gli Adelphi 183
Paul Leyhausen, nato a Bonn nel 1916, ha studiato zoologia, scienze naturali e psicologia nelle Univer...
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gli Adelphi 183
Paul Leyhausen, nato a Bonn nel 1916, ha studiato zoologia, scienze naturali e psicologia nelle Università di Bonn, Kònigsberg e Friburgo. A lungo docente universitario, ha fondato a Wuppertal il gruppo di lavoro dell'Istituto Max Planck per la fisiologia del comportamento. Assieme a Konrad Lorenz ha scritto Motivation of human and animai behavior (New York, 1973). Il comportamento dei gatti è apparso per la prima volta nel 1956.
Gatto selvatico a f r i c a n o (Felis libyca taitae), p r o b a b i l m e n t e dell'Africa orientale.
PAUL LEYHAUSEN
Il comportamento dei gatti
ADELPHI EDIZIONI
TITOLO ORIGINALE:
Katzen,
eine
Verhaltenskunde
Traduzione di Francesco Scudo e Lorenzo Sereni
© 1 9 8 2 PAREY B U C H V E R L A G IM BLACKWELL W I S S E N S C H A F T S - V E R L A G GmbH, BERLIN © 1 9 9 4 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
I e d i z i o n e gli Adelphi: g e n n a i o 2001 ISBN 88-459-1594-8
INDICE
Prefazione alla prima edizione
11
Prefazione alla quinta edizione
12
Prefazione alla sesta edizione
14
INTRODUZIONE
17
Intenti dell'opera Materiali e metodi Questioni terminologiche PARTE I.
COMPORTAMENTO PREDATORIO
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
Modalità di avvicinamento alla p r e d a Cattura e uccisione della p r e d a Attività in eccesso e reazione a un oggetto sostitutivo T r a t t a m e n t o della p r e d a a p p e n a uccisa Rimozione del piumaggio o del pelo e scuotimento S m e m b r a m e n t o della preda Consumazione della p r e d a Fattori che i n d u c o n o e dirigono il c o m p o r t a m e n t o verso la preda 9. Le p r e d e del gatto domestico
PARTE II.
17 19 20 23
23 36 58 62 66 80 82 91 105
ONTOGENESI DEL COMPORTAMENTO PREDATORIO
Introduzione 10. La maturazione dei movimenti istintivi e dei loro stati motivazionali
111 113
11. 12. 13. 14. 15.
L'orientazione del morso letale Gioco con la preda Fame e comportamento predatorio Esperienza e apprendimento Variazioni individuali e specie-specifiche nelle tecniche di caccia
PARTE III.
IL COMPORTAMENTO SOCIALE
Introduzione 16. Incontro tra conspecifici che non si conoscono 17. Lo «schema» dell'incontro con un conspecifico 18. Incontro in un ambiente conosciuto 19. Duelli tra gatti maschi 20. Comportamento difensivo 21. Sovrapposizione di comportamenti aggressivi e difensivi 22. Comportamento di minaccia e di lotta in varie specie di felini PARTE IV.
23. 24. 25. 26. 27. 28. 29.
STRUTTURA SOCIALE E RIPRODUZIONE
Comportamento territoriale e posizione gerarchica L'organizzazione sociale del leone Ordine gerarchico e affollamento Comportamento verso esseri umani conosciuti Comportamento sessuale Allevamento dei piccoli Uso «libero» dei movimenti istintivi
Considerazioni conclusive
147 163 174 183 196 211
211 213 216 221 228 243 250 264 285
286 301 309 320 324 360 382 391
APPENDICE
Considerazioni sulla nomenclatura dei felidi
395
Bibliografia Indice analitico Indice degli autori Indice delle specie
401 419 429 433
I L C O M P O R T A M E N T O DEI G A T T I
Dedicato con sincera venerazione a Otto Koehler (1889-1974) maestro rigoroso, critico severo e amico paterno
Prefazione alla prima edizione (1956) Via via che i risultati della ricerca etologica vengono resi noti, richiamando l'interesse di psicologi, sociologi, filosofi e insegnanti (anche sotto il profilo della definizione terminologica appropriata), si fa sempre più evidente la scarsità delle nostre conoscenze attuali sul comportamento dei mammiferi superiori. Un'altra constatazione è che, nell'ambito dello studio comparato del comportamento u m a n o e di quello animale, rimane ancora da inquadrare gran parte delle conoscenze di base, a causa dell'insufficienza degli elementi finora raccolti intorno agli animali evolutivamente più vicini all'uomo. L'intento di contribuire a colmare tale deplorevole lacuna è la ragione fondamentale che mi ha spinto a compiere questo lavoro, che mette a frutto le esperienze raccolte in oltre vent'anni di contatto quotidiano con i felini e in cinque anni di osservazioni e di intense sperimentazioni. Va comunque precisato che il presente volume non ha la pretesa di fornire un repertorio, sia pure non esauriente, del complesso di moduli comportamentali, cioè dell'etogramma, del gatto domestico, e tanto meno dei felini in genere; esso si limita a descrivere in via preliminare certi schemi di comportamento del gatto e a presentare taluni circoscritti risultati di indagine. Non v'è dubbio che i dati forniti dovranno essere consistentemente arricchiti, e in parte corretti; in ogni caso, non possono certo ambire a essere giudicati completi ed esaurienti. Vorrei esprimere la mia sincera gratitudine a tutti coloro che hanno reso più facile il mio lavoro aiutandomi in vari modi: il ministero dell'Istruzione della Renania SettentrionaleVestfalia e la Deutsche Forschungsgemeinschaft; il dottor von
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II comportamento dei gatti
J o r d a n s , direttore dell'Istituto di ricerche zoologiche e museo A. Koenig di Bonn, e il dottor Henke, direttore dell'Istituto zoologico dell'Università di Gottinga, che mi h a n n o generosam e n t e ospitato nei loro Istituti insieme agli animali su cui ho lavorato; il dottor B. Grzimek, direttore dello Zoo di Francoforte, e il dottor R. Faust dello stesso zoo, il dottor R. Muller, direttore dello Zoo di Wuppertal, la dottoressa K. H e i n r o t h , direttrice dello Zoo di Berlino, il dottor H. Heck, direttore del Giardino zoologico di Monaco-Hellabrunn, il dottor A. Seitz, direttore del Giardino zoologico di Norimberga, il dottor M. Schlott, direttore degli Zoo di W u p p e r t a l e di Breslau, il dottor E. T h i e n e m a n n , direttore dei Giardini zoologici di Duisb u r g e Kònigsberg, il dottor W. Windecker, direttore dello Zoo di Colonia, che, insieme ai loro numerosi collaboratori, mi h a n n o di b u o n g r a d o prestato assistenza e pazientemente sopportato m e n t r e mi aggiravo nelle loro sedi per effettuarvi osservazioni, esperimenti, fotografie e riprese filmate; il dottor G. Wolf, direttore dell'Istituto per il film scientifico di Gottinga, che mi ha gentilmente permesso di utilizzare le strutture dell'Istituto e di u s u f r u i r e di materiale non ancora pubblicato; i signori H. Stockmann e H. Ròttgen, che si sono presi cura degli animali sui quali ho condotto le mie ricerche; tutti coloro che mi h a n n o fornito aiuto e utili indicazioni, che mi h a n n o inviato copia di lavori scientifici e che h a n n o collaborato con me in q u a l u n q u e f o r m a - l'elenco sarebbe t r o p p o lungo per trovare spazio in queste pagine; il redattore della casa editrice che ha pubblicato il mio libro, il compianto professor O. Koehler di Friburgo, e l'editore stesso, Paul Parey, per l'assistenza prestata nell'assicurare la migliore riuscita all'opera. Un ringraziamento speciale va al dottor H. Wolf, curatore della Sezione m a m m i f e r i del già citato Istituto di ricerche zoologiche di Bonn, alla cui i n t r a p r e n d e n z a e impegno, generosi e instancabili, devo l'avvio e la realizzazione dell'intero progetto. Gottinga, febbraio 1955
Paul Leyhausen
Prefazione alla quinta edizione Da q u a n d o , più di vent'anni fa, è stata pubblicata la prima edizione di questo libro, i risultati accumulati attraverso la prosecuzione delle mie stesse ricerche e i lavori svolti da molti altri studiosi h a n n o a tal p u n t o ampliato, integrato e rettificato il f r o n t e delle conoscenze da r e n d e r n e inevitabile una revi-
Prefazione
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sione complessiva. C o m e conseguenza, le dimensioni del volume sono r a d d o p p i a t e . Benché, ora come allora, il tema centrale sia il c o m p o r t a m e n t o del gatto domestico, u n o spazio maggiore è stato dedicato al c o n f r o n t o con altre specie, e ciò agevola, rispetto a q u a n t o accadeva in precedenza, la possibilità di ricostruire la storia evolutiva probabile dei singoli sistemi comportamentali. Voglio qui ringraziare la Società Max Planck che nel 1960 ha realizzato, secondo un mio progetto, u n a serie di attrezzat u r e di ricerca su un t e r r e n o dello Zoo di W u p p e r t a l , destinate all'attività di un g r u p p o di studio dell'Istituto Max Planck per la fisiologia del c o m p o r t a m e n t o . Ciò mi ha permesso di studiare un n u m e r o assai più ampio di specie di felini e viverridi in condizioni considerevolmente migliori. Il dottor T h . Reed e il dottor J.F. Eisenberg mi h a n n o dato la possibilità di c o n d u r r e studi comparati sull'ottima collezione di viverridi del National Zoological Park di Washington, e h a n n o sostenuto questo mio lavoro nel m o d o più generoso. La Smithsonian Institution di Washington, la Società Max Planck e il World Wildlife F u n d h a n n o contribuito a finanziare visite di studio presso le riserve naturali in Africa, India, Bangladesh, Malesia, Thailandia e Sri Lanka, che mi h a n n o permesso di f a r m i un'idea del c o m p o r t a m e n t o in n a t u r a dei grandi felini e di altri carnivori di taglia minore. In cinque occasioni, tra il 1962 e il 1977, ho avuto m o d o di compiere a p p r o f o n d i t e osservazioni sugli ibridi di leopardo-leone, a diversi stadi di sviluppo, ospitati presso il Parco zoologico Hanshin, in Giappone, e di vedere p e r la prima volta, nella seconda di queste visite, la specie di felino Prionailurus (Mayailurus) irìomotensis Imaizumi (1967). Per quattro volte ho visitato l'isola di Iriomote, dove Imaizumi e i suoi studenti svolgono ricerche sul campo; ciò mi ha permesso di t r a r r e alcuni spunti sull'ecologia dei felini. Vorrei ringraziare per il loro generoso sostegno i dottori H. Doi, T. Inoue, S. T a n a k a e K. Akaki del Parco zoologico Hanshin a Koshien; il professor Y. Imaizumi, del Museo nazionale delle Scienze di Tokyo, e la National Geographic Society di Washington. Oltre alle p e r s o n e e agli enti ricordati sopra e nella prefazione alla p r i m a edizione tedesca, desidero ringraziare per il sostegno a me accordato nelle f o r m e più diverse: il C e n t r o di ricerche farmacologiche della Bayer di W u p p e r t a l ; i Behring Werke, di M a r b u r g / L a h n ; la Deutsche Forschungsgemeinschaft; il C o m u n e e l'Amministrazione di W u p p e r t a l ; il dottor K. Benirschke e il dottor D. Wurster di Hanover, New H a m p shire; il dottor L. Curtis dello Zoo di Fort Worth; M.K. Dalvi e R.D. Joshi, conservatori delle Foreste dello Stato di Gujarat,
India; il professor J. Flynn, dell'Università di Yale; il dottor C. Gray, del National Zoological Park di Washington; il professor A. Gropp, dell'Istituto di Patologia dell'Università di Bonn; il professor C.A.W. Guggisberg, di Nairobi, Kenya; il dottor H. Heck J r . e il signor R. Lindemann, del Catskill Game Farm, New York; il dottor H. Hendrichs, di Bad Munstereifel; il dottor P. Joslin, di Vancouver; il signor M. Lockhart del Parco nazionale di Wilpattu, nello Sri Lanka; il dottor N. Muckenhirn del National Zoological Park di Washington; il professor W. Roberts dell'Università del Minnesota; il signor W. Scheffel di Maintal; il dottor U. Thiede di Kobe; il signor J. Visser di Camps Bay, Sud Africa; il signor P.B. Vyas, soprintendente del santuario di Gir, Gujarat; la signorina J. Wait dell'Università di Yale. Rivolgo infine un ringraziamento particolare al compianto dottor R.F. Ewer e al dottor G. Schaller, poiché essi hanno contribuito più di ogni altro a smantellare le mie più care illusioni (cosa che spero sia esaurientemente documentata in questa edizione) e al mio assistente B.A. Tonkin, che - ne sono fin troppo consapevole — è il vero autore di tutti gli altri miglioramenti apportati a questo libro. Wuppertal, giugno 1979
Paul Leyhausen
Prefazione alla sesta edizione La sesta edizione di questo volume è una ristampa invariata della quinta. Nonostante da questa siano passati solo due anni e mezzo, vi sarebbero da apportare alcune aggiunte e integrazioni; queste però — salvo che in un caso — verrebbero solo a confermare gli episodi descritti e le conclusioni tratte. L'eccezione riguarda il quadro del sistema sociale dei gatti domestici liberi di vagabondare: ricerche effettuate di recente in Svezia e in Inghilterra h a n n o mostrato che quello da me abbozzato è solo uno tra i tanti sistemi possibili, giacché questi sono determinati dalla densità di popolazione e dalle particolari condizioni ecologiche nelle quali si sviluppano. Si tratta di una correzione del q u a d r o generale cui si sarebbe potuti giungere prima, se si fosse considerata l'influenza di tali variabili sull'organizzazione sociale dei leoni, da me descritta in modo esauriente; penso che questo accenno basti. Le ricerche proseguono e sarà possibile giungere fra non molto a presentare una compiuta descrizione delle molteplici forme di organizza-
zione sociale dei gatti, sia domestici sia selvatici, e dei singoli elementi che le costituiscono. Desidero ringraziare di cuore tutti coloro che mi h a n n o sostenuto con consigli, aiuto pratico e soprattutto critiche. Ringrazio la casa editrice Paul Parey per l'interesse continuo, l'eccellente collaborazione e la solidarietà. Il G r u p p o di lavoro di Wuppertal (da me fondato) dell'Istituto Max Planck per la fisiologia del comportamento non esiste più. Tutti i tentativi di mantenerlo in attività d o p o il mio pensionamento sono risultati vani. Possa questo libro tenerne vivo il ricordo. Oltre a ciò, il mio desiderio e la mia speranza per il f u t u r o sono che il libro mostri quali ricchi frutti (non ottenibili per altra via) possa portare l'ampia, intensiva indagine del comportamento di un ristretto g r u p p o di mammiferi superiori consanguinei. Windeck-Halscheid, maggio 1982
Paul Leyhausen
INTRODUZIONE
Intenti dell'opera Nella prima edizione del presente volume, che risale al 1956, esordivo con queste parole: « Benché negli ultimi anni il n u m e r o delle pubblicazioni dedicate al c o m p o r t a m e n t o dei m a m m i f e r i sia aumentato, i corrispondenti studi di etologia comparata h a n n o sostanzialmente segnato il passo. Ciò si spiega sia con la difficoltà di allevare m a m m i f e r i e ancor più di osservarli nel loro ambiente naturale sia con la g r a n d e variabilità dei loro comportamenti; tutte queste circostanze h a n n o finora impedito l'effettuazione di studi altrettanto dettagliati quanto quelli condotti da Seitz (1940, 1943, 1949) sui ciclidi, da T i n b e r g e n e dal suo collaboratore van Iersel (1947; van Iersel, 1953) sullo spinarello, da Lorenz (1941) sui palmipedi, da Baerends (1941) e Adriaanse (1947) su Ammophila, o quelli di Faber (1929, 1932, 1936) e Jacobs (1950, 1953) sugli ortotteri. Fino a oggi i lavori di etologia dei m a m m i f e r i h a n n o avuto quasi esclusivamente un carattere descrittivo, e del resto anche le osservazioni e le ricerche qui riportate non vanno molto oltre ». Negli anni successivi, però, le pubblicazioni sul comportam e n t o dei mammiferi, soprattutto Primati, osservati in condizioni naturali e in cattività, sono state tanto numerose che è impossibile citarle qui tutte; nel corso del libro menzionerò nei passi appropriati quelle direttamente attinenti agli argomenti trattati. Rimane c o m u n q u e il fatto che si tratta essenzialmente di materiale descrittivo, che dà alle teorie generali del c o m p o r t a m e n t o un contributo trascurabile rispetto a quel-
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II comportamento dei gatti
lo di altre ricerche, condotte su altri g r u p p i di animali. Di conseguenza, le finalità del presente lavoro r i m a n g o n o le stesse enunciate nella prima edizione. 1) Ricostruire l'evoluzione di sistemi comportamentali complessi in un g r u p p o di m a m m i f e r i altamente evoluti, attraverso l'osservazione, il c o n f r o n t o e un'accorta sperimentazione; chiarire l'interazione tra i diversi fattori causali coinvolti nell'ontogenesi di tali sistemi comportamentali, nonché il loro d i f f e r e n t e contributo specifico alla determinazione del risultato; analizzare in m o d o dettagliato le relazioni causali che e n t r a n o in gioco nella espressione istantanea del comportamento. 2) Facilitare la comprensione della n a t u r a e della varietà dei comportamenti dei felini e del gatto, in particolare per coloro che utilizzano questi animali in ricerche diverse da quelle etologiche, per esempio in sperimentazioni neurofisiologiche o farmacologiche. La mia speranza è che ciò possa loro consentire di valutare i propri risultati con maggiore accuratezza e più ricchi dettagli e, di conseguenza, r i d u r r e il n u m e r o degli esperimenti. 3) D e p u r a r e i risultati sperimentali da ciò che è specificam e n t e tipico dei felini e mettere a fuoco ciò che è tipico dei m a m m i f e r i in generale, in m o d o che ciò possa aiutare a spiegare il nostro stesso, tanto complesso, c o m p o r t a m e n t o umano. La ragione per cui le ricerche sui carnivori, accanto a quelle sui Primati, devono essere considerate di g r a n d e utilità è stata spiegata in m o d o convincente da Schaller e Lowther (1969), sulla base dei loro studi comparati, condotti sui carnivori solitari e su quelli sociali allo stato selvatico. Q u a n d o la caccia, e soprattutto la caccia ad animali di grandi dimensioni, cominciò ad assumere un ruolo sempre più importante per il sostentamento dei preominidi e dell'uomo primitivo, si produssero, come conseguenza, modificazioni sul piano ecologico che indirizzarono questi ultimi a sviluppare comportamenti convergenti con quello dei carnivori; ciò non ha alcun riscontro nel c o m p o r t a m e n t o dei Primati più strettamente affini all'uomo. Ne deriva che gli studi sul c o m p o r t a m e n t o dei Primati, di per sé, non possono f o r n i r e informazioni utili sul versante del c o m p o r t a m e n t o u m a n o correlato con la caccia. Il secondo cambiamento decisivo nella situazione ecologica dell'uomo, che ne influenzò l'evoluzione del comportamento, fu il passaggio all'agricoltura, accompagnato dallo sviluppo di insediamenti stabili. Ora, con mia g r a n d e sorpresa, mi sono reso conto che lo studio dei felini ha fornito nuovi contributi per farci conoscere meglio p r o p r i o questo aspetto del comportam e n t o u m a n o (Leyhausen, 1965 a, 1971)!
Materiali e metodi Dall'inverno del 1949 agli inizi del 1955 ho condotto osservazioni e ricerche su un totale di 30 gatti domestici, contrassegnati da un n u m e r o preceduto dalla lettera M (maschio) o F (femmina). Ho inoltre osservato, a fini comparativi, un'oncilla (Leopardus tigrinus Schreb.), a cui è dedicato un mio precedente lavoro (Leyhausen, 1953), e un servai (Leptailurus servai Schreb.). Dal novembre del 1949 al giugno 1952, il museo A. Koenig di Bonn mi ha permesso di utilizzare per le mie ricerche un piccolo stabulario con cinque recinti al coperto, sei gabbie all'aperto e un laboratorio. Dal giugno del 1952 al 1960, ho avuto l'opportunità di usare due o tre stanze e una gabbia all'aperto presso l'Istituto di zoologia dell'Università di Gottinga. Inoltre, ho condotto osservazioni su numerosi gatti randagi e sui felini ospitati da vari giardini zoologici. La costituzione, a Wuppertal, di un g r u p p o di studio dell'Istituto Max Planck per la fisiologia del comportamento mi ha poi permesso di effettuare ricerche, in condizioni molto migliori, su un n u m e r o assai maggiore di specie di felini selvatici (Leyhausen, 1962 b). La descrizione orale dei comportamenti osservati è stata registrata su nastro e in molti casi è stata integrata con materiale documentario visivo (filmati e fotografie); si è anche provveduto a incidere su nastro le vocalizzazioni e, col passare degli anni, l'accumulo di materiale sonoro relativo alle varie specie di felini ospitate a Wuppertal o presso vari zoo o singoli privati ha permesso la costituzione di un vasto archivio. Va segnalata la pubblicazione (Peters, 1978) di un'analisi comparata delle vocalizzazioni di puma, leopardo delle nevi, leopardo nebuloso, tigre, giaguaro, leopardo, leone e ibridi tigre-leone, leopardo-leone e leopardo-giaguaro. Analoghi studi su altre specie sono stati effettuati da Peters e Tonkin. La mancanza di spazio mi impedirà di riferirne qui in dettaglio. Circa il metodo di registrazione delle osservazioni, va sottolineato che, fatta eccezione per gli esperimenti mirati alla risoluzione di problemi specifici, l'osservatore è tenuto a descrivere, senza abbreviazioni o categorizzazioni o confronti, solamente quello che vede effettivamente accadere, e come se lo osservasse per la prima volta. I problemi e le loro eventuali soluzioni, così come ogni altra considerazione, devono essere esclusivamente il risultato di un esame successivo del contenuto delle registrazioni. Questo modo di procedere è l'unico che offra ragionevoli garanzie di evitare che problemi particolari, o le conoscenze acquisite, influenzino in misura eccessiva ciò che viene registrato e come. Le osservazioni e più ancora gli esperi-
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II comportamento dei gatti
menti intesi a un'analisi di tipo quantitativo possono, e di fatto devono, essere pianificati tenendo presenti i metodi che si int e n d o n o usare, in particolare se questi sono di n a t u r a statistica. In ogni caso, l'analisi qualitativa, che deve senza eccezioni p r e c e d e r e quella quantitativa, può rivelarsi davvero corretta soltanto se condotta secondo le modalità sopra descritte.
Questioni terminologiche A mio m o d o di vedere, il problema di stabilire quale sia il « c o m p o r t a m e n t o normale » di una specie animale in particolari condizioni « naturali » può essere posto in tre modi (Leyhausen, 1965 b). 1) Quali moduli comportamentali vengono effettivamente messi in atto nelle condizioni specifiche? Tutti vanno giudicati normali, a patto che le condizioni prese in esame si verifichino abbastanza di f r e q u e n t e nell'habitat della specie da esercitare u n a pressione selettiva in grado di plasmarne l'adattamento e l'adattabilità (Gause, 1942) all'ambiente («repertorio comportamentale »). 2) Quale c o m p o r t a m e n t o ci si può attendere come probabile (e in quale grado)? La conoscenza del c o m p o r t a m e n t o statisticamente più f r e q u e n t e fornisce una « n o r m a » rispetto alla quale valutare il comportamento a livello di popolazioni. Tale n o r m a p e r m e t t e di predire con un margine di probabilità calcolato il c o m p o r t a m e n t o di un individuo in u n a situazione nella quale le variabili siano solo in parte conosciute o controllabili e ciò è al c o n t e m p o importante e adeguato ai fini pratici. In ogni caso, n o n bisogna dimenticare che, nell'ambito di popolazioni differenti, la frequenza con cui si presentano certi c o m p o r t a m e n t i p u ò essere diversa (cioè si h a n n o differenti curve di distribuzione statistica della probabilità) e ciò vale, ovviamente, anche in relazione alle diverse « condizioni ecologiche» specifiche in cui un animale viene tenuto in cattività. La « norma » statistica, quindi, è rigorosamente valida nelle circostanze in rapporto alle quali è stata stabilita ( « c o m p o r t a m e n t o probabile »). 3) C o m e si c o m p o r t a l'animale q u a n d o tutto procede senza imprevisti? Nella maggior parte dei casi, tale d o m a n d a and r e b b e f o r m u l a t a usando il verbo al condizionale: come sarebbero a n d a t e le cose se il gatto non fosse scivolato sulla ghiaia, se il ratto non si fosse rovesciato sulla schiena in tempo, se il gatto fosse stato più deciso e così via? Tale « n o r m a ideale » riferita a un processo comportamentale che si svolge in assenza di perturbazioni, « secondo le reali intenzioni del
Introduzione
21
soggetto », è di g r a n d e significato ai fini dell'analisi qualitativa del c o m p o r t a m e n t o e, di conseguenza, ai fini della comprensione della n a t u r a e della struttura dei suoi fattori causali interni. Questa n o r m a , in realtà, non è per nulla «ideale», nel senso che r a p p r e s e n t a una mera astrazione o un'invenzione speculativa dell'immaginazione; anche se in certi rari casi si presenta nella sua f o r m a pura, in effetti p u ò essere percepita o dedotta solo attraverso estrapolazioni o come u n a Gestalt (Leyhausen, 1961; Lorenz, 1959, 1963). È vero l'esatto contrario, nel senso che essa è una invariante in sommo g r a d o reale dell'animale, presente in tutte le possibili varianti in cui p u ò presentarsi un comportamento. E assolutamente necessario stabilire questa n o r m a ideale prima di utilizzare metodi quantitativi e statistici. Solo d o p o che ciò è stato fatto, si p u ò procedere a stabilire quali sono i fattori che d e t e r m i n a n o le varianti comportamentali e la loro distribuzione di frequenza. Quindi, per un ricercatore che intenda scoprire le relazioni causali all'interno di un certo sistema comportamentale, proprio quella forma in cui il comportamento si è manifestato solo in alcuni degli episodi osservati è spesso più importante di tutto il resto (« c o m p o r t a m e n t o tipo »). Pertanto, chiunque voglia parlare di « c o m p o r t a m e n t o normale » dovrebbe, fin dall'inizio, indicare con precisione a quale delle tre n o r m e prima enunciate si sta riferendo. Con tutto questo, non si dovrebbe dimenticare che anche il m e n o vistoso degli aspetti di un essere vivente ha almeno u n a duplice storia: la storia della specie a cui appartiene (filogenesi) e la storia dello sviluppo di quel particolare individuo (ontogenesi). La prima determina che cosa, f o n d a m e n t a l m e n t e , p u ò svilupparsi da un uovo fecondato: per esempio, un coccodrillo n o n potrà mai originarsi da un uovo di gallina; la seconda determina nei dettagli ciò in cui realmente si svilupperà l'uovo, o per lo m e n o lo determina in larga misura, s e m p r e ten e n d o conto delle variazioni dovute alle caratteristiche genetiche dell'individuo. Un essere vivente, tuttavia, possiede non solo strutture, ma anche funzioni e, specialmente nel caso di funzioni che n o n sono costantemente attive a un ritmo uniforme o secondo cadenze regolari, il processo in esse implicato deve ogni volta venire nuovamente effettuato. In altre parole, ogni creatura, in ogni momento, possiede, oltre alla storia filogenetica e a quella ontogenetica, una propria particolare storia contingente, legata ad accadimenti casuali. La chiamerò, con un termine preso in prestito dalla psicologia della Gestalt, « actogenesi ». Filogenesi, ontogenesi e actogenesi sono implicate in q u a l u n q u e elemento, anche il più trascurabile, del c o m p o r t a m e n t o e un'analisi che trascuri l'indagine di tutte e tre n o n p u ò essere che imperfetta.
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II comportamento dei gatti
A n c o r a oggi, gli studiosi del c o m p o r t a m e n t o continuano a discutere su ciò che deve considerarsi « innato » e ciò che deve considerarsi « acquisito ». Poiché f a r ò uso f r e q u e n t e di entrambi i termini, vorrei chiarirne il significato: i d u e concetti n o n sono altro che espressioni piuttosto semplici e d'uso corr e n t e p e r indicare quelli che nella genetica classica sono conosciuti, rispettivamente, come caratteri peristostabili1 e peristolabili e nessun etologo e u r o p e o ha mai inteso d a r e loro un significato diverso. Per esempio, l'idea che ci viene ancora attribuita da Kuo (1967), secondo cui u n o schema comportamentale innato possa essere considerato come qualcosa che non e m e r g e epigeneticamente, cioè in seguito alla interazione tra g e n o m a e ambiente d u r a n t e lo sviluppo dell'individuo, è assurda. Di conseguenza, noi n o n riteniamo che l'aggressività o qualunq u e altro aspetto del c o m p o r t a m e n t o siano «insiti nei geni»: allo stesso m o d o , le finestre di u n a nuova casa n o n compaiono nel disegno di progetto, ma esso di fatto d e t e r m i n a q u a n t e finestre avrà la casa, dove s a r a n n o collocate, e quale sarà la loro f o r m a . Se non esistessero caratteri peristostabili, Gregor Mendel n o n sarebbe mai stato spinto a svolgere le sue p r i m e considerazioni e i suoi primi esperimenti, e oggi non esisterebbe la scienza della genetica. Se n o n esistessero caratteri peristostabili, essi n o n p o t r e b b e r o essere utilizzati p e r chiarire le relazioni f r a specie diverse, come invece è stato fatto, e viene tuttora fatto, con g r a n d e successo. Che i c o m p o r t a m e n t i peristostabili n o n siano un ostacolo, ma, anzi, un prerequisito necessario p e r lo sviluppo di moduli comportamentali peristolabili e adattativi, è un aspetto che verrà spesso sottolineato nel corso di questo libro.
1. Dal greco perilstemi, stare i n t o r n o . Peristostabile definisce un carattere che n o n viene modificato — o p e r lo m e n o n o n in m o d o significativo - dalle condizioni ambientali d u r a n t e lo sviluppo dell'individuo, cioè è « stabile »; all'opposto, « labile » significa instabile: un carattere peristolabile viene modificato qualitativamente e/o quantitativamente da u n o o più fattori ambientali, ma n o n necessariamente in m o d o adattativo.
