Pierre Szalowski
Il freddo modifica la traiettoria dei pesci
Traduzione di Bérénice Capatti
Rizzoli
Proprietà lett...
24 downloads
594 Views
477KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
Pierre Szalowski
Il freddo modifica la traiettoria dei pesci
Traduzione di Bérénice Capatti
Rizzoli
Proprietà letteraria riservata © 2007, Éditions Hurtubise HMH © 2011, RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-04776-0
Titolo originale dell'opera: LE FROID MODIFIE LA TRAJECTOIRE DES POISSONS
Prima edizione: marzo 2011
Il freddo modifica la traiettoria dei pesci
Ad Antoni, Tom, Sophie. Di ieri, di oggi, di sempre.
Nella vita nulla è da temere, tutto da capire. Marie Curie
In nessun luogo e ovunque a Montréal Giovedì 25 dicembre 1997
Come passa in fretta, il Natale «Devi aspettare un altro po'! Tuo padre sta ancora dormendo.» Le nove e diciannove, stando all'orologio. Mi sono riseduto sul letto. Ero sveglio da più di due ore, ad aspettare nella mia stanza. È una regola, nella mia famiglia: ogni anno ho il divieto di farmi vedere in giro prima che sia passato Babbo Natale. Avevo sei anni e mezzo quando Alex, il mio unico amico, mi ha comunicato con un sorriso che Babbo Natale è soltanto un'invenzione dei grandi. D'un tratto mi sono sentito sprofondare in un mondo completamente diverso, un mondo in cui tutto aveva una spiegazione. Per dimenticare la delusione, ho seguito il suo esempio senza esitare: il giorno dopo, a scuola, ho spifferato ai più piccoli l'amara verità. Più tardi, a cena, ho lasciato cadere un commento per far capire a mamma e papà che era ora di piantarla con la storia che se non fai il bravo Babbo Natale non ti porta regali. Ma l'occhiata di panico che mia madre ha lanciato a mio padre mi ha fatto desistere. Non volevo che si rattristassero. A volte devi dire delle bugie per evitare che i tuoi si rattristino. «Però, è in gamba questo Babbo Natale! Non è mica da tutti far passare per il camino una macchina elettrica lunga un metro!» ho esclamato. L'agosto dell'anno seguente eravamo in vacanza al nostro chalet, e mentre pescavo con mio padre, fissando l'acqua, ho annunciato: «Papà, io non ci credo più, a Babbo Natale». Lui si è voltato verso di me, e io verso di lui. Mi ha guardato per un istante con un sorrisetto fatalista, poi ha infilato un'altra esca sul mio amo. «È la vita.» Papà non fa mai grandi discorsi. Mamma dice che è un uomo di poche parole. Quella volta ha reagito come se avesse sempre saputo che prima o poi avrei scoperto la verità; semplicemente, non spettava a lui rivelarmela. Non si è preoccupato di scoprire chi fosse il colpevole della crudele rivelazione: strano per un poliziotto, anzi... per un ex poliziotto. Infatti ora papà è istruttore delle reclute. Il dottore, che di coraggiosi in vita sua ne ha visti tanti, qualche anno fa gli ha diagnosticato un leggero esaurimento. «Non capisco cosa possa esserci di tanto stressante nel dare le multe alle signore di rue Laurier! Non è mica il caso di sentirsi in colpa: sono i mariti che pagano!» Mamma dice che l'ansia è una cosa interiore. Siamo i soli in grado di scoprire da dove arriva, perché siamo noi stessi a generarla. Dopo la diagnosi di esaurimento, mio padre ha continuato a raccontarmi le sue storie di poliziotti gentili che arrestano malvagi motociclisti. Finché una sera, due anni fa, ha smesso di colpo. Con grande sconforto di mia madre, ogni anno a metà gennaio spedisce una lettera per motivare la decisione di non riprendere il servizio attivo. «Non mi va più, e poi mi pagano lo stesso!» Dopo la pesca, nello chalet, papà le ha sussurrato qualcosa all'orecchio. La mamma ha increspato appena le labbra. Ai suoi occhi ero ancora un bambino, forse persino qualcosa di meno. Eppure, da maestra delle elementari, doveva averne visti tanti di bambini costretti a fare i conti con quella triste scoperta. «Perché piangi, caro?» «Papà mi ha sgridato perché ho rotto il regalo di Natale, e lui non ha ancora finito di pagare le rate!» Ma lì, nel nostro chalet, si trattava di me, del suo bambino. Qualcosa era finito per sempre. Io sono figlio unico: da quel momento mamma non avrebbe mai più avuto occasione di mettere in scena la spassosa commediola di Babbo Natale. Ormai l'ho capito da un pezzo, non è vero che il Natale è solo per i bambini. Nove e ventinove. Ieri sera la cena non finiva più. A tavola eravamo in sei: io, i miei genitori e Julien, il migliore amico di mio padre, con le sue figlie Alexandrie e Alexandra, le temibili gemelle. Hanno strillato per tutto il tempo, e siccome hanno la faccia uguale, mi sembrava che a gridare fosse un'unica,
terrificante bambina. Mia madre si è innervosita anche più di me. «Alexandrie! Alexandra!» A un certo punto si sono prese a braccetto e hanno cantato la famosa canzone di Claude Francois: «Le sirene del porto di Alessandria cantano ancora la stessa melodia... wow wow...». «Julien, non potevi chiamarle con dei nomi diversi, le sorelle gemelle?» «Suppongo di sì, se non avessi conosciuto la loro madre a una serata dedicata a Claude Francois! Ma lascia che ti dica una cosa...» Ogni anno Julien ci spiega che non si deve dire "sorelle gemelle" ma solo "gemelle", perché una gemella è per forza di cose la sorella di un'altra sorella: si chiama effetto specchio. «Chi è la più bella delle due?» Impossibile capire quale delle piccole pesti mi abbia rivolto la domanda. Per forza, sono gemelle "perfette", dunque perfettamente identiche; una o l'altra, è lo stesso. La sola buona notizia è che recentemente Julien ha divorziato. Lui ci scherza sopra: «A conti fatti non ho mai sbagliato con mia moglie, ho semplicemente sbagliato moglie!». E così, a quanto pare, d'ora in poi ascolteremo la canzone di Alexandrie e Alexandra ad anni alterni. Tuttavia, non capisco perché Julien e la ex moglie non abbiano deciso di tenersi una gemella per uno. Dal momento che sono la stessa persona in duplice copia, sarebbe stata senz'altro la soluzione più semplice. Ma sembra che i gemelli non possano vivere separati. In questo assomigliano ai genitori, almeno ai miei. In teoria non dovrei saperlo, ma le gemelle avrebbero potuto essere mie sorelle. Julien era il fidanzato di mia madre all'epoca in cui tutti e due studiavano Scienze dell'educazione. Poi lui ha fatto l'errore di presentarle mio padre: fisico asciutto, due spalle così e divisa attillata a esaltare gli addominali scolpiti. Era appena entrato in polizia. Un colpo di fulmine, dice lei. Papà sottoscrive. Dando prova di grande saggezza, Julien ha deciso prontamente di farsi da parte. «Arrivederci Anne, ciao Martin... sarà meglio che tolga il disturbo... Non vi muovete, uscendo spengo la luce!» Quando le gemelle sono finalmente crollate sul divano del salotto, mia madre è venuta a darmi un bacio. «È ora di andare a letto...» «Mamma, ma è Natale...» «Prima vai a letto, prima avrai i regali domani mattina!» Andando verso camera mia, ho visto mio padre e Julien stappare un'altra bottiglia. Mia madre non c'era. Avevano un'espressione seria, e quando passando li ho salutati con la mano, nessuno dei due ha sorriso. Sembravano tristi. E probabile che poi se ne siano bevuta un'altra, di bottiglia, perché quando mi sono alzato per fare pipì, qualche ora più tardi, erano ancora seduti in salotto a bisbigliare. «Le donne s'innamorano di te perché sei diverso. Poi fanno di tutto per farti diventare uguale...» Nove e trentanove. Toc; toc! Mia madre ha aperto la porta di camera mia e ha fatto capolino senza sorridere. «Tuo padre è sveglio...» Non sono balzato giù dal letto come le altre mattine di Natale. C'era una punta di tristezza nella sua voce. Sulle prime non ho notato che aveva detto "tuo padre" anziché "papà". È stata la sua tristezza a colpirmi. Passando dalla cucina ho visto che mio padre e Julien avevano bevuto non una, bensì altre due bottiglie. Papà mi aspettava in salotto, sprofondato nella sua poltrona di fronte al televisore spento. Si è sforzato di sorridermi mentre si grattava la testa. Mi sono chiesto se non ci fossero altre bottiglie vuote nascoste sul balcone. Natale arriva una volta all'anno, ma noi non ci scordiamo le nostre piccole abitudini. Mi ha sorpreso non trovare i miei genitori insieme. Mia madre non era seduta sul bracciolo della poltrona di mio padre, ma sul divano, più in là. Erano due persone distinte. Anche quando hai undici anni, sotto l'albero apri sempre per primo il regalo più grande. Ho capito subito che l'idea di regalarmi il Piccolo Chimico era stata della mamma. Ogni Natale mi compra solo giochi educativi. Secondo lei un regalo dev'essere prima di tutto utile. A scuola sono un anno avanti
perché lei mi ha insegnato a leggere quando ne avevo soltanto quattro. Ero la star dell'asilo. Oggi a scuola sono una cima, più basso degli altri di un'intera testa. Mi rimanevano da aprire tre regali più o meno delle stesse dimensioni. In questo caso si inizia sempre dal più pesante. All'improvviso mio padre mi ha fissato con complicità. «E questa è la sorpresina di papà...» Ho finto di non vedere l'occhiata truce che gli ha scoccato la mamma. Ho strappato la carta da regalo e spalancato gli occhi. Non potevo crederci. Una videocamera! Mi sono voltato verso di lui e ho mormorato: «Uau!». Papà si è lasciato sprofondare nella poltrona, soddisfatto. Mia madre ha serrato i denti. Non volevo che si arrabbiasse. «Grazie anche a te, mamma! Grazie a tutti e due... Grazie, Babbo Natale!» Lei mi ha rivolto un sorriso tirato. La videocamera non era affatto di suo gusto. Ho scartato in fretta gli altri due regali. Il primo era una scatola di Lego, altra idea di mia madre per sviluppare la cosiddetta manualità fine. Sono talmente sviluppato da questo punto di vista che riuscirei a smontare un orologio con indosso un paio di guantoni da hockey. L'ultimo pacco conteneva una radiosveglia a forma di pallone da football. Era da parte di Julien, a cui l'anno precedente avevo confessato che non ne potevo più di regali sul tema del baseball. «Eppure questa vestaglia degli Yankees ti dona così tanto!» Credo che gli sarebbe piaciuto avere un maschio. Non dico due, ma almeno uno. Comprare solo Barbie, in doppia copia per giunta, alla lunga dev'essere frustrante per qualsiasi padre. E perciò Julien si sfogava con me. «Be', una sveglia è più utile di una vestaglia...» «Non dimenticare che non conta il regalo, ma il pensiero...» Ho capito subito che in realtà mia madre non si stava rivolgendo a me, ma a mio padre. Sono tornato alla scatola della videocamera. Mi sono seduto per terra, dando loro le spalle. Sentivo che non erano d'accordo, ma con un gioco così bello tra le mani non era più un mio problema. Ho preso il foglietto delle istruzioni. I miei genitori sussurravano. Ho sentito tutto, mentre fingevo di leggere. Non credevo che mia madre fosse capace di bestemmiare nel giorno di Natale. «Cristo santo! Una videocamera da mille dollari! Non ti pare un po' esagerato?» «La desiderava da tanto tempo, e poi hai visto la pagella che ha portato a casa?» «Le sue pagelle sono sempre eccellenti!» «Sei tu che mi ripeti che bisogna incoraggiarlo!» «Se gli compri una videocamera a undici anni, come lo incoraggerai a sedici? Regalandogli un fuoristrada?» Poi si è alzata ed è uscita dalla stanza. A sentirli litigare perché il mio regalo costava troppo ho rimpianto di non credere più a Babbo Natale. Mi sono voltato verso mio padre. Lui si è sforzato di sorridere. Poi si è alzato lentamente. Molto lentamente. «Oh, la mia testa!» Ha camminato fino al bagno. Ha cercato di aprire la porta. Lei si era chiusa dentro. Toc, toc, toc! «Occupato!» Mia madre ha gridato così forte che mio padre si è messo le mani sulle orecchie. È tornato indietro e si è lasciato scivolare sulla poltrona, sposandone la forma con tutto il corpo. Come un robot, ha afferrato il telecomando. Ed è partito il blablabla della televisione. Sul canale d'informazione erano le nove e cinquantanove. Come passa in fretta, il Natale. Domenica 4 gennaio 1998
Sono solo bambini! Le tre luci di una minuscola ghirlanda lampeggiavano sul piccolo abete sistemato sul tavolino, accanto a due bicchieri vuoti e a una bottiglia di vino passato a miglior vita. Sul divano, due gatti acciambellati uno nell'altro dormivano sopra una camicia gialla appallottolata, con gli ultimi bottoni
ancora allacciati. Per terra, un paio di pantaloni da uomo attorcigliati, chiaramente sfilati in tutta fretta. Sulla spalliera del divano, un abito rosso, corto, ripiegato con cura. Poco più in là, la porta della camera da letto era socchiusa. Nel letto sfatto, due corpi giacevano sprofondati nel sonno. La radiosveglia segnava le quattordici. «Psst! Psst! Avanti, vieni!» In cucina, di fronte allo sportellino della portafinestra, un gattino nero indugiava. «Micio micio micio!» La bestiolina ha mosso un passo e si è abbassata per infilare la testa nello sportello. Dal balcone al pianterreno una piccola mano cercava di convincerla ad avvicinarsi facendo rotolare una pallina rossa da destra a sinistra, nella neve. «Micio micio... Per chi è la bella pallina?» Si sarebbe detto che il gattino si stesse facendo proprio quella domanda. Si è acquattato un momento. A pensarci bene doveva essere per lui! Ha spiccato il balzo verso la palla. Una mano l'ha afferrato per la collottola. No, non era per lui. «Miao!» Sul divano, sordi alle grida disperate del loro collega rapito, gli altri due gatti non si sono mossi. Le tre luci dell'albero continuavano a lampeggiare. Sul letto, in camera, uno dei corpi si è rigirato, voltando le spalle all'altro. Il braccio muscoloso di un uomo si è liberato dalle lenzuola per poi finire penzoloni fuori dal letto. Nel tragitto ha urtato la schiena della donna. Lei ha borbottato, poi è tornato il silenzio. Drin ! Drin! Drin! L'uomo ha sussultato e si è rizzato a sedere di soprassalto. Si è guardato intorno. In preda al panico, si è voltato verso la porta d'ingresso. «Julie! Svegliati!» «Sto dormendo...» «Hanno suonato alla porta!» «Hai sognato... Dormi!» Drin! Drin! Drin! L'uomo, nervoso, si è avventato sui pantaloni e se li è infilati ancora più in fretta di quanto non se li fosse sfilati la sera prima. Si è chinato sul divano e ha dato uno strattone alla camicia gialla. I due gatti sono sfrecciati nell'aria per un istante e sono ricaduti sulle quattro zampe. L'uomo si è messo la camicia ed è andato a scrollare Julie. «Chi può sapere che sono qui?» Julie ha alzato la testa, confusa. «Nessuno, a parte me, i gatti e te...» L'uomo si è girato ansiosamente verso i due animali che gli hanno restituito lo sguardo più innocente del mondo. Spesso, dopo l'amore, un uomo si rivela molto più idiota di quanto non apparisse prima. Julie ha scostato il lenzuolo e si è alzata. Un corpo perfetto. È andata in bagno senza uno sguardo per l'uomo che si stava infilando la camicia nei pantaloni. «Sei sposato, vero?» L'uomo ha finto di non sentire per concentrarsi sulla cerniera. Julie è ricomparsa, avvolta in una corta vestaglia rossa di finta seta. «Luca, tesoro... Ti chiami Luca, no? Certo che sei un fenomeno. Ieri sera eri single, ma ti è bastata una notte di sesso per ritrovarti sposato!» Julie si è sistemata la vestaglia per coprirsi il seno. Con un nodo frettoloso si è stretta la cintura sottile intorno alla vita per chiudere meglio i lembi leggeri. Drin! Drin! Drin! «Ha il porto d'armi, tua moglie?» Ancora una volta, il rimbambito ha fatto la faccia di chi ci deve pensare su. Nel corridoio, Julie si è arrampicata su un paio di pantofole dal tacco altissimo. Improvvisamente più slanciata, pareva ancora più esile, ancora più bella, ancora più perfetta. La sua andatura rivelava l'abitudine a camminare appollaiata a quelle vertiginose altezze. Il sedere ondeggiava sotto la tela sottile. L'uomo, preoccupato, si è nascosto dietro la prima cosa che ha trovato, un appendiabiti. Ha seguito con gli occhi la bella amante di una notte dirigersi verso l'ingresso, ma ormai quel sedere non gli interessava più. Julie si è piazzata
davanti alla porta. Ha aperto senza timore, come se non avesse alcuna intenzione di sentirsi in colpa. «Miao!» Tra le braccia di un ragazzino di circa dodici anni, il micio. Adesso Julie sembrava davvero altissima: la testa del bambino le arrivava giusto al seno. Vedendo il suo gatto in braccio al vicino, si è chinata in avanti, e così la vestaglia sottile si è leggermente dischiusa. «Brutus! Che cosa ci fai di nuovo fuori?» Il bambino ha puntato gli occhi sulla sua scollatura. «Era scappato!» «Accidenti, questa settimana è già la terza volta.» Julie ha inquadrato al volo la situazione. Si è chinata un po' più in basso e ha allungato le braccia per prendere il gatto. La vestaglia si è aperta ancora di più. Il bambino non si è mosso. Ormai un seno era quasi del tutto scoperto. «Prenderà freddo...» Il bambino, soggiogato dalla vista del capezzolo che s'inturgidiva, non ha reagito. «Alex, sto parlando del gatto... ti chiami Alex, no?» «Sì, Julie...» Lei ha afferrato Brutus. Sembrava che Alex non lo volesse più mollare, impietrito davanti a quel seno che fluttuava nell'aria fin quasi a sfiorargli il viso. «Alex? Il gatto non è l'unico che finirà per ammaliarsi...» «Miao!» Alex si è rassegnato a lasciare Brutus, che subito si è acciambellato contro il petto, di certo molto più caldo, della padrona. «Grazie, Alex.» «Se scappa di nuovo te lo riporto...» Julie ha fissato per un istante il ragazzino di cui tutto sommato apprezzava l'audacia. «Non ne dubito» ha risposto con un sorriso. Ciac! La porta si è richiusa. Alex si è voltato un istante e ha alzato il pollice soddisfatto come a dire, missione compiuta. Poi ha sbirciato attraverso la porta a vetri il sedere di Julie che si allontanava lungo il corridoio. D'un tratto ha sobbalzato ed è corso giù per le scale. Aveva intravisto l'uomo. «Chi era?» «Il ragazzino dei vicini che mi ha riportato Brutus... Sì, insomma, mi sa che è venuto soprattutto per la vista!» «Eh?» «Non ha smesso un attimo di guardarmi le tette, se vuoi proprio saperlo.» «Mica scemo.» Il tipo pareva aver ritrovato di colpo tutta la sua baldanza. «Almeno ha pagato il biglietto?» Lo sguardo di Julie non era buio. Era nero. Più buio del buio. «Perché, tu non hai forse pagato per la notte scorsa? Ti è costata tre balli, una bottiglia di vino da Couche-Tard e due ore di bugie.» Accompagnare a casa una ballerina e riuscire a infilarsi nel suo letto è il Graal di una certa categoria di uomini, il non plus ultra di ogni maschio fedifrago e bluffatore. L'importante, a fine partita, è pronunciare la frase giusta, qualcosa che rassereni l'atmosfera nel momento in cui si lascia il tavolo dopo averlo sbancato. «Dio come iniziano presto di questi tempi!» «Falla finita, sono solo bambini!» ha ringhiato Julie.
Il freddo modifica la traiettoria dei pesci Quattro pesci esotici, ammantati dalla luce bianca dei neon, si aggiravano in un grosso acquario sistemato al centro della stanza. Un'asse appoggiata su un paio di Cavalletti s'imbarcava sotto il peso di libri di matematica pura coperti di fogli fitti di equazioni e oscuri calcoli. Altri fogli erano disseminati sul pavimento, diversi accartocciati. In un angolo c'era una sacca con lo stemma dei Foreurs di Val-d'Or.
Sopra erano posate tre mazze da hockey. Mazze da mancino, con la paletta molto curva, chiaramente da attaccante. Sull'altro lato della strada si è aperta una porta. Sul pianerottolo del pianterreno è comparsa Julie, con ancora addosso la famosa vestaglia rossa. Ha gettato sdegnosamente nel bidone blu la bottiglia di vino vuota, che è andata in frantumi. L'uomo è uscito in fretta, guardandosi intorno. Ha abbozzato un saluto al quale Julie non si è curata di rispondere. Julie ha sbattuto la porta con furia. Un'altra storia d'amore finita. Boris Bogdanov ha interrotto la lettura di un libro di Andrej Markov - non il giocatore di hockey ma il grande matematico russo. Dalla sua finestra aveva seguito tutta la scena. Ha increspato le labbra in un sorrisetto enigmatico, come se sapesse qualcosa che la sua vicina ignorava. Ne era forse innamorato? Niet! Boris Bogdanov non avrebbe potuto innamorarsi, perché non nutriva interesse per nulla a parte se stesso e i suoi pesci. Sbarcato dalla Russia nel 1990, all'età di diciotto anni, aveva sognato di cambiare vita sul ghiaccio degli stadi del Québec. Il destino gli aveva regalato una possibilità: aveva partecipato al campo d'inizio stagione dei Foreurs di Val-d'Or, categoria juniores. I talent scout avevano creduto di aver scovato in quel giovane russo una perla rara sfuggita chissà come all'attenzione dei colleghi delle altre squadre, ma alla fine erano rimasti con un palmo di naso. Gli intenditori sanno che ai russi il gioco duro non piace. Piuttosto, sono dei virtuosi, dei marcatori nati. Boris Bogdanov aveva mentito un tantino agli scout circa i suoi trascorsi nel vivaio della Dinamo Mosca: non troppo, giusto di una ventina di reti l'anno, di cui la metà in svantaggio numerico. Già il primo giorno di campo, durante la partita tra le reclute, tutti si erano resi conto del fatto che Boris era un tipico russo, poco avvezzo al gioco pesante. A inizio partita, Boris aveva notato un immenso toro dell'Alberta scalpitare per farsi avanti. Il gioco sporco era il pane quotidiano di quella montagna di muscoli, la sua bacchetta magica, la sola espressione corporea di cui fosse capace. Perciò il colosso si era comportato come tutti i grandi predatori. Lui, un blu, aveva cercato nel branco dei rossi la preda più debole. È sempre la gazzella più veloce quella che sfugge al leone; per le più lente il motto è: ognuno per sé. Per quella più lenta di tutte è: amen. Boris Bogdanov non aveva pensato nemmeno per un istante di colpire il disco, quando se lo era ritrovato accanto. Si era limitato a tentare di seminare il gigante dell'Alberta che lo inseguiva grugnendo. Ma Boris non era il pattinatore che aveva raccontato di essere. Non era riuscito ad andare molto lontano prima di incappare nella rovinosa caduta che avrebbe messo fine alla sua carriera. La spalla destra di Boris Bogdanov, che non era poi tanto robusta, si era slogata nell'impatto contro la balaustra. A conti fatti, aveva giocato in una squadra juniores del Québec per quarantacinque secondi, di cui trentadue trascorsi a scappare. Al Val-d'Or piacciono i duri, quelli veri, ma più che altro a nessuno piace farsi prendere per il naso. «Non crederai mica che ti paghiamo il biglietto di ritorno?» Il responsabile dell'attrezzatura gli aveva permesso comunque di tenere la sacca con i colori della squadra. «Sarà un ricordo per i tuoi figli!» Chi mente non è per forza un cretino; la prova è che Boris Bogdanov in realtà era un intellettuale. D'altra parte, è tipico degli intellettuali prendere gli altri per cretini. Se Boris aveva un difetto, era proprio quello. Aveva sempre sulle labbra il sorrisetto di chi crede di saperla più lunga di te. Era sempre stato uno studente molto brillante e lo sapeva. I russi non sfornano solo giocatori di hockey bugiardi e fifoni. Producono anche esimi matematici. Boris Bogdanov era un appassionato di topologia, o meglio, di una delle sue branche. La teoria dei nodi è una scienza matematica complessa che consente di spiegare i fatti più semplici della vita. Se tiriamo il filo di un gomitolo di spago aggrovigliato, certe volte il nodo si scioglie di colpo, altre volte si ingarbuglia ancora di più. L'esperienza ce lo insegna: piccoli gesti possono scatenare conseguenze imponderabili. Capita anche che lo stesso gesto, compiuto in momenti e contesti diversi, produca effetti diversi. I pesci esotici di Boris Bogdanov gli davano modo di riflettere sulla sua ultima teoria: un pesce in un acquario segue sempre lo stesso percorso, determinato da quello degli altri pesci, amici o nemici, presenti nella vasca. Perciò all'arrivo di un nuovo inquilino, ogni pesce è costretto a modificare la rotta
abituale. Dal punto di vista di Boris gli itinerari dei pesci erano altrettanti pezzi di spago che si annodavano e si sbrogliavano. «Non siamo noi a scegliere la nostra strada, gli altri lo fanno per noi.» La sua tesi di dottorato era lì, sotto i suoi occhi, in quell'acqua mantenuta alla temperatura di trentadue gradi centigradi esatti. Era fondamentale, per la sopravvivenza accademica di Boris, che la temperatura rimanesse costante. Nell'eventualità di un suo raffreddamento, alcuni pesci avrebbero potuto modificare la loro traiettoria, compromettendo l'intera tesi. Gli studi di Boris non avevano lasciato indifferente il presidente della Società matematica del Canada, che ha sede a Calgary, nella provincia dell'Alberta. «Quando avrà finito con i pesci venga a trovarci!» gli aveva detto. Dalla finestra, Boris Bogdanov ha visto due ragazzini sedersi sugli scalini d'ingresso del condominio adiacente a quello di Julie. Uno dei due impugnava una videocamera ed entrambi tenevano gli occhi inchiodati al display. Boris ha distolto lo sguardo, si è allontanato dalla finestra, ha appoggiato un libro sulla scrivania invasa di carta. Meccanicamente ha sfiorato con un dito la parete dell'acquario. Gli era sufficiente quel tocco per verificare che l'acqua fosse alla temperatura giusta. Il freddo modifica la traiettoria dei pesci.
In quel momento, ho capito tutto «Figata! Com'è che si riawolge?» «Faccio io, così me la rompi!» «Faccio io... così me la rompi...» «Smettila di farmi il verso!» «Smettila di farmi il verso... Tieni! Riprenditi la tua fottuta videocamera!» Alex è come suo padre, si scalda per un nonnulla. Io non me la prendo. Non dev'essere semplice vivere con un solo genitore. Da piccolo, Alex diceva sempre che sua madre sarebbe tornata. Ora non ne parla più. Quando hai un amico che non ha più la mamma, impari a evitare l'argomento. Non che sia sempre facile, perché tra bambini si parla spesso di genitori. Il momento più ostico è la Festa della mamma. Quel giorno mi tengo alla larga da Alex, non saprei che cosa dirgli. Del resto è facile evitarlo, non esce quasi mai. Non si sa se abbia notizie di lei, dal momento che nessuno osa chiederglielo. «Perché non hai zoomato sul capezzolo? All'aria fredda le è diventato grosso così!» Ho stimato la distanza tra il suo pollice e l'indice. Cinque centimetri! Solo lui poteva sostenere una cosa del genere. In questi casi non si deve discutere: Alex ha sempre ragione. Anche se riesci a dimostrargli che ha torto, lui non molla. A scuola questo atteggiamento gli crea parecchi problemi, soprattutto con i professori. Io con lui preferisco non litigare, perché è più alto di me di una testa, anche se io ho un anno di meno. È chiaro a entrambi che può spaccarmi la faccia in qualsiasi momento. Alex fa a botte almeno una volta alla settimana. Per principio. «Aiuta a rimanere in forma, e poi tiene alta la mia reputazione!» Ammetto che la reputazione di Alex mi fa comodo. Siccome tutta la scuola sa che sono il suo migliore amico, difficilmente qualcuno se la prende con me. Con Alex le discussioni finiscono prima di cominciare. "Prima picchio, poi ci penso! " è il suo motto. Tutti a scuola l'hanno visto picchiare; nessuno l'ha ancora visto pensare. Nei corridoi si mormora che sia pazzo, e lui dice di esserne fiero. Io lo conosco bene. Non è pazzo, e nemmeno fiero, è tutta una corazza. I bambini sono spesso crudeli tra loro. Lui si sforza di sembrare più crudele di tutti. Chi lo prende in giro è morto. A volte capita che riceva qualche bel voto, quando riesce a copiare da me. E stato lui a suggerire che lo filmassi mentre andava a restituire il gatto alla vicina. Eravamo già al terzo tentativo: non era mai pienamente soddisfatto del risultato. «Perché non hai zoomato sul capezzolo?» Due giorni prima l'angolazione non era quella giusta. Quattro giorni prima la vicina era uscita troppo vestita. Il problema è azzeccare l'ora in cui comparirà con indosso la vestaglia, perché quella Julie non ha una vita normale. Non si alza mai alla stessa ora, e non la vedi mai rientrare la sera. D'estate è
perfetto, rimane in vestaglia a lungo e spesso prende il sole sul balcone sul retro. Questo lo sa anche mio padre. L'ho beccato più di una volta che la spiava. Alex mi ha dato una pacca amichevole sulla spalla. «Non vedo l'ora che sia domani!» Ha rialzato la testa, deliziato dalla prospettiva. Abbiamo guardato la strada. Il vecchietto del portone accanto è uscito col suo cagnolino. Vive con un altro signore che gli assomiglia, capelli bianchi cortissimi e baffi lunghi e sottili. «A mio padre quei due vecchi non piacciono.» «Li conosce?» «No.» «E allora perché non gli piacciono?» «Perché è fatto così.» «Sono fratelli.» «Come fai a saperlo?» «Me l'ha detto mio padre.» «Gli ha dato una multa?» «È da un pezzo che non da più multe a nessuno...» Alex non mi ha nemmeno guardato. È cresciuto senza una mamma, non gli piacciono le domande indiscrete, perciò non ne fa nemmeno lui. Il vecchio ha svoltato l'angolo. Stava calando il buio. «Dai, fammela vedere di nuovo!» Ho riavvolto il nastro. Abbiamo rivisto Julie aprire la porta. Il suo seno sgusciare fuori dalla vestaglia. Ad Alex interessava soprattutto la punta. «Perché non hai zoomato?» Non avevo zoomato perché preferisco la vista del seno tutto intero. «Cosa ci fate ancora qui fuori?» Perfino Alex ha fatto un balzo quando si è trovato davanti mio padre. E io non credevo di riuscire a spegnere la mia nuova videocamera tanto in fretta. «Che cosa avete ripreso, di bello?» Non abbiamo fiatato. Alex si è voltato verso di me; eravamo perfettamente d'accordo: il silenzio era l'unica risposta possibile. Dopo un po', mio padre ha capito che non ci avrebbe cavato di bocca neppure una parola. Si è girato per andare verso casa. «Mamma è tornata?» «No, papà, non l'ho vista.» Si è guardato intorno. Si è strofinato il mento. Si capiva che si stava chiedendo dove potesse essere. Poi ha mosso un passo verso la porta. Aveva l'aria triste. «Non fare tardi, l'albero ci aspetta...» «Arrivo, papà!» Mi sono alzato. «A domani, Alex.» Lui ha indicato la videocamera e con le labbra ha mimato silenziosamente: «Non te la dimenticare...». Gli ho strizzato l'occhio e ho seguito mio padre. Ho subito salutato Alex non solo perché papà sembrava triste. La verità è che mi piace un sacco, a feste finite, bruciare l'albero di Natale. Da piccolo, lo faceva lui e io me ne stavo lì a guardare. Ho dovuto aspettare di compiere otto anni per avere il permesso di buttare i rami tra le fiamme. Prendono fuoco tanto velocemente che può essere davvero pericoloso. È bello quando la fiamma avvolge di colpo gli aghi secchi. Ma la cosa più piacevole è il crepitio. Non mi stanco mai di ascoltarlo. Quando l'albero è bruciato del tutto e le decorazioni sono state riposte in cantina, mia madre ci serve la torta dei Magi. È stata lei a introdurre questa tradizione in famiglia. L'ha scoperta da giovane durante un viaggio in Francia, dov'era andata a studiare. Oggi fa la miglior torta dei Magi al mondo. È insuperabile, perché ci mette tanta pasta di mandorle. Nella torta c'è anche la fève. Chi la trova diventa re o regina per un giorno. Se sei il re, hai diritto di sceglierti una regina, e se sei la regina, scegli il tuo re. Quindi mia madre era sempre regina, anno dopo anno. «Dov'è la mamma?» «Da amici...»
«Tu non ci vai?» «No, sono amici suoi...» «Che cosa fa?» «Aveva delle faccende da sbrigare... tornerà presto.» Mia madre che aveva delle faccende da sbrigare la sera della torta dei Magi, l'ultima prima della riapertura delle scuole? Non ci ho creduto nemmeno per un secondo. Non era normale. Mio padre e io stavamo infilando a turno i rami dell'abete nel camino. Lui ha capito che non ero convinto. Ho sentito il suo braccio cingermi la schiena e la sua mano posarsi sulla mia spalla. Siamo rimasti così per un'istante. «Non stiamo bene, noi due da soli?» Ho preferito ignorare la domanda. «Papà, posso portare la videocamera a scuola domani?» «Il posto perfetto per fartela rubare. Non se ne parla.» Ha guardato l'orologio, mentre con l'altra mano mi stringeva forte la spalla. Era preoccupato. Clac! Finalmente mia madre era tornata. Aveva il fiato corto. Mio padre si è alzato, come se fosse stato colto in fallo perché mi stava abbracciando. Lei reggeva una scatola piatta di cartone bianco. «Non ho fatto in tempo a fare la torta. Ne ho comprata una da Première Moisson, sono le migliori della città. Senti che profumo!» Mi sono chinato e ho annusato la scatola. Avrei dovuto dire qualcosa tipo «Mamma, le migliori della città sono le tue!», ma ero troppo arrabbiato per farlo. «Hai ragione, è delizioso.» Per un attimo è parsa delusa. Ha annusato anche lei il cartone. «Bene! Ora la scaldo!» Mio padre l'ha seguita in cucina. Io sono rimasto davanti al camino. C'è sempre qualche ramoscello di abete che sfugge alla fiamme. Li ho spinti contro le braci uno a uno, senza pietà, perché morissero tutti. «Non mi va proprio di fare la regina, stasera!» «Devi farlo per lui.» A quanto pareva i miei genitori non erano più capaci di parlare a bassa voce! «Hai ragione.» «E l'appartamento?» «Non me lo danno.» «Come sarebbe a dire non te lo danno?» «Se lo tengono ancora un mese. I lavori nella loro nuova casa non sono ancora finiti.» «E allora dove starai?» «Allo chalet...» «Ma come farai per andare al lavoro?» «Pensavo che potresti viverci tu, allo chalet, solo per il primo mese...» In quel momento, ho capito tutto.
