JULIAN MAY IL GIGLIO INSANGUINATO (Blood Trillium, 1992)
A Betsy Mitchell, che sa 1 Quell'anno, la primavera e la fine ...
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JULIAN MAY IL GIGLIO INSANGUINATO (Blood Trillium, 1992)
A Betsy Mitchell, che sa 1 Quell'anno, la primavera e la fine delle piogge invernali ritardavano sul Mondo delle Tre Lune; gli ultimi monsoni avevano allagato le pianure della Penisola e ammassato alti cumuli di neve sul pendio meridionale del monte Brom, attorno alla Torre dell'Arcimaga. E, nella notte in cui giunse il piccolo fuggiasco di nome Shiki, aveva ripreso a nevischiare. Il gipeto che lo trasportava in mezzo al vento furioso era troppo sfinito e stanco per fare uso della voce mentale e annunciarsi ai suoi compagni nel rifugio dell'Arcimaga, così il suo arrivo venne accolto con sgomenta sor-
presa. Non appena ebbe toccato il tetto scivoloso della Torre, il gigantesco uccello morì e i servitori della Bianca Signora in un primo tempo non si accorsero neppure del fardello che aveva trasportato fin lì con tanta abnegazione. Tutto quel grande corpo bianco e nero, tranne la testa, le ali e la coda, era ricoperto di un velo di ghiaccio; il mantello di cuoio, che aveva protetto Shiki durante il terribile viaggio, era ormai rigido come un'armatura e si era quasi saldato all'enorme corpo dell'animale. Il fuggiasco poi, era così allo stremo delle forze da non poter neppure strisciare giù dalla schiena dell'uccello; sarebbe morto se i guardiani dei gipeti dell'Arcimaga non si fossero affrettati a soccorrerlo. I servitori videro subito che si trattava di un uomo del Popolo delle Montagne, un Vispi come loro, ma la sua bassa statura rivelava la sua appartenenza a una tribù sconosciuta. «Mi chiamo Shiki. Ho notizie per la Bianca Signora», mormorò a fatica. «Una cosa terribile è accaduta al nord... a Tuzamen... Devo... devo informarla...» Prima di poter aggiungere altro, cadde, privo di sensi, e sognò la moglie e le sue due figlie morte, che in quel sonno febbrile di sfinimento sembravano chiamarlo, incitarlo a raggiungerle in un regno dorato di pace e di calore, dove, sotto un cielo privo di nubi, fioriva il sacro Giglio Nero. Shiki anelava di poter seguire laggiù i suoi cari ed essere finalmente libero dal dolore e dall'implacabile richiamo del dovere! Ma non aveva ancora riferito il suo funesto messaggio e dunque pregò i fantasmi di attenderlo solo un poco, finché non avesse adempiuto alla sua ultima missione e informato l'Arcimaga del grande pericolo. Mentre parlava, la sua famiglia parve allontanarsi sorridendo in una foschia luminosa, scuotendo il capo. E, quando si svegliò, Shiki seppe che avrebbe continuato a vivere. Si destò in una stanza confortevole e in penombra, avvolto in una coperta di pelliccia e con le mani congelate avvolte in uno spesso strato di bende. Accanto al letto, una piccola lampada strana emanava un'intensa luce gialla da una specie di cristallo, ma senza fiamma. Una pioggia gelida batteva contro la finestra della stanza, che però era calda anche se non vi era traccia di camino o di bracieri. L'aria era pervasa da un sottile profumo. Shiki cercò di mettersi a sedere e su un tavolo ai piedi del letto vide una fila di urne dorate in cui fiorivano le piante del magico Giglio Nero, come quelle che aveva visto nel suo sogno. In piedi, nell'ombra dietro di esse, c'era una donna alta, avvolta in un mantello di brillante tessuto bianco che mandava bagliori azzurri simili al luccichio del ghiaccio. Il viso era nascosto dal cappuccio del mantello e
Shiki trattenne il fiato, presentendo il peggio, perché dalla donna sembrava emanare un'aura di potere e mistero incomparabili, che gli toglievano ogni coraggio e lo facevano tremare come un bimbo in preda al panico. Una sola volta aveva incontrato una persona che possedeva la stessa energia ed era quasi morto. La donna gettò indietro il cappuccio, si avvicinò al letto e, con un gesto gentile, lo costrinse a riadagiarsi sui cuscini. «Non aver paura», gli disse. La terribile aura sembrò allora svanire e la sconosciuta parve solo un'avvenente giovane donna - umana, non del Popolo - dai capelli neri, gli occhi di un azzurro opalescente in cui scintillavano pagliuzze dorate e una bocca gentile piegata in un sorriso austero. La paura di Shiki si trasformò in ansia frenetica: il suo voor lo aveva forse portato nel luogo sbagliato? La leggendaria Arcimaga che era venuto a cercare doveva essere vecchissima, protettrice e guardiana del Popolo delle Montagne fin dai tempi degli Scomparsi... Quella donna, invece, non aveva ancora trent'anni... «Stai tranquillo», disse lei. «Da tempi immemorabili a un'Arcimaga ne succede un'altra, come decretato in principio. Io sono l'Arcimaga Haramis, la Bianca Signora di quest'era, e ti confesso che sono ancora una novizia nell'uso dei poteri del mio alto ufficio, che detengo da soli dodici anni. Ma dimmi chi sei e perché mi hai cercata, e farò del mio meglio per aiutarti.» «Signora... Ho chiesto al mio fedele voor di portarmi da te perché cerco giustizia», mormorò con gran fatica, come se le parole fossero le ultime gocce d'acqua strizzate da una spugna. «Intendo la riparazione di una tremenda ingiustizia compiuta verso di me, la mia famiglia e la gente del mio villaggio. Ma venendo qui ho rischiato di morire e mi sono reso conto che noi non siamo gli unici: tutto il mondo ha bisogno di te.» Lei lo osservò in silenzio per un lungo istante e poi, con grande stupore di Shiki, nei suoi occhi comparvero le lacrime, che però non scesero sulle guance pallide. «Dunque è vero!» esclamò. «In tutta la terra ci sono stati mormorii di disagio, voci secondo le quali il male era rinato tra il Popolo e gli esseri umani, voci che parlavano addirittura di dissapori tra le mie due amate sorelle. Però io mi sono ostinata a cercare ragioni terrene a questi problemi perché non volevo credere che l'equilibrio stesso del mondo fosse ancora una volta minacciato.» «E lo è davvero!» disse Shiki. «Credimi, Signora! Devi credermi! Mia moglie non ha voluto fidarsi di me ed è stata uccisa, e con lei le mie figlie... Il nostro Popolo è stato decimato. Il malvagio venuto dal Ghiacciaio
Eterno ora tiene in schiavitù tutta Tuzamen. Ma presto... presto...» Venne colto da un accesso di tosse che gli impedì di parlare, e per la frustrazione cominciò ad agitarsi tra le coltri come un ossesso. L'Arcimaga alzò una mano. «Magira!» La porta si aprì ed entrò un'altra donna che si avvicinò rapida al letto, guardando Shiki con enormi occhi verdi. Aveva capelli color platino e le orecchie adorne di una pietra rossa e luccicante. In contrasto con l'austero abito bianco dell'Arcimaga, la nuova venuta indossava sfarzosi abiti di stoffa leggera color cremisi e braccialetti e collana, entrambi dorati, tempestati di preziosi. Reggeva una coppa di cristallo che conteneva una bevanda scura e fumante e a un cenno dell'Arcimaga la fece bere a Shiki. La tosse si attenuò e così pure la paura. «Tra un attimo ti sentirai meglio», gli disse colei che si chiamava Magira. «Fatti forza: la Bianca Signora non respinge coloro che si rivolgono a lei.» Magira gli asciugò la fronte pallida e sudata con un panno morbido e Shiki notò con sollievo che la mano aveva tre dita, come la sua. Lo confortò sapere che quella persona apparteneva come lui al Popolo, anche se la sua statura era quella di un essere umano, i lineamenti del volto più delicati dei suoi e la parlata aveva un accento strano. Dopotutto, l'incombente calamità aveva la sua origine tra gli esseri umani. La medicina aveva un sapore amaro, ma lo calmò e al tempo stesso gli ridiede forza. La Bianca Signora si sedette sulla sponda del letto e Magira dall'altra parte. Dopo pochi minuti Shiki fu in grado di raccontare la sua storia. «Il mio nome è Shiki», disse, «e appartengo al popolo dei Dorok. Dimoriamo in quella parte della lontana Tuzamen dove le lingue gelate del Ghiacciaio Eterno si spingono dal gelido centro del mondo fin quasi al mare. Gran parte della terra è arida e priva di alberi, un luogo di montagne desolate e brughiere battute dal vento. Il mio Popolo vive in piccoli villaggi nelle profonde valli al di sotto dei dirupi gelati. I molti geyser che riscaldano l'aria e il suolo permettono agli alberi e all'altra vegetazione di crescere e le nostre case nelle grotte sono semplici ma confortevoli. Gli esseri umani delle città costiere e delle Isole Fiammeggianti ci fanno visita assai di rado e non abbiamo molti contatti neppure con le altre tribù del Popolo delle Montagne, ma sappiamo che, nelle brughiere di molte parti del mondo, vivono altri della nostra razza che come noi hanno cari i gipeti e da questi grandi uccelli si fanno trasportare... Ah», esclamò d'un tratto, «mi
rendo conto solo ora che dama Magira e gli altri tuoi servitori che si sono occupati di me devono appartenere a un ramo nobile della mia razza che ha il privilegio di servirti, Bianca Signora. E comincio a capire per quale ragione il mio povero e sfortunato voor Nunusio era così deciso a portarmi da te affinché ti rivelassi la tragica notizia... Perdona questa mia digressione, ti prego! Devo proseguire con il racconto... Sì... Dunque: mi guadagno da vivere cacciando i neri fedok e i dorati worram che vivono solo sulle montagne più alte, e di tanto in tanto faccio da guida agli esseri umani che cercano i preziosi metalli nelle lontane lande libere dai ghiacci, dove i grandi vulcani mitigano il terribile gelo. «Più di due anni fa, durante la Stagione Secca dell'autunno, tre esseri umani giunsero al nostro villaggio: non erano né mercanti né cercatori; dissero di essere studiosi che venivano dal sud, da Raktum. Erano stati mandati dalla regina reggente Ganondri per cercare un'erba rara che aveva il potere di guarire il giovane re Ledavardis dalla perniciosa debolezza che lo affliggeva. Questa pianta cresceva, secondo loro, soltanto nel Kimilion, la remota Terra del Ghiaccio e del Fuoco che costituisce un'isola temperata circondata da ghiacciai e formata dalle ultime rocce scaturite dal ventre fiammeggiante del mondo. «L'anziana del nostro villaggio, la vecchia Zozi Schienastorta, disse agli stranieri che il Kimilion si trovava più di novecento leghe a ovest, interamente circondato dalla calotta di ghiaccio. Era impossibile arrivarci via terra; solo i grandi uccelli che noi del Popolo chiamiamo voor e gli esseri umani gipeti erano in grado di raggiungerlo. Il viaggio è impossibile a causa delle tremende tempeste che flagellano il Ghiacciaio Eterno. Del Popolo delle Montagne, soltanto i Dorok hanno osato avventurarsi nel Kimilion cavalcando i voor e noi stessi evitiamo quel luogo da più di duecento anni. «I tre stranieri promisero un'enorme ricompensa alla guida Dorok che li avesse portati al Kimilion, ma nessuno voleva andare. Non solo la spedizione era giudicata pericolosa, ma vi era anche un che di nefasto nell'atteggiamento dei tre umani, un sentore di magia nera che ci rendeva impossibile fidarci di loro. Uno era vestito tutto di nero, l'altro di rosso porpora e il terzo portava abiti di un giallo vivo. Allora i tre pretesero che gli vendessimo alcuni voor, in modo che potessero recarsi in volo nel Kimilion da soli! «La nostra anziana trattenne a stento l'indignazione e spiegò che i grandi uccelli erano esseri liberi, non proprietà di qualcuno, e che solo per amicizia ci permettono di usarli come cavalcature volanti. Ricordò anche ai tre
stranieri, e con molta cortesia, che gli artigli e il becco aguzzo dei voor ne facevano avversari formidabili per coloro che non erano loro amici. A quel punto i tre rinnovarono l'offerta di una lauta ricompensa alla guida Dorok che li avesse accompagnati, ma nessuno prestò loro ascolto e alla fine i tre umani risalirono sui loro fronial e parvero allontanarsi dal villaggio. «Ora, è ben noto tra i Dorok che io sono la miglior guida del villaggio e senza dubbio gli stranieri lo vennero a sapere. Un giorno, tornando dall'ispezione alle mie trappole, trovai la mia caverna deserta: mia moglie e le mie due giovani figlie erano scomparse; al villaggio, nessuno fu in grado di dirmi che n'era stato di loro. Quella notte quasi impazzii per il dolore e mi stavo stordendo con il liquore di bacche, allorché lo straniero vestito di nero bussò alla mia porta dicendo di avere un importante messaggio per me. «Sì, hai indovinato: i malvagi umani avevano rapito la mia famiglia per costringermi a fare loro da guida! Mi ammonirono che, se avessi parlato con qualcuno della mia gente, loro avrebbero ucciso mia moglie e le mie figlie. Se però avessi accompagnato i tre fino al Kimilion e li avessi riportati indietro sani e salvi, i miei cari mi sarebbero stati riconsegnati incolumi; in più i tre umani mi avrebbero dato come ricompensa una borsa piena di platino per una somma equivalente a tre anni dei miei guadagni. 'Questo pericoloso viaggio potrebbe essere vano', dissi io, 'se non troviamo l'erba medicinale che cercate.' Alle mie parole, i tre mascalzoni risero. 'Non c'è nessuna erba', rispose quello vestito di rosso, 'ma c'è qualcos'altro che ci attende e che non può più aspettare. Dunque, chiama uno stormo dei vostri gipeti più robusti, quattro per portare noi e dieci per le provviste che ci serviranno, e partiremo prima dell'alba.' Non potei fare altro che obbedire. «Non ti racconterò del volo terrificante verso il Ghiacciaio Eterno. Durò sette giorni, senza sosta, se non brevi pause notturne sulla superficie gelata battuta dal vento per far riposare i valorosi voor. Quando infine giungemmo alla Terra del Ghiaccio e del Fuoco, i vulcani erano in piena eruzione, con la lava rovente che colava lungo i fianchi e il cielo oscurato da un fumo nero striato di rosso, come una visione dei dieci inferni. Cadeva una pioggia di ceneri, che imbiancava il terreno ricoprendo come neve velenosa la scarsa vegetazione. E là trovammo un solitario essere umano. «Con i blocchi di lava era riuscito a costruirsi una robusta casa accostata alla roccia e larga quanto un fienile, che era non solo ben fatta, ma anche bella. Ma l'unico cibo di quell'uomo dovevano essere stati i licheni che costellavano la superficie delle rocce, nonché le radici e le bacche degli stenti
cespugli che crescevano in quel terreno arido e i molluschi e le lumache che vivono nelle sorgenti calde. La pioggia di ceneri aveva senza dubbio ucciso gran parte delle magre riserve di cibo, perché, quando lo incontrammo, quell'uomo era poco più di uno scheletro. Era alto quasi due volte me; la barba e i capelli sporchi e giallognoli gli arrivavano oltre le ginocchia; il viso era segnato e sfregiato e gli occhi, di un azzurro chiarissimo con le pupille scure in cui brillava una scintilla dorata, profondamente incassati nelle orbite, avevano la luce della follia. Portava goffi sandali per proteggere i piedi dalle rocce appuntite e un indumento di fibre vegetali intrecciate, che era sufficiente a coprirlo, perché i fuochi sotterranei rendono il Kimilion molto più caldo del ghiacciaio circostante. «Capii immediatamente che lo scopo della nostra spedizione era salvare quell'uomo, il cui nome era Portolanus. Si trattava senza ombra di dubbio di un potente mago. Devo dirtelo in tutta sincerità, Bianca Signora: attorno a quell'uomo aleggiava la stessa stupefacente atmosfera d'incantesimo che circonda la tua persona, ma la sua magia non aveva nessuna benevolenza. Al contrario, sembrava che Portolanus ribollisse di furia trattenuta, come se il suo essere fosse un pozzo di emozioni incandescenti che avrebbero potuto eruttare con la stessa furia distruttiva del magma incandescente dei vulcani, se mai lui avesse deciso di liberare tutto il potere della sua anima. «Quando lo trovammo, Portolanus era appena in grado di balbettare qualche parola del linguaggio umano. Non venni mai a sapere da quanto tempo era esiliato in quel luogo orribile, né come fosse riuscito a chiamare quei tre perché venissero a salvarlo: essi lo trattavano con il più profondo rispetto, non scevro da una nota di paura. I tre avevano portato per lui abiti nuovi, sontuosi e bianchi come la neve; dopo che fu nutrito, lavato, con la barba e i capelli tagliati, in lui non rimase nulla del povero relitto che aveva ululato come una bestia vittoriosa alla vista dei voor che atterravano vicino al suo rifugio. «Le 'provviste' che i tre lacchè di Portolanus mi avevano fatto caricare sui voor, a parte il cibo per noi e le minuscole tende che ci erano servite per accamparci sul ghiaccio, consistevano solo in corde e sacchi. Lo scopo di tali oggetti divenne subito chiaro: mentre i voor riposavano e io restavo all'esterno, guardato a vista da uno dei tre, il Mago e gli altri due si diedero da fare all'interno della casa di roccia. Alla fine uscirono con molti pacchi che caricarono sugli uccelli e subito ripartimmo alla volta di Tuzamen seguendo lo stesso periglioso percorso dell'andata. «Ma non ci dirigemmo al mio villaggio, bensì verso la costa, alla foce
del fiume Bianco, allo squallido insediamento umano di Merika, che si definisce la capitale di Tuzamen. Là i furfanti sbarcarono con il loro carico misterioso in un luogo cadente chiamato Castel Tenebroso, di fronte al mare. Mi licenziarono e mi diedero una piccola borsa di monete di platino, meno di un decimo della somma che mi era stata promessa. Il resto del mio compenso, disse Portolanus, mi sarebbe stato pagato quando 'le sue fortune fossero migliorate'. Molto improbabile, pensai, ma saggiamente non dissi nulla. I lacchè di Portolanus m'indicarono l'ubicazione della remota caverna di lava nella quale avevano rinchiuso i miei familiari, assicurandomi che li avrei ritrovati sani e salvi. «Ritornai con i voor alle montagne e andai a liberare la mia famiglia: erano tutte affamate, infreddolite e sporche, ma incolumi. Puoi immaginare la gioia che provammo nel ritrovarci. Mia moglie era felicissima per la borsa di platino e cominciò subito a fare progetti su come spendere quel denaro. Ordinai a lei e alle bambine di non raccontare a nessuno quanto era loro accaduto, perché quando si ha a che fare con gli umani (e soprattutto con coloro che operano con la magia nera) le precauzioni non sono mai troppe. Poi, per quasi due anni, vivemmo in pace. «Le notizie degli affari umani arrivano lentamente nelle remote valli montane dei Dorok. Non ci rendemmo conto che Portolanus, sostenendo di essere il bisnipote del potente Mago Bondanus che aveva regnato quarant'anni prima, aveva in tutta fretta deposto Thrinus, il potentato nominale di Tuzamen, e si era impadronito del paese. Si disse che lui e i suoi seguaci avessero usato armi magiche che rendevano inutili le armature, che essi stessi fossero invulnerabili alle ferite e che si fossero impadroniti addirittura delle anime dei nemici, trasformandoli in burattini privi di volontà. «Non rividi più Portolanus fino alle Piogge di questo inverno, quando giunse nel cuor della notte e irruppe nella nostra grotta con un rombo di tuono, scardinando quasi la porta. Le nostre figlie si svegliarono urlando e mia moglie e io ci spaventammo a morte. Questa volta, chissà come, il Mago riusciva a tenere sotto controllo la sua aura malefica e io non lo avrei riconosciuto se non fosse stato per gli occhi. Sotto il mantello sporco di fango per la cavalcata, era abbigliato come un re; il corpo si era rinvigorito e la sua voce non era più roca, ma vellutata e suadente. 'Dobbiamo tornare nel Kimilion, Oddling', disse. 'Chiama tre voor, uno per te, uno per me e un altro per portare le provviste necessarie.' «Quell'ordine mi riempì d'indignazione e di paura al tempo stesso, perché, anche se lui non lo sapeva, quando ci eravamo avventurati attraverso
il Ghiacciaio Eterno eravamo a stento riusciti a portare a casa la pelle, e allora era la Stagione Secca. Era pura follia tentare un simile viaggio in quel momento, quando le tormente di neve raggiungevano la loro furia peggiore, e glielo dissi. 'Noi ci andremo ugualmente', rispose lui. 'La mia magia è in grado di comandare le tempeste. Non ti accadrà nulla e questa volta lascerò la tua ricompensa a tua moglie, cosicché il pensiero del denaro ti rallegrerà durante il viaggio.' Trasse una scarsella di cuoio ricamato, la aprì e versò sul tavolo un mucchio di pietre preziose: rubini, smeraldi e i rari diamanti gialli che scintillarono nella luce fioca del focolare. «Continuai a rifiutare: mia moglie aspettava un altro figlio, una delle bambine era malata e, nonostante tutte le rassicurazioni del Mago, temevo che non saremmo ritornati vivi. Con mia grande costernazione, mia moglie cominciò a lagnarsi con me, indicandomi tutte le belle cose che avremmo potuto comprare quando avessimo scambiato le gemme. La sua cupidigia e la sua fatuità m'irritarono, tanto che cominciammo a litigare e le bambine si misero a piangere e a singhiozzare finché Portolanus non tuonò: 'Basta!' «Di colpo l'aura di magia lo avvolse e parve molto più alto e terribilmente minaccioso; quando estrasse da una tasca una bacchetta di metallo nero, indietreggiammo, ma, prima che ce ne accorgessimo, toccò la testa di mia moglie ed ella cadde a terra. Lanciai un grido, però lui compì lo stesso gesto verso le mie povere bambine, poi rivolse la bacchetta contro di me. 'Demonio!' urlai. 'Le hai uccise!' 'Non sono morte, sono solo prive di sensi', ribatté lui. 'Ma non si risveglieranno finché non le toccherò ancora con questo strumento magico. E non lo farò sino a quando tu e io non saremo andati al Kimilion.' «'Mai!' risposi e, concentrando la mente, inviai una Chiamata ai Dorok del mio villaggio. Nonostante la notte di tempesta, essi corsero in mio aiuto con le spade sguainate e le fionde pronte e si radunarono in una folla urlante sotto lo spuntone roccioso che proteggeva la porta della mia caverna. «Portolanus rise; socchiuse la porta e gettò fuori un piccolo oggetto. Ci fu un lampo di luce accecante e poi tutte quelle voci tacquero di colpo. Il Mago aprì la porta e uscì. Là, nella notte battuta dalla pioggia, i miei coraggiosi amici giacevano ciechi e inermi. Portolanus li toccò a uno a uno con la bacchetta ed essi rimasero immobili. «Allora, sulle soglie delle case, cominciarono ad apparire le famiglie di coloro che erano caduti, piangendo e gridando. L'alto stregone si voltò verso di me e la sua aura mi gelò come un vento freddo, mentre i suoi occhi si trasformavano in fiammeggianti diamanti incastonati in ossidiana nera.
Quando parlò, lo fece con voce calmissima. 'Moriranno tutti... o vivranno tutti: la scelta è tua.' 'Li hai già uccisi!' gridai, fuori di me. 'Chiamerò i voor perché ti facciano a pezzi!' «A quelle parole, Portolanus posò la sua bacchetta su di me. «Mi sentii come ingoiato dal nulla assoluto. Un attimo dopo tornai in me, inerme come un vart appena nato, sdraiato nel fango, con la pioggia che mi batteva in viso. La bacchetta del Mago era a un dito dal mio naso. Portolanus mi guardava con occhi di fuoco. 'Testardo di un Oddling!' disse. 'Non capisci che non hai scelta? Ti ho fatto perdere i sensi, poi ti ho risvegliato con la mia magia. La bacchetta farà altrettanto con la tua famiglia e i tuoi amici... ma solo se farai ciò che ti ho chiesto!' 'I voor non possono percorrere in volo grandi distanze nella tempesta', mormorai. 'In questa stagione restano quasi sempre nei loro nidi.' 'Ho un modo per placare la tempesta', disse lui. 'Chiama i tuoi uccelli e partiamo.' «Persi ormai sia il coraggio sia la speranza, alla fine mi convinsi. Le mogli e gli altri ragazzi del villaggio si fecero avanti per portare al riparo i mariti e i padri privi di sensi e Portolanus li istruì sul modo di accudire i loro cari e la mia famiglia sino a quando non fossi tornato. Quando ci alzammo in aria, il Mago volle che i tre voor stessero vicini, tenendo il suo al centro. In modo miracoloso riuscì ad attenuare la forza del vento e così potemmo volare come se la tempesta non esistesse. Quando gli uccelli si stancavano, atterravamo sul ghiacciaio e ci riparavamo nelle tende, mentre i voor si stringevano attorno a noi. Intanto che riposavamo, lo stesso incantesimo teneva a bada la neve e il vento. Questa volta, nonostante le tormente incessanti, ci vollero solo sei giorni per raggiungere il Kimilion e io arrivai a destinazione salvo nel corpo e rassegnato nello spirito. «Il Mago recuperò una cosa sola dalla casa di pietra: un cofano scuro lungo circa quanto il mio corpo, profondo tre spanne e largo altrettanto, fatto di un materiale scivoloso che pareva vetro nero, con una stella d'argento a molte punte sbalzata sul coperchio. Tutto allegro, con la sua aura di nuovo sotto controllo, Portolanus aprì la scatola per mostrarmi che era vuota. 'Una cosa semplice, non è vero, Oddling?' mi chiese. 'Eppure è la chiave per la conquista del mondo...' Dal corsetto trasse una catena cui era appeso un medaglione annerito e ammaccato che aveva la stessa forma della stella... 'Proprio come questo è stato la salvezza della mia vita! Per venire in possesso di queste due cose, potenti stregoni nelle terre meridionali venderebbero l'immortalità della loro anima e re e regine rinuncerebbero volentieri alla corona. Ma esse sono mie e io sono vivo e posso usar-
le, grazie a te.' «A quel punto rise fragorosamente e la sua aura lo avvolse come la nebbia raggelante del Ghiacciaio Eterno. Io temetti di morire di disperazione e di disgusto verso me stesso. Tuttavia nella mente udii la voce senza parole del mio amato voor Nunusio che m'implorava di ritrovare coraggio, e allora mi ricordai della mia famiglia e degli altri. «Dobbiamo andare, mi disse Nunusio, perché si avvicina un'immensa tormenta che impegnerà al limite estremo la magia di quest'essere malvagio. Dobbiamo allontanarci dal Kimilion prima che scoppi. «Esitando, riferii a Portolanus quanto mi aveva detto il voor. Il Mago sbottò in una strana imprecazione e in fretta cominciò ad avvolgere la preziosa scatola con la stella. Poi la legò alla schiena del suo uccello e non a quella del voor che portava le provviste; in men che non si dica partimmo, proprio mentre i vulcani scomparivano in una coltre impenetrabile di nubi. «Il viaggio di ritorno verso casa fu così orribile che la mia memoria lo ha cancellato del tutto. Lo stregone riuscì a tenere a bada il vento quanto bastava perché non ci facesse precipitare e morire sul ghiacciaio, ma non riuscì a tenere lontano il freddo. Il quinto giorno la tormenta finalmente si placò e quella notte ci accampammo sul ghiaccio sotto la luce brillante delle Tre Lune. Portolanus dormì come un morto, stremato dalla lotta per tenere a bada la tempesta. «Allora osai inviare una Chiamata al villaggio, chiedendo notizie della mia famiglia e degli altri colpiti dall'incantesimo dello stregone. La vecchia Zozi Schienastorta mi diede notizie tremende: coloro che a tutta prima erano parsi avvolti nel sonno dell'incantesimo al secondo giorno avevano reso il loro spirito ed erano passati a miglior vita. I segni erano inconfondibili e così il Popolo aveva consegnato i loro corpi a un'unica grande pira funeraria. «Non riuscii a trattenermi e gridai ad alta voce il mio dolore. Il Mago si svegliò e io lo accusai di essere un bugiardo e un assassino spietato e feci il gesto di estrarre il coltello, ma dovetti desistere quando lui mi minacciò con la bacchetta magica. 'Quando viene usato sugli umani', rispose, 'ha un effetto innocuo. Tu stesso ti sei ripreso senza problemi dopo essere stato privo di sensi per un solo minuto. Voi Oddling avete corpi di tipo diverso dagli umani e forse siete più vulnerabili alla magia della bacchetta.' 'Forse!' gridai. 'È questo che sono per te quei morti! Un enigma su cui riflettere?' 'Non avevo intenzione di uccidere la tua gente', rispose lui. 'Non sono un mostro senza cuore.' S'interruppe, pensando, mentre io continuavo a insul-
tarlo, impotente. Poi disse: 'Cercherò di ricompensarti triplicando il tuo compenso e prendendoti al mio servizio. Ora sono il Signore di Tuzamen e col tempo governerò il mondo. Un uomo dei voor sarebbe per me un servitore di grande valore'. «Un rifiuto tagliente mi salì alle labbra, ma la prudenza m'indusse a trattenerlo. Nulla avrebbe potuto restituirmi mia moglie, le mie figlie o i miei amici. In un modo o nell'altro mi sarei vendicato del Mago, ma se lo avessi sfidato in quel momento, mi avrebbe di sicuro ucciso. Ci trovavamo a un solo giorno di volo dal limite della calotta di ghiaccio e il mio villaggio era a non più di un paio d'ore da lì. 'Rifletterò sulla tua offerta', borbottai voltandogli la schiena e finsi di russare. Quando, poco dopo, anche il Mago si riaddormentò, mi misi a pensare al da farsi. Nel pieno della rabbia e del dolore lo avrei ucciso senza pensarci due volte, ma ora, a sangue freddo, non sarei mai stato capace di farlo. C'erano i voor... ma non avrei mai potuto ordinare loro, deliberatamente, di attaccarlo. Se lo avessi eliminato, non sarei stato migliore dello stesso Portolanus. «Scivolai fuori della tenda e mi avvicinai a Nunusio e, con il linguaggio senza parole, cercai il consiglio del mio grande amico. Lui disse: Nei tempi passati quando il Popolo delle Montagne era in ambasce, cercava il consiglio dell'Arcimaga, la Bianca Signora, colei che è la guardiana e la protettrice di tutto il Popolo. «Risposi che avevo sentito raccontare storie su di lei quand'ero bambino, ma di certo ella doveva dimorare in qualche remoto angolo del mondo e non poteva importarle molto della tragedia di un povero Dorok di Tuzamen. «Noi voor sappiamo dove dimora, replicò Nunusio. È un luogo molto lontano. Ma io ti condurrò là, se le forze mi sosterranno. Lei ti garantirà giustizia. «Parlai con gli altri due voor, dicendo loro di portare il Mago sano e salvo fino al limitare del ghiaccio ma non oltre, e poi di tornare al villaggio. Il popolo afflitto avrebbe potuto dividersi le gemme lasciate da Portolanus e anche ciò che si trovava nella mia casa. Espressi anche un altro desiderio ai grandi uccelli: che tutti i voor lasciassero per sempre il villaggio, affinché nessun'altra sfortunata guida potesse mai attirare la calamità come avevo fatto io, nel caso Portolanus fosse tornato a richiedere ancora i nostri servigi. Senza i voor, il Popolo non era per lui di nessuna utilità. Poi Nunusio e io ci levammo in volo. «E alla fine giungemmo da te, Bianca Signora, con questa storia.»
2 Uscite dalla stanza, Haramis e Magira scesero la scala a spirale che portava alla biblioteca dell'Arcimaga. «Non può essere lui, non può!» esclamò Magira. «Lui è morto! Dissolto nel nulla dallo Scettro del Potere.» Un'espressione di profonda incertezza oscurò il viso dell'Arcimaga. «Questo resta ancora da vedere. Per il momento ci basta sapere che il Signore di Tuzamen è un Mago in grado di sconvolgere l'equilibrio del mondo... e conosciamo anche il nome del luogo dov'era stato esiliato: Kimilion. Sono sicura di aver già incontrato quella parola, ma in un contesto diverso.» La biblioteca era una stanza enorme, alta tre piani e stipata di libri. Era stata la stessa Haramis a costruirla, allargando il vecchio studio dell'antica Torre del Mago. Quello era il luogo in cui lavorava, studiando libri di magia, storia e di centinaia di altre materie che sperava l'avrebbero aiutata a svolgere il difficile compito che si era scelta. Di fronte alla porta si trovava un camino nel quale era sempre acceso un vero fuoco, perché Haramis trovava ispirazione guardando le fiamme, anche se queste erano un mezzo di riscaldamento meno efficiente del sistema d'ipocausto usato in tutto il resto della Torre. Due scalette elicoidali ai lati opposti della stanza permettevano di accedere agli scaffali, e nelle pareti accanto alle scalette si aprivano finestre lunghe e strette che, durante il giorno, illuminavano la stanza di una luce allegra e intensa. Alla sera, invece, erano le lanterne magiche a fornire un'illuminazione soffusa. Sul grande tavolo da lavoro accanto al camino c'era un candelabro di foggia strana, che, facendo uso della stessa antica scienza, brillava di una luce viva o si spegneva toccando un punto particolare sul piedistallo. In piedi, al centro della biblioteca, Haramis chiuse gli occhi e posò una mano sul talismano, la bacchetta di metallo bianco con un cerchio all'estremità, che portava al collo, appesa a una catena. Aprì gli occhi di scatto, salì di corsa una delle scalette e prese un libro da uno degli scaffali. «Ecco! È questo! Era tra quelli che ho trovato tra le rovine di Noth, dove per tanto tempo è vissuta l'Arcimaga Binah.» Tornò al tavolo, vi posò il volume polveroso e lo toccò con il Cerchio dalle Tre Ali: il libro si aprì e alcune parole parvero luccicare. Haramis le lesse ad alta voce: «È legge immutabile e inderogabile per il Popolo delle
Montagne, delle Paludi, delle Foreste e del Mare, che ciascun manufatto degli Scomparsi trovato tra le rovine debba essere mostrato al Primo del loro villaggio e studiato per accertare se possa essere pericoloso o no, o se si tratti di un oggetto non facile da controllare, o se sia misterioso e dunque forse portatore di potente magia. È proibito al Popolo fare uso di tali oggetti o farne commercio: essi dovranno essere radunati in un luogo sicuro e una volta all'anno verranno consegnati alla custodia dell'Arcimaga, che potrà decidere di ritirarli al sicuro nell'Inaccessibile Kimilion, o disporre altrimenti di essi, come riterrà opportuno...» «Adesso teniamo i congegni qui sul monte Brom», disse Magira, «nella Caverna del Ghiaccio Nero.» Haramis annuì. «E io ho immaginato, sbagliando, a quanto pare, che il Kimilion fosse un posto nella Torre della vecchia Arcimaga, quella che è scomparsa alla sua morte. Ma se il nostro amico Shiki ha ragione, allora il Kimilion nella calotta ghiacciata dev'essere il luogo in cui l'Arcimaga Binah teneva i suoi tesori... e forse anche altre Arcimaghe prima di lei.» Rimase a fissare il libro con la fronte aggrottata, battendo distrattamente il talismano sulle pagine. Aveva dimenticato di accendere il candelabro e la goccia di ambra fossile racchiusa tra le piccole ali alla sommità del cerchio brillava di luce propria; ma, a parte quello, il talismano non le era di nessun aiuto. «Se l'uomo trovato laggiù è chi pensiamo che sia, allora può essere arrivato nell'Inaccessibile Kimilion solo perché è stato lo Scettro del Potere a mandarcelo.» «Ma perché?» esclamò Magira. «Perché lo Scettro del Potere avrebbe dovuto fare una cosa simile invece di distruggerlo? Le sue azioni non dovevano forse ripristinare l'equilibrio del mondo?» Haramis parlò come a se stessa, con lo sguardo fisso sull'ambra luminescente: «Avrebbe avuto così anni per studiare tutti quei meravigliosi manufatti antichi. E poi, chissà come, è riuscito a chiamare i suoi accoliti perché andassero a salvarlo e si è impadronito di Tuzamen con l'aiuto degli apparecchi degli Scomparsi». La perplessità di Magira si era tramutata in paura. «Ma perché? Perché lo Scettro ha permesso che accadesse questa cosa tremenda?» Haramis scosse il capo. «Non lo so. Se davvero è ancora vivo, forse è perché ha ancora un ruolo da svolgere nel ristabilire il grande equilibrio. Noi credevamo che quella stabilità fosse stata raggiunta, ma gli avvenimenti di quest'ultimo periodo ci dimostrano che sbagliavamo.»
«Secondo me, è lui la causa di tutti i recenti guai!» affermò Magira. «Potrebbero essere i suoi agenti della magia nera a fomentare i disordini tra gli umani al confine e il malcontento tra il Popolo delle Foreste e persino il triste antagonismo che oppone la regina Anigel alla Signora degli Occhi...» «Mia cara Magira», disse Haramis, alzando una mano con un gesto stanco, «lasciami sola. Devo pensare, pregare e decidere che cosa fare. Prenditi cura del nostro ospite e, quando sarà più in forze, gli parlerò di nuovo. Ora vai.» La donna Vispi obbedì. Rimasta sola, Haramis fissò, senza vederle, le finestre della biblioteca rigate dalla pioggia, ricordando non soltanto il male indicibile che era stato sconfitto dodici anni prima, ma anche i lineamenti di un certo viso che aveva cercato di bandire dalla propria memoria e dai propri sogni. Credendolo morto, era riuscita a dimenticarlo, come aveva scordato il turbamento che aveva portato nella sua anima, la confusione che lei aveva scambiato per amore... No. Sii onesta, ordinò a se stessa: tu volevi credere alle sue bugie, volevi credere che non fosse stato lui a suggerire a re Voltrik di Labornok d'invadere Ruwenda, che non avesse mai preteso la morte dei tuoi genitori, i legittimi sovrani di Ruwenda, e neppure che avesse cospirato per uccidere te e le tue sorelle. Tu gli credevi perché lo amavi. E quando hai scoperto i suoi inganni, quando ti mostrò il suo oscuro piano per impadronirsi del mondo e ti chiese di dividerlo con lui, tu lo hai temuto e disprezzato. Hai rifiutato la sua mostruosa visione e hai rinunciato a lui. Ma non lo hai mai odiato. No, questo non sei mai riuscita a farlo, perché dentro di te, nel profondo del tuo cuore, lo amavi. E ora, di fronte alla possibilità che, nonostante tutto, sia ancora vivo, la più folle delle paure ti assale, non solo per il disastro che il suo ritorno porterebbe al mondo, ma anche per quello che creerebbe in te... «Orogastus», mormorò sentendo il cuore dare un balzo perché le sue labbra osavano ancora una volta pronunciarne il nome, «che Dio ti conceda di essere morto. Felicemente morto e condannato al più profondo dei dieci inferni!» E, dopo averlo maledetto, cominciò a piangere; ma, mentre implorava il cielo perché non fosse ancora vivo, dentro di sé voleva cancellare il desiderio della sua dannazione. Solo dopo parecchio tempo riuscì a riprendere il controllo di se stessa;
allora si sedette di fronte al fuoco e si concentrò di nuovo sul talismano, tenendo davanti a sé la bacchetta con il cerchio in alto, e guardando nell'anello d'argento. «Mostrami chi o che cosa più di ogni altro mette in pericolo l'equilibrio del mondo», ordinò in tono imperioso. Il Cerchio prese a riempirsi di una nebbiolina tremula e luminosa, dal colore indefinito, come la madreperla delle conchiglie, che un istante dopo si schiarì, formando al centro una nube indistinta, prima rosa, poi porpora e infine rosso scarlatto. La nube assunse contorni distinti e si divise in tre parti: quello che Haramis vedeva era un fiore con tre petali, un giglio color del sangue, che mai era fiorito sul Mondo delle Tre Lune. L'immagine durò pochi istanti e poi il cerchio fu vuoto. L'Arcimaga venne percorsa da un brivido gelido. «Noi Tre?» mormorò. «Il pericolo siamo noi, e non lui? Che cosa significa ciò che mi hai mostrato?» Il Cerchio d'argento rifletteva le fiamme del camino e l'ambra con il suo Giglio Nero fossile emanava la sua consueta luminescenza. Il talismano rispose: La domanda non è pertinente. «Oh, no! Non ricominciare!» esclamò Haramis. «Non provare a prenderti gioco di me come hai fatto tante altre volte. Io ti ordino di dirmi se siamo noi, i Tre Petali del Giglio Vivente, a minacciare l'equilibrio del mondo, o se la minaccia viene da Orogastus!» La domanda non è pertinente. «Maledizione! Dimmelo!» La domanda non è pertinente. Una folata di nevischio tintinnò contro i vetri delle finestre e un ceppo rotolò nel camino con un tonfo sordo e una breve pioggia di scintille. Il Cerchio dalle Tre Ali rimase inerte, come se si stesse prendendo gioco di lei, rammentandole, una volta di più, quanto poco sapesse del suo funzionamento, nonostante tutti i suoi studi. Si accorse che le tremavano le mani, per la rabbia o forse per la paura, e costringendosi a fermare la contrazione, si rivolse di nuovo al talismano: «Mostrami almeno se Orogastus è vivo o morto». Il Cerchio d'argento si riempì di nuovo di una nebbiolina perlacea che si muoveva in piccole e incerte spirali, come se stesse cercando di formare un'immagine, ma non apparve nessun viso. Un istante dopo, il Cerchio dalle Tre Ali era vuoto.
Era così, dunque. Ma c'era da aspettarselo: se lui era vivo, di certo si sarebbe schermato per non essere osservato tramite la magia. C'era un altro modo in cui avrebbe potuto cercare di vederlo... ma prima, un'ultima richiesta al talismano. «Dimmi che cosa Portolanus ha portato via dal Kimilion nel suo secondo viaggio con Shiki il Dorok.» Questa volta la visione fu nitida e rivelò la scatola nera poco profonda descritta da Shiki, con una stella sul coperchio. Però la scatola era aperta e al suo interno si vedeva un letto di rete metallica, con un quadrato in un angolo sul quale erano incastonate parecchie pietre preziose che scintillavano. Haramis stava osservando perplessa lo scrigno, quando il talismano parlò: La scatola spezza i legami e permette di crearne di nuovi. «Spezza i legami? Che genere di legami?» Legami come quello che mi unisce a te. «Per il Dio Triuno! Vuoi forse dire che potrebbe spezzare i tre talismani dello Scettro del Potere miei e delle mie sorelle e trasferire la loro forza a Portolanus?» Sì: non si deve fare altro che mettere un talismano nella scatola e toccare le gemme una dopo l'altra. Con il cuore colmo di paura e trepidazione, Haramis andò nelle sue stanze a prendere pellicce e guanti caldi in vista della discesa nella Caverna del Ghiaccio Nero. Gli indumenti speciali che Orogastus indossava sempre prima di entrare in quel luogo e i duplicati che aveva fatto fare appositamente per lei non erano altro che un inutile rituale, del tutto superfluo, per placare i suoi oscuri dei. Ma Orogastus non era mai riuscito a comprendere appieno da dove derivava il suo potere e aveva sempre scambiato l'antica scienza per magia, arrivando a dipendere sempre più dalla prima, trascurando la magia vera che aveva imparato con il suo mentore Bondanus. «E, per il Fiore, sono ben contenta che l'abbia tralasciata», si disse Haramis. «Perché se fosse stato in grado di usare la magia vera contro di noi, forse ci avrebbe sconfitte.» Tutta infagottata, scese al livello più basso della Torre, entrando in una lunga galleria che s'inoltrava nelle pendici del monte Brom. Anche il passaggio scavato nella roccia era illuminato dalle stesse meravigliose lanterne senza fiamma che davano luce a tutta la Torre. Ma qui non c'era calore e il fiato di Haramis formava una nuvoletta bianca, mentre lei percorreva in fretta il tunnel, stringendosi addosso le pellicce. Non scendeva là sotto
da anni, perché gli echi di quel luogo la disturbavano; ma a respingerla non era l'aura di magia nera, era il ricordo di lui. Giunta in fondo alla galleria, aprì la massiccia porta ricoperta di brina ed entrò in quella che pareva una grande caverna dalle pareti di granito grezzo venato di quarzo bianco. Il pavimento era ricoperto di piastrelle lucide, scure e scivolose come il ghiaccio nero che s'insinuava attraverso le fessure del soffitto e dei muri. Lungo tutte le pareti si aprivano nicchie che contenevano strani oggetti dalle forme complesse e altre porte lucide e nere che conducevano in altrettante stanze piene di cose strane. Era stato Orogastus a rivelarle che la caverna era un deposito per gli strumenti di magia che gli erano stati affidati dalle Potenze Oscure. Eppure, fin da allora, Haramis aveva sospettato che si trattasse invece di macchine degli Scomparsi, in parte trovate già lì da Orogastus quando aveva scoperto quel luogo e in parte da lui stesso raccolte tramite scambi con il Popolo. Aveva costruito la Torre per proteggere la Caverna del Ghiaccio Nero e avere facile accesso al suo scrigno di meraviglie. Morto Orogastus, Haramis si era insediata nella sua Torre, ma non aveva mai utilizzato il contenuto della caverna, che era andato lentamente aumentando nel corso degli anni con l'aggiunta di altri congegni proibiti, raccolti nelle rovine dal Popolo delle Paludi. Molte delle cose nascoste nella Caverna del Ghiaccio Nero erano armi, ma non quelle che era venuta a usare quella notte. Aprì una delle porte di ossidiana ed entrò in una stanza dal soffitto basso, con una parete ricoperta di uno spesso strato di brina nella quale era incassato una specie di specchio grigio e rotondo, un'antica macchina in grado di localizzare e osservare qualunque persona al mondo. Il congegno funzionava malissimo e in effetti, l'ultima volta che Haramis aveva cercato di consultarlo per rintracciare la strega Glismak Tio-Ko-Fra, lo specchio aveva emesso solo qualche debole brontolio, mormorando qualcosa d'incomprensibile sul fatto di essere esaurito; ma da allora si era goduto molti anni di riposo e c'era dunque almeno una minima possibilità che nel frattempo si fosse ripreso. Haramis però doveva formulare la domanda con molta precisione, perché era possibile che il suo primo quesito fosse anche l'ultimo. Si mise di fronte allo specchio, trasse un profondo respiro e intonò ad alta voce: «Rispondi alla mia richiesta!» Non ebbe altra replica che il proprio riflesso. Dopo qualche minuto ripeté le parole con un tono più alto. E la macchina si svegliò! Al posto della sua immagine comparve un debole bagliore e si udì una voce fioca: «Pronto a rispondere. Domanda, pre-
go». Con molta attenzione, Haramis parlò nello stesso tono acuto che aveva usato in precedenza, servendosi di quel linguaggio secco e tronco che le aveva insegnato Orogastus quando, per conquistare il suo amore, le aveva mostrato il più prezioso dei suoi segreti. «Visualizza una persona. Localizza attuale posizione sulla mappa.» Con esasperante lentezza, lo specchio s'illuminò e sibilò: «Richiesta convalidata. Nome della persona». Con una facilità che la sconvolse, nella sua mente comparve l'immagine di lui, il viso austero e bellissimo incorniciato dai lunghi capelli d'argento. Ma questa volta Haramis non osò pronunciare il nome che aveva un tempo: chiunque fosse il nuovo Mago al potere, era necessario che lei ne vedesse il volto per conoscere colui che era in quel momento il suo grande nemico. «Portolanus di Tuzamen», rispose dunque. «Esplorazione attivata», disse lo specchio in un sussurro debole quanto l'ultimo respiro di un moribondo. La superficie si trasformò in un caleidoscopio di colori che parevano una parodia del funzionamento del suo talismano, mentre la voce diventava un farfugliamento sibilante e incomprensibile. Haramis provò l'impulso di gridare per la frustrazione, ma si trattenne, sapendo che, qualunque parola avesse pronunciato, l'antica macchina l'avrebbe interpretata come un comando, con risultati disastrosi, forse persino lo spegnimento del marchingegno stesso. La massa turbinante di colori indefiniti si assestò, formando l'immagine sfocata e a malapena distinguibile di una mappa del mare nelle vicinanze delle Isole di Engi, con un puntino di luce lampeggiante molto distante dalla terraferma. Una specie di vertigine le invase la mente, mentre il cuore le batteva in petto con la furia di un animale prigioniero che cercasse di fuggire dalla gabbia. La macchina prima localizzava la persona richiesta e poi ne mostrava il volto. La mappa scomparve e si formò una nuova immagine, ancor più indistinta della prima: si trattava senza dubbio del volto di un uomo, ma i lineamenti erano così sfocati che sarebbero potuti essere di chiunque. Haramis avvertì una vampata di delusione, però subito si rimproverò per essere stata così stupida. L'immagine scomparve; lo specchio sibilò qualche altra frase incomprensibile, poi la luce che lo illuminava si spense e l'Arcimaga capì, con assoluta certezza, che la macchina non avrebbe mai più funzionato. Uscì dalla stanza e chiuse la porta, tremando per il freddo polare e per lo sforzo
che le costava dominare i propri sentimenti. Portolanus era per mare, senza dubbio in viaggio verso sud con la delegazione di Tuzamen, diretto nello stesso luogo in cui presto sarebbero arrivate le sue sorelle. Possedeva una nazione, aveva accesso a tesori degli Scomparsi che per il mondo avrebbero potuto essere molto più pericolosi delle armi rinchiuse in segreto in quella caverna; e inoltre possedeva lo scrigno con la stella che avrebbe potuto dargli il potere su uno dei talismani, se fosse riuscito a strapparlo a una di loro. Forse Portolanus era solo un Mago alle prime armi che si era imbattuto per caso nel tesoro segreto dell'Arcimaga. Ma anche se le cose stavano così, egli era una minaccia e Haramis avrebbe dovuto orchestrare con molta cura la campagna contro di lui. Tuttavia, se davvero quel Mago era Orogastus, allora il suo compito sarebbe stato infinitamente più difficile e non solo per il suo coinvolgimento emotivo. Rammentò a se stessa che a esiliarlo nell'Inaccessibile Kimilion doveva essere stato lo Scettro del Potere, per qualche sua imperscrutabile ragione. E che era possibile che Orogastus, nei dodici anni di esilio e solitudine tra i ghiacci, avesse imparato finalmente a dominare la vera magia che era dentro di lui. E lei, questo, doveva ancora farlo. 3 L'organizzazione della conferenza con i capi Aliansa aveva richiesto parecchi mesi di preparazione e tale era la sua importanza che Kadiya si era persino consultata con il Maestro del Luogo del Sapere prima di decidere la strategia da adottare. Questi Popoli del Mare non erano come gli aborigeni di Ruwenda, abituati a obbedire alle leggi della Bianca Signora e che avevano spontaneamente accettato Kadiya come loro capo. Per gli Aliansa del Mare del Sud l'Arcimaga era una specie di mito quasi dimenticato e la Signora degli Occhi un personaggio semisconosciuto del quale era meglio non fidarsi. Kadiya sedeva con i rappresentanti del Popolo del Mare, grata per la brezza leggera che entrava attraverso le foglie intrecciate delle pareti della grande capanna dell'Isola del Consiglio; il suo talismano, l'Occhio di Fuoco Trilobato, si trovava sulla stuoia d'erba davanti a lei, adorno di fiori e verdi viticci fragranti che simboleggiavano la pace. Accanto a esso c'era la spada del Grande Capo dell'Aliansa, addobbata nello stesso modo.
Dietro Kadiya, il Nyssomu Jagun e i sedici guerrieri Wyvilo della sua scorta si mossero inquieti: da più di tre ore, senza un attimo di pausa, si trovavano nella capanna del Consiglio, ma finché Har-Chissa e i suoi trenta capitribù si dimostravano disposti a parlare, Kadiya era decisa ad ascoltarli. Dal canto suo, aveva già spiegato diffusamente la sua proposta: come Signora degli Occhi e Grande Avvocato dei Popoli della Penisola, era venuta a offrire i propri servigi anche agli Aliansa nell'annosa disputa che li opponeva al regno di Zinora: era cioè venuta a parlare di pace. Il Popolo del Mare aveva ascoltato le sue parole in un silenzio di tomba; poi Har-Chissa aveva invitato i suoi capitribù a esporre nei particolari le lamentele nei confronti degli umani di Zinora e, a uno a uno, questi avevano elencato le atrocità commesse dai mercanti umani nei confronti del Popolo. Kadiya era rimasta sconvolta nell'udire quanto i loro racconti differissero dalla storia che le aveva raccontato il mellifluo Yondrimel, il re di Zinora, accogliendo con disprezzo la sua offerta d'intervento. Era ovvio che la situazione era peggiore di quanto lei avesse sospettato. Un capotribù donna degli Oddling del Mare, proveniente da una delle isole più piccole, era nel pieno della sua perorazione: gli occhi gialli dalla pupilla verticale sporgevano sui corti peduncoli e le zanne luccicavano mentre dava voce a tutta la sua rabbia. Veniva da un territorio povero e indossava solo due fili di perle diseguali attorno al collo e una cotta d'erba priva di ornamenti. Le scaglie della schiena e delle braccia non erano dipinte e l'arma che portava alla cintura era solo una rozza ascia di pietra con un intarsio di conchiglia. «Tu dici che dovremmo fare la pace con gli umani di Zinora! Noi, gli orgogliosi Aliansa!» esclamò con un ampio gesto della mano palmata per indicare gli altri capi seduti in circolo. «Noi, che siamo vissuti liberi su queste isole fin dai tempi in cui la Grande Terra era ancora racchiusa nella morsa del ghiaccio! Ma perché dovremmo darti ascolto? Gli zinoriani vengono sulle nostre isole e ci truffano negli scambi: ma se noi rifiutiamo di barattare le nostre perle, il nostro kishati e gli oli profumati, loro ce li rubano! Bruciano i nostri villaggi! Ci uccidono! Mio figlio è stato trucidato da loro! Signora degli Occhi, tu hai udito le parole di molti altri capi, che hanno testimoniato tutti i torti commessi contro di noi. Noi non vogliamo avere più nulla a che fare con gli zinoriani; non abbiamo bisogno di commerciare con loro: venderemo i nostri prodotti alle nazioni di Okamis e Imlit, al di là del Mare delle Secche. Di' a questo nuovo e feroce re di Zinora che noi lo disprezziamo! Osa sostenere che queste isole fanno parte
del suo regno, ma è un bugiardo e uno sciocco. Le Isole Senzavento appartengono al Popolo dei Mari che le abita... non a un umano millantatore che dimora in un bel palazzo sulla Grande Terra!» Dagli Aliansa si levò un ruggito di approvazione. «Lascia che ti dica che cosa faremo loro, se questi mercanti torneranno», riprese la donna. «I nostri guerrieri si nasconderanno nelle canoe tra le barriere coralline più esterne e, non appena le navi entreranno di soppiatto per depredarci, li affonderemo senza preavviso, aprendo falle nelle chiglie. E, quando il mare ci restituirà i corpi degli zinoriani, li spelleremo per farne dei tamburi! Ammucchieremo i loro crani sulle scogliere e i griss e i pothi vi faranno il nido! La carne degli zinoriani sarà cibo per i pesci e i relitti delle loro navi la dimora del mostro marino Heldo!» Da tutti gli altri capi si levò un urlo di assenso, mentre la donna incrociava le braccia sul petto e tornava a sedersi. Allora si alzò il Grande Capo Har-Chissa: era una creatura splendida, di tutta la testa più alto di un umano robusto, anche se non slanciato come un Wyvilo. La vista di quel viso allungato, con le zanne luccicanti e le scaglie dorate, avrebbe terrorizzato anche il più sanguinario pirata raktumiano. Il Grande Capo indossava un kilt di splendida seta azzurra intessuta a Var e la corazza di acciaio con il balteo ingioiellato non poteva che essere opera del fabbro reale di Zinora. Di temperamento taciturno e austero, aveva preferito che fossero i capi minori a narrare i torti subiti dal Popolo del Mare, ma ora che questi avevano terminato, si rivolse a Kadiya con voce bassa e roca: «Lelemar di Vorin ha riassunto i sentimenti di tutti noi, Signora degli Occhi. Abbiamo ascoltato quello che avevi da dirci e tu hai ascoltato noi. Ti definisci l'Avvocato del Popolo, uno dei Tre Petali del Giglio Vivente, sorella di sangue della Bianca Signora; ci hai mostrato il talismano che porti, l'Occhio di Fuoco Trilobato, e noi sappiamo che alcune delle razze del Popolo che abitano sulla terraferma, come Nyssomu, Uisgu, Wyvilo e Glismak ti considerano il loro capo e seguono il tuo consiglio. Tu ci chiedi di fare lo stesso: ma io dico che tu sei anche sorella di sangue della regina Anigel di Laboruwenda che insieme col suo consorte, re Amar, opprime i Popoli che si rifiutano di sottomettersi alla loro volontà. E poi sei umana...» Un forte brusio di assenso si levò tra gli altri capi. Har-Chissa proseguì: «Tu ci hai spronati a fare la pace con gli zinoriani; sostieni che siamo inferiori di numero rispetto agli umani di quella terra e non altrettanto esperti nella guerra. Dici che le nostre donne e i nostri figli soffriranno se combat-
teremo contro gli zinoriani e che è meglio cercare un accordo con loro... Ma i Glismak, un tempo fieri, che hanno rinunciato alle loro feroci consuetudini per ordine tuo e delle tue sorelle, non hanno forse patito da allora, costretti a lavorare in squadre nelle paludi di Ruwenda, invece di poter vivere liberi nella foresta di Tassaleyo? E non è forse vero che essi, insieme con Nyssomu, Uisgu e Wyvilo, sono trattati come esseri inferiori e sono soggetti al volere degli umani in mezzo ai quali vivono?» Ancora una volta l'adunata di capi del Popolo del Mare espresse la propria ira con grida furiose, ma il Capo li zittì. «Ti ribadisco, Kadiya degli Occhi, che l'Aliansa non farà mai la pace con Zinora, né mai ci sottometteremo al volere di qualunque altro umano. Noi siamo liberi e tali resteremo!» L'assemblea esplose in un tumulto. Poi Kadiya si alzò e il Popolo del Mare tacque. Era quasi il crepuscolo e la capanna del Consiglio era avvolta nell'ombra; le uniche luci erano il caldo bagliore dell'ambra fossile del suo talismano e i grandi occhi splendenti degli aborigeni, quelli ostili del Popolo del Mare e quelli dei Wyvilo, i leali amici di Kadiya. «Per prima cosa devo correggere le vostre errate convinzioni per quello che riguarda i Glismak», disse. «Se non credete alle mie parole, potete consultarvi con il mio compagno Lummomu-Ko, Portavoce di Let e capo dei Wyvilo, che mi ha fatto l'onore di accompagnarmi in questa missione. Un tempo i Glismak vivevano depredando i loro vicini, i Wyvilo, ma, quando abbandonarono i loro costumi immorali, dovettero trovare altri mezzi per sopravvivere: alcuni divennero abitanti dei boschi, come i Wyvilo; altri accettarono di lavorare alla Strada Reale nelle paludi di Ruwenda, una nuova e grande via voluta da mia sorella, la regina Anigel. I salari che offriva erano più che equi e molte migliaia di Glismak nella Stagione Secca si trasferirono a nord per lavorare alla strada. Tuttavia, durante l'ultima Stagione, alcuni di loro hanno cominciato a mostrarsi scontenti e scontrosi: hanno chiesto un raddoppio dei loro salari e altre cose che gli umani non erano in grado di concedere. Così i Glismak si sono ribellati... Hanno ucciso e sono stati uccisi. Sono quindi tornati nella foresta e ora quelli più avidi e arroganti impediscono a coloro che vorrebbero riprendere il lavoro di tornare alla Strada. È una triste faccenda, ma sto cercando di risolverla, come sto cercando di rimediare alle ingiustizie e alle diseguaglianze che ancora esistono tra l'umanità e altri Oddling della Penisola. Desidererei moltissimo aiutare anche voi, facendo da mediatore nella vostra disputa con Zinora. Il mio talismano, l'Occhio di Fuoco Trilobato che fa parte del
grande Scettro del Potere, assicurerà che sia la giustizia a prevalere.» Har-Chissa non disse nulla, ma altri capitribù espressero con alte grida la loro derisione. Kadiya ignorò quelle reazioni e rimase immobile con calma dignità alla testa del suo piccolo seguito di Oddling, con lo sguardo fisso sul talismano: pareva solo una spada scura e spuntata con i bordi smussati... proprio come Kadiya sembrava solo una femmina umana di statura media, con i capelli rossobruni, che indossava una tunica di squame di milligan dorate adorna dell'emblema di un Occhio Trilobato. Tra gli Aliansa, tutti avevano sentito raccontare che l'impugnatura della sua spada possedeva tre Occhi magici uguali a quello, in grado di uccidere con un fuoco senza fiamma coloro che erano i nemici della Signora o chiunque toccasse il talismano senza il suo permesso. E così il Grande Capo ricondusse al silenzio gli intemperanti e celò il proprio disprezzo per quella debole femmina umana: dunque voleva nominarsi protettrice degli Aliansa? Ma chi le aveva chiesto d'intromettersi nei loro affari? Senza dubbio era stato lo stesso re di Zinora, il suo compare umano! No, lei non era amica del Popolo del Mare; non si era mai neppure degnata di fare loro visita se non dopo che il giovane re Yondrimel aveva rivendicato le Isole Senzavento. Il Grande Capo aveva acconsentito a incontrarla quando Kadiya aveva fatto voto di aiutare l'Aliansa, ma adesso era chiaro che il tipo di aiuto che intendeva era la resa. Questa Signora degli Occhi non era altro che una pericolosa impicciona che però andava trattata con cautela, per evitare che imponesse loro la propria volontà con la forza. Quel talismano magico... senza di esso, sarebbe stata innocua. E lo stesso talismano... Ma il Grande Capo era comunque costretto a risponderle e l'onore dell'Aliansa imponeva che dicesse la verità. «Signora degli Occhi», esordì dunque in tono di austera cortesia, «ti ringraziamo per la preoccupazione che dimostri nei confronti del Popolo del Mare: ma se davvero vuoi aiutarci, ingiungi al re di Zinora di smettere di molestarci. Digli che respingiamo la sua pretesa di sovranità sulle Isole Senzavento e che, finché le Tre Lune correranno nel cielo, non commerceremo più con lui. Avvertilo che i suoi marinai andranno incontro alla morte se si avventureranno nelle barriere coralline, nei banchi di sabbia e nelle secche che proteggono questo luogo. Riferiscigli le mie parole e fai in modo che capisca che sono vere. Allora sarai amica sincera degli Aliansa. Non ho altro da dire.» Prese la spada; con un gesto deciso e minaccioso, la spogliò dei fiori e la rimise nel fodero. «Il mio Popolo sta preparando una festa di addio per te e
i tuoi seguaci: unitevi a noi quando sorgerà la Terza Luna. Con rispetto, ma con fermezza, ti chiediamo di lasciare queste isole prima del levar del sole e di affrettarti a tornare a Zinora.» Come unica reazione, Kadiya strinse i pugni, poi riprese il proprio talismano e fece cenno alla sua delegazione di alzarsi. Tutti salutarono con un cenno del capo i rappresentanti del Popolo del Mare e uscirono in fila indiana dalla capanna, nel crepuscolo azzurro. Quando furono sulla spiaggia, sotto gli alberi scossi dalla brezza e fuori portata delle orecchie degli Aliansa, Kadiya disse: «Amici miei, la mia missione è fallita; non sono stata abbastanza convincente e potrei persino aver peggiorato la situazione. Har-Chissa non ha fatto mistero di rifiutare sia me sia le mie proposte». «Pretendere che ce ne andiamo prima del levar del sole», commentò Lummomu-Ko scuotendo la testa, al ricordo del velato ordine del Grande Capo. «Tra i Wyvilo è un insulto mortale e credo che lo sia anche per il Popolo del Mare, nostro cugino.» Kadiya fece un sospiro che era in parte di esasperazione e in parte di angoscia. «Non abbatterti, Lungimirante», disse il vecchio Nyssomu Jagun, amico di Kadiya sin dall'infanzia e suo più fidato consigliere. «Questo conflitto tra il Popolo del Mare e Zinora è di vecchia data e non devi né affliggerti né sentirti in colpa per non essere riuscita a risolverlo al primo tentativo.» «Se solo fossi arrivata con qualche concessione da parte del re di Zinora!» replicò lei, amara. «Ma Yondrimel è testardo come un volumnial e pensa soltanto a dare una dimostrazione di forza agli altri governanti che interverranno alla sua incoronazione.» «Tu hai fatto del tuo meglio per persuaderlo», insistette Jagun. «In futuro, se gli Aliansa dimostreranno di essere irremovibili per quel che riguarda la ripresa dei commerci, forse il re sarà disposto ad ascoltarti. È giovane e può ancora imparare la saggezza. Le bevande e i preziosi coralli delle Isole Senzavento sono molto apprezzati a Zinora e anche le perle costituiscono una fetta importante dei loro commerci con le altre nazioni.» La squadra di guerrieri Wyvilo che costituiva la guardia del corpo di Kadiya si allontanò per sgranchirsi le gambe prima della festa, ma Jagun e Lummomu-Ko si sedettero con lei sulla sabbia a guardare il mare. I monsoni erano finiti e le acque attorno all'Isola del Consiglio erano come uno specchio di metallo scuro in cui si rifletteva la prima delle Tre Mezze Lune. Qua e là all'orizzonte piccole isole, faraglioni e archi di pietra si sta-
gliavano neri tra le prime stelle. La nave varoniana che aveva portato la delegazione di Kadiya era all'ancora a una lega circa di distanza, in mezzo alla barriera corallina, illuminata a giorno. All'equipaggio umano era stato vietato di sbarcare. «Allora torneremo a Zinora, come ci ha intimato Har-Chissa?» chiese Lummomu-Ko. Nel fisico, l'Oddling assomigliava agli Aliansa: era alto e robusto, e i tratti del viso erano meno umanoidi rispetto agli aborigeni delle Montagne e delle Paludi. Vestiva abiti eleganti all'ultima moda della nobiltà laboruwendiana, perché i Wyvilo erano vanitosi quanto onesti e coraggiosi. «Andare a Zinora ci servirebbe a ben poco, amico mio», rispose Kadiya. «Raggiungeremmo Taloazin nel pieno dei festeggiamenti per l'incoronazione e non ho il minimo desiderio di riconoscere il mio fallimento davanti a tutti i reali del mondo. No, è meglio che mi limiti a mandare una lettera a Yondrimel: parleremo in seguito, quando il mio insuccesso non potrà più danneggiare il prestigio di mia sorella Anigel.» «Ma di che danni parli, Lungimirante?» chiese Jagun strabiliato. «Non può certo esserci una relazione tra le rimostranze degli Aliansa e la lontana Laboruwenda.» Kadiya rise senza allegria e accarezzò i tre lobi neri dell'elsa della spada: il giglio d'ambra prese a splendere e la luce a pulsare. «Quel giovane re di Zinora è un uomo di sconfinate ambizioni: ricaverebbe un piacere particolare a mettere in risalto il mio fallimento di fronte agli altri governanti, facendo loro notare che, sinora, non sono riuscita a conciliare neppure le dispute degli altri Popoli con il regno di Laboruwenda. Si vanterà dei suoi piani grandiosi per distruggere gli Aliansa, e le sue parole costituiranno un velato affronto alla regina Anigel e a re Antar per non aver saputo trattare con la stessa durezza il Popolo del loro regno. Presentando me come impotente e mia sorella e suo marito come incompetenti, re Yondrimel riuscirebbe ad accattivarsi i favori della regina reggente di Raktum.» «Continuo a non capire come questo potrebbe far del male a tua sorella», insistette il capo Wyvilo. «La regina Ganondri di Raktum vorrebbe espandere il proprio regno a spese di Laboruwenda», spiegò Kadiya. «Potrebbe detronizzare Anigel e Antar, se riuscisse a far apparire deboli i due monarchi agli occhi di certe fazioni umane del regno. L'unione tra Labornok e Ruwenda è molto fragile e sussiste in gran parte grazie al timore reverenziale che gli umani hanno verso i Tre Petali del Giglio Vivente. Se due di quei petali appaiono impo-
tenti e il terzo se ne sta rintanato lontano, nella sua torre tra le montagne, a occuparsi di affari occulti, l'unità del regno rischierebbe di crollare.» «Ma la regina Anigel e tu non potreste sottomettere i vostri nemici umani con i talismani magici?» chiese il capo Wyvilo. «No», rispose Kadiya, «proprio come io non potrei, con il mio talismano, costringere Yondrimel e gli Aliansa a fare la pace. Non è così che funzionano i talismani.» Lummomu-Ko alzò al cielo i grandi occhi. «La politica degli umani! Ma chi la capisce? Tra voi nulla è mai come sembra. Azioni che all'apparenza sono semplici e dirette nascondono motivazioni segrete; le nazioni non si accontentano mai di vivere e lasciare vivere, ma sono sempre pronte a tramare le une contro le altre per assicurarsi un maggiore potere... Perché gli esseri umani non riescono a trattare apertamente gli uni con gli altri, senza inganni, come un Popolo onesto?» «Mi sono fatta spesso la stessa domanda», rispose Kadiya con un sospiro, «ma non conosco la risposta.» Si alzò e scrollò via la polvere dagli abiti. «Amici miei, ora vi prego di lasciarmi sola fino a quando non si alzerà la Terza Luna e potremo andare insieme alla festa. Come avrete senza dubbio notato», disse indicando con un gesto l'ambra che pulsava insistente nell'elsa della sua spada, «il talismano mi segnala che una delle mie sorelle vuole parlarmi.» Jagun e Lummomu-Ko si alzarono, ma il capo Wyvilo disse: «Resteremo qui vicino e ti terremo d'occhio. Non mi è piaciuto l'umore degli Aliansa quando siamo andati via». «Non oserebbero mai aggredirmi!» esclamò Kadiya, raddrizzando la schiena e prendendo la spada. Lummomu-Ko abbassò il capo. «Certo che no. Ti chiedo scusa, Signora degli Occhi.» Lui e Jagun si diressero verso la battigia, il capo Wyvilo a passi misurati per non lasciare indietro il piccolo cacciatore, e si sedettero su uno spuntone roccioso a non più di cinquanta metri di distanza. Kadiya notò che tenevano comunque la testa voltata dalla sua parte. «Ridicolo», mormorò, poi sollevò l'Occhio di Fuoco Trilobato e chiese a bassa voce: «Chi mi chiama?» Uno dei tre lobi neri dell'elsa si divise e si aprì, rivelando un Occhio scuro, in tutto identico al suo, e alla mente le si presentò la visione di sua sorella Haramis. «Per il Fiore, era ora, Kadi! Perché non mi hai risposto subito? Ho pen-
sato che ti fosse successa qualche irreparabile disgrazia in quelle isole!» Kadiya mormorò: «Sto benissimo, solo che la mia missione è stata un fiasco solenne». E in poche frasi le raccontò quello che era successo alla conferenza. «Non tornerò a Zinora: la mia presenza renderebbe solo le cose più difficili per Ani e Antar. E poi dubito che riuscirei a trattarli con cortesia: siamo a un punto morto per quello che riguarda l'affrancamento del Popolo delle Paludi e della Foresta e sono furibonda per la mancanza di tatto e di decisione con cui hanno trattato la rivolta dei Glismak. Lo sanno che la civilizzazione dei Glismak è ancora agli inizi e se avessero trattato con più buonsenso gli insubordinati che lavoravano alla strada, quelli non avrebbero mai fatto ricorso alla violenza.» Haramis accantonò la questione con un gesto della mano. «Ne parleremo in un altro momento: ho notizie più importanti per te. Ma prima... Rifletti attentamente, sorella: di recente hai percepito attraverso il talismano o in qualche altro modo un dissesto nell'equilibrio del mondo?» «No di certo», fu la secca risposta di Kadiya. «Certe sottigliezze le lascio a te, Arcimaga. L'equilibrio degli Aliansa e dei Glismak è stato fino a questo momento la mia unica preoccupazione e non mi è rimasto molto tempo per le altre cose. Giacché ho fallito, ritornerò alla Palude Labirinto passando da Var e dal Grande Mutar e, attraversando le loro terre, cercherò di propiziarmi i Glismak. Mi recherò nuovamente nel Luogo del Sapere e chiederò consiglio al Maestro.» «Sì, certo, devi farlo. Ma avevo una valida ragione per chiederti dell'equilibrio del mondo. Kadi... ho avuto delle notizie che mi fanno sospettare che Orogastus sia ancora vivo.» «Che cosa? Ma è impossibile! Lo Scettro del Potere lo ha ridotto in briciole dodici anni fa quando abbiamo sconfitto re Voltrik.» «Era quello che credevamo tutti. Però un appartenente al Popolo che vive nella lontana Tuzamen, un omino di nome Shiki, ha rischiato la vita per venire a raccontarmi una strana storia. È stato costretto a guidare un gruppo di umani in un luogo che si trova al centro della calotta di ghiaccio e lì hanno salvato un Mago che vi era stato esiliato anni prima. Quell'uomo si faceva chiamare Portolanus e si tratta della stessa persona che si è impadronita del trono di Tuzamen.» «Ma guarda!» sbuffò Kadiya. «Ho sentito parlare di questo Portolanus di Tuzamen: a quanto pare non è altro che un novellino con un certo estro per la piccola magia. Il Dio Triuno sa che non ci vuole certo una magia potente per impadronirsi di una tana di vart come Tuzamen. Il tuo talismano ha ve-
rificato se il Grande Mago è proprio Orogastus?» «No», ammise Haramis. «Si rifiuta di dirmi se Orogastus è vivo o morto e non vuole fornirmi una visione di questo Portolanus. Non mi ha mai deluso in questo modo, prima. Ma anche se Portolanus non è Orogastus, potrebbe rappresentare un pericolo per noi e la nostra gente.» Nell'anima di Kadiya, un'emozione che non avvertiva più da anni riaffiorò lentamente come uno Skritek che emergesse dal suo stagno, e quell'emozione era la paura. Ma, non appena capì di che cosa si trattava, ne negò l'esistenza. «Se Orogastus è vivo, ci occuperemo di lui come abbiamo già fatto», dichiarò. «Noi Tre uniremo i nostri talismani nello Scettro del Potere e lo rispediremo all'oblio che si merita!» «Vorrei che fosse così semplice», sospirò Haramis con gli occhi velati, ma subito sorrise alla sorella. «In ogni caso, questo Portolanus deve ancora sfidarci apertamente e noi siamo già sull'avviso. Fai attenzione, sorella, e chiamami subito se per caso avverti anche solo un accenno di squilibrio nel mondo.» «Lo farò», promise Kadiya e la visione di Haramis scomparve. Molto dopo mezzanotte, Kadiya, Jagun, Lummomu-Ko e i quindici guerrieri Wyvilo ritornarono sulla spiaggia e s'imbarcarono nelle due piccole scialuppe che li avrebbero riportati alla nave. Il mare era calmo e nel cielo nero scintillavano le stelle e le Tre Mezze Lune. Tutti i membri della delegazione avevano mangiato troppo e soprattutto bevuto troppo kishati, liquore delizioso ma molto alcolico; la festa, invece di rallegrarli, li aveva immalinconiti: i Wyvilo non vedevano l'ora di tornare nella foresta di Tassaleyo, e Kadiya e Jagun avevano nostalgia del bellissimo Maniero degli Occhi che i Nyssomu avevano costruito per la loro protettrice umana, i suoi consiglieri e i suoi servitori lungo le sponde del fiume Globar, nella Palude Verde di Ruwenda. Con la testa pesante e insonnolita, Kadiya reggeva il timone di una delle due barche, mentre Jagun faceva lo stesso con l'altra. Lummomu-Ko, ai remi, con i suoi compagni e con i suoi guerrieri aveva intonato un lugubre canto dei vogatori. Le note basse e gutturali della canzone e lo stordimento del liquore impedirono a Kadiya di sentire certi piccoli ma nefasti rumori. La ragazza non si accorse di nulla fino a quando la calda acqua del mare che riempiva il fondo della barca non le arrivò alle caviglie. Gridò sorpresa e, nel medesimo istante, Jagun fece lo stesso dalla sua imbarcazione. «Lungimirante, stiamo colando a picco, aiutaci!»
«Stiamo affondando anche noi!» gridò. «Dirigetevi a una delle barriere, presto!» Erano ancora a più di mezza lega dalla nave, in un tratto cosparso di rocce aguzze, in acque profonde. I Wyvilo remavano come dannati, sollevando spruzzi schiumosi. Kadiya udì il grido di sollievo di Jagun: «Siamo sulla barriera corallina!» Sembrava che urlassero tutti; poi la chiglia della sua barca urtò contro qualcosa e la scialuppa oscillò violentemente. I Wyvilo abbandonarono i remi e si gettarono fuori bordo, salendo sulla barriera. «Io sto bene!» gridò Kadiya. «Pensate a voi!» Ma, nello stesso istante, si trovò improvvisamente con i piedi imprigionati in qualcosa, mentre la barca scompariva nelle acque scure. Lottò con tutta se stessa per liberarsi e non pensò di urlare sino a quando non fu troppo tardi e allora, costretta a trattenere il respiro, il suo grido si trasformò in un ansito strangolato. L'ultima cosa che vide, prima di sprofondare, furono Lummomu-Ko e uno dei suoi guerrieri che si tuffavano dalle rocce e nuotavano verso di lei. Scese lentamente verso il fondo, appesantita dalla corazza di metallo, sempre inspiegabilmente intrappolata nella scialuppa. Con movimenti frenetici cercò di liberare le gambe da quello che le imprigionava: non era legno e non era neppure una corda, ma qualcosa di ruvido e duro, che la tratteneva alle caviglie. Cercò di graffiarlo, ma la cosa continuava a tenerla stretta. Che cos'era? Se solo fosse stata più sobria e in grado di pensare lucidamente! L'acqua era piena dei piccoli puntini scintillanti delle meduse colorate, e fili di alghe luminescenti ondeggiavano e tremolavano attorno a lei. Era bellissimo... e lei stava annegando. Il petto le bruciava come un calderone di metallo fuso e l'aria cominciò a sfuggirle dai polmoni, mentre un sibilo ruggente le assordava le orecchie. Non era più in grado di trattenere il respiro e dalla bocca e dal naso cominciarono a uscire nuvole di bollicine che salirono verso l'alto, in mezzo alle alghe luminose. Anche il talismano nel suo fodero brillava, ma non della sua luce dorata, bensì di un verde acceso che le ricordò la piccola radice del Giglio che aveva seguito attraverso l'Inferno Spinoso tanti anni prima. Scalcia! Scalcia più forte! Liberati da quello che ti trattiene... Alla fine ci riuscì e per un attimo fu libera di nuotare, ma un istante dopo una gamba era di nuovo intrappolata e Kadiya si sentì trascinare sempre più in fondo. Troppo tardi si rese conto che qualcosa, o qualcuno, le aveva afferrato saldamente una caviglia. Artigli affilati penetrarono nella sua carne attraverso i lacci dei sandali e muscoli poderosi si tesero per contrastare i suoi tentativi di liberarsi.
Un impeto di rabbia la invase: gli Aliansa! Lummomu-Ko aveva ragione quando pensava che stessero tramando qualcosa! Le sembrava di non riuscire più a pensare ma continuò a lottare con tutte le forze che ancora le rimanevano. Il petto le bruciava in modo insopportabile... E poi, di colpo, il dolore cessò e la rabbia svanì. Smise di combattere e mentre affondava sempre più in mezzo alla nube di alghe luminescenti, si sentì invadere da un gran senso di pace. Aveva gli occhi aperti, ma il mondo diventava sempre più buio. In un ultimo barlume di coscienza afferrò l'Occhio di Fuoco Trilobato: se solo fosse riuscita a usarlo... se solo fosse riuscita a pensare a che cosa fare con il suo talismano... Lo strinse. La presa mortale alla caviglia scomparve di colpo: era libera e galleggiava nel buio. Ecco, pensò felice, così va meglio. Adesso poteva rilassarsi. Aprì le dita e il talismano le sfuggì: vide la luminescenza verde farsi sempre più piccola e poi scomparire. Dopo di che, non seppe più nulla. Kadiya aprì gli occhi: le faceva male la testa, come se fosse stretta in una morsa, e non vedeva altro che una nebbia colorata; un sapore acido e secco le bruciava in gola e le sembrava di non avere né corpo né membra. Passò parecchio tempo prima che ritornasse ad avvertire qualche sensazione al di sotto del collo e solo allora si arrischiò a muovere le braccia e le gambe. Aveva molto freddo, anche se indossava una morbida camicia da notte di lana. A poco a poco le si schiarì la vista e si rese conto di trovarsi nella sua cabina, sulla nave varoniana. La porta si apriva e si chiudeva dolcemente con il rollio della barca e, dal crepitio delle sartie e dal sibilo delle onde contro la carena, capì che stavano navigando a vele spiegate. Dopo alcuni infruttuosi tentativi, riuscì a chiamare Jagun; il suo vecchio amico arrivò a rotta di collo ed entrò nella cabina con un gran sorriso che mostrava gli affilati denti anteriori. Dietro di lui arrivarono Lummomu-Ko e il comandante umano della nave, Kyvee Omin. Le si affollarono tutti intorno, mettendole altri cuscini dietro la schiena, in modo che potesse sedersi. Jagun le fece bere un po' di liquore di ladu, per darle forza. «Che cos'è successo?» chiese lei. «Sono stati gli Aliansa», rispose tranquillo il capo Wyvilo. «Sono ottimi
nuotatori, quei diavoli, anche più bravi di noi. Hanno forato le scialuppe e poi ti hanno trascinata sotto. Ti ho vista andare a fondo e mi sono tuffato con Lam-Sa. Abbiamo capito subito quello che era successo. Quando alla fine hai preso il talismano, l'Aliansa che ti teneva per la caviglia si è allontanato a nuoto e Lam-Sa e io siamo riusciti ad afferrarti e a portarti in superficie e poi sulle rocce. Sembrava proprio che fossi morta, ma Jagun non ha voluto saperne e ha continuato a darti il suo respiro.» «Grazie», disse lei, rivolgendo un sorriso di gratitudine all'amico Nyssomu. «Alla fine i Signori dell'Aria hanno riportato il tuo spirito nel tuo corpo», proseguì Lummomu-Ko, «e gli umani della nave hanno udito le nostre grida e sono venuti a salvarci.» Kyvee Omin si fece avanti: era un cittadino di Var, con i capelli grigi e il viso serio di un contabile, eppure, nonostante l'aspetto, era considerato il più intrepido comandante del Mare Meridionale. Kadiya aveva dovuto pagargli quasi mille corone di platino per convincerlo a portarla alle Isole Senzavento, dove nessun altro avrebbe osato avventurarsi. «Ho ordinato di salpare le ancore e allontanarci da quel luogo maledetto con tutta la velocità consentita dai rematori», disse. «Gli Oddling del Mare avevano allestito falò sulla spiaggia e i tamburi sacri avevano intonato il raduno di guerra. Se avessimo tardato, le loro grandi canoe avrebbero potuto raggiungerci prima che fossimo riusciti a uscire dal tratto senza vento e guadagnare il mare aperto.» «Quanto tempo ho dormito?» chiese Kadiya. «Venti ore», rispose Jagun. «Il vento è leggero ma teso, adesso che siamo fuori di quei maledetti faraglioni», aggiunse il comandante. «Dovremmo raggiungere il porto di Taloazin a Zinora in meno di sette giorni.» «No, non dobbiamo andare là! Dobbiamo tornare indietro!» Le mancò la voce e gemette, mettendosi una mano davanti agli occhi. La testa le doleva come se stesse per spaccarsi in due: perché dovevano tornare indietro? Sapeva che c'era una ragione, un motivo urgente... «C'è una notizia grave, Lungimirante», intervenne Jagun, avvicinandosi alla cuccetta; Kadiya vide che teneva in mano qualcosa: la cintura e il fodero della spada. «Il tuo talismano...» cominciò Nyssomu, ma non riuscì a proseguire. La mente confusa di Kadiya finalmente si schiarì, vide che il fodero era vuoto e ricordò.
«Non possiamo tornare alle isole», stava dicendo Kyvee Omin. «Non rischierò la mia nave in una battaglia contro quei selvaggi; io sono un commerciante, non comando un'imbarcazione da guerra. Eravamo d'accordo che ti portassi all'Isola del Consiglio e poi di nuovo a Var. Se hai delle ragioni per non voler sbarcare a Taloazin, possiamo attraccare a Kurzwe o in un altro porto zinoriano per rifornirci di cibo e acqua, prima di riprendere il viaggio verso est. Ma di tornare indietro non se ne parla nemmeno.» Kadiya si raddrizzò: con una luce minacciosa negli occhi e il viso contorto dall'ira, parlò con voce bassa e roca: «Dobbiamo tornare! Ho perso l'Occhio di Fuoco Trilobato! Lo sai che significa?» Il comandante fece un passo indietro, come se si trovasse davanti una furia. «No, Signora, non lo so. I tuoi amici hanno detto che è una calamità, ma questa disgrazia è colpa vostra e siete voi che dovete rimediare. Io non rischierò la mia nave e il mio equipaggio nel futile tentativo di recuperare la tua spada. Mentre eri priva di sensi siamo tornati rapidamente nel punto in cui sono state affondate le scialuppe e abbiamo appurato che il talismano è andato perduto in un largo canale tra due barriere coralline, dove l'acqua è profonda più di cinquanta metri. Nemmeno gli Aliansa possono scendere così in basso. Il talismano è perduto per sempre.» «No», sussurrò lei, chiudendo gli occhi in un gesto di disperazione. «Oh, no!» Gocce di sudore le imperlarono la fronte e rimase in silenzio per molto tempo. Jagun le s'inginocchiò accanto, a testa china, prendendole una mano inerte tra le sue. Il comandante scambiò un'occhiata con Lummomu-Ko, poi uscì dalla cabina senza una parola. Quando Kadiya riaprì gli occhi, sul suo viso si era disegnata un'espressione risoluta. «Miei cari amici», disse, «Kyvee Omin ha ragione: non posso pretendere il suo aiuto. Se non vuole tornare alle Isole Senzavento, allora dovrò trovare un altro comandante che lo farà. Per fortuna ho ancora molto denaro. Mi farò sbarcare da Kyvee Omin a Kurzwe. Naturalmente voi potrete continuare il viaggio fino a Var e da lì, risalendo il Grande Mutar, fino a Ruwenda...» «No», rispose il robusto capo Wyvilo in tono che non ammetteva repliche. Le orecchie di Jagun tremavano d'indignazione e i suoi grandi occhi dorati brillavano. «Lungimirante, come puoi pensare che ti abbandoniamo?» Lei guardò prima l'uno poi l'altro. «Senza il mio talismano non sono più la Signora degli Occhi, non sono più degna di chiamarmi Grande Avvoca-
to del Popolo. Non sono più nessuno, solo Kadiya.» Spostò le gambe oltre il bordo del letto e le appoggiò a terra: i graffi e i segni degli artigli le arrossavano le caviglie. «Le possibilità che riesca a recuperare il talismano sono molto poche... mentre sono molte quelle che hanno gli Aliansa di portare a termine con successo un secondo tentativo di assassinio dopo aver fallito il primo.» «Anche così», disse Lummomu-Ko, «i miei fratelli Wyvilo e io saremo al tuo fianco.» Con gli occhi pieni di lacrime, Kadiya si mise in piedi; barcollava un po' e allora l'alto Wyvilo e il piccolo Nyssomu la presero ciascuno per una mano e l'aiutarono a raggiungere la panca di un tavolino posto davanti a un oblò. «Grazie, miei carissimi amici. Col tempo mia sorella l'Arcimaga verrà a sapere che cos'è successo, anche se non sono più in grado di comunicare con lei, e di certo troverà un modo per aiutarci... Tuttavia, fino a quel momento, vediamo di darci da fare cercando educatamente di spremere il comandante e il suo equipaggio. Io comincerò con il copiare le carte nautiche di Kyvee Omin: questo posso farlo, anche se sono ancora troppo debole per andare in giro. «Lummomu-Ko», disse rivolgendosi al capo Wyvilo, «tu e i tuoi guerrieri interrogate i marinai per sapere in che modo si può sopravvivere nelle Isole Senzavento: i cibi che crescono spontanei in quei luoghi, i molluschi commestibili e quali cose sono velenose o pericolose... qualunque cosa sulle isole e sui loro abitanti. I marinai che collaboreranno riceveranno un compenso.» «E io, Lungimirante?» chiese Jagun. «Cerca d'imparare tutto quello che puoi sull'arte di navigare, amico mio», rispose lei con un sorriso cupo, «e io farò lo stesso. Perché ho paura che l'unico modo in cui potremo tornare alle Isole Senzavento sia per conto nostro.» 4 La galea reale doppiò il promontorio, entrando nella Baia delle Perle, e subito i tre ragazzi si arrampicarono sulle sartie con l'agilità di un vart, mentre Immu, la loro balia Nyssomu, li osservava apprensiva dal ponte, implorandoli inutilmente di scendere. «Quante navi! La baia è piena di vascelli!» esclamò il principe ereditario
Nikalon, di undici anni, che possedeva un piccolo cannocchiale e si era arrampicato sull'albero più alto. «Ce ne sono due di Imlit e una di Sobrania e tre che battono bandiera di Galanar... E guardate: quattro da Raktum! Vedete quella grossa trireme scura con i bordi dorati e un centinaio di vessilli? Dev'essere la nave della malvagia regina Ganondri di Raktum!» «Tocca a me guardare con il cannocchiale!» piagnucolò il principe Tolivar, che aveva otto anni, ma a causa dell'aspetto gracile sembrava più piccolo. «Niki l'ha tenuto tutto il mattino! Voglio vedere la malvagia regina!» Quando Nikalon rifiutò di dargli il cannocchiale, Tolivar cominciò a piangere. «Jan, Jan, digli di darmelo!» «Ragazzi, scendete subito di lì!» gridò Immu. «Sapete che vostra madre vi ha proibito di fare cose pericolose!» Ma i rampolli reali ignorarono la balia, proprio come non prendevano in considerazione quasi tutti i tentativi della regina Anigel di mettere un freno al loro comportamento e accettavano allegramente le punizioni conseguenti. «Non piangere, Tolo», disse la principessa Janeel, che aveva dieci anni ed era molto matura per la sua età. «Mi occupo io di quell'egoista di Niki.» Si arrampicò vicino al fratello maggiore e cominciò a fargli il solletico. I due presero a dondolare sulle corde a più di dieci metri di altezza, mentre la povera vecchia Immu gridava inorridita. Ma fu questione di un attimo per l'agile principessa afferrare il cannocchiale dalle mani di Nikalon, che rideva impotente. Poi, ondeggiando, tornò da Tolivar e insieme guardarono attraverso lo strumento, mentre il principe Niki rideva e si arrampicava più in alto, verso la coffa. Il cannocchiale, regalo speciale del padre, re Antar, per il viaggio, non era un semplice cannocchiale da marinaio, ma un oggetto magico degli Scomparsi. Il tubo era di un materiale nero che non era né metallo né legno e, su un lato, si trovavano tre protuberanze colorate che, se schiacciate, avvicinavano l'immagine. Un'altra sporgenza argentea, più grande, permetteva di usare il cannocchiale di notte, anche se le immagini erano poco più che sagome sfocate di colore verdastro. Il cannocchiale pareva più una cosa viva che non un oggetto inanimato, perché per funzionare doveva essere lasciato al sole, come le piante. Una volta, durante quel viaggio, il principe Tolivar lo aveva nascosto nel suo baule per un giorno intero, fingendo che fosse andato perduto, con la speranza di poterci giocare da solo senza doverlo dividere con il fratello e la sorella. Ma quando aveva cercato di usarlo, non aveva visto altro che buio ed era corso piangendo dal re. Dopo a-
verlo sgridato per il suo egoismo, il padre gli aveva spiegato che, come molti altri oggetti misteriosi degli Scomparsi, il cannocchiale si nutriva della luce del sole. Tolo studiò la grande nave della regina reggente Ganondri di Raktum. Aveva tre ordini di remi, non due, come l'ammiraglia di Laboruwenda, ed era almeno due volte più lunga, con un enorme rostro sulla prora per speronare le navi nemiche. Sulla vela di maestra e di trinchetto era dipinta una fiamma d'oro stilizzata, l'emblema dello stato pirata. Tolo fu molto deluso, non scorgendo traccia delle terribili macchine da guerra che lanciavano zolfo fuso o pietre incandescenti sulle navi dei nemici di Raktum. Invece, cavalieri in armature luccicanti e dame dagli abiti sgargianti si affollavano attorno alla poppa reale, dove un tendone riparava un trono d'oro. «La regina malvagia dev'essere ancora a letto», disse Tolo alla sorella. «Vedo il trono sulla poppa della nave, ma è vuoto. Guarda anche tu, Jan.» La principessa Janeel scrutò attraverso il tubo magico. «Che splendida nave! I raktumiani devono essere molto ricchi.» «Sono pirati», le fece notare Tolo, «e i pirati sono sempre ricchi. Mi piacerebbe essere un pirata.» «Che sciocchezza: i pirati uccidono la gente, rubano e tutti li odiano.» Voltò il cannocchiale verso l'esotica nave sobraniana che proveniva dalle più remote regioni del Lontano Ovest. «Il Maestro degli Animali Ralabun dice che, quando sarai più grande, dovrai sposare il nipote gobbo della regina malvagia», disse Tolo con un sorrisetto cattivo e soddisfatto. «Quando sarai regina dei pirati, potrai nominare pirata anche me.» La principessa Janeel abbassò lo strumento e rivolse un'occhiataccia al fratello. «Io non sposerò nessuno! E se dovessi sposarmi, certo non prenderei come marito un orrore come Ledavardis. La zia Kadiya dice che, quando sarò grande, se voglio posso andare a vivere nel suo maniero segreto nella Palude Verde. Ed è quello che farò!» «Oh, no, che non lo farai! I principi e le principesse non possono fare quello che gli pare come la gente comune. Niki sarà re di Laboruwenda e dovrà sposare un'altra persona di sangue reale e lo stesso farai tu. Ma io sono di troppo, come principe, e se voglio posso diventare un pirata! Adesso ridammi il cannocchiale: voglio vedere se davvero i sobraniani hanno le piume, come dice Ralabun.» Con un gesto rabbioso, Janeel gli porse il cannocchiale e cominciò a scendere dalle sartie. I ragazzi... Ma che ne sapevano, loro? Ciò nonostan-
te, quando raggiunse sana e salva il ponte e la balia, non prestò ascolto alla sgridata di Immu e neppure al suo suggerimento di scendere sottocoperta a bere qualcosa di fresco, ma trascinò la donna Nyssomu verso la murata, dietro alcune casse del carico, dove potevano parlare senza essere ascoltate. «È vero che dovrò sposare Ledavardis di Raktum quando sarò grande?» chiese la principessa. La balia scoppiò in una risata. «Ma no! Chi ti ha messo in testa una simile assurdità, tesoro?» «Tolo», borbottò Janeel. «Sostiene che gliel'ha detto Ralabun.» Sul volto non umano di Immu si disegnò un'espressione indignata e le orecchie che spuntavano da sotto il copricapo di batista tremarono come foglie scosse dal vento. «Ralabun... Ralabun... Ralabun! Gli schiaccerò la testa finché non schizzeranno fuori gli occhi! Quello sciocco chiacchierone dovrebbe occuparsi di pulire le stalle reali e lasciare gli affari di Stato a chi ne sa più di lui!» «Allora non è vero?» Immu prese con dolcezza il volto della fanciulla tra le mani a tre dita. La principessa era alta come lei e gli enormi occhi dorati della balia fissarono quelli nocciola della sua pupilla. «Ti giuro per i Signori dell'Aria che i tuoi amati genitori morirebbero piuttosto che vederti sposata a quel reucolo di Raktum. La diceria che quello sciocco di Ralabun ha riferito a tuo fratello Tolo è stata messa in giro dai nemici dei Due Regni, Lord Osorkon e quelli come lui. È una menzogna.» Baciò la principessa e poi si diede da fare con le sue trecce, che durante la scalata sulle sartie si erano disfatte. Jan non possedeva l'eccezionale bellezza della madre, ma aveva un viso grazioso, cosparso di lentiggini, occhi vivaci e intelligenti e una massa di capelli lucenti di un caldo biondo castano, che le arrivavano fino alla vita quando non li raccoglieva in trecce. «È vero che le principesse non possono scegliersi il marito?» insistette Janeel. «In quanto a questo», rispose brusca Immu, «alcune lo fanno e altre no. Quando tua zia Haramis era principessa ereditaria di Ruwenda, prima di diventare la Bianca Signora e prima che i Due Troni venissero uniti, il malvagio re Voltrik di Labornok aveva chiesto la sua mano. Il re Kreyn e la regina Kalanthe rifiutarono, perché quel matrimonio avrebbe significato la conquista di Ruwenda da parte di Labornok, che è una cosa molto diversa dall'Unione dei Due Troni. La principessa Haramis acconsentì a sposare
un principe di Var, anche se non lo amava, perché lui era disposto a diventare co-reggente di Ruwenda. Tua zia dunque antepose il benessere del paese alla sua felicità, come era suo dovere.» «Ma la zia Haramis ha rinunciato al trono!» «Sì, e la corona passò a tua zia Kadiya, che vi rinunciò, e poi alla tua cara madre che era molto più adatta delle sue sorelle a essere regina. Il feroce re Voltrik era morto e Antar, tuo padre, era re di Labornok: lui e tua madre si amavano molto e si sposarono. Ora governano i Due Regni, trascorrendo la Stagione Arida alla Cittadella, alla corte di Ruwenda, e la Stagione delle Piogge al palazzo di Derorguila a Labornok.» «Ma Niki potrà sposare la principessa che ama e fare di lei la sua regina? E io potrò scegliere il mio principe?» Immu esitò. «Spero sarà così, tesorino, lo spero con tutto il cuore. Ma il futuro è noto solo al Dio Triuno e ai Signori dell'Aria che sono i suoi servitori ed è meglio che le ragazzine non si preoccupino di certe cose. Non sposerai nessuno per molto, molto tempo ancora... ma adesso andiamo nella cabina guardaroba! Attraccheremo nel porto di Taloazin tra poche ore; dobbiamo scegliere un bellissimo abito per te e acconciarti i capelli con un diadema di pietre preziose. Dobbiamo mostrare agli arroganti cittadini di Zinora che la casa reale di Laboruwenda è molto più sfarzosa di quel loro piccolo regno tronfio.» Il principe ereditario Nikalon era in coffa con un giovane marinaio di nome Korik, del quale era diventato amico durante le due settimane di viaggio da Derorguila. A differenza del resto dell'equipaggio, che s'inchinava deferente e lo chiamava vostra altezza (salvo poi definirlo un moccioso pestifero alle sue spalle e negargli l'accesso alle parti più interessanti della nave, dove la regina Anigel aveva proibito l'ingresso ai figli), Korik aveva avuto compassione di quel ragazzino annoiato e gli aveva mostrato ogni cosa, dalla stiva alla prigione posta a prua, e gli aveva insegnato di nascosto come arrampicarsi sugli alberi (e poi Niki lo aveva insegnato alla sorella e al fratellino). Korik gli aveva spiegato come funzionavano le vele e le cime, perché la nave bordeggiava quando il vento spirava in una certa direzione, perché si ammainavano le vele durante una tempesta e perché gli uomini liberi erano rematori migliori degli schiavi, rispondendo come meglio poteva a una miriade di altre domande. Grato di quelle attenzioni, Niki gli aveva promesso di farlo ammiraglio quando fosse diventato re. Il giovane marinaio aveva riso a quelle parole,
ribattendo che gli ammiragli dovevano passare troppo tempo a corte, presenziare a noiose riunioni del consiglio e riempire noiosissime carte. Lui non voleva altro che essere comandante di una nave sua. «E allora», aveva detto a Niki, «sarò il primo a fare vela per le più lontane parti del mondo conosciuto, al di là di Sobrania, anche al di là della Terra dei Barbari Piumati. Farò tutto il giro del mondo, attraverso le isole congelate del terribile Mar dell'Aurora, costeggiando il Ghiacciaio Eterno, finché non giungerò ai freddi deserti oltre Tuzamen. E allora scenderò attraverso le Isole Fiammeggianti e sfiderò i pirati di Raktum per tornare sano e salvo a Derorguila.» «Non lo ha mai fatto nessuno, prima?» chiese stupefatto Niki. «Nessuno», rispose orgoglioso Korik. «Hanno tutti paura del Mar dell'Aurora circondato dal ghiaccio e dei mostri marini. Ma io non temo nulla.» Poi rivolse a Niki un'occhiata intensa. «Un viaggio di esplorazione come quello costerebbe un mucchio di denaro, ma il re che se ne facesse promotore sarebbe ricordato per sempre. E io gli porterei piante rare, animali e altre cose meravigliose e, chissà, magari anche la conoscenza di altre città dimenticate degli Scomparsi nelle quali sono nascosti tesori più grandi e fantastici di quelli scoperti fino a oggi.» «Promuoverò io quel viaggio!» aveva proclamato il ragazzino, però il marinaio si era messo a ridere, facendogli notare che sarebbero passati anni e anni prima che fosse incoronato re, perché re Antar era giovane e in ottima salute e, quando fosse morto, Nikalon avrebbe di sicuro dimenticato le sue promesse. «Io non me ne dimenticherò», aveva affermato il principe ereditario. E mentre fissava la sponda al di là del mare luminoso su cui sorgeva la capitale di Zinora, Niki cercava d'immaginarsi che cosa volesse dire essere un re giovane come Yondrimel di Zinora, che poteva promuovere esplorazioni o compiere altre grandi imprese. Che cosa provava il re di Zinora alla vigilia dell'incoronazione durante la quale avrebbe ricevuto gli omaggi di tutti i governanti del mondo? Certo, il diciottenne Yondrimel era già il governante della sua nazione e la corona era sua per diritto ereditario, ma quella cerimonia aveva lo scopo di legittimare il suo regno agli occhi degli altri paesi, per mostrare a tutti che egli era un vero sovrano... non un burattino deforme come il rebambino Ledavardis di Raktum, quasi coetaneo di Yondrimel al quale però il trono veniva negato dalla potente nonna. Re Antar aveva spiegato che alla sua incoronazione il re di Zinora sperava anche di stringere delle alleanze che avrebbero rinforzato il suo trono.
Anche se aveva solo undici anni, il principe Nikalon era già in grado di comprendere la grande importanza delle coalizioni. Laboruwenda era alleata di Var e delle Isole di Engi; avevano un trattato di Ubero scambio e si univano per combattere i pirati che minacciavano le loro navi, rifiutandosi di concedere asilo ai criminali che entravano nei loro confini. Re Antar e la regina Anigel speravano di stringere un patto simile con il re di Zinora; ma anche Raktum, il maggiore nemico di Laboruwenda, voleva fare la stessa cosa e aveva già inviato a Yondrimel migliaia di corone di platino e molte ceste di pietre preziose come dono per l'incoronazione. Niki si chiese se il giovane monarca di Zinora avrebbe ceduto alle lusinghe della regina dei pirati. La regina malvagia era così ricca! Stavano passando accanto alia flottiglia raktumiana. Il legno dorato delle murate dell'enorme trireme splendeva nel sole e le centinaia di stendardi appesi alle sartie facevano molta scena. Le altre tre navi scure erano quasi altrettanto sfarzose... Raktum era proprio ricco! All'incoronazione dovevano seguire un grande banchetto e fastosi festeggiamenti, e si sussurrava che la maggior parte dei costi di quella cerimonia fosse sostenuta dal malvagio regno di Raktum. Niki aveva chiesto al padre e alla madre perché gli altri governanti non mettevano al bando la nazione pirata, ma i genitori si erano limitati a sospirare, rispondendo poi che i grandi affari di Stato non erano semplici come le questioni ordinarie e che avrebbe capito meglio quando fosse stato più grande. Chissà perché, Niki dubitava che sarebbe stato così. Il principe Tolivar alla fine si stancò di guardare attraverso il cannocchiale ed ebbe un'idea grandiosa: scendere e offrire in prestito a sua madre quel meraviglioso giocattolo. Per una ragione imprecisata, la mamma era apparsa molto triste a colazione e quell'offerta avrebbe potuto rallegrarla. Tenendo il tubo magico fra i denti, il ragazzino scivolò lungo le corde, saltò sul ponte e si avviò verso prua. Girando attorno al cassero, per poco non andò a sbattere contro il padre e Lord Penapat, che stavano pescando. Cercò di scappare, ma le grandi braccia dello zio Peni lo afferrarono e lo tennero sospeso in aria, mentre lui si contorceva e si agitava come un sucbri appena estratto dal guscio. «Hai visto la mamma?» chiese il giovane principe al re. «Ho pensato che forse le piacerebbe guardare Zinora e le altre grandi navi attraverso il mio cannocchiale.»
