J.D. ROBB IL FASCINO DELL'INGANNO (Immortal In Death, 1996)
«Il dono fatale della bellezza.» BYRON «Rendimi immortale c...
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J.D. ROBB IL FASCINO DELL'INGANNO (Immortal In Death, 1996)
«Il dono fatale della bellezza.» BYRON «Rendimi immortale con un bacio.» CHRISTOPHER MARLOWE 1 Sposarsi era un delitto. Eve non si capacitava di come fosse potuto accadere. Era un poliziotto e, durante i suoi dieci anni di servizio nelle forze dell'ordine, era sempre stata fermamente convinta che chiunque portasse un distintivo doveva restare single, senza legami sentimentali, per potersi focalizzare interamente sul lavoro. Era folle credere che una persona potesse dividere il proprio tempo, le proprie energie e i propri sentimenti tra la legge, con tutte le sue luci e le sue ombre, e la famiglia, con tutte le sue esigenze e i suoi compromessi caratteriali. Entrambe le carriere - perché, secondo quanto aveva potuto constatare, il matrimonio era una sorta di professione - esigevano prestazioni impossibili e orari infernali. L'anno in corso poteva anche essere il 2058, contrassegnato da un notevole sviluppo tecnologico, ma il matrimonio era quello di sempre. Per Eve era sinonimo di terrore. Eppure, in quella bella giornata di fine estate, uno dei suoi rari e preziosi giorni di riposo, si stava preparando per andare a fare shopping. Non riuscì a contenere il brivido che le corse lungo la schiena: non si trattava di fare qualche banale acquisto, ricordò a se stessa mentre lo stomaco le si contraeva, ma di comprare l'abito da sposa. Aveva chiaramente perso la testa. Era stato Roarke a combinare tutto. Aveva approfittato di un suo momento di debolezza, mentre tutti e due erano sanguinanti, pieni di lividi, sfuggiti fortunosamente alla morte. Quando un uomo è tanto furbo e conosce tanto bene la sua preda da scegliere un tempo e un luogo simili per fare una proposta di matrimonio, la donna è spacciata. Quantomeno una donna
come Eve Dallas. «Hai l'aria di chi sta per affrontare, disarmata, una banda di spacciatori.» Eve sollevò una scarpa, fulminandolo con gli occhi. È davvero troppo affascinante, pensò. Un fascino quasi perverso. Il viso dai lineamenti marcati, la bocca da poeta, gli occhi azzurri da assassino. La folta capigliatura nera, da mago. Se si passava dal volto al corpo, si restava ugualmente impressionati. Se poi si aggiungeva la lieve traccia di accento irlandese nella voce, be', il risultato era sconvolgente. «Ciò che sto per affrontare è peggio di qualsiasi tossico.» Avvertendo nella propria voce un vago tono lamentoso, Eve si accigliò. Non piagnucolava mai, ma avrebbe preferito impegnarsi in un corpo a corpo con un drogato all'ultimo stadio piuttosto che discutere sulla lunghezza di una gonna. Una gonna, Cristo santo! Fissò tra le palpebre socchiuse Roarke, che stava attraversando l'ampia camera da letto. Di tanto in tanto quell'uomo riusciva a suscitare in lei la sensazione di comportarsi da sciocca. Lui le sedette accanto, sull'alto e spazioso letto che condividevano. Le prese in mano il mento. «Sono disperatamente innamorato di te.» Era vero. Quell'uomo coi peccaminosi occhi azzurri, i lineamenti da angelo caduto dal cielo, l'amava. «Roarke.» Lottò per frenare un sospiro. Avrebbe potuto fronteggiare un mercenario mutante impazzito e armato di laser - come d'altronde le era già successo - senza provare una paura tanto forte come quella che la stava attanagliando davanti a un sentimento così ostentato. «Ce la farò. Te l'ho promesso.» Roarke aggrottò la fronte, incupito e frustrato. Si chiese come Eve potesse essere tanto inconsapevole del proprio fascino mentre se ne stava seduta lì, fremente, a tormentare con le mani inquiete i capelli castani dall'orrendo taglio, tanto da ridurli a un ammasso di ciuffetti irti, e con sottili rughe di fastidio e dubbio tra i grandi occhi color whiskey. «Mia adorata Eve.» La baciò, dapprima sulle labbra imbronciate, poi nella fossetta del mento. «Non ne ho mai dubitato.» E invece sì, in continuazione. «Oggi avrò molte cose da sbrigare. Ieri sera hai fatto tardi e non ho avuto modo di chiederti se avevi già preso qualche impegno.» «Il caso Bines ci ha costretti a stare di guardia fino alle tre del mattino.» «L'avete catturato?» «Mi è finito dritto tra le braccia... in uno stato di esaltazione indotto dagli allucinogeni e da una seduta di realtà virtuale lunga quanto una marato-
na.» Sorrise, ma era un sorriso da cacciatore, cupo e rapace. «Quel piccolo assassino si è fatto avanti come se fosse il mio droide personale.» «Bene, bene.» Roarke le batté la mano sulla spalla, prima di alzarsi. Scese dalla piattaforma del letto e raggiunse la zona guardaroba, dove indugiò nella scelta di una giacca. «E oggi? Qualche rapporto da redigere?» «Oggi ho la giornata libera.» L'uomo si voltò, tenendo in mano una stupenda giacca nera di seta. «Posso cambiare i miei piani per il pomeriggio, se vuoi.» Il che, si disse Eve, sarebbe stato come sovvertire i piani di una battaglia. Nel mondo di Roarke, gli affari erano una guerra complessa e redditizia. «Ho già il carnet pieno», replicò. «Vado a fare acquisti. L'abito da sposa.» Il volto di Roarke si distese in un ampio e rapido sorriso. Fare una cosa del genere equivaleva, in lei, a una dichiarazione d'amore. «Non mi meraviglia che tu sia così nervosa. Ti avevo detto che ci avrei pensato io.» «Lo sceglierò da me, l'abito da sposa. E lo pagherò coi miei soldi. Non è per il tuo denaro che ho accettato di diventare tua moglie.» «Allora perché mi sposi, tenente?» ribatté lui. «Perché tu non hai mai accettato un rifiuto», spiegò Eve, alzandosi e infilando le mani nelle tasche anteriori dei jeans. «Risposta solo parzialmente valida. Tenta di nuovo.» «Perché ho perso la testa.» «Così non vincerai mai il viaggio per due al Mondo Tropicale su Star 50.» Un sorriso riluttante le guizzò sulle labbra. «Forse perché ti amo.» «Forse.» Accontentandosi del risultato, Roarke le tornò accanto, cingendole le spalle. «Che cosa c'è di tanto drammatico nella scelta di un abito? Puoi scaricare dal computer il catalogo di qualche negozio specializzato, dare un'occhiata a una dozzina di vestiti adatti all'occasione e ordinare quello che preferisci.» «Era proprio questa la mia idea», sbottò Eve. «È stata Mavis a decidere diversamente.» «Mavis.» Roarke impallidì leggermente. «Dimmi che non lo farai scegliere a lei.» Quella reazione le dissipò in parte il malumore. «Ha un amico che fa lo stilista.» «Mio Dio!» «Secondo lei, è uno schianto. Ha solo bisogno di sfondare, di farsi un
nome. Ha aperto un piccolo atelier a Soho.» «Fuggiamo. Adesso, subito. Sei stupenda.» «Hai paura?» «Sono terrorizzato.» «Bene. Così siamo pari.» Felice di aver riequilibrato le parti, si chinò e gli diede un bacio. «Per le prossime settimane a partire da adesso potrai preoccuparti di come mi presenterò il gran giorno. Ora devo andare.» Gli picchiettò la guancia. «Dobbiamo incontrarci tra venti minuti.» «Eve.» Roarke la prese per mano. «Non commetterai una sciocchezza?» Lei si divincolò. «Sto per sposarmi, giusto? Che cosa potrei fare di più sciocco?» Eve si augurò che lui rimanesse in tensione per tutto il giorno. L'idea del matrimonio era già abbastanza scoraggiante, ma la cerimonia di nozze... Vestiti, fiori, musica, invitati. Una cosa da far accapponare la pelle. Stava correndo sulla Lexington quando fu costretta a frenare bruscamente. Imprecò sottovoce contro il venditore ambulante che aveva fermato di botto, in mezzo alla corsia, il suo fumante carretto montato su pattini. Incappare in chi violava le norme del traffico era fastidioso, ma non era nulla in confronto al tanfo di panini alla soia surriscaldati che la colpì allo stomaco come una scarica di pallottole. Il taxi alle sue spalle infranse la normativa sul controllo dell'inquinamento acustico urbano, suonando il clacson all'impazzata e urlando improperi dall'altoparlante. Un gruppo di pedoni - turisti sovraccarichi di microcamere, navigatori satellitari palmari e binocoli - osservò a bocca aperta, con espressione stolida, il traffico impazzito. Eve vide un ladruncolo di strada farsi largo tra loro a gomitate, e scosse la testa; quella gente, una volta tornata in albergo, si sarebbe accorta della sparizione dalle proprie tasche di parecchie banconote. Se lei ne avesse avuto il tempo, e se avesse potuto parcheggiare l'auto da qualche parte, avrebbe dato la caccia al borseggiatore. Ma in meno di un batter d'occhio l'uomo si perse nella folla e, grazie ai pattini aerei, superò l'isolato. Questa è New York, pensò Eve con un lieve sorriso. Chi ci viene lo fa a suo rischio e pericolo. Lei amava la folla, il rumore, la fretta. Lì nessuno si trovava mai solo, ma non aveva mai neanche un attimo d'intimità. Era quello il motivo per cui aveva scelto di viverci, tanti anni prima. Non era un animale sociale, ma il troppo spazio e la troppa solitudine la
rendevano nervosa. Era arrivata a New York per lavorare nella polizia, perché credeva nell'ordine: ne aveva bisogno per sopravvivere. La sua infanzia infelice e segnata dagli abusi sessuali, con i suoi buchi neri e le sue zone d'ombra, non poteva essere cambiata. Ma a cambiare era stata lei. Aveva assunto il controllo di se stessa; si era trasformata nella persona cui qualche anonimo assistente sociale aveva affibbiato il nome di Eve Dallas. E stava cambiando di nuovo. Di lì a poche settimane non sarebbe più stata soltanto Eve Dallas, tenente della Squadra Omicidi; sarebbe stata la moglie di Roarke. Come avrebbe fatto a conciliare le due cose era per lei un profondo mistero, la cui soluzione le sembrava più intricata di quella di qualsiasi caso su cui avesse mai dovuto indagare. Nessuno dei due sapeva che cosa fosse una famiglia, che cosa volesse dire averne una e costruirla giorno dopo giorno. Entrambi conoscevano la crudeltà, gli abusi, l'abbandono. C'era da chiedersi se non fosse quello il motivo per cui si erano messi insieme. Sia l'uno sia l'altra capivano che cosa significasse non avere nulla, non essere nulla; avevano sperimentato paura, fame, disperazione... e tutti e due si erano forgiati una nuova personalità. Ad attrarli era soltanto un reciproco bisogno? Bisogno di sesso, di amore, e di un rapporto in cui sesso e amore si fondessero: una cosa che lei non aveva mai ritenuto possibile fino a quando non aveva incontrato Roarke. Una bella domanda da rivolgere alla dottoressa Mira, si disse Eve pensando alla psichiatra della polizia, che tanto spesso consultava per questioni legate alla sua professione. Ma almeno per il momento, decise, era meglio accantonare ogni elucubrazione sul futuro o sul passato. La situazione era già abbastanza complicata. A tre isolati da Green Street, colse al volo l'opportunità di parcheggio che le offriva un minuscolo spazio; dopo essersi frugata nelle tasche, trovò i gettoni che l'antiquato parchimetro le chiedeva con la sua voce gracchiante e ne infilò a sufficienza per due ore. Se la scelta dell'abito avesse richiesto più tempo, l'inevitabile multa l'avrebbe lasciata indifferente, perché Eve Dallas sarebbe già stata ricoverata in una clinica per gente affetta da crisi di nervi. Dopo aver inspirato profondamente, si guardò in giro. Non le capitava spesso di andare in quel quartiere. Gli omicidi si verificavano ovunque, ma Soho era un bastione dei giovani che lottavano per affermarsi nel mondo
dell'arte e che si raccontavano le proprie delusioni sorseggiando bicchierini di vino scadente o tazze di caffè nero alla francese. In quel momento era un tripudio di colori estivi. I negozi dei fiorai traboccavano di rose di tutti i colori. Il traffico stradale e quello aereo inondavano di fumi i passanti che affollavano i marciapiedi e i nastri trasportatori pedonali. Si notavano molti abiti dalle linee fluide, di gran moda in Europa, oltre a sandali elaborati, copricapo stravaganti e lucidi cordini che penzolavano dai lobi delle orecchie fino alle scapole. Agli angoli delle strade e nelle vetrine, gli artisti esponevano i loro dipinti - a olio, ad acquerello oppure eseguiti al computer - tentando di attirare compratori e facendo a gara coi venditori di generi alimentari che offrivano frutta ibrida, gelati allo yogurt o zuppe di verdura non contaminata da pesticidi. Qua e là si vedevano membri della Setta Pura, una congregazione di Soho, intenti a elemosinare nelle loro lunghe tuniche candide, con gli occhi scintillanti e le teste calve. Eve regalò qualche spicciolo a uno di loro, dall'aria particolarmente fervida, e ricevette in cambio un sorriso estasiato e un ciottolo lucente. «Puro amore», le disse il devoto, porgendoglielo. «Pura gioia.» «Sì, giusto», mormorò Eve, scantonando. Per trovare l'atelier di Leonardo, dovette tornare sui propri passi. Lo stilista aveva un loft al terzo piano; la finestra che dava sulla strada era piena delle sue sgargianti ed elaborate creazioni, in forme e colori che fecero deglutire nervosamente Eve. A lei piacevano gli abiti semplici o, secondo la definizione di Mavis, scialbi. Mentre saliva con l'ascensore esterno per dare un'occhiata più da vicino, ebbe l'impressione che i gusti di Leonardo fossero di tutt'altro genere. Sentì lo stomaco contrarsi di nuovo, mentre fissava i modelli esposti in un mare di piume, perline e tute unisex di gomma variopinta. Per quanto potesse divertirla l'idea di vedere Roarke trasalire, non intendeva affrontare la cerimonia di nozze indossando una buccia fluorescente. Ma c'era ben altro, e di peggio. A quanto sembrava, Leonardo era un convinto sostenitore delle creazioni più estreme. Il suo pezzo forte, su uno spettrale manichino senza volto, consisteva in un insieme drappeggiato di veli trasparenti dai bagliori così vividi da far sembrare vivo il materiale. A Eve parve quasi di sentirselo strisciare sulla pelle. Neanche per sogno, si disse, voltandosi decisa a fuggire, ma andò a sbattere contro Mavis.
«Le sue creazioni sono la fine del mondo, vero?» L'amica strinse la vita di Eve in una morsa affettuosa e fissò con aria sognante la vetrina. «Ascolta, Mavis...» «E lui è un autentico genio. L'ho visto creare dal nulla un modello. C'è da restare senza fiato.» «Già, proprio senza fiato. Mi stavo giusto dicendo...» «Sa leggere nel profondo dell'animo umano», si affrettò ad aggiungere Mavis, che, conoscendo bene Eve, aveva capito che era pronta a svignarsela. Mavis Freestone, esile come un elfo nella sua tutina bianca e oro, con zatteroni dalle suole gonfie d'aria alte una decina di centimetri, squadrò l'amica e sorrise. «Farà di te la sposa più sconvolgente di tutta New York.» Eve strinse le palpebre per frenare altri commenti del genere. «Voglio semplicemente qualcosa che non mi faccia sentire un'idiota.» Mavis replicò con un sorriso radioso e si portò una mano al petto, facendo fluttuare il nuovo tatuaggio - un cuore alato - che le ornava il bicipite. «Dallas, fidati di me.» «No», proruppe Eve, mentre l'amica la spingeva verso l'ascensore. «Parlo seriamente, Mavis. Ordinerò qualcosa via internet.» «Dovrai passare sul mio cadavere», ribatté Mavis e si avviò a passi pesanti verso l'ingresso sulla strada, trascinandosi dietro Eve. «Vieni almeno a dare un'occhiata. Parla con lui. Concedigli una possibilità.» Spinse in fuori il labbro inferiore: un'arma formidabile quando il rossetto era color cremisi, come in quel momento. «Lasciati un po' andare, una volta tanto, Dallas.» «Accidenti, dopotutto sono qui, no?» Rincuorata da quel successo, Mavis si lanciò verso la sibilante telecamera di sorveglianza. «Mavis Freestone e Eve Dallas, per Leonardo.» La porta esterna si aprì con un brusco cigolio, e Mavis si precipitò verso l'antiquato ascensore: una sorta di gabbia di ferro. «Questo posto ha un'aria veramente raffinata. Secondo me, Leonardo potrebbe restarci anche quando avrà sfondato. Questa è l'ambientazione perfetta per un artista eccentrico.» «Hai ragione.» Eve, nel sentire i bruschi sobbalzi della cabina, chiuse gli occhi e si augurò che non precipitasse. Giurò a se stessa che per scendere avrebbe preso le scale. «Ora non impuntarti e lascia che Leonardo decida al posto tuo», le intimò Mavis. «Carissimo!» Svolazzò letteralmente fuori del traballante ascensore e irruppe in uno spazio disordinato e colorato.
«Mavis, mia colomba.» Eve restò ammutolita. L'uomo che portava quel nome da artista era alto quasi un metro e novantacinque, e grosso come un pullman. Un gigante con bicipiti simili a montagne che spuntavano da una maglietta senza maniche nei colori accecanti di un tramonto marziano. Il viso era largo come la luna, la pelle ramata era tesa come quella di un tamburo sugli zigomi appuntiti. Una piccola pietra luccicante faceva capolino accanto alle labbra spalancate in un sorriso radioso, e i suoi occhi sembravano monete d'oro. L'uomo prese Mavis tra le braccia, sollevandola da terra, e la fece roteare; poi la baciò, a lungo, a fondo, in un modo che lasciò intuire a Eve che tra i due c'era qualcosa di più di un reciproco amore per la moda e l'arte. «Leonardo.» Con un ampio sorriso stralunato, Mavis gli passò le dita dalle unghie dorate nei folti riccioli che gli sfioravano le spalle. «Bambolina.» Nel vederli tubare a quel modo, Eve restò quasi senza fiato e alzò gli occhi al cielo. Era proprio nei guai, non c'erano dubbi. Mavis si era di nuovo innamorata. «I tuoi capelli sono fantastici.» Leonardo fece amorevolmente scorrere le sue dita, grosse come salsicciotti di soia, nella chioma striata di Mavis. «Speravo proprio che ti piacessero. Lei...» Fece una pausa drammatica, come se stesse per presentargli un suo pregiatissimo schnauzer. «Lei è Dallas.» «Ah, sì, la futura sposa. Piacere di conoscerla, tenente Dallas.» Tenendo avvinghiata a sé con un braccio la sua bambolina, tese l'altro per stringere la mano a Eve. «Mavis mi ha parlato molto di lei.» «Non è stata invece altrettanto loquace nei suoi confronti», replicò Eve lanciando un'occhiata in tralice all'amica. Leonardo scoppiò in una risata, così fragorosa da rintronare le orecchie di Eve e farle contrarre involontariamente le labbra. «La mia colomba sa essere riservata. Ora vi porto qualcosa da bere.» Sparì in una nuvola di colore, muovendosi con una grazia che stupì Eve. «È meraviglioso, non ti pare?» sussurrò Mavis, seguendolo con occhi amorevoli. «Tu vai a letto con lui.» «È incredibile quanto sia... fantasioso. Come...» Inspirò profondamente e si batté la mano sul petto. «È un artista del sesso.» «Non voglio sapere nulla. Preferisco restare all'oscuro.» Con le sopracciglia aggrottate, Eve si guardò intorno.
Era un vasto locale coi soffitti alti, sovraccarico di una moltitudine di materiali, arrotolati e stesi. Arcobaleni fucsia, cascate color ebano, rivoli verde pallido cadevano dall'alto, rigavano le pareti, coprivano i tavoli e i braccioli delle sedie. «Cristo!» fu l'unico commento che riuscì a fare. Ciotole e vassoi ricolmi di nastri, fettucce e bottoni erano impilati un po' ovunque, mescolati a sciarpe, cinture, cappelli, corsetti chiodati e veli adorni d'intarsi luccicanti. Su tutto aleggiava un odore da fabbrica d'incenso inserita in una rivendita di fiori. Eve inorridì. Impallidendo, si voltò. «Mavis, ti adoro. Forse non te l'ho mai detto prima, ma ora te lo confesso. E me ne vado.» «Dallas.» Con un risolino, l'amica le afferrò il braccio. Per essere una donna così piccola, aveva una forza notevole. «Rilassati. Prendi un bel respiro. Leonardo ti sistemerà a dovere, te lo garantisco.» «È proprio questo che temo. E la cosa mi atterrisce.» «Tè al limone, ghiacciato», annunciò Leonardo, con una sorta di cantilena musicale; rientrò nella stanza passando attraverso una tenda di finta seta drappeggiata e reggendo un vassoio coi bicchieri. «La prego, si accomodi. Mettiamoci a nostro agio. Anzitutto, facciamo conoscenza.» Senza perdere d'occhio la porta, Eve si avviò verso una sedia. «Senta, Leonardo, Mavis forse non le ha spiegato esattamente come stanno le cose. Vede, io sono...» «Un detective della Omicidi. Ho letto qualche articolo su di lei», la interruppe disinvoltamente l'uomo, accoccolandosi su un divano ad angolo, con Mavis in grembo. «Il suo ultimo caso ha fatto molto scalpore. Devo confessarle che sono rimasto affascinato. Il suo lavoro, tenente, consiste nel mettere insieme le svariate tessere di un mosaico, proprio come il mio.» Eve assaggiò il tè e per poco non trasalì: era forte, ricco, gradevolissimo. «Lei lavora con le tessere di un mosaico?» «Ovviamente. Quando incontro una donna, mi chiedo come mi piacerebbe vederla vestita. Per appurarlo, bisogna che scopra chi è, che cos'è, come vive. Quali sono le sue speranze, le sue fantasie, la visione che ha di se stessa. Poi devo prendere tutto questo, analizzarlo in ogni sua parte e creare il look, l'immagine. Agli inizi, ogni donna è un mistero, e io sono obbligato a risolverlo.» Mavis, senza nessun ritegno, si lasciò sfuggire un sospiro lussurioso.
«Non trovi che quest'uomo sia uno schianto, Dallas?» Leonardo ridacchiò, titillando con la punta del naso l'orecchio di Mavis. «La tua amica è preoccupata, colombella mia. Teme che io le faccia un abito rosa elettrico punteggiato di Strass.» «Sarebbe fantastico!» «A te starebbe d'incanto.» Lo stilista tornò a fissare Eve. «Dunque lei sta per sposare il misterioso e potente Roarke.» «Così sembra», mormorò Eve. «Vi siete conosciuti durante una sua indagine. Quella sul caso DeBlass, giusto? E lo ha ammaliato coi suoi occhi nocciola e col sorriso serio.» «Non direi proprio che...» «Lei non lo direbbe perché non si vede con gli occhi di lui», la interruppe Leonardo. «O coi miei. Che scorgono una donna forte, coraggiosa, piena di dubbi, affidabile.» «Lei è uno stilista o un analista?» domandò Eve. «Non si può essere l'uno senza l'altro. Mi dica, tenente, come ha fatto Roarke a vincerla?» «Non sono un premio», ribatté bruscamente Eve, posando il bicchiere. «Stupenda!» Leonardo allacciò strettamente le mani e parve sul punto di scoppiare in lacrime. «Animosità e indipendenza, con appena un pizzico di paura. Lei sarà una splendida sposa. Ora mettiamoci al lavoro.» Si alzò. «Venga con me.» «Ascolti, non vedo il motivo di sprecare il suo tempo, o il mio. Devo andare...» «Venga con me», ripeté l'uomo, prendendola per mano. «Dagli un'opportunità, Dallas.» Per accontentare Mavis, Eve lasciò che Leonardo la guidasse attraverso un dedalo di stoffe, fino a una postazione di lavoro ingombra di materiali di ogni tipo, all'altra estremità del loft. Nel vedere il computer si rinfrancò leggermente: quello era uno strumento che anche lei sapeva gestire. Ma i disegni che erano usciti da quella macchina, e che erano disseminati ovunque, fissati con spilli o chiodi, le fecero balzare il cuore nel petto. In confronto, il rosa elettrico e gli Strass sarebbero stati un sollievo. I figurini, dai corpi esageratamente lunghi, facevano pensare a creature mutanti. Alcuni erano adorni di piume, altri di pietre. Solo pochi avevano qualcosa di simile a un abito, ma con fogge così orribili - colletti a punta, camicie grandi quanto un guanto di spugna, tute aderenti come una secon-
da pelle - da farli sembrare i partecipanti a una festa di Halloween. «Sono idee per la mia prima sfilata. Sa, l'alta moda deve stravolgere la realtà. Offrire cose ardite, uniche, impossibili.» «Io le adoro.» Eve lanciò un'occhiata a Mavis e incrociò le braccia. «Il matrimonio sarà celebrato a casa, in forma semplice, intima.» Leonardo si era già seduto al computer e si muoveva sulla tastiera con impressionante maestria. «Vediamo un po', questo...» Sul monitor apparve un'immagine che raggelò il sangue a Eve. L'abito aveva il colore dell'urina, con una striscia di falpalà di un marrone fangoso che partiva dalla scollatura smerlata e arrivava all'orlo, in cui si apriva un profondo spacco costellato di pietre grandi quanto il pugno di un bambino. Le maniche erano così aderenti che chiunque le avesse infilate, si disse Eve, avrebbe perso sensibilità nelle dita. L'immagine girò su se stessa, permettendole di vedere che la schiena era completamente nuda e inquadrata da due bretelline cosparse di piume fluttuanti. «... non fa per lei», concluse la frase Leonardo, lasciandosi sfuggire una profonda risata nello scorgere il pallore di Eve. «Mi scusi, non ho potuto resistere. Per lei... faccio un semplice abbozzo, tanto per darle un'idea. Qualcosa di lungo e semplice. Lineare, ma non troppo raffinato.» Continuando a parlare, lavorava. Sul monitor linee e fogge iniziarono a prendere forma. Con le mani affondate nelle tasche, Eve osservava. Sembrava così facile, meditò. Linee allungate, solo un minimo accenno alle curve del corpo, maniche morbide e arrotondate che si chiudevano intorno al polso. Ma, ancora a disagio, si aspettava che lui aggiungesse la nota eccentrica. «Con questo ci vorrà una bella acconciatura», commentò Leonardo tra sé, poi roteò l'immagine per mostrarle il retro, elegante e sofisticato come il davanti, con uno spacco che arrivava all'altezza delle ginocchia. «Immagino che in testa lei non voglia fronzoli.» «Fronzoli?» «No.» Lui si limitò a sorridere, lanciandole un'occhiata. «No, non li vorrebbe mai. Niente copricapo, con quella zazzera.» Abituata a sentirsi criticare il taglio, Eve si ravviò i capelli con le dita. «Posso coprirli, se è proprio indispensabile.» «No, no. Le stanno benissimo.» Sconcertata, Eve lasciò ricadere la mano. «Davvero?»
«Assolutamente. Hanno solo bisogno di essere leggermente ritoccati. Conosco un'acconciatrice...» Accantonò l'argomento. «Ma il colore, tutte quelle tonalità brune e dorate, e il taglio corto, un po' selvaggio, le si addicono perfettamente. Ci vuole solo una spuntatina.» Socchiudendo gli occhi, scrutò Eve. «No, no, niente copricapo, niente velo. Il suo volto basta e avanza. Ora, pensiamo alla tinta e al materiale per il vestito. Seta, ovviamente, di quella pesante.» Fece una lieve smorfia. «Mavis mi ha detto che non sarà Roarke a pagarglielo.» Eve s'irrigidì. «Il vestito è mio.» «È fissata, a questo proposito», intervenne Mavis. «Come se per Roarke facesse differenza tirare fuori qualche migliaio di bigliettoni.» «Non è questo il punto...» «No, certo che no.» Leonardo sorrise di nuovo. «Be', ci metteremo d'accordo. Colore? Non bianco, direi. Non valorizzerebbe la sua carnagione.» Arricciando le labbra, fece ricorso al campionario delle tinte per provare qualche abbinamento. Affascinata suo malgrado, Eve osservò il bozzetto passare da bianco neve a crema, a un azzurro pallido, a un verde intenso, con tutte le sfumature intermedie. Lui però continuava a scuotere la testa, nonostante gli strilli d'approvazione di Mavis a ogni nuovo tentativo. Si fermò sul bronzo. «Questo. Sì, sì, ci siamo. Si adatta perfettamente alla sua carnagione, ai suoi occhi, ai suoi capelli. Lei sarà radiosa, fantastica. Una dea. Dovrà abbinare all'abito una collana, lunga almeno una settantina di centimetri. O, meglio ancora, due: una lunga settantacinque e l'altra sessanta. Di rame, direi, con pietre colorate. Rubini, citrini, onici. Sì, sì, e anche cornaline e, forse, qualche tormalina. Per gli accessori, ne parli con Roarke.» Che cosa mettersi addosso era sempre stato, per Eve, un problema assolutamente trascurabile; ma in quel momento si sorprese a desiderare strenuamente quell'abito. «È bellissimo», disse prudentemente, iniziando a valutare la situazione del proprio conto in banca. «Però ho qualche dubbio. La seta... si scontra un po' con le mie possibilità economiche.» «Le farò pagare l'abito a prezzo di costo, ma a due condizioni.» Leonardo si divertì a osservare l'espressione di diffidenza apparsa negli occhi di Eve. «Che mi lasci mano libera nell'ideare l'abito da damigella per Mavis e che sia sempre io a disegnarle il corredo da sposa.» «Non ho mai parlato di un corredo. Dispongo già di un armadio pieno di abiti.» «Quelli appartengono al tenente Dallas», la corresse lui. «La moglie di
Roarke dovrà sceglierne altri.» «Forse potremmo arrivare a un accordo.» Si rese conto di volerlo a tutti i costi, quel dannato vestito. Se lo sentiva già quasi addosso. «Splendido. Si spogli.» Eve saltò indietro come una molla. «Senta, bello...» «Devo prenderle le misure», si affrettò a spiegare lo stilista. Lo sguardo negli occhi di lei lo costrinse ad alzarsi e a indietreggiare di un passo; adorava le donne, e sapeva intuire quando andavano in collera. In altre parole, le temeva. «Mi deve considerare alla stessa stregua di un massaggiatore. Non posso disegnarle l'abito se non conosco il suo corpo. Sono un artista e un gentiluomo», aggiunse serio. «Se si sente a disagio, Mavis può restarle accanto.» Eve inclinò la testa. «Me la so cavare da me, amico. Se lei prova a passare il segno, se anche solo le frulla in testa un'idea del genere, la sistemerò a dovere.» «Non ne dubito.» Cautamente, Leonardo afferrò un aggeggio. «È il mio scanner; prenderà le sue misure con la massima accuratezza. Però, se vogliamo che i dati siano perfetti, lei dovrà spogliarsi completamente.» «Mavis, smettila di ridacchiare e va' a prendere un altro po' di quel tè.» «Subito. D'altronde, io ti ho già vista nuda.» Lanciando baci a Leonardo, Mavis uscì. «Mi è venuta un'altra idea... a proposito del suo guardaroba», disse lo stilista, affrettandosi a finire la frase perché Eve aveva minacciosamente socchiuso gli occhi. «Parlo della biancheria intima, ovviamente. Da sera e da giorno, elegante e sportiva. Dove trascorrerete la luna di miele?» «Non lo so. Non ci ho ancora pensato.» Rassegnata, Eve si tolse le scarpe e si sbottonò i jeans. «Roarke allora le farà una sorpresa. Computer, creare file: Dallas, prima seduta, misure, colore, altezza e peso.» Attese che Eve si sbottonasse la camicia, poi si fece avanti con lo scanner. «Unisca i piedi, per favore. Altezza, un metro e settantadue centimetri e mezzo; peso, cinquantaquattro chili.» «Da quanto tempo lei va a letto con Mavis?» Lui comunicò altri dati al computer, poi le rispose. «Da circa due settimane. Le voglio molto bene. Giro di vita, sessantacinque centimetri e mezzo.» «Ha cominciato a portarsela a letto prima o dopo aver appreso che la sua migliore amica stava per sposare Roarke?»
Leonardo si raggelò, e i suoi lucidi occhi dorati brillarono di collera. «Non mi servo di Mavis per vendere i miei modelli e lei, se pensa una cosa simile, fa un grosso torto alla sua amica.» «Volevo solo chiarire un punto. Anch'io voglio molto bene a Mavis. Se dobbiamo avere rapporti di affari, intendo essere sicura che tutte le carte siano in tavola, scoperte. Tutto qui. Perciò...» Furono interrotti da una brusca e furiosa irruzione. Una donna in aderente abito nero piombò nella stanza come un asteroide, stringendo i denti perfetti e contraendo le dita dalle unghie rosso sangue, a mo' di artigli. «Eccoti qui, figlio di puttana doppiogiochista, infido e carogna.» Fece un balzo in avanti, come una sofisticata palla di cannone lanciata contro il bersaglio, ma Leonardo la schivò, con una rapidità e una grazia indotte dalla paura. «Pandora, posso spiegarti...» «Spiegami questo.» Rovesciando la propria ira su Eve, sferrò a quest'ultima un pugno che per poco non le cavò un occhio. C'era un'unica cosa da fare. Eve la mandò al tappeto. «Oh, Gesù!» Leonardo piegò le enormi spalle e si torse le mani grandi come prosciutti. 2 «Doveva per forza colpirla?» Eve guardò gli occhi della donna, le pupille che roteavano. «Sì.» Leonardo posò il suo scanner e sospirò. «Questa creatura sta rendendo la mia vita un autentico inferno.» «Il viso, il mio viso.» Tornata completamente in sé, Pandora si alzò barcollando, fregandosi la mascella. «C'è un livido? Si vede? Tra un'ora devo salire in passerella.» Eve si strinse nelle spalle. «Peggio per lei.» Saltando da un umore all'altro come una gazzella impazzita, Pandora sibilò tra i denti: «Ti rovinerò, puttana. Non metterai mai piede in uno studio televisivo o in una cabina di registrazione e, se speravi di sfondare da qualche parte, scordatelo. Lo sai chi sono io?» Il fatto di essere nuda rese Eve ancora più aggressiva. «Crede che m'importi?» «Che cosa sta succedendo? Maledizione, Dallas, lui stava solo cercando di prenderti le misure...» Mavis, rientrata a precipizio nella stanza coi bicchieri in mano, si arrestò di colpo. «Pandora.»
«Tu!» Chiaramente Pandora non ci metteva molto a ricaricare la scorta di veleno. Balzò addosso a Mavis, mandando in frantumi i bicchieri e spruzzando tè ovunque. Nel giro di pochi secondi le due donne erano sul pavimento, avvinghiate, a strapparsi reciprocamente i capelli. «Oh, per la miseria!» Se avesse avuto con sé un'arma paralizzante, Eve l'avrebbe usata su entrambe. «Piantatela! Dannazione, Leonardo, mi dia una mano a separarle, prima che si ammazzino a vicenda.» Poi si tuffò sulle due, tirando braccia e gambe, e, tanto per togliersi una soddisfazione, sferrò a Pandora una gomitata nelle costole. «Ti sbatterò in gabbia, lo giuro su Dio.» Non trovando soluzione migliore, si piazzò a cavalcioni di quella furia e, afferrati i propri jeans, estrasse dalla tasca il distintivo. «Guarda bene, idiota. Sono un poliziotto. Devi già rispondere di due aggressioni. Vuoi aggiungere un terzo reato?» «Tolga da me quel suo culo nudo e ossuto!» Non fu quell'ordine, ma la relativa calma con cui era stato pronunciato a indurre Eve a spostarsi. Pandora si alzò, si ripulì meticolosamente le mani sul suo tubino nero, tirò su col naso, scosse la lussureggiante criniera di capelli rosso fiamma e infine volse verso lo stilista gli occhi color smeraldo dalle ciglia pesantemente truccate, lanciandogli uno sguardo gelido. «Dunque, non ti basta più averne una alla volta, eh, Leonardo? Stronzo!» Sollevò il mento tanto perfetto da sembrare scolpito e fissò con aria sprezzante dapprima Eve, poi Mavis. «Il tuo appetito può essere aumentato, tesoro, ma i tuoi gusti stanno peggiorando.» «Pandora.» Scosso, ancora timoroso di nuovi attacchi, lo stilista si umettò le labbra. «Ti ho detto che posso spiegare tutto. Il tenente Dallas è una cliente.» La donna sputò come un cobra. «È così che le chiami, adesso? Che cosa credi, Leonardo, che io sia disposta a farmi da parte, senza tante storie, come un ferro vecchio? Lo decido io quand'è finita.» Zoppicando leggermente, Mavis si avvicinò a Leonardo e gli cinse la vita con un braccio. «Lui non ha bisogno di te e non ti vuole più.» «Me ne frego di ciò che vuole. Ma è davvero convinto di non aver più bisogno di me?» Le sue labbra carnose si piegarono in un ghigno maligno. «Farebbe bene a spiegarti come vanno le cose a questo mondo, puttana. Senza di me, il prossimo mese non ci sarà nessuna sfilata delle sue mediocri creazioni. E, senza la sfilata, lui non venderà nulla e, se non vende, non sarà in grado di pagare questo materiale e tutto ciò che ha in magazzino, né potrà rimborsare il pesante prestito ottenuto da certi tipi che non vanno
tanto per il sottile.» Inspirò profondamente e si esaminò le unghie, che le si erano scheggiate. La rabbia sembrava donarle, almeno quanto il tubino nero. «Questa storia ti costerà parecchio, Leonardo. Nei prossimi due giorni sarò molto impegnata, ma riuscirò in un modo o nell'altro a trovare un attimo di tempo per fare quattro chiacchiere coi tuoi finanziatori. Secondo te, quale sarà la loro reazione nel sentirmi dire che non posso sputtanarmi facendomi vedere in giro coi tuoi abiti addosso? Con quegli orrendi stracci?» «Non puoi farmi questo, Pandora.» Ogni parola dello stilista trasudava panico, un panico che - Eve ci avrebbe giurato - faceva sull'infuriata donna dai capelli rossi lo stesso effetto di una dose di droga su un tossicomane. «Mi rovineresti. Ho investito tutto in questa sfilata. Tempo, denaro...» «È un vero peccato che tu non ci abbia pensato prima.» Gli occhi della donna si ridussero a due taglienti fessure. «Credo di poter riuscire a pranzare con alcuni dei tuoi finanziatori entro la fine della settimana. Perciò hai un paio di giorni, tesoro, per decidere quale mossa intendi fare. O ti sbarazzi del tuo nuovo giocattolo o ne paghi le conseguenze. Sai dove trovarmi.» Si allontanò camminando con l'andatura ondeggiante di un'indossatrice, ed enfatizzò la sua uscita di scena sbattendo la porta. «Oh, merda!» Leonardo si lasciò cadere su una sedia e si coprì il volto con le mani. «Un tempismo perfetto, il suo, come sempre.» «No, non permetterle di farti questo. Di farci questo.» Sul punto di scoppiare in lacrime, Mavis si accovacciò davanti a lui. «Non puoi più permetterle di rovinarti la vita, di ricattarti...» Colta da un'improvvisa ispirazione, balzò in piedi. «Perché questo è un vero e proprio ricatto, non è così, Dallas? Falla arrestare!» Eve finì di riabbottonarsi la camicia. «Non posso farla arrestare solo per aver detto che non indosserà gli abiti di Leonardo. Posso accusarla di aggressione, ma uscirebbe di galera prima ancora che la porta della sua cella venisse chiusa.» «Ma questo è un ricatto! Tutto ciò che Leonardo possiede è investito nella sfilata. Se questa non ci sarà, lui finirà sul lastrico.» «Mi dispiace. Sinceramente. Ma non è una questione che riguardi la polizia o la sicurezza.» Si passò le mani nei capelli. «Ascolta, quella donna era furiosa ed eccitata. Sotto l'effetto di qualche droga, a giudicare dalla dilatazione delle pupille. È molto probabile che finisca per calmarsi.» «No.» Leonardo si abbandonò contro la spalliera della sedia. «Vuole farmela pagare. Come lei avrà capito, siamo stati amanti, ma i nostri rap-
porti avevano cominciato a raffreddarsi. È stata lontana dal pianeta per qualche settimana, e io ho pensato che la nostra relazione fosse ormai giunta al termine. Ed è stato allora che ho conosciuto te, Mavis.» Allungò una mano verso quella di lei e gliela strinse. «Così ho capito che con Pandora era davvero finito tutto. Ho parlato con lei brevemente, le ho spiegato la situazione. O, per meglio dire, ci ho provato.» «Dal momento che Dallas non può esserci d'aiuto, c'è una sola cosa da fare», disse Mavis, col mento che le tremava. «Devi rimetterti con lei. È l'unica via d'uscita.» Poi, prima che Leonardo potesse aprire bocca, aggiunse: «Non ci vedremo più, almeno fino alla tua sfilata. Soltanto dopo, forse, potremo tentare di ricominciare da capo. Non puoi permetterle di andare dai tuoi finanziatori a gettare fango sulle tue creazioni». «Credi che io possa farlo? Andare a letto con lei? Toccarla, dopo quanto è accaduto? Dopo che ti ho conosciuta?» Si alzò. «Io ti amo.» Le lacrime riempirono gli occhi di Mavis. «Oh, Leonardo. Non dirlo. Ti amo troppo per vederti rovinato da quella donna. Me ne vado. Per salvarti.» Uscì di corsa, lasciando lo stilista con lo sguardo fisso sulla porta dietro cui era svanita. «Sono in trappola. Quella cagna vendicativa... Vuole portarmi via tutto. La donna che amo, il mio lavoro, ogni cosa. Potrei ucciderla per aver suscitato quello sguardo negli occhi di Mavis.» Inspirò profondamente, si guardò le mani. «Un uomo può essere tratto in inganno dalla bellezza e non vedere che cosa c'è sotto.» «Ciò che Pandora intende dire ai suoi finanziatori conta davvero tanto? Quegli individui non avrebbero scommesso il proprio denaro su di lei se non avessero creduto nel suo lavoro.» «Pandora è una delle top model più famose del pianeta. Ha potere, prestigio, agganci. Poche parole da lei sussurrate nell'orecchio giusto possono significare, per un uomo nella mia posizione, il successo o la rovina.» Sollevò una mano verso un fantasioso groviglio di rete e pietre che gli penzolava accanto. «Se dichiara pubblicamente che le mie creazioni fanno schifo, le vendite previste si azzereranno. E lei sa esattamente come riuscirci. Ho lavorato una vita intera in vista di questa sfilata. Pandora ne è consapevole e conosce anche il modo per mandarla all'aria. E la cosa non finirà qui.» La mano gli ricadde lungo il fianco. «Mavis non se ne rende conto, non ancora. Pandora può tenermi questa spada di Damocle sulla testa per il resto della mia vita professionale... o della sua. Non me ne libererò mai, te-
nente, a meno che non sia lei a decidere di troncare il suo rapporto con me.» Quando rientrò a casa, Eve era sfinita. Una dose aggiuntiva di lacrime e recriminazioni da parte di Mavis l'aveva svuotata di ogni energia. Ma, se non altro, era riuscita a mollare l'amica nel suo vecchio appartamento, dove si stava consolando con un chilo di gelato e un mucchio di video che l'avrebbero tenuta impegnata per ore. Volendo dimenticare quelle crisi emotive e il mondo della moda, si buttò sul letto. Il gatto Galahad le saltò accanto, facendo le fusa come un matto; poi, dopo che alcuni colpetti con la testa non ebbero suscitato nessuna reazione, si mise pure lui a dormire. Quando Roarke trovò Eve, lei era ancora in quella posizione. «Allora, com'è andata la tua giornata di libertà?» le chiese. «Odio fare shopping.» «Non ci hai ancora preso gusto.» «Perché dovrei?» Incuriosita, si rovesciò sulla schiena e lo fissò. «A te invece piace. Il solo comprare qualcosa ti rallegra.» «Certo.» Roarke le si stese accanto, carezzando il gatto che era salito a fargli la pasta sul petto. «Comprare è gratificante quasi quanto possedere. La povertà, tenente, non dà nessun tipo di soddisfazione.» Eve ci pensò. Un tempo era stata povera e aveva lottato per uscire da tale condizione, così non poté dargli torto. «Comunque, credo di aver sperimentato il peggio.» «Un'esperienza che è durata poco.» E quella rapidità lo metteva un po' in ansia. «Lo sai, Eve, che non devi decidere su due piedi.» «A dire il vero, Leonardo e io avremmo raggiunto un accordo.» Si accigliò, sollevando lo sguardo e fissando al di là del lucernario il cielo, che sembrava un vecchio cencio scolorito. «Mavis è innamorata di lui.» Con gli occhi socchiusi, Roarke continuò ad accarezzare il gatto, chiedendosi se non fosse il caso di fare quel trattamento anche a Eve. «No, è una cosa seria», aggiunse lei. Si lasciò sfuggire un lungo sospiro. «La giornata non è trascorsa proprio liscia.» Nella mente di Roarke stavano scorrendo i dati di tre importanti affari, ma lui li accantonò bruscamente e si strinse a Eve. «Raccontami tutto.» «Leonardo... è una sorta di gigante, che esercita una strana malia... non saprei come altro definirla. Deve avere nelle vene parecchio sangue indio, a giudicare dall'aspetto. Ha la struttura ossea e il colorito di un nativo ame-
ricano, bicipiti grossi come missili interstellari e una voce con una sfumatura dolce che ricorda il profumo dei fiori di magnolia. Non sono in grado di giudicare, ma, quando si è seduto a disegnare un modello, mi è sembrato pieno di talento e sicuro del fatto suo. In ogni caso, ero lì davanti a lui, nuda...» «Davvero?» replicò Roarke, con calma, poi allontanò il gatto e si sdraiò sopra Eve. «Doveva prendermi le misure», spiegò lei con un sorriso malizioso. «Continua.» «Va bene. Mavis era andata a preparare un po' di tè...» «Che persona discreta.» «E quella tizia ha fatto irruzione, con la bava alla bocca. Uno schianto di donna: quasi uno e ottanta, esile come un raggio laser, una foresta di capelli rossi e un viso... be', devo tirare in ballo di nuovo le magnolie. Comincia a sbraitare contro Leonardo e, quando quel gigante arretra impaurito, balza su di me. Ho dovuto metterla fuori combattimento.» «L'hai picchiata?» «Sì, per impedirle di sfigurarmi il volto con le sue unghie affilate come rasoi.» «Mia adorata.» Le baciò una guancia, poi l'altra e infine la fossetta sul mento. «Che cos'hai che scatena nella gente impulsi animaleschi?» «È solo questione di fortuna, credo. Allora, questa Pandora...» «Pandora?» Sollevò la testa, stringendo le palpebre. «La top model.» «Già. A quanto pare, è una celebrità.» Roarke iniziò a ridere. Dapprima fu un risolino, che però crebbe e si gonfiò talmente da costringerlo a rimettersi supino. «Hai sferrato un pugno sui lineamenti da un miliardo di dollari della famosa Pandora! Hai anche preso a calci il suo delizioso culetto?» «A voler essere onesta, sì.» Di colpo si rese conto di una cosa, e tale consapevolezza si accompagnò a una sorprendente e inaspettata fitta di gelosia. «La conosci.» «Non posso negarlo.» «Ah, bene.» Roarke inarcò un sopracciglio, più divertito che cauto. Eve si era messa a sedere e lo fissava con aria accigliata. Per la prima volta nel loro rapporto lui avvertì in quello sguardo una punta di stizza. «È stato tanto tempo fauna conoscenza superficiale.» Si grattò il mento. «Ho solo qualche ricordo sfocato.»
«Bugiardo.» «Magari più tardi mi tornerà in mente qualcosa. Stavi dicendo?» «C'è qualche donna straordinariamente bella che tu non ti sia portato a letto?» «Ti farò avere una lista. Allora, l'hai messa al tappeto...» «E si è messa a strillare e a gemere.» Eve rimpiangeva di aver tirato quel pugno. «Ma, quando ha visto entrare Mavis, le è balzata addosso. Hanno cominciato a strapparsi i capelli e a graffiarsi, mentre Leonardo si tormentava le mani.» Roarke l'attirò su di sé. «Che vita piena d'interessanti imprevisti, la tua.» «La vicenda si conclude con Pandora che minaccia Leonardo: deve lasciare Mavis e tornare con lei, altrimenti lei manderà all'aria la sfilata di moda che gli sta tanto a cuore. A quanto pare, Leonardo vi ha impegnato tutto ciò che ha e si è anche indebitato con gente priva di scrupoli. Se Pandora gli boicotta la sfilata, è rovinato.» «È proprio una cosa da lei.» «Andata via Pandora, Mavis...» «Tu eri sempre nuda?» «Mi stavo rivestendo. Dunque, Mavis decide d'immolarsi e di rinunciare a Leonardo. Una scena altamente drammatica. Lui le dichiara il proprio amore, lei scoppia in lacrime e corre via. Cristo, Roarke, mi sono sentita come un voyeurista pervertito. Ho sistemato Mavis nel mio vecchio appartamento, almeno per stanotte. Prima di domani non deve tenere il suo spettacolo nel club.» «Non andare in dissolvenza», le mormorò Roarke, sorridendo nel vedere che lo sguardo le si era fatto vacuo. «Come nelle soap opera, che alla fine di ogni puntata ti lasciano sempre col fiato sospeso. Che cosa intende fare il nostro eroe?» «Bell'eroe», mormorò Eve. «Maledizione, mi è simpatico, anche se è un pavido. Gli piacerebbe fracassare il cranio a Pandora, ma con ogni probabilità farà marcia indietro. Per questo mi stavo chiedendo se non possiamo ospitare qui Mavis per qualche giorno, finché non si sarà ripresa.» «Ma certo.» «Dici davvero?» «Questa, come mi hai fatto notare più volte, è una casa immensa. E io sono affezionato a Mavis.» «Lo so.» Lo gratificò con uno dei suoi rapidi e rari sorrisi. «Grazie. Allora, com'è andata la tua giornata?»
«Ho comprato un piccolo pianeta. Sto scherzando», si affrettò ad aggiungere, vedendo che Eve restava senza fiato. «Ho invece concluso l'accordo per una comune agricola su Taurus Five.» «Agricola?» «La gente deve mangiare. Con qualche minima ristrutturazione la comune sarà in grado di fornire frumento alle colonie manifatturiere di Marte, nelle quali ho investito pesantemente. Così una mano lava l'altra.» «Ci credo. Ora, a proposito di Pandora...» La tirò su di sé e le sfilò dalle spalle la camicia che aveva già sbottonato. «Non riuscirai a distrarmi», protestò Eve. «Nel suo caso, che cosa intendevi esattamente dire, definendo superficiale la vostra conoscenza?» Lui le mordicchiò le labbra, scendendo poi fino alla gola. «Diciamo che è durata una notte, una settimana...» Quando le prese in bocca un seno, sentì il corpo di lei arroventarsi. «Un mese... Ora sei tu che mi distrai. Ma posso fare di meglio», promise. E ci riuscì. L'idea d'iniziare la giornata con una visita all'obitorio le rivoltava lo stomaco. S'incamminò nei silenziosi corridoi con pavimenti e pareti piastrellati di bianco, cercando di vincere il disgusto per essere stata chiamata a dare un'occhiata a un cadavere alle sei di mattina. E, a peggiorare la situazione, il morto era stato ripescato in acqua. Giunta davanti alla porta, si fermò, mostrò il distintivo alla telecamera di sorveglianza e attese che il suo codice personale venisse letto e convalidato. All'interno, un tecnico aspettava accanto alla parete di loculi refrigerati in cui venivano conservate le salme. Devono essere in gran parte pieni, pensò Eve. D'estate gli omicidi aumentavano notevolmente. «Tenente Dallas.» «Sì, sono io. Lei ha un cadavere da mostrarmi.» «Venga.» Con allegra disinvoltura professionale, il tecnico si avvicinò a un loculo e digitò il codice per estrarre la salma. Le serrature scattarono, la refrigerazione si azzerò e l'enorme cassetto, col suo occupante, scivolò in avanti con un lieve sbuffo di nebbiolina ghiacciata. «All'agente che l'ha trovato è parso di riconoscerlo come uno dei suoi informatori.» Per farsi forza, Eve inspirò ed espirò a bocca aperta. La vista della morte, anche violenta, non era una novità. Ma per lei, sebbene non sapesse spiegarselo, era più facile, o, per meglio dire, meno coinvolgente, esamina-
re un cadavere nel luogo in cui era avvenuto il decesso. Lì, in quell'ambiente così asettico, quasi virginale, tutto sembrava molto più osceno. «Johannsen, Carter. Alias Boomer. Ultimo indirizzo conosciuto, l'ostello per vagabondi di Beacon. Ladruncolo, informatore di professione, spacciatore occasionale, nonché penosa imitazione di un essere umano.» Sospirando, esaminò quanto era rimasto di quell'uomo. «Be', accidenti, Boomer, come ti hanno conciato?» «Probabilmente hanno usato una spranga o una mazza sottile», affermò il tecnico, prendendo sul serio la domanda. «Dobbiamo ancora terminare l'esame autoptico. In ogni caso si tratta di colpi vibrati con estrema forza. Nel fiume il cadavere è rimasto al massimo un paio d'ore, un tempo non sufficiente a occultare le contusioni e le lacerazioni profonde.» Eve lasciò che continuasse a dilungarsi sull'argomento, ma senza prestargli ascolto. Aveva occhi per vedere da sé come stavano le cose. Il morto non era mai stato un campione di bellezza, ma del suo volto restava ben poco. Era stato percosso selvaggiamente: i colpi avevano appiattito il naso e ridotto la bocca a un ammasso gonfio e sformato. Le ecchimosi sulla gola, così come le vivide macchioline emorragiche che punteggiavano quanto restava del viso, rivelavano che l'uomo era morto strangolato. Il torso era violaceo e le braccia, a giudicare dalla loro posizione contorta, erano state spezzate. Il dito mancante alla mano sinistra era una vecchia menomazione di cui il defunto andava molto fiero, ricordò Eve, perché sosteneva di averla riportata in guerra. Ad accanirsi su Boomer era stato un individuo forte, furioso e determinato. E anche, nel breve periodo trascorso in acqua, qualche pesce. «L'agente ha usato per l'identificazione quel poco di impronte digitali rimaste; identificazione che lei, dopo averlo visto di persona, conferma.» «Già. Mi faccia avere una copia del referto autoptico.» Eve stava per andar via quando le venne una curiosità. «Come si chiama l'agente che ha riconosciuto nel morto un mio informatore?» Il tecnico estrasse un taccuino elettronico, digitò alcuni codici. «Peabody, Delia.» «Peabody.» Per la prima volta Eve si concesse un lieve sorriso. «Me la trovo sempre tra i piedi. Se qualcuno dovesse chiedere di vedere la salma o di avere notizie in merito, voglio essere avvisata all'istante.» Mentre si avviava verso la centrale di polizia, contattò Peabody. Sullo schermo apparve il volto dell'agente, con la sua solita espressione calma e
seria. «Dallas.» «Agli ordini, tenente.» «Hai ripescato Johannsen.» «Signorsì. Sto completando proprio adesso il mio rapporto. Posso fargliene avere una copia.» «Te ne sarei grata. Come sei riuscita a identificarlo?» «Nel mio kit portatile avevo un apparecchio per la rilevazione delle impronte. Quelle del morto erano gravemente erose, perciò ho ottenuto solo una lettura parziale, che tuttavia rimandava a Johannsen. Avevo sentito dire che era uno dei suoi informatori.» «Già, lo era. Ottimo lavoro, Peabody.» «Grazie, signore.» «Peabody, t'interessa collaborare col responsabile delle indagini relative a questo caso?» Per una frazione di secondo l'agente perse la sua calma imperturbabile, lasciando trasparire dagli occhi un improvviso brillio. «Signorsì. Le indagini sono state affidate a lei?» «Si tratta di un mio informatore», si limitò a rispondere Eve. «Chiederò di condurre io il caso. Ti aspetto nel mio ufficio, Peabody. Tra un'ora.» «Signorsì. Grazie, signore.» «Chiamami Dallas», mormorò Eve. «Solo Dallas.» Ma Peabody aveva già interrotto la comunicazione. Eve lanciò un'occhiata indispettita all'orologio, imprecò contro il traffico e svoltò all'altezza del terzo isolato dirigendosi verso una caffetteria che serviva i clienti direttamente in auto. Il caffè era leggermente meno disgustoso di quello che offriva la centrale di polizia. Rinfrancata dalla bevanda e da un panino, parcheggiò la vettura e si preparò a fare rapporto al suo comandante. Mentre saliva in un soffocante montacarichi spacciato per ascensore, sentì che la tensione le irrigidiva la schiena. Dirsi che era un comportamento meschino, che avrebbe dovuto metterci una pietra sopra, non sembrava bastare. Il risentimento e il dolore suscitati da un precedente caso non erano completamente svaniti. Entrò nell'anticamera degli uffici dirigenziali, con le sue affollate consolle, le pareti scure e la moquette consunta. Si annunciò alla reception del comandante Whitney, e la voce annoiata di un funzionario d'infimo livello le disse di attendere.
Rimase ferma dov'era, invece di aggirarsi nel salone a dare un'occhiata dalla finestra o ingannare il tempo sfogliando elettronicamente qualche vecchia rivista. Lo schermo alle sue spalle che trasmetteva notiziari a ciclo continuo era stato privato del sonoro, e in ogni caso Eve non aveva voglia di guardarlo. Qualche settimana prima, i media si erano occupati fin troppo di lei. Se non altro, si disse, un caso relativo a un tizio come Boomer, che andava collocato nei gradini più bassi della catena alimentare, avrebbe suscitato ben poco scalpore. La morte di un informatore non richiama una folta audience. «Il comandante Whitney è pronto a riceverla, tenente Dallas.» Varcò le porte di sicurezza e girò a sinistra, entrando nell'ufficio di Whitney. «Tenente.» «Comandante. Grazie per avermi ricevuta.» «Si accomodi.» «No, grazie. Non ne avrò per molto. Ho appena identificato all'obitorio un cadavere ripescato dal fiume. Si tratta di Carter Johannsen. Uno dei miei informatori.» Whitney, un uomo imponente con il viso duro e gli occhi stanchi, si appoggiò allo schienale della sedia. «Intende dire Boomer? Preparava cariche esplosive per gli svaligiatori di terz'ordine. Ci aveva rimesso l'indice della mano destra.» «Della sinistra, signore», lo corresse Eve. «Della sinistra.» Whitney allacciò le mani sul ripiano della scrivania e scrutò Eve. Aveva fatto un passo falso con lei, in un caso che lo coinvolgeva personalmente. Capì che la situazione non si era ancora normalizzata. Lei gli dimostrava obbedienza e rispetto, ma il rapporto vagamente amichevole che poteva esserci stato tra loro era sparito. «Immagino che si tratti di omicidio.» «Non ho ancora ricevuto il referto autoptico, ma la vittima è stata chiaramente picchiata e strangolata prima di finire nel fiume. Vorrei occuparmi delle indagini.» «Boomer le stava fornendo informazioni su qualche caso che lei ha per le mani?» «Non me ne stavo servendo, signore, già da un po'. Ma ogni tanto lui faceva qualche soffiata anche alla Narcotici. Ho bisogno di sapere con chi aveva contatti in quel Dipartimento.»
Whitney assentì. «Quanti casi sta seguendo al momento, tenente?» «Non troppi.» «Il che significa che è oberata di lavoro.» Tese le dita, poi tornò a piegarle. «Dallas, gli individui come Johannsen camminano sull'orlo di un baratro, e prima o poi finiscono per precipitare. Entrambi sappiamo che il calore dell'estate fa lievitare il tasso di criminalità, e non posso sprecare uno dei miei migliori detective per un caso come questo.» Eve serrò le mascelle. «Lui era un mio informatore. Qualunque altra cosa fosse, comandante, la sua morte mi riguarda direttamente.» La lealtà, meditò Whitney, era una delle doti che facevano del tenente Dallas una dei suoi più validi collaboratori. «Per venirne a capo dovrebbero bastarle ventiquattr'ore», le disse. «Gliene concedo settantadue, dopo di che sarò costretto ad affidare le indagini a un funzionario di grado inferiore.» Era più o meno quanto lei si era aspettata. «Vorrei avere al mio fianco l'agente Peabody.» Whitney la fissò mestamente. «Non pretenderà mica che, in un caso come questo, le conceda pure un aiutante?» «Voglio Peabody», ribatté Eve senza arretrare di un passo. «Si è dimostrata eccellente nel lavoro sul campo. Punta a diventare detective, e credo che potrebbe riuscirci alla svelta se facesse un po' di pratica.» «Potrà disporne per tre giorni. Ma, qualora dovesse verificarsi qualcosa di più importante, dovrete rendervi disponibili entrambe.» «Signorsì.» «Dallas», la richiamò Whitney, mentre lei accennava a voltargli le spalle e andarsene; poi assunse un tono più amabile. «Eve... non avevo ancora avuto l'opportunità di farle i miei migliori auguri, personali, per il suo prossimo matrimonio.» Un lampo di sorpresa balenò negli occhi di Eve, prima che lei riuscisse a controllarlo. «Grazie.» «Mi auguro che la renda felice.» «Anch'io.» Leggermente scossa, si avviò nel dedalo della centrale di polizia verso il proprio ufficio. Aveva un altro favore da chiedere. Volendo un po' di riservatezza, chiuse la porta prima di accendere il videotelefono. «Feeney, capitano Ryan. Electronic Detection Division.» Provò un senso di sollievo nel vedere comparire sullo schermo quel volto rugoso. «Sei al lavoro di buon'ora, Feeney.»
«Accidenti, non ho neppure il tempo di fare colazione», replicò lui, con aria cupa, masticando un boccone di tramezzino al formaggio. «Uno dei terminal ha perso la schermatura di protezione dai pirati informatici e nessuno, a parte me, è in grado di ripristinarla.» «È dura essere indispensabili. Mi potresti fare una ricerca... in via ufficiosa?» «È il genere di lavoro che preferisco. Dimmi.» «Qualcuno ha fatto fuori Boomer.» «Oh, mi dispiace.» Diede un altro morso al suo tramezzino. «Era un poco di buono, ma di solito filava diritto. Quando l'hanno ucciso?» «Non lo so esattamente. È stato ripescato dall'East River stamattina all'alba. Mi risulta che facesse qualche soffiata a quelli della Narcotici. Sapresti scoprire con chi era in contatto?» «Appurare chi informava chi è un lavoro rischioso, Dallas. In questo campo bisogna stare bene attenti a dove si mettono i piedi.» «Sì o no, Feeney?» «Sì, posso farlo», borbottò lui. «Ma non riferire a nessuno che sono stato io a darti l'informazione. I poliziotti non amano che qualcuno sbirci nei loro file.» «A chi lo dici. Te ne sono molto grata, Feeney. Chiunque abbia ucciso Boomer l'ha conciato per le feste. Se l'assassino l'ha massacrato per qualcosa che lui sapeva, dubito comunque che quel qualcosa riguardi le indagini che sto conducendo attualmente.» «Si tratterà di un caso di qualche altro tuo collega. Ti richiamo non appena possibile.» Eve si scostò dallo schermo vuoto e tentò di schiarirsi le idee. Continuava a rivedere il volto straziato di Boomer. Una spranga o una mazza. Ma non si potevano escludere i pugni. Lei sapeva quanto potessero essere micidiali i colpi sferrati con le nocche nude. Ricordava che cosa si provasse a riceverli quando le mani erano grosse e pesanti, come quelle di suo padre. Era una delle cose che tentava di fingere di non ricordare. Ma sapeva quale effetto facessero quelle percosse, la sofferenza psichica che infliggevano prima ancora che il cervello registrasse quella fisica. Che cos'era peggio? Le percosse o le violenze carnali? Ma le une erano strettamente connesse alle altre nella sua mente, e nelle sue paure. Ripensò alla strana angolatura delle braccia di Boomer. Aveva un vago e disgustoso ricordo del rumore che manda un osso nello schiantarsi: la nausea che sovrasta la sofferenza, il gemito lancinante che fa le veci di un urlo
quando una mano ti tiene chiusa la bocca. Il sudore freddo, il terrore che ti fa perdere il controllo degli sfinteri all'idea che quei pugni riprenderanno a colpirti, più e più volte, finché non sarai morta. Finché Dio onnipotente non ascolterà le tue suppliche di farti morire. Il colpo alla porta la fece sobbalzare, e per poco non le strappò un grido d'aiuto. Poi attraverso il vetro scorse Peabody, l'uniforme in ordine, le spalle diritte. Eve si passò una mano sulla bocca per ritrovare il controllo di sé. Era ora di mettersi al lavoro. 3 L'ostello per i vagabondi in cui alloggiava Boomer era meglio di tanti altri. L'edificio era stato in precedenza un motel che affittava le stanze a ore, a prezzi più che ragionevoli, perciò frequentato soprattutto da prostitute che esercitavano in proprio la loro professione prima che questa venisse autorizzata e legalizzata. Aveva quattro piani, che nessuno si era mai preoccupato di collegare con un ascensore o una scala mobile, e si permetteva il lusso di un atrio, per quanto lurido, e della dubbia sorveglianza di un droide femmina dall'aria cupa. A giudicare dall'odore che vi aleggiava, il Dipartimento della sanità doveva aver provveduto di recente a un intervento di disinfestazione e derattizzazione. Il droide aveva una macchia al posto dell'occhio destro, conseguenza di un chip difettoso, ma col sinistro fissò il distintivo di Eve. «Siamo in regola», disse da dietro il polveroso vetro di sicurezza. «Qui da noi è tutto in ordine.» «Johannsen», replicò Eve, togliendo di mezzo lo schermo protettivo. «Qualcuno è venuto ultimamente a trovarlo?» L'occhio sano del droide roteò, un po' a scatti. «Non sono programmata per controllare i visitatori, ma solo per riscuotere le pigioni e mantenere l'ordine.» «Posso requisire i dischi della tua memoria e visionarli per conto mio.» Con un lieve ronzio, il droide prese a ripassare il proprio disco mnemonico. «Johannsen, stanza 3C, è uscito di qui otto ore e ventotto minuti fa. È andato via da solo. Nelle ultime due settimane non ha avuto visitatori.» «Telefonate?» «Non usa i nostri apparecchi di comunicazione. Si serve dei suoi.»
«Voglio dare un'occhiata alla sua stanza.» «Terzo piano, seconda porta a sinistra. Non metta in allarme gli altri ospiti. Qui abbiamo tutta gente rispettabile.» «Già, è un vero paradiso.» Eve imboccò le scale, notando come il legno fosse corroso e abbondantemente rosicchiato dai topi. «Prendi nota, Peabody.» «Signorsì.» Peabody si agganciò opportunamente il registratore alla camicia. «Se Johannsen era ancora qui poco più di otto ore fa, non ha vissuto a lungo dopo essersene andato. Neanche un paio d'ore.» «Abbastanza a lungo da farsi massacrare.» Eve osservò pigramente le pareti. Erano piene di scritte: svariati inviti a pratiche illegali e suggerimenti anatomicamente dubbi. Uno dei graffitari sembrava avere un'idiosincrasia per le doppie, perché aveva ripetutamente scritto «cazo». Il che, comunque, non andava a scapito del significato delle sue frasi. «Un posticino accogliente, eh?» «Mi ricorda la casa di mia nonna.» Eve, che nel frattempo era arrivata di fronte alla porta della stanza 3C, si voltò. «Ehi, Peabody, spero che tu stia scherzando.» Scoppiò quindi in una risatina ed estrasse il suo codice passepartout. Peabody arrossì violentemente, ma, quando le serrature si aprirono, aveva già ripreso la sua espressione imperturbabile. «Si barricava, quand'era qui dentro», mormorò Eve nel vedere aprirsi l'ultima delle tre serrature Keligh-500. «E non badava a spese. Ognuno di questi gingilli costa l'equivalente di una settimana del mio stipendio. Eppure gli sono serviti a ben poco.» Si lasciò sfuggire un sospiro. «Dallas, tenente Eve. Sto entrando nell'alloggio della vittima.» Spalancò la porta. «Accidenti, Boomer, eri un vero maiale.» Nella stanza regnava un caldo asfissiante. Nell'ostello il condizionamento dell'aria consisteva esclusivamente nell'aprire o chiudere le finestre. Boomer aveva scelto di chiuderle, intrappolando all'interno il soffocante calore estivo. L'aria puzzava di cibo andato a male, indumenti sporchi e whiskey irrancidito. Lasciando a Peabody l'incarico di fare una prima perlustrazione, Eve si portò al centro del minuscolo locale, e scosse la testa. Le lenzuola erano macchiate da sostanze che lei non aveva nessuna voglia di analizzare. Oltre ai contenitori per cibo impilati accanto al letto, notò in un angolo una montagnola d'indumenti sporchi, dal che dedusse che le spese di lavanderia non occupavano un posto preminente nel bilancio
familiare di Boomer. Mentre si aggirava nella stanza, sentì i piedi incollarsi al pavimento e, nello staccarsi, mandare lievi rumori di suzione. In un gesto di autodifesa, spalancò l'unica finestra. Il fracasso del traffico stradale e aereo irruppe all'interno come una valanga. «Santo cielo, che posto. Come informatore era pagato abbastanza bene. Non aveva motivo di vivere in questo modo.» «Doveva essere una sua precisa scelta», commentò Peabody. «Già.» Arricciando il naso, Eve aprì una porta e diede un'occhiata alla stanza da bagno. Vide un gabinetto e un lavandino in acciaio inossidabile, più una cabina per doccia che sembrava costruita apposta per gente affetta da nanismo. Il fetore le rovesciò lo stomaco. «Peggio di un cadavere di tre giorni.» Respirando con la bocca, si voltò e si avvicinò a un robusto tavolo, sul quale era posata una costosa apparecchiatura multimediale. «Ecco dove andava a finire il suo denaro.» Appesi alla parete, subito sopra il tavolo, c'erano uno schermo e uno scaffale pieno zeppo di video. Eve ne scelse uno a caso e lesse l'etichetta. «A quanto pare, Boomer era un acculturato. Le sfacciate tettine di Lolita e delle sue amichette.» «Dev'essere la pellicola che ha vinto l'Oscar l'anno scorso.» Eve sbuffò e rimise a posto il video. «Bella battuta, Peabody. Cerca di mantenere questo senso dell'umorismo, perché ci toccherà visionare tutte queste schifezze. Raccogli ogni cosa, segnati numero ed etichette. Una volta tornate in centrale, le passeremo al setaccio.» Poi accese il videotelefono e cercò le eventuali conversazioni salvate in memoria da Boomer. In mezzo a una serie di ordinazioni di cibo e alle esibizioni di una video-prostituta che gli erano costate cinquemila dollari, trovò un paio di chiamate da parte di un presunto ricettatore; i due, però, avevano soltanto chiacchierato di sport, in particolare di baseball e pugilato. Restò leggermente meravigliata nell'accorgersi che nelle ultime trenta ore il numero del suo ufficio era stato fatto due volte, senza che lui lasciasse nessun messaggio. «Aveva tentato di mettersi in contatto con me», mormorò. «Non trovandomi, aveva interrotto il collegamento senza parlare. Non era da lui.» Estrasse il disco e lo consegnò a Peabody, affinché lo tenesse in evidenza. «Nulla però sta a indicare che fosse impaurito o preoccupato, tenente.» «No, Boomer era un perfetto informatore. Se avesse avuto il sospetto che qualcuno stava per farlo fuori, si sarebbe accampato sulla soglia del mio ufficio. Va bene, Peabody. Spero che il tuo sistema immunitario sia
perfettamente funzionante. Cominciamo a scremare questa robaccia.» Quando ebbero finalmente terminato la perquisizione, erano sporche, sudate e disgustate. Obbedendo a un esplicito ordine, Peabody aveva slacciato il rigido colletto dell'uniforme e arrotolato le maniche. Ciò nonostante, il sudore le rigava il volto e le aveva arricciato bizzarramente i capelli. «Credevo che nessuno potesse vivere nella sporcizia come i miei fratelli», disse. Eve spostò un lurido indumento intimo, tenendolo in punta di dita. «Quanti fratelli hai?» «Due. E una sorella.» «Siete in quattro?» «I miei genitori appartengono alla setta dei Naturisti», spiegò Peabody in un tono di scusa misto a una punta d'imbarazzo. «Conducono un'esistenza rurale e non ammettono il controllo delle nascite.» «Continui a sorprendermi, Peabody. Una persona decisamente metropolitana come te che discende da una famiglia di Naturisti. Perché non te ne stai in campagna a coltivare erba medica, fabbricare stoffe con un telaio a mano e allevare una nidiata di bambini?» «Mi piace la competizione, signore.» «Un buon motivo.» Eve aveva lasciato per ultima la cosa peggiore, almeno secondo lei. Con evidente ripugnanza, scrutò il letto. Rabbrividì al pensiero dei parassiti che vi dovevano pullulare. «Dobbiamo dare un'occhiata al materasso.» Peabody deglutì rumorosamente. «Signorsì.» «Non so tu che cosa ne pensi, Peabody, ma, quando avremo finito di perquisire questo porcile, io andrò subito a infilarmi in una camera di decontaminazione.» «La seguirò a ruota, tenente.» «Va bene. Iniziamo.» Cominciarono con le lenzuola. Non c'era nulla, a parte le macchie puzzolenti. Eve le avrebbe date da analizzare agli esperti della Scientifica, ma aveva già scartato l'ipotesi che Boomer fosse stato ucciso nel suo alloggio. Eppure eseguì un'attenta ricerca, scuotendo il guanciale e saggiando il lattice con le dita. Al suo segnale, Peabody afferrò un'estremità del materasso, mentre lei afferrava l'altra. Era pesante come un masso, ma, grugnendo, riuscirono a voltarlo. «Forse un Dio esiste davvero», mormorò Eve.
Attaccati sotto il materasso c'erano due minuscoli pacchetti. Uno era pieno di una polvere azzurrina, l'altro conteneva un dischetto sigillato. Eve li staccò entrambi. Frenando il desiderio di verificare subito di che tipo fosse quella polvere, esaminò il dischetto. Non aveva etichetta, ma, diversamente dagli altri, era stato accuratamente avvolto in un involucro per tenerlo al riparo dallo sporco. In condizioni normali l'avrebbe subito inserito nell'apparecchiatura di Boomer per visionarlo, ma, se anche poteva reggere al tanfo, al sudore, persino alla sporcizia, non credeva di poter sopportare neppure per un altro minuto l'idea che microscopici parassiti le stessero strisciando sulla pelle. «Andiamocene da quest'inferno.» Attese che Peabody uscisse nel corridoio esterno con la scatola degli oggetti requisiti, poi lanciò un'ultima occhiata al letamaio in cui il suo informatore aveva vissuto, chiuse la porta, la sigillò e lasciò accesa la luce rossa di sicurezza della polizia. La decontaminazione non fu dolorosa, ma neppure particolarmente piacevole. L'unico suo lato positivo fu la durata estremamente breve. Eve e Peabody si sedettero, completamente nude, su due sedie in una cabina dalle pareti curve che riflettevano una luce al calor bianco. «Ma è un caldo secco», commentò Peabody. Eve scoppiò a ridere. «Ho sempre pensato che l'inferno debba essere così.» Poi chiuse gli occhi e tentò di rilassarsi. Non si considerava claustrofobica, ma il trovarsi chiusa in un piccolo spazio la rendeva nervosa. «Sai, Peabody, erano quasi cinque anni che mi servivo di Boomer. Lui era tutt'altro che un distinto gentiluomo, ma non avrei mai creduto che vivesse in un simile letamaio.» Avvertiva ancora nelle narici quel tanfo. «Aveva un aspetto pulito. Dimmi che cosa hai trovato nella stanza da bagno.» «Sporcizia, muffa, resti di schiuma, asciugamani sporchi. Due saponette, una ancora confezionata, un mezzo tubo di shampoo, dentifricio, uno spazzolino da denti a ultrasuoni e un rasoio. Un solo pettine, spezzato.» «Arnesi da toilette. Boomer si teneva in ordine; amava persino darsi arie da dongiovanni. Sospetto che i tecnici della Scientifica mi diranno che resti di cibo, indumenti sporchi e schifezze varie risalgono in gran parte a due settimane fa, se non tre. Questo che cosa ti suggerisce?» «Che si era barricato nella stanza... preoccupato, impaurito o troppo coinvolto in qualcosa per pensare ad altro.» «Esattamente. Non così disperato da venire da me a raccontarmi tutto,
ma abbastanza preoccupato da nascondere un paio di cose sotto il materasso.» «Dove nessuno avrebbe mai avuto l'idea di cercarle», osservò ironicamente Peabody. «Sotto certi aspetti, Boomer era tutt'altro che un genio. Secondo te, che cos'è quella polvere?» «Una droga illegale.» «Non ne ho mai vista una di quel colore. Deve trattarsi di qualche sostanza nuova», meditò Eve. La luce virò verso il grigio e si udì un trillo. «A quanto pare, siamo pulite. Procuriamoci qualche indumento fresco di bucato e poi andiamo in ufficio a visionare il dischetto.» «Che diavolo è questa roba?» Eve fissò accigliata il suo monitor. Senza rendersene conto, prese a giocherellare col grosso diamante che portava al collo. «Una formula?» «Fin qui ci arrivo anch'io, Peabody.» «Signorsì.» Colpita da quello sferzante rimbrotto, l'agente si tirò indietro. «Maledizione, odio tutto ciò che sa di scientifico.» Speranzosa, Eve si lanciò un'occhiata dietro la spalla. «Tu te ne intendi?» «No, signore. Non ci capisco niente.» Eve fissò quell'insieme di numeri, diagrammi e simboli. «Il mio apparecchio non dispone di programmi in grado di decifrare questa robaccia. Dovrò portare il dischetto in laboratorio, per farlo esaminare.» Spazientita, tamburellò con le dita sulla scrivania. «Sospetto che si tratti della formula della sostanza che abbiamo trovato, ma come diavolo ha fatto una mezza calza come Boomer a entrarne in possesso? E a chi altri faceva le sue soffiate? Tu, Peabody, sapevi che lui era uno dei miei informatori. Come facevi a saperlo?» Cercando di vincere l'imbarazzo, Peabody puntò lo sguardo sulla formula stampata sul monitor, guardando al disopra della spalla di Eve. «Lei, tenente, ha riportato il suo nome in molti dei rapporti interdipartimentali sui casi conclusi.» «Hai preso l'abitudine di leggere i rapporti, agente?» «Soltanto i suoi, signore.» «Perché?» «Perché sono i migliori, signore.»
«Cerchi di adularmi, Peabody, o stai tentando di farmi le scarpe?» «Ci sarà spazio per me quando lei sarà stata nominata capitano, signore.» «Che cosa ti fa pensare che io voglia diventare capitano?» «Sarebbe da stupidi non puntare a quel posto, e lei non lo è. Lei è tutt'altro che stupida, signore.» «Va bene, lasciamo perdere. Hai dato un'occhiata ad altri rapporti?» «Ogni tanto.» «Hai qualche indizio su chi possa essere il contatto di Boomer nella Narcotici?» «No, signore. Non ho mai visto il suo nome collegato a quello di qualche altro funzionario di polizia. La maggior parte degli informatori fa capo a una persona soltanto.» «A Boomer piaceva diversificare. Facciamo qualche ricerca in giro. Diamo un'occhiata ai locali malfamati che frequentava abitualmente e vediamo che cosa riusciamo a trovare. Abbiamo solo un paio di giorni per risolvere il caso, Peabody. Se hai qualcuno a casa che ti scalda il letto, avvisalo che resterai impegnata per un po'.» «Non ho nessuno, signore. Posso fare gli straordinari senza che ciò mi crei problemi.» «Bene.» Eve si alzò. «Allora muoviamoci. A proposito, Peabody, visto che abbiamo reciprocamente messo in piazza le nostre nudità, piantala con questo 'signore', d'accordo? Chiamami semplicemente Dallas.» «Signorsì. Tenente.» Erano le tre di notte passate quando Eve varcò stancamente la porta di casa, incespicò nel gatto che aveva deciso di fare la guardia all'atrio d'ingresso, imprecò e si avviò alla cieca verso le scale. Nella sua mente vorticavano decine d'immagini: bar semibui, locali di spogliarello, strade piene di fumo in cui prostitute del livello più infimo praticavano legalmente la loro professione. Tali immagini fluivano e rifluivano, tutte insieme, in quella brodaglia poco appetitosa che era stata la vita di Johannsen, detto Boomer. Ovviamente nessuno sapeva nulla, nessuno aveva visto niente. L'unico risultato utile che Eve avesse ottenuto da quel giro nella zona più sordida della città era che, a detta di tutti, Boomer non si era più fatto vedere né sentire da una settimana, come minimo. Eppure qualcuno era riuscito a mettergli addosso gli occhi, e non solo
quelli. Scoprire chi e perché stava diventando una lotta contro il tempo. Le luci della camera da letto erano spente. Eve si era già sfilata la camicia quando notò che il letto era vuoto. Provò un'improvvisa fitta di delusione, una leggera ma inquietante punta di panico. Sarà stato obbligato a partire, pensò. Adesso si starà dirigendo verso chissà quale pianeta dell'universo colonizzato. Magari resterà via per giorni e giorni. Fissando angosciosamente il letto, si tolse scarpe e pantaloni. Frugò quindi in un cassetto, ne tirò fuori una camiciola di cotone e l'infilò. Era così depressa che stava quasi per mettersi a piagnucolare solo perché Roarke doveva prendersi cura dei propri affari. Perché non era lì, e lei non gli si poteva accucciare accanto. Perché non era lì a tenere lontani gli incubi che sembravano ossessionarla con sempre maggiore intensità e frequenza da quando i ricordi del passato avevano preso a risalire dall'inconscio per assillarla. Era troppo stanca per sognare, si disse. Troppo coinvolta in altre cose per rimuginare. E abbastanza forte da bloccare i ricordi che non voleva riportare in superficie. Si voltò, con l'intenzione di andare a dormire nel proprio ufficio, al piano di sopra, quando la porta scivolò di lato. Il sollievo rifluì in lei, come un'ondata di vergogna. «Credevo fossi stato costretto a partire.» «Stavo lavorando.» Roarke le si avvicinò. Nella penombra, il nero della sua camicia contrastava nettamente col bianco della camiciola. «Tenente, perché t'impegni sempre tanto intensamente da uscirne sfinita?» «Mi trovo in un vicolo cieco, in questa indagine.» Forse era stanca morta, o forse cominciava a trovare più facili i gesti amorosi, fatto sta che gli prese il viso tra le mani. «Sono immensamente felice che tu sia qui.» Quando Roarke la sollevò tra le braccia e la portò verso il letto, sorrise. «Non intendevo esattamente questo.» «Ora io t'infilo sotto le lenzuola, e tu dormi.» Un ordine difficile da confutare, perché gli occhi le si stavano già chiudendo. «Hai ricevuto il mio messaggio?» «Quella complessa comunicazione consistente nelle parole: 'Farò tardi'? Sì.» La baciò in fronte. «Stacca la spina.» «Tra un istante.» Si sforzò di ricacciare indietro il sonno che le stava piombando addosso. «Ho potuto parlare con Mavis solo per un paio di minuti. Lei vuole restare dov'è altri due giorni. Ha deciso anche di sospendere
il suo spettacolo al Blue Squirrel. Ha telefonato al locale e ha scoperto che Leonardo è andato lì a cercarla già una mezza dozzina di volte.» «Una manifestazione di amore vero.» «Domani chiederò un'ora di permesso per andare a trovarla, ma temo di non riuscire a vederla prima di dopodomani.» «Mavis starà bene. Se vuoi, ci posso andare io.» «Grazie, ma lei con te non aprirebbe bocca. Mi occuperò di questa storia non appena avrò scoperto che cosa stava combinando Boomer. So benissimo che non era in grado di leggere quel dischetto.» «Ovviamente no», disse Roarke, cercando di rassicurarla, sperando d'indurla ad abbandonarsi al sonno. «Non che lui non fosse abile coi numeri, quando si trattava di somme di denaro. Ma le formule scientifiche...» Eve balzò a sedere, rischiando di tirare una testata al naso di Roarke. «La tua apparecchiatura ce la potrebbe fare.» «Tu credi?» «I tecnici del laboratorio mi hanno restituito il dischetto. Loro ne hanno tenuto solo una copia, perché questo è un caso poco importante. Assolutamente non prioritario», aggiunse, trascinandosi fuori del letto. «Ho bisogno di trovare una pista valida. Tu hai un programma per le analisi scientifiche sulla tua apparecchiatura illegale, vero?» «Naturalmente.» Con un sospiro, Roarke si alzò. «Vuoi che lo verifichiamo subito, immagino.» «Possiamo accedere ai dati collegandoci al computer che si trova nel mio ufficio.» Gli afferrò la mano e lo trascinò verso la falsa parete dietro cui si nascondeva l'ascensore interno. «Non ci metteremo molto.» Mentre salivano, gli riferì la situazione, a grandi linee. Una volta entrati nel suo appartamento privato, era già completamente sveglia e su di giri. L'apparecchiatura era complessa, non autorizzata e, ovviamente, illegale. Come Roarke, anche Eve la mise in funzione tramite il pannello per la rilevazione dell'impronta palmare, poi si sistemò alle spalle della consolle. «Tu sei più veloce di me nell'accedere ai dati», disse a Roarke. «Li trovi in Codice Due, Giallo, Johannsen. Il mio codice d'accesso è...» «Ti prego.» Se proprio doveva giocare a fare il poliziotto alle tre del mattino, lui pretendeva almeno di non essere insultato. Si sedette ai controlli e azionò manualmente alcuni tasti. «Inserirsi nella centrale di polizia», ordinò quindi a voce alta e, nel vedere Eve accigliarsi, sorrise. «E pensare che noi ci riteniamo al sicuro dai pirati informatici.»
«Hai bisogno di altro prima che io acceda al tuo apparecchio?» «No», rispose Eve con voce ferma, prima di mettersi alle spalle di Roarke. «Procedi.» L'uomo prese a digitare sulla tastiera con una mano, mentre con l'altra le afferrò una delle sue posandosela sulla spalla e poi portandosela alle labbra, per mordicchiarne le nocche. «Ci sarà poco da divertirsi se mi smonti subito col tuo codice d'accesso», mormorò Roarke, azionando l'automatico. «File Codice Due, Giallo, Johannsen.» Sulla parete opposta, uno degli schermi a muro si accese. Attendere. «Reperto probatorio numero 34-J, schermata e copia a stampa», richiese Eve. Poi, non appena la strana scritta apparve sullo schermo, scrollò il capo. «Vedi? Potrebbe essere un antico geroglifico.» «È una formula chimica», commentò Roarke. «Come lo sai?» «Ho una fabbrica di prodotti chimici... legali. Questa è la formula di una specie di analgesico, ma non proprio. Proprietà allucinogene...» Schioccò la lingua, scosse la testa. «Non ho mai visto nulla del genere. Non è un prodotto standard. Computer, analizzare e identificare.» «Secondo te è una sorta di farmaco», iniziò Eve, mentre il computer si metteva al lavoro. «Questo concorda con la mia teoria. Ma che ci faceva, Boomer, con questa formula e perché qualcuno avrebbe dovuto ucciderlo per una cosa del genere?» «Dipende dalla potenzialità di vendita del prodotto, da quanto denaro se ne possa ricavare.» Roarke fissò con aria accigliata lo schermo, sul quale la formula analizzata cominciava ad apparire in forma tridimensionale. La struttura molecolare si presentò come un insieme multicolore di punti e spirali. «Benissimo, abbiamo uno stimolante organico e un allucinogeno chimico standard, entrambi in proporzioni molto basse e quasi legali. E ci sono pure le proprietà del THR-50.» «Nome di strada, Zeus. Una brutta droga», osservò Eve. «È tutto molto blando, e tuttavia il modo in cui i componenti si combinano tra loro è piuttosto interessante. Tra gli eccipienti c'è persino l'aroma di menta, per rendere il tutto più gustoso. Direi che, con qualche piccolo cambiamento, potrebbe essere fabbricato anche in forma liquida. Da unire magari al Brinock, un farmaco che serve a stimolare e migliorare le prestazioni sessuali e che, in giusta dose, può essere utilizzato nella cura dell'impotenza.»