Si amano Era buio da un pezzo. Dalla sua postazione accanto alla finestra, Boris Bogdanov ha visto Julie uscire di casa. Sotto il cappotto invernale slacciato indossava una gonna corta, molto corta. Il taxi attendeva già da qualche minuto. Lei ci è salita in fretta, e il taxi è ripartito. Boris Bogdanov si è seduto davanti all'acquario e ha verificato, diagramma alla mano, il percorso di uno dei pesci. Tutta la sua teoria si fondava su una premessa fondamentale; prima di avanzare qualsiasi ipotesi, occorreva accertarsi della solidità di quella premessa. «Da... Da... Da...» Inoltre, il metodo scientifico richiedeva che ogni assunto venisse dimostrato. Se si afferma che Mélanie fa pipì in piedi, prima di dimostrare che fa pipì in piedi, occorre innanzitutto dimostrare che Mélanie esiste. Se non esiste, come è possibile che faccia pipì? Ecco perché Boris Bogdanov doveva accertarsi, per prima cosa, che i suoi pesci nuotassero sempre lungo la stessa traiettoria. Su alcuni fogli aveva disegnato un percorso di colore diverso per ognuno. Partendo da quell'intricato nodo in
quadricromia, sperava di dimostrare che il tracciato di ogni pesce dipendeva dal percorso degli altri. Tutto sommato, sarebbe stato preferibile occuparsi della pipì di Mélanie. Almeno così avrebbe potuto scambiare due chiacchiere con qualcuno. Anche se i pesci erano ben quattro, bisognava ammettere che la conversazione non era granché. Era la solitudine del ricercatore puro. Dall'appartamento di fronte giungeva l'eco di un pezzo di musica classica. Simon e Michel, seduti sull'ampio divano, la stavano assaporando nota per nota. Sull'impianto hi-fi andava un trentatré giri. L'interno della casa era arredato con gusto e ricercatezza. Il rosso era il colore dominante. Su un tavolino davanti ai due uomini, nel suo bel cofanetto di velluto blu, c'era una bottiglia di Chivas Royal Salute, ventun anni di invecchiamento, acquistata al prezzo di centocinquantanove dollari. Come ogni sera, Simon e Michel ne avrebbero bevuto non più di due bicchieri a testa. Un cane di razza maltese completamente bianco, quattro anni appena d'invecchiamento, guaiva nella sua cesta di vimini. «Simon ti ha portato fuori tre ore fa. Un po' di pazienza, amico!» Erano dieci anni che Simon e Michel condividevano quell'appartamento e la vita, eppure non erano mai usciti di casa insieme. Si sarebbe detto che si nascondessero. Nel quartiere la gente li credeva fratelli. In effetti si somigliavano, soprattutto per via dei capelli bianchi cortissimi e dei baffi lunghi e sottili. Si erano conosciuti undici anni prima. Simon, psicanalista, aveva fatto accomodare Michel sul suo divano. Michel aveva iniziato la terapia per un disagio che non riusciva a spiegarsi. Viveva male il suo ruolo di padre, di marito. Amava il suo unico figlio diciottenne. Amava sua moglie, con cui era sposato da venticinque anni, ma in lui c'era qualcosa di irrisolto. Non era sereno, come se non si sentisse veramente se stesso. Solo il suo lavoro a Météo Canada lo rendeva felice. Era uno specialista di uragani e stava elaborando un modello che avrebbe permesso di prevedere con maggior precisione la loro traiettoria. Anche Simon era sposato e aveva due figlie, di sedici e diciannove anni. Col tempo, avevano scoperto di avere alcune affinità. Simon sapeva bene che non era consentito avvicinarsi troppo a un paziente, ma più Michel si confidava con lui e più Simon sentiva di comprenderlo. Avevano gli stessi interessi. Fu naturale per entrambi cominciare a desiderare di condividerli. Pian piano arrivarono al punto di sentirsi male se rimanevano separati troppo a lungo. «Michel, ho due biglietti per Alain Lefèvre con l'Orchestra sinfonica di Montréal. Di regola non dovrei uscire con un paziente, ma è in Place-des-Arts, a due passi...» Non si erano limitati a quei due passi. Avevano divorziato, insieme. Le rispettive famiglie avevano preso molto male l'intera faccenda. Soprattutto la famiglia di Simon, che era ebreo. I colleghi dell'Ordine degli psicologi del Québec non dovevano sapere che Simon viveva con un ex paziente. Dopo tanti anni, lui era ancora terrorizzato all'idea che potessero scoprirlo. Quando Simon portava fuori Pipo, Michel rimaneva a casa a cucinare. Avevano deciso di vivere la loro felicità isolati dal mondo, per godersela in tutta tranquillità. Il tempo della musica si è fatto più incalzante, da moderato è diventato allegro. La mano di Simon ha raggiunto quella di Michel. Si amano.
E l'ho pregato perché mi aiutasse A mio padre è toccata la fève, a mia madre la corona, a me nulla. Si sono guardati. Mio padre ha inspirato, mia madre ha espirato. «Abbiamo una cosa da dirti.» Non avevo voglia di sentire, ma il discorso è proseguito comunque. «Devi sapere che mamma e papà si amano molto.» «Voglio dire... ancora molto.» «Però sai, a volte ci si ama, ma la vita quotidiana è difficile... Le cose cambiano... Il tempo passa... Non siamo più esattamente gli stessi...» L'ho trovata complicata, questa frase. Mia madre ha preso fiato e nel farlo si è sistemata la corona che le era scivolata di lato.
«A volte è così difficile che non si riesce più a vivere insieme, perché le cose non sono più... come prima.» Alcuni compagni di scuola mi avevano raccontato come i loro genitori avevano affrontato l'argomento. Ho ascoltato distrattamente la fine, la conoscevo già. «Papà e io abbiamo deciso di separarci.» Mi hanno fissato per valutare la mia reazione. Non ho mosso un muscolo. «È da un mese ormai che l'abbiamo deciso, ma non volevamo rovinarti le feste di Natale.» Ho chinato la testa per non dire grazie. Non era il caso di esagerare. Non volevo guardarli, ma ho intuito che si stavano scambiando un'occhiata per stabilire chi dei due dovesse proseguire. Mia madre ha sempre avuto la lingua più sciolta. «Avrai ancora un papà e una mamma, solo che non abiteranno più insieme... Una settimana starai da papà, qui. L'altra verrai da me. Vedrai, sarà quasi come prima. Ci sono tanti ragazzi che sono felicissimi così...» D'ora in avanti saremmo stati in quattordici, in classe, a migrare ogni settimana. Alcuni effettivamente sostengono che è divertente. Ho rialzato la testa. Ho giurato a me stesso di tenermi tutto dentro. Mia madre mi ha fissato. Ho fatto lo stesso con lei. Si è preoccupata. «Tutto bene? Sembra che questa notizia non ti faccia nessun effetto... Lasciati andare, hai il diritto di provare delle emozioni.» Dovevo dire qualcosa, non volevo che pensassero che non li amavo. Ho parlato senza riflettere. «Chi preparerà da mangiare, quando starò con papà?» Mio padre ha imbastito un sorriso per nulla rassicurante. «Comprerò un libro di ricette, e poi ci daremo da fare, insieme. Ci divertiremo da matti!» L'affidamento congiunto cominciava sotto pessimi auspici. Mi sono alzato. «Devo preparare lo zaino.» Mia madre mi ha preso la mano. «Se hai bisogno di parlare, se hai delle domande, non esitare.» Si aspettava qualcosa da me. Mi sono avvicinato e l'ho abbracciata forte. Lei mi ha stretto ancora di più. Quando ha allentato la presa, ho fatto lo stesso con mio padre. «Papà, soffoco...» Mi stava stringendo troppo. Non avevo nient'altro da dire né da fare. Ho imboccato il corridoio, diretto in camera mia, senza fermarmi in bagno. Li ho sentiti parlottare. Non avevo più voglia di ascoltarli. Una volta chiusa la porta della mia stanza, mi sono sentito strano. Di là hanno acceso il televisore. Mio padre inaugurava la solita lunga sessione di zapping serale. Ho riflettuto sul fatto che quella sera i miei genitori non avevano parlato molto e, fatto raro negli ultimi giorni, non avevano litigato. Magra consolazione. Ho preso la videocamera, ma non mi andava di guardare le tette della vicina. Ho riavvolto il nastro fino a trovare le immagini di Capodanno. Lo avevamo trascorso da Julien, nella regione di Montérégie. Fortunatamente non mi ero dovuto sorbire le gemelle iperattive che saltavano sul divano, perché erano dalla madre. Tanto meglio per Julien, che non era stato costretto a rincorrerle per tutta la sera. Fa comodo di certo, a lui, l'affido congiunto. Del resto è chiaro che conviene solo ai genitori. Ho continuato a fare avanti e indietro tra il 1997 e il 1998. Premevo rewind per riascoltare ancora una volta il fatidico conto alla rovescia. «Cinque... quattro... tre... due... uno... zero! Felice anno nuovo!» Ho rivisto mio padre e mia madre che mi facevano gli auguri. Sembravano vagamente impacciati. Ora sapevo il perché. «Papà, stai più vicino a mamma, così riesco a riprendervi tutte e due insieme!» Ho schiacciato il tasto stop. Li avevo guardati fin troppo. Ho riportato il nastro sulle tette della vicina. Ho spento la videocamera e l'ho infilata nello zaino. Mi sono steso sulla schiena e ho guardato il soffitto. Era bianco come prima. Non riuscivo a capire come mai apparisse tutto uguale, quando nulla lo era davvero. Poi, di colpo, mi è crollato il mondo addosso. Le lacrime sono scese a fiotti dagli occhi a bagnarmi tutta la faccia. Ho premuto le mani sulle guance, ma le lacrime riuscivano comunque a passare. Non potevo fermarle. Piangevo come non avevo mai fatto prima. Di solito piango quando mi faccio male o quando un compagno mi picchia. In quel
momento, invece, piangevo da dentro. E faceva molto più male. Non era possibile che stesse succedendo a me! Come potevano pensare di separarsi? Di spartirmi tra loro come se fossi un oggetto? Di dividermi? Impossibile! Gli unici genitori che si separano sono quelli degli altri. «Non voglio! Non voglio! Non voglio!» E ho pianto ancora, fino a non avere più lacrime. Non sapevo che anche le lacrime potessero finire. Papà e mamma non avevano nemmeno chiesto il mio parere. Eppure la faccenda mi riguardava, dopotutto era della mia vita che si stava parlando! Forse ero io quello a cui non volevano più bene, dal momento che loro sostenevano di amarsi sempre, seppure non nello stesso modo. «Aiuto! Aiuto! Aiuto!» Non mi ha risposto nessuno. Ero solo, completamente solo. Sono andato alla finestra. Pioveva. Ho guardato il cielo. Era grigio e nero. I miei occhi non lo hanno più abbandonato. Io ero così piccolo, lui così grande. E l'ho pregato perché mi aiutasse.
Bébé... Je t'ai, bébé.. «Dieci, venti millimetri d'acqua potrebbero forse causare qualche problema, su questo...» Sullo schermo televisivo, l'uomo era disinvolto e d'umore gioviale. Col suo impermeabile verde piuttosto attillato, scherzava sotto una pioggerella fine. Le intemperie non gli dispiacevano affatto: lo facevano sentire importante. Ovvio, era il presentatore del meteo. Il cielo non aveva segreti per lui. E lì, sotto il suo ombrello, sembrava non prenderlo troppo sul serio. La conduttrice del telegiornale aveva l'aria di trovare la scena molto spassosa. «Vai ad asciugarti! Vogliamo averti di nuovo in collegamento più tardi! Congelerai se non corri subito dentro!» «Pisciati addosso, finocchio, così ti scaldi per bene!» Alex non ha detto niente. Non ha riso. Non ha nemmeno sorriso. A dire la verità non le sentiva nemmeno più, le battute acide di suo padre. Da quando Do, sua moglie, il suo amore, l'aveva lasciato da un giorno all'altro senza uno straccio di spiegazione, Alexis vedeva finocchi dovunque. E quando non erano finocchi erano ebrei, a volte tutte e due le cose insieme. Da un pezzo Alexis non guardava più le donne, e non cercava di fare in modo che loro guardassero lui. E, puntualmente, le donne lo ignoravano. In realtà, a quarantacinque anni compiuti era ancora un bell'uomo, ma da tempo non si voleva più bene. L'odio per chiunque fosse diverso da lui era solo un modo per difendersi da quella dolorosa evidenza. «Tutti finocchi! Razza di ebrei!» Con suo figlio era diverso. Con lui sapeva tirar fuori una specie di dolcezza, di certo alimentata dal senso di colpa. Alex aveva i capelli neri e crespi, suo padre chiari e lisci, di un biondo grigio. Alex aveva la carnagione olivastra, Alexis la pelle bianca. Solo nel nome si assomigliavano. Una di quelle stupide idee da padre. «Dentro Alexis c'è Alex!» Alex aveva chiesto diverse volte ad Alexis chi fosse sua madre e perché se ne fosse andata. «Non ci riesco, Alex, per me è come se non esistesse più!» Non si racconta una cosa che non esiste, e così Alex aveva presto smesso di chiederglielo. «Tutte cazzate ! Ieri le previsioni non davano ghiaccio, e invece oggi che cosa abbiamo? Puoi star sicuro che domani ci sarà il sole! Ti rendi conto di cosa succederebbe se io sbagliassi sul lavoro con la disinvoltura con cui sbagliano questi finocchi del meteo?» Alex ha guardato suo padre. Era in momenti come quello che sua madre gli mancava di più. Avrebbe dovuto essere lei a sfidarlo con lo sguardo, a cercare di riportarlo alla realtà. «Ma ti sei visto?» Alex si era spesso chiesto se davvero un tempo avesse avuto una madre, o se fosse possibile nascere da nessuno. Non aveva alcun ricordo della sua prima infanzia. Sapeva soltanto che da giovane Alexis era stato musicista, un chitarrista autore e compositore. Alex rammentava di avere trascorso, da piccolo,
intere giornate negli studi di registrazione. Rivedeva le grandi pulsantiere dei mixer, e se stesso che, sprofondato nel divano, guardava suo padre gesticolare con rabbia oltre la spessa vetrata, la chitarra a tracolla. Anche se era solo un bambino e in teoria non avrebbe dovuto capire tutto, Alex capiva lo stesso. «Alexis, con te è sempre la stessa storia! Non potresti limitarti a suonare quello che c'è sullo spartito? Un do minore è un do minore, e un la minore è un la minore... E noi ti paghiamo per suonare un do minore!» «Dopo un do minore non si mette mai il fa diesis, non te l'ha insegnato il tuo prof di musica?» «Alexis... Ti chiediamo solo di suonare quello spartito, non ci interessa la tua opinione!» «Dopo un do minore non si mette mai un fa diesis!» «Sei impossibile! Togliti dai piedi!» «Non sapete cosa vi perdete! Ve ne pentirete!» E così si era conclusa l'ultima session di registrazione. A quanto pareva, nessuno studio si era mai pentito di aver perso Alexis. Testardo più di un mulo, lui non aveva voluto rinunciare alla carriera. Quando sei certo del tuo talento, non accantoni un mestiere che dalla sera alla mattina può trasformarti in una star. Al limite provi a correggere il tiro. «Ecco, ora finalmente capiranno cos'è la musica!» Alex accompagnava suo padre nel centro storico di Montréal. Alexis suonava raggomitolato su se stesso, più che canticchiare biascicava, come se lo stesse facendo solo per sé, senza preoccuparsi di farsi sentire. Quando non si ama nessuno, è difficile cantare l'amore. Per questo gli innamorati di passaggio, alla ricerca di qualche panchina su cui pomiciare, tiravano dritto senza neppure vederlo. Era stato in quel periodo che la rabbia di Alexis era, per così dire, esplosa. «Tutti finocchi! Razza di ebrei!» Persino la musica sembrava averlo piantato in asso. Ma con un figlio a carico, bisognava pur mangiare. Alexis si era messo a dipingere, non quadri, ma pareti e finestre, e anche soffitti. Tutti concordavano sul fatto che fosse un buon operaio, ma troppo spesso si dimenticava di andare al lavoro o discuteva con i colleghi, che si stancavano presto delle sue tirate. «Tutti finocchi, 'sti carpentieri! E gli idraulici, Cristo santo... che razza di ebrei!» Ogni volta impiegava qualche giorno per trovare impiego in un nuovo cantiere. Era chiaro che non era fatto per il lavoro di squadra, da solo avrebbe lavorato meglio. Ovviamente, beveva. Non era proprio un alcolizzato, ma la sera gli ci volevano tutte le birre del caso per addormentarsi. Se hai una sola persona da amare e quella persona ti ama, per quanto male, finisci per ricambiarla. Alex voleva bene a suo padre. Ma si chiedeva perché gli fosse toccata in sorte proprio quella vita, e nutriva la convinzione che il suo futuro fosse già scritto. La direttrice della scuola, dal canto suo, non perdeva occasione per confermarglielo. «Tu farai una brutta fine!» Alex non replicava. Si comportava come tutti i figli. Più che ascoltare quel che suo padre diceva, ne studiava l'esempio. E nulla, in quel che suo padre faceva, lasciava presagire un destino felice per il povero Alex. «Buonanotte, papà!» «Vai già a letto?» «Ho scuola, domani.» «Davvero?» «Eh sì, papà, è il 4 gennaio, domani ricomincia la scuola.» «Sei troppo serio per la tua età.» Alex non era affatto serio. Picchiava chiunque gli capitasse a tiro. Il proprietario del minimarket non voleva più vederlo perché l'aveva beccato troppe volte a rubare. Copiava i compiti in classe dal suo migliore amico. Mentiva a suo padre, ne falsificava la firma. Non lo avvertiva dei colloqui con i professori. Del resto, tutto ciò non sarebbe importato ad Alexis. Lui aspettava solo di addormentarsi sul divano la sera. Prima attaccava a russare, poi si metteva a biascicare sempre lo stesso ritornello. «Bébé... Je t'ai, bébé...» Allora Alex si alzava e gli stendeva addosso una coperta. «Bébé... Je t'ai, bébé...»
Alex non si stancava mai di sentire quelle parole dolci. Spesso rimaneva seduto fino a tardi accanto a suo padre che dormiva. Gli capitava così di rado di ascoltare parole d'amore. «Bébé... Je t'ai, bébé.» Lunedì 5 gennaio 1998 «Si prevedevano tra i dieci e i quindici millimetri di pioggia ghiacciata; ne è scesa quasi il doppio, cioè poco meno di venticinque millimetri a Montréal, trenta sulle Laurentides e venti sulla regione di Montérégie. Il peso del ghiaccio sta mettendo a rischio il funzionamento delle linee elettriche, i primi fili si stanno spezzando e in qualche quartiere manca già la corrente...»
Io non ci credo, a una roba del genere È suonata la sveglia. Mi sono svegliato di colpo. È piuttosto probabile che non stessi dormendo profondamente. Per almeno cinque secondi mi sono sentito felice. Ho stiracchiato le braccia, poi tutto mi è tornato in mente. La felicità mi ha abbandonato. Mi sono alzato e sono andato alla finestra, ho scostato la tenda. Il suolo luccicava. Come ghiaccio. Ho guardato di nuovo. Era ghiaccio! Ho alzato gli occhi, il cielo era grigio e lasciava cadere una fitta pioggia ghiacciata. Possibile che lo stesse facendo per me? Mi sono precipitato in cucina pieno di speranza. Mio padre e mia madre stavano finendo di fare colazione, i nasi affondati nelle rispettive tazze. Quando hanno alzato la testa per guardarmi, ho capito subito che non era cambiato niente. «Tuo padre trasloca oggi stesso.» Ho riempito una tazza di cereali e mi sono seduto di fronte a loro. Quella mattina non avevo voglia di stare zitto per poi piangere dopo. «Credevo che papà sarebbe rimasto.» Ho ostentato un tono freddo, come se la cosa non mi toccasse. Mia madre, che mi conosce, ha parlato sommessamente. «L'amica che mi cede il suo appartamento doveva trasferirsi in un'altra casa, ma i lavori...» «Lo so. Non sono finiti, ed è per questo che papà va a stare nello chalet.» Si sono guardati. Mia madre ha fatto una smorfia, mio padre ha chinato la testa. Hanno capito che la sera prima li avevo sentiti discutere. Non avevo più voglia di fare il gentile. Non era giusto che avessero deciso tutto senza di me. «Chi di voi due ha avuto l'idea?» «L'idea di fare cosa?» «L'idea di separarvi.» Sono rimasti interdetti. È ovvio, ce n'è sempre uno che lascia l'altro. Si sono fissati a lungo. Dai loro sguardi ho capito che forse l'idea era stata di entrambi. «Ci separiamo da amici. La pensiamo tutti e due allo stesso modo.» Erano sul punto di separarsi, e non facevano che ripetere fino a che punto si trovassero d'accordo su tutto. Quando si va d'accordo, vuol dire che ci si ama. E quando ci si ama, si rimane insieme. «E se fossi io a non esser d'accordo?» Mio padre mi ha guardato come se mi stesse scoprendo in quel momento. Lo avevo colto alla sprovvista. Mia madre, invece, si è irritata, me ne sono accorto benissimo. Si è sforzata di non perdere la dolcezza, senza riuscirci. «Capisco che ti faccia soffrire, tesoro, ma sono problemi da adulti. Un uomo e una donna hanno deciso di separarsi... È la vita. Succede a un mucchio di gente.» «Ma noi siamo in tre!» Mio padre ha posato la mano su quella di mia madre: toccava a lui dire la sua. «Mamma ha ragione, sarà meglio per tutti.» «Ma io con voi due ci sto bene.» «Sarai felice comunque.» «Forse anche di più.» Perché insistevano con quelle bugie? Avrei preferito che se ne stessero zitti. Non riuscivo a
capacitarmi di quello che stavo sentendo. Adesso vedevano quanto soffrivo, e forse rimpiangevano il mio atteggiamento della sera prima, quando il dolore non avevo voluto dividerlo con nessuno. Pensavano solo a se stessi. Mio padre si è alzato e ha acceso la radio. "Migliaia di famiglie in Québec sono rimaste senza corrente elettrica a causa del gelo che attanaglia la regione da parecchie ore..." Ho sputato i cereali. Ma cosa stava combinando, il cielo? Chiedere il suo intervento era chiaramente stato un errore. Mi sono alzato. «Faccio tardi!» I miei sono rimasti in silenzio. Di colpo non avevano più niente da dire. Li ho baciati come ogni mattina, nella vita di prima. Ho preferito non soffermarmi sul fatto che li avevo davanti tutti e due per l'ultima volta. Ho fatto in tempo a sentire il commento di mia madre, che si preparava per uscire. «Lasciagli il tempo di digerire la notizia... Deve seguire la sua strada.» Sono filato via verso la scuola. Insomma, non troppo in fretta perché con tutto quel ghiaccio si faceva davvero fatica a restare in piedi. Alex era d'umore allegro. Non la finiva di correre e scivolare. «Mio padre ci rimane di sasso, quando si sveglia.» In effetti era uno spettacolo eccezionale. Tutto era ricoperto da un sottile strato di ghiaccio. Sulle macchine, faceva l'effetto della carta trasparente che avvolge le caramelle. Un'anziana signora che usciva dalla casa di riposo è caduta sul marciapiede davanti a noi. Io, che di tutto quel ghiaccio ero il responsabile, mi sono sentito terribilmente in colpa. Alex è scoppiato a ridere. «Non è divertente!» «Ma se non si è fatta niente... ecco, guarda, si sta già rialzando. Almeno, ci prova.» «Non avrei dovuto farlo.» Alex ha frainteso. «Hai portato la videocamera?» Non sapevo se raccontargli dei miei genitori e della faccenda del cielo. «Guarda che se non hai preso la videocamera mi arrabbio davvero.» «Ce l'ho, Alex, non ti preoccupare...» «Madonna, ho troppa voglia di vedere la scena... ci sarà da divertirsi!» Chi non si è divertita affatto è stata la direttrice. Eravamo almeno in dieci, assiepati intorno alla videocamera. Lei non poteva vedere le immagini perché lo schermo era piccolo, in compenso ha sentito. Come avrebbe potuto non sentire? Tutti e dieci ridevamo e gridavamo in coro: «Fuori le tette!» «Fuori le tette!» «Fuori le tette!» Alla fine la direttrice le ha viste... Ma non l'hanno fatta ridere nemmeno un po'. «Non pensate alla dignità di questa donna, che mostrate nuda in giro per la scuola a sua insaputa?» «Se ne vedono un sacco in televisione, signora, e poi, lo ha detto lei stessa, lei non lo sa! Qual'è il problema?» La direttrice ha guardato il soffitto, sbuffando per l'irritazione. «In prima media e già maschilista!» A lei, che aveva dovuto combattere per la parità dei sessi e i diritti delle donne, Alex non piaceva per niente. A suo parere, era destinato a finire male, e glielo diceva ogni due per tre. Si è voltata verso di me. «E tu? Non sei il tipo da fare cose del genere, con la bella famiglia che hai.» Di sicuro non volevo essere il tipo che tradisce il suo migliore amico, e ancora meno il tipo che parla pubblicamente dei problemi della propria famiglia. «Non hai trovato niente di meglio da filmare?» «No, signora.» «Non potevi fare come tutti i ragazzini normali e riprendere i tuoi amici, i tuoi genitori, il tuo animale preferito... Inventare una storia... Sprigionare la creatività, liberare l'ispirazione che è in te... Quello che hai fatto è ripugnante! Povera donna... Se penso che ancora oggi stiamo messe così!» Alex non è molto furbo in momenti del genere. Anziché fare come me, abbassare lo sguardo con espressione contrita in attesa che il temporale finisca, ha riso stupidamente.
«Di chi è stata l'idea?» In piedi, appoggiata alla scrivania, la direttrice ha tenuto gli occhi inchiodati su Alex. Mi sono chiesto perché avesse posto la domanda, dato che conosceva già la risposta. Alex ha chinato la testa, comunque colpevole. «Non è stato lui, signora!» La direttrice ha sussultato e si è voltata verso di me. Alex mi guardava senza capire. Tra di noi c'è una specie di patto. È lui quello che le dà, e sempre lui che le prende. «Sì, l'idea è stata mia, signora.» «Hai forse paura di lui?» «No, signora.» «Qui non c'è da avere paura, puoi dire le cose come stanno. Se sei vittima di intimidazione, devi parlarmene.» «Le ripeto che sono stato io, signora. A dirla tutta, ho costretto io Alex a farlo.» Forse ho un tantino esagerato. Alex non è riuscito a trattenersi ed è di nuovo scoppiato a ridere. Non ce la fa mai a trattenersi, soprattutto quando sarebbe importante. La direttrice ci ha soppesato con lo sguardo. Perfino seduti, si vedeva che Alex era più alto di me di una testa e quindici chili più pesante. Era una situazione bizzarra: tutti e tre sapevamo che io stavo mentendo. La direttrice mi ha guardato con occhi malvagi. «A che gioco stai giocando?» Non è che volessi giocare. Volevo solo che lei mi punisse, per sentire ancora più male. Per dimenticare il male che mi avevano fatto i miei genitori. Alex mi ha guardato. I suoi occhi dicevano che era pronto ad addossarsi la colpa. Ci era abituato. La direttrice si è voltata verso la scrivania. «Visto che le cose stanno così, chiederò ai vostri genitori di venire qui. Vi avverto che rischiate la sospensione. Forse potranno dirmi chi è la persona in questo video. Nel frattempo, la videocamera rimane qui.» Si è seduta alla scrivania e ha afferrato il telefono, puntando un dito su Alex. «Il numero di casa tua?» «A quest'ora mio padre dorme ancora!» «Ah già, l'avevo dimenticato...» Lo ha detto con una cattiveria tale da ferire perfino Alex, che di sicuro ha le spalle larghe. Gli adulti sanno essere molto crudeli quando non ci capiscono. Si è rivolta a me. «Il tuo numero?» «L'ho scordato.» Alex mi ha guardato come se non mi riconoscesse. È sempre stato lui il duro. Anch'io mi chiedevo se ero ancora la stessa persona. La direttrice è sbottata. «Visto che vi credete così furbi...» Mentre cercava i nostri numeri di telefono negli schedari, Alex mi si è avvicinato. Forse l'idea che prendessi la sua stessa strada non gli piaceva. Nella vita si è spesso attratti dal proprio opposto. Ma ormai avevo deciso, per una volta avremmo pagato insieme. Aspettavo di sentire male. Drin, drin, drin! La direttrice ha alzato la cornetta senza smettere di guardarci. L'ora della nostra esecuzione era stata soltanto posticipata. Qualcuno le ha comunicato qualcosa, lei ha preso un'aria preoccupata. Si è girata brevemente verso la finestra. «Ah? Non se ne vede la fine? E si sa quanta ne cadrà ancora?» Di nuovo ci stava guardando, ma non era già più con noi. «Accidenti, comincia proprio male questo anno nuovo!» Ha riattaccato. Ha posato uno sguardo distratto sulla videocamera, come se non le interessasse più. Sembrava persa. Ha ripreso il telefono, le serviva aiuto. «Geneviève! Annuncia che la scuola chiuderà a mezzogiorno. I ragazzi che hanno l'autorizzazione per tornare a casa da soli possono andare. Per gli altri, dobbiamo chiamare i genitori uno per uno. Tu pensa al primo, terzo e quinto anno, io al secondo e al quarto. In bocca al lupo!» Ha riattaccato e ha guardato l'orologio, sconfortata dalla prospettiva delle centinaia di telefonate che l'aspettavano.
«Mi ci vorranno ore...» Con gesto frettoloso ha infilato la videocamera in un cassetto della scrivania. Ha fatto un vago cenno in direzione della porta per congedarci. «Adesso non ho tempo di occuparmi delle vostre bravate. Tornate in classe, ci penseremo domani! Avanti, sparite!» Nel corridoio, Alex mi ha rivolto uno sguardo esultante. «Ti rendi conto che fortuna?» «Non è fortuna.» «Io di fortuna non ne ho mai avuta troppa, perciò quando mi capita, credimi, la so riconoscere!» «Non è fortuna, ti dico.» «E allora come la chiami?» «Sono stato io.» «Non sei stato tu, è stato il ghiaccio.» «Il ghiaccio, sono io che l'ho provocato.» Ho dovuto alzare la testa perché mi guardava dall'alto in basso. «Sentiamo, com'è che avresti fatto?» «Ho chiesto al cielo di aiutarmi...» «Hai chiesto al cielo di aiutarti... Ma sei fuori?» «L'hai detto, amico, sono fuori...» Mi ha guardato un tantino meno dall'alto in basso. «E perché l'hai fatto? Chiedere aiuto, intendo.» «Una faccenda che riguarda i miei genitori...» Adesso Alex non sembrava più tanto alto. Come al solito, non mi ha chiesto niente. Ha provato a ricondurrai alla ragione senza ferirmi. Ci basta scambiarci uno sguardo per sapere cosa l'altro sta pensando. Mi ha appoggiato una mano sulla spalla, poi l'ha scrollata piano, con piglio rassicurante. «Ehi, amico! Io non ci credo, a una roba del genere.»
La natura umana si rivela nelle difficoltà Boris Bogdanov aveva paura. Ha guardato il cielo dalla finestra, poi l'acquario. È uscito sul balcone della cucina per controllare i fili elettrici nel vicolo, gravati dal peso di tutto quel ghiaccio. Avrebbero retto? Sapeva che, senza corrente, la temperatura dell'acquario sarebbe rapidamente scesa sotto i trentadue gradi. È tornato in salotto e ha acceso il televisore. «È prevista pioggia ghiacciata per l'intero pomeriggio. Si temono danni alla rete elettrica di Montréal e di tutta la regione...» Boris Bogdanov non ha voluto sentire oltre. Clic! Si è seduto davanti all'acquario e lo ha fissato a lungo stropicciandosi il mento, segno di un'intensa riflessione. Si è chinato e ha raccolto da terra il primo foglio che gli è capitato a tiro. Era fitto di calcoli, ma solo da un lato; l'altro era intonso. Ha afferrato dalla scrivania una riga millimetrata e una matita. Ha disegnato in fretta una veduta isometrica dell'acquario. Ne ha misurato le dimensioni esatte, quindi ne ha calcolato il volume. Per Boris Bogdanov, operazioni di quel genere erano come il plié per una ballerina: semplice routine. Poi si è lanciato in una serie di calcoli termici. Grazie a una tabella disegnata in quattro e quattr'otto, ha ricavato il tempo che l'acqua avrebbe impiegato per raffreddarsi, tenendo conto della temperatura dell'aria circostante. Ha così elaborato un algoritmo che definiva la quantità e il grado di calore dell'acqua che sarebbe stato necessario aggiungere nell'acquario qualora la temperatura fosse calata per effetto di un blackout. Ogni volta che la temperatura fosse scesa sotto i trentadue gradi, Boris avrebbe dovuto togliere un litro d'acqua e subito rimpiazzarla con quattrocentocinquantanove millilitri a novantasei gradi affinché l'intero acquario tornasse alla temperatura desiderata. Boris ha proseguito con i calcoli, includendo diverse pressioni atmosferiche, nel caso in cui l'acqua fosse scesa a ventinove, ventotto, ventisette, ventisei, venticinque, ventiquattro, ventitré e ventidue gradi. Non ha osato prendere in considerazione valori più bassi.
«Niet... Niet... Niet...» Uno dei pregi dei russi è che "sanno fare a meno di". Boris aveva vissuto diciassette anni in Russia. I suoi primi dieci anni di vita avevano coinciso con l'ultimo decennio del regime comunista. Boris sapeva bene che cosa significasse fare a meno di. Come ogni russo che si rispetti, era in grado di arrangiarsi nelle situazioni precarie in cui sono in gioco i bisogni di prima necessità. Sulla sua lista della spesa era tutto annotato con cura: un termometro, un fornello da campeggio e quante più bombolette di gas possibile. Boris Bogdanov non era solo, tra le corsie di Canada Dépót. Tanta altra gente era lì a rifornirsi. Chi era già senza corrente elettrica incrociava quelli a cui presto sarebbe toccata la stessa sorte. Tutti convergevano verso gli stessi reparti. Alcuni si accontentavano del necessario. Altri, incalzati dalla paura, provavano l'irresistibile impulso di fare scorte massicce, pur sapendo che così rischiavano di privare i loro vicini di beni indispensabili. Boris Bogdanov è andato dritto allo scaffale delle bombolette di gas, ha preso le ultime venticinque che rimanevano ed è filato verso la cassa. La natura umana si rivela nelle difficoltà.
