un ambiente ostile, con due figli e
priva di risorse, ma nello stesso tempo provò un inconfessabile sollievo, perché ultimamente il suo compagno non era più l'uomo che aveva amato, e la convivenza si era trasformata in un martirio. Tuttavia poco dopo il funerale cominciò a dimenticare la decrepitezza degli ultimi tempi e ad accarezzare i ricordi del passato, immaginava di essergli unita da un filo invisibile, come quello da cui pendeva l'arancia del Piano infinito, quell'immagine le restituì la sicurezza di un tempo, quando il marito regnava sul destino della famiglia con la sua fermezza di Maestro. Nora si abbandonò al languore del suo temperamento si accentuò in lei il letargo iniziato con l'orrore della guerra, un deterioramento della volontà che crebbe insensibilmente e si mostrò in tutta la sua dimensione con la vedovanza. Non parlava mai del defunto al passato, alludeva alla sua assenza in termini vaghi, come se fosse partito per un lungo viaggio astrale, e più tardi, quando cominciò a comunicare con lui in sogno, si riferiva all'episodio con il tono di chi riporta una comunicazione telefonica. I figli, vergognandosi, non volevano sentir parlare di quei deliri, temendo che la conducessero alla follia. Si ritrovò sola. In quell'ambiente era una straniera, masticava appena un po' di spagnolo e si sentiva molto diversa dalle altre donne. L'amicizia con Olga era finita, con i figli aveva ben pochi rapporti, non entrò in intimità con Immacolata Morales o con altre persone del quartiere, era gentile, ma la gente la evitava perché appariva strana, nessuno desiderava ascoltare le sue stramberie sulle opere liriche o sul Piano infinito. L'abitudine alla dipendenza era talmente radicata in lei che quando perse Charles Reeves rimase come stordita. Fece qualche tentativo per guadagnarsi da vivere come dattilografa o come sarta, ma non ci riuscì, non poté neppure tradurre dall'ebraico o dal russo, come avrebbe voluto, perché nel quartiere nessuno aveva bisogno di queste prestazioni e la prospettiva di avventurarsi nel centro della città per trovare lavoro la terrorizzava. Non si preoccupò troppo di mantenere i figli perché non li considerava completamente suoi, la sua teoria era che i bambini appartengono alla specie in generale e a nessuno in particolare. Stava seduta sotto il portico della sua casa a guardare il salice, immobile per ore, con un'espressione assente e tranquilla sul bel viso slavo, che già iniziava a sbiadirsi. Negli anni che seguirono le sue efelidi scomparvero, i lineamenti si sfumarono e parve a poco a poco cancellarsi. Invecchiando arrivò a essere così evanescente che si faceva fatica a ricordarsi di lei e siccome nessuno pensò di scattarle delle fotografie, dopo la sua morte Gregory arrivò a temere che sua madre non fosse mai esistita. Pedro Morales tentò di convincere Nora a trovarsi un'occupazione, ritagliò avvisi
per diversi lavori e l'accompagnò ai primi colloqui, fino a che si convinse della sua incapacità ad affrontare i problemi reali. Tre mesi dopo, quando la situazione si fece insostenibile, l'accompagnò agli uffici dell'Assistenza Sociale per procurarle degli aiuti in quanto indigente, rallegrandosi che il suo maestro Charles Reeves non fosse vivo per assistere a una tale umiliazione. L'assegno della pubblica assistenza, appena sufficiente a coprire le spese essenziali, fu l'unico introito garantito della famiglia per molti anni, il resto proveniva dal lavoro dei figli, dalle banconote che Olga faceva mettere nel portafoglio di Nora e dall'aiuto discreto dei Morales. Si presentò un acquirente per il boa e il povero animale finì esposto agli sguardi dei curiosi in un teatro di pessima reputazione, assieme a ballerine poco vestite, un osceno ventriloquo e alcuni artisti da quattro soldi che divertivano gli abbrutiti spettatori. Lì sopravvisse per alcuni anni, alimentato con topi, scoiattoli vivi e spazzatura che gettavano nella gabbia solo per veder aprire le sue fauci di animale annoiato, crebbe e ingrassò tanto da assumere un aspetto terrificante, pur senza perdere la mansuetudine del suo carattere. I piccoli Reeves sopravvissero con le loro forze, ciascuno secondo il proprio stile. Judy lavorava in un panificio per quattro ore al giorno dopo la scuola, e di sera accudiva ai bambini o faceva pulizie negli uffici. Era un'ottima allieva, imparò a imitare qualunque tipo di calligrafia e faceva i compiti di altri alunni per somme ragionevoli. Portò avanti questo lavoro clandestino senza essere scoperta, seguitando a comportarsi come una ragazza esemplare, sempre docile e sorridente, senza mai scoprire l'inferno che aveva dentro, fino a che i primi sintomi della pubertà non trasformarono il suo carattere. Quando i suoi seni si trasformarono, sbocciando come due sode ciliegie, le si assottigliò la vita e i suoi tratti infantili si affinarono, tutto cambiò per lei. In quel quartiere di gente bruna e bassa di statura, il suo colore dorato e la sua figura da Walkiria richiamavano talmente l'attenzione che le era impossibile passare inosservata. Era sempre stata graziosa, ma quando varcò la soglia dell'infanzia e gli uomini di ogni età e condizione cominciarono ad assediarla, quella bimba dolce si trasformò in un animale rabbioso. Avvertiva gli sguardi del desiderio come una violenza, rientrava sempre a casa urlando maledizioni, sbattendo le porte, a volte piangendo di impotenza perché per strada le fischiavano dietro o facevano gesti procaci. Si appropriò di un linguaggio triviale per rispondere alle galanterie e se qualcuno cercava di toccarla si difendeva con un lungo spillone da cappello, che teneva sempre a portata di mano come una daga, senza il
minimo scrupolo di ficcarlo nelle parti più delicate dei suoi ammiratori. A scuola si scagliava contro i maschi per i loro sguardi provocatori, e contro le compagne per l'ostilità di razza e le gelosie che inevitabilmente provocava. Spesso Gregory vide la sorella coinvolta in quelle strane risse di ragazze – spinte, graffi, tirate di capelli, insulti – così diverse dalle lotte degli uomini, generalmente brevi, silenziose e decisive. Le donne cercavano di umiliare l'avversaria. Gli uomini sembravano disposti a uccidere o morire. Judy non aveva bisogno d'aiuto per difendersi, con la pratica si trasformò in un vero lottatore. Mentre altre ragazze della sua età provavano per la prima volta a truccarsi, sperimentavano i baci alla francese e contavano i giorni che mancavano per portare i tacchi, lei si tagliò i capelli come un ergastolano, si vestì con abiti maschili, e divorava con voracità gli avanzi di impasti e di dolci della panetteria. Il viso le si riempì di brufoli e quando entrò nelle scuole secondarie era talmente aumentata di peso che nulla restava della delicata bambola di porcellana che era stata durante l'infanzia, sembrava una foca, come diceva lei stessa per denigrarsi. A sette anni Gregory affrontò la strada. Non era legato alla madre da sentimentalismi, ma solo dall'abitudine e da un tradizionale senso del dovere assorbito da racconti edificanti su figli che si sacrificano e vengono premiati e sugli ingrati che finiscono nel forno di una strega. Ne aveva pietà, era sicuro che senza Judy e senza di lui, Nora sarebbe morta di inedia seduta nella poltrona di vimini a contemplare il vuoto. Nessuno dei due figli considerava vizio l'indolenza della madre, era una malattia spirituale, forse il suo Corpo Mentale se ne era andato alla ricerca del padre e si era perso nel labirinto di un disegno cosmico o forse si era attardato in uno di quei vasti spazi pieni di macchine stravaganti e di anime sconcertate. L'intimità con Judy era finita, e quando Gregory si stancò di cercare vie d'incontro con lei, sostituì la sorella con Carmen Morales, con la quale condivideva la brusca affettuosità, le liti e la lealtà dei buoni amici. Era turbolento e inquieto, a scuola si comportava malissimo e passava metà del tempo a subire le più diverse punizioni, dallo stare nell'angolo col viso al muro e le orecchie d'asino, all'incassare le sculacciate propinate dalla direttrice. A casa si comportava come un pensionante, rientrava per dormire il più tardi possibile, preferiva andare dai Morales o a trovare Olga. Il resto della sua vita si svolgeva nella giungla del quartiere, che arrivò a conoscere nei suoi più intimi segreti. Lo chiamavano "il gringo" e nonostante i rancori razziali, molti gli volevano bene perché era allegro e servizievole. Aveva diversi amici: il cuoco della
rivendita di tacos che spesso aveva in serbo per lui dei piatti gustosi, la proprietaria del magazzino dove leggeva le riviste di fumetti senza pagare, l'operatore del cinematografo che di tanto in tanto lo faceva entrare dalla porta posteriore e gli permetteva di vedere il film. Persino Piffero Azzurro, che non sospettò mai del suo contributo al nomignolo, soleva offrirgli di tanto in tanto una gazzosa nel bar "I tre amici". Nel tentativo di imparare lo spagnolo dimenticò in gran parte l'inglese finendo per parlare male tutte e due le lingue. Per un certo periodo sembrò essere diventato balbuziente e la direttrice chiamò Nora Reeves per consigliarle di portare il figlio alla scuola per minorati delle suore del quartiere, però intervenne la maestra, Miss June, che si impegnò ad aiutarlo nel fare i compiti. Era poco interessato allo studio, le strade erano il suo mondo, lì imparava molto di più. Il quartiere era una cittadella entro la città, un ghetto fosco e povero, nato spontaneamente attorno alla zona industriale, dove gli immigrati illegali potevano trovare lavoro senza che nessuno facesse loro domande. L'aria era inquinata dall'odore della fabbrica di concime, nei giorni feriali si aggiungevano il fumo del traffico e delle trattorie e si formava una nube densa che ondeggiava sopra le case come un manto ben visibile. Al venerdì e al sabato era pericoloso avventurarsi all'imbrunire, quando le vie pullulavano di ubriachi e di drogati, pronti a lanciarsi in scontri mortali. Di notte si udivano liti di coppie, gridi di donne pianti di bambini, risse di uomini, a volte spari e sirene della polizia. Durante il giorno le strade erano fervide di attività, mentre agli angoli impigrivano uomini senza lavoro, che bevevano oziosamente, molestavano le donne, giocavano a dadi e aspettavano lo scorrere delle ore con il fatalismo di cinque secoli alle spalle. I negozi offrivano i medesimi prodotti a poco prezzo di qualsiasi villaggio messicano, e i ristoranti servivano piatti tipici e i bar tequila e birra, nelle sale da ballo si suonava musica latina e nelle festività non mancavano le bande dei mariachis, i suonatori di tipiche musiche messicane che con enormi sombrero e abiti scintillanti cantavano d'onore e di rispetto. Gregory, che li conosceva tutti e non si perdeva una festa, andava al seguito dei musici come la mascotte del gruppo, li accompagnava nel canto e lanciava l'immancabile "ayayay" delle rancheras, le canzoni messicane, come un esperto, suscitando l'entusiasmo di un pubblico che non aveva mai visto un gringo con tali capacità. Salutava per nome mezzo mondo e grazie alla sua espressione da angioletto si guadagnò la fiducia di molta gente. Si sentiva meglio che a casa sua in quel labirinto di stradine e passaggi, nei terreni incolti e negli edifici abbandonati, dove giocava con i fratelli Morales e una mezza
dozzina di ragazzi della sua età, evitando sempre di incontrare le bande di ragazzi più grandi. Come accadeva per i giovani neri, asiatici o bianchi poveri in altre zone della città, per gli spagnoli il quartiere era più importante della famiglia, era il loro territorio inviolabile. Ogni banda si distingueva per il suo linguaggio di segni, di colori e graffiti sui muri. Da lontano sembravano tutti uguali, ragazzi cenciosi, aggressivi, incapaci di articolare un ragionamento; da vicino erano diversi, ogni gruppo con i suoi riti e il suo intricato linguaggio simbolico di gesti. Per Gregory l'apprendistato di tali codici fu cosa di prima necessità, poteva distinguere i membri delle diverse bande dal tipo di giacca o di berretto, dai gesti con cui si mandavano messaggi o si sfidavano a battaglia, gli bastava vedere il colore di una sola lettera su un muro per sapere chi l'aveva tracciata e che cosa significasse. Il graffito segnava i limiti e chiunque si avventurasse nel territorio altrui, per ignoranza o per audacia, lo pagava caro, e perciò Gregory nelle sue uscite doveva compiere ampi giri. L'unica banda di bambini della scuola elementare era quella di Martínez, che si esercitava per far parte un giorno della più temibile banda del quartiere: "Los Carniceros", i macellai. I suoi membri si riconoscevano per il colore viola e la lettera C, la loro bevanda era tequila con succo d'uva per via del colore, si salutavano con la mano destra piegata a uncino che copriva naso e bocca. In eterna guerra contro altri gruppi e con la polizia, il loro unico scopo era dare un senso di identità ai giovani, la maggior parte dei quali aveva abbandonato la scuola, non trovava lavoro e viveva per strada o in stanze collettive. I membri della banda erano schedati a seguito di molteplici arresti per piccoli furti, traffico di marijuana, ubriachezza molesta, assalti e furti di macchine. Alcuni erano armati di pistole artigianali fabbricate con un pezzo di tubo, un manico di legno e un detonatore, ma in generale usavano coltelli, catene, lame a serramanico e bastoni, il che non impediva che in ogni scontro di strada l'ambulanza portasse via due o tre ragazzi in gravi condizioni. Le bande rappresentavano per Gregory la minaccia più grande, non avrebbe mai potuto inserirsi in una di esse, era anche questa una questione di razza, e affrontarle sarebbe stata una pazzia. Non si trattava di conquistare fama di coraggioso, ma di sopravvivere, d'altra parte non poteva passare per un vigliacco, perché si sarebbero accaniti contro di lui. Bastò qualche bastonata a fargli capire che gli eroi solitari trionfano solo nei film, che doveva imparare a trattare con astuzia, e a non richiamare l'attenzione, e a conoscere il nemico per trarre vantaggio dai suoi punti deboli ed evitare risse, perché, come diceva il pragmatico Padre Larraguibel, Dio aiuta i
buoni quando sono più numerosi dei malvagi. La casa dei Morales divenne il vero focolare per Gregory, dove era accolto come un figlio in qualunque momento. Nella confusione di ragazzi era solo uno in più, e la stessa Immacolata si chiedeva distrattamente come mai da lei fosse uscito un figlio biondo. In quella tribù nessuno si lamentava per la solitudine o la noia, si condivideva ogni cosa, dalle angosce esistenziali all'unico bagno, le faccende di poco conto venivano discusse ad alta voce, però le questioni importanti si svolgevano nello stretto segreto familiare, secondo un millenario codice d'onore. L'autorità del padre non era messa in discussione, i pantaloni li porto io, ruggiva Pedro Morales ogni volta che qualcuno sembrava sottrargli autorità, ma in realtà era Immacolata il vero capo della famiglia. Nessuno si rivolgeva direttamente al padre, si preferiva passare attraverso la diplomazia materna. In presenza di testimoni lei non contraddiceva mai il marito, però trovava sempre il modo di spuntarla. La prima volta che il figlio maggiore comparve vestito da teppista, Pedro Morales gli diede un mucchio di cinghiate e lo cacciò di casa. Il ragazzo era stanco di lavorare il doppio di qualsiasi americano per la metà della paga e vagabondava gran parte della giornata con i suoi amiconi per osterie e bar di malaffare con in tasca i pochi soldi vinti in scommesse e quelli che di nascosto gli passava sua madre. Per evitare discussioni con la moglie, Pedro Morales chiuse un occhio finché poté, ma quando gli si presentò davanti conciato come un bellimbusto e con una lacrima tatuata sulla guancia, lo riempì di botte. Quella notte, quando gli altri erano già a letto, si sentì per ore il bisbigliare della voce di Immacolata che addolciva il rigore del marito. Il giorno dopo Pedro uscì in cerca del figlio, lo trovò piantato in un crocicchio a lanciar galanterie alle donne che passavano, lo prese per il collo e se lo portò al garage, gli strappò di dosso l'acconciatura da bullo, gli mise dei pantaloni unti e lo costrinse a lavorare dall'alba al tramonto per diversi anni, fino a far di lui il miglior meccanico del circondario e a vederlo sistemato per conto suo in una propria officina. Quando Pedro Morales compì mezzo secolo, il figlio, sposato con tre bambini, come regalo di compleanno al padre si fece togliere la lacrima dalla guancia, la cicatrice fu l'unico ricordo che rimase della sua stagione di rivolta. Immacolata trascorse la vita accudendo come una schiava agli uomini della sua famiglia, da bambina il padre e i fratelli e, più tardi, il marito e i figli. Si alzava all'alba per cucinare una robusta colazione per Pedro, che doveva aprire l'officina molto presto, e non portò mai in tavola frittate stantie, fatto che avrebbe
screditato la propria dignità. Il resto del giorno se ne andava in mille compiti ingrati, incluso il preparare tre pasti completi sempre diversi, convinta che gli uomini hanno bisogno di nutrirsi con piatti sempre vari e dalle porzioni enormi. Mai le capitò di farsi aiutare dai figli, quattro robusti omaccioni, per raschiare i pavimenti, scuotere i materassi o lavare gli indumenti grossolani dell'officina, induriti dall'unto dei motori, che sfregava con le proprie mani. Dalle due bambine, in cambio, esigeva che servissero i maschi, cosa che considerava loro dovere. Dio ha voluto che nascessimo donne, per nostra sfortuna, siamo destinate al lavoro e al dolore, diceva in tono realistico senza un'ombra di autocommiserazione. Già in quegli anni Carmen Morales era un balsamo per le durezze dell'esistenza di Gregory Reeves e una luce nei suoi momenti di smarrimento, come sarebbe sempre stata in futuro. La bimba sembrava una donnola irrequieta, abile e instancabile, con un tremendo senso pratico che le permetteva di eludere le severe tradizioni della famiglia senza scontrarsi col padre, il quale aveva idee molto precise sulla posizione delle donne: zitte e a casa, e non esitava a propinare una buona dose di frustate a chi si fosse ribellato, incluse le due figlie. Carmen era la sua preferita, però non ambiva per lei una sorte diversa da quella delle remissive ragazze del suo villaggio nel Zacatecas, mentre si dava da fare con tutte le forze per educare i quattro figli maschi, nei quali aveva posto esagerate aspettative, voleva vederli arrivare molto più in alto dei loro umili nonni e di se stesso. Con infaticabile tenacia, a forza di prediche, castighi e buon esempio, tenne unita la famiglia e riuscì a salvare i suoi ragazzi dall'alcool e dalla delinquenza, li costrinse a terminare la scuola secondaria e li incamminò in attività diverse. Ad eccezione di Juan José, che morì nel Vietnam, ebbero tutti un discreto successo. Alla fine dei suoi giorni Pedro Morales, circondato dai nipoti che non dicevano una parola in castigliano, si felicitava per la sua discendenza, orgoglioso di essere il tronco di quella tribù, benché scherzasse dicendo che nessuno era arrivato a essere milionario o era diventato famoso. Carmen fu sul punto di esserlo, ma egli non riconobbe mai pubblicamente i suoi meriti, sarebbe stata una capitolazione dei suoi princìpi di maschio. Mandò a scuola le due figlie perché era obbligatorio e non era il caso di lasciarle nell'ignoranza, però la sua speranza non era che si applicassero seriamente allo studio, ma che imparassero a fare i lavori domestici, aiutassero la madre e conservassero la verginità fino al giorno del matrimonio, unica meta di una ragazza per bene. "Io non voglio sposarmi, voglio lavorare in un circo con belve
ammaestrate e un trapezio altissimo per dondolarmi a testa in giù e mostrare le mutande a tutti," sussurrava in segreto Carmen a Gregory. "Le mie figlie saranno buone madri e spose o andranno in convento," si vantava Pedro Morales, ogni volta che qualcuno raccontava di una ragazza nubile che restava incinta prima di finire le scuole secondarie. "Fa' che trovino un buon marito, Sant'Antonio benedetto!" esclamava Immacolata Morales, rovesciando a testa in giù la statua del santo per obbligarlo ad ascoltare le sue modeste suppliche. Per lei era evidente che nessuna delle sue figlie avesse vocazione di monaca e non voleva neppure immaginare la tragedia di vederle comportarsi come quelle disgraziate che se la spassavano senza sposarsi e lasciavano al cimitero uno scempio di preservativi. Ma tutto questo avvenne molto dopo. Ai tempi della scuola elementare, quando Carmen e Gregory firmarono il loro patto di fratellanza, ancora non si ponevano questi problemi e nessuno utilizzò virtuosi argomenti per impedir loro di giocare senza essere sorvegliati. Si abituarono talmente a vederli assieme che in seguito, quando i due amici erano in piena pubertà, i Morales si fidavano più di Gregory che dei propri figli per accompagnare Carmen. Quando la ragazza chiedeva il permesso di andare a una festa, la prima domanda era se ci andava anche lui, nel qual caso i genitori si sentivano tranquilli. Lo accolsero senza riserve fin dal primo giorno e negli anni successivi fecero orecchie da mercante agli inevitabili commenti delle vicine, convinti, contro ogni logica ed esperienza, della purezza dei sentimenti dei ragazzi. Tredici anni più tardi, quando Gregory lasciò per sempre quella città, l'unica nostalgia che non lo abbandonò più fu per il focolare dei Morales. La cassetta da lustrascarpe di Gregory conteneva lucido nero color caffè, giallo e rosso scuro, però mancavano la cera neutra per il cuoio grigio o azzurro, che erano di moda, e la tintura per coprire le spellature. Si era proposto di risparmiare un po' di soldi per completare il materiale da lavoro, ma la determinazione veniva meno non appena compariva un nuovo film. Il cinema era il suo compenso segreto, nell'oscurità era uno dei tanti ragazzetti rumorosi, non perdeva uno spettacolo del cinema di quartiere dove programmavano film messicani, e il sabato andava con Juan José e Carmen nel centro della città a vedere i serial americani. Lo spettacolo terminava con il protagonista legato mani e piedi in un capannone pieno di dinamite dove il malvagio aveva acceso una miccia, al momento culminante lo schermo si oscurava e una voce invitava a vedere
il seguito il sabato successivo. A volte Gregory si sentiva tanto disgraziato che desiderava morire, ma rimandava il suicidio alla settimana successiva, impossibile abbandonare questo mondo senza sapere come diavolo il suo eroe sarebbe sfuggito alla trappola. E sempre si salvava, in realtà era stupefacente che potesse trascinarsi tra le fiamme e uscirne illeso con il sombrero in testa e gli abiti puliti. La pellicola trasportava Gregory in un'altra dimensione, per un paio d'ore si trasformava in Zorro o nel Solitario della Pianura, tutti i suoi sogni si realizzavano, per virtù magica il buono guariva dalle ammaccature e dalle ferite, si scioglieva dalle funi e dai cappi, trionfava sui nemici con le sue forze e conquistava la ragazza, baciandola in primo piano mentre alle loro spalle splendeva il sole o la luna e un'orchestra d'archi e fiati diffondeva una musica languida. Non c'era da preoccuparsi, al cinema non era come nel suo quartiere, nei film c'era posto solo per le sorprese piacevoli, il cattivo veniva sempre sconfitto dal buono e pagava i suoi crimini con la morte o la prigione. A volte si pentiva e dopo un'inevitabile umiliazione, riconosceva i suoi errori e si allontanava scortato da una musica da espiazione, per lo più di trombette e timpani. Gregory sentiva che la vita era bella e che l'America era la terra degli uomini liberi e il focolare degli uomini audaci, dove uno come lui poteva diventare presidente, era questione di mantenere un cuore puro, amare Dio e la mamma, essere fedele per l'eternità a una sola fidanzata, rispettare le leggi, difendere i deboli e disprezzare il denaro, perché gli eroi non si aspettano mai ricompense. In quel formidabile universo in bianco e nero le sue incertezze svanivano. Usciva dal teatro riconciliato con la vita, traboccante di buone intenzioni che duravano un paio di minuti, finché l'impatto con la strada non lo riportava al senso della realtà. Olga volle informarlo che le pellicole si confezionavano a Hollywood a poca distanza da casa sua e che era tutto una colossale menzogna, l'unica cosa vera erano i canti e i balli delle commedie musicali, il resto erano trucchi della macchina da presa, ma il ragazzino non permise che quelle rivelazioni lo turbassero. Lavorava lontano da casa sua, in una zona di officine, bar e piccoli negozi. Il suo raggio d'azione comprendeva cinque isolati che percorreva nelle due direzioni offrendo i suoi modesti servizi gli occhi fissi a terra per osservare le scarpe della gente, vecchie e deformi come quelle dei suoi vicini latini. Neppure lì calzavano scarpe nuove, eccetto i membri di qualche banda e i trafficanti con mocassini di vernice, stivali dalle borchie d'argento o calzature di due colori, difficilissime da lucidare. Indovinava il viso delle persone dal modo di camminare e dalle scarpe: i latini usavano
scarpe rossastre con tacco, i neri e i mulatti le preferivano gialle a punta, i cinesi avevano piedi piccoli, i bianchi portavano punte rialzate e tacchi consunti. Lustrare per lui era facile, la cosa più difficile era trovare clienti disposti a pagare dieci centesimi e a perdere cinque minuti per l'estetica delle loro calzature. Scarpe lucide, successo sicuro! declamava fino a diventare roco, ma pochi gli prestavano attenzione. Se aveva fortuna, in una serata faceva cinquanta centesimi, il costo di uno spinello di marijuana. Quelle poche volte in cui fumò l'erba concluse che non valeva la pena di lustrare per tante ore per pagarsi quella porcheria che gli lasciava lo stomaco rovesciato e la testa che risuonava come un tamburo, ma in pubblico fingeva di sentirsi trasportato in paradiso, come affermavano gli altri, per non passare da tonto. Per i messicani, che l'avevano vista crescere come erbaccia nei campi del loro paese, era solo un'erba per il bestiame, ma per i gringo fumarla era segno di virilità. Per imitarli e per impressionare le bionde, i ragazzi del quartiere la usavano a tutta forza. Dato lo scarso successo avuto con la marijuana, e per darsi delle arie, Gregory prese l'abitudine di ostentare una sigaretta appiccicata alle labbra, imitando i cattivi del cinema. Era così abituato che poteva far conversazione e masticare chewing-gum senza far cadere la sigaretta. Quando doveva posare da macho di fronte agli amici tirava fuori una pipa di fabbricazione casalinga e la riempiva con una miscela di sua invenzione: cicche di sigarette raccolte per strada, un po' di segatura e aspirina pestata, che a quanto si diceva faceva volare quanto qualsiasi altra droga. Il sabato lavorava tutto il giorno e in genere guadagnava più di un dollaro, che consegnava quasi interamente a sua madre, tenendo solo dieci centesimi per il cinema settimanale e a volte altri cinque per la cassetta dei missionari in Cina. Se raggiungeva i cinque dollari, il Padre gli consegnava un certificato di adozione di una bimba cinese, ma il miracolo sarebbe stato metterne insieme dieci, per aver diritto a un maschietto. Che il Signore ti benedica, diceva il curato quando Gregory arrivava con i suoi cinque centesimi per il salvadanaio, e ci fu una volta che Dio non solo lo benedisse, ma lo premiò con un portafogli con quindici dollari che lasciò al cimitero perché lui lo trovasse. Era quello il luogo preferito dalle coppie clandestine all'imbrunire, si nascondevano fra le tombe per spassarsela, spiate dai bambini del quartiere che non volevano perdersi l'animato spettacolo di quei tumulti amorosi. Ah che paura, qui ci sono i fantasmi, piagnucolavano le donne, scambiando le risa soffocate dei guardoni con i sospiri delle anime, ma si lasciavano ugualmente spogliare per rotolarsi tra lapidi e croci. Il nostro cimitero è il migliore della città, molto più bello di
quello dei miliardari e delle attrici di Hollywood, dove c'è solo erba e alberi, sembra un campo da golf e non un camposanto, dove si è mai visto che i defunti non abbiano neanche una statua che faccia loro compagnia, pensava Immacolata Morales, anche se in realtà solo i ricchi potevano pagarsi i mausolei e gli angeli di pietra, gli immigrati riuscivano a stento a finanziare una lapide con una semplice iscrizione. In novembre, per la celebrazione del Giorno dei Morti, i messicani visitavano i parenti deceduti che non avevano potuto far tornare ai loro paesi, portavano musica, fiori di carta e dolci. Fin dall'alba si udivano le canzoni popolari, le chitarre e i brindisi, e quando si faceva notte erano tutti brilli, comprese le anime del purgatorio a cui versavano tequila per terra. I ragazzi Reeves andavano al camposanto con Olga, che gli comprava teschi e scheletri di zucchero che avrebbero mangiato sulla tomba del padre. Nora rimaneva a casa, diceva che non le piacevano quelle feste pagane, un pretesto per baldorie e vizi, ma Gregory sospettava che la vera ragione fosse evitare l'incontro con Olga. O forse non voleva ammettere che suo marito era sepolto, per lei Charles Reeves si trovava in un altro mondo a occuparsi del Piano infinito. Il portafoglio con i quindici dollari era nascosto sotto alcuni arbusti. Gregory andava in cerca di ragni da buco, a quel tempo lo attiravano più le meravigliose trappole, tessute dai ragni, per catturare gli insetti e le loro sacche con un centinaio di minuscoli ragnetti, che i maldestri scossoni e gli incomprensibili gemiti delle coppie. Raccoglieva anche palloncini di gomma bianca che trovava lì e che al gonfiarli assumevano la forma di lunghe salsicce. Vide il portafoglio mentre si piegava su un buco e provò una scossa al cuore e alle tempie, non aveva mai trovato roba di valore e non sapeva se si trattasse di un dono del cielo o di una tentazione del diavolo. Gettò un'occhiata intorno per assicurarsi di essere solo, prese in fretta il portafoglio e corse a nascondersi dietro un monumento funebre per controllare il suo tesoro. Lo aprì con mani tremanti ed estrasse tre fiammanti biglietti da cinque dollari, più denaro di quanto ne avesse mai visto in tutta la sua esistenza. Pensò al Padre Larraguibel, che gli avrebbe detto che il Signore li aveva collocati lì per metterlo alla prova e vedere se si teneva il bottino oppure lo depositava nella cassetta delle Missioni per adottare due bambini in un colpo solo. A scuola non c'era nessuno così ricco da pagare per due cinesini di sesso diverso, questo lo avrebbe fatto diventare famoso tuttavia decise che una bicicletta era molto più pratica di due remote creature orientali che ad ogni modo non avrebbe mai conosciuto. Aveva messo gli occhi da qualche mese su una bicicletta, un vicino di Olga gliela aveva offerta per venti
dollari, un prezzo esorbitante, ma sperava che vedendo i contanti avrebbe ceduto. Era un trabiccolo primitivo e in condizioni disastrose, ma ancora in grado di circolare. Apparteneva a un indio abbrutito da una vita di traffici inconfessabili, di cui Gregory aveva paura perché con diverse scuse lo portava in un garage dove cercava di mettergli le mani dentro i pantaloni, cosicché chiese ad Olga di accompagnarlo. "Non far vedere il denaro, non aprire bocca e lascia che conduca io l'affare," avvertì lei. Contrattò così bene che per dodici dollari e un amuleto contro il malocchio ebbe la bicicletta. "I tre che sono avanzati li dai a tua madre, hai capito?" gli ordinò salutandolo. Partì pedalando entusiasta in mezzo alla strada e non vide un camion di bibite che veniva in senso contrario. Fu uno scontro frontale. Nell'urto non rimase schiacciato per puro miracolo, ma della bicicletta rimasero solo pezzi di ferro contorti e i raggi delle ruote. L'autista del camion scese bestemmiando, lo afferrò per la camicia, lo rimise in piedi, lo scosse come un piumino e poi lo mandò a casa con un dollaro di consolazione. "Ringrazia che non ti faccio arrestare perché andavi in mezzo alla strada come un citrullo, dannato marmocchio!" borbottò l'uomo, più spaventato della sua vittima. "Non ho mai visto nessuno più tonto di te, avresti dovuto farti dare almeno due dollari," lo rimbrottò Judy quando lo venne a sapere. "Ti è capitato per la tua disobbedienza, ti ho detto mille volte di non andare al cimitero, la farina del diavolo va tutta in crusca," diagnosticò Olga mettendogli whisky sulle sbucciature ai gomiti e alle ginocchia. "Gesù Benedetto, meno male che sei vivo!" lo abbracciò Immacolata Morales. Procurarsi denaro divenne un'ossessione per Gregory. Era disposto a fare qualsiasi lavoro, anche spellare i chicchi di granturco per fare tortillas, un'operazione noiosissima in cui si sbucciava le mani e il cui odore lo lasciava nauseato per diverse ore. Poi decise di rubare, ma non gli capitò mai di rubare denaro, era come un'avventura, uno sport, non un modo di guadagnarsi da vivere. Di notte si infilava in un buco nel recinto della scuola, si arrampicava sul tetto del chiosco di dolciumi, sollevava una lamiera di zinco e scivolava dentro a prendere i gelati, se ne mangiava due o tre e ne portava uno a Carmen. Queste escursioni notturne gli procuravano un misto di esaltazione e di senso di colpa, le rigide norme di onestà imposte dalla madre gli martellavano in testa, si sentiva perverso non tanto per averle sfidate, ma perché la padrona del chiosco era una vecchia bonaria che lo riconosceva
tra gli altri ragazzi ed era sempre pronta a regalargli un dolce. Una notte la donna tornò a cercare qualcosa, aprì la porta, accese la luce prima che lui riuscisse a fuggire e lo sorprese con il corpo del reato in mano. Lui rimase paralizzato, mentre la donna gemeva, come puoi fare questo a me che sono stata tanto buona con te! Gregory scoppiò in pianto chiedendole perdono e giurando che avrebbe pagato tutto quello che le aveva rubato. Come? Non è la prima volta? E l'altro dovette confessare che le doveva più di sei dollari di gelati. A partire da quel giorno le si avvicinava solo per cancellare il suo debito che a poco a poco saldò. Anche se la donna lo perdonò, non si sentì mai più tranquillo in sua presenza. Fu meno fortunato nel negozio degli scarti dell'esercito, dove rubava residuati bellici che non gli servivano a niente. Nel deposito degli utensili accumulava i suoi tesori in un sacco: borracce, bottoni, berretti e persino un paio di enormi stivali che portò via nascondendoli nella cartella, senza sospettare che il proprietario del negozio lo tenesse d'occhio. Una sera sottrasse una lanterna, se la mise sotto la camicia e stava già varcando la porta quando arrivò la macchina della polizia. Fu impossibile scappare, lo portarono in caserma e lo misero in una cella, da dove poté vedere la feroce bastonatura che propinarono a un ragazzo di colore. Aspettò il suo turno, terrorizzato, e invece lo trattarono bene, si limitarono a registrare i suoi dati, a rimproverarlo e a obbligarlo a restituire quello che aveva nascosto a casa sua. Andarono a cercare Nora Reeves, nonostante li implorasse quasi istericamente che non lo facessero, che le avrebbero spezzato il cuore. Si presentò con il suo abito azzurro dal collo di pizzo, come un'apparizione uscita da un antico ritratto, ascoltò le accuse in silenzio e allo stesso modo uscì seguita dal figlio. Ringrazia che sei bianco, Greg, se tu fossi del colore dei miei figli ti avrebbero picchiato sodo, gli disse Immacolata Morales quando lo seppe. Nora si vergognava talmente che restò muta per diverse settimane e quando parlò fu per dirgli che si lavasse e indossasse il suo unico vestito, quello del funerale di suo padre, che ormai gli era piuttosto stretto, perché dovevano andare a fare una cosa importante. Lo portò all'orfanotrofio delle monache, pregando la madre superiora che lo accettasse, perché non si sentiva in grado di tirare avanti con quel figlio di indole malvagia. In piedi dietro alla madre, gli occhi inchiodati alle scarpe, borbottando non voglio piangere, non voglio piangere, mentre le lacrime sgorgavano a torrenti, Gregory giurò a se stesso che se lo lasciavano lì si sarebbe arrampicato sul campanile e si sarebbe buttato a testa in giù. Non fu necessario, perché le monache non lo accettarono, c'erano troppi orfani da raccogliere mentre lui aveva una famiglia, viveva in una casa propria e
riceveva aiuti dall'Assistenza Sociale, non aveva i requisiti per l'orfanotrofio. Quattro giorni dopo la madre mise le sue cose in una borsa e lo portò con sé in autobus fuori città, a casa di certi fattori che erano disposti ad adottarlo. Si accomiatò dal figlio con un triste bacio sulla fronte, assicurandogli che gli avrebbe scritto, e se ne andò senza voltarsi indietro. Quella sera Gregory si sedette a cenare con la sua nuova famiglia, senza dire una parola e senza alzare gli occhi, pensando che nessuno avrebbe dato da mangiare a Oliver, che non avrebbe visto mai più Carmen Morales e che aveva lasciato il suo temperino nel magazzino. "Il nostro unico figlio è morto undici anni fa," disse il fattore. "Noi siamo gente religiosa, gente che lavora. Qui non avrai tempo per divertirti, la scuola, la chiesa e aiutarmi nei campi, questo è tutto. Però il cibo è buono e se ti comporti bene sarai trattato bene." "Domani ti farò un dolce di latte," disse la donna. "Devi essere stanco, certo vuoi andare a letto. Ti farò vedere la tua stanza, era quella di nostro figlio, non abbiamo cambiato nulla da quando se ne è andato." Per la prima volta Gregory disponeva di una stanza propria e di un letto, fino ad allora aveva usato un sacco a pelo. Era una stanza piccola con una finestra aperta sull'orizzonte dei campi coltivati, arredata con l'indispensabile. Alle pareti facevano bella mostra foto di vecchi giocatori di baseball e di vecchi aerei militari, molto diversi da quelli che si vedevano al cinema nei documentari moderni. Osservò senza osare toccare nulla, ricordandosi del padre, del boa, delle collane di Olga contro l'invisibilità e della cucina di Immacolata, di Carmen Morales e dell'appiccicoso sapore del latte condensato, mentre gli andava crescendo nel petto una terribile bolla di gelo. Seduto sul letto, con la borsa delle sue povere cose sulle ginocchia, attese che la casa si addormentasse, poi uscì silenziosamente, chiudendo con cura la porta. I cani abbaiarono, ma non vi fece caso. Si mise a camminare in direzione della città, rifacendo la medesima strada per cui era venuto con il bus e che aveva fissata nella mente come una mappa. Camminò tutta la notte e la mattina presto si presentò esausto alla porta di casa sua. Oliver lo ricevette con fragorosa allegria e Nora Reeves apparve sulla soglia, prese il fagotto dei vestiti del figlio e tese l'altra mano per fargli una carezza, ma il gesto si interruppe a mezz'aria. "Cerca di crescere presto," fu tutto ciò che gli disse. Quella sera Gregory pensò di sfidare il treno. Risalgo correndo la collina, seguito da Oliver, cercando gli alberi,
ansimante, i rami mi graffiano le gambe, cado e mi sbuccio un ginocchio, merda, grido, merda e lascio che il cane mi lecchi il sangue, quasi non vedo dove metto i piedi, ma continuo a correre verso il mio rifugio verde, dove sempre vado a nascondermi. Non ho bisogno di vedere i segni sui tronchi per trovare la strada, sono stato lì tante volte che posso arrivarci alla cieca, conosco ogni eucalipto, ogni cespuglio di more selvatiche, ogni pietra. Sollevo un ramo e appare l'entrata, uno stretto tunnel sotto un arbusto spinoso, deve essere stata una tana di volpi, proprio la larghezza del mio corpo; se mi trascino sui gomiti, infilandomi con cura e calcolando bene la curva, con il viso tra le braccia, riesco a passare senza graffiarmi, fuori Oliver aspetta che lo chiami, conosce il rituale. Durante la settimana ha piovuto e il terreno è morbido, fa freddo, ma da ore sento la febbre in tutto il corpo, dalla mattina nello stanzino delle scope a scuola, un fuoco che non finirà mai ne sono sicuro. Qualcuno mi afferra da dietro e mi esce un grido sono solo le spine dei rami impigliati nel mio giubbotto. Così mi prese Martínez, alle spalle, sento ancora la punta del coltello nel collo, ma sembra che il sangue non esca più, se ti muovi ti ammazzo, gringo straccione figlio di puttana, e non potei difendermi, l'unica cosa che feci fu piangere e maledire mentre me lo faceva. Adesso corri a raccontarlo a Miss June e io subito sfregio la faccia a tua sorella e già lo sai quello che faccio a te, mi disse dopo, mentre si sistemava i pantaloni. Se ne andò ridendo. Se gli altri lo vengono a sapere sono fottuto, mi chiameranno finocchio per il resto della mia vita. Nessuno dovrà mai saperlo! E se Martínez lo racconta? Voglio ucciderlo! Ho le mani, i vestiti e il viso sporchi di fango, mia madre si infurierà, meglio che pensi a una scusa: mi ha investito un'auto o mi ha nuovamente acchiappato la banda, ma ecco mi ricordo che non sarà necessario inventare nessuna bugia perché morirò e quando troveranno il mio corpo non le importerà del sudiciume, almeno lo spero, sarà disperata non penserà alle mie malefatte, solo al mio lato buono, che lavo i piatti e le do quasi tutto quello che guadagno lucidando scarpe, e finalmente si renderà conto che sono un buon figlio e si pentirà di non essere stata più affettuosa con me, di aver voluto regalarmi alle suore e ai fattori e di non avermi preparato neppure una volta uova per colazione, e non è che sia tanto difficile, donna Immacolata lo fa a occhi chiusi, anche un minorato può friggere un paio di uova, si pentirà ma sarà tardi perché io sarò morto. Ci sarà una cerimonia a scuola, mi renderanno omaggio come a Zárate, che annegò in mare, diranno che ero il miglior compagno e che avevo un gran futuro, metteranno in fila gli alunni e li obbligheranno a passare davanti alla mia bara per baciarmi in fronte, i più piccoli si
metteranno a piangere e le bambine certo sverranno, le donne non sopportano di vedere il sangue, strilleranno tutte meno Carmen, che abbraccerà il mio cadavere senza ribrezzo. Speriamo non venga in mente a Miss June di leggere durante il funerale la lettera che le ho scritto, o Dio, perché l'ho fatto, non potrò mai più guardarla in faccia, è così graziosa, sembra una fata o un'attrice del cinema, se sapesse le cose che mi capitano in classe, lei là davanti che spiega le addizioni alla lavagna e io nel mio banco che la guardo come un cretino, con la testa fra le nuvole, chi può pensare ai numeri vicino a lei! Penso, per esempio, che mi diceva ti aiuterò a fare i compiti, Greg, perché i tuoi voti sono un disastro, allora io mi fermavo dopo le lezioni, gli altri se ne andavano ed eravamo soli nell'edificio, e senza che io le dicessi niente era come se diventasse matta e si stendeva a terra e io facevo pipì tra le sue gambe. Mai, nessun giorno della mia vita confesserò al Padre queste porcherie che mi capitano, sono un degenerato, sono immondo. Scrivere quella lettera d'addio a Miss June! Bisogna essere un bel vigliacco. Bene, almeno non dovrò sopportare la vergogna di tornare a vederla, sarò completamente morto quando la leggerà. E Carmen, povera Carmen... l'unica cosa per cui mi rattrista morire è che non la vedrò più. Se sapesse cosa mi ha fatto Martínez mi raggiungerebbe per morire qui con me, però non posso dirlo a nessuno, tanto meno a lei. Questa è la cosa più terribile che mi sia successa in tutta la vita, è la cattiveria più grande che mi ha fatto quel disgraziato di Martínez, peggio che alla Prima Comunione, quando mi obbligò a mangiare un pezzo di pane prima di comunicarmi perché nell'inghiottire l'ostia mi colpisse un fulmine e io andassi all'inferno a capofitto; invece non mi successe niente, non sentii nulla perché il peccato era suo, non mio, e chi bollirà nelle pentole di Satana sarà lui e non io, perché mi ha indotto al peccato, cosa che è più grave del peccato stesso, come ci ha spiegato il Padre Larraguibel quando ci ha raccontato di Adamo ed Eva. Quella volta mi toccò scrivere cinquecento volte "non devo bestemmiare" perché avevo detto al prete che il peccato era di Dio, visto che Lui aveva messo la mela nel giardino dell'Eden sapendo che Adamo se la sarebbe mangiata comunque, e se questo non è stato indurre al peccato, che è stato? Peggio di quando Martínez in palestra mi spogliò e nascose i vestiti, se non arrivava in mio aiuto la signora delle pulizie avrei passato la notte nella doccia e il giorno dopo tutta la scuola mi avrebbe visto nudo. Peggio di quando annunciò gridando nel cortile che mi aveva visto in bagno che giocavo al dottore con Ernestina Pereda. Lo odio, dal profondo della mia
anima lo odio, almeno morisse, ma non di malattia, piuttosto che qualcuno lo uccida, ma prima gli tagli il pisello, in modo che quel caprone di Martínez me le paghi tutte, lo odio, lo odio. Ormai sono nella mia tana, fischio a Oliver e lo sento trascinarsi nel tunnel, lo abbraccio e se ne sta tranquillo, ansante, con la lingua penzoloni, mi guarda con i suoi occhi mielati e comprende, è l'unico che conosce tutti i miei segreti. Oliver è un cane piuttosto brutto, Judy lo detesta, è un miscuglio di diverse razze ed è venuto fuori con la coda grossa e lunga come una mazza da baseball. E poi è male abituato, mangia i vestiti, si rotola nella cacca degli altri cani e dopo si butta sui letti, gli piacciono le risse e a volte arriva pieno di morsi, ma è caldo e quando non tocca porcherie ha un buon odore. Gli infilo il naso nel collo, sopra ha il pelo duro e corto, vicino alla pelle trovo una peluria morbida, come cotone, lì mi piace annusarlo, non c'è niente di meglio dell'odore di cane. È tramontato il sole e tutto è pieno di ombre, fa freddo, è una di quelle rare sere invernali e nonostante io stia bruciando posso sentire che mi gelano le orecchie e le mani, una sensazione precisa. Decido di non trafiggermi il collo col temperino, come avevo pensato, morirò di freddo, gelerò a poco a poco durante la notte e domani sarò stecchito, una morte lenta però più tranquilla di quella sotto il treno. Quella era stata la prima idea, ma ogni volta che corro davanti al treno perdo il coraggio e all'ultimo minuto spicco il salto e mi salvo per un pelo. Non so quante volte ho provato e non mi decido a morire così, deve fare molto male, e poi mi ripugna questo spargersi di trippe, non voglio che mi raccolgano con la pala né che qualche spiritoso conservi un mio dito per ricordo. Spingo via Oliver perché non mi ripari dal freddo, altrimenti non congelerò mai, gratto un po' il terreno per stare più comodo e mi stendo sulla schiena. Resto immobile, con il dolore là – maledetto Martínez disgraziato finocchio – e la testa piena di pensieri, visioni, parole, ma dopo un lunghissimo tempo le lacrime si asciugano e comincio a respirare come al solito e allora sento il terreno morbido e fresco che mi accoglie come l'abbraccio di donna Immacolata, sprofondo, mi abbandono e penso al pianeta, rotondo, che ondeggia senza peso nell'abisso nero del cosmo, girando e girando, e anche alle stelle della Via Lattea e a come sarà la fine del mondo, quando tutto esploderà e usciranno i frammenti sparati in aria come i fuochi del 4 luglio e sento che io sono parte della terra, sono fatto dello stesso materiale, quando morirò mi disintegrerò, mi ridurrò in briciole come un biscotto e sarò parte del suolo e cresceranno alberi dal mio corpo. Penso che non sono solo nell'Universo, e neppure sono qualcosa di speciale, forse sono
appena un pezzetto di fango, forse non ho una mia anima, d'improvviso esiste una sola anima grande per tutti gli esseri viventi, compreso Oliver, e non c'è cielo, né inferno né purgatorio, devono essere baggianate del Padre, che vecchio com'è ha la mente confusa, e neppure esistono i Logi e i Maestri di mio papà e l'unica che si avvicina più o meno alla verità è mia mamma con la sua religione Bahai, anche se si imbroglia in certe cazzate che sono buone per la Persia, ma che cosa ce ne facciamo qui? L'idea di essere una particella mi piace, essere un granello di sabbia cosmica. Miss June dice che la coda errante delle comete è fatta di polvere stellare, migliaia di pietruzze che riflettono la luce. Mi invade una calma profonda, dimentico Martínez, il dolore, la paura e lo stanzino delle scope, sono in pace, mi innalzo e me ne vado volando con gli occhi aperti verso il vuoto siderale, sto volando, volando con Oliver. Fin da piccola Carmen Morales aveva la stessa abilità manuale che la caratterizzò per il resto della vita, qualsiasi oggetto fra le sue dita perdeva la forma originale e si trasformava. Sapeva fare collane con la pasta, soldatini con i tubi dei rotoli di carta igienica, giocattoli con rocchetti di filo e scatole di fiammiferi. Un giorno, giocando con tre mele, scoprì che poteva farle stare tutte per aria senza difficoltà, ben presto fece giochi di prestigio con cinque uova e di lì passò con naturalezza a oggetti più esoterici. "Lucidando scarpe si suda molto e si guadagna poco, Greg. Impara qualche esercizio e lavoriamo assieme. Ho bisogno di un socio," propose al suo amico. Dopo innumerevoli uova spiaccicate risultò evidente la goffaggine di Gregory. Non riuscì a imparare nessun trucco interessante, tranne muovere le orecchie e mangiare mosche vive, però aveva orecchio nel suonare l'armonica. Oliver dimostrò maggior talento, gli insegnarono a camminare su due zampe con un cappello sul muso e a tirar fuori delle carte da una scatola. All'inizio se le mangiava, poi però imparò a porgerle con delicatezza al cliente. Carmen e Gregory prepararono con cura i dettagli dello spettacolo e se ne andarono il più lontano possibile per sfuggire agli sguardi di amici e vicini, perché sapevano che se la cosa veniva alle orecchie di Pedro o di Immacolata Morales nessuno li avrebbe salvati da una buona sculacciata, come quella che si presero quando ebbero l'idea di chiedere l'elemosina nel quartiere. La ragazza si fece una gonna con scialli multicolori e un berretto con penne di gallina, e si fece prestare gli stivali gialli di Olga. Gregory prese di nascosto il cappello a cilindro e il
cravattino a farfalla che suo padre usava per predicare e che Nora teneva in serbo come reliquie. Chiesero l'aiuto di Olga per preparare i foglietti della fortuna, assicurandole che si trattava di un gioco per la festa di fine anno; lei lanciò loro una delle sue occhiate più penetranti, ma non chiese spiegazioni e si mise a dettargli una filastrocca di profezie nello stile dei biscotti cinesi della fortuna. Completarono l'equipaggiamento con uova, candele e cinque coltelli da cucina nascosti in una sacca, perché non potevano uscire di casa con quel carico senza destare sospetti. Con la pompa fecero il bagno a Oliver e gli legarono un nastro al collo per attenuare un po' il suo aspetto belluino. Si sistemarono in un angolo ben isolato del quartiere, indossarono i costumi da pagliaccio e iniziarono lo spettacolo. Subito intorno ai due bambini e al cane si raccolse una piccola folla. Carmen, con la sua figura minuta, i suoi stravaganti cenci e l'incredibile abilità nel lanciare per aria candele accese e coltelli affilati, risultava un'attrazione irresistibile, mentre Gregory si perdeva nelle canzoni della sua armonica. In una pausa della prestigiatrice il ragazzo interruppe la musica e invitò i presenti a tentare la sorte. Per una modica somma il cane sceglieva un foglietto ripiegato e lo porgeva al cliente, un po' bavoso, certo, ma perfettamente leggibile. In un paio d'ore i piccoli misero assieme tanto denaro quanto un operaio in una giornata di lavoro in una qualsiasi fabbrica dei dintorni. Quando incominciò a far buio si tolsero i costumi, misero via gli attrezzi, si divisero gli utili e tornarono alle loro case dopo aver giurato che neanche sotto tortura avrebbero rivelato il fatto. Carmen sotterrò il suo bottino in una scatola nel cortile e Gregory lo consegnò in casa un poco alla volta, per evitare domande imbarazzanti, e se ne tenne una parte per il cinema. "Se qui abbiamo guadagnato tanto, pensa quanto possiamo fare in Piazza Pershing. Diventeremo miliardari. Lì ci vanno in tanti per ascoltare i matti e ci sono anche i ricchi che entrano ed escono dall'Hotel," disse Carmen. Siffatta audacia non sarebbe mai passata per la mente a Gregory, per il quale esisteva un'invisibile frontiera che la gente della sua condizione non attraversava: dall'altra parte il mondo era diverso, gli uomini camminavano in fretta perché avevano attività e progetti urgenti, le donne andavano a passeggio con i guanti, i negozi erano lussuosi e le automobili luccicanti. C'era stato un paio di volte, accompagnando sua madre a sbrigare delle pratiche, ma non gli sarebbe mai venuta l'idea di avventurarvisi da solo. In un istante Carmen gli rivelò le possibilità del mercato: già da tre anni andava lucidando scarpe per dieci centesimi ai più poveri fra i poveri, senza pensare che pochi isolati più in là poteva guadagnare il triplo e avere
più clienti. Ma poi spaventato scartò l'idea. "Sei pazza." "Ma perché sei così tonto, Gregory? Scommetto che non conosci l'Hotel." "L'Hotel? Sei entrata nell'Hotel?" "Certo. È come un palazzo, con disegni sui soffitti e sulle porte, tende con i pompon e lampade che non ti dico, sembrano navi piene di luci. Sui tappeti i piedi affondano come sulla spiaggia, tutti sono eleganti e servono il tè con i pasticcini." "Hai preso il tè nell'Hotel?" "Beh, non proprio, però ho visto i vassoi. Bisogna entrare senza guardare nessuno, come se la mamma ci stesse aspettando a un tavolo, capisci?" "E se ti beccano?" "Non bisogna confessare niente, per principio. Se qualcuno ti dice qualcosa tu fai il bambino ricco, alzi il naso all'insù e rispondi con una parolaccia. Un giorno ti ci porto. Comunque, in quei paraggi è il posto migliore per lavorare." "Non si può andare sul tram con Oliver," oppose debolmente Gregory. "Andremo a piedi," rispose lei. Da quel giorno andarono in Piazza Pershing ogni volta che Carmen Morales riusciva a sfuggire alla sorveglianza materna. Attiravano più pubblico dei predicatori che, inerpicati sui loro cassoni, parlavano con inutile passione di cose che non interessavano a nessuno. Senza i giochi di prestigio lo spettacolo mancava d'interesse, di modo che se l'amica non poteva accompagnarlo, Gregory tornava alla sua routine di lustrascarpe, benché ora lo facesse per le vie del quartiere commerciale. I due ragazzi erano uniti dalla reciproca necessità e dal segreto condiviso, oltre che da molte altre complicità. A sedici anni Gregory frequentava la scuola secondaria con Juan José Morales. Carmen studiava in una classe inferiore e Martínez aveva abbandonato la scuola e faceva parte della banda "Los Carniceros". Reeves non lo aveva vicino e finché poteva evitarlo si sentiva in salvo. A quel tempo si erano attenuate le ribellioni che prima lo tenevano in continua agitazione, ma altre angosce silenziose lo martoriavano. Nella scuola secondaria c'era una maggioranza di alunni bianchi, non si sentiva più segnato a dito né doveva buttarsi a correre non appena suonava la campana per sfuggire ai nemici. Tra i poveri, e ancor più tra i latini, non sempre si completava la scuola dell'obbligo, perché i ragazzi, appena terminate le
elementari, dovevano guadagnarsi la vita lavorando. Suo padre aveva inculcato in Gregory l'ambizione di studiare, che lui non aveva mai potuto soddisfare perché fin dall'età di tredici anni aveva percorso le pianure dell'Australia tosando pecore. Anche sua madre lo incoraggiava nell'idea di avviarsi a una professione per non spaccarsi la schiena nei lavori più umili, fai i conti figliolo, un terzo delle ore della tua vita passeranno dormendo, un terzo spostandoti da un luogo all'altro e nelle faccende quotidiane, e il terzo, il più interessante, lo trascorrerai lavorando, perciò è meglio lavorare per qualcosa che ti piaccia, diceva. Nella sola occasione in cui parlò di lasciare la scuola per cercar lavoro, Olga gli lesse la sorte nelle carte e uscì la carta della Legge. "Non farti venire questa idea. Sarai bandito o poliziotto e in entrambi i casi è meglio aver studiato," concluse. "Non voglio essere nessuna delle due cose." "Questa carta dice chiaramente che avrai a che fare con la Legge." "Non dice se sarò ricco?" "A volte ricco, a volte povero." "Ma arriverò ad essere qualcuno di importante, vero?" "Nella vita non si arriva da nessuna parte, Gregory. Si vive e basta." Lui e Carmen Morales impararono a ballare i ritmi americani e giunsero a essere tanto esperti nei passi figurati che la gente faceva corona intorno per applaudirli nelle loro esibizioni di jitter-bug e rock and roll. Lei volava con le gambe in aria e, mentre stava per sfracellarsi con la testa per terra, lui le faceva fare un'impossibile giravolta sulla spalla, la faceva passare tra le gambe trascinandola per terra e con uno strattone la rimetteva in piedi sana e salva, tutto senza perdere il ritmo né i denti. Gregory fece economie per mesi per comprarsi una giacca di cuoio nero e cercò di farsi crescere un ciuffo sugli occhi, ma visto che nessuna quantità di gommina riusciva a cambiare il triste aspetto di frangetta dei suoi capelli, optò per un taglio corto pettinato all'indietro, più comodo ma meno adatto all'immagine del ribelle che faceva tremare di paura e piacere le ragazze. Neppure Carmen assomigliava alla protagonista dei film per adolescenti, bionda, virtuosa e un po' tonta, per cui i ragazzi sospiravano e che le brune e paffute fanciulle messicane tentavano invano di imitare decolorandosi i capelli con l'acqua ossigenata. Lei era un fuoco d'artificio. Durante i fine settimana i due amici si bardavano con i loro abiti migliori, lui sempre con la giacca di cuoio nero anche se faceva un caldo infernale, lei con i pantaloni attillati che nascondeva in un sacchetto e si infilava poi in un gabinetto pubblico, perché se suo padre li avesse visti glieli avrebbe strappati di dosso, e se ne
andavano nelle sale da ballo dove già li conoscevano e non pagavano l'ingresso, perché erano la miglior attrazione della serata. Ballavano instancabili senza consumare neppure una bibita perché non potevano pagarla. Carmen era diventata una fiera ragazza dalla chioma nera e con un viso simpatico con guance e labbra prominenti, aveva la risata facile e curve sode, i seni troppo grossi per la sua statura e la sua età, due protuberanze che lei detestava come una deformazione, ma Gregory li osservava crescere notando che ogni giorno si facevano più pieni. Ballando la scrollava solo per vedere quei seni da cortigiana sfidare le leggi della gravità e della decenza, ma accorgendosi che non era il solo ad ammirarla sentiva una sorda rabbia. La sua amica non lo attraeva con un desiderio concreto, la sola idea lo avrebbe riempito di orrore come un peccato d'incesto. La considerava sua sorella al pari di Judy, nonostante a volte le buone intenzioni vacillassero tradite dagli ormoni, che lo tenevano in permanente stato di emergenza. Padre Larraguibel si fece premura di riempirgli la testa di apocalittici pronostici riguardo alle conseguenze del pensare con malizia alle donne e di toccarsi il corpo. Minacciava i lascivi di fulmini mortali, assicurava che spuntavano peli sulle palme delle mani, comparivano pustole purulente, il pene andava in cancrena e finalmente il colpevole moriva fra atroci sofferenze, precipitando a capofitto nell'inferno, in caso di morte senza confessione. Il ragazzo dubitava del fulmine divino e dei peli sul palmo delle mani, ma era sicuro che gli altri mali erano certi, li aveva visti in suo padre, ricordava come si era riempito di pustole e come era morto per essersi masturbato. Non c'era nemmeno da pensare a cercar consolazione con le ragazze della scuola o del quartiere, che erano per lui oltre i limiti del possibile, né di ricorrere a prostitute, che gli apparivano quasi altrettanto temibili di Martínez. Era disperato d'amore, bruciato da un calore brutale e incomprensibile, spaventato dal tamburo del suo cuore, dal miele appiccicoso nel suo sacco da notte, dai sogni turbolenti e dalle sorprese del suo corpo, le ossa si allungavano, comparivano i muscoli, gli crescevano peli e il sangue cuoceva in una continua febbre. Gli bastava uno stimolo insignificante per esplodere in un improvviso piacere, che lo lasciava costernato e quasi privo di sensi. Una donna che lo sfiorava per via, la vista di una gamba femminile, una scena al cinema, una frase in un libro, persino il sedile fremente del tram, tutto lo eccitava. Oltre a studiare doveva lavorare, ma la stanchezza non eliminava l'inspiegabile desiderio di sprofondare in un pantano, di perdersi nel peccato, di patire un'altra volta quel godimento e quella morte sempre troppo breve. Gli sport e il ballo lo aiutavano a scaricare energia, ma per
far tacere il fermento dei suoi istinti era necessario qualcosa di più drastico. Come nell'infanzia si era follemente innamorato di Miss June, nell'adolescenza subì improvvisi impeti di passione per ragazze inaccessibili, generalmente più grandi di lui, a cui non osava avvicinarsi e che si accontentava di adorare a distanza. Un anno più tardi raggiunse di colpo la sua statura e il suo peso definitivo, ma a sedici anni era ancora un adolescente sottile, con ginocchia e orecchie troppo grandi, un po' patetico, anche se si poteva intuire che era di pasta buona. "Se riesci a evitare di essere ladro o poliziotto," gli prometteva Olga per consolarlo quando lo vedeva soffrire nel cilicio della sua stessa pelle, "sarai attore cinematografico e le donne ti adoreranno." Fu lei che finalmente lo liberò degli incandescenti supplizi della castità. Da quando Martínez lo aveva incastrato nello stanzino delle scope nella scuola elementare, lo assalivano dubbi inconfessabili sulla sua virilità. Non aveva riprovato a esplorare Ernestina Pereda né alcun'altra ragazza col pretesto di giocare al dottore e le sue conoscenze su quel lato misterioso dell'esistenza erano vaghe e contraddittorie. Le briciole di informazioni ottenute alla chetichella in biblioteca contribuivano solo a sconcertarlo maggiormente, perché si scontravano con l'esperienza di strada, le battute dei fratelli Morales e di altri amici, le prediche del Padre, le rivelazioni del cinema e i sussulti della fantasia. Si trincerò nella solitudine, rifiutando con testarda determinazione i turbamenti del suo cuore e le irrequietezze del suo corpo, tentando di imitare i casti cavalieri della Tavola Rotonda o gli eroi del Far West, ma ad ogni momento l'impeto della natura lo tradiva. Quel dolore sordo e quella confusione senza nome lo prostrarono per un'eternità, fino a che non poté più sopportare quel martirio e se Olga non accorreva in suo aiuto ne sarebbe uscito pazzo. La donna lo aveva visto nascere, era stata con lui in tutti i momenti importanti della sua infanzia, lo conosceva come fosse suo figlio, nulla di quanto riguardava il ragazzo sfuggiva ai suoi occhi e quello che non afferrava col buon senso, glielo faceva presagire il suo istinto da negromante, che per parlare chiaro consisteva nella conoscenza dell'interiorità altrui, occhio abile nell'osservare, e spregiudicatezza nell'improvvisare consigli e profezie. In questo caso non erano necessarie doti di chiaroveggenza per vedere lo stato di disorientamento di Gregory. A quell'epoca Olga era sulla quarantina, le rotondità della giovinezza si erano convertite in grasso e le peripezie della sua vocazione gitana le avevano appassito la pelle, ma conservava la sua grazia e il suo stile, il fogliame dei crini rossicci, il fruscio delle gonne e la risata veemente. Viveva sempre nello stesso posto,
però adesso non occupava più solo una stanza, aveva comprato la proprietà per adibirla a suo tempio privato, dove disponeva di una stanza per le medicine, l'acqua magnetizzata e ogni specie di erbe, un'altra per i massaggi terapeutici e gli aborti, e una sala abbastanza ampia per sedute di spiritismo, magia e predizioni. Gregory lo riceveva sempre nella stanza sopra il garage. Quel giorno lo trovò dimagrito e la colse nuovamente quella violenta compassione che ultimamente era il suo profondo sentimento per lui. "Di chi sei innamorato adesso?" disse ridendo. "Voglio andarmene da questo posto di merda," borbottò Gregory con la testa fra le mani, sconfitto dal nemico che portava nel basso ventre. "Dove pensi di andare?" "Da qualunque parte, all'inferno, non mi importa. Qui non succede niente, non si respira, sto soffocando." "Non è il quartiere, sei tu. Stai soffocando dentro la tua buccia." L'indovina prese dall'armadio una bottiglia di whisky, gliene versò un bel po' nel bicchiere e dell'altro per sé, aspettò che lo bevesse e poi lo servì ancora. Il ragazzo non era abituato al liquore forte, faceva caldo, le finestre erano chiuse e l'aroma di incenso, erbe medicinali e patchouli addensava l'aria. Aspirò l'odore di Olga con un tremito. In un momento di ispirazione caritatevole, la matrona gli si accostò alle spalle e lo avvolse con le braccia, i suoi seni già sciupati si schiacciarono contro il suo dorso, le dita ricoperte di cianfrusaglie sbottonarono alla cieca la camicia, mentre lui si faceva di pietra, paralizzato dalla sorpresa e dal timore, allora lei incominciò a baciarlo sul collo, a infilargli la lingua nelle orecchie, a sussurrargli parole in russo, ad esplorarlo con le sue mani esperte, a toccarlo là dove nessuno lo aveva mai toccato, finché lui si sciolse in un singhiozzo, precipitando in un dirupo senza fondo, scosso dal timore e da un presagio di felicità, e senza sapere che cosa faceva né perché si volse verso di lei, disperato, strappandole le vesti in fretta, assaltandola come un animale in calore, rotolando a terra con lei, scalciando per togliersi i calzoni, aprendosi il cammino tra le cosce, penetrandola in un impulso di desolazione e crollando poi con un grido, mentre si svuotava a fiotti come se un'arteria gli fosse scoppiata nelle viscere. Olga lasciò che riposasse un poco sul suo petto, grattandogli la schiena, come aveva fatto tante volte quand'era bambino, e non appena suppose che stessero per arrivare i rimorsi, si alzò e andò a chiudere le tende. Poi con calma si tolse la camicetta strappata e la gonna spiegazzata. "Adesso ti insegnerò quello che piace a noi donne," gli disse con un
sorriso nuovo. "Prima cosa è non avere fretta, figliolo..." "Devo sapere una cosa Olga, giura che mi dirai la verità." "Che vuoi sapere?" "Tu e mio padre... voglio dire, voi..." "Questo non ti riguarda, non ha niente a che fare con te." "Devo saperlo... eravate amanti, vero?" "No, Gregory. Te lo dico una volta per tutte: no, non eravamo amanti. Non tornare sull'argomento, ché se lo fai non ti vedrò mai più. Hai capito?" Gregory aveva tanto bisogno di crederle che non fece altre domande. A partire da quella sera il mondo cambiò colore per lui, andava da Olga quasi tutti i giorni e, come un alunno volenteroso, apprese quello che lei pensò bene di rivelargli, frugò in ogni suo nascondiglio, osò mormorarle tutte le oscenità possibili e scoprì stupito che non era completamente solo nell'universo e che ormai non aveva nessuna voglia di morire. Allo stesso modo in cui la sua anima si liberò, si sviluppò il suo corpo e in poche settimane smise di sembrare un ragazzino e sul suo viso apparve un'espressione da uomo contento. Quando Olga si rese conto che non le era più soltanto riconoscente, ma si stava innamorando, lo scrollò con furia e lo obbligò a guardarla nuda e a fare un meticoloso inventario della sua grassezza, dei capelli bianchi e delle rughe, della sua annosa stanchezza di fare a botte col destino, e lo minacciò solennemente di lasciarlo perdere se persisteva in idee distorte. Gli fece vedere con chiarezza i limiti della loro relazione e aggiunse che avrebbe dovuto battersi il petto, perché aveva una fortuna tremenda, e non avrebbe trovato un'altra donna che gli offrisse sesso gratuito e sicuro, gli stirasse le camicie gli mettesse del denaro nel portafoglio senza esigere nulla in cambio, che era ancora un moccioso, e quando avrebbe cessato di esserlo lei sarebbe diventata vecchia che si concentrasse nello studio, per vedere se poteva uscire dal buco in cui era cresciuto e diventare qualcuno, che viveva nel paese delle possibilità e se non ne approfittava era un imbecille senza scampo. I suoi voti migliorarono, iniziò a collaborare al giornalino scolastico e ben presto si trovò a scrivere focosi articoli e a capeggiare assemblee studentesche per motivi diversi, alcuni burocratici, come l'orario delle attività sportive, e altri di principio, come la discriminazione tra neri e latini. Hai ereditato da tuo padre, sospirava Nora preoccupata, perché non voleva vederlo diventare un predicatore. Acquietatosi per merito di Olga poté prendere gusto alla lettura, approfittava di ogni momento libero per andare alla biblioteca municipale, dove fece amicizia con Ciro, un vecchio
ascensorista. L'uomo manovrava i comandi con una mano e con l'altra reggeva il libro, tanto assorto che l'ascensore funzionava a suo piacere, come una macchina sconquassata. Sollevava gli occhi solo quando arrivava Gregory, allora il suo anemico viso da profeta si illuminava per qualche istante e un lieve sorriso sostituiva il contrarsi ostile delle labbra, ma immediatamente bloccava il gesto e lo salutava con un grugnito, per mettere bene in chiaro che ciò che li univa era solo una certa affinità intellettuale. Il ragazzo arrivava di solito a metà del pomeriggio, dopo la scuola, e si tratteneva solo mezz'oretta, perché doveva lavorare. Il vecchio lo aspettava per tempo e man mano che si avvicinava l'ora si sorprendeva a guardare l'orologio, sempre in guardia per dominare affetti non necessari, ma se non veniva era come se se ne fosse andato il sole. Divennero buoni amici. A Reeves piaceva passare il sabato in sua compagnia, gli faceva visita nella squallida stanza della pensione dove viveva, altre volte uscivano per passeggiare o vedere un film, poi al calare della sera lo salutava per andare con Carmen nelle sale da ballo. Dopo un certo tempo Ciro gli diede appuntamento in un parco col pretesto di discutere di filosofia e fare merenda assieme. Lo stava aspettando con una cesta da cui spuntavano un pane e il collo di una bottiglia, lo guidò a braccetto in un luogo isolato, dove nessuno potesse ascoltarli, e lì, a bassa voce, gli annunciò che stava per rivelargli un segreto di vita e di morte. Dopo avergli fatto giurare che mai lo avrebbe tradito, gli confessò solennemente di essere iscritto al Partito Comunista. Al ragazzo non risultava chiaro il significato di quella confidenza, nonostante fossero nel pieno della caccia alle streghe scatenate contro le idee liberali, ma immaginò che doveva essere qualcosa di contagioso e di cattiva reputazione quanto le malattie veneree. Fece qualche indagine che contribuì soltanto a rendere più oscuro il panorama. Sua madre gli offrì una vaga risposta sulla Russia e il massacro di una certa famiglia reale in un Palazzo d'Inverno, il tutto era così lontano che gli riuscì impossibile metterlo in rapporto con il suo luogo e il suo tempo. Quando accennò all'argomento in casa dei Morales, Immacolata si fece, spaventata, il segno della croce, Pedro gli proibì di dire cose sconvenienti in casa sua e lo prevenne contro la follia di interessarsi di problemi che non gli competevano. La politica è un vizio, la gente onesta e lavoratrice non ne ha alcun bisogno, decise. Padre Larraguibel, la cui tendenza al tremebondo aumentava con gli anni, accusò i comunisti di essere l'anticristo in persona e i nemici naturali degli Stati Uniti, affermò che parlare con uno di loro comportava automaticamente tradire la cultura cristiana e la patria, visto che ogni parola detta veniva
immediatamente riportata a Mosca per scopi diabolici. Attento, puoi trovarti nei pasticci con la legge e finire sulla sedia elettrica, nel qual caso lo avresti ben meritato, sciocco, i rossi sono atei, bolscevichi e gente cattiva, non hanno niente a che fare con questo paese, che se ne vadano in Russia se è questo che gli piace, concluse con un pugno sul tavolo che fece saltare la tazza di caffè con brandy. Gregory capì che Ciro gli aveva dato la miglior prova di amicizia, raccontandogli il suo segreto, e per ricambiarlo cercò di non deluderlo nel percorso intellettuale da poco intrapreso. L'uomo coltivò in lui la passione per determinati autori e ogni volta che Gregory formulava una domanda, lo invitava a cercare da sé la risposta, così imparò a usare enciclopedie, dizionari e altri strumenti della biblioteca. Se non trovi la soluzione, consulta i giornali vecchi, gli consigliò. Davanti ai suoi occhi si aprì un vasto orizzonte, per la prima volta gli parve possibile uscire dal quartiere, non era condannato a restare sepolto lì per il resto dei suoi giorni, il mondo era immenso, si svegliò in lui la curiosità e il desiderio di vivere le avventure che prima si accontentava di vedere al cinema. Quando era libero dalla scuola e dal lavoro passava ore con il suo maestro, salendo e scendendo con l'ascensore, finché la nausea non lo vinceva e usciva barcollando a respirare aria pura. La sera cenava con i Morales e intanto aiutava Carmen a fare i compiti, perché era una pessima allieva, poi andava da Olga e arrivava a casa che Judy e sua madre erano già addormentate. A volte, nel fine settimana, cercava la compagnia di Nora per discutere sulle sue letture, ma di giorno in giorno i loro rapporti si facevano più freddi e non godettero mai più delle conversazioni dei tempi del camion zingaresco, quando lei gli raccontava gli argomenti delle opere e decifrava per lui i misteri del firmamento nelle notti stellate. Aveva ben poco in comune con la sorella e avrebbe dovuto essere proprio distratto per non percepire la sua decisa ostilità. Durante quegli anni la baracca era tornata a deteriorarsi, le assi scricchiolavano e pioveva dal tetto, però il terreno si era valorizzato per l'estendersi della città in quella direzione. Pedro Morales suggerì ai Reeves di vendere la proprietà e di stabilirsi in un appartamento piccolo dove le spese sarebbero state più basse e la manutenzione più facile, ma Nora temeva con quel trasloco di perdere il marito. "I morti hanno bisogno di un focolare stabile, non possono trasferirsi da un luogo all'altro. Anche le case hanno bisogno di un morto e di una nascita. Un giorno qui nasceranno i miei nipoti," diceva. Dopo Olga, con la quale condivideva una magica intimità da amanti
impudichi, Carmen Morales era la persona più vicina a Gregory. Da quando Olga aveva calmato i suoi istinti, poteva contemplare le prominenze dell'amica senza soffrire penosi inconvenienti. Avrebbe voluto per lei una sorte meno squallida di quella delle donne del quartiere, maltrattate dai mariti, sfiancate dai figli e povere in canna, pensava che con un po' di aiuto avrebbe potuto terminare la scuola e imparare un mestiere. Cercò di avviarla alla lettura, ma in biblioteca lei si annoiava, detestava studiare e non dimostrava il minimo interesse per le notizie dei giornali. "Se leggo più di mezza pagina mi fa male la testa. È meglio che leggi tu e poi mi racconti..." si giustificava quando lui la incastrava tra un libro e la parete. "È perché ha i seni grossi. Più seni, meno cervello, è una legge della natura, per questo le sfortunate donne sono come sono," spiegò Ciro a Gregory. "Quel vecchio è un cretino!" esplose Carmen quando lo seppe, e da quel giorno usò reggiseni imbottiti per pura sfida, con risultati così spettacolari che nel vicinato nessuno si astenne dal commentare come si andava sviluppando bene la figlia minore dei Morales. Non erano solo i suoi seni che attiravano l'attenzione, aveva perso quell'aspetto da topina diligente e stava trasformandosi in un'esplosiva ragazza attorno alla quale volteggiavano i pretendenti, senza però osare attraversare il delicato confine dell'onorabilità, perché dall'altra parte stavano Pedro Morales e i suoi quattro figli, tutti robusti, decisi e gelosi. Apparentemente non era diversa dalle altre ragazze della sua età, le piacevano le feste, scriveva pensieri romantici e versi ricopiandoli in un diario personale, si innamorava degli attori del cinema e civettava con tutti i ragazzi che le venivano a tiro, sempre che riuscisse a eludere la sorveglianza della famiglia e di Gregory, investito del ruolo di cavalier servente. Tuttavia, a differenza di altre giovani, possedeva una focosa immaginazione che l'avrebbe in seguito salvata da un'esistenza banale. Un giovedì, all'uscita dalla scuola, Gregory e Carmen si trovarono per strada di fronte a Martínez e a tre della sua cricca. L'onda di giovani che usciva dall'edificio si arrestò un attimo e poi deviò per evitarli, non volendo essere accusati di provocazione, ma Martínez aveva visto la ragazza in una sala da ballo il sabato precedente e la stava aspettando con l'arroganza di chi si sa più forte. Lei si fermò di colpo, e lo stesso fecero gli altri studenti accanto a lei, avvertendo la minaccia nell'aria ma incapaci di reagire. Martínez era molto cresciuto per la sua età,
era un gigante sfrontato, con baffetti da primo attore, alcuni vistosi tatuaggi, vestito da bullo, i capelli impomatati in due ciuffi ritti, pantaloni con le pence in vita, scarpe con puntali di metallo giacca di cuoio e camicia viola. "Su, sciocchina, dammi un bacio..." fece qualche passo e prese Carmen per il mento. Con una manata lei lo scostò, e gli occhi dell'altro si strinsero come due fessure. Gregory prese il braccio dell'amica e cercò di portarla via da quel vile agguato, ma la banda bloccava il passaggio e non c'era nessuno a cui ricorrere, sulla via si era aperto un tremendo vuoto, gli altri ragazzi retrocessero a prudente distanza in un ampio semicerchio e al centro restarono solo loro e gli aggressori. "Te ti conosco, figlio di puttana," si beffò Martínez spingendo leggermente Gregory, e aggiunse rivolto ai suoi seguaci: "Questo è lo sguattero gringo finocchio di cui vi ho raccontato." Senza lasciare Carmen, Gregory fece ancora un tentativo di fuga ma Martínez avanzò minaccioso e allora capì che era arrivato il momento tanto temuto, e non era ormai più possibile sfuggire a quella minaccia che da sempre lo insidiava. Respirò profondamente, cercando di controllare il terrore, costringendosi a pensare, calcolando che era solo, perché nessuno dei suoi compagni sarebbe corso in sua difesa e gli altri erano quattro e di sicuro avevano coltelli o tirapugni. Dal fondo del ventre l'odio salì fino in gola come un'ondata calda, i ricordi accorsero a frotte, stordendolo, e per un attimo perse la vista e la ragione e sprofondò in una palude oscura. La voce di Carmen lo riportò sulla strada. "Non toccarmi, caprone," e si difendeva dalle mani di Martínez mentre gli altri ridevano. Gregory spinse da parte Carmen e affrontò il nemico, viso contro viso, i pugni pronti, gli occhi pieni di rancore, ansimando. "Cos'è che vuoi, gringo figlio di puttana...? Hai voglia di essere di nuovo inculato o preferisci fare a cazzotti con me?" bisbigliò Martínez con voce lenta e bassa, come se parlasse d'amore. "Fòtti tua madre! Quattro dei tuoi bravacci contro uno solo e disarmato è molto facile," replicò Gregory. "Bene! Attenti, ora, ragazzi. Questo riguarda solo noi due," ordinò Martínez ai suoi. "Non voglio una rissa da ragazzini. Quello che voglio è un duello a morte," sibilò Gregory a denti stretti. "Che puttanata è questa?"
"Quello che ho detto, messicano di merda," e Gregory alzò la voce perché tutti sulla strada potessero sentire. "Fra tre giorni, dietro alla fabbrica del caucciù, alle sette di sera." Martínez lanciò uno sguardo intorno, senza capire molto bene di che si trattasse e i ragazzi della banda si strinsero nelle spalle, ancora scherzando, mentre il cerchio dei curiosi si avvicinava un po', perché nessuno voleva perdere un dettaglio di quello che stava succedendo. "Coltello, bastone, catena o pistola?" domandò incredulo Martínez. "Il treno," replicò Gregory. "E che facciamo con il fottuto treno?" "Vedremo chi ha più palle," e Gregory prese per mano Carmen e si allontanò lungo la strada, volgendogli le spalle con l'ostentato disprezzo del torero per la bestia che non ha ancora sconfitto, camminando in fretta, perché nessuno udisse il rimbombo del suo cuore. Erano diversi anni che sfidavo il treno in corsa, prima con l'intenzione di morire e poi solo per riprendere gusto alla vita. Passava ruggendo quattro volte al giorno come un drago in precipitosa fuga, sconvolgendo il vento e il silenzio. Lo aspettavo sempre nello stesso posto, un terreno incolto e pianeggiante, dove in certi periodi si accumulavano i rifiuti e in altri, quando lo ripulivano, i bambini andavano a giocare a palla. Prima mi arrivava il fischio lontano e il rumore della macchina, poi lo vedevo apparire, formidabile serpente di ferro e frastuono. La mia sfida era calcolare il momento esatto per attraversare il binario davanti al locomotore, aspettare bene l'ultimo istante, averlo quasi addosso, e allora correre come un disperato e raggiungere l'altro lato con un salto. La vita dipendeva dal minimo errore, da una lieve esitazione, dall'inciampare nel binario, dall'agilità delle mie gambe e dal mio sangue freddo. Potevo distinguere i diversi treni dallo strepito della macchina, sapevo che il primo del mattino era il più lento e quello delle sette e quindici il più veloce. Mi sentivo abbastanza sicuro, però siccome non l'avevo sfidato da parecchio tempo, nei giorni successivi provai con ogni treno che passava, accompagnato da Carmen e Juan José, che misuravano i risultati. La prima volta che mi videro farlo, il cronometro cadde loro di mano e Carmen si mise a gridare perdendo il controllo, per fortuna la udii solo dopo che la macchina era passata, altrimenti avrei di sicuro esitato e adesso non sarei qui a raccontarne. Individuammo il posto migliore per la corsa, là dove i binari si scorgevano chiaramente, togliemmo le pietre e segnammo la distanza con una riga sul terreno, accorciandola ad ogni
prova, fino a che non fu possibile ridurla ancora, il treno mi sfiorava la spalla. La sera era più difficile perché era quasi buio e le luci della locomotiva abbagliavano. Penso che anche Martínez si fosse esercitato in un altro posto, dove nessuno lo vide per cui il suo orgoglio smisurato fu salvo, davanti ai suoi compagnoni non poteva dimostrare la minima preoccupazione per il duello, doveva simulare un assoluto disprezzo del pericolo, da vero macho. Io contavo su quel particolare per avvantaggiarmi su di lui, perché durante gli anni nella giungla del quartiere avevo imparato ad accettare con umiltà la paura, quell'incendio nello stomaco che a volte mi tormentava per giorni e giorni. La domenica fissata, la voce era già corsa nella scuola e alle sei e mezza c'era una fila di automobili, moto e biciclette parcheggiate sul terreno incolto e una cinquantina di miei compagni, seduti a terra accanto ai binari, aspettavano l'inizio dello spettacolo. La fabbrica di caucciù era chiusa, ma nell'aria fluttuava l'odore nauseabondo di gomma bruciata. C'era un'atmosfera di festa, chi aveva portato merende, chi beveva whisky e gin camuffati in bottigliette da bibite, molti avevano le macchine fotografiche. Carmen evitò la gazzarra, se ne stette in disparte, pregando. Mi aveva chiesto che non lo facessi, era meglio passare da vigliacco che perdere la vita in un attimo, dopotutto Martínez non mi aveva fatto niente, questo duello è aberrante, un peccato, Dio ci punirà tutti, mi supplicò. Le spiegai che la cosa non aveva niente a che vedere con l'incidente per strada, lei non era la causa ma solo il pretesto, si trattava di debiti molto vecchi impossibili da riferire, cose da uomini. Mi appese al collo un rettangolino di stoffa ricamata. "È lo scapolare della Vergine di Guadalupe che mia madre aveva addosso quando venne da Zacatecas. È miracoloso..." Alle sette in punto apparvero quattro automobili sconquassate, malamente dipinte col colore viola dei "Carniceros", che trasportavano la banda, accorsa a spalleggiare Martínez. Passarono tra di noi facendo sberleffi con la mano che si torceva davanti al viso e toccandosi il sesso, in un gesto provocatorio. Pensai che se le cose non fossero andate bene sarebbe scoppiato un tremendo pandemonio e che il mio gruppo di amici, anche se più numeroso, non era in nessun caso un avversario temibile per loro, abituati a dar battaglia e per di più armati. Dovetti guardare e riguardare per riconoscere Martínez, perché sembravano tutti uguali, tutti pettinati con la gommina, con giacche, ciondoli e un dondolio provocatorio nel camminare. Non aveva rinunciato al suo abbigliamento da bravaccio, neppure alle scarpe dai tacchi alti, invece io avevo vestiti comodi – a quel
tempo potevo comprarmi solo roba usata al bazar della chiesa – e mi ero messo le scarpe da ginnastica. Passai in rassegna i miei vantaggi: io ero più veloce e leggero, in realtà in una corsa alla pari non avrebbe potuto vincermi, ma si trattava di una sfida con la morte e all'ultimo istante contava più l'audacia che la destrezza. Nella scuola elementare lui era sempre stato un buon atleta, invece io ero sempre stato mediocre negli sport, ma cercai di non pensarci. "Alle sette e quindici in punto passa l'espresso. Partiamo assieme alla distanza di tre passi lunghi in modo che tu non possa spingermi, caprone, io più vicino al treno, ti concedo questo regalino se vuoi," gridai perché tutti sentissero. "Non ho bisogno di vantaggi, pederasta." "Allora scegli: corri più vicino al treno o parti da più lontano." "Vado più lontano." Con un bastone segnai due righe a terra, mentre tre della banda e alcuni miei compagni, guidati da Juan José Morales, attraversarono i binari per controllare la sfida dall'altro lato. "Così vicino? Hai paura, finocchio?" sbeffeggiò sdegnoso Martínez. Avevo previsto la sua reazione, cancellai col piede le righe e le tracciai di nuovo più lontane. Juan José Morales e uno della banda misurarono i passi che ci separavano e in quel momento udimmo il fischio del treno. Tutti gli spettatori si avvicinarono, la banda a sinistra, in un blocco compatto, i miei compagni a destra. Carmen mi rivolse un'ultima occhiata di incoraggiamento, ma vidi che era sconvolta. Ci sistemammo sui segni, toccai di nascosto lo scapolare e poi chiusi del tutto la mente a ciò che mi circondava, concentrandomi su me stesso e su quella mole di ferro che si precipitava, contando i secondi, il corpo teso, attento allo strepito che cresceva, io solo di fronte al treno, come ero stato tante altre volte. Tre, due, uno: adesso! e senza aver coscienza di quello che facevo sentii un fremito selvaggio nelle viscere, le gambe scattarono sparate da un impulso autonomo, un formidabile brivido mi pervase per intero, i muscoli esplosero nello sforzo e la paura mi accecò con un velo di sangue. Il fragore del treno e il mio grido mi entrarono nella pelle, invadendomi completamente, divenni un solo terribile ruggito. Intravvidi le luci enormi che mi venivano addosso, la pelle arse per il calore dei motori e dall'aria spezzata in due da quella gigantesca freccia, le scintille delle ruote di ferro contro i binari mi colpirono il viso. Ci fu un istante che durò un millennio, una frazione di tempo congelata per l'eternità, e rimasi sospeso in un abisso incommensurabile, fluttuando davanti al locomotore, uccello
pietrificato in pieno volo, ogni molecola del corpo tesa nell'ultimo salto in avanti, la mente fissa nella certezza della morte. Non so che cosa accadde dopo. Ricordo solo che mi svegliai rotolando sull'altro lato dei binari in preda alla nausea, sfinito, aspirando a pieni polmoni l'odore di metallo caldo, stordito dal furioso fragore dell'enorme bestia che passava e passava, lunghissima, interminabile, e quando infine si fu allontanata, sentii un silenzio innaturale, un vuoto assoluto, e l'oscurità mi avvolse interamente. Dopo un secolo Carmen e Juan José mi presero per le braccia per rimettermi in piedi. "Alzati, Gregory, andiamocene di qui prima che arrivi la polizia." Allora ebbi un lampo di lucidità e riuscii a vedere nella penombra della sera i ragazzi scappare di corsa verso la strada, partire sparate le auto viola della banda, sul posto non restavano altro che Carmen, Juan José, io, macchiato di sangue, e i resti di Martínez sparsi ovunque.