«Si sta occupando di alcuni documenti ufficiali con Lady Ellinis, come al solito. Puoi darle il cannocchiale, ma non trattenerti a lungo e non distrarla con le tue chiacchiere.» «Non lo farò, Sire.» Il bambino partì di corsa, con i capelli chiari che sventolavano nella brezza. Penapat scosse il capo con affetto. «Che ragazzino vivace! Lui, il suo reale fratello e la giovane principessa hanno dato un bel da fare alla ciurma durante questo viaggio, mio signore.» Il re rise, rimise l'esca sulla canna e gettò l'amo. Poi un'espressione cupa si disegnò sul suo viso. «Spero che non sia stato un errore portarli all'incoronazione. Io non volevo, ma Anigel ha insistito, dicendo che era loro dovere incontrare altri reali e imparare a socializzare con gli stranieri... Ma il pericolo è sempre in agguato negli affari in cui è coinvolto Raktum. E, come sappiamo, quel paese è molto coinvolto in questa cerimonia.» Penapat annuì. «Ringraziamo Zoto che la regina Ganondri ha solo uno sfortunato nipote e non una nipote che potrebbe far sposare a Yondrimel, altrimenti un'alleanza sarebbe stata una cosa sicura.» «Raktum è molto lontano da Zinora e, per quanto Ganondri possa guardarci con disprezzo, questa faccenda non è una preoccupazione concreta per i Due Troni. Ma continuo ad avere un brutto presentimento per aver portato anche i ragazzi.» Penapat appoggiò il gomito alla murata e guardò le navi raktumiane che si trovavano ora a poca distanza; sull'ammiraglia della regina reggente si vedevano chiaramente le figure dei marinai e dei passeggeri che fissavano con aria stolida la flotta laboruwendiana. «Nemmeno la regina Ganondri potrebbe essere tanto spudorata da tentare qualcosa contro di noi sotto gli occhi delle case reali e dei nobili di sette nazioni testimoni di qualunque oltraggio», disse Penapat. «E neppure correrebbe il rischio di mettersi contro re Yondrimel causando un incidente proprio alla sua incoronazione.» «Senza dubbio hai ragione, Peni. Forse dovrebbe preoccuparci di più la presenza del Signore di Tuzamen.» Il corpulento ciambellano esclamò, sorpreso: «Tuzamen? Allora hanno deciso di mandare una delegazione?» Il re annuì. «Me lo ha comunicato il comandante, prima di colazione. Quel veloce cutter engiano che ci ha sorpassati questa mattina presto ha segnalato che dietro di noi sta avanzando lenta una galea tuzamena. Senza dubbio, il cosiddetto Signore di Tuzamen è a bordo. La sua insegna con la
stella garriva sul pennone. Credo che possiamo dedurne che un ospite inatteso ha deciso di onorare il giovane re Yondrimel presenziando alla sua incoronazione.» «Per le Pietre di Zoto! Questo spiega perché la regina Anigel aveva un'aria tanto affranta.» «Appunto. Questa pessima notizia, ricevuta subito dopo aver appreso dall'Arcimaga che sua sorella Kadiya aveva perso il suo talismano, ha riempito la mia amata moglie di cupi presentimenti e io non me la sento di biasimarla. Ha persino tolto il suo talismano dalla Corona di Stato e lo ha nascosto sotto gli abiti, affermando che, finché resteremo a Zinora, non se ne separerà mai, né di giorno né di notte.» «Sire, ritenete possibile, nonostante le nostre spie ci assicurino del contrario, che questo Portolanus di Tuzamen sia il Mago Orogastus ritornato dal regno delle tenebre?» «Che Dio abbia pietà di noi e del nostro Popolo se fosse così. Ricordi come quello stregone malvagio aveva plagiato mio padre, trasformandolo da uomo duro ma onesto in un pazzo trascinato da una folle ambizione? Il Mago si era insinuato nella posizione di gran ministro di Stato, ma io credo che in realtà intendesse proclamarsi successore di Voltrik dopo avermi assassinato. Ancora adesso il seme del suo tradimento e della sovversione persiste negli intrighi e nelle rivolte lungo le marche settentrionali con il confine di Raktum, fomentate segretamente da Lord Osorkon e dai suoi amici. Se il Mago Orogastus è davvero vivo, allora non si può più considerare Tuzamen come un paese barbaro e arretrato, perché di certo egli userà le sue arti oscure per trasformarlo in una nazione potente...» «...e la regina Ganondri si alleerà con lui contro di noi», terminò cupo Penapat. «Può darsi.» Socchiudendo gli occhi, Antar osservò la grande galea raktumiana. «Ma la regina non è una sciocca e gioca secondo le sue regole.» Si raddrizzò, sorrise e batté sulla spalla del vecchio amico. «Allegro, Peni; una settimana di feste e bagordi, manovre diplomatiche e intrighi di bassa lega ci attendono a Taloazin. Smettiamola con questa pesca infruttuosa e andiamo a distogliere i nostri prodi Lord dal gioco d'azzardo e dall'alcol, perché devo assicurarmi che le loro armature luccichino come specchi e le loro spade siano ben affilate.» La regina Anigel ringraziò con affetto il suo figlio più giovane per averle prestato il cannocchiale, poi lo baciò e gli ordinò di andare da Immu a fare
un bagno e a cambiarsi d'abito. Dopo che il ragazzino si fu allontanato con aria triste, la regina mise da parte il cannocchiale e sospirò. «Tolo dimentica che non ho nessun bisogno di cose come queste per vedere lontano.» «Il vostro talismano naturalmente assolve a quella funzione. Come a molte altre», commentò Lady Ellinis, il ministro per gli Affari Interni dei Due Troni, alzando lo sguardo da un documento. Era un'anziana dama di molto buonsenso e intelligenza, vedova di quel Lord Manoparo dei Compagni Fedeli che aveva sacrificato la propria vita nel vano tentativo di difendere la madre di Anigel. Ellinis e i suoi tre figli erano i più intimi consiglieri della regina, come Lord Penapat, il cancelliere Lampiar e il Lord maresciallo Owanon lo erano di Antar. Da sotto il semplice abito azzurro, Anigel trasse il magico talismano chiamato il Mostro dalle Tre Teste e lo posò sulla testa ben pettinata. A dispetto del temibile nome, era un diadema di lucido metallo argentato con sei cuspidi piccole e tre più grandi a foggia di fiori, conchiglie e tre volti grotteschi: uno raffigurava uno Skritek, un altro un umano con la bocca aperta in un grido di agonia e quello centrale un essere dalla smorfia feroce con raggi stilizzati a rappresentare i capelli. Sotto quel volto era incastonata una goccia d'ambra luminescente nella quale era racchiuso il minuscolo Giglio Nero fossile che era stato il suo amuleto protettivo dal momento della nascita fino a quando non aveva portato a termine la sua ricerca e trovato il talismano. «Vogliamo spiare insieme la regina dei pirati?» suggerì Anigel. «Il talismano dividerà con te la visione, se io glielo chiederò. Solo che sarà un'apparizione breve, perché invocarla per due persone richiede molta concentrazione.» Gli occhi scuri del ministro s'illuminarono d'interesse. «Apprezzerei molto l'opportunità di vedere Ganondri, mia signora. Non la incontro da quattro anni prima della vostra nascita, quando il suo defunto figlio Ledamot sposò la sfortunata Mashira di Engi. A quel tempo Ganondri era una splendida creatura, orgogliosa ma di temperamento riservato. Mi rendo conto che sembra incredibile, vista la reputazione che ha ora.» «Prendimi la mano», le ordinò Anigel, poi chiuse gli occhi e invocò la magia del talismano. Videro una cabina della nave tappezzata di costosi arazzi piumati di Sobrania e arredata con eleganti poltrone e cassettoni intagliati con intarsi di madreperla, corallo e pietre semipreziose. Vi erano alcuni bauli aperti dai quali spuntavano abiti fastosi che sfioravano il pavimento ricoperto di
spessi tappeti. A un tavolino da toilette laccato sul quale campeggiava uno specchio dorato, sedeva la regina reggente, che con la fronte aggrottata e gesti impazienti, provava le collane che le venivano porte da una spaurita dama di compagnia. Anigel ed Ellinis non udirono le parole della regina o della sua compagna, perché la visione arrivava solo all'occhio della mente. Nonostante l'età, Ganondri era ancora una bella donna, anche se il viso magro era segnato da una ragnatela di rughe sottili e appesantito da troppo trucco; la bocca aveva una smorfia petulante e gli occhi verdi, contornati da lunghe ciglia, brillavano cattivi. I capelli, ancora folti e acconciati nell'intricata foggia di moda tra le donne della semibarbara Raktum, avevano il colore del rame lucido spruzzato di appariscenti ciocche bianche. La regina indossava un abito di velluto verde mare, ricamato a fili di metallo prezioso e bordato di rara pelliccia di worram dorato. Dopo aver scartato una mezza dozzina di collier strabilianti e mormorato quella che doveva essere un'imprecazione, Ganondri si decise per un pesante girocollo di foglie di gonda tempestate di centinaia di smeraldi, con diamanti sparsi qua e là a imitazione di gocce di rugiada. La tremebonda dama di compagnia le porse dei grandi pendenti dorati, ma la regina li rifiutò e scelse invece dei bottoni con un diamante al centro. A quel punto Anigel lasciò andare la mano di Ellinis e la visione scomparve. «Il gusto di Ganondri in fatto di gioielli resta squisito», commentò Ellinis in tono malizioso, «ma non mi piacerebbe per niente incontrarla da sola e disarmata in un angolo buio del castello di Taloazin. Sembrava pronta a divorare quella povera dama se le avesse porto un'altra collana non adatta.» Il tono di Anigel era più severo. «È una formidabile nemica della nostra nazione, sia che sia di buono o di cattivo umore, e ha fomentato molto malcontento lungo i nostri confini settentrionali. Chissà se il giovane Yondrimel sarà tanto sciocco da fidarsi di lei?» «Se lo farà, signora, forse imparerà la lezione del sempliciotto che pensava di poter arrostire senza pericolo le salsicce sulla bocca di un vulcano!» Anigel sospirò e raccolse i documenti che aveva finito di guardare. «Per favore, portali a Lord Lampiar e ricordagli che Antar e io dobbiamo ancora firmare il messaggio di congratulazioni che accompagnerà i nostri doni a Yondrimel. Se lo scriba non ha finito di redigerlo, bisogna che si affretti: il regalo deve precedere la nostra delegazione e dev'essere inviato a palazzo
non appena attraccheremo a Taloazin.» Ellinis si alzò e raccolse le sue carte oltre a quelle della regina. Vedeva bene che Anigel era turbata e molto affranta alla prospettiva della cerimonia. Posò dolcemente una mano sulla spalla della sua signora. «Devo mandare Sharice con un po' di vino fresco e dei biscotti?» «No, grazie. Ho bisogno di riflettere a mente lucida su certe faccende.» «Non giudicatemi noiosa, mia signora, ma devo chiedervi di trovare il tempo di rinfrescarvi e di cambiarvi d'abito prima dell'arrivo.» «Sì, sì», rispose impaziente Anigel. «Non disonorerò il nostro paese presentandomi come una regina... stracciona.» «Sareste di una bellezza radiosa anche se appariste con una camicia da notte stropicciata», proseguì imperterrita Ellinis, «ma il nostro popolo resterebbe deluso e i nostri nemici ne godrebbero.» S'inchinò e uscì lasciando la regina sola alla piccola scrivania. Non si vedevano marinai o cortigiani in quella parte della nave. Il vento era calato quasi del tutto dopo che avevano doppiato il promontorio, e adesso a spingere la galea laboruwendiana attraverso la placida Baia delle Perle erano i remi. La trireme raktumiana e i tre vascelli che l'accompagnavano avevano superato tutte le altre. «E i tuzameni?» si chiese Anigel. Chiuse di nuovo gli occhi e invocò il talismano. Questa volta la visione fu molto più ampia e le portò anche i suoni. Si avvicinò a un quattro alberi solitario dipinto di bianco con la sensazione di essere un uccello che sorvolava le onde. Non vi erano stemmi sulla grande vela bianca di maestra, ma in cima al pennone sventolava un vessillo nero con una stella d'argento a molti raggi. «Mostrami Portolanus!» ordinò Anigel al talismano, e la visione si restrinse sul cassero di poppa della nave, dove il comandante e parecchi ufficiali erano raccolti dietro il timoniere. In mezzo al gruppo si scorgeva una figura sfocata e confusa che aveva la sagoma di un uomo. «Mostrami Orogastus!» L'immagine della nave svanì e al suo posto comparve un turbinio caotico di varie sfumature di grigio. Mentre Anigel emetteva un sospiro di frustrazione, il turbine cominciò a schiarirsi e a rimpicciolire finché non rimase che un'unica scintilla abbagliante di luce bianca, che lampeggiò e poi scomparve. «Mostrami Kadiya.» Un'altra nave, questa volta un veloce mercantile che batteva la bandiera
di Var e che si stava avvicinando rapidamente al minuscolo porto zinoriano di Kurzwe, circa quattrocento leghe a ovest della capitale Taloazin. Kadiya era distesa lungo il bompresso e teneva in mano una corda mentre sotto di lei il mare scorreva via veloce. Vista da vicino, la ragazza assomigliava più a una povera derelitta che non all'indomita Signora degli Occhi: il giubbotto di pelle era macchiato di acqua salata e i capelli pendevano spettinati in ciocche umide a causa degli spruzzi; ma gli occhi gonfi e il velo d'acqua sulle guance non erano certo dovuti agli schizzi e Anigel si sentì spezzare il cuore per la compassione. Povera Kadi! Era la più coraggiosa e fiera delle tre, quella che non vacillava e non dubitava mai delle proprie capacità, come faceva Haramis, né si lasciava travolgere dal lavoro o si preoccupava di cose di poco conto, come faceva la stessa Anigel. Certo, spesso Kadiya proponeva soluzioni semplicistiche a problemi molto complessi e a volte si lasciava trasportare dal suo carattere impetuoso, ma nessun essere umano amava gli aborigeni più di lei né era pronto a donare la propria vita per loro, se necessario. E ora si sentiva umiliata dalla perdita del proprio talismano e angosciata alla prospettiva di dover tornare in quelle isole pericolose con compagni che erano sì coraggiosi, ma che non sapevano quasi nulla di navigazione e di sopravvivenza in mare. Impossibilitata a comunicare con le sorelle e tuttavia certa che queste fossero a conoscenza della sua terribile perdita, non sapeva che Haramis e Anigel avevano già progettato un modo per recuperare il talismano una volta terminate le cerimonie dell'incoronazione. Fatti forza, cara Kadi! Hara e io ti aiuteremo a recuperare il tuo Occhio di Fuoco Trilobato. La figura distesa aveva forse sollevato il capo? Il suo viso si era forse rischiarato? Era possibile che l'avesse udita? Anigel pregò che fosse davvero così. Kadiya si asciugò gli occhi e si raddrizzò, mettendosi a cavalcioni del bompresso, non più sdraiata in equilibrio precario. Le lacrime cessarono e una nuova espressione pensosa e risoluta comparve sul suo viso. Sì, Kadi, sì! Ricorda che siamo Tre e siamo Uno! Poi Anigel rivolse un ultimo ordine al talismano: «Mostrami Haramis!» Sollevando la testa dalla grande carta che stava studiando in biblioteca, l'Arcimaga guardò la più giovane delle sue sorelle e sorrise. «Ti senti triste, Ani?» «Confesso che ho appena scrutato Kadiya, e vedere il suo amaro rimorso mi ha fatto male al cuore. Spero che tu abbia ragione, che il mio talismano, portato nel punto in cui il suo è affondato in mare, sarà in grado di ordinare
all'Occhio di Fuoco Trilobato di tornare dalla sua padrona.» «Andrà tutto bene», la rassicurò l'Arcimaga. «Nostra sorella non ha perso il talismano per incuria, ma solo per uno sfortunato evento. Dunque non ne ha colpa e la magia del quale è infuso e che lo lega a lei è rimasta intatta.» «Sarà», replicò Anigel, «ma avrei preferito andare subito a recuperarlo.» «Ne abbiamo già discusso: tu devi assolutamente presenziare all'incoronazione per il bene del tuo paese. Il talismano di Kadiya per il momento è al sicuro dove si trova e chiunque cercasse di toccarlo senza il suo consenso morirebbe. E Portolanus con il suo scrigno stellato non è neppure nelle vicinanze. Anzi, con ogni probabilità non sa neppure che Kadi lo ha perso.» «Sì, di certo hai ragione.» «Passerà un po' prima che Kadiya sia in grado di ritornare alle isole, anche se riuscisse a noleggiare una nave zinoriana. E se invece andranno da soli, lei e i suoi compagni dovranno procedere con molta cautela, restando in vista della costa fino a quando non raggiungeranno la più settentrionale delle isole, da dove scenderanno verso l'Isola del Consiglio. Quel posto è a oltre ottocento leghe di distanza da Zinora, anche percorrendo la rotta più breve. Se dovessi restare per tutta la settimana delle cerimonie dell'incoronazione, non dovresti avere nessun problema a raggiungerla con le tue navi che sono più veloci.» «Sì, sono d'accordo; non avrò nessun problema a rintracciarla con il Mostro dalle Tre Teste... immagino che i tuoi tentativi di parlare con lei a distanza non abbiano avuto successo.» «Purtroppo no», ammise Haramis. «Ho provato e riprovato, ma senza risultati. Binah, colei che mi ha preceduta, era sicuramente in grado di parlare a distanza con gli umani e con il Popolo, ma ha avuto molti anni più di me per fare pratica. Quando Kadiya non ha il talismano, anche se riesco a vederla e a sentirla chiaramente, non sono in grado però di comunicare con lei.» «Mentre la guardavo, poco fa», disse Anigel con una certa esitazione, «non ho potuto fare a meno di condividere la sua tristezza e di cercare di rallegrarla. E... e mi è sembrato che riuscisse in parte a sentire i miei pensieri.» «Sul serio? Forse sono il tuo profondo amore e la compassione che provi per lei a dare forza al tuo linguaggio mentale. Confesso che ultimamente sono stata parecchio arrabbiata con Kadi e senza dubbio questo influisce
negativamente sulla mia concentrazione. A volte dispero di riuscire a imparare a essere un'Arcimaga come si deve: studio, studio, ma quando poi si tratta di usare la magia, sono troppe le volte che fallisco.» «Che stupidaggine! È stata la vecchia Bianca Signora a sceglierti!» «Forse ha solo preso la mela meno bacata da un cesto di frutti con poche speranze... ma non devo assillarti con le mie noiose insicurezze. Terrò d'occhio con molta attenzione tutti i partecipanti allo spettacolo che sta per iniziare e t'informerò se mi accorgo di qualche trama nefasta. Che tu sia benedetta, sorellina, e stammi bene.» Quando l'immagine di Haramis scomparve, anche il buonumore e la speranza di Anigel sparirono. Con aria cupa, guardò verso prua, al di là delle tre navi laboruwendiane, verso l'orizzonte e l'alto promontorio che avevano da poco superato. Un'altra nave stava in quel momento entrando nella Baia delle Perle, una nave così bianca da essere distintamente visibile anche se lontana più di cinque leghe. Anigel non riuscì a staccare gli occhi e, come ipnotizzata, continuò a seguirne la lenta avanzata, fino a quando, un quarto d'ora più tardi, re Antar non arrivò a spazzare via i brutti pensieri con un bacio e a portarla a pranzo. 5 Quando il principe Tolivar, già stanco per la lunghissima cerimonia d'incoronazione tenutasi al Tempio della Madre, venne a sapere che il fratello maggiore Niki avrebbe indossato una spada in miniatura per il gran ballo e lui no, si mise a fare i capricci e rifiutò di farsi vestire da Immu. «Niki ha sempre le cose migliori solo perché lui è il principe ereditario», piagnucolò il bambino. «Non è giusto! Se non ho una spada anch'io, non vengo!» E scappò, costringendo i domestici a rincorrerlo per tutte le dozzine di stanze dell'ambasciata laboruwendiana, mentre fuori la carrozza attendeva e il re e la regina fremevano per il ritardo. Alla fine, due valorosi valletti riuscirono a trascinarlo via dalle cantine in cui si era nascosto e, incuranti dei suoi strilli, lo tennero sospeso in aria mentre Immu gli infilava l'abito di broccato rosso porpora. A quel punto il re Antar era così arrabbiato con quel figlio ribelle che come punizione dichiarò che Tolo non avrebbe più potuto usare il cannocchiale durante il viaggio di ritorno. «Tu mi odi!» strillò il ragazzino furibondo e in lacrime. «Tratti sempre
Niki meglio di me, ma io scapperò a Raktum e diventerò un pirata! E allora sì che rimpiangerete di non avermi dato una spada!» Sconvolti e arrabbiati, i genitori fecero salire Tolo e i fratelli nella carrozza e ordinarono al cocchiere di frustare i fronial. Furono così l'ultima delegazione reale ad arrivare al palazzo lungo il fiume in cui si teneva il gran ballo. Nell'affollata anticamera del salone, Anigel e Antar affidarono temporaneamente i figli alla custodia di Lord Penapat e di sua moglie Lady Sharice e poi si affrettarono a seguire un ansioso valletto per prendere posto nel Corteo delle Felicitazioni. «Perché non possiamo andare con mamma e papà?» domandò Tolo in tono fastidioso. «Perché non è ancora il nostro turno», ribatté il principe Nikalon. «Smettila di comportarti come un marmocchio viziato.» «Voi tre rampolli reali entrerete dopo i re, le regine e gli altri capi», spiegò allegra Lady Sharice. «Adesso venite con me e zio Peni: abbiamo un posto speciale da cui osservare il nuovo re di Zinora che riceve i suoi ospiti più illustri.» «Non mi sembra una cosa divertente», borbottò Tolo. «Non dev'essere divertente», gli disse la principessa Janeel. «È il nostro dovere. Quando il corteo sarà terminato, potremo mangiare, ballare e divertirci; ma per il momento devi fare il bravo bambino ancora per un po'.» La principessa lo prese per mano da una parte e Lady Sharice dall'altra e insieme trascinarono il ragazzino in uno spazio delimitato da cordoni di satin azzurro, nel quale erano già radunati un folto gruppo di principesse e principini sfarzosamente vestiti, e molti nobili di alto rango, che chiacchieravano e ridevano. Con espressione petulante e imbronciata, Tolo si lasciò cadere sul pavimento di marmo lucido, in mezzo alla folla. «Io voglio stare seduto qui», affermò, ignorando le implorazioni scandalizzate di Lady Sharice. Lord Penapat si chinò su di lui e cominciò a sgridarlo, ma dopo un attimo si raddrizzò, dimenticando i capricci del ragazzo, perché qualcuno aveva mormorato in tono abbastanza forte: «Il Mago! Guardate... sta entrando Portolanus di Tuzamen!» Tolo balzò subito in piedi. «Zio Peni, sollevami: voglio vedere il Mago!» «Certo, figliolo.» Penapat si mise il ragazzino sulle spalle. «Eccolo lì, sta entrando dalla porta. Per le budella di Zoto! Che spettacolo!» Tolo era a bocca aperta per lo stupore. «Farà qualche magia questa se-
ra?» «Sono certa di sì», rispose Lady Sharice scoppiando in una risatina. «Oh, sì: sono proprio sicura che lo farà.» «Dev'essere bello essere un mago», sospirò Tolo. «Nessuno riuscirebbe mai a fargli fare quello che non vuole... forse da grande diventerò un mago invece di un pirata.» «Che idea bizzarra», rise Lord Penapat rimettendo a terra il bambino. «Aspetta e vedrai», disse Tolo. Ma poi venne preso dall'eccitazione per la cerimonia che iniziava e dimenticò quello che aveva detto. Portolanus aveva volutamente evitato di partecipare a tutte le feste e i balli che avevano preceduto la cerimonia effettiva dell'incoronazione, e anche durante la cerimonia stessa se n'era rimasto in disparte, circondato da un numero tale di aiutanti e cortigiani che poche persone erano riuscite a vederlo, e solo di sfuggita. Colui che si era autoproclamato Signore di Tuzamen aveva deciso di fare la sua prima apparizione pubblica solo a quel ballo fastoso dove tutti i governanti delle varie nazioni dovevano entrare in corteo solenne per presentare i propri omaggi e i propri auguri al neo-re Yondrimel. Solitario, vestito di abiti sgargianti e del tutto inadatti, il Mago si portò dunque all'ultimo posto dello sfavillante Corteo delle Felicitazioni, all'apparenza ignaro dei sussurri e degli sguardi dei nobili e dei dignitari, rivolti più a lui che non a re Yondrimel. L'enorme salone da ballo, dove suonava un'orchestra di cento musicisti, aveva pareti rivestite di damasco rosso vino, pilastri dorati, enormi specchi con le cornici di onice, diaspro ed eliotropio ed era rischiarato da grandi candelabri dorati nei quali brillavano centinaia di candele. Le alte porte finestre che si aprivano sui lati erano state spalancate per lasciar entrare gli effluvi profumati dei giardini. Era quasi sera: almeno un migliaio di ospiti illustri erano convenuti al palazzo appositamente eretto per l'occasione sulle sponde del fiume Zin. La maggior parte dei presenti erano nobili zinoriani, che sfoggiavano un gran quantità di perle, orgoglio della nazione. Tra gli ospiti stranieri, i più numerosi erano i raktumiani: molti degli uomini e delle donne pirata indossavano elmi e corazze tempestate di pietre preziose invece di abiti da cerimonia. Re Antar e la regina Anigel furono tra gli ultimi a prendere il loro posto nel corteo.
«Non noto rassomiglianze tra questo Portolanus e Orogastus», mormorò Antar alla moglie, studiando la bizzarra figura del Signore di Tuzamen. «Il Mago che conoscevo dodici anni fa era un uomo di bell'aspetto e di notevole prestanza fisica. Questo tizio è gobbo e rattrappito, con dei lineamenti così contorti da essere quasi comici. In lui non vi è assolutamente nulla di minaccioso o autoritario: sembra più un pagliaccio che un mago con quel ridicolo cappello a punta con la stella di diamanti in cima, così calcato sulla fronte da piegargli le orecchie!» In effetti, il Signore di Tuzamen era tutt'altro che maestoso. La barba rada e i baffi ridicolmente lunghi erano gialli e troppo arricciati e impomatati; indossava un pacchiano abito verde a strisce arancioni, tanto largo che sembrava avesse indosso una tenda da campo. Quasi tutti i presenti ridevano di lui, ma Portolanus ostentava un'indifferenza somma e continuava a sorridere e ad ammiccare come un pagliaccio a destra e a sinistra, agitando le dita adunche in un malizioso gesto di saluto. «Portolanus non ha conquistato Tuzamen facendo giochi di prestigio», sussurrò Anigel in tono aspro. «Sono d'accordo che da questa distanza non assomiglia al vecchio Orogastus e attorno a lui non c'è traccia di oscuri incantesimi come quelli che Haramis mi ha detto di cercare. Ma sono passati molti anni e deve aver sofferto molte privazioni laggiù nel Kimilion; il suo aspetto potrebbe essere molto cambiato. Dopo aver parlato con re Yondrimel devo cercare di vederlo più da vicino. Fino a questo momento, Portolanus è stato più sfuggente di un lingit in uno sgabuzzino poco illuminato.» Si udì un lungo squillo di trombe. «Oh, cielo, ecco che comincia», disse Anigel. «È dritta, la mia corona? È così pesante che già non vedo l'ora di togliermela.» «Sei la più splendida di tutte le regine presenti», la rassicurò Antar. Il re, che si era rifiutato d'indossare l'armatura da parata e il grandioso elmo ingioiellato, tradizionali emblemi reali di Labornok, portava un diadema di platino e diamanti quasi modesto in confronto alla grande Corona della regina di Ruwenda, che sfavillava di smeraldi e rubini ed era sormontata da una rosa di diamanti con al centro una grande ambra. Nel cuore di quell'ambra era racchiuso il Giglio Nero fossile, emblema della piccola nazione delle paludi che contro ogni probabilità aveva sconfitto il suo più potente vicino, dando così origine all'Unione dei Due Troni. Anigel e Antar vestivano entrambi di blu: blu notte il re, con la cintura del fodero della spada tempestata di zaffiri, e azzurro carico come il cielo della Stagione Arida la regina, con le arricciature e i ricami tradizionali sul corpetto, sulle maniche
e sullo strascico. Anigel indossava una collana di piccoli gigli d'ambra alternati a zaffiri a cabochon dello stesso colore dei suoi occhi. I governanti che avanzavano lentamente verso il giovane re di Zinora seguivano uno stretto ordine di precedenza: per prima veniva la nazione più antica e per ultima la più giovane, Tuzamen. I primi dunque a presentare i loro omaggi a Yondrimel furono l'Eterno Principe Widd e l'Eterna Principessa Raviya del minuscolo Principato delle Isole di Engi, nazione con così poche risorse e una popolazione così scarsa che neppure i pirati di Raktum si prendevano la briga di depredarla. Ma ciò nonostante, Engi poteva vantare l'onore di essere la più antica casa reale del mondo conosciuto; i suoi marinai erano i più abili del globo e l'Eterno Principe, a dispetto dei modi eccentrici, era un vecchio volpone scaltro che aveva mediato più di una disputa sulla Penisola. Anigel sorrise notando che la cara vecchia Raviya indossava lo stesso abito di broccato marrone che aveva messo otto anni prima al battesimo del principe To!o. Widd aveva la corona di traverso e, mentre porgeva qualche frase d'incoraggiamento a Yondrimel, diede una vigorosa grattata alle sue reali natiche. Dopo i sovrani di Engi toccò a re Fiomadek e alla regina Ila di Var, lui rotondetto e pomposo nei modi, lei soave e materna, entrambi così carichi di gioielli che Anigel si meravigliò che riuscissero a stare dritti. Come vicino orientale di Zinora, la prospera Var aveva guardato con una certa apprensione agli intrallazzi del giovane re con Raktum e Tuzamen. Con nervosa cordialità, Fiomadek si dilungò troppo nei suoi saluti e l'inopportuno invito della regina Ila a trovarsi subito una sposa fece scomparire il sorriso dalle labbra del re. Poi fu il turno di Anigel e Antar e poiché Ruwenda era la nazione più anziana delle due, fu Anigel a parlare per prima, limitandosi a una breve frase augurale. Antar invece fu più specifico: «Ti auguriamo un regno lungo e prospero, Fratello, e non desideriamo altro che mantenere le buone relazioni che hanno caratterizzato i rapporti tra Zinora e Laboruwenda durante il regno di tuo padre. I Due Troni unitamente ai sovrani di Engi e di Var sarebbero ben lieti di accoglierti nel Concordato della Penisola, se lo vorrai». Yondrimel era alto per i suoi diciotto anni, con occhi azzurri acquosi che dardeggiavano a destra e a sinistra come se attendessero l'arrivo di qualche persona più importante, e la sgradevole abitudine di umettarsi continuamente le labbra sottili con la punta della lingua. Fin dal primo istante, Ani-
gel e Antar lo avevano trovato antipatico e, sei giorni prima, il giovane re li aveva ricevuti freddamente, deluso che non gli avessero portato dei doni più ricchi. Per l'incoronazione Yondrimel era vestito di pelle bianca e tessuto dorato, con un diadema intarsiato e con un grandissimo numero di perle di diversi colori. Le perle ornavano pure il corsetto, il fodero della spada e del pugnale. Al collo aveva una catena dalla quale pendeva una perla rosa grande quasi quanto un uovo di griss. «Ti ringrazio per le tue gentili parole», rispose in tono neutro. «Per quanto il mio reale padre abbia declinato l'offerta di unirsi alla vostra alleanza per ragioni che a lui parevano valide, sarà mia precipua cura riflettere sul vostro invito e dare a esso la stessa attenta considerazione che darò alle proposte di altre nazioni di buona volontà.» Antar e Anigel annuirono e con un sorriso si ritirarono nella stanza in cui venivano offerti i rinfreschi agli ospiti reali. Dopo di loro si fece avanti il capo barbaro Denombo, che si faceva chiamare Imperatore di Sobrania, vestito con uno strabiliante abito di piume multicolori, che cominciò ad arringare il giovane re. La musica era deliberatamente assordante, cosicché gli spettatori che si trovavano a più di tre metri di distanza non potevano udire gli scambi di parole tra il re e i suoi regali ospiti. «Non mi sembra che Yondrimel abbia apprezzato molto il tuo invito a far parte del Concordato», sussurrò Anigel al marito. «Temo che il principe Widd e re Fiomadek abbiano ragione quando affermano che ha pericolose ambizioni.» Il viso di Antar era cupo. «Se davvero gli aborigeni ostili impediranno a Zinora di commerciare con le Isole Senzavento, allora le sue fortune declineranno e Var è un premio di consolazione molto allettante.» «Credi che Yondrimel sarebbe tanto sciocco da sfidare tutta la Penisola e invadere Var?» «Non da solo, naturalmente. Non ha nemmeno un numero sufficiente di navi, e passare per via terra è impossibile. Ma se Raktum dovesse unirsi a lui...» «Allora noi del Concordato dovremo combattere a fianco del nostro alleato.» Anigel strinse il braccio del marito. «Oh, Antar! Ci siamo goduti tanto a lungo la pace... temo che il popolo di Ruwenda non avrà l'animo di combattere una guerra per la ricca Var.» «E se mandiamo i nostri fedeli cavalieri labornoki e la fanteria, la nostra frontiera settentrionale sarà una porta aperta, dove resteranno solo Osorkon e gli altri nobili delle marche di dubbia fedeltà a difenderci da una possibi-
le invasione di Raktum. Le forze terrestri della regina Ganondri sono insignificanti a confronto della sua grande armata di navi, ma chi può dire quali eserciti dotati di armi magiche potrebbe mettere a sua disposizione il Signore di Tuzamen?» «Mio caro, dovremo fare qualcosa a proposito di Osorkon e del suo partito di voltafaccia non appena torneremo a Derorguila», decise Anigel. «Dobbiamo ritardare lo spostamento stagionale della corte alla Cittadella di Ruwenda fino a quando non saranno sistemate le cose a Labornok.» Erano arrivati nella stanza dei rinfreschi, ma invece di godersi il ricco buffet di cibi e bevande, i due sovrani si unirono ai monarchi di Var e di Engi, che senza nessuna vergogna continuavano a fissare il corteo, sussurrando tra loro. Il pacchiano Imperatore di Sobrania terminò le proprie felicitazioni e si ritirò con un sorriso soddisfatto sul volto barbuto. Alle sue spalle, Yondrimel si umettò freneticamente le labbra e parve farsi piccolo piccolo negli abiti di gala quando davanti a lui si presentò una donna robusta di mezza età, che sorrideva benevolmente. La regina Jiri della florida nazione occidentale di Galanar aveva sei figlie nubili oltre alle tre che aveva già fatto sposare ai due governanti di Imlit e a quello di Okamis. «E adesso non scappa», sibilò l'Eterno Principe Widd, senza nascondere il divertimento. Il re e la regina di Var si unirono a lui in salaci commenti sulle scarse possibilità del povero Yondrimel di restare scapolo ancora a lungo di fronte alle formidabili arti di sensale di matrimoni della regina Jiri. La sovrana di Galanar parlò al giovane re, che fu visto detergersi la fronte e i palmi reali con un fazzoletto di seta, dopo che la dama lo ebbe baciato sulle guance e si fu congedata da lui. Poi vennero i Duumviri della Repubblica di Imlit e il Presidente di Okamis, sobriamente vestiti (accompagnati dalle splendide mogli galanari), le cui felicitazioni furono misericordiosamente brevi. A essi seguirono la regina reggente Ganondri di Raktum e suo nipote re Ledavardis, che faceva la sua prima apparizione alle cerimonie zinoriane, in quanto fino a quel momento era stato «indisposto». «Oh, cielo! È davvero un povero disgraziato, non trovi?» sussurrò la regina Jiri ad Anigel. «Non sono mai riuscita a decidere se onorare Raktum con una proposta di fidanzamento... dopotutto sono pirati e non è bene abbassarsi di livello. Ma adesso che vedo il re gobbo in carne e ossa, benedico la mia indecisione.» Ledavardis era davvero pietoso a vedersi, soprattutto al fianco della bel-
lissima nonna, che indossava un abito di velluto rosso cremisi tempestato d'oro, diamanti e rubini e una corona due volte più massiccia di quella di Ruwenda. A sedici anni il re di Raktum era robusto ma molto basso, con le spalle larghe e la schiena storta. La testa su cui posava un semplice cerchio d'oro era troppo grande per il collo sottile che la sorreggeva e i lineamenti del suo viso decisamente rozzi, tranne i tristi occhi castani, grandi e luminosi. Il vestito, di seta nera screziata d'oro, non faceva altro che accentuare la sua deformità. Rimase silenzioso mentre Ganondri e Yondrimel si salutavano calorosamente. Quando il giovane re cercò di farlo parlare, Ledavardis mormorò solo poche parole, abbozzò un timido gesto di saluto e poi con sorprendente agilità si ritirò verso la stanza del banchetto. Ganondri fu costretta a interrompere la sua conversazione e a seguire il nipote, visibilmente seccata. La regina entrò nell'angolo dei rinfreschi a testa alta, ignorando gli altri governanti, che si affrettarono a farle spazio, e si diresse immediatamente al tavolo dei vini, dove si versò una grande coppa. Il rozzo imperatore di Sobrania, l'unico che fino a quel momento avesse fatto onore alle cibarie, smise d'ingozzarsi di selvaggina ripiena e studiò per un istante il viso sprezzante di Ganondri. Poi, come se avesse perso l'appetito, si unì agli altri per guardare il Signore di Tuzamen. Portolanus ci mise parecchio per avvicinarsi a Yondrimel. I diamanti sulla cima del cappello a punta scintillavano alla luce delle candele a mano a mano che il Mago trotterellava e si trascinava sul pavimento di marmo bianco con esasperante lentezza, continuando a elargire saluti irridenti e smorfie ridicole agli spettatori che avevano cominciato a ridacchiare, felici che la noiosa cerimonia fosse giunta al termine e avesse fatto il suo ingresso la vera stella della serata. Re Yondrimel assunse un'espressione seccata, ma subito si ricompose e si umettò le labbra, come per impedire che si screpolassero mentre sorrideva alla figura che si avvicinava. Poi sollevò entrambe le mani nel gesto di affettuoso saluto che fino a quel momento aveva riservato solo a Ganondri e Ledavardis. Di colpo, Portolanus alzò il braccio destro. La musica s'interruppe misteriosamente, nel mezzo di un fraseggio. La folla ansimò e trattenne il respiro. Il Mago teneva in mano una bacchetta d'oro che terminava con un cristallo sfaccettato che emetteva lampi prismatici. La puntò contro re Yondrimel nella parodia di un affondo con la spada e Yondrimel si ritrasse,
stupito e spaventato. «Ah-ah!» gracchiò il Signore di Tuzamen. «Hai paura, eh?» Di nuovo affondò e ci furono un lampo bianco e uno sbuffo di fumo: davanti all'esterrefatto re comparve un mucchio di scintillanti monete di platino, alte fino al ginocchio. Dalla folla di governanti, nobili e cortigiani si levò un'esclamazione di sorpresa. Yondrimel era riuscito a rimangiarsi le parole indignate che stava per pronunciare quando il Mago aveva messo in dubbio il suo coraggio e ringraziò Portolanus per la grande quantità di denaro: ma tacque di nuovo quando il Signore di Tuzamen si mise di colpo a roteare, con l'ampia veste verde e arancione che si gonfiava attorno a lui come un pallone, fino a divenire una specie di palla indistinta, sormontata dal cappello conico con la stella di diamanti che invece pareva restare immobile. Poi crollò a terra diventando un pezzo di stoffa perfettamente disteso, con il ridicolo cappello adagiato proprio al centro. Portolanus era scomparso. «Per i Denti di Zoto», mormorò Antar. «Quell'uomo non è nient'altro che un prestigiatore da strapazzo!» Sotto la stoffa a strisce stava succedendo qualcosa: il cappello a punta tremava e il tessuto prese a muoversi in onde concentriche, poi a gonfiarsi in grandi bolle irregolari. Un attimo dopo, mentre la folla gridava eccitata e anche impaurita, la sfera di tessuto divenne due volte più alta di un uomo, e all'interno del pallone comparve una luce che aumentava d'intensità; poi, di colpo, il cappello si girò sottosopra, con la stella di diamanti appoggiata alla stoffa. La stella discese, perforando il pallone luminoso: vi fu un lampo accecante seguito da un'esplosione e quando i presenti recuperarono la vista, Portolanus era là, vestito come prima, che si batteva le ginocchia ridendo come un matto. Dopo un attimo di stupore, re Yondrimel sorrise e applaudì, subito imitato dai nobili e dai cortigiani. «Un trucco da ciarlatano da fiera», commentò Antar, voltandosi con l'intenzione di andare a versarsi una coppa di vino. Ma il Mago, puntando la bacchetta verso di lui, gridò: «Fermo!» Tutti gli occhi dei presenti si voltarono verso il re laboruwendiano, mentre nel salone calava il silenzio. Antar si girò senza fretta, con una mano posata sull'elsa della spada, e guardò Portolanus con espressione impenetrabile. «Dicevi a me, Mago?» «Sì, dicevo a voi, grande re di Laboruwenda», rispose con tono adulato-
rio. «Se vi degnate di avvicinarvi, il Signore di Tuzamen sarà ben felice di mostrarvi prodigi che potranno impressionare anche il vostro regale scetticismo.» Anigel afferrò il braccio del marito, sussurrando ansiosa: «No, amore mio, non andare!» Ma Antar si liberò dalla stretta e si portò al centro del salone da ballo, dove Yondrimel era in piedi tra i preziosi regali, a bocca aperta e con gli occhi inquieti, per una volta tanto immobili e attenti. Un'improvvisa folata di vento fece gonfiare le leggere tende delle finestre e in lontananza si udì il fragore di un tuono. Subito dopo un frastuono molto più intenso risuonò nella stanza, seguito da un fulmine che illuminò i giardini, facendo tremare il palazzo. Il Mago sorrise. «Oltre ai piccoli divertimenti che vi ho già offerto, sono pronto a darvi dimostrazioni molto più spettacolari del mio potere: per esempio questo temporale fuori stagione.» Un'altra serie di lampi illuminò a giorno i giardini; lungo i sentieri ben curati rimbalzavano spettrali globi di fiamma azzurra delle dimensioni di meloni, mentre altre palle di fuoco danzavano attorno agli alberi delle navi ancorate alle banchine del fiume. Prima che la folla attonita potesse reagire, uno dei globi entrò da una finestra e andò a fermarsi sopra la mano tesa di Portolanus. «Per il Fiore!» esclamò Anigel. «Comanda la tempesta!» Un'espressione raggiante comparve sul viso contorto del Mago, illuminato dalla sfera di luce azzurra crepitante. «Oh, sì! E anche molte altre cose, mia orgogliosa regina. È in mio potere elargire ricompense per i miei amici e l'esatto opposto per i miei nemici. Ricordatevene tutti.» Poi, con un gesto noncurante, lanciò il globo verso Antar. Con un'imprecazione, il re estrasse la spada e sferrò un gran colpo al proiettile misterioso. Nell'istante in cui la lama colpì il fuoco azzurro, sia Antar sia Portolanus scomparvero in due nubi di fumo. Anigel gridò e, sfilandosi il talismano da sotto l'abito e tenendolo con entrambe le mani davanti a sé, si precipitò al centro del salone. «Fermo, Portolanus! Ti ordino di restare e di restituirmi mio marito!» Il palazzo venne assalito da un ennesimo fragoroso scoppio di tuono e, mentre tutti gridavano, il vento che entrava dalle finestre fece dondolare i candelieri e cominciò a spegnere le candele. Non appena fu chiaro che il talismano non avrebbe fatto ricomparire né il Mago né Antar, Anigel represse un singhiozzo e si voltò furente verso re Yondrimel. Il giovane so-
vrano era diventato terreo dalla paura e le guardie e i cortigiani si affrettarono a portarsi al suo fianco. In piedi di fronte a lui, Anigel sollevò il talismano; il Giglio sfavillava come un sole in miniatura e anche le altre pietre incastonate nella Corona di Stato e nella collana brillavano accecanti. «Ordina a Portolanus di riportare qui re Antar!» gridò a Yondrimel con voce terribile. «Miserabile traditore! Te lo ordino!» «Non posso ricondurlo qui!» piagnucolò il giovane re. «Non farmi del male! Io non sapevo... non avevo idea... non mi avevano detto...» «Fermi!» urlò l'Imperatore di Sobrania. «Guardate là, sul fiume! Le navi dei pirati raktumiani hanno preso il largo! E anche il vascello del Mago! Sono pronto a scommettere platino contro noccioli di plar che hanno rapito Antar!» Tutti si precipitarono alle finestre per vedere, e i lampi incessanti mostrarono cinque galee con le vele gonfiate dal vento che si muovevano al centro del fiume dirette verso l'estuario. Quattro delle navi erano nere e una era bianca. Alla folla bastò un solo istante per capire che gli ospiti tuzameni e raktumiani si erano dileguati durante l'esibizione del Mago. «Inseguiamo quei bastardi!» urlò la regina Jiri di Galanar. I nobili e i cavalieri di Laboruwenda, Var ed Engi ripeterono il grido, subito imitati dagli offesissimi dignitari di Imlit e Okamis. Seguì un gran parapiglia. L'imperatore Denombo e i suoi piumati sobraniani estrassero le loro spade a tre punte e urlando il loro grido di guerra si precipitarono fuori delle finestre, calpestando fiori e aiuole nella loro corsa verso le banchine. Altri li seguirono, ma con meno foga e per strade più normali, incuranti della pioggia che inzuppava e rovinava i loro splendidi abiti da cerimonia. Anigel era ancora in piedi, attonita, al centro del salone ormai quasi vuoto, circondata da Lady Ellinis, dall'Eterna Principessa Raviya e dalla regina Ila di Var che cercavano di confortarla. Re Yondrimel era scomparso, come pure la gran parte dei suoi compatrioti. Alcuni dei principini più piccoli si misero a piangere. Gli ospiti più anziani, come pure le donne che non avevano seguito i guerrieri, si radunarono compassionevoli attorno alla regina laboruwendiana. Anigel stringeva ancora tra le mani il talismano, davanti a sé. «Mostrami il mio sposo, Antar!» ordinò e quelli che le erano più vicini esclamarono sorpresi quando l'oggetto si trasformò in una sorta di specchio di luce turbinante. Poi comparve l'immagine di un uomo vestito di blu, che giaceva svenuto su una stretta cuccetta che doveva trovarsi nella stiva di una nave.
Aveva mani e piedi legati ed era sorvegliato da tre robusti pirati con le spade snudate e ancora in abiti da cerimonia. «Mostrami la nave su cui si trova Antar!» gridò Anigel. Il talismano mostrò l'enorme trireme della regina Ganondri di Raktum. «Mostrami Portolanus!» La scena si spostò sulla tolda dell'ammiraglia della regina, sulla quale si trovavano la stessa Ganondri con gli abiti scossi dal vento, alcuni ufficiali della nave e l'ormai nota forma indistinta dalla sagoma umana. «Mostrami come viaggiano le navi raktumiane e tuzamene», ordinò ancora. Il talismano mostrò i cinque vascelli lungo il fiume, con la grossa trireme in retroguardia. Un istante dopo la visione scomparve. «Stai di buon animo, bambina», disse la venerabile principessa Raviya, dando un buffetto d'incoraggiamento sulla spalla di Anigel. «Con questo vento i nostri piccoli e veloci cutter non faranno fatica a raggiungere i cattivi.» «E il buon vecchio imperatore Denombo e i suoi barbari saranno subito appresso», aggiunse la regina Ila. «La nave dell'imperatore è grande quasi quanto l'ammiraglia raktumiana ed è meglio equipaggiata per speronare.» «E con questa tempesta i raktumiani non potranno usare le loro catapulte infuocate», disse Lady Ellinis. «Con un po' di fortuna riusciremo a raggiungere quei miserabili prima che arrivino in mare aperto...» «No», disse Anigel con voce spenta. «Guardate qui, nel talismano...» Tutti si strinsero più che poterono attorno alla regina per vedere la nuova magica visione. Il primo dei veloci cutter engiani stava comparendo a poppa della grande trireme e guadagnava rapidamente terreno. D'un tratto, un tremendo lampo illuminò il fiume e una strana figura a forma di colonna, nera come la notte e alta due volte l'albero maestro della trireme, si erse dall'acqua di fronte agli engiani. Il minuscolo vascello, che filava a vele spiegate, cercò di virare, ma la colonna si portò sulla nuova rotta e colpì: il cutter scomparve come se non fosse mai esistito. Tutti quelli che riuscirono a vedere gridavano inorriditi. «Che cos'è?» chiese una delle figlie della regina Jiri. «Un serpente marino evocato dal mare?» «No», rispose Raviya di Engi, con le guance avvizzite rigate di lacrime, «è una tromba d'acqua, una specie di tornado che si forma sul mare. A volte, durante la Stagione dei Monsoni, s'incontrano attorno alle nostre isole, ma mai durante la Stagione Secca. Ohimè! Ecco che ne arriva un'altra. I
nostri coraggiosi marinai interromperanno l'inseguimento e lo stesso faranno gli altri. Nessuna nave, per quanto robusta, può sopravvivere a un incontro con quelle diaboliche trombe marine.» In fondo alla sala si udì un tumulto e una voce urlò: «Signora! O mia Signora, quale sciagura!» Un uomo in abiti da cerimonia labornoki grondanti acqua si liberò dalle guardie che volevano impedirgli di passare e si precipitò da Anigel. La regina abbassò il talismano, la visione svanì e il luccichio del Giglio d'ambra e degli altri gioielli si affievolì. Sul viso di Anigel era comparsa un'espressione atterrita ma non disse nulla fino a quando Lord Penapat non le fu accanto, con gli occhi spalancati e il viso tanto paonazzo da far pensare che stesse per avere un colpo. «O mia Signora!» esclamò ancora cadendo in ginocchio davanti alla regina. «Come potrò mai dirvelo? Quale vergogna! Che tradimento... Come ha potuto lei fare una cosa simile?» «Calmati, Peni, calmati, vecchio amico. Sappiamo già che il re è stato rapito da quell'essere abietto...» «Ma questo non è tutto!» esclamò l'omone spalancando le braccia, disperato. «Mia moglie! La mia stessa moglie, Sharice! Mi ha allontanato con un pretesto dalla sala durante il Corteo delle Felicitazioni, consegnandomi un biglietto a sentire lei urgentissimo che dovevo portare al maresciallo Owanon. Ma il messaggio non aveva senso e, quando sono tornato, gli altri mi hanno detto che mia moglie se n'era andata portandoli via con sé e io non capivo e... oh! Gli sono corso dietro, ma era troppo tardi!» Anigel sentì il suo cuore fermarsi. «I miei figli», disse con voce spenta. «I miei figli...» «Sharice li ha rapiti», proseguì il ciambellano in lacrime. «Lei e i tre ragazzi sono stati visti salire a bordo della nave della regina dei pirati.» «Quel biglietto per Lord Owanon», intervenne Lady Ellinis con voce decisa. «Che cosa c'era scritto?» «Tre sole parole», rispose Penapat. «Il tuo talismano.» 6 I vulcani marini delle Isole Fiammeggianti e delle Isole Fumose erano in eruzione e anche sui vulcani addormentati del continente avevano fatto la loro comparsa nefasti pennacchi di fumo, mentre la terra si era messa a tremare. Le altre catene non vulcaniche a sud della Penisola e i Monti O-
hogan che costeggiavano il Ghiacciaio Eterno erano spazzati da tempeste fuori stagione. In pianura e nelle paludi di Ruwenda imperversavano straordinari temporali, mentre i mari meridionali e orientali erano agitati da venti impetuosi. I calamitosi eventi meteorologici ebbero inizio la notte del rapimento e furono immediatamente avvertiti da Haramis. La speciale sensibilità che aveva accresciuto negli anni, cioè la percezione mistica che metteva in allarme l'Arcimaga allorché qualcosa non andava tra la sua gente o sulla terra, le causò una sensazione di disagio profondo che non era imputabile solo agli avvenimenti sconvolgenti accaduti all'incoronazione e dei quali Anigel l'aveva informata. Nelle ore seguenti, una volta accertato che non c'era nulla d'immediato che potesse fare per aiutare Antar o i principi rapiti, Haramis aveva usato il suo talismano per scrutare i paesi della Penisola e le altre nazioni. Studiò quelle tempeste fuori stagione, i terremoti e le frane, i vulcani in fiamme, il comportamento nervoso e agitato degli animali selvatici e capì che non si trattava semplicemente degli effetti secondari della tempesta magica scatenata da Portolanus per facilitare la fuga da Zinora. No, stava accadendo qualcos'altro, qualcosa di molto più pericoloso. Ordinò al Cerchio dalle Tre Ali di darle una spiegazione. Ancora una volta il talismano le mostrò un giglio color del sangue e parlò: «Ora l'equilibrio del mondo è davvero in pericolo, perché l'erede rinato degli Uomini della Stella ha a portata di mano due elementi del grande Scettro del Potere. Attenta, Arcimaga della Terra! Cerca i buoni consigli di altri come te e rimedia alle tue imperfezioni. Agisci e abbandona i tuoi inutili studi e la tua inadeguata sorveglianza, altrimenti gli Uomini della Stella riusciranno a trionfare e la guarigione di dodici volte dieci centinaia andrà perduta». La voce tacque e Haramis osservò incredula la visione del giglio di sangue finché non scomparve. Allora l'indignazione prese il posto dei timori che l'avevano assalita e la ragazza si alzò dal tavolo della biblioteca e cominciò a camminare infuriata avanti e indietro di fronte al camino. Cercare i buoni consigli di chi? Di quelle sciocche delle sue gemelle? Rimediare alle sue imperfezioni? La vita che aveva dedicato allo studio e al servizio... inutile? La sua incessante e amorevole sorveglianza di Laboruwenda e delle terre vicine... inadeguata? Come osava il talismano insultarla a quel modo? Lei stava facendo del
suo meglio e lo aveva fatto in tutti quei dodici anni in cui era stata Arcimaga. Ruwenda e Labornok erano uniti e in pace, gli umani prosperavano e gli aborigeni... la maggior parte di loro stava molto meglio ora di quanto non stesse in passato. Se il mondo non era più in equilibrio, allora la colpa era certo del malvagio Portolanus, e non sua! E perché, invece di ordinarle di consultarsi con le sorelle, il talismano non aveva indicato anche i loro difetti e non solo i suoi, quando le pecche delle sue gemelle erano molto più vistose? Prendiamo Kadiya! Sempre precipitosa, sempre impaziente, che proponeva soluzioni semplicistiche ai complessi problemi che turbavano i rapporti tra umani e il Popolo. Arrogante nella sua virtù, sempre pronta a scoperchiare pentole che sarebbe stato molto meglio non aprire. Per stoltezza e incuria aveva perso il suo talismano, che adesso poteva cadere nella mani di Portolanus. E poi c'era Anigel, la bellissima, nobile regina, che governava con profonda cautela, tanto zelante da essere ridicola, ignorando il malcontento di Labornok e le plateali ingiustizie di Ruwenda, allegramente sicura che si sarebbero risolte da sole. Suo marito, più sensato, aveva cercato di avvertirla di quello che stava avvenendo, ma lei aveva continuato ad accantonare le sue preoccupazioni definendole infondate. E lui, che l'amava al di là di ogni ragione e non voleva rischiare il disaccordo tra loro, si era convinto che aveva ragione lei. Povero re Antar, così accecato dalla devozione! E i tre rampolli reali, cui era stato insegnato che la vita era un bell'arazzo di pace e gioia, coccolati e protetti oltre ogni dire... tranne nel momento in cui ne avrebbero avuto bisogno! E ora che il re consorte e i figli erano stati rapiti e trattenuti in ostaggio, la loro vita era in pericolo a meno che Anigel non consegnasse il suo talismano magico a Portolanus. E lei lo avrebbe fatto! Perché era tanto debole e sentimentale da farlo! Signori dell'Aria, che coppia di cretine erano le sue sorelle! E che cos'era venuto in mente all'Arcimaga Binah di pensare che fossero degne di detenere strumenti dotati di un tale potere magico? Perché tutti e tre i talismani non erano stati affidati alla sua custodia? Haramis sapeva che lei sarebbe stata in grado di salvaguardarli. Ed essendo in possesso dei tre pezzi, adesso avrebbe potuto unirli nello Scettro del Potere e fronteggiare senza indugi questo Portolanus... chiunque fosse. Ma nell'impossibile situazione in cui si trovavano... tanto valeva che si arrendesse o che aspettasse tremante nella sua Torre che fosse il Mago di Tuzamen a muovere contro di lei, armato degli altri due talismani.
«Grande Dio e Signori dell'Aria, difendetemi», sussurrò, sentendo le lacrime pungerle gli occhi. «Il Mondo delle Tre Lune si sta ribaltando, e non solo questa piccola Penisola che ho protetto... E io mi comporto come una perfetta sciocca, dando la colpa del disastro alle mie sorelle, pronta ad arrendermi a Portolanus senza neppure lottare!» Agisci. Haramis si fermò di colpo, ormai prossima alle lacrime per la rabbia. «Agire? E come? Devo forse volare a sud con un gipeto e affrontare il Mago sulla nave della regina pirata? Portolanus avrebbe in mano il talismano di Kadiya molto prima che io riuscissi a raggiungerlo... e legato a sé tramite quel maledetto scrigno con la stella! Perché gli hai permesso d'impadronirsi di quella cosa? Perché hai lasciato che trovasse il Kimilion? Perché hai permesso a Orogastus di vivere? Una grande folata di vento ruggì giù per il camino, e una pioggia di scintille la colpì, come una divina ammonizione. Una le cadde su una mano e Haramis gridò, abbandonando il talismano; ma era una bruciatura insignificante. Borbottando sottovoce, l'Arcimaga si mise a calpestare i tizzoni che stavano bruciando il tappeto, cercando di riprendere il controllo di se stessa. Poi regolò il tiraggio e si lasciò cadere per terra, scrutando le fiamme con gli occhi velati dalle lacrime. Il vento di tempesta gemeva sui merli della Torre come un coro di prefiche che intonassero un canto funebre, e il pensiero della musica le riportò di colpo il ricordo vivissimo del buon vecchio Uzun, l'arpista e suonatore di flauto che era stato il suo più caro amico di gioventù. Tutte le volte che era depressa, lui, instancabile, faceva di tutto per rallegrarla. Buffo saggio vecchio Uzun, con la sua inesauribile scorta di panzane, che l'aveva accompagnata fedelmente nella sua ricerca del talismano, finché il suo fragile corpo non l'aveva costretto a tornare indietro. Uzun, che l'aveva lasciata senza nessuno con cui confidarsi, senza nessuno che l'accettasse e l'amasse con tutti i suoi difetti. Lei non aveva neppure un amico vero; la sua unica compagnia erano i servitori Vispi che la temevano e la riverivano, la chiamavano Bianca Signora e credevano che, poiché indossava il manto della vecchia Arcimaga, avesse ereditato anche la saggezza della vecchia Binah. C'era da ridere... Nonostante tutti i suoi studi, sapeva ancora pochissimo del potere del suo talismano e a quanto pareva avrebbe dovuto procedere alla cieca ancora per anni, scoprendo a poco a poco come usarlo. L'Arcimaga Binah era vissuta fino a un'età incredibile ed era in grado di usare le arti magiche anche senza il talismano. Ma non aveva lasciato nessun ma-
nuale per il suo successore. Haramis aveva fatto del suo meglio, ma ora, nel momento della crisi più grave, era impotente, e i suoi sforzi venivano derisi da quella cosa enigmatica che portava appesa al collo. Altri: cerca i buoni consigli di altri come te. Altri...? Aggrottò la fronte, poi la distese: per la prima volta le parole pronunciate dal talismano penetrarono nel suo cervello e assunsero un significato diverso. Altri? Non le sue sorelle, dunque, ma... ma... Non era possibile! Binah glielo avrebbe detto! E se Binah non lo avesse saputo? Haramis si scostò dal fuoco, si asciugò le lacrime e con mani tremanti sollevò di nuovo il talismano. «Sono l'unica Arcimaga del Mondo?» chiese. No. Rimase a bocca aperta. «Presto: mostramene un'altra! Un'altra qualsiasi!» Il cerchio si riempì di nebbia perlacea; ma ancora una volta comparvero quelle strane spirali che le avevano indicato la prima volta che Portolanus era schermato alla visione da una potente magia. «Ma certo», gemette. «Certo, sono schermati, come me.» Rivolse al talismano un'altra domanda: «Quanti Arcimaghi esistono?» Uno della Terra, uno del Mare e uno del firmamento. Quella della Terra era certamente lei e dunque restavano gli altri due. «Uno... uno di loro sarebbe disposto a parlare con me? Ad aiutarmi?» Solo se andassi da loro. «E come posso trovarli?» Ci sono due vie: la prima è dietro un loro invito. La seconda si trova nell'Inaccessibile Kimilion. Haramis emise un grido di gioia. «Siano rese grazie al Dio Triuno! Partirò immediatamente!» La porta della biblioteca si aprì e Magira sporse la testa, incerta. Dietro di lei c'erano parecchi altri Vispi. «Bianca Signora? Hai chiamato? Ci è sembrato di udire un grido di dolore...» Felice ed eccitata, Haramis scosse il capo. «Era solo una scintilla schizzata dal camino che mi ha scottato una mano, niente d'importante. Ma sono contenta che siate venuti. Avvertite i guardiani dei gipeti: domattina alle prime luci volerò al Kimilion! Mandatemi subito il nostro ospite Shiki, perché devo chiedergli se vuole accompagnarmi. Preparate cibo, tende e
tutto quanto può servire per il viaggio e un soggiorno di almeno una decina di giorni in quella terra gelata.» «Ma, Signora!» esclamò Magira, sconvolta. «Questa tempesta magica! Ma se i vulcani della costa eruttano fuoco, non potrebbe accadere la stessa cosa a quelli del Kimilion?» «Sono in grado di resistere a qualunque tempesta Portolanus sia in grado di creare», dichiarò Haramis. «Almeno questo l'ho imparato nei miei studi sul talismano. In quanto ai vulcani e al resto, sono certa di poterli calmare se dovessero minacciare me o chi è con me. Questo viaggio è essenziale se devo respingere la minaccia che Portolanus rappresenta per il mondo. Adesso andate e fate quello che vi ho detto.» Si sedette di nuovo al tavolo e mise il talismano davanti a sé; prima di partire alla ventura, doveva sorvegliare ancora una volta la caotica situazione del sud e consigliare Anigel sul da farsi. Se avesse agito di sua iniziativa, di certo la regina non avrebbe fatto che un gran pasticcio! Ma prima, l'altra sorella. «Mostrami Kadiya», comandò l'Arcimaga. Vide una stradina battuta dalla pioggia, in un villaggio che dallo stile delle case doveva essere zinoriano, e un porto, a giudicare dal numero esorbitante d'insegne di taverne, molte delle quali esibivano motivi marittimi. Kadiya, Jagun e una squadra di più di dodici guerrieri Wyvilo dall'aspetto fiero arrancavano sull'acciottolato, con le sacche da marinaio in spalla e un'espressione cupa in viso. Era ovvio che non erano ancora riusciti a trovare una nave che li riportasse alle Isole Senzavento. Haramis mise due dita sull'ambra del Giglio del suo talismano e chiuse gli occhi: la visione della sorella e dei suoi amici si trasferì nella sua mente. Sentì la pioggia incessante di Kurzwe, i campanelli delle taverne, le grida malinconiche dei pothi costretti a restare a terra e sentì l'odore del mare e il puzzo dei vicoli squallidi. «Kadiya! Kadiya! È Haramis che chiama. Riesci a sentirmi?» L'espressione sul viso della sorella non cambiò; era ovvio che i pensieri di Kadi erano tutti rivolti ai suoi problemi e non erano quindi ricettivi al contatto mentale con Haramis. Con un sospiro, l'Arcimaga aprì gli occhi, allontanando la visione. «Forse posso provare a parlare con Kadi in sogno. Dev'esserci un modo per comunicare con lei a distanza anche se non ha più il talismano!» Adesso Anigel e i pirati. Haramis prese una pergamena sulla quale era disegnata la costa zinoriana, la svolse e ne fermò gli angoli con un libro,
un candelabro, un cubo nero degli Scomparsi che cantava canzoni misteriose se si premeva una sua protuberanza, e una tazza da tè sporca. Poi ordinò al talismano: «Mostrami chiaramente la nave della regina Ganondri, con una veduta dall'alto che mi indichi anche le terre o le isole vicine. Orienta la visione in modo che il sud sia verso di me e il nord dall'altra parte». Chiuse gli occhi: la visione che le si parò dinanzi alla mente non era facile da interpretare come le eleganti carte che le presentava un tempo il defunto specchio di ghiaccio di Orogastus. Il talismano aveva resistito a tutti i suoi tentativi d'insegnargli a indicare la scala fisica e a dare un nome ai fiumi, alla terraferma o alle altre caratteristiche geografiche da identificare. Ma anni prima, servendosi della grande riserva di mappe e carte geografiche della libreria come termine di confronto, aveva imparato a interpretare le anonime vedute fornite dal talismano. Era la seconda volta quella notte che spiava la posizione della nave della regina pirata. Poiché la notte era buia e in tempesta, vide un'immagine in grigio e nero, priva dei colori brillanti che avrebbe avuto di giorno. La trireme raktumiana era un puntino tra due isolette, a malapena visibile, ed evidentemente molto più avanti degli altri tre vascelli che l'avevano accompagnata prima. Sulla sinistra era parzialmente distinguibile una parte di una grande massa di terra. Per determinare la posizione della nave, Haramis dovette fissare nella mente le caratteristiche del terreno e poi studiare le carte. «Ah-ah! Trovato!» La nave si trovava più di cento leghe a sud-ovest di Taloazin: come aveva temuto, non stava tornando in patria, ma seguiva la rotta più breve per le Isole Senzavento, con Portolanus e i prigionieri a bordo. Segnò sulla carta la posizione della nave raktumiana, poi ordinò al talismano di mostrarle gli altri vascelli raktumiani e la nave tuzamena di Portolanus e poi la piccola flotta di quattro vascelli di Anigel che li inseguiva. Le più lente navi raktumiane e la solitaria nave tuzamena erano venti leghe circa dietro la trireme e stavano perdendo terreno rispetto alla nave della regina che filava a vele spiegate nel vento di tempesta. L'ammiraglia di Anigel si trovava a quindici o sedici leghe dalle navi pirata, seguita dai tre vascelli di scorta. «Ora mostrami re Antar», ordinò al talismano. La situazione non era cambiata da quando lo aveva visto tre ore prima: giaceva sempre svenuto su una rozza cuccetta in qualche lurido angolo del-
la stiva della nave, legato mani e piedi e sorvegliato da due ceffi. Scuotendo il capo con compassione, Haramis richiese una visione dei tre principini. I bambini non si trovavano più nella cabina assegnata alla perfida Lady Sharice, ma erano stati spostati in un piccolo compartimento scuro con una porta sbarrata. La visione si alzava e si abbassava con violenza, seguendo il movimento della nave nella tempesta, ed era accompagnata da scricchiolii e rimbombi. Grandi ammassi di catene arrugginite dagli enormi anelli s'intravedevano accanto alle stuoie su cui dormivano Tolivar, Nikalon e Janeel, con indosso gli abiti da cerimonia macchiati di sporco e di ruggine. «Il pozzo dell'ancora a prua, ecco dove li hanno rinchiusi. Poveri bimbi! Anigel avrà il cuore spezzato a vederli in quello stato attraverso il suo talismano. Però sembrano illesi.» Richiamò l'immagine della sorella: la regina era uno spettacolo patetico, avvolta in un mantello di cuoio da marinaio, aggrappata al corrimano del cassero, con il viso verso la tempesta. Sul capo aveva il talismano ed era chiaro che Haramis l'aveva interrotta mentre scrutava i suoi cari prigionieri. «Hara! A che distanza siamo da loro?» chiese la regina. «Non riesco a capirlo dalle immagini che mi mostra il talismano.» «Devi dire al comandante di cambiare leggermente rotta», rispose l'Arcimaga e le diede la posizione esatta della flotta raktumiana. «Il Mago e i pirati si stanno dirigendo a rotta di collo verso le Isole Senzavento e non verso casa, come abbiamo pensato in un primo tempo. Stanno andando a recuperare il talismano di Kadi e se questo vento diabolico che Portolanus ha richiamato regge, è probabile che arriveranno all'Isola del Consiglio in meno di tre giorni.» «Non riusciremo mai a raggiungerli», disse Anigel disperata. «No, c'è una possibilità. Quando la trireme avrà superato il braccio di mare fra la terraferma e le isole, si troverà nella calma piatta che prevale in quel tratto: non per niente sono chiamate le Isole Senzavento! Dubito che persino la magia sia in grado di far spirare anche solo un alito di brezza in quel labirinto di faraglioni, isole, rocce e barriere coralline. La tua nave è meno pesante di quella raktumiana e i tuoi rematori sono uomini liberi e volonterosi. Potreste raggiungerli a forza di remi.» «Kadi è già partita da Kurzwe?» «No, purtroppo. A quanto pare sta ancora cercando di noleggiare una nave. Ho di nuovo cercato di parlarle, ma senza successo. Ani, devi prova-
re tu. Tu sei più vicina al suo cuore di...» «Non dirlo! Lei ti ama quanto ama me e so che anche tu le vuoi altrettanto bene.» «A ogni modo», riprese l'Arcimaga con un sospiro, «cerca di farlo. Se riuscisse a partire subito da Kurzwe con una nave veloce, potrebbe arrivare al luogo dove ha smarrito il talismano prima di Portolanus.» «Ma non avevamo progettato di usare il mio talismano per richiamare dal mare quello di Kadi? Come può recuperarlo da sola senza il mio aiuto?» «Non lo so, ma basterebbe che riuscisse a trovare un modo per ostacolare Portolanus fino al tuo arrivo. Cerca di parlare a Kadi nel sonno; potrebbe essere più ricettiva. Deve raggiungere il talismano prima del Mago!» «D'accordo, tenterò con tutte le mie forze. Ma tu continua a guidarci e a proteggerci, Hara.» L'Arcimaga esitò. «Ho un nuovo piano per confondere Portolanus... ma non voglio ancora parlarne. Non agitarti se d'ora in avanti non ti chiamerò spesso. Se avrai davvero bisogno di me, però, chiamami subito.» Il viso di Anigel s'illuminò di speranza. «Un nuovo piano? Oh, Hara, dimmi!» Haramis scosse il capo. «Potrebbe essere inutile se Portolanus riuscisse a impossessarsi del tuo talismano o di quello di Kadi. Ricordi che il Mago è tornato una seconda volta nel Kimilion e ha recuperato una scatola misteriosa? Ho chiesto al mio talismano che cosa poteva essere quello scrigno ed esso mi ha detto che quella cosa era capace di spezzare il legame tra i talismani e chi li possiede. Non si deve fare altro che metterli nello scrigno e pronunciare l'incantesimo adatto.» «Vuoi dire che il Mago potrebbe toccare i nostri talismani senza pericolo?» «Peggio ancora, a quanto pare: potrebbe essere in grado di legarli a sé e usarli, una volta venutone in possesso.» «Per il Fiore!» «Ani, tesoro, so che hai il cuore angustiato per il destino dei tuoi figli e di tuo marito, ma non devi cedere alla tentazione di pagare il riscatto che Portolanus chiede. Lui mentirà di certo, dicendo che in cambio del tuo talismano ti restituirà sani e salvi i tuoi figli e Antar. La nostra unica speranza è di liberare i prigionieri. Giurami che non cederai alla tentazione!» «Non... non cederò. Lord Owanon e i suoi coraggiosi cavalieri troveranno il modo di aiutarmi a salvare Antar e i bambini dai pirati. Ah! Se solo
potessi avvicinarmi abbastanza a quel maledetto Mago per cancellarlo dalla faccia della terra con il Mostro dalle Tre Teste! Non sarebbe mai riuscito a strapparmi i miei cari se solo avessi capito che cosa aveva in mente!» Haramis disse ancora qualche parola d'incoraggiamento alla sorella, poi lasciò che la visione svanisse. Si alzò dal tavolo e si diresse verso gli scaffali che contenevano molte mappe arrotolate e ordinò al talismano di trovarne una che mostrasse la regione polare a ovest di Tuzamen; ma evidentemente una carta geografica del genere non esisteva. Haramis rovistò negli scomparti, trovando carte della stessa Tuzamen (non molto particolareggiate, per la verità) e un'unica mappa della catena montuosa in cui viveva il Popolo dei Dorok. Ma non c'era nulla che mostrasse l'Inaccessibile Kimilion. Allora l'Arcimaga visionò il luogo attraverso il talismano, rabbrividendo alla vista del piccolo enclave circondato dai ghiacci e pieno di vulcani fumanti. Ma non riuscì a ottenere un'indicazione della sua esatta ubicazione e nessun libro della biblioteca le offrì indizi. Era ovvio che, dopotutto, l'Arcimaga Binah non aveva usato il Kimilion come deposito. Forse quel luogo apparteneva a uno degli altri Arcimaghi, quello del Mare o quello del Firmamento... Qualcuno bussò piano alla porta della biblioteca. «Avanti», rispose Haramis. Lasciò le carte e diede il benvenuto a Shiki. Il piccolo e robusto aborigeno si era quasi del tutto ristabilito dalla terribile prova di sette giorni prima. Gli enormi occhi brillavano dorati e il viso quasi umano e le mani stavano guarendo dal congelamento. Per il freddo aveva perduto la punta delle orecchie, che erano ancora bendate. I servitori Vispi della Torre gli avevano confezionato degli abiti nuovi e Shiki portava orgogliosamente al collo il medaglione con il Giglio Nero, emblema dell'Arcimaga, perché si era votato al suo servizio. «Magira dice che vuoi andare al Kimilion, Bianca Signora.» «Se te la senti di guidarmi, Shiki. Le mie carte e le mie arti magiche non mi forniscono una visione chiara di dove si trova quel luogo. Dev'essere protetto da qualche incantesimo, oltre che dalle leghe di ghiaccio che lo circondano.» Il piccolo uomo annuì, con espressione seria. «Ti guiderò laggiù ben volentieri e darò la mia vita per te se i Signori dell'Aria lo richiederanno. Nulla potrebbe darmi più felicità che aiutarti a sconfiggere il Mago malvagio che ha ucciso la mia famiglia e i miei amici. Altri del Popolo ci accompagneranno con i voor?»
«No, andremo solo tu e io. E forse... forse dovremo spingerci anche più oltre prima che il viaggio finisca, fino a luoghi che nessuno del Popolo o degli umani ha mai visto. Luoghi paurosi.» Shiki tese la mano con tre dita, sorridendo. «Ti accompagnerò, Bianca Signora. Siamo forti, tutti e due, e andremo dovunque sarà necessario e ritorneremo sani e salvi, insieme. Lo so.» Haramis strinse la mano dell'aborigeno tra le sue, restituendogli il sorriso. «Tu saprai esattamente quali rifornimenti ci servono: vuoi andare dai guardiani dei gipeti e controllare che tutto sia pronto per la nostra partenza domattina presto?» «Lo farò», disse dondolando allegro la testa e se ne andò. Agisci. Questo le aveva ordinato il talismano: niente più studi, niente più osservazione o riflessioni. Già una volta nella sua vita era stata costretta a una strenua attività fisica, trascinata attraverso pericolose montagne dal seme del Giglio Nero che l'aveva guidata al suo talismano; ma ora non c'erano semi magici ad aiutarla, solo un piccolo uomo vulnerabile che era giunto alla sua Torre per puro caso. Caso? Oh, Haramis... «Silenzio», ritorse con voce ferma e nascose il talismano sotto l'abito, spense il candelabro e si avviò verso la porta. Ma di colpo un pensiero la folgorò: come parlare con Kadiya? Ma certo... «Haramis, che grande sciocca sei!» esclamò, rivolta a se stessa. Riprese il talismano e cominciò a dargli ordini. 7 Kadiya, Jagun e i quindici guerrieri Wyvilo si ammassavano nella stradina di fronte all'ultima taverna che ancora dovevano visitare, mentre i tuoni scoppiavano e ruggivano e i sonagli di bambù appesi all'insegna dell'osteria tintinnavano e rimbalzavano, indicando anche al più analfabeta dei passanti che lì avrebbe trovato cibo e bevande. «Forse in quest'ultima taverna la fortuna ci arriderà», disse Kadiya. «Dobbiamo riuscire a trovare in fretta una nave, perché un presentimento funesto mi spinge ad andare il più presto possibile alla ricerca del mio talismano. Jagun, tu come sempre starai in retroguardia e terrai d'occhio l'arrivo della ronda cittadina. La nostra reputazione potrebbe averci preceduti. Lummomu-Ko, ti prego, ordina ai tuoi guerrieri di tenere a freno la loro
impetuosità, questa volta, se nell'osteria dovessero insultarci o deriderci. Almeno ordina loro di non dare il via alla rissa fino a quando non avrò avuto la possibilità di parlare con tutti i capitani.» L'alto capo Wyvilo, i cui eleganti abiti erano ormai irriconoscibili a causa del temporale che aveva assalito il porto di Kurzwe, rispose: «Se quei vermi degli zinoriani insistono nel rifiuto di noleggiarci una nave, saremo costretti a rifarci al piano originario e tornare da soli all'Isola del Consiglio». «Vorrei proprio evitarlo», replicò Kadiya. «Con questo uragano e senza marinai esperti a bordo, le nostre possibilità di arrivare vivi sono davvero minime.» «Ma forse potremmo persuaderli...» intervenne con un sorriso malizioso Lam-Sa, il giovane Wyvilo che aveva aiutato Lummomu-Ko a salvare Kadiya. «No», ammonì lei. «Noleggiare un battello pagandolo è una cosa, ma rapire un equipaggio è un'altra. Preferisco che il mio talismano rimanga perduto per sempre piuttosto che recuperarlo con mezzi illeciti. Ho pregato i Signori dell'Aria di venire in nostro soccorso. In qualche modo troveremo una nave.» Inaspettatamente, Jagun emise un grido, s'irrigidì e spalancando le pupille degli occhi gialli fissò il cielo, mentre la pioggia cadeva sul suo viso piatto e largo. «Amico mio, che ti succede?» esclamò Kadiya. Ma il piccolo aborigeno rimase fermo, come paralizzato, fissando qualcosa che solo lui poteva vedere. Poi, dopo parecchi minuti, ritornò lentamente in sé; il suo corpo si rilassò, gli occhi persero la loro fissità e Jagun si rivolse a Kadiya con espressione stranita, sussurrando: «La Bianca Signora mi ha parlato!» «Che cosa?» esclamò Kadiya stupefatta. Jagun si prese la testa tra le mani, come se cercasse d'impedire al cervello di fuggire. «Lungimirante, mi ha parlato! Tu sai che noi del Popolo delle Paludi possiamo parlare agli altri della nostra razza senza parole, anche se non siamo così abili come i nostri cugini Uisgu e Vispi. Tu stessa con il tuo talismano mi hai parlato a distanza molte volte. Ma fino a questo momento non avevo mai udito la Bianca Signora.» «Che cos'ha detto?» chiese Kadiya quasi fuori di sé. «Ha... ha accusato la sua Sacra Persona di essere una stupida. Aveva urgente bisogno di parlarti, ma non poteva, ora che non hai il talismano, e
solo in questo istante le è venuto in mente di chiamare me, che avrei potuto trasmettere a te il suo messaggio. Aveva dimenticato che ero con te e pensava che tu viaggiassi soltanto con i Wyvilo che sono meno abili nel percepire le parole che provengono da una grande distanza...» «Sì, sì... il messaggio!» «Ahimè, Lungimirante! Il perfido Mago Portolanus, con una nave veloce, si sta dirigendo a sud per impossessarsi del tuo talismano.» «Dio Triuno!» «La Bianca Signora dice che se facciamo immediatamente vela da Kurzwe potremmo ancora riuscire a recuperare il talismano prima di lui.» «Ha detto come posso fare?» chiese ansiosa Kadiya. «Anche tua sorella, la regina Anigel, sta inseguendo il Mago. Se voi due riuscite ad arrivare insieme nel punto in cui è andato perduto, la Bianca Signora pensa che il talismano della regina potrà chiamare a sé il tuo.» «Jagun, se davvero potessimo...» Ma in quel momento la porta della taverna dall'altra parte della strada si aprì di colpo e luci, musica assordante, risate ebbre e grida investirono Kadiya e i suoi compagni. Un istante più tardi apparvero due robusti umani con grandi grembiuli sporchi, che tenevano stretto un cliente che strillava e si dibatteva. L'uomo era vestito in modo stravagante, con pantaloni di seta nera infilati in alti stivali di pelle rossa, una tunica a grandi quadri di cuoio multicolore, un elegante mantello rosso e un cappello a tesa larga con una piuma nera, così calato sugli occhi che gli impediva di vedere e gli nascondeva del tutto il volto. «Aiuto! Ladri!» gridò cercando invano di liberarsi. «Imb... imbroglioni! Lasciatemi andare! Vi dico che i dadi erano truccati!» I due garzoni lo sollevarono e lo buttarono fuori, poi chiusero la porta. Il malcapitato atterrò a faccia in giù nel mezzo della strada fangosa, ma il cappello che gli copriva il viso lo salvò, impedendo che ingoiasse una boccata di fango. Rimase disteso gemendo pietosamente, con la pioggia che batteva sul mantello e inzuppava la piuma. Kadiya gli s'inginocchiò accanto, lo voltò e gli tolse il cappello. L'uomo emise un lungo sospiro carico d'alcol e aprì gli occhi iniettati di sangue. «Salve, bellezza. Che ci fa una ragazza come te tutta sola in questa notte di tempesta?» Ma in quel momento si accorse della folla di Wyvilo alle spalle di Kadiya e riprese le sue urla da ubriaco. «Attensione! Aiuto! Banditi! Mosstri! Invasssione di Oddling del Mare! Aiuto!» Con tutta calma, Kadiya gli cacciò in bocca un lembo del mantello.
«Stai calmo, non abbiamo intenzione di farti male. Siamo solo dei viaggiatori di Ruwenda e questi non sono selvaggi Oddling del Mare, ma civili Wyvilo, e sono miei amici. Sei ferito?» L'uomo grugnì e i suoi occhi arrossati smisero di roteare per la paura. Scosse la testa. Kadiya fece un cenno a Lummomu-Ko e insieme rimisero in piedi il malcapitato. Il bavaglio improvvisato gli cadde dalla bocca. L'uomo traballò, borbottando tra sé. Jagun andò a pescare il cappello che galleggiava in una pozzanghera e glielo porse. «Io sono Kadiya, chiamata la Signora degli Occhi; questo è Jagun del Popolo delle Paludi e questo è il Portavoce Lummomu-Ko del Popolo della Foresta di Tassaleyo, con i suoi guerrieri, e sono miei amici. Stavamo per entrare nella taverna quando hai fatto la tua uscita improvvisa.» L'uomo sbuffò e si rimise in testa il cappello, poi dalla manica prese un fazzoletto e cominciò a pulirsi il viso. «Quando... quei dann'ti ibboglioni mi hanno... sschbattuto fuori, vovorrai dire», rispose con voce così ispessita dall'alcol che faticarono a capirlo. «Mi hanno schpennato com'un pollo... parrtita a dadi tr-truccata... mi'nno riubato la mia noga... do-dopo averrmi truffato sul presso del carico... Ohhh! Mi scento male!» Lummomu e un altro guerriero Wyvilo gli tennero la fronte mentre l'uomo si liberava. Quando la vittima si fu un poco ripresa, Kadiya gli chiese: «Chi sei e che cos'è la noga di cui dici di essere stato derubato?» «Mi chiamo Ly Woonly... sciono un oneschto marinaio di Okamis.» La guardò sospettoso. «Conossci Okamis, vero? La più grande nasione del mondo conossciuto! Una republica, non un pussolente regno come Zinora. Maledetto il giorno in cui ho fatto vela per Zinora! Avrei dovuto portare il carico a Imlit, anche sce non pagano molto.» «Dunque sei un marinaio!» disse Kadiya con un lampo negli occhi. Ly Woonly si raddrizzò e si avvolse nel mantello con un gesto orgoglioso. «Masstro marinaio! Comman-dante della bellisscima noga Lyath. L'ho chiamata come mia moglie.» Fu interrotto da un singhiozzo e poi scoppiò in lacrime. «Mi ucciderà! Lyath mi ucciderà! Metterà sotto sciale le mie palle e le venderà ai sobraniani!» Kadiya e Lummomu-Ko si scambiarono un'occhiata; il guerriero annuì e poi si rivolse ai suoi uomini che sorrisero. «Il nostro amico Ly Woonly è stato derubato in una partita di dadi truccata», disse Kadiya in tono solenne. «È triste che possano accadere certe
cose... e in un posto così malfamato come Kurzwe, le autorità probabilmente si schiereranno con il proprietario della taverna, invece di accordare giustizia a uno straniero.» «È molto probabile», aggiunse Lummomu-Ko con la sua voce possente che superava anche il fragore del tuono. «È una vergogna e grida vendetta al cospetto dei Signori dell'Aria.» I suoi compagni assentirono con un ruggito e i loro occhi, con le pupille verticali che indicavano la presenza di sangue Skritek nella loro razza, brillarono come braci dorate nella notte di tempesta. Kadiya afferrò le mani sporche di fango del comandante. «Comandante Ly Woonly», disse in tono intenso, «noi vogliamo aiutarti, ma vorremmo anche che tu dessi una mano a noi. Abbiamo cercato di noleggiare una nave per un viaggio... di ottocento leghe circa. Ma i pavidi comandanti zinoriani hanno paura di salpare con questo tempo burrascoso. Se noi riuscissimo a recuperare la tua noga e il tuo denaro, tu accetteresti di noleggiarci la tua nave? Ti pagheremo mille corone laboruwendiane di platino.» L'okamis sgranò gli occhi. «Mille? E darete una lessione a quei malandrini e riprenderrete il mio denaro e la mia nave?» «Sì», disse Kadiya. Ly Woonly dondolò sulle gambe e poi, con molta fatica, s'inginocchiò in una pozzanghera ai piedi di Kadiya. «Signora, fallo e io ti porterò fino al gelato Mar dell'Aurora o alle porte dell'inferno... quale dei due è più lontano.» «Molto bene. Vuoi accompagnarci alla taverna mentre presentiamo il tuo giusto reclamo?» Ly Woonly si rimise in piedi traballando e si riaggiustò il nastro che legava il cappello. «Non me lo perderei per niente al mondo.» Con grande delusione dei Wyvilo, e immenso sollievo di Jagun, non vi fu nessuna rissa. La semplice vista dei terribili aborigeni delle foreste, con le zanne snudate e gli artigli appoggiati alle armi, bastò a convertire di botto i truffatori all'onestà. Facendo saltare i dadi truccati da una mano all'altra, Kadiya si rivolse con un sorriso mesto ai tre atterriti giocatori zinoriani che sedevano a un tavolo d'angolo e che erano stati interrotti nell'atto di dividersi il bottino rubato a Ly Woonly. «Miei buoni signori, mi sembra ovvio, anche se forse voi non lo avete notato, che qualche ignoto malintenzionato ha sostituito dei dadi truccati a quelli buoni che, senza dubbio, vengono usati in una taverna rinomata co-
me questa.» «È... possibile, Signora», mormorò il meglio vestito dei tre furfanti, un uomo magro con gli occhi duri come l'acciaio. «Potrebbe essere successo senza che ce ne avvedessimo.» Gli altri due annuirono con forza, vedendo i Wyvilo che accarezzavano l'elsa delle spade e l'impugnatura delle asce che portavano sulla schiena. Kadiya rivolse ai tre un sorriso fiducioso, poi gettò i dadi in mezzo al mucchietto di monete d'oro. «Sapeste come sono felice di sentirlo. Ero certa che onesti giocatori come voi non potessero imbrogliare un povero straniero okamis che ha bevuto un po' troppo. Vedete, i miei amici Wyvilo e io saremmo molto tristi se il comandante Ly Woonly non potesse partire questa notte con la sua nave, perché l'abbiamo noleggiata noi.» «Tenete! Ecco l'atto di proprietà della noga», disse il capo dei tre, estraendo in fretta dalla scarsella un foglio e mettendolo sul tavolo. «Prendetelo con i nostri migliori auguri, Signora, e buon viaggio a voi e ai vostri amici!» «E il denaro del carico!» intervenne Ly Woonly. «Settecento e scsssessanta marchi d'oro zinoriani.» Vedendo il baro esitare, Lummomu gli appoggiò dolcemente la mano a tre dita sulla spalla e cominciò a stringere. «Il denaro del carico», ruggì allegro. Con un grido soffocato, l'uomo sospinse il mucchietto di quattrini verso il comandante, dicendo: «Prendilo e vai al diavolo!» Ly Woonly ridacchiò e fece scivolare le monete nella sua borsa. A quel punto, arrivò di corsa il proprietario della taverna, profondendosi in scuse ossequiose per il trattamento riservato in precedenza all'ospite okamis. I garzoni che lo avevano buttato fuori, disse l'uomo, avrebbero ricevuto una severa punizione. «Saremmo più propensi a credere alla tua buona volontà se tu preparassi per tutti noi una lauta cena innaffiata da un vino superbo», disse Kadiya in tono amabile, guardandolo dritto negli occhi. «In questo modo, andandocene, porteremmo con noi solo bei ricordi dello splendido porto di Kurzwe. Nelle altre taverne in cui siamo stati questa sera, gli osti sono stati molto scortesi. I miei compagni aborigeni sono stati insultati, e temo che, come è loro costume, abbiano ottenuto soddisfazione.» I Wyvilo ruggirono all'unisono, posando le mani sulle armi. «Che vergogna!» esclamò il proprietario, mentre grosse gocce di sudore apparivano sulla sua testa calva. «L'ospitalità di Kurzwe è famosa in tutto
il Mare Meridionale! Sedetevi, vi prego, e io imbandirò un banchetto.» «Offerto dalla casa», disse Lummomu. «S'intende», rispose il taverniere. Fu il loro ultimo pasto decente per molti giorni. Ly Woonly si addormentò come un sasso mentre Kadiya e gli altri mangiavano; riuscirono a svegliarlo con difficoltà e furono costretti a trascinarlo al molo al quale era ormeggiata la Lyath. Sotto la pioggia battente, videro una piccola nave di forma slanciata, con la prua e la poppa appuntite e due alberi, che dondolava, sbattendo di tanto in tanto contro il molo. L'accesso alla passerella era bloccato da due guardie robuste, armate fino ai denti. «Funzionari delle Autorità Portuali, signora», disse uno dei due. «Nessuno scende o sale su questa nave fino a quando non sono stati pagati i conti delle forniture navali.» Kadiya esaminò le fatture alla luce di una lanterna tremolante. «Mi sembrano a posto.» Prese la scarsella piena dalla cintura del comandante che russava della grossa e contò centocinquantatré pezzi d'oro. I funzionari salutarono e se ne andarono in fretta per togliersi dalla pioggia. Lummomu-Ko si caricò in spalla il comandante e fece strada. La Lyath, grande meno della metà della nave varoniana che li aveva portati alle Isole Senzavento, era malconcia e avrebbe avuto bisogno di una bella mano di pittura; le parti in metallo apparivano opache e il ponte era ruvido e scheggiato. Ma sembrava robusta, le sartie erano nuove e così pure le vele, che brillavano candide ed erano ben legate agli alberi. In giro non si vedeva anima viva. C'erano un'unica cabina a mezza nave e una scaletta di boccaporto che portava in basso e attraverso l'oblò brillava una fioca luce. Kadiya aprì il boccaporto e gridò: «Non c'è nessuno?» Al secondo richiamo, comparve un ragazzo, con indosso solo un paio di calzoni strappati, che si fregava gli occhi pieni di sonno. «Comandante Ly? Siete voi? Vi credevamo disperso... Oh!» esclamò quando la luce di un lampo rivelò Kadiya e il terribile Lummomu con il comandante svenuto sulle spalle. «Per le budella degli Dei! Chi siete? Che cos'è successo al comandante?» «Il tuo comandante è sano e salvo, ragazzo», rispose Kadiya. «Lo abbiamo riportato dalla sua bisboccia notturna. Io sono Kadiya, la Signora degli Occhi, e questo è il Portavoce Lummomu-Ko dei Wyvilo. Abbiamo
noleggiato questa nave e Ly Woonly ha acconsentito ad alzare le vele questa notte stessa...» «No, no», disse il marinaio scuotendo la testa arruffata. Doveva avere circa venticinque anni, aveva i capelli scuri e ricci e un viso simpatico. «Non si va da nessuna parte senza equipaggio, Signora. A bordo siamo rimasti solo io, Ban e il vecchio Lindoon perché gli altri sono andati su quel grande mercantile varoniano che ha attraccato nel pomeriggio.» Kadiya e Lummomu si guardarono. «La nave di Kyvee Omin che ci ha portati qui», disse lei. Incurante della pioggia, il giovanotto salì sul ponte e fece segno a Kadiya e al Portavoce Wyvilo di seguirlo nella cabina. «Vedete, il comandante Ly è un po' tirato con i marinai che non sono suoi parenti come me e Ban e il vecchio Lindoon. La nave varoniana era a corto di braccia e si è presa i nostri dieci marinai, che sono stati ben felici d'imbarcarsi con la prospettiva di fare denaro nei porti orientali. Quando se ne sono andati il comandante ha quasi avuto un colpo. Ha detto che avrebbe cercato di reclutare qualcuno domani, ma per questa sera andava a sbronzarsi.» Lummomu lasciò cadere il comandante addormentato sulla sua cuccetta e il ragazzo gli tolse gli stivali fradici e gli abiti infangati, prese il portafoglio e poi condusse tutti sottocoperta. Tirò fuori una bottiglia di ilisso e tre bicchieri e si presentò come Ly Tyry, primo ufficiale e nipote del comandante. «Allora che cos'è questa storia che avete noleggiato la Lyath, Signora?» «Abbiamo una gran fretta di lasciare questo porto stanotte stessa», rispose Kadiya bevendo un sorso del liquore, mentre Ly Tyry beveva dal secondo bicchiere, Jagun dal terzo e i Wyvilo si dividevano la bottiglia. «Che probabilità ci sono d'ingaggiare altri marinai?» «Praticamente nessuna», ammise Tyry. «Ecco perché il comandante era così furibondo. In questo buco ci sono solo Zinoriani scansafatiche e nessuno di loro sembra ansioso di venire nella vecchia e cara Okamis... Non capisco perché...» «I miei quindici compagni e io non siamo completamente digiuni di mare», disse Kadiya. «I Wyvilo delle foreste sono abituati a navigare su zattere giganti nel lago Wum anche durante le tempeste invernali di Ruwenda e tutti abbiamo imparato qualcosa nel viaggio che ci ha portati qui. Siamo più che disposti ad aiutarvi a governare la Lyath, oltre a pagare le mille corone di platino, che è il prezzo che avevamo concordato con tuo zio.» «E dove siete diretti?»
«All'Isola del Consiglio nelle Isole Senzavento.» Il giovane marinaio balzò in piedi. «Signora, ma avete perso il senno? Già è una follia voler salpare con questa tempesta fuori stagione, ma voler addirittura andare alle Senzavento...» «Gli Aliansa non vi saranno ostili», disse Kadiya. «Sono appena tornata da quelle isole dove mi sono incontrata con il Grande Capo Har-Chissa. Hanno rotto le relazioni commerciali con Zinora, perché li hanno truffati e affermano che d'ora in avanti commerceranno solo con Okamis o Imlit.» Gli occhi del giovanotto s'illuminarono. «State dicendo la verità?» «Lo giuro sul sacro Giglio Nero del mio Popolo», rispose Kadiya. «Allora, ci porterete là?» Tyry stava riflettendo. «Il comandante è fuori combattimento fino a domani. Ma abbiamo Ban come timoniere e Lindoon come secondo. E questi Odd... questi vostri alti compagni mi sembrano robusti e volonterosi e anche il piccoletto può rendersi utile. Per la miseria... credo che possiamo farcela!» Ma si fermò di colpo e guardò Kadiya. «Tranne...» «Che c'è, ragazzo mio?» «Signora, non offendetevi, ma... sapete cucinare?» «Sì, e anche Jagun.» «Mi togliete un peso dalle spalle», disse Tyry. «O, meglio, dallo stomaco», aggiunse con un sorriso. «Il vecchio Lindoon è l'unico tra noi che sappia distinguere una pentola da un oblò, ma quello che cucina farebbe urlare uno Skritek. Voi e il vostro piccolo amico dateci da mangiare e non ci saranno problemi.» Kadiya sospirò. Il giovanotto ingollò il resto del liquore, sbatté il bicchiere sul tavolo e sembrò accorgersi solo in quel momento di essere mezzo nudo. «Andrò a mettermi addosso qualcosa», disse arrossendo. «E sveglierò Ban e Lindoon. Se voi e il vostro equipaggio saprete eseguire gli ordini, Signora, salperemo entro un'ora.» 8 In un primo momento, i tre figli di Anigel e Antar erano stati confinati in una lussuosa cabina dell'ammiraglia raktumiana, affidati a Lady Sharice e sorvegliati da due guerrieri tuzameni e dalla Voce Nera del Mago. Quando Sharice confermò loro che erano effettivamente prigionieri, come lo era re Antar, il principe ereditario Nikalon e la principessa Janeel pretesero di
vedere il loro regale genitore; e poiché la richiesta continuava a essere negata, i due principi si erano rifiutati di mangiare e avevano dedicato il loro tempo a rendere la vita impossibile alla traditrice Sharice, continuando a rimproverarla, senza mai darle pace. Alla fine la dama, in lacrime, andò nel grande salone riservato a Portolanus ed entrò senza tante cerimonie. «Nobile Signore, devo parlarvi! Oh...» Anche nello stato di profondo disagio in cui si trovava, Sharice si accorse subito che l'uomo seduto alla scrivania con indosso gli abiti del Mago era molto diverso dal vecchio che conosceva. Era Portolanus... e non lo era, vide sbattendo gli occhi gonfi di lacrime, e pensando di essere impazzita. Portolanus stava pulendo con grande cura le parti smontate di uno strano aggeggio con la polvere da gioiellieri. Le sue dita erano così rosse che sembrava le avesse intinte nel sangue. Sharice riuscì a balbettare: «Siete... siete voi, Signore di Tuzamen?» Lui alzò lo sguardo: gli occhi erano di un incredibile azzurro argentato, nelle cui profondità scintillavano minuscoli puntolini dorati. Dalla sua persona emanava una cattiveria quasi palpabile, che penetrava sprezzante nel profondo della vergogna e del rimorso della donna. Sharice sapeva che avrebbe dovuto fuggire, ma riuscì a trovare dentro di sé il coraggio di sussurrare: «Signore, il principe Nikalon e la principessa Janeel si rifiutano di mangiare. E... e mi offendono e mi tormentano... Non sopporto più di restare con loro». «Se non vogliono mangiare», ribatté secco Portolanus, «lasciateli digiunare. Quando lo stomaco comincerà a tormentarli, cesseranno di essere così ostinati.» «No, Nobile Signore», rispose Sharice torcendo il fazzoletto di pizzo, con gli occhi gonfi e il viso stravolto. «Il principe ereditario è un ragazzino molto risoluto e sua sorella non è da meno. Piuttosto che sottomettersi si lasceranno morire di fame. E... e mi tormentano! Non smettono di rimproverarmi per il mio tradimento, e in questi due giorni, tutte le volte che mi addormentavo, o l'uno o l'altro mi pizzicava per tenermi sveglia. Tra il mal di mare e la mancanza di sonno sono sfinita. Signore, non ce la faccio più!» «Sciocca. Non faremo altro che darvi una diversa cabina per la notte; ma durante il giorno dovrete restare con i bambini e occuparvi di loro. Adesso fuori di qui e lasciatemi al mio lavoro!»
«Non posso restare con loro!» gridò Sharice fuori di sé. «Hanno ragione a chiamarmi disonorata e spregevole. Il rimprovero sui loro visi mi penetra nel cuore! Oh, che stupida sono stata a cedere alle lusinghe della vostra Voce Nera e ad aiutarvi nel rapimento! Nemmeno tutte le ricchezze che offrite a me e a mio fratello Osorkon potranno compensare l'atto malvagio da me compiuto!» Portolanus si alzò dal tavolo e puntò un dito sporco di rosso contro la donna sconvolta. «Fuori!» tuonò. «O lascerò che siano i pirati della regina a farvi intendere ragione!» Sharice scivolò via, gemendo. Per un'ora circa Portolanus lavorò tranquillo, riparando uno strano e ingombrante oggetto magico che gli avrebbe permesso di vedere sott'acqua e individuare la posizione esatta del talismano di Kadiya. Poi qualcuno bussò alla porta e il piccolo e magro accolito, chiamato la Voce Nera, entrò con il viso rosso per l'ira. «Maestro, quella miserabile Sharice si è gettata in acqua; l'ha vista una vedetta, ma con questa tempesta non era possibile cercare di recuperarla. Dev'essere annegata quasi immediatamente.» «Allora affida i marmocchi reali a una delle donne pirata», ordinò Portolanus. «Ci sono notizie peggiori. Durante l'assenza di Sharice, il principe Nikalon ha dato fuoco a un cuscino e quando le guardie e io siamo entrati per vedere che cos'era successo, lui e la principessa Janeel ci hanno fatto lo sgambetto e sono fuggiti. Naturalmente li abbiamo ripresi subito, ma sarà meglio che prendiamo qualche precauzione in più, d'ora in avanti.» «Lo faremo certo», confermò il Mago in tono che non prometteva nulla di buono, pulendosi le mani con uno straccio. «E dal momento che tu, la principale delle mie Voci, sembri incapace di occuparti come si deve di queste piccole faccende, provvederò io stesso a risolvere la cosa prima del mio colloquio con la regina reggente.» Mentre usciva dalla stanza con la Voce Nera, l'aspetto di Portolanus mutò; il suo corpo, che fino a quand'era rimasto nel suo sancta sanctorum era quello di un uomo normale di corporatura robusta, parve rimpicciolirsi e deformarsi come sotto il peso di un'età veneranda. Le dita forti e sicure che avevano lavorato al macchinario degli Scomparsi divennero adunche e contorte; gli occhi si coprirono di un velo acquoso e il viso di una fitta rete di rughe e di bitorzoli, repellenti come un fungo delle paludi. Il Mago percorse zoppicando il corridoio fino alla cabina in cui erano rinchiusi i prin-
cipini, appoggiandosi alle pareti tutte le volte che la nave rollava. Nella cabina, che puzzava di fumo e piume bruciate, trovò Niki e Janeel legati alle sedie, mentre le guardie tuzamene sorvegliavano una spaventata inserviente che stava cambiando lenzuola e cuscini bruciacchiati e bagnati. Il piccolo Tolivar, invece, sedeva libero su una cuccetta, intento a mangiare dei dolci. Quando entrò Portolanus, smise di masticare e lo fissò a bocca aperta. «Allora, che cos'è tutto questo pasticcio?» domandò il Mago con voce querula. «Appiccare incendi? Rifiutarsi di mangiare? Non possiamo permettervelo, sapete? Voglio restituire voi bambini alla vostra regale madre allegri e in buona salute, quando il riscatto sarà pagato.» «Pretendiamo di vedere nostro padre», disse il principe Nikalon. Portolanus sollevò le braccia e roteò gli occhi. «Ahimè, questo non è possibile: non è più su questa nave, ma su un'altra che si sta dirigendo verso Raktum. Ma, non appena sarà pagato il riscatto, anche lui tornerà sano e salvo in patria come voi tre.» «Io dico che mentite», ribatté Nikalon in tono calmo. «La traditrice Sharice ci ha detto che avete fatto prigioniero il re nello stesso momento in cui lei ci portava via con l'inganno dal ballo reale per imbarcarci su questa nave. Afferma che nostro padre è incatenato nella stiva insieme con gli schiavi, e riceve il loro stesso trattamento. Se accetterete di trattare nostro padre con il rispetto dovuto a un prigioniero regale, mia sorella e io interromperemo il digiuno. Vi diamo la nostra parola d'onore che non cercheremo di fuggire.» Portolanus cercò di blandirli, dicendo che aveva molto più buonsenso il piccolo Tolivar che continuava a mangiare; a quelle parole, Tolo assunse un'aria vergognosa e mise da parte i suoi dolci. «Lui è troppo giovane per capire», disse la principessa Janeel. «Ma noi comprendiamo fin troppo bene che il vostro intento è quello d'impadronirvi del talismano magico di nostra madre e usarlo per i vostri scopi malvagi.» Il Mago scoppiò in un'allegra risata. «Che gran mucchio di bugie vi ha raccontato Lady Sharice! È vero che il prezzo del riscatto è il talismano, ma è falso che lo userei a scopi malvagi. No di certo, signorina! Me ne servirei per ripristinare l'equilibrio del mondo, cosa che invece vostra madre non saprebbe fare. Lei non ha mai capito sino in fondo il talismano e nemmeno le sue due sorelle, e così il nostro povero universo è sull'orlo di una grande catastrofe, con gli umani che tramano per combattere contro gli
umani, mentre il Popolo viene tenuto in cattività e gli incantesimi minacciano di squarciare la terra e scalzare le Tre Lune dal loro posto nel cielo!» «E voi potreste rimettere tutto a posto?» chiese stupefatto Tolivar. Il Mago annuì e incrociò le braccia, assumendo una posa fiera. «Le mie conoscenze sono grandi e i miei poteri molto più vasti di quelli di vostra zia Haramis, l'Arcimaga. Lei sta cercando di riportare l'equilibrio nel mondo, ma non può farlo senza aiuto. Aiuto che io solo posso darle.» «Non ho sentito voci di guerra», obiettò Nikalon in tono scettico. «E gli unici Oddling che vengono oppressi sono quelli che si ribellano e fomentano i guai.» «E l'equilibrio del mondo è stato ristabilito quando nostra madre e le sue sorelle hanno sconfitto il malvagio Orogastus», aggiunse la principessa Janeel. «Loro sono i Tre Petali del Giglio Vivente e i tre talismani a loro affidati fanno sì che la pace regni per sempre.» «Ma tua zia Kadiya ha perso il suo talismano!» sibilò Portolanus, sporgendo gli occhi iniettati di sangue. «Lo sapevate, questo?» «No», ammise Nikalon, e per la prima volta la sua certezza parve vacillare. «È per questo che è scoppiata questa terribile tempesta?» chiese Tolo, impacciato. Portolanus rivolse un sorriso radioso al piccolo. «Ragazzo intelligente! Che cervello, hai! Certo che questa burrasca è un sintomo del fatto che il mondo ha perso il suo equilibrio e tu lo hai capito, mentre i tuoi fratelli più grandi no.» Tolo sorrise timidamente. Ma poi il Mago girò su se stesso, fissando Niki e Jan con occhi feroci. «Non voglio perdere altro tempo con voi due. Se non mi date la vostra parola d'onore che la smetterete di digiunare e vi comporterete bene, allora vi farò rinchiudere in un posto buio infestato dai vart!» «Anche me?» chiese Tolo spaventato. Portolanus accarezzò con aria afflitta la testa del ragazzino. «Ahimè, anche tu, caro ragazzo, se i tuoi testardi fratelli insisteranno a comportarsi male.» «Ma io ho paura dei vart!» piagnucolò Tolo. «Mordono! Niki, Jan, promettete che farete quello che dice!» Il principe ereditario Nikalon raddrizzò la schiena quanto glielo permetteva la posizione sulla sedia. «Stai zitto, Tolo! Ricorda che sei un principe di Laboruwenda. Se il nostro regale padre soffre», proseguì poi, rivolgen-
dosi a Portolanus, «sarà per noi un onore condividere le sue sofferenze.» «Vale anche per me», affermò Janeel, che, pur pallida in volto, strinse le labbra e sollevò la testa, anche quando Tolo cominciò a piagnucolare in preda allo spavento. «Conduceteli nel pozzetto delle ancore», ordinò Portolanus alla Voce Nera. «Che portino con sé solo gli abiti che indossano e nient'altro. E dategli solo pane e acqua da mangiare... o non mangiare, come preferiscono, fino a che non torneranno a più miti consigli.» I due cavalieri raktumiani verdi in volto, che montavano la guardia alla porta con le insegne reali, estrassero con riluttanza le spade, vedendo Portolanus avanzare lungo il corridoio del castello di prua. Il Mago camminava quasi piegato in due, ondeggiando da una parete all'altra del corridoio e agitando le braccia per mantenersi in equilibrio mentre la nave beccheggiava nella tempesta. «Non vuole vederti, Mago», disse uno dei due uomini con voce strozzata. «La sua dama di compagnia non ti ha portato il messaggio?» «Oh, cielo, oh, cielo», gemette Portolanus. «Ma io devo parlare con la regina, si tratta di una questione molto urgente!» Il Mago non portava il suo cappello a punta e indossava un mantello con il cappuccio, a strisce rosa e rosse decorato con stelle d'argento. «Torna quando il tempo sarà migliorato», ordinò il secondo cavaliere pirata, che aveva gli occhi infossati e le labbra livide. «La regina Ganondri è a letto con lo stomaco conciato persino peggio dei nostri, assistita dal suo medico. Perderemmo la testa se lasciassimo entrare qualcuno.» «Il pranzo lo abbiamo già perso», commentò l'altro indicando un secchio lì accanto. «Oh, cielo, oh, cielo! Mal di mare, vero?» Portolanus si mise a frugare in un grosso sacchetto color porpora appeso alla cintura dell'abito. «Ho qui un rimedio sicuro per quello che vi affligge e che curerebbe in un batter d'occhio anche la regina Ganondri...» «Non vogliamo una delle tue fetide pozioni, Signore di Tuzamen, e nemmeno la Grande Regina la desidera. Vattene!» ordinò il primo pirata. Portolanus estrasse dal sacchetto una bacchetta di metallo nero intagliata e adorna di gemme. Con un sorriso invitante, si accostò ai cavalieri tenendo l'oggetto posato sui palmi di entrambe le mani. «Niente pozioni, visto? Un solo lieve tocco di questo strumento di magia benevola e ciò che vi affligge sarà scomparso.»