Non ho trovato niente di meglio da fare Mentre camminavamo verso casa, Alex continuava a scoccarmi occhiate indagatrici. Nella telefonata miracolosa ricevuta dalla direttrice lui aveva visto solo un inatteso colpo di fortuna. Lo spettacolo della scuola deserta non è bastato a fargli cambiare opinione. Ma quando è arrivata l'ambulanza a sirene spiegate, ho capito che le sue certezze cominciavano a vacillare. Eravamo ancora a scuola, abbiamo visto tutto. Ammetto che mi è dispiaciuto quando hanno caricato la direttrice sulla lettiga. Era distesa a pancia in giù e si lamentava, mentre il portantino cercava invano di confortarla. «Mi auguro di sbagliarmi, ma così a occhio temo che si sia rotta l'osso sacro.» Lei si è messa a gemere ancora più forte. Pareva così fragile, improvvisamente, tutt'altra persona rispetto a poco prima, quando nel suo ufficio ci aveva minacciato di espulsione. Per fortuna non ha sentito il resto degli studenti esultare. Nessuno pensava al fatto che era scivolata mentre aiutava i bidelli a spargere la sabbia sul ghiaccio per evitare che i ragazzi potessero farsi male. «Ingessano il culo alla direttrice!» «Ingessano il culo alla direttrice!» «Ingessano il culo alla direttrice!» I bambini sono spesso crudeli, l'ho già detto. Alex taceva, era troppo impegnato a guardarmi con quell'aria stranita, perplessa. Siamo tornati a casa senza fiatare. Il cielo non mi stava aiutando esattamente nel modo che avevo sperato, ma che mi avesse ascoltato era evidente. Questa consapevolezza mi ha restituito un po' di speranza. Quando abbiamo imboccato la nostra via, ho visto aprirsi la porta di casa mia. È comparsa una valigia, poi un'altra. Infine ecco mio padre. Tanti saluti alla speranza. «Ma che cosa ci fate qui?» «La scuola è chiusa per via del gelo. Non lo sapevi?» «No, non ho avuto il tempo di seguire il notiziario, stamattina.» L'ho osservato con attenzione. Di sicuro avrebbe preferito evitare che lo vedessi andare via. In questi casi si dice quel che si può. Ha cominciato lui. «Immagino che avrete dei compiti da fare.» «Non c'è stato tempo, papà, non ce li hanno dati...» «Che fortuna...» A quella parola, Alex si è riscosso dal suo stupore. Mio padre ha afferrato le due valigie. «Devo andare, prima che le strade diventino impraticabili. Dai un bacio a mamma da parte mia.» Dare un bacio a mamma da parte sua! Si è chinato su di me e ci siamo abbracciati. Ho visto le sue mani tremare mentre serravano forte le maniglie delle valigie. Andarsene di casa non dev'essere semplice. È andato dritto a caricare l'auto senza più guardarmi. Ha acceso il motore. Mentre partiva, le gomme hanno slittato sul ghiaccio. Poi è svanito dietro l'angolo. «Si separano, eh?» ha detto Alex a quel punto. Non sapevo cosa rispondere, mi sforzavo di trattenere le lacrime. Alex è indietreggiato di qualche
passo. Era a disagio per avermi fatto quella domanda. Anche i più duri diventano teneri, ogni tanto. «Vado a casa... Incredibile, prima il ghiaccio, poi la scuola che chiude e la direttrice che si fa male! Domani dovrai raccontarmi come ci sei riuscito! Sei il migliore!» Lo ha detto solo per farmi piacere. Non credeva a una parola di quanto gli avevo raccontato. Suppongo che, al posto suo, nemmeno io ci avrei creduto. Quando sono rientrato, mia madre non era in casa. E così, solo nella mia stanza, ho trascorso il pomeriggio a guardare la pioggia ghiacciata cadere. Non ho trovato niente di meglio da fare.
Nella vita ognuno pensa per sé Miao! Brutus si strusciava contro il polpaccio ben depilato della sua bella padrona. Julie si stava truccando davanti allo specchio del bagno. Non era né felice né triste, per lei la vita era innanzitutto una questione d'abitudine. Essere bella era il suo rituale, perché essere bella era il suo lavoro. Sul tavolino, il piccolo abete era scomparso. Natale era passato. Un'ora prima aveva ricevuto una telefonata dal proprietario del Sex Paraìso. Gelo o non gelo, la aspettava alle diciotto in punto. Se avesse tardato o non si fosse presentata, poteva anche fare a meno di rimettere piede al club. «Un night come il nostro non conosce inverno. Qui c'è un'unica stagione, ed è l'estate: pochi vestiti e mucho, mucho calor!» Julie non sapeva nemmeno più perché faceva quel lavoro. Per un caparbio desiderio d'indipendenza, in piena adolescenza si era ritrovata a dover contare solo sulle proprie forze. Be', a dirla tutta, se l'era cercata: era scappata di casa. Il suo primo amore si chiamava Max. Lei aveva appena compiuto diciotto anni. Lui ne aveva trenta, quasi una figura paterna per la giovane e inesperta Julie. Quando Max aveva saputo che, con la maggiore età, Julie aveva acquisito il diritto di disporre dei soldi che i suoi nonni avevano accantonato per lei nel corso degli anni, subito le aveva proposto di andare a convivere. L'appartamento in cui Julie tutt'ora viveva sarebbe dovuto essere il loro nido d'amore, lo avevano scelto insieme. Il contratto d'affitto era intestato a Julie. A Max non piacevano le scartoffie, comunque aveva insistito per aprire un conto comune. Lei non aveva ancora finito di comprare i mobili che Max aveva già preso il largo insieme a tutti i risparmi dei nonni. «Vado a prendere un pacchetto di sigarette e torno! Sono a secco.» Julie aveva deciso di non cercarsi un'altra casa. Non certo perché sperasse nel ritorno di Max, ma perché teneva alla sua indipendenza. Non voleva un coinquilino. Sulle prime aveva dovuto trovare un secondo lavoro. Di giorno faceva la cameriera in un ristorante e la sera in un locale, sette giorni su sette. Non le rimaneva tempo per vivere. Se ne era lamentata con uno dei clienti abituali del bar, il quale le aveva assicurato che era di gran lunga troppo bella per passare le notti dietro un bancone. Era il padrone del Sex Paraìso. Non gli ci era voluto molto a convincerla che là avrebbe guadagnato tre volte tanto, lavorando un decimo del tempo. Era vero. Se sei carina e hai un seno abbondante, ballare in un club può essere molto remunerativo. «Lo vedi quel piccoletto calvo laggiù? Pagherebbe volentieri trecento dollari per una serata con te!» Julie pensava spesso al proprio futuro. Sapeva perfettamente che fare la ballerina in un night significava accettare di non esistere. La donna sul palco che lentamente si svelava agli occhi avidi degli avventori per cinquecento dollari a sera non era lei. Tuttavia era lei, Julie, a versare la metà di quei soldi ogni settimana su un libretto di risparmio, in omaggio alla memoria dei nonni. Al padrone del Sex Paraìso, costretto a essere piuttosto severo con le ragazze, Julie piaceva molto. Era corretta con lui, ma soprattutto con i clienti. Sempre sorridente e disponibile, una vera professionista. Un esempio per le sue colleghe spesso troppo viziate o troppo viziose, perennemente chine su una striscia di polvere bianca, sempre pronte ad avvinghiarsi al braccio del primo pappone di serie B. Julie era diversa. Con lei tutto era semplice. Perciò l'aveva chiamata anche quella sera, e non dubitava che si sarebbe presentata. «Se non vieni, con me hai chiuso per sempre!» Minacciare le ragazze faceva parte del suo stile, ma il padrone non era così folle da pensare davvero di licenziare Julie, che sicuramente avrebbe fatto la fortuna della concorrenza. Lei, per parte sua,
all'inizio si era ripromessa di esercitare quel mestiere per un breve periodo, ma si sa, nella vita succede spesso che un "breve periodo" finisca per allungarsi. Per ora Julie accettava che i giorni passassero, in attesa del momento giusto per smettere. E cominciava a sospettare che solo l'amore, quello vero, avrebbe potuto spingerla a lasciare un impiego che le fruttava cinquecento dollari a sera. Davanti allo specchio, la testa di Julie adesso era più alta di dieci centimetri. Si era appena infilata un paio di stivali col tacco. Non potendo più strusciarsi contro il polpaccio caldo di Julie, Brutus ha raggiunto i suoi colleghi sul divano. Con un'unghiata ben assestata, il più grosso dei due rammolliti gli ha fatto capire che non era aria, così Brutus si è messo a vagabondare per casa. Esisteva una gerarchia anche in quella piccola comunità felina, e il povero Brutus era parecchio distante dall'occuparne la vetta. Julie è uscita dal bagno fasciata in uno splendido vestito rosso, il suo colore preferito. Ha preso il cappotto e lo ha indossato guardandosi per l'ennesima volta allo specchio, stavolta quello dell'ingresso. Poi ha aperto la porta. «Ciao, gatti!» «Miao!» Brutus è stato l'unico a rispondere. Chi sta in cima alla piramide dimentica spesso coloro che gli hanno consentito di arrampicarsi fin lì. È la tipica ingratitudine del gatto da divano. Si dice che i gatti siano indipendenti, ma sono solo degli scrocconi, proprio come gli uomini, o almeno come quelli che Julie aveva incontrato sul suo cammino. «Non è molto prudente, signorina!» Julie è trasalita. Erano appena le diciassette e trenta, ma una donna sola è una donna sola a qualsiasi ora. Dalla soglia ha guardato con sospetto l'uomo con il cane al guinzaglio. «Dubito che quelle scarpe siano le più appropriate, considerato quello che sta per caderci sulla testa... Le condizioni meteorologiche continueranno a peggiorare per tutta la notte...» «E lei chi sarebbe?» «Sono il suo vicino... lavoro a Météo Canada.» «Non la conosco...» «Il fatto è che non abbiamo gli stessi orari, forse...» Julie non gradiva affatto quel genere di sottintesi. Sempre diffidente, ha sceso le scale d'ingresso dimenticandosi di chiudere la porta. Le è bastato uno sguardo per inquadrare Michel. Julie sapeva riconoscere al volo i predatori di donne. Il suo viso si è addolcito in un istante. «Che cos'hanno che non va le mie scarpe?» «Le stanno a meraviglia, ma temo che cadere da quelle altezze sarebbe assai doloroso... Il pronto soccorso è pieno di gente che è scivolata per strada... Una donna così bella stesa in un letto con un piede ingessato... Che spreco!» Julie ha sorriso. Ritrovarsi davanti un uomo di cui non era costretta a diffidare, dal quale non aveva nulla da temere, la faceva sentire bene. «Il fatto è che non ne ho, di scarpe basse... Non so camminare senza tacchi...» «Capisco. Se ha l'abitudine di portarli è probabile che saprà cavarsela, comunque stia attenta.» Il piccolo maltese ha agitato la coda e si è avvicinato a Julie. «Le presento Pipo!» Julie ha sorriso senza doversi sforzare. Un taxi è arrivato di gran carriera, ha frenato bruscamente ed è slittato sul ghiaccio. I tassisti credono di essere i padroni delle strade perché le conoscono meglio di tutti gli altri. Ma è proprio ciò che crediamo di conoscere che spesso finisce per coglierci alla sprovvista. Bum! Per fortuna il cassonetto era vuoto, e soprattutto fatto di plastica. «Spero che questa sera non ce ne siano in giro troppi, di tizi dalla guida così disinvolta.» Mentre il conducente, avvilito, scendeva dall'auto per rimettere il cassonetto al suo posto, Julie ha sorriso ancora. Si è chinata per accarezzare Pipo, che raramente aveva sperimentato la dolcezza di una mano femminile. «È stato un piacere... Io mi chiamo Julie!» «Michel...» «Comunque è strano che non ci siamo mai incontrati prima... Questo cane ha l'aria familiare, ma non ricordo di averlo visto insieme a lei...»
Michel ha stretto i denti. Non voleva nominare Simon, nel timore di destare sospetti nella sua giovane e perspicace vicina. Piii! Piii! L'autista aveva fretta di riprendere la corsa. Julie è tornata sui suoi passi per chiudere la porta del suo piccolo nido, poi è scesa a precipizio e si è infilata nel taxi. «Sarò prudente, promesso!» Michel ha guardato il taxi allontanarsi a zigzag sul ghiaccio. Per l'ennesima volta aveva pensato solo a nascondersi. Quando Pipo ha alzato la zampa per un'ultima pisciatina, Michel ha fissato le finestre del suo appartamento. La situazione stava diventando insostenibile, era giunta l'ora che che lui e Simon uscissero allo scoperto. Boris Bogdanov avrebbe potuto aprire la finestra e avvertire la vicina di quello che era appena accaduto. «Signorina, il suo gattino è scappato!» Ma temeva che Julie gli chiedesse di aiutarla a ritrovare l'animale. E Boris non voleva allontanarsi dal suo appartamento neppure per pochi minuti, per timore che venisse a mancare la corrente. Si è voltato a guardare l'acquario. I quattro pesci seguivano ciascuno il proprio percorso. Per terra, pronti all'uso in caso di emergenza, c'erano un termometro, un fornello da campeggio e tre misere bombolette di gas... Al Canada Dépòt un cliente l'aveva visto svuotare lo scaffale delle bombolette e aveva protestato con veemenza alla cassa. Boris aveva sostenuto che era suo diritto comprare tutte le bombolette che desiderava. «Sono un canadese libero!» «Cosa ci tocca sentire! Al diavolo i canadesi liberi! Qui siamo tutti quebecchesi, e i quebecchesi sanno cosa vuol dire essere solidali!» Alcuni tra i clienti presenti avevano applaudito. Si era formato un capannello, al centro del quale la grande disperazione russa subiva attacchi da ogni lato. Boris era solo contro tutti. Ben presto era sopraggiunto il direttore, pronto a dar sfoggio della propria superiorità dialettica. Legalmente non poteva impedire a Boris di comprare tutte le bombolette che desiderava, ma era in gioco la fama, l'immagine stessa del supermercato. Ne andava dell'etica della catena Canada Dépòt. Non era certo quello il momento, per il direttore, di confessare ai clienti che, grazie al maltempo, gli affari andavano a gonfie vele; che nell'intero supermercato non c'era più un granello di sale, né una picozza da ghiaccio, né una torcia, né un generatore; che aveva appena dato ordine di triplicare gli ordini in consegna il giorno successivo e che lui stesso avrebbe incassato, a fine mese, un ricco bonus. «Giovanotto, in qualità di direttore, vista la situazione meteorologica e la prospettiva di un ulteriore peggioramento, non posso permettere che lei acquisti il nostro intero stock di bombolette di gas. Torni domani, ne arriveranno delle altre. Sarò felice di vendergliele, allora.» Il direttore di Canada Dépót si era voltato verso gli astanti. In genere i clienti si rivolgevano a lui solo per lamentarsi. Ma, in quel magico istante, i loro sguardi traboccavano di ammirazione. Boris aveva replicato nel suo spiccato accento russo, ma nel giorno della grande solidarietà quebecchese l'accento russo aveva avuto il prevedibile effetto di peggiorare ulteriormente la sua posizione. Boris non si era lasciato scoraggiare e aveva raccontato dei suoi pesci, della teoria dei nodi, vitale per lui. Aveva mostrato i suoi fogli coperti di calcoli intricati per spiegare che se la temperatura nel suo appartamento fosse scesa fino a zero gradi, lui, con una sola bombola, non avrebbe potuto mantenere l'acquario a trentadue gradi per più di un'ora e trentatré minuti. Prima di replicare, il direttore aveva indugiato per assicurarsi l'attenzione di tutti, infine aveva parlato con voce squillante. «Mi corregga se sbaglio, mio caro, mentre le famiglie che stiamo cercando di aiutare sono senza riscaldamento, mentre le persone anziane patiscono il freddo, lei pretenderebbe di accaparrarsi tutto il gas del negozio per tenere al caldo i suoi pesci?! È scandaloso!» Il pubblico, indignato ed entusiasta, si era messo ad applaudire un'altra volta. Il direttore del negozio, gonfio d'orgoglio per il successo della sua piccola arringa, aveva personalmente tolto ventitré delle venticinque bombolette dal carrello di Boris e le aveva deposte con cura davanti alla cassa, come se si trattasse dell'offerta del giorno. «Chi ne ha bisogno si serva pure. Ma non prendetene più di due a testa. Pensate agli altri!»
Boris, assai sconfortato, aveva messo le due bombolette sul nastro trasportatore. La cassiera le aveva afferrate per leggere il prezzo, lo aveva moltiplicato per due e si era accertata che nessuno la stesse guardando. Poi aveva prelevato furtivamente una terza bombola dal mucchio accanto alla cassa e l'aveva infilata con discrezione nel sacchetto di Boris. «Ho dei pesci anch'io, so cosa vuol dire. Se non ci si prende buona cura di loro, i nodi vengono al pettine!» Boris aveva accolto quel gesto di pura solidarietà topologica con un breve cenno del capo, poi si era precipitato verso l'uscita e alla ricerca di un altro supermercato. Purtroppo, a differenza di Canada Dépòt, gli altri grandi magazzini della città avevano una clientela quebecchese non solidale, perciò Boris non aveva trovato nemmeno una bombola. Gli scaffali erano vuoti, altri egoisti avevano già arraffato tutto. Davanti al suo acquario, Boris sapeva di non poter resistere più di quattro ore e trenta minuti, in caso di blackout. Perciò ha deciso di infischiarsene del gatto della vicina. Ha osservato senza la minima emozione Brutus attraversare la strada e sfuggire per un pelo a una macchina di passaggio. Nella vita ognuno pensa per sé.
Che intenzioni aveva, il cielo, esattamente? Quando è tornata mia madre, le sono saltato al collo. Avevo riflettuto molto, nel pomeriggio. Non potevo aspettarmi che il cielo facesse tutto da solo. «Aiutati che il ciel ti aiuta.» Non so dove avevo sentito questa massima, ma a furia di pensare al cielo mi era tornata in mente. Ho abbracciato mia madre con slancio per ricordarle qualcun altro. «Da parte di papà!» È rimasta immobile tra le mie braccia, interdetta. Non volevo vendicarmi o farle del male, mi interessava solo mostrarle che io esistevo, e che era troppo semplice pensare di poter decidere tutto senza di me. «È arrivato allo chalet senza problemi?» le ho chiesto. «Sì, mi ha telefonato. Ha detto che vi siete incontrati prima che partisse... Là c'è tantissimo ghiaccio e manca già la corrente...» Ho provato quasi vergogna nel sapermi in casa al calduccio mentre lui pativa al freddo. Certo, se l'era voluta, dal momento che aveva deciso di andarsene, ma non per questo meritava di morire assiderato e tutto solo nello chalet. «Non ti preoccupare, tesoro. È ben attrezzato. Lo conosci. Userà il generatore. Sai quello che ha comprato l'anno scorso? Il telefono funziona, puoi chiamarlo se ti va.» «Tra un po' magari...» «Come vuoi, tesoro, per te ci siamo sempre, non lo dimenticare.» Perché a un tratto mi chiamava "tesoro"? Non mi aveva mai chiamato così, prima. Cos'è, improvvisamente non avevo più un nome? Quel modo sdolcinato di rivolgersi a me mi ha fatto venire il nervoso e, in momenti del genere, non mi va di essere gentile. «Ci torneremo, allo chalet?» «Ma sì, tesoro...» Ci era cascata. «Tutti insieme?» Mi ha rivolto un'espressione ferita. La cosa non mi ha fatto né caldo né freddo. Non potevo certo spiegarle che stavo solo cercando di aiutarmi in qualche modo. Lei, invece, non si è affatto aiutata. «Non è detto, tesoro, l'importante è che tu passi dei bei momenti... Se ci pensi, dividendoti tra papà e me, le tue vacanze allo chalet raddoppieranno. Sei fortunato ! » Mi sono limitato a guardarla. Lei ha capito di avere esagerato un tantino. Ha chiuso gli occhi un momento e mi si è avvicinata. Ho sentito le sue mani, dolci, sulle guance. «Scusami, tesoro, so che non è semplice per te... e, credimi, non lo è neanche per me. Per noi. Sono cose che nessuno si augura di dover affrontare, ma questa è la vita. Il tempo aggiusterà le cose, vedrai, e noi faremo di tutto perché tu sia nella migliore delle situazioni. Per papà e me, resti la cosa più
importante al mondo.» La "cosa"! Per essere una maestra, avrebbe potuto scegliere un'altra parola... Mi ha baciato teneramente. Era commossa. Sono sicuro che non è andata in cucina soltanto per prepararmi da mangiare. Speravo che piangesse, magari non molto, ma almeno un pochino. Toccava a lei, ora. Nessuna risposta. Eppure ho lasciato squillare a lungo. Ho composto di nuovo il numero dello chalet e ho aspettato ancora. Mio padre non rispondeva. Dove diavolo si era cacciato? «Dev'essere uscito a cena. Senza corrente, è complicato farsi da mangiare. Soprattutto se non sai cucinare!» Mia madre stava cercando di alleggerire l'atmosfera, ma le sue parole non mi hanno affatto tranquillizzato. Ho notato una debole nota di affetto nell'inflessione della sua voce, ma sapere che mio padre forse non avrebbe mangiato abbastanza mi ha rattristato. Teoricamente avremmo dovuto essere tutti insieme, papà davanti alla tv, mamma intenta a leggere in cucina e io da qualche parte tra loro due. Era chiaro che neppure mia madre era serena. Io stavo assaggiando la vita del figlio diviso, lei quella del mezzo genitore. Ha deciso di guardare la televisione, e, bizzarramente, si è seduta sul bracciolo della poltrona di papà. Forse, dentro di lei, era come se lui fosse lì? Forse avrebbe voluto anche lei averlo tra noi, telecomando alla mano? Spesso, quando qualcuno, da vicino che era, va a stare lontano, sono le cose che un tempo ci dispiacevano a mancarci di più. «Finalmente stasera posso scegliere io che programma guardare!» Ha optato per il canale d'informazione, quello che mio padre metteva sempre per primo. Forse il cielo si stava facendo prendere un po' la mano. Le uniche notizie avevano a che fare con le sue gesta. Mia madre era preoccupata. «Maledetto gelo... Proprio in questo momento!» Sullo schermo, non si vedeva altro che ghiaccio. «Dovresti filmarla, questa gelata, per ricordo.» «Preferirei dimenticarmela, invece...» Mia madre ha fatto una smorfia, irritata dal fatto che tutto ciò che diceva sembrava ritorcersi contro di lei. Ma io non potevo certo ammettere che la videocamera regalatami da mio padre si trovava nell'ufficio della direttrice, con le tette della vicina in primo piano sul display. «Sai la novità? La direttrice si è rotta l'osso sacro!» «Com'è successo?» «È scivolata sul ghiaccio in cortile mentre spargeva la sabbia. È caduta sul sedere.» «Oh, poveretta, dev'essere molto doloroso.» Più tardi, a letto, ho pensato alla direttrice sdraiata sulla pancia in un letto d'ospedale. Anche se certe volte era severa, mi sono tornate in mente tutte le occasioni in cui si era mostrata gentile. Probabilmente aveva dei figli, tristi di ritrovarsi soli a casa senza di lei. Avevo forse esagerato con le mie preghiere? Mia madre è entrata per darmi la buonanotte. Si è seduta sul bordo del letto e mi ha accarezzato i capelli. «Dormi bene, tesoro...» «Posso farti una domanda?» La serata l'aveva messa a dura prova. Non sembrava affatto entusiasta della mia voglia di chiacchierare. «Ma certo, tesoro...» «Come vi siete conosciuti, tu e papà?» Ha alzato gli occhi al cielo. «Ah, be'... Senti, tesoro, forse non è il momento migliore...» Ho assunto l'espressione del bravo, bravissimo bambino che ha appena commesso una minuscola sciocchezza. «Non lo so, insomma, lasciami il tempo di digerire tutto quanto. D'accordo, tesoro?» ha proseguito lei. «Un'altra volta?»
«Sì, un'altra volta...» Si è chinata per darmi un bacio. «Non leggere fino a tardi, tesoro...» Non ha aspettato che rispondessi, si è alzata in fretta per paura che le rivolgessi un'altra domanda e clac! ha chiuso la porta. Quando ho spento la luce sul comodino, ho sentito il ticchettio della pioggia ghiacciata sulle finestre. Adesso che avevo deciso di aiutarmi da solo, il cielo soddisfatto faceva la sua parte con convinzione ancora maggiore. Era bello sapere che qualcuno, là fuori, stava pensando a me. Mi sono alzato per guardare dalla finestra. Il paesaggio stava diventando irreale. L'alberello di fronte a casa sembrava una caramella gigante avvolta nel cellophane. Era molto incurvato, la cima avrebbe presto toccato il suolo. Ho guardato la via, deserta. Per terra, sul ghiaccio, si riflettevano le luci delle finestre. D'un tratto, nella stradina dirimpetto si è acceso un forte bagliore. Poi è calato il buio, quasi completo. Le luci del condominio di fronte si sono spente di colpo. Mi sono allungato fino alla lampada sul comodino. Clic! Si è accesa. Che intenzioni aveva, il cielo, esattamente?
È un vero miracolo! La fiamma del fornello a gas lambiva il fondo della pentola di alluminio. All'interno, l'acqua si stava scaldando. Boris Bogdanov vi ha immerso un termometro, reggendolo con mano tremante. La colonnina di mercurio si è alzata, lentamente. A un tratto l'acqua calda gli ha scottato le dita. «Cristo santo!» Un immigrato ben integrato si riconosce anche dal fatto che bestemmia nella lingua del suo nuovo Paese. Boris non si è certo sorpreso nel vedere l'acqua bollire a cento gradi. L'aveva imparato in seconda elementare, alla scuola Jurij Gagarin. Subito ha spento il fornello. Gli occorreva quasi mezzo litro di acqua bollente e, considerata la pressione atmosferica, sapeva che se avesse continuato a bollire sarebbe evaporata al ritmo di sei centilitri al secondo. Aveva solo dieci secondi per compiere il travaso, perché era facile che nel corso dell'operazione qualche decimo di grado andasse perduto. Premurandosi di non scottare i pesci, Boris ha versato con cura meticolosa l'acqua calda nell'acquario. In soli nove secondi! Poi ha appoggiato la pentola e ha afferrato il grosso blocco sul quale aveva tracciato la traiettoria di ogni pesce. Gli occhi, ansiosi, sono passati dai suoi complicati disegni ai quattro pesci, decisamente più semplici. D'un tratto il viso del giovane russo si è illuminato. Nessuno di loro aveva cambiato la sua traiettoria! «Da... Da... Da...» Ma la gioia di Boris si è presto spenta. Ha guardato le bombolette di gas, poi l'orologio. Si è alzato per avvicinarsi alla libreria, gravata da centinaia di volumi. Ha rovistato un momento e stanato una radiolina a pile. L'ha accesa. «La situazione è in peggioramento a Montréal e sulla Rive-Sud, dove la pioggia ghiacciata persiste. Al ritmo con cui cade, si prevede che domani mattina quasi un milione di quebecchesi resteranno senza corrente elettrica. Diversi provveditorati agli studi hanno annunciato fin d'ora che le scuole non riapriranno, così come...» Clic! A Boris Bogdanov è passata la voglia di ascoltare, tanto ormai aveva capito. La notte si preannunciava lunga, molto lunga. Ha osservato le tre bombolette di gas. Per un istante ha odiato il Canada Dépòt, il suo direttore e tutta la clientela quebecchese, così maledettamente solidale. Se la temperatura dell'acquario fosse sensibilmente calata, anni di lavoro sarebbero andati sprecati. Morti quei pesci, bisognava reimpostare la teoria da capo. Per Boris Bogdanov avrebbe significato studiare a lungo il profilo di ciascuno dei nuovi pesci. Prima di dimostrare che Mélanie fa pipì in piedi, avrebbe dovuto dimostrare che Mélanie esisteva. E a lui ne occorrevano quattro, di Mélanie. Con un grugnito ha scaraventato la pentola vuota sul pavimento, rabbiosamente. Badabum! «Quel finocchio del piano di sopra! Non si può stare tranquilli cinque minuti, santa madonna!» Sì, quello del piano di sopra aveva fatto rumore, ma fino a quel momento era sempre stato silenzioso
come un topolino. Prima di andare a letto, Alex aveva guardato il telegiornale. Sapere che le scuole sarebbero state chiuse anche l'indomani gli aveva permesso di sprofondare in uno stato di dormiveglia piuttosto piacevole. Si era preso una coperta di scorta, caso mai il blackout fosse durato, e ne aveva appoggiata un'altra sul divano, per suo padre, più tardi. «Al diavolo Météo Canada! Potevano ben avvertirci che sarebbe caduta questa pioggia ghiacciata! Che cosa faccio io, domani?» Alexis non faceva mai granché, l'indomani. «Adesso li chiamo e glielo spiego io, come diamine si lavora!» Si è alzato al buio senza prendere il telefono, che era lì accanto, ed è andato dritto in cucina. Con mano ferma ha aperto il frigorifero, che non si è illuminato, e ha afferrato una bottiglia di birra; poi ha richiuso lo sportello e si è avviato lungo il corridoio. Bang! «Chi diavolo è che lascia sempre in giro la roba?» Ma Alex sapeva che non era inciampato: era andato a sbattere contro lo stipite della porta. Tenendosi una mano sulla testa, Alexis ha brancolato fino al divano e vi si è disteso, coprendosi con la coperta che Alex gli aveva lasciato. Ha succhiato la birra fino in fondo, come un lattante col biberon. Poi si è voltato sulla pancia per dimenticare tutto, sperando di sognare la sua amata Do. Bum! Bum! Bum! Alle tre di notte, un rumore di passi a precipizio giù per le scale ha sovrastato per qualche istante il russare di Alexis. Immerso in un sonno profondo, lui si è limitato a mormorare. «Je t'ai, bébé...» Poi si è rigirato in posizione fetale, per cominciare a russare ancora più forte, senza accorgersi che suo figlio Alex gli aveva appena risistemato la coperta. Fuori, la pioggia ghiacciata non la finiva più di cadere. Tutt'a un tratto il ticchettio della pioggia è stato coperto da un grido straziante, inumano, proveniente dalla strada. «Niiieeettt!» Con un gesto melodrammatico, Boris Bogdanov è crollato sui gradini d'ingresso del palazzo a due piani. Il ghiaccio che gli cadeva sul capo si mescolava alle lacrime. «Ma che cosa ti ho fatto, buon Dio, per meritarmi questo?» In condizioni normali Boris Bogdanov non credeva in Dio, ma in quel momento aveva bisogno di qualcuno a cui dare la colpa della sfortuna che lo perseguitava. Non riusciva a capacitarsi di tutto quel ghiaccio. Nemmeno Brutus si capacitava di quel che stava accadendo. Se avesse avuto sentore in anticipo della tempesta che si preparava, non sarebbe mai fuggito di casa in pieno inverno, sotto la pioggia ghiacciata. Incuriosito dai lamenti di Boris, ha fatto capolino da sotto le scale, e senza un attimo di esitazione gli è saltato in grembo. Boris non ha nemmeno accennato a difendersi. Il suo era una specie di pianto greco, che però non ha dissuaso Brutus dal cominciare a fare le fusa. Poco lontano si è udito il rumore secco di una portiera sbattuta. Appena il taxi si è allontanato, Julie si è accorta dell'uomo accasciato sui gradini della casa di fronte, ma con il buio non è riuscita a identificarlo. Ha aperto la porta del suo appartamento e ha acceso la luce dell'ingresso. Diffidente, si è voltata. Ha sentito i singhiozzi e ha sospirato piena di disgusto. «Luca, vai a piangere da tua moglie, don giovanni da strapazzo!» «Miao!» Julie ha alzato gli occhi al cielo. «Non provarci con la scusa del gatto. Roba da bambini!» «Miao!» «Brutus?» «Miao!» «Va bene, vieni qui subito, rivoglio il mio gatto!» L'uomo non si muoveva. «Sono stanca... questa sera non c'era un cane... Non ho tirato su nemmeno cento dollari, per cui, ti avverto, ho davvero poca pazienza!» Avvicinandosi, ha visto il suo gattino sulle ginocchia dell'uomo che continuava a frignare. «Avanti, Luca, ridammi Brutus e vattene a casa a dormire!»
