JAMES PATTERSON IL DIARIO DI SUZANNE (Suzanne's Diary For Nicholas, 2001) A chi ha amato, perduto, e amato ancora. A Rob...
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JAMES PATTERSON IL DIARIO DI SUZANNE (Suzanne's Diary For Nicholas, 2001) A chi ha amato, perduto, e amato ancora. A Robin Schwarz, con immensa gratitudine per la sua generosità e il prezioso aiuto. A Mary, Fern, Barbara, Irene, Maria, Darcy, Mary Ellen e Carole Ann, grazie per la collaborazione. Soprattutto, a Suzie e Jack; e a Jane. James Patterson KATIE Katie Wilkinson era immersa nell'acqua tiepida nell'insolita ma bellissima vasca da bagno di porcellana antica del suo appartamento newyorkese. La casa aveva un suo modo di evocare un senso di 'antico' e 'logoro' che i devoti allo shabby chic non avrebbero neanche potuto immaginare. Guinevere, il gatto persiano che assomigliava più a un maglione di lana grigio, era raggomitolato sul bordo del lavandino. Merlin, il labrador nero, sedeva invéce nel vano della porta che separava il bagno dalla camera da letto. Tutti e due guardavano Katie come se fossero in pena per lei. Dopo aver finito di leggere il diario, Katie abbassò il capo e posò il quaderno rilegato in pelle sullo sgabello di legno accanto alla vasca. Rabbrividì. Poi iniziò a singhiozzare e si accorse che le tremavano le mani. Stava perdendo il controllo, una cosa che non le accadeva spesso. Era una donna forte, lo era sempre stata. Sussurrò una frase che aveva udito una volta nella chiesa di suo padre ad Asheboro, nel North Carolina: «Oh, Signore, oh, Signore, dove sei, Signore mio?» Non avrebbe mai pensato che quelle pagine potessero turbarla tanto. Naturalmente non era stato soltanto il diario a farla sprofondare in quello stato di abbandono e confusione. No, non era solo il diario che Suzanne aveva scritto per Nicholas. Provò a immaginarsi Suzanne. La vide nel suo bel cottage di Beach Road a Martha's Vineyard. Poi fu la volta del piccolo Nicholas. Dodici mesi, e due vivaci occhi azzurri. E infine, Matt. Il papà di Nicholas.
Il marito di Suzanne. E l'ex amante di Katie. Che cosa provava per Matt, adesso? Sarebbe mai riuscita a perdonarlo? Non ne era certa, ma almeno iniziava a capire cos'era successo. Il diario le aveva rivelato verità che doveva assolutamente conoscere, oltre ad alcuni segreti intimi e dolorosi che forse non avrebbe dovuto sapere. Sprofondò ancora di più nell'acqua del bagno e si sorprese a ripensare al giorno in cui aveva ricevuto il diario, il 19 luglio. Il ricordo di quella giornata la fece piangere di nuovo. *** Quel mattino Katie era stata guidata da una forza misteriosa verso il fiume Hudson, e da lì aveva raggiunto la partenza della Circle Line, il giro in traghetto intorno all'isola di Manhattan che lei e Matt avevano fatto per la prima volta per sbaglio, divertendosi così tanto da tornarci anche in seguito. Si imbarcò sul primo traghetto della giornata. Era triste, ma anche arrabbiata. Non sapeva cosa provava esattamente. Il traghetto non era troppo affollato di turisti. Andò a sedersi vicino al parapetto del ponte superiore e si fermò a guardare la città dalla singolare prospettiva dei corsi d'acqua che la circondano. Alcuni, per lo più uomini, la notarono e videro che sedeva tutta sola. Katie non passava quasi mai inosservata in mezzo alla folla. Era alta quasi un metro e ottanta e aveva occhi azzurri caldi e gentili. Si era sempre considerata goffa, e pensava che gli altri la guardassero soprattutto per i suoi difetti. Le sue amiche non erano affatto d'accordo con lei e non facevano che ripeterle che il suo aspetto forte la rendeva bellissima, quasi da togliere il fiato. A quei commenti Katie rispondeva con ironia, perché non si vedeva né si sarebbe mai vista così. Era una persona normale, in fondo niente di più di una semplice ragazza del North Carolina. Portava spesso i capelli bruni raccolti in una lunga treccia, com'era sua abitudine da quando aveva otto anni. Prima era considerata una cosa da maschiaccio, ma adesso era diventata l'ultima moda metropolitana. Finalmente, aveva pensato, andava al passo coi tempi. Non si truccava mai, a parte un tocco di mascara e qualche volta un filo di rossetto. Quel giorno non aveva né l'uno né l'altro. Non era certo bella da togliere il fiato. Mentre se ne stava seduta sul ponte superiore, le venne in mente una bat-
tuta del film La regina d'Africa: 'Testa alta, mento in fuori, capelli al vento, l'immagine vivente dell'eroina', così Bogart aveva canzonato la Hepburn. La rallegrò un poco, un pochino, come piaceva dire a sua mamma ad Asheboro. Aveva pianto per ore, e i suoi occhi erano gonfi. La sera prima l'uomo che amava aveva improvvisamente e inspiegabilmente messo fine alla loro relazione. Era stato un fulmine a ciel sereno: non c'erano state avvisaglie. Sembrava quasi impossibile che Matt l'avesse lasciata. Al diavolo! Come ha potuto? Mi ha mentito per tutto questo tempo, per mesi interi? Certo che l'ha fatto! Quel bastardo. Quel vigliacco. Voleva pensare a Matt, capire cosa li aveva separati, ma finiva sempre col ricordare i momenti, per lo più belli, trascorsi insieme. A malincuore dovette ammettere che aveva sempre potuto parlare con lui di qualsiasi cosa. Poteva confidarsi con Matt come faceva con le sue amiche. E loro lo adoravano, anche se a volte erano un po' diffidenti e terribilmente sfortunate con gli uomini. Ma allora, cos'era successo tra loro? Era quello che voleva disperatamente scoprire. Matt era pieno di attenzioni, o perlomeno lo era stato. Katie compiva gli anni nel mese di giugno e lui, ogni giorno di quello che aveva battezzato 'il mese del tuo compleanno', le aveva mandato una rosa. Si accorgeva sempre se aveva già indossato una certa camicetta o un maglione, notava le sue scarpe e il suo umore, che fosse buono, cattivo o, come a volte capitava, terribile. Gli piacevano molte delle cose che piacevano a lei, o almeno così diceva: Ally McBeal, The Practice, Memorie di una geisha, La ragazza con l'orecchino di perla; cena, poi un drink o due al bar del One if by Land, Two if by Sea; Waterloo nel West Village, Coup nell'East Village, Bubby's in Hudson Street; i film stranieri al Lincoln Plaza Cinema; le foto antiche in bianco e nero e i dipinti a olio trovati nei mercatini delle pulci; le gite a NoLita (North of Little Italy) e Williamsburg (la nuova SoHo). Alla domenica lui la accompagnava in chiesa, dove Katie insegnava catechismo ai bambini in età prescolare. Tutti e due amavano trascorrere la domenica pomeriggio nell'appartamento di lei, dove Katie leggeva il Times da cima a fondo e Matt correggeva le sue poesie, con le quali ricopriva il letto, il pavimento della camera da letto e persino il grande piano della cucina. In sottofondo le dolci note di Tracy Chapman, Macy Gray, o anche Sarah Vaughan. Era tutto meraviglioso, perfetto sotto ogni punto di vista. Matt le faceva provare un senso di pace interiore, la completava, faceva
qualcosa di buono e giusto. Nessun altro l'aveva mai fatta sentire così prima di allora: completamente serena e felice. Cosa c'era di meglio che essere innamorata di Matt? Niente che Katie potesse immaginare. Una sera si erano fermati in un piccolo disco bar sulla Avenue A. Mentre ballavano, Matt le aveva cantato All Shook Up nell'orecchio, mettendo in scena una strana ma incredibilmente bella interpretazione di Elvis, seguita da una ancora migliore di Al Green, che le aveva dato il colpo di grazia. Voleva stare sempre con lui: banale forse, ma vero. Quando Matt tornava a Martha's Vineyard, dove viveva e lavorava, parlavano al telefono tutte le sere per ore, oppure si scambiavano divertenti email. Si riferivano a quei periodi di lontananza come alla 'loro storia d'amore a distanza'. Lui, però, l'aveva sempre dissuasa dall'andare a trovarlo sull'isola. Che fosse stato quello il segnale di quanto stava per accadere? In ogni caso, la loro relazione era andata a gonfie vele per undici mesi meravigliosi, che erano letteralmente volati. Katie pensava che molto presto lui le avrebbe chiesto di sposarla. Ne era certa, tanto da confidarlo persino a sua madre. Ma, ovviamente, aveva avuto torto marcio e ora si sentiva patetica. Era stata una stupida e si odiava per questo. Come aveva potuto sbagliarsi tanto sul suo conto? E su tutto quello che era successo? Non era da lei prendere certi abbagli: si era sempre fidata del suo istinto e di solito aveva avuto ragione. Era una persona intelligente, non faceva sciocchezze del genere. Fino a quel momento. E quello sì che era un errore imperdonabile. All'improvviso Katie si accorse che stava singhiozzando e che le persone vicino a lei sul ponte del traghetto la stavano fissando. «Scusate», disse, invitandoli con un gesto a guardare da un'altra parte. Arrossì imbarazzata, sentendosi una perfetta idiota. «Sto bene.» Non era vero. Non era mai stata tanto male in vita sua. Niente reggeva il confronto: aveva perduto l'unico uomo che avesse mai amato. Dio, quanto amava Matt. *** Quel giorno Katie non riuscì ad andare al lavoro. Non se la sentiva di affrontare i colleghi, e neppure dei perfetti sconosciuti sull'autobus che prendeva per recarsi in ufficio. Gli sguardi curiosi che l'avevano scrutata sul traghetto le sarebbero bastati per un pezzo.
Quando ritornò a casa dopo il giro sulla Circle Line, notò un pacchetto appoggiato alla porta d'ingresso. Subito pensò che si trattasse di un manoscritto inviatole da qualche collega e, a denti stretti, maledisse il lavoro. Non potevano lasciarla in pace almeno un giorno? Aveva diritto a una giornata libera ogni tanto. Lavorava moltissimo, e tutti sapevano quanto amasse i libri e con quale impegno vi si dedicasse. Era responsabile editoriale in un'ottima casa editrice newyorkese specializzata in narrativa e poesia, e l'ambiente di lavoro era sereno e piacevole. Adorava il suo lavoro. Era lì che aveva incontrato Matt. Si era innamorata della sua prima raccolta di poesie, di cui aveva acquistato i diritti da una piccola agenzia letteraria di Boston circa un anno prima. Lei e Matt erano andati subito d'accordo, proprio d'accordo. Qualche settimana dopo si erano innamorati, o perlomeno era quello che aveva creduto lei, con tutto il cuore, l'anima, il corpo e l'intuito femminile. Come aveva potuto sbagliarsi tanto? Cosa era successo? E perché? Quando prese in mano il pacchetto, Katie riconobbe la calligrafia. Era di Matt. Non aveva dubbi al riguardo. Provò l'impulso di gettare via il pacco con tutta la forza che aveva in corpo, e per poco non lo fece cadere, ma poi si trattenne. Aveva troppo autocontrollo, era quello il suo problema. Uno dei suoi problemi. Dopo aver osservato il plico per qualche minuto, emise un profondo sospiro e lo scartò. All'interno c'era un piccolo diario dall'aspetto antico. Aggrottò la fronte: non capiva cosa significasse. Poi le venne un nodo allo stomaco. Sulla copertina del diario c'era scritto Diario di Suzanne per Nicholas; era scritto a mano, ma questa volta la calligrafia non era di Matt. Suzanne? Katie si sentì girare la testa e mancare il fiato, e non riusciva neppure a pensare lucidamente. Matt aveva sempre mantenuto un totale riserbo sul suo passato. Una delle cose che Katie era venuta a sapere, tuttavia, era proprio il nome della sua ex moglie: Suzanne. Lui se lo era lasciato sfuggire una sera, dopo che avevano bevuto due bottiglie di vino. Ma neanche allora Matt aveva voluto parlare di lei. Quelle poche volte che avevano litigato era stato a causa del rifiuto di Matt di parlare del suo passato. Katie lo aveva pregato di aprirsi con lei, ottenendo in cambio un silenzio ancora più ostinato e misterioso. Non era da lui comportarsi così: dopo un litigio le aveva giurato che non era più sposato con Suzanne, ma le aveva anche detto che non aveva intenzione di tornare sull'argomento. Chi era Nicholas? E perché Matt le aveva inviato quel diario? Perché
proprio adesso? Si sentiva confusa e turbata. Con le mani tremanti, aprì il diario e vide che sulla prima pagina era appuntato un messaggio di Matt. Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma lei le scacciò con rabbia e lesse il biglietto. Cara Katie, non ci sono parole o gesti per tentare di spiegare ciò che provo in questo momento. Mi dispiace moltissimo per aver permesso che accadesse tutto questo. È solo colpa mia, naturalmente. Me ne assumo la piena responsabilità. Tu sei perfetta, meravigliosa, bellissima. Non sei tu, sono io. Forse questo diario servirà a spiegarti quello che è successo meglio di quanto non saprei fare io. Se te la senti, leggilo. Parla di mia moglie e di mio figlio, e di me. Ti devo avvertire, però, che potrebbe essere difficile per te leggere alcune parti. Non intendevo innamorarmi di te, ma è successo. Matt Poi girò la pagina. DIARIO Caro Nicholas, mio piccolo principe, per moltissimi anni mi sono chiesta se sarei mai diventata madre. In quel periodo avevo un desiderio ricorrente: pensavo che sarebbe stato meraviglioso, oltre che saggio, girare ogni anno un video per i miei bambini, per dire loro chi ero, cosa pensavo, quanto li amavo, quali erano le mie preoccupazioni, le cose che mi emozionavano, mi facevano ridere e piangere, o vedere il mondo in modo diverso. E, naturalmente, per raccontare i miei segreti più intimi. Se mia madre e mio padre avessero registrato ogni anno una videocassetta, per dirmi chi erano e cosa pensavano di me e del mondo, io le avrei custodite gelosamente. Invece le cose sono andate diversamente e io non conosco davvero i miei genitori, cosa che mi rattrista un po', anzi molto. Per questo motivo ho deciso di registrare ogni anno un video, ma c'è qualcos'altro che voglio fare per te, dolce bambino mio. Voglio scrivere un diario, questo diario, e prometto di farlo con costanza. Mentre scrivo la prima pagina tu hai due settimane di vita, ma voglio
cominciare col raccontarti alcune cose accadute prima che nascessi. Voglio iniziare prima dell'inizio, per così dire. Questo è solo per te, Nick. Parla di quello che è successo a Nicholas, Suzanne e Matt. *** La storia ha inizio in una calda e profumata sera di primavera a Boston. A quei tempi lavoravo al Massachusetts General Hospital. Facevo il medico da otto anni e di quel periodo conservo ricordi preziosi, come quando assistevo al miglioramento dei pazienti o, semplicemente, stavo loro vicino quando era ormai evidente che non sarebbero più guariti. Ma c'erano anche la burocrazia e l'irrimediabile inadeguatezza dell'attuale sistema sanitario del nostro paese. E talvolta le mie stesse inadeguatezze. Avevo appena finito un turno di ventiquattro ore ed ero più stanca di quanto si potesse immaginare. Stavo portando a passeggio Gustavus, detto anche Gus, il mio fedele e fidato golden retriever. Immagino che dovrei darti una breve descrizione della tua mamma a quei tempi. Avevo lunghi capelli biondi, ero alta un metro e sessantacinque circa, non ero bellissima ma abbastanza carina, e avevo quasi sempre un sorriso gentile per tutti. Non davo troppa importanza all'aspetto fisico. Era un tardo pomeriggio di venerdì e ricordo che il tempo era bello e l'aria dolce e cristallina. Una di quelle giornate per le quali vivevo. Rivedo tutta la scena come se fosse appena accaduto. Gus si era lanciato all'inseguimento di una povera e indifesa anatra cittadina che si era allontanata dalle acque sicure del laghetto. Ci trovavamo ai giardini pubblici di Boston, vicino ai battelli a forma di cigno. Era un percorso che facevamo spesso, soprattutto quando Michael, il mio fidanzato, lavorava come quella sera. Gus mi aveva strappato il guinzaglio di mano, così mi sono messa a rincorrerlo. È un cane da riporto molto bravo, che vive per inseguire e riportare oggetti di qualsiasi tipo: palle, frisbee, sacchetti di carta, bolle di sapone, e persino i riflessi sulle finestre del mio appartamento. Mentre correvo dietro a Gus, sono stata improvvisamente trafitta da un dolore fortissimo, come mai avevo provato in vita mia. Oddio, cosa succede? Il dolore era così acuto da farmi cadere carponi. Poi è diventato ancora più intenso: sentivo dei coltelli affilati trafiggermi il braccio e la spalla fino
alla mascella. Ansimavo. Non riuscivo a respirare, né a mettere a fuoco quello che mi circondava: era tutto sfocato. Non ero certa di quello che mi stava accadendo, ma qualcosa mi diceva che si trattava del cuore. Cosa mi stava succedendo? Volevo chiedere aiuto, ma persino pronunciare quelle poche parole era un'impresa al di là delle mie possibilità. Il parco pieno di alberi mi girava intorno come una giostra. Alcuni passanti iniziarono ad accorrere preoccupati e si chinarono sopra di me. Gus era tornato furtivamente indietro. L'ho sentito abbaiare dall'alto, poi mi ha leccato la guancia, ma ho sentito a malapena il contatto della sua lingua. Ero distesa sulla schiena e mi tenevo il petto con le mani. Il cuore? Dio mio, avevo solo trentacinque anni. «Chiamate un'ambulanza», ha gridato qualcuno. «Sta male. Credo che stia morendo.» Non è vero! volevo urlare. Non è possibile che stia morendo. Il mio respiro è diventato sempre più debole ed ero sul punto di precipitare nell'oscurità, nel nulla. Oddio, ho pensato. Non te ne andare, respira, non perdere i sensi, Suzanne. A quel punto ricordo di aver afferrato una pietra che giaceva accanto a me sul terreno. Aggrappati a questa pietra, mi sono detta, aggrappati forte. Sentivo che era l'unica cosa che potesse tenermi legata alla terra in quel momento terribile. Volevo chiamare Michael, ma sapevo che non sarebbe servito a nulla. All'improvviso mi sono resa conto di quello che mi stava accadendo. Dovevo aver perso i sensi per alcuni minuti perché quando ho ripreso conoscenza mi stavano caricando sull'ambulanza. Le guance mi si sono bagnate di lacrime. Ero madida di sudore. La soccorritrice continuava a ripetere: «Si riprenderà. Va tutto bene, signora». Ma io sapevo che non era vero. L'ho guardata con le poche forze che mi erano rimaste e ho sussurrato: «Non mi lasci morire». Continuavo a stringere forte la piccola pietra. L'ultima cosa che ricordo è la maschera d'ossigeno che mi hanno messo sul volto, una debolezza simile alla morte in tutto il corpo e la pietra che alla fine mi è scivolata di mano. *** Caro Nicky, avevo solo trentacinque anni quando ho avuto un arresto cardiaco a Bo-
ston. Il giorno dopo i medici del Massachusetts General Hospital mi hanno sottoposta a un'operazione di by-pass coronarico. L'infarto mi ha costretta all'immobilità e al riposo per quasi due mesi e durante la convalescenza ho avuto tempo per pensare, pensare davvero, come forse non avevo mai fatto in vita mia. Ho esaminato a fondo, con molto dolore, la vita che conducevo a Boston, il ritmo frenetico che aveva preso, scandito da giri di visite, ricerca, straordinari, superlavoro e doppi turni. Ho ripensato a come mi sentivo prima che accadesse quella disgrazia. Ho fatto anche i conti con la mia stessa negazione: mia nonna era morta d'infarto e la mia famiglia aveva una storia di malattie cardiache. Ciononostante, non ero stata attenta come avrei dovuto. Mentre ero ancora in convalescenza, un amico medico mi ha raccontato la storia delle cinque palle. Non dimenticarla mai, Nicky. È estremamente importante. Ecco la storia: immagina che la vita sia un gioco di destrezza che consiste nel far roteare cinque palle. Le palle sono il lavoro, la famiglia, la salute, gli amici e l'integrità. Le fai roteare tutte e cinque per aria. Ma un bel giorno capisci finalmente che il lavoro è una palla di gomma: se cade, rimbalza. Le altre quattro - famiglia, salute, amici, integrità - sono di vetro: se fai cadere una di queste, essa si graffierà, si scalfirà e forse andrà a pezzi. Quando avrai compreso a fondo la lezione delle cinque palle, avrai raggiunto il principio dell'equilibrio nella tua vita. Nicky, finalmente l'avevo compresa. *** Caro Nick, avrai certamente capito che tutto ciò avveniva prima dell'arrivo di papà, prima di Matt. Ma ora voglio raccontarti del dottor Michael Bernstein. Ho incontrato Michael nel 1996, al ricevimento di nozze di John Kennedy e Carolyn Bassette che ha avuto luogo a Cumberland Island, in Georgia. Devo ammettere che entrambi avevamo avuto una vita piuttosto piacevole fino ad allora. Anche se i miei genitori erano morti quando avevo solo due anni, avevo avuto la fortuna di essere allevata con amore e pazienza dai miei nonni a Cornwall, nello stato di New York. Ero andata alla Lawrenceville Academy nel New Jersey, poi alla Duke University e, infi-
ne, alla scuola di medicina di Harvard. Mi sentivo molto fortunata per aver frequentato queste tre scuole e devo dire che non avrei potuto ricevere un'educazione migliore, se non fosse che nessuno mi aveva mai insegnato la lezione delle cinque palle. Anche Michael aveva studiato a Harvard, ma si era laureato quattro anni prima del mio arrivo. Non ci eravamo mai incontrati prima del matrimonio dei Kennedy. Io ero un'invitata di Carolyn, Michael di John. La cerimonia in sé fu magica, carica di promesse e speranze. Forse fu quello uno dei motivi che avvicinò Michael e me. Ciò che ci ha tenuto insieme nei quattro anni seguenti è un po' più complicato da spiegare. In parte si trattava di pura attrazione fisica, e un giorno voglio parlarti di questo, ma non adesso. Michael era, anzi, è alto e affascinante e ha un bellissimo sorriso. Avevamo molti interessi in comune. Adoravo i suoi racconti, sempre così divertenti, laconici, pungenti; mi piaceva ascoltarlo mentre suonava il piano e cantava canzoni di ogni genere, da Sinatra a Sting. Inoltre, eravamo entrambi maniaci del lavoro: io lavoravo al Massachusetts General Hospital, lui al Children's Hospital di Boston. Ma l'amore non è solo questo, Nicholas, fidati di me. Un giorno, erano trascorse circa quattro settimane dall'arresto cardiaco, mi sono svegliata alle otto del mattino. L'appartamento dove vivevamo era tranquillo e sono rimasta a godermi quella pace per qualche minuto. Sentivo che aveva un potere terapeutico su di me. Alla fine mi sono alzata e sono andata in cucina a preparare la colazione prima di uscire per recarmi al centro di riabilitazione. All'improvviso ho sentito il rumore di una sedia contro il pavimento e ho avuto un sussulto. Con una certa apprensione, sono andata a vedere chi c'era. Era Michael. Ero sorpresa di vederlo ancora a casa, dato che usciva quasi sempre per le sette. Era seduto al tavolino di pino nella zona riservata alla colazione. «Mi hai quasi fatto venire un infarto», ho esclamato, pensando di aver fatto una battuta niente male. Michael non ha riso e mi ha fatto segno di sedermi sulla sedia accanto a lui. Poi, con la calma e il rispetto di sé ai quali mi ero abituata, mi ha comunicato le tre ragioni per le quali mi lasciava: ha detto che con me non riusciva a parlare e ad avere un rapporto come con i suoi amici uomini; pen-
sava che dopo l'infarto non avrei più potuto avere figli; si era innamorato di un'altra. Sono corsa fuori dalla cucina e sono uscita di casa. Il dolore che ho provato quella mattina è stato peggiore di quello dell'infarto. Non c'era niente che andava per il verso giusto nella mia vita; avevo sbagliato tutto fino a quel momento. Tutto!!! Amavo la mia professione, ma lavorare in un grande e per certi versi troppo burocratico ospedale metropolitano non era la cosa più adatta a me. Lavoravo moltissimo perché non avevo altro nella vita. Guadagnavo 120.000 dollari all'anno ma spendevo gran parte di quel denaro per cenare fuori casa, scappare dalla città nei fine settimana, comprare abiti di cui non avevo bisogno e che non mi piacevano neanche così tanto. Avevo sempre desiderato avere dei bambini, e invece mi ritrovavo senza un compagno, senza figli, senza un progetto per il futuro e senza la possibilità di cambiare le cose. Ecco allora cosa ho fatto, piccolo mio. Ho iniziato a mettere in pratica la lezione delle cinque palle. Ho rassegnato le dimissioni dal Massachusetts General Hospital e me ne sono andata da Boston. Mi sono lasciata alle spalle gli orari disumani e tutti gli impegni per trasferirmi in un luogo dove ero sempre stata felice. A dire il vero, sono andata là per curare il mio cuore ferito. Stavo correndo all'impazzata e senza meta, come un criceto sulla ruota di una gabbia minuscola. Avevo tirato troppo la corda ed era naturale che una parte di me dovesse cedere prima o poi. Sfortunatamente, era toccato al mio cuore. Non si è trattato di un piccolo cambiamento, Nicky: avevo deciso di rivoluzionare tutta la mia vita. *** Caro Nicky, sono sbarcata sull'isola di Martha's Vineyard come una turista impacciata, portandomi come bagaglio il mio passato, senza sapere ancora cosa farne. Avrei trascorso i primi mesi riempiendo gli armadietti con cibi naturali freschi e sani, gettando via le vecchie riviste che mi avevano seguito nella nuova casa e impegnandomi per avviare una nuova attività. Avevo trascorso l'estate a Martha's Vineyard con i miei nonni dai cinque ai diciassette anni. Mio nonno era architetto, come lo era stato anche mio
padre, e poteva lavorare a casa. Mia nonna Isabelle era la regina della casa e aveva il grande dono di saper rendere l'ambiente in cui vivevamo il più confortevole e accogliente possibile. Ero felice di essere di nuovo sull'isola, di cui amavo ogni dettaglio. Gus e io andavamo spesso sulla spiaggia al calar della sera e rimanevamo seduti là finché la luce del giorno non scompariva. Giocavamo a palla, talvolta a frisbee, per un'oretta circa, poi ci raggomitolavamo su una coperta fino al tramonto. Avevo rilevato lo studio di un medico generico che stava per trasferirsi nell'Illinois. In qualche modo ci stavamo scambiando stile di vita: lui andava a Chicago mentre io avevo abbandonato la città. Il mio studio era uno dei cinque che occupavano una casa rivestita di legno bianco a Vineyard Haven. L'edificio aveva più di cent'anni e sul portico c'erano quattro bellissime sedie a dondolo antiche. Persino il tavolo dove lavoravo aveva una sedia a dondolo. L'espressione 'medico di campagna', che per me aveva un suono bellissimo, come le campanelle che annunciano l'intervallo in una vecchia scuola di paese, mi ha dato l'idea di appendere una targa con scritto soltanto: SUZANNE BEDFORD - MEDICO DI CAMPAGNA - AVANTI. Ho iniziato ad avere dei pazienti già nel secondo mese di permanenza a Martha's Vineyard. Emily Howe, settant'anni, bibliotecaria part-time, membro onorato delle Figlie della Rivoluzione americana, dura, risoluta, contraria a tutto ciò che era accaduto & partire dal millenovecento circa. Diagnosi: bronchite. Prognosi: buona. Dorris Lathem, novantatré anni, già sopravvissuta a tre mariti, undici cani, e un incendio. Sana come un pesce. Diagnosi: vecchiaia. Prognosi: vivrà in eterno. Earl Chapman, ministro presbiteriano. Visione generale: sempre la sua. Diagnosi: diarrea acuta. Prognosi: possibile ricomparsa di ciò che il Signore chiamerebbe compensazione. La mia prima lista di pazienti sembrava l'identikit dei personaggi di una poesia di William Carlos Williams. Immaginavo il dottor Williams percorrere le strade di Martha's Vineyard per il suo giro di visite, con un vento gelido che soffiava dalle colline lontane, il latte gelato sui pianerottoli, la famosa carriola sprofondata nel fango d'inverno. Eccolo là, nel tardo pomeriggio, a fare visita al ragazzo caduto dalla slitta con il braccio, e l'orgoglio, ferito.