I pirati declinarono l'offerta e continuarono a rifiutarsi di farlo entrare, incrociando le spade davanti alla porta. Portolanus piagnucolò, s'inchinò e si voltò, come se si fosse dato per vinto, e così i cavalieri furono colti di sorpresa quando il vecchio storpio volteggiò e balzò in avanti con l'agilità di un fedok, toccando sulle guance con la bacchetta prima l'uno, poi l'altro. Le spade caddero sul tappeto con un tonfo sordo, gli uomini rovesciarono gli occhi e scivolarono lentamente lungo le paratie, ai due lati della porta, e rimasero seduti con le gambe in avanti, il mento ciondoloni sul petto, privi di sensi. Il Mago li minacciò con un dito. «Ve lo avevo detto che era una questione urgente...» Poi dal sacchetto estrasse un altro oggetto, che assomigliava a una chiave d'oro, e lo usò per aprire la porta. Entrò nell'elegante anticamera della regina, deserta e fiocamente illuminata, con gli oblò sbarrati per impedire la vista delle onde gigantesche. Con sorprendente facilità, Portolanus trascinò all'interno i due corpi massicci e richiuse la porta a chiave. Una donna alta, vestita di nero, apparve all'improvviso sulla porta che conduceva alla camera da letto della regina. «Che cosa succede?» esclamò. «Che fate qui?» «Oh, cielo, oh, cielo!» si lamentò il Mago. «Un grande disastro, signora! Venite a vedere! Ho trovato questi due bravi cavalieri addormentati ai loro posti e non sono riuscito a svegliarli!» Mentre la dottoressa si chinava per esaminare i due uomini, Portolanus la sfiorò sulla testa con la bacchetta nera e la donna cadde in avanti, sui corpi delle due precedenti vittime. «Korandria, che cosa succede?» chiamò una voce ansiosa. Il Mago attraversò la porta che conduceva nella camera da letto regale e fece un inchino. «Voi!» gridò la regina. «Che cosa avete fatto ai miei servi?» «Dobbiamo parlare, Grande Regina. I vostri uomini dormono tranquilli e pacifici. Non ho fatto loro del male, semplicemente li ho privati dei sensi con la mia bacchetta magica. Toccandoli una seconda volta si sveglieranno... dopo che avremo parlato.» Ganondri era sdraiata in un grande letto rotondo, con la schiena appoggiata a cuscini bordati di pizzo e coperta da una trapunta di seta. I capelli ramati erano raccolti in due trecce disordinate e il suo volto aveva un pallore mortale, ma, a dispetto del mal di mare, gli occhi color smeraldo splendevano d'ira. Allungò la mano verso il campanello. Portolanus allontanò il cordone con la bacchetta, scuotendo la testa.
«Dobbiamo parlare senza essere interrotti.» «Infimo mascalzone!» gracchiò la regina dei pirati. «Come osi entrare con la forza nelle mie stanze?» Un'ondata molto grossa squassò la nave e il mal di mare ebbe ragione della regina, che si riappoggiò ai cuscini, con la mano premuta sulla fronte. In tutta calma, Portolanus tagliò il cordone del campanello con il suo pugnale, poi prese una sedia, la accostò al letto e gettò indietro il cappuccio. «Graziosa signora, dobbiamo continuare la conversazione iniziata due giorni fa allorché siamo fuggiti da Taloazin, e che è stata sfortunatamente interrotta dalla vostra indisposizione. Ho riflettuto sulla nostra chiacchierata e mi angustiano alcune implicazioni. Sono costretto a insistere affinché chiariate certi strani commenti... e dovete farlo subito.» Ganondri distolse il viso. «Sto morendo a causa di questa tempesta che voi avete evocato, Mago. Fatela cessare e allora parlerò con voi.» «No, perché è proprio questo fortunale che ci farà arrivare alle Isole Senzavento prima della regina Anigel, dandomi modo di recuperare il magico talismano di sua sorella Kadiya. Lo sapete benissimo, Grande Regina.» «Lo so!» gemette Ganondri. «Lo so ora, ipocrita. Ma non faceva parte del nostro patto originario! La prima volta che ho sentito parlare di questo viaggio a sud è stato quando siamo tornati sulla nave con i prigionieri e da allora non ho fatto che pormi domande. Il nostro accordo prevedeva solo il rapimento di Antar e dei bambini, in modo che voi poteste ottenere il talismano della regina Anigel. Abbiamo stretto questa alleanza da eguali, anche se la vostra piccola nazione è insignificante, non ha risorse commerciali né denaro né un potente esercito. Il grande Raktum vi ha preso sotto la sua ala perché voi mi avete assicurato che insieme avremmo conquistato il mondo, una volta che vi foste impossessato del talismano di Anigel, come riscatto. E io vi ho creduto... tanto peggio per me!» «Potete credermi anche ora, non è cambiato nulla.» «Bugiardo! Nulla nel nostro accordo prevedeva che vi aiutassi a impadronirvi di un secondo talismano!» Portolanus scrollò le spalle con un sorriso disarmante. «Quando avete fatto la vostra proposta», proseguì la regina, «ho chiesto ai nostri saggi di Frangine di scoprire di quale tipo di strumento magico eravate alla caccia ed essi mi hanno risposto che il talismano di Anigel è uno di tre che, uniti insieme, formano l'invincibile Scettro del Potere. Se
quel talismano fosse finito in mano vostra, la nazione della regina Anigel sarebbe diventata impotente e Raktum e Tuzamen unite avrebbero potuto conquistarla. Era un accordo accettabile. Ma con due di quei talismani in mano vostra, inevitabilmente li usereste per impadronirvi anche del terzo.» «No...» «Non negatelo! Voi bramate lo Scettro del Potere e, una volta ottenuto, la grande Raktum si ridurrebbe in poco tempo a Stato vassallo di Tuzamen e la sua regina diventerebbe vostra schiava.» Portolanus agitò le mani, costernato. «Voi fraintendete...» Rinvigorita dall'ira, la regina si rizzò a sedere. «Silenzio, traditore! Non crediate di potermi trattare con condiscendenza. Se non fossi stata prostrata dalla malattia, avrei indovinato prima il vostro piano; ma ora che l'ho capito, ho preso tutte le misure necessarie per far sì che Raktum non cada sotto il vostro malvagio incantesimo.» Il Mago si torse le mani. «No, no! Noi siamo alleati! Non potrei mai contemplare una simile perfidia! Voi sbagliate a giudicarmi!» «Io vi giudico benissimo e vi trovo colpevole», ribatté la regina in un sussurro cattivo. «Se voi e i vostri tre orrendi lacchè siete ancora vivi è solo grazie alla mia clemenza. I miei cavalieri avevano ordine di uccidervi nel sonno, la notte scorsa, ma poi ci ho ripensato e ho deciso di attenermi al nostro patto originario e di aiutarvi a ottenere uno dei tre talismani.» Si lasciò cadere sui cuscini, ancora una volta sopraffatta dalla nausea, ma continuò a parlare. «E non pensate di poterla avere vinta uccidendomi o rendendomi innocua con la magia: per queste evenienze ho preparato dei piani ancor prima che partissimo per l'incoronazione di Zinora. La grande flotta pirata di Raktum ha i suoi ordini: se succede qualcosa alla regina per causa vostra, le nostre navi da guerra bloccheranno tutti i porti di Tuzamen e non potrete ritornare in patria via mare. E se cercaste di ritornare via terra, il nostro esercito farà in modo che i vostri sogni di conquista del mondo vadano per sempre in fumo.» Portolanus chinò il capo. «La regina reggente è una brillante stratega.» «Prendetevi pure gioco di me, se volete», ribatté lei, «ma non dimenticate quello che ho detto. Se ogni mattina l'ammiraglio non riceverà da me l'ordine di continuare verso sud, questa nave cambierà immediatamente rotta e si dirigerà a Raktum, con me morta o priva di sensi. Voi perderete il talismano di Kadiya; la regina Anigel ci insegue, sa a che cosa state dando la caccia e di sicuro conosce un modo per usare il suo talismano in modo che non possiate impadronirvi di quello di sua sorella.»
«Siete proprio certa che io non sia in grado di costringere l'equipaggio di questa nave a obbedirmi, una volta che voi foste morta o nell'impossibilità di contrastarmi?» disse Portolanus con voce del tutto diversa. «La mia magia può costringere chiunque a obbedire al mio volere!» L'aspetto vecchio e fragile di Portolanus era scomparso e il viso, pur ancora grottescamente distorto, pareva cambiato; attorno all'uomo era comparso un alone magico tanto minaccioso che la regina temette di svenire per la paura; ma s'impose di parlare in tono risoluto. «Se non aveste avuto bisogno della grande Raktum, non avreste mai stretto un patto con noi. In quanto a comandare questa nave... Forse voi pensate di aver trovato un modo per impadronirvene, ma vi ricordo che ci sono altri tre grandi vascelli raktumiani armati che ci seguono, oltre alla vostra nave. Prima di lasciare Taloazin non avevo compreso appieno il vostro nuovo piano, ma qualcosa mi ha suggerito di non lasciarvi mano libera. I tre comandanti delle navi di scorta non vi permetteranno di tornare al vostro vascello a meno che l'ordine non venga direttamente da me. Se riusciste a imbarcarvi clandestinamente e cercaste di fuggire, la scorta raggiungerebbe comunque la vostra nave, che è più lenta, e la bombarderebbe con le catapulte a palle infuocate.» Il Mago non disse nulla. Negli occhi di Ganondri comparve un lampo di trionfo. «Voi avete potere, Mago, ma non è un potere invincibile; quello appartiene solo a chi unisce nello Scettro i tre talismani delle gemelle di Ruwenda. Voi potrete prendere quello di Kadiya: i miei sudditi e io vi aiuteremo a farlo. Ma quando sarà al sicuro nelle vostre mani, legato a voi tramite lo scrigno magico, verrete fatto scendere su una delle Isole Senzavento in attesa di essere recuperato dalla vostra nave tuzamena. Lo scrigno della stella lo lascerete a me. Anche re Antar e i suoi marmocchi resteranno in mia custodia e sarò io a ottenere il riscatto da Anigel: il suo talismano è mio!» «A quanto pare avete pensato a tutto...» La regina scoppiò in una debole risata. «Sono arrivata viva a questa età grazie al mio cervello, Mago. Come pensate che avrebbe potuto una povera e vecchia vedova diventare regina del Regno dei Pirati? E adesso fuori di qui! E rianimate i miei servi mentre uscite.» Ganondri chiuse lentamente gli occhi e Portolanus rimase a lungo accanto al letto, a guardare la regina malata, stringendo la bacchetta paralizzante in una mano e accarezzando con l'altra il pendente a forma di stella nascosto sotto la sua veste. Ma alla fine scosse il capo, frustrato, uscì, e lungo la
strada toccò la dottoressa e le due guardie svenute, che ripresero lentamente i sensi, gemendo piano. Esisteva una soluzione potenziale a quell'impasse, ma non era la regina Ganondri, bensì un'altra persona, che Portolanus si affrettò ad andare a trovare. Sotto un cielo grigio dal quale finalmente aveva smesso di cadere la pioggia, Portolanus attraversò il ponte traballante, tenendosi strettamente alle cime per evitare di perdere l'equilibrio e di venire sbalzato fuori bordo. Le onde che s'infrangevano contro i fianchi della nave lo inzuppavano da capo a piedi. L'enorme trireme raktumiana, pur filando a gran velocità quasi a secco di vele, era scossa dalle convulsioni come un enorme animale in preda al tormento. Gli schiavi rematori naturalmente erano in ozio perché, con quel vento, i remi non avrebbero fatto altro che intralciare la corsa invece di aiutarla. E poi comunque la maggior parte degli schiavi era preda del mal di mare, come la maggior parte dei passeggeri e le due Voci Porpora e Gialla. La malattia di questi ultimi era anzi stata un fastidioso inconveniente per Portolanus, perché gli servivano almeno due degli accoliti come ulteriori fonti di energia mentale se voleva essere in grado di scrutare da lontano i vascelli che li seguivano. Senza l'aiuto di due o più delle sue Voci, il Mago doveva limitarsi a scrutare i tratti di mare servendosi di un piccolo apparecchio degli Scomparsi. Si trattava di una macchina eccellente, che mostrava la posizione di navi o masse terrestri fino all'orizzonte e funzionava sia di giorno sia di notte, ma non era in grado di vedere sotto la linea dell'orizzonte, come invece poteva fare la Vista magica. Portolanus non aveva mai pensato di attenuare la forza della tempesta che aveva evocato; avrebbe avuto tutto il tempo di spiare Anigel quando avessero raggiunto la zona di calma in mezzo alle isole. Raggiunta finalmente la timoneria, il Mago spalancò la porta ed entrò con passo incerto, borbottando con voce flebile contro l'inclemenza del tempo. L'ammiraglio Jorot, in piedi dietro il timoniere, lo degnò solo di un'occhiata sprezzante, ma gli altri due ufficiali pirati si affrettarono ad aiutare l'importante passeggero; lo fecero accomodare sulla sedia davanti al tavolo delle carte nautiche, gli offrirono un panno per asciugarsi il viso e i capelli e un mantello asciutto in cui avvolgersi. Stranamente anche il giovane re Ledavardis si trovava nella timoneria, in piedi e in disparte, e fissava il ridicolo essere bagnato fradicio con un misto di preoccupazione e
stupore. «Non avreste dovuto rischiare la vostra vita venendo qui, Grande Signore!» esclamò uno degli ufficiali. Portolanus agitò una mano, con un sorriso lezioso. «Devo assolutamente riferire all'ammiraglio un messaggio della massima urgenza che ho testé ricevuto dalla regina Ganondri in persona. Vorrei pregare tutti di lasciarci soli per qualche minuto...» - chinò la testa verso re Ledavardis -, «... anche voi, mio giovane sire.» «Ma non certo il timoniere!» sbottò Jorot; aveva i capelli e la barba bianca e il viso, segnato dal vento e dal sole, era scuro come il cuoio. Era alto, di aspetto emaciato, e si sussurrava che soffrisse di una malattia incurabile, ma governava i suoi uomini con il pugno di ferro e persino la regina Ganondri lo trattava con rispetto e non con la sua solita alterigia. Portolanus rispose all'obiezione del vecchio marinaio in tono querulo ma insistente. «Sì, anche il timoniere deve andarsene... a meno che, nobile ammiraglio, voi siate incapace di governare la vostra stessa nave.» «Sono in grado di farlo, Signore di Tuzamen», ribatté Jorot a denti stretti. Pregò gli altri di uscire e si mise al timone, dando le spalle al Mago. «Dunque, che cos'è questa frottola di un messaggio della Grande Regina? Lei non ha l'abitudine di fidarsi degli stranieri di dubbia fama.» Portolanus rise piano. «Eppure voi sembrate interessato a quello che potrebbe dirvi in privato uno straniero di dubbia fama.» «Allora parlate e facciamola finita.» «Non siate così scortese, ammiraglio. È da un po' che vi osservo: siete un uomo forte e intelligente, oltre a possedere una mente pratica e piratesca. Sono qualità di non poco conto e io vorrei farvi partecipe di alcuni miei pensieri e fors'anche discutere di certe faccende importanti per entrambi.» «Risparmiate le vostre belle parole per quei sempliciotti dei laboruwendiani; con me sprecate tempo.» «Non credo; e per dimostrarvi la mia buona volontà, vi svelerò il mio vero aspetto... che non ho mai palesato a nessun altro a bordo, se non ai miei tre fedeli accoliti.» Portolanus si era tolto sia il mantello da marinaio sia l'ingombrante e bagnato abito da mago e adesso era in piedi, senza la minima traccia delle precedenti infermità senili. Jorot lanciò un'occhiata stupefatta al Mago e imprecò quando vide che, nel suo nuovo aspetto, Portolanus era molto più alto di lui. Il suo corpo, coperto solo di un paio di pantaloni aderenti e da
una semplice tunica su cui spiccava la stella d'argento a molte punte, era vigoroso e robusto come quello di un adeta. E il viso, pur incorniciato da arruffati capelli biondi e sfigurato dai baffi incolti, aveva perso i lineamenti distorti e si era trasformato nel volto di un uomo non ancora di mezza età e di bell'aspetto. «Ma guarda!» esclamò Jorot. «Ne avete di trucchetti in quella vostra manica... più di quanti si potesse sospettare!» «Credete quello che vi pare, ammiraglio, ma non dubitate mai dei miei poteri magici, perché sono ancor più formidabili di quanto possiate immaginare.» Anche la voce di Portolanus era cambiata e si era fatta sonora e maschia. «Sono io a controllare questa tempesta e, se volessi, potrei farla cessare in un istante... o trasformarla in un ciclone che ingoierebbe la vostra nave.» «E voi stesso!» ritorse Jorot. «Io non morirei e neppure le mie tre Voci e i prigionieri reali che tengo in attesa del riscatto. Solo voi e l'equipaggio e tutti i passeggeri, compresa la regina Ganondri e il suo reuccio gobbo... se solo lo volessi.» «E lo volete?» Il Mago si portò davanti alla ruota del timone, in modo che l'ammiraglio potesse vederlo. «Questo, ammiraglio Jorot, dipende soltanto da voi. La vostra fedeltà alla regina Ganondri si spingerebbe fino al punto di dare la vostra vita per lei?» Il vecchio pirata scoppiò a ridere. «Quella vecchia vanitosa? Da sette anni è la piaga della nostra nazione e non c'è uomo nel mio equipaggio che verserebbe una lacrima, vedendola respirare acqua di mare. Solo i cavalieri della sua guardia personale le sono fedeli e i suoi parenti che sono rimasti a Raktum.» Lanciò a Portolanus un'occhiata furtiva, corrugando la fronte. «Ma osate anche solo sfiorare il giovane re Ledo, illusionista da strapazzo, e tutti i marinai del Mare Settentrionale vi daranno la caccia in ogni angolo del mondo conosciuto e getteranno il vostro corpo torturato in pasto al mostro marino Heldo.» «Ma guarda!» ridacchiò Portolanus. «Dunque il ragazzo è il vostro protetto, eh? Mi chiedevo perché quel mostriciattolo deforme si vedesse così poco nelle camere reali.» «Il suo viso e il suo corpo possono anche essere brutti», mormorò Jorot, «ma il suo spirito è quello di un grande principe. Un giorno il mondo si accorgerà che non è bene disprezzarlo... se riuscirà a sopravvivere e a raggiungere la maggiore età.»
Quella frase destò l'interesse di Portolanus. «E perché non dovrebbe?» «La sua regale nonna ha sessantadue anni e gode ottima salute. Non ha nessun desiderio di cedere le redini del potere tra due anni, come dovrebbe secondo la legge. Non quando potrebbe regnare per altri vent'anni ancora... se il re venisse dichiarato incompetente o andasse incontro a qualche sfortunato e fatale incidente.» «Avete giudicato con molto acume le ambizioni di Ganondri, ammiraglio: è un'avversaria indomita e intelligente. Però mi ha sottovalutato alquanto... ed è appunto per questo che stanotte ho voluto parlare con voi.» Una luce di comprensione si accese negli occhi di Jorot. «Ho capito! La regina non ha paura di voi! Vi ha messo con le spalle al muro e, chissà come, è in grado di minacciare i vostri piani malvagi.» «In effetti», ammise Portolanus. «Per quanto io possegga un'immensa magia, purtroppo ancora non comando schiere di seguaci né la piccola Tuzamen ha un esercito potente e neppure una grande flotta di navi da guerra che possa tenere testa a quella di Raktum. Ganondri e io abbiamo stretto questa alleanza prima di partire per l'incoronazione di Zinora, ma solo ora mi sono reso conto che non posso fidarmi di lei. Permettetemi di essere franco: mi sono imbarcato da Taloazin con i prigionieri su questa nave invece che sulla mia perché all'ultimo momento la regina mi ha convinto che questa era più veloce e meglio armata per respingere gli inseguitori laboruwendiani. Aveva perfettamente ragione... ma non avevo sospettato che potesse essere tanto sciocca da ripudiare i termini del nostro primo accordo e pretendere da me altre concessioni.» «In effetti, noi pirati abbiamo una concezione un po' bizzarra dell'onore, lo ammetto. Ma nessuno di noi corre sul filo del rasoio come la nostra regina. Ma, se vi minaccia, perché non ve ne liberate uccidendola con la vostra magia?» «Se lo facessi, voi e i comandanti delle altre navi eseguireste i miei ordini?» Jorot sbuffò. «Nemmeno per un attimo, giocoliere. La magia nera ha i suoi limiti: non può costringere alla lealtà o all'amore... e neppure al rispetto. Affondateci tutti con la vostra tempesta, se osate, ma con ogni probabilità anche il vostro sconquassato vascello tuzameno andrà a fondo, perché non è costruito per resistere alle bufere. Voi e i vostri preziosi prigionieri sareste gettati alla deriva in alto mare, a più di seicento leghe da casa. Non ci mettereste molto a morire, anche con la calma piatta... a meno che non sappiate librarvi in aria e volare come gli uccelli pothi.»
«Ahimè, non so farlo», ammise acido Portolanus. «Se ne fossi in grado, non mi troverei a bordo di questa bagnarola traballante.» Il viso di Jorot era diventato color cenere, e i muscoli del collo sporgevano a causa dello sforzo che gli richiedeva mantenere in rotta l'enorme trireme. Strinse la ruota del timone sino a far diventare bianche le nocche. «Mago, questa schermaglia verbale mi ha stancato e mi sento anche esausto fisicamente. Non sono più un giovanotto e non sono neppure in perfetta salute. Il mio compito è sorvegliare il timone, non lottare con la ruota in piena tempesta. Sarò costretto a richiamare molto presto il timoniere, altrimenti rischierò di perdere il controllo della nave, che con questo vento potrebbe anche disalberarsi. Dovete avere una ragione per essere venuto qui: sputate l'osso o tornate a fare i vostri giochetti con la regina reggente.» Portolanus si rimise gli abiti bagnati. «Va bene: se la regina Ganondri dovesse morire e re Ledavardis salire davvero al trono, voi e la flotta pirata accettereste la sua sovranità? Obbedireste ai suoi ordini?» «Di buon grado e con tutti noi stessi», disse l'ammiraglio. «Ma, se credete di poter imporre la vostra volontà al ragazzo, ripensateci. Finge di essere uno stupido per non contrariare la nonna.» «Lo avevo sospettato. Tanto meglio allora, se è intelligente. Forse eviterà di commettere l'errore fatale di Ganondri.» «Fatale?» «Intendo far passare a miglior vita la regina non appena non mi sarà più di nessuna utilità.» «Potrei avvertirla dei vostri malvagi disegni...» «Potreste, ma non lo farete», rise Portolanus. «Invece mettetene a parte il marmocchio reale. Se collaborerà con me quando avrà la corona di Raktum, in breve tempo si ritroverà ricco oltre ogni immaginazione e avrà più triremi di quante possa contarne. E voi, ammiraglio Jorot, potrete avere tutto ciò che desiderate... magari anche il posto di viceré di Laboruwenda.» «Però, quando sarà pagato il riscatto...» «Re Antar e i suoi figli non torneranno mai vivi nella loro patria, riscatto o non riscatto. E la regina Anigel, privata della famiglia e del suo talismano, vedrà la sua terra conquistata dalla magia e dalle forze unite di Tuzamen e Raktum. Oh, sì... succederà molto in fretta, una volta spezzati il suo cuore e la sua volontà...» Di nuovo rivestito con l'ingombrante abito da mago, Portolanus sembrò rimpicciolire; il suo corpo divenne curvo e storto e il viso riassunse un aspetto ripugnante. Aprì la porta interna della timoneria e, con voce tremu-
la, disse agli altri di ritornare. Il timoniere e i due ufficiali si affrettarono a rientrare, ma re Ledavardis non c'era più; era uscito dall'altra porta. «La prossima volta che vedrete il ragazzo, fategli i miei più fervidi auguri», disse il Mago all'ammiraglio. «E riferitegli che attendo con ansia di potergli parlare in privato.» Sollevò il cappuccio del mantello e uscì nella tempesta; ma questa volta non finse di farsi sballottare e si allontanò con passo misurato, mantenendo senza sforzo l'equilibrio, come se la nave fosse all'ancora in un porto riparato e lui si trovasse sul ponte per la passeggiatina pomeridiana. «Vedi niente?» chiese dal basso il principe Tolivar. «Solo grandi onde e un tramonto cupo con tante nuvole», rispose il principe Nikalon. «Prima le une e poi l'altro, a seconda del movimento della nave.» «Niente terra», disse la principessa Janeel. «Solo oceano.» «È impossibile», obiettò Tolo. «Dovreste riuscire a vedere la terra di fianco, se stiamo tornando verso la Penisola. Forse però i pirati non ci stanno portando a Raktum.» L'unica luce nella loro nuova prigione veniva dalle due aperture che si trovavano a una decina di metri dall'impiantito scivoloso del pozzetto delle ancore. L'arredamento consisteva in tre brandine con vecchie coperte che odoravano di muffa, un vaso da notte coperto, una brocca di acqua tiepida e un cestino di pane raffermo. Niki e Jan avevano deciso che digiunare non aveva più senso e dunque avevano mangiato metà del pane. Una volta sicuri che le guardie non sarebbero ritornate, i due ragazzi più grandi, proibendo a Tolo di seguirli, erano saliti su uno degli enormi rotoli di catene che riempivano quasi tutto il compartimento e si erano arrampicati su per i giganteschi anelli dell'ancora, oltre l'argano che alzava o abbassava le ancore, fino ai due grandi boccaporti attraverso i quali passava la catena dell'ancora verso la prua. Tutte le volte che la prua della trireme affondava in un'onda particolarmente grossa, i ragazzi venivano investiti da enormi spruzzi, ma l'acqua, come l'aria, era calda, e dopo la prima volta Niki e Jan non avevano più strillato quando venivano investiti dalle onde. «Le ancore all'esterno sono così enormi che ostruiscono quasi del tutto la visuale», disse Niki. «Credi che questi buchi siano grandi a sufficienza per strisciarci dentro e fuggire?» chiese Jan. «Ci sarebbe ben poco spazio, con le ancore di fuori», replicò Niki. «E
anche se ci riuscissimo, non faremmo altro che cadere dritti in acqua e verremmo risucchiati sotto la chiglia.» «Venite giù», piagnucolò Tolo. «Mi sembra di nuovo di sentire quegli orribili vart che grattano in un angolo.» «Piccolo codardo», disse Niki, ma più con affetto che con disprezzo. «Non ti fanno niente.» «Ma io li odio: sono così brutti e sporchi. Vieni giù e mandali via, Niki, per favore!» Il principe cominciò a scendere e, dopo qualche istante di esitazione, anche la sorella lo imitò. Le catene erano incrostate di melma puzzolente e di alghe del fiume di Zinora. «Quando la nave si fermerà finalmente in qualche porto e caleranno le ancore, io fuggirò», disse Niki a Jan. «Fuggirò da uno di quei boccaporti e scenderò in acqua calandomi lungo la catena.» «I pirati non sono stupidi», ribatté Jan, che si teneva aggrappata senza paura a uno dei pesanti anelli. «Ci sposteranno da un'altra parte prima di allora. Niki», disse poi abbassando la voce per non farsi sentire da Tolo, «credi che ci uccideranno?» «No, se la mamma paga il riscatto.» «E nostro padre?» Niki distolse il viso; sua sorella era una ragazza coraggiosa e piena di buonsenso e in genere lui non le nascondeva nulla, ma in quel momento non aveva cuore di rivelarle i suoi sospetti sulla vera ragione del rapimento di Antar. Senza il re sul trono, Raktum non ci avrebbe pensato due volte ad attaccare il ricco Stato vicino, cercando di conquistarlo in un colpo solo e non di limitarsi a depredare le navi per mare; Niki aveva udito spesso il padre e la madre parlare del pericolo rappresentato dall'ambiziosa regina dei pirati. Ma rispondendo ora a Jan poté solo dire: «Di sicuro i pirati chiederanno un riscatto anche per il papà. Una nave piena di platino e diamanti per lui, oltre al talismano della mamma... ma solo qualche baule di rame per noi». «E forse solo un vaso da notte di monete d'argento per Tolo», rise Jan. In basso, il piccolo principe strillò. «Sento di nuovo qualcosa, ma non è un vart! Presto, scendete!» Niki e Jan si misero a scivolare, spellandosi le mani e strappandosi i vestiti nell'ansia di fare in fretta. Avevano appena fatto in tempo a saltare dal mucchio di catene e a sedersi sui pagliericci, quando una serie di tonfi li avvertì che il chiavistello veniva tolto dalla porta. Questa si aprì e dall'altra
parte apparve una stanza buia, ingombra di corde, legname, metallo, sacchi consunti, e barili di catrame. Sulla soglia c'era un uomo che teneva una lanterna in una mano e nell'altra una spada snudata. Non era uno dei cavalieri che li avevano rinchiusi lì dentro, ma aveva piuttosto l'aspetto di un marinaio. «Stai indietro», ordinò al principe Nikalon che si era alzato ed era corso in avanti. «Allontanati dalla porta, moccioso!» Fece luce con la lanterna e ispezionò il pozzo con espressione disgustata. «È veramente un posto orrendo per rinchiuderci tre ragazzini, anche se sono rifiuti labornoki.» «Rifiuti laboruwendiani», lo corresse gelido Niki. «Chi sei e che cosa vuoi?» «Sono Boblen, il quartiermastro, e vi ho portato un visitatore.» Si allontanò dalla soglia, sempre tenendo alta la lanterna, e una figura più bassa, vestita tutta di nero, si materializzò dall'ombra della stiva ed entrò nel pozzetto delle ancore. «Il re gobbo!» strillò Tolo. «È venuto a torturarci!» Jan diede uno scappellotto al fratello. All'insulto sconsiderato di Tolo, il giovane re Ledavardis arrossì, ma non disse nulla, limitandosi a guardare i tre ragazzi a uno a uno, come se fossero creature sconosciute. «Bene, ora li avete visti, sire», disse burbero il quartiermastro. «Adesso venite via prima che qualcuno ci veda. Vi buscherete solo una ramanzina reale e andrete a letto senza cena se la regina scopre che siamo venuti qui, ma a me farà strappare il fegato per farne esche per i pesci.» «Bene!» gridò Tolo. «Spero che vi ammazzi tutti e due!» E cacciò fuori la lingua. «Stai zitto», gli ordinò Niki. «Mio fratello è un bambino maleducato», disse poi rivolto a Ledavardis, «e ti chiedo scusa per i suoi modi rozzi. Però non è abituato a essere trattato come un animale in qualche zoo reale. E nemmeno mia sorella e io. O forse questa è la normale sistemazione accordata sulle navi raktumiane ai passeggeri reali?» «No, non io è», rispose Ledavardis a bassa voce. Poi, con un gesto timido, porse un sacchetto alla principessa Janeel. «Boblen mi ha detto che vi danno solo pane e acqua: mi spiace, qui c'è un po' di arrosto di selvaggina e dei biscotti alle noci, tutto quello che sono riuscito a trovare.» Jan prese il sacchetto senza parlare. «Grazie, maestà», disse Niki. «Bene», disse Ledavardis, voltandosi, «adesso è meglio che vada.»
«Aspetta», disse Niki. «Puoi dirci qualcosa di nostro padre, re Antar? È... vivo?» «Sì, non l'ho visto, ma so che l'hanno incatenato nella stiva con gli schiavi rematori.» «Lo avevamo saputo da Lady Sharice.» «Il re non è obbligato a remare, è ovvio», si affrettò ad aggiungere Ledavardis. «I remi sono inutili con questo vento.» «Saremo tutti trattenuti a Raktum in attesa del riscatto?» chiese Niki. «Non lo so. Prima dobbiamo fare vela verso sud, alle Isole Senzavento, per qualche misteriosa faccenda del Mago.» «A sud!» esclamò Niki. «Venite via e non dite altro», chiamò il quartiermastro dalla stiva. «Che ne sarà di noi se quel figlio di lothok della Voce Nera ci trova e va a dirlo a Portolanus?» «Taci, Boblen, non ci succederà nulla!» e resistendo alle insistenze dell'uomo, il giovane re si mise a fare domande ai tre prigionieri sulla vita che conducevano a Laboruwenda. Volle sapere come venivano trattati a corte e se avevano il permesso di lasciare il palazzo e di viaggiare nel paese, e che tipo d'istruzione ricevevano e se avevano degli amici della loro età e se provavano mai invidia per i ragazzini normali. Sia Nikalon sia Janeel persero in fretta ogni sospetto nei confronti di Ledavardis e lo trattarono con educazione e persino con simpatia, rispondendo alle sue domande e facendogliene altrettante. Ma il piccolo Tolivar non riusciva a superare la repulsione per l'infelice aspetto del ragazzo e non gli rivolse mai la parola, se non una sola volta per domandargli se gli piaceva essere un re pirata. Apparentemente incurante dell'ostilità del piccolo, il re rispose che era stato molto felice finché era stato in vita il suo fiero padre, re Ledamot. Il monarca raktumiano aveva fatto della sua flotta il terrore del Mare Settentrionale e non aveva pietà per chi lo minacciava, ma aveva amato teneramente il figlio ed era stato implacabile con quei nobili che avevano osato insinuare che Ledavardis non era adatto a succedergli al trono. Ma poi re Ledamot era morto anzitempo in un naufragio e la regina madre Ganondri aveva fatto capire senza por tempo in mezzo che non ci sarebbero stati rivali alla carica di reggente per il nipote. Parecchi influenti comandanti che si erano opposti erano morti di malattie misteriose, disse Ledavardis, e altri li aveva fatti sparire dalla scena grazie a intrighi politici, privandoli delle loro fortune e del potere. La madre del ragazzo, la regina
Mashriya, era ridotta a un'invalida patetica e impotente che non si alzava mai dal letto. Il tono di Ledavardis mentre raccontava come era cambiata in peggio la sua vita durante i sette anni di reggenza della nonna era privo di emozione, ma anche se il giovane re cercava di non dare peso alle sue disgrazie, era evidente che alla corte di Raktum era isolato e disprezzato. Solo quando gli permettevano di prendere il mare viveva qualche attimo di felicità in compagnia di quei comandanti pirati che erano sfuggiti alle purghe della regina ed erano rimasti suoi amici. In mare il suo corpo deforme si era irrobustito e lui si sentiva un vero re e non un ragazzino impotente. Quando Ledavardis se ne andò, Niki e Jan confessarono di aver sbagliato a considerarlo uno storpio, ma il giovane Tolo imitò lo strano modo di camminare del gobbo e fece le smorfie per prendersi gioco della sua bruttezza e lo definì un piagnone, un fifone e niente affatto un vero pirata. Jan aprì il sacchetto del cibo. «E che importanza ha? È stato gentile da parte sua portarci da mangiare.» «Probabilmente è avvelenato», disse Tolo con una smorfia. «Io non mi fido di quel maledetto re gobbo!» Niki prese la selvaggina, tolse il tovagliolo che l'avvolgeva e annusò. «No, è sanissimo.» Distese il tovagliolo sull'impiantito sporco e vi appoggiò il cibo. «È strano che Ledavardis abbia voluto venire a trovarci e ancor più strano che si sia confidato con noi.» Guardò la sorella che teneva in mano il sacchetto vuoto. «Che ne pensi, Jan?» «Io... io penso che il re di Raktum sia una persona molto infelice», rispose. «Altro non saprei dire.» Niki divise in tre parti l'arrosto, passò ai fratelli la loro parte e tutti e tre si misero a mangiare. 9 La regina Anigel era nella sua cabina, sola con il suo dolore e le sue paure; il comandante della nave, gli alti funzionari di corte, Penapat, Owanon, Ellinis e Lampiar, erano riusciti a convincerla a non restare sul ponte per continuare la sorveglianza attraverso il talismano, anche se sotto il cielo lei si sentiva più vicina ai suoi cari, perché c'era pericolo che il mare agitato la facesse cadere fuori bordo mentre era in trance. Erano quattro giorni che non mangiava quasi nulla e dormiva pochissimo; e permetteva solo a Immu di occuparsi di lei. Trascorreva la maggior
parte del tempo sorvegliando i suoi figli e il marito attraverso il talismano, per assicurarsi che continuassero a stare bene. Di tanto in tanto scrutava anche Portolanus, ma non aveva visto l'incontro fatale con la regina Ganondri e l'ammiraglio Jorot e dunque non sapeva nulla delle intenzioni del Mago di uccidere i prigionieri una volta ottenuto il riscatto. Anigel vide la prima visita di Ledavardis ai figli e l'inaspettata gentilezza del ragazzo la sorprese e la commosse; lo vide tornare anche una seconda volta, ma da solo, il quarto giorno di viaggio, con altro cibo; era rimasto più di un'ora e aveva voluto sapere da Niki e Jan in che modo fossero stati attirati lontano dal ballo dell'incoronazione e che cosa ne pensassero di Portolanus. Nonostante i suoi sedici anni, Ledavardis era un ragazzino ingenuo ed era chiaro che aveva molte riserve riguardo agli alleati tuzameni della nonna e non poche paure riguardo al proprio futuro. Il giovane re accennò anche casualmente al modo in cui il Mago aveva stordito le guardie e il medico della regina con la sua bacchetta magica, risvegliandoli più tardi sempre grazie a un tocco della bacchetta. A quella notizia, Anigel provò un forte sollievo, perché questo le dava la certezza che suo marito Antar non era in coma, come invece aveva temuto vedendo che non si svegliava da giorni, ma era stato toccato dalla bacchetta e si trovava sotto un incantesimo che Portolanus poteva annullare quando voleva. Re Ledavardis sembrava ansioso di parlare con altri ragazzi del suo rango; la vita dei principi reali, anche nel migliore dei casi, era diversa, ma quel ragazzo dalla schiena storta e dal viso repellente era molto più sfortunato. Anigel era triste e dispiaciuta per il modo in cui il piccolo Tolo continuava a irridere Ledavardis chiamandolo re gobbo; ma, dopotutto, Tolo era ancora un bimbo, fragile e insicuro di sé. Pur non essendo mai stato crudelmente emarginato e respinto come il raktumiano, la regina sapeva che invidiava il fratello maggiore, più robusto e più bello, e dunque disprezzare Ledavardis era per lui un modo per sopportare meglio le sue manchevolezze. Quando Tolo sarà di nuovo con me, si disse la regina, farò in modo di tenermelo più vicino, gli dirò che gli voglio bene, lo rassicurerò e lo aiuterò ad aver fiducia in se stesso. Ed esorterò Antar a fare lo stesso... Antar... L'amore e l'ansia per il marito cancellarono dalla sua mente ogni pensiero di Tolo; Anigel ordinò al talismano di mostrarle il re e vide che giaceva
ancora privo di sensi sulla cuccetta nella stiva degli schiavi. Come ogni volta, pregò affinché tornasse sano e salvo da lei. Ora che aveva la certezza che non fosse in punto di morte, era sollevata al pensiero che il marito non sapesse nulla della sua situazione e di quella dei figli. Il re era un uomo impulsivo e orgoglioso, e se fosse stato cosciente sarebbe stato tormentato dalla rabbia e dall'umiliazione e chissà che cosa avrebbero potuto fargli i pirati se avesse cercato di fuggire o di ribellarsi. O se lei avesse rifiutato di pagare il riscatto... Che cosa farò, si chiese Anigel, se Portolanus minaccia di fare del male o addirittura di uccidere Antar? Quel pensiero non smetteva mai di torturarla. Anche ora sentì le lacrime pungerle gli occhi e si ritrovò ad affrontare il dilemma che l'angosciava dall'istante in cui aveva letto le tre parole che indicavano il prezzo della libertà dei suoi cari: Il tuo talismano. Sarebbe riuscita a non cedere, come aveva promesso a Haramis, se il prezzo per mantenere il possesso del Mostro dalle Tre Teste fossero state le urla di Antar sotto tortura o la sua morte ignominiosa? Se cedeva al ricatto di Portolanus, veniva meno alla sua parola di regina, lasciando il proprio paese aperto alla conquista per mezzo della magia nera. Ma al tempo stesso sapeva che, se Antar le fosse stato strappato, anche lei sarebbe morta e il male si sarebbe comunque impadronito di Laboruwenda. Rimase a lungo a contemplare il viso del marito, lasciando libero sfogo alla propria angoscia; ma a un certo punto l'immagine di Antar si affievolì, anche se Anigel lottò per trattenerla, e nella mente udì la voce impaziente di Haramis: «Ani! Ascoltami: guarda dietro la tua flotta e rallegrati!» La regina afferrò il mantello da marinaio e si lanciò fuori, senza neppure rispondere alla sorella. La pioggia era cessata, ma dal nord soffiava un vento impetuoso e le onde erano sempre altissime. Ormai abituata al rollio e al beccheggio, Anigel si afferrò con forza al corrimano e ordinò al talismano di mostrarle il mare dietro la flotta laboruwendiana. La Vista le mostrò un'altra nave che stava guadagnando terreno. Colta da un presentimento, ordinò al talismano di darle una visione ravvicinata dell'altro vascello. Era una nave molto più piccola della sua bireme, con due alberi inclinati all'indietro e solo quattro piccoli ordini di vele, ma che sfrecciava sul mare in tempesta come una saetta e si trovava quasi alla stessa altezza dell'ultima nave laboruwendiana. Alcune delle minuscole figure che lavoravano sul ponte avevano una forma strana e, quando le
scrutò più da vicino, si avvide che erano aborigeni Wyvilo. Tra gli umani c'era una donna snella con una gran massa di capelli color del bronzo, che sul corsetto di pelle aveva l'insegna dell'Occhio Trilobato. «Kadi!» gridò la regina. «Sei venuta! Oh, siano rese grazie ai Signori dell'Aria!» La visione di Kadiya scomparve, sostituita da quella di Haramis, avvolta in un mantello di pelliccia sullo sfondo di un cielo tempestoso. «Ascolta, Ani! Adesso Kadiya e tu dovete lavorare insieme. Sia le vostre navi sia quelle del nemico hanno quasi raggiunto la latitudine dell'Isola del Consiglio. Verso mezzogiorno di domani, la trireme dei pirati virerà verso le Isole Senzavento per raggiungere il punto in cui Kadi ha perso il talismano. Portolanus vi sopravanza di parecchio e temo che la tua ammiraglia non riuscirà mai a riguadagnare il distacco: devi trasbordare sulla nave di Kadiya che è molto più veloce e ha buone probabilità di riuscire a raggiungere la flotta raktumiana prima che entri nella zona senza vento tra le isole.» «Ma con la bonaccia la trireme riuscirà comunque a mantenere una buona velocità...» «La maggior parte degli schiavi sta malissimo per il mal di mare. I corsari di Raktum si limitano in genere a bordeggiare lungo le coste e la Penisola ripara il Mare Settentrionale dai monsoni più violenti. Io sospetto che gli uomini della regina non si siano mai trovati in una tempesta uguale a questa evocata da Portolanus.» «Il nostro coraggioso comandante Velinikar dice che lui non ne ha mai vista una uguale; nonostante le onde mostruose, il vento ha sempre mantenuto una forza sufficiente per spingere al massimo le navi ma senza disalberarle.» «Lascia perdere queste considerazioni», la interruppe Haramis in fretta. «La cosa importante è che i rematori della trireme raktumiana ci metteranno un po' a guarire dal mal di mare e non saranno subito in grado di spingere al massimo. Nel frattempo Kadiya e tu, con quella nave più piccola, potrete mantenervi davanti a loro; con i venti leggeri e saltuari che soffiano tra le isole sarete in vantaggio... per un po'.» «Allora non è certo che Kadi e io riusciremo ad arrivare prima al talismano?» «No», disse Haramis. «Ma tu devi fare in modo che il tuo talismano ti aiuti e pregare i Signori dell'Aria di far volare la tua nave.» Anigel alzò le braccia, esasperata. «Io non sono in grado di comandare il
talismano come fai tu! A volte mi obbedisce in altre cose, oltre la Vista, ma sono molte di più le volte che non lo fa! Io non sono un'Arcimaga!» Haramis sospirò. «Lo so che il modo di agire del talismano rimane per lo più un mistero per te e Kadiya. Anche il Cerchio dalle Tre Ali non collabora molto di più. Ma ora ho intrapreso un viaggio che potrebbe risolvere questo problema...» «Hara, devi dirmi che cos'hai in mente di fare! Ti ho visto sorvolare delle alte montagne in groppa a un gipeto...» «Sorellina, quello che devo non potrò farlo in tempo per aiutare te e Kadi a recuperare il talismano. Dimenticati di me e usa tutta la tua intelligenza e la tua forza per ripescare dalle profondità l'Occhio di Fuoco Trilobato. A ogni ora che passa, l'equilibrio del mondo si compromette sempre di più. Addio e possano Dio e i Signori dell'Aria difenderti da Portolanus.» L'ammiraglia laboruwendiana si mise in panna e cercò di ammainare una lancia che portasse Anigel a bordo della Lyath, ma il vento era così forte e le onde tanto alte che la scialuppa si capovolse ancor prima di essere arrivata a toccare il mare e affondò quasi subito. Uno dei marinai che si erano offerti volontari per governarla annegò. «In questo modo non ci riusciremo, Signora», disse il comandante Velinikar dopo che ebbero recuperato il marinaio superstite. La Lyath si trovava a un quarto di lega dall'ammiraglia e Anigel aveva messo al corrente Jagun delle sue intenzioni e il piccolo Oddling le aveva comunicate a Kadiya e al comandante Ly Woonly. «E allora dobbiamo trovare un altro modo per trasferirmi sulla nave di Kadiya», ribatté Anigel, che indossava una cerata da marinaio e aveva fissato saldamente sui capelli biondi il suo talismano. Il comandante scosse il capo. «Signora, io non ne conosco un altro.» «E allora chiediamo a Jagun di consultarsi con il comandante della Lyath», disse Anigel. Chiuse gli occhi e usò il talismano. Quando li riaprì, qualche minuto più tardi, riferì: «Il comandante suggerisce una teleferica da trasbordo... qualunque cosa sia». I marinai a portata d'orecchio emisero esclamazioni inorridite e lo stesso comandante imprecò, scusandosi poi goffamente con la regina. «Mia Signora, ho sentito parlare di un sistema del genere, ma è una follia anche solo suggerire che lo usiate.» «Descrivetemelo.» «Dovremmo metterci di nuovo in panna, con la prua al vento e pratica-
mente senza vele. La nave okamis dovrebbe governare con precisione assoluta per raggiungere e mantenere la nostra stessa velocità e poi portarsi di fianco a noi, il più vicino possibile. Con una catapulta si lancia sull'altra nave una sagola per far arrivare una gomena alla quale è attaccato un paranco. Collegate in questo modo le navi, voi dovreste calarvi in una specie di salvagente legato alla carrucola che corre sulla gomena. Quelli sulla Lyath vi trasporterebbero a bordo tirando la sagola.» Durante la spiegazione del comandante, Anigel era impallidita, ma riuscì a sorridere. «Benissimo, lo farò.» «No, mia Regina, no!» gridò Velinikar. «Se per caso le due navi si scostassero all'improvviso o una superasse l'altra a causa di un colpo di vento, i cavi potrebbero spezzarsi e voi cadreste in mare. E se invece i due vascelli si avvicinassero troppo, le funi si allenterebbero e cadreste ugualmente in acqua o potreste finire schiacciata tra le due carene.» «Devo farlo», ribatté Anigel. «È la nostra unica possibilità di salvare il re e i miei figli. Fate i preparativi necessari, comandante, mentre io informerò quelli a bordo della Lyath.» Il carpentiere di bordo dovette costruire la teleferica che consisteva semplicemente in un anello di sughero largo meno di un metro, al quale erano assicurati un paio di pantaloni di tela di sacco e delle funi per appenderlo alla carrucola. In seguito, ci volle quasi un'ora perché le due navi riuscissero a mettersi in posizione, e a quel punto era quasi buio. Velinikar in persona si mise al timone della bireme reale, in modo che rimanesse saldamente in rotta. La Lyath accostò con una certa difficoltà, a una ventina di metri circa dalla nave più grande. I due primi ufficiali poterono parlarsi con i megafoni, anche se il vento portava lontano le loro voci. A quel punto iniziò l'installazione della teleferica. Kadiya si avvicinò alle murate della noga insieme con Jagun e un Wyvilo alto e robusto; lei e Anigel si scambiarono qualche frase, urlando, perché non era il momento di fare conversazione a distanza tramite l'Oddling. Poi la regina, con Immu, Ellinis e Owanon, assistette al montaggio della teleferica. Il primo ufficiale le assicurò che variazioni minime di distanza tra le due navi non creavano problemi all'apparecchiatura, erano solo gli improvvisi colpi di vento che avrebbero potuto metterla in pericolo. Tre robusti marinai si fecero avanti e s'inginocchiarono davanti ad Anigel per ricevere la sua benedizione prima di prendere posto accanto all'argano, lo strumento più importante che avrebbe dovuto assicurare la tensione del cavo.
Sulla Lyath, il cui ponte era circa dieci metri più in basso di quello della bireme, l'altro capo della gomena venne assicurato all'albero maestro. Poi venne appeso il paranco e Lummomu-Ko in persona si preparò a tirare a bordo Anigel il più in fretta possibile. Le funi cigolarono e i tre uomini all'argano lottarono per tener teso il paranco. Il vento sembrava essersi calmato un po' e il primo ufficiale decise che era arrivato il momento di tentare. Anigel baciò Immu, Ellinis e Owanon e poi s'infilò nell'imbracatura, afferrando con tutte le sue forze il salvagente di sughero. La carrucola venne sollevata e lei si trovò in aria, e poi fuori bordo. La bireme si tuffò in avanti e la Lyath invece si alzò sull'onda. Per un attimo le due navi si trovarono alla stessa altezza. Anigel si muoveva lentamente sopra le onde, investita dalla schiuma, sballottata come una bambola di pezza. Poi l'ammiraglia laboruwendiana si alzò e la Lyath invece prese il ventre dell'onda e il cavo sulla testa della regina scricchiolò, poi si allentò e la carrucola si fermò di botto, per riprendere subito dopo a muoversi lentamente. Come per miracolo, le due navi riuscirono a mantenere la stessa rotta e la stessa velocità, come una coppia di ballerini esperti, ma male assortiti. La carrucola riprese a muoversi in fretta. Più di metà della strada era stata percorsa e Anigel trovò la forza di salutare con la mano l'equipaggio della noga. Procedeva in fretta ora, sospinta non solo dai possenti muscoli di Lummomu-Ko ma anche dalla forza di gravità che la faceva scendere verso la nave più bassa. E a quel punto il vento cambiò bruscamente direzione e Anigel ebbe l'impressione che la Lyath le si precipitasse contro. Il paranco che sosteneva l'imbracatura si era allentato e invece di scivolare dolcemente cominciò a precipitare verso l'acqua. Grida inorridite si levarono dai ponti delle due navi. I vascelli, sospinti dal vento, si stavano avvicinando. Ancora un istante e lei sarebbe precipitata nelle onde. «Talismano, salvami!» gridò Anigel. Il vento ruggì, cambiando ancora direzione, e si udì un tonfo e poi lo schiocco del paranco che si tendeva. Lummomu-Ko aveva perso la presa ed era finito lungo e disteso sul ponte. Anigel continuava la sua folle corsa verso il basso e in pochi secondi si sarebbe schiantata sul fianco della noga... Si trovò ferma a mezz'aria. Non c'era più vento. Non c'era mare in burrasca, non c'era una noga che si precipitava verso
di lei: sia il mare sia la Lyath erano immobili, come se fossero diventati di pietra. Anigel era sospesa nell'aria tranquilla, le funi sulla sua testa erano tutte intrecciate, ma non si muovevano. Non osava respirare; la vita stessa si era fermata. E poi lei sola, in tutto il mondo, si mosse; fluttuò verso la Lyath, oltrepassò la murata e scese dolcemente. I suoi piedi toccarono il ponte: attorno a lei i Wyvilo pietrificati, Jagun immobile come una piccola statua, con gli occhi e la bocca spalancati per lo stupore, e Kadiya... Quasi nello stesso istante in cui era cominciata, quell'esperienza sovrannaturale finì e Anigel cadde sul ponte, impacciata dall'imbracatura e dalle funi. Kadiya e i suoi compagni urlarono di sollievo e dall'ammiraglia si udirono provenire grida di gioia. Quando riuscì a liberarsi, Anigel cadde tra le braccia della sorella, piangendo: «È stato il talismano! Mi ha salvata! Kadi... Kadi...» «Sì, non c'è dubbio che lo abbia fatto. Un attimo prima stavi precipitando verso l'acqua e un attimo dopo eri qui.» Alle spalle delle due donne, Ly Tyry ordinò ai suoi uomini di tagliare in fretta le funi che li tenevano uniti alla nave laboruwendiana e subito dopo le due imbarcazioni cominciarono ad allontanarsi. La Lyath aveva manovrato con due piccole vele, ma ora ne venne spiegata una terza e nel vento che ruggiva la noga prese velocità, più rapida della bireme. Quando venne issata anche la quarta vela, l'ammiraglia laboruwendiana venne subito distanziata. «Andiamo sottocoperta», disse Kadiya sostenendo la sorella come se fosse una bambina. La regina tremava violentemente, bagnata fradicia nonostante la cerata, e aveva le mani e la faccia macchiate di sangue. Ma sorrise e fece un gesto di saluto verso la sua nave. «Il talismano», ripeté. «È stato il talismano a salvarmi!» Kadiya aprì il boccaporto. «Speriamo», disse con voce piatta, «che salvi anche me.» 10 Nella prima parte del viaggio verso il Kimilion, l'Arcimaga e il Dorok Shiki sorvolarono i Monti Ohogan nel Labornok, ognuno in groppa a un enorme gipeto bianco e nero, mentre altri due animali trasportavano le
provviste. Haramis riusciva ad attenuare la furia della tempesta con molta più bravura ed efficienza di Portolanus, e Shiki non finiva di stupirsi per il calore e il benessere, e per la facilità con cui i voor volavano all'interno della magica bolla di calma che la Maga aveva intessuto con il suo potentissimo talismano. All'inizio, la reverenza che il piccolo Oddling provava nei confronti dell'Arcimaga era tale che non osava quasi parlarle; quand'erano in volo se ne stava in silenzio, per non disturbare la sua concentrazione mistica, e quando alla sera si posavano a terra per mangiare e dormire, era umile e schivo, mentre la Bianca Signora preparava per entrambi cibo caldo grazie a un apparecchio magico; e più tardi, quando i giganteschi uccelli si sdraiavano a fianco delle minuscole tende, il talismano continuava a proteggerli dalla furia degli elementi. La prima notte, Shiki si svegliò di soprassalto con l'impressione di aver udito dei suoni strani, come qualcuno che stesse piangendo. Ma quando chiamò, il debole rumore cessò e lui si disse che quello che aveva sentito non era altro che il gemito incessante del vento. Il mattino dopo si era dimenticato dell'incidente e nelle notti seguenti il suo sonno non fu più disturbato. Superati i Monti Latoosh di Raktum e raggiunto il limitare del Ghiacciaio Eterno, la tempesta contro natura evocata da Portolanus finalmente cessò e il cielo si schiarì. Le loro cavalcature alate continuarono instancabili a trasportarli attraverso accecanti distese bianche, solo a tratti interrotte dai picchi di qualche montagna che si protendeva dalle silenziose immensità delle viscere del continente. L'Arcimaga guidava il suo voor con la stessa bravura con cui Shiki conduceva il nuovo uccello che aveva sostituito il suo sfortunato compagno e, quasi senza pensarci, il Dorok si arrischiò a congratularsi con la Signora per la sua abilità. Lei non si offese, ma anzi, dimostrandosi più che disposta a conversare, gli raccontò che era sua abitudine viaggiare a dorso di voor nelle rare occasioni in cui lasciava la Torre per andare a fare visita alle sue sorelle o per conferire di persona con umani e gente del Popolo che richiedevano il suo aiuto. Disse che aveva imparato a governare i voor molto tempo addietro, prima di diventare Arcimaga, e la sua istruttrice era stata la donna Vispi Magira che ora era la governante della Torre. Questa fu per Shiki un'altra sorpresa perché riteneva che la Bianca Signora fosse una dea che sapeva tutto senza bisogno d'imparare. Haramis rise a questa affermazione e gli raccontò qualcosa della storia della sua vita,
di come fosse Arcimaga da soli dodici anni e non avesse ancora imparato sino in fondo in che cosa consisteva il suo lavoro. Allora, timidamente, Shiki le chiese che genere d'incarichi svolgesse per i suoi clienti; lei rispose in tutta semplicità, raccontandogli delle dispute che era chiamata a dirimere, di come aiutava a trovare le persone scomparse, consigliava i capi che si trovavano in difficoltà, avvertiva in anticipo delle calamità naturali, e della miriade di altri piccoli modi in cui aiutava e proteggeva coloro che si rivolgevano a lei e in lei confidavano. Shiki rimase senza parole quando lei ammise che c'erano problemi per i quali non aveva soluzioni, e quella scoperta lo lasciò attonito quasi come quando si era reso conto che anche l'Arcimaga mangiava e beveva come i comuni mortali, svolgeva le sue funzioni corporali e aveva addirittura la tendenza a dormire troppo. Ma l'ultimo colpo lo ebbe quando Haramis gli confessò di non sapere esattamente che cosa si aspettava di trovare nell'Inaccessibile Kimilion, ma solo che era una cosa importante e lei era terrorizzata al pensiero di dovervi andare e più che felice che lui avesse accettato di accompagnarla. A quel punto il piccolo Dorok cominciò a pensare che forse aveva sbagliato a giudicare la Bianca Signora. Era davvero dotata di grandissimi poteri, ma non era una dea irraggiungibile e neppure uno dei leggendari sindona, troppo elevati per provare paura o dubbi come i comuni mortali. No, questa Arcimaga era una persona in carne e ossa, con emozioni molto simili alle sue, che dubitava di se stessa e aveva bisogno di conforto e amicizia. E così trovò il coraggio di conversare con lei sempre più spontaneamente arrivando a fare persino qualche innocente battuta. Haramis dal canto suo gli chiese com'era la vita nelle montagne tuzamene, e il Dorok le raccontò che lui e sua moglie avevano vissuto coltivando piccoli appezzamenti di piante di ferol che prosperavano nella valle riscaldata dai geyser dove si trovava il loro villaggio e che davano frutti nutrienti da cui si ricavava anche una bevanda molto gradevole. Nella Stagione della Neve Shiki cacciava worram e altri animali da pelliccia, mentre sua moglie filava la lana di zuch e confezionava scialli e sciarpe che poi vendevano insieme con le pelli agli umani della pianura. Con grande tristezza, le parlò del rapporto di comunicazione senza parole e di amicizia, che datava da tempi immemorabili, tra il suo popolo e i giganteschi voor, che i Dorok cavalcavano per recarsi a trovare gli altri villaggi del Popolo nelle montagne di Tuzamen. «Ma ora, come ti ho già detto», concluse, «a causa del Mago malvagio, i
voor e i Dorok non possono più essere amici.» E attese che l'Arcimaga lo rassicurasse, gli dicesse che sarebbe stata lei a porre rimedio alla situazione sconfiggendo Portolanus. Ma la Signora non disse nulla, si limitò a sfiorare il talismano e a fissare la desolata distesa di ghiaccio, con espressione enigmatica e austera. Quella notte Shiki udì di nuovo quei deboli rumori che gli ricordavano il pianto. Sette giorni dopo aver lasciato la Torre dell'Arcimaga, i viaggiatori videro quella che sembrava una solitaria collinetta di forma stranamente arrotondata ergersi sopra l'orizzonte della desolata distesa di neve e ghiaccio. A mano a mano che si avvicinavano, la collina rotonda assunse sempre più l'aspetto di una massa di nubi temporalesche, in parte grigie e in parte nere come l'inchiostro, che turbinavano e roteavano, ma che sembravano più dense delle nuvole normali da pioggia o da neve. Di tanto in tanto nelle profondità di quella massa scoppiavano lampi di un livido color porpora. «È il Kimilion», disse Shiki, «il luogo che noi Dorok chiamiamo la Terra del Ghiaccio e del Fuoco. In genere le grandi nubi che avvolgono l'altopiano sono composte di vapore con qualche parte di fumo e ceneri, ma temo che ora siano molti i vulcani in eruzione. Dobbiamo pregare che la lava fusa non abbia riempito il bacino interno, Bianca Signora, perché è là che troveremo lo strano edificio che cerchi in cui viveva il Mago Portolanus. Il tuo talismano è in grado di dirci se non c'è pericolo a entrare nel bacino?» Haramis estrasse la bacchetta da sotto il mantello e le ordinò di mostrarle un'immagine chiara dell'Inaccessibile Kimilion. Quando aveva cercato di scrutare quel luogo dalla Torre, i particolari dell'interno erano sempre stati nascosti da spesse nubi e lei non era riuscita ad avere una visione chiara di quello che c'era al suolo. Anche questa volta l'immagine che comparve al centro del Cerchio dalle Tre Ali era oscura e mostrava poco più di quello che sarebbe riuscita a vedere a occhio nudo se si fosse trovata direttamente sopra il punto a guardare attraverso il fumo turbolento. «Temo che dovremo aspettare di arrivarci per vedere che cos'è accaduto all'antico edificio che serviva da magazzino», disse a Shiki. «Il Kimilion è un luogo avvolto da una potente magia e mi stupisce che il tuo popolo sia al corrente della sua esistenza.» Il Dorok scrollò le spalle. «Della Terra del Ghiaccio e del Fuoco si parla nelle nostre più antiche leggende come di un luogo sacro per gli Scomparsi. E di tanto in tanto uno degli eroi Dorok prova l'impulso irresistibile di raggiungere quel luogo a dorso di voor, ma tutti sanno che non devono toccare nulla se vogliono tornare a casa sani e salvi. Coloro che resistono alla
tentazione tornano, ma alcuni non furono mai più visti e si dice che abbiano ceduto al fascino della magia proibita del luogo e siano rimasti laggiù, trasformati in statue di ghiaccio.» «Mi chiedo», rifletté Haramis ad alta voce, «se il tuo Popolo non possa un tempo essere stato al servizio di un qualche Arcimago e se non abbia trasportato per conto suo nel Kimilion i manufatti pericolosi. Voi siete parenti stretti dei Vispi dei Monti Ohogan ed essi servivano da tempi immemorabili il mio predecessore Binah.» «Non so nulla di un simile accordo, Bianca Signora. Noi Dorok credevamo che l'Arcimaga vivesse molto lontano dalla nostra terra e non avesse nulla a che fare con noi. È stato il mio amato voor Nunusio a ricordarmi che tu sei la guardiana e la protettrice di tutto il Popolo e così mi ha incitato a venire da te.» Haramis avvertì una sorta di formicolio alla base del collo: i gipeti! Non aveva mai pensato di consultarsi con loro... Hiluro! Ti sento e ti rispondo, Bianca Signora. Parlami in modo che Shiki e gii altri uccelli non possano sentire. Molto bene. Hiluro, tu sai se esistono altri Arcimaghi viventi, oltre a me? Sì: c'è la Signora del Mare, che vive nella regione inespugnabile delle aurore; e il Signore del Firmamento, la cui dimora è nel cielo. Tu e loro due siete gli unici rimasti del grande Collegio degli Arcimaghi fondato dagli Scomparsi per contrastare i malvagi Uomini della Stella. Non so dirti nulla degli altri due, a parte il loro titolo e il luogo in cui vivono e che continueranno a vivere e a portare avanti la loro missione fino a quando la Stella minaccerà l'equilibrio del mondo. Grazie, Hiluro. Almeno questo era un po' più di quello che le aveva detto il talismano, rifletté Haramis mentre si avvicinavano sempre più al Kimilion. Poi, mentre il sole al tramonto stendeva un velo rosato sul Ghiacciaio Eterno e soffondeva di uno spettacolare riverbero le nubi color cenere, arrivarono. L'Inaccessibile Kimilion era un piccolo altopiano di circa tre leghe di diametro, circondato da una dozzina di alti vulcani; cinque di questi, accostati a fianco a fianco, spandevano fumo nero con occasionali getti di lava e lapilli; sottili rivoli di roccia fusa scendevano lungo le pendici. Da due delle montagne si levavano solo nuvole di vapore bianco che si mescolavano ai pennacchi scuri, mentre tutti gli altri erano spenti. I vulcani attivi
erano una vista spaventevole e il loro rombo era come un tuono incessante. Shiki vide con stupore che la mano dell'Arcimaga stretta attorno al talismano tremava. «Il vento soffia cenere e fumo lontano dall'interno del Kimilion», disse Haramis, «e questa è perlomeno una buona notizia.» I quattro gipeti sorvolarono un ripido declivio nella parte orientale dell'altopiano dove enormi ghiacciai striati di cenere ricoprivano i vulcani spenti. Lava solidificata in tutte le fogge, a blocchi, a pinnacoli, liscia, striata da enormi nervature o cosparsa di buchi e crepe, ricopriva il fondo della valle. Il centro della depressione era occupato da un lago alimentato dai torrentelli di neve sciolta dei vulcani inattivi, nel quale si rifletteva il cielo di tempesta. Il terreno sulla sponda occidentale dello specchio d'acqua era costellato di fumarole e pozze di fango bollente da cui si alzavano bolle multicolori. Sulla sponda orientale il terreno sembrava più solido, pur se cosparso di mucchi di cenere, e sulle rocce crescevano licheni e scarni cespugli con le foglie scolorite e sbiancate dalle esalazioni velenose dei vulcani. Ai piedi di una grande roccia nera si ergeva l'edificio. I quattro voor fecero una volta il giro del lago, poi si abbassarono per atterrare vicino alla struttura. L'atmosfera era pervasa da un acuto ma sopportabile odore di zolfo, e l'aria era umida e molto calda; una pioggerella di ceneri cadeva incessante. Piccoli noduli di pomice si frantumarono sotto i piedi dell'Arcimaga e del suo compagno quando si allontanarono dai gipeti. Il terreno pareva vibrare e un rombo basso, quasi musicale, si mescolava con i sibili delle fumarole e il rumore dell'acqua dei torrentelli. «Non possiamo fermarci troppo, Shiki», decise Haramis. «Cercherò di affrettare le mie ricerche.» «Vorresti... vorresti che ti accompagnassi?» si offrì il Dorok. «Se vi sono demoni a guardia di questo luogo, come dicono le nostre leggende, sarei lieto di difenderti con la vita.» Estrasse il lungo coltello dal fodero e lo tenne alto, con entrambe le mani, cosicché la lama brillò sanguigna alla luce della lava fusa. Haramis lo guardò profondamente commossa. Shiki la conosceva a malapena e di sicuro era molto più spaventato di lei, eppure non c'era dubbio che quell'offerta l'avesse fatta per vera amicizia e non semplicemente per assolvere a un dovere. «Caro Shiki», rispose mettendogli una mano sulla spalla, «il tuo cuore gentile ha compreso che io ho paura di ciò che potrei scoprire in questo luogo. Tuttavia devi capire che io non temo mostri, demoni o altri pericoli
simili. Questo edificio è stato costruito da un'altra Arcimaga come me, dopotutto, ed è quindi giusto che io entri e lo esplori. È la cosa sconosciuta che cerco, e che riconoscerò quando la vedrò, che mi fa paura, perché tocca il più profondo della mia anima e del mio cuore. In quel regno interiore non può accompagnarmi nessuno, devo andare sola. Sarei però molto felice se tu potessi venire con me, almeno fin dove potrai arrivare. Riponi quell'arma, amico mio.» Shiki rimise il coltello nel fodero. «Noi Dorok abbiamo un detto: un mostro affrontato accanto a un compagno è più piccolo di quello affrontato da soli.» Haramis si limitò a sorridere e si avvicinò al misterioso edificio con l'omino al fianco. La struttura era costituita di rocce di lava nera, proprio come il costone cui si appoggiava, ed era grande quanto un fienile, con un tetto di lastre di pietra molto inclinato che la proteggeva sia dalla neve sia dalla pioggia di ceneri. Due finestre (le uniche), formate da tanti piccoli pannelli di vetro piombati, si aprivano ai lati della stretta porta, profondamente incassate nei muri spessi quasi un metro. La porta era di metallo e non aveva né serratura né chiavistello e quando Haramis la toccò non si aprì. L'Arcimaga allora la sfiorò dolcemente con il suo talismano, dicendo: «Talismano, proteggici da ogni male e concedici l'accesso a questo luogo». Immediatamente la porta si spalancò su un interno buio come la notte. Haramis entrò e ordinò la luce e subito s'illuminarono una serie di nicchie nelle pareti che avevano come fonte alcuni cristalli che ardevano senza fiamma, in tutto identici a quelli della Torre dell'Arcimaga. Shiki entrò dietro di lei. La stanza era senza dubbio il luogo che l'esiliato Portolanus aveva usato come dimora: una lunga tunica di materiale rigido e un paio di sandali giacevano infatti abbandonati sul pavimento, mentre in un angolo c'erano un mantello e un cappello a cono dello stesso materiale. In contrasto con quei rozzi abiti, l'arredamento della stanza era straordinariamente elegante e sofisticato: un tavolo, due sedie e parecchi armadietti e cassettoni di uno strano materiale bronzeo costruiti in una foggia che Haramis non aveva mai visto prima, aggraziata e curvilinea, senza segni di connessioni, come se quegli oggetti, invece di essere stati costruiti da un artigiano, fossero cresciuti fino ad assumere quella forma. Sul letto c'erano dei cuscini che sembravano due enormi bolle di sapone, e coperte di uno strano tessuto trasparente ma robusto e gradevole al tatto, fissate al letto con qualche strano sistema in modo che non si potessero togliere. Accanto al
letto c'era uno strano armadietto di un materiale liscio e duro, sulla cui parte superiore, leggermente inclinata, era disegnato un grande quadrato grigio con tanti quadrati più piccoli di vari colori, sui quali spiccavano in bassorilievo strani simboli. Dall'altra parte della stanza, accanto al tavolo e alle sedie, un grande oggetto a forma di cubo, alto fino alla vita, sul quale erano disegnati molti rettangoli di misura diversa. Sulla parete anteriore, all'interno di una sorta di cornice, c'erano dieci cerchi più piccoli di una corona di platino e anche su questi erano disegnati simboli misteriosi. «Di certo queste cose meravigliose sono state costruite dagli Scomparsi!» sussurrò Shiki. «Hai ragione, e ora scopriremo a che cosa servono tutti questi oggetti indecifrabili.» Sfiorò con il talismano lo strano armadietto accanto al letto, formulando una domanda con la mente, come aveva imparato a fare durante l'esplorazione della caverna del Ghiaccio Nero. Il talismano parlò: Questa è una biblioteca: si consulta nel seguente modo... «Attendi», disse Haramis e toccò il grande cubo accanto al tavolo. Questa è un'unità cucina. Comprende un assortimento di contenitori e utensili; cuoce cibi, li riscalda o li surgela e li mantiene in condizioni perfette a tempo indefinito. Si apre lo scompartimento contenente gli utensili... «Basta», disse Haramis e toccò un oggetto delle dimensioni di una cassapanca. Il coperchio si spalancò immediatamente, rivelando poligoni e cerchi luccicanti disposti in modo incomprensibile. Questo è un creatore musicale in grado di riprodurre i suoni di qualunque strumento e di orchestrarli a seconda delle intenzioni del compositore... «Basta», disse Haramis. Si avvicinò a una porta interna che si aprì con facilità. Quando entrò nell'enorme stanza che a prima vista occupava gran parte dello spazio dell'edificio, le luci si accesero, rivelando file e file di scaffali che arrivavano sino al soffitto, intervallati da minuscoli corridoi: sugli scaffali, meccanismi di forma strana e scatole di ogni misura. Su tutto una patina di polvere alta mezzo dito e impronte pulite nei punti in cui erano stati tolti degli oggetti. Haramis e Shiki camminarono lungo i corridoi osservando meravigliati gli oggetti; di tanto in tanto l'Arcimaga toccava una macchina con il suo talismano e veniva a conoscenza delle cose più incredibili: strumenti di tutti i generi, armi terribili, strani apparecchi scientifici, macchinari artigianali (anche se naturalmente mancava la materia prima che li avrebbe resi utili
al Mago in esilio), macchine che insegnavano, divertivano, guarivano, persino. «Che meraviglia!» esclamò Shiki. «A Portolanus dev'essere spiaciuto molto non potersi portare via tutte queste cose.» «Credo che dobbiamo ringraziare i Signori dell'Aria che non sia stato in grado di farlo», replicò cupa Haramis. «Solo il cielo sa come sono stati portati qui i macchinari più grandi.» Mentre si dirigevano verso la parete appoggiata al fianco della montagna, chiese al suo talismano: «Questo è veramente il deposito segreto di qualche Arcimago?» Sì. «Chi lo ha costruito?» L'Arcimago della Terra Drianro lo ha costruito dopo che il deposito usato in origine dai primi Arcimaghi della Terra era stato sommerso dalla lava, diventando inservibile. «Dimmi quand'è vissuto Drianro e perché questo luogo non è stato usato dall'Arcimaga Binah.» Drianro nacque 2306 anni prima di oggi. Morì all'improvviso, scordandosi d'informare il suo successore, l'Arcimaga Binah, dell'ubicazione di questo deposito di antichi manufatti nell'Inaccessibile Kimilion. Haramis trattenne il fiato e il talismano, leggendole il pensiero come sembrava fare spesso, rispose alla sua domanda inespressa: L'Arcimaga Binah visse 1486 anni e detenne il suo sacro ufficio per 1464 di quegli anni. «Per il Fiore! E io sono destinata a vivere tanto a lungo?» La domanda non è pertinente. Haramis strinse le labbra; per l'ennesima volta il talismano le aveva chiuso la bocca con quella maledetta frase che pronunciava tutte le volte che non era in grado di rispondere a una domanda! Ma dimenticò subito quella seccatura, lasciandosi riprendere dalla meraviglia per tutti gli oggetti misteriosi che la circondavano. «Tutte queste cose», chiese ancora al talismano, «sono state racchiuse qui perché venivano considerate potenzialmente dannose?» Solo alcune vennero considerate dall'Arcimago Drianro inadatte alla cultura indigena, e tutte le altre le ritenne potenzialmente pericolose. «Si tratta di strumenti magici o di semplici macchine?» Sono prodotti di una scienza antica che alcuni riterrebbero magica. «Ma sono veramente magici?» domandò Haramis.
La domanda non è pertinente. «Uffa!» esclamò l'Arcimaga. «Quando la smetterai di prenderti gioco di me tutte le volte che cerco di arrivare al cuore delle questioni, all'essenza vera del mio compito di Arcimaga?» Le domande non sono... «Basta», lo interruppe esasperata e lasciò andare la bacchetta che rimase sospesa alla catena che portava al collo. Shiki aveva ascoltato il colloquio con il talismano a bocca aperta e con gli occhi sbarrati per lo stupore. «Non scandalizzarti, amico mio», gli disse brusca, «la magia può essere stupefacente... ma anche frustrante e monotona, soprattutto per chi è costretto a impararla senza un insegnante. Sono venuta qui sperando proprio di rimediare a questa mancanza.» «Speravi di trovare un libro magico o uno strumento che ti istruisse?» chiese Shiki con un sorriso incerto. «No. Cerco qualcosa di più speciale. E dal momento che non si è degnato di mostrarsi a me, sono costretta a ordinarglielo.» Sollevò di nuovo il talismano e parlò ad alta voce: «Se in questo luogo vi è un apparecchio che possa permettermi di comunicare con altri Arcimaghi viventi su questo mondo, che allora si mostri!» Udirono un suono. Fu come la vibrazione di un cristallo su cui si batte con un'unghia. Un suono puro, acuto e risonante. Haramis si guardò intorno tenendo il fiato sospeso, scrutando le file di scaffali ricoperti di oggetti: da dove veniva quel suono? Ma questo cominciò a svanire non appena cercò di stabilirne la provenienza. Shiki, che si era tolto il berretto di pelle per permettere alle sue orecchie appuntite di ascoltare meglio, gridò: «Da questa parte!» e si lanciò di corsa, seguito dall'Arcimaga. Raggiunsero la parete più lontana dall'ingresso, che era costituita di lava grezza e che doveva fare parte della montagna stessa. Shiki si fermò in un punto che non aveva nulla di diverso dal resto della stanza, indicò il pavimento e disse: «Da qui!» Haramis picchiò sulla superficie rocciosa con il talismano: si udì di nuovo quella nota cristallina... e una parte del pavimento divenne trasparente come un velo di fumo e poi scomparve, lasciando solo un'apertura di circa un metro, dalle profondità buie e impenetrabili, da cui proveniva un soffio di aria stantia che sollevò la polvere della stanza facendoli starnutire en-
trambi. Haramis ordinò che l'interno del buco s'illuminasse, ma non accadde nulla: l'apertura rimase buia e anche l'aria cessò di soffiare. La nota musicale cominciò impercettibilmente a svanire. Haramis si rivolse al talismano: «Che cos'è questa apertura? Dove conduce?» Questo è un viadotto e porta nel luogo in cui si viene convocati. «E mi è richiesto di entrarci?» Sì: l'Arcimaga della Terra è convocata dall'Arcimaga del Mare per un soggiorno d'istruzione di tre volte dieci giorni e tre volte dieci notti. Haramis emise un sospiro di sollievo, raggiante in viso. «Era questo che attendevo... quello che speravo di trovare! Siano rese grazie al Dio Triuno!» Stava per entrare nel passaggio senza por tempo in mezzo, quando la voce tremula di Shiki la trattenne. «E io? Devo attendere qui il tuo ritorno, Bianca Signora?» Vergognandosi della sua sconsideratezza, Haramis si rivolse al talismano: «Non posso lasciare solo il mio fedele servo Shiki in questo orrendo Kimilion per trenta giorni. E poi ci sono anche i nostri fedeli gipeti». Il Dorok Shiki andrà altrove, dove la sua presenza è richiesta, e dovrà entrare nel viadotto prima dell'Arcimaga della Terra. I quattro voor che vi hanno portato qui stanno già volando verso casa. «Ohhh!» gridò Shiki. «Siamo abbandonati qui... proprio come il Mago malvagio!» «Zitto», lo ammonì Haramis. «Non siamo affatto abbandonati... Talismano, dove mandi Shiki?» Dove deve andare. «Oh, mi farai impazzire!» esclamò Haramis. Poi si calmò e si rivolse a Shiki: «Cerca di non aver paura: sono certa che il talismano non intende fare del male a nessuno dei due. Posso... posso solo presumere che ti attenda un luogo in cui potrai essere utile mentre io sarò impegnata nei miei studi, e questo luogo non è dove sono io ed è per questa ragione che dobbiamo separarci. Hai il coraggio di entrare nel viadotto e fare ciò che ti chiede il talismano?» Il piccolo uomo chinò il capo. «È il tuo talismano e io sono il tuo servo, Bianca Signora.» Le prese una mano e la baciò; poi, con un gesto deciso, si calcò il berretto in capo ed entrò nell'apertura buia. Si udì il suono di un campanello e il Dorok Shiki scomparve. Haramis lo
chiamò, ma non udì neppure l'eco della propria voce, solo il debole riverbero del tintinnio del campanello. Adesso tocca a me, si disse. Poi un pensiero tremendo la colse: anche Portolanus era stato convocato? Era stato convocato due volte...? C'era forse nello Scettro Trilobato e nei tre talismani che lo formavano, qualche scopo che andava ben al di là di quello che lei avrebbe mai potuto immaginare? Avvertì un impulso fortissimo a cercare il consiglio delle sue sorelle, a raccontare loro di quel nuovo mistero, a chiedere che le infondessero la loro forza e risolutezza per quel passo verso l'ignoto. Coraggiosa Kadiya! Amorevole e salda Anigel! E sono io quella che indugia... io, che le dovrei guidare. No, decise, non renderò più pesanti i loro fardelli solo per alleggerire il mio. Bandirò ogni titubanza e seguirò l'esempio del buon Shiki... Strinse il talismano con entrambe le mani ed entrò in quel buco chiamato viadotto. Per un attimo venne avvolta da un'oscurità soffocante e si ritrovò sospesa nel vuoto, con il cervello che pareva sul punto di esplodere senza dolore in un'unica enorme pulsazione musicale. Poi, subito dopo, sentì qualcosa di solido sotto i piedi: dei sassolini che si muovevano. Attorno a lei era ancora buio, ma Haramis sapeva che si trattava del buio della notte e non di assenza di luce dovuta alla magia. Mentre i suoi occhi si adattavano lentamente, vide che c'erano le stelle anche se a malapena visibili in un cielo che pareva soffuso di una strana luminescenza rosso scuro. E c'era un suono, il dolce sciabordio di piccole onde sulla battigia; e una brezza tesa, fredda, le sfiorava il viso. Era su una spiaggia. Sul mare galleggiavano cose enormi, che brillavano come navi fantasma, ma molto, molto più imponenti di qualunque oggetto costruito dall'uomo. Erano grandi come isole, simili a piccole montagne, e ognuna di esse era circondata da una fosforescenza verde o blu elettrico. Le placide onde erano sormontate da una cresta di schiuma luminescente. E il cielo rosso scuro stava mutando; dal lontano orizzonte sorse un raggio perlaceo e opalescente... poi, lentamente, se ne materializzarono altri, finché furono cinque in tutto, che ondeggiarono come dita spettrali, si allargarono, divennero un luminoso ventaglio di luce rosa, bianca e verde, che s'ingrandì fino a diventare una sorta di arazzo. La luce del cielo splendette sui luminosi iceberg che svettavano al largo e illuminò lo strano paesaggio alle spalle di Haramis, una distesa desolata di colline spoglie e sen-
za alberi, sulle quali brillavano larghe chiazze di neve. Il vento aumentava d'intensità. «Dove sono?» sussurrò Haramis. Sulla Riva del Mar dell'Aurora. Ecco spiegata la fantastica luce del cielo! Era l'aurora boreale, un raro fenomeno naturale di cui aveva letto ma che non aveva mai visto di persona e che avveniva solo nelle zone più a nord del mondo. Quei colori cangianti erano così spettacolari che Haramis quasi dimenticò la ragione per cui era venuta... No, Haramis, non devi. Hai così tanto da imparare. L'Arcimaga emise un grido spaventato: chi le aveva parlato non era stato il talismano. «È l'Arcimaga del Mare?» gridò. «Dove sei?» Segui il Sentiero di Luce. Lo splendore dell'aurora si rifletteva nel mare e in un punto particolare non distante da dove si trovava, sembrava che l'acqua si stesse solidificando, trasformandosi in una superficie che luccicava come ghiaccio incrostato da una miriade di minuscoli diamanti. Mentre lo guardava, il sentiero di ghiaccio si allungò, stendendosi dalla riva fino al più alto degli iceberg rilucenti. Reggerà il mio peso? si chiese Haramis. Rabbrividendo nel vento freddo, allungò un piede; il ghiaccio cedette con un tintinnio dolce, ma non si frantumò. I due lati di quel passaggio rilucente erano lambiti da onde nere, ma il Sentiero di Luce era solido come roccia. Avvolgendosi nel mantello da Arcimaga, Haramis s'incamminò nel mare. 11 «Se questa mappa che hai disegnato è fedele, Signora», disse il comandante Ly Woonly a Kadiya, «allora dovremmo trovarci solo a un paio di leghe dal punto in cui è affondato il tuo talismano.» Anigel e Kadiya si erano appena svegliate quand'erano state chiamate sul ponte della Lyath dal comandante e avevano visto che la nave si muoveva lentamente verso sud, lungo la costa frastagliata dell'Isola del Consiglio, tenendosi a rispettosa distanza dalla riva. Da tre giorni, da quando cioè la Lyath era entrata nelle Isole Senzavento, sulla coffa era stata posta una vedetta per segnalare la presenza di pirati raktumiani o d'indigeni ostili; ma fino a quel momento non era stato avvista-
to nessun vascello, anche se erano stati individuati i fuochi dei villaggi Aliansa e gruppi di pescatori indigeni che gettavano le reti nelle acque basse. Il talismano di Anigel non era stato di molta utilità nel rintracciare la trireme pirata in quel dedalo di isole; la regina vedeva perfettamente la grande imbarcazione, ma non era in grado di stabilirne la posizione sulle carte nautiche, perché ai suoi occhi tutte quelle isole sembravano uguali e la mappa era ben lontana dall'essere precisa. Di conseguenza non potevano sapere se la nave pirata si trovava dietro o davanti a loro. Il talismano aveva confermato che c'erano folti gruppi di Aliansa che osservavano di nascosto il passaggio della Lyath, e poiché i nativi comunicavano tra loro da un'isola all'altra tramite il linguaggio senza parole, era ovvio che conoscessero l'esatta posizione della nave raktumiana. Ma quando i Wyvilo che accompagnavano Kadiya li avevano contattati con lo stesso sistema, gli Aliansa si erano rifiutati di rispondere. La regina Anigel aveva scoperto sconfortata che, pur riuscendo ad ascoltare di nascosto grazie al talismano, non era però in grado di capire che cosa si dicevano gli aborigeni, perché, quando parlavano tra loro, usavano la loro incomprensibile lingua e non il dialetto commerciale universale basato sul linguaggio umano che avevano utilizzato durante la fallita conferenza con Kadiya. Totalmente all'oscuro della posizione e della distanza dai nemici, Anigel e Kadiya non avevano dunque potuto fare altro che incitare Ly Woonly a sfruttare il più possibile i venti capricciosi, mentre loro due pregavano di riuscire a raggiungere il punto in cui era scomparso il talismano prima di Portolanus. «Siete stato bravissimo a portarci tanto in fretta all'Isola del Consiglio, comandante», gli disse Anigel grata. «Sono strabiliata dal modo in cui avete navigato di notte in questo labirinto di barriere coralline e rocce.» Gettando un'occhiata alle sue spalle, al Wyvilo che stava orientando una vela, Ly Woonly sussurrò: «Lo dobbiamo a questi Oddling della Foresta, Grande Regina. Quei bricconi dai grandi occhi hanno una specie di sesto senso che li aiuta ad aggirare gli ostacoli in acqua. Notte o giorno non fa differenza e navigare nei bassi fondali per loro non è diverso che viaggiare sui fiumi di casa». «La baia dove sorge il villaggio del Grande Capo Har-Chissa dovrebbe trovarsi proprio dietro quel promontorio», disse Kadiya studiando la mappa spiegazzata. «Non capisco come mai non siano ancora comparse le imbarcazioni degli indigeni a intercettarci. Quando siamo arrivati per la conferenza, un folto gruppo di canoe con venti e più rematori ciascuna ci è ve-
nuto incontro per scortarci all'isola... ed eravamo molto più lontani di adesso.» «Forse gli Oddling del Mare hanno delle buone ragioni per restare a terra», osservò Ly Woonly, il cui viso di solito allegro e gioviale si era fatto cupo sotto il cappello piumato. «Grande Regina, sbirciate un po' con la vostra corona per vedere che cosa succede dall'altra parte del promontorio.» «D'accordo.» Anigel chiuse gli occhi e toccò il cerchietto d'argento posato sui capelli biondi. «Oh! La trireme pirata è già là, con tutte le vele serrate! E vedo che ha gettato le ancore.» «Tuoni e fulmini!» esclamò Woonly. «Tutti gli uomini sul ponte! Timone: pronti a mettersi in panna!» Si allontanò di corsa gridando altri ordini e in pochi minuti la piccola imbarcazione rallentò e si fermò. «Svelta! Osserva bene la nave pirata!» disse Kadiya alla sorella. «Stanno calando delle scialuppe o fanno qualche altra cosa che possa far pensare che sono pronti a recuperare il talismano?» Anigel rimase in silenzio per qualche istante, con gli occhi spenti. «No, non vedo nulla del genere, solo marinai che arrotolano corde e ammainano le vele, e l'ammiraglio raktumiano che parla con uno degli ufficiali... Dice che sono appena arrivati alla Baia del Consiglio e che non hanno potuto navigare con il buio per paura di finire in secca. A quanto pare, Portolanus possiede un apparecchio magico che dovrebbe mostrare la profondità delle acque, ma non ha funzionato come doveva e cosi la trireme è stata costretta a calare le ancore tutte le notti... Per il Fiore! Da un momento all'altro Portolanus ih persona e i suoi tre accoliti saliranno sul ponte!» «Fammi vedere», ordinò Kadiya. Anigel chiese al talismano di condividere la visione e la scena si offuscò leggermente, perdendo i suoni. Ma ciò nonostante Kadiya vide con chiarezza tre figure che emergevano da un boccaporto di poppa: un uomo di statura media con un lungo abito color porpora con il cappuccio, un individuo più tarchiato con lo stesso abito, ma di colore giallo, e un terzo, molto più basso, vestito tutto di nero. Dietro di loro comparve l'ormai familiare nube indistinta che indicava la presenza di Portolanus. Ultimi del gruppo, salirono la regina reggente Ganondri, che indossava un abito di seta verde mare e che si era evidentemente ripresa dopo tre giorni di mare calmo, e il giovane e gobbo re di Raktum, pallido e cupo in volto. Gli assistenti del Mago si disposero l'uno accanto all'altro lungo una delle murate del cassero reale, e parvero guardare direttamente negli occhi Anigel e Kadiya. Il Mago invisibile si portò dietro di loro... e d'un tratto
divenne visibile. Indossava un lungo abito d'un bianco perfetto, era senza cappello e la barba e i capelli color della stoppa ondeggiavano nella brezza tiepida. Mentre le due sorelle lo guardavano a bocca aperta, Portolanus agitò le dita in un ironico gesto di saluto, evidentemente ben consapevole che lo stavano scrutando. La regina reggente e il nipote si spostarono il più lontano possibile dal quartetto magico, ma senza staccare gli occhi da loro. Il volto del Mago perse la sua smorfia da pagliaccio, il corpo parve raddrizzarsi e aumentare di statura, le spalle si fecero larghe e i lineamenti del viso cambiarono. Pronunciò un breve ordine e i tre accoliti caddero in ginocchio. Con un gesto violento Portolanus tolse loro il cappuccio, rivelando le teste rasate, poi le accostò le une alle altre come un mercante di frutta che radunasse i meloni. Infine distese le mani ossute in modo che le dita sfiorassero tutti e tre i crani e chiuse gli occhi. «Grande Signore», sussurrò Kadiya. «Sorella, vedi i tre lacchè?» Anigel annuì, strabiliata: le orbite dei tre uomini inginocchiati si erano trasformate in pozze scure e vuote e i tre erano immobili come statue. Dietro di loro Portolanus aprì lentamente gli occhi e abbassò le mani lungo i fianchi. Sotto le sopracciglia folte e giallicce, due minuscole stelle bianche brillavano di un bagliore accecante. «Bentrovate, regina Anigel e Lady Kadiya!» disse, e le due sorelle lo udirono perfettamente, come se si fosse trovato accanto a loro. «Ci vede!» disse Anigel. «Ma certo che vi vedo», replicò Portolanus con un sorriso. «Con l'aiuto delle mie tre potenti Voci sono in grado di scrutare fino ai più lontani confini del mondo e vedere e parlare con qualunque cosa e chiunque! Non trovate che sia una splendida mattinata? Personalmente, preferisco il bel tempo e vi confesso che è stato un gran sollievo per me, e anche per i miei servi, poter smettere di evocare tempeste. Permettetemi di congratularmi con voi e con il vostro comandante per la notevole velocità che il vostro vascello è stato in grado di raggiungere. Gli schiavi vogatori della nostra galea sono prostrati dalla fatica di aver remato fin dall'alba per portarci qui prima di voi, attraverso una scorciatoia.» «Avresti dovuto lasciar soffiare il tuo vento magico», ribatté Kadiya. «Ahimè», rispose Portolanus con una scrollata di spalle, «il mio potere di evocare tempeste non è tanto duttile da riuscire a influenzare le brezze capricciose che prevalgono nelle Isole Senzavento. Ma ciò nonostante, come vedete, ce l'abbiamo fatta con mezzi naturali. Devo avvertirvi di non avvicinarvi oltre; non cercate di entrare nella baia o di raggiungere il punto
in cui è affondato il talismano, o le conseguenze saranno irreparabili.» Portolanus schioccò le dita e dal boccaporto comparvero due pirati in armatura che sostenevano un corpo afflosciato, seguiti da un terzo con la spada sguainata. «Antar!» gridò Anigel. Il Mago dagli occhi stellati rise. «Un bell'esemplare di re, non trovate? E anche pigro: non ha fatto che dormire per tutti i giorni di viaggio da Taloazin. Ma è arrivato il momento di svegliarlo. Grazie alla mia magia potrai parlargli.» Toccò il re di Laboruwenda con una piccola bacchetta, e immediatamente l'uomo svenuto si mosse tra le braccia dei due pirati e sollevò la testa. Non appena si rese conto di essere prigioniero, si mise a lottare come un forsennato, imprecando contro Portolanus. Il Mago scosse il capo in un gesto irridente. «Il nostro regale ospite ripaga l'ospitalità con male parole. Bisogna insegnargli le buone maniere.» Si rivolse sottovoce al guerriero raktumiano con la spada e questi afferrò i capelli del re e con violenza lo costrinse a piegare all'indietro la testa. Poi il Mago tese un dito ossuto verso il viso di Antar e dalla punta scaturì una fiamma arancione. Anigel e Antar gridarono insieme quando il fuoco fatato si posò sulla barba bionda del re. Si udì uno sfrigolio e si levò uno sbuffo di fumo. Anigel gridò terrorizzata. Ma quando Portolanus abbassò il dito, la carne del re era intatta e solo la barba era bruciata. «Sporco bastardo!» urlò Kadiya prendendo tra le braccia la sorella in lacrime. Portolanus fece un gesto noncurante con la mano. «Non è detto che non lo sia, dal momento che non conosco né mio padre né mia madre... e su questa nave raktumiana, nonostante tutti i suoi lussi e le sue pretese, non ci sono bagni. Ma ti consiglio di trattenere la lingua, Signora degli Occhi, o la mia prossima dimostrazione sarà molto più dolorosa per tuo cognato.» «Non fargli del male!» lo supplicò Anigel. Le stelle gemelle nel viso del Mago brillarono e la sua voce rimbombò nella mente della regina. «Lo libererò immediatamente, e con lui i tuoi tre figli, se mi consegnerai il talismano chiamato Mostro dalle Tre Teste.» «No! Sei un miserabile bugiardo! Non... non ti credo quando dici che li libererai! Tu vuoi la morte di tutti noi!» «Stupida donna», sospirò Portolanus. «Chi ti ha detto una cosa simile? Tua sorella Haramis? Lei non è nient'altro che un'incompetente che si diletta di misteri che non riuscirà mai a comprendere; non sa nulla dei miei
piani. Paga il riscatto! La corona a te serve a ben poco, non è altro che un comodo oggetto per spiare e un simbolo di... solo il cielo sa di che cosa!» «Non ascoltarlo, amore mio!» gridò re Amar. «Ordina al tuo talismano di ucciderlo!» Il pirata gli appoggiò la lama della spada sulla gola per costringerlo a tacere, ma il Mago fece un gesto imperioso e, con riluttanza, il pirata abbassò l'arma. «Pensaci, regina Anigel», insistette Portolanus. «A che cosa ti è veramente servito il Mostro dalle Tre Teste in questi ultimi dodici anni? Sì, ti ha permesso di comunicare a distanza con le tue sorelle; ma io posso darti tre piccoli apparecchi degli Scomparsi che fanno la stessa cosa.» «E che cosa darai a me, furfante, per rimpiazzare il mio Occhio di Fuoco Trilobato?» intervenne Kadiya con ira. «Anche l'Arcimaga Haramis ti darà il suo talismano in cambio di qualche giocattolo magico?» L'espressione amabile sul volto di Portolanus scomparve ed egli aggrottò la fronte. «Sto parlando con la regina, Signora, e non con te! Anigel, se non pagherai il riscatto che ti chiedo, tuo marito e i tuoi figli sono destinati alla morte. Ecco come puoi salvarli: metti la corona in una scialuppa e lasciala andare alla deriva. Nello stesso momento io farò salire Antar e i ragazzi in un'altra lancia. Il re potrà oltrepassare il promontorio remando e in meno di due ore, con questo mare calmo, potrebbe essere da te. Con la magia attirerò a me la barca in cui hai messo la corona. E se la Lyath farà immediatamente vela verso casa, giuro sulle Potenze Oscure che né vi seguirò né vi farò del male.» Anigel esitava e con gli occhi pieni di lacrime guardava Antar che scuoteva il capo, incitandola a rifiutare. Il re aveva un aspetto miserevole, con gli occhi profondamente incassati nelle orbite e il viso tirato per i sette giorni senza cibo. Ben piccolo prezzo pareva ad Anigel il talismano in cambio della salvezza dei suoi figli e del marito. Ma lui le aveva detto di non cedere... l'aveva incitata a usare il talismano per uccidere. Però Anigel non aveva mai dato alla magica corona un ordine simile e persino ora, con la vita del marito in gioco, esitò. Kadiya sembrò rendersi conto della lotta che si svolgeva nella mente della sorella, perché le disse: «Fai quello che ritieni giusto», in un tono carico di sottintesi. Anigel chiuse gli occhi. Talismano! Ti ordino, per i Signori dell'Aria, di colpire e uccidere l'uomo malvagio che tiene prigionieri i miei figli e mio marito! Te lo ordino! Te lo ordino...!
La regina riaprì gli occhi e Portolanus era ancora là, incolume. Non era successo nulla. Incontrò lo sguardo della sorella e scosse impercettibilmente il capo. Kadiya strinse i denti per trattenere un'esclamazione di amarezza, biasimando in cuor suo tanto Anigel quanto il talismano per il fallimento. Con voce a malapena udibile, e lottando per nascondere il suo dolore e la sua delusione, Anigel disse: «Non posso darti il mio talismano». Il Mago non parve particolarmente deluso. «Una sfortunata decisione, mia Regina. Ma forse col tempo cambierai idea. Per dimostrarti la mia buona fede, mi asterrò dal fare del male al re, se voi resterete dove siete. Giurami per il Giglio Nero che tu e tua sorella Kadiya non vi avvicinerete oltre.» «Non giurare!» urlò il re, lottando impotente contro i due pirati. «Sì!» gridò Anigel. «Lo giuro!» La risposta di Kadiya fu meno immediata. «Sì», borbottò alla fine. «Giuriamo per il Fiore che noi due non ci muoveremo da questo luogo. Ma se tu torcerai anche un solo capello a re Antar, questa promessa sarà invalidata. E sappi che lo sorveglieremo incessantemente.» «Fatelo pure», rise il Mago. Poi si rivolse ai cavalieri raktumiani: «Incatenatelo di nuovo con gli schiavi e dategli una scodella della loro sbobba. Ma fate attenzione, perché dopo tutti questi giorni di digiuno il suo stomaco non potrà trattenere troppo cibo». Scomparso Antar sottocoperta, Portolanus emise un rumoroso sbadiglio e si stirò. Quando riabbassò le braccia, Anigel e Kadiya videro che i suoi occhi avevano ripreso il loro normale aspetto umano. Nello stesso istante i tre accoliti gemettero e furono scossi da una breve convulsione, poi arrovesciarono gli occhi e crollarono sul ponte svenuti. Portolanus si volse e, con un gran inchino alla regina Ganondri e a Ledavardis, lasciò il cassero reale. La reggente si rivolse in tono aspro al nipote, che aveva seguito affascinato il dialogo del Mago con le due lontane sorelle. Poi anche i due reali se ne andarono e comparvero dei marinai che portarono via i corpi svenuti dei tre accoliti. Anigel cancellò la visione. «E adesso che facciamo?» chiese, asciugandosi il volto rigato di lacrime e andando a sedersi su una botte d'acqua. Kadiya rimase appoggiata alla murata per qualche minuto, fissando la costa della grande isola, ricoperta di una fitta boscaglia, con spiagge di sabbia bianca interrotte da rocce rosso nerastre. Il mare era di un azzurro splendente che cangiava in verde vicino alla terra, e bianchi frangenti sci-
volavano verso la riva formando complessi disegni tra le barriere coralline. Da quel lato del promontorio non si vedeva segno di abitazioni. «Il piano originale di Haramis prevedeva che tu richiamassi il mio talismano usando il tuo», disse poi Kadiya, girandosi verso la sorella. «Prova, anche se siamo ancora parecchio lontani!» «È vero, me n'ero dimenticata!» disse Anigel. «Certo, tento immediatamente.» Ma un'espressione di dubbio piuttosto che di speranza si disegnò sul suo viso mentre chiudeva gli occhi e premeva entrambe le mani sul giglio d'ambra incastonato nella corona. «Talismano», sussurrò, «ti ordino di portare a me il perduto Occhio di Fuoco Trilobato.» Per una decina di secondi non accadde nulla e poi il talismano parlò: Non posso farlo, a meno che tu non mi porti direttamente sopra il punto in cui giacciono gli Occhi. «Oh!» esclamò la regina. «Hai sentito, Kadi?» «Sì», rispose Kadiya. E poi proseguì in tono deciso e senza rimorsi: «Potresti farlo rendendoti invisibile e avvicinandoti in qualche modo alla nave pirata. Non ci resta altro che infrangere il giuramento...» «Non pensarci neppure!» la interruppe Anigel, che, pur con gli abiti da marinaio e il viso rigato di lacrime, aveva sempre l'aspetto di una regina. «Non infrangerò il mio giuramento. Né permetterò a te di farlo.» «Non fare la sciocca», ritorse Kadiya con una luce battagliera negli occhi. «Se non recuperiamo il mio talismano prima che Portolanus riesca a metterci le mani sopra, dobbiamo dire addio a tutte le speranze di salvare Antar e i ragazzi! Pensi davvero che li libererà come ha detto, una volta che avrà legato a sé il mio talismano?» «Io non...» «O intendi forse consegnargli umilmente il tuo come riscatto per tutti e quattro?» «Certo che no! Ma dev'esserci un modo onorevole per salvarli.» «Onore! Sei ingenua come un cucciolo di volumnial! Come puoi blaterare di onore quando è in gioco la vita dei tuoi cari? E il mio talismano?» Anigel si alzò di scatto dalla botte. «Il tuo talismano! È questa l'unica cosa di cui t'importa, vero? Senza di esso non hai potere. Senza di esso il Popolo delle Paludi e gli altri aborigeni non ti adorerebbero più, non ti seguirebbero più e non ti chiamerebbero più il loro Grande Avvocato, vero, Signora degli Occhi? Meglio così, per quel che mi riguarda. In questo modo non potrai più fomentare tra loro il malcontento...»