Finalmente Boris ha alzato la testa. Julie si è bloccata per l'imbarazzo. «Mi dispiace, ti avevo scambiato per un altro...» «Mi scambi pure per chi le pare...» È difficile che un uomo scoppi in lacrime, in un night. In realtà, Julie non aveva mai visto un uomo piangere, piangere sul serio, prima di allora. Era sempre lei quella che piangeva. Ha allungato le braccia per prendere Brutus, ma il gatto è rimasto accoccolato in grembo a Boris, che però non ha fatto nulla per trattenerlo. «Si direbbe che non voglia lasciarti...» «È suo? Deve avere freddo...» «Perché stai piangendo? Va tutto bene? «No, va tutto male.» «Che ti succede? Una delusione d'amore?» «I miei pesci moriranno per il freddo...» Al solo pensiero, Boris non ha potuto trattenere un altro singhiozzo. Julie, che pure aveva un cuore, non riusciva a capacitarsi del fatto che un uomo potesse piangere per dei pesci. «Li ami fino a questo punto?» Per un istante è stato come se Boris si fosse riscosso dalla sua pena. Ci ha riflettuto. «Senza di loro la mia vita non avrà più senso...» Gli amori spezzati erano la specialità di Julie. Prima di quel momento, non aveva mai sospettato che si potesse piangere per dei pesci, anche se da tempo considerava i suoi tre gatti i suoi unici veri amici. «Se vuoi, possono stare da me...» «Non posso lasciarli soli...» Julie lo ha fulminato con un'occhiata: ecco l'ennesimo maschio bugiardo a caccia di una notte di sesso! «Non è come pensa. L'acqua deve rimanere alla temperatura di trentadue gradi. Devo consegnare la tesi in giugno. La mia teoria dei nodi rappresenta una rivoluzione in campo matematico. Sono quasi arrivato in fondo... Non voglio perdere tutto!» Tirando su col naso un'ultima volta, Boris Bogdanov si è asciugato le lacrime con il dorso della mano e ha fissato Julie. Sembrava così puro, così onesto. E poi, anche se aveva gli zigomi un po' pronunciati come tutti gli slavi, lei trovava che gli conferissero un fascino esotico. Non lo aveva mai visto al Sex Paraìso. Della storia dei pesci matematici Julie non aveva capito un accidente, eppure voleva credergli, voleva sperare che non le stesse mentendo. «Quanti ne hai, di pesci?» «Quattro, piuttosto piccoli...» «E l'acquario? È molto grande?» «Medio, direi...» «Cosa intendi per medio?» Boris Bogdanov ha allargato appena le braccia, barando giusto un tantino. Julie era perplessa: quattro pesci in un acquario così piccolo? Ma l'espressione speranzosa del suo vicino la inteneriva. «Una notte sola, perché poi aspetto gente. Guai a te se non te ne stai tranquillo sul divano. Sono armata e ho fatto tre anni di autodifesa!» Boris Bogdanov si è alzato di colpo. Brutus, che non se lo aspettava, si è ritrovato a terra. In piedi, come ogni gatto che si rispetti. È scivolato appena sul ghiaccio, ha ritrovato l'equilibrio ed è filato senza un "miao" verso la porta socchiusa della casa della sua padrona, sul lato opposto della strada. Lo ha accolto un coro di miagolii minacciosi. Sul divano Brutus continuava a non essere il benvenuto. Julie non ha avuto il tempo di abbozzare il minimo tentativo di difesa. Boris Bogdanov si è avventato su di lei per assestarle una serie di violente pacche sulla schiena, e intanto la serrava in un abbraccio virile, decisamente slavo, che pareva destinato a non finire mai. «Bene, bene, ho capito che sei contento... Avanti, vai a prendere i pesci...» Boris ha fatto le scale quattro gradini per volta. Entrato in casa, si è diretto in salotto. Ha osservato per un momento i quattro pesci nuotare. Qualcosa nel loro percorso era cambiato. Era come se adesso nuotassero più vicini, quasi, si sarebbe detto, a coppie. Ha immerso il termometro nell'acqua. Ventitré gradi! Non solo quei pesci rischiavano di scordare la propria traiettoria per sempre; ormai intrecciavano
e scioglievano nodi sul ciglio della morte! Doveva salvarli a ogni costo. Boris ha allargato le braccia per sollevare l'acquario, ma gli è stato impossibile smuoverlo di un solo centimetro. Conteneva troppa acqua e c'erano diverse grosse pietre sul fondo. Ha afferrato la pentola e l'ha immersa nell'acqua per poi correre a svuotarla nella tazza del gabinetto. Dopo svariati andirivieni, si è arreso all'evidenza che l'operazione avrebbe richiesto delle ore, durante le quali i suoi quattro tesori sarebbero probabilmente congelati. Gli rimaneva una sola soluzione: il retino. Bum! Bum! Bum! Di nuovo lungo le scale. Sul suo divano, Alexis non ha reagito, perso nel solito sogno. Alex, seduto per terra, la schiena appoggiata al muro, ascoltava beato suo padre. «Je t'ai, bébé...» Boris Bogdanov ha bussato forte alla porta di Julie. Aveva impiegato più di mezz'ora ad acchiappare l'ultimo dei quattro pesci. In ogni gruppo, c'è sempre qualcuno che vuole fare il diverso. Julie ha aperto con indosso la vestaglia rossa ben chiusa sul collo. Era chiaro che fino a un attimo prima si trovava sotto le coperte. «Ormai non ti aspettavo più!» Ha visto la pentola nella mano di Boris e i quattro pesci che si spintonavano in un groviglio di traiettorie abortite. «Sei gentile, ma ho già cenato.» Boris Bogdanov non aveva grande senso dell'umorismo, tanto più in un momento come quello, con i suoi tesori costretti a boccheggiare in quella specie di bara di ferro. «Dov'è il bagno?» «Non crederai...» «È per i pesci!» Julie si è sentita un po' stupida. Ha indicato la porta a metà corridoio. Senza una parola di ringraziamento, Boris Bogdanov vi si è precipitato e si è chiuso dentro. Ciac! Julie ha aperto l'armadio a muro e ha tirato fuori una coperta che ha appoggiato sul divano, bene attenta a non svegliare i due gatti immersi nel sonno. Poi si è avvicinata alla porta del bagno. «Ti ho messo una coperta sul divano. Non ti azzardare a provare a dormire da un'altra parte, se non vuoi svegliarti al pronto soccorso.» «Da. Grazie tante.» «Gli asciugamani sono sotto il lavandino.» «Da. Grazie tante.» «Dove sono i pesci?» «Qui con me!» «Posso vederli? Nella pentola non si capiva granché.» «Niet. Ho troppo da fare.» Julie, sorpresa, ha afferrato la maniglia della porta del bagno. Per un momento ha pensato di abbassarla e di entrare comunque. In fondo quella era casa sua, no? Ma l'intrusione di quel suo strano vicino, del tutto inattesa e unica nel suo genere, costituiva un interessante diversivo rispetto alla solita routine. C'era qualcosa di vitale nella passione di quell'uomo per i suoi pesci; e dove c'è vita, c'è speranza. Julie è tornata in camera sua e ha guardato la pioggia ghiacciata cadere oltre il vetro della finestra. Quella tempesta di ghiaccio aveva svuotato il Sex Paraìso, un fatto inaudito nel mondo degli uomini che sbavano dietro alle ragazze, ma a lei tutto sommato non dispiaceva. Il denaro non è tutto, nella vita. Ormai albeggiava e Julie non era riuscita a prendere sonno. Il rumore dell'acqua che, nel bagno, scorreva, si fermava e poi scorreva di nuovo, non era cessato per tutta la notte. Per i primi trenta minuti le aveva fatto un effetto stranamente rassicurante, come di ninnananna. Ma anche il più soave dei ritornelli, se ripetuto all'infinito, dà alla testa fino a risultare insopportabile. «Lo aggiusto io, il matematico!» Dimenticandosi della vestaglia, Julie è balzata nel corridoio in camicia da notte scollata e trasparente. Ha spalancato la porta del bagno senza bussare. Quella era casa sua, per la miseria! «Allora, tu e i tuoi pesci potete andare a quel...»
Boris l'ha fulminata, il dito indice sulla bocca: «Ssst!». Senza sapere perché, Julie ha obbedito. In ginocchio davanti alla vasca da bagno, perso in mezzo a un mucchio di fogli scribacchiati e piccoli asciugamani di spugna, Boris le ha fatto segno di avvicinarsi. Lei si è irrigidita. La sua corta camiciola lasciava ben poco all'immaginazione. Boris non ci ha fatto alcun caso. «Guardi là, nella vasca!» Julie si è inginocchiata, docile. Da dietro, era una scena torrida e indecente. Le sue natiche, in gran parte scoperte, dondolavano impercettibilmente mentre si sporgeva in avanti, sotto lo sguardo indifferente di Boris. I seni rischiavano di sfuggire alla stoffa sottile della camicia da notte, ma ancora una volta Boris non si è accorto di niente, concentrato com'era sul suo acquario di fortuna. In fondo alla vasca, al posto del tappo, c'era un asciugamano di spugna. Attraverso le maglie del tessuto si dileguavano centodiciannove centilitri di acqua al minuto. Lasciando scorrere nella vasca un rivolo d'acqua d'identico volume alla temperatura di quarantadue gradi, Boris era riuscito nell'incredibile impresa di stabilizzare la temperatura dell'acqua precisamente a trentadue gradi centigradi. «È tutto spiegato qui!» Julie ha afferrato il foglio che il genietto russo le stava porgendo, ma l'ha guardato appena. Le equazioni termiche con tanto di asciugamano non facevano per lei. Quel che le interessava, invece, era lo strano spettacolo dei pesci nella sua vasca da bagno. Quella notte aveva dell'incredibile, era la più bizzarra che le fosse capitata da un pezzo. Anche Brutus aveva l'aria decisamente rapita mentre, arrampicato sul lavandino, contemplava l'andirivieni dei pesci nella vasca da bagno. Julie ha indicato il più colorato di tutti. «Come si chiama quello verde con le righe arancioni?» «Numero uno!» Boris, senza curarsi della gamba nuda di Julie, le ha sfilato da sotto il ginocchio un blocco di fogli. Ha sfogliato qualche pagina fino a trovare il famoso disegno in quadricromia. Ha indicato il tracciato verde, punteggiato di arancione. «È questo!» Chino in avanti, il viso a filo d'acqua, Boris ha seguito per un lungo istante il percorso rituale di Numero uno. Poi si è interessato alle traiettorie di Numero due e di Numero tre, e ha concluso con la meticolosa osservazione di Numero quattro. Ha fatto leva con le mani sull'orlo della vasca per raddrizzarsi di scatto. Julie lo ha imitato, e in quell'istante, finalmente, Boris l'ha guardata bene e ha strabuzzato gli occhi. D'istinto, lei si è coperta il petto con le mani. Bruscamente, lui si è voltato di nuovo verso la vasca. «Guardi! Guardi! Hanno ripreso tutti il loro cammino abituale!» Con piglio virile ha agguantato le spalle nude di Julie e le ha scrollate con foga, scatenando un piccolo terremoto nell'abbondante scollatura della sua ospite. Poi l'ha fissata intensamente con i suoi grandi occhi azzurri. «È un vero miracolo!» Martedì 6 gennaio 1998 «Verso mezzogiorno, alcuni tralicci sono crollati sotto il peso del ghiaccio nella regione di Drummondville. A Montréal sono ormai settecentomila le famiglie costrette a fare a meno della corrente elettrica. La Croce Rossa sta allestendo i primi alloggi di fortuna. Il servizio meteorologico prevede raffiche di pioggia ghiacciata. Si parla già di precipitazioni record...»
Può essere vera una storia del genere? «Che non ti venga in mente di raccontargli che sei tu la causa di tutto, sennò ti strozzano!» Davanti a noi si era fermato un camion della Hydro-Québec. I due uomini nella cabina, occhi rossi, viso tirato, mangiavano un panino mentre consultavano il lungo elenco dei prossimi interventi. Io ero preoccupato, Alex no. «Hai visto? Sembrano due troll, con quei capelli per aria!» Ho immaginato che avessero dei figli rattristati perché i loro papà erano costretti a fare gli straordinari. E che le loro mogli li stessero aspettando davanti a un piatto di minestra ormai fredda. Ho
ripensato alle immagini che avevo visto a mezzogiorno, al telegiornale. Sullo schermo, enormi tralicci giacevano schiantati dal peso del ghiaccio al suolo. «Le prossime ore non promettono miglioramenti, nuove precipitazioni ghiacciate sono previste per tutta la giornata di domani. Sono ormai quasi settecentomila le case rimaste prive di corrente elettrica...» Il nostro chalet era tra quelle. Mio padre aveva telefonato al mattino per annunciare che il generatore aveva retto. «È incredibile quanto consuma! Solo ieri sono dovuto andare due volte dal benzinaio!» Assiepata intorno alle pompe con le taniche in mano, la gente si spintonava, attaccava briga, ha raccontato papà. «Non più di venti litri a testa!» gridava il benzinaio esasperato. In quel momento, nonostante le strade ghiacciate, erano arrivati due Hell's Angels in sella alle loro moto. Loro non avevano paura di niente, ma tutti, benzinaio in testa, avevano paura di loro. «Venti taniche da venti litri? Nessun problema, amici miei!» Papà non aveva detto di essere un poliziotto. «Erano in due. Io ero solo, con una tanica vuota come unica arma...» Quando mio padre ha riattaccato, mia madre, ancora provata dalle discussioni del giorno prima, non si è sforzata di fare conversazione. «Ho un mucchio di compiti da correggere!» Così ne ho approfittato per raggiungere Alex. Alex mi ha raccontato di avere trascorso la notte senza corrente. Avrei potuto offrirgli di venire da noi a farsi una doccia, ma ho preferito tacere. Non volevo che vedesse la mia nuova vita. E comunque lui non mi ha chiesto nulla; è probabile che non gli importi di rimanere un po' sporco. «Sai che il tizio del piano di sopra si scopa la vicina di fronte?» «Figurati!» «Hanno fatto così tanto rumore lassù, che mi hanno svegliato.» «Se hai sentito rumore al piano di sopra, allora il tizio non era a casa della vicina di fronte.» «L'ho visto entrare da lei con una pentola.» «Una pentola?» «Le avrà cucinato qualche cosa di buono.» «In piena notte?» «E perché no? Chiaramente quello puntava al dessert!» «Il dessert?» «Ma sì, il dessert è quando si finisce a letto subito dopo cena...» Non mi piace parlare di queste cose. «Almeno lui ha dormito al calduccio!» Alex aveva i capelli scompigliati e l'aria sgualcita di uno che ha dormito vestito. Mi ha guardato. Ho intuito che stava per prendermi in giro. «Stavo giusto pensando che, con i tuoi poteri magici, forse potresti fare qualcosa. Non ho voglia di patire il freddo, stasera...» Non sapevo cosa rispondere. «Sei il ragazzino che abita di fronte, vero?» Siamo trasaliti entrambi. Davanti a noi c'era uno dei due vecchi fratelli, e si stava rivolgendo ad Alex. «Sì, signore.» «Mi chiamo Simon. Abito di fronte, insieme a Michel. Abbiamo saputo che non avete la corrente. Stanotte abbiamo sentito dei rumori nell'appartamento di fianco e abbiamo capito che la nostra vicina ha gentilmente ospitato il vostro vicino del piano di sopra. Un russo, a quanto pare...» Simon si è lasciato sfuggire un sorriso furbo. Il dessert doveva essere stato delizioso e abbondante. «Come ti chiami?» «Alex...» «Caro Alex, di' a tuo padre che abbiamo una camera libera e che è a vostra disposizione. Michel lavora a Météo Canada. Questa storia non finisce qui, miei cari ragazzi. La situazione è destinata a peggiorare.» Alex mi ha puntato un dito contro. Stava forse per spifferare che era tutta colpa mia?
«Come mai lui ha la corrente?» «Perché ha la fortuna di abitare dal nostro lato della strada. Siamo collegati alla fornitura della casa di riposo qui vicino. Viviamo in un'area privilegiata.» Alex, sbalordito, si è voltato verso di me. «Non hai lasciato niente al caso...» «Mi raccomando, di' a tuo padre che siete i benvenuti.» «Grazie, signore, gliene parlerò... Ma, sa, dubito che... mio padre è un po' orso...» «Digli di non farsi problemi.» «Non è da lui approfittare...» «In una situazione simile, è normale dare una mano ai propri vicini. Quando il cielo non ci aiuta, dobbiamo aiutarci tra noi. Ti pare?» L'ho preso come un rimprovero. Ma se quel Simon fosse stato al posto mio, avrebbe capito che a volte passare al contrattacco è una questione di sopravvivenza. Ho stretto i denti. Lui ha aperto la porta di casa. «Vi aspettiamo. Venite quando volete. Insisto!» Ciac! La porta si è chiusa. Alex si è voltato verso di me e mi ha fissato a lungo, molto a lungo. Sentivo che stava per cedere. «Può essere vera una storia del genere?»
È bello, un uomo che torna Nel suo letto, con i capelli scarmigliati, Julie stentava ad aprire gli occhi. Erano già le tre del pomeriggio. Le faceva male la testa. Cosa aveva fatto per ridursi in quello stato? A un tratto le è tornata in mente ogni cosa: il russo, la vasca da bagno, gli asciugamani, le addizioni, le moltiplicazioni, le sottrazioni, i pesci... «Bisogna brindare!» «Qui, ora?» «Ha qualcosa da bere?» «Una vecchia bottiglia di tequila...» «Davaj!» Sempre in camicia da notte, Julie aveva immediatamente pensato che Boris volesse indurla a bere per poi abusare di lei, e così lui aveva perso di colpo il credito accumulato nell'arco della serata. Si era affrettata a coprirsi con la vestaglia rossa. Boris aveva vuotato un bicchiere dopo l'altro. Dopo un po', Julie aveva ceduto alla tentazione di fargli compagnia. A un certo punto lui si era seduto per terra, la schiena contro la vasca da bagno. Lei si era accomodata a distanza di sicurezza, sul gabinetto. Come è noto, l'alcol scioglie la lingua. «Deve sapere signorina, che la matematica è pura poesia. Bisogna che ogni equazione, ogni formula, faccia rima con ciò che segue per riuscire a formare un vero e proprio poema. Una formula matematica è un'opera d'arte. Un testo che si scrive una volta sola, senza errori, affinché viva per sempre!» «Com'è bello, quello che dici...» Boris Bogdanov aveva guardato Julie per la seconda volta. Se l'era presa comoda. Lei aveva sorriso, seduta sulla tazza. Ogni ricercatore è un po' come un soldato semplice abituato a combattere una battaglia terribile nella solitudine più totale, per una causa che lui è il solo a comprendere. Boris non era avvezzo a trovarsi in buona compagnia. Aveva alzato di nuovo il bicchiere vuoto. «Davaj!» «L'ultimo... Rischierai di scordarti il resto nella prossima addizione...» Boris aveva abbozzato un sorriso. I russi, che siano ricercatori o giocatori di hockey, considerano il bicchiere appena bevuto come una semplice tappa verso il bicchiere ancora da bere. L'importante è non fermarsi, dimenticare tutto, lasciarsi andare. «E lei, che cosa fa di bello nella vita?» «Lavoro in, ehm... in una specie di parco divertimenti.» «Per bambini?» «Più per i grandi...»
«Le piace?» «Dipende...» «Perché?» «Si finisce tardi la sera, c'è sempre folla, capita spesso di prendersi un raffreddore, la gente viene a divertirsi, ma non è sempre gentile...» «Allora perché non cambia lavoro?» «Penso di smettere tra... Be', non so esattamente quando.» «Che cosa le piacerebbe fare, dopo?» «Non ci ho mai pensato...» Boris aveva svitato il tappo di metallo della bottiglia di tequila. Julie si era pentita di quella risposta. Aveva appena confessato a un ricercatore che non era sua abitudine riflettere troppo. Per superare l'imbarazzo, aveva teso verso di lui il bicchierino con su scritto Absolut Vodka, cedutole da un rappresentante di alcolici in cambio di un ballo. Lei aveva preteso quattro bicchieri, lui aveva accettato. Lei aveva ballato, alla fine lui gliene aveva dati soltanto due. «Dal momento che abbiamo dei veri bicchieri da vodka, le faccio vedere come si beve in Russia.» Boris aveva riempito i due bicchieri e teso il braccio verso Julie. Lei aveva creduto che volesse brindare, ma lui le si era avvicinato, in ginocchio, e l'aveva presa a braccetto. Aveva portato il bicchiere alla bocca. Lei lo aveva imitato. Intrecciati in una specie di nodo, avevano portato l'elisir messicano alle labbra desiderando intensamente che fosse vodka. Boris si era fermato un momento e aveva fissato Julie, le cui guance rosate tradivano l'effetto dei primi bicchieri e forse di qualcosa d'altro. «Na zdrowie!» «Na ndrowie!» «No! Na zdrowie!» «Na zdrowie!» Boris si era scolato la tequila in un solo sorso. Poi aveva espirato lentamente, con soddisfazione. Il suo alito, diventato d'improvviso messicano, aveva convinto Julie a lasciarsi andare. Rovesciando la testa indietro, in un solo colpo aveva vuotato il bicchiere e poi, con lo stesso impeto, se lo era gettato dietro le spalle. Il vetro si era infranto contro il muro. Crash! «Perché lo ha fatto?» «Be', è tradizione.» «Solo nei film americani i russi lanciano i bicchieri dopo aver bevuto. Con quello che costano, e considerata la quantità di vodka che ci scoliamo, non possiamo certo permetterci di romperne tanti, in un paese povero come il nostro!» Julie non aveva alcuna intenzione di insistere. Non voleva rischiare di provocare incidenti diplomatici. Del resto, a parte aver visto due volte Dalla Russia con amore, del Paese di Boris sapeva ben poco. Boris aveva dato qualche colpetto al pavimento con il palmo della mano e si era riempito di nuovo il bicchiere. Julie era andata a sedersi accanto a lui, nel punto preciso che lui aveva indicato. «Faremo a turno.» Boris le aveva riempito il bicchiere, gliel'aveva dato, lei lo aveva svuotato. Boris gliel'aveva riempito di nuovo, ma questa volta se l'era scolato lui. L'operazione era stata ripetuta tre volte senza che nessuno dei due proferisse parola, poi Julie aveva ricominciato a parlare. «Come mai fai tutti quei calcoli a proposito di quei quattro pesci?» «Voglio costruire una dimostrazione matematica, nell'ambito di una teoria topologica, cioè di una teoria dei nodi, del fatto che nessuno di noi sceglie la propria strada, perché ci pensano gli altri a sceglierla per noi.» «Forse non è indispensabile fare tanti calcoli per dimostrarlo...» «Che cosa intende?» «Io, per esempio. È una vita che gli altri decidono al posto mio...» Era calato di nuovo il silenzio. Boris si era voltato verso Julie: a un tratto si sentiva profondamente triste. L'alcol si può coniugare a tutti i tempi verbali, ma certe volte si coniuga all'imperfetto e allora la malinconia è un passaggio obbligato nel cammino verso il nirvana etilico. Boris si era messo a cantare in russo. Senza capire una parola, Julie aveva dato fondo alle sue lacrime. La melodia era così struggente. E la notte ancora lunga, molto lunga.
«Sono già le tre del pomeriggio!» Con la tristezza della sera prima ancora in corpo e uno spaventoso mal di testa, Julie è uscita dalla sua camera. Sul divano del salotto c'erano soltanto i due gatti. Un piccolo groviglio di paura e solitudine si è formato nel suo stomaco. «Non può essersene andato.» Ha aperto la porta del bagno, ha sollevato la camicia da notte e si è seduta sul gabinetto con gli occhi chiusi. Si è sforzata di ricordare il punto esatto in cui aveva visto il suo matematico russo per l'ultima volta. Ha riaperto gli occhi di colpo e ha visto due gambe allungate sul pavimento. Boris Bogdanov, la schiena appoggiata alla vasca da bagno, un dito nell'acqua per verificarne la temperatura, dormiva profondamente. Sulle sue ginocchia, Brutus faceva le fusa. In un angolo, giaceva la bottiglia della tequila, vuota. Julie, rincuorata, ha contemplato la scena mentre faceva quel che doveva fare. Ne aveva incontrati, di uomini, nella sua vita. In tanti si erano fermati a casa sua per una notte, ma era solo al risveglio che si mostravano per quello che erano realmente. L'uomo che aveva davanti non era come tutti gli altri. Non aveva cercato di seguirla quando a giorno fatto si era trascinata in camera sua. E pensare che lei si era quasi augurata che lo facesse! Julie si è alzata, ha scavalcato il russo mezzo accasciato sul pavimento e ha osservato i quattro pesci. Quando Boris ha riattaccato a russare, si è chinata in avanti. I suoi occhi hanno brillato di desiderio. Lentamente, si è sfilata la camicia da notte. «Aaaaaahhhhhhhh ! » Boris non era tipo da farsi prendere alla sprovvista. La vita gli aveva insegnato ad aspettarsi di tutto, ma quello no, quello proprio non se l'aspettava. E Brutus men che meno. Quando ha alzato la testa, così pesante, e si è voltato verso la vasca da bagno, è stato lì lì per svenire. Julie gli ha sorriso. Si è sporto in avanti per vedere come stessero i pesci. Sereni e tranquilli, nell'acqua a trentadue gradi, seguivano ognuno il proprio percorso. «Non preoccuparti. Non si spingono dalle mie parti. Probabilmente non hanno capito che la vasca da bagno è più grande del loro acquario. Mi sono messa nell'angolino per evitare di dar loro fastidio.» Scettico, Boris ha continuato a osservare i pesci. Chinandosi, ha visto Numero due virare a meno di dieci centimetri dal petto nudo di Julie. Numero tre ha fatto lo stesso. Numero quattro anche. Quando Numero uno ha nuotato a sua volta verso il seno sinistro, Boris ha abbassato la faccia fino al pelo dell'acqua. Anche il pesce arancione striato di verde ha proseguito per la sua strada, ignorando l'enorme tetta, che pure doveva occuparne l'intero campo visivo. Boris ha seguito il suo esempio. Julie, per parte sua, non si era curata di proteggere la sua nudità, convinta di avere di fronte un uomo speciale: l'unico al mondo in grado di vestirla con lo sguardo. «Da... Da... Da...» Boris ha rialzato la testa e ha contemplato brevemente la piccola sirena. Julie non ha potuto evitare di avvertire un brivido. In quello sguardo c'era qualcosa che non aveva mai avuto la fortuna di conoscere prima: rispetto. «Magnifico!» Julie ha pensato di abbracciarlo per ringraziarlo del complimento, ma subito si è ricordata di essere nuda. Boris, del resto, era già in piedi e guardava l'orologio. Poi ha indicato i pesci. «Si comportano come se non avessero mai lasciato l'acquario. Evidentemente ne hanno memorizzato dimensioni e volume, ma non ho idea di quanto possa durare... Sono costretto ad affidarglieli mentre vado a casa mia a prendere l'acquario. Posso fidarmi di lei?» Le è bastato rivolgergli un'occhiata. Lui è parso titubante per un attimo, poi, persuaso da quello sguardo così schietto, si è deciso. «Torno subito!» È uscito senza salutare. Julie c'era abituata, ma questa volta un sorriso indefinibile le ha illuminato il viso. Le è sfuggita una lacrima, un'altra. Non le ha asciugate. È bello, un uomo che torna.
Così staranno bene! «Avrebbero potuto avvertire. Ve lo dico io, sono tutti finocchi quelli del meteo!» «Caro Alexis, non posso darle torto...» Michel, raggelato, ha tuffato il naso nel piatto. Apprezzava il fatto che Simon avesse sempre la battuta pronta, ma in quel momento stentava a riconoscerlo. Nella replica di Simon, Alexis ha letto un esplicito incoraggiamento a rincarare la dose. «E mi chiedo se non siano anche ebrei!» Michel ha chiuso gli occhi, come assorto in preghiera. Poi si è voltato verso Simon, ansioso. Alex sentiva che qualcosa non quadrava. Simon era l'unico a non scomporsi. «Che cosa glielo fa pensare, Alexis?» «Se non è una cosa, è l'altra!» Simon ha osservato a lungo il suo ospite intento a tagliarsi un morbido pezzo di bavette. Ha notato che mette da parte lo scalogno. Lo scalogno non piaceva nemmeno a lui. «Lei lavora a casa, suppongo, dal momento che spesso la si vede in giro per il quartiere alla mattina.» «Questo è un periodo di calma piatta, sa, per via del gelo.» «Il gelo è cominciato ieri, papà.» La sinfonia delle forchette è proseguita indisturbata per un bel pezzo. Alexis si è sentito addosso gli sguardi di tutti i presenti. «Non sono affari tuoi.» Quella di Alex non voleva essere una frecciatina, ma evidentemente sentirsi rimproverare in pubblico era intollerabile per suo padre. Che infatti si è rivolto a Simon e Michel. «Ma insomma! Da quando i bambini ficcano il naso nelle faccende dei grandi? Non gli è ancora entrato in testa che durante le vacanze di Natale le ristrutturazioni non sono certo la priorità!» Alexis parlava ancora di lui come di un bambino. Proprio non voleva accettare che fosse cresciuto, per lui il tempo si era come fermato. Alexis ha infilato in bocca un altro pezzo di bavette e l'ha masticato energicamente, senza preoccuparsi di inghiottirlo prima di riprendere a parlare. «E lei cosa fa?» «Psicanalista...» «Ops ! Non è il caso di parlare a vanvera in sua presenza, eh?» «Effettivamente è raro che la gente venga da me per parlare a vanvera...» «E lei?» «Io lavoro a Mèteo Canada.» Alexis si è sforzato invano di deglutire. Il boccone di bavette non andava né su né giù. È un rischio che si corre, quando si parla con la bocca piena. Alex, Simon e Michel hanno puntato lo sguardo su Alexis, che alla fine ha ingoiato a fatica la carne masticata a metà. «Non parlavo mica di lei, poco fa...» «Se avesse saputo qual è la mia professione non avrebbe parlato a quel modo, è naturale.» Alexis ha chinato la testa. Se avesse potuto nascondersi sotto la sua fetta di bavette lo avrebbe fatto volentieri. Simon ha sorriso, enigmatico. Uno psicanalista è come un professore o un poliziotto, non può mai dimenticare il lavoro che fa. «E tu, mio caro Alex? Come va la scuola?» «Be', anche lì c'è calma piatta...» «Per via del gelo!» Alexis ha infilzato un altro boccone di carne sorridendo a trentadue denti, soddisfatto della battuta. Per un attimo è aleggiato nell'aria un inatteso barlume di felicità. Alexis si sentiva stranamente bene in quel posto nuovo, in mezzo a persone che aveva appena incontrato e che fino a poco prima era convinto di disprezzare. Era il momento di dire qualcosa di gentile. «Grazie dell'ospitalità.» «Non c'è problema.» «Con quell'altro finocchio del piano di sopra che non ha smesso di ballare tutta la notte...» «Sta parlando del giovane studente russo?» «È russo?» «Sì, mi pare. Ma ieri stava studiando il quebecchese, mi sa...»
«La quebecchese, mio caro Michel.» Alla fine del pasto, Alexis si è sfregato la fronte, ha esitato un attimo, e poi è partito in quarta. «Alex mi ha detto che siete fratelli.» «In un certo senso...» «Ah.» «Le piace il whisky?» «Con la Coca-Cola, sì...» «Questo whisky non si mischia, mio caro Alexis... Si faccia un giro nell'appartamento, mentre preparo l'occorrente.» Michel camminava per la cucina, nervoso. Simon era forse impazzito? Anni prima si erano stabiliti in quel quartiere appartato e anonimo al solo scopo di pubblicizzare il meno possibile il loro amore. Simon lo ha raggiunto. «Hai visto chi diavolo ci hai portato in casa?» Simon l'ha stretto in un abbraccio rassicurante. «Calmati, amore, la situazione è sotto controllo.» «Non si controlla un coglione come quello!» «Non è un coglione, è solo un po' malato...» «Un malato grave! Lo racconterà a cani e porci!» «Non lo dirà a nessuno... Almeno per il momento, credo...» Michel è apparso ancora più allarmato. Simon gli ha accarezzato la guancia. «Non è più omofobo di noi.» «Ma davvero!» «Calmati, Michel...» Crac! Il parquet ha scricchiolato. D'istinto, Michel si è allontanato da Simon. Dalla soglia della cucina, Alex li guardava. In questo genere di situazioni, funziona solo un falso accesso di tosse. È stato Michel a fingersi ammalato. «Uhm ! Uhm ! Un giretto con il cane?» «Eh? Sì, sì, certo...» «Pipo! Dove sei, birbante?» Dopo essersi accertato che Michel e Alex erano usciti, Simon ha appoggiato la bottiglia di Chivas Royal Salute, ventun anni di invecchiamento, sul tavolino del salotto. Ha estratto il prezioso flacone dallo scrigno di velluto. Ha svitato il tappo. Ha riempito due dei tre bicchieri. Ha sentito il rumore dei passi di Alexis che vagava per l'appartamento. È sprofondato nella poltrona, improvvisamente sereno, in attesa. Alexis, perplesso, è entrato in salotto ed è andato a sedersi sul divano di fronte. «È un divano letto?» «No...» «Davvero? Be', allora c'è qualcosa che mi sfugge...» «Mi dica, di cosa si tratta?» «Ho visto che ci sono solo due camere e uno studio senza letti, per cui mi chiedevo dove dormiremo io e Alex.» «Nella stanza in fondo.» «E lei? Dove dormirà?» «Nell'altra camera.» «E suo... fratello?» «Nell'altra camera.» «Ah sì? Intende la stessa?» «Michel, che non è mio fratello, starà nella mia stanza perché è così che dormiamo ogni notte. Come tutte le coppie.» Alexis ha strabuzzato gli occhi. Simon gli ha offerto il bicchiere di Chivas Royal Salute, ventun anni di invecchiamento. Glù glù! «In teoria non è il tipo di whisky che si beve tutto d'un fiato...» Alexis ha strizzato gli occhi, ha fissato a lungo Simon e infine ha posato il bicchiere vuoto sul tavolo. «Mi scusi...» «Non deve scusarsi. Ce n'è dell'altro. La bottiglia è mezza piena. O mezza vuota. Dipende da come la
si guarda. Lei che ne pensa?» «Completamente vuota...» Simon, da grande intenditore di confessioni sul divano qual era, si è limitato ad annuire. «Mi dica, Alexis. I neri le fanno paura?» «Be', no, perché?» «Non sente di avercela con loro?» «Be', no, non direi...» «Se le dico che mi chiamo Simon Birnbaum e sono ebreo, le creo qualche problema?» «Be', no, non più:..» «E lo sa perché, non più?» «No.» «Perché lei mi ha identificato...» «Eh?» «Quel che le fa paura, Alexis, è ciò che lei non riesce a identificare: gli omosessuali, gli ebrei... Un nero si vede che è nero, perciò non le fa paura. Ora che lei ha parlato con me, ora che ha un'idea di chi sono, il fatto che io sia omosessuale, e per di più ebreo, non la disturba particolarmente... o meglio, non la disturba più. A lei servono dei marcatori di differenza per sentirsi a suo agio. Ma non è nato così, Alexis, sono sicuro che prima era diverso... Ma prima di che cosa? Me lo sa dire?» Alexis è trasalito. Il ricordo di ciò che fingeva di aver cancellato dal suo cuore per sempre è tornato a galla con forza. Quando soffriamo, anche se ciò che proviamo ci risulta difficile da spiegare, può darci conforto trovarci dinanzi qualcuno disposto ad ascoltare. Con un semplice sguardo, Alexis ha chiesto aiuto. Era cosciente di ciò che era diventato, ma non sapeva come uscirne. È crollato sulla soffice imbottitura del divano, la testa rovesciata all'indietro. Simon gli ha riempito un secondo bicchiere di Chivas Royal Salute, ventun anni di invecchiamento. «Se lo desidera, può mettere i piedi sul tavolo. È importante che stia comodo. Soltanto, faccia attenzione alla bottiglia di whisky, per cortesia...» Alexis ha steso le gambe, ubbidiente, e le ha appoggiate sul tavolino con ogni riguardo per la bottiglia. Simon ha intrecciato le mani sulle ginocchia. «Alexis, mi parli della sua infanzia...» Alexis ha bevuto un minuscolo sorso di whisky. L'ha trattenuto un po' in bocca perché le sue papille ne assaporassero tutte le sfumature e gli aromi. Poi ha appoggiato il bicchiere davanti a sé e ha preso un bel respiro per tornare indietro nel tempo, in fondo a se stesso. «Rotola!» Per la strada è echeggiata l'irrefrenabile risata di Alex. «Ma come fa?» Pipo, sollecitato dalla mano di Michel che mulinava veloce nell'aria, si è rotolato avanti e indietro sul ghiaccio. Ogni volta che il suo padrone fermava la mano, lui si accucciava e agitava la coda. «Come ha fatto a imparare?» «Non sappiamo esattamente se siamo noi ad averlo insegnato a lui o viceversa.» «Io dico che siete stati voi...» «Capita che gli animali abbiano qualcosa dentro, pronto a saltar fuori alla prima sollecitazione. Funziona così anche per gli esseri umani.» Alex ha capito perfettamente che Michel voleva trasmettergli un messaggio del tipo "il mondo è bello, basta crederci", o roba del genere, ma non aveva voglia di starlo a sentire. Gli ricordava le lezioni della maestra di lettere e filosofia. «Che cos'altro sa fare?» Michel ha schioccato le dita. Pipo si è messo a strisciare sulla pancia. «Posso provare?» «Prova, può darsi che funzioni.» Alex ha schioccato le dita. Pipo ha strisciato. «Rotola!» Pipo si è rotolato per terra al ritmo della mano di Alex. «Lo fa con tutti?»