Tutto questo faceva proprio per me. Stavo realizzando un sogno che sembrava lontano anni luce da quando vivevo a Boston. E invece bastava percorrere la Route 3 e attraversare un breve tratto di mare. Sentivo di essere arrivata a casa. *** Caro Nicholas, non avevo idea che l'amore della mia vita fosse qui ad aspettarmi. Se l'avessi saputo, sarei corsa dritta tra le braccia di papà. In un battito d'ali. Appena arrivata a Martha's Vineyard, non ero sicura di nulla e, soprattutto, non sapevo dove andare ad abitare. Ho girato in macchina alla ricerca di un luogo che mi trasmettesse l'idea di 'casa', che mi dicesse 'qui starai bene', 'hai trovato quello che cercavi'. L'isola è piena di angoli suggestivi e, anche se in qualche modo la conoscevo già, questa volta mi parlava in modo diverso. Era tutto cambiato perché io mi sentivo cambiata. La parte sud-occidentale era sempre stato un luogo speciale per me, perché era lì che avevo trascorso tante splendide estati. Si estendeva come un libro illustrato per bambini raffigurante fattorie e steccati, stradine sterrate e scogliere. La parte nord-orientale era un crogiolo di balconi sulla sommità del tetto delle case, gazebo, fari e porticcioli. Alla fine sono stata letteralmente rapita da una rimessa per barche che risaliva al periodo a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Ne sono ancora affascinata. Aveva l'aria di una vera casa. Pur avendo bisogno di qualche ritocco, era dotata di riscaldamento. Me ne sono innamorata a prima vista, e con tutti gli altri sensi. Il soffitto era attraversato da vecchie travi, che una volta servivano a sostenere le barche. In seguito ho fatto mettere al piano di sopra degli oblò per far entrare il sole sotto forma di cerchi di luce. Le pareti dovevano essere dipinte di turchese perché il piano terra della casa dava interamente sul mare. Le grandi porte della rimessa scorrevano a destra e a sinistra per consentire di portare tutto quello che una volta era fuori, dentro. Ci pensi, Nicky, vivere praticamente sulla spiaggia? Sapevo con tutta me stessa, anima e corpo, di aver fatto la scelta giusta. Anche la mia parte razionale mi dava ragione. Così sono andata ad abitare tra Vineyard Haven e Oak Bluffs. Qualche volta lavoravo fuori casa, o facevo visite a domicilio, ma il resto del tempo lo trascorrevo al Martha's Vineyard Hospital o al Vi-
neyard Walk-In Medical Center a Vineyard Haven. Stavo anche seguendo un programma di riabilitazione cardiaca al Medical Center. Ero sola, a parte Gus, e conducevo una vita solitaria, ma in generale ero contenta. Forse perché non avevo idea di cosa mi stessi perdendo: tu e il tuo papà. *** Caro Nicholas, un giorno, mentre tornavo a casa dall'ospedale in macchina, ho sentito uno strano rumore. Cos'era? Shhhhh... bump shhhhh... bump shhhh... bump. Ho accostato la jeep al ciglio della strada e sono scesa per dare un'occhiata. Per tutti i diavoli! La ruota destra era completamente a terra. Avrei potuto cambiarla da sola, e l'avrei fatto, se non avessi tolto quella di scorta dal bagagliaio per fare posto a tutta la mia roba durante il trasloco. Ho chiamato la stazione di servizio con il cellulare, in collera con me stessa per essere costretta a ricorrere all'aiuto di un'autorimessa. Il tizio che ha risposto al telefono si è rivolto a me con tono di superiorità: qualcuno sarebbe venuto a riparare il danno. Mi ha fatto sentire una ragazzina sciocca, e la cosa mi ha dato molto fastidio. Ero perfettamente in grado di cambiare una ruota. Vado molto orgogliosa della mia autosufficienza e indipendenza. E anche della mia testardaggine vecchio stampo. Ero appoggiata alla portiera dalla parte del passeggero, facendo finta di ammirare lo splendido panorama in modo che chi passava di lì pensasse che mi ero accostata per quella ragione, quando un'auto si è fermata proprio dietro la mia. Di sicuro non era il ragazzo dell'autorimessa. A meno che non l'avessero mandato su una decappottabile verde scura. «Ha bisogno d'aiuto?» ha chiesto un uomo, scendendo dall'auto e dirigendosi lentamente verso di me. Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. «No, grazie... Ho chiamato la stazione di servizio Shell giù in paese. Arriveranno tra poco. Grazie lo stesso.» L'uomo aveva qualcosa di familiare. Mi sono domandata se non l'avessi già incontrato in qualche negozio dell'isola, o forse all'ospedale. Ma poiché era alto e attraente, ho concluso che se così fosse stato mi sarei certamente
ricordata di lui. Aveva un bel sorriso disinvolto e un'aria rilassata. «Posso cambiarla io la gomma», si è offerto, attento a non assumere un tono condiscendente. «Ho una macchina elegante ma in fondo sono un ragazzo semplice.» «Grazie, ma ho tolto la ruota di scorta per fare posto a cose più importanti come lo stereo e una collezione di candelabri antichi.» Si è messo a ridere... aveva un aspetto così familiare. Chi era? Dove lo avevo conosciuto? «Sono lusingata, comunque», ho aggiunto. «Un uomo su una decappottabile fiammante disposto a cambiare una gomma.» Ha riso di nuovo. Aveva una bella risata, così familiare. «Ehi, sono vasto... contengo moltitudini.» «Walt Whitman!» ho esclamato, e all'improvviso mi sono ricordata di lui. «Ripetevi quella frase in continuazione. Citavi Walt Whitman. Matt?» «Suzanne Bedford!» ha detto lui. «Ero quasi certo che fossi tu.» Era molto sorpreso di avermi incontrata dopo tanto tempo in quelle circostanze. Dovevano essere passati quasi vent'anni. Matt Wolfe era ancora più affascinante di quanto ricordassi. Era diventato un bell'uomo di trentasette anni: snello, con i capelli castani tagliati cortissimi e un sorriso irresistibile. Era davvero in forma smagliante. Siamo rimasti a chiacchierare sul bordo della strada. Matt faceva l'avvocato per l'Agenzia di difesa ambientale, e il mercante d'arte. Non ho potuto fare a meno di ridere quando me l'ha detto. Matt diceva sempre che non sarebbe mai diventato un improfittatore, come allora chiamava scherzosamente gli uomini d'affari. Non sembrava stupito quando gli ho detto che ero diventata medico. Lo ha sorpreso di più il fatto che non fossi fidanzata e che fossi venuta a Martha's Vineyard da sola. Abbiamo continuato a raccontarci la nostra vita. Matt era divertente ed era piacevole parlare con lui. All'epoca della nostra storia, lui aveva diciotto anni e io sedici. Quello era stato l'ultimo anno in cui i miei nonni avevano affittato la casa estiva, ma evidentemente non avevo mai dimenticato l'isola e i suoi numerosi tesori. Per quanto riuscissi a ricordare, avevo continuato a sognare l'oceano e le spiagge di Martha's Vineyard per tutti quegli anni. Siamo rimasti entrambi piuttosto delusi nel vedere la camionetta gialla della Shell fermarsi dietro di noi. Io perlomeno lo ero. Prima di andarsene, Matt ha mormorato qualcosa sulla mia ruota a terra. Poi mi ha chiesto cosa
avrei fatto quel sabato sera. Penso di essere arrossita, anzi so di essere arrossita. «Hai in mente un appuntamento?» «Sì, Suzanne, un appuntamento. Adesso che ti ho rivista, vorrei rivederti di nuovo.» Ho risposto che mi avrebbe fatto molto piacere uscire con lui quel sabato. Il cuore mi batteva più forte del solito e l'ho considerato un ottimo segno. *** Caro Nick, chi era quel tizio seduto sul portico? Non sono riuscita a riconoscerlo quando, nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, ho imboccato il vialetto di casa. Non poteva essere l'elettricista, né il tecnico della compagnia telefonica o quello della televisione via cavo: erano venuti tutti e tre il giorno prima. No, era l'uomo che avrebbe ridipinto la casa e si sarebbe occupato di qualsiasi altra cosa richiedesse una scala, un attacco o una rifinitura. Abbiamo fatto il giro della casa mentre io gli spiegavo molti dei problemi che avevo ereditato: finestre che non si chiudevano, pavimenti che si sollevavano proprio dove c'era una porta, una perdita nel bagno, una pompa dell'acqua rotta, una fenditura nella grondaia, e un intero cottage da scrostare e ridipingere. Se la casa aveva tanti aspetti graziosi, infatti, mancava di praticità. Ma quell'uomo era fantastico, prendeva appunti, faceva domande intelligenti, e alla fine mi ha detto che sarebbe riuscito a fare tutto entro l'anno. L'anno successivo! Abbiamo raggiunto subito un accordo (che mi ha dato la netta impressione di essermela cavata piuttosto bene). Tutt'a un tratto la vita mi appariva più rosea. Avevo un nuovo lavoro che amavo, un imbianchino con un'ottima reputazione e un appuntamento romantico con Matt. Quando finalmente mi sono ritrovata sola nella mia casetta di fronte al mare, ho alzato le braccia in aria e ho gridato di gioia. Poi mi sono detta: «Matt Wolfe. Uhmmm. Te lo immagini? Meraviglioso. Davvero fantastico». ***
Caro Nick, a quasi tutti capita di sognare di rincontrare qualche vecchia fiamma del liceo, o a volte persino delle scuole medie. Per me quella persona era Matt. Chissà, forse Matt era uno dei motivi che mi aveva spinto a tornare a Martha's Vineyard. Probabilmente no, ma non si può mai sapere come vanno certe cose. In ogni caso, quel sabato sera sono arrivata all'appuntamento con quasi un'ora di ritardo. Prima di raggiungere Matt al ristorante, avevo dovuto occuparmi del ricovero di un paziente, correre a casa e dar da mangiare a Gustavus, farmi bella e cercare il mio cicalino. In più, devo proprio ammetterlo, a volte sono un po' disorganizzata. Mio nonno mi diceva sempre: «Suzie, hai troppe cose per la testa». Quando sono entrata da Lola's, un locale sulla spiaggia molto carino tra Vineyard Haven e Oak Bluffs, Matt mi stava aspettando con una bottiglia di pinot nero sul tavolo. Mi ha fatto piacere vederlo tranquillo. Inoltre, era molto affascinante e anche quello mi ha fatto molto piacere. «Matt, mi dispiace moltissimo», mi sono scusata. «Ecco uno degli inconvenienti del mio lavoro.» Lui si è messo a ridere. «Dopo vent'anni... cosa vuoi che siano venti minuti? O cinquanta? Oltretutto sei bellissima, Suzanne. Valeva la pena aspettare.» Mi sentivo lusingata e anche un po' in imbarazzo. Era passato del tempo dall'ultima volta che avevo ricevuto un complimento, anche solo per scherzo. Mi ha fatto piacere, e da quel momento sono scivolata nella serata come in un vestito di seta. «Dimmi, sei tornata a Martha's Vineyard per restare?» mi ha chiesto Matt, dopo che gli avevo raccontato alcuni dei motivi che mi avevano spinto a prendere quella decisione. Non gli avevo detto dell'infarto. Avevo intenzione di farlo, ma non quella sera. «Amo questo posto. Da sempre. È come se fossi tornata a casa», gli ho spiegato. «Sì, sono qui per restare.» «Come stanno i tuoi nonni?» si è informato poi. «Mi ricordo di loro.» «Mio nonno è ancora vivo e sta benissimo. La nonna è morta sei anni fa. Il cuore...» Abbiamo parlato a lungo, di lavoro, delle estati trascorse sull'isola, del college, dei nostri vent'anni e dei nostri trent'anni, dei successi e delle delusioni. Lui aveva trascorso gli anni dai venti ai trenta viaggiando in tutto
il mondo: aveva vissuto a Positano, Madrid, Londra, New York. Era entrato alla Scuola di legge della New York University a ventotto anni ed era tornato a Martha's Vineyard, che adorava, due anni prima. Era molto piacevole parlare di nuovo con lui. Era come un bellissimo viaggio nel passato. Dopo cena Matt mi ha seguita a casa sulla sua Jaguar. Lo ha fatto per puro riguardo. Una volta giunti sul vialetto, siamo scesi dalle rispettive auto e siamo rimasti a parlare alla luce di una bellissima luna piena. Mi stavo davvero divertendo. All'improvviso Matt si è messo a ridere. «Ricordi il nostro primo appuntamento?» In effetti me lo ricordavo. Era scoppiato un brutto temporale, che aveva fatto saltare l'elettricità in casa. Ero stata costretta a vestirmi al buio e, per sbaglio, avevo preso il flacone di Lysol anziché quello della lacca: la puzza di disinfettante mi aveva accompagnata per tutta la sera. Matt ha fatto una smorfia e mi ha chiesto: «Ricordi la prima volta che ho trovato il coraggio di baciarti? Probabilmente no. Ero terrorizzato». Ero sorpresa. «Non me n'ero accorta. Ricordo che eri sempre piuttosto sicuro di te stesso.» «Mi tremavano le labbra, mi battevano i denti. Avevo una tale cotta per te. E non ero l'unico.» Ho riso. Era tutto un po' sciocco, ma divertente. Rivedere Matt rappresentava in qualche modo la realizzazione di un sogno. «Non credo a una sola parola, ma è bello sentirselo dire.» «Suzanne, posso baciarti?» ha chiesto con voce tenera. Adesso ero io quella che tremava un po'. Ero fuori allenamento per certe cose. «Non ho niente in contrario. Anzi, mi farebbe piacere.» Matt si è chinato su di me e mi ha baciata in un modo dolcissimo. Un bacio, uno solo, ma è stato davvero emozionante dopo tutti quegli anni. *** Caro Nicky, l'unica parola che si può usare per descrivere com'è a volte la vita è... strana! Proprio così, maledettamente strana! Ricordi l'imbianchino di cui ti ho parlato? Ebbene, il mattino dopo il mio appuntamento con Matt era qui che rimetteva in sesto la casa. Lo so perché mi ha lasciato un mazzo di bellissimi fiori di campo. Splendidi fiori rosa,
rossi, gialli, blu e viola, ben sistemati in un barattolo di vetro vicino alla porta d'ingresso. Un gesto tenero e carino, inaspettatamente emozionante. Subito ho pensato che me li avesse mandati Matt, ma purtroppo non era così. C'era anche un biglietto. Cara Suzanne, in cucina manca ancora la luce, ma spero che questi fiori illumineranno un po' la tua giornata. Magari possiamo vederci qualche volta e fare quello che vuoi, quando e dove vuoi. Si era firmato Picasso, meglio conosciuto come il tuo imbianchino. Sono rimasta di stucco. Fino alla sera prima, non ero più uscita con un uomo da quando me ne ero andata da Boston; dopo che Michael Bernstein mi aveva lasciata, non avevo più voluto vedere nessuno. Quando ho sentito il mio uomo tuttofare picchiare con il martello da qualche parte, sono uscita di casa. L'ho visto appollaiato come un gabbiano sul tetto inclinato. «Picasso», ho gridato, «grazie mille per i bellissimi fiori. Mi hai fatto proprio un bel regalo ed è un pensiero davvero gentile.» «Non c'è di che. Mi hanno fatto pensare a te e non ho saputo resistere.» «Be', hai proprio indovinato i miei gusti: sono i miei preferiti.» «Cosa ne dici, Suzanne? Magari possiamo mangiare un boccone insieme qualche volta, o andare a fare un giro in macchina, vedere un film, giocare a Scrabble. Ho tralasciato qualcosa?» Non ho potuto fare a meno di sorridere. «Questo è un periodo un po' frenetico per me, con i nuovi pazienti e tutto il resto. Per il momento devo metterli in cima alla lista delle mie priorità. Ma sei stato molto gentile a chiedermelo.» Non ha battuto ciglio di fronte al mio rifiuto. Mi ha sorriso dall'alto, poi si è passato una mano fra i capelli e ha detto: «Capisco. Naturalmente ti renderai conto che se non uscirai con me almeno una volta, sarò costretto ad alzare la tua parcella». «No, non immaginavo», ho ribattuto. «Già. È una cosa spregevole, una pratica scorretta, ma cosa vuoi farci? È così che va il mondo.» Sono scoppiata a ridere e gli ho detto che ci avrei seriamente pensato. «A proposito», gli ho chiesto poi, «quanto ti devo per il lavoro extra che hai già fatto nel garage?» «Quello? Non è niente... davvero. È gratis.» Ho alzato le spalle, sorriso e l'ho salutato con un gesto della mano. Era bello sentirsi dire quelle cose, forse perché non è così che va il mondo.
«Ehi, grazie, Picasso», gli ho urlato. «Di niente, Suzanne», ha risposto. Poi ha ripreso l'arduo compito di mettermi un tetto sulla testa. *** Caro Nicholas, sto vegliando su di te mentre scrivo il diario e voglio dirti che sei assolutamente meraviglioso. A volte mi capita di guardarti e stento ancora a credere che sei mio. Hai il mento di tuo padre, ma il sorriso l'hai preso proprio da me. Sulla tua culla abbiamo appeso un giocattolo carillon che, quando tiri la cordicella, suona Whistle a Happty Tune. Quella canzoncina ti fa ridere a crepapelle, e a me e al tuo papà piace almeno quanto a te. Qualche volta, di sera, quando sto tornando a casa dal lavoro o sono fuori a fare una passeggiata, mi torna in mente quella melodia e subito sento la tua mancanza. In questo momento vorrei soltanto strapparti al sonno, prenderti in braccio e tenerti stretto a me il più forte possibile. Un'altra cosa che ti fa ridere è la filastrocca Una patata, due patate. Non so perché, forse è il suono, il rincorrersi cantilenante delle parole, o forse la parte di sangue irlandese che c'è in te. So solo che quando senti la parola 'patata' cominci a ridere e a dimenarti felice. Certe volte faccio fatica a immaginarti a un'età diversa da quella di adesso, ma credo che tutte le madri tendano a fissare l'immagine dei loro bambini nel tempo, come fiori in una pressa, per sempre perfetti ed eterni. A volte, quando ti cullo, mi sembra di tenere tra le braccia un pezzettino di paradiso. Ho l'impressione che ci siano angeli custodi tutto intorno a te, intorno a noi. Adesso credo agli angeli. Il semplice fatto di guardarti, dolce bambino mio, mi porta a crederci. Sto pensando a quanto ti volevo già bene quando eri nella pancia. E poi a quanto ti ho voluto bene nel momento in cui ci siamo incontrati. La prima volta che ti ho visto, tu hai guardato subito me e papà, e il tuo sguardo diceva: 'Ehi, eccomi qui, ciao!' Eri già incredibilmente attento, guardavi dappertutto. Finalmente io e papà abbiamo potuto vederti dopo averti immaginato per nove mesi. Ho preso la tua testolina e me la sono avvicinata dolcemente al petto. Eri due chili e ottocento grammi di pura felicità. Papà ti ha tenuto subito dopo di me. Non riusciva a credere che un bam-
bino che aveva appena qualche minuto di vita potesse ricambiare il suo sguardo. Il bimbo di Matt. Il nostro bellissimo piccolo Nicholas. KATIE
Il bimbo di Matt. Il nostro bellissimo piccolo Nicholas. Katie posò il diario, sospirò e fece un respiro profondo. Le faceva male la gola. Passò le dita sul morbido pelo grigio di Guinevere e il gatto iniziò a farle le fusa dolcemente. Si soffiò il naso con un fazzoletto di carta. Non era pronta per una cosa del genere. Di sicuro non era pronta per Suzanne. O Nicholas. E, soprattutto, non era pronta per Nicholas, Suzanne e Matt. «È tutto talmente assurdo e sbagliato, Guinny», disse al gatto. «Mi sono messa in un bel pasticcio. Dio, che disastro.» Si alzò e prese a camminare su e giù per l'appartamento. Era così orgogliosa di quel posto, lo era sempre stata. Aveva fatto gran parte del lavoro da sola: non c'era niente che le piaceva di più di infilarsi una maglietta, dei jeans tagliati sopra il ginocchio e un paio di scarponcini per costruire e montare da sé armadietti e scaffali. L'appartamento era decorato con vero legno di pino antico, vecchi tappeti tessuti a mano e piccoli acquerelli come quello raffigurante il ponte di Pisgah, a sud di Asheboro. La dispensa che le aveva dato sua nonna era nello studio e i ripiani conservavano ancora l'aroma della melassa e delle marmellate fatte in casa. All'interno facevano bella mostra di sé diversi libri in cartoncino rilegati a mano con le pagine di pergamena. Erano opera sua: aveva imparato l'arte della rilegatura alla Penland School of Crafts, nel North Carolina. C'era una frase che amava e che applicava alla sua vita quotidiana: 'mani al lavoro, cuori a Dio'. In quel momento sentiva di avere un'infinità di domande, ma nessuno che potesse risponderle. Be', non era del tutto vero: aveva il diario. Suzanne. Le piaceva. Accidenti, le piaceva proprio quella donna. Non avrebbe voluto, ma era più forte di lei. In circostanze diverse avrebbero potuto essere amiche. Katie aveva amiche che assomigliavano a Suzanne, sia a New York sia in North Carolina. Laurie, Robin, Susan, Gilda, Lynn, tante buo-
ne amiche. Suzanne aveva avuto abbastanza fegato da lasciare Boston e trasferirsi a Martha's Vineyard. Aveva realizzato il sogno di diventare il tipo di medico, e di donna, che voleva essere. L'arresto cardiaco che l'aveva quasi uccisa le aveva insegnato ad accogliere ogni momento della vita come un dono. E che dire di Matt? Che cosa aveva significato Katie per lui? Era soltanto un'altra donna in una relazione destinata a finire? Si sentiva come la protagonista della Lettera scarlatta. A un tratto si vergognò di se stessa. Quando era ancora una ragazzina, suo padre le faceva sempre una domanda: «Hai la coscienza a posto con il Signore, Katie?» Adesso non ne era del tutto certa. Temeva di non avere la coscienza a posto con nessuno. Non si era mai sentita così, e non le piaceva quella sensazione. «Idiota», mormorò. «Maledetto vigliacco. Non tu, Guinevere. Mi riferisco a Matt! Accidenti a lui!» Perché non le aveva detto la verità? Aveva tradito una moglie perfetta per tutti quei mesi? Perché non aveva voluto parlare di Suzanne? E di Nicholas? E lei come aveva potuto permettere che Matt le nascondesse il suo passato? Non aveva insistito abbastanza per saperne di più. Perché? Perché non era da lei essere insistente. Non le piacevano le persone insistenti, e sicuramente non amava i conflitti. Ma la ragione principale era lo sguardo negli occhi di Matt ogni volta che iniziavano a parlare del suo passato. Lasciava trapelare un'immensa tristezza, ma anche un fondo di rabbia. E in ogni caso Matt le aveva giurato di non essere più sposato. Katie non riusciva a dimenticare la terribile sera«in cui lui l'aveva lasciata. Stava ancora cercando di capire cos'era successo. Era stata una sciocca a fidarsi di qualcuno che pensava di amare? La sera del 18 luglio aveva preparato una cena speciale. Era una brava cuoca, anche se raramente aveva il tempo di dedicarsi ad attività così laboriose. Aveva spostato il tavolo di ferro battuto sul piccolo terrazzo e l'aveva apparecchiato con il bel servizio di porcellana Royal Crown Derby e con l'argenteria di sua nonna. Aveva comperato una dozzina di rose, rosse e bianche. Aveva messo nello stereo Toni Braxton, Anita Baker, Whitney ed Eric Clapton. Quando Matt arrivò, aveva in serbo per lui una sorpresa meravigliosa: la prima copia della sua raccolta di poesie, che lei aveva curato con grande
amore per la casa editrice dove lavorava. Gli diede anche la bella notizia che ne sarebbero state stampate 11.500 copie, una tiratura molto alta per un libro di poesie. «Sei sulla buona strada. Non dimenticarti dei tuoi amici quando arrivi in cima», gli aveva detto. Neppure un'ora dopo era in lacrime, tutta tremante, con l'orribile sensazione di essere piombata in un incubo che non poteva assolutamente essere reale. Non appena Matt aveva varcato la soglia, si era accorta che qualcosa non andava. Glielo aveva letto negli occhi, lo aveva capito dal tono della sua voce. Alla fine lui le aveva detto: «Katie, devo mettere fine a tutto questo. Non posso più vederti. Non verrò più a New York. Mi rendo conto di quanto sembri orribile e inaspettato. Mi dispiace. Dovevo dirtelo di persona. Sono venuto per questo, stasera.» No, non aveva idea di quanto sembrasse, o fosse, orribile. Le aveva spezzato il cuore. E il suo cuore era ancora a pezzi. Si era fidata di lui, aveva abbassato tutte le sue difese, cosa che non aveva mai fatto prima. Quella sera avrebbe voluto parlargli: aveva una cosa molto importante da dirgli, ma non ne aveva avuto il tempo. Quando Matt se ne andò, aprì un cassetto del vecchio comò accanto alla porta che dava sul terrazzo. Dentro c'era un altro regalo per Matt. Un dono speciale. Tenendolo in mano, Katie ricominciò a tremare. Le tremavano le labbra e iniziarono anche a batterle i denti. Era più forte di lei, non riusciva a smettere. Dopo aver slegato il nastro e strappato la carta, aprì la scatoletta rettangolare. Oh, Signore! Alla vista di quello che conteneva scoppiò a piangere. Le lacrime presero a scenderle copiose sul volto. Il dolore che provava era quasi insopportabile. Aveva qualcosa di importante e meraviglioso da condividere con Matt quella sera. Dentro la scatola c'era un bellissimo sonaglio d'argento. Aspettava un bambino. DIARIO Caro Nicholas, questo è il ritmo della mia vita, regolare e confortante come le onde dell'Atlantico che si vedono da casa. È così naturale, buono e giusto. Nel profondo del mio cuore so che sono dove devo essere.
Ogni giorno mi sveglio alle sei e porto Gus a fare una lunga passeggiata fino al recinto dei pony oltre la fattoria dei Rowe. Gus guarda i cavallini con indifferenza, forse pensa che siano golden retriever giganti. Alla fine arriviamo su una striscia di spiaggia delimitata da dune alte fino a tre metri e piante acquatiche ondeggianti. Sembra che facciano dei cenni di saluto, a cui a volte rispondo: è imbarazzante quanto posso essere stravagante. Ci sono diversi percorsi possibili, ma finiamo sempre col tagliare attraverso la proprietà di Mike Straw, che ha una fila di querce maestose. Se fa caldo o piove, i vecchi alberi ci fanno da tettoia. Sembra che Gus apprezzi quest'ora del giorno almeno quanto me. Quello che più mi piace di queste passeggiate è il senso di pace e tranquillità che provo. Penso che dipenda soprattutto dal fatto che ho ripreso il controllo della mia vita e mi sono riappropriata di me stessa. Ricorda la lezione delle cinque palle, Nicky, non dimenticarla mai. Sto proprio pensando a questo quando imbocco la lunga strada che porta a casa. Prima di girare nel vialetto, passo davanti alla casa dei Bone, i miei vicini di casa. Melanie Bone è stata incredibilmente gentile quando mi sono trasferita qui, dandomi tutto ciò di cui avevo bisogno, dai numeri di telefono utili a martello, chiodi e vernice, facendomi usare il telefono e offrendomi un'ottima limonata fredda. È da lei che ho avuto il numero di Picasso, me l'ha raccomandato proprio Melanie. Alla mia età ha già quattro bambini, che Dio l'abbia in gloria. Rimango sempre sconcertata di fronte a persone come lei. Tutte le madri sono incredibili: riuscire a conciliare e a far funzionare tutto quanto è come provare a gestire un campo estivo per ragazzi. Melanie è una donna minuta, alta poco più di un metro e cinquanta, con i capelli neri corvino e un bel sorriso amichevole. Ti ho detto che ha quattro femmine? Di età compresa tra gli uno e i quattro anni. Sono sempre stata un disastro con i nomi, perciò mi ricordo di loro e le chiamo col numero corrispondente ai loro anni: 'La Due sta dormendo?', 'La Quattro è fuori sull'altalena?' 'Credo che questo andrebbe bene per la Tre'. I Bone ridono quando lo faccio, la trovano una cosa talmente ridicola che hanno nominato Gus membro onorario numero cinque. Se i miei pazienti scoprissero questo sistema, non verrebbero mai a farsi visitare dal dottor Bedford! Invece vengono, Nicky, e io li curo, e curo anche me stessa.
Adesso senti cosa è accaduto nei giorni seguenti. Un altro appuntamento con Matt: ero invitata a una festa a casa sua. *** Ometto mio, la casa appena fuori Vineyard Haven era bella, raffinata, impressionante e molto costosa. Non ho potuto fare a meno di rimanerne colpita. Guardandomi intorno ho notato che i presenti, donne, uomini, e persino i bambini, appartenevano a un solo gruppo demografico, quello delle persone di successo. Era il mondo di Matt. Era come se l'Upper East Side e l'Upper West Side di Manhattan, una piccola parte di TriBeCa e tutta SoHo si fossero trasferiti a Martha's Vineyard. Gli invitati erano distribuiti tra le passerelle esterne alla casa, i vialetti di pietra e le varie stanze stupendamente arredate con vista mare. La casa non rispecchiava certo la mia personalità, ma potevo apprezzarne la bellezza, persino l'amore con cui era stata costruita e arredata. Matt mi ha preso il braccio e mi ha presentata ai suoi amici, ma mi sentivo fuori posto, non so esattamente perché. Avevo partecipato a moltissime feste del genere a Boston: inaugurazioni di nuove ali d'ospedale, ricevimenti più o meno importanti, per non parlare dei continui inviti a qualsiasi evento degno di nota della città. Eppure non mi sentivo a mio agio, ma non volevo dirlo a Matt per non rovinargli la serata. Da quando mi ero trasferita a Martha's Vineyard, i miei impegni erano stati più casalinghi: curare l'orto, appendere le tendine, impermeabilizzare il pavimento del portico. Sono arrivata persino al punto di guardarmi le mani per vedere se mi ero tolta tutta la vernice bianca prima di uscire. Sai come mi sentivo, Nick? Qualche volta, quando siamo soli, uso un linguaggio particolare con te, che chiamo la lingua di Nicky, fatta di parole inventate, versetti strani e divertenti, e altri codici e segnali indecifrabili che solo noi due capiamo. Poi succede che un adulto varca la soglia della camera, oppure dobbiamo uscire per andare al mercato a comprare qualcosa, e ti assicuro che a volte mi capita di dimenticare come si fa a parlare normalmente. Era così che mi sentivo a quella festa: avevo passato troppo tempo con indosso scarponi da lavoro e una salopette macchiata di vernice. Non ero in sintonia con quello che mi circondava, mentre amavo il nuovo ritmo che
stava prendendo la mia vita, un ritmo rilassato, semplice, senza complicazioni. Mentre mi muovevo in una foschia sufficientemente piacevole, fatta di conversazioni brillanti e bicchieri di cristallo tintinnanti, mi è giunta una vocina, la voce di un bimbo. E infatti è arrivato correndo un bambino, in lacrime. Avrà avuto tre o quattro anni. Non ho visto né un genitore né una tata vicino a lui. «Cosa succede?» gli ho chiesto, chinandomi su di lui. «Va tutto bene, ometto?» «Sono caduto. Guarda!» ha risposto, singhiozzando. Ho constatato che il ginocchio aveva un brutto graffio e sanguinava anche un po'. «Come faceva a sapere che sei un medico, Suzanne?» ha domandato Matt. «I bambini capiscono certe cose», ho risposto. «E poi questo vestito bianco dovrebbe essere chic, ma forse gli ha ricordato il camice di un dottore. Lo porto dentro e gli disinfetto il ginocchio.» Ho allungato la mano verso il bambino e lui si è avvicinato per prenderla. Mi ha detto che si chiamava Jack Brandon. Era il figlio di Gorge e Lilian Brandon, entrambi presenti alla festa. Mi ha spiegato, con un modo di fare da adulto, che la sua tata era ammalata e i suoi genitori avevano dovuto portarlo con loro. Non appena abbiamo attraversato la porta schermata sul retro, una donna preoccupata si è diretta verso di me. «Cos'è successo a mio figlio?» ha domandato con aria piuttosto contrariata. «Jack è caduto. Stavamo giusto andando a cercare un cerotto», ha risposto Matt. «Niente di grave», sono intervenuta io, «è solo un graffio. A proposito, sono Suzanne, Suzanne Bedford.» La madre di Jack ha preso atto della mia presenza con un brusco cenno del capo. Quando ha cercato di prendere Jack per mano, il bambino si è voltato inaspettatamente e si è stretto alle mie gambe. Ho capito che la madre era infastidita. Poi l'ho sentita dire, rivolta a un'amica: «Cosa ne sa lei? Non è mica un dottore». *** Caro Nick, ascolta, fai bene attenzione adesso, la prossima parte è magica. Esiste
davvero una cosa del genere, credimi. Una sera, dopo una lunga giornata di lavoro, l'intrepido medico di campagna ha deciso di fermarsi a mangiare un boccone lungo la strada. Ero troppo stanca per prepararmi qualcosa, e persino per decidere cosa cucinaf e. Così ho pensato che Harry's Hamburger sarebbe andato benissimo. Un hamburger con patatine fritte era quello che mi ci voleva per concludere la giornata: avevo bisogno di un piccolo peccato di gola! Credo che fossero da poco passate le otto quando sono entrata nel locale. Non l'ho notato subito. Era seduto accanto alla finestra, intento a cenare e a leggere un libro. In effetti, ero quasi a metà del mio hamburger quando l'ho visto: era Picasso, l'imbianchino. Non avevo avuto molti contatti con lui da quando mi aveva lasciato quei bellissimi fiori di campo nel barattolo di vetro. Di tanto in tanto lo sentivo aggiustare qualcosa sul tetto mentre uscivo per andare al lavoro, o lo intravedevo mentre dipingeva la casa, ma non ci eravamo scambiati più di qualche parola. Mi sono alzata per pagare il conto. Avrei potuto uscire senza salutarlo dal momento che era di spalle, ma sarebbe stato maleducato, scortese e altezzoso da parte mia. Perciò mi sono fermata al suo tavolo e gli ho chiesto come stava. Era sorpreso di vedermi e mi ha invitata a unirmi a lui per una tazza di caffè, un dolce o qualunque altra cosa avrebbe potuto offrirmi. Gli ho detto che dovevo andare a casa da Gus, una scusa un po' patetica, ma lui mi stava già facendo posto, così ho finito per sedermi al suo tavolo accanto alla finestra. Mi piaceva la sua voce, che non avevo notato prima di allora, e mi piacevano anche i suoi occhi. «Cosa stai leggendo?» gli ho domandato, sentendomi all'improvviso strana, forse anche un po' spaventata, desiderosa di tenere viva la conversazione. «Due cose... Melville», ha risposto, mostrandomi una copia di Moby Dick, «e La pesca delle trote in America. Così, se non dovessi catturare il gigante, saprò su cosa ripiegare.» Mi sono messa a ridere. Picasso era piuttosto intelligente, e anche divertente. «Moby Dick, uhm, è la tua lettura per l'estate o il rimedio al senso di colpa che ti affligge per non averlo mai finito quando andavi a scuola?» «Tutti e due», ha ammesso. «È una di quelle cose che bisogna fare prima o poi nella vita. Il libro rimane là a guardarti e ti dice: 'Non me ne vado finché non mi leggi'. Quest'estate ho deciso di liberarmi di tutti i classici,
così finalmente potrò concentrarmi sui gialli estivi in versione economica.» Abbiamo parlato per oltre un'ora quella sera e il tempo è letteralmente volato. All'improvviso mi sono resa conto che fuori era già molto buio. «Devo andare», ho esclamato, girandomi di nuovo verso di lui. «Mi alzo presto al mattino.» «Anch'io», ha detto lui, sorridendo. «Il mio attuale capo è un vero e proprio schiavista.» Ho riso di nuovo. «L'ho sentito dire.» Sono rimasta in piedi accanto al tavolo e, per qualche assurda ragione, gli ho stretto la mano. «Picasso», ho aggiunto, «non so neppure il tuo vero nome.» «Matthew», ha detto, «Matthew Harrison.» Tuo padre. *** Ho visto di nuovo Matt Harrison mentre si muoveva in alto sul mondo, sopra il tetto di casa. Stava piantando chiodi come un forsennato nelle tavole di copertura: era proprio un gran lavoratore, molto coscienzioso. Erano passati alcuni giorni da quando avevamo parlato nel posto degli hamburger. «Ehi, Picasso!» ho urlato, più rilassata dell'ultima volta, e persino felice di vederlo. «Vuoi qualcosa di fresco da bere?» «Ho quasi finito qui. Scendo tra un attimo. Avevo proprio voglia di qualcosa di fresco.» Cinque minuti dopo è entrato in casa. Aveva preso un bel colore lavorando all'aria aperta. «Come sta andando lassù dove volano i gabbiani?» gli ho chiesto. Ha riso. «Bene, e al caldo! Che tu ci creda o no, il tetto è quasi a posto.» Accidenti. Proprio quando iniziava a piacermi l'idea di averlo intorno. «E quaggiù, come vanno le cose?» ha domandato a sua volta Matt, scivolando nella sedia a dondolo sul portico con indosso un paio di jeans tagliati e una camicia di denim aperta davanti. La sedia ha dondolato all'indietro colpendo il traliccio alle sue spalle. «Abbastanza bene», ho risposto. «Nessuna brutta notizia dal fronte oggi, cosa che fa sempre piacere. A parte gli scherzi, adoro il mio lavoro.» All'improvviso il traliccio si è staccato dai perni di sostegno e ha iniziato
a cadere verso di noi. Siamo balzati in piedi contemporaneamente e siamo riusciti a rimettere a posto il telaio di legno bianco, coprendoci di petali di rosa e clematidi. Ho guardato il mio uomo tuttofare e sono scoppiata a ridere: assomigliava a una damigella d'onore a cui qualcosa è andato storto. Matt ha ribattuto prontamente: «Oh, e tu non sembri forse Carmen Miranda in persona?» Poi è andato a prendere chiodi e martello per sistemare il graticcio. Il mio unico compito era quello di tenerlo fermo. La sua gamba forte e solida ha sfiorato la mia, poi ho sentito il suo petto spingere contro la mia schiena mentre, dietro di me, piantava l'ultimo chiodo. Ho avvertito un brivido di piacere. L'aveva fatto di proposito? Cosa stava succedendo? I nostri occhi si sono incontrati e per un istante si è creato qualcosa di molto vicino a un'intesa fra di noi. Di qualunque cosa si trattasse, mi piaceva. Seguendo l'impulso del momento, o forse l'istinto, gli ho chiesto se voleva rimanere per cena. «Niente di speciale. Metto sulla griglia due bistecche e qualche pannocchia... una cosa semplice.» Ha esitato, facendomi pensare che ci fosse un'altra donna. Di certo era un uomo affascinante. Ma i miei timori sono svaniti quando ha risposto: «Devo darmi una ripulita, Suzanne. Ti dispiace se faccio una doccia? Mi piacerebbe molto fermarmi a cena». «Ci sono degli asciugamani puliti sotto il lavandino», gli ho detto. Così lui è andato a lavarsi e io ho iniziato a preparare la cena. Si era creata una bella atmosfera: spontanea, semplice e affettuosa. Poi però mi sono accorta di non avere né le bistecche né le pannocchie. Per fortuna Matt non è mai venuto a sapere che sono corsa da Melanie per rimediare qualcosa da mangiare... e che lei ha aggiunto vino, candele e persino metà torta di ciliegie per il dolce. Mi ha anche detto che adorava Matt, come tutti del resto, e buon per me. Dopo cena siamo rimasti a lungo a parlare sul portico davanti a casa. Anche quella sera il tempo è volato e, quando ho guardato l'orologio, erano quasi le undici. Non riuscivo a crederci. «Domani sono di turno in ospedale», ho spiegato, «devo fare il primo giro di visite.» «Mi piacerebbe ricambiare», ha detto allora Matt. «Posso invitarti a cena domani sera, Suzanne?» Non riuscivo a smettere di guardarlo. Gli occhi di Matt erano di un bel-
lissimo colore castano chiaro. «Sì, certo che puoi. Non vedo l'ora», ho risposto. Le parole mi sono uscite di bocca quasi senza pensarci. Lui si è messo a ridere. «Non ce n'è bisogno. Sono ancora qui, Suzanne.» «Lo so, e ne sono felice, ma non vedo l'ora lo stesso che venga domani sera. Buonanotte, Matt.» Si è chinato su di me, mi ha sfiorato le labbra con un bacio, poi se n'è andato. *** Come sempre in vita mia, perlomeno finora, è arrivato il tanto atteso giorno dopo. È giunto insieme a Gus. Tutte le mattine Gus va sul portico a prendere il Boston Globe. Un vero cane da riporto, un vero compagno! Quel pomeriggio Picasso mi ha portata sulla sua sgangherata Chevy a fare il giro dell'isola, che ho visto come mai prima di allora. Mi sentivo una turista. Martha's Vineyard era piena di angoli pittoreschi e paesaggi mozzafiato che continuavano a stupirmi e incantarmi. Alla fine ci siamo fermati a Gay Head ad ammirare le belle scogliere colorate. Matt mi ha ricordato che, in Moby Dick, Tashtego è un ramponiere indigeno, un indiano originario di quella parte dell'isola. Me lo ero dimenticato. Un paio di giorni più tardi, dopo che Matt aveva finito qualche lavoretto in casa, siamo partiti per un'altra gita. Due giorni dopo abbiamo visitato l'isola di Chappaquiddick, sulla cui spiaggia abbiamo visto un cartello divertente: NON DISTURBARE, NEANCHE LE VONGOLE O LE CAPESANTE. Non abbiamo disturbato nessuno. So che può sembrare sciocco, o anche peggio, ma mi piaceva semplicemente stare in macchina al fianco di Matt. L'ho guardato pensando: Ehi, sono in compagnia di quest'uomo che è davvero molto carino. Siamo in giro, in cerca di avventure. Non mi sentivo così da un pezzo, e mi era mancata quella sensazione. Proprio in quel momento Matt si è voltato verso di me e mi ha chiesto a cosa stavo pensando. «A niente. Stavo soltanto ammirando il panorama», ho mentito. Mi sono sentita come se fossi stata scoperta a fare qualcosa che non avrei dovuto. Matt non si è dato per vinto. «Se indovino a cosa stavi pensando, me lo dirai?»