«So che cos'è. Abbiamo avuto il caso di un ragazzo che ne ha abusato e ci ha lasciato la pelle. Si è ucciso dopo aver superato quello che può essere ritenuto il record mondiale di masturbazione. Si è buttato dalla finestra, in preda a frustrazione sessuale. Il suo pene aveva assunto le dimensioni di un grosso salame, di cui aveva anche il colore, ed era duro come una spranga di ferro.» «Grazie per avermelo detto. E ora che cosa c'è?» Perplesso, Roarke tornò alla tastiera. Il computer continuava a inviare lo stesso messaggio. Principio attivo sconosciuto. Probabile rigeneratore cellulare. Non identificabile. «Com'è possibile?» mormorò. «Il programma viene aggiornato automaticamente. Non c'è nulla che non sia in grado d'identificare.» «Un componente sconosciuto. Bene, bene. Potrebbe essere un valido motivo per uccidere. A parte quest'ultima sostanza, qual è il responso dell'analisi?» domandò Eve. «Identificare con dati noti», ordinò Roarke al computer. La formula rimanda a uno stimolante con proprietà allucinogene. Base organica. Rapida diffusione nel flusso ematico per agire sul sistema nervoso. «Effetti?» Dati incompleti. «Al diavolo! Effetti probabili in base ai dati conosciuti.» Induce euforia, paranoia, superstimolazione sessuale, sensazione di potenziamento delle energie fisiche e psichiche. Una dose di 55 mg somministrata a un soggetto umano di 65 kg di peso mantiene la propria efficacia dalle quattro alle sei ore. Una dose di oltre 100 mg è letale nell'87,3 per cento dei pazienti che ne fanno uso. Sostanza simile al THR-50, alias Zeus, unita a principi attivi che stimolano le capacità sessuali e la rigenerazione cellulare. «Non è così diversa da tante altre», commentò Eve. «E non ci vedo nulla di tanto importante. Esistono già droghe ottenute mischiando Zeus a Erotica. È una combinazione pericolosa - responsabile della maggior parte degli stupri avvenuti in città - ma ampiamente conosciuta, e non permette di ottenere profitti altissimi. Ogni tossicodipendente che abbia minime nozioni in materia può ottenere questo miscuglio in un laboratorio portatile.» «Fatta eccezione per il principio attivo sconosciuto. Rigenerazione cellulare.» Roarke inarcò un sopracciglio. «La mitica sorgente di giovinezza.» «Ogni individuo sufficientemente ricco può permettersi una terapia di
ringiovanimento.» «Ma gli esiti sono temporanei. Il trattamento va ripetuto a intervalli regolari. Lifting e iniezioni anti-invecchiamento sono pratiche costose, lunghe e spesso fastidiose. E le terapie standard non offrono gli altri effetti di questo prodotto.» «Qualunque sia il principio attivo sconosciuto, è possibile allora che renda il prodotto finale più efficace o più letale. O, come dici tu, più smerciabile.» «Tu hai la polvere», le fece notare Roarke. «Già... e i tecnici di laboratorio potrebbero individuare l'elemento sconosciuto abbastanza in fretta. Ciò nonostante, ci vorrà più tempo di quello che ho.» «Puoi procurarmene un campione?» Roarke ruotò sulla sedia e le sorrise. «Non per denigrare il laboratorio della polizia, tenente, ma il mio potrebbe dimostrarsi un po' più sofisticato.» «È un reperto. Lo sai che ho già commesso una grave infrazione alle regole inducendoti a fare questa ricerca?» Si lasciò sfuggire un sospiro ricordando il volto di Boomer, e le sue braccia. «Al diavolo la legalità. Ci proverò.» «Perfetto. Chiudere.» Il computer si spense silenziosamente. «Ora vai finalmente a dormire?» «Per un paio d'ore.» Permettendo alla fatica d'insinuarsi di nuovo in lei, Eve cinse con le braccia il collo di Roarke. «Mi riporti a letto?» «Va bene.» L'afferrò per i fianchi e la sollevò, in modo che lei potesse avvinghiarsi con le gambe al suo corpo. «Stavolta però non ti muovi da dove ti metto.» «Sai, Roarke, quando assumi questo tono imperioso mi mandi in visibilio.» «Aspetta che t'infili di nuovo a letto e andrai più che in visibilio.» Eve, scoppiando a ridere, gli posò la testa sulla spalla. Prima ancora che la cabina dell'ascensore finisse di scendere, si era già addormentata. 4 Era ancora buio quando il videotelefono iniziò a ronzare. Fu Eve a emergere dal sonno per prima; sferrò una manata all'apparecchio per prendere la comunicazione, balzando contemporaneamente a sedere. «Dallas.»
«Dallas, oh, mio Dio! Dallas, ho bisogno d'aiuto!» La donna che era in lei si sovrappose di scatto al poliziotto e fissò l'immagine di Mavis sullo schermo. «Luce», ordinò, e i lumi della stanza si accesero, permettendole di vedere più chiaramente. Il volto cereo, un livido nerastro su uno zigomo, profondi graffi rosso sangue su una gota, i capelli scarmigliati. «Mavis. Che succede? Dove sei?» «Devi venire subito.» Aveva il respiro ansimante, rotto dai singhiozzi. Gli occhi erano troppo sbarrati dallo shock per lasciar fluire le lacrime. «Fa' presto, ti prego, sbrigati. Temo che sia morta e non so che fare.» Eve non le chiese di nuovo dove si trovasse, ma ordinò all'apparecchio di rintracciare il luogo da cui era partita la chiamata. Quando sul volto di Mavis lampeggiò un indirizzo, che lei riconobbe come quello di Leonardo, mantenne la voce calma e ferma. «Resta dove sei. Non toccare nulla. Mi hai capito bene? Non toccare nulla e non far entrare nessuno, a parte me. Mavis?» «Sì, sì. Lo so. Farò come hai detto. Ma sbrigati. È spaventoso.» «Sto arrivando.» Quando si voltò, vide che Roarke si era alzato e si stava infilando i pantaloni. «Vengo con te», disse l'uomo. Eve non protestò. In cinque minuti esatti erano per strada e sfrecciavano nella totale oscurità della notte. Le strade deserte lasciarono il posto al continuo viavai di turisti a midtown, dove gli abbaglianti spot trasmessi dai tabelloni pubblicitari reclamizzavano ogni tipo di piacere che gli esseri umani conoscessero e desiderassero provare; poi apparvero gli insonni e modaioli frequentatori del Village, che oziavano ai tavolini dei bar sorseggiando minuscole tazze di caffè e intessendo sterili conversazioni. Infine attraversarono il sonnacchioso quartiere in cui abitavano gli artisti. Roarke rimase in silenzio, senza chiedere dove fossero diretti, e Eve gliene fu grata. Lei non riusciva a togliersi di mente il volto di Mavis, pallido e atterrito. E, cosa ancora più grave, la sua mano tremante, macchiata da qualcosa di scuro. Sangue. Un forte vento che lasciava intuire l'imminente arrivo di un violento temporale sferzava le vie cittadine simili a canyon e schiaffeggiò Eve mentre balzava fuori della vettura di Roarke. Percorse a folle velocità la trentina di metri che la dividevano dalla casa e batté una manata sulla videocamera di sicurezza. «Mavis. Sono Dallas.
Mavis, rispondi, maledizione!» Era talmente sotto shock che le ci vollero dieci secondi di frustrazione per rendersi conto che l'apparecchio era stato divelto. Roarke superò il portone privo di blocco ed entrò nell'ascensore accanto a lei. Quando la porta dell'appartamento si aprì, Eve seppe che i suoi timori si erano concretizzati. Quando l'aveva visitato in precedenza, il loft di Leonardo era allegramente ingombro, in un colorato disordine. In quel momento vi regnava invece un caos sinistro. Le lunghe pezze di stoffa erano stracciate, i tavoli erano stati ribaltati e tutto ciò che vi era appoggiato era a pezzi. Pareti e drappi di seta erano coperti di schizzi di sangue, di rivoli purpurei, come se un bambino bizzoso avesse sfogato la propria rabbia dipingendo con le mani. «Non toccare nulla», intimò a Roarke, per un riflesso condizionato. «Mavis?» Avanzò di un paio di passi, poi si fermò bruscamente, vedendo incresparsi una tenda. Mavis ne uscì e si fermò, barcollando. «Dallas. Grazie a Dio.» «Va tutto bene, sta' calma.» Eve respirò di sollievo. Il sangue non era di Mavis, anche se le macchiava l'abito e le mani. «Sei ferita? Stai male?» «Mi gira la testa, ho la nausea. La mia testa.» Roarke prese Mavis per un braccio e la trascinò verso una sedia. «Su, cara, accomodati. Così, perfetto. Eve, è sotto shock; mettile una coperta sulle spalle. Piega la testa all'indietro, Mavis. Brava. Ora chiudi gli occhi e respira profondamente.» «Ho freddo.» «Lo so.» Roarke si chinò, raccolse dal pavimento uno scampolo di lucido satin e glielo posò sulle spalle. «Respira profondamente, Mavis. Fa' respiri lenti e profondi.» Lanciò un'occhiata a Eve. «Ha bisogno di un medico.» «Prima di chiamare un'ambulanza devo appurare qual è la situazione. Cerca di aiutarla come puoi.» Fin troppo consapevole di ciò che avrebbe trovato, passò al di là della tenda. Furono i capelli a far capire a Eve chi fosse la vittima, quei fantastici capelli ricci color fiamma. Era morta in modo atroce. Il volto, con la sua quasi fatata perfezione, era irriconoscibile, completamente maciullato da una serie di colpi crudeli. L'arma era ancora lì, non lontano dal cadavere: uno strano bastone da
passeggio, un vezzo alla moda, da ostentare. Nonostante il sangue rappreso, Eve notò che era fatto di argento lucidissimo, spesso più di un paio di centimetri, con un'elaborata impugnatura a forma di lupo ringhiante. Ricordò di averlo visto solo due giorni prima, appoggiato in un angolo del laboratorio di Leonardo. Benché ritenesse superfluo sentire il polso di Pandora, lo fece comunque. Poi indietreggiò cautamente, per non contaminare ancora di più la scena del delitto. «Cristo!» esclamò Roarke dietro di lei, prima di posarle le mani sulle spalle. «Che cosa intendi fare?» «Il mio dovere. Non può essere Mavis la responsabile di questo delitto.» Roarke la costrinse a voltarsi e la fissò negli occhi. «Io non ho bisogno di sentirmelo dire. Ma è lei che ha bisogno di te. Deve poter contare su un'amica e, tra poco, anche su un bravo poliziotto.» «Lo so.» «Per te non sarà facile essere una cosa e l'altra.» «È meglio che mi muova.» Eve tornò da Mavis, il cui volto sembrava fatto di cera, con il livido e i graffi che spiccavano sulla pelle bianca come l'avorio. «Devi assolutamente raccontarmi tutto. Prenditi il tempo che vuoi, ma riferiscimi ogni cosa nei minimi dettagli.» «Non si muoveva. C'era tutto quel sangue... e il suo viso, conciato a quel modo... e lei era immobile.» «Mavis, guardami.» Eve le strinse le mani, con forza. «Spiegami esattamente che cos'è accaduto dal momento in cui sei entrata.» «Ero venuta... volevo... pensavo di dover parlare con Leonardo.» Rabbrividì e, con le mani ancora macchiate di sangue, si strinse addosso il pezzo di stoffa che le copriva le spalle. «Era furibondo quand'era venuto al club a cercarmi per l'ultima volta. Aveva persino minacciato il buttafuori... un comportamento che non era da lui. Non volevo che si rovinasse la carriera, così ho pensato che potevo almeno parlargli e sono venuta qui. La chiusura di sicurezza del portone era fracassata, così sono salita direttamente. La porta non era chiusa a chiave; a volte lui si dimentica di chiuderla.» «Mavis, Leonardo era qui?» «Leonardo?» I suoi occhi, appannati dallo shock, scrutarono la stanza. «No, non credo. L'ho chiamato non appena ho visto tutto questo caos. Ma non ha risposto nessuno. E c'era... il sangue. L'ho notato. Un mare di sangue. Ho avuto paura, Dallas, ho temuto che si fosse ucciso o avesse com-
messo qualche pazzia, così sono corsa a cercarlo... lì dietro. E l'ho vista. Credo... di essermi fatta avanti. Mi pare di averlo fatto perché mi sono trovata in ginocchio accanto a lei. Cercavo di urlare, ma non ci riuscivo. Urlavo solo mentalmente, senza poter smettere. Poi credo che qualcosa mi abbia colpito... Così mi è parso.» Si portò debolmente le dita alla nuca. «Mi fa male. Ma, quando ho ripreso i sensi, tutto era come prima. Lei era ancora lì, e c'era ancora tutto quel sangue. Allora ti ho chiamato.» «Va bene. L'hai toccata, Mavis? Hai toccato qualcosa?» «Non ricordo. Non mi pare.» «Chi ti ha conciato così la faccia?» «Pandora.» Un'improvvisa fitta di paura. «Mi hai appena detto che, quando sei arrivata qui, lei era già morta.» «È accaduto ieri sera. Ero andata a casa sua.» Eve trasse cautamente un respiro per contrastare la morsa allo stomaco. «Ieri sera sei andata a casa sua. A che ora?» «Non posso dirtelo con esattezza. Saranno state le undici. Volevo spiegarle che intendevo lasciare Leonardo, farle giurare che non l'avrebbe rovinato.» «E vi siete picchiate?» «Era su di giri, come se avesse preso un eccitante. C'erano alcune persone con lei, una specie di festicciola. È stata odiosa, me ne ha dette di tutti i colori. Allora l'ho insultata anch'io. Ci siamo pure accapigliate. Lei mi ha colpito, graffiato.» Mavis tirò indietro i capelli per mostrare le altre ferite che aveva sul collo. «Due persone sono intervenute a separarci, e io me ne sono andata.» «Dove?» «In un paio di bar.» Sorrise debolmente. «In un mucchio di bar, a dire il vero. Per tirarmi su d'animo, perché ero tremendamente depressa. Poi mi è venuta l'idea di parlare con Leonardo.» «Quando sei arrivata qui? Ti ricordi l'ora precisa?» «No, ma era tardi, molto tardi. Forse le tre, o le quattro.» «Dov'è Leonardo?» «Non lo so. Non era qui. Avrei voluto che ci fosse lui, qui, invece... Che cosa succederà adesso?» «Mi occupo io di tutto. Devo denunciare questo delitto, Mavis. Se non lo faccio subito, potrei pregiudicare ogni cosa. Ora bisogna che io stenda un rapporto, poi ti porterò in centrale per interrogarti formalmente.»
«In centrale? Non penserai che io...» «Certo che no.» Eve si sforzò di mantenere un tono di voce naturale, di nascondere le proprie paure. «Ma dobbiamo chiarire la situazione il più rapidamente possibile. Lasciami iniziare subito questa seccante trafila. Okay?» «Sono molto confusa.» «Tu resta seduta qui mentre io metto in moto la macchina investigativa. Voglio che ti sforzi di ricordare ogni minimo particolare. Con chi hai parlato stanotte, dove sei stata, che cosa hai visto. Tutto ciò che ti torna in mente. Tra un po' cercheremo di fare il punto della situazione.» Scossa da un lieve tremore, Mavis si rimise a sedere. «Leonardo. Non ha mai fatto male a nessuno.» «Lascia che me ne occupi io», ripeté Eve. Lanciò un'occhiata a Roarke, che, afferrato il messaggio, andò a sedersi accanto a Mavis. Eve estrasse il proprio cellulare e si voltò. «Dallas. È stato commesso un omicidio.» La vita di Eve non era mai stata facile. Nella sua carriera di poliziotto aveva visto e fatto così tante cose sconvolgenti da non essere in grado di quantificarle. Ma nulla le era mai sembrato così penoso come portare Mavis in centrale. «Ti senti bene? Possiamo anche rimandare l'interrogatorio a un altro momento.» «No, il medico del pronto soccorso mi ha dato un forte analgesico.» Mavis allungò una mano e si toccò il bernoccolo in cima alla testa. «Questa sensazione d'intontimento è piacevole. Mi è stato iniettato anche qualcos'altro, per schiarirmi la vista.» Eve scrutò attentamente gli occhi di Mavis, il loro colore. Tutto sembrava normale, ma ciò non servì a calmare i suoi timori. «Ascolta, non sarebbe male se tu restassi in osservazione in ospedale per un paio di giorni.» «È inutile tirarla per le lunghe. Preferisco chiudere questa storia al più presto» Deglutì a fatica. «Leonardo è stato rintracciato?» «Non ancora. Mavis, durante l'interrogatorio puoi farti assistere da un avvocato o da un rappresentante legale.» «Non ho nulla da nascondere. Non l'ho uccisa io.» Eve lanciò un'occhiata al registratore. Poteva aspettare ancora qualche minuto. «Nell'interrogarti dovrò applicare la severa normativa del regolamento di polizia. Alla lettera. Se non lo facessi, rischierei di vedermi to-
gliere il caso. E, se non sarò io a condurre le indagini, non potrò esserti d'aiuto.» Mavis si umettò le labbra con un gesto rapido, da assetata. «Sarà una brutta esperienza.» «Potrebbe essere molto, molto brutta. Però devi trovare la forza di affrontarla.» Mavis si sforzò di sorridere e ci riuscì quasi. «Ehi, non mi può capitare nulla di peggio del trovarmi davanti il cadavere di Pandora.» Oh, sì, ti potrebbe capitare di peggio, pensò Eve, ma fece finta di condividere le parole dell'amica. Accese il registratore, dettò il proprio nome e codice d'identificazione, comunicò ufficialmente a Mavis i suoi diritti. Con estrema cautela fece ripercorrere a Mavis le varie tappe che l'avevano portata sulla scena del delitto, tentando di mettere il più possibile in chiaro l'elemento temporale. «Quando sei entrata nell'abitazione della vittima per parlarle, erano presenti altre persone?» «Sì, alcune. Sembrava un piccolo ricevimento. C'era Justin Young. Sai, l'attore. E Jerry Fitzgerald, l'indossatrice. Più un altro tizio che non ho riconosciuto. Era molto azzimato, sembrava un manager.» «La vittima ti ha malmenato?» «Mi ha sferrato un pugno», si lagnò Mavis, toccandosi con la punta delle dita il livido sullo zigomo. «Sulle prime si era limitata a insultarmi. Da come roteava gli occhi, ho immaginato che fosse drogata.» «Hai avuto l'impressione che avesse fatto uso di qualche stupefacente illegale?» «Sì, senza dubbio. Perché i suoi occhi sembravano bottoni di cristallo. E anche per il pugno che mi ha tirato. Mi ero accapigliata con lei altre volte, l'hai visto anche tu», proseguì Mavis, facendo trasalire Eve. «Ma lei non aveva mai dato prova di una simile forza fisica.» «L'hai colpita di rimando?» «Credo di averle tirato uno schiaffo, almeno uno. Lei mi ha graffiato, con quelle sue dannate unghie. Allora l'ho afferrata per i capelli. Mi pare che siano stati Justin Young e il tipo azzimato a separarci.» «E poi?» «Per un paio di minuti, se ricordo bene, ci siamo sputate addosso reciprocamente; poi me ne sono andata. E mi sono trascinata in un bar.» «Quale, esattamente? E quanto tempo ci sei rimasta?» «Sono stata in più di un locale. Mi pare di essere andata prima di tutto
allo ZigZag, quella bettola malfamata tra la 61st Street e la Lexington.» «Hai attaccato discorso con qualcuno?» «Non volevo parlare con nessuno. Il viso mi doleva e mi sentivo a pezzi. Ho ordinato uno Zombie triplo e sono rimasta lì a leccarmi le ferite.» «Come hai pagato l'ordinazione?» «Mi pare... Sì, se non sbaglio ho usato la carta di credito.» Bene. Ci sarebbe stata una registrazione con luogo e ora. «Da lì dove sei andata?» «Ho vagabondato, facendo di tanto in tanto una capatina in altri locali d'infimo ordine. Ero un po' sbronza.» «Hai ordinato ancora da bere?» «Devo averlo fatto. Quando ho deciso di andare da Leonardo ero ormai ubriaca fradicia.» «Come sei arrivata a downtown?» «Ho camminato. Avevo bisogno di riacquistare un minimo di lucidità, perciò mi sono avviata a piedi. Ho approfittato un paio di volte di un nastro trasportatore, ma la maggior parte della strada l'ho fatta a piedi.» Sperando di ridestare in lei qualche sprazzo di ricordo, Eve ripeté tutte le informazioni che Mavis le aveva dato. «Dopo aver lasciato lo ZigZag, in quale direzione ti sei incamminata?» «Non lo so. Avevo in corpo due Zombie tripli, perciò, più che camminare, barcollavo. Non rammento il nome degli altri club in cui sono entrata né ho idea delle schifezze che ho continuato a trangugiare. Ho soltanto qualche ricordo sfocato. Musica, gente che rideva... una sagoma che ballava su un tavolo.» «Una sagoma maschile o femminile?» «Maschile. Era un tizio sessualmente superdotato, e sul pene aveva un tatuaggio, mi pare, ma è possibile che fosse solo un disegno. Quello di cui sono sicura è che rappresentava un serpente, o tutt'al più una lucertola.» «Che faccia aveva il ballerino?» «Accidenti, Dallas, l'ho guardato solo dalla vita in giù.» «Gli hai parlato?» Mavis si strinse la testa tra le mani e sforzò la memoria. Tentare di afferrare qualche ricordo era come pescare nell'acqua a mani nude. «Sinceramente, non lo so. Ero ridotta uno straccio. Rammento solo di aver camminato a lungo. Per raggiungere l'atelier di Leonardo, convinta che fosse l'ultima volta in cui l'avrei visto. Siccome non volevo che ciò avvenisse con me sbronza, prima di entrare ho ingoiato una pillola di Sober Up, quel
prodotto che rende sobri. Poi mi sono imbattuta in Pandora, ed è stato molto peggio che trovarsi in preda ai fumi dell'alcol.» «Qual è stata la prima cosa che hai visto, non appena sei entrata?» «Sangue. Un lago di sangue. Tutto in disordine, un vero caos, e altro sangue. Ero così terrorizzata all'idea che Leonardo si fosse tagliato le vene che sono corsa nella zona adibita a laboratorio, e a quel punto l'ho vista.» Quello era un ricordo che poteva evocare con la massima chiarezza. «L'ho vista e l'ho riconosciuta grazie ai capelli, e anche perché indossava lo stesso abito che portava qualche ora prima. Ma il suo volto... non c'era più nulla che potesse assomigliare a un volto. Non sono riuscita a gridare. Mi sono inginocchiata accanto a lei. Non so che cosa ho pensato di poter fare, ma dovevo fare qualcosa. È stato allora che ho ricevuto quel colpo in testa. Quando ho ripreso i sensi, ti ho telefonato.» «In strada, prima di entrare nell'edificio, hai visto qualcuno?» «No. Era molto tardi.» «Parlami della telecamera di sicurezza.» «Era sfasciata. Capita a volte che qualche stupido vandalo si diverta a romperle. Non ci ho fatto molto caso.» «Come sei entrata nell'appartamento?» «La porta non era chiusa a chiave. Ho semplicemente spinto l'uscio.» «Quando sei entrata, Pandora era morta? Non hai parlato con lei, litigato?» «No, te l'ho già detto. Era lì. Riversa a terra.» «Eri venuta alle mani con lei due volte, in precedenza. Avete lottato anche stanotte, nell'appartamento di Leonardo?» «No. Lei era morta. Dallas...» «Perché vi eravate accapigliate, nelle precedenti occasioni?» «Pandora minacciava di rovinare la carriera di Leonardo.» Sul volto ammaccato di Mavis balenarono diverse emozioni. Collera, paura, angoscia. «Non voleva lasciarlo andare. Noi ci eravamo innamorati, ma lei non intendeva mollarlo. Hai visto anche tu, Dallas, com'era fatta.» «Leonardo e la sua carriera sembrano starti molto a cuore.» «Lo amo», replicò Mavis a bassa voce. «E faresti qualunque cosa per proteggerlo, per assicurarti che nessuno gli faccia del male, fisicamente o professionalmente.» «Avevo deciso di uscire dalla sua vita!» esclamò Mavis con una dignità che intenerì Eve. «Altrimenti Pandora avrebbe fatto di tutto per nuocergli, e io non potevo permettere che ciò accadesse.»
«E, da morta, non avrebbe più potuto nuocere né a lui né a te.» «Non l'ho uccisa io!» «Ti sei recata a casa sua, avete litigato, lei ti ha colpito e siete venute alle mani. Te ne sei andata e ti sei ubriacata. Sei riuscita a raggiungere l'appartamento di Leonardo e te la sei trovata di nuovo davanti. Forse avete ripreso a litigare, forse lei ti è balzata ancora addosso. Ti sei difesa, e la situazione ti è sfuggita di mano.» Nei grandi occhi stanchi di Mavis apparve uno sguardo dapprima stupito, poi offeso. «Perché dici una cosa simile? Lo sai che non è vero.» Con aria inespressiva, Eve si piegò in avanti. «Ti stava rendendo la vita un inferno, minacciava l'uomo che ami. Ti ha colpita, fisicamente. Era più forte di te. Quando ti ha vista entrare nel laboratorio di Leonardo ti ha nuovamente aggredita. Ti ha fatto cadere a terra, picchiare la testa. Allora ti sei spaventata e hai afferrato la prima cosa che hai trovato a portata di mano. Per proteggerti. L'hai colpita, per salvare te stessa. Forse lei ti ha aggredito di nuovo, così l'hai colpita ancora. Per legittima difesa. Ma hai perso il controllo di te stessa e hai continuare a vibrare colpi su colpi, finché non ti sei resa conto che era morta.» Col respiro che le usciva dalle labbra a singulti, Mavis scosse la testa; la scosse così a lungo che tutto il suo corpo prese a tremare violentemente. «Non è andata così. Non l'ho uccisa. Era già morta. Per l'amor di Dio, Dallas, come puoi pensare che io abbia fatto una cosa simile?» «Forse non sei stata tu.» Non darle tregua, si ordinò Eve, col cuore che le sanguinava. Mettila alle corde, violentemente, in modo che risulti dal verbale dell'interrogatorio. «Forse è stato Leonardo, e tu lo stai proteggendo. L'hai visto perdere il controllo, Mavis? Ha afferrato il bastone da passeggio e ha colpito Pandora?» «No, no, no!» «Forse sei arrivata lì quando lui l'aveva appena uccisa ed era ancora fermo accanto al cadavere, in preda al panico. Nel tentativo di aiutarlo, l'hai mandato fuori e hai chiamato me.» «No. Non è andata così.» Si alzò dalla sedia, con le guance sbiancate, gli occhi fiammeggianti. «Lui non c'era. Non ho visto nessuno. E Leonardo non sarebbe mai capace di fare una cosa del genere. Perché non mi ascolti?» «Ti ascolto, Mavis. Ora rimettiti a sedere. Siediti», ripeté Eve, più gentilmente. «Abbiamo quasi finito. Desideri aggiungere qualcosa alla tua deposizione o rettificarla in qualche sua parte?»
«No», mormorò Mavis, fissando nel vuoto al disopra della spalla di Eve. «Si conclude qui l'interrogatorio numero uno, Mavis Freestone, file Omicidi, Pandora, Dallas, tenente Eve.» Aggiunse data e ora, poi spense il registratore ed emise un profondo sospiro. «Mi dispiace, Mavis. Mi dispiace molto.» «Come hai potuto farmi questo? Come hai potuto formulare contro di me simili accuse?» «Ero obbligata a farlo. Dovevo porti quelle domande, e tu dovevi rispondere.» Posò una mano ferma su quella di Mavis. «Potrei trovarmi costretta a interrogarti di nuovo, e tu non potrai rifiutarti di rispondere. Guardami, Mavis.» Aspettò che l'amica sollevasse lo sguardo. «Non so che cosa troverà la Scientifica, che cosa diranno i rapporti dei tecnici di laboratorio. Ma, a meno che la fortuna non ci assista sfacciatamente, dovrai procurarti un avvocato.» Ogni traccia di colore sparì dal volto di Mavis, persino dalle labbra, così da farla sembrare un cadavere che di vivo avesse solo gli occhi. «Hai intenzione di arrestarmi?» «Non so se si arriverà a tanto, ma voglio che tu sia preparata al peggio. Ora ti prego di andare a casa con Roarke e di dormire almeno un po'. Voglio che ti sforzi, più che puoi, di ricordare tempi, luoghi e persone. Se ti viene in mente qualcosa, dovrai prenderne nota e farmelo sapere.» «Tu che cosa farai?» «Il mio lavoro. E ci so fare, nel mio lavoro, Mavis. Non te lo scordare e confida in me. Riuscirò a sbrogliare questo pasticcio.» «A sbrogliare questo pasticcio», ripeté Mavis, con una punta di amarezza nella voce. «A discolparmi, intendi dire. Credevo che valesse la regola secondo cui 'l'indagato è innocente finché la sua colpevolezza non viene provata'.» «Questa è solo una delle più eclatanti bugie del nostro ordinamento giudiziario.» Eve si alzò e precedette Mavis nel corridoio. «Farò del mio meglio per risolvere il caso alla svelta. È tutto quello che posso dirti.» «Puoi dirmi che mi credi.» «Sì, posso dirti anche questo.» Ma al momento non poteva dimostrarlo. All'interrogatorio seguì la solita routine burocratica. Prima che fosse trascorsa un'ora, Eve aveva fatto firmare a Mavis la sua deposizione e le aveva formalmente ingiunto di non lasciare l'abitazione di Roarke, scelta come suo domicilio. Ufficialmente Mavis Freestone era da considerarsi una
semplice testimone, ma ufficiosamente compariva al primo posto nella lista dei sospettati. Eve si recò nel proprio ufficio. «Ehi, cos'è questa stronzata su Mavis che avrebbe fatto fuori a bastonate una fantastica top model?» la apostrofò Feeney mentre lei entrava nel proprio ufficio. A Eve venne voglia di coprire di baci la sua faccia grinzosa. Lui si era accomodato dietro la scrivania, con l'eterno sacchetto di praline in grembo e un'espressione accigliata sul volto coperto di rughe. «Le voci corrono in fretta», osservò Eve. «L'ho sentito quando ho fatto la mia solita sosta in caffetteria. È sulla bocca a tutti. Il fatto che un'amica della nostra più insigne detective finisca in galera non può che scatenare le chiacchiere più sfrenate.» «Non è stata arrestata. È solo una testimone. Per ora.» «I media sono già sul piede di guerra. Non hanno ancora il nome di Mavis, ma stanno sbattendo sulle prime pagine dei loro notiziari il volto della vittima. Mia moglie mi ha trascinato via dalla doccia per farmi sentire la novità. Pandora era un tipo da prendere con le molle.» «Da prendere con le molle, viva o morta.» Esausta, Eve appoggiò un fianco all'angolo della sua scrivania. «Ti interessa la deposizione di Mavis?» «Perché credi che io sia qui, per prendere il fresco?» Eve gli consegnò il brogliaccio scritto nel gergo stenografico usato dai poliziotti, che entrambi conoscevano a menadito. Feeney, dopo averlo scorso, aggrottò la fronte. «Maledizione, Dallas, la tua amica si trova in un gran brutto guaio. Hai assistito personalmente a uno scontro fra le due donne?» «Le ho viste coi miei occhi. Che diavolo è venuto in mente a Mavis di affrontare di nuovo Pandora...» Scattò in piedi e iniziò a vagare nella stanza. «È un particolare che peggiora la situazione. Spero che dal laboratorio arrivi qualcosa, qualunque cosa. Ma non posso contarci. Sei molto impegnato al momento, Feeney?» «Non me ne parlare.» Accantonò l'argomento con un gesto della mano. «Che cosa ti serve?» «Ho bisogno di una verifica sul conto corrente di Mavis. Il primo locale in cui ricorda di essere entrata è lo ZigZag. Se potessimo dimostrare che al momento della morte della vittima lei si trovava lì, o in uno qualsiasi degli altri locali, Mavis avrebbe un alibi di ferro.» «Posso farti questa ricerca, ma... se a colpire Mavis in testa è stato qual-
cuno che si aggirava sulla scena del delitto, è molto probabile che l'omicidio fosse stato appena compiuto.» «Lo so. Ma ho bisogno di stabilire alcuni punti fermi. Devo rintracciare le persone presenti in casa della vittima che Mavis ha riconosciuto e interrogarle. E trovare un ballerino con un enorme pene tatuato.» «C'è sempre qualcosa di buffo da scoprire.» A Eve scappò quasi un sorriso. «Ho bisogno di trovare testimoni che certifichino che Mavis era veramente ubriaca fradicia. Nonostante la pillola di Sober Up, non poteva essere tornata sufficientemente sobria da avere la meglio su Pandora, se effettivamente aveva continuato a bere per tutto il tragitto fino a downtown.» «Secondo lei, Pandora era sotto l'effetto di una droga.» «È un particolare che devo verificare. Poi c'è lo sfuggente Leonardo. Dove diavolo era? E dove si trova adesso?» 5 Leonardo giaceva riverso sul pavimento, in mezzo al soggiorno di Mavis, dov'era caduto alcune ore prima, in uno stato d'incoscienza etilica provocato da un'intera bottiglia di whiskey sintetico e aggravato da una profonda autocommiserazione. Stava tornando confusamente in sé, in preda al terrore di aver perso metà dei suoi connotati in un momento non meglio identificato di quella tragica notte. Quando sollevò con circospezione una mano a toccarsi il volto, tirò un sospiro di sollievo nel constatare che era rimasto quello di sempre, solo un po' gonfio per il violento impatto col pavimento di Mavis. Non riusciva a rammentare molto. Era quello uno dei motivi per cui beveva raramente e non si permetteva mai di alzare il gomito: ogni volta che trangugiava un bicchiere di troppo perdeva la nozione del tempo e la memoria gli si annebbiava. Gli parve di ricordare di essere entrato barcollante nell'edificio in cui abitava Mavis, usando il codice d'accesso che lei gli aveva dato quando entrambi si erano resi conto di non essere semplicemente amanti, ma innamorati. Lei però non c'era; di questo era abbastanza sicuro. Aveva un vago ricordo di se stesso che vagava per le vie della città con andatura malferma, ingollando il contenuto della bottiglia che aveva comprato... o rubato? Maledizione! Con la vista ancora annebbiata si sforzò di mettersi a sedere e di
aprire gli occhi cisposi. Sapeva con certezza soltanto che la sua mano aveva continuato a stringere quella bottiglia, il cui contenuto gli era finito nello stomaco. Doveva aver perso i sensi. L'idea lo disgustò. Come poteva aspettarsi di far ragionare Mavis se entrava di soppiatto nel suo appartamento, farfugliando frasi da sbronzo? Poteva soltanto rallegrarsi al pensiero che lei non fosse stata in casa. Inevitabilmente, gli orrendi postumi della sbornia gli facevano venir voglia di raggomitolarsi su se stesso e scoppiare in lacrime. Però Mavis poteva tornare da un momento all'altro, e lui non voleva che lo vedesse in quello stato, così mortificante. Si costrinse ad alzarsi in piedi e, dopo essere andato in cerca di un analgesico, programmò l'AutoChef che trovò in cucina affinché gli preparasse un caffè nero, fortissimo. Fu allora che notò il sangue. Un rivolo di sangue ormai secco che gli correva lungo tutto l'avambraccio, fino alla mano. Partiva da un taglio appena sotto il gomito, lungo e piuttosto profondo, che aveva però smesso di sanguinare. Lo stomaco gli si contrasse quando lo sguardo gli cadde sulle macchie che gli lordavano camicia e pantaloni. Respirando convulsamente, si allontanò dal bancone della cucina e si osservò da capo a piedi. Era rimasto coinvolto in una rissa? Aveva ferito qualcuno? Sentì il vomito salirgli in gola mentre la sua memoria saltellava tra profondi vuoti e nebulosi ricordi. Oh, Cristo santo, ho ucciso qualcuno? Eve stava fissando con aria cupa il rapporto preliminare del medico legale quando sentì bussare - un colpo rapido, ma secco - alla porta del suo ufficio, che si aprì prima che lei avesse il tempo d'invitare il nuovo arrivato a entrare. «Tenente Dallas?» L'uomo assomigliava in tutto e per tutto a un cowboy brunito dal sole, dal sorriso arrogante agli stivali coi tacchi smangiati. «Perdio, è un piacere vedere un mito in carne e ossa. Mi era già capitato di posare gli occhi su una tua foto, ma di persona sei molto più carina.» «Mi fai arrossire.» Socchiudendo le palpebre, Eve si appoggiò allo schienale della sedia. Anche quel tizio era molto carino, con capelli ricci color del grano che gli inquadravano un volto abbronzato ed espressivo e due occhi verde bottiglia segnati da piccole rughe affascinanti; un naso di-
ritto e una bocca che, quando sorrideva, lasciava apparire agli angoli due furtive fossette. Per non parlare del corpo, che suggeriva come lui fosse in grado di montare bene e a lungo. «Chi diavolo sei?» «Casto, Jake T.» Estrasse un distintivo dal taschino anteriore dei suoi Levi's sbiaditi. «Narcotici. Ho sentito dire che mi cercavi.» Eve diede un'occhiata al distintivo. «Davvero? E ti è stato riferito anche il motivo per cui potrei averti cercato, tenente Casto, Jake T.?» «Un informatore di cui ci servivamo entrambi.» Si fece avanti nella stanza e si appoggiò alla scrivania di Eve, con fare cameratesco. Era così vicino che lei poté sentire l'odore della sua pelle. Sapone e cuoio. «Un vero peccato, povero vecchio Boomer. Un tipo così innocuo.» «Se sapevi che Boomer era un mio informatore, perché ci hai messo tanto a venire da me?» «Ero impegnato in un altro caso. E, a dirti la verità, non credevo di avere molto da riferire. Poi mi è giunta voce che Feeney dell'EDD stava mettendo il naso nei nostri schedari.» I suoi occhi sorrisero di nuovo, con appena una punta di sarcasmo. «Anche Feeney fa parte dei tuoi scagnozzi, non è così?» «Feeney agisce per proprio conto. Per che cosa ti servivi di Boomer?» «Per le solite cose.» Casto prese un uovo di ametista che era posato sulla scrivania di Eve, ne ammirò le striature, se lo passò da una mano all'altra. «Qualche soffiata sui traffici di droghe illegali. Roba da poco. Boomer si dava arie da informatore importante, ma sapeva poco e, quel poco, frammentariamente.» «Frammenti con cui si può ricostruire un quadro di vasta portata.» «Proprio per questo me ne servivo. Era affidabile solo quando si trattava di risolvere piccoli casi. Un paio di volte le sue soffiate mi sono state utili per incastrare uno spacciatore di medio livello.» Sorrise di nuovo. «Qualcuno se la sarà legata al dito.» «Già. Chi può averlo conciato a quel modo, secondo te?» Il sorriso svanì. Casto rimise a posto l'uovo e scosse la testa. «Non posso dire di avere un qualche indizio. Boomer non era il tipo che si rende simpatico a tutti, ma non conosco nessuno che provasse per lui un tale odio, o una tale rabbia, da massacrarlo così.» Eve scrutò il suo interlocutore. Aveva l'aria di essere in gamba e, quando aveva parlato di Boomer, la sua voce aveva assunto un tono che le aveva ricordato il proprio cauto affetto per quel poveretto. Ciò nonostante, preferì continuare a giocare a carte coperte. «Stava lavorando su qualcosa in parti-
colare? Qualcosa di diverso dal solito? Di più grosso?» Le sopracciglia color sabbia di Casto s'inarcarono. «Per esempio?» «Lo chiedo a te. Il traffico di droga non è il mio campo.» «L'ultima volta che l'ho sentito, circa due settimane prima che finisse a mollo nel fiume, mi aveva accennato di aver avuto sentore di qualcosa di strano. Lo sai anche tu come parlava, Eve.» «Già, lo so come parlava.» Era arrivato il momento di scoprire una delle carte. «So anche di aver trovato nel suo alloggio una sostanza non identificata. Adesso è in laboratorio, dove la stanno analizzando. Finora mi hanno detto soltanto che è una nuova miscela, più potente di tutte le droghe che vengono attualmente smerciate nelle nostre strade.» «Una nuova miscela.» Le sopracciglia di Casto si corrugarono. «Perché non me l'ha fatto sapere? Se ha tentato di tenere il piede in due scarpe...» Dai suoi denti il fiato uscì sibilando. «Secondo te, è questo il motivo per cui l'hanno ucciso?» «È la mia ipotesi più attendibile.» «Già. Quell'idiota. Probabilmente avrà tentato di spillare quattrini al fabbricante o al distributore. Ascolta, parlerò coi tecnici di laboratorio e verificherò se in giro per la città corre voce che stia per arrivare un nuovo prodotto.» «Te ne sono grata.» «Sarà un piacere lavorare con te.» Si girò e, per una frazione di secondo, lasciò che il suo sguardo indugiasse sulla bocca di Eve. «Ti andrebbe di mangiare insieme un boccone mentre discutiamo sulla strategia da seguire? O di qualunque altra cosa ci venga in mente.» «No, grazie.» «Rifiuti perché non hai appetito o perché stai per sposarti?» «Per entrambi i motivi.» «Come non detto.» Si alzò, e Eve fu costretta ad apprezzare il modo in cui i jeans misero in mostra le lunghe gambe slanciate. «Se cambi idea per quanto riguarda l'uno o l'altro dei due motivi, ora sai dove trovarmi. Mi farò vivo.» Si avviò con andatura strascicata verso la porta; prima di uscire si voltò. «Sai, Eve, i tuoi occhi hanno il colore di un buon whiskey invecchiato. Suscitano in un maschio una gran voglia di bere.» Mentre la porta si richiudeva alle spalle di Casto, Eve aggrottò la fronte, seccata nel constatare che il battito del suo polso era più veloce del solito. Accantonò bruscamente quel pensiero e, tormentandosi i capelli con entrambe le mani, tornò a guardare il rapporto che si stagliava sul suo moni-
tor. Non aveva bisogno di farsi spiegare come fosse morta Pandora, ma trovò interessante il parere del medico legale, secondo il quale a provocare il decesso erano stati i tre primi colpi sferrati sul cranio della vittima. Tutti i successivi erano stati vibrati a caso, come in un raptus di rabbia. E la donna, prima di ricevere quelle letali mazzate, aveva lottato strenuamente; lo rivelavano i graffi e i lividi riscontrati sulle altre parti del corpo. L'ora della morte veniva fatta risalire alle due e cinquanta di notte. Come si poteva arguire dal contenuto dello stomaco, la vittima si era concessa intorno alle nove di sera un sofisticato ultimo pasto a base di aragosta, bavarese e champagne. Nel sangue erano state trovate anche pesanti tracce di sostanze chimiche, che dovevano ancora essere analizzate. Mavis, dunque, aveva visto giusto; pareva proprio che Pandora fosse sotto l'effetto di qualche droga, quasi certamente illegale. Nel quadro globale della situazione, ciò poteva fare una certa differenza. O forse no. A contare decisamente sarebbero state le tracce di pelle sotto le unghie della vittima. Eve era tremendamente sicura che i risultati delle analisi avrebbero confermato che la pelle era quella di Mavis. Anche le ciocche di capelli che la Scientifica aveva raccolto accanto al cadavere sarebbero risultate appartenere a Mavis, così come le impronte sull'arma dell'omicidio. Una messinscena perfetta, pensò, chiudendo gli occhi. Arriva Mavis, al momento sbagliato, nel posto sbagliato, e l'assassino si rende conto di avere a portata di mano un ottimo capro espiatorio. Il killer sapeva dello scontro fra Mavis e la vittima, o aveva approfittato soltanto di quella che gli era parsa una fortunata combinazione? In ogni caso mette la nuova arrivata fuori combattimento, distribuisce qua e là qualche elemento che comprovi la sua colpevolezza, ricorre persino alla magistrale trovata di graffiarle il volto con le unghie della donna morta. Ci mette poco, poi, a imprimerle le dita sull'arma del delitto, dopo di che se la svigna, con la soddisfazione di aver fatto un eccellente lavoro. Per architettare una cosa simile non ci voleva il cervello di un genio, ragionò Eve. Però il tutto richiedeva una mente fredda, pragmatica. E ciò come si sposava col folle e rabbioso infierire sul corpo di Pandora? Toccava a lei trovare il bandolo della matassa, si disse. Per riuscirci, avrebbe dovuto anzitutto scagionare Mavis e poi cercare un assassino capace di ridurre il volto di una donna in una maschera informe e, subito dopo, cancellare da sé ogni traccia del delitto.
Stava per alzarsi quando la porta del suo ufficio si spalancò. Sulla soglia si profilò un barcollante Leonardo, con gli occhi fuori delle orbite. «L'ho uccisa. Ho ucciso Pandora. Che Dio mi perdoni.» Non appena pronunciate quelle parole, rovesciò all'indietro gli occhi spiritati e cadde coi suoi centotrenta chili di peso sul pavimento, svenuto. «Oh, Cristo!» Invece di tentare di sostenerlo, Eve fece un balzo indietro, per non essere travolta. Era come veder precipitare a terra una sequoia. Il corpo riverso al suolo aveva i piedi ancora sulla soglia e la testa quasi contro la parete opposta. Eve si accovacciò, puntellò la schiena contro Leonardo e riuscì a metterlo supino; quindi lo schiaffeggiò un paio di volte con mano leggera, ma secca, e attese. Non avendo ottenuto nessun risultato, si sedette a cavalcioni su di lui, imprecando sottovoce, e gli tirò due violenti manrovesci. Leonardo mugolò e spalancò gli occhi iniettati di sangue. «Cosa... dove...» «Stia zitto!» gli intimò seccamente Eve. Poi si rialzò e, a calci, spinse i piedi oltre la soglia. Dopo aver richiuso accuratamente la porta, abbassò lo sguardo sulla sagoma ancora distesa a terra. «Ora le leggerò i suoi diritti.» «I miei diritti?» Leonardo aveva l'aria confusa, ma riuscì a puntellarsi sui gomiti e a mettersi seduto sul pavimento. «Ascolti bene.» Gli lesse la formula standard comprensiva delle ultime varianti; poi, prima che lui potesse aprire bocca, sollevò una mano. «Ha capito bene quali sono i suoi diritti e le sue possibilità di scelta?» «Sì.» Leonardo si passò stancamente le mani sulla faccia. «Conosco la procedura.» «Vuole fare una deposizione?» «Le ho già detto...» Con aria imperturbabile, Eve alzò di nuovo la mano. «Risponda sì o no. Soltanto sì o no.» «Sì, sì, voglio fare una deposizione.» «Si alzi dal pavimento. Registrerò le sue dichiarazioni.» Avrebbe potuto trascinare Leonardo nella saletta per gli interrogatori, anzi forse avrebbe dovuto farlo, ma non voleva perdere tempo. «Ha capito che ogni cosa che dirà da questo momento in poi verrà registrata?» «Sì.» L'uomo si tirò su, accasciandosi quindi su una sedia che gemette sotto il suo peso. «Dallas...» Lei scosse la testa per zittirlo. Dopo aver acceso il registratore, pronunciò le obbligatorie indicazioni di prammatica, infine ripeté l'elenco dei di-
ritti, affinché ciò risultasse a verbale. «Leonardo, se ha capito bene quali sono i suoi diritti e le sue possibilità di scelta, e avendo rinunciato a farsi assistere da un legale, è pronto a fare la sua deposizione?» «Voglio concludere questa storia al più presto.» «Sì o no?» «Sì. Sì, dannazione!» «Lei conosceva Pandora?» «Ovviamente sì.» «Aveva rapporti con lei?» «Sì.» Si coprì di nuovo il volto, ma ciò non gli impedì di rivedere l'immagine che aveva scorto sullo schermo del televisore di Mavis quando aveva deciso di ascoltare un notiziario. Il lungo sacco nero che veniva portato fuori dell'edificio in cui si trovava il suo appartamento. «Non posso credere che sia successo davvero.» «Qual era la natura dei suoi rapporti con la vittima?» Quanta freddezza, pensò Leonardo, «la vittima». Si lasciò cadere le mani in grembo e fissò Eve. «Lei sa benissimo che eravamo amanti. E sa pure che stavo cercando di rompere la relazione perché...» «Dunque al momento della sua morte non eravate più in rapporti intimi», lo interruppe Eve. «No, erano settimane che non ci vedevamo. Pandora aveva lasciato il nostro pianeta, ma le cose tra noi si erano raffreddate prima ancora che partisse. Poi ho conosciuto Mavis e per me è cambiato tutto. Dallas, dov'è Mavis? Dov'è?» «Non sono autorizzata a riferirle dove si trovi in questo momento Ms Freestone.» «Mi dica soltanto se sta bene.» I suoi occhi si riempirono di lacrime, che scesero a rigargli le guance. «Mi dica che non le è accaduto nulla di male.» «C'è chi se ne prende cura», fu la risposta di Eve, la sola che potesse dargli. «Leonardo, è vero che Pandora stava minacciando di rovinarla professionalmente? È vero che pretendeva che lei non mettesse fine alla vostra relazione e che, in caso di rifiuto da parte sua, era intenzionata a non partecipare alla sua sfilata di moda? Una sfilata in cui lei aveva investito quasi tutto il suo tempo e il suo denaro.» «Lei stessa, Dallas, era presente quando l'ha detto; l'ha sentito con le sue orecchie. Non contavo assolutamente nulla per Pandora, che però non tollerava che fossi io a scaricarla. Se non avessi smesso di vedere Mavis, se non fossi tornato a seguirla scodinzolando come un cagnolino, avrebbe fat-
to in modo che la sfilata, sempre ammesso che non venisse annullata, si trasformasse in un totale flop.» «Ma lei, Leonardo, non intendeva rinunciare a Ms Freestone.» «Io amo Mavis», disse lui con grande serietà. «È la cosa più importante della mia vita.» «E tuttavia, se non si fosse piegato alle richieste di Pandora, si sarebbe molto probabilmente trovato sommerso da una montagna di debiti e con una intollerabile macchia sulla sua reputazione professionale. È esatto?» «Sì. Ho investito nella sfilata tutto ciò che posseggo, più un'enorme somma di denaro che ho chiesto in prestito. Ma ci ho soprattutto messo il mio cuore, la mia anima.» «Pandora avrebbe potuto spazzare via tutto.» «Oh, sì.» Le sue labbra si torsero. «E ci avrebbe goduto.» «È stato lei a chiederle di recarsi nel suo appartamento, la notte scorsa?» «No. Non volevo rivederla mai più.» «A che ora è arrivata nel suo appartamento, la notte scorsa?» «Non lo so.» «Com'è entrata? È stato lei ad aprirle la porta?» «Mi pare di no. Non lo so. Pandora doveva avere il mio pass. Non mi era venuto in mente di farmelo ridare o di cambiare serratura, tutto è avvenuto in modo così folle.» «Avete litigato?» Gli occhi di Leonardo tornarono a farsi vitrei, lo sguardo vacuo. «Non lo so. Non ricordo. Ma dev'essere andata così. Non può essere stato altrimenti.» «Di recente Pandora era entrata nel suo appartamento senza essere stata invitata, minacciando lei e aggredendo fisicamente la sua attuale compagna?» «Sì, sì, è vero.» Se lo ricordava, quello. Era un sollievo riuscire a rammentare almeno quel particolare. «Qual era lo stato d'animo di Pandora quando, la notte scorsa, è entrata nel suo appartamento?» «Doveva essere furibonda. Devo averle detto che non intendevo lasciare Mavis. E questo l'avrà mandata su tutte le furie. Dallas...» I suoi occhi tornarono limpidi, ma vi brillava la disperazione. «Non ricordo. Ho dimenticato ogni cosa. Quando mi sono ridestato, stamattina, ero in casa di Mavis. Mi pare di rammentare di aver usato il mio pass per entrare. Avevo bevuto, camminato e bevuto. Mi concedo raramente un bicchiere perché tendo a
perdere la nozione del tempo, ad avere pesanti vuoti di memoria. Quando mi sono svegliato, ho visto il sangue.» Tese il braccio, con la ferita bendata alla meno peggio. «Avevo sangue sulle mani e sugli abiti. Sangue secco. Devo aver lottato con Pandora, averla uccisa.» «Dove sono gli abiti che indossava la notte scorsa?» «Li ho lasciati a casa di Mavis. Ho fatto una doccia e mi sono cambiato. Non volevo che lei tornasse a casa e mi trovasse in un simile stato. Mentre l'attendevo, cercando di capire che cosa fosse meglio fare, ho acceso il televisore. Ho sentito... ho visto. Ho capito.» «Sta dicendo di non ricordare di essersi incontrato con Pandora la notte scorsa. Non ricorda di aver avuto con lei un alterco, né di averla uccisa?» «Ma devo averlo fatto», insistette Leonardo. «È morta nel mio appartamento.» «A che ora è uscito dal suo appartamento, ieri notte?» «Con precisione non lo so. Avevo già bevuto molto. Ero nervoso e arrabbiato.» «Ha visto qualcuno, ha parlato con qualcuno?» «Ho comprato un'altra bottiglia. Da un venditore ambulante, mi pare.» «Ha visto Ms Freestone la notte scorsa?» «No. Di questo sono sicuro. Se fossi riuscito a parlarle, tutto sarebbe andato a posto.» «Che cosa direbbe se le rivelassi che la scorsa notte Mavis era nel suo appartamento?» «Mavis era venuta a trovarmi?» Gli s'illuminò il viso. «Voleva rimettersi con me? Ma non può essere vero. Questo non mi sarebbe mai uscito di mente.» «Mavis era presente quando lei ha lottato con Pandora, quando l'ha uccisa?» «No, no.» «È entrata quando Pandora era già morta, dopo che lei l'aveva uccisa? Allora lei è stato preso dal panico, non è così?» Era nei suoi occhi, il panico. «Non è possibile che Mavis fosse nel mio appartamento.» «Eppure c'era. Mi ha chiamato da lì, dopo aver scoperto il cadavere.» «Mavis l'ha vista?» La sua carnagione, per quanto color rame, divenne livida. «Oh, mio Dio, no!» «E qualcuno l'ha colpita in testa e le ha fatto perdere i sensi. È stato lei,
Leonardo?» «Qualcuno l'ha colpita? È ferita gravemente?» Era balzato in piedi, con le mani nei capelli. «Dov'è adesso?» «È stato lei a colpirla?» Lui tese le braccia. «Mi taglierei le mani piuttosto che colpire Mavis. La scongiuro, Dallas, mi dica dov'è Mavis. Mi faccia verificare che sta bene.» «Come ha ucciso Pandora?» «Io... ho sentito dire dal cronista del notiziario che l'ho picchiata a morte.» Rabbrividì. «Con che cosa l'ha picchiata? Quale arnese ha usato?» «Io... le mie mani?» Di nuovo tese le braccia. Eve notò che sulle nocche non c'erano gonfiori né sbucciature, neppure la più piccola abrasione. Le dita erano perfette, come intagliate in uno splendido e lucido legno. «Pandora era una donna forte. Deve aver reagito.» «Mi ha fatto un taglio sul braccio.» «Vorrei che quella ferita venisse esaminata, così come gli abiti che mi ha detto di aver lasciato a casa di Mavis.» «Ora mi arresterà?» «Per il momento lei non è accusato di nulla. Dovrà tuttavia restare qui in stato di fermo finché non avremo i risultati delle varie analisi.» Gli fece ripetere tutto da capo, tentando di cavargli di bocca qualche precisazione su ore, luoghi, spostamenti. Continuò a battere sugli stessi tasti, per abbattere il muro che bloccava i suoi ricordi. Poi mise fine all'interrogatorio, anche se era tutt'altro che soddisfatta, e accompagnò Leonardo in cella, dando istruzioni per le analisi da eseguire. Il passo successivo consistette nel fare rapporto al comandante Whitney. Ignorando l'invito a sedersi, Eve rimase in piedi davanti alla scrivania del superiore. Gli riferì bruscamente i risultati dei primi interrogatori. Whitney intrecciò le mani e la osservò. Aveva occhi ai quali non sfuggiva quasi nulla, occhi da poliziotto, e capì che Eve aveva i nervi tesi. «Ha un uomo che ha confessato di aver commesso il delitto. Un uomo con movente e opportunità.» «Un uomo che non ricorda di aver visto la vittima nella notte in questione, né di averla percossa a morte», replicò Eve. «Non sarebbe la prima volta che un assassino ammette la propria colpevolezza in termini tali da presentarsi come innocente.» «È vero, signore. E tuttavia non credo che sia lui il nostro killer. È possibile che le analisi mi smentiscano, però la sua indole non si adatta alle
modalità di questo delitto. Sono stata testimone di un alterco tra la vittima e Mavis, e Leonardo non ha tentato di fermare lo scontro né ha reagito con atti di violenza.» «Lui ha ammesso di sua spontanea volontà che la notte dell'omicidio era ubriaco. L'alcol può indurre mutamenti di personalità», osservò Whitney. «Signorsì.» Era un'obiezione sensata. In cuor suo Eve voleva incriminare Leonardo, accettarne la confessione senza indagare oltre e chiudere il caso. Mavis avrebbe sofferto moltissimo, ma sarebbe stata salva. Completamente scagionata. «Non è lui l'assassino», disse invece. «Suggerisco di prolungare al massimo il periodo di fermo e d'interrogarlo nuovamente per tentare di svegliare la sua memoria. Ma non possiamo incriminarlo solo perché diamo per scontato che abbia commesso lui questo delitto.» «Seguirò il suo suggerimento, Dallas. Il laboratorio dovrebbe consegnarci a breve i risultati delle altre analisi, e mi auguro che questi chiariscano ogni cosa. Lei si renderà conto che potrebbero peggiorare la situazione di Mavis Freestone.» «Signorsì, me ne rendo conto.» «Tra voi due c'è una profonda amicizia. Il suo curriculum non ne risentirebbe, se lei rinunciasse a condurre queste indagini. Anzi, sarebbe meglio per lei se lo facesse.» «No, signore, non intendo ritirarmi da questo caso. Se lei dovesse costringermi, chiederei un periodo di ferie e indagherei per mio conto. Se necessario, sono pronta a dare le dimissioni.» Per un attimo Whitney si strofinò la fronte con le mani giunte. «Le sue dimissioni non verrebbero accettate. Si sieda, tenente. Accidenti, Dallas!» sbottò, vedendo che lei restava in piedi. «Si sieda. È un maledettissimo ordine.» «Sì, comandante.» Whitney sospirò, ricacciando indietro la collera. «Non molto tempo fa io l'ho ferita sferrandole un attacco personale che non era né giusto né meritato. Così facendo, ho incrinato un certo rapporto che si era instaurato tra noi due. Capisco che lei non si senta più a suo agio sotto il mio comando.» «Lei è il miglior comandante che io abbia mai avuto. L'avere lei come diretto superiore non mi crea nessun problema.» «Tuttavia non siamo più amici... neppure un po'.» Assentì, prendendo come risposta il silenzio di Eve. «Però, proprio a causa del mio comportamento durante le sue indagini in un caso che mi toccava molto da vicino, dovrebbe rendersi conto che io capisco benissimo che cosa lei stia passan-
do in questo momento. So quale dilemma sorge nel dover scegliere tra le diverse lealtà, Dallas. Visto che lei con ogni probabilità non se la sente di discutere con me di ciò che sta provando, le consiglio vivamente di sfogarsi con qualcuno di cui possa fidarsi. L'errore da me commesso in quell'altro caso è consistito proprio nel non condividere il pesante fardello che dovevo portare. Non commetta lei, adesso, lo stesso sbaglio.» «Mavis non è un'assassina. Nessuno straccio di prova potrà convincermi del contrario. Farò il mio lavoro, comandante. E, facendolo, troverò il vero colpevole.» «Non dubito che farà il suo lavoro, tenente, e che s'impegnerà anima e corpo. Lei ha il mio sostegno, che decida di usufruirne o no.» «Grazie, signore. Ho una richiesta da farle riguardo al caso Johannsen.» Whitney si lasciò sfuggire un sospiro. «Lei mi ricorda un dannato terrier, Dallas. Non molla mai.» Un commento sul quale Eve non poté trovare nulla da ridire. «Lei avrà letto il mio rapporto su quanto è stato rinvenuto nella stanza di Boomer. La sostanza illegale non è stata ancora completamente identificata. Ho fatto alcune ricerche per mio conto sulla formula che abbiamo scoperto.» Tirò fuori dalla borsa un CD. «È una nuova miscela, molto potente, con effetti probabilmente di lunga durata, almeno a paragone delle droghe disponibili sul mercato. Da quattro a sei ore per una dose media. E, nell'ottantotto per cento dei casi, un'overdose è sicuramente letale.» Corrugando le labbra, Whitney si girò il CD tra le mani. «Ricerche per suo conto, Dallas?» «Ho fatto ricorso a uno strumento di cui disponevo. Il laboratorio sta ancora lavorando, ma ha già identificato parte degli ingredienti e le relative percentuali. La mia opinione è che questa sostanza potrebbe rivelarsi assai remunerativa, visto che una piccola dose basta a produrre risultati eclatanti. Induce una forte dipendenza e provoca in chi ne fa uso una sensazione di forza, un'illusione di potenza e una sorta di euforia... non una piacevole sovreccitazione, bensì la presunzione di poter controllare se stessi e gli altri. Inoltre contiene un non meglio precisato rigeneratore cellulare. Ho calcolato i risultati di un'assunzione prolungata: l'uso quotidiano per un arco di cinque anni porterebbe, nel novantasette per cento dei casi, a una completa e improvvisa compromissione del sistema nervoso. E alla morte.» «Cristo santo, è un veleno?» «In ultima analisi, sì. Coloro che fabbricano questa sostanza sono certamente consapevoli della sua pericolosità, perciò sono responsabili non solo
di smercio di droga illegale, ma anche, potenzialmente, di premeditazione a scopo di omicidio.» Lasciò che Whitney, dopo aver riflettuto per un attimo, si rendesse pienamente conto delle grane che avrebbe dovuto affrontare se e quando i media avessero affondato i loro artigli in quella storia. «Che Boomer avesse o no capito come stavano le cose», riprese Eve, «ne sapeva a sufficienza per essere messo a tacere per sempre. Voglio proseguire le indagini e, poiché mi rendo conto che sarò distratta da altri problemi, richiedo che l'agente Peabody mi venga assegnata come assistente finché il caso non sarà stato risolto.» «Peabody ha collaborato solo in rare occasioni con la Narcotici o la Omicidi, tenente», obiettò Whitney. «Sopperisce a tale mancanza di esperienza col cervello e col sudore. Vorrei che mi aiutasse a mantenere i collegamenti col tenente Casto della Narcotici, il quale si serviva a sua volta di Boomer quale informatore.» «Vedrò che cosa si può fare. Quanto all'omicidio Pandora, si serva di Feeney.» Il comandante inarcò un sopracciglio. «Lo sta già utilizzando, a quanto pare, ma facciamo finta che io glielo abbia appena ordinato e rendiamo ufficiale la situazione. Però lei, Dallas, finirà di nuovo tra le grinfie dei media.» «Ci sto facendo l'abitudine. Ora che Nadine Furst è rientrata in servizio, le passerò le informazioni che riterrò più adatte; lei e Channel 75 mi devono molto.» Si alzò. «Devo interrogare alcune persone. Contatterò Feeney e lo porterò con me.» «Speriamo che riesca a risolvere ogni cosa prima di partire in luna di miele.» Sul volto di Eve apparve un tale mosaico di contrastanti emozioni, dall'imbarazzo al piacere alla paura, che lui scoppiò in una fragorosa risata. «Riuscirà a superare egregiamente anche questa prova, Dallas. Glielo posso garantire.» «Già, visto che lo stilista che stava disegnando il mio abito da sposa è attualmente in stato di fermo», mormorò Eve. «Grazie, comandante.» Whitney la seguì con gli occhi mentre usciva dal suo ufficio. Eve poteva non essere consapevole di aver fatto crollare la barriera che si era creata tra loro due, ma lui vedeva le cose più chiaramente. «Mia moglie ne sarà entusiasta.» Più che felice di lasciare a Dallas il compito di guidare, Feeney si sdraiò comodamente nel sedile del passeggero. Si stavano dirigendo verso Park Avenue South, con un traffico stra-
dale relativamente ridotto. Feeney, nato e cresciuto a New York, era ormai da tempo abituato ai ruggiti dei dirigibili turistici e degli airbus che affollavano l'aria. «Mi avevano detto che avrebbero sistemato ogni cosa. Quegli inetti. Lo senti, Feeney? Senti questo dannato ronzio?» Per farle piacere, lui focalizzò la propria attenzione sul rumore che usciva dal pannello di controllo. «Sembra quasi che tu abbia lì dentro uno sciame di api assassine.» «Tre giorni!» brontolò Eve. «Me l'hanno tenuta tre giorni in officina ed ecco il risultato. È peggio di prima.» «Dallas.» Le posò una mano sul braccio. «Devi aprire gli occhi, una volta per tutte, e deciderti ad accettare il fatto che la tua vettura è un autentico rottame. Te ne occorre una nuova.» «Non ne voglio una nuova.» Batté la mano sul pannello di controllo. «Voglio questa, senza gli effetti sonori.» Costretta a fermarsi a un semaforo rosso, tamburellò con le dita sul volante. Visto il rumore che usciva dal pannello di controllo, non si fidava a inserire il pilota automatico. «Dove diavolo è il numero 582 di Central Park South?» Poiché il pannello continuava a ronzare, gli sferrò un'altra manata. «Ho chiesto dove diavolo si trova il 582 di Central Park South!» «Usa un tono più gentile», le suggerì Feeney. «Computer, per favore, mostrare mappa e localizzare 582 Central Park South.» Quando lo schermo si accese, rivelando una mappa olografica sulla quale era evidenziato il tragitto da seguire, Eve si limitò a emettere un ringhio. «Non intendo fare le moine ai miei strumenti di lavoro.» «Forse è per questo che ti piantano sempre in asso. Come ti stavo dicendo», proseguì, prima che Eve potesse azzannarlo, «mia moglie andrà in brodo di giuggiole. Justin Young. Era lui a interpretare la parte del rubacuori in Night Falls.» «Non è una soap opera?» ribatté Eve, scoccandogli un'occhiata fulminante. «Ti sei messo a seguire quelle schifezze?» «Ehi, mi sintonizzo su Soap Channel per rilassarmi un po', come chiunque altro. Comunque, mia moglie va matta per lui. Ora che Young è passato al cinema, quasi ogni settimana lei vede sullo schermo di casa uno dei suoi film. Tra l'altro, è un bravo attore. Per non parlare poi di Jerry Fitzgerald.» Feeney sorrise con aria sognante. «Tieni per te le tue misere fantasie, amico.» «Quella ragazza è fantastica, lasciamelo dire. Non come le modelle che
hanno uno scheletro al posto del corpo.» Emise un verso da persona che sta per pregustare una bella vaschetta di gelato. «Sai qual è diventato, di recente, il lato migliore del mio lavoro con te, Dallas?» «I miei modi affascinanti e la mia capacità di seduzione?» «Oh, certo.» Feeney roteò gli occhi. «È che ora posso tornare a casa e raccontare a mia moglie chi ho appena avuto l'onore d'interrogare: un miliardario, un senatore, un'aristocratica famiglia italiana, qualche star del cinema. Te l'assicuro, il mio prestigio è balzato alle stelle.» «Sono felice di aver contribuito.» Eve infilò la sua malconcia vettura tra una Rolls Royce in miniatura e una Mercedes d'antiquariato. «Cerca soltanto di tenere a freno la tua estatica ammirazione mentre facciamo il terzo grado all'attore.» «Sono un professionista.» Ma, nello smontare dall'auto, sogghignava. «Guarda questo posto, ti prego. Non ti piacerebbe abitare in un luogo così?» Poi distolse lo sguardo dalla lucida facciata in falso marmo dell'edificio. «Oh, scusa, l'avevo dimenticato. Questa per te, adesso, è solo una catapecchia.» «Va' al diavolo!» «Dai, figliola, rilassati.» Le posò un braccio sulle spalle mentre si avviavano verso il portone d'ingresso. «Innamorarsi dell'uomo più ricco di tutto il mondo conosciuto non è cosa di cui vergognarsi.» «Non me ne vergogno. Semplicemente, non mi piace sentirmelo ricordare in continuazione.» Il condominio era così lussuoso da permettersi, oltre a un sistema di videosorveglianza, un portiere in carne e ossa. I due poliziotti mostrarono i distintivi e furono ammessi in un atrio di marmo e stucchi dorati, arricchito da fasci di felci e fiori esotici in enormi vasi di porcellana. «Che ostentazione», mormorò Eve. «Lo vedi che ti sta venendo la puzza sotto il naso?» ribatté Feeney, scartando di lato quel tanto da non trovarsi più a portata di schiaffo e avvicinandosi allo schermo di sicurezza interno. «Tenente Dallas e capitano Feeney, per Justin Young.» «Un attimo, prego.» La voce pastosa del computer si spense, mentre l'identità dei due veniva verificata, poi tornò a riecheggiare. «Grazie per aver atteso. Mr Young vi aspetta. Prego, entrate nell'ascensore tre e comunicate la destinazione. Buona giornata.» 6
«Allora, quale parte vuoi che recitiamo?» le chiese Feeney, raggrinzando le labbra e studiando la minuscola telecamera posta in un angolo della cabina dell'ascensore che stava salendo. «La solita, poliziotto buono e poliziotto cattivo?» «È buffo, ma funziona sempre», osservò Eve. «I civili sono bersagli facili.» «Cominciamo con lo scusarci per averlo disturbato, col ringraziarlo dal profondo del cuore per aver accettato di riceverci, e via di questo passo. Se ci viene il sospetto che tenti di prenderci per il naso, cambiamo tono.» «In tal caso, voglio fare io la parte del poliziotto cattivo.» «Con quell'aria stracca da pessimo funzionario di polizia che ti ritrovi? Non farti illusioni.» Feeney le lanciò un'occhiata mogia. «Il mio grado è superiore al tuo, Dallas.» «Sono io a condurre le indagini, e la parte della cattiva mi si addice molto di più. Rassegnati.» «Mi tocca sempre fare la parte del buono», si lagnò lui mentre mettevano piede in un corridoio ben illuminato e sovraccarico di marmi e dorature. Justin Young aprì la porta antistante quella dell'ascensore con tempismo perfetto. E, si disse Eve, aveva scelto un abbigliamento adatto al ruolo di testimone ricco e tuttavia disposto a collaborare: costosi pantaloni sportivi di lino color camoscio e un'ampia camicia di seta in tinta. Ai piedi portava sandali alla moda, con suole spesse e un'elaborata allacciatura intorno al collo del piede. «Tenente Dallas, capitano Feeney.» Il volto dai lineamenti splendidamente scolpiti aveva un'espressione grave e i neri occhi dallo sguardo fascinoso erano seri, il che creava un teatrale contrasto con la folta chioma, di un biondo oro che ricordava gli stucchi del corridoio. Tese una mano sulla quale spiccava un grande anello con un castone di onice. «Prego, accomodatevi.» «Grazie per aver accettato d'incontrarci subito, Mr Young.» Forse era vero che le era venuta la puzza sotto il naso, perché dopo una prima rapida perlustrazione visiva della stanza Eve si ritrovò a pensare: Che ambiente pacchiano, pesante, da parvenu che ostenta la propria ricchezza. «È una tale tragedia, un tale orrore.» Con un gesto li invitò a sedersi su un enorme divano sovraccarico di cuscini dalle fodere variopinte e scivolose. Dalla parte opposta della stanza, uno schermo da meditazione mo-
strava una spiaggia tropicale al tramonto. «Non riesco quasi a capacitarmi che Pandora non ci sia più e, soprattutto, che sia morta in modo così improvviso e violento.» «Siamo spiacenti di averla dovuta disturbare», iniziò Feeney, adeguandosi al suo ruolo di poliziotto buono e sforzandosi di non fissare a bocca aperta quella profusione di elaborate decorazioni e vetri istoriati. «Questo dev'essere per lei un momento difficile.» «Sì, molto difficile; Pandora e io eravamo grandi amici. Posso offrirvi qualcosa?» Si sedette su una poltrona che avrebbe potuto inghiottire un bimbo, mettendo così in risalto la sua elegante magrezza. «No, grazie», rispose Eve, cercando di non affondare nella montagna di cuscini. «Io berrò qualcosa, se non vi dispiace. Da quando ho sentito la notizia, ho i nervi a fior di pelle.» Young si piegò in avanti e premette un minuscolo pulsante sul tavolino basso in mezzo a loro. «Caffè, per favore. Uno solo.» Tornando ad adagiarsi, accennò un lieve sorriso. «Immagino che vogliate sapere dove mi trovavo quando Pandora è morta. Mi è capitato d'interpretare molti film polizieschi. Ho fatto la parte del poliziotto, dell'indagato e persino della vittima, quand'ero agli inizi della carriera. Mai, però, quella dell'assassino, per via della mia immagine.» Sollevò lo sguardo verso una domestica droide nella classica uniforme da cameriera francese - cosa che divertì Eve e la inorridì al contempo - che gli porgeva un vassoio di vetro col caffè. Justin prese la tazzina e se la portò alle labbra. «I media non hanno detto esattamente quand'è avvenuta la morte di Pandora, ma credo di potervi rendere conto dei miei spostamenti per quanto riguarda l'intera nottata. Fino a mezzanotte circa sono rimasto con lei, che aveva organizzato un piccolo ricevimento a casa sua; poi sono uscito con Jerry - Jerry Fitzgerald - e siamo andati a bere qualcosa all'Ennui, un club privato che si trova nelle vicinanze. È un locale molto alla moda, e noi due ci facciamo spesso una capatina, perché rende parecchio per l'immagine. Mi pare che fosse l'una quando ce ne siamo andati. Abbiamo valutato l'ipotesi di visitare qualche altro club, però, lo confesso, avevamo entrambi bevuto più che a sufficienza ed eravamo stanchi di socializzare. Siamo venuti qui e ci siamo rimasti fino alle dieci della mattina seguente. Solo dopo che Jerry se n'era andata, mentre stavo bevendo la mia prima tazza di caffè, ho acceso il televisore e ho sentito la notizia della morte di Pandora.» «Questo certamente copre l'intera nottata», commentò Eve. Ma era con-
vinta che fosse tutta una recita, anche se interpretata con magistrale bravura. «Dovremo parlare con Ms Fitzgerald affinché ce lo confermi.» «Certamente. Volete farlo subito? È nella stanza di rilassamento. La morte di Pandora l'ha notevolmente sconvolta.» «Lasciamo che si rilassi ancora un po'», suggerì Eve. «Lei ha detto di essere stato molto amico di Pandora. Eravate anche amanti?» «Andavamo a letto insieme, di tanto in tanto, ma non era nulla di serio. Dipendeva più che altro dal fatto che frequentavamo lo stesso ambiente. E, se posso essere brutalmente sincero data la situazione, Pandora prediligeva uomini che si prestassero facilmente a essere dominati oppure intimiditi.» Sul volto gli lampeggiò un sorriso, come a lasciar intendere che lui non rientrava in nessuna delle due categorie. «Preferiva allacciare relazioni con individui che lottavano per ottenere il successo, piuttosto che con quelli già affermati. Era raro che amasse dividere la scena con qualcuno.» Feeney s'inserì a colpo sicuro. «A chi era legata, sentimentalmente, al momento della sua morte?» «Era 'legata' a più di una persona, se non sbaglio. Un tale che aveva incontrato, mi pare, sulla Starlight Station: un impresario, lo definiva lei, ma con un certo tono sarcastico. Poi c'era uno stilista esordiente che, a detta di Jerry, sarebbe una sorta di genio. Si chiama Michelangelo, o Puccini, o Leonardo... qualcosa del genere, insomma. E infine Paul Redford, il produttore televisivo che ha partecipato con noi a quella festicciola.» Justin Young bevve un sorso di caffè, poi batté le palpebre. «Leonardo. Sì, è così che si chiama. Durante il party è scoppiato un breve diverbio. Mentre eravamo tutti lì, è arrivata una donna che si è accapigliata con Pandora proprio a causa di quello stilista. Una zuffa alla vecchia maniera. Ci sarebbe stato da ridere se la scena non fosse stata tanto imbarazzante per le persone coinvolte.» Allargò le dita affusolate, con aria vagamente divertita nonostante il tono serio delle sue parole. Bravissimo, pensò Eve. Una splendida recitazione, un tempismo perfetto, una grande professionalità nel dare il giusto tono alle battute. «Paul e io siamo riusciti a separarle», aggiunse l'attore. «La donna entrata in casa di Pandora le è balzata addosso fisicamente?» domandò Eve, cercando di avere un'intonazione di voce assolutamente neutra. «Oh, no, nient'affatto. La poverina era straziata, supplichevole. Pandora, dopo averle rivolto una serie di pesanti insulti, l'ha colpita.» Young illustrò
le proprie parole stringendo a pugno una mano e sferrandola in avanti. «L'ha presa in pieno in un occhio. La donna era piccola, ma battagliera. Si è rialzata a fatica e si è lanciata contro Pandora; quindi è iniziata una sorta d'incontro di lotta libera, con strappi di capelli e graffi. La donna, quando se n'è andata, sanguinava. Pandora aveva unghie letali.» «Ha graffiato il viso della sua avversaria?» «No, anche se certamente quella donna avrà qualche livido in faccia. No, le ha piantato le unghie nel collo, se ricordo bene. Quattro lunghi graffi inferti con cattiveria accanto alla gola. Temo di non sapere il nome di quella poverina, perché Pandora si è limitata a chiamarla puttana, baldracca e via di seguito. Quand'è andata via, la donna si sforzava di trattenere le lacrime e ha detto a Pandora, con aria melodrammatica, che si sarebbe pentita di ciò che aveva fatto. Poi ha rovinato la sua uscita di scena tirando su col naso e sostenendo che l'amore è più forte di ogni altra cosa.» Una frase da Mavis, pensò Eve. «E, dopo che la donna se n'era andata, qual è stato l'atteggiamento di Pandora?» «Era furiosa, sovreccitata. Per questo Jerry e io abbiamo tagliato la corda prima del previsto.» «E Paul Redford?» «È rimasto, ma non so per quanto tempo.» Con un sospiro che voleva esprimere rincrescimento, l'attore posò la tazzina di caffè. «È ingiusto criticare Pandora, ora che non può più difendersi, ma era una persona dura, che molto spesso faceva del male. Se le tagliavi la strada, la pagavi cara.» «E lei, Mr Young, le ha mai tagliato la strada?» «Sono stato ben attento a non farlo. Sono contento della mia carriera e dei miei connotati, tenente. Pandora all'inizio non mi faceva paura, ma poi ho sentito dire, e l'ho anche visto coi miei occhi, che era capace di sfigurare una persona, se le saltava la mosca al naso. Mi creda, non teneva le unghie affilate come rasoi solo per essere alla moda.» «Aveva nemici?» «Un'infinità. Quasi tutti, però, avevano paura di lei. Non riesco a immaginare chi abbia trovato il coraggio di balzarle addosso e colpirla. E, a dar retta ai notiziari che ho sentito, non riesco neppure a credere che Pandora meritasse di morire in modo così brutale.» «Apprezziamo la sua franchezza, Mr Young. Ora, se è possibile, vorremmo parlare con Ms Fitzgerald. Da soli.» «Sì, ovviamente. Per sincerarvi che le due versioni coincidano.» «Avete avuto tempo a sufficienza per concordarne una», replicò Eve,
sorridendo. «Ma vorremmo comunque parlarle da soli.» Ebbe il piacere di vedere che le sue parole avevano leggermente incrinato la tranquilla maschera dell'attore, che tuttavia si alzò e si avviò verso un corridoio. «Che cosa ne pensi?» le sussurrò Feeney. «Secondo me, è una recita bell'e buona.» «Sono perfettamente d'accordo. Eppure, se lui si è rotolato sulle lenzuola con la Fitzgerald per tutta la notte, ha un alibi di ferro.» «Ce l'hanno entrambi, si scagionano a vicenda. Ci faremo dare dall'amministrazione del condominio i CD del sistema di videosorveglianza, per verificare a che ora sono rientrati. E se sono usciti di nuovo.» «Non mi fido più di questi congegni, dopo il caso DeBlass.» «Se le registrazioni sono state manomesse, te ne accorgerai.» Sollevò lo sguardo sentendo Feeney inspirare rumorosamente. Il volto del capitano, che di solito ricordava il muso di un segugio avvilito, aveva assunto l'aria vigile di un terrier. Gli occhi sembravano di vetro. Eve, scorgendo Jerry Fitzgerald fare il suo ingresso nella stanza, si chiese come mai Feeney non facesse anche penzolare a terra la lingua. Certo, si disse, la nuova arrivata era ben fatta. Il petto era a malapena celato da una camiciola di seta color avorio che, oltre a essere scollata fin quasi ai capezzoli, le aderiva al corpo e terminava pochi centimetri sotto l'inguine. Il ginocchio di una delle lunghe gambe era decorato con una rosa rossa completamente sbocciata. Jerry Fitzgerald era innegabilmente uno schianto. E poi c'era il viso, con l'espressione calma e appagata di chi ha appena fatto sesso. I capelli color ebano avevano un taglio diritto, quasi a rasoio, e s'incurvavano alla perfezione, inquadrando un mento arrotondato. Le labbra, carnose e umide, erano di un rosso squillante e gli occhi, di un azzurro radioso, ombreggiati da folte ciglia dorate in punta. Mentre quella raffigurazione di una dea pagana del sesso scivolava verso una poltrona, Eve batté la mano sulla gamba di Feeney, per richiamarne l'attenzione... e per suggerirgli di controllarsi. Quindi si rivolse all'indossatrice: «Ms Fitzgerald, immagino». «Sì.» La donna aveva una voce fluttuante come il fumo di una pira sacrificale. Posò appena su Eve i suoi affascinanti occhi, poi li inchiodò come sanguisughe sul volto scialbo e inebetito di Feeney. «Capitano, è orribile. Ci ho provato con la cabina isolante, con lo stimolatore dell'ottimismo, ho persino programmato l'ologramma con una passeggiata tra i prati, che fun-
ziona sempre quando voglio rilassarmi. Ma nulla di tutto ciò è riuscito a togliermi di mente questa tragedia.» Con fare tremulo, si portò entrambe le mani al volto. «Devo avere l'aria di una strega.» «Lei è bellissima», balbettò Feeney. «Stupefacente. Mi ricorda...» «Controllati», mormorò Eve, sferrandogli una gomitata. «Ci rendiamo conto del suo shock, Ms Fitzgerald. Pandora era sua amica.» Jerry spalancò la bocca, la richiuse, abbozzò un sorriso felino. «Potrei risponderle di sì, ma lei non ci metterebbe molto ad appurare che le cose stavano diversamente. Lavoravamo nello stesso campo e fingevamo una reciproca tolleranza, però, francamente, non ci sopportavamo.» «Pandora l'aveva invitata a casa sua.» «Solo perché voleva vedere Justin. Tuttavia Pandora e io ci frequentavamo, avevamo anche alcuni progetti in comune.» Si alzò, perché preferiva servirsi da sé o, più probabilmente, per mettere in risalto il proprio corpo. Tirò fuori da un'angoliera una brocca a forma di cigno, piena di un liquido color zaffiro, e si riempì un bicchiere. «Lasciatemi dire anzitutto che sono sinceramente sconvolta dalle modalità della sua morte. È terrificante pensare che qualcuno possa nutrire un simile odio. Io faccio la stessa professione, che costringe a essere sempre sotto la luce dei riflettori. Sono una sorta d'icona pubblica, proprio com'era lei. E se a Pandora è capitato di...» Le mancò la voce e bevve una lunga sorsata. «Può accadere anche a me. È questo uno dei motivi per cui resterò qui con Justin finché il caso non sarà stato risolto.» «Mi descriva i suoi spostamenti la notte dell'omicidio.» Jerry sbarrò gli occhi. «Sono nella lista dei sospettati? Ne sono quasi lusingata.» Tornò ad accomodarsi in poltrona, col bicchiere in mano, e accavallò le gambe stupende in un modo che suscitò un fremito in Feeney. «Io però non ho mai avuto il coraggio di fare qualcosa di più del lanciarle qualche frecciatina, e in genere lei non si accorgeva neppure che la stavo punzecchiando. Pandora non era esattamente un genio e non capiva mai le battute ironiche. Meglio così, d'altronde.» Jerry Fitzgerald affondò nello schienale della poltrona, chiuse gli occhi e raccontò più o meno le stesse cose dette da Justin, anche se, apparentemente, aveva seguito con maggiore attenzione la zuffa tra Pandora e Mavis. «Devo confessarlo, stavo dalla sua parte. Della piccolina, intendo, non di Pandora. Aveva un certo stile», disse con aria pensierosa. «Era bizzarra, interessante... a metà fra una trovatella e un'amazzone. Cercava di tenere duro, ma Pandora avrebbe fatto di lei uno straccio da pavimenti se Justin e
Paul non fossero intervenuti a dividerle. Pandora era veramente forte; frequentava assiduamente il club salutista per accrescere il tono muscolare. Una volta l'ho vista scagliare letteralmente da una parte all'altra della stanza l'assistente di uno stilista perché la poverina aveva sbagliato a contrassegnare gli accessori prima di una sfilata. In ogni caso, però...» Accantonò l'argomento con un gesto della mano, aprì un cassetto del tavolino d'ottone che aveva accanto e ne tirò fuori una scatoletta smaltata, dalla quale estrasse una lucida sigaretta rossa; l'accese e iniziò a espirarne il fumo profumato. «In ogni caso è stata la piccolina a farsi avanti, per indurre Pandora alla ragione, per siglare con lei una sorta di patto riguardante Leonardo... uno stilista. Secondo me, Leonardo si era messo con la trovatella, ma Pandora non era disposta a lasciarlo libero. Lui sta per fare una sfilata.» Abbozzò di nuovo quel suo sorriso felino. «Ora che Pandora non c'è più, proporrò a Leonardo di farmi sfilare per lui.» «Prima, la sua presenza non era contemplata?» domandò Eve. «Pandora voleva tutta l'attenzione su di sé. Come le ho già riferito, avevamo in cantiere alcuni progetti in cui eravamo coinvolte entrambe. Un paio di sceneggiati televisivi. Il problema di Pandora consisteva nel fatto che, nonostante la sua bellezza, direi persino il suo fascino, quand'era costretta a recitare le battute di un copione o anche solo a imporsi fisicamente sulla scena, così da forare lo schermo, diventava una statua di sale. Un pezzo di legno. Era tremenda. Io invece ci so fare.» S'interruppe per far filtrare dalle labbra un'altra boccata di fumo. «Sono davvero brava, perciò sto lavorando sodo per diventare una vera attrice. Tuttavia... una partecipazione a quella sfilata, con uno stilista come Leonardo, sarebbe per me un bel lancio; mi attirerebbe l'interesse dei media. È un ragionamento un po' cinico, e me ne scuso.» Si strinse nelle spalle. «Ma così è la vita.» «La morte di Pandora è venuta al momento opportuno, per lei.» «Quando mi capita un'opportunità, non me la lascio scappare. Però non uccido per questo.» Agitò di nuovo le spalle. «Una cosa simile rientrava più nello stile di Pandora.» Si piegò quindi in avanti, mostrando disinvoltamente il petto. «Senta, giochiamo a carte scoperte. Ho un alibi. Sono rimasta con Justin tutta la notte e dalle dodici in poi non ho più visto Pandora. In tutta onestà, posso dirle che non la sopportavo, che professionalmente era una mia rivale, che ero consapevole che le sarebbe piaciuto soffiarmi Justin solo per farmi un dispetto. Forse ci sarebbe anche riuscita. Ma io non uccido, neppure per tenermi un uomo.» Lanciò a Feeney un'occhiata che lo mandò in visibilio. «Al mondo ci sono tanti maschi affascinanti. E
non dimentichiamo che questo appartamento non basterebbe a contenere tutte le persone che la detestavano. Io sono solo una delle tante.» «Di che umore era Pandora la notte in cui è stata uccisa?» «Rabbioso e sovreccitato.» Cambiando repentinamente espressione, l'indossatrice gettò indietro la testa e scoppiò in una sonora risata. «Non so che cosa avesse ingerito, ma certamente aveva gli occhi stralunati. Era molto su di giri.» «Ms Fitzgerald», intervenne Feeney, in tono pacato, quasi di scusa, «lei crede che Pandora avesse preso una droga illegale?» La donna esitò un istante, poi sollevò le spalle d'alabastro. «Nulla di legale può dare una tale carica d'allegria, tesoro. O rendere così volgari. Perché lei era allegra e volgare. Qualunque cosa avesse ingerito, la stava affogando in un fiume di champagne.» «A lei e agli altri ospiti sono state offerte sostanze illegali durante il ricevimento?» chiese Eve. «Io non sono stata invitata a condividerle con lei. D'altra parte, Pandora sapeva benissimo che non ne faccio uso. Curo il mio corpo come se fosse un santuario.» Sorrise vedendo lo sguardo di Eve puntato sul suo bicchiere. «Bevanda proteica, tenente. Qui dentro ci sono solo proteine. E questa?» Agitò l'esile sigaretta. «Puro tabacco, con appena un pizzico di sedativo perfettamente legale, per i miei nervi. Ho visto fin troppa gente andare all'altro mondo, dopo un rapido e breve 'viaggio'. A me piacerebbe vivere a lungo. Mi concedo tre sigarette al giorno e, di tanto in tanto, un bicchiere di vino. D'altronde...» Posò di lato il bicchiere. «Pandora non era seconda a nessuno, quando si trattava d'ingollare roba. Provava di tutto.» «Conosce il nome del suo fornitore?» «Non ho mai pensato di chiederglielo. Non m'interessava. Ma, a occhio e croce, direi che l'altra sera aveva ingerito una droga nuova. Non l'avevo mai vista così piena di energia e, sebbene mi secchi riconoscerlo, era in gran forma, ringiovanita. Aveva la carnagione più tonica, più liscia. Pareva quasi risplendere. Se non l'avessi conosciuta bene, avrei giurato che fosse reduce da un trattamento totale di ringiovanimento; ma sono anch'io, come lei, cliente del Paradise e so per certo che quel giorno non era andata nel salone di bellezza, perché c'ero io. Le ho anche chiesto spiegazioni in merito e Pandora si è limitata a dirmi, con un sorriso, di aver trovato un segreto elisir di bellezza, che le avrebbe reso un sacco di soldi.» «Interessante», commentò Feeney mentre si lasciava cadere sul sedile
dell'auto di Eve. «Abbiamo parlato con due delle tre persone che erano in compagnia di Pandora poco prima della sua morte. Nessuna delle due la poteva soffrire.» «Potrebbero averla uccisa insieme», mormorò Eve. «La Fitzgerald conosceva Leonardo, voleva lavorare con lui. Fornirsi reciprocamente un alibi è la cosa più semplice che esista al mondo.» Feeney batté la mano sulla tasca in cui aveva infilato il CD del sistema di videosorveglianza dell'edificio. «Lo esamineremo e vedremo che cosa salta fuori. Eppure continuo a pensare che ci manca il movente. Chiunque abbia ucciso Pandora non ha voluto soltanto farla fuori, ma cancellarla quasi dalla faccia della terra. Dietro questo omicidio c'è un tremendo scoppio d'ira. Nessuno di questi due mi pare tipo da esplodere di rabbia.» «Schiaccia i pulsanti giusti e a tutti saltano i nervi. Voglio recarmi allo ZigZag per vedere se riusciamo a trovare una conferma degli spostamenti di Mavis. E dobbiamo contattare il produttore, fissare un colloquio. Puoi affidare a uno dei tuoi tirapiedi l'incarico d'indagare presso le compagnie di taxi? Non riesco a immaginare la nostra vittima mentre prende la metropolitana o un bus per recarsi all'atelier di Leonardo.» «Certamente.» Feeney tirò fuori il suo cellulare. «Se Pandora ha preso un taxi o un qualsiasi altro mezzo di trasporto privato, in un paio d'ore dovremmo riuscire ad appurarlo.» «Benissimo. E cerchiamo anche di scoprire se ha fatto il viaggio da sola o se c'era qualcuno con lei.» Durante la giornata lo ZigZag era quasi vuoto; era un locale che si animava di notte. I clienti che lo frequentavano alla luce del sole erano soprattutto turisti o impiegati frettolosi ai quali importava ben poco che l'ambiente fosse pacchiano o i camerieri sgarbati. Il club era un circo che di notte sfavillava di luci, mentre nel crudo chiarore del giorno mostrava tutte le rughe di un'età decrepita. Eppure manteneva quel sotterraneo fascino che richiamava folle di sognatori. Vi risuonava un continuo sottofondo musicale, che dopo il tramonto cresceva di volume fino a diventare assordante. L'edificio, a due livelli, ospitava cinque bar e due piste da ballo sovrapposte e rotanti, che iniziavano a funzionare alle nove di sera. In quel momento erano ferme, bloccate l'una sull'altra, coi lucidi pavimenti segnati dai colpi di tacco dei ballerini notturni. Il menu del pranzo offriva panini imbottiti e insalate, tutti contraddistinti
dal nome di defunti artisti del rock. Quel giorno il piatto consigliato dallo chef consisteva in un misto di banana e burro d'arachidi spalmato su una tartina di pane bianco, con un contorno di cipolle e jalapenos, peperoncini piccanti originari del Messico. Era il cosiddetto «doppio alla Elvis e Joplin». Eve si sedette con Feeney al primo bar, ordinò un caffè nero e squadrò la barista. Era un essere umano, non il solito droide. In effetti, Eve non aveva notato nessun droide tra il personale che lavorava nel club. «Le capita mai di fare il turno di notte?» le chiese. «No. Sono una dipendente diurna.» La barista posò sul bancone il caffè di Eve. Era un tipo dall'aria energica e sembrava più adatta a dirigere una catena di ristoranti salutisti che a distribuire bevande in un club. «Quale dei camerieri in servizio dalle dieci di sera alle tre di mattina è più abile nel notare i clienti, nel ricordarseli?» «Qui nessuno bada alla gente che passa, se proprio non è costretto a farlo.» Eve estrasse il distintivo e lo posò sul bancone. «Questo potrebbe rinfrescare la memoria a qualcuno?» «Non saprei.» Impassibile, la barista si strinse nelle spalle. «Senta, il nostro è un locale pulito. Io ho un figlioletto a casa ed è questo il motivo per cui lavoro di giorno e per cui mi sono informata bene sul club prima di accettare il lavoro. Prima di dire di sì, ho controllato minuziosamente ogni cosa. Il gestore, Dennis, ci tiene a mantenere un clima accogliente ed è per questo che ha scelto personale umano invece di robot. Qualche volta l'atmosfera può arroventarsi, ma lui riesce a tenere tutto sotto controllo.» «Chi è Dennis e dove posso trovarlo?» «Il suo ufficio è in cima alla scala a chiocciola alla sua destra, alle spalle del primo bar. Lui è anche il proprietario del locale.» «Ehi, Dallas, potremmo pure fermarci un minuto a mangiare qualcosa», si lamentò Feeney mentre s'incamminava dietro Eve. «Il Mike Jagger mi sembra un panino che valga la pena di provare.» «Parliamo prima con quel tale.» Su quel livello il bar non era ancora aperto, ma ovviamente Dennis era stato allertato. Un pannello a specchio scivolò di lato e apparve un uomo magro, con un viso attraente, una barba rossa a punta e capelli neri come l'ala di un corvo, con una chierica da monaco. «Benvenuti allo ZigZag.» Parlava con voce sommessa, quasi sussurrando. «C'è qualche problema?»