P A R T E PRIMA
COMPORTAMENTO PREDATORIO
1. Modalità di avvicinamento alla preda I felini si avvicinano con passo furtivo alla preda in un modo simile a quello descritto per la volpe da Seitz (1950). Non appena avvista una preda, a una certa distanza, il felino si raccoglie e in questa postura corre molto velocemente verso di essa («avvicinamento in corsa», Leyhausen, 1955; fig. 1.1). Q u a n d o giunge a una distanza dall'obiettivo che varia, a seconda della copertura offerta dal terreno, da 2 a 5 metri, si arresta e assume la « postura di osservazione» (fig. 1.2): l'intero corpo è schiacciato contro il terreno; gli arti anteriori sono arretrati, f o r m a n d o un angolo acuto, con il gomito che si proietta al di sopra della scapola e le zampe puntate proprio sotto l'articolazione della spalla, a sostegno del corpo; il corpo stesso è leggermente incurvato, la pianta delle zampe posteriori aderisce completamente al suolo e la coda è tesa all'indietro, o p p u r e ripiegata intorno al corpo, con la punta che si muove con deboli scatti; la testa è spinta in avanti, con le vibrisse pienamente distese, e le orecchie sono erette. Il felino può rimanere in questa posizione per diversi minuti, fissando la preda e seguendone con la testa ogni minimo movimento. Se la distanza della preda è ancora eccessiva, segue un secondo avvicinamento in corsa, o p p u r e si ha un avvicinamento lento e guardingo, che porta l'animale al riparo di qualche nascondiglio, da dove, più tardi, può lanciarsi all'attacco (fig. 1.3). Qui l'animale assume di nuovo la postura di osservazione e, dopo una pausa più o meno lunga, si prepara a balzare sulla preda (fig. 1.4): gli arti posteriori sono gradualmente spinti all'indie-
Fig. 1.1. Avvicinamento in corsa: {sapra) FIO con un topo; (sotto) un'oncilla insegue un passero m o r t o trascinato con u n o spago.
Fig. 1.2. Postura di osservazione: M3 con un topolino meccanico che si m u o ve in cerchio.
Fig. 1.3. Avvicinamento furtivo: M3.
tro e i talloni vengono sollevati da terra e distanziati dal corpo, le zampe posteriori cominciano poi ad alzarsi e abbassarsi ritmicamente con intensità che aumenta e, alla fine, l'intero treno posteriore oscilla da un lato all'altro seguendo questo ritmo. Generalmente, questo livello massimo di intensità, descritto da Klein (1930-31, 1931-32) come «dondolio», viene osservato solamente nel gioco, quando un piccolo finge di catturare una preda, e in tal caso si manifesta in forma accentuata. Gli adulti di fronte a una vera preda fanno al massimo solo un semplicissimo accenno di « dondolio ». La coda è tesa all'indietro e la sua punta si contorce con violenza crescente. Dopo tutti questi preparativi, il felino finalmente scatta verso la vittima, ma non dall'alto e con un unico, potente balzo, come descritto dal Brehm e da altri; piuttosto, si appiattisce a
Fig. 1.4. Preparazione al balzo dalla postura di osservazione: M3 con un ratto.
Fig. 1.5. Balzo dalla p o s t u r a di osservazione: (sopra) M12; (sotto) F8.
terra e si lancia in avanti correndo o compiendo brevi salti (fig. 1.5). Sempre mantenendosi in posizione appiattita, con l'ultimo saltello raggiunge la preda a livello del terreno (fig. 1.6), a meno che stia cacciando piccole prede (topi o insetti) nell'erba alta, che impedisce di adottare questa tecnica di avvicinamento. In questo caso, il felino effettua spesso il salto « a campana» caratteristico delle volpi q u a n d o catturano topi (Seitz, 1950; Siewert, 1936; fig. 1.7), anche nell'erba bassa. Il balzo finale del felino sulla preda è così corto che gli arti posteriori sono in grado di proiettare in avanti il treno anteriore con le zampe protese, senza che il treno posteriore si stacchi dal terreno. Ciò assicura una postura stabile nel momento in cui la preda sia stata raggiunta: gli arti posteriori rimangono ancora ben piantati a terra e quindi agiscono in modo da frenare il salto e, inoltre, essendo divaricati, non solo garantiscono al felino il saldo equilibrio necessario per a f f r o n t a r e una possibile lotta, ma gli consentono anche di potersi immediatamente ritirare e fuggire; inoltre, l'animale ha la possibilità di modificare la direzione e l'ampiezza del balzo finale anche q u a n d o esso è già avviato, in modo da calibrarlo rispetto a qualsiasi brusco movimento o tentativo di fuga della preda. Tale capacità si rivela particolarmente importante nella caccia
Fig. 1.6. Cattura della p r e d a : (sopra) ondila con un ratto albino; (sotto) M9 con un topo.
Fig. 1.7. Balzo «a c a m p a n a » di u n a volpe che cattura un topo. Sequenze tratte da un filmato di H. Siewert, film C 352, Istituto per il film scientifico, Gottinga. Un f o t o g r a m m a ogni 1/24 di secondo.
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agli uccelli, q u a n d o questi ultimi cercano di volare via; in questo caso, anche gli arti posteriori possono venire sollevati da terra (fig. 1.8). Fino a qual p u n t o la perdita di contatto con il suolo possa influenzare le probabilità di successo nella caccia mi è stato dimostrato da M3: in u n a circostanza, il gatto riuscì, con un potente scatto verso l'alto, a catturare un passero già in
Fig. 1.8. (sopra) M12 balza verso un passero che sta volando via. (a destra) M a n t e n e n d o un contatto p r o l u n g a t o con il suolo con le z a m p e posteriori, l'ondila riesce, nel bel mezzo del balzo, a seguire l'oscillazione di un passero m o r t o che p e n d e d a u n a corda.
volo nel tentativo di fuggire; subito dopo, tuttavia, esso, che teneva ben stretto l'uccello con gli arti anteriori e quindi non poteva controllare il p r o p r i o atterraggio, finì per rovesciarsi completamente. C o m e conseguenza, lasciò a n d a r e la p r e d a e la sua caccia sarebbe andata a vuoto se il passero n o n fosse stato t r o p p o stordito dall'attacco subito per volare via in tempo. La figura 1.9 (a) mostra u n a f e m m i n a di ondila m e n t r e insegue un topo, appiattendosi s e m p r e di più via via che gli si avvicina (immagini a-l). In (m) il felino è ripreso immediatamente prima dello scatto finale; in (n) e (o) a f f e r r a il topo con gli arti anteriori e lo azzanna. Nella figura 1.10, immagini (a) e (b), u n a f e m m i n a di servai è raffigurata d u r a n t e un avvicinam e n t o in corsa; in (c) gli arti posteriori vengono portati in posizione per lo scatto finale; in (d) essi sono ben piantati a terra, m e n t r e in (e-i) gli arti anteriori a f f e r r a n o e abbattono la preda, un pollo di piccole dimensioni. Gli arti posteriori si spostano in avanti (k-o) solamente d o p o che la presa degli arti anteriori e delle fauci è stata stabilita saldamente. I dettagli di que-
Fig. 1.9. O n d i l a che attacca un topo di peluche. Si veda il testo per ulteriori spiegazioni. Un fotogramma ogni 1/16 di secondo.
sta sequenza di movimenti diventano particolarmente chiari se l'attacco fallisce. Nella figura 1.11, una leonessa insegue per gioco un leone: in (a) comincia ad attaccare, in (è) e (e) sposta il peso sul treno posteriore e piega il metatarso; quindi, si lancia avanti (d e e). In ( f ) , e meglio in (g), con l'arto anteriore destro proteso dovrebbe raggiungere il maschio, ma quest'ultimo si sposta descrivendo un semicerchio (c-n) ed essa, malgrado aumenti l'ampiezza del proprio balzo (g-i), lo manca; il suo attacco è troppo corto. Solamente in (k), q u a n d o già sta ricadendo, la leonessa sfiora la spalla del maschio con la zampa si-
Fig. 1.10. Femmina ( $ ) di servai che attacca un pulcino. Si veda il testo per ulteriori spiegazioni. Un fotogramma corrisponde a un intervallo di 1/32 di secondo.
Fjg- 1.11. Due leoni giocano a catturare la preda. Un fotogramma ogni 1/36 j secondo. Il secondo leone è stato disegnato solo quando necessario. Da un rumato di K. Philipp (anche figg. 1.12, 1.13, 1.19).
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II comportamento dei gatti
nistra. O r a i suoi arti posteriori si sono mossi r a p i d a m e n t e in avanti (k-m) e sostengono da soli l'intero peso del corpo; come risultato, la leonessa, dovendo f r e n a r e bruscamente il p r o p r i o slancio, scivola per un breve tratto sul terreno (n-s) (si confronti la descrizione della « esibizione in f r e n a t a » del tasso in Eibl-Eibesfeldt, 1950 a). Solamente in (t) essa r i p r e n d e a galoppare normalmente. Il galoppo normale (fig. 1.12) o il salto di un ostacolo (fig. 1.13) appaiono molto diversi dall'attacco: in entrambi i casi, il peso prima del balzo non viene spostato sui talloni e d u r a n t e l'atterraggio si scarica innanzi tutto sugli arti anteriori.
Fig. 1.12. Salto normalmente effettuato da una leonessa in piena corsa. Un fotogramma ogni 1/36 di secondo.
Fig. 1.13. Una leonessa supera con un salto un ostacolo (un tronco caduto). Un fotogramma ogni 1/24 di secondo.
Ciò che abbiamo descritto negli esempi precedenti vale anche per il ghepardo: q u a n d o esso raggiunge la preda, trasferisce il peso del corpo sul treno posteriore, anche se la sua velocità supera i 100 km/h (Eaton, 1972 a). Perfino q u a n d o attacca da una posizione elevata, per esempio da un albero o da una roccia, un felino non balza mai direttamente sulla preda, il cui corpo soffice e cedevole e dai movimenti imprevedibili potrebbe rendere l'atterraggio poco sicuro. Compie, invece, un balzo che lo porta a toccare terra vicino alla preda, ed è da qui che la attacca. Una simile modalità ricorre quasi invariabilmente nei cuccioli che giocano a cacciare una preda. Lo stesso comportamento si poteva osservare in una femmina di puma del Giardino zoologico di Hagenbeck
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II comportamento dei gatti
q u a n d o , dal tetto della costruzione che f u n g e v a da tana, attaccava p e r gioco, come se fosse u n a preda, il p r o p r i o maschio. H e m m e r (1968) riporta di giovani leopardi nebulosi che si lanciavano dall'alto direttamente sul p r o p r i o c o m p a g n o di giochi (un fratello, o la madre), e ritiene che ciò p r e s u p p o n g a un c o m p o r t a m e n t o simile negli esemplari di questa specie q u a n d o attaccano u n a vera p r e d a . Si tratta tuttavia di una conclusione azzardata, p e r c h é nel gioco si osservano spesso c o m p o r t a m e n t i , o varianti di comportamenti, mai messi in atto q u a n d o l'animale fa sul serio. C o m e v e d r e m o (pp. 235 sgg.), la dinamica p r o p r i a a questo tipo di attacco riveste un'importanza considerevole anche per altre ragioni oltre a quelle discusse sopra (mantenimento dell'equilibrio, possibilità di p r o n t a difesa, p r o l u n g a m e n t o o controllo del balzo). In ogni caso, è certo che un felino n o n si getterà mai sulla sua vittima con la violenza incontrollata tipica di tanti altri predatori. Per f a r e un esempio, u n a m a r t o r a che si trovasse sullo schienale di u n a sedia si getterebbe ciecamente, senza preoccuparsi di come e dove p r e n d e r à terra, su un passero che si dondolasse su u n a cordicella nelle vicinanze. Un felino n o n farebbe mai lo stesso. Potrebbe forse compiere movim e n t i più o m e n o chiaramente intenzionali in direzione dell'oggetto che lo interessa, e nel f a r questo potrebbe p e r d e r e l'equilibrio; ma, a questo punto, salterebbe a terra, e da qui cercherebbe n u o v a m e n t e di raggiungere la preda. Finora, ho p o t u t o osservare un c o m p o r t a m e n t o simile a quello della martora, ma limitatamente all'ambito del gioco, solo nel margay (Leopardus wiedi; Leyhausen, 1963), un felino che è adattato alla vita arboricola più di altri congeneri. Nell'avvicinarsi alla preda, i felini s f r u t t a n o ogni caratteristica del t e r r e n o che o f f r a u n a b u o n a visuale e li nasconda alla vista. Possono, p e r esempio, strisciare lungo un fosso e assum e r e la postura di osservazione al riparo di un cespuglio; tuttavia, anche sul pavimento n u d o di un laboratorio tutti i felini strisciano e assumono la postura di osservazione tenendosi schiacciati a terra, come se stessero nascondendosi dietro qualche riparo. Spesso, q u a n d o un gatto fa la posta a un passero intento a cercare cibo per terra, r i m a n e a lungo immobile, anche se potrebbe raggiungerlo con un balzo. Solitamente l'uccello si è già allontanato prima che il gatto inizi a muoversi; in effetti gli uccelli canori r a r a m e n t e si f e r m a n o a lungo nello stesso posto. Il gatto r i p r e n d e ad avanzare, portandosi alla distanza adatta per un balzo, si arresta e assume n u o v a m e n t e la postura di osservazione. Questa sequenza p u ò ripetersi più volte. Di solito, il risultato è che il passero vola via senza avere corso alcun pericolo, m e n t r e il gatto lo g u a r d a con un'espres-
Avvicinamento alla preda
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sione di stupore e delusione. Questo succede perché i gatti si sono adattati a cacciare, più che uccelli, piccoli roditori che vivono in tane scavate nel terreno; in questo caso, è vantaggioso rimanere fermi e aspettare che la p r e d a si allontani a sufficienza dalla p r o p r i a tana. Se un gatto, all'apparire di un topo o di un ratto all'ingresso della tana, gli si precipitasse subito addosso, il roditore scomparirebbe prima che il felino riuscisse a catturarlo. Tuttavia, la mia ondila sembrava essersi decisamente specializzata in piccoli uccelli. Nel suo caso, n o n mi è mai capitato di osservare il minimo accenno della postura di osservazione tipica del gatto domestico, n e p p u r e q u a n d o cacciava mammiferi; invece, a f f e r r a v a s e m p r e la p r e d a immediatamente, a p p e n a l'aveva avvistata. Al contrario, la mia femmina di servai prima di attaccare si immobilizzava e rimaneva in attesa, anche se non tanto a lungo q u a n t o un gatto domestico. Il balzo sulla p r e d a p u ò trasformarsi in piena corsa se la preda si accorge del pericolo in t e m p o e cerca di fuggire (fig. 1.14). Spesso un felino continua a inseguire la p r e d a che fugge, se al primo balzo ha fallito l'obiettivo. Anche in questo caso, però, il balzo finale sulla p r e d a è sempre teso e ben diverso da quello p r o p r i o del normale galoppo, come già descritto nelle pagine precedenti in corrispondenza con le figure 1.11, 1.12 e 1.13.
Fig. 1.14. Due fasi della corsa ventre a terra di un'oncilla che insegue una preda che « s f u g g e » ; in questo caso, un passero morto tirato con lo spago.
2. Cattura e uccisione della preda In alcuni casi, quando un gatto o un altro felino raggiunge la preda - specialmente se essa è costituita da topi o altri piccoli roditori - la azzanna immediatamente; in genere, però, prima di addentarla la immobilizza con una zampa, per lo meno se sta cercando di fuggire (si veda la fig. 1.9). E raro che un gatto catturi un topo adoperando entrambe le zampe anteriori; invece, nel caso di insetti e piccoli uccelli, di solito si lancia sopra di essi con entrambe le zampe anteriori ben accostate (fig. 2.1). Ho avuto occasione di osservare che i gatti catturavano in questo modo le cavallette nel campo di prigionia in Canada, dove ero recluso durante la Seconda guerra mondiale. Q u a n d o una cavalletta riusciva a fuggire, il gatto la guardava con quella espressione di « attesa delusa » che abbiamo già descritto; poi chinava la testa avvicinando il naso alle zampe anteriori strettamente unite e le sollevava gradatamente, con mille precauzioni, proprio come un uomo che, avendo cercato con evidente insuccesso di acchiappare una mosca, si guardasse non di meno la mano per controllare se per caso non fosse riuscito nel suo intento. In effetti, questo controllo da parte del gatto testimonia che quando gli attribuiamo un'espressione di « attesa delusa » non pecchiamo di antropomorfismo. Generalmente, quando la preda è di grandi dimensioni il felino la colpisce con una zampata e la azzanna subito dopo averla colpita solo se non incontra resistenza. Per far questo, o avvicina il naso alla zampa che trattiene la preda, o p p u r e attira a sé la preda con la zampa (o con le zampe) per avvicinarla
Fig. 2.1.
M3 cattura un passero.
alla propria bocca (può altrettanto bene sollevare la preda da terra e portarsela alla bocca: si veda la fig. 2.10 c). Entrambi questi movimenti possono combinarsi tra loro, e di fatto ciò avviene sempre nel caso di prede di piccole dimensioni. Il secondo metodo è il solo praticabile se la preda si è rifugiata in una tana, o p p u r e in un anfratto troppo angusto perché il felino possa infilarvi la testa; allora quest'ultimo, con gli artigli sfoderati, « pesca » la preda con le zampe anteriori che, a tal fine, possiedono una straordinaria capacità di estensione (fig. 2.2). (Per la cattura di prede capaci di opporre efficace resistenza, si vedano pp. 47 sgg. e pp. 106 sgg.).
Fig. 2.2. (sopra) Un gattino « pesca » un topo in u n a fessura f r a m u r o e pavimento; (a destra) u n a f e m m i n a di servai cerca di « pescare » un boccone di cibo.
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Il m o r s o viene indirizzato in d u e modi (si vedano pp. 96 sgg.). Q u a n d o u n a p r e d a è veloce o a p p a r e n t e m e n t e pericolosa, d u r a n t e il p r i m o r a p i d o attacco il morso è guidato da un meccanismo nervoso a c o o r d i n a m e n t o centrale: il felino, servendosi dell'arto anteriore più vicino alla sua vittima, la colpisce sul dorso o f r a le spalle e la m o r d e da dietro e con u n a stretta angolazione immediatamente di f r o n t e al p u n t o raggiunto dal colpo. Nel caso di p r e d e con il collo corto, il morso si abbatte sull'area della nuca (fig. 2.3). Se la p r e d a è di piccole
Fig. 2.3. (a sinistra) U n a f e m m i n a di o n d i l a trattiene un ratto bianco a cui ha i n f e r t o un m o r s o letale; (a destra) sul collo del ratto, che l'ondila ha posato a t e r r a e poi ripreso, è visibile la ferita mortale inferta da un canino.
dimensioni i canini p e n e t r a n o nel torace e nelle spalle; se è di maggiori dimensioni, nel midollo spinale delle vertebre cervicali, provocando in e n t r a m b i i casi u n a m o r t e quasi istantanea. Se la p r e d a ha il collo lungo, il primo r a p i d o morso è diretto alla base del collo o sulle spalle (fig. 2.4 b), come nel caso dei piccioni che, q u a n d o sono aggrediti, p r o t e n d o n o il collo in un disperato tentativo di fuga. Se il felino n o n attacca con particolare impeto, quasi s e m p r e lascia a n d a r e la preda, quindi le infligge un secondo morso. Questa volta il morso è guidato unicamente da informazioni visive e la presa delle zanne avviene s e m p r e p r o p r i o alla base del cranio della vittima (fig. 2.4 c). La precisione con cui il morso viene orientato per mezzo di
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stimoli ottici alla nuca (e non semplicemente al collo) d i p e n d e dall'esperienza (si vedano pp. 147 sgg.). I gatti pescatori, le ondile, le linci, i caracal, i servai e i p u m a che ho potuto osservare m o r d o n o galline, anatre e piccioni prima di tutto sul dorso; poi a f f e r r a n o la p r e d a con e n t r a m b e le zampe anteriori e l'avvicinano alla bocca fino a poterla mordere alla nuca: in questo caso, l'esito del morso è s e m p r e letale. Anche le puzzole spesso a f f e r r a n o la p r e d a t r o p p o indietro rispetto alla nuca e devono poi migliorare la presa (Goethe, 1940). Secondo Ràber (1944), le martore uccidono ratti, cavie, passeri e lucertole con un morso alla testa; nel caso dei piccioni, invece, il morso viene diretto alla regione dorsale. E probabile che, anche per questi mustelidi, il r a p p o r t o tra presa con la zampa e orientazione del morso sia simile a quanto visto sopra per il gatto. D'altra parte, q u a n d o il piccione viene fin dall'inizio a f f e r r a t o in m o d o più corretto, il morso alle spalle viene omesso. Un piccione da me sottratto a F2, che temporaneamente era stata lasciata in libertà nella mia casa e nel mio giardino, presentava solamente piccole ferite con b o r d o netto e senza alcuna traccia di sangue nel p u n t o della nuca dove erano penetrati i canini. Sembra che tutti i felini catturino e uccidano la p r e d a in questo modo. E così che ho osservato i miei gatti domestici uccidere topi, ratti, passeri e piccioni, come p u r e la mia ondila cacciare topi, ratti, piccoli di gatto domestico, passeri, colombi, galline, e perfino un coniglio, pesante almeno q u a n t o lei. Analogamente agiscono i servai q u a n d o cacciano topi, ratti, cavie, piccioni e galline. E ancora ho potuto constatare questa stessa tecnica di cattura e uccisione in cinque ibridi di gatto del Bengala e gatto domestico, cinque gatti del Bengala, tre gatti pescatori, d u e gatti dorati, quattro gatti di T e m m i n c k , nove gatti piedi-neri, d u e margay, d u e ocelot, tre caracal, u n a lince, d u e ghepardi (solamente con alcuni polli), un p u m a (con un'anatra), d u e leopardi (con alcune capre), quattro leoni (con alcuni giovani bufali domestici); infine, in un giovane bufalo ucciso da u n a tigre, ho rilevato gli inconfondibili segni dei canini sulla nuca. L i n d e m a n n (1950) e L i n d e m a n n e Rieck (1953) descrivono lo stesso c o m p o r t a m e n t o nella lince e nel gatto selvatico europeo. Burton (1929-30) per d u e volte ebbe l'occasione di osservare u n a tigre uccidere un giovane bufalo e, in entrambi i casi, il felino si arrestò a fianco della preda, la a f f e r r ò alla schiena con una zampa e quindi la azzannò alla nuca. Un film girato allo Zoo di Mosca mi ha permesso di seguire le varie fasi dell'attacco di un leone a un'antilope g r a n d e più o m e n o q u a n t o una capra. Il leone attacca l'antilope in fuga di lato, la azzanna nella regione sacrale, poi la atterra da
Fig. 2.4. Ondila che cattura un pollo: (a) balzo di avvicinamento; (è) presa e morso alla base del collo, sotto l'articolazione della spalla; (c) morso letale alla nuca; (d) trasporto della p r e d a camminando all'indietro; (e) trasporto della preda camminando in avanti; ( / ) balzo nella « tana » con la preda; (g) e (h) « gioco di sollievo »; (J) la preda viene spennata; (k) inizio del pasto p a r t e n d o dalla testa.
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dietro con un movimento laterale e immediatamente le a f f o n da i canini nella nuca. Nel precedente commento alla figura 1.11, si è già osservato come l'attacco alla p r e d a sia f o n d a m e n talmente simile nel leone e nei felini di piccola taglia. Un altro esempio di attacco di questo genere, condotto per gioco, e che questa volta n o n manca il bersaglio, è rappresentato nella figura 2.5 a-q. All'incirca in (d) o in (e), l'attaccante m o r d e il c o m p a g n o alla nuca; nello stesso tempo, lo trattiene cingen-
Fig. 2.5. secondo.
Un leone ne attacca un altro per gioco. Un fotogramma ogni 1/72 di
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dogli il petto con l'arto anteriore destro e a f f e r r a n d o l o alle spalle con la zampa sinistra. Trattandosi di un gioco, la presa viene subito abbandonata e l'attaccante scivola lungo il fianco del compagno, che trotterella via. Anche in questo caso, gli arti posteriori dell'« attaccante » sono ben piantati a terra d u r a n te lo scontro. Nel 1953, lo Zoo di Norimberga ospitava in un grande recinto un g r u p p o di leoni, di età variabile f r a i d u e anni e mezzo e i tre, che usavano giocare tra loro con molta foga. Non diversamente dai gatti domestici, esibivano nel gioco l'intero repertorio comportamentale relativo alla cattura della preda, fatta eccezione, ovviamente, per l'uccisione. Spesso, un leone faceva la posta a un altro e, all'improvviso, si lanciava, « ventre a terra », di corsa fino a raggiungerlo da dietro e in direzione obliqua per poi gettargli u n a zampa sulla schiena e azzannarlo alla nuca. In un caso, questa sequenza si dimostrò molto simile a quella messa in atto d u r a n t e u n a vera caccia. Il leone « attaccante » a f f e r r ò la sua « vittima » nel m o d o sopra descritto, e, con u n a spinta particolarmente energica degli arti posteriori, la fece rovinare a terra, crollando insieme a essa. Il leone « attaccante » rimase quindi disteso dietro la sua « vittima», tenendola immobilizzata al suolo per il collo, all'incirca come mostrato nella figura 2.6, ma immediatamente allentò la presa e i d u e animali si districarono l'uno dall'altro. Anche
q u a n d o caccia p r e d e di grandi dimensioni, il leone di solito non attacca con piena potenza, nel m o d o a p p e n a descritto. Spesso le cose si svolgono in m o d o s o r p r e n d e n t e m e n t e « tranquillo »: il leone azzanna la p r e d a alla schiena o alle spalle e quindi la tira facendola cadere all'indietro e su un fianco. So-
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no grato a F. E d m o n d - B l a n c per un filmato che p e r m e t t e di vedere il m o d o in cui d u e leoni uccidono un bufalo. I felini, d o p o avere fatto sì che il bufalo venga a trovarsi in mezzo tra loro, gli si avvicinano a t u r n o , costringendolo a muoversi cont i n u a m e n t e in circolo in m o d o tale da presentare ogni volta le corna al suo successivo aggressore. L'ultima di queste manovre è schematizzata nella figura 2.7 a-g. In (h-j), il p r i m o leone attacca il bufalo da dietro e gli getta e n t r a m b e le zampe anteriori sulla g r o p p a (k). Il bufalo cerca di girarsi p e r fronteggiare il leone, ma quest'ultimo non lascia la presa, m e n t r e accompagna la p r e d a nel suo movimento, saltellando intorno sugli arti posteriori (l-o), o addirittura viene trascinato passivamente in un movimento di rotazione del bufalo, cosicché le sue zampe posteriori p e r d o n o per un istante contatto con il terre-
Fig. 2.7. Due leoni uccidono un bufalo. Primo leone O ; secondo leone O ; bufalo 0 . Sequenza ricavata da un filmato di F. Edmond-Blanc. Per i dettagli si veda il testo.