«Certo.» «Se indovino», ha continuato lui, «significa che abbiamo un altro appuntamento. Magari già domani sera.» «E se non indovini, non ci vedremo mai più. La posta in gioco è molto alta su questa scommessa.» Matt ha riso. «Non dimenticare che sto ancora dipingendo la tua casa, Suzanne.» «Non ti vorrai rifare rovinando le pareti, vero?» Matt ha finto di offendersi. «Sono un artista, io. Picasso.» Dopo una breve pausa mi ha strizzato l'occhio e poi ha azzardato la sua ipotesi. «Pensavi a noi due.» Non sono neppure riuscita a bluffare e sono arrossita vistosamente. «Forse.» «Sì!» ha gridato, alzando entrambe le braccia in segno di trionfo. «Allora?» «Allora, tieni le mani sul volante. Che altro?» «Allora, cosa vuoi fare domani?» Ho iniziato a ridere e mi sono accorta che lo facevo spesso con Matt. «Non ne ho idea. Volevo fare il bagno a Gus, ne ha davvero bisogno, poi andare a fare la spesa, noleggiare un film. Stavo pensando al Principe delle maree.» «Fantastico, perfetto. Mi è piaciuto molto il libro di Pat Conroy, tutti i suoi libri. Non ho mai visto il film. Avevo paura di rimanere deluso dopo aver letto il libro. Se vuoi, ti faccio compagnia.» Dovevo proprio ammetterlo, stare con Matt era molto divertente. Era l'esatto opposto del mio ex fidanzato di Boston, Michael Bernstein, che non faceva mai nulla senza una precisa ragione, senza una logica, non si prendeva mai un giorno libero, e probabilmente non aveva mai percorso una bella stradina tortuosa per il semplice fatto di essersela trovata davanti. Matt non poteva essere più diverso. Aveva molti interessi: faceva giardinaggio, birdwatching, leggeva moltissimo, cucinava piuttosto bene, giocava a pallacanestro, era campione di cruciverba e, naturalmente, era capace di fare qualsiasi tipo di lavoro in casa. A un certo punto della nostra gita, ricordo di aver guardato l'orologio, non certo perché volessi tornare a casa, ma piuttosto il contrario: non volevo che quella giornata finisse. Mi sentivo così incredibilmente felice, per il solo fatto di andare in giro in macchina con Matt, senza una meta precisa. Assorbivo tutto ciò che mi circondava: le piante acquatiche, il cielo az-
zurro, la spiaggia, l'oceano in burrasca. Ma soprattutto assorbivo Matt Harrison: la sua camicia di flanella a quadri fresca di bucato, i jeans, la pelle lucida e abbronzata, i capelli castani di media lunghezza. Assorbivo Matt, lo tenevo dentro di me, e non volevo lasciarlo andare. Stava accadendo qualcosa di molto bello. Forse ti stai chiedendo che fine aveva fatto Matt Wolfe, l'avvocato. Ebbene, ho chiamato Matt diverse volte ma mi ha sempre risposto la segreteria telefonica, e lui non ha mai richiamato. Bisogna dire che l'isola è piccola, quindi forse aveva saputo. *** Caro Nicky, nelle due settimane seguenti io e Matt Harrison ci siamo visti tutti i giorni. Non riuscivo quasi a crederci. Mi capitava spesso di darmi dei pizzicotti, o di sorridere quando non mi vedeva nessuno. «Sei mai andata a cavallo, Suzanne?» mi ha chiesto Matt un sabato mattina. «È una domanda seria.» «Ti credo. Quando ero bambina», ho risposto con una lieve pronuncia strascicata da cowboy. «Risposta perfetta, perché stai per tornare bambina. Adesso, oggi stesso. A proposito, hai mai montato un cavallo azzurro a strisce rosse, con zoccoli dorati?» Ho guardato Matt, scuotendo la testa. «Se l'avessi fatto, lo ricorderei senz'altro.» «Conosco un posto dove c'è un cavallo così», ha detto. «A dire il vero, ce n'è più di uno.» Siamo andati in macchina fino a Oak Bluffs, e là ho visto i cavalli. Dio, che spettacolo! Decine di stalloni dai colori vivaci disposti in circolo sotto la giostra a mosaico più radiosa che avessi mai visto. Cavalli scolpiti a mano con narici rosse fiammanti e occhi di vetro neri, che galoppavano instancabili sulla loro pista, in un cerchio di gioia. Matthew mi aveva portata a vedere la giostra dei Cavalli Volanti, la più antica del paese. Era ancora aperta al pubblico, per bambini di tutte le età. Siamo saliti sulla giostra mentre la piattaforma oscillava e girava sotto di noi e abbiamo trovato due destrieri perfetti per noi. Non appena è iniziata la musica, ho afferrato le briglie d'argento e ho cominciato a salire e scendere, salire e scendere, lasciandomi stregare dalla
magia roteante della giostra. Matt si è allungato per afferrarmi la mano e ha cercato persino di rubarmi un bacio, riuscendoci in modo ammirevole. Che cavallerizzo! «Dove hai imparato a cavalcare così bene, cowboy?» gli ho chiesto mentre galoppavamo su e giù, e intorno. «Oh, sono anni che vado a cavallo», ha risposto Matt. «Ho preso lezioni proprio qui quando avevo tre anni. Vedi quello stallone azzurro lassù? Azzurro come il colore del cielo, come la volta celeste?» «Credo di sì.» «Mi ha disarcionato un paio di volte. Ragazzi, ho fatto proprio una o due brutte cadute. Ecco perché ho voluto che cavalcassi National Velvet la prima volta. Ha un carattere docile, e un bel manto di gommalacca.» «È bellissima, Matt. Sai, quando ero bambina, qualche volta andavo a cavallo. Mi sta tornando tutto alla mente adesso. Andavo a cavalcare con mio nonno a Goshen, nello stato di New York. Strano ricordarmelo solo ora.» I bei ricordi sono come incantesimi, Nicky. Ognuno di loro è speciale. Li raccogli, a uno a uno, finché un giorno ti volti a guardare e scopri che hanno formato un lungo bracciale colorato. Prima che quella giornata finisse, avrei vissuto il primo di una lunga serie di bellissimi incantesimi con Matthew Harrison. KATIE Katie non avrebbe mai dimenticato la prima volta che aveva incontrato Matt Harrison, nel piccolo ma confortevole ufficio della casa editrice dove lavorava. Attendeva quell'incontro da giorni. Le era piaciuto molto Canzoni di un imbianchino, che considerava racconti pregnanti e pieni di magia, condensati in poesie incisive e molto toccanti. Matt Harrison raccontava il quotidiano - lavorare in giardino, imbiancare una casa, seppellire un cane a cui si è voluto bene, avere un bambino - ma la scelta delle parole distillava la vita in modo assolutamente perfetto. Katie non riusciva ancora a credere di aver scoperto la sua raccolta di poesie. Quando Matt varcò la porta del suo ufficio rimase ancora più incredula. Meglio ancora, ipnotizzata. Le parti più remote del suo cervello e del sistema nervoso si fissarono sull'immagine davanti a lei: il poeta, l'uomo. Il cuore le balzò in petto e pensò: Oddio, attenta, attenta. Era più alto di lei, probabilmente uno e ottantacinque. Aveva un bel naso
e un mento volitivo, e i tratti del volto erano armoniosi, come una delle sue poesie. I capelli castani erano di media lunghezza, puliti e lucidi, e la pelle aveva quell'abbronzatura intensa tipica degli uomini che lavorano all'aria aperta. Qualcosa lo fece sorridere, Katie sperava che non fosse la sua altezza o goffaggine, o lo sguardo sciocco che aveva assunto il suo volto. Qualunque cosa fosse, quell'uomo le piaceva: aveva tutte le carte in regola. Quella sera cenarono insieme e, da vero gentiluomo, lui lasciò che fosse lei a ordinare. Più tardi però insistette per scegliere un porto costoso, di cui bevvero due bicchieri. Poi andarono in un locale dove suonavano jazz nella Upper West Side, malgrado fosse 'sera di scuola', come Katie chiamava le sere dei giorni feriali. Alla fine Matt la riaccompagnò a casa che erano le tre del mattino, scusandosi a lungo e sentitamente, e le diede un bacio dolcissimo sulla guancia per poi scomparire su un taxi. Katie rimase sui gradini d'ingresso a riprendere finalmente fiato, forse per la prima volta da quando lo aveva visto entrare nel suo ufficio. Cercò di ricordare... Matt Harrison era sposato? Il mattino dopo Matt tornò nel suo ufficio, per lavorare, ma poi uscirono a mezzogiorno, per pranzo, e non rientrarono per il resto della giornata. Andarono a zonzo per musei, e Matt dimostrò di sapere il fatto suo. Ne sapeva almeno quanto lei, anche se non esibiva la sua cultura. Katie continuò a domandarsi: Chi è quest'uomo? E perché permetto a me stessa di sentirmi in questo modo? E subito dopo: Perché non cerco di sentirmi sempre così? Quella sera Matt salì nel suo appartamento, e lei non smise un attimo di sentirsi sorpresa per quello che stava accadendo. Katie era famosa tra le sue amiche per il fatto di non avere avventure, di essere troppo romantica e decisamente all'antica per quanto riguardava il sesso. E poi aveva incontrato quel poeta-imbianchino di Martha's Vineyard, un uomo indubbiamente affascinante e sexy, e non poté non stare con lui. Lui non le mise alcuna fretta e, a dire il vero, sembrò sorpreso quasi quanto lei di trovarsi nel suo appartamento. «Ohiohiohiohi...» scherzò Katie, e tutti e due si misero a ridere nervosamente. «È esattamente come mi sento io», disse Matt. Quella sera fecero l'amore per la prima volta. Pioveva, e lui le fece notare il rumore delle gocce di pioggia che cadevano sulla strada, sul tetto e persino sugli alberi accanto alla casa. Era una musica piacevole da ascoltare, ma presto si dimenticarono del ticchettio della pioggia, e di qualunque
altra cosa, per abbandonarsi al forte desiderio che provavano l'uno per l'altra. Matt era naturale e disinvolto, e così bravo a letto che Katie si sentì leggermente intimorita. Era come se la conoscesse da sempre: sapeva come tenerla tra le braccia, dove e come toccarla, capiva quando era il momento di aspettare e quando lasciare che la passione esplodesse. Le piaceva il modo in cui lui la sfiorava, la dolcezza con cui le baciava le labbra, le guance, l'incavo della gola, la schiena, i seni, e ogni singola parte del corpo. «Sei assolutamente meravigliosa e non lo sai, vero?» le sussurrò con un sorriso. «Hai degli occhi stupendi. E adoro la tua treccia.» «Tu e mia mamma», commentò Katie. Poi si sciolse la treccia e lasciò che i lunghi capelli le cadessero sulle spalle. «Uhmmm. Mi piaci anche così», esclamò Matt, strizzandole l'occhio. Quando Matt uscì di casa il mattino seguente, Katie aveva l'impressione di non essere mai stata così bene con qualcuno, di non avere mai raggiunto una tale intimità con un'altra persona. Perché no? si domandò. Avvertì subito la mancanza di Matt. Era una cosa ridicola, completamente assurda, e non era certo da lei, ma gli mancava proprio. Perché no? Quando arrivò in ufficio quel mattino, lui era già là che la aspettava. Sentì il cuore arrestarsi per un attimo. «Faremmo meglio a metterci al lavoro», disse. «Sul serio.» Senza risponderle, Matt chiuse la porta dell'ufficio e la baciò fino a farla sciogliere e sprofondare nel pavimento di legno. Alla fine si staccò da lei, tornò a guardarla negli occhi e disse: «Mi sei mancata dal momento stesso in cui sono uscito dal tuo appartamento». DIARIO Caro Nicholas, ricordo tutto come fosse ieri. È ancora vivido e presente nei miei ricordi. Io e Matt viaggiavamo sulla mia jeep lungo la strada che collega Edgartown a Vineyard Haven. Gus era con noi, seduto sul sedile posteriore, e assomigliava a uno dei leoni che sorvegliano l'ingresso della biblioteca pubblica di New York. «Non puoi accelerare un po'?» ha chiesto Matt, picchiettando le dita sul cruscotto. «Se cammino, vado più forte di te.» So di essere una guidatrice lenta e attenta. Matt aveva scoperto il mio
primo punto debole. «Ehi, ho vinto il primo premio per la prudenza alla scuola guida di Cornwall on Hudson. Ho appeso il certificato sotto la mia laurea in medicina.» Matt ha riso, facendo roteare gli occhi castani. Apprezza tutte le mie battutine, anche le più stupide. Stavamo andando a casa di sua madre. Matt pensava che sarebbe stato interessante per me incontrarla. Interessante? Cosa intendeva dire? «Oh, ecco mia mamma!» ha esclamato Matt in quel momento. «Oh, ragazzi, guarda dov'è.» Era sul tetto della casa, intenta a riparare un'antidiluviana antenna della televisione. Una volta scesi dalla mia vecchia jeep blu, Matt l'ha chiamata. «Mamma, ti presento Suzanne. E Gus il Supercane. Suzanne... mia madre, Jean. È lei che mi ha insegnato a fare tutti quei lavoretti in casa.» Ho guardato la madre di Matt: alta, magra, capelli grigi. Jean ci ha risposto dall'alto: «Piacere di conoscerti, Suzanne. E anche te, Gus. Andate pure a sedervi sul portico. Vi raggiungo tra un attimo». «Se non cadi dal tetto e non ti rompi tutte e due le gambe prima», ha scherzato Matt. «Fortuna che abbiamo un medico in casa.» «Non cadrò dal tetto», l'ha rassicurato Jean con una risata prima di rimettersi al lavoro. «Cado solo dalle scale estensibili.» Io e Matt ci siamo seduti al tavolino di ferro battuto sul portico. Gus ha optato invece per il giardino davanti a casa, una dimora a due piani davanti e uno dietro con tetto spiovente più lungo sul retro e vista settentrionale sul porto. A sud si estendevano campi di grano e, in lontananza, un fitto bosco che dava l'impressione di essere nel Maine. «È un posto bellissimo. È qui che sei cresciuto?» ho chiesto a Matt. «No, sono nato a Edgartown. Questa casa è stata acquistata qualche anno dopo la morte di mio padre.» «Mi dispiace...» Matt si è stretto nelle spalle. «Immagino sia un'altra delle cose che abbiamo in comune.» «Se è così, perché non me ne hai mai parlato?» gli ho domandato. Ha sorriso. «È solo che non mi piace parlare di cose tristi. Adesso conosci il mio punto debole. E poi a cosa serve parlare delle cose tristi accadute in passato?» Jean è apparsa all'improvviso con del tè freddo e un piatto colmo di biscotti al cioccolato. «Bene, prometto di non farti il terzo grado, Suzanne. Siamo troppo
grandi per questo genere di cose», ha esordito con una rapida strizzatina d'occhi. «Ma mi piacerebbe sapere del tuo lavoro. Come sai, anche il padre di Matt era medico.» Ho guardato Matt. Non mi aveva detto neanche quello. «Mio padre è morto quando avevo solo otto anni. Non ricordo molto.» «Matthew è molto riservato riguardo a certe cose, Suzanne. Ha sofferto molto quando il padre è morto. Non credere a quello che ha appena detto. Pensa che gli altri possano sentirsi a disagio nel vedere quanto ha sofferto.» Jean gli ha strizzato l'occhio e lui l'ha ricambiata. Si capiva che erano molto uniti ed era una bella cosa da vedere. Erano teneri. «Mi racconti qualcosa di lei, Jean. A meno che non sia anche lei una persona riservata.» «Oh, no», ha esclamato, ridendo. «Io sono un libro aperto. Cosa vuoi sapere?» Ho scoperto che Jean è un'artista locale, una pittrice per l'esattezza. Mi ha fatto fare il giro della casa, mostrandomi alcuni dei suoi lavori. È molto brava: me ne intendo abbastanza per essere quasi certa che i suoi dipinti potrebbero essere esposti in molte gallerie di Back Bay, o persino di New York. Jean ha incorniciato una citazione dell'artista naïf Grandma Moses che dice: 'Dipingo dall'alto in basso. Parto dal cielo, poi le montagne, le colline, gli animali, e infine la gente'. Le mie lodi nei confronti delle sue opere l'hanno fatta ridere e ha detto: «Ricordo una vignetta in cui una coppia osserva un dipinto di Jackson Pollock. Sotto il quadro c'è il cartellino con il prezzo dell'opera, un milione di dollari. L'uomo si volta verso la donna ed esclama: 'Be', si esprime piuttosto chiaramente nel prezzo'». Parlava con grande senso dell'umorismo del suo lavoro, e anche di tutto il resto. Matt ha preso molto da lei. Il pomeriggio ha lasciato il posto alla sera, e io e Matt abbiamo finito col fermarci a cena. C'è stato anche il tempo di guardare un vecchio album con alcune divertentissime fotografie di Matt da piccolo. Era davvero carino, Nick. Da ragazzo aveva i capelli biondi come te, e lo stesso sguardo ardito che assumi tu qualche volta. «Nessuna foto di Matt nudo a gattoni su un tappeto di pelliccia?» ho domandato a Jean mentre sfogliavo l'album. «Guarda bene e sono certa che ne troverai una», ha risposto, ridendo. «Ha un sedere molto grazioso. Se non l'hai ancora visto, dovresti chiedergli se puoi dargli un'occhiata.»
Questa volta sono stata io a ridere: Jean è proprio uno spasso. «D'accordo», è intervenuto Matt, «lo spettacolo è finito. È ora di metterci in macchina.» «Proprio quando il discorso iniziava a farsi interessante», ha scherzato Jean, fingendo di mettere il broncio. «Sei un guastafeste.» Erano circa le undici quando ci siamo alzati per tornare a casa. Jean mi ha abbracciata forte e mi ha sussurrato nell'orecchio: «Non porta a casa mai nessuno, quindi qualunque cosa pensi di lui, devi piacergli molto. Ti prego, non farlo soffrire. È sensibile, Suzanne. Ed è anche un gran bravo ragazzo». «Ehi!» Matt mi ha chiamata dalla jeep. «Avete finito, voi due?» «Troppo tardi», ha risposto sua madre. «Il danno è fatto. Ho dovuto vuotare il sacco. Adesso Suzanne sa quanto basta per mollarti come si fa con una cattiva abitudine.» *** Il danno era fatto per davvero, almeno per quanto mi riguardava. Mi stavo innamorando di Matt Harrison. Facevo fatica a crederci io stessa, ma era proprio quello che stava succedendo, se non era già successo. The Hot Tin Roof è un locale carino di Edgartown, nei pressi dell'aeroporto di Martha's Vineyard, dove io e Matt siamo andati quel venerdì sera a mangiare le ostriche e ascoltare il blues. A quel punto, sarei andata ovunque con lui. Sono passate molte celebrità locali per il bar: Caryl Simon, con la sua aria eccentrica e rilassata, Tom Paxton, William Styron e sua moglie Rose. Matt pensava che sarebbe stato divertente restare al bar a osservare la gente, e aveva ragione. «Vuoi ballare un lento?» mi ha chiesto dopo che avevamo finito la nostra porzione di ostriche, accompagnate da birra fredda. «Un lento? Non sta ballando nessuno, Matt. Non credo che sia un locale dove si balla.» «Questa è la mia canzone preferita e mi piacerebbe molto ballarla con te. Mi concedi quest'onore, Suzanne?» Sono arrossita, una cosa che non mi accade spesso. «Avanti», ha insistito Matt, avvicinando il viso alla mia guancia. «Gli altri medici dell'ospedale non verranno mai a saperlo.» «D'accordo. Ma solo un ballo.»
«Un bel ballo tira l'altro.» Abbiamo iniziato a ballare sulle dolci note di quel lento in un angolo del bar. Gli sguardi dei presenti hanno cominciato a rivolgersi verso di noi. Cosa stavo facendo? Cosa mi era capitato? Qualunque cosa fosse, era molto piacevole quello che stava accadendo. «Va tutto bene?» ha chiesto Matt premuroso. «A dire il vero, più che bene. A proposito, che canzone è? Hai detto che è la tua preferita.» «Oh, non ne ho idea, Suzanne. Cercavo solo una scusa per starti più vicino.» Così dicendo, Matt mi ha stretta ancora più forte a sé. Mi piaceva stare tra le sue braccia, mi piaceva moltissimo. Banale, forse, ma assolutamente vero. Che altro posso dire? Mi sentivo girare un po' la testa mentre volteggiavamo al ritmo della musica. «Devo chiederti una cosa», mi ha sussurrato Matt nell'orecchio. «Dimmi», ho risposto piano. «Cosa pensi di noi? Fino a questo momento?» Gli ho dato un bacio. «Ecco quello che penso.» Lui ha sorriso. «È quello che penso anch'io.» «Bene.» «Ho vissuto con una donna per tre anni», ha continuato Matt. «Ci eravamo incontrati all'università. A lei non piaceva vivere qui, ma a me sì.» «Quattro anni. Anche lui medico», ho confessato io. Matt si è chinato su di me e mi ha baciata di nuovo sulle labbra. «Vuoi venire a casa mia, Suzanne?» mi ha chiesto. «Voglio continuare a ballare con te.» Gli ho detto che mi avrebbe fatto molto piacere. Ho un modo di ammiccare che Matt chiama 'il famoso occhiolino di Suzanne'. Quella sera l'ha visto per la prima volta e gli è piaciuto da impazzire. *** Matt abitava in una casetta vittoriana con una decorazione a merletto sul cornicione che ne ammorbidiva gli angoli. Sembrava che i tralicci, le balaustre e le sporgenze fossero state tolte da una torta nuziale riccamente ornata e fissate con cura intorno al tetto. Era la prima volta che mi invitava ad andare a casa sua e mi sentivo improvvisamente nervosa. Avevo la bocca secca e impastata. Non ero stata
con nessuno dai tempi di Michael, e quello era ancora un brutto ricordo per me. Siamo entrati in casa e io ho notato subito la libreria. La stanza era interamente ricoperta da scaffali, sui quali erano sistemati migliaia di libri. Ho lasciato vagare lo sguardo su e giù lungo i ripiani: Scott Fitzgerald, John Cheever, Virginia Woolf, Anaïs Nin, Thomas Merton, Doris Lessing. Una parete era completamente occupata da volumi di poesia: W.H. Auden, Fallace Stevens, Hart Crane, Sylvia Plath, James Wright, Elizabeth Bishop, Robert Hayden e molti altri ancora. C'era anche un antico mappamondo, una vecchia imbarcazione inglese dalle vele stinte e inclinate, alcuni strumenti nautici di ottone e un grande tavolo di pino ricoperto da quaderni e carte varie. «Che bella stanza. Posso dare un'occhiata?» ho domandato. «Anche a me piace. Certo che puoi.» Sono rimasta molto colpita dalla copertina di un manoscritto. C'era scritto: Canzoni di un imbianchino, Poesie di Matt Harrison. Così Matt era un poeta? Non me l'aveva mai detto. Non gli piaceva proprio parlare di sé, a quanto pareva. Quali altri segreti serbava? «Sì, è vero», ha ammesso tranquillamente. «Scribacchio, niente di più. È un pallino che ho da quando avevo sedici anni. Ho cominciato a scrivere dopo l'università: sono laureato in lettere e imbiancatura. Scherzo. Tu scrivi, Suzanne?» «No, non proprio», ho risposto. «Ma sto pensando di iniziare a tenere un diario.» *** In alcuni stati europei, in estate, si celebra una notte speciale, conosciuta come la notte delle stelle cadenti. È considerata una notte magica, dove tutto è perfetto, e le stelle cadono dal cielo a migliaia, come fiocchi di neve. Per noi quella prima notte è stata proprio così: c'erano così tante stelle che sembrava di essere in paradiso. «Andiamo a fare una passeggiata sulla spiaggia. Ti va? Mi è venuta un'idea», ha detto Matt. «Ho notato che hai sempre molte idee.» «Forse è il poeta che c'è in me.» Ha preso una vecchia coperta, lo stereo e una bottiglia di champagne,
poi ci siamo incamminati lungo un sentiero tortuoso attraverso alte piante acquatiche, fino a quando abbiamo trovato una superficie sabbiosa dove stendere la coperta. Matt ha stappato la bottiglia, facendo scintillare le bollicine di champagne nell'aria notturna. Ha acceso lo stereo e le note di Debussy hanno inondato il cielo stellato. Io e Matt abbiamo ballato di nuovo, entrando in una nuova dimensione spazio-temporale. Danzavamo in sintonia con il ritmo del mare, sollevando fontanelle di sabbia e lasciando dietro di noi improbabili impronte. Ho lasciato che le mie dita giocassero con la schiena e il collo di Matt e gli ho fatto passare le mani tra i capelli. «Non immaginavo che sapessi ballare il walzer», gli ho detto. Lui si è messo a ridere. «Neanch'io, a dire il vero.» Era molto tardi quando ce ne siamo andati dalla spiaggia, ma non ero stanca. Anzi, mi sentivo più sveglia che mai e, dentro di me, stavo ancora ballando, volando e cantando. Non mi aspettavo che accadesse niente del genere. Non in quel periodo della mia vita, e forse mai più. Sembrava passato un secolo dal giorno in cui avevo avuto l'infarto nei giardini pubblici di Boston. Nicky, mi sentivo così fortunata e felice. Matt mi ha preso dolcemente per mano, guidandomi su per le scale verso la sua camera. Volevo seguirlo, ma ero ancora spaventata: non ero più stata con nessuno da molto tempo. Nessuno dei due parlava, ma non appena ho visto la sua stanza ho emesso un'esclamazione di sorpresa. Matt aveva convertito il piano superiore in un unico e bellissimo spazio, completo di lucernai che sembravano assorbire il cielo notturno. Mi piaceva moltissimo come aveva trasformato la stanza. Matt ha acceso lo stereo in camera da letto. Sarah Vaughan. Perfetto. Mi ha detto che dal suo letto si vedevano le stelle cadenti. «Una notte ne ho contate sedici. Il mio record.» Poi mi si è avvicinato, lentamente ma con decisione, attirandomi a sé come una calamita. L'ho sentito slacciarmi i bottoni della camicetta sulla schiena. Il contatto della sua mano mi ha fatto rizzare la lieve peluria sulla nuca. Ha fatto scorrere le dita fino alla base della spina dorsale, giocherellando con grande delicatezza. Mi ha tolto la camicia, che ho guardato atterrare piano sul pavimento, pensando che dovesse trattarsi di cotone egiziano.