«Gradiremmo il suo aiuto e la sua collaborazione, Mr...?» «Dennis, semplicemente Dennis. I troppi nomi finiscono per impacciare.» Li fece accomodare nel suo ufficio. L'atmosfera festaiola terminava sulla soglia della stanza, che era spartana, funzionale e silenziosa come una chiesa. «Il mio santuario», commentò lui, consapevole del contrasto. «Non ci si può divertire né si possono apprezzare i piaceri del rumore, della folla e della promiscuità se non se ne sperimenta l'opposto. Prego, accomodatevi.» Eve scelse una sedia dall'aspetto severo, con lo schienale ritto. «Stiamo cercando di verificare le mosse di una sua cliente, la notte scorsa.» «Come mai?» «Per un'indagine in corso.» «Capisco.» Dennis si sedette dietro una spessa lastra di lucida plastica che fungeva da scrivania. «A che ora?» «Tra le undici di sera e l'una di notte.» «Aprire lo schermo.» In risposta a quell'ordine, una sezione della parete scivolò di lato. «Mostrare le registrazioni della videosorveglianza numero cinque. A partire dalle undici di sera.» Sullo schermo, e nella stanza, fece irruzione un vortice di suoni, colori e figure in movimento. Per un attimo Eve rimase abbagliata, poi riuscì a focalizzare lo sguardo. Era una visione panoramica del club in piena attività. Una visione piuttosto distaccata, si disse Eve, come se l'osservatore galleggiasse silenziosamente sopra la testa dei festosi avventori. Perfettamente in carattere con Dennis. Lui sorrise, comprendendo la reazione di Eve. «Spegnere l'audio», ordinò e bruscamente calò il silenzio. Le figure sembravano spettrali. I ballerini volteggiavano sulle piste rotanti, coi volti sferzati dai fasci di luce che coglievano le varie espressioni, intense, gioiose, cupe. Una coppia seduta a un tavolino d'angolo sembrava ringhiare, e la mimica mostrava chiaramente che era in corso un alterco. Un'altra, in un diverso angolo, era impegnata in un rituale d'accoppiamento, con sguardi amorosi e carezze intime. Poi, di colpo, Eve notò Mavis. Da sola. «Può ingrandire?» chiese, alzandosi e puntando il dito verso l'angolo sinistro dello schermo. «Certamente.» Accigliata, Eve scrutò l'immagine di Mavis che veniva in avanti, diventando più chiara. L'ora segnata sul display indicava le ventitré e quarantacinque. Sotto l'occhio di Mavis si notava un livido; e quando la testa si gi-
rò, per respingere un'avance, sul collo apparvero i graffi, ancora freschi. Ma sul viso non ce n'era traccia, notò Eve con un colpo al cuore. L'abito blu di Mavis aveva un leggero strappo all'altezza della spalla, ma la manica era ancora attaccata. Eve osservò l'amica togliersi di torno un altro paio di uomini, scolarsi il drink e posare il bicchiere accanto ad altri due, vuoti, che aveva sul tavolo; poi alzarsi, ondeggiare un po' e riacquistare l'equilibrio; infine, con la dignità enfatica degli ubriachi, farsi strada a gomitate in mezzo alla folla. Il display segnava le 00.18. «È questo che stavate cercando?» «Più o meno.» «Spegnere il video.» Dennis sorrise. «Quella donna è un'occasionale cliente del mio club. Di solito è più socievole e ama ballare. Qualche volta canta persino. La considero una persona dotata di un particolare talento e, senza ombra di dubbio, una valida intrattenitrice. Volete sapere come si chiama?» «La conosco.» «Tanto meglio.» L'uomo si alzò. «Mi auguro che Miss Freestone non sia nei guai. Aveva l'aria molto infelice.» «Posso chiedere un mandato di sequestro di questo disco, a meno che lei non me ne consegni subito una copia.» «Non ho problemi a dargliela. Computer, copiare il disco ed etichettarlo. C'è qualcos'altro che posso fare per lei?» «Al momento no.» Eve prese il disco e lo fece scivolare nella sua borsa. «Grazie per la sua collaborazione.» «La collaborazione è il collante della vita», declamò Dennis mentre il pannello si richiudeva alle loro spalle. «Un tipo bizzarro», commentò Feeney, poco dopo. «Ed efficiente. Sai, Mavis sarebbe potuta restare coinvolta in una zuffa mentre vagava nel club. E uscirne con il volto graffiato e l'abito a brandelli.» «Già.» Deciso a mettere qualcosa sotto i denti, Feeney si fermò a un tavolo per le ordinazioni e chiese un Jagger. «Devi anche nutrirti, Dallas, non solo lavorare e angustiarti.» «Sto bene così. Non sono una grande conoscitrice di club privati, però credo che, se proprio le ronzava nel cervello l'idea di andare a casa di Leonardo, Mavis si sia incamminata in direzione sud-est una volta uscita di qui. Verifichiamo quali locali avrebbe potuto incontrare sul suo cammi-
no.» Mentre seguiva Eve verso la vettura, Feeney scartò l'involucro e addentò il panino. «Veramente ottimo. Ho sempre avuto un debole per Jagger.» «È un modo come un altro per restare eternamente vivi», osservò Eve. Stava per richiedere una mappa satellitare quando il videotelefono dell'auto prese a ronzare. «Il rapporto del laboratorio», mormorò e puntò gli occhi sullo schermo. «Oh, mio Dio!» «Accidenti, Dallas, è una tragedia.» Perso completamente l'appetito, Feeney si cacciò in tasca il panino. I due poliziotti rimasero in silenzio. Il rapporto era chiarissimo. Sotto le unghie della vittima erano stati ritrovati frammenti di pelle di Mavis, e di nessun altro; sull'arma del delitto c'erano soltanto le impronte di Mavis; e il suo sangue, solo il suo, si era mischiato a quello della vittima sulla scena dell'omicidio. Il videotelefono ronzò di nuovo e sullo schermo apparve un volto. «Tenente Dallas, sono il pubblico ministero Jonathan Heartly.» «Piacere.» «Stiamo per inviarle un mandato d'arresto per Freestone, Mavis, con l'accusa di omicidio di secondo grado. Attenda che le venga trasmesso.» «Non sprecate il vostro tempo», grugnì Feeney. 7 Voleva farlo lei, da sola. Doveva farlo lei e nessun altro. Avrebbe potuto contare sull'aiuto di Feeney per scovare qualsiasi indizio in grado di smantellare l'accusa che pesava su Mavis, ma Eve sentiva di dover essere lei a farlo. Eppure fu felice che ci fosse Roarke ad aprirle la porta. «Te lo leggo in faccia», le disse lui, prendendole il volto tra le mani. «Mi dispiace.» «Ho un mandato d'arresto. Devo portarla in carcere, registrarla. Non c'è altro che io possa fare.» «Lo so. Vieni qui.» L'attirò a sé e l'abbracciò, mentre lei gli nascondeva il viso nella spalla. «Troveremo qualcosa che la scagioni, Eve.» «Non ho trovato nulla, nulla che possa aiutarla. Tutto congiura contro di lei. Le prove, ci sono. Il movente, pure, così come l'opportunità temporale.» Si scostò da lui. «Se non la conoscessi, non avrei il minimo dubbio.» «Ma la conosci.»
«Sarà in preda al terrore.» Impaurita lei stessa, Eve guardò in cima alle scale, verso la stanza in cui Mavis la stava aspettando. «L'ufficio del pubblico ministero mi ha detto che non si opporranno alla richiesta di libertà condizionata, però lei avrà bisogno di... Roarke, non ho il coraggio di chiederti...» «Non ci pensare. Ho già contattato il miglior studio di avvocati penalisti del Paese.» «Non potrò mai ripagarti per questo.» «Eve...» «Non parlo del denaro.» Si lasciò sfuggire un tremulo sospiro e gli afferrò le mani. «Tu non la conosci a fondo, però credi che non sia colpevole solo perché questa è la mia convinzione. Ecco il motivo per cui non potrò mai ripagarti a sufficienza. Ora devo andare a prenderla.» «E vuoi andarci da sola.» L'aveva capito e si era già rassegnato a non fare la minima obiezione. «Avviserò i suoi legali. Qual è il capo d'accusa?» «Omicidio di secondo grado. Dovrò affrontare i media. Certamente l'amicizia tra Mavis e me non resterà a lungo un segreto.» S'infilò le mani nei capelli scarmigliati. «I giornalisti potrebbero tirare in ballo anche te.» «Credi che me ne preoccupi?» Eve abbozzò un sorriso. «Tutta la trafila potrebbe durare parecchio. La riporterò qui il prima possibile.» «Eve», le mormorò mentre lei cominciava a salire le scale, «anche Mavis si fida di te. E ha un buon motivo per farlo.» «Mi auguro che tu abbia ragione.» Con le braccia conserte, continuò a salire, imboccò lentamente il corridoio che portava alla stanza dell'amica e bussò. «Venga pure avanti, Summerset. Ma gliel'avevo detto che sarei scesa io in cucina, a mangiare la torta. Oh.» Sorpresa, Mavis si scostò dal computer sul quale si stava sforzando di scrivere una nuova canzone. Per tirarsi su d'animo, aveva indossato una specie di tuta aderentissima di un brillante blu zaffiro e si era tinta i capelli dello stesso colore. «Credevo fosse Summerset.» «E la torta.» «Già. Mi aveva chiamata sull'interfono per dirmi che la cuoca aveva appena sfornato un dolce al cioccolato, a tre strati. Summerset ha capito che vado matta per queste cose. Lo so che voi due non ve la intendete, ma con me lui è molto tenero.» «Perché nella sua mente continua a vederti com'eri quel giorno, comple-
tamente nuda.» «Può darsi.» Cominciò a battere sulla consolle le unghie dallo smalto tricolore, in un tamburellio rapido, nervoso. «In ogni caso è un tipo formidabile. Credo che si comporterebbe diversamente se avesse il sospetto che ho messo gli occhi su Roarke. Lui gli è affezionato in maniera incredibile. Verrebbe da pensare che Roarke, invece che il suo datore di lavoro, sia il suo primo e unico figlio, o qualcosa del genere. È solo per questo che ti tratta in modo tanto scostante... Be', il fatto che tu sia un poliziotto non aiuta. Ho l'impressione che Summerset non li possa soffrire, i poliziotti.» Si interruppe, tremando visibilmente. «Scusa, Dallas, sto dicendo un mucchio di sciocchezze, ma sono terribilmente spaventata. Hai rintracciato Leonardo, non è così? C'è qualcosa che non va, forse devi dirmi qualcosa di molto grave. È ferito? È morto?» «No, non è ferito.» Eve attraversò la stanza e si sedette in fondo al letto. «Stamattina è venuto in centrale. Ha un taglio sul braccio, tutto qui. Voi due avete avuto praticamente la stessa idea, la notte scorsa. Lui si è ubriacato e si è diretto verso casa tua, dove si è tagliato il braccio sui cocci di una bottiglia vuota che si era fatto sfuggire di mano prima di crollare sul pavimento.» «Si è ubriacato?» A quelle parole, Mavis era balzata in piedi. «Non beve quasi mai. Sa di non poterlo fare. Mi ha raccontato che, se si sbronza, compie azioni che poi non riesce a ricordare. E questo lo impaurisce... Era venuto a casa mia», aggiunse, con lo sguardo intenerito. «Che pensiero dolce. Mi cercava lì perché altrove non riusciva a trovarmi.» «È venuto da me a confessare l'omicidio di Pandora.» Mavis indietreggiò bruscamente, come se Eve le avesse sferrato un pugno. «È impossibile. Leonardo non farebbe del male a nessuno: non ne è capace. Stava solo cercando di proteggermi.» «In quel momento non sapeva nulla di quanto ti è successo. Crede di aver litigato con Pandora, di essere venuto alle mani con lei e di averla uccisa.» «Be', è una totale insensatezza.» «Così sembrano indicare le prove raccolte.» Eve si sfregò gli occhi stanchi, tenendovi premute le dita per un istante. «Il taglio sul suo braccio è stato prodotto da una scheggia della bottiglia rotta. Neppure una goccia del suo sangue è stata trovata sulla scena del delitto, e le macchie ematiche sugli abiti che indossava non sono riconducibili a Pandora. Finora non siamo
riusciti a ricostruire tutte le sue mosse, ma non abbiamo nessun indizio contro di lui.» Il cuore di Mavis saltò un battito, poi si riprese. «Oh, allora è tutto a posto. Tu non credi alla sua confessione.» «Non l'ho ancora deciso, ma non c'è nulla, almeno a questo punto, che lo incrimini.» «Dio sia ringraziato.» Mavis si lasciò cadere sul letto, accanto a Eve. «Quando posso vederlo, Dallas? Leonardo e io dobbiamo sistemare le cose tra noi.» «È possibile che debba passare ancora un po' di tempo.» Eve serrò strettamente le palpebre, poi le riaprì e si costrinse a guardare Mavis. «Devo chiederti un favore, il più grande che mai nessuno ti abbia domandato.» «Mi farà male?» «Sì.» Eve vide svanire il sorriso che Mavis aveva tentato di abbozzare. «Devo chiederti di fidarti di me, affinché io possa venirti in aiuto. Di convincerti che sono così brava nel mio mestiere da non farmi sfuggire nessun indizio, per piccolo che sia. Devo pregarti di ricordare che sei la mia più cara amica e che ti voglio molto bene.» Il respiro di Mavis cominciò a farsi affannoso. Gli occhi le rimasero asciutti, ma di una secchezza ardente. La saliva le evaporò dalla bocca. «Mi arresti.» «Sono arrivati i rapporti del laboratorio.» Eve prese tra le sue le mani di Mavis e le tenne strette. «Non mi hanno colto di sorpresa, perché avevo capito che qualcuno aveva predisposto una messinscena. Speravo di poter trovare qualcosa - una cosa qualsiasi - prima di avere i risultati delle analisi, ma non ci sono riuscita. Ora ci sta lavorando anche Feeney, che in queste cose è un vero asso, credimi. Roarke ha già contattato i migliori avvocati difensori che esistano al mondo. L'arresto è solo una formalità.» «Devi arrestarmi per omicidio.» «Sì, ma di secondo grado. È già qualcosa. Lo so che sembra un particolare irrilevante, però significa che l'ufficio del pubblico ministero non si opporrà alla richiesta di libertà condizionata. Tra qualche ora sarai di nuovo qui, a mangiare la tua torta.» Ma nella mente di Mavis continuavano a risuonare quattro parole: Omicidio di secondo grado. Omicidio di secondo grado. «Devi chiudermi in cella.» I polmoni di Eve bruciavano, e quella sensazione si stava rapidamente trasmettendo al suo cuore. «Non ci resterai a lungo. Te lo prometto. Fee-
ney si sta già muovendo affinché l'udienza preliminare venga tenuta al più presto. Ha un sacco di pedine importanti da tirare in ballo. Non appena avremo terminato la trafila della registrazione, ci sarà l'udienza, il giudice stabilirà la cauzione e tu tornerai qui.» Portando al polso un braccialetto elettronico che avrebbe permesso di seguire i suoi movimenti, aggiunse tra sé Eve. Costretta a restare intrappolata in casa per evitare i media che le avrebbero dato la caccia. La gabbia sarebbe stata elegante e accogliente, ma sarebbe stata pur sempre una gabbia. «A sentir te, tutto sembra facile.» «Non sarà facile, ma sarà meno duro se ricorderai di avere al tuo fianco un paio di validissimi poliziotti. Non rinunciare a nessuno dei tuoi diritti, d'accordo? A nessuno. E, una volta cominciata la trafila, aspetta l'arrivo dei tuoi legali. Non dirmi nulla che tu non sia tenuta a dire. Non parlare con nessuno. Hai capito?» «Va bene.» Mavis ritrasse le mani e si alzò. «Andiamo e facciamola finita.» Alcune ore più tardi, conclusa la trafila, Eve rientrò in casa, dove le luci erano tutte abbassate. Si augurò che Mavis avesse seguito il suo suggerimento di prendere un tranquillante e andare a dormire. Lei invece sapeva che non sarebbe riuscita a fare lo stesso. Era sicura che, mentre lei era impegnata in altre cose, Feeney avesse sostenuto la sua richiesta di dare Mavis in affidamento a Roarke. La conferenza stampa era stata particolarmente stressante. Come si aspettava, erano fioccate domande sull'amicizia tra lei e Mavis e c'era stato qualche accenno a un conflitto d'interessi. Era grata al comandante Whitney per aver fatto una rapida apparizione e affermato di averle affidato la responsabilità delle indagini perché riponeva in lei la più totale fiducia. L'intervista esclusiva con Nadine Furst era stata un po' più facile. Non devi fare altro che salvare la vita a una persona, perché questa acconsenta di cuore a schierarsi dalla tua parte, pensò cupamente mentre saliva le scale. Era possibile che nell'animo di Nadine ci fosse una gran voglia di fare uno scoop, ma c'era anche molta gratitudine. La storia di Mavis sarebbe stata presentata da Channel 75 sotto una luce favorevole. Poi Eve aveva fatto qualcosa di cui non si sarebbe mai creduta capace. Aveva volontariamente chiamato lo studio psichiatrico che affiancava la polizia e preso un appuntamento con la dottoressa Mira.
Potrei sempre annullarlo, si ricordò, sfregandosi gli occhi che le dolevano, quasi fossero pieni di sabbia. Anzi, probabilmente lo farò. «Ha tirato le ore piccole, tenente, nonostante una giornata così tumultuosa.» Eve lasciò ricadere le mani e vide Summerset uscire silenziosamente da una stanza alla sua destra. Indossava il solito vestito nero, così rigido da sembrare inamidato, e il viso severo era solcato da pieghe sprezzanti. Pareva che l'antipatia nei confronti di Eve fosse qualcosa che gli riusciva naturale, come il piglio con cui mandava avanti la gestione della casa. «Non mi rompa le scatole, Summerset.» Lui le tagliò decisamente la strada. «Avevo creduto che lei, nonostante le sue innumerevoli pecche, fosse quantomeno un poliziotto in gamba. Ora mi rendo conto che non lo è, così come non è un'amica affidabile per una persona che fa completamente conto su di lei.» «Ritiene davvero che, dopo quello che ho passato stanotte, le sue parole possano anche solo scalfirmi?» «Ritengo che nulla possa farle effetto, tenente. Lei non conosce la lealtà, perciò è un essere inesistente. È meno di nulla.» «Forse può suggerirmi come avrei dovuto gestire la situazione. Forse avrei dovuto convincere Roarke a mettere sulla pista di lancio uno dei suoi JetStar e spedire Mavis in un rifugio su qualche remoto pianeta. Così sarebbe rimasta una fuggiasca per il resto della sua vita.» «Almeno non avrebbe pianto tutte le sue lacrime prima di crollare nel sonno», ribatté Summerset. La freccia si piantò direttamente sotto il cuore, che era il bersaglio contro cui era stata scoccata. Il dolore si fece strada in mezzo alla fatica. «Togliti dai piedi, bastardo, e stammi alla larga.» Lo spinse di lato, ma impedì a se stessa di allontanarsi di corsa. Entrò a passi misurati nella camera da letto padronale, dove Roarke stava facendo scorrere sullo schermo le immagini della conferenza stampa. «Te la sei cavata bene», le disse lui, alzandosi. «Nonostante il tremendo stress.» «Già, sono una vera professionista.» Entrò nella stanza da bagno e si fermò a guardarsi nello specchio. Vide una donna dal viso spento, gli occhi segnati, la bocca con una piega amara. E, al di là di tutto ciò, vide la propria impotenza. «Stai facendo tutto il possibile», le mormorò Roarke, alle sue spalle. «Gli avvocati che hai procurato a Mavis sono formidabili.» Ordinò un
getto d'acqua fredda e, chinatasi, si sciacquò abbondantemente il viso. «Durante l'interrogatorio hanno tentato di stringermi alle corde. Ho reagito con durezza, perché non potevo farne a meno. Ma loro sono riusciti a mettere a segno qualche colpo basso. La prossima volta che dovrò torchiare un'amica, li tirerò certamente in ballo.» Roarke l'osservò nascondere il volto in un asciugamano. «Da quanto tempo non mangi?» Lei si limitò a scuotere la testa. La domanda le sembrava irrilevante. «I cronisti erano assetati di sangue. Per loro, io sono una preda allettante. Sono bastati due casi clamorosi per fare di me uno splendido bersaglio. Alcuni giornalisti sbavano all'idea di vedermi colpita in mezzo agli occhi. Pensa quanto salirebbe l'audience.» «Mavis non te ne fa una colpa, Eve.» «Sono io ad avercela con me stessa», proruppe lei, gettando via l'asciugamano. «È tutta colpa mia, maledizione! Le ho detto di aver fiducia in me, che avrei risolto ogni cosa. E come l'ho risolta, Roarke? L'ho arrestata, l'ho schedata. Impronte, foto segnaletiche, traccia vocale: tutto adesso è registrato. L'ho costretta a subire due orribili ore d'interrogatorio. L'ho chiusa a chiave in una cella finché i legali da te ingaggiati non l'hanno fatta uscire pagando la cauzione coi soldi che ci hai messo tu. Mi odio.» Nascondendosi il viso dietro le mani, Eve prese a singhiozzare. «Era ora che ti sfogassi.» Roarke l'afferrò energicamente tra le braccia, la sollevò e la portò a letto. «Poi ti sentirai meglio.» Continuò a cullarla tra le braccia, le carezzò i capelli. Ogni volta che Eve si metteva a piangere, si disse, era un diluvio, uno scoppio di pianto dirompente. Capitava molto di rado che si lasciasse sfuggire soltanto qualche lacrima silenziosa. Era raro che per lei le cose fossero semplici. «Sfogarmi non mi aiuta», riuscì a dirgli. «Sì, invece. Espellerai un po' del tuo ingiustificato senso di colpa e del dolore che giustamente provi. Domani avrai le idee più chiare.» I singhiozzi si erano ridotti a intermittenti singulti, la testa era attanagliata da un dolore straziante. «Stanotte devo lavorare. Ho bisogno di verificare alcuni nomi e probabili scenari.» No, pensò Roarke, neanche per sogno. «Aspetta un attimo. Ti procuro qualcosa da mangiare.» Prima che lei potesse protestare, si avviò verso l'AutoChef. «Ogni organismo umano, anche se formidabile come il tuo, ha bisogno di carburante. E c'è una storia che voglio raccontarti.» «Non posso sprecare minuti preziosi.»
«Non sarà tempo sprecato.» Un quarto d'ora soltanto, pensò Eve, mentre un delizioso profumo di cibo le raggiungeva le narici. «Purché il pasto sia rapido e la storia breve, d'accordo?» Si sfregò gli occhi, non sapendo se vergognarsi o provare sollievo per aver permesso che il tappo saltasse lasciando via libera a quel pianto forsennato. «Mi dispiace di averti inondato di lacrime.» «Sono sempre disponibile a farmi bagnare.» Si avviò verso di lei con un'omelette fumante e una tazza, si sedette e fissò i suoi occhi gonfi, carichi di stanchezza. «Ti adoro.» Lei arrossì. Sembrava che, di tutte le donne, fosse rimasta solo lei in grado di ravvivare il colore delle proprie guance con la tinta dell'imbarazzo. «Stai cercando di distrarmi.» Prese il piatto e una forchetta. «Così ci riesci sempre, mentre io non riesco mai a formulare le risposte giuste.» Assaggiò l'omelette. «Forse tu sei, in un certo senso, la cosa migliore che mi sia mai capitata.» «Ci credo.» Eve sollevò la tazza, se la portò alle labbra e si accigliò. «Questo non è caffè.» «È tè, tanto per cambiare. Una miscela che calma i nervi. Immagino che tu abbia fatto il pieno di caffeina.» «Più o meno.» Poiché l'omelette era deliziosa e lei non aveva la forza di discutere, bevve un sorso. «È gradevole. Allora, com'è la storia?» «Ti sei più volte chiesta perché tengo con me Summerset, anche ora che si dimostra... meno che cortese nei tuoi confronti.» Eve sbuffò. «Di' piuttosto che nutre per me un odio viscerale. Ma sono affari tuoi.» «Affari nostri», la corresse. «Comunque non voglio sentir parlare di lui, proprio in questo momento.» «In realtà la storia riguarda più me che lui, e potresti scoprire che ha qualcosa a che fare col tuo attuale stato d'animo.» La guardò bere un altro sorso e calcolò che gli restava giusto il tempo per raccontargliela. «Quand'ero molto giovane e vagavo ancora nelle strade di Dublino, mi capitò d'imbattermi in un uomo con una figlioletta. Lei era... be', potrei definirla un angelo, così rosea e dorata, col sorriso più dolce che mai si sia visto nei cieli. Sbarcavano il lunario abbindolando la gente, con un'abilità straordinaria. Erano soprattutto piccole truffe ai danni di qualche sciocco e ne ricavavano di che vivere. All'epoca io facevo più meno lo stesso, ma
amavo cambiare e mi divertivo anche a sfilare di tasca portafogli e a organizzare partite truccate. Mio padre era ancora vivo quando conobbi Summerset - che allora si chiamava però in un altro modo - e sua figlia Marlena.» «Dunque era un truffatore», commentò Eve, continuando a mangiare. «L'avevo capito che in lui c'era qualcosa di equivoco.» «Era estremamente abile. Ho imparato molto da lui e, come mi piace pensare, lui da me. In ogni caso, una volta che il mio caro vecchio papà me le aveva suonate con più entusiasmo del solito, Summerset mi trovò svenuto in un vicolo. Mi raccolse e si prese cura di me. Non aveva il denaro per pagare un medico, e io non avevo una carta sanitaria. Avevo solo alcune costole rotte, una spalla fratturata e una commozione cerebrale.» «Mi dispiace.» Quella scena gliene aveva riportate alla memoria altre, che le resero la bocca arida. «La vita è uno schifo.» «Allora lo era. Summerset aveva molte frecce al suo arco. Aveva seguito un corso di pronto intervento medico e nel suo lavoro si travestiva spesso da infermiere. Non arriverò a dire che mi salvò la pelle, perché ero giovane, forte e abituato alle percosse paterne, ma certamente fece in modo che non soffrissi inutilmente.» «Gli devi parecchio.» Eve spostò di lato il piatto. «Lo capisco. Va bene così.» «No, le cose non stanno in questo modo. Gli dovevo molto, ma l'ho ripagato. Ci sono stati periodi in cui era lui a essere in debito nei miei confronti. Dopo la morte di mio padre, una fine che non fu pianta da nessuno, noi due diventammo soci. Di nuovo, non arrivo al punto di sostenere che mi abbia allevato e che si sia sempre preso cura di me, ma mi diede un surrogato di famiglia. Volevo molto bene a Marlena.» «La figlia.» Eve dovette scuotere la testa per schiarirsi le idee. «L'avevo dimenticata. È difficile immaginare quel vecchio stronzo nelle vesti di padre. Dov'è ora, Marlena?» «È morta. Aveva quattordici anni. Io ne avevo sedici. Ci conoscevamo, più o meno, da sei. Una delle mie iniziative nel campo del gioco d'azzardo stava cominciando a rendere bene, attirando l'attenzione e la disapprovazione di un piccolo racket, particolarmente violento. Quegli individui avevano l'impressione che stessi invadendo il loro territorio. Io invece credevo di potermi ritagliare un mio spazio. Mi minacciarono, e fui tanto arrogante da ignorarli. Per un paio di volte tentarono di mettermi le mani addosso, per insegnarmi a rispettarli, immagino. Ma non era facile prendermi. E
stavo acquistando sempre maggior potere, persino prestigio. Certamente avevo cominciato ad arricchirmi. Quel tanto da permettere a noi tre di acquistare un appartamento, piccolo ma decente. E, strada facendo, Marlena s'innamorò di me.» Roarke s'interruppe, con lo sguardo basso, in preda ai ricordi e ai rimpianti. «Le volevo molto bene, però nutrivo per lei un affetto fraterno. Era bellissima, e incredibilmente candida, nonostante la vita che conducevamo. Non avevo mire su di lei; la vedevo con gli occhi di un uomo - perché ero ormai un uomo fatto - che osserva una stupenda opera d'arte. Provavo un afflato romantico, senza il minimo coinvolgimento di natura sessuale. Per lei non era così. Una notte entrò in camera mia e, con molta dolcezza ma con terribile determinazione, mi offrì il suo corpo. Inorridii, furioso e impaurito. Perché ero un maschio e, come tale, esposto alle tentazioni.» Tornò a fissare Eve. I suoi occhi erano sconvolti. «Fui crudele con lei, Eve, e la mandai via distrutta. Era solo una bambina, e la mia reazione la ferì mortalmente. Non ho mai dimenticato l'espressione che apparve sul suo volto. Si fidava di me, credeva in me e io, facendo ciò che era giusto, l'avevo tradita.» «Così come io ho tradito Mavis.» «Come tu ritieni di averla tradita. Ma c'è dell'altro. Quella stessa notte lei scappò di casa. Summerset e io non riuscimmo a scoprire dove fosse andata fino all'indomani mattina, quando gli uomini che mi stavano alle calcagna ci fecero sapere che Marlena era nelle loro mani. Ci mandarono gli abiti che lei indossava, ed erano macchiati di sangue. Per la prima e ultima volta in vita mia vidi Summerset paralizzato, inerme. Avrei dato a quegli uomini tutto ciò che volevano, avrei fatto qualunque cosa. Ero pronto a offrirmi in cambio di Marlena, senza la minima esitazione. Proprio come tu, se solo lo potessi, scambieresti in questo momento il tuo posto con Mavis.» «Sì.» Eve posò la tazza vuota con gesti intorpiditi. «Farei qualsiasi cosa.» «A volte il tempo sfugge di mano. Mi misi in contatto con quegli uomini, dissi loro che eravamo disposti a venire a patti, li supplicai di non fare del male a Marlena. Ma era troppo tardi. L'avevano già violentata e torturata, quella deliziosa quattordicenne che amava tanto la vita e stava appena cominciando a provare sentimenti da donna. A poche ore dal nostro primo contatto, il suo corpo fu gettato sulla soglia della mia casa. Si erano serviti di lei come di un mezzo per raggiungere un fine, per avvantaggiarsi su un
rivale in affari. Per loro non era neppure un essere umano, e io non potei fare nulla per tornare indietro e cambiare ciò che era accaduto.» «Non è stata colpa tua.» Eve tese le mani e strinse quelle di Roarke. «Mi dispiace. Mi dispiace moltissimo, ma non devi addossartene la colpa.» «No, non me l'addosso. Mi ci sono voluti anni per convincermene, per capirlo e accettarlo. Summerset non mi ha mai biasimato, Eve. Eppure avrebbe potuto farlo. Marlena era tutta la sua vita e lei ha sofferto ed è morta a causa mia. Però lui non se l'è mai presa con me, mai.» Eve sospirò, chiuse gli occhi. Capiva ciò che Roarke intendeva dirle raccontandole quella storia che per lui doveva essere tremendamente angoscioso rivivere: neppure lei doveva sentirsi in colpa. «Non hai potuto impedire che ciò accadesse. Hai potuto soltanto intervenire in seguito, come me, che posso solo fare tutto il possibile per trovare le risposte.» Riaprì stancamente gli occhi. «Che cosa accadde, dopo?» «Diedi la caccia agli uomini che l'avevano uccisa e li feci fuori, nel modo più lento e doloroso che riuscii a trovare.» Sorrise amaramente. «Ognuno segue una propria strada per trovare soluzioni e ottenere giustizia.» «Farsi giustizia da sé non è giustizia», disse Eve. «Non per te. Ma troverai la soluzione e otterrai giustizia per Mavis. Nessuno ne dubita.» «Non posso permettere che venga processata.» Rialzò di scatto la testa che cominciava a ciondolare. «Devo trovare... Ho bisogno di andare...» Non riuscì a sollevare le braccia appesantite. «Maledizione, Roarke, mi hai dato un tranquillante!» «Ora dormi», le mormorò lui, sganciandole la fondina dell'arma. «Sdraiati.» «Somministrare narcotici a una persona ignara è una violazione della...» Eve scivolò verso l'incoscienza e avvertì a malapena le dita di Roarke che le sbottonavano la camicia. «Domani mattina arrestami», le suggerì lui. Dopo aver finito di spogliarla, si sfilò a sua volta gli abiti e s'infilò nel letto, accanto a lei. «Ora dormi e basta.» Eve dormì, ma non riuscì a sfuggire agli incubi. 8 Non fu un risveglio felice. Quando si ridestò, con lei non c'era nessuno: Roarke era stato saggio, probabilmente, a lasciarla sola. Il tranquillante
non aveva lasciato strascichi; Eve si ritrovò vigile, con la mente chiara e riposata, e tuttavia piena di rabbia. La lampeggiante luce rossa del memorandum elettronico sul comodino non le migliorò l'umore. Non servì neppure la voce carezzevole di Roarke che sortì dall'apparecchio non appena lei lo accese. «Buongiorno, tenente. Spero che tu abbia dormito bene. Se ti svegli prima delle otto, mi troverai nel tinello a fare colazione. Non ho voluto consumarla in camera per non disturbarti. Sembravi così placida.» «Adesso vedrai quanto sono placida», ribatté lei, a denti stretti. In dieci minuti esatti riuscì a farsi la doccia, vestirsi e agganciarsi la fondina dell'arma. Il tinello, come lui si divertiva a chiamarlo, era un vasto locale soleggiato di fronte alla cucina. Eve vi trovò non solo Roarke, ma anche Mavis. Entrambi salutarono il suo ingresso con un sorriso, socchiudendo le palpebre. «Dobbiamo chiarire subito un paio di cosucce, Roarke.» «Hai ripreso un po' di colore», disse lui. Compiaciuto con se stesso, si alzò e le posò un bacio sulla punta del naso. «La carnagione grigiastra che avevi ieri non ti donava.» Emise un grugnito quando il pugno di Eve gli si piantò nello stomaco, poi si schiarì virilmente la voce. «Anche la tua energia è chiaramente tornata ai massimi livelli. Vuoi una tazza di caffè?» «Voglio che tu capisca che, se mai ti venisse di nuovo in mente di giocarmi un simile scherzo, io...» S'interruppe e fissò Mavis, con gli occhi stretti. «Che cosa c'è di tanto buffo da farti sorridere?» «Mi diverte osservarvi. Voi due siete così speculari.» «Talmente speculari che lui, se non sta attento, potrebbe ritrovarsi con le spalle a terra a fissare il soffitto.» Ma continuò a scrutare Mavis, perplessa. «Hai l'aria... di star bene», commentò alla fine. «E sto bene. Dopo essermi fatta un bel pianto e aver ingoiato una grossa scatola di cioccolatini svizzeri, ho smesso di provare compassione per me stessa. Ho dalla mia il più formidabile poliziotto della città, il miglior studio legale che un miliardario possa ingaggiare e un uomo che mi ama. Vedi, mi sono detta che quando questa storia si sarà conclusa, perché prima o poi avrà fine, nel ripensarci mi sembrerà solo una strana avventura. E, grazie all'attenzione di tutti i media puntata su di me, la mia carriera spiccherà il volo.» Mavis allungò la mano, prese quella di Eve e tirò l'amica verso la panca imbottita. «Non sono più spaventata.» Eve scrutò a lungo e attentamente gli occhi di Mavis. «No, non lo sei.
Ora stai bene, lo vedo.» «Sì, mi sono ripresa. Ci ho pensato e ripensato. Una volta chiarita, la situazione diventa semplicissima. Io non ho ucciso Pandora. Tu scoprirai chi è stato e, non appena ce l'avrai fatta, tutta questa storia finirà. Fino a quel momento vivrò in questa fantastica casa, mangerò stupendi manicaretti.» Si portò alle labbra un ultimo boccone di crèpe, sottile come un'ostia. «E intanto il mio nome e il mio viso saranno su tutte le prime pagine dei giornali e dei notiziari televisivi.» «È un modo come un altro di vedere le cose.» Un po' a disagio, Eve si alzò per regolare da sé l'AutoChef e farsi preparare un caffè. «Mavis, non voglio preoccuparti né farti arrabbiare, ma questa non sarà una passeggiata nel parco.» «Non sono stupida, Dallas.» «Non intendevo...» «Stai pensando che non mi rendo conto del peggio che potrebbe accadere. Ne sono perfettamente consapevole, però non credo che la situazione possa prendere una brutta piega. D'ora in poi cercherò di avere un atteggiamento positivo e di farti il favore che mi hai chiesto ieri.» «Va bene. Ora dobbiamo metterci al lavoro. Voglio che ti concentri, che tenti di ricordare il più possibile. Ogni minimo dettaglio, per quanto piccolo o insignificante possa sembrarti... Che cos'è, questo?» chiese a Roarke, vedendo che le stava posando davanti una ciotola. «La tua colazione.» «È farina d'avena.» «Esatto.» Eve fissò la ciotola con aria accigliata. «Perché non posso avere anch'io una crèpe?» «L'avrai, ma prima devi mangiare la farina d'avena.» Con gli occhi fiammeggianti, lei s'infilò in bocca un'intera cucchiaiata. «È meglio se noi due non ci rivolgiamo la parola.» «Ragazzi, siete fantastici. Sono davvero felice di avere l'opportunità di vedervi così da vicino, nella vostra intimità. Non che prima non vi considerassi due esseri eccezionali, ma ero soprattutto contenta che Dallas avesse incastrato un riccone.» Lanciò a Roarke un'occhiata sfavillante. «Mi lascia senza parole il modo in cui tu la tieni in riga. Prima d'ora non c'era mai riuscito nessuno.» «Chiudi il becco, Mavis», intimò Eve. «Sforzati di ricordare, metticela tutta, ma non dirmi nulla finché non ne avrai parlato coi tuoi legali.»
«Me l'hanno già detto anche loro. Immagino di dover fare come quando tento di ricordare un nome o dove ho messo una certa cosa. Smetti d'intestardirti a pensarci, t'impegni in qualcosa di diverso e, voilà, quello che stavi cercando ti salta in mente. Perciò mi occuperò d'altro, e in questo momento la cosa più importante è il tuo matrimonio. Leonardo mi ha detto che dovresti fare al più presto la prima prova dell'abito.» «Leonardo?» Eve per poco non cadde dalla sedia. «Gli hai parlato?» «I miei legali sono riusciti a farmi ottenere un colloquio con lui. Ritengono che sia un bene per me riallacciare i nostri rapporti. Può servire a creare un alone romantico, in grado di attirarmi la simpatia dell'opinione pubblica.» Appoggiò un gomito sul tavolo e iniziò a giocherellare con un tris di orecchini che le pendeva dal lobo sinistro. «Sai, loro si sono soltanto opposti ai test con la macchina della verità e l'ipnosi perché non sono sicuri di ciò che potrei ricordare. Mi credono, però non vogliono correre rischi. Invece hanno ritenuto che un mio incontro con Leonardo potesse essere molto utile. Perciò dobbiamo organizzare questa prova.» «Non ho tempo da perdere in prove. Cristo santo, Mavis, credi che in un momento come questo io possa preoccuparmi di abiti e acconciature fiorite? E, finché il caso non sarà stato risolto, non intendo sposarmi. Roarke lo capisce benissimo.» Lui prese una sigaretta e se la girò tra le dita. «No, Roarke non capisce.» «Ascolta...» «No, ascolta tu.» Mavis si alzò, coi capelli di uno sfavillante azzurro che brillavano alla luce del sole. «Non permetterò che questo pasticcio mandi all'aria qualcosa cui tengo moltissimo. Pandora ha fatto il possibile per rovinare la mia vita e quella di Leonardo. E ha peggiorato le cose morendo. Ora non distruggerà anche questo. I preparativi del matrimonio non verranno sospesi, Dallas, e tu farai bene a ritagliarti un po' di tempo nella tua tabella di marcia per provare l'abito.» Nel vedere i lucciconi che erano apparsi negli occhi di Mavis, Eve non se la sentì di mettersi a discutere. «Va bene, d'accordo. Come vuoi. Proverò quello stupido abito.» «Non è uno stupido abito. Sarà qualcosa di sensazionale.» «È proprio questo che intendevo dire.» «Tanto meglio.» Mavis tirò su col naso e tornò a sedersi. «Per quando posso fissare con Leonardo un incontro a tre per la prova del vestito?» «Ah... ascolta, Mavis. È meglio per te - e i tuoi formidabili legali mi da-
ranno certamente ragione - se noi due non ci facciamo vedere in giro insieme. La responsabile delle indagini e l'imputata che se ne vanno a braccetto. Sarebbe molto controproducente.» «Vuoi dire che non posso...» Mavis s'interruppe bruscamente. «Va bene, eviteremo di andare a spasso insieme. Leonardo può lavorare qui. A te, Roarke, non dà fastidio, vero?» «Al contrario.» Lui aspirò la sigaretta con aria soddisfatta. «Ritengo che sia la soluzione migliore.» «Una grande famiglia felice», borbottò Eve. «La responsabile delle indagini, l'imputata e il proprietario dell'appartamento in cui è avvenuto il delitto, che per caso è anche l'ex amante della vittima e l'amante in carica dell'imputata. Siete diventati tutti matti?» «Chi verrà a saperlo? Roarke dispone di un ottimo sistema di sicurezza. E, se c'è anche la più piccola possibilità che la situazione volga al peggio, voglio trascorrere con Leonardo tutto il tempo che posso.» Mavis strinse la bocca in un broncio ostinato. «Perciò questo è quello che farò.» «Chiederò a Summerset di ricavare da qualche parte uno spazio che funga da atelier», disse il padrone di casa. «Grazie, Roarke. Te ne siamo grati.» «Mentre voi due organizzate la vostra folle festicciola, io ho un caso di omicidio da risolvere.» Roarke strizzò l'occhio a Mavis e chiese a Eve, che stava uscendo rabbiosamente dalla stanza: «E la tua crèpe?» «Mangiala tu, e strozzati!» «È innamorata cotta di te», commentò Mavis. «Sono quasi imbarazzanti, queste sue manifestazioni d'affetto. Vuoi un'altra crèpe?» Mavis si batté la mano sullo stomaco. «Perché no?» In mezzo all'incrocio tra la 9th Avenue e la 56th Street un tombino sprofondato aveva creato uno spaventoso ingorgo nel traffico. Tanto i pedoni quanto le persone al volante delle auto, infischiandosi delle norme sul controllo dell'inquinamento acustico, sfogavano la propria frustrazione sbraitando e suonando il clacson all'impazzata. Per non essere assordata da quel fracasso, Eve avrebbe voluto sollevare i finestrini, ma il congegno che regolava la temperatura all'interno dell'abitacolo era andato nuovamente in tilt. E Madre Natura, quasi a voler mettere la ciliegina sulla torta, aveva deciso di avviluppare New York in una
combinazione di calore e umidità che sfiorava i 45 gradi. Per passare il tempo, Eve osservava l'afa sollevarsi dal cemento del fondo stradale sotto forma di fluttuanti e impalpabili onde. Se fosse andato avanti così, entro mezzogiorno sarebbero stati molti i chip dei computer che avrebbero iniziato a friggere. Si chiese se non fosse il caso di sollevarsi in aria, sebbene il pannello di controllo sembrasse aver autonomamente deciso di non darle retta. D'altronde erano molti i guidatori che, spinti dalla fretta, l'avevano già fatto, intasando anche il traffico aereo. Due elicotteri della polizia stradale tentavano di sbrogliare la situazione, ma non facevano altro che aumentare il fracasso col sibilante ronzio dei loro rotori e con le fastidiose voci che uscivano dagli altoparlanti. Eve si sorprese a ringhiare all'ologramma con la scritta I LOVE NEW YORK appiccicato sul paraurti dell'auto che la precedeva. La cosa migliore, decise, era svolgere un po' del suo lavoro lì, in auto. «Peabody», ordinò al videotelefono, che, dopo aver emesso irritanti sibili elettrostatici, si accese. «Peabody. Omicidi.» «Qui Dallas. Sto venendo a prenderti. Aspettami di fronte alla centrale, lato ovest, tra un quarto d'ora, più o meno.» «Signorsì.» «Porta con te tutti i file concernenti i casi Johannsen e Pandora e cerca...» S'interruppe e lanciò un'occhiata allo schermo. «Come mai intorno a te è tutto così silenzioso, Peabody? Non sarai mica finita in guardina?» «Stamattina ad arrivare siamo stati soltanto in due. Sulla 9th Avenue c'è uno spaventoso ingorgo.» Eve osservò la fiumana di auto imbottigliate. «E lo dici a me?» «Ascoltare i comunicati mattutini sull'andamento del traffico è una cosa che serve», ribatté l'agente. «Io ho preso una strada alternativa.» «Chiudi il becco, Peabody», mormorò Eve, interrompendo la comunicazione. Trascorse i successivi due minuti collegata con la segreteria del videotelefono del proprio ufficio, per leggere i messaggi che vi erano stati lasciati; poi fissò per quella stessa mattina un appuntamento con Paul Redford, per interrogarlo. Infine chiamò il laboratorio per sollecitare i tecnici a darle al più presto il rapporto tossicologico riguardante Pandora e, dopo le loro spiegazioni evasive, li piantò in asso pronunciando oscure minacce. Si stava chiedendo se chiamare Feeney e tormentare pure lui, quando
scorse una piccola breccia nel muro di automezzi. Si lanciò in avanti, tagliò a sinistra, s'infilò tra due veicoli, ignorando la rabbiosa esplosione di colpi di clacson e le mani col dito medio alzato, e, augurandosi che la sua vettura collaborasse, schizzò in verticale. Più che balzare verso l'alto come una molla, l'auto si sollevò ondeggiando, portandosi a circa tre metri dal livello stradale. Eve piegò a destra, evitò per un pelo una scala mobile affollata di gente, di cui scorse confusamente i visi stanchi e sudati, e sorvolò la 7th Avenue, mentre il pannello di controllo lanciava spasmodici avvertimenti di sovraccarico. Dopo cinque isolati, l'auto ansimava, ma ormai la parte peggiore dell'ingorgo era stata superata. Eve riportò a terra la vettura, con un tonfo da far battere i denti, e svoltò verso l'ingresso ovest della centrale di polizia. L'affidabile Peabody la stava aspettando. Come riuscisse a sembrare fresca e a suo agio nella pesante uniforme blu, Eve preferì non appurarlo. «La sua auto sfrigola un po', tenente», commentò Peabody, accomodandosi all'interno. «Davvero? Non me n'ero accorta.» «Anche lei, tenente, mi pare un po' accaldata.» Vedendo che Eve si limitava a mostrare i denti mentre si avviava in direzione della 5th Avenue, dalla parte opposta della città, Peabody frugò nella propria borsetta, ne estrasse un minuscolo ventilatore portatile e lo agganciò al cruscotto. Il soffio di aria fresca strappò quasi un mugolio a Eve, che ringraziò la collega. «L'apparato di regolazione della temperatura di questo modello di vettura non è gran che.» Il volto di Peabody non perse l'abituale impassibilità. «Ma probabilmente lei non se n'è accorta.» «Sei acuta, Peabody. È una tua dote che apprezzo molto. Ora fammi un resoconto sul caso Johannsen.» «I tecnici di laboratorio non sono ancora riusciti a individuare tutti i componenti della polvere. Dicono di essere a un punto morto. È anche possibile che abbiano completamente analizzato la formula, ma non l'ammettono. Secondo un'indiscrezione che mi è giunta tramite un mio informatore, la Narcotici chiede la priorità, perciò ci può essere in atto qualche manovra politica. Un secondo esame autoptico non ha riscontrato tracce di droghe, legali o illegali, nel corpo della vittima.» «Boomer non ne faceva uso, dunque», meditò Eve. «Non disdegnava di provare qualche nuovo stupefacente, e tuttavia, pur avendo a disposizione
una bella quantità di quella sostanza, non l'ha assaggiata. Qual è la conclusione che ne trai, Peabody?» «Se teniamo conto dello stato in cui abbiamo trovato la sua stanza e delle dichiarazioni del droide che funge da portiere, sappiamo che la vittima ha avuto il tempo e l'opportunità di provare quella sostanza. Aveva un passato di consumatore abituale di droghe, pur non avendone mai abusato. Perciò ne deduco che si è tenuto alla larga da quella sostanza perché sapeva o sospettava qualcosa.» «Questa è anche la mia opinione. Che cosa hai appurato da Casto?» «Sostiene di essere completamente all'oscuro di questa vicenda. Ha collaborato, anche se non in maniera apertamente disponibile, nel fornire informazioni e teorie.» Qualcosa nel tono di Peabody indusse Eve a lanciarle un'occhiata. «Ti ha fatto qualche avance?» Peabody tenne lo sguardo fisso davanti a sé, con le palpebre leggermente socchiuse sotto la frangetta dal taglio a scodella. «Non ha avuto nei miei confronti nessun atteggiamento inopportuno.» «Non svicolare. Ti avevo chiesto una cosa diversa», insistette Eve. Il rossore salì da sotto il colletto dell'uniforme blu, spandendosi sulle guance di Peabody. «Ha mostrato un certo interesse personale.» «Cristo, piantala con queste frasi da poliziotto. Questo interesse personale è ricambiato?» «Potrebbe esserlo, se io non sospettassi che il soggetto in questione nutre un interesse personale ben più profondo per il mio diretto superiore.» Lanciò a Eve un'occhiata in tralice. «Ha un debole per lei, signore.» «Be', farà meglio a tenerlo per sé», ribatté Eve. Tuttavia non riuscì a sentirsi davvero irritata. «Il mio interesse personale è rivolto altrove. Ma è un figlio di puttana piuttosto attraente, non ti pare?» «Quando mi guarda, mi viene l'acquolina in bocca.» Eve cercò di appurare se anche in lei si verificasse quel fenomeno. «Balzagli addosso, allora, Peabody.» «Non sono pronta a farmi coinvolgere in una relazione romantica, almeno per ora.» «Santo cielo, chi ha parlato di relazione? Alludevo a un paio di scopate, senza altri fini.» «Preferisco trovare un partner sessuale con cui condividere un'affettuosa compagnia, signore», replicò rigidamente Peabody. «Già. Fa una certa differenza», sospirò Eve. Dovette compiere un peno-
so sforzo per impedire alla sua mente di concentrarsi su Mavis, ma ci riuscì. «Stavo solo scherzando, Peabody. Lo so come vanno le cose quando sei lì, intenta a svolgere il tuo lavoro, e qualcuno ti fa gli occhi dolci. Mi dispiace doverti chiedere di stargli dietro, ma posso contare solo su di te.» «Non è un problema.» Peabody sorrise. «E guardarlo non è esattamente un sacrificio.» Sollevò lo sguardo mentre la vettura s'infilava nel parcheggio sotterraneo di un grattacielo bianco, sulla 5th Avenue. «Questo non è uno degli immobili di proprietà di Roarke?» «Sono quasi tutti suoi», rispose Eve. Il custode elettronico, dopo aver sottoposto a scansione la sua auto, la lasciò entrare. «In questo ci sono i suoi uffici centrali. E qui si trova anche la sede newyorkese delle Redford Productions. Ho fissato un appuntamento con Redford per interrogarlo sull'omicidio di Pandora.» Eve s'infilò nel garage per i Vip in cui Roarke le aveva fatto riservare un posto auto e parcheggiò. «Ufficialmente tu non ti occupi di questo caso, però sei autorizzata ad assistermi. Feeney è immerso fino al collo nella verifica dei dati, e io voglio con me un altro paio di occhi e di orecchie. Hai qualche obiezione in proposito?» «Non me ne viene in mente nessuna, signore.» «Dallas», le ricordò Eve, mentre tutt'e due scendevano dall'abitacolo. Subito dopo entrò in funzione la barriera di sicurezza che circondava l'auto, per proteggerla da eventuali urti e dai tentativi di furto. La carrozzeria è già talmente piena di bozzi e graffi che un ladro perderebbe la faccia anche solo a darle più di un'occhiata, pensò Eve. Si avviò verso l'ascensore privato manageriale e digitò il proprio codice personale, cercando di non sentirsi in imbarazzo. «Per non sprecare altro tempo», mormorò. Nel mettere piede sulla spessa moquette che copriva il pavimento della cabina, Peabody sbarrò gli occhi. L'ascensore, tanto grande da accogliere comodamente sei persone, ospitava una lussureggiante distesa di profumate piante d'ibisco. «Anch'io sono assolutamente dell'idea che è sempre meglio non perdere tempo.» «Trentacinquesimo piano», ordinò Eve. «Redford Productions, uffici dirigenziali.» «Piano tre-cinque», confermò una voce elettronica. «Quadrante est, livello manageriale.» «Pandora aveva organizzato un piccolo ricevimento, la sera in cui è morta», spiegò Eve a Peabody. «Redford potrebbe essere l'ultima persona che l'ha vista viva. Tra gli invitati c'erano anche Jerry Fitzgerald e Justin
Young, che tuttavia andarono via presto, subito dopo che Mavis e Pandora si erano accapigliate. Si forniscono a vicenda un alibi di ferro per il resto della nottata. Redford invece rimase ancora per un po' con la vittima. Se la Fitzgerald e Young dicono la verità, sono completamente scagionati. Quanto a Mavis, so che non ha mentito.» Si aspettava una replica, ma Peabody rimase in silenzio. «Perciò vediamo che cosa possiamo cavare di bocca al produttore.» La cabina dell'ascensore iniziò dolcemente a spostarsi in orizzontale, verso est. Quando le porte si spalancarono, nel vano irruppe un fiotto di musica a tutto volume. Evidentemente gli impiegati di Redford amavano rendere meno duro il proprio lavoro grazie a un sottofondo musicale, che sgorgava da altoparlanti nascosti e si spandeva energicamente in aria. Due uomini e una donna, seduti di fronte a un'ampia consolle, chiacchieravano concitatamente al telefono e lanciavano occhiate folgoranti al monitor del proprio computer. In un angolo della zona di destra, adibito a sala d'aspetto, sembrava essere in corso un piccolo party. Parecchie persone vi si accalcavano, bevendo da minuscole tazze o mangiando pasticcini. Il tintinnio delle risate e il brusio delle conversazioni facevano da accompagnamento alla musica. «Sembra una scena di qualche suo film», commentò Peabody. «Viva Hollywood!» soggiunse Eve. Quindi si avvicinò alla consolle e mostrò il distintivo a uno dei tre segretari. Aveva scelto di proposito quello che le pareva meno impegnato in qualche attività ossessivamente briosa. «Tenente Dallas. Ho un appuntamento con Mr Redford.» «Sì, tenente.» L'uomo - ma sarebbe potuto benissimo essere un dio, grazie alla carnagione dorata e ai lineamenti così perfetti da sembrare scolpiti - le scoccò un sorriso radioso. «L'avviso subito del suo arrivo. La prego, intanto, di partecipare al nostro piccolo rinfresco.» «Vuoi mettere qualcosa sotto i denti, Peabody?» «Quei pasticcini hanno l'aria appetitosa. All'uscita potremmo intascarcene qualcuno.» «Abbiamo avuto la stessa idea.» «Mr Redford è felice di riceverla subito, tenente.» L'avvenente segretario sollevò un lembo della consolle e scivolò fuori. «Se permette, l'accompagno.» Precedette Eve e Peabody al di là di una porta di vetro brunito, dove il baccano lasciava il posto a un intrecciarsi di voci. Su entrambi i lati del corridoio le porte erano aperte: si scorgevano uomini e donne seduti dietro
le scrivanie, sdraiati su divani a discutere oppure intenti a camminare avanti e indietro. «Quante volte mi è stata proposta questa trama, JT? Fa tanto primo millennio.» «Abbiamo bisogno di un volto nuovo. Che ricordi la Garbo, ma con l'ingenuità di Little Bo Peep.» «Il pubblico non vuole le cose troppo profonde, tesoro. Offrigli la scelta tra l'oceano e una pozzanghera e andrà a tuffarsi in quest'ultima. Siamo tutti bambini.» Arrivarono davanti a una porta a due battenti, di un color argento scintillante. La loro guida la spalancò completamente, con un gesto melodrammatico. «I suoi visitatori, Mr Redford.» «Grazie, Caesar.» Paul Redford si alzò da dietro una postazione di lavoro nella stessa tinta argentea della porta. Il pavimento sotto i suoi piedi era liscio come vetro e decorato da spirali colorate. Alle sue spalle si apriva lo spettacolare panorama cittadino che Eve conosceva bene, per averlo visto dall'ufficio di Roarke. «Tenente Dallas.» Il produttore strinse la mano a Eve con disinvolta e ben collaudata cordialità. «Mille grazie per aver accettato di venire qui. Ho le giornate piene zeppe di appuntamenti, perciò mi ha fatto un vero favore a non convocarmi nel suo ufficio.» «Non c'è problema. La mia assistente, agente Peabody.» Il sorriso, disinvolto e collaudato come la stretta di mano, avviluppò entrambe le nuove arrivate. «Prego, accomodatevi. Che cosa posso offrirvi?» «Solo qualche informazione.» Eve lanciò un'occhiata alle sedie e trasalì. Ogni cosa su cui ci si poteva sedere aveva la forma di un animale: sedie, sgabelli, divani... tutto assomigliava a tigri, cani da caccia o giraffe. «La mia prima moglie era una decoratrice», spiegò Redford. «Dopo il divorzio, ho deciso di tenere questi mobili. Sono il miglior ricordo di quel periodo della mia vita.» Scelse per sé un segugio, appoggiando i piedi su un cuscino a forma di gatto acciambellato. «Vuole che le parli di Pandora.» «Sì.» Se erano stati amanti, come le risultava, lui aveva superato rapidamente il proprio dolore, si disse Eve. E, almeno apparentemente, il fatto di dover affrontare un interrogatorio di polizia non lo turbava. Aveva l'aria tranquilla del socievole padrone di casa, nel suo abito di lino da cinquemila dollari e le scarpe italiane color burro rosolato. La sua affabilità esteriore, pensò Eve, ricordava senza dubbio quella che esibivano gli attori con cui aveva a che fare nel suo lavoro. Il viso ossuto,
dai lineamenti marcati e la carnagione color miele, era messo in risalto da un paio di baffetti, lucidi e ben curati. I capelli scuri erano pettinati all'indietro e riuniti in una elaborata coda che gli arrivava alle scapole. Aveva l'aspetto di ciò che era, concluse Eve: un produttore di successo, felice del proprio potere e della propria ricchezza. «Dovrò registrare il nostro colloquio, Mr Redford.» «Non ho assolutamente nulla in contrario, tenente.» Si distese sulla schiena del cane dallo sguardo triste e si allacciò le mani in grembo. «Mi è giunta voce che lei abbia già arrestato un presunto colpevole.» «Sì, in effetti. Ma le indagini proseguono. Lei conosceva la defunta, nota come Pandora.» «La conoscevo bene. Avevo in mente un progetto che la riguardava, avevo avuto modo d'incontrarla in svariate occasioni nel corso degli anni e, quando capitava, ci andavo a letto.» «Lei e la vittima eravate amanti al momento della sua morte?» «Non siamo mai stati amanti, tenente. Facevamo solo sesso. L'amore non c'entrava. Anzi, dubito che esista un uomo vivente che l'abbia mai amata, o abbia tentato di amarla. Se c'è mai stato, doveva trattarsi di un idiota. E io sono tutt'altro che idiota.» «A lei Pandora non piaceva.» «Piacermi?» Redford scoppiò in una risata. «Santo cielo, no. Era l'essere umano più sgradevole che io abbia mai conosciuto. Ma aveva talento. Non quanto lei stessa credeva, e non in determinati campi, però...» Sollevò le mani eleganti, facendo brillare gli anelli: pietre scure incastonate in pesanti cerchi d'oro. «Quando si è belli tutto diventa facile, tenente. C'è chi è nato bello e chi lo diventa pagando; al giorno d'oggi, non ci vuole nulla a rendere attraente il proprio involucro fisico. E la bellezza è sempre molto richiesta. Un piacevole aspetto non passa mai di moda, ma, per guadagnarsi da vivere, una persona non deve solo essere bella, ma anche avere talento.» «E questo valeva per Pandora?» «Lei possedeva una sorta di aura, un fascino potente, una capacità innata, quasi animalesca, di trasudare sesso. E la sensualità è stata, e sempre sarà, uno strumento redditizio.» Eve inclinò il capo. «Il sesso è diventato legale solo recentemente.» Divertito, Redford le rivolse un sorriso smagliante. «Il governo ha sempre bisogno di spremere soldi. Ma non mi riferivo al mercato del sesso, bensì al suo utilizzo come espediente per vendere. Che è quello che facciamo: con tutto, dalle bibite agli utensili di cucina. Per non parlare della
moda», aggiunse. «Anzi, la moda è al primo posto.» «Ed era una particolare specialità di Pandora?» «Le potevi mettere addosso una tenda da cucina e farla sfilare così; subito tutte le donne, anche quelle ragionevolmente piene di buon senso, si precipitavano a svuotare i propri conti bancari pur di vestirsi come lei. Pandora era una venditrice nata. Non c'era nulla che lei non potesse piazzare. Ma si era messa in mente di recitare, ed era uno sbaglio. Non sarebbe mai stata capace d'interpretare una parte, perché poteva impersonare solo se stessa, Pandora.» «Però lei aveva in mente d'inserirla in una sua produzione.» «Stavo cercando il modo di farle recitare lo stesso ruolo che aveva nella vita. Nulla di più, nulla di meno. Un progetto che avrebbe potuto avere successo, forse. Certamente sarebbe servito a promuovere sul mercato la vendita di certi prodotti... Be', è da lì che sarebbero derivati i profitti. Ma era ancora tutto in fase preliminare.» «Lei si trovava in casa di Pandora, la notte in cui è morta.» «Sì, voleva stare in compagnia. E, sospetto, provocare Jerry con la notizia che avrebbe avuto la parte di protagonista in uno dei miei film.» «E come ha reagito Ms Fitzgerald?» «È rimasta sorpresa e si è irritata molto, credo. Io stesso mi sono stizzito, perché eravamo tutt'altro che pronti a rendere la cosa di pubblico dominio. Probabilmente sarebbe scoppiata un'interessante rissa, se non fossimo stati interrotti da una giovane donna... un'affascinante creatura che si è stagliata improvvisamente sulla porta. Quella che lei ha tratto in arresto», aggiunse con un brillio negli occhi. «A detta dei media, siete amiche intime.» «Perché non si limita a riferirmi che cos'è accaduto dopo l'arrivo di Ms Freestone?» «Melodramma, azione, violenza. Cerchi d'immaginare», disse Redford, formando con le mani un rettangolo, come si usava un tempo, per simulare lo schermo. «Quella giovane, affascinante e coraggiosa, entra ed espone le proprie ragioni, con voce supplichevole. Si vede che ha pianto; ha il viso pallidissimo, uno sguardo disperato negli occhi. Si dichiara pronta a farsi da parte, a rinunciare all'uomo che lei e Pandora si contendono, per proteggerlo e non ostacolare la sua carriera. «Primo piano del volto di Pandora: trasuda rabbia, disprezzo, una folle determinazione. Cristo, quanto è bella. Una bellezza quasi malefica. E non basterà quel sacrificio a soddisfarla. Vuole che la rivale soffra. Dapprima un dolore emotivo, per i crudeli insulti che le lancia; poi fisico, quando le
sferra il primo pugno. A quel punto inizia la classica lotta. Due donne che si accapigliano per uno stesso uomo. La più giovane ha l'amore dalla sua, ma neppure questo basta a pareggiare le forze in campo, perché Pandora dispone della forza della vendetta o, meglio, delle sue unghie affilate. Si azzuffano finché i due membri maschi del pubblico affascinato non si fanno avanti; uno addirittura viene ricompensato con un morso.» Redford fece una smorfia e si massaggiò la spalla destra. «Pandora mi ha azzannato perché la stavo tirando indietro. Confesso di aver avuto la tentazione di mollarle un pugno. A quel punto la sua amica, tenente, se n'è andata. Ha pronunciato qualche frase stereotipata, sul tipo che Pandora si sarebbe pentita di quello che aveva fatto, ma sembrava più infelice che vendicativa.» «E Pandora?» lo incalzò Eve. «Eccitatissima.» Come sembrava lui stesso, nel raccontare quella storia. «Per tutta la sera era stata di un umore pericoloso, che dopo quello scontro si era fatto ancora più tremendo. Jerry e Justin se la sono filata alla svelta, in modo molto poco elegante; io invece mi sono trattenuto ancora un po', per tentare di calmare Pandora.» «C'è riuscito?» «Neanche per sogno. Dava i numeri. Minacciava di compiere una serie di assurdità. Diceva di voler inseguire quella piccola cagna e sfregiarle il viso, di voler castrare Leonardo con le proprie mani, e non solo: dopo averlo conciato per le feste, lui non sarebbe riuscito neppure a vendere bottoni all'angolo di una strada, perché neanche i mendicanti avrebbero accettato i suoi stracci. E via di questo passo. Dopo una ventina di minuti, ho rinunciato. Lei si è infuriata con me perché me ne andavo e mi ha rovesciato addosso una valanga d'insulti. Non aveva bisogno di me, strillava, aveva per le mani un affare molto più grosso, molto più importante.» «Lei afferma dunque di aver lasciato Pandora verso mezzanotte e mezzo?» domandò Eve. «Minuto più, minuto meno.» «E Pandora era sola?» «Il suo personale di servizio era costituito solo da droidi. Non le piaceva avere esseri umani tra i piedi, a meno che non fosse stata lei a chiamarli. In casa, per quanto ne so, non c'era nessun altro.» «E lei, una volta uscito, dov'è andato?» «Sono venuto qui, a medicarmi la spalla: era un brutto morso. Ho pensato di lavorare un po', ho chiamato un po' di gente in California. Poi mi sono recato al mio club, passando dall'ingresso notturno, e vi ho trascorso un
paio d'ore, a farmi un bagno di vapore e una nuotata.» «A che ora è giunto al club?» «Direi intorno alle due. Quello che so per certo è che erano le quattro passate quando sono rientrato in casa mia.» «Ha visto o parlato con qualcuno tra le due e le cinque del mattino?» «No. Uno dei motivi per cui frequento il club di notte è che posso godere di una perfetta privacy. In California ho una struttura privata, con tutte le comodità, ma qui devo adattarmi alle regole stabilite per i soci.» «Come si chiama il suo club?» «Olympus, è sulla Madison.» Redford inarcò un sopracciglio. «Vedo di non avere un alibi molto solido. Però ho fatto registrare tanto la mia entrata quanto la mia uscita. È obbligatorio.» «Non ne dubito», replicò Eve. E avrebbe verificato che le cose stessero esattamente come lui aveva detto. «Secondo lei, chi avrebbe potuto desiderare la morte di Pandora?» «Tenente, non basterebbe una vita intera per scrivere una simile lista.» Il produttore sorrise di nuovo, mettendo in mostra una dentatura perfetta, con uno sguardo negli occhi che era al contempo divertito e rapace. «Ma non ci metterei il mio nome, semplicemente perché Pandora mi era abbastanza indifferente.» «Ha condiviso con la vittima l'ultima droga che girava per casa?» Redford s'irrigidì, esitò, poi tornò a rilassarsi. «Una mossa molto astuta, la sua. Il saltare di palo in frasca spesso coglie alla sprovvista gli incauti. Ma le assicuro, e voglio che sia messo a verbale, che io non faccio uso di droghe illegali, di nessun tipo.» Il gran sorriso che le rivolse, molto disinvolto, fece chiaramente capire a Eve che lui stava mentendo. «Sapevo che Pandora assumeva di tanto in tanto qualcosa, ma erano fatti suoi, almeno secondo me. Posso però confermarle che aveva scoperto una nuova sostanza, di cui mi sembrava stesse abusando un po'. Me ne sono accorto entrando nella sua camera da letto, all'inizio di quell'ultima serata.» S'interruppe un attimo, come se stesse ripensando alla scena, cercando di metterla bene a fuoco. «Pandora aveva tolto una pillola da una minuscola scatoletta di legno, splendidamente intagliata... cinese, direi. Siccome ero in anticipo, l'ho colta di sorpresa. Lei si è affrettata a infilare la scatoletta in un cassetto del suo tavolino da toilette, che ha poi chiuso a chiave. Le ho chiesto che cosa stesse cercando di proteggere e lei ha risposto...» S'interruppe di nuovo, socchiudendo gli occhi. «Quali sono state le sue precise parole? Il suo tesoro, la sua fortuna. No, no, qualcosa tipo: la sua ricompensa. Sì, sono
sicuro che mi abbia detto questo. Poi si è cacciata in bocca la pillola e l'ha ingerita con un sorso di champagne. A quel punto siamo andati a letto. Sulle prime lei mi pareva distratta, ma di colpo si è scatenata, è diventata insaziabile. Non credo che il sesso tra noi fosse mai stato così sfrenato. Poi ci siamo rivestiti e siamo scesi al piano di sotto; Jerry e Justin sono arrivati poco dopo. Non ho più avuto il tempo di chiedere spiegazioni a Pandora. E comunque la cosa non mi riguardava.» «Che ne pensi, Peabody?» «È un tipo scivoloso.» «Come la melma.» Mentre l'ascensore scendeva, Eve s'infilò le mani in tasca, giocherellò coi gettoni bancari che vi teneva sciolti. «Disprezzava Pandora, però andava a letto con lei e aveva intenzione di usarla.» «Credo che la trovasse patetica, potenzialmente pericolosa, ma sfruttabile.» «E, se la possibilità di sfruttarla fosse svanita o il pericolo fosse aumentato, lui sarebbe stato capace di ucciderla?» «Senza pensarci due volte.» Peabody entrò per prima nel garage. «Gli scrupoli di coscienza per un tipo come lui non esistono. Se il progetto che aveva in mente si fosse rivelato fallimentare - o se Pandora avesse avuto in mano qualcosa con cui ricattarlo - Redford non avrebbe esitato a toglierla di mezzo. Gli individui così compiaciuti di sé, con un così forte autocontrollo, tendono ad avere in fondo all'animo una violenza pronta a esplodere. E il suo alibi fa acqua da tutte le parti.» «Già, è proprio così, vero?» Quella constatazione strappò un sorriso a Eve. «Lo controlleremo. Ma prima andiamo a casa di Pandora per trovare quel nascondiglio. Informa la centrale», le ordinò. «Assicurati che ci autorizzino a forzare qualche serratura.» «Non che la mancata autorizzazione possa impedire a lei di farlo», mormorò Peabody, ma accese il videotelefono. La scatoletta era sparita. Lo stupore e la delusione furono così cocenti che Eve rimase nella lussuosa camera da letto di Pandora a fissare il cassetto per diversi minuti prima di accettare il fatto che fosse vuoto. «È questo il tavolino da toilette, giusto?» «Sì. È quello che chiamano anche 'mobiletto delle vanità'. Guardi che sparata di bottiglie e vasetti, creme di ogni tipo, unguenti dagli usi più sva-
riati. Tutto a beneficio della vanità.» Peabody non riuscì a trattenersi e prese in mano uno scatolino grande quanto la prima falange del suo pollice. «C'è persino la crema Eterna Giovinezza. Lo sa, Dallas, quanto costa questa roba? Cinquecento dollari, nel reparto profumeria di Saks. Cinquecento dollari per neanche quindici grammi di crema. Quando si dice la vanità.» Rimise a posto il vasetto, vergognandosi di aver provato la tentazione, anche solo per un istante, d'infilarselo in tasca. «Se si fa il calcolo di quanto dev'essere costata tutta questa roba, Pandora deve aver speso da diecimila a quindicimila dollari per migliorare il proprio aspetto.» «Ora piantala, Peabody.» «Signorsì. Mi scusi.» «Stiamo cercando una scatoletta. I tecnici della Scientifica hanno già eseguito i normali rilievi e controllato le registrazioni del videotelefono. Sappiamo che quella notte Pandora non ha chiamato nessuno né è stata chiamata. Su questa linea, quantomeno. Sta schiumando di rabbia ed è su di giri. Che cosa fa?» Mentre parlava, Eve continuava ad aprire cassetti e a rovistare all'interno. «Forse beve ancora, si aggira per casa sbraitando, pensando a tutto ciò che amerebbe fare alle persone che l'hanno trattata male. Quei bastardi, quelle cagne. Chi diavolo si credono di essere? Lei può avere tutto e tutti, se le salta il ticchio. Forse viene in questa stanza a ingoiare un'altra pillola, tanto per tenersi in forma.» Speranzosa, Eve sollevò il coperchio di una scatola, benché fosse di banale metallo smaltato e non di legno splendidamente intagliato. All'interno c'era un assortimento di anelli: d'oro, d'argento, di lucida porcellana, d'avorio lavorato. «Che strano che tenesse lì dentro i suoi gioielli», commentò Peabody. «Per la bigiotteria aveva questo grosso contenitore di vetro, e per la roba più preziosa la cassaforte.» Eve alzò lo sguardo e, vedendo che la sua assistente era perfettamente seria, represse a fatica una risata. «Non sono propriamente gioielli, Peabody. Sono anelli da pene. Sai, li infili e poi...» «Certo.» Peabody si strinse nelle spalle, distogliendo lo sguardo. «So come funzionano. E tuttavia... mi sembra buffo che li avesse messi proprio lì.» «Già, che sciocchezza tenere questi gingilli sessuali in una scatola accanto al letto. Ma che cosa stavo dicendo? Lei si droga, innaffiando le pillole con lo champagne. Qualcuno dovrà pagare per quella serata finita così male. Quel maledetto Leonardo dovrà strisciare ai suoi piedi, chiedere pie-
tà. Lei gli farà sputare sangue per essere andato a letto a sua insaputa con una sgualdrinella da quattro soldi e per aver lasciato che quella miserabile cagna irrompesse in casa sua... la sua casa, dannazione... e facesse la furba con lei.» Eve chiuse un cassetto e ne aprì un altro. «Secondo i dati dell'apparato di sicurezza, Pandora avrebbe lasciato questo appartamento poco dopo le due. Così infatti risulta dal congegno di chiusura automatica della porta di casa. Non ha chiamato un taxi. Per arrivare da Leonardo deve percorrere a piedi una sessantina di isolati, per di più con un paio di scarpe dai vertiginosi tacchi a spillo, eppure non chiama un taxi; in tutte le compagnie, non c'è autista che affermi di averla presa a bordo qui o caricata da qualche altra parte. Ci risulta che avesse un cellulare, ma non l'abbiamo ritrovato. Se l'aveva con sé e l'ha usato, qualcuno l'ha fatto sparire.» «Se ha telefonato al suo assassino, costui - uomo o donna che fosse - sarà stato abbastanza accorto da eliminare l'apparecchio.» Peabody iniziò a perquisire l'armadio a due livelli, sforzandosi di non restare senza fiato nell'esaminare tutti quegli abiti, molti dei quali avevano ancora il cartellino col prezzo attaccato. «Poteva anche essere strafatta, però mai e poi mai avrebbe percorso a piedi tutta la strada fino a downtown. In metà delle scarpe che si trovano in quest'armadio le suole non hanno neppure un graffio. Pandora non era certo il tipo della podista.» «Ma è strafatta, non dimenticarlo», replicò Eve. «Che sia dannata se monta su qualche puzzolente taxi. Lei non deve fare altro che schioccare le dita e una mezza dozzina di schiavi ansiosi di servirla farà a gara per portarla dove più le aggrada. Così le schiocca. Qualcuno va a prenderla, poi tutti e due si recano nell'atelier di Leonardo. Perché?» Affascinata dal modo in cui Eve mescolava il proprio punto di vista con quello di Pandora, Peabody smise di perquisire l'armadio e la fissò. «Perché lei insiste. Esige. Minaccia.» «Forse la persona convocata è lo stesso Leonardo. Oppure si tratta di qualcun altro. Raggiungono l'edificio in cui si trova l'atelier, sfasciano la telecamera di sorveglianza. Magari è Pandora in persona a farlo.» «O l'assassino.» Peabody si fece strada in un mare di seta color avorio. «Perché ha già intenzione di uccidere Pandora.» «Perché portarla a casa di Leonardo, se sta già meditando di farla fuori?» domandò Eve. «O, se l'assassino è Leonardo, perché sporcare di sangue il proprio nido? Non sono sicura che l'omicidio fosse l'obiettivo più importante, almeno non ancora. Entrano nel loft e, se la versione di Leonardo ri-
sponde a verità, non ci trovano anima viva. Lo stilista è fuori, a ubriacarsi e a cercare Mavis, che a sua volta si sta prendendo una sbornia coi fiocchi. Pandora vuole avere Leonardo di fronte a sé, vuole punirlo. Inizia a distruggere l'atelier, magari riversa una parte della propria furia sul suo accompagnatore. Scoppia un alterco, i toni si fanno sempre più aspri. Il killer afferra il bastone da passeggio, forse per difendersi, forse per aggredire. Pandora è sconvolta, ferita, impaurita. Nessuno ha mai osato farle del male: che diavolo sta succedendo? Ma l'assassino non riesce a fermarsi, o non vuole smettere di colpirla. Lei crolla a terra, col sangue che schizza ovunque.» Peabody non disse nulla. Aveva visto le foto della scena del delitto. Riusciva a immaginarsi i fatti proprio come Eve li stava descrivendo. «Il killer è ritto su di lei, col respiro affannoso.» Socchiudendo gli occhi, Eve tentò di mettere a fuoco quella sagoma indistinta. «È tutto sporco di sangue, il cui odore pervade il locale, ma non si lascia prendere dal panico perché non può permetterselo, perché non se lo concede. Che cosa può ricollegarlo a Pandora? Il cellulare. Lo afferra, se lo mette in tasca. Se ha un po' di buon senso, e adesso deve averlo, perquisisce il cadavere; si assicura che non ci sia nulla che possa far ricadere i sospetti su di lui. Pulisce il bastone nel punto in cui l'ha impugnato e ogni altra cosa che suppone di aver toccato.» Nella mente di Eve scorreva una sorta di vecchia pellicola, fumosa e piena di ombre. Una figura che si affretta a cancellare le proprie tracce, gira intorno al cadavere, evita di passare sulle pozzanghere formate dal sangue. «Deve fare in fretta, ma non può tralasciare nulla. Ha ormai quasi finito quando sente entrare qualcuno. Mavis. Che irrompe nel loft chiamando Leonardo, ma vede il corpo e gli s'inginocchia accanto. Ora la situazione non potrebbe essere più perfetta. Con una mazzata, il killer la mette fuori combattimento; poi le stringe le dita intorno al bastone da passeggio, forse sferra qualche altro colpo a Pandora, quindi prende la mano della morta e con le unghie graffia il viso di Mavis, le strappa gli abiti. Infine si mette addosso qualcosa, magari uno degli abiti di Leonardo, per nascondere il proprio.» Eve smise di frugare in un cassetto basso e si raddrizzò, incontrando gli occhi sbarrati di Peabody fissi su di lei. «È come se avesse assistito di persona alla scena», mormorò l'agente. «Voglio imparare a immedesimarmi così anch'io, a ricostruire in questo modo il delitto, passo dopo passo.» «Quando avrai seguito altre indagini come questa, ci riuscirai. La parte
peggiore è tornare a riprendere le distanze. Dove diavolo è quella scatola?» «Pandora potrebbe averla portata via con sé.» «È un'ipotesi che non mi convince. Dov'è la chiave, Peabody? Pandora aveva chiuso a chiave questo cassetto. E la chiave dov'è finita?» Senza fare commenti, Peabody estrasse il videotelefono di servizio e chiese che le elencassero i reperti trovati addosso alla vittima. «Non è stata rinvenuta nessuna chiave.» «Perciò l'ha presa il killer, non ti pare? Ed è venuto in questo appartamento a recuperare la scatola e qualunque altra cosa potesse essergli utile. Controlliamo i CD del sistema di videosorveglianza.» «Non l'hanno già fatto i tecnici della Scientifica?» «Perché avrebbero dovuto? Pandora non è stata uccisa qui. A loro è stato solo richiesto di verificare l'ora in cui è uscita di casa.» Eve si avvicinò al monitor di sicurezza, ordinò di trasmettere il tratto relativo al giorno e all'ora in questione. Osservò Pandora uscire di casa come una furia, dileguandosi rapidamente. «Ore due e otto minuti. Va bene, vediamo il seguito. L'ora della morte è stata fissata verso le tre. Computer, procedere fino a zero tre zero zero e andare avanti a velocità tripla.» Fissò il cronometro. «Fermare l'immagine. Quel figlio di puttana! Guarda, Peabody.» «Lo vedo. Dalle quattro e tre si salta direttamente alle quattro e trentacinque. Qualcuno ha disattivato la telecamera. Deve averlo fatto a distanza, da un terminale. E doveva conoscere il fatto suo.» «Chiunque sia stato ha corso un grosso rischio pur di entrare qui e portare via qualcosa. Una scatola contenente droga.» Sul volto di Eve apparve un sorriso torvo. «Provo uno strano rimescolio allo stomaco, Peabody. Andiamo a rompere le scatole ai ragazzi del laboratorio.» 9 «Perché non la smetti di alitarmi sul collo, Dallas?» Avvolto da capo a piedi nel suo camice sterile, il capo della Scientifica, Dickie Berenski - soprannominato «Cazzone» da chi lo conosceva e lo detestava -, stava analizzando un frammento di pelo pubico. Era un individuo estremamente pignolo, il che lo rendeva spesso intollerabile. Ma, nonostante la sua proverbiale lentezza sul lavoro, la percentuale dei successi ottenuti in tribunale grazie a lui era abbastanza alta da farne un autentico asso del laboratorio di polizia. «Non lo vedi che non ho neanche il fiato per respirare? Cristo.» Con le
nervose dita da ragno sistemò il fuoco di una lente dei suoi occhiali che fungevano da microscopio. «Ci sono piombati addosso dieci omicidi, sei stupri, un mucchio d'improvvisi e inspiegabili decessi e un tale numero di violazioni di domicilio che non ho avuto il tempo di pensarci. Non sono un dannato robot.» «Anche se ne hai tutta l'aria», mormorò Eve. Lei non amava entrare nel laboratorio, con la sua atmosfera asettica e le pareti bianche. Era troppo simile a un ospedale o, peggio, al Centro di controllo psichiatrico. Le sue esperienze coi metodi particolarmente invasivi utilizzati in quest'ultimo non erano state piacevoli. «Senti, Dickie, hai avuto un sacco di tempo per analizzare quella sostanza.» «Un sacco di tempo.» Berenski si tirò indietro dal bancone. I suoi occhi, ingranditi dalle lenti, avevano lo sguardo rapace di un gufo. «Tu, come ogni altro poliziotto di questa città, credi che la tua roba debba avere la priorità su tutto il resto. Vorresti che noi lasciassimo da parte qualunque altra analisi e ci dedicassimo a te anima e corpo. Lo sai, Dallas, che cosa succede quando la temperatura si alza? La gente perde il lume della ragione, ecco che cosa succede. Voi poliziotti non dovete fare altro che compiere qualche arresto, ma la mia équipe e io siamo costretti ad analizzare ogni capello e frammento di pelle. Ci vuole tempo.» La sua voce si fece stridula e piagnucolosa, facendo quasi saltare i nervi a Eve. «Ho la Omicidi che mi tampina e la Narcotici che mi sta alle calcagna, e tutto per un maledetto sacchetto di polvere. Hai già avuto l'analisi preliminare.» «Ho bisogno di quella definitiva.» «Be', non ce l'ho ancora.» Contraendo in un broncio le grosse labbra, Berenski tornò a girarsi e richiamò sul monitor l'immagine ingrandita del pelo. «Devo finire di trovare il DNA di questo.» Eve sapeva come lavorarselo. Non aveva simpatia per quell'uomo, ma conosceva il modo per tenerselo buono. «Ho due biglietti in tribuna per la partita di domani tra gli Yankee e i Red Sox.» Le dita del tecnico rallentarono i loro movimenti sui tasti. «Biglietti numerati?» «Di fronte alla terza base.» Dickie si tolse gli occhiali e si guardò in giro. Gli altri tecnici presenti nel locale erano assorti nel proprio lavoro. «Forse posso darti qualche altra piccola informazione.» Con una spinta del piede fece scivolare verso destra il suo sgabello, in modo da mettersi davanti a un altro monitor. Attivò cautamente la tastiera e richiamò manualmente il file. Digitò lentamente,
osservando il monitor. «Il problema è qui, vedi? Questo elemento.» Eve scorgeva solo strani simboli colorati, ma emise un grugnito, mentre i dati scorrevano sul video. L'elemento sconosciuto, pensò, quello che neppure l'apparecchiatura di Roarke era riuscita a identificare. «Quella cosa rossa?» «No, no, quella è una banale anfetamina. È presente anche in Zeus, in Buzz, in Smiley. E un suo blando derivato si trova in ogni stimolante da banco. No, questo.» Batté un dito su un ghirigoro verde. «Va bene, che cos'è?» «È proprio questo il punto, Dallas. Non l'ho mai visto prima. Il computer non è in grado d'identificarlo. Se devo proprio azzardare un'ipotesi, ritengo si tratti di una sostanza che arriva da un altro pianeta.» «Molto improbabile, non ti pare? Portare sulla Terra una sostanza trovata su un altro pianeta può costare venti anni di carcere di massima sicurezza. Sei almeno in grado di dirmi quali effetti provoca?» «Ci sto lavorando. Sembra avere alcune proprietà in comune coi prodotti anti-invecchiamento e con gli stimolanti. È particolarmente efficace contro i radicali liberi. Però, se combinato con gli altri ingredienti chimici presenti nella polvere, può dare pericolosi effetti collaterali. Gran parte di queste informazioni sono già nel rapporto che hai ricevuto. Migliora le prestazioni sessuali, il che non è un male, a scapito però di successivi violenti sbalzi d'umore. Aumenta la forza fisica, inducendo tuttavia una notevole mancanza di autocontrollo. Questa roba scuote pesantemente il vecchio sistema nervoso. Per un po' ci si sente straordinariamente in forma, si ha un'impressione d'invulnerabilità, viene voglia di scopare come conigli, ma senza preoccuparsi se il partner scelto stia al gioco o no. E il crollo fisico, quando si presenta, è grave e repentino, così l'unico modo per riprendersi consiste nell'assumere un'altra dose. Se si smette di prendere questa sostanza, l'umore continua ad altalenare su e giù, e il sistema nervoso va in tilt. A quel punto sopraggiunge la morte.» «È più o meno quanto mi avevi già comunicato.» «Però non riesco a capire che cosa sia l'elemento X. È di origine vegetale, questo è assodato. Assomiglia alla valeriana a foglia lanceolata in uso nelle regioni del sud-ovest. Gli indiani la utilizzavano a scopo terapeutico. Ma la valeriana non è tossica, mentre questa sostanza lo è.» «È un veleno?» domandò Eve. «Presa da sola e in dose abbondante, sì, potrebbe esserlo. Ma questo vale per molte delle erbe e piante usate in medicina.»