SECONDA PARTE
Il duello del treno passò talmente di bocca in bocca, abbellito fino a raggiungere proporzioni fantastiche, che Gregory Reeves divenne per i suoi compagni un eroe. Allora qualcosa di essenziale cambiò nel suo carattere, crebbe di colpo e perse quella specie di angelico candore, fonte di tanti dispiaceri e mortificazioni, acquistò sicurezza e per la prima volta dopo tanti anni si sentì bene nella propria pelle, ora non desiderava più essere di colore scuro come gli altri del quartiere, cominciava a valutare i vantaggi del non esserlo. Alla scuola secondaria c'erano circa quattromila alunni provenienti da diversi settori della città, quasi tutti bianchi appartenenti ai ceti medi. Le ragazze portavano i capelli raccolti a coda di cavallo, non dicevano parolacce né si dipingevano le unghie, frequentavano la chiesa e qualcuna aveva già un'aria da impassibile matrona, come la madre. Non perdevano occasioni per baciare il fidanzato di turno nell'ultima fila del cinematografo o nel sedile posteriore di una macchina, ma non lo raccontavano. Sognavano di avere un diamante all'anulare e nel frattempo i ragazzi approfittavano finché potevano della loro libertà, prima che il raggio fulminante dell'amore li domasse. Vivevano le loro ultime occasioni di chiasso, di giochi e di sport pesanti, si stordivano d'alcool e di velocità, un periodo di malefatte virili, alcune innocenti come rubare il busto di Lincoln dall'ufficio del rettore, e altre meno come catturare un negro, un messicano o un omosessuale per impiastricciarlo di escrementi. Ridevano del romanticismo, ma lo utilizzavano per farsi la fidanzata. Tra loro parlavano a non finire di sesso, ma ben pochi avevano occasioni di praticarlo. Per pudore Gregory Reeves non alluse mai a Olga con gli amici. A scuola si sentiva a suo agio, non era più segregato a causa del suo colore, nessuno conosceva la sua casa né la sua famiglia non si sapeva che la madre riceveva un assegno dall'Assistenza Sociale. Era uno dei più poveri, ma aveva sempre qualche soldo in tasca perché lavorava, poteva invitare una ragazza al cinema, non gli mancavano i soldi per un giro di birra o una scommessa e l'ultimo anno le sue fortune gli bastarono per un'auto piuttosto malconcia, ma con un buon motore. La povertà si notava solo nei pantaloni lucidi, nelle camicie consumate e nella mancanza di tempo libero. Dimostrava più dei suoi anni,
era magro, agile e forte come era stato suo padre, si considerava bello e si comportava come se lo fosse. Negli anni che seguirono trasse vantaggio dalla leggenda di Martínez e dalla conoscenza delle due culture in cui era cresciuto. Le stravaganze intellettuali della sua famiglia e l'amicizia con l'ascensorista della biblioteca svilupparono la sua curiosità; in un ambiente dove gli uomini a malapena leggevano le pagine sportive dei giornali e le donne preferivano i pettegolezzi sugli artisti di Hollywood, lui aveva letto in ordine alfabetico i più importanti pensatori da Aristotele a Zoroastro. La sua visione del mondo era deformata, ma comunque più vasta di quella degli altri studenti e di parecchi professori. Ogni idea nuova lo abbagliava, credeva di avere scoperto qualcosa di unico e si sentiva in dovere di rivelarlo al resto dell'umanità, ma ben presto si rese conto che l'esibizione della cultura era come una sberla per i suoi compagni. Nei loro confronti si tratteneva, ma davanti alle compagne non sfuggiva alla tentazione di mettersi in mostra come un funambolo della parola. Le instancabili discussioni con Ciro gli insegnarono a difendere le sue idee con passione, il suo maestro buttava all'aria ogni tentativo di confonderlo a colpi di eloquenza, più sostanza e meno retorica, figliolo, gli diceva, ma Gregory constatò che con altre persone i suoi trucchi da oratore funzionavano. Riusciva sempre a porsi alla testa del gruppo, gli altri si abituarono a cedergli il passo e, siccome la modestia non era una delle sue virtù, naturalmente si immaginò lanciato nella carriera politica. "Non è un'idea malvagia. Di qui a qualche anno il socialismo avrà trionfato nel mondo e potrai essere il primo senatore comunista di questo paese," lo entusiasmava Ciro durante i conciliaboli segreti nel magazzino della biblioteca, dove per anni aveva tentato, senza grandi risultati, di seminare nella mente del suo discepolo la propria infiammata passione per Marx e Lenin. A Reeves queste teorie risultavano indiscutibili dal punto di vista della giustizia e della logica, ma intuiva che non avevano la minima possibilità di successo, per lo meno in quella metà del pianeta in cui viveva. D'altra parte l'idea di fare fortuna gli appariva più seducente di quella di dividerla in parti uguali, però non avrebbe mai osato confessare pensieri così meschini. "Non sono certo di voler essere comunista," prendeva prudentemente le distanze Gregory. "E che cosa sarai allora, figliolo?" "Democratico, per esempio..." "Non c'è differenza tra democratici e repubblicani. Quante volte devo spiegartelo, insomma, se vuoi arrivare al Senato devi iniziare oggi stesso.
Chi dorme non piglia pesci. Devi diventare presidente degli studenti." "Sei matto, Ciro, sono il più povero della mia classe e parlo inglese come un chicano. Chi voterebbe per me? Non sono né gringo né latino, non rappresento nessuno." "Proprio per questo puoi rappresentarli tutti," e il vecchio gli prestò Il Principe e altre opere di Niccolò Machiavelli perché imparasse a conoscere la natura umana. Dopo tre settimane di lettura Gregory tornò piuttosto confuso. "Questo libro non mi serve a niente, Ciro. Che rapporto c'è tra gli italiani del quindicesimo secolo e gli scansafatiche della mia scuola?" "È tutto quello che sai dirmi di Machiavelli? Non hai capito niente, sei un ignorante. Non sei degno di essere segretario di un asilo infantile, molto meno di fare il presidente degli studenti della secondaria." Il ragazzo tornò a mettere il naso sulle scartoffie, questa volta con maggiore impegno, e a poco a poco il raggio chiarificatore del pensatore fiorentino attraversò cinque secoli di storia, la distanza di mezzo mondo, le barriere culturali e le nebbie di un cervello giovanile per rivelargli l'arte del potere. Scrisse le sue annotazioni in un quaderno che intitolò modestamente "Io Presidente" e che risultò profetico, visto che grazie alle strategie di Machiavelli, ai consigli del suo maestro, e ai frutti della sua ispirazione riuscì a essere eletto da una schiacciante maggioranza. Fu quello il primo anno in cui nella scuola non ci furono problemi razziali, perché alunni e professori lavorarono all'unisono, dopo che Reeves li ebbe convinti che navigavano tutti sulla stessa barca e non conveniva a nessuno remare in direzioni opposte. Organizzò anche il primo ballo in calzini, con grande scandalo della Giunta Direttiva, che lo considerò il passo decisivo verso un'orgia romana, ma non successe niente di peccaminoso, fu una festa innocente dove i partecipanti si tolsero solo le scarpe. Il nuovo presidente era deciso a lasciare un ricordo incancellabile negli annali dell'istituzione e ad intraprendere il cammino verso la Casa Bianca, ma il compito risultò più difficile del previsto. Oltre alle responsabilità del suo incarico Gregory aiutava in cucina in una rivendita di tacos fino a notte molto avanzata, durante il fine settimana riparava gomme nel garage di Pedro Morales e d'estate andava come bracero a raccogliere frutta nei campi. La sua esistenza era così piena che si salvò dall'alcool, dalla droga, dalle scommesse di gioco e dalle gare di velocità in cui diversi suoi amici lasciarono buona parte della loro innocenza, quando non la salute e perfino la vita. Le ragazze divennero la sua idea fissa, che si manifestava a volte come
un giocoso stordimento capace di fargli dimenticare anche il suo nome, ma generalmente era solo un tormento di zuppa calda nelle vene e di banali oscenità nella mente. Con delicatezza, perché gli voleva molto bene, ma con irrevocabile decisione, Olga lo esiliò dal suo letto col pretesto che ormai doveva trovare altre consolatrici. Si sentiva troppo vecchia per quelle sfacchinate, disse, ma in realtà si era innamorata di un camionista, di dieci anni più giovane di lei, che andava a trovarla tra un viaggio e l'altro. Questa matrona dallo spirito indomito finì per rammendare i calzini e subire le manie di un amante dal fisico scadente, finché in una delle sue traversate l'uomo cambiò strada per seguire un altro amore e non tornò più. D'altra parte, gli incontri di Olga e Gregory avevano perso il fascino della novità e l'incanto del proibito, erano degradati a una discreta ginnastica tra una nonna e il nipote. Olga fu rimpiazzata da Ernestina Pereda, compagna di Gregory delle elementari che ora lavorava in un ristorante. Con lei immaginava l'amore, illusione che si dissipava dopo pochi minuti, lasciandogli un senso di colpa. Probabilmente era l'unico amante di Ernestina che si faceva questi scrupoli, ma per vincerli avrebbe dovuto tradire la sua natura romantica e i princìpi di cavalleria appresi dalla madre e dalle sue letture, non voleva approfittare di lei, come tanti altri, ma non era neppure capace di fingere di amarla. Ancora non si profilavano all'orizzonte i mutamenti di costume che avrebbero trasformato il sesso in un salutare esercizio senza rischi di gravidanza né sensi di colpa. Ernestina Pereda era uno di quegli esseri destinati a esplorare l'abisso dei sentimenti, ma aveva avuto in sorte di nascere con quindici anni di anticipo, in un momento in cui le donne dovevano scegliere tra la decenza e il piacere e lei non aveva il coraggio di rinunciare a nessuno dei due. Da quando poteva ricordare, era sempre stata affascinata dalle possibilità del suo corpo, a sette anni aveva trasformato il bagno della scuola nel suo primo laboratorio e i suoi compagni in porcellini d'India, con i quali investigò, fece esperimenti e arrivò a sorprendenti conclusioni. Gregory non sfuggì a tale ansia scientifica, i due se la svignavano nella squallida intimità del bagno per esplorarsi con la migliore buona volontà, gioco che sarebbe continuato indefinitamente se la brutalità di Martínez e della sua banda non lo avesse interrotto di colpo. Durante la ricreazione si nascosero in una cassa per spiarli, li scoprirono che giocavano al dottore e inscenarono un tale putiferio di beffe che Gregory per la vergogna si ammalò per una settimana e non riprese quei giochi fino a che Olga non lo riscattò dal suo turbamento. Frattanto Ernestina Pereda aveva avuto innumerevoli esperienze, non c'era ragazzo nel quartiere che non si facesse vanto di
conoscerla, alcuni a ragione, ma molti per semplice fanfaronata. Gregory cercava di non pensare a tale promiscuità, i loro incontri erano privi di artifici sentimentali, ma si basarono sempre su un'elementare cortesia, benché non si parlasse di sentimento. L'amore gli si presentava ad ogni momento sotto forma di passioni effimere per qualche ragazza dei dintorni, con cui non poteva praticare le capriole di perdizione del repertorio di Olga né i frenetici volteggi di Ernestina Pereda. Non aveva problemi nel trovare donne, fidanzate, ma non si sentiva mai sufficientemente amato, l'affetto che riceveva era appena un pallido riflesso della passione totale in cui si consumava. Gli piacevano alte e magre, però cedeva senza troppa resistenza di fronte alle tentazioni dell'altro sesso, anche se si trattava di ragazze ben tornite, come nel caso delle latine del quartiere. Solo Carmen era tenuta fuori dalle sue avventure erotiche, la considerava un'amica e i suoi attributi femminili non cambiavano in nulla l'antica complicità. Erano però diversi per temperamento e a poco a poco si era creato tra loro un abisso intellettuale. Condivideva con lei confidenze, balli e cinematografi, ma era inutile parlarle delle sue letture o dei problemi sociali e metafisici seminati nel suo cuore da Ciro. Se si avventurava su quei sentieri l'amica non si dava la pena di lusingarlo con finto interesse, lo gelava con uno sguardo di ghiaccio e gli ordinava di smetterla con quelle scemenze. Con altre donne non aveva un esito migliore, all'inizio le attraeva col suo prestigio di duro e di buon ballerino, ma presto si stancavano delle sue insistenze e lo lasciavano dicendo che era un pedante presuntuoso che non sapeva tenere ferme le mani, attente a non accettare un passaggio da sole sul suo rottame, prima ti annoia con la sua parlantina da candidato alla presidenza e poi cerca di toglierti il reggiseno, ma anche così a Reeves non mancavano le avventure amorose. Juan José Morales pensava che non valesse la pena di cercare di capire le donne, erano oggetti di lussuria e perdizione, come assicuravano il canzoniere latino e il Padre Larraguibel quando si infiammava di zelo cattolico. Per i macho del quartiere c'erano solo due tipi di donne, quelle come Ernestina Pereda e le altre intoccabili destinate alla maternità e al focolare, ma non si doveva innamorarsi di nessuna di loro, ché quelle trasformano l'uomo in schiavo, se non in cornuto. Gregory non accettò quelle premesse e nei trenta anni che seguirono inseguì senza tregua la chimera dell'amore perfetto, inciampando infinite volte, cadendo e tornando ad alzarsi, in un'interminabile corsa ad ostacoli, finché rinunciò alla ricerca e imparò a vivere nella solitudine. E allora, per una di quelle ironiche sorprese della vita, incontrò l'amore quando non pensava più a
cercarlo. Ma questa è un'altra storia. Le aspirazioni senatoriali di Gregory Reeves furono bruscamente interrotte il giorno successivo al diploma della scuola secondaria, quando Judy gli domandò cosa pensasse di fare del suo futuro perché ormai era ora che uscisse dalla casa della madre, dove in tre si viveva piuttosto scomodi. "È da tempo che dovresti vivere altrove, qui non c'è spazio, si sta molto scomodi." "Va bene, cercherò un posto dove andare," rispose Gregory con un misto di tristezza per il modo brusco con cui veniva cacciato dalla famiglia e di sollievo per il fatto di uscire da una casa dove mai si era sentito amato. "Dobbiamo sistemare i denti alla mamma, non si può più rimandare." "Abbiamo qualche risparmio?" "Non bastano. Mancano trecento dollari. E poi le abbiamo promesso un televisore per Natale." Judy aveva trascorso un'adolescenza infelice e si era trasformata in una donna devastata da una sorda indignazione. Ciononostante il suo viso era di una bellezza sorprendente e i capelli benché tagliati a colpi di forbice, mantenevano lo stesso colore d'oro bianco dell'infanzia. Insidiosi strati di grasso si erano formati sulla sua figura, ma non la deformavano completamente perché era ancora molto giovane e, nonostante l'obesità, si indovinavano le forme originarie del suo corpo, e nelle rare occasioni in cui smetteva di detestarsi e sorrideva, recuperava il suo fascino. Aveva avuto alcuni amori con bianchi incontrati sul lavoro o in altri quartieri, i suoi vicini latini avevano abbandonato la caccia già da molto tempo, convinti che fosse una preda irraggiungibile. Lei si incaricava di spaventare gli animosi pretendenti con i suoi scatti di superbia e i lunghi silenzi. "Questa povera ragazza non si sposerà mai, è evidente che odia gli uomini," diagnosticò Olga. "Finché non dimagrisce è fregata," aggiunse Gregory. "Il peso non c'entra niente, Gregory. Non resterà zitella perché è grassa, ma perché ha voglia di esserlo, per pura rabbia." Quella volta la chiaroveggenza di Olga venne meno. Nonostante il suo aspetto, Judy si sposò tre volte ed ebbe innumerevoli innamorati, alcuni dei quali persero la pace dello spirito inseguendo un amore che lei non poté e non volle dare. Ebbe alcuni figli da differenti mariti e adottò altri bambini, che allevò con amore. Quella naturale tenerezza, che aveva segnato i primi anni di vita di Gregory e che lui tentò
molte volte di recuperare durante il tormentato rapporto con la sorella, restò congelata nell'animo di Judy fino a che non poté incanalarla nelle cure della maternità. I figli propri e altrui la aiutarono a superare la paralisi emozionale della giovinezza e a sopportare con forza il tragico segreto nascosto nel suo passato. A quel tempo aveva lasciato la scuola e lavorava in una fabbrica d'abbigliamento, la situazione della famiglia era precaria, le sue entrate e quelle di Gregory non bastavano. Dopo un anno passato a far pulizie nelle case durante le ore libere, con le mani spellate e la certezza che continuando su quella strada non sarebbe arrivata da nessuna parte, decise di lavorare a tempo pieno come operaia. Assieme ad altre donne mal pagate e maltrattate cuciva in un bugigattolo buio e senza ventilazione, dove passeggiavano tronfi gli scarafaggi. In quel posto le leggi erano violate impunemente e le lavoratrici venivano sfruttate da padroni senza scrupoli. Tornava a casa con due pacchetti di tela e passava buona parte della notte davanti alla macchina da cucire della madre. Le pagavano le ore extra allo stesso prezzo delle normali, ma aveva bisogno di denaro e alla minima protesta l'avrebbero messa alla porta senza altre formalità; c'erano molti disperati che aspettavano il loro turno. Da parte sua Gregory era anch'egli abituato al lavoro, aveva contribuito al reddito della famiglia da quando aveva sette anni. Con i suoi risparmi fece alcuni cambiamenti, sostituì il decrepito frigorifero con uno moderno, la cucina a kerosene con una a gas e il grammofono con un giradischi elettrico perché sua madre potesse ascoltare la sua musica preferita. Non lo spaventava l'idea di vivere solo. Il suo amico Ciro e Olga tentarono di convincerlo che invece di lavorare per sopravvivere cercasse un modo di pagarsi l'università, ma questa alternativa non si poneva fra i ragazzi del suo ambiente, sopra le loro teste c'era un tetto invisibile che li costringeva a guardare a terra. Alla fine delle scuole Gregory si trovò di colpo nuovamente bloccato dal piatto orizzonte del quartiere. Per undici anni aveva fatto il possibile per essere accettato come uno del vicinato e nonostante il suo colore ci era quasi riuscito. Benché non potesse tradurlo in parole, forse la vera ragione che lo spinse a fare l'operaio fu il desiderio di appartenere all'ambiente dove gli era toccato di crescere, l'idea di elevarsi al di sopra degli altri per mezzo dello studio gli parve un tradimento. Negli anni felici della scuola secondaria ebbe la breve illusione di sfuggire alla propria sorte, ma in fondo aveva assunto la condizione di emarginato e al momento di affrontare il futuro lo schiacciò il peso della realtà. Prese in affitto una stanza e lì si sistemò con le sue poche cose inscatolate, i libri prestatigli da Ciro, e Oliver come unica
compagnia. Il cane era molto vecchio e quasi cieco, aveva perso diversi denti e buona parte del pelo, ce la faceva appena col suo pesante scheletro di bestia bastarda, ma era sempre un amico discreto e fedele. Poche settimane di lavoro come "schiena bagnata" furono sufficienti a Reeves per capire che il sogno americano non si realizzava per tutti. Quando la notte tornava nella sua stanza e si buttava esausto sul letto a guardare il soffitto, aveva la misura della sua disperazione, si sentiva preso in trappola. Passò l'estate in un'impresa di trasporti dove doveva portare a spalla pesanti fagotti, gli vennero fuori i muscoli dove non sapeva di averli e stava acquistando il rozzo fisico di un gladiatore, quando un incidente lo obbligò a mutare direzione. Portavano su in due un frigorifero sostenuto da cinghie che ciascuno si era passato sulle spalle, faceva un caldo soffocante, la tromba delle scale era stretta e ad ogni gradino il peso posava interamente su un lato del corpo. Di colpo sentì alla gamba destra una bruciante scarica elettrica, dovette raccogliere tutta la sua volontà per non mollare il carico che avrebbe schiacciato il suo compagno. Gli sfuggì un urlo seguito da una litania di maledizioni e quando poté posare il frigorifero e guardare vide un albero violaceo col tronco grosso e le sue ramificazioni, gli erano scoppiate le vene e in pochi minuti la gamba si era deformata. Dovette andare all'ospedale dove, dopo averlo esaminato, gli consigliarono riposo assoluto e lo avvertirono che le vene colpite avrebbero assunto forma di varici, e che solo la chirurgia poteva eliminarle. Il suo padrone gli pagò una settimana e Reeves passò la convalescenza nella sua stanza, sudando sotto il ventilatore, con il conforto del fedele Oliver, dei massaggi terapeutici di Olga e dei piatti creoli preparati da Immacolata Morales. I libri di Ciro, la musica classica e le visite di alcuni amici furono i suoi svaghi. Carmen gli faceva frequenti visite e gli raccontava dettagliatamente i film in programmazione, aveva il dono del narrare e, ascoltandola, gli sembrava di trovarsi davanti allo schermo. Juan José Morales, che aveva compiuto anche lui diciotto anni, passò a salutarlo prima di arruolarsi nelle Forze Armate e gli lasciò come ricordo il suo album con fotografie di donne nude, che egli preferì non guardare per evitare peggiori supplizi, erano già sufficienti la canicola, l'immobilità e il fastidio. Ciro andava a trovarlo ogni giorno e gli comunicava le notizie in tono funebre, l'umanità era sull'orlo di una catastrofe, la guerra fredda metteva a rischio il pianeta, c'erano troppe bombe atomiche pronte per essere attivate e troppi generali arroganti disposti a farlo, in un momento qualsiasi qualcuno avrebbe premuto il pulsante fatale, avrebbe fatto esplodere il mondo di un incendio finale e tutto se ne sarebbe andato
definitivamente all'inferno. "Abbiamo perduto il senso morale, viviamo in un mondo di valori meschini, di piaceri senza allegria e di azioni senza senso." "Andiamo, Ciro! Non mi hai forse messo in guardia tante volte contro il pessimismo borghese?" replicava scherzoso il suo discepolo. Sua madre si materializzava all'improvviso, discreta e leggera. Gli portava dei biscotti e un osso per Oliver, si sedeva accanto alla porta sul bordo della seggiola e conversava in modo estremamente formale sugli stessi argomenti di sempre: storia, ricordi del padre, musica. Ogni giorno appariva più eterea e sbiadita. Al sabato ascoltavano insieme il programma operistico della radio e Nora, commossa fino alle lacrime, commentava che quelle erano voci di esseri soprannaturali, gli esseri umani non potevano raggiungere una tale perfezione. Con le sue usuali buone maniere guardava da lontano il mucchio di libri vicino al letto e domandava cortesemente che cosa stesse leggendo. "Filosofia, mamma." "Non mi piacciono i filosofi, Greg, sono contro Dio. Cercano di razionalizzare la Creazione, che è un atto di amore e magia. Per capire la vita è più utile la fede della filosofia." "A lei questi libri piacerebbero, mamma." "Sì, penso di sì. Bisogna leggere molto, Greg. Con cognizione e sapienza sarebbe possibile sconfiggere il male sulla terra." "Questi libri dicono in altre parole le stesse cose che lei mi ha insegnato, che esiste una sola umanità, che nessuno deve possedere la terra perché essa appartiene a tutti, che un giorno vi sarà giustizia e uguaglianza tra gli uomini." "E questi non sono libri religiosi?" "Tutto il contrario, non sono libri sugli dèi, ma sugli uomini. Parlano di economia, di politica, di storia..." "Non saranno libri comunisti, figliolo!" Nell'accomiatarsi gli lasciava un opuscolo sulla sua fede Bahai o su qualche fantasiosa guida spirituale fra le tante che spuntavano da quelle parti, e si allontanava con un leggero cenno della mano, senza mai toccare il figlio. La sua presenza nella stanza era così lieve che Gregory restava in dubbio se realmente fosse stata lì o se quella signora dalla chioma color della nebbia e dal vestito d'altri tempi era stata solo uno scherzo della sua immaginazione. Provava per lei un affetto doloroso, gli appariva come una creatura serafica, non toccata dalla malvagità, fine e delicata come le apparizioni delle favole. In certi momenti lo opprimeva l'ira contro di lei,
voleva strapparla a scossoni dal suo continuo dormiveglia, gridarle di aprire finalmente gli occhi e guardarlo in faccia, guardami, madre, sono qui, non mi vedi? ma in genere desiderava solo avvicinarsi, toccarla, ridere con lei e raccontarle i suoi segreti. Una sera Pedro Morales chiuse in anticipo il garage per andare a trovarlo. Dalla morte di Charles Reeves si era tacitamente assunto il compito di vegliare sulla famiglia del suo maestro. "Si tratta di un incidente sul lavoro. Devono darti un indennizzo," gli spiegò. "Mi hanno detto che non ho diritto a niente, don Pedro." "Il tuo padrone è assicurato, no?" "Il padrone dice che lui non è il padrone e che noi non siamo suoi dipendenti, siamo contrattisti indipendenti. Ci pagano in contanti, ci possono cacciare in qualsiasi momento e non siamo assicurati. Lei sa come stanno le cose." "È illegale. Un avvocato può aiutarti, figliolo." Ma Reeves non aveva soldi per gli avvocati e l'idea di impantanarsi per anni in noiose pratiche lo scoraggiò. Non appena poté rimettersi in piedi trovò un lavoro meno pesante, anche se non più piacevole, in una fabbrica di mobili, dove la sottile polvere di segatura che fluttuava nell'ambiente e gli effluvi di colla, vernici e solventi procuravano ai lavoratori un permanente stato di stordimento. Per diversi mesi fece gambe per le seggiole, tutte esattamente uguali. L'incidente alla gamba lo aveva messo sull'avviso e affrontò tante volte il caposquadra reclamando diritti che erano scritti sul contratto e ignorati nella pratica, che finirono per qualificarlo un inguaribile sovversivo e lo licenziarono. Di lì approdò a diversi posti di lavoro da cui usciva malamente dopo poche settimane. "Perché ti agiti tanto, Greg? Non sei nella scuola secondaria, non sei più presidente di nulla. Se ti danno ciò che ti devono non protestare, stattene tranquillo," gli consigliava Olga senza sperare di essere ascoltata. "Fai bene, figliolo, bisogna avere solidarietà di classe. L'unione fa la forza," esclamava Ciro, additando un'invisibile bandiera rossa con l'indice tremante. "Il lavoro eleva l'uomo e tutti i lavori sono egualmente dignitosi e dovrebbero avere la stessa paga, però gli uomini non hanno tutti le stesse capacità. Tu non sei fatto per questo lavoro, Greg, è uno sforzo inutile, non ti porta da nessuna parte, è come gettare sabbia nel mare." "Perché non ti dedichi all'arte, piuttosto? Tuo padre era un artista, no?" gli consigliava Carmen. "E morì in miseria lasciandoci a carico della pubblica beneficenza. No
grazie, sono stufo di essere povero. La povertà è una merda." "Nessun operaio diventa ricco in fabbrica. E poi tu non sei capace di obbedire agli ordini e ti stanchi presto. Tu sei fatto per essere indipendente," insisteva l'amica, che applicava gli stessi principi anche a sé. La giovane ormai non aveva più l'età per i giochi di prestigio sulle strade, vestita di panni multicolori, ma non voleva neppure guadagnarsi la vita con un lavoro dipendente, le faceva orrore l'idea di passare le giornate chiusa in un ufficio o in un capannone davanti a una macchina da cucire, per questo ora si guadagnava qualcosa facendo oggetti di artigianato per negozi di articoli da regalo e fiere ambulanti. Come Judy e molte altre ragazze del quartiere, non aveva terminato le secondarie, non aveva preparazione ma possedeva inventiva in abbondanza e contava segretamente sulla complicità di suo padre per sfuggire al martirio di un lavoro ripetitivo. La volontà di Pedro Morales si fiaccava davanti a questa figlia stravagante cui permetteva licenze che non aveva tollerato negli altri figli. Nella fabbrica di scatolame il lavoro era semplice, ma una qualsiasi distrazione poteva costare un paio di dita. La macchina a cui lavorava Gregory sigillava l'interminabile sfilata di recipienti che passava su di un nastro trasportatore. C'era un frastuono da impazzire, un clamore di leve e lamine metalliche, il ruggito delle sigillatrici e delle ruote dentate, un cigolio di strumenti male oliati, uno stridere di lame, un chiocciare di rulli. Gregory munito di tappi di cera nelle orecchie, sopportava a stento lo strepito che gli colpiva la testa, si sentiva rinchiuso in un fragoroso campanile, il rumore lo lasciava esausto, quando usciva sulla via era così stordito che non percepiva il frastuono del traffico e per un certo tempo gli pareva di trovarsi immerso in un silenzio da fondo marino. L'unica cosa importante era la produzione e ogni operaio era costretto ad arrivare al limite delle proprie forze e spesso a superarlo con gesti automatici, se voleva conservare il posto. Il lunedì gli uomini arrivavano fiacchi per i postumi delle baldorie del fine settimana, e riuscivano a fatica a stare svegli. Quando suonava il fischio serale, il rumore cessava di colpo e per qualche minuto Gregory rimaneva stordito e credeva di galleggiare nel vuoto. Gli operai si lavavano alle fontanelle del cortile, si cambiavano e uscivano in gruppo verso i bar. All'inizio provò ad accompagnarli, immerso nel fumo saturo di tequila a poco prezzo e di birra scura, ridendo delle barzellette sconce e cantando stonate rancheras, più annoiato che
allegro, poteva immaginare per qualche momento di avere degli amici, ma non appena usciva all'aria aperta e gli si schiariva un po' la nebbia del bar, capiva che si stava consolando con trovate da disperato. Niente aveva in comune con gli altri, i messicani diffidavano di lui, come di tutti i gringo. Ben presto rinunciò a quelle illusorie amicizie e dalla fabbrica tornava alla sua stanza, dove si rinchiudeva a leggere e ad ascoltare musica. Per conquistarsi la fiducia degli altri operai, capeggiava le proteste, era il primo a mettersi in azione quando capitava un incidente o si verificava un sopruso, ma era difficile diffondere nella pratica le idee di Ciro sulla giustizia sociale, perché non aveva l'appoggio di chi ne avrebbe avuti i benefici. "Vogliono sicurezza, Ciro. Hanno paura. Ognuno si occupa dei casi suoi, a nessuno importa degli altri." "La paura si può vincere, Gregory. Devi insegnargli a sacrificare gli interessi individuali per le cause comuni." "Pare che nella vita reale ognuno difenda il proprio orticello. Viviamo in una società molto egoista." "Devi parlargli, Greg. L'uomo è l'unico animale guidato da un'etica, che però può andare oltre l'istinto. Se non fosse così ci troveremmo ancora nell'età della pietra. Questo è un momento cruciale della nostra storia, se ci salviamo da un cataclisma atomico coesistono le condizioni per la nascita dell'Uomo Nuovo," spiegava instancabile l'ascensorista nel suo gergo complesso. "Spero che tu abbia ragione, ma ho paura che l'Uomo Nuovo nascerà da un'altra parte, Ciro, non da noi. In questo quartiere nessuno pensa a salti biologici, ma a sopravvivere." La realtà era questa, che nessuno voleva mettersi in evidenza. I latini, per la maggior parte clandestini, erano arrivati al nord superando innumerevoli ostacoli e non avevano la minima intenzione di procurarsi nuovi guai, trappole politiche che potevano attirare i temibili agenti della Migra. Il caposquadra della fabbrica, un omaccione dalla barba rossa, aveva studiato Reeves per mesi. Non lo aveva licenziato perché era uno dei pazienti ammiratori di Judy, sognava di poterla un giorno spogliare per percorrere le sue carni generose, e per un poco pensò di addolcire il suo cuore servendosi del fratello. Non perdeva l'occasione di farsi un bicchiere con Gregory, sperando sempre di essere contraccambiato con un invito a casa dei Reeves. Non voglio che metta piede qui, grugnì Judy quando il fratello provò a convincerla, senza immaginare che il rosso avrebbe guadagnato la partita a forza di tenacia e col tempo sarebbe riuscito a
diventare il suo primo marito. Una volta l'uomo sorprese Gregory mentre distribuiva volantini malamente scritti in spagnolo e volle sapere di che diavolo si trattasse. "Sono articoli della Legge del Lavoro," replicò con aria di sfida. "Che canagliata è questa?" "Le condizioni di questo capannone sono malsane e ci devono molte ore straordinarie." "Vieni in ufficio, Reeves." Appena furono lì gli offrì da sedere e un sorso dalla bottiglia di liquore di ginepro che conservava nell'armadietto del pronto soccorso. Per un lungo momento lo osservò in silenzio, cercando il modo di spiegargli le sue ragioni. Era uomo di poche parole e mai si sarebbe preso quel fastidio se non ci fosse stata di mezzo Judy. "Qui tu puoi arrivare lontano, amico. Per come la vedo io, puoi diventare caposquadra in meno di cinque anni. Hai istruzione e sai comandare." "E sono anche bianco, vero?" osservò Reeves. "Anche. Perfino in questo sei fortunato." "Mi pare di capire che nessuno dei miei compagni uscirà mai dal nastro trasportatore." "Quegli indios pulciosi sono gentaglia, Reeves. Fanno risse, rubano, non ci si può fidare di loro. E poi sono tonti, non capiscono niente, non imparano l'inglese, sono pigri." "Non sai quello che dici. Hanno più capacità e senso dell'onore di te e di me. Tu hai vissuto tutta la vita in questo quartiere e non sai una parola di spagnolo, mentre chiunque di loro impara l'inglese in poche settimane. Non sono neanche pigri, lavorano più di qualunque bianco per la metà della paga." "Che ti importa di quella gentaglia? Non hai niente a che vedere con loro, sei diverso. Credimi, sarai caposquadra e chissà che un giorno tu non sia padrone di una fabbrica tua, sei di pasta buona, devi pensare al futuro. Ti aiuterò, però non voglio casini, non ti conviene. D'altronde questi indios non si lamentano di nulla, sono proprio contenti." "Chiediglielo, vedrai quanto sono contenti..." "Se non gli va, che se ne tornino al loro paese, nessuno gli ha chiesto di venire qui." Reeves aveva sentito questa frase molte volte e uscì indignato dall'ufficio. Nel cortile dove gli operai si lavavano vide il bidone della spazzatura pieno fino all'orlo dei suoi volantini, lo rovesciò con un calcio e se ne andò imprecando. Per far passare quel brutto momento andò al
cinema a vedere due film dell'orrore, poi si mangiò un hamburger in piedi in una caffetteria e a mezzanotte tornò a casa a piedi. Frattanto la rabbia si era trasformata in un angoscioso sentimento di impotenza. Quando arrivò trovò sulla porta un messaggio: Ciro era all'ospedale. L'anziano ascensorista agonizzò per due giorni senz'altra compagnia che quella di Gregory Reeves. Non aveva famiglia e non volle avvertire nessuno dei suoi amici perché considerava la morte un affare privato. Detestava i sentimentalismi e avvisò Gregory che alla prima lacrima era meglio che se ne andasse, perché non era disposto a passare gli ultimi momenti di questa vita consolando un piagnucolone. Lo aveva chiamato, spiegò, perché gli rimanevano alcune cose da insegnargli e non voleva andarsene con il rimorso di un compito non portato a termine. In quei giorni il suo cuore andava rapidamente spegnendosi, passava molte ore concentrato nel faticoso processo di accomiatarsi dalla vita e staccarsi dal proprio corpo. A tratti trovava la forza di parlare ed ebbe sufficiente lucidità per mettere in guardia ancora una volta il suo discepolo sui pericoli dell'individualismo e dettargli una lista di autori imprescindibili, con l'indicazione di leggerli nell'ordine segnalato. Poi gli consegnò la chiave di una cassetta della stazione ferroviaria e, con frequenti pause per calmare il respiro, gli diede le disposizioni finali. "Qui troverai ottocentodieci dollari in contanti. Nessuno sa che li possiedo, l'ospedale non potrà reclamarli per le mie spese. La pubblica carità o la biblioteca si faranno carico del mio funerale, non mi butteranno nell'immondizia, ne sono certo. Questo denaro è per te, figliolo, perché tu vada all'università. Si può iniziare dal basso, ma è molto meglio partire dall'alto e senza un diploma ti costerà molto uscire da questo buco. Più in alto ti troverai, più potrai fare per cambiare le cose di questo dannato capitalismo. Capisci?" "Ciro..." "Non interrompermi, sto perdendo le forze. Perché ti ho riempito il cervello di letture per tanti anni? Perché tu lo adoperi! Quando uno si procura da vivere con un lavoro che non gli piace si sente uno schiavo, quando uno lo fa con un'attività che ama si sente un principe. Prendi il denaro e vattene lontano da questa città, hai capito? Hai avuto buoni voti a scuola, ti ammetteranno senza problemi in qualunque Università. Giurami che lo farai." "Ma..." "Giuramelo!" "Ti giuro che ci proverò..."
"Non mi basta. Giurami che lo farai." "Va bene, lo farò," e Gregory Reeves dovette uscire nel corridoio perché il suo amico non lo vedesse piangere. Come una zampata era ritornato un timore antico. Dopo aver visto Martínez fatto a pezzi sul binario del treno credette di avere superato la sua ossessione per la morte e in realtà per molti anni non ci aveva pensato, ma al sentire nell'aria della stanza di Ciro quel sottile aroma di mandorle amare, il terrore tornò con la stessa intensità dell'infanzia. Si chiese perché quell'odore gli dava la nausea, ma non riuscì a ricordarlo. Quella notte Ciro morì con discrezione e dignità, così come era vissuto, accompagnato dall'uomo che lui considerava suo figlio. Poco prima della fine trasferirono il moribondo dalla sala comune in una stanza singola. Avvisato da Carmen Morales, Padre Larraguibel si presentò per portare i conforti della sua fede, ma l'infermo era già incosciente e Gregory considerò una mancanza di rispetto disturbare Ciro, agnostico irriducibile, con aspersioni di acqua benedetta e latinorum. "Questo non può fargli male e chissà che non gli faccia del bene," argomentò il sacerdote. "Mi dispiace Padre, a Ciro non piacerebbe, abbia pazienza." "Non tocca a te decidere, ragazzo," replicò l'altro, categorico, e senza esitazione lo spinse da parte, estrasse dalla sua valigetta la stola della sua autorità e l'olio santo dell'estrema unzione e compì il suo dovere approfittando del fatto che l'infermo non era in condizione di difendersi. La morte fu tranquilla e passarono alcuni minuti prima che Gregory se ne rendesse conto. Rimase molto tempo seduto accanto al corpo del suo amico parlandogli per l'ultima volta, ringraziandolo di quello di cui doveva ringraziarlo, chiedendogli di non abbandonarlo e di vegliare per lui dal cielo dei non credenti, guarda che tonto sono, Ciro, chiedere questo proprio a te, che non credi in Dio e meno ancora devi credere negli angeli custodi. Il mattino dopo prese il modesto tesoro dalla cassetta e vi aggiunse parte dei propri risparmi per pagare un solenne funerale con musica d'organo e profusione di gardenie, a cui invitò il personale della biblioteca e altre persone che non sapevano dell'esistenza di Ciro e assistettero solo perché lui glielo chiese, come sua madre, Judy e la tribù dei Morales, inclusa la nonna demente, che era prossima ai cent'anni ed era ancora capace di rallegrarsi per un funerale altrui, felice di non essere lei nella bara. Il giorno del funerale sorse un sole radioso, faceva caldo e Gregory sudava nell'abito scuro che aveva preso a nolo. Camminando dietro al feretro lungo il sentiero del cimitero si accomiatava in silenzio dal suo vecchio maestro, dalla prima tappa della sua vita, da quella città e dai
vecchi amici. Una settimana dopo prese il treno per Berkeley. Aveva novanta dollari in tasca e pochissimi buoni ricordi. Saltai giù dal treno con l'impazienza di chi apre un quaderno nuovo, la mia vita ricominciava. Avevo sentito tanto parlare di quella città profana, sovversiva e visionaria, dove i matti convivevano con i Premi Nobel, che mi parve di avvertire nell'aria una carica di energia, aliti di un vento contagioso che mi scuoteva di dosso venti anni di routine, fatiche e soffocamento. Non ce la facevo più, Ciro aveva ragione, mi si stava imputridendo l'anima. Vidi una fila di luci gialle nella nebbia lunare, un marciapiede un po' sbrecciato, ombre di passeggeri silenziosi che caricavano valigie e pacchi, udii i latrati di un cane. C'era un'impalpabile fredda umidità e uno strano odore, un misto del ferro del locomotore e dell'aroma di caffè. Era una stazione malinconica come tante, ma questo non sopraffece il mio entusiasmo, mi buttai in spalla il sacco di tela e partii saltando come un ragazzino e gridando a pieni polmoni che quella era la prima sera di tutti gli altri giorni stupendi della mia fantastica vita. Nessuno si voltò a guardarmi, come se quell'impeto di improvvisa follia fosse del tutto normale, e così era in realtà, come verificai la mattina seguente non appena uscii dall'ostello della gioventù e misi piede in un caffè per intraprendere l'avventura di iscrivermi all'università, trovare un lavoro e un posto dove vivere. Era un altro pianeta. Io che ero cresciuto in una specie di ghetto, mi ubriacai dell'atmosfera cosmopolita libertaria di Berkeley. Su un muro c'era scritto a pennellate verdi: si tollera tutto meno l'intolleranza. Gli anni che passai lì furono intensi e splendidi, ancora adesso quando ci vado di passaggio, cosa che faccio spesso, sento di appartenere a questa città. Quando arrivai, all'inizio degli anni Sessanta, non c'era neppure l'ombra dell'indescrivibile caos che si verificò al tempo in cui io ero andato all'altra estremità della baia, ma già era una città stravagante, culla di movimenti radicali e di audaci forme di rivolta. Ebbi la fortuna di assistere alla trasformazione del verme imbozzolato nell'insetto dalle grandi ali multicolori che sconvolse una generazione. Dai quattro punti cardinali arrivavano giovani inseguendo idee nuove che ancora non avevano nome, ma si avvertivano nell'aria come pulsazioni di un tamburo in sordina. Era la Mecca dei pellegrini senza Dio, l'altra estremità del continente dove si andava fuggendo da vecchie delusioni o in cerca di qualche utopia, l'essenza stessa della California, l'anima di quel vasto territorio illuminato e senza memoria, una Torre di Babele di bianchi, asiatici, negri, qualche latino, bambini, vecchi, giovani,
soprattutto giovani: Non fidarti di nessuno oltre i trenta. Era di moda essere povero, o almeno sembrare di esserlo, e così continuò nei decenni successivi, quando il paese intero si abbandonò all'ebbrezza dell'avidità e del successo. I suoi abitanti mi sembrarono tutti un po' straccioni, spesso il mendicante dell'angolo aveva un aspetto meno miserabile del passante generoso che gli faceva l'elemosina. Io osservavo con curiosità da provinciale. Nel mio quartiere di Los Angeles non c'era un solo hippy, i machos messicani lo avrebbero strangolato, e benché ne avessi visto qualcuno sulla spiaggia, in centro o alla televisione, niente era paragonabile a quello spettacolo. Intorno all'università gli eredi dei Beatniks si erano presi le strade con i loro ciuffi, barbe e basette, fiori, collane, tuniche indiane, jeans scarabocchiati e sandali da frate. L'odore della marijuana si mescolava con quello del traffico, dell'incenso, del caffè e con folate di spezie della cucina orientale. All'università però si portavano i capelli corti e abiti convenzionali, ma io credo che si intravvedessero già i cambiamenti che un paio di anni più tardi l'avrebbero fatta finita con quella prudente monotonia. Ai giardini gli studenti si toglievano le scarpe e le camicie per prendere il sole, quale anticipazione dell'epoca ormai vicina in cui uomini e donne si sarebbero denudati completamente festeggiando la rivoluzione dell'amore comunitario. Giovani per sempre, diceva un graffito su un muro, e ad ogni ora lo spietato carillon del campanile ci ricordava il ritmo inesorabile del tempo. Mi era toccato di vedere da vicino diversi volti del razzismo sono tra i pochi bianchi che lo ha sofferto sulla propria pelle. Quando la figlia maggiore dei Morales si lamentò dei suoi zigomi indigeni e del suo color cannella, suo padre l'afferrò per un braccio, la trascinò davanti a uno specchio e le ordinò di guardarsi e riguardarsi e ringraziare la Vergine di Guadalupe di non essere una sporca nera. In quell'occasione pensai che a don Pedro Morales era servito ben poco il diploma del Piano infinito che, appeso alla parete, attestava la superiorità della sua anima, in fondo aveva gli stessi pregiudizi degli altri latini che detestano i negri e gli asiatici. A quel tempo i latini non entravano all'università, erano tutti bianchi eccetto pochi discendenti degli immigrati cinesi. Nelle aule scolastiche non c'erano neppure negri, solo qualcuno nelle squadre sportive. Se ne vedevano pochissimi nelle officine nei negozi e nei ristoranti, in cambio riempivano carceri e ospedali. È certo che ci fosse segregazione, però i negri non vivevano la condizione di stranieri, tanto umiliante per i miei amici latini, essi almeno camminavano sul proprio suolo e molti iniziavano a farlo con lunghi passi fragorosi.
Feci il giro degli uffici cercando di orientarmi nel labirinto del campus, valutando quanto denaro era necessario per sopravvivere e come si poteva trovare un lavoro. Mi mandavano da uno sportello all'altro in percorsi circolari che si mordevano la coda, la burocrazia mi schiacciò, nessuno aveva idea di niente, i nuovi venuti erano considerati un inevitabile fastidio di cui cercavano di disfarsi. Non sapevo se ci trattavano tutti come immondizia per temprarci o se solo io ero così disgraziato, arrivai a sospettare che mi discriminassero per il mio accento chicano. Di tanto in tanto qualche studente di buona volontà, che era sopravvissuto ad altri ostacoli, mi soffiava qualche informazione per mettermi sulla strada giusta, senza quell'aiuto avrei passato un mese girando su me stesso come un tonto. Nei dormitori non c'erano posti vuoti e le confraternite non mi interessavano, sono covi di conservatori e classisti dove per un tipo come me non c'è spazio. Un ragazzo con cui avevo condiviso le noiose pratiche di quei giorni, mi disse che aveva trovato una stanza in affitto e che era disposto a dividerla con me. Si chiamava Timothy Duane e, come seppi in seguito, era considerato dalle studentesse il più bel ragazzo dell'università. Quando Carmen lo conobbe, molti anni dopo, disse che sembrava una statua greca. Di greco non ha niente, è un irlandese dagli occhi chiari e i capelli neri, uguale a tanti altri. Mi raccontò che suo nonno era fuggito da Dublino all'inizio del secolo perché perseguitato dalla giustizia inglese, era arrivato a New York nudo e crudo e in pochi anni, dedicandosi ad affari poco chiari, aveva fatto fortuna. In vecchiaia divenne benefattore delle arti e nessuno si ricordò dei suoi inizi un po' torbidi, morendo lasciò ai suoi discendenti un mucchio di denaro e un buon nome. Timothy era cresciuto in collegi cattolici per ragazzi ricchi, dove imparò alcuni sport e gli venne inculcato un opprimente senso di colpa che, comunque, sono certo si portasse dentro fin dalla culla. In fondo all'anima desiderava essere attore, ma suo padre riteneva che ci fossero solo due professioni rispettabili, il medico o l'avvocato, tutto il resto era una smargiassata per imbroglioni e a maggior ragione lavorare in teatro, che ai suoi occhi era cosa da omosessuali e pervertiti. Evitava il pagamento di metà delle sue imposte con la fondazione per le arti inventata dal nonno Duane, ma da ciò non nacque in lui la simpatia per gli artisti. Conservò il suo autoritarismo e la buona salute per quasi un secolo, privando l'umanità della perfetta figura di suo figlio sullo schermo o su un palcoscenico. Tim divenne un medico che detestava la sua professione e affermava di essersi dedicato all'anatomia patologica perché almeno, trattando con i morti, non è necessario ascoltare
lamentele né fare opera di consolazione. Da quando aveva rinunciato ai suoi sogni di istrione e sostituito le scene con le gelide sale di dissezione, si era convertito in un essere solitario tormentato da tenaci demoni. Molte donne lo avevano cercato, ma tutti i suoi amori fallirono a mezza strada lasciandogli un senso di rammarico e sfiducia, finché già avanti negli anni, quando aveva perduto il sorriso, le speranze e, in buona parte, la sua bella presenza, comparve qualcuno che lo salvò da se stesso. Ma sto correndo troppo, questo accadde molto dopo. All'epoca in cui lo conobbi ingannava suo padre con la promessa di studiare legge o medicina, mentre di nascosto si dedicava al teatro, la sua vera passione. Era giunto in città quella settimana e si trovava ancora in fase di esplorazione, però, diversamente da me, poteva contare su un'esperienza nel mondo dell'educazione per bianchi, aveva l'appoggio di un padre ricco e un modo di presentarsi che gli apriva le porte. Per la sua sicurezza sembrava il padrone dell'università. Qui si studia poco, però si impara molto, apri gli occhi e chiudi la bocca, mi consigliò. Io mi sentivo ancora come frastornato. La sua stanza risultò essere l'attico di una vecchia casa, un solo locale con soffitto da cattedrale e due lucernai da dove si intravvedeva il campanile. Tim mi dimostrò che si potevano vedere anche altre cose, arrampicandosi su una seggiola scorgevamo il bagno di un dormitorio, dove ogni mattina si avviavano verso la doccia file di ragazze in indumenti intimi. Dopo un po', accorgendosi che le osservavamo, alcune sfilavano nude. Nella stanza c'erano pochissimi mobili, appena due letti, un grande tavolo e uno scaffale per i libri. Tendemmo un pezzo di canna tra due travi per appendere i vestiti e il resto finì in alcune scatole di cartone sul pavimento. L'altra parte della casa era abitata da due donne incantevoli, Joan e Susan, che col tempo diventarono mie ottime amiche. Avevano un'ampia cucina dove preparavano le ricette per un libro che pensavano di scrivere, il profumo delle loro salse mi faceva venire l'acquolina in bocca, fu grazie a loro che imparai a cucinare. Dopo qualche tempo sarebbero diventate famose, non tanto per il loro talento culinario o per il libro che non arrivò mai alla pubblicazione, ma perché lanciarono l'idea di bruciare il reggiseno in pubbliche proteste. Quel gesto, nato da un'ispirazione improvvisa quando venne loro rifiutato l'ingresso in un bar per soli uomini e captato casualmente dalla macchina fotografica di un turista giapponese, uscì nel notiziario televisivo, fu imitato da altre donne e ben presto divenne il simbolo mondiale delle femministe. La casa risultò ideale, era a un passo dall'università ed era molto comoda. Mi piaceva anche il suo tono signorile, paragonata agli altri locali in cui avevo vissuto sembrava un
palazzo. Anni dopo avrebbe ospitato una delle più famose comunità hippy della città, più di venti persone in piacevole promiscuità sotto il medesimo tetto, e il giardino si sarebbe trasformato in una piantagione di marijuana infestata da erbacce, ma allora io mi ero trasferito altrove. Tim mi costrinse a sbarazzarmi delle mie camicie, diceva che sembravo un uccello tropicale con quella moda della California meridionale, a Berkely nessuno si vestiva così, non potevo partecipare alle manifestazioni con quell'abbigliamento. Mi spiegò che se non partecipavamo alle proteste non eravamo nessuno e non avremmo trovato donne. Io avevo notato le scritte e i manifesti che enunciavano diverse cause: carestie, dittature, rivoluzioni in punti del pianeta impossibili da rintracciare sulla carta geografica, diritti delle minoranze, delle donne, foreste e specie in pericolo, pace e fratellanza. Non si poteva attraversare un isolato senza mettere una firma né bersi un caffè senza offrire venticinque centesimi per una colletta destinata a un fine tanto altruista quanto remoto. Il tempo dedicato allo studio era minimo al confronto di quello impiegato a protestare per i mali altrui, denunciare il governo, i militari, la politica estera, gli abusi razziali, i crimini ecologici e le ingiustizie sempiterne. Quella preoccupazione ossessiva per i problemi del mondo, anche i più disparati, fu una rivelazione. Ciro per anni mi aveva seminato domande nella mente, ma fino a quel momento mi sembravano materiale libresco ed esercizi intellettuali senza applicazione pratica nell'esistenza quotidiana, cose che io potevo discutere soltanto con lui perché il resto dei mortali risultava impermeabile a questi temi. Adesso condividevo quelle problematiche con gli amici, ci sentivamo parte di una complessa rete dove ogni azione si ripercuoteva con imprevedibili conseguenze sul futuro destino dell'umanità. Secondo i miei compagni dei caffè c'era una rivoluzione in marcia che nessuno poteva fermare, le nostre teorie e i nostri costumi ben presto sarebbero stati universalmente imitati, avevamo la responsabilità storica di essere a fianco dei buoni, e i buoni erano, ovviamente, gli estremisti. Niente doveva restare in piedi, era necessario spianare il terreno per la nuova società. Avevo ascoltato per la prima volta la parola politica sussurrata nell'ascensore della biblioteca e sapevo che essere chiamato liberale o radicale era un insulto poco meno offensivo che comunista. Adesso mi trovavo nell'unica città degli Stati Uniti dove era tutto il contrario, lì l'unica cosa peggiore rispetto all'essere conservatore era essere neutrale o indifferente. Una settimana più tardi mi trovavo installato nell'attico con il mio amico Duane, seguivo regolarmente le lezioni e avevo trovato due lavori per mantenermi a galla. Lo studio non
mi pesava, l'università non era ancora il terribile setaccio di cervelli che sarebbe diventata in seguito, mi sembrava simile alla scuola secondaria, ma più disordinata. C'era l'obbligo di frequentare corsi militari per due anni. Mi divertivo tanto nelle esercitazioni e nei campi estivi, e mi piaceva talmente l'uniforme, che li frequentai per quattro anni e ottenni il grado di ufficiale. Quando mi iscrissi mi fecero firmare una dichiarazione giurata che non ero comunista. Mentre ponevo la firma in calce al documento sentii lo sguardo ironico di Ciro sulla mia nuca così nitidamente, che mi voltai per salutarlo. Il caposquadra della fabbrica di scatolame sognava ogni notte Judy Reeves e da sveglio la visione di quella donna lo perseguitava senza tregua. Non era uno di quegli uomini che hanno l'ossessione delle donne grasse, forse non aveva neppure notato che lo fosse. Ai suoi occhi era perfetta, non le mancava né le cresceva nulla, e se qualcuno gli avesse detto che il suo peso era il doppio del normale si sarebbe veramente stupito. Non si soffermava sulla dimensione dei suoi difetti, ma sulla qualità delle sue virtù, amava i suoi seni rotondi e il suo sedere ampolloso e gli piaceva che fossero grandi, così ce n'era di più da pescare a due mani. Lo incantavano la pelle da neonato, le mani rovinate dal cucito e dalle faccende di casa, ma di forma elegante, il radioso sorriso che aveva intravvisto in un paio di occasioni e i capelli sottili e biondi come fili d'argento. La determinazione della giovane nel respingerlo accresceva solamente il suo desiderio. Cercava le occasioni per avvicinarla nonostante l'arroganza con cui lei ogni volta lo ignorava. Lavato di fresco, con la camicia pulita e irrorata di acqua di colonia per eliminare l'odore acido della fabbrica, si faceva trovare ogni sera alla fermata del bus aspettando che la sua amata tornasse dal lavoro, le porgeva la mano per aiutarla a scendere dal veicolo e non si offendeva quando lei preferiva scendere inciampando piuttosto che appoggiarsi a lui. Camminava al suo fianco parlandole familiarmente come se fossero amici intimi senza scoraggiarsi per il silenzio imbronciato di Judy, le riferiva i particolari della sua giornata, notizie di persone a lei sconosciute e i risultati di baseball. La accompagnava sino alla porta di casa, la invitava a cena – certo del suo silenzioso rifiuto – e si accomiatava promettendo di rivederla il giorno seguente nello stesso posto. Questo paziente assedio continuò senza variazioni per due mesi. "Chi è quell'uomo che viene tutti i giorni?" chiese infine Nora Reeves. "Nessuno, mamma."
"Come si chiama?" "Non gliel'ho chiesto, non mi interessa." Il giorno dopo Nora aspettò curiosando alla finestra e prima che Judy riuscisse a chiudere la porta sul naso del gigante dai capelli rossi, uscì a incontrarlo e lo invitò a prendere una birra malgrado l'occhiata assassina della figlia. Seduto nel minuscolo salotto in una seggiola troppo fragile per il suo enorme corpaccione, il pretendente rimase silenzioso stringendosi le mani per far schioccare le nocche mentre Nora lo osservava apertamente dalla poltrona di vimini. Judy era scomparsa nella stanza da letto e attraverso le sottili pareti si udivano i suoi sbuffi furiosi. "Mi permetta di ringraziarla per le delicate attenzioni verso mia figlia," disse Nora Reeves. "Già," replicò l'uomo, incapace di pensare una risposta più elaborata, non essendo avvezzo a quel linguaggio ricercato. "Lei pare una brava persona." "Già..." "Lo è?" "Che cosa?" "Se lei è una brava persona." "Non so, signora." "Come si chiama?" "Jim Morgan." "Io mi chiamo Nora e mio marito è Charles Reeves, Maestro Funzionario e Dottore in Scienze Divine, certamente avrà sentito parlare di lui, è molto conosciuto..." Judy, che ascoltava la conversazione dall'altra stanza, non resse più ed entrò nel salotto come un tifone, affrontando il suo timido ammiratore con le mani sui fianchi. "Che diavolo vuoi da me? Perché non mi lasci in pace!" "Non posso, credo di essere innamorato, veramente mi dispiace..." balbettò lo sfortunato pretendente, il viso rosso come i capelli. "Bene, se l'unico modo di liberarmi da quest'incubo è venire a letto con te, facciamolo una buona volta!" Nora Reeves lanciò un'esclamazione di spavento e si alzò così di scatto che la poltrona si rovesciò, sua figlia non aveva mai usato quel vocabolario in sua presenza. Anche Morgan si alzò, si accomiatò da Nora con un gesto, si ficcò in testa il berretto e uscì. "Vedo che mi sono sbagliato sul tuo conto. Ciò che desidero io è il matrimonio," le disse seccamente dalla soglia.
Scendendo dal bus il giorno dopo Judy non trovò nessuno pronto a tenderle la mano per aiutarla. Ebbe un sospiro di sollievo e si mise a camminare col suo lento ondeggiare da naviglio, osservando l'animazione della via, le persone con le loro occupazioni, i gatti che frugavano nella spazzatura, e bimbi bruni che si scatenavano in giochi di banditi e cowboy. La strada le parve lunga e quando arrivò a casa aveva perso l'allegria e al suo posto provava un pungente dispetto. Quella notte non riuscì a dormire, si rigirava tra le lenzuola come una balena arenata nella bassa marea, disperata. Si alzò all'alba, si mangiò due banane, una tazza di cioccolata, tre uova fritte con pancetta e otto fette tostate con burro e marmellata. Sua madre la vide nel portico con baffi di cioccolata e rosso d'uovo e due fili di lacrime che le scendevano giù per le guance. "Stanotte è venuto nuovamente tuo padre. Ti manda a dire che devi sotterrare fegato di pollo ai piedi del salice." "Non parlarmi di lui, mamma." "È per le formiche, dice che così se ne andranno dalla casa." Quel giorno Judy non andò a lavorare e andò invece a trovare Olga. L'indovina la guardò dalla testa ai piedi, valutando i rotoli di grasso, le gambe gonfie, il respiro ansimante, l'orribile vestito cucito in fretta in una tela grossolana, la tremenda desolazione negli occhi assolutamente azzurri della ragazza e non ebbe bisogno della sua sfera di cristallo per improvvisare un consiglio. "Che cos'è che vorresti avere più di tutto, Judy?" "Figli," rispose lei senza esitare. "Per questo hai bisogno di un uomo. E visto che ci sei, è meglio che sia un marito." La giovane si diresse alla pasticceria d'angolo e divorò tre pasticcini millefoglie e due bicchieri di sidro, poi andò dal parrucchiere, dove non aveva mai messo piede, e nelle due ore successive una messicana rotondetta e simpatica le fece la permanente, le dipinse le unghie delle mani e dei piedi di una rosa fulminante e le depilò le gambe con la ceretta, mentre lei si mangiava un chilo di cioccolatini con paziente determinazione. Poi prese il bus per il centro con l'intenzione di comprare un vestito nell'unico negozio per persone grasse che c'era allora nello stato di California. Trovò una gonna celeste e una blusa a fiori che nascondeva un poco il suo volume e metteva in risalto la freschezza infantile della sua pelle e dei suoi occhi. Così abbigliata alle cinque di sera si piazzò con le braccia incrociate e un'espressione spaventosa alla porta della fabbrica dove lavorava il suo innamorato. Risuonò il fischio, vide uscire il gruppo degli operai latini e venti minuti dopo apparve il caposquadra con la barba
lunga, sudato e con una camiciola unta di grasso. Al vederla si fermò a bocca aperta. "Come hai detto che ti chiamavi?" gli chiese Judy con un vocione poco gentile per nascondere la vergogna. "Jim Morgan... Sei molto carina." "Vuoi ancora sposarti con me?" "Certo che lo voglio!" Padre Larraguibel celebrò la cerimonia nella penombra della parrocchia di Lourdes, malgrado Judy fosse Bahai come la madre e Jim appartenesse alla Chiesa dei Santi Apostoli, ma i loro amici erano cattolici e in quel quartiere l'unico matrimonio valido era quello celebrato con i riti del Vaticano. Gregory arrivò espressamente per condurre la sorella all'altare al suo braccio. Pedro Morales finanziò la festa, mentre Immacolata, le figlie e le amiche passarono due giorni a cucinare piatti messicani e a fare biscotti nuziali. Il fidanzato si incaricò dei liquori e della musica, misero su una baldoria in mezzo alla strada con il miglior gruppo di mariachis e più di cento invitati che ballarono tutta la notte i ritmi latini. Nora Reeves cucì per la figlia un incantevole abito da sposa con tanti svolazzi di organza che da lontano sembrava un veliero pirata e da vicino la culla di un principe ereditario. Jim Morgan aveva qualche risparmio e poté sistemare la moglie in una casa piccola, ma comoda, e comprarle il mobilio nuovo per la camera con un letto di dimensioni speciali, capace di contenerli entrambi e di resistere agli scontri da rinoceronte con cui si amarono in buona fede la prima settimana. Il venerdì seguente il marito non venne a dormire a casa. La sposa lo aspettò fino alla domenica, quando comparve talmente ubriaco che non poteva ricordare dove fosse stato né con chi. Judy prese una bottiglia di latte e gliela spaccò sulla testa. Il colpo avrebbe forse ucciso un altro più debole, ma a Jim Morgan fratturò leggermente la fronte e, ben lungi dall'intontirlo, lo mise in uno stato di frenetica eccitazione. Si asciugò con la manica il sangue dagli occhi, si gettò su Judy e, nonostante il suo furioso scalciare, quella notte concepirono il primo figlio, un vivace maschietto che alla nascita pesava cinque chili. Judy Reeves, illuminata da una felicità che non aveva mai creduto possibile, se lo pose al seno, decisa a dare a quella creatura l'amore che lei non aveva mai avuto. Aveva scoperto la sua vocazione di madre. Per Carmen Morales la partenza di Gregory fu un'offesa personale. In fondo al cuore aveva sempre saputo che lui non faceva parte del quartiere e che prima o poi avrebbe preso altre strade, però pensava che quando il
momento fosse arrivato, sarebbero partiti assieme, forse a vivere avventure con un circo ambulante, come avevano programmato tante volte. Da quando poteva ricordare lo aveva visto quasi quotidianamente, niente di importante o di insignificante le era capitato che non avesse condiviso col suo amico. Lui le aveva rivelato i segreti dell'infanzia, che Santa Klaus non esisteva e che i bambini non nascevano sotto i cavoli né li portava la cicogna da Parigi, fu il primo a essere informato della novità quando a undici anni lei scoprì una macchia rossa nelle mutande. Si sentiva più vicina a lui che a sua madre o ai suoi fratelli, erano cresciuti assieme, si dicevano anche quelle cose che il pudore in cui venivano educati avrebbe vietato. Come Gregory, anche lei si innamorava ad ogni momento con passioni fulminanti e dal fiato corto, ma a differenza di lui era trattenuta dalle tradizioni patriarcali della sua famiglia e del suo ambiente. La sua natura appassionata si infrangeva contro il doppio codice morale che mutava le donne in prigioniere e, al contrario, dava licenza di caccia agli uomini. Doveva difendere la sua reputazione perché qualunque ombra poteva scatenare una tragedia, il padre e i fratelli la sorvegliavano gelosamente, disposti a difendere l'onore della casa, e allo stesso tempo cercavano di fare con altre donne quello che non avrebbero mai permesso di fare alle donne del loro sangue. Carmen aveva uno spirito indomito, ma in quel periodo era ancora prigioniera nella ragnatela del che cosa diranno. Temeva soprattutto suo padre, poi l'esplosivo Padre Larraguibel e Dio, nell'ordine suddetto, e infine le male lingue, capaci di rovinare il suo futuro. Come tante altre ragazze della sua generazione, fu allevata secondo l'assioma che il matrimonio e la maternità erano il destino più perfetto – si sposarono, ebbero molti figli e vissero felici e contenti – però attorno a sé non aveva un solo esempio di felicità domestica, neppure i suoi genitori, che rimanevano uniti perché non potevano immaginare altra alternativa, ma erano ben lontani dall'imitare le romantiche coppie del cinema. Non li aveva mai visti scambiarsi una carezza e si vociferava che Pedro Morales avesse avuto un figlio da un'altra donna. No, non era questo che lei desiderava per sé. Continuava a sognare, come nell'infanzia, una vita diversa e avventurosa, ma non aveva il coraggio di rompere con il suo ambiente e uscire da lì. Sapeva che alle sue spalle circolavano molti pettegolezzi – chi crede di essere la minore dei Morales? Non ha un lavoro fisso esce sola di sera, si trucca esageratamente gli occhi, non è un braccialetto quello che porta alla caviglia? Esce troppo con Gregory Reeves, dopo tutto non sono parenti, i Morales dovrebbero occuparsi di più della figlia, è già in età da sposarsi, ma non le sarà facile trovare marito
con quegli atteggiamenti da gringa sfacciata. Tuttavia a Carmen non erano mancati impetuosi candidati al matrimonio. La prima proposta la ricevette a quindici anni appena compiuti e a diciannove aveva già avuto cinque pretendenti che volevano disperatamente sposarla, di tutti si era innamorata con chimerica passione, stancandosi in capo a poche settimane, non appena iniziava l'inevitabile routine. Nel periodo in cui Reeves se ne andò aveva il primo fidanzato americano, Tom Clayton, tutti gli altri erano stati latini del vicinato. Si trattava di un giornalista ironico e intenso che la abbagliò con la sua conoscenza del mondo e le sue stupende teorie sul libero amore e l'eguaglianza tra i sessi, argomenti che non si sarebbe azzardata a proporre in casa sua, ma che aveva discusso appassionatamente con Gregory. "Solo chiacchiere, ciò che vuole è venire a letto con te per poi darsela a gambe," sentenziò il suo amico. "Sei un retrogrado... più arretrato di mio padre!" "Ti ha parlato di sposarti?" "Il matrimonio uccide l'amore." "E che cosa non lo uccide, per Dio, Carmen!" "Non mi interessa entrare in chiesa vestita di bianco, Greg. Io sono diversa." "Insomma dillo, sei già stata a letto con lui..." "No, ancora no," e dopo una pausa piena di sospiri, "che cosa si prova? Raccontami che cosa si prova..." "Come una scossa elettrica, nient'altro. La verità è che il sesso è sopravvalutato, molte illusioni e alla fine uno si trova sempre più frustrato." "Bugiardo. Se fosse così non andresti dietro a tutte le donne con la lingua fuori." "Proprio qui sta la trappola, Carmen. Uno crede sempre che con un'altra sarà meglio." Gregory se ne andò in settembre e nel gennaio dell'anno successivo Tom Clayton andò a Washington con l'intenzione di entrare nell'équipe giornalistica del presidente più carismatico del secolo, la cui politica di idee grandiose lo affascinava. Desiderava conoscere da vicino il potere e partecipare agli scossoni della storia, sentiva che all'ovest non c'era futuro per un giornalista ambizioso, era troppo lontano dal cuore dell'impero, come disse a Carmen. La lasciò in lacrime, perché allora era innamorata per la prima volta, a confronto con il sentimento che la scuoteva adesso tutti gli altri erano stati amorucci insignificanti. Per telefono e in brevi
scritti punteggiati di errori grammaticali, raccontò a Gregory giorno per giorno i dettagli del suo romantico supplizio, rimproverandogli non soltanto di averla abbandonata in un momento simile, ma di averle mentito rispetto alla scossa elettrica, perché se avesse saputo di che cosa realmente si trattava, non avrebbe tardato a farlo entrare nella sua vita. "Peccato che tu sia così lontano, Greg. Non ho nessuno con cui sfogarmi." "Qui la gente è più moderna, tutti vanno a letto con tutti e poi ne parlano." "Se lo vengono a sapere i miei genitori mi ammazzano." I Morales lo seppero tre mesi dopo, quando la polizia venne ad interrogarli. Tom Clayton non rispose alle lettere di Carmen né diede segno di vita fino a che diverse settimane più tardi lei riuscì a rintracciarlo per telefono a un'ora poco opportuna del mattino, per annunciargli, con la voce spezzata dal terrore, che era incinta. L'uomo fu cortese, ma chiaro: quello non era un problema suo, stava cercando di dedicarsi al giornalismo politico e doveva occuparsi della carriera, non era pensabile per lui tornare in quel momento e d'altra parte non aveva mai pronunciato la parola matrimonio, lui era per i rapporti spontanei e pensava che anche lei condividesse le sue idee. Non ne avevano discusso tante volte? In ogni caso non intendeva lasciarla nei guai, si assumeva la propria parte di responsabilità e il giorno dopo avrebbe spedito un assegno per risolvere nel modo solito quel piccolo inconveniente. Carmen lasciò la centrale telefonica e camminò come una sonnambula verso un caffè, dove si abbandonò su una seggiola totalmente sconvolta. Rimase lì con gli occhi inchiodati sulla sua tazza finché non l'avvisarono che era l'ora di chiudere il locale. Più tardi, stesa sul letto con un dolore sordo alle tempie, decise che la cosa più importante era mantenere il segreto per non rovinare irrimediabilmente la sua vita. Nei giorni successivi si trovò diverse volte sul punto di fare il numero di Gregory, ma neppure a lui si sentiva di confidare la sua disgrazia. Era la sua ora della verità e volle affrontarla da sola, una cosa era sfidare il mondo con vaghe fanfaronate femministe e un'altra, ben diversa, essere ragazza madre in quell'ambiente. Concluse che i suoi familiari non le avrebbero più rivolto la parola, l'avrebbero cacciata di casa, dal suo clan e anche dal quartiere, i suoi genitori e i fratelli sarebbero morti dalla vergogna, avrebbe dovuto farsi carico di una creatura senza nessun aiuto, mantenerla e allevarla, fare qualunque lavoro per sopravvivere, le donne l'avrebbero ripudiata e gli uomini l'avrebbero trattata come una prostituta. Pensò anche che il bambino avrebbe dovuto
sopportare l'insostenibile peso dell'anatema. Non era abbastanza forte per una così lunga battaglia, ma neppure per prendere una decisione. Per un periodo interminabile si dibatté in questa incertezza, dissimulò le nausee che la spossavano il mattino e la sonnolenza che la faceva barcollare la sera, eludendo la famiglia e parlando appena con Gregory, finché un giorno non riuscì ad abbottonarsi la gonna e comprese l'urgenza di agire. Chiamò ancora Tom Clayton ma le riferirono che era in viaggio e non sapevano quando sarebbe tornato. Allora andò alla Chiesa di Lourdes, pregando che il parroco basco non si facesse vivo, si inginocchiò davanti all'altare, come aveva fatto tante volte nella sua vita, e per la prima volta si rivolse alla Vergine per parlarle da donna a donna. Da parecchi anni nutriva taciti dubbi sulla religione, la messa della domenica si era convertita per lei in un rito sociale, ma in quell'istante di terrore sentì il bisogno di ritrovare il conforto della sua religione. La statua della Madonna con la veste di seta e l'aureola di perle non le offrì aiuto, il viso di gesso guardava nel vuoto con i suoi occhi di vetro dipinto. Carmen le spiegò i motivi per cui avrebbe commesso il peccato che stava decidendo di compiere, le chiese benevolenza e benedizione e da lì andò direttamente a casa di Olga. "Non avresti dovuto aspettare tanto," disse la maga dopo averla palpata con le sue mani esperte. "Durante le prime settimane non c'è problema, ma adesso..." "Neanche adesso. Devi farlo." "È molto rischioso." "Non importa. Per favore aiutami..." e si mise a piangere disperata fra le braccia dell'indovina. Olga aveva visto crescere Carmen, i Morales erano un po' la sua famiglia, e aveva vissuto abbastanza in quel quartiere per sapere cosa aspettava la ragazza non appena si fosse incominciato a notare la pancia. Le diede appuntamento per la notte successiva, preparò i suoi strumenti e le erbe medicinali e mise a lucido il suo Budda, perché in quell'occasione entrambe avevano bisogno di molta fortuna. Carmen disse in casa che sarebbe andata alla spiaggia con un'amica per un paio di giorni e si trasferì in casa di Olga. Nulla restava della gioiosa spensieratezza della giovane, la paura del dolore imminente annullava gli altri timori, non riusciva a pensare ai rischi né alle possibili conseguenze, l'unica cosa che desiderava era dormire profondamente e svegliarsi libera da quell'incubo. Ma nonostante le pozioni di Olga e la mezza bottiglia di whisky che si bevve d'un fiato, non perse il senso della realtà e nessun sogno pietoso la aiutò in
quel momento critico, dovette sopportarlo, legata per i polsi e le caviglie alla tavola di cucina, con un panno infilato in bocca perché i suoi lamenti non si udissero dalla strada, fino a che non poté più resistere e fece segno che preferiva qualsiasi cosa a quel martirio, però la guaritrice le rispose che era troppo tardi per pentirsi, dovevano arrivare fino in fondo in quel brutale compito. Dopo, Carmen restò rannicchiata come un neonato, con una borsa di ghiaccio sul ventre, versando lacrime a fiumi, fino a che la stanchezza la vinse, i calmanti e l'alcool fecero effetto e poté dormire. Trenta ore dopo, quando ancora non si svegliava e sembrava persa nei deliri dell'altro mondo, mentre un filo di sangue, sottile ma continuo macchiava le lenzuola, Olga capì che quella volta la sua stella della buona fortuna era venuta meno. Cercò di far calare la febbre e di fermare l'emorragia con tutte le risorse del suo ingegnoso repertorio ma ad ogni istante la ragazza peggiorava, era evidente che la vita le stava sfuggendo. Olga si vide in trappola, poteva morire sopra il suo letto, nel qual caso lei era perduta, d'altra parte non poteva buttarla sulla strada o avvisare la famiglia. Mentre le sosteneva il capo per farle bere dell'acqua, le parve che mormorasse il nome di Gregory e capì allora che era l'unico a cui poteva chiedere aiuto. Quando lo chiamò, lui stava dormendo. Vieni subito, gli disse, e dal tono della sua voce Gregory indovinò l'urgenza del messaggio e non fece domande, prese il primo aereo del mattino e poche ore dopo prendeva fra le braccia l'amica e la portava con un taxi all'ospedale più vicino, imprecando perché in quelle orribili settimane non aveva confidato in lui perché mi hai escluso, io dovevo starti vicino, te l'avevo detto, Carmen, Tom Clayton è un figlio di puttana senza coscienza, ma non tutti sono uguali, non tutti vanno a letto e poi spariscono, come dice tuo padre, ti giuro che c'è chi è migliore di Clayton, perché non hai lasciato che ti aiutassi prima, forse il bebé sarebbe vissuto, non dovevi farlo da sola, perché siamo amici, perché siamo fratelli se non per aiutarci, che sporca vita, Carmen, non morire, per favore non morire. Mentre i chirurghi operavano, la polizia, avvisata dall'ospedale sulle condizioni in cui la paziente era arrivata, tentò di strappare delle informazioni a Gregory Reeves. "Facciamo un patto," propose l'ufficiale esasperato dopo tre ore di inutile interrogatorio. "Tu mi dici chi le ha fatto l'aborto e io ti lascio andare immediatamente, non ti schediamo neppure. Niente più domande, rimani completamente libero." "Non so chi l'ha fatto, gliel'ho detto cento volte. Non vivo neanche qui, ho preso l'aereo del mattino, guardi il mio biglietto. La mia amica mi ha
chiamato e io l'ho portata all'ospedale, è tutto quello che so." "Sei il padre del bambino?" "No, non vedo Carmen Morales da più di otto mesi." "Dove l'hai soccorsa?" "Mi aspettava all'aeroporto." "È impossibile, non può camminare! Dimmi dove l'hai incontrata e ti lascio andare. Altrimenti sei in arresto come complice e favoreggiatore." "Questo dovrà provarlo." E ancora una volta si ripeteva lo stesso ciclo di domande, risposte minacce e scappatoie. Alla fine i poliziotti lo lasciarono libero e andarono a casa dei Morales per interrogare la famiglia. Così Pedro e Immacolata seppero dell'accaduto e per quanto sospettassero di Olga non lo dissero, un po' perché immaginarono la buona intenzione di aiutare la loro figlia e un po' perché in un quartiere messicano la delazione era un delitto inconcepibile. "Dio l'ha punita, così non devo castigarla io," disse Pedro Morales con voce rauca quando fu informato del grave stato in cui si trovava sua figlia. Gregory Reeves restò accanto all'amica fino a che non passò il pericolo. Dormì seduto su una seggiola al suo fianco per tre notti, svegliandosi continuamente per sorvegliare la respirazione dell'inferma. La mattina del quarto giorno Carmen si svegliò senza febbre. "Ho fame," annunciò. "Grazie a Dio!" sorrise lui e tirò fuori da una borsa una scatola di latte condensato. Bevvero il dolce appiccicoso a lenti sorsi, tenendosi per mano, come avevano fatto tante volte da bimbi. Olga frattanto prese la sua valigia e se ne andò a Porto Rico, il più lontano che poté, facendo sapere nel quartiere che andava a giocare al casinò di Las Vegas perché lo spirito di un indio le era apparso per mormorarle all'orecchio una combinazione di carte. Pedro Morales si mise una striscia nera al braccio, ai vicini disse che gli era morto un parente, in casa fece sapere che sua figlia non era mai esistita e proibì che si pronunciasse il suo nome. Immacolata promise alla Vergine di recitare un rosario al giorno per il resto della sua esistenza perché perdonasse a Carmen il peccato commesso, prese i soldi che aveva nascosti sotto una tavola del pavimento e andò a trovarla di nascosto dal marito. La trovò seduta su una seggiola, che guardava dalla finestra il muro di mattoni dell'edificio di fronte, vestita con la tunica di rozza tela verde dell'ospedale. La vide tanto infelice che trattenne rimproveri e lacrime e semplicemente la circondò con le sue braccia. Carmen nascose il viso sul
seno di sua madre e a lungo si lasciò cullare, aspirando quell'odore di abiti puliti e di cucina che l'aveva accompagnata per tutta l'infanzia. "Ecco qui i miei risparmi, figliola. È meglio che tu vada via per un po', fino a che, a forza di sentire la tua mancanza, il cuore di tuo padre si addolcirà. Scrivimi, ma non a casa nostra, a casa di Nora Reeves. È la persona più discreta che conosca. Fai molta attenzione e che Dio ti aiuti..." "Dio si è dimenticato che esisto, mamma." "Non dirlo neppure per scherzo," la interruppe Immacolata. "Succeda quel che succeda, Dio ti ama e io anche, figliola. Tutti e due staremo sempre al tuo fianco, hai capito?" "Sì, mamma." Gregory Reeves vide per la prima volta Samantha Ernst su un campo da tennis dove lei giocava mentre lui potava lì accanto gli arbusti del parco. Una delle sue attività era il servizio alla mensa di un pensionato per studentesse che era di fronte a casa sua. Due cuoche preparavano i cibi e Gregory dirigeva una squadra di cinque studenti che servivano a tavola e lavavano i piatti, incarico molto invidiato perché gli consentiva libero accesso all'edificio e alle studentesse. Nelle ore libere lavorava come giardiniere. Tranne tosare il prato e strappare le erbacce, quando iniziò non sapeva nulla di piante ma aveva un buon maestro, un rumeno che si chiamava Balcescu, dall'aria feroce e dal cuore tenero, che si radeva la testa e lucidava il cranio con un panno di feltro, masticava una vertiginosa mescolanza di idiomi e amava le piante come se stesso. Al suo paese era guardia di confine, ma non appena gli si presentò l'occasione fuggì approfittando della propria conoscenza del territorio e dopo molte peregrinazioni entrò a piedi negli Stati Uniti, attraverso il Canada, senza soldi, senza documenti e con due sole parole di inglese: denaro e libertà. Convinto che in quello consistesse l'America, fece pochi sforzi per ampliare il suo vocabolario e se la cavava a forza di mimica. Con lui Gregory imparò a lottare contro vermi, mosche bianche, lumache, formiche e altri animali nemici della vegetazione, a usare i fertilizzanti, fare innesti e trapianti. Più che un lavoro, quelle ore all'aria libera erano un gradevole passatempo, soprattutto perché doveva decifrare le istruzioni del suo capo mediante un continuo esercizio di intuizione. Quel giorno stava potando la siepe quando la sua attenzione fu attratta da una delle giocatrici di tennis, restò ad osservarla per un po', non tanto per l'aspetto della ragazza, quanto per la sua perfezione atletica. Aveva muscoli tesi, gambe veloci, un viso allungato di nobile fattura, capelli corti e il colorito quasi