Ero, e mi sentivo, vicinissima a lui, tanto da riuscire a malapena a respirare. Provavo una sensazione di leggerezza, mi girava la testa, mi sentivo magica e molto speciale. Matt ha fatto scivolare le mani sui miei fianchi, accompagnandomi dolcemente sul letto. L'ho guardato alla luce della luna: era bellissimo. Com'era successo tutto questo? Perché tutto a un tratto ero stata baciata dalla fortuna? Si è disteso sopra di me come un caldo piumone in una giornata d'inverno e di quella notte non dirò, né scriverò, nient'altro. *** Caro Nicky, spero che quando diventerai grande tu possa avere tutto ciò che desideri, e in particolare l'amore. Quando è vero e sincero, l'amore dona una gioia che nessun'altra esperienza può dare. Sono stata innamorata, sono innamorata, perciò parlo per esperienza personale. Ho vissuto a lungo anche senza amore, e non c'è modo di spiegare la differenza tra una vita ricca d'amore e una che ne è priva. Noi è molto meglio di io. Non dare retta a quelli che ti dicono il contrario e non cedere mai al cinismo, Nicky. Tutto, ma non quello! Guardo le tue manine e i tuoi piedini e spesso mi sorprendo a contare le tue dita, spostandole con delicatezza come fossero palline di un pallottoliere. Ti bacio il pancino fino a farti ridere. Sei così innocente: rimani così nelle questioni di cuore. Mi basta guardarti per chiedermi cosa ho fatto per essere così fortunata. Sei assolutamente perfetto: hai un bel naso e una bella bocca, ma gli occhi e il sorriso sono i tuoi punti di forza. Nei tuoi occhi vedo già delinearsi la tua personalità. A cosa stai pensando in questo momento? Il giocattolo appeso alla culla? Il carillon? Secondo papà pensi alle ragazze, agli attrezzi da lavoro e alle automobili scintillanti. Gli piace scherzare e dire che le cose che preferisci sono le fuoriserie, le ragazze carine e la torta di compleanno. «È proprio un maschio, Suzanne.» Probabilmente ha ragione, e va bene così. Ma sai cosa ti piace più di tutto? Gli orsacchiotti. Sei così dolce e tenero con i tuoi piccoli orsacchiotti. Io e papà ridiamo per tutte le belle cose che ti aspettano. Ma ciò che desideriamo di più per te è l'amore, e ci auguriamo che tu ne sia sempre circondato. L'amore è un dono, che cercherò di insegnarti a ricevere. Perché
vivere senza amore significa vivere senza grazia, che è la cosa più importante nella vita. Noi è molto meglio di io. Se hai bisogno di una prova, ti basta guardare noi. «Sono Matt. Ciao. Ehi! C'è nessuno in casa? Suzanne? Ci sei?» I colpi sulla porta della cucina erano persistenti e fastidiosi, come quando si riceve una visita inaspettata da un parente lontano. Mi sono avvicinata alla porta, l'ho aperta e sono rimasta immobile per qualche istante, con un'espressione di sorpresa dipinta sul volto. Era Matt, certo, ma non Matt Harrison. Il mio visitatore era Matt Wolfe. Dietro di lui, parcheggiata nel vialetto, ho visto la fiammante Jaguar decappottabile verde. Dove era stato? Non mi aveva ancora richiamata. «Ciao», ha detto, «ti trovo bene, Suzanne. Anzi, hai proprio un aspetto favoloso.» Si è avvicinato per darmi un bacio sulla guancia, e l'ho lasciato fare. Mi sono sentita in colpa, pur non avendone alcun motivo. «Matt. Come stai? Ho appena fatto del tè freddo. Vieni, accomodati.» Matt è entrato ed è andato a sistemarsi in un angolo confortevole e assolato della cucina, con l'aria di chi voleva recuperare il tempo perduto. In effetti, avevamo molte cose da raccontarci. «Sono stato fuori città per quasi tutto il mese, Suzanne. Volevo chiamarti, ma ero nel bel mezzo di un pasticcio legale. In Thailandia, per mia sfortuna.» Poi, improvvisamente, ha sorriso. «E sai com'è, bla bla bla bla bla. E tu come stai? È ovvio che hai preso il sole. Sei bellissima.» «Be', grazie... anch'io ti trovo bene.» Dovevo dirglielo. Anzi, ho deciso di fargli un resoconto completo di quanto mi era accaduto in quell'ultimo mese. Matt mi ha ascoltata, alternando sorrisi a segni di nervosismo. Pur lasciando trapelare una certa delusione, ha continuato ad ascoltare attentamente e, quando ho finito, si è alzato dallo sgabello della cucina, è venuto verso di me allargando le braccia e mi ha abbracciata. «Suzanne», ha detto, «sono felice per te.» Ha esibito un sorriso audace. «Qualcosa mi diceva che non sarei dovuto partire. Adesso la cosa più bella che potesse capitarmi mi è scivolata di nuovo tra le mani.» Mi sono messa a ridere, divertita. Matt Wolfe cominciava a sembrarmi
un po' troppo farfallone. «Oh, Matt, i tuoi complimenti mi lusingano. Grazie per la tua amicizia. Grazie per essere quello che sei.» «Ehi, avrò anche perso la partita, ma intendo ritirarmi con un po' di dignità. Ma ti avverto, Suzie, se questo tizio si tira indietro, o se mi accorgo che qualcosa non va, torno all'attacco.» Ridendo, l'ho accompagnato alla macchina. Qualcosa mi diceva che Matt si sarebbe ripreso presto. Dubitavo che se ne fosse stato tutto solo durante il soggiorno in Thailandia. E, diciamolo pure, non mi aveva chiamata per quasi un mese. L'ho osservato salire in macchina, il suo orgoglio e la sua gioia. «Sai, credo proprio che voi due andreste molto d'accordo. Ma sì, i due Matt potrebbero diventare ottimi amici», ho gridato dal portico. «Grandioso! Adesso devo anche farmelo piacere», ha ribattuto Matt, girandosi verso di me. L'ultima cosa che l'ho sentito dire prima che accendesse il potente motore della decappottabile è stato: «Sa battersi a duello, vero?» *** «D'accordo, cosa sta succedendo? Vuota il sacco, Suzanne. Voglio l'esclusiva, so che mi stai nascondendo qualcosa», ha detto qualche giorno dopo la mia amica e vicina di casa Melanie Bone. «Me lo sento nelle ossa.» Aveva ragione. Non le avevo raccontato come si era evoluta la storia tra me e Matt, ma lei lo aveva capito dal mio sguardo e forse anche dalla mia camminata allegra. Stavamo facendo una passeggiata sulla spiaggia non troppo lontano da casa, con Gus e le bambine che giocavano rumorosamente davanti a noi. «Sei molto acuta», ho osservato, «e curiosa.» «Questo lo so già. Dimmi qualcosa che non so. Forza, raccontami tutto.» Non sono riuscita a resistere un minuto di più: doveva venire fuori prima o poi. «Sono innamorata, Mel, come non mi era mai successo prima. Sono perdutamente innamorata di Matt Harrison. Non ho idea di cosa succederà adesso.» Melanie ha emesso un gridolino, poi ha iniziato a saltellare su e giù sulla sabbia. Era così carina, ed era davvero una buona amica. «È meraviglioso, Suzanne», ha esclamato dopo aver lanciato un altro gridolino. «Sapevo che era un bravo imbianchino, ma non conoscevo le
sue altre doti.» «Sapevi che scrive poesie? Molto belle, fra l'altro.» «Stai scherzando?» «È anche un ottimo ballerino.» «Be', non mi stupisce. Si muove piuttosto bene sui tetti. Allora, com'è successo? Voglio dire, come siete passati dal decidere la vernice per imbiancare la casa a questo?» Ho ridacchiato, sentendomi una scolaretta. Dopotutto, cose di questo genere non accadevano alle donne adulte. «Una sera mi sono fermata a parlare con lui nel posto degli hamburger.» Melanie ha alzato un sopracciglio. «Okay. Gli hai parlato nel posto degli hamburger. E poi?» «Con Matt posso parlare di qualunque cosa, Melanie. Non mi era mai successo con nessun altro uomo prima d'ora. Persino le sue poesie sono scritte con lo stesso linguaggio semplice, ma allo stesso tempo così profondo. È passionale e affascinante. Ed è anche molto modesto, forse più di quanto dovrebbe.» Improvvisamente Melanie mi ha abbracciata. «Oddio, Suzanne, è successo. Non c'è più rimedio, ormai. Complimenti, hai perso la testa.» Abbiamo riso come due quindicenni un po' sciocche, poi ci siamo incamminate verso casa con le bambine di Melanie e Gus. Quel mattino, a casa sua, abbiamo parlato di molte cose, dai primi appuntamenti con i ragazzi alla prima gravidanza di Melanie. Mi ha confessato che le sarebbe piaciuto avere un altro bambino, lasciandomi di stucco. Per lei era semplice come sistemare un armadietto. La sua vita era ordinata, catalogata e ben rifornita come lo scaffale di un negozio di alimentari pieno di cibi in scatola. In quel momento anch'io ho sognato di avere dei bambini, Nicholas. Sapevo che avrei avuto una gravidanza a rischio a causa dei miei problemi di cuore, ma non mi importava. Forse c'era qualcosa dentro di me che mi diceva che un giorno saresti arrivato tu. Una voce carica di speranza. Un desiderio profondo. O soltanto la consapevolezza di quello che l'amore tra due persone può portare. Te, ha portato te. *** Purtroppo succedono anche cose brutte, Nicholas. Qualche volta non si
riesce proprio a farsene una ragione, altre volte è ingiusto, altre ancora è semplicemente una bella rottura. Il camioncino rosso viaggiava ad almeno novanta all'ora, ma è come se tutto fosse avvenuto al rallentatore. Gus stava attraversando la strada, diretto in spiaggia, dove ama inseguire le onde e abbaiare ai gabbiani. Pessimo tempismo. Ho capito quello che stava per succedere e ho spalancato la bocca per urlargli di fermarsi, ma probabilmente era già troppo tardi. Il camioncino è sbucato dalla curva all'improvviso. Sono riuscita quasi a sentire l'odore della gomma dei pneumatici che frenavano sull'asfalto caldo, poi ho visto il paraurti anteriore sinistro colpire Gus. Un secondo più tardi, e sarebbe stato fuori dalla traiettoria inesorabile del veicolo. Dieci chilometri all'ora in meno, e il camioncino l'avrebbe mancato. E forse, se Gus avesse avuto qualche anno in meno, se fosse stato nel fiore della giovinezza, non sarebbe neanche successo. Invece l'incidente è avvenuto con un tempismo terribile, irrevocabile, come una pietra che cade sul finestrino di una macchina in corsa. Era successo, era passato, e Gus giaceva come uno straccio vecchio gettato sul bordo della strada. È stata una scena molto triste: un attimo prima correva spensierato e indifeso verso il mare. «No!» ho urlato. Dal camioncino, che nel frattempo si era fermato, sono scesi due uomini tra i venti e i trent'anni con la barba incolta e una bandana colorata in testa. Hanno guardato attoniti quello che il loro veicolo lanciato a tutta velocità aveva fatto. «Accidenti, mi dispiace, non l'ho proprio visto», ha balbettato il conducente, sistemandosi i jeans mentre osservava il povero Gus. Non avevo tempo di pensare, litigare, dirgliene quattro. L'unica cosa che dovevo fare era cercare di aiutare Gus. Ho lanciato le chiavi della mia auto al guidatore. «Apri la portiera posteriore della jeep», gli ho ordinato in tono brusco, prendendo in braccio il cane il più delicatamente possibile. Era debole e pesante, ma respirava ancora, era ancora Gus. L'ho sistemato sul sedile posteriore del veicolo, sanguinante e sofferente. I suoi occhi familiari e dolci erano offuscati come nubi. Poi ha fissato lo sguardo su di me e ha iniziato a guaire pietosamente, spezzandomi il cuore. «Non te ne andare, Gus. Resisti», ho sussurrato, uscendo dal vialetto. «Non lasciarmi, ti prego.»
Con il cellulare ho chiamato Matt, che mi ha raggiunta dal veterinario. Forse a causa del mio sguardo disperato, il dottor Pugatch si è occupato di Gus all'istante. «Il camioncino andava molto forte, Matt», gli ho raccontato, rivivendo la scena in ogni singolo dettaglio. Matt era ancora più arrabbiato di me. «È quella maledetta curva. Ogni volta che esci dal vialetto, mi preoccupo. Devo costruire un nuovo passaggio dall'altra parte della casa, in modo che tu possa vedere la strada.» «È terribile. Gus era con me quando...» mi sono fermata. Non avevo ancora detto a Matt dell'infarto. Gus lo sapeva, ma Matt no. Presto avrei dovuto dirglielo. «Shhhh, va tutto bene, Suzanne. Andrà tutto bene.» Matt mi ha stretta forte e, anche se non andava tutto bene, mi ha fatto sentire un po' meglio. Ho affondato il viso nel suo petto e sono rimasta così, avvertendo un lieve tremito da parte di Matt. Lui e Gus erano diventati amici e Matt aveva ufficiosamente preso il mio posto nei giochi con la palla. Due ore più tardi il veterinario ci ha raggiunti, parlando dopo quella che è sembrata un'eternità. Adesso so come devono sentirsi i miei pazienti quando ho delle esitazioni o fatico a trovare le parole. Il loro viso mostra una calma apparente, ma il corpo trasmette qualcos'altro: pregano per una buona notizia che li liberi dall'ansia, soltanto una buona notizia. «Suzanne, Matt...» ha detto alla fine il dottor Pugatch. «Mi dispiace, mi dispiace moltissimo. Gus non ce l'ha fatta.» Sono scoppiata a piangere e ho iniziato a tremare in modo convulso: Gus mi era sempre stato accanto. Era il mio migliore amico, il mio compagno di stanza, di jogging, il mio confidente. Eravamo stati insieme per quattordici anni. Purtroppo succedono anche cose brutte, Nicholas. Non dimenticarlo, ma ricorda anche che in qualche modo bisogna andare avanti. Bisogna alzare la testa e guardare qualcosa di bello come il cielo, o il mare, e andare avanti. *** Caro Nicholas, con mia grande sorpresa il giorno dopo ho trovato una lettera nella posta. Non so perché non l'ho aperta immediatamente per leggerne il contenuto. Sono rimasta lì in piedi a domandarmi perché mai Matt Harrison mi
avesse scritto una lettera quando avrebbe potuto semplicemente prendere in mano il telefono o passare a trovarmi. Ero in fondo al vialetto, di fronte alla malandata cassetta delle lettere bianco sporco. Ho aperto la lettera con cautela, tenendola ben stretta affinché il vento non me la portasse via. Anziché tentare di parafrasare quello che c'era scritto, Nicholas, la metto nel diario. Cara Suzanne, sei un'esplosione di garofani in una stanza buia. O il profumo inaspettato di pino lontano dal Maine. Sei una luna piena che dà senso alla mezzanotte. E la spiegazione dell'acqua per tutti gli esseri viventi. Sei una bussola, uno zaffiro, un segnalibro. Una moneta rara, una pietra levigata, un marmo azzurro. Sei una scienza antica, una conchiglia minuta, un dollaro d'argento conservato. Sei un quarzo prezioso, una penna d'oca, la catena di un caro orologio. Sei un biglietto d'amore, consumato, amato e riletto infinite volte. Sei una medaglia rinvenuta nel cassetto di un eroe un tempo cantato.
Sei miele e cannella e spezie delle Indie Occidentali disperse dalla nave che era di Marco Polo. Sei una rosa pressata, un anello di perle, e un flacone di profumo rosso trovato vicino al Nilo. Sei un'anima antica di un luogo remoto, di mille anni, secoli, e millenni fa. Hai viaggiato tanto a lungo perché potessi amarti. Ti amo. Matt Cosa posso dire, Nicholas, che il tuo caro e dolce papà non abbia già detto meglio di me? È uno scrittore di grande talento e non sono neppure sicura che lo sappia. Lo amo così tanto. Chi non lo amerebbe? *** Caro Nicky, il mattino dopo ho telefonato a Matt molto presto, verso le sette, non appena ho osato disturbarlo. Mi ero svegliata poco dopo le quattro, pensando che dovevo chiamarlo e persino ripetendo mentalmente quello che gli avrei detto, e come glielo avrei detto. Non sono capace di essere disonesta né di manipolare le persone, cosa che a volte mi mette in una posizione di svantaggio. Non era facile per me, anzi era quasi impossibile. «Matt, ciao. Sono Suzanne. Spero che non sia troppo presto. Puoi venire da me questa sera?» Non sono riuscita a dire altro.
«Certo che posso. A dire il vero, ti avrei chiamata io per chiederti di vederci.» Quella sera Matt è arrivato a casa mia poco dopo le sette. Indossava una camicia scozzese gialla e pantaloni blu navy: un abbigliamento piuttosto formale per lui. «Ti va di fare una passeggiata sulla spiaggia, Suzanne, e guardare il tramonto con me?» Era esattamente quello che volevo fare. Mi aveva letto nel pensiero. Una volta attraversata la strada che portava in spiaggia e aver messo i piedi nudi sulla sabbia ancora tiepida, ho detto: «Posso iniziare io? Devo dirti una cosa». Matt ha sorriso. «Certo. Lo sai che mi piace il suono della tua voce.» Povero Matt. Dubitavo che gli sarebbe piaciuto quanto avevo da dirgli. «C'è qualcosa che voglio confessarti da un po' di tempo. Continuo a rimandare. Non so neanche come iniziare questo discorso adesso.» Mi ha preso la mano, facendola dondolare al ritmo dei nostri passi. «Consideralo fatto. Vai avanti, Suzanne.» «Come mai sei così elegante questa sera?» ho pensato di chiedergli. «Perché ho un appuntamento con la donna più speciale dell'isola. È questo il discorso che avevi paura di affrontare?» Gli ho stretto leggermente la mano. «Non proprio. No, non è questo. D'accordo, te lo dico.» «Mi stai facendo preoccupare.» «Mi dispiace», ho sussurrato. «Mi dispiace. Matt, prima di trasferirmi a Martha's Vineyard...» «Hai avuto un infarto», mi ha interrotta con un tono dolcissimo. «Sei quasi morta ai giardini pubblici di Boston, ma grazie a Dio non è successo. E adesso, eccoci qui, due delle persone più fortunate sulla faccia della terra. Perlomeno, io so di esserlo. Ti sto tenendo la mano, ti sto guardando nei tuoi bellissimi occhi azzurri.» Mi sono fermata a fissare Matt, incredula. Il sole stava tramontando proprio dietro di lui e sembrava un'aureola. Forse Matt era un angelo... «Da quanto tempo lo sai? Come hai fatto a saperlo?» ho farfugliato. «L'ho sentito dire prima di iniziare a lavorare per te. L'isola è piccola, Suzanne. Pensavo di trovarmi davanti una vecchietta con un deambulatorio.» «Be', se è per questo, l'ho usato per un paio di giorni dopo l'operazione. Così lo sapevi, ma non hai mai detto niente.»
«Non credevo che spettasse a me. Sapevo che me lo avresti detto quando saresti stata pronta. Immagino che adesso tu lo sia, Suzanne, e mi fa molto piacere. Ho pensato molto a quello che ti è accaduto nelle ultime due settimane. Sono persino giunto a una conclusione. Vuoi sentirla?» Mi sono aggrappata al suo braccio. «Certo.» «È una cosa a cui non posso fare a meno di pensare tutte le volte che siamo insieme. Penso: non è una fortuna che Suzanne non sia morta a Boston e abbiamo il presente per stare insieme? Adesso possiamo guardare questo tramonto abbracciati. Oppure, non è una fortuna che Suzanne non sia morta e possiamo sederci sul portico a giocare a carte o a guardare una stupida partita dei Red Sox? O ascoltare Mozart, o persino quell'insulsa canzone dei Savage Garden che ti piace tanto? Continuo a pensare che oggi, questo momento, siano incredibilmente speciali perché tu sei qui, Suzanne.» Sono scoppiata a piangere e Matt mi ha presa tra le braccia. Siamo rimasti accoccolati sulla spiaggia a lungo. Non volevo più staccarmi da lui, mai più. Stavamo così bene insieme. Continuavo a ripetermi: Non è un momento davvero speciale? Non sono io la più fortunata? «Suzanne?» l'ho udito mormorare e ho sentito il suo tiepido respiro sulla guancia. «Sono qui, proprio qui tra le tue braccia. Non vado da nessuna parte.» «Bene, non voglio che te ne vada, mi piace tenerti tra le braccia. Adesso sono io che devo dirti una cosa. Suzanne, ti amo moltissimo. Mi piace tutto di te. Mi manchi quando non siamo insieme anche soltanto per un paio d'ore. Ogni giorno, quando sono al lavoro, non vedo l'ora che arrivi la sera per rivederti. Ti ho cercata a lungo, anche se ancora non lo sapevo. Ma adesso lo so. Suzanne, vuoi sposarmi?» Mi sono scostata per guardare nei suoi bellissimi occhi quest'uomo meraviglioso che, non so come, avevo trovato, o che forse aveva trovato me. Non riuscivo a smettere di sorridere e mi sentivo pervasa da un dolce calore, una sensazione nuova e incredibile. «Ti amo, Matt. Anch'io ti ho cercato a lungo. Sì, io voglio.» KATIE Katie chiuse di nuovo il diario. Lo fece con violenza, come in preda a un impeto di rabbia, perché la feriva molto leggere quelle pagine. Poteva farlo solo a piccole dosi. Nella lettera Matt l'aveva avvertita che poteva essere
doloroso, e infatti lo era. Potrebbe essere difficile per te leggere alcune parti. Che incredibile eufemismo era quello. Il diario continuava a provocare in lei reazioni inaspettate. Adesso la stava rendendo gelosa, cosa di cui non credeva di essere capace. Era gelosa di Suzanne. Si sentiva un'idiota per questo, una persona piccola e meschina. Non era da lei. Forse erano gli ormoni. O forse era la naturale conseguenza di tutto quello che le era successo negli ultimi tempi, e non era poco. Chiuse gli occhi, sentendosi terribilmente sola. Si abbracciò con entrambe le braccia: aveva bisogno di parlare con qualcuno al di là di Guinevere e Merlin. Ma, per ironia della sorte, l'unica persona che voleva incontrare si trovava a Martha's Vineyard e, per quanto desiderasse farlo, non gli avrebbe telefonato. Avrebbe chiamato le sue amiche, Laurie, Gilda o Susan, ma non Matt. Il suo sguardo si posò sugli scaffali che aveva montato alle pareti. Il suo appartamento assomigliava a un negozio di libri molto indipendente. Orlando, L'età dell'innocenza, Beautiful Toscana, Harry Potter e il calice di fuoco, Il dio delle piccole cose. Era una lettrice vorace dall'età di sette o otto anni. Leggeva un po' di tutto, qualsiasi cosa. Aveva di nuovo la nausea e sentiva freddo. Si avvolse in una coperta e guardò Ally McBeal alla televisione. Ally compiva trent'anni in quell'episodio e Katie si commosse. Non era certo pazza come Ally e i suoi amici, ma il telefilm toccava un nervo scoperto. Sdraiata sul divano del soggiorno, Katie non poté fare a meno di pensare al bambino che cresceva dentro di lei. «Va tutto bene, piccolino», sussurrò. O almeno, lo spero. Ritornò con la mente alla notte in cui era rimasta incinta. Quella sera, a letto, aveva avuto una visione ma non ci aveva fatto caso, perché comunque non era mai successo prima. Non aveva mai saltato un mese, tranne una volta, quando giocava a pallacanestro nella squadra dell'università nel North Carolina e aveva scoperto che il suo livello di grasso corporeo era troppo basso. Quell'ultima notte con Matt era stata diversa da tutte le altre per Katie. Era cambiato qualcosa tra loro. Lo aveva capito dal modo in cui lui l'aveva abbracciata e guardata con i suoi luminosi occhi castani. Aveva sentito crollare alcune delle sue difese e aveva pensato: Ci siamo. Era pronto a dirle ciò di cui non era mai riuscito a parlare. Si era spaventato? Aveva provato anche lui quelle emozioni l'ultima not-
te che avevano trascorso insieme? Era questo che era successo? Non si era mai sentita così vicina a Matt come quella notte. Era sempre meraviglioso fare l'amore con lui, ma quella volta era stata quasi una necessità. Avevano entrambi così bisogno l'uno dell'altra. Katie ricordò che era cominciato tutto con grande semplicità: lui non aveva fatto altro che intrecciare le dita intorno alle sue. Poi aveva fatto scivolare il braccio libero dietro di lei e l'aveva guardata fisso negli occhi. Le loro gambe si erano sfiorate e i loro corpi si erano avvicinati l'uno all'altro. Non avevano mai smesso di guardarsi, ed era come se fossero diventati un'unica entità, come mai prima di allora. Gli occhi di Matt dicevano: Ti amo, Katie. Non si era sbagliata, ne era certa. Aveva sempre desiderato vivere un momento così, proprio uguale a quello. Lo aveva immaginato e sognato centinaia di volte prima che accadesse davvero. Le braccia forti di Matt l'avevano stretta a sé e lei aveva avvolto le sue lunghe gambe intorno a quelle di lui. Sapeva che non avrebbe mai potuto dimenticare nessuna di quelle immagini e sensazioni. Matt era così leggero quando aveva iniziato a muoversi sopra di lei, appoggiato ai gomiti e alle ginocchia. Era forte, delicato, generoso, sicuro di sé. Aveva ripetuto il suo nome all'infinito: Katie, dolce Katie, mia Katie, Katie, Katie. Ci siamo, aveva pensato Katie. Matt era totalmente presente e in sintonia con lei, e lei non aveva mai provato un sentimento del genere per nessuno. Adorava quella sensazione, adorava Matt. Così lo aveva tenuto dentro di sé, dove avevano concepito un bambino. *** Il mattino dopo, Katie sapeva cosa doveva fare. Erano solo le sette, ma non era troppo presto per una cosa del genere. Era arrivato il momento. Telefonò a casa dei suoi genitori ad Asheboro, la cittadina tra le Blue Ridge e le Great Smoky Mountains, dove la vita era sempre stata più semplice. E anche più gentile, molto più gentile. E allora perché se n'era andata da Asheboro, si domandò mentre il telefono dall'altra parte del filo iniziava a suonare. Per amore dei libri? Erano la sua passione, qualcosa che amava veramente. Oppure l'aveva fatto per il semplice desiderio di conoscere un mondo più grande di quello in cui era cresciuta, nel cuore del North Carolina?
«Ciao, Katie.» Sua madre rispose al terzo squillo. «Ti sei svegliata con gli uccellini questa mattina. Come stai, tesoro?» Adesso ad Asheboro avevano persino l'identificativo di chiamata. I tempi stavano proprio cambiando. Non sapeva se in meglio o in peggio, probabilmente né l'uno né l'altro. «Ciao, mamma. Come vanno le cose?» «Ti senti un po' meglio, oggi?» chiese sua madre. Sapeva che Katie aveva incontrato un uomo a New York. Sapeva tutto di Matt ed era molto contenta quando Katie la chiamava per raccontarle di lui, soprattutto quando le aveva detto che probabilmente si sarebbero sposati. Adesso che Matt l'aveva lasciata, Katie stava soffrendo e non se lo meritava. Aveva cercato di convincerla a tornare a casa per un po', ma lei non voleva. Non ne aveva bisogno, giusto? La città l'aveva temprata. Be', sua madre non si era lasciata ingannare. «Un po'. Sì, certo. Be', non proprio. Sono ancora in uno stato terribile, pietoso, disperato. Avevo giurato che non avrei mai permesso a un uomo di ridurmi così. Ed eccomi qui.» Katie iniziò a raccontare a sua madre del diario e di quello che aveva letto fino a quel momento. La lezione delle cinque palle. La vita quotidiana di Suzanne a Martha's Vineyard. Il suo incontro con Matt Wolfe. «Sai qual è la cosa più strana, mamma? Suzanne mi piace. Maledizione, sono una tale stupida. Dovrei odiarla, ma proprio non ci riesco.» «Certo che no. Be', se non altro quella mezza calzetta di Matt ha buon gusto in fatto di donne», disse sua madre, ridacchiando come era solita fare. Sapeva essere incredibilmente divertente quando voleva. Katie era grata di aver ereditato il suo senso dell'umorismo. Ma in quel momento non si sentiva in vena di scherzi. Diglielo, stava pensando tra sé e sé. Dille tutto quanto. Non ci riusciva. Si era confidata con le sue due migliori amiche di New York - Laurie Raleigh e Susan Kingsolver - ma non riusciva a dire a sua madre che era incinta. Le parole non volevano proprio uscirle di bocca. Perché no? si domandò. Ma sapeva la risposta: non voleva ferire i suoi genitori, erano troppo importanti per lei. Sua madre rimase in silenzio per un attimo. Holly Wilkinson lavorava ancora come maestra elementare ad Asheboro, oltre a essere il mentore di Katie da ben trent'anni. Le era sempre stata vicina, l'aveva sempre appoggiata, anche quando era partita per la terribile, odiata New York e suo padre non le aveva rivolto la parola per un mese.