«Dunque, è un'erba medicinale.» «Non sono in grado di asserirlo. Non è stata ancora identificata.» Berenski gonfiò le guance. «Ma assomiglia a certi ibridi presenti su altri pianeti. Per il momento è tutto quello che so. E, se tu e la Narcotici continuate ad assillarmi, facendomi solo perdere altro tempo, la risposta a questo interrogativo ritarderà sempre di più.» «La Narcotici non c'entra. Questo caso è mio.» «Dillo a loro.» «Lo farò. Ora, Dickie, ho bisogno del referto tossicologico relativo al caso Pandora.» «Non sono fatti miei, Dallas. La patata bollente è finita in mano a SuzieQ, che si sta godendo le sue ventiquattr'ore di permesso.» «Sei tu il capo del laboratorio, e io ho assolutamente bisogno di quel referto.» Esitò una frazione di secondo. «A quei due biglietti per la partita potrei aggiungere due pass per scendere negli spogliatoi dei giocatori.» «Be', non fa mai male dare un'occhiata da vicino ai tuoi campioni.» Digitò il proprio codice, poi richiamò il file. «Suzie-Q ha secretato il rapporto. Buon per te. Capo del laboratorio Berenski, concedere accesso al file Pandora, ID 563922-H.» Impronta vocale verificata. «Mostrare referto tossicologico.» Test tossicologici ancora in corso. Videata dei risultati preliminari. «Aveva bevuto molto», mormorò Berenski, osservando il monitor. «Più che altro, quel vinello francese con le bollicine. Probabilmente è morta estasiata, perché sembra proprio un Dom Pérignon del 1955. È stata brava, Suzie-Q, a rintracciarlo. Oltre allo champagne, aveva ingerito una polverina eccitante. La cara defunta amava divertirsi. Sembra il solito Zeus... No.» Curvò le spalle, come faceva sempre quando qualcosa lo interessava particolarmente o lo irritava. «Che diavolo è, questa sostanza?» Non appena il computer cominciò a elencare in dettaglio i vari componenti, lui, con uno scatto infastidito delle dita, bloccò il processo e iniziò a far scorrere manualmente le righe della videata. «È uno strano miscuglio», mormorò. «C'è qualcosa di poco chiaro.» Le sue dita si muovevano sui tasti come quelle di un esperto pianista al suo primo concerto. Lente, caute e precise. Eve osservò i simboli e i diagrammi prendere forma, svanire, riallinearsi. E anche lei lo notò subito. «C'è lo stesso elemento.» Con gli occhi freddi come acciaio, si voltò verso la silenziosa Peabody. «È la stessa sostanza
sconosciuta.» «Non direi», la interruppe Berenski. «Chiudi il becco e lasciami finire di controllare questa analisi.» «È la stessa», ripeté Eve, «con quel ghirigoro verde dell'elemento X. Rispondi un po', Peabody: che hanno in comune una prestigiosa top model e un informatore di secondo livello?» «Sono stati uccisi entrambi.» «La tua risposta è corretta, ma parziale. Cerca di completarla e raddoppierai la vincita. Come sono stati uccisi entrambi?» La bocca di Peabody si atteggiò a un lievissimo sorriso. «Sono stati massacrati da un corpo contundente.» «Ora rispondi alla domanda finale e ti beccherai tutto il malloppo: che cosa accomuna questi due omicidi apparentemente scollegati?» Peabody abbassò lo sguardo sul monitor. «L'elemento X.» «Hai vinto, Peabody. Dickie, trasmetti questo referto al mio ufficio. Al mio», ripeté, quando lui si girò a guardarla. «Se qualcuno della Narcotici ti chiama, tu non ne sai più di prima.» «Ehi, non posso far sparire questi dati.» «E chi te lo chiede?» Eve ruotò sui tacchi. «Farò in modo che i biglietti ti vengano consegnati entro le cinque.» «Lei l'aveva capito, signore», disse Peabody mentre montavano sul nastro trasportatore sopraelevato che portava al quartiere in cui si trovava la sede della Omicidi. «Quando abbiamo perquisito l'appartamento della vittima... Non le è riuscito di trovare la scatoletta, però sapeva già che cosa dovesse contenere.» «Lo sospettavo soltanto», la corresse Eve. «Una nuova sostanza, di cui Pandora era venuta in possesso, che aumentava le prestazioni sessuali e la forza fisica.» Controllò l'ora sul proprio orologio. «È stato un colpo di fortuna. Perché indagavo contemporaneamente sui due casi e li avevo in mente entrambi. Sulle prime temevo che fossero solo coincidenze, poi ho cominciato a pormi qualche domanda. Ho visto entrambi i cadaveri, Peabody. Sull'uno e sull'altro si notavano i segni di una violenza smisurata, di una brutalità eccessiva.» «Non credo che sia stato un colpo di fortuna. Anch'io sto seguendo entrambe le indagini, eppure sono rimasta al palo.» «Imparerai presto a non rimanere indietro.» Eve scese dal nastro trasportatore ed entrò nell'ascensore che saliva al piano in cui si trovava il suo uf-
ficio. «Non ti demoralizzare, Peabody. Ho dedicato a queste indagini il doppio del tempo di cui hai potuto disporre tu.» Peabody entrò a sua volta nella cabina di vetro e, mentre salivano, lanciò uno sguardo distaccato alla città sottostante. «Perché ha scelto proprio me come assistente?» «Perché hai ottime potenzialità: cervello e fegato. È la stessa cosa che mi disse Feeney quando mi prese sotto la sua ala. Anche in quel caso si trattava di un omicidio. Due adolescenti fatti a pezzi e gettati dalla rampa aerea tra la 2nd Avenue e la 25th Street. Anch'io arrancai dietro di lui, restando indietro di parecchi passi. Però riuscii a trovare un mio ritmo.» «Come mai ha scelto di lavorare nella Omicidi, signore?» Eve uscì dalla cabina dell'ascensore e infilò il corridoio che portava al suo ufficio. «Perché la morte è sempre un'offesa. Un'offesa tanto più insopportabile quand'è provocata da qualcuno. Beviamoci un caffè, Peabody. Voglio mettere nero su bianco tutta questa storia, prima di parlarne al comandante.» «Immagino che non sia il momento più adatto per mettere qualcosa sotto i denti.» Eve le sorrise da sopra la spalla. «Non so che cosa possa offrirci il mio AutoChef, però...» S'interruppe bruscamente perché, nel varcare la soglia del suo ufficio, aveva visto che dietro la sua scrivania era seduto Casto, con le lunghe gambe appoggiate sul ripiano e le caviglie incrociate. «Ehi, Casto, Jake T., sembri proprio a tuo agio.» «Ti aspettavo, bellezza.» Le strizzò l'occhio, poi lanciò a Peabody un sorriso malandrino. «Salve, DiDi.» «DiDi?» mormorò Eve, avviandosi verso il suo AutoChef a ordinare i caffè. «Tenente.» La voce di Peabody era rigida come un pezzo di ferro, ma le sue guance erano diventate di un rosa brillante. «Fortunato l'uomo che può lavorare con un paio di poliziotti che non solo hanno cervello, ma sono una gioia per gli occhi. Posso avere anch'io una tazza di caffè, Eve? Forte, nero e dolce.» «Il caffè te lo concedo, però non posso darti retta. Ho moltissimo lavoro da sbrigare e tra un paio d'ore devo andare a un appuntamento.» «Non ti farò perdere tempo.» Ma, quando Eve gli porse la tazza, lui non accennò a spostarsi. «Ho cercato di mettere un po' di pepe nel culo di Cazzone. Quell'uomo è più lento di una tartaruga a tre gambe. Siccome sei tu a condurre le indagini, ho immaginato che avresti potuto fornirmi un cam-
pione della sostanza che hai trovato. Di tanto in tanto faccio ricorso a un laboratorio privato, i cui responsi sono molto più rapidi.» «Non credo che la Omicidi acconsentirebbe a far uscire qualcosa dai suoi uffici, Casto.» «Il mio laboratorio gode del consenso della Narcotici.» «Io sto parlando della Omicidi. Concedi a Berenski un altro po' di tempo, tanto Boomer non può più scappare.» «Ehi, il caso è tuo. Io volevo semplicemente chiudere questa storia una volta per tutte, perché mi lascia un gusto amaro in bocca. Non come questo caffè.» Chiuse gli occhi e sospirò. «Cristo santo, ragazza, dove l'hai scovato? È una delizia.» «Ho buone conoscenze.» «Ah, certo, quel nababbo del tuo fidanzato.» Casto assaporò un altro sorso di caffè. «A qualunque altro uomo riuscirebbe assai difficile indurti in tentazione con una birra fredda e una frittella messicana.» «Io bevo solo caffè.» «Non posso biasimarti.» Casto rivolse il suo sguardo ammirato verso Peabody. «E tu che ne pensi, DiDi? Ti andrebbe una birra gelata?» «L'agente Peabody è in servizio», ribatté Eve, accortasi che la sua assistente stava farfugliando qualcosa. «Abbiamo parecchie cose di cui occuparci, Casto.» «Vi lascerò lavorare.» L'uomo disincastrò le gambe e si alzò. «Perché non mi dai un colpo di telefono quando avrai finito il tuo turno, DiDi? Conosco un locale in cui servono il miglior cibo messicano che si possa trovare da questa parte del rio Grande. Eve, se cambi idea sulla mia proposta di far esaminare un campione di quella sostanza, fammelo sapere.» «Chiudi la porta, Peabody», ordinò Eve dopo l'uscita di Casto. «E asciugati la bava dal mento.» Sconcertata, Peabody si portò una mano al viso. Il fatto di trovare il mento asciutto non migliorò il suo umore. «C'è poco da ridere, signore.» «Piantala con quel 'signore'. Chi, sentendosi chiamare DiDi, si abbassa a rispondere retrocede di cinque gradini sulla scala della dignità.» Eve si lasciò cadere sulla sedia che Casto le aveva scaldato poco prima. «Che diavolo voleva, quell'uomo?» «Mi pare che l'abbia spiegato molto chiaramente.» «No, non è un motivo abbastanza valido da giustificare la sua venuta.» Eve accese il computer. Un rapido controllo degli sbarramenti di sicurezza non evidenziò nessuna effrazione. «Se sia riuscito o no a penetrare nel mio
apparecchio, non lo posso dire.» «Perché avrebbe dovuto rovistare tra i suoi file, signore?» «È un tipo ambizioso. Se riuscisse a risolvere il caso prima di me, si attirerebbe un sacco di elogi. E comunque la Narcotici non ama collaborare con altri.» «E la Omicidi?» chiese direttamente Peabody. «Men che meno.» Eve alzò gli occhi e sorrise. «Redigiamo questo benedetto rapporto. Dovremo richiedere l'intervento di un esperto di tossicologia planetaria, perciò sarà bene addurre validissimi motivi per giustificare il buco che causeremo nel nostro bilancio.» Mezz'ora dopo, furono convocate nell'ufficio del capo della polizia. Il capo Tibble piaceva a Eve. Era un uomo alto e massiccio, con una mente lucida e un cuore da poliziotto, qual era stato, più che da politico. Dopo il tanfo che il suo predecessore si era lasciato alle spalle, il Dipartimento aveva sentito il bisogno di respirare l'aria frizzante e fredda che Tibble portava con sé. Ma Eve non riusciva a capire perché diavolo avesse deciso di convocare lei e Peabody. Finché non entrò nel suo ufficio e vide Casto e Whitney. «Tenente, agente.» Tibble fece loro segno di sedersi. Con una mossa strategica, Eve scelse di accomodarsi accanto al comandante Whitney. «Abbiamo un piccolo problema da risolvere», esordì Tibble. «Intendo sistemare tutto nel modo più rapido e definitivo. Tenente Dallas, lei è la responsabile delle indagini relative agli omicidi Johannsen e Pandora.» «È così, signore. Sono stata chiamata a confermare l'identificazione del corpo di Johannsen, perché era uno dei miei informatori. Quanto al caso Pandora, sono giunta sulla scena del delitto in seguito a una telefonata di Mavis Freestone, la quale è attualmente indagata per questo delitto. Entrambi i dossier sono ancora aperti e le indagini proseguono.» «L'agente Peabody è la sua assistente.» «L'ho richiesta come tale e sono stata autorizzata dal mio comandante a servirmi del suo aiuto in queste indagini.» «Va bene. Tenente Casto, Johannsen era anche uno dei suoi informatori.» «Sì. Quando il suo corpo è stato trovato, mi stavo occupando di un altro caso, signore. La notizia della sua morte mi è stata comunicata in ritardo.» «Ma i due Dipartimenti, quello della Narcotici e quello della Omicidi, si sono successivamente accordati per collaborare nelle indagini», aggiunse
Tibble. «È così, in effetti. Però mi è giunta ultimamente all'orecchio una voce che fa ricadere entrambi i casi nell'ambito di pertinenza della Narcotici», disse Casto. «Sono due omicidi», lo interruppe Eve. «Entrambi collegati dalla presenza di droghe illegali», replicò Casto, rivolgendole il suo radioso sorriso. «Dall'ultimo rapporto del laboratorio risulta che la sostanza rinvenuta nella stanza di Johannsen è stata trovata anche nel corpo di Pandora. Questa sostanza, che contiene un elemento sconosciuto, non è stata ancora classificata; in base all'articolo 6, paragrafo 9, comma B, le relative indagini devono essere svolte dalla squadra investigativa della Narcotici.» «Fatta eccezione per i casi le cui indagini sono già state affidate a un altro Dipartimento.» Eve si costrinse a tirare un profondo sospiro. «Il mio rapporto sugli omicidi in questione sarà pronto tra un'ora.» «Le eccezioni non scattano automaticamente.» Casto batté i polpastrelli tra loro. «E dobbiamo tenere conto del piccolo particolare che la Omicidi non dispone del personale, delle esperienze o delle strutture in grado d'investigare su un fattore sconosciuto. La Narcotici invece sì. Inoltre non riteniamo che lo spirito di collaborazione preveda che il nostro Dipartimento sia tenuto all'oscuro di certi dati.» «Il suo Dipartimento riceverà copia del mio rapporto, non appena sarà stato definitivamente redatto. Questi sono i miei casi...» Prima che Eve potesse sprizzare veleno, Whitney sollevò una mano. «Il tenente Dallas è la responsabile delle indagini. Se anche questi casi hanno qualcosa a che vedere con le droghe, sono pur sempre omicidi e le relative indagini sono già in fase avanzata.» «Non intendo certo mancarle di rispetto, comandante», intervenne Casto, con un sorriso più appannato, «ma nella centrale di polizia tutti sanno che lei spalleggia il tenente, e anche a ragion veduta, dato il suo curriculum. Noi abbiamo richiesto questo incontro col capo Tibble per avere un giudizio imparziale su quale dei due Dipartimenti abbia il diritto di occuparsi di questi casi. Io ho più contatti sul campo, conosco bene i fabbricanti di droga e gli spacciatori. Lavorando sotto copertura, sono riuscito a garantirmi l'accesso in svariati laboratori clandestini da cui provengono sostanze illegali di tutti i tipi, accesso che al tenente Dallas è precluso. Per non parlare del fatto che il presunto colpevole dell'omicidio Pandora sarebbe già stato individuato.»
«Un presunto colpevole che non ha assolutamente nessun legame con Johannsen», sbottò Eve. «Ed entrambe le vittime sono state uccise dalla stessa persona», aggiunse, rivolta al capo Tibble. Gli occhi di quest'ultimo rimasero freddi. Un'eventuale approvazione o disapprovazione fu attentamente celata. «È la sua opinione, tenente?» «È il mio parere professionale, signore, di cui dimostrerò la fondatezza nel mio rapporto.» «Capo, non è un segreto che il tenente Dallas nutre un interesse personale per la persona accusata dell'omicidio Pandora», tagliò corto Casto. «È più che naturale che si sforzi di creare un polverone su questo caso. Come può avere un parere professionale limpido quando l'accusata è una sua intima amica?» Tibble sollevò un dito, per frenare la prorompente replica di Eve. «Comandante Whitney, qual è la sua opinione in proposito?» «Mi sono sempre ciecamente fidato e sempre mi fiderò del giudizio del tenente Dallas. Sono convinto che farà il suo lavoro nel modo più impeccabile.» «Lasciatemi dire che non apprezzo chi tenta di screditare un collega», riprese Tibble. Il rimprovero fu blando, ma colpì nel segno. «Dunque, entrambi i Dipartimenti hanno validi motivi per chiedere di condurre queste indagini. Le eccezioni non scattano automaticamente, e abbiamo a che fare con una sostanza sconosciuta che sembra essere un elemento importante in almeno due omicidi. Tanto il tenente Dallas quanto il tenente Casto hanno un curriculum di servizio esemplare ed entrambi, credo, sono più che competenti in investigazioni di questo genere. È d'accordo con me, comandante?» «È così, signore. Sono tutti e due eccellenti poliziotti.» «Suggerisco pertanto che lavorino insieme, invece di cercare di farsi reciprocamente le scarpe. Il tenente Dallas resterà responsabile delle indagini e, in quanto tale, sarà tenuta a informare tempestivamente il tenente Casto e il suo Dipartimento di ogni minimo progresso. Vi va bene o devo minacciare di far tagliare in due un neonato, come Salomone?» «Termini il rapporto, Dallas», mormorò Whitney mentre uscivano tutti dall'ufficio del capo. «E, la prossima volta che decide di corrompere Cazzone, sia più furba.» «Signorsì.» Eve abbassò lo sguardo sulla mano che si era posata sul suo braccio.
«Avresti dovuto colpire meglio. Al capitano piace segnare dei run», la stuzzicò Casto. A Eve non sfuggì quell'allusione, neanche tanto sottile, al baseball. «Non importa, visto che a battere sono sempre io. Ti farò avere il mio rapporto, Casto.» «Te ne sono grato. Intanto andrò a ficcare il naso negli ambienti dei tossici. Finora nessuno ha sentito parlare di una nuova miscela. Però la possibilità che venga da un altro pianeta può aprire nuove prospettive. Conosco un paio di piccoli funzionari doganali che mi devono un favore.» Eve esitò, poi decise di prendere alla lettera il termine «collaborazione». «Comincia a indagare sulla Starlight Station. È da lì che era tornata Pandora, un paio di giorni prima di morire. Devo ancora controllare i suoi movimenti, per vedere se si era recata in qualche altra stazione orbitante.» «Bene. Fammi sapere.» Casto le sorrise e fece scivolare la mano, che teneva ancora appoggiata sul suo braccio, fino a stringerle il polso. «Ho la netta impressione che, ora che abbiamo messo tutto in chiaro, faremo un ottimo lavoro di squadra. Se risolveremo questo caso, sarà un bel successo per entrambi.» «Sono più interessata a trovare un assassino che a migliorare le mie possibilità di promozione», ribatté Eve. «Ehi, io pure lavoro per assicurare un criminale alla giustizia», si difese Casto, facendole l'occhiolino. «Ma non mi metterò a piangere se, nel farlo, accorcio la distanza che mi separa dalla carica di capitano, con relativo stipendio. Nessun rancore?» «No. Avrei fatto lo stesso anch'io.» «Tutto a posto, allora. Un giorno o l'altro mi farò rivedere, per gustare ancora quel tuo caffè.» Il tenente della Narcotici diede una rapida stretta al polso di Eve. «E mi auguro che tu riesca a scagionare la tua amica. Parlo seriamente.» «La scagionerò.» L'uomo si era già allontanato di un paio di passi quando Eve cedette alla tentazione. «Casto?» «Sì, bellezza?» «Che cosa gli hai offerto?» «A Cazzone?» Il suo sorriso era ampio come l'Oklahoma. «Una cassa di scotch puro. L'ha fatta sparire al volo, come la lingua di una rana quando acchiappa una mosca.» Tirò fuori un palmo di lingua e fece di nuovo l'occhiolino. «Nessuno sa corrompere più abilmente di un poliziotto della Narcotici, Eve.»
«Me ne ricorderò.» S'infilò le mani in tasca, ma non riuscì a trattenere un sorriso. Qualche secondo più tardi, rimasta sola con Peabody, Eve disse: «Casto non manca di stile, questo glielo devo riconoscere». «E ha anche un gran bel culo», si lasciò sfuggire Peabody. «Mi scusi, signore, dicevo così per dire.» «Ma io concordo pienamente. Be', abbiamo vinto la battaglia. Ora cerchiamo di vincere anche la guerra.» Quando ebbe terminato di redigere il rapporto, Eve si sentiva gli occhi strabici. Non appena le copie furono trasmesse ai vari interessati, lasciò libera Peabody e si chiese se non fosse il caso di cancellare l'appuntamento dallo strizzacervelli, passando in rassegna tutti i motivi che le davano il diritto e l'opportunità di posporlo. Ma si trovò nello studio della dottoressa Mira all'ora fissata, avvertendo il consueto aroma del tè alle erbe e il lieve profumo che le era familiare. «Sono felice che sia venuta a trovarmi», le disse Mira accavallando le gambe inguainate nelle calze di seta. Aveva cambiato pettinatura, notò Eve. Aveva adottato un taglio corto e diritto, rinunciando all'abituale chignon. Ovviamente gli occhi erano rimasti gli stessi, azzurri e calmi, col consueto sguardo penetrante. «La trovo in gran forma», aggiunse la dottoressa. «Sto bene.» «Il che mi meraviglia, con tutti i cambiamenti che si stanno verificando nella sua esistenza. In ambito professionale e nella vita privata. Dev'essere tremendamente difficile per lei avere un'intima amica accusata di un delitto sul quale lei stessa sta investigando. Come fa a gestire la situazione?» «Faccio il mio lavoro. Così potrò scagionare Mavis e scoprire chi l'ha incastrata.» «Non avverte una sorta di sdoppiamento nel voler restare fedele alla sua professione e contemporaneamente alla sua amica?» «No, non più, ora che ho sviscerato ogni aspetto della mia posizione.» Eve sfregò le mani sui pantaloni, all'altezza delle ginocchia. Era un effetto collaterale dei suoi colloqui con Mira, quello di ritrovarsi coi palmi sudati. «Se avessi un dubbio, anche minimo, sull'innocenza di Mavis, non sarei sicura di potercela fare. Ma sono assolutamente convinta che sia innocente, perciò la risposta è chiara.» «E questo le è di conforto.» «Già, può ben dirlo. Mi sentirò comunque molto più a mio agio quando
avrò risolto il caso e tirato Mavis fuori di questa brutta storia. Confesso che, quando ho fissato il nostro appuntamento, ero piuttosto preoccupata, ma ora ho ripreso tutto in pugno.» «E avere il controllo della situazione è un fatto importante per lei.» «Non posso fare il mio lavoro se non ho la certezza di tenere in mano io il volante.» «Anche nella sua vita privata?» domandò Mira. «Be', in quella è difficile togliere Roarke dal posto di guida.» «Decide tutto lui, dunque?» «Lo farebbe, se gli lasciassi carta bianca.» Eve scoppiò in una breve risata. «Probabilmente lui direbbe lo stesso di me. Ho l'impressione che tra noi due sia perennemente in corso una competizione per accaparrarci il controllo, ma finiamo sempre per prendere la stessa strada. Lui mi ama.» «La cosa sembra stupirla.» «Non mi era mai capitato con nessuno. Non così, almeno. Alcune persone non ci pensano due volte a parlare d'amore. Ma con Roarke non sono soltanto parole. Lui riesce a leggermi nell'animo, senza fare una piega.» «E questo le sembra strano?» «Non lo so. Ciò che vedo in me non sempre mi piace, ma a lui sì. O quantomeno lui lo capisce.» Eve si rese conto che era di quello che aveva sentito il bisogno di parlare con Mira. Degli abissi oscuri e frastagliati che si nascondevano nel suo animo. «Forse dipende dal fatto che entrambi abbiamo avuto un'infanzia orrenda. Abbiamo sperimentato, quando eravamo troppo giovani per venirlo a sapere, quanta crudeltà ci sia negli esseri umani. Come il potere nelle mani sbagliate non soltanto corrompa, ma provochi mutilazioni. Con lui... Prima di andare a letto con lui, avevo fatto sempre e soltanto sesso, senza mai provare altro che un senso di liberazione quasi animalesco. Senza riuscire mai ad avere un rapporto... intimo», concluse. «Ho azzeccato il termine?» «Sì, ritengo che sia quello giusto. Come mai crede di aver stabilito un rapporto intimo con lui?» «Perché, se fosse altrimenti, Roarke non mi accetterebbe. Lui...» Eve si accorse che gli occhi le si stavano riempiendo di lacrime e batté le palpebre per farli tornare asciutti. «Lui ha messo in luce qualcosa che io avevo rimosso. No, che avevo completamente sepolto. Chissà come, ha preso il controllo di questa mia parte... o forse sono stata io a lasciare che riportasse in superficie la parte di me che era morta, che era stata uccisa quand'ero una bambina, quando...»
«Ti sentirai meglio, Eve, dopo averlo detto.» «Quando mio padre mi violentava.» Si lasciò sfuggire un sospiro tremante e permise alle lacrime di fluire. «Mi violentava, abusava di me, mi faceva male. Mi trattava come avrebbe fatto con una prostituta, quand'ero troppo piccola e troppo debole per impedirglielo. Mi teneva ferma sotto il suo corpo, oppure mi legava. Mi percuoteva fin quasi a farmi perdere i sensi o mi premeva la mano sulla bocca per impedirmi di gridare. Poi mi penetrava, affondava in me finché il dolore non diventava quasi altrettanto osceno dell'atto in sé. E nessuno accorreva in mio aiuto; non potevo fare nulla se non aspettare la volta successiva.» «Ti rendi conto che nessuna colpa ricadeva su di te?» chiese gentilmente Mira. Quando un ascesso finalmente si apre, pensò, bisogna schiacciarlo, seppure attentamente, cautamente, lentamente, per far uscire tutto il pus. «E, così come allora, né ora né mai devi colpevolizzarti.» Eve si asciugò le guance col dorso della mano. «Aspiravo a fare il poliziotto, perché la polizia controlla, può impedire alla gente cattiva di fare quello che vuole. Mi sembrava tutto molto semplice. Dopo aver fatto per un po' il poliziotto, ho cominciato a capire che ci sono esseri umani che se la prendono sempre coi deboli e con gli innocenti.» Il suo respiro tornò normale. «No, non era colpa mia. La colpa era di mio padre e di chi faceva finta di non vedere e di non sentire. Ma ora devo convivere con questi ricordi e non è più così facile come quando impedivo loro di risalire in superficie.» «Però è da molto tempo che tali ricordi stavano riaffiorando, non è vero?» «Frammentariamente. Ciò che mi era accaduto prima di essere ritrovata in un vicolo, a otto anni, mi tornava alla memoria solo a sprazzi.» «E adesso?» «I frammenti sono più numerosi, sono troppi. E tutto è più nitido, più vicino.» Eve si passò una mano sulla bocca, ma si costrinse a rimetterla in grembo. «Riesco a vedere il volto di mio padre; prima non mi capitava. La cosa è cominciata durante il caso DeBlass, l'inverno scorso, perché parecchi aspetti di quella vicenda mi richiamavano alla mente la mia. Poi ho incontrato Roarke, e i ricordi hanno cominciato a ripresentarsi, più chiari, sempre più ravvicinati. Non riesco a fermarli.» «È questo che vuoi, fermarli?» «Se potessi, cancellerei completamente dalla memoria quegli otto anni.» Lo disse rabbiosamente, perché si sentiva ribollire di collera. «Non c'en-
trano con me, quale sono oggi. E non voglio che incidano sulla mia attuale personalità.» «Eve, per quanto terribili - e osceni - possano essere stati quegli otto anni, ti hanno formata. Hanno contribuito a costruire la tua forza, la tua pietà nei confronti degli innocenti, le sfaccettature del tuo carattere, la tua capacità di ripresa. Il fatto di ricordarli, e di affrontarli per quello che sono, non influirà su ciò che sei attualmente. Ti ho spesso esortata a sottoporti all'autoipnosi, ma ora non lo ritengo più necessario. Credo che il tuo inconscio stia lasciando trapelare i ricordi secondo un proprio ritmo.» Se era davvero così, Eve desiderò che quel ritmo rallentasse, le permettesse di respirare. «Forse ci sono alcune cose che non sono pronta a ricordare. Eppure non riesco a ricacciarle indietro. Ad assillarmi è, in particolare, un certo sogno. Ultimamente compare sempre. Mi trovo in una stanza, un locale sporco con una luce rossa, opaca, che lampeggia alla finestra. Si accende e si spegne in continuazione. E c'è un letto. È vuoto, ma coperto di macchie. So che sono macchie di sangue. Un lago di sangue. Mi vedo rannicchiata per terra, in un angolo della stanza. C'è sangue anche lì. Io ne sono coperta. Non riesco a vedermi il volto, perché è girato verso la parete. Ma, se anche la mia visione è sfocata, sono convinta che quella sono io.» «Sei sola?» «Mi pare di sì. Però non posso dirlo con certezza. Vedo solo il letto, quell'angolo della stanza e la luce che lampeggia. Accanto a me, sul pavimento, c'è un coltello.» «Quando sei stata trovata, sul tuo corpo non c'erano ferite da arma da taglio.» Un paio di occhi dall'espressione vacua e atterrita si levò verso Mira. «Lo so.» 10 Nel rientrare a casa, Eve si aspettava il gelido impatto con lo sguardo di disapprovazione di Summerset. Ci aveva ormai fatto il callo. Quando si accorse della propria profonda delusione che l'aveva colta nel non trovarlo ad accoglierla sulla porta con qualche commento sprezzante, non riuscì a spiegarsi quale maligna abitudine si fosse sviluppata in lei. Entrò nel salotto accanto all'atrio d'ingresso e accese il sensore a parete. «Dov'è Roarke?» «Roarke è in palestra, tenente. Vuole mettersi in contatto con lui?»
«No. Spegnere.» Una bella sudata in palestra poteva essere proprio ciò di cui aveva bisogno per schiarirsi la mente. Imboccò le scale che si aprivano dietro il finto pannello del corridoio, scese di un piano e attraversò il locale con la piscina dal fondo piastrellato di nero, tra un groviglio di piante tropicali. Qui c'è un intero universo, pensò. Un altro dei tanti mondi di Roarke. La lussuosa piscina sotto un soffitto che, al solo tocco di un pulsante, poteva simulare un firmamento stellato, un cielo invaso dalla luce solare o un fascio di raggi lunari; l'ologramma in grado di offrire centinaia di giochi per trascorrere piacevolmente una lunga notte; un bagno turco; una cabina per isolarsi dalla realtà; un tiro al bersaglio; un piccolo teatro; e una sala da meditazione di gran lunga migliore di tutte quelle offerte dalle costose stazioni termali sulla Terra o nello spazio interplanetario. Trastulli per i ricchi, si disse. Ma sapeva che Roarke avrebbe preferito definirli strumenti di sopravvivenza: un modo come un altro per rilassarsi, cosa tanto necessaria in un mondo che ogni giorno si muoveva più in fretta. Lui alternava il rilassamento al lavoro e, dovette ammettere Eve, se la cavava molto meglio di lei. Chissà come, era riuscito a trovare il sistema giusto per godersi ciò che aveva e, al contempo, proteggerlo e incrementarlo. Negli ultimi mesi, Eve aveva imparato molte cose da Roarke. Una delle lezioni più importanti era stata quella di accantonare di tanto in tanto tutte le preoccupazioni, le responsabilità, persino l'ansia di ottenere le risposte alle sue domande, e limitarsi a essere se stessa. Era a quello che stava pensando quando entrò in palestra e digitò il codice per richiudersi la porta alle spalle. Roarke non era tipo da lesinare sulla propria attrezzatura né da scegliere la via più facile e pagare per ottenere un fisico scultoreo, tonificare i muscoli, mantenere gli organi in perfetto ordine. Il sudore e la fatica erano, per lui, tanto importanti quanto la panca gravitazionale, la pista liquida o la cabina di resistenza allo sforzo. Essendo inoltre un fautore della tradizione, nella sua palestra privata teneva anche attrezzi ormai obsoleti, come bilancieri e parallele asimmetriche, e un apparato di realtà virtuale. In quel momento stava usando proprio i bilancieri, eseguendo lunghe e lente rotazioni, e contemporaneamente seguiva con gli occhi una serie di diagrammi che lampeggiavano su un monitor e parlava a qualcuno collegato tramite una cuffia con gli auricolari. «Nella stazione turistica la sicurezza è una priorità, Teasdale. Se c'è una
falla, trovala. E sistemala.» Roarke aggrottò la fronte, fissando il monitor, e passò fluidamente da un piegamento a un'estensione. «Stai semplicemente battendo la fiacca. E, se farai lievitare i costi, dovrai chiarirmene il motivo. No, non a parole, Teasdale, ma con precisi documenti giustificativi. Voglio che entro le nove, ora terrestre, mi venga trasmesso in ufficio il tuo rapporto. Chiudere la comunicazione.» «Sei un duro, Roarke.» Lui si guardò intorno e, vedendola, sorrise. «Fare affari è come combattere una guerra, tenente.» «Se si fanno a modo tuo, criminale. Se fossi nei panni di Teasdale, adesso mi tremerebbero le gambe, nonostante gli stivali gravitazionali.» «È un'idea.» Roarke appoggiò i bilancieri e si tolse la cuffia, mettendo via anche quella. Eve lo osservò trasferirsi nella cabina di resistenza, regolare un programma e cominciare con gli esercizi di pressione sugli arti inferiori, poi lei stessa afferrò distrattamente un peso e lavorò sui tricipiti, continuando a guardarlo. La fascia nera sulla fronte, per trattenere il sudore, gli dava un'aria da guerriero, si disse. La T-shirt scura, senza maniche, e i calzoncini mettevano in mostra una muscolatura molto attraente e una pelle resa lucida dalla traspirazione. Nell'osservare quei muscoli che si gonfiavano, quel sudore che s'imperlava, Eve si sorprese a desiderarlo. «Sembri compiaciuta di te stessa, tenente.» «In realtà, sei tu che mi piaci.» Eve inclinò la testa, lasciando scorrere lo sguardo su di lui. «Hai davvero un corpo splendido.» Roarke inarcò un sopracciglio, mentre lei gli si avvicinava e allungava una mano a saggiargli il bicipite. «Muscoli di ferro.» Le sorrise. Che avesse qualcosa per la testa, gli sembrava evidente. Non era però sicuro di che cosa fosse quel qualcosa. «Vuoi vedere quanto?» «Credi di spaventarmi?» Senza distogliere gli occhi da lui, Eve si sfilò la fondina dell'arma e l'appese a una parallela. «Vieni un po' qua.» Si spostò su un materassino e curvò le dita in segno di sfida. «Vediamo se riesci a sbattermi a terra.» Roarke, ancora disteso bocconi, la scrutò. C'era qualcosa negli occhi di lei che non era un semplice sguardo di sfida. Se non stava prendendo un granchio, era lussuria. «Eve, sono in un bagno di sudore.» Lei sbuffò. «Vigliacco.» Roarke trasalì. «Aspetta che mi faccia una doccia, poi...» «Fifone. Sai, alcuni maschi sono ancora convinti che una femmina non
sia fisicamente in grado di tenere loro testa, ma, siccome so che non sei uno di questi, posso soltanto dedurne che hai paura di fare una figuraccia.» Fu troppo, per lui. «Terminare il programma.» Lentamente Roarke si mise a sedere, allungò una mano verso una pila di asciugamani e si deterse il sudore dal viso. «Vuoi combattere? Ti darò il tempo per scaldare i muscoli.» Il sangue di Eve stava già pompando a pieno ritmo. «Sono già abbastanza calda. Lotta libera, a mani nude.» «Niente pugni», disse lui, montando a sua volta sul materassino. Vedendola sbuffare con aria di derisione, socchiuse le palpebre. «Non voglio picchiarti.» «Ma figurati. Come se tu potessi superare il mio...» Lui le balzò addosso, le fece perdere l'equilibrio e la mandò a terra, a gambe levate. «Stronzo», mormorò Eve, rimettendosi subito in piedi. «Oh, scusa, ho dimenticato le regole. Mi sono comportato da poliziotto.» Con la schiena e le ginocchia leggermente piegate in avanti, si mossero in circolo. Lui fece una finta, lei la parò. Per dieci interessanti secondi, restarono avvinghiati, con le mani di Eve che scivolavano sulla pelle umida di Roarke. Lui provò con un placcaggio alle gambe, che avrebbe potuto funzionare se lei, avendo previsto la mossa, non si fosse accovacciata e, sfruttandolo a mo' di leva, non avesse ruotato rapidamente il corpo, facendolo volare sopra le sue spalle. «Ora siamo pari.» Eve si rannicchiò di nuovo mentre Roarke si alzava, gettando all'indietro i capelli. «Va bene, tenente, ora smetterò di usare le maniere dolci.» «Ma piantala di raccontare storie. Tu stavi...» Roarke riuscì quasi a inchiodarla, e ce l'avrebbe certamente fatta se lei non si fosse resa conto, con qualche secondo di anticipo, che la strategia da lui adottata consisteva nel distrarla con gli insulti. Così Eve sgusciò di lato, per balzargli poi di nuovo addosso. A quel punto, viso contro viso, muscoli in tensione, lei fece ricorso alla sua arma migliore. Infilò una mano tra le gambe di Roarke e gli strinse delicatamente i testicoli con le dita. Lui trasalì, sorpreso, deliziato. «Oh, accidenti», mormorò e abbassò le labbra. Stava per sfiorare quelle di lei, quando la discreta stretta si trasformò in una morsa. Piombò a terra senza avere neppure il tempo di bestemmiare. Cadde con un tonfo e lei gli balzò sopra, con un ginocchio premuto sul cavallo dei pantaloni e le mani che gli inchiodavano le spalle al materassino.
«Sei al tappeto, amico. E hai perso.» «E pensare che prima avevi dato dello stronzo a me.» «Non fare la vittima.» «Trovo difficile discutere con una donna quando lei ha un ginocchio piantato sul mio amor proprio.» «Bene. Ora farò di te quello che voglio.» «Davvero?» «Certo. Ho vinto.» Eve sollevò la testa e gli tirò verso il basso le spalline della maglietta. «Collabora, così non sarò costretta a picchiarti.» Quando lui cercò di afferrarla, gli prese le mani e le premette contro il materassino. «Ora comando io. Non costringermi a tirare fuori le manette.» «Mmm... una minaccia interessante. Perché non...» Le parole gli restarono nella strozza perché la bocca di lei, dura e rovente, si era incollata alla sua. Istintivamente, Roarke infilò le mani sotto di lei, smanioso di toccare, di prendere. Ma capì che Eve desiderava qualcos'altro, qualcosa di più, così lasciò che lo trovasse. «Intendo possederti», disse lei, e gli mordicchiò il labbro, scatenando nelle sue viscere una fitta di bramosia. «Farti tutto ciò che voglio.» Roarke, col respiro mozzo, si rese conto che la testa cominciava già a girargli. «Non mi maltrattare», riuscì a dire e, quando lei per tutta risposta scoppiò a ridere, avvertì il tepore della tenerezza mescolarsi al calore della lussuria. «Scordatelo.» Eve era brusca: mani esigenti e rapide, labbra impazienti e infaticabili. Roarke sentiva erompere da lei un bisogno selvaggio, vibrante, che s'irradiava in lui con un'energia inarrestabile che sembrava autorigenerarsi. Se era il controllo ciò che desiderava, glielo avrebbe concesso; ma d'un tratto, mentre lei si accaniva sul suo corpo, Roarke perse decisamente ogni capacità di reagire. Sentiva i suoi denti rodergli le carni, sopra e sotto, finché i muscoli così ben tonificati non iniziarono a tremargli. La vista gli si annebbiò quando lei gli prese il pene in bocca, con rapida durezza, così dovette lottare con se stesso per non esplodere. «Non trattenerti», gli disse Eve, spostando la bocca sulla sua coscia per mordicchiargliela e facendola poi risalire lungo il suo torace, mentre la mano prendeva il posto delle labbra. «Voglio farti venire.» Gli risucchiò la lingua in bocca, gliela morse, la lasciò andare. «Ora.» Vide gli occhi di Roarke diventare opachi e, un istante dopo, sentì l'or-
gasmo scuoterlo. Mentre gli titillava l'orecchio, sbottò in una risata vibrante di orgoglio. «Ho vinto di nuovo.» «Cristo santo!» Lui riuscì appena ad allacciare le braccia intorno a lei, perché era senza forze, come un neonato. Ma all'imbarazzo per aver perso completamente il controllo di sé si mescolava un vertiginoso piacere. «Non so se scusarmi o ringraziarti.» «Piantala. Non ho ancora finito.» Lui fece per ridacchiare, ma Eve gli stava già affondando i denti nella mascella, inviando nuovi segnali al suo corpo esausto. «Tesoro, devi darmi il tempo di tirare il fiato.» «Non devo fare nulla.» Era ubriaca di piacere, galvanizzata dalla sensazione di potenza che l'invadeva. «Sei tu che devi subire.» Gli montò a cavalcioni sul ventre e si sfilò dalla testa la camicia. Fissandolo, si passò le mani sul torace, sui seni, poi tornò a riabbassarle. Roarke aveva la bocca che traboccava di saliva. Sorridendo, Eve gli prese le mani e le appoggiò su di sé. Con un sospiro, si abbandonò e chiuse gli occhi. Il tocco delle mani di Roarke le era familiare, eppure aveva qualcosa di nuovo. Era stimolante, sempre. Le dita di lui giocarono sul suo corpo, titillandole i capezzoli fino a renderli roventi e sul punto di dolere, poi tirandoli energicamente, finché lei non avvertì un crampo nelle parti più intime. Per soddisfare entrambi, Eve arcuò all'indietro la schiena mentre lui si alzava a sedere per baciarla lungo tutto il corpo. Gli prese la testa tra le mani e si lasciò travolgere dalle sensazioni: lo sfregare dei denti sulla pelle sensibilizzata, dapprima tenero, poi brutale; il flettersi e il rilasciarsi delle dita sui suoi fianchi; lo strofinio umido di pelle contro pelle; l'odore, da frutto caldo e maturo, del sudore e del sesso. E, quando sollecitò la bocca di Roarke a unirsi alla sua, il gusto esplosivo di una sfacciata lussuria. Eve si tirò indietro, strappandogli un suono a metà tra un gemito e un'imprecazione, e si alzò rapidamente, deliziata nel sentirsi le gambe tremanti e il corpo appesantito dal desiderio. Non ebbe bisogno di dirgli che non le era mai accaduto prima - che non aveva mai provato nulla del genere con nessuno, prima di lui - perché Roarke lo sapeva già. Proprio come si era resa conto di rappresentare per lui qualcosa di più, qualcosa di diverso, che non aveva mai trovato in nessun'altra donna. Restò ritta su di lui, senza più sforzarsi di regolare il respiro, senza più essere scioccata dai brividi che le correvano lungo il corpo. Scalciò lontano le scarpe, si sbottonò i pantaloni e li lasciò cadere. Avvertì vampate di calore, mentre lo sguardo di Roarke saliva lungo il
suo corpo, scendeva e risaliva fino al suo viso. Non si era mai preoccupata molto del proprio aspetto. Il suo era un corpo da poliziotto, necessariamente forte, resistente, flessibile. Con Roarke aveva scoperto come quelle caratteristiche diventassero, in una donna, motivo di fascino. In preda a un lieve tremito, si piegò sulle ginocchia, stringendole contro il corpo di Roarke, stretto in mezzo, e si chinò in avanti, per perdersi nel vertiginoso piacere del bocca a bocca. «Comando ancora io», sussurrò Eve, sollevandosi leggermente. Con lo sguardo bruciante fisso in quello di lei, Roarke sorrise. «Sfogati.» Eve si abbassò e lo prese dentro di sé, con una lentezza straziante. E, quando l'ebbe accolto sino in fondo, quando sentì il proprio corpo irrigidirsi e flettersi all'indietro, si lasciò sfuggire un tremante singhiozzo, travolta da un primo fantastico orgasmo. Ingordamente, si piegò di nuovo in avanti, allacciò le proprie mani a quelle di lui e iniziò a montarlo. Nella sua testa, nel suo sangue, fu un susseguirsi di esplosioni. Dietro le palpebre chiuse danzavano colori vorticosi e dentro di lei non c'erano altro che Roarke e un disperato bisogno di averne di più... di possederlo ancora più a fondo. Gli orgasmi si moltiplicarono, con una tensione che non riusciva mai a calare. Il desiderio spasmodico non faceva in tempo a essere soddisfatto che già risorgeva. Poi, finalmente, il corpo di Eve ricadde inerte su quello di Roarke e lei nascose il viso nella gola di lui, aspettando che la mente tornasse a schiarirsi. «Eve?» «Mmm...» «Ora è il mio turno.» Eve batté le palpebre, stordita, mentre Roarke la rotolava sulla schiena. Le ci volle un secondo per rendersi conto che il suo pene turgido era già dentro di lei. «Credevo che tu... che noi...» «Tu hai condotto il gioco», le mormorò Roarke, che aveva un'aria fresca e riposata. Quando si mosse dentro di lei, un'espressione di sbalordito godimento le balenò sul volto. «Ora tocca a te subire.» Eve scoppiò in una risata, che terminò in un gemito. «Ci uccideremo a vicenda, se continuiamo con questo ritmo.» «Correrò il rischio. No, non chiudere gli occhi. Guardami.» Vide quegli occhi appannarsi quando accelerò l'andatura, udì il grido strozzato quando la penetrò a fondo, ancora più a fondo. Poi entrambi si avvinghiarono, s'inarcarono, con le mani di Eve che cercavano una presa sul corpo di lui e i fianchi di Roarke che si muovevano
con sempre maggiore forza. Quando gli occhi le si fecero vacui e selvaggi, lui le coprì spietatamente la bocca con la propria e ingoiò il suo grido. Erano schiacciati l'uno sull'altra, come due lottatori al tappeto, ansimando in cerca d'aria. Roarke era scivolato leggermente in basso e aveva i seni di Eve a portata di labbra, ma non trovava la forza per approfittarne. «Non sento più le dita dei piedi», osservò lei. «Né quelle delle mani. Credo di essermi rotta qualcosa.» Lui si rese conto di pesarle addosso, bloccandole la respirazione e la circolazione del sangue. Con un grande sforzo, cambiò le rispettive posizioni. «Va meglio?» Eve inspirò una lunga e affannosa boccata d'aria. «Mi pare di sì.» «Ti ho fatto male?» «Eh?» Roarke le sollevò la testa e fissò il suo sorriso vacuo, esausto. «Non importa. Hai finito con me?» «Per il momento.» «Grazie a Dio.» Si lasciò ricadere a terra e si concentrò sul proprio respiro. «Cristo, siamo conciati da buttar via.» «Nulla di meglio di un sudato e appiccicoso rapporto sessuale per ricordarti che sei un essere umano. Vieni.» «Dove?» «Tesoro.» Le diede un bacio sulla spalla madida di sudore. «Hai bisogno di farti una doccia.» «Ho intenzione di dormire qui per i prossimi due giorni.» Si mise a sedere, sbadigliando. «Va' avanti tu.» Roarke scosse la testa. Chiamando a raccolta tutte le forze residue, la spinse di lato e si rialzò; poi, dopo aver inspirato profondamente, si piegò in avanti e si caricò Eve in spalla. «Oh, bene, adesso ti approfitti anche di una povera morta», disse lei. «Un peso morto», mormorò Roarke e attraversò la palestra, diretto verso lo spogliatoio. Spostò Eve, per tenerla più saldamente, ed entrò nella cabina piastrellata. Con un sorriso maligno, si girò di lato, in modo che il viso di lei fosse proprio sotto uno dei getti incrociati. «Diciassette gradi, apertura massima.» «Diciass...» fu quanto riuscì a dire Eve, perché il resto della parola si perse in un diluvio di strilli e imprecazioni che riecheggiò tra le pareti pia-
strellate. Non era più un peso morto, bensì una creatura che si divincolava disperatamente, grondante acqua e furibonda. Roarke la tenne stretta con la forza, ridendo come un matto mentre lei farfugliava e imprecava. «Trentaquattro gradi», urlò Eve. «Trentaquattro dannatissimi gradi. Subito!» Quando l'acqua cominciò a scendere calda, riuscì a tirare il fiato. «Ti ucciderò, Roarke. Aspetta che mi scongeli e vedrai.» «Come vuoi.» La posò delicatamente in piedi e le porse il sapone. «Lavati, tenente. Sto morendo di fame.» Anche lei. «Ti ucciderò più tardi», decise. «Dopo aver mangiato.» Non era trascorsa un'ora quando si ritrovò - lavata, soddisfatta, rivestita ad affrontare una bistecca alta cinque centimetri. «Lo sai, ti sposo solo per il sesso e il cibo.» Roarke sorseggiò un vino color rosso scuro e la osservò mangiare avidamente. «È scontato.» Lei addentò una patatina fritta. «E anche perché hai uno splendido volto.» Senza scomporsi, lui si limitò a sorriderle. «È quanto dicono tutte.» I veri motivi non erano quelli, ma una bella scopata, un pasto gustoso e uno splendido volto potevano certamente addolcire l'umore. Eve gli restituì il sorriso. «Come sta Mavis?» Roarke si aspettava quella domanda, ma aveva capito che lei, prima di fargliela, aveva avuto bisogno di sfogarsi in qualche modo. «Sta bene. È in camera sua, con Leonardo, e per tutta la notte saranno impegnati in una sorta di riunione. Potrai parlare con loro domattina.» Eve abbassò lo sguardo sul proprio piatto, tagliando un altro pezzo di bistecca. «Che impressione ti ha fatto, quell'uomo?» «Direi che è disperatamente, quasi pateticamente, innamorato della nostra Mavis. E, poiché ho provato di persona un sentimento del genere, mi sento solidale con lui.» «Non siamo riusciti a trovare conferma dei suoi movimenti la notte dell'omicidio.» Eve sollevò il suo bicchiere di vino. «E lui aveva un movente, i mezzi e una probabile opportunità. Non c'è nessuna prova materiale che lo colleghi al delitto, però questo è avvenuto nel suo appartamento e l'arma gli apparteneva.» «Dunque ritieni che possa aver ucciso Pandora e creato tutta quella mes-
sinscena per far incriminare Mavis?» «No.» Eve posò il bicchiere. «Sarebbe tutto molto più facile, se potessi credere a questa ipotesi.» Picchiettò le dita sul tavolo, poi riprese il bicchiere. «Conosci Jerry Fitzgerald?» «Sì. Ci siamo frequentati.» Roarke attese una frazione di secondo, poi aggiunse: «No, non me la sono mai portata a letto». «Non te l'avevo chiesto.» «Tanto per mettere subito tutto in chiaro.» Eve si strinse nelle spalle e bevve un altro sorso di vino. «Mi è sembrata scaltra, ambiziosa, intelligente e dura.» «Di solito le tue impressioni sono esatte. Non intendo smentirle.» «Conosco poco l'ambiente delle indossatrici, ma ho fatto qualche ricerca. Per quelle al top, come la Fitzgerald, la posta in gioco è alta. Denaro, prestigio, notorietà mediatica. La partecipazione a una sfilata che fa tanto parlare di sé, come quella di Leonardo, significa un guadagno spropositato e un'enorme pubblicità. E, al punto in cui siamo, è Jerry la sostituta ideale di Pandora.» «Se le creazioni di Leonardo dovessero fare colpo, la sua modella di punta diventerebbe immediatamente famosa», convenne Roarke. «Ma sono tutte semplici congetture.» «Jerry ha una relazione con Justin Young e ha ammesso che Pandora stava tentando di portarglielo via.» Roarke meditò un attimo. «Mi riesce difficile immaginare Jerry Fitzgerald che si fa prendere dalla furia omicida per un uomo.» «Sarebbe più plausibile se l'uomo fosse uno stilista», ammise Eve, «ma c'è anche dell'altro.» Riferì succintamente a Roarke del legame tra la sostanza rinvenuta nella camera di Boomer e la strana droga trovata nell'organismo di Pandora. «Non siamo riusciti a trovare la scatola in cui lei nascondeva quella roba. Qualcuno, che sapeva dove trovarla, l'ha presa.» «Jerry ha dichiarato pubblicamente di essere contraria agli stupefacenti. Ovviamente, è un modo come un altro per farsi pubblicità», commentò Roarke. «E in questo caso tu pensi agli eventuali guadagni derivanti dallo smercio di quella droga, più che all'uso personale che se ne può fare.» «È la mia teoria. Una nuova miscela come questa, che induce una rapida assuefazione e provoca effetti sconvolgenti, è potenzialmente un'enorme fonte di reddito. Il fatto che alla fine conduca a morte non ne fermerebbe comunque la vendita o l'uso.»
Nel vederla spostare di lato il piatto con la bistecca mangiata solo a metà, Roarke aggrottò la fronte. Se Eve non mangiava, voleva dire che era preoccupata per qualcosa. «Mi pare che tu abbia un'ottima pista da seguire, tenente. E va in tutt'altra direzione rispetto a quella di Mavis.» «Già.» Irrequieta, Eve si alzò. «Ma è una pista che non porta da nessuna parte. La Fitzgerald e Young si forniscono reciprocamente un alibi di ferro. I CD del sistema di videosorveglianza confermano la loro presenza in casa all'ora della morte. A meno che, ovviamente, uno dei due o entrambi non siano riusciti a sfuggire alle telecamere. Redford invece non ha nessun alibi o, per meglio dire, ne ha uno molto traballante, però non riesco a incastrarlo. Almeno per ora.» Ma che fosse quella la sua intenzione risultò più che chiaro a Roarke. «Che impressione ti ha fatto?» «Un tipo col pelo sullo stomaco, spietato, egoista.» «Non ti è piaciuto.» «No, mi ha disgustato. Era untuoso, compiaciuto di sé, sicuro di poter prendere per il naso un poliziotto di città senza doversi spremere troppo le meningi. Mi ha fornito volontariamente un mucchio d'informazioni, proprio come avevano fatto Young e la Fitzgerald. E io non mi fido di chi parla tanto.» Il modo di ragionare di un poliziotto era affascinante, si disse Roarke. «Ti saresti fidata maggiormente di lui se fossi stata costretta a strappargli a fatica di bocca quelle informazioni.» «Certo.» Quella era, per lei, una delle regole basilari. «Era ansioso di riferirmi che Pandora faceva uso di droghe. Il che vale anche per la Fitzgerald. E tutti e tre sono stati ben felici di dirmi che non sopportavano la defunta.» «Suppongo che non ti sfiori minimamente la possibilità che siano stati semplicemente sinceri.» «Quando la gente si lascia andare a simili confidenze, soprattutto con un poliziotto, di solito c'è sotto qualcosa. Vedrò di scavare più a fondo.» Tornò indietro e si rimise a sedere. «Poi c'è il poliziotto della Narcotici che mi trovo sempre tra i piedi.» «Casto.» «Già. Vuole condurre lui le indagini su questi due casi e, quando ha perso la partita, ha fatto buon viso a cattivo gioco; ma la nostra non sarà certo una collaborazione ad armi pari. Vuole la promozione a capitano.» «Tu no, invece?»
Eve gli lanciò un'occhiata gelida. «Solo quando me la sarò meritata.» «E nel frattempo, ovviamente, tu collaborerai di buon grado con lui.» Le labbra di Eve si piegarono in un lieve sorriso. «Chiudi il becco, Roarke. Il punto è che devo trovare uno stretto legame tra l'omicidio di Boomer e quello di Pandora. Ho bisogno di scoprire la persona che era in rapporti con entrambi, che li conosceva bene. Finché non ci riuscirò, Mavis correrà il rischio di finire in tribunale.» «Per come la vedo io, hai due strade da seguire.» «Quali?» «Quella scintillante dell'alta moda e quella fangosa degli angoli di strada in cui si spaccia.» Roarke prese una sigaretta e l'accese. «Dove hai detto che era stata Pandora prima di tornare sulla Terra?» «Sulla Starlight Station.» «Ho qualche proprietà, lassù.» «Che sorpresa», ribatté seccamente Eve. «Mi informerò dalla gente del posto. Nell'ambiente frequentato da Pandora, i distintivi della polizia non sono particolarmente ben visti.» «Se non riuscissi a ottenere le risposte giuste, potrei essere costretta ad andarci di persona.» Qualcosa nel tono di Eve mise Roarke in allarme. «Sarebbe un problema?» «No, assolutamente.» «Eve.» Lei si allontanò di nuovo dal tavolo. «Non ho mai messo piede fuori della Terra.» Roarke la fissò, incredulo. «Mai? Stai scherzando?» «Non tutti si precipitano in orbita non appena viene loro voglia. Ci sono fin troppe cose a tenerci occupati sul nostro pianeta.» «Non c'è da aver paura», la rassicurò Roarke, leggendo perfettamente dentro di lei. «I viaggi spaziali sono più sicuri dei trasbordi in città.» «Sciocchezze», sibilò Eve. «Non ho mai detto di aver paura. Se dovrò farlo, lo farò. Preferirei di no, tutto qui. Quanto più ristretto sarà il campo delle mie indagini, tanto prima potrò tirare fuori Mavis da questa brutta storia.» È incredibile, si disse Roarke, anche lei, pur così coraggiosa, ha una sua fobia. «Perché non aspetti di sapere che cosa posso scoprire io per te?» le propose. «Sei un civile.»
«In via ufficiosa, intendo.» Eve si voltò a guardarlo, notò la sua aria di divertita comprensione e sospirò. «Va bene. Nel frattempo, mentre tu t'impegni in questa ricerca, io cercherò un esperto di flora planetaria. Immagino che tu non ne abbia uno da suggerirmi.» Roarke riprese in mano il bicchiere di vino e sorrise. «A dire il vero...» 11 Quel caso stava puntando in troppe direzioni contemporaneamente, decise Eve. Convinta che la strada migliore da scegliere fosse quella che le era più familiare, optò per un'indagine sul campo, negli ambienti malfamati. E lo fece da sola. Dopo aver lasciato Peabody con una montagna di dati da controllare e chiamato Feeney per fissare un incontro d'aggiornamento, andò via. Preferiva non dover scambiare quattro chiacchiere con nessuno né voleva che qualcuno potesse osservarla da vicino. Era reduce da una brutta notte ed era perfettamente consapevole che lo si notava a occhio nudo. L'incubo era stato uno dei peggiori che avesse mai avuto. Con l'impressione che qualcosa la stringesse alla gola, si era risvegliata bruscamente, madida di sudore e gemente. Per fortuna, quando l'incubo aveva raggiunto il culmine era già mattina e la vista delle prime luci dell'alba le aveva dato un minimo di sollievo. Così come il fatto di essere a letto da sola, perché Roarke si era già alzato e stava facendo la doccia. Se lui avesse avuto modo di udirla o vederla, non le avrebbe permesso di sgattaiolare via. Forse era un orgoglio fuori luogo, ma lei aveva fatto ricorso a ogni possibile espediente per stargli alla larga; poi gli aveva lasciato un rapido memorandum e se l'era svignata. Aveva evitato anche Mavis e Leonardo, mentre non era riuscita a scansare Summerset, anche se solo per il breve tempo necessario ad avere il privilegio di una sua gelida occhiata. Gli aveva voltato le spalle e si era allontanata, ma con la fastidiosa consapevolezza di lasciarsi dietro qualcosa di ben più agghiacciante. Il lavoro era l'unico rimedio, o, almeno, così si augurò. Il lavoro era una cosa che sapeva gestire. Fermò l'auto davanti al Down and Dirty Club, nell'East End, e scese. «Ehi, tu, ragazza bianca.» «Come te la passi, Crack?»
«Oh, non mi lamento.» Il gigantesco uomo di colore, con un teschio tatuato sul volto, le sorrise. Il suo torace, grande come un missile di lancio, era solo parzialmente nascosto da un soprabito coperto di piume che gli arrivava sotto le ginocchia e metteva in risalto l'ostentato perizoma di un rosa fosforescente. «Oggi sarà un'altra giornata rovente.» «Hai tempo per entrare e rinfrescarmi con una bevanda?» «Per te, bellezza, forse sì. Hai intenzione di dare retta al consiglio di Crack e di mettere da parte il distintivo per esibire i tuoi pregevoli attributi ancheggiando nel Down and Dirty?» «Nella prossima vita, magari.» Lui scoppiò a ridere, battendosi le mani sull'inguine scintillante. «Non so perché, ma tu mi piaci. Vieni dentro, bagnati il becco e racconta a Crack che cosa ti frulla in testa.» Eve era stata in locali peggiori, ma ne aveva anche visti di migliori. Gli odori rancidi della notte precedente aleggiavano ancora nell'aria: incenso, profumi scadenti, liquori, fumo di uno strano tabacco di provenienza incerta, corpi che non avevano mai conosciuto il sapone, sesso estemporaneo. Era troppo presto per i clienti, anche i più affezionati. Le sedie erano posate sui tavoli con le gambe all'insù; qualcuno aveva distrattamente passato uno straccio sul pavimento appiccicoso, ma solo in alcuni punti, come Eve poté notare, mentre il resto era ancora imbrattato di sostanze che lei non si preoccupò d'identificare. Le bottiglie dietro il bancone del bar principale scintillavano nei fasci di luce colorati, mentre su una pista da ballo una danzatrice avvolta in una rete rosa faceva le prove del suo numero, accompagnata dalla musica di strumenti a fiato elettronici. Un cenno dell'enorme testa di Crack fece sparire dalla scena il droide che puliva il locale e la danzatrice. «Che cosa prendi, ragazza bianca?» «Un caffè, nero.» Crack si spostò pesantemente dietro il bancone, continuando a sorridere. «Che ne diresti di correggere il caffè con un goccio o due del mio whiskey riserva speciale?» Eve si strinse nelle spalle. «Va bene.» Lo osservò programmare il caffè, poi aprire un armadietto da cui trasse una bottiglia che sembrava la lampada di Aladino. Si appoggiò al bancone dall'aria opaca, annusando gli odori circostanti, e si rilassò leggermente. Sapeva per quale motivo le piacesse tanto Crack, una creatura della notte che lei conosceva appena: perché riusciva a comprenderlo. Quell'uomo fa-
ceva parte di un mondo in cui lei si era mossa per la maggior parte della sua vita. «Allora, che ci fai in un brutto posto come questo, dolcezza? Presumo che tu sia ancora un poliziotto, o sbaglio?» «Lo sono.» Bevve un sorso di caffè e restò senza fiato. «Cristo, che bomba questo whiskey.» «Lo servo solo a chi mi va a genio. È al limite della legalità.» Le strizzò l'occhio. «Si fa per dire. Dunque, che cosa vuoi da Crack?» «Conosci Boomer? Cioè Caster Johannsen. Uno spacciatore di piccolo cabotaggio. Uno che ficcava il naso ovunque.» «Lo conoscevo. Boomer ha tirato le cuoia.» «Sì, esatto. Qualcuno l'ha massacrato. Tu, Crack, avevi mai fatto affari con lui?» «Veniva qui, di tanto in tanto.» Crack preferiva berlo puro, il suo whiskey riserva speciale. Lo sorseggiò, poi fece schioccare le labbra tatuate in segno d'approvazione. «A volte compariva, a volte no. Gli piaceva guardare lo spettacolo e parlare. Non era pericoloso, il vecchio Boomer. Ho sentito dire che gli hanno cambiato i connotati.» «Già. Chi poteva desiderare di conciarlo a quel modo?» «Secondo me, aveva mandato in bestia qualcuno, e di brutto. Boomer era un gran ficcanaso. E, se trincava un po', diventava un tremendo chiacchierone.» «Quando l'hai visto per l'ultima volta?» «Be', non ricordo esattamente. Qualche settimana fa, comunque. Se non sbaglio, è venuto una sera con le tasche piene di soldi. Ha chiesto una bottiglia, qualche pasticca e una stanza. Lucilie è andata con lui. No, merda, non era Lucilie. Era Hetta. Voi ragazze bianche sembrate tutte uguali», disse con una strizzatina d'occhio. «Ha raccontato a qualcuno come si fosse procurato tutti quei soldi?» «Forse a Hetta, perché era ubriaco fradicio. Mi pare che lei sia venuta a prendere altre pasticche. Lui voleva spassarsela. La ragazza ha accennato al fatto che il vecchio Boomer stava per diventare un imprenditore, o una stronzata del genere. Abbiamo riso tutti come matti, poi lui è uscito dalla stanza ed è salito sul palcoscenico, nudo come un verme. E noi siamo quasi morti dal ridere. L'amico aveva il cazzo più miserevole che si fosse mai visto.» «Dunque stava festeggiando qualcosa.» «Direi di sì. Poi io ho avuto molto da fare: teste da fracassare, gente da
sbattere fuori. Ricordo che mi trovavo in strada quando Boomer è uscito di corsa. L'ho afferrato, così, tanto per scherzare. Lui non aveva più l'aria felice, sembrava tremendamente impaurito, da pisciarsi addosso.» «Ti ha detto qualcosa?» «Si è soltanto divincolato ed è schizzato via. A pensarci bene, è stata proprio quella l'ultima volta in cui l'ho visto.» «Chi può averlo spaventato? Aveva parlato con qualcuno?» «Questo, bellezza, non te lo so dire.» «Quella notte, hai visto nel locale una di queste persone?» Eve tirò fuori dalla borsa alcune fotografie e gliele mise davanti: Pandora, Jerry, Young, Redford e, non potendo farne a meno, Mavis e Leonardo. «Ehi, queste due le conosco.» Il suo enorme dito indice roteò amorevolmente su Pandora e Jerry. «La rossa veniva di tanto in tanto, a cercare qualcuno da rimorchiare, a fiutare l'aria. È possibile che fosse qui quella notte, ma non posso esserne sicuro. Gli altri non rientrano nella lista dei nostri ospiti, per parlar forbito. Almeno non mi pare.» «Hai mai visto la rossa in compagnia di Boomer?» «Lui non era il suo tipo. A lei piacevano i giovani muscolosi e stupidi. Boomer era soltanto stupido.» «Hai sentito parlare di una nuova droga appena apparsa sul mercato, Crack?» Sulla sua grossa faccia calò un velo. «Non ho sentito nulla.» L'amicizia ha i suoi limiti, Eve lo sapeva bene. In silenzio, estrasse alcune banconote e le posò sul bancone. «L'udito è migliorato?» Crack osservò il denaro, poi tornò a sollevare gli occhi verso Eve. Riconoscendo la tattica per tirare sul prezzo, lei ne aggiunse altro. Il tutto scivolò sotto il bancone e sparì. «Ultimamente è corsa voce che ci sia in giro una nuova sostanza. Molto potente, di lunga durata, costosa. Immortality, è così che la chiamano, a quanto mi risulta. Ma da queste parti non si è vista, almeno per ora. La maggior parte della gente della zona non può permettersi le droghe sintetiche. Deve aspettare che ne arrivi un surrogato, e per questo ci vogliono alcuni mesi.» «Boomer te ne aveva mai parlato?» «Aveva a che fare con questa storia?» Negli occhi di Crack apparve uno sguardo pensoso. «Con me non ne aveva mai fatto parola. Come ti ho detto, mi è giunta all'orecchio solo qualche vaga soffiata. C'è una grande aspettativa, i tossici si sfregano le mani dalla gioia, però non mi risulta che
nessuno abbia mai provato questa sostanza. Può diventare un ottimo affare», aggiunse con un sorriso. «Hai un prodotto nuovo e ne parli in giro, così da prepararti la clientela, che l'aspetta ansiosamente. E, quando quella roba compare sul mercato, tutti si precipitano a comprarla. E la pagano cara.» «Già, un ottimo affare.» Eve si chinò verso di lui. «Stanne alla larga, Crack. È una sostanza letale.» Nel vederlo fare un gesto noncurante, gli posò una mano sul braccio taurino. «Nel senso letterale del termine. È un veleno, ad azione lenta. Se qualche persona che ti sta a cuore dovesse farne uso, avvisala subito del rischio che corre, perché altrimenti potrai farci una croce sopra.» Lui la fissò intensamente. «Non stai raccontando balle, ragazza bianca? Il tuo non è un trucco da poliziotto?» «Non è una balla e non è neppure un trucco. Un consumatore abituale può resistere cinque anni, ma poi la sostanza gli scombina il sistema nervoso e lo uccide. È proprio così, Crack. E chi la produce ne è perfettamente consapevole.» «Un modo schifoso per fare soldi.» «Già. Dimmi, dove posso trovare Hetta?» Crack emise un profondo sospiro e scosse la testa. «Se anche lo dicessi in giro, nessuno comunque mi crederebbe. Almeno chi già non vede l'ora di provarla.» Tornò a guardare Eve e riprese il filo del discorso. «Hetta? Merda, non lo so. Sono settimane che non la vedo. Queste ragazze vanno e vengono, lavorano un po' in un locale, un po' in un altro.» «Come si chiama di cognome?» «Moppett. Hetta Moppett. Ho sentito dire che ultimamente aveva affittato una stanza sulla 9th Avenue, all'altezza della 120th Street. Se ti saltasse il ticchio di riempire il vuoto che lei ha lasciato, bellezza, fammelo sapere.» Erano tre settimane che Hetta Moppett non pagava l'affitto della stanza e non faceva vedere in zona le sue belle chiappe, a detta almeno del custode del palazzo, il quale aggiunse che Ms Moppett aveva quarantott'ore di tempo per venire a saldare il debito se non voleva che tutte le cose che le appartenevano venissero confiscate. Mentre l'uomo continuava a recriminare rabbiosamente, Eve salì a piedi le scale fino allo squallido corridoio del terzo piano. Aveva in mano la chiave elettronica del custode, che lui aveva già certamente usato, e con
quella aprì la porta della camera di Hetta. Era un minuscolo locale, con un letto angusto e una finestra dai vetri coperti da una patina di sporco; tuttavia la persona che alloggiava in quel lurido buco aveva cercato di dargli un'aria più accogliente distribuendo in giro lucidi cuscini rosa da quattro soldi e appendendo una tenda, sempre rosa, ornata di fiocchi. Eve fece una rapida perquisizione da cui ricavò una rubrica degli indirizzi, un libretto di risparmio con un totale di tremila dollari, alcune fotografie incorniciate e una patente di guida scaduta che indicava il Jersey quale ultima residenza di Hetta. L'armadio era semivuoto, e un'occhiata alla malconcia valigia posata sul mobile confermò che il guardaroba di Hetta era tutto lì. Eve azionò il videotelefono, fece una copia di tutte le chiamate e prese nota degli estremi della patente. Possibile che la ragazza fosse partita per un viaggio senza prendere con sé altro che qualche soldo spicciolo, i vestiti che indossava e la licenza per esercitare il mestiere di entraîneuse? Eve non ci avrebbe scommesso. Chiamò l'obitorio dal videotelefono dell'auto. «Controllate tra i cadaveri di donne senza nome», richiese. «Razza bianca, anni ventotto, bionda di capelli, peso circa sessantacinque chili, altezza un metro e sessanta. Trasmetto copia dell'ologramma della patente di guida.» Aveva percorso appena tre isolati, diretta verso la centrale di polizia, quando le arrivò la risposta. «Tenente, ne abbiamo una i cui dati coincidono, ma per accertarlo con sicurezza avremmo bisogno di un calco della dentatura, del DNA o delle impronte digitali. L'ologramma non ci serve.» «Perché?» domandò Eve, ma conosceva già la risposta. «Del viso della donna è rimasto ben poco.» Le impronte digitali coincidevano. La responsabile delle indagini sulle vittime senza nome non fece difficoltà e si affrettò a consegnare il fascicolo relativo a Hetta. Eve, tornata nel proprio ufficio, passò in rassegna i file dei tre casi che aveva in mano. «Carmichael se n'è proprio lavata le mani», mormorò, «visto che nel fascicolo della Moppett c'erano le sue impronte, ricavate dalla licenza di entraîneuse. Avrebbe potuto identificarla già qualche settimana fa.» «Immagino che Carmichael non fosse molto interessata a risolvere il caso di una donna senza nome», commentò Peabody.
Eve, frenando uno scatto di rabbia, sollevò lo sguardo verso Peabody. «Allora ha sbagliato mestiere, non credi? I nostri tre omicidi sono collegati, Peabody. Da Hetta a Boomer, da Boomer a Pandora. Quali probabilità abbiamo di ottenere una risposta positiva alla domanda se le vittime siano state uccise dalla stessa mano?» «Novantasei virgola uno per cento.» «Okay.» Lo stomaco di Eve fremette di sollievo. «Porterò subito tutto questo al pubblico ministero. Tenterò di convincerlo a lasciar cadere le accuse contro Mavis. Almeno finché non avremo raccolto altre prove. Se dovessi ottenere un rifiuto...» Fissò Peabody negli occhi. «Farò una soffiata a Nadine Furst, affinché ne parli nel suo programma televisivo. È un'infrazione alle regole e te lo dico perché, in quanto mia assistente in queste indagini, una parte della responsabilità potrebbe ricadere anche su di te. Se resti con me, rischi una reprimenda. Prima di procedere, se vuoi, chiederò che tu venga assegnata altrove.» «Considererei tale sua mossa come una reprimenda, tenente. Immeritata, per giunta.» Eve rimase per un attimo in silenzio. «Grazie, DiDi.» Peabody sussultò. «Non mi chiami DiDi.» «D'accordo. Porta tutto ciò che abbiamo alla Electronic Detection Division e consegnala a mano, personalmente, al capitano Feeney. Non voglio trasmettere questi dati tramite i canali normali, almeno finché non avrò parlato col pubblico ministero. Poi svolgi per tuo conto qualche piccola ricerca.» Nel vedere gli occhi di Peabody illuminarsi, sorrise. Ricordava ancora che cosa si provava quando si era agli inizi della carriera investigativa e si otteneva il primo incarico di fiducia. «Recati al Down and Dirty Club, dove lavorava Hetta, e parla con Crack, che in quel locale è il pezzo grosso. Credimi, non ti sarà difficile trovarlo. Digli che sei la mia assistente e che Hetta è all'obitorio. Vedi un po' che cosa riesci a cavargli di bocca, a lui e agli altri del club. Appura se la ragazza stava con qualcuno, che cosa può aver raccontato di Boomer quell'ultima notte, con chi altri ha trascorso il suo tempo. Conosci la procedura.» «Signorsì.» «Oh, un'ultima cosa, Peabody.» Infilò i file nella borsa e si alzò. «Non ci andare in uniforme, spaventeresti la gente del quartiere.» Il pubblico ministero ci mise dieci minuti a infrangere le speranze di E-
ve. Lei continuò per altri venti a insistere, ma fu come girare a vuoto. Jonathan Heartly convenne che fra i tre omicidi sembrava esserci un probabile legame e, da uomo cortese qual era, ammirò il lavoro investigativo di Eve, le sue capacità deduttive e la precisa esposizione dei fatti, così come apprezzava ogni poliziotto che facesse il proprio lavoro in modo esemplare e mantenesse alta la percentuale di successi del suo ufficio. Tuttavia lui e tutti i suoi sostituti non se la sentivano di ritirare le accuse contro Mavis Freestone. Le prove materiali erano troppo schiaccianti e l'accusa, a quel punto, troppo solida per giustificare una marcia indietro. Non intendeva comunque chiudere la porta in faccia a Eve. Se e quando lei avesse indicato un altro presunto colpevole, sarebbe stato più che disponibile a darle ascolto. «Stronzo», mormorò Eve mentre si dirigeva di gran carriera verso il Blue Squirrel. Scorse immediatamente Nadine, già seduta in un séparé e intenta a studiare il menu con aria vagamente disgustata. «Perché diavolo devi darmi sempre appuntamento in questa topaia, Dallas?» chiese Nadine nell'attimo stesso in cui Eve si sedette di fronte a lei. «Sono una persona abitudinaria.» Però il locale non sembrava più lo stesso, notò Eve, senza Mavis sul palcoscenico a cantare con voce stridula le sue incomprensibili liriche nel costume di scena che faceva strabuzzare gli occhi ai presenti. «Caffè, nero», ordinò. «Lo stesso anche per me. Non potrà essere schifoso più di tanto.» «Aspetta a dirlo. Fumi ancora?» Nadine si guardò intorno, a disagio. «Questo non è un séparé per fumatori.» «Come se in un locale del genere a qualcuno venisse in mente di protestare. Offrimi una sigaretta, ti dispiace?» «Tu non fumi.» «Spero di prendere qualche cattiva abitudine. Vuoi che te la paghi, che ti dia i due dollari?» «No.» Sempre guardandosi intorno, caso mai fosse arrivato qualcuno che la conosceva, Nadine tirò fuori due sigarette. «Hai l'aria di una che ha bisogno di qualcosa di un po' più forte.» «Questa andrà benissimo.» Si piegò in avanti per farsela accendere, poi aspirò. Fu colta da un accesso di tosse. «Cristo. Lasciami provare un'altra volta.» Aspirò di nuovo il fumo e si sentì girare la testa, scuotere i polmoni. Indispettita, schiacciò il mozzicone. «È disgustoso? Perché lo fai?» «A lungo andare ci si prende gusto.»