bronzeo di chi sta sempre al sole. Gregory si sentì attratto dalla sua agilità di animale sano, aspettò che terminasse la partita e si piantò all'uscita ad aspettarla. Non sapeva cosa dirle e quando lei gli passò accanto con la racchetta sulla spalla e la pelle lucida di sudore, non gli venne in mente nessuna frase memorabile e rimase muto. La seguì a una certa distanza e la vide salire su una spettacolare macchina sportiva. Quella sera raccontò la cosa a Timothy Duane con tono di ostentata indifferenza. "Non sarai così cretino da innamorarti, Greg." "No, certo. Mi piace, tutto qui." "Non vive nel pensionato delle studentesse?" "Non credo, non l'ho mai vista." "Che sfortuna. Questa volta la chiave ti sarebbe servita..." "Non sembra una studentessa, ha una decapottabile rossa." "Sarà la moglie di qualche magnate." "Non credo che sia sposata." "Allora è una puttana." "Quando mai hai visto le puttane giocare a tennis, Tim? Lavorano di notte e di giorno dormono. Non so come parlare a una ragazza di quel tipo... è molto diversa da quelle del mio ambiente." "Non parlarle. Gioca a tennis con lei." "Non ho mai tenuto una racchetta in mano." "Non posso crederci! Che cosa hai fatto in tutta la tua vita?" "Lavorare." "Che diavolo sai fare, Greg?" "Ballare." "Allora invitala a ballare." "Non ho il coraggio." "Vuoi che le parli io?" "Stai lontano!" esclamò Gregory, poco disposto a competere col suo amico di fronte a qualcuno e ancor meno di fronte a quella donna. Il giorno dopo stette un bel po' ad aspettarla fingendo di occuparsi degli arbusti e quando lei gli passò vicino fece un gesto per fermarla, ma di nuovo la timidezza lo vinse. La scena si ripeté fino a che Balcescu si rese conto che le piante erano state potate fino alla radice e decise di intervenire prima che il resto del parco subisse la stessa sorte. Il rumeno entrò nel campo, interruppe la partita con una filastrocca di parole nella lingua della Transilvania e poiché la ragazza terrorizzata non obbedì ai suoi perentori gesti in direzione dell'ammiratore, la afferrò per un braccio e la trascinò masticando qualcosa riguardo alla libertà e al denaro, con sempre maggior
confusione della giocatrice. E fu così che Gregory Reeves si trovò faccia a faccia con Samantha Ernst che, per sfuggire a Balcescu, si aggrappò a lui, e finirono col bere un caffè col beneplacito del pittoresco maestro giardiniere. Si sedettero a una delle sgangherate tavole del caffè più frequentato della città, un bugigattolo gremito di gente, dove diverse generazioni di studenti hanno scritto migliaia di poesie e discusso tutte le teorie possibili e altre coppie come loro hanno iniziato il guardingo processo del conoscersi. Gregory tentò di abbagliarla col suo repertorio di argomenti letterari, ma davanti al suo atteggiamento distratto abbandonò subito questa tattica e optò per sondaggi alla ricerca di un terreno comune. La giovane non si entusiasmò neanche sui diritti civili o la rivoluzione cubana, sembrava non avere un'opinione su nulla, ma Gregory scambiò il suo atteggiamento passivo con una profondità di spirito e non lasciò la presa. Al di fuori del campo sportivo Samantha Ernst non coltivava molti interessi, sempre più comunque delle giovani della scuola secondaria o del quartiere latino. Desiderava dedicarsi all'archeologia, le piaceva l'idea di esplorare luoghi esotici alla ricerca di civiltà millenarie, all'aria libera e in pantaloni corti, ma quando conobbe le esigenze della professione rinunciò ai suoi propositi. Non era fatta per la meticolosa classificazione di ossa consunte o di pezzi di anfore inservibili. Iniziò allora un periodo di indecisione che riguardava diversi aspetti della sua esistenza. Era cresciuta nella bella casa con due piscine di un produttore cinematografico di Hollywood, suo padre si era sposato quattro volte e viveva circondato da ninfe appena uscite dall'uovo alle quali prometteva una fulminante carriera di stella cinematografica in cambio di piccoli favori personali. Sua madre, un'aristocratica signora della Virginia con un orgoglio da regina e buone maniere da istruttrice, sopportò stoicamente gli amorazzi del marito con il conforto di un arsenale di droghe e diverse carte di credito, fino a che un giorno si guardò allo specchio e non riconobbe la propria immagine, cancellata dalla devastazione della solitudine. La trovarono che galleggiava nella spuma rosata del bagno di marmo dove si era aperta le vene. Samantha, che aveva allora sedici anni, riuscì a passare inosservata nella baraonda di fratellastri, ex mogli, fidanzate di turno, servitori, amici e cani di razza della casa paterna. Continuò a nuotare e a giocare a tennis con la stessa tenacia di sempre, senza nostalgie inutili e senza giudicare sua madre. Non ne sentiva la mancanza, non aveva mai avuto alcuna intimità con lei e l'avrebbe forse dimenticata completamente se non fosse stato per i ricorrenti incubi di spuma rosa. Arrivò a Berkeley, come tanti
altri, attirata dalla sua fama di città libertaria, era stanca delle buone maniere borghesi imposte dalla madre e delle feste di efebi e donzelle di suo padre. La sua auto attirava l'attenzione tra i martoriati rottami degli altri studenti e la sua casa era un rifugio bohémien racchiuso fra alberi e felci gigantesche con una vista superba sulla baia, il cui affitto era pagato dal padre. Gregory Reeves fu affascinato dalla raffinatezza della giovane, non conosceva nessuno in grado di mangiare con sei posate e di distinguere a prima vista l'autenticità di un golf di cachemire o di un tappeto persiano, eccetto Timothy Duane, ma lui si burlava di tutto, specialmente dei golf di cachemire e dei tappeti persiani. La prima volta che la invitò a ballare comparve radiosa con un abito giallo scollato e una collana di perle. Sentendosi ridicolo nel vestito prestatogli da Duane, capì che doveva portarla in un posto molto più caro di quello che aveva previsto. Samantha ballava male, seguiva con impegno la musica e contava i passi, un, due, un, due, rigida come una scopa tra le braccia del suo compagno, beveva succhi di frutta, parlava poco e aveva un'aria distaccata e fredda che Gregory immaginò carica di mistero. Mise la sua testardaggine al servizio di quell'amore e si convinse che i gusti comuni o la passione non erano requisiti indispensabili per formare una famiglia. Era esattamente quella la sua intenzione, pur se non osava ancora ammetterlo a se stesso e ancor meno tradurlo in parole. Per tutta la vita aveva desiderato appartenere a un vero focolare, come quello dei Morales, ed era tanto innamorato di quel sogno domestico, che decise di realizzarlo con la prima donna che gli capitasse, senza verificare se anche lei avesse lo stesso progetto. Reeves si laureò con lode in Lettere, il suo buon amico Ciro deve averlo festeggiato nell'altro mondo, ed entrò nella Scuola di Legge a San Francisco. L'idea di diventare avvocato gli venne per contraddire Timothy Duane, il quale pensava che il mestiere più vicino all'avvocato fosse quello del bucaniere, e in seguito ne rimase sedotto. Non appena ebbe preso la decisione, chiamò Olga al telefono per dirle che i suoi pronostici riguardo a lui risultavano errati, non sarebbe stato né un bandito né un poliziotto, se poteva evitarlo. La maga, che era tornata da Porto Rico già da tempo con nuove conoscenze divinatorie e medicinali, gli rispose che lei aveva azzeccato a metà, come sempre, perché avrebbe lavorato con la legge e inoltre gli avvocati sono soltanto ladri con la licenza. Uno dei motivi che spinse Reeves a continuare gli studi fu evitare il servizio militare finché poteva. La guerra del Vietnam, che prima sembrava un conflitto minuscolo
e lontano, aveva preso una svolta allarmante, e adesso non gli sembrava più divertente esibire l'uniforme di ufficiale della riserva né esercitarsi in giochi di guerra durante i fine settimana. Un ritardo di tre o quattro anni, mentre arrivava alla laurea, poteva salvarlo dall'andare al fronte. "Non capisco la resistenza feroce di questi nani orientali. Come hanno fatto ancora a non capire che siamo la potenza bellica più efficiente della storia? Stiamo vincendo, certamente. Le loro sconfitte sono così tante, secondo i calcoli ufficiali, che non ci sono più nemici vivi, quelli che sparano dall'altra parte sono fantasmi," diceva ironico Timothy Duane. Quello che per Duane era un sarcasmo, per molti altri costituiva una verità, erano convinti che bastasse un ultimo sforzo e quegli esseri inesistenti sarebbero stati vinti per sempre o eliminati dalla faccia della terra. Così assicuravano i generali alla televisione, mentre alle loro spalle le camere mostravano le file di sacchi con i corpi dei soldati americani in attesa sulla pista d'atterraggio. Inni, bandiere e sfilate nelle città della patria. Fragore, polverone e confusione nel sud-est asiatico. Silenzioso il registro con i nomi dei morti, nessun elenco dei mutilati nel corpo o nell'anima. Nelle manifestazioni di piazza i giovani pacifisti bruciavano bandiere e le cartoline di reclutamento. Traditori, rossi finocchi, se l'America non gli piace che se ne vadano, non li vogliamo, gridavano i loro avversari. La polizia soffocava le rivolte a manganellate e, a volte, a fucilate. Pace e amore, fratello, canterellavano intanto gli hippy offrendo fiori a chi puntava su di loro i fucili e danzando in cerchio tenendosi per mano, con gli occhi perduti in un paradiso di marijuana, sorridendo sempre con quella conturbante felicità che nessuno poteva perdonargli. Gregory esitava. L'avventura della guerra lo attraeva, ma sentiva un'istintiva sfiducia verso l'entusiasmo militaresco. Matti, tutti matti, sospirava Timothy Duane, sfuggito al servizio militare mediante una dozzina di dubbi certificati medici che testimoniavano un'infanzia di patimenti. Dopo un lungo periodo di amicizia la passione iniziale di Gregory per Samantha si trasformò in amore, la diffidenza si dissipò e il rapporto si stabilizzò nelle consuetudini e nei riti degli eterni fidanzati. Condividevano cinematografi e passeggiate all'aria aperta, concerti e teatro, si sedevano vicini a studiare sotto gli alberi, altre volte si incontravano a San Francisco all'uscita dalle lezioni e passeggiavano da turisti nel quartiere cinese tenendosi per mano. I progetti di Reeves erano così borghesi che non osava parlarne neppure con Samantha, avrebbe costruito una casa con un roseto e mentre lui si guadagnava il pane come avvocato, lei avrebbe cucinato torte e allevato bambini, tutto corretto e decente. Il ricordo della
sua famiglia nel camion transumante, quando suo padre era sano, permaneva nella sua memoria come l'unico periodo felice della sua esistenza. Immaginava che se avesse potuto riprodurre quella piccola tribù sarebbe tornato a sentirsi sicuro e tranquillo, sognava di sedersi a presiedere una lunga tavolata con i suoi figli e gli amici, come tante volte aveva visto dai Morales. Pensava spesso a loro, perché nonostante la povertà e i limiti dell'ambiente in cui erano costretti a vivere, erano l'esempio migliore di cui disponesse. In quei tempi di comunità hippy e di pasti veloci, la sua segreta illusione patriarcale appariva sospetta ed era più conveniente non esporla a voce alta. La realtà mutava a un ritmo spaventoso, ogni giorno c'era meno spazio per mense familiari, il mondo ruotava velocemente, le cose andavano a gambe all'aria, la vita era diventata un gran bordello e neanche il cinema, unico terreno sicuro di un tempo, offriva il minimo conforto. I cow-boy, gli indios, gli innamorati casti e coraggiosi e i soldati nelle loro belle uniformi comparivano solo alla televisione in vecchi film interrotti ogni dieci minuti dagli annunci pubblicitari del deodorante e della birra, ma nel santuario delle sale cinematografiche, dove prima si rifugiava in cerca di una effimera tranquillità, adesso aveva molte probabilità di ricevere un colpo basso. John Wayne, l'eroe duro, coraggioso e solitario che lui tentava di emulare senza successo, si era ritirato di fronte all'avanzata dei film d'avanguardia. Prigioniero nella sua poltrona di spettatore, subiva i guerrieri giapponesi che facevano harakiri sullo schermo gigante, lesbiche svedesi in azione ed extraterrestri sadici che si impadronivano del pianeta. Non poteva rilassarsi neppure con i melodrammi perché non finivano più con baci e violini ma con depressione o suicidio. Durante le vacanze si separavano per settimane, Samantha andava a trovare suo padre e lui divideva il tempo fra l'obbligo dei campi militari e il lavoro politico, diffondendo con altri studenti le richieste dei diritti civili. Impossibile immaginare due realtà più differenti: le rudi esercitazioni militari, dove bianchi e neri erano apparentemente uguali sotto gli ordini del sergente, e le rischiose missioni attraverso gli stati del sud, dove lavorava con le comunità nere praticamente in segreto, per eludere i gruppi di bravacci bianchi disposti a contrastare qualsiasi idea di giustizia razziale. Allora le Pantere Nere con i loro baschi, la minacciosa retorica e le marce marziali suscitavano spavento e attrazione. Neri di arrogante negritudine, neri vestiti di nero con occhiali neri e un'espressione provocatoria occupavano, nel passare, tutta la larghezza del marciapiede, gomito a gomito con le loro donne, nere audaci che marciavano con i seni
eretti guardando dritto davanti a sé, ora non cedevano il passo ai bianchi, non guardavano a terra né abbassavano la voce. I timidi e umiliati di un tempo adesso lanciavano la loro sfida. Alla fine dell'estate i fidanzati si riunivano senza fretta, ma con gioia sincera, come due buoni amici. Raramente discutevano, non affrontavano argomenti conflittuali, ma neppure si annoiavano, il silenzio li tranquillizzava. Gregory non le chiedeva la sua opinione né le raccontava delle sue attività, perché lei sembrava non ascoltarlo, lo sforzo di comunicare le sue idee le pesava. Niente la entusiasmava, salvo lo sport e le novità che arrivavano dall'Oriente, come le danze rotatorie dei Dervisci e le tecniche della meditazione trascendentale. In questo campo aveva molto da scegliere, perché la città offriva un'infinità di corsi accelerati da maratoneti per chi desiderasse acquisire la laboriosa saggezza dei grandi mistici indiani in un comodo fine settimana. Reeves era cresciuto fra Logi e Maestri Funzionari, aveva visto sua madre staccarsi dalla realtà e fuggire attraverso itinerari spirituali, e conosceva la magia di Olga, non era quindi strano che si burlasse di quelle discipline. Samantha deplorava la sua scarsa sensibilità, però non si offendeva né intendeva cambiarlo, il compito sarebbe stato faticoso. La sua energia era molto limitata, forse era semplicemente pigra come i suoi gatti ma, in quel luogo e in quei tempi, riusciva facile confondere il suo temperamento abulico con la pace buddista tanto in voga. Anche nell'amore mancava di brio, ma Gregory si ostinava a chiamare pudore la freddezza, e metteva la sua perseverante immaginazione al servizio di quell'insipido fidanzamento, inventando virtù dove non ve ne erano. Imparò a usare una racchetta da tennis per seguire la fidanzata nella sua unica passione, benché detestasse quel gioco perché non riusciva mai a vincere e, trattandosi di un confronto fra due soli contendenti, non c'era modo di diluire la sconfitta tra altri nemici della stessa squadra. Lei, invece, non cercò d'imparare nessuna delle cose che attraevano lui. L'unica volta che assistettero a un'opera si addormentò al secondo atto e ogni volta che andavano a ballare si ritrovavano di cattivo umore perché era incapace di rilassarsi o di vibrare con la musica. Le capitava la stessa cosa quando facevano l'amore, si abbracciavano con ritmi differenti e rimanevano con una sensazione di vuoto, ma nessuno dei due vide in questa disarmonia un avvertimento per il futuro e ne incolparono il timore della gravidanza. Lei rifiutava tutti i contraccettivi, alcuni perché antiestetici o scomodi e altri perché non era disposta a interferire col delicato equilibrio dei suoi ormoni. Aveva una cura ossessiva del suo corpo, faceva ginnastica per ore, beveva due litri d'acqua
al giorno e faceva bagni di sole nuda. Mentre Gregory imparava a cucinare con le sue amiche Joan e Susan e leggeva il Kamasutra e tutti i manuali erotici che gli capitavano fra le mani, lei mordicchiava vegetali crudi e difendeva la castità come misura igienica per l'organismo e disciplina dell'anima. Reeves perse l'infatuazione iniziale per l'università nella stessa misura in cui andava perdendo l'accento chicano. Dopo essersi laureato concluse, come tanti altri, che aveva conseguito maggiori conoscenze in strada che nelle aule. L'educazione universitaria cercava di adattare gli studenti a un'esistenza docile e produttiva, progetto che si scontrava con la crescente ribellione dei giovani. I professori non reagivano a quel terremoto, ingolfati nelle loro meschine rivalità e nella burocrazia, non percepivano la gravità di quanto stava succedendo. In quel periodo Gregory non ebbe maestri degni di essere ricordati, nessuno come Ciro che lo obbligasse a verificare le sue idee e ad avventurarsi nell'esplorazione intellettuale, nonostante molti fossero celebrità scientifiche o umanistiche. Le ore passavano in inutili ricerche, memorizzando dati e scrivendo dissertazioni che nessuno esaminava. Le sue romantiche idee sulla vita di studente furono spazzate via da una routine priva di senso. Non voleva abbandonare quella stravagante città, malgrado fosse preferibile vivere a San Francisco per ragioni pratiche, la Repubblica Popolare di Berkeley gli era entrata nella pelle, gli piaceva perdersi in quelle vie dove pullulavano swamis in tuniche di cotone, donne con atteggiamenti rinascimentali, saggi senza contatti con la terra, rivoluzionari senza rivoluzione, musicisti di piazza, predicatori, folli, venditori di chincaglieria, artigiani, poliziotti e criminali. Lo stile dell'India predominava tra i giovani, che desideravano allontanarsi il più possibile dai padri borghesi. Si vendeva di tutto nelle vie e nelle piazze: droga, camicette, dischi, libri usati, ornamenti dozzinali. C'era un traffico tumultuoso di autobus coperti di graffiti, biciclette, vecchie Cadillac verde-limone e rosa-cocomero e auto decrepite di un'agenzia di taxi a poco prezzo per la gente normale, e gratuiti per la gente speciale, quali vagabondi o manifestanti. Per guadagnarsi la vita, Gregory badava ai bambini dopo le ore di lezione, li andava a prendere a scuola e li intratteneva per alcune ore del pomeriggio, finché i genitori non tornavano a casa. All'inizio aveva solo cinque bambini, ma presto il numero aumentò e poté lasciare il posto di aiutante nel pensionato delle ragazze e quello di giardiniere con Balcescu, comprò un piccolo bus e assunse un paio di aiutanti. Guadagnava più di qualunque altro suo compagno, visto dall'esterno era un compito
simpatico, ma in pratica risultava estenuante, i bambini erano come granelli di sabbia, tutti uguali da lontano, sfuggenti quando cercava di imporre loro dei limiti e appiccicaticci quando voleva toglierseli di torno, però si affezionò e durante i fine settimana ne sentiva la mancanza. Uno dei piccoli aveva la specialità di scomparire, faceva tanti sforzi per passare inosservato che proprio per questo sarebbe stato il solo indimenticabile negli anni a venire. Una sera si perse. Prima di andare via, Gregory contava sempre i ragazzini, ma quella volta era in ritardo e non lo fece. Il suo abituale percorso lo condusse alla casa del piccolo e arrivando si rese conto con terrore che non era nel bus. Girò la macchina e filò come un lampo al parco, dove giunse quando incominciava già a fare buio. Corse chiamandolo a pieni polmoni, mentre all'interno del bus gli altri piagnucolavano per la stanchezza, e alla fine volò a un telefono per chiamare aiuto. Quindici minuti dopo c'era un distaccamento di poliziotti con lanterne e cani, giornalisti, un fotografo e mezzo centinaio di vicini e curiosi che osservavano al di là dello sbarramento. "Deve avvisare i genitori," decise l'ufficiale. "Dio mio! Come faccio a dirglielo?" "Andiamo, l'accompagno. Sono cose che succedono, mi è toccato di vedere di tutto. Poi ricompaiono i cadaveri, meglio non descriverli, alcuni violentati... torturati... I pervertiti non mancano. Io li manderei tutti sulla sedia elettrica." A Reeves si piegarono le ginocchia, aveva la nausea. Quando arrivarono si aprì la porta e sull'uscio apparve il dannato moccioso con la bocca impiastricciata di burro di arachidi. Si annoiava e aveva preferito andarsene a casa a vedere la televisione, disse. Sua madre non era ancora tornata dal lavoro e non sospettava che avessero dato per scomparso il figlio. Da quel giorno Gregory legò alla cintura del suo cliente fuggitivo una corda, proprio come faceva Immacolata Morales con la madre demente, il che evitò nuovi problemi e scoraggiò qualsiasi idea di indipendenza negli altri bambini. Eccellente idea. Che importa se poi devono pagare uno psichiatra perché gli faccia passare il complesso del cagnolino di lusso? commentò Carmen quando glielo raccontò per telefono. Joan e Susan si trasferirono in una vecchia casa piuttosto rovinata, ma ancora solida sulle fondamenta, e lì inaugurarono un ristorante vegetariano e macrobiotico che con gli anni sarebbe diventato il migliore della città. Al loro posto nella casa si installò una colonia di hippy che cominciò a
crescere e moltiplicarsi a ritmo accelerato. Prima erano due coppie con i bambini, ma ben presto la tribù aumentò, le porte erano sempre aperte per chi desiderasse entrare in quell'oasi di droga, di modesto artigianato, yoga, musica orientale, amore libero e mensa comunitaria. Timothy Duane non sopportò la confusione e il sudiciume e affittò un appartamento a San Francisco, dove studiava medicina. Si offrì di condividerlo, ma Reeves non si decideva a lasciare l'attico, malgrado studiasse anche lui in città e ne avesse abbastanza degli hippy. Lo infastidiva trovare degli estranei nella sua stanza, detestava la musica monotona dei tamburelli, flauti e pifferi e si infuriava quando mancava qualche suo oggetto personale. Pace e amore, fratello, gli sorridevano con mansuetudine i cosiddetti Figli dei Fiori quando lui scendeva come una belva a reclamare le sue camicie. Quasi sempre ritornava con la coda tra le gambe nell'ultimo angolo privato della sua stanza, senza il bottino e sentendosi come un putrido capitalista. Berkeley si era convertita in un centro di droga e rivolta, ogni giorno comparivano nuovi nomadi in cerca del paradiso, arrivavano su moto rumorose, rottami sconquassati e autobus adattati ad abitazioni provvisorie, si accampavano nei parchi pubblici, copulavano dolcemente per le strade, si nutrivano d'aria, musica ed erba. L'odore della marijuana soffocava tutti gli altri aromi. Erano due le rivoluzioni in marcia, una, quella degli hippy che cercavano di cambiare le leggi dell'universo con preghiere in sanscrito, fiori e baci, e l'altra, quella degli iconoclasti che pretendevano di cambiare le leggi del paese con proteste, grida e pietre. La seconda si addiceva di più al carattere di Gregory, il quale, però, non aveva tempo per quelle attività e così il suo entusiasmo per le rivolte di strada si spense quando capì che si erano trasformate in un modo di vita, una specie di doloroso passatempo. Smise di sentirsi in colpa quando restava a studiare invece di provocare la polizia, considerava più utile il suo silenzioso lavoro casa per casa tra i neri del Sud durante l'estate. Quando non c'erano manifestazioni in appoggio ai diritti civili, c'erano quelle contro la guerra del Vietnam, era difficile che passasse un giorno senza nessuno scontro pubblico. La polizia usava tattiche ed equipaggiamento da combattimento per mantenere una parvenza di ordine. Venne organizzata una controffensiva destinata a preservare i valori dei Padri della Patria tra le persone che inorridivano di fronte alla promiscuità, la sedizione e il disprezzo per la proprietà privata. Si alzò un coro di voci in difesa della sacra American Way of Life. Stanno demolendo le fondamenta della civiltà cristiana occidentale. Questo paese finirà per trasformarsi in una Sodoma comunista e psichedelica, questo vogliono codesti disgraziati! I neri e gli
hippy manderanno all'aria il sistema! così Timothy Duane parodiava suo padre e altri signoroni del Club. Non erano i soli a fare un unico fascio di tutti i dissidenti, anche la stampa era solita cadere in quella semplificazione, malgrado fosse sufficiente uno sguardo superficiale per vedere le enormi differenze. I diritti civili si rafforzavano nella stessa misura in cui gli hippy si disintegravano. La rivolta contro il razzismo avanzava decisa e inevitabile, ma quella dei fiori era un sogno. Gli hippy, imbarcati per un magico viaggio su zattere allucinogene, erba, sesso e rock, non si rendevano conto delle proprie debolezze e della forza dei loro nemici, credevano che l'umanità fosse entrata in una tappa più avanzata e che niente sarebbe tornato ad essere come prima. Non dobbiamo sopravvalutare la stupidità umana, alcuni fuori di testa si scambiano baci e si tatuano colombe sul petto, ma ti assicuro che di loro non resterà neanche una traccia, se li divorerà la storia, assicurava Duane. Nelle lunghe conversazioni notturne dei due amici, lui portava sempre una nota di scetticismo, convinto che la mediocrità avrebbe finito per sconfiggere i grandi ideali e che quindi non valeva la pena di entusiasmarsi per l'Era dell'Acquario o per qualsiasi altra cosa. Sosteneva che era una perdita di tempo passare le estati iscrivendo neri nei registri elettorali, perché non si sarebbero dati la pena di votare o lo avrebbero fatto per i repubblicani, tuttavia ogni volta che si trattava di raccogliere fondi per le campagne dei diritti civili faceva in modo di far firmare a sua madre un assegno da tre zeri. Difendeva il femminismo come una magnifica invenzione perché lo esonerava dal pagare la parte della dama in un appuntamento e nello stesso tempo poteva portarsela a letto gratis, ma nella vita reale non approfittava di tali vantaggi. Aveva un atteggiamento cinico che sconcertava e divertiva Gregory. Libertà è denaro, denaro è libertà, profetizzava enigmatico Balcescu, che a quel tempo aveva acquisito un vocabolario inglese un po' più vasto, si era lasciato crescere un codino da mandarino sul cranio rasato, vestiva come un contadino del feudalesimo russo e insegnava nel parco la propria filosofia a un gruppo di seguaci. Duane attribuiva il successo del maestro giardiniere al fatto che nessuno capiva di che diavolo stesse parlando e alla sua straordinaria perizia nel coltivare marijuana nelle vasche da bagno o funghi magici in cassette dentro gli armadi. Il rumeno aveva nel garage una piccola fabbrica di acido lisergico, un fiorente commercio che in poco tempo lo avrebbe trasformato in un uomo ricco. Anche se Gregory non lavorava più con lui da diversi anni, avevano mantenuto una buona amicizia basata sull'amore per le rose e i piaceri della tavola. Balcescu
aveva un naturale istinto nell'inventare piatti a base di aglio cui dava nomi impronunciabili facendoli passare per tipici del suo paese. Gli insegnò anche a coltivare rose in barili con ruote, per poterli portare con sé in caso cambiasse casa o emigrasse. "Non ho intenzione di emigrare!" rideva Gregory. "Non si sa mai. Manca libertà, manca denaro, che si fa? Emigrare," sospirava l'altro con una patetica espressione di nostalgia. Samantha Ernst studiava letteratura nei momenti liberi, dopo aver fatto la sua ginnastica e lo sport. Non aveva mai lavorato e mai lo avrebbe fatto. Quell'anno suo padre andò in rovina per un film sull'Impero di Bisanzio costato milioni che fu un colossale fiasco e distrusse in poco tempo il suo impero. Come tutti i suoi fratellastri e le matrigne, che fino ad allora avevano usufruito della generosità del produttore cinematografico, Samantha dovette cavarsela da sola, ma non subì privazioni perché c'era Gregory Reeves. Avevano programmato di sposarsi quando lui avesse terminato gli studi e trovato un lavoro sicuro, ma la rovina del magnate precipitò le cose e dovettero anticipare le nozze di un paio d'anni. Si sposarono con una cerimonia così privata da sembrare segreta, con Timothy Duane e il maestro di tennis come unici testimoni, e poi diedero la notizia per telefono a parenti e amici. Nora e Judy Reeves vedevano Gregory una volta all'anno per il Giorno del Ringraziamento, si sentivano molto lontane da lui e non si stupirono di non essere state invitate alla cerimonia, ma i Morales si offesero profondamente e per un po' non rivolsero la parola al "figlio gringo", come lo chiamavano, fino a che la nascita di Margaret non addolcì loro il cuore e finirono per perdonarlo. Gregory si trasferì con le sue cose nella casa di Samantha, compresi i barili delle rose, deciso a realizzare il suo sogno di una famiglia felice. La vita matrimoniale non risultò così idilliaca come aveva immaginato, in realtà il matrimonio non risolse nessuno dei problemi del fidanzamento, solo ne aggiunse altri, però lui non si lasciò confondere supponendo che le cose sarebbero migliorate quando avesse ottenuto l'avvocatura, avesse avuto un lavoro normale e minori preoccupazioni. La sua attività di assistenza ai bambini rendeva abbastanza per offrire alla moglie un'esistenza comoda, ma lui non godeva di quel benessere. L'organizzazione del suo tempo era diventata una vera corsa a ostacoli. Si alzava al mattino per studiare, impiegava un'ora per arrivare a scuola e un'altra per ritornare, nel pomeriggio lavorava. Portava i bambini al museo, al parco e agli spettacoli, e mentre li sorvegliava con un occhio, con l'altro studiava. Una volta alla settimana andava alla lavanderia automatica e al mercato, molte
volte la sera guadagnava qualche dollaro aiutando Joan e Susan al ristorante. Alla fine della giornata arrivava a casa sfinito, si preparava un pezzo di carne alla griglia, mangiava da solo e continuava a studiare. A Samantha ripugnava la vista della carne cruda e l'odore d'arrosto, e preferiva non farsi trovare all'ora di cena. I loro orari non coincidevano, lei dormiva fino a mezzogiorno e iniziava le sue attività nel pomeriggio, aveva sempre delle lezioni serali: tamburi africani, yoga, danze cambogiane. Mentre suo marito correva per svolgere un'infinità di compiti, lei aveva sempre un'aria incerta, come se il mero esistere fosse per la sua evanescente natura una prova titanica. Con la convivenza il suo interesse per i giochi dell'amore non aumentò e a letto continuò a essere indifferente come prima, coll'aggravante che adesso avevano più opportunità di stare assieme e meno pretesti per la freddezza. Gregory tentò di mettere in pratica i consigli dei suoi manuali, malgrado si sentisse piuttosto ridicolo nell'improvvisare acrobazie erotiche che Samantha non apprezzava per niente. Di fronte agli scarsi risultati dei suoi sforzi suppose che le donne non sentono grande entusiasmo per queste cose, salvo Ernestina Pereda, la quale rappresentava una felice eccezione. Ignorò le innumerevoli pubblicazioni che dimostravano il contrario e mentre il mondo occidentale scopriva la torrenziale libido femminile, lui si dispose a sostituire la passione con la pazienza, benché non avesse rinunciato del tutto all'idea di condurre a poco a poco Samantha verso i peccaminosi giardini della lussuria, come Timothy Duane, con la sua tormentata coscienza cattolica, chiamava il puro e semplice desiderio sessuale. Quando Samantha scoprì di essere incinta si demoralizzò completamente. Sentì che il suo corpo abbronzato e senza un grammo di grasso si era trasformato in un ripugnante contenitore in cui cresceva un avido girino che le era impossibile riconoscere come qualcosa di suo. Durante le prime settimane si affaticò facendo i più violenti esercizi del suo repertorio con la segreta speranza di liberarsi da quel pericoloso asservimento, ma poi fu vinta dalla fatica e finì per stendersi sul letto a guardare il soffitto, disperata e furiosa con Gregory, che sembrava incantato dall'idea di un erede e rispondeva alle sue lamentele con sentimentalismi consolatori, i meno appropriati in quella circostanza, come gli disse ripetutamente. È colpa tua, solo colpa tua, lo rimproverava io non voglio figli, almeno per ora, sei tu che continui a parlare di formare una famiglia, guarda che idee ti vengono, a forza di parlare di simili stupidaggini adesso è successo, che tu sia dannato. Non riusciva ad
accettare questo colpo di sfortuna, pensava di essere sterile, perché in tanti anni senza aver preso precauzioni non aveva avuto sorprese. Se io non lo voglio non accadrà mai, si ostinava come una bambina viziata incapace di tollerare una sgradevole imposizione. Aveva attacchi di nausea, più per ripugnanza di se stessa e rifiuto della creatura che per il suo stato. Suo marito comprò un libro di cucina naturista e chiese aiuto a Joan e Susan per prepararle piatti sani, sforzo inutile, perché lei a stento tollerava un pezzetto di sedano o di mela. Tre mesi dopo quando notò dei cambiamenti al giro vita e ai seni, si abbandonò al suo destino con una specie di fervore rabbioso. La sua inappetenza si convertì in voracità e contro tutti i suoi princìpi vegetariani divorava metodicamente bistecche di maiale e salsicce che Gregory preparava per la sera e che lei mangiucchiava fredde durante il giorno. Una sera cenarono con un gruppo di amici in un ristorante spagnolo, dove scoprì le specialità del giorno, trippe alla madrilena, un intruglio di trippe della consistenza di una spugna, inzuppato in salsa di pomodoro. Andò così tante volte fuori orario a chiedere quel piatto, che il cuoco, preso da entusiasmo per lei, le regalava vassoi di plastica straripanti del suo indigeribile intruglio. Ingrassò, la pelle le si coprì di foruncoli e finì col deprimersi completamente, si sentiva malata e colpevole, avvelenata da cibi putrefatti e cadaveri di animali che non poteva smettere di divorare, come un castigo. Dormiva troppo e per il resto del tempo guardava la televisione buttata sul letto con i suoi gatti. Reeves, allergico al pelo di quegli animali, si trasferì nell'altra stanza senza perdere il buonumore né la pazienza, poi le passerà, sono voglie della gravidanza, sorrideva. Samantha detestava i lavori domestici, ma prima manteneva almeno una certa decenza nella casa, mentre ora la sua già relativa organizzazione casalinga si trasformò in caos. Gregory cercava di mettere un po' d'ordine, ma per quanto pulisse, l'odore dei gatti chiusi in casa e delle trippe alla madrilena impregnava l'ambiente. Quell'anno iniziò la moda dei parti naturali acquatici, una originale combinazione di esercizi respiratori, balsami, meditazione orientale e comune acqua corrente. Bisognava esercitarsi in anticipo per partorire dentro una vasca, sostenuta dal padre e accompagnata da amici e da chiunque volesse partecipare, in modo che il neonato entrasse nel mondo senza il trauma di abbandonare l'ambiente liquido, tiepido e silenzioso del ventre materno per toccare terra improvvisamente nel terrore di un padiglione di ostetricia, sotto inesorabili luci e circondato da strumenti chirurgici. L'idea non era malvagia, ma in pratica risultava piuttosto complicata. Samantha non aveva voluto affrontare l'argomento del parto,
fedele alla sua teoria per cui se non desiderava qualche cosa, questa non sarebbe mai accaduta, però verso il settimo mese non ebbe altra scelta se non affrontare la realtà, perché entro un periodo stabilito il bambino sarebbe nato e la sua partecipazione all'evento era inevitabile. Partorire in una vasca d'acqua tiepida, nella penombra, con un paio di levatrici beatifiche, le sembrò meno terribile che farlo su una tavola d'ospedale in mano a un uomo col grembiule e il viso coperto perché nessuno lo riconoscesse, tuttavia non era d'accordo nel trasformare la casa in una riunione sociale, nonostante la promessa delle levatrici naturiste per cui non avrebbe dovuto occuparsi di nulla, il costo del parto includeva le bevande, la marijuana, la musica e le foto. Visto che ci siamo sposati in privato, non ritengo di partorire in pubblico e neppure voglio che mi fotografino con le gambe aperte, decise Samantha, ponendo fine al dilemma. Si alzò finalmente dal letto e cominciò ad andare con suo marito ai corsi, dove vide altre donne nel suo stesso stato e scoprì che la maternità non è necessariamente una disgrazia. Sorpresa, notò che le altre ostentavano la loro pancia con orgoglio e sembravano perfino contente. Questo ebbe un effetto terapeutico, recuperò in parte il rispetto per il proprio corpo e decise di aver cura di sé, non rinunciò alle trippe alla madrilena, ma aggiunse alla sua dieta anche verdure e frutta, faceva lunghe camminate e si massaggiava la pelle con olio di mandorla e lozione alla salvia e menta, comprò indumenti per il bambino e per alcune settimane riprese la sua solita personalità. I grandi preparativi per il parto inclusero l'installazione nella sala di un'enorme tinozza di legno, che avrebbero potuto prendere in affitto, ma li convinsero che era più vantaggioso comprarla. Dopo il parto potevano usarla per altri scopi, gli dissero, dato che ormai incominciava la moda dei bagni comunitari tra amici, che tutti nudi si mettevano a bagno nell'acqua calda. L'oggetto risultò inutile, perché cinque settimane prima della data prevista Samantha diede alla luce una figlia che chiamarono Margaret, come la nonna materna morta nella spuma rosata. Gregory arrivò a casa la sera e trovò sua moglie seduta nella pozza delle sue acque amniotiche, così sconcertata che non aveva pensato di chiedere aiuto e neppure ricordava la respirazione da foca appresa al corso del parto acquatico. La caricò sul bus che usava per il suo lavoro e partì sparato per l'ospedale, dove dovettero praticare il cesareo per salvare la neonata. Margaret non venne al mondo in una tinozza di legno cullata da cantici rilassanti e nubi d'incenso, com'era previsto, ma incominciò la vita in un'incubatrice, come un patetico pesce solitario in un acquario. Due giorni dopo, quando la madre provava i suoi primi passi nel corridoio
dell'ospedale, il padre si ricordò di chiamare le levatrici spirituali, i parenti e gli amici per dare loro la notizia. Rimpianse di non avere accanto Carmen, l'unica persona con cui avrebbe voluto condividere le ansie di quei momenti. Per Samantha Ernst il vento della rovina iniziò a soffiare lo stesso giorno della sua nascita, quando la sua aristocratica madre la mise nelle mani di un'infermiera e si disinteressò per sempre di lei, e divenne un uragano che la buttò fuori dalla realtà al momento di dare alla luce sua figlia. Molto più tardi al suo analista Samantha avrebbe confessato con la massima sincerità che quella piccolissima creatura che respirava con difficoltà dentro una scatola di vetro le ispirava solamente rifiuto. Fu segretamente riconoscente di non avere latte per allattarla e forse, nel profondo del suo cuore, desiderò che scomparisse per non essere costretta a prenderla tra le braccia. Quello che aveva imparato al corso non le servì a nulla, le riusciva impossibile considerare Margaret una tra le mille bambine nate sulla terra nel medesimo giorno alla medesima ora, non poté mai accettarlo. Non si rassegnò neppure all'idea di essere unita a quel vermiciattolo da responsabilità ineludibili. Si guardò allo specchio e vide una lunga cicatrice che attraversava il suo ventre, prima liscio e abbronzato, adesso con la pelle flaccida e piena di rughe, e pianse inconsolabile per la bellezza perduta. Suo marito cercò di avvicinarsi per aiutarla, ma ogni volta lo allontanò con folle violenza. Si abituerà, è fresca di parto, è sconcertata, pensava Gregory, ma dopo tre settimane, quando dimisero la bimba dall'ospedale e la madre non smetteva ancora di esaminarsi allo specchio e lamentarsi, dovette chiedere aiuto alla sorella. Forse sua madre sarebbe stata la persona più indicata in quel frangente, ma Samantha non sopportava la suocera, non apprezzò mai nessuno dei suoi meriti, la considerava una vecchietta stramba, capace di far perdere la calma a una tartaruga. Pensò anche a Olga, a cui piacevano tanto i parti e i neonati, ma capì che se sua moglie non sopportava Nora, meno ancora poteva tollerare Olga. "Ho bisogno di te, Judy, Samantha è depressa e ammalata e io non so niente di neonati, vieni per favore," invocò Gregory al telefono. "Chiederò un permesso sul lavoro venerdì e passerò il fine settimana con voi, non posso fare di più," replicò lei. Stanca delle baldorie di Jim Morgan, il gigante dai capelli rossi da cui aveva avuto due figli, Judy aveva divorziato ed era tornata a vivere con la madre nella stessa baracca di sempre. Nora badava ai due nipoti, uno dei
quali non camminava ancora, mentre Judy manteneva la famiglia. Jim Morgan amava sua moglie e l'avrebbe amata fino al termine dei suoi giorni, nonostante lei si fosse trasformata in un'arpia che lo inseguiva gridando per tutta la casa, si piazzava sulla porta della fabbrica per insultarlo davanti ai suoi operai e girava per i bar cercandolo per inscenare uno scandalo. Quando lo cacciò definitivamente di casa e fece domanda di divorzio, l'uomo sentì che la sua vita era finita e si abbandonò a una sbornia di cui non ricordava nulla e dalla quale si risvegliò in carcere. Non poteva spiegarsi come capitò la disgrazia, non ricordava neppure l'uomo che uccise. Alcuni testimoni dissero che si trattò di un incidente e che Morgan non aveva intenzione di liquidarlo, gli diede un colpo insignificante e il poveretto se ne andò all'altro mondo, però le circostanze non erano a favore dell'accusato. La vittima era, con tutta evidenza, sobria ed era un mingherlino peso-piuma che, quando la rissa iniziò, si trovava a un crocicchio con un campanello in mano a chiedere l'elemosina per l'Esercito della Salvezza. Dalla sua cella Jim Morgan non poté contribuire alle spese per i figli e Judy se ne rallegrò, convinta che meno rapporti avessero avuto i bambini con un padre criminale meglio sarebbe stato per loro, ma siccome non riusciva a tenere la casa da sola, tornò dalla madre. Gregory andò a prendere la sorella all'aeroporto e si spaventò nel vedere quanto era ingrassata. Non riuscì a dissimulare la brutta impressione e lei lo notò. "Non dirmi niente, so già quello che stai pensando." "Mettiti a dieta, Judy!" "Dirlo è facile, la prova è che l'ho fatto tante volte. Sono già diminuita di circa dieci chili in totale." La donna si inerpicò con difficoltà sul bus di Gregory e andarono a prendere Margaret all'ospedale. Gli consegnarono un fagottino coperto con uno scialle, così leggero che lo aprirono per verificarne il contenuto. Tra la lana scoprirono una minuscola creatura che dormiva placida. Judy avvicinò il viso alla nipotina e cominciò a baciarla e ad annusarla come una cagna col suo cucciolo, trasfigurata da una tenerezza che da decenni Gregory non le aveva visto, ma che ricordava. Per tutto il percorso le parlò e la accarezzò mentre il fratello la osservava di sottecchi, sorpreso nel vedere Judy trasformarsi, gli strati di grasso che la deformavano sparivano rivelando la radiosa bellezza nascosta dentro di lei. Arrivati a casa trovarono i gatti infilati nella culla e Samantha nella sua stanza con la testa in giù, che cercava sollievo all'ingorgo emozionale con acrobazie da fachiro. Gregory provvide a scrollare via i peli degli animali per sistemare
la bambina, mentre Judy, stanca per il viaggio e le ore passate in piedi, tirò fuori la cognata dal nirvana con una spinta e la riportò alla posizione di testa in alto e ai grossolani problemi della realtà. "Vieni che ti spiego come si prepara un biberon e come si cambiano i pannolini," le ordinò. "Dovrai spiegarlo a Greg, io non so fare queste cose," balbettò Samantha tirandosi indietro. "Meglio che lui non si avvicini troppo alla bambina, che non se ne esca con le stesse canagliate di mio padre," grugnì Judy di pessimo umore. "Di che stai parlando?" domandò Gregory con la neonata in braccio. "Sai benissimo di che sto parlando. Non sono tonta: credi che non mi sia accorta che sei sempre circondato da bambini?" "È il mio lavoro!" "Certo, è il tuo lavoro. Tra tutti i lavori possibili dovevi scegliere quello. Un motivo ci sarà. Scommetto che ti occupi anche di bambine, vero? Gli uomini sono tutti dei pervertiti." Gregory posò Margaret sul letto, afferrò la sorella per un braccio e la trascinò in cucina, chiudendo la porta alle sue spalle. "Adesso mi spieghi che diavolo stai dicendo!" "Hai una stupefacente capacità di fare il tonto, Gregory. Non posso credere che tu non sappia..." "No!" E allora Judy buttò fuori il veleno che in silenzio aveva trattenuto da quella notte in cui non gli permise di dormire assieme a lei, più di vent'anni prima, il pesante segreto conservato gelosamente col sospetto che in realtà non fosse un mistero e che tutti lo conoscessero, il tema recondito dei suoi brutti sogni e dei suoi rancori, la vergogna inconfessabile che adesso osava raccontare solo per proteggere la nipote, la povera innocente, come disse, per evitare che si ripetesse lo stesso peccato d'incesto in famiglia, perché quelle cose si portano nel sangue, sono maledizioni genetiche, l'unica eredità di Charles Reeves, quel crapulone che in un maledetto momento ci mise al mondo, nella sporca malvagità della sua lussuria, e se hai bisogno di altri particolari posso raccontarteli, perché non ho dimenticato niente, conservo tutto impresso a fuoco nella memoria, se vuoi ti spiego come mi portava nel magazzino con diversi pretesti e voleva che lo sbottonassi e me lo metteva tra le mani e mi diceva che quello era il mio bambolino, la mia caramella, che lo toccassi, facessi così e così, più forte, fino a che... "Basta!" gridò Gregory con le mani sulle orecchie.
Ogni lunedì mattina Gregory Reeves telefonava a Carmen Morales, abitudine che continuava a conservare. Dopo l'aborto che le era quasi costato la vita, la sua amica si accomiatò dalla madre e scomparve senza lasciare tracce. In casa dei Morales il suo nome fu cancellato, ma nessuno la dimenticò, soprattutto suo padre, che la sognava senza dirlo, ma per orgoglio non ammise mai che stava morendo di dolore per la mancanza della figlia. La giovane non mandò notizie alla famiglia, però due mesi dopo Gregory ricevette una cartolina dal Messico con un numero e il disegno di un fiorellino, l'inconfondibile firma di Carmen. Fu l'unico in quel periodo ad avere sue notizie, attraverso di lui Immacolata Morales si teneva informata dei movimenti della figlia. Nelle brevi conversazioni del lunedì i due amici si aggiornavano sulla loro vita e i loro progetti. Le voci giungevano deformate dalle interferenze e dall'ansia propria delle conversazioni a grande distanza, era difficile riconoscersi in quelle frasi interrotte e per entrambi il viso dell'altro incominciava a cancellarsi, erano due ciechi con le mani tese nell'oscurità. Carmen si era sistemata in una misera stanza alla periferia della capitale del Messico e lavorava in un laboratorio di oreficeria. Perdeva tante ore nel trasferirsi in autobus da una estremità all'altra di quella immensa città disperata, che non le restava tempo per altre attività. Non aveva né amici né amori. La delusione provocata da Tom Clayton distrusse la sua ingenua tendenza a innamorarsi a prima vista e d'altra parte in quell'ambiente era molto difficile trovare un compagno che capisse e accettasse il suo carattere indipendente. Il machismo di suo padre e dei fratelli era nulla se paragonato a quello che sopportava adesso, e prudentemente si era adattata alla solitudine come a un male minore. Lo sfortunato intervento di Olga e la successiva operazione l'avevano privata della capacità di avere figli, questo la rendeva più libera ma anche più triste. Viveva in quella frontiera non dichiarata dove la città ufficiale termina e inizia il mondo inammissibile degli emarginati. L'edificio era formato da uno stretto corridoio con due file di stanze ai lati, un paio di rubinetti, un lavatoio al centro e in fondo i bagni comuni, sempre così sporchi che preferiva evitarli. Quel luogo era più violento del ghetto in cui era cresciuta, la gente doveva lottare per il suo piccolo spazio, era pieno di rancori e privo di speranze, si trovava in un paese d'incubo ignorato dai turisti, un labirinto terribile attorno alla bella città fondata dagli Aztechi, un enorme agglomerato di misere abitazioni e strade non pavimentate prive di luce, invase dall'immondizia, che si estendeva verso una periferia senza fine. Camminava tra indios umiliati e
meticci miserabili, bambini nudi e cani affamati, donne piegate sotto il peso dei figli e del lavoro, uomini oziosi rassegnati alla cattiva sorte, con la mano sul manico dei pugnali, pronti a difendere la dignità e la virilità eternamente minacciate. Non contava più sulla protezione della famiglia e capì ben presto che lì una donna giovane e sola era come un coniglio circondato da cani da caccia. La sera non usciva, dormiva con una spranga alla porta, un'altra alla finestra e un coltello da macellaio sotto il guanciale. Quando andava a lavare i suoi vestiti incontrava altre donne che la guardavano con diffidenza perché era diversa. La chiamavano "gringa", nonostante avesse spiegato mille volte che la sua famiglia era di Zacatecas. Con gli uomini non parlava. A volte comprava delle caramelle e si sedeva sotto il portico aspettando che i bambini si avvicinassero, erano i suoi pochi momenti di allegria. Nel laboratorio di oreficeria lavoravano alcuni indios impenetrabili, dalle mani magiche, che raramente le rivolgevano la parola, però le insegnarono i segreti della loro arte. Le ore passavano senza che lei se ne accorgesse, assorta nel laborioso processo di modellare la cera, incavare i metalli, tagliare, ripulire, incastonare le pietre e montare i minuscoli pezzi. La sera nella sua stanza disegnava orecchini, anelli e braccialetti, all'inizio li realizzava con latta e pezzi di vetro per impratichirsi e poi, quando poté risparmiare qualcosa, in argento con pietre semipreziose. Nei momenti liberi li vendeva porta a porta, facendo in modo che i suoi datori di lavoro non si accorgessero di quella modesta concorrenza. La nascita della figlia precipitò Samantha Ernst in una poco evidente ma feroce depressione; nel suo comportamento non si verificarono crisi clamorose né vistosi cambiamenti, ma non era più la stessa. Continuò ad alzarsi a mezzogiorno, a guardare la televisione e a prendere il sole come una lucertola, senza opporre resistenza alla realtà, ma anche senza prendervi parte. Mangiava pochissimo, era sempre assonnata e resuscitava solo sul campo sportivo, mentre Margaret vegetava nella carrozzina all'ombra, così lasciata a se stessa che a otto mesi non era ancora capace di stare seduta e sorrideva appena. La madre la toccava solo per cambiarle i pannolini e metterle il biberon in bocca. La sera Gregory le faceva il bagno e a volte la cullava un poco, cercando di farlo sempre in presenza di Samantha. Amava molto la bambina e quando la prendeva in braccio provava una tenerezza dolorosa, un desiderio opprimente di proteggerla, ma non riusciva a vezzeggiarla come avrebbe voluto. La confessione della sorella aveva innalzato una barriera tra sua figlia e lui. Non si sentiva a suo
agio neppure con i ragazzi di cui si occupava nel suo lavoro e si sorprendeva a esaminarsi in cerca di qualche dettaglio rivelatore di un'eventuale indole licenziosa ereditata dal padre. Paragonando Margaret alle altre bambine della sua età, la trovava arretrata nello sviluppo, senza dubbio qualcosa non andava, ma non voleva condividere i dubbi con la moglie per non spaventarla e allontanarla ancora di più dalla bambina. La sottoponeva a prove per verificare se udiva bene, forse era sorda, e per questo sembrava così quieta, ma quando batteva le mani vicino alla culla lei sussultava. Pensava che Samantha non se ne rendesse conto, ma un giorno lei gli domandò come si capisce se un bimbo è menomato e allora, per la prima volta, poterono parlare dei loro timori. Dopo aver esaminato Margaret dentro e fuori, all'ospedale diagnosticarono che era sana, semplicemente aveva bisogno di stimoli, era come un animale chiuso in una scatola, privato dei propri sensi. I genitori seguirono un corso di stimolazione precoce dove impararono ad accarezzare la loro figlia, a parlarle gorgheggiando, a farle notare a poco a poco il mondo circostante e altri elementari accorgimenti che qualunque miserabile orangotango conosce dalla nascita e che loro dovettero apprendere da un manuale di istruzioni. I risultati furono evidenti dopo qualche settimana, quando la bambina cominciò a trascinarsi sul pavimento e un anno dopo pronunciò le sue due prime parole, che non furono né papà né mamma, ma gatto e tennis. Gregory studiava per gli esami finali, ore, giorni, mesi sui libri ringraziando il cielo per la sua buona memoria, l'unica cosa che funzionasse bene mentre il resto attorno a lui sembrava deteriorarsi irrimediabilmente in un rapido processo di decomposizione. La guerra del Vietnam, ben lontana dal finire, come aveva calcolato, acquistava le proporzioni di una catastrofe. Al sollievo di laurearsi in Legge, si collegava l'inevitabile incubo di andare al fronte, perché aveva un contratto con le Forze Armate e non poteva continuare a rimandare il servizio. La famiglia era il suo principale motivo di angoscia, il suo rapporto con Samantha vacillava e senza dubbio una separazione lo avrebbe spezzato e temeva anche di dover lasciare Margaret, che cresceva piena di manie. L'esistenza di sua figlia si manifestava in forme così velate e misteriose che a volte Samantha la dimenticava e quando Gregory tornava la sera scopriva che non aveva più mangiato dopo la colazione del mattino. Non giocava con altri bambini, stava per ore a guardare le telenovela, non aveva mai appetito, si lavava ossessivamente, sporca, sporca, diceva ogni momento, trascinando uno sgabello vicino al lavandino per insaponarsi le
mani a lungo. Faceva la pipì a letto e piangeva disperata quando si svegliava con le lenzuola bagnate. Era molto graziosa e avrebbe continuato a esserlo, nonostante le aggressioni che avrebbe commesso contro il suo corpo, possedeva la grazia nobile della nonna della Virginia e l'esotico viso slavo di Nora Reeves, proprio come appariva in una fotografia scattata sulla nave dei rifugiati che l'aveva trasportata da Odessa. Mentre Margaret viveva nell'ombra dei mobili e nascosta nei cantucci, i suoi genitori, troppo impegnati nelle loro occupazioni e ingannati dal suo aspetto di bimba buona, non furono capaci di vedere i dèmoni che prendevano forma nel suo animo. Si vivevano tempi di grandi turbamenti e di continue sorprese. La novità dell'amore libero, dopo tanti secoli di schiavitù, si diffuse con rapidità e quello che era iniziato come fantasia degli hippy diventò il gioco prediletto dei borghesi. Con stupore, Gregory vide come le stesse persone che poco tempo prima difendevano le idee più puritane, adesso praticavano il libertinaggio in piccole orge a carattere domestico. Quando non era ancora sposato era quasi impossibile trovare una ragazza disposta a far l'amore senza la promessa del matrimonio, prima delle pillole anticoncezionali il piacere senza senso di colpa né paura era impensabile. Aveva l'impressione di avere passato i primi dieci anni della sua giovinezza intento a procurarsi delle donne, tutto l'impegno e l'immaginazione erano rivolti a questa faticosa caccia, per lo più vana. Di colpo le cose si rovesciarono e nel giro di un paio d'anni la castità smise di essere una virtù per trasformarsi in un difetto dal quale bisognava guarire prima che i vicini se ne accorgessero. Fu una svolta così brusca che Gregory, preso dai suoi problemi, non ebbe il tempo di adeguarsi ai drammatici cambiamenti, la rivoluzione arrivò tardi fino a lui. Malgrado il suo fallimento con Samantha, non gli passò per la mente l'idea di approfittare delle allusioni di alcune audaci compagne di studio o di madri dei bimbi che gli erano affidati. Un sabato di primavera i Reeves furono invitati a cena a casa di amici. Non c'era più l'abitudine di sedersi a tavola, il cibo aspettava in cucina e ogni commensale si serviva in piatti di cartone e si sistemava come meglio poteva, tenendo in equilibrio un bicchiere colmo, un piatto irrorato di salsa, il pane, un tovagliolo e a volte anche la sigaretta. Si beveva molto e si fumava marijuana. Gregory aveva avuto una giornata pesante, si sentiva stanco e si chiedeva se non sarebbe stato meglio a casa anziché impegnato a tagliare un pollo appoggiandosi sulle ginocchia per non rovesciarselo addosso. Dopo il dolce iniziò una manovra collettiva, la gente si spogliò e
si immerse in una grande tinozza di acqua calda installata nel giardino alla luce della luna. La moda dei parti acquatici era passata senza grandi conseguenze, ma in molte famiglie era rimasta come ricordo una tinozza monumentale. I Reeves avevano ancora nel salotto la loro che serviva da recinto per Margaret e quale deposito per tutto quello che raccoglievano da terra e veniva destinato all'oblio. Altri più audaci avevano convertito l'oggetto in centro di attrazione, ispirandosi all'idea dei bagni comunitari del Giappone, fino a che l'industria nazionale lanciò sul mercato grandi tinozze fatte apposta per quello scopo. Gregory non era tentato dall'idea di uscire a prendere freddo nel cortile subito dopo avere mangiato, ma gli sembrò di cattivo gusto restare vestito quando gli altri erano in costume adamitico, avrebbero pensato che lui avesse qualcosa di cui vergognarsi. Non aveva vergogna, si sentiva orgoglioso del proprio corpo e spesso girava nudo per casa, ma questa pubblica esposizione lo innervosì un po', invece gli altri partecipanti alla riunione sembravano a loro agio come qualunque aborigeno dell'Amazzonia. Le donne facevano in modo di rimanere immerse nell'acqua, ma gli uomini cercavano ogni pretesto per esibirsi, i più sfacciati offrivano lo spettacolo della loro nudità servendo da bere, accendendo spinelli o cambiando i dischi, qualcuno si poneva persino in ginocchio sul bordo della vasca a pochi centimetri dal viso della moglie di un altro. Gregory capì che non era la prima volta che i suoi amici si trovavano in quella situazione e si sentì tradito, come se tutti fossero a conoscenza di un segreto dal quale lui era stato escluso di proposito. Sospettò che Samantha fosse già stata a simili feste e non avesse giudicato necessario raccontarglielo. Cercò di non guardare le donne, ma i suoi occhi correvano ai seni perfetti della madre della padrona di casa, una matrona di quasi sessant'anni, che non aveva notata fino a che non apparvero fluttuando sull'acqua quegli attributi inaspettati in una persona della sua età. Nel suo inquieto futuro Reeves avrebbe percorso tante geografie femminili che gli sarebbe stato impossibile ricordarle tutte, ma non avrebbe mai dimenticato i seni di quella nonna. Intanto Samantha, con gli occhi chiusi e il capo buttato all'indietro, più rilassata e contenta di quanto suo marito l'avesse mai vista, canterellava tranquilla, con un bicchiere di vino bianco in una mano e l'altra perduta sott'acqua, a suo parere troppo vicino alle gambe di Timothy Duane. Tornando a casa cercò di affrontare l'argomento, ma lei si addormentò in macchina. Il giorno dopo, davanti a una tazza di caffè fumante nella cucina illuminata dal sole, la festa nudista sembrava un sogno lontano e nessuno dei due ne parlò. Da quella sera Samantha colse ogni occasione per sperimentare nuove sensazioni in
gruppo, però nell'intimità del letto matrimoniale continuava a essere fredda come prima. Perché rinunziare? Non bisogna fermarsi ma aggiungere esperienza alla vita, da ogni incontro si esce arricchiti e si ha quindi di più da offrire al proprio partner, si può bere fino alla sazietà, assicuravano i profeti del matrimonio aperto. Gregory sospettava che ci fosse qualche trappola in quei ragionamenti, ma non osava manifestare i suoi dubbi per timore di sembrare un troglodita. Si sentiva come un estraneo in quell'ambiente, la promiscuità non lo aveva ancora convinto e, nel vedere l'accettazione entusiasta dei suoi amici, immaginò che il suo passato nel quartiere pesasse ancora su di lui, e per questo non riuscisse ad adattarsi. Non voleva ammettere quanto fastidio gli desse che altri uomini palpassero Samantha con la scusa di farle massaggi disintossicanti, attivare i suoi punti olistici o stimolarne la crescita spirituale mediante la comunione dei corpi. Lei lo confondeva, pensava che gli nascondesse degli aspetti della sua personalità e avesse un'esistenza segreta, non mostrava mai il suo vero volto ma solo una successione di maschere. Gli sembrava perverso accarezzare un'altra donna davanti alla sua, ma non voleva neanche tirarsi indietro. Ogni settimana i sessuologhi di moda scoprivano nuove zone erogene e a quanto pareva bisognava esplorarle tutte per non passare da ignoranti, sul suo tavolino da notte si accumulavano i manuali in attesa del loro turno per essere studiati. Una volta osò esprimere obiezioni su un metodo di incontro con l'Io per risvegliare la Coscienza mediante la masturbazione collettiva e Samantha lo accusò di essere un barbaro, un animo rozzo e primitivo. "Non capisco che cos'abbia a che vedere la qualità del mio animo col fatto perfettamente naturale che non mi piaccia vedere le dita di altri uomini tra le tue gambe!" "Tipico di una cultura sottosviluppata e straniera," commentò lei sorbendo impassibile il suo succo di sedano. "Come?" domandò sconcertato. "Sei come quei latini tra i quali sei cresciuto. Non avresti mai dovuto uscire da quel quartiere." Gregory pensò a Pedro e Immacolata Morales e cercò di immaginarli in costume adamitico in una vasca d'acqua calda con i loro vicini, frugandosi reciprocamente l'Io e la Coscienza. Il solo pensiero gli fece sbollire la rabbia e scoppiò a ridere a crepapelle. Il lunedì seguente lo disse per telefono a Carmen e, attraverso migliaia di chilometri di distanza, udì la risata irrefrenabile della sua amica; nessuno di quei modernismi era arrivato al ghetto di Los Angeles e tanto meno a Città del Messico, dove
lei viveva. "Matti, tutti matti," concluse Carmen, "neppure morta mi faccio vedere nuda davanti ai mariti altrui. Non saprei dove posare gli occhi, Greg. D'altra parte, se certi uomini mi danno delle manate quando sono vestita, immagina cosa succederebbe se mi spogliassi." "Che india sei, donna! Qui nessuno ti guarderebbe." "E allora perché lo fanno?" Non mi sentivo a mio agio da nessuna parte, il quartiere dove ero cresciuto apparteneva al passato e non ero riuscito a mettere radici altrove. Della mia famiglia era rimasto ben poco, mia moglie e mia figlia erano tanto lontane da me quanto lo erano state prima mia madre e Judy. Mi mancavano anche gli amici, Carmen era in un altro pianeta, non potevo contare molto su Timothy perché non si trovava bene con Samantha, credo che ci evitasse, lo stesso Balcescu, così simile a una caricatura da essere quasi impermeabile ai cambiamenti, con una giravolta si era trasformato nell'immagine di un santone. Viveva circondato da accoliti che veneravano l'aria che respirava, e a forza di vedersi riflesso nello specchio di quegli occhi adoranti, lo stravagante rumeno finì per prendersi sul serio. Come perse il senso dello humour, scomparve anche il suo interesse per inventare piatti esotici o coltivare rose, cosicché tra noi non rimase molto in comune. Joan e Susan conservavano il loro fascino e il delizioso profumo di erbe e spezie che impregnava la loro pelle, ma erano diventate inaccessibili, vivevano dedite alle battaglie femministe e alla chimica culinaria delle ricette vegetariane, erano esperte nel camuffare il tofu in modo che sapesse di pasticcio di rognone. Alla Scuola di Legge non avevo fatto nuove amicizie, noi studenti eravamo in competizione in un ambiente feroce, ciascuno assorto nei propri progetti e nelle proprie ambizioni, studiavamo instancabilmente senza sosta. Non avevo più energia per le riunioni e anche i problemi politici e intellettuali erano passati in secondo piano. Mi sarebbe riuscito difficile spiegare a Ciro che lì l'unico problema della sinistra era che nessuno voleva essere di destra. Tornando a casa verso sera sentivo una stanchezza interiore, per strada fantasticavo sulla possibilità di cambiare direzione e perdermi all'orizzonte, come faceva mio padre quando percorrevamo il paese senza una direzione né una meta. Il caos della casa mi innervosiva, non che io fossi fanatico dell'ordine, niente affatto. Forse ero spossato dallo studio e dal lavoro, certamente non mi comportavo da buon marito e per questo Samantha ci metteva così poco impegno da parte sua. A volte piuttosto che alleati sembravamo avversari.
In quelle situazioni si è come ciechi e non si intravvede l'uscita dal vicolo in cui ci si trova, sembra che si debba restare sempre nello stesso tritacarne, che non ci siano scappatoie. Quando avrai la tua laurea sarà tutto diverso, mi consolava Carmen da lontano, ma io sapevo che non era quella l'unica causa del mio malessere. Seguivo fedelmente un serial televisivo su un astuto avvocato che si giocava la reputazione e a volte la vita per salvare dal carcere un innocente o per punire un colpevole. Non perdevo una puntata sperando che il personaggio mi restituisse l'entusiasmo per la legge e mi salvasse dall'immenso fastidio che quella professione suscitava in me. Non avevo ancora iniziato a esercitarla e mi sentivo già deluso. Il futuro si presentava ben diverso dall'avventura immaginata in gioventù, l'ultimo sforzo per terminare il corso di studi mi tediava tanto che incominciai a parlare di abbandonare gli studi per dedicarmi a qualcos'altro. Il tedio è rabbia senza entusiasmo, mi assicurò Timothy Duane. Secondo lui, io ero arrabbiato con il mondo e con me stesso e ne avevo tutte le ragioni, la mia sorte non era mai stata un letto di rose. Mi consigliava di liberarmi dalle complicazioni, iniziando dal mio matrimonio con Samantha, che gli sembrava un evidente errore. Non volevo ammetterlo, ma arrivò il momento in cui dovetti dargli ragione almeno su questo punto. Accadde durante una festa come tante altre cui andavamo in quel periodo, in una casa come tutte le altre, mobili sgangherati, arazzi indigeni che coprivano le macchie del sofà, manifesti di Ho Chi Min e Che Guevara accanto ai mantra indiani ricamati, le solite coppie di amici, gli uomini senza calze e le donne senza reggiseno, cibo freddo e pezzi di formaggio sempre più rancidi man mano che passavano le ore, troppo alcool, sigarette e marijuana di qualità così cattiva che il fumo faceva scappare le zanzare. Ancora le solite conversazioni interminabili circa gli ultimi seminari sul grido primario, dove ognuno ululava per liberare l'aggressività, o sul ritorno all'utero, in cui i partecipanti svestiti si ponevano in posizione fetale e si succhiavano il dito. Io non capii mai quelle terapie né mi prestai a sperimentarle. Mi stancava parlare di quell'argomento, ero stufo di ascoltare gli ultimi trascendentali cambiamenti nella vita di ciascuno dei miei conoscenti. Mi sistemai sulla terrazza da solo a bere. Ammetto che bevevo ogni giorno di più. Avevo smesso coi liquori forti perché mi scoppiavano allergie e mi sentivo soffocare per l'infiammazione delle mucose e per una terribile oppressione al petto. Scoprii subito che il vino mi provocava gli stessi sintomi, però potevo consumarne una quantità maggiore prima di sentirmi veramente male. Qualche ora prima avevo avuto un'accesa discussione con Samantha
e incominciavo a sospettare che il nostro matrimonio stesse rotolando in un abisso. Stavo entrando con l'auto nel garage, quando vidi arrivare un vicino tenendo Margaret per mano, mia figlia aveva poco più di due anni. Credo che sia sua, l'ho incontrata che vagava a un paio di miglia da qui, per arrivare così lontano deve aver camminato tutta la mattina, disse l'uomo senza nascondere il suo rimprovero e il suo disprezzo. Spaventato, abbracciai la bambina. Mi scoppiavano le tempie e non potevo quasi parlare quando affrontai mia moglie per chiederle dov'era quando Margaret era uscita di casa, come mai non si era accorta della sua assenza per tante ore. Mi rispose con le mani sui fianchi furiosa quanto me, adducendo che il vicino era un disgraziato e la odiava perché i gatti si erano mangiati il suo canarino, che non mi doveva delle spiegazioni, dopo tutto lei non mi chiedeva dove stessi tutto il giorno; Margaret era molto indipendente per la sua età e lei non era disposta a sorvegliarla come un carceriere né a tenerla legata con una corda, come facevo io con i bambini che mi affidavano, e continuò a brontolare finché non la sopportai più e uscii dalla stanza sbattendo la porta. Poi feci una lunga doccia fredda per levarmi dalla mente le diverse disgrazie che sarebbero potute capitare a Margaret in quelle due maledette miglia, ma non fu sufficiente, perché durante la festa continuavo ad essere irritato con Samantha. Andai sulla terrazza con un bicchiere di vino e mi abbandonai su di una seggiola, di cattivo umore, un po' nauseato e stufo della monotonia della musica di Katmandu che arrivava dalla sala. Feci il conto del tempo perso in quella noiosa riunione, entro la settimana dovevo affrontare gli esami finali e ogni minuto di studio era prezioso. In quella arrivò Timothy Duane che, vedendomi, avvicinò un'altra seggiola e si sistemò accanto a me. Avevamo poche occasioni di restare soli. Notai che negli ultimi anni era dimagrito e i suoi tratti sembravano segnati con lo scalpello, non aveva più quell'aria ingenua che, nonostante le sue fanfaronate, era parte del suo fascino quando ci conoscemmo. Trasse di tasca un tubetto di vetro, si mise della cocaina sul dorso della mano e la aspirò rumorosamente, poi me ne offrì, ma io non posso prenderla, mi ammazza, l'unica volta che l'ho provata ho sentito che mi affondavano un pugnale gelido tra gli occhi, il mal di testa mi è durato tre giorni e del paradiso promesso non mi ricordo. Tim mi disse di rientrare perché stavano organizzando un gioco, ma io non avevo il minimo interesse a vedere nuovamente tutti in costume adamitico. "È una cosa diversa. Ci scambieremo le mogli," insistette. "Tu non hai moglie, che io sappia." "Ho sposato un'amica."
"Ha un aspetto da puttana la tua amica." "Lo è," e rise trascinandomi in salotto. Gli uomini si erano riuniti attorno alla tavola della sala da pranzo, chiesi delle donne e mi informarono che aspettavano in macchina. Sembravano nervosi, si davano pacche sulla schiena, dicevano battute a doppio senso e se ne compiacevano con grandi risate. Spiegarono le regole: proibito tirarsi indietro, esclusi i pentimenti e i tentativi di cambio. Spensero la luce, misero le chiavi su un vassoio, qualcuno le mescolò e ogni partecipante ne prese una a caso. Malgrado la nebbia dell'alcool e lo sconcerto che mi impedì di precipitarmi sul vassoio come gli altri, quando accesero la luce vidi chiaramente il mio portachiavi in mano a un dentista un po' panciuto e pedante, considerato una piccola celebrità perché toglieva i denti con aghi cinesi infilati nei piedi come unica anestesia. Presi l'ultimo portachiavi, con la voglia di afferrare il dentista per il vestito e rovesciargli la faccia con uno di quei precisi pugni che mi aveva insegnato Padre Larraguibel nel cortile della Chiesa di Lourdes, ma il timore di mostrarmi ridicolo mi trattenne. Gli altri andarono verso le macchine tra risate e battute, e io me ne andai in cucina a mettere la testa sotto un getto d'acqua fredda per scacciare lo stordimento. Presi da un thermos un avanzo di caffè e mi sedetti su uno sgabello rievocando i tempi in cui la vita era più semplice e chiunque ne capiva le regole. Poco dopo mi trovò lì la compagna che mi era toccata in sorte, una bionda lentigginosa e simpatica, madre di tre figli e professoressa di matematica in una scuola primaria, l'ultima persona con cui mi sarebbe venuto in mente di compiere un adulterio. Ti sto aspettando da un pezzo, mi disse con un sorriso timido. Cercai di spiegarle che non stavo bene, ma lei credette che la respingessi perché non mi piaceva, parve ritirarsi nel vano della porta come una bambina colta in fallo. Le sorrisi meglio che potei e si avvicinò, mi prese per mano, mi aiutò ad alzarmi e mi condusse all'auto con un insieme di delicato pudore e di decisione che mi disarmò. Guidò verso casa sua. Trovammo i suoi figli addormentati davanti alla televisione, li portammo in braccio ai loro letti. La mia amica gli mise i pigiami, li baciò in fronte e restò con loro finché non si riaddormentarono. Andammo poi in camera da letto, dove la fotografia del marito vestito con la toga del dottorato presiedeva dal cassettone. Lei disse che si sarebbe messa qualcosa di più comodo e scomparve nel bagno, mentre io preparavo il letto sentendomi come un idiota perché non potevo levarmi dalla testa Samantha e il dentista e chiedendomi perché diavolo non ero capace di partecipare a quei giochi con la disinvoltura degli altri, e perché mi suscitavano tanta rabbia. La bionda tornò senza trucco e
spazzolandosi i capelli, con indosso una vestaglia imbottita color gelato alla fragola, perfetta per una madre che si alza all'alba per preparare la colazione alla famiglia, ma ben poco adatta alla circostanza. Non vi era nessuna civetteria nei suoi gesti, come se fossimo una coppia sposata da molto tempo che sbriga le ultime faccende prima di andare a letto dopo una giornata di lavoro. Si sedette sulle mie ginocchia e incominciò a sbottonarmi la camicia. Aveva un sorriso invitante, il naso all'insù e un odore fresco di sapone e pasta dentifricia, però non mi dava nessuna eccitazione. Le dissi che mi scusasse, che avevo bevuto molto e l'allegria mi infastidiva. "La verità è che non so perché sono venuto. Non mi piacciono questi giochi, non mi piacciono per niente e credo nemmeno a Samantha," le confessai infine. "Cosa dici?" e scoppiò a ridere divertita. "Tua moglie va a letto con diversi tuoi amici e pare anche con qualche tua amica, perché non ti diverti un po' anche tu?" Non furono tempi buoni per me. La mia vita è stata un succedersi di ostacoli, ma adesso, a cinquant'anni, quando guardo indietro e tiro le somme degli sforzi e delle disgrazie, credo che quel periodo sia stato il peggiore perché qualcosa cambiò nel mio animo e io non fui più lo stesso. Penso che, prima o poi, l'ingenuità si perda. Forse è bene, perché non si può andare per il mondo come un ingenuo, con la pelle scoperta e senza difese. Sono cresciuto lottando per le strade. Avrei dovuto indurirmi molto tempo prima, ma non è stato così. Adesso, che ho superato già tanti dolori e posso leggere il mio destino come una mappa piena di errori, quando non sento nessuna compassione di me stesso e posso passare in rassegna la mia esistenza senza sentimentalismi, perché ho trovato una relativa pace, lamento soltanto la perdita dell'innocenza. Mi manca l'idealismo della gioventù, del tempo in cui esisteva ancora per me una chiara linea divisoria tra il bene e il male e credevo che fosse possibile agire sempre in accordo con princìpi inamovibili. Era una posizione poco concreta e poco realistica, lo so, ma in questa intransigenza c'era una limpida passione che ancora mi commuove quando la trovo in altri. Non posso dire in che momento incominciai a cambiare e mi trasformai nell'uomo duro che sono oggi. Sarebbe facile attribuire tutto alla guerra, ma in realtà il deterioramento incominciò prima. Potrei anche dire che la professione dell'avvocato richiede una buona dose di cinismo, non conosco nessuno che ne sia libero, ma anche questa è una risposta parziale. Carmen dice di non preoccuparmi, che per quanto io sia cinico, non lo sarò mai abbastanza
per vivere in questo mondo e poi questi dubbi che ho sono pure sciocchezze, nonostante le apparenze continuo a essere lo stesso animaletto rude e battagliero ma dal cuore buono che lei adottò come fratello tanto tempo fa, ma io mi conosco bene e so come sono dentro. Colleghi, donne, amici e clienti mi hanno tradito, ma per nessun tradimento ho sofferto tanto come per quello di Samantha, perché non me lo aspettavo. Da allora diffido sempre, non mi sorprendo più quando qualcuno mi inganna. Quella notte non tornai a casa. Tolsi la vestaglia di gelato alla fragola alla professoressa di matematica e rotolammo sul letto matrimoniale. Non deve avere conservato un buon ricordo di me, certamente si aspettava un amante fantasioso ed esperto e si trovò con uno che voleva risolvere la cosa il più presto possibile. Dopo mi rivestii e camminai fino all'appartamento di Joan e Susan, dove arrivai alle tre della mattina, esausto e con la faccia di chi ha bevuto. Mi appesi al campanello per diversi minuti, fino a che comparvero in camicia da notte e scalze. Mi accolsero senza fare domande, come se fossero abituate a ricevere visite a quell'ora. Mentre una mi preparava una tazza di camomilla, l'altra improvvisò un letto sul sofà del salotto. Devono aver messo qualcosa nella camomilla, perché mi risvegliai dodici ore dopo col sole sul viso e il cane delle mie amiche accovacciato ai miei piedi. Credo che in quelle ore di sonno sia finita la mia gioventù. Quando mi alzai avevo nella mente e nel cuore le decisioni che avrebbero guidato la mia vita negli anni futuri, anche se in quel momento lo ignoravo. Adesso che posso guardare il passato da una certa prospettiva, mi rendo conto che in quell'istante iniziai ad essere la persona che fui per molto tempo, un uomo arrogante, frivolo e avido, che ho sempre detestato e da cui mi è costato tanto liberarmi. Rimasi cinque giorni con le mie amiche senza prendere contatto con Samantha. Si davano il turno per farmi compagnia e ascoltare pazientemente il racconto mille volte ripetuto delle mie nostalgie, disperazioni e lamentele. Il venerdì mi presentai agli esami finali senza ansia, perché non mi facevo illusioni, il titolo di avvocato non mi interessava, in realtà provavo una profonda indifferenza per il futuro. Un paio di mesi dopo mi avvertirono dall'altro capo del mondo che avevo ottenuto la laurea al primo tentativo, cosa che capita raramente in questa corrotta professione. Dopo l'esame andai direttamente all'ufficio di reclutamento delle Forze Armate. Avrei dovuto fare sedici settimane di addestramento, ma la guerra era al culmine e il corso era stato ridotto a dodici. Sotto alcuni aspetti quei tre mesi furono peggiori della guerra
stessa, ma ne uscii con novanta chili di muscoli, la resistenza di un cammello e completamente abbrutito, pronto a strozzare la mia stessa ombra, se me lo avessero ordinato. Due giorni prima di imbarcarmi il computer mi selezionò per l'Istituto di Lingue a Monterrey. Penso che l'essere cresciuto nel quartiere messicano e l'essere abituato al russo di mia madre e all'italiano delle sue opere mi abbia sviluppato l'orecchio. Restai quasi due mesi in un paradiso di coste scoscese con foche che prendevano il sole sulle rocce, case vittoriane e tramonti da cartolina, studiando a tempo pieno la lingua vietnamita con professori che si alternavano ogni ora e con la minaccia che, se non avessi imparato rapidamente, sarei stato processato per tradimento alla patria. Alla fine del corso masticavo la lingua meglio della maggior parte dei miei compagni. Partii per il Vietnam accarezzando la segreta fantasia di morire per non dovere affrontare le fatiche e i dispiaceri dell'esistenza. Ma morire è molto più difficile che vivere.