«No!» Alex non poteva crederci. Era ben raro che lui, noto buono a nulla, fosse capace di qualcosa che altri non riuscivano a ottenere. Ma ogni vittoria ha un prezzo. «Ora bisogna gratificarlo.» «Che cosa gli dico?» «Lo accarezzi e gli dici che sei contento di lui. L'unica cosa che desidera è farti piacere...» Alex ha accarezzato Pipo, che subito si è spaparanzato ai suoi piedi, pancia all'aria. «Ecco, si sottomette. Sei diventato suo amico, si fida di te...» «Così presto?» «È il suo istinto a guidarlo...» In quel momento Alex ha pensato che il mondo, ogni tanto, può anche essere bello. Non gli sono venute in mente le lezioni di filosofia, in cui tutto è sempre e soltanto teoria. Ha sorriso a Michel perché gli aveva appena detto una cosa gentile. Poi ha continuato a coccolare Pipo. «Attenta, ho detto!» Boris Bogdanov non era mai stato in grado di gridare piano. «Non bisogna romperlo!» «Sei sempre così stressato?» Attenti a non scivolare, Boris e Julie stavano trasportando l'acquario dall'appartamento senza luce del giovane russo, al piccolo nido di lei nella palazzina dirimpetto. Boris non era riuscito a fare da solo. Voltandosi, Julie ha notato Michel, Alex e Pipo disteso sulla schiena. «Ciao, Alex. Anche il cane di Michel era scappato?» La strizzat imi d'occhi e il largo sorriso di Julie, privo della minima traccia di animosità, non hanno impedito ad Alex di diventare rosso come un gambero. «Piano ! » «Sì, sì, come dici tu, piano.» «Mia cara Julie, sembra proprio che il suo amico sia il tipo d'uomo che sa ciò che vuole!» «Non ne sono troppo sicura, Michel.» «Si metta il cuore in pace, quando il gelo se ne andrà tutto tornerà alla solita routine...» A quelle parole Julie ha perso il sorriso. Per poco non è scivolata sui tacchi alti. Lei preferiva il disordine e la novità degli ultimi giorni alla normalità, ormai lo aveva capito. Aveva forse rinunciato volontariamente e a cuor leggero alla propria normalità poco prima, quando aveva annunciato al padrone del Sex Paraìso che quella sera non si sarebbe presentata al lavoro? «Sto ospitando un russo e i suoi quattro pesci!» aveva spiegato per giustificarsi. «Eppure te l'avevo detto di stare alla larga dai mafiosi!» «Non è nella mafia, è nei nodi.» «Smettila di prendermi in giro, Julie, la mafia si occupa solo di nodi scorsoi! Non mi piace che frequenti i russi. Vuoi proprio che ti racconti quello che fanno alle ragazze?» «Non fa proprio niente alle ragazze, questo qui! Niente di niente! Preferisce trafficare coi nodi e coi pesci. Non ha più la corrente, né il riscaldamento. Non posso lasciarlo solo. E questione di un paio di giorni. Si può anche essere un po' solidali, qualche volta nella vita!» «Me ne fotto della solidarietà! Sei licenziata! Non funziona così al Sex Paraìso!» In effetti la solidarietà non era esattamente lo slogan del Sex Paraìso. Tra le ragazze, ognuna pensava per sé, e soffiarsi i clienti l'un l'altra era un fatto abituale per quella squadra di seduttrici su tacchi a spillo. Il licenziamento non aveva affatto turbato Julie. L'unica cosa che l'aveva fatta riflettere era che di solito, all'inizio di una relazione, e Dio sa che di relazioni in vita sua Julie ne aveva iniziate parecchie, lei avvertiva subito il lui in questione di non aver alcuna intenzione di rinunciare al proprio mestiere. Gli uomini sono fatti così. Ti desiderano perché sei una ballerina, ma non appena ci vai a letto non vogliono più che fai quel lavoro, per sottrarti agli sguardi degli altri. Julie non aveva una relazione con Boris, ma si era già abituata all'idea di non ballare più. Le era bastato rifletterci un istante. «Lo mettiamo sul tavolo del salotto, per via dei gatti!» «Dove vuoi, Boris. Dove vuoi tu.»
«Così staranno bene!»
Finiscila, mi stai facendo troppo male! Se non fosse stato per il gelo, Alex non si sarebbe divertito a giocare con il cane del vicino e il russo non si sarebbe trasferito dalla ragazza più bella del quartiere. Mi sono scostato dalla finestra, non c'era più niente da guardare. Perché a me non stava succedendo niente? Forse qualcosa stava succedendo da un'altra parte. Allo chalet, mio padre ha risposto al primo squillo. «C'è il riscaldamento?» «Certo.» «Allora non hai freddo?» «Ma no, ho il generatore. Non è tanto grande, ma va bene lo stesso. Voglio dire, sempre che domani riesca a trovare della benzina...» «E cosa mangi?» «Ho imparato a fare i panini al prosciutto.» A quel punto avevo esaurito le domande importanti. «E voi, come va, lì a casa?» «Tutto bene. Mamma è al computer. Sta facendo i conti.» «Sì, lo so...» «Vai a lavorare domani?» «No, le scuole sono tutte chiuse, anche quella della polizia.» «Che cosa farai?» «Cercherò di ripulire il tetto dal ghiaccio, comincia a essercene davvero tanto lassù.» «Non hai paura di scivolare?» «Starò attento, te lo prometto. E tu, domani che cosa farai?» «Non lo so.» «La usi un po', la videocamera?» «Ho paura di scivolare e romperla.» «Spero che tu faccia il bravo con mamma.» Ho capito che mia madre doveva avergli raccontato quel che le avevo detto il giorno prima. A quanto pare c'era rimasta male. Ho pensato di scusarmi, ma lui mi ha preceduto. «Sei un po' giù di corda, da quel che sento...» «È un periodo sfortunato...» «Questo maledetto ghiaccio complica le cose. Vedrai che tutto si aggiusterà.» Non ho avuto la forza di ribattere. Mi sentivo terribilmente in colpa. Mi sono salite le lacrime agli occhi. Non volevo che il ghiaccio complicasse le cose. Volevo che le sistemasse. E invece non stava succedendo niente di quello che avevo sperato. Era tutto un enorme pasticcio. Chiedere l'intervento del cielo era stato un errore. Sono entrato nell'ampio disimpegno che usiamo come studio. Mia madre stava digitando sulla tastiera del computer. Quando mi ha visto, si è bloccata e ha chiuso con un clic il documento che fino a un attimo prima era aperto a tutto schermo. Ho fatto appena in tempo a vedere che era una tabella piena di cifre. A scuola, due mesi prima, ci avevano svelato tutti i segreti di Excel. «Tutto bene, mamma?» «Sì, tesoro.» «Cosa fai?» «Dei conti, più o meno...» «Posso guardare la tv?» «Fa' quello che vuoi, tesoro, stasera puoi andare a letto più tardi, domani le scuole resteranno chiuse...» «Grazie, mammina!» L'ho abbracciata. L'ha stupita che mi stringessi a lei in quel modo. Non avevo più voglia di aiutarmi da solo. Il giorno prima ero stato sufficientemente sgradevole. A che scopo farla piangere? Io voglio bene a mamma. E poi, quando soffriamo, far del male agli altri non serve a farci sentire meglio. Quello
che desideravo era impossibile da realizzare. Un bambino non decide. Avrei dovuto capirlo subito. Non puoi farci niente se i tuoi genitori hanno stabilito di separarsi. «Tesoro mio! Ti voglio un bene immenso. Avanti, vai a guardare la tv!» Le ha fatto bene il bacio che le ho dato, mi è sembrata subito più serena. Ho deciso di gettare la spugna: separatevi, dividetemi, non ho più niente da dire. Mi sono rintanato al posto di mio padre, nella "sua" poltrona, con il "suo" telecomando. O almeno, nella poltrona e con il telecomando che un tempo erano suoi. Dovevo smettere di sperare che lui tornasse e che la vita di prima riprendesse il suo corso. Ho passato in rassegna tutti i canali. Su LCN non facevano che parlare del gelo. Quelli ci sguazzavano, nell'emergenza. Ma il problema dell'informazione a ciclo continuo è che finisce per ripetersi sempre uguale. A furia di sentire le stesse notizie, ho cominciato a fare qualche calcolo, così per ridere, o meglio per non piangere. Settecentomila famiglie senza elettricità, moltiplicato per il numero di centri d'accoglienza, più mille volontari moltiplicati per venticinque millimetri di ghiaccio. Quanto fa? «Il bilancio di questa tempesta di ghiaccio si annuncia spaventoso. Si parla già di parecchie decine di milioni di dollari di danni... Considerando che il ghiaccio non ha ancora smesso di cadere...» Mi vergognavo di ciò che avevo scatenato. Se quel disastro meteorologico fosse servito almeno a risolvere il mio problema non me ne sarebbe importato granché. Invece era stato tutto per nulla. Ero infuriato con me stesso e con il mondo. Correndo in camera mia, ho infilato la testa in studio. «Buonanotte, mamma!» La sedia era vuota. Il mio sguardo è caduto sul vassoio della stampante. Sul foglio dei conti erano tracciate due colonne, "tu" e "io", e sotto una valanga di cifre. Ho letto "videocamera: mille dollari". Nella colonna "tu" c'era scritto "cinquecento dollari". Idem nella colonna "io". Un appunto precisava: "Eravamo ancora insieme...". Non è il regalo che conta, è il pensiero... Semplice a dirsi. Nella tabella era elencato tutto ciò che la casa conteneva. Ho capito che mio padre avrebbe conservato gli elettrodomestici, ma che avrebbe dovuto rinunciare al divano e alla sua poltrona di cuoio. Che cosa? Poteva davvero valere tremila dollari? Mio padre si sarebbe tenuto il televisore da seicento dollari, ma avrebbe detto addio al computer da ottocento. Una riga diceva: "Alimenti: cinquecento dollari". Ho capito che mio padre non avrebbe pagato nulla fino ad aprile perché mamma voleva tenersi il letto matrimoniale e il grosso mobile del salotto, il cui valore cumulativo aveva stimato in duemila dollari. In mezzo a quei conti, come un qualsiasi pezzo di arredamento, c'ero anch'io. E valevo poco più del divano. Ho sentito lo sciacquone del bagno. Mia madre non ha fatto in tempo a uscire che io ero già in camera mia. Clac! Il cielo non aveva fatto niente per me, anzi. La mia situazione peggiorava di giorno in giorno, di ora in ora. Mi sono avvicinato alla finestra. Ho fissato il cielo e ho gridato. «Finiscila, mi stai facendo troppo male!» Mercoledì 7 gennaio 1998 «Contro ogni previsione, la tempesta di ghiaccio che infuria da due giorni sta finalmente scemando. Centinaia di squadre della Hydro-Québec lavorano alla sostituzione di pali, fili elettrici e tralicci danneggiati. La corrente elettrica è già stata ripristinata nelle case di oltre trecentomila abbonati. Tutto lascia sperare che l'emergenza rientrerà presto...»
Business is business Appena alzata, Julie ha guardato fuori dalla finestra e ha visto i camion della Hydro-Québec. Erano le nove del mattino. Da secoli non si alzava così presto. E andata in salotto. Quel Boris era proprio straordinario. Ogni mattina le offriva uno spettacolo diverso. In quel momento, a pancia in giù sul divano, teneva un braccio allungato sul pezzo di cartone che copriva l'acquario posato sul tavolino, che il russo aveva opportunamente avvicinato a sé. I due gatti, costretti a cedere quello che consideravano il loro posto, erano seduti sul tavolino e sfioravano il vetro con il muso. Con la coda ondeggiante d'eccitazione facevano la posta ai quattro pesci, seguendone le
circonvoluzioni con occhi sgranati. Non c'era dubbio: stavano aspettando che il nuovo inquilino abbassasse la guardia per modificare drasticamente la sua teoria matematica sottraendo due unità ai suoi complicati calcoli. Brutus invece, fedele alla linea, faceva le fusa sulla schiena di Boris. Julie ha raggiunto la cucina in punta di piedi e ha acceso la radiolina. A basso volume, per l'impazienza di sapere se il momento di grazia che stava vivendo era destinato a continuare. «Contro ogni previsione, la tempesta di ghiaccio che infuria da due giorni sta finalmente scemando. Centinaia di squadre della Hydro-Québec lavorano alla sostituzione di pali, fili elettrici e tralicci danneggiati. La corrente elettrica è già stata ripristinata nelle case di oltre trecentomila abbonati.» Julie ha mugugnato a denti stretti: «Tipico della Hydro-Québec! Quando ti servono si fanno aspettare, e quando non li vuoi arrivano al volo». Julie, occorre specificare, non era egoista né insensibile: si augurava di cuore che tutti gli appartamenti del Québec ritrovassero la corrente elettrica e le loro comodità... Tutti, tranne uno. Non si lascia un impiego da cinquecento dollari a serata per svegliarsi al mattino con la paura che lui se ne vada. In quel momento Boris è entrato in cucina. «Buongiorno!» «Buongiorno...» «C'è qualcosa che non va, Boris?» «No, no, tutto bene...» «Non va tutto bene, ce l'hai scritto in faccia!» Quando i suoi pesci stavano bene, anche Boris stava bene. Nell'angoscia e nella paura delle prime ore che avevano trascorso insieme, Julie l'aveva trovato bello. Nella gioia che era seguita, le era parso ancora più bello. Il giorno prima lui le aveva raccontato del suo arrivo in Québec e della breve carriera in una squadra di hockey locale. Lei si era inalberata nell'udire che alla prima partita, dopo che aveva segnato quattro reti di cui tre in svantaggio numerico, Boris era stato sostituito. Intendiamoci, Julie sapeva che Boris mentiva. Di giocatori di hockey, al Sex Pairaìso, ne aveva visti a decine. Pare che sia rilassante, dopo un incontro, andare in giro per night, soprattutto se giochi in serie A. Ma Boris non aveva né il fisico né lo sguardo predatore dei grandi campioni. «Mi è venuta in mente una cosa, poco fa...» «Sì, Boris...» «Qui abbiamo la corrente, e va bene. Ma potrebbe mancare in qualsiasi momento...» «Tutto potrebbe venire a mancare in qualsiasi momento. Mio caro Boris...» «La prego, si regga al mio braccio.» Per un certo tipo di donna, la galanteria maschile non è altro che una forma di condiscendenza verso il genere femminile. A Julie la galanteria piaceva perché ne aveva fin sopra i capelli di pacche sul sedere. E le piaceva ancora di più in quel momento perché c'era molto ghiaccio per terra e il marciapiede era terribilmente scivoloso. Così non ha esitato neppure un istante ad aggrapparsi al braccio del suo cavaliere. Quel che l'ha stupita è stato lo sguardo degli uomini. Nei loro occhi, non leggeva il solito «Quanto me la farei, questa qui!», ma piuttosto «Che fortuna, quello lì!». Mentre camminava al fianco di Boris, ha ripensato per l'ennesima volta alla sera prima: una cenetta ordinaria, da coppia normale. Lei aveva cucinato, lui aveva lavato i piatti e non aveva parlato solo di hockey. «Ho lasciato la Russia perché là non avevo avvenire. Al tempo del comunismo, i ricercatori facevano parte dell'élite. Avevano diritto a begli alloggi, buoni stipendi, condizioni di lavoro soddisfacenti. Con il crollo dell'URSS, tutti quei privilegi sono svaniti. Non dovrei dirlo, e lei se lo tenga per sé, ma il comunismo non era tutto da buttare...» Julie aveva promesso di non rivelarlo a nessuno. A stento si era trattenuta dal rilevare che la caduta del Muro e la disgregazione dell'impero sovietico sembravano averle fatto un enorme favore. Era contenta, ovviamente, che milioni di persone avessero potuto conoscere la democrazia, ma ai suoi occhi l'elemento più rilevante era che Gorbacév, con la perestrojka, aveva consentito a Boris di lasciare il Paese e trasferirsi in Canada, e precisamente nella palazzina di fronte alla sua. Poi Boris aveva evocato il razionamento, e il sistema delle tessere alimentari. Prima del 1990 i cittadini russi potevano rifornirsi soltanto nei negozi di Stato, dove la penuria era la regola.
«Era terribile, inumano... Quasi come da Canada Dépót!» Vedere Boris così triste nel ricordare gli aspetti peggiori della vita quotidiana sotto il comunismo aveva spinto Julie a proporgli di accompagnarlo, il giorno seguente, proprio nel supermercato dal quale era dovuto fuggire per evitare il linciaggio. Aggrappata al braccio di Boris come una cozza allo scoglio, Julie pensava a quello che avrebbe detto al personale di Canada Dépòt. Si sentiva in grado di discutere dei diritti degli individui meglio di chiunque altro, poiché nella vita aveva avuto modo di sperimentare a fondo i loro difetti. «Mi farebbe gentilmente vedere dove c'è scritto che si possono prendere solo due bombolette di gas a testa?» «Non c'è scritto da nessuna parte, signorina! È un ordine del direttore.» «Voglio parlare con il direttore!» «È inutile, le dirà la stessa cosa!» «Insisto, voglio parlare con il direttore!» «Bisogna pensare anche agli altri...» «Va bene, se la mette così...» Sotto gli occhi esterrefatti di Boris, Julie ha cominciato a svuotare lo scaffale delle bombolette di gas. Il capo reparto non ha potuto impedirglielo. Ha afferrato il walkie-talkie e la notizia si è presto diffusa in tutto il negozio. «Attenzione! Il direttore è pregato di recarsi al reparto articoli da campeggio!» Boris, preoccupato, si è strofinato la nuca e si è voltato verso Julie, che continuava imperterrita a riempire il carrello. «Julie, dieci bombolette dovrebbero bastare per stanotte...» «Non ti ci mettere anche tu, Boris, guarda che questa non è la Russia Sovietica!» «Signorina, che sta facendo?» Quando Boris si è voltato, si è ritrovato faccia a faccia con il direttore, che nel riconoscerlo subito si è guardato intorno, deluso dalla scarsa presenza di pubblico. Per la verità, di pubblico non ce n'era affatto. «Ancora lei! Credevo di averle spiegato come funzionano le cose qui da noi... Allora, prenda le sue due bombolette di gas, vada alla cassa, non dimentichi i buoni Canada Dépòt e non torni prima di domani!» Julie ha scelto quel momento per voltarsi. «Freddy?! Sei tu il direttore del negozio?» «Bambi, che ci fai qui?» A quel punto il direttore si è di nuovo guardato intorno, questa volta sollevato dalla scarsa presenza di pubblico. Julie ha fissato per un istante le bombolette, ne ha afferrata una e ha cominciato a passarla da una mano all'altra. «Dimmi un po', mio caro Freddy, tua moglie lavora con te?» Freddy non ha avuto bisogno di sentire altro per affrettarsi ad abbassare la cresta. Si può essere direttori di un punto vendita Canada Dépòt e apprezzare la compagnia delle belle ragazze. Non è un crimine; al massimo può essere definita una debolezza. Ma se la tua legittima consorte viene a saperlo, allora non è un crimine, bensì qualcosa di molto più grave. «Mi dica, come stanno i suoi pesci?» La cassiera ha riconosciuto Boris e lo ha accolto con un gran sorriso e una strizzatala d'occhio. Julie ha trovato veramente irritante quella esibizione di familiarità acquariofila. Il direttore non la smetteva di guardarsi attorno ansiosamente. Temeva forse che di punto in bianco comparisse sua moglie, o che un cliente si accorgesse di quella vendita all'ingrosso del tutto in contrasto con il suo bel discorso sulla solidarietà quebecchese. Boris contemplava le bombolette che si ammucchiavano nei suoi sacchetti, felice come un bambino. La cassiera esultava. «Due più due, più due, più due, più due, più due...» «Sì, va bene, abbiamo capito!» Nel momento della sconfitta un direttore fatica a conservare la dignità e spesso reagisce prendendosela con i più deboli. «Le consiglio di sbrigarsi, di posti di lavoro decenti non se ne trovano a bizzeffe, in questo
momento...» La cassiera è ammutolita, ha chinato la testa e ha finito il conto in silenzio. Ma alla fine ha esclamato con voce squillante: «Sono ventotto bombolette a uno e novantanove ciascuna. Cinquantacinque dollari e settantadue centesimi in totale. Come desidera pagare?». «Con tutto quello che stiamo comprando, non ci fa nemmeno uno sconto?» «Ora sta esagerando, mio caro signore!» «Freddy! Il signore si chiama Boris e ci terrei tanto che tu gli facessi un bello sconto...» Il direttore le si è avvicinato. Ha fatto in modo che nessun altro potesse sentirlo. «Bambi, datti una calmata!» «A proposito, non mi hai più detto se tua moglie lavora qui.» «Non ti avrei mai creduta capace di fare una cosa del genere.» «Freddy, te lo confesso: nemmeno io!» Il direttore è indietreggiato di qualche passo e si è rivolto alla cassiera. «Dieci per cento!» «E questo me lo chiami sconto?» «Venti per cento!» Mentre batteva sui tasti della cassa, la commessa si è messa a fischiettare, come se fosse tutto normale. «Quarantaquattro dollari e cinquantasette!» Boris, raggiante, ha pagato. Alla vista delle banconote, il direttore si è avvicinato a Julie con una smorfia golosa. «Spero anch'io di ottenere un piccolo sconto, questa sera...» «Troppo tardi, con la danza ho chiuso per sempre!» «Eh?» Fino a quel momento il gelo era stato provvidenziale per il direttore. Negli ultimi due giorni il suo supermercato aveva registrato gli incassi più alti dell'anno, perfino meglio di Santo Stefano. Ciliegina sulla torta, il direttore aveva potuto mentire impunemente a sua moglie, accampando la scusa di notti intere trascorse a riempire scaffali, quando invece le aveva passate in totale relax al Sex Paraìso. Mentre si sforzava di incassare con nonchalance la ferale notizia che Bambi gli aveva dato, Freddy ha visto una cassiera sussurrare a una seconda cassiera, che a sua volta ha sussurrato all'orecchio della successiva. Una dopo l'altra, si sono voltate tutte verso di lui. Freddy ha fatto ricorso alla sua voce stentorea da direttore. «Pensate di continuare a guardarmi così fino ai saldi di primavera? Ci sono clienti da servire, qui!» Il piglio da direttore finisce sempre per riprendere il sopravvento. Dopo aver sfidato con lo sguardo il gruppetto delle cassiere, alcune delle quali non riuscivano a smettere di ridere, Freddy si è piazzato davanti allo scaffale vuoto delle bombolette di gas. Si è fregato le mani, soddisfatto. Quel giorno il ghiaccio aveva cessato di cadere e, se non fosse stato per Bambi e per il suo amico russo, lui si sarebbe trovato con poco meno di trenta bombolette sul groppone. E quella sera, al Sex Paraìso, avrebbe di certo saputo trovare una ragazza capace di sostituire Bambi. A ben vedere, anche Cassandra aveva due tette niente male. Business is business.
Non ero più niente «Dev'essere un divano della madonna!» Non avrei mai dovuto parlare ad Alex del foglio con i conti di mia madre. Di solito non commenta la vita privata degli altri, è una delle cose che apprezzo di lui. Proprio per questo glielo avevo raccontato. «Che cosa ti aspettavi?» È stata la nota di pietà nella sua voce a farmi male. «Quando ci si separa, si deve pur dividere quello che si ha.» Forse non gli avevo chiarito fino in fondo l'effetto che mi aveva fatto essere equiparato a un divano. Ho provato l'impulso di vendicarmi: "Tua madre se n'è andata a mani vuote e tuo padre è rimasto con poco più di niente. E quel poco più di niente sei tu". Ma mi sono limitato a pensarlo, non ho avuto il
coraggio di pronunciare una frase tanto cattiva. Alex ha visto che lo fissavo con sguardo ostile, ma ha sorriso come se riuscisse a capire la mia rabbia. Ho guardato la strada. Ormai l'alberello davanti a casa era piegato in due sotto il peso del ghiaccio. La cima toccava per terra. Il poverino non aveva potuto far niente per difendersi, proprio come me. In fin dei conti avevo fatto bene a chiedere al cielo di smetterla. Povero alberello... Si sarebbe risollevato o sarebbe rimasto piegato in due per tutta la vita? Era un'ipotesi troppo triste da considerare, meglio cercare di distrarsi. «Come va dai fratelli?» «Su di loro, tuo padre si è sbagliato in pieno...» «Ah sì?» «Sono una coppia di omosessuali...» «Due finocchi?» Mi ha guardato come soltanto i professori di filosofia sanno fare. «Una coppia di omosessuali, ho detto!» «È lo stesso...» «No che non è lo stesso...» «E da quando?» «Da quando me l'ha detto mio padre...» Ha sorriso, felice. Era fiero di potere finalmente dire che suo padre gli aveva insegnato qualcosa. «Gli piace molto Simon... Credo che gli mancasse un amico... Uno a cui raccontare tutto...» Mi ha guardato, come per scusarsi prima di proseguire. «E che a sua volta può dirti tutto...» Ho capito che si riferiva alla faccenda del divano, e non ho fatto commenti. «Questa mattina mio padre era un'altra persona. Si è addirittura alzato di buon umore.» Anche Alex sembrava insolitamente tranquillo e sereno. «Il suo buon umore mi ha contagiato...» Mi ha guardato con una dolcezza di cui non lo credevo capace. Ha alzato gli occhi al cielo come per ringraziarlo. Poi, di colpo, li ha abbassati sul sottoscritto. «Perché la pioggia ghiacciata non cade più?» «Non lo so...» Alex sapeva che mentivo. Mi aveva visto all'opera con la direttrice. «Hai perso i tuoi poteri magici?» «Mica sono magici...» «Allora perché la pioggia ghiacciata non cade più?» Dal vicolo è uscito un camion della Hydro-Québec. I tre uomini all'interno parevano soddisfatti del lavoro compiuto. Troppo soddisfatti per Alex... «Ma che cosa hai combinato?» Si è voltato di scatto. La luce nell'ingresso della sua palazzina era accesa. La corrente elettrica era tornata! «Perché l'hai fatto?» «Mica sono stato io...» «Sì, invece! Lo so che sei stato tu!» In pochi secondi era tornato l'Alex di sempre. Aveva il solito tono, quello che usa prima di colpire. Allora ho abbassato lo sguardo, sconfitto. «Ho chiesto al cielo di smetterla...» «Ma perché?» «Non ha fatto niente per me...» «E non ti sei chiesto se per caso non avesse fatto qualcosa per gli altri?» Avrei potuto parlargli di tutta la gente rimasta senza corrente, ma la verità era che avevo provocato quella tempesta di ghiaccio unicamente per il mio tornaconto. Nell'afferrarmi il colletto con la mano possente, Alex stava facendo lo stesso, stava pensando soltanto a sé. «Ora vedi di far tornare questo benedetto ghiaccio! Hai capito, nano?» Mi ha spinto all'indietro. Poi è entrato nella palazzina e ha spento la luce dell'ingresso. Mi ha
guardato per accertarsi che avessi capito il messaggio. Potevo leggergli nello sguardo l'elenco dei rischi che stavo correndo. Ha attraversato la strada e ha bussato alla porta della coppia di omosessuali. «Entra, carissimo Alex. Già finito il giretto?» «Sì!» «Guarda Pipo com'è contento di vederti!» Alex è entrato. La porta si è richiusa alle sue spalle. Perché il ghiaccio aveva cambiato in meglio la vita di tutti, tranne la mia? Non ho fatto in tempo a compatirmi a lungo perché la porta si è aperta di nuovo. Ho sperato che Alex tornasse a chiedermi scusa, ma è balzato fuori Pipo. Alex lo seguiva con il guinzaglio in mano. Mi ha lanciato un'altra occhiata minacciosa, poi si è voltato verso il cane, che iniziava una lunga pipì. «Seduto!» Il cane, finita la pipì, ha obbedito. Alex ha fatto roteare la mano nell'aria. «Rotola!» Pipo si è messo a rotolare sul ghiaccio. Alex ha schioccato le dita e mi ha guardato con quel suo sorrisetto crudele. «Striscia!» Pipo ha pensato che l'ordine fosse per lui, ma ho capito benissimo che Alex si stava rivolgendo a me. Avevo un solo vero amico nella vita, e non volevo perderlo. L'ho fissato e ho alzato gli occhi al cielo. L'ho guardato a lungo. Ho gridato perché mi sentisse bene. «Abracadabra! Apriti cielo!» Mi è venuto così. Volevo che Alex sapesse che avevo fatto le cose per bene. Ha abbozzato un sorriso soddisfatto, poi si è chinato su Pipo che non la finiva più di strisciare. «Bravo cagnetto, bravo...» Io l'ho guardato, in attesa della mia ricompensa. Lui si è limitato a chinare la testa. Evidentemente non si sentiva troppo fiero di sé. Nessuno era fiero di farmi soffrire, eppure non riuscivano a smettere. Il cielo poteva comportarsi come meglio credeva, adesso. Non aveva mai fatto niente per me. Anzi, mi aveva distrutto. Valevo poco più di un divano e il mio unico amico mi trattava peggio di un cane. Non ero più niente.
Non tutti capiscono tutto Dopo aver depredato Canada Dépòt, Boris ha insistito per invitare Julie a pranzo in un ristorantino russo di sua conoscenza, per ringraziarla dell'aiuto. «Non ho idea di cosa lei abbia detto al direttore, ma è evidente che quando vuole sa essere molto convincente con gli uomini!» «Non con tutti, evidentemente...» Poiché si trovavano a Montreal, quel ristorante era un autentico pezzetto di Russia a migliaia di chilometri dal Volga. Lì gli espatriati russi potevano bere la vodka come a casa. E, esattamente come in Russia, era possibile fare acquisti al mercato nero. Come si dice: i russi possono abbandonare la Russia, ma la Russia non abbandonerà mai i russi. E ogni russo che si rispetti sa che qualsiasi merce acquistata al mercato nero deve per forza essere migliore di quella che si può trovare in un banale negozio. Sulla base di questa convinzione, e in omaggio alle usanze del proprio Paese di origine, gli emigranti russi di Montreal non si sognavano neppure di mettere piede da Canada Dépòt. E perciò in quel piccolo ristorante si potevano acquistare candele, pile, generatori, ma, ahimé, non le bombolette di gas... Se Boris avesse potuto prevedere quest'ultimo particolare, di certo avrebbe portato Julie a pranzo da qualche altra parte. Igor, il padrone del ristorante, ha osservato con sguardo da intenditore la coppia che entrava carica di sacchetti gonfi di bombolette. Li ha trascinati in cucina in tutta fretta. Ai fornelli, capelli biondo canarino e radici nero carbone, la cuoca ha alzato appena la testa ed è tornata ad affettare una bella carpa con il suo coltellaccio. Julie ha fiutato le cipolle alla paprika che imbiondivano in un'enorme pignatta. «Che cosa sta preparando di buono?»
«Carpa impanata con cipolle!» «Le cipolle non mi fanno impazzire, che cos'altro c'è?» «Carpa impanata con cipolle!» Non si discute con una cuoca russa, soprattutto quando ti scocca un'occhiataccia truce. Julie ha distolto lo sguardo e si è concentrata sulla discussione in corso fra Igor e Boris. Pur senza conoscere la lingua, ha intuito che lo spirito di fratellanza russa era appena stato immolato sull'altare dell'avidità. Dai gesti e dal tono, Julie ha capito tutto: Igor voleva comprare le bombolette. Aveva in mano due banconote da venti dollari e insisteva nel porgerle a Boris. «Daj!» «Niet!» «Niet???» Con un sorriso a denti stretti, Igor ha sfoderato un biglietto da dieci che ha aggiunto ai due da venti. Dai gesti concitati di Boris e dalla passione che gli si leggeva nello sguardo, Julie ha desunto che stava riassumendo la sua teoria topologica. A un tratto il ristoratore, stufo di quelle chiacchiere, ha afferrato Boris per il collo. «Vuoi che i tuoi quattro pesci finiscano in pentola a far compagnia alla carpa di Olga?» Olga ha stretto più forte il manico del coltello e ha fissato Julie impassibile. Chiaramente si preparava a passare dalle minacce ai fatti. Messo alle strette, Boris non ha potuto far altro che capitolare. Ma quando Igor si è impadronito senza tanti complimenti dei sacchetti, lasciandogli due sole bombolette, le stesse che avrebbe potuto acquistare da Canada Dépòt, a sorpresa Olga si è ricordata di avere un cuore. «Non vorrai mica lasciar morire i suoi pesci?» Igor, a testa bassa, ha restituito un sacchetto con dentro otto bombolette; al che Boris si è affrettato a ridargli il biglietto da dieci. A quanto pareva, la teoria matematica di Boris esercitava un certo fascino sulle donne. Olga ha preso due piatti e li ha generosamente riempiti. Seduti a un tavolo tranquillo, in disparte, Boris e Julie hanno assaporato la carpa di Olga, offerta dalla casa. Cucinate da quella cuoca che veniva dal freddo, le cipolle non avevano il sapore forte che Julie aveva temuto. In compagnia di Boris tutto era buono e non ci si annoiava mai. Tra una lisca e l'altra, Julie ha deciso di osare. «Hai una fidanzata?» «Non che io sappia...» Julie avrebbe voluto strillare: «Apri gli occhi, Boris, la risposta è sì, ce l'hai di fronte!». Ma, con la bocca piena di pesce, era un'impresa rischiosa. E poi non aveva voglia di gridare con l'alito che puzzava di cipolla. Perciò si è gustata la carpa e ha lasciato passare qualche minuto. L'amore è come un taxi: se tu lo rincorri e non si ferma, significa che è già occupato. Per farlo tuo, occorre saperlo aspettare al posto giusto. «Guarda, a casa tua è tornata la corrente...» «Si vede che la luce era accesa quando è cominciato il blackout...» Boris ha fissato la finestra illuminata, ha increspato leggermente le labbra e si è voltato verso Julie. «Non la disturberò oltre.» «Non mi disturbi affatto.» «Lo so.» Boris Bogdanov non era un macho, era semplicemente un tipo pragmatico. Julie lo aveva capito, perciò quella risposta non l'ha sorpresa più di tanto. Se vuoi amare qualcuno, prima devi conoscerlo, e per conoscerlo non devi aver paura di chiedere. Per questo Julie si è affrettata a esporre la questione con chiarezza estrema, puntando dritta al cuore di quell'uomo così impenetrabile da sembrare di marmo. «A differenza della tua, la rete elettrica del mio appartamento è collegata a quella della casa di riposo. La corrente a casa tua è tornata, ma niente ci dice che non salterà di nuovo. Forse potremmo aspettare ancora un poco, prima di traslocare di nuovo i tuoi pesci...» Boris non era certo di aver capito bene. L'equazione conteneva ancora troppe incognite. Julie si è giocata l'ultima carta: «La fortuna... ehm... diciamo la probabilità che la corrente salti è molto più alta a casa tua che a casa mia!».
Boris si è sfregato la fronte e si è messo a camminare nervosamente. Ha fatto alcuni calcoli complicati, borbottando in russo di quozienti e radici quadrate. Poi è calato un silenzio che però non è durato a lungo. «Da... Da... Da...» «Chiederemo a Michel, il mio vicino che lavora a Météo Canada, le previsioni per...» «Ha per caso qualcosa da bere per scaldarsi un po'?» «Ho tutto quello serve per scaldarti...» Boris Bogdanov non ha colto il sottinteso. «Davaj!» Non tutti capiscono tutto.