no (p)- Q u a n d o tocca di nuovo il terreno, il leone rafforza la presa a f f o n d a n d o le fauci nella groppa del bufalo, lo tira indietro (q) e, nello stesso tempo, lo forza a girare su se stesso riportandolo nella direzione iniziale (r-v), e finalmente atterrandolo (w-x). Il secondo leone si è mosso insieme a loro in uno stretto cerchio, ma fino a quel m o m e n t o non ha interferito. Si avvicina solo d o p o che il bufalo è stato atterrato da dietro (y-z) e, mentre quest'ultimo si sforza di rialzarsi, lo azzanna alle spalle (A); quindi, facendo forza all'indietro, lo fa cadere sul fianco (B-D). Il secondo leone abbandona il morso alla spalla per portarlo verso la base del cranio, aggiustando la
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presa per d u e volte. P u r t r o p p o , l'erba alta e u n a iena che al m o m e n t o cruciale si i n t e r p o n e f r a la cinepresa e la testa del bufalo impediscono di seguire l'azione fino nei minimi dettagli. In effetti, cinque o sei iene seguono la scena così da presso che in certi m o m e n t i quasi toccano i leoni; questi ultimi, d'altro canto, sono t r o p p o occupati con il bufalo per reagire in qualche m o d o alla loro presenza (Leyhausen, 1965 b). Il tipo di d e n t a t u r a e la struttura del cranio dei leopardi nebulosi e dei g h e p a r d i h a n n o indotto Haltenorth (1937) a supp o r r e che i rispettivi metodi di uccidere la p r e d a siano molto differenti. Egli ritiene che il leopardo nebuloso (Neofelis nebulosa), tra i rami degli alberi, potrebbe incontrare difficoltà a disimpegnare gli arti anteriori per catturare la p r e d a , m e n t r e p e r la presenza di canini lunghi e appuntiti gli è m e n o difficile il compito di catturare uccelli. Al t e m p o della seconda edizione di questo volume (1960), i risultati basati su osservazioni da me condotte su d u e g h e p a r d i (descritte in precedenza) mi impedivano ancora di condividere l'ipotesi di Haltenorth e, inoltre, n o n ritenevo che il l e o p a r d o nebuloso o altro felino potesse arrampicarsi con sufficiente agilità sugli alberi per cacciare. Ciò è stato smentito in seguito dai miei margay (Leyhausen, 1963) e, inoltre, H e m m e r (1968) è convinto che il leopardo nebuloso possa arrampicarsi sugli alberi altrettanto bene di un margay; il gatto m a r m o r a t o (Pardofelis marmorata) certam e n t e lo fa. In tutti questi casi, tuttavia, non esiste la prova che i felini caccino effettivamente alcunché sugli alberi; sembra, c o m u n q u e , che la possibilità esista. I g h e p a r d i e senza dubbio gli altri grandi felini dispongono della tecnica di uccisione della p r e d a descritta in precedenza come un c o m p o r t a m e n t o tipico e in certe condizioni vi f a n n o ricorso. Tuttavia, altri metodi di uccisione h a n n o spesso u n a maggiore «probabilità c o m p o r t a m e n t a l e » , in f u n z i o n e dei tipi di p r e d a preferibilmente cacciati nell'area f r e q u e n t a t a da u n a certa popolazione. Il repertorio comportamentale di altre specie di felini si estende ben oltre il c o m p o r t a m e n t o tipico qui descritto (si vedano pp. 196 sgg.). Se la p r e d a , d o p o essere stata saldamente a f f e r r a t a alla nuca, o p p o n e resistenza, il gatto domestico e l'ondila r a r a m e n t e la lasciano a n d a r e ma, al contrario, la trattengono f e r m a m e n te con i denti e la battono con rapidi colpi inferti con gli arti anteriori. Se la p r e d a è di dimensioni ragguardevoli e si dibatte e lotta violentemente, il gatto si lascia cadere su un fianco senza a b b a n d o n a r l a e scalcia energicamente contro di essa con le zampe posteriori, m e n t r e con le zampe anteriori la attira verso di sé trattenendola saldamente. Questa combinazione di movimenti, come è ben noto, p u ò essere provocata rovescian-
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do sulla schiena, per gioco, un gattino. Gli animali che vengono predati dai felini di taglia inferiore h a n n o u n a spina dorsale molto più elastica dei grandi ungulati, per cui sono in g r a d o sia di girarsi e f r o n t e g g i a r e il loro aggressore, sia di tentare di liberarsi con calci e graffi. A parte questa differenza, p r e d a e predatore giacciono in u n a posizione paragonabile a quella dei d u e leoni cui si è accennato in precedenza. Resoconto del 1° marzo 1952 La lotta tra un surmolotto (Rattus norvegicus) e la mia ondila Muschi doveva essere filmata, ma il roditore è riuscito a scappare dalla recinzione appositamente p r e p a r a t a ed è stato inseguito su e giù per tavoli e credenze. Alla fine, si è nascosto dietro u n a pila di carte sul tavolo. Muschi si è avvicinata di corsa, ma, benché abbia l'abitudine di accomodarsi sopra il tavolo, questa volta è rimasta sul pavimento. Il ratto, disturbato dalla mia presenza, ha tentato di saltare tra tavolo, credenza e m u r o , ma Muschi lo ha acchiappato a mezz'aria. La presa, « e r r o n e a » , è avvenuta tra gola e torace. Il roditore ha opposto u n a strenua ma inutile resistenza. Giacendo sul fianco, Muschi lo ha t e n u t o f e r m o con le zampe anteriori, colpendolo violentemente con quelle posteriori. Mi è sembrato che ricevesse un morso a u n a guancia, ma più tardi n o n sono riuscito a trovare alcuna ferita. I d u e animali sono rimasti a terra fino a q u a n d o i movimenti del ratto si sono fatti progressivamente più deboli: le sue mascelle si muovevano ancora, ma lentamente e senza più riuscire a stringere, e le zampe si agitavano a p p e n a . A questo p u n t o Muschi lo ha lasciato, e si è messa a gironzolare per la stanza. Questa tecnica di attacco spiega anche perché, in qualche caso, i maschi di bufalo riescano a sopravvivere agli attacchi dei leoni o delle tigri. A mio avviso, la ragione sta n o n tanto nella forza fisica di questi animali - in questo senso anche u n a femmina adulta della stessa specie sarebbe abbastanza f o r t e ma soprattutto nello straordinario spessore della muscolatura del loro collo, che impedisce anche ai lunghi canini di questi grandi felini di p e n e t r a r e fino a r a g g i u n g e r e la spina dorsale. Ne risultano ferite relativamente innocue, che non impediscono all'animale attaccato di sfuggire al felino o di rotolare sulla schiena, costringendo il carnivoro a lasciare la presa. B e r g (1934) ha pubblicato la foto di un vecchio g a u r (Bos gaurus) da lui ucciso con un colpo di fucile, che recava sulla nuca e sul petto i segni inequivocabili dell'attacco, evidentemente fallito, di una tigre. Spesso, tuttavia, q u a n d o la vittima lotta violentemente, i felini la lasciano a n d a r e , si ritirano per un po' e poi ripetono l'attacco; Ewer e W e m m e r (1974) h a n n o descritto un
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c o m p o r t a m e n t o simile, da loro definito come « m o r d i e fuggi», nello zibetto africano (Civettictis civetta). U n a possibile ragione di ciò è che il p r e d a t o r e teme la p r o p r i a p r e d a (pp. 11819, 165-66, 168) o ne è stato intimorito in qualche altro modo. Ho potuto osservare u n a lotta del genere f r a Muschi e un ratto che è d u r a t a più di mezz'ora. Resoconto del 31 marzo 1952 Un surmolotto di grosse dimensioni, posto di f r o n t e a u n a serie di gatti domestici, è riuscito a indurli tutti alla fuga. Lo porto allora, chiuso in u n a gabbietta di ferro, nel mio studio, e lo libero in u n ' a r e a appositamente recintata. La presenza di un mio collaboratore, e probabilm e n t e il fatto che il roditore, a p p e n a r e d u c e dagli incontri con i gatti, è ancora molto eccitato e salta qua e là squittendo, intimidiscono Muschi, che n o n esce subito dalla sua gabbia. Finalmente, il ratto si calma per un m o m e n t o , e Muschi scivola fuori, lentamente, ma subito il roditore le si precipita addosso con acuti squittii; Muschi f u g g e nella sua gabbia, dove e n t r a anche il ratto che la insegue. C h i u d o la gabbia; il ratto continua a essere aggressivo, m e n t r e Muschi a p p a r e inquieta, decisamente disorientata, e cerca u n a via d'uscita. Ovviamente, il fatto di ritrovarsi in casa p r o p r i a un animale-preda che si c o m p o r t a in m o d o aggressivo è u n a situazione del tutto « non biologica», e Muschi non dispone delle corrispondenti risposte comportamentali. Alla fine, l'ondila si siede, nervosa, nella cassetta dove d o r m e , m e n t r e il ratto controlla il pavimento e d o p o un po' si sistema nello spazio f r a la cassetta e il m u r o . Allontano il mio collaboratore e a p r o n u o v a m e n t e la porta della gabbia. Subito Muschi esce e corre qua e là senza sosta. A questo p u n t o scaccio il roditore f u o r i del suo nascondiglio ed esso striscia nello spazio f r a la rete metallica della gabbia e la cassettina dei bisogni. Muschi p u ò vederlo dall'esterno e cerca rip e t u t a m e n t e , p e r ò senza successo, di a f f e r r a r l o attraverso la rete. A n c h e q u a n d o sposto un poco la cassettina dalla rete trascorre ancora molto t e m p o prima che Muschi scivoli furtivam e n t e attraverso la porta aperta della gabbia e tenti un attacco. A f f e r r a il ratto, ma, contrariamente alle attese, non riesce a sopraffarlo; d o p o averlo colpito alcune volte con le zampe anteriori, lo lascia a n d a r e . Il ratto f u g g e precipitosamente verso l'angolo più vicino f u o r i della gabbia e si rifugia nella sua gabbietta di rete di ferro. Muschi lo insegue con qualche esitazione e cerca di colpirlo infilando la zampa nelle maglie della rete. Striscia tutt'intorno alla gabbietta, ma sembra n o n accorgersi che la porta è aperta; infine, q u a n d o cambio la posizione della gabbietta, Muschi si decide a e n t r a r e . N o n è an-
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cora entrata completamente, q u a n d o la violenta reazione del ratto la costringe ancora u n a volta a ritirarsi. Il roditore, nella foga di inseguirla, a b b a n d o n a la gabbietta e si caccia in un angolo dietro quest'ultima, dove viene attaccato da Muschi, ma ancora una volta si d i f e n d e con successo. La scena si ripete almeno una dozzina di volte; d o p o ogni attacco, Muschi si ritira e si ridispone a breve distanza p e r rinnovare l'assalto. I singoli attacchi sono così rapidi che è impossibile distinguere che cosa accade esattamente. Il ratto si indebolisce progressivamente; d o p o ogni attacco riesce solo a trascinarsi nel suo angolo con fatica e alla fine n o n è in g r a d o di fare n e p p u r e questo. Anche in queste condizioni, riesce s e m p r e a gettarsi p r o n t a m e n t e sul dorso e, probabilmente, anche a m o r d e r e , dato che Muschi ogni volta lo lascia subito a n d a r e . Gli attacchi di Muschi mancano di decisione e sono più deboli di q u a n t o visto f a r e in precedenti combattimenti con ratti. Rumori di porte che sbattono e di passi nel corridoio f u o r i dello studio la disturbano molto per tutto il tempo. Alla fine, tuttavia, il ratto è t r o p p o esausto per o f f r i r e ulteriore resistenza. Muschi a questo p u n t o lo afferra e lo uccide con pochi morsi decisi. La lotta è d u r a t a 32 minuti. O r a Muschi « danza di gioia » saltando i n t o r n o alla preda in un m o d o che prima non avevo mai osservato. Per almeno un q u a r t o d'ora la mia ondila continua a esibirsi in capriole strabilianti (fig. 2.8). La tattica seguita da u n a tigre per attaccare un grosso cinghiale, descritta da T u r n e r (1959), corrisponde esattamente a quanto sopra riportato.
Fig. 2.8. Due fasi del « gioco di sollievo » dell'ondila d o p o una d u r a lotta con un surmolotto. Si veda il testo.
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I gatti domestici r a r a m e n t e sono tenaci come si è dimostrata l'ondila in questa occasione, anche se so di un gatto che uccise u n a m a r t o r a che era penetrata in un pollaio d o p o una lotta di mezz'ora e senza riportare ferite d e g n e di nota. Spesso, però, ho osservato che i gatti, d o p o u n o o più attacchi, p e r d o n o interesse nella preda, anche se sono già riusciti a colpirla. Ecco d u e esempi. Resoconto del 4 marzo 1952 F4 e MIO si accorgono del topo m e n t r e io ancora lo tengo in mano. F4 salta verso di me. I gatti si trovano alle mie spalle, q u a n d o getto il roditore tra di loro. F4 è più veloce e riesce ad acchiappare il topo; corre nella gabbia esterna e lo azzanna con un brontolio. M3 si avvicina, si siede a u n a distanza di circa mezzo metro e rimane a guardare. F7 si è disposta d u e metri più in là. Il topo è già morto e F4 gioca a lungo con esso e lo addenta ripetutamente alla testa, ma senza iniziare a mangiarlo. Più volte lo lascia cadere per alcuni momenti camminandogli intorno. In u n a di queste occasioni, F7 le sottrae il topo, salta su uno scaffale e se lo mangia. Resoconto del 4 marzo 1952 FI trova un topo e subito lo afferra, ma senza ucciderlo; ci gioca per un po', ma poi perde interesse nel roditore e non vi fa più caso. Bagshawe (1909-10) riporta d u e esempi di bufali attaccati da tigri, feriti mortalmente e abbandonati; in entrambi i casi, esclude che la p r e d a venisse recuperata successivamente. Altri esempi di p r e d e abbandonate d o p o essere state uccise sono riportati qui di seguito e a pp. 62 sgg. C o m e descritto in dettaglio altrove (Leyhausen, 1953), nel m o m e n t o in cui un gatto balza verso la p r e d a le vibrisse sporgono il più possibile in avanti (fig. 2.9); evidentemente, contribuiscono a controllare i movimenti della p r e d a d o p o che è stata a f f e r r a t a e, se è di piccola taglia, per esempio un topo, praticamente la avviluppano (fig. 2.10). Q u a n d o la p r e d a cessa di dibattersi, viene lasciata a terra; è r a r o che un felino inizi a mangiarla dove l'ha catturata. E vero che più di u n a volta ho visto un felino mangiare un topo, cominciando dalla testa, subito d o p o averlo colpito con le zampe anteriori e senza morderlo alla nuca, ma in d u e casi si trattava di gatti domestici estremamente affamati e nel terzo caso di un margay maschio socialmente inibito. Di solito, d o p o avere catturato e ucciso una preda, un gatto la d e p o n e a terra, si guarda intorno, si allontana ed esplora l'ambiente circostante, come se gli fosse poco familiare; solam e n t e a questo p u n t o torna sui suoi passi. L'intera sequenza
Fig. 2.9. M3 mentre balza su un passero con le vibrisse completamente distese in avanti.
può ripetersi più volte. Raramente il gatto si astiene dalla « passeggiata », che contribuisce a scaricare l'eccitazione accumulata durante la caccia e la cattura («scarica postuma», pp. 168-69 e 367). Il tempo dedicato alla passeggiata aumenta proporzionalmente alle dimensioni e alla natura inconsueta della preda, nonché alla timidezza del felino e alla sua scarsa familiarità con il luogo. Una conseguenza di questo comportamento è che, in alcuni casi, l'animale predato riesce a fuggire: va infatti osservato che il morso al collo è simile alla presa usata tanto dai felini quanto da altri predatori e dai roditori per
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b
c
Fig- 2. 10. M9: le vibrisse avvolgono un topo appena catturato (a) e ne seguono ogni movimento (b) e (c).
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trasportare i p r o p r i piccoli e, di conseguenza, spesso induce la p r e d a ad assumere la postura del trasporto passivo tipica di un piccolo trasportato dalla m a d r e (Tragstarre; si vedano pp. 382 sgg.). È specialmente per questo motivo che gli animali che sono stati catturati, ma non sono stati feriti seriamente, se ne r i m a n g o n o quasi immobili, m e n t r e quelli che sono stati feriti in m o d o letale si contorcono e si dibattono convulsamente. Il gatto spesso lascia cadere a terra u n a vittima immobile, ritenendola morta; quest'ultima p u ò allora svignarsela, m e n t r e il gatto sta « facendo la passeggiata». Quindi, nel caso di piccoli m a m m i f e r i adulti, il lasciarsi trasportare passivamente contribuisce alla sopravvivenza dell'individuo e della specie e fornisce un i m p o r t a n t e vantaggio adattativo, che spiega perché tale c o m p o r t a m e n t o p e r m a n g a anche d o p o il passaggio dall'adolescenza alla maturità, a differenza di altri schemi comportamentali. Di solito, il gatto si accorge del tentativo di f u g a e lo blocca (si veda cap. 14). T o r n e r ò in seguito sul significato che riveste per il gatto l'atto di posare a terra la p r e d a d o p o averla catturata (p. 62). Anche le specie dei grandi felini spesso lasciano trascorrere un certo intervallo f r a l'uccisione della p r e d a e il pasto. Secondo Schaller (1968), d o p o una caccia coronata da successo un g h e p a r d o (Acinonyx jubatus) è talmente sfinito che, prima di iniziare a mangiare, ha bisogno di 20-30 minuti per riprendersi. Per cinque volte ho osservato g r u p p i di d u e o più leoni uccidere un bufalo domestico legato a u n a corda; senza alcuna eccezione, il leone che aveva inflitto il morso letale, e che aveva m a n t e n u t o la presa fino a che le convulsioni della vittima n o n e r a n o cessate è stato l'ultimo a cominciare a mangiare. In tre casi, si è allontanato dalla p r e d a di una distanza variabile tra 5 e 20 metri e si è disteso a terra, riavvicinandosi per m a n g i a r e solo d o p o un intervallo di tempo compreso tra 15 e 40 minuti (si veda anche il resoconto a pp. 206 sg.). Nel caso di un morso letale, le mascelle del felino si serrano con g r a n d e forza. Talvolta, a causa di un qualche movimento della preda, l'orientazione del morso non è corretta e viene lacerata un'arteria carotidea, ma di n o r m a i canini provocano solamente piccole ferite nette da corpo acuminato, che sang u i n a n o poco o niente. Spesso, la pelle del collo della vittima si richiude sulla ferita, e in più di un'occasione ho avuto qualche difficoltà nel localizzare le ferite inflitte ad animali uccisi da poco. In genere, le ferite che sanguinano copiosamente sono quelle provocate da un primo morso potente sul torace o sul dorso di uccelli di grosse dimensioni. Come si è già accennato, per provocare la morte istantanea i canini dovrebbero p e n e t r a r e nella regione cervicale della colonna vertebrale e/o
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nel midollo, o p e r lo m e n o p r o v o c a r n e lo schiacciamento. Per p r o d u r r e q u e s t o e f f e t t o , tuttavia, il morso deve essere inferto nel p u n t o giusto, e le mascelle d e v o n o essere « ben dimension a t e » rispetto alla mole della vittima. Per un gatto domestico adulto, i ratti di d i m e n s i o n i medie, c o m u n e m e n t e usati nei laboratori, costituiscono in tal senso u n a p r e d a ottimale e per questo v e n g o n o uccisi tanto r a p i d a m e n t e . I topi, invece, in molti casi p o s s o n o sopravvivere a n u m e r o s i morsi potenzialm e n t e letali, p e r c h é il gatto n o n c h i u d e le mascelle a sufficienza e i canini finiscono p e r p e n e t r a r e solamente nel lato inferiore del collo, o a d d i r i t t u r a n o n provocano alcuna ferita. Se, tuttavia, la presa è m a n t e n u t a abbastanza a lungo, la morte p u ò s o p r a v v e n i r e p e r s o f f o c a m e n t o ; o p p u r e , se il morso è stato i n f e r t o t r o p p o indietro, p e r schiacciamento del polmone o del c u o r e (si v e d a n o p e r ò p p . 155 sgg.). I gattini di 6-8 settim a n e h a n n o invece mascelle che si a d a t t a n o p e r f e t t a m e n t e alla f o r m a del topo; di conseguenza, b e n c h é siano alle prime esperienze nell'attaccare p r e d e vive, spesso uccidono topi più r a p i d a m e n t e di q u a n t o f a r a n n o più tardi, da adulti. C e r t a m e n t e , la tecnica di uccisione di p r e d e m e d i a n t e morso alla n u c a è filogeneticamente molto antica. Tutti i vertebrati m o r d o n o a scopo di difesa o di aggressione d u r a n t e combattimenti intraspecifici e interspecifici. Q u e s t o aspetto comport a m e n t a l e dei m a m m i f e r i è stato i n d u b b i a m e n t e ereditato dai loro a n t e n a t i rettiliani e, dove se ne constata l'assenza, deve trattarsi di u n a p e r d i t a successiva, associata o a quella della relativa s t r u t t u r a a n a t o m i c a (come nel caso degli sdentati e degli elefanti), o all'evoluzione di altri sistemi di attacco più efficaci che h a n n o supplito alla t r a s f o r m a z i o n e dei denti in strumenti specializzati p e r la masticazione di cibi vegetali (come nel caso di molti animali m u n i t i di corna). In questa sede non si discuterà né del c o m b a t t i m e n t o tra intraspecifici né della lotta per d i f e n d e r s i da nemici di specie differenti, ma solo dell'attacco con morsi d i r e t t o c o n t r o animali di specie d i f f e r e n t i (mammiferi e uccelli) allo scopo di ucciderli e di nutrirsene. Nell'attaccare la p r e d a , i m a m m i f e r i carnivori utilizzano i d e n t i p e r a f f e r r a r e e p e r uccidere. L'impiego degli arti anteriori p e r a f f e r r a r e la p r e d a , attirarla a sé e trattenerla è u n a f u n z i o n e c h e è stata acquisita solo in un secondo tempo. Per esempio, n o n mi è n o t o alcun insettivoro che usi prima le z a m p e e poi le mascelle; q u a n t o ai carnivori, si c o m p o r t a n o in questo m o d o solo alcune f o r m e evolutivamente molto avanzate, ma n o n certo tutte, a n c h e q u a n d o ne possiedono i prerequisiti anatomici. Probabilmente, le d u e funzioni di cattura e di uccisione n o n e r a n o in origine separate in m o d o netto: i morsi ripetuti i m p e d i s c o n o alla p r e d a di f u g g i r e e quest'ulti-
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ma, prima o poi, va incontro alla morte a causa degli effetti cumulativi delle ferite e/o della perdita di sangue oppure perché, casualmente, u n o dei morsi ne ha leso un punto vitale. Mi sembra che questa circostanza trovi riscontro nella nandinia (Nandinia binotata) e nello zibetto delle palme (Paradoxurus hermaphroditus) (si veda più avanti). Lo stesso potrà dirsi di altri m a m m i f e r i carnivori che, da questo p u n t o di vista, devono essere considerati f o r m e primitive, in special modo i marsupiali. Le d u e funzioni di cattura e uccisione sono separate q u a n d o l'aggressore, d o p o che ha a f f e r r a t o e stretto a sé la preda, indirizza di preferenza i propri morsi a parti del corpo della vittima il cui ferimento conduce a rapida morte. Già nel caso della nandinia, si ricava l'impressione che i morsi siano diretti verso le parti del corpo della vittima i cui movimenti sono in quel m o m e n t o più convulsi: in genere, q u a n d o un animale fa più resistenza e tenta di divincolarsi, agita con particolare violenza l'estremità anteriore del tronco. Questa circostanza potrebbe anche spiegare, almeno in parte, perché gli zibetti indiani (Leyhausen 1965 b) tentino sempre di addentare l'estremità anteriore del tronco delle vittime e, generalmente, m o r d a n o alla testa animali che giacciono immobili. Fu ind u b b i a m e n t e questo il p u n t o di partenza da cui, per selezione naturale, prese le mosse l'evoluzione della reazione specifica che orienta il morso verso u n a zona vitale, trasformandolo p e r la prima volta in un morso letale, la cui versione più specializzata è rappresentata dal morso alla nuca tipico dei felini e di alcuni mustelidi (per una discussione sulla funzione svolta dall'apprendimento nella corretta orientazione del morso letale, si vedano pp. 95, 147 sgg.). Ora, il morso alla nuca si rivela fatale solo q u a n d o danneggia la sezione cervicale della colonna vertebrale o il midollo, come ho avuto m o d o di rilevare nel corso delle mie prime ricerche (Leyhausen, 1956 a), conf e r m a t e da numerosi studi successivi. Tuttavia, quando gli animali predati sono relativamente di grossa taglia, le genette (Leyhausen, 1965 b), per esempio, o alcuni mustelidi come la puzzola (Eibl-Eibesfeldt, 1955) e la donnola (Goethe, 1950) a q u a n t o sembra non riescono facilmente a raggiungere lo scopo con un solo morso; per conseguenza, queste specie h a n n o acquisito l'abitudine di infliggere più morsi in rapida successione, come è stato descritto. Q u a n d o il morso è ripetuto, il p r e d a t o r e a p r e un poco le fauci e subito torna a mordere. Nella maggior parte dei casi i canini r i m a n g o n o agganciati alla pelle della vittima. Q u a n d o ho effettuato l'autopsia di prede uccise in questo modo, di solito ho riscontrato che la pelle era forata solamente in quattro punti, corrispondenti ai quattro canini del predatore; la muscolatura e la colonna vertebrale
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apparivano invece danneggiate in più punti e, in alcuni casi, stritolate e ridotte a una massa informe. Anche molte specie di felini ricorrono ai morsi ripetuti, ma, a quanto sembra, n o n tanto per la necessità di portare a termine un'uccisione altrimenti difficoltosa, quanto per u n a specifica f o r m a di eccitazione. Spesso sono solamente i canini inferiori a r i m a n e r e agganciati alla pelle della preda. A tal fine essi sono ben adattati, in quanto sono più f o r t e m e n t e incurvati dei canini della mascella superiore. Inoltre, la coordinazione del morso letale in tutti i predatori qui menzionati è del tutto specifica, poiché non è la mandibola a muoversi contro la mascella e il cranio. La mandibola rimane fissa rispetto al corpo della preda, m e n t r e è la mascella superiore, e con essa tutto il cranio, a muoversi in su e in giù nel processo in cui viene inflitto il morso. Di solito, comunque, i felini riescono a raggiungere la colonna vertebrale con un unico morso, benché anche per mezzo di « buoni » morsi alla nuca i loro denti possano p e n e t r a r e nel collo della vittima secondo un'ampia varietà di direzioni. Ciò non p u ò essere esclusivamente spiegato in base all'orientazione del morso letale. La mia ipotesi è che nei felini, tanto per la f o r m a quanto per la posizione nell'arcata dentaria, i canini siano così ben adattati alla disposizione dei muscoli, dei tendini e dei legamenti, come p u r e alla giacitura dei piani delle vertebre delle loro prede, da d e t e r m i n a r e un'elevata probabilità che almeno uno di loro quattro venga guidato quasi automaticamente in uno spazio intervertebrale. Il dente si inserisce allora f r a le vertebre come un cuneo, le divarica e, così facendo, recide in parte o completamente la colonna vertebrale. Mi sembra che questa ipotesi da sola spieghi il motivo per cui le vertebre stesse risultano r a r a m e n t e danneggiate. I canini, se da un lato sono straordinariamente efficaci q u a n d o si c o m p o r t a n o come cunei, dall'altro lo sono di certo molto m e n o q u a n d o devono perforare o fare presa su una superficie d u r a : come si p u ò facilmente constatare nei crani conservati nei musei, o appartenuti ad animali tenuti in cattive condizioni nei circhi e negli zoo, i canini si spezzano longitudinalmente con g r a n d e facilità. Q u a n d o essi devono p e r f o r a r e le sottili scatole craniche di animali di piccole dimensioni non h a n n o problemi, ma certo non sono in g r a d o di f r a n t u m a r e un osso massiccio come u n a vertebra (ma si veda p. 208, a proposito del giaguaro). Senza dubbio, la fase finale di « regolazione fine » dell'orientazione del d e n t e è guidata da propriocettori: in altre parole, q u a n d o la p u n t a di un canino incontra qualcosa di d u r o , cioè un osso, l'animale probabilmente « saggia » un poco qua e là, fin che non sente il dente slittare in u n o spazio, e solo in quel m o m e n t o serra con più forza le mascelle. Il meccanismo
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supposto, paragonabile a un «pilota automatico», dovrebbe quindi limitarsi a guidare il dente fino a intercettare le vertebre, senza che gli si richieda l'incredibile precisione necessaria per individuare lo spazio intervertebrale. In effetti, q u a n d o l'animale p r e d a t o si mantiene immobile e il morso letale viene inflitto con relativa lentezza, è possibile talvolta vedere le mascelle chiudersi sulla vittima in d u e fasi. Inoltre, solo ammett e n d o che alla dinamica del morso p r e n d a n o parte i propriocettori si p u ò spiegare il fatto s o r p r e n d e n t e che la perdita di u n o o anche di più canini non peggiori necessariamente l'efficienza del morso letale. Per esempio, la mia vecchia femmina di servai, in sigla S, a cui era rimasto un solo canino superiore, riusciva ancora a uccidere cavie di grosse dimensioni non m e n o r a p i d a m e n t e di q u a n d o la sua d e n t a t u r a era completa (Leyhausen, 1965 b). Come fa notare Ewer (1973), nei felini si constata un'elevata densità di meccanocettori intorno alle radici dei canini; inoltre, le innervazioni afferenti ed efferenti dei canini conducono l'impulso r a p i d a m e n t e e i muscoli mascellari h a n n o un t e m p o di contrazione estremamente breve. In altre parole, da un p u n t o di vista fisiologico il felino è p e r f e t t a m e n t e attrezzato per svolgere un compito che a prima vista p u ò sembrare incredibile: infliggere morsi potenti e fulminei, essendo nello stesso t e m p o in grado, con l'aiuto di un sistema di propriocettori, di regolare il percorso dei canini nei tessuti della p r e d a . Secondo Eibl-Eibesfeldt, anche surmolotti (1952) e criceti (1953) uccidono le p r e d e in questo modo, benché, a differenza dei felini (si vedano anche pp. 228 sgg.), nei combattimenti con conspecifici ricorrano a una tecnica diversa. A mio parere, tuttavia, questa omologia è discutibile, perché, come dimostra l'analisi di filmati e come io stesso ho più volte osservato, la sequenza dell'uccisione differisce spesso chiaramente da quella dei carnivori: il ratto a f f e r r a la vittima dall'alto in basso e ad angolo retto, come se si trattasse di un pezzo di legno o di cibo da rosicchiare; di solito poggia una delle zampe anteriori sulla testa o sulla regione nasale della vittima, l'altra sul dorso, quindi m o r d e ripetutamente la colonna vertebrale, p a r t e n d o più o m e n o da metà schiena e risalendo verso la nuca. La mia idea è che anche il morso inflitto direttamente alla nuca derivi da u n a tale sequenza e che sia, probabilmente, un risultato dell'esperienza. In questo caso, come sarà descritto in maggiore dettaglio a p. 180, il morso alla nuca inferto dai roditori non sarebbe omologo a quello dei carnivori. Anche le m a r t o r e (Ràber, 1944) e le donnole (Goethe, 1950) uccidono con un morso alla nuca. Secondo le mie osservazioni, le donnole e gli ermellini orientano il morso alla regione occipitale, per cui il
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loro c o m p o r t a m e n t o a p p a r e più specializzato (si vedano anche Gossow, 1970 e Muller, 1970). Analogamente, la puzzola uccide i vertebrati di piccole dimensioni con un morso alla nuca o al dorso, ma, con mammiferi di maggiori dimensioni, quali cavie o conigli, si comporta diversamente da q u a l u n q u e altro p r e d a t o r e a me noto, attaccando f r o n t a l m e n t e e mord e n d o la regione nasale (Goethe 1940; Ràber, 1944). In netto contrasto con q u a n t o descritto, u n o zibetto delle palme ha ucciso una gallina m o r d e n d o l a indiscriminatamente al torace, alla gola, alla testa e in altre parti, d o p o di che ha cominciato a cibarsene s t r a p p a n d o bocconi qua e là dal corpo ancora vivo. Sarebbe c o m u n q u e p r e m a t u r o trarre conclusioni sul comportamento normale di una specie in base a queste osservazioni isolate effettuate in condizioni sfavorevoli. La iena striata (Hyaena hyaena) dell'Africa settentrionale uccide gli asini con un morso alla nuca (Higgs, in Ewer, 1968, p. 44). Kruuk (1972) sostiene che la iena maculata (Crocuta crocuta) non fa ricorso a u n o specifico morso letale, ma semplicemente strappa bocconi dal corpo della p r e d a fino a che essa non m u o r e , dopo un'agonia che, a seconda del n u m e r o delle iene, p u ò d u r a re anche 13 minuti. Lo stesso Kruuk, tuttavia, cita esempi di morsi alla nuca diretti contro p r e d e di piccole dimensioni (1972, pp. 162, 195). Sembra d u n q u e che le iene, come altri predatori che cacciano in g r u p p o , per esempio lupi e licaoni, siano capaci di infliggere il morso alla nuca, ma, poiché esso non riveste più molta importanza ai fini della riuscita della caccia o dell'autodifesa, si è indebolita la necessità di praticarlo. Una volpe ha ucciso un pollo m o r d e n d o l o alle spalle, al torace e alla gola. Ho potuto osservare, in un filmato russo, un lupo m e n t r e uccideva un castoro con un morso alla nuca. Per contro, Seitz (1950) a f f e r m a che le volpi da lui osservate uccidevano non con un morso, ma scuotendo la p r e d a con violenza. In effetti, si ritiene c o m u n e m e n t e che i canidi uccidano la preda «scuotendola fino alla m o r t e » ; si tratta però di u n a supposizione a mio avviso non ancora suffragata a sufficienza da ricerche e sperimentazioni. Secondo Pilters (1962), i fennec (Fennecus zerda) uccidono con il morso alla nuca, come fanno i lupi con le p r e d e di piccole dimensioni (Zimen, 1971). Per il m o m e n t o non ho alcun dato sulla tecnica di uccisione degli ursidi. La diffusione della tecnica consistente nello sfinire e nell'uccidere la p r e d a scuotendola e la sua probabile evoluzione parallela in g r u p p i filetici diversi sono state discusse altrove (Leyhausen, 1965 b\ si vedano anche pp. 74 sgg.).