«Non ci sarebbe malumore se i governanti umani come te non fossero ciechi alle ingiustizie inflitte al Popolo! Tu e Antar non avete fatto altro che ignorare le mie petizioni per conferire loro una piena cittadinanza.» «E per delle ottime ragioni!» ribatté furente la regina. «Se gli Oddling potessero commerciare direttamente con le altre nazioni e non attraverso di noi, la nostra economia andrebbe in pezzi. Questo tu lo sai benissimo, eppure hai continuato a incoraggiare la sedizione tra i Wyvilo e i Glismak, oltre a incitare i Nyssomu e gli Uisgu a non mettere sul mercato le loro merci per poter alzare i prezzi.» «E perché mai non dovrebbero ottenere dei prezzi più alti? Lavorano sodo e ricavano una miseria. Tu li chiami Oddling! Io dico che sono persone e che valgono quanto qualunque altro umano. Non possiedi il diritto divino di sfruttarli!» «Chi ti ha detto che li sfruttiamo?» chiese la regina. «Chi ha fomentato lo scontento nei loro animi semplici? Tu! La loro cosiddetta avvocatessa! Oh, io non volevo credere quello che dicevano di te Owanon, Ellinis e gli altri, che nel profondo del tuo cuore rimpiangevi di aver abdicato alla corona e invidiavi i miei poteri di regina e così, per sentirti più importante, sollevavi gli aborigeni! Ma avevano ragione loro!» «Che idea spaventosa!» gridò Kadiya. «Sei tu che sei diventata arrogante e sussiegosa, dimenticando in che modo il popolo ci ha aiutato a sconfiggere re Voltrik e Orogastus! Tu pensi solo al benessere dei tuoi sudditi umani, e i popoli non umani che guardano a te per avere giustizia ti limiti a usarli! Difendi il tuo marito labornoko che è stato allevato con l'idea che quelli del Popolo non siano altro che animali! Lui ti ha avvelenato la mente...» «Come osi parlare in questo modo del mio amato Antar? Donna senza cuore, tu non sai nulla del vero amore! Tutto quello che hai avuto è stata la vuota adulazione della tua patetica schiera di selvaggi; essi sono come bambini e anche tu hai la mente di una sprovveduta! Il tuo cuore è pieno della stessa rabbia insensata che spinge i monelli a compiere le marachelle! Per te, la soluzione più semplice è sempre l'unica. Che ne sai tu di come si governa e si salvaguarda una nazione?» «Io so che cos'è giusto e che cos'è ingiusto», rispose Kadiya in un tono che si era fatto di colpo basso e minaccioso, «e conosco la differenza tra un vero giuramento e uno estorto sotto le minacce. Tu puoi fare quello che vuoi, sorella, e negarmi l'aiuto del tuo talismano. Ma se tenti d'impedirmi di recuperare il mio, allora che i Signori dell'Aria abbiano pietà di te... per-
ché io non ne avrò.» Si allontanò a grandi passi, chiamando Jagun e Lummomu-Ko e si rifiutò di rispondere ai richiami di Anigel che si scusava per le parole aspre e la pregava di tornare. Troppo affranta anche per piangere, la regina si avviò barcollando verso prua e si sedette su un rotolo di còrde e per tutto il giorno scrutò Antar e i figli attraverso il talismano e spiò anche il Mago, anche se il suo corpo era ritornato a essere una nebbiolina informe. Senza il benché minimo interesse vide Portolanus e i tre accoliti nella loro cabina, che cantavano, proferivano incantesimi ed eseguivano strani rituali che non capì. A parte questo, non fecero nessun tentativo di recuperare il talismano di Kadiya. E neppure Kadiya ci provò; dopo aver conferito con i suoi amici aborigeni (e Anigel non si degnò di spiare la conversazione), la Signora degli Occhi tornò nella sua cuccetta e dormì tutto il giorno. Verso la fine del pomeriggio, annoiata dalla mancanza di attività sulla nave pirata e cullata dal sole caldo e dal dolce movimento della nave, Anigel interruppe la sua sorveglianza. Jagun le portò una bevanda rinfrescante di succo di ladu e la regina si appisolò. Si svegliò solo a notte fonda, quand'era troppo tardi per impedire la catastrofe. 12 «Sta succedendo qualcosa di strano sul ponte», disse il principe Nikalon al fratello e alla sorella. Era notte fonda e il pozzetto delle ancore era illuminato solo dalla debole luce della luna che entrava dai boccaporti. Niki era sospeso mezzo fuori e mezzo dentro uno dei fori delle ancore. «Odo dei canti», disse. «Sono in una lingua che non capisco.» «Dev'essere il Mago che getta un incantesimo su coloro che ci inseguono», disse il principe Tolivar, deliziato. «Come mi piacerebbe vedergli lanciare saette o evocare un mostro!» «Sciocco!» lo rimproverò la principessa Janeel. E poi si rivolse a Niki: «Riesci a vedere qualcosa sulla riva?» «Un unico fuoco che brilla dietro gli alberi. In acqua non ci sono barche di nessun genere. Due delle Tre Lune si sono levate e sono molto brillanti: quindi se tentassimo di scappare ora ci vedrebbero di certo.» «Se aspettiamo, la nave potrebbe levare di nuovo l'ancora», disse Jan. «Andiamo finché ne abbiamo la possibilità.» «In effetti questa volta la trireme ha gettato l'ancora più vicino a terra del
solito», rifletté Niki. «E non dovremmo nuotare più di mezza lega.» «Quanto sarebbe?» chiese spaventato Tolo. «Circa mille metri» gli rispose Jan. «Ma non devi aver paura, ranocchietto: Niki e io ti trascineremo tutte le volte che sarai stanco.» «Io non voglio andare», piagnucolò il piccolo. «Odio nuotare, mi va sempre l'acqua nel naso!» «Ti piacerebbe ancor meno essere legato all'albero di maestra ed essere usato come bersaglio per il lancio del coltello dei pirati», ribatté Niki senza pietà. Tolo scoppiò in lacrime e Jan si affrettò a confortarlo rivolgendo un'occhiataccia al fratello maggiore. «Guarda che cos'hai combinato, Niki! Su, su, tesoro, stava scherzando, nessuno ti farà del male.» «Detesto stare in questo posto», singhiozzò il piccolo principe. «Perché nessuno viene a salvarci?» «Sono sicura che è quello che la mamma sta cercando di fare...» cominciò Jan, ma in quel momento si udirono dei rumori fuori della porta e la ragazza sibilò a Nikalon: «Scendi, svelto! Sta venendo qualcuno!» Il principe ereditario fece appena in tempo a scendere dalla catena che la porta venne aperta e apparve Boblen, il quartiermastro, con una lanterna in mano; alle sue spalle c'era il re gobbo, anche lui con una lanterna. Ledavardis oltrepassò il marinaio ed entrò nel pozzetto; nell'altra mano teneva un sacco stranamente rigonfio. «Chiudi la porta e aspetta fuori, Boblen. Voglio parlare in privato con questi sfortunati ragazzi.» «Sentite un po', giovane sire! E già troppo che vi approfittiate del mio buon cuore per venire quaggiù...» «Silenzio, uomo! Credi davvero che questi bambini potrebbero farmi del male? Aspetta fuori, ho detto!» Borbottando, Boblen uscì. Quando la porta fu chiusa, Ledavardis appese la lanterna a un chiodo e vuotò il contenuto del sacco sulle assi dell'impiantito. C'erano un salvagente di sughero, un fodero con un pugnale, una piccola ascia, un pacchetto piatto di canapa, un otre rigonfio a metà, un melone e una piccola giara coperta da un telo. «Per il Fiore!» esclamò Nikalon. «Che significa tutto questo?» «Dovete tentare la fuga questa notte», rispose Ledavardis senza preamboli. «Il Mago ha passato tutta la giornata lavorando a non so quale portentoso prodigio con il quale intende recuperare una spada affondata in queste acque. Sulla nave saranno tutti intenti a guardare lui e i suoi tre scagnozzi che getteranno l'incantesimo finale quando sorgerà la Terza Luna, tra mez-
z'ora circa. È allora che dovrete fuggire, perché, una volta recuperata la spada, leveremo immediatamente le ancore e faremo vela per Raktum.» «Io non voglio fuggire!» ricominciò a frignare Tolo. «Non so quasi nuotare!» «Questo salvagente ti aiuterà», gli disse re Ledavardis. «Se ce ne sarà bisogno, potrete aggrapparvici tutti e tre, e spingendo con i piedi sott'acqua riuscirete ad arrivare a riva senza fare rumore. In questo otre impermeabile c'è del cibo e potrà servirvi anche per metterci i vestiti, in modo che abbiate qualcosa di asciutto quando arriverete a terra. Nel pacchetto di tela ci sono degli ami, delle lenze e un acciarino. Con questi, l'accetta e il coltello potrete nascondervi e sopravvivere fino a quando i vostri non verranno a salvarvi.» «La mamma ci troverà subito con il suo talismano», disse Jan. «Ma non c'è proprio un modo per salvare anche il re nostro padre?» chiese Niki. «Non c'è speranza», spiegò Ledavardis. «È incatenato nella stiva con gli schiavi e ci sono delle guardie. Dovete salvarvi. Ho sentito mia nonna che discuteva con Portolanus: chissà come è riuscita a fargli promettere che se lui recupererà il talismano affondato, allora lei terrà il secondo talismano, quello della regina Anigel, come riscatto per voi e re Antar.» «La mamma non cederà mai il suo talismano!» dichiarò deciso Niki. «E di certo lei e i suoi cavalieri stanno inseguendo da vicino questa nave e presto ci salveranno tutti.» «Forse sarà così», replicò il re, «ma quello che so per certo è che Ganondri intende costringere vostra madre a cedere il suo talismano. Portolanus ha tentato senza successo di convincere la regina ricorrendo a una blanda tortura su vostro padre...» «Ohhh!» gridò Jan inorridita. «... ma mia nonna è un osso molto più duro», proseguì Ledavardis. «E intende assicurarsi il talismano torturando te, Nikalon, e te, Janeel, davanti agli occhi di vostro padre e vostra madre.» «E non me?» chiese Tolivar speranzoso e sollevato. «Tolo! Dovresti vergognarti!» lo sgridò la sorella. «Basta, Jan», intervenne il principe, «non è questo il momento per le stupidaggini infantili. Se riusciremo a fuggire», disse poi rivolto a Ledavardis, «ti saremo per sempre debitori. Vuoi dirci perché lo fai?» «Non lo so neppure io», ammise il ragazzo. «So solo che devo. Ma temo che il vostro regale padre sia condannato e non posso fare nulla per aiutar-
lo... però sono in grado di aiutare voi.» Staccò la lanterna dal chiodo. «Ora però devo andare, prima che si accorgano della mia assenza; si aspettano che presenzi allo spettacolo del Mago. Iniziate la fuga quando sorge la Terza Luna. In questa piccola giara c'è della fuliggine: spalmatevela sul viso e sulle mani, in modo che il pallore della pelle non vi tradisca mentre vi allontanate a nuoto. E ora, addio.» Ledavardis scivolò fuori della porta, richiudendola piano, e un istante dopo i tre ragazzi sentirono il rumore del chiavistello. «Qui ci sono delle gallette, dolci di noci e salsicce; se riusciremo a pescare e a trovare della frutta, dovrebbe bastare. Metteremo nel sacco anche le scarpe e i mantelli; l'otre dovrebbe galleggiare e potremo trascinarlo con le corde che lo chiudono. Io nasconderò il pugnale nella camicia e tu, Jan, legherai l'ascia al merletto della gonna. Adesso muoviamoci, così saremo pronti quando verrà il momento.» Tolo indietreggiò verso una paratia. «Io non vengo!» «Tu verrai!» ribatté severo Nikalon. «Io sono il principe ereditario, oltre che tuo fratello maggiore, e te lo ordino!» «...ma ci sono delle cose nell'acqua, cose pericolose! Ralabun dice...» Jan e Niki gemettero all'unisono, esasperati. «Ralabun! Non fa altro che raccontare frottole e superstizioni Oddling», sbuffò Niki. «Ralabun dice che ci sono pesci tre volte più grandi di un uomo», insistette il bambino, «con bocche grandi come porte spalancate e con tre file di denti, affilati come coltelli da macellaio. E ci sono enormi bolle di meduse galleggianti che ti possono pungere fino alla morte. Qui al sud vive il mostro marino Heldo e i suoi occhi sono grandi come piatti da portata e le sue braccia, forti come cavi di ferro, finiscono con artigli, che ti afferrano e ti spremono finché non ti esce il sangue dalle orecchie e dalla bocca...» «No, no», disse Jan, avvicinandosi a Tolo e prendendogli le mani. «Non esistono cose del genere! Il pericolo maggiore è qui sulla nave, con la regina dei pirati e il Mago cattivo!» «Il re gobbo ha detto che Ganondri avrebbe torturato solo te e Niki, non me», obiettò Tolo con espressione calcolatrice e imbronciata insieme. «Stai facendo dei discorsi malvagi», lo rimproverò Niki. «Adesso smettila di discutere e togliti le scarpe.» «No! Io non vengo! I mostri marini mi mangeranno!» «Maledetto Ralabun», mormorò Niki. Aprì la piccola giara di nerofumo e cominciò a spalmarselo sul viso. «Guarda, Tolo: non sono bruttissimo?
Non piacerebbe anche a te annerirti la faccia? Saremo tutti così orribili che le creature marine fuggiranno in preda al terrore al solo vederci!» «No!» strillò il bimbo. «No! No! No!» Jan piegò il capo di lato, ascoltando. «Il canto sul ponte: non sta forse diventando più forte?» «Hai ragione», disse Niki e la guardò. «Avanti, Jan, preparati. Se questo ragazzino testardo insiste a fare i capricci, non ci resta che lasciarlo qui.» «Molto bene», rispose la sorella, fingendosi d'accordo. I due ragazzi più grandi si tolsero le scarpe e le misero nell'otre. Jan si passò la gonna in mezzo alle gambe e la fissò alla cintura insieme con l'ascia; poi entrambi si scurirono il viso, le mani e i piedi. Per fortuna gli abiti, ormai sporchi e logori, che avevano indossati per l'incoronazione a Zinora erano di colore scuro. Niki si arrampicò su una delle catene delle ancore, tirandosi dietro il sacco e appendendolo poi all'argano, mentre Jan cercava ancora una volta di convincere Tolo; ma il ragazzino le sgusciò tra le mani e andò a rintanarsi dietro un rotolo di catene. «La Terza Luna sta per sorgere!» esclamò Niki. «Fai in fretta!» «Non riesco a prenderlo!» rispose Jan frenetica. «Io non vengo con voi!» strillò Tolo. «Vattene!» «Adesso scendo e lo costringo io», decise Niki. «Se lo fai, mi metterò a scalciare, a urlare e a morderti mentre mi trascini via, così i pirati vi prenderanno e vi tortureranno!» «Piccolo scriteriato!» Niki era già molto spaventato, anche se aveva cercato di nasconderlo, e la testardaggine del fratello minore stava velocemente consumando il poco coraggio che ancora gli restava. «Ti starebbe bene se davvero ti lasciassimo qui!» «Sì, lasciatemi qui! I pirati non mi faranno del male! Lo ha detto il re gobbo. Scappate voi due e non preoccupatevi per me. Io sono solo il secondo principe e l'avete detto voi che non valgo molto, come riscatto.» «Non possiamo abbandonarlo», gemette Jan. «E a quanto pare non possiamo portarlo con noi», ribatté Niki secco. «Allora dobbiamo restare anche noi e sacrificarci per amor suo? Ledavardis è sicuro che la regina reggente lo risparmierebbe, anche se solo il cielo sa perché. Adesso posso anche dirtelo, Jan: è da un po' che sono sicuro che nessuno di noi lascerà vivo questa nave, che la mamma consegni o no il suo talismano. Sarebbe un gran colpo per Raktum se sia il papà sia i due eredi diretti del trono di Laboruwenda venissero uccisi.» «Allora... allora pensi che sia nostro dovere tentare di fuggire?» chiese la
principessa con voce incerta. «Sì», rispose Niki. «Lo penso anch'io!» strillò Tolo. «Andate! Andate!» Jan tese le braccia al fratellino. «Allora dammi un bacio d'addio, tesoro.» «No», rispose il piccolo, «perché tu vuoi solo prendermi.» Gli occhi di Jan si riempirono di lacrime. «Allora addio», disse e cominciò ad arrampicarsi sulla catena. Tolo li guardò finché non furono usciti attraverso il foro dell'ancora e poi si arrampicò con una certa difficoltà per guardare fuori. La Terza Luna si stava alzando al di sopra dell'orizzonte e dal cassero provenivano molti rumori: un canto, uno strano suono sfrigolante che ricordava i fuochi d'artificio e lo scricchiolio di un argano o qualche altro strumento nautico. Il ragazzino guardò in basso, verso la curva dell'ancora di destra, e vide due masse indistinte che scivolavano sempre più in basso lungo i grandi anelli di metallo. Alla fine raggiunsero l'acqua; tre intensi chiari di luna scintillavano sulle onde placide e questo rendeva difficile distinguere le due chiazze scure delle teste di Niki e Jan, che si muovevano lentamente verso la sponda dell'isola e che ben presto scomparvero alla vista. «Bene», si disse soddisfatto il principe Tolivar, «che se ne vadano! So che cosa pensano di me... che sono solo un marmocchio, una peste, un'appendice inutile. Ma un giorno gliela farò vedere io.» Con molta cautela scese lungo la catena e quando fu di nuovo nel pozzetto mise i tre pagliericci uno sopra l'altro e si fece un letto molto più comodo. Jan gli aveva lasciato del cibo e Tolo si sdraiò e si mise in bocca una salsiccia, ascoltando la musica soprannaturale che riecheggiava anche nella stiva. «Pensavo di voler fare il pirata», si disse, «ma ho cambiato idea: i pirati sono ricchi e potenti, ma devono stare sempre in mare, a combattere con altre navi e a vomitare il pranzo quando ci sono le tempeste. Voglio diventare qualcosa di molto meglio...» Sorrise nel buio. «Quando verrà la guardia gli dirò di portare un messaggio al Mago. Portolanus sarà certo molto contento di avere come apprendista un principe reale!» Aggrappati alla corda del salvagente, Niki e Jan spingevano con tutte le loro forze, ma la riva sembrava non avvicinarsi mai, anche se la nave alle loro spalle rimpiccioliva. Dopo un po', completamente esausti, non poterono fare altro che restare aggrappati al salvagente, ascoltando il canto del ri-
tuale che riecheggiava sull'acqua, una monotona cantilena che continuava senza sosta. Era impossibile vedere che cosa avveniva sulla trireme, ma di tanto in tanto lampi rossi e blu s'inarcavano verso il cielo per poi ricadere nel mare. «Ti sei riposata abbastanza?» chiese Niki alla sorella. «Sì, andiamo avanti», rispose lei. Ricominciarono a muovere le gambe, sempre attenti a tenerle sott'acqua e a non sollevare spruzzi. Con il passare del tempo, i muscoli delle cosce presero a bruciare per la fatica e le dita che stringevano il salvagente s'intorpidirono, ma i ragazzi continuarono a spingere, anche se sempre più lentamente. Il respiro si faceva sempre più ansante e il cuore martellava furioso. Non si curarono più di guardare dove stavano andando; le guance appoggiate all'anello di sughero, continuarono a nuotare. Jan perse la presa, andò sotto, l'acqua le entrò nel naso, cominciò a tossire, e non poté evitare di sollevare spruzzi mentre si agitava cercando di respirare. Quando si fu ripresa, Niki la confortò dicendo che ormai erano troppo lontani dalla nave perché qualcuno avesse sentito il rumore, ma la ragazza singhiozzava esausta. «Non ce la faccio più a nuotare. Sto per morire, Niki. Continua senza di me.» Con uno sforzo, Niki si raddrizzò, afferrando saldamente il salvagente con una mano, e con l'altra la schiaffeggiò. «Ahhh, brutto qubar!» strillò Jan. «Nuota!» le ordinò lui. «Nuota, Jan. E tieni stretto il salvagente! Se non lo fai, ti do un altro schiaffo!» Sempre singhiozzando, Jan obbedì. All'improvviso, però, il mare non fu più calmo e liscio, ma increspato di onde che si alzavano e si abbassavano. Un'onda più grossa delle altre li avvolse, sollevandoli. Jan strillò, ma Niki gridò: «Tieni stretto il salvagente! Continua a tenerlo stretto!» Il frangente si precipitava verso l'isola, sollevandoli sulla cresta. Davanti a loro un rombo continuo che si trasformò in un sibilo assordante mentre l'ondata prendeva velocità e s'ingrossava. Jan sentì che il salvagente le veniva strappato dalla mano: cercò di gridare ma venne sommersa dall'acqua, che le riempì la bocca e la capovolse a testa in giù nel buio. Riuscì a trattenere il respiro e a muovere con violenza braccia e gambe, che pure qualche istante prima erano sfinite dalla stanchezza.
Su! In superficie! Agitò con forza le braccia lungo i fianchi e scalciò... bolle iridescenti... la testa affiorò sopra l'acqua... attorno a lei la schiuma ribolliva e si udiva il rumore lento e ritmico delle onde che s'infrangevano sulla spiaggia... Toccò il fondo con i piedi. Un'onda enorme la avvolse, buttandola di nuovo sott'acqua, ma spingendola avanti. Sentì le ginocchia grattare la sabbia e, con uno sforzo, sollevò la testa, prese aria e si mise a camminare carponi. Il mare era molto caldo e lì, nelle acque basse, le onde chete la rassicurarono... era quasi a riva. Con un ultimo sforzo, si trascinò fuori e crollò sulla sabbia. Passò parecchio tempo prima che pensasse a Niki. Poi una sferzata di energia la galvanizzò: le aveva salvato la vita con quello schiaffo, lei era stata una vigliacca, pronta a mollare, e lui l'aveva costretta ad andare avanti, a vivere. Si mise a sedere, i piedi ancora lambiti dalle onde, e scrutò la riva prima in una direzione e poi nell'altra. La luce delle Tre Lune ingannava, e la spiaggia era costellata di rocce scure e di mucchi di alghe, che per un istante Jan scambiò per il corpo del fratello. Poi però vide la sagoma bianca e distinta del salvagente a una dozzina di metri da lei e vi si avvicinò strisciando. Niki era sdraiato dietro il salvagente: respirava, ma quando lei lo chiamò e lo scosse, non aprì gli occhi. Alla corda del salvagente era ancora legato l'otre impermeabile: Jan frugò nella camicia del fratello, trovò il coltello, aprì il sacco e tirò fuori un mantello asciutto. Poi si sdraiò accanto al fratello, coprì entrambi con l'indumento e si arrese al sonno e allo sfinimento. Finché il dolore non la svegliò. «Smettetela di far del male a mia sorella!» Era la voce di Niki. Jan gemette e poi gridò quando un secondo colpo si abbatté sulle sue costole doloranti. Niki urlava furibondo e qualcuno scoppiò in una risata aspra. Sfinita, aprì gli occhi... e li richiuse subito per allontanare l'orribile visione. La luce di una torcia le aveva mostrato tre esseri alti, con gli occhi gialli e i musi aguzzi che la guardavano ridendo. Aborigeni... il loro aspetto ricordava i selvaggi Glismak, ma erano più orribili e più feroci. Due di loro portavano dei corti gonnellini intessuti di perle luccicanti, un gran numero di collane di conchiglie, e tenevano in mano lunghe clave di legno decorate con i denti triangolari di qualche animale. Il terzo, molto più alto e vestito in maniera più sfarzosa, aveva una bellissima spada di fattura umana al fianco e un'enorme perla appesa al collo. In piedi, a braccia conserte, os-
servava i due ragazzi. Il guerriero che aveva svegliato Jan con un calcio puntò un dito contro di loro, pronunciando una frase nella sua lingua in tono soddisfatto. Poi indicò il mare, il punto in cui era ancorata la trireme illuminata a giorno da razzi che s'innalzavano verso il cielo. L'aborigeno alto li guardò furente e fece una domanda con voce tonante. «Non ti capisco», rispose Niki che si era calmato. «Parli il linguaggio umano?» «Sì», gracchiò l'essere. «Sono il Grande Capo Har-Chissa degli Aliansa. Chi siete voi e che cosa fate qui? Agli umani è stato proibito di mettere piede su queste isole, ma, nonostante questo, due navi hanno osato gettare l'ancora al largo della sacra Isola del Consiglio, e altre ancora si stanno avvicinando lentamente. Venite da quella nave?» «Sì.» Niki si pulì la faccia dalla sabbia e cercò di parlare come si conveniva al suo rango. «Sono il principe ereditario Nikalon di Laboruwenda e questa è mia sorella, la principessa Janeel. Eravamo tenuti prigionieri dai nostri nemici e siamo fuggiti.» «Di chi è quella grande nave?» domandò Har-Chissa. «Appartiene alla nazione pirata di Raktum. È armata pesantemente e a bordo c'è anche un potente Mago.» Il capo parlò agli altri due in tono pressante nella sua lingua e poi si rivolse di nuovo a Niki. «E la seconda nave, quella più piccola, che è ancorata dietro la punta di terra, a chi appartiene?» Un formicolio strano fece rizzare i capelli sulla nuca di Jan: chi? Che fossero finalmente i tanto attesi salvatori? Che fosse la loro madre? «Non so che nave sia», disse Niki. «Potrebbe appartenere alla nostra gente, venuta a salvarci dai pirati. Se è una nave di Laboruwenda, otterrete una grande ricompensa portandoci là.» Il Grande Capo scoppiò in una risata fragorosa, parlò ai due guerrieri e questi sogghignarono con lui. Poi Har-Chissa tese una mostruosa mano a tre dita, afferrò il principe per i capelli ancora umidi e lo trasse in piedi. «Portarvi là? Cucciolo insolente! Prima che sorga il mattino entrambe le navi saranno affondate dai nostri guerrieri e gli equipaggi diventeranno un ghiotto pasto per i pesci. Così gli Aliansa trattano gli invasori arroganti! In quanto a voi due, abbiamo un trattamento speciale.» «E che sarebbe?» s'informò Niki, cercando ancora di mantenere un atteggiamento dignitoso. «Abbiamo un'usanza», disse Har-Chissa. «Coloro che osano porre piede
senza autorizzazione sulle nostre isole, devono unirsi ai tamburi.» «I... i tamburi?» ripeté Jan balbettando. Har-Chissa lasciò andare i capelli di Niki, il quale per poco non cadde addosso alla sorella; poi il capo diede un ordine e i due guerrieri legarono il principe e la principessa con delle corde sfilacciate. «Che intendi?» gridò Niki. «Che cosa volete fare di noi?» «Liberarvi della vostra pelle», rispose il capo degli Aliansa. «Verranno fuori due tamburi molto piccoli, da voi due, ma forse avranno un suono interessante!» 13 La regina Anigel si svegliò a notte inoltrata con un tremendo mal di testa. Le Tre Lune erano sorte e sulla Lyath regnava il silenzio. Scese sottocoperta per prendere qualcosa da mangiare e cercare la sorella, ma Kadi non si trovava nel piccolo salone della noga e non rispose quando Anigel la chiamò. Con uno strano presentimento, la regina andò a cercare Jagun per interrogarlo, e i suoi peggiori sospetti trovarono conferma quando il piccolo Nyssomu ammise con riluttanza che Kadiya aveva lasciato la nave da più di un'ora con Lummomu-Ko e altri due Wyvilo, Mok-La e Huri-Kamo. Anigel tornò di corsa sul ponte gridando al talismano: «Mostrami Kadiya!» Nella mente vide il triplice chiaro di luna che si rifletteva sulle onde ormai calme; su quel tratto di mare galleggiava una delle zattere di salvataggio della Lyath, una piccola piattaforma di bambù larga poco più di due metri e interamente ricoperta di alghe, tanto da sembrare un semplice tronco alla deriva. Sembrava che sulla zattera non vi fosse nessuno, ma in mezzo alle trecce d'alghe Anigel intravide il bagliore di due occhi gialli e capì che i tre Wyvilo si appoggiavano al bordo del natante tenendo solo la testa fuori dell'acqua e che rimanevano nascosti sotto le alghe. La zattera andava alla deriva in fretta, anche se non c'era vento: senza dubbio erano i Wyvilo a spingerla, grazie ai loro piedi parzialmente palmati. Kadiya non si vedeva, ma era di certo con loro. «Ma che cosa spera di fare?» esclamò furiosa la regina. «Grande Regina, la Lady Lungimirante spera di affondare la nave pirata», disse Jagun. «E costringendo Portolanus a naufragare su una terra ostile, spera di guadagnare tempo per recuperare il talismano.»
La voce del Nyssomu distrasse Anigel e la visione scomparve. «Signori dell'Aria! Ma Kadi non si rende conto che il Mago si dev'essere protetto con le sue maledette macchine magiche? Lei e i Wyvilo saranno scoperti e uccisi!» «La mia Signora Lungimirante e i suoi guerrieri intendono avvicinarsi alla nave raktumiana con la zattera camuffata e poi nuotare sott'acqua. L'ho pregata di non andare, ma è stata irremovibile.» «Se solo mi fossi svegliata in tempo!» Jagun abbassò il capo. «Grande Regina, mi addolora dirtelo, ma la bevanda di frutta che ti ho portato questo pomeriggio conteneva qualche goccia di estratto di tylo, quanto bastava a causare un sonno breve ma profondo. L'ha ordinato la mia Signora e, sapendo che non ti avrebbe fatto del male, le ho obbedito.» «E con questo potresti aver causato la morte di Kadiya», ribatté secca la regina. «Sì», rispose l'ometto con voce spezzata. «Ma lei mi ha detto che se l'amavo dovevo farlo, perché era la sua unica possibilità di recuperare il talismano senza il quale preferiva essere morta...» «Quella sciocca!» esclamò Anigel. «Se affonda la nave pirata, che ne sarà di Antar e dei ragazzi, rinchiusi nella stiva? Nella confusione potrebbero essere dimenticati!» I grandi occhi di Jagun si fecero ancor più sporgenti per l'ansia. «Temo che la Lungimirante non abbia pensato...» «No», ribatté cupa la regina, «sono certa che non lo ha fatto. A lei importa solo del suo talismano.» Anigel si fermò un istante a riflettere. «Jagun, parla ai compagni Wyvilo di mia sorella e di' loro di rammentare a Kadiya il pericolo che corrono i miei cari. E dille anche che, se non desiste da questo suo piano sconsiderato, sarò costretta ad avvertire Portolanus delle sue intenzioni.» «Oh, grande Regina... non faresti mai una cosa simile!» «Non so se lo farei o no! Speriamo che la minaccia basti a far ritrovare un po' di buonsenso a quell'idiota di Kadiya! Adesso chiamala, mentre io scruto che cosa sta succedendo sulla nave raktumiana.» Anigel chiese al talismano di mostrarle il pozzetto delle ancore in cui erano rinchiusi i figli. La visione era abbastanza fioca e le mostrò il piccolo Tolivar abbarbicato a una catena, che guardava fuori del foro delle ancore, adesso sgombro, mentre a terra c'era un ammasso indistinto di pagliericci che le fecero pensare che Jan e Niki stessero dormendo. Richiamò poi una
visione di Antar e lo trovò in una stanzetta affollata sottocoperta, illuminata solo da una candela tremolante, intento a conversare amabilmente con gli schiavi sulla possibilità che anche lui si unisse a loro ai remi nel viaggio di ritorno a Raktum. Il re era stato spogliato dei suoi abiti regali e una delle caviglie era incatenata, cosicché si confondeva quasi con gli alti rematori, non fosse stato per il corpo, ancora pulito e privo delle cicatrici della frusta. Soddisfatta nel vedere che la sua famiglia era ancora viva, Anigel chiese al talismano di mostrarle Portolanus. Il Mago si trovava a poppa della trireme, sul cassero reale, e questa volta era perfettamente visibile; o non gli importava che lei potesse osservarlo, oppure l'incantesimo in cui era impegnato non gli lasciava energie occulte da dedicare al mascheramento della propria immagine. Gli occhi di nuovo trasformati in due stelle rilucenti, Portolanus cantilenava in una lingua sconosciuta, mentre i tre accoliti erano immersi nella trance, immobili, e inginocchiati a fianco a fianco come tre bambole di dimensioni umane vestite di giallo, porpora e nero. Ai piedi del Mago, appoggiato a un cuscino di seta, c'era lo scrigno stellato. Due marinai, apparentemente spaventati a morte, erano in piedi accanto a una piccola gru, grottescamente fuori posto sul casseretto reale tutto ori e fronzoli. Dal lungo braccio della gru, proteso oltre la poppa, pendeva un cavo con un uncino e da questo dondolava un oggetto dall'aspetto molto prosaico, sospeso sull'acqua a un paio di metri: una paletta molto grande. Quasi tutto l'equipaggio, gli ufficiali, come pure la regina reggente, il re Ledavardis e la folla di cortigiani si erano radunati sul ponte sottostante per assistere alle magiche procedure. Jagun sfiorò cauto il braccio di Anigel. Lei emerse dalla visione e gli chiese: «Mia sorella accetta di desistere?» «Grande Regina, la Lungimirante è stata sommersa dal rimorso non appena le è stato ricordato il pericolo che correvano il re e i bambini, e giura per il Fiore che non farà nulla che possa metterli in pericolo. Ha abbandonato il piano di affondare la nave dei pirati.» «Sia grazie a Dio! Allora adesso sta tornando qui?» Jagun esitò, poi scosse il capo. «Dice che resterà a guardare e se vede un modo per impedire al Mago di rubarle il talismano senza mettere in pericolo la tua regale famiglia, allora tenterà. Ho detto ai Wyvilo d'insistere affinché desistesse del tutto, ma non ha voluto saperne.» Anigel si morse un labbro: non poteva fare altro che accontentarsi... ma accidenti alla testardaggine di Kadiya!
Jagun rabbrividì vedendo l'ira negli occhi della regina, e Anigel provò un moto di compassione per il Nyssomu, diviso tra l'amore per la sua signora e la certezza che quello che aveva fatto non solo era inutile ma poteva anche trasformarsi in un disastro. Pover'anima, non era colpa sua se Kadi era un'egocentrica in cerca di guai. «Jagun... ti piacerebbe vedere con me la nave dei pirati?» «Oh, sì, grande Regina!» «Allora prendimi la mano e vedremo insieme che cosa accade.» La trireme ancorata al largo si stagliava contro il cielo scuro come un castello galleggiante addobbato a festa. Le luci brillavano da ogni oblò, su tutti i ponti e persino sugli alberi. Le rifiniture dorate della nave splendevano luminose e i raktumiani nei loro abiti sgargianti erano ben visibili a coloro che li spiavano segretamente dal mare. «Tutte quelle luci li abbaglieranno», sussurrò Lummomu-Ko a Kadiya, «e non ci vedranno di certo se ci avvicineremo.» I tre aborigeni e Kadiya si avvicinavano da prua, sospingendo con i piedi sott'acqua la zattera mascherata con le alghe, mentre l'attenzione di tutti era rivolta a poppa, dove la cantilena di Portolanus aveva raggiunto un tono frenetico. Il Mago non faceva che strillare una sola parola, ma la sua voce era ormai così roca e stanca che i quattro non riuscirono a capire quello che stava dicendo. «I bambini sono nel pozzetto delle ancore», disse piano Kadiya, «e con tutto il trambusto che c'è a poppa non dovrebbe essere difficile salire su per le catene e salvarli. Re Antar però è un altro paio di maniche. Se i pirati non l'hanno spostato, si trova nella più bassa delle stive dei rematori, sul lato verso la riva: ma non vedo come potremo arrivarci: i fori per i remi nello scafo sono troppo piccoli perché possiamo passarci.» «Dev'esserci un portello sul fianco della nave, per caricare le provviste e scaricare i rifiuti», le fece presente Lummomu-Ko. «Di certo non possono far attraversare per intero alle cibarie e alle spazzature una nave grande come questa.» «Qualunque apertura lungo la chiglia sarà di sicuro chiusa ermeticamente e posta troppo oltre la linea di galleggiamento, perché possiamo raggiungerla», intervenne Mok-La, un taglialegna robusto quasi quanto Lummomu. «Ma forse riusciremo a penetrare nelle stive dei rematori passando dal pozzetto delle ancore e sfondando la porta.» «Le asce da battaglia che abbiamo portato con noi potrebbero servire al-
lo scopo, se agiamo con circospezione», commentò Huri-Kamo, il terzo Wyvilo, che era noto per la sua ingegnosità e il suo acume per la meccanica. Kadiya si era consultata con lui circa le possibilità di affondare la nave pirata e l'aborigeno aveva subito escogitato un piano, che però ora erano stati costretti ad abbandonare. «Gran parte dell'equipaggio sarà sul ponte», disse Mok-La, «a guardare il Mago che fa risalire il talismano affondato. Con un po' di fortuna possiamo fare irruzione, senza troppo rumore, nella stiva in cui è tenuto prigioniero il re, eliminare le guardie e liberarlo.» «Potrebbe funzionare», convenne Lummomu. «Vogliamo correre il rischio, Si gnora degli Occhi?» Kadiya rispose con voce a malapena udibile: «È stato un imperdonabile egoismo da parte mia non pensare che potevo mettere a repentaglio la salvezza della famiglia di Anigel, quando siamo partiti per questa missione, e l'unico modo in cui posso sperare di fare ammenda è tentare di salvarli. Se ci riusciremo con il vostro aiuto, amici miei, il cuore di mia sorella sarà sollevato da una grande ambascia e il suo talismano non cadrà nelle mani di Portolanus. Se falliamo... potremo perdere la vita, ma la situazione di Anigel non sarà peggiore di adesso». «Noi siamo al tuo servizio, Signora degli Occhi, anche se questo dovesse portarci al trapasso», affermò il capo della tribù Wyvilo e i due guerrieri annuirono. «Molto bene», disse lei. «Ecco come faremo: smantelleremo la zattera, le corde saranno utili a quelli che dovranno fuggire con il re e da qui siamo tutti in grado di nuotare fino a riva. Dopo essersi arrampicati sulla catena, Lummomu e Huri prenderanno le corde e cercheranno di trovare re Antar e di liberarlo. Speriamo che riescano a lasciare la nave attraverso uno dei portelli di carico, calandosi con una fune. Nel frattempo io farò scendere il piccolo Tolo da una delle catene e Mok aiuterà Niki e Jan a scendere dall'altra. Poi con i ragazzi nuoteremo più in fretta che possiamo fino alle sponde dell'Isola del Consiglio. Se Lummomu e Huri riescono a liberare Antar, ci raggiungeranno a nuoto sull'isola con lui. Se non riescono a trovare il re, o se accade il peggio, quelli che sono sull'isola aspetteranno che faccia giorno e poi cercheranno di raggiungere via terra il punto in cui è all'ancora la Lyath. Una volta arrivati, potremo attirare l'attenzione di Anigel e con un po' di fortuna ce ne saremo andati prima che la trireme raktumiana riesca a raggiungerci. Siamo d'accordo?» I Wyvilo assentirono.
Portarono dunque con molta cautela la zattera sotto la prua della grande nave, dove non era più visibile dall'alto, e cominciarono a slegare le canne di bambù, legando poi insieme i pezzi di corda che le avevano tenute unite per ottenere una fune molto più lunga. Una volta smontata la zattera, i salvatori nuotarono fino alle catene e cominciarono a salire furtivi su per i grandi anelli. Dal ponte sovrastante giunse un urlo tremendo e per un attimo Kadiya e i Wyvilo temettero di essere stati scoperti, ma un istante dopo dalla poppa si udì il rumore di qualcosa che cadeva in acqua, seguito da altre grida, e i quattro si resero conto che quel clamore era una reazione alla magia di Portolanus, qualunque cosa fosse. Abbandonando allora ogni cautela, si arrampicarono più in fretta che poterono e in pochi minuti Kadiya raggiunse il boccaporto dalla sua parte e si trovò a faccia a faccia con il piccolo Tolivar. «Zia Kadiya!» strillò il bambino, ma sul suo viso c'era un'espressione più costernata che contenta. «Siamo venuti a salvarvi», disse lei. «Sarà più semplice se torni dentro e aspetti insieme con Niki e Jan. Spicciati!» «Ma io non voglio venire...» «Non essere ridicolo!» scattò Kadiya. «Muoviti, adesso, non abbiamo tempo da perdere. I miei amici Wyvilo devono trovare re Antar e salvarlo prima che il Mago scopra quello che stiamo facendo.» Con espressione atterrita, Tolo scomparve dall'apertura. Kadiya si arrampicò all'interno, seguita da Mok-La, che imprecava perché l'apertura era troppo stretta per il suo corpo massiccio. Lummomu e Huri erano già scesi. «Per le Sacre Lune!» rimbombò la voce di Lummomu. «Gli altri due ragazzini non ci sono!» Kadiya si lasciò cadere sul pavimento e afferrò Tolo che cercava di nascondersi dietro un grande rotolo di catene. «Dove sono tuo fratello e tua sorella?» gli chiese. Tolo scoppiò in gemiti spaventati. «So-sono scappati... hanno raggiunto la riva a nuoto... io non sono andato... p-perché volevo diventare apprendista del Mago e non essere solo un inutile secondogenito.» Per un istante Kadiya rimase senza parole, poi disse ai Wyvilo: «Andate tutti e tre a cercare il re. Mi occuperò io di questo marmocchio piagnucoloso. Che i Signori dell'Aria vi accompagnino!» Poi si rivolse a Tolivar: «Adesso basta con le sciocchezze! Sali sulla mia schiena e aggrappati al mio
collo: raggiungeremo la riva a nuoto». «Non voglio!» strillò il principino in lacrime. Huri-Kamo aveva già sfondato la porta con l'ascia, arma tradizionale dei Wyvilo; la stiva dall'altra parte era vuota e buia. I suoi due compagni estrassero le asce dai foderi e lo seguirono. Kadiya slegò il fazzoletto da marinaio che portava al collo e lo agitò davanti al ragazzino recalcitrante. «Se sarà necessario, te lo caccerò in bocca e ti legherò alla mia schiena con la cintura... ma prima darò al tuo regale deretano una tale sculacciata che sarai costretto a mangiare in piedi per almeno un mese! Allora... intendi seguirmi da bravo?» «Sì», capitolò Tolo, asciugandosi le lacrime. Poi un sorrisetto cattivo gli increspò le labbra. «Ma sarà colpa tua se gli Oddling del Mare ci prenderanno.» «Gli... che cosa?» «Gli Oddling del Mare. Ho visto le torce sulla spiaggia.» Solo quando si fu allontanata di parecchio dalla nave con il bambino sulla schiena, Kadiya vide in che modo Portolanus intendeva recuperare il talismano dalle profondità marine. A più di un centinaio di metri dalla trireme, ebbe finalmente una visione chiara dell'area attorno alla poppa e vide che il mare ribolliva di schiuma e la nave era inclinata in avanti. Portolanus si sporgeva dalla murata, urlando e agitando i pugni, con gli occhi che brillavano come due stelle, e nella luce si vedeva la paletta dondolare selvaggiamente. Le persone presenti sul ponte erano fuggite il più possibile verso prua, urlando e imprecando. Mentre Kadiya e il bambino guardavano attoniti, la grande trireme cominciò a rollare e fremere. Portolanus venne preso da un accesso di furia selvaggia; estrasse qualcosa di piccolo da sotto l'abito e lo lanciò in aria. Ci fu una grande esplosione accompagnata da un lampo bianco accecante e subito il mare si calmò e la nave smise di rollare. Anche quelli che erano a bordo rimasero muti e Kadiya riuscì finalmente a sentire quello che stava dicendo il Mago. «Heldo! Maledizione, Heldo... vieni su, ti dico! Smettila di agitarti e di ribellarti! Sei vincolato dal mio incantesimo e devi obbedirmi. Non ti libererò finché non farai quello che ti ordino. Heldo, Signore degli Abissi, vieni a me!» A una quindicina di metri dalla poppa il mare sembrò gonfiarsi, poi Kadiya e Tolo videro una forma gigantesca emergere, illuminata dalla luce
delle Tre Lune. Si sollevò sempre più in alto, assumendo una forma liscia e allungata con l'estremità rotonda, che s'innalzava ben al di sopra della poppa reale, quasi alla stessa altezza dell'albero di mezzana. Era larga più di sette metri. In un primo tempo Kadiya pensò che si trattasse dell'eruzione di qualche roccia vulcanica sottomarina, poi vide due orbite rosse che brillavano poco sopra l'acqua e si rese conto che erano occhi. «È il mostro marino», affermò Tolo in tono soddisfatto, «proprio come ha detto Ralabun. Di sicuro mangerà tutti quelli sulla nave pirata e poi verrà a mangiare noi.» «Stai zitto, marmocchio», disse Kadiya. «Il Mago ha chiamato quella cosa per recuperare il mio talismano! O Signori dell'Aria, impeditelo!» «Grande Heldo!» intonò Portolanus. «Prendi questo strumento», gridò indicando la paletta che pendeva dall'amo, «e preparati a fare ciò che ti ordinerò!» La creatura chiamata Heldo s'inclinò all'indietro e dall'acqua emersero quattro enormi tentacoli che si agitavano frenetici. Sulla punta luccicavano appendici simili a zanne e dai lati, stranamente frangiati, scendeva una miriade di goccioline rilucenti. Heldo emise un suono terribile, simile a un barrito, e Kadiya ne fu come paralizzata, tanto che dimenticò di muovere le gambe e le braccia finché Tolo non gridò che stavano annegando. «Prendi lo strumento!» ordinò di nuovo Portolanus. Allora, con estrema delicatezza, uno dei tentacoli ondeggianti afferrò la grande paletta e la staccò dall'uncino. Un altro tentacolo rimase sospeso sopra Portolanus e un terzo si agitò minaccioso in direzione dei due pirati accanto alla gru, i quali urlarono terrorizzati e fuggirono giù per i gradini, sul ponte principale, abbandonando il Mago e le sue tre Voci immobili. «Ora obbedisci, Heldo! Ti libererò dall'incantesimo che ti vincola non appena mi avrai reso un piccolo servigio. Proprio sotto questa nave c'è un oggetto magico che ha l'aspetto di una spada scura, senza punta, e un'elsa a tre lobi, che brilla di colore verde. Trovala e riportala in superficie con lo strumento che ti ho dato ma, attento, non avvicinare la tua carne alla spada magica, altrimenti ti ucciderà! Mi hai capito?» Heldo barrì. Allora Portolanus s'inginocchiò e aprì lo scrigno stellato. «Quando avrai la spada, deponila in questa scatola. Solo allora ti libererò. Vai ora!» Si udì un tremendo tonfo che fece traballare la trireme e il mostro scomparve. «O Dio Triuno, fai che non accada! Haramis! Anigel! Ascoltatemi e aiu-
tatemi! Implorate il Dio Triuno di riportare a me l'Occhio di Fuoco Trilobato! Fate che non cada nelle mani del Mago...» Di nuovo il mare si alzò e una schiuma luminescente ribollì in ogni direzione mentre Heldo schizzava fuori dell'acqua con un tentacolo levato in alto. Sulla punta, in bilico sulla grande paletta, qualcosa riluceva d'un verde smeraldo. Il tentacolo si abbassò verso la nave e Kadiya gemette: «No, no! Vieni a me, talismano! Tu mi appartieni!» Il Mago era in piedi, in attesa; una quiete quasi sovrumana pervase la notte mentre le onde si chetavano attorno al mostro e il gemito di Kadiya si perdeva nell'aria. Il talismano verde parve staccarsi dalla punta del tentacolo e cadere lentamente, come una piuma che fluttuasse. «Vieni a me», sussurrò Kadiya con il volto rigato di lacrime, levando un braccio fuori dell'acqua in un gesto di supplica. Sulla poppa della nave pirata una scintilla dorata brillò per un attimo. Kadiya sentì Portolanus imprecare, colto di sorpresa... e poi un clangore secco indicò che l'Occhio di Fuoco Trilobato era caduto nello scrigno degli Scomparsi. L'imprecazione di Portolanus si trasformò in un grido di trionfo. Ma Kadiya stringeva in mano un pezzo d'ambra luminosa e nella mente le parve di udire una voce familiare, un ricordo quasi dimenticato che emergeva da un remoto passato: Gli anni arrivano e passano in fretta. Ciò che è in alto può cadere, ciò che è amato può essere perduto, ciò che è nascosto deve col tempo rivelarsi. Ma io ti dico che tutto andrà bene... Ora però devi fuggire, Petalo del Giglio Vivente, e raggiungere la terra prima che il Mago si accorga di quanto è successo e scagli su di te la sua vendetta. Fai in fretta! Nuota come se ne andasse della tua vita, chiedi aiuto al tuo amuleto! Il suo amuleto... lo aveva portato tutta la vita, fino a quando non si era staccato da lei per incastonarsi nel talismano. E ora a lei era tornato. Ma la sua era una magia insignificante se paragonata a quella dell'Occhio di Fuoco Trilobato... Nuota! L'ordine perentorio nella sua mente la riportò di scatto al pericolo immediato. Stringendo forte l'ambra calda, Kadiya si mise a nuotare verso la riva. «Tieniti forte, Tolo!» gridò. Dietro di lei, una forma alta ondeggiava sopra la trireme; Kadiya pensò che fosse Heldo, ma poi si rese conto che il mostro era tornato sott'acqua e questa cosa era molto più alta e sottile, una sagoma scura che si stagliava
contro il cielo come un serpente gigantesco e ondeggiante. Dal nulla giunsero turbinando le nubi, che oscurarono le stelle e le Tre Lune, poi un fulmine color cremisi squarciò il cielo, seguito da un tuono. Portolanus aveva di nuovo richiamato una tempesta, forse per allontanare Heldo, e la trireme veniva sbattuta qua e là come un giocattolo sul mare burrascoso. Kadiya fu investita da una folata di vento e Tolo si mise a piangere. Poi l'aria venne pervasa da un suono nuovo, ronzante, che cresceva rapidamente d'intensità e Kadiya capì. Portolanus aveva creato un'altra grande tromba d'acqua che ora si stava abbattendo su di loro. «Giglio Nero, salvami tu!» gridò chiudendo gli occhi e stringendo forte un polso di Tolo con una mano e l'ambra con l'altra. Un istante più tardi, qualcosa li sollevò e li avvolse, ma non c'era acqua in quella marea e l'oscurità non era quella della morte. Rotolarono in avanti, trascinati come foglie al vento, finche non si fermarono di colpo. Le braccia di Tolo si staccarono dal collo di Kadiya e il bimbo scivolò giù, con un piccolo gemito. Erano seduti sulla sabbia umida, sotto un diluvio. Ed erano sull'Isola del Consiglio. Pioggia mista ad acqua di mare precipitava su di loro come se si fossero aperte le cataratte celesti. Anche qualche sfortunato pesce, rimasto preso nel turbine, piovve sulle loro teste. Era impossibile vedere che cosa succedeva in mare, con le onde gigantesche che si levavano verso il cielo e la risacca violenta che si schiantava sulla riva, mentre tuoni e fulmini continuavano incessanti e assordanti. Sotto quel diluvio della natura, Kadiya si strinse al petto il bimbo che rabbrividiva. Una piccola figura robusta uscì da un boschetto di alberi piegati dalla furia del vento e venne di corsa verso di loro. Per un attimo Kadiya pensò che si trattasse di Jagun, che grazie a un miracolo del Fiore era venuto ad aiutarla. Ma quando l'aborigeno si avvicinò, vide che apparteneva a una razza del Popolo a lei sconosciuta, con lineamenti più umani rispetto ai Nyssomu e un corpo più robusto, vestito dei pesanti abiti di un abitante del nord. «Venite con me, presto!» gridò il piccolo uomo al di sopra del ruggito della tempesta. «Qui intorno ci sono dei nativi malvagi che vi cattureranno di sicuro se restate all'aperto, sulla spiaggia.» Kadiya si alzò a fatica, lottando contro lo sfinimento e la confusione che le ottenebravano il cervello. L'aborigeno prese Tolo tra le braccia robuste e
tutti insieme corsero a cercare riparo nel folto d'alberi. Qualche istante più tardi, si tuffavano ansanti sotto le grandi foglie dei sottobosco. «Ci sono altri due bambini umani in grave pericolo poco lontano da qui», disse l'aborigeno quando riuscì a riprendere fiato. «Li ho visti solo poco fa, legati a terra, pronti per qualche terribile tortura. Ma ero solo e gli indigeni erano in tanti, non sapevo che cosa fare per liberare i poveri sventurati e così mi sono nascosto qui. Ma ora che sei arrivata tu, forse insieme riusciremo a escogitare qualcosa.» «Niki e Jan sono nelle mani degli Aliansa!» esclamò Kadiya. «Dio misericordioso, che possiamo fare?» Per un po' non riuscì a fare altro che restare seduta, cercando di recuperare quel poco di forze che ancora le restavano, poi disse: «Amico mio, i prigionieri sono i miei due nipoti, della famiglia reale di Laboruwenda. Ti benedico per esserti offerto di aiutarmi a salvarli... Ma come sei arrivato qui? Dai tuoi abiti vedo che non sei originario delle Isole Senzavento». I grandi occhi dell'aborigeno brillarono e anche l'amuleto di Kadiya spandeva una luce leggera. Il principe Tolivar se ne stava in silenzio con la testa appoggiata al petto della zia. «Dunque queste sono le Isole Senzavento, eh?» L'ometto scosse il capo. «E dove si troverebbero?» «Nel Mare Meridionale sotto Zinora», rispose Kadiya. «Ah... ma continuo a saperne quanto prima, perché non ho mai sentito parlare né del mare né di Zinora. Sono stato spedito qui in un batter d'occhio attraverso un viadotto magico. Una strana voce ha detto che sarei andato dove c'era bisogno di me... e così sono venuto qui!» «Chi sei e a quale Popolo appartieni?» «Il mio nome è Shiki. Un tempo ero solo un semplice cacciatore e guida della tribù dei Dorok di Tuzamen, ma da poco sono entrato al servizio dell'Arcimaga Haramis.» «Ma è mia sorella! Io sono Kadiya, che alcuni chiamano la Signora degli Occhi. L'Arcimaga ti ha davvero mandato dove c'era bisogno di te, Shiki...» Guardò il piccolo Tolivar, che tremava per lo spavento e il freddo causato dalla tempesta magica. Senza una parola, Shiki si tolse la pesante giacca bordata di pelliccia e vi avvolse il bambino. La pioggia continuava a cadere, ma era poca quella che passava il riparo delle grandi foglie. «Tolo, resterai qui da bravo, mentre noi andiamo a salvare tuo fratello e tua sorella? Niente sciocchezze, questa volta, o potresti mettere in pericolo
la nostra vita. Intesi?» lo ammonì Kadiya con voce ferma. «Sì, zia», mormorò il bimbo obbediente. «Bravo.» Kadiya sentì che le stavano tornando le forze. Non c'era tempo da perdere. Strappò un viticcio, lo spogliò delle foglie, v'infilò l'amuleto e se lo appese al collo. Estrasse la corta spada, la affilò passandola sul fodero, poi, con il fazzoletto, si legò i capelli bagnati. «Adesso sono pronta», disse a Shiki. «Conducimi nel luogo in cui sono tenuti i ragazzi e faremo del nostro meglio per liberarli.» L'aborigeno annuì e insieme scivolarono fuori, nella pioggia. 14 La tromba d'acqua scomparve, ma il fortunale continuò a soffiare violento; la tempesta evocata da Portolanus era arrivata in fretta, ma ci metteva un po' a disperdersi. Il Mago, trionfante, prese lo scrigno stellato nel quale era rinchiuso al sicuro l'Occhio di Fuoco Trilobato, rianimò le sue tre Voci e le condusse nella sua lussuosa cabina. Dopo aver pronunciato l'incantesimo adatto, aprì la scatola e permise ai tre stupefatti accoliti di guardare il grande tesoro, ancora ricoperto di fili di alghe e luccicante di acqua di mare. «Si può toccare, Maestro?» chiese la Voce Gialla. «Non ancora. Devo prima celebrare un rituale usando quelle cose colorate nell'angolo dello scrigno; allora il talismano sarà legato a me e potrò brandirlo senza pericolo.» Mentre parlava, le sue dita danzavano sui piccoli oggetti simili a gemme. Si udì una serie di dolci note musicali e le gemme luccicarono. Poi tutte le piccole pietre si scurirono e Portolanus sollevò il talismano. «Ah!» esclamarono in coro le Voci. «Ora l'Occhio di Fuoco Trilobato sarà fedele al mio corpo e alla mia anima», esclamò il Mago, «e nessun altro essere potrà toccarlo senza il mio permesso, pena la morte tra le fiamme!» «E quali azioni magiche produrrà il talismano, Maestro?» s'informò ansiosa la Voce Nera. «Incenerirà i miei nemici, mi darà la Vista e mi permetterà di udire a distanza senza che io debba più prosciugare le vostre povere menti e mi svelerà conoscenze arcane che mi permetteranno di diventare il padrone del mondo... quando avrò compreso in pieno i segreti del suo operato.» Le Voci emisero un'altra esclamazione meravigliata.
«A voi, le mie Tre Voci, concedo il permesso di toccare il talismano senza che vi faccia del male», proseguì Portolanus. «Il permesso è valido fino a quando non sarò io a revocarlo... o fino a quando non rinuncerete alla vostra lealtà nei miei confronti.» «Non lo faremo mai!» affermò la Voce Nera e le altre due si affrettarono ad annuire. «Dovete capire, mie Voci, che da soli non siete in grado di comandare il talismano, mentre io, operando attraverso di voi, potrò farlo, proprio come ora parlo e sento da lontano tramite voi.» La Voce Nera, che si era chinata per studiare più da vicino il talismano, indicò la depressione nel punto in cui s'incontravano i tre lobi scuri dell'elsa della spada. «Maestro, a quanto pare qui un tempo era incastonato un oggetto: un gioiello, forse?» Portolanus gridò come se fosse stato pugnalato alle spalle. «L'amuleto del Giglio Vivente! È sparito! Adesso ho capito che cos'ha causato quella scintilla dorata che si è alzata nel cielo quando ancora la spada era fra i tentacoli di Heldo! L'amuleto è tornato alla sua proprietaria!» E ricoprì Kadiya degli insulti più ignobili, maledisse le Potenze Oscure, mentre i tre accoliti indietreggiavano confusi. «Forse la perdita dell'ambra del giglio non porterà differenze nella funzionalità del talismano», disse poi quando si fu calmato. «O forse...» L'espressione del suo viso mutò di colpo, facendosi eccitata e ansiosa; da sotto l'abito il Mago trasse la stella ammaccata e annerita che portava sempre appesa al collo con una catena di platino. «Forse...» ripeté piano e accostò il pendente all'elsa del talismano. Tutti e tre i lobi si aprirono, rivelando tre grandi occhi luminosi; uno era del giallo dorato del Popolo, l'altro nocciola come quello degli umani e il terzo di uno strano azzurro argentato in cui brillava una scintilla dorata, come negli occhi dello stesso Portolanus. Pareva che il talismano fissasse quella stella annerita che dondolava davanti a lui. Poi vi fu un improvviso lampo di luce accecante e un istante dopo il pendente era incastonato perfettamente fra i tre lobi, lucido e perfetto come quand'era stato donato al suo possessore, tanti anni prima, da un vecchio Mago di nome Bondanus di Tuzamen. «Sia gloria alle Potenze Oscure!» esultò Portolanus. «Ora, talismano, appartieni davvero a me.» Ora appartengo davvero a te. Ridendo come un folle, il Mago afferrò il talismano e lo brandì in alto.
L'aspetto vecchio e decrepito era scomparso e al suo posto c'era ora un uomo alto, vigoroso, con la barba e i capelli bianchi e lucenti e un viso duro e segnato dalle privazioni, ma ciò nondimeno attraente. «Avete sentito?» gridò. «Avete sentito il talismano parlare?» «No, Maestro», ammisero le voci. «Ha detto che appartiene a me! A me!... Talismano! Mostrami quella cagna arrogante di Kadiya!» La visione gli rivelò la Signora degli Occhi e un indigeno sconosciuto che avanzavano furtivi in una foresta bagnata di pioggia. «Aha! È andata a terra e adesso cercherà senza dubbio di sollevare contro di noi gli indigeni locali... Voce Gialla! Vai di corsa dall'ammiraglio Jorot e ordinagli a nome mio di levare le ancore e mettere gli uomini ai remi. Dobbiamo allontanarci immediatamente da queste isole ostili. Riferisci che gli farò sapere in seguito la rotta da seguire per arrivare all'appuntamento con le altre navi.» Uscita la Voce Gialla, Portolanus chiese al talismano: «Ora mostrami l'esatta posizione di Kadiya sull'isola». Comparve una visione dall'alto dell'Isola del Consiglio sulla quale brillava un puntino di luce bianca, non distante dal villaggio principale degli Aliansa. «È come pensavo. Ora mostrami dove si trova la regina Anigel e fammela vedere di persona.» Vide di nuovo un'immagine dell'isola e questa volta il puntino bianco si trovava in una piccola cala a nord della grande baia in cui era ancorata la nave raktumiana. Poi la visione cambiò e la Vista gli mostrò Anigel, in piedi sulla prua della sua piccola nave, il talismano posato sulla testa e lo sguardo che pareva fissarlo dritto negli occhi. «Sì, so che mi stai guardando, Portolanus», disse la regina. «Anche se puoi nascondere la tua forma alla mia Vista. Ho veduto come hai rubato il talismano di Kadiya con l'aiuto di quella creatura del mare e come hai legato a te l'Occhio di Fuoco Trilobato. Ma nonostante tutto questo, tu non prevarrai.» «Oh! Vedremo se parlerai ancora con tanto ardimento quando tuo marito e i tuoi figli verranno torturati davanti ai tuoi occhi! Il tuo talismano è ormai perduto, orgogliosa Regina, e se non lo metterai immediatamente nella scialuppa, dirò ai pirati di cominciare il loro delicato lavoro sui tuoi cari.» «Vedremo!» rispose Anigel con un bizzarro sorriso. E scomparve. Perplesso dall'apparente insensibilità della donna, Portolanus cercò di ri-
chiamare la visione, ma la prua della piccola nave gli apparve vuota: senza dubbio il talismano la celava alla sua Vista, proprio come lui era nascosto a quella di lei. Be', poco importava a che gioco stava giocando. «Voce Porpora! Vai dal quartiermastro dei pirati e ordinagli di portare i marmocchi reali nel grande salone, sotto scorta. Vedremo quanto resterà salda la risoluzione della regina quando taglieremo a uno a uno le dita di suo figlio e i teneri piedini di sua figlia verranno immersi in un braciere di carboni ardenti!» Ma prima che la Voce Porpora arrivasse alla porta, si udì bussare violentemente. La Voce spalancò la porta della cabina e si trovò davanti il primo ufficiale, un pirata alto, dall'aria triste, di nome Kalardis. «I vostri prigionieri sono fuggiti», esordì brusco. «Mentre facevate i giochetti con il mostro marino, tre aborigeni Wyvilo hanno invaso la stiva degli schiavi, liberato re Antar e sono scappati con lui attraverso uno dei portelli di carico. Sono scomparsi anche una cinquantina di rematori del terzo livello e questa maledetta tempesta che avete evocato li avrà probabilmente fatti affogare tutti!» «Anche i ragazzini sono scomparsi?» gracchiò Portolanus, che all'apparire dell'ufficiale aveva immediatamente riassunto il suo aspetto di vecchio decrepito. «Già», rispose Kalardis. «I miei uomini sono andati subito a controllare il pozzetto delle ancore; le porte erano state frantumate dall'interno, come pure quelle della stiva accanto e quelle nel corridoio che porta al compartimento degli schiavi. Quei maledetti devono essere saliti dalle catene delle ancore.» «Sono rimasti abbastanza rematori per muovere la nave?» chiese il Mago con voce bassa e ansiosa. «Dobbiamo andarcene di qua prima che gli Oddling ostili ci attacchino; non credo che la mia tempesta li terrà lontani per molto. E c'è anche la possibilità che la regina Anigel stia tramando qualcosa di grosso con il suo talismano, ora che la sua famiglia è fuggita.» «Mentre venivo qui ho incontrato il vostro lacchè e mi ha informato del vostro ordine di salpare. Gli altri due ordini di remi sono ancora al completo; ci muoveremo, ma non con la stessa velocità di prima e comunque non saremmo stati in grado di tenere un ritmo sostenuto neppure nel migliore dei casi: la vostra tempesta e l'oscurità ostacolano le vedette e saremo costretti a scandagliare in continuazione per evitare di finire sulle barriere o in secca.» «La tempesta finirà presto e sarò io a portare in salvo tutti noi con il mio
talismano magico...» cominciò Portolanus, ma l'ufficiale lo interruppe. «Non prima di avere fatto una visita di piacere alla regina.» Kalardis fece una smorfia, mostrando i denti rotti e macchiati. «O piuttosto di dispiacere. Non vorrei essere nei vostri panni per tutto l'oro di Taloazin.» La regina Ganondri, circondata da sei cavalieri pirati armati fino ai denti, sedeva a un tavolino dorato sul quale era dispiegata una mappa. Portolanus aveva appena messo piede nella cabina, allorché due grossi raktumiani lo afferrarono per le braccia e lo immobilizzarono, senza lasciargli il tempo di estrarre dalla cintura l'Occhio di Fuoco Trilobato. «Dammi una ragione», disse la regina con velenosa dolcezza, «per cui non dovrei ordinare ai miei uomini di tagliarti la gola per aver permesso ai prigionieri reali di fuggire.» Il Mago trasse un profondo respiro. «Talismano! Ti ordino di uccidere i miei aguzzini!» I due pirati imprecarono e immediatamente lasciarono andare Portolanus ed estrassero le spade; la regina reggente, livida in volto, si alzò dalla sedia. Ma non accadde nulla. Disperatamente il Mago afferrò il talismano e lo agitò in aria. «Talismano, brucia con il tuo fuoco vendicatore tutti i miei nemici in questa stanza!» Di nuovo non accadde nulla. Ganondri si lasciò ricadere sulla sedia, con una risata di sollievo; tutti e sei i cavalieri si avvicinarono infuriati a Portolanus e uno di loro strappò la spada dalle mani del Mago, prendendola dalla parte della lama spuntata. Immediatamente le tre orbite sull'elsa si aprirono e gli occhi viventi si posarono per un istante sul raktumiano, poi dall'occhio umano scaturì un raggio dorato, dall'occhio del Popolo un raggio verde e dallo strano occhio azzurro argentato un raggio di accecante luce bianca. Il pirata venne avvolto dalla testa ai piedi da una luminescenza pulsante; le dita guantate lasciarono cadere la spada, ma le fiamme magiche aumentarono d'intensità, avvolgendolo in un sudario di luce tricolore. L'uomo non proferì suono, ma gli altri gridarono inorriditi quando il suo viso, sotto la celata rialzata dell'elmo, divenne nero e bruciacchiato e un fumo denso si levò dalle giunture dell'armatura. Si udì un tremendo scricchiolio e poi un ruggito sommesso, come un fuoco che si scaricasse su per una canna fumaria. Il cavaliere in fiamme crollò sul tappeto; due degli altri pirati
staccarono un arazzo e lo gettarono sopra il compagno ormai condannato, ma nessuno osò toccarlo. Portolanus, che era indietreggiato contro una parete, osservava la scena spaventato e stupefatto, e così la regina e i suoi uomini. Di colpo, i rumori soffocati che provenivano da sotto l'arazzo cessarono, il fumo e la puzza scomparvero, lasciando l'aria del salone pura e dolce. Portolanus raddrizzò le spalle, assunse un atteggiamento solenne e si avvicinò per sollevare il pesante arazzo. Le cinghie di cuoio che stringevano l'armatura erano bruciate ed era rimasto solo il metallo: nessun segno di un corpo, nemmeno le ossa. In mezzo ai pezzi di metallo piegati dal calore c'era il talismano, che aveva riassunto il suo normale aspetto di spada, con la punta spezzata e la lama smussata. Portolanus la prese e se la infilò alla cintura, poi lasciò ricadere l'arazzo. «Uomini, lasciateci soli», disse ai cavalieri. «No!» gridò Ganondri. «Stai attento, Mago! Hai dimenticato il mio avvertimento? Anche se tutti quelli che sono su questa nave morissero, alla fine, senza l'aiuto di Raktum, tutte le tue grandi ambizioni crollerebbero. Solo con il mio aiuto potrai portare a termine il tuo piano.» Il Mago si avvicinò e si chinò, posando le mani sul tavolo. Il suo viso era stanco e tirato, la voce secca. «Hai ragione, ho più che mai bisogno del tuo aiuto ora che il talismano di Anigel è fuori portata. Ma a meno che tu non voglia che questi sciacalli siano testimoni di un colloquio che dovrebbe restare privato, mandali via.» Prese una sedia dorata, vi si lasciò cadere sopra e sorrise. «Sei perfettamente al sicuro con me, Grande Regina. Hai visto che la mia padronanza del talismano è imperfetta; esso uccide solo coloro che cercano di portarmelo via... peggio per loro! Giuro, per le Potenze Oscure alle quali obbedisco e per il talismano stesso, che non intendo farti del male.» Con mano tremante, la regina si decise a congedare i cavalieri, facendo loro segno di portare via l'armatura annerita del compagno. Poi prese una brocca e versò del brandy in una larga coppa, che riuscì a stento a portarsi alle labbra. Dopo aver ingollato tutto il contenuto, sembrò più salda, anche se l'odio nei suoi occhi era accompagnato da un terrore profondo che la sua grande forza di volontà riusciva a stento a nascondere. «Questa situazione è inaccettabile, stregone», disse. «Dobbiamo rinegoziare la nostra alleanza. Tu hai il tuo talismano, ma il mio adesso è irraggiungibile!»
«Non necessariamente. Vediamo se questa recalcitrante spada magica sa fare altro, a parte arrostire un incauto ladruncolo...» Prima che la regina potesse protestare, la estrasse e la tenne per la lama. «Talismano! Mostraci re Antar!» Ganondri emise un'esclamazione sorpresa quando la visione prese forma; vide un mare scuro e agitato sul quale cadeva qualche goccia di pioggia. In mezzo alle onde apparivano e scomparivano le forme di tre teste dal muso grottesco, che circondavano un'altra testa, umana. Antar e i Wyvilo nuotavano lentamente verso la risacca luminosa della riva. «Ah», esclamò Portolanus, «dunque sono riusciti a fuggire nonostante Heldo e la tempesta. Non dovrebbe essere troppo difficile riacciuffare il nostro ospite reale! Ora, talismano, mostraci il principe Nikalon, la principessa Janeel e il principe Tolivar.» Con gli occhi della mente, il Mago e la regina videro Niki e Jan distesi sulla sabbia umida in un villaggio aborigeno. Avevano le braccia e le gambe legate a dei pali e sembravano privi di sensi. Alle porte delle capanne si affacciavano di tanto in tanto dei nativi, chiamandosi l'un l'altro. «Bene, bene! A quanto pare, i due marmocchi più grandi stanno per ricevere l'onore di partecipare a una dimostrazione di ospitalità locale. Non credo che dobbiamo preoccuparci del loro destino. Ma il terzo rampollo reale?» Obbediente, il talismano mostrò loro Tolivar, che attraversava con passo deciso il sottobosco della giungla, borbottando tra sé. Portolanus e la regina riuscirono a distinguere solo qualche frase. «... la zia Kadiya non può costringermi... non m'importa se i pirati mi trovano... meglio essere un mago che un inutile principe secondogenito... sentirò la mancanza di Ralabun, ma di nessuno degli altri...» Portolanus bandì la visione e restò seduto a pensare. Poi ordinò: «Talismano, mostrami dove si trovano con esattezza re Antar e i tre bambini in questo momento... e anche Kadiya». Nella sua mente si materializzò un'immagine dell'Isola del Consiglio contrassegnata da puntini di luce bianca. Il Mago capi subito il significato di ognuna di quelle luci: re Antar si trovava ancora in mare, a mezza lega dall'isola, sospinto leggermente a sud dal vento. Il piccolo Tolivar era al limitare della foresta e si avvicinava alla spiaggia di fronte alla quale era ancorata la nave raktumiana. I due ragazzini prigionieri si trovavano nel grande villaggio Aliansa situato più a nord, una lega circa all'interno. Kadiya era vicina a loro e a quanto pareva non si era mossa rispetto a prima.
«Ora mostrami di nuovo il principe Tolivar.» Dagli oblò aperti del salone giunsero un rumore di passi che correvano e il suono di una voce che urlava ordini; poi una vibrazione percorse la nave quando gli uomini agli argani issarono le ancore. La regina balzò in piedi. «Chi ha dato l'ordine di salpare? Dobbiamo inviare delle squadre armate a terra, immediatamente! Se riusciamo a ricatturare almeno uno dei prigionieri, avremo in mano quanto basta per ricattare la regina Anigel e costringerla a darmi il suo talismano!» Si precipitò alla porta, la spalancò e si mise a chiamare a gran voce l'ammiraglio Jorot. Portolanus, ancora assorto nella visione del principe Tolivar, parlava tra sé: «Il piccolo diavoletto! Così gli piacerebbe, eh? Che insolenza! Però sembrava davvero interessato a me. E ho avuto l'impressione di distinguere un debole alone di potenziale magico, attorno a lui! Forse è per questo che non ho avuto il cuore di pensare di farlo torturare. Forse forse si potrebbe farne un mago... Chissà se è già abbastanza grande per comprendere gli affari di Stato? Magari potrebbe esserci d'aiuto per rovesciare i Due Troni...» Ganondri rientrò nella cabina. «Ho ordinato che la nave si metta in panna con le ancore alzate mentre sei scialuppe cariche di uomini armati andranno alla ricerca di re Antar e del principino. Gli altri due principi nelle mani degli Oddling del Mare possiamo scordarceli. Senza dubbio la regina Anigel li ha già visti e non farà attenzione a noi mentre i suoi due preziosi marmocchi sono minacciati dai selvaggi. Ora tu and...» «Io non scenderò a terra!» dichiarò il Mago. «Sono sicura che il Popolo del Mare non oserà minacciare un grande incantatore quale tu sei», disse maliziosa la regina, proseguendo poi in tono più duro: «Devi guidare le squadre direttamente dal principe Tolivar e da re Antar per mezzo del tuo talismano, non c'è tempo da perdere!» «La mia Voce Nera accompagnerà la squadra che cerca re Antar e la Voce Porpora guiderà gli altri dal principe Tolivar. Io comunicherò alle Voci il luogo esatto in cui potranno trovare il re e il principino. Non c'è ragione che lasci la nave.» «Tu andrai perché io te lo ordino!» «No! Non è necessario!» Portolanus e la regina si fissarono, furenti, per qualche istante. Poi il Mago disse a bassa voce: «Tu non mi abbandonerai su questa isola di Oddling, regina dei pirati, togliti quest'idea dalla testa. Nel bene o nel male resteremo alleati e io farò in modo che almeno uno degli ostaggi reali venga ripreso, affinché tu possa barattarlo con il talismano della regina Ani-
gel. Tuttavia ti esorto a non fare qui lo scambio: Anigel non sarà molto ragionevole dopo che gli Aliansa avranno torturato e ucciso i suoi due figli. Dovremmo salpare non appena avremo ripreso Antar o il principe Tolivar». «E poi?» scattò la regina. «Trasborderai me e la mia gente, sani e salvi, sulla nave tuzamena. Con la Vista del mio talismano posso fare in modo di raggiungere presto la mia nave e la tua flotta; non possono essere a più di qualche giorno di navigazione da qui. Dopo di allora, se desideri che la nostra alleanza continui, possiamo intraprendere il viaggio verso casa in convoglio. Tu potrai portare i prigionieri reali, come prima...» «E lo scrigno stellato?» disse Ganondri in tono che non ammetteva repliche. «Me lo consegnerai subito, o l'alleanza con il grande Raktum finisce qui... come pure le tue ambizioni di conquistare il Laboruwenda!» Portolanus estrasse il talismano dalla cintura e lentamente appoggiò la lama spuntata sulla gola della regina. Ganondri s'irrigidì, ma né si mosse né gridò quando il metallo le sfiorò la carne, senza danno. Se il Mago stava ordinando mentalmente al suo talismano d'incenerirla, questo non si curava di obbedire. La regina piegò la bocca in un sorriso gelido. «Lo scrigno stellato», ripeté. «Ora. E mi mostrerai come usarlo.» Portolanus allontanò la spada, si alzò e fece un inchino. «A quanto pare siamo allo stallo, grande regina. Cerchiamo di mettere da parte i rancori che in questo momento ci dividono, e pensiamo invece a tutte le vantaggiose considerazioni che hanno determinato la nostra alleanza. Per lavorare verso un fine comune non abbiamo bisogno di amarci; tu sai benissimo che la mia ambizione va ben oltre la conquista del regno di Laboruwenda. L'orgogliosa Terra dei Due Troni sarà tua.» «Come pure il talismano della regina Anigel.» Il sorriso della regina si trasformò nel ghigno feroce di un lothok. «Lascia che ti esponga quali sono i nuovi termini del nostro accordo, Mago. Il grande Raktum resterà tuo fedele alleato fino a quando tu ti asterrai da tradimenti nei suoi confronti o nei confronti della sua regina. Ma io terrò il talismano di Anigel fino al giorno della mia morte e tu m'insegnerai a usarlo.» Portolanus alzò le braccia al cielo in un gesto di frustrazione. «Ma se non so ancora come usare il mio, di talismano!» «Non ho dubbi che imparerai.» Il Mago sospirò. «Va bene... giuro per le Potenze Oscure e per questo ta-
lismano... che possa distruggermi se infrangerò questo giuramento... di accettare fedelmente le condizioni che hai posto. Ti manderò immediatamente la Voce Gialla con lo scrigno stellato e poi mi occuperò della cattura dei prigionieri reali.» Ganondri annuì con un imperioso cenno del capo. Portolanus uscì dalla cabina chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle. Quando se ne fu andato, la regina reggente cominciò a ridere, trionfante e felice al punto che non riuscì a smettere finché non ebbe tracannato un altro bicchiere di brandy. Quando la Voce Gialla si presentò con lo scrigno stellato, glielo strappò di mano e lo spinse rudemente fuori della porta. Poi ricominciò a ridere. 15 Senza fretta Haramis percorse il Sentiero di Luce, camminando piano sulle acque profonde e gelide del mare, come se sotto i suoi piedi non vi fosse quel luccichio privo di sostanza, ma un sentiero di pietra. Nella brezza artica aleggiava il distinto odore di mare e l'aurora fiammeggiava nel cielo, velando le stelle e le Tre Lune e illuminando con pallidi raggi azzurri e rossi i giganteschi iceberg galleggianti. L'interno della più grande delle montagne, quella cui conduceva il Sentiero, brillava di una luce propria; Haramis non l'aveva notato quando si era allontanata dalla riva, ma ora, a mano a mano che si avvicinava, l'iceberg si faceva sempre più luminoso, fino ad assomigliare a un'enorme gemma di berillio dalle mille sfumature verdi azzurre, incastonato nel nero specchio dell'oceano. La luminosità continuava anche sott'acqua, diminuendo con la profondità, e l'Arcimaga capì che la grande montagna di ghiaccio che emergeva sull'acqua non era che una piccola parte dell'incredibile massa che si nascondeva al di sotto del mare. Camminò per più di due leghe prima di raggiungerlo. Il Sentiero di Luce la portò a una grotta che si apriva nel fianco della montagna, una sorta di corridoio dove l'acqua non era più nera, ma blu notte. La superficie delle pareti era lucida e irregolare, incavata, sfaccettata e intagliata, cosicché la luce interna pareva splendere attraverso forme fantastiche di smeraldo e acquamarina ombreggiata di azzurro zaffiro. Senza riflettere, tese una mano per toccare la parete più vicina. «Per il Fiore! Ma non è ghiaccio!» La superficie era umida e liscia, ma non gelida e certamente più calda
dell'acqua del mare. Che fosse vetro? Grattò con le unghie: la sostanza era più cedevole del cristallo, diversa da qualunque altra avesse mai visto; doveva trattarsi di un materiale magico, di certo creato dall'Arcimaga del Mare, un finto iceberg. E in quel momento Haramis si avvide che all'interno di quelle pareti trasparenti nuotavano pesci e altri animali marini, innumerevoli branchi che sfrecciavano lungo i muri, fin dove arrivava l'occhio. L'iceberg artificiale era cavo e pulsante di vita. Fissò le creature e queste parvero ricambiare il suo sguardo. Erano quasi tutte argentee, azzurre o bianche, alcune erano trasparenti e all'interno si vedevano gli organi pulsare. C'erano pesci enormi con scaglie scintillanti e bocche dai denti affilati, che ricordavano i mortali milingal dei fiumi della Palude Labirinto. Branchi di pesci più piccoli con occhi azzurro elettrico nuotavano in sincronia con tale precisione da far pensare che fossero diretti da un'unica mente. C'erano pesci, simili a lunghi nastri bianchi striati d'argento, che fluivano languidi, e altri a forma di spada così grotteschi che era difficile riconoscerli come tali, tutti ricoperti di protuberanze, aculei e appendici simili a lance flessibili con una bandierina che sventolava in cima. C'erano grandi e placidi idrozoi simili a uova frangiate di gelatina color arcobaleno, e altri più piccoli che sembravano delicati boccioli galleggianti dai petali color pastello. Creature tentacolate color della neve con buffe teste sfrecciavano in mezzo ai nuotatori più lenti e branchi di meduse traslucide viaggiavano in maestoso splendore, incalzati da un informe predatore argenteo che di tanto in tanto s'inghiottiva una vittima ignara e scompariva alla vista. Dappertutto, crostacei angolosi indugiavano come api di cristallo sugli animali fiore, entrando e uscendo senza paura dalle fauci spalancate dei milingal argentati e scroccando di tanto in tanto un passaggio sul dorso delle creature all'apparenza meno pericolose. Haramis non riuscì a trattenere un'esclamazione ammirata e stupita. Sono lieta che ti piacciano i miei cuccioli. Colta di sorpresa, l'Arcimaga si guardò intorno, ma in quella galleria acquario non c'erano altri esseri umani. «Sei l'Arcimaga del Mare?» sussurrò. Ma certo! Sbrigati, bambina, sono molto impaziente di conoscerti. Potrai studiare in un altro momento gli inquilini della mia casa, se lo vorrai. Ma la nostra cena si sta raffreddando e io sono affamata! Haramis represse un sorriso; a quanto pareva quell'Arcimaga non era il tipo che facesse tante cerimonie e la sua voce mentale non le era parsa sussiegosa o condiscendente. Haramis non aveva voluto fare supposizioni sul
genere di persona che avrebbe incontrato: ufficialmente erano alla pari, in realtà sarebbero state studente e maestro. La ragazza pregò che questa Arcimaga fosse un tipo schietto, non enigmatica e sfuggente come l'Arcimaga Binah; lei aveva bisogno di aiuto pratico, non di un'altra dose di misteri. Il talismano di Kadiya era quasi certamente nelle mani di Portolanus e tra breve anche quello di Anigel sarebbe stato ceduto al Mago come riscatto. Se lei non fosse riuscita a padroneggiare in fretta il suo, era certa che Portolanus avrebbe raggiunto il suo scopo d'impadronirsi del mondo. Denby pensa che sia una conclusione scontata. Ma tu e io gli faremo vedere un paio di cosette! In quanto all'essere pratica... questo, mia cara, è un problema tutto tuo. Io non sono certo il tipo che si lascia abbindolare da un incantatore di bell'aspetto... ma per quello che riguarda te, non ne sono così sicura! Haramis emise un'esclamazione offesa, poi raddrizzò le spalle e riprese il suo viaggio nel cuore del finto iceberg. «È evidente, Signora del Mare, che sei in grado di percepire i miei pensieri; ma dubito molto che tu possa leggere la mia coscienza. Sono venuta a te come supplice, è vero, e se l'unico modo in cui puoi essermi d'aiuto è mandando in pezzi la mia dignità, allora così sia. Ma avevo sperato in un rapporto più amichevole e caloroso. So di essere giovane in confronto a te, ma non sono una bambina e neppure una sciocca; ho sempre svolto al meglio possibile i miei doveri di Arcimaga, senza lasciarmi distrarre da nulla o da nessuno...» ... per il momento! Ma lo sarai, orgogliosa ragazza! Proprio come lo sei stata dodici anni fa, prima di rivestire il manto del tuo ufficio. Non solo sei stata distratta dal dovere, ma fortemente tentata dal male. Ammettilo! Haramis si fermò. «Non cercherò di giustificarmi. È vero, un tempo ho amato il Mago Orogastus e sono stata sviata dalla sua visione di potere, ma poi l'ho ripudiato. Se è ancora vivo, come sospetto, cercherò con tutto il cuore e con tutta l'anima di respingerlo di nuovo e di sventare il suo piano malvagio... ma ho un disperato bisogno del tuo aiuto. Me lo darai?» Non ti avrei fatta arrivare qui attraverso il viadotto, altrimenti. Hai dimostrato la tua fermezza avventurandoti nel Kimilion, così ho deciso che meritavi un trattamento speciale... a dispetto di quello che pensa Denhy. Non solo l'equilibrio del mondo, ma la sua stessa esistenza sono minacciati dalla risurrezione dell'abominevole Stella! A mali estremi, estremi rimedi! Denby pensava che Binah fosse pazza a rischiare di lasciare libero lo Scettro del Potere Trilobato per respingere la minaccia, e ha dato in e-
scandescenze quando Binah ha progettato la vostra nascita. Ma poi anche lui ha ammesso che prima o poi l'Uomo della Stella si sarebbe impadronito dello Scettro, anche senza gli errori commessi da voi Tre Petali del Giglio. Binah riteneva che, col tempo, sareste state in grado di sconfiggere una volta per tutte la minaccia, nonostante i vostri maldestri tentativi. Sangue nuovo e giovane, menti fresche e innocenti per affrontare un problema antico. Capisci? «No! Non ho la più pallida idea di che cosa tu stia parlando!» Di colpo Haramis si sentì gelare, anche se l'aria nell'iceberg artificiale era tiepida. Si avvolse più strettamente nel mantello di pelliccia e riprese: «Spiegati, Arcimaga! Dimmi che genere di pericolo minaccia il mondo e che ruolo avremo noi, le mie sorelle e io, nel combatterlo. Ti avverto che non ho più intenzione di lasciarmi raggirare con sciocchezze mistiche o risposte evasive!» Ah, ah! Piena di spirito combattivo! Mi piace. Vieni avanti, Haramische-non-ammette-sciocchezze! Andremo magnificamente d'accordo! Quando il Sentiero di Luce finì, Haramis si ritrovò su una piattaforma luminosa da cui si dipartivano tre gallerie, una sola della quali era illuminata. Seguì quest'ultima per parecchio tempo, tanto che l'illusione di essere sospesa nell'acqua scintillante le diede quasi alla testa. Le orde di creature marine l'avevano abbandonata, forse perché avevano visto abbastanza, e ora nell'acqua dietro le pareti trasparenti si vedevano solo ogni tanto delle forme confuse che nuotavano. L'illuminazione si fece sempre più fievole, come se si stesse allontanando dalla sua fonte, e il colore del mare passò a sfumature più cariche blu oltremare e verde giada con ombre viola. Poi comparve una porta di un bianco opaco, con un grande anello come maniglia. Haramis lo tirò, ma non accadde nulla; allora lo toccò con il suo talismano e ancora una volta si udì lo stesso trillo di campanello che aveva annunciato il viadotto misterioso. La porta si aprì nel buio. Haramis entrò con passo deciso e si fermò quando il passaggio si richiuse, lasciandola al buio con la sola luce dell'ambra del giglio incastonata nel talismano a rassicurarla. Si udì una risatina. «Tra qualche istante la tua vista si adatterà e ci vedrai benissimo. I miei vecchi occhi non sono più quelli di un tempo e questa semioscurità è la situazione che preferisco. Dammi la mano...» Haramis sollevò incerta un braccio e si sentì afferrare la mano da dita umide, ma non sgradevoli, che l'aiutarono a camminare per una decina di
passi. C'era un sentore di sale nell'aria e l'eco sommessa del campanellino che sembrava richiamare altre note dall'oscurità. «Eccoci... senti la sedia? Accomodati mentre io vado a prendere la cena.» Annaspando alla cieca, Haramis riuscì a scivolare su un sedile di forma strana, privo di schienale, con le gambe e i fianchi costellati di piccoli rigonfiamenti lisci e un cuscino caldo e cedevole, senza dubbio riempito di liquido. Era molto comodo. Seduta al buio, si accorse che cominciava a vedere: si trovava in una stanza grande piena di mobili che emanavano una debole luminescenza. La tavola e i suoi due sedili erano fatti di conchiglie cementate disposte a spirale. Anche i piatti e i bicchieri erano di conchiglie che brillavano di color rosa e topazio. Sul pavimento, pagliuzze cremisi e azzurro scuro formavano disegni curvilinei. Qua e là per la stanza erano sparse grandi urne, punteggiate di verde, nelle quali crescevano piante piumate simili a felci giganti, che emanavano una debole luminescenza arancione nella parte inferiore delle foglie. Allineate lungo una parete c'erano delle credenze dai contorni azzurri con luminose maniglie rosso scuro. Su un'altra facciata spiccava un grande murale che rappresentava la vita marina, dove creature degli abissi con occhi lucenti, pinne e fantastiche striature sul corpo parevano sospese nelle acque scure o riposare su formazioni coralline soffuse di minuscole stelle bianche. Una di quelle squisite creature si mosse all'improvviso e Haramis si rese conto che il murale era vivo, niente affatto un dipinto, ma un'enorme finestra che guardava nelle profondità del mare notturno. Mentre i suoi occhi si adattavano alla penombra, tutto attorno a lei parvero materializzarsi altri oggetti che emanavano una debole luminosità. In un angolo c'era un grande tavolo da lavoro sul quale erano posati strani oggetti metallici che brillavano alla luce riflessa dalla superficie madreperlacea su cui poggiavano. In un altro angolo c'era un globo alto quasi quanto lei, che, capì con un sussulto, era un modellino del mondo, con i mari che brillavano di un caldo color indaco e le terre di un debole verde dorato o bianco. C'erano file di scaffali carichi di libri rilegati in cuoio e stoffa, con i titoli luminosi che spiccavano sul dorso. Altri volumi erano ammucchiati a caso qua e là sul pavimento, mentre uno era aperto sul leggio accanto a una poltrona. Senza più sorpresa, Haramis notò che le lettere sulle pagine erano
anch'esse splendenti. Davanti alla poltrona c'era un poggiapiedi imbottito e a terra, accanto a esso, era sdraiata una creatura bianchiccia, segmentata, con molte gambe e due grandi occhi rossi. Quando si accorse che Haramis la stava scrutando, l'essere aprì la bocca, mostrando l'interno giallo e luminoso adorno di parecchie file di zanne, e soffiò. «Su, su, Grigri! Comportati bene con la nostra ospite!» Due grandi tende rosso scuro, che Haramis non aveva notato, si aprirono e l'Arcimaga del Mare entrò portando un vassoio con una zuppiera fumante e parecchi piatti coperti. Li appoggiò sulla tavola e rimase in piedi sorridendo. «Adesso ci vedi?» «Sì, grazie.» «Mi chiamo Iriane; c'è chi mi chiama la Signora Azzurra. Benvenuta nella mia casa, Arcimaga della Terra.» Con un certo sollievo Haramis vide che l'Arcimaga era del tutto umana, senza scaglie o appendici ittiche. Era di statura media, ma robusta, con un viso rotondo come un melone che luccicava di un debole azzurro. Aveva lineamenti bellissimi e stupendi erano gli occhi, enormi e neri, frangiati da lunghe ciglia. Anche i capelli erano neri, o forse blu scuro, acconciati con boccoli e ricci tenuti fermi da pettinini di conchiglia e fermagli adorni di grosse perle. Indossava un lungo abito senza maniche color indaco, ricamato con minuscoli lustrini che formavano motivi marini stilizzati. Due spille di perle fermavano sulle spalle un iridescente e fluttuante mantello di leggerissimo tessuto blu notte. Iriane tese la mano e Haramis si alzò e la strinse, con un piccolo inchino del capo. Poi, con sorprendente grazia, la robusta Arcimaga si sedette e dopo una breve preghiera di ringraziamento ai Signori dell'Aria e ai Dio Triuno, si servì abbondantemente dalla zuppiera. «Mangia, bambina, mangia: devi essere affamata dopo quel viaggio dal Kimilion. Hai camminato per più di tre ore, sai.» «Non mi è sembrato così tanto... Dimmi: quanto dista il Kimilion dalle sponde del Mar dell'Aurora dove mi ha portato il viadotto?» «Più di tremila delle vostre leghe.» «Stupefacente! E sono arrivata qui in un batter d'occhio. La tua magia è molto potente, Signora.» «Sì», convenne Iriane, «ma il viadotto non ne fa parte. Hai viaggiato tramite un'antica macchina nella quale non vi è nulla di magico.» «Ah! Un apparecchio degli Scomparsi?» «Sì. Una volta c'erano viadotti simili in tutto il mondo, che nei tempi antichi venivano usati comunemente per trasportare qua e là i membri della
popolazione che non erano adepti. Ora pochi sono ancora utilizzabili.» Haramis si servì con moderazione del cibo, che aveva un aspetto molto strano, ma un profumo delizioso e invitante. Una brocca dorata conteneva un liquido dalla fragranza dolce e speziata: prima di continuare a parlare, Haramis se ne versò un bicchiere, e lo bevve tutto. «Lady Iriane, tu sai perché sono qui: devo imparare a usare nel modo giusto il mio talismano, il Cerchio dalle Tre Ali. E sono venuta anche a chiedere il tuo consiglio su come sconfiggere il Mago Portolanus, che ha già rubato uno dei talismani a mia sorella Kadiya e che ora minaccia di prendere anche quello di mia sorella Anigel. Vorrei anche che tu mi dicessi tutto quello che sai degli Scomparsi e del loro Scettro del Potere composto dai tre talismani. Infine, spero che mi spiegherai la differenza tra la vera magia e la grande scienza che attiva alcuni di quegli stupefacenti macchinari antichi... e come scienza e magia si mescolino nel conflitto tra Portolanus e i Tre Petali del Giglio Vivente.» Iriane sospirò e posò il cucchiaio; poi bevve un sorso dal suo bicchiere e disse: «Ad alcune delle tue domande non so rispondere, Haramis. Altre invece richiedono lunghe spiegazioni e devo rimandarle a più tardi. Comincerò a rispondere alla prima domanda, la più facile, raccontandoti la storia degli Scomparsi». Dodici volte dieci centinaia fa (disse Iriane) sul Mondo delle Tre Lune viveva una nutrita popolazione umana, che era giunta qui da un altro luogo molto al di là del firmamento. Quegli uomini usarono le loro grandi conoscenze per trasformare alcuni aspetti di questo mondo affinché si adattassero alle loro necessità di vita. Con il trascorrere del tempo, si formò una fazione di uomini egoisti e bramosi di potere, che si denominarono Società della Stella. Erano molto versati nella scienza e anche nelle arti magiche che hanno origine nella mente umana e nella più segreta natura dell'universo. Gli Uomini della Stella e i loro seguaci scatenarono una guerra devastante che durò più di due centinaia e durante la quale le loro armi e la loro crudele magia non solo uccisero quasi la metà della popolazione, ma mutarono il clima stesso del mondo, dando origine all'Era del Ghiaccio Vincitore. Come sai, ancora oggi la gran parte della massa continentale è costituita da un vasto Ghiacciaio Eterno e solo le zone meridionali sono libere dal ghiaccio; ma nei tempi precedenti, solo sulle montagne più alte esistevano dei ghiacciai e a quel tempo il continente aveva ovunque un clima mite e
c'erano molti grandi laghi con bellissime isole, dove sorgevano splendide città. Quand'ebbero inizio le incessanti tempeste di neve, tutte le città sulla terraferma dovettero essere abbandonate e solo quelle lungo la costa o sotto il mare o nel vicino firmamento rimasero abitate. La Società della Stella, dopo aver perso il sostegno della gente comune, combatté ancor più aspramente, ma anche i più fiduciosi di loro si resero conto che la loro causa era perduta. Quando pareva che gli Uomini della Stella, piuttosto che arrendersi, preferissero distruggere completamente il mondo, il Collegio degli Arcimaghi creò quell'oggetto chiamato lo Scettro del Potere per rivolgere contro gli stessi Uomini della Stella i loro terribili sortilegi. Ma usare lo Scettro del Potere era tremendamente pericoloso e alla fine coloro che lo plasmarono ebbero paura di usarlo. Il quartier generale degli Uomini della Stella venne distrutto da uno dei più grandi eroi del mondo, l'Arcimago Varcour, e i malvagi che sopravvissero si sparsero ai quattro venti e la guerra ebbe termine. Ma il Mondo delle Tre Lune era in rovina e neppure tutta la scienza e le arti degli Arcimaghi buoni potevano riportare il clima temperato in quella che un tempo era stata una terra bellissima e felice. Il continente non era più in grado di sostentare un gran numero di abitanti, e neppure potevano farlo i mari ricoperti di ghiaccio o le più precarie abitazioni del firmamento interno. Quasi tutti i sopravvissuti si prepararono allora a lasciare questo mondo per cercare un'altra casa molto al di là del firmamento esterno. Ma un gruppo di trenta anime altruiste e brillanti del Collegio degli Arcimaghi, compreso il grande Varcour, decisero di restare per fare ciò che era in loro potere per rimediare ai terribili danni causati dall'umanità. Una delle loro principali conquiste fu la creazione di una nuova razza, più resistente degli esseri umani, in grado di moltiplicarsi e ripopolare il devastato Mondo delle Tre Lune quando fossero passati migliaia di anni e il ghiaccio avesse finalmente cominciato a sciogliersi. Al loro arrivo su questo mondo, gli aborigeni più evoluti che gli esseri umani avevano trovato erano i primitivi e selvaggi Skritek. Quei mostri scagliosi a sangue caldo avevano un'intelligenza limitata e una consapevolezza ancor minore, ma erano in grado di parlare con e senza parole. Non sapevano nulla dell'amore, non avevano né arte né cultura e vivevano un'esistenza da predatori. Nel loro ributtante processo di riproduzione, quasi sempre la madre veniva divorata subito dopo la nascita dai piccoli affamati. Facendo uso della scienza e della magia insieme, i sapienti del Collegio
unirono il sangue di quelle selvagge creature con quello degli esseri umani, creando la razza intelligente e di bell'aspetto che tu conosci come Vispi. Nel medesimo tempo, venne creata una razza di amichevoli e giganteschi uccelli chiamati gipeti, perché aiutassero i Vispi a sopravvivere. Poi colonie di Vispi e gipeti vennero sparse in quello che restava del continente prima che la maggior parte degli umani se ne andasse, diventando gli Scomparsi. Ma poco tempo prima della partenza, qualche migliaio di persone comuni decise di restare per assistere gli Arcimaghi e cercare di ricostruirsi una vita tra il Ghiaccio Vincitore. Essi formarono il nucleo di quella popolazione umana che vive oggi sul Mondo delle Tre Lune. Con il passare delle centinaia, le tempeste e le bufere di neve si affievolirono e il clima cominciò pian piano a riscaldarsi, sciogliendo a poco a poco il ghiaccio sulla terraferma e liberando una quantità sempre maggiore di terra che poté di nuovo essere abitata. Guidati con paterna discrezione dagli Arcimaghi, i Vispi si moltiplicarono... ma la stessa cosa fecero gli Skritek che erano sopravvissuti. Nel corso dei secoli ebbero luogo degli incroci razziali da cui nacquero nuove specie di aborigeni, di aspetto più o meno umano. Anche gli esseri umani di tanto in tanto si accoppiarono con i Vispi cosicché oggi in tutti noi esiste una parte di sangue aborigeno. Poiché la fertilità della razza umana è maggiore di quella degli aborigeni, la nostra razza crebbe a una velocità maggiore e dopo migliaia e migliaia di anni le terre più fertili e salubri furono interamente abitate dagli umani, mentre gli aborigeni vivevano nelle aree circostanti: le montagne, le paludi, le foreste e le isole lontane. I membri del Collegio degli Arcimaghi si ritirarono dal segreto Luogo del Sapere costruito da Varcour e ognuno andò a vivere per conto suo in altri luoghi, da dove abbiamo continuato a guidare e proteggere sia gli umani sia gli aborigeni. Usando la nostra antica scienza, siamo stati in grado di vivere fino a un'età impensabile. Spesso un Arcimago in punto di morte riesce ad addestrare un successore, ma non sempre ciò si è rivelato possibile e nel corso delle centinaia il nostro numero è andato diminuendo lentamente, come pure è diminuita la necessità che gli umani hanno dei nostri servigi. E ora, mia cara, ci siamo solo noi tre: Denby, tu e io. Come Arcimaga della Terra, il tuo lavoro è il più strenuo e urgente. Il mio lo è molto meno e Denby è quello che ha meno da fare di tutti, e così è diventato capriccioso, solitario ed egocentrico, ignora quasi del tutto l'umanità e il Popolo e passa il suo tempo studiando arcane sciocchezze celestiali... che buon pro
gli faccia! L'Arcimaga che ti ha preceduta, Binah, scelse di vivere nella Penisola, dal momento che ora lì risiede la più alta concentrazione di aborigeni intelligenti. Gli altri gruppi del Popolo si sparsero per il continente, cavandosela benissimo da soli senza un guardiano Arcimago o in alcuni casi aiutati da me. La maggior parte dei miei clienti vive sulla miriade di isolette sparse nella lontana parte settentrionale del mondo, dove ben pochi umani arrivano. Nell'immediato passato, tra i compiti principali degli Arcimaghi era inclusa la protezione di quegli aborigeni minacciati di estinzione dagli umani, e la raccolta e la conservazione dei manufatti pericolosi o inadatti degli Scomparsi che venivano alla luce tra le rovine delle antiche città. È solo in tempi più recenti che si è manifestato un problema del tutto diverso, che ancora una volta minaccia l'equilibrio del Mondo delle Tre Lune. Mi riferisco alla ricomparsa degli Uomini della Stella. All'insaputa del Collegio degli Arcimaghi, la Corporazione malvagia non si è estinta con la fuga degli ultimi membri. Chissà come qualcuno è sopravvissuto e ha tramandato le sue conoscenze delle Potenze Oscure di generazione in generazione. Non sono mai stati in molti, perché sono molto gelosi e riservati. Le loro fortezze si trovavano in genere nei luoghi in cui la razza umana era meno contaminata dal sangue del Popolo e parecchi di loro possedevano un fisico robusto, capelli color platino e occhi azzurro argentati, proprio come l'antica fazione criminale degli Scomparsi... Ah! Vedo che questo ti rammenta qualcosa. Sì, bambina, la remota e inospitale Tuzamen era uno degli avamposti degli Uomini della Stella e il Mago che conosci con i nomi di Portolanus e Orogastus è il primo di loro che cerca di far rivivere l'antico sogno della Confraternita: la dominazione del mondo. Sì... Orogastus è vivo. È stato Denby, l'Arcimago del Firmamento, che molto tempo fa ha predetto la sua venuta; ma oltre a richiamare l'attenzione mia e di Binah sul nefasto evento, lui ha scelto di non fare nulla. Colei che ti ha preceduta e io abbiamo lavorato insieme per circa novecento anni per creare la linea ereditaria che è culminata in te e nelle tue sorelle gemelle, i Tre Petali del Giglio Vivente, sperando che voi avreste avuto la forza di opporvi a questo pericolosissimo Uomo della Stella. L'emblema del fiore, che è simbolo del Dio Triuno e al tempo stesso della natura fisica, mentale e magica dell'universo, risale agli Scomparsi, come pure la stella a molti raggi dei loro malvagi antagonisti. Ma il Giglio
Nero è una cosa vivente, anche se ha rischiato di scomparire, mentre la Stella è priva di vita e distruttiva come la morte, anche se ha una sua bellezza. A voi tre sorelle, con i tre amuleti che Binah creò per voi, venne conferito il potere di reclamare i talismani che compongono il terribile e antico Scettro del Potere. Ancora una volta, fu l'ineffabile Denby che determinò che quello strumento magico era l'unica via per salvare il mondo dalla Stella, pur se il suo uso presentava un pericolo gravissimo. In seguito, contraddicendo alla sua stessa scoperta, Denby si dichiarò contrario a che voi ragazze riuniste i tre talismani, perché era arrivato alla conclusione che il mondo sarebbe stato meglio sotto la guida della malvagia Società della Stella piuttosto che rischiare di essere distrutto dallo Scettro Trilobato. Binah e io non fummo d'accordo con lui. E così voi tre principesse partiste per la vostra ricerca e riusciste a recuperare i tre talismani e, nel momento della prova suprema, i Signori dell'Aria vi insegnarono il modo giusto di usare lo Scettro. Ma, nell'atto finale, Orogastus venne sottratto al potere dello Scettro ed esiliato in un luogo in cui un Arcimago morto da tempo aveva nascosto, per tenerlo al sicuro, un dispositivo occulto chiamato il Fulcro della Corporazione della Stella. Il pendente a forma di stella che portava al collo fu la salvezza del Mago, perché senza di esso la magia dello Scettro lo avrebbe consumato come le fiamme dell'inferno distruggono una piuma. Invece il Fulcro protettivo lo attirò a sé grazie al pendente, salvandogli la vita. Fu per me una tremenda sorpresa, perché non avevo mai avuto modo di sospettare che gli Uomini della Stella fossero riusciti a creare una qualunque contromisura per lo Scettro. Mentre Orogastus giaceva privo di sensi, mi affrettai al Kimilion attraverso il viadotto e portai via il Fulcro, perché temevo che possedesse altre funzioni sconosciute che avrebbero permesso al Mago di fuggire. Il Fulcro si trova in questo momento in un angolo del mio tavolo da lavoro. Lo studio da anni, ma non sono riuscita a individuare un altro impiego se non quello per cui venne usato la prima volta. Orogastus non riusci a capire come e perché fosse sopravvissuto. E non lo sa neppure ora. Durante i suoi dodici anni di esilio nell'Inaccessibile Kimilion, ha esaminato pazientemente quel deposito di conoscenze proibite, cercando un modo di fuggire dalla Terra del Fuoco e del Ghiaccio e riprendere la sua missione di conquista interrotta. Solo con un continuo esercizio della magia sono riuscita a nascondergli
il viadotto, ma non ho potuto impedirgli d'imparare a usare una certa macchina, un comunicatore meccanico di linguaggio senza parole, con il quale ha chiamato i suoi salvatori. L'apparecchio decrepito ha funzionato una volta sola, ma è stato sufficiente a portare i lacchè del Mago nella terra dei Dorok, dove colui che si chiama Shiki è stato costretto ad aiutare Orogastus a fuggire. Dal Kimilion il Mago ha portato con sé molte armi antiche e altri macchinari che in seguito gli hanno permesso di sottomettere Tuzamen. Dopo altri studi, è riuscito a venire in possesso anche dello scrigno stellato, un'altra contromisura degli Uomini della Stella di cui Binah e io non avevamo mai sospettato l'esistenza. Forse Denby ne era al corrente, ma non ci ha mai detto nulla. Non so se noi due Arcimaghe avremmo avuto il coraggio di far risorgere lo Scettro, sapendo che le sue parti potevano essere allontanate dai Tre Petali e legate a Orogastus. Ma ormai ciò che è fatto è fatto. Ora il Mago ha già reso sua una delle parti dello Scettro: non sa ancora come usarlo, ma imparerà, vuoi per caso, vuoi facendo esperimenti o tramite i sottili insegnamenti del talismano stesso, proprio come è avvenuto per voi tre. La conoscenza completa dell'uso dello Scettro Trilobato e dei talismani che lo compongono viene solo dallo Scettro stesso una volta che è stato riunito, e nessun essere vivente ne conosce il vero potenziale. A voi tre non fu permesso di raggiungere la conoscenza completa. È stata la sottile influenza mentale mia e di Denby a farti decidere di dividere nuovamente lo Scettro subito dopo aver esiliato Orogastus, in modo che il pericolo per il mondo diminuisse. All'epoca voi ragazze eravate molto immature e la vostra volontà rispondeva ancora alla nostra coercizione. Ora non è più così: nel bene o nel male, siete voi ora che controllate il vostro destino e il destino del mondo è nelle vostre mani. Se Orogastus dovesse riuscire a impadronirsi di tutti e tre i talismani, o anche solo di due di essi, tu e io con tutta probabilità non saremmo in grado d'impedirgli di scoprire la maggior parte dei loro segreti. Orogastus è un mago maturo, indurito dai lunghi anni di privazione, e ha una volontà di ferro. Persino la magia congiunta di tre Arcimaghi avrebbe delle grandi difficoltà a spezzare la volontà di un Uomo della Stella, tanto è per lui vitale il raggiungimento del suo scopo abominevole. L'Arcimago del Firmamento ha una gran paura di Orogastus. Io temo che Denby non avrebbe il coraggio di tenergli testa. Dopotutto, al nero Uomo del Cielo importa poco se l'equilibrio del mondo crolla e gli esseri umani e il Popolo cadono sotto
il malevolo dominio della Stella, perché tanto lui quanto le sue comodità non ne soffrirebbero. Ma non fasciamoci la testa prima di essercela rotta. Finalmente tu sei qui e anche se non posso istruirti su tutte le funzioni dello Scettro, posso però aiutarti a imparare a usare il tuo talismano. Se il Dio Triuno lo vorrà, lo adopererai per trovare un modo per sconfiggere Orogastus una volta per tutte. Tre decine di giorni dovrebbero bastare per la tua istruzione. Le lezioni saranno difficili, perché richiedono autodisciplina più ancora che l'accumulo di conoscenze. Ma io ho fiducia in te, Haramis-che-nonammette-sciocchezze: tu ce la farai... E adesso ti porterò lo speciale dessert che ho preparato in tuo onore: una crema di uova di pesce! 16 Kadiya e Shiki si nascondevano in un boschetto che costeggiava un piccolo corso d'acqua lungo uno dei lati del villaggio Aliansa. Il cielo tempestoso cominciava a schiarirsi e le piccole creature della foresta stavano facendo i primi tentativi per riprendere il loro canto notturno. La pioggia aveva gonfiato il torrentello che ora scorreva impetuoso nascondendo le rocce, e Kadiya e Shiki erano stati costretti a guadarlo con estrema cautela. Nel villaggio erano state accese decine e decine di alte torce. Più di trecento indigeni, accompagnati da canti e semplici strumenti musicali, erano impegnati in una danza cerimoniale attorno alle due piccole vittime legate e distese nel fango. Nell'orchestra aborigena lo strumento dominante erano i tamburi. Quella musica primitiva, il fragore dell'acqua e i suoni degli animali mascheravano i rumori prodotti da Shiki e Kadiya mentre si avvicinavano pronti a fare la loro ultima mossa. Il Dorok era armato con la robusta fionda tradizionale del suo Popolo e la spada a lama larga lunga quasi quanto uno stocco. L'unica arma di Kadiya era invece un piccolo pugnale. «Quando comincerà la cerimonia del sacrificio, avanzerò in mezzo a loro senza esitazioni», disse la ragazza. «Gli Aliansa si ricorderanno di me dalla conferenza e penseranno che abbia ancora l'Occhio di Fuoco Trilobato a difendermi. Se l'espediente funziona, libererò i bambini, li prenderò in braccio e ritornerò qui. Tu devi guardarci le spalle dagli inseguitori mentre fuggiamo... Se il trucco non funziona, tenterò di ucciderne il più possibile, in modo che tu possa trarre vantaggio dalla confusione e salvare i bambini
mentre gli Aliansa si occupano di me.» «Ma allora morirai di certo!» disse Shiki. «Se accadrà, dovrai portare via di qui i bambini e nasconderti con loro. Mia sorella Anigel vi troverà con la sua magia e verrà in vostro soccorso... Guarda! Sta succedendo qualcosa nella capanna del Consiglio! Credo che non dovremo aspettare ancora molto...» «Ti prego, Signora, prendi almeno la mia lama», la implorò Shiki. «No, è troppo grande per nasconderla sotto gli abiti e devo avanzare in piena vista.» Afferrò l'amuleto caldo che le pendeva dal collo, mentre un sorriso triste le compariva sulle labbra. «Forse questo mi proteggerà, come sembra abbia fatto portando me e il ragazzo sani e salvi a riva.» «Credi che l'amuleto possa tenere lontani gli assalitori... o addirittura ucciderli?» chiese Shiki con un'espressione non più così sconsolata. Il piano di salvataggio della Signora degli Occhi gli sembrava goffo e destinato all'insuccesso, ma non aveva osato dirglielo; se però quel suo amuleto era davvero magico... Con un sospiro, Kadiya lasciò ricadere il giglio d'ambra. «Non ucciderà di certo. In quanto ad aiutarmi in altri modi, la sua magia è sempre stata capricciosa. Bisogna credere fermamente se si vuole che funzioni e in verità non so se adesso sono in grado di farlo, ora che devo agire a sangue freddo come un'adulta e non in preda al panico o con la cieca fiducia di un bambino. In passato, quand'ero una ragazzina inesperta, quest'ambra del giglio mi ha protetta dalla Vista dello stregone malvagio, mi ha fatto arrivare sana e salva a terra quando mi sono lanciata da una grande altezza e mi ha guidata attraverso una terribile e desolata palude. Anche stasera a quanto sembra mi ha sollevata in aria, portandomi lontana dalla tromba d'acqua; ma quando ho chiesto il suo aiuto ero fuori di me, non è stato un ordine deliberato. E... forse ho solo immaginato che si sia verificato un miracolo. Tolo e io potremmo essere stati portati a riva da una grande ondata e non dalla magia.» «Era tutto così confuso sulla spiaggia che non potrei dire come siete arrivati», ammise Shiki. «Quand'ero in mezzo al mare con il ragazzo, ho creduto di sentire la voce di una donna morta da tanto tempo, di colei che mi diede questo amuleto e mi ordinò di andare alla ricerca del talismano. Ma potrei aver immaginato anche questo.» «Io so poco di magia», spiegò Shiki parlando lentamente, «ma, nelle situazioni più difficili, bisogna avere fiducia se si vuole riuscire. Posso osare
di suggerirti di cercare di avere fiducia in questo tuo amuleto, in modo che ci garantisca il successo del salvataggio?» «Il tuo è un buon consiglio», disse Kadiya. «Il fatto che io sia in grado di seguirlo è un'altra faccenda. Sono abituata a far conto su me stessa e su un certo oggetto prezioso che mi è stato rubato. Senza quell'oggetto, il talismano, non sono più la donna di un tempo.» Gli raccontò in breve come avesse perso il talismano e come Portolanus avesse recuperato l'Occhio di Fuoco Trilobato dagli abissi e che cosa significasse per lei e le sue sorelle, e forse per il mondo intero, la perdita di una delle parti del grande Scettro del Potere e concluse: «Tu devi capire, Shiki, che questa goccia d'ambra è un ben povero sostituto di quello che ho perso». Shiki le appoggiò dolcemente una mano a tre dita su una spalla. «L'ambra possiede di certo una magia: non è forse volata dalla sua proprietaria quando il Mago malvagio stava per prenderla?» «Questo è vero... Dal momento della mia nascita, da quando l'Arcimaga Binah me lo diede, l'amuleto e io non ci siamo mai separati. Si è incastonato nel talismano quando l'Occhio di Fuoco Trilobato è diventato mio. E quando ho perduto il talismano è stato come se mi fosse stato strappato il cuore dal petto!» «Eppure è l'ambra, e non il talismano, che ti è appartenuta fin dalla nascita. Hai considerato, Signora, che forse la tua più grande perdita può essere stata l'ambra e non il talismano?» Kadiya lo fissò senza parole. Shiki sorrise incoraggiante. «E ora è di nuovo in tuo possesso; non c'è ragione di non avere fiducia nella sua magia. E in te stessa.» «Se tu avessi ragione...» Si mise a riflettere affannata, osservando la danza degli Aliansa nella radura, che si era fatta più frenetica, con il ritmo dei tamburi così rapido che si era trasformato in un ruggito continuo che sommergeva il canto e il suono degli altri strumenti. «Lady Kadiya, è una buona cosa mettere in dubbio se stessi e non avere una fiducia eccessiva nelle proprie capacità di riconoscere la verità, perché quella è la strada che porta all'arroganza. Ciò che non va bene, invece, è arrendersi al dubbio, usandolo come scusa per agire in modo sbagliato o non agire affatto; è una forma di orgoglio e, per giunta, malvagio. Lo capisci? Alla nascita ci vengono elargiti dei doni e dobbiamo usarli al meglio delle nostre possibilità; se sei nata per comandare, allora fallo; se il ruolo di capo ti viene sottratto, sii remissiva. Se il tuo compito è essere un veico-
lo di magia, accetta anche quello, ma non con orgoglio, come se tu meritassi quel potere. Sii conscia dei tuoi limiti, Signora, ma sii pronta a oltrepassarli quando un bene più grande del tuo ti spinge ad agire. Certo, puoi fallire, ma non vi è disgrazia in questo, solo trascendenza.» I tamburi tacquero. Kadiya abbracciò Shiki, baciandolo sulla fronte. «Sia resa grazia al Dio Triuno per averti mandato», disse e sospirò. «Una volta mia sorella Anigel è fuggita, invisibile ai suoi aguzzini, con l'aiuto del suo amuleto d'ambra del giglio. Un'altra volta è riuscita a disarmare le sentinelle nemiche, avvicinandosi a loro dopo essersi resa invisibile. Io non ho mai avuto il coraggio di tentare un trucco simile, perché il mio modo di agire è sempre stato molto diretto e audace, non astuto. Ma ora faccio tesoro del tuo consiglio... e mi aprirò. Se davvero posso essere un semplice veicolo per la magia, allora imploro i Signori dell'Aria di usarmi a loro piacimento. I miei dubbi e la mia impazienza sono irrilevanti: l'unica cosa che importa è salvare i poveri Nikalon e Janeel. Shiki, sei pronto?» «Sì», rispose il Dorok. «Dimentica il mio piano originario. Stai all'erta e quando il momento ti sembra propizio, porta via i bambini prigionieri.» Poi Kadiya scomparve. Intorno ai bambini legati a terra c'erano ora una cinquantina di Aliansa armati. Gli altri indigeni erano ammassati più indietro, in mezzo alle torce piantate a terra. Da quando Kadiya e Shiki erano arrivati nei pressi del villaggio, Niki e Jan erano rimasti sempre immobili, come se fossero privi di sensi, ma ora, non appena il ritmo barbaro cessò, si mossero. Il principe ereditario girò il capo verso la sorella e le parlò. Jan riuscì a rispondere con un sorriso tremulo, poi entrambi rimasero immobili con gli occhi fissi al cielo stellato. Janeel era coperta da un pezzo di stoffa sporco e Niki da un perizoma. Dalla capanna principale uscì il Grande Capo Har-Chissa, seguito da presso da un altro indigeno che portava un grosso fagotto. Il Grande Capo indossava un gonnellino di tessuto d'oro tempestato di perle e una pettorina alta fino al collo di maglia dorata in cui erano incastonate perle e coralli preziosi. Fili di perle decoravano le gambe pelose e ogni scaglia della schiena, del torso e delle braccia era dipinta di rosso e d'oro. Attorno ai prominenti occhi dorati era disegnato un cerchio rosso scarlatto e sulla fronte era legato un cerchietto da cui sporgeva un corno di perle inserito in un incavo dorato.