TERZA PARTE
Gente. La guerra è gente. La prima parola che mi viene in mente quando penso alla guerra è gente: noi, i miei amici, i miei fratelli, tutti uniti nella stessa disperata fraternità. I miei compagni. E gli altri, quegli uomini e donne minuti, dai visi indecifrabili, che devo odiare, ma non posso, perché nelle ultime settimane ho imparato a conoscerli. Qui tutto è in bianco e nero, non ci sono mezze tinte né ambiguità, è finita la manipolazione, l'ipocrisia, l'inganno. Vita o morte, uccidi o muori. Noi siamo i buoni e loro i cattivi, senza queste certezze siamo fottuti e in un certo modo questo delirio è riposante, è una delle virtù della guerra. In questo buco arriva di tutto, neri che fuggono dalla miseria, contadini poveri che credono ancora nel sogno americano, latini arsi da una rabbia di secoli, aspiranti eroi, psicopatici e altri come me, che fuggono da sconfitte o colpe, ma in combattimento siamo uguali, il passato non ha importanza, la grande esperienza democratica è una palla. Dobbiamo provare ogni giorno che non siamo uomini, siamo guerrieri, resistere, sopportare il dolore e il disagio, non lamentarci mai, uccidere, stringere i denti e non pensare, non indagare, ubbidisci, per questo ci hanno domati come i cavalli, ci hanno allenato a forza di calci, insulti e umiliazioni. Non siamo individui in questo tragico teatro della violenza, siamo macchine al servizio della fottuta patria. Uno fa qualsiasi cosa per sopravvivere, quando ho ucciso mi sento bene perché almeno per questa volta sono vivo. Accetto la follia e non tento di spiegarla, semplicemente mi aggrappo alla mia arma e sparo. Non pensare, per non confondersi ed esitare, se lo fai muori, è la legge chiara della guerra. Il nemico non ha volto, non è umano, è un animale, un mostro, un demonio, se potessi crederlo nel profondo del cuore sarebbe più semplice, ma Ciro mi ha insegnato a mettere tutto in discussione, mi ha costretto a chiamare le cose col loro nome: uccidere, assassinare. Ero venuto qui per scuotere via l'indifferenza e immergermi in qualcosa di appassionante, ero venuto con atteggiamento cinico, disposto a collezionare esperienze temerarie per dare un senso alla vita. Ero venuto per colpa di Hemingway, in cerca della virilità, del mito del macho, di una definizione della mascolinità, orgoglioso dei miei muscoli e della resistenza acquisita negli addestramenti, intento a dare prove del mio
coraggio, perché dentro di me ho sempre avuto il sospetto di essere un vile, e a dimostrare la mia forza d'animo, perché ero stanco di essere tradito dai sentimenti. Un tardivo rito di iniziazione. Nessuno a ventotto anni è disposto a questa rovinosa esperienza. I primi quattro mesi furono come un gioco fatale, una scommessa continua contro me stesso, mi osservavo da una certa distanza e mi giudicavo con ironia, il passato mi perseguitava e cercavo il rischio più estremo, il dolore, la stanchezza, l'abbrutimento e allora, quando raggiungevo il limite, non potevo più sopportarlo. La droga aiuta. Però improvvisamente un giorno mi risvegliai sentendomi profondamente vivo, più vivo di quanto fossi mai stato, innamorato di questa fiammata che è l'esistenza. Compresi di essere assolutamente mortale, un guscio d'uovo, una cosa insignificante che in un attimo si trasforma in polvere e di cui non rimane neppure il ricordo. Quando arrivano i nuovi contingenti vado a guardare gli uomini, li esamino accuratamente, ho sviluppato un sesto senso per leggere i segnali, so chi morirà e chi forse no. I più spacconi e temerari moriranno per primi perché si credono invincibili, è la superbia che li uccide. Anche i più spaventati moriranno perché restano paralizzati o frastornati, sparano alla cieca e possono colpire un compagno, non conviene stargli vicino, non li voglio nel mio plotone. I migliori se ne stanno calmi, non cercano di attirare l'attenzione, hanno una tremenda voglia di vivere. Mi piacciono i latini, esteriormente sono silenziosi e bruschi, come dinamite dentro, esplosivi, terribili, la morte non li spaventa. Non sono soltanto coraggiosi, sono anche buoni camerati. Inghiotto manciate di pillole di anfetamina, tutte in un colpo, un pugno nello stomaco, il gusto amaro in bocca, parlo così veloce che non so quello che dico, dopo un po' non riesco più a parlare, mastico un chewing gum per non morsicarmi la lingua, poi mi stordisco con l'alcool e i sonniferi per poter dormire un po'. Sogno fiumi di sangue, mareggiate di benzina in fiamme, ferite aperte, labbra di donne, vulve, pile di morti, teste mozzate, bambini bruciati dal napalm, quelle ripugnanti fotografie che i soldati collezionano, tutto in rosso, solo rosso. Ho imparato a dormire a intervalli, cinque o dieci minuti non appena è possibile, buttato da qualche parte, avvolto nella mia mantella di plastica, sempre i sensi all'erta. Mi si è sviluppato l'udito, posso udire le zampe di un insetto che striscia a terra, l'olfatto si è affinato, posso annusare i guerriglieri a diversi metri di distanza, mangiano salsa di pesce e quando sono spaventati e sudano, l'odore si diffonde. Qual è il nostro odore? Di lozione da barba, credo, perché la beviamo come se fosse whisky, ha il quaranta per cento di
alcool. Quando riesco a dormire un paio d'ore senza incubi mi ritrovo come nuovo, ma non sempre è possibile. Se non sono di guardia o in qualche missione, passo la notte al campo, battendo i denti sotto un telo inzuppato di pioggia in una tenda puzzolente di orina, stivali, umidità, avanzi decomposti delle razioni, sudore, ascoltando le diligenti corse dei ratti e i movimenti abituali degli uomini, tra le zanzare che s'infilano anche in bocca. A volte mi sveglio piangendo come un imbecille, come rideva di me Juan José, quante volte mi ha portato in un angolo del cortile della scuola perché gli altri non mi vedessero piangere, zitto, finocchio gringo, gli uomini non piangono, mi scuoteva furioso, e visto che le minacce ben lungi dal risolvere il problema, lo peggioravano, provava a supplicarmi che per favore tacessi, fallo per quello che ami di più, amico, prima che ci prendano tutti e due a calci come donnicciole. Per ricominciare a funzionare prendo delle aspirine col caffè, freddo, naturalmente, mi fumo la prima erba della giornata, e prima di uscire mi ingoio le anfetamine. Ho nostalgia di cibo caldo, di una doccia, di una birra gelata, sono stufo di queste razioni che ci lanciano dall'aria in pacchetti azzurri e gialli, fagioli e maiale e insalate di frutta. Qui ritorno bambino, è una strana sensazione, uno non ha alcuna responsabilità verso se stesso, nessuno chiede nulla, solo di ubbidire, benché in realtà mi costi parecchio, io so dare ordini, non ubbidire alla cieca, non sarò mai un buon soldato. È facile passare inosservati, cancellarsi come un'ombra. A meno che uno non commetta una stupidaggine fuori del comune i giorni passano uno dietro l'altro con l'unico scopo della sopravvivenza, questa tremenda macchina invincibile si fa carico di tutto, chi sta in alto prende le decisioni e si suppone che sappia farlo, non mi preoccupo, posso scomparire tra le file, sono uguale agli altri, sono un numero senza volto, senza passato e senza futuro. È come impazzire, si fluttua nel limbo di un tempo eterno e di spazi tortuosi, nessuno può chiedermi conto di nulla, basta che io svolga i miei compiti e per il resto posso fare quello che mi pare. Niente è più pericoloso che sentirsi superiore, rimani solo come un cane, mi avvertì Juan José quel giorno sulla spiaggia, attraverso il fumo di uno spinello di marijuana intriso d'oppio. Certo, l'unica cosa che ti salva è l'ostinata fratellanza dei soldati. Provo un furioso rimpianto, voglia di piangere per il dolore accumulato, mio e degli altri, di afferrare una mitragliatrice e mettermi ad uccidere, non ce la faccio più dalla voglia di ululare fino a che l'intero universo non salti in aria, ho in fondo alla gola un inarrestabile tremito. Sei pazzo, amico, in guerra non c'è pietà. Incontrai Juan José sulla spiaggia durante un permesso di un paio di giorni, un miracolo che tra mezzo
milione di combattenti ci trovassimo nello stesso posto nel medesimo tempo. Ci abbracciammo senza riuscire a credere a una tale combinazione che fortuna fantastica incontrarci qui, fratello, e ci davamo delle pacche sulla schiena e ridevamo, felici, dimenticando per un attimo dove eravamo e perché. Tentammo di aggiornarci sul passato, compito impossibile dato che non ci vedevamo da dieci anni, da quando lui entrò nelle Forze Armate e andava pavoneggiandosi nella sua uniforme, mentre io ero diventato un operaio da un dollaro e cinquanta all'ora. Ognuno andò per la sua strada, lui al suo destino di soldato e io a lavorare come schiena bagnata per un anno, fino a che Ciro non mi costrinse a uscire dal quartiere. Non penso di continuare nel miserabile garage di mio padre, amico, mi disse Juan José in quell'occasione, il mio vecchio è un negriero, il militare è l'unica cosa che posso fare, presto servizio in questo puttanaio fino a trentotto, quarant'anni, poi vado in pensione con una buona somma e il mondo è mio, amico, cos'altro posso fare con il colore della mia pelle e la mia faccia da indio? e poi le donne adorano le divise. Ridevamo come matti sulla spiaggia. Ti ricordi quando rubavamo i sigari a Piffero Azzurro e il vino della messa a padre Larraguibel? e delle battaglie con sterco di cavallo? e quando abbiamo tosato Oliver, gli abbiamo messo mercurio-cromo e lo abbiamo portato a scuola inventandoci che aveva la peste bubbonica? Che cazzo è la peste bubbonica fratello? Con quell'affetto brusco e dissimulato, quella rudezza punteggiata da parolacce e buone intenzioni con cui ci trattavamo da bambini. Mi raccontò che si era innamorato di una ragazza vietnamita e nel mostrarmi una fotografia che teneva in una busta di plastica nel portafoglio, si fece serio e cambiò voce. Era una di quelle istantanee di pessima qualità, sovraesposta, dove il viso della donna pareva una luna pallida incorniciata dall'ombra dei capelli. Mi colpirono gli occhi, per il resto mi sembrò uguale a tanti altri visi asiatici che avevo visto in quei mesi. "Si chiama Thui," mi disse. "È un nome da folletto." "Significa acqua." Avevo sentito delle voci sul mio amico, i soldati parlano, le battute passano sottovoce. Mi confermò quello che si diceva in segreto: una missione difficile, l'ufficiale che guidava il plotone era nuovo, si videro circondati, cominciò il fuoco, cinque caddero e l'ufficiale ordinò di ritirarsi senza portare via i feriti. Senti che cornuto, amico, come potevamo lasciarli lì, immagina di esserci rimasto tu, non ti lascerei in mano al nemico, tentai di spiegarglielo, ma quel figlio della sua fottuta madre era
isterico, fratello, tirò fuori la pistola e ci minacciò, gridava e muoveva le braccia in modo incontrollato. Io non aspettai che si calmasse, gli sparai a bruciapelo. Cadde senza rendersene conto. Battemmo in ritirata portando i nostri, così come dev'essere, amico. Li salvammo tutti meno uno, che non aveva scampo, gli erano uscite fuori le viscere. Povero ragazzo, si teneva gli intestini con le mani e mi guardava disperato, non lasciarmi vivo, mia Buona Stella, non lasciarmi, supplicò... E dovetti tirargli una pallottola nella tempia, che Dio mi perdoni, è una maledetta fottitura, fratello. I corpi dovrebbero stare in sacchi col nome su un'etichetta, ma non sempre si eseguono le formalità, non c'è tempo o non ci sono i sacchi, li afferrano per i polsi e per le caviglie e li gettano dentro gli elicotteri, oppure li legano come pacchi, avvolti nei loro mantelli, coperti di mosche; in poche ore i corpi sono gonfi, deformi, mangiati dalle larve, ribollenti nel calore della decomposizione. Gli elicotteri sono uccelli che generano vento, atterrano in un vortice sollevando polvere, immondizie e fango lurido per un raggio di trenta metri. Quando i morti sono rimasti per molte ore in attesa nel calore o nella pioggia, dal vortice escono pezzi di carne e se sei vicino possono colpirti in faccia. Sulla montagna rifiutai di portare su i corpi. Aiutai i feriti, ma poi impietrii e nessuno osò darmi ordini, pare che io fossi al di là della vita e della morte, squinternato. Crisi nervosa, sindrome psicotica, non ricordo il nome che le diedero. Lavano gli elicotteri con le pompe, ma l'odore non va via. Neppure l'eco delle grida, i morti non se ne vanno mai del tutto. Non sto piangendo, è la maledetta allergia o il fumo, va' a sapere, ho sempre gli occhi irritati, uno vive respirando porcherie. Ogni volta ringrazio per non essere uno di quelli che viaggiano nei sacchi di plastica, o peggio ancora, uno degli altri, di quelli che hanno il petto aperto come un frutto scoppiato, moncherini rossi al posto delle braccia o delle gambe, ma ancora vivono, e forse continueranno a vivere per molti anni, sempre perseguitati dai brutti ricordi. Grazie per essere ancora vivo, grazie mio Dio, gridavo in inglese, là sulla montagna, angelo custode, dolce compagno, non lasciarmi né di giorno né di notte, aggiungevo in spagnolo, però nessuno mi ascoltava, io stesso non potevo udirmi tra il fuoco della battaglia e gli ululati dei feriti, fottuta madre di Dio tirami fuori di qui, gridavo con lo scapolare della Vergine di Guadalupe al collo, un pezzetto di stoffa nero e indurito dal sangue secco di Juan José. Me lo aveva dato un cappellano diverse settimane dopo che uccisero mio fratello. Toccò a lui chiudergli gli occhi, mi disse che aveva già il colore grigio dei fantasmi quando si tolse lo scapolare e gli chiese di consegnarmelo perché mi portasse fortuna, per
cercare di farmi uscire vivo da qui. Quali sono state le ultime parole? È stata l'unica cosa che mi venne in mente di chiedere al cappellano. Sorreggimi, Padre, che sto per cadere, sorreggimi perché laggiù è tanto buio, sono le ultime parole che hai detto, fratello, e io non ero lì ad ascoltarti e tenerti forte e a strapparti alla morte a strattoni, merda, maledetta merda! A che cosa ti è servito lo scapolare, fratello! Uno qui perde la fede, però diventa superstizioso e incomincia a vedere segni fatali dappertutto: il martedì è giorno sfortunato, sono giusto sette giorni che non succede niente, è la calma prima della tempesta, gli aerei cadono sempre tre alla volta e oggi ne sono già caduti due... Vivrai fino alla vecchiaia, Greg, avrai il tempo di commettere tanti errori, di pentirti di alcuni e di soffrire come un dannato, non sarà una vita facile, però ti garantisco che sarà lunga, così sta scritto nelle linee della mano e nei tarocchi, mi giurò Olga, ma può esserselo inventato, lei non sa niente, è una ciarlatana peggio di mio padre, peggio di tutti gli indovini e venditori di amuleti di questo dannato paese. Anche a Juan José Morales aveva detto la stessa cosa e lui ci aveva creduto, bisogna vedere che accidente eri, fratello. Era sicuro della sua buona sorte, per questo non era prudente, la sua fiducia era così contagiosa che due tipi del suo plotone facevano il possibile per non staccarsi dal suo fianco, convinti che con lui si sarebbero salvati. Adesso nessuno dei tre può andare da Olga a protestare. La giungla è piena di rumori, di fischi di animali, di zampate, fruscii, mormorii, il bosco invece è silenzioso, un silenzio opaco. Suppongo che dall'alto tutto sembri pulito, purificato dal fuoco, ma sotto è un inferno. Col tempo uno si abitua: la peggiore perversione, la più grande oscenità della guerra sembrano cose normali. All'inizio ero confuso, poi euforico, ma sempre con la coscienza addormentata. Adesso, nel villaggio, ho ricominciato a pensare In battaglia non bisogna pensare, uno si trasforma in una macchina di distruzione e di morte. Nessuno vuole i tipi educati, critici, coscienti, servono solo i macho che scoppiano di testosterone, i neri analfabeti, i criminali fatti uscire di prigione per essere portati lì, i tipi come me sono zavorra. Dopo ogni missione i muscoli mi tremano, non riesco a controllare le mani, ho i denti stretti e un tic al viso, come un sorriso ebete, ce l'hanno in tanti, poi passa, dicono. In questi mesi mi sono abituato alle ossa inzuppate, ai piedi piagati dentro gli stivali, alle dita rattrappite sul fucile, a quella sensazione continua di essere circondati da ombre, di aspettare il colpo di grazia che arriverà in un qualunque momento da qualunque parte, contando i passi che mancano per raggiungere quell'arbusto, i minuti per arrivare al fiume, le ore per finire il
turno, i giorni perché scada il mio tempo e me ne torni a casa. Contando i secondi di vita e considerando che se avrò molta fortuna, la prossima raffica di mitraglia ucciderà non me ma un compagno. E domandandomi che cazzo faccio qui, senza voler ammettere neppure nel più intimo dell'intimità lo strano fascino della violenza, questa vertigine della guerra. Quel mattino sulla montagna vedemmo che solo in nove eravamo vivi, i morti e i feriti non si potevano contare. Avevamo combattuto tutta la notte. Alle prime luci dell'alba giunsero i bombardieri e irrorarono i pendii, costringendo i guerriglieri a ritirarsi, poi atterrarono gli elicotteri. Il rombo dei motori fu per me una musica, i battiti del cuore di mia madre quando ancora non ero nato, tic-tac tic-tac, vita. Preghiamo dice il cappellano metodista e gli altri cantano Alleluja mentre io canto Oh Susanna: confessati, figliolo, mi dice il cappellano cattolico e io gli dico che vada a confessare quella troia di sua madre, ma poi mi pento, non sia mai che mi colpisca un fulmine, come dice Padre Larraguibel e mi becchi in peccato mortale. Non temere, Dio è con te. Nella predica di domenica hanno letto la storia di Giobbe. Gravato dalle disgrazie con cui il Signore lo mette alla prova, Giobbe dice: "Ciò che temo, ecco che arriva, ciò che mi atterrisce, quello mi capita, non ho tregua, il turbamento si è impadronito di me". Non pensare cose brutte, fratello, perché succedono, non bisogna attirarci le disgrazie col pensiero, mi consigliava Juan José Morales, sempre sorridendo. Buona Stella, chiamavano Juan José, Buona Stella Morales. È il fumo, certo. Ho la mente annebbiata. Fumo di tabacco, di erba, di hashish e di tutte le porcherie che fumo, nebbia delle albe fredde sulla montagna e del vapore delle valli a mezzogiorno, scarico dei motori e polvere, fumate fetide del napalm, del fosforo, degli innumerevoli esplosivi e dell'incendio senza principio né fine che sta trasformando questo paese in un deserto attraversato da nere cicatrici. Ogni genere di fumo di ogni colore. Dall'alto devono sembrare nuvole e a volte lo sono, qui sotto fa parte della paura. Non possiamo fermarci neppure un istante, nessuno può farlo, se ci muoviamo abbiamo l'illusione di burlare la morte, corriamo come ratti avvelenati. Il nemico, al contrario, sta calmo, si risparmia l'angoscia, attende in silenzio, ha più generazioni di allenamento al dolore, impossibile decifrare l'espressione immutabile di quei volti. Questi caproni non sentono nulla, sono come rospi da laboratorio, mi disse un Marine specialista nello strappare confessioni. Noi ci diamo da fare follemente per sopravvivere e per via ci troviamo faccia a faccia con la morte. Loro strisciano silenziosi nei loro tunnel, si mimetizzano tra il fogliame, scompaiono in un istante, hanno occhi per vedere di notte. Non
siamo mai al sicuro. Tira le somme, mi diceva Juan José Morales, quanti uomini sono venuti in questo puttanaio e quante sono le perdite? La percentuale è insignificante, fratello, ne usciremo sani e salvi, non preoccuparti. Penso che avesse ragione e che la maggioranza di noi vivrà per raccontarlo, ma qui pensiamo solo ai morti e alle storie atroci dei sopravvissuti. Sì, molti apparentemente ne escono illesi, ma nessuno è più quello di prima, restiamo segnati per sempre, ma chi se ne preoccupa, ad ogni modo siamo rifiuti, questa è una guerra di neri e bianchi poveri, ragazzi di campagna, dei piccoli villaggi, dei quartieri più miseri, i signorini non stanno in prima linea, i loro padri trovano il modo di farli restare a casa o i loro zii colonnelli li mandano in un posto sicuro. Mia madre sostiene che la più grave perversità è il razzismo, Ciro diceva che è l'ingiustizia di classe, hanno ragione entrambi, penso, neppure al momento di andare in guerra siamo uguali. Non si accettano né messicani né cani, avvertivano non molto tempo fa in qualche ristorante; soltanto per bianchi, stava scritto nei bagni pubblici; qui, invece, la gente di colore è benvenuta, molto benvenuta, ma dietro l'apparente cameratismo arde il rancore razziale, bianchi con bianchi, neri con neri, latini con latini, asiatici con asiatici, ciascuno con il proprio linguaggio, la propria musica, riti, superstizioni. Negli accampamenti vi sono frontiere inviolabili tra i quartieri, io non mi azzarderei a entrare in quello dei neri senza essere invitato, lo stesso che nel ghetto dove sono cresciuto, non è cambiato nulla. Ognuno ha le sue da raccontare, ma io non voglio ascoltare, non voglio amici, non posso concedermi il lusso di affezionarmi a qualcuno e poi vederlo morire, come Juan José o quel povero ragazzo del Kansas, là sulla montagna, voglio solo portare a termine il mio lavoro, finire la mia ferma e uscirmene vivo. Prego di essere ferito gravemente perché mi riportino a casa, non tanto però da restare invalido. Che almeno non mi colpiscano nelle palle, diceva ad ogni volo un pilota di elicottero, un allegro mulatto dell'Alabama che tornò al suo villaggio carico di medaglie e in una sedia a rotelle. Questa delle medaglie a me non capiterà mai, dicevo e me ne diedero una perché impazzii, sono un eroe di guerra, ho una miserabile stella d'argento, non avevo l'intenzione di far niente più del mio dovere, ho sempre detto che è meglio vivere come un vigliacco che morire come uno stupido, ma per una di quelle buffe ironie della sorte, adesso sono un merdoso eroe. Prima lezione del mio quartiere: non vi è alcun merito nell'eroismo, solo nella sopravvivenza. Ah, Juan José, come non lo sapevi se me l'hai insegnato tu stesso quando eravamo solo due mocciosi? E adesso come glielo spiego ai tuoi genitori e ai tuoi fratelli,
come diavolo faccio a guardare in viso tua madre e Carmen, come gli dico la verità, dovrò mentirgli, fratello, e continuerò a mentirgli perché non ho il coraggio di dirgli che ti hanno polverizzato metà corpo e che quelle decorazioni guadagnate col tuo coraggio, che certamente avranno consegnate a tua madre perché le appenda alla parete del salotto, sono solo stelle di latta dipinta e che nel momento della morte hai gridato: non significano niente. Conosco la violenza, è una belva impazzita, inutile ragionare con lei, bisogna cercare di ingannarla. Invidio i piloti, lassù scompari con eleganza, cadi come una pietra o esplodi in un milione di frammenti, senza neanche il tempo di pregare, come Martínez quando il treno lo infilzò, pachuco caprone, non lo odio neanche più, invece qui sotto in fanteria puoi finire in mille modi, infilzato sui pali appuntiti di una trappola, decapitato da un colpo di machete, fatto esplodere da una granata o da una mina, diviso a metà da una raffica di mitraglia, trasformato in torcia, senza contare tutte le ingegnose morti per chi cade prigioniero. Scavare un buco in terra e nascondermi lì finché tutto non sia finito, rifugiarmi in una tana, come facevo con Oliver quand'ero piccolo. Perché non ero capitato in un lavoro d'ufficio? Ci sono tanti individui che passano la guerra sotto un ventilatore; se fossi stato più scaltro non sarei qui, avrei fatto il servizio militare appena uscito dalle secondarie, per esempio, invece di rompermi le ossa come il più misero dei braccianti, allora nessuno parlava ancora di guerra. E adesso sono qui come un cretino, in un'età in cui nessuno si trova in questa maledizione, mi sento come il nonno di tutti questi fottuti ragazzi in tuta mimetica. Non mi interessa finire con le ossa tarlate sotto una croce del cimitero militare, uno fra migliaia di altri come me, preferisco morire vecchio tra le braccia di Carmen. Guarda, era tanto che non pensavo a Carmen. Perché ho detto Carmen e non Samantha? Perché ho avuto questo lampo nella mente? Nella sua ultima lettera mi ha annunciato un nuovo pretendente, mi pare che abbia detto cinese o giapponese, non dice il nome. Chi sarà questa volta? Ha un vero talento per scovare chi meno le conviene, deve essere un farfallone cencioso e capellone, anche in Europa ce ne sono a mucchi. Nell'ultima foto che mi ha mandato la si vede in piedi davanti alla cattedrale di Barcellona vestita da Ballerina di flamenco o qualcosa di simile, io non sono affatto puritano, però mi sono ricordato di Pedro Morales e le ho scritto dicendole che non ha più l'età per queste bambinate, che si levi quei panni e si metta un reggiseno, beh, che mi importa, sono fatti suoi, che si fotta, se è tonta. Carmen, mi piacerebbe udire la tua voce, Carmen.
Ho paura di essermi bevuto il cervello, di avere perso la nozione del bene e del male, della decenza. Mi sono talmente abituato all'infamia che non posso immaginare la realtà senza di essa. Cerco di ricordare come si divertono gli amici, come si condivide una colazione in famiglia, come si parla a una donna al primo appuntamento, ma tutto questo è sfumato e credo che non tornerà mai più. Il passato è un turbine di raffiche confuse, i concorsi di ballo con Carmen, mia madre nella sua poltrona di vimini che ascolta le opere, il duello con Martínez che fece di me il giovane eroe della scuola, cazzo, bisogna vedere le sciocchezze che uno fa a quell'età, nessuna ragazza mi resisteva e quando comprai la Buick mi imploravano, io ero più povero di un topo di sacrestia, ma mi procurai quel rottame sconquassato, al volante mi sentivo come uno sceicco, e sul sedile posteriore commisi non so quante peccaminose follie. Non andavamo oltre i palpeggiamenti, naturalmente, uno incominciava e la ragazza si difendeva, senza entusiasmo, non doveva collaborare usando la propria seduzione anche se moriva dalla voglia, furie che sembravano piuttosto battaglie di gatti, e ci lasciavamo entrambi esausti, ritirarsi in tempo che non succeda di metterla incinta, se vai a letto con lei devi sposarla, sei un cavaliere no? solo Ernestina Pereda lo faceva con tutti, benedetta Ernestina Pereda, Dio ti salvi santa Ernestina, a te piaceva da impazzire, ma dopo piangevi e bisognava giurarti di conservare il segreto, un segreto gridato ad alta voce, tutti lo sapevamo e approfittavamo del tuo ardore e della tua generosità, non fosse stato per te mi si sarebbe avvelenato il sangue per tante ossessioni. Qui le donne sono come bambine impuberi, magre, un mucchietto d'ossa, non hanno seni né peli in nessun posto e sono sempre tristi, suscitano più pietà che desiderio di andare a letto, l'unica cosa abbondante sono i capelli lunghi, quelle capigliature lisce e nere con fulgori di azzurro. Lo feci con una ragazza in una stanza piena di gente, la famiglia in un angolo mangiava e un bambino piangeva dentro una cassa di vettovaglie per l'esercito, noi nel letto, separati dagli altri da una tenda sottile, lei mi recitava una litania di oscenità in inglese imparate a memoria, c'è certamente un manuale per le porcherie, il Comando Supremo pensa a ogni particolare, se ci sono manuali per l'uso delle latrine, perché non dovrebbe essercene un altro per addestrare le prostitute, in fondo si tratta di bravi ragazzi, il cuore della patria, no? Zitta, disgraziata, la implorai, ma non mi capì o non volle tacere e la sua famiglia chiacchierava dall'altra parte della tenda e il bebé continuava a piangere. Ricordai di colpo qualcosa che avevo visto a cinque anni in un villaggio polveroso del sud, due uomini che violentavano una negretta, due giganti
avvinghiati a una povera creatura nera e piccola come quella che era con me, e mi sentii come uno di loro, enorme e diabolico, e mi passò la voglia, mi spompai completamente, non so perché mi ricordai in quel momento di qualcosa che era successo più di venti anni prima all'altra estremità del pianeta. Leo Galupi, quell'astuto incantatore, mi portò a vedere da la Nonna una delle curiosità locali, una donna d'età incalcolabile, tutta segnata dalle rughe, che si trascina sotto i tavoli del bar offrendo i suoi servizi, è una maestra, dicono, dopo essere passato per le sue mandibole da scimpanzé uno diventa esigente, le si danno dieci dollari e non ci si deve più dar da fare, si incarica lei di tutto, poi ti ripulisce pure e ti fa risalire la cerniera, procede a turno accogliendo tutta la clientela, affannandosi sotto il tavolo, mentre gli altri continuano a bere o a giocare a carte e raccontano barzellette volgari. Io non potei, mi vinse la ripugnanza o la pietà. La Nonna ha i capelli quasi bianchi, una vecchia per niente venerabile con bicipiti alla Charles Atlas e alcuni denti affilati come seghe, un momento o l'altro farà ciò che tutti temiamo, strappare il piffero a qualcuno con un violento morso, il rischio fa parte del gioco, ogni cliente teme che quando tocca a lui la vecchia si decida e... zac! Qui nel villaggio ho ripreso a sentirmi come un uomo. A turno mi invitano, un giorno in ogni casa, cucinano per me e la famiglia si sistema attorno per guardarmi mangiare, tutti sorridenti, orgogliosi di nutrirmi anche se non ne hanno abbastanza per sé. E ho imparato ad accettare ciò che mi offrono e a ringraziare senza esagerazioni, per non offenderli. Niente di più difficile che accettare con semplicità, non ricordavo più, dai tempi in cui abitavamo dai Morales non mi avevano dato nulla senza aspettarsi qualcosa in cambio, è stata per me una lezione di affetto e di umiltà, è impossibile passare attraverso la vita senza dover niente a nessuno. A volte uno degli uomini mi prende per mano, come una fidanzata, e ho anche imparato a non ritirare la mia. All'inizio mi vergognavo, gli uomini non si toccano, gli uomini non piangono, gli uomini non si commuovono, gli uomini, gli uomini... Da quanto tempo qualcuno non mi toccava per pura simpatia, per amicizia? No, devo ammorbidirmi, aprirmi, avere fiducia, se non ti prendi cura di te, muori. Non pensare, l'importante è non mettersi a cavillare, se ci si immagina la morte, questa arriva, è come una premonizione, ma non posso fare a meno di farlo, ho la testa piena di visioni di morte, di parole di morte. Voglio pensare alla vita. Alla fine di febbraio la compagnia si trovava sulla cima di una montagna
con l'ordine di difendere la postazione a qualunque costo. Nell'inchiesta successiva non risultò chiaro il motivo per cui gli uomini dovevano resistere come fecero, ma la burocrazia e il tempo si incaricarono di seppellire la questione sotto un manto di oblio. Qui moriremo tutti, disse tremando a Gregory Reeves un ragazzo del Kansas. Non era il battesimo del fuoco, aveva passato dei mesi al fronte, ma ebbe il preciso presentimento della fine e pensò che aveva appena avuto il tempo di prendere gusto alla vita, aveva compiuto vent'anni da meno di una settimana. Non morirai, non dirlo, lo scosse Reeves. I soldati aspettarono, scavando trincee e ammucchiando sacchi di terra e pietre per formare una barricata, non tanto per la speranza di proteggersi, quanto per allontanare la paura tenendosi impegnati, ma ad ogni modo l'attesa si fece eterna, tesi, angosciati, le armi in pugno, distrutti dal freddo dopo il tramonto e dal caldo durante il giorno. L'attacco scattò di notte e fin dal primo momento seppero che si trovavano di fronte un nemico dieci volte più numeroso e che non c'era via d'uscita. Poche ore dopo l'accampamento era una disperata trappola dove un pugno d'uomini resisteva ancora sperando, circondato dai corpi di più di cento compagni sparsi sui pendii. Nel fulgore di un'esplosione Gregory Reeves riuscì a vedere il soldato del Kansas che saltava in aria all'altro lato della barricata e, senza sapere quello che faceva né il perché, balzò oltre i sacchi e si trascinò verso di lui in un inferno di fuoco incrociato, di scoppi folgoranti e di fumo irrespirabile. Arrivò a sorreggerlo sulle braccia chiamandolo per nome, non preoccuparti, sono qui, non è successo niente, e sentì le mani aggrappate al suo vestito e la voce spezzata dai rantoli dell'agonia, e l'odore della paura, del sangue e della carne lacerata, e nel lampo di un altro scoppio gli vide la morte negli occhi e nel colore della pelle e poté anche vedere che non aveva più le gambe, a terra in una pozza nerastra. Non è niente, ti porterò dall'altra parte, arriveranno subito gli elicotteri e ben presto ce ne staremo a bere birra e a fare festa, coraggio. Non lasciarmi solo, ti prego, non lasciarmi solo, e Reeves avvertì che entrambi erano avvolti dalle tenebre e voleva strapparlo alla disperazione, ma gli svanì tra le mani come sabbia, si sminuzzò, si fece fumo, e quando ebbe il peso della sua testa sul petto e le mani lo lasciarono e l'ultimo fiotto di sangue caldo gli bagnò il collo, seppe che qualcosa gli si era rotto dentro in un milione di pezzi, uno specchio polverizzato. Con cura posò il compagno a terra e poi lanciò lontano la sua arma. Allora il suono terribile di una campana immensa rintoccò dentro di lui e un grido metallico uscì dalle sue viscere e scosse la notte, e per un istante vinse il fragore delle esplosioni, congelò il tempo e trattenne il
cammino del mondo. E continuò a gridare fino a che non gli restò più fiato né grido. Infine si dissolse l'eco della campana, ma il tempo rimase deformato e a partire da quell'istante fino all'alba tutto successe in una sola immagine fissa e immutabile, una fotografia in bianco e nero e rosso in cui gli avvenimenti della notte restarono fissati per sempre. In quel sanguinoso murale lui non c'è. Si reca tra i cadaveri e i feriti, tra i sacchetti di terra e nei solchi delle trincee, ma non si trova. È scomparso dalla sua memoria. Uno degli uomini, uscito dalla prigionia, raccontò poi di averlo visto gettare via l'arma e urlare in piedi, con le due braccia sollevate, come se invocasse un'altra raffica di colpi, e quando ebbe liberato dai polmoni quel lungo bramito, si voltò verso di lui, che a due metri di distanza stava dissanguandosi senza dolore, se lo caricò sulle spalle e così camminò, senza curarsi delle pallottole che fischiavano attorno a lui, in linea retta verso la cima, dove quattro mani si tesero per accogliere il ferito. Gregory Reeves tornò indietro in cerca di un altro compagno caduto e poi di un altro e per il resto di quella notte funesta li trasportò sotto una fitta mitraglia, con la certezza che, finché lo faceva, niente poteva accadergli, era invulnerabile. Mai prima nella sua vita e mai in seguito avrebbe provato una simile sensazione di potere assoluto. All'alba arrivarono gli aiuti. Gli elicotteri portarono via prima i feriti, poi i nove sopravvissuti e infine scaricarono i sacchi di plastica per i morti. Degli uomini che portarono in salvo, otto erano stremati per la tensione e il terrore, così tremanti nelle vesti inzuppate che non potevano tenere in mano la borraccia per bere un sorso di whisky, ma quando qualche ora dopo li deposero sulla spiaggia perché in tre giorni di svago e riposo si riprendessero da quell'orrore, già potevano parlare di quanto era successo e raccontarono i particolari. Immondi ed eccitati al limite della demenza, tutti assieme, gomito a gomito, famiglia di banditi disperati, si gettarono come animali sulle birre gelate e gli hamburger caldi che non vedevano da mesi, e quando qualcuno volle mettere un po' d'ordine, inscenarono una cagnara che per poco non degenerò in un'altra carneficina. Quando arrivò la polizia militare, vide le loro facce e seppe quello che avevano passato, tolse loro le armi e li lasciò andare per vedere se un po' d'acqua salata e di sabbia li avrebbe restituiti al mondo dei vivi. Il nono sopravvissuto, Gregory Reeves, fu l'ultimo a salire sull'elicottero, dopo avere aiutato gli altri. Restò rigido e muto al suo posto, con gli occhi fissi in avanti, la faccia segnata da solchi di profonda stanchezza, senza un graffio e completamente ricoperto di sangue non suo. Aveva i nervi a pezzi. Non fu possibile mandarlo in spiaggia, gli fecero un'iniezione e si svegliò dopo
due giorni in un ospedale di campagna, legato al letto perché non si facesse del male nella convulsione degli incubi. Gli dissero che aveva salvato la vita a undici compagni e che per i suoi atti di altissimo valore gli avevano concesso una delle più importanti onorificenze. Secondo i superstiziosi codici della guerra, i nove sopravvissuti usciti illesi dal massacro avevano trafugato i loro corpi alla morte, ma erano ormai segnati. Uniti non avevano la minima possibilità di sfuggire una seconda volta, ma separati potevano forse ingannare ancora il destino. Li destinarono a compagnie differenti, col tacito accordo di non ritrovarsi assieme per un certo tempo. D'altronde, nessuno lo desiderava, all'euforia di essersi salvati fece seguito il terrore di non sapersi spiegare perché erano stati gli unici fortunati tra più di cento uomini. Due dei feriti si ripresero in poche settimane e Gregory Reeves li incontrò in un paio di occasioni. Non gli rivolsero la parola, finsero di non riconoscerlo perché il debito era troppo grande, non potevano pagarlo e ciò provocava loro un senso di vergogna. Erano trascorsi diversi mesi da quando Reeves aveva messo piede in Vietnam, quando alfine i suoi superiori si ricordarono che parlava la lingua vietnamita e l'Intelligence Service lo destinò a un villaggio fra le montagne, come collegamento con la guerriglia alleata. La sua missione ufficiale era insegnare inglese nella scuola, ma nessun abitante aveva il minimo dubbio sul reale scopo del suo lavoro, sicché neppure lui si diede la pena di fingere. Il primo giorno di lezione arrivò con il suo fucile mitragliatore in una mano e una valigetta di libri nell'altra, attraversò la sala senza guardarsi attorno, posò il portadocumenti sul tavolo e si voltò verso gli allievi. Venti uomini di differenti età, piegati in un profondo inchino, lo salutarono. Non si inchinavano davanti a lui, ma davanti al maestro, per l'ancestrale rispetto di quel popolo nei confronti del sapere. Avvertì una vampata di sangue al viso, in nessun momento della guerra aveva sentito tanta responsabilità come allora. Lentamente tolse l'arma dalla spalla e camminò verso il muro per appenderla a un palo, poi tornò alla lavagna e si inchinò a sua volta per salutare gli allievi, ringraziando dentro di sé i suoi dodici anni di scuola e sette di università. Il corso di inglese, che all'inizio era solo un pretesto per raccogliere informazioni, fin dal primo giorno divenne per lui un pressante dovere, l'unico modo di ricompensare un poco gli abitanti del villaggio per il molto che da loro riceveva. Era alloggiato in una casa modesta, ma fresca e comoda, che era appartenuta a un funzionario del governo francese, la sola nel raggio di diverse miglia che fosse dotata di una latrina in fondo al cortile. Le
scorribande di gatti e topi sul tetto finirono per diventargli così familiari che quando la notte si calmavano momentaneamente si svegliava di soprassalto. Disponeva di molto tempo per preparare le lezioni, in realtà aveva ben poco da fare, la missione militare era qualcosa di ridicolo, la guerriglia alleata risultò essere un'ombra inafferrabile. Gli sporadici contatti erano surreali e i suoi rapporti finirono per diventare esercizi di divinazione. Comunicava ogni giorno via radio col suo battaglione, ma raramente poteva offrire delle novità. Si trovava in piena zona di combattimento, tuttavia a tratti aveva l'impressione che la guerra fosse un racconto di fatti lontani. Camminava tra le case dal tetto di paglia, calpestando fango ed escrementi di maiale, salutando ciascuno col suo nome, aiutando i contadini a spingere i pesanti aratri di legno tirati dai bufali per preparare le piantagioni di riso, le donne che con il loro corteo di bambini andavano a prendere l'acqua con grandi anfore, i bambini a lanciare gli aquiloni e a fare palloni di pezza. La sera vibrava dei canti delle madri che cullavano i loro piccoli e delle voci degli uomini nella loro lingua di gorgheggi e sussurri. Quei suoni segnavano il ritmo delle ore, erano la musica del villaggio. Riprese anche ad ascoltare, per la prima volta dopo un'eternità, la sua musica, si sistemava con le registrazioni dei suoi concerti e per qualche ora fantasticava che la guerra fosse solo un brutto sogno. Gli sembrava di essere nato fra quella gente tollerante e dolce, ma capace di impugnare un'arma e rischiare la pelle per difendere la propria terra. Dopo qualche tempo parlava la lingua in modo scorrevole, anche se con un accento duro che suscitava allegre risate, mai però nell'aula scolastica. Quelli che lo trattavano con familiarità quando lo invitavano a mangiare con loro, a scuola lo salutavano con riverenza. La sera giocava a carte con un gruppo di uomini, e usavano scambiarsi battute in veri duelli verbali intrisi di sarcasmo, in cui aveva sempre la peggio, perché mentre stava traducendo una battuta gli altri erano già passati a un altro scherzo. Doveva usare attenzione nel trattare con loro, c'era un limite indefinito tra gli scherzi usuali e un inviolabile protocollo imposto dal rispetto e dalle buone maniere. Apparentemente si trattavano da pari a pari, però esisteva un complesso e sottile sistema di gerarchie, ognuno difendeva il proprio decoro con orgogliosa determinazione. Erano ospitali e amichevoli, come le porte delle case erano sempre aperte per Reeves, così la gente andava a trovarlo senza preavviso e si fermava ore e ore in piacevole conversazione. L'abilità nel raccontare storie era la loro caratteristica più apprezzabile, c'era tra loro un anziano narratore capace di trasportare l'uditorio attraverso il paradiso o l'inferno, di commuovere gli
uomini rudi con i suoi racconti sentimentali, complicati intrecci di donzelle in pericolo e figli in disgrazia. Quando taceva, tutti restavano in silenzio per un lungo momento e poi lui stesso lanciava la prima risata burlandosi dei suoi ascoltatori, attoniti come bambini di fronte alla magia delle sue parole. Reeves si sentiva circondato da amici, un altro membro di una grande famiglia. Smise ben presto di sentirsi un gigante bianco, dimenticò le differenze di statura, cultura, razza, lingua e intenti e si abbandonò al piacere di essere come tutti. Una notte si sorprese a guardare la cupola nera del cielo e a sorridere di fronte all'evidenza che lì, in quel remoto paese dell'Asia, era l'unico posto dove si era sentito accettato come parte di una comunità in quasi trent'anni di vita. Scrisse a Timothy Duane chiedendogli una lista di materiali per le lezioni perché i suoi testi erano infantili e antiquati, e si mise in contatto con una scuola secondaria di San Francisco perché i suoi studenti scambiassero corrispondenza con i ragazzi americani. I suoi alunni raccontarono le loro vite in un paio di pagine scritte nel loro faticoso inglese e qualche settimana dopo ricevettero una busta dagli Stati Uniti con le risposte. Quella sera ci fu una festa per celebrare l'avvenimento. Tra le altre cose Timothy mandò una maschera per documentare la tradizionale festa annuale di Halloween, un muso di gorilla in gomma, con peli verdi, denti da pescecane e orecchie appuntite che si muovevano come gelatina. Reeves se la mise, si coprì il corpo con un lenzuolo e uscì saltellando sulla strada con una torcia accesa in ciascuna mano senza immaginare l'effetto terrorizzante del suo scherzo. Scoppiò una confusione paragonabile a quella provocata da un attacco aereo, donne e bambini fuggirono verso la foresta con urla assordanti e gli uomini che riuscirono a superare lo spavento, si organizzarono per attaccare il mostro con bastoni. Il gorilla dovette correre per salvarsi, impicciato dal lenzuolo, mentre cercava di strapparsi via la maschera. Riuscì a farsi riconoscere appena in tempo, ma non prima di avere ricevuto diverse pietrate. La maschera divenne il trofeo più apprezzato dalla gente, i curiosi facevano la fila per ammirarla da vicino e toccarla con un dito esitante. Reeves pensò di darla in premio al miglior allievo del suo corso, però di fronte a un simile incentivo furono in molti a prendere il voto più alto, cosicché decise di consegnare quel tesoro alla comunità. Il viso di King Kong finì nella Casa Municipale, assieme a una bandiera insanguinata, una cassetta di pronto soccorso una radio e altre reliquie. In cambio regalarono al maestro di inglese un piccolo drago di legno, simbolo di prosperità e fortuna che, paragonato al mostro di gomma, sembrava un cherubino.
L'illusoria tranquillità di quei mesi nel villaggio terminò per Reeves prima del previsto. I primi sintomi del male erano simili a quelli della dissenteria, diede la colpa all'acqua inquinata e ai cibi inusuali, e si limitò a chiedere medicinali via radio. Gli mandarono una cassetta con diversi flaconi e uno stampato con le istruzioni. Incominciò col far bollire l'acqua, rifiutò gli inviti cercando di non sembrare maleducato, e prese metodicamente le medicine. Per qualche giorno si sentì meglio, ma poi il malessere ricominciò con maggior violenza. Pensò che fossero i postumi del disturbo precedente e non si preoccupò, disponendosi a uccidere il virus con l'indifferenza, non era il caso di piagnucolare come una vecchietta, gli uomini non si lamentano, amico, ma peggiorava a vista d'occhio, calò di peso, le ossa gli dolevano, gli costava una fatica esagerata alzarsi dal letto e sforzare la vista sullo scritto per preparare le lezioni o correggere i compiti degli allievi. Rimaneva col gesso in mano, senza la forza di sollevare il braccio, fissando la superficie nera della lavagna con aria assorta, senza sapere che cosa significassero le zampe di gallina scritte da lui stesso né che cosa fosse quel calore ardente che lo consumava dentro. Is this pencil red? No, this pencil is blue, e non riusciva a ricordare di che matita si trattava né a chi poteva importare un corno che fosse rossa o azzurra. In meno di due mesi perse diciotto chili e quando qualcuno osservò che stava rimpicciolendo e prendendo il colore della zucca, replicò con un debole sorriso che una buona spia deve mimetizzarsi nell'ambiente. Ormai nessuno nel villaggio faceva mistero dei suoi messaggi in chiave e lui stesso azzardava battute in proposito. La gente considerava la sua presenza l'inevitabile conseguenza della guerra, non si trattava di qualcosa di personale, se non fosse stato Reeves, sarebbe stato un altro, non c'era scampo. Tra gli innumerevoli stranieri che erano sfilati nel villaggio, amici e nemici, quello era l'unico col quale si sentivano a loro agio, gli si erano affezionati. A volte compariva un ragazzino a soffiargli nell'orecchio che si preparava una notte di tormenta e sarebbe stato conveniente tenere la luce spenta, chiudere bene le porte e non uscire per nessun motivo. In genere il clima non mostrava alterazioni, Reeves spiava la falce di luna attraverso una fessura della finestra, ascoltava le strida degli uccelli notturni e chiudeva le orecchie ad altri traffici per le stradine del villaggio. Non mandava informazioni su questi episodi, i suoi superiori non avrebbero capito che per sopravvivere la gente non poteva far altro che piegarsi davanti al più forte, di una o dell'altra parte. Una sua parola su queste strane notti di silenziose faccende e una spedizione punitiva l'avrebbe fatta finita con i suoi amici e avrebbe ridotto il villaggio a un
mucchio di capanne bruciate, tragedia che non avrebbe cambiato per nulla i piani dei guerriglieri. La mancanza di notizie fece nascere dei sospetti nel suo battaglione e andarono a prenderlo per interrogarlo personalmente. In viaggio verso la base svenne sulla jeep e all'arrivo ci vollero due uomini per farlo scendere e trascinarlo su una sedia all'ombra. Gli passarono un bottiglione d'acqua che si bevve tutto d'un fiato e poi vomitò. Gli esami del sangue esclusero le malattie solite e il medico, temendo un'infezione contagiosa, lo mandò in aereo direttamente a un ospedale delle Hawaii. L'esperienza dell'ospedale fu decisiva per Gregory Reeves perché ebbe la possibilità di pensare al futuro, lusso che fino ad allora gli era sconosciuto. Raramente aveva avuto a disposizione tanto tempo libero, si trovava dentro una bolla che fluttuava nel vuoto, le ore gli parevano eterne. Durante i mesi di guerra i sensi gli si erano affinati e ora, nel relativo silenzio del suo letto di malato, sobbalzava quando un termometro cadeva su un vassoio di metallo o una porta si chiudeva. Gli dava fastidio l'odore del cibo, quello dei medicinali gli procurava nausea, e l'odore di una ferita gli suscitava incontenibili conati di vomito. Il contatto con le lenzuola era un supplizio per la sua pelle, nella sua bocca il cibo sapeva di sabbia. Lo alimentarono per endovena per vari giorni e poi la pazienza di un'infermiera, che lo imboccava con pappe da neonato, gli restituì l'appetito. I primi giorni si concentrò su se stesso, i cinque sensi al servizio della guarigione, legato agli alti e bassi del suo male e alle reazioni dell'organismo, ma quando si sentì meglio poté guardarsi intorno. Disintossicandosi dalle droghe che lo avevano sostenuto dall'inizio del servizio militare, la nebbia nella sua mente si dissolse e una spietata lucidità gli permise di vedersi. Steso sulla schiena, con gli occhi inchiodati al ventilatore sul soffitto, pensava che gli era toccato nascere tra quelli che stanno in basso e che fino a quel momento la sua vita era stata solo lavoro e privazioni. Aveva cercato di uscire dal quartiere dove era cresciuto e di diventare avvocato, più di quanto avessero realizzato i suoi compagni d'infanzia, ma non si era liberato del marchio della povertà. Il suo matrimonio non aveva alleggerito questa sensazione, le leziosaggini e l'apatia di sua moglie, che prima suscitavano la sua curiosità, adesso lo infastidivano. Timothy Duane diceva che il mondo si divideva in api regine destinate al piacere e in operaie la cui missione era mantenere le prime. La gente come Samantha e Timothy aveva ricevuto tutto prima di nascere, erano esseri privi di preoccupazioni, c'era sempre qualcuno disposto a pagare i loro conti, se l'eredità non bastava. Siano maledetti,
borbottava nel paragonarsi a loro. Giuro che spezzerò le mani alla sorte, si ripeteva, cercando di non pensare che la sua sorte poteva condurlo al cimitero. No, questo non può essere, mi restano meno di due mesi, non mi manderanno di sicuro un'altra volta al fronte, si consolava. Provava simpatia per gli altri pazienti, perdenti come lui, ma lo infastidivano i loro gemiti, le camminate lente trascinando le pantofole sopra il linoleum, le loro meschinità e miserie. Ascoltava quelle conversazioni inconsistenti e le lamentele, pensando che era gente disprezzabile, solo un numero nelle liste amministrative, niente di importante, potevano pure sparire l'indomani e non sarebbe rimasto neppure un segno del loro passaggio nel mondo. E io? Mi ricorderà qualcuno? Nessuno, non ho moglie né figlia che mi piangano, e neppure una madre. E Carmen? Sarà ancora addolorata per suo fratello, adorava Juan José, l'unico che mantenne i contatti quando gli altri la ripudiarono. Attento, adesso sto di nuovo facendo il sentimentale. La verità è che non mi importa un cazzo di essere ricordato, quello che voglio è essere ricco, avere potere. Mio padre aveva potere nel mondo degli emarginati in cui si muoveva, era capace di ipnotizzare un'intera sala e lasciare la gente convinta che lui era il rappresentante della Suprema Intelligenza, fece credere a tutti noi che conosceva il disegno e le norme dell'universo, ma morì ugualmente legato a un letto perdendo fiotti di sangue dalla bocca e pus da venti crateri sulla pelle, matto da legare. Lo so che cosa stai mormorando, Ciro, quello che conta è il potere morale. Sei stato un buon esempio in questo senso, ma hai passato anni chiuso in un ascensore leggendo a strappi, e penso che ancora la tua anima vada scartabellando libracci. A che ti è servito essere così buono? Mi hai dato molto, non posso negarlo, però tu non avevi nulla, vivevi miserabile e solo. Un altro uomo giusto è Pedro Morales. Quando ero piccolo pensavo che fosse potente, temevo il suo vocione da patriarca e il suo viso pietroso da indio coi denti d'oro, povero Pedro Morales, incapace di uccidere una mosca, altra vittima di questa puttana di società, dicono che dopo la partenza di Carmen sia distrutto, invecchiato, e adesso si aggiunge la morte di Juan José. Io avrò il potere reale del denaro e del prestigio, quello che non ho mai visto nel mio quartiere, nessuno mi guarderà dall'alto in basso né alzerà la voce con me. La tua anima in pena si starà rivoltando per il mio cinismo. Ciro, cerca di capire, il mondo è dei forti e io sono stanco di marciare tra le file dei deboli. Basta. Per prima cosa devo guarire, non posso sollevare le braccia per pettinarmi, faccio fatica a respirare, e sento che il cervello sta per scoppiarmi e questo non ha niente a che vedere con questa dannata malattia, viene da prima, sono le allergie che mi stanno
consumando. Non prenderò più droga, mi sta ammazzando, tutt'al più un po' di marijuana per tirare avanti, ma niente pastiglie né porcherie in vena, devo rientrare nel mondo dei sani. Non sarò un altro veterano sulla sedia a rotelle, alcolizzato, drogato e vinto, ce ne sono già troppi. Sarò ricco, cazzo. I pensieri si accavallavano nella sua mente, chiudeva gli occhi e vedeva un vortice di immagini che girava e girava, li apriva e sulla grigia superficie del soffitto si proiettavano i suoi ricordi. Faceva fatica a dormire, di notte restava sveglio nell'oscurità, lottando per far arrivare l'aria ai polmoni. Identificarono l'infezione, gli somministrarono gli antibiotici e in tre settimane Si rimise in piedi. Aveva recuperato peso ma non avrebbe mai più avuto la robustezza di prima e arrivò a capire che la muscolatura non aveva niente a che vedere con la virilità. Gli effetti dell'allergia si attenuarono, il mal di testa diminuì, ora non respirava più con affanno né aveva gli occhi iniettati di sangue, però si sentiva ancora debole e al più piccolo sforzo gli si annebbiava la vista. Incredulo, un giorno udì che il medico lo dimetteva e ricevette l'ordine di tornare al fronte. Non pensava di dover riprendere ancora un'arma in mano, sperava di finire le settimane di servizio che restavano con qualche incarico burocratico oppure di ritornare al villaggio. Lo portarono a Saigon con due giorni di permesso e ordini precisi di approfittare di quelle quarantotto ore per rimettersi definitivamente sulle gambe. Utilizzò quelle ore per cercare Thui, la fidanzata di Juan José Morales. Grazie alle indagini del suo amico Leo Galupi, per il quale il mondo non aveva segreti, riuscì a contattarla per telefono e si diedero appuntamento in un modesto ristorante. Gregory la attendeva angosciato, non aveva idea di come addolcire il colpo nel darle la notizia di quanto era accaduto. Thui disse che si sarebbe vestita di azzurro con una collana di perle bianche, perché potesse riconoscerla. Reeves la vide entrare nel locale e prima di avvicinarla si prese alcuni secondi per osservarla a distanza e calmare i battiti precipitosi del suo cuore. La donna non era bella, aveva la pelle spenta, come fosse malata, il naso schiacciato e le gambe corte, l'unica cosa notevole erano gli occhi molto distanziati e allungati, due perfette mandorle nere. Gli porse una mano piccola, che scompariva nella sua e lo salutò con un sussurro senza guardarlo in viso. Si sedettero a un tavolo con la tovaglia di plastica, lei attendeva impassibile con le mani sopra la gonna e gli occhi bassi, mentre lui esaminava il menù con una attenzione esagerata chiedendosi perché diavolo l'avesse chiamata, adesso si trovava in un impiccio e l'unica cosa
che desiderava era fuggire da lì. Il cameriere portò della birra e un piatto con un intruglio difficile da identificare, ma indubbiamente mortale per un convalescente da infezione intestinale. Il silenzio si fece imbarazzante, Gregory palpava lo scapolare della Vergine sotto la camicia. Infine Thui sollevò gli occhi e lo guardò con un viso privo di espressione. "Lo so già," gli disse in un inglese storpiato. "Che cosa?" e immediatamente si pentì di aver fatto quella domanda. "Di Juan José. Lo so già." "Mi spiace. Non so cosa dire, sono molto maldestro in queste cose... So che vi amavate molto. Anch'io gli volevo bene," balbettò Gregory e la tristezza gli spezzò le gambe e sentì l'anima riempirsi di lacrime impossibili a versarsi, mentre colpiva il tavolo con un pugno. "Che posso fare per lei?" si informò la donna. "Sono io che devo chiederglielo. Proprio per questo le ho telefonato. Mi scusi, avrà l'impressione che voglia intromettermi... Juan José le ha parlato di me?" "Mi ha parlato della sua famiglia e del suo paese. Lei è suo fratello vero?" "Diciamo di sì. Anche lui mi ha parlato di lei, Thui, mi ha detto di essersi innamorato per la prima volta in vita sua, che lei era una persona molto dolce e che quando fosse terminata la guerra vi sareste sposati e l'avrebbe portata in America." "Sì." "Ha bisogno di qualcosa? Juan José sarebbe contento che io..." "Di nulla, grazie." "Denaro?" "No." Stettero un po' di tempo senza dirsi altro, e infine lei disse che doveva tornare al lavoro e si alzò. La sua testa superava appena di pochi centimetri quella di Gregory, che era ancora seduto. Gli posò la sua mano da bimba sulla spalla e sorrise, un sorriso tenue e un po' enigmatico che accentuava la sua aria da folletto. "Non si preoccupi, Juan José mi ha lasciato tutto ciò di cui ho bisogno," disse. Paura. Terrore. Sono paralizzato dalla paura, qualcosa di nuovo, che non ho provato nei mesi passati. Prima ero programmato per questa fottitura, sapevo cosa fare, il mio corpo non mi tradiva, era sempre all'erta, teso, un vero soldato. Adesso sono un pover'uomo malato, contratto dall'impotenza,
un sacco di stracci. Molti muoiono negli ultimi giorni di servizio perché si rilassano oppure si spaventano. Ho paura di morire di colpo, senza il tempo di accomiatarmi dalla luce, e un'altra paura peggiore, quella di morire lentamente. Paura del sangue, del mio stesso sangue che scorre a rivoli, del dolore, di sopravvivere mutilato, di impazzire, della sifilide e di altre pestilenze che ci contagiano, di cadere prigioniero e finire torturato dentro una gabbia da scimmie, che la giungla mi inghiotta, di dormire e sognare, di assuefarmi a uccidere, alla violenza, alla droga, al sudiciume, alle puttane, all'obbedienza stupida, alle urla, e che poi – se ci sarà un poi – io non possa più andare per le strade come una persona normale e finisca violentando donne anziane nei parchi o prendendo di mira col fucile i bambini nel cortile di una scuola. Paura di tutto quello che mi aspetta. È coraggioso chi si mantiene sereno di fronte al pericolo, me lo sottolineasti sul libro, Ciro, mi dicevi di non essere pusillanime, che l'uomo nobile non si perde d'animo e vince il timore, ma qui è diverso, questi non sono pericoli immaginari, non sono ombre né mostri della mia fantasia, è fuoco da fine del mondo, Ciro. E rabbia. Dovrei provare odio, però nonostante l'addestramento, la propaganda e ciò che vedo e mi raccontano, non riesco a provare l'odio necessario: colpa di mia madre, forse, che mi riempì la testa di prediche Bahai, o colpa degli amici del villaggio, che mi insegnarono a vedere ciò che abbiamo in comune e a dimenticare le differenze. Niente odio, ma rabbia sì, tanta, un'ira tenace contro tutti, contro il nemico, quei caproni che si muovevano sotto terra come topi e si moltiplicavano con la stessa velocità con cui noi li sterminavamo, apparentemente uguali agli uomini e alle donne che mi invitavano a mangiare nelle loro case al villaggio. Rabbia contro ciascuno dei corrotti bastardi che si arricchiscono in questa guerra, contro i politici e i generali, le loro mappe e le loro calcolatrici, il loro caffè caldo, i loro errori portatori di morte e la loro infinita superbia, contro i burocrati e le loro liste di sconfitte, numeri in lunghe colonne, sacchi di plastica in interminabili file; contro quelli che sono rimasti a casa e bruciano le loro cartoline d'arruolamento e contro quelli che agitano bandiere e ci applaudono quando compariamo sullo schermo del televisore e non sanno neppure perché ci stiamo ammazzando. Carne da cannone o eroici difensori della libertà, ci chiamano quei figli di puttana, nessuno è capace di pronunciare i nomi dei posti dove noi cadiamo, ma tutti giudicano, tutti hanno le loro idee in proposito. Idee! È quello di cui sentiamo meno la mancanza qui, maledette idee. E rabbia contro queste cateratte di acqua, questa pioggia che inzuppa e imputridisce ogni cosa,
questo clima di un altro mondo in cui noi geliamo o bruciamo alternativamente, contro questo paese raso al suolo e la sua giungla che ci sfida. Stiamo vincendo, ovviamente, così mi dice sempre Leo Galupi, il re del mercato nero, che portò a termine i suoi due anni di servizio e poi tornò per fermarsi e non pensa mai ad andarsene perché questo puttanaio lo affascina e inoltre sta diventando miliardario vendendo a noi oggetti d'avorio di contrabbando e agli altri i nostri calzini e deodoranti. Da ogni scontro usciamo vincitori, secondo Galupi, non so allora perché proviamo questa sensazione di sconfitta. Il bene trionfa sempre, come al cinema, e noi siamo i buoni, no? Controlliamo il cielo e il mare, possiamo ridurre in cenere questo paese, e lasciare sulla mappa un solo cratere, un immenso forno crematorio dove niente nascerà per un milione di anni, è solo questione di premere il famoso bottone, più facile che a Hiroshima, si ricorda ancora, mamma, o lo ha già dimenticato? Da anni non ne parla, ora che è vecchia, di che cosa parla con il fantasma di mio padre? Quelle bombe sono fuori moda, ne abbiamo altre che uccidono di più e meglio, che le sembra, eh? Ma le guerre non si vincono né in aria né sull'acqua, si vincono sulla terra, palmo a palmo, uomo contro uomo. Brutalità estrema. Perché non lanciamo un attacco nucleare per vedere se possiamo tornare a casa una volta per tutte, dicono i Marine alla seconda birra. Non voglio trovarmi in questi paraggi quando lo facciamo. Non devo pensare agli amici scomparsi, saltati in aria, i casali in fiamme, le torme dei rifugiati, i monaci che ardono nella benzina; neppure a Juan José Morales o al povero ragazzo del Kansas, né ricordarmi di mia figlia ogni volta che vedo una di queste creature piene di cicatrici, accecate, bruciate. L'unica cosa cui devo pensare è uscire vivo da qui, non c'è posto per i sentimentalismi, uscire vivo, solo questo. Non posso guardare nessuno negli occhi, siamo stati segnati dalla morte, mi spaventano gli occhi vuoti di questi ragazzi di diciott'anni, ognuno con un nero abisso nello sguardo. Ci circondano, conoscono nei dettagli le nostre intenzioni, ascoltano i nostri sussurri, ci fiutano, ci seguono, ci sorvegliano, aspettano. Non hanno alternative: vincere o morire, non si chiedono che merda facciamo qui, sono nati in questa terra da migliaia d'anni e combattono da almeno cento. Il bimbetto che ci vende frutta, la donna priva di orecchie che ci guida ai bordelli, il vecchio che brucia la spazzatura, tutti sono nemici. O forse nessuno lo è. Nei tre mesi passati al villaggio ritornai a essere un uomo, non un guerriero, un uomo, ma ora sono nuovamente un animale inseguito. E se fosse un incubo? Un incubo... presto mi sveglierò in un nitido deserto, per mano a mio padre, guardando il tramonto. Qui i cieli sono maestosi,
l'unica cosa che la guerra non abbia devastato. Le albe sono lunghe e il sole si muove lentamente, arancio, porpora, giallo, il sole è un disco enorme di oro puro. Non avrei mai pensato che mi facessero tornare in questo inferno, mi resta solo un mese, meno di un mese, esattamente venticinque giorni. Non voglio morire adesso, sarebbe un finale stupido, non è possibile essere sopravvissuto a tutte le pedate delle bande del quartiere, alle corse contro un treno in marcia, al massacro sulla montagna e a tredici mesi sotto il fuoco per finire senza castigo né gloria in un sacco, sterminato all'ultimo momento, come un idiota. Non può essere. Forse Olga ha ragione, forse io sono diverso dagli altri e per questo sono uscito sano e salvo dalla montagna, sono invincibile e immortale. Tutti la pensano così, se non fosse per questo non potremmo continuare a combattere, anche Juan José si sentiva immortale. Sorte, karma, destino... Attenzione con queste parole le sto usando troppo non esiste niente del genere, sono fandonie di mio padre e di Olga per abbindolare gli ignoranti. Il destino uno se lo forgia a forza di lavoro, io della mia esistenza farò quello che mi piace... sempre che ne esca vivo e possa tornare a casa. Forse che questa non è fortuna? Il ritorno non dipende da me, nulla che io faccia o non faccia può assicurarmi che non perderò le gambe o le braccia o la vita in questi venticinque giorni. Immacolata Morales capì che suo marito stava male quando ancora non aveva avuto il primo attacco, lo conosceva bene e notò i cambiamenti di cui lui non si accorgeva. Pedro godeva di una salute meravigliosa, quale unico medicamento di sua fiducia usava essenza di eucalipto per massaggiarsi la schiena dolorante per l'eccessivo lavoro e l'unica volta che gli fecero l'anestesia fu per cambiargli i denti sani con altri d'oro. Non si sapeva la sua età esatta, si era fatto fare un certificato di nascita da un falsario di Tijuana al momento di legalizzare i suoi documenti di immigrazione, e aveva scelto la data a caso. All'epoca in cui Carmen uscì di casa, sua moglie calcolava avesse più o meno cinquantacinque anni. Dopo quel fatto Pedro non fu più lo stesso, si trasformò in un uomo taciturno, dall'espressione ieratica, con cui era difficile convivere. I figli non contestarono mai la sua autorità, non gli passava nemmeno per la testa di poterlo sfidare o di chiedergli spiegazioni. In seguito, quando i più grandi si sposarono e gli diedero dei nipoti, il suo carattere si addolcì un poco, nel vedere i bambini che balbettavano e si trascinavano come scarafaggi ai suoi piedi sorrideva come ai bei tempi. Immacolata non poté mai parlargli di Carmen. Ci provò una volta e lui fu sul punto di picchiarla.
Guarda che mi fai fare, moglie! ruggì sorprendendosi col braccio sollevato in aria. Diversamente da tanti uomini del quartiere, considerava una vigliaccheria picchiare la sua compagna con le figlie è ben diverso, diceva, perché doveva educarle. Malgrado la sua antiquata severità, Immacolata immaginava quanto Carmen gli mancasse ed escogitò un modo di tenerlo informato. Iniziò una sporadica corrispondenza con Gregory Reeves, il cui unico tema era la ragazza assente. Lei gli mandava cartoline con fiori e colombe per dargli notizie della famiglia, e il suo "figlio gringo" rispondeva riferendo la sua ultima conversazione telefonica con Carmen, così conobbe i particolari della vita di sua figlia, la sua permanenza in Messico, il suo viaggio in Europa, i suoi amori, il suo lavoro. Dimenticava le cartoline dove il padre potesse leggerle senza compromettere il suo orgoglio offeso. In quegli anni i costumi mutarono radicalmente e il ruzzolone di Carmen divenne cosa di tutti i giorni, era molto difficile continuare a deprecarla come fosse una figlia di Satana. Le gravidanze extramatrimoniali erano fra i temi preferiti di film, serial televisivi e racconti, nella vita reale le attrici famose avevano figli senza che si conoscesse l'identità del padre, le femministe predicavano il diritto all'aborto e gli hippy scopavano nei parchi pubblici sotto gli occhi di chi volesse osservarli, cosicché neppure il severo Padre Larraguibel capiva l'intransigenza di Pedro Morales. Quel funesto mercoledì si presentarono a casa della famiglia Morales due giovani ufficiali, un paio di ragazzi spaventati che cercavano di nascondere il loro disagio dietro l'assurda rigidità dei soldati e la formalità di un discorso ripetuto tante volte. Portavano la notizia della morte di Juan José. Se la famiglia era d'accordo ci sarebbe stata una cerimonia religiosa, il corpo sarebbe stato sepolto entro una settimana nel cimitero militare, dissero, e consegnarono ai genitori le decorazioni guadagnate dal figlio in azioni eroiche molto al di là del suo dovere. La sera Pedro Morales ebbe il terzo attacco. Avvertì un'improvvisa debolezza nelle ossa, come se il corpo fosse diventato di morbida cera, e si abbatté esangue ai piedi della moglie che non poté sollevarlo per metterlo sul letto né osò lasciarlo solo per chiedere aiuto. Quando Immacolata vide che non respirava gli gettò sul viso acqua fredda, ma il rimedio non ebbe alcun effetto, allora si ricordò di un programma televisivo e si mise a fargli la respirazione bocca a bocca e a colpirgli il petto con i pugni. Un minuto dopo suo marito si risvegliò bagnato come un'anatra e non appena gli fu passata la nausea bevve due bicchieri di tequila e divorò mezzo dolce di mele. Rifiutò di andare all'ospedale, sicuro che fosse solo questione di nervi, il malessere gli
sarebbe passato dormendo, disse, e così fu. Il giorno dopo si alzò presto come al solito, aprì l'officina e dopo avere dato ordini ai meccanici andò a comprare un abito nero per il funerale di suo figlio. Dello svenimento non gli rimase altra conseguenza che il dolore alle costole che la moglie gli aveva ammaccato a forza di pugni. Nell'impossibilità di portarlo dal medico, Immacolata decise di consultare Olga, con la quale si era riconciliata dopo il tragico incidente di Carmen, perché aveva capito che la guaritrice aveva solo voluto aiutarla. Conosceva la sua lunga esperienza, non si sarebbe arrischiata a praticare un aborto tardivo se non si fosse trattato della ragazza, a cui voleva bene come a una nipote. Era finita male, però pensava che non fosse colpa sua ma volontà di Dio. Olga sapeva già della morte di Juan José e si stava preparando, come tutto il quartiere, ad assistere alla messa del Padre Larraguibel. Le due donne si abbracciarono a lungo e poi si sedettero a bere caffè e a commentare gli svenimenti di Pedro Morales. "Non è più lo stesso. Sta dimagrendo. Beve litri di limonata, deve avere la pancia bruciata da tanti limoni. Non ha neppure la forza di brontolare con me, basta dire che certe volte non va in officina." "Che altro?" "Piange dormendo." "Don Pedro è molto macho, per questo non può piangere quando è sveglio. Ha il cuore pieno di lacrime per la morte del figlio, è normale che gli escano mentre dorme." "È cominciata prima della morte di Juan José, che Dio lo accolga nel suo Santo Seno." "Una delle due: o gli si è alterato il sangue, o la sua è angoscia." "Io penso che sia molto malato. È stata la stessa cosa con mia madre. Se ne ricorda?" Olga la ricordava bene, passò alla storia quando apparve in televisione per il suo centesimo compleanno. La nonna demente, che normalmente era una persona allegra, si svegliò una mattina bagnata di lacrime e non ci fu modo di consolarla, stava per morire e le spiaceva andar via da sola, desiderava la compagnia della sua famiglia. Pensava di trovarsi ancora al suo villaggio nel Zacatecas non si rese mai conto di avere vissuto trent'anni negli Stati Uniti, che i suoi nipoti erano chicanos e oltre i limiti del suo quartiere si parlava inglese. Stirò il suo miglior vestito perché voleva essere sepolta decentemente, e si fece condurre al camposanto per individuare la tomba dei suoi avi. I ragazzi Morales avevano ordinato in tutta fretta una lapide con i nomi dei genitori della signora e la collocarono
in un punto strategico perché potesse vederla con i suoi stessi occhi. Come si riproducono i morti! fu il suo unico commento vedendo le dimensioni del cimitero della contea. Nelle settimane seguenti continuò a piangere anticipatamente la propria dipartita, fino a consumarsi come una candela e spegnersi. "Gli darò sciroppo della Maddalena, va benissimo in questi casi. Se Don Pedro non migliora, bisognerà portarlo dal medico," raccomandò Olga. "Scusi l'intromissione, signora, però fare l'amore è salutare per il corpo e per lo spirito. Le raccomando di essere affettuosa con lui." Immacolata arrossì. Era un argomento che non avrebbe mai potuto affrontare con nessuno. "Al suo posto io chiamerei anche Carmen perché ritorni. È passato tanto tempo e suo padre ha bisogno di lei. È ora di fare la pace." "Mio marito non me lo perdonerebbe, doña Olga." "Don Pedro ha appena perso un figlio, non le pare che sarebbe una gran consolazione se resuscitasse la figlia che considera morta? Carmen è sempre stata la sua preferita." Immacolata prese lo sciroppo della Maddalena per non apparire ingrata. Non aveva troppa fiducia nei beveraggi dell'indovina, ma si fidava ciecamente del suo criterio di consigliera. Quando arrivò a casa gettò il flacone nella spazzatura e cercò nella cassetta di latta in cui conservava le cartoline di Gregory Reeves finché trovò l'ultimo indirizzo di sua figlia. Carmen Morales visse quattro anni a Città del Messico. Nei primi due provò tanta solitudine e miseria che prese gusto alla lettura, cosa che non avrebbe mai immaginato. All'inizio Gregory le mandava romanzi in inglese, poi però si iscrisse a una biblioteca pubblica e cominciò a leggere in spagnolo. Lì conobbe un antropologo di vent'anni più anziano di lei che la iniziò allo studio di altre culture e al rispetto della sua cultura indigena. Tanto lui era affascinato dalla scollatura della ragazza, tanto lei lo era dalle conoscenze del suo nuovo amico. All'inizio Carmen provò orrore per il passato di violenza e sangue di quel continente, non trovava niente di edificante nei sacerdoti coperti di sangue secco intenti a strappare il cuore alle vittime dei loro sacrifici, ma l'antropologo le fece conoscere il significato di quei rituali, le raccontò antiche leggende, le insegnò a decifrare geroglifici, la portò ai musei e le mostrò tanti libri d'arte, mantelli di piume, arazzi, bassorilievi e sculture, che finì per apprezzare quell'estetica feroce. Il suo maggiore interesse era per i disegni e i colori delle stoffe, pitture, ceramiche e ornamenti, passava ore a interpretarli
sopra un album da disegno per adattarli ai suoi gioielli. Tanto andarono in giro a osservare mummie e orripilanti statue azteche, che l'antropologo e la sua pupilla divennero amanti. Lui le chiese di vivere assieme per condividere amori e spese, lei lasciò la pestilenziale stanzetta dov'era sopravvissuta fino ad allora e si trasferì nell'appartamento del suo innamorato in pieno centro. L'inquinamento dell'aria era impressionante, a volte gli uccelli cadevano morti dal cielo, ma almeno disponeva di un bagno con acqua calda e di una stanza soleggiata dove installò il suo laboratorio di oreficeria. Credette di aver trovato la felicità e fantasticò di acquisire cultura per contatto fisico, era avida di apprendere, viveva in uno stato permanente di ammirazione e sorpresa verso l'amante, ogni briciola di conoscenza che lui spargeva cadeva su un terreno fertile. In cambio delle magnifiche lezioni dell'antropologo era disposta a servirlo, lavare i panni, pulire la casa, preparare da mangiare e perfino tagliargli le unghie e i capelli, oltre che a consegnargli tutto quello che guadagnava vendendo i suoi gioielli d'argento alle turiste. L'uomo non solo sapeva di fantasmagorici indios e di cimiteri di anfore corrose, era anche esperto in film, libri, ristoranti; decideva il modo in cui lei doveva vestirsi, parlare, far l'amore e persino pensare. La sottomissione della giovane durò molto più di quanto ci si aspettasse da una persona del suo temperamento, per quasi due anni gli obbedì con devozione, sopportò non solo che lui avesse altre donne e la informasse a profusione di particolari scabrosi "perché tra noi non devono esserci segreti", ma anche che la schiaffeggiasse quando di tanto in tanto beveva qualche bicchiere in più. Dopo ogni scenata violenta il suo erudito compagno tornava a casa con dei fiori o si metteva a piangere sul suo grembo implorando comprensione – il demonio si era impadronito di lui – e giurava che non l'avrebbe fatto mai più. Carmen perdonava ma non dimenticava, e nel frattempo assorbiva nozioni come una spugna. Si vergognava di ammettere quelle violenze, si sentiva umiliata e in certi momenti credeva di meritarle, forse era normale, non l'aveva picchiata tante volte suo padre? Un giorno finalmente osò parlarne con Gregory Reeves in una delle sue segrete conversazioni telefoniche del lunedì, il suo amico si mise a strillare, la trattò da stupida, la spaventò con statistiche di sua invenzione e la convinse che l'antropologo non sarebbe cambiato, al contrario, la prepotenza sarebbe andata crescendo sino a raggiungere chissà quali estremi. Dieci giorni dopo Carmen ricevette da Gregory un assegno per un biglietto aereo e una lettera in cui le offriva il suo aiuto pregandola di tornare negli Stati Uniti. Il dono arrivò il giorno successivo a una scaramuccia in cui con una manata l'antropologo le aveva
rovesciato addosso la pentola di minestra bollente. Fu un incidente, lo riconobbero entrambi, ma lei dovette passare lo stesso due giorni a curarsi il petto con latte e olio d'oliva. Appena poté indossare la camicetta andò in un'agenzia di viaggio con l'intenzione di volare a casa, ma mentre aspettava sfogliando dépliant turistici ricordò la furia di suo padre e decise che non aveva la forza di affrontarlo. In uno slancio di fantasia girò la bussola e comprò un biglietto per Amsterdam. Partì su due piedi, senza neppure accomiatarsi dal suo amante, aveva l'intenzione di lasciargli una lettera ma nella fretta di far la valigia se ne dimenticò. Aveva una borsa con i suoi strumenti e materiali da lavoro e due barattoli di latte condensato per mitigare la monotonia del viaggio. L'Europa l'affascinò. La percorse tutta con uno zaino in spalla, guadagnandosi la vita senza eccessiva difficoltà, insegnava inglese, vendeva i suoi gioielli quando riusciva a prepararne e, se era alla fame, poteva sempre ricorrere all'aiuto di Gregory. Non ci fu cattedrale, castello o museo che non visitasse, fino a che, satura, giurò di non mettere più piede in quei templi del turismo, meglio camminare per le strade godendosi la vita. Un'estate arrivò a Barcellona e appena scesa dal treno fu circondata da un gruppo di gitane vocianti che insistevano per leggerle la mano e venderle amuleti. Le osservò abbagliata e decise che quello era lo stile che più le si addiceva, non solo per il suo lavoro di orefice, ma anche per vestirsi. Più tardi scoprì l'influenza moresca della Spagna meridionale e i colori del Nordafrica, che adottò in felice mescolanza. Si sistemò in una pensione del quartiere gotico senza un raggio di luce naturale e con un sonaglio di canne che gemeva senza sosta, però la sua stanza era ampia, con alti soffitti decorati e disponeva di un enorme tavolo da lavoro. In pochi giorni si era cucita ampie gonne a volant che ricordavano l'abbigliamento di Olga nei suoi anni giovanili e i propri travestimenti ai tempi dei giochi di prestigio in Piazza Pershing. Non avrebbe più abbandonato quel genere di abbigliamento, negli anni che seguirono lo affinò fino alla perfezione per il piacere di usarlo, senza sapere che in futuro l'avrebbe resa celebre e ricca. Dopo avere viaggiato da Oslo ad Atene col suo bagaglio in spalla e quasi senza soldi, pensò che ne aveva abbastanza di vagabondare, era giunta l'ora di mettere la testa a posto. Era convinta che l'unico lavoro adatto a lei fosse la gioielleria, ma in quel campo c'era una concorrenza spietata, per emergere non bastavano disegni originali, doveva anzitutto scoprire i segreti dell'arte. Barcellona era il posto ideale per questo. Si iscrisse a diversi corsi dove apprese tecniche millenarie e a poco a poco
nacque il suo stile inconfondibile, una combinazione di solido artigianato antico con audaci tocchi gitani e suggestioni d'Africa, America Latina e qualcosa di indiano, secondo la moda di quel decennio. Era sempre l'allieva più originale del corso, le sue creazioni si vendevano così rapidamente che non poteva soddisfare tutte le richieste. Tutto andava per il meglio fino a che capitò sulla sua strada un giapponese, di poco più giovane di lei, anche lui orefice. Carmen era riuscita a collocare i suoi gioielli in negozi di prestigio, mentre lui offriva con scarso successo i suoi lavori sulle ramblas e questa differenza lo umiliava. Per consolarlo lei tornò a vendere per le strade col pretesto che lì si trovava l'anima della città. Si sistemarono tutti e due nella pensione crepuscolare di Carmen. Ben presto le differenze culturali presero il sopravvento sull'attrazione reciproca, ma era così grande il bisogno di compagnia che lei ignorò i sintomi del distacco. Il giapponese non rinunciò ai suoi costumi ancestrali, passava sempre per primo e aspettava di essere servito. Stava a mollo per ore nella vasca da bagno ben calda e poi la cedeva a lei con l'acqua ormai fredda. Lo stesso capitava a tavola, a letto, con gli strumenti e il materiale da lavoro, per strada camminava davanti e lei doveva seguirlo alla distanza di due passi. Se c'era il sole, il giovane usciva a vendere e Carmen restava a lavorare nella stanza buia, ma se la giornata si annunciava piovosa, toccava a lei stare all'aria aperta, perché il suo amante soffriva di strategici dolori reumatici legati al clima. All'inizio queste stranezze le sembravano simpatiche, cose da orientali, si disse di buonumore, ma dopo averle sopportate per un certo tempo perse la pazienza e iniziarono i contrasti. L'uomo non perdeva mai il contegno e alle recriminazioni opponeva un lungo silenzio glaciale, lei sentiva attorno a sé il vuoto come un cerchio opprimente, ma non si lamentava perché questo almeno non le dava schiaffoni né la innaffiava di minestra bollente. Alla fine cedeva per non ritrovarsi sola e perché il suo compagno la affascinava, l'attraevano i suoi lunghi capelli neri, il suo corpo minuto tutto muscoli, il suo accento straniero e la precisione dei suoi movimenti. Si avvicinava timida, faceva un po' le fusa e generalmente riusciva ad addolcirlo, si riconciliavano a letto, dove lui era un esperto. Avrebbero continuato a stare assieme per inerzia, ma sopravvenne un telegramma di Immacolata che annunciava la malattia di Pedro Morales e chiedeva alla figlia che per amor di Dio tornasse, perché era l'unica capace di salvare suo padre, che stava consumandosi per la tristezza. Allora capì quanto amava quel vecchio testardo, quanto desiderava affondare la testa nel grembo accogliente di sua madre e tornare a essere, fosse solo per un istante, la bimba coccolata
di un tempo. Pensando che sarebbe stato solo un viaggio di un paio di settimane, partì portando con sé le cose indispensabili che infilò frettolosamente in una borsa. Il giapponese l'accompagnò all'aeroporto, le augurò buona fortuna e si accomiatò con un leggero inchino, non la toccava mai in pubblico. Sono così tante le volte che ho visto la morte in faccia che ho imparato il valore dell'esistenza. L'unica cosa che abbiamo è la vita e nessuna è più importante di un'altra. Quella di Juan José non vale più di quella degli uomini che io ho ucciso, tuttavia i morti non mi pesano, stanno sempre con me, sono i miei unici compagni. O uccidi o muori, così, semplicemente, non è una questione morale per me, dubbi e confusione sono di altro genere. Sono uno dei fortunati usciti illesi dalla guerra. Quando tornai andai dall'aeroporto a un motel, senza telefonare a nessuno. A San Francisco era nuvoloso e soffiava un vento invernale, come sempre succede in estate, e decisi di aspettare che uscisse il sole per chiamare Samantha, non so perché mi saltò in mente che il clima favorevole potesse rendere più gradevole il nostro incontro, la verità è che ci separammo decisi a divorziare, non ci scrivemmo mai, e il giorno in cui le telefonai dalle Hawaii risultò evidente che non avevamo niente da dirci. Mi sentivo stanco, senza energia per discussioni e rimproveri, ancor meno per raccontare a lei o a qualcun altro le mie esperienze di guerra. Volevo vedere Margaret, naturalmente, ma forse mia figlia non mi avrebbe riconosciuto, a quell'età i bambini dimenticano in pochi giorni e lei non mi vedeva da mesi. Lasciai le mie cose nella stanza e uscii in cerca di un bar, sentivo la mancanza del buon caffè di San Francisco, è il migliore del mondo. Camminai in quel delirio urbano da dove ogni tanto si vede il mare, linee rette che salgono e scendono, tracciate secondo un disegno geometrico indifferente alla topografia delle undici colline, cercai gli angoli a me familiari, ma tutto era trasfigurato dalla nebbia. Mi sembrò un luogo straniero, non riconobbi gli edifici e, disorientato, incominciai ad aggirarmi in questa città di contrasti e profumi, depravata come tutti i porti e ambigua come una ragazza sventata. Non so spiegarmi il marchio di eleganza di San Francisco, in fondo fu fondata da una manica di avventurieri esaltati dall'oro facile, da prostitute e briganti. Un cinese mi sfiorò il braccio e io scattai come se mi avesse morso uno scorpione, con i pugni stretti, tastando l'arma che non avevo. L'uomo mi sorrise, le auguro una buona giornata, mi disse allontanandosi; e restai paralizzato, sentendo gli sguardi altrui, benché in realtà nessuno mi osservasse, mentre
passavano i tram annunciandosi con i campanelli, scolari, segretarie, gli immancabili turisti, lavoratori latini, commercianti asiatici, hippy, prostitute nere con parrucche platinate, omosessuali che si tenevano per mano, tutti come attori di un film illuminato da una luce artificiale, mentre io rimanevo al di qua dello schermo, totalmente emarginato, senza capire nulla, a mille anni di distanza. Camminai attraverso il quartiere italiano attraverso Chinatown, per le strade dei marinai dove si vendono liquori, droga e pornografia – ultima novità erano le pecore gonfiabili – accanto alle medaglie di San Cristoforo per proteggersi dai rischi della navigazione. Tornai al motel, presi diversi sonniferi e non seppi più nulla di me fino a venti ore dopo, quando mi svegliò il sole che brillava dalla finestra. Presi il telefono per parlare con Samantha, ma non ricordavo il numero di casa mia e poi decisi di aspettare un po', concedendomi un paio di giorni di solitudine per rimettere un po' in sesto il corpo e l'anima, avevo bisogno di lavarmi dentro e fuori da tanti peccati e ricordi atroci. Mi sentivo infetto, sudicio, morto di stanchezza. Non chiamai neppure i Morales, avrei dovuto andare subito a Los Angeles e non ne avevo la forza, non potevo ancora parlare di Juan José guardare negli occhi Immacolata e Pedro e assicurargli che il loro figlio era morto per la patria, come un eroe, dopo essersi confessato e senza soffrire, quasi senza accorgersene, mentre in realtà è morto urlando e solo metà del suo corpo è stato sepolto. Non potevo dirgli che le sue ultime parole non erano un messaggio per loro, afferrò la mano del cappellano e gli disse sorreggimi, Padre, che sto precipitando in un abisso. Niente avviene come nei film, neanche la morte, non moriamo serenamente ma terrorizzati in una pozza di sangue e merda. Al cinema nessuno muore davvero, in guerra nessuno vive davvero. In Vietnam immaginavo che presto si sarebbero accese le luci della sala e sarei uscito per strada senza fretta a prendere un caffè e subito avrei dimenticato ogni cosa. Adesso, che ho imparato a vivere con le rovine della memoria, non gioco più come se la vita fosse un racconto, la accetto con tutto il dolore che porta con sé. Da mia sorella mi ero molto distaccato, da quando nacque Margaret non ci eravamo più visti, non avevo voglia di chiamarla e nemmeno mia madre, di che cosa avremmo parlato? Era contraria alla guerra, considerava più dignitoso disertare che uccidere, ogni forma di violenza era vergognosa e perversa, ricordati di Gandhi, mi diceva, non possiamo appoggiare una cultura delle armi, siamo a questo mondo per celebrare la vita e promuovere la compassione e la giustizia. Povera vecchia, staccata dalla realtà vagava per i meandri del Piano infinito, seguendo mio padre,
un po' fuori di testa, però con una lucidità indiscutibile nelle sue divagazioni. Partii per il Vietnam senza salutarla perché non volevo ferirla, per lei era una questione di principio, non aveva niente a che vedere con la mia sicurezza personale. Penso che a modo suo mi volesse bene, ma ci fu sempre un abisso tra noi due. Che cosa mi avrebbe consigliato mio padre? Mai mi avrebbe detto di andare in prigione o in esilio, mi avrebbe invitato ad andare a caccia e appostando le anatre nel silenzio gelido dell'alba mi avrebbe dato una manata sulla spalla e ci saremmo capiti senza bisogno di parole, come ci si intende a volte tra uomini. Passai i primi tre giorni chiuso nel motel davanti al televisore con diverse cassette di birra e bottiglie di whisky, poi me ne andai sulla spiaggia con un sacco a pelo e rimasi due settimane a guardare il mare, fumando erba e chiacchierando col fantasma di Juan José. L'acqua era fredda, ma nuotavo ugualmente fino a sentire il sangue congelato nelle vene e il cervello intorpidito, senza ricordi, vuoto. Laggiù il mare è tiepido, la sabbia formicolava di soldati, tre giorni di gioco, birra e rock per compensare mesi di lotta. Per due settimane non pronunciai una frase completa con nessuno, solo grugniti per chiedere una pizza o un hamburger, credo che in fondo desiderassi tornare in Vietnam perché almeno al fronte avevo dei compagni e qualcosa da fare, qui ero senza amici, solo, non appartenevo a nessun posto. Nella vita civile nessuno parlava il linguaggio della guerra, non esisteva un vocabolario per narrare le esperienze del campo di battaglia, ma se anche lo avessi avuto, non c'era comunque chi desiderasse ascoltare la mia storia, non c'è interesse per le cattive notizie. Solo tra ex combattenti potevo sentirmi in confidenza e parlare di cose che mai direi a un civile, loro capirebbero perché uno si nega ai sentimenti e ha paura di avvicinarsi, sanno che il coraggio fisico è molto più semplice di quello emotivo, perché anche loro hanno perso amici cari come fratelli e sono decisi a risparmiarsi per il futuro quel dolore insostenibile, meglio non amare nessuno con troppa intensità. Senza accorgermene incominciai a rotolare in quell'abisso dove tanti si perdono, incominciai a scorgere il lato entusiasmante della violenza, a pensare che non mi sarebbe più accaduto nulla di tanto appassionante, che forse il resto della mia esistenza sarebbe stato un grigio deserto. Credo di avere scoperto il segreto che spiega la permanenza della guerra. Joan e Susan sostengono che è un'invenzione dei macho vecchi per eliminare i giovani perché li odiano, ne hanno paura, non desiderano dividere niente con loro, donne, potere o denaro, sanno che prima o poi li spoglieranno, per questo li mandano alla morte, anche se sono i loro figli.