3. Attività in eccesso1 e reazione a un oggetto sostitutivo Sembra che l'eccitazione specifica connessa a tutte le attività di caccia alla preda si accumuli facilmente; spesso interviene una reazione diretta verso un oggetto sostitutivo e, di tanto in tanto, si manifesta una vera e propria attività in eccesso. Rientra, per esempio, in questa categoria la cattura delle mosche, anche se queste ultime vengono di solito mangiate, dopo la cattura. Allo stesso modo, taluni gatti - e in particolare un grosso maschio - mangiano golosamente le cavallette di cui vanno a caccia (p. 36), ma la maggior parte dei gatti le lascia andare subito dopo averle catturate. E chiaro che le cavallette valgono, come prede, in quanto mezzo per scaricare l'eccitazione della caccia. Spesso si possono osservare i felini in cattività dare la caccia a sassi e a zolle di terra e non per gioco, ma con assoluta serietà. Si riporta, di seguito, un piccolo esempio di attività in eccesso. 1. Il t e r m i n e tedesco Leerlauf-Reaktion, introdotto da Lorenz (1937 a), è in se stesso contraddittorio, poiché non p u ò esserci reazione in assenza di stimolo. Nelle pubblicazioni successive, Lorenz ha perciò usato i termini Instinktleerlauf o Leertauf, resi in inglese come vacuum activity, o « attività a vuoto ». La t r a d u z i o n e mi p a r e infelice, anche se indotta dalla discussione di Lorenz int o r n o all'assunto polemico di T o l m a n (1932), secondo il quale « il comportam e n t o n o n p u ò esprimersi nel vuoto». N a t u r a l m e n t e i d u e autori usano il t e r m i n e « vuoto » n o n nel suo significato letterale, ma p e r descrivere u n a situazione nella quale manchi ogni stimolo specifico che possa i n d u r r e o « sosten e r e » un d a t o c o m p o r t a m e n t o considerato. P r o p r i a m e n t e , Leertauf n o n ha nulla a che f a r e con il vuoto, ma descrive specificamente un m o t o r e di auto-
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Resoconto del 12 novembre 1951 ... Dopo un po', Muschi salta giù e comincia a « giocare ». Tutti i comportamenti relativi alla cattura della p r e d a sono scaricati sotto f o r m a di attività in eccesso. Essi non sono diretti verso alcun oggetto particolare, ma a p p e n a muovo la p u n t a del piede, Muschi lo accetta come oggetto sostitutivo. Contro il concetto di attività istintiva in eccesso, è stata spesso sollevata l'obiezione che è impossibile escludere con assoluta certezza che l'animale stia rispondendo a qualche sia p u r minimo stimolo esterno non percepibile dall'osservatore (si vedano Armstrong, 1950; Bastock, Morris e Moynihan, 1953; Lehrman, 1953; Lissman, 1950), ed è per questa ragione che tale concetto è stato respinto. Tuttavia, nessuno se la sentirebbe di sostenere che questo ipotetico stimolo minimo sia sufficiente a giustificare una tale « reazione » corrispondente. Pertanto, si sarebbe costretti ad a m m e t t e r e che l'accumulo dell'eccitazione specifica sia in grado di abbassare la soglia di induzione quasi fino a zero, poiché soltanto allora questo stimolo minimo, ipotizzato solo per salvare il principio di « stimolo e risposta » (S-R), potrebbe essere sufficiente per indurre la « re «-azione. Ma, in tal caso, risulterebbe impossibile c o m p r e n d e r e perché il valore di soglia dovrebbe potersi abbassare quasi, ma non completamente, fino a zero. Pertanto, discutere se si tratti di genuina attività in eccesso o di quasi attività in eccesso è semplicemente una questione di lana capri-
mobile al m i n i m o e in folle, e, per estensione, qualcosa che stia o p e r a n d o , ma senza a d e m p i e r e alla sua f u n z i o n e normale. Lorenz usa questo t e r m i n e per sottolineare a p p u n t o il « girare al minimo », riferendosi a un c o m p o r t a m e n t o istintivo che si manifesti nella completa assenza del suo a d e g u a t o stimolo scatenante, fine, oggetto, ecc. Pertanto, l'espressione « attività a vuoto » è certamente imprecisa e fuorviarne. A r m s t r o n g (1950) ha coniato l'espressione « attività in eccesso » (overflow activity) per descrivere u n o stato motivazionale interno che riesce a oltrepassare la soglia di induzione senza l'aiuto di specifici fattori di stimolo sensoriali. Si tratta di u n a espressione coerente con il « modello psicoidraulico » di Lorenz (1952), tanto criticato p e r c h é r a r a m e n t e compreso, ma che, se c o r r e t t a m e n t e interpretato, si rivela ancora provvisto di un considerevole valore euristico. Per essere rigorosi, va c o m u n q u e aggiunto che A r m s t r o n g dubitava dell'esistenza di u n a vera attività in eccesso, ritenendo che n o n fosse possibile, in ogni caso dichiarato, escludere completamente il concorso di stimoli così tenui da risultare impercettibili all'osservatore. Si tratta, tuttavia, di u n a questione irrilevante. Se si a m m e t t e che la soglia di attività possa abbassarsi tanto da p e r m e t t e r e a n c h e a u n o stimolo quasi impercettibile di i n d u r r e un completo movimento istintivo, p e r c h é si dovrebbe escludere la possibilità che essa possa venire superata esclusivamente dall'interno e in assenza di q u a l u n q u e stimolo esterno? Pertanto, io uso qui I espressione « attività in eccesso » in senso p u r a m e n t e letterale, e senza in ogni caso condividere le posizioni teoriche di A r m s t r o n g .
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na. Per q u a n t o r i g u a r d a l'esempio descritto nel precedente resoconto, posso assicurare che, sulla superficie p e r f e t t a m e n te liscia e pulita del pavimento del mio studio, solamente qualche minuscolo granello di polvere poteva costituire l'oggetto impercettibile delle attività di caccia di Muschi; tuttavia, i granelli di polvere o f f r o n o u n a resistenza relativamente elevata all'aria, e quindi n o n potevano spostarsi sul pavimento con la stessa rapidità del gatto, la cui caccia si svolgeva su u n a distanza di parecchi metri. Muschi cacciava l'oggetto immaginario di f r o n t e a lei, con movimenti incrociati delle zampe anteriori, come f a n n o i gattini con le palline da ping p o n g o anche i gatti adulti, rimasti per un po' di t e m p o senza cacciare, con i topi («gioco esuberante o in eccesso», pp. 166 sgg.). Un granello di polvere n o n p u ò essere sospinto in m o d o così r a p i d o dalle zampe. Volendo s u p p o r r e che ciascuno dei veloci movimenti delle zampe colpisse un nuovo granello di polvere p e r me invisibile si a n d r e b b e veramente t r o p p o lontano. N o n r i m a n e che considerare questo episodio come un'espressione incontestabile di p u r a attività in eccesso, al pari di numerosi altri casi da me osservati. A pp. 163 sgg. verrà discusso fino a che punto, in casi come questo o p p u r e nel caso di azioni dirette verso oggetti sostitutivi (come sassi, zolle di terra, ecc.), sia possibile distinguere tra gioco e reazione di sfogo della motivazione accumulata a cacciare sul serio. Nell'esempio seguente, la situazione è in qualche misura diversa. Resoconto del 9 novembre 1951 ... Metto M3 in u n a gabbia di 4 x 2 x 2 metri assieme a 7 passeri. I m m e d i a t a m e n t e , M3 si accovaccia e m u o v e f u r t i v a m e n t e verso gli uccelli, che si rifugiano negli angoli superiori della gabbia. M3 li segue con lo s g u a r d o « b a t t e n d o i denti », quindi assume per alcuni minuti u n a postura di osservazione del tutto inutile, si muove lentam e n t e qua e là, sbircia verso l'alto, e di nuovo batte i denti. Improvvisamente, inizia a p r o d u r s i in u n a raffica di movimenti di caccia alla p r e d a , alcuni diretti verso un oggetto sostitutivo, r a p p r e s e n t a t o da u n a zolla di terra, altri senza alcun obiettivo a p p a r e n t e . E un succedersi selvaggio di movimenti consistenti nell'appostarsi, nello slanciarsi, nel colpire e nell ' a f f e r r a r e con le zampe, e tutto ciò si ripete più volte. Il gatto si trovava molto vicino a u n a preda, che costituiva un f o r t e stimolo, ma n o n la poteva raggiungere. In casi del genere, il « battere i denti » (Schwangart, 1933) spesso sopravviene come «attività sostitutiva»: con gli angoli della bocca tirati bene indietro, le mascelle si a p r o n o e si c h i u d o n o freneti-
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camente, p r o d u c e n d o un r u m o r e schioccante. Secondo Schwangart si tratterebbe di un segno di irritazione, anche se l'esempio da lui descritto in dettaglio non sembra suggerire una simile conclusione: il suo gatto sedeva sulla ringhiera di una veranda, intento a g u a r d a r e alcuni passeri schiamazzanti su un sottile r a m o p r o p r i o di fronte, ma senza alcuna possibilità di raggiungerli, non essendo in g r a d o di balzare come u n a martora (cfr. p. 34) su u n a p r e d a virtualmente sospesa nel vuoto. Nel caso di M3, l'esplosivo manifestarsi di azioni di caccia alla p r e d a sopra descritto è un tipico esempio di « attività ridiretta» (Bastock, Morris e Moynihan, 1953): l'oggetto adatto a f u n g e r e da stimolo scatenante dell'attività predatoria è presente, ma irraggiungibile; esso finisce per i n d u r r e l'appropriato c o m p o r t a m e n t o innato, che però deve essere diretto verso altri oggetti, accessibili, anche se inadeguati. A ragione, gli autori vedono una precisa differenza tra questo processo comportamentale e la reazione a un oggetto sostitutivo, e parlano di azione ridiretta verso un oggetto diverso da quello originario. A mio avviso, la differenza tra oggetto sostitutivo e oggetto ridiretto potrebbe essere definita come segue: un oggetto sostitutivo attiva non solo movimenti istintivi, ma anche le tassie, cioè i movimenti orientati, che li controllano; un oggetto ridiretto attiva unicamente le tassie, m e n t r e ciò che effettivamente induce la catena di movimenti istintivi è l'oggetto appropriato, vicino ma inaccessibile.
4. Trattamento della preda appena uccisa Come si è già accennato, un felino, dopo avere ucciso la preda, la lascia a terra e solo in rari casi inizia a mangiarla immediatamente. Come regola, un felino abbandona subito al suolo l'animale predato, soprattutto se è di grandi dimensioni, si allontana di poco, annusa il terreno circostante in molti punti e può anche indugiare brevemente in un'attività di pulizia (« fare u n a passeggiata »: fig. 4.1 d)\ solo a questo punto ritorna alla preda, la raccoglie (fig. 4.1 e), e la porta in giro (fig. 4.1 f ) , evidentemente alla ricerca di un luogo protetto dove mangiarla; se è disponibile un nascondiglio, alla fine ne fa uso. Questo comportamento è comunque altamente ritualizzato e si manifesta anche in ambienti totalmente privi di ripari, in animali del tutto abituati al loro spazio circostante e che non sono certo alla ricerca di un'«uscita». Anche q u a n d o è disponibile un luogo appartato, adatto per consumarvi il pasto, è raro che il felino vi si diriga immediatamente; assai più spesso accade che la sequenza di azioni del depositare la preda per terra, « f a r e una passeggiata», raccogliere di nuovo la preda e portarla in giro si ripeta parecchie volte. Spesso interviene il gioco (p. 168) con la preda uccisa (fig. 4.1 g). Per trasportare la preda, il felino l'afferra per la nuca o, se si tratta di animali di piccole dimensioni, come topi o passeri, anche in altre parti del corpo; quanto più grande è la preda, tanto più decisamente il felino l'afferra per la nuca e, tenendo alta la testa, si sforza di trasportarla penzoloni, senza che possa toccare il terreno. La testa viene tenuta alta non tanto a causa dell'on-
(segue)
Fig. 4.1. Ondila che uccide un coniglio: (a) lo insegue; (b) un momento prima di afferrarlo e morderlo; (c) lo uccide; (d) « f a una passeggiata »; (e) lo raccoglie; ( / ) lo trascina; (g) « gioco di sollievo »; (h) e (t ) rimuove il pelo; (k) sputa il pelo; (/) espelle il pelo con la lingua; (m) si lecca i fianchi per ripulire la lingua; (ri) cerca di cominciare a mangiare partendo dalla testa.
S m e m b r a m e n t o della preda 65 deggiare della preda, o per evitare che essa tocchi terra, quanto per sostenerne il peso. Un grosso e compatto pezzo di carne (fig. 4.2 a), che non ondeggerebbe né toccherebbe terra anche se fosse trasportato tenendo la testa abbassata, sarà c o m u n q u e trasportato a testa alta; al contrario, se il felino si impadronisce di un leggero pezzo di stoffa trattandolo come se fosse u n a preda, lo trasporta con la testa abbassata (fig. 4.2 b), facendolo strisciare per terra. Le grosse p r e d e verrebbero trasportate più agevolmente se venissero a f f e r r a t e in corrispondenza del loro centro di gravità, subito dietro le spalle; tuttavia, in tutti i felini che ho potuto osservare la presa viene effettuata alla nuca. Le p r e d e di grandi dimensioni vengono trascinate per terra tenendole a lato delle zampe anteriori o tra di esse, o p p u r e il felino le trascina c a m m i n a n d o all'indietro (fig. 2.4 d, e). Ho potuto osservare, in filmati, diversi esempi di leoni che trasportavano zebre in questo modo.
Fig. 4.2. (a) Un gatto trasporta un pesante pezzo di carne, tenendo sollevata la testa; (b) quando trasporta u n o strofinaccio, altrettanto voluminoso, ma più leggero del pezzo di carne, la testa non è sollevata.
5. Rimozione del piumaggio o del pelo e scuotimento A meno che non sia sazio e perciò abbandoni la preda da qualche parte, ora il felino comincia il suo pasto. Se si tratta di uccelli grandi quanto o più di un merlo, per prima cosa viene rimosso il piumaggio: il felino appoggia le zampe anteriori sulla preda, afferra le piume fra i denti, e, con un brusco movimento della testa e delle spalle verso l'alto, le strappa (figg2.4 i, 4.1 h, i). Sputa via le piume che gli rimangono attaccate all'esterno della bocca e, dopo averne strappato molte con diversi bocconi, le lancia via con un'oscillazione laterale del capo (fig. 4.1 k). Se, in questo modo, strappa anche alcune penne, si tratta di una « svista». Infatti, queste ultime vengono generalmente estratte in seguito, durante il pasto, mediante un morso o un movimento di suzione. Nel movimento con cui le piume vengono sputate, la punta della lingua, rivolta verso il basso, le spinge in avanti e all'infuori della rima buccale aperta, con specifici movimenti di leccata (fig. 4.1 /). Quindi, la lingua viene retratta tra gli incisivi chiusi e in tal modo viene ripulita di tutte le piume che ancora vi aderiscono. Già quando la testa viene sollevata con uno scatto il felino sputa una o più volte, e il movimento è così rapido che può essere percepito solo analizzando i singoli fotogrammi di un filmato. Dopo lo strattone verso l'alto, il felino di solito sputa ancora parecchie volte, più lentamente e con la testa lievemente ruotata di lato. Nel movimento per lanciare lontano le piume, il felino scuote la testa da un lato all'altro più volte. Ogni volta che la testa raggiunge il punto estremo dell'oscillazione, le piume so-
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no espulse dalla lingua e volano via. Anche d u r a n t e questo movimento l'animale sputa in m o d o molto rapido. I felini i n t e r r o m p o n o spesso l'operazione di rimozione delle piume per leccarsi i fianchi (fig. 4.1 m). All'inizio, avevo interpretato ciò come movimento « sostitutivo », ma ora t e n d o a considerarlo semplicemente come l'inverso della normale funzione del leccarsi il pelo. Mentre in g e n e r e è la lingua che pulisce il pelo, in questo caso è il pelo che ripulisce la ruvida superficie della lingua dalle p i u m e residue che ancora tenacemente vi aderiscono. Tutti i felini studiati nel contesto della mia ricerca rimuovono il piumaggio della p r e d a . Però si possono facilmente notare alcune tipiche d i f f e r e n z e di c o m p o r t a m e n t o e, in almeno quattro casi, esse si possono chiaramente individuare con l'aiuto di un filmato. II gatto domestico, q u a n d o cattura un merlo (Turdus menila), non insiste molto nel ripulirlo dalle piume, ma tenta a più riprese di mangiarlo così com'è. Si ha l'impressione che si preoccupi unicamente di mangiare, limitandosi a sputare le piume che gli finiscono in bocca. E molto r a r o che un gatto spenni uccelli più piccoli dei merli (mi è capitato di assistere a un episodio del g e n e r e soltanto in un caso su 58); piuttosto li mangia subito, senza n e p p u r e un movimento intenzionale diretto a rimuoverne il piumaggio. Le p e n n e remiganti e caudali sono troncate con un morso al calamo e sputate. La rimozione del piumaggio comincia a diventare più estesa solamente quando le dimensioni degli uccelli sono uguali o maggiori a quelle di un piccione. Secondo L i n d e m a n n (comunicazione personale), il gatto selvatico e u r o p e o (Felis s. silvestris L.) e la lince dei Carpazi si comportano esattamente come il gatto domestico: anch'essi rimuovono il piumaggio unicamente nel caso di uccelli di dimensioni uguali o maggiori a quelle di un merlo. In u n a lunga serie di esperimenti condotti nel Giardino zoologico di Francoforte, ho potuto constatare lo stesso c o m p o r t a m e n t o , senza eccezione, nei seguenti casi: u n a f e m m i n a di gatto selvatico africano (Felis silvestris lybica Forster), quattro servai, tre gatti pescatori (Prionailurus viverrinus Bennett), u n a coppia di caracal (Caracal caracal Guld.), u n a coppia di linci rosse canadesi (Lynx rufus Guld.) e d u e g h e p a r d i maschi. Allo stesso m o d o si comportavano dieci gatti del Bengala (Prionailurus bengalensis) e relativi ibridi e quattro gatti di I emminck (Profelis Temmincki) ospitati all'Istituto Max Planck di Wuppertal e osservati in epoca successiva. Nel caso di sette gatti piedi-neri (Felis nigripes) si è osservata un'attività di rimozione del piumaggio molto ridotta. Solo in un'occasione il ca-
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racal maschio si è comportato in m o d o diverso q u a n d o ha strappato le piume a un passero. D'altra parte, in numerosi altri esemplari di caracal ho osservato u n a maggiore prontezza nello strappare le piume rispetto alle specie prima menzionate. Q u a n d o la preda era un piccione o un pollo di piccole dimensioni, tutti i felini citati mangiavano la testa prima di iniziare a strappare le piume. Nel caso di Muschi, la mia femmina di ondila, l'attività di rimozione del piumaggio era assai più accentuata e costituiva un elemento obbligato della sua completa sequenza di azioni. Essa strappava le piume in m o d o per così dire « sistematico » anche ai più piccoli uccelli e niente affatto come se stesse mangiando e riempiendosi la bocca di piume per caso. Generalmente cominciava dalla testa e dal petto e continuava ad asportare piume fino a q u a n d o non comparivano chiazze di pelle n u d a . Un passero che sia stato spennato da un gatto domestico e uno che sia stato spennato da un'oncilla mostrano chiaramente la differenza (fig. 5.1). L'ondila cominciava a mangiare solamente d o p o avere a lungo rimosso le piume alla p r e d a . Se le sottraevo la preda che essa aveva già iniziato a mangiare e gliela restituivo d o p o un intervallo di t e m p o abbastanza lungo, l'ondila, prima di mangiarla, si rimetteva immediatamente a spennarla, anche se m e n o a lungo di quanto avesse fatto la prima volta. Questo dimostra anche fino a che p u n t o la rimozione del piumaggio costituisse per il felino una c o m p o n e n t e essenziale dell'intera operazione. Essa « spennava » anche i mammiferi, q u a n d o la loro pelliccia aveva uno spessore compreso tra 1 e 1,5 centimetri, come per esempio nel caso dei lunghi peli dorsali di un grosso surmolotto; a un piccolo coniglio ha strappato il pelo quasi del tutto. Sulle prime, ero stato tentato di interpretare il fatto che il gatto domestico rimuova le piume in m o d o m e n o completo come una perdita di capacità conseguente alla domesticazione e il fatto che l'ondila rimuova le piume in m o d o più elaborato come u n o specifico adattamento a uccelli di piccola taglia. Come già accennato, l'ondila generalmente non assumeva la postura di osservazione e gli uccelli la eccitavano assai più dei piccoli mammiferi. Nel frattempo, sono stato in g r a d o di stabilire che le specie selvatiche elencate sopra si c o m p o r t a n o allo stesso m o d o del gatto domestico; invece tre puma, d u e margay, diverse pardaline, altre ondile e d u e grossi ocelot rimuovevano le p i u m e esattamente come Muschi. Allo Zoo di Londra, D. Morris ha filmato un ocelot intento a spennare un piccione sul prato del suo recinto esterno. Nel far questo, il felino era stato preso da una tale frenesia che, d o p o aver terminato con il piccione, si era messo a strappare l'erba del prato, e aveva contin u a t o in questa operazione per diversi minuti.
Fig. 5.1. P e n n e e p i u m e di p a s s e r o s p e n n a t o : (sopra) da un gatto domestico (F5); (sotto) da u n ' o n c i l l a .
I filmati di animali intenti a rimuovere le piume ne mostrano assai c h i a r a m e n t e le d i f f e r e n z e di comportamento. Si poss o n o c o m u n q u e analizzare solo quelle sequenze nelle quali l'animale sia stato r i p r e s o f r o n t a l m e n t e , il che non capita spesso. La figura 5.2 r i p o r t a q u a t t r o tracciati, d u e relativi a un servai e d u e a un'oncilla, c h e descrivono i movimenti associati all'op e r a z i o n e di r i m o z i o n e del piumaggio. Le curve sono state tracciate r i p o r t a n d o le posizioni assunte dalla punta del naso, rilevate in f o t o g r a m m i successivi. Il naso del servai compie piccoli m o v i m e n t i laterali q u a n d o la testa è ancora abbassata sulla p r e d a e m e n t r e il c a p o viene sollevato bruscamente questi m o v i m e n t i si f a n n o via via più ampi, fino al m o m e n t o in cui
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le p i u m e sono scosse via; in m o d o analogo, i movimenti si smorzano con gradualità, m e n t r e la testa si abbassa nuovam e n t e verso la preda. Nel caso dell'ondila, invece, la curva è ripida, quasi perpendicolare, senza alcun accenno di movimenti di scuotimento della testa; q u a n d o ha raggiunto il culmine, la curva si inclina un poco verso il basso e all'indietro, in corrispondenza della fase in cui le piume vengono di colpo staccate, quindi segue, in m o d o netto, il movimento di scuotim e n t o della testa e, infine, ridiscende verso la p r e d a , con un a n d a m e n t o che si manifesta altrettanto rettilineo di quello ascendente. Del pari d i f f e r e n t e è il ritmo con cui viene e f f e t t u a t a l'asportazione del piumaggio. Per questa analisi e r a n o disponibili quattro filmati relativi, rispettivamente, a un servai, a una lince rossa, a un p u m a e a un'oncilla: i primi tre spennavano u n a p r e d a ciascuno, m e n t r e l'ondila ne spennava due. Il servai, la lince, ecc. si liberano delle p i u m e rimaste loro in bocca scuotendo la testa, praticamente ogni volta che ne asportano un ciuffo, poiché il movimento inizia già q u a n d o la testa viene sollevata verso l'alto. Nelle r a r e occasioni in cui vengono strappate p i u m e a uccelli di piccole dimensioni, per esempio a un passero a o p e r a di F5 e del caracal, le p i u m e vengono via così facilmente che il movimento di scuotimento non raggiunge u n a sufficiente oscillazione e viene del tutto omesso. Nel caso del p u m a e dell'ondila, p u ò accadere che le p i u m e vengano invece strappate più volte di seguito prima di essere scosse via tutte in u n a volta. In media, in questi d u e felini il r a p p o r t o tra la f r e q u e n z a dei movimenti di strappo delle piume e dei movimenti di scuotimento è di 2:1, m e n t r e nel caso del servai e della lince è di 1:1 (tab. 5.1). Ovviamente, i dati a disposizione sono t r o p p o scarsi per costruire u n a statistica attendibile e l'operazione dovrebbe essere filmata assai più spesso. In ogni caso, la tabella 5.1 mette in evidenza le differenze nel ritmo dei movimenti, e tali differenze si vanno sempre meglio precisando m a n m a n o che si riesaminano i filmati. Si rilevano d i f f e r e n z e anche nel n u m e r o delle oscillazioni laterali della testa ogni volta che le p e n n e vengono scosse via. C o m e suggerito dalla figura 5.2, e come è evidenziato nella terza colonna della tabella 5.1, la testa viene fatta oscillare più f r e q u e n t e m e n t e se nel movimento di scuotimento essa viene sollevata e abbassata con gradualità. Anche se n e p p u r e questa d i f f e r e n z a è statisticamente garantita, a u n a semplice osservazione dei filmati a p p a r e del tutto evidente che il p u m a e l'ondila scuotono la testa con un movimento assai più breve, ma molto più energico rispetto a quello del servai e della lince.
Fig. 5.2. Curve che descrivono i movimenti della testa del felino mentre la preda viene spennata: (a) femmina ( $ ) di servai; (6) ondila. Per l'interpretazione delle curve, si veda il testo.
Inoltre, la frequenza dei movimenti di oscillazione laterale aumenta di pari passo con l'energia con la quale la preda viene spennata. Questi dati sottolineano il significato della distinzione fra i due gruppi che è stata in precedenza stabilita, poiché il servai e la lince rimuovono il piumaggio da prede di una data dimensione in modo molto più sommario di quanto facciano puma e ondila. Il servai, la lince e altre specie simili ogni volta che rimuovono piume ne asportano una quantità dalle tre alle quattro volte inferiore rispetto a quanto fanno il puma, l'ondila e l'ocelot. Non ho potuto verificare quanto sostenuto da Lindemann (1955) a proposito del gatto selvatico europeo il quale, quando cattura prede costituite da mammiferi di taglia piuttosto grossa, non ne strapperebbe il pelo, bensì
Tab. 5.1
Ritmo di rimozione del piumaggio (rilevato da filmati) Strappo delle piume
Scuotimento
Numero medio di movimenti avanti e indietro per scuotimento
Servai Lince
14 14
14 12
3,2 3,7
Ondila Puma
68 20
34 12
2,4 1,8
I numeri delle prime due colonne esprimono la frequenza con la quale ogni singolo schema di movimento è stato eseguito, per l'intera durata del filmato.