Har-Chissa rivolse una domanda cantilenante alla folla, nella lingua degli Aliansa, e questi risposero con una nenia entusiasta. Allora i tamburi ripresero a suonare, con un ritmo lento e complicato in cui s'intrecciavano tutti i toni emessi dagli strumenti. Har-Chissa avanzò nel mezzo della radura, si chinò sulla principessa Janeel e con un rapido gesto della mano le tolse il pezzo di stoffa. La bambina non riuscì a trattenere un grido di sorpresa, ma subito dopo tacque e rimase in silenzio, come il fratello, che non aveva smesso di fissare il cielo con gli occhi pieni di lacrime. Mentre il ritmo dei tamburi aumentava e s'intensificava, il Grande Capo fece un cenno al suo aiutante, che era rimasto a qualche passo di distanza. Si trattava di un'anziana femmina, vestita con sfarzo quasi quanto il capo, che s'inginocchiò davanti a lui e svolse il fagotto che teneva in mano. Era pieno di coltelli. La folla gridò entusiasta. Har-Chissa comandò il silenzio con un gesto, poi, mentre il rullio dei tamburi aumentava la drammaticità della sua posa, studiò la fila di lame lucenti che erano disposte secondo la grandezza, e scelse un sottile bisturi con il manico di madreperla che luccicava alla luce delle torce. Muovendosi al complesso ritmo dei tamburi, Har-Chissa cominciò a girare il coltello attorno al corpo della principessa Janeel, mimando i movimenti che avrebbero strappato la pelle dal suo corpo. A ogni gesto, la folla di guerrieri e d'indigeni emetteva un urlo di approvazione. Poi il canto dei tamburi tacque. Har-Chissa alzò una delle braccia di Janeel e si chinò, con il coltello in posizione. Shiki sollevò la fionda e si preparò a lanciare una delle palle di piombo che i Dorok usavano come proiettili; ma sfortunatamente, la testa del capo degli Aliansa era un bersaglio lontano e incerto. Ma che cosa...? Di colpo, il lungo collo di Har-Chissa s'inarcò e la testa si piegò all'indietro. Il capo spalancò la bocca, sporgendo la lingua nera tra le zanne, e urlò sorpreso. Il coltello gli volò via dalla mano e descrisse uno strano arco in aria e il riflesso delle torce lo fece assomigliare a una piccola fiamma. Il pugnale rallentò, poi rimase magicamente sospeso dietro la testa del capo. Con un movimento frenetico, Har-Chissa cercò di togliersi il copricapo cerimoniale, ma davanti agli occhi attoniti degli indigeni, la fascia con il corno parve animarsi di vita maligna, e spinse sempre più indietro la testa del
capo, sempre più indietro, fino a scoprire completamente la gola ricoperta di pelliccia fulva. Il pugnale si mosse rapido, lampeggiando come una meteora. Sulla gola del Grande Capo degli Aliansa comparve una striscia rosso vivo, che si allargò, versando sangue scuro, e il gorgoglio disperato di HarChissa si trasformò in un orrendo gemito sibilante. Il capo cominciò a cadere in avanti, il sangue caldo sgorgò dallo squarcio sul corpo della principessa Janeel, coprendo la sua nudità. La bambina chiuse gli occhi ma non proferì suono. Har-Chissa crollò nel mezzo di una pozza rossa che diventava sempre più larga, e impronte insanguinate apparvero all'improvviso attorno ai corpi dei due principi prigionieri. Nello stesso istante, Shiki strisciò furtivo in mezzo al sottobosco, avvicinandosi al villaggio, sicuro che gli Aliansa, atterriti e stupefatti, non avrebbero guardato in direzione degli alberi. La folla rimase paralizzata dalla paura mentre il pugnale dal manico di madreperla recideva le corde che tenevano la principessa. Ma la vecchia assistente con il fagotto di coltelli dimostrò una maggiore presenza di spirito: afferrò un'arma che assomigliava a una mannaia e si avvicinò decisa al principe Nikalon. Shiki tese la fionda, prendendo come bersaglio uno dei luminosi occhi gialli; la palla di piombo fece centro e la femmina crollò a terra stecchita, con un proiettile nel cervello. Un istante dopo, entrambi i bambini erano liberi. Le impronte insanguinate si allontanarono dai prigionieri sfrecciando in mezzo all'anello di guerrieri, ancora immobili per lo stupore, e si avvicinarono alle torce. Due delle grandi fiaccole vennero estratte dal terreno umido e cominciarono a roteare e ad affondare, tenendo i guerrieri lontani dai bambini. Gli Aliansa si dispersero gridando, e molti dei più lenti non poterono evitare di essere bruciati. Alcuni dei guerrieri presero a menare fendenti in aria e a lanciare giavellotti in tutte le direzioni, ma riuscirono solo a colpirsi l'un l'altro. Poi le torce vennero lanciate contro i più arditi e il demone ne estrasse altre dal terreno e prese a lanciarle a una a una contro gli aborigeni armati. Dal limitare della radura Shiki lanciava un proiettile dopo l'altro, e ogni colpo era un centro che spezzava le ossa. La gran parte degli Aliansa non armati e anche parecchi guerrieri si diedero alla fuga in mezzo agli alberi della foresta; quelli che invece rimasero e cercarono di combattere caddero vittime della fionda di Shiki o finirono sotto le torce del demone e i loro abiti e la pelliccia presero fuoco. Urlando
di dolore e paura, barcollarono qua e là, agitando le braccia in aria come creature impazzite all'improvviso, Nessuno si accorse della piccola figura che uscì correndo dal bosco, afferrò nelle robuste braccia il principe e la principessa e fuggì con loro. Poi non vi furono più torce da lanciare, le fiamme si estinsero e l'unica luce fu quella che proveniva a tratti dalle porte aperte delle capanne deserte e dalle Tre Lune alte nel cielo. Non apparvero altre impronte insanguinate; i gemiti pietosi dei feriti si mischiarono con i rumori degli animali della foresta. Quando fu chiaro che il demone invisibile se n'era andato con i suoi prigionieri umani, i guerrieri sopravvissuti barcollarono e strisciarono nella capanna del Consiglio, per dare sfogo al loro dolore e piangere con alti lamenti la morte del Grande Capo. Quelli cui era rimasta ancora un po' di presenza di spirito inviarono messaggi nel linguaggio senza parole agli altri villaggi Aliansa dell'Isola del Consiglio e delle isole vicine, avvertendoli della presenza degli odiati stranieri e del loro spirito invisibile. Fu un conforto, per quanto piccolo, sapere che immediatamente guerrieri armati si misero in moto, per terra e per mare, per attaccare le due navi degli invasori. Ma poi, al loro ritorno al villaggio, un altro evento disastroso venne scoperto dagli aborigeni che erano fuggiti nella foresta: e si trattava di un sacrilegio così innominabile da far risorgere il coraggio dello sconfitto Popolo del Mare e spingerlo a riprendere le armi. Dimenticando il terrore, tutti i guerrieri in grado di muoversi si precipitarono per il sentiero che portava alla spiaggia, giurando che nessun umano sarebbe fuggito dalle Isole Senzavento. Perché tutti i preziosi tamburi cerimoniali degli Aliansa erano stati sfondati e tagliati dall'invisibile demone umano: non avrebbero suonato mai più. 17 Anigel, il Nyssomu Jagun e i tredici guerrieri Wyvilo rimasti a bordo della Lyath presero il mare in due piccole scialuppe dirette all'Isola del Consiglio non appena la regina ebbe terminato il suo colloquio a distanza con il Mago Portolanus. La situazione disperata di Niki e Jan richiedeva che agissero immediatamente e Anigel era convinta che Kadiya avesse bisogno di aiuto per salvare i ragazzi. Mentre la tempesta andava scemando,
il gruppo ben armato della regina sbarcò nella piccola cala adiacente alla Baia del Consiglio e si affrettò lungo il sentiero che conduceva al villaggio di Har-Chissa. «È solo a due leghe di distanza», disse Jagun. «Prendi la mia mano, Grande Regina, e io ti guiderò mentre tu continui a sorvegliare i bambini prigionieri tramite il tuo talismano.» Anigel avanzò incespicando, e la sua agitazione crebbe quando vide che la mortale cerimonia dei tamburi era ripresa. «Hanno riacceso le torce e hanno ricominciato a danzare!... Non riusciremo mai ad arrivare in tempo! Oh, se solo mia sorella potesse fare qualcosa!» Quando Har-Chissa parve sul punto di scuoiare Janeel e Kadiya, resasi invisibile, lo uccise, la regina era così scossa dall'emozione che si fermò di colpo, con gli occhi fissi nel nulla, completamente paralizzata e incapace di emettere suoni. Jagun e i Wyvilo si radunarono attorno a lei, ansiosi e spaventati, perché fino a quel momento la regina aveva continuato a riferire loro quello che avveniva nel villaggio. Ora nessuno osava parlare, nel timore che la principessa Janeel fosse stata uccisa... o che fosse andata incontro a un destino ancor peggiore. Sempre tenendole la mano, Jagun s'inginocchiò accanto alla reggente, mentre gli alti Wyvilo sollevavano le braccia al cielo in un gesto di supplica alle Tre Lune, nella silenziosa preghiera del Popolo delle Foreste. Poi la regina fu scossa da un brivido ed emise un lungo sospiro di gioia. «Amici», sussurrò, «Kadiya ha salvato i bambini.» Jagun e i Wyvilo gridarono la loro esultanza. Anigel li fece avvicinare in modo che potessero condividere attraverso il talismano la visione stupefacente. Videro Har-Chissa morto e gli Aliansa, terrorizzati, incalzati da una presenza invisibile che roteava una torcia e notarono un piccolo e sconosciuto uomo del Popolo raccogliere tra le braccia i bambini sporchi di sangue e trasportarli al sicuro nell'oscurità. «Siano rese grazie ai Signori dell'Aria e alla mia Signora Lungimirante!» esclamò Jagun. «Ma chi era quello sconosciuto che l'ha aiutata?» «Kadiya lo ha chiamato Shiki», rispose Anigel. «Ma non abbiamo più tempo di usare la Vista. Dobbiamo affrettarci incontro a Kadiya prima che gli aborigeni si riabbiano dalla sorpresa.» Si tuffarono nella foresta, circondati dai fischi, dalle grida e dai sibili delle creature del bosco. Di tanto in tanto si udiva uno schianto, ma la vista notturna dei Wyvilo li rassicurò che per ora in quella parte dell'isola c'era-
no solo animali e non indigeni ostili. Poi Anigel usò il talismano e vide che Kadiya, Shiki e i bambini stavano fuggendo lungo un sentiero che correva quasi parallelo a quello percorso da loro; i Wyvilo allora estrassero le asce e si aprirono un varco nella giungla, tagliando il sottobosco. Jagun emise un grido penetrante, sicuro che la sua Signora lo avrebbe riconosciuto, e quando i salvatori emersero sull'altro sentiero, Kadiya li stava aspettando. La regina si strinse i figli al petto, piangendo di gioia. Nikalon e Janeel parevano intontiti e non ricordavano nulla di quello che era successo. Janeel indossava la blusa ricamata di Shiki e il principe ereditario la lunga camicia di lana di zuch del piccolo aborigeno, che era rimasto con i pesanti pantaloni di pelle e gli stivali. Asciugandosi le lacrime, Anigel baciò e abbracciò la sorella. «Che il Dio Triuno ti benedica, adorata Kadi, e protegga anche il tuo coraggioso amico Shiki, per aver salvato i miei adorati bambini. Ma non possiamo indugiare: Antar sta nuotando verso la Baia del Consiglio con Lummomu e gli altri due guerrieri Wyvilo, e Tolo si nasconde tra quegli alberi. Dobbiamo andare a prenderli. Una parte di noi dovrà riportare Niki e Jan sulla Lyath, mentre gli altri vanno alla Baia del Consiglio.» «Saranno Jagun, Shiki e due dei Wyvilo a riportare i bambini sulla nave», disse Kadiya. «Io ti accompagnerò da Antar e Tolo.» Sollevò il pendaglio che serbava l'ambra del giglio e sorrise, con un'espressione di trionfo sul viso macchiato di sangue. «Il mio talismano sarà anche nelle mani del Mago, ma il potere del mio amuleto è intatto... ed è tanto formidabile da aver fatto giustizia di quei brutali Aliansa. Sorella, noi due insieme daremo ancora del filo da torcere a Portolanus!» «Speriamo», rispose Anigel a bassa voce, ma gli occhi erano seri e preoccupati. Rivolse parole rassicuranti a Jan e Niki, li baciò e pochi istanti dopo i bambini si avviavano verso la Lyath con la loro scorta. Poi la regina toccò il suo talismano e gli ordinò di mostrarle quello che avveniva nella Baia del Consiglio. Al vedere la scena, la regina esclamò costernata: «Il Mago sta mandando delle scialuppe alla caccia di Antar e Tolo!» «Di corsa, amici miei», disse Kadiya ai Wyvilo, «conduceteci alla Baia del Consiglio più in fretta che potete!» Partirono di corsa e il rumore dei loro passi cancellò le deboli grida inumane che avevano cominciato a provenire dal villaggio di Har-Chissa. «Eccoli!» gridò la Voce Nera.
In piedi sulla prua della prima delle cinque barche, gli occhi trasformati in due raggi bianchi, l'accolito parlava con la voce di Portolanus, che aveva individuato la posizione dei fuggiaschi con il talismano e che guidava il gruppo alla loro ricerca. Remando a più non posso, i pirati erano riusciti a raggiungere Antar e i Wyvilo quando si trovavano ad appena cinquanta metri dalla riva. All'improvviso, le quattro teste che si muovevano sull'acqua scomparvero. «Si sono tuffati sott'acqua, Signore!» gridò uno dei raktumiani. «Il re è troppo debole per restare sotto molto a lungo... presto», disse la Voce indicando due delle scialuppe, «dirigetevi a riva alla massima velocità, per impedire loro la fuga da quella parte. Voi altri, tenete pronte le corde con i grappini e state all'erta!» Alcuni dei pirati nelle tre barche che restavano presero delle corde arrotolate alle cui estremità erano agganciati piccoli ma letali uncini a tre punte. Per qualche minuto l'unico suono fu quello dei remi delle due barche che erano state mandate verso riva. Il mare era calmo e piatto e rifletteva le Tre Lune. A un quarto di lega a nord, una sesta scialuppa comandata dalla Voce Porpora si avvicinava alla riva, per andare alla ricerca del principe Tolivar. Poi, d'un tratto, si udì una specie di sciabordio e quindi un ansito. «Il re! Là!» I raggi bianchi negli occhi della Voce Nera individuarono i capelli biondi di Antar e il viso semisommerso a non più di sei metri di distanza. Uno dei pirati nella barca della Voce fece roteare la corda e lanciò il grappino. Il re gridò quando gli uncini gli sfiorarono la testa e andarono a conficcarglisi nella spalla. Altri tre grappini lo colpirono e le punte si conficcarono nella carne. Antar si agitò frenetico, ma quei movimenti servirono solo ad avvolgerlo nelle corde e a farlo quasi annegare. Ben presto smise di agitarsi e galleggiò immobile con la testa sott'acqua. La Voce Nera ordinò ansioso che il re venisse tratto subito a bordo, altrimenti sarebbe morto. Ma, non appena Antar fu sulla scialuppa, questa prese a dondolare con violenza. I pirati imprecarono e uno di loro urlò: «Ci sono degli Oddling nell'acqua! Ci faranno affondare!» La figura gocciolante di Lummomu-Ko si eresse davanti all'arcaccia della barca della Voce Nera, con le fauci spalancate e gli occhi brillanti. Afferrò due dei pirati e li gettò in acqua, tagliando loro la gola con i denti mentre cadevano. Gli altri due Wyvilo, Huri-Kamo e Mok-La, continuava-
no a far dondolare la barca, nel tentativo di rovesciarla, mentre i pirati cercavano di colpirli con i remi. «Le spade, imbecilli!» gridò la Voce Nera. «Usate le spade!» E si accosciò accanto al re svenuto per proteggerlo con il proprio corpo. Ancora una volta Lummomu balzò fuori dell'acqua con un gran sciabordio e trascinò in mare altri due pirati. Mok-La ne afferrò un altro. Un quarto uomo perse l'equilibrio a causa del rollio e cadde in mare mentre cercava di menare un colpo con la spada. La Voce, Antar e i due raktumiani rimasti si ritrovarono a rotolare di qua e di là in un groviglio di braccia e di armi. I tre Wyvilo emisero un urlo di trionfo. Ma nel frattempo le altre due barche si erano avvicinate, come pure le due che erano dirette a riva e che erano tornate indietro non appena uditi i rumori e le grida. Senza por tempo in mezzo, i pirati raktumiani cominciarono a colpire i Wyvilo con le spade e le lance. Si udì un urlo di agonia e Huri-Kamo scomparve sott'acqua, con una mano tranciata di netto. Lummomu e Mok-La vennero colpiti senza pietà, finché anch'essi non scomparvero. Sei degli uomini della barca della Voce Nera erano periti in mare e uno dei pirati delle altre barche era stato ferito da un compagno. «Trainateci alla nave!» gracchiò la Voce Nera. «Fate in fretta!» Il pirata superstite nella scialuppa della Voce gettò una fune alla barca più vicina e poi si risedette impaurito. «Credete che quei diavoli scagliosi siano annegati, Signore?» Il lacchè del Mago restò in silenzio, mentre i raggi degli occhi scandagliavano il mare. «A ogni buon conto, se ne sono andati. Voi, muovetevi!» gridò poi ai rematori dell'altra barca. «Devo portare il re sull'ammiraglia per curargli le ferite. Se muore, ne va delle vostre vite.» Nelle altre barche gli uomini parlottarono tra loro a bassa voce, poi uno si rivolse ansioso alla Voce: «Signore, Yokil crede di aver visto delle luci in mare; appena oltre quel promontorio». «Yokil ha una vista acuta», disse la Voce in tono tranquillo. «Sono gli Aliansa, gli Oddling del Mare, che stanno venendo per attaccarci. Ci saranno addosso tra meno di mezz'ora. Adesso risparmiate il fiato, maledizione, e remate!» Dopo quell'ordine, Portolanus si ritirò dalla mente dell'accolito, i cui occhi persero d'un tratto l'inumano splendore, e rivolse la propria attenzione alla cattura del principe Tolivar. «Il talismano indica che il bambino si nasconde in quel folto d'alberi»,
disse la Voce Porpora ai pirati che lo seguivano sulla spiaggia. «Sparpagliatevi e cercate di cogliere ogni rumore.» I raktumiani esplosero in un coro d'imprecazioni oscene quando due stelle presero di colpo a brillare sotto il cappuccio dell'accolito, scrutando il sottobosco, e la Voce si mise a parlare con l'inconfondibile accento del Mago. «Non c'è ragione che vi allarmiate: sono io, Portolanus, che agisco attraverso la mia Voce Porpora. Tenete a portata di mano le reti, mentre ci addentriamo nel boschetto. Per nessuna ragione dev'essere fatto del male al principe Tolivar...» Ma prima che la Voce potesse finire, un canto lontano riempì la calda brezza notturna e una miriade di puntolini di luce dorata comparvero all'improvviso sulla spiaggia, verso sud. Gli Aliansa provenienti dai villaggi dell'entroterra erano arrivati al mare. «Oddling del Mare!» gridò uno dei pirati, indicandoli. «Stanno venendo dritti verso di noi!» «E guardate là!» sbraitò un altro indicando il mare. «Altri di quegli orrendi bastardi! Lord Porpora, dobbiamo tornare sulla nave! Non è il momento di dare la caccia a marmocchi reali! L'ammiraglio farà vela verso il mare aperto prima che questi selvaggi riducano la chiglia un colabrodo!» «Abbiamo ancora tempo di trovare il bambino», insistette Portolanus nonostante le proteste degli altri pirati. «Farò comparire un'altra tempesta per rallentare le canoe di quegli insignificanti predoni.» «Che vadano all'inferno, le canoe», grugnì un altro. «E che cosa mi dite di quel branco che sta arrivando dalla spiaggia? Non saranno a più di mezza lega! Io dico di filarcela!» Gli altri pirati si dichiararono d'accordo, e prima che la Voce Porpora avesse il tempo di richiamarli, gli voltarono le spalle e se la diedero a gambe verso le scialuppe. L'accolito furioso li seguì, cercando invano di farli tornare indietro. All'improvviso, uno strillo acuto risuonò tra gli alberi; i marinai continuarono a correre, ma la Voce Porpora si fermò e girò su se stessa. I raggi luminosi dei suoi occhi individuarono una piccola figura che emergeva dalla vegetazione e si dirigeva correndo verso di lui sulla spiaggia bagnata dalle Tre Lune, piangendo spaventato. «Ne arrivano anche dal villaggio! Li ho sentiti! Non lasciare che gli Oddling del Mare mi prendano! Portami con te!» «Per le Ossa di Bondanus! Ma è il principe!» esclamò la Voce Porpora.
«Forza, ragazzo, corri, allora!» «Tolo... no!» gridò qualcuno da lontano. «Non farlo!» Il principe rallentò e si girò a guardare verso la foresta. «Presto, o dovrò lasciarti qui», lo esortò la Voce. Tolivar fece uno scatto in avanti e si gettò tra le braccia dell'accolito, aggrappandosi al collo dell'uomo che si mise a correre verso le scialuppe. «Tieniti forte, ragazzo!» «Tu parli come il Mago», disse Tolo. «Io sono il Mago», ansimò Porpora. «Per il momento.» Si arrampicò sulla barca, che immediatamente prese il largo. «Vuoi dire che ti nascondi nel corpo di quest'uomo?» Il principino era affascinato. «In un certo senso... ma ora devo lasciarlo per occuparmi di altre faccende.» «Avete ripreso il mio regale padre?» chiese Tolivar. «Sì. E questa volta nessuno di voi due scapperà fino a quando non sarà pagato il riscatto. Ma non aver paura, Tolo: ho il presentimento che tu e io diventeremo buoni amici.» «Mago... devo tornare a casa, se non voglio?» chiese piano il principe. Ma gli occhi stellati della Voce si stavano offuscando. Poi l'accolito sospirò e disse: «Siediti qui, principe, e non stare tra i piedi dei rematori». La sua voce aveva ora un timbro totalmente diverso. «Non sei più il Mago, vero?» «Stai zitto», rispose brusca la Voce Porpora. «Incontrerai presto il mio maestro.» I pirati remavano come forsennati e la barca pareva volare sopra l'acqua immobile. Il gruppo di aborigeni sulla spiaggia si stava avvicinando rapidamente e sul mare attorno al promontorio meridionale c'erano talmente tante canoe cariche di torce che era impossibile contarle. «Tolo! Tolo!» gridò una voce umana, sovrastando il canto degli aborigeni. Il principe Tolivar si alzò in piedi, guardando verso terra, e la Voce Porpora l'afferrò con un'imprecazione. «Sembra la mamma», disse calmo il bambino. «Guarda, dev'essere lei quella che esce dalla foresta. Mi vede attraverso il suo talismano magico.» «Tolo!» Il grido fu ancor più disperato. Il bimbo agitò una mano e disse alla Voce Porpora: «Può sentirmi, anche: addio, mamma!»
Poi si risedette e guardò la nave raktumiana che stava spiegando le vele, mente nuvole di tempesta si addensavano oscurando la luce delle Tre Lune. «Tolo! Povero figlio mio, che cos'hai fatto? O Signore, no! Ora Portolanus li ha ricatturati entrambi! Talismano! Ti ordino di riportare a me mio figlio e mio marito! Incenerisci i loro rapitori! Uccidi i miei nemici, ti dico. Fallo, talismano! Fallo...» Le grida spezzate di Anigel non ottennero reazioni dal talismano. La regina allora venne colta da una rabbia feroce e sarebbe corsa verso il mare se Kadiya non l'avesse trattenuta. Le due sorelle e il loro gruppo di guerrieri Wyvilo rimasero al limitare del boschetto, guardando impotenti le scialuppe dei pirati che correvano verso la trireme. Si stava alzando il vento e la folla di Aliansa con le torce era ormai così vicina che si distinguevano i singoli guerrieri con tutte le loro armi. Senza dubbio, le due donne umane e i loro compagni Wyvilo erano stati individuati. Kadiya cercò di ricondurre alla ragione la sorella sconvolta. «Ani, così non funziona. Calmati; cerca di pensare a un ordine positivo da impartire al tuo talismano.» «Un ordine positivo?» gridò la regina, il bel viso distorto dalla rabbia e dal dolore, lottando tra le braccia della sorella. «Parli come una pazza! Come posso pensare a qualcosa che non siano i miei cari di nuovo nelle mani di quel mascalzone? Li torturerà sino a farli morire! E questo inutile talismano non può fare nulla per salvarli! Nulla...» Kadiya la schiaffeggiò. Anigel spalancò la bocca in un muto grido di dolore e indignazione; ma di colpo la sua espressione disperata si trasformò in decisione. «No, la pazza sono io! Grazie per lo schiaffo, Kadi! Mi hai fatto recuperare la ragione! Certo che il talismano può salvarli!» E la regina levò il volto verso il cielo e gridò: «Portolanus, ascoltami!» Ti ascolto, Regina Anigel. «Il mio talismano è tuo!» Si strappò dal capo la corona con il Mostro dalle Tre Teste e la sollevò in alto. «Restituiscimi Antar e Tolo e io farò tutto quello che mi dirai.» «Ani, no!» gridò Kadiya e ancora una volta la prese tra le braccia. Ma negli occhi arrossati della regina splendeva una ferrea determinazione. «Attenta, sorella! Ricorda che se tocchi il mio talismano senza il mio permesso morirai proprio come il più misero dei pirati raktumiani! Mi stai ascoltando, Portolanus? Ti darò il mio talismano ora!»
Ohimè, regina, non posso accettare il riscatto. «Non... non puoi?» balbettò Anigel. No. «Perché no?» La voce lontana era velata d'ironia. Ora non è il momento propizio. Non lo è affatto. Se tieni alla tua vita e a quella dei tuoi compagni, fuggi alla tua nave prima di fornire agli Aliansa materiale nuovo e fresco per ricostruire i loro tamburi rituali. Ci sono altri indigeni che arrivano dal villaggio, oltre a quelli sulla spiaggia. «Possiamo fare lo scambio in mare», lo implorò Anigel. «Dovunque, in qualunque momento. Portolanus, restituiscimi mio marito e mio figlio!» No, re Antar e il principe Tolivar devono restare miei ospiti per un certo periodo prima che possiamo riaprire i negoziati per il loro rilascio. Li porto a Frangine, la capitale raktumiana. Non temere per la loro salute e la loro vita: saranno trattati bene, se ti asterrai da azioni avventate. «No! No! Prendi ora il mio talismano, ti scongiuro!» Quando verrà il momento ci risentiremo per parlare del riscatto, ma fino ad allora non comunicheremo più. Addio, Regina. Sconvolta, Anigel sussurrò alla sorella: «Hai sentito?» «Si», ribatté Kadiya con voce glaciale. «Ho sentito che hai cercato di stringere un patto vile! Ani, sei una debole sciocca senza speranza! Grazie a Dio, il Mago non ha accettato la tua offerta! Con due talismani in suo possesso, chi può dire quali mali scatenerebbe sul mondo?» «Signora degli Occhi, dobbiamo fuggire da questo posto», disse uno dei Wyvilo, accorato. «Venite via! Non ci resta più tempo. Gli Aliansa in questo momento potrebbero aver già raggiunto la Lyath e averla distrutta.» Kadiya voltò le spalle alla sorella. «Hai ragione, Wummika, andiamo.» E di corsa s'inoltrò tra gli alberi con i Wyvilo. Dopo un attimo di esitazione, Anigel li seguì, con la corona in mano e la morte nel cuore. Fu solo molto più tardi che scoprì che il Fiore nella goccia d'ambra da nero era diventato rosso sangue. 18 Il lavoro era durissimo: e più Haramis imparava, più si rendeva conto di quanto fosse stata incompetente come Arcimaga e più disperava di riuscire mai a padroneggiare se stessa e il suo talismano.
Ora sapeva che per comandare la magia superiore era necessario un atteggiamento mentale spassionato e totalmente oggettivo; ma saperlo e viverlo erano due cose completamente differenti. Gli esercizi mentali cui la costringeva Iriane, intesi a rafforzarla e disciplinare i suoi immaturi processi mentali, erano noiosi e sfibranti: anzi, peggio ancora, le sembrava che non c'entrassero nulla; non capiva perché doveva passare interminabili ore immersa in esercizi di meditazione invece di praticare effettivamente la magia con il suo talismano. Irremovibile, la Signora Azzurra aveva affermato che l'apprendimento della disciplina mentale doveva precedere la pratica effettiva della magia, e questo in un primo tempo aveva profondamente irritato Haramis; poi l'aveva portata sull'orlo di una crisi di sconforto e alla fine le aveva fatto intravedere la speranza che forse stava davvero afferrando il concetto! Dopo quindici giorni di studio ininterrotto, aveva posto le basi per la padronanza effettiva della magia. Come un flautista principiante che alla fine ha imparato a leggere le note e a produrre suoni puri, ma non è ancora in grado di eseguire perfettamente un pezzo, Haramis aveva imparato la forma degli impulsi mentali che richiamavano la magia, ma le mancava ancora quell'abilità in grado di assicurarle che la tecnica avrebbe prodotto il risultato desiderato. Iriane le proibì tassativamente qualunque tentativo di praticare la magia, per il momento, perché, l'ammonì, rischiava di farsi male o addirittura di morire se avesse applicato le nuove conoscenze in modo errato. A volte Haramis aveva l'impressione che non sarebbe mai riuscita a costringere il suo cervello volubile a pensare sempre nel modo preciso e armonioso sul quale Iriane insisteva senza posa. I suoi tentativi di raggiungere una concentrazione profonda e un'obiettività scevra da vincoli erano costantemente frustrati da involontarie e insignificanti preoccupazioni o improvvisi attacchi di ribellione o scoramento. Haramis inoltre era molto in ansia per le sue due sorelle, perché la Signora Azzurra le aveva proibito di far uso della Vista durante la prima metà del suo periodo d'istruzione. Ma la causa più irritante e insidiosa dei suoi episodi di distrazione erano i ricordi di Orogastus. Ora che aveva la certezza che era vivo, l'immagine del suo viso e il ricordo della sua voce non facevano che insinuarsi nella sua mente e, nelle brevi ore di sonno che Iriane le concedeva, sognava sempre di lui. A un certo punto, sprofondata in un mare di scoraggiamento, implorò l'Arcimaga del Mare di scoprire se per caso il Mago fosse in qualche modo
responsabile del suo tormento e della sua incapacità; ma la Signora Azzurra ribatté gelida che nessuna intelligenza, non invitata, poteva violare il suo rifugio. Quella rassicurazione servì solo a deprimere ancor di più la ragazza: se non era Orogastus il responsabile della sua distrazione, allora la colpa era interamente sua. L'Arcimaga della Terra passava quasi tutte le ore del giorno impegnata in esercizi mentali, dapprima sotto la guida spietata di Iriane, in seguito costretta a isolarsi sempre di più in una stanza di meditazione con il pavimento e le pareti di un informe colore scuro, gli occhi arrossati fissi sul lucore del giglio d'ambra incastonato nel Cerchio dalle Tre Ali e la mente prostrata che cercava di non arrendersi alla fatica o alla distrazione. Devo farcela, non faceva che ripetersi. Solo un Petalo del Giglio Nero può essere la chiave di volta dell'equilibrio ritrovato, l'iniziatore della guarigione del mondo. E sono io! Io sono l'iniziatrice; Kadiya fornisce impeto e resistenza e Anigel la comprensione umana e l'amore altruistico necessari a portare a termine la missione... L'antico canto degli Uisgu della Palude Labirinto definiva i ruoli dei tre talismani e coloro che erano destinati a usarli: Uno, due, tre: tre in uno. Uno la Corona degli Illegittimi, dono di saggezza, amplificatore di pensieri. Due la Spada degli Occhi, distributrice di giustizia e misericordia. Tre la Bacchetta delle Ali, chiave e unificatrice. Tre, due, uno: uno in tre. Vieni, Giglio. Vieni, oh, Potente. Io posso rimettere le cose a posto, pensò Haramis. Se solo riuscissi a usare come si deve questo mio talismano, che è la chiave e l'unificatore degli altri due. Signori dell'Aria, aiutatemi! Aiutatemi! «Ti aiuteranno», disse la voce di Iriane. «Non perdere mai la fiducia in loro.» L'informe oscurità della stanza di meditazione divenne di un azzurro intenso e la figura grassoccia dell'Arcimaga del Mare si materializzò. Iriane sorrideva, con Grigri aggrappato a un braccio e nell'altro un cestino di alghe marine intrecciate, coperto di un panno.
«È il momento di fare una pausa, bambina. Hai vissuto troppo a lungo nel mio mondo e un breve cambiamento ti ridarà forza. Segui il mio piccolo amico e lui ti condurrà fuori, sulla cima della mia dimora. Riposati all'aria aperta, sotto il sole, mangia e bevi le cose che ti ho messo in questo cestino; usa il tuo talismano per vedere e parlare con le tue sorelle e tuo cognato prigioniero e assicura loro la tua amorevole preoccupazione. Non ti può succedere nulla a usare una magia così piccola. Se senti di doverlo fare, guarda anche lui... e poi ritorna qui da me. So che sei sconfortata, ma, chissà come, io sento che sei molto vicina ad aprire quell'ultima porta della tua mente che fino a questo momento ti sfuggiva. D'ora in avanti la cingeremo d'assedio insieme, tu e io. E l'avremo vinta.» A fatica Haramis si alzò dalla posizione inginocchiata che era obbligatoria per i suoi esercizi mentali e senza una parola prese il cesto. Il segmentato Grigri, che assomigliava a un worram, a parte la pelliccia bianca e gli occhi rossi, emise un breve sibilo e se ne andò sulle sue molte gambe, guardandosi indietro una volta per essere sicuro che lei lo seguisse. Dall'appartamento della Signora Azzurra entrarono nella parte trasparente dell'iceberg artificiale, dove ancora una volta strani pesci e creature curiose arrivarono nuotando per scrutarla attraverso le pareti irregolari; poi imboccarono un corridoio con bassi gradini che saliva a spirale verso l'alto. L'illuminazione diventò sempre più vivida e Haramis si rese conto che questa volta era proprio la luce del sole a illuminare quel fantastico acquario, non un qualche raffinato incantesimo. Quella constatazione le sollevò il morale e la ragazza si scoprì a correre dietro Grigri, che pareva galvanizzato dalla luce quanto lei. Quando uscirono nell'aria tersa e luminosa, l'animale emise un trillo ronfante e si rizzò sull'ultimo paio di zampe, scoprendo la parte inferiore del ventre e chiudendo gli occhi estasiato. «Povero Grigri... allora anche tu senti la mancanza del sole!» La creatura parve sospirare soddisfatta, e mentre Haramis la guardava, il suo corpo si scurì, la pelliccia divenne di un verde carico e le dodici zampe passarono dal bianco al nero. Quando aprì gli occhi, questi non erano più rossi, ma azzurro cupo come quelli dei normali worram della Palude. «Dunque la vita in questo iceberg artificiale è innaturale anche per te», disse Haramis ad alta voce, accarezzandogli il dorso. «Chissà perché la tua padrona non ha compassione di te e non ti lascia libero?» La creatura si voltò con un sibilo indignato, sottraendosi alla sua carezza, e poi si allontanò zampettando altezzosa e riprese il suo bagno di sole a qualche passo di distanza.
«Ti chiedo scusa, Grigri: avrei dovuto sapere che il tuo amore per l'Arcimaga è più forte degli istinti della natura.» L'animale la ignorò ma riprese a fare le fusa. La vista dalla sommità del gigantesco iceberg era di una bellezza mozzafiato. Il mare era del più puro azzurro cobalto, costellato di iceberg veri e intricati mosaici di ghiaccio galleggiante. L'orizzonte da cui svettavano isole montagnose con la sommità ricoperta di neve si confondeva con il cielo terso. A poche leghe di distanza, c'era la terraferma, con basse colline ondulate e prive di alberi e scogliere a picco sul mare, formate da strati di rocce colorate di rosa, arancione e anche porpora. Ovunque uccelli bianchi volteggiavano e si tuffavano in tutte le direzioni. Se vi era uno squilibrio nel mondo, non si estendeva certo a quelle placide acque settentrionali. Haramis si sedette sulla superficie asciutta e irregolare dell'iceberg, un po' infastidita da quella trasparenza e dai pesci che di tanto in tanto nuotavano ignari sotto di lei. Aprì il cestino e si sentì commuovere vedendo che l'Arcimaga si era premurata di riempirlo con tutti i cibi che le erano familiari e non con le delicate ma strane specialità marine che la ragazza aveva fino a quel momento mangiato. Sorridendo, prese un frutto di ladu e addentò la polpa fragrante. Ma, che cosa sto facendo? Rimise con impazienza il frutto nel cesto, trangugiò il boccone e posò la mano sul talismano che le pendeva dal collo. «Anigel! Rispondimi, sorella!» La visione arrivò e Haramis si lasciò sfuggire un'esclamazione di stupore. Quella che vide non era una semplice immagine all'interno del cerchio argentato, e nemmeno una Vista che la rendeva cieca a ciò che avveniva attorno a lei mentre l'occhio della mente scrutava una scena lontana. No, lei era in piedi accanto ad Anigel sotto il tendone del cassero dell'ammiraglia laboruwendiana che correva a vele spiegate verso est a poche leghe dalla terra. Sentì l'odore salmastro dell'aria, il vento sul viso e le assi di legno del ponte sotto i piedi. Lady Ellinis, Lord Penapat, Owanon e Lampiar sedevano con la regina attorno a un tavolo cosparso di mappe e documenti mentre, su un tappeto poco lontano, la principessa Janeel e il principe Nikalon giocavano a dama. «Hara!» esclamò Anigel balzando in piedi pallida come una morta. «Sei qui?» Anche tutti gli altri erano rimasti paralizzati dalla sorpresa di quell'appa-
rizione e l'Arcimaga si affrettò a spiegare che la sua immagine non era che una proiezione. «Non l'ho fatto consciamente», disse con una risatina imbarazzata. «A quanto pare, le lezioni che mi sta impartendo l'Arcimaga del Mare sono molto più efficaci di quel che avevo supposto fino a ora.» Con molte esclamazioni di sorpresa, la regina e i suoi consiglieri pregarono Haramis di sedersi. La principessa Janeel si fece avanti in silenzio, le sfiorò l'abito e poi esclamò delusa quando la sua mano non toccò nulla: «Zia Hara, ma non sei qui per davvero! Quello che vediamo è forse il tuo fantasma?» «Una cosa del genere, tesoro», rispose Haramis. «E me ne dispiace. Ma lascia che abbracci te e Niki e vi dia un bacio, e anche a tua madre. Voi non mi sentite, ma io posso toccarvi! Miei cari, non sapete come sono contenta di vedere che siete salvi!» E felice di vedere il talismano chiamato il Mostro dalle Tre Teste appoggiato sul tavolo, mezzo sommerso dalle carte della regina. «Non siamo tutti salvi», disse Anigel distogliendo lo sguardo e stringendo le labbra, dopo che la sorella l'ebbe abbracciata. Trasse un profondo respiro e si rivolse ai suoi cortigiani: «Devo parlare con mia sorella da sola. Per favore, voi e i bambini ritiratevi e tornate quando vi farò chiamare». I quattro si alzarono, fecero un inchino e se ne andarono. Rimaste sole, Anigel si risedette al tavolo insieme con la forma illusoria della sorella, un'espressione di rimprovero sul viso. «Ho cercato tantissime volte di parlarti per metterti al corrente degli avvenimenti, Hara... ho cercato il tuo consiglio e il tuo conforto... ma tu non hai mai risposto!» «Mi era impossibile comunicare con te; ti spiegherò tutto, ma prima dimmi che cos'è successo da quando Orogastus ha preso il talismano di Kadi.» «Orogastus!» esclamò Anigel spalancando gli occhi per la costernazione. «Allora si era davvero nascosto sotto le sembianze di quel ciarlatano di Portolanus?» «Sì, ma a che scopo non lo so. Dodici anni fa non è stato ucciso dallo scettro, ma trasportato ed esiliato in un luogo lontano all'interno del Ghiacciaio Eterno. È riuscito a fuggire ed è diventato il Signore di Tuzamen. Non sai che sollievo è per me vedere che non gli hai ceduto il tuo talismano come riscatto...» «Lo avrei fatto, gliel'ho offerto! Ma lui ha rifiutato di prenderlo. Antar e il piccolo Tolo sono ancora prigionieri sulla grande ammiraglia della regi-
na reggente di Raktum. A quest'ora si staranno avvicinando alla capitale Frangine, sospinti dai venti magici.» «Non ha accettato il talismano come riscatto? Ma perché?» «Non lo so», rispose la regina con voce spenta, rifiutandosi d'incontrare lo sguardo della sorella. «Ha detto che il momento non era propizio e che avrebbe comunicato con me in seguito. Quando lo farà, gli darò la mia corona... e niente di quello che potrete dire tu e Kadi mi dissuaderà.» L'Arcimaga trattenne l'esclamazione inorridita che le era salita alle labbra: se Antar e il bambino erano ancora prigionieri, nessuna implorazione in nome di un bene più grande avrebbe avuto effetto finché Anigel non fosse arrivata a capire a fondo la situazione. «Raccontami per filo e per segno quello che è successo», disse dunque con voce pacata. La regina le raccontò di come Kadiya avesse salvato il principe ereditario e Janeel, di come Antar fosse stato ricatturato e il piccolo Tolo fosse andato spontaneamente con l'accolito del Mago. La regina, Kadiya e i loro amici erano riusciti solo per un soffio a tornare sulla Lyath, inseguiti da uno stuolo di canoe piene di furenti Aliansa. Solo un'altra tremenda tempesta, indubbiamente evocata da Orogastus per aiutare la propria fuga, li aveva salvati. Il guerriero Wyvilo Huri-Kamo era morto nel tentativo di liberare Antar; ma il Portavoce Lummomu-Ko e il suo compagno Mok-La, benché feriti, erano riusciti a raggiungere a nuoto la nave. «Quando la tempesta si è esaurita, ci siamo riuniti con la nostra flotta», disse Anigel. «Il valoroso comandante della piccola nave okamis ha ricevuto una generosa ricompensa per averci aiutati e poi è stato congedato. Le nostre quattro navi laboruwendiane hanno fatto vela verso il nord, all'inseguimento dei cinque vascelli nemici. Abbiamo raggiunto la galea tuzamena di Portolanus, che era molto più lenta delle navi pirate, abbiamo dato battaglia e l'abbiamo affondata. Sfortunatamente, il Mago si trovava ancora sull'ammiraglia raktumiana e così si è salvato. Non ha fatto nessun tentativo di venire in aiuto dei suoi compatrioti, ma li ha lasciati al loro destino. La distanza tra noi e la flotta raktumiana è aumentata, tanto che sono riusciti a raggiungere Zinora e a fare rifornimento due giorni prima di noi. «Re Yondrimel ha rifiutato la mia richiesta di mandare all'inseguimento dei pirati i suoi veloci cutter, con una scusa molto originale: tutta la sua flotta era impegnata in una missione speciale a Galanar, di scorta a un inviato reale che stava andando a chiedere la mano di una delle figlie della regina Jiri in nome di re Yondrimel. Ma quando, sei giorni dopo, siamo ar-
rivati a Mutavari, siamo venuti a sapere che con ogni probabilità la flotta zinoriana era salpata per delle esercitazioni, in vista di un'invasione di Var. La capitale di Var era sottosopra e il povero re Fiomadek e la regina Ila erano terrorizzati dalle voci che parlavano di un'alleanza tra Zinora e i pirati raktumiani. «Di certo saprai che il nostro Concordato della Penisola ci obbliga ad andare in aiuto di Var; così Kadiya, Jagun e i Wyvilo si sono diretti immediatamente a nord sul Grande Mutar per allertare le guarnigioni di Ruwenda. Se siamo fortunati, i nostri soldati e i nostri cavalieri arriveranno in tempo a difendere Mutavari e a sventare l'invasione; ma il Lord maresciallo Owanon e gli altri capi militari temono che mandare a sud le forze ruwendiane significhi lasciare la strada aperta per un'aggressione in massa del Labornok. In effetti, l'invasione di Var potrebbe essere solo una manovra diversiva per mascherare il vero intento della regina Ganondri e di Portolanus: un attacco contro di noi. Raktum ha così tante navi che può di certo permettersi di distaccare una piccola flotta per assalire Var, mentre il grosso va ad attaccare Triola, Lakana e i nostri porti settentrionali e magari anche la stessa Derorguila. Il piano di Raktum potrebbe avere successo, soprattutto se Lord Osorkon ci ha traditi, cosa che pare probabile, vista la parte recitata da sua sorella Sharice nel rapimento dei bambini. E se Labornok cade, Ruwenda seguirà la stessa sorte. «Quello che devi capire, Hara, è che, senza Antar, l'Unione dei Due Troni crollerà di sicuro. Io da sola non posso sperare di radunare i nobili lealisti di Labornok contro le forze unite della fazione di Osorkon, Raktum e Tuzamen. Questa è un'altra delle ragioni per cui sono decisa a cedere il mio talismano, se questo potrà assicurarmi il ritorno di mio marito e la difesa della mia nazione.» Haramis aveva ascoltato quel discorso con crescente apprensione e quando Anigel tacque, le chiese: «Che cosa intende fare Kadiya? Guidare le truppe di Ruwenda nella difesa di Var?» «No. Lei... lei e io abbiamo avuto una terribile lite a proposito del riscatto. Sono sicura che, se avesse osato, mi avrebbe uccisa pur d'impedirmi di cedere la mia corona al Mago. Ha detto che avrebbe chiamato alle armi l'esercito ruwendiano e l'avrebbe mandato a sud; ma poi ha intenzione di tornare nel Luogo del Sapere e chiedere al Maestro sindona un modo per impedirmi di scambiare il mio talismano con la vita di Antar. Non ci riuscirà, non finché io avrò vita.» I luminosi occhi azzurri della regina erano colmi di lacrime, ma la sua
espressione era dura e decisa. Haramis capì che non era quello il momento per discutere con la sorella e con grande dolcezza le raccontò invece le sue avventure nel Kimilion e nella strana dimora dell'Arcimaga del Mare. Espresse la sua gioia per il fatto che Shiki aveva dato il suo aiuto nel salvataggio di Janeel e Nikalon, e sollecitò la sorella a prendere al suo servizio il leale Dorok finché non gli fosse stato possibile ritornare da Haramis. «E presto», aggiunse l'Arcimaga, «se Dio e i Signori dell'Aria lo vorranno, terminerò i miei studi presso l'Arcimaga del Mare. Se solo tu potessi ritardare la consegna del tuo talismano fino a quando io non avrò acquisito la completa padronanza del mio...» Con un gesto lento, Anigel estrasse il Mostro dalle Tre Teste da sotto il mucchio di carte e lo tenne sospeso sulla tavola, tra sé e il fantasma della sorella, parlando con voce dura come la pietra: «Consegnerò questo diadema al Mago in qualunque momento me lo chiederà, se mi assicurerà di restituirmi sano e salvo il mio Antar. Il Dio Triuno mi sia testimone». Haramis rimase immobile, fissando incredula e sconvolta il talismano della sorella: il piccolo fiore di giglio fossile racchiuso nell'ambra non era più nero, ma rosso sangue. Senza parlare, lo indicò ad Anigel. «Sì», rispose la regina imperturbabile, «e anche quello di Kadi è diventato rosso. I fiori hanno cambiato colore dopo che ci siamo lasciate in collera. Ma non ha importanza, nulla ha importanza, solo che il mio adorato marito torni a me sano e salvo e il mio paese abbia il suo re.» «Kadiya! Sono io, Haramis!» «Gran Dio!» esclamò la Signora degli Occhi quando vide la figura della sorella che pareva sospesa sulle acque agitate del fiume Mutar, proprio di fronte alla prua della grande canoa Wyvilo che la stava trasportando. Due imbarcazioni filavano controcorrente sotto incredibili rovesci di pioggia, anche se si era già nella Stagione Secca. I Wyvilo, stupefatti, smisero di remare e le due barche si fermarono nel mezzo del fiume in piena. «Hara, hai forse imparato a camminare sulle acque?» esclamò Kadiya. «No, semplicemente sono diventata molto più abile nell'uso del mio talismano», rispose l'Arcimaga. «Quella che hai davanti è una mia immagine, priva di sostanza. Come vedi, ora posso parlarti direttamente, anche se non hai più il tuo talismano. Anzi, sono in grado di comunicare a distanza con chiunque.» «Bene», ribatté secca Kadiya, «allora parla con la regale testa di legno,
Ani, e convincila a non consegnare il suo talismano al Mago!» «Ho tentato e tenterò ancora. Ma quello che mi preoccupa ora è l'antagonismo tra voi due. Anigel diceva il vero quando affermava che anche il giglio del tuo amuleto è diventato rosso sangue. Ma rassicurami che si sbagliava quando pensava che avresti osato ucciderla per impedirle di consegnare il talismano.» L'espressione sul volto di Kadiya era tempestosa come il cielo della foresta di Tassaleyo. «Tu e io sappiamo bene che cosa significherebbe se Portolanus venisse in possesso di due talismani.» La Signora degli Occhi indicò con una mano quel temporale fuori stagione. «Lui è la ragione dello squilibrio del mondo! Lo sapevi che ci sono stati dei terremoti nel nord di Tassaleyo? Il Popolo di Lummomu gli ha comunicato la notizia! E il Popolo di Jagun dice che gli abominevoli Skritek sono affetti da una tremenda inquietudine e hanno violato la tregua e ora imperversano in tutta la Palude Nera. Nel nord, tra gli Uisgu c'è un'epidemia della malattia dello svenimento. I disastri si moltiplicano su tutta la terra... ed è tutta colpa di Portolanus! Se Anigel gli consegnerà il talismano come riscatto, le cose peggioreranno. Solo uno strano capriccio del Mago ha impedito a nostra sorella di consegnargli prima il diadema, come un docile condannato che appoggi il collo sul ceppo del boia! Ani pone il suo amore per il marito e il suo dovere verso i Due Troni al di sopra del bene del mondo. La sua follia è criminale...» «Ma lo è ancor di più la tua minaccia nei suoi confronti... Kadiya, pensaci! Il color rosso sangue del tuo giglio non ti fa esitare? Noi siamo nate per essere Tre, per lavorare insieme in amore fraterno. È il Fiore Sacro che ci unisce, non lo Scettro del Potere.» L'ombra di un dubbio addolcì per un attimo il volto duro di Kadiya. «È quello che ha detto il Dorok Shiki che mi hai mandato perché mi aiutasse a liberare Jan e Niki... ma ciò nonostante, se Portolanus ottiene due talismani, non si fermerà fino a quando non avrà ottenuto anche il terzo. E anche avendone due soli può sottomettere tutta la Penisola e magari anche il mondo intero.» «Forse», ribatté Haramis senza staccare gli occhi dalla sorella. «Ma io mi sto dando da fare per impedirglielo. Il mio talismano è la chiave per il funzionamento completo degli altri due. L'ho imparato, insieme con molti altri importanti segreti, da un gentile mentore che mi sta istruendo nelle arti magiche.» Haramis le raccontò della sua scoperta di non essere l'unica Arcimaga e
dei suoi studi con Iriane, la Signora Azzurra. «Finora l'Arcimaga del Mare non si è mai intromessa negli affari della terraferma, ma adesso intende farlo e sarà una potente alleata nella nostra lotta contro Orogastus.» «Orogastus!» «È vivo e si fa chiamare Portolanus. Non lo abbiamo ucciso con lo Scettro del Potere. È uno degli Uomini della Stella, il discendente di una potente congregazione che nei tempi antichi combatté contro gli Scomparsi.» «Ed è l'uomo che tu ami ancora!» affermò Kadiya con voce carica di rabbia. «Signori dell'Aria, difendeteci! Dubito che persino il Maestro del Luogo del Sapere potrà ora aiutarmi a salvare il mondo!» «Non dipende tutto da te, sorella», disse Haramis tendendo una mano diafana nella pioggia. «Certo, devi consultare il sindona, ma non condannare con troppa precipitazione me o Anigel. So che il Maestro ti ammonirà a essere più comprensiva...» «Io non voglio vedere il mio amato Popolo diventare schiavo di un Mago malvagio!» esclamò Kadiya furente. «Non per amore di Anigel e di Antar e nemmeno per amor tuo. Scopri un modo per distruggere Orogastus una volta per sempre! Trovalo, prima che Anigel paghi il riscatto! Poi parlami di amore e comprensione!» Haramis chinò il capo. «Tenterò e ti chiamerò ancora quando i miei studi saranno terminati. Addio.» Scomparso il viso imbronciato di Kadiya, Haramis venne di nuovo sommersa da un'ondata di disperazione che minacciò di sopraffarla. Forse l'aspetto peggiore di quello che aveva detto la sua fiera sorella era la sua impietosa verità: bisognava impedire ad Anigel di consegnare il talismano. Ma se Anigel non voleva sentir ragioni, esisteva un altro modo di convincerla. La regina avrebbe dato ascolto al marito, se si rifiutava di dare retta alle sue sorelle? «Talismano, voglio una Vista di re Antar e voglio parlargli in segreto, senza far apparire la mia immagine.» Vide il re immediatamente e si trattò di una ben triste vista, perché Antar era rinchiuso in una specie di gabbia su ruote trainata da una pariglia di volumnial lungo la strada di una città in cui si affollava una massa di straccioni. Quattro cavalieri raktumiani, con le spade sguainate e un ghigno feroce sul viso, tenevano a bada i più arditi che cercavano di avvicinarsi troppo al prigioniero. A quanto pareva, la flotta raktumiana era finalmente arrivata a Frangine, la capitale del regno pirata, e una processione trionfale improvvisata si sta-
va spostando dal porto al palazzo reale accompagnata dalle grida entusiaste della cittadinanza. L'avanguardia della sfilata era aperta da schiere di uomini armati di tutto punto; altri cavalieri armati circondavano la regina Ganondri che indossava un abito da amazzone verde e oro tempestato di pietre preziose ed era in sella a un brioso fronial con le corna dorate e una gualdrappa di seta verde. Dietro di lei veniva il re bambino Ledavardis, su uno splendido cavallo nero. In groppa all'animale, le sue deformità erano meno evidenti e il ragazzo sembrava più grande e maestoso con l'armatura da parata luccicante e l'elmo con la visiera aperta. Ledavardis non girava mai il capo e nemmeno mutava espressione per guardare quelli che lo salutavano, ma era chiaro che l'affetto del popolo era tutto per il giovane monarca senza corona, mentre poche erano le voci che si levavano a salutare la regina, che continuava a cavalcare incurante, con un sorriso altero sul volto. La coppia reale era seguita dall'ammiraglio Jorot e dai comandanti delle altre tre galee; dietro di loro la gabbia con il re di Laboruwenda e una variegata folla di nobili e cavalieri a cavallo. Relegato in fondo alla processione e fiancheggiato dai soldati, veniva il ricco cocchio scoperto del Signore di Tuzamen. Apparentemente del tutto ignaro delle risate e dello scherno della folla, Portolanus sorrideva e salutava, e di tanto in tanto faceva comparire un mazzo di fiori per qualche bella ragazza o una manciata di caramelle che lanciava ai bambini. Le tre Voci del Mago seguivano la carrozza in groppa a malandati ronzini, ma il principe Tolivar era nel cocchio con lui, vestito con uno splendido abito di broccato. Haramis parlò a bassa voce: «Antar, mi senti? Sono io, Haramis». Il re alzò la testa e aprì la bocca stupefatto. Anche lui era stato rivestito con gli eleganti abiti che portava all'incoronazione, che formavano un incongruo contrasto con la paglia su cui era seduto. «Non parlare ad alta voce e non tradirti, caro cognato, ma limitati a rispondermi con il pensiero. I miei poteri sono molto aumentati nelle ultime settimane e ora ti sento e ti vedo perfettamente. Prima di tutto: sei in buona salute?» Sì... ma il mio cuore è colmo di tristezza. Sono stato colpito dagli uncini quando questa feccia mi ha ricatturato, ma Portolanus ha usato un unguento magico sulle ferite e queste sono guarite perfettamente e senza lasciare cicatrici. Nel viaggio di ritorno non sono stato rinchiuso con gli schiavi, ma ho ricevuto un trattamento decente, con buon cibo e un comodo letto in una delle cabine reali, guardato a vista dai pirati. Tolo, come
vedi, non solo è in perfetta salute, ma ha anche fatto amicizia con quel maledetto stregone! Non riesco a immaginare che cosa sia preso a quello sciocco marmocchio. Forse è vittima di qualche malvagio sortilegio... «Sono assolutamente sicura che non è stato stregato, quindi mettiti il cuore in pace. Sai che piani abbiano per voi due Portolanus e la regina reggente Ganondri?» No, solo che sarò trattenuto a palazzo... Haramis, sta succedendo qualcosa di molto strano tra Portolanus e la regina Ganondri: potrebbe essere nato un dissidio tra quella bella coppia di mascalzoni! La regina reggente è venuta a trovarmi qualche volta mentre ero in convalescenza e ha mostrato un'insolita preoccupazione per il mio benessere e la mia salute. A quanto pareva, desiderava assicurarsi che le cure del Mago stessero davvero guarendomi e non invece peggiorando il mio stato. È stata molto sollecita e puoi immaginare quanto mi abbia stupito questo suo mutato atteggiamento. Io le ho fatto presente che le sue amorevoli cure non avrebbero certo indotto la mia regale consorte a cedere il suo talismano più di quanto avrebbe potuto fare la tortura, ma Ganondri si è messa a ridere. In seguito l'ho sentita ammonire le guardie di non lasciarmi mai solo quando Portolanus entrava nella mia cabina. Sarebbero andati incontro a una morte atroce, se mi fosse successo qualcosa per colpa del Mago. «Che strano! Antar, tu lo sai, non è vero, che Anigel ha offerto il talismano per la tua liberazione?» Per il Fiore! No, non lo sapevo... Haramis, non devi permettere ad Anigel di cedere il suo diadema. Implorala di pensare alle calamità che un'azione del genere potrebbe portare al popolo del mondo! Dille che lo proibisco... che preferirei morire, piuttosto che sapere che ha ceduto il suo talismano per amor mio. «Glielo dirò... ma devi farlo anche tu.» E come? Non posso raggiungerla e lei non possiede la capacità di comunicare con me tramite il linguaggio senza parole, come fai tu ora. «Componi il messaggio nel tuo cuore e consegnalo a me come se io fossi la stessa Anigel; io porterò la tua immagine e le tue parole nei suoi sogni, in modo che ogni "notte ti veda e ti senta parlare.» Gran Dio! Sei in grado di fare una cosa simile? «In questo momento un'altra Arcimaga mi sta addestrando all'uso della magia superiore. Ho scoperto di non essere la sola a ricoprire questo ufficio; ci sono altri due Arcimaghi che fungono da guardiani e da guide del mondo tramite l'uso della magia buona. L'Arcimaga che mi sta istruendo
nell'uso del mio talismano si chiama Iriane e vive all'estremo nord, nel Mar dell'Aurora. Tra due settimane, se riuscirò a terminare con successo i miei studi, farò un altro tentativo per liberare te e il piccolo Tolo. Spero anche di trovare un modo per contrastare i piani del Mago e della regina Ganondri.» Prego Dio che tu ci riesca! Dalle voci che ho udito a bordo, Raktum e Tuzamen progettano di attaccare i Due Troni... probabilmente con la collusione di Lord Osorkon e della sua fazione di scontenti. «Lo crede anche Anigel. Non appena avrò imparato l'uso del mio talismano, farò del mio meglio per difendere la tua nazione.» Ma Portolanus, che ora possiede l'Occhio di Fuoco di Kadiya, non sarà un avversario troppo potente? «Non lo so; la mia unica speranza è che non sappia ancora usare il talismano nel modo giusto e di poterglielo sottrarre grazie a qualche stratagemma. Prega per me! E ora, Antar, manda il tuo messaggio ad Anigel; spronala a restare salda e a non pagare il riscatto, perché se il Mago verrà in possesso del secondo talismano, il mondo intero potrebbe cadere in schiavitù.» Racchiuso l'amorevole messaggio di Antar nel suo cuore e scomparsa l'immagine del re in gabbia, Haramis si ritrovò sulla sommità dell'iceberg artificiale. Mandò il sogno alla mente della sorella e poi, con un sospiro profondo, lasciò andare il talismano. Con quanta sicurezza aveva detto agli altri che sarebbe riuscita a capire sino in fondo l'uso del Cerchio dalle Tre Ali! Ma se la sua speranza non fosse stata altro che un'affrettata presunzione? Grigri le si avvicinò ronfando, dimentico della sua precedente mancanza di sensibilità, e dopo averle leccato una mano, cominciò a frugare nel cesto da picnic. «Ah, piccolo, quanto sei fortunato ad avere problemi così semplici!» Tirò fuori una porzione di selvaggina arrosto, la spezzò e ne porse un pezzo alla creatura. «Non potevo permettere che Ani, Kadi e Antar capissero quanto sono preoccupata di non riuscire a imparare a usare con efficacia il talismano anche dopo gli studi con Iriane. È vero che la mia abilità di parlare a distanza è molto migliorata, ma questo è il più modesto dei poteri del Cerchio dalle Tre Ali. Sarò davvero capace di ottenere la vittoria su Orogastus e sui pirati di Raktum? E se una delle parti dello Scettro non fosse in grado di opporsi a una delle altre due? Se fosse così, allora Oroga-
stus e io ci troveremmo l'uno di fronte all'altro virtualmente disarmati, come avvenne la prima volta che ci incontrammo. Solo un uomo e una donna, acerrimi rivali e al tempo stesso innamorati, e senz'altro cui attingere che le risorse della nostra anima... Oh, Grigri, avrò la forza di fargli del male, anche per salvare il mondo?» La creatura ingoiò beata la carne e la ignorò. Haramis alzò il talismano. «Lo so che non dovrei guardarlo, perché questo indebolirà la mia risolutezza... eppure ardo dal desiderio di rivederlo una volta sola! So che adesso non potrebbe nascondersi alla mia Vista, che questa volta non vedrei una nebbiolina informe e sfocata, ma il suo vero viso. Il suo volto...» Il talismano nella sua mano era caldo, in attesa dei suoi comandi. La goccia di ambra incastonata tra le tre ali argentee conteneva il minuscolo fiore fossile nero... Mentre lo guardava, il fiore divenne di un brillante rosso sangue. «Oh, Dio», sussurrò Haramis chiudendo gli occhi a quella vista. «È questo il prezzo che devo pagare? Persino un solo sguardo innamorato può mettere in pericolo la mia anima? No, di certo! O si tratta forse di un altro dei maledetti stratagemmi di Iriane per mettere alla prova la mia determinazione? Darmi il permesso di spiarlo e poi mostrarmi le conseguenze di essermi lasciata indurre in tentazione? Molto bene: questa volta non lo vedrò, poiché questo desiderio non è altro che una debolezza personale! Non alimenterò il mio amore, lo affamerò! Talismano... sei soddisfatto? Ridammi il mio Giglio Nero! E tu, o Fiore, dammi la forza di compiere il mio sacro dovere, di cercare sempre il bene superiore e non seguire i miei egoistici desideri.» Riaprì gli occhi. Il fiore era nero. Haramis si alzò, raccolse gli avanzi che Grigri aveva lasciato in giro e li avvolse in un tovagliolo. «Vieni, piccolo amico: hai mangiato bene e questo frutto di ladu sarà la mia cena mentre torniamo. Ho già sottratto troppo tempo al mio lavoro.» Con l'animale che faceva strada, rientrò nelle profondità dell'iceberg. In lontananza, spesse nubi si stavano ammassando sulla terra e un vento gelido aveva cominciato a soffiare. 19
Ogni due giorni al principe Tolivar era permesso visitare il suo regale padre nella comoda cella situata nella Torre Occidentale del palazzo di Frangine. Il Mago gli forniva sempre qualche bocconcino prelibato da portare al genitore e a volte un libro di racconti per aiutare il re a trascorrere le ore della prigionia. Quel giorno il principe si presentò nell'anticamera delle guardie con un gustoso piatto di frutti canditi e un libro sulle avventure dei pirati. «Come sta il mio regale padre?» s'informò educatamente, mentre, insieme con la gioviale guardia Edruk, percorreva il corridoio illuminato dalle torce che conduceva alla camera del re, fiancheggiato da porte in ferro sbarrate, dietro le quali erano rinchiusi certi nemici pericolosi che la regina non osava mettere a morte. «Il re sembra farsi sempre più allegro ogni giorno che passa, giovane principe», rispose Edruk aprendo la porta della cella di Antar. «E per la mia esperienza con la maggior parte dei prigionieri, è davvero strano. Entrate, tornerò tra mezz'ora.» Tolo ringraziò serio la guardia ed entrò. La porta si chiuse alle sue spalle, seguita dallo schiocco del chiavistello ben oliato. Antar sollevò lo sguardo dalla lettera che stava scrivendo e sorrise al suo figlio più giovane. Il re indossava un abito semplice, e i capelli e la barba bionda erano stati tagliati e aggiustati dall'ultima volta che Tolo lo aveva visto. Sembrava contento. Dalla stretta feritoia chiusa dal vetro si vedeva cadere la neve, ma la cella era calda e confortevole. Il principe salutò il padre e mise i doni sul tavolo. Antar lo baciò stringendoselo al petto. «Allora, stai sempre lavorando sodo per diventare apprendista del Mago?» Il bambino si sottrasse all'abbraccio. «Vorrei che non ti prendessi gioco di me, papà. Mastro Portolanus non lo fa mai; dice che posseggo l'aura naturale di un... taumaturgo nato.» «Ti chiedo scusa», disse Antar con un lampo di allegria negli occhi azzurri. «Però mi auguro che tu non ti appassioni a quei divertimenti da fiera al punto di preferirli al ritorno a casa.» «A casa?» ripeté il bimbo costernato. «Allora la mamma ha mandato il talismano come riscatto per noi due? Il Mago ha detto che ha rifiutato! E io pensavo che saresti rimasto rinchiuso qui per un po'. Portolanus ha mandato a prendere a Tuzamen la sua collezione di macchine magiche ed è sicuro che arriveranno presto. Ma se adesso il riscatto viene pagato, non potrò
vederle!» «Figlio mio, ti rendi conto di che cosa stai dicendo?» chiese il re in tono non più allegro, ma severo e deluso, prendendo il figlio per le spalle. «No... di certo non te ne rendi conto. So che ti sei affezionato a questo Mago, ma lui non è quell'essere gentile che tu credi: è un uomo malvagio che sogna di distruggere i Due Troni.» Il principe si girò, corrugando la fronte ostinato. «Questo è quello che dice la regina dei pirati, ma non è vero. È lei quella che vuole conquistare il nostro paese, non Portolanus.» «È ciò che lui afferma», ribatté Antar con voce più gentile. «Ma è Portolanus che ti ha mentito, Tolo. Se riuscisse a ottenere il talismano di tua madre, sarebbe nella posizione di poter conquistare il mondo. Lui e i suoi alleati raktumiani invaderebbero Labornok e Ruwenda, ucciderebbero il nostro popolo e ruberebbero le nostre ricchezze. E col tempo anche tutte le altre nazioni pacifiche cadrebbero di fronte a lui.» «Ma lui non vuole il talismano della mamma!» esclamò il ragazzo. «Ha quello di zia Kadi e dice che gli basta. Lei non sa come usarlo per fare grandi cose, ma Portolanus sta scoprendo i suoi segreti! Me lo ha confidato lui! Lo userà per trasformare il suo povero paese in una grande nazione. Il talismano farà splendere il sole su Tuzamen, trasformerà la terra da sterile in fertile, farà moltiplicare gli animali delle fattorie, li ingrasserà e farà piovere dalle montagne pietre preziose, oro e platino!» «Buon Dio, è questo che ti ha raccontato?» Ma il principe proseguì ansioso. «Portolanus non ha bisogno di conquistare altri paesi: il talismano gli darà tutto ciò che vorrà! Ecco perché ha detto alla mamma che non voleva il suo talismano quando lei gliel'ha offerto. Ci aveva fatti rapire tutti per ottenere il suo talismano, ma quand'è riuscito invece a prendere quello della zia Kadi, non ha più avuto bisogno di quello della mamma.» «Portolanus mente, Tolo. Lo so che alle Isole Senzavento ha rifiutato il talismano della mamma e perché lo ha fatto è un mistero. Ma rifletti attentamente, figliolo! Se Portolanus non vuole più il talismano, allora perché tu e io siamo ancora prigionieri?» «È colpa della regina dei pirati», sussurrò Tolo. «Portolanus mi ha promesso che ti aiuterà a scappare da qui.» «Bugie... bugie», disse Antar scuotendo il capo. «Tu sei così giovane, ma sei abbastanza grande per capire che gli adulti ragionano in modo diverso dai bambini e non sempre dicono quello che pensano davvero. Porto-
lanus non vuole ricchezze, figlio mio, lui vuole il potere. Vuole comandare re e regine e intere nazioni, non vivere in pace a Castel Tenebroso, facendo giochetti magici con te e inondando di oro e diamanti il suo popolo.» «Lui dice che un giorno potrò essere Signore di Tuzamen.» «Che cosa?» «Mi farà suo erede», dichiarò il ragazzino. «Mi ha preso a benvolere. Non sarò più un inutile principe secondogenito. Imparerò a essere un mago come lui e quando lui si ritirerà per dedicarsi allo studio degli antichi incantesimi, io governerò il suo paese! Lui non ha figli, dice che i veri grandi maghi non possono averne. Devono adottare un erede... e lui vuole me!» «E tu ripudieresti la tua famiglia per quello stregone cattivo?» esclamò il re, stringendo il braccio del bambino. Ma Tolo si dimenò come un animale impazzito, si liberò e corse alla porta della cella con un gesto di sfida. «Non sai quello che stai facendo!» gridò Antar. «Sei solo un bambino! Un bambino sciocco!» La porta della cella si aprì. «È ora che il principe vada», disse Edruk, il cui viso di solito gioviale si era fatto cupo. «Io voglio andare via», strillò Tolo uscendo di corsa in corridoio, con le guance rigate di lacrime. «Non voglio vederti più, papà.» «Torna indietro, figlio mio! Non avrei dovuto parlarti in quel modo!» Il re si avvicinò alla soglia, ma Edruk gli sbarrò la strada e un attimo dopo la porta venne chiusa a chiave. «Tolo!» La voce del re era soffocata dal metallo e dalle pareti di pietra. «Tolo, non andare via!» Il ragazzo si asciugò il viso con una manica e poi seguì la guardia nell'anticamera, dove attendevano due uomini dal volto crudele che indossavano la livrea personale della regina. «Eccolo qua», disse Edruk con un sospiro. «Sia io sia Zillak abbiamo sentito la sua conversazione con il padre. Era proprio come sospettava la regina.» Braccia robuste afferrarono Tolivar. «Tu verrai con noi», grugnì uno dei due servitori e, allo strillo impaurito di Tolo, si mise a ridere. «Muoviti: a sua maestà non piace aspettare.» Da dietro la porta del salotto privato di Ganondri provenivano voci concitate. I due nobili in armatura che la presidiavano impedirono alla scorta di Tolo di bussare. «Ma la regina reggente voleva che il marmocchio reale le fosse portato
subito», protestò uno dei robusti servitori. «Ha informazioni di grande importanza!» «La regina è con la sua graziosissima maestà, re Ledavardis», rispose brusco uno dei nobili pirati; sia lui sia il compagno avevano lo stemma del re. «Voi aspetterete.» I due si scambiarono un'occhiata di fuoco, mentre all'interno le grida continuavano e la paura di Tolo si trasformava in curiosità. Era chiaro che la regina dei pirati e il re gobbo erano impegnati in uno scontro infuocato! Ma era impossibile capire che cosa dicevano. Dopo pochi minuti, la porta si spalancò e re Ledavardis uscì a grandi passi, bianco in viso per la rabbia. «No... non permetterti di voltarmi le spalle!» gridò Ganondri. «Torna qui, ingrato arrogante!» Ignorando le sue urla, il re fece cenno ai suoi uomini di seguirlo e si allontanò nel corridoio. Ganondri comparve sulla porta, vestita di un abito color porpora e di un leggero mantello in tinta bordato di merletto dorato, con il volto contorto dall'ira e i capelli color del rame tutti scarmigliati. Vedendo Tolo e i due servi, cercò a fatica di ridarsi un contegno e fece cenno ai due di portare dentro il ragazzo. Su un tavolino c'era una bottiglia d'inchiostro rovesciata su una pila di documenti ufficiali. Il liquido scuro gocciolava lentamente sul costosissimo tappeto. Un altro documento, strappato in piccoli pezzi, era sparso sul pavimento insieme con una penna rotta in due. Ignorando il disordine, la regina reggente si avvicinò a un vassoio e si versò un bicchiere di liquore. Dopo aver bevuto si girò di scatto e fissò gli occhi verdi e brillanti sul principe Tolivar. «È vero», disse a voce bassa e dura, «che tua madre, la regina Anigel, ha offerto il suo talismano a Portolanus quand'eravamo ancora alle Isole Senzavento?» «Sì», mormorò il ragazzo, fissandosi le scarpe. «Credo di sì.» «Parla!» «Il... il mio regale padre dice di sì e lui non mente mai.» «E Portolanus ha confidato a te che non voleva il talismano di Anigel: giusto?» «Lui... no, non lo ha mai detto.» La regina scattò in avanti, gli afferrò un orecchio e glielo torse con forza. Il ragazzino strillò di dolore. «Dimmi la verità!» «La sto dicendo!» singhiozzò il principe. «Ahi! Mi fai male!»
«Portolanus ha affermato che non aveva bisogno del talismano di tua madre? Dimmelo, piccolo verme! O ti farò tagliare il naso dai miei uomini e ti farò gettare nelle segrete!» Tremando e piangendo, Tolo si accasciò sul pavimento. «Non colpirmi! Sì, lo ha detto! Lo ha detto!» Ganondri lo lasciò andare e lo fissò disgustata. «Così va meglio. Che piccolo marmocchio vigliacco, sei! Non hai più lealtà nei confronti di quel farabutto, il tuo benefattore, di quanta tu ne abbia per il tuo stesso padre. Mi disgusti! Persino quel derelitto di mio nipote è di stoffa migliore della tua.» «Non farmi male», disse Tolo, tirando su con il naso e riparandosi il viso con le braccia. I due servitori lo rimisero in piedi. «Portate via questo vigliacco», ordinò loro Ganondri, «chiudetelo a chiave nella sua stanza e sorvegliatelo bene.» I due s'inchinarono e trascinarono fuori Tolo che aveva ricominciato a piangere. «È peggio di quanto pensassi», disse Ganondri tra sé quando se ne furono andati. «Ma forse posso ancora salvare la situazione se agisco subito... ammesso che Portolanus non abbia imparato tutto a un tratto a usare quel maledetto Occhio di Fuoco.» Suonò un campanello e disse alla dama di compagnia di chiamare il capitano della Guardia di Palazzo e venti uomini. Poi si diresse alle stanze che aveva assegnato a Portolanus. «Grande Regina, quale onore inaspettato!» Sfregandosi le mani adunche, il decrepito Mago si alzò da una tavola sommersa dai libri per salutare la regale visitatrice e il piccolo esercito che l'accompagnava. Le tre Voci fecero capolino da una stanza interna, senza cercare di nascondere il loro allarme. «Prendete quegli scagnozzi», ordinò Ganondri. Il capitano della Guardia fece un cenno e sei uomini armati afferrarono gli accoliti, mentre Portolanus, dopo aver gettato un grido costernato, attraversava al galoppo la stanza, con le babbucce svolazzanti, per andare verso un grande cassettone intagliato di legno lucido. «Fermatelo!» gridò la regina. «Cerca di prendere il talismano!» Il capitano e quattro uomini con le spade sguainate balzarono verso Portolanus e l'afferrarono per l'abito. Il Mago ululò, scivolò fuori dal vestito e si tuffò verso il cassettone con nient'altro addosso che un paio di braghette
attorno ai fianchi scarni. Ma una delle guardie diede un gran calcio alla cassa e la fece scivolare lontano, dove il Mago non poteva raggiungerla. «Ben fatto!» esclamò Ganondri con un sorriso. Tre guardie immobilizzarono il vecchio e di colpo questi si accasciò, con il respiro ansante, boccheggiando: «Grande Regina, questo è un deprecabile malinteso. Sarei felice...» «Zitto, ciarlatano!» Ganondri si sedette su una panca imbottita mentre Portolanus venne costretto a restare in piedi davanti a lei. «Cominciamo la nostra discussione da Ledavardis. Tu mi avevi assicurato che avresti gettato un incantesimo di docilità su quel mio nipote ribelle. Eppure, quando questa sera gli ho presentato certi importanti documenti da firmare, non solo ha rifiutato, ma mi ha anche insultata e ha detto che il mio regno sarebbe presto giunto alla fine.» «Non riesco a capire!» guaì il Mago. «Le mie Voci hanno somministrato al giovane re la pozione prescritta ogni giorno da quando siamo tornati a Frangine. A quest'ora dovrebbe essere docile come un woth appena nato!» Ganondri sbuffò, ma la sua espressione si fece ancor più tempestosa. «Incompetente! O hai forse deciso di rompere la nostra alleanza nonostante i miei avvertimenti? Credi forse, ora che siamo di nuovo sulla terraferma, di poter ordire qualche complotto contro di me? Sei così sciocco da credere di poter usare quel furbastro di mio nipote come tuo strumento?» «Mai! Commetti un errore, grande Regina!» «E mi sbaglio anche se credo che la regina Anigel di Laboruwenda ti ha offerto il suo talismano settimane fa, quando ci trovavamo ancora nelle Isole Senzavento? E che tu l'hai rifiutato?» «No, non lo nego. Temevo che, se ti avessi messa al corrente dell'offerta di Anigel, tu, nella tua ansia di avere quell'inutile aggeggio, avresti subito rilasciato re Antar. E questo sarebbe stato un colpo fatale per i nostri piani di conquista. Abbiamo bisogno di re Antar se vogliamo che il piano di sottomettere Laboruwenda vada in porto! Lui solo sarebbe in grado di sedare le discordie tra la nobiltà di Labornok e unire i nobili; i suoi compatrioti non combatteranno mai fino all'ultimo uomo sotto la bandiera dei Due Troni se non sarà Antar a guidarli. Se resta nostro prigioniero, l'invasione permetterà a Lord Osorkon, la nostra creatura, di prendere il controllo della situazione. E la conquista di Ruwenda seguirà la capitolazione di Labornok come il giorno viene dopo la notte, se il grosso delle forze ruwendiane sono andate a sud a difendere Var.»
«Che storiella plausibile», disse ironica Ganondri. «Ed è questa la vera ragione per cui hai rifiutato di accettare il mio talismano?» Le ultime due parole le gridò al colmo dell'ira. «Lo giuro! A che ti sarebbe servito, donna? Sei forse una maga? Pretenderlo sarebbe stato un gesto inutile.» «Toccava a me decidere, non a te!» disse lei. «Ma tu hai osato nascondermelo! Temevi quello che sarebbe successo se avessimo posseduto un'uguale magia!» «Che sciocchezza... ti stai rendendo ridicola!» «Come osi!» strillò Ganondri. «Tu... tu...» Fuori di sé, si alzò dalla panca e, sguainando il pugnale ingioiellato che portava alla cintura, si gettò contro Portolanus. «Basta con questa commedia», disse il Mago. Ganondri si fermò vacillando, incapace di credere ai propri occhi, mentre Portolanus riprendeva il suo vero aspetto. Il corpo quasi nudo divenne alto e robusto, la barba e i capelli di un bianco splendente e gli occhi azzurro argento brillarono incandescenti. Nella mano destra levata in alto c'era l'Occhio di Fuoco Trilobato. La regina Ganondri si trasformò in una statua appoggiata in equilibrio su un piede solo, con il pugnale pronto a colpire. Anche gli uomini della Guardia di Palazzo s'immobilizzarono, incapaci di fare il minimo movimento, se non roteare selvaggiamente gli occhi. Gli accoliti si liberarono dei loro sgraditi ospiti e si affrettarono a portare al loro signore un abito bianco. La Voce Nera aprì il cassettone di legno e con reverenza tirò fuori il nuovo fodero di cuoio argentato dell'Occhio di Fuoco Trilobato e lo agganciò alla vita sottile del Mago. Le Voci Gialla e Porpora disarmarono le guardie, tolsero alla regina Ganondri il piccolo ma pericoloso stiletto, poi si fecero da parte. Portolanus mise il talismano nel fodero e con un gesto noncurante della mano liberò Ganondri dalla paralisi. «Avevi ragione per quello che riguarda il mio inganno», disse poi alla regina con voce flautata. «Non aveva senso che Anigel consegnasse a te il suo talismano! Mentre eravamo a bordo della nave le tue prudenti precauzioni hanno frenato la mia mano, ma ora è finito il tempo delle menzogne... Ledo! Vieni avanti!» Il giovane re Ledavardis usci da una stanza interna, si avvicinò alla nonna e la fissò impassibile. Teneva tra le mani, con molta cura, un piccolo oggetto.
«Sei stata molto abile, Regina reggente», continuò il Mago, «e hai creduto di avermi fatto cadere in una trappola da cui non potevo scappare senza perdere l'alleanza raktumiana. Hai ritenuto di essere al sicuro dalle mie possibili macchinazioni perché sei tu che governi Raktum e qualunque mossa contro di te da parte mia, uno straniero di più che dubbia reputazione, sarebbe stata interpretata dal tuo popolo come una minaccia. E come hai giustamente fatto notare, io ho bisogno dell'appoggio di Raktum! Ma non è del tuo che ho bisogno, Signora... è unicamente del suo favore», disse indicando re Ledavardis. «E lui ti odia, per più di una buona ragione.» Gli occhi verdi della regina guardarono il volto spietato del nipote, poi quello sorridente del Mago e di nuovo il nipote: «Non oserete uccidermi!» urlò. «È vero», convenne Portolanus. «E neppure ardisco mandarti in esilio o imprigionarti. Per fortuna c'è un'usanza del tuo stesso regno pirata che risolverà il mio dilemma. Questi testimoni», disse il Mago indicando le guardie paralizzate, «hanno il pieno possesso delle loro facoltà. Io li esorto a osservare e ricordare ciò che sta per accadere.» Il Mago fece un cenno al giovane re, che si avvicinò alla nonna e le mostrò una piccola scatola d'oro. Con grande cautela, Ledavardis sollevò il coperchio; una rete a larghe maglie dorate ricopriva l'interno della scatola. Ganondri abbassò lo sguardo ed emise un gemito, diventando cinerea in volto. Ledavardis si voltò e mostrò il contenuto della scatola alle guardie paralizzate. All'interno qualcosa di piccolo, scuro, viscido e luccicante si agitò; poi una minuscola appendice si sporse per un attimo attraverso la rete, una specie di tentacolo che terminava con due sottilissimi aculei da cui pendevano due gocce di veleno, luccicanti come perline di cristallo. «I tuoi uomini sanno che cos'è», disse il monarca gobbo. «Nei tempi antichi, quando un corsaro della nostra nazione veniva accusato di aver tradito i suoi camerati, poteva scegliere di dichiararsi colpevole e togliersi la vita, oppure sottoporsi all'ordalia dello shareek. A volte quest'ultimo giudicava innocente l'accusato.» «No!» sussurrò Ganondri. «Tu... tu non puoi far questo al sangue del tuo sangue!» «Regina reggente», disse il ragazzo, «io t'incolpo per avermi sottratto il trono che mi spettava di diritto. Ti accuso di aver cospirato per farmi dichiarare incompetente perché tu potessi governare Raktum al mio posto. Ti ritengo responsabile dell'assassinio, della tortura e dell'incarcerazione di
più di trecento anime che erano miei leali sostenitori. E ora sarai giudicata.» Afferrò il polso destro della regina e capovolse la scatola, mettendo la rete dorata sul dorso della sua mano. «Che sia lo shareek a decidere il tuo destino secondo l'antica legge di Raktum, mentre conto fino a tre. Uno...» Null'altro che silenzio. «Due...» Le pupille degli occhi di Ganondri erano così dilatate nel volto livido da cancellare le iridi color smeraldo. La regina non cercò di lottare. «Tre.» Ganondri emise un urlo spaventoso, disumano, come una bestia gettata viva tra le fiamme. Quando Ledavardis sollevò la scatola, i presenti videro sul dorso della mano due minuscole punture e immediatamente la pelle attorno alle ferite divenne color porpora, poi nera. La tumefazione si allargò alle dita, poi al polso. La regina prese a tremare, cadde a terra in una nuvola di seta, arrovesciò lentamente gli occhi e le palpebre grinzose fremettero e si chiusero. Anche l'altra mano divenne nera, il colore si stese lungo il braccio, fino al collo e infine a tutto il viso. Ma a quel punto la regina reggente Ganondri non respirava più. Tra le esclamazioni soffocate delle guardie di palazzo, Ledavardis richiuse saldamente il coperchio della scatola dorata e rimise lo shareek nella scarsella alla cintura. Poi fece un cenno a Portolanus. «Uomini di Raktum», intonò il Mago, «io sciolgo i magici legami che imprigionano i vostri corpi.» Il capitano e i suoi venti uomini gemettero, barcollarono e infine recuperarono l'equilibrio. «Ricordate ciò che avete visto!» disse Ledavardis. «Adesso, capitano, fate portare una barella e date ordine alle dame della defunta regina di preparare il suo corpo. Ci sarà un modestissimo funerale... e un'ancor più modesta incoronazione.» «Sì, grande sovrano», rispose il capitano, e lui e i suoi uomini uscirono in fila indiana. Ledavardis fissò per alcuni istanti ancora quella cosa orribile che era stata sua nonna, poi sollevò la testa per osservare con curiosità la trasformazione del Mago. «Hai mutato le tue sembianze orrende in qualcosa di più gradevole all'occhio, Portolanus. Posso sperare che tu sia in grado di cambiare anche il mio miserevole corpo?»
«Questo è il mio aspetto naturale», disse il Mago, «l'altro era una forma illusoria che assumevo per indurre i miei nemici a sottovalutarmi. Mi rincresce dover dire che la mia conoscenza delle arti magiche non è ancora così avanzata da guarire te, grande sovrano. Ma tu sei forte e robusto e, se lo vuoi, posso ammantarti in un'illusione di maschia bellezza.» Ledavardis scrollò le spalle. «No, non voglio indossare maschere. Il mio popolo continuerà ad accettarmi come sono.» «E onorerai il patto originario tra Tuzamen e Raktum?» chiese piano il Mago. «Ganondri ha tentato di ripudiare l'alleanza che io avevo stipulato in buona fede. La offro di nuovo, a te: avrai il governo di tutte le nazioni della Penisola e dei Mari Meridionali se concederai a me la supremazia nelle faccende riguardanti la magia.» «Compreso il talismano della regina Anigel?» «Sì, e col tempo anche quello dell'Arcimaga Haramis. In cambio, giuro per le Potenze Oscure che servo, che mai cercherò di nuocerti con la magia, ma al contrario ti aiuterò a coronare tutte le ambizioni che riterrò legittime.» «Ma il vero potere sarà tuo», ribatté il re bambino in tono piatto. «Sì. Ma solo le mie tre fedeli Voci e io lo sapremo. È un ben piccolo prezzo da pagare. Il mio interesse è rivolto a cose che sono lontane da governo e commerci quanto le Tre Lune sono distanti dalla superficie del mondo. Io sarò la tua guida e il tuo benefattore... non un oppressore.» «Molto bene, accetto il patto», disse Ledavardis. Il Mago estrasse l'Occhio di Fuoco Trilobato e lo sollevò in alto. «E che venga suggellato da questo talismano... Ti concedo il permesso di toccarlo, una volta sola, per confermare il giuramento.» Gocce di sudore imperlarono la fronte del giovane re, ma egli tese la mano e la appoggiò per un istante sui lobi freddi e scuri. «Ecco! L'ho fatto», disse sorridendo. «Immagino che se dovessi tradirti il talismano mi ridurrebbe in cenere.» Il Mago rise. «Mettiamola in questo modo: non ci sarebbe nessun bisogno dello shareek! Ma adesso occupiamoci di faccende più piacevoli. Dove pensi che Ganondri abbia nascosto la corona del tuo defunto padre? Immagino che vorrai indossarla al tuo primo incontro ufficiale con un altro sovrano regnante.» «E chi sarà mai questo regnante?» s'informò Ledavardis. «Anigel di Laboruwenda», rispose il Mago. «Se richiamo i miei venti magici, possiamo sospingere la sua lenta flotta alle coste di Frangine entro
tre giorni. Tu potrai degnarti di riceverla e di restituirle il marito in cambio del talismano... poi tu e io ci prepareremo a strappare loro il regno.» 20 Il primo a scendere dall'ammiraglia laboruwendiana fu il Dorok Shiki, con la bandiera rossa, azzurra e dorata dei Due Troni. Dietro di lui, sulla passerella ricoperta dai tappeti, veniva la regina Anigel, incurante della neve leggera che stava trasformando la capitale raktumiana in una scena di esotica bellezza. La regina indossava gli abiti da cerimonia che aveva portato all'incoronazione zinoriana e la sontuosa Corona di Stato di Ruwenda le adornava i capelli biondi. Alle sue spalle venivano il Lord maresciallo Owanon e il Lord ciambellano Penapat, con una scorta di nobili in armatura che avanzavano tenendo sollevate di fronte al viso le grandi spade a due mani; li seguivano il Lord cancelliere Lampiar e il ministro per gli Affari Interni, Lady Ellinis, vestiti tutti di nero. Seguiva una cupa processione dei nobili e dei cavalieri che avevano accompagnato la regina nello sfortunato viaggio per l'incoronazione a Zinora. Anche la giornata aveva un aspetto particolarmente funereo, con le nuvole cupe e la brezza gelida che soffiava sui moli e faceva turbinare i fiocchi di neve. Le stagioni erano davvero sottosopra ma, a quanto pareva, i cittadini di Frangine, ammassati nei vicoli e lungo la strada per guardare la triste processione, non se ne curavano. Re Ledavardis e i cortigiani attendevano in una piazza lastricata che sovrastava il porto. Anigel si era rifiutata di andare al Palazzo Reale di Frangine; quello che andava fatto, si sarebbe compiuto a cielo aperto. Un palco coperto era stato eretto per il trono del giovane re, che attendeva circondato da una schiera di guardie del corpo con le spade sguainate e guerrieri armati di alabarde o di lance. Ledavardis indossava abiti caldi e sontuosi e una corona tempestata di centinaia di grandi diamanti. In cima allo scettro c'era il cosiddetto Cuore di Zoto, un diamante delle dimensioni di un pugno, rubato cinquecento anni prima dalla Casa Reale di Labornok. Alla destra del monarca, era in piedi il Signore di Tuzamen, che indossava un lungo mantello bianco bordato di pelliccia con il cappuccio che gli copriva interamente i lineamenti del viso. Alla sinistra c'era l'ammiraglio Jorot con la fascia e gli emblemi del primo ministro. La piazza era affollata di raktumiani e addobbata a festa con allegre bandierine che sbattevano al vento. Non si udì il minimo suono mentre i laboruwendiani salivano la
strada ripida e scivolosa e si disponevano davanti alla pedana. Uno squillo di tromba risuonò allorquando Shiki si fece da parte con la bandiera e la regina Anigel si avvicinò al trono. Ledavardis si alzò e le fece un cortese cenno del capo cui lei rispose nello stesso modo. «Sono venuta a riscattare mio marito e mio figlio», furono le semplici parole della regina. «Il tuo talismano!» ordinò il Mago. Lei non lo degnò di uno sguardo, ma tenne gli occhi fissi sul viso pallido del re, che stava sudando nonostante il vento gelido. «Il riscatto sarà mostrato e consegnato a te, fratello reale, quando vedrò i miei cari sani e salvi accanto a me.» «Certo.» Il re fece un rapido gesto e la folla di armati alla destra del trono si aprì. Anigel non riuscì a trattenere un gemito angosciato quando vide la gabbia dorata. Il capitano della Guardia di Palazzo la aprì e s'inchinò rispettosamente a re Antar quando questi uscì seguito dal piccolo Tolivar. Entrambi i prigionieri erano vestiti con abiti sontuosi ricoperti di magnifici mantelli di pelliccia di worram dorato, con luccicanti catene e manette di platino legate ai polsi guantati. Sul viso di Antar era disegnata un'espressione di rassegnato dolore; Tolo invece faceva il broncio. Il capitano della Guardia scortò padre e figlio ai piedi del trono e porse a Ledavardis una chiave di platino. Il re la porse ad Anigel: «Signora, puoi liberare i prigionieri». «Il talismano!» ruggì il Mago. Ledavardis parve non udirlo, e dal momento che Anigel continuava a fissare il marito con un'espressione di dolore e di sfida insieme, il giovane re provvide di persona ad aprire le manette di Antar e poi quelle di Tolo. «Andate: siete liberi.» Il re di Laboruwenda prese la mano nuda e pallida della moglie e la baciò teneramente, poi andò a mettersi di fianco al suo vecchio amico, il Lord maresciallo. Anigel prese una reticella dorata che portava alla cintura, la aprì, estrasse il sottile diadema d'argento chiamato il Mostro dalle Tre Teste e lo tese con mano tremante. Prima che Ledavardis potesse toccarlo, il Mago fece tre lunghi passi avanti. «Ledo! Attento! Potrebbe avergli ordinato di ucciderti!» Anigel scosse il capo con aria di sconfitta. «Non gli farebbe mai del male.»
La piccola Voce Nera comparve da dietro il trono portando lo scrigno stellato, e con una smorfia cattiva lo pose ai piedi di Anigel e lo aprì. «Signora, posate il talismano all'interno», disse il Mago. Anigel s'inginocchiò nella neve e fece come le era stato detto. Vi fu un accecante lampo di luce: il giovane re trasalì, le sue guardie urlarono e agitarono le armi e l'accozzaglia di laceri cittadini raktumiani strillò e urlò terribili imprecazioni. Anigel si limitò a fare un passo indietro, come se non le importasse nulla. «Non temete!» Il Mago tese la mano nello scrigno e mosse le dita. Un attimo più tardi si alzò, gettò indietro il cappuccio del mantello, posò il diadema sui capelli ed estrasse l'Occhio di Fuoco Trilobato. Non aveva più la barba, e i lunghi capelli bianchi si muovevano al vento; il viso, pur segnato dalle fatiche, era sempre bellissimo. Con il diadema di Anigel in capo e il talismano di Kadiya levato in alto, si lasciò avvolgere dalla sua aura di potere e la regina lo riconobbe come il vecchio nemico che aveva quasi conquistato lei e le sorelle tanti anni prima. «Orogastus!» esclamò. «Dunque sei tu. Oh, vile furfante, possano i Signori dell'Aria ripagarti come meriti per aver rubato i due talismani!» Lui rivolse un sorriso condiscendente alla regina disperata. Al centro del diadema, dove prima era incastonato il giglio d'ambra, c'era ora una stella a molte punte. «Rubato? No, sei ingiusta, Signora. Un talismano è mio per diritto di recupero e di scoperta, e l'altro mi è stato dato volontariamente, come riscatto, secondo le leggi del grande Raktum. In quest'ultimo caso, poi, sei stata ampiamente ricompensata. Apri la mano! Non ti sono stati restituiti solo tuo figlio e tuo marito.» Anigel fissò senza parole l'amuleto risplendente posato sul suo palmo. Nel cuore dell'ambra splendeva un minuscolo fiore scarlatto. «Di' a tua sorella Haramis che la attenderò», riprese Orogastus sempre sorridendo. «E ora sarebbe meglio se tu e il tuo seguito faceste vela per Derorguila. Questa nevicata si trasformerà presto in una tempesta di neve da nord-ovest che vi sospingerà a casa... Vieni, Tolo.» Girò sui tacchi e il piccolo principe, che fino a quel momento se n'era rimasto in disparte con aria imbronciata, s'illuminò. «Posso, Maestro? Mi permetti di restare con te?» «Se lo desideri», disse il Mago, voltandosi. «Lo desidero!» «Tolo, no!» gridò la regina.