Per i vecchi c'è un motivo logico, ma perché i giovani lo fanno? Perché in tanti millenni non si sono ribellati contro questi massacri rituali? Ho una risposta. C'è qualcosa di più dell'istinto primordiale al combattimento e della vertigine del sangue: il piacere. L'ho scoperto sulla montagna. Non mi azzardo a pronunciare questa parola ad alta voce mi porterebbe disgrazia, ma la ripeto in silenzio, piacere, piacere. Il più intenso che si possa provare, molto più di quello del sesso, della sete saziata, del primo amore corrisposto o della rivelazione divina, dicono quelli che l'hanno provato. Quella notte sulla montagna mi trovai a una frazione di secondo dalla morte. La pallottola passò sfiorandomi la guancia e colpì in mezzo alla fronte il soldato che stava dietro di me. Il panico mi paralizzò un istante, restai sospeso nel fascino del mio stesso spavento, poi ci fu una lacerazione della coscienza e cominciai a sparare freneticamente, urlando e maledicendo, incapace di trattenermi o di ragionare, mentre fischiavano le pallottole e ardevano le vampate e il mondo esplodeva in un fragore da cataclisma, fui avvolto dal calore, il fumo e il tremendo vuoto d'ossigeno assorbito a ogni fiammata, non ricordo quanto tempo durò tutto questo né ciò che feci né perché, ricordo solo il miracolo di trovarmi vivo, la scarica di adrenalina e il dolore in tutto il corpo un dolore sensuale, un piacere atroce, diverso da altri piaceri conosciuti, molto più intenso del più lungo orgasmo, un piacere che mi invase interamente, trasformandomi il sangue in zucchero fuso e le ossa in sabbia, travolgendomi poi in un vuoto oscuro. Stavo già da due settimane nel motel della spiaggia quando una notte mi svegliai gridando. Nell'incubo mi trovavo solo all'alba sulla montagna. Vedevo i corpi ai miei piedi e le ombre dei guerriglieri che strisciavano verso di me nella nebbia. Si avvicinavano. Tutto era lentissimo e silenzioso, un film muto. Azionavo la mia arma, ne sentivo il rinculo, mi dolevano le mani, vedevo le scintille, ma nessun suono. Le pallottole attraversavano i nemici senza fermarli, i guerriglieri erano trasparenti, come disegnati su un cristallo, avanzavano inesorabili, mi circondavano. Aprivo la bocca per gridare, ma l'orrore era entrato in me e non mi usciva la voce ma frammenti di ghiaccio. Non potei tornare a dormire, stordito dal battito del mio stesso cuore. Mi alzai, presi la giacca e uscii a camminare sulla spiaggia. Bene, ora basta con i lamenti annunciai ai gabbiani sul far dell'alba. Carmen Morales non ebbe il coraggio di presentarsi direttamente alla famiglia perché non sapeva come l'avrebbe ricevuta suo padre, che non
vedeva da sette anni. Dall'aeroporto andò in taxi a casa dei Reeves. Passando per le vie del quartiere fu stupita della trasformazione: appariva meno povero, più pulito, ordinato e molto più piccolo di come lo ricordava. Oltre ai cambiamenti reali, influiva sulla sua mente il paragone con l'immensa periferia marginale del Messico. Sorrise al pensare che quell'insieme di strade era stato per molti anni il suo universo e che era fuggita di lì come un'esiliata, piangendo per la famiglia e la terra nativa perdute. Adesso si sentiva straniera. L'autista la guardava con curiosità dallo specchietto retrovisore e non resistette alla tentazione di chiederle di dove fosse. Non aveva mai visto nessuno simile a quella donna dalle gonne multicolori e dai tintinnanti braccialetti, non assomigliava nemmeno a quelle sonnambule hippy avvolte in vesti di quel tipo, questa aveva l'atteggiamento deciso di una donna d'affari. "Sono gitana," gli annunciò Carmen con la massima tranquillità. "Da dove viene?" "Noi gitani non abbiamo patria, veniamo da ogni parte." "Parla inglese molto bene," notò l'uomo. Fece fatica a rintracciare la baracca dei Reeves, in quegli anni le erbacce erano cresciute inghiottendo l'orto e il salice copriva la vista della casa. Avanzò sul sentiero attraverso il cortile. Riconobbe il luogo dove aveva sotterrato Oliver secondo le istruzioni di Gregory, il quale desiderava che i resti del suo compagno d'infanzia riposassero nella casa della famiglia, anziché finire nella spazzatura come quelli di un qualunque cane privo di storia. Seduta sotto il portico, nella stessa sgangherata seggiola di vimini dove l'aveva sempre vista, trovò Nora Reeves. Era ormai una vecchia sciupata con una crocchia striminzita e un grembiule sbiadito come il resto della persona. Era rimpicciolita e aveva un'espressione dolce e un po' melensa, come se il suo spirito in realtà non fosse lì. Si alzò esitante e salutò Carmen con gentilezza, senza riconoscerla. "Sono io, doña Nora, sono Carmen, la figlia di Pedro e Immacolata Morales..." La donna impiegò quasi un minuto per collocare la nuova arrivata nella mappa confusa della sua memoria, restò a guardarla con la bocca aperta, senza riuscire a collegare l'immagine della ragazza dalle trecce brune che giocava con suo figlio con questa apparizione sfuggita all'harem di uno sceicco. Infine le tese le mani e l'abbracciò tremando. Si sedettero a bere tè caldo in bicchieri di vetro e si aggiornarono sulle notizie del passato. Dopo un po' irruppero i figli di Judy che tornavano da scuola, quattro bambini di età indefinita, due con i capelli rossi e l'aria esuberante e due dai tratti
latini. Nora spiegò che i primi due erano di Judy e gli altri vivevano con lei, benché fossero i figli di primo letto del suo secondo marito. La nonna preparò per loro latte e pane con marmellata. "Vivono tutti qui?" domandò sorpresa Carmen. "No. Io mi occupo di loro dopo la scuola finché la madre non viene a prenderli per la notte." Verso le sette comparve Judy, e neppure lei riconobbe l'amica. Carmen la ricordava enorme, ma non credeva possibile che si potesse aumentare di peso fino a raggiungere dimensioni simili, la donna non stava in nessuna delle seggiole disponibili, si accasciò a fatica sui gradini del portico, dando l'impressione che per muoverla ci sarebbe voluta una gru. Tuttavia appariva raggiante. "Non è solo grasso, sono di nuovo incinta," annunciò con orgoglio. Tanto i figli suoi che quelli altrui corsero ad adagiarsi nell'amabile umanità della madre, che li accolse sorridendo e li accomodò tra le sue rotondità con la scioltezza nata dall'abitudine e dall'affetto, mentre distribuiva frittelle zuccherate, infilandosene nel frattempo alcune in bocca. Nel vederla giocare con i bambini, Carmen capì che la maternità era per la sua amica una condizione naturale e non poté fare a meno di provare una punta di invidia. "Dopo cena ti accompagnerò a casa, ma prima chiameremo doña Immacolata perché prepari tuo padre. Non hai un vestito più normale? Ricordati che il vecchio non accetta stravaganze nelle donne. È così la moda in Europa?" domandò Judy senza ombra di ironia. Pedro Morales aspettava la figlia coll'abito del funerale, rallegrato però da una cravatta rossa e da un garofano del suo giardino all'occhiello. Immacolata gli aveva dato la notizia con la massima cautela, prevedendo una violenta reazione, e rimase stupita quando il viso del marito si illuminò come se gli avessero tolto vent'anni dalle spalle. "Spazzolami i vestiti, moglie," fu l'unica cosa che riuscì a dire mentre si soffiava il naso in un fazzoletto per nascondere l'emozione. "La bimba dev'essere cambiata molto, con l'aiuto di Dio..." lo preparò Immacolata. "Non preoccuparti, vecchia mia. Anche se arriva con i capelli tinti d'azzurro la riconoscerò." Tuttavia non era preparato alla donna che entrò in casa mezz'ora dopo e, come era capitato a Nora e Judy, tardò qualche secondo a chiudere la bocca. Pensò che Carmen era cresciuta, ma poi notò i sandali col tacco alto e un cumulo di capelli crespi spettinati sul capo che aggiungevano un
palmo alla sua statura. Si era addobbata come un idolo, aveva gli occhi segnati da linee nere ed era mascherata in modo tale da ricordargli un manifesto turistico del Marocco appeso alla parete del bar "I Tre Amici". Ad ogni modo gli parve che sua figlia fosse molto bella. Si abbracciarono a lungo e assieme piansero Juan José e quei sette anni di assenza. Poi lei gli si accoccolò accanto per raccontargli qualcuna delle sue avventure, tralasciando quanto era necessario per non scandalizzarlo. Frattanto Immacolata si affannava in cucina ripetendo, grazie Dio benedetto, grazie Dio benedetto, e Judy, appesa al telefono, chiamava i fratelli Morales e gli amici per annunciare che Carmen era tornata, trasformata in zingara stravagante e riccioluta, ma che in fondo era sempre la stessa, che portassero birra e chitarra perché Immacolata stava preparando tacos per far festa. La presenza di sua figlia restituì il buonumore a Pedro Morales. Di fronte all'insistenza di Carmen e del resto della famiglia, accettò finalmente di vedere un dottore, che diagnosticò un diabete avanzato. Nessuno dei miei antenati ebbe niente di simile questa è una novità americana, non voglio essere punzecchiato a ogni momento come un appestato, quel dottore non sa quello che dice, nei laboratori scambiano i vetrini e gli esami e commettono errori madornali, brontolava il paziente offeso, ma ancora una volta Immacolata si impose, lo obbligò ad attenersi a una dieta e si incaricò di somministrargli le medicine a ore fisse. Preferisco discutere con te ogni giorno piuttosto che restare vedova, domare un altro marito costa molta fatica, decise. A lui non era passato per la mente di poter essere rimpiazzato nel cuore apparentemente fedele di sua moglie e lo sconcerto gli tolse la voglia di continuare a ostinarsi. Non ammise mai di essere malato, però si rassegnò al trattamento "per accontentare questa matta" come diceva. Ben presto il quartiere risultò stretto a Carmen Morales, dopo alcune settimane di vita con i genitori si sentiva soffocare. Durante la sua assenza aveva idealizzato il passato, nei momenti di maggior solitudine rimpiangeva la tenerezza di sua madre, la protezione del padre e la compagnia dei suoi, ma aveva dimenticato la ristrettezza del luogo in cui era nata. In quegli anni era cambiata, la polvere di molti paesi si era accumulata sotto le sue scarpe. Passeggiava per la casa come un leopardo in gabbia riempiendo tutto lo spazio e sconvolgendone la tranquillità con il mulinello delle gonne, il frastuono dei braccialetti e la sua impazienza. Per la strada la gente si voltava a guardarla e i bambini si avvicinavano per
toccarla. Impossibile ignorare la riprovazione e i mormorii alle sue spalle, guarda come si veste la più giovane dei Morales, su quella testa non si è posato un pettine da un secolo, certo si è messa a fare la hippy o la puttana, dicevano. Per lei non c'era neppure lavoro, non era disposta a lavorare in una fabbrica come Judy Reeves e nel quartiere non c'era mercato per i suoi gioielli, le donne usavano oro dipinto e diamanti falsi, nessuna si sarebbe messa i suoi orecchini da aborigena. Pensò che non sarebbe stato difficile collocarli in qualche negozio al centro della città, dove facevano acquisti attrici, signore sofisticate e turiste, però rinchiusa nella casa dei genitori la sua creatività non aveva stimoli, le svanivano le idee e la voglia di lavorare. Girava per le stanze oppressa dalle statuine di porcellana, i fiori di seta, i ritratti di famiglia, i mobili di felpa color rubino con fodere di plastica simboli della nuova eleganza dei Morales. Quell'arredamento di dubbio gusto, orgoglio di sua madre, le dava gli incubi, preferiva mille volte la casa della sua infanzia, dove era cresciuta con i fratelli nella massima semplicità. Non sopportava i programmi della radio e della televisione che rintronavano giorno e notte con storie romantiche e tragiche, e gli annunci urlati di varie marche di sapone, vendite di automobili e giochi a premi. La cosa peggiore era l'abitudine generalizzata ai pettegolezzi, ognuno viveva dipendendo dagli altri, nel vicinato non si muoveva un capello senza provocare commenti. Si sentiva come un marziano in visita e si consolava con i piatti di sua madre, che si era adattata alla ristretta dieta del marito senza perdere niente del sapore delle sue ricette e passava ore tra il pentolame, avvolta nel delizioso profumo di salse e spezie. Carmen si annoiava, oltre a giocare a dama con suo padre, aiutare nelle faccende domestiche e ricevere i parenti la domenica, quando la famiglia si riuniva a pranzo, non c'erano altre distrazioni. Pensò di tornare in Spagna, ma neppure quello era il suo paese e, d'altra parte, a distanza, non provava più la stessa attrazione per il suo amante. Gli aveva scritto e telefonato, ma le sue risposte erano state gelide. Lontana dai suoi muscoli color nocciola e dalla sua capigliatura nera, ricordava con un brivido il bagno freddo e le altre umiliazioni e provava un profondo fastidio all'idea di tornare al suo fianco. Fu Olga che le consigliò di dare un'occhiata a Berkeley, perché con un po' di fortuna Gregory Reeves in un futuro non lontano sarebbe tornato e avrebbe potuto aiutarla, era il posto ideale per una persona originale come lei, a giudicare dalle notizie dei giornali, che ogni settimana commentavano un nuovo scandalo nei giardini dell'Università. Carmen si trovò d'accordo che a provare non si perdeva niente. Telefonò al suo amante per chiedergli di mandarle i suoi risparmi e
gli strumenti da oreficeria, e lui promise di farlo quando ne avesse avuto il tempo, ma passarono diverse settimane e altre cinque chiamate senza notizie della spedizione, allora capì quanto fosse occupato e non insistette più. Decise di gettarsi nell'avventura con il minimo delle risorse, come aveva fatto altre volte, ma quando Pedro Morales seppe dei suoi piani, invece di opporsi, le firmò un assegno e le pagò il viaggio. Era felice di avere riavuto la figlia, ma non era cieco davanti ai suoi bisogni e gli spiaceva vederla sbattere contro le pareti come un uccello con le ali spezzate. A Berkeley Carmen Morales sbocciò come se la città fosse nata per farle da cornice. Nella confusione delle strade il suo abbigliamento non attirava l'attenzione e il contenuto della sua blusa non provocava fischi sfacciati, come capitava nel quartiere latino. Lì trovò stimoli simili a quelli che l'avevano affascinata in Europa e una libertà fino ad allora ignota. Anche la natura di acqua e montagne sembrava fatta per lei. Calcolò che, se stava attenta, col regalo di suo padre poteva sopravvivere per qualche mese, però decise di trovare lavoro perché aveva in progetto di fare gioielli e aveva bisogno di strumenti e materiali. Senza dubbio Gregory Reeves le avrebbe offerto un divano in casa sua dove sistemarsi per un certo tempo, ma non c'era da sognarsi la stessa generosità da parte di Samantha. Non conosceva la moglie del suo amico, però indovinava che l'avrebbe accolta con scarso entusiasmo, tanto più in quel momento in cui era impegnata nelle pratiche del divorzio. Fissò per telefono un appuntamento per conoscere la piccola Margaret di cui aveva diverse fotografie mandatele da Gregory, ma quando si presentò Samantha non c'era, le aprì la porta una bimba così fragile e delicata che era difficile immaginarsi fosse figlia di Gregory e della sua atletica moglie. La paragonò ai suoi nipoti della stessa età e le parve una creatura strana, la miniatura perfetta di una donna bella e triste. Margaret la fece entrare annunciandole in tono affettato che sua madre stava giocando a tennis e sarebbe tornata presto. All'inizio mostrò un certo interesse per i braccialetti di Carmen, poi si sedette in perfetto silenzio con le gambe incrociate e le mani sopra la gonna. Risultò inutile cercare di tirarle fuori qualche parola e finirono per restare faccia a faccia senza guardarsi, come estranee in una sala d'aspetto. Finalmente entrò Samantha con la racchetta in una mano e un filone di pane francese nell'altra, e proprio come Carmen aveva previsto, la ricevette con freddezza. Si esaminarono apertamente, attraverso le descrizioni di Gregory ognuna possedeva un'immagine dell'altra, ed entrambe si sentirono sollevate dal
fatto che le loro fantasie fossero diverse dalla realtà. Carmen si aspettava una ragazza molto carina, non quella specie di ragazzona robusta con le spalle screpolate dal sole, come sarà fra qualche anno, le gringhe invecchiano male, si disse. Da parte sua Samantha si rallegrò che l'altra vestisse con quegli abiti larghi che le sembrarono orribili, certo fra le costole nascondeva diversi chili, e poi era evidente che in tutta la sua vita non aveva fatto ginnastica e di quel passo ben presto sarebbe diventata una matrona grassoccia, le latine invecchiano male, pensò con soddisfazione. Entrambe seppero immediatamente che non sarebbero mai diventate amiche e la visita fu molto breve. Uscendo, Carmen si rallegrò che il suo miglior amico stesse avviando il divorzio da quella campionessa di tennis e Samantha si chiese se Gregory al suo ritorno, in caso fosse tornato, sarebbe diventato l'amante di quella tipa grassoccia, idea che certamente avevano avuto entrambi nel cuore per tanti anni. Buon pro gli faccia, borbottò, senza sapere perché quella prospettiva le facesse rabbia. Carmen non poteva pagare a lungo la stanza del motel dove alloggiava, decise di cercare lavoro e un posto dove vivere. Si sistemò in un bar vicino all'Università a sfogliare un giornale e tra innumerevoli avvisi di massaggi olistici, aroma-terapie, cristalli miracolosi, triangoli di rame per migliorare il tono dell'aura e altre novità che avrebbero incantato Olga, scoprì diverse offerte di lavoro. Fece alcune telefonate finché in un ristorante le diedero appuntamento per il giorno seguente, doveva presentarsi con la tessera dell'assicurazione sociale e una lettera di raccomandazione, due cose che non possedeva. La prima non fu difficile, si informò semplicemente su dove dovesse andare a iscriversi, riempì un questionario e le diedero un numero, la seconda però non sapeva come procurarsela. Pensò che Gregory Reeves gliela avrebbe fatta senza esitare, peccato fosse lontano, ma questo inconveniente non era un ostacolo insormontabile. Individuò un bugigattolo dove affittavano macchine da scrivere e redasse una lettera che attestava la sua competenza nel badare ai bambini, la sua onorabilità e la disposizione a trattare col pubblico. La stesura risultò un po' caricata, ma occhio non vede, cuore non duole, come avrebbe detto sua madre. Non c'era ragione che Gregory venisse a sapere i dettagli. Conosceva a memoria la firma del suo amico, non per nulla si erano scritti per anni. Il giorno dopo si presentò al posto di lavoro, che risultò essere una vecchia casa ornata di piante e trecce d'aglio. La ricevette una donna dalla chioma canuta e il viso gioviale vestita con pantaloni rigonfi e sandali da frate francescano. "Interessante," disse nel leggere la lettera di presentazione.
"Molto interessante... Così lei conosce Gregory Reeves?" "Ho lavorato per lui," sorrise Carmen. "Che io sappia, è in Vietnam da più di un anno. Come si spiega che questa lettera abbia la data di ieri?" Era Joan, una delle amiche di Gregory, e quello era il ristorante macrobiotico dove spesso lui andava a mangiare hamburger vegetariani e a cercare conforto. Con le ginocchia che tremavano e un filo di voce Carmen confessò il suo inganno e in poche frasi raccontò del suo rapporto con Gregory. "Bene, si vede che sei piena di risorse," rise Joan. "Gregory per me è come un figlio, benché non sia tanto vecchia da poter essere sua madre, non lasciarti ingannare dai capelli bianchi. L'ultima notte prima di partire per la guerra ha dormito sul sofà del mio salotto. Che sciocchezza enorme ha fatto! Susan e io gli abbiamo ripetuto fino alla nausea che non lo facesse, ma è stato inutile. Spero che torni improvvisamente come è partito, sarebbe un disastro se gli succedesse qualcosa, mi è sempre sembrato una meraviglia di uomo. Se sei sua amica sarai anche la nostra. Puoi iniziare oggi stesso. Mettiti un grembiule e un fazzoletto in testa per non far cadere i capelli nei piatti dei clienti e va' in cucina che Susan ti spiegherà il lavoro." Dopo qualche tempo Carmen Morales non solo serviva a tavola, ma aiutava anche in cucina perché aveva buona disposizione per i condimenti e servivano combinazioni nuove per variare il menù. Divenne tanto amica di Joan e Susan che le affittarono il solaio della loro casa, una grande stanza piena di roba vecchia, che una volta svuotata e ripulita risultò un rifugio ideale. Aveva due finestre che guardavano la baia dalla superba prospettiva delle colline e un lucernario sul soffitto per seguire il corso delle stelle. Di giorno Carmen aveva la luce naturale e la sera si rischiarava con due grandi lampade vittoriane recuperate al mercato delle pulci. Lavorava al ristorante la sera e parte della notte, però la mattina aveva del tempo libero. Acquistò utensili e materiale e nei momenti d'ozio tornò al suo lavoro di oreficeria, verificando con sollievo che non aveva perso l'ispirazione né la voglia di lavorare. I primi orecchini furono per le sue padrone, a cui dovette bucare le orecchie perché potessero portarli, sentirono entrambe un po' di dolore, ma se li toglievano solo per dormire, convinte che facessero risaltare la loro personalità, femministe senza smettere di essere femminili, dicevano ridendo. Consideravano Carmen la miglior collaboratrice che avessero mai avuto, ma le consigliavano di non sprecare il suo talento servendo a tavola e rimescolando pentole, doveva
dedicarsi completamente all'oreficeria. "È la sola cosa che ti si addice. Ognuno nasce con un solo dono e la felicità consiste nello scoprirlo in tempo," le dicevano quando si sedevano a bere tè al mango e a parlare della loro vita. "Non preoccupatevi, io sono felice," rispondeva Carmen con totale convinzione. Aveva il presentimento che le privazioni appartenessero al passato e che adesso stesse per iniziare la parte migliore della sua esistenza. Di ritorno nel mondo dei vivi, Gregory Reeves raccolse i ricordi della guerra – foto, lettere, cassette di musica, vestiti e la sua medaglia da eroe – li innaffiò di benzina e li incendiò. Conservò solo il piccolo drago di legno dipinto, ricordo dei suoi amici del villaggio, e lo scapolare di Juan José. Aveva l'intenzione di portarlo a Immacolata Morales quando avesse trovato il modo di togliere il sangue disseccato. Aveva giurato di non comportarsi come tanti altri veterani aggrappati per sempre alla nostalgia dell'unico momento grandioso della loro vita, invalidi nello spirito, incapaci di adattarsi a un'esistenza banale e di liberarsi dalle molteplici scorie della guerra. Evitava le notizie della stampa, le manifestazioni di strada, gli amici di prima che erano tornati e si riunivano per rivivere le avventure e lo spirito cameratesco del Vietnam. Non voleva sapere nulla neanche degli altri, quelli che erano su una sedia a rotelle o quasi folli, né dei suicidi. I primi giorni godeva di ogni particolare quotidiano, un hamburger con patate fritte, acqua calda nella doccia, le lenzuola nel letto, la praticità degli abiti civili, le conversazioni della gente per le strade, il silenzio e l'intimità della sua stanza, ma presto capì che anche questo racchiudeva un pericolo. No, non doveva festeggiare niente, neppure il fatto di avere il corpo intatto. Il passato era alle spalle, se solo avesse potuto cancellarne il ricordo. Di giorno riusciva quasi completamente a dimenticare, ma la notte aveva degli incubi e si svegliava bagnato di sudore, con un fragore di armi che esplodevano dentro di lui e visioni in rosso che lo assalivano senza tregua. Sognava di un bambino smarrito in un parco e quel bambino era lui, ma soprattutto sognava la montagna, dove sparava contro ombre trasparenti. Allungava la mano in cerca di pillole e di erba, palpava la tavola, accendeva la luce mezzo stordito, senza sapere dove si trovasse. Teneva del whisky in cucina, così aveva il tempo di riflettere prima di bersene un bicchiere. Per aiutarsi inventava piccoli ostacoli: niente alcool prima di vestirmi o di mangiare qualcosa, non berrò se è giorno dispari o se non è ancora sorto il sole, prima farò venti flessioni
sul petto e ascolterò un intero concerto. Così allontanava la decisione di aprire il mobile dove conservava la bottiglia e generalmente riusciva a controllarsi, ma non si decideva a eliminare l'alcool, teneva sempre qualcosa a portata di mano in caso d'emergenza. Quando infine telefonò a Samantha le nascose che da più di due settimane si trovava a sole venti miglia da casa, le fece credere che era appena tornato e le propose di incontrarsi all'aeroporto, dove l'attese ben ripulito, rasato e sobrio, in abiti civili. Restò stupito di quanto fosse cresciuta Margaret e quanto fosse diventata graziosa, sembrava una di quelle principesse disegnate col pennello nelle antiche favole, con occhi azzurro-mare, riccioli biondi e un singolare viso a triangolo dai lineamenti finissimi. Notò anche come fosse cambiata poco sua moglie, aveva persino gli stessi pantaloni bianchi dell'ultima volta che la vide. Margaret gli tese stancamente la mano senza sorridere e non volle dargli un bacio. Aveva gesti civettuoli imitati dalle attrici delle telenovela e camminava facendo ondeggiare il suo minuscolo sederino. Gregory si sentì a disagio con lei, non riusciva a vederla come la bambina che in realtà era, ma come un'indecente parodia della donna fatale e si vergognò di se stesso, forse Judy aveva ragione, dopo tutto, l'indole perversa di suo padre era latente nel suo sangue come una maledizione ereditaria. Samantha gli diede un tiepido benvenuto, si rallegrava di vederlo in così buona forma, era più magro ma più muscoloso, l'abbronzatura gli stava bene, disse, evidentemente la guerra non era stata tanto traumatizzante per lui, lei invece non stava troppo bene, le spiaceva doverlo dire, la situazione economica era pessima, aveva esaurito i risparmi e le riusciva impossibile vivere con la paga di un soldato, non si lamentava, naturalmente, comprendeva la situazione, ma non era abituata a sopportare privazioni, e neppure Margaret. No, non aveva potuto mandare avanti la custodia dei bambini, era un lavoro troppo faticoso e noioso, e poi doveva badare a sua figlia, no? Salendo in auto gli comunicò dolcemente che gli aveva riservato una stanza in un hotel, ma non aveva problemi a conservare in garage le sue cose finché non avesse avuto una sistemazione migliore. Se Gregory si era fatto qualche illusione su una possibile riconciliazione quelle poche frasi furono sufficienti perché si rendesse conto una volta di più dell'abisso che li separava. Samantha non aveva perduto la sua cortesia abituale, manteneva un controllo ammirevole sulle sue emozioni ed era capace di sostenere una conversazione per un tempo indefinito senza dire nulla. Non gli fece domande, non voleva essere informata su situazioni sgradevoli, era riuscita con uno sforzo straordinario, a rimanere in un mondo di fantasia dove non c'era posto per
il dolore e le brutture. Fedele a se stessa, pretendeva di ignorare la guerra, il divorzio, lo sfascio della sua famiglia e tutto ciò che avrebbe potuto modificare il suo orario del tennis. Gregory pensò con un certo sollievo che sua moglie era un foglio bianco e che lui non avrebbe avuto rimorsi a ricominciare un'altra vita senza di lei. Per il resto della strada tentò di prendere contatto con Margaret, ma sua figlia non era affatto disposta a facilitarlo. Seduta sul sedile posteriore, si mordicchiava le unghie tinte di rosso, giocava con una ciocca di capelli e si osservava nello specchio retrovisore, rispondendo a monosillabi se sua madre le parlava, ma tacendo testardamente se lo faceva lui. Prese in affitto, all'altro lato della baia, una casa la cui principale attrattiva era un moletto praticamente distrutto. Pensava per il futuro di comprare una barca, più per ostentarla che per il gusto di andare in mare, ogni volta che andava in barca con Timothy Duane si convinceva che tanta fatica si poteva giustificare solo per salvarsi la vita in un naufragio, ma non per passatempo. Con lo stesso criterio acquistò una Porsche, sperava di suscitare l'ammirazione degli uomini e di richiamare l'attenzione delle donne. Le automobili sono simboli fallici, non so perché la tua sia piccola, stretta, piatta e sobbalzante, lo burlò Carmen quando lo seppe. Ebbe almeno la buona idea di non comprare mobili prima di trovare un lavoro sicuro e si accontentò di un letto delle dimensioni di un ring da boxe, di una tavola mille usi e di un paio di seggiole. Dopo essersi sistemato partì per Los Angeles, dove non era più stato da quando aveva portato Margaret per presentarla alla famiglia Morales, parecchi anni prima. Nora Reeves lo ricevette con naturalezza, come se lo avesse visto il giorno prima, gli offrì una tazza di tè e gli diede notizie del quartiere e di suo padre, che continuava a mettersi in contatto con lei ogni settimana per tenerla informata sull'andamento del Piano infinito. Non fece cenno alla guerra e per la prima volta Gregory notò la somiglianza tra Samantha e sua madre, la stessa freddezza, indolenza e cortesia, l'identica determinazione nell'ignorare la realtà, benché questo fosse stato molto più difficile per sua madre, a cui era toccata un'esistenza assai più dura. Nel caso di Nora Reeves l'indifferenza non era sufficiente, era necessaria una volontà molto forte perché i problemi non la urtassero. Trovò Judy a letto con un neonato tra le braccia e altri bambini che giocavano attorno a lei. Coperta dal lenzuolo la sua obesità appariva meno evidente, sembrava un'opulenta Madonna rinascimentale. Presa dalle preoccupazioni della maternità, non si preoccupò di chiedergli come stava, dando per scontato che se si trovava visibilmente intero davanti ai suoi occhi non c'erano novità importanti. Il
secondo marito di sua sorella risultò essere il proprietario di un taxi, vedovo, padre di due dei figli più grandi e del bebé. Era un latino nato lì, uno di quei chicanos che parlano male lo spagnolo, però hanno l'inconfondibile sigillo dei loro avi, piccolo, magro, con lunghi baffi all'ingiù da guerriero mongolo. A paragone del suo predecessore, il gigantesco Jim Morgan, sembrava un omiciattolo denutrito. Gregory non capì se quell'uomo amasse Judy più di quanto la temesse, immaginò una lite fra i due e non poté trattenere un sorriso, sua sorella sarebbe stata in grado di spaccare il cranio al marito con una mano sola, proprio come apriva le uova a colazione. Come faranno l'amore, si chiese affascinato Gregory. I Morales lo accolsero come nessuno aveva fatto fino a quel momento, lo abbracciarono per lunghi minuti, piangendo. Gregory fu tentato di pensare che si dolessero perché era lui e non il loro figlio Juan José che ritornava illeso, ma l'espressione di assoluta felicità dei suoi vecchi amici gli tolse dall'animo quei dubbi meschini. Tolsero la fodera di plastica da una delle poltrone e lo sistemarono lì per interrogarlo sui particolari della guerra. Si era proposto di non parlare di quell'argomento, ma si sorprese a raccontare ciò che volevano sapere. Capì che faceva parte del lutto, tutti e tre stavano finalmente dando sepoltura a Juan José. Immacolata dimenticò di accendere le luci e di offrirgli la cena, nessuno si mosse fino a notte inoltrata, quando Pedro andò in cucina a cercare delle birre. Rimasto solo con Immacolata, Gregory si tolse dal collo lo scapolare e glielo consegnò. Aveva desistito dall'idea di lavarlo perché temeva che nel farlo si disintegrasse, ma non ci fu bisogno di spiegare l'origine delle macchie scure. Lei lo prese senza guardarlo e se lo mise, nascondendolo sotto la blusa. "Sarebbe peccato buttarlo nella spazzatura, perché è stato benedetto da un vescovo, ma se non ha potuto proteggere mio figlio significa che non serve a nulla," sospirò. E allora poterono parlare degli ultimi momenti di Juan José. I genitori, seduti fianco a fianco sull'orribile sofà color rubino, tenendosi per mano per la prima volta davanti a qualcuno, ascoltarono tremanti quello che Gregory aveva giurato di non dire, ma che non poté tacere. Raccontò della fama di fortunato e valoroso di Juan José, di come per miracolo lo aveva incontrato sulla spiaggia e di quanto avrebbe dato per essere lui, e nessun altro che lui, al suo fianco per sorreggerlo fra le braccia mentre stava cadendo, Padre, sorreggimi che sto cadendo in un abisso. "Ha avuto il tempo di conciliarsi con Dio?" volle sapere la madre.
"Era con il cappellano..." "Ha sofferto molto?" domandò Pedro Morales. "Non so, è stato così rapido..." "Aveva paura? Era disperato? Gridava?" "No, mi hanno detto che era tranquillo." "Almeno tu sei tornato, benedetto Dio," disse Immacolata, e per un attimo Gregory si sentì perdonato da ogni colpa, salvato dall'angoscia, libero dai suoi peggiori ricordi e un'ondata di gratitudine lo invase. Quella notte i Morales non gli permisero di dormire in un hotel, lo costrinsero a rimanere con loro e gli prepararono il letto da scapolo di Juan José. Nel cassetto del comodino trovò un quaderno di scuola con poesie scritte a matita dal suo amico. Erano versi d'amore. Prima di prendere l'aereo del ritorno andò a trovare Olga. Gli anni le erano piombati addosso, nulla rimaneva del suo antico aspetto da pappagallo, si era tramutata in strega spelacchiata, ma non aveva perduto la sua energia di guaritrice e veggente. A quel punto della sua vita era ormai completamente convinta della stupidità umana, aveva più fiducia nelle sue magie che nelle erbe medicinali perché meglio si adeguavano all'insondabile credulità altrui. Tutto dipende dalla mente, l'immaginazione compie miracoli, sosteneva. Anche la sua casa dava segni di decadimento sembrava il bazar del custode di un santuario, zeppo di polverosi strumenti di magia, con più disordine e meno fantasia di un tempo. Dal soffitto pendevano ancora rami secchi, cortecce e radici si erano moltiplicate le scaffalature con flaconi e scatole, l'antico profumo d'incenso dei negozi pakistani era scomparso, inghiottito da odori più potenti. Molti barattoli conservavano ancora nomi suggestivi: Non-dimenticarmi, Affare-sicuro, Conquistatore-irresistibile, Falsa-vendetta, Piacere-violento, Togli-tutto. Con gli occhi allenati a scoprire l'invisibile, Olga notò immediatamente i cambiamenti avvenuti in Gregory, la barriera impossibile ad attraversarsi attorno a lui, lo sguardo duro, la risata stridente e senza allegria, la voce più asciutta e quell'atteggiarsi nuovo della bocca che sarebbe stato sprezzante su labbra sottili, ma sulle sue appariva piuttosto beffardo. Emanava un'energia da animale rabbioso, ma sotto la corazza lei distinse i frammenti di un'anima spezzata. Sentì che non era il momento di offrirgli la sua vasta esperienza di consigliera perché era ermetico e preferì parlargli di sé. "Ho molti nemici, Gregory," confessò. "Una cerca di fare del bene, e ti ripagano con invidie e rancori. Adesso dicono che ho rapporti con il diavolo."
"Cosa fatale per il tuo lavoro, immagino..." "Non credere, finché esiste gente spaventata o addolorata questo mestiere non va in crisi," replicò Olga con un ammiccare birichino. "A proposito, posso fare qualcosa per te?" "Non credo, Olga. Il mio male non guarisce con gli incantesimi." I Morales diedero a Reeves l'indirizzo di Carmen. Credeva fosse ancora in Europa e fece fatica a immaginare che vivessero separati solo da un ponte. Le telefonate del lunedì si erano interrotte e la corrispondenza subiva forti ritardi in Vietnam, l'ultimo contatto fu una cartolina da Barcellona per raccontargli di un amante giapponese. Gli parve una strana coincidenza che la sua amica si fosse sistemata in casa di Joan e Susan, la realtà era a volte inverosimile quanto gli assurdi romanzi televisivi che Immacolata seguiva fedelmente. Nel corso del suo avventuroso destino, soprattutto quando si sentiva perseguitato dalla solitudine dopo essersi legato a una nuova donna e scopriva che non era neppure lei quella che cercava, Gregory Reeves si chiese spesso perché lui e Carmen non fossero diventati amanti. Quando si azzardò a parlarne lei replicò che a quel tempo lui era chiuso a quell'unica specie d'amore che potevano condividere, si proteggeva con una cappa di cinismo che in fondo serviva a poco, dato che la più leggera brezza lo lasciava nuovamente indifeso di fronte agli elementi, ma serviva a tenere nell'isolamento il suo spirito. "A quell'epoca avevi in testa solo i soldi e il sesso, era una specie di ossessione. Diamo la colpa alla guerra, se vuoi, anche se penso che ci fossero altre cause, ti tiravi dietro anche molte cose dell'infanzia," disse Carmen molti anni più tardi, quando entrambi avevano percorso i propri labirinti e poterono incontrarsi all'uscita. "La cosa strana è che bastava grattare un po' la superficie per vedere che dietro le tue difese imploravi aiuto. Ma neppure io ero pronta per un buon rapporto, non ero matura e non potevo darti l'amore immenso di cui avevi bisogno." Dopo la sua visita ai Morales, Gregory rimandò con sempre nuovi pretesti l'incontro con la sua amica, l'idea di vederla lo intimidiva, temeva che entrambi fossero cambiati e non si riconoscessero, o peggio ancora, non si piacessero. Alla fine non fu più possibile inventare nuove scuse e un paio di settimane più tardi andò a trovarla. Preferì farle una sorpresa e si presentò al ristorante senza aver avvertito, ma lì lo informarono che lei aveva lasciato il lavoro da pochi giorni. Joan e Susan lo accolsero esultanti, lo passarono in rassegna da capo a piedi per convincersi che
fosse illeso, lo intossicarono di lasagne vegetariane e torte al pistacchio e miele e alla fine gli indicarono la via in cui poteva trovare Carmen. Notò la trasformazione nell'aspetto delle due donne, portavano orecchini ben visibili da lontano, si erano tagliate i capelli e Joan usava il belletto, a giudicare dall'ingiustificato rossore delle sue guance. Gli spiegarono ridendo che non potevano più portare trecce da pellerossa o crocchie da nonna, gli orecchini di Tamar esigevano un po' di civetteria, non c'era niente di male, come avevano scoperto un po' tardi, certo, però pensavano di recuperare il tempo perduto. Si può essere femministe con questi arnesi nelle orecchie e un po' di trucco, non spaventarti amico, non abbiamo rinunciato a nessuno dei nostri postulati, gli assicurarono. Gregory volle sapere chi era Tamar e si affrettarono a spiegargli che Carmen aveva cambiato nome perché adesso si dedicava a tempo pieno alla creazione di gioielli, voleva imporre uno stile e un nome, e il suo le sembrava poco esotico. Si piazzava ogni mattina sulla via degli hippy a offrire la sua merce con un vassoio a quattro zampe. I posti venivano estratti a sorte ogni giorno, sistema che evitava i tafferugli degli anni precedenti quando i venditori ambulanti difendevano a pugni il piccolo territorio che avevano scelto. Per ottenere una buona posizione bisognava alzarsi all'alba, ma lei era molto disciplinata, dissero Joan e Susan, perciò la troverai certamente al primo angolo, il luogo più richiesto perché rimaneva vicino all'Università, dove si potevano usare i bagni. La strada era fiancheggiata, su entrambi i marciapiedi, da commercianti e piccoli artigiani che si guadagnavano il pane con le vendite giornaliere e sopravvivevano per merito di illusioni metafisiche, ingenuità politiche e droga. Pullulava fra loro un gran numero di dementi, attratti da chissà quale misteriosa calamita. Il governo aveva tagliato i fondi per i servizi medici, lasciando senza risorse i già impoveriti ospedali psichiatrici, che si vedevano costretti a dimettere i pazienti. Gli infermi se la cavavano con la carità della gente e in inverno venivano ricoverati per evitare la vergogna dei cadaveri irrigiditi sulla pubblica via. La polizia ignorava quei poveri folli, a meno che non fossero aggressivi, gli abitanti della zona li conoscevano, non ne avevano più paura e non si rifiutavano di nutrirli quando iniziavano a perdere le forze per la fame. Spesso non si distinguevano dagli hippy drogati, ma alcuni erano inconfondibili e famosi, come un ballerino vestito di maglia traslucida e mantello fiammeggiante da angelo caduto, che vagava silenzioso in punta di piedi facendo trasalire i passanti distratti. Tra i più celebri c'era un infelice visionario che leggeva la sorte su certe carte di sua invenzione e andava
sempre lamentando gli orrori del mondo. Disperato di fronte a tanta malvagità e cupidigia, un giorno non ce la fece più e si strappò gli occhi con un cucchiaio in mezzo alla strada. Un'ambulanza lo raccolse e dopo qualche tempo era di ritorno, silenzioso e sorridente perché non vedeva più la crudele realtà. Ci fu chi forò le sue carte perché potesse riconoscerle e continuò a predire il destino ai passanti, con maggior successo perché si era trasformato in leggenda. Fra questa gente Gregory cercò la sua amica. Si fece strada tra la confusione e i rumori della strada senza vederla, era il periodo natalizio e una folla chiassosa occupava i marciapiedi affannandosi nelle ultime compere. Quando finalmente se la trovò di fronte, impiegò alcuni secondi per collegare l'immagine a quella che conservava nei suoi ricordi. Stava seduta su una panchetta dietro un tavolo portatile dove in file scintillanti erano esposti i suoi lavori, i capelli le cadevano in disordine sulle spalle, aveva un corsetto da odalisca ricamato ad arabeschi, le braccia coperte da braccialetti e uno strano vestito di cotone scuro legato come una tunica alla vita da una catena di monete d'argento e rame. Stava parlando con una coppia di turisti che di sicuro erano venuti dalla loro fattoria del Middle West per vedere da vicino la stranezza di Berkeley che li aveva incuriositi in televisione. Non si accorse della presenza di Gregory e lui si mantenne a distanza, osservandola nascosto dal viavai della gente. In quei momenti ricordò quante cose aveva condiviso con lei, gli ardenti sogni dell'adolescenza, le illusioni che lei gli aveva suscitato e pensò di averla amata fin dalla lontana epoca in cui dormirono nello stesso letto, il giorno della morte di suo padre. Gli sembrò molto cambiata, c'erano sicurezza e grazia nei suoi modi, i suoi tratti latini si erano accentuati: gli occhi più neri, i gesti più ampi, la risata più audace. I viaggi avevano acuito l'intuito della sua amica e l'avevano resa più astuta, di qui il cambiamento di nome e di stile In quel tempo era stato coniato il termine "etnico" per designare ciò che proveniva da luoghi che nessuno poteva localizzare sulla carta geografica e lei se ne appropriò, perché indovinò che in quell'ambiente nessuno avrebbe esibito i gioielli di un'umile chicana. Sul suo tavolo c'era una scritta che annunciava "Tamar gioielli etnici". Da dove si trovava, Gregory ascoltò la sua conversazione con i clienti: diceva che era gitana e loro esitavano, temendo che li ingannasse nella vendita. Parlava con un leggero accento che prima non aveva. Gregory la sapeva incapace di fingerlo per affettazione, però poteva averlo adottato maliziosamente così come si inventava un passato misterioso, più per gusto dello scherzo che per vocazione all'inganno. Se qualcuno le avesse ricordato che era la figlia ripudiata di una coppia di
emigranti clandestini di Zacatecas, lei stessa si sarebbe stupita. Nelle sue lettere gli aveva raccontato la stravagante autobiografia che andava creando capitolo per capitolo, come una telenovela, e in più di un'occasione lui l'aveva avvertita di stare attenta, perché a furia di ripetere quelle fantasie avrebbe finito per crederci. Adesso, guardandola a pochi metri di distanza, capiva che Carmen si era trasformata nella protagonista del suo stesso romanzo e che Tamar era un nome che calzava meglio alla pittoresca venditrice di chincaglierie. In quell'istante lei sollevò lo sguardo e al vederlo le sfuggì un grido. Si abbracciarono a lungo come due bimbi sperduti, e finalmente cercarono ognuno la bocca dell'altro e si baciarono trepidi con la passione che avevano coltivata in anni di segrete fantasie. Carmen mise via in fretta ogni cosa, piegò il suo tavolo e tutti e due si avviarono spingendo un carrettino da mercato su cui c'erano le scatole dei gioielli, guardandosi avidamente, in cerca di un posto per fare l'amore. L'urgenza era tale che non si concessero il tempo di parlare di niente, avevano bisogno di toccarsi, esplorarsi e convincersi reciprocamente che l'altro era proprio come l'aveva immaginato. Lei non volle dividere Gregory con Joan e Susan, temeva che se fossero andati a casa loro l'incontro sarebbe stato inevitabile e per quanto discrete fossero le due donne, sarebbe stato ben difficile eludere la loro compagnia, lui pensò la stessa cosa e senza consultarla la portò in un misero motel il cui unico pregio era la vicinanza. Lì si spogliarono frettolosamente e rotolarono sul letto storditi dall'ansia, affannati. Il primo abbraccio fu intenso e violento, si assalirono senza preamboli in un tumulto di sospiri e lenzuola, si aggredirono senza tregua e poi caddero vinti, per qualche minuto, da un profondo sopore. Carmen si svegliò per prima e si sollevò per osservare quell'uomo col quale era cresciuta e che tuttavia adesso le sembrava un estraneo. Aveva sognato di lui infinite volte e ora eccolo nudo alla portata della sua bocca. La guerra lo aveva intagliato a colpi di scalpello, era più magro e muscoloso, i tendini risaltavano come corde sotto la pelle e in una gamba le vene erano segnate e azzurre, traccia dell'incidente dei suoi tempi di manovale. Anche nel sonno era teso. Lo baciò con malinconia, aveva immaginato un incontro molto diverso, non quella specie di violenza reciproca, quella battaglia spietata, non avevano fatto l'amore, ma qualcosa che le lasciò un gusto di peccato. Le sembrò che lui non fosse del tutto li, il suo spirito era assente, non aveva abbracciato lei ma chissà quale fantasma del suo passato o dei suoi incubi, non c'era stata tenerezza, complicità, gioia, non lo aveva udito mormorare il suo nome né l'aveva visto guardarla negli
occhi. Neppure lei era stata nella sua miglior forma, però non sapeva in cosa avesse sbagliato, Gregory aveva segnato il ritmo e tutto era seguito così disperatamente che lei si era perduta in una giungla oscura e ne emergeva ora calda, umida, un po' dolente e triste. Gli insuccessi in amore non avevano distrutto la sua capacità di tenerezza. Pronta a riceverlo, si era scontrata con l'insospettata resistenza di questo amico atteso fin dall'infanzia; però lo attribuì alle privazioni della guerra e non perse la speranza di trovare uno spiraglio attraverso il quale entrargli nell'anima. Si chinò per baciarlo ancora e lui si svegliò di scatto, sulla difensiva, ma al riconoscerla sorrise e per la prima volta parve rilassarsi. La prese per le spalle e l'attirò a sé. "Sei un lottatore solitario, come un cow-boy dei film, Greg." "Non sono mai salito a cavallo in vita mia, Carmen." Non sapeva quanto fosse precisa la diagnosi della sua amica né quanto profetica. La solitudine e la lotta contrassegnarono il suo destino. A frotte gli tornarono i ricordi che cercava di tenere a bada, e provò una profonda amarezza, impossibile a condividersi con qualcuno, neppure con lei in quel momento di intimità. Era cresciuto come le erbacce nel cortile di casa sua, senza acqua né giardiniere, tra i deliri metafisici del padre, i silenzi inalterabili di sua madre, il rancore tenace della sorella e la violenza del quartiere, subendo aggressioni per il colore della pelle e le stranezze della sua famiglia, sempre diviso tra gli impulsi di un cuore sentimentale e quella febbre combattiva, quell'energia selvaggia che gli faceva ardere il sangue e perdere la testa. Qualcosa lo spingeva alla compassione e qualcos'altro lo scatenava nella sfrenatezza. Viveva prigioniero di una perenne indecisione tra queste forze opposte che lo dividevano in due metà inconciliabili, artigli che lo laceravano dentro, separandolo dagli altri. Si sentiva condannato alla solitudine. Accettala una volta per tutte e non pensarci più, Gregory, noi nasciamo, viviamo e moriamo soli, aveva affermato Ciro, la vita è confusione e sofferenza, ma soprattutto solitudine. Ci sono interpretazioni filosofiche, ma se preferisci la favola del giardino dell'Eden, immagina che questo sia il castigo della razza umana per aver mangiato il frutto della conoscenza. Quell'idea suscitava in Reeves una vampata di ribellione, non aveva rinunciato all'illusione della sua infanzia, quando sperava che l'angoscia di essere vivo scomparisse per incanto. In quegli anni, quando si nascondeva nel ripostiglio di casa in preda a un timore irrazionale, immaginava che un giorno si sarebbe svegliato libero per sempre da quel dolore sordo al centro del corpo, era solo questione di conformarsi ai princìpi e alle regole del decoro. Ma non era stato così. Era
passato attraverso i riti di iniziazione e le tappe successive del cammino verso la virilità, si era formato da solo, con una tacita resistenza a colpi e mazzate, fedele al mito nazionale dell'individuo indipendente, orgoglioso e libero. Si considerava un buon cittadino, disposto a pagare le tasse e a difendere la patria, ma da qualche parte c'era un'insidiosa trappola e invece della ricompensa che si aspettava continuava a trovarsi impantanato. Non era stato sufficiente eseguire ed eseguire, la vita era una fidanzata insaziabile, esigeva sempre più sforzi e sempre più coraggio. In Vietnam aveva imparato che per sopravvivere era necessario violare molte regole, il mondo non era dei timidi ma degli audaci, nella vita reale andava meglio alla carogna che all'eroe. Nella guerra non c'era un esito morale, non c'erano vincitori, tutti erano parte della stessa mostruosa sconfitta e adesso gli sembrava che anche nella vita civile fosse così, però era ben deciso a sfuggire a quella maledizione. Mi arrampicherò sui pali più alti di questo maledetto pollaio, dovessi passare sopra il corpo della mia stessa madre, si ripeteva continuamente mentre si radeva davanti allo specchio del bagno, per vedere se a forza di ripeterselo riusciva a superare la sensazione di abbattimento con cui si svegliava ogni mattina. Non era disposto a parlare di queste cose con nessuno, neppure con Carmen. Si sentì sfiorare la bocca dai capelli di lei, aspirò il suo odore di sirena selvaggia e si abbandonò nuovamente ai richiami del desiderio. Vide il suo corpo flessuoso nella penombra delle tende, udì le sue risa e i suoi lamenti, sentì il tremito dei suoi capezzoli nel palmo della mano e per un istante troppo breve si credette redento dal suo anatema di solitario, ma subito i battiti accelerati del suo ventre e il caotico tamburo del suo cuore allontanarono quella chimera e si immerse sempre di più nell'abisso assoluto del piacere, ultimo e più profondo isolamento. Si rivestirono molto tempo dopo, quando il bisogno di respirare aria fresca e di mangiare qualcosa di più che pizza fredda e birra tiepida, unico servizio del motel, li riportò alla realtà. Ebbero il tempo di accarezzarsi con più calma e raccontarsi del passato, di terminare le conversazioni iniziate al telefono per anni, di ricordare Juan José, di raccontarsi le illusioni infrante, gli amori falliti, i progetti non conclusi, le avventure e i dolori accumulati. In quelle ore Carmen constatò che Gregory era cambiato non solo nel fisico, ma anche nell'anima, ma pensò che col tempo si sarebbero cancellati i brutti ricordi e sarebbe tornato a essere quello di prima, il buon amico sentimentale e divertente col quale vinceva concorsi di rock'n'roll, il confidente, il fratello. No, fratello, mai più, si disse con dolore. Quando la curiosità del conoscersi fu spenta, si rivestirono e
uscirono per strada, lasciando nella stanza il carretto con la bigiotteria. Seduti davanti a fumanti bricchi di caffè e toast croccanti, si guardarono nella luce rossastra della sera e si sentirono a disagio. Non sapevano che cosa fosse l'ombra calata tra di loro, ma nessuno dei due poté ignorare il suo effetto negativo. Avevano soddisfatto l'urgenza del desiderio, ma non c'era stato vero incanto, non si erano fusi in un solo spirito né si era loro rivelato un amore capace di cambiare le loro vite, come avevano immaginato. Una volta vestiti e appagati capirono quanto le loro strade divergessero, si trovavano d'accordo su ben poche cose, i loro interessi erano differenti, non condividevano progetti né valori. Quando Gregory espose il suo progetto di diventare un avvocato di successo e di far denaro, lei pensò che scherzasse, quell'avidità non gli calzava affatto, dov'erano rimasti gli ideali, i libri ispirati e i discorsi di Ciro con cui tante volte durante l'adolescenza l'annoiava e dei quali lei si burlava per farlo arrabbiare, ma che in fondo aveva fatto suoi. Per anni aveva pensato di essere lei la più frivola e lo aveva considerato come una guida, adesso si sentiva tradita. Quanto a Gregory non aveva la pazienza di ascoltare l'opinione di Carmen su argomenti importanti, dalla guerra agli hippy, gli sembravano le sparate di una ragazza viziata e bohémien che non era mai stata in situazioni di vero bisogno. Il fatto che si sentisse veramente realizzata vendendo gioielli per le strade e pensasse di passare il resto della sua esistenza come una vagabonda spingendo il suo carrettino e vivendo d'aria, gomito a gomito con dementi e falliti, era una prova convincente della sua immaturità. "Sei diventato un capitalista," lo accusò Carmen inorridita. "E perché no? Tu non hai la minima idea di quello che sia un capitalista!" replicò Gregory, e lei non seppe spiegare quello che le pesava sul cuore e si irretì in divagazioni che suonarono come frasi enfatiche da adolescente. Avevano pagato la camera al motel per un'altra notte, ma dopo avere terminato in silenzio la terza tazza di caffè, ciascuno chiuso nei propri pensieri, e avere passeggiato un po' osservando lo spettacolo della strada all'imbrunire, lei disse che doveva riprendere le sue cose al motel e tornare a casa perché aveva molto lavoro in sospeso. Questo evitò a Reeves la brutta parte di inventare una scusa. Si separarono con un rapido bacio sulle labbra e la vaga promessa di rivedersi prestissimo. Tornarono a incontrarsi quasi due anni dopo, quando Carmen Morales lo chiamò per chiedergli aiuto, doveva adottare un bambino nato dall'altra parte del mondo.
Timothy Duane invitò Gregory Reeves a una cena in casa dei suoi genitori e senza volere gli diede la spinta di cui aveva bisogno per farsi strada. Duane aveva ricevuto l'amico con l'usuale stretta di mano, come se fosse appena tornato da una breve vacanza, e solo la lucentezza dei suoi occhi svelò l'emozione che provava al vederlo, ma come tutti gli altri evitò di ascoltare i particolari della guerra. Gregory aveva l'impressione di aver commesso qualcosa di vergognoso, tornare dal Vietnam equivaleva a uscire dal carcere dopo una lunga condanna, la gente fingeva che non fosse successo niente, lo trattavano con esagerata cortesia e lo ignoravano completamente, non c'era posto per i combattenti fuori dal campo di battaglia. La cena in casa dei Duane fu noiosa e formale. Gli aprì la porta una vecchia nera, bella nella sua fiammante uniforme, che lo accompagnò in sala. Meravigliato, notò che non c'era un centimetro quadrato sulle pareti o sul pavimento senza addobbo, la profusione di quadri, arazzi, sculture, mobili, tappeti e piante non lasciava un intervallo di calma per riposare la vista. C'erano tavole con intarsi di madreperla e filigrane d'oro, sedie di ebano con cuscini di seta, gabbie d'argento per uccelli imbalsamati e una collezione di porcellane e cristalli degna di un museo. Timothy gli andò incontro. "Che lusso!" sfuggì a Reeves a mo' di saluto. "È lei l'unico lusso di questa casa. Ti presento Bel Benedict," replicò il suo amico indicando la domestica, che in verità sembrava una scultura africana. Gregory conobbe finalmente il padre del suo amico del quale il figlio parlava così male, un patriarca rinsecchito e col gozzo, incapace di scambiare due frasi senza lasciare da parte la sua autorità. Avrebbe potuto essere una serata orrenda per Gregory, se non fosse stato per le orchidee che salvarono la riunione e gli aprirono la porta per la sua carriera di avvocato. Il suo amico Balcescu lo aveva iniziato al vizio senza ritorno della botanica incominciato con la passione per le rose ed estesosi con gli anni ad altre specie. In quel palazzotto pieno zeppo di oggetti preziosi quello che attrasse di più la sua attenzione furono le orchidee della madre di Timothy. Ve n'erano di mille forme e colori, piantate in cassette, appese al soffitto entro cortecce d'albero e folte come una foresta in un giardino interno dove la signora aveva riprodotto un clima amazzonico. Mentre gli altri prendevano il caffè, Gregory se la svignò in giardino ad ammirarle e lì trovò un uomo anziano dalle sopracciglia diaboliche e dalla solida figura anche lui entusiasta dei fiori. Parlarono delle piante, entrambi sorpresi dalle conoscenze dell'altro. L'uomo risultò essere uno degli avvocati più
famosi del paese, un polipo i cui tentacoli raggiungevano tutto l'Ovest e, sentendo che cercava lavoro, gli diede il suo biglietto da visita e lo invitò a un incontro. Una settimana dopo lo assunse nel suo ufficio legale. Gregory Reeves era uno qualunque tra sessanta professionisti tutti ugualmente ambiziosi, però non tutti altrettanto decisi agli ordini dei tre fondatori che erano diventati miliardari con le disgrazie altrui. Lo studio occupava tre piani di un grattacielo in pieno centro, da dove la baia appariva incorniciata nell'acciaio e nel vetro. Le finestre non si potevano aprire, si respirava aria condizionata e un sistema di illuminazione inserito nei soffitti creava l'illusione di un'eterna giornata polare. Il numero di finestre di ogni ufficio indicava l'importanza del suo occupante, all'inizio non ne aveva affatto e quando se ne andò sette anni dopo poteva vantarsi di averne due ad angolo, da dove intravvedeva appena l'edificio di fronte e un insignificante pezzetto di cielo, che però rappresentavano la sua ascesa nella ditta e nella scala sociale. Aveva anche diversi vasi di piante e un nobile sofà di cuoio inglese, capace di sopportare molti maltrattamenti senza perdere la sua stoica dignità. Su questo mobile sfilarono diverse colleghe e un numero indeterminato di segretarie, amiche e clienti che resero più sopportabili i noiosi casi di eredità, assicurazioni e imposte che gli toccò risolvere. Dopo qualche tempo il suo capo andò da lui col pretesto di scambiare informazioni su una rara varietà di felci e poi un paio di volte lo invitò a pranzo. Osservandolo a distanza aveva scoperto la grinta e l'energia del suo nuovo dipendente e subito gli affidò casi molto interessanti per mettere alla prova i suoi artigli. Eccellente, Reeves, continui su questa strada e prima di quanto lei speri forse sarà mio socio, lo felicitava ogni tanto. Gregory aveva il sospetto che dicesse la stessa cosa ad altri dipendenti, però in venticinque anni ben pochi avevano raggiunto quella posizione nella ditta. Non nutriva vane speranze di una importante carriera, sapeva che lo sfruttavano, lavorava dalle dieci alle quindici ore al giorno, ma lo considerava parte dell'allenamento per potere un giorno volare da solo, e non si lamentava. La legge era una ragnatela di burocrazia, l'abilità consisteva nell'essere ragno e non mosca, il sistema giudiziario era divenuto un insieme di regolamenti tanto paralizzanti che ormai non servivano più allo scopo per cui erano stati creati, e invece di fare giustizia la complicavano fino alla demenza. Il suo fine non risiedeva nella ricerca della verità, come gli avevano insegnato all'università, ma nel guadagnare la causa con qualsiasi mezzo alla sua portata, per avere successo doveva conoscere le più assurde scappatoie legali e utilizzarle a suo vantaggio. Nascondere documenti, confondere testimoni e falsificare
dati erano pratiche usuali, la sfida consisteva nel farlo con efficienza e discrezione. Il bastone della legge non doveva mai cadere su clienti in grado di pagare gli astuti avvocati dello studio legale. La sua vita prese una direzione che avrebbe spaventato sua madre e Ciro, perdette buona parte delle illusioni sul suo lavoro, lo considerava solo una scala su cui arrampicarsi. Lo stesso si verificava in altri aspetti della sua esistenza, soprattutto nell'amore e nella famiglia. Il divorzio da Samantha si realizzò senza scontri inutili, con un accordo accettato da entrambi in un ristorante italiano, tra due bicchieri di Chianti. Non avevano da dividersi cose di valore, Gregory accettò di pagarle una pensione e di contribuire alle spese per Margaret. Salutandola le chiese se poteva prendersi i barili con i rosai, che dopo un così lungo abbandono si erano trasformati in rami secchi, ma sentiva il dovere di resuscitarli. Lei non fece obiezioni e gli offrì anche la tinozza di legno del fallito parto acquatico, dove forse avrebbe potuto coltivare una foresta domestica. Dapprima Gregory faceva un viaggio alla settimana per vedere la figlia, ma presto le visite andarono diradandosi, la bambina lo aspettava con una lista di cose da comprare e una volta soddisfatti i suoi capricci lo ignorava e sembrava disturbata dalla sua presenza. Non si mise in contatto con Judy o con la madre per lungo tempo; non chiamò neppure Carmen, si giustificava dicendosi che aveva troppo da fare. I rapporti sociali costituivano l'elemento fondamentale del successo sul lavoro, le amicizie servono per aprire porte, gli dissero i suoi colleghi d'ufficio. Doveva trovarsi nel posto esatto nel momento opportuno e con la gente adatta. I giudici frequentavano lo stesso club degli avvocati che poi incontravano in tribunale, tra amici si intendevano. Gli sport non erano il suo forte, ma si costrinse a giocare a golf per avere l'occasione di contattare della gente. Come aveva progettato, comprò una barca con l'idea di vestirsi di bianco e navigare in compagnia di colleghi invidiosi e donne invidiabili, ma non capiva niente dei capricci del vento, ogni giro nella baia risultava un disastro e l'imbarcazione finì abbandonata sul molo con nidi di gabbiani sugli alberi e ricoperta da una chioma di alghe putride. Gregory aveva trascorso un'infanzia di povertà e una gioventù di penuria, però si era nutrito di film che gli avevano lasciato il gusto per la gran vita. Nel cinema del suo quartiere aveva visto uomini in smoking, donne vestite in lamé e tavole con quattro candelabri servite da domestici in livrea. Benché tutto ciò appartenesse a un ipotetico passato holliwoodiano e non avesse riscontro nella realtà, lo affascinava ugualmente. Forse per questo si era innamorato di Samantha, riusciva facile immaginarla nel ruolo di una
gelida e raffinata bionda del cinematografo. Ordinava gli abiti a un sarto cinese, il più caro della città, lo stesso che vestiva l'anziano signore delle orchidee e altri magnati, acquistava camicie di seta e portava gemelli con le proprie iniziali. Il sarto si rivelò buon consigliere e gli proibì di portare scarpe di due colori, cravatte a pallini, pantaloni a quadri e altre tentazioni, finché a poco a poco il gusto di Reeves in fatto di abbigliamento si affinò. Anche per l'arredamento di casa sua ebbe un'efficace maestra. Dapprima comprò a credito qualunque oggetto ornamentale richiamasse la sua attenzione, meglio se grande ed elaborato, nel tentativo di riprodurre in scala minore la casa dei genitori di Timothy Duane, perché pensava che così vivono i ricchi, ma per quanto si indebitasse non arrivava a finanziare simili stravaganze. Iniziò a collezionare mobili antichi di seconda mano, lampadari a gocce, giare e persino una coppia di abissini in bronzo a grandezza naturale, con turbante e babbucce. La sua abitazione stava per trasformarsi in un bazar di turcherie, quando si imbatté in una giovane arredatrice che lo salvò dalle conseguenze del cattivo gusto. La conobbe a una festa e quella stessa notte iniziarono un'appassionata e fugace relazione molto importante per Gregory, che mai dimenticò le lezioni di quella donna. Gli insegnò che l'ostentazione è nemica dell'eleganza, idea completamente opposta ai precetti del suburbio latino che a lui non sarebbe mai venuta in mente, e procedette a eliminare senza riguardi quasi tutto il contenuto della casa, compresi gli abissini, che vendette a prezzo esorbitante all'Hotel Saint Francis, dove si possono vedere ancora oggi all'ingresso del bar. Lasciò solo il letto imperiale, i barili delle rose e la tinozza del parto divenuta vivaio di piante. Nelle cinque settimane del loro romanzo a due, trasformò la casa creandogli un ambiente semplice e funzionale, fece dipingere le pareti di bianco e coprire il pavimento di tappeti color sabbia, e poi accompagnò Gregory a comprare alcuni mobili moderni. Nelle sue istruzioni fu drastica: poco ma buono, colori neutri, ornamenti essenziali e, nel dubbio astieniti. Grazie ai suoi consigli la casa acquisì un'austerità conventuale e tale si mantenne fino a che il suo proprietario traslocò, diversi anni dopo. Reeves non parlava mai della sua esperienza in Vietnam, in parte perché nessuno voleva ascoltarlo, ma soprattutto perché pensava che il silenzio lo avrebbe finalmente guarito dai suoi ricordi. Era partito disposto a difendere gli interessi della sua patria con l'immagine degli eroi nella mente ed era tornato sconfitto, senza capire perché i suoi morivano a migliaia e uccidevano senza rimorsi in terre altrui. In quel periodo la guerra, che all'inizio contava sull'euforico consenso dell'opinione pubblica,
si era trasformata in un incubo nazionale, le proteste dei pacifisti si erano estese, sfidando il governo. Nessuno poteva spiegarsi come fosse possibile mandare viaggiatori nello spazio mentre non c'era modo di far cessare quel conflitto senza fine. Al loro ritorno i soldati dovevano affrontare un'ostilità più feroce di quella dei nemici, invece del rispetto e dell'ammirazione promessi al momento del reclutamento, erano additati quali assassini, a nessuno importava delle loro sofferenze. Molti che avevano sopportato senza cedere i rigori delle battaglie, crollarono al ritorno, quando si resero conto che non c'era posto per loro. "Questo è un paese di trionfatori, Greg, l'unica cosa che nessuno perdona è la sconfitta," gli disse Timothy Duane. "Non è la morale o la giustizia di questa guerra che mettiamo in discussione, nessuno chiede conto dei propri morti e tanto meno di quelli altrui, quello che ci fa sentire fottuti è che non abbiamo vinto e usciremo di là con la coda fra le gambe." "Qui ben pochi sanno che cos'è veramente la guerra, Tim. Non siamo stati mai invasi dal nemico né bombardati, è un secolo che stiamo combattendo, ma dal tempo della Guerra Civile non si è più sentito un colpo di cannone nel nostro territorio. La gente non ha idea di quello che è una città sotto il bombardamento. Cambierebbero opinione se i loro figli morissero lacerati da un'esplosione, se le loro case fossero ridotte in cenere e non sapessero cosa mettere in bocca," replicò Reeves nell'unica occasione in cui parlò dell'argomento con il suo amico. Non sprecò energie in lamenti gratuiti e con la stessa determinazione che aveva usata per uscire vivo dal Vietnam si propose di superare gli ostacoli sparsi sul suo cammino. Non si scostò di un millimetro dalla decisione di andare avanti, presa nel letto di un ospedale alle Hawaii, e la realizzò così bene che alla fine della guerra, qualche anno più tardi, era diventato il modello dell'uomo di successo e organizzava la propria vita con la stessa audace perizia da prestigiatore con cui un tempo Carmen teneva sospesi in aria cinque coltelli da macellaio. A quel tempo aveva realizzato tutte le sue ambizioni, disponeva di più denaro, donne e prestigio di quanto avesse mai sognato, però non era tranquillo. Nessuno conosceva l'angoscia che pesava sulle sue spalle come un sacco di pietre, perché aveva l'aria spavalda e spensierata di un birbone, eccetto Carmen, a cui non poté mai nasconderla, ma che neppure lei poté aiutarlo. "Quello che ti succede è che sei nell'arena di una corrida, però non hai l'istinto del matador," gli diceva. Che cosa cercavo nelle donne? Ancora non lo so. Non si trattava di
cercare l'altra metà della mia anima per sentirmi completo, né qualcosa di simile. A quei tempi non ero abbastanza maturo per quella possibilità, ero attratto da qualcosa che io stesso non sapevo definire e, non ottenendolo, mi rattristavo. Il divorzio, la guerra e l'età avrebbero guarito dalle intenzioni romantiche un altro più sveglio di me, ma non fu il mio caso. Da un lato cercavo di portarmi a letto quasi tutte le donne per pura bramosia sessuale, e dall'altro mi stizzivo quando non rispondevano alle mie tacite richieste sentimentali. Confusione, pura confusione. Per decenni mi sentii frustrato, ogni volta dopo il sesso mi assaliva una rabbiosa malinconia, un desiderio di andarmene in fretta. Anche con Carmen fu così, a ragione non volle vedermi per un paio d'anni, deve avermi detestato. Le donne sono ragni divoratori, se non ti liberi di loro non potrai mai essere te stesso e vivrai solo per compiacerle, mi avvertiva Timothy Duane, che si riuniva tutte le settimane con un gruppo di uomini per parlare della mascolinità minacciata da quell'idiozia del femminismo. Non gli ho mai dato peso, il mio amico non è un buon esempio in questo campo. Da giovane non avevo né la padronanza né la chiarezza di idee per avvicinarmi alle ragazze con un qualche metodo, lo facevo con la sventatezza di un cucciolo, e i risultati furono negativi. Fui fedele a Samantha fino a quella notte in cui mi toccò togliere la vestaglia da gelato alla fragola a una professoressa di matematica per cui non provavo alcun desiderio, ma non mi sento orgoglioso di quella lealtà che lei non ha ricambiato, al contrario mi sono comportato da tonto, oltre che da cornuto. Quando fui nuovamente libero mi disposi ad approfittare dei vantaggi della rivoluzione dei costumi, erano scomparse le vecchie strategie di conquista, nessuno aveva più paura del diavolo, delle malinconie, delle malelingue o di una gravidanza inopportuna, cosicché misi a dura prova il letto di casa mia, quelli di innumerevoli hotel e persino le britanniche molle del sofà del mio ufficio. Il mio capo mi avvertì seccamente che avrei perso immediatamente il posto se avesse ricevuto lamentele dalle impiegate. Non gli badai, ma ebbi fortuna perché nessuno protestò o forse i pettegolezzi non giunsero alle sue orecchie. Avevo stabilito con Timothy Duane delle sere fisse per far baldoria, ci scambiavamo informazioni e preparavamo le liste delle candidate. Per lui era uno sport, per me un delirio. Il mio amico era un bel ragazzo, galante e ricco però io ballavo meglio, sapevo suonare a orecchio diversi strumenti ed ero capace di cucinare, sciocchezze che attirano l'attenzione di certe donne. Assieme ci consideravamo irresistibili, ma penso che lo fossimo solo perché ci interessava la quantità e non la qualità, uscivamo con chiunque accettasse l'invito, non si può dire che fossimo
selettivi. Ci innamorammo entrambi di una filippina avida e sfacciata che soffocammo di gentilezze in una veloce gara per vedere chi avrebbe guadagnato il suo cuore, ma lei era molto più disinvolta e ci annunciò senza preamboli che voleva farlo con tutti e due. Quella soluzione salomonica mandò all'aria la nostra intenzione iniziale, non potevamo sopportare la reciproca concorrenza. Da quella volta ci dividevamo le ragazze in maniera così prosaica che se lo avessero sospettato non ci avrebbero mai accettati. Avevo diversi nomi sulla mia agenda e le chiamavo regolarmente, nessuna era stabile e a nessuna facevo promesse, il sistema mi riusciva comodo, ma non mi soddisfaceva, appena ne incontravo un'altra più o meno interessante mi lanciavo a inseguirla con la stessa urgenza con cui poi la lasciavo. Suppongo che mi spingesse l'illusione di trovare un giorno la compagna ideale che avrebbe dato un senso alla mia ricerca, così come bevevo il vino, nonostante risvegliasse le mie allergie, sperando di imbattermi nella bottiglia perfetta, o come d'estate facevo il turista per il mondo, correndo da una città all'altra in un'estenuante ricerca del luogo meraviglioso dove sarei stato totalmente a mio agio. Cercando, cercando sempre, però cercando fuori da me stesso. In quella tappa della mia vita la sessualità equivaleva alla violenza della guerra, era una forma crudele di stabilire un contatto che in fin dei conti mi lasciava un terribile vuoto. Allora io non sapevo che in ogni incontro apprendevo qualcosa, che non camminavo in cerchio come un cieco, ma in una lenta spirale ascendente. Stavo maturando con uno sforzo colossale, proprio come Olga mi aveva predetto. Sei un animale fortissimo e testardo, non avrai vita facile, ti toccherà subire molte bastonature, mi annunciò. Fu la mia prima maestra in quello che avrebbe deciso in buona parte il mio carattere. A sedici anni non solo mi fece praticare esperienze erotiche, ma la sua lezione più importante riguardò le basi di una vera coppia. Mi insegnò che nell'amore due esseri si aprono, si accettano, si arrendono. Sono stato fortunato, pochi uomini hanno l'occasione di imparare questo in gioventù, ma mai seppi capirlo e ben presto lo dimenticai. L'amore è la musica e il sesso è solo lo strumento, mi diceva Olga, ma aspettai più di metà della vita per incontrare il mio centro e per questo mi costò tanto imparare a suonare quella musica. Inseguii l'amore con tenacia dove non potevo trovarlo, e nelle poche occasioni in cui lo ebbi davanti agli occhi, fui incapace di vederlo. I miei rapporti furono rabbiosi e fugaci, non potevo arrendermi davanti a una donna né accettarla. Questo Carmen lo intuì nell'unica occasione in cui andammo a letto insieme, neppure lei aveva ancora vissuto una relazione piena, era ignorante quanto me,
nessuno poteva guidare l'altro sulle strade dell'amore. Neanche lei aveva sperimentato l'intimità assoluta, tutti i suoi compagni l'avevano offesa o abbandonata, non si fidava di nessuno e quando volle farlo con me, anch'io mi sottrassi. Sono convinto che lei abbia tentato sinceramente di accogliermi nella sua anima come nel suo corpo, Carmen è affetto puro, istinto e compassione, la tenerezza non le costa nulla, ma io non ero pronto e poi, quando cercai di avvicinarmi, era troppo tardi. Inutile piangere sul latte versato, come dice doña Immacolata, la vita ci prepara molte sorprese e alla luce di ciò che mi capita adesso, forse è stato meglio così. In quel momento le donne, come i vestiti e l'automobile, erano simboli di potere, si susseguivano senza lasciare traccia, come lucciole di un lungo e inutile delirio. Se qualcuna delle mie amiche pianse in segreto di fronte all'impossibilità di attrarmi in un rapporto profondo, non è rimasta nella mia memoria, come non ho il registro delle compagne casuali. Non desidero evocare i tratti delle amanti del tempo della sfrenatezza, ma se volessi farlo credo che troverei solo pagine bianche. I Morales ricevettero la lettera che avrebbe cambiato la vita di Carmen e gliela lessero per telefono: Signorina Carmen, le affido mio figlio perché suo fratello Juan José desiderava che crescesse negli Stati Uniti. Il bambino si chiama Dai Morales, ha un anno e nove mesi; è molto sano. Sarà un buon figlio per lei e un buon nipote per i suoi onorati nonni. Per favore venga a prenderlo presto. Sono ammalata e non vivrò per molto. La saluto con rispetto, Thui Nguyen. "Sapevi che Juan José aveva una donna laggiù?" domandò Pedro Morales con la voce spezzata dallo sforzo di mantenersi calmo, mentre in cucina Immacolata strizzava un fazzoletto, esitante tra la gioia di avere un altro nipote e i dubbi seminati dal marito secondo il quale la cosa puzzava d'imbroglio. "Sì, sapevo anche del figlio," mentì Carmen, che impiegò meno di quindici secondi ad adottare nel suo cuore la creatura. "Non abbiamo prove che Juan José sia il padre." "Mio fratello me lo ha detto per telefono." "La donna può averlo ingannato. Non sarebbe la prima volta che accalappiano un soldato con questa favola. Si sa sempre chi è la madre, ma non si può essere sicuri del padre." "Allora neanche lei può essere sicuro che io sia sua figlia, papà." "Non mancarmi di rispetto! E se lo sapevi perché non ci hai informati?" "Non volevo preoccuparvi. Pensavo che mai avremmo conosciuto il
bambino. Andrò a cercare il piccolo Dai." "Non sarà facile, Carmen. In questo caso non possiamo fargli attraversare la frontiera nascosto sotto una pila di lattughe, come hanno fatto degli amici messicani con i loro figli." "Lo porterò qui, papà, puoi starne sicuro." Afferrò il telefono e chiamò Gregory Reeves col quale non si era più vista da molto tempo e gli diede la notizia senza preamboli, così commossa ed entusiasmata dall'idea di diventare madre adottiva, che dimenticò completamente di esprimere qualche cenno di compassione per la donna moribonda o di chiedere al suo amico come mai erano stati tanto senza telefonarsi. Sei ore più tardi lui annunciò una sua visita per informarla su alcuni particolari, nel frattempo aveva fatto delle indagini e appurato che Pedro Morales aveva ragione, sarebbe stato abbastanza difficoltoso far entrare il bambino nel paese. Si incontrarono al ristorante di Joan e Susan, adesso così rinomato da comparire nelle guide turistiche. Il cibo non era cambiato, però invece di trecce d'aglio alle pareti erano appesi manifesti femministi, fotografie firmate delle ideologhe del movimento, caricature sul tema e in un angolo d'onore il celebre reggiseno infilato in un manico di scopa che le proprietarie del locale avevano trasformato in simbolo diversi anni prima. Le due donne erano rifiorite con il buon andamento delle loro finanze e conservavano intatte le loro calde maniere. Joan amoreggiava con il guru più richiesto della città, il rumeno Balcescu, che ormai non predicava più nel parco ma nella propria accademia, e Susan aveva ereditato dal padre un pezzo di terra dove coltivava verdure biodinamiche e allevava polli felici, che invece di crescere in quattro per gabbia alimentati con prodotti chimici si muovevano in piena libertà beccando grano autentico fino al momento di venire spennati per le padelle del ristorante. Nello stesso terreno Balcescu seminava marijuana idroponica, che si vendeva come pane appena sfornato, soprattutto nelle feste di Natale. Seduti al miglior tavolo del ristorante, accanto a una finestra aperta su un giardino selvaggio, Carmen ripeté al suo amico che avrebbe adottato suo nipote anche se avesse dovuto passare il resto della sua esistenza seminando riso nel Sud-Est asiatico. Non avrò mai un figlio mio, ma questo bambino è come se lo fosse perché ha il mio stesso sangue, e poi ho il dovere morale di occuparmi del figlio di Juan José e nessun ufficio di immigrazione del mondo potrà impedirmelo, disse. Gregory le spiegò pazientemente che il visto non era l'unico problema, le pratiche passavano attraverso una agenzia di adozione che avrebbe esaminato la sua vita per verificare se era una madre adatta e
se poteva offrire un focolare stabile al piccolo. "Ti faranno domande indiscrete. Non approveranno che tu passi le giornate sulla strada tra hippy, drogati, dementi e mendicanti, che tu non abbia un guadagno fisso, assicurazione sanitaria, previdenza sociale e orari normali. Adesso dove stai?" "Beh, per il momento dormo nella mia automobile nel cortile di un amico. Ho comprato una Cadillac gialla del '49, una vera reliquia, devi vederla." "Perfetto, l'agenzia di adozione ne sarà incantata!" "È una situazione provvisoria, Greg. Sto cercando un appartamento." "Hai bisogno di denaro?" "No. Le vendite vanno molto bene, guadagno più di ogni altro in tutta la via e spendo poco. Ho dei risparmi in banca." "E allora perché vivi come un'accattona! Francamente dubito che ti diano il bambino, Carmen." "Puoi chiamarmi Tamar? È questo il mio nome adesso." "Cercherò, ma mi è difficile, per me sarai sempre Carmen. Ti chiederanno anche se hai marito, preferiscono le coppie." "Sapevi che là trattano come cani i figli di americani e di donne vietnamite? Non gli piace il nostro sangue. Dai starà molto meglio con me che in orfanotrofio." "Sì, però non è me che devi convincere. Dovrai riempire formulari, rispondere a domande e provare che si tratta veramente di tuo nipote. Ti avverto che durerà mesi, forse anni." "Non possiamo aspettare tanto, per questo ti ho chiamato Gregory. Tu conosci la legge." "Però non posso fare miracoli." "Non ti chiedo miracoli ma qualche trucco inoffensivo per una buona causa." Tracciarono un piano. Carmen avrebbe usato parte dei suoi risparmi per sistemarsi in un appartamento in un quartiere decente, avrebbe lasciato il commercio di strada e preparato amici e conoscenti a rispondere alle capziose indagini delle autorità. Chiese a Gregory se l'avrebbe sposata nel caso che un marito fosse risultato un requisito indispensabile, ma lui le assicurò divertito che le leggi non erano tanto crudeli e con un po' di fortuna non sarebbe stato necessario andare così lontano. In cambio si offrì di aiutarla con del denaro, perché quell'avventura sarebbe stata costosa. "Te l'ho detto che ho dei risparmi. Grazie, ad ogni modo." "Conservali per mantenere il ragazzo, se riesci a portarlo qui. Io pagherò
i biglietti e ti darò qualcosa per il viaggio." "Sei così ricco?" "Quello che ho sono debiti, ma posso sempre ottenere un altro prestito, non preoccuparti." Tre mesi più tardi, dopo fastidiose pratiche in uffici pubblici e consolati, Gregory accompagnò la sua amica all'aeroporto. Per sviare i sospetti della burocrazia Carmen si era spogliata del suo travestimento, portava un abito di sartoria privo di ogni grazia e capelli raccolti, l'unico segno di un fuoco non del tutto estinto era il pesante trucco di Khol agli occhi, al quale non poté rinunciare. Sembrava più bassa, abbastanza matura e quasi brutta. Lasciati liberi, i seni che con le sue bluse da gitana apparivano attraenti sotto la giacchetta scura sembravano un balcone. Gregory dovette ammettere che il personaggio esotico da lei creato superava ampiamente la versione originale e si ripromise di non chiederle più di cambiare il suo stile. Non spaventarti, non appena avrò con me mio figlio tornerò a essere me stessa, disse Carmen ridendosela. Si guardava allo specchio e non riusciva a riconoscersi. Nella sua valigetta stava il piccolo drago di legno che Gregory le aveva regalato all'ultimo momento, perché ti porti fortuna, ché ne avrai bisogno, le disse. Portava con sé anche una serie di documenti, frutto di ispirazione e di audacia, fotografie e lettere di suo fratello Juan José, che pensava di utilizzare senza preoccuparsi delle norme dell'onestà. Reeves si era messo in contatto con Leo Galupi, certo che il suo buon amico conoscesse tutti e che non esistessero ostacoli capaci di fermarlo. Assicurò Carmen che poteva fidarsi di quel simpatico italiano di Chicago nonostante le voci che lo segnalavano come ruffiano. Lo accusavano di avere accumulato una fortuna col mercato nero, per questo non ritornava negli Stati Uniti. La verità era un'altra, l'uomo aveva concluso il suo servizio militare da tempo e non era rimasto in Vietnam per il denaro facile, ma per il gusto del disordine e dell'incertezza, era nato per una vita di sussulti e lì si trovava nel suo elemento. Non aveva denaro, era un bandito domato dal suo stesso cuore generoso. In anni di affari al margine della legge aveva guadagnato molto denaro, ma lo aveva speso per mantenere lontani parenti, aiutava amici in disgrazia e apriva la borsa quando vedeva qualcuno in stato di bisogno. La guerra gli dava l'opportunità di guadagnare in affari loschi e d'altra parte lo costringeva a spendere in innumerevoli gesti di compassione. Viveva in un magazzino dove si accumulavano le casse delle sue mercanzie, prodotti americani che vendeva ai vietnamiti e rarità orientali che offriva ai suoi compatrioti, dalle pinne di pescecane per curare l'impotenza alle lunghe trecce di fanciulle
per fabbricare parrucche, dalla polvere cinese per sogni felici alle statuette di antiche divinità in oro e avorio. In un angolo aveva sistemato una cucina a gas, dove era solito preparare succulente ricette siciliane per addolcire la sua nostalgia e nutrire mezza dozzina di bambini mendicanti che, grazie a lui, sopravvivevano. Fedele alla promessa fatta a Gregory Reeves, Leo Galupi era all'aeroporto ad aspettare Carmen con un mazzo di fiori illanguiditi. Stentò a identificarla perché si aspettava un turbinio di gonne, collane e braccialetti, invece trovò un'insignificante signora sfinita dal lungo viaggio e distrutta dal caldo. Neanche lei lo individuò perché Gregory lo aveva descritto come un inconfondibile mafioso e, al contrario, le parve di essere davanti a un trovatore uscito da un quadro, ma lui portava un cartello col nome di Tamar e così si riconobbero tra la folla. Non preoccuparti di nulla, cara, d'ora in poi mi farò carico di te e dei tuoi problemi, le disse baciandola sulle due guance. Mantenne la parola. Gli sarebbe toccato giurare falsamente che Thui Nguyen non aveva famiglia, imitare la grafia di Juan José Morales in lettere in cui si riferiva alla gravidanza della sua fidanzata, truccare fotografie dove entrambi comparivano a braccetto in luoghi diversi, falsificare certificati e timbri, supplicare funzionari incorruttibili e corrompere i corruttibili, pratiche che eseguiva con la naturalezza di chi da sempre ha navigato in quelle acque. Era un uomo di bel portamento, allegro e dall'aspetto piacevole, con forti tratti mediterranei e una lucida capigliatura nera che teneva legata in un corto codino. Carmen gli chiese di accompagnarla a far visita per la prima volta a Thui Nguyen perché, dopo aver tanto immaginato quel momento ed essersi preparata all'incontro, aveva perso la sua abituale sicurezza e al solo pensiero di vedere il bambino le si piegavano le ginocchia. La donna viveva in una stanza d'affitto in una grande casa che prima della guerra doveva appartenere a una famiglia di ricchi commercianti, ma adesso era divisa in stanze per una ventina di inquilini. C'era una tale confusione di gente affaccendata, bambini che correvano, radio e televisioni accese, che fecero fatica a trovare la stanza che cercavano. Aprì loro la porta una donnina da niente, un'ombra livida con un fazzoletto sul capo e un abito dal colore indefinito. Bastò uno sguardo per sapere che Thui Nguyen non aveva mentito, era molto malata, certamente era sempre stata piccola, però sembrava che lo scheletro le si fosse rimpicciolito senza dare tempo alla pelle di adattarsi alle nuove dimensioni, impossibile calcolare l'età perché aveva un'espressione millenaria in un corpo da adolescente. Li salutò con grande riserbo, si scusò per il disagio della sua stanza e li invitò a sedersi
sul letto; poi offrì del tè e, senza aspettare risposta, mise dell'acqua a bollire su un fornello sistemato sull'unica sedia disponibile. In un angolo si scorgeva un altare domestico con una fotografia di Juan José Morales e offerte di fiori, frutta e incenso. Vado a prendere Dai, annunciò, e si allontanò a passi lenti. Carmen Morales sentiva come se colpi di remo le battessero in petto e tremava nonostante l'umidità calda che emanava dalle pareti alimentando negli angoli una vegetazione verdastra. Leo Galupi avvertì che quello era il momento più intenso nella vita della donna e provò l'impulso di sorreggerla con le sue braccia, ma non osò toccarla. Dai Morales era un bambino magro e bruno, piuttosto alto per i suoi due anni, con i capelli ritti come una spazzola e un viso serissimo dove i neri occhi a mandorla le cui palpebre non si vedevano erano l'unico tratto orientale, entrò tenuto per mano dalla madre. Appariva uguale alla fotografia che Immacolata e Pedro Morales avevano del figlio Juan José a quell'età, solo che non sorrideva. Carmen tentò di alzarsi, ma le mancarono le forze e ricadde a sedere sul letto. Decise con folle certezza che quella creatura era la stessa che se ne era andata attraverso lo scolo della cucina di Olga dieci anni prima, il bimbo che le era stato destinato dall'inizio dei tempi. Perse per un istante la nozione del presente e si chiese angosciata che cosa facesse suo figlio in quella misera abitazione. Thui disse qualcosa che suonò come un gorgheggio e il bimbo avanzò timido e strinse la mano a Leo Galupi. Thui lo corresse con un altro suono di uccello e lui si rivolse a Carmen abbozzando lo stesso saluto, ma i loro occhi si incontrarono ed entrambi rimasero a guardarsi per alcuni, eterni secondi, come riconoscendosi dopo una lunga separazione. Infine lei tese le braccia, lo sollevò e se lo mise a cavalcioni sulle ginocchia. Era leggero come un gattino. Dai restò quieto, in silenzio, guardandola con espressione solenne. "Da adesso lei è la tua mamma," disse in inglese Thui Nguyen e poi lo ripeté nella sua lingua perché il figlio capisse. Carmen Morales impiegò undici settimane per espletare le formalità di adozione del nipote e ottenere il visto per portarlo al suo paese. Avrebbe potuto farlo in tempi più brevi, ma questo non lo seppe mai. Leo Galupi, che all'inizio si ammazzò per aiutarla a superare ostacoli apparentemente insormontabili, all'ultima ora fece in modo di complicarle i compiti e ritardare le pratiche finali, avvolgendola in un viluppo di scuse e dilazioni che lui stesso non sapeva spiegarsi. La città risultò molto più cara di quanto avesse immaginato, e di lì a un mese a Carmen mancarono i fondi. Gregory Reeves le mandò un assegnò bancario che sfumò in mance e conti
dell'hotel e quando stava per ricorrere al suo libretto di risparmio, Galupi si precipitò a salvarla. Aveva iniziato un nuovo traffico di zanne di elefante, le disse, e aveva le tasche rigonfie di banconote, lei non aveva alcun diritto di respingere il suo aiuto, visto che lo faceva per Juan José Morales, suo amico dell'anima, cui aveva voluto tanto bene e da cui non aveva potuto accomiatarsi. Lei sospettò che in realtà Galupi non avesse neppure sentito parlare di suo fratello prima che Gregory gli chiedesse il favore di aiutarla, ma non aveva interesse a verificare la cosa. Non volle che pagasse il conto dell'hotel, però accettò di andare a vivere in casa sua per ridurre le spese. Si trasferì con la sua valigia e un sacchetto di perle e pietre che era andata comprando nei momenti liberi, compresi alcuni piccoli fossili di insetti neolitici con cui aveva intenzione di fare dei fermagli. Non immaginava che quell'uomo, che aveva visto guidare un'auto da magnate e spendere a piene mani, alloggiasse in quella specie di deposito portuale, un labirinto di casse e scaffali metallici dove era accumulato un po' di tutto. Con una rapida occhiata vide un letto da campo, pile di libri, scatole di dischi e cassette, uno straordinario impianto stereofonico e un televisore portatile con un appendiabiti a mo' di antenna. Galupi le mostrò la cucina e altre comodità di casa sua e la presentò ai bambini che a quell'ora si facevano vivi per mangiare, avvertendola di non dare loro dei soldi e di non lasciare la borsa alla portata delle loro mani rapaci. In mezzo a quel disordine da accampamento, il bagno risultò una sorpresa, un'impeccabile stanza di legno con una tinozza, grandi specchi e asciugamani rossi vellutati. È quanto di più pregiato mi sia passato per le mani, non sai quanto sia difficile procurarsi degli asciugamani, sorrise l'anfitrione accarezzandoli con orgoglio. Infine condusse Carmen all'estremità del magazzino, dove aveva isolato con casse poste una sull'altra un ampio angolo; a guisa di porta c'era un impressionante paravento Coromandel. All'interno Carmen vide un ampio letto coperto da una zanzariera bianca, delicati mobili di lacca nera dipinti a mano con motivi di aironi e fiori di ciliegio, tappeti di seta, tele ricamate che ricoprivano le pareti e piccole lampade di carta di riso che emanavano una luce soffusa. Leo Galupi aveva creato per lei la stanza di un'imperatrice cinese. Quello sarebbe stato il suo rifugio per varie settimane, lì non arrivava il rumore del traffico né il fragore della guerra. A volte si chiedeva che cosa contenessero i misteriosi fagotti che la circondavano, immaginava oggetti preziosi, ciascuno con la propria storia, e sentiva l'aria riempirsi dello spirito delle cose. In quel luogo visse comodamente e in buona compagnia, consumata però dall'ansia dell'attesa. "Pazienza, pazienza," le raccomandava Leo Galupi quando la vedeva
agitata. "Pensa che se Dai fosse tuo avresti dovuto aspettarlo nove mesi. Nove settimane non sono niente." Nelle lunghe ore d'ozio in cui non faceva visita a Thui e al bambino, Carmen si aggirava per i mercati a comprare materiale per i suoi gioielli e creava nuovi disegni ispirati a quello strano viaggio. Le sembrava assurdo che in mezzo a una guerra di quelle dimensioni lei si aggirasse nei bazar come una turista. Nonostante che a quell'epoca gran parte delle truppe americane si fossero ritirate, il conflitto era al culmine. Aveva immaginato la città come un immenso accampamento militare dove avrebbe dovuto cercare il nipote trascinandosi tra soldati e trincee, e invece passeggiava per strette stradicciole contrattando tra un'immensa moltitudine apparentemente estranea alla guerra. Se tu parlassi con le persone avresti una visione diversa, disse Galupi, ma siccome lei poteva esprimersi solo in inglese, rimaneva isolata dalla gente. Senza esserselo proposto finì per ignorare la realtà e si immerse nelle due sole questioni che la interessavano: il piccolo Dai e il lavoro. La sua mente sembrava essersi dilatata in altre direzioni, l'Asia le entrò dentro, la invase, la sedusse. Pensò che aveva ancora da conoscere gran parte del mondo e se desiderava un reale successo col suo lavoro e un po' di sicurezza per il futuro, come si era ripromessa da quando aveva accettato di prendersi cura di Dai, sarebbe andata ogni anno in luoghi distanti ed esotici in cerca di materiali rari e di idee nuove. "Ti manderò le palline dei flagelli, ho contatti dappertutto, posso procurarmi qualsiasi cosa," si offrì Galupi, che non capiva la natura del lavoro di Carmen, ma poteva intuirne le possibilità commerciali. "Devo sceglierle io stessa. Ogni pietra, ogni conchiglia, ogni pezzetto di legno o di metallo mi suggerisce qualcosa di diverso." "Qui nessuno porterebbe quello che stai disegnando. Non ho mai visto una donna elegante con pezzetti d'osso e piume nelle orecchie." "Laggiù se li contendono. Le donne preferiscono far la fame pur di comprare un paio di orecchini come questi. Più alzo il prezzo, più gli piacciono." "Almeno quello che fai tu è legale," rise Galupi. A lei i giorni sembravano lunghissimi, il calore e l'umidità la prostravano. Usava i suoi rispettabili vestiti da matrona solo per sbrigare pratiche indispensabili, ma per il resto del tempo si vestiva con semplici tuniche di cotone e sandali da contadina comprati al mercato. Passava molte ore da sola leggendo e disegnando, accompagnata dal rumore dei grandi ventilatori del magazzino. La sera arrivava Galupi con sacchetti di
provviste, faceva la doccia, indossava i calzoni corti, metteva un disco e incominciava a cucinare. Ben presto comparivano diversi commensali, quasi tutti bambini, che si moltiplicavano riempiendo il bugigattolo con il loro chiacchiericcio leggero e le loro risa, e quando avevano finito di mangiare, andavano via senza salutare. A volte Galupi invitava degli amici americani, soldati o corrispondenti di giornali, che rimanevano fino a tardi a bere e fumare marijuana. Tutti accettarono senza far domande la presenza di Carmen, come se avesse fatto parte da sempre della vita di Galupi. A volte la invitava a cenare fuori e quando erano liberi la guidava attraverso la città, mostrandole i diversi aspetti, dalla vita reale dei variopinti settori popolari, alle zone residenziali degli europei ed americani dove si viveva con aria condizionata e acqua minerale. Andiamo a comprarti un completo da regina, abbiamo una cena all'ambasciata, le annunciò un giorno, la condusse al centro commerciale più elegante e la lasciò lì con un fascio di banconote in mano. Si sentì perduta, per anni si era cucita i vestiti e non sospettava che un abito potesse costare tanto. Quando il suo nuovo amico passò a cercarla tre ore più tardi, la trovò seduta sugli scalini del negozio con le scarpe in mano che imprecava frustrata. "Che è successo?" "È tutto orribile e carissimo. Adesso le donne sono piatte. Questi meloni non entrano in nessun vestito," grugnì indicando i suoi seni. "Mi rallegro," rise Galupi e la accompagnò al quartiere indù dove trovarono un magnifico sari di seta color cocomero ricamato in oro nel quale Carmen si avvolse con la massima disinvoltura, sentendosi molto più in pace con se stessa che dentro gli attillati abiti francesi per donne emaciate. Entrando quella sera nel salone dell'ambasciata riconobbe tra la folla l'uomo al quale ogni tanto pensava e che credeva di non rivedere più. Chiacchierando con un bicchiere di whisky in mano, in smoking e cappello grigio, ma con lo stesso viso di un tempo, c'era Tom Clayton. Il giornalista aveva per il momento interrotto i suoi articoli politici per trasferirsi in Vietnam a scrivere un libro. Passava più tempo alle feste e nei club che al fronte, fedele alla sua teoria secondo cui la guerra in realtà si fa nei salotti. Poteva recarsi in luoghi dove nessun corrispondente era ben accetto e conosceva personaggi giusti dell'alto comando militare, del corpo diplomatico, del governo e la piccola società cittadina, per cui fu attratto dal sortilegio di quella donna che non aveva mai visto prima. Dal colore olivastro della pelle, dal pesante trucco degli occhi e dal sari abbagliante
opinò che venisse dall'India. Notò che anche lei lo osservava e cercò il modo di avvicinarla. Carmen gli strinse la mano e si presentò col nome che usava sempre, Tamar. Molte volte aveva preparato il proprio atteggiamento nel caso avesse rivisto il suo primo amante, così decisivo per la sua esistenza, e l'unica cosa che non aveva mai pensato era che non le venisse in mente niente da dirgli. Gli anni avevano sciolto il suo rancore, scoprì con sorpresa di non provare altro che indifferenza per quell'uomo arrogante che non riusciva a ricordare nudo. Lo sentì parlare con Galupi mentre la guardava di sottecchi, evidentemente colpito, e si stupì di averlo desiderato tanto. Non si chiese, come aveva fatto tante volte nella sua solitudine, come sarebbe stato il loro bambino, perché ormai non poteva immaginare un altro figlio suo che non fosse Dai. Constatando che non l'aveva riconosciuta, tirò un sospiro di sollievo ma provò anche un profondo fastidio per il tempo perduto nelle pene d'amore. "Non l'ho mai vista prima. Da dove viene?" chiese Tom Clayton rivolgendosi a lei. "Vengo dal passato" rispose Carmen e gli voltò le spalle per uscire sul balcone a guardare la città che splendeva ai suoi piedi come se la guerra fosse altrove. Tornati al magazzino, Carmen e Leo Galupi si sedettero sotto il ventilatore commentando la serata senza accendere la lampada, nella penombra delle luci della strada. Lui le offrì da bere e lei chiese se per caso avesse un barattolo di latte condensato. Fece dei fori con la punta del coltello e si sistemò sul pavimento sopra alcuni grossi cuscini a sorbire il dolce, personale consolazione nei tanti momenti critici della sua esistenza. Lui osò infine domandarle di Clayton, aveva notato qualcosa di strano nel suo atteggiamento quando si erano incontrati, disse. Allora Carmen gli raccontò ogni cosa senza trascurare alcun particolare, era la prima volta che parlava della sua esperienza nella cucina di Olga, del dolore e della paura, del delirio all'ospedale e del lungo purgatorio per espiare una colpa che non era solo sua, ma che lui aveva rifiutato di condividere. Una cosa tirò l'altra e finì col rivelare tutta la sua vita. Era già l'alba e continuava a parlare in una specie di catarsi, l'argine dei segreti e dei pianti solitari si era spezzato e scopriva il piacere di aprire il cuore a un confidente discreto. All'ultimo sorso di latte condensato si stirò, sbadigliando, morta di stanchezza, poi si chinò sopra il nuovo amico e gli sfiorò la fronte con un bacio leggero. Galupi le strinse il polso e l'attirò a sé, ma Carmen voltò il viso e il gesto rimase incompiuto. "Non posso," disse.