Ho deciso di non aspettare «Le previsioni per questa notte sono tutt'altro che incoraggianti, pare proprio che il ghiaccio sia intenzionato a tornare...» Il cielo mi aveva ascoltato. Ero stato io, ero stato davvero io! Ormai non poteva esserci più alcun dubbio. «Una nuova ondata di maltempo sta per abbattersi su Montréal e su tutta la regione.» Cosa diavolo stava combinando, il cielo? Gli avevo soltanto chiesto di dare una mano ad Alex, non era il caso di paralizzare l'intero Québec! Un po' di ghiaccio sul palazzo di fronte sarebbe stato più che sufficiente. «Nei centri di accoglienza ci si prepara all'arrivo di migliaia di persone, questa notte. Ecco il nostro servizio...» Vedere la gente sistemata sulle brande, in coda per le docce, stanca, mi ha scioccato. Quelle immagini non sembravano riguardare il Québec. Di solito le emergenze e le calamità capitavano in paesi lontani. Poi hanno mostrato un bimbo che piangeva perché, nel centro di accoglienza, aveva smarrito i genitori. E io ho pianto con lui. Quando hanno annunciato che il bambino aveva ritrovato papà e mamma, le mie lacrime non si sono fermate. Il male che avevo causato agli altri non faceva che acuire il mio male. Ho rimpianto di non aver trovato il coraggio di dire no ad Alex. Ho pianto fin quasi a soffocare. All'improvviso ho sentito un braccio che mi stringeva. Ho aperto gli occhi. Attraverso il velo di lacrime, ho riconosciuto mia madre. Era spaventata, sconvolta dal fatto che piangessi. Pare che quando un figlio soffre, la madre avverta un dolore della stessa intensità. «Che cosa c'è, tesoro?» «È colpa mia!» «Ma no, ti dico che non hai colpa di niente!» «È a causa mia che sta accadendo tutto questo ! » «Ma no, ti dico che non c'entri!» «Sì, invece. Lo so...» «Non colpevolizzarti, tesoro...» «Tu non puoi capire, mamma, il...» Mia madre mi ha posato le mani sulle guance e ha premuto forte. Non ho potuto terminare la frase. Nei suoi occhi c'erano lacrime che non avrebbero tardato a scendere. «Tesoro, te lo ripeto, non farti carico di questa situazione, tu non sei responsabile di niente!» «Non me lo perdonerò mai...» Mi sono asciugato le lacrime e ho tirato un gran sospiro. Dovevo scaricarmi la coscienza. «Mamma, sono io che...» «Smetti di dire così, mi farai piangere!» Troppo tardi, aveva già cominciato. Era la prima volta che la vedevo in quello stato. In effetti un adulto piange proprio come un bambino. Mi dispiaceva di essere io la causa delle sue lacrime. «Mamma, scusa...» Tra i singhiozzi, stentava a parlare. «Non hai fatto niente di male, davvero! Mi devi credere!»
Con le mani sulle mie spalle, mi ha scrollato dolcemente. Voleva a tutti i costi che mi convincessi. «È la verità! Non sei responsabile di niente...» Mi sono liberato da quelle mani e mi sono girato di nuovo verso il televisore. «I reparti di pronto soccorso della regione sono stati presi d'assalto dalle vittime del gelo. Contusioni, fratture, trauma cranici, l'elenco degli incidenti è impressionante. Un uomo è stato ricoverato in gravi condizioni all'ospedale Sacré-Coeur in seguito a una caduta dal tetto del suo chalet nelle Laurentides...» Non c'è stato bisogno di guardarci, per sapere che mia madre e io pensavamo la stessa cosa. «Gli hai parlato oggi?» «No, non ha chiamato...» Improvvisamente ho avuto tanta paura. C'è qualcosa di peggio di due genitori che si separano: non avere più genitori. Mia madre ha chiuso gli occhi. Sono certo che ha pregato. Non credo in Dio, ma ho pregato anch'io. Toc! Toc! Toc! Ci siamo voltati verso la porta. Abbiamo sentito distintamente: «Polizia! Aprite!». Mia madre è balzata in piedi e mi ha guardato. Mio padre ne aveva parlato spesso. Per le ferite, anche gravi, la polizia telefona. Quando bussa alla porta, è per annunciare il peggio. «Rimani qui, tesoro...» È corsa alla porta e ha preso fiato per cercare un po' di coraggio. Ha aperto e ha fatto un balzo all'indietro, poi ha gridato forte. «Oh, no!» Il mondo mi è crollato addosso. La scena che è seguita l'ho vista al rallentatore. È entrato papà, come un reduce di guerra, entrambe le mani ingessate. «Ti rendi conto dello spavento che ci hai fatto prendere?» «Volevo essere sicuro che aprissi!» L'umorismo dei poliziotti è un affare da maschi. Mia madre non l'ha trovato affatto divertente. «Non siamo in cattivi rapporti fino a questo punto!» Mio padre era malconcio, ma io ero felice. Era tornato. I miei genitori si sono fissati negli occhi a lungo. Nemmeno loro avevano previsto questa situazione. Finalmente papà si è girato verso di me. «Stai aspettando che mi tolgano i gessi per darmi un bacio?» Ho deciso di non aspettare.
Avrebbe saputo «Ehi! Ehi! Sono qui!» «Alexis, mi lasci almeno il tempo di togliermi il cappotto, il berretto e i guanti!» Simon ha sorriso, a quanto pareva il suo nuovo paziente aveva bisogno di parlare ancora. In cucina ha trovato Michel e gli si è avvicinato per dargli un pizzicotto sul sedere. «Che cosa ci prepari di buono?» «Tournedos alla Rossini col vino bianco.» «Il meglio che c'è in città!» «No! Il meglio è...» Michel si è voltato verso Simon, che gli ha offerto teneramente le labbra. «Il bacio della sera!» Mentre Michel rigirava il filetto, Simon gli ha posato una mano sulla spalla e sono rimasti un istante incollati, felici, rinfrancati. Il giorno prima, quando aveva raggiunto Michel a letto, Simon gli aveva svelato il contenuto della sua ultima chiacchierata con Alexis. In linea di principio uno psicanalista dovrebbe astenersi dal farlo, ma siccome il suo paziente ignorava di essere tale, Simon si sentiva libero dal vincolo della riservatezza. «Gli hai detto che siamo una coppia?» «Tanto se ne sarebbe accorto da solo.» «Ma così lo saprà tutto il quartiere!» «E allora?» «E se lo venissero a sapere quelli dell'Ordine?»
«E sia, l'Ordine lo verrà a sapere! Cogliamo l'occasione di questa ondata di gelo per smettere di nasconderci.» Michel non aveva potuto trattenere una lacrima. Dei due, era sempre stato il più sensibile. Non riusciva a capacitarsi che fosse giunto il momento così a lungo atteso. E sacrosanto desiderare che gli altri ci accettino, ma prima è necessario riuscire ad accettarci da soli. «È per questo che gli hai proposto di ospitarli?» «Ma no, ma no, è stato prima di tutto per aiutarli...» Michel conosceva Simon con il cuore, in profondità. Sapeva che era di gran lunga troppo intelligente per non aver previsto tutto, nel momento stesso in cui aveva offerto una stanza ai vicini. La presenza di Alexis e Alex nella loro casa segnava il loro coming out nel quartiere. Ciò che forse Simon non aveva previsto erano le sedute di psicanalisi improvvisate da cui Alexis sembrava già del tutto dipendente. «Ehi! Ehi! La bottiglia ci aspetta!» «Arrivo, Alexis, arrivo!» Attraversando lo studio per andare in salotto, Simon ha incrociato Alex che giocava con Pipo. «Michel ha detto che stanotte saremo sommersi da tonnellate di ghiaccio!» «Tonnellate?» «Da noi è tornata la corrente, ma mio padre dice che tra poco salta di nuovo.» «Se lo dice tuo padre...» «Per Michel possiamo rimanere. Insomma, lavora a Météo Canada. Sa di cosa parla.» «Hai ragione. Per un meteorologo, la prudenza è d'obbligo.» Anche uno psicanalista può arrivare al punto di far mostra di stare aiutando qualcuno, quando in realtà sta aiutando soprattutto se stesso. Senza rimorsi, si limita a tenere per sé le sue vere motivazioni. «Credo che Pipo cadrebbe in depressione se tu ci lasciassi.» Entrando in salotto, Simon si è avvicinato allo stereo. Dopo aver passato in rassegna l'intera collezione di trentatré giri, ha tirato fuori la Carmen. Possedeva dodici diverse versioni dell'opera di Bizet, e ha optato per un vinile di Maria Callas risalente al 1964. Un'opera che la diva non aveva mai cantato dal vivo. Un'incisione storica, una voce commovente. Un attimo dopo, però, ha cambiato idea: forse con un paziente tanto sensibile non era il caso di ascoltare un disco così lacrimevole. «Simon? Lo sa che in passato ho inciso un disco?» «No, non lo sapevo!» «Non lo sa nessuno...» «Me ne parli, Alexis...» Alexis è sprofondato ulteriormente nel divano e ha steso le gambe. «Posso?» «Sì, sì...» Alexis ha appoggiato lentamente i piedi sul tavolino, attento a non spostare niente, e ha chiuso gli occhi per rituffarsi con più agio nei suoi anni verdi. Drin! Drin! «Cristo!» «Alexis, niente di grave, ci penserà Michel ad aprire. Si rilassi...» Alexis, irritato, non ha potuto impedirsi di picchiettare nervosamente con le dita sul bracciolo. Simon ha estratto dal suo scrigno la preziosa bottiglia di Chivas Royal Salute, ventun anni di invecchiamento, e con una smorfia ha riempito il bicchiere di Alexis. Dopo qualche minuto Michel si è affacciato in salotto. «Era la vicina che mi chiedeva le previsioni per la notte.» «Scommetto che le ha parlato di tonnellate di ghiaccio...» «Sbagliato! Mi sono limitato ai chili. Ma ho avuto l'impressione che le facesse molto piacere scoprire che potrà tenersi il suo inquilino russo ancora per un po'...» «Speriamo che non abbia avuto il tempo di passare alla bottiglieria, altrimenti rischiamo di non chiudere occhio neanche stanotte.» «A proposito di bottiglie...»
Simon ha consegnato a Michel la bottiglia di Chivas vuota. Alexis ha scelto quel momento per appoggiare il bicchiere vuotato d'un sorso. Considerato che costava cento-cinquantanove dollari, Michel ha fatto una smorfia. Ma un coming out, anche se solo per il quartiere, non ha prezzo. «A cosa serve il whisky, se non a berlo!» Simon ha aspettato che Michel tornasse ai suoi tournedos alla Rossini e si è rivolto al paziente sul divano. «E così, lei ha inciso un disco.» Alexis ha scelto di rispondere con una canzone. «Il disent qu'on était jeunes et qu'on ne savait pas... Ne nous découvrons pas jusqu'à ce qu'on grandisse...» L'esibizione è stata momentaneamente interrotta dai singhiozzi dell'interprete. Simon si è affrettato ad applaudire. «È davvero molto bella!» «Non è finita! C'è il ritornello.» «Ah...» «Bébé... Je t'ai, bébé... Je t'ai, bébé...» Nello studio, Alex ha sussultato. Quella era la sua canzone. Parlava di lui e di sua madre! «Je t'ai, toi, pour me prendre la main... Je t'ai, toi, pour comprendre... Je t'ai, toi, pour marcher avec moi... Je t'ai, toi, pour me serrer fort...» Questa volta il ritornello è stato un disastro, perché i singhiozzi di Alexis rendevano incomprensibile il testo. Ma forse era meglio così. «Bé... Je... bé... t'ai... bé... bé...» Alex si è portato le mani alle orecchie, non voleva più sentire. E non era l'unico. «Alexis, adesso basta! Farà piangere Pipo.» È tornato il silenzio, e si è sentito distintamente un riso convulso provenire dalla cucina. Ma Simon non voleva ferire Alexis: è dovere di ogni psicologo serio prendersi cura dei propri pazienti, specie se provvidenziali come quello che aveva di fronte. «Canzone molto bella... È sua?» «Non l'ha riconosciuta?» «No... avrei dovuto?» «Era la traduzione di I got you babe di Sonny e Cher.» «È curioso, non ricordavo questa melodia...» «Perché è la versione dance!» Dallo studio, con Pipo in grembo, Alex ha ascoltato il padre raccontare la sua vita come mai aveva fatto prima di allora. E così ha scoperto che i suoi genitori, tanti anni prima, avevano inciso un disco insieme. «È andato bene?» «Un fiasco totale, non abbiamo venduto nemmeno un centinaio di copie... Ho ancora la cantina piena...» «Alexis, come ha vissuto questo fallimento?» «Non l'ho vissuto, in realtà non sono nemmeno certo di essere sopravvissuto...» «Bisogna sforzarsi di imparare dai fallimenti. Sono i mattoni che ci consentono di costruire il futuro.» «Be', a me l'hanno distrutto...» «Mi racconti, Alexis...» In cucina, Michel non rideva più. Aveva rinunciato definitivamente a servire i tournedos alla Rossini cotti al punto giusto. La confessione, quella vera, è come la tragedia greca: è un evento raro, intenso e di una certa durata. E se ti perdi l'inizio non capisci più niente. «Aveva diciannove anni, era piena di vita. Era così bella. Aveva sgobbato per venire dal Messico a studiare qui in Canada. Dipingeva. Era arrivata da nemmeno un mese. Io cantavo in un locale. È entrata, era così pura, non ho più voluto cantare per nessun altro...» Alex è uscito dallo studio, Pipo l'ha seguito. È entrato nel salotto e si è seduto accanto a suo padre senza chiedergli il permesso. Simon ha aspettato un momento per vedere la reazione di Alexis. Michel ha fatto capolino nella stanza. Perfino Pipo ha capito di trovarsi di fronte a un momento solenne; il lato
oscuro di un essere umano stava per essere illuminato di colpo. Simon si è limitato a sussurrare: «Continui, Alexis...». Di colpo il cuore di Alex ha iniziato a martellargli il petto. Avrebbe saputo.
Puoi aiutarmi anche con questo? «Sai perché i gatti cadono sempre in piedi?» «No, papà.» «Perché sanno farlo.» Due giorni al freddo dello chalet sembravano aver trasformato mio padre. Stentavo a riconoscerlo. Riusciva perfino a prendersi in giro. Quella strana euforia doveva essere un effetto collaterale del quasicon-gelamento. Una volta riconquistata l'abituale temperatura corporea, gli era rimasta addosso l'allegria. Non la finiva di agitare i polsi chiusi nel gesso. Assomigliava a una marionetta, ma era vivo, e di fili non c'era traccia. «Giochiamo a Monopoli?» Quand'era stata l'ultima volta che avevo fatto una partita a Monopoli con mio padre? «Dai, vieni a giocare con noi.» Quand'era stata l'ultima volta che avevo fatto una partita a Monopoli con tutti e dueì Mai, credo. Agli occhi di mia madre Monopoli non era un gioco abbastanza educativo, «Odio quella trappola ludico-capitalista! Non è meglio Trivial?» «Con le mani ingessate, Trivial non è un'opzione.» Mia madre dev'essersi chiesta se fosse davvero mio padre, quello che le stava davanti. «Sì, papà ha ragione, preferisco giocare a Monopoli. Tutti e tre insieme...» L'ho detto con un filo di voce, come ai tempi in cui da piccolo facevo il pulcino per ottenere qualcosa e mia madre ne restava incantata. Mio padre ha alzato le braccia in un gesto di approvazione, come se avessi pronunciato una verità incontrovertibile. Mia madre si è seduta, sconfitta, ma ha voluto comunque avere l'ultima parola. «D'accordo, però per poco!» Ho impiegato meno di un minuto per correre in camera a prendere la scatola, riportarla, aprirla e distribuire le banconote sul tavolino della sala. Come pedine, mio padre ha preso per sé il cappello e mi ha lasciato l'auto, poi ha dato il ditale a mia madre. «Cominciamo bene...» «Chi è che mi mette i dadi sulla mano?» «Io devo mettere in ordine i miei soldi, pa'.» Ha teso i palmi ingessati verso mia madre. «Con quale mano vuoi tirare?» «Con quella bianca!» Lei ha alzato gli occhi al cielo, anzi, al soffitto, poi ha appoggiato i due dadi sul gesso destro. Quando mio padre li ha lanciati, ho visto che mia madre lo stava studiando. Improvvisamente si è udito un grido animalesco. «Doppio sei!» Mio padre era arrivato su una casella probabilità. Ho pescato la carta dal mucchio e, senza guardare, gliel'ho messa sotto gli occhi. «Avete vinto il primo premio nel concorso di bellezza, incassate mille dollari da ciascun concorrente!» Ho preso mille dollari dalla mia pila di banconote e li ho appoggiati su quella di mio padre. Mia madre ha raccolto i dadi. Mio padre le ha dato un colpetto gentile con il gesso. «Devi mille dollari al più bello della combriccola!» «Tieni! Eccoteli, i tuoi mille sacchi. Non mi piace avere debiti, specialmente con te...» Non ho potuto impedirmi di guardare il divano. Soddisfatta della sua replica, mia madre ha unito le mani e ha mescolato i dadi. Mio padre ha finto di non avere colto la nota di acidità nella sua voce. «Tocca ancora a me, ho fatto doppio! Ridatemi i dadi!»
Mia madre glieli ha passati senza una parola. So cosa stava pensando. Il Monopoli è un gioco perverso che sviluppa soltanto l'avidità e la stupidità. «Doppio sei!» «Potresti evitare di spaccarmi i timpani ogni volta che tiri i dadi?» «Scusami, cara.» Mio padre è stato l'unico a non far caso a quello che aveva appena detto. Mia madre ha guardato il suo gesso destro spingere il cappello sulla casella appropriata. Non ho aspettato che papà la chiedesse, per sistemargli la prima carta del mazzo delle probabilità sotto gli occhi. Mia madre mi ha guardato: sapeva che avevo sentito quel "cara", ma soprattutto sapeva che mi ero accorto di quanto la cosa le avesse dato fastidio. «È il vostro giorno fortunato, ogni giocatore deve darvi mille dollari!» Mio padre ha esultato. «La fortuna sorride a chi sa coglierla! Dammi qua i dadi!» Questa volta non ha gridato, ma è andato in prigione discretamente, senza passare dal via. Nessuno fa tre doppi tiri consecutivi al Monopoli impunemente. Adesso papà sembrava un po' avvilito, con somma soddisfazione di mia madre. «Vedrai che lì starai bene...» Lui si è messo a fischiettare un motivetto allegro. «Di sicuro sto meglio che allo chalet!» Ero perfettamente d'accordo con lui. Invece mia madre non era d'accordo, quando mio padre le ha chiesto di aiutarlo a lavarsi. «Non ci riesco, con questi gessi! Rischierei di bagnarli!» «Basterà che tu faccia attenzione.» «Sono due giorni che non faccio la doccia, non posso rimanere così!» Li ascoltavo, mentre rimettevo le banconote nella scatola. Aveva vinto mia madre. Perfino a Monopoli, alla fine, vince chi si ferma a riflettere. «Non se ne parla, non ho nessuna intenzione di lavarti!» L'ho sentita aprire l'armadio a muro della cucina, poi è tornata in salotto. «Hai dello scotch, tra le tue cose di scuola?» Ha infilato le mani di mio padre in due sacchetti di plastica di Canada Dépòt e si è adoperata a rendere il tutto impermeabile. Mio padre l'ha seguita di buon grado fino in bagno. Lei ha aperto l'acqua della doccia. «E ora come faccio a levarmi la camicia, con questi guantini firmati Canada Dépòt?» Si può essere intelligenti e riflessivi e non riuscire ugualmente a pensare a tutto. E però adesso mamma non era più arrabbiata, anzi, pareva trovare la situazione piuttosto comica. Ma il senso dell'umorismo spesso non basta, nella vita, ad aggiustare le cose. «Ti aiuterà tuo figlio!» Clac! Ci ha lasciati soli. Mio padre si è chinato e io gli ho sfilato la camicia. I gessi impacchettati sono passati a fatica attraverso le maniche. Con la maglietta è stato un po' più semplice. «Mi fa piacere che tu sia qui, papà.» «Anche a me fa piacere vedervi.» Si è portato le mani alla cintura. Nonostante i gessi e i sacchetti di plastica, con le dita libere riusciva comunque a compiere delle semplici operazioni. «Me la caverò...» «Se hai bisogno di me, chiama.» «D'accordo. Vedi a cosa servono i figli?» A quanto pareva i figli servivano, tra l'altro, a passarti l'asciugacapelli sul gesso bagnato. Siccome papà non era riuscito a impugnare il guanto di spugna, per lavarsi aveva usato un asciugamano. Dopo un po' lo scotch si era staccato, e lui non si era accorto che sotto l'asciugamano bagnato il gesso non era più protetto. «Non brucia?» «No, anzi, è caldo e piacevole.» Era bello prendermi cura di lui. A tratti mi osservava, poi si voltava verso la cucina. Il suo sguardo
spaziava per il salotto, ma non si fermava più solo sul televisore, che non si era nemmeno ricordato di accendere. «È pronta la pasta!» A tavola, con una rapida dimostrazione, mio padre ci ha convinti che non era in grado di tenere in mano le posate. «Io l'ho vestito e gli ho asciugato il gesso!» È stata mia madre a tenergli il cucchiaio, e da quel momento non abbiamo parlato più di tanto. Mio padre, inghiottito un boccone, spalancava la bocca, e mamma, dopo averlo imboccato, prendeva una cucchiaiata per sé. Li guardavo come se tutto fosse normale, eppure non lo era affatto. Mia madre dava da mangiare a papà come se fosse un bambino, ma ero io il bambino, e mangiavo da solo. Dopo un po' hanno preso un buon ritmo, la catena di montaggio rodata e lubrificata a dovere. Non avevano più bisogno di parlare, si capivano e basta, erano perfettamente coordinati. Ma ogni cosa, per quanto bella, presto o tardi finisce. Nel caso specifico è finita tra un boccone e l'altro. «Dovresti riprendere papà e mamma con la videocamera.» «Martin! Non credo che sia una buona idea!» «Non ti sembra una situazione comica?» «Appunto, non ho voglia che la riprenda...» Mamma ha troncato la discussione ficcando il cucchiaio nella bocca di mio padre e così hanno riattaccato con il circo di prima fino a vuotare il piatto. Poi mia madre si è alzata. «Da domani o ti fai togliere il gesso o trovi un'altra soluzione, perché io non ho voglia di imboccarti tutti i giorni.» Mio padre aveva ancora la bocca aperta: l'ha chiusa e poi l'ha riaperta. Sembrava un pesce rosso. Mamma era già passata in salotto. «È l'ora del bagno!» Ho afferrato il cucchiaio, ma mio padre mi ha fatto segno che potevo andare. Ho aperto il rubinetto della vasca e ho lasciato scorrere l'acqua. Non volevo metterci troppo, e infatti ci ho messo poco. Quando sono uscito, dal ticchettio della tastiera ho capito che mia madre era davanti al computer. Non appena mi ha visto, ha subito chiuso il file. «Ti sei lavato bene dappertutto, tesoro?» «Sì, mamma.» «Vai a metterti il pigiama.» «Sì, mamma.» «Poi di' a tuo padre di venire ad aiutarmi ad accendere il fuoco.» «Non può, con quei gessi.» «Basta che mi dica come si fa.» Sono passato davanti alla mia camera senza entrarci. Ho proseguito verso la cucina. Ho sentito un altro genere di ticchettio. Mi sono avvicinato silenziosamente. Mio padre non solo era riuscito ad afferrare la forchetta con una mano, ma teneva perfino il coltello nell'altra. Aveva preso dal frigorifero un pezzetto di formaggio e lo stava addentando avidamente, mentre si affettava del pane. Ho indietreggiato perché non capisse che lo avevo colto in flagrante. «Pa'! Mamma ha bisogno di te per accendere il fuoco.» Si è affrettato a liberarsi delle posate. Cling! Clang! Doveva essergli rimasto tanto formaggio in bocca, e sicuramente del pane, perché ha fatto una gran fatica a mandar giù tutto. «Nello stato... in cui sono... farò... quello che posso... E poi il gesso... non è... ancora... asciutto.» I bambini non sono i soli a mentire affinché qualcuno si prenda cura di loro. Quando sono uscito dal salotto dopo aver dato la buonanotte a entrambi, papà era seduto davanti al camino. Mia madre si era sistemata sul divano, non molto distante. «Come ti è saltato in mente di fare questa pazzia?» «Ero solo, al gelo. Dopo un po' ne hai fin sopra i capelli, del ghiaccio!» «Per cui ti sei messo a scrostarlo dal tetto...» Si sono guardati con un sorriso, complici per la prima volta in tanti mesi. Il bagliore della fiamma rischiarava i loro visi. Erano così belli. Come al cinema. Mi sono sempre coperto gli occhi quando vedevo due adulti baciarsi in un film, mi imbarazzava. Ma in quel momento, se si fossero baciati, non li
avrei chiusi. Ho aspettato. Volevo che si baciassero a lungo, con la parola "Fine" scritta grande in sovraimpressione. Mi è dispiaciuto di non avere con me la videocamera. Ma la vita, si sa, non è un film. Mia madre ha acceso la luce. «Ora sistemo tutto quello che ti serve sul divano, ma ti avverto: per la tv, non starò qui a cambiarti canale ogni tre secondi!» Avrei preferito il bacio. «Perché credi che guarderò la tv?» «Non lo so... Tu la guardi sempre, no?» «Grazie, ma sto bene anche così.» Per la prima volta ho capito dove il cielo voleva arrivare. Il ghiaccio non aveva potuto impedire a mio padre di andar via di casa, ma aveva fatto in modo che tornasse. Il gelo l'aveva reso diverso, e mia madre stentava a crederci. Gliel'ho letto negli occhi ancora prima che lo dicesse, quando è tornata da lui con una coperta e un cuscino. «Non sembri più lo stesso.» «È molto probabile...» «Capisco che tu sia contento di essere qui, ma non perdere di vista la nostra reale situazione.» Ha consegnato a mio padre un foglio stampato. Era quello dei conti, dove si parlava del divano e di tutto il resto. «Spero che non ti impedirà di dormire...» A letto, ho pensato molto. Mia madre non era ancora stata toccata dal gelo e, finché non fosse venuto il suo turno, nulla in lei sarebbe mutato. Mi sono alzato e ho guardato il mio amico cielo. «Puoi aiutarmi anche con questo?» Giovedì 8 gennaio 1998 «Le precipitazioni e il gelo, mai così intensi negli ultimi decenni, non accennano a smettere! Nei dintorni di Montréal, i tralicci stanno crollando a ripetizione. A mezzogiorno, al fine di risparmiare corrente elettrica, è prevista la chiusura della maggior parte delle imprese del centro città. Si prevede inoltre penuria di acqua potabile. Per far fronte alla situazione, è stato mobilitato anche l'esercito. Alla fine della giornata, un milione di famiglie, cioè quasi due milioni e mezzo di persone, saranno senza corrente elettrica.»
La vita a volte è come il cinema «Attenzione!» Senza preavviso, il ramo si è piegato sotto il peso del ghiaccio che da ore continuava ad accumularsi. Boris ha afferrato Julie con tutte e due le mani, per poi lanciarsi su di lei e stenderla a terra, facendole così scudo con il proprio corpo prima che il robusto ramo li ricoprisse. Bang! Boris, incastrato, non ha potuto scollarsi da lei. «Julie, tutto a posto?» «Mmm...» Julie teneva gli occhi chiusi. Un sorriso beato ha illuminato il suo bel viso coperto di minuscoli frammenti di ghiaccio e capelli. Non ci sono lezioni di pronto soccorso al corso di laurea in matematica pura, ma, così a occhio, le condizioni della ragazza non parevano troppo diverse da quelle che Boris stesso aveva sperimentato a Val-d'Or, durante il suo pietoso esordio nel campionato giovanile di hockey. «Julie, si svegli!» «Mmm...» Boris ha avuto paura che la situazione fosse più grave di quanto non apparisse. Si è puntellato sulle braccia e ha cercato di sollevare il ramo. Ma, con tutto quel ghiaccio, sarebbe stata un'impresa impossibile perfino per un marcatore dotato. Il ramo si è sollevato solo di qualche centimetro prima di ricadérgli addosso. Scoraggiato, Boris si è ritrovato di nuovo addosso a Julie. Lei ha aperto gli occhi, dai quali in quell'istante traspariva una felicità totale. «Non sapevo che il paradiso fosse bianco...» «Guardi che non è in paradiso, ci è solo caduto addosso un grosso ramo.» Certo, Julie era sotto il ramo, ma più che altro era sotto shock.
«Non immaginavo che potesse essere così bello, stare sotto un ramo. Non è d'accordo, Boris?» Erano rimasti a guardare i pesci fino a notte fonda, e intanto si erano scolati una mezza bottiglia di porto e un'intera bottiglia di ouzo che un cliente greco aveva regalato a Julie qualche sera prima. Lei aveva cercato di intenerirlo, evocando le circostanze del loro provvidenziale primo incontro. Boris le aveva confessato di essere altrettanto felice di aver fatto la sua conoscenza, ma... «Sono anni che lavoro alla mia teoria, non posso lasciarmi distrarre proprio adesso che sono a un passo dall'obiettivo...» «Capisco...» Con un quintale abbondante di legno e ghiaccio sulla testa, si fa in fretta a dimenticare quel che la sera prima si è finto di aver capito. «Si sta così bene sotto questo cielo di ghiaccio, eh, Boris?» «Ne riparleremo, non è il posto migliore per far conversazione e poi comincio a sentire freddo...» «Ci scalderanno i nostri cuori...» «È sicura di star bene, Julie?» «Mai stata meglio...» Sopra le loro teste, Boris ha sentito stridere altri rami. Quegli scricchiolii e cigolii non lasciavano presagire nulla di buono. Bang! A pochi centimetri da loro è caduto un altro ramo. «Adoro questa musica, Boris...» Boris non aveva alcun desiderio di scherzare e non voleva nemmeno provare a convincere Julie che quella musica poteva essere solo l'inizio di un requiem eseguito in loro onore. Come talvolta capita agli immigrati, ha gridato nella prima lingua che gli è saltata in mente. Stranamente, non era il russo. «Help!» Julie si è limitata a sussurrare soavemente. «I need somebody... » «Help!» «Not just anybody...» «Help!» «You know I need someone...» Julie avrebbe continuato volentieri, ma Boris le ha chiuso la bocca con una mano. Nella vita, c'è un tempo per cantare e un tempo per tirarsi fuori dalla merda. Boris non sapeva esattamente fino a che punto fosse nella merda, ma di sicuro aveva il ghiaccio fino al collo. «Aiuto! C'è qualcuno?» Intorno a loro, i rami continuavano a scricchiolare. Ma nella testa confusa di Julie, quel pericoloso ritornello non era altro che una deliziosa canzone anni Sessanta. «Won't you please, please help me...» Ha alzato il tono di qualche decibel. «Help meeeee! Please, help meeeeee!» «Non si preoccupi, signorina, ora la aiuto!» Boris Bogdanov si è sentito un inutile idiota. Perché nessuno l'aveva sentito, lui, chiedere aiuto? Gli faceva rabbia che il semplice mormorio della donna stesa sotto di lui fosse stato più efficace dei suoi stentorei richiami. Così ha deciso di riprendere in mano la situazione. La galanteria, anche quella russa, ha i suoi limiti. «Si sbrighi!» «Ah... Siete in due là sotto?» A Boris è parso di avvertire una nota di delusione mista a irritazione nella voce dell'eroico soccorritore. Il genere di stizza che prova colui che, sul punto di abbordare una bella donna seduta al bancone di un bar, vede comparire d'un tratto il di lei accompagnatore, di ritorno dalla toilette. Boris non è andato tanto per il sottile. «È un problema per lei se siamo in due?» «Noi due... noi due... insieme fino alla fine del mondo... » «Non riesco a sollevare il ramo, vado a cercare aiuto...» «Stringimi forte a te...» Per mettere a tacere Julie, Boris l'ha stretta forte. D'improvviso ha sentito qualcosa agitarsi dentro.