«Ti piacerebbe portare lo scrigno stellato?» chiese Orogastus al ragazzo, ignorando l'espressione ferita che era comparsa sul volto della Voce Nera. «Oh, sì!» Il piccolo principe strappò lo scrigno all'accolito furibondo e lo sollevò in alto come un trofeo, perché tutti vedessero. «Tolo!» Anigel stava piangendo senza ritegno. «Non puoi andare con quell'uomo terribile! Come puoi pensare una cosa simile? Vieni da me, mio povero bimbo!» Il principe Tolivar, ora a fianco del Mago, la guardò in silenzio. «Il bambino può fare quello che desidera», dichiarò re Ledavardis. «La scelta è sua.» «Antar!» gridò disperata la regina. «Parla a tuo figlio!» «L'ho fatto.» Sul volto del re laboruwendiano era scritta la sconfitta. Rendendosi conto che non c'era più nulla da fare, Anigel vacillò, e Antar e Lord Owanon si affrettarono a sostenerla. «Vieni, mia cara. Non possiamo più fare nulla ora.» La regina, stordita e in lacrime, non proferì parola mentre tornavano alla nave seguiti dalla loro triste scorta. Nel giro di mezz'ora vennero salpate le ancore e i liberi rematori di Laboruwenda si chinarono sui remi spingendo le quattro navi in mare aperto, verso casa. 21 Un caleidoscopio di raggi di luce prismatici riempiva la mente di Haramis come una sorta di arazzo aurorale. Le sembrava di non aver fatto altro, da giorni, che comandare quei fasci luminosi per trasformarli in immagini concrete secondo le indicazioni dell'Arcimaga del Mare. Ordinò un minuscolo castello di cristallo e questo apparve, diventando solido e reale davanti ai suoi occhi. Lo cancellò e ordinò ai raggi di luce di formare una cavalcatura con la sella; si materializzò allora un fronial composto di mille sfaccettature che brillavano dei colori dell'arcobaleno. Si trasformò in carne e ossa e parve guardarla con comica perplessità, agitando le corna ramificate, finché lei non lo annullò, rimandandolo nel vuoto da cui era venuto. Haramis creò una cosa dopo l'altra e un luogo dopo l'altro perché, quando veniva adoperato nel modo giusto, anche il Cerchio dalle Tre Ali era un viadotto magico che poteva trasportare il suo possessore in qualunque luogo e in un batter d'occhi. Ma Iriane permetteva alla sua scolara di viaggiare solo nelle parti brulle e disabitate del mondo che lei stessa sceglieva. Quel-
le che Haramis imparava erano lezioni difficili e non doveva essere distratta dalla vista di persone o anche solo di luoghi familiari. All'inizio di quel nuovo addestramento, le cose che creava e i posti che voleva visitare erano spesso richiamati maldestramente e le visioni di cristallo non si trasformavano in realtà; ma sotto la guida di Iriane, Haramis imparò a controllare il suo potere creativo e adesso riusciva quasi sempre a ottenere quello che voleva. Se solo fosse riuscita a evitare la trappola dell'eccessiva sicurezza, forse sarebbe riuscita a padroneggiare quel suo talismano! «Sei ben lontana dal comandarlo completamente», commentò Iriane in tono acido. «Ma non sei più l'ingenua che si è presentata al mio iceberg! E se riuscirai a evitare il rischio di diventare arrogante o avventata, forse potrai compiere il tuo dovere con onore.» «Prego che sia così», rispose Haramis con tutta l'umiltà di cui fu capace. L'affascinante tavolozza di luci colorate cominciò a offuscarsi e si trasformò in buio. Haramis si ritrovò di nuovo nella stanza di meditazione, inginocchiata, con le gambe doloranti. L'Arcimaga del Mare si alzò dallo sgabello su cui era seduta, si stiracchiò e sbadigliò. «Ah, come sono stanca, bambina... e muoio anche di fame. Vieni, andiamo a cena. Questa sera ti ho preparato un bello stufato di sucbri arrivato fresco dalla tua Palude Verde, e anche una crostata di bacche viola, che ti sarà familiare.» Haramis si alzò in piedi barcollando e si riassestò l'abito bianco da Arcimaga. «Temo che non riuscirò a mangiare molto: sono troppo stanca, non riesco a pensare ad altro che a dormire. Se solo tu non fossi un tutore tanto inflessibile e mi lasciassi riposare un po' di più...» «Questa notte potrai dormire quanto vorrai. La tua istruzione è terminata.» «Ma non ho ancora imparato a comandare la magia superiore!» esclamò Haramis spaventata. Iriane fece un gesto con la mano e condusse la sua pupilla in uno dei corridoi acquario. «Le tre decine di notti del tuo soggiorno sono terminate. Non c'è più nulla che io possa insegnarti. Tu domini già molta più magia di quanta ne abbia mai conosciuta io, con o senza il tuo talismano. Il resto ti verrà con il tempo.» «Ma come...» «Credimi.» Sul viso rotondo e dolce di Iriane, soffuso dal debole pallore azzurro, si disegnò un sorriso dolce ma enigmatico. Le due donne percor-
sero il corridoio ed entrarono nella gradevole penombra della stanza con il murale marino vivente. «Dal tempo degli Scomparsi», proseguì Iriane, «nessun altro Arcimago, tranne te, ha mai posseduto una parte dello Scettro del Potere o conosciuto tanto sul suo uso. Gli Scomparsi lo temevano, ma tu questo non puoi permettertelo. Ora hai un'enorme responsabilità: quella di adoperare la tua magia per riportare nel mondo l'equilibrio perduto e assicurarti che nessuna delle altre due parti dello Scettro venga usata al servizio del male.» Cercando di nascondere il suo profondo disagio, Haramis si sedette a tavola, mentre Iriane andava a prendere il cibo che veniva preparato in un modo misterioso sul quale non si era mai presa la briga d'indagare. Quando l'Arcimaga del Mare tornò con quei piatti prelibati, Haramis li limitò a piluccare qua e là. «Non sono solo stanca», disse quando Iriane la sgridò, «ho anche un terribile presentimento... Ho il tuo permesso di parlare con le mie sorelle?» «Non hai più bisogno del mio consenso per nulla, Arcimaga della Terra», rispose Iriane in tono solenne. «Ma risponderò alla domanda che sta angustiando il tuo cuore: sì, il talismano chiamato il Mostro dalle Tre Teste è stato consegnato come riscatto per re Antar e ora è in possesso del Mago Orogastus, che lo ha legato a sé.» «Buon Dio... lo temevo! Perché non mi hai detto quello che stava accadendo? Avrei potuto fermarla!» Iriane continuò imperterrita a mangiare la crostata. «Tu non l'avresti fermata. E interrompere il tuo addestramento nel momento critico in cui stavi finalmente cominciando a padroneggiare i tuoi poteri avrebbe prodotto un danno irreparabile.» Haramis era balzata in piedi, agitatissima. «Se Orogastus ha due talismani e io ne ho uno solo, questo non gli conferisce un vantaggio su di me?» «Solo nel caso che abbia scoperto i suoi segreti come hai fatto tu. Ma anche in quell'evenienza, come ti ho detto, è il tuo talismano la chiave dello Scettro.» «Tutte e due le mie sorelle erano in grado di usare il loro talismano per uccidere, ma credo che sia accaduto accidentalmente, senza una volontà cosciente da parte loro. Immagino che anche Orogastus possa provocare una tragedia nello stesso modo, ma sarà in grado di uccidere deliberatamente?» Iriane scosse il capo. «Fino a questo momento, gli manca la conoscenza
occulta per causare intenzionalmente un danno mortale a te con il suo talismano.» «Ma io... io ho il potere di uccidere lui?» «Nessun Arcimago può causare intenzionalmente la morte di un'altra creatura pensante. Non so se saresti in grado di annientarlo con mezzi diversi, è un'informazione che non c'è nei miei libri di consultazione. Gli Scomparsi saranno stati di certo molto cauti in queste cose; anche Denby afferma di non saperlo, ma potrebbe mentire. Esiste probabilmente un solo luogo in cui puoi scoprirlo: l'antico Luogo del Sapere degli Scomparsi. Gli Uomini della Stella cercarono di distruggerlo con un'arma terribile poco prima che Varcour riuscisse a sconfiggerli e a disperderli. Gli edifici esterni sono stati spazzati via, ma esiste ancora un labirinto di strutture sotterranee sorvegliato da esseri non umani chiamati sindona.» «Li conosco e so dell'esistenza del Luogo del Sapere: è lì che mia sorella Kadiya ha ricevuto il suo talismano... e l'ultima volta che le ho parlato, vi stava tornando. Laggiù vi è un sindona chiamato il Maestro...» «Vai da lui», disse Iriane. «Potrebbe essere in grado di dirti di più sullo Scettro; il compito di dividere lo Scettro e di nascondere le sue tre parti era stato infatti affidato proprio ai sindona, più di dodici volte dieci centinaia di anni fa. Dal momento che non erano di carne e ossa, si sapeva che non avrebbero ceduto alla tentazione di usare i talismani per i loro scopi e neppure ne avrebbero svelato i segreti a coloro che non ne erano degni.» Haramis represse un brivido e si avvolse nel mantello bianco. «Iriane, ti spiacerebbe molto se raggiungessi immediatamente il Luogo del Sapere?» L'Arcimaga del Mare si asciugò le labbra con un tovagliolo azzurro e si alzò. «No, di certo. Ma c'è qualcosa che è meglio che porti con te», disse, avvicinandosi al suo tavolo da lavoro. «Ricordi che ti ho raccontato in che modo Orogastus è sfuggito alla morte ed è stato mandato nell'Inaccessibile Kimilion?» «Tramite un apparecchio che hai chiamato il Fulcro.» «Esatto! Eccolo qui.» L'Arcimaga aveva frugato tra gli strani oggetti posati sul banco e sollevò un esagono di metallo scuro, largo meno di un metro, al cui centro spiccava una stella dai molti raggi. «L'ho recuperato in segreto dal Kimilion subito dopo che Orogastus vi era giunto privo di sensi. Lui non ne conosce neppure l'esistenza. Da allora il Fulcro è sempre rimasto in mio possesso, affinché non venisse usato a fini malvagi.»
Haramis la fissò senza capire. «Vuoi dire affinché Orogastus non potesse servirsene per fuggire dal Kimilion?» «No, no... non importa!» rispose Iriane stranamente agitata. «Ricorda come funziona: se uno degli Uomini della Stella corre il pericolo di vedersi ritorcere contro la sua stessa magia dallo Scettro del Potere (perché è così che lo Scettro uccide), questo Fulcro attirerà a sé la vittima designata prima che il fuoco magico la consumi, e le salverà la vita.» L'Arcimaga del Mare porse a Haramis il sottile esagono: «Ma che devo farne?» chiese costei, sconcertata. «Tanto per cominciare, tienilo lontano da lui», fu la secca risposta di Iriane. «Se mai dovesse entrarne in possesso e scoprirne lo scopo, diventerebbe assolutamente invulnerabile! Forse il Maestro conoscerà un luogo sicuro in cui nasconderlo. A ogni modo, adesso il Fulcro è responsabilità tua e devi fartene carico.» «Ma non sarebbe più semplice distruggerlo?» «Prova», la invitò la Signora Azzurra. «Io l'ho fatto e ha resistito a tutti i miei sforzi! Forse tu, con i poteri del tuo talismano, avrai miglior fortuna.» Haramis ordinò al Fulcro di restare sospeso in aria davanti a lei e l'oggetto obbedì. Poi l'Arcimaga ne visualizzò il simulacro sotto forma di polvere cristallina che si dissolveva e ordinò all'oggetto di smaterializzarsi. Ma questo continuò a galleggiare, immutato, nella luce azzurra. Ancora una volta Haramis cercò di demolirlo, ma quella cosa continuava a restare intera, con la stella che brillava al centro. «Vedi?» disse Iriane con una scrollata di spalle. «È l'emblema della Stella che gli infonde una magia resistente a tutto. Dovrai trovare un altro modo per disfartene e metterlo al sicuro.» Haramis afferrò l'esagono sospeso. «Forse il Maestro del Luogo del Sapere potrà darmi qualche suggerimento. Ma ora devo andare.» Le due donne, una alta, con i capelli neri e vestita di bianco, l'altra rotondetta e avvolta in luminosi abiti azzurri, si guardarono in silenzio. Poi Iriane prese le mani di Haramis, la fece chinare e le baciò la fronte. «Non dimenticarmi, cara Haramis, Arcimaga della Terra. Sarò sempre tua amica e sorella nel dovere. Se mai dovessi trovarti in una situazione disperata, chiamami e io farò ciò che potrò.» «Grazie per tutto quello che hai già fatto», rispose Haramis restituendole l'abbraccio. «Spero che ci incontreremo ancora in circostanze più felici.» Fece un passo indietro, mise il Fulcro sotto un braccio e con una mano afferrò il talismano. Poi, con un ultimo cenno del capo, svanì.
Iriane scosse la testa, sospirando. Chiamò Grigri e tornò a tavola, dove divise con l'animale quel che restava della crostata. Nella mente di Haramis risuonò il trillo musicale che annunciava il viaggio attraverso lo spazio, e per un attimo ai suoi occhi si presentò una scena che pareva scolpita in diamanti luccicanti... e che divenne subito reale. L'Arcimaga si trovò in una grande camera illuminata, avvolta nel silenzio. Voltandosi, scorse uno stagno cintato da un basso muro di marmo bianco; il pavimento sotto di lei era di piccole piastrelle di metallo azzurro. Dalla parte opposta rispetto alla palude c'era una scalinata di marmo che portava alla fonte della luce. Sullo scalone, immobili a due a due sugli opposti lati dei larghi scalini, c'era una fila di quelle che sembravano statue. I sindona. Haramis si avvicinò alla coppia più vicina. Erano di molto più alti di lei, ma a parte questo assomigliavano a donne e uomini umani, creati da uno scultore di talento. Sui corpi non vi era traccia di peli, pori o altre imperfezioni della pelle; erano lisci, di un uniforme color avorio che ricordava le ossa lucidate. Gli occhi scuri dei sindona erano come pietre incastonate e nelle pupille brillava quella scintilla dorata che Haramis associava sempre agli Scomparsi. I volti pallidi e imperturbabili erano ombreggiati da elaborati elmi a corona, con il visore sollevato. Gli elmi e tre cinture, due incrociate sul petto e una legata alla vita, erano le uniche cose che indossavano ed erano tempestati di piccole scaglie luccicanti con sfumature di azzurro, acquamarina e verde, e bordati da scaglie dorate che formavano eleganti greche. Haramis toccò una delle statue con il suo talismano e immediatamente le labbra scolpite si aprirono e l'essere parlò con una voce sonora che ricordava più il suono di uno strumento musicale che non il linguaggio umano. «Benvenuta al Luogo del Sapere, Arcimaga. Qual è il tuo desiderio?» «Consultare il Maestro», rispose Haramis. Il sindona annuì e alzò un braccio, indicando la cima dello scalone; ma, pur muovendosi, sembrò restare duro come pietra e Haramis rimase estasiata dall'ingegnosità di coloro che li avevano creati. «Il Maestro ti attende nel giardino superiore, Arcimaga. Prego...» «Grazie», rispose e cominciò a salire piano i larghi gradini, studiando quegli esseri inumani. C'era una sottile differenza nei lineamenti di ognuno; non erano semplici macchine e neppure creature di carne, ma qualcosa di completamente diverso.
«Perché siete stati creati?» chiese. «Per servire», risposero dozzine di voci gentili e il suono fu dolce e profondo come l'accordo di una grande orchestra. «Noi siamo le sentinelle, i messaggeri e i portatori. Alcuni di noi istruiscono, altri consolano e altri tolgono la vita come decretato dal Pronunciamento Finale.» «Voi uccidete?» «Alcune sentinelle hanno questa capacità.» «Buon Dio!» mormorò Haramis allungando il passo, mentre nuovi e inquietanti pensieri si affollavano nella sua mente come farfalle multicolori. Quelle strane creature avrebbero potuto diventare sue alleate contro il male di Orogastus? «Fummo creati per opporci agli Uomini della Stella». Sembrava che il sindona le avesse letto nel pensiero. «La maggior parte di noi perirono nelle ere remote in cui per la prima volta li combattemmo. I sindona che sopravvissero difendono il Luogo del Sapere.» Haramis si fermò di colpo, mentre un'idea completamente diversa prendeva forma nella sua mente. «E mi seguireste se vi chiedessi di difendere ancora una volta il mondo dalla minaccia dell'ultimo Uomo della Stella?» «Solo il Collegio degli Arcimaghi al completo potrebbe incaricarci di un nuovo compito», sospirò l'immobile sentinella. L'idea di Haramis moriva ancor prima di nascere e con essa la speranza che aveva fatto fiorire. Il Collegio al completo? Ma se erano tutti morti da un pezzo! Giunse infine in un'area aperta, inondata da una brillantezza diffusa, dove sentieri bianchi bordeggiavano lussureggianti aiuole, arbusti in fiore e delicati alberi ornamentali. Qua e là, al centro di prati dall'erba bassa e curata, c'erano piccoli stagni simili a gioielli, da cui si dipartivano dolci ruscelletti attraversati da squisiti ponticelli di marmo. Nel verde erano sistemate delle panchine di pietra bianca, piccole grotte ombrose circondate da fiori, delicati padiglioni e arbusti che sostenevano tralicci carichi di frutti. Uno di quei sentieri sembrò attirare Haramis, e lei lo seguì fino a un delizioso belvedere sormontato da un tetto a cupola sostenuto da aggraziate colonne, attorno al quale fiorivano cespugli di fiori bianchi, rosa e rossi, che riempivano l'aria di una dolce fragranza. Ma non vi erano insetti alla ricerca del nettare, né uccelli che cantassero tra gli alberi, e neppure piccoli animali che si aggirassero furtivi nell'erba. Quel paesaggio era silenzioso in modo soprannaturale, a parte il fruscio delle foglie scosse dalla brezza e il mormorio dei torrentelli. Haramis sol-
levò lo sguardo al cielo abbagliante e non vide nuvole... e nemmeno un sole. Di colpo ricordò che Iriane le aveva detto che il Luogo del Sapere si trovava sottoterra... «È possibile che sia vero?» si chiese e si chinò a esaminare un'aiuola di fiori dai mille colori e non ne riconobbe nessuno. Anche la forma degli alberi le era sconosciuta e i prati avevano un'erba di aspetto esotico, sottilissima, folta ed elastica come un tappeto. Ogni singolo filo aveva il bordo arrotondato... «Salute a te, Figlia del Triplice.» Il suono di quella voce dall'intonazione umana fece trasalire Haramis; sollevò gli occhi dall'aiuola e vide una donna che veniva verso di lei da uno dei padiglioni. Una donna? No, non proprio, anche se aveva una statura normale e indossava un abito trasparente color pastello. Le braccia e il viso risplendevano dell'inumano bianco avorio, e la testa era incorniciata da una calotta dorata scolpita a somiglianza di un'acconciatura corta e riccioluta. Anche lei, come le nobili sentinelle, era un sindona. «Io sono il Maestro», disse sorridendo, anche se i lineamenti rimasero rigidi come pietra. «Sono al tuo servizio, Arcimaga Haramis. Se vuoi accompagnarmi a quel belvedere laggiù, potremo sedere all'ombra e tu potrai rivolgermi tutte le domande che vorrai.» Haramis la seguì lungo il sentiero. All'interno del padiglione c'erano due sedie di vimini con cuscini di velluto rosso e un tavolo di marmo bianco, sul quale erano posati una brocca piena di un liquido rosato e un bicchiere pieno a metà di cubetti di ghiaccio. Il Maestro le fece cenno di sedersi, versò la bevanda sul ghiaccio e porse a Haramis il bicchiere tintinnante. «Forse troverai strano questo modo di servire il succo di frutta, ma i nostri antichi padroni, gli Scomparsi, lo apprezzavano molto.» «Ti ringrazio per la tua cortesia, Maestro», disse Haramis e sorseggiò la bevanda. La sensazione del ghiaccio sulle labbra, unita a quella del succo gelato, era meravigliosamente rinfrescante. Un pensiero curioso e futile si affacciò alla sua mente: quando fosse tornata a casa, sul Monte Brom, avrebbe dovuto cercare tra i macchinari nella caverna un marchingegno che producesse il ghiaccio... Si sforzò di tornare al presente, e guardando il viso calmo del Maestro cominciò a interrogarlo. «È vero che tu e quelli come te foste creati dagli Scomparsi e che non siete davvero vivi?» «Siamo stati creati dai membri originari del Collegio degli Arcimaghi.
Viviamo, sì, ma la nostra vita è del tutto diversa da coloro che hanno un'anima, come gli umani e il Popolo. Noi non ci riproduciamo e quando moriamo il nostro spirito si fonde con quelli di noi che ancora vivono. Io sono l'unico Maestro ancora in vita, ma dentro di me dimorano gli spiriti di duecento Maestri meno longevi. Quando morirò, dovrò passare in una sentinella o in un portatore, o un messaggero o un consolatore, e condividere anche il suo compito. Sarà così fino a quando rimarrà un solo sindona. Alla sua morte saremo estinti, come l'ultima brace di un grande fuoco che alla fine diventa cenere.» «Quante... quante sentinelle restano?» «Trecentoventuno. E ci sono diciassette servitori, dodici portatori, cinque messaggeri e due consolatori. Ma questi ultimi risiedono con l'Arcimago del Firmamento e senza il suo permesso non possono assistere coloro che vivono sulla terra o nel mare.» «Questo Arcimago del Firmamento», chiese Haramis molto interessata, «che cosa puoi dirmi di lui? La mia amica Arcimaga del Mare mi ha detto solo che si chiama Denby, e che è un personaggio solitario, che s'interessa poco degli affari terreni. Eppure a me sembra che dovere di un vero Arcimago sia quello di proteggere e consigliare l'umanità. Se lo cercassi, mi aiuterebbe?» «Non lo so. Non posso dirti nulla di lui senza la sua espressa autorizzazione... e lui non me la concede. E non è nemmeno disposto, al momento, a farsi coinvolgere negli affari della terra o del mare. O almeno così dice.» Haramis scoccò un'occhiata penetrante al Maestro. «Glielo hai chiesto ora, vero?» «Sì.» Haramis era furente: un'altra speranza che se ne andava! Ma non c'era dunque nessuno disposto a unirsi a lei per opporsi a Orogastus? «C'è», rispose inaspettatamente il Maestro. «Umani e Popolo, sindona e Arcimaghi, le piante e gli animali del mondo, l'aria, l'acqua, le rocce e le stelle del firmamento... tutti risponderanno alla tua richiesta di aiuto se la formulerai nel modo corretto e al momento giusto.» «Tu sei in grado d'insegnarmi come richiedere questo appoggio?» «Mi spiace, si tratta di una conoscenza che puoi scoprire tu sola. È il tuo talismano che deve illuminarti.» «Capisco.» Haramis si sentiva non poco esasperata, ma continuò con le domande: «Dimmi, ti prego: Orogastus è avvantaggiato dal fatto di possedere due talismani dello Scettro del Potere mentre io ne controllo uno so-
lo?» «Orogastus non ha un privilegio... se non nelle sue doti naturali.» «Vuoi forse dire che è più bravo di me?» esclamò Haramis che non si aspettava quella risposta. «Non più bravo: solo più saggio e più esperto. E i suoi processi mentali sono più freddi e più logici a causa della sua devozione alle Potenze Oscure. Ma tu, Arcimaga della Terra, hai un potenziale molto più grande, perché tu sei una Figlia del Triplice.» «Le mie sorelle... ma i loro fiori sono diventati rosso sangue.» «Quando i loro amuleti conterranno ancora il Giglio Nero, saranno di nuovo capaci di atti grandiosi e privi di egoismo. E potranno riunirsi a te come Figlie del Triplice... i Petali del Giglio Vivente. Fino ad allora sono relegate nella massa dei non adepti.» Haramis annuì. «E così i poteri magici di Orogastus e miei sono sostanzialmente alla pari?» «Non è proprio così. Ma con due parti dello Scettro Trilobato fedeli alla Stella e una sola al Fiore, il mondo sarà sempre in squilibrio, con suo grande pericolo... fino a quando i due talismani che Orogastus ha strappato con l'inganno non gli verranno tolti e i Tre Petali del Giglio Vivente non si uniranno per ritorcere contro di lui le sue Potenze Oscure.» «Ma in che modo possiamo fare questo?» «Purtroppo non sono in grado di consigliarti perché il modo dipende troppo dal semplice caso. Ma sospetto che il compimento di questa impresa non abbia a che fare con la magia superiore ma con qualche azione molto più umana.» «Non puoi proprio aiutarmi a scoprire il modo migliore per sconfiggere Orogastus?» l'implorò Haramis. «Non posso... convertirlo distogliendolo in qualche modo dalle Potenze Oscure?» «L'amore è permesso», fu l'enigmatica risposta del Maestro. «La devozione no. In quanto alla conversione, non ho informazioni. Lui appartiene alla Stella e i suoi predecessori furono incrollabili fino alla morte nella loro malvagia fede. Non conosco il cuore di Orogastus.» «Nemmeno io», mormorò Haramis. «Ma se è per questo, che Dio mi aiuti, non conosco neppure il mio!» Scacciò con decisione la pericolosa cappa di autocommiserazione che minacciava di distoglierla dal suo scopo e tornò a essere calma e pratica. «Maestro, so che quando me ne andrò da qui mia sorella Anigel chiederà il mio aiuto per difendere il suo paese contro i malvagi invasori. Ho già scoperto che una grande flotta di navi da
guerra farà presto vela da Rakturn. Orogastus e re Ledavardis intendono porre sotto assedio la capitale settentrionale del regno di Laboruwenda. Ho avvertito mia sorella Anigel del pericolo e lei mi ha pregato di concederle l'aiuto della mia magia. È saggio che io mi rechi subito da lei o dovrei invece concentrare tutta me stessa sul problema di Orogastus e dei talismani?» «La tua più immediata preoccupazione», rispose il sindona, «non è Anigel, ma l'altra tua sorella, Kadiya, che è venuta qui qualche giorno addietro a consultarmi circa un modo per impedire ad Anigel di cedere il suo talismano. Quando le ho detto che il riscatto per Antar sarebbe di sicuro stato pagato, Kadiya era fuori di sé dalla rabbia. Le ho consigliato di riconciliarsi con Anigel e di mettersi al tuo servizio. Ma Kadiya ha rifiutato perentoriamente entrambi i consigli. In questo momento è in viaggio verso un villaggio degli aborigeni sul corso superiore del Mutar. Quando sarà arrivata, cercherà di raccogliere attorno a sé i coraggiosi piccoli Uisgu dell'Inferno Spinoso e della Palude Dorata. Inoltre intende convincere gli Uisgu a inviare una Chiamata anche ai Nyssomu, ai Wyvilo e ai Glismak... e spera addirittura di riuscire ad arruolare alla sua causa anche gli abominevoli Skritek. Quando avrà radunato una grande orda di Popolo, la Signora degli Occhi vuole tentare la conquista di Ruwenda per trasformarla in una patria inviolabile per gli aborigeni.» «Farebbe la guerra agli abitanti umani del paese?» Haramis era sconvolta. «Oh, no! Non quando i Due Troni devono soccorrere Var da una parte e difendersi al tempo stesso contro Raktum e Tuzamen...» «Kadiya ritiene che sarà proprio questa situazione d'instabilità ad accrescere le sue possibilità di vittoria.» «Oh, quella stupida testa calda... Immagino che dovrò cercare di farle tornare un po' di buonsenso. E poi vedere che cosa posso fare per aiutare Anigel e Antar. In seguito avrò tempo di occuparmi di Orogastus...» «Arcimaga, tu continui a non capire! Non puoi fare nulla per sconfiggere l'Uomo della Stella se Anigel e Kadiya non si schiereranno entrambe e senza riserve al tuo fianco.» «Per il Fiore, avrei dovuto saperlo!» Haramis strinse i pugni e abbassò la testa. Il cappuccio del mantello nascose il viso e l'angoscia della frustrazione che la sommergeva. Loro erano Tre, erano per sempre Uno. Né il talismano né i suoi nuovi poteri di Arcimaga avrebbero conquistato la Stella... ma solo il Giglio Nero Vivente.
Accantonò le proprie emozioni e incontrò di nuovo lo sguardo paziente e inumano del Maestro. «Grazie. Ora so che cosa devo fare. Andrò subito da Kadiya.» Si alzò dalla sedia e in quel mentre l'oggetto esagonale chiamato Fulcro cadde sul pavimento di marmo del belvedere. Se n'era completamente dimenticata. Raccogliendolo, disse: «Tu sai certo che cos'è. Sai dirmi se è possibile distruggerlo?» «Tu non potresti farlo. E neppure i sindona. Solo il Consiglio della Stella può farlo o il Collegio degli Arcimaghi al completo.» Di nuovo uno stallo! «Allora», riprese in tono cupo, «dimmi qual è la cosa migliore da fare in modo che Orogastus non possa più usarlo per sfuggire alla punizione per i suoi crimini.» Per la prima volta il Maestro esitò. «Se tu lo mettessi in fondo al mare o lo gettassi in un vulcano attivo o lo buttassi nel crepaccio di un ghiacciaio, allora chi fosse attirato verso di esso dal contraccolpo della magia morirebbe invece di essere risparmiato.» Haramis sentì un nodo in gola. «Avevo sperato... Tu conosci un posto dove potrei mettere il Fulcro e imprigionare Orogastus vivo? Forse qui, in questa fortezza di grande magia, dove le sentinelle potrebbero impedire ai suoi accoliti di salvarlo di nuovo.» Ancora una volta il Maestro esitò, poi disse: «C'è un unico posto che potrebbe servire allo scopo. Seguimi». S'incamminò a passo rapido lungo uno dei sentieri, e Haramis fu costretta a seguire il sindona quasi di corsa, con il Fulcro stretto sotto un braccio. Arrivarono a un boschetto di salici piangenti sotto i quali c'era un giardino roccioso in cui crescevano piante esotiche dai fiori strani e dai colori incredibilmente vividi, quasi luminosi in quell'ombra verde. Dall'altra parte rispetto al giardino c'era un buco nero nel terreno, circondato da un cerchio di grosse pietre bianche. Il Maestro lo indicò. «Questo è l'Abisso della Prigionia. L'unico ingresso è attraverso un ripidissimo passaggio sotterraneo con le pareti scivolose come erba e permeato della più potente magia del Luogo del Sapere. Durante la guerra tra gli Uomini della Stella e gli Scomparsi, alcuni prigionieri vennero rinchiusi dal Collegio degli Arcimaghi nella caverna alla base del passaggio, in attesa del giudizio di clemenza o di morte per mano delle sentinelle del Pronunciamento Finale.» «Mi sembra perfetto!» ansimò Haramis. «E terrebbe rinchiuso Orogastus?»
«Se venisse privato dei potenti talismani sì. Potrebbe sopravvivere indefinitamente nell'Abisso della Prigionia sotto la nostra sorveglianza.» «Ispezionerò il posto», decise Haramis, «e se è adatto come dici, lascerò lì il Fulcro.» Il Maestro annuì. «Hai altre domande per me, Arcimaga?» «Una sola e sto cominciando a disperare di avere una risposta», disse Haramis con un sorriso mesto. «È la vera magia o qualche arcana scienza che conferisce potere al Giglio Nero e allo Scettro Trilobato?» «È la magia.» «Ah... e che cos'è la magia?» «Ciò che conferisce verità e bellezza alla realtà e lega insieme l'universo fisico e quello mentale.» «Ci... rifletterò», disse Haramis. Appoggiò una mano sul petto in modo che toccasse la bacchetta del Cerchio dalle Tre Ali che portava al collo legato a una catenella di platino. Tra le minuscole ali d'argento, l'amuleto d'ambra con il suo Fiore nero brillava luminoso. «Non ho altre domande per te, ora, Maestro. Grazie per avermi aiutata.» Il sindona le rivolse un inchino formale, poi si voltò e s'inoltrò tra gli alberi senza aggiungere altro. Haramis si concentrò sul talismano: Portami in fondo all'Abisso della Prigionia. Suonò il campanellino, per un attimo si formò l'ormai familiare immagine cristallina, che subito si tramutò in realtà. Si trovava in una vasta caverna, molto calda e umida. Una parte del tetto era costituita da solida roccia da cui pendevano stalattiti gocciolanti; il resto del soffitto era un vuoto nero, al centro del quale pareva brillare una minuscola stella. Haramis capì subito che si trattava del ripido passaggio che portava alla superficie e che il puntolino di luce indicava la lontanissima apertura superiore dell'Abisso. Il posto era illuminato da un lucore tremolante rosso scuro, che si riversava da una spaccatura. Haramis si avvicinò al crepaccio e guardò: vide una caverna confinante, molto più piccola e profonda, nella quale scorreva un fiume di lava incandescente. Si ritrasse e fece una breve esplorazione di tutto l'Abisso, scoprendo molte polle d'acqua, curiose formazioni di rocce e anche i resti di un'antica occupazione umana: cerchi di pietre annerite che erano servite per un fuoco, orci di argilla rotti, piatti, una lanterna a olio e un decrepito volume che si ridusse in polvere non appena lo toccò. E su una parete, la più liscia, disegnata in atto di sfida con un rametto carbonizzato, una stella a molte punte.
Non restavano altre tracce di quei prigionieri di dodicimila anni prima. Qualcuno di loro aveva terminato lì la sua vita? Haramis lasciò vagare la Vista e vide che la camera di detenzione era enorme, con molte alcove che recavano ancora tracce di occupazione umana, ma non c'erano ossa e neppure tombe. Nonostante questo, l'Arcimaga offrì una preghiera per coloro che avevano vissuto e sofferto in quella terribile prigione, anche se avevano meritato quel destino; e mentre rifletteva su quegli antichi dolori, non poté fare a meno di ricordare i propri guai e allora, in piedi in quell'orribile Abisso, pregò per se stessa. «Signore, dammi la forza e la volontà che mi servono per sconfiggere Orogastus! Già una volta ho rischiato di soccombere a quell'uomo: fai che ora sia in grado di resistergli! Non posso fare a meno di amarlo eppure devo trovare un modo di annientare le sue malvagie ambizioni. Aiutami!» Ma quella preghiera le sembrò ben inutile cosa e non le diede sollievo. Nel profondo del suo cuore sapeva che c'erano solo due modi per sconfiggere il Mago: con la morte o con l'esilio permanente dal mondo. Haramis si rese conto che, come Arcimaga, non sarebbe stata in grado di ucciderlo. Poteva bandirlo in quel luogo orrendo, al confronto del quale l'Inaccessibile Kimilion pareva un paradiso? Due scene della sua gioventù le si presentarono alla mente: la visione di sua madre, la regina Kalanthe, trafitta da una spada, e il suo sangue che sgorgava ai piedi di Orogastus; e la visione di suo padre, re Kreyn, fatto a pezzi nella sua stessa sala del trono per ordine di quello stesso Mago. Riuscirei a esiliare qui Orogastus? «Sì», rispose ad alta voce e, chinandosi, appoggiò il Fulcro sul pavimento della caverna. Poi strinse il talismano e gli ordinò di portarla da Kadiya. 22 Il gioco magico delle Noci Guerriere era arrivato al suo culmine. L'esercito di noci di blok dipinte di rosso del principe Tolivar aveva subito pesanti perdite nell'ultima battaglia, ma lui le incitava senza pietà a uno sforzo finale per raggiungere il tesoro. I battaglioni di noci di kifer dipinte di azzurro, che difendevano la meta, arrivarono al galoppo sulle microscopiche zampette, con le lance in resta e i minuscoli visi con le bocche spalancate in un urlo silenzioso. Tolo fece disporre a cuneo le sue truppe, con la punta rivolta verso il tesoro, perché s'imponeva una manovra disperata se
voleva che le sue noci rosse non venissero sconfitte una volta di più. «Avanti, uomini!» gridò il principe battendo un pugno, disteso a pancia in giù sul tappeto. Le noci di blok si scontrarono con le linee di kifer; silenziosi sbuffi di fumo segnalarono gli scontri individuali. I guerrieri rossi, colpiti dalle lance del nemico azzurro, caddero scomparendo: le gambette si ritrassero, i visi svanirono e i piccoli corpi rotolarono inermi come palline quando la loro vita magica ebbe termine. Anche i soldati azzurri cadevano, ma la carneficina maggiore era tra le noci di blok. «Non fermatevi!» gridò il principe al suo esercito decimato. «Non indietreggiate! Dovete prendere il tesoro adesso, o tutto è perduto!» Gli eroici superstiti fecero un tentativo. Il cuneo rosso si riformò, anche se ormai era completamente circondato dalla massa di azzurri kifer, e avanzò, diventando sempre più piccolo con la perdita dei guerrieri che proteggevano i fianchi. Lentamente il cuneo si avvicinò alla cittadella costituita dallo sgabello a tre zampe vicino al camino, dove il tesoro brillava nell'ombra. Erano rimaste vive meno di venti noci di blok! Quelle che guidavano l'assalto, incitate da Tolo, raddoppiarono lo sforzo... e tra le noci azzurre si aprì un minuscolo varco. «Ora!» urlò il principe. Le sue truppe decimate sciamarono in avanti, disperdendo i nemici e uccidendo quelli che cercavano di fermarli. Le noci rosse della retroguardia persero la vita, ma il cuneo di combattenti, sempre più sparuto, continuò ad avanzare coraggiosamente: il tesoro non distava più di due spanne. Dei cento soldati dell'esercito originario n'erano rimasti solo cinque. «Ce l'avete quasi fatta!» gridò Tolo. «Avanti! Avanti!» Altre due noci rosse caddero; il trio di superstiti prese a roteare freneticamente le lance, e i nemici caddero, tra lampi e sbuffi di fumo che accecavano Tolo. Poi... oh, no! Un blok cadde, poi ne cadde un secondo. L'ultimo solitario eroe si tuffò in avanti... e la sua lancia toccò il tesoro. Immediatamente tutte le noci azzurre resero la vita in un frenetico scoppiettio di scintille, rotolando impotenti e senza gambe sul tappeto. Il blok vincitore brillò per un attimo come un carbone ardente, appoggiato all'ovoide della noce di rusa che costituiva il tesoro, e l'enorme noce di rusa dorata venne arrostita all'istante. Il guscio si spezzò e la polpa cotta e fumante si riversò fuori, pronta da mangiare. Il minuscolo viso dell'unico blok sopravvissuto sorrise al suo comandante umano e poi anche questa noce spirò. «Abbiamo vinto!» cantilenò Tolo, afferrando una manciata del tesoro
mangereccio. «Abbiamo vinto finalmente!» ripeté, mangiando la polpa con gusto. «Che ne pensi, Gialla? E tu avevi detto che non ci sarei mai riuscito!» La Voce Gialla, che stava rattoppando uno stivale bianco di Orogastus e al tempo stesso sorvegliava il principe, non rispose. Il Maestro aveva ordinato che il ragazzino non venisse mai lasciato solo, nel caso gli insidiosi raktumiani si fossero messi in testa d'impadronirsi di Tolo e usarlo per qualche inganno. Le tre Voci erano anche stati avvertiti di provvedere alla propria sicurezza, girando sempre armati e controllando il cibo alla ricerca di veleni per tutto il tempo che avrebbero trascorso al palazzo reale di Frangine. Il tradimento era una possibilità molto remota, ma nessuno, neppure il Maestro stesso, sarebbe stato del tutto sicuro fino a quando non fosse arrivato l'esercito di Tuzamen con il rifornimento di armi magiche e non fosse cominciata la guerra contro Laboruwenda. Il giovane re Ledavardis si era dimostrato meno malleabile di quanto aveva sperato il Signore di Tuzamen: non era affatto il sempliciotto arrendevole che era parso mentre era sotto l'influenza della malvagia nonna; al contrario, si era rivelato un vero piantagrane, e di recente aveva addirittura insistito per avere il pieno controllo delle forze raktumiane nell'imminente conflitto, invece di affidarle al generale tuzameno Zokumonus, come aveva insistentemente suggerito Orogastus. Urgeva trovare qualche stratagemma per rimettere al suo posto Ledavardis. Che sollievo sarebbe stato abbandonare finalmente quel covo d'insolenti tagliagole... «È stata una bella guerra, vero, Gialla?» domandò il principe Tolivar. «Se fosse stata una guerra vera, invece che uno stupido gioco con le noci», ribatté la Voce con una smorfia sprezzante, «il risultato sarebbe stato un disastro totale. Tutti i tuoi uomini, tranne quell'unico vincitore, sono morti.» Il principe raccolse le noci magiche in un sacchetto. «Che ne sai tu? Il Maestro ha creato le Noci Guerriere per me, perché vincere battaglie è un compito per un principe, non per un...» Tolo s'interruppe, prudentemente, rivolgendo uno sguardo infuriato al robusto accolito con la testa rasata vestito di una spiegazzata tunica color zafferano. «Se vuoi chiamare quella misera prestazione vittoria», rispose sprezzante la Voce, infilando il grosso ago nella tomaia dello stivale. Il ragazzino lo guardò con un sorrisetto malevolo. «Siete gelosi: ecco perché tu e gli altri vi prendete gioco di me.»
«Non essere sciocco...» La Voce Gialla strinse le labbra e osservò il suo lavoro corrugando la fronte. «Sì, siete gelosi! Siete gelosi tutti e tre! Non riuscite a mandare giù il fatto che il Maestro abbia scelto me come suo erede e non uno di voi!» Tolo si alzò in piedi, si spolverò i calzoni di stoffa scozzese e si raddrizzò la tunica. «Portami subito da Portolanus.» «È occupato in biblioteca e non ha tempo da perdere con un ragazzino viziato e piagnucoloso.» «Portami da lui», ripeté Tolo a voce bassa e calma. Con un sospiro da martire, la Voce Gialla mise da parte il lavoro e, prendendo il principe per mano, lo portò fuori della grande stanza. La biblioteca era al capo opposto del palazzo di Frangine e i due dovettero camminare per quasi una lega attraverso lunghi corridoi decorati e sale vuote. A ogni svolta si trovavano davanti altezzosi pirati e le loro stridule mogli negli sgargianti abiti di corte che oziavano, spettegolavano o attendevano nervosi un'udienza con qualche funzionario reale; solo pochi avevano davvero qualcosa da fare. Valletti arroganti spolveravano mobili e cornici dorate, spazzavano ricchi tappeti portati come bottino dalle Isole di Engi, riempivano di legna i camini, rabboccavano l'olio nelle lampade e correvano qua e là intenti alle loro mansioni. Guardie robuste sorvegliavano questa variegata umanità di palazzo, con sguardi accigliati e le alabarde pronte. Finalmente, dopo aver attraversato un grande salone pieno di sculture varoniane e arazzi zinoriani tempestati di perle, i due entrarono in un semplice corridoio di pietra che terminava davanti a una grande porta di legno profilata con lastre di ferro, sorvegliata da un fante raktumiano. Accanto a lui, seduta su uno sgabello e intenta a consultare un decrepito volume, c'era la piccola Voce Nera. «Il principe Tolivar vorrebbe parlare con il Maestro», esordì la Voce Gialla in tono formale. «Lord Osorkon arriverà tra pochissimo», rispose la Voce Nera. «Il ragazzo dovrà fare in fretta.» Tolo lo guardò dritto negli occhi. «Non ci metterò molto.» Poi si rivolse alla Voce Gialla: «Tu puoi aspettarmi qui». La Voce Gialla s'inchinò con ironico servilismo e aprì le pesanti porte per far passare il principe. La biblioteca era una stanza fredda, spettrale, con un soffitto a volta in cui si aprivano lucernari dai vetri sporchi. Scalette a chiocciola polverose e
piene di ragnatele di lingit permettevano l'accesso a tre gallerie cariche di scaffali di libri, che giravano tutt'attorno alle pareti; altri ripiani occupavano il centro della stanza, mentre lungo il perimetro erano allineati tavoli e panche ricoperti della polvere di anni: tutti, tranne uno. E sull'unica scrivania pulita splendeva una delle lampade magiche del Maestro, che dava luce alla penombra della biblioteca, per il resto illuminata solo dai deboli raggi del sole pomeridiano che entravano dalle strette finestre poste a ovest. La grande tempesta di neve si era finalmente placata. Orogastus stava riportando negli scaffali tre grandi tomi rilegati in cuoio. Quando vide Tolo sorrise e fece scivolare i libri al proprio posto. «Bene, ragazzo! Sei venuto ad aiutarmi a scovare le poche pepite di utile scienza magica in questo covo di vart? Dall'incuria e dalla sporcizia è facile capire che ai pirati interessa poco l'erudizione. Ma nonostante il loro disinteresse, potrebbero comunque aver rubato qualcosa di utile, quando ancora si prendevano la briga di appropriarsi dei libri, così mi sono sentito in dovere di esaminare la biblioteca del palazzo, mentre eravamo qui a Frangine. Finora ho scoperto solo sette volumi che vale la pena di riportare a Castel Tenebroso, e nessuno ha un valore speciale. Ti piacerebbe vedere come agisco? Ho usato l'Occhio di Fuoco Trilobato come bacchetta da rabdomante. Sai che cos'è la rabdomanzia?» «La scoperta di acqua o minerali preziosi grazie alla magia», rispose Tolo educatamente. «Giusto... fino a un certo punto.» L'abito in origine bianco del Mago era diventato nero per lo sporco e nei capelli color platino si scorgevano fili di ragnatele e polvere. Orogastus fece cenno al bambino di seguirlo vicino a uno scaffale, poi estrasse il talismano dal fodero e lo puntò verso le file di libri decrepiti. «Ho ordinato all'Occhio di Fuoco Trilobato di segnalarmi tutti i libri che parlino di magia... in questo modo.» Fece scorrere la punta smussata della spada lungo la fila di libri e un libretto molto piccolo con una logora copertina di cuoio rosso e un volume molto più grande con strisce di ottone annerito sulla copertina s'illuminarono di colpo di un chiarore verdastro. «Hai visto?» Rinfoderò la spada e prese tra le mani l'enorme tomo. «Tu porta al tavolo quello rosso e vediamo che cosa ci offrono le Potenze Oscure.» Obbediente, Tolo prese il libretto rosso e seguì il Mago. Orogastus spolverò i due libri con uno straccio spiegazzato, poi estrasse di nuovo il talismano e, aprendo il grande volume, posò la lama smussata sul frontespizio
e chiuse gli occhi. «O talismano, rivelami con un breve riassunto il contenuto di questo tomo.» Tolo non poté fare a meno di trasalire sorpreso quando una strana voce intonò: Qui sono contenuti gli incantesimi della strega sobraniana Acha Tulume, trovati fra il bottino di una nave della stessa nazionalità ottantasette anni fa. Il contenuto del libro, redatto in lingua sobraniana, è in gran parte costituito da banalità sciamaniche. Gli incantesimi più importanti servono per controllare le infestazioni di zach nei mantelli di piume, per curare il prurito delle ascelle, assicurare una buona caccia e dissuadere gli amanti respinti o le spose ripudiate dal vendicarsi sui loro precedenti compagni. Orogastus sbuffò e chiuse la copertina con un colpo secco. «Assolutamente inutile, a meno che uno non voglia mettere su bottega nella Terra dei Barbari Piumati! Adesso proviamo con il tuo libro, Tolo. Forse, nonostante le dimensioni ridotte, sarà un tesoro... Conosci il detto: 'È il pacco più piccolo che contiene il dono più prezioso'?» «Sì, Maestro.» Orogastus aprì la copertina a brandelli, sulla quale si vedevano ancora delle lettere dorate molto sbiadite. «La lingua è quella che parla la maggior parte degli umani, ma la grafia è arcaica: questo significa che si tratta di un libro davvero molto antico... Storia della guerra... Chissà a quale guerra si riferisce?» Posò dolcemente il talismano sul frontespizio e come prima gli chiese un riassunto del contenuto del libro. Qui è contenuta una storia del grande conflitto magico tra gli Scomparsi e gli Uomini della Stella, scritta circa novecento anni dopo i fatti dal discendente di una famiglia di organizzatori di dati che sopravvisse al Ghiaccio Vincitore e visse nelle Isole Fumose... «Basta!» esclamò il Mago; poi, con gli occhi splendenti per l'eccitazione, prese tra le mani il libro e girò le fragili pagine con la più grande cura. «Sì! Oh, sì! E rarità tra le rarità, è un libro scritto proprio nella terra di Raktum, prima che questo disgraziato popolo intraprendesse la carriera di pirati. Questo è davvero un tesoro, Tolo; devo studiarlo con la più grande attenzione!» Il piccolo principe, che ce l'aveva messa tutta per nascondere la noia, ne approfittò per intervenire: «Anch'io oggi ho vinto un tesoro, Maestro, nel gioco delle Noci Guerriere che hai costruito per me. È stato un grande trionfo!»
Orogastus sorrise con indulgenza mentre esaminava l'indice sbiadito del libretto rosso. «Prima, con i miei poteri limitati, mi sarebbe stato impossibile costruire un simile gioco, ma i due talismani mi hanno insegnato in un batter d'occhio come fare! Certo, è solo un giocattolo per bambini.» «La Voce Gialla si è fatto beffe della mia vittoria», proseguì Tolo con fare piagnucoloso. «Maestro, lui e le altre Voci sono gelosi di me. Quando tu non ci sei, mi parlano in modo sgarbato, come a una persona di basso rango, invece di trattarmi come un principe. Sono arrabbiati perché hai fatto di me il tuo erede. Sono sicuro che pensavano che il prossimo Signore di Tuzamen sarebbe stato uno di loro.» Orogastus scoppiò in una risata e chiuse il libro. «Oh, ma davvero? E ti hanno ferito in qualche modo, ragazzo? A parte negarti la deferenza dovuta alla tua regale nascita?» Tolo distolse lo sguardo, e l'affronto alla sua dignità si trasformò in broncio. «No, ma...» «E tu, come tratti i miei accoliti?» chiese il Mago con voce improvvisamente seria. «Sei gentile, come deve sempre essere un vero principe nei confronti degli inferiori, o sei altezzoso e arrogante? Ti rendi conto che le tre Voci sono i miei amici più leali? Mi hanno salvato dall'esilio nel Ghiacciaio Eterno perché le loro menti erano sensibili quanto bastava per udire il mio richiamo e da allora mi hanno sempre servito fedelmente. Molto del mio successo sarebbe stato impossibile senza di loro.» Il principe guardò il Mago con espressione innocente. «Ma ora che possiedi i due talismani, il loro aiuto non ti sarà più così necessario. Li ho sentiti parlare tra di loro, quando credevano che non li ascoltassi.» Orogastus corrugò la fronte per un istante, ma poi il suo viso si schiarì di nuovo e il Mago rise. «Tu non capisci gli adulti. Se vuoi compiacermi, tratta le Voci come cari fratelli maggiori; sii educato e gentile con loro e comportati senza arroganza. Allora vedrai che i loro modi verso di te cambieranno.» «Se lo dici tu, Maestro», sospirò Tolo. «Ma continuo a pensare...» «Obbedisci!» L'affabilità del Mago scomparve di colpo. «E adesso vai. Voglio che tu faccia un nuovo gioco. Chiedi alla Voce Gialla una buona mappa del mondo Occidentale e studiala per il resto del pomeriggio e questa sera. Presta particolare attenzione a Raktum e alla vicina costa del Labornok e rifletti su come potresti invadere i Due Troni se fossi a capo di un'armata pirata. Studia sodo. Ti farò chiamare domani e faremo insieme quel gioco.»
«Un'invasione!» Tolo era entusiasta. «Dev'essere divertente!» Orogastus agitò una mano, congedandolo, e il ragazzino, con un breve cenno del capo, se ne andò tutto allegro. Con un semplice tocco il Mago gli aprì la porta, poi, quando fu di nuovo solo, si sedette a riflettere. Permettere al piccolo principe di restare con lui era stata una decisione priva di logica, non soltanto affrettata, ma fors'anche pericolosa. E di ciò Orogastus si rendeva conto. Sulla nave, però, Tolivar gli era parso un bimbetto triste e smarrito, totalmente fuori posto accanto al suo robusto fratello maggiore e alla sorella, e poi sembrava che non gli importasse di essere separato dai suoi regali genitori. L'accenno di alone magico nel ragazzo e la chiara venerazione che aveva mostrato nei confronti di Orogastus anche con il suo travestimento da vecchio repellente avevano toccato un punto dimenticato e vulnerabile del Mago. Era dal suo primo incontro con Haramis che non si sentiva così commosso... così dominato dall'istinto. Nel triste e scontento principe, Orogastus aveva rivisto un altro bambino, rifiutato e abbandonato... un trovatello lacero, accolto senza slanci nella casa del venerabile Bondanus, che era il più grande mago del mondo conosciuto e Maestro della Stella di Castel Tenebroso, nella città costiera di Merika. Quel ragazzino derelitto, allevato da una prostituta ubriacona, coperto di stracci sporchi, si era nondimeno trasformato in un giovinetto robusto che si guadagnava da vivere come stalliere e guardiano di togar. Era sempre maltrattato e affamato, fino al giorno indimenticabile in cui la sua intelligenza e la sua informe ma potente aura medianica avevano attirato l'attenzione del Maestro della Stella di Tuzamen. Anche il bambino Orogastus aveva otto anni quand'era stato nominato apprendista del Mago. Bondanus era un mentore severo ma giusto; non aveva mai dimostrato amore nei confronti del suo giovane protetto e neppure affetto, ma aveva comunque messo in chiaro che Orogastus avrebbe ereditato tutti i suoi segreti magici e gli sarebbe succeduto come Signore di quella piccola e desolata nazione settentrionale. Orogastus divenne così il pupillo e al tempo stesso il servitore personale del vecchio Mago, lavorò e studiò con ingenuo entusiasmo, senza accorgersi che il suo maestro s'isolava sempre più dagli affari del suo paese, affidando il governo a un branco di signorotti assassini e voraci che trasformarono Tuzamen in una pletora di minuscoli feudi aggressivi uniti soltanto dal reciproco antagonismo. Mentre i contadini tuzameni vivevano nella più nera povertà e i mercanti fuggivano verso terre più prospere, il Signore passava i suoi ultimi anni di
vita meditando sull'antica filosofia della Stella di cui era stato un solitario seguace. Quando Bondanus si trovò infine sul letto di morte, lasciò in eredità al suo apprendista Castel Tenebroso (ormai quasi inabitabile), un piccolo tesoro di antichi apparecchi magici che il vecchio considerava di Poca importanza, e infine il più prezioso di tutti i suoi averi: un medaglione di platino a forma di stella dalle molte punte. Questo emblema, che Orogastus poté mettere al collo al culmine di una terrificante cerimonia d'iniziazione, aveva fatto del giovane un membro effettivo dell'antica Società della Stella. A quell'epoca Orogastus aveva ventotto anni: l'ordalia del rito lo lasciò con i capelli completamente bianchi. Il nuovo Signore di Tuzamen scoprì molto in fretta che i riottosi signorotti non intendevano accettarlo come sovrano; il defunto Bondanus li aveva ignorati troppo a lungo. Orogastus tentò di sottomettere il popolo con la magia, soprattutto ricorrendo all'evocazione delle tempeste, che erano la sua specialità, ma i baroni testardi si limitarono a barricarsi nelle loro rustiche fortezze, mentre la gente comune era troppo apatica, troppo provata dalle asperità e troppo povera per servire in qualche modo all'ambizioso Mago. Per tre anni Orogastus studiò la collezione di antiquati macchinari che Bondanus aveva sempre giudicato inutili, e decise che non lo erano affatto. Col tempo la sua fede nella magia esoterica, instabile (e spesso capricciosa) della Società della Stella venne soppiantata dalle più pratiche Potenze Oscure che rispondevano ai nomi di Aysee Lyne, Inturnal Bataree e Bahkup. Queste tre divinità governavano i macchinari miracolosi degli Scomparsi e, se invocate nel modo giusto, concedevano al loro unico adoratore la grazia di operare meraviglie di più pratica e immediata utilità rispetto ai segreti della Stella. La più importante di quelle macchine conteneva informazioni che portarono Orogastus a scoprire un altro deposito degli Scomparsi in una remota città in rovina vicina alle sorgenti del fiume Bianco, a ovest, nella terra dei Dorok. Là egli trovò armi magiche e altri congegni che avrebbero intimidito e riempito di stupore i sempliciotti. Riportato il prezioso bottino a Castel Tenebroso, Orogastus iniziò ancora una volta la campagna per farsi riconoscere Signore di Tuzamen. E ci sarebbe forse riuscito se il principe ereditario Voltrik di Labornok non avesse scelto proprio quel momento per fargli visita, cambiando la direzione della vita del Mago. Come Orogastus, Voltrik era un'anima irrequieta, frustrata dalla lunga
attesa della morte del vecchissimo zio al quale avrebbe dovuto succedere. Il principe ereditario suggerì a Orogastus di guardare oltre la misera e desolata Tuzamen, verso la Penisola che si trovava a sud: insieme potevano assicurarsi la conquista di un impero! E inoltre i saggi di Labornok erano a conoscenza di molte altre città abbandonate nelle quali il Mago poteva trovare altri di quei giocattoli magici che desiderava... Così Orogastus abbandonò la terra in cui era nato. Diciassette anni più tardi, come nuovo gran ministro di Stato di re Voltrik, partecipò all'invasione e alla conquista di Ruwenda... ma tutti i suoi piani gloriosi finirono in nulla a causa dell'interferenza delle tre giovani principesse di Ruwenda. Protette dal magico Giglio Nero, un amuleto ancor più antico della Stella, le tre gemelle partirono alla ricerca di tre magici talismani, che uniti insieme formavano il mortale Scettro del Potere, in grado di ritorcere contro Orogastus la sua stessa magia. Ma per qualche incomprensibile ragione, invece di venir incenerito dallo Scettro, il Mago era stato esiliato nella Terra del Ghiaccio e del Fuoco. «In che modo?» si chiese ora Orogastus, sfogliando distrattamente le fragili pagine del libretto rosso. «Come? Le principesse volevano distruggermi, il loro scopo era quello, lo so! Eppure non sono morto...» Senza rendersene conto, sfiorò il diadema d'argento che portava sulla fronte, il talismano adorno dei tre volti grotteschi chiamato il Mostro dalle Tre Teste. «Quale Dio sconosciuto ha avuto pietà di me e mi ha risparmiato, permettendomi di tornare al mondo e riprendere le redini della conquista che mi è stata negata tanto tempo fa? Signore di Tuzamen... sì, ora lo sono e la nazione che era lo zimbello di tutti ora gode invece di un moderato prestigio e di una modesta prosperità. Sto per mettere in atto il piano più grandioso, che culminerà con la conquista del mondo; posseggo due talismani magici e un giorno forse potrò averli tutti e tre, con l'illimitato potere che promettono! Ma qual è la risposta al mistero della mia sopravvivenza nel Kimilion?» Guarda nel libro. Orogastus trasalì e strinse una mano sull'elsa dell'Occhio di Fuoco Trilobato. Ma non era quel talismano ad aver parlato: la voce che aveva udito nella mente era nuova e senza dubbio veniva dalla corona della regina Anigel. Con dita tremanti, sfogliò le pagine fino a quando non scorse una singo-
la frase che brillava anche alla luce della sua lampada. «Fulcro...?» La strana parola gli balzò agli occhi e Orogastus si mise a leggere per parecchi minuti. Quando alla fine comprese, sollevò gli occhi e toccò il diadema. «Talismano! Mostrami questo meraviglioso Fulcro che ha preservato la mia vita e mi ha attirato nel Kimilion!» Nella sua mente comparve la visione di un esagono nero. Questo è il Grande Fulcro, creato dagli Uomini della Stella dodicimila anni fa per opporsi allo Scettro Trilobato del Potere. «Ah, ora ricordo!» gridò eccitato. «Mi parve che il mondo esplodesse quando lo Scettro del Potere mi colpì e pensai di essere morto, ma prima che i sensi mi abbandonassero percepii quella cosa! E mi ha salvato la vita, vero? Quando mi svegliai non la vidi, dov'era nascosta? Mi trascinerebbe di nuovo in salvo nella Terra del Ghiaccio e del Fuoco se l'Arcimaga Haramis usasse contro di me il potere del suo talismano?» No. Il Grande Fulcro è stato portato via dal Kimilion, dall'Arcimaga Iriane, che lo ha dato all'Arcimaga Haramis, che lo ha depositato nell'Abisso della Prigionia dietro suggerimento del Maestro sindona. Orogastus era senza parole. Che cosa voleva dire tutto questo? Un'altra Arcimaga? E i sindona... tutti i libri che aveva consultato affermavano che le miracolose statue viventi degli Scomparsi erano state distrutte nella guerra del Ghiaccio Vincitore. Continua a leggere, sospirò la voce nella sua mente. Orogastus abbassò gli occhi sulle pagine luminose del piccolo libro e lesse della sopravvivenza di alcuni membri del Collegio degli Arcimaghi, del Luogo del Sapere sotterraneo, con i guardiani sindona, situato nel lontano Lamarilu, a nord dell'Inferno Spinoso di Ruwenda... e anche del Fulcro. Si sentì gelare il sangue quando apprese dell'esistenza del luogo orribile in cui erano stati imprigionati gli antichi Uomini della Stella. Ed era lì che Haramis aveva nascosto il Fulcro... «Posso impadronirmene?» chiese al talismano. «Posso toglierlo dall'Abisso della Prigionia e nasconderlo al sicuro in qualche altro luogo?» Solo un Arcimago può entrare nel Luogo del Sapere senza essere invitato. E tale è l'antica magia che lo pervade, che anche il potere di due talismani non può contrastarla. Orogastus se ne uscì con un'imprecazione oscena all'indirizzo delle Po-
tenze Oscure. «Il Fulcro può essere distrutto in qualche altro modo?» chiese poi. Il Collegio degli Arcimaghi può distruggerlo, lavorando di concerto. Anche il Consiglio della Stella che lo ha creato può farlo. Ma il Consiglio non esiste più: tu sei l'unico Uomo della Stella e, siccome sei solo, non possiedi quel potere. «Se... se riuscissi a iniziare altri alla Società della Stella, in quanti dovremmo essere per distruggere il Fulcro?» Almeno tre. «Tre...» Orogastus trasse un profondo respiro e abbassò le spalle, detergendosi la fronte sudata con la manica dell'abito. «Tre», ripeté a bassa voce. Il libro rosso aveva perso la luminescenza magica. Per parecchio tempo il Mago lo fissò senza vederlo, sommerso da ricordi lontani. Ancora adesso, non riusciva a pensare alla sua iniziazione alla Stella senza rabbrividire, ma i vecchi libri e gli oggetti necessari alla cerimonia esistevano ancora. Orogastus non aveva pensato di portarli con sé quando aveva abbandonato Castel Tenebroso per accompagnare Voltrik; per ventisette anni erano rimasti nascosti al sicuro nel castello e quand'era tornato dal Kimilion li aveva trovati ancora intatti. Poteva creare altri Uomini della Stella! Iniziare le sue Voci! Ci sarebbe voluta una preparazione intensiva, perché la cerimonia era così orribile che novizi non preparati avrebbero potuto perdere la ragione o spaventarsi fino a morire. Ma queste Voci erano forti e intelligenti, molto più degne delle prime tre, morte per mano delle principesse. Quanto ci sarebbe voluto a prepararle? Una decina di giorni? Due...? Ma quella maledetta guerra avrebbe richiesto la sua attenzione molto prima! Non c'era tempo di tornare a Castel Tenebroso... Si rese conto che qualcuno stava bussando alla porta con insistenza crescente. Potente Bahkup! Si era completamente dimenticato dell'incontro con quel voltagabbana di nobile labornoko, Lord Osorkon. Il Mago fece un gesto e le grandi porte si spalancarono, lasciando entrare un uomo che indossava un'armatura nera lucida e una pesante cappa di pelo di raffin. L'elmo aperto era sormontato dall'immagine di un feroce looru con le ali aperte. Lo stesso stemma, ricamato in oro e cremisi, ornava il mantello. Nella mano guantata Osorkon teneva una spada alta quasi quanto lui. «Vi sentite così a disagio in mia presenza, Lord Osorkon?» commentò il
Mago con un sorriso. «È vero, non ci vediamo da dodici anni e anche allora non eravamo molto intimi. Ma i tempi sono cambiati e ora abbiamo un gran bisogno l'uno dell'altro.» Chiuse il piccolo libro rosso e fece cenno al labornoko di sedersi. Osorkon rinfoderò la spada, poi si tolse l'elmo e lo posò sul tavolo. «È di questi pirati che non mi fido, Mago! A ogni passo del tragitto dai moli al palazzo, i miei uomini e io siamo stati infastiditi da una folla di pezzenti che ci schernivano e ci tiravano palle di neve, e, cosa ancor peggiore, senza neppure un accenno di reazione da parte della nostra cosiddetta scorta di cavalieri pirati! Non siamo forse venuti qui dietro vostro espresso invito? Eppure, quando abbiamo messo piede in questo lurido buco di ladri, siamo stati trattati senza la minima cortesia, costretti ad aspettare per ore in una gelida anticamera, senza che ci venisse offerto un rinfresco e senza neppure l'invito a usufruire dei servizi!» Orogastus sorrise con comprensione e indicò con la mano. «Quella porticina, proprio in mezzo ai due pilastri.» «Non importa! Quell'acido bastardo di Jorot ha finalmente acconsentito a ricevere la nostra delegazione e ora i miei compagni Soratik, Vitar, Pomizel e Nunkaleyn stanno conferendo con l'ammiraglio e i suoi aiutanti per coordinare i tempi dell'invasione via mare e dell'assalto via terra. E io, come mi avete chiesto, sono venuto a incontrarvi.» Il Mago fece schioccare le dita e sulla tavola apparve una brocca di liquore di ilisso fumante con due tazze; la bevanda era accompagnata da una pagnotta calda, un piatto di salsicce calde grigliate, un barattolo di sottaceti e un vassoio di fette di pane di noci spalmate di formaggio fuso. «Permettetemi di fare ammenda della mancanza di ospitalità dei raktumiani», disse Orogastus. «Temo che i pirati siano dei dilettanti in fatto di diplomazia. Il semplice concetto di alleanza è estraneo alla loro cultura.» «Sono un branco di banditi arroganti, vorrete dire.» Osorkon si tolse i guanti di metallo, li lasciò cadere sul pavimento della biblioteca e si soffiò sulle mani, bluastre per il freddo. Trangugiò un sorso del liquore caldo e poi si servì dal buffet. «Comunque non capisco che bisogno c'era d'inserire anche i raktumiani nel nostro piano. Con i miei tremila uomini e il vostro esercito, più qualcuno di quei fuochi d'artificio soprannaturali che avete usato per noi quando invademmo Ruwenda, possiamo spazzare via i lealisti di Derorguila. Non serve coinvolgere questi insipienti bucanieri.» Orogastus prese un sottaceto e lo addentò; non aveva nessuna intenzione di ammettere che il suo esercito era composto di soli milleseicento uomini,
comandati da nove baroni la cui esperienza militare consisteva soprattutto in imboscate a ignari viandanti, furti di bestiame e scorrerie nei villaggi vicini. «Ci serve la flotta dei pirati per trasportare velocemente i miei uomini e le mie armi magiche», si affrettò a spiegare il Mago al suo ospite. «Le navi da guerra raktumiane impediranno a qualunque rinforzo di raggiungere Derorguila via mare; le catapulte infuocate neutralizzeranno i forti all'ingresso del porto nemico e gli ottomila guerrieri pirati ci assicureranno la rapida capitolazione dei Due Troni. È vitale che Derorguila cada il più in fretta possibile, perché, se la battaglia si prolunga, esiste la possibilità che l'Arcimaga Haramis trovi un modo per venire in aiuto della sorella.» Osorkon strinse gli occhi. «State forse dicendo che l'Arcimaga sarebbe in grado di contrastare la magia dei vostri due talismani?» «I miei poteri vanno ben al di là dei suoi, ora», dichiarò sprezzante il Mago. «Ma lei potrebbe ugualmente gettare un grande scompiglio nei nostri piani, per esempio con qualche azione inaspettata. Dobbiamo colpire con forza irresistibile mentre Antar e Anigel hanno ancora qualche speranza di respingere l'invasione, prima che l'Arcimaga possa convincere la sorella a fuggire.» «È un ragionamento sensato», fu costretto ad ammettere Osorkon. «Con le forze di stanza a Ruwenda dirottate verso Var, ai Due Troni restano all'incirca quattromila soldati fedeli... più il vostro esercito di tremila. È un numero sufficiente per indurli a credere di avere qualche possibilità.» «Fino a quando non scopriranno che i miei seguaci li hanno traditi!» disse Osorkon scoppiando in una roca risata. «La diversione verso Var è stata un colpo da maestro... ammesso che il divertimento a sud non finisca troppo presto.» Il nobile aggrottò la fronte. «In questo caso saremo costretti a invadere di nuovo Ruwenda per fare pulizia.» Orogastus sorrise da sopra l'orlo del bicchiere. «I lealisti ruwendiani di ritorno al nord scopriranno che nella Palude Nebbiosa li attende un altro piccolo guaio: la formidabile Signora degli Occhi si è messa in testa d'incitare alla ribellione gli Oddling di Ruwenda. Tutti quanti! Il loro obiettivo è espellere gli umani dal paese in modo che gli Oddling possano governarsi da soli.» Il vecchio soldato si lasciò sfuggire un fischio. «Bene, bene! Avete messo proprio un bel calderone sul fuoco, vero? Immagino che il vostro intento sia lasciare che Oddling e umani lealisti si massacrino tra loro.» «Se questo tempo orribile continua, gli umani saranno eliminati molto
presto; gli aborigeni hanno un vantaggio schiacciante nella Palude Nebbiosa durante le Piogge.» Osorkon strizzò un occhio al Mago. «Immagino che siate voi il responsabile delle tempeste, dei terremoti e di tutto il resto, eh?» Orogastus accennò a un gesto di falsa modestia e riempì la tazza del nobile labornoko. «Fa tutto parte del mio grande piano.» «Come riconquisteremo Ruwenda dopo che gli Oddling avranno vinto?» chiese Osorkon. «Le risorse naturali del paese ci serviranno ancora, soprattutto i minerali e il legname da costruzione.» «È semplicissimo: tutto quello che dobbiamo fare è uccidere il capo degli Oddling, la Signora degli Occhi. Senza di lei l'esercito degli aborigeni si disintegrerà.» «Certo, avete ragione! Avete proprio pensato a tutto, Mago!» Osorkon s'interruppe per divorare un bel numero di salsicce. «Sapete, la vostra proposta di alleanza non poteva arrivare in un momento più opportuno. Noi nobili delle province occidentali di Labornok abbiamo sopportato fin troppo a lungo il pavido governo dei Due Troni: una crisi di qualche tipo era inevitabile. Tutti i miei compagni hanno convenuto che il vostro piano di rapire Antar e i rampolli reali è stato brillante.» «Mi spiace per la morte di vostra sorella Sharice.» Osorkon scrollò le spaile. «Mia sorella è stata ben felice di fare la sua parte. Non ne poteva più di quel grassone di Penapat, ma aveva paura di divorziare perché temeva di perdere il favore del re e della regina. Il mio primo atto come nuovo sovrano di Laboruwenda sarebbe stato proprio disfarmi di quella testa di legno del mio caro cognato.» Il Mago rise. «Se tutto va come previsto, tra sette giorni avrete ancora quella possibilità. Le navi tuzamene dovrebbero arrivare a Frangine domani, con il mio esercito e con l'equipaggiamento magico. Coordineremo le forze d'invasione, poi andremo a sud con le imbarcazioni più veloci e meglio armate, sospinti dai miei venti magici. Faremo sbarcare in segreto voi e i vostri amici nel porto di Lakana, poi ci nasconderemo fino al giorno stabilito in un grande banco di nebbia che io evocherò. Voi e le vostre forze attaccherete Derorguila via terra e contemporaneamente noi li contrasteremo dal mare...» «E schiacceremo Antar come un lingit tra due mattoni!» Il Mago sollevò la sua tazza di ilisso fumante in un ironico saluto. «Prevedo una rapida e definitiva vittoria.» «Dev'essere una gran bella cosa riuscire a leggere nel futuro», commen-
tò sarcastico Osorkon. Poi un guizzo di rimpianto passò sul suo viso segnato dal tempo. «Però è un peccato che Anigel abbia ceduto così presto e abbia pagato il riscatto: senza Antar a guidare le truppe sarebbe stato tutto più facile. Anche se i difensori sono in inferiorità numerica, combatteranno come demoni, se sarà Antar a spronarli.» «Ho cercato in tutti i modi di ritardare il suo rilascio, ma ci sono stati dei problemi. Ho avuto un brutto scontro con la regina reggente Ganondri e, dopo la sua opportuna dipartita, il re gobbo ha dimostrato un'inaspettata testardaggine per quello che riguardava la prigionia di Antar. Ledo e io siamo buoni amici, ma è un giovane eccessivamente cavalleresco e non sono riuscito a dissuaderlo dall'accettare subito il riscatto quando Anigel lo ha offerto la seconda volta. Il fatto però che io possegga sia il suo talismano sia quello di Kadiya dovrebbe far pendere decisamente la bilancia in nostro favore. Antar si troverà di fronte non solo un grande esercito, ma anche la magia, e quando attaccheremo Derorguila i difensori saranno in inferiorità numerica di ben uno a tre. Con un po' di fortuna, vinceremo in un solo giorno.» Lord Osorkon leccò il formaggio fuso sul pane di noci, perso nei suoi pensieri. «La regina Ganondri... quella strega! È un bene che non dobbiamo più avere a che fare con lei. Il giorno che siamo arrivati al porto non si parlava d'altro che del suo fatale incontro con lo shareek. Confido che, al contrario, il re gobbo si trasformerà in un docile burattino nelle vostre mani.» «Sono in grado di tenere a bada Ledo», affermò Orogastus. «Lo spero proprio.» Il nobile labornoko si leccò le dita appiccicose per pulirle. «Sarebbe davvero una calamità se dopo la vittoria i pirati sfuggissero al nostro controllo e si mettessero a depredare le altre città portuali dove vivono i miei sostenitori. Lasciamo che i raktumiani saccheggino Derorguila e poi se ne tornino a casa. Ricordate, Mago: il nostro accordo non prevede che il mio futuro regno venga ridotto a un ammasso di rovine desolate!» «Non succederà mai», dichiarò Orogastus. «Lo giuro per le Potenze Oscure e la sacra Stella che conferisce potere ai miei due talismani.» Il Mago si alzò e con un gesto della mano fece scomparire cibo e bevanda; poi, come se ci avesse ripensato, fece sparire anche le macchie dal suo abito e mise in tasca il prezioso libretto rosso. «Il mio lavoro qui è terminato. La mia magia mi dice che il primo ministro Jorot e i vostri testardi amici sono invischiati in una feroce disputa su chi avrà il diritto di sac-
cheggiare il palazzo reale di Derorguila. Riarmatevi e andiamo insieme a negoziare una tregua. Poi, forse, potremo cominciare davvero un consiglio di guerra.» 23 Haramis trovò la sorella Kadiya che scendeva in canoa il Mutar Superiore ingrossato dalle piogge, in compagnia dei fedeli Jagun e Lummomu-Ko e di una seconda imbarcazione piena di Wyvilo. Quando l'Arcimaga si materializzò sulla barca tra la sorella e Jagun e con tutta calma eresse un ombrello magico per riparare tutti dalla pioggia, Kadiya rimase a fissarla senza parole con espressione incredula. «So che cos'hai intenzione di fare», esordì Haramis, «e sono venuta a dissuaderti.» «Che intendi?» chiese Kadiya abbassando lo sguardo. «Il Maestro del Luogo del Sapere mi ha detto del tuo nuovo piano. È incredibilmente folle... per non parlare della slealtà che dimostri verso tua sorella Anigel. Devi abbandonarlo.» «Il mio piano non è folle», esclamò Kadiya. «Che ne sai tu dei rapporti tra l'Umanità e il Popolo? Tu ti sei isolata a studiare la magia mentre un disastro dopo l'altro si abbatteva sulla nostra povera Penisola! Non hai fatto nulla per aiutarmi a salvare il mio talismano da Orogastus. Non hai fatto nulla per impedire a quella stupida di Anigel di pagargli il riscatto! E adesso hai l'ardire d'impicciarti dei miei affari!» «Sono venuta a te spinta da amorevole preoccupazione...» «Vattene! Nulla di quello che potresti dire m'impedirà di fare ciò che devo. L'unico modo per fermarmi è uccidermi!» Il piccolo Jagun, che non era a conoscenza del piano di Kadiya, esclamò: «Lungimirante, non parlare così alla Bianca Signora!» Kadiya gli si rivoltò contro come un gradolik cui è stata sottratta la preda. «Stai zitto! Questa è una faccenda tra me e mia sorella!» «No, non lo è», disse l'Arcimaga mentre una grande tristezza scendeva a offuscarle il volto. «Riguarda anche il popolo di Jagun e di Lummomu e tutti gli altri Popoli. Io sono la loro protettrice e guardiana...» «Essi hanno eletto me loro capo, non te!» disse Kadiya. «Non ho forse il diritto di sottoporre loro la mia proposta affinché possano giudicarla e giudicare me, e decidere in piena libertà?» Haramis fu colta di sorpresa e non seppe che cosa dire.
«Tu sai che ne ho il diritto!» esclamò trionfante Kadiya. «E tu non hai modo d'imporre la tua volontà al Popolo, perché sono spiriti liberi e non una tua proprietà. Quindi vattene!» «Lascia solo che ti spieghi...» «Arcimaga, vattene», ripeté Kadiya a voce bassa e minacciosa, «a meno che tu non sia pronta a usare la violenza per costringermi ad ascoltarti.» Haramis chinò il capo. «Molto bene; vedo che è impossibile ragionare con te ora. Ma tornerò.» Scomparve e la pioggia riprese a scrosciare sulle due canoe con un'intensità ancor maggiore. «Lungimirante, che hai fatto?» gemette Jagun. «Avresti almeno dovuto ascoltare quello che aveva da dire la Bianca Signora.» «Ha ragione», convenne Lummomu e i suoi compagni Wyvilo assentirono con accorati mormorii. «Io so che cosa avrebbe detto», ribatté Kadiya. «Ma parlare non le sarebbe servito a nulla. E quindi non c'era ragione che io la ascoltassi.» «Ma lei è la Bianca Signora...» protestò Jagun. «E io sono la Signora degli Occhi!» ritorse Kadiya sfiorando l'emblema trilobato ricamato sul petto, al di sopra del quale pendeva l'amuleto d'ambra con il suo giglio color del sangue. «A meno che non vogliate abbandonarmi e andarvene per la vostra strada, non assillatemi più! Pagaiate, invece, così riusciremo a raggiungere la nostra meta prima del cader della notte.» Era giunto il momento. L'Arcimaga era sola nello studio della Torre sul Monte Brom che un tempo era appartenuta a lui e ora era sua. Fuori ruggiva una tormenta di neve d'inaudita violenza, ma lei non se ne accorgeva. Si avvicinò alla sua poltrona preferita accanto al camino (quel camino accanto al quale loro due si erano seduti insieme per la prima volta e avevano imparato a conoscersi) e sollevò il talismano, scrutando il cerchio vuoto. La goccia di ambra del giglio incastonata in mezzo alle tre ali brillava di un'intensa luce dorata e il microscopico Fiore dai tre petali era nero... nero. Ora, pensò, non posso più fare a meno di vederlo e sentirlo, perché devo sapere quali sono i suoi piani e quali minacce rappresenta per il regno dei Due Troni di mia sorella Anigel e per il mondo intero. Talismano, mi permetterai di spiarlo senza che per questo io perda la mia anima? Il mio amore per lui è immutato, non posso fare a meno di amarlo. So che anche solo
vederlo costituisce un pericolo, ma verrei meno al mio dovere se non lo facessi. E dunque lo farò. «Mostrami Orogastus», ordinò. Ed eccolo lì, che percorreva con noncurante sicurezza il ponte della grande nave da guerra raktumiana, che si alzava e si abbassava nella tempesta, mentre il vascello filava tra le onde mostruose. I capelli bianchi scossi dal vento e gli abiti bianchi che s'incollavano al corpo alto e muscoloso, Orogastus era come lei lo ricordava, a parte qualche ruga più profonda sul viso: le labbra sottili ma ben disegnate, gli zigomi alti, gli occhi di un pallido azzurro glaciale sotto le sopracciglia bianche. Il viso rasato di fresco aveva un'espressione euforica, come se egli fosse partecipe dell'energia della tempesta. Non aveva con sé nessuno dei due talismani rubati. Fermandosi davanti all'ingresso del gran cassero della trireme, Orogastus afferrò la murata e guardò le acque agitate. Sorrideva... Haramis trattenne il fiato. Chissà come, in un modo che non aveva nulla a che fare con il Giglio Nero o con il Cerchio dalle Tre Ali, lei sapeva che cosa stava pensando. Non alla conquista del mondo né al trionfo della Società della Stella. Non alle Potenze Oscure e nemmeno allo Scettro del Potere che pur bramava. Lui stava pensando a lei. Il cuore le balzò in petto e sentì un desiderio irrefrenabile di scoppiare in lacrime. E poi di chiamarlo, pronunciare il suo nome, ascoltare la sua risposta, andare da lui, toccarlo... Tra le ali del talismano, il piccolo Fiore parve pulsare come un cuore che batteva. Era ancora colore della notte, ma tra un istante sarebbe cambiato... «No! No, no, no!» singhiozzò e lasciò andare il talismano che rimase a dondolare dalla catenella di platino, mentre la visione all'interno del cerchio si spegneva. Haramis rimase seduta a lungo, pregando. Poi, animata da una nuova risolutezza, trasse un lungo respiro e ordinò di nuovo: «Mostrami Orogastus». Il mago si trovava in una sontuosa cabina, con gli abiti asciutti e i capelli pettinati, impegnato in un'accesa conversazione con i suoi tre accoliti. Il piccolo seguace vestito di nero teneva lo strano diadema chiamato il Mostro dalle Tre Teste, mentre la Voce Gialla portava la spada spuntata e dai bordi smussati chiamata Occhio di Fuoco Trilobato. «... tenere il re e la regina sotto stretta sorveglianza giorno e notte», stava dicendo il mago. «E tu, mia Voce Gialla, devi sorvegliare le macchinazioni
della Signora degli Occhi. In quanto a te, mia Voce Porpora...» Freddamente, Haramis si dispose ad ascoltare. Kadiya aveva scelto l'insediamento Uisgu di Dezaras, nel cuore dell'Inferno Spinoso, per rendere noto il suo piano di fare di Ruwenda la patria degli aborigeni. La sua vecchia amica Nessak, cui aveva salvato la vita al tempo della ricerca del talismano, era ancora il Portavoce della Legge. E da Dezaras era partita dodici anni prima la chiamata che aveva fatto accorrere a fianco di Kadiya il Popolo dei Nyssomu e degli Uisgu per la grande battaglia contro re Voltrik che aveva determinato la liberazione di Ruwenda. Durante quasi tutto il viaggio dal Luogo del Sapere, Kadiya era rimasta silenziosa e assorta, senza rivelare né a Jagun né agli altri la sua conversazione con il Maestro né la tremenda notizia riguardo al talismano di Anigel. E così, nonostante l'improvvisa visita dell'Arcimaga, quando Kadiya svelò il suo nuovo e drastico piano, questo fu una sorpresa tanto per la sua scorta quanto per Nessak e gli Uisgu. Con fervida eloquenza, la Signora degli Occhi delineò il suo piano di battaglia, ricordando le molte ingiustizie del passato e sottolineando che ora avevano a portata di mano tutte le condizioni favorevoli per una vittoria, soprattutto se gli Skritek si fossero uniti alla loro causa. La sua strategia richiedeva che venissero attaccate soltanto le forze umane armate: i civili dovevano restare incolumi. Le truppe laboruwendiane di ritorno da Var sarebbero state attaccate alla barriera naturale della cascata di Tass e ricacciate lungo il fiume. A Ruwenda sarebbero state attaccate e poste sotto assedio la Cittadella e gli altri centri abitati umani. Privi di rifornimenti, isolati da quelle piogge innaturali, gli umani intrappolati non avrebbero avuto altra scelta che arrendersi senza spargimento di sangue. E quando tutti fossero stati espulsi da Ruwenda, loro avrebbero distrutto la Strada della Palude che dalla Cittadella portava a Labornok, isolando così l'altopiano della Palude Nebbiosa che sarebbe divenuto un rifugio solo per il Popolo, una nazione che essi stessi avrebbero governato. Lei, la Signora degli Occhi, giurava di negoziare un trattato in tal senso e, se questo era il volere degli aborigeni, avrebbe continuato a rappresentare il Popolo in tutti i futuri contatti con gli esseri umani. A quel punto Kadiya rivelò loro l'incredibile promessa fattale in segreto dal Mago Orogastus: lui aveva giurato solennemente che, una volta cacciati gli abitanti umani, la Palude Nebbiosa sarebbe per sempre appartenuta al
Popolo. Gli aborigeni non accolsero il piano di Kadiya con l'entusiasmo che lei si era aspettata, ma al contrario l'ascoltarono in un silenzio turbato se non addirittura inorridito. La chiamata alle armi della Signora degli Occhi li sconvolgeva profondamente, perché nella Palude Nebbiosa la pace aveva regnato incontrastata da quando Anigel e Antar erano saliti al trono e avevano creato l'Unione dei Due Troni. Solo i riottosi Glismak della foresta di Tassaleyo e gli Skritek, la cui insaziabile sete di sangue neppure Kadiya o l'Arcimaga sarebbero mai riuscite a controllare, avevano rotto la pace nei dodici anni trascorsi. Ma ora proprio la stessa Signora degli Occhi proclamava una guerra contro l'Umanità! Nessak di Dezaras ascoltò il lungo e appassionato discorso di Kadiya con espressione imperscrutabile e, quando terminò, il Portavoce della Legge acconsentì a inviare la proposta in una chiamata telepatica a tutti gli Uisgu. E poiché il suo Popolo era molto più potente nel linguaggio a distanza di quanto non fossero Jagun o Lummomu-Ko, Nessak permise che fossero alcuni degli anziani del villaggio a comunicare con i capi delle tribù Nyssomu e Wyvilo e promise che si sarebbero messi in contatto anche con i Glismak. Ma nonostante tutte le insistenze di Kadiya, Nessak si rifiutò di trasmettere la proposta di guerra agli Skritek. Se la Signora degli Occhi desiderava coinvolgere nel piano anche i selvaggi Affogatori, avrebbe dovuto trattare lei stessa con loro, in seguito. Kadiya s'inchinò alla decisione del capo aborigeno e Nessak, Lummomu, Jagun e gli altri se ne andarono, lasciandola sola ad aspettare nell'austera capanna degli ospiti nella quale aveva avuto luogo la riunione. Attese per cinque giorni. La pioggia continuava a cadere incessante e forte e la capanna era un posto triste e umido per un essere umano. Con il Mutar Superiore che era uscito dagli argini nell'Inferno Spinoso a causa di quelle piogge fuori stagione, nel villaggio di Dezaras non esisteva un solo centimetro di terra asciutta e le cinquanta capanne d'erba sostenute da palafitte erano isole in un lago marrone e rigonfio. Canoe di vimini con i finimenti dei rimorik vuoti erano ancorate a ogni abitazione Uisgu, tranne che alla capanna dove Kadiya attendeva. Le due grandi imbarcazioni della sua scorta Wyvilo erano legate fuori della capanna di Nessak e della sua famiglia. A intervalli regolari Kadiya riceveva del cibo, ma la persona che glielo portava si rifiutava di darle notizie su ciò che aveva deciso il Popolo. Giunse finalmente la notte del quinto giorno e con l'oscurità scese pure una
fitta nebbia; come aveva fatto in tutte le notti precedenti, Kadiya si avvicinò alla porta aperta per vedere se stesse arrivando qualcuno, ma non vide altro che le luci sfocate che indicavano le altre capanne e udì solo l'eterno sgocciolio della pioggia unito ai ronzii sommessi degli insetti. «Devono decidere di combattere per avere una terra propria», disse tra sé. «Devono!» Chiuse gli occhi e innalzò una silenziosa e disperata preghiera... e solo alla fine si rese conto che la sua mano era corsa inconsciamente al fodero legato alla cintura, alla ricerca della magica approvazione del talismano che un tempo portava al fianco. Ma ora non c'era più e nel fodero c'era solo una spada normale e ordinaria. «Devono combattere al mio fianco», gemette, «o tutto è perduto!» «Non lo è», disse una voce dolce. Kadiya spalancò gli occhi ed emise un'esclamazione irata alla vista di Haramis che si era materializzata sul portico antistante la capanna. «Ancora tu!» esclamò. La sorella la guardò con aria seria, il mantello bianco perfettamente asciutto nonostante il diluvio. «Non ti permetterò d'interferire! Non hai diritto di ostacolare la libera scelta del Popolo!» «Non sono qui per interferire e non ho neppure parlato con il tuo Popolo, ancora. Desidero solo avere una breve conversazione con te. Posso entrare?» Kadiya guardò la sorella con aperta ostilità e non disse nulla. L'Arcimaga entrò e si avvicinò al fuocherello che bruciava al centro di un contenitore di ceramica pieno di sabbia. Il fumo saliva pigro nell'aria umida e si raccoglieva sotto le travi, dove una parte filtrava all'esterno attraverso le fessure del soffitto, ma la maggior parte restava nella capanna, e aiutava a tenere lontani gli insetti dell'Inferno Spinoso. La sera si stava già rinfrescando, ma Kadiya sudava ugualmente dentro il corsetto di gala di rigide scaglie dorate. Si sedette rigida su uno dei molti sgabelli di vimini e quando Haramis fece lo stesso in perfetta calma, la Signora degli Occhi finse di essere molto indaffarata a spezzare i rametti di felce secchi e ad alimentare con essi il minuscolo fuoco del braciere, sul quale soffiò per ravvivare la fiamma. Haramis attese. Kadiya rimase ostinatamente muta per qualche altro minuto, poi chiese: «È stato il Maestro a rimandarti qui? O questa volta è stata Anigel?» «Il Maestro mi ha semplicemente detto quello che avevi intenzione di fare. Non ho comunicato ad Ani il tuo tremendo piano, ma l'ho avvisata che Orogastus e i pirati stanno facendo vela verso Derorguila.»
«Lo sapevo che sarebbe successo. Mi spiace per Ani e Antar, ma il Popolo e io faremo quello che va fatto. Con due talismani nelle mani di Orogastus, l'Umanità è condannata a cadere in suo potere, anche se tu tenterai con tutta te stessa d'impedirlo. Ma il Popolo non è per lui di nessun interesse. Se gli Oddling e io vivremo in pace nella Palude Nebbiosa, Orogastus ci lascerà stare, per quanti orrori possa scatenare sulle nazioni umane.» «E tu questo come lo sai?» chiese Haramis dubbiosa. «Orogastus mi è apparso in una Proiezione e me lo ha detto.» «E tu gli credi? Hai perso il senno?» L'ombra di un cupo sorriso sfiorò le labbra di Kadiya mentre si chinava a ravvivare il fuoco. Le fiamme stesero un velo color cremisi sul suo viso e il Fiore rosso brillò sul suo petto. «Il nostro vecchio nemico è avvenente e affascinante come sempre! Anche lui ora può comunicare con chiunque attraverso il talismano. Ma senza dubbio voi due avrete già avuto più di una conversazione intima per decidere tra di voi il destino del mondo.» «No, io non gli ho mai parlato», rispose Haramis austera. «Né lo farò, fino a quando non sarò pronta a ripagarlo come si merita. Ho ordinato al mio talismano di schermarmi sia dalla sua Vista sia dalla sua voce importuna.» «Ma lo ami ancora; negalo, se puoi!» «Non lo nego, ma farò tutto quanto è in mio potere per impedire che le mie emozioni frenino le mie azioni.» «Ci crederò quando ti vedrò cercare giustizia per il Popolo con lo stesso zelo che applichi agli affari umani!» «Il mio dovere è di essere guardiana e guida per tutti coloro che vivono sulla terra, che siano Skritek, umani o Popolo. È per questo che sono venuta ad ammonirti di non compiere questo terribile errore...» «Il Popolo ha scelto me come guida, non te», disse Kadiya sollevando il mento in un gesto di sfida. «Mentre tu te ne stavi rintanata nella tua Torre, io ho vissuto e ho lavorato con loro per dodici anni e ho tentato di far avere loro giustizia nei rapporti con gli esseri umani. Tu dici di amarli... ma che hai fatto per dare prova del tuo amore?» Haramis non perse la calma. «Il Popolo fu creato dal Collegio degli Arcimaghi. Molto prima che esistesse una Signora degli Occhi, c'era un Arcimago della Terra che vegliava sugli aborigeni. È purtroppo vero che fino a questo momento non li ho presi a cuore come avrei potuto.» Sfiorò il Cerchio dalle Tre Ali e l'ambra del giglio s'illuminò di un bagliore dorato.
«Ma ora le cose saranno diverse.» «Intendi soppiantarmi... è questo che vuoi fare?» esclamò Kadiya. «No, solo persuaderti.» «E allora dovrai mettercela tutta!» disse Kadiya balzando in piedi. «Fammi vedere come mi ridurrai in briciole se ti sfido!» Haramis scosse la testa, in un gesto di compassione. «Di certo non permetterai che un'emozione come l'affetto fraterno ti distolga dal tuo dovere!» proseguì Kadiya con una smorfia di derisione. «O è forse qualcos'altro che t'induce a un metodo più dolce? Dimmi, potente Arcimaga: sei davvero qui questa volta o di nuovo mi trovo davanti un fantasma?» «Sono davvero qui. Con l'aiuto del mio talismano ora posso viaggiare dovunque e posso portarti con me...» La spada comparve di colpo nella mano di Kadiya. «Toccami a tuo rischio e pericolo, Hara. Se tenti di portarmi via con la forza, per tutti i Signori dell'Aria e le Tre Lune, ti ucciderò.» «Kadi, Kadi!» Haramis rimase seduta, con le mani intrecciate in grembo e la testa china in modo che la sorella non potesse vedere le lacrime di dolore nei suoi occhi. «Non ti farei mai del male né ti forzerei mai. Oh, sorella cara! Perché non riesci a capire? Noi siamo Tre e siamo Uno! Solo se i Tre Petali del Giglio Vivente saranno uniti, Orogastus e il suo nefasto piano potranno essere sconfitti! Il Maestro ha cercato di dirtelo. L'ho appena visto, gli ho parlato e lui mi ha dato un consiglio che potrebbe portare alla soluzione di tutti i nostri guai... metti via la spada e ascoltami.» «Vattene da questo luogo! Solo così riuscirai a convincermi che il vero scopo della tua venuta qui non è di calunniarmi di fronte al mio Popolo. Non ti permetterò d'influenzare le loro decisioni...» «È troppo tardi, Kadi.» L'Arcimaga sollevò il capo e indicò l'ingresso della capanna. «Guarda.» Kadiya uscì all'aperto, ignorando il diluvio, e vide una schiera di piccole luci sfocate che si avvicinavano nella nebbia. «Stanno arrivando.» Kadiya lanciò un'occhiata amara alla sorella dentro la capanna. «Intendi restare e arringarli? O magari incantarli con la stregoneria se rifiutano di obbedirti?» «Non farò niente del genere... ma puoi star certa che vedrò e sentirò.» Ciò detto, l'Arcimaga scomparve. Ancora tremante di rabbia, la Signora degli Occhi rinfoderò la spada e scese la scala che portava alla piattaforma galleggiante. Prese le corde che
le venivano porte e assicurò le canoe. Nella prima delle tre barche c'erano il Portavoce Nessak e gli anziani del consiglio del villaggio, nell'ultima si trovavano Jagun, Lummomu e altri anziani Wyvilo. Kadiya attese che fossero saliti tutti, poi li seguì dentro la capanna. Gli Uisgu non erano più alti di un bambino umano di otto anni; avevano una certa rassomiglianza con il Nyssomu Jagun, ma erano più piccoli e di aspetto più fragile, con orecchie più larghe e più dritte, occhi dorati più grandi e denti più affilati. La pelliccia del viso e del corpo era unta e i palmi delle mani coperti da un unguento protettivo. Tutti, tranne Nessak, indossavano semplici gonnellini d'erba e avevano cerchi di vari colori dipinti attorno agli occhi. Il Portavoce era vestita in modo più sfarzoso, con un gonnellino di stoffa azzurra, un piccolo collare d'oro, due sottili braccialetti sempre d'oro e aveva dipinti tre cerchi bianchi attorno agli occhi. Nessak sollevò entrambe le mani artigliate per salutare Kadiya e le parlò nel dialetto Uisgu. «Signora degli Occhi, chi ti parla ha passato molte ore a comunicare con i nostri simili della Palude. Honebb invece ha comunicato con la sapiente Frolotu dei Nyssomu. Kramassak ha comunicato con Sasstu-Cha dei Wyvilo e Gurebb ha fatto tutto quello che poteva con i Glismak. La tua Chiamata è stata comunicata a tutti questi Popoli. Ora sentiamo le loro risposte... Gurebb!» Un venerabile maschio Uisgu si avvicinò a Kadiya e la salutò. «Costui ha fatto molta fatica a trovare un senso ai vaneggiamenti di quei rettili della foresta. Ma, a quanto pare, Signora, sono più che disposti a unirsi a te nella guerra contro gli umani.» Un lampo brillò negli occhi di Kadiya, che raddrizzò la schiena. «Grazie, Gurebb.» «Kramassak!» chiamò il Portavoce. Una donna Uisgu parlò con voce chiara. «L'anziano Sasstu-Cha, che ha interpellato il suo Popolo in assenza del Portavoce designato LummomuKo, afferma che i Wyvilo seguiranno in battaglia la Signora degli Occhi... a patto che tutte le altre razze del Popolo, oltre i Glismak, facciano lo stesso.» Kadiya rivolse uno sguardo raggiante a Lummomu e ai suoi guerrieri; ma il capo Wyvilo non ricambiò il sorriso, continuando a fissare impassibile il fuoco. «Honebb, è il tuo turno», disse Nessak. «Che cos'hanno deciso i Nyssomu?»
«Frolotu la saggia», affermò un altro maschio Uisgu, «dopo essersi consultata con gli altri come lei, fa sapere che il Popolo Nyssomu resterà in pace con l'Umanità.» Il volto di Kadiya divenne di pietra. Si rivolse a Nessak e le chiese: «E che cos'hanno deciso gli Uisgu, mia vecchia amica? Che farà il Popolo che per primo è accorso al mio fianco nella lotta contro i malvagi invasori di Labornok? Tu che sei stata la prima a salutarmi come Signora degli Occhi, Portatrice di Luce e Veicolo di Speranza?» «Costei deve dire la verità», esordì Nessak con voce gentile ma ferma. «Noi sappiamo che i Glismak hanno litigato con gli umani e sappiamo anche che di tanto in tanto qualche Nyssomu ha subito delle ingiustizie da parte dei mercanti umani. Sappiamo che i Wyvilo preferirebbero vendere alcuni dei loro preziosi prodotti della foresta alla gente di Var, che promette prezzi più alti, invece che venderli ai Due Troni, come sono costretti a fare ora. Ma questi torti possono essere raddrizzati in modo pacifico... dunque noi non entreremo in guerra. Gli Uisgu non hanno motivo di lagnanza verso la razza umana. Le nostre dimore sono nelle parti più remote della Palude Nebbiosa e i nostri unici nemici sono gli abominevoli Skritek e persino quei mostri ci molestano molto raramente, ora.» Gli altri Uisgu presenti mormorarono il loro assenso. «Ma verranno degli umani malvagi!» esclamò Kadiya. «I Due Troni sono destinali a soccombere davanti agli eserciti di Raktum e Tuzamen! Ci sarà un nuovo re nel Labornok e sarà Osorkon, uno di quei vili che bruciarono i vostri villaggi e uccisero i vostri figli dodici anni fa. Costui renderà schiavi tutti coloro che vivono a Ruwenda se non mi seguirete e combatterete per trasformare questo paese in una nazione del Popolo. Ho la promessa solenne del Mago Orogastus che non saremo molestati...» «Noi non crediamo a Orogastus», la interruppe dolcemente Nessak. «Né crediamo a te quando dici che la guerra è l'unica alternativa che ci resta.» «La mia alternativa è la migliore!» gridò Kadiya disperata. «Non vi mentirei mai! Ho dedicato la mia vita a voi! Io vi amo...» Nessak si avvicinò alla Signora degli Occhi e la guardò con profondo dolore. «Io non credo che ci diresti deliberatamente una menzogna. E noi ti ameremo sempre. Ma non possiamo più permettere che sia tu a guidarci. Che il Fiore ti conceda la saggezza!» Indicò il giglio che brillava rosso nell'amuleto e proseguì: «Non parlo di quel fiore di sangue, ma dell'altro, quello che hai tradito». Si volse e uscì nella pioggia, seguita da tutti gli altri Uisgu.
Kadiya guardò disperata quelli che restavano. «E tu, Lummomu-Ko?» L'alto Wyvilo le si avvicinò e piegò un ginocchio. «Signora, ti abbiamo seguito fedelmente mentre le Tre Lune crescevano e calavano per tre volte, ma ora ti chiediamo di congedarci, perché gli altri Popoli hanno preso la loro decisione e hanno così stabilito anche la nostra.» «Io... io...» Kadiya avvertì un nodo in gola, ma non voleva piangere né perdere in altro modo il controllo di se stessa. «Andate», riuscì a dire poi e Lummomu si alzò, fece un inchino e condusse via i suoi guerrieri. Ancora incredula, Kadiya li guardò allontanarsi. Poi scosse il capo e si accasciò su uno sgabello, riprendendo meccanicamente ad alimentare il fuoco con i rametti di felce. «E tu, Jagun? Anche tu mi abbandonerai?» chiese con voce spenta. Il piccolo e vecchio Nyssomu uscì dall'ombra in cui era rimasto celato durante lo svolgimento di quel dramma e si arrampicò su uno sgabello accanto a lei. Aprì la scarsella che portava in vita e vi frugò dentro mentre lei aspettava la sua risposta. «Da mangiare non è rimasto altro che radici di adop essiccate», si lamentò. «Che giornata è stata!» Con il coltello tagliò un pezzetto della radice secca e contorta e lo offrì a Kadiya. Lei accettò e si mise a masticarla. «Quand'ero ancora una bambina e mi hai portato per la prima volta nella palude, mi hai insegnato a mangiare queste razioni. E quante volte, durante la fuga da re Voltrik, siamo sopravvissuti con queste radici?» Jagun annuì. «Siamo amici da molti anni, Lungimirante: come potrei lasciarti ora?» Sorrise e le porse un altro pezzetto di radice. Kadiya lo prese e poi distolse in fretta il viso, per non mostrare le lacrime che erano finalmente arrivate. «Grazie, Jagun.» Per qualche minuto mangiarono in silenzio e Jagun condivise con lei anche la sua borraccia d'acqua. «Avevo dunque torto, come sostiene mia sorella Haramis? Dimmi la verità, vecchio amico.» Jagun masticò per un po', poi rispose: «Sì, avevi torto. Questa tua guerra, questo tuo piano sono stati una cattiva idea. Se guardi nel profondo del tuo cuore, scoprirai che a spingerti è stato un motivo oscuro, che ti sei rifiutata di riconoscere». «Che stai dicendo? Dimmi senza mezzi termini quale pensi sia questo motivo!» «Non posso, Lungimirante. Te ne convincerai solo se sarai tu a scoprir-
lo... ma io credo che i guai siano cominciati con la perdita del tuo talismano.» «Sì», convenne Kadiya. «Senza, non sono più il capo che ero un tempo.» «Sciocchezze!» ribatté aspro il Nyssomu. Kadiya sbatté le palpebre stupita: Jagun non aveva mai osato parlarle senza rispetto. «Ma se hai detto tu stesso che la perdita del talismano è stata la fonte dei miei guai!» «Hai frainteso quello che intendevo. Nel tuo talismano c'era un grande potere: un potere magico! Ma quello non faceva parte di te. In esso non c'era né la tua vera forza, né la tua vita, né ciò che dà un senso alla vita. Shiki il Dorok ha cercato di dirtelo e ora te lo dico anch'io.» «Vi sbagliate tutti e due!» Jagun scosse il capo, tagliò un altro pezzo di radice e se lo cacciò in bocca. Passarono parecchi minuti prima che riprendesse a parlare. «Il potere è una cosa che il Triuno concede a pochi. Non è né buono né cattivo... ma può diventare o l'una o l'altra cosa a seconda di come è usato. Si può rinunciarvi per delle buone ragioni e continuare a mantenere la propria integrità. La perdita del potere è più difficile da sopportare e può portare con sé l'umiliazione, ma non porta necessariamente il disonore.» «La consegna del talismano di Anigel al Mago è stato un atto di vile codardia!» «No», rispose il vecchio cacciatore. «È stato fatto per amore e non esiste un motivo più grande. Da quella rinuncia la regina non è uscita né degradata né umiliata.» «Ma io sono entrambe le cose! E questa sconfitta, il fatto che il Popolo abbia rifiutato la mia guida, lo prova!» Sollevò l'amuleto rosso sangue. «Questo lo prova!» «No, per niente. Io credo che non sia stata la perdita del tuo talismano ma il modo in cui ti sei ribellata a quella perdita che ha oscurato la tua anima. Il talismano non era una parte davvero essenziale di te, fino a che tu non lo hai reso tale.» «Non capisco che cosa stai cercando di dire. Tutto quello che so è che sono stata allontanata dallo scopo della mia vita, non ho più radici, sono un essere inutile e credo che il dolore mi spezzerà il cuore. Che devo fare, Jagun? Non so che cosa ne sarà di me, ora...» «La regina Anigel ha più che mai bisogno del tuo aiuto», disse il vecchio cacciatore. «È minacciata da una ribellione all'interno del regno e da un'invasione all'esterno e il suo giglio è di un tragico rosso sangue perché il suo
amore per te si è inacidito diventando odio. Riesci a dimenticare la vostra lite e a schierarti al suo fianco?» «Ma Ani accetterebbe il mio aiuto dopo le cose tremende che lo ho detto? Ne dubito... ma tu hai ragione, Jagun. Ho giudicato troppo duramente mia sorella... forse perché so così poco dell'amore tra un uomo e una donna. Lei credeva sinceramente che riscattare Antar fosse la cosa migliore per il suo paese, oltre che un sollievo per il suo cuore, perché restituiva il re al suo Popolo in un'ora di grave pericolo. Semplicemente non ha capito che i tre talismani sono più importanti per la salvezza del mondo di quanto non lo siano la sua famiglia e la sua nazione. La sua è stata una decisione sciocca e sentimentale, ma io ho sbagliato a dirle cose tanto crudeli.» Jagun annuì. «E questa guerra che volevi fomentare nel Popolo: non riesci a vedere quanto ci fosse di sbagliato anche in quello?» Lei lo fissò e dopo una lunga pausa parlò con voce esitante e incredula: «Io... io desideravo la guerra in modo da poter riaffermare il mio potere perduto? Oh, Jagun! Come ho potuto essere così meschina?» «Tu sola puoi dire se lo hai fatto deliberatamente.» «No!» fu il grido disperato e infelice. «Lo giuro dal profondo del cuore, non era questo il mio scopo... consciamente.» Distolse lo sguardo, mentre la disperazione sul suo viso lasciava il posto a un incredulo orrore. «Ma non sempre si riconoscono gli impulsi del profondo del proprio cuore. Ed è possibile... oh, Dio!, è possibile che l'abbia fatto senza rendermene conto, trasportata dalla forza delle mie emozioni. Tu sai quanto sono sempre stata impetuosa, come prendo fuoco in fretta, come un acciarino. Signori dell'Aria, abbiate pietà di me! Ora capisco... ma che posso fare?» «Puoi fare ammenda», disse Jagun. «È un atto sempre possibile, se sei disposta a mettere da parte il tuo orgoglio ferito e continuare ad amare. Amare il Popolo che ti ha allontanato da sé. Amare le tue sorelle!» «Io amo il Popolo senza riserve! Tu lo sai.» Kadiya era fuori di sé dalla disperazione. «E... sì! Voglio andare da Anigel, aiutarla se posso e fare ammenda per la mia mancanza di amore e per la mia crudeltà. Ma mi è impossibile raggiungerla: ci vorrebbero almeno venti giorni per arrivare a Derorguila per via di terra, con questo orribile tempo.» «No, non ci vuole così tanto», disse l'Arcimaga, riapparsa all'improvviso. «Hara! Avevi detto che avresti ascoltato...» Kadiya era divisa tra il vecchio risentimento e il nuovo desiderio di penitenza. «Allora sai tutto. Dimmi: ho giudicato correttamente me stessa?»