"Perché?" "Perché ormai non sono più sola, adesso ho un figlio." Quella notte Carmen Morales si svegliò verso l'alba e credette di vedere Leo Galupi che la osservava, in piedi accanto al paravento Coromandel, ma non era ancora del tutto chiaro e forse la visione faceva parte del suo sogno. Era immersa nello stesso incubo che l'aveva perseguitata per anni, ma questa volta Tom Clayton non c'era e il bimbo che le tendeva le braccia non aveva il capo coperto da un sacchetto di carta, questa volta lo distingueva chiaramente, aveva i tratti di Dai. Si adattarono alla convivenza in un tranquillo benessere, come una coppia sposata da tanti anni. Carmen a poco a poco si abituò alla maternità, ogni giorno portava il bambino a fare passeggiate sempre più lunghe, imparò qualche parola vietnamita e gliene insegnò altre in inglese, conobbe i suoi gusti, le sue paure, le storie della sua famiglia. Thui la portò per due giorni in campagna a visitare i suoi genitori perché salutassero Dai. Essi avevano insistito per occuparsi del bambino, inorriditi all'idea di mandare uno dei loro all'altro capo del mare, ma Thui sapeva bene che lì suo figlio sarebbe stato sempre un bastardo di sangue misto, un cittadino di second'ordine, povero e senza speranza di migliorare la propria sorte. Il tentativo di adattarsi all'America non sarebbe stato facile, ma almeno lì Dai avrebbe avuto maggiori opportunità che lavorando il pezzo di terra del clan familiare. Leo Galupi insistette per accompagnarle perché non erano tempi in cui due donne e un bambino potessero viaggiare senza protezione. Carmen verificò ancora una volta qualcosa che sapeva fin dall'infanzia e che Joan e Susan le avevano ribadito tante volte che uomini e donne vivono nello stesso luogo e nello stesso tempo, però in dimensioni differenti. Viveva guardandosi sempre alle spalle, proteggendosi da pericoli reali o immaginari, sempre sulle difensive, dandosi da fare il doppio di un uomo per ottenere la metà. Ciò che per gli uomini era una questione banale su cui non valeva la pena di soffermarsi, per lei era un rischio e richiedeva calcoli e strategie. Una cosa semplice come la passeggiata in campagna di una donna poteva essere considerata una provocazione, un andare in cerca di guai. Ne parlò con Galupi, il quale si stupì di non avere mai pensato a quelle differenze. I parenti di Dai erano contadini poveri e diffidenti che ricevettero gli stranieri con occhiate d'odio, nonostante le lunghe spiegazioni di Thui Nguyen. L'inferma peggiorava rapidamente, quasi avesse tenuto a bada il cancro per poter conoscere Carmen, e si fosse dichiarata vinta dopo aver verificato che il bambino era affidato in buone mani. Se ne andava senza paura.
Nell'imminenza della morte si andò allontanando dolcemente perché Dai incominciasse a dimenticarla, come se sua madre non fosse mai esistita, così la separazione sarebbe stata più sopportabile. Lo spiegò con delicatezza a Carmen, e lei non osò contraddirla. Spesso Thui le chiedeva di passare la notte con Dai, non sto bene e mi sento più tranquilla da sola, diceva, però quando se ne andavano si voltava per nascondere le lacrime e quando il figlio tornava le si illuminavano gli occhi. Camminava a stento, il dolore non la abbandonava mai, però non si lamentava. Smise di prendere le medicine dell'ospedale, che la lasciavano esausta e le provocavano nausea, senza darle sollievo, e si faceva curare da un anziano agopuntore. Carmen la accompagnò diverse volte a quelle strane sedute in una stanzetta buia e odorosa di cannella dove l'uomo curava i suoi pazienti. Thui, adagiata su una piccola stuoia con gli aghi infitti in diversi punti del suo corpo logorato, chiudeva gli occhi e sonnecchiava. Quando tornava, Carmen la aiutava a mettersi a letto, le preparava una pipa di oppio, e quando la vedeva immersa nello stordimento della droga, portava con sé il bambino a comprare un gelato. Gli ultimi giorni l'inferma non poteva più alzarsi e Dai si trasferì nel capannone, dove condivideva con la nuova mamma il lettone cinese. L'italiano incaricò una donna di assistere la moribonda e accompagnava in macchina l'agopuntore perché le facesse il trattamento giornaliero. Thui Nguyen chiedeva con crescente impazienza notizie sull'andamento delle pratiche, desiderava essere certa che Dai sarebbe giunto sano e salvo nella terra di suo padre e ogni ritardo le arrecava un nuovo tormento. Una domenica accompagnarono il piccolo a salutare la madre. Gli ultimi intoppi si erano finalmente risolti, risultava registrato come figlio legittimo di Carmen Morales, aveva un passaporto con il visto necessario e il giorno dopo avrebbe intrapreso il viaggio verso l'America, dove avrebbe messo nuove radici. Lasciarono Thui sola con il piccolo per qualche minuto. Dai si sedette sul letto presentendo che quello era un momento definitivo e in realtà lo era tanto che molti anni dopo, quando era già un insigne matematico e lo intervistavano per le riviste scientifiche mi raccontò che l'unico autentico ricordo della sua infanzia in Vietnam era una donna livida dagli occhi ardenti che lo baciava in viso e gli consegnava un pacchetto giallo. Mi mostrò quell'oggetto, un vecchio album di fotografie avvolto in uno scialle di seta. Carmen e Galupi aspettarono fuori dalla porta fino a che la malata non li chiamò. La trovarono adagiata sui guanciali, serena e sorridente. Baciò per l'ultima volta il bambino e fece segno a Galupi che lo portasse via. Carmen si sedette accanto a lei e le prese la mano, mentre
lacrime ardenti le cadevano giù per le guance. "Grazie, Thui. Tu mi dai quello che ho desiderato di più in tutta la mia vita. Non preoccuparti, sarò per Dai una madre buona come sei stata tu, lo giuro." "Facciamo quel che possiamo," disse lei con dolcezza. Poco tempo dopo, mentre la famiglia Morales celebrava con una festa l'arrivo di Dai in America, Leo Galupi accompagnava le spoglie di Thui Nguyen in un semplice rito funebre. Quelle undici settimane avevano cambiato i destini di diverse persone, compreso quello di quell'affarista di Chicago, che da qualche giorno avvertiva un dolore sordo in mezzo al petto, là dove prima albergava uno spirito inconseguente e spaccone. Dai fu una ventata di rinnovamento nella vita di Carmen Morales, che dimenticò gli insuccessi amorosi del passato, le ristrettezze economiche, la solitudine e le incertezze. Il futuro si presentò ai suoi occhi chiaro e limpido, come se lo vedesse in uno schermo, si sarebbe dedicata al bambino, aiutandolo a crescere, tenendolo per mano per evitargli ruzzoloni, proteggendolo da tutte le possibili sofferenze, compresa la nostalgia e la malinconia. "Penso che per prima cosa dovremmo battezzare questo cinesino perché diventi uno dei nostri e non rimanga un moro," suggerì il vecchio Padre Larraguibel nella festa di benvenuto, abbracciando il bimbo con la tenerezza da sempre nascosta nel suo corpaccione di contadino basco, ma che in gioventù non aveva avuto il coraggio di esprimere. Carmen, però, fece in modo di rimandare la cosa, non voleva tormentare Dai con troppi cambiamenti, e d'altra parte il buddismo le sembrava una religione rispettabile e forse più tollerabile della fede cristiana. La nuova madre compì le cerimonie familiari indispensabili, presentò suo figlio a ciascun parente e amico del quartiere e cercò pazientemente di insegnargli i nomi impronunciabili dei suoi nuovi nonni e della folla di cugini, ma Dai pareva spaventato e non spiccicava parola, limitandosi a osservare con i suoi occhi neri, senza staccarsi dalla mano di Carmen. Lei lo portò anche alle carceri a trovare Olga, accusata di praticare magia nera, per vedere se la maga escogitava il modo di farlo mangiare, perché da quando era uscito dal suo paese si nutriva di succhi di frutta, era dimagrito e sembrava sul punto di dissolversi in un sospiro. Carmen e Immacolata erano sulle spine, avevano consultato un medico, che dopo minuziosi esami aveva dichiarato che era in buona salute e gli aveva prescritto delle
vitamine. La nonna adottiva ce la mise tutta a preparare piatti messicani con aromi asiatici e insistette nel fargli ingoiare lo stesso tonico di olio di fegato di merluzzo con cui aveva torturato i suoi sei figli durante l'infanzia, ma non ottenne alcun risultato. "Ha nostalgia della madre," disse Olga non appena lo vide attraverso la grata del parlatorio. "Ieri sono stata informata che sua madre è morta." "Spiega alla creatura che lei gli sta accanto, anche se non può vederla." "È molto piccolo, non capirebbe, a questa età non recepiscono concetti astratti. E poi non voglio mettergli in testa delle superstizioni." "Ah, ragazza mia, non sai niente di niente," sospirò la guaritrice. "I morti tengono i vivi per mano." Olga si era adattata al carcere con la stessa disponibilità con cui prima si sistemava a ogni sosta del camion transumante, quasi dovesse fermarsi lì per sempre. La reclusione non influì per nulla sul suo ottimismo, era solo un piccolo inconveniente, l'unica cosa che le faceva rabbia era che le accuse erano false, non aveva mai avuto interesse per la magia nera perché non rappresentava un buon affare, guadagnava molto di più aiutando i suoi clienti che maledicendo i loro nemici. Non temeva per la sua reputazione, al contrario, certamente quell'ingiustizia avrebbe aumentato la sua fama, però era preoccupata per i suoi gatti, che aveva affidati a una vicina. Gregory Reeves le assicurò che nessuna giuria avrebbe creduto agli effetti malefici di supposti riti di stregoneria, ma doveva a ogni costo evitare che si chiarisse la vera natura dei suoi affari, se fosse successo, la legge sarebbe stata implacabile. Si rassegnò ad accettare con discrezione la sentenza senza fare chiasso, ma la moderazione non era la sua principale virtù e in meno di una settimana aveva trasformato la sua cella in una succursale del suo stravagante consultorio familiare. I clienti non mancavano. Le altre recluse la pagavano per i suoi consigli di speranza, i massaggi terapeutici, l'ipnosi calmante, i potenti talismani e la sua arte divinatoria, e ben presto anche le guardie si rivolsero a lei. Trovò il modo di farsi portare a poco a poco le sue erbe medicinali, i suoi flaconi di acqua magnetizzata, i tarocchi e il Budda di gesso dorato. Dalla sua cella, trasformata in bazar, praticava i suoi efficaci incantesimi e allungava i sottili tentacoli del suo potere. Non solo divenne la persona più rispettata del carcere, era anche quella che riceveva più persone, tutto il quartiere messicano sfilava in visita. Temendo che Dai si consumasse d'inedia, Carmen decise di
sperimentare il consiglio di Olga e trovò il modo di dire al bambino, in una mistura di inglese, vietnamita e mimica, che sua madre si era elevata a una dimensione diversa e che il corpo non le serviva più, adesso aveva l'aspetto di una piccola fata traslucida che volava sempre sopra il suo capo per proteggerlo. Copiò l'idea di Padre Larraguibel che descriveva così gli angeli. Secondo lui, ciascuno aveva un demonio alla sua sinistra e un angelo alla destra, e quest'ultimo misurava esattamente trentatré centimetri, gli anni della vita terrena di Cristo, era nudo, ed era del tutto falso che avesse le ali, volava a reazione, sistema di volo divino, meno elegante ma molto più logico delle ali d'uccello descritte nei sacri testi. Con l'età il brav'uomo era diventato un po' eccentrico, ma si era anche fatta più acuta la visione del suo terzo occhio, esistevano prove irrefutabili che potesse vedere nell'oscurità, così come percepiva ciò che succedeva dietro le sue spalle, per cui durante la sua messa nessuno bisbigliava. Con indiscutibile autorità morale descriveva i dèmoni e gli angeli fornendo precisi particolari e nessuno, neppure Immacolata Morales che era molto conservatrice in materia di religione, si azzardava a mettere in dubbio le sue parole. Per supplire ai limiti del linguaggio Carmen fece un disegno in cui Dai compariva in primo piano e una figurina con un'elica sul capo e del fumo dalla coda gli volava attorno, e aveva gli inconfondibili occhi a mandorla neri di Thui Nguyen. Il piccolo lo osservò a lungo, poi lo ripiegò con cura e lo mise nell'album delle fotografie falsificate da Leo Galupi, assieme ai ritratti dei suoi genitori a braccetto in luoghi dove non erano mai stati. Subito dopo si mangiò il suo primo hamburger americano. Al termine di un'intensa settimana in famiglia, Carmen tornò con suo figlio a Berkeley, dove aveva organizzato la sua nuova esistenza. Prima di andare in cerca di Dai aveva preso in affitto un appartamento e preparato una stanza con mobili bianchi e una profusione di giocattoli. La casa consisteva in due stanze una per suo figlio e l'altra che serviva da camera da letto e laboratorio. Adesso non vendeva più gioielli agli angoli delle vie, li collocava in diversi negozi, ma le tentazioni delle vendite in strada erano invincibili. Il fine settimana andava con l'automobile in altre località, dove sistemava il suo banco nelle fiere d'artigianato. Per anni lo aveva fatto senza preoccuparsi della scomodità del viaggio, di lavorare diciotto ore senza sosta, nutrirsi di noccioline e cioccolata, dormire in auto e senza bagno, ma la presenza del bambino la obbligò ad apportare alcune migliorie. Vendette la malconcia Cadillac gialla e si comperò un furgone solido e ampio, dove poteva sistemare un paio di sacchi a pelo per la notte quando non trovava una stanza. Andavano fianco a fianco, come due soci,
Dai la aiutava a portare parte delle cose e a preparare il banco, poi si sedeva aspettando i clienti o giocava da solo, quando si stufava andava in giro per la fiera e se era stanco si metteva a dormire per terra ai piedi di sua madre. Siccome nelle diverse località si trovavano sempre gli stessi artigiani, tutti ormai conoscevano il figlio di Tamar, che in nessun altro posto era così al sicuro come in quei carnevali dove pullulavano ladri, ubriachi e drogati. Il resto della settimana Carmen lavorava a casa sua, sempre in compagnia del piccolo. Trovava il tempo per insegnargli l'inglese, fargli vedere il mondo attraverso libri presi in prestito alla biblioteca, portarlo a spasso per la città, in piscina e nei parchi pubblici. Pensava che quando si fosse sentito più sicuro nella sua nuova patria lo avrebbe mandato in un asilo perché stesse in compagnia di altri bambini della sua età, ma per il momento l'idea di separarsi da lui, anche per poche ore, la tormentava, aveva riversato su Dai la tenerezza accumulata in tanti anni in cui aveva pianto in segreto la sua sterilità. Non aveva idea di come allevare un bambino e non aveva la pazienza di studiarlo sui manuali, ma questo non la preoccupava. Stabilirono fra loro un legame indistruttibile basato sulla reciproca, totale accettazione e sul buonumore. Il piccolo si abituò a dividere lo spazio con lei in modo così meraviglioso che poteva costruire un castello con cubi di plastica sullo stesso tavolo in cui lei montava delicati orecchini d'oro con minuscole perle di ceramica precolombiana. A mezzanotte Dai passava nel letto di Carmen e al mattino si svegliavano abbracciati. Dopo il primo anno cominciò a sorridere timidamente, ma le rare volte in cui si separavano riprendeva la sua antica espressione assente. Lei gli parlava continuamente senza angustiarsi per il fatto che non articolasse parola, come vuoi che parli il poverino, se ancora non conosce l'inglese e ha dimenticato la sua lingua, è nel limbo dei sordomuti, ma non appena avrà qualcosa da dire lo dirà, spiegava telefonando a Gregory ogni lunedì. Aveva ragione. A quattro anni, quando le speranze che si esprimesse erano poche, Carmen cedette alle pressioni di tutti e lo portò a malincuore da uno specialista, che dopo averlo esaminato a lungo accuratamente senza ottenere il minimo suono articolato, confermò ciò che lei già sapeva, che suo figlio non era sordo. Carmen prese Dai per mano e lo portò ai giardini pubblici. Seduta su una panchina vicino a un laghetto di anatre gli spiegò che doveva pagare un terapeuta perché gli insegnasse a parlare, per quell'anno andavano a monte le vacanze, perché i soldi non le sarebbero bastati. "Fra te e me non c'è bisogno di parole, Dai, ma per sistemarti nel mondo devi comunicare. I disegni non bastano. Cerca di parlare un po', in modo
che possiamo farci le vacanze, se no siamo fottuti tutti e due..." "Quel dottore non mi piaceva, mamma, puzzava di salsa di soia," rispose il bambino in un inglese perfetto. Non sarebbe mai diventato un chiacchierone, ma che fosse muto era escluso. Il tempo libero divenne un vero lusso. Carmen smise di vedere gli amici e rifiutava gli inviti di quei pretendenti che fino a poco tempo prima la entusiasmavano. Fino ad allora l'amore le aveva causato più sofferenze che buoni ricordi, secondo Gregory sceglieva pessimi candidati, quasi potesse innamorarsi solo di chi la maltrattava, lei era convinta che il suo momento di sfortuna fosse passato, ma ad ogni modo decise di badare a se stessa. Per anni Immacolata Morales fece offerte a Sant'Antonio da Padova, per vedere se il patrono delle zitelle si impegnava a trovare marito a quella stravagante figlia che aveva passato i trenta e non dava ancora segno di mettere la testa a posto. Trovare il compagno adatto era stata in passato una segreta ossessione per Carmen, quando non aveva uomini i suoi sogni si popolavano di fantasmi lussuriosi, aveva bisogno di un abbraccio sicuro, di una calda intimità, mani virili sui fianchi, sussurri a bassa voce; adesso però non si trattava solo di cercare un compagno, ma anche il padre giusto per Dai. Pensò agli uomini che aveva avuto e per la prima volta si accorse della rabbia che provava contro di loro. Si chiedeva se si sarebbe lasciata picchiare davanti al bambino o se si sarebbe rassegnata a lavarlo nell'acqua fredda usata da un altro e aveva orrore della propria sottomissione. Passava in rassegna gli amanti più recenti e nessuno superava il suo severo esame, senza dubbio stavano meglio soli, decise. La maternità tranquillizzò il suo spirito e quanto alle esigenze del corpo pensò di seguire l'esempio di Gregory e di adattarsi ad amori passeggeri. Si domandava anche perché le fosse mancato il coraggio di tenere il suo bambino dieci anni prima, perché si fosse lasciata vincere dal timore e dal peso di inutili tradizioni, non era così difficile essere madre nubile, dopo tutto. Le nuove responsabilità tenevano in fermento la sua energia, accrescevano la sua voglia di lavorare e dalle sue mani uscivano disegni ogni volta più originali, le idee e i materiali esotici portati da remote regioni prendevano vita sotto le sue tenaglie, la fiamma ossidrica e le pinze. Si svegliava d'improvviso di primo mattino con la nitida visione di un disegno e si tratteneva per qualche minuto a letto immersa nel calore e nell'odore del suo bambino, poi si alzava, indossava la vestaglia di seta ricamata, regalo di Leo Galupi, faceva bollire l'acqua per preparare tè di mango, accendeva le lampade vittoriane sopra il tavolo e con gioiosa determinazione prendeva gli arnesi da lavoro. Ogni tanto dava un'occhiata al figlio addormentato e sorrideva
contenta. La mia vita è piena, non sono mai stata tanto felice, pensava.
QUARTA PARTE
Attento a ciò che chiedi, guarda che il cielo può concedertelo, era uno dei detti di Immacolata Morales, e nel caso di Gregory Reeves si realizzava come uno scherzo fatale. Negli anni seguenti realizzò i piani che aveva predisposto con tanto impegno e tuttavia dentro di sé ribolliva nel calore di un'impazienza opprimente. Non poteva fermarsi un istante, quando lavorava riusciva a ignorare i bisogni dell'anima, ma se aveva dei momenti liberi e si ritrovava nella quiete e nel silenzio, avvertiva una fiammata che lo consumava dentro, tanto potente da essere certo che non era solo sua, l'aveva alimentata il suo bizzarro padre e prima di lui suo nonno, ladro di cavalli e, prima ancora, chissà quanti bisavoli segnati dallo stesso marchio d'inquietudine. Doveva cuocere sulla brace di mille generazioni. L'impulso lo spingeva in avanti, assunse l'immagine del conquistatore proprio quando il distacco bucolico e l'eterna innocenza degli hippy erano stati schiacciati dagli ingranaggi dell'implacabile macchina del sistema. Nessuno poteva rimproverargli l'ambizione perché nel paese era già in gestazione l'epoca di sfrenata avidità che sarebbe arrivata molto presto. La sconfitta in Vietnam aveva lasciato nell'aria un senso di vergogna, un desiderio collettivo di riscattarsi per altre vie. Dell'argomento non si parlava, sarebbero dovuti passare più di dieci anni perché la storia e l'arte si azzardassero a esorcizzare i dèmoni liberati dal disastro. Carmen vide decadere a poco a poco la strada dove prima si guadagnavano la vita i suoi migliori amici, si accomiatò da molti artigiani espulsi dalle pressioni dei commercianti di rozzi prodotti di Taiwan, e vide scomparire a uno a uno gli innocenti pazzi che morirono di inedia o fuggirono per altri cammini quando la gente dimenticò di nutrirli. Arrivarono altri folli molto più disperati, i veterani della guerra che non avevano resistito all'orrore dei ricordi. Alla ribellione di strada di un tempo seguì la peste del conformismo, che contagiò persino gli studenti dell'università. Crebbe il numero dei miserabili e dei banditi, ovunque si vedevano mendicanti, ubriachi, prostitute, trafficanti di droga, ladri. Il mondo si sta disgregando a vista d'occhio, si lamentava Carmen. Gregory Reeves, che comunque non aveva mai condiviso le ingenue illusioni di quanti annunciavano l'era dell'Acquario, tempo di prevista fratellanza e
pace, replicava con l'esempio del pendolo, che va e viene nell'una e nell'altra direzione. Il cambiamento non lo colpiva perché era lanciato in una corsa cieca, anticipando l'esplosione di materialismo che avrebbe contrassegnato gli anni Ottanta. Si vantava dei suoi successi, mentre i colleghi si chiedevano come potesse ottenere i migliori casi e dove prendesse le risorse per andare di festa in festa, passare una settimana navigando nel Mediterraneo e vestirsi con camicie di seta. Non erano a conoscenza degli esorbitanti prestiti delle banche né delle azzardate manovre delle sue carte di credito. Reeves preferiva non pensare che prima o poi avrebbe dovuto pagare i conti, quando finiva i soldi sollecitava un altro credito alla sua banca col pretesto che in bancarotta o in carcere non avrebbe potuto in alcun modo rispondere dei suoi debiti, e che il denaro attira altro denaro, come una calamita. Non si tormentava per il futuro, era occupatissimo nel tentativo di costruire il presente. Diceva di non avere scrupoli e di non essersi mai sentito tanto forte e tanto libero, per cui non capiva quell'impulso di fuga che non gli dava tregua. Era nuovamente scapolo e senza altra croce da portare che quella del proprio cuore. Era separato da sua figlia da mezz'ora di strada, tuttavia la vedeva un paio di volte all'anno, quando andava a prenderla con la sua auto da conquistatore per portarla a passeggio con la pretesa di darle in quattro ore ciò che le aveva lesinato in sei mesi. Dopo ogni visita la lasciava con un cumulo di regali, più appropriati a una donna fatale che a una collegiale impubere, e sofferente per la scorpacciata di dolci e gelati. Era stato inutile convincere Margaret a chiamarlo papà, decise che Gregory suonava meglio per quell'uomo quasi sconosciuto che arrivava nella sua vita due volte all'anno come un bizzarro Babbo Natale. Non usava neppure la parola mamma. La maestra fece chiamare Samantha per chiederle se era vero che Margaret era stata adottata dopo che i suoi veri genitori furono orribilmente assassinati da una banda di malviventi. Raccomandò di consultare uno psicologo per l'infanzia, ma la madre poté accompagnarla solo al primo incontro perché l'ora di terapia interferiva con il suo corso di yoga. Non c'è bisogno che qualcuno mi dica chi siete, mi diverto a confondere la maestra che è molto sciocca, spiegò Margaret con la tranquilla sfrontatezza che la caratterizzava. I genitori conclusero che la piccola era un prodigio di immaginazione e senso dell'humour. Non li inquietava neppure il fatto che di notte si bagnasse come un bebé mentre insisteva nel vestirsi da donna, si tingeva le unghie e le labbra, non giocava con altre bambine e civettava con toni da cortigiana. A parte l'inconveniente di metterle i pannolini per la notte all'età in cui iniziava a ricevere le prime lezioni di educazione
sessuale, non dava preoccupazioni, si sviluppava come un essere misterioso e incorporeo la cui principale qualità era quella di passare inosservata. Era così facile dimenticare la sua esistenza che in più di un'occasione il padre disse scherzando che sarebbero andate molto bene per la bambina le collane per l'invisibilità di Olga. Durante i sette anni del suo primo impiego Gregory Reeves acquisì gli strumenti e i vizi della sua professione. Il suo capo aveva per lui una considerazione particolare rispetto agli altri avvocati dello studio, ed ebbe cura di rivelargli personalmente i trucchi essenziali. Era una di quelle persone meticolose e ossessive che devono controllare il minimo dettaglio, un uomo insopportabile ma un eccellente avvocato, nulla sfuggiva alla sua indagine, aveva un fiuto da bracco nell'azzeccare la chiave di ogni problema legale e un'eloquenza irresistibile nel convincere la giuria. Gli insegnò a studiare minuziosamente i casi, a cercare i più insignificanti indizi e a impostare la propria strategia come un generale. "È una partita a scacchi, vince chi anticipa più mosse. È necessaria un'aggressività da belva, ma la testa deve rimanere fredda. Se perde la calma è fritto, impari a controllare il suo carattere o non sarà mai tra i migliori, Reeves," gli ripeteva. "Lei ha buona tempra, ma nella lotta colpisce a occhi chiusi." "La stessa cosa che mi diceva Padre Larraguibel nel cortile della Chiesa di Lourdes." "Chi?" "Il mio maestro di boxe." Reeves era tenace, instancabile, difficile piegarlo, impossibile spezzarlo, ed era durissimo negli scontri, però lo travolgevano le sue stesse passioni. Al vecchio piaceva la sua energia, lui stesso ne aveva avuta a profusione nella giovinezza e gliene rimaneva ancora una buona riserva, perciò sapeva apprezzarla negli altri. Esaltava anche la sua ambizione perché era la leva per stimolarlo, bastava mettergli una carota davanti al naso per farlo correre come una lepre. Se in qualche circostanza si accorse delle manovre dell'altro per impadronirsi delle sue cognizioni e utilizzarlo come trampolino per intraprendere la scalata nello studio legale, non deve essersi stupito. Lui aveva fatto lo stesso agli inizi della carriera, con la differenza che non aveva avuto un capo abbastanza scaltrito da trattenerlo in tempo. Si considerava un buon conoscitore del carattere altrui, era certo di poter tenere in pugno Reeves e utilizzarlo a proprio vantaggio per un tempo indefinito, era come domare un cavallo: doveva dargli corda, lasciarlo correre, stancarlo e, non appena si fosse montato la testa, dargli uno
strattone e costringerlo a mordere il freno, in modo che riconoscesse la superiorità del padrone. Non era la prima volta che lo faceva e aveva sempre ottenuto buoni risultati. In rare occasioni di debolezza provava la tentazione di appoggiarsi al braccio di quel giovane avvocato così simile a lui, era il figlio che gli sarebbe piaciuto avere. Aveva creato un piccolo regno, e adesso che era vicino agli ottant'anni si chiedeva chi l'avrebbe ereditato. Aveva ormai pochi piaceri alla sua portata, il corpo non rispondeva più agli impulsi dell'immaginazione, non poteva assaporare un cibo raffinato senza pagarne le conseguenze con dolori di pancia, per non parlare di donne, il tema era troppo dolente. Osservava Reeves con un insieme di invidia e di comprensione paterna, ma non era un vecchietto sentimentale né era disposto a consegnare la più piccola briciola di potere. Era molto onorato di essere nato con il cuore duro, come diceva a chi si rivolgeva alla sua benevolenza per chiedergli un favore. La lunga consuetudine all'egoismo e l'impenetrabile corazza della sua meschinità erano più forti di qualsiasi scintilla di simpatia. Era il maestro perfetto per il faticoso apprendistato della cupidigia. Timothy Duane non perdonò mai al padre di averlo messo al mondo e di non essere morto in giovane età, continuando ad avvelenargli la gioia di vivere con la sua buona salute e i suoi sgradevoli atteggiamenti. Per sfidarlo commise un'infinità di sciocchezze, badando bene che il vecchio ne fosse informato e così i suoi cinquant'anni trascorsero in un odio esasperato che gli tolse la pace e il benessere. In certi casi il suo spirito di contraddizione lo salvò, come quando decise di eludere il servizio militare solo perché suo padre appoggiava la guerra, non tanto per patriottismo ma perché aveva interessi economici nelle fabbriche d'armi, ma in genere la ribellione gli si rivoltava contro e lo colpiva in faccia. Decise di non sposarsi e di non avere figli, anche nelle poche occasioni in cui si innamorò, per colpire l'altro nella sua ambizione di formare una dinastia. Con lui sarebbe morto il cognome che tanto detestava, ad eccezione di un ramo dei Duane in Irlanda di cui nessuno poteva parlare perché ricordava le loro origini modeste. Colto e raffinato, con la naturale eleganza di chi è nato tra lenzuola ricamate, Timothy suscitava una simpatia che gli procurava amici a profusione. Aveva una passione per le arti, ma faceva di tutto per nascondere queste qualità di fronte al padre e si comportava come uno zotico solo per provocarlo. Se il patriarca Duane organizzava una cena con l'élite della società, lui compariva senza essere invitato al braccio di una donnetta e pronto a calpestare ogni regola di educazione. Mentre il
padre ruggiva a denti stretti che non voleva vederlo mai più in vita sua, la madre lo proteggeva apertamente, anche a costo di scontrarsi col marito. Consulta uno psichiatra perché ti aiuti a curare i difetti del tuo carattere, gli raccomandava spesso, ma Timothy rispondeva che privo di difetti non avrebbe avuto un carattere. Intanto conduceva un'esistenza miserevole, non per mancanza di mezzi ma per vocazione all'infelicità. Disponeva di un'abitazione nel quartiere più ricco della città, un appartamento antico decorato con mobili moderni e specchi posizionati in punti strategici, e di una rendita per il resto della sua vita, ultimo regalo di suo nonno. Non essendogli mai mancato nulla, non dava la minima importanza al denaro, e se la rideva delle innumerevoli fondazioni inventate dai suoi familiari, non solo per evadere le imposte, ma anche per spogliarlo di ogni possibile eredità. I suoi dèmoni lo perseguitavano senza tregua, spingendolo a vizi che gli ripugnavano, ma ai quali cedeva per ferire suo padre, pur se in questo modo andava uccidendosi. Passava le giornate nel suo laboratorio di patologia, schifato dalla fragilità umana, dalle forme infinite del dolore e della decomposizione, ma anche ammirato per le possibilità della scienza. Non voleva ammetterlo, ma era quello l'unico luogo dove trovava una certa pace. Si perdeva nell'indagine meticolosa di una cellula malata e quando riemergeva dalle lastre fotografiche, le provette e i raggi laser, di solito a tarda sera gli dolevano i muscoli del collo e la schiena, però era contento. Quella sensazione persisteva finché non arrivava sulla strada, accendeva il motore della sua auto e si rendeva conto che non sapeva dove andare, nessuno lo aspettava in nessun posto, e allora sprofondava nuovamente nell'odio per se stesso. Frequentava i bar più abbietti dove perdeva ogni reputazione, si invischiava in risse di marinai per finire al pronto soccorso di un ospedale, compiva provocazioni nelle piscine per omosessuali sfuggendo per un pelo alla violenza che scatenava, abbordava prostitute per comprare un basso piacere reso più piccante dal rischio di un'infezione mortale. Rotolava giù da un pendio scosceso con un insieme di timore e di godimento, maledicendo Dio e invocando la morte. Dopo un paio di settimane di abbrutimento cadeva in una crisi di colpevolezza e si ritraeva tremante davanti all'abisso apertosi ai suoi piedi. Giurava a se stesso di non assaggiare più una goccia d'alcool, si chiudeva in casa come un anacoreta a leggere i suoi autori preferiti e ad ascoltare jazz fino all'alba, si faceva esaminare il sangue per cercare i segni di una pestilenza che forse in fondo in fondo desiderava quale punizione dei suoi peccati. Iniziava un periodo di tranquillità, assisteva a concerti o opere teatrali, andava a trovare la madre con atteggiamenti da buon figliolo, e riprendeva
a frequentare le pazienti fidanzate che lo aspettavano senza perdere la speranza di cambiarlo. Andava sui monti in lunghe escursioni solitarie per udire la voce di Dio che lo chiamava nel vento. L'unica persona che frequentava nei periodi buoni e in quelli neri era il suo amico Gregory Reeves, che lo aiutava a uscire da certi impicci e a rimettersi in piedi. Duane non faceva mistero della sua dissipatezza, al contrario, godeva nell'esagerare le sue bassezze per coltivare la sua fama di anima perduta, tuttavia aveva un lato gelosamente nascosto che ben pochi sospettavano. Mentre si beffava con provocatorio cinismo di qualsiasi nobile intenzione, appoggiava diverse iniziative idealistiche, badando sempre che il suo nome restasse strettamente segreto. Destinava parte delle sue entrate ad aiuti per i bisognosi che si aggiravano nella sua orbita e per sostenere iniziative in paesi lontani, dai bambini affamati ai prigionieri politici. Contrariamente a quanto aveva sperato nello scegliere quel campo della medicina, il lavoro tra i cadaveri risvegliò la sua pietà per i vivi, tutta l'umanità sofferente lo interessava, però non gli rimanevano riserve emotive per commuoversi su animali in via di estinzione, boschi distrutti o acque contaminate. Su tutte queste cose inventava barzellette feroci, così come le diceva grosse sulle razze, le religioni e le donne, anche perché capeggiare tali cause era di moda e il suo maggior piacere consisteva nello scandalizzare il prossimo. Lo seccava la falsa virtù di chi inorridiva per un delfino catturato da una rete per tonni, mentre passava indifferente accanto ai mendicanti stesi sulle strade fingendo di non vederli. Il mondo è una bella merda, era la sua espressione più generosa. "Quello di cui hai bisogno è una donna dolce di fuori ma d'acciaio dentro, che ti prenda per il collo e ti salvi da te stesso. Ti presenterò Carmen Morales," gli disse Reeves quando comprese alfine che la sua amica non era alla sua portata e si rassegnò ad amarla come un fratello. "È troppo tardi, Greg. Io vado bene solo per le puttane," rispose Timothy Duane, una volta tanto senza sarcasmo. Shannon comparve nella vita di Reeves come un soffio d'aria fresca. Erano anni che si sforzava di arrampicarsi in alto e malgrado i successi realizzati sentiva di non essersi mosso dal suo posto, come quando si corre negli incubi. Con artifici da giocoliere lanciava nell'aria debiti, viaggi sconclusionati, feste eccentriche, un orario folle e il suo rosario di donne, con l'impressione ogni giorno più precisa che alla minima distrazione tutto sarebbe caduto a terra con fragore di terremoto. Aveva tra le mani più casi legali di quanti potesse affrontare, più debiti di quelli che poteva pagare e
più amanti di quante potesse soddisfare. La buona memoria lo aiutava a ricordare ogni singolo filo di quel groviglio, la buona sorte a non scivolare in equivoci, la buona salute a non morire di sfinimento come un animale da tiro che superi il limite della propria resistenza. Shannon arrivò un lunedì mattina vestita di bianco nuziale emanando profumo di fiori, col sorriso più seducente che si fosse mai visto nel palazzo di cristallo e acciaio dello studio legale. Aveva ventidue anni, ma sembrava più giovane, con i suoi modi fanciulleschi e la travolgente simpatia. Era il suo primo impiego come telefonista, prima era stata commessa in diversi negozi, locandiera e cantante dilettante ma, come disse con la sua voce affascinante da adolescente viziata, non c'era futuro in quelle occupazioni. Gregory, abbagliato dalla sua radiosa allegria e curioso di fronte ai molteplici lavori disimpegnati di una persona così giovane, le chiese che vantaggi trovasse nel rispondere al telefono dietro un bancone di marmo e lei rispose enigmatica che lì almeno avrebbe conosciuto persone adeguate. Reeves la mise in nota nel suo taccuino di indirizzi e di lì a una settimana l'aveva già invitata a ballare. Lei accettò con la tranquilla fiducia di una leonessa a riposo, mi piacciono gli uomini più anziani, commentò sorridendo, e lui non capì bene cosa volesse dire, perché era abituato a ragazze giovani e la differenza d'età non gli parve importante. Ben presto si sarebbe scontrato con l'abisso generazionale che li separava, ma troppo tardi per fare marcia indietro. Shannon era una ragazza moderna. Fuggendo da un padre violento e da una madre che nascondeva col trucco i lividi provocati dai colpi del marito, partì a piedi da un villaggio sperduto della Georgia, dove era nata. Dopo due miglia la raccolse il primo camionista che la vide come un'apparizione magica nel nastro senza fine della strada, e dopo numerose avventure arrivò a San Francisco. La miscela di ingenuità e disinvoltura che era in lei stregava la gente e le permetteva di galleggiare al di sopra delle sordide realtà del mondo, davanti a lei le porte si aprivano da sole e gli ostacoli svanivano, il richiamo dei suoi occhi verdi disarmava le donne e seduceva gli uomini. Dava l'impressione di non essere affatto consapevole del proprio potere, passava attraverso la vita con la leggerezza di uno spirito celeste, eternamente sorpresa perché ogni cosa aveva buon esito. La sua natura incoerente la spingeva a passare da una cosa all'altra con atteggiamento gioioso, senza pensare affatto alle fatiche e ai dolori del resto dei mortali, non si preoccupava per il presente e tanto meno lo faceva per il futuro. Attraverso il continuo esercizio dell'oblio superò le sordide scenate dell'infanzia, le privazioni e miserie dell'adolescenza i tradimenti degli
amanti che la lasciarono dopo essere stati soddisfatti e il fatto incontestabile di non possedere nulla. Incapace di conservare qualcosa da un giorno all'altro, tirava avanti grazie a lavori di breve durata appena sufficienti alla sopravvivenza, però non si considerava povera perché quando desiderava qualcosa non doveva fare altro che chiederla, aveva sempre diversi pretendenti ammaliati, disposti a soddisfare i suoi capricci. Non utilizzava gli uomini per malizia o perversione, ma semplicemente perché non le era mai venuto in mente che servissero a qualcos'altro. Ignorava l'angoscia dell'amore o di qualunque altro sentimento profondo, si entusiasmava fugacemente per ogni innamorato finché durava lo slancio iniziale, ma presto si stancava e se ne andava, senza pietà per chi restava alle sue spalle. Senza rendersene conto condannò diversi amanti al martirio della gelosia e del dispetto, perché lei stessa era impermeabile a quel tipo di sofferenza, se la abbandonavano cambiava direzione senza lamentarsi, nel mondo c'era un'inesauribile riserva di uomini disponibili. Scusami, lo sai che sono come un carciofo, una fogliolina a questo, un'altra a quello, ma il cuore è tuo, disse a Gregory Reeves senza intenzione di prendersi gioco di lui, due anni dopo averlo conosciuto, mentre gli bendava le nocche rotte per un pugno in faccia a una delle sue conquiste. Fin dal primo appuntamento risultò evidente chi era il più forte. Reeves fu battuto sul suo stesso terreno, a nulla servirono l'esperienza accumulata e la sua spavalderia da dongiovanni. Soccombette subito, non solo davanti al fascino fisico della nuova telefonista, c'erano state diverse donne belle quanto lei nel suo passato, ma soprattutto di fronte al suo sorriso sempre pronto e al suo apparente candore. Quella sera si chiese con sincera preoccupazione come avrebbe potuto salvare da se stessa quella splendida creatura, la immaginò esposta a ogni genere di pericoli e dispiaceri e si assunse la responsabilità di proteggerla. "Il destino l'ha portata davanti a me per qualche ragione," disse a Carmen. "Secondo il Piano infinito di mio padre, niente succede per caso. Questa ragazza ha bisogno di me." Carmen non poté metterlo sull'avviso perché le antenne del suo intuito erano direzionate su Dai e in quei giorni stava preparando un travestimento da Re Magio per la celebrazione del Natale a scuola. Mentre sosteneva il telefono tra la spalla e l'orecchio, attaccava le piume su un turbante color smeraldo, davanti agli occhi attenti di suo figlio. "Speriamo che questa non sia vegetariana," commentò distratta. Non lo era. La giovane accoglieva i succulenti arrosti del suo nuovo amante con entusiasmo contagioso e appetito insaziabile, sembrava un
vero miracolo che potesse divorare tali quantità di cibo e mantenere la linea. Beveva anche come un marinaio. Al secondo bicchiere gli occhi le luccicavano febbrili e quella bimba angelica si trasformava in una plebea. In quei momenti Reeves non sapeva ancora quale delle due personalità gli riuscisse più attraente: la candida telefonista che compariva il lunedì con la camicetta inamidata dietro il bancone di marmo, o la baccante nuda e torbida della domenica. Era una donna affascinante e lui non si stancava di esplorarla come un geografo né di conoscerla in senso biblico. Si vedevano ogni giorno sul lavoro, dove fingevano un'indifferenza sospetta, data la reputazione di donnaiolo dell'uno e la costituzionale civetteria dell'altra. Durante la settimana godevano di instancabili incontri, che confusero con l'amore, e a volte in ufficio scappavano in qualche stanza chiusa e, a rischio di essere sorpresi, si dimenavano in piedi in un angolo con urgenza da adolescenti. Reeves si innamorò come mai prima e forse anche lei, per quanto nel suo caso non volesse dire molto. Iniziò per lui un periodo simile a quello della sua giovinezza, quando la vulcanica esplosione dei suoi ormoni lo obbligava a inseguire ogni ragazza che gli attraversava la strada, solo che adesso l'intera carica della sua passione era diretta verso un unico obiettivo. Non riusciva a eliminare Shannon dai suoi pensieri, si alzava ogni momento dalla sua scrivania per guardarla da lontano, tormentato dalla gelosia verso tutti gli uomini in generale e verso i suoi compagni di lavoro in particolare, compreso il vecchio delle orchidee, che si fermava anche lui spesso davanti alla giovane telefonista, forse tentato di aggiudicarsela come un trofeo in più, ma trattenuto dal senso del ridicolo e dalla piena coscienza dei limiti della sua età. Nessuno passava davanti all'ingresso senza avvertire una frustata di fronte al rifulgente sorriso di Shannon. Se una sera lei non era disposta a uscire, Gregory Reeves la immaginava inevitabilmente fra le braccia di un altro e il solo sospetto lo faceva impazzire. La colmò di regali assurdi con l'intenzione di impressionarla, senza rendersi conto che lei non apprezzava scatole russe dipinte a mano, alberi in miniatura o perle per le orecchie e certamente preferiva pantaloni di cuoio per girare in motocicletta con amici della sua età. Tentò di iniziarla ai propri interessi, con l'ansia degli innamorati che vogliono condividere ogni cosa. La prima volta che la portò all'opera lei fu abbagliata dagli abiti eleganti degli spettatori e quando si alzò il sipario credette che si trattasse di uno spettacolo umoristico. Resistette fino al terzo atto, ma al vedere una grassa dama vestita da geisha che si piantava un coltello nella pancia mentre il figlio agitava in una mano una bandiera del Giappone e nell'altra una degli Stati Uniti, le sue risate interruppero
l'orchestra e dovettero lasciare la sala. In agosto la portò in Italia. Non aveva ancora terminato il suo primo anno di lavoro e non aveva diritto a vacanze, ma ciò non costituì un ostacolo, perché aveva dato le dimissioni dallo studio legale. Le avevano offerto un impiego come modella di fotografie pubblicitarie. Gregory soffrì in anticipo per tutto il viaggio, detestava l'idea di vederla esposta agli sguardi altrui sulle pagine di una rivista, ma non si azzardò a discuterne per paura di sembrare un cavernicolo. Non ne parlò neppure con Carmen perché la sua amica lo avrebbe distrutto burlandosi di lui. Camminando lungo un sentiero fiorito sulla riva del lago di Como, senza vedere lo specchio diafano dell'acqua né le ville arancioni che si inerpicavano sui monti, perché aveva occhi solo per il prodigioso campionario della sua compagna, gli venne in mente una soluzione per trattenerla accanto a sé e le propose di vivere assieme a lui, così non avrebbe dovuto lavorare e poteva entrare all'università e seguire un corso di studi, era una persona intelligente e creativa, non c'era qualcosa che le sarebbe piaciuto studiare? In questo momento no, rispose Shannon con la risata facile dopo diversi bicchieri di vino, ma ci avrebbe pensato. Quella sera Reeves prese il telefono per raccontare la novità a Carmen all'altro lato dell'Oceano, ma non la trovò. La sua amica era in viaggio con Dai per l'Estremo Oriente. Bel Benedict non conosceva la sua età esatta né voleva accertarla. Gli anni avevano ossidato un po' le sue ossa e scurito la sua pelle di zucchero bruciato in un tono più vicino al cioccolato, ma non avevano modificato lo scintillio di topazio dei suoi larghi occhi né placato del tutto i richiami del suo ventre. Certe notti sognava il calore dell'unico uomo che amò in vita sua e si svegliava umida di piacere. Devo essere l'unica vecchia in calore della storia, che Gesù mi perdoni, pensava senza ombra di vergogna, anzi piuttosto con segreto orgoglio. La vergogna la provava quando si guardava allo specchio e vedeva che il suo corpo di scura puledra era un mucchio di triste pelle cascante, se suo marito avesse potuto vederla avrebbe voltato la faccia spaventato. Mai le venne in mente che, in caso fosse stato vivo, gli anni sarebbero passati anche per lui e non sarebbe più stato l'omone agile e allegro che l'aveva sedotta a quindici anni. Ma Bel non poteva permettersi il lusso di indugiare nel letto rievocando il passato né di fronte allo specchio lamentando il logorio del suo corpo, ogni mattina si alzava all'alba per andare al lavoro, meno la domenica che andava in chiesa e al mercato. Nell'ultimo anno non le avanzava un minuto, perché finito il
lavoro volava in fretta a casa per occuparsi del figlio. Aveva ripreso a chiamarlo Baby, come ai tempi in cui lo portava attaccato al seno e gli cantava la ninna nanna. Non mi chiami così, mamma, gli amici si burleranno di me, protestava lui, ma in realtà non aveva più amici, li aveva persi tutti, come aveva perso il lavoro, la moglie, i figli e la memoria. Povero Baby, sospirava Bel Benedict, però non lo compativa, piuttosto lo invidiava un po'; pensava di vivere ancora per molti anni e finché lei era viva lui sarebbe stato al sicuro. Passo dopo passo, un giorno alla volta, era la sua filosofia, non valeva la pena angustiarsi per un ipotetico domani. Suo nonno, uno schiavo del Mississippi, le aveva detto che davanti a noi c'è il passato, l'unica cosa reale, dal passato possiamo trarre insegnamenti ed esperienza per la vita; il presente è un'illusione perché in meno di un istante già fa parte del passato; e il futuro è un buco oscuro che non si vede e forse non c'è, perché in questo stesso momento può arrivare per noi la morte. Lavorò come domestica dai genitori di Timothy per tanti anni che costava fatica ricordare quella casa senza di lei. Quando la assunsero era ancora un donnone leggendario, una di quelle nere spezzate in vita che si muovono come se nuotassero sott'acqua. "Sposami" le diceva Timothy in cucina, quando lei gli faceva festa con tortillas dolci, la sua unica specialità culinaria. "Sei così bella che dovresti essere una stella del cinema invece che la serva di mia madre." "Gli unici negri del cinema sono bianchi dipinti di nero," rideva lei. Era molto giovane quando comparve sulla strada un nero vagabondo dalla risata fragorosa che cercava un po' d'ombra dove sedersi a riposare. Si innamorarono all'istante con una passione torrida capace di sconvolgere il clima e alterare la misura del tempo e così concepirono King Benedict, che avrebbe vissuto due vite, così come Olga predisse l'unica volta che si trovò con lui, quando il camion del Piano infinito lo raccolse su una strada polverosa al tempo della Seconda Guerra Mondiale. Pochi giorni dopo il parto, Bel aveva dimenticato i nove mesi in cui aveva portato il peso del figlio sotto al cuore e le angosce del parto, e tornava a inseguire il suo uomo negli angoli della fattoria. Fecero l'amore inondati da sangue mestruale accanto alle vacche della stalla, agli uccelli dei campi di mais e agli scorpioni del granaio. Quando il piccolo King iniziò a fare i primi passi esitanti, il padre, svuotato dagli amori e timoroso di perdere l'anima e la virilità tra le gambe di quella insaziabile Urì, fuggì portando con sé quale ricordo una ciocca di capelli che tagliò a Bel mentre dormiva. Nel tramestio di tali smodati congiungimenti avevano chiuso le orecchie alle insistenze del pastore della Chiesa Battista perché contraessero il sacro
vincolo agli occhi del Signore, come diceva. Per Bel una firma nel libro della parrocchia non faceva differenza, lei si considerava sposata. Per il resto della sua esistenza usò il cognome del suo amante e ai molti uomini che riposarono sul suo grembo nel successivo mezzo secolo diceva che suo marito in quel momento era in viaggio, a forza di ripeterlo finì per crederlo, perciò le faceva rabbia vedersi nuda allo specchio, se non fai presto a tornare troverai solo della pelle sgonfia, si lamentava con il ricordo dell'assente. Quella mattina di gennaio la città si svegliò spazzata da un vento furioso che veniva dal mare. Bel Benedict indossò il suo vestito color turchese, cappello, scarpe e guanti intonati, la sua tenuta della domenica e di tutte le feste. Aveva notato che la Regina Elisabetta esibiva sempre abbigliamenti monocolore e non ebbe tregua finché non comprò qualcosa di simile. Timothy Duane la aspettava in automobile di fronte al modesto edificio dove lei viveva. "Non sei immortale, Bel. Che accadrà a tuo figlio quando non ci sarai più?" le aveva detto Timothy. "King non sarà il primo ragazzo di quattordici anni che deve cavarsela da solo." "Non ha quattordici anni, ma cinquantatré." "Dal punto di vista pratico ne ha quattordici." "Bene, mi riferisco proprio a questo. Sarà sempre un adolescente." "Forse no, può darsi che maturi..." "Con un po' di denaro tutto sarà più facile per voi, non essere testarda." "Te l'ho già detto, Tim. Non c'è niente da fare. L'avvocato della Compagnia di Assicurazioni è stato chiarissimo con noi, non abbiamo alcun diritto, ci daranno diecimila dollari per generosità, ma non subito, ci sono molte pratiche da svolgere." "Non mi intendo di queste cose, però ho un amico che ci può consigliare." Gregory li ricevette nella giungla di vasi del suo ufficio. Bel fece un ingresso trionfale col suo abito da regina, si sedette nel sofferto sofà di cuoio e andò raccontando lo strano caso di suo figlio, King Benedict. Reeves la ascoltava con attenzione mentre frugava nella sua inesorabile memoria cercando l'origine di quel nome, che risuonava come una lontana eco del passato. Impossibile dimenticare un nome così risonante, si chiedeva dove lo avesse già sentito. King era un buon cristiano, disse la donna, ma Dio non gli aveva concesso vita facile. Erano sempre stati poveri e nei primi tempi andavano da un posto all'altro cercando lavoro,
salutando i nuovi amici e cambiando scuola, King crebbe col dubbio che sua madre scomparisse seguendo un pretendente, lasciandolo solo in una stanza provvisoria di un paese senza nome. Era un ragazzo malinconico e timido, che due anni di guerra nel Sud del Pacifico non liberarono dalla sua insicurezza. Al ritorno si sposò, ebbe due figli e si guadagnò da vivere come operaio edile. Negli ultimi anni il suo matrimonio vacillava, la moglie minacciava di lasciarlo, i figli lo consideravano un povero diavolo. Bel vedeva che era teso e triste e temeva che incominciasse nuovamente a bere, come era successo durante altre crisi, le cose andavano male e finirono di guastarsi con l'incidente. King Benedict si trovava all'altezza di un secondo piano quando l'impalcatura cedette e precipitò, schiantandosi al suolo. Il colpo lo stordì per alcuni secondi, ma riuscì a rimettersi in piedi, apparentemente aveva solo delle leggere contusioni, ma ad ogni modo lo portarono all'ospedale dove, dopo un esame superficiale, lo dimisero. Non appena gli passò il dolore di testa e incominciò a parlare si vide che non ricordava dove fosse e non riconosceva i suoi, credeva di essere tornato all'adolescenza. Ben presto sua madre scoprì che la memoria arrivava solo fino ai quattordici anni, di lì in avanti c'era un abisso oceanico. Lo visitarono dentro e fuori, gli misero sonde in ogni orifizio, elettricità nel cervello, lo interrogarono per settimane, lo ipnotizzarono e gli fotografarono l'anima, senza scoprire un motivo logico per un oblio così drammatico. Gli strumenti medici non registrarono danni organici. Incominciò a comportarsi come un ragazzo imbroglione, inventando goffe bugie per ingannare i suoi figli, che trattava come compagni di gioco, a sfuggire alla vigilanza della moglie, che confondeva con sua madre. Non riusciva a riconoscere Bel Benedict, la ricordava come una giovane donna molto bella, ma comunque nei mesi successivi si aggrappò a questa anziana donna sconosciuta come a un salvagente, lei era l'unica cosa sicura in un mondo di confusione. Amici e parenti non vollero accettare la sua amnesia, forse si trattava di uno scherzo isterico, dissero, e ben presto di stancarono di cercare negli interstizi della sua mente dei segnali di riconoscimento. Neppure la Compagnia di Assicurazioni gli credette, fu accusato di inventare quella fandonia per avere una pensione e passare il resto della vita mantenuto in quanto invalido, mentre in realtà aveva preso un colpo da niente, era un truffatore. Ogni volta che sua moglie usciva, King si sentiva abbandonato e quando lei incominciò a portare il suo amante a dormire in casa, Bel Benedict pensò che era arrivato il momento di intervenire e portò il figlio a vivere con lei. Durante quei mesi lo aveva osservato con cura senza scoprire alcun ricordo posteriore ai quattordici
anni. A poco a poco King si era tranquillizzato, era un buon compagno, la madre era contenta di averlo con sé, l'unica cosa strana nel suo comportamento erano voci e visioni che diceva di avere, ma entrambi si abituarono alla presenza di quegli impalpabili fantasmi dell'immaginazione a cui i medici non attribuivano alcuna importanza. Timothy Duane aveva portato i certificati dell'ospedale e le lettere degli avvocati della Compagnia di Assicurazioni. Reeves li osservò con un'occhiata superficiale, sentendo in tutto il corpo l'ardore della battaglia che ben conosceva, la frenetica intuizione del combattente, il meglio della sua professione, gli piacevano i casi complicati, le sfide difficili, le schermaglie. "Se decide di fare causa deve farlo subito, perché ha tempo solo un anno dopo l'incidente." "Ma allora non mi daranno i diecimila dollari!" "Questo caso può valere molto di più, signora Benedict. Probabilmente le hanno fatto quell'offerta per guadagnare tempo in modo che lei perda il diritto di querelarli." Spaventata la donna accettò, diecimila dollari erano più di quanto avesse risparmiato in tutta una vita di fatiche, ma quell'uomo le ispirava fiducia e Timothy Duane aveva ragione, doveva proteggere suo figlio da un futuro così incerto. Quella sera Reeves presentò il caso al suo capo, così entusiasta che le parole si accavallavano nel raccontargli di quella negra bellissima e di suo figlio di età matura tornato all'adolescenza a causa di un colpo, pensi se vinciamo, cambieremo la vita di quella povera gente, ma si scontrò con le sopracciglia diaboliche sollevate fino alla radice dei capelli e uno sguardo ironico. Non perda tempo in sciocchezze, Gregory, gli disse, non vale la pena di mettersi in questo ginepraio. Gli spiegò che le possibilità di vincere erano remote, tante ore di lavoro e il risultato poteva essere nullo, senza una lesione cerebrale che giustificasse la perdita della memoria nessuna giuria avrebbe prestato fede all'amnesia. Reeves provò un'ondata di frustrazione, era stanco di ubbidire alle decisioni altrui, ogni giorno si sentiva più inquieto e defraudato del suo lavoro, non vedeva l'ora di rendersi indipendente. Approfittò di quel rifiuto per buttar là al vecchio delle orchidee il discorso di addio che aveva tante volte provato a pronunciare da solo. Tornando a casa quella sera trovò Shannon seduta a terra nel salotto a guardare la televisione, la baciò con un misto di orgoglio e di ansia. "Ho rinunciato allo studio legale. Da adesso in poi volerò da solo." "Bisogna festeggiare," esclamò lei. "E già che ci siamo Greg, facciamo
un brindisi al bebé." "Quale bebé?" "Quello che stiamo aspettando," sorrise Shannon versandogli un bicchiere dalla bottiglia che aveva accanto. Quando divorziò dal secondo marito Judy Reeves rimase con i figli, anche quelli che l'uomo aveva avuti dalla prima moglie. Col passare del tempo il matrimonio era diventato un incubo di rancori e liti, in cui il marito aveva tutto da perdere. Quando arrivò il momento di separarsi definitivamente, non si considerò neppure la possibilità che il padre portasse con sé i bambini, l'affetto tra quelle due creature brune e Judy era così solido ed esclusivo che nessuno ricordava che non erano sue. La donna restò nubile solo per alcuni mesi. Un sabato di gran calura portò la famiglia in spiaggia e lì conobbe un robusto veterinario del Nord della California che faceva turismo su un camion assieme a tre figli e una cagnetta. L'animale era stato investito e aveva la parte posteriore paralizzata, ma invece di inviarlo a miglior vita, come consigliava l'esperienza professionale, il suo padrone improvvisò un arnese per farlo muovere con l'aiuto dei bambini, che si davano il cambio per sostenerlo dal dietro mentre correva sulle zampe anteriori. Lo spettacolo dell'invalida cagnetta che si rotolava tra le onde con latrati di piacere attrasse i figli di Judy. Così si conobbero. Lei ripassava le cuciture di un costume da bagno a righe e sorbiva un gelato dietro l'altro, senza la minima sosta. Il veterinario rimase a contemplarla con un insieme di orrore e di attrazione davanti a tanta grassezza esposta, ma dopo un po' di conversazione divennero amici, dimenticò il suo aspetto e quando calò il sole la invitò a cena. Le due famiglie chiusero la giornata divorando pizze e hamburger. L'uomo tornò con i suoi alla valle di Napa, dove viveva, e Judy continuò a chiamarlo col pensiero. Dai tempi di Jim Morgan, suo primo marito, non trovava un uomo capace di tenerle testa tanto a letto quanto in una bella lite. Jim Morgan era uscito di prigione per buona condotta e, nonostante lei fosse sposata con il tombolotto dai baffi, la chiamò per dirle che non aveva trascorso un solo giorno della sua condanna senza ricordarla con affetto. Ma ormai lei seguiva altre strade. Inoltre Morgan si era convertito a una setta di cristiani fondamentalisti, il cui fanatismo risultava incomprensibile a lei, che aveva ricevuto da sua madre l'eredità tollerante della fede Bahai, e per questo non volle vederlo quando si ritrovò sola. I messaggi mentali di Judy attraversarono montagne ed estesi vigneti e dopo qualche tempo il veterinario tornò a trovarla. Passarono una settimana di luna di miele con
tutti i bambini e Nora, la nonna, che ormai dipendeva completamente da Judy. La capanna che Charles Reeves aveva comprato trent'anni prima era tornata al suo precario stato originale. Le termiti, la polvere e il passare del tempo avevano compiuto la loro lenta opera sulle pareti di legno, senza che Nora facesse alcunché per salvare la sua casa dalla rovina. Una sera Judy e il suo secondo marito andarono a farle visita e trovarono la vecchia seduta sotto il salice sulla poltrona di vimini, perché il tetto del portico era crollato, i sostegni erano marci. "Bene, signora, lei verrà a vivere con noi," disse il genero. "Grazie, figlio mio, ma non è possibile. Immagini il turbamento del Dottore in Scienze Divine se non mi trova qui il giovedì." "Cosa dice tua madre?" "Crede che il fantasma di mio padre venga a trovarla ogni giovedì, per questo non ha mai voluto lasciare la casa," gli spiegò Judy. "Non è un problema, signora. Lasceremo un biglietto a suo marito con il nuovo indirizzo," decise l'uomo. A nessuno era venuta in mente una soluzione tanto semplice, Nora si alzò, scrisse il biglietto con la sua perfetta calligrafia da maestra, prese la sua collana di perle, salvata da tanta miseria, una scatola con vecchie fotografie e un paio di quadri dipinti dal marito, e andò tranquillamente a sedersi nell'automobile della figlia. Judy mise la poltrona di vimini nel portabagagli perché sua madre poteva averne bisogno, chiuse la casa con un lucchetto e partirono senza guardarsi indietro. Charles Reeves deve avere trovato il messaggio, come trovò gli altri ogni volta che la sua vedova cambiò domicilio, perché non mancò neppure una volta l'appuntamento postumo del giovedì, e Nora non perse di vista il filo dell'arancia che la univa all'altro mondo. L'anno in cui Gregory si sposò con Shannon, sua sorella viveva con il veterinario, con sua madre e un mucchio di bimbetti di diversa età, colore e cognome, aspettava l'ottavo figlio e confessava di essere innamorata. La sua esistenza non era facile, metà della casa era destinata alla clinica per gli animali, doveva sopportare la sfilata continua di bestie ammalate, l'aria odorava di criolina, i bambini litigavano come belve e Nora Reeves si era innalzata al misericordioso mondo della fantasia e all'età in cui le altre donne anziane preparano i calzini per i nipoti, era tornata alla sua gioventù. Malgrado ciò Judy per la prima volta si considerava felice, finalmente aveva un buon compagno e non doveva lavorare fuori casa. Suo marito preparava monumentali grigliate per nutrire la tribù e comprava all'ingrosso biscotti al cioccolato. Nonostante la gravidanza, la buona tavola e il suo enorme appetito, Judy
cominciò lentamente a dimagrire e pochi mesi dopo il parto aveva raggiunto il suo peso da ragazza. Assistette al matrimonio del fratello con un abito di veli chiari e un delicato cappello di paglia, al braccio del terzo marito, con sette figli con i vestiti della domenica e un altro in braccio, sua madre vestita da collegiale e una cagnetta paralitica sostenuta da un arnese, ma con l'espressione sorridente dei cani contenti. "Saluta tua zia Judy e tua nonna Nora," disse Gregory a Margaret, che allora aveva undici anni ed era sempre molto bassa di statura, ma si comportava come una donna adulta. La figlia non aveva mai sentito parlare di quel donnone obeso né di quella vecchietta svagata con un fiocco in testa e pensò che quel circo fosse una specie di scherzo. Non apprezzava il senso dell'umorismo di suo padre. Il fidanzato volle dare alle sue nozze un tono latino, si accordò con un gruppo di mariachis, i suonatori del quartiere della missione, e il pranzo fu opera di Rosemary, una delle sue ex amanti, una bella donna che non gli serbava rancore per il suo matrimonio perché non lo aveva mai voluto come marito. Aveva scritto diversi libri di cucina e si guadagnava da vivere preparando banchetti, con la sua équipe di cuoche organizzava con la stessa facilità una festa messicana, una colazione per uomini d'affari giapponesi o una cena francese. Shannon, che era l'anima del ricevimento, abbigliata con un innocente abito di organza bianco, si esibì in passi-doppi, boleri e corridos, finché il vino le andò alla testa e dovette ritirarsi. Per il resto della notte Gregory Reeves e Timothy Duane ballarono con Carmen, come ai vecchi tempi del jitter-bug e del rock'n'roll, mentre Dai osservava attonito quel nuovo aspetto della personalità di sua madre. "Questo bambino è uguale a Juan José," notò Gregory. "No, è uguale a me," replicò Carmen. Era tornata dal suo viaggio in Thailandia, Bali e India con un carico di materiali e la testa piena di idee nuove. Non produceva a sufficienza per le richieste dei compratori, aveva affittato un locale per il suo laboratorio e assunto un paio di rifugiati vietnamiti che istruì perché potessero aiutarla. Durante le ore in cui Dai andava a scuola aveva la tranquillità e il silenzio necessari a disegnare i gioielli che poi i suoi aiutanti riproducevano. Raccontò a Gregory che aveva intenzione di aprire un suo negozio non appena avesse messo da parte l'indispensabile per iniziare. "Non è così che si fa. Hai una mentalità da contadina. Devi chiedere un prestito, gli affari si fanno a credito, Carmen." "Quante volte ti ho chiesto di chiamarmi Tamar?" "Ti presenterò il mio banchiere."
"Non voglio finire come te, Gregory. Neanche in cent'anni potrai pagare tutto quello che devi." Era proprio così. Il suo amico banchiere dovette fargli un altro prestito per mettere su il suo ufficio, ma non si lamentava perché quell'anno gli interessi salirono a livelli mai visti nel paese, doveva approfittare di clienti come Gregory Reeves perché non ce n'erano molti in grado di pagarli. La festa non poteva durare molto, gli esperti prevedevano che l'incertezza economica poteva costare la rielezione al presidente, un brav'uomo accusato di essere debole e troppo liberale, due colpe imperdonabili in quel luogo e in quel tempo. Aprì il suo ufficio sopra il ristorante cinese e fece stampare sui vetri il suo nome e il titolo professionale a grandi lettere dorate, come aveva visto nei film polizieschi. Gregory Reeves, avvocato. Quell'insegna rappresentava il suo trionfo. Qui si vede la tua mancanza di classe, amico, non ho mai visto niente di più volgare, commentò Timothy Duane, ma a Carmen l'idea piacque e decise di imitarla per il suo negozio, con una calligrafia arabescata. Era un ampio appartamento in pieno centro di San Francisco, con ascensore diretto e un'uscita d'emergenza, che sarebbe stata utile in più di un'occasione. Lo stesso giorno in cui Reeves entrò nell'edificio il proprietario del ristorante, oriundo di Hong Kong, salì a porgere i suoi saluti, accompagnato dal figlio, un giovane miope, piccolo e dalle maniere dolci, geologo di professione, ma senza alcuna affinità con minerali e pietre, amava solo i numeri. Si chiamava Mike Tong ed era giunto lì molto giovane quando suo padre trasferì nella nuova patria tutta la famiglia. Chiese se il signor avvocato aveva bisogno di un contabile per tenere in ordine i suoi libri e Gregory gli spiegò che per il momento aveva un solo cliente, cosicché non poteva pagargli uno stipendio, però poteva dargli lavoro per qualche ora alla settimana. Non sospettava che Mike Tong sarebbe divenuto il suo più fedele custode e lo avrebbe salvato dalla disperazione e dalla bancarotta. In quel periodo la presenza dei lavoratori latini era molto aumentata. Fra trent'anni noi bianchi saremo la minoranza in questo paese, pronosticava Timothy Duane. Reeves volle approfittare dell'esperienza del quartiere in cui era cresciuto e della sua padronanza dello spagnolo per farsi una clientela tra di loro, perché negli altri settori la concorrenza era grande, i tre quarti del totale degli avvocati del mondo operavano negli Stati Uniti, ce n'era uno ogni trecentosettanta persone. Il motivo più forte, tuttavia, fu che si affezionò all'idea di aiutare i più poveri,
meglio di ogni altro poteva capire le angosce degli immigrati latini, anche lui era stato una schiena bagnata. Aveva bisogno di una segretaria capace di cavarsela in entrambe le lingue e Carmen lo mise in contatto con una certa Tina Faibich, che rispondeva a questo requisito. L'aspirante segretaria arrivò nello studio quando non c'erano ancora i mobili, c'era solo il sofà di cuoio inglese, complice di tante conquiste, e decine di piante, archivi e pratiche giacevano in disordine a terra. La donna dovette farsi strada in quella confusione e sedersi su una cassa di libri. Gregory si trovò di fronte una signora placida e dolce, che si esprimeva in un inglese perfetto e lo guardava con un'espressione indecifrabile negli occhi gentili da vitellina. Si sentì a suo agio con lei, irradiava la serenità che a lui mancava. La guardò appena, non controllò le sue referenze né le fece troppe domande, si fidava del proprio intuito. Accomiatandosi lei si tolse gli occhiali e gli sorrise: Non mi riconosce?, gli chiese timidamente. Gregory sollevò gli occhi e la osservò meglio, era Ernestina Pereda, l'ambiguo scoiattolo dei giochi erotici nel bagno della scuola, l'ardente lupa dell'adolescenza che lo aveva salvato dal supplizio del desiderio quando stava per affogare nel fervido bollore dei suoi ormoni, quella dei coiti precipitosi e dei pianti di pentimento, santa Ernestina, tramutata adesso in una placida matrona. Dopo i tanti amanti di un giorno, si era sposata, già in età matura, con un impiegato della Compagnia Telefonica, non aveva figli e non ne sentiva il bisogno, le bastava suo marito, disse, e gli mostrò una fotografia del signor Faibich, un uomo tanto comune e banale che sarebbe stato impossibile ricordare il suo viso un minuto dopo averlo visto. Gregory Reeves rimase con la foto in mano e gli occhi inchiodati al pavimento, senza sapere che dire. "Sono una buona segretaria," mormorò lei arrossendo. "Questa situazione può riuscire scomoda per entrambi, Ernestina." "Non si lamenterà di me, signor Reeves." "Chiamami Gregory." "No. È meglio che ricominciamo. Il passato non conta più," e andò avanti a raccontargli come aveva cambiato vita dopo avere conosciuto suo marito, un uomo tranquillo solo in apparenza, perché nella vita privata era pura dinamite, un amante insaziabile e fedele che riuscì a calmare il suo ventre appassionato. Del tormentoso passato restava appena un'immagine scialba, anche perché non aveva alcun interesse per ciò che era accaduto prima, le bastava la felicità dell'oggi. "Però non mi sono mai dimenticata di lei, perché è stato l'unico a non promettermi qualcosa che non aveva intenzione di mantenere," disse.