«Questo vale anche per la merda di cane. E a proposito di schifezze...» Eve prese la tazza di caffè dalla fessura di servizio e ne bevve coraggiosamente un sorso. «Allora, come stai?» «Bene. Meglio. Ho fatto cose che avevo sempre ritenuto impossibili per mancanza di tempo. È strano quanto un'esperienza come la mia, l'essermi trovata a un pelo dalla morte, ti faccia capire che tutto il tempo che non riesci a trovare è tempo sprecato. Ho sentito dire che Morse è stato ritenuto capace d'intendere e di volere e che verrà pertanto processato.» «Non è pazzo. È soltanto un assassino.» «Soltanto un assassino.» Nadine si passò un dito sulla gola, dove qualche mese prima un coltello le aveva inciso la pelle, facendo uscire il sangue. «Tu non credi che l'impulso omicida l'abbia reso folle.» «No, ci sono individui ai quali piace uccidere. Non pensarci più, Nadine. Non serve a nulla rimuginare su queste cose.» «Ci ho provato. Mi sono presa alcune settimane di ferie, ho trascorso un po' di tempo con la mia famiglia. Questo mi è stato d'aiuto. Mi ha anche fatto tornare in mente che amo il mio lavoro. E che sono una brava giornalista, anche se sono crollata...» «Non sei crollata», la interruppe Eve spazientita. «Eri stata drogata, avevi un coltello alla gola ed eri in preda al terrore. Dimentica ogni cosa.» «Già. Giusto. Bene.» Nadine espirò una boccata di fumo. «C'è qualche novità sulla tua amica? Non sono ancora riuscita a dirti quanto mi dispiaccia che Mavis si trovi nei guai.» «Tra breve ne uscirà.» «Ci potrei giurare, visto che sei tu a condurre le indagini.» «Esatto, Nadine, e tu potresti aiutarmi. Ho alcune notizie per te, da una fonte della polizia non meglio identificata. No, non registrare, scrivi», ordinò Eve, vedendo la giornalista frugare nella propria borsa. «Come vuoi.» Nadine frugò ancora più a fondo e tirò fuori un taccuino e una penna. «Dimmi tutto.» «Abbiamo tre diversi omicidi, ma le prove indicano un unico assassino. La prima vittima, Hetta Moppett, ballerina part-time ed entraîneuse patentata, è stata picchiata a morte il 28 maggio, intorno alle due di notte. I colpi sono stati in massima parte inferti sul viso e sulla testa, con tale forza da cancellarle i connotati.» Nadine socchiuse gli occhi, senza commentare. «Alle sei della mattina seguente, il cadavere è stato trovato e trasportato all'obitorio, tra i morti senza nome. Nel momento in cui questo omicidio
veniva perpetrato, Mavis Freestone era su quel palcoscenico alle tue spalle a cantare a squarciagola davanti a centocinquanta testimoni.» Nadine sorrise. «Bene, bene. Continua, tenente.» Eve non si fece pregare. Per il momento era quanto di meglio potesse fare. Non appena il programma fosse andato in onda, c'era da dubitare che qualcuno nel Dipartimento non indovinasse chi era la fonte anonima, ma nessuno sarebbe stato in grado di provarlo. E per Mavis, se non per se stessa, Eve avrebbe mentito senza scrupoli di coscienza nel caso in cui fosse stata interrogata in proposito. Trascorse qualche altra ora in centrale, dove dovette accollarsi il doloroso compito di contattare il fratello di Hetta, l'unico parente prossimo che fosse riuscita a rintracciare, e informarlo della morte della ragazza. Dopo quell'allegro interludio, tornò a riesaminare ogni più piccolo elemento di prova trovato dagli esperti della Scientifica sulla scena del delitto Moppett. Non c'era dubbio che la ragazza fosse stata uccisa lì dove il cadavere era stato rinvenuto. Si trattava di un omicidio compiuto con efficienza e, probabilmente, con estrema rapidità. L'unica lesione da difesa era un gomito fratturato. L'arma del delitto non era stata ancora trovata. Così come non era stata trovata quella che aveva ucciso Boomer, meditò Eve. Le dita spezzate, le braccia fratturate, le rotule delle ginocchia ridotte a pezzi: tutto ciò risaliva a prima della morte. Eve ne dedusse che l'uomo era stato torturato. Boomer non soltanto era al corrente di qualcosa, ma aveva anche un campione della sostanza e la sua formula, e l'assassino li voleva entrambi. Però Boomer aveva tenuto duro. Il killer, per qualche strano motivo, non aveva avuto il tempo - o non aveva voluto correre il rischio - di recarsi nel suo alloggio a cercarli. Per quale motivo Boomer era stato gettato nel fiume? Per guadagnare tempo, decise Eve. Ma l'espediente non aveva funzionato, perché il cadavere era stato visto e identificato rapidamente. Lei e Peabody si erano recate nella stanza del morto a poche ore dal rinvenimento del cadavere e avevano preso ed etichettato la prova. Quanto a Pandora, era probabile che la modella sapesse troppo, avesse pretese eccessive, si fosse dimostrata una socia in affari poco affidabile, avesse minacciato di parlare con le persone sbagliate. Non come Hetta o
Boomer, si disse Eve, fregandosi il volto con le mani. Nell'uccisione della top model si notavano una rabbia più scatenata, una più intensa colluttazione, un disordine maggiore. Era anche vero che Pandora aveva ingerito la droga chiamata Immortality. Non era una sciocca ballerina sorpresa in un vicolo o un miserabile informatore che sapeva più del dovuto. Era una donna importante, con una mente acuta e una spiccata ambizione. Per non parlare dei bicipiti ben sviluppati, ricordò Eve. Tre cadaveri, un unico assassino e una sola cosa a legare tra loro i tre omicidi. Quella cosa era il denaro. Eve ripassò al computer tutti i dati sulle persone sospette, controllando le normali transazioni finanziarie. L'unico che fosse in una brutta situazione economica era Leonardo, indebitato fino ai suoi occhi dorati, se non oltre. E tuttavia la cupidigia non aveva riscontri bancari: apparteneva tanto al ricco quanto al povero. Scavando più a fondo, Eve scoprì che Redford si era dato molto da fare col suo denaro. Aveva ritirato grosse somme, ne aveva depositate, ne aveva ritirate altre. I trasferimenti per via elettronica andavano da costa a costa, toccando anche qualche stazione satellitare tra le più accessibili. Interessante, si disse Eve, e la situazione le parve ancora più degna di nota quando rintracciò un trasferimento dal conto bancario newyorkese del produttore a quello di Jerry Fitzgerald per un ammontare di centoventicinquemila dollari. «Tre mesi fa», mormorò, verificando la data. «È una bella somma di denaro da scambiarsi tra amici. Computer, cercare tutti i trasferimenti da questo conto a tutti i conti intestati a Jerry Fitzgerald o Justin Young negli ultimi dodici mesi.» Ricerca ultimata. Nessun trasferimento effettuato. «Cercare i trasferimenti da tutti i conti intestati a Redford ai conti precedentemente indicati.» Ricerca ultimata. Nessun trasferimento effettuato. «Okay, proviamo in quest'altro modo. Cercare i trasferimenti da tutti i conti intestati a Redford a tutti i conti intestati a Pandora.» Ricerca ultimata. Risultato: Diecimila dollari dalla New York Central, conto Redford, alla New York Central, conto Pandora, 06/02/58. Seimila dollari dalla New Los Angeles, conto Redford, alla New Los Angeles Security, conto Pandora, 19/03/58. Diecimila dollari dalla New York Central, conto Redford, alla New Los
Angeles Security, conto Pandora, 04/05/58. Dodicimila dollari dalla Starlight Station Bonded, conto Redford, alla Starlight Station Bonded, conto Pandora, 12/06/58. Nessun altro trasferimento effettuato. «Be', ci dovremmo essere. Pandora ti stava dissanguando o faceva affari con te?» mormorò Eve, desiderando fugacemente di avere accanto a sé Feeney e procedendo quindi per proprio conto. «Computer, cercare nell'anno scorso, stesse date.» Mentre il computer lavorava, bevve un caffè e meditò sui nuovi scenari. Due ore più tardi, aveva gli occhi che lacrimavano e il collo che doleva, ma aveva raccolto un materiale più che sufficiente per giustificare un altro colloquio con Redford. Non riuscì a contattarlo personalmente, ma ebbe il piacere d'ingiungergli formalmente, via e-mail, di presentarsi nella centrale di polizia alle dieci del mattino seguente. Dopo aver lasciato un appunto a Peabody e a Feeney, decise che per quel giorno aveva lavorato a sufficienza. Non fece molto bene al suo umore trovare un messaggio di Roarke sul videotelefono dell'auto. «Non sono riuscito a rintracciarti, tenente. È saltato fuori un impiccio che richiede la mia presenza. Quando leggerai questo messaggio, molto probabilmente io sarò già a Chicago. Potrei doverci restare per tutta la notte, a meno che non riesca a sistemare rapidamente il problema. Se hai bisogno di me, mi puoi trovare al River Palace, altrimenti ci vediamo domani. Non restare alzata a lavorare sino a notte fonda. Lo verrei a sapere.» Con un gesto di fastidio, Eve spense il videotelefono. Che altro dovrei fare? si chiese. Se tu non ci sei, non riesco a dormire. Stava varcando il cancello della dimora di Roarke quando vide che le luci erano tutte accese. Immaginò, speranzosa, che lui avesse cancellato l'appuntamento, oppure risolto rapidamente il problema, o anche perso l'aereo. Comunque fosse andata, si disse, lui era in casa. Superò la porta con un largo sorriso di benvenuto sul volto e seguì l'eco delle risate di Mavis. In salotto c'erano quattro persone, intente a bere e a mangiare tartine, ma nessuna di loro era Roarke. Complimenti, tenente, hai la vista di un falco, pensò tetramente Eve, poi, prima che i presenti si accorgessero del suo arrivo, indugiò un attimo a osservare la scena. Mavis, che stava ancora ridendo, era in una tenuta che soltanto lei avrebbe potuto definire da casa. Indossava infatti un'aderentissima tuta rossa cosparsa di stelle d'argento e, sopra, una morbida tunica aperta davanti,
di un puro verde smeraldo. Faceva ballare i piedi calzati in scarpe con sottilissimi tacchi a spillo alti quindici centimetri e si stringeva teneramente a Leonardo. Una donna trangugiava avidamente le tartine, con tale velocità e precisione da sembrare un droide operaio impegnato a fabbricare chip per computer. In testa aveva una selva di riccioli corti, simili a cavaturaccioli, che a ogni piega assumevano un colore diverso, ma sempre squillante. Il lobo dell'orecchio sinistro era racchiuso da cerchietti d'argento dai quali partiva una catenella che le incorniciava il viso, passando sotto il mento affilato, e arrivava all'altro orecchio, dove si fissava a un unico perno grosso quanto un pollice. Su un lato del naso era tatuato un bocciolo di rosa. Sugli occhi di un blu elettrico, le sopracciglia disegnavano due «V» aguzze, color rosso porpora. E della stessa tinta, notò con stupore Eve, erano i minuscoli calzoncini con bretelle che si chiudevano a sbuffo appena sotto il cavallo. Le bretelle passavano strategicamente sopra i seni nudi, così da coprire i capezzoli, ma non il resto delle mammelle che avevano le stesse dimensioni di un melone coltivato in campagna. Accanto alla donna, un uomo che sembrava avere una mappa tatuata sul cranio pelato osservava il mondo attraverso occhiali dalle lenti rosa e tracannava quello che parve a Eve uno dei bianchi d'annata di Roarke. Il suo abbigliamento consisteva in un paio di pantaloncini sformati, che gli arrivavano fino alle ginocchia ossute, e un panciotto nelle tinte patriottiche: rosso, bianco e blu. Eve meditò seriamente di sgattaiolare su per le scale senza farsi notare, e chiudersi in ufficio. «I suoi ospiti la stanno aspettando», disse Summerset alle sue spalle, in un tono che non ammetteva repliche. «Ehi, bello, non sono i miei...» «Dallas!» squittì Mavis, lanciandosi pericolosamente attraverso la stanza sui suoi tacchi alla moda; strinse Eve in un abbraccio da orso ubriaco che per poco non mandò entrambe a gambe all'aria. «Sei in ritardo. Roarke è dovuto andare da qualche parte, ma ha detto che non aveva nulla in contrario se facevo venire Biff e Trina. Morivano dalla voglia di conoscerti. Leonardo ti preparerà un drink. Oh, Summerset, le tartine sono un'autentica delizia. Lei è sempre così buono con me.» «Sono felice che le piacciano», ribatté il maggiordomo, scoccandole un'occhiata estatica. Non c'era altro modo per descrivere l'espressione tra-
sognata e radiosa che balenò sul suo viso di pietra prima che lui svanisse di nuovo nell'atrio. «Vieni, Dallas, unisciti a noi.» «Mavis, ho un mucchio di lavoro...» Ma era stata già trascinata in mezzo al salotto. «Posso offrirle qualcosa da bere, Dallas?» chiese Leonardo, rivolgendole un sorriso da cagnolino triste. Eve si arrese. «Sì, grazie. Un bicchiere di vino.» «Un bianco veramente straordinario. Mi chiamo Biff.» L'uomo con la mappa sul cranio le porse una mano morbida e affusolata. «Sa, tenente Dallas, per me è un onore conoscere chi è sceso in lizza a difendere Mavis. Avevi perfettamente ragione, Leonardo», continuò, con uno sguardo intenso dietro le lenti rosa, «la seta color bronzo le si adatta a meraviglia.» «Biff è un esperto di tessuti», spiegò Mavis con una voce che continuava a gorgogliare e spumeggiare. «Lavora con Leonardo da sempre. Stavano decidendo il tuo corredo.» «Il mio...» «E lei è Trina. Si occuperà dei tuoi capelli.» «Davvero?» Eve sentì il sangue defluirle dalla testa verso i piedi. «Oh, be', io non...» Persino una donna con solo un pizzico di vanità poteva provare una fitta di panico nel vedere un'acconciatrice che esibiva riccioli nelle tinte dell'arcobaleno. «Non credo sinceramente di...» «Gratis», la interruppe Trina in un tono di voce che era l'equivalente vocale del ferro arrugginito. «Quando lei avrà scagionato Mavis, sarò a sua totale disposizione come acconciatrice ed estetista per il resto della sua vita, senza che debba spendere un soldo.» Afferrò una ciocca di Eve e la tirò. «Bella consistenza. Buon peso. Brutto taglio.» «Eccole il suo vino, Dallas.» «Grazie.» Ne aveva proprio bisogno. «Sentite, mi ha fatto piacere conoscervi, ma ora ho molto lavoro da sbrigare.» «Oh, non puoi.» Mavis si attaccò al braccio di Eve come una sanguisuga. «Tutti sono qui per cominciare a occuparsi di te.» A Eve parve che il sangue le defluisse anche dai piedi. «A occuparsi di me, come?» «Al piano di sopra abbiamo preparato ogni cosa. Il laboratorio di Leonardo, più uno spazio per Biff e uno per Trina. Gli altri lavoranti piomberanno qui domani, come un ronzante sciame di api.» «Api?» fu l'unica parola che Eve riuscì a spiccicare.
«Per la sfilata.» Freddamente sobrio e meno convinto che la notizia potesse essere accolta con entusiasmo, Leonardo batté leggermente la mano sul braccio di Mavis per calmare i suoi bollori. «Colombella, è possibile che, data la situazione, Dallas non voglia vedere per casa un mucchio di gente. Cioè...» Per evitare di menzionare le indagini, concluse: «A così pochi giorni dalle nozze». «Ma è l'unico modo che abbiamo per stare insieme e mettere a punto i modelli per la sfilata.» Con un'evidente supplica negli occhi, Mavis si voltò verso Eve. «Non ti dispiace, vero? Non ti daremo fastidio. Il fatto è che Leonardo ha un mucchio di cose da fare. Alcuni degli abiti dovranno essere riveduti perché... perché ora la modella di punta sarà Jerry Fitzgerald.» «Colori diversi», intervenne Biff. «Una struttura corporea differente. Da quella di Pandora», chiarì, pronunciando il nome che tutti avevano tentato di non evocare. «Già.» Il sorriso di Mavis era forzatamente allegro. «Perciò c'è molto lavoro extra, e Roarke non ha nulla in contrario. Ha detto che la casa è enorme, e così via. Non ti accorgerai nemmeno di avere gente intorno.» Gente che sarebbe andata e venuta, pensò Eve. Un incubo, dal punto di vista della sicurezza. «Tu non ti devi preoccupare», replicò. Ci avrebbe pensato lei, a preoccuparsi. «Te l'avevo detto che sarebbe andato tutto bene», esclamò Mavis, baciando Leonardo sul mento. «E ho promesso a Roarke che non ti avrei permesso di seppellirti nel lavoro, Dallas. Siediti con noi e mangia. Abbiamo ordinato pizza per tutti.» «Oh, santo cielo, Mavis...» «La situazione sta prendendo una buona piega», continuò Mavis, con una punta di disperazione nella voce, le dita strette intorno al braccio di Eve. «Su Channel 75 hanno parlato di questa nuova pista, degli altri due omicidi, della droga che li collega tutti. Io non conoscevo le altre due vittime. Non sapevo neanche chi fossero, Dallas, perciò risulterà chiaro che l'assassino è qualcun altro. E tutto finirà nel migliore dei modi.» «Ci vorrà ancora un po' di tempo, Mavis», osservò Eve, ma s'interruppe bruscamente, sentendosi stringere il cuore per il guizzo di panico apparso negli occhi dell'amica, e si sforzò di sorridere. «Sì, finirà tutto bene. Pizza, eh? L'idea non mi dispiace.» «Formidabile. Fantastico. Vado a cercare Summerset e gli dico che siamo pronti. Intanto tu, Leonardo, accompagna Dallas di sopra e mostrale il laboratorio, okay?» Schizzò via come una freccia.
«L'ha risollevata un po'», mormorò Leonardo. «Alludo al programma televisivo. Aveva bisogno di una buona notizia. Il Blue Squirrel l'ha licenziata.» «Licenziata?» «Quei bastardi», farfugliò Trina, con una tartina in bocca. «La direzione ha deciso che era controproducente avere in cartellone una persona accusata di omicidio. Mavis l'ha presa malissimo. Mi è venuta l'idea di distrarla in questo modo. Mi scusi, avrei dovuto chiedere prima il suo permesso.» «No, va bene così.» Eve bevve un altro sorso di vino. «Andiamo pure di sopra.» 12 Non era poi così male, decise Eve. Almeno in confronto ai cruenti tafferugli delle Guerre urbane, alle camere di tortura dell'Inquisizione spagnola, a un viaggio di prova su un missile lunare XR-85. E lei era un poliziotto, con dieci anni di servizio alle spalle, abituata ad affrontare il pericolo. Ma, quando vide Trina verificare che le forbici fossero bene affilate, si rese conto di star roteando gli occhi come un cavallo in preda al panico. «Ehi, forse potremmo soltanto...» «Lasci che a decidere sia un esperto», la interruppe Trina, riponendo le forbici, cosa che per poco non strappò a Eve un gemito di sollievo. «Vediamo un po'.» Si avvicinò, disarmata, sotto lo sguardo attento e vigile di Eve. «Ho già fatto fare un esame microscopico del capello», disse Leonardo, sollevando lo sguardo dal lungo tavolo coperto di stoffe. «È adatto a qualsiasi tipo d'intervento.» «Non ho bisogno di simili idiozie», ribatté Trina. Poi, come a confermarlo, strinse saldamente il volto di Eve tra le sue grandi mani e, con le palpebre socchiuse, cominciò a girarlo di qua e di là, scrutando la mascella, valutando gli zigomi. «Una buona struttura ossea», concluse con aria d'approvazione. «A quale prodotto si affida?» «Per che cosa?» «Per tonificare i muscoli del viso.» «A Dio.» Trina si bloccò, fece un risolino e scoppiò poi in una assordante risata, che ricordò il suono emesso da una tuba arrugginita. «Mi piace il tuo poli-
ziotto, Mavis.» «Come lei, non ce ne sono», replicò Mavis con voce impastata, da ubriaco. Appollaiata su uno sgabello, si osservava nello specchio a tre facce. «Forse dovresti sistemare anche me, Trina. I miei legali mi hanno consigliato di assumere un'aria più normale. Sai, capelli castani o qualcosa del genere.» «Al diavolo i tuoi legali!» Trina premette i pollici sotto la mascella di Eve per sollevarla. «Ho una nuova tintura che farà strabuzzare gli occhi a qualsiasi magistrato, dolcezza. Rosa bordello, con punte argentate. Un'assoluta novità.» «Oh, vabbé.» Mavis si tirò indietro i riccioli color zaffiro e si fissò con aria meditabonda. «E potrei farlo anche a lei, Dallas, tipo colpi di sole», aggiunse Trina. Eve si sentì gelare il sangue nelle vene. «Limitiamoci al taglio, d'accordo? Solo una spuntatina.» «Sì, sì.» Trina le piegò la testa verso il proprio petto. «Anche questo colore è un dono di Dio?» Ridacchiò, tirò indietro la testa di Eve e le tolse i capelli dal viso. «Gli occhi vanno bene. Le sopracciglia hanno bisogno di un lieve ritocco, una cosa da nulla.» «Versami un altro goccio di vino, Mavis», chiese Eve, chiudendo gli occhi che andavano bene e dicendosi che capelli e sopracciglia, comunque venissero conciati, le sarebbero prima o poi ricresciuti. «Okay, ora dobbiamo lavarli.» Trina fece roteare la sedia con la sua ritrosa occupante fino a una bacinella montata su un treppiede e la inclinò in modo che il collo di Eve posasse sulla cavità imbottita. «Chiuda gli occhi e se la goda, dolcezza. Userò lo shampoo migliore che ci sia sul mercato e le farò un massaggio della cute da lasciarla senza parole.» Per quanto riguardava quel trattamento, Eve non trovò nulla da ridire. Che il merito fosse del vino o delle abili dita di Trina, fatto sta che sentì il proprio nervosismo svanire in una sorta di rilassato crepuscolo. Udì solo vagamente Leonardo e Biff discutere se, per i pigiami da sera, non fosse meglio il satin cremisi o la seta scarlatta. La musica che Leonardo aveva scelto come sottofondo era qualcosa di classicheggiante, con arpeggi pianistici che sembravano singhiozzi, e nell'aria aleggiava un profumo di fiori sbriciolati. Perché Paul Redford le aveva parlato della scatola cinese e della droga? Se fosse stato lui a tornare nell'appartamento di Pandora a prendere l'una e l'altra, se le avesse avute in suo possesso, per quale motivo avrebbe voluto
rivelarne l'esistenza? Un doppio bluff? Un tranello? Forse non c'era mai stata nessuna scatola. Oppure lui sapeva che non c'era più, così... Nel sentirsi sbattere in faccia qualcosa di freddo e appiccicoso, Eve, che fino a quel momento non aveva fatto una piega, cacciò un urlo. «Che diavolo...» «È una maschera per il viso, a base di fanghi di Saturno.» Trina spalmò un altro strato di quella scura sostanza vischiosa. «Pulisce i pori come un aspirapolvere. È un crimine trascurare la propria pelle. Mavis, per favore, mi passi la Sheena?» «Che cos'è questa... non importa.» Con un ultimo brivido, Eve chiuse gli occhi e si arrese. «Preferisco non saperlo.» «Tanto vale fare il trattamento completo.» Trina depose altro fango sotto il mento di Eve, lavorandolo con le sue dita scattanti. «Lei è piuttosto tesa, dolcezza. Vuole che le accenda un bel programma di realtà virtuale?» «No, no, grazie. Per me tutto questo è già fin troppo irreale.» «Okay. Vuole parlarmi del suo uomo?» Con un gesto brusco, Trina spalancò il camice che Eve era stata invitata a indossare e le posò sui seni le mani coperte di fango. Vedendo Eve spalancare gli occhi di botto e lanciarle uno sguardo fulminante, scoppiò a ridere. «Non si preoccupi, non sono una lesbica. Le sue tette, quando avrò finito di sistemarle, faranno gola al suo uomo.» «Gli piacciono già così come sono.» «Ci credo, ma la crema emolliente di Saturno è eccezionale. Gliele renderà simili a petali di rosa. Si fidi di me. Lui ama titillarle o succhiarle?» Eve si limitò a richiudere gli occhi. «Faccia conto che io non sia qui.» «Come vuole.» Sentì scorrere l'acqua, poi Trina tornò e le sfregò i capelli con qualcosa che mandava un gradevole odore di vaniglia. C'era chi pagava per avere un trattamento del genere, ricordò Eve a se stessa. Somme di denaro enormi, che creavano voragini nei conti bancari. Gente simile era chiaramente pazza. Tenne gli occhi ostinatamente chiusi mentre qualcosa di tiepido e umido le veniva versato sul volto e sui seni impiastricciati di fango. Intorno a lei si levava un allegro parlottio. Mavis e Trina discutevano sui vari prodotti di bellezza, Leonardo e Biff si scambiavano i rispettivi pareri su linee e colori. Che follia, pensò Eve, lasciandosi sfuggire un brontolio nel sentirsi massaggiare i piedi, i quali vennero quindi tuffati in qualcosa di bollente, che
suscitò in lei una strana sensazione di piacere. Udì crepitare qualcosa, quindi i suoi piedi furono sollevati e coperti. Le mani ricevettero lo stesso trattamento. Tollerò ogni cosa, accettò persino un rapido ronzio intorno alle sopracciglia. E si considerò un'eroina quando udì Mavis ridere spensieratamente e flirtare con Leonardo. Bisognava impedire che la sua amica si demoralizzasse, pensò. Era una necessità vitale, al pari di ogni progresso nelle indagini. Non bastava rendere giustizia alle vittime. Serrò ancora più forte gli occhi non appena sentì il rumore delle forbici di Trina e avvertì i leggeri strappi dovuti al pettine che le ravviava la zazzera. I capelli sono solo capelli, si disse. L'aspetto conta poco. Oh, Gesù, non permetterle di scotennarmi. Costrinse il proprio cervello a focalizzarsi sulle indagini, formulò mentalmente le domande che avrebbe posto a Redford l'indomani mattina, valutò le possibili risposte. Era molto probabile che il comandante la convocasse nel suo ufficio per chiederle conto di quell'ultima fuga di notizie. Lei doveva prepararsi a tale eventualità. Aveva bisogno di fare il punto della situazione sia con Feeney sia con Peabody. Era arrivato il momento di vedere se gli elementi raccolti da loro tre cominciavano a combaciare. Doveva tornare al club, farsi presentare da Crack a qualche cliente abituale. Qualcuno poteva aver visto con chi aveva parlato Boomer, quella famosa notte. E se quella stessa persona avesse parlato anche con Hetta... Sussultò quando sentì Trina reclinare nuovamente la sedia e iniziare a sciacquare la fanghiglia. «Sarà pronta per te tra cinque minuti», annunciò l'acconciatrice a uno spazientito Leonardo. «Se vuoi un risultato eccezionale, non mettermi fretta.» Sorrise a Eve. «Ora ha una pelle come si deve. Le lascerò alcuni campioncini. Li usi e la manterrà bella.» Mavis le lanciò una sbirciatina, al che Eve cominciò a sentirsi come un paziente su una tavola operatoria. «Hai fatto un ottimo lavoro con le sopracciglia, Trina. Sembrano assolutamente naturali. Ora c'è bisogno soltanto di tingere le ciglia; non servono neppure quelle false. E non ti pare che la fossetta nel mento sia deliziosa?» «Mavis», disse stancamente Eve, «non costringermi a suonartele.» L'amica si limitò a sorridere. «La pizza è pronta. Tieni, mangiane un boccone.» Infilò qualcosa nella bocca di Eve. «Aspetta di vedere la tua pelle, Dallas. È fantastica.»
Eve replicò con un grugnito. Il formaggio bollente le aveva chiuso il palato, lasciando però colare sostanze liquide che rischiavano di soffocarla. Riuscì a inghiottire il boccone mentre Trina le avvolgeva i capelli in un turbante argenteo. «È un casco termico», spiegò l'acconciatrice, rialzando la sedia. «Diffonde il calore dalla radice al fusto.» Eve si osservò in uno specchio. Le parve che la pelle avesse un aspetto più rorido e, quando se la sfiorò cautamente coi polpastrelli, la sentì indubbiamente più liscia. Ma non riusciva a scorgere neppure un ciuffetto di capelli. «Ho ancora una chioma, là sotto, giusto? La mia chioma?» «Certo che sì. Okay, Leonardo. È tua per una ventina di minuti.» «Finalmente.» Lui le rivolse un sorriso radioso. «Si tolga quel camice.» «Oh, senta...» «Dallas, qui siamo tutti professionisti. Come prima cosa deve provare la sottoveste dell'abito da sposa. Bisognerà certamente apportare qualche modifica.» Dal momento che si era già lasciata esaminare dalla testa ai piedi da uno stilista, decise Eve, perché non denudarsi in una stanza piena di gente? Si strinse nelle spalle e si sfilò il camice. Leonardo le si avvicinò con qualcosa di bianco e lucente e, prima che lei riuscisse a proferire parola, glielo avvolse intorno al torace, appuntandolo sulla schiena. Con le sue grosse mani frugò sotto la stoffa e le sistemò meticolosamente i seni. Chinandosi in avanti, le passò tra le gambe un telo dello stesso tessuto, lo fissò e fece un passo indietro. «Un vero schianto, Dallas. Quando Roarke la vedrà vestita così, la lingua gli cadrà fino ai piedi.» «Che diavolo è?» «Una variazione sull'antico tema della 'vedova allegra'.» Con una rapida serie di agganci e pieghe, Leonardo perfezionò il modello. «Una variazione tutta curve, la definirei. Per lei ho aggiunto un piccolo sostegno sotto i seni. I suoi sono molto graziosi, ma così la loro forma viene accentuata. Qualche pizzo qua e là, qualche perla. Tutto molto discreto.» La fece girare verso lo specchio. Aveva assunto un'aria sexy, curvilinea, addirittura provocante, si rese conto Eve con un certo stupore. La stoffa mandava lievi riflessi lucidi, quasi fosse bagnata. La stringeva in vita, le modellava i fianchi e le sollevava notevolmente il busto, il che, fu costretta ad ammettere, creava un effetto nuovo e affascinante.
«Be', questo... l'ho concepito... per la notte di nozze», disse lo stilista. «Per ogni notte», mormorò Mavis con aria sognante. «Oh, Leonardo, ne farai uno anche a me?» «Te l'ho già creato, in satin Rascal Red. Allora, Dallas, come se lo sente addosso? Le tira da qualche parte?» «No.» Eve stentava a crederci. Nonostante tutta la tormentosa messa in opera, era comodo come una tuta da ginnastica. Tanto per provare, si chinò, si contorse. «È come una seconda pelle.» «Perfetto. Biff ha trovato il materiale in un piccolo negozio a Richer Five. Ora passiamo all'abito vero e proprio. È soltanto imbastito, perciò dobbiamo trattarlo con cautela. Alzi le braccia, per favore.» Glielo infilò dall'alto, lasciandolo ricadere. La stoffa era straordinaria: un velo così trasparente da permettere a Eve di vedere al di là anche nei punti in cui c'erano le cuciture. La realizzazione era perfetta; l'abito cadeva diritto come una colonna levigata, le maniche erano perfettamente attillate, le linee semplici e pulite. Però Leonardo aggrottò la fronte e prese a tirare il materiale, a piegarlo, a raggrinzirlo. «Sì, la scollatura va bene. Dov'è la collana?» «Cosa?» «La collana in rame e pietre dure. Non le avevo detto di procurarsela?» «Non potevo dire a Roarke che volevo una collana.» Leonardo sospirò, fece girare Eve e scambiò un'occhiata con Mavis, annuendo subito dopo; quindi verificò la linea dei fianchi. «Lei è dimagrita», osservò in tono severo. «No, non mi pare.» «Ha perso almeno un chilo.» Fece schioccare la lingua. «Per ora non apporto nessuna modifica. Aspettiamo a vedere se lo recupera.» Biff si portò accanto a Eve e le avvicinò al volto un rotolo di stoffa. Annuì e si allontanò di nuovo, mormorando qualcosa nel computer palmare. «Biff, potresti mostrare a Dallas gli altri disegni, mentre io prendo nota delle modifiche da apportare alla sottoveste?» Con un gesto plateale, Biff accese uno schermo a parete. «Come potrà vedere nei modelli che le mostrerò, Leonardo ha tenuto conto non solo del suo aspetto fisico, ma anche del suo stile di vita. Questo semplice abito da giorno è perfetto tanto per una colazione tra colleghi quanto per una conferenza stampa, e tuttavia è très, très chic. Il materiale usato è un misto lino con appena un tocco di seta. Il colore è giallo limone con una punta di rosso granato.»
A Eve parve un abito semplicissimo e grazioso, ma sobbalzò nel vederlo addosso alla sua immagine riprodotta dal computer. «Biff?» «Sì, tenente?» «Perché si è fatto tatuare in testa una mappa?» L'uomo sorrise. «Ho un senso dell'orientamento assai scadente. Ecco il nuovo modello, sempre sulla stessa falsariga.» Eve ne passò in rassegna una dozzina, che finirono per confondersi nella sua mente l'uno con l'altro. Gessato a righe giallo limone, pizzi bretoni su velluto, seta nera classica. Ogni volta che un modello strappava a Mavis uno strillo di enfatica approvazione, lei si affrettava incautamente a ordinarlo. Che importava indebitarsi per il resto della vita, a confronto con la tranquillità psichica della sua più cara amica? «Questo terrà quei due impegnati per un pezzo», disse Trina nell'attimo stesso in cui Leonardo sfilò a Eve il vestito da sposa. Le fece indossare nuovamente il camice. «Diamo un'occhiata alla sua gloriosa capigliatura.» Dopo aver disfatto il turbante, estrasse dai propri vorticosi riccioli un pettine a denti larghi e iniziò a tirare, ravviare e gonfiare. L'iniziale sollievo di Eve nel rendersi conto di avere ancora qualcosa in testa svanì rapidamente nel vedere da vicino i cavaturaccioli rosa dell'acconciatrice. «Chi le sistema i capelli, Trina?» «Non li tocca nessuno eccetto me.» Poi strizzò l'occhio. «E Dio. Su, si guardi.» Rassegnata al peggio, Eve si voltò. La donna nello specchio era senza ombra di dubbio Eve Dallas. Sulle prime pensò di essere rimasta vittima di un raffinato scherzo, e che non le fosse stato toccato un capello; poi si avvicinò allo specchio e si guardò meglio. La sua zazzera scompigliata coi ciuffi irti come aculei di porcospino era sparita, lasciando al suo posto una chioma dal taglio disinvolto e tuttavia con una sua precisa forma. I capelli, che non erano mai stati così lucidi prima di allora, si adattavano piacevolmente alle linee del viso, scendendo a frangetta sulla fronte e incurvandosi sulle guance. E, dopo che lei ebbe scosso la testa, tornarono a posto docilmente. Stringendo le palpebre, se li ravviò con le dita e li osservò ricadere. «Li ha schiariti?» «No. Sono colpi di sole naturali. Li ho semplicemente evidenziati con Sheena, tutto qui. Lei ha una chioma da cervo.» «Che cosa?» «Non ha mai visto il manto di un cervo? Ha tutti i colori che vanno dal
rossiccio al bruno all'oro, con qualche punta di nero. Proprio come i suoi capelli. Dio è stato buono con lei. Il guaio è che la persona che glieli ha sistemati finora usava sicuramente le cesoie da giardinaggio al posto delle forbici, trascurando anche di mettere in luce le sue sfumature.» «Il risultato mi sembra buono.» «Può ben dirlo. Io sono un genio.» «Sei stupenda», esclamò Mavis. Poi, di colpo, si nascose il volto tra le mani e scoppiò a piangere. «Ti sposi.» «Oh, Cristo. Non fare così, Mavis. Vieni qua.» Sentendosi inerme, Eve le diede qualche colpetto d'incoraggiamento sulla schiena. «Sono completamente ubriaca e assolutamente felice. E tanto spaventata. Dallas, ho perso il mio lavoro.» «Lo so, piccola. Mi dispiace. Ma ne troverai un altro. E migliore.» «Non m'importa, non m'importa, non voglio pensarci. Il tuo sarà il matrimonio più favoloso di tutti i tempi, non è così, Dallas?» «Ci puoi scommettere.» «Leonardo mi sta facendo un abito fantastico. Faglielo vedere, Leonardo.» «Domani.» Lui le si avvicinò e la strinse tra le braccia. «Dallas è stanca.» «Oh, sì, ha bisogno di riposare.» Mavis gli posò la testa sulla spalla. «Lavora troppo. È preoccupata per me. Non voglio che si angusti, Leonardo. Tutto andrà a finire bene, non è così? Tutto finirà bene.» «Benissimo.» Leonardo lanciò a Eve un'ultima occhiata inquieta prima di allontanarsi con Mavis. Eve li seguì con gli occhi, poi sospirò. «Merda.» «Come si fa a pensare che quella dolce piccola creatura possa aver fracassato la faccia a qualcuno?» Trina aveva l'aria accigliata mentre raccoglieva i suoi strumenti di lavoro. «Spero che Pandora stia bruciando all'inferno.» «La conosceva?» «Tutti quelli del nostro ambiente la conoscevano. E la odiavano, sotto ogni punto di vista. Giusto, Biff?» «Era una cagna, da viva, e come tale è morta.» «Si faceva soltanto o spacciava?» domandò Eve. Biff lanciò a Trina un'occhiata, poi si strinse nelle spalle. «Apertamente non ha mai spacciato, però di tanto in tanto la si sentiva dire che era sempre ben rifornita. Correva voce che la sua droga preferita fosse l'Erotica.
Adorava fare sesso ed è possibile che vendesse la roba al partner di turno.» «Lei è mai stato un suo partner?» Biff sorrise. «Sono sentimentalmente portato a preferire i maschi. Sono meno complicati.» «E lei, Trina?» «Anch'io preferisco i maschi... per la stessa ragione. E anche Pandora.» Trina prese il suo kit da lavoro. «Nell'ultimo posto in cui ho lavorato si sussurrava che lei mescolasse affari e piacere. Stava dissanguando un tizio. Quello che è certo è che negli ultimi tempi ostentava un mucchio di costosi lustrini. A Pandora piaceva decorarsi il corpo con gemme vere, ma non le piaceva pagare per averle. Secondo la gente, stava facendo affari con un fornitore.» «Questo fornitore ha un nome?» «No, ma ogni giorno, tra un cambio d'abito e l'altro, Pandora s'incollava al suo videotelefono palmare. Questo accadeva circa tre mesi fa. Non so con chi parlasse, però almeno una delle telefonate era interplanetaria, perché lei andò su tutte le furie per il tempo che perdeva nel ricevere la risposta.» «Portava sempre con sé un videotelefono palmare?» «Nell'ambiente della moda e della cosmesi ce l'hanno tutti, tesoro. Noi siamo come i medici.» Era quasi mezzanotte quando Eve si sedette alla sua scrivania. Non le piaceva stare da sola in camera da letto, così si era ritirata nell'appartamento che usava quando desiderava un po' di privacy e voleva lavorare. Si programmò un caffè, ma dimenticò di berlo. Senza l'aiuto di Feeney, non ebbe altra scelta che andare a tentoni per rintracciare una chiamata interplanetaria vecchia di tre mesi fatta da un videotelefono palmare di cui lei non conosceva gli estremi. Dopo un'ora si arrese e si trascinò sulla poltrona-letto, con l'intenzione di schiacciare un pisolino. Fissò la sveglia mentale alle cinque di mattina. Droga, omicidio e soldi, pensò. Vanno di pari passo. Trovare il fornitore. Identificare l'elemento sconosciuto, si ripropose confusamente. Da chi ti nascondevi, Boomer? Come hai fatto a mettere le mani su un campione di droga e sulla sua formula? Chi ti ha spezzato le ossa per riprenderseli? L'immagine del corpo martoriato di Boomer le balenò in mente, ma lei la respinse con fermezza. Non voleva scivolare nel sonno con una simile visione ossessiva in testa.
Ma avrebbe fatto meglio a scegliere quella, piuttosto che finire nell'altra che le si presentò. La sporca luce rossa stava lampeggiando. Balenava senza sosta dalla finestra. SESSO! DAL VIVO! SESSO! DAL VIVO! La bambina aveva soltanto otto anni, ma possedeva una mente sveglia. Si chiedeva se la gente avrebbe pagato per vedere una scena di sesso con un morto. Distesa sul letto, osservava la luce che si accendeva e si spegneva. Sapeva che cosa fosse il sesso. Era brutto, doloroso, terrificante. E inevitabile. Forse quella sera lui non sarebbe rientrato a casa. Lei aveva smesso di pregare che dimenticasse dove l'aveva lasciata o finisse cadavere in qualche fosso lungo la strada. Tornava sempre. Ma a volte capitava - ed era un caso molto, molto fortunato - che lui fosse talmente ubriaco da non riuscire a fare altro che piombare sul letto e mettersi a russare. Quelle notti lei tremava di sollievo e si raggomitolava in un angolino a dormire. Pensava ancora alla fuga. Si chiedeva come trovare un modo per aprire la porta chiusa a chiave o calarsi lungo i cinque piani. Se la notte era particolarmente straziante, immaginava di buttarsi dalla finestra. Sarebbe stato un rapido volo, e tutto sarebbe finito. Lui non avrebbe più potuto farle del male. Ma lei era troppo codarda per saltare di sotto. Era solo una bambina, dopotutto, e quella sera aveva molta fame. E freddo, perché lui, in uno dei suoi scatti d'ira, aveva rotto il termostato del sistema di condizionamento, che era rimasto bloccato sulle basse temperature. Si avviò a tentoni verso l'angolo della stanza, dove si trovava una parvenza di cucinotto. Con un gesto dettato dall'esperienza, prima di aprire il cassetto gli sferrò un pugno, per far scappare gli scarafaggi che eventualmente vi si fossero annidati. All'interno trovò una barretta di cioccolato. Era l'ultima. Probabilmente lui l'avrebbe picchiata per essersi mangiata l'ultima barretta. Ma lei non sarebbe sfuggita comunque alle sue percosse, perciò tanto valeva concedersi quel piacere. La trangugiò in fretta, come un animale, e si pulì la bocca col dorso della mano. Ma non le bastò per placare la fame. Dopo un'ulteriore ricerca trovò un grosso pezzo di formaggio ammuffito. Evitò di chiedersi chi altri l'avesse rosicchiato. Cautamente, prese un coltello e iniziò a togliere le parti esterne, le più disgustose.
Poi lo sentì aprire la porta. In preda al panico, lasciò cadere il coltello, che rimbalzò rumorosamente sul pavimento proprio mentre lui entrava. «Che cosa stai facendo, piccola?» «Nulla. Mi sono svegliata. Volevo bere un sorso d'acqua.» «Ti sei svegliata.» Lui aveva gli occhi vitrei, ma non a sufficienza, notò disperatamente la bambina. «Il tuo papà ha sentito la tua mancanza. Vieni a dargli un bacio.» Lei non riusciva a respirare. Era già senza fiato, e il punto tra le gambe che lui le avrebbe martoriato cominciò a pulsare di una dolorosa paura. «Ho mal di stomaco.» «Oh? Ti guarirò io, coi miei baci.» Mentre le si avvicinava sorrideva, ma il sorriso svanì subito. «Hai di nuovo mangiato senza chiedere il permesso, eh? L'hai fatto ancora?» «No, io...» Ma la bugia, insieme con la speranza di fuggire, le morì sulle labbra quando la mano di lui le calò con forza sul viso. Le si spaccò il labbro e gli occhi le si riempirono di lacrime, ma restò quasi immobile. «Stavo prendendo un po' di formaggio, volevo farti trovare uno spuntino pronto per quando...» Lui la colpì di nuovo, così forte da provocare un'esplosione di stelle nella sua testa. Ma il dolore, un dolore accecante e paralizzante, era nulla in confronto alla paura. La paura che quella sofferenza, per quanto tremenda, non fosse il tormento peggiore che lui le avrebbe procurato. «Papà, ti prego. Ti prego, ti prego.» «Devo punirti. Non mi dai mai retta. Non apri mai quelle tue dannate orecchie. Così ti darò una lezione. Una bella lezione, e tu diventerai una brava bambina.» Avvertì sul proprio viso il respiro di lui, rovente e con un lieve odore dolciastro, e sentì le sue mani strapparle di dosso gli indumenti già lisi, insinuandosi, stringendo, penetrando. Il suo respiro cambiò, in un modo che lei conosceva e temeva. Si fece rapido, bramoso. «No, no, mi fai male, mi fai male!» La sua giovane carne resisteva. Lo picchiò, urlando, e, vincendo la paura, lo graffiò. Lui emise un urlo di rabbia e le piegò il braccio all'indietro. Lei udì il rumore secco, tremendo, dell'osso che si spezzava. «Tenente. Tenente Dallas.» Mentre l'urlo le sgorgava dalla gola, Eve si ridestò, dibattendosi ciecamente. In preda a una dirompente sensazione di panico, si rizzò di scatto, poi le sue gambe rotearono e la fecero balzare sul pavimento.
«Tenente.» Si ritrasse dalla mano che le toccava la spalla e si raggomitolò su se stessa, con singhiozzi e grida che le si affollavano in gola. «Stava sognando.» La voce di Summerset era calma, il suo volto impassibile. Però Eve avrebbe potuto vedere uno sguardo di comprensione negli occhi del maggiordomo, se i suoi non fossero stati annebbiati dal ricordo. «Stava sognando», ripeté lui, avvicinandosi con la stessa cautela con cui avrebbe affrontato un lupo preso in trappola. «Ha avuto un incubo.» «Stammi lontano. Va' via. Vattene.» «Tenente, ha un'idea di dove si trovi?» «Lo so dove sono.» Le parole le uscirono di bocca miste a singulti. Eve si sentiva gelare e avvampare al tempo stesso, non riusciva a contenere il tremore. «Vada via. Sparisca.» Crollò in ginocchio, si coprì la bocca con le mani e ondeggiò, avanti e indietro. «Si tolga dai piedi.» «Lasci che l'aiuti a raggiungere la poltrona.» Le mani di Summerset erano gentili, ma tanto ferme da non mollare la presa quando Eve cercò di divincolarsi. «Non ho bisogno d'aiuto.» «Le do soltanto una mano a rimettersi seduta in poltrona.» Per quanto lo riguardava, lei adesso era una bambina, una creatura ferita che aveva bisogno di essere soccorsa. Come la sua Marlena, tanto tempo addietro. Si sforzò di non chiedersi se anche la sua figliola avesse implorato pietà, come Eve. Dopo averla rimessa in poltrona, andò a prendere una coperta dall'armadio. Lei stava battendo i denti e aveva gli occhi sbarrati per lo shock. «Stia ferma!» le ordinò bruscamente, vedendo che tentava di alzarsi. «Resti dov'è e stia tranquilla.» Girò sui tacchi, avviandosi verso l'angolo cucina, dove c'era l'AutoChef. Aveva la fronte madida di sudore e se l'asciugò con un fazzoletto mentre ordinava un infuso calmante. La mano gli tremava, il che non lo stupì. Le urla di Eve gli avevano raggelato il sangue, inducendolo a correre come un pazzo verso le sue stanze. Erano le grida di una bambina. Cercando di controllarsi, le porse il bicchiere. «Beva.» «Non voglio...» «Lo beva o glielo caccerò in gola, con grande piacere.» Eve stava quasi per fargli saltare di mano il bicchiere con un pugno, ma, gettando in un profondo imbarazzo entrambi, finì per raggomitolarsi su se
stessa e iniziare a gemere. Accantonando la sua aria severa, Summerset appoggiò di lato il bicchiere, rimboccò la coperta intorno al corpo di Eve e uscì dalla stanza con l'intenzione di chiamare il medico personale di Roarke. Ma sul pianerottolo s'imbatté in Roarke in persona. «Summerset, non dormi mai?» «Si tratta del tenente Dallas. Lei...» Roarke lasciò cadere a terra la sua valigia e afferrò il maggiordomo per il bavero. «Le è successo qualcosa di male? Dov'è?» «Ha avuto un incubo. Urlava.» Summerset perse l'abituale compostezza e si passò una mano tra i capelli. «Non mi dà retta. Stavo per chiamare il medico. L'ho lasciata nel suo appartamento privato.» Mentre Roarke lo scostava, Summerset gli afferrò il braccio. «Roarke, avresti dovuto dirmi quello che le avevano fatto.» Roarke si limitò a scuotere la testa e continuò a camminare. «Mi prenderò io cura di lei.» La trovò ancora raggomitolata, tremante. Sentì dentro di sé un groviglio di emozioni contrastanti: rabbia, sollievo, dispiacere, senso di colpa. Le ricacciò indietro e sollevò delicatamente Eve. «È tutto a posto, ora.» «Roarke.» Fu scossa da un ultimo tremito spasmodico, poi si accoccolò su di lui che si era seduto in poltrona, tenendola in grembo. «Quegli incubi.» «Lo so.» Le diede un bacio sulla tempia sudata. «Mi dispiace.» «Ormai continuano a ripresentarsi ogni volta, sempre. Non c'è nulla che riesca a fermarli.» «Eve, perché non mi dici tutto?» Le piegò all'indietro la testa per poterla guardare in faccia. «Non devi affrontare questo strazio da sola.» «Nulla li ferma», ripeté Eve. «Non riesco più a soffocare i ricordi. Ormai rammento ogni cosa.» Si sfregò il viso con l'interno dei polsi. «L'ho ucciso, Roarke. Ho ucciso mio padre.» 13 Roarke la guardò negli occhi, e avvertì il tremito che ancora l'attanagliava. «Tesoro, hai avuto un incubo.» «Ho avuto un flashback.» Doveva restare calma, doveva riuscirci, se voleva venirne fuori. Restare calma e razionale, ragionare come un poliziotto, non come una donna. Non
come una bambina terrorizzata. «È stato tutto così chiaro, Roarke, che mi sembra di rivivere la scena. Come se fossi la bambina di allora. La stanza, a Dallas, in cui mi teneva chiusa a chiave. Ovunque mi portasse, mi teneva sempre segregata. Una volta avevo tentato di andarmene, di scappare, ma lui mi aveva ripresa e da quel momento aveva sempre scelto alloggi ai piani alti. Chiudeva sempre a chiave la porta dall'esterno, non potevo mai uscire. Credo che nessuno sapesse della mia presenza.» Cercò di schiarirsi la voce, roca e stentata. «Ho bisogno di bere un goccio d'acqua.» «È qui. Tieni.» Roarke prese il bicchiere che Summerset aveva lasciato accanto alla poltrona. «No, lì c'è un tranquillante e non lo voglio.» Inspirò ed espirò più volte. «Non ne ho bisogno.» «Va bene. Vado a prendertela.» La sollevò dal suo grembo e si alzò, poi, notando il suo sguardo sospettoso, aggiunse: «Soltanto acqua, te lo giuro». Fidandosi della sua parola, Eve prese il bicchiere che lui le porse e bevve, sollevata. Poi riprese a parlare, con lo sguardo fisso davanti a sé. «Ricordo la stanza. Negli ultimi due mesi questo sogno ha continuato ad assillarmi, anche se a sprazzi. Particolari scollegati che però cominciavano a formare un quadro completo. Sono persino andata a parlarne con la dottoressa Mira.» Sollevò lo sguardo verso Roarke. «No, a lei non l'ho detto. Non potevo.» «Va bene.» Lui si sforzò di accettare quella decisione. «Ora però raccontami ogni cosa.» «Non posso non farlo, al punto in cui sono.» Trasse un profondo respiro e richiamò alla mente l'accaduto, quasi fosse una delle tante scene del delitto. «Mi trovavo in quella stanza, sveglia, sperando che lui fosse troppo ubriaco per mettermi le mani addosso, quand'è rientrato. Era notte fonda.» Non aveva bisogno di chiudere gli occhi per rivedere tutto: quella lurida stanza, la luce rossa che lampeggiava attraverso i vetri sporchi della finestra. «Faceva freddo», mormorò Eve. «Lui aveva rotto il termostato del riscaldamento, e la stanza era gelida. Riuscivo a vedere il mio fiato.» Per reazione, rabbrividì. «Ma ero anche affamata, così cercai qualcosa da mangiare. Lui lasciava pochissimo cibo in giro, e io morivo di fame. Stavo staccando la muffa da un pezzo di formaggio, servendomi di un coltello, quando lui rientrò nella stanza.» La porta che si apriva, il terrore, il tintinnio del coltello che cadeva sul
pavimento. Eve avrebbe voluto alzarsi, camminare, per scaricare la tensione, ma non era sicura che le gambe riuscissero a reggerla. «Capii subito che lui non era sufficientemente ubriaco. Era evidente. Ricordo il suo aspetto, come fosse ora. Aveva capelli castano scuro e un volto molle e sfatto dal troppo bere. Un tempo forse era stato un bell'uomo, ma quella bellezza era sparita da un pezzo. Viso e occhi arrossati, a causa dei capillari rotti. Mani enormi. Forse mi sembravano così orrendamente grandi solo perché ero io a essere piccola.» Roarke le appoggiò le mani sulle spalle e iniziò a massaggiarle, per sciogliere la tensione. «Adesso non ti possono più far male. Non possono più toccarti.» «No.» Tranne che nei miei incubi, pensò Eve. Quando le sogno, sento ancora il dolore. «Andò su tutte le furie perché stavo mangiando. Non mi era permesso prendere nulla senza averlo prima chiesto.» «Cristo.» Roarke la avvolse più strettamente nella coperta, perché Eve stava ancora tremando. E si accorse di aver voglia di nutrirla, di darle da mangiare qualcosa, tutto il possibile, affinché non fosse più assillata dal pensiero della fame. «Iniziò a colpirmi, più e più volte.» Sentendo la propria voce diventare stridula, Eve si sforzò di normalizzarla. Sto solo riferendo i fatti, si disse. Niente di più. «Mi gettò a terra e infierì su di me. Sul mio viso, sul mio corpo. Io piangevo e urlavo, lo supplicavo di smettere. Mi strappò gli abiti di dosso e mi penetrò con le dita. Mi fece male, un male tremendo, perché mi aveva violentata la notte precedente ed ero ancora tutta infiammata. Poi iniziò a violentarmi di nuovo. Mi ansimava sul viso, mi diceva di fare la brava bambina e mi violentava. Mi parve che qualcosa dentro di me si stesse lacerando. Il dolore era così forte che non riuscii più a sopportarlo. Gli piantai le unghie nella carne, devo averlo fatto sanguinare. Fu allora che mi spezzò il braccio.» Roarke si alzò di scatto, si allontanò e azionò bruscamente il meccanismo per aprire la finestra. Aveva bisogno d'aria. «Non so se persi i sensi. Per un attimo, forse, mi pare. Ma non riuscivo a vincere il dolore, come a volte capita.» «Sì», replicò Roarke con voce sorda, «lo so.» «In quel caso la sofferenza era troppo forte. Nere e vischiose ondate di dolore. E lui non si fermava. Mi trovai il coltello in mano. Era lì, nella mia mano. Lo strinsi e colpii.» Mentre Roarke si voltava verso di lei, Eve si lasciò sfuggire un sospiro singultante. «Lo colpii e continuai a colpirlo. Il
sangue schizzò ovunque. Ne sentivo l'odore, acre, dolciastro. Mi trascinai via da lui, che doveva essere già morto, ma continuai a sferrargli colpi. Roarke, riesco a vedermi, inginocchiata, con la mano stretta sull'impugnatura del coltello, macchie di sangue fin oltre i polsi e sul viso. E il dolore, la rabbia, che pulsavano dentro di me. Non riuscivo a fermarmi.» E chi ci sarebbe riuscito? si chiese Roarke. Chi ne sarebbe stato capace? «Poi mi trascinai in un angolo della stanza, per sfuggirgli, perché sapevo che, quando si fosse rialzato, mi avrebbe uccisa. Svenni, o quantomeno persi la cognizione del tempo, perché non ricordo altro finché d'un tratto non apparve la luce del sole. Ero in preda a dolori tremendi, atroci, in tutto il corpo. Fui colta da conati di vomito. Quando mi ripresi, lo vidi. Lo vidi.» Roarke le prese la mano, che sembrava di ghiaccio. Un sottile, fragile pezzo di ghiaccio. «Ora basta, Eve.» «No, lasciami finire. Devo andare sino in fondo.» Pronunciò a fatica le parole, quasi stesse sollevando macigni dal proprio cuore. «Lo vidi. Capii di averlo ucciso e che la polizia sarebbe venuta a prendermi e mi avrebbe rinchiusa in una gabbia. Una gabbia oscura. Era quanto lui mi diceva sempre che sarebbe successo, se non mi fossi comportata bene. Entrai in bagno e mi ripulii del sangue. Il braccio... il braccio mi faceva terribilmente male, ma io non volevo finire in gabbia. Mi misi addosso qualcosa e ficcai in una sacca tutto ciò che mi apparteneva. Continuavo a pensare che lui si sarebbe rialzato e mi sarebbe balzato addosso, invece lui restava lì, cadavere. Lo lasciai dov'era. Uscii e camminai. Era presto, il sole era appena sorto. In giro non c'era quasi nessuno. Gettai via la sacca, o la persi strada facendo. Non me lo ricordo. Camminai a lungo, poi m'infilai in un vicolo e mi nascosi, aspettando che facesse di nuovo notte.» Eve si passò una mano sulla bocca. Riusciva a ricordare anche quello: il buio, il fetore, la paura che sovrastava ogni sofferenza. «Poi ripresi a camminare e continuai finché non riuscii più a muovere un passo. Trovai un altro vicolo. Non so per quanto tempo ci restai, ma fu lì che mi trovarono. Ormai, però, non ero più in grado di ricordare niente... che cosa fosse accaduto, dove mi trovassi. Non sapevo neppure più chi fossi. E ancora adesso non rammento il mio nome. Lui non mi chiamava mai per nome.» «Il tuo nome è Eve Dallas.» Roarke le prese il viso tra le mani. «E quella parte della tua esistenza è finita. Sei sopravvissuta, ne sei uscita vincitrice. Ora che l'hai ricordata, puoi metterci una pietra sopra.»
«Roarke.» Lo fissò e si rese conto di non aver mai provato per nessuno un amore così forte. E che mai l'avrebbe provato. «Non posso. Devo rispondere di ciò che ho commesso. Devo affrontare la realtà e le sue conseguenze. Ora non posso più sposarti. Domani andrò a restituire il mio distintivo.» «Che follia è questa?» «Ho ucciso mio padre, non capisci? Ci dovrà essere un'inchiesta. Anche se ne uscirò scagionata, resta il fatto innegabile che la mia domanda d'iscrizione all'accademia di polizia e il mio curriculum sono inficiati da un'impostura. Finché le indagini non si saranno concluse, non potrò essere un poliziotto né sposarti.» Sentendosi più forte, Eve si alzò. «Devo fare le valigie.» «Provaci.» La voce di lui era bassa, minacciosa, e la fermò. «Roarke, devo seguire la prassi.» «No, devi essere umana.» Si avviò a grandi passi verso la porta e la chiuse violentemente. «Credi di potertene andare via da me, dalla mia vita, solo perché ti sei difesa contro un mostro?» «Ho ucciso mio padre.» «Hai ucciso un mostro schifoso. Eri una bambina. Hai forse il coraggio di dirmi, guardandomi negli occhi, che una creatura in giovanissima età può essere ritenuta colpevole?» Eve aprì la bocca, la richiuse. «Non è questione di come la penso io, Roarke. La legge...» «La legge avrebbe dovuto proteggerti!» proruppe lui, mentre nella testa gli vorticavano tremende visioni, e sentì spezzarsi la ferrea maschera dell'autocontrollo. «Al diavolo la legge! Che cosa ha fatto per te e per me quando ne avevamo più bisogno? Se vuoi restituire il tuo distintivo perché la legge è così maledettamente debole da non preoccuparsi di salvaguardare le creature più innocenti, i suoi stessi figli, accomodati. Butta via la tua carriera. Ma non ti libererai di me.» L'afferrò per le spalle, poi lasciò ricadere le mani. «Non posso toccarti.» Sconvolto dalla violenza che era germogliata dentro di lui, indietreggiò di un passo. «Non me la sento di posare le mie mani su di te. Se il solo fatto di abbracciarti ti richiamasse alla mente ciò che hai dovuto subire da quel mostro, non potrei sopportarlo.» «No.» Fu Eve, inorridita, a tendergli le braccia. «No, non è così. Una cosa simile non potrebbe mai accadere. Quando tu mi sfiori, ci siamo solo
noi due. Ma adesso ho bisogno di superare questo trauma.» «Da sola?» C'era una tremenda amarezza nelle proprie parole, si rese conto Roarke. «Come hai tentato, da sola, di affrontare gli incubi? Non posso tornare indietro nel tempo e uccidere quell'uomo al posto tuo, Eve. Se potessi farlo, darei tutto ciò che possiedo, e anche di più, ma è un sogno irrealizzabile. Però non ti permetterò di gestire questa situazione senza di me. Non c'è alternativa, per nessuno di noi due. Siediti.» «Roarke.» «Ti prego, siediti.» Trasse un profondo respiro, per schiarirsi la mente. I modi rabbiosi, decise, non avrebbero funzionato con Eve. E neppure gli inviti a ragionare, almeno da parte sua. «Ti fidi della dottoressa Mira?» «Sì, nei limiti...» «Nei limiti della scarsa fiducia che provi per chiunque», concluse Roarke per lei. «Va bene.» Si diresse verso la scrivania di Eve. «Che cosa vuoi fare?» «Chiamarla.» «È notte fonda.» «So benissimo che ore sono.» Accese il videotelefono. «Intendo attenermi alla valutazione che lei darà di questa vicenda. Ti chiedo di fare lo stesso.» Eve stava per mettersi a discutere, ma non trovò argomenti validi. Sfinita, si lasciò cadere la testa tra le mani. «D'accordo.» Restò immobile, senza quasi ascoltare quanto diceva Roarke a voce bassa, le sue risposte bisbigliate. Poi lui le tornò accanto e le tese una mano. Eve si limitò a fissarla. «Mira sta per arrivare. Vieni giù?» «Non era mia intenzione ferirti o farti arrabbiare.» «Hai ottenuto entrambe le cose, ma ora non è questo il punto.» Le prese una mano e la tirò in piedi. «Non intendo lasciarti andare, Eve. Se tu non mi amassi, o non mi desiderassi, o non avessi bisogno di me, sarei costretto a farlo, ma tu mi ami e mi desideri. E, sebbene questo concetto stenti a entrarti in testa, hai bisogno di me.» Non voglio usarti, pensò Eve, ma non aprì bocca mentre scendeva con lui al piano inferiore. Mira non ci mise molto ad arrivare. Era, come sempre, perfettamente in ordine. Dopo aver rivolto a Roarke un saluto pacato, lanciò una sola occhiata a Eve e si sedette.
«Gradirei un brandy, se non vi dispiace. E credo che il tenente mi terrà compagnia.» Poi, mentre Roarke versava il liquore, si guardò intorno. «Che casa deliziosa. Vi si respira un'aria felice.» Sorrise, piegò la testa. «Oh, Eve, hai cambiato pettinatura. Ti sta molto bene.» Sconcertato, Roarke si bloccò e si voltò a guardare. «Che cosa hai fatto ai tuoi capelli?» Eve si strinse nelle spalle. «Nulla di particolare, solo...» «Gli uomini.» Mira prese il suo bicchiere e vi fece roteare il brandy. «Perché noi donne ci preoccupiamo tanto del nostro aspetto? Mio marito, quando si accorge di un cambiamento solo perché gliel'ho fatto notare io, dice che mi adora per come sono intimamente, non per i miei capelli. Di solito ci rido sopra.» Si sistemò nello schienale della poltrona. «A noi, adesso. Te la senti di dirmi tutto?» «Sì.» Eve le ripeté quanto aveva già raccontato a Roarke. Ma parlò con voce da poliziotto, fredda, controllata, distaccata. «È stata una brutta notte per te», osservò Mira. Poi si voltò a guardare Roarke. «Per entrambi. Vi sembrerà difficile credere che da questo momento in poi la situazione possa iniziare a migliorare. Tu, Eve, ritieni di essere mentalmente in grado di discuterne?» «Suppongo di sì. I ricordi avevano cominciato a tornarmi alla memoria più chiari, più ravvicinati, dopo quel...» Chiuse gli occhi. «Alcuni mesi fa avevo risposto a quella che sembrava una semplice chiamata per disturbo della quiete pubblica. Ero arrivata troppo tardi. Un padre, in preda agli effetti di una dose di Zeus, aveva già fatto a pezzi la sua figlioletta. E io lo uccisi.» «Sì, ricordo il caso. Al posto di quella bambina ci saresti potuta essere tu. Che invece sei sopravvissuta.» «A morire è stato mio padre.» «Che cosa provi, per questo?» «Gioia. E disagio, perché mi rendo conto che in me c'era una carica d'odio troppo forte.» «Lui ti picchiava, ti stuprava. Era tuo padre e avrebbe dovuto proteggerti. Tu invece con lui non eri al sicuro. Quali sentimenti t'ispira questo fatto?» «Risale a tanti anni fa.» «Risale a ieri», la corresse Mira. «A un'ora fa.» «Sì.» Eve abbassò lo sguardo sul bicchiere, ricacciando indietro le lacrime.
«Hai sbagliato a difenderti?» «No. A difendermi, no. Ma l'ho ucciso. Anche quand'era già morto, ho continuato a infierire su di lui. Con un odio cieco, una rabbia incontenibile. Ero come un animale.» «Lui ti trattava come un animale. Aveva fatto di te una bestia», disse Mira, vedendo Eve rabbrividire. «Sì. Non gli era bastato rubarti l'infanzia, l'innocenza; ti ha anche privata della tua natura di essere umano. Ci sono termini tecnici per definire una personalità capace di fare ciò che lui ha fatto a te, ma, per dirla in parole semplici», aggiunse nel suo tono freddo, «tuo padre era un mostro.» Seguì lo sguardo di Eve che dardeggiava verso Roarke, indugiava un attimo e poi si distoglieva da lui. «Ti ha tolto la libertà e il tuo diritto di scegliere», proseguì la dottoressa. «Ti ha segnata, marchiata, insozzata. Per lui non eri un essere umano e, se la situazione non fosse cambiata, probabilmente saresti rimasta una sorta di animale, sempre che tu fossi riuscita a sopravvivere. Invece, una volta fuggita, ti sei forgiata una nuova personalità. Che cosa sei adesso, Eve?» «Un poliziotto.» Mira sorrise. Era esattamente quella la risposta che si aspettava. «E poi?» «Un essere umano.» «Un essere umano responsabile?» «Sì.» «Capace d'instaurare rapporti di amicizia, di essere leale, di provare compassione, di ridere. E di amare?» Eve guardò Roarke. «Sì, ma...» «Quella bambina ne era capace?» «No, lei... io ero troppo atterrita per provare alcunché. Sì, d'accordo, sono cambiata.» Eve si premette una mano contro la tempia, sorpresa e sollevata nel rendersi conto che la martellante emicrania si stava attenuando. «Ho fatto di me una persona per bene, ma questo non cancella il crimine che ho commesso. Ci dovrà essere un'indagine.» Mira aggrottò la fronte. «Naturalmente puoi chiedere che venga aperta un'inchiesta, se per te è tanto importante appurare chi fosse tuo padre. Lo è?» «No, questo non m'importa assolutamente. Ma la prassi...» «Scusa un attimo», la interruppe Mira, alzando una mano. «Vuoi che venga fatta un'inchiesta sull'uccisione di quest'uomo, commessa da te che
all'epoca dei fatti avevi solo otto anni?» «È la prassi», ripeté caparbiamente Eve. «Che prevede automaticamente la mia sospensione dal servizio finché le indagini non siano giunte a conclusione. È anche più opportuno che io tenga in sospeso i miei progetti personali finché il caso non sarà stato risolto.» Avvertendo la rabbia di Roarke, Mira gli lanciò un'occhiata d'avvertimento e lo vide vincere la battaglia per l'autocontrollo. «Risolto in quale modo, Eve?» chiese poi, razionalmente. «Non voglio essere così presuntuosa da insegnarti il tuo mestiere, tenente, ma stiamo parlando di una vicenda avvenuta all'incirca ventidue anni fa.» «Risale a ieri.» Eve provò un magro piacere nel ripetere le parole che la stessa Mira le aveva detto. «A un'ora fa.» «Emotivamente, sì», convenne Mira, impassibile. «Ma in termini pratici, e legali, sono trascorsi più di due decenni. Non ci saranno prove materiali né cadavere da esaminare. Abbiamo, naturalmente, i dati concernenti lo stato in cui sei stata trovata, i segni degli abusi, la malnutrizione, le generali condizioni d'abbandono, il trauma. A questo, ora, si aggiungono i tuoi ricordi. Credi che, durante l'interrogatorio, la tua storia possa cambiare?» «No, ovviamente no. Tuttavia... è la prassi.» «Sei un ottimo poliziotto, Eve», disse gentilmente Mira. «Se una vicenda simile capitasse sulla tua scrivania, in questi precisi termini, quale sarebbe, obiettivamente, la tua decisione professionale? Prima di rispondere, pensaci bene e sii sincera. Non c'è motivo di punire te stessa o quella povera bambina innocente e vittima di abusi. Che cosa faresti?» «Io...» Sconfitta, Eve posò il bicchiere e si schiacciò gli occhi con le mani. «Chiuderei il caso.» «Chiudilo, allora.» «Non spetta a me farlo.» «Sarò felice di parlarne, in privato, col tuo comandante, di raccontargli i fatti e di riferirgli la mia personale valutazione. Sai perfettamente, credo, quale sarà la sua decisione. La comunità ha bisogno di poter contare su persone come te, Eve, per essere protetta. E qui c'è un uomo ansioso di sapere se hai fiducia in lui.» «Io mi fido di Roarke.» Eve si strinse le braccia al petto mentre sollevava lo sguardo verso di lui. «Ho soltanto paura di usarlo. Non importa ciò che pensano gli altri a proposito del denaro, del potere. Non intendo, mai e poi mai, suscitare in lui il minimo sospetto che io possa o voglia servirmi di lui.»
«È tipo da credere a una cosa del genere?» Eve strinse nel pugno il diamante che le penzolava nell'attaccatura dei seni. «Ora no, perché è troppo innamorato di me.» «Be', direi che va bene così. E tra qualche tempo tu riuscirai a capire la differenza tra dipendere da qualcosa che ami e in cui hai fiducia e sfruttare la forza di quell'amore e di quella fiducia.» Mira si alzò. «Ti consiglierei d'ingerire un sedativo e di non andare al lavoro domani, ma so che non faresti né una cosa né l'altra.» «Già... non posso. Mi dispiace di averla trascinata fuori casa in piena notte.» «Noi medici, come voi poliziotti, ci siamo abituati. Verrai ancora a parlarmi?» Eve avrebbe voluto rispondere di no, risollevare un muro di silenzio... come aveva fatto per anni. Ma capì che le cose erano cambiate. «Sì, d'accordo.» Impulsivamente, Mira le sfiorò con una mano la guancia e le diede un bacio. «Ce la farai, Eve.» Poi si voltò verso Roarke e gli tese la mano. «Sono felice che mi abbia chiamata. Ho un interesse personale nei confronti del tenente.» «Anch'io. Grazie.» «Spero che m'invitiate al matrimonio. Farò in modo di venire.» Andata via Mira, Roarke si avvicinò a Eve. Le sedette accanto. «Sarebbe un sollievo per te se io rinunciassi a tutto il mio denaro e ai miei beni, se alienassi le mie società e ripartissi da zero?» Qualunque cosa lei si fosse aspettata, non era certo quella. Lo fissò a bocca aperta. «Lo faresti davvero?» Lui si piegò in avanti e le diede un lieve bacio. «No.» Dalla bocca di Eve scaturì una risatina che la sorprese. «Mi sento un'idiota.» «E fai bene a sentirti così.» Roarke allacciò le proprie dita a quelle di lei. «Lascia che ti aiuti a lenire la tua sofferenza.» «È quello che stai facendo da quando sei entrato nella mia stanza.» Con un sospiro, appoggiò la fronte alla sua. «Cerca di sopportarmi. Io sono un buon poliziotto. So che cosa fare, quando porto il mio distintivo. È soltanto quando me lo tolgo che non sono più sicura delle mie azioni.» «Sono un uomo tollerante. Posso accettare i tuoi lati oscuri, Eve, proprio come tu accetti i miei. Vieni, andiamo a letto. Devi dormire.» La tirò di nuovo in piedi. «Se hai un incubo, non nascondermelo.»
«No, non lo farò più. Che cosa c'è?» Con le palpebre socchiuse, Roarke le passò le dita tra i capelli. «Sei cambiata. Appena appena, ma in modo affascinante. E c'è qualcosa qui...» Fece scivolare un pollice lungo la mascella di Eve. Lei inarcò le sopracciglia, sperando che Roarke ne notasse la nuova e più bella forma, ma lui si limitò a continuare a fissarla. «Allora?» «Sei stupenda. Veramente stupenda.» «Sei stanco.» «No, non lo sono.» Si chinò e posò la propria bocca su quella di lei in un lungo, interminabile bacio. «Tutt'altro.» Peabody si guardava intorno sgranando gli occhi, ma Eve finse di non notarlo. Aveva ordinato il caffè e, in previsione dell'arrivo di Feeney, aveva anche fatto portare un cestino pieno di muffin. Le imposte aperte lasciavano scorgere la spettacolare vista di New York che si godeva da quelle finestre, con le svettanti sagome dei grattacieli al di là della lussureggiante macchia verde del parco. Si disse che non poteva biasimare Peabody se continuava a fissare ogni cosa a bocca aperta. «Ti sono veramente molto grata per essere venuta qui, invece che alla centrale di polizia», esordì. Si rendeva conto di non essersi interamente ripresa dallo shock, ma capiva anche che Mavis non poteva aspettare che lei rientrasse pienamente in possesso delle proprie facoltà. «Desidero chiarire alcuni punti di questa storia prima di andare in ufficio. Non appena vi avrò messo piede, immagino che Whitney mi convocherà. Ho bisogno di avere in mano qualche buona carta.» «Nessun problema.» Peabody sapeva che c'era gente che viveva nel lusso. Ne aveva sentito parlare, l'aveva letto sui giornali, l'aveva visto in televisione. Ciò non aveva niente a che fare con le stanze del tenente, non particolarmente lussuose pur se indiscutibilmente gradevoli: spaziose, con bei mobili e un'ottima attrezzatura tecnologica. La casa, invece... Andava ben oltre la categoria delle dimore signorili: era un palazzo, per non dire una reggia. Prati verdi, alberi in fiore, fontane. E non mancavano le torrette, lo scintillio della pietra. E tutto ciò prima ancora di essere introdotti in casa da un maggiordomo e accompagnati lungo un profluvio di marmi, cristalli, legni pregiati. Per non parlare dello spazio. Uno spazio inimmaginabile. «Peabody?»
«Cosa? Scusi.» «Non ci pensare. Questo posto mette davvero in soggezione.» «È incredibile.» Si voltò verso Eve. «Qui lei sembra diversa», decise, poi socchiuse gli occhi. «Lo è, diversa. Ehi, ha cambiato pettinatura. E le sopracciglia.» Interessata, si fece più vicina. «Si è fatta sistemare la pelle.» «Una semplice maschera facciale.» Eve si trattenne a malapena dal sentirsi in imbarazzo. «Possiamo abbandonare questo argomento o vuoi il nome della mia estetista?» «Non me la potrei permettere», rispose allegramente Peabody. «Ma lei sta molto bene. Ha deciso di farsi bella, in queste due settimane che precedono le nozze.» «Non sono due settimane. Ci sposiamo il mese prossimo.» «Immagino che lei non si sia accorta che siamo già entrati nel 'mese prossimo'. Ha l'aria nervosa.» La bocca di Peabody assunse una piega divertita. «E sì che lei non dà mai segni di nervosismo.» «Chiudi il becco, Peabody. Dobbiamo pensare a trovare un omicida.» «Signorsì.» Vergognandosi un po', Peabody ricacciò indietro il sorrisetto compiaciuto. «Parlavo tanto per parlare, per ingannare il tempo in attesa dell'arrivo del capitano Feeney.» «Devo interrogare Redford alle dieci. Non ho tempo per ingannare alcunché. Riferiscimi ciò che sei riuscita ad appurare al club.» «Ho scritto il mio rapporto.» Di nuovo in sella, Peabody estrasse un dischetto dalla borsa. «Sono arrivata alle diciassette e trentacinque, ho contattato il soggetto noto col nome di Crack e mi sono presentata come sua aiutante.» «Che impressione ti ha fatto quell'uomo?» «Uno come tanti», rispose sbrigativamente Peabody. «Mi ha detto che sarei potuta diventare un'ottima ballerina cubista, visto che, a giudicare dalle apparenze, ho le gambe ben piantate. Gli ho replicato che, almeno per il momento, era un'ipotesi che non prendevo in considerazione.» «Bella risposta.» «Si è mostrato disposto a collaborare. Secondo me, quando l'ho informato della morte di Hetta, e delle modalità dell'omicidio, si è arrabbiato molto. Benché la ragazza non avesse lavorato a lungo nel suo locale, la considerava simpatica, brava e con valide prospettive di successo.» «Ha usato queste precise parole?» «No, l'ha detto nel suo gergo, Dallas. Un gergo particolare, che comunque ho riportato nel mio rapporto. Non ha notato con chi avesse parlato
Hetta dopo l'incidente con Boomer perché il club era pieno di gente e lui era molto impegnato.» «A picchiare teste tra loro.» «Esattamente. Mi ha però segnalato parecchi altri dipendenti del club e clienti abituali che potevano aver visto la ragazza insieme con qualcuno. Ho i nomi di costoro e le dichiarazioni che mi hanno rilasciato. Nessuno ha notato nulla di strano o d'inconsueto. Un cliente crede di averla vista entrare in un séparé privato con un altro uomo, però non sa dire a che ora e la descrizione che mi ha fatto di quell'individuo è piuttosto vaga: 'Un tizio alto'.» «Fantastico.» «Hetta ha terminato il suo turno alle due e un quarto, cioè più di un'ora prima di quanto fosse abituata a fare. Ha detto a una delle colleghe che aveva superato la sua quota di presenze e che si prendeva una notte di libertà. Le ha fatto intravedere una manciata di crediti bancari e denaro sonante. Si è vantata di aver trovato un nuovo cliente disposto a pagare la qualità. È stata l'ultima volta in cui si è fatta vedere al club.» «Il suo cadavere è stato trovato tre giorni dopo.» Frustrata, Eve si allontanò dal tavolo. «Se mi fosse stato passato prima il suo caso o se Carmichael si fosse preoccupata di andare più a fondo... Be', ormai quel che è fatto è fatto.» «Hetta era ben vista da tutti.» «Aveva un compagno?» «Nessuna relazione seria o di lunga durata. I club come quello scoraggiano dal frequentare i clienti fuori del locale e, a quanto pare, Hetta era una vera professionista Si spostava da un club all'altro, ma a questo riguardo non ho trovato nulla. Se la notte in cui è morta ha lavorato da qualche altra parte, nessuno ne ha preso nota.» «Faceva uso di stupefacenti?» «Sul lavoro, di tanto in tanto. Ma nulla di pesante, a detta delle persone che ho interrogato. Ho controllato la sua fedina penale, che, a parte un paio di vecchie accuse di furto, è risultata pulita.» «Vecchie quanto?» «Di cinque anni.» «Va bene, continua a indagare. Hetta è tua.» Sollevò lo sguardo, avendo sentito entrare Feeney. «Sono felice che tu sia riuscito a venire.» «Ehi, da queste parti il traffico è micidiale. Oh, ci sono i muffin!» Si avventò sul cestino. «Come va, Peabody?»
«Buongiorno, capitano.» «Gran bella casa, eh? Hai una camicia nuova, Dallas?» «No.» «Sembri diversa.» Si versò una tazza di caffè, mentre Eve sospirava. «Ho trovato il tizio col tatuaggio a forma di serpente. Mavis era entrata verso le due di notte in un club chiamato Ground Zero, dove aveva ordinato uno Screamer e chiesto di essere raggiunta al tavolo da uno dei ballerini. Ieri notte ho fatto un salto nel locale e ho parlato di persona con questo tipo. Lui se la ricorda. Dice che era completamente ubriaca, ma continuava a bere. Quando lui le ha presentato una lista delle proprie prestazioni regolari, Mavis si è alzata e se n'è andata barcollando.» Con un sospiro, Feeney si sedette. «Se si è trascinata in qualche altro club, non ha usato la carta di credito. Non sono riuscito a trovare traccia dei suoi spostamenti dopo che era uscita dal Ground Zero, alle due e quarantacinque.» «Dove si trova il Ground Zero?» «A circa sei isolati dal luogo del delitto. Da quando aveva lasciato Pandora e dopo essere entrata nello ZigZag, ha attraversato mezza città e fatto una capatina in altri cinque locali, bevendo in continuazione Screamer, di solito tripli. Non so come facesse a reggersi in piedi.» «Era a solo sei isolati di distanza, mezz'ora prima dell'omicidio....» mormorò Eve. «Mi dispiace, figliola. Tutto questo non migliora certo la situazione di Mavis. Ora, per quanto concerne i CD della videosorveglianza, lo scanner di Leonardo risulta essere stato sfasciato alle dieci della notte in questione. Nel quartiere ci sono state molte lagnanze nei confronti di ragazzini che si divertono a distruggere le telecamere esterne, perciò è probabile che sia stato uno di loro a romperlo. L'apparato di videosorveglianza di Pandora è stato disattivato da qualcuno che ne conosceva il codice. Nessuna intrusione, nessun sabotaggio. Chi è entrato sapeva come muoversi.» «Conosceva Pandora e il suo appartamento.» «Per forza», assentì Feeney. «Nei CD di videosorveglianza dell'edificio in cui abita Justin Young non ho trovato tagli. I due sono rientrati verso l'una e mezzo, e la donna è uscita solo l'indomani mattina, tra le dieci e le dodici. Nell'arco di tempo intermedio non si sono mossi. Però...» Fece una pausa, per creare la suspense. «L'appartamento di Young ha una porta sul retro.» «Che cosa?» «Un'uscita di servizio, che dalla cucina porta a un montacarichi. Sul pia-
nerottolo non ci sono telecamere di sicurezza. Il montacarichi collega quel piano con gli altri sei e col garage. Tanto quei sei piani quanto il garage dispongono di un sistema di videosorveglianza, ma...» Un'altra pausa. «Col montacarichi si può anche raggiungere il locale di servizio, a pianterreno, sul retro dell'edificio. È una zona frequentata solo dagli addetti alla manutenzione, e le telecamere sono poche.» «Jerry e Justin sarebbero potuti uscire senza essere visti?» «È possibile.» Feeney trangugiò rumorosamente il suo caffè. «Se conoscono bene l'edificio e il sistema di videosorveglianza, e se sono stati attenti a passare da quella parte nel momento più adatto per non incontrare gli addetti alle pulizie.» «Questo potrebbe far scricchiolare il loro alibi. Ti sono infinitamente grata, Feeney.» «Ah, bene. Ricompensami in denaro. O, più semplicemente, dammi quei muffin.» «Sono tutti tuoi. Ho l'impressione che dovremo fare altre quattro chiacchiere coi nostri giovani amanti. Ora disponiamo di parecchi soggetti da considerare con interesse. Justin Young andava a letto con Pandora e attualmente ha una relazione con Jerry Fitzgerald, la quale era in rapporti d'affari con Pandora e le contendeva il titolo di regina delle passerelle di moda. E tanto l'una quanto l'altra aspiravano a fare carriera come dive dello schermo. Qui entra in gioco Redford, il produttore. Vede di buon occhio l'idea d'ingaggiare la Fitzgerald, ha lavorato con Young e amoreggiava con Pandora. Tutti e quattro erano al ricevimento in casa di Pandora, la notte in cui lei è stata uccisa. Ora, per quale motivo aveva deciso d'invitare la sua rivale, il suo ex amante e il produttore?» «Amava il dramma», intervenne Peabody. «Si divertiva a seminare zizzania.» «Sì, questo è vero. Le piaceva anche mettere la gente a disagio. Mi chiedo se avesse qualcosa che voleva sbattere loro in faccia. Quando li ho interrogati, hanno dimostrato tutti e quattro una notevole calma», ricordò Eve. «Erano tranquilli, disinvolti. Vediamo se ci riesce di scuoterli.» Sollevò lo sguardo vedendo aprirsi il pannello che separava il suo ufficio da quello di Roarke. «Non era chiuso a chiave», disse lui, fermandosi sulla soglia. «Scusate, vi ho interrotto.» «Non importa. Dobbiamo solo tirare le conclusioni.» «Ehi, Roarke.» Feeney lo salutò alzando un muffin. «È pronto a farsi
mettere la palla al piede? È solo una battuta», si affrettò a mormorare, cogliendo l'occhiata di fuoco che gli aveva lanciato Eve. «Credo che continuerò comunque a correre la cavallina», replicò Roarke. Poi, notata Peabody, inarcò un sopracciglio. «Oh, scusa. Roarke, ti presento l'agente Peabody», fece Eve. Lui sorrise e attraversò la stanza. «Il formidabile agente Peabody. È un vero piacere conoscerla.» Sforzandosi di non strabuzzare gli occhi, Peabody prese la mano che le veniva tesa. «Il piacere è mio.» «Se posso, vorrei rubarvi il tenente per un solo minuto, dopo di che toglierò il disturbo.» Roarke posò una mano sulla spalla di Eve e gliela strinse. Quando lei si alzò per seguirlo, Feeney sbuffò. «Finirai per ingoiare la lingua, Peabody. Perché mai, davanti a un uomo con un volto da Belzebù e un corpo da Apollo, alle donne devono venire gli occhi vitrei?» «È un fatto ormonale», mormorò Peabody, ma continuò a seguire la coppia con lo sguardo. Negli ultimi tempi aveva sviluppato un certo interesse per i giochi di relazione. «Come stai?» chiese Roarke a Eve. «Bene.» Lui le prese il mento nel palmo della mano, affondando leggermente l'indice nella fossetta. «Credo che tu ce la stia mettendo tutta. Stamattina ho alcuni impegni a midtown, ma ho pensato che questo ti potesse servire subito.» Le porse un biglietto da visita, uno dei suoi, sul cui retro erano scarabocchiati un nome e un indirizzo. «È un'esperta di flora interplanetaria, come mi avevi chiesto. Qualunque cosa ti serva, lei troverà il tempo per ascoltarti. Ha già in mano il campione della sostanza sconosciuta che mi avevi dato tu, ma ne vorrebbe un altro. Per un test incrociato, mi pare che abbia detto così.» «Grazie, di cuore.» Eve s'infilò in tasca il biglietto. «Quanto ai rapporti dalla Starlight Station...» «La Starlight Station?» Le ci volle un attimo per ricordare. «Oh, Cristo, mi era dimenticata di avertelo chiesto. La mia mente sta andando in tilt.» «Ha troppe cose alle quali pensare, in questo momento. Comunque, le mie fonti mi hanno riferito che Pandora, durante il suo ultimo viaggio, si era incontrata con molta gente... il che non ha nulla di strano. Ma pare che nessuno riscuotesse un suo particolare interesse. Almeno non per più di una notte.»
«Per lei, santo cielo, non c'era altro che il sesso?» «Era un'assoluta priorità.» Roarke sorrise nel vedere gli occhi di Eve stringersi con aria sospettosa. «Come ti ho già detto, la nostra breve e superficiale relazione risale a molto tempo fa. Ma, per tornare alla Starlight Station, Pandora ha fatto un mucchio di chiamate, tutte col suo video telefono palmare. Non ha mai usato l'apparecchio del resort.» «Per non lasciare traccia», osservò Eve. «Lo penso anch'io. Era lassù in trasferta e ha fatto il suo lavoro con l'abituale bravura. Ci sono state alcune chiacchiere sul modo in cui si è vantata di un nuovo prodotto che doveva propagandare e di un film che stava per interpretare.» Eve grugnì, prendendo nota di quelle informazioni. «Ti sono grata per il tempo che hai perso.» «Sempre felice di dare una mano alla nostra polizia locale. Alle tre abbiamo un appuntamento col fiorista. Credi di farcela a venire?» Eve ripassò mentalmente i propri impegni. «Se ci riesci tu a trovare un minuto di tempo, dovrei farcela anch'io.» Non volendo rischiare, Roarke le estrasse dalla tasca il taccuino elettronico e segnò lui stesso l'appuntamento. «Ci vediamo lì.» Stava chinando il capo quando vide gli occhi di Eve girarsi verso il tavolo dalla parte opposta della stanza. «Dubito che questo incrini la tua autorità», mormorò, poi posò delicatamente le proprie labbra sulle sue. «Ti amo.» «Sì, già.» Eve si schiarì la voce. «Okay.» «Che risposta romantica.» Divertito, le passò una mano tra i capelli e la baciò di nuovo. «Agente Peabody, Feeney.» Con un segno di saluto, rientrò nel proprio ufficio. Il pannello si richiuse alle sue spalle. «Fa' sparire dalla tua faccia quello stupido sorriso, Feeney. Ho un incarico per te.» Tornata accanto al tavolo, Eve tirò fuori dalla tasca il biglietto da visita. «Ho bisogno che tu porti a questa esperta di flora un campione della polvere che abbiamo trovato nella stanza di Boomer. Roarke le ha già spiegato tutto. Non è una funzionaria del Dipartimento di polizia e sicurezza, perciò mantieni un profilo basso.» «Vabbé.» «Oggi, sul tardi, la contatterò per appurare se ci sono novità. Peabody, tu vieni con me.» «Signorsì.» Prima di parlare, Peabody attese di trovarsi seduta in macchina con Eve. «Immagino che sia molto faticoso per un poliziotto mantenere in equilibrio
la vita professionale e quella privata.» «Non sai quanto.» Torchiare individui sospetti, raccontare balle al proprio comandante, rompere le scatole ai tecnici di laboratorio. Ordinare il bouquet nuziale. Gesù! «Ma se ci si muove con fermezza e con cautela, la carriera non dovrebbe risentirne, non crede?» «Se vuoi la mia opinione, io starei alla larga dai poliziotti. Ma chi sono io per dirlo?» Eve tamburellò con le dita sul volante, con un ritmo nervoso. «Feeney è sposato dalla notte dei tempi. Il comandante ha una famiglia felice. Sono molti quelli che se la cavano bene.» Si lasciò sfuggire un sospiro. «Io ci sto provando.» Mentre varcava il cancello, le venne un sospetto. «Ti sei messa con qualcuno, Peabody?» «Forse. Ci sto pensando.» Si sfregò le mani sui pantaloni, se le allacciò, tornò a separarle. «È uno che conosco?» «A dire il vero, sì.» Peabody spostò i piedi. «Si tratta di Casto.» «Casto?» Eve puntò verso la 9th Avenue, girando intorno a un mezzo di trasporto pieno di pendolari. «Niente male. Quand'è successo?» «Be', ieri sera mi sono imbattuta in lui. Più esattamente, l'ho sorpreso a pedinarmi, così...» «A pedinarti?» Eve inserì rapidamente il pilota automatico. Il congegno, dopo qualche tremolio e gemito, entrò in funzione. «Di che diavolo stai parlando?» «Lui ha un buon fiuto. Aveva capito che stavamo seguendo una nuova pista. Quando l'ho affrontato schiumavo di rabbia, ma poi ho dovuto ammettere che io avrei fatto lo stesso.» Eve tamburellò con le dita sul volante, con aria meditabonda. «Già, anch'io. Ha cercato di fotterti?» Peabody divenne rossa come un peperone e prese a balbettare. «Cristo, Peabody, non intendevo dire...» «Lo so, lo so. Ma non ci sono abituata, Dallas. Non che gli uomini non mi piacciano, ovviamente.» Si scompigliò la frangetta, si allentò il colletto della rigida camicia dell'uniforme. «Ne ho avuto qualcuno, però mai tipi come Casto... o come Roarke, se capisce che cosa voglio dire.» «Allora non perdere tempo.» «Già.» Era un sollievo poterne parlare con qualcuno in grado di capire. «Ha tentato di tirarmi fuori di bocca qualche informazione, ma, di fronte al mio rifiuto di parlare, l'ha presa abbastanza bene. Conosce le regole. Il ca-
po dice che tra i Dipartimenti ci dev'essere collaborazione, ma noi tutti ce ne infischiamo.» «Secondo te, Casto sta seguendo una sua pista?» «È possibile. Stava facendo il giro dei club, esattamente come me. E sulle prime sono stata io a seguirlo. Poi, quando ho smesso, ha iniziato lui a starmi dietro. Ho lasciato che mi pedinasse per un bel po', tanto per vedere che cosa avrebbe fatto.» Il suo sorriso si allargò. «Poi l'ho seminato e mi sono portata alle sue spalle. Avrebbe dovuto vedere la sua faccia quando gli sono sbucata da dietro e si è reso conto di essere stato beccato.» «Ottimo lavoro, Peabody.» «Abbiamo discusso un po'. Questioni territoriali e problemi simili. Poi, be', abbiamo bevuto qualcosa insieme e convenuto di dimenticare per un po' la nostra professione. È stato piacevole. Abbiamo un sacco di cose in comune, a parte il lavoro. Musica, film, roba del genere. Poi... accidenti, sono andata a letto con lui.» «Oh.» «Lo so che è stata un'idiozia. Però l'ho fatto.» Eve attese un attimo. «E com'è andata?» «Stupefacente!» «Addirittura?» «Stamattina mi ha detto che potremmo forse cenare insieme o fare qualcos'altro.» «Be', mi sembra più che normale.» Peabody scosse la testa. «I tipi come lui non sono attratti dalle ragazze come me. So che Casto ha un debole per lei...» La mano di Eve scattò in aria. «Piantala, è una storia vecchia.» «Su, Dallas, lei sa benissimo che è così. Casto la trova affascinante. Ammira le sue qualità, la sua intelligenza. Le sue gambe.» «Non mi verrai a dire che tu e Casto avete parlato delle mie gambe.» «No, ma della sua intelligenza sì. Comunque, non so se porterò avanti questa storia. Devo concentrarmi sulla mia carriera, e lui è impegnato nella sua. Quando questo caso sarà stato risolto, non avremo più occasione d'incontrarci.» Eve non aveva forse pensato lo stesso quando Roarke l'aveva colpita al cuore? Sarebbe dovuto avvenire così, perché era quello che capitava di solito. «Sei attratta da lui e gli vai a genio. A lui fa piacere averti intorno.» «Questo sì.» «E il rapporto sessuale è stato bello.»