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ne asporterebbe la pelle con gli artigli; è c o m u n q u e certo che specie molto vicine al gatto selvatico, come il gatto domestico, il servai, il caracal e la lince, non f a n n o nulla del genere. Si tratterebbe inoltre di un c o m p o r t a m e n t o del tutto estraneo a un felino, perché gli artigli di questi animali sono decisamente inadatti allo scopo. (Si veda p. 88 a proposito dell'« azione del lacerare »). Alcune delle differenze sopra descritte r i g u a r d o alle modalità di asportazione delle piume nei d u e g r u p p i di felini, quello «del gatto domestico» e quello « dell'ondila », d i p e n d o n o da un diverso valore di soglia. La soglia è più alta per le specie del p r i m o g r u p p o , nelle quali, pertanto, i movimenti intenzionali intesi a rimuovere il piumaggio cominciano ad apparire solamente q u a n d o la p r e d a è di dimensioni confrontabili alm e n o con quelle di un merlo. Invece, le specie del secondo g r u p p o s t r a p p a n o le piume anche a uccelli di piccolissime dimensioni; non solo, ma svolgono tale attività con maggiore intensità anche nei casi in cui h a n n o a che fare con uccelli di dimensioni relativamente grandi e con m a m m i f e r i a pelo lungo. Strano a dirsi, in nessuno dei d u e g r u p p i esiste una relazione f r a il valore di soglia dello stimolo e la taglia del felino in questione. Le dimensioni di un merlo r a p p r e s e n t a n o il valore inferiore di soglia tanto per il gatto domestico quanto per il ghep a r d o e la lince, e l'ocelot strappa le piume a un passero con la stessa intensità di un'oncilla. Perfino i grossi p u m a strappano le p i u m e a piccoli uccelli, o almeno tentano di farlo, perché in realtà, data la difficoltà di a f f e r r a r e le minuscole piume, i loro sforzi finiscono per trasformare l'uccello in una massa informe, umida di saliva. Naturalmente, l'intensità con cui alla preda vengono asportate le piume varia tra i diversi individui di u n a stessa specie e perfino nello stesso individuo in momenti differenti; sulla base della mia esperienza posso tuttavia afferm a r e che queste variazioni individuali in nessun m o d o arrivano a eclissare le differenze tra specie diverse. Sarebbe q u a n t o mai auspicabile che queste osservazioni venissero c o n f e r m a t e da rilevazioni statistiche accurate: infatti, tutte le specie che possono essere incluse entro il g r u p p o del gatto domestico - oltre a questo, gatto selvatico e u r o p e o e africano, gatto pescatore, lince e u r o p e a e lince rossa, caracal, servai, gatto del Bengala, gatto d o r a t o africano, gatto piedineri e g h e p a r d o - vivono nel Vecchio Mondo, m e n t r e quelle del secondo g r u p p o - cioè ondila, pardalina, margay, o c e l o t e p u m a - vivono nel Nuovo Mondo. Ho incluso la lince rossa nel g r u p p o del Vecchio Mondo perché è migrata dall'Asia all'America, attraverso il ponte continentale che le collegava, in tempi molto più recenti rispetto ai progenitori dei felini del-
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l'America del Sud. La straordinaria corrispondenza nel comportamento fra specie tanto diverse come il gatto domestico e il ghepardo da un lato, e l'ondila e il p u m a dall'altro, non p u ò essere casuale. Inoltre, f e r m a restando la speciale posizione riconosciuta ai grandi felini, questa circostanza potrebbe suggerire un nuovo criterio di classificazione. Oltre al m o d o in cui la p r e d a viene sottoposta a rimozione del piumaggio, molte altre differenze comportamentali sembrano separare i felini del Vecchio Mondo da quelli del Nuovo Mondo: per esempio, l'abitudine di ricoprire le feci o quella di assumere la posizione di riposo con le zampe anteriori ripiegate sotto il torace in Felis, Lynx e nei loro parenti più stretti sono e n t r a m b e assenti nei felini del Nuovo Mondo e nei grandi felini. Considerando questi fatti nel loro insieme ed e s t e n d e n d o la ricerca al maggior n u m e r o possibile di specie, potrebbe essere messa in luce, tra i felini, una relazione analoga a quella dimostrata tra le scimmie del Vecchio e del Nuovo Mondo, benché i grandi felini sembrino correlati più strettamente con i felini del Nuovo M o n d o e quindi non rappresentino un b u o n parallelo con le scimmie a n t r o p o m o r f e . Naturalmente, poiché i felini costituiscono un taxon molto più strettamente unito, non ci si dovrà attendere u n a separazione così p r o f o n d a e netta come quella che sussiste tra le scimmie platirrine e le scimmie catarrine. Già il caracal sembrava potersi candidare come forma intermedia; inoltre, osservazioni più recenti condotte su otto esemplari di gatto dorato africano (Profelis aurata) h a n n o suggerito che in questa specie l'intensità con la quale alla preda vengono strappate le piume e il valore di soglia siano all'incirca intermedi rispetto a quelli caratteristici dei d u e g r u p p i sopra delineati. Pertanto, il genere Profelis (cfr. l'Appendice) colma il divario, almeno per quanto concerne questa caratteristica comportamentale: bassa intensità (P. Temmincki), media intensità (P. caracal e aurata), alta intensità (P. concolor). Sulla base di testimonianze orali, sembra che i grandi felini strappino le piume alla preda in m o d o simile ai felini del Nuovo Mondo. U n a f e m m i n a di leopardo strappava le p i u m e a un pollo di piccole dimensioni proprio come ho ripetutamente visto fare ai p u m a : con g r a n d e energia, sollevando il capo perpendicolarmente verso l'alto e con deciso movimento di scuotimento. A differenza del puma, però, il leopardo aveva eseguito parte dell'operazione r i m a n e n d o accosciato a terra e trattenendo il pollo f r a le zampe. D. Morris ha filmato una tigre m e n t r e strappava energicamente le piume a un pollo; io stesso ho osservato un leone indiano della riserva di Gir mentre effettuava qualche movimento inteso ad asportare qua
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e là il lungo pelame dorsale di u n a grossa capra a p p e n a uccisa (11 novembre 1969). Non mi è invece mai capitato di osservare un leopardo fare altrettanto. I felini si liberano, lanciandoli via, oltre che delle piume e dei peli strappati dalle p r e d e uccise, anche di oggetti quali strofinacci o altro rimasti impigliati ai denti; tali oggetti, allora, in g e n e r e volano a qualche distanza, t r a n n e nel caso in cui r i m a n g a n o penzolanti dalle mascelle, come accade spesso con i batuffoli di cotone. A volte u n a p r e d a ancora viva ma immobile viene trattata nello stesso m o d o (p. 51). Analogamente, un felino timoroso a f f e r r a debolmente per la pelliccia in qualche parte del corpo u n a p r e d a di piccole dimensioni per poi lanciarla subito via di nuovo. Questo movimento non ha mai il significato dello «scuotere fino alla m o r t e » , ma serve sempre unicamente per liberare i denti da un corpo ricoperto di piume o pelo e le sue conseguenze sulla preda non sono in nessun m o d o fatali. U n a p r e d a a f f e r r a t a con un morso letale appropriato viene deposta a terra, mai lanciata via. Lo scuotere o il lanciare via la preda o oggetti usati per gioco si possono osservare molto f r e q u e n t e m e n t e , e nella forma più accentuata, nei piccoli e in felini adulti in condizioni specifiche (cfr. pp. 166-67, 169-70). Un uccello che venga lanciato via p e r gioco in questo m o d o p u ò già p e r d e r e u n a grande quantità di p i u m e senza che sia stato spennato. Le attività di strappare le piume e di lanciare via per gioco spesso si confond o n o g r a d u a l m e n t e l'una nell'altra, q u a n d o le dimensioni della p r e d a r a g g i u n g o n o il valore di soglia inferiore per la rimozione delle p e n n e . Si presentò proprio questo caso q u a n d o F5 e il caracal s t r a p p a r o n o le piume ad alcuni passeri (p. 67); allo stesso modo, si c o m p o r t a r o n o F I , F4, F5, M3, M5, M8, M9 e le d u e linci q u a n d o s p e n n a r o n o alcuni merli. I grandi felini spesso scuotono ripetutamente, da un lato all'altro, un grosso pezzo di carne con le ossa attaccate, il più delle volte senza lanciarlo via, e in seguito cercano in genere di iniziare a mangiare nel p u n t o in cui il pezzo di carne era stato a f f e r r a t o e scrollato. Probabilmente questo t r a t t a m e n t o ha l'effetto di allentare l'aderenza della massa muscolare alle ossa, c r e a n d o in tal m o d o un più agevole p u n t o di attacco. Se questo risultato non viene raggiunto immediatamente, l'operazione è ripetuta. Talvolta i gatti domestici si comportano allo stesso m o d o con i ratti, dei quali, in certi casi, hanno difficoltà a lacerare le carni. A quanto pare, questo aspetto costituisce l'unico elemento di c o n f r o n t o f r a la scossa dei felini e lo « scuotere fino alla morte » dei canidi: secondo Seitz (1950), la volpe, scuotendo la sua preda, la smembra; inoltre, così facendo, la r i p u l i s c e da terra, sabbia o altro. Tale c o m p o r t a -
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mento potrebbe svolgere la stessa f u n z i o n e anche nei felini, benché essi sembrino poco infastiditi dalla contaminazione della preda con corpi estranei. Ovviamente, questa somiglianza di per sé non è u n a giustificazione sufficiente per considerare il movimento dello « scuotere via » dei felini come omologo allo « scuotere fino alla morte » dei canidi. L'omologia è tuttavia probabile e si potrebbe perfino i m m a g i n a r e che il percorso dell'evoluzione sia stato il seguente: al t e m p o della prima edizione di questo volume (1956), ritenevo che, al pari dello «scuotere fino alla morte » dei canidi selvatici, il lanciare via la p r e d a e altri oggetti impigliati nei denti, quali peli e p e n n e rimasti attaccati durante la loro asportazione, traesse origine dalla stessa coordinazione motoria attraverso la quale per esempio tutti i mammiferi si scrollano l'acqua dalla pelliccia. Oggi questa ipotesi mi sembra improbabile. Q u a n d o un m a m m i f e r o si scrolla, allunga il collo e la testa all'incirca nella direzione individuata dall'asse longitudinale del corpo; così, un orso bianco ('Thalarctos maritimus) si scrolla stando ritto sulle zampe posteriori nell'acqua, con la testa orientata verticalmente verso l'alto. Durante la scrollata, quindi, il naso si trova sull'asse di rotazione e compie al massimo insignificanti oscillazioni. Q u a n do invece un m a m m i f e r o lancia via qualcosa che ha in bocca, spinge in d e n t r o la testa e l'asse longitudinale del collo f o r m a all'incirca un angolo retto con quello della testa; l'asse di rotazione viene a coincidere con l'asse longitudinale della sezione cervicale della colonna vertebrale, poiché la rotazione avviene intorno al d e n t e dell'epistrofeo. Di conseguenza, la p u n t a del naso descrive la curva di massima oscillazione. In definitiva, i due movimenti del lanciare via e dello scrollarsi sono molto diversi, e la derivazione dell'uno dall'altro n o n sembra molto probabile. La loro origine deve essere stata i n d i p e n d e n t e . In quasi tutti i mammiferi, un movimento consistente nello scrollare la testa simile a quello dello scuotere via di bocca si manifesta come reazione al solletico, o all'irritazione provocata da piccoli corpi estranei rimasti attaccati alla testa. T u t t i i carnivori e molti roditori cercano di liberarsi di peli, p i u m e e particelle di terra o simili scuotendo in questo m o d o la testa, prima di utilizzare le zampe per rimuoverli. Tipico è il fatto che lo sternutire e lo scuotere la testa quasi s e m p r e si manifestano insieme. Tutti i carnivori da me conosciuti si c o m p o r t a n o in un certo modo nei confronti di coleotteri o simili o di animali di maggiori dimensioni che n o n siano u n a p r e d a familiare: li a f f e r rano r a p i d a m e n t e con i denti, il più delle volte senza stringere, in una parte q u a l u n q u e del corpo, e subito li lanciano via
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con u n a oscillazione laterale della testa (Leyhausen, 1965 b; « m o r d i e getta », Ewer e W e m m e r , 1974). Deve essere da questo movimento che ha tratto origine il c o m p o r t a m e n t o dello scuotere via un oggetto. E un movimento aritmico e asimmetrico, che consiste semplicemente in u n a rotazione laterale con un'ampiezza compresa tra un ottavo e un q u a r t o di circonferenza, nell'abbandono dell'oggetto e in u n a rotazione di ritorno al p u n t o di partenza. Q u a n d o viene eseguito con maggiore energia, u n a seconda c o m p o n e n t e sul piano m e d i a n o si sovrappone alla rotazione laterale: il m e n t o e il collo sono ritratti bruscamente e subito d o p o vengono proiettati verso l'alto con u n o scatto; spesso anche l'intero t r e n o anteriore balza verso l'alto. E in questo m o d o che si originano i giochi sfrenati del lanciare via e « d e l l ' a f f e r r a r e e lanciare» (p. 166). Dal movimento del lanciare via compiuto con un'oscillazione laterale deriva quello dello scuotere via un oggetto, q u a n d o i denti n o n allentano la p r o p r i a presa, ma continuano a tratten e r e l'oggetto m e n t r e la testa ritorna al p u n t o di partenza. Q u e s t o r a p p o r t o di derivazione spiega u n a particolarità della genetta (Genetta genetta) che, a prima vista, sembra straordinaria (fig. 5.3): anche q u a n d o scuote un oggetto ripetutamente, essa fa s e m p r e oscillare la testa solamente da un lato, senza farle proseguire l'oscillazione dall'altro lato q u a n d o ritorna alla linea mediana. Il movimento dello scuotere la testa facendola oscillare simmetricamente da un lato all'altro si sviluppa d a p p r i m a in specie quali i grossi zibetti indiani e, in u n a certa misura, anche in Viverricula, che scuotono oggetti con g r a n d e veemenza e f r e q u e n z a e che, di conseguenza, non riescono a rallentare il p r o p r i o slancio q u a n d o la testa ritorna al p u n t o di partenza. Per q u a n t o ho potuto osservare, u n a p r e d a che venga lanciata via o scossa solo da un lato non subisce mai la rottura della spina dorsale; piuttosto, ne vengono alterate, appena p e r alcuni secondi, le normali funzioni del labirinto. Gli animali in tal m o d o subiscono u n a perdita di o r i e n t a m e n t o posturale e sono quindi u g u a l m e n t e incapaci di compiere movimenti di difesa o di fuga, cosa che consente al p r e d a t o r e di
Fig. 5.3. U n a genetta cattura un ratto: (a) poco prima di afferrarlo; (b-d) lo m o r d e alle spalle, m e n t r e i suoi arti anteriori immobilizzano a terra i quarti posteriori del ratto; («-/) strappo della testa verso l'alto, m e n t r e u n o degli arti anteriori scivola di lato; (g) scuote la testa u n a sola volta di lato; (h) la testa ritorna al centro; (i) scuote di nuovo la testa dallo stesso lato come in precedenza; (j-k) compie solo u n a mezza oscillazione all'indietro; (l-n) getta di nuovo la testa di lato, tenendo il ratto tra le mascelle; apre le mascelle (m), quindi le richiude, (n); (o-r) tira all'indietro il ratto e con lo stesso movimento lo trasporta via (disegni tratti da un filmato).
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portare, indisturbato, un nuovo morso in un p u n t o più vantaggioso. Nessun felino scuote u n a p r e d a viva con lo stesso vigore di u n a genetta (Leyhausen, 1965 b\ Ewer e W e m m e r , 1974: « m o r d i e scuoti»), anche se, in certi casi, alcuni d a n n o una breve scossa con un movimento non molto a m p i o a una preda che, d o p o la cattura, si dibatta scalciando violentemente, in m o d o da poterla trasportare con m e n o difficoltà, prima di ucciderla, nel luogo dove verrà mangiata. Il gatto d o r a t o e il gatto pescatore, per esempio, si c o m p o r t a n o in questo m o d o relativamente spesso. In genere, u n a preda, d o p o essere stata così scossa, cessa di dibattersi, anche se n o n s e m p r e viene ridotta alla completa immobilità. Scosse molto energiche e ripetute possono causare alla preda u n a t e m p o r a n e a paralisi respiratoria (Leyhausen, 1965 b)\ Krieg (1964), che ha compiuto n u m e r o s e osservazioni, ha probabilmente ragione q u a n d o sostiene che ciò avviene a causa della pressione esercitata dal d e n t e dell'epistrofeo sul midollo spinale. U n a scossa ancora più violenta p u ò finire per uccidere l'animale, spezzandogli il collo o la schiena. E in questo m o d o che si è evoluto lo « scuotere fino alla morte » di molti viverridi, ienidi (Kruuk, 1966), mustelidi e canidi. Nei procionidi, invece, sembra essere assente (Kaufmann, 1962; Poglayen-Neuwall, 1962, 1965). Anche gli ursidi scuotono pezzi delle loro prede, ma non mi è chiaro se lo facciano al solo scopo di s m e m b r a r e e ripulire il cibo, analogamente ai felini, o anche per s o p r a f f a r e e uccidere u n a p r e d a viva. In ogni caso, sembra che il lanciare via u n a p r e d a viva sia un c o m p o r t a m e n t o filogeneticamente molto antico; un movimento dello scuotere fino alla m o r t e completamente sviluppato si riscontra n o n solo in molti insettivori, ma anche, tra i marsupiali carnivori, almeno già nell'opossum (.Didelphis virginiana\ Roberts, Steinberg e Means, 1967) e nel gatto indigeno (Dasycercus gen., Ewer, 1969). Per u n a descrizione dettagliata della distribuzione e dell'evoluzione dei vari comportamenti connessi alla cattura della p r e d a nei marsupiali carnivori, negli insettivori, nei carnivori e in alcuni roditori e primati, si veda Eisenberg e Leyhausen (1972). In ogni caso, sembra che lo strappare p i u m e e pelo sia una caratteristica peculiare dei soli felini. Già nel 1956 - al tempo della p r i m a edizione di questo libro - n o n sono stato in grado di trovare il minimo indizio di questo m o d u l o comportamentale nei pochi viverridi che avevo osservato (icneumoni, Herpestes ichneumon; genette, Genetta genetta e Genetta abyssinica; zibetto delle palme, Paradoxurus hermaphroditus). Ducker (1957) sostiene che la genetta, lo zibetto indiano m i n o r e ('Viverricula gen.), la mangusta grigia indiana (Herpestes Edwardsi) e il mun
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go (Mungos mungo) asportano il piumaggio agli uccelli di discrete dimensioni, da quelle della ghiandaia in su. Tuttavia, nessun episodio di rimozione del piumaggio è stato d o c u m e n tato nel corso di numerosi esperimenti condotti su esemplari appartenenti a queste e ad altre v e n t u n o specie, per un totale di diciannove generi (Leyhausen, 1965 b\ Eisenberg e Leyhausen, 1972). La descrizione di Zannier (1965) relativa a u n a mangusta nana che « spennava » corrisponde assai meglio a quanto detto a p. 67 a proposito del gatto domestico che n o n alla rimozione del piumaggio come qui è stata definita; la suricata si comporta nello stesso m o d o (Ewer, 1963). Nei felini, la rimozione del piumaggio c o m p r e n d e , oltre al movimento dello scuotere via, i seguenti elementi: l'afferrare intenzionalmente le p e n n e ; lo strappare verso l'alto, m e n t r e la preda viene trattenuta a terra con le zampe anteriori; infine, 'espellere e lo sputare via il piumaggio o i peli. Di questi comportamenti, solo d u e si possono osservare con u n a certa frequenza nei viverridi: il trattenere saldamente la p r e d a con le zampe anteriori e lo sputare via le p e n n e rimosse all'inizio del pasto. L'intera genesi del c o m p o r t a m e n t o di rimozione del piumaggio sopra delineato p u ò essere chiaramente individuata in filmati relativi a linci rosse; analogamente, si rivela osservando il gioco dei piccoli. Si possono osservare tutti gli stadi, dall'uso isolato di ciascuno dei quattro movimenti nella loro f o r m a originaria alla loro combinazione altamente specializzata.
6. Smembramento della preda Tutti i felini di piccola taglia cominciano a mangiare la preda dalla testa, anche se, nel caso di uccelli, talvolta iniziano dall'articolazione delle ali (p. 99). Fra le mie molte migliaia di osservazioni, ho annotato solo tre eccezioni: all'età di 9 settimane, FIO mangiò il suo primo topo partendo dalla regione posteriore e procedendo verso la testa; la mia femmina di servai, in un'occasione, su venti ratti bianchi ne divorò uno partendo dai testicoli; infine, una femmina adulta di puma smembrò un'anatra partendo dal petto. Tuttavia, molti singoli animali, in particolare se appartengono a specie di taglia media quali servai, gatti dorati o gatti pescatori, cominciano a divorare prede delle dimensioni di un ratto o di una cavia non dalla testa, ma da un punto appena dietro di essa, finché la testa finisce per venire staccata con un morso attraverso il collo; talvolta, in seguito, essi mangiano anche la testa, ma in genere la lasciano. I grandi felini cominciano a mangiare la preda partendo dall'addome o dai quarti posteriori, e solo in rari casi dalla testa o dal collo. In quattro occasioni ho osservato alcuni leoni che si ostinavano ad azzannare al ginocchio un grosso bufalo, benché, date le dimensioni della preda, non riuscissero a strappare che la pelle e la capsula sinoviale. Un leopardo si comportò in modo simile con una grossa capra. Secondo Lindemann e Rieck (1953), il gatto selvatico europeo inizia a sventrare prede delle dimensioni di un corvo o di una cavia partendo dalla cavità addominale. Tutto ciò può essere probabilmente spiegato nello stesso modo in cui ho interpretato il
Smembramento della preda
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comportamento f u o r i del comune della mia f e m m i n a di o n d i la, q u a n d o iniziò a mangiare un coniglio pressappoco delle sue stesse dimensioni: d a p p r i m a tentò ripetutamente di morderlo alla testa (fig. 4.1 n), ma le ossa del cranio ovviamente resistevano ai suoi denti e, d o p o u n a serie di tentativi in altri punti a partire dai quali ritornava ogni volta alla testa, iniziò finalmente a mangiare dal collo. Cooper (1942) sostiene che, dei numerosi leoni di un allevamento, oltre un centinaio, solamente alcuni « specialisti » sapevano come fare per aprire la testa di un cavallo. L i n d e m a n n (comunicazione personale) ha osservato linci che iniziavano a mangiare uccelli p a r t e n d o da un p u n t o q u a l u n q u e se erano di piccole dimensioni, e partendo invece dal petto o dallo stomaco nel caso di polli o volatili di grandi dimensioni, m e n t r e io ho sempre visto linci e caracal cominciare dalla testa. Anche i viverridi che ho osservato mangiavano le loro p r e d e dalla testa in giù, come f a n n o la puzzola (Goethe, 1940) e la martora (Ràber, 1944). Da questo punto di vista, così come per ciò che attiene al loro morso letale (p. 56), donnole ed ermellini sono considerevolmente più specializzati: essi a p r o n o immediatamente il cranio dall'alto con un morso e cominciano a nutrirsi del cervello e, se le prede sono abbondanti, si limitano a mangiare solo quello. Similmente, un coati (Nasua rufa Desm.) mangia un topo p a r t e n d o dalla testa in giù; in un caso un esemplare ha maciullato per prima cosa la testa di un piccione e, in seguito, con gli artigli ne ha graffiato via le p e n n e e ne ha scorticato la pelle dello stomaco e del torace, s t r a p p a n d o brandelli di carne, che poi si è portato alla bocca con gli artigli.
7. Consumazione della preda I felini prediligono mangiare stando in posizione accovacciata (fig. 7.1); spesso mangiano piccoli bocconi acquattati solo sugli arti anteriori; p e r bere utilizzano e n t r a m b e le posture, anche se di gran lunga favorita è quella in cui sono completam e n t e accovacciati. Anche i grandi felini mangiano di preferenza sdraiati, t e n e n d o la carne f r a le zampe anteriori (fig. 7.2). Fotografie di esemplari in libertà li ritraggono spesso in questa postura con la p r e d a appena uccisa. Anche da questo p u n t o di vista, p u m a e g h e p a r d o d a n n o prova di appartenere alla sottofamiglia Felinae nel senso indicato da Pocock (1917); entrambi, infatti, mangiano solamente d o p o essersi accovacciati (fig. 7.1 c). Anche canidi e ursidi a m a n o mangiare sdraiati. Tuttavia, a differenza dei felini, che a d d e n t a n o i bocconi tenendoli serrati tra le parti inferiori delle zampe, essi li teng o n o f e r m i o in mezzo alle d u e zampe anteriori, o p p u r e incrociano a p p e n a le zampe una sull'altra, in m o d o che l'una impedisca al boccone di scivolare di lato o da sotto, l'altra, al di sopra, lo trattenga nello spazio f r a la zampa inferiore e il terreno. Questo sistema, q u a n d o i bocconi sono abbastanza piccoli, è adottato talvolta anche dai grandi felini (fig. 7.3). I g a t t i domestici possono « pescare » con una zampa pezzettini di cibo che galleggiano in un liquido, e portarli poi direttamente alla bocca; possono anche aiutarsi con l'altra zampa, s e d e n d o sui soli arti posteriori: in questa postura, per esempio, essi spesso m a n g i a n o gli insetti. Non ho osservato questo comport a m e n t o in altri felini, ma devo dire che non ne h o mai v i s t o
Fig. 7.1. Postura accovacciata spesso adottata per il pasto da felini di piccola taglia: (a) gatto domestico (F5); (b) femmina di servai; (c) il ghepardo Ali (Zoo di Francoforte).
uno in tale situazione. Certamente, la maggior parte di essi sarebbe in grado di compiere questo movimento, poiché lo esibiscono quando giocano con piccoli oggetti-preda. In genere, i felini non masticano, ma, usando i carnassiali (l'ultimo premolare superiore e il primo molare inferiore) come cesoie, riducono la preda in piccoli pezzi o in strisce abbastanza lunghe che poi ingoiano intere. Solamente le teste delle prede più grosse vengono regolarmente masticate. A quanto pare, le strisce di carne, così come le teste masticate, cominciano a venire ingoiate nel momento stesso in cui vengono separate dal resto del corpo dell'animale ucciso; i gatti domestici e gli ocelot spesso rigurgitano le teste di ratto, riducendole poi in frammenti più piccoli che possano essere ingoiati senza difficoltà. I carnassiali sono disposti in modo tale che il cibo, per essere addentato completamente, deve essere prelevato ben all'indietro, in corrispondenza dell'angolo della bocca. Poiché, in genere, la preda giace a terra, il felino ruota la testa in modo che il lato della masticazione sia più vicino al suolo. La posizio-
Fig. 7.2.
U n a tigre d u r a n t e il pasto (Zoo di Wuppertal).
Fig. 7.3. Un l e o p a r d o tiene tra le zampe anteriori i resti di un pollo; (a sinistra) «al m o d o dei canidi»; (a destra) «al m o d o dei felini».
ne del capo è predeterminata a livello del sistema nervoso centrale in modo che vi sia una coordinazione tra il possente morso dei carnassiali e l'inclinazione della testa. Di conseguenza, il felino tiene la testa inclinata anche quando morde piccoli pezzetti di cibo e l'inclinazione verso il lato dove avviene la masticazione è tanto più accentuata quanto più tenace è il boccone, cioè quanto maggiore è lo sforzo che devono esercitare le mascelle. Esiste poi una evidente interdipendenza anche tra ' muscoli addetti alla masticazione e alcuni muscoli che m u o v o n o l'orecchio esterno: nel caso di masticazione laterale v i g o r o -
b
Fig. 7.4. Posizione delle orecchie d u r a n t e la masticazione: (a) leonessa che mastica cartilagine e tendini (Giardino zoologico di Duisburg); (b) e (c) gatti selvatici africani; masticazione sul lato sinistro; orecchio sinistro più appiattito di quello destro; in (c), sovrapposizione di espressioni difensive (Zoo di Francoforte).
sa e di presa effettuata con i canini, le orecchie vengono sempre più o meno ruotate all'esterno e appiattite fino a formare una sola linea con la sommità della testa (fig. 7.4 a). Nel caso della masticazione laterale, spesso è solamente l'orecchio del lato coinvolto ad appiattirsi, mentre l'altro si mantiene più o meno eretto (fig. 7.4 b, c). Movimenti mimici da un solo lato del muso sono frequenti nei felini anche in altri contesti. La coordinazione tra morso e inclinazione della testa interviene solo quando il cibo viene smembrato o masticato, ma non quando la preda viene addentata con i canini per essere uccisa o trascinata. I due moduli comportamentali si basano sull'attivazione di diverse combinazioni di muscoli masticatori innervati. Secondo le ricerche di Becht (1953), la mandibola dei felini non è affatto così saldamente ancorata all'articolazione da permettere di per sé ai carnassiali di praticare tagli n etti; se la mandibola fosse strutturata in questo modo, rischierebbe facilmente di bloccarsi quando dovesse tranciare
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un pezzo di carne anche sottile, ma ricco di tendini e resistente, e ciò avrebbe ovviamente conseguenze catastrofiche per il predatore. Per questo, l'articolazione è dotata di un certo gioco (di circa 5 millimetri nella tigre). Il carnassiale superiore può quindi scivolare lateralmente rispetto al molare della mandibola, e recidere con forza solamente da un lato per volta; la salda presa delle superfici di taglio è assicurata da d u e muscoli masticatori, il massetere e lo pterigodeo, i quali, grazie alla loro particolare inserzione ossea e alla specializzazione che h a n n o raggiunto nei carnivori, soprattutto nei felini, sono in grado di spingere con forza l'arcata della mandibola verso l'alto e lateralmente rispetto alla mascella. Se un f r a m m e n t o di tendine r i m a n e impigliato nelle cuspidi dentarie, la stretta che serra le d u e superfici di taglio p u ò venire subito allentata. Poiché i d u e muscoli sono relativamente deboli e possono lavorare con forza solo per brevi periodi di tempo, i lati della masticazione si alternano spesso d u r a n t e il pasto con l'aiuto della lingua e di movimenti delle mascelle; i bocconi parzialmente masticati vengono spostati da un lato all'altro della bocca; simultaneamente, la testa viene ruotata verso il nuovo lato della masticazione. Spesso è necessario alternare più volte il lato della masticazione per poter staccare un boccone da u n a massa di carne e ingoiarlo, in genere con una scossa della testa. Prima di ritornare all'opera con i denti, il felino si lecca labbra e naso (fig. 7.3 a) e, in certi casi, lecca anche la preda, quindi la addenta con gli incisivi in u n a zona già in parte smembrata e la scuote un poco, fino a che n o n ha individuato il p u n t o adatto per staccare il boccone successivo. Spesso si aiuta con la ruvida lingua e con gli incisivi per r e c u p e r a r e pezzetti di carne rimasti attaccati alle ossa o per strappare via f r a m m e n t i di pelle t r o p p o d u r i per essere ingeriti. In questo modo, MI ha ripulito un ratto della pelle del dorso, dove il pelo è più lungo, a b b a n d o n a n d o l a poi a terra con la coda ancora attaccata. Tutti i carnivori terrestri a me noti praticano la masticazione da un lato. I viverridi, e in particolare le genette, cambiano lato più spesso dei felini, m e n t r e canidi e ursidi, che masticano in m o d o vero e proprio, possono utilizzare lo stesso lato molto più a lungo. I lievi movimenti laterali della mandibola, che di per sé non nuocciono alla masticazione, sono del tutto assenti negli ursidi, a causa della d i f f e r e n t e struttura della loro articolazione mandibolare. Il c o m p o r t a m e n t o consistente nello s m e m b r a r e la p r e d a ponendovi sopra e n t r a m b e le zampe anteriori per tenerla ferma, addentandola con canini e incisivi e tirando bruscamente la testa verso l'alto (« azione di s t r a p p o » ; fig. 7.5 a) si riscontra anche negli ursidi (Leyhausen, 1948), nei procionidi, nei canidi, almeno in alcuni
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mustelidi come il tasso (Eibl-Eibesfeldt, 1950 a), la volverina e il ghiottone, nelle iene e, tra i viverridi, per lo m e n o nello zibetto delle palme (Martin, 1929-30) e nella genetta. I felini di piccola taglia ricorrono alla stessa coordinazione motoria q u a n d o r i m u o v o n o le p i u m e (pp. 66, 78 sg.), ma di n o r m a n o n q u a n d o s t r a p p a n o pezzi dalla preda; solo i grandi felini talora s t r a p p a n o piccoli pezzi di carne in questo m o d o stando in posizione accovacciata e in tali casi essi n o n t e n g o n o f e r m a la p r e d a p r e m e n d o l a con le zampe contro il terreno, ma stringendola saldamente f r a le zampe, come già descritto (hg. 7.5 b). Anche q u a n d o il corpo della p r e d a , m e n t r e sta per essere lacerato, scivola sul terreno, solo poche specie di felini lo tratt e n g o n o con le zampe anteriori e, se lo f a n n o , non vi impeg n a n o molta energia. Molti animali s e m b r a n o essere del tutto privi di tale capacità. U n a volta, ed era già piuttosto cresciuto, M1 dovette darsi da fare p e r mezz'ora prima di riuscire ad add e n t a r e e f r a n t u m a r e la testa di un surmolotto che continuava a scivolargli via, e p e r tutto il t e m p o n o n fece uso delle zampe anteriori. H e r t e r e H e r t e r (1953) riferiscono di un'esperienza analoga con u n a puzzola « Raspar H a u s e r » che non tratteneva mai la p r e d a con le zampe q u a n d o mangiava. Le genette ric o r r o n o all'azione di strappo, ma relativamente di rado; esse preferiscono mangiare « al m o d o dei felini ». Anch'esse, quando m a n g i a n o a terra, r a r a m e n t e trattengono con le zampe anteriori un pezzo di carne che tenda a scivolare via, mentre q u a n d o m a n g i a n o accovacciate su un r a m o compiono prontam e n t e questo movimento se un boccone minaccia di cadere; è un ulteriore esempio di come, anche nei mammiferi, l'espressione di alcuni movimenti innati sia rigidamente legata alle circostanze. Ovviamente, la situazione è diversa q u a n d o un boccone è semplicemente difficile da a d d e n t a r e , o quando t e n d e a sfuggire alla presa per azione di u n a forza esterna, in questo caso la gravità. In circostanze analoghe, i felini si comp o r t a n o c o m e la genetta, che in genere, da un p u n t o di vista c o m p o r t a m e n t a l e , mi a p p a r e più vicina ai felini di qualunque altro viverride. Ciò nonostante, anche i felini di piccola taglia h a n n o sviluppato, a livello di sistema nervoso centrale, la coordinazione motoria relativa a questo movimento, con la differenza che la relativa soglia di induzione è molto elevata; tuttavia, gli esemplari di età avanzata, che h a n n o carnassiali t r o p p o consumati p e r riuscire ancora a lacerare la carne, spesso vi ricorrono (fig. 7.5 c) ( « c o m p o r t a m e n t o generico», nel senso di Haas, 1962, 1965; Leyhausen 1965 b). Q u a n d o trattengono la preda f r a le z a m p e anteriori nel m o d o sopra descritto per i grandi felini, p u ò accadere che, d o p o avere rimosso la testa, strappi-
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no la pelliccia rivoltandola all'indietro e ne asportino il contenuto con i denti. Si tratta di un c o m p o r t a m e n t o fortuito, benché, nel caso di una vecchia femmina di servai, fosse così frequente da apparirmi sistematico. W. Scheffel (comunicazione personale) ha osservato lo stesso c o m p o r t a m e n t o in un gatto dalla testa piatta (Prionailurus planiceps)-, tuttavia, i miei esemplari della stessa specie (due f e m m i n e e d u e maschi) non fanno nulla di simile, benché alcuni di essi siano molto vecchi. Come è riportato a p. 71, Lindemann ritiene che anche il gatto selvatico e u r o p e o strappi via la pelle delle sue p r e d e con gli artigli; forse lo h a n n o convinto osservazioni analoghe a quelle sopra riportate. Nella mia femmina di servai, il comportamento dello strappare scomparve intorno ai 19 anni di età, quando il cibo doveva ormai esserle o f f e r t o già tagliato in bocconi; probabilmente, quel che le rimaneva di incisivi e canini non era più sufficiente per strappare la pelle. Lo stesso si ripetè in seguito con il gatto piedi-neri della figura 7.5 c. Un gatto di Temminck si dimostrò invece totalmente incapace di adattarsi a scoiare le prede; q u a n d o i suoi carnassiali si rovinarono o caddero, tutte le carcasse di animali che gli venivano date in pasto dovevano essere tagliate a pezzi, o non avrebbe potuto cibarsene. Finora, gli unici felini di piccola taglia nei quali sono stato in grado di osservare l'azione di strappo come c o m p o r t a m e n t o normale e non come risultato della vecchiaia sono i gatti dalla testa piatta. Anche per altri versi, questa specie presenta u n a serie di peculiarità morfologiche e comportamentali, alcune delle quali devono essere considerate come tratti primitivi, altre come adattamenti a condizioni ecologiche inconsuete per un felino; nessuna di queste caratteristiche è stata finora studiata in dettaglio. Q u a n d o si cibano di animali di taglia non molto piccola, i felini esibiscono u n o schema motorio che finora non ho mai osservato in altri carnivori: d o p o essersi cibati dei quarti anteriori dell'animale fino alla cavità addominale, generalmente estraggono il tubo digerente e lo mangiano; spesso, ma non sempre, svuotano del loro contenuto lo stomaco e l'intestino tenue o, più spesso, l'intestino crasso. L'intestino viene premuto contro il palato e gli incisivi superiori dalla lingua, arrotolata in basso, quindi, viene fatto scorrere brevemente e l'operazione è ripetuta sul tratto successivo. Il contenuto cade o gocciola al suolo dall'estremità recisa. Si tratta di un comportamento che ho riscontrato in tutti i felini che ho potuto osservare, inclusi leoni e leopardi in libertà. Lo stomaco e l'intestino dei piccoli roditori, invece, per quanto annusati ripetutamente, di solito non vengono ingeriti. E possibile che ciò dipenda dal diverso stadio di digestione del contenuto.