Diglielo, Katie. Capirà. Tua madre può aiutarti. Ma le parole continuavano a bloccarsi in gola, soffocandola. Sentì la bile salirle nello stomaco. Parlò con sua madre per poco meno di un'ora, poi passò a suo padre, al quale era legata quasi quanto alla madre. Era un pastore, molto amato dalla comunità perché insegnava ad amare Dio anziché a temerlo. L'unica volta in cui si era davvero arrabbiato con lei era stato quando aveva fatto le valige e si era trasferita a New York. Ma alla fine l'aveva accettato e non glielo aveva mai più rinfacciato. I suoi genitori erano fatti così. Brave persone. E lo era anche lei, pensò Katie, e sapeva che era vero. Brave persone. Ma allora perché Matt l'aveva lasciata? Come aveva potuto uscire dalla sua vita in quel modo? E cosa c'era nel diario che avrebbe potuto spiegarglielo? Qual era il grande e oscuro segreto del diario? Che Matt aveva una moglie intelligente e meravigliosa e un bellissimo e caro bambino, e che aveva commesso un errore? Che aveva avuto una relazione con una donna di New York? Che per la prima volta aveva sbandato, in quello che sembrava un matrimonio da favola? Accidenti a lui! Accidenti a lui! Dopo aver parlato con suo padre, Katie andò a sedersi nello studio con i suoi due buoni amici Guinevere e Merlin, che si rannicchiarono sul divano accanto a lei e rimasero a guardare il fiume Hudson dalla finestra ad arco. Katie amava il fiume, il modo in cui cambiava di giorno in giorno, o anche nei diversi momenti della giornata. Il fiume rappresentava una lezione, proprio come le cinque palle. «Cosa devo fare?» sussurrò a Guinevere e Merlin. Gli occhi le si riempirono di lacrime, che le bagnarono le guance. Poi prese di nuovo il telefono e rimase seduta a tamburellare nervosamente con le dita sul ricevitore. Alla fine raccolse tutto il suo coraggio e compose il numero. Fu quasi sul punto di riattaccare, invece restò in attesa, squillo dopo squillo, finché non udì la segreteria telefonica. Trattenne il respiro quando sentì la voce registrata. «Sono Matt. Il tuo messaggio è importante per me. Lascialo dopo il beep. Grazie.» Katie lasciò un messaggio, sperando che fosse davvero importante per Matt. «Sto leggendo il diario», disse. Non aggiunse altro. DIARIO Vieni al nostro matrimonio, Nicky. Questo è il tuo invito. Voglio che tu sappia esattamente com'è stato il giorno in cui tua madre e tuo padre si so-
no giurati amore eterno. La neve cadeva dolcemente sull'isola. Le campane suonavano nella limpida, fredda e tonificante aria di dicembre mentre decine di amici intirizziti varcavano la soglia della Gay Head Community Church, che si dà il caso sia la più antica chiesa battista indiana del paese. E anche una delle più belle. C'è soltanto una parola per descrivere il giorno del nostro matrimonio... gioia. Io e Matt eravamo raggianti. Era come volare tra gli angeli scolpiti nei quattro angoli della cappella. Mi sentivo davvero un angelo nel mio abito bianco antico ricoperto da cento perline luccicanti. Il nonno è ritornato a Martha's Vineyard per la prima volta dopo quindici anni per accompagnarmi all'altare. I miei amici medici di Boston hanno affrontato il viaggio nel bel mezzo dell'inverno. Sono venuti persino alcuni miei pazienti settuagenari. La chiesa era piena di gente, erano rimasti posti in piedi soltanto per il servizio ecumenico. Come puoi immaginare, quasi tutti gli abitanti dell'isola sono amici di papà. Matt era molto affascinante. Indossava uno smoking nero e per l'occasione si era fatto spuntare i capelli, non troppo corti però. Gli brillavano gli occhi e il suo bellissimo sorriso era più raggiante del solito. Riesci a immaginare la scena, Nicky, con la neve che soffia lieve dall'oceano? Era meraviglioso. «Sei felice come me?» ha sussurrato Matt, avvicinandosi a me davanti all'altare. «Sei bellissima.» Mi sono accorta di essere arrossita, cosa che non succede spesso. Io sono il medico controllato, sicuro di sé, impassibile. Eppure, guardando Matt negli occhi, mi sono sentita improvvisamente vulnerabile, disarmata. Era tutto perfetto. «Non sono mai stata così felice, così sicura di qualcosa in vita mia», ho risposto. Ci siamo scambiati le promesse il 31 dicembre, poco prima dell'inizio del nuovo anno. C'era qualcosa di magico nel diventare marito e moglie alla vigilia di Capodanno. Per me era come se tutto il mondo festeggiasse con noi. Qualche secondo dopo che io e Matt avevamo pronunciato le nostre promesse, gli invitati si sono alzati e hanno gridato: «Buon anno, Matt e Suzanne!» Da decine di sacchetti di raso appesi con cura al soffitto sono scese piume bianco argenteo. Io e Matt ci siamo ritrovati in un turbinio di
angeli, nuvole e colombe. Ci siamo baciati e abbracciati forte. «Come ti sembrano i primi minuti da sposata, signora Harrison?» mi ha chiesto. Credo gli piacesse chiamarmi signora Harrison e a me piaceva sentirlo per la prima volta. «Se avessi immaginato quanto sarebbe stato meraviglioso, avrei insistito per farlo vent'anni fa», ho scherzato. Matt ha ridacchiato, dandomi corda. «Come avremmo potuto? Non ci conoscevamo ancora.» «Oh, Matt», ho detto, «ci conosciamo da sempre. Dev'essere per forza così.» Non ho potuto fare a meno di ricordare quello che Matt aveva detto la sera in cui mi aveva chiesto di sposarlo sulla spiaggia davanti a casa. «Non è una fortuna», aveva esclamato, «che Suzanne non sia morta a Boston e abbiamo il presente per stare insieme?» Mi sentivo incredibilmente fortunata e ho sentito un brivido di piacere mentre mi trovavo al fianco di Matt la sera del mio matrimonio. E così che mi sono sentita, ho provato proprio quella sensazione, e sono molto felice che adesso lo sai anche tu. *** Caro Nicholas, il primo giorno del nuovo anno io e Matt siamo partiti per una folle luna di miele di tre settimane. Abbiamo trascorso la prima settimana a Lanai, nelle Hawaii. È un luogo bellissimo, il migliore dell'arcipelago, con due soli hotel sull'intera isola. Non c'è da meravigliarsi che anche Bill Gates l'abbia scelta per la sua luna di miele. Presto mi sono resa conto di amare Matt ancor più di quando mi ha chiesto di sposarlo. Non volevamo più andarcene da Lanai. Matt avrebbe dipinto le case e finito la sua prima raccolta di poesie. Io sarei diventata il medico dell'isola. La seconda settimana ci siamo spostati ad Hana, sull'isola di Maui, un posto speciale quasi quanto Lanai. Avevamo il nostro mantra: non è una fortuna? Lo avremo ripetuto centinaia di volte. Poi siamo ritornati a Martha's Vineyard, dove abbiamo trascorso la terza settimana della luna di miele, ma non abbiamo visto molte persone, neanche Jean o Melanie Bone e le sue bambine. Ci stavamo godendo la nostra nuova, bellissima condizione, l'essere insieme per il resto della vita. Immagino che non tutte le lune di miele vadano così bene, ma la nostra è
stata davvero perfetta. Nick, ora ti racconto una cosa che ha fatto tuo padre, un gesto tanto premuroso e speciale che conserverò nel mio cuore per sempre. Ogni giorno della luna di miele Matt mi ha svegliato con un regalo. Alcuni erano piccoli doni, altri erano scherzi divertenti, altri ancora stravaganti, ma ognuno di loro veniva dal profondo suo cuore. Non è una fortuna? *** Non dimenticherò mai quella sensazione. Mi ha assalito come un'ondata di malessere. Sfortunatamente, Matt era già uscito per andare al lavoro ed ero sola in casa. Mi sono seduta sul bordo della vasca, sentendomi come se le forze mi stessero abbandonando. Un sudore gelido ha iniziato a scendermi sul collo e, per la prima volta in oltre un anno, ho pensato di dover chiamare un dottore. Era strano per me voler sentire un'altra opinione: di solito la diagnosi me la facevo da sola. Ma quel giorno stavo così male da desiderare il parere di qualcun altro. Poi, però, mi sono bagnata il viso con acqua fredda e mi sono detta che probabilmente si trattava di un attacco dell'influenza che circolava in quel periodo. Non mi ero sentita molto bene negli ultimi giorni. Ho preso qualcosa per lo stomaco, mi sono vestita e sono andata al lavoro. A mezzogiorno mi sentivo già molto meglio e a cena mi ero quasi dimenticata di essere stata male. Ma il mattino dopo mi sono ritrovata di nuovo seduta sul bordo della vasca, con gli stessi sintomi di debolezza, stanchezza e nausea. Allora ho capito. Ho fatto il numero del cellulare di Matt che, essendo uscito di casa da poco, era sorpreso di sentirmi. «Stai bene? Va tutto bene, Suzanne?» «Credo che... adesso sia proprio tutto perfetto», ho risposto. «Se puoi, vorrei che tornassi subito a casa. E potresti fermarti in farmacia a comprare un test di gravidanza? Voglio esserne assolutamente certa ma, Matt, aspettiamo un bambino.» *** Caro Nicholas, stavi crescendo dentro di me. Cosa posso dirti, Nicky? Una grande feli-
cità ha riempito i nostri cuori e ogni singola stanza del cottage sulla spiaggia. Dopo il matrimonio, Matt si era trasferito a casa mia. Era stata una sua idea: aveva detto che sarebbe stato meglio affittare casa sua, dal momento che molti dei miei pazienti abitavano qui intorno ed ero anche vicina all'ospedale. È stato un gesto molto dolce e premuroso da parte sua, ma lui è sempre così. Per essere un uomo grande e forte, è davvero molto gentile. Il tuo papà è il migliore. Se mi fossi trasferita da lui avrei sentito la mancanza dell'oceano, del nostro giardino profumato e salmastro, delle persiane estive che di notte, quando c'è il vento, sbattono contro la parete. Ma adesso so che non dovrò più farne a meno. Abbiamo deciso di allestire la tua cameretta nella stanza più assolata della casa, pensando che ti sarebbe piaciuto vedere la luce del mattino riversarsi sui davanzali e inondare ogni angolo della camera. Io e papà abbiamo iniziato a trasformarla in una vera cameretta, raccogliendo oggetti che pensavamo potessero piacerti. Abbiamo rivestito le pareti con una tappezzeria che ha come fantasia le storie di Mamma Oca. Poi abbiamo sistemato i tuoi primi orsacchiotti e i tuoi primi libri, e abbiamo appeso delle coloratissime trapunte sopra la culla, la stessa che aveva tuo padre quando era piccolo. Nonna Jean l'ha conservata per tutti questi anni. Solo per te, tesoro. Abbiamo riempito gli scaffali con un numero forse eccessivo di peluche colorati e palle di ogni genere di sport. Papà ha fabbricato un cavallo a dondolo di quercia con un'originalissima criniera cremisi e oro. Ha costruito anche delle decorazioni mobili dal delicato equilibrio, fatte di galassie piene di lune e stelle, e un carillon da appendere alla culla. Quando tiri la cordicella suona Whistle a Happy Tune. Ogni volta che sento quella canzone, penso a te. Non vedo l'ora di conoscerti. *** Caro Nick, Matt ha ricominciato. Quando sono tornata a casa dal lavoro, c'era un regalo sul tavolo della cucina. Una carta dorata ricoperta di cuori e legata con un nastro azzurro nascondeva il contenuto. Non potrei amarlo più di così.
Ho scrollato il pacchettino, facendo cadere un bigliettino che era stato messo sotto il fiocco. Il biglietto diceva: Questa sera devo lavorare fino a tardi, Suze, ma tu sarai sempre nei miei pensieri. Apri questo pacchetto quando arrivi a casa e mettiti comoda. Sarò di ritorno prima delle dieci. Matt. Per un attimo mi sono chiesta dove potesse lavorare Matt fino alle dieci di sera. Poi ho scartato il pacchetto e ho sollevato il coperchio della scatola. Dentro c'era la più bella collana antica che avessi mai visto: una catena d'argento con un medaglione di zaffiro a forma di cuore. Doveva avere almeno centocinquanta anni. Ho aperto il fermaglio e il cuore si è spalancato mostrandomi il messaggio inciso al suo interno: Nicholas, Suzanne e Matt. Per sempre insieme. *** Caro Nick, qualche anno fa è uscito un libro intitolato I ponti di Madison County. Il suo strepitoso successo è in parte dovuto al fatto che moltissime persone desiderano una vita più ricca di romanticismo e di emozioni. Ma il presupposto del libro è che le storie d'amore hanno breve durata, soltanto pochi giorni nel caso dei due protagonisti, Robert e Francesca. Anche Romeo e Giulietta sono stati amanti sfortunati, la cui passione è finita in tragedia. Nicky, ti prego, non crederci. L'amore fra due esseri umani può durare per moltissimo tempo, se queste persone amano se stesse a sufficienza e sono pronte a donare il loro cuore a un altro. Io ero pronta, e lo era anche Matt. Tuo padre inizia a mettermi in imbarazzo. È troppo buono con me e mi rende così felice. Come oggi: l'ha fatto di nuovo. La casa era piena di amici e parenti quando, questa mattina, sono scesa con indosso soltanto il mio malandato pigiama rosa e un'espressione addormentata sul volto. Mi ero quasi scordata del mio compleanno: compivo trentasei anni. Ma Matt non l'aveva dimenticato. Aveva organizzato una colazione a sorpresa... e sono rimasta davvero sorpresa, devo ammetterlo. Incredibilmente sorpresa. «Matt?» ho detto, ridendo imbarazzata e coprendo il pigiama stropicciato con le braccia. «Io ti uccido.» Mi ha salutato in mezzo alla gente che affollava la cucina. Aveva in mano un bicchiere di spremuta d'arancia per me e un ghigno divertito sul viso.
«Siete tutti miei testimoni. Avete sentito cosa ha detto mia moglie. Ha un aspetto dolce e indifeso, ma in realtà è un'assassina. Buon compleanno, Suzanne.» Nonna Jean mi ha dato il suo regalo e ha insistito affinché lo aprissi immediatamente. Dentro il pacchetto c'era una bellissima vestaglia di seta blu, che ho indossato subito per nascondere il pigiama. Ho abbracciato Jean, ringraziandola per avermi regalato ciò di cui avevo più bisogno in quel momento. «Il cibo è caldo, piuttosto buono, ed è pronto!» ha gridato Matt e tutti si sono diretti verso il tavolo scricchiolante, sul quale erano stati sistemati uova, diversi tipi di salumi, panini dolci, il babka fatto da Jean e caffè bollente a sazietà. Dopo che gli ospiti avevano avuto la loro parte della sontuosa colazione - e, sì, della torta di compleanno -, se ne sono andati sazi, lasciando me e Matt da soli. Siamo sprofondati nel grande e confortevole divano del salotto. «Allora, come ci si sente, Suzie? Un altro compleanno?» Non ho potuto fare a meno di sorridere. «La maggior parte delle persone non ama i compleanni. Pensano: Oddio, la gente comincerà a guardarmi come se fossi vecchia. Be', per me è l'esatto contrario. Per me ogni giorno è un dono straordinario. Il semplice fatto di essere qui, e soprattutto di essere con te. Grazie per la festa di compleanno. Ti amo.» Poi Matt ha fatto la cosa migliore che potesse fare. Si è chinato su di me e mi ha dato un dolcissimo bacio sulle labbra, mi ha preso in braccio e mi ha portato nella nostra camera da letto al piano di sopra, dove abbiamo trascorso il resto del mattino del mio compleanno e, ebbene sì, anche gran parte del pomeriggio. *** Caro Nicky, sono ancora un po' scossa mentre ti racconto cos'è successo qualche settimana fa. Un muratore del posto è arrivato al pronto soccorso intorno alle undici del mattino. Matt conosceva lui e la sua famiglia. L'operaio era caduto da una scala, aveva fatto un volo di cinque metri e mezzo e aveva riportato un trauma cranico. Avendo prima prestato assistenza al Massachusetts General Hospital nelle notti più concitate, avevo visto moltissimi casi del gene-
re. Avevo fatto funzionare il pronto soccorso a pieno ritmo, a tutta velocità, impartendo ordini e direttive. L'uomo si chiamava John Macdowell, aveva trent'anni, era sposato e aveva quattro figli. La risonanza magnetica mostrava un ematoma epidurale: era necessario alleviare immediatamente la pressione esercitata sul cervello. Ecco un uomo nel fiore degli anni che sta per morire, ho pensato. Non volevo perdere questo giovane padre. Ho lavorato intensamente come quando ero a Boston. Ci sono volute quasi tre ore perché le sue condizioni si stabilizzassero. Per poco non lo abbiamo perso quando ha avuto un arresto cardiaco ma, alla fine, ho avuto la certezza che lo avevamo salvato. Volevo baciare John Macdowell per il semplice fatto di essere ancora vivo. Sua moglie è arrivata all'ospedale con i bambini. Era paralizzata dalla paura e le veniva da piangere ogni volta che cercava di parlare. Si chiamava Meg e aveva in braccio un bambino piccolo. Quella povera donna, anche lei giovane, aveva l'aria di chi porta sulle spalle il peso del mondo. Probabilmente era proprio così che si sentiva quel giorno. Le ho fatto somministrare un blando tranquillante e mi sono seduta con lei per confortarla. Anche i bambini erano chiaramente spaventati. Mi sono messa la terza, di soli due anni, sulle ginocchia e le ho accarezzato dolcemente i capelli. «Papà sta bene», ho detto alla bambina. La madre mi ha guardata, ascoltando attentamente le mie parole. Per lei erano ancora più importanti che per i bambini. «È soltanto caduto. Come capita a voi qualche volta. Gli abbiamo dato delle medicine e fasciato la testa. Si rimetterà presto. Sono il suo medico e ve lo prometto.» La bambina e i suoi fratellini si sono aggrappati a ogni singola parola. E lo stesso ha fatto la madre. «Grazie, dottoressa», ha mormorato infine la donna. «Gli vogliamo così bene. John è un bravo ragazzo.» «Lo so. Lo si capisce dalla preoccupazione delle persone accanto a lui. Tutti i suoi colleghi sono venuti per vedere come stava. Lo terremo qui per qualche giorno e, quando sarà pronto per tornare a casa, le dirò esattamente cosa fare. Adesso le sue condizioni sono stazionarie. Perché non lascia i bambini qui con me e non va nella sua stanza?» La bambina è scesa dalle mia ginocchia. La signora Macdowell mi ha affidato il bambino che teneva tra le braccia. Era piccolissimo, doveva avere
soltanto due o tre mesi. E dubitavo che sua madre avesse più di venticinque anni. «È sicura, dottoressa Bedford? Ha tempo?» mi ha domandato. «Ho tutto il tempo di questo mondo per lei, John e i bambini.» Sono rimasta là seduta, con in braccio il piccolo, e non ho potuto fare a meno di pensare al bambino che stava crescendo dentro di me. E anche alla fragilità della vita, con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno. Ero consapevole di essere un buon medico. Ma soltanto in quel momento, tenendo in braccio il bimbo dei Macdowell, ho capito che sarei stata anche una buona madre. No, Nick, ho capito che sarei stata una madre eccezionale. *** «E questo cos'è?» ho esclamato. «Matt? Tesoro?» Facevo fatica a parlare. «Matt... sta succedendo qualcosa. Sento... dei dolori. Oddio. Dei dolori fortissimi, a dire il vero.» Ho fatto cadere la forchetta sul pavimento della Black Dog Tavern, dove io e Matt stavamo cenando. Non poteva essere arrivato il momento. Non così presto. Mancava ancora qualche settimana alla data prevista per il parto. Non era possibile che avessi già le contrazioni. Matt è entrato in azione. Era più preparato di me al grande momento. Ha lasciato i soldi sul tavolo e mi ha accompagnato fuori dal locale. Una parte di me sapeva quello che stava accadendo, o almeno così pensavo. Contrazioni di Braxton Hicks, cioè contrazioni che non sono però quelle del travaglio. Capita alle donne di avvertire dolori del genere, anche nel primo trimestre, ma quando succede nel terzo possono essere scambiati per le contrazioni che annunciano l'inizio del travaglio. Ma i dolori che avvertivo io erano sopra l'utero e stavano salendo fin sotto il polmone sinistro. Erano come tante coltellate, che mi toglievano letteralmente il respiro. Siamo saliti sulla jeep e ci siamo diretti subito all'ospedale. «Sono sicura che non è niente», ho detto. «Nicky ci sta mandando un segnale, vuole farci sapere che è in gran forma.» «Certo», ha risposto Matt, continuando a guidare. Ero stata sottoposta a monitoraggi settimanali perché la mia era considerata una gravidanza a rischio. Ma fino ad allora era andato tutto bene, anzi era stata una meraviglia. Se mi fossi trovata nei guai, lo avrei saputo. Op-
pure no? Ero sempre attenta a riconoscere anche il più piccolo problema. Essere un medico mi aveva resa ancora più preparata. Avevo torto. Ero nei guai. Il tipo di guai che non vuoi sapere prima che accadano. Adesso ti racconto del giorno in cui abbiamo quasi perso la vita. *** Caro Nicholas, avevamo il miglior dottore di Martha's Vineyard e uno dei migliori di tutto il New England. La dottoressa Constance Cotter è arrivata all'ospedale dieci minuti dopo di noi. Mi sentivo un po' meglio, ma Connie ha voluto tenermi sotto controllo di persona durante le due ore successive. Captavo la sua tensione, la vedevo nel modo in cui serrava la mascella. Era preoccupata per il mio cuore. Era abbastanza forte? Era anche preoccupata per te, Nicky. «Potrebbe essere pericoloso», ha detto Connie, senza darmi false illusioni. «Suzanne, hai la pressione così alta che comincio a pensare che sarebbe meglio indurre il travaglio adesso. So che non è ancora il momento, ma le tue condizioni mi preoccupano. Quello di cui sono sicura è che questa notte rimani qui. E ci rimarrai tutto il tempo che sarà necessario. No, non hai voce in capitolo.» Ho guardato Connie con un'espressione che diceva: Stai scherzando, vero? Ero un medico e vivevo a due passi dall'ospedale: sarei andata subito al pronto soccorso se mi fossi sentita di nuovo male. «Non pensarci neanche. Tu rimani qua. Vai all'accettazione, io passerò a visitarti prima di andare via. Non si discute, Suzanne.» Era strano essere ricoverata nell'ospedale dove lavoravo. Circa un'ora dopo, io e Matt eravamo seduti nella camera che mi era stata assegnata in attesa di Connie. Gli stavo dicendo quello che sapevo fino a quel momento, in particolare su una patologia chiamata preeclampsia. «Di cosa si tratta esattamente, Suzanne?» mi ha domandato Matt. Voleva conoscere ogni dettaglio, in termini chiari e comprensibili. Mi stava facendo delle domande corrette, così gli ho spiegato tutto. Matt si è mosso sulla sedia, visibilmente agitato. «Me l'hai chiesto tu», ho detto. Finalmente Connie è entrata nella stanza. Mi ha misurato di nuovo la pressione. «Suzanne, è salita ancora. Se non scende nelle prossime ore sarò
costretta a indurre il travaglio.» Non avevo mai visto Matt così preoccupato. «Rimango qui con te questa notte, Suzanne», ha annunciato. «Non essere ridicolo», ho ribattuto. «Per restare su una sedia scomoda e guardarmi dormire? È assurdo.» Ma Connie si è rivolta a me e, con il tono clinico che usa soltanto con i pazienti, ha detto: «Penso che sia un'ottima idea. Matt dovrebbe rimanere con te, Suzanne». Poi ha voluto controllarmi ancora una volta la pressione prima di andarsene. Ho studiato l'espressione del suo volto per cogliere qualche segnale di allarme. Cosa significava quello sguardo? Connie mi fissava in modo strano e non riuscivo a capire cosa volesse dire. Alla fine ha esclamato: «Suzanne, il tracciato del battito cardiaco del bambino non è chiaro. Dobbiamo farlo nascere adesso». *** Caro Nicholas, desideravo un bambino da sempre, desideravo vivere l'esperienza di un parto naturale, come mia madre e mia nonna prima di me. Connie sapeva quanto era importante per me mettere al mondo mio figlio in modo naturale. Io e Matt avevamo frequentato un corso di preparazione al parto e Connie mi aveva sentito parlarne all'infinito nel suo studio, e persino quando uscivamo a pranzo insieme. Ho letto dolore e tristezza sul suo volto quando si è chinata su di me. Mi ha preso la mano e l'ha tenuta stretta tra le sue. «Suzanne», ha sussurrato, «volevo che questo bambino venisse alla luce nel modo in cui tu speravi. Ma lo sai che non metterei mai a rischio la tua vita, o quella di tuo figlio. Dobbiamo farti un cesareo.» Gli occhi mi si sono riempiti di lacrime, ma ho annuito. «Lo so, Connie. Hai tutta la mia fiducia.» Poi tutto ha cominciato a muoversi velocemente. Connie mi ha attaccato una flebo al braccio e mi ha somministrato solfato di magnesio. Ho avvertito subito un senso di nausea peggiore del solito e mi è venuto un mal di testa accecante. Matt era accanto a me mentre mi preparavano per l'intervento, ma poi un nuovo medico gli ha detto che si trattava di un'emergenza e che non poteva rimanere. Grazie a Dio, Connie è ritornata proprio in quel momento e gli
ha permesso di restare. Mi ha spiegato cosa stava succedendo. Avevo il fegato gonfio, il numero delle piastrine nel sangue era allarmante e la pressione era salita a 190/130. E, quel che è peggio, Nicky, il tuo battito cardiaco era sempre più debole. «Non ti accadrà niente, Suzanne», continuava a ripetere Connie. La sua voce mi giungeva come un'eco da un canyon lontano. Le luci della stanza avevano preso a girare vorticosamente sopra la mia testa. «E a Nicky?» ho sussurrato, riuscendo a malapena a muovere le labbra secche. Volevo che mi dicesse: 'Neanche a lui', ma lei è rimasta in silenzio e gli occhi mi si sono riempiti di nuovo di lacrime. Sono stata portata in barella nella sala operatoria, dove tutto era pronto non solo per far nascere un bambino ma anche per farmi una trasfusione di otto unità di sangue. Il numero delle piastrine era crollato. Sapevo cosa stava succedendo. Se mi fosse venuta un'emorragia interna, sarei morta. Mentre mi facevano l'anestesia epidurale, ho riconosciuto il dottor Leon, il mio cardiologo, accanto all'anestesista. Perché era lì? Oddio, no. Ti prego, non farmi questo. Per favore, te lo chiedo per favore. Ti supplico. Mi hanno messo una maschera di ossigeno sul viso. Ho cercato di opporre resistenza. Connie ha alzato la voce. «No, Suzanne. Prendi l'ossigeno.» Mi sentivo andare a fuoco. Non ero abbastanza lucida da attribuirne la causa al solfato di magnesio. Non sapevo che i miei reni stavano smettendo di funzionare, le mie piastrine erano paurosamente basse e la pressione del sangue era salita ancora, raggiungendo un allarmante 200/115. Non sapevo che mi stavano facendo iniezioni di steroidi per migliorare la funzionalità polmonare del bambino e le sue possibilità di sopravvivenza. I minuti successivi sono avvolti nella nebbia. Ho visto che prendevano un divaricatore. L'espressione preoccupata di Connie si è trasformata in sguardi evasivi. Ho udito ordini perentori, suoni meccanici freddi e impassibili, e Matt che continuava a ripetere frasi di speranza. Ho sentito il rumore del liquido amniotico e del sangue che venivano aspirati. Ho provato un senso di torpore e di lieve vertigine, unito alla stranissima sensazione di non essere più là, di non essere da nessuna parte, a dire il vero. Sono stata strappata dalla sensazione surreale di essere entrata in un altro mondo da un grido. Un grido distinto e potente. Avevi annunciato il tuo arrivo come un valoroso guerriero. Ho cominciato a piangere, e lo stesso
hanno fatto Matt e Connie. Eri così piccolo, neanche tre chili, ma già così forte. E attento. Soprattutto considerando la pressione a cui eri stato sottoposto. Hai guardato me e papà dritto negli occhi. Non lo dimenticherò mai. La prima volta che ho visto il tuo viso. Mi hanno permesso di tenerti in braccio prima di portarti nel reparto di terapia intensiva neonatale. Così ho potuto guardarti in quei bellissimi occhi che lottavi per tenere aperti e ho potuto sussurrarti per la prima volta: 'Ti voglio bene'. Nicholas il Guerriero! KATIE Katie fu di nuovo assalita da un senso di paura e confusione quella notte. Mentre leggeva qualche altra pagina del diario, si costrinse a mangiare una pasta primavera e a bere un po' di tè. Non servì a molto. Si muoveva tutto troppo velocemente dentro la sua testa e, ancora di più, nel suo corpo gonfio e indolenzito. Era nato un bambino. Nicholas il Guerriero. Un altro bambino cresceva dentro di lei. Katie doveva pensare e mantenersi lucida. Quali erano le varie possibilità? Cosa stava accadendo realmente? Matt aveva tradito Suzanne per tutti quei mesi? Matt era stato infedele, e non era la prima volta? Matt aveva lasciato Suzanne e Nicholas per qualche motivo che doveva ancora essere rivelato nel diario? Erano divorziati? Suzanne aveva lasciato Matt per un altro uomo? Suzanne era morta, il suo cuore alla fine aveva ceduto? Suzanne era viva, ma molto malata? Dov'era Suzanne in quel momento? Forse avrebbe dovuto cercare di telefonarle a Martha's Vineyard. Forse era il caso che parlassero. Katie non era sicura che quella fosse una buona idea, o se si sarebbe rivelato invece uno dei suoi più grandi errori. Cercò di analizzare la situazione. Cosa aveva da perdere? Un po' di orgoglio, non molto di più. Ma per quanto riguarda Suzanne? E se non aveva idea di quello che stava facendo Matt? Era anche solo vagamente possibile? Certo che lo era. Non era forse accaduta la stessa cosa a lei? A quel punto tutto le sembrava possibile. Tutto era possibile. Allora cos'era suc-
cesso veramente? Era una situazione così angosciante, insopportabile. L'uomo che amava, di cui si fidava e che pensava di aver compreso a fondo, l'aveva lasciata. Non era una cosa che accadeva spesso? Non era triste? Ricordava un momento particolare con Matt, che le dava la forza di andare avanti. Una volta si era svegliato nel cuore della notte accanto a lei e si era messo a piangere. Katie lo aveva tenuto tra le braccia a lungo, gli aveva accarezzato la guancia. Alla fine lui aveva sussurrato: «Mi sto sforzando di lasciarmi tutto alle spalle. Ce la farò. Te lo prometto, Katie». Dio, era tutto così assurdo! Katie si batté la coscia con il pugno chiuso. Il cuore le batteva troppo forte e aveva il seno dolorante. Poi si sollevò dal divano, corse in bagno e vomitò la pasta che aveva appena mangiato. *** Più tardi Katie andò in cucina a prepararsi un'altra tazza di tè. Lei e Guinevere rimasero sedute a fissare la parete. Aveva montato da sola gli armadietti della cucina. I ragazzi di Chinatown Lumber la conoscevano fin troppo bene. Aveva la sua cassetta degli attrezzi e si vantava di non avere mai chiamato nessuno quando c'era qualcosa da riparare. Allora ripara il tuo cuore, pensò. Ripara quello! Alla fine prese in mano il telefono. Merlin aprì un occhio assonnato mentre lei componeva nervosamente un numero e sentiva rispondere dall'altra parte del filo. «Ciao, mamma. Sono io», disse con una voce più tenue di quanto avrebbe voluto. «Lo so, Katie. Cosa c'è, tesoro? Perché non vieni a casa per un paio di giorni? Penso che farebbe molto bene a tutti noi.» Era così difficile, così terribile. «Potresti dire a papà di venire anche lui al telefono?» chiese. «Chiamalo, per favore.» «Sono qui, Katie», disse suo padre. «Sono nello studio. Ho sollevato la cornetta quando ho sentito suonare il telefono. Come stai?» Katie emise un profondo sospiro. «Be'... sono incinta», confessò alla fine. Piansero tutti e tre al telefono: loro erano fatti così. Ma i genitori di Katie non esitarono a consolarla, dicendole: «Va tutto bene, Katie. Ti voglia-
mo bene, siamo dalla tua parte. Ti capiamo». Perché loro erano fatti così. DIARIO Caro Nicholas, per la cronaca, hai iniziato presto a dormire tutta la notte. Non tutte le notti, ma la maggior parte, a cominciare da quando avevi due settimane, e con grande invidia di tutte le altre mamme! Quando attraversi le piccole fasi della crescita, ti svegli affamato. E che mangione sei! Mangi proprio tutto, sia che ti allatti al seno o ti dia il biberon con il latte formulato, o con l'acqua, butti giù qualsiasi cosa e non sei schizzinoso. Durante la prima visita pediatrica dopo i controlli ospedalieri iniziali, il dottore non riusciva a credere che riuscissi già a mettere a fuoco i giocattoli che ti stava mostrando. Ha esclamato: «È un bambino straordinario, eccezionale, Suzanne». E ha anche detto che eri molto forte e intelligente perché, quando ti ha messo a pancia in giù, hai sollevato la testa. Non è un'impresa da poco per un bimbo di due settimane. Nicholas il Guerriero! Sei stato battezzato nella chiesa di Maria Maddalena. Era una bella giornata. Indossavi la mia vestina fatta a mano, ereditata dalla famiglia della zia Romelle di Newburgh, New York. Negli ultimi cinquant'anni l'avevano indossata anche i miei cugini e altri parenti, ma era ancora in perfette condizioni. Avevi un aspetto dolcissimo e hai incantato tutti quanti. Monsignor Dwyer era completamente rapito da te. Per tutto il tempo della cerimonia hai cercato di afferrare il libro delle preghiere e di toccargli la mano. Lo guardavi dritto negli occhi, più attento che mai. Verso la fine della funzione, dopo aver constatato che non ne lasciavi scappare una, monsignor Dwyer ha detto, rivolto a te: «Non oso immaginare cosa diventerai da grande, Nicholas. Ripensandoci, tu sei grande». *** Oggi è il mio primo giorno di lavoro dopo la maternità. Ovviamente sento già la tua mancanza. No, lascia che renda meglio l'idea: mi sento persa senza di te. Ho scritto una cosa mentre me ne stavo seduta qui, pensando a te, persi-
no tra un paziente e l'altro. Rosa rosellina ti voglio bene in prosa ti voglio bene in rima ti voglio bene nella felicità ora e per l'eternità e ti voglio bene un milione trilione di volte più di prima! Credo che sarei capace di inventarmi decine di filastrocche per te se mi mettessi d'impegno. Mi vengono in mente ogni volta che fai qualcosa di buffo, quando sorridi, persino quando dormi. Cosa vuoi che ti dica? Sei una fonte di ispirazione. Anche a Matt piacciono e, detto da lui, lo considero un vero e proprio complimento. Ma non lasciarti ingannare, è tuo papà lo scrittore in famiglia. Però mi diverto a scrivere queste piccole poesie d'amore per te. Uh, eccone un'altra! Nicky uno, Nicky due, Nicky tre ti voglio bene e tu vuoi bene a me amo le tue dita, le ginocchia e il nasino e dappertutto voglio darti un bacino ti do tanti baci, e poi sai che c'è? Che ti devo baciare ancora uno, due e tre. D'accordo, piccolino, devo andare adesso. È arrivato il mio prossimo paziente. Se quella povera donna sapesse cosa stavo facendo dietro la porta dello studio, scapperebbe a gambe levate alla clinica gratuita di Edgartown. Ho deciso di tornare al lavoro soltanto per mezza giornata all'inizio, in modo da riabituarmi alla routine. Ma da quando sono arrivata, questa mattina, non faccio altro che guardare le tue foto e scrivere stupide poesie. Se qualcuno mi spiasse, penserebbe che sono innamorata. Lo sono. ***