«In maniera indicibile.» «Allora, in qualità di tuo superiore, ti consiglio di darci dentro.» Peabody sorrise leggermente, poi guardò fuori del finestrino. «Forse ci farò un pensierino.» 14 Eve si compiacque del proprio tempismo. Entrò in centrale cinque secondi prima delle dieci e si avviò direttamente verso la stanza degli interrogatori. Non passando dall'ufficio, evitò di trovare gli eventuali messaggi del comandante Whitney che le ingiungevano di presentarsi da lui. Redford era un tipo puntuale. Ed era anche elegante e disinvolto, come nel loro primo incontro. «Tenente, spero che il nostro colloquio non duri a lungo. A quest'ora ho ben altre cose da fare.» «Cominciamo subito, allora. Si sieda.» Eve si chiuse la porta alle spalle, bloccandola. La stanza degli interrogatori non aveva un'aria molto accogliente, e di proposito. Il tavolo era piccolo, i sedili duri, le pareti spoglie. E il falso specchio, che all'esterno era in realtà un vetro trasparente, contribuiva a creare un'atmosfera intimidatoria. Eve si sedette subito accanto al suo registratore, lo accese e recitò la solita sfilza di dati. «Mr Redford», concluse, «lei può chiedere la presenza di un legale o di un consulente che l'assista durante l'interrogatorio.» «Mi sta leggendo i miei diritti, tenente?» «Se mi chiede di farlo, l'accontenterò. Su di lei non pende nessuna accusa, però, trattandosi di un interrogatorio ufficiale, le è consentito di avere al suo fianco una persona che la consigli. Desidera chiamare qualcuno?» «Al momento, no.» Il produttore si tolse dalla manica un minuscolo pelo. Il braccialetto a forma di manetta che portava al polso mandò un luccichio dorato. «Sono più che disposto a cooperare a queste indagini, come ho dimostrato venendo qui oggi.» «Vorrei farle risentire la sua precedente dichiarazione per darle l'opportunità di aggiungere, smentire o apportare qualche modifica.» Infilò nell'apposita fessura il dischetto etichettato. Con uno sguardo di blanda impazienza, Redford ascoltò. «Intende confermare in pieno questa dichiarazione?» domandò Eve. «Sì, mi sembra precisa, per quanto mi riguarda.» «Molto bene.» Eve tolse il dischetto e allacciò le mani. «Lei e la vittima
eravate amanti.» «Esatto.» «Ma non si trattava di una relazione esclusiva.» «No, assolutamente no. Né lei né io volevamo che lo fosse.» «La notte dell'omicidio, lei ha fatto uso di droghe con la vittima?» «No.» «Lei e la vittima avete fatto uso di droghe in un'altra occasione qualsiasi?» Redford sorrise e piegò la testa di lato, facendo scorgere a Eve altri scintillii, prodotti da fili d'oro intrecciati all'elegante codino che gli scendeva fino alle scapole. «No. Non condividevo l'amore di Pandora per tali sostanze.» «Conosceva il codice di sicurezza dell'appartamento newyorkese della vittima?» «Il codice di sicurezza.» Redford aggrottò la fronte. «Forse. Probabilmente sì.» Per la prima volta parve un po' sulle spine. Eve riuscì quasi a vedere la sua mente che soppesava la risposta e le relative conseguenze. «Può essere che, per semplificare le cose quando andavo a trovarla, Pandora me l'avesse dato, anche se non ricordo in quale occasione.» Con aria di nuovo imperturbabile, si tolse di tasca l'agenda palmare e ne passò in rassegna le voci. «Sì, ce l'ho.» «Ha usato tale codice per entrare in casa della vittima la notte del delitto?» «Mi ha aperto un domestico. Non ho avuto bisogno di usarlo.» «Sa che con quel codice si può accendere e spegnere il sistema di videosorveglianza?» Negli occhi di Redford balenò di nuovo uno sguardo circospetto. «Non capisco dove lei voglia andare a parare.» «Col codice, che lei ha appena dichiarato di conoscere, si può disattivare la telecamera di sicurezza posta all'esterno dell'appartamento. E, dopo il delitto, la telecamera è stata disattivata per circa un'ora. In quello stesso arco di tempo lei, Mr Redford, secondo quanto ha dichiarato, si trovava nel suo club. Da solo. Contemporaneamente, qualcuno che conosceva la vittima, che possedeva il codice d'accesso, che sapeva perfettamente come funzionasse il sistema di videosorveglianza dentro e fuori l'appartamento, ha disattivato la telecamera, è entrato in casa di Pandora e, a quanto pare, ha portato via qualcosa.» «Non avrei avuto motivo di fare tutto questo. Mi trovavo nel mio club,
tenente. Il momento in cui sono arrivato e quello in cui me ne sono andato sono stati registrati.» «Un socio può farsi registrare in entrata e in uscita dal club senza neppure metterci piede», replicò Eve, e notò che l'espressione di Redford si era fatta più dura. «Lei aveva visto un'elaborata scatola antica, probabilmente cinese, da cui la vittima, sempre secondo la sua dichiarazione, aveva preso una pillola non meglio identificata e l'aveva ingerita. Lei ha altresì dichiarato che la vittima avrebbe chiuso a chiave la scatola in un cassetto del suo tavolino da toilette. Ma la scatola non è stata trovata. È sicuro della sua esistenza?» Lo sguardo di Redford si era fatto di ghiaccio, ma al disotto di quel ghiaccio, o appena ai bordi, Eve ebbe l'impressione d'intravedere qualcos'altro. Non panico, non ancora. Stanchezza, piuttosto, e preoccupazione. «È sicuro, Mr Redford, che la scatola da lei descritta esista veramente?» ripeté Eve. «L'ho vista.» «E la chiave del cassetto?» «La chiave?» Il produttore allungò la mano verso un bicchier d'acqua. La mano era ancora ferma, notò Eve, ma il cervello stava facendo gli straordinari. «Pandora la teneva appesa a una catena, una catena d'oro, che portava al collo.» «Né sul cadavere né nella scena del delitto sono state «trovate una catena e una chiave.» «Ne consegue, dunque, che le ha prese l'assassino, non e così, tenente?» «Pandora la teneva in mostra, quella chiave?» «No, lei...» Redford s'interruppe, contraendo i muscoli della mascella. «Complimenti, tenente. Per quanto ne so, la nascondeva sotto gli abiti. Ma, come ho già dichiarato, non sono io il solo a essere stato invitato ad ammirare Pandora nuda.» «Perché la pagava?» «Scusi?» «Negli ultimi diciotto mesi lei ha versato oltre trecentomila dollari nei conti bancari della vittima. Per quale motivo?» Lo sguardo di Redford si fece vacuo, ma Eve vi scorse, per la prima volta, un guizzo di paura. «Ciò che faccio del mio denaro è una cosa che riguarda esclusivamente me.» «No, non è così. Non quando c'è di mezzo un delitto. Pandora la stava ricattando?» lo incalzò Eve.
«Non dica assurdità.» «A me pare un'ipotesi plausibile. Pandora aveva in mano qualcosa che la riguardava, qualcosa di pericoloso, d'imbarazzante, una spada di Damocle che si divertiva a tenerle sulla testa. Ci giocava, pretendendo di tanto in tanto qualche piccolo pagamento; a volte, sparava cifre più alte. Immagino che fosse il tipo che ostenta un simile potere, che se ne compiace. Una situazione che alla lunga poteva stancare l'individuo ricattato, indurlo a prendere in considerazione l'unico modo possibile per risolvere definitivamente il problema. Non tanto per il denaro, in realtà, quanto per il gusto che Pandora provava nel soggiogarla, nel tenerla sotto controllo. Non è così, Mr Redford?» Il respiro dell'uomo si fece più pesante, ma il volto rimase impassibile. «Direi che Pandora era il tipo di persona che non disdegna i ricatti, tenente. Ma non aveva in mano nulla che mi riguardasse e io non avrei tollerato minacce.» «Come avrebbe reagito?» «Un uomo nella mia posizione si può permettere d'ignorarle. Nel mio campo, il successo è molto più importante di qualsiasi maldicenza.» «Allora perché la pagava? Per potersela portare a letto?» «Questo è un insulto.» «No, perché immagino che un uomo nella sua posizione debba pagarsi il sesso. Il che può anche contribuire ad accrescere l'eccitazione. Ha mai trascorso qualche serata al Down and Dirty Club, nell'East End?» «Non frequento l'East End, e in modo particolare non metto mai piede in club del sesso di infimo ordine.» «Però sa che cos'è. Ci è mai stato con Pandora?» «No.» «Da solo?» «Le ho appena detto che non ci ho mai messo piede.» «Dove si trovava il 10 giugno, verso le due di mattina?» «Che c'entra?» «È in grado di accertare dove si trovasse quel giorno a quell'ora?» «Non sono in grado di dirlo. E non sono obbligato a rispondere a una simile domanda.» «I suoi versamenti a Pandora erano pagamenti o regali?» Redford strinse a pugno le mani, sotto il tavolo. «Ritengo che, al punto in cui siamo, sarà meglio che mi faccia affiancare da un legale.» «Certo, come vuole. L'interrogatorio viene sospeso per permettere all'in-
teressato di esercitare il suo diritto a farsi assistere da un legale. Spegnere.» Eve sorrise. «Farà bene a raccontare ai suoi avvocati tutto ciò che sa. A qualcuno deve dirlo. E, se ci sono altre persone coinvolte con lei in questa storia, le consiglio di cominciare a pensare seriamente a prendere le distanze da loro.» Si allontanò dal tavolo. «Nel corridoio c'è un apparecchio telefonico pubblico.» «Ho il mio», replicò seccamente Redford. «Le sarei grato se m'indicasse una stanza in cui io possa chiamare senza essere ascoltato.» «Sicuro. Venga con me.» Eve riuscì a schivare Whitney trasmettendo un aggiornamento della situazione senza avvicinarsi alla propria scrivania, poi afferrò al volo Peabody e uscì. «Ha fatto tremare Redford. L'ha veramente scosso.» «Era proprio quella la mia intenzione.» «È stato grazie al fatto di averlo aggredito da angolature diverse. All'inizio procedendo diritto in una stessa direzione e poi... bang! Con l'accenno al club gli ha fatto perdere l'equilibrio.» «Ma lui si è ripreso subito. Mi resta ancora da scoprire la carta del pagamento alla Fitzgerald, ma ormai lui non si farà più cogliere di sorpresa. Questo consulto coi suoi legali gli ha dato modo di tirare il fiato.» «Certo. E non commetterà più l'errore di sottovalutarla. Crede che sia stato lui a uccidere Pandora?» «Credo che potrebbe essere stato lui. Odiava Pandora. Se riuscissimo a collegarlo alla droga... Vedremo.» C'erano fin troppi angoli bui da esplorare, si disse Eve, e il tempo volava; ne mancava sempre meno all'udienza preliminare che avrebbe deciso del destino di Mavis. Se entro i prossimi due giorni lei non fosse riuscita a trovare qualche prova concreta... «Voglio che quella sostanza sconosciuta venga identificata. E voglio appurare da dov'è saltata fuori. Se troviamo la fonte, seguiamo quella pista.» «E allora tirerà dentro Casto? Questa è un'indagine che riguarda il suo campo d'azione.» «Lui può certamente avere contatti migliori. Ci divideremo i compiti non appena avremo identificato la sostanza sconosciuta.» Il suo cellulare vibrò, facendola trasalire. «Merda, lo so che è Whitney. Lo sento.» Assunse un'espressione vacua e rispose. «Dallas.» «Che diavolo sta facendo?» «Controllo una pista, signore. Mi sto recando in laboratorio.»
«Le avevo lasciato un messaggio in cui le ordinavo di presentarsi nel mio ufficio alle nove in punto.» «Mi dispiace, comandante, non l'ho visto. Non sono entrata nel mio ufficio. Se ha ricevuto il mio rapporto, vedrà che stamattina ero impegnata in un interrogatorio. Il soggetto in questione sta attualmente consultando i propri legali. Ritengo che...» «La smetta di svicolare, tenente. Alcuni minuti fa ho parlato con la dottoressa Mira.» Eve sentì la sua pelle ghiacciarsi, irrigidirsi. «Signore.» «Mi ha deluso, Dallas. Non capisco come lei abbia potuto pensare di sprecare il tempo del Dipartimento e la sua forza lavoro per una questione simile. Non abbiamo intenzione né desideriamo aprire un'indagine formale o fare qualsiasi inchiesta informale su quell'incidente. Il caso è chiuso e tale resterà. Mi ha capito bene, tenente?» In Eve si scatenò un vortice di emozioni: sollievo, senso di colpa, gratitudine. «Signore, io... Sì. Ho capito.» «Molto bene. La fuga di notizie a Channel 75 ha causato grossi problemi, qui da noi.» «Non ne dubito, signore.» Rispondi per le rime, maledizione, si ordinò. Pensa a Mavis. «Lei conosce la posizione del Dipartimento su chi trasmette ai media notizie che dovrebbero restare riservate.» «La conosco perfettamente.» «Come sta Ms Furst?» «Mi è parso, almeno a giudicare dalla sua immagine sullo schermo, che avesse un ottimo aspetto, comandante.» Lui si accigliò, ma c'era un luccichio nei suoi occhi. «Faccia pure quello che deve fare, Dallas. Ma alle diciotto in punto l'aspetto qui, nel mio ufficio. Abbiamo una dannata conferenza stampa.» «Se l'è cavata bene», si congratulò Peabody. «E senza mentire, a parte avergli detto che stavamo andando in laboratorio.» «Non ho specificato quale laboratorio.» «Di quale altro caso stava parlando? Mi è sembrato che quella questione l'abbia mandato su tutte le furie. Lei ha qualche altra indagine in corso, signore? Magari collegata a questa?» «No, è una vecchia storia. Una storia morta e sepolta.» Contenta di non aver dovuto aggiungere altro, Eve superò i cancelli della Futures Laboratories and Research, una consociata delle Roarke Industries. «Tenente Dal-
las, Dipartimento di polizia di New York», annunciò allo scanner. «Era attesa, tenente. La prego, proceda fino al parcheggio Blu. Lasci la sua vettura e prenda il bus C fino al complesso Est, settore sei, primo livello. Le verrà incontro qualcuno.» Quel qualcuno era un tecnico di laboratorio droide, che aveva le sembianze di una graziosa brunetta con la pelle bianca come il latte, occhi di un azzurro chiarissimo e una targhetta di riconoscimento che la identificava come Anna-6. La sua voce era melodiosa quanto il suono delle campane di una chiesa. «Buon pomeriggio, tenente. Spero che non sia stato difficile per lei trovarci.» «No, è filato tutto liscio.» «Tanto meglio. La dottoressa Engrave l'aspetta nel solarium. È un locale molto gradevole. Vi prego di seguirmi.» «Caspita, che droide», mormorò Peabody, al che Anna-6 si voltò e rivolse loro uno splendido sorriso. «Sono un nuovo modello, ancora in fase sperimentale. Attualmente noi prototipi siamo soltanto in dieci e lavoriamo tutti qui, in questo complesso. Speriamo di poter finire sul mercato entro sei mesi. La ricerca che ha permesso di crearci ha costi assai alti e, sfortunatamente, il nostro prezzo è ancora proibitivo per la maggior parte dei possibili acquirenti. Ci auguriamo che le aziende più importanti ci considerino un valido investimento, in attesa che la produzione in massa renda competitiva la spesa.» «Roarke ti ha già vista?» domandò Eve. «Sì, ovviamente. Ogni nuovo prodotto deve avere la sua approvazione. Lui è molto interessato al nostro aspetto.» «Ci avrei scommesso.» «Da questa parte, prego», continuò Anna-6, imboccando un lungo corridoio dal soffitto arcuato, tutto di un candore da ospedale. «La dottoressa Engrave ha trovato molto interessante il vostro campione. Sono sicura che le potrà essere di grande aiuto.» Si fermò accanto a un minuscolo schermo a parete e digitò un lungo codice. «Anna-6», annunciò ad alta voce. «Accompagnata dal tenente Dallas e dalla sua assistente.» Le piastrelle si aprirono lasciando intravedere una grande stanza piena di piante, illuminata da una gradevole luce solare artificiale. Si udivano il fruscio di un ruscello e il pigro ronzio di api soddisfatte. «Vi lascio qui. Tornerò più tardi a prendervi. Vi prego, chiedete pure una bibita rinfrescante, se ne avete voglia. La dottoressa Engrave si dimen-
tica spesso di offrire da bere.» «Va' a fare le tue smorfiette da qualche altra parte, Anna.» La voce stizzosa sembrò levarsi da un cespuglio di felci. Anna-6 si limitò a sorridere, fece un passo indietro e lasciò che le piastrelle tornassero a richiudersi. «Lo so che i droidi sono utili, ma non li sopporto. Venite avanti, sono qui, in mezzo alle spiree.» Eve si fece strada cautamente verso le felci e le attraversò. Vide una donna, inginocchiata in una vasca di terra nera e dall'aria fertile. I suoi capelli brizzolati erano raccolti in un disordinato chignon e le mani, arrossate, erano sporche di terra. Il camice, che in origine doveva essere bianco, era coperto da una moltitudine di macchie non meglio identificate. Quando la donna sollevò la testa, il viso aguzzo e scialbo si rivelò non meno sudicio degli indumenti. «Sto controllando i miei lombrichi. Ho creato una nuova specie», disse, sollevando una manciata di terra che sembrava dimenarsi. «Carini», commentò Eve, provando un certo sollievo quando la dottoressa seppellì quell'ammasso brulicante di vermi. «È lei, dunque, la famosa poliziotta di Roarke. Avevo sempre pensato che lui avrebbe scelto come moglie una di quelle fastidiose creature di razza pura, con il collo magro e le tette grosse.» Increspò le labbra mentre scrutava Eve da capo a piedi. «Sono contenta che non l'abbia fatto. Il guaio con le razze pure è che hanno bisogno di essere continuamente coccolate. Io preferisco avere ogni giorno un buon ibrido.» Si pulì le mani sporche sul camice lurido e si alzò, rivelando la propria altezza, che non superava il metro e cinquanta. «Scavare vermi è un'ottima terapia. La dovrebbero provare in molti, così non avrebbero bisogno di drogarsi per superare la giornata.» «A proposito di droghe...» «Sì, sì, seguitemi.» La dottoressa Engrave partì a passo di corsa, poi iniziò a rallentare, zigzagando. «Qui serve una sfrondatina. Qui manca azoto. E qui acqua. Questo ha le radici troppo compresse.» Si fermò accanto a foglie verdi lanceolate, viticci arricciolati, boccioli lussureggianti. «Siamo arrivati al punto che mi pagano per fare giardinaggio. Un lavoro gradevole, sempre che ti vada a genio. Lei sa che cos'è questo?» Stava indicando una sorta d'imbuto slabbrato, color porpora. Eve era convinta di sapere che cosa fosse, ma, temendo un trabocchetto, si limitò a rispondere: «Un fiore». «Una petunia. Ah, la gente ha dimenticato il fascino della flora tradizio-
nale.» Si fermò accanto a un lavabo e si sciacquò dalle mani parte della terra, che andò ad aggiungersi a quella già conficcata sotto le corte unghie scheggiate. «Oggi tutti vogliono la flora esotica. Più grande, più bella, diversa. Ma una bella aiuola di petunie può dare molto piacere con poco dispendio di attenzioni. Basta piantarle in terra, senza aspettarsi che diventino ciò che non sono, e te le godi. Hanno il pregio della semplicità, e non appassiscono se lanci loro un'occhiata storta. Un bel letto di petunie significa qualcosa. Ah, eccoci.» Si issò su uno sgabello davanti a un banco da lavoro ingombro di attrezzi da giardiniere, vasi, fogli di carta, un AutoChef che lampeggiava per segnalare di essere a secco e un elaborato computer ultimo modello. «Interessante, quel campione che mi ha fatto consegnare dal suo irlandese. Il quale, tra l'altro, conosce bene le petunie.» «Feeney è un uomo dalle molte doti», replicò Eve, sorridendo. «Gli ho regalato una bordura di viole del pensiero, per la moglie.» La dottoressa Engrave accese il computer. «Avevo già analizzato quello che mi era stato dato da Roarke, col velato comando di farlo al volo. Un altro irlandese, Roarke. Che Dio li benedica. Mi piacerebbe incrociare le mie erbe con qualcosa del genere. Il secondo campione mi ha dato più da penare.» «Allora ha già i risultati...» «Non mi aliti sul collo, figliola. Possono farlo solo gli irlandesi affascinanti. E non mi piace lavorare per i poliziotti», aggiunse la dottoressa con un largo sorriso. «Loro non apprezzano le meraviglie della scienza. Scommetto che voi due non conoscete neanche la tavola periodica, non è così?» «Ascolti, dottoressa...» Con grande sollievo di Eve, la formula lampeggiò sul monitor. «Il programma è schermato?» «Per entrare ci vuole la password, perciò non si agiti tanto. Roarke mi ha detto che si tratta di una questione estremamente riservata. Ho smesso di essere una testa di rapa prima ancora che lei venisse al mondo.» Con una delle sue mani sporche spinse Eve di lato, con l'altra indicò il monitor. «Dunque, non credo di doverle mostrare i componenti basilari. Anche un bambino li riconoscerebbe, perciò do per scontato che lei li abbia identificati.» «È il solo elemento sconosciuto...» «Conosco il ritornello, tenente. Il suo piccolo problema è qui.» Evidenziò una serie di fattori. «Non siete riusciti a etichettare questa parte della formula, perché è scritta in codice. Così vi trovate in mano solo un pugno
di dati senza senso. Ecco che cos'è questa roba, per voi.» Allungò una mano e prese un piccolo vetrino coperto da un velo di una sostanza polverosa. «Anche i vostri laboratori più all'avanguardia incontrerebbero serie difficoltà a ottenere questo risultato. In apparenza è una cosa, ma a fiuto risulta esserne un'altra. E, una volta che tutto è perfettamente mescolato, in questa forma, è la reazione chimica a indurre il cambiamento. Lei s'intende di chimica?» «Dovrei?» «Se ci fossero più persone in grado di capire...» «Dottoressa Engrave, io voglio capire il movente di un omicidio. Mi dica che cos'è quell'elemento, senza farmi perdere altro tempo.» «Al giorno d'oggi l'impazienza della gente è un altro serio problema», ribatté stizzita la dottoressa, tirando fuori un piccolo disco coperto, che conteneva alcune gocce di un liquido lattiginoso. «Poiché a lei tutto questo sembra irrilevante, non le spiegherò che cosa ho fatto. Diciamo che ho eseguito alcuni test, provocato alcune reazioni chimiche basilari e separato il vostro elemento sconosciuto.» «Sarebbe questo?» «In forma liquida, sì. Scommetto che un suo tecnico di laboratorio vi riconoscerebbe una specie di valeriana... originaria del sud-ovest degli Stati Uniti.» Eve guardò con attenzione. «E allora?» «Non avrebbe fatto centro, pur essendoci andato vicino. È un vegetale, d'accordo, e la valeriana è stata usata per l'innesto che gli ha dato origine. Questo è nettare, la sostanza che attira gli uccelli e le api e fa girare il mondo. Ma questo nettare non proviene da nessuna specie autoctona.» «In altre parole, una specie che non cresce negli Stati Uniti.» «Non cresce spontaneamente da nessuna parte. Punto.» Allungò la mano, afferrò un vasetto con una piantina e lo posò fragorosamente sul banco. «Eccolo qui, ancora in fasce.» «Grazioso», commentò Peabody, chinandosi sui lussureggianti boccioli dai margini arricciati, in tonalità che andavano dal bianco crema al rosso porpora. Annusò, chiuse gli occhi, tornò ad annusare più profondamente. «Dio, è stupendo. Sembra...» La testa le ondeggiò. «È forte.» «Ci può giurare che è forte. Ora basta, altrimenti resterà nel pallone per un'ora.» La dottoressa allontanò la piantina. «Peabody?» Eve afferrò l'agente per il braccio e la scosse. «Svegliati.» «È come bere un calice pieno di champagne in un sorso solo», disse Pe-
abody, premendosi una mano su una tempia. «È straordinario.» «Si tratta di un ibrido sperimentale», spiegò la dottoressa Engrave. «Nome in codice Immortal Blossom. Questa piantina è spuntata quattordici mesi fa e da allora non ha mai smesso di fiorire. Questi ibridi vengono coltivati sulla colonia Eden.» «Siediti, Peabody. Ed è il nettare di questi fiori ciò che stiamo cercando?» «Il nettare in sé è potente e induce nelle api una reazione molto simile a una sbornia. La stessa che si verifica coi frutti troppo maturi, per esempio le pesche autunnali, che hanno un succo molto concentrato. Tranne nei casi in cui l'assunzione di questo nettare è controllata, si è notato che le api che lo suggono in maniera spropositata finiscono per morire. Perché non riescono a staccarsene.» «Cadono in preda alla dipendenza dal nettare?» «Per così dire. Il fatto basilare è che rifiutano quello degli altri fiori perché sono tremendamente attratte solo da questi. Il laboratorio della polizia non ha riconosciuto la sostanza perché il nettare di questo ibrido compare soltanto nell'elenco dei prodotti delle colonie ortofrutticole coperti da segreto e ricade sotto la giurisdizione delle dogane galattiche. La colonia sta lavorando per ovviare al problema col nettare, che mette in forse le potenziali esportazioni.» «Dunque l'Immortal Blossom è una sostanza che non può essere smerciata liberamente.» «Almeno per il momento. Viene utilizzata in parte in campo farmaceutico e, più ampiamente, in quello cosmetico. L'ingestione del nettare contribuisce a rendere più luminosa la pelle, a ridare elasticità ai muscoli e a simulare una nuova giovinezza.» «Però è un veleno. Un uso prolungato sconvolge il sistema nervoso. E il nostro laboratorio l'ha confermato.» «Anche l'arsenico è letale e tuttavia le belle donne di un tempo lo assumevano in dosi infinitesimali per rendere più bianca e più luminosa la pelle. C'è chi è pronto a tutto pur di ottenere bellezza e giovinezza.» La dottoressa Engrave si strinse nelle spalle ossute, liquidando l'argomento. «In combinazione con gli altri elementi di questa formula, il nettare funge da catalizzatore. Il risultato è una droga chimica ad altissimo rischio di dipendenza che produce un aumento di energia e forza fisica, stimola il desiderio sessuale e crea la sensazione di una rinnovata giovinezza. Questi ibridi, se non tenuti sotto controllo, tendono a moltiplicarsi come conigli, il che li
rende adatti a una produzione in massa e a basso costo.» «Potrebbero propagarsi nelle condizioni climatiche di un pianeta?» «Assolutamente sì. La colonia Eden produce piante, fiori e vita vegetale compatibili con le condizioni di un pianeta.» «Perciò non ci vuole altro che qualche piantina», meditò Eve, «e un laboratorio che ci metta gli altri ingredienti.» «E si ottiene una droga in grado di conquistare un'infinità di persone. Basta pagare e si diventa forti, belli, giovani e sexy», disse la dottoressa con un sorriso acido. «Chiunque abbia inventato questa formula conosceva la chimica e la natura umana ed è consapevole della bellezza del profitto.» «Una bellezza mortale.» «Certo. Un uso regolare per un lasso di tempo che va da quattro a sei anni basta a stendere chiunque. Il sistema nervoso finisce letteralmente a pezzi. Ma è pur sempre un periodo dannatamente lungo per chi voglia fare soldi a palate.» «Come mai lei sa tante cose su questo... questo Immortal Blossom, dal momento che viene coltivato esclusivamente nella colonia Eden?» «Perché non solo eccello nel mio campo, ma faccio anche i compiti a casa, e fortuna vuole che mia figlia sia il capo degli apicoltori di Eden. A un laboratorio regolarmente registrato, come questo, o a un esperto di orticoltura è consentito d'importare un campione, senza limitazioni di sorta.» «Intende dire che alcune di queste piantine si trovano già qui, sul nostro pianeta?» «In gran parte sono copie, innocue imitazioni, ma ce n'è anche qualcuna autentica. Che deve sottostare a una severa normativa: utilizzo soltanto interno e sotto stretto controllo. Ora ho da innestare alcune rose. Prenda il rapporto e i due campioni e li porti ai suoi brillanti colleghi della centrale di polizia. Se riescono a capirci qualcosa, che vadano comunque al diavolo.» «Stai bene, Peabody?» chiese cautamente Eve, posandole una mano sul braccio mentre apriva la portiera dell'auto. «Sì, mi sento solo molto rilassata.» «Troppo rilassata per guidare», osservò Eve. «Volevo che tu mi lasciassi dal fiorista, ma sarà meglio passare al piano B: ti porto a mangiare qualcosa per annullare l'effetto degli effluvi di quei fiori, poi te ne vai in laboratorio a consegnare i campioni e il rapporto della dottoressa Engrave.» «Dallas.» Peabody lasciò ricadere la testa sullo schienale del sedile. «Mi
sento meravigliosamente bene.» Eve le lanciò un'occhiata circospetta. «Non è che ti metterai a baciarmi o roba simile?» Peabody la guardò in tralice. «Lei non è il mio tipo. In ogni caso non provo particolari pulsioni sessuali. Mi sento semplicemente bene. Se ingoiare quella roba fa lo stesso effetto dell'annusare il fiore, la gente darà i numeri per averla.» «Sì. E qualcuno ha già cominciato a darli, uccidendo tre persone.» Eve si precipitò verso il negozio del fiorista. Aveva a disposizione non più di venti minuti se voleva rintracciare gli altri indiziati, interrogarli, tornare alla centrale per redigere il rapporto e presentarsi alla conferenza stampa. Scorse Roarke che indugiava accanto a una sfilza di alberelli fioriti. «Il nostro consulente floreale ci sta aspettando.» «Scusa.» Eve si chiese perché mai la gente desiderasse alberi la cui altezza non superava i trenta centimetri. In confronto a quei bonsai, lei si sentiva un fenomeno da baraccone. «Sono in ritardo.» «Io stesso sono appena arrivato. La dottoressa Engrave ti è stata di qualche aiuto?» «Altroché. Però è un tipo strano.» Seguì Roarke sotto un pergolato di vite che spandeva un forte profumo. «Ho conosciuto Anna-6.» «Ah, una della linea di produzione Anna. Credo che riscuoteranno un gran successo.» «Specialmente presso gli adolescenti.» Roarke scoppiò a ridere e la sospinse in avanti. «Mark, ti presento la mia fidanzata, Eve Dallas.» «Ah, piacere.» Il fiorista aveva l'aria di un simpatico zio, ma, quando le prese la mano, la stretta che le diede non avrebbe sfigurato in un incontro a braccio di ferro tra campioni di lotta libera. «Vediamo un po' che cosa possiamo fare per voi. I matrimoni sono un affare complesso, e non mi avete lasciato molto tempo.» «Anche a me lui ne ha lasciato ben poco», replicò Eve. Mark rise e si batté la mano sui capelli argentei. «Sedetevi, rilassatevi, bevete un goccio di tè. Ho parecchio da mostrarvi.» A lei, dopotutto, andava bene qualsiasi cosa, decise Eve. Le piacevano i fiori; semplicemente non si era mai resa conto che ce ne fosse una tale varietà. Dopo cinque minuti la testa le cominciò a girare sotto quel profluvio
di orchidee, gigli, rose, gardenie. «Qualcosa di semplice», sentenziò Roarke. «Di tradizionale. Niente fiori falsi.» «Sì, ovviamente. Ho alcuni ologrammi che vi possono suggerire qualche idea. Se la cerimonia di nozze è all'aperto, vi proporrei un pergolato di glicine. Una pianta molto tradizionale, con un profumo gradevole, all'antica.» Eve osservò gli ologrammi, tentò d'immaginare se stessa in piedi accanto a Roarke sotto una cascata di glicine, a scambiarsi solenni promesse. Lo stomaco le si contrasse. «Che ne direste delle petunie?» Mark vacillò. «Petunie?» «A me piacciono. Sono semplici e non si spacciano per ciò che non sono.» «Sì, certo. Deliziose. Magari su uno sfondo di gigli. Quanto al colore...» «Ha qualche piantina di Immortal Blossom?» chiese impulsivamente Eve. «Ah, l'Immortal.» Gli occhi di Mark brillarono. «Una specie di fiore assai particolare. Difficile da importare, ovviamente, ma resistente e, riunito in fasci, molto decorativo. Ne ho diverse imitazioni.» «A me interessano gli originali», gli fece presente Eve. «Mi dispiace, ma questi fiori vengono esportati solo in quantità ridottissime e sono riservati a fioristi e orticoltori autorizzati. Inoltre vanno tenuti rigorosamente in luoghi chiusi. Dal momento che la vostra cerimonia si terrà all'aperto...» «Ne vende molti?» «Mi capita assai di rado e solo ad altri esperti di floricoltura provvisti di un'opportuna licenza. Posso proporle qualcosa di altrettanto bello...» «Prende nota di queste vendite? Può farmi avere un elenco dei nomi degli acquirenti? Lei consegna in tutto il mondo, non è così?» «Naturalmente, ma...» «Ho bisogno di sapere chi, negli ultimi due anni, ha ordinato fiori di Immortal.» Mark lanciò un'occhiata perplessa a Roarke, che si fece scorrere la lingua sui denti. «La mia fidanzata è avida di notizie sul giardinaggio.» «Ah, capisco. Mi ci vorrà qualche minuto per rintracciare i nomi. Perché lei li vuole tutti, giusto?» «Mi interessa chiunque abbia ordinato la specie Immortal Blossom alla colonia Eden negli ultimi due anni. Può cominciare con gli acquirenti che vivono negli Stati Uniti.»
«Se non le secca aspettare un attimo, vedrò che cosa posso fare.» «Mi piace l'idea del pergolato», commentò Eve balzando in piedi, dopo che Mark li ebbe lasciati. «A te no?» Roarke si alzò a sua volta e le posò le mani sulle spalle. «Perché non fai decidere a me gli addobbi floreali? Ti sorprenderò.» «Ti devo un favore.» «Puoi ben dirlo. Comincia a restituirmelo col ricordarti che venerdì dobbiamo assistere alla sfilata di Leonardo.» «Non l'ho dimenticato.» «E col ricordarti anche di chiedere un permesso di tre settimane per la nostra luna di miele.» «Mi pareva che avessimo parlato di due settimane.» «È vero, ma adesso me ne devi una terza. Ti dispiacerebbe spiegarmi questa tua improvvisa infatuazione per un fiore proveniente dalla colonia Eden? Devo forse presumere che hai identificato la tua sostanza sconosciuta?» «Sì, è il nettare di questi fiori. Ed è l'elemento che lega i tre delitti. Sempre che io riesca a dimostrarlo.» «Mi auguro che sia questo ciò che lei sta cercando», disse Mark, tornando indietro con un foglio di carta. «È stato meno difficile di quanto temessi. Gli ordini si contano sulle dita, perché la maggior parte degli acquirenti si è accontentata di imitazioni. Per importare la specie originale ci sono varie difficoltà da superare.» «Grazie.» Eve prese il foglio e scorse rapidamente i nomi. «Accidenti», mormorò, poi roteò verso Roarke. «Devo assolutamente andare. Compra un sacco di fiori, a vagonate. Non dimenticare le petunie.» Si lanciò verso l'uscita, estraendo il cellulare. «Peabody.» «Ma... il bouquet! Il bouquet nuziale.» Confuso, Mark si voltò verso Roarke. «Non l'ha scelto.» Roarke seguì con gli occhi Eve che si allontanava precipitosamente. «So che cosa le piace», disse. «Anche meglio di lei.» 15 Sono felice di rivederla, Mr Redford.» «Questa sta diventando un'abitudine sgradita, tenente.» Redford si sedette al tavolo degli interrogatori. «Da qui a qualche ora sono atteso a New Los Angeles. Confido che lei non mi faccia perdere troppo tempo.»
«Sono convinta che ogni ipotesi debba essere avvalorata da precise prove. Non vorrei mai che qualcosa o qualcuno riuscisse a svignarsela grazie a una piccola crepa nell'impianto accusatorio.» Lanciò una rapida occhiata verso l'angolo della stanza in cui si trovava Peabody, con l'uniforme che le dava un'aria molto ufficiale. Dall'altro lato dello specchio, cosa di cui Eve era consapevole, Whitney e il procuratore distrettuale osservavano attentamente la scena. In quel momento lei doveva vincere la partita, altrimenti si sarebbe giocata la carriera. Si sedette e salutò con un cenno del capo l'immagine olografica del legale scelto da Redford. Evidentemente né il produttore né i suoi consiglieri ritenevano che la situazione fosse tanto seria da richiedere l'intervento di una persona in carne e ossa. «Avvocato, ha la trascrizione delle deposizioni rese dal suo assistito?» «Sì.» L'immagine, in abito gessato e con lo sguardo duro, piegò le mani ben curate. «Il mio assistito ha pienamente collaborato con lei e col suo Dipartimento, tenente. Acconsentiamo all'interrogatorio odierno solo per mettere fine a questa incresciosa vicenda.» Acconsentite perché non avete altra scelta, pensò Eve, però mantenne un'espressione impassibile. «Le abbiamo dato atto della sua collaborazione, Mr Redford. Lei ha affermato di conoscere bene Pandora, di aver avuto con la donna una relazione intima, per quanto non esclusiva.» «Esatto.» «Era anche coinvolto in qualche affare con la defunta?» «Avevo prodotto due telefilm in cui Pandora recitava una parte. E ce n'era un terzo da mettere in cantiere.» «Queste iniziative avevano avuto successo?» «Moderatamente.» «E, al di fuori di queste iniziative, aveva in ballo con Pandora qualche altro progetto?» «No.» Un debole sorriso gli piegò gli angoli della bocca. «A parte un piccolo investimento speculativo.» «Un piccolo investimento speculativo?» «Pandora sosteneva di aver posto le basi per il lancio di una sua linea esclusiva nel campo della moda e dei prodotti di bellezza. Ovviamente aveva bisogno di un finanziatore e io, siccome ritenevo che il progetto fosse abbastanza interessante, avevo deciso d'investirci qualcosa.» «In altri termini, le aveva dato del denaro.» «Sì. Nel corso dell'ultimo anno e mezzo, vi avevo investito oltre trecen-
tomila dollari.» Hai trovato il modo di pararti il culo, pensò Eve, appoggiandosi allo schienale della sedia. «A che punto è la produzione di abiti e prodotti di bellezza che, secondo quanto lei ha affermato, la defunta stava mettendo in piedi?» «A nessun punto, tenente.» Redford sollevò le mani, poi le lasciò ricadere. «Sono stato ingannato. Solo dopo la morte di Pandora ho scoperto che non c'era nessuna linea, nessun altro finanziatore, nessuna merce in fabbricazione.» «Capisco. Lei è un produttore di successo, un uomo che sa come far fruttare il proprio denaro. Avrà pur chiesto a Pandora di esibire prospetti informativi, bilanci preventivi con tanto di entrate e uscite, prospettive di guadagno. Magari anche un campione dei prodotti.» «No.» Redford strinse le labbra, mentre abbassava lo sguardo sulle mani. «Non l'ho fatto.» «E lei si aspetta che io creda alla sua affermazione di aver dato il denaro a Pandora per un progetto di cui ignorava tutto?» «È imbarazzante.» Risollevò lo sguardo. «Ho un'ottima reputazione nel mondo degli affari e, se questa storia dovesse diventare di dominio pubblico, è indubbio che il mio nome ne risentirebbe.» «Tenente», intervenne l'avvocato, «la reputazione del mio assistito è un patrimonio tangibile, che potrebbe essere danneggiato se queste informazioni uscissero dall'ambito dell'indagine in corso. Presenterò istanza, com'è mio diritto, affinché questa parte della sua deposizione resti strettamente riservata, per proteggere gli interessi del mio cliente.» «Faccia pure. La sua è una storia strana, Mr Redford. Vuole dirmi ora per quale motivo un uomo con la sua reputazione, con un simile patrimonio alle spalle, avrebbe finanziato con trecentomila dollari un'attività che non esisteva?» «Pandora era una donna molto convincente, oltre che molto bella. E aveva anche cervello. Era riuscita a eludere la mia richiesta di prospetti e bilanci di previsione. Avevo continuato a pagare perché la ritenevo un'esperta nel suo campo.» «E si è reso conto della sua doppiezza solo dopo che era morta.» «Ho fatto alcune ricerche... ho contattato il suo agente d'affari, il suo rappresentante.» Redford gonfiò le guance e riuscì quasi a sembrare imbarazzato. «Nessuno sapeva nulla della nuova linea.» «Quando ha fatto tali ricerche?»
Il produttore esitò per una frazione di secondo. «Oggi pomeriggio.» «Dopo il nostro colloquio? Dopo che le avevo chiesto spiegazioni sui pagamenti?» «Esatto. Prima di rispondere alle sue domande ho voluto assicurarmi che non ci fossero coinvolgimenti di nessun genere. Su consiglio del mio legale, ho contattato l'équipe di Pandora e ho scoperto di essere stato truffato.» «Il suo tempismo è... eccezionale. Ha qualche hobby, Mr Redford?» «Hobby?» «Un uomo con un lavoro così stressante come il suo, con un tale... patrimonio, deve aver bisogno di rilassarsi un po'. Collezionando francobolli, giocando al computer, facendo giardinaggio.» «Tenente», disse l'avvocato in tono stanco, «che cos'ha questo a che vedere con l'indagine?» «Mi interessa appurare come il suo assistito trascorre il tempo libero. Finora abbiamo parlato delle sue attività affaristiche. Forse lei, Mr Redford, si diverte a fare investimenti come valvola di sfogo.» «No, Pandora è stato il mio primo sbaglio e sarà anche l'ultimo. Non ho tempo per permettermi un hobby e non ne ho neppure l'inclinazione.» «So che cosa intende. Proprio oggi mi sono sentita dire che c'è gente che si diverte a piantare petunie, ma io non riesco a immaginare che si possa sprecare il proprio tempo scavando nella terra e sporcandosi le mani coi fiori. Non che a me i fiori non piacciano. E a lei?» «Ci vogliono anche quelli. Per questo motivo ho una squadra di persone che se ne occupa.» «Eppure lei è un floricoltore patentato.» «Io...» «Lei ha chiesto la licenza per svolgere tale attività e l'ha ottenuta circa tre mesi fa. Più o meno all'epoca in cui ha pagato a Jerry Fitzgerald la bella somma di centoventicinquemila dollari. E, due giorni prima, aveva fatto un ordine alla colonia Eden per un Immortal Blossom.» «L'interesse del mio cliente per la flora non ha nessuna rilevanza rispetto al caso in questione», fece l'avvocato. «Ne ha, e parecchia», ribatté Eve, «e questo è un interrogatorio, non un processo. Non ho bisogno di attenermi alle cose rilevanti. Perché voleva avere un Immortal?» «Io... era un regalo. Per Pandora.» «Lei si è accollato una considerevole perdita di tempo, un sacco di fastidi e una grossa spesa per ottenere una licenza, dopo di che ha sborsato
un'altra bella cifra per acquistare una specie soggetta a severe restrizioni e regalarla a una donna con cui lei aveva occasionalmente rapporti sessuali. Una donna che negli ultimi diciotto mesi le aveva sfilato di tasca oltre trecentomila dollari.» «Era un investimento...» «Balle. Si risparmi le sue obiezioni, avvocato, perché le conosco già. Dove si trova adesso l'Immortal?» «A New Los Angeles.» «Agente Peabody, provveda affinché venga confiscato.» «Ehi, un attimo.» Redford spinse rumorosamente indietro la sedia. «È roba mia, ho pagato per averlo.» «Lei ha falsificato i dati sulla sua licenza. Ha acquistato illegalmente una specie protetta. L'Immortal sarà confiscato, e lei ne risponderà opportunamente in tribunale. Peabody?» «Signorsì.» Soffocando un risolino, Peabody estrasse il cellulare e comunicò l'ordine. «Questa è un'evidente vessazione», intervenne l'avvocato, con aria accigliata. «E le ultime accuse sono ridicole.» «Oh, aspetti di sentire il resto. Lei, Redford, conosceva bene l'Immortal Blossom, sapeva che era un ingrediente necessario per produrre una certa droga. Droga con cui Pandora aveva tutte le intenzioni di fare soldi a palate, cercando magari di soffiare a lei quel lucroso affare.» «Non so di che cosa stia parlando.» «Pandora gliel'aveva fatta provare, almeno quel tanto da indurre dipendenza? Forse aveva cominciato a rifiutargliela, fino a costringerla a supplicare per averne ancora. O fino a farle desiderare di ucciderla.» «Io non ho mai toccato quella roba», proruppe Redford. «Ma sapeva che cos'era. Sapeva che Pandora ne era in possesso. E c'era il modo per ottenerne altra. Ha deciso di estromettere Pandora dall'affare? Tirando dentro Jerry? Lei ha comprato la piantina. Appureremo se ha fatto analizzare la sostanza. Avendo quei fiori, poteva fabbricare da sé la droga. Non avrebbe avuto più bisogno di Pandora, che tuttavia lei non riusciva più a tenere sotto controllo. Quella donna voleva altro denaro, altra droga. Lei ha scoperto che l'uso di quella sostanza era letale, ma perché attendere cinque anni? Una volta eliminata Pandora, lei avrebbe avuto campo libero.» «Non l'ho uccisa. Avevo chiuso con lei. Non avevo motivo di farla fuori.»
«Quella notte lei è andato a casa di Pandora. Avete avuto un rapporto sessuale. Pandora aveva la droga. Se n'è servita per schernirla? Lei, Redford, aveva già ucciso due volte per proteggere se stesso e i suoi investimenti, ma quella donna le bloccava la strada.» «Non ho ucciso nessuno.» Eve lasciò che sbraitasse, attese che l'avvocato finisse di obiettare e minacciare, poi riprese. «Quella notte ha seguito Pandora fino all'atelier di Leonardo o l'ha accompagnata lei stesso?» «Non ho mai messo piede in quel posto. Non ho mai torto un capello a Pandora. Se avessi voluto ucciderla, l'avrei fatto in casa sua, quando mi ha minacciato.» «Paul...» «Sta' zitto, taci», proruppe Redford, rivolto al suo legale. «Cristo santo, Pandora cercava di affibbiarmi la colpa di quegli omicidi. Abbiamo litigato furiosamente. Lei voleva altro denaro, un mucchio di soldi. Si è assicurata che io vedessi quanta droga aveva, a sua completa disposizione. Un quantitativo che valeva una fortuna. Però io avevo già fatto analizzare la droga. Non avevo più bisogno di Pandora e gliel'ho detto. Avevo ingaggiato Jerry affinché facesse da testimonial al nuovo prodotto, non appena fosse stato pronto per essere lanciato sul mercato. Pandora è andata su tutte le furie e ha minacciato di rovinarmi, di uccidermi. Allora l'ho piantata in asso, il che è stato molto gratificante.» «Lei aveva intenzione di produrre da sé e distribuire quella droga?» «Come cosmetico», rispose Redford, fregandosi la bocca col dorso della mano. «Non appena fosse stato pronto. Era un prodotto eccezionale. Avrei fatto un mucchio di soldi. Le minacce di Pandora non significavano nulla per me, lo capisce? Non avrebbe potuto rovinarmi senza rovinare se stessa e, questo, non l'avrebbe mai fatto. Avevo chiuso con lei. Quando ho saputo che era morta, ho aperto una bottiglia di champagne e ho brindato al suo assassino.» «Un gesto simpatico. Ora ricominciamo da capo.» Dopo che Redford fu portato via per essere schedato e chiuso in cella, Eve andò nell'ufficio del comandante. «Un ottimo lavoro, tenente.» «Grazie, signore. Però avrei preferito arrestarlo per omicidio più che per fabbricazione di sostanza illecita.» «Da cosa nasce cosa.»
«Lo spero. Salve, procuratore.» «Tenente.» Il procuratore si era alzato, quando lei era entrata, e non si era rimesso a sedere. I suoi modi squisiti erano ben noti, dentro e fuori le aule di giustizia. Anche quando c'era un omicidio in ballo, non rinunciava alle formalità. «Ammiro la tecnica che usa durante gli interrogatori. Mi piacerebbe molto averla sul banco dei testimoni, ma non credo che questa storia sfocerà in un processo. Il legale di Mr Redford ha già contattato il mio ufficio. Arriveremo a un compromesso.» «E per quanto riguarda i tre omicidi?» «Non ci sono elementi sufficienti per incastrarlo. Nessuna prova materiale», proseguì, prima che Eve potesse protestare, «e, per quanto concerne il movente... lei stessa ha dimostrato che, prima ancora della morte di Pandora, Redford aveva i mezzi per risolvere ogni cosa. È possibile, certo, che il colpevole sia lui, ma abbiamo bisogno di ben altro per ritenere valide le accuse.» «Eppure lei ha ritenuto valide quelle contro Mavis Freestone.» «C'erano prove schiaccianti», le ricordò il procuratore. «Lei sa che non è stata Mavis Freestone a uccidere Pandora. Sa pure che le tre vittime di questo caso sono legate tra loro.» Fissò Casto, sdraiato in una poltrona. «Anche la Narcotici ne è consapevole.» «Quanto a questo, sono solidale col tenente», disse Casto con voce strascicata. «Abbiamo indagato sull'eventuale coinvolgimento della Freestone con la sostanza nota col nome di Immortality e non abbiamo trovato nessun legame tra lei e la droga o una delle altre due vittime. La fedina penale dell'indagata ha qualche macchia in proposito, ma si tratta di roba vecchia e di scarsa rilevanza. Se vuole il mio parere, la signora in questione si è soltanto trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.» Rivolse un sorriso a Eve. «Ritengo mio dovere schierarmi con tutto il mio peso a fianco del tenente Dallas e chiedo che le accuse contro Mavis Freestone vengano lasciate cadere in attesa della conclusione delle indagini.» «La sua richiesta è accolta, tenente Casto», replicò il procuratore. «Il mio ufficio la terrà in considerazione nel riprendere in esame tutti gli elementi emersi. A questo punto, l'ipotesi che i tre omicidi siano collegati tra loro non risulta suffragata da prove concrete. Il mio ufficio, però, è disposto ad accettare la recente richiesta dei legali di Ms Freestone di sottoporre l'indagata a nuovi test con la macchina della verità, l'autoipnosi e una seduta di realtà virtuale. I risultati di questi test peseranno notevolmente sulle nostre decisioni.»
Eve si lasciò sfuggire un lento e lungo sospiro. Finalmente si apriva uno spiraglio, che permetteva di sperare in bene. «Grazie.» «Siamo tutti sulla stessa barca, tenente. Ora ognuno di noi deve tenerlo a mente, per stabilire una linea comune in previsione della conferenza stampa.» Mentre stavano per uscire, Eve si avvicinò a Casto. «Ti sono riconoscente per quanto hai detto.» Lui alzò le spalle. «Era il mio parere professionale. Mi auguro che ciò possa giovare alla tua amica. Secondo me, Redford gronda colpevolezza da tutti i pori, che abbia massacrato lui personalmente le tre persone o abbia pagato un sicario per farlo.» Eve avrebbe voluto dargli ragione, ma scosse lentamente il capo. «Da professionista a professionista: Redford non mi sembra il tipo da ricorrere a un sicario, perché è il classico uomo che fa tutto da sé. Comunque, grazie per l'aiuto.» «Se vuoi, considera di aver saldato il conto con l'avermi affidato uno dei più grossi casi dell'ultimo decennio nel settore degli stupefacenti. Quando tutto sarà stato risolto, e l'opinione pubblica verrà informata di come siamo riusciti a sbaragliare il pericolo rappresentato dalla droga Immortality, potrò tranquillamente aspirare al grado di ufficiale.» «Congratulazioni anticipate, allora.» «Direi che questo vale per entrambi. Non appena sarai riuscita a risolvere questi omicidi, anche tu, come me, ti troverai seduta sugli allori.» «Li risolverò, ci puoi giurare.» Eve aggrottò la fronte nel sentirsi passare tra i capelli la mano di Casto. «Che bella chioma.» Con un rapido sorriso, lui s'infilò le mani in tasca. «Sei veramente sicura di volerti sposare?» Piegando da un lato la testa, Eve sorrise a sua volta. «Ho sentito che vai a cena con Peabody.» «Lei è deliziosa, questo è innegabile. Ma io ho un debole per le donne forti, Eve, e devi perdonarmi se mi sento deluso per essere arrivato troppo tardi.» «Perché invece non dovrei sentirmi lusingata?» In quel momento colse un segnale da parte di Whitney e sospirò. «Oh, accidenti, dobbiamo andare.» «Non ti senti come un bel boccone di carne da lanciare ai cani?» mormorò Casto quando la porta si aprì rivelando un'orda di cronisti.
Riuscirono a superare indenni la conferenza stampa. Eve avrebbe tirato un sospiro di sollievo all'idea di aver concluso una buona giornata di lavoro, se Nadine non le avesse teso un'imboscata nel garage sotterraneo. «Quest'area è vietata alle persone non autorizzate.» «Raccontami qualcosa di sfizioso, Dallas.» Restando sdraiata sul cofano dell'auto di Eve, la giornalista sorrise. «Che ne diresti di darmi un passaggio?» «La sede di Channel 75 non è sulla mia strada.» Ma Nadine non accennava a muoversi, così Eve imprecò tra sé e sbloccò la serratura della portiera. «Monta.» «Hai un ottimo aspetto», commentò disinvoltamente la giornalista. «Chi è l'acconciatore?» «Un'amica di un amico. Ma sono stufa di parlare dei miei capelli.» «Va bene, allora parliamo di delitti, droghe e denaro.» «Mi sono appena dilungata per tre quarti d'ora su simili argomenti.» Eve fece balenare il distintivo davanti alla telecamera di sicurezza e uscì di volata in strada. «Ero convinta che ci fossi anche tu con gli altri giornalisti.» «Io ho assistito soltanto a un mucchio di abili schermaglie. Che cos'è questo rumore stridulo?» «La mia vettura che canta.» «Oh, sei di nuovo alle prese coi tagli al budget finanziario del Dipartimento, non è così? È una vergogna. Ma che cos'è questa voce che starebbe per partire una nuova serie d'indagini?» «Non sono autorizzata a discutere i particolari dell'inchiesta in corso.» «E che mi dici di Paul Redford?» «Come dichiarato in conferenza stampa, Redford è stato accusato di frode, di possesso illegale di un campione riservato e di tentata produzione e distribuzione di sostanza illecita.» «E come si lega tutto ciò al delitto Pandora?» «Non sono autorizzata a...» «Va bene, va bene.» Nadine fissò con aria accigliata il traffico che ostruiva la strada. «Che ne diresti di fare uno scambio?» «Se ne può parlare. Comincia tu.» «Voglio un'intervista esclusiva con Mavis Freestone.» Eve non si preoccupò di rispondere. Si limitò a sbuffare. «Su, Dallas, lascia che lei racconti al pubblico la sua versione dei fatti.» «Al diavolo il pubblico!» «Posso riferire queste tue parole? Tu e Roarke l'avete segregata. Nessu-
no può arrivare fino a lei. Sai bene che io la tratterei coi guanti.» «Sì, l'abbiamo segregata. No, nessuno può e potrà arrivare fino a lei. E tu probabilmente la tratteresti coi guanti, ma lei non farà nessuna dichiarazione ai media.» «È una decisione di Mavis o tua?» «Ora piantala, Nadine, altrimenti da qui in poi dovrai cercarti un mezzo di trasporto pubblico.» «Riferiscile soltanto la mia proposta. Ti chiedo solo questo, Dallas. Falle sapere che sono interessata a permetterle di raccontare in televisione la sua storia.» «Va bene, ma ora cambia canale.» «D'accordo. Oggi pomeriggio ho ricevuto una piccola e ghiotta soffiata dal conduttore del nostro programma di gossip.» «Tu sai quanto io ami sentire i ridicoli dettagli della vita dei ricchi.» «Dallas, fattene una ragione, stai per diventare una di loro.» Nel vedere la furiosa smorfia di Eve, Nadine scoppiò in una risata. «Cristo, adoro punzecchiarti. È così facile. Comunque, corre voce che la coppia più famosa degli ultimi due mesi sia andata in pezzi.» «Non sto più nella pelle dalla curiosità.» «Non farai più tanto la spiritosa quando saprai che la coppia in questione è quella formata da Jerry Fitzgerald e Justin Young.» Il livello d'interesse di Eve si alzò a sufficienza da farle scartare momentaneamente l'idea di fermarsi accanto alla fermata di un bus e far scendere la sua passeggera. «Va' avanti.» «Alla prova odierna della sfilata di Leonardo c'è stato un pubblico diverbio. A quanto pare, i nostri piccioncini sono passati alle mani. Un violento scambio di botte.» «Si sono picchiati?» «Non erano certo schiaffetti amorosi, secondo la mia fonte. Jerry si è ritirata nel proprio spogliatoio - a proposito, è lei adesso a occupare il posto della modella più importante - e Justin è andato via di pessimo umore e con un occhio nero. Alcune ore più tardi è stato visto a Maui, a flirtare con un'altra bionda. Anche lei indossatrice. Ma più giovane.» «Per quale motivo avrebbero litigato?» «Nessuno lo sa con certezza. Si ritiene però che il sesso ci abbia messo lo zampino. Jerry ha accusato Justin di averla tradita, e lui ha fatto altrettanto. Lei non era disposta a sopportare un simile affronto e lui neppure. Nessuno dei due aveva più bisogno del partner.»
«È interessante, Nadine, ma non significa nulla.» Se non fosse per la scelta del momento, pensò Eve. Oh, sì, quale tempismo. «Forse sì, forse no. Ma è una storia divertente: due personaggi pubblici come loro, entrambi osannati dai media, che perdono le staffe davanti a tutti. Mi viene da pensare che fossero entrambi su di giri o che abbiano recitato una commedia.» «Come ti ho detto, è interessante.» Eve si fermò davanti ai cancelli di Channel 75. «Siamo arrivati a fine corsa.» «Potresti portarmi fino all'ingresso.» «Prendi il pulmino navetta, Nadine.» «Ascolta, lo sai pure tu che vale la pena di controllare ciò che ti ho appena detto, perciò che ne diresti di pareggiare il conto? Dallas, tu e io abbiamo una storia in comune.» Il che era abbastanza vero. «Nadine, al momento la situazione è dannatamente in bilico. Non posso correre il rischio di farla precipitare.» «Non ne parlerò in trasmissione finché tu non mi darai il via libera.» Eve esitò, poi scosse la testa. «Non posso. Mavis è troppo importante per me. Finché non sarà stata completamente scagionata, non voglio correre rischi.» «Sta per essere scagionata? Su, Dallas, dimmelo.» «Posso solo dirti, in via ufficiosa, che il procuratore intende riconsiderare le accuse. Ma non le ritira, almeno per ora.» «Sospetti di qualcun altro? Redford? È lui il nuovo principale indagato?» «Non mi forzare la mano, Nadine. Sei quasi un'amica per me.» «D'accordo. Ma, se qualcosa di ciò che ti ho detto o che ti farò sapere in seguito ti aiuterà a risolvere il caso, dovrai darmi qualcos'altro in cambio.» «Ti informerò, non appena tutto sarà stato risolto.» «Voglio un faccia a faccia con te, dieci minuti prima che le notizie arrivino agli altri media.» Eve si chinò e spalancò la portiera di Nadine. «Arrivederci.» «Cinque minuti. Maledizione, Dallas, ti chiedo solo cinque miserabili minuti.» Che significavano, come Eve ben sapeva, centinaia di punti in più di indici d'ascolto e migliaia di dollari. «Vada per cinque... se e quando. Non posso prometterti altro.» «Aspetto il quando.» Soddisfatta, Nadine scese dall'auto, poi si chinò sulla portiera. «Sai, Dallas, tu non sbagli mai un colpo. Prima o poi ce la
farai. Sei nata per difendere i morti e gli innocenti.» I morti e gli innocenti, pensò Eve, con un brivido, mentre si allontanava. Sapeva che fin troppi morti erano colpevoli. La luce della luna filtrava dal lucernario sul letto, quando Roarke si sollevò da Eve. Era per lui un'esperienza nuova, quel nervosismo prima, durante e dopo il rapporto sessuale. C'erano dozzine di ragioni, o almeno così si disse mentre lei gli si raggomitolava accanto, com'era sua abitudine. Anzitutto la casa era piena di gente: la variopinta équipe di Leonardo aveva occupato più di un'intera ala dell'edificio per le sue eccentriche attività. In secondo luogo lui aveva svariati progetti e affari in diverse fasi di sviluppo, tutte iniziative che intendeva concludere prima del matrimonio. Infine c'era il matrimonio in sé. Certamente un uomo aveva diritto a essere un po' teso in una situazione del genere. Ma Roarke era, almeno con se stesso, di una sincerità brutale. Il suo nervosismo era dovuto a una sola causa. Era l'immagine, che non riusciva a togliersi di mente, di Eve percossa, insanguinata, spezzata. E il terrore che provava all'idea che il solo toccarla potesse risvegliare in lei quei ricordi trasformava qualcosa di bello in qualcosa di bestiale. Eve, al suo fianco, si stirò, poi sollevò il viso a guardarlo. Aveva la pelle ancora arrossata, gli occhi sgranati. «Non so se è giusto che te ne parli.» Roarke seguì con un dito la linea della sua mascella. «Di che cosa si tratta?» «Non sono fragile. Non c'è motivo per cui tu mi debba trattare come se fossi ferita.» Lui aggrottò le sopracciglia, rivolgendo contro di sé la stizza. Non si era reso conto che i suoi sentimenti potevano trasparire così chiaramente, persino con lei. Era una sensazione sgradita. «Non capisco che cosa tu voglia dire.» Fece per alzarsi, con l'idea di versarsi qualcosa da bere di cui non sentiva il bisogno, ma lei lo trattenne, stringendogli con forza il braccio. «La fuga non rientra nel tuo stile, Roarke.» Era preoccupata. «Se i tuoi sentimenti sono cambiati per ciò che ho commesso, che ho ricordato...» «Non insultarmi», sbottò lui, e la rabbia che germogliò nei suoi occhi fece tirare a Eve un sospiro di sollievo. «Che cos'altro dovrei pensare? È la prima volta che mi tocchi da quella notte. E mi hai più coccolata che...» «Hai un problema con la tenerezza?» Era intelligente, si disse Eve. Calmo o infuriato, sapeva sempre come
voltare la situazione a proprio favore. Sempre stringendogli il braccio, lo fissò negli occhi. «Credi che non mi accorga che ti trattieni? Non voglio che tu ti trattenga. Sto bene.» «Io, no.» Liberò il braccio. «Io, no. Alcuni di noi sono un po' più umani, hanno bisogno di un po' di tempo in più. Accantoniamo l'argomento.» Le sue parole furono come un violento ceffone su una guancia nuda. Eve assentì, s'infilò sotto le lenzuola e gli voltò la schiena. «Va bene. Ma ciò che è accaduto quand'ero bambina non aveva nulla a che vedere col sesso. Erano solo atti osceni.» Chiuse con forza gli occhi e si sforzò di prendere sonno. 16 Quando il suo cellulare ronzò, non era ancora l'alba. Con gli occhi chiusi, Eve allungò una mano. «Dallas. Accendere solo l'audio.» «Dallas, tenente Eve. Comunicazione di servizio. Probabile omicidio, vittima di sesso maschile, sul retro dell'edificio numero 19 della 108th Street. Recarsi immediatamente sul luogo del delitto.» La tensione attanagliò Eve allo stomaco. Non era di turno, perciò nessuno avrebbe dovuto chiamarla. «Causa del decesso?» «A giudicare dalle apparenze, un pestaggio. La vittima non è stata ancora identificata perché il volto è sfigurato.» «Ricevuto. Maledizione!» Gettò le gambe oltre la sponda del letto e batté le palpebre nel vedere che Roarke si era già alzato e si stava vestendo. «Che cosa fai?» «Ti accompagno sulla scena del delitto.» «Sei un civile. Non hai affari da combinare nel luogo di un omicidio.» Roarke si limitò a lanciarle un'occhiata, mentre lei s'infilava i jeans. «La tua auto, tenente, è in riparazione.» Fu leggermente gratificato dal sentirla emettere sottovoce una serie di imprecazioni, nel ricordarsi di essere momentaneamente appiedata. «Ti porto fin là. E ti lascio», specificò. «È sulla strada che conduce al mio ufficio.» «Fa' come ti pare», ribatté Eve, agganciandosi la fondina dell'arma. Era un sobborgo miserabile. Diversi edifici, sfregiati da graffiti osceni, avevano i vetri rotti e altri segni di degrado che ne dichiaravano l'inagibilità. Eppure, ovviamente, c'era ancora gente che ci abitava, ammucchiata in luride stanze, attenta a non farsi cogliere dagli agenti di pattuglia e deside-
rosa solo di fare uso di qualunque sostanza stimolante. In ogni parte del mondo c'erano periferie come quella, pensò Roarke mentre si fermava nella fioca luce dell'alba dietro le transenne della polizia. Lui era cresciuto in una simile, anche se si trovava al di là dell'Atlantico, a quasi cinquemila chilometri di distanza. Si rendeva perciò perfettamente conto del tipo di esistenza che si viveva in quel posto, della disperazione che vi regnava, dei suoi traffici illeciti, così come capiva la violenza che aveva portato al crimine di cui Eve si stava in quel momento occupando. Nell'osservarla in mezzo a quei derelitti, tra le sonnacchiose battone e i passanti che occhieggiavano, animati da una sordida curiosità, si rese conto di capire bene anche lei. Le sue mosse erano brusche, il volto impassibile. Ma c'era pietà nei suoi occhi, che scrutavano ciò che un tempo era stato un uomo. Eve era brava, forte e resistente, si disse. Nonostante le ferite che le erano state inferte, sarebbe sopravvissuta. Aveva bisogno non di essere curata da lui, ma di essere accettata. «Lei qui è un pesce fuor d'acqua, Roarke.» Roarke si voltò a guardare Feeney, apparso al suo fianco. «Sono stato in posti peggiori.» «Capita a tutti», sospirò il capitano, estraendo dalla tasca un tramezzino al formaggio ancora incartato. «Vuol fare colazione?» «Più tardi. Ma lei non faccia complimenti.» Feeney ingoiò il tramezzino in tre soli bocconi. «È meglio che io vada a vedere che cosa sta combinando la nostra amica.» Superò le transenne, battendosi il petto all'altezza del distintivo per tranquillizzare gli agenti che vigilavano nervosamente intorno alla scena del delitto. «È una fortuna che i giornalisti non siano già qui», commentò. Eve gli lanciò un'occhiata dal basso in alto. «Un omicidio in questo quartiere non riscuote un grande interesse... almeno finché non si verranno a sapere le modalità del decesso.» Era inginocchiata accanto al cadavere, con le mani coperte da guanti sterili trasparenti già lordi di sangue. «Avete ripreso ogni cosa?» Al segno d'assenso dei tecnici fotografici, infilò le mani sotto il corpo. «Aiutami a metterlo supino, Feeney.» Il morto era caduto - o era stato lasciato - bocconi, con un buco nella nuca grande quanto un pugno, dal quale era fuoriuscita una grande quantità di sangue e materia cerebrale. Ma anche dall'altra parte non aveva un aspetto migliore.
«La vittima non è stata ancora identificata», riferì Eve. «Peabody è entrata nell'edificio e sta bussando a tutte le porte, nella speranza di trovare qualcuno che conosca il morto o abbia visto qualcosa.» Feeney sollevò lo sguardo e osservò il retro dell'edificio. C'erano solo due finestre, coi vetri luridi e chiuse da pesanti sbarre. Si guardò intorno, nel cortile di cemento su cui Eve e lui erano accovacciati, e vide un congegno per il riciclaggio completamente sfasciato, una campana per i rifiuti, cianfrusaglie varie e pezzi di metallo arrugginiti. «Che visione squallida», commentò. «Non c'è ancora modo d'identificarlo?» «Gli ho preso le impronte digitali. Uno degli agenti le sta controllando. Quanto all'arma del delitto, è già stata trovata. Una spranga di ferro, gettata sotto il congegno per il riciclaggio.» Con gli occhi ridotti a due fessure, Eve studiò il cadavere. «Nel caso di Boomer o di Hetta Moppett l'assassino non ha lasciato l'arma. Nell'atelier di Leonardo invece sì, ma per un motivo più che evidente. Adesso, come se volesse giocare con noi, l'ha messa in un posto dove anche una rana cieca avrebbe finito per inciamparci. Che cosa ne pensi, Feeney, di questo tipo?» Infilò un dito sotto una larga bretella rosa fosforescente. Feeney grugnì. Il cadavere indossava abiti alla moda. Pantaloncini a tubo lunghi fino al ginocchio in una stoffa a righe multicolori, T-shirt argentata, costosi sandali adorni di perline. «Aveva denaro da buttar via, perché questi orridi indumenti costano un occhio della testa.» Feeney osservò di nuovo l'edificio. «Se abitava qui, non impegnava i suoi soldi nel mercato immobiliare.» «Uno spacciatore, di medio livello», decise Eve. «Abitava qui perché qui c'era la sua clientela.» Si rialzò, e si stava pulendo sui jeans le mani sporche di sangue quando si avvicinò a lei un agente. «Abbiamo rintracciato le impronte digitali, tenente. La vittima è stata identificata come Lamont Ro, detto anche 'lo Scarafaggio'. Ha una fedina penale lunga un chilometro. Reati di droga, in massima parte. Possesso di stupefacenti, fabbricazione a scopo di spaccio, un paio di aggressioni.» «Non faceva l'informatore per nessuno?» «Questo particolare non è saltato fuori.» Eve lanciò un'occhiata a Feeney, che con un altro grugnito le confermò di aver ricevuto la silenziosa richiesta d'aiuto. Lui avrebbe indagato e scoperto come stavano le cose. «Va bene, mettetelo nel sacco e portatelo via. Voglio che sia sottoposto a un esame tossicologico. Fate pure venire gli
uomini della Scientifica.» Mentre si guardava di nuovo intorno, scorse Roarke. «Ho bisogno di un passaggio, Feeney.» «Se vuoi.» «Scusa solo un attimo.» Eve si avvicinò alle transenne. «Mi era parso di capire che saresti andato in ufficio.» «Ora ci vado, infatti. Hai finito qui?» replicò Roarke. «Devo verificare ancora qualcosa. Mi farò dare un passaggio da Feeney.» «Sei convinta che anche in questo caso l'assassino sia sempre lo stesso.» Eve fu sul punto di dirgli che quelli erano affari della polizia, poi si strinse nelle spalle. Nel giro di un'ora i media avrebbero affondato in quella storia i loro avidi artigli. «A giudicare da come il suo volto è stato ridotto a un ammasso gelatinoso, ci potrei scommettere. Devo...» Le urla la fecero girare di scatto. Grida prolungate, stridenti, che avrebbero potuto forare l'acciaio. Vide la donna, imponente, vestita soltanto di un paio di mutandine rosse, uscire a precipizio dall'edificio, travolgere due agenti che stavano sorseggiando un caffè, facendoli cadere a terra come birilli, e lanciarsi su ciò che restava dello Scarafaggio. «Oh, maledizione!» mormorò Eve, e si gettò all'inseguimento. A meno di un metro dal cadavere balzò in avanti e afferrò la donna in un placcaggio volante che portò entrambe a ricadere di schianto, e dolorosamente, al suolo. «È il mio uomo.» La donna guizzò come un pesce, nonostante il suo quintale di peso, e colpì Eve con le enormi mani. «È il mio uomo, stronza.» Nell'interesse dell'ordine pubblico, dell'integrità della scena del delitto e della propria sopravvivenza, Eve le sferrò un possente destro sotto la mascella tozza e grassa. «Tenente? Va tutto bene?» I due agenti si affrettarono ad aiutare Eve a districarsi dal peso della donna, che aveva perso i sensi. «Cristo, è sbucata dal nulla. Ci dispiace...» «Vi dispiace?» Spintonandoli rabbiosamente, Eve fece loro una scenata. «Vi dispiace? Maledetti idioti, deficienti. Altri due secondi e questa donna avrebbe contaminato la scena del delitto. La prossima volta che verrete assegnati a qualcosa di più serio del controllo del traffico, non state lì a grattarvi le palle. Ora, se ne siete capaci, chiamate un'ambulanza e fate dare un'occhiata a questa cretina. Poi mettetele qualcosa addosso e portatela alla
centrale. Siete in grado di farlo?» Eve non si preoccupò di attendere la risposta e si allontanò zoppicando. Aveva i jeans stracciati, il suo stesso sangue si era mescolato a quello del morto e gli occhi le mandavano ancora lampi quando incontrarono quelli di Roarke. «Che diavolo c'è da ghignare?» «È sempre un piacere vederti lavorare, tenente.» Di colpo le prese il volto tra le mani e le coprì la bocca con la sua, in un bacio così ardente da farle tremare le gambe. «Non sono riuscito a trattenermi», le disse, quando Eve lo fissò, vacillante. «Chiedi al medico di dare un'occhiata pure a te.» Diverse ore dopo, Eve fu convocata nell'ufficio di Whitney. Con Peabody al fianco, montò sulla scala mobile. «Mi dispiace, Dallas. Non avrei dovuto lasciarmi sfuggire quella donna.» «Dio santo, Peabody, piantala. Quand'è uscita di corsa dall'edificio, tu eri da tutt'altra parte.» «Avrei dovuto capire che uno degli inquilini l'avrebbe avvertita.» «Già, abbiamo tutti bisogno di tenere pulita la nostra sfera di cristallo. Senti, non è successo nulla di grave, a parte un paio di ammaccature che mi ha prodotto quella tizia. Casto si è già fatto vivo?» «È ancora sul campo.» «È ancora sul tuo campo?» Peabody torse la bocca. «La notte scorsa siamo stati insieme. Dovevamo semplicemente cenare, ma una cosa tira l'altra... Lo giuro, non avevo più dormito così bene da quand'ero una bambina. Chi poteva immaginare che il sesso avesse un simile potere calmante?» «Avrei potuto dirtelo io.» «Comunque, lui ha ricevuto una chiamata subito dopo la mia. Sono convinta che possa sapere chi era la vittima e che sia in grado di darci una mano.» Vennero subito introdotte nell'ufficio di Whitney, senza dover fare anticamera. Il comandante indicò loro le sedie. «Tenente, so che il suo rapporto scritto sta per arrivare, ma preferisco che mi ragguagli subito verbalmente su quest'ultimo omicidio.» «Signorsì.» Gli riferì dove e con quali modalità fosse avvenuto il delitto, gli fornì il nome e la descrizione della vittima, senza dimenticare i dettagli del ritrovamento dell'arma, del tipo di ferite inferte dall'assassino, delle conclusioni del medico legale sull'ora della morte. «La ricerca 'porta a por-
ta' di Peabody non ha portato a nulla di utile, ma faremo una nuova serie di interrogatori. La donna che viveva con la vittima ci è stata di un certo aiuto.» Whitney inarcò le sopracciglia. Eve indossava ancora la camicia macchiata di sangue e i jeans stracciati. «Mi è stato riferito che lei è stata costretta a intervenire pesantemente.» «Non vale la pena di parlarne.» Aveva già deciso che la sua sfuriata ai due agenti fosse più che sufficiente. Non c'era bisogno di altre punizioni, con relative reprimende ufficiali. «La donna è una ex prostituta di strada, con regolare licenza che non ha più potuto rinnovare per mancanza di soldi. Fa anche uso di droghe. Approfittando di questo fatto siamo riusciti a strapparle di bocca qualche informazione sui movimenti della vittima la notte scorsa. Secondo lei, sono rimasti insieme nel loro appartamento fino all'una, bevendo un po' di vino e ingoiando qualche pasticca di Exotica. Poi lui ha affermato di dover uscire, per concludere un affare. La donna ha preso un sonnifero e si è addormentata. Dal momento che, secondo il rapporto preliminare del medico legale, la morte risalirebbe alle due di notte, questa testimonianza sembrerebbe veritiera. «Dalle prove raccolte risulta che l'uomo è stato ucciso lì dov'è stato trovato stamattina, verso l'alba. E tutto sta a indicare che lo Scarafaggio è stato fatto fuori dalla stessa persona che ha massacrato Hetta Moppett, Boomer e Pandora.» Eve si concesse il tempo per tirare un lungo respiro, poi riprese a parlare, usando un tono molto formale. «I movimenti di Mavis Freestone nell'arco di tempo in cui è stato commesso questo nuovo omicidio possono essere certificati dal responsabile delle indagini e da altri.» Per un attimo Whitney non replicò, ma tenne gli occhi puntati sul viso di Eve. «Per quanto mi compete come comandante della Omicidi, non credo che Mavis Freestone sia in qualche modo ricollegabile a questo ultimo delitto. Anche l'ufficio del procuratore è della stessa opinione. E ho ricevuto dalla dottoressa Mira il responso preliminare sui risultati dei test ai quali Ms Freestone è stata sottoposta.» «I test?» Dimenticando ogni formalità, Eve balzò in piedi. «Che cosa intende dire? I test non erano in programma prima di lunedì.» «C'è stata una riprogrammazione», replicò con calma Whitney. «E i test sono stati eseguiti entro le ore tredici di oggi.» «Perché non sono stata informata?» Ricordando le proprie sgradite esperienze al Centro di controllo, si sentì rivoltare lo stomaco. «Avrei voluto
essere presente.» «Abbiamo ritenuto più opportuno, a beneficio di tutte le parti interessate, evitare che lei assistesse ai test.» Whitney alzò una mano. «Prima che perda le staffe e rischi un'accusa d'insubordinazione, mi lasci aggiungere che nel rapporto della dottoressa Mira si dice a chiare lettere che Ms Freestone ha superato tutti i test. La macchina della verità ha confermato la veridicità delle sue dichiarazioni. Quanto agli altri aspetti della questione, secondo la dottoressa Mira è altamente improbabile che il soggetto si lasci andare a manifestazioni estreme di violenza sul tipo di quelle che hanno portato alla morte di Pandora. Per farla breve, la dottoressa raccomanda che le accuse contro Ms Freestone vengano ritirate.» «Ritirate.» Eve si sentì gli occhi in fiamme mentre si rimetteva a sedere. «Quando?» «L'ufficio del procuratore sta valutando il rapporto della dottoressa Mira. In via ufficiosa posso dirle che, se non verranno alla luce altri elementi che contraddicano tale analisi, le accuse saranno ritirate lunedì prossimo.» Whitney notò che Eve frenava un tremito, e approvò il suo autocontrollo. «Le prove materiali sono pesanti, ma al momento sembrano vanificate dal rapporto della psichiatra e dalle altre prove raccolte nelle indagini sugli omicidi presumibilmente collegati a questo.» «Grazie.» «Non sono stato io a scagionare Ms Freestone, Dallas, e neppure lei, che però ci è arrivata dannatamente vicino. Scopra chi è quel bastardo e lo faccia al più presto.» «Non desidero altro.» Il suo cellulare ronzò. Eve attese il cenno di assenso di Whitney, poi rispose. «Dallas.» «Ho ricevuto quel tuo pressante invito alla fretta», sbraitò un accigliato Dickie. «Come se non avessi altro da fare.» «Rimanda a dopo le tue lagne. Che cosa hai scoperto?» «Il tuo ultimo cadavere si era fatto una bella dose di Immortality prima di tirare le cuoia come un misero mortale. Immediatamente prima, secondo me. Non credo che abbia avuto il tempo di godersela.» «Trasmetti il rapporto al mio ufficio», replicò Eve e troncò la comunicazione prima che lui potesse ricominciare a lamentarsi. Quindi si rivolse a Whitney. «Ho una cosa da fare stanotte, dopo di che potrò, credo, legare tra loro alcuni fili ancora sciolti.» Confusione, panico e nervi scoperti sembravano essere l'aspetto essen-
ziale di una sfilata d'alta moda, almeno quanto le indossatrici filiformi e le stoffe sgargianti. Era interessante e divertente osservare i vari soggetti mentre assumevano il proprio ruolo. La modella dalle labbra imbronciate che criticava ogni accessorio; l'assistente che correva di qua e di là con luccicanti aghi e spilli infilati in una ciocca dei suoi capelli; l'acconciatrice che passava in rassegna le indossatrici quasi fossero soldati pronti al combattimento; e lo stilista che stava fermo in mezzo al vortice tormentandosi le enormi mani. «Siamo in ritardo, siamo in ritardo. Ho bisogno che Lissa esca in passerella tra due minuti. La musica è già partita, ma noi non siamo ancora pronti.» «Tra un istante ci siamo. Santo cielo, Leonardo, datti una calmata.» Eve ci mise un attimo a riconoscere l'acconciatrice. I capelli di Trina erano una selva di aculei color ebano che avrebbero potuto accecare una persona distante tre passi, e fu solo la voce a tradirne l'identità. Eve si lasciò spintonare all'indietro da un'altra frenetica assistente e continuò a fissare Trina che, dopo aver spalmato su una criniera striata qualcosa di disgustosamente simile allo sperma, faceva assumere alla chioma una morbida forma a cono. «Che diavolo stai facendo qui?» Un uomo con occhi da civetta, che indossava una cappa lunga fino al ginocchio, si lanciò verso Eve come un ringhioso terrier. «Spogliati, santo cielo. Non lo sai che Hugo è là fuori?» «Chi è Hugo?» L'uomo emise un sibilo e allungò le mani verso la T-shirt di Eve. «Ehi, amico, non ci tieni alle tue dita?» lo fulminò Eve, allontanandolo bruscamente. «Spogliati, mettiti nuda. Siamo tremendamente in ritardo.» Senza farsi intimidire dallo sguardo minaccioso di Eve, l'uomo prese ad armeggiare con la chiusura lampo dei jeans. Lei fu sul punto di mandarlo al tappeto, ma scelse invece di estrarre il distintivo. «O ti togli dai piedi o ti sbatto in cella per oltraggio a un pubblico ufficiale.» «Perché diavolo è qui? Siamo perfettamente in regola. Abbiamo pagato il dovuto. Leonardo, c'è un poliziotto. Non mi aspettavo di dover avere a che fare con le forze dell'ordine.» «Dallas.» Mavis si precipitò verso l'amica, con un telo multicolore drappeggiato sul braccio. «Qui sei veramente d'intralcio a tutti. Perché non sei rimasta in sala? Santo cielo, non ti sei neppure cambiata!» «Non ho avuto tempo per farlo.» Eve si tirò distrattamente la maglietta
sporca di sangue. «Stai bene? Non sapevo che avessero spostato la data dei tuoi test, altrimenti ti sarei stata accanto.» «Ce l'ho fatta anche da sola. La dottoressa Mira è un tipo fantastico, però lasciami dire che sono felice di esserne uscita. Ma non voglio parlarne», aggiunse frettolosamente, guardando il caotico affollamento intorno a sé. «Non ora, almeno.» «Okay. Io voglio vedere Jerry Fitzgerald.» «Ora? La sfilata è già iniziata. I tempi sono regolati al millesimo di secondo.» Con l'abilità di una veterana, Mavis roteò di lato per lasciare il passo a due modelle. «Jerry deve concentrarsi, Dallas. Se si distrae, rischia di non entrare al momento giusto.» Piegando di lato la testa, seguì il ritmo della musica. «Tra meno di quattro minuti tocca a lei entrare in scena.» «Allora cercherò di metterci meno. Dove si trova?» «Dallas, Leonardo è...» «Dov'è Jerry?» «Lì dietro.» Agitando freneticamente una mano, Mavis consegnò il drappo a un'assistente che passava di lì. «Nel camerino della top model.» Scartando, sgomitando e spingendo, Eve riuscì a farsi strada nel vorticoso assembramento fino a una porta sulla quale era appeso un vistoso cartello col nome di Jerry. La spalancò senza preoccuparsi di bussare e vide la modella strettamente inguainata in un tubino di lamé dorato. «Non riesco neanche a respirare, con questa roba addosso. Non ci riuscirebbe neppure uno scheletro», si lamentava Jerry. «Non avresti dovuto mangiare quel pâté, tesoro», replicò spietatamente la sarta. «Inspira profondamente.» «Che spettacolo interessante», commentò Eve dalla soglia. «Quel vestito le dà l'aspetto di una bacchetta magica.» «È una delle creazioni rétro di Leonardo. Glamour da primi anni del Novecento. Non mi posso muovere.» Eve si avvicinò alla modella e, stringendo le palpebre, la fissò in viso. «L'addetto al trucco ha fatto un ottimo lavoro. Non si nota nessun livido.» Più tardi avrebbe verificato con Trina se aveva effettivamente dovuto nascondere qualche ecchimosi. «Ho sentito dire che Justin Young l'ha presa a pugni.» «Quel bastardo. Colpirmi in faccia proprio prima di un'importante sfilata.» «Mi pare che non ci abbia messo molto impegno. Per quale motivo avete litigato, Jerry?»
«Lui credeva di potersi trastullare con una ballerina di fila. Ha mancato di tempismo.» «È proprio il problema temporale a costituire il fattore più interessante, non le pare? Quando aveva iniziato a trastullarsi?» «Ascolti, tenente, al momento sono un po' sotto pressione e, se uscissi in passerella con l'aria accigliata, rovinerei l'atmosfera. Dopotutto, sono affari di Justin.» Benché sostenesse di non riuscire a muoversi, Jerry schizzò agilmente fuori della porta. Eve rimase dov'era e ascoltò lo scoppio di applausi che accolse l'entrata in scena della top model. Dopo sei minuti esatti lei tornò, senza più la guaina di lamé dorato. «Come ha fatto a scoprirlo?» domandò Eve. «Trina! Su, presto, i capelli! Cristo, tenente, lei non molla mai. Mi era arrivata all'orecchio una voce, tutto qui. E, quando ho chiesto spiegazioni a Justin, lui ha negato. Ma ho capito che mentiva.» Eve meditò su chi stesse davvero mentendo, mentre Jerry restava ferma, con le braccia allargate. Intanto Trina, armata di un arricciacapelli manuale, le trasformava la lunga e liscia chioma in un complicato groviglio di riccioli; l'assistente le infilava dalle braccia un abito di seta bianco con rifiniture nelle tinte dell'arcobaleno. «Non è rimasto a lungo a Maui», osservò Eve. «Non me ne frega niente di dove sia.» «Ieri notte è rientrato in volo a New York. Ho controllato le linee aeree. Sa, Jerry, è strano. Di nuovo il problema del tempo. L'ultima volta in cui ci siamo visti, voi due eravate incollati l'uno all'altra. Lei è andata con Justin a casa di Pandora la notte del delitto, dopo di che l'ha seguito nel suo appartamento. La mattina seguente eravate ancora lì. Da quanto ho sentito dire, Justin l'ha accompagnata dai vari acconciatori e stilisti. Mi pare improbabile che abbia trovato il tempo per portarsi a letto una ballerina di fila.» «Alcuni uomini se la cavano in fretta.» Jerry tese una mano all'assistente affinché le mettesse al polso una mezza dozzina di tintinnanti braccialetti. «Un diverbio in pubblico, di fronte a una folla di testimoni, con addirittura una copertura mediatica a portata di mano. A giudicare dalle apparenze, tutto ciò rende il vostro reciproco alibi molto più solido. Ma io non sono il tipo di poliziotto che crede alle apparenze.» Jerry si voltò verso lo specchio, per controllare la linea dell'abito. «Che cosa vuole, Dallas? Io qui sto lavorando.» «Anch'io. Lasci che le dica qual è la mia opinione, Jerry. Lei e il suo a-
mico avevate un piccolo affare in comune con Pandora. Ma Pandora si dimostra tremendamente avida. A quanto pare, sta per fare le scarpe a lei e ai suoi soci. A quel punto si verifica un episodio per voi molto utile. Arriva Mavis e scoppia un violento parapiglia. Che a lei, da quella donna acuta che è, potrebbe aver fatto venire un'idea.» Jerry afferrò un bicchiere e ne bevve il frizzante contenuto color zaffiro. «Lei ha già due indiziati, Dallas. Chi è, adesso, la persona avida?» «Voi tre ne avete discusso? Parlo di lei, Justin e Redford. Lei e Justin ve ne andate e vi fabbricate un solido alibi; Redford no. Forse non è altrettanto furbo o, magari, si aspetta che voi due gli diate una mano, cosa che non fate. Lui accompagna Pandora a casa di Leonardo, dove voi li state aspettando. La situazione vi è sfuggita di mano? Chi di voi ha impugnato il bastone da passeggio?» «È grottesco. Io ero con Justin, nel suo appartamento. La videosorveglianza lo può confermare. Se intende accusarmi di qualcosa, venga con un mandato d'arresto. Fino ad allora si tolga dai piedi.» «Lei e Justin siete stati tanto furbi da non contattarvi più dopo la lite? Non credo che Young abbia l'autocontrollo di cui dispone lei, Jerry. In effetti, è su questo che faccio affidamento. Entro la mattinata avremo a disposizione i vostri tabulati telefonici.» «E se anche lui mi avesse chiamata? Che vorrebbe dire?» Jerry si lanciò verso la porta, per tagliare la strada a Eve che stava per andarsene. «Non prova un bel niente. Lei non ha nulla in mano.» «Ho un altro cadavere.» Eve fece una pausa, poi si voltò verso la modella. «Non credo che qualcuno di voi due intenda fornire all'altro un alibi per la notte scorsa, non è così?» «Stronza!» Schiumante di rabbia, Jerry scagliò il bicchiere, colpendo alla spalla una sfortunata assistente. «Non m'incastrerà. Lei non ha in mano nulla.» Mentre il rumore e la confusione dietro le quinte aumentavano d'intensità, Mavis chiuse gli occhi. «Oh, Dallas, come hai potuto farlo? Leonardo ha bisogno di Jerry per altri dieci abiti.» «Non lo pianterà in asso. È troppo forte il suo desiderio di salire in passerella. Vado a cercare Roarke.» «È in sala», disse stancamente Mavis mentre Leonardo accorreva a calmare la sua star. «Non mostrarti in pubblico conciata così. Indossa questo abito. Ha già sfilato. Senza il disopra e le stole, nessuno lo riconoscerà.» «Voglio semplicemente andare...»