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Le p r e d e di piccole dimensioni vengono nella maggior parte dei casi divorate interamente, a eccezione di piume, penne, pelo e f r a m m e n t i di ossa. Di d u e galline piuttosto grosse (si veda la fig. 2.4), gli unici residui lasciati dalla mia ondila furono, oltre alle penne, un becco e d u e f r a m m e n t i di femore. Sec o n d o L i n d e m a n n e Rieck (1953), di alcune pernici, gatti selvatici e u r o p e i h a n n o lasciato solamente le zampe, le p e n n e e parti del dorso; di alcuni surmolotti solo la pelliccia del dorso (come si è visto per M I , p. 86). Le linci (Lindemann, comunicazione personale) lasciano le zampe piumate del gallo cedrone, m e n t r e il mio servai rifiutava le teste di piccoli animali come topi e pulcini di non più di un giorno. Nel corso di numerosi esperimenti, i miei gatti domestici mangiavano al massimo metà dei merli morti, che quasi sempre rigurgitavano; lo stesso accadeva con la mia ondila. Di questo comportamento n o n so d a r e alcuna spiegazione. Ocelot e linci, d'altra parte, divorano invece i merli completamente. I miei gatti domestici h a n n o mangiato i corpi spennati di gufi, falchi, ghiandaie, picchi m u r a t o r i e un airone, lasciandone solo le ossa di maggiori dimensioni. H a n n o invece rifiutato una puzzola scoiata; l'ondila accettava anche questa. Una volpe scoiata non è stata toccata da M5 e da FI e probabilmente da F5, m e n t r e M3, M4, M8 e F4 se ne sono cibati a sazietà. Le abitudini alimentari di altre specie di felini sono state finora studiate in m o d o purt r o p p o insufficiente. Se non vengono disturbati d u r a n t e il pasto e se non sono eccessivamente affamati, i felini non mostrano né fretta né ingordigia, ma si concedono pause a intervalli e, alla fine, si puliscono accuratamente muso e zampe.
8. Fattori che inducono e dirigono il comportamento verso la preda Nello s t u d i o dei meccanismi scatenanti che inducono e dirig o n o il c o m p o r t a m e n t o dei felini verso la preda, vanno distinti a l m e n o q u a t t r o g r u p p i di stimoli chiave forniti dalla preda stessa. Si tratta di stimoli che: 1) i n d u c o n o e d i r i g o n o le azioni preliminari alla cattura della p r e d a ; 2) i n d u c o n o e d i r i g o n o la presa e il morso letale; 3) s t i m o l a n o l'ingestione del cibo; 4) d e t e r m i n a n o da quale p u n t o del corpo della preda il felino inizierà a m a n g i a r e . N o n esiste un « m o d e l l o » unitario di preda, nel senso che non esiste un unico meccanismo scatenante che reagisce a tutti gli stimoli c h e p r o v e n g o n o dalla p r e d a . La d o m a n d a che ci si pone, e c h e p e r il m o m e n t o n o n trova una piena risposta, è: a quali tipi di stimoli i felini reagiscono anche in assenza di esperienze specifiche p r e c e d e n t i e a quali rispondono invece solamente d o p o a v e r e acquisito tali esperienze? In altre parole, in ogni particolare circostanza è coinvolto un meccanismo scatenante i n n a t o , un meccanismo innato modificato dall'esperienza o un meccanismo scatenante acquisito (Schleidt, 1962)? Non esiste n e p p u r e alcun meccanismo scatenante innato che p o t r e b b e identificare u n a certa particolare specie di animali c o m e p r e d e p e r un felino. E ben noto, però, che i gatti domestici, siano essi giovani o vecchi, sono fortemente attratti da r u m o r i quali fruscii e s f r e g a m e n t i e da suoni striduli. È
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molto probabile che questi r u m o r i e suoni vengano registrati da un meccanismo scatenante innato acustico; questo, a sua volta, induce n o n il c o m p o r t a m e n t o predatorio vero e proprio, ma solo il c o m p o r t a m e n t o appetitivo. Il gatto si precipita più o m e n o d i r e t t a m e n t e verso la fonte dello stimolo, nello stesso t e m p o p e r l u s t r a n d o attentamente tutt'intorno con lo sguardo. L'accovacciarsi, l'avanzare furtivo e l'appostarsi iniziano solamente q u a n d o il felino vede qualcosa muoversi, o anche (se ha già acquisito u n a certa esperienza) q u a n d o vede la p r e d a che se ne sta immobile. Tuttavia, se raggiunge la fonte del suono, per esempio un mucchio di spazzatura, senza che nulla compaia all'esterno, spesso tasta all'intorno con movimenti di « pesca » della zampa (p. 37); a questo p u n t o , o aff e r r a la p r e d a con gli artigli e la tira fuori, o p p u r e la fa fuggire dal suo nascondiglio e le dà la caccia « a vista ». A differenza di altri carnivori, come la puzzola {Mustela putorius), il tasso (.Meles meles, Eibl-Eibesfeldt, 1950 a, 1955), il coati (Kaufm a n n , 1962; Leyhausen, 1954 a), o remigalo (Hemigalus derbyanus, Eisenberg e Leyhausen, 1972), che cacciano f r u g a n d o col naso, un felino di solito n o n avvicina il naso finché non ha visto che cosa sta p e r m o r d e r e (ma si veda p. 99). I giovani gatti domestici, allevati senza alcun contatto con piccoli animali di altre specie, d a p p r i m a considerano ogni altro animale come un « gatto c o m p a g n o » (pp. 216 sgg.). Se per esempio un topo viene posto insieme al gatto, n o n viene notato finché r i m a n e immobile. Se il topo si muove lentamente, verrà annusato; tuttavia, verrà inseguito e ghermito solo se corre via velocemente, q u a l u n q u e distanza esso percorra. O g n i oggetto non t r o p p o g r a n d e che si muova a terra rapidam e n t e induce i c o m p o r t a m e n t i p r o p r i della caccia e della catt u r a e lo stimolo raggiunge il massimo dell'intensità quando l'oggetto si allontana dal gatto o si sposta ad angolo retto rispetto ad esso. Q u a n d o , invece, l'oggetto si muove direttam e n t e verso il gatto, quest'ultimo, se è inesperto, diventa esitante, e se l'oggetto ha velocità elevata e dimensioni piuttosto g r a n d i p u ò addirittura a r r e t r a r e o fuggire. In tutti gli esperimenti condotti, il risultato è stato lo stesso, sia che l'oggetto fosse un topo che correva vicino o u n a zampa di coniglio trascinata da u n a cordicella o p p u r e u n a palla di carta fatta rotolare. Pertanto, il movimento e la direzione del movimento di un oggetto n o n t r o p p o g r a n d e sono gli unici fattori che scaten a n o in modo innato il c o m p o r t a m e n t o predatorio del gatto. A riprova di ciò, i gatti selvatici europei dell'età di 55 giorni osservati da L i n d e m a n n (1953) inseguivano un passero solam e n t e q u a n d o svolazzava qua e là, m e n t r e non davano segno di vederlo q u a n d o si posava e rimaneva fermo. « Orecchie
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gialle » passò a non più di 7 centimetri dal passero immobile, ignorandolo, ma lo a f f e r r ò p r o n t a m e n t e q u a n d o l'uccello si mosse. Parimenti, secondo Baege (1933), i cani inesperti inseguono solo gli oggetti che si allontanino r a p i d a m e n t e da loro. Lo stesso sembra valere per tutti i viverridi finora studiati (Ducker, 1957, 1962, 1965; Ewer, 1963; Leyhausen, 1965 b\ Eisenberg e Leyhausen, 1972). L'affermazione di Schmitt (1949) secondo cui alcuni gattini relativamente inesperti di prede, sulle prime, ignoravano gli uccelli, ma erano fortemente attratti dai topi, non può essere utilizzata perché l'autore non spiega come gli uccelli e i topi si stessero m u o v e n d o quando i gattini li videro la prima volta. Ho fatto anche uso di tre topolini meccanici, identici a topi veri per forma, dimensione e colore: u n o si muoveva rapidamente in linea retta, il secondo si muoveva più lentamente lungo una circonferenza di circa un metro e mezzo di diametro e il terzo, rivestito di velluto, si muoveva per brevi tratti in linea retta, si rotolava su se stesso, riprendeva a correre in u n a nuova direzione imprevedibile, si rotolava di nuovo su se stesso e così via. Diversi gatti domestici e la mia ondila, benché disturbati dal r u m o r e metallico prodotto dal meccanismo, si gettarono subito all'inseguimento del topolino che si muoveva in linea retta. Invece il topolino che si muoveva in circolo fu solo seguito nervosamente con gli occhi e tutt'al più toccato cautamente con u n a zampa, d o p o che la carica si era esaurita (fig. 8.1). Il topolino rivestito di velluto, sia a causa del moto irregolare che lo portava spesso in direzione dei gatti, sia per il rumore particolarmente forte del meccanismo, non sempre venne inseguito, mentre, in più di un'occasione, a p p e n a fermo fu fatto oggetto di violenti colpi di zampa e, in un caso, addirittura di un morso letale, inflitto dall'oncilla (cfr. fig. 1.9). Di norma, il morso letale è indotto solamente dalla zampa di un coniglio, o, m e n o f r e q u e n t e m e n t e , da altri oggetti sostitutivi, come piccole palle di carta bianca e stracci. In mia presenza, i gatti selvatici europei di Lindemann si precipitarono in modo del tutto « selvaggio » sugli stivali ornati di pelliccia di una visitatrice, mordendoli e tirandoli. Entrambi i topolini di metallo non ricoperto di velluto, perfino quello che si muoveva in linea retta inseguito con tanto zelo, venivano afferrati al massimo una volta, ma non morsi. Sembra quindi che, per i n d u r r e il morso letale, un oggettopreda debba avere una superficie rivestita di pelliccia o comunque di qualcosa che le dia un aspetto simile. Di tutti i felini che ho osservato, l'unico che non ha rispettato questa regola è stato Bueno, il margay (Leyhausen, 1965 b): la sua prima « preda » fu una bottiglia di acqua minerale vuota. Si avvicinò a questo oggetto sconosciuto con curiosità, ne a n n u s ò dappri-
Fig. 8.1. M3 dà piccoli colpi con la zampa al topolino meccanico che si muove in circolo.
ma la metà inferiore e poi, per annusare anche la parte superiore, vi si appoggiò contro sollevandosi sulle zampe posteriori. A questo punto la bottiglia cadde e, un attimo dopo, Bueno l'aveva già azzannata «alla nuca», cioè ne aveva addentato il collo poco sotto l'apertura (fig. 8.2 a). Quindi, le si gettò sopra con tutto il corpo (fig. 8.2 b), proprio come Muschi, l'ondila,
Fig. 8.2. Il margay Bueno e la bottiglia di acqua minerale. Per la spiega^ 10 ne si veda il testo.
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aveva fatto con il coniglio (cfr. fig. 4.1 è e c). All'età di sette-otto mesi, Bueno aveva avuto come compagna di giochi Bonita, una femmina di margay della sua stessa età (Leyhausen, 1963), ma gli mancava qualunque esperienza con p r e d e vive. Entrambi i felini e r a n o stati nutriti regolarmente e quasi esclusivamente di topi, ratti, cavie e pulcini, tutti già morti, fin dal momento in cui f u r o n o in grado di assumere cibi solidi. Naturalmente, u n a singola osservazione come questa non permette di trarre conclusioni generali come, per esempio, sostenere che solo d o p o avere fatto esperienza con p r e d e vive il morso letale venga esclusivamente riservato a oggetti con un rivestimento di pelliccia; o p p u r e , negare che l'esperienza di gioco, in particolare di caccia simulata della p r e d a con conspecifici della stessa età, abbia alcuna influenza sulla acquisizione di una tale capacità discriminativa; o p p u r e ancora, affermare che felini esperti non si comporterebbero mai nello stesso modo in ogni circostanza. Il fatto che anche gatti molto esperti di p r e d e siano stati attratti dal topolino rivestito di velluto suggerisce, comunque, che la funzione svolta dall'esperienza sia piuttosto limitata. Come dimostrano gli esperimenti con i topolini meccanici, l'osservazione di L i n d e m a n n relativa a un gatto selvatico che camminava vicino a un passero immobile e le n u m e r o s e osservazioni da me effettuate su gatti inesperti che annusavano un topo immobile senza attaccarlo, l'odore della p r e d a non sembra rappresentare un fattore primario nell'indurre il comportamento di cattura e uccisione. A differenza dei canidi e dei mustelidi, i felini non sono in grado di seguire con l'olfatto le tracce chimiche volatili delle prede. Se si esclude la componente relativa al c o m p o r t a m e n t o sessuale e alla ingestione del cibo, nei felini la percezione olfattiva riveste un'importanza secondaria (Leyhausen, 1953; si veda p. 98). Tuttavia, sembra che i gatti con esperienza di p r e d e si orientino con il fiuto lungo le « piste di topo» (Eibl-Eibesfeldt, 1950 b), marcate con il pungente odore di urina che i topi lasciano dietro di sé spostandosi avanti e indietro dalle loro tane. Per contrasto, gli accurati esperimenti di Ràber (1944) indicano che la martora, a differenza dei felini, prima di attaccare e azzannare la p r e d a deve percepirne l'odore; nel caso di un oggetto sostitutivo che non abbia l'odore di una p r e d a viva, essa gli si avvicina con movimenti furtivi, ma, per quanto si disponga a balzargli addosso, di fatto non lo attacca mai. Secondo Morris (1929-30), neppure tigri e leopardi possono fare particolare affidamento sull'odorato per individuare le tracce di una preda e seguirla. I felini non d a n n o segni di reagire alla presenza di uova, benché, in genere, ne lecchino volentieri il contenuto. In que-
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sto, si differenziano da molti altri predatori, come la martora e la puzzola (Ràber, 1944), il cusimanse (Crossarchus, Naund o r f , 1936), la lontra (Lutra lutra, von Sanden, 1939) e forse l'orso (Leyhausen, 1948) - anche la mangusta delle paludi per a p r i r e le noci utilizzava probabilmente un movimento istintivo originariamente evolutosi per r o m p e r e uova e chiocciole (Steinbacher, 1938-39). Inoltre, a quanto mi risulta, nessun felino è mai stato descritto come ladro di uova. C o m e in precedenza illustrato, q u a n d o la p r e d a viene avvicinata in m o d o rapido, il morso letale raggiunge l'obiettivo grazie alla coordinazione, a livello di sistema nervoso centrale, con il movimento della zampa che colpisce e a f f e r r a la preda. Tuttavia, la presa della zampa, la stretta dei denti q u a n d o la p r e d a viene sollevata per essere trascinata via e persino lo stesso morso letale in condizioni di maggiore tranquillità sono guidati da stimoli visivi. Il fattore determinante è la netta distinzione del corpo della p r e d a in testa e tronco; ne è una riprova il fatto che, su soggetti di f o r m a indefinita, la presa è indiscriminata. Gli esperimenti descritti avevano lo scopo sia di f a r luce su questo p u n t o sia di chiarire se gli stimoli che orientano la presa siano gli stessi che inducono a consumare la preda iniziando dalla testa. D o p o aver praticato un'incisione sul collo di ratti subadulti da poco uccisi, ne ho interamente rimosso pelle e pelliccia. Nella metà dei casi, la coda è rimasta attaccata al corpo, nell'altra metà, alla pelliccia. Ad alcune carcasse ho tagliato via anche la testa e alla metà delle teste non tagliate ho tolto la pelle. Infine, ho riempito le pelli di carne e le ho ricucite in forma di « salsicce » ; solo in alcuni casi le zampe e r a n o visibili esternamente. Ad alcune delle pelli senza coda ho cucito una testa in corrispondenza di quella che era l'estremità posteriore. In questo m o d o , ho a p p r o n t a t o cinque zimbelli per ogni combinazione, per un totale di 60 zimbelli (tab. 8.1). Gli zimbelli sono stati presentati ad alcuni gatti domestici e all'ondila (fig. 8.3), o t t e n e n d o i seguenti risultati: 1) tutti gli zimbelli provvisti di testa venivano t r a s p o r t a t i d o p o essere stati afferrati alla nuca, anche se la testa era c u c i t a all'estremità posteriore; 2) tutti gli zimbelli privi di testa venivano afferrati in modo indiscriminato: all'estremità anteriore, a quella posteriore, o al centro; 3) tutti gli zimbelli con corpo privo di pelliccia, ma con la testa rivestita di pelliccia, venivano consumati a partire dalla testa. Dopo che la testa era stata divorata interamente, il pasto veniva brevemente interrotto; in 6 casi è stato poi ripreso iniziando dall'estremità posteriore;
Tab. 8.1
Caratteristiche degli zimbelli
Corpi privi di pelliccia Senza testa né coda
Numero di zimbelli 5
« Salsicce » di pelliccia Senza testa né coda zampe ripiegate all'interno zampe visibili all'esterno
5 5
5 5 5 5
Con testa ma senza coda testa di pelliccia testa senza pelle
5 5
Con coda ma senza testa
5
Testa all'estremità posteriore, senza coda zampe ripiegate all'interno zampe visibili all'esterno
Con testa e coda testa di pelliccia testa senza pelle
5 5
Con coda ma senza testa zampe ripiegate all'interno zampe visibili all'esterno
Totale
30
Numero di zimbelli
Totale
Fig. 8.3. (a) Zimbelli rivestiti di pelliccia con la testa cucita alla estremità posteriore; (b) l'ondila cattura uno zimbello prendendolo per la « nuca » e trascinandolo in giro; (c) comincia a mangiare lo zimbello partendo correttamente dall'estremità anteriore; (d) per confronto, mentre comincia a mangiare un ratto bianco che ha appena ucciso; (e) comincia a mangiare uno zimbello privo di testa e di pelliccia a partire dai testicoli.
30
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4) nel caso degli zimbelli privi di pelliccia, con testa anch'essa priva di pelliccia, o p p u r e privi di testa, il pasto iniziava in un p u n t o qualunque, spesso a una estremità; 5) senza eccezione, tutti gli zimbelli provvisti di pelliccia, con o senza testa, venivano consumati a partire dalla estremità anteriore, anche se la testa era stata cucita alla estremità posteriore. In tutti i casi, la presenza o l'assenza di coda e zampe non sembra avere avuto alcuna influenza decisiva sulle scelte prima elencate. I risultati degli esperimenti suggeriscono tre possibili conclusioni: 1) la presa per il trasporto della p r e d a e probabilmente anche il morso letale sono guidati da stimoli visivi e dipendono unicamente dalla presenza di una testa distintamente separata dal resto del corpo; altre appendici applicate al corpo non h a n n o alcuna importanza - i risultati degli esperimenti di Ràber con i gufi (1949) sono qui contrastanti - e il morso non dip e n d e da stimoli olfattivi, quelli per esempio provenienti dalla regione anale, perché, altrimenti, gli zimbelli senza testa e privi di pelliccia sarebbero stati afferrati anch'essi all'estremità anteriore e non in p u n t o qualsiasi; 2) il felino, q u a n d o smembra e consuma u n a preda, non si orienta sulla base di stimoli visivi; infatti, nel caso degli zimbelli ricoperti di pelliccia con la testa cucita all'estremità posteriore, esso comincia a mangiare dall'estremità anteriore, mentre, nel caso di un corpo con la testa, comincia dall'estremità anteriore solamente se la testa è provvista di pelliccia. In ogni caso, ai fini di orientare visivamente il felino nell'afferrare la p r e d a per trasportarla, anche una testa scuoiata è u n o stimolo visivo sufficiente. Infine, la perdita di orientamento che si verifica d o p o che la testa ricoperta di pelliccia è stata divorata rafforza l'ipotesi che in questo caso l'orientamento sia dovuto non a stimoli visivi, ma a qualche altro attributo della pelliccia. Inoltre, d o p o che la testa è stata consumata, gli zimbelli provvisti di pelliccia continuano a essere divorati p a r t e n d o dall'estremità anteriore e p r o c e d e n d o verso quella posteriore; 3) si p u ò escludere che stimoli olfattivi e gustativi determinino quale parte del corpo della p r e d a viene consumata per prima; se così fosse, la testa rivestita di pelliccia avrebbe influenzato il c o m p o r t a m e n t o del felino anche q u a n d o era cucita all'estremità posteriore dello zimbello. Se, quindi, si escludono sia gli stimoli visivi, sia quelli o l f a t t i vi, sia quelli gustativi come fattori che d e t e r m i n a n o in quale m o d o un felino smembra la p r e d a e da quale parte inizia a consumarla, sembra probabile considerare come r e s p o n s a b i l i gli stimoli tattili. In effetti, le riprese filmate mostrano che,
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prima di cominciare il pasto e d o p o ogni pausa d u r a n t e il pasto, il felino sfiora la p r e d a con il naso r i p e t u t a m e n t e e rapidamente: è probabile che, in questo modo, le sue vibrisse protese rilevino l ' a n d a m e n t o del pelo. Questa ipotesi spiegherebbe anche perché, in alcuni casi, gli uccelli vengono divorati iniziando dalle articolazioni delle ali, come mi è capitato di osservare più volte in gatti domestici, u n a volta in un caracal e u n a volta in un g h e p a r d o . Ewer (1968, 1969) riporta che lo stesso è accaduto in esperimenti compiuti con un viverride (il cusimanse, Crossarchus obscurus) e con d u e marsupiali carnivori (il dasiuro, Dasycercus cristicauda, e il diavolo orsino, Sarcophilus Harrisii). Tuttavia ciò n o n è sufficiente per concludere che il comportamento dei carnivori marsupiali e placentati sia omologo. Il verso delle p e n n e o del pelo negli animali a sangue caldo fornisce u n a guida all'orientamento sul loro corpo: non appare quindi strano che, in animali a p p a r t e n e n t i a n u m e r o s e classi, si siano evoluti moduli comportamentali per tastare la preda. Secondo Lorenz (comunicazione personale), anche i pitoni tastano, ovviamente con la lingua, le p r e d e a p p e n a uccise, prima di localizzarne la testa e iniziare da qui a ingoiare il resto del corpo; inoltre, possono incorrere nello stesso e r r o r e dei mammiferi carnivori, cominciando a ingoiare, p e r esempio, un'oca a partire dalle articolazioni alari. La ragione sta nel fatto che le articolazioni alari, oltre alla testa, sono gli unici punti del corpo dove tutte le p e n n e « p u n t a n o » all'indietro. Esperimenti analoghi a quelli sopra descritti f u r o n o condotti da G r e e n e (1976) sul serpente corallo e sul cobra reale, che si cibano di altri serpenti e di lucertole. Anch'essi ingoiano sempre la p r e d a a partire dalla testa, ed è il m o d o in cui le scaglie sono disposte sul corpo, come tegole su un tetto, che suggerisce l'orientamento. Naturalmente, q u a n t o è stato detto fin qui sul m o d o di orientarsi sul corpo di u n a p r e d a si riferisce solamente a un felino in possesso di tutte le capacità sensoriali. Ciò non significa che in un felino il meccanismo di localizzazione p e r il morso letale sia solo visivo, m e n t r e quello che guida il morso durante il pasto sia solo tattile. È noto che i felini riescono a cacciare anche nell'oscurità e possono catturare un topo anche q u a n d o sia nascosto sotto un letto di foglie in un bosco. Un gatto del Bengala, cieco da un occhio, poteva servirsi solo dell'occhio sano per individuare la p r e d a a distanza, ma la catturava con assoluta perizia anche q u a n d o essa, avvicinandosi, si spostava dalla parte dell'occhio cieco. Gottschaldt mi ha dimostrato per mezzo di filmati che un gatto bendato è in g r a d o di localizzare r a p i d a m e n t e un topo su un tavolo e, non a p p e n a lo lia toccato con le vibrisse, di a f f e r r a r l o con un morso alla nuca
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preciso e f u l m i n e o , e n t r o un decimo di secondo dal momento del contatto, secondo le misurazioni dell'autore. Se le vibrisse vengono asportate questa capacità non risulta compromessa, q u a n d o l'animale possa ancora servirsi della vista; tuttavia, se a questo p u n t o il gatto viene bendato, non riesce a localizzare la p r e d a e, a n c h e se casualmente la tocca con il naso, l'azzanna, ma, n o n essendo in g r a d o di trovare la nuca, m o r d e qualunque p a r t e del corpo gli si presenti. Anche se si deve ritenere che, al buio o q u a n d o siano stati bendati, i gatti localizzino la p r e d a con l'udito prima ancora di intercettarla con le vibrisse, è un fatto notevole che essi p e r d a n o tale capacità se vengono privati delle vibrisse. Gottschaldt e Young (1977 a, b) e Schultz, Galbraith, Gottschaldt e C r e u t z f e l d t (1976) h a n n o studiato le funzioni dei recettori presenti nei follicoli delle vibrisse, delle fibre afferenti che p o r t a n o al nucleo trigemino e alla corteccia sensoriale e dei n e u r o n i con i quali queste stesse fibre f o r m a n o sinapsi. I risultati delle loro ricerche h a n n o dimostrato l'esistenza di quattro diversi tipi di recettori e di un complesso meccanismo per valutare gli impulsi, conseguenti alla stimolazione, che i recettori trasmettono ai nuclei della corteccia sensoriale e somatosensoriale. Tali recettori p e r m e t t o n o al felino di percepire il grado, la direzione, la velocità, la d u r a t a e qualsiasi ritmicità della deviazione di una vibrissa rispetto alla sua posizione normale e di localizzare il p u n t o del labbro superiore in cui è situata la vibrissa o sono situate le vibrisse stimolate. In questo m o d o il gatto è in g r a d o n o n solo di rilevare il verso del pelo sul c o r p o della p r e d a , ma anche di controllarne i movimenti q u a n d o la trattiene d o p o averla catturata, o q u a n d o già l'ha ghermita tra le fauci, come è stato descritto a p. 50. Anche in questo caso il t e m p o necessario per la trasmissione degli impulsi sensoriali e motori è e s t r e m a m e n t e breve, paragonabile a q u a n t o avviene nel meccanismo motorio del morso letale coordinato con i recettori situati nella polpa dei canini (si veda p. 55): c o m e conseguenza, il gatto p u ò seguire con la testa anche i più veloci movimenti della preda. I ricercatori prima citati h a n n o ulteriormente stabilito che, anche q u a n d o l'intensità dello stimolo è costante, l'eccitazione che p u ò essere registrata a livello di sistema nervoso centrale p u ò variare considerevolmente. Ne h a n n o concluso che il gatto sarebbe in g r a d o di attivare e disattivare a volontà il p r o p r i o a p p a r a t o sensoriale. Se la loro ipotesi è corretta, u n a spiegazione probabile è che tale capacità d i p e n d a dalla p o s s i b i l i t à che ha il gatto di modificare volontariamente la posizione delle vibrisse nel corso dell'esplorazione di oggetti e q u a n d o la sua attenzione venga stimolata (Leyhausen, 1953, p. 30). Ciò e in b u o n accordo con gli studi di Flynn e collaboratori ( B a n d -
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ler e Flynn, 1972; Flynn, 1969, 1972; Flynn, Edwards e Bandler, 1971), che h a n n o scoperto d u e distinte aree sensoriali sulle labbra dei felini: la zona dove sono situati i follicoli delle vibrisse e il margine del labbro superiore e del labbro inferiore. Stimolando la prima, si induce il gatto a r u o t a r e la testa verso il lato stimolato e ad aprire la bocca; stimolando il margine delle labbra, lo si induce a serrare le mascelle. C o m u n q u e , entrambi i riflessi e n t r a n o in funzione solo se viene contemporaneamente praticata una stimolazione elettrica dell'area ipotalamica, a partire dalla quale p u ò essere indotto il comportamento predatorio. Come previsto, la reazione è più intensa nella parte controlaterale. Lo stesso vale per i movimenti laterali con una zampa, come quelli che il gatto compie q u a n d o «gioca alla caccia» (p. 166). In concomitanza con l'elettrostimolazione ipotalamica, la risposta motoria p u ò essere indotta da stimoli visivi o, se il gatto è bendato, da stimoli tattili applicati sul lato interno della zampa, e di nuovo la reazione più intensa è controlaterale. L'elettrostimolazione ipotalamica provoca anche modificazioni specifiche diverse, a seconda del locus stimolato, nelle risposte di vari elementi cellulari della corteccia ottica a u n o stesso stimolo visivo (Vanegas, Foote e Flynn, 1969-70). Nel complesso, questi risultati c o n f e r m a n o ancora una volta fino a che p u n t o gli stati motivazionali a livello di sistema nervoso centrale determinino la rapidità e le modalità di risposta dei sistemi sensoriali, dalla corteccia fino alle singole cellule di recettori; e, inoltre, quanto sia strettamente integrato il « manto di riflessi » (von Holst, 1936) associato con gli schemi motori coordinati a livello di sistema nervoso centrale e che agisce come fattore di regolazione e come t a m p o n e tra essi e gli elementi di dettaglio delle varie situazioni. Flynn (1972), tuttavia, se da un lato p r e n d e atto che questi risultati contraddicono i concetti di « movimento istintivo » e di « modulo fisso di azione», poiché i riflessi e le azioni componenti da lui analizzati possono anche essere indotti singolarmente al di fuori del contesto di una sequenza fissa, dall'altro fraintende il significato di questi concetti (cfr. pp. 185 sgg.). Quanto al meccanismo che suscita i movimenti istintivi connessi con l'attività di consumazione del cibo (mordere, masticare, ingoiare), si può dire poco. Alcune osservazioni condotte su un gattino cieco che sembrava mancante del senso dell'olfatto (Leyhausen, 1953) mi h a n n o portato a s u p p o r r e che il consumo attivo di cibo, cioè il decidere se un oggetto sarà mangiato o p p u r e no, d i p e n d a da stimoli olfattivi, e che la masticazione e la deglutizione siano indotte da stimoli gustativi e (forse) tattili.