Ha osservato la bella Julie, immersa nella beatitudine dell'amore. Per via del suo pragmatismo matematico, non ha potuto non soffermarsi su un paio di questioni fondamentali. Nel suo cervello allenato a respingere l'irrazionalità, la più acerrima nemica del ricercatore, il sentimento che cominciava a provare è diventato un'incognita di cui doveva determinare l'esatto valore. Dopo avere ammesso che il corpo sul quale giaceva era quanto mai attraente, ha provato ad affrontare il problema in termini statistici. Quante probabilità esistevano che un uomo schivo e non troppo attraente come lui si ritrovasse disteso su una donna tanto bella, davanti a casa sua, con un grosso ramo e un quintale di ghiaccio sulla schiena? Ma per dimostrare che Mélanie fa pipì in piedi, bisogna dimostrare che Mélanie esiste... L'erezione incontrollabile che, suo malgrado, fu costretto a includere nella sua analisi, derivava senza ombra di dubbio dal contatto del suo corpo con quello di Julie. Quindi, se la sua erezione esisteva, anche Julie doveva esistere! Sempre sdraiato, ha poi considerato il problema in una prospettiva, diciamo, verticale. Perché si ritrovava stretto a lei? Perché un albero lo bloccava. Perché l'albero si era spezzato in due? Perché cadeva pioggia ghiacciata! Considerato che condizioni meteorologiche tanto estreme non si verificavano dal 1961; considerato che prima di traslocare in quella via si era visto negare trentanove appartamenti; considerata la quantità di alberi presenti a Montréal; facendo una stima del numero di alberi spezzati dal ghiaccio negli ultimi tre giorni; prendendo come coefficiente il fatto che un ramo gelato impiega tre secondi a staccarsi dall'albero senza preavviso, e moltiplicando infine il tutto per la probabilità di trovarsi a passare sotto un ramo in grado di immobilizzare due persone, Boris Bogdanov ha concluso che le probabilità che lui sperimentasse di nuovo un'improvvisa erezione in quanto disteso sul corpo della sua vicina erano una su tredici milioni seicentocinquantasettemilacentocinquantanove. Esattamente seimilaseicentocinquantasette probabilità in meno di quelle che aveva di vincere la lotteria. Boris si è spostato in modo da proteggere ancor meglio Julie dai piccoli pezzi di ghiaccio che avevano ricominciato a cadere dai rami sovrastanti. Sotto di lui, la sua unica possibilità di vivere per qualcosa di più dei suoi quattro pesci giaceva in uno stato di estasi perfetta. A un tratto, in mezzo a un fragore di rami gelati che non si udiva dal 1961, è comparsa una luce. «Vi disturbiamo?» Prima di voltarsi verso il suo salvatore, Boris si è delicatamente scostato dalle spalle il braccio di Julie. «Kochané, tesoro...» Alexis, Simon, Michel e il vicino con le due mani ingessate lo fissavano con un'espressione tra il preoccupato e il divertito. «Mi dispiace, ma da solo non riuscivo nemmeno a smuovere il ramo. Quando ho visto che eravate in due, mi sono detto che doveva essere proprio pesante, per cui sono andato a chiamare i vicini...» «Ci è voluto un po', ma non abbiamo potuto fare a meno di sentirla cantare e...» Simon ha dato una spallata a Michel per farlo tacere. Boris si è alzato e ha preso Julie tra le braccia per rimetterla in piedi. Lei, ancora un po' trasognata, si è aggrappata al collo del suo amore russo. «Julie, ci spiace di avervi interrotto!» «Michel, chiudi il becco!» «Com'è che vi siete ritrovati lì sotto?» «Stavamo raccogliendo del ghiaccio per metterlo nella vasca da bagno, perché la radio ha detto che l'acqua potabile sta per finire...» «In effetti i depuratori hanno smesso di funzionare perché manca l'elettricità...» A quella notizia la tensione è salita di colpo. I componenti del gruppo si sono scambiati occhiate allarmate. La situazione stava diventando davvero grave. «Siamo rovinati!» «Sembra di essere in guerra!» «Pensate a quelli che hanno dei bambini...» «Pensate ai neonati...» «E agli anziani soli nelle loro case...» «Pensate ai suoi poveri pesci!» Quell'ultima voce nell'elenco dei più colpiti dalla mancanza di acqua potabile ha lasciato tutti
interdetti. Benché l'acqua e i pesci siano in stretta relazione tra loro, nessuno fino a quel momento ci aveva pensato, tranne Julie. «I suoi pesci?» Julie, tornata in sé, aveva parecchio da dire sull'argomento. Nella sua esaltazione, non si è resa conto di infilare qua e là, come Olga con le cipolle nella carpa, qualche parola russa. Pur raccontata con entusiasmo da una bella donna, la teoria topologica di Boris ha lasciato negli astanti l'impressione di qualcosa di eccessivamente lambiccato e astratto. Nell'udire la propria teoria esposta da un'altra persona, Boris, per la prima volta, l'ha riconosciuta per quello che era: un'ossessione. Mentre Julie, munita di un bastone coperto di ghiaccio, tracciava a memoria la traiettoria di ogni pesce sul terreno gelato, lui ha osservato il marciapiede reso inagibile dai rami caduti e la gente che camminava in mezzo alla carreggiata. Ha udito nuovamente quello scricchiolio infernale e minaccioso, lugubre presagio di una caduta imminente. In lontananza è passata una colonna dell'esercito. Gli sono tornate in mente le ore più buie della sua vita sotto il regime comunista, in quella Russia di un tempo dove non vivevi veramente, tutt'al più sopravvivevi. Allora Boris, che pure provava per Newton il disprezzo tipico dei russi che rinfacciano agli anglosassoni il vizio di volersi attribuire il merito di ogni scoperta scientifica, ha deciso comunque di relativizzare. «Forse ci sono cose più importanti dei miei pesci, nella vita...» Tutti, a parte Julie, si sono trovati d'accordo. Il viso di Boris, illuminato da un nuovo sguardo, si è fatto dolcissimo. Ha sorriso al vicino dalle mani ingessate che aveva deciso di aiutarlo, al quale fino a quel momento non aveva prestato alcuna attenzione. «Mi scusi, ma cosa si è fatto?» Dalla finestra, Alex ha visto Martin mimare con ampi gesti la sua caduta dal tetto. Poi è tornato allo stereo e ha risistemato il braccio del giradischi sul quarantacinque giri. Voleva ascoltare di nuovo Al e Do. «Avrebbe potuto morire, dopo una caduta così!» «Siamo dei duri, noi della polizia, cosa crede!» «Lei fa il poliziotto? In quale unità?» «Quella dei fannulloni...» «La più affollata di tutte!» «Alexis, non ti ci mettere anche tu! Piacere, Simon.» Simon ha appoggiato delicatamente la mano sul gesso che gli veniva offerto. «Piacere, Martin!» «Piacere, Julie!» «Piacere, Boris.» «Ahi! Piano con il gesso!» «Piacere, Alexis!» «Sì, sì, la riconosco, lei è il padre di Alex, il migliore amico di mio figlio.» «Sì, esatto...» «Piacere, Michel...» «Il fratello di Simon, suppongo...» «Non è suo fratello, è il suo ragazzo!» «Si dice compagno, Alexis...» Martin non era certo di aver capito bene. Julie ha deciso di fugare ogni dubbio. «Il suo fidanzato, se preferisce...» Il capannello si è concentrato su Martin, in attesa della sua reazione. Lui non si è fatto pregare. «Mi fa molto piacere conoscerla! E pazzesco che ci sia voluta una tale calamità per farci incontrare.» Michel e Simon si sono guardati, felici di essersi scrollati di dosso l'enorme peso della loro clandestinità sentimentale. Là fuori, per strada, davanti ai vicini, si sono presi per mano. ]e t'ai, bébéééé... Alex ha deciso di non riascoltarla un'altra volta. Aveva sentito quella canzone così tanto che ormai poteva continuare a suonarla nella sua mente. Ha infilato con cura il disco nella custodia. Sulla copertina, la scritta Al e Do color malva su fondo giallo. Nella fotografia - basette bionde, camicia
bianca e colletto aperto - Alexis sorrideva. Al suo fianco, con una bandana bianca a coprire parzialmente la chioma nera, Dolores, la mamma di Alex. Prima di riporre il disco sotto il cuscino, ha accarezzato con il dito quel bel viso. La porta di ingresso si è aperta. «Entrate tutti, ci fa piacere avervi qui!» «Sicuri che non disturbiamo?» «Ma no, e comunque non c'è nient'altro da fare! Michel ci preparerà un bel piatto di spaghetti alla carbonara!» «Vado a casa a prendere un paio di bottiglie e torno.» «Ce la fai con i gessi?» «Sì, non ti preoccupare, Alexis.» Alex è uscito nel corridoio per andare incontro alla truppa, mentre tutti lottavano per sfilarsi le scarpe, urtandosi a vicenda. Dapprima si è ritrovato davanti Julie e Boris, che erano già a piedi nudi. «Alex! L'intrepido ragazzo a cui devo la salvezza del mio gatto!» «Ci hai ripresi con la videocamera poco fa, spero...» Alex è avvampato. Boris gli ha sorriso beffardo e si è avviato in salotto dietro a Simon. Julie, al settimo cielo, ha atteso che i due uomini si allontanassero e si è chinata su Alex. «Hai ripreso tutto, eh, furbetto?» Con una mano gli ha arruffato con dolcezza i capelli e Alex, considerate le circostanze, non ha potuto far altro che subire, per quanto tutti sapessero che lui, il ribelle, non gradiva affatto trattamenti di quel tipo. Julie lo ha spettinato più energicamente. Stava forse per sgridarlo, per urlargli contro qualcosa? No, con la stessa mano Julie gli ha teneramente risistemato i capelli. «Spero che un giorno o l'altro mi farai vedere il tuo capolavoro, ho sempre sognato di comparire in un film!» La vita a volte è come il cinema.
Sono un quebecchese solidale! Con la scusa che temeva di scivolare sul ghiaccio, papà si è appeso al braccio di mamma. Poco prima l'avevo visto dalla finestra mentre cercava di sollevare un ramo, e mi era sembrato perfettamente in grado di mantenersi in equilibrio. Proprio come la sera prima era stato perfettamente in grado di mangiare pane e formaggio da solo, di nascosto. Questi suoi piccoli trucchi mi divertivano. Ero contento del fatto che saremmo usciti tutti e tre insieme, anche se papà ci aveva messo parecchio per convincere mamma ad accompagnarci. «Vedrai, sono molto gentili. E poi che cosa c'è di più normale che incontrare i propri vicini?» «In sette anni non gli abbiamo mai rivolto la parola e ora dobbiamo precipitarci a casa loro!» «In circostanze eccezionali, si fanno incontri eccezionali!» «A me la ragazza coi tacchi non sembra niente di eccezionale.» «È molto simpatica. Lei e il suo ragazzo, lo studente della casa di fronte, si sono appena beccati un albero in testa.» «Sarà. In ogni caso non ho alcuna voglia di trovarmi faccia a faccia con il padre di Alex. L'avrò salutato cinquanta volte e mai che mi abbia risposto!» «È cambiato, vedrai.» «Allora è un'epidemia...» «Avanti, vieni con noi, vedrai che ci divertiremo!» «Maledetto gelo!» Davanti a me, mia madre camminava lentamente stringendo una bottiglia di vino in ciascuna mano. Mio padre la seguiva saldamente aggrappato alla sua spalla. A un tratto l'ho sentito bisbigliare all'orecchio. «Oggi sarà una giornata di grandi scoperte per nostro figlio!» «Comunque prima o poi avremmo dovuto spiegarglielo.» «È meglio che a parlargliene sia un uomo, secondo me.» Mio padre mi ha fatto segno di avvicinarmi. Non voleva staccarsi da mamma. All'improvviso si è fatto serio e mi ha detto:
«C'è una cosa di cui voglio avvertirti affinché tu non rimanga sorpreso. Nella vita, gli uomini non stanno per forza insieme alle donne. E una scelta. Simon e Michel sono...». «Una coppia omosessuale!» «Lo sapevi?» «Sì, me l'ha detto Alex.» «Che cosa ne pensi?» «Niente! Perché dovrebbe darmi fastidio? Sono felici... Sono in due... Loro!» Avevo fatto centro. Mio padre e mia madre si sono guardati. Nessuno dei due ha trovato il coraggio di controbattere. La musica li ha salvati. «Pronti a ballare?» Il padre di Alex stava attraversando la strada con al collo una chitarra, e un sorriso radioso stampato in faccia. Si è avvicinato ai miei genitori con la mano tesa. «Ehi, Martin! Mi presenti tua moglie?» «Alexis, questa è Anne, Anne ti presento Alexis.» «È un piacere conoscerti, Anne! Davvero... So di non essere stato troppo educato con te, in passato. Scusami...» Non ha aspettato che mia madre rispondesse, si è girato ha proseguito in direzione della casa di Michel e Simon. Mamma ha guardato papà, poi si è rivolta a me, come se fossi rimasto l'unico in grado di comprenderla. «Ma cos'hanno tutti quanti?» «Non capisco cosa vuoi dire...» Alexis, senza bussare né suonare, ha aperto la porta di Simon e Michel. Abbiamo sentito delle risate. Là dentro si faceva festa. Siamo entrati anche noi. Alexis ci ha preceduto in salotto e si è seduto sul divano con la chitarra. L'ha spolverata per un attimo e l'ha accordata rapidamente, a orecchio. «Prima di tutto rendiamo omaggio al più grande dei grandi!» Ha iniziato a suonare, il ritmo era trascinante. Presto mia madre ha dovuto imitare gli altri e si è messa a battere le mani. Alexis ha attaccato con la prima strofa. «Era una piccola felicità, quella che avevo raccolto. Era in lacrime sull'orlo di un dirupo.» Guardando Boris, Julie si è sciolta in lacrime. C'era della gioia, in quel pianto. Alexis, dal canto suo, guardava Simon e Michel tenersi per mano. «I miei fratelli mi hanno dimenticato, sono caduto, sono ammalato! Se lei non mi raccoglie, morirò, che ballata!» I due uomini erano visibilmente commossi. Poi Alexis ha fissato Simon, rallentando il ritmo della canzone di Félix Ledere. «Signore, la prego, mi liberi dalla mia tortura...» Una mano si è posata sulla mia spalla. «Vieni! Ti devo parlare...» Ho seguito Alex fino in quella che provvisoriamente era diventata camera sua. Quando ci ha visti entrare, da sotto il letto ha fatto capolino Pipo, sicuramente sconvolto nel vedere la sua casa invasa da quel branco di matti. «Scusa per ieri. Non volevo che tutto questo finisse, ecco.» Mi ha guardato dritto negli occhi. Aspettava il mio perdono. Io gli ho sorriso. È andato fino al letto e ha infilato la mano sotto il cuscino, poi mi ha mostrato la custodia di un disco. «È mia madre...» Non ho potuto evitare di avvertire un groppo alla gola. «È proprio bella.» «Ora so perché non assomiglio a mio padre...» «Perché assomigli a lei.» «No, è perché lui non è il mio vero padre.» Ho dovuto sedermi sul letto. Ho guardato Alex senza sapere cosa dire. Era così calmo, quasi come un adulto. È venuto a sedersi accanto a me. Insieme abbiamo osservato i volti della coppia sulla custodia. «Ma per me Alexis è mio padre, l'unico... Mia madre si chiama Dolores, Dolores Sanchez... Vive in Messico...»
Finalmente Alex aveva una storia. «Mio padre si innamorò di lei al primo sguardo... Non sapeva che fosse incinta di me... Nemmeno lei lo sapeva... Cantava bene... Volle farle il più bel regalo del mondo... Fu lui a finanziare il disco, con i suoi risparmi... Fece tutto da solo... Lei si limitò a cantare quello che lui le diceva di cantare... Voleva farla diventare una star...» Ho letto i nomi sulla custodia, Al e Do, non mi dicevano niente. In genere i genitori ci parlano delle star, specie di quelle del passato. Alex ha infilato la mano nella custodia e ne ha estratto un piccolo ritaglio di giornale. «Leggi questo, capirai...» Ho letto a voce alta. «I got you babe di Sonny e Cher è una canzone monumentale. Farne una versione disco, per di più tradotta, può solo essere definita un'abominevole stronzata. In altre parole, Je t'ai, bébé è un monumento alla stronzaggine, firmato dall'insipido Al e dalla sua compagna che ci auguriamo di dimenticare per sempre, Do.» In salotto, Alexis si è messo a cantare più forte. «La mia felicità è partita senza darmi la mano...» «Do fece perdere le sue tracce. Si vergognava di quel fiasco... Se la prese con mio padre... Era venuta dal Messico per vivere un sogno, e invece le era toccato un incubo... Perché potessi avere una vita migliore di quella che mi sarebbe toccata nel suo Paese, mi lasciò con Alexis, ero ancora un neonato... Ma ormai lui non era più in grado...» «Ho creduto di morire di dispiacere e di noia...» «Per questo è diventato quel che è, anzi, quel che era... Simon gli ha spiegato che le sue emozioni si erano inceppate, era come se per lui il tempo si fosse fermato... Per questo era arrabbiato col mondo. Ma da quando, tre giorni fa, è riuscito a parlarne con Simon, finalmente... Sto scoprendo un nuovo papà...» «E tua madre, dov'è adesso?» «Non lo so, in cielo... In Messico... Non m'importa, per ora...» Si è accorto che non lo seguivo. «L'importante è sapere che una madre ce l'ho. Tu non puoi capire, l'hai sempre avuta.» Ero d'accordo con lui. Sotto sotto ero ancora arrabbiato con mia madre. Ma il fatto che fossi arrabbiato con lei presupponeva che mia mamma ci fosse. Nella vita noi tutti vogliamo sempre qualcosa di più, e non prestiamo attenzione a quello che abbiamo già. Alex si è voltato e mi ha stretto forte in un abbraccio. «Grazie di aver fatto tutto questo per me.» Il grande Alex, il più forte, il terrore della scuola, piangeva tra le mie braccia. «Mi piacerebbe ascoltare questo disco...» «Davvero?» «Perché no?» «Nonostante quello che hai letto?» «Sono comunque tua madre e tuo padre. Non puoi vergognarti di loro.» Quando siamo entrati in salotto, Alexis aveva appoggiato la chitarra e stava bevendo un bicchiere. Mia madre aveva le guance arrossate, ma non ha detto di no quando le hanno proposto un altro po' di vino. Simon se ne stava vicino a mio padre, che era riuscito a incastrare un bicchiere tra il pollice e l'indice della mano destra. «Mi dica, Martin, che cosa intendeva con "poliziotto-fannullone"?» «Non si può dire che io sia propriamente al centro dell'azione...» Quando Simon ha visto Alex con il disco in mano dirigersi verso lo stereo, ha scambiato un'occhiata complice con Michel. È calato il silenzio, anche Alexis aveva smesso di parlare. Le lacrime solcavano ancora le guance di Alex. Alexis, riconosciuta la custodia, si è alzato. Simon non gli ha consentito di interferire. «Alexis, se ha voglia di farci ascoltare la canzone di sua madre e suo padre, deve lasciarglielo fare.» Alexis si è riseduto, quasi come se ora prendesse ordini da Simon. Alex ha sistemato il vinile sul giradischi, si è voltato e ha lanciato ai presenti uno sguardo di sfida. Quando la musica è partita, Julie è
balzata in piedi di scatto. «Wow, che ritmo!» È salita sul tavolino e si è messa a ballare, o piuttosto a ondeggiare. «Julie! Sul tavolo forse non è una buona idea.» «Mi dispiace, non sono capace di ballare altrove!» Mi piaceva, come ballava. Anche Boris sembrava gradire. Ho notato che pure mio padre sembrava gradire, e molto. Lassù, Julie girava su se stessa, guardando tutti gli uomini a turno. A mia madre quel piccolo show non è piaciuto affatto. «Ci manca solo che si spogli» ha borbottato a mezza voce. Quando Julie si è levata il maglione, Simon è andato a parlarle. Ma siccome la musica era fortissima, ha dovuto gridare e così hanno sentito tutti. «Si dia una calmata, Julie! Ci sono dei bambini.» Mio padre aveva l'aria un po' delusa. Quando si è accorto che lo stavo guardando, mi ha strizzato l'occhio. Poi anche Simon si è messo a ballare. Ballava davvero bene per essere un uomo. Ha preso la mano di Michel e si sono messi a sculettare a tempo insieme. «Avanti, tutti in pista!» Boris è salito sul tavolino per raggiungere Julie. Lei faceva un gesto e lui lo imitava, anche se proprio non ci sapeva fare. Mio padre continuava a fissare la nostra bella vicina. Questo ha irritato mia madre, che si è alzata. «Su, vieni a ballare!» «È un secolo che non balliamo insieme!» Per ricordarsi di com'era prima, mia madre ha bevuto d'un fiato il bicchiere che aveva in mano. Ballava bene, e mio padre non ha più avuto occhi che per lei. Goffamente, agitava i suoi gessi a tempo di musica. Alexis si è avvicinato ad Alex e gli ha appoggiato le mani sulle spalle. «Hai visto come si divertono?» Hanno guardato con orgoglio gli altri che ballavano. Alex ha pianto fino alla fine della canzone. ]e t'ai, bébééééééé... Mia madre, ansimante, si è aggrappata a mio padre. Julie si è lanciata all'indietro in un casqué, confidando in Boris. E puntualmente lui era lì, pronto per prenderla, come in una figura del tango. Clic! A un tratto, è calata l'oscurità. Abbiamo sentito Julie cadere dal tavolino. Boris l'aveva mancata. Bum! «Kochané! Stai bene?» Il tono di lui era alquanto preoccupato. Abbiamo sentito dei piccoli schiocchi, quasi impercettibili. Sulle prime non riuscivo a capire da dove venissero, ma poi ho indovinato: baci! «Caro Boris...» «Kochané...» Poi baci, e ancora baci. «Calma, Julie!» Michel ha strofinato un fiammifero e ha acceso alcune candele per estinguere il fuoco di Julie. Quando il loro bagliore ha rischiarato la stanza, mia madre si è staccata da mio padre. Julie si è rialzata, dandosi una sistemata. Boris, invece, ostentava un sorrisone da deficiente. Alex mi si è avvicinato. «Sono sicuro che se l'è fatta...» A me non piace per nulla parlare di queste cose. Era una situazione strana. Era come se il ghiaccio ci avesse raggiunti di nuovo. Per fortuna mio padre ha preso in mano la situazione. «Be'? Che cosa facciamo adesso?» «Proprio ora che la festa stava decollando. Non ci posso credere!» «Alexis, che la gioia ritrovata non le faccia dimenticare tutte le persone che in questo momento si trovano in difficoltà...» «Scusami, Simon...» «Simon ha ragione: eccoci qui a far festa mentre altri vivono nel disagio...» All'improvviso tutti si sentivano in colpa. «I nostri vecchietti!» È stata Julie a pensarci per prima.
«Ve li immaginate, soli nelle camere della casa di riposo, abbandonati a se stessi, persi nel buio... E senza tv?» «Non dovrebbe durare molto, la Hydro-Québec ripristinerà presto tutto quanto...» «Non ne sarei tanto sicuro, Simon!» Mia madre si è raggomitolata su se stessa. Aveva già freddo. Non mi sono preoccupato per lei, tutt'altro. Il gelo l'avrebbe aiutata a riflettere. Per il momento, il cielo non aveva fatto altro che aiutare gli altri, ora doveva finire il suo lavoro e occuparsi di lei. E di me. Speravo che la Hydro-Québec non mandasse in fumo i miei piani. «E se andassimo ad aiutarli?» «Chi?» «Be', i vecchietti!» «È un'ottima idea, Alexis. È importante che lei si ricordi di prendere in considerazione anche gli altri.» «Forza, andiamo!» «Alexis, non intendevo alla lettera. Parlavo del suo percorso interiore. Non lasciamoci trascinare dagli eventi. Non è questione di vita o di morte.» Abbiamo sentito una sirena dei pompieri echeggiare nella via. Poi un'altra, e un'altra ancora. «Io vado!» «Anch'io!» Mi ha fatto uno strano effetto vedere mio padre pronto a passare all'azione. «Davaj!» «Boris, non lasciamoci mai più!» «Anne, rimani con i bambini!» Mia madre ha ridacchiato quando papà si è diretto verso la porta senza aggiungere una parola. Julie, Boris e Michel lo hanno seguito. Simon non pareva altrettanto convinto. Restava lì, impalato. Il sudore gli scendeva dalla fronte. Alexis lo ha scrollato. «Avanti, vieni, abbiamo bisogno di te!» «Riesco a sopportare di ascoltare le sciagure degli altri, ma non di vederle con i miei occhi...» Mia madre ha colto la palla al balzo. «Simon, capisco che tu non te la senta di assistere a certi drammi. Ti affido i bambini!» Simon si è seduto senza replicare e mia madre se l'è svignata lungo il corridoio. Mentre Alexis stringeva Simon per confortarlo, in lontananza abbiamo sentito gridare Julie. «Boris, i tuoi pesci!» È seguito un lungo silenzio. Alex e io ci siamo alzati per andare alla finestra. Tutti guardavano Boris che esitava, tremante. Julie lo supplicava con gli occhi. Alla fine Boris ha sollevato il capo, fiero come un russo. «Sono un quebecchese solidale!»
È successo tutto grazie a una catastrofe naturale! Intorno alla casa di riposo, le strade sbarrate erano rischiarate unicamente dai fari dei veicoli e dai lampeggianti. Due scuolabus gialli attendevano, parcheggiati con il motore acceso. Pompieri, poliziotti, infermieri, volontari della Croce Rossa aiutavano le persone anziane a evacuare l'edificio lentamente, una alla volta. Ogni comunità, piccola o grande che sia, si organizza secondo una gerarchia. Che si formi spontaneamente o meno, qualsiasi gruppo in azione ha bisogno di un capo per risultare efficiente. Martin camminava davanti, Alexis alla sua destra. Seguivano, alla spicciolata, Anne, Boris, Michel e Julie. Il sergente capo Couillard, responsabile dell'evacuazione, si teneva leggermente in disparte. Martin gli si è piantato davanti senza esitare. «Sono anch'io dei vostri! Che cosa possiamo fare per aiutarvi?» «In che reparto siete?» Martin ha abbassato la voce. «Insegno alla scuola di polizia...»
«Capisco... È da tanto che non opera più sul campo?» «Cinque, sei anni...» Il sergente capo Couillard non ha saputo trattenere un'occhiata sprezzante. Aveva le idee chiare, lui. In polizia, chi sa fare fa, chi non sa fare insegna. Martin, turbato, ha guardato la sua squadra che già iniziava a tentennare. Dall'autopattuglia, una voce dall'inflessione leggermente metallica ha gridato. «Capo? Capo? È lì, capo? Capo... È lì?» Il sergente capo Couillard ha abbandonato la portiera a cui era appoggiato e ha staccato con gesto esasperato la ricetrasmittente dal cruscotto dell'auto. «Ma sì, sono qui, dove vuoi che sia? Ti ascolto!» «Siamo nei guai, capo, per farne uscire uno ci vuole un quarto d'ora... Piangono, si attaccano alle sbarre del letto, vogliono portar via qualche ricordo... Ci servono rinforzi!» «Arrangiatevi, di rinforzi non ce ne sono più, ci sono emergenze ovunque!» «Ma, capo, di questo passo ci metteremo dei giorni!» «Lasciami studiare un piano... Vedo cosa posso fare...» «Grazie, capo!» Il sergente capo Couillard non ha dovuto guardare troppo lontano. Ha squadrato Martin da capo a piedi. «Come pensa di fare con quei gessi?» «Mi limiterò a dirigere l'intervento della mia squadra!» Il sergente capo ha soppesato con un'occhiata la suddetta squadra; d'istinto Julie, Boris, Michel, Anne e Alexis si sono messi sull'attenti. Couillard ha fatto una faccia rassegnata. «Maledetto ghiaccio ! È solo perché sono nei casini fino al collo! Ok, ok, potete dare una mano. Però prima voglio verificare una cosa.» E si è avvicinato a Martin. «Soffi!» Martin non ha soffiato con grande slancio, ma per l'olfatto esperto di Couillard è stato più che sufficiente. Si sono uditi dei sogghigni e qualche risatina provenire dalla piccola truppa. Si divertivano ad alitarsi addosso. «Nessuno si metta al volante... Chiaro?» «Signorsì!» «Occupatevi del quinto piano...» Quando Martin si è voltato, Anne ha avvertito un brivido. Lo sguardo del suo ex marito non era più lo stesso. Non aveva nulla a che vedere con l'alcol. Era uno sguardo che lei aveva conosciuto in un'altra vita. Lo credeva perso per sempre, invece era di nuovo lì. Non era scomparso, si era soltanto spento, e quel ghiaccio lo aveva improvvisamente riacceso. «Anne, Julie, Alexis, Boris: si agisce, ma prima di tutto si riflette! Capito?» «Sì...» «Sì cosa?» «Sì, Martin!» «Michel, Alexis e Boris, siete incaricati del trasporto delle persone. Sarete il reparto manovalanza! Anne e Julie, voi baderete agli effetti personali, al benessere, al morale degli evacuati: sarete il reparto di pronto soccorso psicologico! Se si presentano individui recalcitranti, voi ve ne occuperete, parlerete con loro mentre gli uomini accompagneranno agli autobus gli sfollati pronti per uscire. Voglio che venga evacuata almeno una persona ogni cinque minuti. Ci muoveremo rapidamente, ma rifletteremo sempre prima di agire. È chiaro?» «Sì, Martin!» «Seguitemi!» Il sergente capo Couillard ha guardato quella strana combriccola entrare nell'edificio. Perplesso, si è stropicciato il berretto, poi ha ripreso in mano la radio. «Com'è che voi lassù ci mettete un quarto d'ora a portarne fuori uno? Non vi hanno insegnato come si fa alla scuola di polizia? Vi devo spiegare proprio tutto?» «Su, fallo ancora!»
«Signor Archambault, ci sono altre persone che aspettano il loro turno!» «Sono almeno quindici anni che non mi capita di ridere così.» «Ok, ok... Ma è l'ultima volta. Un po' di solidarietà, signor Archambault!» «Ti prometto che dopo sarò solidale!» Alexis ha fatto piroettare la carrozzella sul ghiaccio. Il vecchietto, a quanto pareva decisamente arzillo, ha impiegato parecchio a riprendersi dalla ridarella. Ma le persone anziane non sono per forza gentili le une con le altre, e si fa presto a dimenticare una promessa di solidarietà. «Non farglielo fare, al vecchio Tremblay. Disturba sempre gli altri nella sala mensa!» Quando il signor Archambault è stato issato sull'autobus giallo già piuttosto pieno, è stato accolto da uno scroscio di applausi. E seguito una specie di piccolo dibattito. «Scommetto dei dollari che i prossimi a uscire saranno i gemelli Gagné. Chi ci sta?» «Io ci sto!» «Archambault! Piantala con le scommesse una buona volta o non lascerai niente ai tuoi eredi!» Un nuovo scoppio di risa collettivo ha fatto tremare i vetri dell'autobus. All'interno una trentina di anziani con il sorriso sulle labbra aspettavano che dalla casa di riposo uscissero gli altri ospiti. In capo a un minuto sono comparse Julie e Anne al braccio di due vecchietti identici come gocce d'acqua. «Sempre con le belle ragazze, i bravi gemelli Gagné!» «Mi devi due dollari!» Un nuovo applauso ha accompagnato la salita sull'autobus dei due Gagné. E qualcuno ha intonato: «Sono arri-va-a-ti, come gli altri salva... a ...ti». Nel tripudio generale, nessuno aveva notato che Boris, sostenendo un'anziana signora con grande delicatezza, la stava accompagnando alla porta dell'autobus. Lei gli si è aggrappata al collo e l'ha tenuto stretto per un lungo istante sotto lo sguardo commosso di Anne e Julie. «Verrà a farci visita, Boris?» «Siamo vicini, passerò con la mia ragazza.» «Ha una ragazza?» «Sì, per sempre.» Julie si è gettata tra le braccia di Anne. Mentre l'anziana signora sostenuta da Boris saliva gli scalini dell'autobus, Martin è uscito dal palazzo per raggiungere il sergente capo Couillard, che, accasciato nell'autopattuglia, aveva assistito all'evacuazione a tempo record dell'intero quinto piano, mentre i suoi uomini erano fermi alla prima metà del secondo. «Missione compiuta!» «Lo so, lo so...» «Che cosa facciamo ora?» «Al posto mio lei cosa farebbe?» «Mi chiederei di svuotare il quarto.» «Va bene... d'accordo... Svuotate il quarto...» Schioccando le dita, Martin ha radunato le truppe. Era sul punto di attaccare il quarto piano, quando il sergente capo gli si è avvicinato bisbigliando, per non farsi sentire da nessuno. «Come avete fatto? Noi non siamo nemmeno a metà del secondo.» «Sdrammatizzare, spiegare, mostrarsi positivi, organizzare! E poi... agire!» «Ah sì! Ora ricordo, ce lo dicevano sempre alla scuola di polizia... Ma come fa lei a infondere questo spirito di corpo nella sua squadra?» Martin si è guardato il gesso laddove avrebbe dovuto trovarsi il suo orologio. «Sergente capo, sono spiacente ma ho un intero piano da evacuare e non vorrei fare le ore piccole. Se vuole, possiamo parlarne un'altra volta!» «Mi scusi. Faccia quel che deve fare. Non la disturberò più...» Martin si è voltato per controllare se la sua truppa fosse al completo. In quell'istante, Anne ha desiderato essere non già un soldato semplice, un numero tra i numeri, ma la Numero uno, l'unica a seguire il suo uomo in quell'avventura. «Però... che uomo, tuo marito.» «Non capisco più niente di quello che mi succede...» «Per me è lo stesso, ma prendo le cose come vengono.»
«Da quanto tempo conosci Boris?» «Tre giorni, da quando è cominciato questo ghiaccio maledetto... Be', maledetto... se non ci fosse stato non l'avrei mai conosciuto. È pazzesco. In fondo, è successo tutto grazie a una catastrofe naturale!» Anne ha fissato Julie. Poi ha alzato gli occhi per guardare il cielo e li ha abbassati per osservare il suolo coperto di ghiaccio. Infine si è voltata verso Martin, che, ritto e a petto in fuori come un vero poliziotto, era pronto a partire per una nuova missione alla testa di quella squadra improvvisata. Ha intrecciato il braccio in quello di Julie e ha appoggiato il capo sulla sua spalla. Poi si è avviata insieme alla sua nuova amica. «Hai ragione, mia bella Julie. È successo tutto grazie a una catastrofe naturale!» Venerdì 9 gennaio 1998 «La catastrofe ha toccato il culmine. In cinque giorni sono caduti oltre cento millimetri di pioggia ghiacciata nel "triangolo nero" tra Saint-Hyacinthe, Saint-Jean-sur-le-Richelieu e Granby. Nella regione di Montérégie, le precipitazioni hanno raggiunto gli ottanta millimetri. Anche a Montréal la situazione rimane critica: quattro delle cinque centrali che alimentano la città sono fuori servizio. In questo "venerdì nero", la metropoli corre nuovamente il rischio di un blackout totale. Ma, come per miracolo, le piogge ghiacciate cesseranno verso la fine del pomeriggio...»
Non ho messo altra legna nel camino È sempre la pipì a svegliarmi di notte. Quando ho aperto gli occhi, è stato piuttosto difficile orientarmi. Mi sono ritrovato in salotto, a casa mia, ma ricordavo di essermi addormentato sul divano di Simon e Michel. Dal caminetto provenivano una luce calda, quasi arancione, e un bel crepitio. Qualcuno bisbigliava. Ho alzato gli occhi. Papà teneva i gessi tesi ad asciugare sopra le fiamme, con mamma seduta a fianco. Ho richiuso gli occhi, ma non le orecchie. Finalmente parlavano di me. «Mi ha fatto delle strane domande, quando non c'eri.» «Che domande?» «Come ci eravamo incontrati, per esempio. Me l'ha chiesto il giorno in cui sei partito. Che tempismo, eh?» «Te lo ricordi, il nostro incontro?» «Credo di sì...» «Le tue emozioni, quello che di me allora ti aveva attratto?» «Tre giorni fa non me lo ricordavo più tanto bene... Ammetto che da allora sei riuscito a rinfrescarmi la memoria...» «Ci ho pensato molto, quando ero allo chalet... a quello che si dimentica o che si cessa di vedere, a quello che forse si smette di essere... Volevo ritrovare le piccole cose che ci avevano spinti a mettere su casa insieme, ad amarci. Mi dicevo che se anche tutto era destinato a finire, valeva la pena di ricordare che cosa ci aveva uniti, invece di concentrarsi su ciò che ormai ci separava.» «Ti rendi conto che senza il gelo non saremmo qui a dirci queste cose, oggi?» «È stato il fatto di ritrovarci spogliati delle nostre abitudini, per un momento... quelle cattive, che ti annebbiano la vista, che ti rendono passivo, che fanno sì che dopo qualche tempo non sei più lo stesso. Allora devi cercare di ricordarti chi sei... Si potrebbe dire che patire il freddo mi ha rinfrescato la memoria.» Lo sapevo io, gli effetti collaterali del congelamento! «Una sera mi ha detto che era colpa sua.» «Che cosa gli hai risposto?» «Che lui non c'entrava nulla, naturalmente! Che era una faccenda tra adulti.» «Non ne sono nemmeno più tanto sicuro.» «Che cosa intendi dire?» «Lo abbiamo messo davanti al fatto compiuto, non gli abbiamo chiesto un parere... Non dev'essere facile per un ragazzino di undici anni.» Finalmente capivano ! Ma papà, che aveva dovuto patire il freddo più a lungo, era ancora una spanna
avanti a mamma. «È come se fossimo saltati subito alla separazione, perché è più facile, è quello che fanno tutti, senza chiederci prima se davvero le avevamo provate tutte...» «È troppo per me... Tre giorni fa credevo che te ne saresti andato con la poltrona del salotto attaccata al culo, visto che eri sempre piazzato là sopra... Mi torni con le mani ingessate, fai una battuta dietro l'altra, evacui cento anziani in due ore, il sergente capo insiste perché sia tu a descrivere le operazioni di salvataggio ai giornalisti... E ora mi dici cose che non credevo fossi nemmeno più capace di pensare... Ho bisogno di dormire. Devo rifletterci su.» Ho sfilato la mano da sotto il lenzuolo. Faceva freddo. La mia situazione dava segni di miglioramento, eppure non ho chiesto al cielo di smettere. Bisognava che concludesse il suo lavoro anche da noi. È da egoisti, ma oserei dire che è soprattutto umano. Ero contento per Alex, ma volevo avere anch'io la mia parte di felicità. Ho deciso di non fare pipì. Mi sono trattenuto e ho pensato intensamente a noi tre. Credo di essermi riaddormentato molto in fretta. Alle dieci, è stata la luce in corridoio a svegliarmi. Faceva ancora freddo. Mi ha preoccupato che la corrente fosse tornata tanto presto. Perché ripristinarla nel mio isolato quando erano milioni le case senza elettricità? Certo che la Hydro-Québec si accaniva contro di me! Mio padre doveva essere molto stanco, perché russava davvero forte. Mi sono alzato lentamente. Ho aspettato un momento prima di guardarlo. Temevo che fosse solo. Ho fatto un bel respiro e ho guardato. Ho rimpianto di non avere con me la videocamera. Mamma e papà erano stretti l'uno all'altra, come una cosa sola. Avevano freddo. Non ho messo altra legna nel camino.