«Ti prego. Sarebbe molto importante che tu ti mostrassi in sala con uno dei modelli di Leonardo addosso. È un abito semplicissimo, Dallas. E ti troverò un paio di scarpe adatto.» Un quarto d'ora dopo, coi suoi indumenti laceri infilati nella borsa, Eve scorse Roarke seduto in prima fila e intento ad applaudire un trio d'indossatrici, vestite di pagliaccetti trasparenti, coi grandi seni che si agitavano freneticamente. «Fantastico. È così che vorremmo vedere abbigliate le donne che passeggiano sulla 5th Avenue», commentò Eve. Roarke replicò con una spallucciata. «In realtà molti dei modelli presentati sono davvero belli. E non mi dispiacerebbe vederti addosso quello di destra.» «Scordatelo.» Eve incrociò le gambe, facendo frusciare lievemente la gonna di satin nero. «Per quanto ancora dobbiamo restare qui?» «Dobbiamo bere l'amaro calice sino alla fine. Quando l'hai acquistato?» Fece correre un polpastrello sulle sottili spalline drappeggiate sui bicipiti di Eve. «Non l'ho comprato. Me l'ha fatto indossare Mavis. È uno dei modelli di Leonardo, senza tutti i vari fronzoli.» «Tienilo. Ti dona.» Eve si limitò a emettere un grugnito. I jeans stracciati si adattavano molto meglio al suo umore. «Ah, ecco la diva.» Jerry stava avanzando leggiadramente sulla passerella, che, a ogni passo dei suoi piedi calzati in fragili scarpe di vetro, cambiava colore. Eve prestò poca attenzione alla fluttuante gonna a palloncino e al diafano corpetto che avevano suscitato un boato d'approvazione da parte del pubblico in sala; si limitò a osservare il viso di Jerry, soltanto il suo viso, mentre i cronisti di moda annotavano i propri giudizi sui registratori e dozzine di acquirenti erano freneticamente impegnati a trasmettere ordini d'acquisto tramite cellulare. Quel viso era sereno, e tale rimase anche quando Jerry allontanò con un cenno della mano dozzine di giovanotti muscolosi, che si prostrarono davanti a lei; la modella presentò l'abito con aggraziati ancheggiamenti e giravolte, salendo infine agilmente, secondo l'audace coreografia, su una piramide di vigorosi corpi maschili. La folla dei presentì applaudì. Jerry restò ferma in posa, puntando su Eve lo sguardo gelido dei suoi occhi blu. «Mi sembra che ti stia tirando una bella frecciata», mormorò Roarke.
«C'è qualcosa che non so?» «Jerry sarebbe felice di maciullarmi il volto», rispose Eve. «La mia missione ha avuto successo.» Soddisfatta, si appoggiò allo schienale della sedia e si apprestò a godersi il resto della sfilata. «Hai visto, Dallas? L'hai notato?» Dopo una rapida piroetta, Mavis gettò le braccia al collo di Eve. «Alla fine si sono alzati tutti ad applaudire Leonardo. Persino Hugo.» «Chi diavolo è questo Hugo?» «È l'uomo più importante del settore. È uno degli sponsor della sfilata, ma aveva dato il suo appoggio quando c'era ancora Pandora. Se si fosse tirato indietro... Be', non l'ha fatto, grazie a Jerry. Leonardo ha vinto. Ora potrà pagare i suoi debiti. Sta già arrivando una sfilza di ordinazioni. Adesso potrà permettersi un proprio showroom, e da qui a qualche mese i suoi modelli saranno ovunque.» «Tutto bene, quindi.» «Ogni cosa funziona a meraviglia.» Mavis si diede un'aggiustatina al trucco nello specchio della toilette delle donne. «Devo solo trovare un nuovo locale in cui esibirmi, dove indosserò esclusivamente abiti di Leonardo. La situazione sta riprendendo la stessa bella piega di prima. È così, non è vero, Dallas?» «Direi proprio di sì. Mavis, è stato Leonardo a cercare Jerry Fitzgerald o il contrario?» «Per la sfilata? In un primo momento era stato lui a contattarla. Dietro suggerimento di Pandora.» Accidenti, pensò Eve, come ho fatto a farmi sfuggire questo particolare? «Pandora gli aveva suggerito di chiedere a Jerry di partecipare alla sfilata?» «Era da lei fare una cosa del genere.» D'impulso, Mavis tirò fuori una trousse e si tolse il rossetto dalle labbra. Studiò per un attimo la sua bocca nuda, poi scelse un tubetto Berry Crash. «Sapeva che Jerry non avrebbe accettato una parte di secondo piano, dietro di lei, anche se in giro si parlava molto bene delle creazioni di Leonardo. Perciò, capisci, chiederglielo era come farle lo sgambetto. Se avesse accettato, sarebbe stata solo una delle tante indossatrici senza nome; se avesse detto di no, sarebbe rimasta esclusa da una delle più importanti sfilate della stagione.» «E Jerry aveva rifiutato.» «Aveva addotto come scusa un precedente impegno. Per salvarsi la fac-
cia. Però, nell'istante stesso in cui Pandora è uscita di scena, ha chiamato Leonardo e si è offerta di sostituirla.» «Quanto ci guadagna?» «A sfilare? Prenderà all'incirca un milione di dollari, che è nulla rispetto a tutto il resto. Una top model può cedere la propria immagine e ricevere una percentuale sulle vendite di ogni prodotto da lei sponsorizzato. Poi ci sono i proventi che derivano dai media.» «Che sarebbero?» «Be', le modelle di grido vengono invitate nelle reti che si occupano di moda, in quelle che offrono programmi d'intrattenimento, e così via. Pubblicizzano gli abiti che indossano e vengono pagate per ogni apparizione in video. Ottengono visibilità e un mucchio di soldi per almeno sei mesi di fila, con la possibilità di raddoppiare. Da quest'unica sfilata Jerry potrebbe beccarsi dai cinque ai sei milioni, più qualche altro piccolo vantaggio.» «Un bel colpo, se ti riesce. Grazie alla morte di Pandora, Jerry incassa oltre sei milioni di dollari.» «Puoi vedere la situazione sotto questa luce. Ma non sarebbe successo se Pandora non fosse stata tanto carogna, Dallas.» «Forse no. Adesso però non sta facendo del male a nessuno. Jerry si farà vedere al ricevimento di fine sfilata?» «Certamente. Lei e Leonardo sono le star del giorno. Sarà il caso di muoverci, se vuoi trovare ancora qualcosa da mangiare. Questi esperti di moda sono come le iene. Non lasciano neppure un osso spolpato.» «In queste ultime ore hai avuto modo di frequentare a lungo Jerry e gli altri», riprese Eve mentre si avviavano verso la sala da ballo. «Qualcuno fa uso di droga?» «Cristo, Dallas.» Imbarazzata, Mavis si strinse nelle spalle. «Non sono tipo da fare la spia.» Eve spinse l'amica in un angolo rigurgitante di felci. «Non assumere questo tono con me, Mavis. Hai visto qualcuno che si drogava?» «Dannazione, sì, qualcosa girava. Eccitanti, soprattutto, e molto Zero Appetite, perché questo è un mestiere faticoso e non tutte le modelle di terz'ordine possono permettersi di ricorrere a trattamenti scultorei del corpo. E anche qualche droga vera e propria, ma per lo più roba che viene smerciata legalmente.» «E Jerry?» «Lei prende solo porcherie salutari, come quella bevanda che trangugia in continuazione. Fuma qualche sigaretta, ma di una miscela speciale che
calma i nervi. Non l'ho mai vista usare nulla di pesante, però...» «Però?» «Be', sai, è molto gelosa delle sue cose. Un paio di giorni fa, una delle altre indossatrici non si sentiva bene. Era reduce da una serata finita molto tardi. Stava per bere un sorso di quella bevanda azzurra quando Jerry è andata su tutte le furie. Pretendeva che la ragazza venisse licenziata.» «Interessante. Mi chiedo che cosa ci sia in quel liquido.» «Un estratto vegetale. Lei sostiene che le serve per il suo metabolismo. Ha anche accennato all'intenzione di mettere la bevanda sul mercato, di sponsorizzarla.» «Avrei bisogno di un campione di quella roba, anche se non ho in mano nulla di sufficientemente valido per chiedere una perquisizione o un sequestro.» Eve meditò un attimo, poi sorrise. «Credo di sapere come procurarmelo. Andiamo al ricevimento.» «Che cosa intendi fare, Dallas?» Accelerando l'andatura, Mavis riuscì a stare al passo con le lunghe falcate di Eve. «Non mi piace lo sguardo che hai negli occhi. Non causare scandali, ti prego, dammi retta. È la grande notte di Leonardo.» «Scommetto che una piccola copertura mediatica in più aumenterà le vendite dei suoi abiti», replicò Eve. Si fermò nella sala da ballo dove la folla stava roteando sulla pista o vagando in mezzo ai tavoli. Nello scorgere Jerry, si avviò verso di lei. Roarke notò la sua espressione e le tagliò la strada. «Di punto in bianco hai ripreso l'aria da poliziotto.» «Grazie.» «Non sono sicuro che si tratti di un complimento. Hai intenzione di fare una scena madre?» «No, di dare il meglio di me. Preferisci tenerti a distanza?» «Neanche per sogno.» Incuriosito, Roarke le prese una mano e le camminò accanto. «Congratulazioni per il successo di questa sfilata», esordì Eve, piantandosi a fianco di uno scodinzolante cronista, così da trovarsi faccia a faccia con Jerry. «Grazie», replicò la top model, alzando un bicchiere di champagne. «Anche se, da quanto ho potuto vedere, lei non è esattamente un'intenditrice di moda.» Lanciò a Roarke un'occhiata languida. «Tuttavia mi pare che abbia un gusto eccellente in fatto di uomini.» «Migliore del suo. Le è giunta voce che Justin Young è stato visto ieri
notte al Privacy Club in compagnia di una rossa? Una che assomigliava notevolmente a Pandora.» «Maledetta bugiarda. Lui non avrebbe...» Ma riuscì a controllarsi e sibilò a denti stretti: «Gliel'ho già detto, non m'importa chi frequenta o che cosa fa». «Perché dovrebbe? È pur vero che, anche dopo un certo numero di sedute, la scultura del corpo e la plastica facciale non riescono a ottenere un risultato completamente reale, non crede? Immagino che Justin volesse una boccata di giovinezza. Gli uomini sono delle vere carogne.» Eve accettò una coppa di champagne da un cameriere che vagava tra la folla e ne bevve un sorso. «Non che lei non abbia un aspetto splendido. Considerando la sua età. E nonostante le luci crude del palcoscenico, che tendono a dare alle donne un'aria più... matura.» «Stronza!» proruppe Jerry, lanciandole in faccia il contenuto del suo bicchiere. «Immaginavo che l'avrebbe fatto», mormorò Eve, battendo gli occhi che le bruciavano. «Questa è aggressione a pubblico ufficiale. Lei è in arresto.» «Mi tolga le mani di dosso.» Furiosa, Jerry la spintonò. «Più resistenza all'arresto. Dev'essere la mia serata fortunata.» Con due rapide mosse, Eve fece ruotare il braccio della modella e glielo bloccò dietro la schiena. «Chiamerò un agente e la farò portare in cella. Non le ci vorrà molto per ottenere la libertà provvisoria su cauzione. Ora stia calma, così strada facendo le potrò leggere i suoi diritti.» Rivolse a Roarke un sorriso radioso. «Ci metterò poco.» «Prenditela pure comoda, tenente.» Tolse dalla mano di Eve la coppa di champagne e se la scolò. Le concesse dieci minuti, poi uscì dalla sala da ballo. Eve era nell'atrio dell'albergo, a osservare Jerry che veniva caricata su un'auto della polizia. «Perché l'hai fatto?» «Avevo bisogno di guadagnare tempo e di scoprire un probabile movente. Il soggetto ha dimostrato una predisposizione alla violenza e un nervosismo che potrebbero essere indicativi di uso di droghe.» Tutti così, i poliziotti, pensò Roarke. «L'hai fatta uscire dai gangheri, Eve.» «Non posso negarlo. Sarà fuori in un attimo. Non ho un minuto da perdere.»
«Dove vai?» le domandò lui, seguendola fuori della sala da ballo e verso il locale dietro le quinte. «Ho bisogno di un campione del liquido che lei ama bere. L'aggressione mi consente un certo spazio di manovra... allargando un po' le maglie della legalità. Voglio farlo analizzare.» «Ritieni onestamente che possa fare uso di droghe in modo così plateale?» «Credo che le persone come lei - e come Pandora, Young e Redford siano incredibilmente arroganti. Hanno soldi, bellezza, una buona dose di potere e prestigio. Tutto questo le induce a sentirsi superiori alla legge.» Lanciò a Roarke un'occhiata in tralice mentre entrava nell'ex spogliatoio di Pandora. «Anche tu hai la stessa tendenza.» «Grazie infinite.» «Fortunatamente per te, sono intervenuta io a metterti sulla retta via. Resta di guardia alla porta, ti dispiace? Se Jerry ha un abile avvocato, potrei non avere il tempo di concludere la mia ricerca.» «Sulla retta via, ovviamente», commentò Roarke, piazzandosi sulla soglia mentre lei perquisiva il camerino. «Cristo, qui c'è un capitale in cosmetici.» «È il suo mestiere, tenente.» «Una vanità che deve costarle diverse centinaia di migliaia di dollari all'anno, direi, soltanto in prodotti topici. E chissà quanto spende in pillole e massaggi. Se solo riuscissi a trovare un pizzico di quella simpatica polverina.» «Cerchi l'Immortality?» Roarke scoppiò a ridere. «Jerry può essere arrogante, ma mi sembra tutt'altro che stupida.» «Forse hai ragione.» Eve spalancò lo sportello di un piccolo frigorifero e sorrise. «Ma qui ha un contenitore pieno di quella bevanda. Un contenitore sigillato.» Raggrinzando le labbra, lanciò un'occhiata a Roarke. «Immagino che tu non possa...» «Deviare dalla retta via.» Sospirò, si avvicinò a Eve e studiò la serratura che sigillava il contenitore trasparente. «Sofisticata. Jerry non ha voluto correre rischi. E, a giudicare dall'aspetto, la bottiglia è infrangibile.» Mentre parlava, continuava a giocare con le dita sulla serratura. «Trovami un ago, una forcina o qualcosa di simile, se non ti dispiace.» Eve frugò nei cassetti. «Questo può andare?» Roarke fissò con aria accigliata il minuscolo paio di forbici da manicure. «Forse.» Ne infilò una punta nel lucchetto, trafficò un attimo, poi si tirò
indietro. «Voilà.» «Sei formidabile in questo genere di cose.» «Solo un pizzico d'insignificante abilità manuale, tenente.» Eve frugò nella propria borsa e tirò fuori una busta per raccogliere le prove. Vi versò un mezzo decilitro della bevanda. «Questo dovrebbe bastare.» «Vuoi che richiuda il lucchetto? Mi basta un attimo.» «Non ti preoccupare. Potremo fare una deviazione verso il laboratorio, mentre siamo per strada.» «Per andare dove?» «Al posto in cui ho lasciato Peabody di guardia. L'uscita posteriore dell'appartamento di Justin Young.» Eve si avviò, lanciandogli un sorriso. «Sai, Roarke, in una cosa Jerry aveva ragione. Io ho buon gusto in fatto di uomini.» «Tesoro, da questo punto di vista non ti batte nessuno.» 17 Il legame con un uomo ricco presentava, secondo Eve un certo numero di aspetti negativi, ma offriva un vantaggio che annullava tutto il resto. Si trattava del cibo. Mentre attraversavano la città, lei riuscì a riempirsi lo stomaco grazie a un'abbondante porzione di pollo Kiev che le fu servita dal fornitissimo AutoChef installato nella vettura di Roarke. «Non avevo mai conosciuto nessuno che avesse in macchina il pollo Kiev», commentò, con la bocca piena. «Chi ti porta a spasso non può farne a meno. Altrimenti vivresti di hamburger alla soia e di uova irradiate liofilizzate.» «Io odio le uova irradiate liofilizzate.» «Appunto.» Roarke fu felice di sentirla ridacchiare. «È raro vederti così di buon umore, tenente.» «Tutto comincia a filare. Lunedì mattina le accuse contri Mavis saranno ritirate e, nel frattempo, io avrò incastra quei bastardi. È tutta una questione di soldi», aggiunse, raccogliendo coi polpastrelli qualche grano di riso selvatico. «Il solito maledetto denaro. Pandora era l'anello di collegamento con l'Immortality, e quei tre speculatori volevano la loro parte.» «Così l'hanno attirata nell'atelier di Leonardo e l'hanno uccisa.» «È stata probabilmente lei stessa a voler andare da Leonardo. Non intendeva fargliela passare liscia e non vedeva l'ora di dargli una bella lezione.
Così ha fornito a quei tre una perfetta opportunità e lo scenario più adatto. L'arrivo di Mavis è stato per loro la ciliegina sulla torta, altrimenti avrebbero lasciato che a finire nei guai fosse lo stesso Leonardo.» «Non per contraddire questo parto del tuo agile e sospettoso cervello, ma per quale motivo non si sono limitati a massacrarla in un vicolo? Se hai ragione tu, era un tipo di omicidio che avevano già commesso.» «In quel caso volevano un'ambientazione diversa», replicò Eve, stringendosi nelle spalle. «Hetta Moppett era una potenziale testimone scomoda. Uno di loro l'ha contattata e, dopo averla forse interrogata, l'ha uccisa. Meglio non correre il rischio che rivelasse ciò che Boomer poteva averle detto mentre faceva sesso con lei.» «Poi è stata la volta di Boomer.» «Sapeva troppo e aveva in mano troppe cose. Non credo che fosse al corrente del coinvolgimento di tutti e tre i nostri amici, ma di uno almeno sì e, quando se l'è visto davanti nel club, è andato a barricarsi in casa. Loro sono riusciti a stanarlo, dopo di che l'hanno torturato e ucciso. Ma non hanno avuto il tempo di andare a recuperare la roba di cui Boomer era in possesso.» «E avrebbero fatto tutto questo per soldi?» «Sì, per soldi e, se l'analisi di questo liquido darà i risultati che mi aspetto, anche per l'Immortality. Pandora era dentro fino al collo in questa storia. La mia opinione è che, qualunque cosa Pandora avesse o volesse, Jerry Fitzgerald ne pretendeva ancora di più. In ballo c'è una droga che ti fa sentire in forma, ti rende più giovane e ti stimola sessualmente. Per una che fa il suo mestiere, poteva valere una fortuna. Per non parlare del bene che avrebbe fatto al suo amor proprio.» «Ma è una sostanza letale.» «È quanto si dice anche del fumo, eppure ti ho visto spesso accendere una sigaretta», ribatté lei. «Nell'ultima metà del ventesimo secolo il sesso non protetto faceva strage, ma ciò non impediva alla gente di andare a letto con estranei. Anche le armi sono letali e tuttavia abbiamo impiegato decenni a toglierle dalle strade. Poi...» «Ho afferrato il concetto. La maggior parte di noi è convinta di vivere per sempre. Hai sottoposto Redford a qualche test?» «Sì. È pulito. Ciò non significa che le sue mani siano meno lorde di sangue. Voglio che questi tre vengano sbattuti in galera e che ci restino per i prossimi cinquant'anni.» Roarke fermò l'auto a un semaforo rosso e si voltò a guardarla. «Eve, li
perseguiti perché li ritieni colpevoli di questi delitti o perché hanno sconvolto la vita della tua migliore amica?» «Il risultato è lo stesso.» «Ma non così i tuoi sentimenti.» «Hanno fatto del male a Mavis», replicò Eve seccamente. «Hanno ridotto la sua vita a un inferno. Mi hanno costretta a contribuire al suo calvario. Lei ha perso il lavoro e molta della fiducia in se stessa. Pagheranno per questo.» «Va bene. Voglio dirti solo un'ultima cosa.» «Non accetto critiche sul mio modo di agire da parte di un individuo che forza le serrature come te, amico.» Roarke estrasse un fazzoletto e le asciugò un sottile rivolo di lacrime. «La prossima volta che inizierai a sostenere di non avere una famiglia», riprese pacatamente, «pensaci. Mavis è la tua famiglia.» Eve fece per replicare, poi si fermò. «Sto solo facendo il mio lavoro», disse infine. «Se ne ricavo una piccola gratificazione personale, che male c'è?» «Non c'è nulla di male.» Le diede un leggero bacio, poi svoltò a sinistra. «Voglio passare dietro l'edificio», scattò Eve. «Prendi a destra al prossimo incrocio, poi...» «So come arrivare sul retro di questo edificio.» «Non dirmi che possiedi anche questo.» «D'accordo, non te lo dirò. E, a proposito, se tu mi avessi parlato dell'impianto di sicurezza a casa di Young, ti avrei risparmiato - o, meglio, avrei risparmiato a Feeney - perdite di tempo e seccature varie.» Sentendola sbuffare, sorrise. «Se ricavo una certa gratificazione personale dal possedere ampie fette di Manhattan, che male c'è?» Eve si girò a guardare fuori del finestrino, affinché lui non vedesse la sua smorfia divertita. E Roarke, a quanto sembrava, non solo aveva sempre a disposizione un tavolo nel ristorante più esclusivo o due posti in prima fila nel teatro in cui si rappresentava la commedia più apprezzata del momento, ma trovava anche sempre in strada un comodo posto in cui parcheggiare. Lui vi s'infilò e spense il motore. «Non pretenderai mica che io ti aspetti qui» «Le mie pretese di solito ti sembrano inammissibili, perciò seguimi, ma cerca di ricordare che tu sei un civile e io no.» «Non me ne dimentico mai.» Roarke digitò il codice che bloccava le portiere. Benché si trovassero in un quartiere di gente benestante, l'auto va-
leva sei mesi di affitto di uno degli appartamenti più lussuosi di quell'edificio. «Tesoro, prima di adottare entrambi un contegno più ufficiale, che cosa indossi sotto quel vestito?» «Un congegno per eccitare i maschi.» «Funziona. Non credo di aver mai visto il tuo sedere muoversi in modo tanto seducente.» «Adesso è il sedere di un poliziotto, mio caro, perciò bada a quello che fai.» «Ci bado.» Sorrise e le tirò una bella pacca su una natica. «Credimi. Buonasera, Peabody.» «Roarke.» Con un'espressione impassibile, come se non avesse udito una sola parola della loro conversazione, Peabody sortì da dietro un cespuglio. «Dallas.» «Nessun segno di...» Eve, sentendo frusciare di nuovo il cespuglio, s'immobilizzò sulla difensiva, poi imprecò nel vedere Casto farsi avanti sorridente. «Perdio, Peabody!» «Su, non biasimare DiDi. Ero con lei quand'è giunta la tua telefonata. E DiDi non sarebbe mai riuscita a liberarsi di me. Non doveva esserci collaborazione interdipartimentale, Eve?» Sempre sorridendo, tese una mano. «Roarke, è un piacere conoscerla. Sono Jake Casto, della Narcotici.» «L'avevo intuito», replicò lui. Poi aggrottò la fronte, notando come lo sguardo di Casto indugiasse sul satin nero che fasciava il corpo di Eve, e mostrò i denti, una tipica reazione degli esseri umani di sesso maschile o dei cani maschi dal carattere ombroso. «Che bel vestito, Eve. Hai accennato al fatto di dover portare un campione in laboratorio.» «Ascolti sempre le conversazioni dei tuoi colleghi?» «Be'...» Casto si strofinò il mento. «La chiamata è giunta in un momento assai particolare. Avrei dovuto essere sordo per non udirla.» Tornò serio. «Devo pensare che hai beccato Jerry Fitzgerald con una dose di Immortality?» «Non lo sapremo finché non arriverà il risultato delle analisi.» Eve rivolse la propria attenzione a Peabody. «Young è in casa?» «Sì. L'ho appurato controllando il sistema di videosorveglianza, da cui risulta che Young è rientrato alle diciannove in punto. Da allora non è più uscito.» «A meno che non sia passato dal retro.» «No, signore.» Peabody si concesse un lieve sorriso. «Non appena arri-
vata, gli ho telefonato e, quando lui ha risposto, mi sono scusata dicendo di aver sbagliato numero.» «Però ti ha vista sul video del suo apparecchio telefonico.» Peabody scosse la testa. «Gli uomini come lui non fanno caso ai subalterni. Non mi ha riconosciuto. E da questa parte non c'è stato nessun movimento a partire dalle ventitré e trentotto, ora del mio arrivo.» Indicò in alto. «Le luci nel suo appartamento sono accese.» «Aspettiamo, dunque. Casto, se hai davvero intenzione di renderti utile, perché non vai ad appostarti accanto all'ingresso principale?» Lui le lanciò un radioso sorriso. «Stai cercando di liberarti di me?» Per tutta risposta, Eve lo incenerì con gli occhi. «Okay, chiariamo allora la situazione. In qualità di responsabile delle indagini sui casi Moppett, Johannsen, Pandora e Ro, ho la piena autorità di coordinare le investigazioni, pertanto...» «Sei una dura, Eve.» Casto sospirò, si strinse nelle spalle e strizzò l'occhio a Peabody. «Tieni un lumino acceso per me, DiDi.» «Mi dispiace, tenente», iniziò Peabody in tono formale, non appena lui si fu allontanato. «Ha ascoltato il nostro colloquio. Poiché non avevo modo d'impedirgli di venire qui per suo conto, mi è parso più costruttivo portarlo con me, affinché mi desse una mano in caso di bisogno.» «Non mi sembra che ci sia nessun problema.» Sentendo il ronzio del suo cellulare, Eve si appartò. «Dallas.» Ascoltò per un attimo, raggrinzando le labbra, poi annuì. «Grazie.» Fece per infilare il cellulare in tasca, poi si ricordò di non avere tasche e lo rimise nella borsa. «Jerry Fitzgerald è stata rilasciata su cauzione. Era scontato che le concedessero la libertà condizionata per una piccola baruffa durante un ricevimento.» «Sempre che i risultati delle analisi di laboratorio non rivelino niente.» «Già. Per questo siamo qui.» Lanciò un'occhiata a Roarke. «Potrebbe essere una lunga notte. Non c'è bisogno che tu rimanga. Quando avremo finito, Peabody e Casto potranno darmi un passaggio.» «Mi piace fare le ore piccole. E condividere un po' del tuo tempo, tenente.» Posandole sul braccio una mano ferma, Roarke trascinò Eve un po' in disparte. «Non mi avevi detto di avere un ammiratore nella Narcotici.» Lei si passò una mano nei capelli. «Davvero non te ne avevo parlato?» «Il tipo di ammiratore che amerebbe sgranocchiarti a partire dalle estremità.» «Un modo carino per definire la situazione. Però, sai, lui e Peabody al momento stanno insieme.»
«Il che non gli impedisce di sbavarti dietro.» Eve scoppiò in una risatina chioccia, poi, notando lo sguardo negli occhi di Roarke, tornò seria e si schiarì la voce. «È un tipo innocuo.» «Non mi pare proprio.» «Dai, Roarke, è soltanto uno di quei giochetti al testosterone che piacciono tanto a voi maschi.» Però, vedendo che i suoi occhi lanciavano ancora lampi, avvertì una sorta di rimescolio, tutt'altro che sgradevole, nello stomaco. «Non sarai mica geloso?» «Sì.» Era arduo per lui ammetterlo, ma Roarke era un uomo che non si tirava indietro di fronte a nulla. «Davvero?» Il rimescolio si trasformò in una calda ondata di piacere. «Be', grazie.» Non serviva a nulla sospirare, né tantomeno darle una scrollata. Perciò Roarke si mise le mani in tasca e inclinò lievemente la testa. «Me ne compiaccio. Eve, tra pochi giorni saremo sposati.» Il rimescolio tornò a farsi sentire, più forte. «Già.» «Se quel tizio continua a guardarti così, sarò costretto a picchiarlo.» Eve gli batté la mano sulla guancia. «Calma, ragazzo.» Senza lasciarle il tempo di fare altro che emettere un risolino, Roarke l'afferrò per il polso e la tirò a sé. «Tu mi appartieni.» Lei lo fulminò con lo sguardo. Quella così scoperta manifestazione di rabbia lo indusse immediatamente a controllarsi. «Vale per entrambi, mia cara, ma, nel caso in cui tu non te ne fossi accorta, mi sembra giusto dirtelo: sono molto possessivo nei riguardi di tutto ciò che è mio.» La baciò. «Ti amo follemente, Eve. Può sembrarti ridicolo, ma è così.» «Sì, è ridicolo.» Per lenire la collera, Eve inspirò lentamente, a lungo. «Ascolta, non che io ritenga di doverti una spiegazione, ma non sono interessata a Casto né a nessun altro. E, guarda caso, è Peabody ad aver messo gli occhi su di lui. Perciò raffredda i tuoi bollenti spiriti.» «Già fatto. Ora, ti farebbe piacere se andassi a prenderti un caffè dall'AutoChef della mia vettura?» Eve inclinò la testa. «È un modesto tentativo di corruzione?» «Ti ricordo che la mia miscela di caffè è tutt'altro che modesta.» «Peabody lo preferisce leggero. Un attimo.» Gli afferrò il braccio e lo spinse verso i cespugli. «Non ti muovere», mormorò, mentre un'auto imboccava la strada a tutta velocità, frenava facendo fischiare i pneumatici e si alzava rapidamente in verticale per infilarsi in un parcheggio sopraelevato. Dopo un'impaziente manovra, che provocò una serie di impatti tra pa-
raurti, una donna in uno scintillante abito argenteo scese la rampa fino al marciapiede. «È la nostra amica», disse Eve sottovoce. «Non ha perso tempo.» «È stata lei, tenente, a farla venire qui», commentò Peabody. «Pare di sì. Ma perché mai una donna che si è appena trovata in una situazione fastidiosa, sconveniente e potenzialmente imbarazzante dovrebbe precipitarsi da un uomo con cui ha appena rotto perché colpevole di averla ingannata e di averla presa a pugni in faccia? Per di più in pubblico?» «Tendenze sadomasochiste?» suggerì Roarke. «Non credo», replicò Eve, apprezzando il suo senso dell'umorismo. «Più che sadismo e masochismo, qui abbiamo sesso e fame di denaro. Guarda, Peabody, la nostra eroina conosce l'ingresso sul retro.» Dopo essersi guardata distrattamente alle spalle, Jerry si era diretta senza esitazioni verso l'entrata di servizio, aveva digitato un codice ed era sparita all'interno. «Direi che non è la prima volta che passa di lì.» Roarke posò una mano sulla spalla di Eve. «Basta questo per mandare in fumo il suo alibi?» «È comunque un buon inizio.» Eve frugò nella borsa e tirò fuori gli occhiali con le lenti telescopiche. Se li mise e regolò il fuoco per vedere chiaramente le finestre di Justin Young. «Non c'è traccia di lui», mormorò. «In salotto non c'è nessuno.» Spostò la testa. «Anche la camera da letto è vuota, ma sul letto c'è una sacca da viaggio aperta. Scorgo solo porte chiuse. Maledizione, da qui non c'è modo di vedere la cucina e l'ingresso posteriore.» Con le mani sui fianchi, continuò a osservare. «Sul comodino accanto al letto c'è un bicchiere pieno di qualcosa. C'è anche una luce che balla. Direi che lo schermo in camera è acceso. Ecco là Jerry.» Eve seguì con lo sguardo la nuova arrivata che entrava nella stanza come una furia. Le lenti erano talmente forti da offrirle un chiarissimo primo piano di quella collera scatenata. Jerry si sedette sul letto, si tolse le scarpe e le scagliò a terra. «È su tutte le furie», mormorò Eve. «Sta chiamando Justin, gettando roba in giro. Ed ecco l'attore fare la sua comparsa, sulla sinistra della scena. Be', devo ammettere che è un vero fusto.» Peabody, che aveva messo le proprie lenti, emise un lieve mugolio di assenso. Justin era completamente nudo, la pelle ancora imperlata d'acqua, i capelli grondanti. Jerry non sembrò farci caso, ma continuò a urlare, a gesticolare, mentre lui sollevava le braccia, scuoteva la testa. L'alterco si fece
più vivace, più drammatico, pensò Eve, in un susseguirsi di gesti sempre più concitati. Poi l'atmosfera cambiò bruscamente. Justin stava strappando di dosso a Jerry l'abito del valore di diecimila dollari quando entrambi piombarono sul letto. «Oh, non ti sembrano carini, Peabody? Stanno recuperando il tempo perduto.» Roarke picchiettò la spalla di Eve. «Immagino che tu non abbia un paio di occhiali di ricambio.» «Pervertito.» Ma, siccome la sua richiesta le sembrava ragionevole, si tolse gli occhiali e glieli porse. «Potresti essere convocato come testimone.» «Come? Io non sono neppure qui.» Roarke s'infilò gli occhiali, ne regolò le lenti. Dopo un attimo, scrollò il capo. «Non sono particolarmente fantasiosi, non credi? Dimmi, tenente, passi molto del tuo tempo a osservare le fornicazioni della gente che tieni d'occhio?» «Non c'è nulla di quanto un essere umano possa fare a un suo simile che io non abbia visto.» Riconoscendo il tono, Roarke si tolse gli occhiali e glieli restituì. «Il tuo è un lavoro tremendo. Devo convenire che chi è sospettato di omicidio non ha diritto alla privacy.» Eve si strinse nelle spalle e regolò di nuovo il fuoco. Era indispensabile ritrovare il buon umore di prima. Sapeva che alcuni poliziotti andavano a sbirciare furtivamente nelle finestre delle camere da letto e che un utilizzo improprio di quegli occhiali era diffuso a tutti i livelli. Lei li considerava invece uno strumento di lavoro, e anche di grande importanza, benché fin troppo spesso il ricorso a quello strumento venisse contestato nelle aule di giustizia. «A quanto pare, stanno per arrivare alla conclusione», disse con voce piatta. «Apprezzo la loro rapidità.» Justin, facendo leva sui gomiti, affondava in Jerry, che, coi piedi piantati fermamente nel materasso, sollevava i fianchi per andargli incontro. I loro volti brillavano di sudore e gli occhi strettamente chiusi esprimevano tormento e piacere. Quando Justin crollò su Jerry, Eve iniziò a parlare. Ma tacque bruscamente vedendo Jerry sollevare le braccia e stringere in un abbraccio affettuoso Justin, che col naso le solleticò il collo. Stretti l'una all'altro, si carezzavano, guancia contro guancia. «Da non credere», mormorò Eve. «Non si tratta solo di sesso. Quei due si vogliono bene.»
E le affettuose moine umane erano più difficili da spiare della semplice lussuria animalesca. I due amanti si sciolsero dall'abbraccio e si sedettero, con le gambe reciprocamente incrociate. Justin carezzò i capelli scompigliati di Jerry, che gli affondò il viso nel palmo della mano. Poi cominciarono a parlare. A giudicare dall'espressione dei loro volti, il tono era serio, intenso. A un certo punto Jerry abbassò il capo, piangendo. Justin le baciò i capelli, la fronte, poi si alzò e attraversò la stanza. Tolse da un minifrigo una bottiglietta di vetro e versò in un bicchiere il liquido blu scuro. Aveva l'aria cupa mentre Jerry gli strappava il bicchiere di mano e ne ingoiava il contenuto in un sorso solo. «Altro che bevanda salutare. Quella è droga.» «Ne fa uso soltanto la donna», intervenne Peabody. «Lui no.» Justin fece alzare Jerry dal letto, poi, circondandole la vita con un braccio, la condusse fuori della camera da letto, scomparendo con lei. «Continua a osservare, Peabody», ordinò Eve, togliendosi gli occhiali e lasciandoli penzoloni sul petto. «Jerry è sull'orlo di una crisi di nervi, per chissà quale motivo. Certamente non per il nostro piccolo scontro. È sotto stress. C'è chi non è nato per uccidere.» «Se stanno cercando di estraniarsi l'uno dall'altra, per rafforzare il loro alibi, lei ha corso un bel rischio a venire qui stasera», commentò Roarke. Eve lo fissò, annuendo. «Aveva bisogno di lui. La dipendenza assume svariate forme.» Sentendo il ronzio del cellulare, lo estrasse dalla borsa. «Dallas.» «Di corsa, di corsa, devo sempre fare le cose di corsa.» «Dickie, dammi una bella notizia.» «Una miscela interessante, quest'ultima, tenente. A parte alcuni additivi per renderla liquida, darle un colore gradevole e un delicato sapore di frutta, hai fatto centro. Contiene tutti gli ingredienti della polvere precedentemente analizzata, incluso il nettare dell'Immortal Blossom. Però è un composto meno potente e, preso per via orale...» «Non mi serve altro. Trasmetti l'intero rapporto al mio terminale in ufficio, immediatamente, e inviane copia a Whitney, a Casto e al procuratore.» «Vuoi che ci metta pure un bel nastro rosso?» replicò lui, in tono acido. «Non dire scemenze, Dickie. Avrai i biglietti per due posti in prima fila all'arena.» Interruppe la comunicazione e sorrise. «Richiedi un mandato di perquisizione e sequestro. Peabody. Andiamo ad arrestare quei due.» «Signorsì. E come la mettiamo con Casto?»
«Digli che entriamo dall'ingresso principale. Anche la Narcotici avrà la sua parte.» Erano le cinque di mattina quando ebbero completato tutte le pratiche ufficiali e terminato il primo giro di interrogatori. I legali della Fitzgerald avevano insistito affinché venisse concessa alla loro cliente una pausa di sei ore, come minimo. Non potendo fare altro che acconsentire a quella richiesta, Eve aveva lasciato libera Peabody fino alle otto ed era rientrata nel proprio ufficio. «Non ti avevo detto di andare a dormire?» chiese a Roarke, vedendolo allontanarsi dalla sua scrivania. «Ho lavorato un po'.» Accigliandosi, Eve lanciò un'occhiata al monitor del proprio computer. Nello scorgervi un groviglio di cifre, emise un sibilo. «Questo apparecchio è di proprietà della polizia. Approfittarne può costarti diciotto mesi di arresti domiciliari.» «Non potresti rimandare a più tardi? Ho quasi finito. Ingrandire sezione sinistra, completa.» «Non sto scherzando, Roarke. Non puoi usare il mio apparecchio per i tuoi affari personali.» «Mmm... Prendere nota di modificare il centro ricreativo C. Area insufficiente. Trasmettere tutti i dati e le dimensioni corrette, CFD Architectural and Design, ufficio FreeStar One. Salvare su dischetto e spegnere.» Roarke estrasse il dischetto e se lo mise in tasca. «Che cosa stavi dicendo?» «Questo computer è programmato sulla mia impronta vocale. Come hai fatto a renderlo operativo?» Lui si limitò a sorridere. «Dai, Eve!» «Va bene, non dirmelo. In ogni caso non voglio saperlo. Non avresti potuto andare a lavorare nel tuo ufficio?» «Certo. Ma non avrei avuto il piacere di portarti a casa e costringerti a dormire per qualche ora.» Si alzò. «Che è quello che intendo fare adesso.» «Non voglio andare a dormire a casa.» «No, hai intenzione di restare qui a setacciare le prove e a eseguire calcoli delle probabilità finché le palpebre non ti si chiuderanno.» Eve avrebbe potuto negarlo, ma in certe circostanze era difficile mentire. «Ho solo un paio di cose che voglio mettere in ordine.» Roarke piegò il capo. «Dov'è Peabody?» «L'ho mandata a casa.»
«E l'ineffabile Casto?» Riconoscendo la trappola, ma non trovando il modo per non cascarci, Eve si strinse nelle spalle. «Credo che sia andato via con Peabody.» «E i tuoi indagati?» «Hanno ottenuto un momento di pausa.» «Dunque», disse Roarke, prendendole un braccio, «fa' una pausa pure tu.» Nonostante il tentativo di Eve di sfuggire alla sua presa, continuò a trascinarla nel corridoio. «Sono sicuro che tutti apprezzeranno la tua nuova tenuta da interrogatorio, però credo che faresti un lavoro migliore dopo un sonnellino, una doccia e un cambio d'abito.» Eve si guardò la gonna di satin nero. Si era completamente dimenticata di averla indosso. «Mi pare di avere un paio di jeans nell'armadietto dell'ufficio.» Quando Roarke riuscì a spingerla nell'ascensore senza troppi sforzi, lei si rese conto di stare cedendo. «Va bene, d'accordo. Andrò a casa a farmi una doccia e, magari, uno spuntino.» Oltre a cinque ore di sonno, come minimo, pensò Roarke. «Come sono andati gli interrogatori?» Eve si sforzò di vincere il torpore. «Non abbiamo fatto grandi progressi. Non che me li aspettassi, nel primo giro di interrogatori. Quei tre restano incollati alla versione originaria e sostengono che la droga era un semplice composto vegetale. Ma gli elementi di cui disponiamo sono più che sufficienti per sottoporre la Fitzgerald a un test tossicologico approfondito. I suoi legali fanno fuoco e fiamme per impedirlo, ma non ci fermeranno.» Sbadigliò profondamente. «Ce ne serviremo per strapparle qualche ammissione, se non una confessione vera e propria. Nel prossimo giro di interrogatori triplicheremo gli sforzi.» Roarke la guidò fino al passaggio coperto che dava nel parcheggio dei visitatori, dove aveva lasciato la sua auto. Eve, notò, camminava con la circospezione di una donna completamente brilla. «Non riusciranno a cavarsela», le disse, mentre si avvicinavano alla vettura. «Roarke, sbloccare le serrature.» Spalancò la portiera e depositò letteralmente Eve sul sedile del passeggero. «Ce la faremo. Casto è molto abile negli interrogatori, devo ammetterlo.» La testa di Eve crollò contro lo schienale. «E Peabody è potenzialmente in grado di esserlo anche lei, perché è dotata di una grande tenacia. Interrogheremo quei tre in stanze separate, alternandoci in continuazione. Scommetto che il primo a cedere sarà Young.»
Roarke uscì dal parcheggio, diretto verso casa. «Perché?» «Quel bastardo ama Jerry, e l'amore gioca brutti scherzi. Ti fa commettere errori perché ti rende ansioso, protettivo. Stupido.» Roarke abbozzò un sorriso e le scostò i capelli dal volto, poi, mentre lei crollava addormentata, mormorò: «A chi lo dici». 18 Se dal modo in cui Roarke l'aveva trattata nelle ultime ore lei avesse dovuto trarre un'indicazione su come sarebbe stata la loro vita coniugale, si disse Eve, il futuro si presentava abbastanza roseo. Era stata messa teneramente a letto - cosa di cui aveva veramente bisogno, fu costretta ad ammettere con se stessa - e, dopo cinque ore di oblio, era stata svegliata dal profumo del caffè e delle focaccine dolci appena sfornate. Era un bene, per Roarke, che non le facesse notare quanto si stava prendendo cura di lei. Saperlo era già abbastanza fastidioso; ci mancava pure che lui se ne gloriasse. Vedendolo già in piedi - vestito di tutto punto e impegnato in qualche vitale comunicazione d'affari -, Eve fu nuovamente colta dall'irritante sospetto che lui fosse in grado di dormire meno di qualsiasi altro essere umano, ma era un sospetto che teneva per sé. L'accennarvi le sarebbe valso solo un sorriso compiaciuto. Si avviò verso la centrale di polizia, riposata, ben nutrita e al volante della sua auto appena riparata, che tuttavia dopo neanche cinque isolati decise di sorprenderla con un nuovo scherzo. Il tachimetro balzò verso il rosso, benché lei fosse completamente ferma in un ingorgo stradale. «Attenzione», le comunicò la strumentazione di bordo in tono cortese. «Il motore fonderà, se per altri cinque minuti verrà mantenuta l'attuale velocità. Si prega di rallentare o d'inserire l'overdrive.» «Vaffanculo!» suggerì Eve, in tono non altrettanto cortese, e proseguì il cammino. Non avrebbe permesso a quell'inconveniente d'incrinare il suo buon umore. Non si preoccupò neppure delle nere e minacciose nubi temporalesche che stavano avanzando, suscitando il panico nel traffico aereo. E anche il fatto che fosse sabato, che mancasse solo una settimana alle sue nozze e che l'attendesse una lunga, difficile e potenzialmente brutale giornata di lavoro non riuscì a deprimerla. Entrò a grandi passi nella centrale, con un cupo sorriso stampato in vol-
to. «Hai l'aria di chi sta per azzannare un pezzo di carne cruda», commentò Feeney. «È il mio cibo preferito. Hai qualche nuovo elemento?» «Prendiamo il percorso più lungo, così nel frattempo ti aggiorno.» La fece deviare verso una scala mobile esterna, che a mezzogiorno era quasi deserta. Il meccanismo faticò leggermente a mettersi in moto, poi partì verso l'alto. Manhattan rimpicciolì fino a sembrare una graziosa città giocattolo, solcata da strade che s'incrociavano e invasa da veicoli dai vivaci colori. Un lampo saettò nel cielo, seguito da un rombo di tuono che fece vibrare la tettoia di vetro della scala mobile. La pioggia prese allegramente a scrosciare. «Appena in tempo», commentò Feeney, sbirciando verso il basso, dove i pedoni correvano come formiche impazzite. Un airbus suonò il suo rombante clacson, passando a pochi centimetri dalla tettoia. «Buon Dio!» Feeney si portò una mano al cuore che gli balzava nel petto. «Ma chi gliel'ha data la patente di guida a un simile criminale?» «Chiunque può condurre quei mastodonti volanti. Io non ci metterei piede neanche se mi puntassero un'arma laser alla tempia.» «In questa città il trasporto pubblico è un disastro.» Per calmarsi, Feeney estrasse un sacchetto di praline. «A proposito, il tuo sospetto sulle chiamate da Maui si è rivelato fondato. Young si è messo in contatto due volte con la Fitzgerald prima di balzare su una navetta spaziale e tornare indietro. Ha pure richiesto che la comunicazione fosse video, oltre che audio. Complessivamente, si sono parlati per un paio d'ore.» «Cosa dicono i CD della videosorveglianza per la notte in cui lo Scarafaggio è stato ucciso?» «Young è rientrato a casa, con la sacca da viaggio, verso le sei di mattina. La sua navetta era atterrata a mezzanotte. Non si sa come abbia trascorso il periodo intermedio.» «Non ha alibi. Ha avuto tutto il tempo che voleva per recarsi dal terminal al luogo del delitto. Sappiamo dove fosse nel frattempo la Fitzgerald?» «È rimasta nella sala da ballo fino alle ventidue e trenta circa. Doveva fare le prove per la sfilata. Non è ricomparsa prima delle otto. Ha chiamato un mucchio di gente: l'acconciatrice, il massaggiatore, il preparatore atletico. Ieri ha trascorso quattro ore al Paradise, a farsi tirare a lucido. Young
invece ha passato la giornata a parlare col suo agente, il suo consulente d'affari e...» Feeney si lasciò sfuggire un sorrisetto. «... un operatore turistico. Il nostro amico era interessato a un viaggio per due persone alla colonia Eden.» «Ti adoro, Feeney.» «Lo so, sono un tipo adorabile. Nel venire qui, ho ritirato il rapporto dei tecnici della Scientifica. Non è stato trovato nessun indizio utile nell'appartamento di Young né in quello della Fitzgerald. L'unica traccia di droga era nella bevanda azzurra. Se ne hanno un ulteriore quantitativo, lo custodiscono altrove. Nei loro computer non ho trovato formule chimiche né elementi che rimandino a possibili transazioni. Devo ancora esaminare a fondo gli hard disk, verificare che non nascondano qualcosa. Ma, se vuoi la mia opinione, quei due non mi sembrano geni dell'informatica.» «No, chi ne sa qualcosa di più è Redford, probabilmente. Ma qui non si tratta solo di omicidio e traffico di droga, Feeney. Se riusciamo a far classificare quella sostanza come veleno, e accertiamo che i tre erano già da tempo al corrente delle sue proprietà letali, l'accusa diventa di associazione per delinquere e cospirazione finalizzata alla strage.» «È dai tempi delle Guerre urbane, Dallas, che nessuno tira più in ballo la cospirazione finalizzata alla strage.» «A me pare che suoni bene.» Arrivata in cima, la scala mobile si arrestò. Eve trovò Peabody ad aspettarla davanti alle salette degli interrogatori. «Dove sono gli altri?» le chiese. «Gli indagati stanno conferendo coi rispettivi legali. Casto è andato a prendere un caffè.» «Va bene, fa' chiamare gli indagati. Il loro tempo è scaduto. Sai nulla del comandante?» «Sta arrivando. Vuole assistere da fuori agli interrogatori. L'ufficio del procuratore li seguirà in video.» «Bene. Feeney provvederà a registrare i tre colloqui. Non voglio inconvenienti di sorta, quando questa storia finirà in tribunale. Al primo giro tu ti occuperai della Fitzgerald, Casto di Redford. Quanto a Young, ci penso io.» Vide Casto avvicinarsi con alcune tazze di caffè su un vassoio e gli fece un cenno di saluto. «Feeney, mettili al corrente degli ultimi elementi raccolti. Da usare con una certa accortezza», aggiunse, prendendo una tazza di caffè. «Ci cambieremo di posto ogni mezz'ora.»
Entrò nella sua saletta degli interrogatori. Il primo sorso di quell'orrendo surrogato di caffè la fece sorridere. La giornata si preannunciava ottima. «Può fare meglio di così, Justin.» Eve si stava infuriando, perché l'interrogatorio sembrava girare a vuoto. Erano passate già tre ore dall'inizio. «Lei mi chiede che cos'è successo, gli altri poliziotti mi hanno chiesto lo stesso.» Young bevve un sorso d'acqua. Aveva perso la sua sicumera, iniziava a vacillare. «Vi ho risposto.» «Lei è un attore», commentò Eve, ostentando un sorriso amichevole. «Un bravo attore. Così almeno sostengono tutti i critici. Proprio l'altro giorno ho letto una recensione in cui si diceva che lei riesce a rendere armoniosa una battuta scadente. Qui, però, non sento nessuna musica.» «Per quante volte ancora dovrò ripetere le stesse cose?» Young lanciò un'occhiata al suo legale. «Sarò costretto a continuare così molto a lungo?» «Possiamo chiedere in qualsiasi momento che l'interrogatorio venga sospeso», gli ricordò l'avvocato. Era una donna, una bionda dall'aria sveglia e lo sguardo minaccioso. «Non sei obbligato a fare ulteriori dichiarazioni.» «Ha perfettamente ragione», convenne Eve. «Possiamo smettere anche subito. E lei, Justin, tornerà in cella. Per chi è accusato di traffico di droga non è prevista la libertà su cauzione.» Si chinò in avanti, assicurandosi che gli occhi di Young fissassero i suoi. «In particolare quando sull'indagato pendono quattro accuse di omicidio.» «Al mio cliente non è stato contestato nessun crimine, a parte il presunto possesso di sostanza stupefacente. Lei non ha nulla in mano, tenente. Lo sappiamo tutti.» «Il suo assistito sta camminando sull'orlo di un ripido abisso. Tutti noi sappiamo anche questo. Vuole precipitarvi da solo, Justin? Non mi sembra molto giusto. In questo stesso momento i suoi amici stanno rispondendo alle domande.» Eve alzò le mani, allargando le dita. «Che cosa farà, lei, se loro le affibbieranno ogni colpa?» «Non ho ucciso nessuno.» L'attore rivolse rapidamente lo sguardo verso il falso specchio. Sapeva che al di là c'era chi lo ascoltava e, per una volta, non sapeva come risultare convincente agli occhi del suo pubblico. «Non ho mai neanche sentito nominare quelle persone.» «Ma conosceva Pandora.» «Sì, certo, la conoscevo. Ovviamente.» «E si trovava a casa di Pandora la notte in cui fu uccisa.» «L'ho già ammesso, non è così? Glielo ripeto: Jerry e io siamo andati a
casa di Pandora, dietro suo invito. Abbiamo bevuto qualcosa, poi è arrivata quell'altra donna. Pandora si è comportata in modo ignobile, e noi due ce ne siamo andati.» «Vi servite spesso, lei e Ms Fitzgerald, dell'entrata posteriore non sorvegliata del suo edificio?» «È solo una questione di privacy», replicò Young. «Se lei avesse continuamente alle costole i cronisti, anche quando vuole solo fare una pisciata, lo capirebbe.» Eve, che aveva avuto modo di trovarsi in una situazione del genere, gli fece un ampio sorriso. «Che strano, nessuno di voi due mi è parso particolarmente restio a mettersi in mostra. Anzi, se avessi un animo cinico, direi che avete sfruttato la pubblicità offerta dai media. Da quanto tempo Jerry fa uso della droga conosciuta come Immortality?» «Non lo so.» Young lanciò di nuovo un'occhiata allo specchio, quasi augurandosi che un regista dicesse stop e mettesse fine a quella scena. «Le ho già spiegato che non sapevo che cosa ci fosse in quella bevanda.» «Ne teneva una bottiglia in camera da letto, ma ne ignorava il contenuto. Non ha mai provato ad assaggiarla?» «Non l'ho mai toccata.» «Anche questo è strano, Justin. Sa, credo che, se tenessi qualcosa nel mio frigorifero, sarei tentata di assaggiarlo. A meno che, ovviamente, non sapessi che è un veleno. Lei è al corrente del fatto che l'Immortality conduce lentamente a morte, non è così?» «È impossibile», rispose lui bruscamente, inspirando con forza dal naso. «Non ne so nulla.» «Agisce pesantemente sul sistema nervoso. Anche se l'avvelenamento è lento e graduale, alla fine ha conseguenze letali. Lei ne ha versato un bicchiere a Jerry e glielo ha fatto bere. Un atto che equivale a un omicidio.» «Tenente...» intervenne l'avvocato. «Non ho mai fatto del male a Jerry», esplose Young. «Io l'amo. Non le farei mai del male.» «Davvero? Numerosi testimoni sostengono che è proprio quanto lei ha fatto pochi giorni fa. Ha o non ha picchiato Ms Fitzgerald nella zona retrostante la sala da ballo del Waldorf, il 2 di luglio?» «No, io... Avevamo perso le staffe.» Nella sua testa le battute si stavano ingarbugliando tra loro. Non riusciva a ricordare il copione da seguire. «Si è trattato di un malinteso.» «Lei le ha sferrato un pugno in faccia.»
«Sì... no. Sì, stavamo litigando.» «Stavate litigando, così lei ha picchiato la donna che ama, tanto forte da sbatterla a terra. Era ancora violentemente in collera con Ms Fitzgerald quando quest'ultima è entrata a casa sua, la notte scorsa? Quando lei le ha versato un bicchiere di un veleno ad azione lenta?» «Gliel'ho già detto, non è un veleno, almeno non nel senso che ritiene lei. Io non farei mai del male a Jerry. Non sono mai stato in collera con lei, non potrei mai esserlo.» «Lei non è mai stato in collera con Ms Fitzgerald e non le ha mai fatto del male. Le credo, Justin.» Eve addolcì la voce e si piegò di nuovo in avanti, posando con pacatezza una mano su quella tremante di Young. «Lei non l'ha mai neanche picchiata. È stata tutta una recita, non è così? Lei non è il tipo di uomo che percuote la donna che ama. Ha soltanto recitato, come in uno dei suoi sceneggiati.» «Io non... io...» Rivolse a Eve uno sguardo inerme e lei capì di averlo in pugno. «Lei ha recitato in molti film d'azione. Sa come dare l'impressione di aver messo a segno un cazzotto, ma è tutta una finta. È quanto ha fatto quel giorno, non è così, Justin? Avete simulato un litigio. Lei non ha mai alzato neanche un dito contro la sua amata.» Parlò con voce gentile, comprensiva. «Lei non è un uomo violento, vero, Justin?» Sconvolto, Young strinse le labbra e lanciò un'occhiata all'avvocato, che sollevò una mano per bloccare ulteriori domande e si chinò a sussurrare qualcosa all'orecchio del suo assistito. Mantenendo un'espressione vacua, Eve attese. Sapeva quali gatte da pelare avessero per le mani. Se Young avesse ammesso che era stata tutta una finta, avrebbe fatto la figura del bugiardo; se avesse insistito nel dire di aver preso a pugni la sua amante, avrebbe dimostrato di avere un'indole violenta. Era una scelta difficile da prendere. L'avvocato si tirò indietro e intrecciò le dita. «Il mio cliente e Ms Fitzgerald hanno recitato uno scherzo innocuo. Stupido, lo ammetto, ma non è un reato fingere una rissa.» «No, non è un reato», replicò Eve, sentendo aprirsi una prima crepa nell'alibi di Young e della sua compagna. «Così come non è un reato recarsi a Maui e fingere di avere un rapporto amoroso con un'altra donna. Anche quella era una storia fasulla, non è così, Justin?» «È solo che noi... non abbiamo avuto il tempo per ragionare a mente lucida. Eravamo preoccupati, tutto qui. Dopo l'arresto di Paul, ci siamo chie-
sti se non sarebbe toccata anche a noi la stessa sorte. Eravamo tutti e tre a casa di Pandora, quella notte, perciò ci sembrava logico.» «Sa, io ho fatto proprio lo stesso ragionamento.» Eve gli rivolse un sorriso cordiale. «Sarebbe stato un passo molto logico.» «Entrambi avevamo in ballo progetti importanti. Non potevamo permetterci ciò che sta accadendo adesso. Abbiamo pensato che, se fingevamo una rottura, il nostro alibi si sarebbe rafforzato.» «Perché sapevate che era un alibi molto debole. Dovevate aver capito che non ci avremmo messo molto a scoprire che la notte della morte di Pandora potevate aver lasciato indisturbati l'appartamento, per andare da Leonardo, compiere l'omicidio e rientrare senza essere visti dal sistema di videosorveglianza.» «Ma non siamo andati da nessuna parte e lei non può provare il contrario.» Young raddrizzò le spalle. «Non può provare nulla.» «Non ne sia tanto sicuro. La sua amante non può fare a meno dell'Immortality. Ed è lei, Justin, a essere in possesso di questa droga. Come l'ha ottenuta?» «Io... qualcuno l'ha data a Jerry. Non so chi.» «È stato Redford? È stato lui a fare di Jerry una tossicodipendente? Se è così, lei, Justin, deve odiarlo. La donna che ama ha iniziato a morire la prima volta in cui ha bevuto un sorso di quella sostanza.» «Non è un veleno. Jerry mi ha detto che era stata Pandora a spargere la voce, per tenere la bevanda solo per sé. Pandora non voleva che Jerry ne traesse beneficio. Quella cagna sapeva come Jerry se ne sarebbe potuta avvantaggiare, ma voleva...» S'interruppe, recependo troppo tardi la tagliente occhiata d'avvertimento dell'avvocato. «Che cosa voleva? Denaro? Molto denaro? Desiderava lei, Justin? Ha deriso Jerry? Ha minacciato lei, Justin? È per questo che l'ha uccisa?» «No, non l'ho mai neanche toccata. Le dico che è così. D'accordo, abbiamo litigato. Quella notte, dopo che la donna di Leonardo se n'era andata, è scoppiato tra noi un alterco tremendo. Jerry era furibonda. Aveva tutti i diritti di esserlo, dopo quello che aveva detto Pandora. Per questo l'ho portata via, le ho fatto bere qualcosa, l'ho calmata. Le ho detto di non preoccuparsi, che c'erano altre vie per ottenere una scorta di droga.» «Quali altre vie?» Young aveva il respiro affannoso. Allontanò freneticamente da sé la mano dell'avvocato che tentava d'indurlo alla cautela. «Sta' zitta», scattò, rivolto alla donna. «A che mi servono i tuoi suggerimenti? Il tenente mi
sbatterà in galera con l'accusa di omicidio prima ancora che io abbia finito di parlare. Voglio giungere a un accordo. Perché non mi propone un patto?» Si sfregò la bocca col dorso della mano. «Sono disposto a trattare.» «Possiamo parlarne», replicò Eve con calma. «Che cosa ha da offrirmi?» «Paul», rispose Young, con un sospiro ansimante. «Le darò Paul Redford. Ha ucciso lui Pandora. Quel bastardo probabilmente ha ucciso anche tutti gli altri.» Venti minuti più tardi, Eve camminava avanti e indietro nella stanza delle riunioni. «Voglio lasciare Redford sui carboni ardenti ancora per un po'. A interrogarsi su quanto ci possano aver rivelato gli altri due.» «Dalla nostra amica non sto ottenendo molto.» Casto appoggiò disinvoltamente i piedi sul tavolo, incrociando le caviglie. «È una dura. Mostra qualche segno di cedimento - bocca arida, tremori, sguardo che di tanto in tanto si appanna -, però non molla.» «Non assume droga da... da più di dieci ore. Per quanto ancora riuscirà a reggere?» «Non conosco a sufficienza questa sostanza per saperlo.» Casto allargò le braccia. «Jerry potrebbe non fare una piega, continuare come se nulla fosse, oppure trasformarsi nell'arco di dieci minuti in una sorta di budino tremolante.» «Okay, non possiamo fare conto sul suo crollo psicofisico.» «Redford invece comincia a dare segni di cedimento», intervenne Peabody. «Ha una paura matta. Il duro è il suo avvocato. Se potessimo parlare per cinque minuti con Redford da solo, andrebbe in pezzi come una noce.» «Ma questo non è possibile.» Whitney studiò la copia stampata degli ultimi verbali d'interrogatorio. «Per forzargli la mano abbiamo soltanto la dichiarazione di Young.» «È un'accusa debole», mormorò Eve. «Dovrete trovare il modo di farla sembrare più pesante. A detta di Young, è stato Redford, circa tre mesi fa, a far conoscere l'Immortality alla Fitzgerald e a proporle di mettersi in società con lui.» «E, sempre secondo il nostro biondino, tutto sarebbe stato legale e irreprensibile.» Eve emise un grugnito sprezzante. «Nessuno può essere tanto ingenuo.» «Non lo so», mormorò Peabody. «Lui stravede per la Fitzgerald. Non mi meraviglierei se si fosse lasciato convincere dalle sue assicurazioni che si trattava di un affare onesto. Ricerca e sviluppo, una nuova linea di cosme-
tici e di prodotti per ringiovanire presentata col nome di lei.» «E non dovevano fare altro che sbarazzarsi di Pandora», aggiunse Casto. «Dopo di che avrebbero fatto soldi a palate.» «Il profitto, ecco la molla che è alla base di tutto. Pandora voleva arricchirsi, gli altri pure.» Eve si lasciò cadere su una sedia. «Forse Young è solo un innocente idiota, e forse no. Ha puntato il dito contro Redford, ma non ha ancora capito che, così facendo, ha incastrato anche Jerry. Lei gli aveva detto quel tanto da indurlo a progettare un viaggio sulla colonia Eden, nella speranza di potersi impadronire, insieme con la sua amata, di una scorta di droga che fosse esclusivamente loro.» «Dallas, la sua tesi dell'associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti regge», osservò Whitney. «Se Young risulta pulito rispetto al resto, faremo con lui l'accordo che desidera. Ma per quanto riguarda l'omicidio siamo ancora in alto mare. A questo punto la testimonianza di Young non vale molto. Lui ritiene che sia stato Redford a uccidere Pandora e ce ne ha fornito il movente. Noi possiamo stabilire che c'era anche l'opportunità, però ci mancano le prove materiali, le testimonianze schiaccianti.» Il comandante si alzò. «Lasci che le riveli una cosa, Dallas. Il pubblico ministero mi sta facendo fretta. Le accuse contro Mavis Freestone stanno per essere ritirate, ma, se non daremo al procuratore qualcos'altro con cui tenere buoni i media, tutti noi faremo la figura degli imbecilli.» Uscito Whitney, Casto estrasse un temperino e cominciò a pulirsi le unghie. «Dio solo sa quanto poco vogliamo che il procuratore faccia la figura dell'imbecille. Maledizione, pretendono di avere tutto su un piatto d'argento.» Alzò lo sguardo e fissò Eve. «Redford non ammetterà mai di essere un assassino. Confesserà solo di aver trafficato con la droga, una cosa, dopotutto, che va per la maggiore, però non accetterà mai di farsi affibbiare quattro omicidi. Abbiamo una sola speranza per incastrarlo.» «Quale?» volle sapere Peabody. «Dimostrare che non ha commesso lui tutti e quattro gli omicidi. Se facciamo crollare uno degli altri due, crollerà pure lui. E scommetto che a cedere sarà la Fitzgerald.» «Allora occupati di lei.» Eve emise un profondo sospiro. «Io mi lavorerò Redford. Peabody, prendi una sua foto, torna al club, fa' un giro dalle parti in cui vivevano Boomer, lo Scarafaggio e la Moppett e mostrala a tutti. Ho bisogno che qualcuno lo riconosca.» Aggrottò la fronte, sentendo il ronzio del suo cellulare, e prese la comunicazione. «Dallas. Ora non ho tempo.» «È sempre un piacere sentire la tua voce», ribatté Roarke, implacabile.
«Sono in riunione.» «Anch'io. Tra mezz'ora parto per FreeStar.» «Lasci il pianeta? Ma... Be', buon viaggio.» «Non posso farne a meno. Sarò di ritorno fra tre giorni. Sai come metterti in contatto con me.» «Sì, lo so.» Avrebbe voluto dirgli qualcosa, di sciocco, di intimo. «Sarò molto impegnata anch'io per un bel po'», disse invece. «Ci vediamo al tuo ritorno.» «Dovresti fare ogni tanto una puntata nel tuo ufficio, tenente. È tutto il giorno che Mavis cerca di parlarti. A quanto pare, hai saltato la tua seconda prova. Leonardo è sconvolto.» Eve fece del suo meglio per ignorare la risatina soffocata di Casto. «Ho altre cose cui pensare.» «Non è così per tutti? Trova un minuto da dedicargli, tesoro. Per il mio bene. Così forse tutta quella gente se ne andrà finalmente dalla nostra casa.» «Volevo sbatterli fuori già qualche giorno fa. Credevo ti piacesse averli d'intorno.» «E io credevo fosse tuo fratello», mormorò Roarke. «Cosa?» «È una vecchia battuta. No, Eve, non mi piace avere quegli individui tra i piedi. Sono, per definirli in poche parole, una banda di squinternati. Proprio adesso ho trovato Galahad rintanato sotto il letto. Qualcuno l'ha coperto di perline e di fiocchetti rossi. È mortificante, per entrambi.» Eve si morse la lingua per trattenere una risata, benché l'espressione di Roarke fosse tutt'altro che divertita. «Ora che so che ti fanno ammattire, mi sento meglio. Li faremo sloggiare.» «Fallo. Oh, temo che dovrai sistemare alcuni dettagli per domenica prossima, mentre io sono via. Summerset sa di che cosa si tratta. Devo andare, l'auto mi aspetta.» Eve lo vide fare un segno a qualcuno che non era inquadrato nello schermo, poi tornare a fissarla. «Arrivederci tra qualche giorno, tenente.» «Sì.» Lo schermo si fece bianco mentre lei mormorava: «Buon viaggio». «Be', Eve, se hai bisogno di correre dal tuo sarto o di portare il gatto dall'analista, Peabody e io possiamo occuparci di questa sciocchezza di caso di pluriomicidio.» Le labbra di Eve si tesero in un sorriso minaccioso. «Vaffanculo, Casto.»
Nonostante i suoi molti lati fastidiosi, Casto era dotato di grande istinto. Redford non sarebbe crollato rapidamente. Eve, dopo aver fatto di tutto per metterlo alle corde, ebbe la blanda soddisfazione d'incastrarlo per la droga, però non riuscì a fargli ammettere niente riguardo agli omicidi. «Vediamo se ho capito bene.» Si alzò, perché aveva bisogno di sgranchire le gambe, e si versò un caffè. «È stata Pandora a parlarle dell'Immortality. E quando sarebbe avvenuto?» «Come le ho già detto, circa un anno e mezzo fa, forse anche di più.» Redford era freddo, perfettamente controllato. Le accuse di traffico di stupefacenti non lo impensierivano più di tanto, soprattutto considerando la linea di difesa che aveva scelto. «Venne a farmi una proposta d'affari. Così almeno la definì. Sosteneva di potersi procurare una formula, qualcosa che avrebbe rivoluzionato le industrie della bellezza e della salute.» «Un nuovo prodotto cosmetico. Pandora non le rivelò che uno dei componenti era una droga, con effetti letali.» «No. Aveva bisogno di un finanziamento per lanciare la linea. Alla quale intendeva dare il proprio nome.» «Le fece vedere la formula?» «No. Come le ho già dichiarato, mi tenne sulla corda con una serie di promesse. Riconosco che da parte mia fu una vera sciocchezza. Ero sessualmente ammaliato da lei, che approfittò di questo mio punto debole. Al tempo stesso, l'affare sembrava prospettarsi sotto i migliori auspici. Pandora faceva uso di quella sostanza, e i risultati erano impressionanti. Potevo vedere coi miei occhi quanto fosse ringiovanita e più che mai in forma. Piena di energia e di carica sessuale. Se lanciato opportunamente sul mercato, un prodotto del genere avrebbe potuto rendere moltissimo. E il denaro mi serviva per dei progetti commercialmente rischiosi.» «Lei voleva il denaro, perciò continuava a pagare Pandora, poco alla volta, senza farsi informare dettagliatamente.» «Per un po', finché non mi spazientii e cominciai a farle domande. Lei si limitò a darmi altre vaghe assicurazioni, il che m'indusse a sospettare che volesse tenere tutto per sé oppure che avesse qualche altro socio. Così mi procurai un campione della sostanza.» «Se ne procurò un campione?» Prima di rispondere, Redford indugiò, come se stesse soppesando le parole da pronunciare. «Le presi la chiave mentre dormiva e aprii la scatola in cui teneva le pillole. Per proteggere il mio investimento, ne intascai al-
cune per farle analizzare.» «E quando, per proteggere il suo investimento, rubò la droga?» «Non si trattò di un furto», intervenne il legale di Redford. «Il mio cliente aveva pagato, in buona fede, per quella merce.» «D'accordo, riformulo la domanda. Quando decise di assumere un atteggiamento più attivo in quell'affare da lei finanziato?» «Circa sei mesi fa. Portai le pillole a un tecnico di laboratorio che conoscevo e pagai per avere privatamente un responso.» «E appurò...» Redford rimase in silenzio un attimo, osservandosi le dita. «Appurai che il prodotto aveva effettivamente le proprietà che Pandora mi aveva illustrato. Però causava dipendenza, il che lo inseriva automaticamente nella categoria delle droghe. Era anche potenzialmente letale, se assunto in modo regolare per un lungo periodo di tempo.» «Così lei, in quanto rispettoso della legalità, valutò i pro e i contro e si ritirò dall'affare.» «Il rispetto della legalità non è un requisito obbligatorio», replicò con calma Redford. «E avevo un investimento da proteggere. Decisi di fare alcune ricerche per vedere se gli inaccettabili effetti collaterali potessero essere eliminati, o almeno ridotti. Credo di esserci riuscito, almeno in parte.» «E usò Jerry Fitzgerald come cavia.» «Quello fu un errore. Indotto forse dalla fretta, perché Pandora continuava a chiedermi sempre più denaro e si lasciava sfuggire frasi da cui intuivo che stava per lanciare il prodotto sul mercato. Volevo arrivare prima di Pandora, e Jerry avrebbe perfettamente fatto al caso mio. Lei acconsentì, dietro pagamento, a provare la sostanza così com'era stata corretta dai miei chimici. In forma liquida. Ma la scienza può sbagliare, tenente. Come appurammo troppo tardi, la droga creava ancora una forte dipendenza.» «E restava letale?» «Sembra di sì. Benché il processo sia stato rallentato, c'è ancora il rischio, temo, che a lungo termine danneggi gravemente l'organismo umano. Un possibile effetto collaterale di cui misi al corrente Jerry alcune settimane fa.» «Prima o dopo che Pandora aveva scoperto che stava tentando di soffiarle l'affare?» «Dopo, mi pare; immediatamente dopo. Sfortuna volle che Jerry e Pandora s'incontrassero a un ricevimento. Pandora fece qualche commento sulla relazione che aveva avuto con Justin e, per quanto mi risulta - perché
la cosa mi fu solo riferita -, Jerry le sbatté in faccia la notizia dell'accordo che c'era tra noi due.» «Cosa che Pandora non trovò di suo gradimento.» «Si infuriò, com'era prevedibile. Non si poteva certo dire che la nostra relazione andasse a gonfie vele. Io mi ero già procurato una piantina di Immortal Blossom ed ero deciso a cancellare dalla formula tutti gli effetti collaterali. Non avevo nessuna intenzione, tenente, di lanciare sul mercato un prodotto pericoloso. Ho tutta una documentazione a dimostrarlo.» «Lasceremo che a questo pensi la Narcotici. Pandora la minacciò?» «Pandora non poteva fare a meno di proferire minacce. Ci ero abituato. E mi sentivo abbastanza forte da ignorarle, e anche da contrastarle.» Redford sorrise. Sembrava più sicuro di sé. «Vede, se lei avesse forzato la mano, io avrei potuto rovinarla, perché conoscevo i lati negativi della formula. Perciò non avevo motivo di farla fuori.» «La vostra relazione non andava a gonfie vele, eppure quella sera lei si recò a casa sua.» «Nella speranza che potessimo giungere a un compromesso. Per questo avevo insistito affinché fossero presenti anche Jerry e Justin.» «Lei ebbe un rapporto sessuale con Pandora.» «Era una splendida donna, molto desiderabile. Sì, facemmo l'amore.» «Pandora possedeva un quantitativo di droga sotto forma di pillole.» «Sì. Come le ho già detto, le teneva in una scatola nel suo tavolino da toilette.» Sorrise di nuovo. «Le ho parlato, tenente, della scatola e delle pillole perché ritenevo, a ragion veduta, che il referto autoptico avrebbe menzionato tracce di sostanze stupefacenti. Mi sembrava saggio non mostrarmi reticente. Non ho fatto altro che collaborare.» «Una facile collaborazione, sapendo che non avrei trovato le pillole. Dopo che Pandora era morta, lei è rientrato in casa sua a prendere la scatola. Per proteggere i suoi investimenti. Se sul mercato non ci fosse stato altro prodotto che il suo, se non ci fosse stata concorrenza, i profitti sarebbero lievitati.» «Dopo aver lasciato la casa di Pandora, non ci sono più tornato. Non ne avevo motivo. Il mio prodotto era superiore.» «Nessuno dei due prodotti poteva essere venduto alla luce del sole e lei lo sapeva. Ma nel mercato illegale quello di Pandora avrebbe avuto un enorme successo, di gran lunga maggiore di quello del suo, più blando, annacquato e con ogni probabilità molto più costoso.» «Con altre ricerche, altri test...»
«Altro denaro? Lei, oltre ad aver dato a Pandora trecentomila dollari, ha speso a tutt'oggi una fortuna per procurarsi una piantina, per farla analizzare, per compiere svariate ricerche e per pagare la Fitzgerald. Immagino che stesse diventando un po' ansioso di far finalmente fruttare i suoi soldi. Quanto esige da Jerry per ogni dose di droga?» «Tra lei e me c'è un accordo commerciale.» «Diecimila dollari a ogni consegna», lo interruppe Eve, osservando la freccia colpire il bersaglio. «È questa la cifra che la Fitzgerald ha versato per ben tre volte nell'arco di due mesi sul suo conto sulla Starlight Station.» «Un investimento...» cominciò Redford. «Lei l'ha resa una tossicodipendente, poi ha smesso di rifornirla gratis. Questo fa di lei uno spacciatore, Mr Redford.» L'avvocato intervenne, cercando di trasformare dialetticamente uno spaccio di droga in un accordo tra soci in affari. «Lei, Redford, aveva bisogno di contatti negli ambienti dei tossici. Boomer era pronto a tutto pur di avere quattro soldi sull'unghia. Ma fiutò l'affare e volle testare il prodotto. Come riuscì a mettere le mani sulla formula?» «Non conosco nessun Boomer.» «Lei lo vide parlare a vanvera nel club, darsi un sacco di arie, poi ritirarsi in camera con Hetta Moppett. Che cosa Boomer avesse raccontato a quest'ultima, lei non poteva saperlo. Ma, quando Boomer scappò via subito dopo averla vista, capì che doveva assolutamente appurarlo.» «Sta prendendo una cantonata, tenente. Non conosco queste persone.» «Forse fu il panico a farle uccidere Hetta. In realtà non voleva farla fuori. Ma, quando si rese conto che era morta, si trovò costretto a mettere tutto a tacere. Per questo uccise di nuovo. Forse Hetta le aveva rivelato qualcosa prima di morire o forse no, ma lei ormai doveva togliere di mezzo Boomer. Direi che a quel punto stava cominciando a provare un certo piacere a uccidere, a giudicare da come quel poveretto fu picchiato e torturato, prima di essere finito. Ma lei si sentiva un po' troppo sicuro di sé e non si recò nell'appartamento di Boomer a cercare la formula. Ci arrivai prima io.» Eve si alzò dal tavolo, fece quattro passi nella stanza. «A questo punto lei si trovava in un grosso guaio. La polizia aveva in mano un campione della sostanza e la sua formula, mentre Pandora era libera di andare avanti per proprio conto. Quale scelta le restava?» Appoggiò le mani sul tavolo, si chinò su Redford. «Che cosa può fare un uomo quando vede i soldi che
ha investito e tutti i futuri profitti finire nel cesso?» «Il mio rapporto d'affari con Pandora si era concluso», affermò il produttore. «Già, è stato lei a concluderlo. L'idea di portare Pandora in casa di Leonardo è stata geniale. Lei è un tipo astuto. Pandora aveva appena finito di conciare per le feste Mavis. Uccidendola nell'atelier di Leonardo, lei avrebbe dato l'impressione che a farla fuori fosse stato lui, infuriato per quanto era accaduto. Se Leonardo fosse stato a casa, lei avrebbe dovuto sbarazzarsene, ma ormai aveva preso un certo gusto a uccidere. Però lui non c'è, il che le rende tutto più facile. A semplificare ulteriormente le cose è l'arrivo di Mavis, che le permette di creare una bella messinscena.» Redford aveva il respiro un po' alterato, ma non cedeva. «Quando ho visto Pandora per l'ultima volta, lei era viva, rabbiosa e intenzionata a farla pagare a qualcuno. Se non è stata Mavis Freestone a ucciderla, sospetto che l'abbia fatto Jerry Fitzgerald.» Interessata, Eve si piegò all'indietro, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Davvero? Come mai?» «Si odiavano reciprocamente, erano apertamente in competizione, più che mai. E, soprattutto, Pandora sembrava intenzionata a riprendersi Justin, una cosa che Jerry non avrebbe tollerato. Infine...» Sorrise. «Era stata Jerry a suggerire a Pandora l'idea di andare da Leonardo a fare una scenata.» Questa è nuova, pensò Eve, inarcando le sopracciglia. «Davvero?» «Dopo che Ms Freestone se n'era andata, Pandora era eccitata, furiosa. Jerry sembrava godere della sua rabbia e del fatto che la giovane donna avesse messo a segno qualche manrovescio. Stuzzicò Pandora, le disse in forma velata che, se fosse stata nei suoi panni, non avrebbe tollerato una simile umiliazione e che non capiva perché lei non piombasse immediatamente a casa di Leonardo, per fargli vedere chi comandava. Dopo un'altra frecciatina sull'incapacità di Pandora di tenersi un uomo, Jerry fu trascinata via da Justin.» Il ghigno di Redford si fece più largo. «Quei due odiavano Pandora. Jerry per motivi più che ovvi, e Justin perché gli avevo riferito che era stata lei a mettere in circolazione quella droga. Justin avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggere Jerry, non si sarebbe fermato di fronte a nulla. Quanto a me, non ero sentimentalmente coinvolto con nessuno di loro. Andavo semplicemente a letto con Pandora. Era una mera questione di sesso, tenente, e di affari.»
Eve bussò alla porta della stanza in cui Casto stava interrogando Jerry e, quando lui mise fuori la testa, volse lo sguardo verso la donna seduta al tavolo. «Ho bisogno di parlare con lei.» «Sta perdendo colpi, è quasi nel pallone. Oggi non si riuscirà a cavarle gran che. Il suo legale sta già protestando e chiedendo una sospensione.» «Ho bisogno di parlarle», ripeté Eve. «Che tono hai usato con lei, in questa seduta?» «Duro, ostile.» «Va bene, io giocherò un ruolo più accomodante.» E scivolò nella stanza. Gli occhi di Jerry erano irrequieti e opachi. Il volto era teso, e le mani con cui se lo tormentava tremavano. La sua bellezza era diventata fragile e l'espressione turbata. «Vuole mangiare qualcosa?» le chiese Eve con voce pacata. «No.» Lo sguardo di Jerry ruotò nella stanza. «Voglio andare a casa. Voglio Justin.» «Vedremo se è possibile combinare un incontro fra voi due. Non posso farlo senza l'autorizzazione di un mio superiore.» Le versò un po' d'acqua. «Perché non beve un goccio, non si rilassa un attimo?» Coprì con la propria mano quella di Jerry che aveva stretto il bicchiere, e l'aiutò ad avvicinarla alle labbra tremanti. «È un brutto momento, per lei. Mi dispiace. Non possiamo darle nulla per combattere la sua crisi d'astinenza. Sappiamo ancora troppo poco su questa droga, e qualsiasi intervento potrebbe rivelarsi controproducente.» «Sto bene. Non è nulla.» «No, lei sta da cani.» Eve si lasciò cadere su una sedia. «È stato Redford a ridurla così. Ce l'ha confermato.» «Non è nulla», ripeté Jerry. «Sono soltanto stremata. Ho bisogno di un goccio della mia bibita salutare.» Lanciò a Eve uno sguardo speranzoso, implorante. «Posso averne un po', solo per tirarmi su?» «Sa che è pericoloso, Jerry. Sa come la sta riducendo. Avvocato, Paul Redford ha confessato ufficialmente di aver fatto assumere la droga a Ms Fitzgerald, con la scusa di un accordo d'affari. Riteniamo che lei non fosse consapevole della dipendenza indotta dalla droga e, stando così le cose, non intendiamo accusarla di consumo di stupefacenti.» Come Eve si era augurata, il legale si rilassò visibilmente. «Be', in tal caso, tenente, vorrei chiedere il rilascio della mia assistita e il suo inserimento in un programma di disintossicazione. Per scelta volontaria.»
«È una richiesta sulla quale potremmo metterci d'accordo. Se tuttavia la sua assistita si sforzasse di collaborare per qualche altro minuto, potrei riuscire a stringere il cerchio intorno a Redford.» «Se collabora, tenente, le altre accuse relative alla droga saranno lasciate cadere?» «Sa bene che non posso prometterglielo, avvocato. Ma raccomanderò mano leggera quando si tratterà di chiedere una condanna per il possesso della droga e l'intenzione di spacciarla.» «E Justin? Lo lascerete andare?» domandò Jerry. Eve tornò a guardarla. L'amore è uno strano fardello, pensò. «Era coinvolto anche lui in questo affare?» «No. Lui voleva tirarmi fuori. Quando scoprì che io ero diventata... dipendente, mi esortò a seguire un programma di disintossicazione, a smettere di prendere quella bevanda. Ma io ne avevo bisogno. Avrei smesso, ma non subito.» «La notte in cui Pandora fu uccisa, tra voi scoppiò un litigio.» «Con lei si litigava sempre. Era una donna odiosa. Credeva di potersi riprendere Justin. Non perché gliene importasse qualcosa di lui, ma perché quella cagna voleva ferirmi. Voleva far del male a me e a lui.» «Justin non sarebbe tornato con Pandora, vero, Jerry?» «La odiava tanto quanto la odiavo io.» Si portò alla bocca le unghie perfettamente curate e iniziò a mangiucchiarsele. «Siamo felici che lei sia morta.» «Jerry...» «Non m'importa», proruppe Jerry, lanciando un'occhiata selvaggia al suo avvocato che l'invitava alla cautela. «Pandora meritava di morire. Voleva tutto e non si preoccupava mai del modo in cui riusciva a ottenere ogni cosa. Justin era mio. E io sarei stata la star della sfilata di Leonardo, se lei non avesse scoperto che ci contavo. Così lei riuscì a sedurre Leonardo, a farmi escludere e a mettersi al mio posto. Doveva essere mia, quella parte, era giusto che fosse mia. Proprio com'era mio Justin. Come mia era quella droga, che rende belli, forti e sexy. Ogni volta che qualcuno l'assumerà, penserà a me. Non a lei, a me.» «Quella notte, Justin venne con lei a casa di Leonardo?» «Tenente, che domanda è?» «Una semplice domanda, avvocato. Allora, Jerry?» «No, ovviamente no. Noi... non ci andammo. Uscimmo a bere qualcosa. Tornammo a casa.»