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La tabella 8.2 riassume q u a n t o è finora noto sugli stimoli chiave che i n d u c o n o i sette aspetti del c o m p o r t a m e n t o predatorio discussi in precedenza. Oltre a questi stimoli, che inducono e regolano il comportam e n t o in m o d o innato, ne esistono altri ai quali i felini impar a n o a reagire sulla base delle proprie esperienze individuali. Il fatto di indirizzare il morso letale preferenzialmente alla nuca o, in alternativa, alla gola d i p e n d e in una certa misura dall'esperienza e spesso la scelta in u n o stesso individuo varia in f u n z i o n e del tipo di p r e d a (si vedano pp. 147 sgg.). Il felino Tab. 8.2.
Stimoli chiave
Sfera sensoriale
Stimoli chiave
Attività indotta
Udito
Fruscii, sfregamenti, squittii di richiamo
Comportamento predatorio
Vista
Oggetto non troppo grande che si muove accanto o allontanandosi
Avvicinamento alla preda
Tatto
Superficie dell'oggetto catturato somigliante a copertura di pelo
Morso letale
Vista
Forma con corpo e testa riconoscibili dell'oggetto preda
Tassie di afferrare, uccidere, prendere per trascinare attorno
Odorato (forse)
Non noti
Lacerare
Gusto (forse) e/o tatto
Non noti
Masticare e inghiottire
Tatto
Stimolazione delle vibrisse per il verso del pelo della preda
Tassie di lacerare e mangiare
deve i m p a r a r e a riconoscere come p r e d a anche gli animali immobili e, in generale, a discernere quali animali possono essere considerati p r e d e , così come deve i m p a r a r e a distinguere quali v a n n o trattati come conspecifici e quali come principali nemici (si vedano pp. 216 sgg.). I felini probabilmente impar a n o anche a riconoscere e, almeno in parte, a interpretare le vocalizzazioni specie-specifiche delle specie di p r e d e che sono presenti in b u o n n u m e r o nel loro biotopo. Fino a che p u n t o q u a n t o vi è di innato e q u a n t o vi è di appreso siano capillarmente interconnessi viene messo in U' c e dagli esperimenti di Roberts e Bergquist (1968). Essi a l l e v a r o no in isolamento undici felini, dai 5 giorni di età in poi. Nelle loro gabbie di dimensioni ridotte, gli unici oggetti mobili erano costituiti da pezzetti di cibo, piatti di carta, stracci u t i l i z z a t i
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per rivestire le cassette nelle quali dormivano e la loro stessa coda. Q u a n d o e r a n o giovani, li si osservava talvolta, anche se relativamente di rado, giocare con tutti questi «oggetti». Divenuti adulti, gli animali f u r o n o sottoposti a esperimenti di elettrostimolazione mirata a i n d u r r e il c o m p o r t a m e n t o predatorio; allo stesso trattamento f u r o n o assoggettati dieci gatti di controllo, all'incirca della stessa età dei soggetti sperimentali, che erano stati allevati in condizioni normali. P u r t r o p p o , gli autori non precisano se i soggetti di controllo avessero già avuto esperienze con prede. Nella situazione sperimentale, né questi ultimi né i soggetti in isolamento attaccavano spontaneamente i ratti, ma sia gli uni che gli altri lo facevano sotto elettrostimolazione. Tutti, d a p p r i m a , tentavano di g h e r m i r e il ratto con un morso alla nuca e ne sopraffacevano ogni resistenza come in una « normale » sequenza di caccia (si vedano pp. 48 sg., 107). Gli esperimenti f u r o n o filmati, e, per q u a n t o riguarda gli aspetti formali degli schemi comportamentali, l'analisi successiva non rivelò alcuna differenza tra i soggetti isolati e quelli di controllo. Tuttavia, rispetto ai soggetti sperimentali, gli animali di controllo dimostrarono: a) maggiore decisione e tenacia, specie q u a n d o il ratto opponeva resistenza; b) più precisione nell'orientazione dei morsi (cfr. pp. 38 sg., 126, 382); c) maggiore reticenza q u a n d o il ratto fu sostituito con una spugna di plastica: essi, infatti, attaccavano l'oggetto solo d o p o lunga esitazione e con minor convinzione, mentre i soggetti sperimentali attaccavano la spugna con u n a violenza caso mai maggiore di quella dimostrata con i ratti, anche se questa conclusione non è statisticamente affidabile a causa del metodo di valutazione impiegato dagli autori. I risultati ottenuti potrebbero essere spiegati semplicemente assumendo che, di f r o n t e a un ratto vivo, i gatti cresciuti in isolamento si comportavano con minore sicurezza dei gatti di controllo, i quali avevano dopotutto sperimentato il contatto diretto non solo visivo, ma anche tattile, almeno con altri gatti (p. 123). Tuttavia, gli animali sperimentali elettrostimolati non davano segno di voler attaccare di preferenza gli oggetti che erano loro già noti, come ci si dovrebbe attendere nell'ipotesi che gli oggetti che inducono il c o m p o r t a m e n t o predatorio debbano essere riconosciuti esclusivamente sulla base di u n a scelta « condizionata » dallo stimolo. Solo un animale diede, di passaggio, un veloce morso al piatto del cibo e tre addentarono frettolosamente un pezzetto di cibo. Solamente il ratto e la spugna indussero un c o m p o r t a m e n t o predatorio appropriato. D'altro canto, non si p u ò assumere che un oggetto insolito e non particolarmente minaccioso venga attaccato di preferenza rispetto a un oggetto familiare, anche se non lo si p u ò
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escludere in linea di principio. Di fatto, è praticamente impossibile i n d u r r e per elettrostimolazione un gatto esperto ad attaccare u n a spugna o p p u r e un animale impagliato, per quanto somigliante a u n a p r e d a viva, e ciò sta a significare che un gatto esperto possiede capacità di discriminazione migliori di quelle dimostrate negli esperimenti sopra descritti dai soggetti di controllo. La differenza rilevata tra soggetti sperimentali e soggetti di controllo in relazione alla violenza e alla tenacia manifestate nel m o d o di c o n d u r r e l'attacco potrebbe anche dipendere, almeno in parte, dal diverso g r a d o di motivazione e non ricollegarsi semplicemente al maggior effetto intimidatorio esercitato dagli oggetti f u n g e n t i da p r e d a sugli animali allevati in condizioni di isolamento (si veda p. 130). Tuttavia, il fattore che svolge il ruolo principale nel soddisfare l'appetenza per la p r e d a è il ricordo del luogo. Come ho già sottolineato altrove (Leyhausen, 1953), i felini possiedono per i luoghi u n a memoria eccezionalmente sviluppata e dopo una sola esperienza positiva essi, spesso e ripetutamente, sap r a n n o ritrovare, con straordinaria precisione, un certo angolo di una stanza, o un p u n t o particolare in un territorio, per controllare «se c'è ancora qualcosa», anche d o p o settimane che non vi mettono piede.
9. Le prede del gatto domestico I gatti domestici, p u r essendo teoricamente in grado di catturare qualunque animale di dimensioni non superiori alle proprie, in generale si limitano a prede non più grandi di ratti o piccioni. Catturano e mangiano avidamente insetti delle dimensioni minime di una mosca; alcuni si saziano di cavallette (Hochstrasser, 1970 e anche p. 36). I maggiolini (Melolontha vulgaris) vengono di solito cacciati solamente da gatti inesperti: infatti, tendono ad appiccicarsi ai denti e alle zampe, per cui non è facile liberarsene ed è per questo che, dopo i primi tentativi, vengono ignorati. Rane e rospi vengono catturati per gioco; le rane vengono spesso uccise e qualche volta mangiate, così come accade a lucertole e serpenti. Secondo Hornung (1940), i gatti domestici cacciano anche gli scoiattoli non appena questi scendono a terra. I miei gatti h a n n o ucciso e per metà divorato un ghiro che era finito di notte nella loro gabbia, ma per contro F5 non ha n e p p u r e sfiorato un ghiro nato da poco, benché appena prima avesse catturato e mangiato un topo. In zone rurali, i gatti cacciano spesso i piccoli di coniglio selvatico; io stesso ho visto più di una volta un gatto ritornare con una puzzola o un ermellino appena uccisi. In un episodio, un gatto uccise, dopo una lunga lotta, una martora che era riuscita a penetrare dentro un pollaio. Vengono cacciati anche topiragno e talpe, ma in genere, dopo il primo morso, sono lasciati andare; solamente in casi eccezionali vengono divorati (Kirk, 1967, 1969). Il gatto selvatico europeo si comporta allo stesso modo con questi piccoli insettivori (Sia-
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dek, 1970). L'elenco degli animali predati comprende a n c h e uccelli di tutte le specie; tuttavia, le p r e d e preferite r i m a n g o no topi e ratti. Secondo Schwangart (1932, 1933, 1937), e diversamente da q u a n t o sostiene Loir (1930), l'abilità di un gatto come cacciatore di ratti d i p e n d e non tanto dalle sue d i m e n sioni e dalla sua forza fisica (in questo senso, un gatto piccolo e debole p u ò s o p r a f f a r e a n c h e il più grosso dei ratti), q u a n t o dal suo « t e m p e r a m e n t o » e dal suo «spirito combattivo». Questo è senz'altro vero, e d i p e n d e dalla speciale n a t u r a degli stimoli chiave che i n d u c o n o il comportamento p r e d a t o r i o (pp. 91 sgg.) e dal m o d o in cui il ratto reagisce all'attacco. Quest'ultimo, a m e n o che n o n sia colto completamente di sorpresa e venga a f f e r r a t o al collo con tanta rapidità da n o n potere schivare l'attacco, si rivolta contro l'aggressore, e con squittii acuti e minacciosi gli salta addosso, cercando in g e n e r e di raggiungerne il m u s o (Eibl-Eibesfeldt, 1952; fig. 9.1). Q u e s t o è troppo per il felino, che a r r e t r a e scappa via. Perfino i cacciatori più agguerriti si limitano di solito a ratti subadulti, che non h a n n o ancora i m p a r a t o a passare dalla difesa all'attacco, come f a n n o gli adulti. E i m p o r t a n t e anche quanto il gatto si sia spinto avanti nella sua azione q u a n d o il ratto passa al contrattacco. Se il gatto sta ancora appostato, o p p u r e si sta avvicin a n d o o sta a n n u s a n d o p r u d e n t e m e n t e , il più delle volte si ritirerà, per q u a n t o abile cacciatore sia. Invece, il contrattacco del ratto avrà assai m e n o probabilità di successo se il gatto è già sul p u n t o di catturarlo e ucciderlo.
Fig. 9.1.
Un ratto contrattacca M3, che arretra.
Le prede del gatto domestico
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Pochi gatti domestici sono in grado di sostenere un combattimento con un surmolotto adulto che contrattacchi, e anche quelli che lo f a n n o reagiscono inizialmente con un comportam e n t o difensivo. A r r e t r a n o un poco, ritirano la testa f r a le spalle, appiattiscono le orecchie, si siedono sulle zampe posteriori ben divaricate e cercano di colpire il ratto con le zampe anteriori alternativamente. In tutti i felini, un colpo inflitto con u n a delle zampe anteriori ha un significato difensivo, anche q u a n d o , per un sovrapporsi di disposizioni interne contrastanti (pp. 250 sgg.), si manifesta d u r a n t e un attacco. Si tratta di un'azione diversa dal movimento in avanti delle zampe d u r a n t e la cattura della p r e d a che, come descritto in precedenza, è u n a rapida presa orientata parallelamente all'asse longitudinale del corpo. Invece, nel colpo dato con la zampa quest'ultima viene allungata lateralmente e il movimento è diretto obliquamente dall'alto in basso. Un ratto n o n p u ò sosten e r e a lungo u n a serie di colpi violenti, impartiti in rapida successione: o crolla sfinito, o p p u r e cerca di fuggire ed è proprio allora che il gatto gli si fa sopra e lo azzanna alla nuca. Il ratto n o n ha allora più alcuna speranza di fuggire. Voglio tuttavia sottolineare ancora una volta che, per quanto rientra nella mia esperienza, i gatti domestici capaci di sostenere fino alla fine un combattimento con un ratto adulto sono davvero rari. In u n a occasione, la mia f e m m i n a di ondila si è comportata del tutto diversamente (pp. 48 sg.): ogni volta che il ratto contrattaccava, lo evitava, si tirava indietro, attendeva un po', quindi tentava un nuovo attacco a sorpresa, cercando di mord e r e il roditore in m o d o frettoloso e, a quanto mi pareva, impreciso, e balzando subito indietro. Questa manovra è stata ripetuta fino a q u a n d o il ratto, sfinito, ha cessato di o p p o r r e resistenza ed è stato ucciso. Secondo H o r n u n g (1943), questa tecnica, che naturalmente p u ò c o n d u r r e al successo solamente se la p r e d a non riesce a trovare un rifugio, è stata usata anche da un gatto domestico alle prese con u n a donnola. In ogni caso, la cattura a p p e n a descritta di un mustelide di grandi dimensioni da parte di un felino costituisce una eccezione molto rara. Il gatto domestico è «utile» o « d a n n o s o » ? È u n a disputa, questa, che p u r t r o p p o viene il più delle volte a f f r o n t a t a emotivamente e con pregiudizi, anziché sulla scorta di un bagaglio di conoscenze specifiche e animati da spirito di obiettività. Alcuni sono convinti che il gatto sia un pericolo per le nostre popolazioni di piccoli uccelli e che ogni gatto randagio che capiti in u n a riserva di caccia debba essere eliminato. In Germania, Schwangart (1937) è andato p e r o r a n d o infaticabilmente la
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causa dei gatti per decenni e non posso che essere d'accordo con lui. Negli anni 1947-48, per esempio, f r a le rovine della città vecchia di Friburgo, i codirossi si sono moltiplicati considerevolmente malgrado l'abbondanza di gatti randagi vaganti tra le case bombardate; e p p u r e questa specie di uccelli spesso costruisce i nidi in posizioni facilmente accessibili. Sinora, a favore del gatto sono stati addotti solo argomenti indiretti. Un assai forte a r g o m e n t o diretto è o f f e r t o dal metodo di caccia segnalato a pp. 34 sg., che è decisamente poco favorevole al successo nella caccia agli uccelli. All'inizio tutti i gatti cacciano uccelli e roditori con lo stesso zelo e chiaramente molti di essi preferiscono cibarsi di uccelli; ma questi non sono così facili da catturare e, per questa ragione, con l'aumentare dell'esperienza la maggior parte dei gatti presto smette di dare loro la caccia. E vero, tuttavia, che a causa della quasi totale assenza di roditori nei territori urbani i nostri gatti di città sono spesso costretti a concentrarsi sulla caccia agli uccelli per potere sfogare i p r o p r i istinti di caccia repressi. Anche in queste condizioni, c o m u n q u e , i gatti non sono in g r a d o di mettere seriam e n t e in pericolo la popolazione di uccelli canori di un'area significativamente estesa. Gli individui che vengono predati sono quasi sempre vecchi, malati o giovani. T r e quarti degli esemplari giovani sono c o m u n q u e destinati a morire, poiché le dimensioni delle popolazioni in u n a data area tendono a rim a n e r e m e d i a m e n t e costanti negli anni. Forse che gli irriducibili protettori degli uccelli preferirebbero vedere le loro amate creature perire lentamente di fame e di f r e d d o , anziché di morte immediata procurata dal morso di un gatto? In anni di lavoro sul campo, ho potuto osservare innumerevoli volte gatti catturare topi o ratti, e spesso appostarsi per cercare di p r e d a r e uccelli, ma non ne ho mai visto u n o riuscire a catturare un uccello sano e capace di volare; certo, ciò accade ma, come ho detto, di rado. Mi sentirei di compiangere il c o m u n e gatto domestico se dovesse procurarsi da vivere solamente cacciando uccelli. L'esempio seguente dimostra q u a n t o spesso i gatti vengano ingiustamente considerati malvagi predatori di uccelli: in un parco della città di Bonn, f u r o n o catturati con trappole d u e gatti randagi sospettati di p r e d a r e gli uccelli che venivano a nutrirsi alle vaschette appositamente allestite. I felini mi f u r o n o consegnati perché li utilizzassi nel mio lavoro di ricerca. Si trattava di due femmine, che identificai con le sigle F6 e F7. Nel mio laboratorio, né l'una né l'altra mostrarono alcun interesse per gli uccelli che venivano loro offerti, vivi o morti che fossero. F7 era un'ottima cacciatrice di topi; F6 in genere ignorava qualunque possibile p r e d a e solamente q u a n d o i suoi gattini ebbero l'età giusta
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portò loro topi e se ne cibò anch'essa (pp. 114 sgg.). Anche allora trascurò completamente alcuni pulcini di un giorno di età. Q u a n t o detto n o n esclude la possibilità che, occasionalmente, in qualche giardino un nido pieno di uccellini, delizia del proprietario, venga distrutto dai gatti. Tuttavia, in u n a visione d'insieme, un episodio come questo è scarsamente significativo e certamente l'anno successivo il luogo di nidificazione sarà riutilizzato dalla stessa specie di uccelli, a m e n o che la popolazione diminuisca per altre ragioni. E anche possibile che taluni gatti abbiano sviluppato tecniche di caccia considerevolmente diverse dalla norma, che permettono loro di pred a r e uccelli con un'insolita percentuale di successo. In definitiva, le accuse rivolte ai gatti dagli appassionati che h a n n o a cuore la protezione degli uccelli possono anche essere fondate, in qualche sia p u r raro caso specifico; ma, inquadrate in un contesto generale, sono decisamente insostenibili. Quindi, la protezione degli uccelli non può in alcun modo giustificare l'emanazione di divieti o di limitazioni alla possibilità di tenere liberamente dei gatti. Lo stesso discorso si applica alle riserve di caccia. Alcuni gatti possono certo avere sviluppato u n a predilezione nei confronti di p r e d e quali giovani lepri o conigli, ed è anche vero che i gatti possono uccidere pernici o giovani fagiani; tuttavia, le perdite che in tal m o d o vengono provocate sono decisam e n t e sovrastimate. L i n d e m a n n (1953), esaminando il conten u t o gastrico di 28 gatti selvatici europei uccisi dai cacciatori, ha trovato che i resti presenti appartenevano percentualmente a: topi e altri piccoli roditori per il 65%; uccelli di piccola taglia, in particolare appartenenti a specie che nidificano a terra per il 6%; uccelli di interesse venatorio per l'8%; selvaggina da pelo p e r il 5%; capriolo (probabilmente trovato già morto) per l'l%; vegetali e sostanze non identificabili per il 3%; roditori di dimensioni variabili f r a quelle di un topo e di u n a lepre, per il 12%. Si tenga presente che i dati sono espressi come percentuali in peso e non come percentuali rispetto al n u m e r o totale di specie predate! Slàdek (1970) ha analizzato il contenuto gastrico di 257 gatti selvatici della Cecoslovacchia, trovando che l'87% del n u m e r o totale (e non del peso) di specie p r e d a t e era costituito da piccoli roditori: certamente, il gatto selvatico è un p r e d a t o r e più agguerrito e pericoloso del gatto domestico. Secondo Asahi (1966), il gatto di Tsushima (Prionailurus bengalensis manchuricus), le cui dimensioni e il cui biotopo c o r r i s p o n d o n o all'incirca a quelli del gatto selvatico europeo, ha abitudini alimentari simili. Nella prima edizione di questo volume (1956) scrivevo: «Se si dovesse e f f e t t u a r e un'analisi veramente completa e rigorosa
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del contenuto gastrico di gatti domestici uccisi m e n t r e cacciavano selvaggina, probabilmente essa mostrerebbe che gli animali di interesse venatorio vi sono presenti in percentuale ancora i n f e r i o r e » . I risultati ottenuti da H e i d e m a n n e V a u k (1970) h a n n o in effetti superato anche le mie aspettative. È emerso che i topi di c a m p a g n a costituiscono il 93,2% dei resti di piccoli roditori trovati nel contenuto gastrico dei gatti domestici, e gli autori sottolineano con chiarezza che la pressione predatoria esercitata dal gatto domestico sul topo di campagna deve essere considerata un i m p o r t a n t e fattore di controllo delle popolazioni m u r i n e di campagna. Il contenuto gastrico di 500 gatti domestici uccisi da cacciatori polacchi, esaminato da Pielowski (1976), era costituito per il 74% da piccoli roditori, per il 3,4% da lepri subadulte, per il 19% da scarti di cucina e per il 3,6% da materiale vario, tra cui uccelli e carogne. Questi risultati sono stati p i e n a m e n t e confermati da ricercatori americani che h a n n o studiato le abitudini alimentari di gatti randagi e rinselvatichiti (Brandt, 1949; Hubbs, 1951; T o n e r , 1956; Davis, 1957; Pearson, 1964). Inoltre, il risultato di u n a ricerca d u r a t a un a n n o sulla composizione delle feci dei felini condotta da Pearson (1964) in u n a riserva n a t u r a l e in California, che indica che, su un totale di 4771 resti di animali predati si sono trovati solo 21 resti di coniglio e 8 di uccelli, dovrebbe far meditare anche il più convinto nemico dei gatti. Pertanto, il fatto che, per esempio, in Germania i cacciatori abbiano licenza di sparare a q u a l u n q u e gatto r a n d a g i o sorpreso a più di 200 metri dal centro abitato più vicino n o n solo è u n a pratica riprovevole, ma provoca u n a perdita com u n q u e molto maggiore del d a n n o che quello stesso gatto avrebbe potuto arrecare alle locali popolazioni di uccelli e di selvaggina di piccola taglia. Per concludere, si p u ò a f f e r m a r e che, in considerazione delle tecniche di caccia generalmente adottate e delle d i m e n sioni delle p r e d e più frequenti, il gatto domestico è un cacciatore di topi; aggiungiamo che le occasioni in cui p r e d a animali diversi dai topi sono così r a r e che le perdite che ne risultano possono essere considerate trascurabili a fini pratici.
PARTE SECONDA
O N T O G E N E S I DEL C O M P O R T A M E N T O P R E D A T O R I O
Introduzione Ciascun comportamento ha una triplice storia: per opera di processi legati all'evoluzione viene plasmata la base genetica di meccanismi di sviluppo (filogenesi), che p r o d u r r a n n o meccanismi neurormonali, neurali e sensoriali (ontogenesi), i quali, benché di n o r m a siano latenti, provocano a loro volta il comportamento manifesto q u a n d o siano attivati da stimoli interni ed esterni (actogenesi). Mentre lo studio della filogenesi costituisce il principale obiettivo nell'analisi comparata del comportamento adulto di specie più o meno strettamente correlate, e l'indagine dell'actogenesi rappresenta il terreno dell'etofisiologia, l'ontogenesi può essere studiata mantenendosi nella prospettiva di entrambe. Tuttavia, mentre il comportamento adulto può essere osservato e registrato in modo relativamente agevole e metodi fisiologici ci permettono di esplorare direttamente le cause che attivano specifici aspetti comportamentali, non esiste ancora una via di accesso diretta ai processi di sviluppo che, in un dato individuo, determinano quei meccanismi capaci, se stimolati in modo appropriato, di dare espressione a comportamenti tipici della specie di appartenenza dell'individuo stesso. A lungo gli etologi hanno operato nell'illusione che il momento in cui un particolare elemento di comportamento si manifesta per la prima volta in un giovane animale segni anche la maturazione del suo sviluppo ontogenetico. Se ciò fosse vero, sarebbe sufficiente registrare la sequenza della prima apparizione in giovani animali di tutti i diversi elementi com-
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portamentali p e r poter descrivere adeguatamente lo sviluppo ontogenetico dei sistemi comportamentali; quindi, si potrebbe p r o c e d e r e all'analisi dei processi soggiacenti. Tuttavia, da molto t e m p o gli etologi sanno, in realtà, che in molti casi il meccanismo sotteso a un dato c o m p o r t a m e n t o giunge a piena maturazione con un notevole anticipo rispetto al m o m e n t o in cui quest'ultimo si manifesta per la prima volta con chiarezza. Fino a ora n o n si dispone di alcun m e t o d o affidabile per stabilire come tale meccanismo funzioni in ogni caso specifico. Pertanto, la sequenza temporale delle prime manifestazioni di elementi comportamentali è un indicatore quanto mai inaffidabile della loro storia ontogenetica. Q u a n d o per esempio, come v e d r e m o più avanti, un felino a p p a r e n t e m e n t e incapace di catturare e uccidere una p r e d a compie invece queste azioni con un p e r f e t t o coordinamento di tutte le a p p r o p r i a t e componenti comportamentali, in seguito a un'unica stimolazione elettrica di certe zone del suo ipotalamo, e m e r g e con chiarezza che tutti i meccanismi coinvolti debbono essere presenti già da un certo tempo, allo stato latente e pienamente maturi. I capitoli di questa seconda parte devono essere pertanto letti con le dovute precauzioni. Essi h a n n o poco da offrire, oltre la tradizionale sequenza temporale delle manifestazioni di elementi comportamentali; per tale motivo, si è ritenuto che fosse privo di senso cercare di quantificare i processi osservati. Piuttosto, è l'aspetto qualitativo di u n a manifestazione in differenti periodi nel corso dell'ontogenesi di un animale che ci p u ò aiutare a capire il c o m p o r t a m e n t o che ne sta e m e r g e n d o . Occorre, inoltre, essere sempre consapevoli che ciò che interessa esplorare non è il c o m p o r t a m e n t o osservabile, bensì i meccanismi soggiacenti che non sono direttamente accessibili ai nostri metodi di indagine.
10. La maturazione dei movimenti istintivi e dei loro stati motivazionali Il primo movimento che è in relazione con il comportamento predatorio è compiuto da un gattino intorno alle tre settimane di vita. Con una zampa annaspa davanti a sé in maniera incerta, nello stesso modo in cui un gatto adulto esplora ogni oggetto sconosciuto e relativamente piccolo (fig. 10.1). Fra questo movimento a tentoni con la zampa richiusa, che appare decisamente esitante, e lo strappo deciso con cui la zampa viene portata in avanti con le unghie sfoderate, esistono tutti i possibili stadi intermedi, che rappresentano evidentemente la gamma di intensità di uno stesso schema motorio fisso e innato. E possibile che tale movimento derivi da quello compiuto dalle zampe anteriori del cucciolo che « pigiano sulle mammelle » per facilitare l'uscita del latte, ma le osservazioni condotte finora non sono sufficienti a confermare questa interpretazione. I movimenti correlati all'attività predatoria, quali l'appostarsi, il cacciare inseguendo, l'avvicinarsi furtivamente con passo lento e in corsa e, infine, il balzare sulla preda, compaiono in rapida successione. Tali comportamenti, dapprima goffi per l'insufficiente coordinazione motoria, si affinano rapidamente e raggiungono uno stadio di quasi completa maturazione intorno alla sesta settimana di vita, quando la madre porta ai cuccioli la prima preda ancora viva. Il morso letale compare sempre per ultimo e, come vedremo, sembra richiedere una particolare forma di induzione. A eccezione del morso leta-
Fig. 10.1.