"L'aspetto domani alle otto, Tina," sorrise Gregory stringendole la mano. "Mi hai fatto un bello scherzo," protestò telefonando a Carmen, e lei, che conosceva i segreti e colpevoli incontri dell'amico con Ernestina Pereda, gli assicurò che non si trattava di uno scherzo, con tutta onestà pensava che fosse la segretaria ideale per lui. Non si sbagliò, Tina Faibich e Mike Tong sarebbero stati gli unici solidi sostegni per la fragile costruzione dello studio legale di Gregory Reeves. Fu di Carmen anche l'idea di attirare clienti latini con una pubblicità sul canale in lingua spagnola nell'ora delle telenovela, ricordava sua madre ipnotizzata di fronte allo schermo, più preoccupata per la sorte di quegli esseri di fantasia che per quelli della sua famiglia. Nessuno dei due aveva calcolato la portata dell'impatto. A ogni pausa del melodramma compariva Gregory Reeves con l'abito di buona fattura e gli occhi azzurri, immagine di un rispettabile professionista anglosassone, ma quando apriva bocca per offrire i suoi servigi lo faceva in un sonoro spagnolo di quartiere con le locuzioni e l'inconfondibile accento strascicato dei latini che lo osservavano dall'altra parte dello schermo. Possiamo fidarci di lui, decidevano i potenziali clienti, è uno di noi, solo è di un altro colore. Ben presto lo riconobbero i garzoni dei ristoranti, i tassisti, i muratori e ogni lavoratore dalla pelle bruciata che gli passasse davanti. King Benedict era il suo unico caso quando iniziò, dopo un mese ne aveva tanti che pensò di cercare un socio. "Dipendenti sì, soci mai," gli raccomandò Mike Tong, che passava tutto il giorno in ufficio, nonostante fosse stato assunto per qualche ora alla settimana. Due anni dopo nell'ufficio lavoravano sei avvocati, una telefonista e tre segretarie, Reeves seguiva casi in tutta la California e si spostava più in aereo che sulla terraferma, guadagnando denaro a palate e spendendone molto di più di quanto ne entrasse. Nel frattempo Mike Tong passava la maggior parte della sua esistenza immerso nel disordine del suo bugigattolo, tra archivi, scartafacci, libri di contabilità, documenti bancari e la fotocopiatrice, oltre alla caffettiera, scope, scorte di carta igienica e bicchieri di carta, che fiscalizzava con la diligenza di una gazza. Gli altri si facevano beffe della meschinità del cinese, affermavano che di notte tornava di nascosto per riprendere dalla spazzatura i bicchieri di carta, lavarli e rimetterli nella scatola per utilizzarli il giorno dopo, ma Mike Tong non si curava di quegli scherzi, occupato com'era a far quadrare i conti sul suo pallottoliere. Le consuetudini della vita e i doveri della monogamia stancarono
Shannon fin dall'inizio, aveva la soffocante sensazione di trascinarsi attraverso un deserto di interminabili dune lasciando brandelli della sua gioventù a ogni passo. La risata argentina che costituiva la sua principale attrattiva scese di tono e si mostrò in primo piano il suo carattere indolente. Si annoiava senza rimedio ancorata a un marito nell'illusione della sicurezza, idea suggerita dalla madre che le aveva anche insinuato che il miglior modo di catturare Gregory Reeves era una gravidanza strategica. Desiderava sposarsi, certo, ma non per ragioni meschine, perché provava affetto per quell'uomo. Al suo fianco si sentiva per la prima volta protetta. Mi rallegro, figlia mia, perché ben presto Reeves sarà ricco, a meno che non lo sia già, come ho sentito dire in giro, replicò la signora. Shannon non fece calcoli, non mostrava interesse particolare per il denaro, nonostante i consigli dei suoi familiari di afferrare un pesce grosso che le garantisse il livello di regina degno della sua bellezza. D'altra parte, l'idea di guadagnarsi da vivere, osservare un orario e adeguarsi a un reddito fisso le riusciva insopportabile, aveva tentato di farlo, ma era evidente che non ci riusciva. Un marito benestante avrebbe risolto i suoi problemi, ma non aveva pensato al prezzo che doveva pagare. Adesso era prigioniera nella sua casa e legata alla creatura che cresceva nel suo ventre. Le prime settimane si distrasse prendendo il sole sul molo vicino alla barca fantasma, ma ben presto convinse Gregory a cambiare casa e i mesi passarono nella preoccupazione di cercare la dimora dei suoi sogni. Non trovò ciò che cercava, né ebbe voglia di arredare la sua con una certa cura, comprò infatti mobili e arredi in fretta e furia servendosi di un catalogo e quando arrivarono li dispose a casaccio. Si aggirava attraverso le stanze stipate e passava il tempo parlando al telefono con gli amici, per divertirsi telefonava a ore inopportune agli ex amanti sussurrando oscenità, eccitandoli ed eccitandosi alla follia. Aveva bisogno di esercitare la sua istintiva civetteria, altrimenti il suo umore si inaspriva, come quando le mancava l'alcool. Per la noia andò aumentando i bicchieri e finì col bere come suo padre. Nei primi mesi, prima che il ventre le crescesse, andava all'ufficio del marito e fumava con i piedi appoggiati alla scrivania di qualcuno dei giovani avvocati, solo per il gusto di vederli agitarsi. Avrebbe probabilmente ignorato l'esistenza di Mike Tong se egli non fosse stato impermeabile al suo fascino, la trattava col distacco cortese che si riserva alla donna altrui, situazione che provocava in lei un sordo rancore, aggravato dal fatto che il contabile cinese le limitava l'uso delle carte di credito e frenava il suo capo quando si gettava in spese esagerate per compiacerla. Neppure Timothy Duane le piaceva, una volta lo aveva
invitato a colazione col pretesto di organizzare una festa di compleanno per suo marito, ma si era presentato accompagnato da una turista austriaca con cui usciva quella settimana e non diede segno di accorgersi di quanto bella e disponibile fosse Shannon. Attenzione a tua moglie, disse Duane il giorno dopo a Gregory, che andò a casa per esigere spiegazioni da Shannon, ma non poté affrontarla perché la trovò stordita sul pavimento della cucina e quando cercò di rialzarla gli vomitò addosso. È la gravidanza, disse, ma puzzava d'alcool. L'aiutò a sdraiarsi e più tardi, quando la vide addormentata tra le sue lenzuola rosate, pensò che era molto giovane, un po' ingenua, e forse Duane, spinto dal suo cinismo, aveva interpretato male un innocente invito. Non poté però continuare a ingannarsi per molto tempo, nei mesi che seguirono vide i sintomi del deterioramento, esattamente come gli succedeva prima con Samantha, ma pensò che con Shannon aveva molte più cose in comune che con la prima moglie e si aggrappò a quell'idea per non scoraggiarsi. Per lo meno condividevano il gusto per i buoni cibi e gli smodati piaceri del letto. Come lui, Shannon era irrequieta e avventurosa, le piacevano i viaggi, gli acquisti e le feste. Voi finirete male, tua moglie è in sintonia con i punti deboli del tuo carattere, lo ammonì Carmen, ma lui non la vedeva così. Forse con questi elementi comuni avrebbero potuto porre le basi di un vero rapporto di coppia, ma la passione dei primi incontri si raffreddò presto e rimestando tra le braci dell'antica fiamma non trovarono amore. Gregory era ancora abbagliato dalla giovinezza, dall'allegria e dalla bellezza di Shannon, ma era molto occupato col suo lavoro e non dedicava tempo alla famiglia. Lei frattanto si consumava di impazienza con atteggiamenti da adolescente viziata. Nessuno dei due mise molto interesse nel mantenere a galla la barca su cui navigavano, per cui sembrò strano che, quando infine affondò, conservassero tanto rancore. L'entusiasmo di Gregory per Shannon sfumò rapidamente, anche se non si notò perché durante i mesi della gravidanza provò per lei una tenerezza protettiva, mista di compassione e di rapimento. Quando partorì rimase al suo fianco, sostenendola, asciugandole il sudore, parlandole per calmarla, mentre i medici si davano da fare sotto le implacabili lampade della sala parto. L'odore del sangue gli riportò il ricordo della guerra e rivide il ragazzo del Kansas, come lo avrebbe visto tante volte in sogno, mentre lo supplicava di non lasciarlo solo. Shannon si strinse a lui mentre spingeva per far uscire la creatura dalle sue viscere e in quei momenti Gregory credette di amarla. I bambini gli piacevano ed era entusiasta all'idea di essere nuovamente padre, questa volta sarà diverso, si ripromise, il
bambino non gli sarebbe stato estraneo, come Margaret. Volle essere il primo ad accoglierlo nel mondo e tese le mani per riceverlo non appena sporse il capo. Lo sollevò per mostrarlo alla madre e non riuscì a dire nulla perché l'emozione gli tolse la voce. Avrebbe poi ricordato quell'istante come l'unico di completa felicità accanto a quella donna, ma quella scintilla di felicità sparì in pochi giorni, lei non era fatta per le preoccupazioni della maternità, e neppure per il ruolo di moglie o di padrone di casa, e appena poté indossare i suoi jeans attillati da ragazza fece in modo di sfuggire alla trappola del matrimonio. Il suo primo amante fu il medico che la assistette nel parto e ben presto ne ebbe altri, mentre il marito, assorto nel lavoro, non aveva occhi per accorgersi dell'evidenza. Ad ogni nuovo amore Shannon si trasformava secondo le esigenze dell'uomo di turno, un giorno compariva con una permanente e abbigliamento intimo di pizzo nero, però due settimane dopo le giarrettiere francesi giacevano dimenticate sul fondo di un cassetto perché aveva messo gli occhi su un vicino scrittore, allora Gregory la trovava infagottata in uno dei suoi golf, senza trucco e con nuovi occhiali di tartaruga, intenta a leggere Jung. Frattanto David, il bebé, cresceva in un recinto, tanto inquieto, piagnucoloso e ombroso che neppure sua madre aveva voglia di fargli compagnia. Un giorno Tina arrossendo riferì al suo capo di aver visto uno degli avvocati dello studio che, al parcheggio, baciava Shannon, scusi se mi intrometto, signor Reeves, ma è mio dovere dirglielo, concluse con voce tremante. Gregory vide rosso, afferrò l'accusato per il risvolto della giacca e gli rifilò una doppietta di pugni, l'uomo riuscì a prendere l'ascensore per scappare, ma lui corse giù per le scale di servizio e lo raggiunse per strada facendo un tale subbuglio che intervenne la polizia e finirono tutti a deporre in questura, compreso Mike Tong, che tornò dall'ufficio postale in tempo per essere testimone del finale della rissa, quando il corteggiatore giaceva sul marciapiede col naso sanguinante. Quella notte Shannon diede la colpa del fatto a qualche bicchiere in più e cercò di convincere il marito che quelle ragazzate erano del tutto prive d'importanza, e che amava solo lui. Gregory volle sapere che diavolo facesse al parcheggio e lei giurò che si trattava di un incontro casuale e di un bacio amichevole. "Si vede che hai una certa età, Gregory, sei molto fuori moda," concluse. "Sembra che io sia nato per essere cornuto!" ruggì Reeves e se ne andò sbattendo con forza l'uscio. Dormì in un motel fino a che Shannon riuscì a trovarlo e lo supplicò di ritornare, giurandogli amore e affermando che al suo fianco si sentiva
sicura e protetta, da sola era perduta, disse singhiozzando. In fondo Gregory l'aspettava. Aveva passato la notte sveglio, tormentato dalla gelosia, immaginando inutili rappresaglie e soluzioni impossibili. Finse una rabbia che in realtà non provava più, solo per la soddisfazione di umiliarla, ma tornò al suo fianco come avrebbe fatto ogni volta che se ne andò nei mesi che seguirono. A tredici anni Margaret scomparve dalla casa di sua madre e Samantha aspettò due giorni prima di chiamarmi perché pensò che, non sapendo dove andare, sarebbe tornata presto, certo si trattava di una scappatella senza importanza, tutti i ragazzi alla sua età fanno queste sciocchezze, non è una cosa dell'altro mondo, sai che Margaret non dà problemi, è molto buona, mi disse. La sua capacità di ignorare la realtà è come quella di mia madre non smette mai di meravigliarmi. Avvisai immediatamente la polizia, che organizzò una vasta operazione di ricerca, mettemmo degli avvisi in ogni città della baia, la chiamammo attraverso la radio e la televisione. Quando andai alla sua scuola mi informarono che non l'avevano vista da mesi, si erano stancati di mandare avvisi a sua madre e di lasciare messaggi telefonici. Mia figlia era una pessima studentessa, non aveva amicizie, non praticava sport e faceva troppe assenze, fino a che smise di frequentare. Interrogai i suoi compagni, ma sapevano poco di lei oppure non vollero parlarne, mi sembrò che non l'avessero in simpatia, una ragazza la descrisse come aggressiva e rozza, due aggettivi impossibili ad associarsi a Margaret, che si comportava sempre come un'antica dama in un salone da tè. Parlai poi con i vicini e seppi che l'avevano vista uscire a ore tarde, a volte veniva a prenderla un tipo in motocicletta, ma generalmente tornava su automobili sempre diverse. Samantha disse che si trattava certamente di pettegolezzi di malintenzionati, lei non aveva notato niente di strano. Come poteva accorgersi dell'assenza di sua figlia, dico io, se non notava neppure la sua presenza? Nella foto che comparve in televisione Margaret appariva molto bella e innocente, però ricordai i suoi gesti provocatori e mi si presentarono orribili possibilità. Il mondo è pieno di pervertiti, mi disse una volta un ufficiale di polizia, quando uno dei bambini che avevo in custodia si perse nel parco. Passai giorni di supplizio visitando caserme di polizia, ospedali, giornali. "Questo è un caso da San Giuda Taddeo, patrono delle cause perse," mi avvertì in tutta serietà Timothy Duane quando crollai nel suo laboratorio in cerca di una mano amica. "Devi andare alla Chiesa dei Domenicani,
mettere venti dollari nella cassetta del santo e accendergli una candela." "Sei pazzo, Tim." "Sì, ma non è questo il punto. L'unica cosa che mi hanno lasciato dodici anni di collegio dai preti è il senso di colpa e la fede incondizionata in San Giuda. A provare non perdi nulla." "Il dottor Duane ha ragione, non si perde niente a provare. La accompagno io," si offrì con dolcezza la mia segretaria quando lo seppe, e fu così che mi trovai inginocchiato in una chiesa ad accendere candele, cosa che non facevo da quando servivo messa a Padre Larraguibel, accompagnato dall'ineffabile Ernestina Pereda. Quella sera qualcuno chiamò dicendo che avevano visto in un bar una ragazza che somigliava a Margaret, però più vecchia. Andammo lì con due poliziotti e trovammo Margaret travestita da donna, con unghie posticce, tacchi alti, pantaloni attillati e una maschera di trucco che deformava il suo viso da bimba. Vedendomi si mise a correre e quando riuscimmo a fermarla mi abbracciò piangendo e mi chiamò papà per la prima volta da quando ricordo. La visita medica rivelò che aveva segni di iniezioni sulle braccia e un'infezione venerea. Quando cercai di parlarle nella stanza della clinica privata dove la internammo, mi respinse con una sequela di parolacce che sputava fuori con voce da uomo, alcune delle quali io non avevo mai sentito neppure nel quartiere in cui ero cresciuto o ai tempi del servizio militare. Si era strappata la sonda dal braccio, aveva scritto col suo rossetto orrende oscenità sulle pareti della stanza, fatto a pezzi il cuscino e lanciato a terra tutto quello che aveva potuto raggiungere. Ci vollero tre persone per tenerla ferma mentre le somministravano un tranquillante. La mattina seguente andai da lei con Samantha e la trovammo serena e sorridente nel suo letto, con il viso pulito e un nastro tra i capelli, circondata da mazzi di fiori, scatole di cioccolatini e peluche che le avevano mandato gli impiegati del mio studio. Dell'indemoniata del giorno prima non restava traccia. Quando chiedemmo perché aveva fatto una cosa tanto tremenda si sciolse in lacrime, apparentemente pentita, non sapeva che cosa fosse successo, disse, non lo aveva mai fatto prima, era colpa di cattive amicizie, però non dovevamo preoccuparci, si rendeva conto del pericolo e non avrebbe mai più visto quella gentaglia, le iniezioni erano state solo un esperimento e non si sarebbero ripetute, lo giurava. "Sto bene. L'unica cosa che mi serve è un mangianastri per ascoltare musica," ci disse. "Che genere di musica vuoi?" chiese sua madre sistemandole il guanciale.
"Un amico mi ha portato le mie canzoni preferite," rispose letargica "E adesso lasciatemi dormire, sono un po' stanca." Salutandoci ci chiese di portarle delle sigarette, senza filtro, per favore. Mi stupii che fumasse, ma poi ricordai che alla sua età mi ero fabbricato una pipa e, ad ogni modo, a paragone degli altri suoi problemi, quello della nicotina mi sembrò il minore. Mi pareva poco opportuno discutere sul danno del fumo per i polmoni, quando poteva morire per un'overdose di eroina. Quando la sera tornai a visitarla non c'era più. Aveva fatto in modo di allontanare l'infermiera di turno, indossare gli stessi abiti da prostituta con cui era arrivata e fuggire. Ripulendo la stanza trovarono sotto il materasso una siringa monouso assieme alla cassetta di musica rock e ai resti della matita per labbra. Avevo perduto Margaret – da allora l'ho vista in carcere o in un letto d'ospedale – ma ancora non lo sapevo, passai nove anni a dirle addio, nove anni di speranze defraudate, di ricerche inutili, di falsi pentimenti, di indicibili bassezze, tradimenti, volgarità, sospetti e umiliazioni, fino a che finalmente accettai nel profondo del cuore che era impossibile aiutarla. Il primo negozio Tamar fu aperto in una via del centro di Berkeley, tra una libreria e un salone di bellezza, venticinque metri quadrati con una piccola vetrina e una porta stretta, che sarebbe passata inosservata tra gli altri negozi del vicinato, se Carmen non avesse deciso di applicare gli stessi principi decorativi della casa di Olga, però alla rovescia. La casa della guaritrice aveva tanti addobbi e colori così vivaci da sembrare una pagoda da operetta, e per questo spiccava nell'architettura grigia e misera del quartiere latino. Il locale di Carmen era circondato da negozi vistosi, ristoranti cinesi coi loro rabbiosi draghi e messicani con i cactus di gesso, bazar indiani, negozi per turisti e una fiorente industria pornografica con annunci al neon che mostravano coppie nude in posizioni inverosimili. Con una simile concorrenza riusciva difficile attirare la clientela, ma lei dipinse tutto di bianco mise sopra la porta una tenda dello stesso colore e potenti lampade per accentuare l'aspetto da laboratorio del suo locale. Espose i gioielli su semplici strati di sabbia e frammenti di quarzo, dove l'elaborato disegno e i preziosi materiali facevano splendida mostra di sé. In un angolo appese alcune gonne gitane, come quelle che lei stessa usava da anni, unica nota calda in quel candore di neve. Nell'aria fluttuavano un tenue aroma di spezie e i monotoni accordi di una chitarra orientale. "Presto avrò cinturoni, borsellini e scialli," spiegò Carmen a Gregory
quando gli mostrò con orgoglio il suo nuovo negozio alla festa di inaugurazione. "Non ci sarà una grande scelta, ma tutti i pezzi si potranno combinare, in modo che con una visita al mio negozio la cliente possa uscire vestita dalla testa ai piedi." "Non troverai molto entusiasmo per queste mascherate," rise Gregory, convinto che bisognasse essere fuori di testa per indossare le creazioni della sua amica, ma qualche minuto più tardi dovette rimangiarsi quelle parole quando Shannon gli chiese di comprargli diversi orecchini "etnici", che gli parvero esageratamente cari, e quando vide la sua amica Joan, al braccio di Balcescu, ostentare una di quelle stravaganti gonne zingaresche a toppe multicolori, le donne sono un vero mistero, borbottò. Carmen Morales portava avanti i suoi affari con prudenza da ortolano. Faceva i conti ogni settimana, mettendo da parte una somma per il funzionamento del laboratorio, un'altra per le imposte, qualcosa per sopravvivere senza lusso e arrotondare i risparmi. Contava sui suoi fedeli vietnamiti per riprodurre i disegni e su alcune amiche messicane del suo quartiere che, seguendo precise istruzioni, cucivano i vestiti a casa loro e glieli inviavano per posta. Quanto a lei, sceglieva i materiali e una volta all'anno, durante l'estate, andava a fare acquisti in Asia o nel Nordafrica in viaggi avventurosi che avrebbero terrorizzato una donna meno sicura di sé, ma lei era protetta da ogni rischio perché era incapace di immaginare la malvagità altrui. Poteva allontanarsi solo durante le vacanze scolastiche di Dai, che si abituò a questi safari in treno, jeep, a dorso d'asino o a piedi attraverso villaggi sperduti nella giungla della Thailandia, agli accampamenti di pastori nomadi sulle montagne dell'Atlante, o ai quartieri miserabili nelle affollate città indiane. Il suo corpo magro e bruno accettava senza problemi ogni tipo di cibo, acqua inquinata, punture di zanzare, fatiche e caldi infernali, aveva la resistenza di un fachiro di fronte alle difficoltà. Era un bambino tranquillo che imparò le quattro operazioni giocando con le perle delle collane e prima di compiere dieci anni aveva scoperto alcune leggi matematiche che tentava vanamente di spiegare alla madre e alla maestra. In seguito, quando si accorsero del suo straordinario talento per i numeri, e alcuni professori universitari lo esaminarono, scoprirono che erano princìpi di trigonometria. Aveva una piccola scacchiera metallica con pezzi calamitati e tra gli scossoni dei treni, mezzo schiacciato tra la folla dei passeggeri, gabbie di animali, sconquassate valigie di cartone e ceste di viveri, Dai impassibile giocava a scacchi contro se stesso, senza imbrogli. Non sempre dormivano in albergo o nelle
capanne di gente amica, a volte viaggiavano in piccole carovane o avevano una guida e si dovevano fermare per accamparsi nel bel mezzo del nulla. A terra su una stuoia o sospeso in un'amaca sotto un'improvvisata zanzariera, attorniato dal gracchiare minaccioso degli uccelli notturni e dai fruscii di zampe misteriose, immerso nell'inquietante odore di residui vegetali e di magnolie, Dai si sentiva del tutto sicuro accanto al corpo tiepido di sua madre, la credeva invulnerabile. Passò con lei attraverso molte avventure e le poche volte in cui la vide spaventata provò anche lui la fitta della paura ma allora si ricordava dell'altra madre, quella dagli occhi a mandorla neri che volava a reazione sul suo capo proteggendolo da ogni male. In un bazar del Marocco, aggirandosi tra la folla variegata, il bimbo si sciolse dalla mano di Carmen per ammirare dei coltelli ricurvi con foderi di cuoio lavorato. Il proprietario del negozio, un omaccione dal viso patibolare avvolto in cenci, lo prese per il collo, lo sollevò per aria e gli diede un ceffone, ma prima di riuscire a ripetere il gesto una fiera selvaggia gli si precipitò addosso, tutta artigli, grugnendo e dando morsi da cagna rabbiosa. Dai vide sua madre rotolare a terra con l'arabo in uno scompiglio di gonne strappate, ceste rovesciate, mercanzia dispersa e lazzi degli altri uomini del mercato. Carmen ricevette un pugno sul viso e restò stordita per qualche istante, ma la violenza della disperazione la rianimò e prima che qualcuno potesse prevederlo impugnava uno dei coltelli ricurvi sguainato. In quel momento irruppero i poliziotti, la disarmarono e salvarono il commerciante da una pugnalata sicura, mentre gli uomini riuniti in cerchio si congratulavano per il pugno e accusavano la straniera con grida e insulti. Carmen e Dai finirono in caserma dietro le sbarre, circondati da malviventi che non si azzardarono a infastidirli perché videro la morte negli occhi della donna. Il console americano accorse per farla rilasciare e più tardi, accomiatandosi, le consigliò di non rimettere piede in quel paese. Ci vediamo l'anno prossimo, replicò Carmen e non poté sorridere, perché aveva il viso gonfio e un profondo taglio sul labbro. Tornavano da quelle esplorazioni con casse piene di perle di ogni tipo, frammenti di corallo, vetro e metalli antichi, pietre semipreziose, minuscole sculture in osso, conchiglie perfette, artigli e denti di animali ignoti, foglie e scarabei pietrificati dell'era glaciale. Portavano anche stoffe ricamate e pelli lavorate che servivano a ornare cinturoni o borse, nastri per le gonne stinti dal tempo, bottoni o fibbie che scoprivano in bugigattoli dimenticati. A quel tempo Carmen non lavorava più a casa sua. Conservava i suoi tesori nel laboratorio, in scatole di plastica trasparente, divisi a seconda del materiale e del colore, si chiudeva lì per ore a costruire
ogni modello, aggiungendo o togliendo perline, dando forma ai metalli, tagliando e rifinendo in un paziente esercizio di fantasia. Lanciò la moda dei motivi astrologici di lune e stelle, l'uso dei cristalli portafortuna, i gioielli di ispirazione africana, gli orecchini diversi nelle due orecchie e il pendente unico infilato nell'orecchio con una cascata di pietre e frammenti d'argento, che in seguito sarebbero stati imitati fino alla saturazione. Gli anni le diedero sicurezza e affinarono un po' i suoi tratti, però non attenuarono l'allegria del suo carattere né diminuirono il suo gusto per l'avventura. Conduceva gli affari come un'esperta ma nel farlo si divertiva talmente che non lo considerava un lavoro. Era incapace di prendersi sul serio. Non vedeva differenze tra la sua fiorente impresa e i tempi in cui fabbricava oggetti artigianali a casa dei suoi genitori per venderli nel quartiere latino o si vestiva con scialli colorati per eseguire giochi di prestigio in Piazza Pershing. Ogni cosa faceva parte dello stesso ininterrotto passatempo dell'esistenza e il fatto che nei suoi conti in banca aumentassero gli zeri non cambiava per nulla il carattere giocoso del suo lavoro. Era la prima a essere sorpresa del proprio successo, faceva fatica a credere che vi fosse gente disposta a pagare tanto per quegli ornamenti inventati, divertendosi, in uno slancio di ispirazione. Le preoccupazioni della vita e le illusioni del successo non cambiarono la sua natura dolce, continuava a essere aperta, generosa e piena di fiducia. I viaggi le insegnarono le infinite miserie e i dolori che l'umanità sopporta e a paragone di altri si sentiva fortunata. Per lei non c'era contrasto fra il fiuto per il commercio e la solidarietà, fin dall'inizio fece in modo di dare lavoro alle migliori condizioni possibili ai più diseredati della scala sociale e in seguito, quando il suo laboratorio si ingrandì, assunse molti latini poveri, rifugiati asiatici e centroamericani, invalidi e persino un paio di ritardati mentali cui diede l'incarico di curare le piante e il giardino, tanto che Gregory chiamava il negozio della sua amica "l'ospizio di Tamar". Spendeva tempo e denaro in faticosi corsi di qualificazione e lezioni di inglese per i suoi operai, che generalmente erano appena arrivati lì fuggendo da situazioni di inenarrabili miserie. Il suo spontaneo spirito caritatevole risultò essere un illuminato metodo imprenditoriale, così come la mensa gratuita, le vacanze obbligatorie, la musica ambientale, le seggiole comode, le lezioni di ginnastica e di rilassamento per i muscoli intirizziti nel continuo sforzo del montare le gioie, e tante altre innovazioni, perché il personale rispondeva con stupefacente fedeltà ed efficienza. Nei suoi viaggi Carmen scoprì che il mondo non era bianco e non lo
sarebbe mai stato, perciò ostentava con orgoglio la sua pelle bruciata e i suoi tratti latini. Il suo atteggiamento fiero ingannava gli altri, dava l'impressione di essere più alta e più giovane e si presentava con tanta sicurezza, avvolta nelle sue vesti gitane e accompagnata dal tintinnare dei suoi braccialetti, che nessuno pensava a notare la sua bassa statura, i seni pesanti e il corpo a chitarra, o i primi capelli bianchi o le rughe. A scuola durante la ricreazione Dai vinse un concorso tra i suoi compagni perché aveva la mamma più bella. "Non ti sposerai mai, mamma?" le chiedeva il bambino. "Sì, quando crescerai mi sposerò con te." "Quando io crescerò tu sarai molto vecchia," le spiegò Dai, per il quale i numeri erano realtà irrefutabili. "Allora dovrò trovare un marito decrepito come me," rise Carmen, e in un lampo della memoria rivide il viso di Leo Galupi, come spesso lo aveva ricordato in quegli anni e come lo aveva visto la prima volta, quando l'aspettava all'aeroporto di Saigon, seminascosto da un mazzo di fiori appassiti. Si chiese se per caso anche lui la ricordasse e decise che un giorno avrebbe dovuto verificarlo, perché Dai cresceva rapidamente e forse presto non avrebbe più avuto bisogno di lei. D'altronde era stanca di amanti di passaggio, sceglieva uomini più giovani perché aveva bisogno di armonia e bellezza attorno a sé, però il vuoto sentimentale incominciava a pesarle. Mentre il suo amico Gregory viveva da riccone accumulando debiti e dolori di testa, lei viveva come un'operaia, però raccoglieva denaro e riconoscimenti. Rapidamente il nome di Tamar era divenuto simbolo di stile originale e qualità impeccabile. Senza esserselo proposto si trovò a dirigere sfilate di moda e a tenere conferenze in qualità di esperta, senza perdere di vista il fatto che non era nient'altro che uno scherzo. Un giorno scopriranno che non so niente di niente, mi do da fare per abbindolare la gente con la presunzione, diceva a Gregory quando era citata su riviste femminili e d'arte, o in pubblicazioni di economia quale esempio d'impresa in rapida espansione. Pochi anni più tardi, quando in diverse capitali c'erano succursali Tamar, mentre quasi duecento persone lavoravano ai suoi ordini, senza contare i venditori che percorrevano diversi continenti offrendo merce ai negozi più lussuosi, e quando il reparto contabilità occupava tutto un piano dell'edificio, lei continuava a viaggiare nella giungla su una mula, o su un cammello attraverso il deserto, per comprare i materiali per il suo lavoro e viveva modestamente con il figlio, non per avarizia, ma perché non sapeva che l'esistenza può essere più comoda.
King Benedict desiderava più di ogni altra cosa al mondo un treno elettrico da sistemare nella sala in casa di sua madre. Aveva già costruito la stazione, un villaggio di casette di legno, alberi di cartone e un ambiente di colline e tunnel in miniatura che si stendeva da parete a parete impedendo il passaggio attraverso la stanza. Mancava solo il treno perché Bel gli aveva promesso che quello sarebbe stato il primo acquisto quando avrebbero ricevuto il denaro della causa. Si sentiva come un invalido e si aggrappava a quella donna dal lungo collo e dagli occhi gialli, che affermava di essere sua madre, e rappresentava l'unica bussola in una tempesta di incertezze. Dal giorno dell'incidente la sua memoria era soltanto nebbia, quarant'anni cancellati nell'istante in cui la sua testa aveva colpito il suolo. Ricordava sua madre giovane e bella, come aveva potuto trasformarsi in quella vecchia distrutta dal lavoro e dagli anni? Chi era Bel in realtà? Speriamo che mi compri il treno... Capiva che non era più il tempo di giochi infantili, ma in realtà i problemi che ossessionavano gli uomini non lo interessavano affatto. Passava ore affascinato davanti al televisore, quella prodigiosa invenzione fino ad allora a lui sconosciuta, e quando sullo schermo vedeva baci appassionati sentiva un'oscura ansia, qualcosa che palpitava nelle viscere, ma fortunatamente non durava molto. Il catalogo di treni elettrici lo attirava molto più delle riviste con donne nude che il giornalaio del chiosco d'angolo gli offriva. A volte si vedeva dall'esterno, come se fosse al cinema e stesse osservando il proprio volto in un inesorabile copione. Non riconosceva il proprio corpo. Sua madre gli aveva spiegato l'incidente e l'amnesia, non era scemo, sapeva di non avere quattordici anni. Si guardava a lungo nello specchio senza riconoscere quel nonno che lo salutava dall'altro lato, faceva l'inventario dei cambiamenti e si domandava quando si erano realizzati, come si era accumulato tanto sfacelo. Non sapeva quando aveva perso i capelli, era aumentato di peso e gli erano comparse le rughe, dove erano andati a finire alcuni denti, perché gli facevano male le ossa quando lanciava la palla, gli mancava il fiato quando cercava di salire le scale di corsa e non poteva leggere senza occhiali. Non ricordava di avere comprato quelle lenti. Adesso si trovava seduto davanti a un grande tavolo in un ufficio pieno di piante e libri tra due uomini che lo incalzavano con domande, ad alcune delle quali era impossibile rispondere, mentre una segretaria scriveva a macchina ogni parola. Chi era il presidente nell'anno in cui lei si è sposato? Sua madre lo costringeva ad andare ogni giorno in biblioteca a leggere i giornali arretrati per rendersi conto di ciò che era successo nel mondo durante quei
quarant'anni che gli erano usciti dalla mente. I dati astratti gli riuscivano più comprensibili dei prodotti d'uso quotidiano, come un forno a microonde e altre cose affascinanti e misteriose. King conosceva i nomi dei presidenti, i più importanti risultati di baseball, i viaggi sulla luna, le guerre, gli assassini di John Kennedy e Martin Luther King, ma non aveva la minima idea di dove si trovasse durante quegli avvenimenti e avrebbe giurato di non essersi mai sposato. Sua madre passava le serate a raccontargli fatti della sua vita per vedere se a forza di ripeterli riusciva ad allontanare le brume dell'oblio ma quegli esercizi forzati di memoria erano un interminabile e noioso calvario. Faceva fatica a credere che la sua vita fosse stata così insignificante, di non avere fatto nulla di importante, e non avere realizzato nessuno dei suoi sogni giovanili. Provava un senso di angoscia per il tempo sprecato in quella collana di minuscoli eventi abitudinari, perciò era contento di avere una seconda opportunità in questo mondo. Il suo futuro non era un buco oscuro alle sue spalle, come diceva sua madre, ma un quaderno bianco davanti ai suoi occhi. Poteva riempirlo con quello che aveva sempre desiderato, percorrere un'altra volta gli anni già vissuti. Avrebbe affrontato avventure, trovato tesori, compiuto gesta eroiche, sarebbe andato in Africa alla ricerca delle proprie radici, non si sarebbe mai sposato né sarebbe invecchiato. Se almeno avesse potuto ricordare gli errori e i successi... Aveva sempre desiderato un treno elettrico, non era un capriccio del momento ma un suo antico desiderio, il sogno della sua infanzia. Quando lo disse a Reeves, l'uomo gli sorrise con i suoi occhi chiari e gli confessò che quella era anche la sua massima aspirazione, ma che non lo aveva mai posseduto. È una menzogna, se può pagarsi questo ufficio con lettere d'oro alle finestre, può comprarsi un treno e anche due se ne ha voglia, aveva pensato King Benedict, ma non osò dirglielo, non poteva essere sgarbato. Perché sua madre aveva scelto un avvocato bianco? Non aveva detto lei stessa mille volte che per principio si doveva sempre diffidare dei bianchi? Adesso quell'altro uomo disponeva sul tavolo file di fotografie e lui doveva riconoscerle, però nessuna di quelle persone gli era familiare, eccetto la bella donna, seduta nel vano di una finestra con una metà del viso illuminata e l'altra in ombra, sua madre senza dubbio, benché fosse molto diversa dall'anziana donna di oggi. Poi lo misero di fronte a fotografie di riviste perché identificasse città e paesaggi a lui sconosciuti. E questo? Che erano quella piantagione di cotone e quel camion? Non riusciva a ricordare, ma era certo di essere stato in un luogo simile. Dov'è mamma? Ma prima di poter modulare le parole, cominciò a
sentire dei chiodi alle tempie e in pochi istanti il dolore lo travolse. Sollevò le mani per proteggere la testa e tentò di fuggire, ma cadde a terra sulle ginocchia. "Si sente male, signor Benedict? Signor Benedict..." e la voce gli giunse da lontano. Poi sentì la mano di sua madre sulla fronte e si voltò per stringerla alla vita e nascondersi nel suo grembo oppresso dai sordi colpi che gli rimbombavano nel cervello e dall'ondata di nausea che gli riempiva la bocca di saliva e lo faceva tremare. Gregory Reeves impiegò un anno per accettare il fatto che non c'era motivo di continuare a lottare per un matrimonio che non avrebbe dovuto mai avere luogo, e altrettanto per prendere la decisione di separarsi perché non voleva lasciare David e gli costava ammettere un secondo fallimento. "Il problema non è Shannon, sei tu," fu la diagnosi di Carmen. "Nessuna donna può risolvere i tuoi problemi, Greg. Tu ancora non sai quello che cerchi. Non riesci ad amare te stesso. Come puoi amare qualcuno?" "Parla la voce dell'esperienza?" scherzò lui. "Io almeno non mi sono sposata due volte!" "Costerà una fortuna!" si lamentò Mike Tong quando seppe che il suo capo pensava di divorziare nuovamente. Reeves si trasferì per un certo tempo in casa di Timothy Duane. Dopo uno spaventoso pandemonio in cui si insultarono urlando e Shannon gli lanciò una bottiglia sulla testa, mise i suoi vestiti in due valigie e se ne andò giurando che quella volta non sarebbe ritornato. Arrivò dal suo amico mentre questi si trovava nel bel mezzo di una cena elegante con altri medici e le loro mogli. Entrò nella sala da pranzo e con gesto drammatico lasciò cadere a terra il suo bagaglio. "Questo è quanto resta di Gregory Reeves," annunciò laconico. "La zuppa è di funghi," replicò Timothy senza scomporsi. Più tardi, quando furono soli, gli offrì la stanza degli ospiti e commentò che era tempo che si separasse da quella pecora nera. "Sento la mancanza di un compagno di baldorie," aggiunse. "Non è il caso, non ho fortuna con le donne." "Non dire sciocchezze, Greg. Viviamo in paradiso. Qui non solo le donne sono graziose, ma non abbiamo neppure concorrenza. Pare che tu e io siamo gli unici scapoli eterosessuali di San Francisco." "Fino a questo momento questa statistica non mi è stata molto utile..." Shannon tenne con sé il bambino e poco dopo si sistemò in una casa in collina con vista sulla baia. Gregory tornò nella sua abitazione, adesso
priva di mobili, ma con i barili delle rose. Non si preoccupò di sostituire i mobili perduti perché nel degrado degli ultimi tempi si era andato commiserando nell'indignazione di marito tradito e le stanze vuote gli parvero la cornice adatta al suo stato d'animo. Quando il risentimento verso la moglie si trasformò in desiderio di rivincita, andò in cerca di amanti per consolarsi come aveva fatto prima, ma si accorse che quella soluzione invece di sollevarlo gli complicava le giornate e aumentava la sua rabbia. Si immerse nel lavoro, senza dedicare tempo né voglia alle faccende domestiche, limitandosi a mantenere in vita le sue piante. Da parte sua Shannon non stava molto meglio, il camion del trasloco scaricò le casse nella sala della nuova casa e lì rimasero sparse, raccolse le forze soltanto per sistemare i letti e qualche stoviglia da cucina, mentre attorno a lei crescevano il disordine e la confusione. Era incapace di cavarsela con David. Il bimbo risultò essere un compito sovrumano, aveva bisogno di un domatore di belve più che di una bambinaia, era nato con un organismo esagitato e viveva come un selvaggio. Lo espulsero dall'asilo infantile dove avevano tentato di lasciarlo alcune ore al giorno, il suo comportamento era così tremendo da tenere la madre in permanente stato di allarme perché qualunque disattenzione poteva finire in una catastrofe. Imparò presto ad attirare l'attenzione trattenendo il fiato e perfezionò questa risorsa fino a riuscire a farsi venire la schiuma alla bocca, a rovesciare gli occhi e a cadere in convulsioni ogni volta che lo contraddicevano in qualche capriccio. Rifiutava di usare uno spazzolino da denti, un pettine o un cucchiaio, mangiava seduto a terra prendendo il cibo con la lingua, non potevano lasciarlo con altri bambini perché mordeva, né con gli adulti perché lanciava fischi che spezzavano i vetri ed erano capaci di distruggere i nervi della persona più forte. Shannon si diede per vinta non appena il figlio cominciò a gattonare, in coincidenza con le più tremende liti con il marito, e cercò sollievo nell'acquavite. Mentre suo padre si stordiva con il lavoro e i viaggi, per cui non era mai presente, e sua madre ricorreva all'alcool e alle frivolezze affannandosi entrambi in una guerra fra inconciliabili nemici, il piccolo David accumulava la rabbia sorda dei bambini abbandonati. Il divorzio eliminò almeno la crudeltà di quelle battaglie campali che lasciavano esausta tutta la famiglia, compresa la domestica messicana che andava tutti i giorni a prendersi cura del bambino, ma che alla fine preferì l'incertezza della strada a quel ricovero di pazzi. Il suo abbandono fu per Shannon più tragico di quello del marito. Da quel momento si sentì senza protezione e non accennò neppure più a un tentativo di controllo, lasciò che la sua casa e la sua vita si riempissero di
polvere e di disordine, attorno a lei si accumularono abiti e piatti sporchi, conti non pagati, macchine fuori uso e impegni che preferiva ignorare. La sua esistenza di donna divorziata iniziò in quello stato di disorientamento, non si preoccupò del suo ruolo di madre e padrona di casa, rinunciò a ogni pretesa di decenza domestica, vinta prima di incominciare, ma le rimase abbastanza spirito per salvarsi dal naufragio e fuggire, prima per brevi momenti e poi per ore finché alla fine se ne andò definitivamente. Reeves rimase nella casa vuota, con la barca che marciva sul molo e i rosai che appassivano nei barili. Non era una soluzione pratica per un uomo solo, come tutti gli fecero osservare, ma in un appartamento si sentiva prigioniero, aveva bisogno di grandi spazi dove sgranchire il corpo e dare libertà all'anima. Lavorava sedici ore al giorno, ne dormiva meno di cinque per notte e beveva una bottiglia di vino ad ogni pasto. Per fortuna non fumi, così non morirai di cancro al polmone, lo consolò Timothy Duane. L'ufficio aveva l'apparenza di una fabbrica di soldi, però in realtà si trovava in equilibrio precario mentre il contabile cinese faceva miracoli per pagare i conti più urgenti. Inutilmente Mike Tong cercava di spiegare al suo capo i fondamentali princìpi della contabilità, perché esaminasse le insanguinate colonne dei libri e si rendesse conto che stavano facendo capriole alla cieca su una corda floscia. Non preoccuparti, amico, ci sistemeremo, qui non è come in Cina, si va sempre avanti, questa terra è per gli audaci, non per i prudenti, lo tranquillizzava Reeves. Si guardava attorno e vedeva che non era il solo in quella situazione, l'intera nazione era preda della vertigine dello sperpero, lanciata in un baccanale di spese e in una strepitosa propaganda patriottica, volta a recuperare l'orgoglio che la sconfitta nella guerra aveva umiliato. Marciava al rullo di tamburo del suo tempo, ma per farlo doveva soffocare le voci di Ciro con la sua chioma da sapiente e le sue enciclopedie clandestine, di suo padre con il boa addomesticato, dei soldati immersi nel sangue e nello spavento, e di tanti altri spiriti critici. Non si vedeva tanto egoismo, corruzione e arroganza dai tempi dell'Impero Romano, diceva Timothy Duane. Quando Carmen mise in guardia Gregory contro le trappole dell'avidità, lui le ricordò che la prima lezione di intraprendenza gliela aveva data lei al tempo dell'infanzia, tirandolo fuori dal ghetto e obbligandolo a fare soldi nel quartiere della borghesia. Grazie a te attraversai la strada e scoprii i vantaggi dello stare dall'altra parte, essere ricco è molto meglio, però se non posso esserlo, vivrò almeno come se lo fossi, disse. Lei non riusciva a conciliare quelle bravate dell'amico con altri aspetti della sua vita, che senza volerlo rivelava nelle lunghe conversazioni del lunedì, come la tendenza sempre
più accentuata a difendere solo i più miseri, mai le ditte o le compagnie di assicurazioni con cui avrebbe fatto solidi guadagni senza tanti rischi. "Non ti comporti coerentemente, Greg. Parli di fare soldi, ma nel tuo ufficio sfilano solo i poveri." "Tutti i latini lo sono, lo sai bene anche tu." "Proprio questo voglio dire. Con quel tipo di clienti nessuno si arricchisce. Ma mi compiaccio che tu continui a essere il tonto sentimentale di sempre, per questo ti voglio bene. Ti occupi sempre degli altri, non so come le forze ti bastino." Questo aspetto della sua indole non si notava tanto quando era solo una rotella nel complesso ingranaggio di uno studio altrui, ma si fece evidente quando divenne il principale di se stesso. Era incapace di chiudere la porta a chi domandava aiuto, tanto nel lavoro che nella vita privata. Era circondato da gente nei guai e riusciva a stento a seguire tutti. Ernestina Pereda faceva miracoli per allungare le ore del suo calendario. Spesso i clienti finivano per trasformarsi in amici, in più di un'occasione ospitò a casa sua persone che si trovavano senza alloggio. Uno sguardo riconoscente gli pareva una ricompensa sufficiente, ma a volte subiva grosse delusioni. Non aveva occhio nello scoprire in tempo i poco di buono e quando voleva liberarsene era tardi, gli si rivoltavano come scorpioni, accusandolo di ogni sorta di vizi. Attenzione a non farci citare per abuso della professione, avvertiva Mike Tong vedendo che il suo capo si fidava troppo dei clienti, tra cui vi erano disonesti che sopravvivevano abusando del sistema legale e avevano alle spalle una storia di cause, lavoravano per qualche mese, riuscivano a farsi licenziare e poi presentavano istanza per avere perduto l'impiego, altri si procuravano ferite per riscuotere l'assicurazione. Reeves faceva errori anche nell'assumere i dipendenti, i più avevano problemi con l'alcool, un altro giocava e scommetteva non solo il suo ma anche tutto quello che poteva sottrarre dall'ufficio, ce n'era uno che soffriva di depressione cronica e lo trovarono un paio di volte nel bagno con le vene aperte. Solo dopo molti anni si rese conto che il suo atteggiamento attirava i nevrotici. Le segretarie non reggevano a tante scosse, poche resistevano più di un paio di mesi. Mike Tong e Tina Faibich erano le uniche persone normali in quel circo di allucinati. Agli occhi di Carmen il fatto che il suo amico non fosse ancora colato a picco era una prova irrefutabile della sua forza, ma Timothy Duane chiamava quel miracolo pura e semplice fortuna. Entrò in ufficio dalla porta di servizio, come faceva spesso per evitare i
clienti della sala d'aspetto. La sua scrivania era una montagna di carte e anche sul pavimento c'erano pile di documenti e libri di consultazione, sopra il sofà c'erano un golf e diverse scatole con campanelle e cervi di cristallo. Il disordine cresceva attorno a lui minacciando di divorarlo. Mentre si toglieva l'impermeabile passò in rassegna le piante, preoccupato dall'aspetto funereo delle felci. Non fece in tempo a suonare il campanello, Tina lo aspettava con l'agenda della giornata. "Dobbiamo fare qualcosa con questo riscaldamento, mi sta ammazzando le piante." "Oggi alle undici ha una deposizione e ricordi che nel pomeriggio deve andare in tribunale. Posso mettere un po' d'ordine? Questa stanza sembra un immondezzaio, se posso permettermi di dirlo, signor Reeves." "Bene, però non mi tocchi l'archivio di Benedict, ci sto lavorando. Scriva nuovamente al Comitato per il Natale perché non mi mandino più addobbi. Può darmi un'aspirina, per favore?" "Credo che ce ne vorranno due. Sua sorella Judy ha chiamato diverse volte, è urgente," annunciò Tina e uscì. Reeves prese il telefono e chiamò la sorella, che lo avvisò in poche parole che Shannon era passata la mattina presto a lasciare David a casa sua prima di partire per destinazione ignota. "Vieni a prendere tuo figlio quanto prima perché non ho intenzione di farmi carico di questo mostro, ne ho abbastanza dei miei figli e di mia madre. Sai che adesso usa i pannolini?" "David?" "Mia madre. Vedo che non sai nulla neanche di tuo figlio." "Bisogna internarla in una residenza geriatrica, Judy." "Certo, questa è la soluzione più facile, abbandonarla come se fosse una scarpa rotta, è quello che faresti tu, senza dubbio, ma io no. Lei mi ha curato quando ero piccola, mi ha aiutato ad allevare i miei figli ed è stata al mio fianco in tutte le necessità. Come puoi pensare che la metta in un ricovero! Per te non è altro che una vecchia inutile, ma io le voglio bene e spero che muoia fra le mie braccia e non scacciata come un cane. Hai un'ora per ritirare tuo figlio?" "Non posso Judy, ho tre clienti che mi aspettano." "Allora lo consegnerò alla polizia. Nel poco tempo che è stato in casa mia ha messo il gatto nell'essiccatoio e ha tagliato i capelli alla nonna," disse Judy cercando di dominare il tono isterico della voce. "Shannon non ha detto quando ritornava?" "No. Ha detto che ha il diritto di vivere la sua vita, o qualcosa del
genere. Puzzava d'alcool ed era molto nervosa, quasi disperata, non gliene faccio una colpa, quella povera donna non ha alcun controllo sulla propria vita, come potrebbe averlo sul figlio?" "E adesso cosa si fa?" "Non so quello che farai tu. Avresti dovuto pensarci molto prima, non so perché metti al mondo dei figli se non hai l'intenzione di allevarli. Hai già una figlia drogata. Non è abbastanza? O vuoi che David segua l'esempio della sorella? Se non riesci a essere qui tra un'ora esatta, vai alla polizia, lì troverai il tuo piccolino," riattaccò. Reeves chiamò Tina per chiederle di cancellare gli appuntamenti di quel giorno. Lei lo raggiunse sulla porta mettendosi il giubbotto, col suo ombrello in mano, sicura che in un simile frangente il suo capo aveva bisogno di lei. "Che cosa pensa di una donna che abbandona il figlio di quattro anni, Tina?" chiese Reeves alla sua segretaria a metà percorso. "La stessa cosa che penso di un padre che lo abbandona a tre," replicò lei con un tono che non usava mai e così chiuse la conversazione, per il resto del viaggio rimasero in silenzio, ascoltando un concerto alla radio e cercando di tenere sotto controllo le turbolenze della fantasia. Da David potevano aspettarsi qualsiasi cosa. Judy aspettava sulla porta con i bagagli del nipote, mentre il bambino, vestito da soldato, caracollava per il giardino lanciando sassi alla cagnetta invalida. Tina aprì il suo gigantesco ombrello e lo fece girare come la ruota di una giostra, e questo ebbe il potere di fermare di colpo David. Il padre si fece avanti con l'intenzione di prenderlo per mano, ma il piccolo gli tirò una sassata e corse sparato verso la strada. Non riuscì ad arrivarci. Con una manovra da illusionista Tina chiuse l'ombrello, gli agganciò una gamba con il manico, lo gettò pancia a terra e poi lo afferrò per i vestiti, lo sollevò in aria e lo introdusse a viva forza nell'automobile, il tutto senza perdere il suo abituale sorriso. Si diede da fare per tenerlo fermo durante tutto il viaggio di ritorno in città. Quella sera Gregory Reeves si presentò in tribunale con spirito più battagliero del solito, mentre la sua indistruttibile segretaria lo aspettava fuori tenendo a bada David con racconti, patate fritte e qualche pizzicotto. Così ebbe inizio la convivenza di Gregory con suo figlio. Non era preparato a quell'emergenza e nella sua routine non c'era spazio per un bambino, tanto meno per uno tremendo come il suo. L'insicurezza di David era così grande che non poteva restare solo neppure un momento, di notte si infilava nel letto del padre per dormire aggrappato alla sua mano. I
primi giorni Gregory dovette portarlo con sé dappertutto, perché era ancora piccolo per restare solo e non trovò nessuno disposto a farsene carico, neppure Judy, nonostante la sua naturale inclinazione per i bambini e la bella sommetta che le offrì. Se in pochi minuti ha pelato la testa a mia madre, in un'ora gliela taglia fu la risposta di Judy alla sua richiesta. La casa e la macchina di Reeves si riempirono di giocattoli, cibo rancido, gomme masticate, pile di abiti sporchi. Non trovando altra soluzione lo portò in ufficio, dove all'inizio gli impiegati cercarono di ingraziarsi il piccolo, ma si diedero ben presto per vinti, riconoscendo onestamente di odiarlo. David correva sopra le scrivanie, inghiottiva le graffette e poi le sputava sui documenti, disinseriva i computer, inondava i bagni d'acqua, strappava i fili del telefono e fece tante corse in ascensore che il meccanismo si bloccò. Dietro suggerimento della sua segretaria, Gregory assunse un'immigrata clandestina del Salvador perché si prendesse cura di lui, però la donna resistette solo quattro giorni. Fu la prima di una lunga lista di donne che sfilarono per casa senza lasciare ricordi. Al diavolo i traumi, io gli darei una buona dose di sculacciate, raccomandò per telefono Carmen, quantunque non avesse mai avuto occasione di farlo con Dai. Il padre preferì consultare uno psichiatra per l'infanzia, il quale consigliò una scuola speciale per bambini con problemi di comportamento, prescrisse pastiglie calmanti e una terapia immediata perché così spiegò, le ferite emozionali dei primi anni di vita lasciano cicatrici incancellabili. "E frattanto suggerisco anche a lei di entrare in terapia, perché ne ha più bisogno di David. Se non risolve i suoi problemi non potrà aiutare suo figlio," aggiunse, ma Reeves scartò l'idea senza pensarci su. Era cresciuto in un ambiente in cui questa possibilità non si poneva e a quel tempo credeva ancora che gli uomini dovessero cavarsela da soli. Quello fu un anno difficile per Gregory Reeves. È il peggiore del tuo destino, non devi più preoccuparti perché il futuro sarà molto più felice, gli assicurò più tardi Olga, quando cercò di convincerlo del potere dei cristalli per combattere la sfortuna. Quando si aggiunsero altre disgrazie il fragile equilibrio della sua realtà si sgretolò. Una mattina Mike Tong si presentò sconvolto ad annunciargli che doveva alla banca una somma impossibile a pagarsi e che gli interessi stavano strangolando la ditta, e inoltre non aveva ancora sistemato le spese per il divorzio. Le donne con cui usciva andavano scomparendo a una a una man mano che ebbero occasione di conoscere David, nessuna ebbe abbastanza forza di carattere per condividere l'amante con quell'indomabile creatura. Non era la prima volta
che le circostanze lo perseguitavano, ma adesso doveva anche prendersi cura del figlio. Si alzava all'alba per riuscire a sistemare la casa, preparare la colazione, ascoltare il notiziario, programmare il pranzo e vestire il bambino, lo lasciava alla scuola una volta che le pastiglie calmanti avevano fatto il loro effetto e guidava verso la città. Quei quaranta minuti di viaggio erano l'unico momento di pace della giornata, nel passare tra le superbe torri del ponte del Golden Gate, simili ad alti campanili cinesi in lacca rossa, con la baia da un lato, specchio oscuro solcato da velieri da turismo e barche da pesca, e il profilo elegante di San Francisco di fronte, si ricordava di suo padre. Il posto più bello del mondo, lo chiamava. Ascoltava musica, cercando di tenere sgombra la mente, ma non era quasi mai possibile, perché la lista di problemi da risolvere risultava interminabile. Tina fissava i suoi appuntamenti nella prima parte della giornata così poteva andare a prendere David alle quattro, si portava a casa dei documenti con l'intenzione di esaminarli la sera, ma il tempo non gli bastava, non avrebbe mai immaginato che un bambino occupasse tanto spazio, facesse tanto chiasso e richiedesse tanta attenzione. Per la prima volta provò pena per Shannon e arrivò persino a capire perché fosse scomparsa. In più il piccolo collezionava animali e a lui toccava lavare la vasca dei pesci, nutrire le topoline, pulire la gabbia delle cocorite e portare a spasso il cane, un pastore giallo che chiamarono Oliver in ricordo del primo amico di Gregory. "Tutto questo ti succede perché sei scemo. Per prima cosa non avresti dovuto comprare quel giardino zoologico," gli disse Carmen. "Avresti dovuto avvertirmi prima, adesso non c'è niente da fare." "Sì che c'è, regala il cane, libera gli uccellini e le topine e getta i pesci nella baia. Sarà un vantaggio per tutti." Gli incartamenti si accumulavano sopra le casse che gli servivano da tavolino da notte. Dovette rinunciare a viaggiare e affidare i casi di altre città ai suoi dipendenti, che non sempre erano sobri o sani e commettevano errori costosi. Finite le colazioni d'affari, le partite a golf, l'opera, le scappate al ballo con le donne della sua lista e le baldorie con Timothy Duane, non poteva neppure andare al cinema per non lasciare il bambino solo. Non poté neanche ricorrere ai video perché David accettava solo film di mostri e di estrema violenza, più sanguinari erano, più gli piacevano. Nauseato da tanti morti, torturati, zombie, uomini-lupo e perfidi extraterrestri, Gregory tentò di iniziarlo alle commedie musicali e ai cartoni animati, ma si annoiavano entrambi nella stessa misura. Impossibile invitare a casa degli amici, David non sopportava nessuno,
considerava chiunque si avvicinasse a suo padre come una minaccia e gli venivano spaventose convulsioni di gelosia che invariabilmente affrettavano la fuga dei visitatori. A volte, se c'era una festa o un appuntamento con una sua conquista che lo interessava particolarmente, trovava qualcuno che sorvegliasse il bambino per qualche ora, ma tornando trovava sempre la casa sconvolta da un uragano e la baby sitter desolata o al limite di una crisi di nervi. L'unico ad avere la pazienza necessaria era King Benedict, che risultò dotato per il ruolo di bambinaio e che apprezzava i video-giochi e i film dell'orrore, però abitava troppo lontano e d'altra parte non era più normale del bambino. Quando li lasciava soli Gregory partiva ansioso e tornava di fretta, immaginando le innumerevoli disgrazie che potevano capitare in sua assenza. I fine settimana li dedicava completamente a suo figlio, a pulire la casa, andare al mercato, riparare i danni, cambiare la paglia alle topine e lavare la vasca dei pesci, che di solito la mattina galleggiavano tramortiti perché David buttava di tutto nell'acqua. Anche nel sonno lo perseguitavano i debiti insoluti, le imposte arretrate e la possibilità di trovarsi in un impiccio senza uscita perché non aveva fiducia nei suoi avvocati e quanto a lui aveva trascurato parecchi clienti. Per colmo dovette eliminare l'assicurazione professionale per mancanza di fondi, con grande spavento di Mike Tong, che profetizzava catastrofi finanziarie di ogni genere e sosteneva che lavorare in quel campo senza la protezione di un'assicurazione era una scelta suicida. A Reeves mancavano i soldi, le forze e il tempo, era stanchissimo, anelava a un po' di solitudine e di silenzio, aveva bisogno di almeno una settimana di vacanze al mare, ma viaggiare con David era impossibile. Regalalo a un laboratorio, hanno sempre bisogno di bambini per fare esperimenti, gli suggerì Timothy Duane che non compariva mai a casa dell'amico per il terrore di dover affrontare il bambino. Gregory avvertiva rumori nella testa, come nei momenti peggiori della guerra, il disastro andava crescendo incontenibile attorno a lui, incominciò a bere troppo e le allergie non gli davano tregua, soffocava come se avesse i polmoni pieni di cotone. L'alcool gli dava una breve euforia e poi lo lasciava immerso in una lunga tristezza, il giorno dopo si svegliava con la pelle arrossata, un ronzio nelle orecchie e gli occhi gonfi. Per la prima volta in vita sua sentì che il suo corpo cedeva, fino ad allora si era beffato del fanatismo californiano per mantenersi in forma, pensava che la salute è come il colore della pelle, qualcosa di irrevocabile che si riceve nascendo e di cui non vale neppure la pena di parlare. Non si era mai preoccupato del colesterolo, dello zucchero raffinato o dei grassi saturi, era indifferente agli
alimenti organici e alle fibre, come pure alla mania dell'olio abbronzante o delle corse, a meno che non dovesse arrivare presto in qualche posto. Era convinto che non avrebbe avuto il tempo di sopportare le malattie, non sarebbe morto di vecchiaia, ma per un accidente improvviso. Per la prima volta il suo interesse per le donne era diminuito, ciò gli creava una certa angoscia, ma nello stesso tempo si sentiva sollevato, da un lato temeva di perdere la virilità e dall'altro pensava che senza quell'ossessione la sua vita sarebbe stata più leggera. Gli appuntamenti si fecero meno frequenti, riducendosi ad affrettati incontri verso mezzogiorno, perché la sera doveva tornare da David. Il sesso, come la fame o il sonno, era per lui un'urgenza che doveva soddisfare immediatamente, non era uomo da lunghi preamboli, il suo desiderio aveva i segni della disperazione. "Sto diventando pignolo. Dev'essere l'età," commentò con Carmen. "Alla buon'ora. Non capisco come un uomo così selettivo negli abiti, la musica e i libri, che apprezza i buoni ristoranti, compra il miglior vino, viaggia in prima e alloggia in alberghi di lusso, possa andare con delle vagabonde." "Non esagerare, alcune non sono niente male," replicò, ma in fondo dava ragione all'amica, in quel campo aveva molto da imparare. L'unico piacere di cui godeva senza fretta, con l'intenzione di farlo durare, era la musica. Durante la notte, quando non poteva dormire e l'impazienza gli impediva di leggere, si sdraiava sul letto a guardare l'oscurità accompagnato da un concerto. Alla fine di marzo Nora Reeves morì per una polmonite. O forse era andata morendo un po' alla volta da più di quarant'anni e nessuno se n'era accorto. Negli ultimi anni la sua mente vagava per sentieri spirituali avvolti su se stessi e per non perdere la direzione teneva sempre in mano l'invisibile arancia del Piano infinito. Judy la pregava di lasciarla a casa quando usciva, perché la gente non pensasse che sua madre tendesse la mano per chiedere l'elemosina. Nora si vedeva come una fanciulla di diciassette anni in un palazzo bianco dove andava a farle visita il fidanzato, Charles Reeves, che all'ora del tè compariva col cappello da mandriano, un serpente addomesticato e una borsa di ferri per aggiustare le imperfezioni del mondo, come l'aveva religiosamente visitata ogni giovedì dal lontano giorno in cui lo portò via l'ambulanza per l'altro mondo. L'agonia iniziò con febbre intermittente e quando l'anziana donna entrò in uno stato crepuscolare, Judy e il marito la trasportarono all'ospedale. Lì rimase un paio di settimane, tanto debole che sembrava volatilizzarsi a
poco a poco, ma Gregory era sicuro che sua madre non era in agonia. Le regalò uno stereo perché ascoltasse i suoi dischi d'opera, notò che al di sotto delle lenzuola muoveva lievemente i piedi al ritmo delle note e qualcosa come un sorriso infantile le sfiorava la bocca, segno decisivo che non pensava di andarsene. "Non illuderti, Greg. Non mangia, non parla, quasi non respira," replicava Judy. "Lo fa per ripicca. Vedrai che domani starà bene," rispondeva lui, aggrappato al ricordo della madre giovane. Ma una mattina presto lo chiamarono dall'ospedale e assieme alla sorella vide l'alba accanto a una lettiga dove giaceva il corpo leggero di una donna senza età. Sua madre si avvicinava agli ottant'anni, ma da molto tempo si era accomiatata dall'esistenza, abbandonandosi a una tranquilla follia che l'aiutò a evadere completamente dai dolori della vita, senza alterare le sue maniere educate e la delicatezza del suo spirito. Man mano che la degenerazione del suo corpo avanzava, Nora Reeves retrocedeva verso un altro tempo e un altro luogo, fino a che non perse il conto nell'oblio. Alla fine dei suoi giorni credeva di essere una principessa degli Urali e passeggiava cantando melodie attraverso le bianche stanze di un luogo incantato. Da molto tempo riconosceva solo Judy che, d'altronde, confondeva con sua nonna e le parlava in russo. Ritornò a un'immaginaria giovinezza, dove non esistevano doveri né sofferenze, solo tranquilli piaceri di musica e di letture. Leggeva per il gusto di constatare le infinite variazioni di ventiquattro segni impressi sulla carta, però non ricordava le frasi né si rendeva conto dell'argomento, sfogliava con il medesimo interesse un romanzo classico o il manuale d'istruzioni di un apparecchio elettrico. Con gli anni aveva assunto le dimensioni di una bambola trasparente, ma con i prodigiosi cosmetici della sua fantasia, o forse semplicemente con l'innocenza della morte, recuperò la freschezza perduta nella lunga vita e al momento della morte appariva quale Gregory la ricordava quand'era bambino e lei gli mostrava le costellazioni del firmamento. Le settimane di febbre, il prolungato digiuno e i capelli tagliati a ciocche dalle forbici del nipote, e mai più ricresciuti, non poterono distruggere quell'illusione di bellezza. La sua anima se ne andò con il dolce ritegno che le era proprio, tenuta per mano dalla figlia. La seppellirono senza scene né lacrime in un giorno di pioggia. Judy mise in un sacchetto il poco che rimase: due vestiti frusti, una scatola di latta con alcuni documenti che comprovavano il suo passaggio in questo mondo, due quadri dipinti da Charles Reeves e la sua collana di perle ingiallite dal
poco uso. Gregory prese solo qualche fotografia. Quella notte, dopo avere fatto il bagno a David e avere combattuto per farlo andare a letto, Gregory diede da mangiare alle bestie di casa, gettò nella lavatrice la roba sporca, raccolse i giocattoli seminati ovunque e li buttò dentro un armadio, portò la spazzatura in garage, pulì la cucina, rimise sugli scaffali i libri che il bambino aveva usato per costruire una fortezza e infine si ritrovò solo nella stanza, con la valigetta zeppa di documenti che doveva esaminare per il giorno dopo. Mise una sinfonia di Mahler, si versò un bicchiere di vino bianco e si sedette sul letto, unico mobile della camera. Era già mezzanotte e ci volevano almeno un paio d'ore di lavoro per districare il caso che aveva tra le mani, ma non si sentiva in grado di farlo. Con due sorsi vuotò il bicchiere, se ne servì un altro e poi un altro ancora fino a terminare la bottiglia. Fece scorrere l'acqua nel bagno, si spogliò e si guardò allo specchio, il collo solido, le spalle ampie, le gambe robuste. Era così abituato che il suo corpo gli rispondesse come una macchina perfetta, che non poteva immaginarsi ammalato. Le uniche occasioni in vita sua in cui restò a letto furono quando gli scoppiarono le vene della gamba e in quell'ospedale delle Hawaii, ma erano episodi quasi dimenticati. Ignorava sornionamente i campanelli d'allarme che lo richiamavano all'ordine, allergie, mal di testa, stanchezza, insonnia. Si passò la mano sui capelli e si rese conto che non solo stavano diventando bianchi, ma cadevano. Gli venne in mente King Benedict, che si tingeva il cranio con lucido da scarpe nero per nascondere quella calvizie che lo sconcertava perché si credeva ancora nel fiore della gioventù. Osservò la sua immagine cercandovi le tracce di sua madre e le trovò nelle mani dalle lunghe dita e nei piedi magri, il resto apparteneva alla solida eredità di suo padre. Margaret aveva le fattezze della nonna, un viso felino dagli zigomi alti, sguardo angelico, gesti dolcissimi. Che sarebbe stato di lei? L'ultima volta che la vide fu in carcere. Dalla strada al carcere dal carcere alla strada, da un errore all'altro, così trascorreva la sua esistenza da quando fuggì per la prima volta dalla casa di Samantha. Era molto giovane, ma già aveva percorso i cerchi infernali e aveva l'atteggiamento pauroso di un cobra pronto ad attaccare. Gli piaceva immaginare, contro ogni evidenza, che sotto la cappa dei vizi le restassero ancora tracce di purezza. Pensò che proprio come Nora Reeves si era trasfigurata nella morte, Margaret avrebbe potuto salvarsi dalla corruzione e miracolosamente resuscitare dalle proprie ceneri. Sua madre aveva vegetato per diversi decenni intatta dalle rozze esperienze del mondo e, ne era certo, si sarebbe trasformata in nebbia all'interno della sua bara,
rendendo vano il diligente lavoro delle larve della decomposizione. Allo stesso modo si sarebbe preservata sua figlia, forse il lungo calvario che l'aveva condotta così lontano per una strada in discesa, non aveva ancora distrutto quella bellezza essenziale e bastava una delle colossali purghe che Olga prescriveva e un buon bagno con sapone e spazzola per farla tornare pulita, senza una sola ombra, senza punture di aghi, graffi, lividi né piaghe, la pelle nuovamente luminosa, i denti senza macchie, i capelli vivi e il cuore lavato dalla colpa per sempre. Aveva un po' di nausea, non ci vedeva bene. Entrò nella tinozza e si lasciò pervadere dal benessere dell'acqua calda, cercando di rilassare le membra irrigidite dalla tensione senza pensare a nulla ma gli eventi della giornata accorsero a frotte nella sua mente, le pratiche funebri all'ospedale, il breve servizio religioso, il solitario funerale la cui unica nota di colore erano i grandi mazzi di garofani rossi che aveva comprato per tacitare la coscienza di non essersi occupato di sua madre in tanti anni. Ricordò la pioggia, il silenzio ostinato e senza lacrime di Judy, il suo disagio, come se la morte fosse un'indiscrezione, l'unica mancanza di cortesia e di buone maniere di Nora Reeves. Durante il tragitto verso il cimitero andava pensando al lavoro accumulato nello studio, se doveva trovare un accordo per il caso di King Benedict o decidersi a fare causa col rischio di perdere tutto, aveva seguito ogni pista per insignificante che fosse, come un cane ostinato, ma non aveva nulla di concreto a cui aggrapparsi. Sentiva un particolare affetto per il suo cliente, era come un buon bambino nell'involucro anacronistico di un cinquantenne, ma soprattutto ammirava Bel Benedict, quella donna straordinaria che meritava di scuotersi di dosso la miseria. Per lei doveva prevenire le manovre degli altri avvocati e sconfiggerli sul loro stesso terreno, non vince chi ha ragione, ma chi lotta meglio, era stata la prima lezione del vecchio delle orchidee. Si odiò per essersi lasciato distrarre da quelle considerazioni in quel momento, col cadavere di sua madre ancora caldo. Ricordò gli ultimi anni di Nora Reeves, ridotta alla condizione di una bambina minorata che Judy accudiva con sollecitudine brusca e impaziente, quasi fosse una bimba in più della sua tribù di otto figli. Per lo meno sua sorella le stava vicina, lui invece trovava sempre delle scuse per non vederla, si limitava a pagare i conti quand'era necessario, e a farle una breve visita un paio di volte all'anno. Che lei non lo riconoscesse, che la sua mente non registrasse l'esistenza di un figlio a nome Gregory lo angustiava, si sentiva punito dall'amnesia senile di sua madre, come se l'oblio fosse solo un altro pretesto per cancellarlo definitivamente dal suo cuore. Aveva sempre
sospettato che non lo amasse e che, quando aveva cercato di liberarsi di lui portandolo all'orfanotrofio o in casa dei fattori, non avesse agito spinta dalla miseria, ma dall'indifferenza. L'acqua era troppo calda, la pelle gli bruciava e le tempie pulsavano, pensò che un altro sorso non sarebbe stato male, uscì dal bagno avvolto in un asciugamano andò in cucina in cerca di una bottiglia e intanto spense il riscaldamento, perché si sentiva soffocare. Diede un'occhiata nella stanza di David e constatò che dormiva tranquillo, steso di traverso sul limitare della sua tenda da indio. Si versò un altro bicchiere di vino bianco e tornò a sedersi sul letto, il disco era terminato e poté ascoltare il silenzio, lusso raro da quando viveva con suo figlio. Si presentò nuovamente sua madre come un ricordo persistente, la sua voce mormorava cercando di dirgli qualcosa, e si rese conto che non la conosceva, era un'estranea. Nell'infanzia l'aveva adorata, ma poi si era allontanato e molte volte sentì di odiarla, soprattutto negli anni più difficili, quando si era installata nella sua poltrona di vimini, rassegnata alla miseria e all'impotenza, mentre lui si guadagnava la vita fuori casa. Guardò le vecchie fotografie ingiallite, resti di un passato altrui che in qualche modo era anche suo e cercò di ricomporre i frammenti di quell'anziana donna dolce e remissiva. Non riuscì a visualizzarla così, la vide invece giovane, con un vestito dal colletto di pizzo e i capelli raccolti a crocchia, in piedi all'uscita di un villaggio polveroso, e vide anche se stesso, un bimbo magro, dai tratti decisi, occhi azzurri e bocca grande, alle sue spalle due uomini violentavano una ragazza nera, lui gridava e loro lo beffavano, ma la piccola si liberava da quel terribile abbraccio e la si vedeva assieme a Nora Reeves che le offriva un opuscolo del Piano infinito. La scorse poi camminare a grandi passi per una strada solitaria, lei davanti e lui che cercava di raggiungerla, ma più correva, più grande era la distanza, e la figura che inseguiva si faceva più piccola e più indistinta contro l'orizzonte, l'asfalto era bollente e molle, i piedi vi si incollavano, mai le forze gli sarebbero bastate per vincere la stanchezza, non poteva avanzare, cadeva, si trascinava sulle ginocchia, il calore gli impediva di respirare. Provò una tremenda compassione per quel bambino, per se stesso. Madre, la chiamò prima con il pensiero e poi con un grido lacerante, e allora le immagini imprecise si concentrarono, le linee disperse si profilarono come tracciate da una penna sicura e Nora Reeves apparve con tutto il suo corpo, reale e presente, e gli tese sorridendo la mano. Voleva alzarsi in piedi per abbracciarla come non aveva mai fatto, ma non riuscì a muoversi e rimase al suo posto ripetendo la parola mamma, mentre la stanza si riempiva di una luce incandescente e a poco a poco altri
visitatori arrivavano: Ciro, Juan José Morales che teneva per mano Thui Nguyen, il ragazzo del Kansas che morì tra le sue braccia e altri soldati esangui, Martínez senza l'ombra della sua antica insolenza, ma ancora con il suo abbigliamento da pachuco e molti altri che arrivavano in silenzio affollando la stanza. Gregory Reeves si sentì inondato dal sorriso di Nora, di cui aveva avuto tanto bisogno da bambino e che invano aveva cercato da adulto. Rimase immobile nel silenzio tranquillo di un tempo che indugiava negli orologi, fino a che lentamente il corteo dei morti scomparve. L'ultima ad andarsene fu sua madre che retrocedette fluttuando e svanì attraverso la parete, lasciandogli la certezza di un affetto che in vita non seppe esprimere, ma che sempre provò. Quando tutti si allontanarono e rimase solo, qualcosa esplose nel suo animo, un dolore terribile infisso nel petto che di lì si ripercuoteva in ondate attraverso tutto il corpo, bruciandolo, spezzandolo, rompendogli le ossa e strappandogli via la pelle, perse ogni consistenza, non era più lui ma quell'insopportabile sofferenza, quella tormentata medusa che si spargeva attraverso la stanza e riempiva lo spazio, un'unica ferita che sanguinava. Cercò nuovamente di alzarsi, ma non riuscì a muovere le braccia, si piegò e cadde sulle ginocchia senza poter respirare, fulminato da una lancia che lo trapassava da una parte all'altra. Per diversi minuti ansimò crollato a terra, gli mancava l'aria, avvertiva alle tempie colpi di tamburo. Una parte lucida della sua mente registrò quello che gli capitava e capì che doveva chiamare aiuto altrimenti sarebbe morto lì, ma non riuscì ad avvicinarsi al telefono né gli uscì la voce per gridare, si accoccolò come un neonato, tremando, cercando di ricordare quello che sapeva circa gli attacchi di cuore. Si chiese quanto tempo lo separasse dalla morte e l'idea per un attimo lo terrorizzò, ma poi immaginò la pace di non esistere, di smettere di rotolare nella polvere combattendo con le ombre, di non trascinarsi lungo un sentiero dietro a quella donna che si allontanava e, proprio come faceva da bambino quando si nascondeva col suo cane in una tana da volpi, si abbandonò alla tentazione di non essere. Molto lentamente il dolore passò attraverso di lui portando via parte della sua tremenda stanchezza. Ebbe l'impressione di avere già vissuto quel momento. Riprese a respirare, palpandosi il petto per assicurarsi che lì dentro qualcosa batteva ancora, no, il cuore non gli era ancora scoppiato. Si mise a piangere come non aveva più fatto dal tempo della guerra, un lamento viscerale che veniva dal passato più lontano, forse da prima della nascita, una cascata alimentata dalle lacrime represse negli ultimi anni, un torrente inarrestabile... Pianse l'abbandono dell'infanzia, le lotte e le sconfitte che
vanamente tentava di trasformare in vittorie, i debiti insoluti e i tradimenti sopportati durante la vita, l'assenza della madre e la tardiva comprensione del suo affetto. Vide Margaret che rotolava verso un abisso e cercò di trattenerla, ma gli sfuggì dalle mani. Mormorò il nome di David così vulnerabile e ferito, domandandosi perché i suoi figli erano segnati da quel marchio di oppressione, perché l'esistenza era così difficile per loro, forse aveva trasmesso una maledizione attraverso i geni ed essi avrebbero dovuto pagare le sue colpe. Pianse per il cumulo dei suoi errori e per quell'amore perfetto che sognava e credeva impossibile raggiungere, per suo padre morto da tanti secoli e sua sorella Judy, prigioniera dei peggiori ricordi, per Olga col suo mestiere di incantatrice che inventava il futuro con le sue carte truccate, e per i suoi clienti, non i fannulloni e i profittatori, ma le vittime come King Benedict e i tanti infelici, neri latini, clandestini, poveri, emarginati e umiliati che accorrevano a chiedere aiuto in quella Corte dei Miracoli che era diventato il suo studio, e continuò a singhiozzare, ora per i ricordi di guerra, i compagni nei sacchi di plastica, Juan José Morales, le ragazze dodicenni che si vendevano ai soldati, i cento morti sulla montagna. E quando capì che in realtà stava solo piangendo su se stesso, aprì gli occhi e si trovò infine di fronte alla bestia e dovette guardarla in faccia e così seppe che quell'animale in agguato alle sue spalle, quel soffio che da sempre avvertiva alla nuca, era il suo ostinato terrore della solitudine, che lo affliggeva fin dall'infanzia, quando si chiudeva piangendo nel magazzino. L'angoscia lo avvolse nel suo abbraccio fatale, si infiltrò attraverso gli occhi, la bocca, le orecchie, in ogni parte, e lo invase completamente mentre mormorava: voglio vivere, voglio vivere... In quel momento suonò un campanello, scuotendolo dal suo smarrimento. Impiegò un'eternità a riconoscere il suono, a rendersi conto di dove si trovava, a vedersi sul pavimento, nudo, bagnato di orina, di vomito e di pianto, ubriaco, terrorizzato. Il telefono suonava come un richiamo urgente da un'altra dimensione, finché finalmente poté trascinarsi e prendere il ricevitore. "Greg? Sono Tamar. Oggi non mi hai chiamato, è lunedì..." "Vieni Carmen, per favore vieni," balbettò. Mezz'ora dopo lei era al suo fianco, dopo aver fatto il percorso da Berkeley a velocità proibita. Le aprì la porta avvolto in un asciugamano, e si gettò fra le sue braccia cercando di spiegarle in gran fretta dove sentiva dolore, qui, nel petto, la testa, la schiena, dappertutto. Carmen lo coprì con una vestaglia, afferrò David mezzo addormentato, mise tutti e due nella
sua automobile e volò all'ospedale più vicino, dove in pochi minuti Gregory Reeves si trovò su una lettiga, collegato a una sonda e a una maschera di ossigeno. "Morirà mio papà?" chiese David. "Sì, se non ti addormenti," replicò feroce Carmen. Rimase in sala d'aspetto assieme al bambino addormentato fino alla mattina dopo, quando il cardiologo l'avvisò che non c'era pericolo, non si trattava di mal di cuore, ma di un attacco d'ansia, il paziente poteva andare via, però doveva consultare un medico, fare una serie di esami e magari consultare uno psichiatra, perché si perdeva in deliri da folle. Tornati a casa, Carmen aiutò Gregory a fare una doccia e mettersi a letto, preparò il caffè, vestì David, gli diede la colazione e lo portò a scuola. Poi chiamò Tina Faibich per spiegarle che il suo principale non era in grado di lavorare per quel giorno, tornò accanto al suo amico e si sedette sul letto. Gregory era esausto e stordito dai tranquillanti, ma poteva respirare senza affanno e aveva persino un po' di fame. "Che è successo?" volle sapere Carmen. "È morta mia madre." "Perché non mi hai avvertito?" "È stato tutto così veloce, non ho voluto disturbare nessuno, non potevi farci niente," e incominciò a raccontarle ciò che era successo senza ordine né logica, un fiume di frasi incompiute, ricordi, immagini e terrori, tutta la sua vita di ostacoli e solitudine, tenendo per mano quella donna che era più che una sorella, era il suo più antico e fedele amore, la sua amica, la sua compagna, parte intima di lui stesso, così vicina e così diversa da lui, Carmen bruna ed essenziale, Carmen coraggiosa e saggia, con cinquecento anni di tradizione indigena e castigliana nel sangue e un solido buon senso anglosassone che l'aveva aiutata ad andare per il mondo con passo sicuro. "Ti ricordi quando eravamo bambini e io correvo davanti al treno? Ero guarito da quell'idea fissa della morte e ho passato molti anni senza pensarci, però adesso quelle idee mi sono tornate e ho paura. Sono in trappola, non finirò mai di pagare le banche, mia figlia è persa nella droga, per i prossimi quindici anni continuerò a combattere con David. La mia vita è una sconfitta, sono un disastro." "La sconfitta e il successo non esistono, Greg, sono invenzioni dei gringo. Si vive e basta, meglio che si può, un po' per giorno, è come un viaggio senza meta, ciò che conta è andare. E ora di calmarsi. Perché tanta agitazione? Mia nonna diceva che non dobbiamo essere schiavi della fretta."
"Tua nonna era pazza, Carmen." "Non sempre. A volte era la più lucida della famiglia." "Sono finito e solo come un cane." "Devi toccare il fondo, allora dai un calcio e risali in superficie. Le crisi sono una cosa buona, sono l'unico mezzo per crescere e cambiare." "Io sono questo che stai vedendo, nient'altro. Ho fatto male ogni cosa, incominciando dai miei figli. Sono come la torre di Pisa, Carmen, ho l'asse inclinato e perciò tutto mi riesce storto." "Chi ti ha mai detto che la vita sia facile? C'è sempre dolore e fatica. Dovrai raddrizzare il tuo asse, se è questo che bisogna fare. Guardati, Greg, sembri uno straccio... Smetti di lamentarti e alzati una buona volta. Hai fatto in modo di vivere fuggendo, ma non si può sempre correre, a un certo momento bisogna fermarsi e confrontarsi con se stessi. Per quanto tu corra sei sempre dentro la tua pelle." Nella mente di Gregory passò suo padre nomade, che sempre si spostava attraversando frontiere, cercando di raggiungere l'orizzonte, di arrivare alla fine dell'arcobaleno e di trovare più in là qualcosa che qui gli era negato. Il paese offre grandi spazi aperti per fuggire, sotterrare il passato, lasciare ogni cosa e ripartire tutte le volte che è necessario senza caricarsi di colpe né di nostalgie, si possono sempre tagliare le radici e ricominciare, il domani è un foglio bianco. Così era anche la sua storia, mai quieto un eterno viandante, ma il risultato di quest'ansia era stata la solitudine. "Te l'ho già detto, Carmen, sto invecchiando." "Capita a tutti. A me piacciono le mie rughe." La guardò da vicino, per la prima volta con attenzione, notò che non era più una ragazza e si rallegrò che non facesse niente per nascondere le linee sul viso, tracce del suo percorso, né i fili bianchi che davano luce alla sua capigliatura nera. Il peso dei suoi seni le incurvava le spalle e, fedele al suo stile, esibiva una gonna larga, sandali, cerchi alle orecchie e bracciali, tutto questo era Carmen, Tamar. Immaginò che nuda sarebbe parsa come un gatto bagnato, ad ogni modo gli sembrò graziosa, molto di più che nell'infanzia, quando era una bimba grassoccia e discola con la lingua sciolta o durante l'adolescenza, la ragazza più attraente della scuola, o già donna, quando aveva raggiunto il suo aspetto definitivo e andava con un giapponese attraverso il quartiere gotico di Barcellona. Le sorrise e lei restituì il sorriso, si guardarono con una simpatia tremenda, con la complicità che li univa fin da bambini. Gregory la prese per le spalle e la baciò leggermente sulle labbra. "Ti amo," mormorò, cosciente di come risultasse banale, ma era una
verità assoluta. "Credi che saremmo una coppia giusta?" "No." "Vuoi fare l'amore con me?" "Credo di no. Devo avere un problema di personalità," rise lei. "Riposa e cerca di dormire. Mike Tong andrà a prendere David a scuola e si fermerà a casa tua per qualche giorno. Io tornerò stasera, ho una sorpresa per te." La sorpresa era Daisy, novanta chili di nera bella e allegra puro cioccolato splendente, originaria della Repubblica Dominicana, che aveva attraversato mezzo Messico a piedi e superato la frontiera con altri diciotto rifugiati nel doppio fondo di un camion carico di meloni, decisa a guadagnarsi da vivere nel Nord. Daisy avrebbe cambiato la vita di Gregory e di David. Si prese cura del bambino senza rimproveri né sdolcinature, con lo stesso atteggiamento stoico con cui era sopravvissuta alle miserie del suo passato. Non sapeva una parola di inglese e il suo padrone dovette farle da interprete. Il metodo di Daisy per allevare bambini diede buoni frutti con David, anche se forse è vero che il merito non fu solo suo, il ragazzo era nelle mani di una costosa équipe di professori, medici e psicologi. Lei non credeva a nessuno di quei modernismi, non imparò neppure a pronunciare in spagnolo la parola iperattivo. Era convinta che la causa di tanto scompiglio fosse più semplice: il moccioso era posseduto dal demonio, cosa abbastanza comune, come assicurava, lei conosceva personalmente molte persone che avevano subito quella sorte ma si curava più facilmente di un semplice raffreddore, qualsiasi buon cristiano poteva farlo. Fin dal primo giorno si diede da fare per cacciare via gli incubi dal corpo di David mediante una combinazione di voodoo, preghiere ai santi cui era devota, gustosi piatti di cucina caraibica molto affetto e qualche sonoro schiaffone che gli propinava di nascosto dal padre senza che il colpito osasse tradirla, la prospettiva di vivere senza Daisy era intollerabile. Con encomiabile pazienza la donna si incaricò di addomesticarlo, ogni volta che lo vedeva irto come un porcospino sul punto di inerpicarsi sulle pareti, lo accoglieva tra le sue grandi braccia brune, se lo accomodava tra i materni seni e gli grattava la testa, cantando nella sua lingua solare fino a calmarlo. La presenza tranquillizzante di Daisy, col suo aroma di ananas e zucchero, il sorriso sempre pronto, il suo spagnolo senza consonanti e le sue interminabili storie di santi e di stregoni che David non capiva, ma il cui ritmo lo cullava nel sonno, diedero infine sicurezza al bambino. Grazie a quell'aiuto nei problemi basilari dell'esistenza quotidiana, Gregory Reeves poté iniziare il lento e doloroso viaggio all'interno di se stesso.