Che c'è di più bello dell'amore? «Diciannove!» «E di là?» «Diciannove!» «Julie! Devi aspettare che il termometro si sia stabilizzato!» Fasciata nella solita camicia da notte rossa, Julie ha alzato gli occhi al soffitto e ha tuffato il termometro all'altro capo dell'acquario. Di fronte a lei Boris fischiettava, spensierato, con Brutus in grembo. Ne aveva sentiti, di uomini, fischiettare dopo l'amore, ma quella dolce melodia non somigliava a nessun'altra. Poco prima, all'apice dell'estasi, Boris si era lasciato sfuggire un gemito. «Ja ljublju tebja...» Per quattro volte Julie aveva sentito quello stesso grido del cuore che, anche se espresso in un'altra lingua, non richiedeva il dizionario. Anche lei si era messa a gemere nell'istante in cui il sublime l'aveva trafitta. «Ti amo! Ti amo! Ti amo!» I due gatti, per i quali il divano era un obiettivo da riconquistare e un trampolino ideale verso l'acquario, hanno fatto dietrofront nell'istante in cui Brutus ha assestato al più grosso dei due un graffio virile. Julie ha sorriso. Da quando si era legato a Boris, Brutus aveva acquisito molta più sicurezza e ora non tollerava che un suo simile si avvicinasse ai pesci. Mentre immergeva il termometro in acqua, si è ricordata ciò che sua madre le aveva detto tanti anni prima. Certe volte occorre dar tempo al tempo per riuscire ad apprezzare appieno le sagge parole dei genitori. «Vedrai, figlia mia, quando ami davvero l'uomo con cui fai l'amore, il piacere che provi è diverso. Diventa qualcosa di assai più profondo, perché il cuore ne decuplica la potenza.» Julie ha guardato il suo Boris, che fischiettando ha ripreso in mano i fogli pieni di calcoli e di diagrammi. Sua madre aveva ragione; la notte precedente lei aveva sperimentato ciò che in fondo sognava da sempre. In passato aveva conosciuto l'amore all'imperfetto. Adesso lo scopriva al più-cheperfetto, e finalmente poteva credere nel futuro. «Boris, il termometro è sempre a diciannove!» Lui ha appoggiato sul tavolino il foglio con le traiettorie colorate di ciascun pesce.
«Kochané, hai osservato il loro nuovo comportamento?» Malgrado il suo forte desiderio di condividere gli entusiasmi di Boris e di comprenderne le intuizioni, Julie, con i suoi tre giorni appena di esperienza in fatto di topologia, era a tutti gli effetti una novizia. «Che cosa intendi?» «Kochané, guarda... Guarda bene...» «Posso tirare fuori il termometro dall'acqua?» «Sì, sì, certo...» Julie ha osservato i pesci per qualche minuto. A pelo d'acqua, l'indice destro di Boris seguiva Numero due, mentre il sinistro faceva lo stesso con il percorso di Numero quattro. Ben presto Julie si è scordata dei pesci e si è limitata ad ammirare le dita danzanti del suo uomo. «Non seguono più la traiettoria di prima...» «Mi hai tolto le parole di bocca!» Boris l'ha fissata e ha annunciato in tono fatalista: «È evidente. Il freddo modifica la traiettoria dei pesci ! ». Julie era soddisfatta di sé. Quanto le piacevano quegli scambi mattutini con il suo intelligentissimo amante. Ma, anche dopo l'amore, un dottorando in matematica non può esimersi dal rammentarvi che siete ancora molto lontani dal saperne quanto lui. «Guarda, kochané, c'è una cosa evidente che non hai notato...» Julie è rimasta un poco delusa. «Guarda bene... È evidente.» Ma la topologia espressa nell'ermetico linguaggio della matematica pura era evidente solo per Boris, specie al mattino presto. Tuttavia, Julie non si è data per vinta. Si è concentrata al massimo per cercare di scovare quell'evidenza e all'improvviso ce l'ha fatta. «Hanno adottato delle traiettorie nuove!» Boris ha annuito gravemente. «Eh già... Mi toccherà studiare le nuove traiettorie a diciannove gradi e confrontarle con quelle vecchie a trentadue. Questo mi costringerà a posticipare la tesi di un anno o due... Vedremo cosa ne verrà fuori... Nella sfortuna, è comunque una fortuna che non siano morti...» Boris si è alzato, visibilmente seccato alla prospettiva di dover rimettere in discussione tutti i suoi calcoli. Ma la ricercatrice Julie non aveva ancora terminato. «Sembra che nuotino più vicini!» Boris è tornato a sedersi davanti all'acquario. Julie aveva dell'altro da aggiungere. «È così! Quando fa freddo si avvicinano!» Boris ha sgranato i grandi occhi azzurri. Di fronte a lui, Julie ha tratto un profondo sospiro. I suoi occhi scintillavano. «E poi, ecco, nuotano due a due, come se fossero in coppia. Non se ne vanno più in giro da soli, schivando tutti gli altri. Nuotano insieme... Adesso che hanno freddo disegnano dei doppi nodi!» Boris è rimasto molto colpito dall'acutezza di quella considerazione d'ordine topologico. Si è chinato sull'acquario per verificare di persona la teoria della bella Julie. La pinna destra di Numero due continuava a sfiorare quella sinistra di Numero tre. Quanto a Numero uno, era appena sgusciato fuori da dietro un sasso eccitato e baldanzoso come un labrador - fatto strano per un pesce esotico in cattività - con Numero quattro alle calcagna che scodinzolava e fischiettava bollicine. «Da... Da... Da...» Boris Bogdanov ha contemplato quella donna che gli riempiva il cuore e la mente di meraviglia. Quando due persone si amano, diventano una cosa sola. «Tu e io, Julie, siamo un po' come Pierre e Marie Curie alle prese con le loro favolose scoperte...» Julie ha mentalmente riavvolto il nastro del proprio passato prima di dichiarare candidamente: «Non l'ho visto, quel film, da piccola... Dovremmo noleggiarlo una di queste sere». Ecco perché Boris l'amava. Era semplice, onesta e consequenziale. E poi aveva il corpo di una dea, la pelle morbida, una sensualità torrida, i seni sodi, e baciava divinamente. Ma, di prima mattina, il passo tra le più ardite astrazioni matematiche e uno scoppio di desiderio improvviso può essere molto breve, soprattutto per il ricercatore che ha appena trovato ciò che stava cercando.
«Kochané, andiamo in camera!» «Ciao, piccioncini!» Alexis è entrato senza bussare. Aveva in mano un vassoio con due omelette al bacon, due bicchieri di succo d'arancia, quattro fette di pane tostato e due caffè bollenti. Simon non ha potuto trattenere l'emozione. Si è chinato su Michel che dormiva ancora sulla sua spalla. «Svegliati, tesoro. Guarda che bontà ci ha preparato Alexis...» Quattro giorni prima non avrebbero osato uscire di casa insieme, e ora eccoli lì, sdraiati di fronte a un'abbondante colazione preparata dal vicino che conoscevano da soli tre giorni. «Prendete, piccioncini, altrimenti si raffredda!» Alexis stava per togliere il disturbo, ma Simon lo ha afferrato per un braccio. «Vorremmo ringraziarti, Alexis.» «Oh, non è niente, solo due uova e...» «Non parlo di questo, parlo del modo in cui ci tratti.» «È un po' grazie a te... No, è solo grazie a te. Mi ha fatto bene parlare... Grazie! Grazie a voi due.» «Non ringraziarci, ti abbiamo aiutato tanto quanto tu hai aiutato noi. Prima di conoscerti eravamo diversi. Il nostro incontro ha generato cambiamenti profondi, grazie ai quali la vita per noi non sarà più la stessa... Ti inviteremo al nostro matrimonio! Insomma, quando la legge lo consentirà...» «Certo che per essere una coppia praticamente sposata da anni, ne avete fatto di rumore la notte scorsa...» «Alexis, noi non parliamo russo quando facciamo l'amore.» «Boris?» «Sì, e non ha smesso un attimo! Quattro volte! Non siamo riusciti a chiudere occhio.» In quel momento Alex stava passando nel corridoio seguito dall'inseparabile Pipo. «Te l'avevo detto, papà, che erano loro!» «Vedo che state ampliando il raggio dei vostri argomenti di conversazione... Molto bene, molto costruttivo... Ma forse ci sono altri temi che potresti affrontare con tuo figlio...» «Alla sua età si è curiosi, è normale! E poi ti dico una cosa, Simon: io Boris lo capisco. Quando uno ha una moto così bella, chi glielo fa fare di scendere?» Alexis non ha potuto evitare di strizzare l'occhio ai due vicini. «Non è vero?» «Da un certo punto di vista...» «Bene, ora vi lascio mangiare, sarà già tutto freddo.» Alexis ha afferrato suo figlio per la spalla con piglio da vero padre. «Portiamo fuori Pipo?» La porta della camera si è richiusa piano. Simon e Michel hanno preso una fetta di pane tostato ciascuno e l'hanno spalmata di burro. Prima di addentarla, si sono scambiati un dolce bacio. Ma subito si sono allontanati con una smorfia. Al di là della parete Boris e Julie avevano ricominciato. «Oh no! Non ne hanno ancora abbastanza?!» Quando il pane tostato era ormai freddo, è giunta la liberazione. «Aaaaaaahhhh ! Ja ljublju tebja!» «Ti amo... aaah! Ti amo... aaah! Ti amo... aaah!» Ed è tornato il silenzio. Simon ha addentato il pane gelido, lo ha masticato lentamente e poi si è voltato verso Michel. «Che c'è di più bello dell'amore?»
Tutto è bene quel che finisce bene A molti piace riflettere sotto la doccia. Mio padre e mia madre hanno deciso di riflettere insieme. Appena svegli, verso l'una, non mi hanno visto perché mi ero nascosto. Avevo paura: in casa era tornato il caldo. Sempre sdraiati sul materasso in salotto, si sono districati l'uno dal corpo dell'altra e poi si sono guardati, a disagio. Nessuno dei due voleva parlare per primo. Si fissavano, sorpresi di ritrovarsi così. Mia madre ha detto la prima cosa che le passava per la mente.
«Sento odore di poliziotto che ha lavorato sodo tutta la notte!» Quando ci siamo incrociati nel corridoio, mi hanno baciato tutti e due con molto amore. Questa volta mamma non mi ha chiesto di aiutare papà a lavarsi. Forse non ne ha avuto il tempo. Pareva che avessero una gran fretta. Da parte mia non ho dovuto sforzarmi di sentire quel che dicevano, perché parlavano a voce alta. «Non muoverti, te li tolgo io!» «Se sto su una gamba, va a finire che cado.» «Aggrappati a me... Ho detto aggrappati a me, non crollami addosso.» «È colpa dei gessi.» «Alza l'altra gamba, che ti sfilo i boxer.» «Ecco fatto...» «Oh! Che razza di maiale!» Non ero più certo che stessero riflettendo, di sicuro facevano strani rumori. «Oooh!» «Ahhh!» Ora mia madre sembrava d'accordo su tutto. «Oh sì! Oh sì! Oh sì!» A volte capita che si capiscano le cose, ma non si abbia voglia di ammetterlo. Sapevo quel che stavano facendo mio padre e mia madre sotto la doccia. Anche se ne ero contento, non vuol dire che sia pronto a discutere l'argomento. Nemmeno loro hanno voluto parlarne, una volta usciti dal bagno. Mi sono passati davanti fischiettando. È squillato il telefono, ho sollevato il ricevitore. Non volevo che la musica si fermasse. «Sono il sergente capo Couillard. Potrei parlare con Martin? È urgente!» Quando sono arrivato alla casa di riposo con mio padre e mia madre, gli sfollati stavano scendendo dall'autobus. Parevano contenti di tornare a casa. Non appena hanno visto mio padre, gli si sono radunati intorno per applaudirlo. Era diventato il loro idolo. Io me ne stavo appiccicato a lui, per cui ho sentito benissimo ciò che gli ha detto il sergente capo Couillard. «Si sono rifiutati di entrare prima che arrivassi tu!» Se n'è presi, di baci, mio padre. Tutti gli anziani volevano abbracciarlo, ringraziarlo, toccarlo. «Attenzione, Archambault, così gli spezzi i gessi!» «Credevo di averle già stretto la mano...» «Era il mio gemello.» «Avanti, fratelli Gagné, fate spazio agli altri!» «Scommetto due dollari che abita qui dietro!» «Ci sto!» Perché i vecchietti accettassero finalmente di rientrare nelle loro stanze, mio padre ha dovuto promettere loro che sarebbe tornato a trovarli. Io ero orgoglioso di lui, molto orgoglioso. Mamma lo era ancora di più, credo. Rideva, sembrava felice. Mi piaceva il sergente capo Couillard. Sentivo che anche lui apprezzava mio padre. «Non capisco proprio perché non rientri in servizio! Uno della tua tempra non è fatto per ammuffire dietro una cattedra!» Mia madre ha incrociato le dita e chiuso gli occhi. Il suo desiderio è stato esaudito. Mio padre non ha detto niente, ma la risposta gli si leggeva negli occhi. Mamma gli si è messa accanto. Lui si è voltato. Si sono guardati. Si sono avvicinati, o meglio hanno avvicinato le bocche, per il resto erano già stretti stretti. Si sono baciati a lungo, molto a lungo. Perfino il sergente capo ha versato una lacrima, tanto la scena era bella. Io non ho chiuso gli occhi, non volevo perdermi nemmeno un dettaglio di quel momento. Ho aspettato di vedermi comparire davanti la parola "Fine", come in un film. Ho registrato quel momento nella testa, per poterlo rivedere per tutta la vita. Non appena siamo entrati in salotto, papà si è sistemato sulla sua poltrona. Mamma l'ha subito raggiunto e si è seduta sul bracciolo. Gli ha posato la mano sulla spalla, proprio come prima della separazione. Li osservavo, non dicevo niente. Loro si divertivano a interrogarsi con lo sguardo per decidere chi dei due avrebbe parlato per primo. Io non avevo fretta. I minuti non hanno importanza quando è il Sempre a essere in gioco. Sapevo quello che stavano per dirmi, ma volevo sentirlo da loro. A
scuola nessuno mi aveva mai ancora raccontato la scena. Volevo assaporarla. «Ci abbiamo pensato...» «Forse siamo stati un po' precipitosi nel prendere la decisione...» «Ci siamo resi conto che ci amiamo ancora molto e che abbiano un mucchio di cose da vivere insieme...» «Per cui non vogliamo più separarci.» «Tornerà tutto come prima.» «Non come prima... meglio ancora!» Ho capito che si aspettavano che parlassi. Ero tentato di dire che forse avevo avuto la mia parte, in quel loro ripensamento. Ma ho preferito lasciar loro l'ultima parola, dopotutto erano i miei genitori. Si sono guardati come se fossero appena scampati al peggio. «Dobbiamo ringraziare il cielo! Senza questo disastro... Te lo immagini, amore?» In camera mia, non ho rimpianto di essermi tenuto il mio segreto. A cosa sarebbe servito raccontarglielo? Mi sono messo pancia in su, a letto. Ho guardato il soffitto. Era bianco, ma bianco come prima. I miei genitori non mi avrebbero più diviso, non sarei stato l'ennesimo alunno della classe costretto alla migrazione settimanale, e allo chalet saremmo tornati insieme, in tre. Mi sono voltato verso la finestra, ma dal letto non riuscivo a vedere il cielo. Mi sono alzato, dovevo dirglielo guardandolo in faccia. L'ho guardato, era bianco. Rischiarava il terreno ancora coperto di ghiaccio. Non riuscivo a capacitarmi di ciò che aveva appena fatto per me. Sono rimasto lì un momento. Ho cercato di pensare a come dirgli addio. Non volevo inciampare nelle parole. Spero di non averlo deluso. «Grazie per avermi ascoltato.» Quando sono tornato in salotto, il televisore era acceso, ma i miei genitori non c'erano. Stavo per spegnerlo, ma in quel momento, sul canale d'informazione, è apparsa la cartina del meteo. Anche se fino a quel momento il cielo non mi aveva tradito, volevo essere certo che mi avesse sentito. Non ho potuto trattenere un sorriso. Certo che non faceva mai le cose a metà... «Per domani, sabato, è previsto sole ovunque e un bel cielo azzurro su tutta la regione di Montréal. Gli specialisti di Météo Canada non hanno dubbi: basta piogge ghiacciate, la tempesta del secolo è davvero finita.» Clic! Ho spento il televisore e sono andato in cerca dei miei. Erano nello studio. Papà stava finendo di dettare a mamma la lettera di dimissioni dalla scuola di polizia. Lei, la testa sopra la sua spalla, pareva assaporare ogni singola parola che si allineava sullo schermo del computer. Stampato il foglio, mio padre lo ha firmato alla meno peggio, poi l'ha piegato e l'ha infilato in una busta già affrancata che mia madre gli porgeva. Si è alzato, sorridendomi. «Vieni con noi a imbucarla?» «Oh sì!» Siamo andati tutti nell'ingresso a vestirci. Mentre mamma lo aiutava a infilare il cappotto, mio padre mi ha guardato con un sorriso complice. «Onestamente, se fossi in te, coglierei l'occasione per portare la videocamera. Non so quando rivedremo una catastrofe di questa portata...» «Papà ha ragione, sarebbe un peccato non sfruttare il regalo che lui... cioè, che noi ti abbiamo preso per Natale.» «Non ne ho voglia...» Non so se fosse legato al fatto che aveva appena scritto la lettera in cui chiedeva di tornare in servizio attivo, ma ho avuto la certezza che papà avesse già ritrovato l'istinto del poliziotto. Mi si doveva leggere in faccia che mentivo. «Mi fai vedere la videocamera?» Dovevo trovare il modo di non rovinare il più bel giorno della mia vita. Mi sono trovato costretto a dire la verità. «Cosa? Nell'ufficio della direttrice? Non ti avevo detto di non portarla a scuola?» Mio padre non mi ha parlato con durezza. Io ho risposto con il cuore. «Tutti facciamo degli sbagli...»
I miei genitori sono rimasti interdetti. Poi papà mi ha abbracciato. Ho sentito una mano tra i capelli. È stato facile indovinare che si trattava di quella di mamma: non era coperta di gesso. «Hai ragione... Tutti hanno diritto a una seconda possibilità.» Le scuole hanno riaperto i battenti già il lunedì mattina. Come al solito, Alex mi aspettava in fondo alle scale del mio palazzo. Ha visto subito che ero preoccupato. Mi ha guardato con un sorriso e mi ha dato una pacca amichevole sulla spalla. Senza una parola, ha aperto lo zaino e ne ha sfilato una busta, che mi ha consegnato. «Cos'è?» «L'ha scritta Julie.» «Perché ha scritto una lettera?» «Per la videocamera...» «Le hai detto che l'avevo ripresa?» «Non ti angosciare, è stata gentile... E poi ora è innamorata, per cui è ancora più gentile.» «Che cosa dice, la lettera?» «Che stavamo girando un film sulla storia di un gattino che si era perso, e che mentre riprendevamo non ci siamo accorti che le si vedeva il seno...» «La direttrice non ci crederà mai!» Non è che non ci abbia creduto, è che se ne fregava. Era al telefono quando siamo entrati nel suo ufficio. Non ci ha neppure guardati. È rimasta in piedi. Sulla sua sedia era posato un cuscino enorme. «Anche lui è caduto sull'osso sacro! Incredibile, l'ambulanza si è fermata a raccoglierlo lungo la strada. Ci hanno portato in radiologia insieme. Ci siamo fratturati nello stesso punto! Eravamo stesi su due barelle. Colpo di fulmine al primo sguardo! Che fortuna che ho avuto a cadere di culo sul ghiaccio! Erano dieci anni che aspettavo un incontro del genere!» Alex mi ha guardato, pieno di ammirazione per la potenza della mia opera. «Aspetta un secondo, ho gente in ufficio... E voi perché siete qui? Un momento, fatemi ricordare...» «Per la mia videocamera, signora...» «Ah già... Non dovete farlo mai più.» Ha aperto il cassetto. Non aveva la minima voglia di parlarci. Mi ha allungato la videocamera, ma guardava Alex. Anche lui è rimasto sorpreso dalla sua gentilezza. «Tuo padre ha lasciato un messaggio, vuole incontrarmi per sapere come stai andando a scuola... È un'ottima notizia. Comportati come tutti gli altri, e vedrai che gli dirò solo cose positive.» Sulla strada del ritorno, non abbiamo detto una parola. In qualche modo dovevamo digerire l'accaduto. Alex aveva sulle labbra un sorrisetto che non se ne andava. Credo che stessimo facendo lo stesso gioco, in silenzio. Osservavamo i passanti chiedendoci se nella loro vita fosse cambiato qualche cosa. Quando abbiamo imboccato la via di casa, abbiamo visto in lontananza Michel e Simon che portavano a spasso Pipo. Ci siamo seduti sui gradini dell'ingresso della palazzina di Alex. Abbiamo sentito qualcuno che fischiettava. Non ci ha stupito vedere Boris, tutto scarmigliato, uscire a braccetto con Julie. Lei si è voltata verso di noi. Alex si è limitato ad alzare il pollice. Julie gli ha strizzato l'occhio. Sono spariti dietro l'angolo del condominio. Io mi sono alzato. «Vado a casa, i miei mi aspettano...» «Anch'io... Mio padre ha trovato il numero di mia madre in Messico. Questa sera la chiamiamo...» Ci siamo fissati a lungo. Ero così felice per lui. Si è avvicinato e mi ha abbracciato, stringendomi forte. Io ho fatto lo stesso. «In bocca al lupo, Alex.» Quando sono rientrato in casa con la videocamera in mano, mio padre e mia madre erano in salotto, tv spenta, seduti vicini sul divano da tremila dollari. Il braccio di lui cingeva le spalle di lei. Si sono voltati verso di me, insieme. Non ricordo più chi dei due abbia parlato. «Vedi? Tutto è bene quel che finisce bene.»
Nove anni dopo «Rotola!» Pipo ha obbedito stancamente. E sempre stato bianco, ma ora il bianco dei suoi peli è diverso. È più che bianco, quasi trasparente. So che anche oggi rotolerà una volta sola. Fedele tra i fedeli, eseguirà il suo numero fino all'ultimo giorno, per farmi piacere. I cani sono come i grandi campioni: a fine carriera, sfiniti, fanno tristezza. «Schiocca le dita! Fallo strisciare!» «No, è troppo vecchio ormai...» «Fallo strisciare, ho detto!» A vent'anni, hai tutta la vita davanti. Ma la tua sorellina ti sta sempre alle calcagna. «Voglio che lo fai strisciare, ho detto!» Se già a nove anni ha un brutto carattere, è perché è la piccola di famiglia. Ma non è l'unico motivo. I miei genitori l'hanno chiamata Aqua. All'anagrafe, l'impiegato li aveva avvertiti che un nome troppo originale, difficile da portare, nella vita può essere controproducente. «Per noi rappresenta il momento in cui tutto è iniziato di nuovo! E poi, non potevamo mica chiamarla Sotto-la-doccia!» Leggenda vuole che durante la tempesta di ghiaccio del '98 siano stati concepiti molti bambini. Ne hanno perfino parlato i giornali. Ma chiamarsi Aqua rende la vita davvero difficile. Ve l'ho detto e ripetuto, i bambini tra di loro sanno essere crudeli. «Aqua... qua qua! Qua... quaquaraqquà!» Pipo ha fatto la pipì di rito contro l'alberello che, tanti anni fa, sotto il ghiaccio, si era piegato in due. Oggi è un bell'acero; non è il più alto della via, ma se ne sta diritto, la cima puntata con fierezza verso il cielo. «Voglio che lo fai strisciare, ho detto!» «È troppo vecchio... Simon e Michel non sono contenti quando si stanca.» «Basta non dirglielo. Sarà il nostro segreto!» Da tanti anni, ormai, Michel e Simon non comprano più bottiglie di Chivas Royal Salute, ventun anni di invecchiamento. Hanno deciso di abbandonare il loro piccolo rito. In quei momenti, che credevano tanto speciali, si nascondeva soltanto la volontà di non esistere. Simon è andato a confessarsi dal presidente dell'Associazione degli psicologi del Québec, e gli ha offerto la propria testa su un vassoio d'argento. Pensava che prima gliel'avessero tagliata, meno male avrebbe sentito. Ma, perfino quando ci si crede condannati, le verità della vita sono lì, pronte a riacciuffarci. «Simon, non c'è niente di male. Guardami, non ho più un capello in testa e ho la pancia! Dove credi che l'abbia conosciuta, Sonia? Ha ventitré anni meno di me!» A Météo Canada, l'outing di Michel non ha scatenato alcuna tempesta, semmai una schiarita. Ora sapevano tutti. La rivelazione non è soltanto una luce interiore, è un chiarore che, illuminando il nostro vero volto davanti al mondo, finisce per rendere il mondo stesso un po' più vero. «Perché non vuoi farlo strisciare?» Ero così anch'io, da piccolo? Mamma e papà dovevano ripetermi venticinque volte la stessa cosa senza che io capissi un bel niente? Ho tirato delicatamente il guinzaglio di Pipo per indicare che il nostro giretto era finito. Lui mi ha seguito verso casa a passi minuscoli. È squillato il cellulare. Era il numero di casa. «Qui sergente capo papà! Sono arrivate le gemelle!» «Pipo, rientriamo!» «Voglio che lo fai strisciare!» «Chiudi il becco e corri!» Quando mio padre e mia madre mi avevano annunciato, quel 9 gennaio del 1998, che non si sarebbero più lasciati, avevo potuto assaporare quella gioia solo per poco. «Alexandrie! Alexandra!»
Julien e le gemelle non avevano la corrente da quasi tre giorni. Abitavano nella regione di Montérégie, una zona particolarmente colpita dal ghiaccio. La felicità ritrovata doveva pur avere un prezzo. Era come se il cielo mi avesse spedito la fattura. «Le sirene del porto di Alessandria cantano ancora la stessa melodia... wow... wow...» Le gemelle si erano messe a correre dappertutto, avevano saltato su tutto ciò che era vagamente elastico. Entravano in camera mia senza bussare, volevano a ogni costo che giocassi con loro. Quell'inferno era durato tre settimane, poi se ne erano tornate finalmente a casa loro. Ma la virtù del tempo è dar modo alle piante, anche a quelle cui si è allergici, di crescere. Se diventano belle e schiudono petali graziosi, non le si guarda più con lo stesso occhio. Oggi, Alexandrie e Alexandra, come canta Claude Frangois, fanno naufragare le farfalle della mia giovinezza. «Avanti, maiale, dicci chi delle due ha il seno più bello.» Adesso sono decisamente a mio agio nell'affrontare l'argomento e posso vantare una certa esperienza diretta in materia. Ne parliamo spesso, con Alex. Trascorriamo tutte le estati, da otto anni, in Messico, nella sua casetta bianca dal dolce nome di La Pequena Felicidad, La piccola felicità... Dopo che ci eravamo lasciati sulle scale, nel giorno in cui avevo recuperato la videocamera, Alex aveva raggiunto suo padre che lo aspettava con il telefono in mano. Alexis aveva aperto il foglietto gualcito dal tempo sul quale era scritto il numero di Dolores. Aveva esitato a lungo nel timore che lei lo avesse dimenticato. Ma, anche a mille anni di distanza, non possiamo dimenticare una voce che abbiamo amato. Le era bastato rispondere. «Pronto.» «Dolores! Sono io, Alexis.» «Me perdonas, mi amor?» Essendo finalmente riuscito a perdonarsi da sé, Alexis non ce l'aveva più con nessuno, men che meno con Dolores. Cantiere dopo cantiere, cantando l'amore e la speranza sui marciapiedi del centro storico di Montréal, era riuscito a comprare due biglietti di sola andata per Cancun. Alexis e Alex erano decollati alla volta del Messico agli inizi di giugno del 1998, quattro settimane prima della fine della scuola. La direttrice non si era opposta al fatto che Alex perdesse l'ultimo mese di lezioni, visto che era diventato uno studente praticamente perfetto. Ma la cosa le aveva rovinato il morale, che pure, dal giorno del suo fidanzamento con il ferito all'osso sacro, viaggiava ai massimi livelli. Si era vista costretta ad avvertire il direttore della scuola. «Bisognerà annullare la festa prevista dopo la finale di Piccoli geni crescono. Senza Alex, la scuola non ha più alcuna possibilità di vincere!» Il mondo ha bisogno di outsider capaci di tagliare il traguardo da vincitori, altrimenti la speranza sarebbe solo una corsa senza fine. «Voglio che lo fai strisciare, ho detto!» Ho salito gli scalini quattro per volta con mia sorella dietro e Pipo in braccio, tutto contento di poter finalmente riposare le zampe. «Lo dico a mamma, che sei stato cattivo con me!» «Come vuoi! Ma non ti lascerò più giocare con il mio computer insieme a Olga.» Olga è la migliore amica di Aqua. Non è un caso. Di sicuro l'ha voluto il cielo. Sono nate lo stesso giorno, quasi alla stessa ora, all'ospedale Sainte-Justine. Olga non prende mai in giro mia sorella per via del suo nome. Ci ha provato una volta sola, mentre battibeccavano per via di una bambola russa. «Aqua... rio!» Se mia sorella l'ha subito perdonata, Boris invece l'ha presa molto male. «Olga! Non prenderti gioco della teoria di papà!» Boris è cambiato molto da quando è diventato dottore in matematica alla McGill University. Adesso è un luminare della topologia e pubblica regolarmente i risultati dei suoi lavori sulla rivista «Nature», punto di riferimento del settore a livello mondiale. Quando ha ricevuto la medaglia Fields, massimo riconoscimento per i matematici sotto i quarant'anni, ha sentito di avere raggiunto i suoi eroi d'infanzia, le glorie del regime comunista che aveva sempre cercato di imitare. «Da... Da... Da...» All'università lavora in un grande ufficio il cui accesso è rigorosamente sorvegliato da Julie, la sua
assistente molto personale. Solo Brutus ha il diritto di entrare e sedersi in braccio all'eminente dottore. Julie, camicetta abbottonata sempre fino al collo, nutre un'estrema diffidenza verso le collaboratrici, pur qualificate, che gravitano attorno al dipartimento del suo amato Boris. «Signorina, siamo in un'università prestigiosa. Credo che il suo abbigliamento rappresenti un'offesa alla nostra reputazione...» Eravamo tutti intorno al tavolo quando Julie ci ha raccontato questo aneddoto. Non ha niente da nascondere ai suoi amici. È sempre così spontanea e naturale, come se, tornando nel nostro quartiere, ridiventasse esattamente quella di dieci anni fa. Oggi è una bella signora di Westmount, con una grande casa e il prato all'inglese. Ma non ha dimenticato nulla del suo passato, né del prodigioso inverno del 1998, me lo ricorda ogni anno. «Sei fortunato, tu, c'è la prescrizione per chi filma le tette della vicina!» Michel è stato il solo a non sentire. Era tutto concentrato a giocare con i bambini. Lui e Simon si sono sposati ma non hanno mai potuto adottarne uno loro. Dura lex, sed lex. Aqua e Olga sono le più grandi, e ormai sono costrette a condividere i giocattoli con Natacha e con l'ultimo nato, Igor, dagli zigomi pronunciati come quelli del padre. «Mamma dice che papà segnava tantissime reti in svantaggio numerico!» Quando mia madre è uscita dalla cucina con un'immensa torta dei Magi fatta in casa, sempre la migliore del mondo, i bambini ci hanno raggiunto gridando. Da anni questa tradizione di famiglia è diventata il pretesto per ritrovarci tutti, all'inizio del mese di gennaio, e festeggiare insieme il ghiaccio che ci ha uniti tanto tempo fa. Ci raccontiamo sempre le stesse storie, ma non ha alcuna importanza. Non ci stanchiamo mai di sentirle. «"E poi, ecco" ho detto a Boris, "nuotano due a due, come se fossero in coppia. Non se ne vanno più in giro da soli, schivando tutti gli altri. Nuotano insieme... Adesso che hanno freddo disegnano dei doppi nodi!"» Mio padre ha trovato la fève. Mia madre, ovviamente, è diventata regina. Si è messa la corona, stando attenta che non le scivolasse. Tutti hanno applaudito con uno scroscio di risa. I miei genitori mi hanno fissato un istante. È bastato uno sguardo per capire che stavamo tutti pensando allo stesso momento, alla stessa scena di nove anni prima. Si sono abbracciati, mi hanno sorriso. Per tutto il pomeriggio mi sono goduto questa tavolata di persone che si vogliono bene. Ci vediamo ormai solo una volta all'anno, ma sappiamo di essere uniti per sempre grazie a un incredibile evento naturale, o forse soprannaturale. La sera, in camera mia, dopo aver scacciato Aqua dal mio computer, ho aspettato che smettesse di strillare davanti alla porta per finire di scrivere la mia storia. Crescendo, comprendiamo meglio i percorsi interiori della nostra infanzia. Riusciamo ad analizzarli, a definirne le cause, i motivi e le destinazioni. Riusciamo soprattutto, nei ricordi, a stabilire la parte di verità presente nell'irreale. Ma non capirò mai come abbia potuto convincermi di essere davvero io il responsabile di quella storica ondata di gelo. Ero solo un bambino che non voleva che i genitori si separassero, tutto qui. Non vi ho mai detto il mio nome. Arrivati all'ultima pagina, non ha più alcuna importanza. Ricordando quel mese di gennaio del 1998, e tutto ciò che ne è seguito, avevo in mente solo una cosa: il desiderio che la mia storia potesse appartenere a tutti i bambini che non riescono a farsi sentire. E che la vita è bella così. Ringraziamenti A coloro che, durante la fase di scrittura, si sono presi il tempo di leggere e di condividere con me le loro riflessioni costruttive. A Titus, e a tutto il personale del Café République a Outremont, per avermi riservato ogni mattina lo stesso tavolo, la stessa sedia, la stessa tazza, lo stesso sorriso. Ai miei, perché senza di loro tutte queste parole non avrebbero nessun senso e nessuna importanza.