«Rispondi tu stessa alla tua domanda, cara sorella.» Kadiya afferrò l'amuleto. «Ho fatto torto sia ad Anigel sia al Popolo... e ho fatto torto anche a te. Di questo mi pento, e se il Triuno lo vorrà, farò del mio meglio per riparare, con tutti voi.» «Lungimirante! Guarda!» esclamò Jagun quando Kadiya lasciò andare l'amuleto. Kadiya abbassò lo sguardo e rimase senza parole: all'interno del pendente che brillava di una luce dorata, il minuscolo petalo del giglio aveva il colore della notte. Haramis sollevò il mantello e, facendo cenno a Kadiya e Jagun di avvicinarsi, li coprì con la stoffa candida. «Due Petali del Giglio Vivente si sono riuniti», disse l'Arcimaga. «Ora è arrivato il momento di cercare il terzo.» Ordinò al talismano di portarli a Derorguila e il mondo attorno a loro si trasformò in un cristallo iridescente. 24 La Voce Nera uscì dalla trance con il volto cinereo. Non appena l'Arcimaga era ricomparsa a Dezaras, lui aveva perso la Vista di Kadiya. Ma aveva visto quanto bastava. Con grande attenzione si tolse il diadema del Mostro dalle Tre Teste, lo nascose in una tasca dell'abito macchiato di salsedine e lasciò la sua cabina. Il Maestro doveva essere informato all'istante che la sua speranza di un'entrata in guerra di Kadiya e dei suoi Oddling era andata in fumo. Orogastus era nel salone reale della grande ammiraglia raktumiana, a giocare con il principe Tolivar al nuovo gioco dell'Invasione. Il gioco era disposto su un tavolo munito di sospensioni cardaniche, al centro della stanza, cosicché rimaneva sempre in piano nonostante il forte rollio della galea che filava verso sud sospinta da un vento impetuoso. Orogastus e Tolo sembravano sospesi in aria di fronte al tavolo e fluttuavano senza mai spostarsi a dispetto dei movimenti della nave. Quando la Voce entrò barcollando dalla porta, portando con sé una pioggia di schiuma, il Mago lesse i pensieri che la sua mente stava praticamente gridando e si affrettò a impedire che il suo accolito rivelasse le cattive notizie davanti al ragazzo. «So che cos'è successo», disse il Mago accettando il talismano che la principale delle sue Voci gli porgeva. «È un inconveniente, ma nient'affatto fatale. Non dire nulla ai nostri nobili alleati. Vai a sostituire la Voce
Gialla nella sorveglianza del nostro porto di destinazione e prendi tu l'Occhio di Fuoco Trilobato. Presta particolare attenzione alla possibile comparsa sulla scena di nuovi giocatori... se è possibile vederli. Assicurati che l'Occhio di Fuoco Trilobato resti ogni istante in tuo possesso. Di' alla Voce Gialla di unirsi alla Voce Porpora che sta istruendo i nostri uomini nell'uso delle apparecchiature magiche.» «Obbedisco, Maestro.» La piccola e magra Voce Nera s'inchinò e uscì. Orogastus mise il talismano sul tavolo accanto alla mappa e il principe Tolivar osservò con grande interesse il diadema d'argento. «Mia madre non ha mai permesso a nessuno di toccare il talismano; diceva che era legato a lei sola e chiunque avesse osato anche solo sfiorarlo con un dito sarebbe morto di sicuro.» «Le mie Voci hanno il mio permesso di usarlo per ascoltare e spiare certi avvenimenti che hanno luogo nel mondo. Io non ho né il tempo né la voglia di passare tutto il mio tempo a fare la guardia.» Il bambino tese incerto una mano verso il diadema. «Daresti anche a me lo stesso permesso, Maestro? Sarebbe un grande onore.» «Un giorno, forse.» Orogastus spostò il talismano. «Ma non ora. Che non ti venga mai in mente di toccare uno dei due talismani, ragazzo: sono molto potenti e molto pericolosi. Tua madre la regina non ha mai capito fino a che punto fosse pericoloso. Un desiderio appena abbozzato, distrattamente diretto attraverso il talismano, potrebbe avere conseguenze terribili. La magia del talismano potrebbe addirittura ritorcersi contro chi lo usa, se questi impartisse degli ordini illeciti.» «Non... non puoi ordinargli semplicemente di fare qualcosa di magico?» «No. Gli ordini devono essere impartiti con assoluta precisione e nel modo giusto, altrimenti si rischia il disastro. Io permetto alle mie Voci di usare i talismani per compiti semplici come la Vista. Loro sanno perfettamente che non devono fare più di quanto ho ordinato.» «Non sempre seguono i tuoi ordini», riferì il bambino con studiata noncuranza. «La Voce Nera legge il piccolo libro rosso, anche se tu hai proibito a chiunque di aprirlo.» «Davvero?» disse Orogastus corrugando la fronte. «Lo prende quando dormi; gliel'ho visto fare più di una volta da quando siamo a bordo. Lo porta nella cabina che divide con la Voce Porpora. Forse lo leggono insieme.» «È molto brutto da parte loro», commentò il Mago, ma senza severità. «Forse dovrei mettere un incantesimo sul libro per proteggere i suoi segre-
ti. È un libro molto speciale, come ti ho detto.» «Io non lo leggerei mai senza il tuo permesso, Maestro», asserì il bimbo con aria virtuosa «Bravo.» Il Mago indicò la mappa distesa sul tavolo. «Finiamo il gioco, perché tra poco devo occuparmi di altre cose.» Il principe Tolivar si avvicinò alla tavola con il suo invisibile sedile, scosse i dadi, li lesse e poi spostò uno dei segnalini d'avorio a macchie rosse che rappresentava una delle sue navi da guerra più vicine a Lakana, la grande città portuale a poca distanza da Derorguila sulla costa labornoka. «So che cos'hai in mente», disse Orogastus con un sorriso. «Vuoi tenere occupati eventuali rinforzi da Lakana che potrebbero venire in aiuto della capitale assediata.» «Sì: Lakana ha navi veloci e, se sapesse che Derorguila è assediata dalle mie navi da guerra, si affretterebbe a venire in suo aiuto.» Orogastus annuì. «Capisco. Ma anche se questa tua mossa può essere una buona tattica, non è però buona strategia. Conosci la differenza tra le due cose?» «No, Maestro.» «Per tattica s'intendono le manovre usate per vincere le battaglie; hanno obiettivi a breve termine. La strategia, invece, riguarda obiettivi a lungo termine...» «Vuoi dire vincere la guerra?» «Esatto! Ora, all'inizio del gioco dell'Invasione, ti ho avvertito che i tuoi alleati laboruwendiani voltagabbana non sono amici sinceri della tua flotta raktumiana. Se i pirati attaccano Lakana, alcuni, o addirittura tutti i ribelli, potrebbero cambiare di nuovo bandiera, perché molti di loro hanno le famiglie a Lakana.» «Ma potrebbero anche non farlo!» rispose Tolo con un bagliore temerario negli occhi. Orogastus scosse i dadi e li lanciò. «Vediamo: anch'io posso controllare i ribelli, come te... ah-ah! Che ti dicevo?» Seguendo le indicazioni dei dadi, l'intera forza ribelle di Tolo abbandonò Derorguila per difendere Lakana, lasciando i lealisti del Mago liberi di respingere le forze navali dello stupefatto principe. In cinque mosse, gli invasori raktumiani di Tolo si ritrovarono sconfitti, mentre la capitale Derorguila, difesa da Orogastus, era salva. «La prossima volta vincerò», predisse Tolo. «Quando verrà il mio turno per la difesa di Derorguila. Dopotutto, è la mia patria. Voglio dire, lo è fi-
no a quando non verrò a Tuzamen.» Orogastus rise. «E quando difenderai la tua patria, ci metterai molto più impegno... sì: questo è uno dei fattori imponderabili di una guerra. Il coraggio e lo spirito combattivo di entrambe le parti. Persino una forza male armata e inferiore di numero può vincere, se il suo spirito e il suo cuore sono più forti di quelli del nemico.» Tolo rivolse un'occhiata attenta al Mago. «Se tu volessi davvero vincere, più di qualunque altra cosa, come faresti?» «È una domanda cui non è facile rispondere, ragazzo. Io non sono un generale. Ma se quella che vuoi è la mia opinione, dico che l'arma più efficace è la sorpresa. Se fossi deciso a vincere una vera guerra a tutti i costi, sceglierei di fare qualcosa d'inaspettato.» «Vuoi dire che bareresti?» chiese Tolo incerto. «Nient'affatto: in una guerra vera, le regole non sono restrittive come in un gioco e a volte non esiste nessuna regola.» Orogastus fece scivolare i dadi e i segnalini rossi e azzurri in una scatola di avorio, lasciando sul tavolo la mappa che era servita da tabellone di gioco. «Ora devi lasciarmi. Vai per un po' nel salotto a poppa e leggi uno dei libri che ti ho dato. Io devo occuparmi di affari importanti. Siamo quasi alla fine del nostro viaggio e presto scoprirai qual è la grande sorpresa che ti ho promesso.» «Oh, per favore, dimmi dove siamo diretti!» lo supplicò il principe. «Nessuno tranne il timoniere conosce la nostra destinazione... e non vuole dirmi nulla! Stiamo andando a Tuzamen, a Castel Tenebroso? Lo spero proprio! Voglio vedere tutte le cose magiche! O forse stiamo tornando alle Isole Senzavento per punire i malvagi aborigeni e portare via i loro tesori?» «Pazienza! Lo scoprirai al momento giusto. Ora, via, vai!» Il ragazzo si lasciò cadere dal nulla sul tappeto e con cautela si avviò alla porticina che conduceva nel piccolo salotto trasformato per l'occasione in biblioteca e studio del Signore di Tuzamen. Con uno schiocco delle dita Orogastus chiuse a chiave la porta e rimase seduto in silenzio per un po'. Poi si pose il Mostro dalle Tre Teste sulla fronte e sussurrò: «Mostrami l'Arcimaga Haramis». Una massa turbinante di luci caleidoscopiche comparve nella sua mente, cancellando la vista del salone. Come sempre, il Mago estese al massimo i suoi poteri, ordinando al talismano di rivelargli l'Arcimaga, cercando di raggiungerla e implorandola affinché, finalmente, s'incontrasse a mente a mente con lui. Ma quando il talismano gli parlò, fu per ripetere la stessa
scoraggiante frase di sempre: L'Arcimaga Haramis non ti permette di scrutarla né di parlarle. «E allora che sia lei a parlare a me!» pregò il Mago. «Dille che è ancora in tempo a impedire il terribile bagno di sangue che avrà luogo dopodomani a Derorguila! Lei può essere strumento di pace, se solo volesse ascoltare quello che ho da dire...» Lei sa che cosa vorresti dire e rifiuta ogni accordo tra voi due. «Accidenti a quella donna! Non è in grado di leggere la mia mente! Quella che voglio farle è una proposta nuova! Talismano, chiedile almeno di ascoltare quello che ho da dire. E dopo, se vorrà rifiutarmi, che lo faccia di persona!» L'Arcimaga Haramis non ti permette di scrutarla, né intende parlarti o incontrarti a faccia a faccia fino a quando non sarà lei a deciderlo. Orogastus gemette e imprecò, strappandosi il talismano dalla fronte; il turbinio di colori scomparve per lasciare il posto alle dorature e ai pannelli di legno del salone della nave. Il Mago sospirò. Il ritratto della regina reggente, che un tempo era appeso sopra una credenza al posto d'onore nella più grande delle cabine della nave, era stato sostituito da una semplice marina, perché re Ledavardis non aveva voluto che il suo viso sgradevole adornasse un luogo pubblico. Orogastus s'incupì ricordando come il giovanotto avesse rifiutato di cedere il comando dei suoi pirati al condottiero tuzameno Zokumonus, più che mai deciso a comandare di persona le sue otto brigate nell'attacco a Derorguila. Il re gobbo andava sorvegliato attentamente durante il prossimo attacco e non solo per scorgere eventuali segni di debolezza o di tradimento. Se fosse stato ucciso o anche solo ferito, era probabile che i raktumiani si sbandassero, sfuggendo a ogni controllo. Tra quegli instabili bucanieri e gli infidi voltagabbana, quell'invasione era quanto mai aleatoria. Orogastus era cosciente di non essere ancora in grado di comandare grandi prodigi magici con i due talismani; poteva usarli per difendere le sue truppe e spiare i movimenti del nemico, ma non aveva altrettanta fiducia nel loro potenziale offensivo. Quella guerra non l'avrebbe vinta con il Mostro dalle Tre Teste o con l'Occhio di Fuoco Trilobato. Ma nonostante tutto, il Mago non aveva dubbi sull'esito finale della guerra. I difensori erano troppo inferiori di numero per resistere... e lui aveva dalla sua parte il magico arsenale degli Scomparsi, mentre i Due Troni avevano solo Haramis. Maledetta lei! Perché non riusciva a togliersela dalla mente una volta per
tutte? Il suo grande disegno non aveva bisogno di lei! «Se si rifiuta di unirsi a me, allora dovrà morire con tutti gli altri», disse ad alta voce. Rimase seduto per qualche minuto, cercando di riprendere il controllo di se stesso; poi chiese al diadema di mostrargli la posizione delle forze ruwendiane che erano andate in aiuto di Var per respingere Zinora e i suoi alleati pirati. Quella battaglia era ormai terminata e i guerrieri vittoriosi di Ruwenda erano sulla strada di casa. Sulla mappa davanti a lui si materializzarono una serie di puntini brillanti lungo il corso del Mutar Superiore, a sud nella grande Foresta di Tassaleyo che formava l'incerto confine tra Ruwenda e Var. Molto bene: non vi erano possibilità che arrivassero in tempo per difendere Derorguila. Poi sorvegliò Lord Osorkon e i suoi ribelli e constatò soddisfatto che erano accampati in un bosco circa sedici leghe a ovest della capitale labornoka. La loro presenza restava segreta solo grazie all'eliminazione dei poveri carbonai che vivevano in quel luogo, e dei pochi sfortunati viandanti che avevano la sventura di percorrere quella strada che era l'unica ad attraversare la foresta. Ma la presenza di quell'esercito non sarebbe rimasta segreta ancora per molto; anche se non li scopriva Haramis, era solo questione di tempo prima che re Antar si chiedesse il perché dell'assenza di Lord Osorkon e degli altri nobili nella folla di cavalieri e uomini che arrivavano a difendere Derorguila. Bene; a quanto pareva le cose procedevano in modo soddisfacente. Bisognava avvertire i raktumiani della possibilità dell'arrivo di navi lealiste da Lakana, ma era presto fatto. Orogastus rise: un'altra utile informazione strappata all'innocente e ignaro Tolo! Il ragazzino si era anche lasciato scappare particolari preziosi sulle fortificazioni attorno al palazzo. Haramis avrebbe senza dubbio cercato di difendere la sorella con la magia, ma alla fine la regina Anigel, il principe ereditario Nikalon e la principessa Janeel sarebbero morti o sarebbero stati fatti prigionieri, e la stessa sorte sarebbe toccata a Kadiya se avesse deciso di schierarsi a fianco della sorella. Con i componenti della famiglia reale uccisi, Antar morto in battaglia e l'odioso Lord Osorkon trattato come si meritava (non si poteva lasciare vivo un voltagabbana), il piccolo principe Tolivar sarebbe diventato l'unico erede vivente del regno di Laboruwenda. Che sarebbe diventato uno Stato vassallo di Raktum... finché tornava utile a Orogastus dare un contentino al re gobbo.
Sì, tutto si sarebbe risolto splendidamente... e sarebbe stato persino legale. Orogastus sorrise compiaciuto a questi e altri pensieri che gli passavano per la mente. Mai i tempi erano stati più maturi per far cadere il mondo sotto il suo dominio: re bambini a Raktum e Zinora e presto anche nel Laboruwenda; monarchi vecchi e decrepiti nelle Isole di Engi e uno sciocco tremebondo sul trono di Var. Imlit e Okamis erano repubbliche governate da mercanti inetti, mentre la ricca Galanar era governata da una donna avanti con gli anni che aveva come uniche eredi delle sciocche figlie. Sobrania, con i suoi tenaci barbari, avrebbe richiesto un po' più di sforzo per essere conquistata, ma col tempo anche quella nazione sarebbe caduta... e tutto il mondo conosciuto alla fine sarebbe stato suo. E allora non ci sarebbe stato limite alla sua magia. Anche se non fosse riuscito a impadronirsi adesso del terzo talismano, col tempo ce l'avrebbe fatta. La Società della Stella, dopo dodicimila anni di attesa, avrebbe finalmente avuto il predominio. La Stella... I suoi nuovi membri dovevano essere totalmente fedeli al loro Maestro. A questo punto Orogastus corrugò la fronte ricordando quello che aveva detto Tolo a proposito della Voce Nera che leggeva di nascosto il libretto rosso. Anche se di fronte al principe non aveva dato peso alla cosa, il Mago era rimasto profondamente turbato a questo accenno d'insubordinazione da parte del principale dei suoi accoliti. La Voce Nera, nonostante la statura ridicola, era il più capace delle tre Voci, il più adatto all'immediata investitura nella Società della Stella. Ma la sua sottomissione al Maestro era davvero sincera e completa? E la lealtà delle Voci Porpora e Gialla? Da quelle cupe riflessioni Orogastus giunse, seppur con riluttanza, a una conclusione. Non poteva più rimandare quello che andava fatto; prima che avesse inizio la confusione della guerra, doveva determinare una volta per tutte se le tre Voci gli erano fedeli sino in fondo... o se avevano permesso alla gelosia e allo scontento di minare le loro convinzioni. Rimise in capo il diadema e chiamò i suoi accoliti. La Voce Nera, la Voce Gialla e la Voce Porpora arrivarono di corsa nel salone. Il vento era diminuito e la grande nave aveva smesso di beccheggiare. La Voce Nera, che aveva fino a quel momento usato l'Occhio di Fuoco Trilobato per sorvegliare sia Dezaras sia Derorguila, non perse tempo a informare il Maestro che gli Uisgu del villaggio erano in fermento per
la scomparsa di Kadiya e Jagun. «Alcuni temono che i due siano stati rapiti da te, Maestro», disse la Voce Nera. «Noi sappiamo che non è così, dunque l'unica alternativa logica è che siano stati portati via dall'Arcimaga Haramis.» Orogastus si alzò dal tavolo e cominciò a camminare avanti e indietro, considerando quella sgradita ipotesi. Era possibile che Haramis avesse imparato un trucco così fantastico? Lui non aveva la più pallida idea di che cosa avesse fatto nei dodici anni trascorsi; ma se era in grado di trasportare la gente per mezzo della magia, perché non aveva salvato prima Antar e i bambini? Perché non aveva trasportato i soldati ruwendiani in aiuto della difesa di Derorguila? Orogastus sapeva benissimo che era inutile chiedere ai talismani la risposta a queste domande. Erano entrambi votati al più assoluto silenzio per tutto quello che riguardava l'Arcimaga e i suoi affari. La Voce Nera stava continuando il suo rapporto. «Non ho visto tracce di Lady Kadiya a Derorguila, ma naturalmente, se è sotto la protezione magica dell'Arcimaga, anche lei, come la Bianca Signora, risulterebbe invisibile alla mia Vista. Maestro, questo evento potrebbe avere implicazioni di grande importanza: se l'Arcimaga è in grado di trasportare le persone, non potrebbe far sparire da Derorguila la regina e gli altri due rampolli reali durante l'attacco? Questo sarebbe un fiero colpo al tuo piano di fare del principe Tolivar l'erede ai Due Troni e ottenere così Labornok e Ruwenda dopo la morte di tutti gli altri membri della famiglia reale.» «Non credo», rispose il Mago, dopo aver riflettuto. «Anche se Anigel sfuggisse alla morte, non potrebbe fare nulla per impedire la nostra vittoria. Non è un guerriero come sua sorella Kadiya. Possiamo sempre spargere la notizia che lei e i figli sono periti e a quel punto Laboruwenda capitolerebbe molto prima che la regina riuscisse a far arrivare una smentita o a mettere insieme un nuovo esercito per opporsi a noi.» «Hai indubbiamente ragione», convenne la Voce Porpora. «Nemmeno l'Arcimaga può mettere in rotta una forza di tredicimila uomini.» «Se lo potesse», disse il Mago con un sorriso, «lo avrebbe già fatto da un pezzo. Entro un'ora la nostra flotta sarà in posizione al largo della costa di Labornok; gli uomini di Lord Osorkon sono già pronti a colpire. Non resta altro che dare le ultime istruzioni ai nostri guerrieri tuzameni che useranno le armi degli Scomparsi. Procederemo con il piano originale di attaccare Derorguila dopodomani... e questo ci porta alla ragione per cui vi ho convocate, mie amate Voci.» Tese la mano per ricevere l'Occhio di Fuoco Trilobato, e la Voce Nera
glielo cedette con un inchino servile. I tre accoliti attesero. Il mago afferrò la spada dalla parte della lama spuntata, in modo che l'elsa fosse in alto. Sulla sua fronte brillava il Mostro dalle Tre Teste. «Mie Voci, in questi ultimi tempi sono venuto a conoscenza di cose inquietanti; che qualcuno tra voi è geloso del piccolo principe Tolivar e dei miei progetti per lui; che qualcuno teme che non abbia più bisogno di voi ora che ho due talismani a moltiplicare i miei poteri magici; che qualcuno tra voi ha disobbedito alla mia ingiunzione di non toccare il libretto intitolato Storia della guerra. Peggio ancora, ci sono state due occasioni in cui ho cercato lo scrigno stellato e non sono riuscito a trovarlo fino a quando non ho chiesto l'aiuto del talismano. E allora l'ho trovato dove qualcuno lo aveva lasciato... evidentemente per esaminarlo in segreto.» Le tre Voci eruppero in una babele di fervide proteste e dichiarazioni di fedeltà, ma Orogastus alzò la mano per ordinare il silenzio. «Non c'è bisogno di dire nulla. Non quando questo talismano...» e sollevò la spada spuntata, «...mi fornisce un modo sicuro per accertare la verità.» I tre accoliti fissarono l'elsa scura, mentre un barlume di comprensione si faceva strada nelle loro menti. Grosse gocce di sudore comparvero sulla fronte e sui crani rasati della Voce Gialla e della Voce Porpora, mentre la Voce Nera divenne bianco come la cera nei suoi abiti funerei. «Ora, ci sono peccati che sono veniali», proseguì Orogastus. «Peccati quali curiosità avventata, o stizza, o commenti malevoli a fior di labbra... Di questi peccati ci si può pentire facilmente e si può essere perdonati. Ma ce ne sono altri che macchiano talmente l'anima che non è possibile altra punizione che la vita dell'altro mondo... Questi peccati può perdonarli il cielo, ma io no! E sono la gelosia maligna che può nuocere alla persona invidiata, la slealtà verso il proprio signore e la bramosia del potere del proprio signore.» Orogastus spinse il talismano verso la Voce Porpora. «Posa la mano sull'elsa e giura che nella tua anima non alberga nessuno dei peccati mortali che ho appena elencato.» Con labbra tremanti e lacrime di paura che gli scorrevano sulle guance, la Voce posò la mano sui tre lobi. «Lo... lo giuro», sussurrò. I tre lobi si aprirono e tre Occhi fissarono per un istante la Voce Porpora. Poi si chiusero e l'uomo fu sul punto di crollare come un palloncino sgonfio. «Non mi hanno ucciso!» gridò, poi scoppiò in singhiozzi, nascondendosi il volto tra le mani. Non senza compassione, Orogastus disse: «Ricomponiti, mia Voce Por-
pora; hai superato la prova e un giorno, molto presto, sarai accolto nella potente Società della Stella». La Voce Porpora deglutì e le lacrime cessarono come un rubinetto chiuso. «E ora a te, mia Voce Gialla», disse Orogastus. Il robusto accolito con l'abito color zafferano era più coraggioso, o magari più virtuoso, del compagno, perché non esitò a porre la mano sui lobi. L'occhio del Popolo, l'occhio dell'Umanità e quello degli Scomparsi si spalancarono, lo studiarono e poi si chiusero. La Voce Gialla emise un lungo sospiro. «Anche tu, mia Voce, sei assolto», disse Orogastus. «E ora l'ultima prova.» Tese il talismano davanti alla Voce Nera. Per un istante il capo degli accoliti esitò, fissando Orogastus nel profondo degli occhi. L'accenno di un rimpianto si disegnò sul suo viso pallido come pergamena e l'uomo parlò senza emozione: «Noi abbiamo annullato la nostra vita, la nostra stessa identità, in te, Maestro; ti abbiamo servito al limite delle nostre forze... eppure, quand'è giunto il momento di designare il tuo erede, tu non hai scelto uno di noi. Avresti dato tutto a quel marmocchio presuntuoso... ma non a noi, che tanto ti avevamo amato». Con un gesto di sfida, appoggiò la mano sul talismano. I tre occhi si aprirono e da essi sgorgò un lampo di luce bianco azzurra che colpì la Voce Nera in piena fronte. Senza un suono, l'uomo cadde sul tappeto, gli abiti neri intatti e il corpo ridotto a un tizzone spento. Orogastus si voltò, in modo che i due non potessero vedere il suo viso. «Portate via il cadavere e consegnatelo al mare. Poi tu, Voce Gialla, puoi tornare qui a prendere l'Occhio di Fuoco Trilobato per continuare la tua attenta sorveglianza di Derorguila, mentre la Voce Porpora terminerà d'istruire le truppe.» «Obbediamo, Maestro.» Sconvolti e stupefatti, i due accoliti si chinarono a raccogliere i resti del loro antico compagno. Dietro la porta del salone interno, il principe Tolivar si allontanò tremante dalla serratura e si accucciò nell'angolo più buio con il dito in bocca, atterrito oltre ogni dire. Non aveva anche lui bramato il potere del talismano? Non aveva forse commesso un peccato ancor peggiore? Oh, perché aveva ceduto alla tentazione? Se al Maestro fosse venuto in mente di mettere alla prova anche lui, il ta-
lismano lo avrebbe ridotto in cenere come la Voce Nera. E il gioco dell'Invasione, al quale lui e Orogastus si erano dedicati con tanta allegria, non era stato affatto un gioco! Il Mago stava navigando verso Derorguila e lui e i pirati avrebbero davvero invaso la città. E ucciso mamma, papà e Niki e Jan... e usato lui come burattino, proprio come l'orribile regina dei pirati aveva usato il re gobbo. «Sei stato un bambino molto sciocco», si disse, «proprio come aveva detto il papà.» Sentì l'impulso di mettersi a piangere, ma qualcosa dentro di lui lo ammonì che, se avesse fatto anche il più piccolo rumore o lasciato in qualche modo capire che aveva origliato e sapeva quello che era successo nell'altra stanza, sarebbe morto con la stessa rapidità della Voce Nera. E così il principe Tolivar si arrampicò su un divano, aprì un oblò e aspirò parecchie boccate profonde di aria salmastra e fredda. Quando la testa gli si fu un po' schiarita, si sedette con uno dei libri che gli aveva dato il Mago e si costrinse a leggere, muovendo silenziosamente le labbra per articolare le parole. Orogastus aprì la porta circa un'ora più tardi e gli disse che era ora di andare a cena. «E hai imparato molto dai tuoi studi?» Tolo ridacchiò imbarazzato. «Non tanto quanto avrei potuto, Maestro. Mi spiace... ma per la maggior parte del tempo ho dormito. Leggere tutti quei paroloni è difficile ed ero stanco dopo la nostra eccitante partita.» «Non importa», replicò gentile il Mago. «Avrai tutto il tempo per leggere in seguito.» Prese per mano il bambino e insieme andarono alla mensa reale, dove li aspettavano re Ledavardis, il generale Zokumonus e i nobili di Raktum e Tuzamen. 25 «Ecco! L'hai sentito questa volta?» La voce della regina Anigel era tesa e acuta e la mano le corse spontaneamente al petto, dove tra le pieghe del pesante abito di lana era nascosto l'amuleto del giglio. Lei e Antar si trovavano alla finestra del loro salottino privato all'ultimo piano della grande Rocca di Zotopanion del palazzo di Derorguila. Avevano da poco finito di cenare e si erano avvicinati alla finestra per guardare il via vai ormai molto diminuito nei cortili, quando c'era stato il tremore; e questa volta il terremoto era stato abbastanza intenso da far tintinnare i cristalli sulla tavola da pranzo e dondolare i lampadari
dorati. Il re prese tra le sue la mano fredda della moglie; anche se nel camino ruggiva un grande fuoco, la stanza era comunque gelata. «Sì, l'ho sentito. Si tratta certo di un piccolo terremoto; ma non vi è nulla di sinistro, amore. Quand'ero ragazzo a volte si avvertivano dei tremori nella terra, ma non ci sono mai stati danni.» «Questo è diverso», insistette la regina, i cui occhi color zaffiro erano velati di terrore. «Qualcosa dentro di me percepisce una catastrofe imminente. E non si tratta solo dell'attacco di Orogastus e dei suoi maledetti pirati, è qualcosa di peggio. I terremoti sono un altro sintomo del crescente squilibrio del mondo del quale io sono responsabile...» «Basta, amore mio, zitta. Non c'è da stupirsi se sei agitata, con i raktumiani che stanno per attaccarci.» Antar le passò dolcemente un dito sulle labbra e la prese tra le braccia. Il re indossava i pesanti indumenti di cuoio imbottito che si portano sotto l'armatura, perché intendeva compiere in serata un giro delle fortificazioni. Aveva il viso tirato e la mancanza di sonno aveva disegnato profondi cerchi scuri sotto i suoi occhi. I due sovrani avevano lavorato senza un attimo di respiro nei sei giorni precedenti, da quando l'Arcimaga li aveva avvertiti del piano d'invasione di Orogastus; ma la sola stanchezza fisica non giustificava lo stato quasi isterico della regina e la sua salute preoccupava Antar quasi quanto il problema della difesa della capitale. «Quasi diecimila pirati!» sussurrò Anigel, stringendosi al marito. «Forse si stanno avvicinando proprio in questo momento alla città con il favore della tempesta!» «Ma l'Arcimaga tua sorella mi ha di nuovo assicurato questa mattina che l'invasione non comincerà prima di dopodomani. E ha promesso di aiutarci a respingere la magia di Orogastus, così che la battaglia si svolga, per quanto è possibile, uomo contro uomo.» «Haramis promette aiuto, ma non dice come! Perché è stata così evasiva sulla natura dei suoi nuovi poteri? Quando l'ho implorata di distruggere la flotta nemica con il suo talismano, ha detto che non poteva! Le ho detto che solo quattromila soldati addestrati avevano risposto alla nostra chiamata alle armi e nonostante questo lei ha detto che le era impossibile trasportare con la magia a Derorguila le truppe che stanno tornando da Var...» «Se Lord Osorkon e il suo esercito ci restano fedeli, come ho ancora ragione di sperare, avremo abbastanza rinforzi per respingere il nemico, anche se continueremo a essere in inferiorità numerica. Derorguila è molto
ben difesa. Raktum ci ha attaccati cinque volte senza successo durante l'ultimo secolo. Anche se il nostro blocco dello stretto di Dera fallisce, le bombarde sulle alture fortificate ai lati del porto riusciranno senz'altro a respingere ogni tentativo di sbarco del nemico. In quanto alla natura dell'aiuto che ci può dare la Bianca Signora, non possiamo fare altro che attendere: ha detto che sarebbe venuta da noi appena possibile. Fino ad allora devo cercare di fare i preparativi migliori e pregare perché il Triuno e i Signori dell'Aria ci proteggano.» Prese tra le mani il viso di Anigel. «E lo stesso devi fare tu, amore mio. E prega anche che la mia forza e il mio coraggio non vacillino.» «Scusami», sussurrò Anigel abbracciandolo stretto, «che sciocca sono, a renderti le cose più difficili con le mie morbose fantasie.» Antar la baciò. «Io ti amo, ricordalo.» Continuava a piovere con violenza e a tratti folate di nevischio tintinnavano contro i vetri della finestra. Nevischio! In un luogo così a sud come Derorguila e per giunta nel bel mezzo della Stagione Secca! Il re represse un brivido; forse, dopotutto, la premonizione della regina di un disastro di portata mondiale conteneva un po' di verità... Pur essendo solo il tramonto, la città era sprofondata in un buio quasi notturno e si trovava avvolta in una nebbiolina gelata. I lampioni delle strade e i fuochi di guardia sui bastioni del palazzo erano già stati accesi, aggiungendo il loro fumo al miasma che sovrastava la capitale. Derorguila, la città più grande e più ricca della Penisola, stava completando i preparativi per respingere l'invasione raktumiana. La cerchia interna delle mura del palazzo era piena di soldati, cavalieri su fronial da guerra e squadre di guardie; gli ultimi carri carichi di cibo, legna da ardere e munizioni per le catapulte stavano risalendo la strada; il flusso di carri e di uomini era diretto e regolato da ufficiali muniti di torce. La maggior parte dei non combattenti ai quali era stato ordinato di lasciare la città erano già partiti e nelle dimore vicine al palazzo, i cui proprietari non erano fuggiti in preda al panico, i servitori stavano sbarrando con assi le finestre del piano terra. Il cielo verso il mare ardeva rosso per via dei fuochi che erano stati accesi sui moli. Le navi più grandi della flotta laboruwendiana erano salpate da tempo per impegnare l'armata dei pirati quando fosse giunta in vista della costa; quelle più piccole, che si sarebbero incatenate una all'altra all'imboccatura del porto per bloccarne l'accesso, stavano caricando uomini e provviste e si preparavano a prendere posizione.
Una folata di nevischio trasportata dal vento sbatté contro la finestra come una manciata di sabbia umida. «Questo tempo impossibile!» esclamò Anigel, stringendosi sulle spalle lo scialle di lana. «I nostri guerrieri non hanno l'equipaggiamento adatto per combattere con questo freddo e i civili che sono fuggiti in campagna soffriranno terribilmente se l'assedio si prolunga.» «Se Osorkon e i suoi ci restano fedeli, possiamo sperare. Possono raccogliere almeno tremila uomini e in una situazione difensiva questi rinforzi dovrebbero bastare. Il brutto tempo è uno svantaggio più per il nemico che per noi.» «Ma Osorkon verrà?» Il tono della regina era dubbioso. «Continua a professare lealtà, lo so, e nega di aver avuto parte nel complotto di sua sorella Sharice. Ma lui e i suoi seguaci non hanno mai accettato la presenza di ruwendiani nel governo dei Due Troni.» «Osorkon verrà», insistette il re. «Solo poche ore fa è giunto un messaggero da Kritama con la notizia che le sue truppe si sono mosse; si sarebbero messi in marcia prima se la tempesta non avesse reso quasi impraticabili le strade delle province occidentali.» «Se solo avessi il mio talismano!» sospirò Anigel. «Con il Mostro sarei in grado di spiare Osorkon e determinare se si è davvero schierato con i nemici, come Owanon e Lampiar pensavano avrebbe fatto... E il talismano mi permetterebbe anche di accertare se è vera una tremenda voce che Lady Ellinis ha sentito oggi da uno dei carrettieri.» «E di che si tratta?» Anigel esitò e quando rispose la sua voce era carica di paura. «Sembra che degli Oddling siano scesi dalle loro remote valli nel lontano ovest, cacciati dal loro territorio da un gelo inusitato. Hanno detto ai contadini che il Ghiaccio Vincitore aveva ripreso ad avanzare e presto avrebbe coperto il mondo se non fosse stato posto riparo allo squilibrio...» «Sciocchezze!» sbuffò il re. «Le tempeste sono di certo opera di quell'abominevole Mago; sta usando il cattivo tempo come un'arma. Anche dodici anni fa si vantava di come riuscisse a comandare le tempeste. Ma non oserà continuare ancora a lungo, perché rischia di mettere in pericolo i suoi stessi uomini... Grande Zoto!» Ancora una volta gli spessi muri del palazzo tremarono e questa volta la scossa fu talmente forte che dal camino uscì una nuvola di fuliggine nera che rischiò di soffocare il fuoco. Due piccoli pannelli di vetro della finestra s'incrinarono e l'armatura del re appoggiata a un cassettone in attesa di es-
sere indossata cadde sul pavimento di pietra con un gran clangore. Anigel nascose il capo nel petto del marito, ma non gridò mentre il palazzo continuava a tremare. Poi tornò la calma. «È finito», disse Antan «È meglio che andiamo a fare una rapida ispezione...» Qualcuno bussò forte alla porta. «Avanti!» gridò il re. Sulla soglia c'era il ciambellano Lord Penapat e dietro di lui tre figure incappucciate avvolte nei mantelli. «Mio... mio sire, queste nobili dame e il loro compagno sono appena arrivati e chiedono udienza a voi e alla Regina.» Una donna con un mantello bianco spinse da parte Penapat ed entrò nella stanza. «Però non ci aspettavamo un terremoto come benvenuto.» «Hara!» esclamò la regina Anigel, riconoscendo la sorella maggiore e precipitandosi ad abbracciarla. «Grazie a Dio! E sei davvero qui, non stai solo proiettando la tua immagine! Meraviglioso! Sei arrivata in volo con i gipeti?» «No, il mio talismano ora mi porta in qualunque parte del mondo e con me tutti coloro che tocco.» Anche Kadiya e Jagun entrarono dal corridoio e Anigel li fissò sbalordita. «Sei in grado di trasportare loro con la magia... ma non puoi portare i rinforzi da Ruwenda?» «Non posso portare abbastanza uomini in tempo per servire a qualcosa», rispose l'Arcimaga. «E inoltre i guerrieri ruwendiani sono stremati e molti di loro stanno guarendo dalle ferite che hanno riportato a Var. È meglio che io usi le mie energie magiche in modo più produttivo.» «Dicci come... Oh! Che Dio ci aiuti! Ecco che ricomincia!» Il palazzo venne di nuovo scosso da un terremoto, anche se di minore intensità. Haramis sollevò il talismano e mormorò a bassa voce poche parole che nessuno riuscì a udire, poi riferì: «Ho scrutato il terreno sotto Derorguila: al momento non c'è pericolo di un terremoto grave». «Dobbiamo dire alla nostra gente di non preoccuparsi», affermò il re. «Penapat, vai subito a diffondere la notizia che l'Arcimaga è qui e ci proteggerà...» «No!» lo interruppe Haramis. «Nessuno tranne coloro che sono qui deve sapere della mia presenza a Derorguila. E tutti voi dovete cercare di non
tradirmi. Orogastus ci spia in continuazione attraverso i talismani e se non ha idea di dove sono né di quali sono i miei piani, potrò esservi maggiormente di aiuto.» «Ma il popolo sarà atterrito se la terra tremerà ancora», obiettò il re. «Non possiamo tranquillizzarli?» Haramis rifletté, poi sorrise. «Lord Penapat, andate dal saggio Lampiar e ditegli di annunciare che i suoi geomanti hanno determinato che i terremoti sono finiti e non vi è più nulla da temere. Ma ricordate! Non dite nulla della mia presenza qui, né di quella di Kadiya o di Jagun.» Il ciambellano s'inchinò e uscì, chiudendo la porta. Allora Kadiya si avvicinò alla regina e le tese le mani con un sorriso timido. Ogni calore scomparve di colpo dal volto della sovrana, che si limitò a un cenno del capo verso la Signora degli Occhi per voltarsi poi subito a parlare con l'Arcimaga. «Dicci quali nuove hai di Orogastus e dei pirati: il loro piano è sempre di attaccare Derorguila tra due giorni?» «La flotta raktumiana potrebbe essere qui in meno di tre ore», rispose Haramis. «Sono all'ancora in mare aperto, a poca distanza dallo stretto di Dera, nascosti in un banco di nebbia. Per colpire attendono solo l'ordine del Mago. Ma da quello che ho sentito, hanno sempre intenzione di attaccare dopodomani. Hanno il problema di addestrare i guerrieri nell'uso delle strane armi fornite da Orogastus.» «E Lord Osorkon e i suoi simpatizzanti?» chiese il re in tono ansioso. «Stanno venendo qui per aiutare nella difesa di Derorguila, come hanno promesso, o progettano il tradimento?» «Posso aiutarvi a scoprire dove si trovano», disse Haramis aggrottando la fronte, «ma non posso leggere nei loro animi. Però è possibile che tradiscano in qualche modo le loro intenzioni mentre li osservo. Datemi un momento per stabilire dove si trovano...» Mentre Anigel e Antar attendevano ansiosi, Haramis prese di nuovo il talismano e assunse un'espressione lontana. Rimase immobile per parecchi minuti e, poiché il tempo della sua trance si allungava, Kadiya si arrischiò a parlare: «Comprendo la tua riluttanza a darmi il benvenuto, Anigel. Ho agito in modo meschino nei tuoi confronti; non avevo il diritto di rimproverarti per aver ceduto il talismano come riscatto per tuo marito e i tuoi figli. Era una decisione che spettava a te sola. Io... mi pento dal profondo del cuore del mio odioso modo d'agire e ti prego di perdonarmi». «Ti perdono», disse Anigel fredda, ma non accennò ad avvicinarsi alla
sorella. «Sarò ben lieta di aiutarvi in qualunque modo nella difesa del vostro paese», aggiunse Kadiya. «Un guerriero in più non fa certo differenza quando Orogastus e i raktumiani sono in preponderanza numerica», ribatté la regina. «Ma se mio marito vorrà che tu ti unisca ai combattenti, non potrò certo obiettare.» Si voltò e si affaccendò a raccogliere i pezzi dell'armatura caduta. Il piccolo Jagun, per restare in disparte, si era accostato al camino, dove stava attizzando il fuoco dopo aver raccolto la fuliggine e la cenere. «A quanto sembra le mie scuse non bastano a sanare la frattura tra di noi e me ne dispiace», disse Kadiya in tono basso e sincero. «Se la mia presenza ti offende, posso chiedere a Hara di trasportarmi da un'altra parte. Ma ti giuro che sarei pronta a dare la mia vita per difendere te e i tuoi figli.» «Grazie, ma non sarà necessario. E dal momento che tanto tempo fa hai scelto di schierarti con gli aborigeni e non con l'Umanità, forse faresti meglio a tornare da loro... Se certe voci corrispondono al vero, molto presto il Popolo potrebbe aver bisogno di tutto l'aiuto che riesce a trovare.» «Che vuoi dire?» esclamò Kadiya. Anigel si girò come una furia, con in mano un guanto d'acciaio e gli occhi pieni di lacrime. «Siamo condannati... ecco ciò che voglio dire! Umanità e aborigeni insieme. Non parlo solo dell'invasione di questa città e della caduta dei Due Troni, ma della distruzione stessa del mondo! Ed è colpa mia e anche tua, per aver lasciato che i nostri talismani cadessero nelle mani di quel demonio di Orogastus!» «È impazzita?» chiese esterrefatta Kadiya, rivolgendosi ad Antar. «Quello che dice non può certo essere vero!» Scoprì l'amuleto che portava attorno al collo. «Ani, sorella carissima, guarda! Il mio Fiore è di nuovo tornato nero. Di certo questo è un buon auspicio, non un segno di sorte nefasta.» Con le lacrime che continuavano a scorrerle sulle guance, la regina posò il guanto ed estrasse l'amuleto; il rosso scarlatto del giglio fu come uno schizzo di sangue sul suo petto. «Allora forse mi sbagliavo sul destino degli Oddling e sarà solo l'Umanità a perire quando il Ghiaccio Vincitore ricoprirà il nostro povero mondo!» Anigel indicò la finestra. «Senti la pioggia gelata e l'ululato del vento? Un tempo simile può forse essere consueto nelle montagne e nelle distese desolate a nord di Tuzamen, ma è inaudito sulle coste temperate di
Labornok. Il mondo si sta capovolgendo a causa di quei nostri maledetti talismani! Tu e io non abbiamo mai saputo come controllarli e sono convinta che non lo sappia neppure Orogastus. Sta scatenando su di noi Dio solo sa che cosa e i terremoti e le tempeste sono solamente le prime avvisaglie del cataclisma che verrà! Che nostra sorella Haramis lo neghi, se può!» Antar e Kadiya guardarono l'Arcimaga, ma questa era ancora immersa nella trance. «Che cosa voleva dire del Ghiaccio Vincitore?» chiese Kadiya ad Antar. «È una voce... solo una voce di Oddling che sono fuggiti dalle loro valli interne.» Alzò le braccia al cielo. «Ma chi può dire che non sia vero? Lampiar, che è il nostro più grande erudito, afferma che a memoria d'uomo questa terra non ha mai subito un maltempo così disastroso. Negli ultimi sei giorni un terzo del raccolto di grano di Labornok è andato distrutto; quello che non si è congelato è stato rovinato dalle inondazioni e i raccolti che restano sono in grave pericolo. Ma che importa se queste catastrofi sono o no di origine soprannaturale? Anche se non dovessimo fronteggiare un'invasione, il nostro paese sarebbe comunque sull'orlo della rovina.» «Ho trovato Lord Osorkon», disse di colpo l'Arcimaga. Antar e Kadiya si volsero a lei con rinnovata speranza e persino la regina la guardò ansiosa. «Lui e il suo esercito di circa tremila uomini sono accampati nel Boschetto di Atakum, sedici leghe a sud-ovest della città.» «Meraviglioso!» gridò il re. «Potranno essere qui domani al più tardi!» «Temo di no», ribatté l'Arcimaga. «Sono nel boschetto da almeno due giorni e non danno segno di volersi muovere. Nella veloce perlustrazione che ho fatto dell'accampamento non sono riuscita a scoprire informazioni concrete sui piani di Osorkon... nulla, tranne la certezza che il suo esercito non si muoverà fino a quando gli invasori raktumiani non sbarcheranno a Derorguila e la battaglia sarà già iniziata. Solo allora Osorkon marcerà sulla città.» «Per i Denti di Zoto!» gemette il re. «Allora è davvero un traditore! E non solo dei Due Troni, ma con ogni probabilità anche di quei mascalzoni dei suoi alleati pirati. Senza dubbio il suo piano è di restare in disparte finché sia i difensori sia i raktumiani non saranno decimati e a quel punto impadronirsi da solo della città.» «Quel maledetto sporco traditore!» gridò Kadiya. Antar si rivolse all'Arcimaga. «Bianca Signora, a quanto pare ora tu e la tua magia siete la nostra unica speranza. Con quattromila guerrieri soltanto
non possiamo sperare di difendere Derorguila da un doppio attacco per terra e per mare.» «Io sono sola e la mia esperienza è di formazione troppo recente», rispose Haramis. «Stai certo che farò tutto quanto è in mio potere per aiutarvi, ma è possibile che Orogastus sia in grado di opporsi alla mia magia con i suoi poteri... e io non posso causare deliberatamente la morte degli invasori; sarebbe contrario ai principi arcimagici che governano la mia vita. Il mio compito è proteggere e guidare tutte le persone che vivono sulla terra, qualunque sia la loro razza o la loro nazione.» «Tu... tu non useresti la tua magia per uccidere questi malvagi invasori?» gridò la regina Anigel piena d'indignazione. «No», replicò l'Arcimaga, «neppure per salvare i tuoi Due Troni.» «Ma Hara, e se Ani avesse ragione e il mondo stesso fosse in pericolo?» intervenne calma Kadiya. «Non uccideresti Orogastus per salvarlo?» Haramis abbassò lo sguardo. «È una domanda inutile: se riuscirò a neutralizzare la sua magia, non sarà necessario ucciderlo. Vi è... vi è un luogo dove può essere imprigionato senza possibilità di fuggire.» «Se prima lui non distrugge te!» urlò Anigel. «Se lui non distrugge il mondo!» «Orogastus non comprende il pericolo mortale insito nello Scettro del Potere e neppure io lo comprendo appieno. Dovrò consultarmi con la mia amica Arcimaga del Mare per determinare qual è il modo migliore di rimediare allo squilibrio dell'ordine naturale.» «Faresti meglio a farlo in fretta», gridò Anigel, «prima che i pirati mettano a ferro e fuoco Derorguila e Orogastus ci faccia cadere in testa le Tre Lune stesse!» «Ani, come puoi parlare così?» esclamò Kadiya sconvolta dall'amarezza della sorella. «Pace, moglie mia, pace!» la sollecitò il re scandalizzato. «Le tue sorelle sono venute qui per cercare di aiutarci. Non puoi mostrare loro un po' di gratitudine invece di questi immeritati rimproveri?» Anigel guardò le sorelle con una luce di follia negli occhi, poi esplose in un pianto dirotto, tremando da capo a piedi. Ancora una volta Haramis aprì le braccia alla regina, la strinse a sé, mormorando parole di conforto come aveva fatto dodici anni prima, quand'erano solo tre giovani principesse e Haramis era la maggiore e la più assennata, e Anigel la più giovane, timida e schiva. Kadiya avvicinò una sedia e Anigel vi si lasciò cadere, riprendendo pian piano il controllo di se
stessa. «Mi comporto come una stupida», sussurrò la regina. «Come una bambina, non come la sovrana dei Due Troni. Da quando il mio giglio è diventato scarlatto, sono stata perseguitata da orribili incubi e tremendi presentimenti. Il coraggio mi ha abbandonata e vedo solo oscurità davanti a me.» «Se tu riuscissi a guarire il tuo Fiore», disse Kadiya, «anche la tua anima guarirebbe.» «Non ho dubbi», ribatté la regina in tono distratto. «Dal momento che tu sei riuscita a riavere il tuo Giglio Nero, forse dovresti spiegarmi come hai fatto.» «So solo che quando mi sono pentita dell'odio e del disprezzo verso di te e ho accettato che il mio Popolo potesse aver rifiutato la mia chiamata alla guerra, il Giglio di Sangue si è trasformato.» «Ti ho già detto che accettavo le tue scuse», disse la regina, «ma, come hai visto, non è successo nulla al mio amuleto.» «Ho visto», convenne Kadiya, «e questo mi ha gelato il cuore. Ma quale possa essere il rimedio, tu sola puoi dirlo, sorellina,» E la Signora degli Occhi distolse lo sguardo da Anigel e si rivolse al re. «Vuoi che me ne vada, cognato, o mi permetti di servirti?» Antar era rimasto come paralizzato, impotente di fronte al dolore della moglie, ma ora la sua espressione si fece pensosa e una nuova luce di speranza e di decisione brillò nei suoi occhi. «Invece di rispondere alla tua domanda, lasciate che vi esponga un'idea che mi è venuta da poco, un modo che forse potrà neutralizzare il tradimento di Lord Osorkon. Si tratta di un piano audace e pericoloso e forse anche inutile. Voi tre dovrete aiutarmi a decidere.» Haramis e Kadiya annuirono serie; la regina parve invece rattrappirsi sulla seggiola, sommersa da un nuovo terrore. Ma non disse nulla. «Io non credo che i nobili che seguono Osorkon siano irrevocabilmente votati alla sua causa», disse il re. «Se io mi recassi questa sera stessa al Boschetto di Atakum con una piccola scorta dei miei cavalieri più valorosi e se sfidassi Osorkon a singoiar tenzone e lo sconfiggessi, sono quasi certo che i suoi seguaci si voterebbero di nuovo ai Due Troni, se promettessi loro l'amnistia. Sono quasi tremila, e questi uomini in più al nostro fianco ci darebbero almeno la possibilità di respingere dal nostro paese i pirati invasori... quale che sia poi il fato del mondo.» «No!» urlò Anigel. «Osorkon è un mascalzone senza onore! Ti farebbe uccidere ancor prima che tu avessi il tempo di lanciare la sfida!»
Antar chinò il capo in direzione dell'Arcimaga. «No, non lo farebbe se la Bianca Signora dovesse usare la sua magia per aiutarmi a penetrare nell'accampamento dei traditori senza essere scoperto. Se potesse rendere invisibili me e i miei uomini, o anche mascherarci in modo che nessuno ci fermi prima che io abbia potuto lanciare la mia sfida a Osorkon, il mio piano funzionerebbe. Lui non potrebbe rifiutare di battersi, per non perdere la faccia davanti al suo esercito.» «È un'idea splendida, Antar!» disse Kadiya. «Lasciami venire con te.» Haramis annuì con aria pensosa. «Il tuo piano mi sembra fattibile. Posso tenere sotto sorveglianza Osorkon e avvertirti dei suoi movimenti e delle sue intenzioni mentre ti avvicini al campo. E posso anche schermarti dalla Vista di Orogastus, che avvertirebbe di certo Osorkon se vedesse te e i tuoi cavalieri dirigersi verso di lui.» «Farebbe molto più di quello!» gridò la regina Anigel. «Darebbe subito inizio all'invasione! E tu, marito mio, saresti lontano da Derorguila e le nostre truppe sarebbero di nuovo senza il loro re. E io che cosa potrei dire loro? Che sei andato in cerca di rinforzi?» «Ma Hara sarebbe comunque qui per aiutare a difendere la città...» disse Kadiya. «No», affermò triste l'Arcimaga, «per fare in modo che Antar non venga scoperto, dovrò accompagnarlo. Non potrei schermarlo dalla Vista del talismano di Orogastus se non con la presenza del mio Cerchio dalle Tre Ah.» Il re gemette. «La mia idea va in fumo! Il maresciallo Owanon sarebbe sicuramente in grado di tenere sotto controllo le truppe in mia assenza, ma non posso lasciare Anigel e i bambini esposti alla minaccia di Orogastus.» La regina si alzò di scatto dalla sedia, con lo sguardo vivo e non più pallida come prima. «C'è una soluzione a questo dilemma: io, Jan e Niki verremo con te!» «Buon Dio, no!» esclamò il re. «Non posso rischiare la vostra vita!» «La nostra vita è già in pericolo», dichiarò la regina. «Senza altre truppe, non possiamo sperare di tenere Derorguila. Non sprecare tempo ad angosciarti per noi, amore mio! Il Boschetto è a solo due ore di cavallo dalla città: possiamo partire subito e arrivare all'accampamento di Osorkon prima che i suoi uomini si ritirino per la notte. Tutti devono vederti sfidare il traditore e sconfiggerlo. L'alternativa è attendere che Orogastus e i traditori ci attacchino, prendendoci tra due fuochi. In una situazione del genere, con la magia oltre che la preponderanza militare schierate contro di noi, i bambini e io verremmo di certo fatti prigionieri.»
«Lascia che tua sorella vi trasporti in un luogo sicuro mentre io sfido Osorkon!» pregò il re. «L'unico modo in cui me ne andrò da questa città», affermò Anigel, «è al tuo fianco. Noi siamo co-reggenti... noi siamo i Due Troni.» «Ha ragione», intervenne Kadiya in tono deciso. «Non puoi pensare alla tua regina come a una donna normale e neppure al principe ereditario e alla principessa come a bambini normali.» «No», convenne Antar. «Ma se Osorkon vincesse il duello...» «Non vincerà!» Anigel corse dal marito e gli gettò le braccia al collo. «Io devo accompagnare te e i tuoi cavalieri, su questo non si discute», disse l'Arcimaga. «Se vengono anche Anigel e i bambini - e anche Kadiya, naturalmente! -, posso proteggervi tutti. E inoltre il Mago non sarà in grado di scoprire il nostro piano fino a quando Osorkon non sarà morto e il suo esercito si metterà in marcia verso la città. Ma non illudetevi: quando ciò avverrà, Orogastus attaccherà immediatamente.» «E allora?» chiese il re. I pallidi occhi azzurri dell'Arcimaga della Terra divennero gelidi come il Ghiaccio Vincitore. Si avvolse nel luccicante mantello bianco e i presenti tremarono alla vista dell'aura sovrannaturale che per un attimo emanò dal suo corpo. Ma un istante dopo, l'Arcimaga era di nuovo Haramis, che sorrideva con aria pensosa. «Farò del mio meglio per neutralizzare Orogastus, ma non posso compiere più di un atto magico alla volta e non sono un'esperta di faccende militari. Ci troveremo tutti in pericolo mortale, non solo voi, ma anch'io. Se una freccia vagante o un colpo di spada inaspettato mi prende di sorpresa, potrei restare ferita e a quel punto non sarei più in grado di controllare la magia. O potrei addirittura morire.» «E il tuo talismano...» cominciò Kadiya. «Nessuna di voi due potrebbe prenderlo e usarlo senza subire il contraccolpo», spiegò Haramis. «Di conseguenza cadrebbe preda di Orogastus e del suo scrigno stellato.» «Non mi ero reso conto di che cosa implicava il mio piano», dichiarò il re pallido in volto. «Dobbiamo abbandonarlo. Dacci tutto l'aiuto che puoi per salvare Derorguila, Arcimaga... ma senza mai arrivare al punto di mettere in pericolo te stessa.» «Ho già deciso che cosa farò», dichiarò Haramis. «Allora andiamo», disse secca la regina. «Possiamo essere pronti a partire entro un'ora. Antar, tu occupati di radunare i tuoi cavalieri. Porteremo
con noi anche il Dorok Shild, che è esperto di climi freddi, mentre noi non lo siamo.» «Anche Jagun potrà esserci d'aiuto», fece notare Kadiya. «E io ti aiuterò con i bambini.» La regina s'irrigidì e tutto l'ardore scomparve dal suo volto. «Non sarà necessario.» «Quale gioia sarebbe per me se tu e tua sorella poteste davvero riconciliarvi prima di partire per questa missione disperata», disse il re alla moglie. Ma la regina replicò: «Ho già detto che la perdono! Che altro ti aspetti da me?» «Ani», intervenne l'Arcimaga, «mi permetti di guardare la tua ambra del giglio?» Anigel strinse le labbra, poi tirò fuori da sotto l'abito la catena cui era appeso l'amuleto. «Ecco! Sei soddisfatta?» Il Fiore era come una minuscola macchia di sangue tra le mani della regina. Mentre gli altri la fissavano senza parlare, Anigel nascose di nuovo l'amuleto sotto l'abito. «Mi occuperò dei bambini dopo aver trovato Shiki. Antar, porta con te Haramis, Kadiya e Jagun in modo che la tua conversazione con i tuoi cavalieri e i preparativi per la partenza non possano essere scoperti da Orogastus e dalle sue spie. Mi unirò a voi tra mezz'ora.» Uscì in fretta dalla stanza, con aria decisa, come se lo scoramento e la disperazione di pochi attimi prima non fossero mai esistiti. «Forse sarebbe meglio che tu mi mandassi via», disse Kadiya alla sorella. «È chiaro che Ani continua a portarmi rancore.» Haramis si avvicinò alla finestra e osservò la scena desolata. «No. Dobbiamo affrontare insieme questa crisi. Lo so con assoluta certezza... è l'unica cosa di cui sono certa.» «Bianca Signora», disse il re in tono esitante. «I timori di mia moglie di un'imminente catastrofe sono reali o sono una fantasia?» «Sono reali», ammise l'Arcimaga. «Lo temevo.» Il re raddrizzò le spalle. «Ah, be', io cercherò di salvare il mio paese. La salvezza del mondo è responsabilità tua! Signore, Jagun, andiamo nella camera del consiglio.» Uscirono tutti e quattro. Fuori del palazzo di Derorguila, il vento gelido soffiava più forte che mai, allontanando la nebbia, e il nevischio si trasformò in larghi e piatti fiocchi di neve.
26 Uscirono dal cancello posteriore del palazzo, in una notte dal biancore pungente, attraverso strade lastricate già nascoste da tre dita di neve. Gli alberi e i cespugli ornamentali delle piazze e dei viali si piegavano patetici sotto il peso di quella coltre scintillante e fuori stagione che bruciava fiori e foglie. Tutti i difensori avevano ormai preso posizione sulle fortificazioni e i carri con i rifornimenti avevano cessato di arrivare. Derorguila pareva deserta in quella tormenta, le case buie e sprangate, e solo qualche raro filo di fumo dai camini a indicare un proprietario ostinato che aveva rifiutato di andarsene. Cavalcavano a due a due su alti fronial dai grandi palchi di corna, ricoperti di gualdrappe imbottite. Per primi venivano l'Arcimaga Haramis e re Antar, che teneva le redini della cavalcatura di lei in modo che fosse libera di dedicarsi alla magia. Dietro di loro i tre robusti figli di Lady Ellinis, Marin, Blordo e Kulbrandis, accanto a Kadiya. Poi veniva la regina Anigel e accanto a lei, su un'unica cavalcatura, Nikalon e sua sorella Janeel, imbacuccati fino agli occhi nelle pellicce. Subito dietro di loro, impacciati a cavalcioni di quelle grandi creature, venivano Jagun e Shiki il Dorok, con le provviste. La retroguardia formata da sei valorosi cavalieri era guidata da due nobili d'indiscussa fedeltà: Gultreyn, Conte di Pork a Ruwenda, e Lord Balanikar di Rokmiluna, amato cugino di Antar. Il re, Kadiya e gli undici umani indossavano solo elmo e corazza con maniche di maglie di ferro, per via della necessità d'indossare abiti pesanti e caldi, ed erano armati con lance e spada. I due aborigeni avevano pugnali e arco e persino i due bambini avevano due piccoli pugnali per difendersi. Gli animali non lasciavano tracce nella neve di quelle strade deserte, e nessun'ombra compariva quando passavano sotto i lampioni scoppiettanti. Con poca difficoltà l'Arcimaga aveva esteso attorno a tutti loro la sua aura protettiva, che di solito la schermava dalla Vista fino a un metro di distanza senza sforzo cosciente da parte sua. Ma, come aveva detto ad Anigel e Antar all'inizio del viaggio, aveva ampie riserve magiche cui attingere per scrutare anche Osorkon o il Mago e, quando non era impegnata a spiare, per operare altri incantesimi che potevano essere loro di aiuto. Purtroppo in quelle circostanze era impossibile ripararli tutti dal freddo e dalla neve. Il talismano teneva calda l'Arcimaga, ma lei non poteva estendere lo stesso conforto agli altri, che avanzavano stoicamente chini sulle
selle senza un lamento. Arrivarono alla Grande Porta Sud della città, che era sbarrata e con le torri di guardia presidiate; sulle mura splendevano i fuochi di guardia, con le fiamme quasi orizzontali per la forza del vento. «Vado avanti a ordinare che vengano aperte le porte», disse Antar a Haramis. Ma lei scosse il capo. «Persino un'azione così piccola potrebbe essere spiata da Orogastus; se lui o le sue Voci vedessero i cancelli aperti e nessuno che entra o esce, sospetterebbero subito la magia. No, posso fare di meglio.» Mentre le sentinelle ignare proseguivano la ronda, il gruppo di cavalieri si fermò e Haramis avanzò da sola fino alle porte massicce e le toccò con il suo talismano. Immediatamente le grandi ante di legno scuro inchiavardate di ferro parvero trasformarsi in vetro e Antar e gli altri non riuscirono a trattenere un grido stupefatto nell'accorgersi che erano in grado di vedere la strada buia fuori della città. «Passate», ordinò Haramis e con il suo fronial attraversò le porte chiuse come un coltello che tagliasse l'acqua. Più che mai stupefatti, gli altri la seguirono e, quando furono all'esterno delle mura, la Grande Porta Sud riprese la sua solidità. «Bianca Signora, sapevamo che eravate una maga di grandi poteri», esclamò il venerabile conte Gultreyn, «ma non avevo mai visto nulla di simile!» «Nemmeno io», rispose tranquilla Haramis. «Non ero sicura che avrebbe funzionato fino a quando non è successo. Solo di recente ho acquistato una nuova perizia nell'uso della magia, conte Gultreyn, e sospetto che il futuro riservi non solo a voi ma anche a me non poche sorprese. Solo, pregate che siano sorprese gradevoli.» Proseguirono il cammino nella notte buia; solo il cielo aveva ancora una debole luminescenza grigia, che però non era di nessuna utilità ai viaggiatori avvolti nella tormenta. Il Dorok Shiki tirò fuori le corde che erano state portate dietro suo consiglio e legò insieme le due file di fronial, in modo che nessuno si perdesse. Gli animali tennero un buon passo, all'inizio, ma rallentarono a mano a mano che la neve aumentava finché non fu chiaro che il viaggio avrebbe richiesto più tempo del previsto. Sulla grande strada non incontrarono nessuno, pareva che tutti gli abitanti dei villaggi vicini alla città fossero fuggiti. A tre leghe da Derorguila, piegarono in una strada secondaria che attraversava una campagna disse-
minata di piccole fattorie le cui luci erano a malapena visibili nella neve, anche se le case sorgevano a pochi metri dalla strada. L'Arcimaga li guidava con sicurezza; anche quand'era immersa nella trance, la sua cavalcatura avanzava decisa, per nulla disturbata dalla tempesta, sbuffando grandi nuvolette di fumo dalle narici e scuotendo di tanto in tanto il muso per togliersi la neve dalle ciglia. Erano in viaggio da più di un'ora quando la principessa Janeel, nonostante la tormenta, si addormentò in sella e rischiò di cadere dalla cavalcatura. Il principe Nikalon, più che mai assonnato, non se ne accorse, ma per fortuna Shiki vide che cosa stava succedendo e, spronando il suo fronial, riuscì ad afferrare la ragazza prima che cadesse sul terreno gelato. Dopo questo episodio, la regina Anigel ordinò che i figli venissero legati alla sella. Quando si rimisero in moto, Antar disse a Haramis: «Questa tempesta peggiora di minuto in minuto. Come potremo Osorkon e io combattere un duello in questi turbini di neve? Non riusciremo neppure a vederci!» «Osorkon è accampato in mezzo agli alberi che attenuano moltissimo la violenza della tempesta», rispose Haramis. «Non devi preoccuparti per questo.» «Era solo una preoccupazione minore», ammise il re. «Ne ho un'altra molto più critica, che rivelerò a te sola, ora che Anigel non può sentire. Le mie condizioni fisiche sono ben lontane da quelle che dovrebbero essere; il sonno magico in cui Orogastus mi ha tenuto sprofondato e poi la prigionia non sono stati certo l'allenamento adatto in vista di un duello. Se godessi della mia normale buona salute, non avrei difficoltà a battere Osorkon. Ma così potrei non farcela, anche se lui ha vent'anni più di me. È un vecchio robusto e senza scrupoli, famoso per la sua bravura con la spada.» «Potrei aiutarti...» cominciò l'Arcimaga. «No! È proprio quello che non voglio che tu faccia, anche se mia moglie ti supplicherà certo in questo senso. Non dev'esserci nessun sleale vantaggio magico da parte mia, se voglio sperare di riguadagnare alla mia causa i seguaci di Osorkon. Essi non devono neppure sapere della tua presenza! Devo battere Osorkon lealmente, con le mie sole forze... o accettare la sconfitta.» «Anche la morte?» chiese Haramis con voce a malapena udibile al di sopra della tempesta. «Dovrai usare tutti i tuoi poteri per salvare Anigel e gli altri, se dovessi essere sconfitto, ma non cercare di salvare me. Sono certo che capisci.» «Sì», sospirò Haramis. «Farò quello che hai chiesto.»
Proseguirono a lungo senza più parlare. La strada prese a salire e si trasformò in due rotaie gelate ingombre di mucchi di neve trasportata dal vento; non si vedevano più steccati e neppure ponti sui ruscelli gelati, ma ai lati del sentiero che diventava sempre più stretto cominciarono ad apparire alberelli e cespugli carichi di neve. I viaggiatori stavano finalmente entrando nel Boschetto di Atakum e, dopo non molto, gli alberi si fecero fitti quanto bastava a mitigare la forza del vento e della tormenta. Quando giunsero a una piccola capanna male in arnese appartenuta ai carbonai uccisi dalle truppe di Osorkon, Haramis li fece fermare. Smontarono di sella e i fronial vennero legati agli alberi che circondavano il rifugio, poi tutti entrarono nella capanna. Jagun e Shiki scaricarono le provviste e quando l'Arcimaga toccò le bevande e i contenitori semicongelati di cibo con il suo talismano che ardeva di un'intensa luce dorata, questi si scaldarono all'istante e i viaggiatori bevvero e mangiarono avidamente. Chi aveva le estremità congelate trovò sollievo al tocco della mano di Haramis e Jagun accese un piccolo fuoco nel minuscolo camino che ben presto aiutò a scacciare in parte il gelo. «Siamo quasi arrivati all'accampamento», riferì Haramis. «Ho scrutato l'esercito di Osorkon e non sospettano nulla; fino a questo momento abbiamo evitato di essere scoperti.» «E il Mago?» chiese Anigel, accucciata davanti al fuoco con i figli. «La Voce Gialla di Orogastus usa l'Occhio di Fuoco Trilobato per scrutare Derorguila. Il Mago invece usa il diadema e questa sera ha comunicato con Lord Osorkon, per avvertirlo di tenersi pronto per attaccare la città. In questo momento Orogastus sta cercando con tutte le sue forze di trasportare certi oggetti dal suo castello di Tuzamen alla nave, ma senza successo. Sembra completamente immerso in questo tentativo e per il momento ritengo che possiamo ritenerci al sicuro dalla sua Vista.» «Allora siamo pronti ad avanzare?» chiese Antar in tono grave. «Sì», rispose Haramis. «Lasceremo qui gli animali e attraverseremo il bosco a piedi; l'accampamento di Osorkon si trova a meno di un terzo di lega da qui. Portate solo la spada, vi guiderò io.» Un mormorio di assenso si levò dai presenti che mangiavano panini caldi o tortine di carne, e si passavano un otre pieno di vino caldo e speziato. Il principe ereditario Nikalon ingoiò un boccone e chiese con voce chiara: «Mia sorella e io, padre? Ti accompagneremo anche noi?» «No», rispose subito l'Arcimaga. «Voi e la regina vostra madre resterete qui, con la scorta del conte Gultreyn e dei tre figli di Lady Ellinis e anche
di Jagun e Shiki.» «No!» gridò Anigel disperata. «Antar... lasciami venire con te!» Il re si fece strada nella folla di cavalieri avvolti nei mantelli e prese le mani della moglie. «Amor mio, tu devi restare qui: la presenza tua e dei bambini mi distrarrebbe. Lo so che sarà duro per voi non sapere ciò che sta accadendo, ma è la cosa migliore. Qui non correte un grande pericolo. E se dovesse accadere il peggio, l'Arcimaga vi trasporterà tutti in un posto sicuro.» «Il mio posto è accanto a te! Come eravamo d'accordo!» «E se Antar fosse ferito mortalmente», intervenne Kadiya senza pietà, «perché tu hai distolto la sua attenzione dal nemico?» «Oh, accidenti a te, Kadi!» gemette Anigel. «Non lo farei mai...» «Non lo faresti intenzionalmente», disse il re. «Ma questo duello sarà il più difficile della mia vita. Amore, ti prego, resta qui: combatterò con cuore più leggero.» Anigel lo guardò con gli occhi pieni di lacrime, il viso incorniciato dalla pelliccia dorata del worram, su cui brillavano gocce di neve sciolta. «Antar... oh, amore mio! Ecco che ancora una volta ti ostacolo nel compimento del tuo dovere solo per le mie egoistiche paure. Perdonami! Certo, resterò qui.» Le loro labbra s'incontrarono, poi Anigel si sciolse dal suo abbraccio e chiamò Jan e Niki. «Salutate vostro padre con un bacio, piccoli miei.» I bambini si avvicinarono al re con aria seria e lui si chinò ad abbracciarli. «Pregherò per te», disse Anigel. «Ricorda che ti amo con tutto il mio cuore e la mia anima.» Il re non disse nulla; si mise l'elmo e controllò la spada, per accertarsi che si sfilasse dal fodero senza inciampi. I cavalieri che dovevano accompagnarlo fecero altrettanto, poi, a uno a uno, si avvicinarono alla regina per ricevere la sua benedizione prima di apprestarsi a seguire l'Arcimaga. Kadiya fu l'ultima ad andare. «Sorella», disse ad Anigel con voce incerta, «vuoi che resti con te?» Ma Anigel scosse il capo e si girò, triste e infelice, dimenticandosi di offrirle la sua benedizione. «Allora sarò io a stare a fianco del re durante la sua ordalia», disse Kadiya, «e sarò la prima a complimentarmi con lui per la vittoria o la prima a dare la vita per vendicarlo. Addio.» «Kadi...» La regina si girò lentamente. Ma la Signora degli Occhi non c'era più.
Il piccolo Shiki, con gli occhi inumani colmi di dolore, non poté trattenersi daU'esclamare: «Oh, Grande Regina! Non puoi proprio perdonare tua sorella?» «L'ho fatto», insistette la regina fissando le fiamme. Ma il giglio color del sangue che dondolava dalla catena dorata smentiva le sue parole. Che cosa cerca con tanta urgenza? chiese Haramis al suo talismano. In precedenza era stata troppo distratta per considerare le implicazioni della strana attività magica di Orogastus, ma ora, mentre camminava in fretta nell'oscurità seguita dagli altri, la domanda assumeva un'importanza vitale. Il Cerchio dalle Tre Ali rispose: Orogastus sta cercando di trasportare a lui gli oggetti che servono all'iniziazione alla Società della Stella. Buon Dio! E chi vorrebbe iniziare... le Voci? Sì. Ma perché? I suoi motivi mi sono celati dal Sigillo della Stella. Haramis emise una breve esclamazione irritata, ma subito, mentre continuava a guidare Kadiya e gli altri in fila indiana nel paesaggio ammantato di neve, capì. Naturalmente! Il Fulcro! Che cosa aveva detto il Maestro sindona...? Solo il Consiglio della Stella o il Collegio degli Arcimaghi al completo potevano distruggere l'esagono nero che era la chiave all'esilio permanente di Orogastus! Pur conoscendo già la risposta, chiese al talismano: Quante persone ci vogliono per dare origine al Consiglio della Stella? Tre o più. E questo spiegava ogni cosa. Fermandosi, ordinò al talismano di scrutare ancora il Mago sulla sua nave... e quello che la Vista le mostrò le fece trattenere il fiato. Orogastus non portava più la consueta veste bianca, ma gli stessi terribili paramenti che aveva indossato tanto tempo prima in onore delle Potenze Oscure. Era avvolto in un lungo barracano di maglia d'argento inframmezzato da larghi quadri di morbido cuoio nero e lucido; il mantello era nero bordato d'argento, chiuso da un elaborato fermaglio e con una grande stella a molte punte ricamata sulla schiena. Alle mani portava guanti di cuoio color argento. Una straordinaria maschera d'argento gli celava il volto, lasciando scoperta solo la parte inferiore e creando una corona di raggi appuntiti attorno al capo. Sulla fronte della maschera brillava il talismano chiamato il Mostro dalle Tre Teste e gli occhi del Mago erano due punti di accecante luce bianca.
Inginocchiati a fianco a fianco ai piedi di Orogastus c'erano la Voce Gialla e la Voce Porpora, con le teste rasate scoperte e le orbite che parevano due buchi neri e vuoti. Il Mago aveva teso una mano sopra la testa degli accoliti immobili e con l'altra levava in alto la spada smussata dell'Occhio di Fuoco Trilobato. «Io ti comando, talismano!» intonò il Mago. «Io t'imploro in nome della Stella! Trasporta a me l'antico cofano con il Sigillo della Stella che si trova nel mio studio a Castel Tenebroso, a Tuzamen! Trasportalo a me attraverso l'aria su veloci venti di magia! Obbediscimi!» No! disse Haramis. Io ordino a te, mio Cerchio dalle Tre Ali, d'impedire l'arrivo del cofano. Ma, a mezz'aria, davanti a Orogastus si stava materializzando un vecchio e decrepito cofano legato con cinghie di argento annerite e con una stella annerita e corrosa sul coperchio. Haramis concentrò la mente sull'oggetto, lo visualizzò trasformato in cristallo iridescente e con tutta la sua forza lo costrinse a tornare da dov'era venuto. E il cofano scomparve. Le due Voci vennero scosse da un parossismo convulso e crollarono prive di sensi ai piedi del Mago. Orogastus barcollò, stupito e sconcertato, e poi emise un urlo di rabbia. «Haramis! Sei stata tu!» Sì, rispose lei. Orogastus abbassò lentamente l'Occhio di Fuoco Trilobato e, trattenendo le imprecazioni, cercò di riprendere il controllo di se stesso. «Haramis, mostrati», la implorò con voce rotta. «Dove sei? Perché non hai risposto alle mie chiamate? Parlami! Vieni a me! Possiamo ancora impedire la distruzione della nazione di tua sorella e la morte di migliaia di anime. Amore mio carissimo... ti prego, ascolta semplicemente quello che devo dirti! Lascia che io veda il tuo caro volto. Devi!» Trafitta nel profondo del cuore, Haramis esitò. Poi, con un grido di dolore, bandì la Vista di lui e rimase in piedi tremante in mezzo alla neve che cadeva, stringendo la bacchetta del talismano tra le mani nude, il viso sconvolto dall'orrore. Antar, Kadiya e i cavalieri la guardarono attoniti e spaventati, consapevoli che qualcosa di tremendo doveva essere accaduto, ma incapaci di comprenderlo. «Ho quasi risposto al suo richiamo, spontaneamente», sussurrò Haramis. «Sorella, che cosa c'è?» chiese ansiosa Kadiya. «È forse successo qualcosa nel campo di Osorkon?»
L'Arcimaga trasalì e poi si ricompose. «No. Non è nulla... nulla che ci riguardi, ora. Seguitemi.» E proseguirono. Dopo un po', nella neve che non cadeva più così fitta, intravidero in mezzo agli alberi il bagliore aranciato dei fuochi; poi scorsero le prime sentinelle che facevano la ronda a testa china e che passarono a non più di sei metri dal gruppo, senza vederlo. Proseguendo, incontrarono altre guardie, che come le prime non si accorsero di loro. Infine giunsero all'accampamento e passarono in mezzo alle file di piccole tende. C'erano ancora parecchi giovani cavalieri e soldati che si riscaldavano attorno ai fuochi, ma nessuno di loro notò l'Arcimaga e i suoi compagni, che poterono proseguire incontrastati fino a un elegante padiglione di fronte al quale si apriva un largo spiazzo di neve calpestata. Davanti alla grande tenda brillava un enorme fuoco e ai lati dell'entrata erano conficcate lance che portavano i vessilli di Lord Osorkon e dei quattro nobili che lo seguivano. Re Antar avanzò al centro dello spazio aperto e si fermò, scostando il cappuccio bordato di pelliccia, e la corona elmo di Labornok, con il visore simile alle fauci aperte di un feroce Skritek, brillò alla luce delle fiamme. Al suo fianco c'erano Kadiya e Balanikar, mentre gli altri sei fedeli cavalieri laboruwendiani si disposero a ventaglio dietro di lui. Haramis, che si era resa invisibile, parlò al re. Ora è tutto nelle tue mani, carissimo cognato. Io resterò invisibile cosicché Osorkon avrà occhi per te solo, ma sorveglierò tutto, per evitare che qualche animo ignobile cerchi d'interferire in questa questione di onore. «Grazie», sussurrò Antar. «Quando si accorgeranno, Osorkon e gli altri, della nostra presenza?» Non appena lo sfiderai. Antar si tolse il mantello, lo passò a Kadiya ed estrasse la spada, subito imitato dai suoi compagni. «Generale Osorkon!» gridò Antar. «Osorkon, vieni fuori e rispondi al tuo re!» Subito tutti gli uomini dell'accampamento si accorsero della loro presenza e, afferrando le armi, corsero verso la tenda dei nobili. Ma quando arrivarono, si ritrovarono misteriosamente a non poter entrare nello spazio aperto. Attoniti e stupefatti alla vista di Antar e dei suoi, gridando impotenti e allarmati, i soldati si disposero in cerchio e attesero di vedere che cosa
sarebbe successo. «Osorkon, fatti avanti!» ripeté il re. «Io ti accuso di essere un traditore e di aver violato il tuo giuramento di fedeltà. Ti accuso di aver cospirato con la nazione pirata di Raktum e il vile Signore di Tuzamen, che in questo momento sono pronti a invadere Derorguila. Perfido mascalzone, traditore del tuo paese! Vieni fuori e affronta la giustizia che meriti!» Seguì un lungo silenzio; il vento era cessato e solo qualche fiocco di neve cadeva lento e solitario. A fianco del re, con il cuore che le martellava in petto, Kadiya s'irrigidì, mentre grosse gocce di sudore freddo le scendevano lungo il collo, insinuandosi sotto il collare dell'elmo dorato. Abbassò lo sguardo e vide il Giglio Nero con la goccia d'ambra che ardeva luminoso sulla corazza. Fiore del Triplice, pregò, dagli forza! Concedigli la vittoria! Salva il marito della mia amata sorella! Il lembo della tenda si scostò e Osorkon uscì. Era riuscito a infilare solo la parte superiore dell'armatura nera; portava l'elmo sotto un braccio e la gigantesca spada a due mani nell'altra mano. Quando lo vide, Kadiya trattenne il fiato: aveva dimenticato quanto fosse massiccio e robusto. Era quasi calvo e la barba era striata di grigio. Con cipiglio corrusco, si avvicinò al re, fermandosi a quattro metri di distanza. Dietro di lui venivano i suoi scherani, Soratik, Vitar, Pomizel e Nunkaleyn, più un pugno di scudieri con scudi e armi, che aiutavano frenetici i loro signori ad aggiustarsi le armature. «Dunque!» ruggì Osorkon. «Io sarei un voltagabbana, vero?» «Affermo solennemente che lo sei», rispose Antan «Tu e la tua defunta sorella Sharice avete cospirato per far rapire me e i miei figli. E ora hai corrotto questi uomini onesti con bugie e hai impedito loro di compiere il loro dovere. A loro offro l'amnistia, se ti ripudieranno e riaffermeranno la loro lealtà ai Due Troni. Ma tu, Osorkon, devi morire a meno che non accetti d'inginocchiarti ai miei piedi, rinnegando tutte le tue azioni e poi accettando la mia giusta punizione.» «Mai!» Antar sollevò la spada. «Allora ti sfido a singoiar tenzone davanti a questi testimoni, in difesa dell'onore dei Due Troni.» Con una risata sprezzante, Osorkon s'infilò l'elmo e chiuse il visore. Kadiya e gli altri arretrarono, e il re rimase ad attendere i consueti saluti cerimoniali. Ma il traditore non era incline a osservare le regole della cavalleria e con
un'agilità che stupì gli astanti balzò in avanti, sollevò la grande spada sopra la testa e la abbassò con velocità incredibile. Era un colpo che avrebbe potuto tagliare in due il re, dalla testa ai fianchi, ma che invece atterrò con gran clangore nel terreno gelato, perché il monarca si era spostato di lato. Antar roteò la spada e menò un gran colpo alla testa di Osorkon, che indietreggiò barcollando: a salvarlo era stato il pesante acciaio della celata. Un istante più tardi il vecchio generale si riprese e balzò in avanti. I due uomini ingaggiarono una lotta furibonda a colpi di fendenti che facevano scoccare scintille dalle lame delle spade. Osorkon non dava tregua e costrinse il re in una posizione difensiva, incalzandolo tutt'attorno al cerchio degli spettatori, mentre Kadiya e i suoi compagni assistevano impotenti. «Oh, Dio Triuno, fai che non ceda!» pregò Kadiya sottovoce. Aveva lasciato cadere a terra il mantello del re e ora stringeva con la destra l'elsa della spada e con la sinistra l'ambra del giglio. Antar inciampò in un sasso gelato che sporgeva dal terreno e barcollò all'indietro; i partigiani di Osorkon gridarono. Ma, nel cadere, il re strinse saldamente la spada e menò un fendente che colpì Osorkon nel punto in cui la gorgiera d'acciaio che gli proteggeva il collo era più debole. L'acciaio nero cedette e la lama del re affondò nella parte sinistra del collo dell'avversario. Osorkon emise un grido roco e la spada che aveva alzata per calare il colpo mortale ondeggiò, poi cadde a terra, perché la mano sinistra aveva perso la presa. Con uno sforzo sovrumano, il generale riuscì a non cadere sul monarca che giaceva a terra e rotolò di fianco. Antar balzò in piedi. Il sangue sgorgava dalla ferita di Osorkon e il re, come comandavano le leggi della cavalleria, concesse all'avversario un attimo di respiro con la speranza che si arrendesse... ma l'altro afferrò saldamente la spada con la sola mano destra e menò un ignominioso colpo alla gamba del re, che non era protetta dall'armatura, mancandolo di un soffio. Urla di disapprovazione e grida di: «Vergogna!» si levarono dai presenti. Osorkon li ignorò. Si sollevò e, accucciandosi, puntò la spada per un secondo colpo basso. Ma, quando affondò, il re parò il colpo e prese a incalzare il suo avversario senza lasciargli respiro, costringendolo a indietreggiare. Gli uomini di Osorkon avevano preso a incoraggiare sia il re sia il loro generale e quando la spada di Antar tagliò di netto la cresta dell'elmo dell'avversario, dalle gole dei presenti si levarono in egual misura risate roche e grida costernate. Le ali mozze dell'insegna rovinata dondolarono davanti
agli occhi di Osorkon, impedendogli di vedere; il generale allora si disimpegnò e indietreggiò per avere il tempo di togliersi l'elmo. Quando anche Antar imitò il gesto, togliendo l'elmo e restando a testa nuda, un mormorio di approvazione ammirata si alzò dagli spettatori, persino dai quattro nobili alleati di Osorkon. Scambiandosi una serie di colpi secchi e veloci, i due contendenti duellarono attorno al grande falò. Ancora una volta Osorkon giocò sporco, ferendo il re alla gamba, ma Antar non accennò a rallentare il ritmo dei suoi colpi. Sul volto del vecchio generale si disegnò una smorfia di dolore, rabbia e paura. Il sangue che sgorgava dalla ferita alla spalla lo stava indebolendo. Quando i due si allontanarono per un attimo, con uno sguardo selvaggio negli occhi, Osorkon sollevò la spada e la abbassò in un feroce fendente diretto all'inguine del re. Ma Antar balzò indietro, roteando la lama sulla testa, e riprese a incalzare l'avversario verso il fuoco. Il traditore barcollò e un piede privo della protezione dei gambali calò tra i carboni ardenti. Osorkon strillò, tentò di colpire il re alla testa e lo mancò. Antar roteò la spada da destra a sinistra e con un fendente velocissimo tranciò di netto la testa di Osorkon. «Antar!» urlò Kadiya. «Antar! Antar!» Una fontana di sangue scuro scaturì dal corpo decapitato del traditore, che cadde tra le fiamme. Un gemito si levò dalla folla. Balanikar e i cavalieri di Antar si unirono a Kadiya che scandiva il nome del re. E a uno a uno, coloro che un tempo erano stati traditori fecero lo stesso, finché nell'aria non risuonò un gran urlo fatto di quelle due sillabe scandite senza sosta. Antar era immobile, con la lama abbassata sulla neve rossa di sangue. Poi voltò le spalle a quel falò che bruciava con rinnovato vigore e si avvicinò lentamente ai quattro generali che lo guardavano attoniti. Il re rinfoderò la spada e sollevò una mano. Di colpo si fece silenzio. Antar guardò i quattro con espressione severa e decisa, ma priva di rancore. «Soratik, Vitar, Pomizel, Nunkaleyn... vi offro l'amnistia se ora giurate di seguirmi fedelmente e combattere in difesa di Derorguila e dei Due Troni.» I quattro caddero in ginocchio e Soratik, il più anziano, disse: «Grande re, giuro di seguirvi fedelmente sino alla morte». «Anch'io», ripeterono in coro gli alti tre e, di nuovo, un urlo di gioia si levò da tutti i presenti, soldati e cavalieri.
Con un gran sorriso, Kadiya afferrò l'amuleto e sussurrò: «Hara! Dai ad Anigel la buona notizia!» L'ho già fatto e Anigel sta venendo lì con i bambini e la sua scorta. Allora Kadiya si fece avanti, seguita dagli altri cavalieri fedeli, per porgere le sue felicitazioni al re vittorioso. Antar stava già impartendo gli ordini di levare il campo e di marciare su Derorguila e i traditori pentiti si affrettarono a chiamare i loro ufficiali e a eseguire gli ordini. Nel boschetto alle spalle della tenda del defunto Lord Osorkon, l'Arcimaga si rese di nuovo visibile. Il suo lavoro lì era terminato e aveva già detto alla regina che per un po' la sua presenza era richiesta altrove. Prese il talismano e vide quello che si aspettava di vedere: un'armata di sessanta navi da guerra raktumiane, condotte da quattordici enormi triremi, che attraversavano lo stretto di Dera dirette verso l'entrata del porto di Derorguila. Senza dubbio erano uscite allo scoperto nel momento stesso in cui re Antar aveva iniziato il duello con Osorkon. «Mostrami Orogastus», disse. Questa volta lui la stava aspettando. Sconvolta, Haramis si rese conto che il Mago la vedeva nello stesso momento. «I miei talismani sono, chissà perché, dei riluttanti Maestri», le disse il Mago sorridendo. «Ma io sono uno studente molto abile! Ora non potrai più scrutarmi senza che io lo sappia, mia cara Haramis. Ora, quando mi spierai, anch'io sarò in grado di vedere te! E presto sarò anche in grado di neutralizzare lo schermo che ti protegge, cosicché non mi sarai più nascosta. Che piacere sarà allora comunicare con te e vedere di nuovo, senza ostacoli, il tuo adorato viso.» «Hai lanciato l'assalto alla città», disse lei in tono asciutto. «Lo fermerò all'istante se verrai da me e acconsentirai a discutere. Lo so che ora hai il potere di viaggiare ovunque tramite la magia.» «Quando verrò da te», ribatté lei piano, «sarà per il nostro scontro finale e sarà un duello mortale come quello tra re Antar e il defunto traditore Lord Osorkon.» «Combattuto con i talismani invece che con le spade?» Il Mago rise scuotendo la testa con ammirata condiscendenza. «Ah, Haramis! Perché ti angusti per gli insignificanti conflitti di chi ci è inferiore? Tu e io non siamo come loro! Noi siamo destinati a vivere migliaia d'anni e vedere regni sorgere, uno dopo l'altro, vivere il loro momento di gloria e poi cedere il passo ad altri. Capisci che cosa significa? Riesci anche solo a concepire a
quale vita sei destinata come Arcimaga? Sarà di una solitudine disperata, che la magia, per quanto grande, non potrà alleviare. Ma non sei costretta a essere sola... e neppure la guida del Mondo delle Tre Lune dev'essere un fardello solo tuo. Vieni da me, amore! Lascia che ti racconti tutte le cose stupefacenti che questi due talismani mi hanno rivelato, cose che le tue povere mortali sorelle non hanno mai neppure sognato! E insieme...» «No!» lo interruppe LIaramis, costernata nel constatare che ancora una volta era sul punto di lasciarsi incantare. «No. Le tue bugie sono affascinanti e lusinghevoli come allora, Orogastus, ma tradisci la tua ignoranza nel momento stesso in cui mi tenti. Io farò naufragare la tua invasione di Derorguila e allora vedremo quale delle due magie è più forte.» Cancellò la visione di lui e si appoggiò tremando al tronco snello di un albero gonda. Nell'accampamento venivano tolte le tende e le voci reboanti dei sergenti che impartivano gli ordini sovrastavano il frastuono dell'esercito che si preparava a mettersi in marcia. Haramis ritrovò il proprio equilibrio interiore e sollevò lo sguardo ai rami che s'incurvavano sotto il peso della neve. Foglie che erano state verdi e lussureggianti solo sei giorni prima erano ora avvolte in una patina di ghiaccio. Orogastus si rendeva conto di quello che stava accadendo? Capiva che il mondo era fuori equilibrio e si trovava sull'orlo della catastrofe? No, si disse, lui non poteva saperlo. Con ogni probabilità riteneva di origine naturale i terremoti e le eruzioni vulcaniche e riteneva che quel tempo disastroso fosse tutto opera sua. Colui che comandava le tempeste! Così si definiva dodici anni prima e senza dubbio lo pensava ancora. Oh, sì, forse alcuni di quei venti di tempesta che sospingevano le navi erano opera sua, come pure le trombe d'acqua e i temporali di entità minore che l'avevano seguito verso sud. Ma lui non sarebbe mai stato in grado di comandare il gelo mortale che era disceso su Labornok e neppure la nuova avanzata del Ghiaccio Vincitore. «Talismano», sussurrò, «che cosa posso fare?» Le parve che la risposta non dovesse arrivare mai. I rami degli alberi si muovevano nel vento e la neve cadeva a terra formando una nuvola bianca e turbinosa. Haramis rabbrividì nonostante la magia non avesse smesso di scaldarla. Si sarebbe degnato di rispondere, il talismano? Ma sapeva poi se esisteva un modo per fermare il Ghiaccio Vincitore? Le Tre in Uno potrebbero fermarlo... se agissero in tempo. Ma il tempo
scorre via veloce. 27 Nel sogno il principe Tolivar era di nuovo a casa, a Derorguila. Il re e la regina lo avevano portato a visitare il serraglio reale nel parco sul fiume Guila, e, per una volta tanto, Niki e Jan non erano con loro e non avrebbero potuto rovinargli la gita. Era una splendida mattina della Stagione Secca, nel cielo azzurro veleggiavano piccole e spumose nuvolette bianche e Tolo aveva suo padre e sua madre tutti per sé. All'inizio, nel suo sogno si divertì moltissimo. Invece di sgridarlo perché correva di qua e di là e ricordargli che i principi dovevano dare il buon esempio, i genitori erano gentili e attenti e avevano sorriso vedendolo lanciare biscottini dolci ai grandi e pelosi raffin e spaventare gli eleganti shangar che si erano messi a saltellare in modo molto buffo nel loro recinto. Poi Tolo aveva deciso che sarebbe stato molto più divertente svegliare gli irritabili looru, nativi delle paludi interne di Ruwenda e dei quali si diceva che bevessero sangue umano (nello zoo però si dovevano accontentare della zuppa di qubar). Detto fatto, il principe prese un lungo rametto che aveva trovato a terra e corse a batterlo sulle sbarre della loro gabbia. Che rumore faceva il ramo! C'erano una ventina di quegli orrendi looru in cattività, il più grande dei quali aveva un'apertura alare di due metri. All'improvviso rumore prodotto da Tolo, gli animali caddero dai loro trespoli e si misero a svolazzare qua e là gridando come pazzi. Le creature infuriate presero a cozzare con sempre maggior forza contro le sbarre della gabbia, cercando di afferrarlo con le zampe artigliate. Tolo indietreggiò ridendo e afferrò un sasso, con l'intenzione di lanciarlo. E a quel punto le sbarre si ruppero. Prima uno e poi un altro di quei volatili dal corpo nero fuggirono, finché l'intero stormo non fu libero, con gli occhi rossi splendenti, i crudeli becchi dalle file di denti aguzzi che si aprivano in cerca di una preda. Tolo si cacciò sotto un cespuglio, coprendosi le orecchie per non udire l'orribile suono dei loro gridi sibilanti, sperando che non lo trovassero. I looru ignorarono il bimbo e si gettarono invece sugli inermi sovrani, seppellendoli sotto una massa di ali, artigli e corpi pelosi. In un attimo il cielo divenne nero, lo scoppio dei fulmini e dei tuoni assordanti fece tremare la terra. Tolo udì delle urla e all'improvviso il suo rifugio venne
strappato dalle radici! Il bambino si coprì la testa con le braccia aspettando che i looru gli strappassero la carne a brani. Quando non accadde nulla, si arrischiò a guardare. Sopra di lui torreggiava sua zia, l'Arcimaga. Sembrava alta almeno dieci metri e un'ira terribile si disegnava sul suo viso, illuminato dai fulmini. «I tuoi poveri genitori sono morti per colpa tua! Ora pagherai il prezzo della tua malvagità!» «No!» gemette Tolo. «No, io non volevo!» «Malvagio!» tuonò l'Arcimaga. «Demonio!» E tese verso di lui una mano enorme. «Non volevo, non volevo!» ripeté Tolo, balzando in piedi e mettendosi a correre. «Fermati!» ordinò quella voce stentorea. «Fermati!» Sempre correndo, Tolo si guardò alle spalle: stava arrivando, alta più degli alberi, e a ogni passo faceva tremare la terra. Sollevò il talismano magico e lo fissò attraverso il cerchio d'argento. Tolo vide un enorme occhio ingrandito, che divenne sempre più grande, finché non fu l'unica cosa esistente e lui vi sarebbe caduto dentro e sarebbe morto. «Fermo! Fermo!» «No! Io non volevo! Nooo!» Si svegliò con l'eco delle sue stesse grida nelle orecchie. Non c'erano looru, non c'erano il papà e la mamma fatti a brani, nessuna gigantesca Arcimaga: era sano e salvo nella sua cabina sull'ammiraglia di re Ledavardis di Raktum. Era stato solo un sogno. Ma gli incessanti scoppi di tuono continuavano e così pure le strida acute, che gelavano il sangue, dei predatori volanti. Tolo udì persino il rumore che aveva fatto il ramo sulle sbarre... Fermi! Fermi! e la voce mostruosamente amplificata dell'Arcimaga. Il piccolo principe balzò giù dalla cuccetta, corse all'oblò, lo aprì e avvicinò uno sgabello per poter guardare fuori. La nebbia era scomparsa; era ancora notte e incessanti esplosioni di luci multicolori illuminavano il cielo e si riflettevano sul mare nero affollato di navi. Alcune erano galee dei pirati che usavano le armi magiche di Orogastus, globi volanti rossi, bianchi, verdi e dorati, che scoppiavano quando colpivano qualche nave dei difensori sulle cui vele spiccavano il Giglio Nero e le Tre Spade d'Oro di Laboruwenda. I difensori usavano invece catapulte a palle infuocate, che descrivevano lunghi archi arancioni nel cielo. Nugoli di frecce di balestra piovevano da entrambe le parti. Ai dardi e-
rano attaccati minuscoli fischietti che volando producevano quello stridio che lui aveva scambiato per i gridi dei looru. Mentre Tolo osservava a bocca aperta, una nuvola di frecce si conficcò nella carena dell'ammiraglia con un suono che ricordava quello della grandine. Fermatevi! Abbandonate questo conflitto! Attenti a voi, marinai di Raktum! Tornate indietro o vi attende un fato orribile! Le parole della zia Haramis rimbombarono riecheggiando sull'acqua... e un'altra voce soprannaturale le rispose... quella del Maestro, Orogastus! Ti stai stancando di queste tue inutili esibizioni, Haramis? Sì, vedo che ti stai logorando. L'uso costante dei poteri magici prosciuga l'anima del praticante e ora fai ricorso a sciocche menzogne nel tentativo di spaventare i nostri coraggiosi marinai. Ma noi non torneremo indietro! Il principe Tolivar pensò di sognare ancora, tanto fantastica era la scena che si svolgeva sull'acqua. Non un solo missile infuocato dei difensori colpiva le navi pirate, protette dalla magia che fermava i globi di pece a un centinaio di metri dal bersaglio: i proiettili sbattevano contro una barriera invisibile e rimbalzavano in acqua, dove si spegnevano sfrigolando. I colpi di balestra al contrario arrivavano sulle navi raktumiane, come pure i sassi lanciati dalle catapulte dei difensori: a quanto pareva, la magia non aveva effetto sui sassi o sulle frecce... o forse il Mago poteva concentrarsi su una sola cosa alla volta. L'effetto delle armi degli Scomparsi sulle navi laboruwendiane era molto più devastante. Tolo vide chiaramente un globo di fuoco verde levarsi da una nave pirata diretto a un vascello laboruwendiano: ma non raggiunse il suo bersaglio, come se all'ultimo minuto l'Arcimaga l'avesse deviato. Qualche istante più tardi, la stessa nave laboruwendiana venne colpita da una nuvola di scintille bianche accecanti, proveniente da un'altra direzione, che incendiò le vele e le alberature: in pochi istanti l'imbarcazione, come molte altre, si trasformò in un ammasso di fiamme. Tolo capì che la zia Haramis stava cercando di schermare i laboruwendiani, ma senza molto successo. Le navi di Derorguila erano in inferiorità numerica e navigavano con la sola spinta delle vele; con le brezze leggere e capricciose del porto (chissà se l'Arcimaga e Orogastus stavano combattendo per il controllo del vento?) la marina laboruwendiana era facile preda delle triremi sospinte dai vogatori. Una dopo l'altra le navi dei difensori venivano speronate e affondate dai raktumiani, o colpite dalle meteore degli Scomparsi o consumate dalle fiamme. Alcuni vascelli riuscirono a sfuggire alla distruzione grazie all'in-
tervento dell'Arcimaga, che però sembrava incapace di tessere un incantesimo abbastanza potente per continuare a proteggerle tutte. In mezzo all'incessante boato delle esplosioni risuonava la risata sprezzante di Orogastus. L'aria che entrava dall'oblò era fredda e Tolo si strinse le braccia attorno al corpo per non rabbrividire; ma neppure per un istante considerò la possibilità di tornare a letto o anche solo di distogliersi quel tanto che bastava per prendere una coperta in cui avvolgersi. La battaglia navale proseguì per un periodo che al piccolo principe parve interminabile. Il cielo cominciò a schiarirsi a est e, a quel punto, come rispondendo a un ordine magico di Orogastus, i pirati cambiarono improvvisamente tattica. Le galee si disimpegnarono dal combattimento con le avversarie indebolite e cominciarono a fare forza sui remi. All'orecchio acuto di Tolo giunse il ritmo martellante dei tamburi di voga. Frustati dai sorveglianti, gli schiavi raktumiani sospinsero a gran velocità le settantaquattro navi della flotta pirata verso il porto di Derorguila. Le grandi triremi che guidavano l'armata usarono i pesanti rostri a prua per spezzare il misero blocco rappresentato dalle piccole navi incatenate all'entrata del porto; le armi magiche si sbarazzarono senza fatica del contrattacco dei forti posti sulle alture. Tolo non vide traccia di magia dell'Arcimaga Haramis. Con le bandiere al vento, la flotta nemica avanzò verso la capitale di Laboruwenda senza incontrare il minimo ostacolo. Stava sorgendo il sole, il palazzo fortificato con la sua grande Rocca di Zotopanion al centro e i minuscoli puntolini dei fuochi sui merli si stagliava contro un cielo color porpora e cremisi. I moli e le strade erano avvolti in un manto di neve che l'alba tingeva di rosa. Nella calma del mattino sottili fili di fumo si levavano dalle baracche del porto. Nel porto interno, circondato sui tre lati dalla terra, l'aria fredda della città si scontrava con quella calda del mare, formando uno spesso strato di nebbia. Quando le triremi giunsero a tiro delle catapulte disposte lungo la riva, esplosero una salva di globi gialli, rossi e azzurri dalle armi degli Scomparsi. Ma questa volta le meteore mortali non raggiunsero i bersagli: sotto l'occhio affascinato del principe, la nebbia si raccolse, assumendo la forma di una mano enorme, che ardeva delia luce riflessa dei missili. La mano allontanò i globi infuocati come una persona che scaccia un nugolo d'insetti molesti. Altre palle di luce colorata solcarono l'aria e la mano protettrice le spinse in alto, dove si estinsero innocue. Poi la nebbia attorno alla flotta raktumiana si gonfiò come se altre mani fantasma fossero pronte ad alzarsi da un istante all'altro e la voce dell'Ar-
cimaga esplose: Tornate indietro, raktumiani! Lasciate questo porto prima che sia troppo tardi! La risposta di Orogastus fu carica di condiscendente disprezzo: Che sciocco spettacolo è mai questo, Arcimaga? Pensi forse di respingerci con giochetti da bambini? Noi sappiamo che tutto questo non è altro che illusione! I nostri proiettili sono arrivati a terra e hanno fatto grandissimi danni. La tua mano gigantesca è solo un fantasma. Tu non puoi farci del male! E rise. Dalla voce di Haramis trasparì una nota di disperazione. Se non tornate indietro, Mago, tu e i tuoi seguaci andrete incontro a un tremendo destino! Davvero? disse il Mago con ironico scetticismo. Allora dimmi, Arcimaga: se sei davvero tanto potente, perché non rivolgi contro di noi i nostri proiettili? Perché non bruci le nostre navi con il fuoco astrale, o scagli rocce che aprano falle nelle nostre chiglie, o richiami un'enorme ondata che ci affoghi tutti? Io lo so perché! Perché tu non puoi deliberatamente uccidere o anche solo ferire un essere vivente! Me lo ha detto un libretto rosso, che mi ha rivelato anche molti altri segreti. Di nuovo la sua risata risuonò sull'acqua. Poi il Mago proseguì in tono tagliente: Non perderemo più tempo a giocare con te! Le nostre valorose truppe sono impazienti di scendere a terra... Tolo ansimò: di colpo, tutto il fronte del porto, lungo più di una lega, si trasformò in un muro di fiamme alte come un palazzo. Orogastus parlò in tono irridente: Povera Arcimaga! Credi forse che gli uomini di Tuzamen e di Raktum si lascino spaventare da questo trucco patetico? Siamo forse Oddling che tremano davanti a un miraggio? No! Noi sappiamo benissimo che questa tua graziosa messinscena non può farci nulla. Non vacilleremo neppure se evocherai orde di bavosi Skritek o barriere di felci spinose o valanghe immaginarie. Noi avanzeremo fino al palazzo, annientando chiunque tenti di fermarci... ma tu non osi ucciderci! Ammettilo! Tu non osi! Non vi fu risposta. Le fiamme tremolarono e scomparvero. A quanto pareva, almeno per il momento, l'Arcimaga si era ritirata, sconfitta. La flotta raktumiana avanzò maestosa fino agli attracchi, scortata dalle altre triremi. Tolo stava cercando invano di vedere se vi erano soldati in attesa sulla riva, quando la porta della sua cabina si spalancò. Sulla soglia c'era la Voce Gialla; con gli occhi che splendevano come stelle gemelle e parlando con la voce di Orogastus stesso, disse: «Principe Tolivar! Ho bisogno di te. Indossa gli abiti regali che ti porta la mia Voce
Gialla e raggiungimi subito nel castello di poppa». «Sì, Maestro.» Sul punto di svenire per la paura, il bimbo scese dallo sgabello. Non vedeva più quella particolare manifestazione del potere del Mago dal giorno lontano alle Isole Senzavento, quando aveva scelto di andare con la Voce Nera invece che con sua madre. Che stupido era stato! Papà... mamma... sarebbero stati uccisi e questa volta non sarebbe stato un sogno. La luce magica negli occhi della Voce si spense. Quando Tolo non accennò a togliere la camicia da notte, l'accolito lo apostrofò con il consueto tono insolente: «Non startene lì come uno stupido innamorato pronto a fare la serenata alle Tre Lune! Vieni qui! Devo forse vestirti come un neonato?» «No», rispose Tolo. Ma rimase fermo, scosso dai brividi, limitandosi a sollevare prima un braccio, poi un altro, poi le gambe, mentre l'assistente del Mago gli infilava borbottando un abito dorato e una sopravveste di velluto azzurro scuro, accompagnati da un balteo ingioiellato cui era appeso un fodero ugualmente ingioiellato nel quale era infilata una spada con l'elsa di rubini. Quanto aveva voluto una volta una spada simile! Ma ora che l'aveva, l'avrebbe scambiata senza pensarci due volte, pur di essere libero, di nuovo con i genitori e i fratelli. Attorno al collo del principino, la Voce Gialla mise una copia in miniatura della catena del re di Labornok, composta di anelli d'oro in cui erano incastonate pietre che parevano grandi diamanti, e un pendente d'oro smaltato in nero a foggia di giglio. Infine la Voce aprì una borsa di pelle e ne trasse una corona, duplicato esatto, a parte le dimensioni, della splendida Corona della regina di Ruwenda, sua madre. Vedendola da vicino, Tolo notò che la goccia d'ambra che formava la cuspide non aveva al suo interno il Giglio Nero fossile e lo scintillio delle gemme era opaco. Erano forse false? «Mettila, ragazzo!» scattò la Voce. «Il Maestro ci aspetta.» «Ma non posso impersonare un re!» «E invece lo farai fino a quando piacerà al Maestro», ringhiò la Voce. «Tu sarai il re di Laboruwenda come pure il futuro Signore di Tuzamen!» «Non so...» La Voce interruppe senza tante cerimonie le proteste del ragazzo: «Metti la corona o preparati ad affrontare l'ira di Orogastus, marmocchio impudente! Sei tanto sciocco da pensare che governerai davvero? O che ti si chiederà di esercitare le prerogative riservate a un sovrano? Tu sei un fan-
toccio... un burattino, nulla di più». La Voce calcò la corona sulla testa di Tolo: era scomoda e pesante. Poi gli appoggiò sulle spalle un mantello di pelliccia bordato di raso e sollevò il cappuccio per nascondere la corona. Quando finalmente il bambino fu pronto, la Voce lo sospinse fuori della cabina costringendolo quasi a correre. Quando il principe mise piede sul ponte, risuonò l'ordine di calare le ancore. Subito dopo i marinai sciamarono sui ponti, dirigendosi agli argani per ammainare le vele dell'ammiraglia. Lo sciabordio dei remi cessò. Le ancore calarono con un tonfo e la nave rimase ferma al centro del bacino, mentre le altre navi della flotta proseguivano minacciose verso i moli. I danni di quell'armata erano scarsi: qualche albero tranciato, qualche murata crollata, ma per il resto la flotta era uscita quasi intatta dallo scontro con i difensori. Tolo e la Voce salirono sul cassero reale, dove trovarono il re Ledavardis, il primo ministro Jorot e il generale Zokumonus di Tuzamen, che indossavano armature risplendenti coperte di mantelli di pelliccia. La Voce Porpora era in piedi dietro Orogastus, che vestiva l'abito nero e argento e aveva il volto celato dalla maschera a stella. Il Mago porse il Mostro dalle Tre Teste alla Voce Gialla. L'altro talismano era agganciato alla cintura. «Prendi questo, mia Voce, e accompagna il re, il ministro Jorot e Lord Zokumonus nel loro assalto alla città. Sii diligente nello scovare il nemico e riferire le sue intenzioni, in modo che i guerrieri di Raktum e di Tuzamen possano espugnare in fretta la città di Derorguila. Ma ti avverto di non usare il diadema per altri atti magici che non siano la Vista, altrimenti i suoi poteri misteriosi potrebbero ferire te o i nostri buoni alleati.» «Ti obbedirò, Maestro.» Con un inchino, la Voce prese il talismano e se lo posò sulla testa calva. «Un'altra cosa», disse Orogastus. «Sai che non puoi scrutare l'Arcimaga Haramis perché si nasconde dietro uno schermo magico. Ma c'è una possibilità, per quanto remota, che tu la scorga con i tuoi occhi mortali. Se dovesse succedere, resta calmo; ricorda che non può farti nulla mentre porti il mio talismano, ma per nessuna ragione devi sfidarla! Ordina al diadema di renderti invisibile e poi chiamami immediatamente, indicandomi dove si trova.» «Comprendo», disse la Voce, e si volse al giovane Ledavardis. «Sono pronto, grande sovrano.»