«Lei aveva schernito Pandora, non è così? Sapeva come mandarla su tutte le furie. Perché lei doveva fare assolutamente in modo che si precipitasse a casa di Leonardo. Redford si mise in contatto con voi due, vi avvisò che era uscita?» «No, non lo so. Mi sta confondendo le idee. Non posso avere qualcosa? Ho bisogno della mia bevanda.» «Quella notte lei ne fece uso. La bevanda le moltiplicò le forze. A tal punto da consentirle di uccidere Pandora. Lei la voleva morta. Se la trovava sempre tra i piedi. E le pillole che usava erano più forti della sua bevanda. Le voleva anche lei, Jerry, quelle pillole?» «Sì, le volevo. Vedevo Pandora apparire sempre più giovane. Più magra. Io dovevo stare strettamente a dieta, mentre lei... Paul mi diceva che forse sarebbe riuscito a portargliele via. Justin voleva che lui si togliesse dai piedi, che mi lasciasse in pace, ma non capiva. Non si rendeva conto della sensazione che ti dà quella roba. Una sensazione d'immortalità», esclamò Jerry, con un'orrenda smorfia. «Ti fa sentire immortale. Per l'amor del cielo, me ne faccia bere un goccio.» «Quella famosa notte, lei uscì dalla porta posteriore e andò da Leonardo. Lì che cosa accadde?» «Non so. Sono confusa. Ho bisogno di qualcosa.» «Impugnò il bastone e colpì Pandora? Continuò a infierire su di lei?» «La volevo morta.» Con un singhiozzo, Jerry reclinò la testa sul tavolo. «La volevo morta. Per l'amor di Dio, mi aiuti. Le dirò tutto ciò che desidera, purché mi aiuti.» «Tenente, qualunque ammissione di colpa fatta dalla mia assistita mentre è in un simile stato di stress fisico e psichico non può considerarsi valida.» Eve osservò la donna in lacrime ed estrasse il proprio cellulare. «Chiedo l'intervento di un medico. Che Ms Fitzgerald venga quindi trasferita in ospedale. E vi rimanga guardata a vista.» 19 «Non intendi incriminarla? Che diavolo ti passa per la testa?» proruppe Casto, con gli occhi pieni di rabbia. «Hai in mano una confessione completa.» «Non è stata una confessione», lo corresse Eve. Era maledettamente stanca, e nauseata di se stessa. «Jerry avrebbe potuto ammettere qualunque
cosa.» «Cristo santo, Eve. Maledizione!» Nel tentativo di placare la propria ira, Casto prese a camminare avanti e indietro nell'asettico corridoio piastrellato della struttura ospedaliera. «L'hai messa alle corde.» «Ma non scherziamo.» Stancamente, Eve si sfregò la tempia sinistra, che una forte emicrania faceva pulsare. «Nelle condizioni in cui si trovava, Jerry avrebbe potuto dirmi di essere stata lei in persona a piantare i chiodi nelle mani di Gesù, se solo avessi promesso di darle una dose di droga. Qualora la incriminassi in base a questa ammissione, gli avvocati della difesa farebbero a pezzi la mia accusa già nella fase di predibattimento.» «Non è il predibattimento a preoccuparti.» Nel tornare accanto a Eve, Casto sfiorò Peabody, che continuava a restare in silenzio. «Tu l'hai presa per la gola approfittando della sua debolezza, proprio come deve fare un poliziotto in un caso di omicidio. Ora però ti stai lasciando commuovere. Ti dispiace per lei.» «Non dire a me come mi sento», ribatté Eve con voce atona. «E non insegnarmi come devo condurre le indagini. Sono io la responsabile di questo caso, Casto, perciò chiudi il becco.» Lui le si piantò davanti. «Non costringermi a chiedere che il caso venga affidato a me, se insisti su questa linea di condotta.» «Mi minacci?» Eve piegò leggermente in avanti il corpo, bilanciandosi sui piedi, come un pugile pronto a entrare in azione. «Va' pure avanti e fa' ciò che ritieni giusto. Non cambierò decisione. Jerry ha bisogno di essere curata, anche se Dio solo sa quanto potrà beneficiare di una terapia estemporanea, poi sarà di nuovo interrogata. Finché non avrò la certezza che sia capace d'intendere e di ragionare in modo coerente, non la incriminerò.» Notò che Casto si sforzava di restare calmo. E si accorse che ciò gli costava molto. Ma tale consapevolezza non la turbò. «Eve, hai in mano il movente e l'opportunità, hai anche il responso dei test psicologici, secondo il quale Jerry sarebbe capace di commettere gli omicidi in questione. E lei stessa ha dichiarato che Pandora le ispirava da tempo un odio profondo. Che diavolo vuoi di più?» «Voglio che mi guardi negli occhi e mi dica che li ha uccisi tutti lei. Voglio che mi descriva come li ha fatti fuori. Fino ad allora aspetteremo. Perché, grand'uomo, c'è dell'altro. Non è possibile che Jerry abbia agito da sola. È da escludere che abbia potuto massacrarli tutti con le sue graziose mani.» «Perché? Perché è una donna?»
«No. Perché non è la brama di denaro ad animarla. La passione, sì; l'amore, anche; l'invidia, certamente. Perciò potrebbe aver ucciso Pandora in uno scoppio di furibonda gelosia, ma dubito che sia stata lei a commettere gli altri delitti. Non senza l'aiuto di qualcuno. Non senza una spinta esterna. Perciò aspettiamo, interroghiamola di nuovo e vediamo se punta il dito contro Young e Redford o solo contro quest'ultimo. A quel punto avremo risolto il caso.» «Secondo me, sbagli.» «Ne prendo atto», replicò bruscamente Eve. «Ora va' a lagnarti coi responsabili dei nostri Dipartimenti o a fare quattro passi, oppure a sfogarti su qualcuno, ma togliti dai piedi.» Casto la fulminò con lo sguardo, gli occhi pieni di una collera quasi incontenibile. Però fece un passo indietro. «Andrò a farmi sbollire la rabbia.» Si allontanò come una furia, senza lanciare neppure un'occhiata alla silenziosa Peabody. «Il tuo amico, stasera, ha mostrato i denti», commentò Eve. Peabody avrebbe potuto dire lo stesso del proprio diretto superiore, ma preferì soprassedere. «Siamo tutti sotto pressione, Dallas. Questa incriminazione sarebbe molto importante per lui.» «Sai una cosa, Peabody? Per me la giustizia significa qualcosa di più di una nota di merito sul mio curriculum o dei dannati gradi di capitano. Se vuoi correre dal tuo amato e lisciargli il pelo, nessuno ti ferma.» La mascella di Peabody si contrasse, ma la sua voce non cambiò tono. «Non intendo andare da nessuna parte, signore.» «Tanto meglio. Resta qui e assumi un'aria da vittima perché io...» A metà della scenata, Eve si bloccò e inspirò profondamente. «Mi dispiace. Al momento sei un perfetto capro espiatorio, Peabody.» «Questo rientra nelle mie qualifiche professionali.» «Hai sempre la risposta pronta. Potrei finire per odiarti, per tale motivo.» Più calma, Eve posò una mano sulla spalla della sua assistente. «Scusa, mi dispiace, soprattutto per aver tirato te in ballo. Il lavoro e i sentimenti personali non vanno mai molto d'accordo.» «Non si preoccupi per me. Casto ha sbagliato a saltarle addosso a quel modo. Posso comprendere le sue motivazioni, ma non per questo riesco a scusarlo.» «Forse no.» Eve si appoggiò alla parete e chiuse gli occhi. «Ma in un punto aveva ragione ed è una cosa che mi rode. Mentre interrogavo la Fi-
tzgerald ero disgustata di me stessa. Ero nauseata nel sentirmi continuare a quel modo, a martellarla, a torturarla mentre lei soffriva. Eppure lo facevo, perché è il mio lavoro, e afferrare alla gola la vittima ferita è esattamente ciò che mi si richiede di fare.» Aprì gli occhi e fissò la porta al di là della quale Jerry Fitzgerald veniva blandamente sedata. «A volte, Peabody, questo lavoro è un vero schifo.» «Signorsì.» Cosa che non aveva mai fatto prima d'allora, Peabody allungò una mano e la posò sul braccio del suo superiore. «È per questo che lei è un così bravo poliziotto.» Eve spalancò la bocca e, sorpresa, si lasciò sfuggire una risata. «Accidenti, mi piaci da matti.» «Anche lei mi piace moltissimo, Dallas.» Indugiò una frazione di secondo. «C'è qualcosa che non va nel nostro reciproco rapporto?» Un po' rinfrancata, Eve passò un braccio sulle robuste spalle di Peabody. «Andiamo a mangiare qualcosa. Stanotte, per quanto riguarda la Fitzgerald, non ci saranno altre novità.» Quanto a quello, il suo istinto si sbagliava. Poco dopo le quattro di mattina, una telefonata strappò Eve da un sonno profondo e senza sogni. Si sentiva gli occhi cisposi e la lingua impastata per il troppo vino bevuto per tenere compagnia a Mavis e Leonardo. «Dallas. Cristo, in questa città non dorme mai nessuno?» «Me lo chiedo spesso anch'io.» Il volto e la voce della persona sullo schermo del videotelefono le erano vagamente familiari. Eve si sforzò di metterli a fuoco. «Dottoressa... Ambrose?» Il ricordo riaffiorò, un po' alla volta. Ambrose, una donna alta e magra, di razza mista, responsabile del reparto di disintossicazione del Midtown Rehabilitation Center for Substance Addiction. «È ancora al lavoro? Jerry Fitzgerald è tornata in sé?» «Le cose non stanno proprio così. Abbiamo un problema, tenente. Ms Fitzgerald è morta.» «Morta? Che cosa intende per morta?» «Deceduta», rispose Ambrose con un pallido sorriso. «In quanto tenente della Omicidi, saprà che cosa vuol dire, immagino.» «Com'è morta, dannazione? Perché il suo sistema nervoso ha ceduto o perché si è gettata da una finestra?» «Per quanto siamo riusciti al momento ad appurare, si è fatta una overdose. È riuscita a impadronirsi del campione di Immortality che stavamo usando per determinare il tipo di terapia più adatto al suo caso e l'ha ingeri-
to, insieme con qualche altra porcheria che teniamo in laboratorio. Mi dispiace, tenente, ma è passata a miglior vita. Non possiamo fare più nulla. Mentre aspetto che lei arrivi con la sua squadra, le preparerò un rapporto dettagliato.» «Spero bene», ringhiò Eve, troncando la comunicazione. Per prima cosa, Eve andò a guardare il corpo, come per assicurarsi che non si trattasse di un tragico scambio di persona. Jerry era distesa sul letto, coperta fino a metà coscia dalla camiciola che l'ospedale faceva indossare ai ricoverati. La sua era azzurro cielo, a indicare che era una tossicodipendente al primo stadio di trattamento. Non sarebbe mai arrivata al secondo stadio. Il volto cereo aveva ripreso la propria bellezza, che aveva assunto adesso una strana aura di mistero. Le ombre sotto gli occhi erano sparite, la piega della bocca si era addolcita; dopotutto, la morte era il calmante estremo. Sul torace si notavano leggere macchie brunite, lasciate dagli strumenti usati nel tentativo di rianimarla, e sul dorso della mano c'era un piccolo livido, conseguenza di un'endovenosa. Sotto lo sguardo diffidente della dottoressa, Eve esaminò scrupolosamente il corpo, senza però trovare segni di violenza. Quand'era sopraggiunta la morte, Jerry era felice come non era mai stata, concluse Eve. «Causa del decesso?» chiese bruscamente. «L'aver ingerito il campione di Immortality in combinazione con una dose di morfina e di Zeus sintetico, a giudicare almeno da ciò che ci manca. L'autopsia lo potrà confermare.» «Tenete lo Zeus qui, in un reparto di disintossicazione?» A quel pensiero Eve si coprì il viso con le mani. «Cristo santo!» «A scopo di ricerca e a fini riabilitativi», rispose stizzosamente la dottoressa Ambrose. «I tossicodipendenti hanno bisogno di un periodo di lenta e monitorata disassuefazione.» «E dove diavolo era il monitoraggio, dottoressa?» «Ms Fitzgerald si trovava in stato di sedazione. Non avrebbe dovuto riacquistare pienamente coscienza prima delle otto di stamattina. Poiché al momento non conosciamo ancora bene le modalità d'azione della droga Immortality, posso solo formulare un'ipotesi, cioè che quel poco che le era rimasto nell'organismo abbia annullato l'effetto del sedativo.» «Così Jerry ha trovato la forza di alzarsi, di raggiungere l'armadietto in
cui tenete le droghe e di servirsene liberamente.» «Qualcosa del genere», fu la risposta, a denti stretti, che Eve si sentì dare. «E che fine avevano fatto il personale di sorveglianza e gli infermieri di turno? Jerry è diventata invisibile ed è passata come un'ombra in mezzo a loro?» «Per quanto riguarda la sorveglianza dovrà chiederne conto al suo agente che era qui di guardia, tenente Dallas.» «Ci può giurare, dottoressa Ambrose.» La donna digrignò di nuovo i denti, poi sospirò. «Ascolti, tenente Dallas, non voglio addossare tutte le colpe al suo agente. Alcune ore fa nell'ospedale è scoppiato il caos. Uno dei nostri pazienti in preda a turbe psichiche è balzato addosso all'infermiera del reparto, dopo essere riuscito a liberarsi dalla camicia di forza. Per qualche minuto siamo stati tutti tremendamente impegnati, e la sua poliziotta è venuta a darci una mano. Se non l'avesse fatto, ora con ogni probabilità l'infermiera del reparto non avrebbe soltanto una tibia fratturata e qualche costola rotta, ma sarebbe passata a miglior vita.» «Ha avuto una notte turbolenta, dottoressa.» «Come mi auguro di non avere mai più.» Si passò le dita tra i ricci capelli color ruggine. «Tenente, questo centro ha un'ottima reputazione. Noi aiutiamo davvero la gente a disintossicarsi. Perdere un paziente, per di più in questo modo, è un fatto che manda anche me su tutte le furie. Ms Fitzgerald non avrebbe dovuto riprendere coscienza, maledizione. E la sua poliziotta si è allontanata dal proprio posto di guardia per non più di un quarto d'ora.» «Di nuovo uno sconcertante tempismo.» Eve tornò a fissare Jerry, cercando di scrollarsi di dosso un pesante senso di colpa. «Che mi dice delle vostre telecamere di sorveglianza?» «Non ne abbiamo, tenente. S'immagina quante informazioni verrebbero passate di nascosto ai media se riprendessimo i nostri pazienti, alcuni dei quali sono personaggi di spicco dell'alta società? Qui vigono norme strettissime a protezione della privacy.» «Formidabile, niente videosorveglianza. Non c'è nulla che possa mostrarci le ultime mosse di Ms Fitzgerald. Dov'era tenuta la droga che lei ha ingerito?» «In quest'ala, al piano di sotto.» «Come diavolo faceva a saperlo?»
«Non glielo so dire. Così come non riesco a spiegarmi come sia riuscita non solo ad aprire la serratura della porta, ma anche a liberarsi dalle cinghie che la tenevano ferma. Eppure l'ha fatto. Il guardiano di notte l'ha trovata durante il suo giro d'ispezione. La porta era aperta.» «Parla della serratura o del battente?» «Del battente. Era spalancato», confermò la dottoressa Ambrose. «E le due cinghie erano sciolte. Ms Fitzgerald era riversa a terra, morta stecchita. Abbiamo tentato le solite manovre di rianimazione, ovviamente, ma più come formalità che nella speranza di riportarla in vita.» «Dovrò parlare con tutti coloro che si trovano in quest'ala: pazienti e personale medico.» «Tenente...» «Al diavolo le norme sulla privacy, dottoressa. Per il momento le sospendo. Voglio interrogare anche il guardiano di notte.» Coi nervi contratti dalla pietà, Eve ricoprì il cadavere. «Qualcuno è entrato in questa stanza, ha cercato di vederla? Ha telefonato per informarsi sulle sue condizioni?» «L'infermiera del reparto glielo potrà dire.» «Cominciamo con costei, allora. Lei intanto raduni tutti gli altri. C'è una stanza che io possa usare per gli interrogatori?» «Può mettersi nel mio studio, se le va bene.» La dottoressa lanciò un'occhiata al corpo e sibilò tra i denti. «Una splendida donna. Nel fiore degli anni, sul punto di diventare ricca e famosa. Abbiamo creato nuove sostanze chimiche che hanno formidabili effetti terapeutici: prolungano la vita e ne migliorano la qualità, eliminano il dolore fisico e calmano le turbe psichiche. Mi sforzo di rammentarlo quando vedo quali altri effetti possano avere. Se vuole saperlo, anche se non me l'ha chiesto, questa donna era destinata a finire qui sin da quando ha bevuto il primo sorso di quell'invitante liquido azzurro.» «Sì, ma ci è giunta più in fretta del previsto.» Uscì bruscamente dalla stanza e scorse Peabody nel corridoio. «Casto?» «L'ho contattato. Sta per arrivare.» «È un dannato pasticcio, Peabody. Facciamo il possibile per risolverlo. Assicurati che questa stanza... Ehi, tu!» Aveva visto in fondo al corridoio l'agente che era stata lasciata di guardia alla ricoverata e puntò il dito in quella direzione, come una freccia. Parve colpire il bersaglio, a giudicare dal sobbalzo che fece la poliziotta prima di assumere un'espressione atona e avviarsi verso il proprio superiore. Eve, schiumante di rabbia, senza farle capire che non intendeva chiedere
un'azione disciplinare nei suoi confronti, la rimbrottò così pesantemente da levarle quasi la pelle. Alla fine fissò la brutta escoriazione alla base del collo della poliziotta, che aveva l'aria pallida e sudata. «Te l'ha fatto il paziente squilibrato?» «Sì, prima che riuscissi a sopraffarlo, signore.» «Fatti medicare, santo cielo. Dopotutto sei in un ospedale. Ora voglio che questa porta resti chiusa. Hai capito bene, stavolta? Non deve entrare né uscire nessuno.» «Signorsì.» L'agente scattò sull'attenti, con l'aria patetica di un cucciolo preso a cinghiate, si disse Eve, che, scrollando la testa, notò quanto fosse giovane. Qualche rivenditore ambulante di alcolici sarebbe rimasto nel dubbio se avesse o no l'età per ordinarsi una birra. «Riprendi a fare la guardia, agente, finché non manderò qualcuno a sostituirti», concluse Eve. Quindi fece cenno a Peabody di seguirla. «Con me lei non ha mai usato toni tanto duri», commentò Peabody con voce pacata. «Preferirei ricevere in faccia un pugno inferto a mani nude piuttosto che sentirmi sferzare così dalla sua lingua.» «Ne prendo nota. Casto, sono felice che tu ci abbia raggiunto.» Lui aveva la camicia stropicciata, come se avesse indossato il primo indumento a portata di mano, cosa di cui Eve non si stupì, perché la sua stessa camicia aveva l'aria di essere rimasta appallottolata in una tasca per una settimana. «Che diavolo è successo?» domandò il tenente della Narcotici. «È quanto dobbiamo appurare. Ora ci sistemiamo nello studio della dottoressa Ambrose e interroghiamo il personale medico, un individuo alla volta. Per quanto riguarda i pazienti, probabilmente dovremo girare da stanza a stanza. Registriamo tutto, Peabody, a partire da adesso.» In silenzio, Peabody estrasse il registratore e se l'agganciò al bavero. «Inizio registrazione, signore.» Eve fece un cenno con la testa alla dottoressa Ambrose, poi la seguì oltre una doppia porta di vetro infrangibile, lungo un breve corridoio e in un piccolo ufficio ingombro di roba. «Dallas, tenente Eve. Interrogatorio dei potenziali testimoni della morte di Fitzgerald, Jerry.» Controllò l'orario sul proprio orologio e dettò al registratore quel dato, aggiungendo giorno e mese. «Sono presenti anche Casto, tenente Jake T., della Narcotici, e Peabody, agente Delia, che assiste momentaneamente Dallas. Gli interrogatori si svolgono nello studio della dottoressa Ambrose, nel Midtown Rehabilitation Center for Substance
Addiction. Dottoressa, faccia entrare per favore l'infermiera del reparto. E assista pure lei al colloquio.» «Come diavolo è morta?» chiese Casto. «L'organismo è collassato? O c'è qualche altra causa?» «In un certo senso. Ti aggiornerò mentre procediamo con gli interrogatori.» Casto fece per ribattere, poi si controllò. «Non possiamo chiedere che ci portino un caffè, Eve? Non ho fatto in tempo a ingerire la mia droga mattutina.» «Prova con questo.» Eve piegò il pollice verso un AutoChef dall'aria malandata, poi si sedette dietro la scrivania. Non fecero grandi progressi. A mezzogiorno, Eve aveva personalmente interrogato tutti i membri dello staff medico e paramedico che prestavano servizio in quell'ala dell'edificio, ottenendo ogni volta lo stesso risultato. Il paziente squilibrato della stanza 6027 era riuscito a togliersi la camicia di forza ed era balzato addosso all'infermiera del reparto, generando un caos spaventoso. Tutto il personale si era precipitato nel corridoio, come una fiumana, lasciando la stanza di Jerry priva di qualsiasi sorveglianza per un arco di tempo che andava dai dodici ai diciotto minuti. Tempo più che sufficiente, rifletté Eve, per permettere a una donna disperata di svignarsela. Ma come faceva Jerry a sapere dove si trovasse la droga di cui aveva un tremendo bisogno? E com'era riuscita ad accedere al locale in cui la droga era conservata? «Forse qualcuno del personale ne aveva parlato mentre si trovava nella sua stanza», ipotizzò Casto che stava trangugiando un piatto di pasta al ragù vegetale nella mensa della clinica. «Una nuova sostanza scatena sempre una ridda di voci. Non ci vuole molto a immaginare che l'infermiera del reparto o un paio d'inservienti si siano messi a parlarne. Ovviamente la Fitzgerald non era incosciente, come tutti credevano. Sente quelle chiacchiere e, non appena le capita l'occasione buona, va a cercare la droga.» Eve rimasticò quell'ipotesi insieme con una forchettata di carne di pollo cotta alla griglia. «È possibile. Jerry deve aver captato qualcosa. E, oltre che disperata, era intelligente. Posso ammettere che abbia escogitato un sistema per arrivare non vista al locale in cui si trovava la droga. Ma come diavolo è riuscita ad aprire le serrature? Come si era procurata il codice di sblocco?» «Non è possibile che avesse con sé un codice passepartout?» suggerì Pe-
abody. Stava mangiando un'insalata verde, scondita, con l'idea di perdere almeno un chilo di peso. «Oppure una sorta di scheda grimaldello...» «E dov'è finita?» ribatté Eve. «Quand'è stata trovata, Jerry era già morta. E nella sua stanza non è stata rinvenuta nessuna scheda.» «Forse la porta di quel maledetto locale era aperta, quando lei l'ha raggiunta.» Disgustato, Casto allontanò da sé il piatto di pasta. «La fortuna non ci assiste, in questo caso.» «Ma non possiamo essere sfortunati fino a questo punto. D'accordo, Jerry sente qualcuno parlare dell'Immortality, viene a sapere che in clinica ce n'è un campione da utilizzare per le ricerche. Soffre di una grave crisi di astinenza, perché i calmanti che le hanno dato sono riusciti soltanto a lenire la fase più acuta. Ha bisogno della sua dose di droga. A quel punto all'esterno scoppia un violento trambusto, una vera manna piovuta dal cielo. A me non convincono molto, questi doni di Dio», mormorò Eve, «ma per ora soprassediamo. Jerry si alza, vede che la guardia non tiene più d'occhio la sua porta, così esce. Scende fino al locale in cui è tenuta la droga, anche se mi pare molto strano che infermieri o inservienti avessero accennato a come raggiungere quel luogo... comunque, in un modo o nell'altro ci arriva. Questo è assodato. Quanto però al penetrare nel locale...» «A che cosa stai pensando, Eve?» Lei alzò lo sguardo verso Casto. «Dev'essere stata aiutata. Qualcuno ha fatto in modo che arrivasse fin lì.» «Secondo te, qualcuno del personale della clinica l'avrebbe accompagnata al piano di sotto affinché potesse drogarsi?» «Non è da escludere», rispose Eve, avvertendo un tono dubbioso nella voce di Casto. «Magari si è lasciato corrompere da un'offerta in denaro o da qualche altra promessa, o forse era un suo ammiratore. Nel passare al setaccio tutte le dichiarazioni che abbiamo raccolto, dobbiamo cercare qualcosa che indichi un sottile legame. Nel frattempo...» S'interruppe, perché il suo cellulare stava ronzando. «Dallas.» «Lobar, della Scientifica. Abbiamo trovato qualcosa d'interessante nel bidone dei rifiuti che si trova quaggiù, tenente. È un codice passepartout ed è coperto di impronte della Fitzgerald.» «Mettilo al sicuro, Lobar. Tra un istante ti raggiungo.» «Questo spiega molte cose», iniziò Casto. La notizia gli aveva risvegliato l'appetito a sufficienza da indurlo a riportare davanti a sé il piatto di pasta. «Qualcuno ha aiutato Jerry, come avevi ipotizzato tu. Oppure lei è riuscita, durante il caos che regnava nel reparto, a portare via il codice da una
delle stanze delle infermiere.» «Furba, la nostra Jerry», replicò Eve. «Una mente molto lucida. Valuta perfettamente i tempi, scende al piano inferiore, apre ciò che le serve, poi sfrutta i minuti che le restano per far sparire il passepartout. Doveva essere nel pieno delle sue facoltà mentali, non vi pare?» Peabody picchiettò le dita sul tavolo. «Se come prima cosa ha ingerito una dose di Immortality - ed è molto probabile che l'abbia fatto -, la droga le avrà schiarito la mente. Si sarà resa conto che qualcuno poteva sorprenderla lì dov'era, col passepartout. Se non se lo fosse fatto trovare addosso, avrebbe potuto sostenere di aver semplicemente vagato nei corridoi, in stato confusionale.» «Già.» Casto le rivolse un sorriso radioso. «Questa teoria mi sembra molto valida.» «Allora perché non è fuggita?» domandò Eve. «Aveva ingerito la sua dose di droga. Perché non è andata a cercarne altra?» «Eve.» La voce di Casto era bassa, seria, come lo sguardo nei suoi occhi. «C'è un aspetto della questione che ancora non abbiamo considerato. Forse Jerry voleva morire.» «Un deliberato suicidio?» Ci aveva già pensato e non le piaceva il rimescolio allo stomaco che quell'idea provocava in lei. Il senso di colpa l'avviluppò come una nebbia viscida. «Perché?» Comprendendo la sua reazione, Casto le sfiorò leggermente una mano. «Era in trappola. Tu l'avevi messa alle corde. Doveva aver capito che avrebbe trascorso il resto della sua vita in una gabbia... una gabbia in cui la droga non sarebbe potuta entrare. Sarebbe invecchiata, imbruttita, avrebbe dovuto rinunciare a tutto ciò cui teneva maggiormente. Era un modo per uscire da questa situazione, per andarsene ancora giovane e bella.» «Suicidio», disse Peabody, come se quella parola legasse insieme i fili ancora sparsi. «Il miscuglio che ha ingerito era letale. E lei non può non averlo capito, visto che ragionava così lucidamente da trovare il modo di entrare nel locale in cui erano conservate le droghe. Perché affrontare lo scandalo, la prigione, un'altra crisi di astinenza quando poteva uscirne in modo veloce e pulito?» «L'ho già visto accadere», aggiunse Casto. «Nel mio campo, non è un fatto inusuale. C'è chi non riesce a vivere con la droga, ma neanche senza. E se ne serve per darsi la morte.» «Ma Jerry non ha lasciato nulla di scritto», replicò testardamente Eve. «Nessun messaggio.»
«Era depressa, Eve. E, come hai detto tu, disperata.» Casto giocherellò con la tazza di caffè. «Se si è trattato di un impulso improvviso, se ha capito che doveva farlo, e farlo in fretta, è possibile che non abbia voluto indugiare neppure il tempo necessario a lasciare un messaggio. Eve, nessuno l'ha costretta ad agire così. Sul corpo non ci sono segni di violenza o tracce di colluttazione. È stata una sua scelta. Forse casuale, forse deliberata. Questo, non lo potremo mai stabilire con certezza.» «Questa morte non chiude il caso. Jerry non ha potuto compiere da sola i quattro omicidi.» Casto scambiò un'occhiata con Peabody. «Forse no. Tuttavia il fatto che fosse sotto l'influsso della droga potrebbe avvalorare la tesi che li abbia uccisi tutti lei. Puoi mettere sotto torchio Redford e Young, ancora per un po'. Nessuno dei due deve avere le mani completamente pulite. Però dovrai, prima o poi, chiudere le indagini. Il caso è risolto.» Posò la tazza sul tavolo. «Concediti un attimo di tregua.» «Ehi, che quadretto intimo.» Justin Young si avvicinò al tavolo. I suoi occhi, incavati e orlati di rosso, saettarono verso Eve. «Nulla riesce a guastarti l'appetito, eh, carogna?» Mentre Casto accennava ad alzarsi, Eve sollevò una mano, per segnalargli di non muoversi. Poi accantonò la pietà. «I suoi legali sono riusciti a tirarla fuori, Justin?» «Esatto. È bastato che Jerry morisse par farmi ottenere la libertà condizionata. A detta del mio legale, grazie a questi ultimi sviluppi - li ha definiti così, quello stronzo - il caso è da considerarsi definitivamente chiuso. Jerry è una pluriomicida, una tossicodipendente, una donna morta... e io sono scagionato. Comodo, no?» «Davvero?» replicò Eve con voce piatta. «L'hai uccisa tu!» Young si chinò sul tavolo, posandovi le mani con tanta forza da far tintinnare le posate. «Tanto valeva che tu le piantassi un coltello in gola. Lei aveva bisogno di aiuto, comprensione, un pizzico di pietà. Ma tu hai continuato a tormentarla finché non è crollata. Ora è morta. Lo capisci?» I suoi occhi cominciarono a riempirsi di lacrime. «È morta, e tu puoi ostentare un bel fiore all'occhiello. Hai infilato nel tuo carniere una pazza omicida. Ma ti devo dire una cosa, tenente. Jerry non ha mai ucciso nessuno; tu invece sì. Questa storia non è finita.» L'attore spazzò il tavolo con un braccio, gettando ogni cosa sul pavimento, in un rovinio di stoviglie rotte e pietanze rovesciate. «È tutt'altro che finita.» Mentre Young si allontanava, Eve espirò profondamente. «No, credo
proprio che non si possa ancora considerare conclusa.» 20 A Eve non era mai capitato che una settimana trascorresse tanto in fretta. E si sentiva drammaticamente sola. Il caso era considerato chiuso da tutti, inclusi il pubblico ministero e il comandante Whitney. Il corpo di Jerry Fitzgerald era stato cremato e il suo ultimo interrogatorio reso pubblico. I media se ne erano impossessati con l'abituale frenesia. La vita segreta di una famosa top model. La spietata assassina che si nascondeva dietro quel volto perfetto. La ricerca dell'immortalità che si lasciava alle spalle una scia di morte. Eve aveva altri casi da seguire, altri impegni su cui concentrarsi, ma passava ogni minuto libero a ripercorrere le varie fasi di quell'indagine, a cercare prove che le fossero sfuggite, a elaborare nuove teorie, finché persino Peabody non la esortò a smettere. Intanto si sforzava di risolvere i piccoli problemi legati alla cerimonia di nozze di cui Roarke le aveva chiesto di occuparsi. Ma che diavolo ne sapeva, lei, dell'organizzazione di un banchetto, della scelta dei vini, della disposizione dei posti a tavola? Alla fine rintuzzò il proprio orgoglio e scaricò il tutto sulle spalle di un ghignante Summerset. Si sentì dire, in tono didascalico, che la moglie di un personaggio prestigioso come Roarke doveva imparare le norme basilari del vivere civile. Lei ribatté invitando il maggiordomo a togliersi dai piedi, poi entrambi tornarono a occuparsi delle proprie incombenze, soddisfatti all'idea di fare ciò che conoscevano meglio. Ma, sotto sotto, Eve provò l'inquietante sospetto che tra loro due stesse nascendo una vaga simpatia. Roarke scrollò il capo. Le nozze erano fissate per il giorno seguente, mancavano meno di venti ore. La futura sposa non avrebbe dovuto occuparsi dell'abito da indossare durante la cerimonia, restare immersa in una vasca piena di profumate essenze, sognare a occhi aperti la vita che stava per iniziare? Invece Eve era piegata sul computer, a mormorare tra sé, i capelli scarmigliati dalle dita che continuavano a tormentarli. La camicia era macchiata di caffè, perché lei si era rovesciata addosso la tazzina. Sul pavimento era posato un piatto che conteneva i resti di un sandwich, così poco invitanti che persino il gatto girava alla larga.
Roarke si portò alle sue spalle e vide, come si aspettava, che sul monitor appariva il file del caso Fitzgerald. La perseveranza di Eve lo affascinava e, al tempo stesso, lo sconvolgeva. Si chiese se lei avesse permesso a qualcun altro di capire quanto fosse straziata dalla morte della modella. Una cosa che avrebbe cercato di tenere nascosta anche a lui, se ne fosse stata capace. Comprese che alla base di tutto c'era il senso di colpa, ma anche una profonda sensibilità, e il sentimento del dovere. Che la pungolavano, incatenandola ancora a quel caso. Era uno dei motivi del profondo amore che lui provava per Eve, quella straordinaria capacità di farsi coinvolgere emotivamente, associata a una mente logica e infaticabile. Si chinò a baciarle la sommità del capo nel momento stesso in cui lei sollevava la testa. Imprecarono entrambi, per il violento impatto tra cranio e mascella. «Cristo santo!» Incerto se scoppiare a ridere o gemere per il dolore, Roarke si tamponò il labbro sanguinante. «Con te gli afflati romantici diventano un pericoloso azzardo.» «Non dovresti sgusciarmi alle spalle a quel modo.» Accigliata, Eve si massaggiò la sommità della testa. «Ero convinta che tu, Feeney e i vostri amici edonisti foste fuori, immersi in orge e baccanali.» «La festa di addio al celibato non è un'invasione vichinga. Prima che la barbarie inizi, ho ancora un po' di tempo.» Roarke si sedette sull'angolo della scrivania e scrutò Eve. «Hai bisogno di mollare un attimo.» «Sto per prendermi una vacanza di tre settimane, non è così?» sibilò lei. «Scusa se sono tanto ringhiosa, ma non riesco a non pensare a questo caso. La settimana scorsa l'ho accantonato una mezza dozzina di volte, però continua ad assillarmi.» «Dimmi tutto. A volte, parlarne con qualcuno aiuta.» «Va bene.» Eve si allontanò bruscamente dalla scrivania, e per poco non calpestò il gatto. «È possibile che Jerry fosse andata in quel club. È il tipo di locale che attira la gente sofisticata.» «Pandora lo frequentava.» «Appunto. E tutt'e due appartenevano alla stessa cerchia di persone. Perciò non è da escludere che Jerry sia andata nel club e vi abbia visto Boomer; potrebbe persino aver saputo da una terza persona che lui era lì. Ammesso che lo conoscesse, il che non è assodato, e che lavorasse con lui o lo usasse come intermediario. Lei lo vede e si rende conto che Boomer sta parlando troppo. È un cane sciolto, che al momento non solo non serve
più, ma è diventato un pericolo.» «Fin qui, tutto mi sembra molto logico.» Eve assentì, ma non smise di camminare avanti e indietro. «Anche Boomer la vede, dopo essere uscito dalla stanza privata con Hetta Moppett. A quel punto Jerry si preoccupa di ciò che lui può aver raccontato. Per fare impressione sulla ragazza, potrebbe essersi vantato, aver gonfiato la propria partecipazione all'affare. Boomer è abbastanza accorto da capire che si trova nei guai, così si dilegua, sparisce. Tocca a Hetta diventare la prima vittima. Dev'essere messa a tacere perché potrebbe sapere troppo. Viene uccisa in fretta, brutalmente, in modo che l'omicidio sembri provocato da un casuale scoppio di rabbia. Vengono portati via i suoi documenti di riconoscimento, affinché ci voglia più tempo per identificarla e ricollegarla al club e a Boomer. Sempre che qualcuno si preoccupi di stabilire tale collegamento, il che è improbabile.» «Ma non avevano fatto i conti con te.» «Già. Boomer aveva in mano un campione di droga e la sua formula. Quando voleva, ci sapeva fare ed era un ladro provetto. A mancargli era il buon senso. Forse ha chiesto altro denaro, una maggiore partecipazione agli utili. Però nel suo lavoro era abile. Nessuno sapeva che fosse un informatore della polizia, a parte un pugno di persone collegate alla Omicidi.» «E costoro ignoravano con quale serietà e impegno personale tu ti schieri in difesa dei tuoi collaboratori.» Roarke inclinò la testa. «Nella maggior parte dei casi, suppongo, la morte di un informatore verrebbe presa sottogamba, perché considerata un regolamento di conti nell'ambiente della malavita, una vendetta da parte di uno dei suoi soci, e tutto finirebbe lì.» «Questo è abbastanza vero. E così sarebbe successo se Jerry si fosse mossa più in fretta. Trovata la droga nell'alloggio di Boomer, noi abbiamo cominciato a indagare in quella direzione. Contemporaneamente, a me capita di vedere coi miei occhi Pandora in azione. Questa parte della storia la conosci già, hai sentito il resoconto di quanto è accaduto la notte in cui lei è morta. Incastrare Mavis come responsabile del delitto è un autentico colpo di fortuna, anche se con lati positivi e negativi. In ogni caso, permette a Jerry di guadagnare tempo, addossando tutto a un perfetto capro espiatorio.» «Un capro espiatorio che, guarda caso, è l'amica del cuore del funzionario di polizia che dirige le indagini.» «Questo è appunto uno dei lati negativi. Quante volte mi capita di occuparmi di un caso sapendo che la persona su cui gravano i più pesanti so-
spetti è senza ombra di dubbio innocente? Nonostante le prove, nonostante tutto? È una cosa che non si verifica mai.» «Non lo so. È stato così per me, qualche mese fa.» «In quel caso non ne avevo la certezza. Era l'intuito a dirmi che non eri tu il colpevole. Finché non ho potuto dimostrarlo.» Eve s'infilò le mani in tasca, le tirò di nuovo fuori. «Con Mavis ne ero sicura, fin dall'inizio. Così ho guardato la situazione da una prospettiva diversa. E ho individuato tre potenziali colpevoli, i quali, come ho potuto appurare, avevano tutti e tre movente, opportunità e possibilità materiale. Inizio a convincermi che uno dei tre faccia pesantemente uso di quella stessa droga che ha dato il via a tutta la storia. Ma, proprio quando sembra opportuno cominciare a trarre le conclusioni, nell'East End viene ucciso uno spacciatore. Stesso modus operandi. Perché? Questo è un elemento stridente, Roarke, un punto che non riesco a inquadrare nel resto. Non c'era ragione di uccidere lo Scarafaggio. La probabilità che Boomer gli avesse rivelato qualcosa è uno zero virgola tanti di quegli zeri che la cifra per esteso sarebbe così lunga da raggiungere la stratosfera. Ciò nonostante, lo Scarafaggio viene eliminato e nel suo organismo viene trovata traccia della nuova droga.» «Un diversivo», commentò Roarke, tirando fuori una sigaretta e accendendola. «Una maniera per confondere le idee.» Per la prima volta da ore, Eve sorrise. «Ecco che cosa apprezzo in te. La tua mente criminale. Gettare un sasso nello stagno per intorbidare le acque. Per costringere la polizia a fare i salti mortali pur di trovare un collegamento logico con lo Scarafaggio. Nel frattempo Redford sta mettendo a punto una sua variante dell'Immortality, che somministra a Jerry. Per questo paga profumatamente la modella, ma rientra nelle spese esigendo da lei una cifra folle per ogni dose che le fornisce da quel momento in poi. Da quello scaltro uomo d'affari che è, si è esposto in prima persona, si è accollato il rischio di ordinare una piantina alla colonia Eden.» «Due», intervenne Roarke, compiaciuto nel notare come l'intensa espressione di Eve lasciasse il posto allo stupore. «Due cosa?» «Ha ordinato due piantine. Nel tornare sulla Terra ho fatto un salto su Eden e ho parlato con la figlia della Engrave. Le ho chiesto se poteva trovare il tempo di eseguire qualche controllo incrociato. Redford ha ordinato il primo campione nove mesi fa, usando un altro nome e una licenza falsa. Ma i numeri del codice d'identificazione erano gli stessi. Ha fatto spedire la piantina a un fiorista di Vegas II, uno che gode di una dubbia reputazio-
ne perché sospettato di smerciare flora di contrabbando.» Roarke s'interruppe per far cadere la cenere della sigaretta in una ciotola di marmo. «Secondo me, da lì la piantina è stata inviata in un laboratorio, dove hanno distillato il nettare.» «Perché diavolo non me l'hai detto prima?» «Te lo sto dicendo adesso perché la conferma mi è giunta solo cinque minuti fa. Puoi contattare le squadre di sicurezza su Vegas II e far interrogare il fiorista.» Imprecando sottovoce, Eve accese il videotelefono e impartì l'ordine. «Anche se lo incastrano subito, ci vorranno settimane per superare le pastoie burocratiche e farlo trasferire sul nostro pianeta, in modo che io possa formulare un'accusa nei suoi confronti.» Si sfregò le mani, anticipando l'obiezione di Roarke. «Avresti dovuto avvisarmi subito di questa tua iniziativa.» «Se non fossi venuto a capo di nulla, ci saresti rimasta male. Ora invece devi essermi grata.» Il suo sguardo tornò a farsi serio. «Ma questo, Eve, non cambia gran che la situazione.» «Significa che Redford ha lavorato sulla droga più a lungo di quanto abbia voluto farci sapere. Significa...» S'interruppe e si lasciò cadere su una sedia. «Lo so che Jerry potrebbe essere colpevole, Roarke. E aver agito da sola. In un momento qualsiasi della notte, può essere sgattaiolata dall'appartamento di Young senza farsi notare, lasciando il suo amante addormentato, ed essere poi rientrata cancellando ogni traccia della sua uscita. Oppure Young era al corrente di tutto. È un attore e per Jerry avrebbe fatto qualsiasi cosa. Anche gettare Redford alle ortiche, senza tanti scrupoli, ma non se, così facendo, avrebbe coinvolto la sua amata.» Per un attimo, Eve chinò la testa tra le mani, massaggiandosi la fronte coi polpastrelli. «Lo so che Jerry potrebbe aver fatto quello che ha fatto. Le si era aperto uno spiraglio e ne ha approfittato per raggiungere il locale in cui erano custodite le droghe. Può aver deciso di mettere così fine alla propria vita, in un modo che calzava a pennello con la sua personalità. Eppure qualcosa non quadra.» «Non puoi addossarti la colpa della sua morte», mormorò Roarke. «Per il semplice motivo che non ne sei assolutamente responsabile e anche perché, come sai bene, la logica viene offuscata dal senso di colpa.» «Sì, lo so.» Eve si alzò di nuovo, non riuscendo a stare ferma. «In questo caso ho perso un po' la testa. Il fatto che fosse coinvolta Mavis, il ricordo della morte di mio padre che era affiorato. Ho trascurato i dettagli o li ho
sopravvalutati quando non era necessario. Ci sono state troppe distrazioni.» «Incluso il nostro matrimonio?» suggerì Roarke. Eve riuscì a rivolgergli un pallido sorriso. «Ho cercato di non pensarci troppo. Di non farmi coinvolgere personalmente.» «Consideralo una formalità. Un contratto, se preferisci, con qualche fronzolo.» «Hai mai pensato che un anno fa non ci conoscevamo neppure? Che ora viviamo nella stessa casa, ma che per un lungo periodo abbiamo occupato due appartamenti diversi? Che questo... sentimento che proviamo l'uno per l'altra potrebbe non essere il tipo di legame che regge alla lunga distanza?» Roarke le rivolse uno sguardo fermo. «Hai intenzione di piantarmi la notte prima delle nozze?» «Non sto cercando di piantarti. Sei stato tu a proporre il matrimonio e, da quel momento in poi, questa è stata una delle cose che mi hanno distratto dal mio lavoro. È un punto che intendo chiarire. Un rapporto matrimoniale pone domande razionali, che meritano risposte razionali.» Lo sguardo di Roarke si rabbuiò. Eve riconobbe il segnale e si preparò ad affrontare la burrasca che stava per scoppiare. Lui invece si alzò e parlò con una calma così gelida da farla quasi rabbrividire. «Fai marcia indietro, tenente?» «No. Ti ho detto che ti sposerò. Penso soltanto che dovremmo... ragionarci sopra», replicò Eve in tono lamentoso, e si odiò per quello. «Bene, allora ragionaci sopra e trova le tue risposte razionali. Io ho già le mie.» Roarke diede un'occhiata all'orologio. «E stai facendo tardi. Mavis ti aspetta di sotto.» «Perché?» «Chiedilo a lei», replicò Roarke, con un lieve tono tagliente nella voce, e uscì dalla stanza. «Maledizione!» Eve sferrò un calcio alla scrivania, con tanta forza da indurre Galahad a lanciarle uno sguardo infastidito. Poi ne sferrò un altro, perché il dolore serviva a qualcosa, e uscì zoppicando per andare da Mavis. Un'ora dopo, si trovò trascinata nel Down and Dirty Club. Aveva sopportato l'ingiunzione di Mavis di cambiarsi d'abito, sistemarsi i capelli, truccarsi un po'. Di dare una regolata anche al suo atteggiamento. Ma, quando la musica e il frastuono la colpirono con la violenza di un cazzotto, s'impuntò.
«Cristo, Mavis. Perché qui?» «Perché è un locale orgiastico, ecco perché. Le feste di addio al nubilato devono avere qualcosa di sfrenato. Santo cielo, guarda quel tipo sul palcoscenico. Ha un pene così grosso che potrebbe servirsene per piantare i chiodi in un muro. Per fortuna ho chiesto a Crack di tenerci un tavolo in prima fila. Il locale è già pieno come una scatola di sardine, benché non sia neanche mezzanotte.» «Domani devo sposarmi...» iniziò Eve, ricorrendo per la prima volta a quella che le sembrò una comoda scusa. «È proprio questo il punto, Dallas. Suvvia, rilassati. Oh, ecco qui le nostre invitate.» Eve era abituata alle sorprese scioccanti, ma quella la lasciò a bocca aperta. Le parve quasi inconcepibile vedere riunito intorno a un tavolo, immediatamente sotto un uomo nudo che dimenava i propri genitali, un gruppo di donne composto da Nadine Furst, Peabody, una bizzarra creatura che probabilmente era Trina e - Dio onnipotente - la dottoressa Mira. Prima che lei riuscisse a chiudere la bocca, Crack le arrivò alle spalle e la sollevò in aria. «Salve, ossuta ragazza bianca. Stanotte si festeggia. La casa ti offre una bottiglia di champagne.» «Se in questa bettola c'è dello champagne, amico, sono pronta a ingoiare il tappo.» «Cristo, ha le bollicine. Che cos'altro vuoi?» Fece roteare rapidamente in aria la bottiglia, tra le grida d'approvazione del gruppo, la riprese al volo e la posò su una sedia davanti al tavolo. «Signore, ora divertitevi, altrimenti ve la faccio vedere io.» «Hai amici interessanti, Dallas», esclamò Nadine, aspirando una sigaretta. In quel posto nessuno si sarebbe preoccupato per il divieto di fumare. «Bevi qualcosa.» Prese una bottiglia contenente un liquido sconosciuto e ne versò un po' in un bicchiere dall'aria abbastanza pulita. «Noi ci siamo già servite.» «Ho dovuto usare la forza per indurla a cambiarsi d'abito», rivelò Mavis, sedendosi a sua volta. «Non ha smesso un attimo di protestare.» Gli occhi le si riempirono di lacrime. «L'ha fatto solo per me.» Prese il bicchiere di Eve e ne trangugiò il contenuto. «Volevamo farti una sorpresa.» «Ci siete riuscite. Dottoressa Mira. È lei, vero, dottoressa?» La psichiatra le rivolse un sorriso radioso. «Lo ero quando ho messo piede in questo posto. Ora ho le idee un po' confuse sulla mia identità.» «Dobbiamo fare un brindisi.» Barcollando sui tacchi a spillo, Peabody si
appoggiò al tavolo per mantenersi in equilibrio e riuscì ad alzare il bicchiere senza rovesciare sulla testa di Eve più della metà del contenuto. «Al miglior poliziotto di tutta questa merdosa città, che sta per sposare il bastardo più sexy su cui io abbia mai posato personalmente gli occhi e che, dannatamente astuta com'è, ha fatto in modo che io venissi inglobata per sempre nella Omicidi. Che è il posto adatto a me, come può dirvi qualunque stronzo dalla vista corta. Salute!» Trangugiò quanto era rimasto nel bicchiere e ricadde sulla sedia, con un sorriso ebete. «Peabody», mormorò Eve, sventolandole un dito sotto gli occhi, «non ti ho mai vista così espansiva.» «Sono ubriaca fradicia, Dallas.» «Mi sembra evidente. In questo posto è possibile ordinare del cibo senza correre il rischio di beccarsi una grave intossicazione alimentare? Sto morendo di fame.» «La futura sposa vuole mangiare.» Ancora sobria come una monaca, Mavis balzò in piedi. «Ci penso io. Tu non ti muovere.» «Oh, bene. Mavis, aspetta», aggiunse Eve, chinandosi a mormorare nell'orecchio dell'amica: «Procurami anche qualcosa da bere che non mi stenda». «Ma questa è una festa, Dallas.» «E me la voglio godere, davvero, però voglio anche ritrovarmi domani con la mente lucida. È importante, per me.» «È tutto così dolce.» Scoppiando di nuovo in lacrime, Mavis nascose il volto nella spalla di Eve. «Sì. Sono un autentico surrogato dello zucchero.» D'impulso Eve rovesciò Mavis all'indietro e la baciò sulla bocca. «Grazie. Solo tu, e nessun altro, avrebbe potuto pensare una cosa del genere.» «In realtà è stato Roarke.» Mavis si asciugò le lacrime con la frangia luccicante che le penzolava dalla manica. «Abbiamo combinato tutto questo insieme.» «Avrei dovuto immaginarlo.» Con un lieve sorriso, Eve lanciò un'altra occhiata dubbiosa ai corpi nudi che roteavano sul palcoscenico. «Ehi, Nadine.» Fece tintinnare il bicchiere della giornalista. «Quel tipo lassù, con la coda di piume rosse, non stacca gli occhi da te neppure per un istante.» «Oh, sì?» Nadine girò intorno a sé uno sguardo annebbiato. «Provaci.» «A fare che cosa? A salire lassù? È una cosa da nulla.» «Fallo, allora.» Eve si piegò verso di lei e le sorrise in faccia. «Facci ve-
dere quanto sei intraprendente.» «Credi che non ne sia capace?» Nadine si alzò, barcollando, ma riuscì a ritrovare l'equilibrio. «Ehi, bello», gridò al ballerino più a portata di mano. «Aiutami a salire.» Il pubblico andò in visibilio. Soprattutto quando Nadine entrò nello spirito del gioco e si spogliò, restando coi soli indumenti intimi, di un bel rosso porpora. La giornalista era molto abile nell'accattivarsi la simpatia altrui, notò Eve, sospirando sul proprio bicchiere pieno di acqua minerale. «Come va, Trina?» «Sto avendo un'esperienza di levitazione extracorporea. Mi trovo in Tibet, credo.» «Ah.» Eve lanciò un'occhiata alla dottoressa Mira. A giudicare dall'aria estatica della psichiatra, c'era da temere che stesse per balzare a sua volta sul palcoscenico. Un'iniziativa, si disse Eve, che non sarebbe stata un ricordo gradito né per l'una né per l'altra. «Peabody.» Dovette affondare le dita nel braccio dell'agente per ottenere una vaga reazione. «Andiamo a prendere qualcosa da mangiare.» Peabody emise un grugnito. «Potrei farlo anch'io.» Seguendo il suo sguardo, Eve vide Nadine avvinghiata a un nero alto più di due metri, il cui unico indumento era uno strato di colore. «Eccome, mia cara. Faresti crollare il locale sotto gli applausi.» «Perché ho questa bella topina.» Barcollò e sarebbe caduta se Eve non l'avesse trattenuta per un braccio. «Il mio vasetto di marmellata, così la chiama Jake. Non vedo l'ora che qualcuno me lo lecchi.» «Vacci piano. Non fartelo tirare a lucido.» «È un fatto editano.» «Ereditario.» «In famiglia, ce l'abbiamo tutte.» Avanzò ondeggiando, sospinta da Eve in mezzo alla folla. «A Jake piacciono le donne magre. Come te.» «Dagli una bella lezione, allora.» «Già fatto.» Peabody ridacchiò, poi si appoggiò pesantemente al bancone del bar. «Abbiamo scopato come ricci. Ma non funziona mica tanto, lo sai anche tu, Evie.» Eve sospirò. «Peabody, non voglio dover prendere a pugni un mio agente mentre è in condizioni d'inferiorità. Perciò non chiamarmi Evie.» «Giusto. Lo sai che cosa serve?» «Cibo», ordinò Eve al servitore droide. «Di ogni tipo e in porzioni abbondanti. Tavolo tre. Che cosa stavi dicendo, Peabody?»
«Cos'è che serve. Ciò che avete tu e Roarke, ecco cos'è. Un legame. Un legame intimo. Il sesso è solo un di più.» «Già. Tra te e Casto ci sono problemi?» «No. Ma i rapporti si sono un po' diradati, ora che il caso è chiuso.» Peabody scosse la testa, e palle di luce le vorticarono davanti agli occhi. «Cristo, sono sbronza marcia. Devo andare al gabinetto.» «Ti accompagno.» «Posso farcela da me.» Con un residuo di dignità, Peabody si staccò la mano di Eve dal braccio. «Non vorrei vomitare l'anima davanti a un ufficiale superiore, se non le dispiace.» «Accomodati.» Però Eve la seguì con gli occhi, come un falco, mentre Peabody si avviava barcollando verso la toilette. Erano circa tre ore che le sue compagne di bagordi continuavano a bere, si disse, e, se anche un divertimento è un divertimento, lei avrebbe tentato d'indurle a mangiare qualcosa e di rispedirle a casa propria. Sorridendo, si appoggiò al bancone e fissò Nadine che, ancora vestita soltanto degli indumenti intimi color porpora, stava discutendo calorosamente con la dottoressa Mira. Trina aveva intanto reclinato la testa sul tavolo ed era probabilmente in comunicazione col Dalai Lama. Mavis, con gli occhi scintillanti, era sul palcoscenico, a esibirsi in un numero improvvisato che faceva sobbalzare la pista da ballo. Accidenti, si disse Eve, sentendo un groppo in gola, lei voleva bene a tutte quelle ubriacone. Inclusa Peabody, pensò, ragion per cui decise di andare a fare una capatina nella toilette per assicurarsi che la sua aiutante non fosse svenuta o annegata. Aveva attraversato quasi metà del locale quando si sentì afferrare per un braccio. Siccome era tutta la sera che ciò accadeva, perché i clienti in cerca di una partner non rinunciavano a fare qualche avance, tentò di liberarsi con le buone. «Provaci con qualcun'altra, bello. Io non sono interessata. Ahi!» Più che farle male, la rapida puntura nel braccio la infastidì. Ma la vista iniziò subito a vacillarle mentre veniva sospinta attraverso la festosa calca e spinta in una stanza privata. «Dannazione, con me caschi male.» Fece per estrarre il distintivo, però non riuscì a trovare la tasca. Bastò una leggera spinta per farla cadere supina su uno striminzito lettino. «Sta' buona, Eve. Dobbiamo parlare.» Casto si sdraiò accanto a lei, in-
crociando le gambe all'altezza delle caviglie. Roarke non era di umore festaiolo, però recitò la propria parte per non dispiacere a Feeney che ce l'aveva messa tutta per creare un'atmosfera mostruosamente edonistica. Il salone rigurgitava di una folla eterogenea di maschi, molti dei quali erano stupiti nel trovarsi a partecipare a un rito così pagano. Ma Feeney, grazie alle sue capacità informatiche, aveva scovato alcuni dei più intimi soci in affari del futuro sposo, nessuno dei quali aveva osato correre il rischio di offendere con un rifiuto un personaggio così insigne come Roarke. Perciò erano venuti tutti, i ricchi, i famosi e quelli che ancora lottavano per farsi strada nella società. Erano stipati in un salone malamente illuminato, in cui, oltre agli schermi a parete sui quali, a grandezza naturale, balenavano corpi nudi impegnati nelle più svariate e fantasiose scene di sesso, si esibiva un trio di spogliarelliste già in costume adamitico. Girava tanta di quella birra e di quel whiskey da travolgere e affondare la Settima Flotta e tutti i suoi equipaggi. Roarke fu costretto ad ammettere che era stata da parte di Feeney una bella dimostrazione di simpatia, così si sforzò di essere all'altezza delle sue aspettative su come si dovesse comportare un uomo nell'ultima notte di libertà. «Dai, amico, fatti un altro whiskey.» Feeney, che personalmente aveva già trincato parecchi bicchieri della classica bevanda irlandese, aveva assunto l'accento cantilenante del suo lontano Paese d'origine, che non aveva però mai visto e in cui i suoi parenti non avevano più messo piede da generazioni. «Viva i ribelli, eh?» Roarke inarcò un sopracciglio. Lui era nato a Dublino e aveva trascorso buona parte dei suoi anni giovanili vagando nelle strade e nei vicoli di quella città, eppure non provava l'attaccamento sentimentale che Feeney dimostrava per quella terra e i suoi rivoltosi abitanti. «Morte agli inglesi!» replicò, per compiacere l'amico, e bevve un sorso. «Sei un tipo in gamba. Come vedi, Roarke, tra noi ci sono alcune signore, ma le puoi solo guardare. Ormai non ti è più concesso di allungare le mani.» «Sto facendo del mio meglio per trattenermi.» Feeney sorrise e diede una tale manata sulla schiena di Roarke da farlo vacillare. «È un bel bocconcino, eh? La nostra Dallas.» «È...» Roarke corrugò la fronte, guardando il proprio whiskey. «È fanta-
stica», decise. «Ti farà rigare diritto, lei. Tiene tutti in riga. Ha un cervello da squalo. Sai, si concentra su una cosa e non molla finché non l'ottiene. In tutta sincerità, quest'ultimo caso l'ha stressata parecchio.» «Vuole venirne a capo», mormorò Roarke, poi sorrise freddamente a una bionda nuda che gli si era avvicinata in modo subdolo e aveva preso a carezzargli il torace. «Avrai più fortuna con quello là», le disse, indicando un uomo dallo sguardo vitreo, in un abito gessato grigio antracite. «Possiede la Stoner Dynamics.» Mentre la ragazza lo fissava con occhi vacui, si staccò di dosso le sue mani che stavano scendendo disinvoltamente verso il cavallo dei pantaloni. «Ha un sacco di soldi.» Feeney seguì con lo sguardo voglioso la ragazza che si allontanava. «Sono un uomo felicemente sposato, Roarke.» «L'ho sentito dire.» «Mi secca dover confessare che sarei tentato di trascinare una creatura così graziosa in una stanza buia e farmi con lei una sveltina.» «Puoi pretendere qualcosa di meglio.» «È vero.» Feeney emise un lungo e basso sospiro, poi tornò a parlare di Eve. «Il fatto di star via alcune settimane toglierà questa storia dalla mente di Dallas, che al ritorno si butterà su qualcosa di nuovo.» «A Eve non piace perdere, ed è convinta di essere uscita sconfitta da questo caso.» Roarke tentò di liquidare la questione. Non voleva proprio trascorrere la notte che precedeva le sue nozze a discutere di un omicidio. Ma, imprecando tra sé, trascinò Feeney in un angolino tranquillo. «Che cosa sai dello spacciatore che è stato ucciso nell'East End?» «Vuoi dire lo Scarafaggio? Non c'è molto da sapere. Uno spacciatore come tanti, abbastanza abile e abbastanza stupido. È incredibile come questa definizione valga per buona parte di quella feccia. Gente che non vede al di là del proprio orticello. Che ama fare i soldi in fretta e facilmente.» «Era anche lui un informatore? Come Boomer?» «Lo era stato. Il suo contatto si è ritirato l'anno scorso.» «Che cosa accade quando il contatto sparisce?» «L'informatore viene preso in carica da qualcun altro, oppure mollato definitivamente. Nel caso dello Scarafaggio non risultava nessun nuovo contatto.» Roarke fu sul punto di accantonare finalmente l'argomento, che però non la smetteva di assillarlo. «Il poliziotto che faceva da contatto, quello che si
è ritirato, lavorava con qualcuno?» «Che cosa credi, che al posto del cervello io abbia una memoria elettronica?» «Sì.» Lusingato, Feeney fece la ruota come un pavone. «Be', a voler essere onesti, ricordo che lavorava in coppia con un mio vecchio amico, Danny Riley. Questo avveniva nel... '41, se non sbaglio. Poi è stato con Mari Dirscolli per alcuni anni, fino a circa tutto il '48. O il '49.» «Non importa», mormorò Roarke. «Infine ha fatto coppia con Casto per un paio d'anni.» L'attenzione di Roarke si ridestò di colpo. «Casto? Lavorava con Casto quando usava lo Scarafaggio come informatore?» «Sì, certo, ma solo uno dei due poliziotti che lavorano affiancati funge da referente per gli eventuali informatori. Già», mormorò Feeney, aggrottando la fronte, «è prassi normale che quello che resta si sostituisca al partner come contatto. Ma non risulta che Casto l'abbia fatto. Lui ha un suo giro personale di spioni.» Roarke si disse che si trattava di un suo personale pregiudizio, di una reazione istintiva dettata da una ridicola gelosia, ma non si fece smontare da un simile pensiero. «Non tutto viene messo nero su bianco. Non ti pare una strana coincidenza che due informatori che ronzavano intorno a Casto siano stati uccisi e che in entrambi i casi ci sia di mezzo l'Immortality?» «Non possiamo affermare che lo Scarafaggio fosse un informatore di Casto. E non vedo nessuna strana coincidenza. Quando si ha a che fare con l'ambiente della droga, molti aspetti si sovrappongono.» «Quali altri elementi hai trovato che collegano lo Scarafaggio agli altri omicidi, a parte Casto?» «Cristo, Roarke.» Feeney si passò una mano sul viso. «Sei quasi peggio di Dallas. Ascolta, molti agenti della Narcotici finiscono la loro carriera per problemi di abuso. Casto invece è assolutamente pulito. Benché sia stato sottoposto a un'infinità di test, non è stato sfiorato dalla minima ombra. Gode di un'ottima reputazione, aspira a diventare capitano e lo fa alla luce del sole. Non si sporcherebbe mai le mani in un simile letamaio.» «In qualche caso si prova solo una leggera tentazione e in qualche altro caso si cede. Vuoi farmi credere che sarebbe la prima volta che un poliziotto della Narcotici si arricchisce grazie al proprio mestiere?» «No.» Feeney sospirò di nuovo. Quel genere di conversazione gli stava facendo passare la sbornia, e la cosa non gli andava a genio. «Ma Casto è
pulito. Dallas ha lavorato al suo fianco e, se in lui ci fosse stato del marcio, lei l'avrebbe fiutato. È bravissima, in questo.» «È stata distratta da troppe cose, ha perso un po' la testa», replicò Roarke, ricordando le ultime parole di Eve. «Pensaci bene, Feeney: per quanto rapidamente lei si muovesse, sembrava sempre arrivare un attimo dopo. Come se qualcuno conoscesse le sue mosse, fosse in grado di prevederle. Qualcuno che ha la mentalità del poliziotto.» «Casto non ti piace perché è un fusto, quasi come te», replicò acidamente Feeney. Roarke lasciò passare la provocazione. «Quanto puoi appurare su di lui, stanotte?» «Stanotte? Cristo, vuoi che mi metta a rovistare nella vita di un altro poliziotto, a frugare nei suoi documenti privati, solo perché due suoi informatori sono stati uccisi? E pretendi che lo faccia stanotte?» Roarke gli posò una mano sulla spalla. «Possiamo usare il mio armamentario.» «Sarete una coppia perfetta», mormorò Feeney mentre Roarke lo spingeva in mezzo alla folla degli ospiti. «Due squali, tu e lei.» La vista di Eve era confusa, come se lei fosse di colpo sprofondata con tutta la testa in un serbatoio pieno d'acqua. Dietro le increspature vedeva Casto, sentiva il leggero olezzo di sapone e sudore della sua pelle. Ma non riusciva a capire che cosa lui ci facesse, in quel posto. «Che cosa sta succedendo, Casto? Abbiamo ricevuto una chiamata dalla centrale?» Si guardò intorno con gli occhi vitrei, cercando Peabody, ma vide solo gli scintillanti drappi rossi destinati a dare un tocco di sensualità a una stanza riservata a rapporti sessuali rapidi e a buon mercato. «Aspetta un attimo...» «Rilassati.» Non voleva somministrarle un'altra dose, non dopo quello che lei doveva aver già bevuto durante la sua festicciola. «La porta è chiusa a chiave, Eve, perciò non puoi andare da nessuna parte. Ti ho iniettato un po' di droga, per rendere più facile la situazione.» S'infilò dietro la schiena un cuscino bordato di raso. «Ma tutto sarebbe stato molto più semplice se tu avessi mollato questo caso. Invece non l'hai fatto. Ti sei intestardita. Perdio, non riesco a capacitarmi che tu abbia incastrato Lilligas.» «Chi... cosa?» «Il fiorista di Vegas II. Mi sei arrivata troppo vicino. Io stesso mi sono
servito di quel bastardo.» Eve sentì il proprio stomaco rovesciarsi selvaggiamente. Quando avvertì la bile in fondo alla gola, si piegò in avanti, infilò la testa tra le ginocchia e si sforzò d'inspirare ed espirare con regolarità. «Capita che le sbornie facciano venire la nausea. La prossima volta ricorreremo a qualcos'altro.» «Ho commesso un errore madornale.» Eve si concentrò per trattenere nello stomaco il cibo pesante e unto ingerito durante la festicciola. «Non ti ho preso in considerazione.» Casto capì che lei era ancora pienamente in sé. «Non avevi motivo di sospettare di un altro poliziotto. Perché avresti dovuto? E avevi le tue gatte da pelare. Mai infrangere le regole, Eve. Sai bene che il responsabile delle indagini non dovrebbe essere mai, proprio mai, personalmente coinvolto nella vicenda. Eri troppo preoccupata per la tua amica. Ti ammiro per questo, davvero, anche se è stata un'idiozia.» La prese per i capelli e le piegò la testa all'indietro, per controllare lo stato delle pupille. Decise che la dose iniziale avrebbe continuato a fare effetto ancora per un po'. Non voleva rischiare di stenderla con un'overdose. Non finché lui non avesse finito. «Ti ammiro davvero, Eve.» «Figlio di puttana.» Le parole le uscirono di bocca biascicate, a causa della lingua intorpidita. «Li hai uccisi tu.» «Tutti, dal primo all'ultimo.» Rilassato, Casto tornò a incrociare le caviglie. «È stato difficile tenere segreta la cosa, devo ammetterlo. Il mio amor proprio fremeva all'idea di non poter rivelare a una donna come te quello che può fare un uomo geniale. Sai, non mi sono preoccupato più di tanto quando ho appreso che il caso Boomer era stato affidato a te.» Allungò una mano e fece correre un polpastrello dal mento di lei al solco tra i seni. «Ho pensato di poterti ammaliare. E tu, ammettilo, ti sei sentita attratta da me.» «Toglimi queste dita di dosso.» Eve tentò di colpirgli la mano, ma la mancò di parecchi centimetri. «Non hai più la percezione dello spazio.» Casto ridacchiò. «Le droghe hanno effetti sconvolgenti, credimi. Lo vedo ogni maledetto giorno, in città, ed è uno spettacolo che dà la nausea. È così che è cominciato il tutto. Quei tipi dagli abiti chiassosi che fanno soldi a palate, senza finire mai con le manette ai polsi. Perché non entrare pure io nel gioco?» «L'hai fatto per denaro.» «Che cos'altro conta, oggi? È da due anni che traffico con l'Immortality.
È stato il destino a volerlo. Avevo cominciato quasi per caso, durante la solita routine; tramite una fonte mi ero fatto spedire dalla colonia Eden un campione di droga. Il povero vecchio Boomer aveva fiutato ogni cosa, aveva scoperto i miei rapporti con la colonia Eden.» «E te ne parlò.» «Ovviamente. Avendo avuto sentore di qualcosa di nuovo nel mercato delle droghe, venne da me; in quel momento non sapeva ancora che ero immischiato anch'io in quell'affare. Ignoravo che Boomer avesse una copia di quella dannata formula. Non mi ero reso conto che intendeva sfruttarla, sperando di arricchirsi.» «L'hai ucciso. L'hai massacrato.» «Solo quando non ho potuto farne a meno. Non ho fatto nulla che non fosse strettamente indispensabile. È stata tutta colpa di Pandora... quella stronza, così bella.» Eve ascoltò, sforzandosi di riportare alla normalità le capacità mentali e fisiche, mentre Casto le raccontava una storia di sesso, potere e profitto. Pandora l'aveva notato al club. O, meglio, si erano notati reciprocamente. A lei era andato subito a genio il fatto che lui fosse un poliziotto, e di un genere particolare. Avrebbe potuto mettere le mani su un mucchio di cose allettanti, non era così? E lui sarebbe stato felice di farlo, per compiacerla. Casto era rimasto affascinato da lei: Pandora era diventata un'ossessione, una sorta di droga. Non c'era nulla di male ad ammetterlo, a quel punto. Ma aveva commesso l'errore di condividere con lei ciò che sapeva dell'Immortality e di dare ascolto alle sue idee su come far fruttare quella nuova sostanza. Avrebbero guadagnato una montagna di soldi, prevedeva Pandora. Tanti da non poterli neppure spendere tutti nell'arco di tre vite. E al contempo avrebbero ottenuto giovinezza, bellezza, capacità sessuali fantastiche. Quasi subito lei non aveva più potuto fare a meno della droga; continuava a chiederne altra, bramosamente, servendosi di lui per averla. Ma si era dimostrata a sua volta molto utile. La sua professione e la sua notorietà le facilitavano i viaggi, permettendole di portare sulla Terra quantità sempre maggiori della sostanza che veniva prodotta esclusivamente da un piccolo laboratorio privato sulla Starlight Station. Quando, di punto in bianco, Casto aveva scoperto che lei aveva messo Redford a parte dell'affare ed era andato su tutte le furie, Pandora era riuscita a tenerlo buono col sesso e con le promesse. E coi soldi, ovviamente. Però la situazione aveva cominciato a prendere una brutta piega. Boomer pretendeva altro denaro e si era intascato un sacchetto di droga, sotto for-
ma di polvere. «Avrei dovuto trovare il modo per tenerlo buono, quel piccolo stronzo. Lo seguii fin qui. Lui parlava a ruota libera, si vantava, buttava via i soldi che gli avevo dato per tenergli chiusa la bocca quasi fossero noccioline. Non potevo sapere che cosa avesse rivelato a quella maledetta puttana.» Casto si strinse nelle spalle. «Questo l'avevi capito anche tu. Avevi afferrato la situazione, ma preso di mira la persona sbagliata. Fui costretto a toglierla di mezzo. Ormai ero troppo invischiato nell'affare e non potevo commettere errori. E lei era soltanto una puttana.» Eve reclinò il capo all'indietro, contro la parete. La testa le aveva quasi smesso di girare. Grazie a Dio, le era stata iniettata una dose leggera. E, visto che a Casto sembrava essersi sciolta la lingua, lei doveva fare in modo che continuasse a parlare. Se anche non fosse riuscita a rientrare in possesso di tutte le sue facoltà, era probabile che di lì a poco qualcuno si mettesse a cercarla. «Poi andasti da Boomer.» «Non potevo recarmi nel suo appartamento e trascinarlo fuori. Da quelle parti la mia faccia era fin troppo nota. Gli concessi un po' di tempo, dopo di che lo contattai. Gli dissi che eravamo disposti a trattare. Avevamo bisogno di averlo dalla nostra parte. Fu tanto stupido da credermi. E cascò in trappola.» «Non lo uccidesti subito. Prima di finirlo, lo torturasti.» «Dovevo scoprire quanto avesse detto in giro, a chi avesse parlato. Non era il tipo che sopporta il dolore, il nostro Boomer. Confessò ogni cosa. Venni così a sapere della formula e andai su tutte le furie. Non volevo maciullargli il viso come avevo fatto con la puttana, ma persi il controllo di me stesso. Tutto qui. In altre parole, mi lasciai coinvolgere emotivamente.» «Sei un gelido bastardo», mormorò Eve, fingendo di parlare con voce debole e impastata. «Questo non è assolutamente vero. Chiedilo a Peabody.» Sorrise e le pizzicò un seno, scatenando nel ventre di Eve un vortice di furia rabbiosa. «Ho fatto la corte a DiDi perché avevo capito che con te non avevo speranze. Eri troppo ammaliata da quel ricco bastardo irlandese per interessarti a un vero uomo. E DiDi, benedetta ragazza, era un frutto maturo, pronto da cogliere. Però non sono mai riuscito a strapparle molte informazioni su ciò che stavi facendo. DiDi ha tutto per essere un bravo poliziotto. Comunque diventava più ciarliera, a metterle qualcosa nel vino.»
«Hai drogato Peabody?» «Di tanto in tanto, solo per strapparle di bocca qualche particolare che potevi aver omesso di scrivere nel tuo rapporto ufficiale. E per farla dormire profondamente quando dovevo uscire di notte. Mi forniva un alibi perfetto. Per quanto riguarda Pandora, sai già tutto. Avevi capito benissimo come si fossero svolti i fatti. Ignoravi soltanto che quella notte io facevo la posta davanti a casa sua. Le andai incontro non appena lei uscì come una furia. Voleva recarsi da quello stilista. Ormai la nostra relazione era finita da un pezzo e tra noi c'erano solo rapporti d'affari. Perché, mi chiesi, non accompagnarla? Sapevo che stava brigando per mettermi fuori dal gioco; voleva avere in mano tutto lei. Non riteneva di aver bisogno dell'aiuto di un poliziotto, anche se si trattava di quello che per primo le aveva fornito quella dannata droga. Sapeva anche di Boomer, ma la cosa la lasciava indifferente. Perché preoccuparsi di un miserabile spacciatore? E non sospettava, non le passava neanche per la mente, che io potessi farle del male.» «Cosa che facesti.» «La portai a destinazione. Non avevo programmato di ucciderla in quel posto, ma, quando vidi che la videocamera di sorveglianza era sfasciata, mi parve un segno del destino. L'atelier era deserto, c'eravamo soltanto lei e io. Avrebbero accusato lo stilista, giusto? Oppure quell'esile creatura con cui Pandora si era accapigliata poco prima. Così la colpii. La prima bastonata la buttò a terra, ma lei si rialzò subito. Era forte e aggressiva, grazie alla droga. Dovetti colpirla ancora, più volte. C'era sangue ovunque. Poi, finalmente, tirò le cuoia. A quel punto entrò la tua piccola amica, e il resto lo conosci.» «Sì, lo conosco, il resto. Tornasti a casa di Pandora a prendere la scatola con le pillole. Perché ti portasti via anche il suo cellulare?» «Lo utilizzava sempre quando mi telefonava. C'era la possibilità che avesse registrato il mio numero.» «E lo Scarafaggio?» «Un elemento in più, solo per confondere le acque. Lo Scarafaggio non si tirava mai indietro quando c'era da assaggiare un prodotto nuovo. Tu stavi facendo troppi progressi e io volevo dirottarti su una nuova pista. Grazie a DiDi, in quel caso avevo un alibi di ferro.» «Hai ucciso tu anche Jerry, non è così?» «È stato un gioco da ragazzi. Ho scatenato un paziente iniettandogli una dose di droga e ho atteso che nell'ospedale regnasse il caos. Ho fatto riprendere i sensi a Jerry e l'ho trascinata fuori della sua stanza prima che si
rendesse conto di ciò che stava accadendo. Le ho promesso un po' di droga, al che lei ha pianto come una bambina. Dapprima le ho somministrato la morfina, per impedirle di avere qualche reazione scomposta, poi l'Immortality e infine una punta di Zeus. È morta felice. Ringraziandomi.» «Sei un vero filantropo, Casto.» «No, Eve, sono un egoista che cerca di diventare il numero uno. E non me ne vergogno. Sono dodici anni che pattuglio le strade, facendomi largo tra sangue, vomito e sperma. Ho dato più del dovuto. Questa droga mi permetterà di ottenere ciò che ho sempre desiderato. Sarò promosso capitano e, grazie a una tale posizione di potere, per quattro o cinque anni accantonerò i proventi della droga in un bel conto segreto, poi mi ritirerò in un'isola tropicale a sorseggiare grappa al dente di tigre.» La sua voglia di parlare cominciava a esaurirsi, notò Eve, a giudicare dal tono della voce. L'eccitazione e l'arroganza stavano lasciando il posto a una gelida concretezza. «Ma, prima, dovrai uccidermi.» «Lo so, Eve. È un vero peccato. Ti avevo consegnato la Fitzgerald su un piatto d'argento, ma non hai voluto approfittarne.» Con un gesto che sembrava dettato da un vago affetto, le carezzò i capelli. «Non ti farò male. Ho qui qualcosa che ti ucciderà dolcemente. Non sentirai nulla.» «È molto gentile da parte tua, Casto.» «Te lo devo, dolcezza. Siamo entrambi poliziotti, dopotutto. Speravo che tu la piantassi d'indagare, dopo che la tua amica era stata scagionata, ma non l'hai fatto. Avrei voluto che le cose andassero diversamente, Eve. Tu mi hai sempre fatto gola.» Si chinò su di lei, così vicino che Eve avvertì sulle proprie labbra il suo fiato, come se Casto stesse davvero per assaggiarla. Lei sollevò lentamente le ciglia, lanciandogli un'occhiata di sottecchi. «Casto», mormorò. «Sì. Rilassati. Non ci metterò molto.» Si portò la mano alla tasca. «Va' al diavolo!» Eve alzò il ginocchio con tutta la forza che aveva. La sua percezione dello spazio non era ancora tornata completamente normale e la ginocchiata non lo colpì all'inguine, ma al mento. Casto cadde all'indietro sul letto e la siringa gli sfuggì di mano, finendo sul pavimento. Entrambi si tuffarono per afferrarla. «Dove diavolo è finita? Non è possibile che se ne sia andata dalla sua festa.» Spazientita, Mavis batté sul pavimento i tacchi a spillo mentre continuava a perlustrare il locale. «Ed era l'unica di noi a essere ancora sobria.»
«Nella toilette delle donne?» suggerì Nadine, infilandosi svogliatamente la camicetta sul reggipetto di pizzo. «Peabody ha controllato due volte. Secondo lei, dottoressa Mira, Eve può averci piantate in asso? So che è nervosa, ma...» «Non è il tipo che scappa.» Benché la testa le stesse ancora girando, la psichiatra si sforzò di parlare in modo coerente. «Torniamo a cercarla. È certamente da qualche parte. Il guaio è che il locale è tremendamente affollato.» «State ancora cercando la futura sposa?» Con un largo sorriso, Crack si fece avanti. «A quanto pare, ha voluto correre la cavallina per un'ultima volta. Quel tipo laggiù l'ha vista infilarsi in una delle stanze private in compagnia di un uomo che sembrava un cowboy.» «Dallas?» All'idea, Mavis sbuffò. «Lo escludo.» «Be', sta festeggiando», replicò Crack, stringendosi nelle spalle. «Se viene voglia anche a voi, signore, ho un'infinità di stanze a vostra disposizione.» «In quale sarebbe entrata?» chiese Peabody, tornata sobria dopo aver vomitato tutto ciò che aveva nello stomaco, compresa - ci avrebbe giurato buona parte delle budella. «La numero cinque. Ehi, se volete fare un'ammucchiata, posso fornirvi alcuni simpatici giovanotti. Di tutte le taglie e di tutti i colori.» Nel vederle incamminarsi a passo di marcia, scrollò il capo e decise che avrebbe fatto meglio ad accompagnarle, per impedire una baraonda. La siringa sfuggì dalle dita di Eve, mentre un'ondata di dolore le si propagava su tutto il viso per la gomitata ricevuta in pieno zigomo. Però non perse il suo sangue freddo e approfittò del fatto che Casto era stato colto di sorpresa dalla prontezza della sua reazione. «Avresti dovuto darmi una dose più pesante», disse, sferrandogli un pugno alla trachea. «Stanotte non ho bevuto nulla, idiota.» Riuscì a montargli addosso. «Domani devo sposarmi», aggiunse, enfatizzando le proprie parole con un destro al naso così forte da farlo sanguinare. «Questo era per Peabody, bastardo.» Per tutta risposta ricevette un pugno nel costato che le tolse il fiato, poi sentì che Casto le avvicinava la siringa al braccio e inarcò i fianchi per sferrargli un calcio. Lui scartò di lato per schivare il colpo e, per un puro colpo di fortuna o per il carente senso dello spazio di Eve oppure per un calcolo errato di Casto - quale fosse l'ipotesi giusta, non l'avrebbe mai ca-
pito -, i piedi, scattati in aria come pistoni, lo presero in piena faccia. Gli occhi gli rotearono all'indietro e la testa batté sul pavimento con un tonfo sinistro e gratificante. Però Casto era riuscito a iniettare un po' di droga nel braccio di Eve, che si trascinò in avanti, a tentoni, con la sensazione di nuotare in un vischioso sciroppo dorato. Si sforzò di aprire la porta, ma la serratura e la scheda sembravano trovarsi a un'altezza di oltre tre metri dalla sua mano ondeggiante. Poi la porta si spalancò, e si scatenò l'inferno. Eve si sentì sollevare da terra, palpeggiare. Qualcuno ordinò in tono perentorio di farle prendere aria, mentre lei esplodeva in risatine gorgoglianti. Stava volando, fu tutto ciò che riuscì a pensare. «Quel bastardo li ha uccisi tutti lui», continuava a ripetere. «È stato quel bastardo a ucciderli. Non l'avevo capito. Dov'è Roarke?» Le furono sollevate le palpebre, e lei avrebbe potuto giurare che le palle degli occhi le roteassero come biglie di vetro impazzite. Quando udì la parola «ospedale», cominciò a dimenarsi come una tigre. Roarke scese le scale, con la bocca atteggiata a un sorriso bieco. Sapeva che Feeney era ancora al piano di sopra, sbuffante e stizzito, ma lui non aveva più dubbi. Un grosso affare come quello che doveva ruotare intorno a una droga potenzialmente tanto lucrosa qual era l'Immortality aveva bisogno di un esperto e di una vasta rete di rapporti ben protetti. Casto possedeva entrambi i requisiti. Era possibile che anche Eve si rifiutasse di accettare una simile idea, perciò lui non le avrebbe detto nulla. Per il momento. Feeney avrebbe avuto tre settimane per indagare a fondo, mentre loro erano in luna di miele. Ammesso che ci fosse una luna di miele. Sentendo aprirsi la porta, sollevò il mento. Avrebbero dovuto chiarire quel punto una volta per tutte, decise. Lì e subito. Scese altri due gradini, poi terminò la rampa correndo come un matto. «Che diavolo le è successo? Sanguina.» E anche a lui montò il sangue agli occhi nel vedere Eve esanime tra le braccia di un uomo di colore alto più di due metri e nudo, a parte un perizoma argenteo. Siccome tutti avevano preso a parlare contemporaneamente, la dottoressa Mira batté le mani, come un'insegnante in una classe di allievi turbolenti. «Ha bisogno di riposare tranquilla in una stanza. L'équipe del pronto soccorso l'ha disintossicata dalla droga, ma potrebbe verificarsi qualche ef-
fetto collaterale. E lei non si è lasciata medicare tagli e abrasioni.» Il volto di Roarke si fece di pietra. «Quale droga?» Lanciò a Mavis un'occhiata fulminante. «Dove diavolo l'avevi portata?» «Non è colpa sua.» Con lo sguardo ancora vitreo, Eve si avvinghiò al collo di Roarke. «Casto. È stato Casto. L'avresti mai immaginato, Roarke?» «A dire il vero...» «Che stupida... che stupida a non rendermene conto. Che idiota. Ora posso andare a letto?» «La porti di sopra, Roarke», disse con calma la dottoressa Mira. «Posso badare io a lei. Mi creda, tra un po' starà benissimo.» «Starò benissimo», assentì Eve mentre fluttuava su per le scale. «Ti racconterò ogni cosa. Posso sempre sfogarmi con te, vero? Perché ti amo, scemo.» C'era una sola cosa che Roarke voleva al momento appurare. Dopo aver posato Eve sul letto e aver esaminato la guancia livida e la bocca tumefatta, le chiese: «È morto?» «No. L'ho soltanto messo fuori combattimento.» Eve sorrise, notò lo sguardo nei suoi occhi e scosse lentamente la testa. «No, no, non pensarci nemmeno. Tra un paio d'ore ci sposiamo.» Roarke le carezzò i capelli, scostandoli dal viso. «Davvero?» «Ci ho ragionato sopra.» Le riusciva difficile concentrarsi, ma ciò che voleva dirgli era troppo importante. Sollevò le mani e gli prese il viso tra i palmi, per tenerlo a fuoco. «Non è una formalità. E non è un contratto.» «Che cos'è, allora?» «Un impegno. E, in ogni caso, non è gravoso impegnarsi a fare qualcosa che desideri veramente. Se mi rivelerò inadatta a fare la moglie, dovrai semplicemente prenderne atto. Ma io non vengo meno ai miei impegni. Ah, c'è un'ultima cosa...» Accorgendosi che lei stava per assopirsi, Roarke si spostò leggermente, affinché Mira potesse medicarle la ferita sulla guancia. «Di che cosa si tratta, Eve?» «Ti amo. A volte questo mi prende allo stomaco, ma è una sensazione gradevole. Ora sono stanca, vieni a letto. Ti amo.» Lui si ritrasse per lasciare spazio a Mira. «È giusto che dorma?» «È la cosa migliore, per lei. Quando si risveglierà, starà bene. Avrà solo qualche disturbo, simile ai postumi di una sbornia, il che mi sembra una vera ingiustizia perché non aveva bevuto neppure un goccio. Diceva di vo-
ler mantenere la mente lucida per domani.» «Davvero?» Eve, notò Roarke, anche nel sonno non aveva l'aria calma. Non l'aveva mai. «Rammenterà ogni cosa? Ciò che mi ha appena detto?» «Probabilmente no», replicò allegramente la dottoressa. «Ma lei sì, ed è questo che conta.» Roarke assentì e si ritrasse. Eve era sana e salva, una volta di più. Lanciò un'occhiata a Peabody. «Agente, posso contare su di te per conoscere i fatti in dettaglio?» Eve si svegliò con la nausea, quasi fosse reduce da una sbronza, e non ne fu assolutamente felice. Lo stomaco era come aggrovigliato e la mascella le doleva. Grazie alla medicazione di Mira e alla magica abilità di Trina nell'usare i cosmetici, i lividi non si vedevano. Come sposa, si disse osservandosi, non era niente male. «Sei fantastica, Dallas», sospirò Mavis, girando lentamente intorno all'ultima creazione di Leonardo. L'abito ricadeva mollemente, come previsto; la tinta bronzea rendeva più calda la carnagione di Eve, e la foggia metteva in risalto il suo corpo lungo e magro. Nella sua semplicità, sembrava affermare che ciò che contava veramente era la donna che lo indossava. «Il giardino è pieno di gente», proseguì allegramente Mavis, mentre lo stomaco di Eve faceva le bizze. «Hai dato un'occhiata dalla finestra?» «Non sarebbe la prima volta che vedo molta gente.» «Poco fa qui intorno era tutto un ronzare di giornalisti. Non so quali bottoni abbia premuto Roarke, ma adesso sono spariti tutti.» «Tanto meglio.» «Ti senti bene, vero? Secondo la dottoressa Mira non dovresti avere postumi pericolosi, ma...» «Sto benissimo.» Era solo in parte una bugia. «Ora che questa storia è chiusa, che conosco tutti i fatti, la verità rende ogni cosa più facile.» Pensò a Jerry e provò una fitta di dolore. Guardò Mavis, il suo volto radioso incorniciato dai capelli colorati d'argento in punta, e sorrise. «Tu e Leonardo avete ancora intenzione di coabitare?» «A casa mia, per il momento. Stiamo cercando un appartamento più grande, in cui Leonardo possa avere spazio per lavorare. E io ricomincerò a fare il giro dei club.» Tolse dallo scrittoio una scatola e la porse a Eve. «Te lo manda Roarke.» «Ah, sì?» Nell'aprire la scatola, Eve provò una fitta di piacere e al tempo
stesso di fastidio. La collana era perfetta, ovviamente. Due fili di rame attorcigliato punteggiati di pietre colorate. «Per caso gliene avevo parlato», confessò Mavis. «Ci avrei scommesso.» Con un sospiro, Eve se la mise al collo; poi s'infilò nelle orecchie i lunghi pendenti abbinati. Le parve di essere un'altra persona, un'estranea. Una guerriera pagana. «C'è un'ultima cosa.» «Oh, Mavis, non posso accettare altro. Roarke deve capire che io...» S'interruppe di colpo perché Mavis, scoperchiata la lunga scatola bianca posata sul tavolo, aveva estratto un languido fascio di fiori bianchi: petunie. Semplici petunie, della specie più casalinga. «Sa sempre tutto», mormorò Eve. I muscoli dello stomaco le si distesero, i nervi si rilasciarono. «Non gli sfugge nulla.» «Suppongo che il fatto che qualcuno ti conosca fino a questo punto, in modo così... così intimo, ti renda molto fortunata.» «Sì.» Eve prese i fiori, li cullò tra le braccia. L'immagine riflessa nello specchio non era più quella di un'estranea. Era, pensò, quella di Eve Dallas in abito da sposa. «A Roarke, quando mi vedrà, cadranno gli occhi dalle orbite.» Scoppiò a ridere, afferrò Mavis per un braccio e uscì di corsa dalla stanza per andare ad assumersi quel formidabile impegno. FINE