Caro Nicky, eccomi di nuovo qua. Questa notte ti ho sentito piangere e mi sono alzata per vedere cosa avevi. Mi hai guardata con due occhioni talmente tristi. I tuoi occhi sono così azzurri, e sempre molto espressivi. Ho controllato per vedere se avevi bisogno di essere cambiato, ma eri a posto. Ho pensato che forse avevi fame, ma non era neppure quello. Allora ti ho preso in braccio e mi sono seduta con te sulla sedia a dondolo accanto alla culla. Abbiamo dondolato avanti e indietro, avanti e indietro, a un ritmo più veloce di quello delle onde dell'oceano. I tuoi occhi si sono chiusi a poco a poco e le tue lacrime si sono dissolte in sogni d'oro. Ti ho rimesso nella culla e sono rimasta a guardare il tuo sederino a forma di cuore sollevarsi in alto. Poi ti ho girato sulla schiena e ho guardato il tuo pancino alzarsi e abbassarsi. Credo che tutto ciò di cui avevi bisogno fosse un po' di compagnia. È così? Volevi soltanto essere cullato, essere tenuto in braccio e sentire una voce amica? Sono qui, tesoro. Sono qui con te e non vado da nessuna parte. Rimarrò sempre al tuo fianco. «Cosa fai, Suzie?» ha sussurrato Matt all'improvviso. Non l'avevo sentito entrare nella cameretta. Papà sa essere silenzioso come un gatto. «Nicky si era svegliato.» Matt ha guardato nella culla e ha visto che tenevi la manina vicino alla bocca come fosse un dentarolo. «Dio, è bellissimo», ha detto piano. «Davvero. È stupendo.» Ti ho guardato anch'io. Non c'era una sola cosa di te che non mi facesse balzare il cuore in petto dalla felicità. Matt mi ha cinto la vita con le braccia. «Vuoi ballare, signora Harrison?» Non mi aveva più chiamata così dal giorno del matrimonio. Ho sentito il cuore battere forte, come le ali di un canarino che fa il bagnetto nella vaschetta dell'acqua. «Mi sembra di sentire la nostra canzone.» E accompagnati dalle note acute che uscivano distintamente dal tuo carillon, io e Matt abbiamo ballato per tutta la stanza quella notte. Abbiamo ballato davanti ai tuoi peluche, a Mamma Oca e al cavallino a dondolo artigianale, davanti alle stelle e alle lune appese per aria. Abbiamo ballato lentamente e con amore nella luce fioca della tua piccola tana. Quando la melodia ha raggiunto l'ultima nota prima di spegnersi, Matt mi ha baciata e ha detto: «Grazie, Suzanne. Grazie per questa notte, per questo ballo, e soprattutto per questo bambino. Il mio mondo è tutto qui, in
questa stanza. Se non avessi più nient'altro, avrei tutto». Poi è accaduta una cosa strana, magica: il carillon ha intonato un altro dolce ritornello, come se si fosse soltanto fermato a riposare per qualche attimo. *** Caro Nick, oggi Melanie Bone si sta occupando di te mentre io sono al lavoro. Giornata piena, pieno carico. Le bambine sono da sua madre nel Maine per una settimana, così si è offerta di dare il cambio a nonna Jean. È strano lasciarti per così tanto tempo, e non riesco a smettere di chiedermi cosa stai facendo adesso. E adesso. E adesso. L'ultima volta che mi sono sentita così stanca è stato quando lavoravo giorno e notte al Massachusetts General Hospital a Boston. Forse è perché negli ultimi giorni sto di nuovo cercando di fare troppe cose insieme. Lavorare e prendersi cura di un bambino è più difficile di quanto pensassi. Ho sempre provato un grandissimo rispetto per tutte le madri, ma ora è cresciuto ancora di più. Le madri che lavorano, quelle che stanno a casa, le madri che crescono i loro figli da sole, sono tutte donne incredibili. Oggi all'ospedale è successa una cosa che mi ha fatto ripensare alla tua nascita. Hanno portato una donna di quarantun anni di New York, che era qui in vacanza. Era al settimo mese di gravidanza e non si sentiva molto bene. Al pronto soccorso la situazione è precipitata: ha avuto un'emorragia. È stato terribile: quella povera donna ha finito col perdere il bambino che aspettava e ho dovuto cercare di consolarla. Probabilmente ti stai chiedendo perché ti racconto questa storia così triste. Ci ho pensato su prima di condividerla con te. Te la racconto perché mi ha fatto capire una volta di più quanto siamo vulnerabili, e che talvolta vivere è come camminare in bilico su una corda appesa per aria. Le cadute sono sempre in agguato. Il semplice fatto di vedere quella donna, oggi, e di ricordare quanto siamo stati fortunati noi, mi ha lasciato senza fiato. Oh, Nicky, certe volte vorrei proteggerti come un prezioso cimelio. Ma che cos'è la vita se non la vivi in pieno? Credo di saperlo più di chiunque altro. Ricordo una frase che diceva spesso mia nonna: un oggi è meglio di due
domani. *** Caro Esibizionista, stai imparando a tenere in mano il biberon. Nessuno riesce a credere che questo ometto di due mesi mangi già da solo. Io considero ogni tua nuova esperienza come un dono per me e tuo padre. Qualche volta mi comporto da vera provinciale. Mi abbandono a visioni confuse di station wagon, quartieri residenziali fuori città e scarpine bronzate. Non ho potuto farne a meno. Ho dovuto farti fotografare da uno studio professionale. Tutte le madri devono farlo almeno una volta, o mi sbaglio? Oggi è la giornata giusta. Papà è andato a New York per incontrare una persona a cui sono piaciute molto le sue poesie. Lui fa il modesto, ma è una grande notizia. Quindi io e te siamo a casa da soli. Ho in mente un piano. Ti ho messo una salopette blu stinta (così trendy), i tuoi scarponcini (uguali a quelli di papà) e un berretto da baseball dei Red Sox (con la visiera inclinata quanto basta). Il berretto ho dovuto togliertelo perché ti ha fatto diventare matto. Forse pensavi che stavo cercando di attaccarti delle corna in testa. Ecco tutta la scena, nel caso non te la ricordassi. Quando siamo arrivati allo studio fotografico You Ought Be in Pictures, mi hai guardata come per dire: Questa volta l'hai fatta grossa. Forse avevi ragione. Il fotografo era un uomo sulla cinquantina che proprio non ci sapeva fare coi bambini. Non che fosse cattivo, ma non aveva assolutamente idea di cosa fare. Ho pensato che forse la sua specialità erano le nature morte perché ha cercato di prepararti accostandoti vari tipi di frutta e verdura. Be', una cosa è certa: abbiamo un servizio fotografico unico nel suo genere. Inizi con uno sguardo sorpreso, che presto si trasforma in un'espressione lievemente più infastidita. Poi passi alla fase litigiosa, subito degenerata in vera e propria rabbia. E infine, inconsolabile disperazione. C'è soltanto una cosa che mi consola: non puoi dirlo a papà. Trarrebbe troppa soddisfazione dai suoi 'te l'avevo detto'. Perdonami per quello che ti ho fatto. Ti prometto che non farò mai vedere queste foto alle tue fidanzate, ai tuoi compagni di università o a nonna Jean. Soprattutto non a lei: le esporrebbe nelle vetrine di tutti i negozi di
Martha's Vineyard prima di sera. *** Caro Nicky, anche se fuori faceva solo un po' fresco, ti ho avvolto in una coperta e con un cestino da pic-nic siamo andati sulla spiaggia di Bend in the Road a festeggiare il trentasettesimo compleanno di papà. Dio, quanto è vecchio! Abbiamo costruito castelli e angeli di sabbia e scritto il tuo nome a grandissime lettere, finché non è arrivata l'onda e la risacca le ha cancellate. Allora l'abbiamo scritto di nuovo in un punto dove l'acqua non arrivava. È stato uno spasso guardare te e papà giocare insieme. Siete fatti della stessa pasta, due gocce d'acqua, Stanlio e Olio! Le tue abitudini, i tuoi modi di fare, i tuoi gesti sono uguali a quelli di Matt. E viceversa. A volte, quando ti guardo, immagino tuo padre da bambino. Siete tutti e due allegri, aggraziati e atletici, belli da guardare. Eri appena tornato sulla coperta dopo aver combattuto con mostri di sabbia e ricci di mare amici, quando Matt ha infilato la mano in tasca e ha estratto una lettera, che mi ha consegnato. «La casa editrice di New York non ha voluto la mia raccolta di poesie non ancora - ma c'è un premio di consolazione.» Aveva inviato una poesia a una rivista chiamata Atlantic Monthly, che ha deciso di pubblicarla. Non mi aveva detto della poesia. Mi ha spiegato che non aveva voluto dirmi niente in caso non l'avessero accettata. Ma l'hanno accettata, Nicky, e Matt ha ricevuto la lettera il giorno del suo compleanno. Gli ho chiesto se potevo leggerla e Matt ha preso un altro pezzo di carta. Era la poesia, l'aveva tenuta con sé per tutto il tempo. Mi sono venute le lacrime agli occhi quando ho letto il titolo: Nicholas e Suzanne. Matt mi ha rivelato che si è messo a scrivere tutte le cose che ti dico e ti canto, dandosi un gran da fare per ascoltare di nascosto le mie brevi poesie e filastrocche. Mi ha detto che quella poesia non era soltanto sua, ma anche mia, perché era la mia voce che traspariva in quei versi, perciò era come se l'avessimo creata insieme. Papà ne ha letta una parte a voce alta, avendo come sottofondo il rumore delle onde che si infrangono sulla riva e lo stridore dei gabbiani. Nicholas e Suzanne
Chi fa muovere agli alberi le mani? E riporta le navi da paesi lontani, trasforma il grano in fili d'oro e dona un amore che è più di un tesoro... Chi caccia dal cielo la pioggia? E canta alla luna una filastrocca, esaudisce desideri in una bottiglia e ascolta le canzoni di una conchiglia... Chi ha il dono di rendere splendente tutto quello che tocca e sente? Chi rende la vita meravigliosa? Per questo ringrazio mio figlio, la mia sposa. Cosa poteva esserci di meglio? Assolutamente niente. Papà ha detto che è stato il compleanno più bello che abbia mai festeggiato. *** Caro Nicholas, è successo qualcosa di inaspettato e ho paura che non sia tanto bello. Era di nuovo ora della vaccinazione. Odiavo doverti sottoporre a una tale tortura. Il tuo pediatra di Martha's Vineyard era in vacanza, perciò ho deciso di chiamare un mio amico dottore di Boston. Anche perché era giunto il momento di fare una visita alla città dei fagioli. Una volta a Boston, mi sarei sottoposta anch'io a un controllo. Inoltre, era l'occasione giusta per rivedere i vecchi amici, andare a Newbury Street a guardare le vetrine, mangiare a Harvard Gardens e, soprattutto, mostrarti a tutti, Nicky Mouse. Abbiamo preso il traghetto per Woods Hole e alle nove del mattino eravamo già sulla Route 3. Era la nostra prima avventura sulla terraferma. Il viaggio di Nicholas nella grande città! Il tuo appuntamento era il primo. La sala d'aspetto per i bambini non era cambiata: giocattoli, matite e blocchi erano sparsi ovunque. Ti sei messo a fissare un orologio nero a forma di gatto che muoveva la coda e gli occhi avanti e indietro al ritmo del tempo. Altri bambini piangevano ed erano irrequieti, ma tu te ne stavi seduto tranquillo come un topolino, tutto preso a
studiare il nuovo ambiente. «Nicholas Harrison», ha chiamato infine la receptionist. Era strano sentire il tuo nome annunciato in modo così ufficiale da una perfetta sconosciuta. Mi aspettavo quasi di sentirti rispondere: 'Presente'. È stato bello rivedere il mio vecchio amico Dan Anderson, e lui non riusciva a credere che tu fossi già così grande. Ha detto che hai preso molto da me, e naturalmente la cosa mi ha fatto un immenso piacere. Ma per essere corretta ho dovuto mostrargli anche le foto di papà. «Hai un'aria così felice, Suzanne», ha detto Dan mentre ti misurava, ti dava dei colpetti e ti metteva a punto. «Lo sono, Dan. Mai stata più felice. È fantasticov» «Lasciare la città ti ha fatto proprio un mondo di bene. E poi guarda questo futuro quarterback.» Ero raggiante. «È il bambino più buono della terra. Come se non l'avessi mai sentito dire prima, giusto?» «Non da te, Suzanne.» E così dicendo, ti ha consegnato di nuovo a me. «È meraviglioso rivederti, mamma Bedford. E per quanto riguarda questo ometto, è il ritratto della salute.» Naturalmente lo sapevo già. *** Poi è venuto il mio turno. Ero seduta sul bordo del lettino nello studio medico, già vestita, in attesa che arrivasse il mio amico, il dottor 'Philadelphia', Phil Barman. Phil era stato il mio medico a Boston e si era tenuto in contatto con lo specialista che avevo a Martha's Vineyard. I due medici si completavano in modo perfetto. La visita era stata più lunga del previsto. Ti avevo affidato a un'infermiera, ma ero impaziente di riabbracciarti e anche di ripartire per Martha's Vineyard. In quel momento è arrivato Phil e mi ha chiesto di seguirlo nel suo ufficio. Eravamo vecchi amici e abbiamo chiacchierato per alcuni minuti prima che lui affrontasse il discorso. «L'esame sotto sforzo non mi piace, Suzanne. Ho notato qualche irregolarità nel tuo elettrocardiogramma. Mi sono preso la libertà di andare dal dottor Davis al piano di sotto. So che Gail è stata la tua cardioioga quando eri ricoverata qui e ha tutti i gli esami che hai fatto a Martha's Vineyard. Ti riceverà oggi stesso.» «Aspetta un attimo, Phil», l'ho interrotto. Ero sconcertata. Doveva esser-
ci un errore: io mi sentivo bene, anzi benissimo. Non ero mai stata così in forma. «Non può essere vero. Ne sei sicuro?» «Conosco la tua anamnesi e peccherei di negligenza se non ti facessi visitare da Gail Davis. Forza, Suzanne, sei già qui e Martha's Vineyard non è proprio dietro l'angolo. Rimani, non ci vorrà molto. Ci prenderemo cura noi di Nicholas finché non avrai finito. Sarà una gioia.» Poi Phil ha continuato il discorso con tono sempre più grave. «Suzanne, ci conosciamo da tanto tempo. Di qualsiasi cosa si tratti, voglio che tu possa affrontarlo. Forse non è niente, ma vorrei sentire il parere di un altro medico. Daresti lo stesso consiglio a un tuo paziente.» Avevo una sensazione di déjà vu mentre camminavo lungo i corridoi verso l'ufficio di Gail Davis. Signore, ti prego, fa' che non succeda di nuovo. Non adesso. Per favore, Signore. La mia vita è così perfetta ora. Sono entrata nella sala d'aspetto con l'impressione di camminare nella fitta nebbia di un incubo. Non riuscivo a mettere a fuoco quello che mi circondava, né a pensare. Un inquietante mantra mi riecheggiava nel cervello: Dimmi che non sta succedendo. Un'infermiera è venuta verso di me. Ricordavo di averla già incontrata durante le visite che avevo fatto in ospedale dopo l'infarto. «Suzanne, venga pure con me.» L'ho seguita come un prigioniero che sta per essere giustiziato. Dimmi che non sta succedendo. *** Sono rimasta con Gail Davis per quasi due ore. Credo di essere stata sottoposta a tutti gli esami cardiologici esistenti. Ero in pensiero per te, anche se sapevo che eri in buone mani nell'ufficio del dottor Barman. Quando finalmente ho finito, Gail mi ha raggiunta. Aveva un'aria seria, ma per me non era una novità perché lei era sempre così, persino agli eventi mondani in cui mi era capitato di incontrarla. L'ho ricordato a me stessa, ma non mi è stato di grande aiuto. «Non hai avuto un altro infarto, Suzanne. Voglio tranquillizzarti a questo proposito. Ma gli esami mostrano un problema a due valvole. Credo sia dovuto all'arresto cardiaco, o forse alla gravidanza.» «Poiché le valvole non funzionano come dovrebbero, il tuo cuore fa fatica a pompare sangue. Sai già dove voglio arrivare, Suzanne, ma mi sento in dovere di metterti in guardia comunque. È un avvertimento, ed è una
fortuna che tu abbia avuto questo avvertimento.» «Non mi sento molto fortunata», le ho detto. «A molti non viene concesso neanche questo, e così non hanno la possibilità di riparare ciò che sta per rompersi. Quando torni a Martha's Vineyard dovrai fare altri esami, poi possiamo discutere delle diverse possibilità. Forse dovremo sostituire le valvole, ma non è detto.» Facevo fatica a respirare, ma mi rifiutavo categoricamente di piangere di fronte a Gail. «È strano», ho commentato. «Le cose sembrano andare alla perfezione finché un giorno, pum, qualcuno ti si avvicina di soppiatto e ti tira un colpo mancino che non hai visto arrivare.» Gail Davis non ha detto nulla e si è limitata a posarmi teneramente la mano sulla spalla. *** Caro Nicky, per usare le parole di una vivace ragazza italiana, Michela Lentini, che era la mia migliore amica a Cornwall, New York, 'oh, marone'. Oppure, per dirla alla maniera dei Blues Brothers: 'Non ci prenderanno, siamo in missione per conto di Dio!' Ti ho guardato nello specchietto retrovisore, scalciavi e tendevi le braccia verso di me. Il mondo correva via veloce accanto a noi e avevo l'impressione che stessimo precipitando, anziché andando a casa. Ti ho parlato, Nicky, ti ho davvero parlato. «La mia vita è così legata alla tua. Sembra impossibile che possa accadermi qualcosa di brutto adesso. Ma immagino che sia soltanto il falso senso di sicurezza che dà l'amore.» Ci ho pensato per un attimo. Innamorarmi di Matt, e amarlo così tanto, mi aveva fatta sentire al sicuro. Com'era possibile che qualcosa potesse nuocerci? Com'era possibile che potesse succedere qualcosa di brutto? Anche tu mi fai sentire al sicuro, Nicky. Come può capitare qualcosa che ci separi? Che mi impedisca di vederti crescere? Dio non permetterebbe mai che accada una cosa tanto crudele. Improvvisamente sono affiorate le lacrime che avevo trattenuto nello studio del dottor Davis. Me le sono asciugate subito e mi sono concentrata sulla strada, mantenendo la mia solita andatura lenta e regolare. Ti ho parlato attraverso lo specchietto retrovisore che riflette il tuo seggiolino. «Sai cosa ti dico? Facciamo un patto. Ti va, piccolo mio? Ogni
volta che riesco a farti sorridere è un anno in più che abbiamo da passare insieme, un anno intero per ogni sorriso. Si chiama pensiero magico, Nicky. Abbiamo già guadagnato una decina di anni insieme perché hai sorriso almeno dieci volte durante il viaggio. Se andiamo avanti di questo passo, io arriverò a centotrentasei anni e tu sarai un arzillo vecchietto di ottantadue.» Ho iniziato a ridere del mio folle senso dell'umorismo. Tutt'a un tratto il tuo viso si è aperto nel sorriso più bello che ti abbia mai visto fare. Ridendo a crepapelle, mi sono voltata a guardarti e ho sussurrato: «Nicholas, Suzanne e Matt. Per sempre insieme». È la mia preghiera. *** Caro Nicholas, sono passate quattro settimane lunghe e inquiete da quando ho ricevuto quella brutta notizia a Boston. Matt ti ha portato a fare un giro sulla jeep e io sono seduta in cucina con i raggi del sole che filtrano dalla finestra come stelle filanti gialle in una parata. È bellissimo. I medici sono tutti d'accordo. Soffro di una forma di valvulopatia, ma è curabile. Per il momento non mi sostituiranno le valvole cardiache e di sicuro non mi sottoporranno a un trapianto di cuore. Per ora verrò curata con le radiazioni. Però mi hanno avvertita: 'La vita non dura in eterno. Goditi ogni attimo'. Sento il mattino schiudersi, portando con sé il canto, il sale e il profumo erboso delle paludi. Ho gli occhi chiusi e sento le campane eoliche tintinnare per la brezza oceanica che soffia fuori dalla finestra. «Non è una fortuna?» ho esclamato infine ad alta voce. «Che sia seduta qui, a godermi questa bella giornata?» «Che vivo a Martha's Vineyard, così vicina all'oceano che potrei lanciare una pietra nell'acqua, se fossi capace di tirare le pietre lontano...» «Che sono un medico e amo il mio lavoro...» «Che in qualche modo, per quanto fosse improbabile, ho trovato Matt Harrison e ci siamo innamorati follemente...» «Che abbiamo un bambino con due splendidi occhi azzurri, un sorriso meraviglioso, un bel carattere e un profumo che adoro.» «Non è una fortuna, Nicky? Non è una vera fortuna?» Perlomeno è quello che penso io.
È un'altra delle mie preghiere. *** Caro Nicholas, stai crescendo sotto i nostri occhi ed è meraviglioso seguire i tuoi progressi. Assaporo ogni singolo istante. Spero che anche tutte le altre mamme e i papà si ricordino di assaporare questi momenti e abbiano il tempo per farlo. Adori venire in bicicletta con me. Hai il tuo casco Boston Bruins e un seggiolino che ti tiene stretto e al sicuro dietro di me, al quale attacco con un nastro il biberon dell'acqua perché tu possa giocare mentre io pedalo... ed eccoci pronti per partire. Ti piace cantare e osservare tutte le persone e i paesaggi dell'isola. Anch'io lo trovo divertente. Hai tanti ricciolini biondissimi. Se te li taglio, so che non ricresceranno più così, e tu allora sarai un vero ometto, non più un bambino piccolo. Adoro guardarti crescere, ma nello stesso tempo mi dispiace constatare che il tempo passa così in fretta. Non è facile da spiegare, non sono sicura di esserne capace, ma c'è qualcosa di speciale nel guardare tuo figlio giorno dopo giorno dopo giorno. Desidero trattenere ogni istante, ogni sorriso, ogni singolo bacio e abbraccio. Credo che abbia a che fare con il bisogno di dare e ricevere amore, e di sentirsi necessari. Voglio rivivere tutto dall'inizio. Ogni singolo istante da quando sei nato. Te l'avevo detto che sarei stata una mamma eccezionale. *** Ultimamente ho avuto l'impressione di vivere ogni giorno in maniera completa. Tutte le mattine, prima di alzarci, Matt si gira verso di me, mi bacia e mi sussurra all'orecchio: «Abbiamo il presente, Suzanne. Alziamoci e andiamo a vedere il nostro bambino». Non perde un giorno. Oggi però c'è qualcosa di diverso. Non sono certa di sapere di cosa si tratta, ma il mio intuito mi dice che sta succedendo qualcosa. Non so se è una cosa positiva, non ne sono ancora sicura. Dopo che papà è uscito per andare al lavoro, dopo averti vestito e dato da mangiare, avverto ancora lo stesso senso di disagio. È una sensazione strana: non proprio spiacevole, ma neanche piacevole. Mi gira la testa e sono più stanca del solito. Così stanca da dovermi sdraiare.
Devo essermi addormentata dopo averti rimesso nella culla e averti rimboccato le coperte perché, quando ho riaperto gli occhi, stavano suonando le campane della chiesa in paese. Era già mezzogiorno. Mezza giornata era passata. Allora ho deciso di scoprire cosa stava succedendo. E adesso lo so. *** Caro Nicholas, questa sera, dopo che papà ti ha messo a letto, siamo andati a sederci sul portico e abbiamo guardato il sole che tramontava sull'oceano in un incendio di striature rosse e arancioni. Matt ha un tocco davvero magico e si è messo a massaggiarmi pazientemente le braccia e le gambe. Forse mi piace più di qualsiasi altra cosa al mondo, potrei lasciarlo andare avanti per ore e, in effetti, a volte lo faccio. Le sue poesie gli stanno dando grandi soddisfazioni ultimamente. Il suo sogno è quello di vederne pubblicata una raccolta e all'improvviso molte persone si stanno mostrando interessate. Mi piace sentire l'emozione nella sua voce quando ne parla e rimango in silenzio ad ascoltarlo. «Matthew, è successa una cosa oggi», gli ho detto alla fine, dopo avergli lasciato raccontare tutte le sue novità. Si è girato all'improvviso, mettendosi a sedere dritto. I suoi occhi erano pieni di preoccupazione e aveva la fronte aggrottata. «Scusa, mi dispiace», ho cercato di rassicurarlo. «È una cosa bella.» L'ho sentito rilassarsi tra le mie braccia e anche il suo viso è apparso più disteso. «Allora cos'è successo, Suzanne? Raccontami la tua giornata.» La cosa bella è che il tuo papà desidera veramente che gli racconti quello che mi accade di giorno in giorno. Ascolta e mi fa tante domande. Non tutti gli uomini sono così. «Sai che al mercoledì non vado al lavoro a meno che non ci sia un'emergenza. Grazie a Dio oggi non è successo niente, perciò sono rimasta a casa con Nicky.» Matt mi ha appoggiato la testa sul grembo e ha lasciato che gli accarezzassi i folti capelli castani. Gli piace quando gli passo le dita tra i capelli, come a me piace quando lui mi fa il solletico. «Uhm, interessante. Magari inizierò anch'io a stare a casa al mercoledì», ha scherzato.
«Non è una fortuna», ho detto, «avere la possibilità di stare con Nicky tutti i mercoledì?» Matt ha avvicinato il mio viso al suo e ci siamo baciati. Non so quanto durerà questa incredibile luna di miele che stiamo vivendo, ma mi piace e non voglio che finisca. Matt è il miglior amico che potessi sperare di trovare. Qualsiasi donna sarebbe fortunato ad averlo. E se mai dovesse succedere, se mai tu dovessi avere un'altra mamma, sono certa che Matt farebbe la scelta giusta. «È questo che volevi dirmi? Che tu e Nicky avete passato una bellissima giornata insieme?» ha chiesto Matt. L'ho guardato intensamente negli occhi. «Sono incinta», gli ho detto infine. A quel punto Matt ha fatto la cosa migliore che potesse fare: mi ha baciata dolcemente. «Ti amo», ha sussurrato. E poi ha aggiunto: «Facciamo attenzione, Suzanne». «Va bene», ho risposto con un filo di voce. «Starò molto attenta.» *** Caro Nicholas, non so perché, ma di solito la vita finisce con l'essere più complicata di quanto ci aspettiamo. Sono andata a farmi visitare dal cardiologo di Martha's Vineyard, l'ho informato della gravidanza, ho fatto alcuni esami. Mi ha consigliato di andare a Boston dalla dottoressa Davis e così ho fatto. Non avevo detto a Matt della visita precedente perché temevo che potesse preoccuparsi. Così sono andata al lavoro per qualche ora e al pomeriggio sono partita per Boston, ripromettendomi di raccontare tutto a Matt non appena fossi tornata. La luce della veranda era accesa quando, verso le sette di sera, sono entrata nel vialetto. Avevo fatto tardi e Matt era già a casa. Aveva dato il cambio a nonna Jean. Sentivo un delizioso profumo di cucina casalinga: pollo, patate in padella e salsa, che riscaldavano tutta la casa. Oddio, ha preparato la cena, ho pensato. «Dov'è Nicky?» ho chiesto appena entrata in cucina. «L'ho messo a letto. Era esausto. Hai avuto una giornata lunga, tesoro. Stai facendo attenzione?» «Certo», ho risposto, dandogli un bacio sulla guancia. «A dire il vero, ho
visto soltanto un paio di pazienti questa mattina. Sono dovuta andare a Boston dalla dottoressa Davis.» Matt ha smesso di mescolare la salsa. Mi ha guardata senza dire una parola. Mi ha fatto male vedere che l'avevo ferito. «Avrei dovuto dirtelo, Matthew, ma non volevo preoccuparti. Sapevo che saresti stato in pensiero e non volevo; sapevo che avresti voluto venire a Boston con me.» Era un pensiero nervoso e confuso il mio tentativo di spiegare cosa avevo fatto. Non era giusto, ma non era neanche sbagliato. Matt ha lasciato a me la decisione. «Allora? Cosa ha detto la dottoressa Davis?» ha chiesto poi. Sono tornata con la mente nello studio della dottoressa Davis, sul bordo del lettino al quale mi ero appoggiata in un turbinio di emozioni. Cosa ha detto? Cosa ha detto? «Be', le ho detto del bambino.» «Bene.» «È molto... preoccupata. Non le ha fatto piacere sapere che sono incinta.» Le parole successive mi si sono bloccate in gola, impedendomi quasi di respirare. Facevo fatica a parlare. Gli occhi mi si sono riempiti di lacrime e ho iniziato a tremare. «Ha detto che questa gravidanza è troppo pericolosa per me. Secondo lei non dovrei tenere il bambino.» Anche gli occhi di Matt si sono riempiti di lacrime. Ha ripreso fiato, poi ha detto, rompendo il silenzio tra noi: «Suzanne, sono d'accordo con lei. Non potrei sopportare di perderti». *** Sono scoppiata a piangere. Singhiozzavo disperata, ancora tremante. «Non rinunciare a questo bambino, Matt.» L'ho guardato, in attesa di una parola di conforto. Ma lui è rimasto in silenzio e alla fine ha scosso piano la testa, dicendo soltanto: «Mi dispiace, Suzanne». All'improvviso ho sentito il bisogno di respirare un po' di aria fresca, di fuggire e rimanere sola con me stessa. Sono uscita di casa in uno stato di confusione mentale e, correndo attraverso le alte piante acquatiche, ho raggiunto la spiaggia. Ero scossa, affaticata, e mi mancava il fiato. Sentivo
un rumore simile a un rimbombo nelle orecchie, e non era il suono dell'oceano. Mi sono sdraiata sulla spiaggia e ho pianto. Mi sentivo malissimo, terribilmente triste per il bambino che portavo dentro di me. Ho pensato a te e a Matt, che aspettavate il mio ritorno a casa. Mi stavo comportando da egoista, da testarda, da sciocca? Ero un medico, conoscevo i rischi. Quel bambino era un dono prezioso e inaspettato. Non potevo rinunciare a lui. Sono rimasta a cullarmi in quella sensazione per un tempo che mi è sembrato lunghissimo. Ho parlato al bambino che cresceva dentro di me. Poi ho guardato la luna piena e ho capito che era venuto il momento di rientrare. Matt mi stava aspettando in cucina. L'ho visto nella calda luce gialla mentre risalivo faticosamente dalla spiaggia. Ho ricominciato a piangere. Poi ho fatto una cosa strana e non sono certa di saperne il motivo. Ho bussato alla porta e mi sono inginocchiata sul primo gradino. Forse ero solo stanca ed esaurita dopo una giornata lunga e carica di tensione. Forse si trattava di qualcos'altro, qualcosa di più importante, che ancora non so spiegare. O magari mi era venuto in mente quel re tedesco che si era inginocchiato nella neve con la speranza di non essere scomunicato, di essere perdonato da papa Gregorio. Avevo sofferto molto, là fuori sulla spiaggia, ma sapevo anche che avevo agito da egoista. Non sarei dovuta fuggire via, lasciando te e Matt soli in casa. «Perdonami per essermene andata così», ho detto quando Matt ha aperto la porta. «Per essere scappata. Sarei dovuta rimanere a parlare con te.» «Hai fatto quello che ritenevi più giusto», ha mormorato, accarezzandomi dolcemente i capelli. «Non c'è niente da perdonare, Suzanne.» Matt mi ha fatto alzare e mi ha abbracciata. Ho provato subito un senso di sollievo. Sono rimasta ad ascoltare il forte battito del suo cuore e ho lasciato che mi sfregasse affettuosamente il mento sulla testa. Mi sono lasciata avvolgere dal suo calore. «È solo che voglio tenere questo bambino, Matt. È cosi terribile?» «No, Suzanne, non è terribile. Ma non potrei sopportare di perderti. Ti voglio troppo bene. A te e a Nicky.» *** Oh, Nicky,
la vita è così crudele a volte. Impara questa lezione, piccolino. Ero appena tornata a casa dopo un paio d'ore di lavoro allo studio. Una giornata normale, niente di insolito o stressante. Anzi, mi sentivo piuttosto allegra. Sono tornata a casa per fare un sonnellino prima di vedere un altro paziente nel pomeriggio. Tu eri a casa della nonna per tutto il giorno. Matt era a East Chop per un lavoro. Avevo intenzione di rilassarmi e schiacciare un pisolino salutare e riposante. Il giorno dopo avevo un appuntamento con Connie in città, per parlare del bambino. Mi sono buttata sul letto e all'improvviso ho avvertito un senso di vertigine. Il cuore ha iniziato a battermi forte. Strano. Senza nessun preavviso, ho sentito che era in arrivo un'emicrania. Ma stava per piovere e la pressione atmosferica era scesa: a volte mi viene mal di testa quando succede. Il mio appuntamento con Connie era fissato per il giorno dopo, ma ho iniziato a chiedermi se fosse il caso di aspettare fino ad allora. Forse mi sarei sentita meglio di lì a un'ora, o con l'arrivo della pioggia. Ero così in ansia per la mia salute che mi stavo facendo venire i sintomi di una nevrosi, per amor del cielo! Calma, Suzanne, mi sono detta. Sdraiati, chiudi gli occhi e rilassa ogni singola parte del tuo corpo. Gli occhi, la bocca, il petto, la pancia, le braccia, le gambe, i piedi, le dita. Rilassati e scivola sotto la coperta, il tuo Vello d'oro. Hai solo bisogno di un'ora, una pausa e, quando ti sveglierai, ti sentirai meglio. Addormentati, addormentati adesso... *** «Suzanne, cos'hai?» Non appena ho udito il dolce bisbiglio di Matt, mi sono girata sul divano letto per guardarlo. Non mi sentivo ancora bene. Matt si è avvicinato a me con aria preoccupata. «Suzanne, riesci a parlare, tesoro?» «Domani vado da Connie», ho detto alla fine. Strano: mi ci era voluta tutta la mia forza per pronunciare quelle poche parole. «Ci andiamo adesso», ha esclamato Matt. Quando siamo arrivati allo studio medico, Connie mi ha dato un'occhiata e ha detto: «Senza offese, Suzanne, ma non hai proprio una bella cera». Mi ha misurato la pressione, mi ha fatto l'esame del sangue e delle urine e anche l'elettrocardiogramma. Sono rimasta in uno stato di torpore per tutto il tempo. Avvertivo una sensazione di vuoto dentro di me ed ero molto
preoccupata. Dopo la visita, Connie si è seduta per parlare con me e Matt. Non sembrava molto contenta. «Hai la pressione alta e ci vorrà circa un giorno prima che ritorni normale. Ti ho dato un vasodilatatore. Le tue condizioni sono più o meno stabili, ma non mi piace come ti senti oggi. E non mi piace il tuo aspetto. Sono tentata di ricoverarti. Sono d'accordo con la dottoressa Davis riguardo all'aborto. La decisione spetta a te, ma ti stai mettendo in una situazione di grave rischio.» «Dio, Connie», ho detto, «a parte abbandonare completamente lo studio medico, sto prendendo tutte le precauzioni necessarie. Sto facendo molta attenzione, mi sto comportando bene.» «Allora smetti di lavorare del tutto», ha ribattuto senza esitazioni. «Non sto scherzando, Suzanne. Non mi piace quello che ti sta succedendo. Se vai a casa e metti il riposo assoluto in cima alle tue priorità, abbiamo qualche possibilità. Altrimenti, ti ricovero.» Sapevo che Connie parlava sul serio. Lo faceva sempre. «Vado a casa», ho farfugliato. «Non posso rinunciare a questo bambino.» *** Caro Nicholas, scusa, bambino mio. È passato un mese e tu mi hai tenuta impegnata. Sono anche stanca e non sono riuscita a scrivere il diario, ma cercherò di rimediare. A undici mesi le tue parole preferite sono papà, mamma, barca, palla, acqua (aua), brum brum, ma quella che ami più di tutte è LUCE. Vai pazzo per le luci. Dici: 'uce'. Sei come un giocattolo a molla. Vai avanti per ore e non ti fermi mai. Stavo per rifilarti il ritornello del 'fai il bravo' quando è suonato il telefono. Era l'infermiera di Connie Cotter, che mi ha messa in attesa per parlare con la dottoressa. Mi è sembrato che passasse un secolo prima che Connie prendesse la linea. In quel momento sei arrivato tu e hai cercato di portarmi via il telefono. «Sicuro. Perché non parli tu con la dottoressa Cotter», ho scherzato. «Suzanne?» «Sì, sono qui, Connie. A casa a riposarmi.» «Ascolta... mi hanno appena portato il tuo ultimo esame del sangue...» Oh, quell'odiosa pausa dei medici, il tentativo di trovare le parole giuste.