Ogni notte, per tutto un anno, Gregory Reeves credette di morire. Quando suo figlio si era addormentato, la casa riposava e si ritrovava solo, sentiva l'approssimarsi della fine. Chiudeva a chiave la porta della stanza perché David non lo sorprendesse se si svegliava, non voleva spaventarlo, e poi si abbandonava alla sofferenza senza opporre resistenza. Era una cosa molto diversa dalla vaga angoscia di prima, alla quale era più o meno abituato. Di giorno agiva normalmente, si sentiva forte e attivo, prendeva decisioni, organizzava lo studio e la casa, si occupava del figlio e a volte aveva l'illusione che tutto andasse bene, ma appena di notte si trovava solo lo assaliva una paura irrazionale. Si vedeva prigioniero in una stanza dalle pareti imbottite, una cella per pazzi dove era inutile gridare e dare colpi alle pareti, non c'era eco, reazione né risposta, solo un vuoto opprimente. Non aveva un nome per quell'incubo fatto di incertezze, inquietudine, senso di colpa e di abbandono o profonda solitudine, e così finì per chiamarlo semplicemente la bestia. Aveva tentato di eluderla per più di quarant'anni, ma finalmente comprese che non l'avrebbe mai lasciato in pace, a meno che non la sconfiggesse in una sfida faccia a faccia. Stringere i denti e resistere, come quella notte sulla montagna, gli sembrava l'unica strategia possibile contro quel nemico implacabile, che lo tormentava opprimendogli il petto con tenaglie, colpi di martello alle tempie, con bruciore di legno incendiato allo stomaco, l'urgenza di buttarsi a correre verso l'orizzonte e perdersi per sempre, dove niente e nessuno potesse raggiungerlo tanto meno i suoi ricordi. A volte l'alba lo sorprendeva rattrappito come un animale braccato, altre volte si arrendeva al sonno dopo ore di lotta sorda e si svegliava sudando nel tumulto di sogni che non riusciva a ricordare. Un paio di volte tornò a esplodergli una granata in mezzo al petto togliendogli il respiro, ma ormai conosceva i sintomi e si limitava ad aspettare che svanissero, cercando di tenere a freno la disperazione, per non morire veramente. Per tutta la vita si era ingannato con trucchi magici, ma era arrivato il momento di soffrire senza scappatoie nella speranza di attraversare la soglia e rinascere un giorno finalmente guarito. Era da lì che gli derivava la forza per andare avanti: il tunnel aveva un'uscita, era solo questione di reggere la marcia forzata del percorso fino ad arrivare dall'altra parte. Rifiutò il sollievo dell'alcool intuendo che il ricorrere a una qualsiasi consolazione avrebbe intralciato la cura da elefante che si era imposta. Quando arrivava al limite delle forze invocava la visione della madre,
come gli era apparsa dopo la morte, con le braccia tese e un sorriso di benvenuto, che lo calmava, benché in fondo sapesse di aggrapparsi a un'illusione, quella madre affettuosa era una creazione della sua mente. Non andava neppure in cerca di donne, anche se non ne rimase del tutto privo, di tanto in tanto incrociava qualcuna disposta a prendere l'iniziativa e almeno per un paio d'ore poteva rilassarsi, ma non ricadde nella trappola di fantasie romantiche, aveva capito che nessuno poteva salvarlo, che doveva riscattarsi da solo. Rosemary, la sua antica amante autrice di libri di cucina, era solita invitarlo ad assaggiare le sue novità culinarie e capitava che lo accarezzasse più per bontà che per desiderio, e finivano per fare l'amore senza passione ma con sincera buona volontà. Mike Tong, ancora legato a un inverosimile pallottoliere malgrado lo splendido equipaggiamento di computer dello studio, non era riuscito a spiegare al suo capo i misteri dei suoi enormi libri scarabocchiati con l'inchiostro rosso, ma aveva almeno seminato in lui i primi elementi di prudenza finanziaria. Deve mettere ordine nei suoi conti o finiremo tutti nella merda, lo implorava il contabile cinese col suo immutabile sorriso e una cortese riverenza, sfregandosi le mani nervose. Per simpatia col suo principale e non conoscendo bene l'inglese aveva finito per usare il medesimo vocabolario di Reeves. Tong aveva ragione, doveva mettere ordine non solo nei conti, ma anche nel resto della sua vita, che sembrava sul punto di colare a picco. La sua barca faceva acqua da tante parti che le dita non bastavano per tappare i buchi. Si accorse di quanto valesse l'amicizia di Timothy Duane e di Carmen Morales, che sopportavano per ore i suoi cupi silenzi e non lasciavano passare una settimana senza telefonargli o cercare di vederlo, nonostante che la sua compagnia non fosse molto divertente. Sei insopportabile, non riesco a condurti da nessuna parte, che ti succede? Sei diventato noiosissimo, si lamentava Timothy Duane, ma anche lui cominciava a essere stanco del disordine. Aveva chiesto troppo alla sua robusta costituzione irlandese, il suo fisico ormai non reggeva ai baccanali che un tempo riempivano i suoi fine settimana di peccati e rimorsi. Vedendo che Reeves non parlava dei suoi problemi, anche perché lui stesso non sapeva che cosa diavolo gli stesse succedendo Duane ebbe l'idea risolutiva di portarlo quasi a forza al consultorio della dottoressa Ming O'Brien, dopo essersi fatto giurare che non avrebbe cercato di sedurla. L'aveva conosciuta a una conferenza sulle mummie, alla quale lui aveva partecipato per vedere se esisteva qualche rapporto tra gli imbalsamatori dell'antico Egitto e la moderna anatomia patologica, mentre lei voleva verificare quale genere di persone scombinate potevano
interessarsi a tale argomento. Si incontrarono durante una pausa facendo la coda per il caffè. Lei guardava di sottecchi la maltrattata statua del Partenone che accendeva la pipa a tre passi dal cartello che proibiva di fumare, e Duane la osservò pensando che quella personcina dai capelli neri e dagli occhi sagaci doveva avere sangue cinese nelle vene. Effettivamente i suoi genitori erano di Taiwan. A quattordici anni la misero su una nave per l'America indirizzandola ad alcuni compatrioti che conoscevano appena, con un visto turistico e l'indicazione precisa di studiare, farsi strada e non lamentarsi mai, perché qualunque cosa le fosse capitata sarebbe stata sempre preferibile alla sorte di una donna nella sua terra natale. Un anno dopo il suo arrivo, la ragazza si era adattata così perfettamente al temperamento americano che ebbe l'idea di scrivere una lettera a un parlamentare enumerando i vantaggi dell'America e chiedendogli nel frattempo un visto da residente. Per un'assurda coincidenza, l'uomo politico faceva collezione di porcellane Ming, per cui subito il nome della ragazza attirò la sua attenzione e in uno slancio di simpatia fece regolarizzare i suoi documenti. Il cognome O'Brien proveniva da un marito sposato in giovane età, col quale Ming convisse per dieci mesi prima di abbandonarlo giurando che non si sarebbe mai più sposata in vita sua. Un secondo sguardo rivelò a Duane la bellezza discreta della dottoressa e quando smisero di parlare di mummie e si avviarono su altri argomenti, scoprì che per la prima volta in tanti anni era affascinato da una donna. Non rimasero fino al termine della conferenza, andarono assieme in un ristorante sul molo e dopo la prima bottiglia di vino Timothy Duane si trovò a recitarle un monologo di Brecht. La dottoressa parlava poco e osservava molto. Quando volle portarla nel suo appartamento, Ming rifiutò cortesemente e continuò a farlo nei mesi successivi, situazione che tenne viva per molto tempo la curiosità del tormentato pretendente. Al momento in cui iniziarono finalmente a stare assieme, Timothy Duane era ormai vinto. "Non ho mai visto una donna che abbia tanta grazia, sembra una figurina d'avorio, e inoltre è interessante, non mi stanco di ascoltarla... Credo di piacerle, non capisco perché mi respinga." "Pensavo che tu potessi stare solo con le puttane." "Con lei sarebbe diverso, ne sono certo." "Come faccio a sopportarlo, Greg? Con pazienza cinese... E poi i nevrotici mi piacciono e Tim è il peggiore di tutta la mia carriera," avrebbe spiegato anni dopo Ming O'Brien a Reeves con una smorfia birichina, mentre tagliuzzava del formaggio nella cucina dell'appartamento che
divideva con Duane. Ma questo accadde molto più tardi. Dopo molte esitazioni riuscii a superare l'idea che gli uomini non parlano delle loro debolezze né dei loro problemi, pregiudizio che era radicato in me fin dai tempi del quartiere latino, dove costituiva uno dei tratti basilari della virilità. Mi trovai in uno studio dove tutto, quadri, colori, appariva armonioso, con una unica, perfetta rosa in un vaso di cristallo. Penso che ciò dovesse invitare alla calma e alle confidenze, ma mi sentivo a disagio e dopo un po' avevo la camicia fradicia, mentre mi chiedevo perché diavolo avessi seguito il consiglio di Timothy. Mi è sempre parsa una stupidaggine pagare a ore un professionista, soprattutto se i risultati non si possono misurare. Le circostanze mi hanno obbligato a farlo con David, che non va avanti senza questo genere di aiuto, ma non pensavo potesse toccare a me. D'altronde, la mia prima impressione di Ming O'Brien fu che lei appartenesse a un'altra costellazione, non avevamo nulla in comune, mi lasciai ingannare dal suo viso da bambola e arrivai a conclusioni di cui oggi mi vergogno. La ritenni incapace persino di immaginare le bufere del mio destino, che poteva saperne lei del sopravvivere in un quartiere povero, della mia sventurata figlia Margaret, degli innumerevoli problemi di David, perpetuamente collegato a un filo ad alto voltaggio, dei miei debiti, delle mie ex mogli e del rosario di amanti di passaggio, delle liti con clienti e avvocati dello studio un pugno di profittatori, del dolore al petto, dell'insonnia e della paura di morire ogni notte. Ancor meno saprà della guerra. Avevo evitato per anni i gruppi di terapia per ex combattenti, mi infastidiva dividere con altri la maledizione dei ricordi e il terrore per il futuro, non mi sembrava necessario parlare di quell'aspetto del mio passato, non lo avevo mai fatto tra uomini, meno ancora lo avrei fatto con quella imperturbabile signora. "Mi racconti qualche suo sogno ricorrente," disse Ming O'Brien. Cazzo, mi mancava proprio un Freud in gonnella, pensai, ma dopo una pausa troppo lunga calcolai quanto mi costava ogni minuto di silenzio e in mancanza di qualcosa di più interessante mi venne in mente di parlarle dell'episodio della montagna. Riconosco che iniziai con un tono ironico, seduto con le gambe poggiate in alto, valutandola con occhi allenati a guardare le donne, ne ho viste molte e a quell'epoca davo ancora dei voti con una scala da uno a dieci, la dottoressa non è male, decisi che meritava più o meno un sette. Tuttavia man mano che raccontavo il mio incubo si andò impadronendo di me la stessa terribile angoscia che provavo sognando, vidi i miei nemici vestiti di nero avanzare verso di me, a
centinaia, silenziosi, minacciosi, diafani, i miei compagni caduti come pennellate scarlatte nel grigio opprimente del paesaggio, le pallottole simili a lucciole veloci che trapassavano gli assalitori senza fermarli, e credo che il sudore cominciasse a scorrermi giù per il viso, mi tremavano le mani dal tanto stringere l'arma, lacrimavo per lo sforzo di prendere la mira nella densa foschia, e ansimavo cercando l'aria che stava trasformandosi in sabbia. Le mani di Ming O'Brien che mi scuoteva le spalle mi riportarono alla realtà e mi ritrovai in una stanza tranquilla di fronte a una donna dai lineamenti orientali che mi trapassava l'anima con uno sguardo intelligente e fermo. "Guardi il nemico, Gregory. Lo guardi in faccia e mi dica com'è." Cercai di ubbidire, però nella nebbia non distinguevo nulla, solo ombre. Lei insistette e allora, a poco a poco, le figure si fecero più nitide e potei vedere quello che mi stava più vicino e capii attonito che stavo guardandomi allo specchio. "Dio mio... uno di loro assomiglia a me!" "E gli altri? Guardi gli altri! Come sono?" "Anche loro mi assomigliano... sono tutti uguali... tutti hanno il mio viso!" Passò un momento lunghissimo, ebbi il tempo di asciugarmi il sudore e recuperare un po' di contegno. La dottoressa mi inchiodò con i suoi occhi neri, due abissi profondi in cui precipitarono i miei, spaventati. "Ha visto in faccia il suo nemico, ora può identificarlo, ormai sa chi è e dov'è. Quell'incubo non la tormenterà più perché adesso la sua lotta sarà cosciente," mi disse con tale autorevolezza che non ebbi il minimo dubbio che sarebbe stato così. Quando uscii dal consultorio mi sentii un po' ridicolo perché non riuscivo a controllare la debolezza delle gambe e non avevo potuto accomiatarmi da lei, non mi usciva la voce. Ritornai dopo un mese, quando verificai che l'incubo non si era ripetuto e riconobbi finalmente che avevo bisogno del suo aiuto. Lei mi aspettava. "Non ho rimedi magici. Le starò vicina per aiutarla a rimuovere gli ostacoli più pesanti, ma il lavoro deve farlo lei. È una strada molto lunga, può durare anni, la iniziano in molti, ma pochissimi giungono alla fine, perché è dolorosa. Non esistono soluzioni rapide né definitive, potrà realizzare dei progressi solo con fatica e pazienza." Nei cinque anni che seguirono Ming O'Brien mantenne la promessa, era lì ogni martedì, serena e saggia fra i suoi delicati disegni e i suoi fiori freschi, disposta ad ascoltarmi. Ogni volta che tentavo di sgattaiolare per
qualche via laterale, lei mi costringeva a fermarmi e rivedere la rotta. Quando urtavo contro una barriera insormontabile, mi mostrava il modo di smontarla pezzo per pezzo fino a poterla superare. Con la stessa tecnica mi insegnò a lottare contro i miei antichi dèmoni, uno alla volta. Mi accompagnò passo passo nel viaggio verso il passato, tanto addietro che potei ricordare il dolore del nascere e accettare la solitudine cui ero destinato dal momento in cui le forbici di Olga mi separarono da mia madre. Mi aiutò a sopportare le molteplici forme di abbandono sofferte, dalla morte prematura di mio padre, unico sostegno dei primi anni, all'evadere della mia povera madre, oppressa troppo presto dalla realtà e perduta su improbabili rotte dove non potei seguirla, fino ai più recenti tradimenti di Samantha, di Shannon e molti altri. Mise in evidenza i miei errori un copione molte volte ripetutosi nel corso della mia vita e mi avvertì che dovevo stare sempre all'erta, perché le crisi si ripresentano implacabilmente. Con lei riuscii finalmente a dare un nome al dolore, a comprenderlo e a convivere con lui, sapendo che sarebbe stato sempre presente in una o nell'altra forma, perché è parte dell'esistenza, e quando questa idea ebbe messo radici la mia angoscia diminuì miracolosamente. Il terrore mortale di ogni notte scomparve, potevo restare solo senza tremare di paura. A un certo momento scoprii quanto piacere mi dava arrivare a casa, giocare con mio figlio, cucinare per entrambi e la sera, quando tutto era quieto, leggere e ascoltare musica. Per la prima volta potei restare in silenzio e apprezzare il privilegio della solitudine. Ming O'Brien mi sostenne perché mi rimettessi in piedi, facessi l'inventario delle mie debolezze e dei miei limiti, apprezzassi la mia forza e imparassi a liberarmi dei macigni che portavo sulle spalle. Non è solo colpa sua, mi disse una volta, e scoppiai a ridere perché Carmen mi aveva già detto prima questa stessa frase, pare che io tenda a sentirmi colpevole... Non ero io che drogavo Margaret, era lei che si drogava per propria decisione, e sarebbe stato inutile supplicarla, insultarla, pagare le cauzioni del carcere, rinchiuderla in un ospedale psichiatrico o farla cercare dalla polizia, come avevo fatto tante volte, mia figlia aveva scelto quel purgatorio ed era al di là delle mie ansie e del mio affetto. Dovevo aiutare David a crescere, disse Ming O'Brien, ma senza dedicargli completamente la mia esistenza né sopportare i suoi capricci per compensare l'amore che non avevo saputo dare a Margaret, perché lo stavo facendo diventare un mostro. Verificammo assieme pagina per pagina la mia squallida agenda telefonica e mi accorsi con vergogna che quasi tutte le amanti della mia lunga esperienza erano dello stesso tipo e del medesimo stile, persone dipendenti
e incapaci di ricambiare affetto. Vidi anche con chiarezza che con donne diverse, come Carmen e Rosemary, non ero mai riuscito a stabilire un rapporto sano perché non sapevo darmi né accettare la dedizione completa di una reale compagna, non sapevo niente della comunione nell'amore. Olga mi aveva insegnato che il sesso è lo strumento e l'amore è la musica, ma non imparai in tempo la lezione, sono arrivato a capirlo adesso che mi sto avvicinando al mezzo secolo, ma penso sia meglio tardi che mai. Scoprii che non provavo rancore per mia madre, come credevo, e potei ricordarla con la disponibilità che nessuno di noi due seppe manifestare quand'era ancora viva. Non ebbi più bisogno di inventare una Nora Reeves conforme ai miei bisogni, ognuno di noi sistema a modo suo il passato e la memoria è composta di molte fantasie. Pensai che il suo indomabile spirito mi accompagnasse, così come l'angelo a reazione di Thui Nguyen fa con suo figlio Dai e questo mi diede una certa sicurezza. Smisi di incolpare Shannon e Samantha delle nostre sconfitte, in fondo ero io che le avevo scelte come compagne, il problema aveva soprattutto in me le sue radici, si originava nello strato più profondo della mia personalità, dove giaceva il seme del più antico abbandono. Esaminai a uno a uno i miei rapporti, compresi figli, amici e dipendenti, e in uno di quei martedì ebbi l'improvvisa rivelazione che durante tutta la vita mi ero circondato di persone deboli con la segreta speranza che in cambio dell'appoggio avrei ottenuto dell'affetto o almeno della riconoscenza, ma il risultato era stato disastroso, più davo e meno ricevevo. Solo i forti mi apprezzavano, come Carmen, Timothy, Mike, Tina. "A nessuno piace essere trasformato in invalido," mi spiegò Ming O'Brien. "Lei non può farsi carico degli altri per sempre, arriva il momento che si stanca e, quando li lascia andare, si sentono traditi e naturalmente la detestano. Così è successo con le sue mogli, con alcuni amici, certi clienti, quasi tutti i suoi dipendenti ed è sul punto di succedere con David." I primi cambiamenti furono i più difficili, perché non appena incominciarono a vacillare le fondamenta di quell'edificio sgangherato che era la mia vita, l'equilibrio si ruppe e tutto crollò. Tina Faibich ricevette la telefonata la sera di quel martedì, il suo principale era in riunione con un paio di avvocati della Compagnia di Assicurazioni per il caso di King Benedict e non lo si doveva disturbare, ma nella voce dello sconosciuto c'era una tale urgenza che non osò seguire la prassi. Fu una decisione saggia perché salvò la vita a Margaret, almeno per quella volta. Venga subito, disse l'uomo, diede l'indirizzo di un motel a
Richmond e riattaccò senza dire chi fosse. King Benedict sfogliava una rivista a fumetti in anticamera quando vide uscire Gregory Reeves e mentre aspettava l'ascensore ebbe il tempo di chiedergli dove andasse così in fretta. "Lei non può andare solo in quei posti e tanto meno con un'automobile come la sua," affermò e senza aspettare risposta gli si mise alle calcagna deciso a seguirlo. Quarantacinque minuti dopo si fermarono davanti a una fila di stanze desolate in un vicolo pieno di rifiuti. Man mano che si avvicinavano ai quartieri più poveri della città risultava evidente che Benedict aveva ragione, non si vedeva un solo bianco. Sulle soglie delle porte, davanti ai bar e ai crocicchi erano riuniti giovani oziosi che minacciavano con gesti osceni e gridavano improperi al suo passaggio. C'erano strade prive di nome e Reeves cominciò ad aggirarsi senza potersi orientare, non si azzardava ad abbassare il vetro del finestrino per chiedere indicazioni per timore che gli lanciassero uno sputo o una sassata, però King Benedict non aveva di quei problemi. Gli disse di fermarsi, scese tranquillamente, interrogò un paio di persone e tornò salutando il gruppo di ragazzotti che avevano già circondato la macchina facendo smorfie e prendendo a calci i parafanghi. Così trovarono Margaret. Bussarono alla porta della stanza numero nove di uno squallido motel e aprì un negro robusto con il capo rasato e cinque spilloni infilzati in un orecchio l'ultima persona che Reeves avrebbe voluto vedere assieme a sua figlia, ma non ebbe il tempo di osservarlo troppo, perché l'uomo lo afferrò per il braccio con una mano che pareva una tenaglia e lo guidò verso il letto dov'era la ragazza. "Credo che stia morendo," disse. Era un cliente casuale, il primo della giornata, che con qualche dollaro aveva pagato un incontro con quella ragazza scarmigliata che nel quartiere tutti conoscevano e lasciavano in pace, malgrado la sua razza, perché si trovava comunque molto oltre le abituali aggressioni, era approdata all'altra sponda della miseria. Ma quando con una frettolosa zampata le tolse il vestito e la sollevò per sbatterla sul materasso, si trovò tra le mani una marionetta disarticolata, un povero scheletrino ardente di febbre. La scosse un po' pensando di farla uscire dalla sonnolenza della droga, e il capo le si piegò all'indietro sul collo privo di forze, aveva gli occhi semiaperti rovesciati e un filo di saliva giallastra le scorreva giù dalla bocca. Merda, masticò l'uomo e il suo primo impulso fu lasciarla lì stesa e uscire sparato prima che qualcuno lo vedesse e poi lo accusassero di averla uccisa, ma quando la lasciò andare sul letto gli apparve così patetica che
non poté evitare la compassione e in un lampo di generosità nella violenza della sua vita si chinò su di lei chiamandola, cercò di farle bere un po' d'acqua, la palpò dappertutto cercando una ferita, e vide che aveva il corpo in fiamme. La ragazza viveva provvisoriamente in quella sozza stanza, sul pavimento erano sparse bottiglie vuote, cicche di sigarette, siringhe, avanzi di una pizza ammuffita e tutta l'immondizia che è possibile immaginare. Sul tavolo, tra cosmetici usati, c'era un sacchetto di plastica, lo vuotò senza sapere quello che cercava, trovò una chiave, delle sigarette, una dose di eroina, un portafoglio con tre dollari e un biglietto con il nome di un avvocato. Non gli passò per la mente di chiamare la polizia, ma pensò che lei conservasse quel biglietto per qualche motivo e corse al telefono pubblico all'angolo per chiamare Reeves, senza sospettare che parlava con il padre della miserabile prostituta che agonizzava su quel letto privo di lenzuola. Una volta dato l'allarme si avviò al bar per bere una birra, con l'intenzione di dimenticare l'episodio e squagliarsela di lì se compariva la polizia, ma in un angolo recondito del suo animo sentì che la ragazza lo chiamava e pensò che a nessuno piace morire solo, non perdeva nulla a farle compagnia per qualche minuto e nel frattempo intascare i dollari e la droga, che comunque a lei non servivano più. Tornò alla stanza numero nove con dell'altra birra e un bicchiere di carta con del ghiaccio, e nell'ansia di darle da bere, passarle il ghiaccio sulla fronte e inzuppare una camicetta per rinfrescarle il corpo con acqua fredda, dimenticò di svuotare il portafoglio e fece passare il tempo che Reeves impiegò a trovare il motel. "Bene, io me ne vado," disse, sconcertato nel vedere quel bianco vestito di grigio e con la cravatta, che sembrava uno scherzo in quel luogo, ma si fermò sulla soglia per curiosità. "Che è successo? Dov'è un telefono? Chi è lei?" chiese Reeves mentre si toglieva la giacca per coprire il corpo nudo della figlia. "Non ho niente a che vedere con questa storia, neppure la conosco. E lei, chi è?" "Suo padre. Grazie per avermi chiamato," e la voce gli si spezzò. "Merda... fottuta merda... lasci che l'aiuti." Il negro sollevò Margaret come se fosse una neonata e la portò alla macchina, dove King Benedict aspettava per impedire che la svaligiassero. Reeves partì a tutta velocità per l'ospedale, schivando il traffico attraverso un velo di lacrime, mentre sua figlia respirava a stento rannicchiata sulle ginocchia di King, che le canterellava una di quelle antiche canzoni di schiavi con cui sua madre lo addormentava quand'era bambino. Entrò al
pronto soccorso con la ragazza in braccio. Due ore più tardi gli permisero di vederla per alcuni minuti nel reparto di terapia intensiva dove giaceva crocifissa su di un lettino, collegata a diverse sonde e a un respiratore. Il medico di turno gli comunicò la prima diagnosi: un'infezione diffusa che aveva colpito il cuore. La prognosi era molto pessimistica, disse, forse si sarebbe potuta salvare con dosi massicce di antibiotici e un radicale cambiamento di vita. I successivi esami rivelarono che l'organismo di Margaret era come quello di una vecchia, i suoi organi interni erano danneggiati dalla droga, le vene collassate dalle iniezioni, i denti traballanti, la pelle squamosa, e perdeva i capelli a ciocche. Aveva perdite di sangue a seguito di innumerevoli aborti e malattie veneree. Malgrado tante tribolazioni, la ragazza stesa con gli occhi chiusi nella penombra della stanza sembrava un angelo addormentato, senza tracce visibili della sua degenerazione, con un'innocenza intatta. L'illusione non durò molto, ben presto suo padre verificò quanto fosse abietto l'abisso in cui era caduta. Cercarono di tenere sotto controllo le sue crisi, ma si andava consumando negli spasimi dell'angoscia. Le somministrarono metadone e le diedero gomma da masticare con nicotina, ma dovettero comunque legarla perché non bevesse l'alcool da disinfezione e non rubasse i barbiturici. Frattanto Gregory Reeves non riusciva a mettersi in contatto con Samantha, che viaggiava attraverso l'India sulle tracce di un santone. Disperato, si rivolse a Ming O'Brien chiedendo aiuto, anche se in realtà aveva perso ogni speranza di strappare Margaret dagli artigli del suo maledetto destino. Non appena l'ammalata ebbe superato il pericolo di morte dei primi giorni, la dottoressa O'Brien andò regolarmente a visitarla e si chiudeva per ore a conversare con lei. La sera Gregory Reeves arrivava all'ospedale e trovava sua figlia lacerata dalla compassione per se stessa, con un'espressione da folle e un incontrollabile tremito nelle mani. Si sedeva accanto a lei, col desiderio di accarezzarla, ma senza avere il coraggio di toccarla, e restava in silenzio ad ascoltare una litania di rimproveri e abominevoli confessioni. Così conobbe il tenebroso martirio sopportato dalla figlia. Cercò di scoprire come fosse finita in quel Golgota, quale impenetrabile furore e quali tenebre di solitudine avessero sconvolto in tale modo la sua esistenza, ma lei stessa non lo sapeva. A volte gli diceva singhiozzando papà ti voglio bene, ma un attimo dopo si rivolgeva contro di lui vomitando un odio viscerale e accusandolo di tutta la sua desolazione. "Guardami, maledetto figlio di puttana, guardami," e con una manata scostava le lenzuola e apriva le gambe mostrandogli il sesso, piangendo e
ridendo con furia da folle. "Vuoi sapere come mi guadagno la vita mentre tu viaggi per l'Europa e compri gioielli per le tue amanti e mia madre medita nella posizione del loto? Vuoi sapere quello che mi fanno gli ubriachi, i mendicanti, gli omosessuali, i sifilitici? Ma non ho bisogno di dirtelo perché tu sei esperto in puttane, tu ci paghi perché ti facciamo le porcate che nessuna donna ti farebbe gratis..." Ming O'Brien tentò di mettere Margaret di fronte alla propria realtà, perché accettasse l'evidenza che da sola non poteva salvarsi, aveva bisogno di una terapia a lungo termine, ma era come un gioco di inganni su specchi deformati. La ragazza fingeva di ascoltarla e confessava di essere nauseata dalla sua vita traviata, ma appena poté muovere i primi passi sgattaiolava al telefono del corridoio per chiedere ai suoi contatti che le portassero dell'eroina all'ospedale. Altre volte si abbandonava completamente, inorridita di se stessa, iniziava a raccontare i particolari della sua lunga degradazione e si immergeva in un pantano di rimorsi. Suo padre si offrì di pagarle una terapia di riabilitazione in una clinica privata e infine la giovane accettò apparentemente rassegnata. Ming passò la mattina muovendo le fila perché la ammettessero e Gregory andò a comprare i biglietti per portarla l'indomani nel Sud della California. Quella notte Margaret rubò i vestiti di un'altra ammalata e fuggì senza lasciare tracce. "L'infezione non è guarita, sono soltanto scomparsi i sintomi più pericolosi. Se si interrompono gli antibiotici sicuramente morirà," annunciò il medico in tono neutro. Era abituato a ogni tipo di emergenza e i drogati non gli ispiravano nessuna simpatia. "Non la cerchi, Gregory. Prima o poi dovrà accettare che non può fare niente per sua figlia. Deve lasciarla andare, lei è padrona della sua vita," consigliò Ming O'Brien al padre avvilito. Intanto la data della causa di King Benedict si avvicinava. La Compagnia di Assicurazioni restava ferma nel negare un indennizzo per l'incidente obiettando che la presunta amnesia era un inganno. Lo avevano sottoposto a umilianti esami medici e psichiatrici per dimostrare che non vi era alcun danno fisico imputabile alla caduta, lo interrogarono per settimane su tutti gli insignificanti fatti occorsi tra l'epoca della sua adolescenza e l'anno in corso, dovette identificare antiche squadre di baseball, gli chiesero che cosa si ballava nel 1941 e in che giorno scoppiò la guerra in Europa. Per mesi misero anche dei poliziotti privati a spiarlo sperando di sorprenderlo in fallo: Benedict cercava di rispondere in buona
fede agli interminabili questionari, perché non voleva essere considerato un ignorante, però a parte alcuni fatti di cui era informato a mezzo delle sue giornaliere letture in biblioteca, il resto era coperto dalla placida nebbia degli eventi quotidiani. Nulla sappiamo del futuro, forse non esiste, davanti ai nostri occhi abbiamo solo il passato, gli aveva detto molte volte la madre, ma, quanto a lui, non poteva disporre del suo, era un'ombra evanescente in cui si perdevano quarant'anni del suo passaggio nel mondo. Per Gregory Reeves, che era vissuto tormentato da una perfetta memoria, la tragedia del suo cliente era piena di fascino. Anche lui lo interrogava, non per scoprire le sue menzogne, ma per sapere come si sente un uomo quando può cancellare la sua vita e ricominciarla nuovamente. Conosceva King da quattro anni e in quel periodo scoprì le sue fantasie da ragazzo e le sue ambizioni di grandezza, mentre lo vedeva incamminarsi passo dopo passo sulla stessa strada già percorsa, come un sonnambulo assorto in un sogno ricorrente. King non realizzò grandi cambiamenti, come se ripercorresse le proprie orme andò alla scuola serale per frequentare le secondarie, ottenne gli stessi brutti voti di quando era ragazzo e alla fine lasciò gli studi a metà, un paio d'anni dopo; alla data in cui secondo lui doveva compiere i diciotto anni, si presentò in diversi uffici di reclutamento delle Forze Armate supplicando che lo accettassero, ma naturalmente tutti lo respinsero. Aveva visto molti film di guerra e, affascinato dalle fanfare militari, finì per comprarsi un'uniforme da soldato che usava per consolarsi. "Fra un paio d'anni si sposerà con una tipa simile alla sua prima moglie e avrà due figli uguali ai miei poveri nipoti," commentò con amarezza Bel Benedict. "Stento a credere che uno inciampi due volte nella stessa pietra," replicò Gregory Reeves, il quale aveva iniziato un silenzioso viaggio verso il passato e si chiedeva spesso che cosa sarebbe successo se avesse fatto questo invece di quello. "Non si può vivere due volte né avere due sorti diverse. La vita non si scrive in brutta copia," disse lei. "Sì che possiamo, signora Benedict, io ci sto provando. Si può cambiare rotta e correggere la brutta copia." "Ciò che si è vissuto non può essere modificato. Si può migliorare ciò che è ancora dinnanzi a noi, ma il passato è irreversibile." "Vuol dire che è impossibile recuperare gli errori commessi? Non c'è speranza per mia figlia Margaret, ad esempio, che non ha ancora vent'anni?"
"Speranza sì, però i vent'anni perduti non li recupererà più." "È un'idea spaventosa. Significa che ogni passo è parte della nostra storia, portiamo per sempre con noi tutti i nostri desideri, pensieri e azioni. In altre parole, noi siamo il nostro passato. Mio padre predicava delle conseguenze di ogni atto e della responsabilità che portiamo nell'ordine spirituale dell'universo, diceva che tutto ciò che facciamo torna a noi, presto o tardi paghiamo per il male e siamo ricompensati per il bene." "Quell'uomo era molto saggio." "Era squilibrato ed è morto pazzo. Le sue teorie erano un intricato groviglio, non ho mai potuto capirle." "Però i suoi valori erano chiari, mi sembra." "Non dava insegnamenti con l'esempio, Bel. Mia sorella dice che era alcolizzato e pervertito che aveva l'ossessione di controllare tutto e ci ha rovinato l'esistenza, almeno a lei. Però era un uomo forte, mi trovavo bene al suo fianco e ho bei ricordi di lui." "A quanto pare le ha insegnato a camminare diritto." "Ha cercato di farlo, ma è morto troppo presto. La mia strada è stata molto contorta." Commentando questa conversazione con la dottoressa Ming O'Brien arrivò a raccontarle del suo cliente e lei, che in genere ascoltava attentamente e raramente apriva la bocca per esprimere opinioni, questa volta lo interruppe per chiedergli dei particolari. King Benedict aveva subito molte pressioni? Com'era stata la sua infanzia? Era una persona tranquilla ed equilibrata, oppure instabile? E infine gli spiegò che quel tipo di amnesia era raro, ma se ne erano registrati alcuni casi. Prese dallo scaffale un libro e glielo porse. "Dia un'occhiata. È probabile che il suo cliente abbia ricevuto nell'adolescenza uno choc emotivo molto forte o un colpo simile a quello che ricevette nell'incidente. Al ripetersi dell'esperienza, l'impatto col passato fu intollerabile e bloccò la sua memoria." "Apparentemente non c'è stato niente di simile." "Ci dev'essere qualcosa di molto doloroso o minaccioso che lui non vuole ricordare. Chieda a sua madre." Gregory Reeves passò la notte in bianco leggendo e all'ora della colazione aveva un'idea chiara di quanto gli aveva suggerito Ming O'Brien. Ricordò quella volta che King Benedict era svenuto nel suo ufficio mentre gli chiedevano di riconoscere le fotografie di alcune riviste e la strana reazione di Bel. Durante l'interrogatorio lei aspettava fuori e udendo il trambusto corse in biblioteca, lo vide a terra e si chinò per soccorrerlo, ma
in quel momento scorse la rivista aperta sul tavolo e con un gesto istintivo chiuse con la mano la bocca a King. Poi non permise che l'interrogatorio continuasse, lo portò via in taxi e da quel giorno insistette per essere presente a tutti gli incontri. Reeves lo aveva attribuito alla preoccupazione per la salute del figlio, ma adesso aveva dei dubbi. Eccitato per questo spiraglio da cui scorgeva un barlume di luce, andò direttamente a casa dei genitori di Timothy Duane per parlare con la donna. Bel era in cucina che lucidava le posate d'argento quando il maggiordomo annunciò la visita, ma non fece in tempo ad andargli incontro, perché il suo avvocato irruppe nella cucina. Dobbiamo parlare, le disse prendendola per un braccio senza darle il tempo di togliersi il grembiule né di lavarsi le mani. Quando fu solo con lei nel suo ufficio le spiegò che ben presto avrebbero giocato su un'unica carta il futuro di suo figlio, la vittoria dipendeva dagli argomenti che lui avrebbe usato per convincere la giuria che King non fingeva. Fino al giorno prima la cosa gli sembrava quasi impossibile, ma oggi col suo aiuto poteva capovolgere la situazione. Le ripeté il ragionamento di Ming O'Brien pregandola di raccontargli che cosa era capitato a King Benedict nella sua gioventù. "Come vuole che ricordi cosa è successo tanto tempo fa?" "Sono sicuro che non ha bisogno di un grande sforzo per ricordare, perché non ha dimenticato neppure per un istante, signora Benedict," replicò lui, aprendo l'archivio e ponendo davanti ai suoi occhi la rivista che aveva provocato il malore di suo figlio. "Che cosa significa questa capanna?" "Niente." "È mai stata con King in un posto così?" "Siamo stati in molti posti, ci spostavamo sempre per cercare lavoro. Molte volte abbiamo raccolto il cotone in luoghi come quello." "Quando King aveva quattordici anni?" "Forse, non ricordo." "La prego, non mi renda le cose più difficili, perché non abbiamo molto tempo. Io voglio aiutarla, facciamo parte della stessa squadra, signora, non sono un nemico." Bel Benedict restò silenziosa osservando le foto con espressione di ostinata dignità, mentre Gregory Reeves la guardava con ammirazione pensando che in gioventù doveva essere stata una bellezza e se fosse nata in un'altra epoca o in una diversa situazione si sarebbe forse sposata con un potente magnate che avrebbe dato il braccio a questa pantera nera senza che nessuno si azzardasse a fare obiezioni sulla sua razza.
"Bene, Signor Reeves, siamo in un vicolo cieco," disse infine lei con un sospiro. "Se tengo la bocca chiusa, come ho fatto per quarant'anni, il mio Baby invecchierà povero e invalido. Se le dico quello che è successo finirò in prigione e mio figlio resterà solo." "Ci può essere una terza alternativa. Se lei mi consulta come avvocato, tutto ciò che dice avrà valore confidenziale e non uscirà da queste quattro pareti, glielo assicuro." "Significa che lei non può denunciarmi?" "No." "Allora la nomino mio avvocato, perché comunque me ne servirà uno," decise dopo un'altra lunga pausa. "È stata legittima difesa, come dicono, ma chi mi avrebbe creduto? Io ero una povera negra di passaggio nella zona più razzista del Texas, andavo da una parte all'altra con mio figlio guadagnandomi da vivere come potevo, avevo solo una valigia con i vestiti e due braccia per lavorare. A quell'epoca non mi mancavano le preoccupazioni. Senza volerlo mi trovavo coinvolta in intrighi, attiravo le disgrazie come la carta moschicida attrae le mosche. Non resistevo per molto tempo in nessun posto, succedeva sempre qualcosa e dovevamo di nuovo partire. Mi stupì che il proprietario della fattoria mi desse lavoro, gli altri braceros erano uomini e quasi tutti latini, gente di passaggio, ma era la stagione della raccolta del cotone e pensai che avesse bisogno di operai. Non poteva alloggiarmi nei dormitori comuni, mi sistemò con Baby in una capanna puzzolente al limite della proprietà, abbastanza lontano, ci veniva a prendere col camion la mattina e ci riportava alla fine della giornata. Era un buon lavoro, ma il padrone mi mise gli occhi addosso. Io sapevo già che ci sarebbero stati dei problemi, ma sopportai finché fu possibile, le assicuro. Non sono una donna difficile ho ben chiare le mie priorità, la prima cosa è sempre stata dare da mangiare a mio figlio, che poteva importarmi di andare a letto con un uomo? Dieci o venti minuti ed è tutto fatto, poi uno se ne dimentica. Ma lui era uno di quelli che non possono farlo come tutti gli altri, gli piaceva picchiare e non riusciva a farlo se non vedeva sanguinare. Chi lo avrebbe detto, sembrava una così brava persona, gli operai lo rispettavano, pagava il dovuto, andava in chiesa la domenica, un padrone modello. Sopportai un paio di volte che mi frustasse e mi chiamasse sporca negra o qualcosa di peggio, non era il solo, io più o meno ero abituata, quale donna non è stata picchiata? Quella domenica Baby era andato a giocare a baseball e l'uomo arrivò con la sua camionetta alla capanna, io ero sola e gli lessi in faccia quel che andava cercando, puzzava anche d'alcool. Non so bene come andarono le cose, signor
Reeves, si era levato la cintura e mi stava colpendo con forza, forse io gridavo, in quel momento arrivò Baby, si gettò fra noi e il tipo lo gettò lontano con un pugno. Batté la nuca contro lo spigolo del tavolo. Vidi il mio ragazzo stordito sul pavimento e senza pensarci su presi la mazza da baseball e colpii quell'uomo in testa. Fu un colpo solo, dato con tutta l'anima, e lo ammazzai. Quando Baby aprì gli occhi gli lavai la ferita, aveva un taglio profondo, ma non potevo portarlo all'ospedale, ci avrebbero fatto troppe domande, arrestai il sangue a forza di acqua fredda e fasciature. Buttai il corpo del padrone sul camioncino, lo coprii con dei sacchi, poi nascosi la macchina lontano da casa. Aspettai la notte e lo portai a circa venti miglia di distanza, fuori della proprietà, e lo gettai giù da un burrone. Nessuno se ne accorse. Camminai più di cinque ore per tornare alla capanna. Mi ricordo che il resto della notte dormii con la coscienza tranquilla e il giorno dopo ero sulla porta aspettando che venissero a prendermi per portarmi al lavoro, come se non fosse successo niente. Con mio figlio non abbiamo mai parlato di questo. La polizia trovò il corpo e pensò che il padrone avesse bevuto più del solito e fosse precipitato col camioncino. Interrogarono i braceros, ma se qualcuno vide qualcosa, non mi denunciò e la faccenda finì lì. Poco dopo io e Baby ce ne andammo e non abbiamo mai più messo piede in Texas. Pensi cos'è la mia vita, signor Reeves, dopo quarant'anni arriva quel fantasma a fottermi." "Le ha pesato sulla coscienza?" chiese Reeves pensando ai morti di cui lui sentiva il peso. "Mai, con l'aiuto di Dio. Quell'uomo si è cercato la sua fine." "La mia amica Carmen, che è una fonte inesauribile di buon senso, mi disse una volta che non è necessario confessare quello che nessuno ci chiede..." "Ma nel processo uscirà fuori, signor Reeves." "King ha ancora la cicatrice sul capo?" "Sì, è una brutta cicatrice perché non gli hanno dato i punti." "Spiegheremo che all'età di quattordici anni si è rotto la testa picchiando contro un tavolo, ma se avremo fortuna non ci sarà bisogno di parlare del resto della storia. Se trovo un esperto che dimostri il rapporto tra il primo colpo e l'incidente sul lavoro, forse potremo sistemare il caso senza intentare causa, signora Benedict." Nell'udienza conciliatoria Ming O'Brien dimostrò che il quadro di King Benedict corrispondeva a un'amnesia psicogena e, non verificandosi dei miglioramenti, molto probabilmente non ci sarebbe mai stato un recupero. Spiegò che gli antecedenti corrispondevano alle cause abituali di quel
disturbo, King ebbe un'infanzia e una gioventù tormentata, durante l'adolescenza subì un grave colpo, prima dell'incidente era sottoposto a forti pressioni e aveva un temperamento depresso. Cadendo dall'impalcatura subì un trauma simile a quello precedente, la sua mente compì un salto indietro e si rifugiò nell'oblio, quale difesa contro i dispiaceri che lo opprimevano. Gli avvocati difensori fecero il possibile per smontare la diagnosi, ma si scontrarono contro la sicurezza della dottoressa, che produsse mezzo metro di testi che si riferivano a casi simili. D'altra parte gli agenti incaricati di tenerlo sotto osservazione portarono solo fotografie dell'indiziato che si divertiva con un treno elettrico, leggeva racconti di avventure e giocava alla guerra travestito da soldato. Il giudice, una matrona dal carattere deciso quanto quello di Ming O'Brien, trasse in disparte i convenuti e li convinse che per loro era meglio pagare senza tante proteste, perché se si portava avanti la causa avrebbero perso molto di più. Secondo la mia lunga esperienza, disse, i membri di qualsiasi giuria sarebbero benevoli verso questo pover'uomo e la sua tanto provata madre, proprio come lo sarei io se fossi uno di loro. Dopo due giorni di tira e molla gli avvocati cedettero. Gregory Reeves celebrò la vittoria invitando Bel, King e suo figlio David a Disneyland, dove si persero nel mondo fantastico di animali che parlano, luci che vincono la notte e macchinari che sfidano le leggi della fisica e i segreti del tempo. Quando tornarono aiutò Bel a comperare una modesta casa in campagna e sistemò quanto rimase dei soldi dell'assicurazione in un conto perché lei e King avessero una pensione per il resto della loro vita. Quando Dai incominciò a trascurare il suo computer, a usare lozione da barba e a osservarsi nello specchio con espressione desolata, Carmen Morales lo invitò a pranzare fuori per parlare un po' con lui, secondo la sua abitudine di organizzare appuntamenti da fidanzati quando doveva affrontare argomenti importanti. La loro vita era adesso semplice e con gli anni l'affettuosa intimità che li aveva uniti all'inizio si era in parte perduta, pur se continuavano a essere ottimi amici. Dai era un adolescente dall'aspetto latino, simile al padre, ma più intenso e ombroso. Non aveva ereditato affatto lo spirito avventuroso di Juan José né l'esplosiva personalità di Carmen, era un ragazzo introverso, un po' severo, troppo serio per la sua età. Verso i quattro o cinque anni dimostrò uno straordinario talento per la matematica e da allora tutti lo considerarono un prodigio, eccetto la sua madre adottiva. Le maestre lo presentarono a diversi programmi televisivi e concorsi cui partecipava risolvendo a
memoria complesse operazioni. Vinse così vari premi, compresa una motocicletta, quando ancora non aveva l'età per guidarla. Il suo temperamento orgoglioso tendeva a trasformarsi in arroganza, però Carmen lo fece rigare dritto mettendolo a lavorare nel suo laboratorio durante le vacanze, perché sapesse fin da bambino quanto costa il guadagnarsi la vita e vivesse a contatto con gli operai. Ne coltivò anche la curiosità aprendo la sua mente ad altre culture. A quindici anni Dai era stato in Oriente, in Africa e in diversi paesi del Sudamerica, parlava un po' di spagnolo e di vietnamita, aveva sulla punta delle dita la contabilità del laboratorio di sua madre, disponeva di un libretto di risparmio e diverse università gli avevano già offerto borse di studio. Mentre l'intero paese discuteva sulla crisi di valori della gioventù e sullo stato disastroso del sistema educativo, che aveva creato una generazione di ignoranti e deboli, Dai studiava coscienziosamente, lavorava e nei momenti liberi esplorava la biblioteca e si divertiva col computer. Nella sua stanza c'era un piccolo altare con la fotografia di suo padre e di sua madre truccata da Leo Galupi, una croce di legno, un piccolo Budda di porcellana e il ritaglio di una rivista con l'immagine della Terra vista da una nave spaziale. Era poco socievole, preferiva stare solo e fino ad allora la sua unica e grande compagna era stata Carmen. Quel ragazzo gentile, contento della propria vita e a proprio agio nella sua pelle di lupo solitario, verso la fine della primavera cambiò completamente. Passava ore ad agghindarsi, incominciò a vestirsi, parlare e muoversi come i cantanti rock, usciva a ore strane e faceva giganteschi sforzi per essere accettato da ragazzi la cui compagnia prima disprezzava. Rinnegò la sua passione per la matematica perché voleva essere uno come gli altri, e ciò lo separava dai suoi compagni. Quando sua madre lo vide sforzarsi di incollarsi i capelli con la lacca per domare le sue ciocche nere, mettersi la pasta dentifricia sui brufoli e passeggiare davanti al telefono, seppe che l'epoca dell'idilliaca complicità con suo figlio stava per finire ed ebbe una crisi di gelosia che non osò confessare neppure a Gregory Reeves nelle conversazioni del lunedì. A quell'epoca c'erano negozi Tamar in varie parti del mondo e per mandare avanti gli affari poteva contare su un'efficiente équipe di dipendenti, mentre lei si limitava a disegnare nuove linee e a promuovere l'immagine della ditta. Aveva acquistato una casa di legno tra i grandi alberi della collina di Berkeley, dove viveva col figlio e la madre. Pedro Morales era morto da qualche anno. Quando sentì avvicinarsi la fine rifiutò di andare all'ospedale e non volle che gli prolungassero la vita con mezzi artificiali, pensava che i conti dei medici avrebbero mandato in rovina la famiglia
lasciando priva di mezzi la moglie. Aveva lavorato una vita per portare avanti la sua piccola tribù e non voleva esporla a rischi nella sua ultima ora. Era molto orgoglioso dei suoi, soprattutto di Carmen e del nipote Dai, in cui vedeva reincarnarsi il figlio Juan José. Andò all'altro mondo senza lasciare conti in sospeso, con la sensazione di essere giunto al termine senza forzare il destino. Immacolata assistette il marito fino all'ultimo e dopo consolò il dolore dei figli, delle nuore e dei nipoti. Con la scomparsa del patriarca la famiglia non si disperse, perché lei mantenne ben saldi i legami dell'affetto e del reciproco aiuto. Dopo il funerale decise di restare per qualche tempo con Carmen, in poche settimane ripartì tra i figli i suoi averi e vendette la casa. Per anni aveva messo l'anima nel sistemare mobili e arredi, simboli della sua prosperità, ma con la perdita del marito le cose materiali non avevano più significato per lei. Si passa la prima parte della vita a mettere assieme oggetti e la seconda nel tentativo di staccarsene, diceva. Conservò solamente il letto che aveva diviso con Pedro Morales durante mezzo secolo, perché desiderava morire lì un giorno. La donna era cambiata poco, sembrava essersi congelata in un'età indefinita. La robustezza della razza indigena sembrava proteggerla dal logorarsi del corpo e dall'indebolirsi della mente, non era mai stata tanto lucida, era una vecchia decisa e operosa, immune da stanchezza, debolezze o cattiva salute. Si fece carico delle necessità domestiche di Carmen con slancio militante, aveva allevato sei figli nelle ristrettezze di un quartiere povero e quella casa piena di comodità non le dava alcun problema. Era molto difficile impedirle di spezzarsi la schiena lavando i panni e sbattendo uova, era convinta che le mani debbono essere sempre occupate, l'ozio produce le malattie, diceva per giustificarsi quando la trovavano arrampicata su una scala a lavare i vetri o ginocchioni a sistemare trappole per i procioni che avevano formato una colonia nelle fondamenta della casa. Continuava a cucinare cibi messicani che solo lei e Dai assaporavano perché Carmen seguiva una dieta, si alzava all'alba per innaffiare il suo orto di verdure ed erbe aromatiche, fare pulizia, cucinare e lavare, ed era l'ultima ad andare a letto, dopo avere telefonato a ognuno dei suoi figli nelle diverse città del paese, non era donna che rinunciasse a seguire da vicino la pista dei suoi discendenti. L'abitudine a servire era troppo radicata in lei per modificarla nella vecchiaia, era però la prima a farsi gioco delle sue preoccupazioni domestiche. Anni prima aveva segretamente approvato Carmen quand'era tornata dai suoi viaggi trasformata in una "gringa emancipata", come borbottava Pedro Morales. Che la figlia avesse avuto più successo dei suoi fratelli nel lavoro le causava un intimo piacere, compensava la sua vita
durante la quale aveva sempre chinato il capo davanti agli uomini. Carmen obbligò sua madre a usare utensili moderni, comprava le tortilla in sacchetti di plastica e le aprì un libretto bancario che lei trattava con la stessa riverenza del libro da messa. Immacolata fu la prima a indovinare che per Dai era iniziata la fase dell'amore non corrisposto e ne avvertì la figlia. "Raccontami tutto," ordinò Carmen al ragazzo quando furono al ristorante. Dai cercò di svicolare, ma fu tradito dall'espressione desolata e dal rossore, era di pelle bruna e avvampando assumeva le tonalità della melanzana. Sua madre non gli concesse scappatoie e al dessert, rimpinzato di dolce al cioccolato e dimenandosi sulla seggiola, non trovò altro rimedio che confessare che non riusciva a dormire né a studiare né a pensare né a vivere, passava le ore seduto accanto al telefono. aspettando una chiamata che non arrivava mai, e che cosa posso fare, mamma, certo mi disprezza perché non sono bianco e non gioco a football, che cosa sono nato a fare, perché sei venuta a cercarmi in Vietnam e mi hai fatto crescere così diverso dagli altri, non conosco i nomi dei complessi rock e sono l'unico stupido che chiama asiatici gli orientali e afroamericani i neri, che si preoccupa dei buchi nella cappa di ozono, dei mendicanti per la strada e della guerra contro il Nicaragua, l'ultimo con idee politiche corrette nella sua maledetta scuola, a nessuno importa un cazzo di tutto questo, mamma, la vita è una merda e se Karen oggi non mi chiama, ti giuro che salgo sulla moto e mi butto giù da un precipizio perché senza di lei non posso vivere. Carmen Morales gli troncò il discorso con un ceffone sul viso, che risuonò come lo sbattere di una porta nella pace esoterica del ristorante vegetariano. Non lo aveva mai picchiato. Dai si portò una mano alla guancia, così sorpreso che la litania dei lamenti gli si congelò sulle labbra. "Non parlare più di ammazzarti, hai capito?" "Era un modo di dire, mamma!" "Non voglio sentirlo neanche per scherzo. Vivrai la tua vita fino in fondo, per quanto ti faccia soffrire. E adesso dimmi chi è questa disgraziata che si permette il lusso di disprezzare mio figlio." Si trattava di una compagna di classe che era a sua volta innamorata, come tutte le altre ragazze della scuola, del capitano di una squadra di football, con cui Dai non poteva competere neanche in sogno. Il giorno dopo Carmen andò a prendere suo figlio all'uscita di scuola per vederla, si trovò davanti una biondina slavata con un viso da neonata mezzo nascosto dietro una bolla di gomma da masticare. Tirò un sospiro di sollievo, certa
che Dai si sarebbe ripreso dal mal d'amore e ben presto avrebbe trovato qualcuna di più interessante, ma anche se non fosse stato così, ad ogni modo non poteva farci niente, non era più possibile risparmiargli le esperienze e i dolori come aveva cercato di fare quand'era piccolo. In seguito capì che la sua sensazione di sollievo aveva una motivazione più profonda dell'insignificante personalità di Karen e della certezza che Dai non avrebbe sofferto per lei in eterno. Cominciava a intuire i vantaggi del fatto che suo figlio volasse da solo. Per la prima volta nei tredici anni durante i quali erano vissuti assieme poteva pensare a se stessa come un essere autonomo e individuale, fino ad allora Dai era stato il suo prolungamento e viceversa, gemelli siamesi attaccati per il cuore, come diceva Immacolata. Quella sera sua madre la trovò seduta in cucina davanti a una tazza di tè di mango, intenta a osservare le ombre scure degli alberi nell'ultima luce del giorno. "Ti pare che io sia vecchia, mamma?" "Più vecchia dell'anno scorso, ma meno del prossimo anno, con l'aiuto di Dio," replicò Immacolata. "Sai che potrei essere nonna? La vita passa volando." "Alla tua età passa velocemente, figlia, una pensa di vivere eternamente. Alla mia età i giorni sono come foglie al vento, non mi rendo neppure conto di come passo le ore." "Pensi che qualcuno possa ancora innamorarsi di me?" "Chiediti piuttosto se tu puoi ancora innamorarti. La felicità dipende dall'amore che si dà." "Non ho dubbi di potermi innamorare." "Sono contenta, perché morirò presto e Dai se ne andrà per conto suo, è normale. Non devi restare sola. Sono stanca di dirti che ti devi sposare." "Con chi, mamma?" "Con Gregory, quel ragazzo è migliore di tutti i fidanzati che ti ho visti intorno, il che non significa molto, comunque. Bisogna dire che tu non hai un buon occhio per gli uomini!" "Gregory è mio fratello, sposarci sarebbe commettere un incesto." "Peccato. Allora cerca uno della tua età, non capisco perché tu vada con tipi più giovani di te." "Non è una cattiva idea, vecchia," replicò Carmen con un sorriso malandrino che insospettì un poco la madre. Tre settimane dopo annunciò alla famiglia che sarebbe andata a Roma a cercare marito. Con l'aiuto di un investigatore privato rintracciò Leo Galupi nel vasto spazio dell'universo, compito che risultò abbastanza facile
perché il suo nome si trovava a lettere maiuscole nella guida del telefono di Chicago. Alla fine della guerra era tornato al punto di partenza, povero com'era partito, aveva perso il denaro guadagnato con i suoi strani affari, ma era ricco di esperienza. Gli anni di commercio in Asia avevano affinato il suo gusto, aveva buona esperienza nel campo dell'arte e importanti conoscenze e poté così realizzare l'impresa dei suoi sogni. Aprì una galleria di oggetti orientali con tale successo che nel giro di dieci anni aveva una succursale a New York e un'altra a Roma, dove viveva per buona parte dell'anno. L'investigatore informò Carmen che Galupi era rimasto scapolo e le mostrò una serie di fotografie prese col teleobiettivo, in cui lo si vedeva camminare per via vestito di bianco, salire in automobile e sorbire un gelato in Piazza di Spagna, nello stesso posto in cui lei spesso si era seduta quando andava in città a visitare i negozi Tamar. Al vederlo provò un tuffo al cuore. In quegli anni aveva dimenticato i suoi lineamenti, in realtà non aveva pensato molto a lui, ma quelle immagini un po' sfocate le fecero provare un'ondata di nostalgia, scoprì che il suo ricordo era rimasto intatto in un luogo segreto della memoria. È meglio che mi dia da fare, ho tante cose da sistemare, decise. Furono giornate di nervosismo, nella preparazione di un viaggio molto diverso dagli altri, in un certo senso si trattava di una missione di vita o di morte, come disse alla madre quando questa la sorprese con il contenuto degli armadi riversato a terra, intenta a provarsi i vestiti in una ventata di impaziente civetteria. Sistemate le cose nel laboratorio e in famiglia, fece dei controlli medici, si tinse i capelli e comprò della biancheria intima in seta. Si osservò spietatamente nel grande specchio del bagno, contò le rughe e si pentì di non avere mai fatto ginnastica, e di avere eluso la dieta per tanti anni. Si pizzicò braccia e gambe e constatò che non erano più sode, tentò di far sparire la pancia, ma c'era una piega ribelle, si osservò le mani rovinate dal lavoro con i metalli, e i seni che le erano sempre pesati come un carico estraneo. Il suo corpo non era più quello del tempo in cui Leo Galupi l'aveva conosciuta, ma l'insieme delle sue attrattive non era male, almeno non vi erano tracce di varici né smagliature da gravidanza, si disse, dimenticando che non era la madre di Dai e che non aveva mai partorito. Controllati tutti i dettagli andò a colazione con Gregory Reeves a cui non aveva parlato prima dei suoi piani per paura che la giudicasse folle. Con timidezza all'inizio e sempre più entusiasta in seguito, gli riferì quello che aveva saputo su Leo Galupi e gli fece vedere le fotografie. Rimase sorpresa perché il suo amico accolse con grande naturalezza il suo improvviso impulso di intraprendere un pellegrinaggio in Europa per
proporre il matrimonio a un uomo che non vedeva da più di dieci anni e con cui non aveva mai parlato d'amore. La cosa gli parve tanto confacente al carattere di Carmen che chiese come mai non lo avesse fatto prima. "Ero impegnata ad allevare Dai, ma ormai mio figlio è grande e ha meno bisogno di me." "Puoi prendere una cantonata." "Lo studierò con attenzione prima di mettere delle firme. Non è questo che mi preoccupa... ma può essere che io non gli piaccia, Greg, sono molto più vecchia." "Guarda le foto, donna. Gli anni sono passati anche per lui," disse Reeves, mettendogliele davanti, e allora lei notò per la prima volta che Leo Galupi aveva meno capelli ed era un po' appesantito. Si mise a ridere contenta e decise che invece di scrivergli o telefonargli per annunciare la sua visita, come aveva pensato, sarebbe andata semplicemente a trovarlo per sbarazzarsi dei trabocchetti dell'immaginazione e sapere subito se il suo stravagante progetto aveva qualche fondamento. Tre giorni dopo Carmen Morales si presentò alla galleria d'arte a Roma, arrivando direttamente dall'aeroporto, con le valigie che aspettavano in un taxi. Mentre si avviava pregava di poterlo trovare e quella volta le sue preghiere diedero il risultato sperato. Quando entrò nel locale, Leo Galupi, con pantaloni e camicia di lino sgualciti e senza calzini, discuteva i particolari del prossimo catalogo con un giovane dagli abiti trasandati quanto i suoi. Fra tappeti indiani, avori cinesi, legni intarsiati del Nepal, porcellane e bronzi del Giappone e un'infinità di oggetti esotici, Carmen sembrava far parte dell'esposizione, col turbinare delle vesti zingaresche e il tenue balenare dei suoi gioielli d'argento vecchio. Quando la vide, il catalogo gli cadde di mano e restò a guardarla come un'apparizione tante volte sognata. Lei pensò che, proprio come temeva, il suo improbabile fidanzato non l'avesse riconosciuta. "Sono Tamar... ti ricordi di me?" e avanzò esitante. "Come posso non ricordare!" e le prese la mano scuotendola per alcuni secondi, finché non si rese conto dell'assurdità di quel saluto e la strinse fra le braccia. "Sono venuta a chiederti se vuoi sposarmi," lo assalì Carmen, balbettando con voce strozzata, perché non era così che aveva programmato, e mentre pronunciava quelle parole si malediceva per avere mandato tutto all'aria dalla prima fase. "Non so," fu l'unica cosa che Galupi riuscì a rispondere, quando recuperò la voce, e restarono a guardarsi stupiti, mentre il giovane del
catalogo scompariva senza rumore. "Sei innamorato di qualcuna?" balbettò lei, sentendosi sempre più idiota, ma incapace di ricordare la strategia programmata fin nei minimi dettagli. "In questo momento direi di no." "Sei omosessuale?" "No." "Andiamo a prendere un caffè? Sono un po' stanca, il viaggio è stato lungo..." Leo Galupi l'accompagnò fuori; lì il sole radioso dell'estate, il viavai della gente e il traffico li riportò al senso della realtà. Nella galleria erano tornati al tempo di Saigon, rientrati nella stanza da imperatrice cinese che lui le aveva preparato e dove tante volte la notte la spiava dalle fessure del paravento per guardarla dormire. Allora, quando si separarono, per la prima volta nella sua vita di giramondo, Galupi avvertì il morso della solitudine, ma non volle ammetterlo e la affrontò con caparbia indifferenza, immergendosi nel fervore degli affari e dei viaggi. Col tempo la tentazione di scriverle si allontanò e si andò abituando alla dolcezza malinconica del sentimento che lei gli ispirava. Il suo ricordo gli serviva da difesa contro il pungolo di altri amori, quasi un'assicurazione contro legami romantici. Fin da giovanissimo aveva deciso di non legarsi a nulla né a nessuno, non era tipo da famiglia né da lunghi impegni, si considerava un solitario, incapace di sopportare il tedio delle abitudini e le esigenze della vita di coppia. In diverse occasioni sfuggì a un rapporto troppo intenso spiegando all'indispettita fidanzata che non poteva amarla perché nel suo destino c'era amore solo per una donna di nome Tamar. Questo alibi, usato molte volte, finì per diventare per lui una tragica certezza. Non analizzò in profondità i suoi sentimenti perché amava la libertà e Tamar era soltanto un utile fantasma cui ricorrere quando voleva sbarazzarsi di un legame scomodo. E adesso, proprio quando si sentiva ormai al sicuro dai sussulti del cuore, lei compariva a riscuotere le menzogne che per anni aveva detto ad altre donne. Era difficile credere che mezz'ora prima lei fosse entrata nel negozio per proporgli a bruciapelo di sposarla. Adesso l'aveva accanto e non osava guardarla, mentre sentiva lo sguardo di lei che lo esaminava apertamente. "Scusami, Leo, non ho intenzione di metterti alle strette, non è così che avevo programmato." "E come lo avevi programmato?" "Pensavo di sedurti, avevo comprato una camicia di pizzo nero." "Non dovrai darti tanto da fare," rise Galupi. "Ti condurrò a casa mia in
modo che tu possa fare un bagno e dormire un po', devi essere distrutta. Poi parleremo." "Perfetto, così avrai il tempo di riflettere," sospirò Carmen senza intenzione ironica. Galupi viveva in una vecchia villa divisa in diversi appartamenti. Il suo aveva solo una finestra sulla strada, il resto si affacciava su un piccolo giardino antico dove mormorava l'acqua di una fontana e i rampicanti avvolgevano statue mutilate e coperte dalla patina verde del tempo. Molto più tardi, seduti sulla terrazza a sorseggiare un bicchiere di vino bianco, mentre ammiravano il giardino illuminato da una luna rilucente e aspiravano il discreto profumo di gelsomini selvatici, aprirono i loro cuori. Entrambi avevano avuto innumerevoli innamoramenti e traversie, avevano molto tergiversato praticando buona parte degli inganni in cui si perdono gli innamorati. Fu riposante parlare di sé e dei propri sentimenti senza secondi fini né tattiche, con onestà brutale. Si raccontarono la vita a grandi linee, si dissero ciò che si aspettavano dal futuro e constatarono che l'antica alchimia che un tempo li aveva attratti c'era ancora e bastava un po' di buona volontà per rianimarla. "Fino a qualche settimana fa non mi passava per la mente di sposarmi, Leo." "E perché hai pensato a me?" "Perché non sono riuscita a dimenticarti, mi piaci e credo che un mucchio d'anni fa anch'io ti piacevo un poco. Di tutti gli uomini che ho conosciuto ce ne sono soltanto due che vorrei avere accanto a me quando sono triste." "Chi è l'altro?" "Gregory Reeves, ma non è pronto per l'amore e io non ho tempo di aspettarlo." "Di che genere d'amore parli?" "Amore totale, nessuna mezza misura. Cerco un compagno che mi voglia molto bene, mi sia fedele, rispetti il mio lavoro e mi dia allegria. Chiedo molto, lo so, ma io offro più o meno lo stesso e inoltre sono disposta a vivere dove vuoi, purché tu accetti mio figlio e mia madre e io possa fare frequenti viaggi. Sono sana, basto a me stessa economicamente e non mi perdo mai d'animo." "Mi sembra un contratto." "Lo è. Hai figli?" "No, che io sappia, però ho una madre italiana. Sarà un problema, non approva mai le donne che le presento."
"Io non so cucinare e a letto sono piuttosto semplice, ma in famiglia dicono che è piacevole vivere con me, soprattutto perché mi vedono poco, passo molte ore chiusa nel mio laboratorio. Non do troppo fastidio." "In cambio, io non sono un tipo facile." "Potrai sforzarti, almeno?" Si baciarono per la prima volta, dapprima quasi per prova, poi con curiosità e ben presto con la passione accumulata nei tanti anni passati a ingannare con banali incontri il bisogno d'amore. Leo Galupi condusse questa imprevedibile fidanzata nella sua camera, una stanza alta, ornata di ninfe dipinte nello stucco del soffitto, un gran letto e cuscini ricoperti con antichi arazzi. Lei si sentiva girare la testa, era un po' stordita, e non sapeva se provava un senso di pesantezza per il lungo viaggio o per i bicchieri di vino ma non cercò di capirlo, si abbandonò a quel languore, senza l'energia per far colpo su Leo Galupi con la camicia di pizzo nero o con audacie apprese con altri amanti. La attrasse il suo odore di uomo sano, un odore pulito, senza traccia di profumi artificiali, un po' secco, come quello del pane o del legno, e affondò il naso nell'angolo tra il collo e la spalla, aspirando come un bracco dietro a una traccia, gli odori rimanevano nella sua memoria più di qualsiasi altro ricordo e in quell'attimo rivide l'immagine di una notte a Saigon, quando erano così vicini che lei registrò il segno del suo odore senza sapere che sarebbe rimasto in lei per tutti quegli anni. Cominciò a sbottonargli la camicia, ma i bottoni si incastravano negli occhielli troppo stretti e gli chiese, impaziente, di togliersela. Una musica di strumenti a corde le giungeva da molto lontano, portando la millenaria sensualità dell'India in quella casa romana, bagnata dalla luna e dalla tenue fragranza dei gelsomini in fiore. Per anni aveva fatto l'amore con ragazzi vigorosi e adesso palpava una spalla un po' incurvata e passava le dita su una fronte ampia e su capelli fragili. Provò un'indulgente tenerezza per quell'uomo già maturo e per un istante cercò di immaginare quante strade e quante donne avesse percorso, ma subito cedette al piacere di abbracciarlo senza pensare a nulla. Sentì le sue mani che le toglievano la camicetta, l'ampia gonna, i sandali e si fermavano esitanti sui bracciali. Non li toglieva mai, erano la sua ultima corazza, ma decise che era arrivato il momento di denudarsi completamente e si sedette sul letto per toglierli a uno a uno. Caddero sul tappeto senza rumore. Leo Galupi la percorse con mani sapienti e baci che la esploravano, lambì i capezzoli ancora turgidi, la conchiglia delle sue orecchie e l'interno delle cosce dove la pelle palpitava al contatto, mentre lei sentiva l'aria farsi più densa e ansimava nello sforzo di respirare, un
caldo stimolo invadeva il suo ventre e faceva ondeggiare i suoi fianchi e un gemito le sfuggiva, fino che non poté più aspettare. Lo rovesciò e salì sopra di lui come un'ardente amazzone per inchiodarsi a lui, immobilizzandolo tra le sue gambe nel disordine dei cuscini. L'impazienza e lo sforzo la rendevano maldestra, si dimenava cercandolo, ma scivolava nell'umidore del piacere e del calore estivo e infine scoppiò a ridere e si abbandonò premendolo contro il dono dei suoi seni, avvolgendolo nello scompiglio dei suoi capelli sciolti e chiedendogli in spagnolo di fare qualcosa che lui non capiva. Restarono così abbracciati, ridendo, baciandosi e mormorando sciocchezze in un risuonare di linguaggi mescolati, finché il desiderio non vinse e in una di quelle capriole da cuccioli Leo Galupi si fece strada senza fretta, con decisione, fermandosi ad ogni stazione del viaggio per attenderla e condurla verso i più alti gradini, dove lasciò che esplorasse da sola finché lei sentì che stava entrando in un abisso d'ombre mentre una gioiosa esplosione scuoteva il suo corpo. Dopo fu la volta di lui, mentre lei lo accarezzava riconoscente per l'orgasmo assoluto e privo di forzature. Infine si addormentarono raggomitolati in un intreccio di gambe e braccia. Nei giorni successivi scoprirono che assieme si divertivano, dormivano tutti e due sullo stesso fianco, nessuno dei due fumava, amavano gli stessi libri, film e cibi, votavano per lo stesso partito, non amavano lo sport e facevano spesso viaggi in luoghi esotici. "Non so se vado bene come marito, Tamar," si scusò Leo Galupi una sera in una trattoria di via Veneto. "Ho bisogno di muovermi liberamente, sono un vagabondo." "È proprio questo che mi piace in te, anch'io lo sono. Però siamo arrivati a un'età in cui non ci farebbe male un po' di tranquillità." "L'idea mi spaventa." "L'amore ha i suoi tempi... Non devi rispondermi subito, possiamo aspettare fino a domani," rise lei. "Non c'è niente di personale, se un giorno deciderò di sposarmi, lo farò solo con te, ti assicuro." "È già qualcosa." "Non sarebbe meglio essere amanti?" "Non è la stessa cosa. Non ho l'età per fare esperimenti. Voglio un impegno a lungo termine, dormire di notte abbracciata a un compagno stabile. Credi che avrei attraversato mezzo mondo per proporti di essere il mio amante? Sarà piacevole invecchiare tenendosi per mano, vedrai," replicò Carmen sicura.
"Che orrore," esclamò Galupi, decisamente pallido. L'opportunità di sedersi una volta alla settimana nella quiete del consultorio di Ming O'Brien, per parlare e riflettere sulle mie azioni, era un'esperienza nuova. All'inizio facevo fatica ad abbandonarmi, ma lei conquistò la mia fiducia e a poco a poco andavamo aprendo i compartimenti sigillati del mio passato. Per la prima volta parlai di quel giorno nello stanzino delle scope, quando Martínez mi violentò, e partendo da quella confessione potei esplorare i meandri più segreti della mia vita. Il secondo anno fu il peggiore, uscivo da ogni seduta sconvolto dal pianto. Ming non aveva mentito quando mi disse che si trattava di un processo doloroso, diverse volte fui sul punto di darmi per vinto. Fortunatamente non lo feci. Passando in rassegna la mia esistenza durante quei cinque anni, interpretai il copione della mia vita e feci i passi necessari per cambiarlo, imparai col tempo a controllare i miei impulsi e a fermarmi decisamente quando stavo per ripetere i vecchi errori. La mia vita familiare era sempre un incubo e non potevo fare granché per migliorarla. Margaret era al di là delle mie possibilità, ma mi sforzai di dare una certa struttura a David. Fino ad allora avevo seguito il sistema delle macchine "mangiasoldi", come lo chiamò Ming, mio figlio l'aveva sempre vinta, era solo questione di insistere a schiacciare la leva della macchina, certo che prima o poi avrebbe avuto il premio. Mi chiedeva qualcosa, io dicevo di no e lui cominciava a fare sciocchezze in continuazione per spezzarmi i nervi, mi vinceva per stanchezza e io cedevo. Non fu facile porgli dei limiti perché io stesso non ne ebbi da bambino, ero cresciuto sulla strada abbandonato a me stesso e pensavo che le persone si formassero da sole, che l'esperienza insegnasse. Però mentre era vivo mio padre io avevo assimilato dei valori e una disciplina, dicono che i primi cinque o sei anni siano molto importanti per la formazione e poi fui costretto ad arrangiarmi da solo, dovetti sempre lavorare. Invece i miei figli sono cresciuti come selvaggi, senza impegno e senza vero amore, mentre non gli è mancato nulla sul piano materiale. Ho cercato di compensare col denaro la dedizione che non ho saputo avere per loro. Una pessima idea. Una delle decisioni più importanti fu alleggerirmi di qualcuno degli impegni che mi ero sobbarcato e riorganizzare il mio studio. Non era possibile modificare l'indole dei miei dipendenti, però potevo sostituirli, non era compito mio guarirli dai loro difetti, pagare per i loro errori o risolvere i loro problemi. Perché invariabilmente mi circondavo di alcolizzati? Perché la gente nevrotica e debole si appoggiava a me?
Dovetti rivedere questo aspetto della mia personalità e tenermi sulla difensiva. Lo studio costava più di quanto rendesse, io procuravo da solo la maggior parte dei profitti, ciononostante avevo sempre il portafoglio vuoto e mi avevano ritirato quasi tutte le carte di credito. Il mio buon amico Mike Tong si affannava da anni cercando di far quadrare i bilanci e Tina mi avvertiva fino alla noia che gli altri avvocati non solo trascuravano i clienti, ma a volte risolvevano i casi privatamente, senza registrare nulla nella mia contabilità, mi caricavano anche le loro spese personali, le telefonate, i conti del ristorante, i viaggi e persino i regali per le loro amanti. Non le davo ascolto, ero troppo occupato a sguazzare nel mio caos. Pensavo che non sarei mai andato a fondo, avrei sempre trovato il modo di risolvere i problemi, avevo superato altri ostacoli e non mi sarei lasciato sconfiggere da conti insoluti e furtarelli meschini, ma a un certo punto il peso si fece insopportabile. Mi dibattei per un po' tra dubbi e sensi di colpa, finché Mike Tong con la precisione del suo abaco e Ming O'Brien con la sua perseveranza mi aiutarono a licenziare a uno a uno i parassiti e a chiudere le succursali nelle altre città. Rimasero Tina, Mike e un'avvocatessa giovane, intelligente e leale, affittai parte dei locali a un paio di professionisti per alleggerire il bilancio e così ridussi al minimo le spese. Vidi che il lavoro su piccola scala mi risultava più redditizio e piacevole, avevo tutte le fila in mano e potevo dedicarmi ai problemi professionali invece di disperdere le energie nel risolvere un'opprimente sequela di torti insignificanti. Avevo anche contatti più diretti con i miei clienti, che è quello che più mi piace nella mia professione. In quel periodo anch'io mi trasformai allo stesso modo del mio studio, mi liberai di molte cose superflue e di atteggiamenti che mi danneggiavano, rinunciai agli arroganti sigari spagnoli, anzi smisi del tutto di fumare, e non assaggiai più un goccio di alcool, che era l'unico modo per liberarmi dalle mie allergie. L'agenda con la lista delle mie amanti si perse in qualche cassetto e non l'ho mai più vista. Per mancanza di soldi non mi restò altro rimedio che abbassare il mio livello di vita e le baldorie divennero un ricordo del passato, perché David e il lavoro mi impegnavano moltissimo, e poi Timothy Duane non mi induceva più in peccato. Ciò non vuol dire che mi fossi messo a vivere come un anacoreta, assolutamente no, penso che sarò sempre fedele alla vitalità della mia indole. "Benissimo, se non si sposa un'altra volta, in tre anni avremo pagato i debiti," mi annunciò felice Mike Tong, la prima volta che le entrate superarono le spese. Quell'anno vendetti una casa che avevo sulla spiaggia e finii di sistemare
i conti con Shannon, che non appena ricevette l'ultimo assegno partì senza destinazione precisa, decisa a iniziare una nuova vita il più lontano possibile. Vedevo la sua figura allontanarsi fino a sfumare su un'autostrada, così come era arrivata, solo che adesso non andava a piedi ma su una lussuosa automobile. Qualche mese dopo trovai la sua fotografia su una rivista: reclamizzava cosmetici con un sorriso fresco come una mela, dovetti guardare due volte per riconoscerla, appariva molto più bella di quanto ricordassi. Ritagliai la foto e la portai a David che la attaccò sulla parete della sua stanza. Di sua madre conservava un'immagine un po' sfumata, un essere bello e allegro che ogni tanto compariva per coprirlo di baci e portarlo al cinema, una voce melodiosa al telefono e adesso un viso seducente su avvisi pubblicitari. Col mio aiuto aveva fabbricato un cofanetto di legno da regalarle per il suo compleanno, le dedicava i disegni che faceva a scuola e glieli spediva, Shannon era l'eterea fata delle favole, una principessa in blue jeans che di tanto in tanto passava come una gioiosa brezza e poi se ne andava. Agli effetti pratici, tuttavia, non contava molto, sua madre era Daisy, che lo pettinava con acqua benedetta per esorcizzare i dèmoni e stava al suo fianco quando apriva gli occhi la mattina e quando la sera li chiudeva. "Voglio vedere la mamma," mi disse un giorno. "È lontana e per il momento non tornerà. Le manchi, ma per lavoro vive in un'altra città. Adesso è una modella molto famosa." "Dov'è andata?" "Non so, ma certo presto ti scriverà." "Non mi vuol bene, per questo se n'è andata." "Ti ama tanto, ma la vita è molto complicata, David. Per un po' non la vedrai, ecco tutto." "Io credo che la mia mamma sia morta e che tu mi stai ingannando." "Ti do la mia parola d'onore che ti ho detto la verità. Non hai visto la foto sulla rivista?" "Giuramelo." "Te lo giuro." "Giurami anche che non ti sposerai mai più." "Questo non posso farlo, figlio mio. Ti ho già detto che la vita è molto complicata." Per qualche giorno rimase imbronciato e silenzioso si piazzava per ore alla finestra a guardare il mare, cosa insolita per lui, ma ben presto si distrasse per la gioia di organizzare le vacanze. Gli promisi che ci saremmo accampati in montagna, avremmo portato Oliver con noi e avrei
comprato un fucile per cacciare le anatre. Shannon tornò a essere per suo figlio ciò che era sempre stata, un dolce miraggio. L'accusa di abuso della professione mi piombò addosso alla fine di quello stesso anno e mi parve tanto assurda che non mi diede la minima preoccupazione. Si trattava di uno dei miei vecchi clienti, che diversi anni prima il mio studio aveva assistito in un'azione legale. Era alcolizzato. Tutto iniziò con un suo viaggio su un bus diretto nell'Oregon, aveva bevuto troppo e a metà del viaggio delirava di esseri mostruosi che lo inseguivano. Nello stordimento tirò fuori un coltello e assalì i passeggeri, ferendone due, un terzo non lo ammazzò per puro miracolo, la lama gli tagliò il collo a pochi millimetri dalla giugulare. Con l'aiuto di alcuni coraggiosi, l'autista disarmò l'assalitore, lo obbligò a scendere dall'autobus e volò poi all'ospedale più vicino, dove lasciò le vittime inondate di sangue. La polizia non riuscì a catturare l'accusato, che si era nascosto, ma quattro giorni dopo un camion lo raccolse sulla strada. Era inverno, i piedi gli si erano congelati e dovettero amputarglieli. Uscito di prigione dopo avere scontato la pena, cercò qualcuno che lo assistesse per promuovere un'azione legale contro la compagnia di autobus per averlo abbandonato all'aperto. Il mio studio accettò, in quel periodo accoglievamo chiunque bussasse alla porta. Tre passeggeri accoltellati sono una buona ragione per far scendere quel farabutto dal mio autobus, per sua sfortuna. si è congelato nel nascondersi alla polizia ma ha ben meritato quello che gli è successo, affermò l'autista nella sua dichiarazione. Nonostante i precedenti, riuscimmo a sistemare il caso con una somma considerevole, perché era più conveniente per la ditta citata pagare un indennizzo piuttosto che comparire in giudizio. Una volta speso il denaro l'uomo si rivolse a un altro avvocato, che fiutò la possibilità di trarre qualche vantaggio accusandomi di cattiva gestione della causa. Io non ero assicurato, se perdevo ero fritto, ma non avrei mai immaginato che potesse succedere, nessuna giuria al mondo avrebbe concesso qualcosa al criminale. Mike Tong non era d'accordo, disse che se ci fosse stata una causa contro l'autista del bus la giuria sarebbe stata implacabile, chiunque si fosse messo nelle vesti dei passeggeri e delle vittime avrebbe votato contro l'accusato, ma adesso si trattava di me. "Da una parte vedranno un povero invalido con le stampelle, e dall'altra un avvocato in cravatta di seta. Avremo contro la giuria, signor Reeves, la gente detesta gli avvocati. E poi dobbiamo pagarci un difensore, dove prenderemo i soldi?" sospirò il mio contabile, e una volta tanto lasciò da parte il protocollo con cui sempre mi trattava, mi prese per un braccio, mi
introdusse nel suo bugigattolo e mi mise a confronto con l'indiscutibile realtà dei suoi libri. Mike aveva visto giusto. Tre mesi dopo la giuria decise che l'autista non avrebbe dovuto scacciare l'uomo dal veicolo e che il mio studio aveva danneggiato il cliente facendo una transazione con la compagnia degli autobus invece di portare avanti la causa. Quel verdetto, che produsse un certo stupore nella cerchia della legge, segnò la mia definitiva condanna. Ero stato per anni in equilibrio sul bordo di un precipizio, ma adesso rotolavo nell'abisso. A meno che non trovi il tesoro di Francis Drake sotterrato nel mio cortile non ho la minima speranza di poter pagare quella somma, scherzai incredulo quando ebbi la notizia, però ben presto la gravità di quanto era successo non lasciò spazio per le battute, nel giro di ore dovevo prendere misure drastiche. Chiamai Tina e Mike, li ringraziai per la lunga fedeltà e spiegai che dovevo dichiarare bancarotta e chiudere lo studio, ma promisi che se in futuro fossi riuscito a ricominciare, ci sarebbe sempre stato lavoro per entrambi. Tina scoppiò in un pianto inconsolabile, mentre Mike non lasciò trasparire la minima emozione sull'impassibile viso asiatico. Può contare su di noi, fu tutto quello che disse e si chiuse nella sua tana per mettere in ordine i suoi libri. Durante le eterne settimane della causa, a fianco del mio difensore lottai ferocemente su ogni particolare, fu un periodo di grande tensione, ma quando tutto finì, accettai il verdetto con un sangue freddo di cui non mi sarei creduto capace. Ebbi la sensazione di essermi già trovato in situazioni simili, ero ancora una volta imprigionato in un vicolo cieco, come lo ero stato nel quartiere latino. Ricordai le disperate corse inseguito dalla banda di Martínez con la certezza che mi'avrebbero ammazzato se mi avessero raggiunto, tuttavia ero ancora vivo. Ero anche uscito illeso dagli innumerevoli scontri in Vietnam dove altri avevano lasciato la pelle, ed ero sopravvissuto a quella notte sulla montagna quando i dadi avevano decretato contro di me. I calci presi negli anni di scuola e le dure lezioni della guerra mi insegnarono a difendermi e a resistere, sapevo che non dovevo confondermi né perdere il senso delle proporzioni, quello che mi stava capitando era solo un inciampo a paragone delle battaglie del passato, la mia vita continuava. Mi venne l'idea di cambiare direzione, il lavoro di avvocato ha troppi lati oscuri, misi in discussione la validità dello stare sempre con la spada in pugno, distruggendomi in una aggressività priva di significato. Provo a farmi questa domanda di tanto in tanto, ma non trovo risposta, credo mi riesca difficile immaginare una vita senza lotta.
La domenica mi ero già rassegnato a chiudere lo studio. Fra le altre possibilità contemplai quella di andarmene in qualche paese dell'America Latina, ho dei legami molto forti con quella parte del mondo e mi piace parlare spagnolo, pensai di andare a vivere in un piccolo paese dove l'esistenza fosse più semplice, dove poter essere utile alla gente e far parte della comunità come era stato nel villaggio vietnamita; ma poi questa mi sembrò una specie di fuga. Carmen e Ming hanno ragione, per quanto uno corra sta sempre nella stessa pelle. Pensai anche di trasferirmi in campagna. La settimana di vacanza che passai accampato con David, dedicandoci a cacciare anatre e a pescare, senz'altra compagnia del cane, fu molto importante per me e mi rivelò un aspetto ignoto del mio carattere. Nella solitudine del paesaggio recuperai il silenzio dell'infanzia, quel silenzio dell'anima nella pace della natura, che persi quando mio padre si ammalò e dovemmo stabilirci in città. Il resto della mia vita fu segnato dal rumore, troppo rumore, e mi ero talmente abituato al continuo martellamento del cervello da dimenticare il benessere del vero silenzio. L'esperienza di dormire per terra, senz'altra luce che le stelle, mi riportò all'unica epoca veramente felice, ai viaggi in camion con la mia famiglia. Ritornò anche quella prima immagine di felicità, me stesso a quattro anni che orino su una collina sotto la volta arancione di un superbo cielo al tramonto. Per misurare la vastità infinita dello spazio riconquistato gridai il mio nome lì vicino al lago e l'eco delle montagne me lo restituì purificato. Quei giorni all'aperto fecero un bene enorme anche a David, il suo organismo dal ritmo accelerato parve innestare una marcia più normale, non ci fu una sola discussione fra noi, tornò volentieri a scuola e per più di due mesi non fece capricci. Staremmo molto meglio se lasciassimo questo ambiente, dove le tensioni sono insopportabili, ma la verità è che non riesco ancora a vedermi convertito in agricoltore o in guardia forestale, è inutile che me la racconti, forse più avanti... o mai. Mi piace la gente, ho bisogno di sentirmi utile agli altri, non credo che resisterei a lungo isolato come un eremita. Sai che ho saputo di te in quel luogo selvaggio? Carmen mi aveva regalato il tuo secondo romanzo e lo lessi durante le vacanze senza immaginare che ti avrei conosciuta e ti avrei fatto questa lunga confessione. Come potevo allora sospettare che saremmo andati assieme nel quartiere latino dove sono cresciuto? In più di quarant'anni non mi era mai passato per la mente di ritornarvi, se tu non avessi insistito non avrei rivisto la baracca, in rovina ma sempre in piedi, e il salice, ancora vigoroso, nonostante l'abbandono e l'immondezzaio che gli è cresciuto attorno. Se non mi avessi condotto lì, non avrei recuperato lo sconquassato
cartello del Piano infinito, che mi aspettava con la pittura scrostata e il legno mezzo marcito, ma con la sua eloquenza intatta. Guarda quanto ho camminato per arrivare fin qui e verificare che non esiste un Piano infinito, solo il gran tafferuglio della vita, ti dissi. Forse ognuno porta dentro di sé un piano, ma è una mappa confusa ed è difficile decifrarla, per questo ci agitiamo tanto e a volte ci perdiamo, hai replicato... Diedi per perse l'automobile e la casa, gli unici beni terreni che avevo, il resto erano debiti che dovevo cercare di saldare. Dopotutto questo sarebbe stato un problema degli ufficiali giudiziari e degli avvocati, che il lunedì si sarebbero gettati come squali sulle mie spoglie. L'idea mi faceva rabbia, però non mi spaventava. Mi sono guadagnato il pane dall'età di sette anni con ogni tipo di lavoro, sono convinto che non mi mancherà mai il modo di farlo. Ero preoccupato per i miei dipendenti, questo sì. Sono loro la mia vera famiglia, ma pensai che Mike e Tina avrebbero trovato facilmente un altro lavoro e certamente Carmen avrebbe preso con sé Daisy, visto che doña Immacolata non ha più l'età per assumersi da sola il peso della casa. All'imbrunire passai a far visita a Timothy e Ming per raccontargli quello che era successo. Avevo terminato la terapia sei mesi prima e ora Ming e io eravamo ottimi amici, non solo per il lungo rapporto maturato nel consultorio, ma perché lei viveva con Tim, che era diventato un altro da quando lei era entrata nella sua vita a mettere ordine con le sue risorse di saggezza. Ming risultò essere un meraviglioso balsamo per il mio tormentato amico. In quei cinque anni di doloroso esplorare, feci il giro completo del perimetro della mia esistenza fino a quel momento, e quando giunsi alla fine e toccai nuovamente il punto di partenza, lei considerò esaurito il suo compito. Disse che da quel momento iniziava la parte più importante della mia cura e che dovevo compierla da solo, ero come un invalido al quale hanno insegnato a camminare e cui solo la laboriosa esperienza di ciascun passo può dare equilibrio e solidità. Con molta pazienza da parte sua e sforzo da parte mia riuscimmo a decifrare il caos vulcanico in cui trascorsi la prima metà della mia esistenza. Tenendomi per mano mi condusse nella stanza delle macchine sgangherate e degli oggetti incompiuti, di cui tanto parlava mio padre, e a poco a poco misi ordine, eliminai la spazzatura, incollai frammenti, portai a termine lavori non compiuti. Restava ancora molta pulizia da fare, ma potevo cavarmela da solo. Sapevo che il mio viaggio in questo mondo sarebbe sempre stato un arazzo surrealista pieno di fili staccati, però potei almeno vederne il disegno. "Questa volta sono veramente fottuto. Non ho più credito in banca e non
posso pagare i debiti. Non mi resta altra soluzione che dichiarare bancarotta," dissi ai miei amici. "Gli elementi essenziali sono al sicuro da questa crisi, Greg, vi sono soltanto perdite materiali, il resto è intatto," replicò Ming e come sempre aveva ragione. "Immagino che dovrò ricominciare daccapo," mormorai con una strana sensazione di euforia. La vita è piena di ironia. Quando vidi disintegrarsi la mia famiglia ed eliminai buona parte dei miei rapporti, la solitudine smise di darmi pena. Poi, quando crollò il castello di carte del mio studio e mi trovai rovinato, provai per la prima volta una reale sicurezza. E proprio adesso, quando ho smesso di cercare una compagna, sei comparsa tu e mi hai costretto a piantare i rosai in terra ferma. Mi sono reso conto che in fondo il denaro non mi aveva interessato tanto quanto volevo credere, i cupidi propositi fatti all'ospedale delle Hawaii erano sbagliati e dentro di me lo avevo sempre sospettato. Gli apparenti trionfi non mi avevano tratto in inganno, la verità è che sempre incombeva su di me una vaga sensazione di disastro. Impiegai tuttavia un'eternità ad accettare che più accumulavo più ero vulnerabile, perché vivo in un ambiente dove il messaggio contrario viene ripetuto fino alla nausea. È necessaria una lucidità tremenda, come quella di Carmen, per non cadere nella trappola. Io non l'avevo, dovevo colare a picco fino a toccare il fondo per acquisirla al momento del disastro, quando non mi restava più nulla scoprii che non mi sentivo depresso, ma libero. Capii che la cosa più importante non era l'essere sopravvissuto o l'avere successo, come immaginavo prima, ma la ricerca della mia anima rifugiatasi sulle rive dell'infanzia. Nel ritrovarla seppi che quel potere, per il quale dissipai tanti disperati sforzi, era sempre stato in me. Mi riconciliai con me stesso, mi accettai con un po' di benevolenza ed ebbi allora il mio primo barlume di pace. Credo sia stato l'istante preciso in cui presi coscienza di chi sono realmente e sentii infine di avere il controllo sul mio destino. Il lunedì arrivai allo studio disposto a occuparmi degli ultimi dettagli e trovai un mazzo di rose rosse sulla mia scrivania e i sorrisi complici di Tina Faibich e Mike Tong, che dal mattino presto mi stavano aspettando. "Non abbiamo trovato il tesoro di Francis Drake, però ho ottenuto del credito," annunciò il mio contabile, tormentandosi la cravatta, come fa sempre quand'è nervoso. "Cosa dici, amico?" "Mi sono preso la libertà di telefonare a Roma alla sua amica Carmen
Morales. Ci darà una buona somma. Inoltre ho uno zio banchiere disposto a concederci un prestito. A questo punto possiamo trattare. Se dichiariamo bancarotta gli altri non prenderanno niente, hanno convenienza a concedere facilitazioni e a pazientare." "Non posso offrire nessuna garanzia." "Tra cinesi basta la parola d'onore. Carmen ha detto che lei l'ha finanziata da quando avevate sei anni, adesso spetta a lei." "Altri debiti, Mike?" "Ormai siamo abituati, che importa alla tigre una striscia in più?" "Significa che la lotta continua!" sorrisi con la certezza che questa volta avrei combattuto sul mio terreno. Il seguito lo conosci già, perché lo abbiamo vissuto assieme. La sera in cui ci siamo conosciuti mi chiedesti di raccontarti la mia vita. È lunga, ti ho avvertito. Non importa, ho molto tempo, hai detto, senza sapere in che pasticcio ti mettevi con questo Piano infinito. FINE