Il gobbo guardò Orogastus. «Dunque tu non ci accompagnerai nell'assalto?» «Ho un altro compito da assolvere, Ledo», rispose calmo il Mago. Gli occhi dietro la maschera stellata erano argentei e opachi come il fantastico copricapo del suo costume. «Per il momento, non credo che vi troverete a dover affrontare la magia. Penso che l'Arcimaga sia esausta per gli sforzi di prima. Lei sa che le illusioni, per quanto terribili, non vi tratterranno e comunque penso che non cercherà più di spaventarvi. Non può più scrutarmi con la Vista e io non posso più osservare lei. È probabile che sia andata a conferire con la regina Anigel e re Antar e quell'esercito impantanato nella neve.» «Le verrà in mente qualche altro modo di usare la magia contro di noi», ribatté cupo il giovane re, «e quando lo farà, sarà tuo dovere impegnarti per contrastarla.» «Ho osservato tutta la zona e a terra non vi attendono altro che i normali pericoli della guerra.» Il tono del Mago era rassicurante. «Ci sono solo quelle file di catapulte e mangani intorno ai moli e circa duemila difensori rintanati negli edifici del porto e nelle strade che conducono al palazzo. Non dovreste avere problemi a disfarvene. Cercate di guadagnare quanto più terreno potete. Quando comincerà l'assalto finale al palazzo e alla Rocca di Zotopanion, io sarò al vostro fianco.» «Quanto distano in questo momento Antar e i rinforzi?» chiese il ministro Jorot. «Sono a circa dodici leghe e si muovono con terribile lentezza a causa della neve. Il palazzo sarà nostro e il principe Tolivar sarà sul trono molto prima che arrivino alle porte della città... se i tuoi indisciplinati bucanieri faranno il loro lavoro.» «Lo faranno», replicò il re, «se anche tu farai il tuo e ti accerterai che non si venga sorpresi da qualche trucco dell'Arcimaga.» «Quante volte devo dirti che non può uccidervi e neppure ferirvi?» esplose il Mago, esasperato. «Tutto quello che può fare è cercare di contrastare le vostre armi. Se allargherete quanto basta la battaglia, sarete così sparsi che non saprà da che parte girarsi! Adesso andate, perché ho importanti questioni da risolvere.» E girò la schiena al re. Per un attimo, il furibondo Ledavardis parve sul punto di replicare, ma Jorot gli pose una mano sulla spalla e il giovane monarca si rassegnò con una smorfia cattiva. Si strinse nel mantello e si diresse nel punto in cui lo attendeva la lancia.
Quando la squadra del re non fu più a portata d'orecchie, Orogastus si rivolse con un sospiro alla Voce Porpora: «Un giovanotto insubordinato, il nostro reuccio gobbo. È un peccato che non possa fare a meno del suo aiuto». «Non sarà sempre così, Maestro. Una volta caduta Derorguila, quando i pirati avranno avuto la loro parte di bottino...» «Non parliamo più di re Ledavardis, mia Voce», lo interruppe in fretta Orogastus, con un'occhiata al piccolo principe che li guardava a occhi sbarrati. «Un altro re attende di essere istruito se deve recitare come si deve la sua parte nella rappresentazione ormai prossima. Il salone reale di Ledo dovrebbe essere vuoto. Andiamo là con Tolo e cominciamo.» 28 Triste e scoraggiata, Haramis uscì dalla trance. «Neppure la Signora Azzurra conosce un modo per opporci attivamente agli invasori senza venire meno ai nostri principi magici. Come me, anche lei non può causare danno a nessun essere vivente e può usare la sua magia solo in modo benigno e difensivo.» L'esercito di quelli che un tempo erano ribelli si era fermato a riposare in mezzo ai campi innevati. Il sole era sorto, ma era scomparso dietro una fitta coltre di nubi grigie e un vento gelido e pungente scendeva da ovest, dal Ghiacciaio Eterno. Antar, Anigel e Kadiya, insieme con i cavalieri che li avevano accompagnati nella spedizione, si stavano sgranchendo le gambe sulla strada quando Haramis si era materializzata. L'Arcimaga aveva raccontato alle sorelle e al re del suo infruttuoso tentativo di fermare la flotta d'invasione e di come questo avesse esaurito quasi completamente le sue forze. Era stato allora che Haramis aveva pensato di consultarsi con l'Arcimaga del Mare per vedere se la Signora Azzurra era in grado di assisterli in qualche modo. Il colloquio era durato quasi mezz'ora ed era stato infruttuoso. Svanita anche quell'ultima speranza, Haramis si sedette su una roccia gelata e bevve un sorso di vino speziato dalla fiasca che le portò Shiki. «Osserva ancora il combattimento nella capitale!» la implorò il re, che fino a quel momento aveva parlato a bassa voce con la moglie, il conte Gultreyn e Lord Balanikar. «I pirati stanno già minacciando il palazzo?» Haramis sollevò il talismano con un gesto stanco e per qualche istante
entrò nuovamente in trance; poi disse: «È ancora in piedi. Le armi degli Scomparsi che sono state portate a terra si sono finora dimostrate inefficaci nell'abbattere le fortificazioni». «Sia ringraziato il Dio Triuno!» esclamò Lord Balanikar. «Lo ringrazierei di più», mormorò il conte Gultreyn, «se facesse qualcosa per mitigare questo freddo tremendo! Quelle nuvole promettono altra neve. E se nevica troppo, né gli uomini né le bestie riusciranno più ad andare avanti.» «Non puoi fare nulla per liberare la strada, Hara?» chiese Kadiya. L'Arcimaga scosse il capo. «Potrei sciogliere un po' di neve, ma probabilmente non basterebbe... soprattutto se ricomincia a nevicare. Sono così stanca...» «Siamo tutti sul punto di crollare per la mancanza di sonno», disse Anigel. «Tutti, tranne i bambini, che hanno dormito in sella», aggiunse guardando Nikalon e Janeel che correvano, tirandosi palle di neve, sotto l'occhio attento di jagun. «Il nemico tra poco sbarcherà le sue armi pesanti», disse Haramis. «Devo riposare un po', poi farò tutto quello che posso per difendere Derorguila. Ma temo che gli uomini con le armi degli Scomparsi attaccheranno le mura del palazzo contemporaneamente e in molti punti. Se questo accade, riusciranno di sicuro a sfondare, qualunque azione io cerchi d'intraprendere. Vorrei riuscire a pensare con maggior chiarezza e vorrei potervi dire parole più incoraggianti; ma a mio giudizio la miglior cosa che possiate fare ora è ritirarvi.» «No!» esclamò il re, rosso in volto. «Io non me la darò a gambe!» «Ci sono ottanta leghe fino alle pendici dei Monti Ohogan. Più ci si allontana dal mare, e più la neve e il freddo diminuiscono», insistette Haramis. «È improbabile che i pirati v'inseguano quando li attende il bottino di Derorguila. Potreste nascondervi finché il tempo non migliora tanto da permettervi di attraversare il passo Vispi e di entrare a Ruwenda. Una volta là, potete rifugiarvi nella Cittadella e radunare le altre truppe...» «Hara!» l'interruppe Kadiya con espressione animata. «Ho appena avuto un'idea fantastica. So che l'Arcimaga del Mare non può darci un aiuto attivo nella guerra, ma tu e lei non potreste lavorare insieme per allontanare questa orribile neve? Di certo questo non violerebbe il vostro sacro dovere.» Haramis, che mentre parlava aveva tenuto la testa china, sfinita dalla stanchezza, sollevò il capo con vivacità e una nuova luce di speranza negli
occhi. «Non posso esserne certa... il cattivo tempo è in fondo un segno dello squilibrio del mondo e forse non è suscettibile alle nostre alterazioni, ma possiamo provare.» Si alzò in piedi a fatica, afferrò il Cerchio dalle Tre Ali e chiamò: «Iriane! Stavi ascoltando?» Vi fu un lampo accecante di luce azzurrina e poi tutti i presenti esclamarono stupiti quando apparve una nuvola di bolle color zaffiro che si gonfiò e nella quale brillava una forma turchina spruzzata di minuscoli puntolini di luce a forma di stella. Le bolle scoppiarono e apparve una donna rotondetta e sorridente, vestita di un abito azzurro fluttuante, con i capelli blu scuro acconciati in una foggia strana tenuta ferma da pettinini di madreperla. «Vediamo che cosa riusciamo a fare!» disse l'Arcimaga del Mare a Haramis. «Prendimi la mano e per un momento dimenticati del tuo talismano. Sei un'Arcimaga e hai dei poteri tuoi!» «Per Zoto!» esclamò Antar. «È venuta! Dunque esiste davvero!» Iriane si voltò verso il re con uno sbuffo sdegnoso. «I dubbi non aiutano la nostra causa, giovanotto. Ti consiglio di pregare dal più profondo del tuo cuore mentre tua cognata e io tentiamo questo capolavoro! E voi due, sorelle», proseguì indicando Anigel e Kadiya, «stringete i vostri amuleti e pregate, anche se non siete davvero unite come i Petali del Giglio Vivente. Quello che Haramis e io cercheremo di fare non è per niente facile: avremo bisogno del vostro aiuto!» Antar cadde in ginocchio, imbarazzato, e chinò il capo congiungendo le mani. Anigel e Kadiya seguirono il suo esempio, e lo stesso fecero tutti gli altri nobili, i cavalieri, persino i bambini, e Shiki e Jagun. La voce di quello che stava accadendo arrivò ai soldati dell'esercito, e ogni uomo s'inginocchiò nella neve e pregò sotto il cielo cupo. In un primo momento non accadde nulla, semplicemente le aure che circondavano le due Arcimaghe s'intensificarono; Haramis era avvolta in un alone d'oro e Iriane in una nube azzurra e dove le due aure s'incontravano, la nuvola magica brillava di un verde puro e brillante. La luce verde s'innalzò verso l'alto, formando una lancia color smeraldo che arrivò alle nubi fosche e le avvolse con la rapidità di un lampo. In quell'istante, con il successo a portata di mano, Haramis percepì un'opposizione maligna, un potere malvagio che cercava con tutte le sue forze di disperdere l'incantesimo. Orogastus! Non aveva bisogno di scruta-
re per sapere che era là, che lottava contro di loro per cercare d'impedire che il gelo svanisse obbedendo all'ordine delle due Arcimaghe. Lo splendore verde impallidì, tremolò e le nubi furono di nuovo nere. Sconvolta dalla malvagità di quell'inatteso contrattacco, la Signora Azzurra si ritrasse, pronta a interrompere quella collaborazione diventata all'improvviso pericolosa. No, Iriane, aspetta! Haramis cercò nel profondo del suo animo, al di là della pesante coltre di fatica, e trovò ciò che era Tre e Uno. Brandendolo con le ultime forze che le restavano, con un unico potentissimo colpo, annientò quel male incombente. Il Triplice si dissolse subito, ma aveva fatto ciò che doveva. L'alone dorato e quello azzurro si unirono di nuovo e la luce verde invase il cielo con uno scampanio maestoso, come mille campane gigantesche che suonassero tutte insieme. Poi l'aura verde scomparve. Haramis e Iriane erano in piedi l'una accanto all'altra, non più circondate dall'alone magico, ma con un'espressione ansiosa sul volto. Si levò la brezza... non più gelida e tagliente come prima, ma calda. Un mormorio di stupore si alzò. Un lampo attraversò il cielo grigio e il tuono rimbombò sulla distesa nevosa dei campi dov'era fermo l'esercito. Cominciò a piovere. Acqua calda come il sangue, un diluvio inarrestabile, come le cataratte del cielo, gocce enormi che lasciavano buchi nella neve e ingoiavano il ghiaccio. La pioggia cadeva sui volti intirizziti dei cavalieri e dei soldati, sciogliendo le armature ricoperte di una spessa coltre ghiacciata. Una cortina di pioggia, come lance argentate, cadde dal cielo, a torrenti, inzuppando il re e la regina che ridevano e facendo danzare e strillare di gioia i due bambini. I fronial gettarono indietro il muso, nitrendo felici per quell'improvviso aumento di temperatura e scalpitando nelle pozzanghere che si stavano formando sotto i loro zoccoli. «A Derorguila!» urlò Antar e balzò in sella, levando alta la spada. «A Derorguila!» e passò in mezzo ai suoi uomini che si alzavano in piedi con grida di giubilo tanto alte da sovrastare i tuoni e il magico diluvio. Anche Gultreyn e Balanikar e gli altri nobili si affrettarono a salire in sella e a preparare gli uomini per la partenza. Iriane sorrise a Haramis. «Be', ha funzionato. Sono contenta. Quello che ha cercato d'interferire era quel cattivone del tuo innamorato?» Dopo quello sforzo, il viso di Haramis era color cenere; gli abiti erano
fradici di pioggia e i suoi capelli neri pendevano melanconici e bagnati. L'aspetto dell'Arcimaga del Mare, invece, era elegante come sempre. «Era Orogastus. Per fortuna non si è accorto della tua presenza, Iriane. Ma se tenti di scrutarlo, sii cauta, perché ora è in grado di osservarmi attraverso la mia stessa Vista... e non è detto che non possa fare lo stesso con te.» «Be', vorrà dire che per il momento terrò a freno la mia curiosità», rispose la Signora Azzurra con una risatina nervosa. «Grazie per il tuo aiuto. Posso chiamarti ancora se fosse necessario?» «Hmm...» La fronte azzurro pallido s'increspò. «In tutta sincerità, non spetta a me assisterti negli affari della terra, ma la pioggia non è molto diversa dall'acqua di mare, quindi ho potuto farlo, stiracchiando un po' le cose... e soprattutto perché si trattava di una magia non aggressiva. In futuro farò di certo quello che posso per te, a patto che sia legale. Ah... se le regole non ci imponessero tante restrizioni! A volte rendono proprio la vita difficile.» Scomparve in uno sbuffo di fumo color indaco. Haramis si voltò verso le sorelle, che si stavano preparando a partire, aiutate da Jagun e Shiki. «Credi che ora abbiamo buone possibilità di raggiungere il palazzo?» le chiese Kadiya. «Finora solo piccole compagnie di guerrieri tuzameni sono impegnati nell'assalto», rispose l'Arcimaga. «L'esercito dei pirati è impegnato in altre parti della città con obiettivi più facili, e più ricchi. Sì, con le strade che si sgelano e il grande freddo temporaneamente sotto controllo, credo che possiate sperare di riuscire a raggiungere il palazzo.» «Tu resterai con noi, Hara?» chiese la regina, che stava allacciando il mantello ai due figli. La pioggia continuava a cadere incessante. «Ci proteggerai durante la marcia verso la città?» Apparentemente persa nei propri pensieri, l'Arcimaga non rispose subito. Il re tornò indietro al galoppo. «Non siete ancora in sella, signore? Shiki! Jagun! Portate le cavalcature per la regina, la Signora degli Occhi e i principi, e preparatene una anche per l'Arcimaga.» I due aborigeni partirono di corsa, ma Haramis disse al re: «Sono allo stremo delle forze. Sulla strada per Derorguila non vi sono pericoli in agguato. Io devo dormire almeno alcune ore in modo da recuperare le energie. Mi è rimasta forza solo per trasportarmi al palazzo; se tu e Anigel lo volete, posso portarvi con me». «Io devo restare alla testa di questi uomini», rispose Antar. «Ma ti sarei
grato se portassi in salvo mia moglie e i miei figli nella Rocca di Zotopanion. Anigel potrà informare il maresciallo Owanon della bella notizia dell'arrivo dei rinforzi.» «Antar, io voglio stare con te...» esclamò la regina. «Potremmo essere costretti ad aprirci la strada verso il palazzo combattendo», la rimproverò severo, «e non ho guerrieri da distaccare per proteggere te. L'idea dell'Arcimaga è giusta. T'imploro di accompagnarla.» Anigel acconsentì con riluttanza; chiamò a sé i due principini e Haramis allargò il mantello. Ma quando la regina e i figli si furono stretti attorno a lei, l'Arcimaga disse all'improvviso: «C'è ancora posto... Kadi! Vieni anche tu. Noi tre Petali del Giglio Vivente non dovremmo essere separate in questo momento critico». Kadiya apri la bocca per obiettare, ma Haramis proseguì: «Non possiamo contare sull'Arcimaga del Mare per avere un appoggio concreto nei combattimenti che ci attendono. Avrò bisogno dell'aiuto incondizionato di voi due. Senza il vostro sostegno, non sarei mai riuscita a scacciare Orogastus e far arrivare la pioggia. Ma quell'unione del Giglio Nero è stata solo un episodio fuggevole e non un'unione salda. Dobbiamo fare di meglio se vogliamo sperare di sconfiggere il Mago e i suoi alleati una volta per tutte». «Ti giuro fedeltà fino alla morte», asserì Kadiya senza indugio, prendendo posto sotto il mantello. Ma Anigel sembrava stranamente assente. «Il grande freddo», mormorò guardando Haramis, «non è scomparso completamente dalla nostra terra! È stato bandito temporaneamente solo da questa piccola regione.» Haramis annuì. «E allora come possiamo vincere?» chiese Anigel. «In meno di tre ore sarò a Derorguila», le disse Antar, «e con l'apporto di queste truppe, le nostre possibilità sono aumentate. Tesoro mio, non scoraggiarti così!» Haramis chiuse gli occhi; il re non aveva compreso appieno quello che significava la querula domanda della moglie, ma Haramis sì. Non conosceva la risposta e al momento non le importava, non voleva altro che riposare. Con grande difficoltà richiamò alla mente l'immagine di cristallo del grande salotto reale nella Rocca di Zotopanion. «Arrivederci!» gridò il re. «Se il Triuno lo vorrà, ci riuniremo tra poche ore.»
La scena di cristallo si trasformò in realtà. Haramis osò respirare: erano stati trasportati sani e salvi. I bambini si misero a chiacchierare, mentre Anigel e Kadiya si scostarono dal mantello. La stanza era fredda e triste, perché il fuoco si era spento ed erano tutti bagnati fino alle ossa. L'Arcimaga si domandò se le restava ancora qualche goccia di magia... Sì: una grande fiammata prese a ruggire nel camino, e i suoi abiti e quelli degli altri si asciugarono in un istante. Anigel, Kadiya e i bambini erano stupefatti. «Chiamerò i servi», disse Anigel all'Arcimaga, «così ti prepareranno subito un letto.» Ma Haramis aveva adocchiato un morbido divano; si avvicinò a esso, vi si lasciò cadere e immediatamente sprofondò in un sonno senza sogni. La luce dell'ambra del suo talismano era così debole che non pareva neppure viva. «Maestro! Maestro! Svegliati!» La Voce Porpora afferrò una mano inerte ricoperta del guanto d'argento e se la premette contro una guancia. «Maestro! Torna a noi! Vivi, Maestro caro! Oh... Potenze Oscure, risvegliatelo!» Orogastus gemette e il suo corpo, che era caduto sul pavimento del salone reale dell'ammiraglia, si mosse. La Voce Porpora si affrettò a slacciare la maschera stellata, gliela tolse e gli mise dei cuscini dietro la testa. «Non restartene lì impalato, ragazzo!» disse la Voce al piccolo Tolo. «Prendi del liquore!» La lezione di etichetta reale del principe era stata interrotta all'improvviso e il bimbo, seduto sul trono mobile di re Ledavardis, aveva assistito come paralizzato a un'incredibile battaglia magica. Orogastus si era preso un piccolo intervallo per scrutare Antar ed evidentemente aveva scoperto che era in corso una qualche minacciosa attività. Avvolto da una luminosità verde e con gli occhi trasformati in due raggi bianchi, il Mago aveva lottato contro demoni invisibili gridando e agitando contro di loro il talismano. E poi era crollato a terra. Il fatto che Orogastus potesse essere vulnerabile era un'idea del tutto nuova e sconvolgente per Tolo, e richiedeva una profonda riflessione. Il ragazzino si avvicinò incerto alla credenza, versò del liquore in una coppa d'oro e lo portò all'assistente del Maestro. «Che cos'è successo?» chiese. «È stato ferito?»
«Magia», rispose secca la Voce. «L'Arcimaga Haramis ha cominciato un colossale atto di magia... cambiare il tempo. Per caso il Maestro la stava scrutando, ha visto che cosa accadeva, e ha cercato d'impedirlo. Ma... ha fallito. Fatto inesplicabile.» «Fallito», ripeté Orogastus con voce flebile. La Voce gli accostò la coppa alle labbra e il Mago bevve un paio di sorsi. «Solo per caso ho pensato di scrutare Antar e ho scoperto che le condizioni atmosferiche in cui si trovava l'esercito traditore stavano per essere cambiate», disse con voce attonita. «Ho capito immediatamente che Haramis doveva essere con loro, anche se la Vista non mi ha confermato la sua presenza. Ho usato tutto il mio potere per mantenere il freddo, in modo che ostacolasse l'arrivo dei rinforzi alla città.» S'interruppe con una smorfia di dolore. «Ma non ci sono riuscito. E nell'attimo prima della mia sconfitta ho visto... ho visto...» «Che cosa, Maestro?» chiese la Voce slacciando il fermaglio del mantello e aiutandolo a bere un altro sorso di liquore. «Ho visto Haramis. E... chi altro? Gli altri due petali del Giglio Vivente, di sicuro. Ma mi è sembrato che ci fosse anche una terza persona.» Orogastus scosse il capo. «Ma chi?» Corrugò la fronte. «Il mio cervello è inutile come una brocca di latte cagliato!» «Non puoi richiamare la bufera di neve?» chiese la Voce. «Tu comandi le tempeste! I venti gelidi ti obbediscono, portando rovina e distruzione sui tuoi nemici! Di sicuro dopo che ti sarai riposato e avrai recuperato le forze...» Orogastus sollevò una mano. «Mia Voce, ho fatto credere a re Ledavardis e a quei creduloni dei raktumiani che la grande ondata di maltempo che ha devastato Laboruwenda era opera mia. Ma con te non ho bisogno di fingere: sì, sono in grado di comandare piccole tempeste, far cadere fulmini, generare trombe d'aria e creare venti che sospingano le nostre navi, ma dare vita a un maltempo così distruttivo e persistente è al di là delle mie possibilità... proprio come è al di là di quelle della stessa Arcimaga Haramis. La verità è che non so perché il clima è impazzito. Di quando in quando ho riflettuto brevemente su questo mistero, ma poi, quando ho visto che le tempeste favorivano i miei piani, ho allontanato la questione dalla mia mente. Ma questo fallimento... non riesco a comprenderlo! Nei nostri precedenti duelli magici mi è sembrato che Haramis e io combattessimo ad armi pari. Poi la fatica si è fatta sentire nell'Arcimaga, che si è ritirata subito dopo che abbiamo infranto il blocco all'ingresso del porto. Non avrebbe dovuto riuscire a vincere questo scontro!»
«E che spiegazione ne dai, Maestro?» «Ha avuto l'aiuto delle sorelle, di questo sono certo. Ma il Giglio Vivente della regina Anigel è ancora rosso sangue e dunque il Fiore non ha il suo pieno potenziale. Eppure sono stato sopraffatto.» Orogastus si mise a sedere, prese la coppa dalle mani della Voce e la bevve d'un fiato. Tossì e si premette le nocche sulla fronte. «Hanno fatto arrivare aria e pioggia calda; solo in un'area localizzata a sud di Derorguila. L'esercito di Osorkon potrà ora arrivare in tempo alla capitale, maledizione, e riunirsi alle truppe all'interno del palazzo. Dobbiamo scendere immediatamente a terra e assumere il comando. Il re gobbo e i suoi uomini hanno bisogno di qualche spintarella per abbandonare il saccheggio e ritornare alle più serie faccende di guerra. E io devo recuperare il mio secondo talismano dalla Voce Gialla. Per battere Haramis mi servono tutti e due.» Si alzò in piedi e gemette di nuovo; poi, per la prima volta, parve accorgersi del principe Tolivar. «Lasciami solo per qualche istante, mia Voce Porpora, e porta con te il bambino. Fai preparare una scialuppa per portarci a terra. Avremo bisogno della mia guardia del corpo tuzamena. E non dimenticarti di portare lo scrigno stellato. Se riuscirò a trovare e sconfiggere Haramis, devo legare a me immediatamente il suo talismano.» La Voce s'inchinò. «Obbedisco, Maestro.» Tolo si affrettò a seguirlo. Orogastus prese l'Occhio di Fuoco Trilobato e lo tenne per la lama smussata. «Talismano, dimmi la verità.» Il lobo scuro dell'Occhio d'argento si aprì. Lo farò se la domanda è lecita. «Chi erano le persone che hanno aiutato l'Arcimaga Haramis nel richiamare la pioggia calda?» La Signora degli Occhi, Kadiya. E la regina di Laboruwenda, Anigel. «Sì? Sì? Ma so che ce n'era una terza! Chi è?» Iriane, l'Arcimaga del Mare. «Per le Ossa di Bondanus!» esclamò il Mago. «Un'altra Arcimaga? Come può essere?» La domanda non è pertinente. «Dimmi la verità: quanti Arcimaghi viventi ci sono?» Uno della Terra, uno del Mare e uno del Firmamento. «Come posso vederli e parlare con loro?» In questo momento nessuno di loro vuole parlare con te, né ti permette
di scrutarlo. In un futuro, se gli piacerà, Denby, l'Arcimago del Firmamento, forse vorrà conversare con te. Per il momento non sei per lui di nessun interesse. Trattenendo un'imprecazione stizzita, Orogastus parlò invece con voce soave: «Porgi i miei più fervidi auspici a Denby, l'illustre Arcimago del Firmamento. Attendo umilmente il suo comodo». È fatto. L'Occhio si chiuse. Orogastus pensò ancora intensamente per qualche minuto, poi rinfoderò il talismano, prese il mantello e si apprestò a scendere a terra per la battaglia. 29 I combattimenti al porto di Derorguila erano finiti quando Orogastus, il principe Tolivar e la Voce Porpora si avvicinarono con la scialuppa sospinta a remi da dodici guerrieri tuzameni armati di tutto punto. Una pioggerellina sottile scendeva sui moli avvolti nel fumo acre e la neve che si scioglieva era sporca di sangue e di fango, e disseminata dei cadaveri d'invasori e di difensori. Le catapulte di legno bruciavano a dispetto della pioggia e i resti dei soldati che le avevano manovrate erano sparsi in mezzo a mucchi di munizioni di pietra e a calderoni di pece rovesciati. Bruciavano anche gli edifici del porto che erano stati la prima linea di difesa dei laboruwendiani e i vicoli che si aprivano in mezzo a quegli edifici erano cosparsi di cadaveri di entrambi gli eserciti. I magazzini che non erano in fiamme recavano evidenti le tracce del saccheggio avvenuto al passaggio del grosso dell'esercito pirata: finestre rotte, balle di merci sventrate, casse aperte e fracassate, botti di liquore vuote e rovesciate, in mezzo alle quali andavano e venivano i marinai raktumiani che stavano accatastando il bottino sui moli. I guerrieri raktumiani, obbedendo all'ordine impartito dal Mago a Ledavardis, si stavano riunendo ai loro alleati tuzameni per dare inizio all'assedio del palazzo. Mentre quattro delle sue guardie del corpo si allontanavano per cercare un carro o un qualunque mezzo di trasporto per il loro signore, Orogastus si fermò sotto il porticato di pietra della Banca Commerciale di Derorguila ed entrò in trance. Era la prima volta, da quand'era svenuto, che si sentiva abbastanza in forze per comunicare con la sua Voce Gialla. Quando quella silenziosa conversazione ebbe termine, il Mago si rivolse
in tono cupo alla sua Voce Porpora: «La regina Anigel e sua sorella Kadiya sono nella Rocca di Zotopanion. La Voce Gialla dice che ci sono anche i due principini e si sono lasciati scappare che c'è anche l'Arcimaga, che dorme profondamente per recuperare le forze. Ma addormentata o sveglia, Haramis rimane celata dietro l'incantesimo d'invisibilità del suo talismano. Per il momento però non potrà opporsi attivamente a noi e quindi dobbiamo agire in fretta per trarre vantaggio dalla situazione». «È una splendida notizia!» esclamò la Voce Porpora. «La cattiva notizia», proseguì Orogastus, «è che re Antar si sta avvicinando in fretta da sud con il suo esercito di tremila uomini. Nel palazzo vi sono duemila difensori, soprattutto cavalieri e il fior fiore della fanteria nemica. Se ricevono i rinforzi del re, sarà dura avere la meglio senza subire pesanti perdite. Le nostre truppe tuzamene all'esterno del palazzo si sono trovate davanti a un micidiale fuoco di balestre. Quei coraggiosi non cedono, nonostante le gravi perdite, ma dobbiamo affrettarci in loro soccorso.» «E a che punto siamo con l'abbattimento delle mura?» chiese la Voce Porpora, che teneva stretto per un braccio il principe Tolivar, il quale ascoltava con avido interesse, del tutto dimentico delle sue precedenti paure. «Sfortunatamente, sembra che le mie armi pesanti non siano molto efficaci. Quei maledetti bastioni sono spessi più di sei metri! Devo arrivare in fretta al palazzo e tentare di sfondare le mura con la magia del mio talismano. È imperativo che prendiamo la Rocca e mettiamo a morte Anigel e i suoi figli prima dell'arrivo di re Antar.» Una delle guardie che era andata in cerca di un mezzo di trasporto ritornò correndo. «Signore, il vicolo dietro la Banca è pieno di carretti, ma non si trova in giro neanche un animale.» «Non importa», disse Orogastus. «Non posso più aspettare.» Scelse sei guerrieri che lo accompagnassero e si dispose a percorrere a piedi la lega che lo separava dal palazzo, posto al centro della città. La Voce Porpora, il principe Tolivar e le altre guardie li avrebbero seguiti il più in fretta possibile. «Tieni il nostro giovane re lontano dai pericoli e dal combattimento», fu l'ultimo ordine del Mago. «Ma sii pronto a portarlo da me non appena sfondate le mura. Potremmo doverlo usare per forzare la regina o l'Arcimaga.» Detto questo Orogastus se ne andò, con l'abito argento e nero luccicante per le gocce di pioggia e l'Occhio di Fuoco Trilobato ben stretto in mano.
Il piccolo principe cercò di liberarsi dalla stretta della Voce Porpora, più furente che spaventato dalle terribili parole pronunciate da quello che un tempo era stato per lui un eroe. L'accolito gli diede uno scossone e gli ordinò di stare fermo o si sarebbe preso una regale tirata d'orecchie. Tolo si mise a piangere per la rabbia e l'impotenza. In quel momento le altre guardie tuzamene tornarono dalla loro inutile ricerca e tutti insieme presero a salire la strada ripida a un passo che fece inciampare il bambino. «State andando troppo in fretta!» protestò Tolo. «I ciottoli sono scivolosi! Rischio di perdere la corona!» Con un'imprecazione, la Voce Porpora si fermò e ordinò a una delle guardie: «Mettiti in spalla questo insopportabile marmocchio, Kaitanus. Io ho già lo scrigno stellato del Maestro». Un omone massiccio con la barba rossa e una pesante armatura afferrò Tolo e se lo mise sulle spalle. Ma le piastre della corazza e la cresta che circondava il collo dell'elmo si conficcarono nella carne del giovane principe, che cominciò a piangere: «Ahi! Ahi! Mi fa male! Non posso stare seduto!» La Voce Porpora esplose in un'imprecazione ancor più sconcia della precedente. «Mettilo giù», ordinò guardandolo, disgustato. «Immagino che sarò costretto a portarti io. Allora tu prendi lo scrigno e tienilo ben stretto, se ti è cara la vita.» La Voce Porpora lo sollevò sulle spalle, molto più morbide delle precedenti, e poi lo scrigno stellato venne posato con reverenza tra le braccia del bambino, che se lo strinse al petto. Il fumo, le fiamme, le urla dei saccheggiatori, le grida dei feriti, le pile di cadaveri, tutto questo pareva irreale a Tolo, appollaiato dietro il cappuccio color porpora. Quella città devastata non era la Derorguila che conosceva, era un luogo d'incubo che non aveva mai visto prima. Solo la grande mole del palazzo in cima alla collina svettava rassicurante e massiccia come sempre. Entrarono in un quartiere di case residenziali dove i combattimenti infuriavano ancora aspri e una folla di raktumiani era in preda alla frenesia del saccheggio. Tolo vide pirati adorni di collane di perle, catene e bracciali impegnati in mortali a corpo a corpo con i soldati e i cavalieri dei Due Troni. Le forze reali erano però in forte inferiorità numerica e il principe rabbrividì vedendo come venivano fatte a pezzi dai nemici urlanti. Il loro sangue schizzò sui suoi abiti regali bagnati dalla pioggia, mentre la Voce Porpora proseguiva al piccolo trotto, protetta dalle sei massicce guardie. I tu-
zameni avevano sguainato le grandi spade ricurve e tenevano lontani quei raktumiani tanto folli da cercare d'impossessarsi del piccolo principe ingioiellato. Avvicinandosi al palazzo, il tumulto del combattimento aumentò e il povero Tolo non ebbe più la forza di guardare. Chiudendo gli occhi, appoggiò la testa coronata allo scrigno stellato, scosso dai singhiozzi. Non gli importava più di vivere o morire. E in quell'istante la morte per poco non lo ghermì. Sentì la Voce Porpora barcollare e udì il suo grido inarticolato. Allora aprì gli occhi e ansimò alla vista dell'elegante edificio di pietra a tre piani che incombeva su di lui tremolando in modo stranissimo. Nello stesso istante si udì uno stridio assordante e inumano, seguito da un rombo continuo molto più profondo di un tuono che però non proveniva dal cielo, ma da sotto la strada. I cornicioni e gli stucchi ornamentali della facciata cominciarono a crollare. Tegole e mattoni volarono in tutte le direzioni. Gli uomini, abbandonati bottino e battaglia, urlarono in preda al panico alla vista di quella valanga di pietre e pareti che crollava su di loro. «Un terremoto!» gridò la Voce Porpora. Le guardie tuzamene barcollavano e urlavano, agitando impotenti le spade, sommersi da una nuvola di fumo e polvere. Il rumore di muri che crollavano e di vetri che si frantumavano soffocò le urla umane, e il rombo sotterraneo si trasformò in un crescendo inusitato. Con uno strillo terrorizzato, la Voce Porpora cominciò a saltellare qua e là, mentre il terreno sotto i suoi piedi si apriva e si gonfiava; lasciò andare le gambe di Tolo e lo scagliò lontano da sé. Il principe volò in aria con un grido, senza abbandonare lo scrigno, e cadde, ritrovandosi avviluppato in qualcosa di scuro e pungente, ma al tempo stesso elastico, che attutì l'atterraggio. Per molto tempo il bimbo restò sdraiato immobile in mezzo al tumulto e al frastuono, chiedendosi se era già morto. Ma i Signori dell'Aria non apparvero per scortarlo in paradiso, il nauseante movimento del terreno cessò e gli schianti delle case che crollavano non si udirono più. Alla fine rimasero solo i deboli suoni di qualcuno che piangeva e gemeva, l'acciottolio di qualche ultima pietra che rotolava a terra, lo scricchiolio delle travi di legno che si piegavano e il tamburellare della pioggia sulla corona che era rimasta ostinatamente posata sulla sua testa dolorante. Tolo era finito in mezzo a un folto cespuglio di thranu, i cui aghi fitti e leggermente appiccicosi gli pungevano il volto e le mani. Con molta prudenza, sempre tenendo stretto lo scrigno, il bimbo si liberò e si lasciò cade-
re a terra. La devastazione che vide attorno a sé lo lasciò senza parole. La maggior parte dei palazzi era in rovina, i muri sventrati lasciavano vedere mobili rovesciati e tappezzerie che pendevano dalle pareti; montagne di detriti ostruivano la strada, fino a dove Tolo riusciva a vedere; gli alberi che avevano fiancheggiato il viale erano stati sradicati; i marciapiedi e la strada si erano sollevati e gonfiati e l'aria era piena di polvere, che la pioggia stava disperdendo in fretta. Proprio accanto al cespuglio che lo aveva salvato, c'era un mucchio di detriti alto almeno tre metri e in un angolo, da sotto un architrave di granito, spuntava un braccio sporco di fango, ricoperto di una manica color porpora. Subito dietro, mezzo sepolta, era distesa una guardia tuzamena, morta, con gli occhi spalancati e la bocca aperta in un urlo silenzioso. Tolo si rimise in piedi; era pieno di tagli e di graffi, ma non aveva ossa rotte. Si arrampicò in cima al mucchio di detriti e guardò in direzione del palazzo, aspettando che la polvere si diradasse. La fortezza dei Due Troni era ancora in piedi! In lontananza udì il suono di corni e grida marziali e poi lo strano cigolio martellante prodotto da certe armi degli Scomparsi e il sibilo delle frecce delle balestre. Dunque, la guerra continuava. Tolo scese dalla montagnola, si slacciò il mantello di pelliccia bianca, sporco e strappato, e lo mise a terra, poi si tolse la sopravveste di velluto azzurro, la corona, la catena regale e il balteo che sorreggeva il fodero della spada. Con una manciata di fango si sporcò l'abito di broccato, il viso e i capelli; con la spada dall'elsa tempestata di rubini tagliò un lembo di velluto dalla veste e vi avvolse lo scrigno stellato. Poi prese i vestiti che si era tolto e tutti gli ornamenti e li portò nel punto in cui erano morti la Voce Porpora e le guardie. Con molta attenzione, il principe acconciò la veste, ponendovi sopra il balteo e il fodero, mentre la catena dorata la dispose con artistica cura più o meno attorno al collo. Poi trasportò mattoni e sassi e ricoprì quasi completamente gli indumenti in modo da dare l'impressione che sotto i detriti giacesse il corpo di un bambino. Come tocco finale lasciò la corona in piena vista a fianco del mucchio di macerie. Dopo averlo sporcato con il fango, Tolo si rimise il mantello di pelliccia bianca per coprire sia la spada, che aveva infilato nella cintura, sia lo scrigno stellato. Poi fu pronto a tornare a casa. C'era una certa porticina ormai in disuso nella parte occidentale delle
mura del palazzo, non lontano dalla Porta del Letame. Un tempo serviva agli stallieri reali per portare fuori letame ed escrementi, prima che si scoprisse che questi potevano essere un prezioso concime per i campi. Ora la vecchia porticina era nascosta da erbacce e arbusti e ne conoscevano l'esistenza solo le persone che lavoravano nelle stalle, come Ralabun, il mastro stalliere della regina. E Ralabun, amico del piccolo Tolo, gli aveva mostrato quella porta due anni prima, raccontandogli che in certe notti, quando le Tre Lune splendevano e il suo cuore era pieno di dolore e di nostalgia, Ralabun il Nyssomu sgusciava fuori del palazzo attraverso quella porticina segreta, raggiungeva il fiume Guila e con una canoa si recava a una certa isola paludosa, dove pregava e cantava per molte ore, nell'antica Usanza del Popolo delle Paludi. Quella porta, aveva detto Ralabun al suo piccolo amico, era il suo segreto più prezioso. Il mastro stalliere non avrebbe mai potuto immaginare che quella porticina un giorno avrebbe potuto salvare la vita di un giovane principe fuggiasco... se fosse riuscito a raggiungerla in tempo. Quand'ebbe luogo il terremoto, Orogastus era appena giunto nella grande piazza che si apriva davanti al cancello nord del palazzo. C'erano circa seimila uomini, la maggior parte dei quali aveva preso posizione fuori portata delle catapulte e delle balestre che sparavano dai camminamenti. Le squadre tuzamene che manovravano le armi degli Scomparsi erano avanzate sotto le fortificazioni al riparo di carri di legno corazzati e muniti di strette feritoie sul davanti, attraverso le quali sparavano le canne delle armi magiche. Il grande muro di cinta del palazzo era bucherellato e sgretolato ma era ancora in piedi. Alcuni dei carri d'assedio, colpiti dai calderoni di pece bollente sparati dalle catapulte sugli spalti, erano ridotti a carcasse annerite e fumanti. Intorno giacevano cadaveri colpiti dalle balestre. Altri circondavano un ariete abbandonato davanti al cancello principale del palazzo di Derorguila. Quando il suolo prese a tremare, un grido unanime si levò dalle forze d'invasione. Alcuni uomini vennero subito buttati a terra, mentre altri corsero di qua e di là in preda al panico, gridando che l'Arcimaga li stava attaccando. Le macchine d'assedio dondolarono come barchette in un mare in tempesta e, tutt'attorno alla piazza, gli edifici cominciarono a crollare. Anche Orogastus pensò che fosse opera dell'Arcimaga. Cadendo in gi-
nocchio, mezzo accecato dall'improvvisa nuvola di polvere che si trasformò quasi subito in pioggia fangosa, si aggrappò disperatamente all'Occhio di Fuoco Trilobato e con tutte le sue forze implorò il talismano di chetare la terra che tremava e di salvare la sua vita e quella delle sue truppe. Ma quando il tremore non accennò a smettere, gridò disperato: «Haramis! Haramis, per amor di Dio! Vuoi dunque distruggere il tuo stesso Popolo oltre che il mio?» La risposta dell'Arcimaga giunse dopo un istante di silenzio inorridito; Orogastus la vide che si aggrappava a un divano in qualche stanza del palazzo, per nulla spaventata, solo rassegnata e apatica. Non è opera mia. Il mondo trema perché sta perdendo il suo equilibrio. Ed è colpa tua, anche se non lo hai fatto deliberatamente. «Che vuoi dire?» gridò lui. Ma lei non gli parlò più e la sua immagine svanì. Qualche istante più tardi, la terra cessò di tremare. Con difficoltà, il Mago si rimise in piedi. La sua guardia del corpo tuzamena imprecava, chiedendo a gran voce di sapere che cos'era successo, e la stessa cosa facevano gli uomini impolverati che li circondavano. Mentre stava per rassicurarli, Orogastus udì un suono strano. Esclamazioni di giubilo. Grida a gola spiegata, esultanti, in lingua sia tuzamena sia raktumiana. Gli uomini che si alzavano in piedi barcollando o che erano ancora sdraiati sull'acciottolato pieno di fessure indicavano il palazzo, ridendo e strepitando. «Le mura! Le mura!» ruggivano. «Viva Orogastus! Viva il potente Mago! Viva!» Stupefatto, Orogastus si girò a guardare. Sul lato occidentale delle porte, i massicci bastioni di pietra si erano aperti da cima a fondo, la grande torre di guardia era crollata e su quella del lato opposto si era aperta una pericolosa ragnatela di fenditure. «Viva Orogastus! Viva! Viva!» I corni di guerra di re Ledavardis di Raktum chiamarono la carica e, con un grido possente, l'orda di pirati si lanciò avanti alla rinfusa verso quella breccia. «È stato fantastico, Signore», disse una delle guardie tuzamene con voce tremante. «Ma la prossima volta, avvertiteci prima!» Il Mago poté solo annuire. Rinfoderò il talismano e si aggiustò la maschera stellata che si era spostata quand'era caduto.
«Signore, dobbiamo unirci alla carica?» chiese eccitata un'altra delle guardie. «Tra un attimo. Devo trovare le mie Voci.» Appoggiando la mano guantata al pomo della spada, Orogastus ordinò la Vista della sua Voce Gialla e immediatamente scorse il suo accolito che correva dietro la forma tarchiata del giovane re Ledavardis, con il talismano chiamato il Mostro dalle Tre Teste saldamente calcato sulla fronte. Mia Voce Gialla, tu e re Ledavardis state bene? Oh, sì, Maestro! E quanto è rimasto stupito di questo tuo colpo divino! Sei riuscito a fare in pochi istanti quello che ore di bombardamenti con le armi magiche non erano riuscite a ottenere. È stato incredibile! Miracoloso... Orogastus lo interruppe. Basta! Ascoltami attentamente: ora devi agire con estrema cautela. Entra nel palazzo con le avanguardie, ma trova un modo per allontanarti dal fianco del re. Voglio che tu ti nasconda in un luogo sicuro fino a quando non potrò raggiungerti. Mi serve il diadema per il mio scontro finale con l'Arcimaga e devi proteggerlo a costo della tua vita. Hai compreso? Sì, Maestro. Ho compreso e obbedisco. Allora addio, mia Voce, fino a quando non ti avrò raggiunto. Poi Orogastus ordinò al talismano di mostrargli la Voce Porpora, ma quando gli giunse la visione, barcollò, lanciando un gemito così angosciato che le guardie tuzamene estrassero le spade e gli si affollarono intorno costernate, domandandogli che cos'era successo. Ma lui non poteva dire loro che la Voce Porpora aveva raggiunto la pace delle Potenze Oscure e che anche il piccolo principe Tolivar era morto. «Non c'è tempo da perdere», disse invece. «Grazie alla mia protezione nessuno di voi è ferito. Dobbiamo andare avanti! Non temete: io continuerò a proteggervi.» Le guardie si strinsero ancor di più attorno a lui e si misero in marcia verso le mura del palazzo, un piccolo manipolo disciplinato in mezzo alla folla scalmanata e urlante di raktumiani. Orogastus aveva parlato con la sua solita arrogante sicurezza, ma dentro di sé cominciava ad avvertire qualche fremito di apprensione. Il terremoto era arrivato all'improvviso e lui sapeva di non essere stato in grado di fermarlo e neppure di attenuarlo un po'. Che le sue guardie e il grosso dell'esercito ne fossero usciti incolumi era dovuto al fatto che si trovavano in uno spazio aperto e non in mezzo agli edifici. Questa era però una cosa che
Orogastus non poteva ammettere davanti a nessuno, come non poteva dire quanto fosse uscito esausto dalla battaglia navale e soprattutto dallo scontro con le due Arcimaghe. Aveva ancora forza sufficiente per schermare se stesso e le sue guardie del corpo dai proiettili nemici, ma per qualche tempo ancora non sarebbe stato in grado di fare molto di più. Non finché non fosse tornato nuovamente in possesso del diadema. Aveva scoperto che quel talismano era quello che più amplificava i suoi pensieri e gli forniva una forza interiore più grande, mentre, al contrario, la spada spuntata esaltava le sue azioni. Si rese conto che era stato un grave errore essersene privato, anche per poco tempo. Potenze Oscure, pregò, proteggetelo! Fate che riesca a riprenderlo prima che lei si accorga che non l'ho! L'uomo vecchio, vecchissimo, scosse il capo, con un sorriso di superiorità. Lo aveva saputo fin dall'inizio che non avrebbe funzionato. Nessuna delle due fazioni avrebbe vinto. Lo aveva detto alle altre due fin da quando gli avevano rivelato quel loro inutile piano. Quello che doveva essere, sarebbe stato! Le cose stavano così, non c'era altro da dire. Non aveva senso impicciarsi, cercare d'interferire con la direzione in cui girava il cosmo. Si poteva ritardare per un po' l'inevitabile, ma alla lunga le cose sarebbero accadute. Certo, era un peccato che tutto finisse sottosopra, ma col tempo sarebbe andato a posto. Non era già successo una volta? Lui sapeva come sarebbe andata a finire quella ridicola faccenda! Era tutto così banale! Di poco conto! Insignificante, se messo a confronto con le faccende davvero importanti che in quel momento occupavano, come era giusto, la sua attenzione. Non erano degni di considerazione, nessuno di loro. Non vedevano mai la soluzione anche quando ce l'avevano sotto il naso. Facevano un errore dietro l'altro. Era esasperante. Ma perché si era preso la briga di osservare? Molto presto avrebbe dovuto smettere sul serio. 30 Haramis si scostò dalla finestra infranta del salotto reale e ritornò barcollando al divano. Il disorientamento e lo shock di essere svegliata dal ter-
remoto e dal grido disperato di Orogastus cominciarono a svanire, rimpiazzati dalla ben più orrenda realtà che aveva appena visto: un enorme esercito d'invasori urlanti ammassati fuori delle mura del palazzo, che ora sciamavano attraverso la breccia, inarrestabili come l'acqua dalla falla di una nave condannata. E Orogastus era tra loro. Che cosa doveva fare? Che cosa poteva fare? Anzitutto doveva riportare a una parvenza di funzionamento il suo cervello confuso. Si lasciò cadere sul divano e si premette il talismano contro la fronte. Ecco, così andava meglio. Il colossale sussulto che aveva devastato la gran parte di Derorguila, a quanto pareva, aveva arrecato danni minimi alla massiccia Rocca di Zotopanion, a parte i vetri in frantumi e gli oggetti che erano rotolati a terra da mobili e scaffali. Dalle finestre infrante entrava la pioggia che bagnava le tappezzerie. Il freddo stava tornando, come lei sapeva che sarebbe successo. Per quanto tempo aveva dormito? Un'ora? Due no di certo, ma si sentiva comunque un po' più in forze. Sollevando di nuovo il talismano, chiamò le sorelle. «Anigel! Kadiya! State bene?» La visione apparve: si trovavano nella camera del consiglio con il maresciallo Owanon, Lord Penapat, il cancelliere Lampiar e parecchi altri nobili funzionari e ufficiali. C'era polvere nell'aria, le sedie erano rovesciate e candele, carte e altri oggetti erano sparsi un po' ovunque. Kadiya stava aiutando il venerabile Lampiar a uscire da sotto il massiccio tavolo del consiglio che, evidentemente, era servito da riparo improvvisato durante il terremoto; Owanon sosteneva la regina, che pareva stordita ma illesa. «Stiamo bene», rispose Kadiya sollevando lo sguardo al simulacro dell'Arcimaga sospeso a mezz'aria come uno spettro. «Ma abbiamo corso un grosso rischio quando il grande lampadario ha cominciato a cadere; per fortuna sono riuscita a deviarlo grazie al mio amuleto. È opera di quel bastardo di Orogastus?» «No», rispose l'Arcimaga. «In questo momento è debole quasi quanto me. Il terremoto è solo un altro sintomo dello squilibrio del mondo.» Penapat e Kadiya si disposero a curare un taglio sulla fronte del vecchio Lampiar, lavandolo con qualche goccia di vino. Owanon, che aveva aiutato la regina a sedersi su una poltrona, chiese all'Arcimaga in che condizioni fosse il palazzo dopo la scossa. «L'ho scrutato molto in fretta, ma posso dirvi che la situazione è estre-
mamente grave. Si è aperta una breccia nei bastioni vicino al cancello principale e il nemico è riuscito a passare. La torre occidentale è in rovina; quella orientale è pericolante, ma alcuni difensori sono rimasti comunque al loro posto.» «La rocca è ancora solida?» chiese Owanon. «Sì, per fortuna.» Il Lord maresciallo annuì pensoso. «Molto bene. Dovrò radunare le truppe che si trovano fuori della rocca: cercheremo di organizzare la difesa delle porte e mantenere il controllo dei cortili sud e ovest, almeno. Il cancello posteriore delle fortificazioni del palazzo deve restare aperto per l'esercito di re Antar. Avevo sperato che riuscisse ad arrivare prima.» Haramis scrutò in fretta il re. «È ancora a un'ora di marcia.» «Penapat, Lampiar», disse Owanon, «preparare la difesa della Rocca di Zotopanion tocca a voi. Muoviamoci.» I tre consiglieri e gli ufficiali si precipitarono fuori della camera del consiglio, lasciando Kadiya e Anigel sole con la forma spettrale dell'Arcimaga. «Hara, che ne è dei miei figli?» chiese la regina. «Aspetta, ora li cerco.» Un istante più tardi, disse: «Janeel è sana e salva nella sua stanza con Immu. Ma Niki... forse sperava di avvistare l'arrivo di Antar, o gli è venuta la folle idea di aiutare nella difesa. L'ho trovato negli alloggiamenti vicino al cancello posteriore; c'è una confusione indescrivibile, perché l'edificio è crollato nel terremoto. Ha dei graffi sul viso e gli abiti strappati, è un po' stordito, ma cosciente, e si trova assieme a un gruppo di feriti. Non sono in grado di dire se ha altre ferite più gravi». «Vai da lui, Hara!» gridò la regina in lacrime. «Salvalo!» «Non... penso di riuscire a trasportarmi. Non adesso: è una magia che richiede una concentrazione assoluta. Mi spiace tremendamente, Ani, quando c'è stato il terremoto avevo dormito troppo poco e se tento prima di essermi ripresa del tutto...» «Allora andrò io stessa a prendere Niki!» esclamò la regina facendo l'atto di balzare in piedi. «Vorresti andare dove infuria la battaglia?» Kadiya era incredula. «Sì!» gridò Anigel fuori di sé. «Se Hara si rifiuta di aiutare mio figlio, allora lo farò io!» Kadiya si chinò sulla poltrona e afferrando la sorella per le spalle la scosse. I capelli color del rame della Signora degli Occhi erano una criniera fulva e risplendente e una luce intensa le illuminava gli occhi. «No! Tu
non ci andrai! Ricorda chi sei! Ricorda chi è l'Arcimaga e il solenne dovere cui è votata. Per l'amore di Dio, sorella, allontana la paura e la disperazione che ti hanno privata della tua integrità e del tuo buonsenso e comportati da regina!» «Io so che cosa sono», gemette Anigel, contorcendosi come un animale in trappola. «Sono una vigliacca, vile e spregevole, indegna del mio sacro ruolo!» Di colpo smise di lottare e si accasciò, sopraffatta dalla disperazione. «Hai ragione, Kadi. Non ho alcuna possibilità di salvare il mio povero figlio, morirà, come tutti noi... sotto il Ghiaccio Vincitore, se non sarà per la magia nera di Orogastus o per le spade delle sue malvagie coorti.» Kadiya lasciò andare le spalle della sorella, s'inginocchiò e la strinse in un tenero abbraccio. «Sorellina carissima, ti sbagli. So che ti angoscia lo squilibrio del mondo di cui ti ritieni responsabile. Ma allora tutt'e tre siamo colpevoli, perché tutt'e tre abbiamo agito egoisticamente, sventatamente e ignobilmente! È solo l'orgoglio che ti fa attribuire tutta la colpa a te stessa.» «Orgoglio? Mi fai un torto: ho mancato in molte cose, ma non sono mai stata una persona arrogante o altezzosa.» «Nonostante tutta la tua dolcezza d'animo, sei sempre stata orgogliosa. E ciò ti ha portato a un oscuro egocentrismo che ti ha reso cieca alla verità. Nel corso degli anni ti sei rifiutata di credere che anche una sola cosa potesse non essere perfetta nel tuo prospero regno. Ti sei rifiutata di riconoscere che potessero esistere pericoli o ingiustizie. Volevi solo essere felice e che tuo marito e i tuoi figli fossero felici con te e crogiolarti in quella dolce soddisfazione.» «Ed è un peccato mortale?» gridò Anigel indignata. «Può esserlo... quando si hanno responsabilità più grandi. La tua sicurezza e la tua tranquillità, come quella dei tuoi cari, sono importanti... ma non sono la cosa più importante del mondo. Ci sono beni più grandi e amori più grandi. E a volte siamo chiamati a terribili sacrifici in nome di questi beni supremi. A volte dobbiamo morire per essi... o, peggio ancora, lasciare che qualcuno che amiamo soffra o muoia.» Un'espressione perplessa e ansiosa si disegnò sul bel volto della regina, che non proferì parola e non guardò negli occhi la sorella. «Io so che un tempo esisteva in te un nobile altruismo», incalzò Kadiya. «Ritrovalo, poni il tuo dovere di sovrana al di sopra delle tue necessità personali. Allontana per sempre da te la disperazione, l'amarezza e le recriminazioni che ti hanno consumato finora. Sono sentimenti inutili, peggio che
inutili... sono veleno! Ama la tua famiglia, i tuoi amici, il tuo paese e il mondo. Ma amali non per la tua sicurezza personale, ma di un amore generoso, e saggio, come il Triuno ama noi. Non lo hai fatto, ma puoi farlo. Io lo so.» «Kadi...» disse la regina, «se solo potessi crederti...» «Nel tuo cuore sai che ho detto la verità quando parlavo del tuo peccato di egoismo... altrimenti il tuo giglio non avrebbe sanguinato per la vergogna.» La regina sollevò il viso sconvolto. «Fino a questo momento non mi ero mai resa conto di che cosa albergasse veramente nel mio animo. Hai ragione: ero orgogliosa di quello che eravamo riusciti a realizzare Antar e io all'ombra dei Due Troni. Ero orgogliosa dei miei bellissimi bambini e di me stessa. E quando tutto è crollato, ti ho odiata perché non capivi il mio dolore. Ho odiato Hara per i suoi elevati ideali, che erano molto più nobili dei miei, e perché si rifiutava di restringere la portata dei suo amore, come invece avevo fatto io. Credevo che mio marito e i miei figli fossero le persone più importanti del mondo... più preziose di te, di Hara, dei miei amici, del mio Popolo. E mentre il disastro avanzava, avrei fatto qualunque cosa pur di salvare la loro vita... anche vedere il mondo inghiottito dal Ghiaccio Vincitore.» «Sì», rispose Kadiya prendendo dolcemente le mani della sorella tra le sue. Le due donne si alzarono. «Ho sbagliato.» «Sì.» «Kadi, ti perdono dal profondo del cuore.» «Lo so.» Kadiya e la regina si abbracciarono. Poi Anigel sollevò il mento. «Andrò subito da Penapat e Lampiar e cercherò di rendermi utile ai nostri valorosi difensori. Non so usare una spada, ma...» «Io sì!» esclamò la Signora degli Occhi con un sorriso. «Tu fai quello che puoi, nel frattempo io andrò a prendere quello scapestrato di Niki.» Scostandosi i capelli dalla fronte, estrasse la spada e uscì a grandi passi dalla camera del consiglio. La regina si aggirò per la stanza devastata e, come in sogno, raccolse le carte che erano cadute sul pavimento e le posò ordinatamente sul tavolo impolverato. Guarda il tuo amuleto, sorella. Anigel emise un'esclamazione sorpresa; si era completamente dimenti-
cata che l'immagine spettrale dell'Arcimaga la stava guardando. Afferrando la catena d'oro, estrasse da sotto gli abiti la goccia d'ambra. L'amuleto ardeva di un caldo colore dorato e nelle sue profondità splendeva un minuscolo Fiore nero. 31 Tolo! Per le Ossa di Bondanus! Non solo il marmocchio era ancora vivo, ma aveva legato a sé il Mostro dalle Tre Teste! Fermo in mezzo alla battaglia, circondato dal clangore delle armi e dalle urla delle sue guardie che si difendevano dagli attaccanti, Orogastus perse la Vista del piccolo principe e si sentì cadere il cuore. Era inutile andare in cerca di Tolo, ora; con il talismano si sarebbe di certo nascosto in qualche parte delle immense stalle, o magari in uno degli edifici del cortile e nessun sortilegio sarebbe stato in grado di trovarlo. Quella era la magia più semplice del talismano e non richiedeva uno sforzo cosciente da parte del bambino. Di certo però non sarebbe stato in gradò di comandare il Mostro dalle Tre Teste; era spaventato a morte. No, Tolo si sarebbe limitato a tenere stretto il talismano (e con esso anche lo scrigno stellato, da quel piccolo marmocchio traditore che era!) e a restarsene rintanato in qualche buco sino alla fine della battaglia. Orogastus sapeva, con assoluta e disperata certezza, che il Mostro dalle Tre Teste era perduto; ma almeno non era in possesso dell'Arcimaga o delle sue sorelle. Tolo non lo avrebbe mai restituito, non dopo aver ucciso per impossessarsene. Che fine grottesca per la povera Voce Gialla... Adesso tutti e tre i suoi accoliti erano morti e con essi la speranza di far risorgere il Consiglio della Stella e distruggere il Fulcro. Ma aveva ancora l'Occhio di Fuoco Trilobato e la battaglia stava procedendo magnificamente, mentre Haramis si dimostrava un'avversaria molto più inetta di quanto avrebbe mai osato sperare. Se fosse riuscito a vincere quella guerra, avrebbe avuto il tempo di pensare a un modo per indurre il piccolo principe a restituirgli il talismano... tempo per reclutare nuovi seguaci e iniziarli alla Stella... tempo per padroneggiare il funzionamento del suo talismano e tirare Haramis dalla sua parte... o distruggerla. «Signore!» Una delle guardie indicò il lato occidentale della Rocca. «Ascolta le grida di giubilo dei pirati. Laggiù dev'essere successo qualcosa!»
«Scruterò con la mia Vista.» Il Mago si servì del talismano per osservare dall'alto i cortili del palazzo e vide che gli invasori erano riusciti ad aprire i cancelli principali delle fortificazioni e adesso si stavano riversando nei cortili. La maggior parte dei pirati però si teneva lontana dalla Rocca, concentrandosi sui molti edifici che la circondavano, intenta a far bottino più che a combattere. Solo dal lato ovest, quello da cui provenivano le grida, era in atto un serio tentativo di penetrare nella fortezza. Quasi tutti i difensori erano concentrati in quel punto, davanti alia porta occidentale, la più vulnerabile. L'attacco raktumiano era condotto da re Ledavardis e dalla sua folla di nobili tagliagole e stavano proprio facendo un buon lavoro! Il re... Potente Bahkup! Che diamine pensava di fare, Ledo? Sfidare a duello il maresciallo Owanon? Quel giovane folle! Si sarebbe fatto ammazzare e l'esercito pirata sarebbe precipitato nel caos. «Presto!» gridò Orogastus alle sue guardie. «Devo trovare un punto soprelevato dal quale operare la mia magia!» «Quel panificio ha un tetto robusto, con un parapetto», rispose una guardia, «ed è fuori della portata dei tiratori.» Si fecero largo fino all'edificio a colpi di spada, liberandosi senza tanti complimenti anche dei raktumiani che non si toglievano di mezzo abbastanza in fretta. L'interno del panificio era un carnaio di cadaveri, feriti che gemevano, tavoli e scaffali rovesciati, muri schizzati di sangue; ma l'ondata principale della battaglia era già passata. Il Mago trovò la scala che conduceva al tetto e si arrampicò con foga, distanziando le sue guardie. Da lassù, aveva una visione perfetta del combattimento in corso davanti alla porta ovest della Rocca. Il giovane e tarchiato re di Raktum e l'alto Lord maresciallo combattevano con incredibile lena a colpi di fendenti, e i cavalieri di entrambe le fazioni avevano abbassato le spade e li incitavano a gran voce. Il giovane monarca, nonostante il fisico disgraziato, era forte e agile, ma non era difficile vedere che il suo anziano avversario lo surclassava. Owanon infatti stava costringendo il re a indietreggiare verso le linee raktumiane e da un momento all'altro lo avrebbe sopraffatto. Orogastus sollevò il talismano con l'elsa trilobata verso l'alto: mai prima di allora aveva deliberatamente tentato quello che si accingeva a fare in quel momento. Se avesse impartito l'ordine nel modo sbagliato, sapeva che c'era il pericolo che a morire fosse lui stesso. Ma doveva correre il rischio. Occhio di Fuoco Trilobato, incenerisci Owanon.
I tre occhi dell'elsa si aprirono e da essi scaturì un raggio di colore bianco, verde e dorato, che colpì il Lord maresciallo al petto. Il fascio luminoso si diffuse su tutta l'armatura e il corpo venne avvolto in un fumo ardente. La spada gli sfuggì di mano e Owanon cadde ai piedi dell'esterrefatto re di Raktum. Piastre di metallo bruciato si sparsero a terra insieme con le ossa carbonizzate. Occhio di Fuoco Trilobato, apri quella porta! Di nuovo il raggio lampeggiò, questa volta di un bianco accecante, e colpì le pesanti porte di legno inchiavardate di ferro. Il metallo divenne incandescente e il legno s'incendiò in una grande fiammata. Un istante più tardi, la porta si dissolse in una cascata di cenere scura. I guerrieri raktumiani non riuscivano a credere ai propri occhi, ma re Ledavardis urlò giubilante: «Avanti!» e i suoi uomini, con un grido di esultanza, si gettarono contro l'entrata. Esaltato dall'impresa, Orogastus si voltò e puntò quell'arma meravigliosa contro l'ingresso principale sul lato nord della fortezza. Occhio di Fuoco Trilobato, ora apri quella porta! Ancora una volta il raggio di luce scaturì e l'ingresso principale della Rocca di Zotopanion si aprì di fronte all'orda d'invasori. Haramis! chiamò il Mago. Haramis, arrenditi! Posso ordinare al mio talismano di uccidere! Ho ucciso il Lord maresciallo e ucciderò tutti coloro che si oppongono a me! Ordina ai difensori della fortezza di deporre le armi. Ordina alla regina Anigel di venire avanti e di arrendersi al re Ledavardis. Se lo farai, risparmierò la vita di tutti coloro che si trovano a Derorguila. Se rifiuti, saranno uccisi tutti. Haramis, arrenditi! Ci fu un movimento dietro una delle finestre all'ultimo piano della Rocca e a occhio nudo il Mago poté scorgere una figura vestita di bianco, che disse: No. Un'ira bruciante lo invase: che potesse essere dannata nel più profondo dei dieci inferni! La prossima a morire sarebbe stata lei! Sollevò il talismano... poi gridò, perché la Vista del volto dell'Arcimaga gli invase la mente. Non poteva dare quell'ordine. Maledetta lei! Maledetta lei! Lui non l'amava, non poteva amarla! La odiava dal più profondo del suo essere, con tutto il suo cuore, la sua anima e la sua forza. E allora, perché si sentiva incatenato a lei... attratto da lei, irresistibilmente, fatalmente? «Mi libererò di te!» fu il gemito disperato di Orogastus. Cancellò il suo viso dalla mente e lo sostituì con l'immagine della spada magica spuntata.
Occhio di Fuoco Trilobato, io... io ti ordino di... d'incenerire Haramis! Sbagliato! Aveva commesso un errore, la sua determinazione aveva vacillato, tradita da quella debolezza personale che lui detestava con tutto se stesso. Ingannata dall'amore. Sentì l'ira dell'odio verso se stesso, che bruciava in lui, unirsi al raggio tricolore e scagliarsi contro di lei. Ma quando raggiunse la finestra, si dissolse in migliaia di frammenti luccicanti, tintinnanti, come se si fosse trasformata in ghiaccio cristallino o in una cascata di diamanti. Il talismano nella sua mano era incandescente: lo lasciò cadere con un grido e questo sbatté contro il parapetto, cadde ai suoi piedi e rimase là, immoto e privo di occhi. I guanti di pelle argentea fumavano: Orogastus se li strappò e li scagliò lontano con un'imprecazione. La figura davanti alla finestra era illesa. Parve ingrandirsi e galleggiare in aria a non più di due metri da lui, alta e adorabile, con il viso triste, ma pieno di determinazione. In una delle mani affusolate teneva la magica bacchetta chiamata Cerchio dalle Tre Ali. Devo andare in aiuto della mia gente, Uomo della Stella. Voi tornerò da te e porremo fine a questa vicenda. Non volendo sprecare le sue ormai esigue energie per trasportarsi, Haramis preferì scendere di corsa le otto rampe di scale per raggiungere e dare man forte a coloro che difendevano la Rocca. Ma quando arrivò al secondo piano, gli invasori che si riversavano dalle porte spalancate erano tanto numerosi che l'enorme salone da ballo era pieno al punto che i combattenti non avevano quasi lo spazio per brandire le spade e il pavimento era ormai un lago di sangue. Anigel e la principessa Janeel avevano trovato riparo in una camera blindata accanto alla sala delle udienze del secondo piano, difesa da un robusto contingente di guardie, e dunque, per il momento, erano al sicuro. Kadiya aveva trovato Nikalon, che per fortuna non era ferito gravemente, e la sorella e il principe ereditario stavano ora arrivando alla camera blindata dalle scale posteriori. Haramis si portò sulla balconata per i menestrelli posta al di sopra dell'ingresso principale al salone, nella speranza di riuscire a richiudere i due grandi battenti della porta con la sua magia. Ma ogni volta che materializzava una nuova barricata, il Mago all'esterno la faceva saltare e la riapriva. Alla fine era così esausta per quell'inutile sforzo che fu costretta a desistere.
Gli sono davvero inferiore come forza magica, si disse; nonostante tutto il mio addestramento, lui è più forte. Forse non possiamo ucciderci a vicenda con la magia, ma questa guerra la vincerà lui. Signori dell'Aria, come andrà a finire? Avvolta nell'ombra, l'Arcimaga guardò gli intrepidi laboruwendiani lottare per respingere gli assalitori che cercavano di salire l'enorme scalinata per arrivare alla sala del trono e alla regina. Lo scalone si trovava dirimpetto all'entrata del salone ed era una delle meraviglie della Rocca: larga alla base due volte più che in cima, l'enorme scalinata di marmo bianco era adorna di un tappeto di velluto rosso, ringhiere dorate e candelieri argentati. Durante le solenni cerimonie di corte, lo scalone era illuminato da migliaia di candele e si trasformava in una parata di donne e uomini sfarzosamente vestiti. Ora invece era il palcoscenico di un carnaio, dove il sangue scorreva a fiumi. I difensori del palazzo si erano concentrati lì, comandati da Lord Penapat. Il robusto ciambellano balzava da un punto all'altro, gridando ordini. Quando un gruppo di cavalieri veniva annientato, un altro lo sostituiva immediatamente, combattendo fino alla morte per difendere la loro regina. Povere anime, pensò Haramis. Sperano ancora che io possa fermare quest'orda mostruosa e che re Antar arrivi e l'assedio si trasformi in vittoria. Ma sono condannate... Ah, Dio! Se solo riuscissi a pensare a qualcosa! Mentre tentava di recuperare le forze, Haramis cercò di aiutare i difensori sullo scalone, ma, nello stato di debolezza in cui si trovava, tutto quello che poteva fare era deviare una spada qui e un colpo là, ma non poteva proteggerli tutti. I cavalieri soccombevano a uno a uno e gli assalitori si disfacevano dei cadaveri di compagni e nemici indistintamente, gettandoli giù dalle ringhiere, sul pavimento del salone. Re Ledavardis di Raktum, che aveva ricevuto una leggera ferita al braccio e non era più in grado di tenere il campo, sorvegliava la battaglia al riparo di un'alcova a destra dello scalone, circondato da una scorta armata. Il giovane sovrano incitò i suoi uomini con un grido: «La regina! La regina! È là, nella sala del trono in cima alle scale! Metà del bottino di Derorguila all'uomo che fa prigioniera la regina Anigel!» I pirati risposero con un ruggito e raddoppiarono i loro sforzi. C'erano più di novecento uomini nel salone e i tre quarti erano raktumiani. A un ordine di Penapat, un altro gruppo di cavalieri si fece avanti dalla sala delle udienze e prese posizione per una carica. Haramis toccò il suo talismano; vide che Nikalon e Kadiya avevano rag-
giunto sani e salvi la stanza blindata dietro la sala del trono; Antar e il suo esercito erano finalmente arrivati ai cancelli posteriori, che però ora erano saldamente presidiati da una robusta forza nemica. Il re sarebbe stato costretto a girare attorno al perimetro delle mura fino alla breccia, dove si sarebbe scontrato con il fianco destro dello schieramento dei pirati e avrebbe dovuto fermarsi. Il suo piano di arrivare in rinforzo dei difensori della Rocca era fallito. «Oh, Dio! Non c'è speranza!» Haramis era prossima alle lacrime per il dolore e la frustrazione. «Non ho neppure la forza di portare in salvo Anigel, Kadi e i bambini... Iriane! Iriane! Non puoi fare nulla?» Una nuvola di bolle azzurre si materializzò con lodevole prontezza sulla balconata accanto a lei e ne uscì l'Arcimaga del Mare. Iriane osservò, aggrottando la fronte, il folle tumulto sotto di loro e scosse il capo. «Sono così in tanti e in preda alla frenesia del sangue... Potremmo tentare con qualche nuova illusione, ma dubito molto che quei tagliagole si lascerebbero impressionare. Quello di cui hai davvero bisogno sono altri combattenti al vostro fianco.» «Re Antar non è riuscito a entrare nei cortili del palazzo da sud; i pirati presidiano l'ingresso posteriore. Sarebbe inutile che tentassi di trasportare qui lui e i suoi uomini un poco per volta, anche se avessi la forza per farlo... cosa che non ho.» «Be', quel trucchetto io non so farlo proprio», ammise Iriane. «Sono in grado di trasportare solo me stessa.» Sporse le labbra bluastre e strinse pensosa gli occhi color indaco. «Hmmm... combattenti... Sai, mia cara, noi Arcimaghi non siamo sempre stati alla mercé dei malvagi. Ai vecchi tempi, quando la Stella minacciava il mondo, avevamo le Sentinelle del Pronunciamento Finale come estrema difesa: loro potevano togliere la vita a quegli esseri pensanti che persistevano nelle aggressioni malvagie.» «Ma solo il Collegio degli Arcimaghi al completo potrebbe ordinare ai sindona di muoversi», ritorse amara Haramis. «Me lo ha detto il Maestro del Luogo del Sapere. E quegli antichi Arcimaghi sono da tempo passati a miglior vita.» Iriane scosse piano la testa. «Il Collegio esiste ancora; perché funzioni, sono richiesti solo tre membri. Tu, io e...» «Denby!» la interruppe Haramis invasa da una nuova speranza. «Ma lo farà?» Senza attendere la risposta di Iriane, gettò indietro la testa e gridò con quanto fiato aveva in gola: «Denby! Aiutaci! Dacci l'autorizzazione a chiamare i sindona!»
Non accadde nulla, e allora Haramis invocò di nuovo il suo nome, disperata. «Denby! Arcimago del Firmamento! Scuro Signore del Cielo! Tu fingi di disinteressarti ma io so che ci hai guardati di lassù. So che sei coinvolto in tutto questo fin dall'inizio, da molto prima che le mie sorelle e io nascessimo. Aiutaci!» Afferrò la mano azzurra e fredda di Iriane. «Noi, le tue compagne, t'imploriamo nel nome del Dio Triuno!» Gli orrendi rumori della battaglia si attenuarono e poi scomparvero e Haramis vide Tre Lune, piene e argentee contro un cielo sereno tempestato di stelle. Non erano piccole, come le erano sempre sembrate quando le guardava attraversare il firmamento, ma così grandi che i loro globi riempivano quasi tutta la visuale. Una di quelle lune pareva avere il viso di un uomo vecchio, vecchissimo, con la fronte rugosa aggrottata in un'espressione di seccata perplessità. «Denby!» esclamò Haramis. «Ricorda il tuo sacro ufficio e aiutaci a chiamare i sindona!» La terra e il mare non sono compito mio, rispose petulante la Luna. «Tu sei un Arcimago», ribatté Haramis, «tu appartieni al Collegio. Iriane e io facciamo a te questa solenne richiesta.» Oh, bene... se la mettete così, immagino che non mi resti altro da fare... ma non risolverà le cose in modo definitivo, lo sai! L'Uomo nella Luna e le sue inanimate sorelle scomparvero. «Guarda!» gridò esultante Iriane. Una falange di cinquanta pallide statue d'avorio era comparsa sullo scalone alle spalle dei difensori decimati. Erano molto più alte degli uomini e indossavano due bandoliere ingioiellate intrecciate sul petto e iridescenti elmi crestati. Ognuna di loro portava sotto il braccio sinistro un teschio dorato. Marciarono lentamente giù per la scala insanguinata in fila per cinque costringendo gli attoniti laboruwendiani a scansarsi in fretta. I guerrieri nemici che avevano scorto la discesa delle Sentinelle del Pronunciamento Finale (vale a dire praticamente tutti quelli che stavano combattendo nel salone) smisero di combattere e fissarono quello strano spettacolo in attonita sorpresa. Per un attimo nel salone vi fu un silenzio quasi totale. Guerrieri di Kaktum, Guerrieri di Tuzamen. Deponete le armi nel nome del Collegio degli Arcimaghi, La voce era dolce, quasi materna, e veniva dall'aria e non dalle labbra immobili dei sindona. Per un attimo i pirati rimasero completamente paralizzati; poi un nobile
tuzameno imbrattato di sangue, che si trovava nelle prime file dei guerrieri che davano l'assalto allo scalone, brandì la sua spada ricurva e urlò con voce roca: «Che io sia dannato se mi arrenderò a un branco di spettri nudi!» Uno dei sindona nella prima fila lo guardò, sollevò un braccio e tese un dito. Il cavaliere scomparve in uno sbuffo di fumo e un teschio bianco e lucido rimbalzò sul pavimento nel punto in cui si era trovato, rotolando sulle piastrelle sporche di sangue. Un mormorio di stupore e paura si levò dagli uomini vicini. Ma gli invasori non capivano ancora che cosa stesse succedendo e, mentre le sentinelle continuavano a scender le scale, il nemico davanti a loro riprese l'attacco, cercando di colpire le statue con le lance, le spade e le alabarde. Il ferro rimbalzava innocuo sui lisci corpi color avorio. Le teste con l'elmo crestato si girarono, puntarono un dito e una cascata di crani si riversò sul pavimento rimbalzando tra i combattenti. Un bravaccio coraggioso gridò: «È solo un trucco, ragazzi! Sono fantasmi creati dall'Arcimaga! Lasciateli perdere!» Un urlo di sollievo e di rabbia si levò dai pirati che ripresero l'attacco con rinnovato vigore. Ma un istante più tardi le file di sindona scesero l'ultimo scalino e si disposero a ventaglio tra i combattenti, puntando il dito letale contro un nemico dopo l'altro. I teschi si moltiplicarono, e quelli che non venivano colpiti non potevano evitare di schiacciarli sotto i piedi. Lentamente, gli invasori cominciarono a capire che tutt'attorno a loro i compagni morivano in mezzo a silenziosi sbuffi di fumo. Molti raktumiani smisero di combattere e cominciarono a cercare una via di fuga. I sindona erano del tutto invulnerabili alle armi umane. Con un dolce sorriso, fecero il lavoro per cui erano stati chiamati. I più svegli tra gli attaccanti, gemendo in preda al terrore, cercarono di scivolare inosservati verso le porte. I comandanti tuzameni e raktumiani si misero allora a urlare: «No, uomini! Quelle cose sono solo illusioni! Avanti! Non abbiate paura! Alla stanza del trono! Alla regina!» Anche re Ledavardis, che osservava dalla sua alcova, stava per unirsi a quelle grida d'incoraggiamento, quando scorse una figura vestita di bianco, in piedi, su una delle balconate: era l'Arcimaga Haramis che lo guardava dritto negli occhi. Udì la sua voce come se si fosse trovata a non più di un metro di distanza. «Re Ledavardis di Raktum! Quegli esseri che vedi sono chiamati Sentinelle del Pronunciamento Finale. Non sono illusioni, sono reali e stanno
mettendo a morte tutti quei guerrieri che covano nell'animo il desiderio di uccidere. In questa sala ci sono cinquanta Sentinelle e altrettante sono fuori del palazzo. Arrenditi, o la tua gente e tu morirete.» Il monarca, spaventato a morte, riuscì a dire: «Menti!» Lei gli puntò contro il talismano. «Guarda tu stesso.» E una scena orrenda si presentò alla mente del re: forme alte e pallide con teschi dorati sotto il braccio che avanzavano tra la folla di combattenti nei cortili del palazzo, lasciandosi dietro morte e atterrito stupore. Non vacillare, Ledo! Sono qui! Orogastus apparve alla porta occidentale, la maschera stellata e l'abito d'argento che luccicavano, e l'Occhio di Fuoco Trilobato in una mano. «Uccidi quelle cose!» gridò frenetico il re. «Eliminale prima che il panico tra gli uomini diventi irrefrenabile!» Ma l'esercito era già in rotta; gli invasori all'interno del salone correvano verso l'uscita, urlando: «Demoni! Stanno arrivando i demoni! Correte alle navi!» Il loro terrore si comunicò in un batter d'occhio alla folla fuori del palazzo. Orogastus sollevò il talismano e gridò un ordine. Un raggio tricolore colpì uno dei sindona e questo esplose con un fragore assordante. I frammenti di quel corpo duro come roccia si riversarono come minuscoli proiettili sui pirati in fuga, che urlarono e scapparono ancor più in fretta. «Fermi!» ordinò Orogastus con voce tonante. «Tornate indietro, sciocchi! Guardate: li sto uccidendo!» E annientò un'altra statua vivente. Alla morte del primo dei loro compagni, le statue si erano voltate a guardare impassibili il Mago. Ora, tutte insieme puntarono il dito verso di lui e, a dispetto di se stessa, Haramis sentì il cuore fare un balzo e gridò. Ma non apparve nessuno sbuffo di fumo. Il teschio di Orogastus rimase saldamente avvolto nella carne, sempre nascosto dietro la terribile maschera stellata. Il Mago emise un grido di trionfo e cominciò a ridurli in frantumi, l'uno dopo l'altro. Il rumore delle esplosioni era impressionante e servì solo a demoralizzare ancor di più gli invasori. I cavalieri di Laboruwenda, invece, si lanciarono giù dallo scalone, condotti da Lord Penapat, per incalzare re Ledavardis e la trentina di uomini che lo circondavano. Intrappolati nell'alcova, i raktumiani si difesero strenuamente. Tutti i sindona che si trovavano all'interno del salone ormai vuoto presero a convergere come un sol uomo verso Orogastus, all'apparenza incuranti dello sterminio dei loro compagni. Haramis rammentò che lo spirito delle
statue distrutte passava in coloro che erano ancora vivi. Le detonazioni si succedevano incessanti, ma i sindona, che ora tenevano davanti a sé con entrambe le mani il teschio dorato, marciavano inesorabili verso il Mago. Orogastus agitò selvaggiamente il talismano, uccidendoli uno dopo l'altro. Ma questi continuavano ad avvicinarsi... e altri ne comparvero alle porte del salone. «Iriane!» gridò Haramis. «Puoi infondermi un po' della tua forza?» «Be', un pochino potrei dartene», rispose l'Arcimaga del Mare, «ma certo non tanta da farti riprendere del tutto.» «Me ne serve quanto basta per trasportarmi un'ultima volta.» «Proviamo.» La Signora Azzurra prese tra le mani la testa di Haramis, la fece abbassare e appoggiò la fronte contro la sua. Haramis percepì un lampo azzurro dietro gli occhi e un nuovo vigore che si diffondeva nel corpo e nella mente. «Grazie! Ora prega per me!» E con quelle parole, afferrò il talismano e scomparve. «Povera me», mormorò Iriane scuotendo l'acconciatura adorna di perle. «Che può avere in mente?» Alzò lo sguardo per un istante, con occhi spenti. «Denby? Stai guardando?» Ma dallo scostante firmamento non giunse risposta. «Tanto peggio per te», disse l'Arcimaga del Mare. Sollevò l'orlo dell'abito e trotterellò di buon passo lungo la balconata verso il lato occidentale del grande salone, dove Orogastus stava frantumando un sindona dopo l'altro. Quello era di sicuro il posto migliore per osservare lo scontro finale. 32 La camera blindata dietro i due troni della sala delle udienze conteneva i gioielli del tesoro reale e gli abiti di gala per le cerimonie ufficiali, e in alcune occasioni si trasformava in un comodo salotto per i due sovrani durante noiose cerimonie di corte. Era assolutamente inespugnabile, gelida, ma era anche piccola, ingombra di scrigni di gioielli, e aveva una sola porta. Non era possibile restare chiusi lì dentro per sempre. Lord Penapat aveva fatto nascondere in quella stanza Anigel, Janeel e la vecchia balia Nyssomu Immu non appena erano state sfondate le porte della Rocca. Ma non era certo il posto che la regina avrebbe scelto; capiva perfettamente di non essere in grado di combattere, ma la propria impoten-
za e il non sapere che cosa stava accadendo la facevano impazzire. Fu dunque sopraffatta dalla felicità quando, poco tempo dopo, la porta della camera blindata si aprì e Kadiya entrò insieme con Nikalon. Immu esaminò in fretta il ragazzo e affermò che, a parte qualche graffio, stava benissimo; il principe però era oppresso dalla vergogna di aver costretto la zia a salvarlo. Kadiya fece alla sorella un vivace racconto di come si fosse resa invisibile con l'aiuto del suo Giglio Nero e avesse portato via il principe dall'edificio crollato. Non volendo togliere la speranza ad Anigel e agli altri, non disse che l'area dietro la fortezza era ormai in mano a centinaia di soldati nemici. La Signora degli Occhi sapeva che non vi erano possibilità che re Antar riuscisse a far passare i rinforzi dalla porta posteriore delle fortificazioni. E a meno che Haramis non operasse un miracolo, tutti coloro che si nascondevano nella camera blindata molto presto avrebbero dovuto scegliere tra la resa e una morte lenta per fame e sete. Si disposero ad aspettare. Kadiya si sedette accanto alla porta, affilando la spada, mentre gli altri si avvolsero nei mantelli cerimoniali per ripararsi dal freddo e si strinsero gli uni agli altri. «Non so esprimerti la mia gratitudine per avermi riportato Niki», disse Anigel a Kadiya. «In questo momento terribile è per me un conforto sapere che almeno due dei miei adorati bambini sono salvi.» «Anche quello sciocco di Tolo probabilmente sta benissimo», intervenne disgustata la principessa Janeel. «Non dobbiamo parlare male di lui», disse la regina in tono severo, ma gli occhi le si riempirono di lacrime al pensiero del suo figlio più piccolo. «Tolo è troppo giovane per capire che cosa terribile ha fatto. Se tornerà sano e salvo da me, lo stringerò forte e lo perdonerò con tutto il cuore. E così faremo tutti.» «Senza nemmeno un castigo?» Niki era scandalizzato. «Sì», disse la regina. Il principe ereditario borbottò qualcosa d'incomprensibile e la principessa Janeel cominciò a descrivere senza pietà il triste futuro di Tolo nelle mani di quell'odioso Mago, finché Immu non li sgridò entrambi, esortandoli a pensare a cose più piacevoli. «E quali cose più piacevoli?» chiese la principessa. «Non ce ne sono.» «Ma certo che ce ne sono, sciocchina!» la rimproverò la vecchia balia Immu.
«I pirati ci cattureranno tutti... e allora sarò davvero costretta a sposare il re gobbo!» «Suvvia, tesorino, non dire così, c'è ancora speranza. Le cose possono non essere brutte quanto sembrano... Ah, erano molto peggio durante la terribile battaglia per la Cittadella di Ruwenda. Quale situazione poteva essere più disperata di quella? Eppure abbiamo trionfato e il Giglio Nero ha ripreso a fiorire a Ruwenda per la prima volta dopo che il Ghiaccio Vincitore si era ritirato.» «Lo ricordo», disse la regina Anigel cercando di sorridere, ma l'accenno di Immu al ghiaccio l'aveva fatta rabbrividire. «Sì, fu la più grande battaglia mai combattuta a Ruwenda», le fece eco Kadiya. «Anzi, forse la più grande mai avvenuta nel mondo conosciuto! Umani e Popolo e persino gli Skritek vi presero parte e la magia buona e quella cattiva fecero addirittura sobbalzare le Tre Lune.» «Ma i tre Petali del Giglio Vivente ci diedero una grande vittoria», disse Immu ai principi. «Vostra madre, zia Kadiya e zia Haramis vinsero la battaglia e la guerra, anche se tutto sembrava perduto.» «Raccontaci di nuovo la storia», la pregò la principessa, aggiustandosi meglio l'improvvisata e stravagante coperta. E Immu narrò di come l'Arcimaga Binah fosse arrivata giusto in tempo per far nascere le tre principesse gemelle di Ruwenda e di come queste ultime crebbero e partirono alla ricerca del loro talismano magico. La vecchia balia Nyssomu stava per raccontare come era stata salvata Ruwenda, quando l'Arcimaga Haramis aprì la porta della stanza blindata. «Sorelle... venite con me.» Kadiya balzò in piedi, ansiosa in viso. «Hara! Ci sono buone notizie?» «Metti via la spada, Kadi: per la battaglia che ci attende avremo bisogno di un'altra arma.» L'Arcimaga era pallida quasi quanto i sindona e la sua figura, avvolta nel mantello, si stagliava sulla porta circondata da un debole alone luminescente. C'era qualcosa di sconosciuto, quasi pauroso, in lei. «Allora non abbiamo vinto la battaglia?» gridò la regina Anigel. «L'esercito pirata è in fuga verso il porto», disse Haramis. «Antar e i suoi uomini li stanno inseguendo. Ledavardis, re di Raktum, in questo momento è prigioniero di Lord Penapat e dei suoi cavalieri...» Niki e Jan esultarono. «... ma la battaglia non è vinta: resta Orogastus. Ho chiamato i sindona e in questo momento lo hanno circondato. Ma lui li sta uccidendo a uno a uno. È giunto per noi il momento di affrontarlo. Venite con me! L'unica
arma che vi serve sono i vostri amuleti.» Kadiya si slacciò la spada e la regina si liberò dell'ingombrante mantello cerimoniale. Le tre sorelle attraversarono di corsa la sala del trono e giunsero sul largo pianerottolo antistante lo scalone che portava al salone da ballo. «Gran Dio!» ansimò la regina. Kadiya non riuscì a proferire parola, tanto strana e terribile era la scena che si era presentata ai suoi occhi. L'enorme stanza, lunga centoventi metri e larga altrettanto, era piena di fumo e di cadaveri ammassati ovunque: in mezzo ai corpi, come frutti bianchi screziati di rosso caduti da un albero invisibile, c'erano centinaia di teschi. Esplosioni assordanti provenivano da un punto alla sinistra del grande scalone. Kadiya e Anigel videro delle figure pallide ammassate spalla contro spalla: sindona... forse un centinaio, forse meno. Il Mago doveva essere in mezzo a loro, anche se non lo si vedeva. Haramis sollevò il talismano in cui ardeva l'ambra del giglio. «Statemi vicine», disse. «Stringete tra le mani il Giglio Nero e bandite dal vostro cuore tutta la paura, tutta la disperazione, qualunque sentimento che possa diminuire il vostro amore. Donatevi l'una all'altra e offritevi a me. Abbiate fede... e seguitemi dove vi porterò.» Anigel e Kadiya si misero a fianco di Haramis al centro dello scalone. Il fumo e la penombra scomparvero di colpo e la grande sala sembrò invasa da una luce spietata. Videro Orogastus, con l'abito della Stella, che stringeva in mano l'Occhio di Fuoco Trilobato dalla parte della lama spuntata, ma con tanta forza che il ferro gli era penetrato nella carne, e le mani erano coperte di sangue. Sull'elsa della spada i tre occhi irradiavano raggi verdi, bianchi e dorati e a ogni pulsazione un sindona scompariva in un frastuono di luce e rumore. Frammenti delle statue distrutte ricoprivano il pavimento ai piedi del Mago come neve ruvida. I sindona si erano disposti in cerchio attorno a lui, in tre file, e il cerchio più interno di Sentinelle, ognuna con il teschio dorato teso in avanti, era a soli sei metri dal Mago. I sindona erano immobili, impotenti, mentre Orogastus li uccideva a uno a uno. La regina e la Signora degli Occhi di colpo si sentirono trasportate in aria, anche se sapevano perfettamente di trovarsi sempre saldamente in piedi sullo scalone. Si librarono sopra Orogastus insieme con Haramis e lo guardarono. Il Mago sollevò lo sguardo e le vide; il suo volto, seminascosto dalla
maschera, era incorniciato dai raggi della grande stella d'argento. Aprì le labbra e gridò: «Haramis!» Sono qui. Siamo qui. Tutto questo deve finire. Orogastus sollevò l'Occhio di Fuoco Trilobato verso di loro, pronto a ordinare l'annientamento del Giglio Vivente. Ma esitò, ricordando quello che era successo in precedenza, quando il talismano aveva sbagliato... e fallendo, lo aveva costretto a lasciarlo finire per terra. Se lo avesse lasciato cadere ora, i sindona gli sarebbero piombati addosso in un attimo, schiacciandolo. La sua volontà era tanto salda da permettergli di ucciderla, questa volta? Prima la sua concentrazione aveva vacillato, confusa dalla maledizione dell'amore che provava per lei. Ma ora o l'uno o l'altra sarebbero di sicuro scomparsi... Ma lui sarebbe morto? No! Lei non lo avrebbe ucciso, avrebbe fatto una cosa ancor peggiore: lo avrebbe condannato a vivere nell'Abisso della Prigionia, nel ventre della terra. Il Fulcro lo avrebbe attirato laggiù, come lo aveva richiamato nel Kimilion, e lui vi sarebbe rimasto imprigionato fino alla morte. «No!» urlò. «Non lo farai!» Sollevando il talismano sopra la testa, sgombrò la mente da ogni pensiero, e formulò l'ordine. Kadiya, Anigel, disse l'Arcimaga, abbiate fede in me, donatevi con tutta la forza del vostro amore perché è arrivato il momento di ritorcere su di lui quello che sta per scatenare contro di noi. L'elsa dell'Occhio di Fuoco Trilobato parve assumere dimensioni gigantesche, nascondendo dietro di sé l'Uomo della Stella. Le tre donne videro l'occhio umano, l'occhio dorato del Popolo e l'occhio azzurro argento degli Scomparsi fissarle per un breve istante. Poi, lentamente, gli occhi si trasformarono, divennero tre Lune dorate, tre globi che piano piano furono nascosti dall'oscurità, finché rimasero solo tre cerchi con una fiammeggiante corona dorata. Poi quei tre globi cambiarono a loro volta, sbocciarono, divennero un grande Fiore con tre petali color della notte. Al centro dorato di quel fiore c'era un uomo e sui tre petali del Giglio Nero c'erano tre donne. Haramis! Non puoi farlo! Non all'uomo che ami! L'uomo stringeva una spada nera; raggi di luce stellata scaturivano dai suoi occhi. L'uomo disse: Annientale. Folgora i Tre Petali del Giglio Vivente. E le energie magiche presero a scorrere.
Dal centro del Fiore dove ora la Stella splendeva giunse un turbine di luce, ma, prima che potesse avvolgerle, videro il giglio dividersi in tre: verde, dorato e bianco, ognuno con un cuore stellato. Una luminosità accecante e ruggente le avvolse ed ebbero l'impressione di precipitare, volando nell'aria come foglie, circondate da un turbinio di scintille tricolori. L'Arcimaga del Mare disse: «L'amore non è solo permesso, è richiesto». L'Arcimago del Firmamento disse: «Ma è anche una gran seccatura». Davanti a loro, in quel turbine di luce c'era qualcosa, una forma esagonale, nera come la notte. Precipitarono, rotolarono, caddero verso quella forma, che crebbe, fino a diventare immensa, e il rumore aumentò fino a essere insopportabile. L'Arcimaga della Terra disse: «Non abbiate paura!» Ma io ho paura! Ho tanta paura... Il silenzio fece tornare in sé Anigel, Haramis e Kadiya. Erano in piedi sullo scalone. Haramis, tra le due sorelle, stava a testa china, con le braccia lungo i fianchi. L'ambra del talismano pulsava al ritmo del suo cuore. Anche i loro amuleti erano luminosi e vibranti. Vivi. Con un gran sospiro, Kadiya discese le scale, seguita da Anigel, e si fece strada tra quei patetici resti umani, fino al punto in cui si trovavano i sindona. Ne erano rimasti solo una ventina, ancora disposti in un cerchio perfetto e sempre con i teschi dorati davanti a loro e il sorriso sereno sul volto. All'interno di quel cerchio era rimasto solo l'Occhio di Fuoco Trilobato. «Era il mio talismano», mormorò Kadiya. «Poi è stato suo. Ora a chi appartiene?» Ma le Sentinelle del Pronunciamento Finale non risposero e mentre le due sorelle le guardavano, le loro forme divennero incorporee come nebbia e poi si dissolsero nel nulla. «Immagino che il Mago abbia nascosto lo scrigno stellato da qualche parte», disse Anigel. «Riusciremo a trovarlo e un giorno potrai di nuovo usare il tuo talismano.» «Non sono affatto sicura di volerlo», disse la Signora degli Occhi. Anigel piangeva, forse per il fumo che ancora aleggiava nell'aria. «Io sono certa di non voler usare il mio.» Si voltarono a cercare Haramis, ma l'Arcimaga non c'era più. Nel grande salone non c'era anima viva.
«Andiamo fuori, all'aria fresca», disse Kadiya prendendo la mano della sorella. Insieme attraversarono la grande porta occidentale della Rocca e uscirono nei cortili. Il sole splendeva luminoso e l'aria era sorprendentemente tiepida e dolce. Una folla di cavalieri e soldati laboruwendiani, acciaccati e coperti di sangue, levarono un grido di esultanza vedendo le due donne. Lord Penapat gridò: «Il nemico è fuggito fino all'ultimo uomo... tranne uno!» La folla si aprì e videro re Ledavardis di Raktum seduto su un blocco di pietra. Il giovane sovrano si alzò, sorrise e s'inchinò, dicendo: «Il re gobbo si affida alla misericordia della regina Anigel e della Signora degli Occhi e si arrende». «Hai trattato con gentilezza i miei figli quand'erano tuoi prigionieri», disse Anigel, «e io farò altrettanto con te. È mio volere che tu lasci subito il mio paese.» «Tutto... tutto qui?» Ledavardis la guardò sbalordito. La regina annuì e si rivolse a Penapat: «Prendi i tuoi uomini e scorta il re di Raktum alla sua nave e accertati che parta». Si udì un mormorio, poi quasi tutti i guerrieri si misero a ridere e si avviarono verso la porta nord del palazzo. La regina Anigel pareva non vedere i cadaveri che erano attorno a lei, e nemmeno il sangue e le rovine del palazzo di Derorguila: come in sogno, sollevò gli occhi al cielo azzurro dove si libravano piccole nuvolette bianche: era il cielo della Stagione Secca e dal mare arrivava un vento caldo. «Kadi... credo che l'equilibrio del mondo sia stato risanato.» «Potresti aver ragione. Preghiamo che sia così. Haramis lo saprà di certo, ma credo che sia meglio aspettare prima di andare a chiederglielo.» «Sì, dev'essere sfinita.» «Abbiamo molto da fare», disse Kadiya. «Dobbiamo occuparci dei feriti, e preparare cibo e bevande per i nostri vittoriosi combattenti. Andrò ai piani superiori della Rocca e radunerò tutte le nobildonne che riuscirò a trovare e anche i servi. Poi potremo...» S'interruppe sentendo uno squillo di trombe e un coro di grida gioiose accompagnate dal rumore di zoccoli. «Antar!» gridò la regina. «Antar!» Si precipitò nel cortile anteriore, seguita da Kadiya. Videro il re di Laboruwenda e i suoi uomini che entravano dal cancello principale. Seduta die-
tro il re c'era una piccola figura che in un primo momento Anigel scambiò per Jagun o Shiki, ma i due coraggiosi aborigeni erano sulle loro cavalcature proprio dietro Antar e agitavano la mano in segno di saluto. «E allora chi c'è con lui?» chiese la regina alla sorella, fermandosi senza fiato. Il re la scorse e spronò il fronial, partendo al galoppo verso di lei. E finalmente la regina vide chi sedeva dietro il marito e scoppiò in un pianto di gioia. «Il mio bambino! Oh, sia ringraziato il Dio Triuno! Miei tesori, siete entrambi salvi!» Il re sorridente tirò le redini della sua cavalcatura, balzò di sella e prese la moglie tra le braccia. Con i pugni sui fianchi, Kadiya guardò severa il principe Tolivar. «Dunque, giovanotto, ne avrai di cose da raccontare, eh?» Tolo scrollò le spalle e lasciò che lei lo aiutasse a scendere. «Non è successo molto. Sono riuscito a scappare dal Mago durante il terremoto. Papà mi ha trovato. È stato quasi magico.» «Abbiamo avuto tanta magia da bastarci per un bel pezzo», disse la regina al figlio. «E direi che lo stesso vale per te.» «Sì, mamma», rispose il principe Tolivar. Si lasciò baciare e abbracciare, poi il padre lo prese in braccio e tutti insieme si avviarono lentamente verso la Rocca di Zotopanion, sotto il cielo limpido. Haramis salì le scale. Ai piani superiori della Rocca, tutti coloro che non avevano combattuto cominciavano a uscire dai loro nascondigli, come pavidi lingit timorosi della luce del sole. L'Arcimaga si fermò qualche istante al terzo piano, per tranquillizzare coloro che incontrava, assicurando loro che la guerra era finita e Laboruwenda aveva vinto. Poi chiese che le indicassero un posto tranquillo dove poter riposare. Un'anziana nobildonna la condusse nelle sue stanze, dicendo che sarebbe stato per lei un onore se l'Arcimaga avesse voluto servirsene. Dopo averla ringraziata, Haramis chiuse la porta a chiave. Le stanze non erano grandi e naturalmente il terremoto aveva rotto qualche finestra, ma l'aria che entrava era calda e il letto era asciutto. Haramis era sicura che sarebbe riuscita a dormire. Si tolse le scarpe, slacciò l'abito e si sdraiò. Ma subito si rizzò a sedere di colpo, rendendosi conto che ancora una volta era venuta meno al suo dovere. Doveva avere la certezza... la certezza di averlo bandito. E così, per l'ultima volta in quel lungo giorno, prese il talismano.
«Mostrami l'Abisso della Prigionia.» La visione che comparve fu a tutta prima difficile da comprendere, e solo dopo un istante Haramis capì il significato di quel marasma di rocce spezzate che si era presentato alla sua mente. E quando capì, era troppo sfinita anche per piangere. Era stato il terremoto, naturalmente, che non aveva sconvolto solo Labornok, ma anche Ruwenda. La profonda spaccatura sotto il Luogo del Sapere era crollata durante la lunga scossa, seppellendo la caverna, e con essa il Fulcro, sotto un'immane montagna di sassi. «Dove... dov'è Orogastus?» Ha preso la via degli Scomparsi. Non è più in questo mondo. Senza saperlo, aveva esiliato Orogastus in quell'inferno pieno di rocce e ora il Mago era morto. Iriane lo aveva saputo? Ah, ma si trattava di una faccenda della terra! Anche se la Signora Azzurra fosse stata al corrente del crollo dell'Abisso, non aveva nessun obbligo di dirlo. Il Mago non c'era più e i principi magici non erano stati macchiati. «È finita», sussurrò. «Mi spiace solo che alla fine abbia avuto tanta paura... Chi poteva pensare che sarebbe stato in preda al terrore?» Chiuse finalmente gli occhi e si arrese ai sogni. EPILOGO Quando Orogastus si svegliò, era circondato da un buio simile alla notte. Ogni muscolo, ogni osso del suo corpo gridavano di dolore. Il cuscino sotto la testa era morbido; stupito, fece scorrere le dita sulle lenzuola che lo coprivano: erano calde e setose. Riuscì a scorgere una forma oblunga poco lontano. Ma non c'erano di certo finestre nel tremendo Abisso della Prigionia... Si sedette, poi scese dal letto in cui era sdraiato e si accorse di essere completamente nudo, a parte il vecchio pendente con la stella che portava ancora al collo. La forma oblunga era davvero una finestra coperta di tende: le scostò, e quello che vide gli fece trattenere il fiato per la sorpresa. Stelle, più stelle di quante ne avesse mai viste in cielo, e non bianche e lampeggianti, ma di tutti i colori immaginabili, che splendevano fisse, senza tremolio. Tra le più brillanti scorreva un triplo fiume di stelle più pallide. Erano costellazioni che conosceva? Sì, ma non le aveva mai viste così gloriosamente disegnate.
«Allora forse sono davvero morto.» Si voltò nella penombra e sbatté contro una piccola sedia. La luce delle stelle entrava ora nella stanza, illuminandola di un chiarore argentato. Orogastus vide sulla sedia un pastrano e lo infilò senza pensarci. Dietro il letto gli parve di scorgere una porta. Vi si diresse zoppicando... e inciampò in qualcosa che era posato sul pavimento. Un esagono nero. Venne assalito da un'improvvisa vertigine, barcollò e fu sul punto di cadere. Afferrando con una mano una colonnina del letto e con l'altra il pendente a forma di stella, attese che il terrore mortale che l'aveva assalito svanisse. Poi si chinò e raccolse quella cosa nera: era piatta, larga circa mezzo metro e fatta di metallo Uscio. Il Grande Fulcro. Tenendolo stretto, aprì la porta. Vide uno studio confortevole, zeppo di libri. Un uomo vecchio, vecchissimo, con il viso scuro sollevò lo sguardo da quello che stava leggendo, inarcò un sopracciglio bianco e attese. «Chi sei?» sussurrò Orogastus. «E perché...» aggiunse, tendendo il Fulcro. «Quell'affare non ti servirà», disse il vecchio. «Buttalo in qualche angolo, poi vieni a sederti.» Indicò una credenza polverosa. «Prendi da bere, se vuoi. Non far caso ai miei modi; non ricevo spesso visite. Anzi, a dirla tutta, tu sei il primo da molto, moltissimo tempo. Ma chissà perché non ho saputo resistere all'impulso d'impicciarmi!» Ridacchiò ironico. «Molto strano. Tutta questa faccenda è, comunque, molto strana.» Riprese a leggere il suo libro, come se fosse di nuovo solo. Sopra la credenza c'era un'altra finestra che guardava le stelle. Ma là fuori galleggiava anche un'altra cosa... una forma simile a una mezzaluna dipinta di bianco e di azzurro. Orogastus rimase a fissarla a lungo, senza capire. «Ti abituerai al panorama», disse Denby Varcour. «È una delle cose più belle di questo posto.» FINE