La conosco fin troppo bene. «E... sono preoccupata. Stai entrando nella zona a rischio. Voglio ricoverarti subito. Farti delle flebo. Ti mostro i risultati degli esami non appena arrivi qui. Quanto ti ci vorrà?» «Non lo so, Connie. Sono sola con Nicky. Matt è al lavoro.» «È inammissibile, Suzanne. Potrebbe succederti qualsiasi cosa, cara. Chiamo Jean se non lo fai tu.» «No, no, la chiamo io. Lo faccio subito.» Ho appeso e tu mi hai tenuto la mano come un piccolo soldato coraggioso. Sapevi esattamente cosa fare: devi averlo imparato dal tuo papà. Ricordo di averti messo nella culla, di averti rimboccato le coperte e di aver tirato la cordicella del carillon. Whistle a Happy Tune ha cominciato a suonare. È così bella, persino in quello stato di agitazione. Ricordo di aver acceso la luce notturna e di aver chiuso le tende. Ricordo che stavo scendendo al piano di sotto per telefonare a nonna Jean, e poi a Matt. Poi più niente. *** Matt mi ha trovata accasciata come una bambola di pezza in fondo alle scale. Avevo una ferita profonda sul naso. Ero caduta dalle scale? Matt ha chiamato nonna Jean e mi ha portata subito al pronto soccorso. Da lì sono stata trasferita al reparto di rianimazione. Mi sono svegliata al rumore dell'attività frenetica che si svolgeva intorno al mio letto. Matt non c'era più. Ho urlato il suo nome e lui e Connie sono corsi subito accanto a me. «Hai fatto una brutta caduta, Suzanne.» Matt ha parlato per primo. «Sei svenuta in casa.» «Il bambino sta bene? Connie, il mio bambino?» «Il battito c'è, Suzanne, ma la situazione non è buona. La pressione del sangue è incontrollabile, le proteine stanno salendo alle stelle e...» Ha fatto una pausa abbastanza lunga da farmi capire che c'era qualcosa di ancora più grave. «E cosa?» ho chiesto. «E hai la tossiemia. Potrebbe essere questo che ha provocato lo svenimento.» Sapevo di cosa si trattava naturalmente. Il mio sangue stava avvelenando
me e il bambino. Non sapevo che potesse venire nei primi mesi di gravidanza, ma di sicuro Connie non si era sbagliata. Le sue parole mi arrivavano in modo frammentario e disarticolato. Non ero in grado di formare frasi complete nella mente: era come se mi stessero lobotomizzando. Mi è sembrato addirittura di sentire il mio corpo riempirsi di sangue tossico come se fosse una diga sul punto di cedere. Poi ho sentito che ordinavano a Matt di uscire dalla stanza mentre arrivava una squadra di pronto soccorso. Medici e infermiere si affannavano intorno a me. Mi hanno messo la maschera per l'ossigeno sopra il naso e la bocca. Ero consapevole di quello che mi stava accadendo. Con parole semplici: I reni stavano smettendo di funzionare. La pressione del sangue stava precipitando. Il fegato faceva fatica a espellere le sostanze tossiche. Erano iniziate le convulsioni. Per arrestare le convulsioni, mi hanno somministrato liquidi e farmaci per via endovenosa, ma subito dopo ho avuto un'emorragia. Sapevo che me ne stavo andando. Sapevo molto di più di quanto non volessi ed ero spaventata. Stavo uscendo dal mio corpo per entrare in un tunnel buio. Le pareti nere intorno a me si stavano stringendo, togliendomi il respiro. Stavo morendo. *** Matt siede vigile al mio fianco giorno e notte. Il papà non mi lascia mai sola e io sono preoccupata per lui. Non l'ho mai amato più di adesso. È il marito e l'amico migliore che una donna possa desiderare. Connie viene a visitarmi spesso, tre o quattro volte al giorno. Ho scoperto che è davvero un medico eccezionale, e anche un'amica meravigliosa. La sento, e sento anche papà, ma non posso rispondere a nessuno dei due. Non so perché. Da quanto ho capito ascoltandoli, so di aver perso il bambino. Se potessi piangere, verserei lacrime per l'eternità. Se potessi gridare, lo farei. Ma non posso fare nessuna delle due cose, e allora gemo nel più orrendo silenzio immaginabile. La tristezza è soffocata dentro di me e desidero disperatamente farla uscire. Anche nonna Jean viene a farmi compagnia e si ferma a lungo. E lo stes-
so fanno gli amici di Martha's Vineyard, i medici dell'ospedale e persino qualcuno da Boston. Melanie Bone e suo marito Bill vengono a trovarmi tutti i giorni. Persino Matt Wolfe, il mio amico avvocato, è passato di qui e mi ha sussurrato parole gentili. Sento frammenti di conversazioni delle persone intorno a me. «Se sei d'accordo, oggi pomeriggio porto Nicky», ha detto papà a Connie. «Sente la mancanza della mamma. Penso che sia importante per lui vederla.» E poi ha aggiunto: «Anche solo per l'ultima volta. Forse dovrei chiamare monsignor Dwyer». Matt ti ha portato nella mia camera d'ospedale, Nicholas. Siete rimasti accanto a me tutto il pomeriggio, mi avete raccontato delle storielle, mi avete tenuto la mano e mi avete detto addio. La voce di Matt è rotta dall'emozione e sono in pena per lui. Suo padre è morto quando aveva solo otto anni. Non ha mai superato quel dolore, tanto da non voler neppure parlare di lui. Ha tanta paura di perdere di nuovo una persona cara, e adesso sono io che sta per perdere. Cerco di resistere. Perlomeno credo di essere ancora qui. Che altre spiegazioni ci sono? Com'è possibile che senta la tua risata, Nicky? O che ti senta chiamarmi 'mamma' nel baratro nero del mio sonno? Eppure ti sento. La tua vocina dolce riesce a varcare l'abisso e a trovarmi nel luogo buio e profondo dove mi trovo intrappolata. È stato come se tu e papà mi aveste tirata fuori da uno strano sogno, come se le vostre voci fossero il faro che mi ha mostrato la strada. Lotto per risalire, per raggiungere il suono delle vostre voci, su, sempre più su. Devo vedere te e papà ancora una volta... Devo parlare con te ancora una volta... Sento il tunnel buio chiudersi dietro di me e penso che forse ho trovato la forza di emergere da quel luogo solitario. Tutto diventa più chiaro. Non sono più circondata dall'oscurità, ma solo da raggi di calore e forse dalla luce accogliente di Martha's Vineyard. Ero in paradiso? Sono in paradiso adesso? Come si spiega quello che sto provando? Poi accade l'inaspettato. Apro gli occhi. «Ciao, Suzanne», sussurra Matt. «Grazie a Dio, sei tornata con noi.»
KATIE Katie poteva leggere soltanto qualche pagina di diario per volta. Matt l'aveva avvertita nel biglietto: potrebbe essere difficile per te leggere alcune parti. Adesso sapeva che era anche peggio: ne era sopraffatta. Non era facile da credere in quel frangente, ma nella vita c'erano storie a lieto fine. Esistevano coppie normali e semisane come Lynn e Phil Brown, che abitavano a Westport, in Connecticut, in una bella fattoria con quattro bambini, due cani e un coniglio, e che erano ancora innamorati, a giudicare da quello che lei o qualunque altro dei loro vecchi amici potesse vedere. Il giorno seguente Katie chiamò Lynn Brown e si offrì di badare ai bambini quella sera stessa, un'offerta valida per una sera soltanto. Aveva bisogno di stare con loro. Aveva bisogno di sentire il calore e il conforto di una famiglia intorno a lei. Lynn si insospettì subito. «Katie, cosa significa tutto questo? Cosa sta succedendo?» «Niente. È solo che mi mancate. Consideralo un regalo in anticipo per il vostro anniversario. A caval donato non si guarda in bocca. Sono già dentro Grand Central Station. Sto arrivando.» Prese il treno per Westport e arrivò a casa di Lynn e Phil alle sette. Perlomeno non era rimasta in ufficio a lavorare fino a tardi. I bambini dei Brown, Ashby, Tory, Kelsey e Roscoe, avevano otto, cinque, tre e un anno. Adoravano Katie, la consideravano una ragazza molto carina. Andavano pazzi per la sua lunga treccia ed erano contenti che fosse così alta. Lynn e Phil uscirono per il loro 'appuntamento' galante, lasciando i bambini in consegna a Katie. A dire il vero, era lei che doveva ringraziarli per averla accolta. Lynn e Phil avevano incontrato Matt Harrison, che era piaciuto molto a entrambi, e sapevano quello che era successo tra lui e Katie. Anche loro non riuscivano a capacitarsi di quanto fosse accaduto. Lynn era sicura che Katie e Matt si sarebbero sposati entro l'anno. Fu una bellissima serata. I Brown avevano una piccola dépendance per gli ospiti che Phil minacciava sempre di mettere a posto e rendere presentabile. Era lì che Katie andava sempre a giocare con i bambini. Loro adoravano farle gli scherzi, come nasconderle la valigia e i vestiti oppure rubarle il make-up per truccarsi (Roscoe compreso). Quella sera Katie scattò alcune foto con la sua Canon, poi lavarono la Lexus SUV di Lynn e andarono a fare un giro in bicicletta tutti insieme. Una volta a casa, guardarono Galline in fuga e mangiarono una pizza 'farcitura completa'.
Quando Lynn e Phil tornarono, verso le undici, trovarono Katie e i bambini addormentati su cuscini e coperte sparsi sul pavimento della dépendance. Katie in realtà era sveglia e udì Lynn sussurrare a Phil: «È proprio fantastica. Sarà un'ottima madre». Le si riempirono gli occhi di lacrime e dovette soffocare un singhiozzo, dal momento che fingeva di essere addormentata. Rimase a casa dei Brown fino al sabato pomeriggio, quando prese il treno delle sei per tornare a New York. Prima di andarsene disse a Lynn che era incinta. Era esausta ma si sentiva di nuovo viva, rigenerata, decisamente meglio di quando era arrivata. Credeva nei piccoli miracoli. Non aveva perso la speranza: sapeva che nella vita c'erano storie a lieto fine. Credeva nella famiglia. Quando fu a metà strada del viaggio, infilò la mano nella borsa e tirò fuori il diario. *** Scese dal treno proveniente da Westport alla Grand Central Station, splendidamente restaurata, e sentì il bisogno di camminare un po'. Erano da poco passate le sette e mezzo e Manhattan era piena di traffico, soprattutto taxi che facevano suonare il clacson in continuazione e automobili di ritorno dalle case del week-end o delle vacanze, con al volante persone già nervose. Anche lei era nervosa. Più leggeva il diario più si sentiva così. Non aveva ancora avuto la risposta di cui aveva bisogno per andare avanti con la sua vita. Non aveva chiuso i conti con Matt, e neppure con Suzanne e Nicholas. Stava pensando a qualcosa che aveva letto nel diario, la lezione delle cinque palle: lavoro, famiglia, salute, amici e integrità. Il lavoro era una palla di gomma, giusto? Suzanne l'aveva capito e all'improvviso la sua vita era diventata tranquilla e gestibile. Aveva voltato le spalle a tutto questo: lavoro, stress, pressione, scadenze, gente che spinge e si fa avanti a spintoni, accessi di collera per strada e nella vita. Immergendosi nella realtà di qualcun altro, Katie era stata costretta a rimettere in discussione cose che negli ultimi nove anni aveva fatto in modo quasi automatico. Aveva iniziato a lavorare a ventidue anni, appena uscita a pieni voti dalla University of North Carolina di Chapel Hill. Era stata
tanto fortunata da fare un tirocinio per due estati consecutive alla Algonquin Press di Chapel Hill, e questo le aveva aperto porte importanti a Manhattan. Si era dunque trasferita a New York con le migliori intenzioni ed erano molte le cose che amava di quella città; eppure non aveva mai sentito di appartenervi completamente e credeva che alla fine il destino l'avrebbe portata altrove. A volte si sentiva ancora una turista: una turista alta e goffa. Adesso pensava di aver capito il motivo. Per molto tempo la sua vita non era stata equilibrata. Aveva trascorso così tante sere lavorando fino a tardi, sia in ufficio sia a casa, leggendo e revisionando manoscritti, cercando di renderli il più perfetti possibile. Un lavoro gratificante, ma il lavoro era una palla di gomma, giusto? La famiglia, la salute, gli amici e l'integrità erano le preziose palle di vetro. Il bambino che portava dentro di sé apparteneva di sicuro a quella categoria. *** Il mattino dopo, alle undici circa, Katie era su un taxi giallo con due delle sue più care amiche, Susan Kingsolver e Laurie Raleigh. Aveva appuntamento con il suo ginecologo, il dottor Albert K. Sassoon, tra la Settantesima e l'Ottantesima Est. Susan e Laurie erano andate con lei per darle sostegno morale. Sapevano della gravidanza e avevano insistito per accompagnarla. La tenevano tutte e due per mano, una da una parte e una dall'altra. «Tutto a posto, cara?» chiese Susan. Insegnava in una scuola elementare nella Lower East Side. Si erano conosciute l'estate in cui Katie aveva affittato una casa negli Hamptons e da allora erano diventate grandi amiche. Katie era stata testimone di Susan al suo matrimonio, e damigella a quello di Laurie. «Sto bene. Certo. È solo che faccio ancora fatica a credere a tutto quello che mi è successo negli ultimi giorni. Non riesco a credere che sto per vedere il dottor Sassoon.» Oh, Signore, aiutami, ti prego. Dammi la forza. Appena scesa dal taxi, Katie si ritrovò a fissare con sguardo assente i pedoni e le vetrine a lei familiari sulla Settantottesima Est. Cosa avrebbe detto al dottor Sassoon? L'ultima volta che era stata da lui per il controllo annuale, Albert era stato contento di sapere che aveva trovato qualcuno, e adesso questo.
Le appariva tutto confuso, anche se Susan e Laurie chiacchieravano allegre e cercavano di tirarla su di morale, facendo davvero del loro meglio. «Qualsiasi cosa tu decida di fare», disse piano Laurie quando Katie fu invitata a entrare nello studio del dottore, «andrà tutto alla grande. Tu sei grande.» Qualsiasi cosa decidesse di fare. Dio, non riusciva proprio a credere che stava succedendo davvero. Albert Sassoon sorrise quando la vide entrare, facendole pensare a Suzanne e al suo modo di fare gentile con i pazienti. «Allora?» chiese il medico non appena Katie si sdraiò e appoggiò le gambe sulle staffe. Solitamente la pregava di non colpirlo in testa con le ginocchia. Una battuta per sdrammatizzare la situazione delicata. Ma non quel giorno. «Allora ero così innamorata da smettere di usare la pillola. Credo di essermi fatta mettere incinta», disse Katie, ridendo. Poi scoppiò a piangere, e Albert le si avvicinò e le tenne teneramente la testa contro il petto. «Va tutto bene, Katie. Va tutto bene. Va tutto bene.» «Credo di sapere quello che farò», Katie riuscì finalmente a dire tra i singhiozzi. «Credo... che... terrò... il mio bambino.» «Molto bene, Katie», disse il dottor Sassoon, dandole delle pacche affettuose sulla schiena. «Sarai una mamma meravigliosa. E avrai un bambino bellissimo.» DIARIO Caro Nicholas, oggi sono tornata a casa dall'ospedale ed è incredibilmente bello essere di nuovo qui. Oh, sono la ragazza più fortunata del mondo. La familiarità delle stanze, la tua incantevole cameretta, il modo in cui la luce del mattino si riversa sui davanzali illuminando tutto quello che incontra sul suo cammino. Che emozione essere ancora qui. Esserci, più di ogni altra cosa. La vita è un tale miracolo, un susseguirsi di piccoli miracoli. Lo è davvero, se impari a guardarla dalla giusta prospettiva. Adoro il nostro piccolo cottage su Beach Road. Ora più che mai, Nicky. Lo apprezzo di più adesso, con tutte le sue crepe e imperfezioni. Matt ci ha preparato un pranzetto delizioso. È un cuoco piuttosto bravo: ci sa fare con spatole e padelle come con chiodi e martello. Ha organizzato
un pic-nic su una coperta a quadretti bianchi e rossi nella stanza del sole: insalata nizzarda, pane fresco ai dodici cereali, tè freddo. Favoloso. Dopo pranzo siamo rimasti seduti sulla coperta tutti e tre insieme: Matt mi teneva la mano e io la tenevo a te. Nicholas, Suzanne e Matt. La felicità è così semplice. *** Nick, piccolo birichino mio, ogni momento passato con te mi riempie di gioia e di meraviglia. Ieri ti ho portato a vedere l'oceano Atlantico per la prima volta. Era il primo giorno di luglio. Ti sei divertito moltissimo. L'acqua era bella, appena mossa da piccole onde, proprio della tua misura. Ma ancora più bella era la spiaggia, un grande recinto di sabbia tutto per te. Gran sorrisi da parte tua. E anche da parte mia, ovviamente. La mamma è una copiona! Quando siamo tornati a casa, mi è capitato di farti vedere una foto di Bailey Mae Bone, la nostra vicina di due anni che abita alla fine di Beach Road. Hai subito sorriso e arricciato le labbra. Diventerai un rubacuori. Ma sii gentile con le donne, come il tuo papà. Hai buon gusto per essere un ragazzo. Ti piace guardare le cose belle: gli alberi, l'oceano e, naturalmente, le fonti di luce. Ti diverti anche a picchiettare sui tasti del nostro pianoforte, una cosa molto graziosa. E poi ti piace fare pulizia. Ti porti in giro un aspirapolvere giocattolo e pulisci tutti i pasticci con la carta da cucina. Magari potrò approfittarne quando sarai un po' più grande. In ogni caso, sei una vera gioia. Custodisco gelosamente e tengo stretto al cuore ogni tuo versetto di gioia, risata e pianto. *** «Svegliati, tesoro. Oggi ti amo ancor più di ieri.» Da quando sono tornata dall'ospedale Matt mi sveglia così ogni mattina. Anche se sono ancora mezzo addormentata, non mi dispiace essere svegliata dalla sua voce calma e da quelle parole. Ho iniziato a recuperare le forze dopo qualche settimana. Ho preso l'abi-
tudine di fare lunghe passeggiate sulla spiaggia davanti a casa. Ho persino ripreso a visitare qualche paziente. Faccio più esercizio fisico adesso di quanto ne abbia mai fatto in vita mia. Con il passare delle settimane mi sento sempre più forte. Sono davvero orgogliosa di me stessa. Una mattina Matt si è messo di nuovo a gironzolare intorno al letto dove ero ancora coricata. Ti teneva in braccio e sorrideva rivolto a me. Avevate tutti e due uno strano ghigno sul volto: fiutavo una cospirazione. «È ufficiale! Il week-end di tre giorni della famiglia Harrison è cominciato. Svegliati, tesoro. Ti amo! Siamo già in ritardo per la giornata di oggi, però!» «Cosa?» ho esclamato, volgendo lo sguardo in direzione della finestra della camera da letto. Fuori era ancora buio. Finalmente hai guardato tuo padre come se fosse completamente impazzito. «Giù, cucciolo», ha detto Matt, posandoti sul letto accanto a me. «Prepara la valigia. Ce ne andiamo. Prendi tutto quello che ti serve per tre giorni memorabili, Suzanne.» Me ne stavo appoggiata a un gomito, fissando Matt incuriosita. «Tre giorni memorabili, dove?» «Ho prenotato una camera al Hob Knob Inn di Edgartown. Letti kingsize; ricca colazione con prodotti tipici e tè pomeridiano. Non dovrai alzare un dito, lavare un piatto, nemmeno rispondere al telefono, Suzanne. Che te ne pare?» Mi pareva fantastico, proprio quello di cui avevo bisogno. Questa è una storia d'amore, Nicholas. Mia, tua e di papà! Parla di come si può stare bene se incontri la persona giusta. Parla di quanto sia importante assaporare ogni singolo istante con quella persona speciale. Ogni millesimo di secondo. La nostra avventura di tre giorni è iniziata alla giostra dei Cavalli Volanti, dove siamo saliti sui cavalli incantati e abbiamo cavalcato circondati dalle alte colline di Oak Bluffs. Eccoci di nuovo in sella ai pony dipinti sotto una tettoia dai colori vivaci, proprio come ai vecchi tempi. Che emozione! Siamo tornati sulle spiagge che non vedevamo da tanto tempo. Lucy Vincent Beach vicino a South Road, le spiagge di Quansoo e Hancock... spiaggette private dove Matt era riuscito in qualche modo a ottenere le chiavi per entrare. Abbiamo camminato mano nella mano nella mano lungo Lighthouse
Beach e Lobsterville Beach, e sulla mia spiaggia preferita, Bend in the Road Beach. È stata una vera sferzata di energia rivedere di nuovo quei luoghi con te e papà. Li ho ancora davanti agli occhi e rivedo anche noi tre insieme. Abbiamo fatto un giro in carrozza alla fattoria Scrubby Neck e tu non la smettevi più di ridere. Hai dato le carote ai cavalli e ridevi così forte che per un attimo ho temuto che potessi sentirti male. Eri radioso sotto la criniera di quei magnifici belgi giganti. Abbiamo mangiato nei migliori ristoranti: il Red Cat, lo Sweet Life Café, L'étoile. Sembravi già così grande seduto accanto a noi sul seggiolone, con quella tua aria da adulto e i sorrisi a lume di candela. Abbiamo visto Strepitolino al Tisbury Amphitheater e abbiamo partecipato alla serata delle favole alla Vineyard Playhouse. Ti sei comportato proprio da bravo bambino a teatro. Non molto lontano da dove eravamo alloggiati c'è un negozio di arti decorative di nome Splatter. Lì abbiamo dipinto le nostre tazze e i piattini. Tu hai dipinto il tuo piatto, Nickels, disegnando delle chiazze nei toni dell'azzurro e del giallo chiaro, che io e papà pensiamo rappresentino noi tre. E poi è arrivato il momento di tornare a casa. *** Caro Nicky, ti ricordi qualcosa di tutto questo? Quando abbiamo imboccato l'ultima curva prima di arrivare a casa, ho notato alcuni veicoli parcheggiati alla rinfusa dalla parte di Beach Road. Altre automobili, camion e fuoristrada stazionavano lungo il vialetto, ma la cosa più strana era che il vialetto non c'era più. Al suo posto c'era una nuova costruzione e, come aveva promesso papà, un altro vialetto che partiva dal lato più distante. «Cosa significa questo?» ho chiesto a Matt incredula. «Un piccolo ampliamento, Suzanne. Be', per adesso è solo un abbozzo. È il tuo nuovo ufficio ed è dotato di tutto quello che il tuo vecchio studio non aveva. Adesso puoi fare meno visite a domicilio, o non farle del tutto. Sta bene qui nel nostro giardino e ha persino una splendida vista sull'oceano.» Decine di nostri amici e colleghi di Matt, in attesa sul prato, hanno iniziato ad applaudire quando siamo scesi dall'auto. Anche tu hai iniziato a
battere le manine, Nicky. Ma penso che lo facessi soltanto per te. «Suzanne! Matt!» scandivano i nostri amici al ritmo degli applausi. Io ero in soggezione, senza parole, sconcertata. I collaboratori e gli amici di Matt dovevano aver lavorato giorno e notte per creare quell'incredibile spazio. «Devo ancora sistemare l'impianto elettrico e idraulico», ha detto Matt in tono di scusa. «Questo è troppo» ho esclamato, abbracciandolo forte. «No», ha sussurrato, «niente è troppo per te, Suzanne. Sono così felice di riaverti a casa.» *** Nicholas, dolce Nicholas, tutto sembra andare di nuovo nella direzione giusta. Il tempo sta davvero volando: domani compi un anno! Non è incredibile? Accipicchia! Cosa posso dire a parte il fatto che è un dono del cielo vederti crescere, scoprire il tuo primo dentino, guardarti mentre muovi i primi passi, dici le prime parole, formuli mezze frasi e sviluppi la tua personalità giorno dopo giorno. Questa mattina stavi giocando con gli scarponi di papà, che lui tiene in fondo all'armadio. A un certo punto sei uscito dall'armadio con i piedi dentro gli scarponi. Hai iniziato a ridere, devi aver pensato che fosse lo scherzo più divertente del mondo. Allora mi sono messa a ridere anch'io, e lo stesso ha fatto papà, che è entrato in camera proprio in quel momento. Nicholas, Suzanne e Matt! Che trio. Domani festeggiamo il tuo primo compleanno. I regali sono già tutti pronti, a cominciare dalle foto della nostra vacanza. Ho scelto gli scatti migliori e li ho fatti incorniciare. Non ti dico qual è la mia foto preferita, voglio che sia una sorpresa. Ma posso dirti che l'ho fatta mettere in una cornice d'argento con tante lune, stelle e angeli incisi tutto intorno. Proprio come piace a te. È quasi ora di cantare Tanti auguri! *** Caro Nicholas, è tardi, e io e papà stiamo facendo gli sciocchini. È passata da poco la
mezzanotte, quindi è ufficialmente il tuo compleanno. Urrah! Tanti auguri a te! Non siamo riusciti a resistere, così ci siamo intrufolati nella tua stanza e siamo rimasti a osservarti per un po'. Ci siamo tenuti per mano e ti abbiamo mandato tanti baci. Anche tu sai dare i bacini. Sei così intelligente. Papà ti ha portato uno dei tuoi regali di compleanno, una Corvette rossa decappottabile. L'ha appoggiata delicatamente ai piedi della culla. Tu e papà avete una passione per le automobili: voi ragazzi vivete per le auto, sentite il bisogno della velocità. Io e Matthew ci siamo abbracciati mentre ti guardavamo dormire, che è uno dei piaceri più grandi del mondo: non dimenticare di guardare il tuo bambino mentre dorme! Poi mi è venuta voglia di giocare, così ho tirato la cordicella del tuo carillon. Ha iniziato a suonare quella semplice e bellissima canzone, Whistle a Happy Tune, che sono certa mi farà sempre pensare a te che dormi nella culla. Io e Matt siamo rimasti abbracciati, dondolandoci al ritmo della musica. Credo che saremmo potuti rimanere nella tua cameretta per tutta la notte, abbracciati, a guardarti dormire e a ballare al suono del carillon. Tu non ti sei svegliato, ma hai accennato un sorriso. «Non è una fortuna?» ho sussurrato a Matt. «Non è la cosa migliore che possa accadere a una persona?» «Lo è, Suzanne. È una cosa tanto semplice, ma così giusta.» Alla fine io e papà siamo andati a letto e abbiamo sperimentato il secondo piacere più grande del mondo. Poi Matt si è addormentato tra le mie braccia (i ragazzi lo fanno solo se gli piaci veramente) e io mi sono alzata a scriverti questo breve messaggio. Ti voglio bene, tesoro. Ci vediamo domani, non vedo l'ora. MATTHEW Ciao, mio dolce Nicholas, è papi, ti ho detto quanto ti voglio bene? Ti ho detto quanto sei prezioso per me? Ecco, adesso lo sai. Sei un bambino meraviglioso, il migliore che si può sperare di avere. Ti voglio un mondo di bene. Ieri mattina è successa una cosa, ed è per questo che ti sto scrivendo io anziché la mamma. Sento l'impellente necessità di scrivere. Non sono sicuro di niente in questo momento, a parte il fatto che devo esprimere quello
che provo. Devo parlare con te. I padri e i figli devono parlarsi più spesso di quanto non facciano. Molti hanno paura di mostrare le proprie emozioni, e non voglio che sia così anche per noi. Voglio poterti dire sempre quello che sento, come adesso. Ma è così difficile, Nicky. È la cosa più difficile che abbia mai dovuto dire a qualcuno. La mamma stava andando al negozio a ritirare il tuo regalo di compleanno, le nostre bellissime fotografie incorniciate. Era incredibilmente felice e anche molto carina, abbronzata e in forma, grazie alle lunghe passeggiate sulla spiaggia. Ricordo di averla vista allontanarsi e non riesco a togliermi dalla mente quell'immagine. Suzanne aveva un sorriso radioso sul viso. Indossava uno scamiciato giallo su una camicetta bianca trasparente. I suoi capelli biondi erano pieni di riccioli, e si muovevano insieme a lei mentre camminava. Stava canticchiando la tua canzone, Whistle a Happy Tune. Avrei dovuto andare da lei, salutarla con un bacio e abbracciarla forte. Invece le ho soltanto gridato 'ti amo' e lei, avendo le mani occupate, mi ha risposto mandandomi un bacio. Continuo a rivederla mentre mi manda quel bacio. La vedo allontanarsi, voltarsi ancora una volta e farmi il suo famoso occhiolino. Il pensiero di quella sua espressione giocosa mi fa venire le lacrime agli occhi mentre cerco di scrivere. Oh, Nicky, Nicky, Nicky. Come faccio a dirtelo? Come faccio a scrivere queste parole? La mamma ha avuto un arresto cardiaco mentre si recava in città, piccolo mio. Il suo cuore, così grande e speciale per tanti motivi, non ce l'ha più fatta a reggere. Non riesco a credere che sia successo davvero; non riesco a farmene una ragione. Mi hanno detto che Suzanne era incosciente quando la sua auto è andata a sbattere contro il guardrail su Old Pond Bridge Road. La sua jeep è finita in acqua, su un lato. Non sono andato sul luogo dell'incidente: è un'immagine che non voglio conservare nella mia mente. Quello che vedo è già troppo. Il dottor Cotter ha detto che Suzanne è morta subito dopo la forte crisi coronarica, ma chissà cos'è veramente accaduto in quegli ultimi secondi? Spero che non abbia sentito dolore. Non sopporterei il pensiero che abbia sofferto, sarebbe troppo crudele. Era incredibilmente felice l'ultima volta che l'ho vista. Era così bella,
Nick. Oh, Signore, voglio vedere Suzanne per l'ultima volta. Chiedo forse troppo? È irragionevole da parte mia? Non credo proprio. È importante per me che tu sappia che non è stata colpa della mamma. Era molto prudente al volante; non avrebbe mai corso nessun rischio. La prendevo sempre in giro per la sua guida. Amavo Suzanne con tutto me stesso, e non so come spiegare che grande fortuna sia trovare una persona da amare così tanto e che, miracolo dei miracoli, ti ricambia con tutto il cuore. Era la persona più generosa che abbia mai conosciuto, la più affettuosa e compassionevole. Forse la cosa che più amavo di lei è che sapeva davvero ascoltare. E poi era divertente: in questo momento farebbe una battuta, ne sono certo. E forse lo sta facendo. Stai sorridendo adesso, Suzanne? Mi piace pensare che sia così, anzi credo proprio che sia così. Oggi sono andato al cimitero di Abel's Hill a scegliere un posto speciale per la mamma. Aveva soltanto trentasette anni quando è morta. È una cosa talmente triste, assolutamente inconcepibile per me e per tutte le persone che la conoscevano. Che disgrazia, che perdita. A volte mi sento sopraffatto dalla rabbia e mi viene lo strano e irrazionale desiderio di rompere qualcosa di vetro. Non so perché, ma voglio rompere qualcosa di vetro! Questa sera sono seduto nella tua cameretta e guardo la lampada a forma di clown che riflette ombre allegre sulla parete nella semioscurità. Il cavallo a dondolo di quercia che ho costruito per te mi ricorda la giostra dei Cavalli Volanti. Ti ricordi quando siamo andati in vacanza tutti e tre insieme e abbiamo cavalcato i cavalli colorati? Nicholas, Suzanne e Matt. Ti ho sistemato davanti a me e tu ti sei divertito ad accarezzare la criniera del cavallo. Vedo ancora la mamma di fronte a noi, in sella a National Velvet. Si volta, ed ecco il suo famoso occhiolino. Oh, Nick, non so cosa darei per tornare alla settimana scorsa, al mese scorso, all'anno scorso. Affrontare il domani è un pensiero quasi insopportabile. Vorrei che questa storia avesse un lieto fine. Vorrei poter dire, un'altra volta soltanto: non è una fortuna? *** Caro, dolce Nick, c'è un'immagine di Suzanne che continua a tornarmi alla mente. È un'immagine che cattura chi era veramente e cosa aveva di tanto unico e
speciale. È sera e Suzanne è inginocchiata sul portico davanti a casa. Chiede il mio perdono, anche se non c'è nulla da perdonare. Se c'era qualcuno che doveva chiedere perdono, quello ero io. Aveva ricevuto una brutta notizia quel giorno, ma alla fine era riuscita soltanto a preoccuparsi di avermi ferito. Suzanne pensava sempre prima agli altri, soprattutto a noi due. Quanto ci ha viziati, Nicholas. Oggi pomeriggio sono stato strappato dai miei pensieri e dalle mie fantasticherie da una telefonata inaspettata. Era per la mamma. Naturalmente era qualcuno che non era al corrente di quanto era successo e, per la prima volta, quelle parole strane e terribili mi sono uscite di bocca come macigni: «Suzanne è morta». C'è stato un lungo silenzio dall'altra parte del filo, seguito da timide scuse e imbarazzate condoglianze. Era il proprietario del negozio di cornici di Chilmark Center, dall'altra parte dell'isola. La mamma non ce l'ha fatta ad arrivare fin laggiù e le foto che aveva fatto incorniciare per te erano ancora nel negozio. Gli ho detto che sarei andato a ritirare le foto. In qualche modo, ce l'avrei fatta. Sono così distante da tutto. Provo un gran senso di vuoto dentro e mi sento come un vecchio foglio di carta velina che sta per disintegrarsi e volare via. In altri momenti, invece, sento un peso insopportabile sul petto. Non sono mai riuscito a piangere, ma adesso sembra che non sappia fare altro. Mi ripeto che presto non avrò più lacrime, ma le lacrime continuano a uscire senza sosta. Prima credevo che piangere non fosse una cosa da uomini, adesso so che non è così. Cammino senza meta da una stanza all'altra, cercando disperatamente un posto dove possa sentirmi in pace con me stesso. Alla fine mi ritrovo sempre nella tua cameretta, seduto sulla sedia a dondolo come faceva la mamma quando parlava con te, ti leggeva qualcosa o recitava le sue buffe filastrocche. Sono seduto qui anche adesso, a guardare le fotografie che sono andato a ritirare a Chilmark oggi pomeriggio. In una di queste siamo seduti tutti e tre insieme davanti alla giostra dei Cavalli Volanti sotto il cielo azzurro di un bellissimo pomeriggio. Tu sei in mezzo a noi, Nick. La mamma ti tiene un braccio intorno alla vita e ha le gambe a cavalcioni sulle mie. Tu le dai un bacio mentre io ti faccio il solletico, e ridiamo tutti e tre, e tutto è semplicemente meraviglioso.
Nicholas, Suzanne e Matt. Per sempre insieme. *** È giunto il momento di raccontarti una storia, Nick. È una storia che voglio condividere soltanto con te, è solo tra noi due. Da uomo a uomo, piccolo mio. A essere sincero, è la storia più triste che abbia mai sentito, e senza dubbio la più triste che abbia mai raccontato. Faccio fatica a respirare in questo momento. Sto tremando come una foglia e ho i brividi dappertutto. Anni fa, quando avevo soltanto otto anni, mio padre morì improvvisamente mentre era al lavoro. Fu una cosa inaspettata e per questo non ci fu data l'occasione di dirgli addio. Per anni la morte di mio padre mi ha perseguitato. Ho sempre avuto il terrore di perdere qualcun altro in quel modo. Credo che sia questo il motivo per cui non mi sono sposato prima di incontrare Suzanne. Avevo paura, Nicky. Il tuo papà, per quanto grande e forte, aveva paura di perdere qualcuno che amava. È una cosa che non ho mai detto a nessuno prima di incontrare la tua mamma. E adesso l'ho detto a te. Tiro la cordicella del carillon appeso alla culla e sento le note di Whistle a Happy Tune. Amo questa canzone con tutto il cuore, Nicky. Mi fa piangere, ma non mi importa. Mi piace ascoltare la tua canzone e voglio continuare a farlo. Mi avvicino alla culla e tocco la tua tenere guancia. Scompiglio i tuoi capelli biondo oro, sempre così soffici e profumati. Vorrei aver dato ascolto alla mamma e non averteli tagliati. Strofino delicatamente il mio naso contro il tuo. Lo faccio di nuovo e tu mi regali uno splendido sorriso. Uno dei tuoi sorrisi rappresenta l'universo intero per me. È la pura verità. Metto l'indice in ciascuna delle tue manine e lascio che tu me lo stringa. Sei così forte, amico mio. Ascolto la tua bellissima risata, che diventa quasi contagiosa. Whistle a Happy Tune continua a suonare. Oh, mio caro, dolce bambino. Oh, piccolo mio. Sta suonando la tua canzone ma tu non sei nella culla. Vedo la mamma allontanarsi per andare a fare le sue commissioni quel mattino. Le grido 'ti amo' e lei mi manda un bacio. Arriccia il naso come fa di solito. Sai cosa intendo: conosci anche tu quell'espressione. Poi mi fa il
suo 'famoso occhiolino', e riesco ancora a vederla mentre lo fa. Vedo Suzanne. Le sue mani erano occupate perché teneva in braccio te, bambino mio. Voleva che tu fossi il primo a vedere quelle bellissime foto incorniciate. È per questo che ti ha portato con sé in città il mattino del tuo compleanno. Suzanne ti ha portato fuori e ti ha legato sul seggiolino dell'auto. Eri sulla jeep con la mamma quando ha avuto l'incidente su Old Pond Bridge Road. Eravate insieme. Quel pensiero mi è ancora insopportabile. Avrei dovuto esserci anch'io, Nicholas. Avrei dovuto essere con te e la mamma; forse avrei potuto fare qualcosa; forse avrei potuto salvarti, o almeno provarci, e questo avrebbe significato tutto per me. Oh, tesoro mio, ho bisogno di sentirti ridere ancora una volta. Desidero disperatamente vedere i tuoi luminosi occhi azzurri. Strofinare la tua guancia morbida contro la mia. Oh, mio amatissimo bambino, mia piccola creatura innocente, mio figlio per l'eternità. Mi manchi così tanto, e mi distrugge il pensiero che non saprai mai quello che provo, che non saprai mai quanto ti vuole bene il tuo papà. Mi manchi così tanto, mi manchi così tanto, bambino mio. Mi mancherai per il resto della vita. Ma non è una fortuna averti conosciuto, aver avuto la possibilità di tenerti tra le braccia e amarti per dodici mesi, prima che il Signore ti portasse via da me? Non è una fortuna averti conosciuto, dolce creatura, caro, caro figlio mio? KATIE Katie sollevò lentamente il viso verso il soffitto del bagno, chiudendo forte gli occhi. Un lamento sordo le uscì dalla gola e copiose lacrime iniziarono a scenderle dalle palpebre serrate, bagnandole le guance. Respirava affannosamente. Si strinse il petto con entrambe le braccia. All'udire Merlin che piagnucolava dal vano della porta, gli sussurrò: «Va tutto bene, piccolino». Avvertì una fitta di dolore al petto, come se un attizzatoio rovente le penetrasse i polmoni. Oh, Signore, come puoi permettere che accadano cose del genere? Alla fine riaprì gli occhi. Riusciva a malapena a vedere attraverso le lacrime, ma sull'ultima pagina del diario notò una busta attaccata con del na-
stro adesivo. Sopra c'era scritto solo Katie. Si asciugò le lacrime con entrambe le mani. Fece un respiro profondo per ritrovare la calma, poi un altro. Non servì a molto. Quindi aprì la semplice busta bianca indirizzata a lei. La lettera che trovò al suo interno era scritta con la calligrafia di Matt. La aprì con le dita tremanti e, non appena iniziò a leggere il contenuto, ricominciò a piangere. Katie, cara Katie, adesso sai quello che non sono riuscito a dirti per tutti questi mesi. Conosci i miei segreti. Volevo raccontarti tutto dal primo giorno in cui ci siamo incontrati. Ho sofferto per moltissimo tempo, e non c'era nulla che potesse consolarmi. Ecco perché ti ho tenuto nascosto il mio passato. Proprio a te. Sul bancone della Docks Tavern a Martha's Vineyard sono incisi i versi di una poesia che parla delle barche dei pescatori locali e dei marinai. Le barche a lungo attese / ritornano a casa vuote o affondano negli abissi / e gli occhi perdono prima le lacrime e poi il sonno. Ho letto queste parole una sera al Docks, quando non riuscivo più né a piangere né a dormire, e sono rimasto profondamente colpito dalla terribile verità che esprimono. Matt Era tutto quello che c'era scritto nella lettera, ma Katie aveva bisogno di sapere di più. Doveva andare a cercare Matt. *** Era sempre stata combattiva. Aveva vinto la paura di andare a vivere a New York da sola. Aveva sempre avuto il coraggio di fare quello che doveva fare. L'indomani mattina, per prima cosa, prese un aereo per Boston. All'aeroporto Logan l'attendeva un'auto che la accompagnò a Woods Hole, alla partenza del traghetto per Martha's Vineyard. Entrò nel terminal della Steamship Authority di Woods Hole, acquistò il biglietto e salì a bordo di un traghetto a due ponti di nome Islander. Doveva parlare con Matt. Non era giusto tenerlo all'oscuro di quello che stava succedendo. Era proprio sbagliato, e lei non era capace di comportar-
si in quel modo. Matt doveva sapere del bambino. Durante i quarantacinque minuti necessari per coprire le sette miglia di distanza tra Woods Hole e Martha's Vineyard, Katie pensò a Suzanne e al suo arrivo sull'isola dopo che aveva lasciato Boston. Si domandò se anche lei avesse viaggiato sull'Islander. Ricordò le ultime parole che Suzanne aveva scritto a Nicholas: non vedo l'ora di vederti domani mattina. Katie si accorse che non aveva portato con sé nessun manoscritto da rileggere durante il viaggio in aereo o in traghetto. Il lavoro è una palla di gomma, pensò. È vero. Pensò a tutte le cose che si sarebbe persa se si fosse portata dietro il lavoro: l'infrangersi delle onde contro la vecchia prua del traghetto, la pittoresca isola di Martha's Vineyard che si avvicinava a poco a poco, il senso di nausea che l'assaliva ogni volta che un'onda più grande delle altre colpiva la nave. Matt era una palla di vetro. Era stato scalfito, segnato, danneggiato, ma forse non era andato a pezzi. O forse sì. Non avrebbe mai scoperto la verità se non fosse partita per cercarlo. Quando l'Islander era ormai vicino a Martha's Vineyard, Katie rimase a fissare la vecchia stazione di Oak Bluffs dove approdavano i traghetti. Era un edificio grigio rivestito di legno, una struttura di un piano che pareva avere cent'anni. Accanto all'edificio c'era una spiaggia e, dall'altra parte, il paese di Oak Bluffs. Gli occhi di Katie scrutarono la stazione, la spiaggia e il paese in cerca di Matt. Non lo vide da nessuna parte. *** Di fronte alla stazione dei traghetti c'erano le prime abitazioni di Oak Bluffs. Molti taxi dagli strani colori erano parcheggiati là fuori. Naturalmente Matt non stava aspettando che lei comparisse all'improvviso. Non sapeva neppure che sarebbe arrivata e, anche se l'avesse saputo, non era detto che sarebbe venuto a prenderla. Mentre si dirigeva verso la fermata dei taxi, Katie vide la Docks Tavern. Il cuore le balzò in petto. Quello doveva essere un segno, no? Doveva pur significare qualcosa. Anziché cercare un taxi, si incamminò verso il bar. Matt era là? Probabilmente no, ma incisi sul bancone del Docks Matt aveva letto i versi che aveva trascritto nella lettera indirizzata a lei e infilata nel diario.
Era buio all'interno, e si sentiva puzza di fumo, ma l'atmosfera era gradevole. Da un vecchio Jukebox Wellington uscivano le note di una canzone di Bruce Springsteen. C'erano una decina di clienti al bancone e altre persone erano sedute sulle vecchie panche di legno sistemate su entrambi i lati. La maggior parte di loro si voltarono a guardarla quando entrò nel locale. Sapeva che quel giorno i suoi capelli, i suoi abiti, per non parlare della sua vita, erano un disastro. «Vengo in pace», annunciò, sorridendo. In realtà si sentiva molto agitata. Aveva deciso di andare a Martha's Vineyard verso le tre del mattino. Doveva rivedere Matt a tutti i costi, voleva stare di nuovo tra le sue braccia e tenerlo stretto, anche se c'era la possibilità che non sarebbe accaduto. Aveva un disperato bisogno di un abbraccio. Il suo sguardo si soffermò sul volto dei presenti, che sembravano usciti dal film La tempesta perfetta. Il cuore prese a batterle più forte. Matt non c'era. Be', se non altro non era un cliente abituale. Cercò la poesia incisa sul bancone. Ci vollero alcuni minuti prima di trovarla in fondo al locale, vicino al gioco delle freccette e a un telefono pubblico. Lesse di nuovo i versi di quella poesia: Le barche a lungo attese ritornano a casa vuote o affondano negli abissi e gli occhi perdono prima le lacrime e poi il sonno. «Posso aiutarla? O il suo interesse è puramente letterario?» Al suono di quella voce maschile, Katie sollevò lo sguardo. Vide il barista, un bell'uomo di circa trentacinque anni, con la barba rossiccia e un aspetto rude. Forse anche lui era un marinaio. «Sto cercando una persona. Un amico. Credo che venga qui di tanto in tanto», disse Katie. «Allora ha buon gusto in fatto di locali. Ha anche un nome?» Inspirò profondamente, cercando di parlare senza far trapelare il tremore della voce. «Matt Harrison», rispose. Il barista annuì, ma i suoi occhi castano scuro si fecero più piccoli. «Matt viene a cena qui qualche volta. Fa l'imbianchino sull'isola. Ha detto di essere una sua amica?» «È anche uno scrittore», aggiunse Katie, mettendosi improvvisamente sulla difensiva. «Un poeta.» Il barista alzò le spalle e continuò a osservarla con aria diffidente. «Non
che io sappia. In ogni caso non è qui oggi, come può vedere anche lei.» Finalmente l'uomo dalla barba rossiccia le sorrise. «Cosa prende? Io dico che lei è una da Diet Coke.» «No, niente, grazie. Potrebbe dirmi come arrivare a casa sua? Sono una sua amica, il suo editore. Ho l'indirizzo.» Il barista rifletté un attimo prima di strappare un foglietto di carta dal blocco delle ordinazioni. «È qui in macchina?» domandò, iniziando a scrivere qualche indicazione. «Probabilmente prenderò un taxi.» «Il tassista saprà dove portarla», disse allora l'uomo senza dare ulteriori spiegazioni. «Tutti conoscono Matt Harrison.» *** Alla stazione dei traghetti Katie salì adagio su un taxi, un'arrugginita Dodge Polaris azzurra. Tutt'a un tratto si sentiva stanca. Disse all'autista: «Vorrei andare al cimitero di Abel's Hill. Sa dove si trova?» Per tutta risposta il tassista si allontanò dal ciglio della strada. Katie concluse che probabilmente conosceva ogni angolo dell'isola, ma di certo non era stata sua intenzione offenderlo. Il piccolo cimitero, ad almeno venti minuti di distanza, era un luogo storico e antico dall'aria pittoresca, come tutte le case che aveva visto lungo la strada. «Non ci metterò molto», informò il tassista scendendo a fatica dal sedile posteriore. «Mi aspetti, per favore.» «Va bene, ma devo lasciare acceso il tassametro.» «Non c'è problema, capisco», rispose, alzando le spalle. «Sono abituata, vengo da New York.» Il taxi rimase in attesa mentre Katie percorreva piano e con reverenza i vialetti di Abel's Hill, controllando ogni lapide, ma soprattutto quelle più recenti. Durante il viaggio il tassista le aveva detto che John Belushi e la scrittrice Lillian Hellman erano sepolti in quel cimitero. Aveva lo stomaco chiuso e un nodo alla gola mentre cercava la tomba. Si sentiva un'intrusa. Alla fine la trovò. Vide il nome inciso su una lapide in cima alla collina: Suzanne Bedford Harrison. Il cuore le balzò di nuovo in petto e avvertì un senso di vertigine. Si chinò, appoggiandosi su un ginocchio. «Dovevo venire, Suzanne», sussurrò. «Mi sembra di conoscerti così be-
ne adesso. Sono Katie Wilkinson.» Lo sguardo si posò sull'epigrafe. Medico di campagna, adorata moglie di Matthew, madre amorevole di Nicholas. Katie recitò una preghiera che il padre le aveva insegnato quando aveva soltanto tre o quattro anni. Poi si voltò a guardare la lapide più piccola accanto a quella di Suzanne. Deglutì. Nicholas Harrison, bambino meraviglioso, amatissimo figlio di Suzanne e Matthew. «Ciao, bimbo dolcissimo. Ciao, Nicholas. Mi chiamo Katie.» Scoppiò in un pianto incontrollabile. Si strinse il petto con entrambe le braccia e iniziò a tremare come un salice piangente in mezzo a un temporale. Pianse per il povero piccolo Nicholas. Non sapeva proprio come Matt fosse riuscito a sopravvivere a un dolore simile. Lo immaginò nella stanza di Nicholas, mentre faceva suonare senza sosta il carillon appeso alla culla nel tentativo di ricordarsi com'era la vita quando c'era ancora il suo bambino, cercando di riportarlo indietro. C'erano fiori, mazzetti di margherite, garofani e gladioli su entrambe le tombe. Qualcuno è stato qui di recente, forse anche oggi stesso. Matt era solito regalarle delle rose: era un uomo meraviglioso, dolce e gentile. Non si era sbagliata sul suo conto. Non aveva fatto una cattiva scelta, era solo stata sfortunata. Poi Katie notò qualcos'altro, la data incisa sulle due lapidi. 18 luglio 1999. Il suo corpo fu percorso da un brivido e sentì le ginocchia diventare sempre più deboli. Esattamente due anni separavano quella data dalla sera della festa che aveva organizzato per Matt sul suo terrazzo a New York, quando gli aveva dato la prima copia del libro di poesie. Non c'era da meravigliarsi che fosse scappato via. E adesso, dov'era? Katie doveva vederlo, almeno una volta ancora. *** Ci vollero altri venti minuti prima che lo sgangherato taxi dell'isola percorresse la distanza che separava il cimitero dalla vecchia rimessa delle barche che Katie riconobbe subito come la casa di Suzanne. Era dipinta di bianco mentre le porte, simili a quelle di un granaio, e le finiture erano grigie. C'era un giardino di fiori pieno di ortensie, azalee e gigli.»
Ora capiva perché Suzanne si era innamorata di quel posto. Piaceva molto anche a lei, perché aveva l'aria di una vera casa. Scese piano dal taxi e la brezza proveniente dall'oceano le scompigliò i capelli. Sentì il vento accarezzarle dolcemente il viso e le gambe nude. Il cuore aveva ripreso a batterle forte. «Vuole che la aspetti?» chiese il tassista. Katie si mordicchiò il labbro superiore, incrociò le lunghe braccia e poi le allungò di nuovo. Guardò l'orologio: erano quasi le tre e mezzo. «No, grazie. Può andare adesso. Mi fermerò per un po'.» Pagò la corsa, e il taxi si allontanò rapido. Aveva il cuore in gola mentre percorreva il vialetto di ghiaia che conduceva alla casa. Diede una rapida occhiata tutt'intorno. Non c'era traccia di Matt. Non vide neanche la sua auto, o forse era parcheggiata sul retro. Bussò alla porta e attese in preda all'agitazione, poi bussò di nuovo col vecchio battente di legno. Nessuna risposta. Dio, è così strano essere qui. Il cuore continuava a batterle forte. Non c'era traccia di anima viva intorno alla casa, ma era decisa ad aspettare il ritorno di Matt. Riusciva quasi a immaginarselo comparire in quel preciso istante, con un paio di vecchi jeans, una camicia color cachi, i suoi scarponi e un caldo sorriso di benvenuto. Avrebbe davvero sorriso se l'avesse vista? Katie aveva bisogno di parlargli, di liberarsi delle cose che la opprimevano. Toccava a lei parlare, ne aveva tutti i diritti. Aveva un segreto da condividere con lui. Così attese a lungo. Poi andò a sedersi per un po' sul prato davanti alla casa, massaggiandosi piano la pancia e ascoltando il rumore delle onde. Alla fine attraversò Beach Road, dove Gus, il cane di Suzanne, era stato investito da un camioncino rosso che arrivava a tutta velocità. Si sedette sulla spiaggia dove Matt e Suzanne avevano ballato al chiaro di luna. Riusciva a vederli. Poi sognò di ballare di nuovo con Matt. Non era un ballerino eccezionale, ma a Katie era piaciuto sentirsi stringere dalle sue braccia forti. Faceva fatica ad ammetterlo adesso, ma era la pura verità. E avrebbe continuato a essere così. Pensava di aver finalmente risolto il mistero: Matt non riusciva a dimenticare Suzanne e Nicholas, a superare il dolore per la loro morte. Probabilmente era convinto che non ci sarebbe mai riuscito. Forse non poteva sopportare il pensiero di perdere qualcun altro. Aveva perso sua moglie e il suo bambino di appena un anno, e persino suo padre quando era ancora un
ragazzo. Katie non poteva proprio biasimarlo, non da quando aveva letto il diario e aveva scoperto quello che Matt aveva passato. Se qualcosa era cambiato, e questo la faceva soffrire, sentiva di amare Matt ancora più di prima. Sollevando lo sguardo, Katie vide una donna minuta con i capelli neri e un vestito azzurro, scalza. Veniva verso di lei dalla parte di Beach Road. Katie rimase immobile a guardarla. Quando la donna la raggiunse, le chiese: «Sei Melanie Bone, vero?» Melanie aveva un sorriso gentile e affettuoso, proprio come se lo era immaginato. «E tu sei Katie. Sei l'editore di Matthew e vieni da New York. Mi ha parlato di te. Mi ha detto che sei snella e carina; che di solito porti i capelli neri raccolti in una treccia, ma a volte qualche ciuffo ribelle ti cade sulle guance.» Katie avrebbe tanto voluto chiedere a Melanie cos'altro Matt aveva detto di lei, ma non lo fece, non ne fu capace. «Sai dov'è?» domandò invece. Melanie fece una smorfia e scosse il capo. «Non è qui. Mi dispiace, Katie. Non so dove sia. A dire il vero, siamo tutti preoccupati per lui. Speravo che fosse a New York con te.» «No», disse Katie, «non l'ho visto neanch'io.» Era tardo pomeriggio quando Melanie riaccompagnò Katie alla stazione dei traghetti di Oak Bluffs. Le bambine, che avevano lo stesso carattere solare della mamma, si sistemarono sul sedile posteriore della station wagon. Katie le conquistò subito, e loro conquistarono lei. «Non rinunciare a lui», disse Melanie a Katie prima che quest'ultima salisse a bordo dell'Islander. «Ne vale la pena. Matt ha avuto l'esperienza peggiore che si possa immaginare, ma penso che si riprenderà. È un uomo eccezionale. Oltretutto, è bravo in casa. E poi, Katie, so che ti vuole bene.» Katie annuì e salutò con un cenno della mano la famiglia Bone. Poi se ne andò da Martha's Vineyard nello stesso modo in cui era arrivata, da sola. *** Passò un'altra settimana lunga e difficile per Katie. Si dedicò anima e corpo al lavoro, ma iniziò anche a riflettere sull'eventualità di ritornare definitivamente nel North Carolina. Avrebbe avuto il bambino a casa, circondata da persone a cui voleva bene e che le volevano bene. Il lunedì mattina successivo Katie era da poco arrivata in ufficio quando
sentì chiamare il suo nome. Aveva appena trasferito il suo tè dal bicchiere di carta blu del bar-panetteria Le Croissant alla tazza di porcellana che teneva sulla scrivania. Quel mattino non aveva tanta nausea, o forse si stava semplicemente abituando a quella sensazione. «Katie? Vieni qui subito. Katie! Corri.» Tutta quella fretta la irritò lievemente. «Cosa, cosa? Arrivo. Calma!» La sua assistente, Mary Jordan, era in equilibrio davanti alla finestra che occupava un'intera parete dell'ufficio e dava sulla Cinquantatreesima Est. Fece segno a Katie di avvicinarsi alla finestra. «Vieni qui!» Incuriosita, Katie andò alla finestra e guardò la strada sottostante. Si rovesciò addosso il tè caldo, e per poco non fece cadere anche la tazza antica se Mary non l'avesse prontamente afferrata. Poi girò le spalle alla sua assistente e percorse il breve corridoio della casa editrice verso l'unico ascensore del piano. Aveva le gambe molli e le girava la testa. Iniziò deliberatamente a sistemarsi i ciuffi di capelli che le cadevano sul viso. Non sapeva cosa fare con le mani. Passò davanti al proprietario e direttore della casa editrice, che stava uscendo dall'ascensore. «Katie, devo parlarti...» Stava per aggiungere qualcos'altro, ma Katie lo fermò con un gesto della mano, scuotendo il capo. «Torno subito, Larry», disse, salendo in fretta sull'ascensore che stava per richiudersi e tornare al piano di sotto. Gli uffici della casa editrice erano all'ultimo piano. E adesso rimettiti in sesto, pensò. No, non c'è abbastanza tempo. Non ce n'è proprio. L'ascensore scese al piano terra senza fermate intermedie. Katie rimase per un attimo ferma nell'atrio, imponendosi di mantenere la calma. A dire il vero, i suoi pensieri erano estremamente lucidi. All'improvviso tutto le sembrava semplice e chiaro. Pensò a Suzanne, a Nicholas e a Matt. Pensò alla lezione delle cinque palle. Poi uscì dall'edificio e si ritrovò in una delle vie di New York. Fece un respiro profondo mentre il calore del sole le inondava il viso. Signore, dammi la forza di affrontare qualsiasi cosa mi aspetti. Vide Matthew sulla Cinquantatreesima. *** Era inginocchiato sul marciapiede, a qualche metro di distanza da Katie,
proprio di fronte all'edificio che ospitava gli uffici della casa editrice. Teneva il capo lievemente chino. Era stato abbastanza cortese e rispettoso da evitare di intralciare il flusso dei passanti. Katie non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. Naturalmente, tutti lo guardavano passandogli accanto. Come potevano resistere? Ficcare il naso era un'arte a New York. Aveva un bell'aspetto: abbronzato, ordinato, i capelli un po' più lunghi del solito; indossava un paio di jeans, una camicia di cotone chambray pulita ma sfilacciata, scarponi impolverati. Era il Matt che conosceva, quello che aveva amato e, si rese conto in quel momento, amava ancora. In ginocchio di fronte alla casa editrice. Davanti a lei. Proprio come Suzanne si era inginocchiata una sera sul portico di casa per chiedere perdono, anche se non c'era niente da perdonare. Katie pensò di sapere quello che doveva fare. Seguì il suo istinto, e il suo cuore. Fece un respiro profondo, poi si abbassò su un ginocchio davanti a Matt, vicino a lui, il più vicino possibile. Il cuore le batteva forte. Tum-tum, tumtum. Aveva desiderato vedere Matt ancora una volta, e lui era là. E adesso? I pedoni stavano iniziando ad affollare il marciapiede. Alcuni fecero dei commenti sgarbati, lamentandosi per aver perso alcuni secondi preziosi lungo la strada per andare al lavoro, o in qualunque altro posto corressero ogni mattina. Matt allungò la mano. Katie esitò un istante, ma poi lasciò che lui le prendesse le mani lunghe e sottili tra le sue. Le era mancato il tocco delle sue mani. Dio, quanto le era mancato. A dire il vero erano molte le cose di cui aveva sentito la mancanza, soprattutto quel senso di pace interiore che provava quando erano insieme. Iniziava a sentirsi stranamente calma. Cosa significava? Cosa sarebbe successo dopo? Perché era venuto? Per scusarsi o spiegarsi di persona? Perché? Alla fine Matt sollevò il capo e la guardò. Le erano mancati quegli occhi castano chiaro, più di quanto avesse creduto. Le erano mancati gli zigomi pronunciati, la fronte corrugata, le labbra perfette. Matt parlò e - oh, Signore - quanto le era mancato il suono della sua voce. «Amo guardarti negli occhi, Katie, per l'onestà che vi leggo dentro. Amo il tuo modo di parlare. Sei diversa, ed è una cosa che apprezzo molto. Mi piace stare con te. Non mi stanco mai, non una volta da quando ti co-
nosco. Sei una editor brillante, e anche un bravo falegname. Sei un po' alta, ma sei affascinante.» Katie si sorprese a sorridere. Non poté farne a meno. Erano tutti e due inginocchiati sul marciapiede, nel bel mezzo di Manhattan. Nessuno aveva la più pallida idea di cosa stessero facendo, e perché. Forse neanche loro lo sapevano. «Ciao, straniero», disse lei. «Sono venuta a cercarti, Matt. Fino a Martha's Vineyard. Alla fine ci sono andata.» Questa volta fu Matt a sorridere. «L'ho saputo. Me l'hanno detto Melanie e le bambine. Anche loro ti hanno trovata affascinante.» «E adesso?» chiese Katie. Doveva sapere di più, scoprire di più, qualunque cosa lui avesse voluto dirle. Dio, era così felice di rivederlo. Non immaginava quanto sarebbe stata felice, come si sarebbe sentita. «E adesso? Be', il motivo per cui sono qui, in ginocchio, è che voglio donarmi a te, Katie. Adesso ne sono certo. Sono finalmente pronto. Sono tuo, se mi vuoi. Voglio stare con te, voglio avere dei figli da te. Ti amo. Non ti lascerò più, te lo prometto, Katie. Con tutto il mio cuore.» E poi, finalmente, si baciarono. *** A ottobre Katie Wilkinson e Matt Harrison si sposarono nella cappella di Kitty Hawk sui meravigliosi Outer Banks del North Carolina. I Wilkinson e gli Harrison andarono subito d'accordo e diventarono un'unica grande famiglia. Tutte le amiche di Katie di New York parteciparono al matrimonio e si presero qualche giorno di vacanza per andare in spiaggia, diventando rosse come gamberi. Le amiche del North Carolina preferivano passare il tempo al riparo delle verande e degli alberi ombriferi, ma i due gruppi concordarono sulla bontà del brandy di menta e zucchero. Anche se Katie era di corporatura snella, non si vedeva ancora che era incinta. Solo alcuni degli invitati sapevano che lei e Matt avrebbero avuto un bambino. Quando Katie glielo aveva detto, Matt l'aveva abbracciata e baciata aggiungendo subito che era l'uomo più felice e fortunato del mondo. «Lo sono anch'io», aveva risposto Katie. «Anzi noi.» La cerimonia e il ricevimento, che si svolsero in una giornata tiepida sotto un cielo limpido e azzurro, furono semplici ma bellissimi. Katie sem-
brava un angelo bianco, con le ali. Era alta e affascinante. Fu un matrimonio senza sfarzi eccessivi, dall'inizio alla fine. I tavoli erano decorati con foto di famiglia. Le damigelle d'onore avevano bouquet di ortensie rosa chiaro. Mentre si scambiavano le promesse, Katie non poté fare a meno di pensare alle preziose palle di vetro: famiglia, salute, amici, integrità. Aveva compreso la lezione. Ed era così che voleva vivere il resto della sua vita, insieme a Matt e al loro bellissimo bambino. Non è una fortuna? FINE