Un gattino cerca di raggiungere la propria immagine riflessa.
le, tutti gli schemi motori a cui si è fatto cenno compaiono l'uno dopo l'altro anche più tardi, durante l'attività di gioco dei cuccioli, in una grande varietà di combinazioni con altri movimenti. Q u a n d o i piccoli hanno circa quattro settimane, la madre comincia a portare loro le prede, ma all'inizio le uccide nel luogo della cattura e ne trascina le spoglie al nido, dove le consuma emettendo brontolii: questo spettacolo, sulle prime, sembra impaurire più che attrarre i piccoli. Resoconto del 14 novembre 1953 (età dei gattini: 33 giorni) Off r o a F6 un topolino bianco in presenza dei suoi cinque gattini (F8, F9, FIO, F l l , M12). Dopo qualche esitazione, F6 si avvicina lentamente, poi all'improvviso afferra il topo e, emettendo forti brontolii, lo porta nella cassetta della segatura dove, continuando a brontolare, rimane a lungo; dopo avere ripetutamente sollevato e posato a terra il topo già morto, finalmente lo mangia. Non fa alcun tentativo per indurre i gattini ad avvicinarsi e, del resto, questi ultimi non sembrano prestare interesse a quanto sta accadendo. Allo stesso modo, F6 cattura immediatamente un secondo topo, lo trasporta nella cassetta emettendo brontolii, lo uccide, quindi salta fuori dalla cassetta con il topo in bocca e si siede riprendendo i brontolii. FIO, ritta a circa 20 centimetri a lato della madre, inarca il dorso, rizza il pelo della coda e rimane ferma, con gli arti posteriori che spingono in avanti e quelli anteriori immobili. La madre trasporta il topo avanti e indietro diverse volte, posandolo ripetutamente a terra e sedendo di fronte a esso brontolando. Finalmente, continuando a
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brontolare, trasporta il topo alla cassetta dove d o r m e . Due dei gattini si a f f r e t t a n o a seguirla. Da questo momento, i brontolii si mescolano con fusa invitanti. Dopo un po', lascia cadere la p r e d a e a b b a n d o n a la cassetta. I gattini, tuttavia, non si curano minimamente del topo. Lo raccolgo e lo getto di nuovo davanti alla madre. Immediatamente, essa lo a f f e r r a , brontola, lo trasporta nuovamente nella cassetta e lo d e p o n e ; quindi si siede e lo colpisce alcune volte con la zampa per gioco. A questo punto, p r e n d o un gattino e ne accosto il naso al topo. Il gattino lo annusa e lo tasta dappertutto, quindi comincia a trascinarlo in giro e a succhiarlo, r i m a n e n d o a lungo occupato in questa attività. Giunge quindi il m o m e n t o del pasto. I cinque gattini si affollano intorno alla ciotola, m e n t r e la m a d r e siede poco distante, osservando il cibo con desiderio, ma senza far nulla per allontanarne i piccoli. Ancora u n a volta le getto di f r o n t e il topo, e questa volta lo mangia. Nelle settimane successive, le modalità con cui i gattini reagiscono alla p r e d a subiscono un processo di maturazione. Perciò, q u a n d o la m a d r e presenta loro la prima p r e d a viva, essi dispongono di un completo bagaglio di movimenti istintivi, che tuttavia non sono ancora organizzati nella sequenza di azioni che culmina con l'uccisione. D u r a n t e il gioco alcuni elementi della sequenza possono presentarsi nell'ordine definitivo: per esempio, avvicinamento furtivo con passo lento, avvicinamento furtivo in corsa, con balzo, ecc.; ma t o r n a n o poi a separarsi e a ricomparire isolati, o p p u r e in combinazione con altri comportamenti di gioco, alcuni dei quali derivano da contesti funzionali diversi da quello del c o m p o r t a m e n t o predatorio (Eibl-Eibesfeldt, 1951). Vi è del resto u n a ragione evid e n t e che spiega perché il morso letale si manifesti solo più tardi, e n o n prima del m o m e n t o in cui il gattino incontra la prima p r e d a viva: se fosse altrimenti, i piccoli rischierebbero di ferirsi q u a n d o giocano f r a loro simulando la caccia. Q u a n do cominciano a giocare con le prime prede, la sequenza che si conclude con il morso letale - per la precisione, appostamento, avvicinamento furtivo, balzo e presa - si organizza con gradualità, anche se talvolta può stabilirsi molto rapidamente. D u r a n t e questo periodo, inoltre, si intensifica il ritmo con cui la m a d r e porta al nido le p r e d e abbandonandole ai gattini; in quale misura in questo c o m p o r t a m e n t o siano coinvolti fattori esterni e interni rimane oscuro. Resoconto del 16 dicembre 1953 (età dei gattini: 65 giorni) Nel1 anticamera, F6 cattura immediatamente un topolino bianco
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che le viene offerto, s p u t a n d o minacciosamente m e n t r e lo afferra, e tenendolo azzannato alla schiena lo trasporta al nido (si veda p. 384). Qui si siede, emette tenui brontolii, di tanto in tanto fa u n a corsetta intorno e quindi si risiede. I gattini non prestano g r a n d e attenzione alla madre; q u a n d o u n o di essi le si avvicina casualmente, F6, che per tutto questo t e m p o non ha mai a b b a n d o n a t o il topo, ancora vivo, brontola più forte e volge altrove la testa. G r a d a t a m e n t e il brontolio si mescola a suoni sommessi e invitanti, che tuttavia non sembrano prod u r r e alcun effetto sui gattini. Finalmente, F9 si avvicina e cerca di a n n u s a r e il topo, ma la m a d r e nuovamente volge altrove la testa e se ne va nella cassetta del nido con il topo ancora in bocca. F9 la segue, ma si arresta all'ingresso della cassetta. Dopo pochi secondi, F6, s e m p r e con il topo in bocca, si affaccia e torna fuori. Di nuovo F9 cerca di arrivare al topo e ancora u n a volta F6, volgendo la testa altrove, glielo impedisce. Q u i n d i rientra nella cassetta; questa volta F9 la segue e riapp a r e subito d o p o con il topo. F9 ora brontola r u m o r o s a m e n t e e gioca violentemente con il topo ormai morto. Gli altri piccoli n o n f a n n o molto caso ai suoi brontolii, ma sono attratti dal gioco. F9 brontola ancora più forte e tiene il topo ben stretto tra le fauci. Nessuno degli altri gattini cerca di strapparglielo e tutti t o r n a n o r a p i d a m e n t e ai loro giochi. Più lontano, nell'anticamera, F6 ora cattura un altro topo, lo a f f e r r a immediatamente e, come in precedenza, lo porta al nido. Di nuovo si siede per un po' e brontola, ma subito d o p o lascia a n d a r e il topo ancora vivo, che si mette a correre, e lo rip r e n d e prima che possa scomparire in u n a fenditura. Dopo che il roditore è stato r e c u p e r a t o una terza volta, F9 si fa attenta, lascia a n d a r e il topo m o r t o con cui stava giocando e, con u n a presa corretta alla nuca, a f f e r r a all'istante il topo che sta s c a p p a n d o e comincia a giocarci. A questo punto, vengo interrotto e n o n riesco a vedere q u a n d o e come il topo viene ucciso. Il m o d o in cui si è svolto l'esperimento mostra chiaramente che sulle p r i m e la m a d r e è piuttosto riluttante a cedere la preda che ha trasportato al nido. Resoconto del 17 dicembre 1953 A F6 viene o f f e r t o un topo in u n a stanza adiacente piuttosto grande, il più lontano possibile dal nido. Benché nella stanza siano accorsi insieme a lei anche i gattini, che ruzzano tutt'intorno, F6 li oltrepassa e trasporta il topo al nido, dove si accovaccia tenendo ben stretta la preda. A un certo p u n t o FI 1 le si avvicina. Come di consueto, F6 gira la testa per allontanare il topo da FI 1, ma senza brontolare. FI 1 continua a starsene lì e F6 d e p o n e a terra il topo. FI 1, tuttavia, lo ignora, si strofina contro il muso della m a d r e
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e ritorna nella stanza vicina. Si avvicina F9, e subito a f f e r r a il topo, a d d e n t a n d o l o in un p u n t o piuttosto in f o n d o al dorso, brontola r u m o r o s a m e n t e , si mette a giocare con la p r e d a e arriva ad aggredire furiosamente la m a d r e q u a n d o le si fa troppo vicina. A questo punto, un secondo topo viene posato a terra in mezzo a tre gattini, che stanno osservando. Nessuno di essi accenna a un movimento. F6 a f f e r r a il topo, corre di nuovo al nido, vi si siede per un m o m e n t o e lascia a n d a r e il topo, tenendolo d'occhio e f e r m a n d o l o prima che riesca a rifugiarsi sotto la cassetta della segatura. F9 ora vede il topo che corre e gli si precipita addosso, senza lasciare a n d a r e il primo, e si ritrova quindi ad averli catturati entrambi. La situazione, però, non è sostenibile. Essa lascia perciò a n d a r e il secondo topo e uccide il p r i m o con un a p p r o p r i a t o morso letale. Nel frattempo, il secondo topo si nasconde dietro la cassetta della segatura. F9 cerca di « pescarlo » con u n a zampa, ma alla fine si accontenta del p r i m o e continua a giocarci. Alla fine, comincia a mangiarlo p a r t e n d o « c o r r e t t a m e n t e » dalla testa. D u r a n t e l'intera sequenza, solamente FIO, u n a volta, ha prestato brevemente attenzione al topo, ma è stata risolutamente allontanata da F9. Sposto piano la cassetta della segatura e d e p o n g o FIO dietro al topo, che è lì accucciato. FIO lo annusa, ma il topo continua a starsene lì seduto tranquillamente e FIO si volge per a n d a r s e n e via: così facendo, sfiora il topo, che fa un piccolo movimento. FIO si fa vigile e colpisce il roditore in m o d o irresoluto e senza sfoderare gli artigli. Ha così inizio un gioco che, per lungo tempo, è pervaso da un'atmosfera circospetta, quasi tesa. Alla fine, FIO a f f e r r a il topo addentandolo delicatamente per la pelliccia e lo trascina f u o r i del suo rifugio dietro la cassetta. Si mette allora a giocare un poco più a lungo con il roditore, in m o d o un po' più «coraggioso», ma sempre senza colpirlo con violenza e senza ferirlo. Nel corso di questa caccia, il topo entra nel campo visivo di F9, che sta ancora m a n g i a n d o il primo e che immediatamente gli si slancia contro. FIO allora a f f e r r a subito e violentemente il roditore alla nuca e, inarcando la schiena, dà una zampata a F9, d o p o di che si allontana, e m e t t e n d o forti brontolii. F9 arretra e fa ritorno al suo topo parzialmente divorato. Viene quindi chiusa fuori, d o p o di che viene liberato un terzo topo. Ancora u n a volta la madre, F6, lo cattura subito, lo trasporta nelle vicinanze della cassetta del nido e lo lascia a n d a r e . Il topo si infila in u n a scatola di cartone che sta lì vicino, dalla quale F6 tenta inutilmente di tirarlo luori. F8 si avvicina interessata e io, scuotendo la scatola, faccio uscire il topo. F6 lo a f f e r r a , ma lo lascia subito a n d a r e e il topo si rifugia sotto la cassetta del nido. Sollevo la cassetta e F6
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a f f e r r a il topo, lo tira f u o r i e lo lascia andare. Il topo è già esausto. Nessuno dei tre gattini ancora presenti (MI2, F8, F l l ) gli presta la minima attenzione; anche q u a n d o glielo metto p r o p r i o sotto il naso, si allontanano e r i p r e n d o n o a giocare. Viene fatta e n t r a r e ancora una volta F9. Essa immediatam e n t e a f f e r r a il topo, lo uccide abilmente, ci gioca, quindi tenta u n a seconda volta di sottrarre a FIO il suo topo. FIO, tuttavia, reagisce sferrandole u n a zampata decisa sul muso. F9 si ritira e si mette a mangiare il terzo topo, iniziando, come aveva fatto con il primo, dalla testa. Un po' più tardi, anche FIO mangia il suo topo, ma comincia dalla zampa posteriore sinistra e, all'inizio, non progredisce molto nell'operazione, ma alla fine riesce a mangiarlo p r o c e d e n d o nella direzione inversa a quella normale, dall'estremità posteriore verso quella anteriore. Esattamente un mese più tardi i d u e piccoli, F9 e FIO, n o n mostravano praticamente più alcun interesse per i topi che venivano liberati nella stanza; questi ultimi venivano a f f e r r a t i da F6, e solamente se essa li lasciava a n d a r e venivano catturati da F l l e M I 2 , uccisi con un morso d o p o un breve periodo di gioco e, in seguito, d o p o un altro po' di gioco, mangiati. Questo m u t a m e n t o nel c o m p o r t a m e n t o di F9 e FIO, da un lato, e di F l l e M I 2 , dall'altro, era connesso con la gerarchia sociale stabilitasi tra i fratelli. F l l e M12 avevano ora un r a n g o più elevato e in loro presenza i compagni di cucciolata n o n osavano farsi avanti per p r e n d e r e il topo. A n d ò avanti così per mesi. Resoconto del 2 giugno 1954 F9, F i l e M12 vengono rinchiusi in u n a gabbia all'esterno. Nella stanza r i m a n g o n o F6, F8 e FIO. Viene o f f e r t o loro un topo. Dopo una breve esitazione, F6 lo a f f e r r a alla schiena. FIO si avvicina timidamente e viene accolto con un brontolio. M12 entra nella stanza dall'esterno, a p r e n d o la porta n o n ben assicurata, e ruba a F6 il topo sotto il naso, m a l g r a d o i suoi brontolii. Chiudo di nuovo f u o r i M12 insieme al suo topo e ne introduco un altro. FIO gli si avvicina lentamente e con cautela. I d u e animali si a n n u s a n o , naso contro naso. FIO si p r e p a r a a balzare addosso al topo, q u a n d o F6 glielo porta via. Dopo un po', F6 a b b a n d o n a il topo a terra. O f f r o loro un altro topo e F6 lo cattura. Il primo topo se ne sta immobile di f r o n t e all'ingresso della cassetta del nido. Dopo qualche t e m p o ne esce lentamente FIO, che si avvicina al topo, lo a f f e r r a cautamente con la bocca, lo lascia subito andare, dopodiché lo a f f e r r a un po' più spavaldamente e comincia a giocarci, benché in m o d o ancora irresoluto. I gattini chiusi
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fuori, che graffiano la porta e miagolano perché vogliono entrare, la disturbano notevolmente. A ogni r u m o r e , essa lascia a n d a r e il topo e g u a r d a con apprensione verso la porta. Gradatamente, però, la sua p a u r a si attenua e il gioco si fa più violento. Questa volta, q u a n d o F6 si avvicina di soppiatto, le soffia anche contro e tiene a f f e r r a t o il topo saldamente. Dopo circa 20 minuti, FIO trascina il topo, ancora vivo, d e n t r o la cassetta del nido. A questo p u n t o apro la porta di ingresso. M I 2 , malgrado i brontolii di F6, immediatamente le sottrae l'ultimo topo offerto, che essa aveva nel f r a t t e m p o catturato un'altra volta. FI 1 salta nella cassetta del nido e si impadronisce del topo di FIO, senza che quest'ultima osi soffiare o brontolare. Nel corso di u n a serie di esperimenti sistematici individuali, F9 e FIO h a n n o di nuovo lentamente perso la loro p a u r a e riacquistato l'iniziale abilità. Così come in questo caso, anche nel corso di osservazioni di altre cucciolate si è avuta la dimostrazione non solo che la presenza di fratelli di r a n g o sociale superiore inibisce il c o m p o r t a m e n t o predatorio di quelli di r a n g o inferiore, ma anche che una posizione sociale modesta influenza direttamente il c o m p o r t a m e n t o dei piccoli nei confronti della p r e d a : lo stesso animale-preda esercita un effetto intimidatorio e il coraggio del gatto si indebolisce. Loir (1930) ha osservato gatti che, essendo stati impauriti in situazioni che n o n avevano alcuna attinenza con la predazione, per questo h a n n o p e r d u t o la propria abilità nella caccia ai topi e l'hanno riacquistata solamente d o p o un trattamento amichevole e rassicurante. Adamec (1975 a) ne dà conferma. Nelle condizioni sperimentali da lui adottate, l'effetto intimidatorio sui gatti veniva esercitato in misura minima da topi bianchi, in misura g r a d u a l m e n t e crescente da ambienti sconosciuti, esseri umani, ratti, e in misura massima da vocalizzazioni di minaccia di un altro gatto. Lo stesso Adamec (1975 b) ha scoperto che la base neurale di questo effetto è data dall'aumentata eccitabilità e attività dei nuclei basali e laterali dell'amigdala. Tuttavia, ciò n o n dimostra che l'amigdala eserciti u n a funzione inibitoria specifica sul c o m p o r t a m e n t o predatorio, perché l'effetto intimidatorio p u ò inibire o sopprimere completamente anche altri comportamenti, quali l'attacco a conspecifici, il corteggiamento, l'accoppiamento e il gioco nei giovani. Tuttavia, sembra che l'effetto descritto esercitato dalla posizione sociale si manifesti solo nell'ambito della cucciolata. Se alcuni gatti adulti vengono tenuti insieme in u n o stesso ambiente per molto tempo, si sviluppa tra di loro una certa gerarchia ma, da quanto ho potuto osservare, ciò non influenza in alcun m o d o
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il c o m p o r t a m e n t o predatorio degli animali. Per esempio, F5 è stata p e r lungo tempo, f r a i miei gatti, la migliore cacciatrice di topi e ratti; tuttavia, era talmente inferiore di r a n g o rispetto ai suoi compagni di gabbia, il cui n u m e r o poteva arrivare a sei, che trascorreva intere giornate accucciata su un grosso tubo del riscaldamento che correva sotto il soffitto, e n o n lasciava il suo rifugio n e p p u r e p e r f a r e i bisogni. Scendeva a terra p e r m a n g i a r e solo se io mi trattenevo nella stanza. Dal resoconto del 2 giugno 1954 si p u ò già vedere che, q u a n d o i gattini h a n n o raggiunto l'età di sette mesi e mezzo, la m a d r e non è più automaticamente disposta a cedere loro la p r e d a . Essa cerca spesso di evitarlo allontanandosi dai piccoli e t e n e n d o ben stretta la p r e d a tra le fauci. I gattini p e r ò la seg u o n o stringendola di lato e, spesso in piena corsa, le si strofinano lungo il fianco, tanto da costringerla a deviare dalla sua traiettoria (fig. 10.2 a, b). Tale sequenza di movimenti, che evid e n t e m e n t e deriva dal « presentarsi » a un adulto (si veda fig. 27.10) viene qui attuata come normale gesto p e r elemosinare cibo, e viene ancora utilizzata, n o n di r a d o con successo, da gatti fino a un a n n o di età: la m a d r e o finisce per lasciare cadere la p r e d a m e n t r e corre, o p p u r e si f e r m a e la d e p o n e davanti al piccolo (fig. 10.2 c). Le m a d r i dei piccoli di oltre tre settimane di età generalm e n t e cacciano molte più p r e d e del solito. Ho già accennato al fatto che F6 n o n catturava p r e d e — e tanto m e n o le mangiava - a m e n o che n o n avesse i piccoli. Possiamo partire dall'ipotesi che i piccoli stessi forniscano gli stimoli che intensificano l'attività di caccia della m a d r e . Ciò è c o n f e r m a t o dalle seguenti osservazioni: F6 ha vissuto a lungo con F l l , F12, F13, F 1 4 e u n a vecchia f e m m i n a di gatto selvatico. Nel normale corso degli eventi, di questi sei animali F6 e F14 n o n cacciavano affatto; F l l e F12 di tanto in tanto catturavano qualche topo, ma n o n cacciavano mai animali di dimensioni maggiori; F13 e la f e m m i n a di gatto selvatico cacciavano anche ratti. F l l e F12 p a r t o r i r o n o all'incirca nello stesso periodo e a o g n u n a di esse lasciai un piccolo. Q u a n d o i piccoli f u r o n o cresciuti abbastanza, le rispettive madri, ma anche le altre gatte, compresa la f e m m i n a di gatto selvatico, cominciarono a recare loro p r e d e , p r i m a morte, poi ancora vive. T u t t e le gatte domestiche avevano già partorito più volte; q u a n t o alla f e m m i n a di gatto selvatico, n o n era nota la sua storia precedente e per tutto il tempo in cui è stata ospite del mio laboratorio n o n ha mai avuto piccoli. Eaton (1970 b) riferisce che le f e m m i n e di g h e p a r d o si astengono dall'uccidere alcune delle loro p r e d e q u a n d o i piccoli cominciano ad avere più di 6 mesi di età, per p e r m e t t e r e
Fig. 10.2.
Gattino che elemosina cibo. Per la spiegazione si veda il testo.
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loro di compiere i primi seri tentativi di caccia. Secondo l'autore, questo cambiamento nel c o m p o r t a m e n t o predatorio della m a d r e potrebbe d i p e n d e r e da una reazione innata e specifica alla situazione, o forse da modificazioni ormonali che si verificano d o p o un certo intervallo di tempo dal parto. E possibile che questo c o m p o r t a m e n t o osservato nel g h e p a r d o - e in u n a f e m m i n a di tigre nella stessa situazione (Schaller, 1967) - sia confrontabile con quanto da me prima descritto a proposito del gatto domestico, anche se, in questo caso, è improbabile che la mancata uccisione della p r e d a sia da i m p u t a r e a fattori ormonali. Esistono spesso altri motivi che inducono un gatto a non uccidere la p r e d a (si vedano pp. 165 sg.). Un effetto di stimolo diretto esercitato dai gattini o da «conspecifici nel nido o nella tana » potrebbe anche spiegare i casi (p. 377) in cui i maschi di alcune specie di felini di piccola taglia portano il cibo al nido, e quindi alla f e m m i n a e ai piccoli; nel maschio ovviamente non si verificano cambiamenti ormonali come quelli provocati nella femmina dal parto e dall'allattamento con le conseguenti modificazioni comportamentali. Le cose, tuttavia, non sono così semplici. Dopo ciascuno di d u e parti consecutivi, l'interesse di F6 per le p r e d e diminuì costantemente nelle ultime settimane di allattamento, fino ad annullarsi allo svezzamento. Dopo aver partorito e allevato piccoli la volta successiva, F6 continuò invece a uccidere e mangiare topi anche q u a n d o i gattini avevano ormai più di 15 mesi. Dopo avere allevato u n a quarta cucciolata, essa di nuovo si c o m p o r t ò come aveva fatto in origine e perse interesse nelle p r e d e q u a n d o i piccoli avevano circa 6 mesi. Questa fu l'ultima volta in cui F6 riuscì ad allevare con successo dei piccoli p r i m a di morire di vecchiaia; in seguito il suo interesse a cacciare ritornò solamente nel periodo sopra descritto, q u a n d o portava topi ai piccoli di F l l e FI2. E relativamente c o m u n e osservare gatti domestici e perfino maschi castrati che per anni conservano tale «attitudine a b n o r m e a portare p r e d e » . In genere, questo c o m p o r t a m e n t o si manifesta nel portare a casa un b u o n n u m e r o dei topi o dei ratti catturati d u r a n t e i quotidiani vagabondaggi, disporli davanti alla soglia in u n a fila ordinata e, in mancanza di gattini di cui occuparsi, rivolgere l'invitante « richiamo per il topo » (p. 375) agli esseri u m a n i più familiari. Coloro che possiedono un gatto di solito interpretano questi episodi come se l'animale volesse d a r e u n a dimostrazione di bravura, per la quale si aspetta u n a ricompensa, soprattutto se non si mette tranquillo fino a q u a n d o il bottino n o n sia stato esaminato e non ne abbia ricevuto in cambio complimenti e carezze. Dal p u n t o di vista del gatto, tuttavia, la cosa che soprattutto conta non è l'approvazione, ma il fatto
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che il p a d r o n e , comportandosi come « sostituto di un gattin o » , effettivamente si avvicini alla p r e d a che esso ha portato, p r o p r i o come farebbe un piccolo r i s p o n d e n d o al richiamo dell'adulto. Gli ultimi d u e esempi sopra riportati suggeriscono che il periodico intensificarsi dell'attività predatoria e del trasporto della p r e d a al nido non sia dovuto solamente alla presenza dei piccoli: u n a c o n f e r m a di questa ipotesi proviene da osservazioni condotte su f e m m i n e alle quali per anni è stato precluso l'accesso al maschio (Tonkin, in preparazione). Queste femmine, d u r a n t e le periodiche fasi di estro, spesso immediatamente prima che i sintomi dell'estro si rendessero evidenti, o p p u r e anche d o p o la loro scomparsa, manifestavano u n a inclinazione a dispensare cure materne. Benché nelle condizioni sperimentali la sequenza delle fasi del ciclo ovulatorio sia alterata, è f u o r i dubbio che i fattori che h a n n o dato origine a tali comportamenti sono p u r a m e n t e endogeni. D u r a n t e questi periodi di « disposizione alla maternità », le gatte cercavano di sollevare per la nuca conspecifici adulti e di trasportarli in qualche « n i d o » ; inoltre, emettendo vocalizzazioni invitanti, trascinavano le p r e d e in un luogo dove venissero consumate e le d e p o n e v a n o a terra, anche se gli altri gatti non mostravano alcun segno di interesse. Di norma, questa fase d u r a solo pochi giorni. Il c o m p o r t a m e n t o descritto trova u n a spiegazione efficace nei risultati delle ricerche di Inselman e Flynn (1973). Questi autori h a n n o dimostrato che nella f e m m i n a di gatto la propensione a cacciare è esaltata dalla follicolina ed è inibita da altri o r m o n i sessuali (si veda p. 135): non appena, d o p o il parto, gli effetti degli ormoni prodotti dal corpo luteo si attenuano, il sistema endocrino ritorna gradatamente sotto l'influenza prevalente della follicolina e l'attività predatoria si intensifica, in armonia con la necessità di provvedere alla crescita dei piccoli. I fatti sopra descritti mostrano fino a che p u n t o il comportamento predatorio di u n a f e m m i n a adulta di gatto d i p e n d a n o n solo dagli stimoli esterni e dall'esperienza, ma anche da processi endogeni che sono, almeno in parte, sotto controllo endocrino. In base a queste considerazioni, anche un convinto assertore dell'importanza dei fattori ambientali dovrebbe essere disposto ad a m m e t t e r e che, d u r a n t e lo sviluppo giovanile, i processi endogeni di maturazione esercitino un'influenza anche maggiore, m e n t r e l'influenza dell'esperienza rimane relativamente trascurabile nella prima fase dello sviluppo del comportamento predatorio, anche se diventa progressivamente più importante nella fase successiva (Leyhausen, 1965 b). Di sette gattini, ai quali la m a d r e non era stata in grado di
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p o r t a r e p r e d e q u a n d o essi avevano un'età appropriata, tutti, senza eccezione, messi per la prima volta a c o n f r o n t o con u n a p r e d a nel corso di prove individuali, h a n n o manifestato il c o m p o r t a m e n t o predatorio nella sua completezza. La sola cosa che n o n ho osservato in alcuno di essi è stato il morso letale; inoltre, q u a n d o venivano loro offerti animali già morti, nessuno ha fatto il benché minimo tentativo di consumarli. U n o di essi, MI 1, passato in seguito in altre mani, all'età di un a n n o e mezzo ha ucciso alcuni topi. Non è stato osservato se lo abbia fatto m e d i a n t e morso letale, o p p u r e « giocando con le p r e d e fino a ucciderle », e n e p p u r e se le abbia poi mangiate. T h o m a s e Schaller (1954) h a n n o allevato dei gattini in isolamento, applicando loro, dal giorno in cui h a n n o aperto gli occhi, degli occhiali di plexiglas che lasciavano filtrare solamente luce diffusa: questo trattamento è d u r a t o fino all'età di 11 settimane, q u a n d o sono iniziate le sperimentazioni. Di questi soggetti, sono state osservate le reazioni non a p r e d e vive, ma a palle di carta: fin dalla prima prova, gli animali h a n n o eseguito tutte le azioni relative alla cattura della p r e d a - appostamento, avvicinamento furtivo, inseguimento, presa, sollevamento e trasporto - in m o d o non diverso dai soggetti di controllo, allevati in condizioni normali. In altre parole, questi moduli comportamentali m a t u r a n o nel gattino anche senza l'aiuto di esperienze specifiche. Tuttavia, come sarà spesso sottolineato, ciò non significa che tali esperienze non possano avere qualche effetto, ma bisogna aggiungere che, nei casi che v e r r a n n o qui discussi, esse si limitano ad accelerare i processi di sviluppo coinvolti, senza modificare qualitativamente né i processi stessi, né i loro risultati. Perché il meccanismo del morso letale sia indotto per la prima volta, è necessaria una intensa eccitazione supplementare, che generalmente è fornita non dalla p r e d a stessa, ma dalla m a d r e o dal fatto che un fratello si avvicina e viene respinto. Pertanto, q u a n d o la m a d r e lascia a n d a r e la p r e d a ancora viva e subito la r i p r e n d e , non dà una « dimostrazione », né il piccolo i m p a r a da lei «come si f a » . Al contrario, la p r e d a liberata, f u g g e n d o via, induce nel gattino il c o m p o r t a m e n t o predatorio e la veloce ricattura da parte dell'adulto costringe il piccolo a essere ancora più veloce se vuole g h e r m i r e la p r e d a prima che l'afferri di nuovo la madre. Questa rivalità con la m a d r e è f o n t e della necessaria eccitazione supplementare. Così si spiega anche perché, q u a n d o un gatto posa la p r e d a a terra per un istante, avviene tanto di f r e q u e n t e che un altro gliela « soffi sotto il naso » (cfr. p. 50). Per analogia con la « bramosia di cibo », si potrebbe indicare questo c o m p o r t a m e n t o come « bramosia di p r e d a ». Tuttavia, anche gatti di posizione gerarchica
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elevata n o n c e r c h e r a n n o mai di strapparsi la p r e d a dalla bocca, come invece f a n n o spesso, per esempio, le genette (fig. 10.3). Oltre alla bramosia di p r e d a , altri fattori possono spesso portare il gattino al livello di eccitazione necessario per compiere la p r i m a uccisione: per esempio, se la p r e d a tenta di fuggire, se più p r e d e insieme giungono in vista, o se il gatto viene all'improvviso spaventato da un forte r u m o r e . T u t t o ciò mi sembra importante: viene qui stabilito - a q u a n t o mi risulta per la prima volta - che u n o schema motorio fisso innato, in questo caso un atto consumatorio, non giunge a completa maturazione, o vi giunge solamente molto tardi, se e n t r o u n a determinata fase dello sviluppo non viene per la prima volta
Fig. 10.3. forte).
« T i r o alla f u n e » tra genette con un pollo morto (Zoo di Franco-
portato al di sopra della soglia di induzione per o p e r a di qualche stimolo s u p p l e m e n t a r e . Va p e r ò considerato che tra il morso poderoso inflitto con sicurezza alla nuca di u n a p r e d a e la presa delicata della pelliccia esistono tutte le f o r m e intermedie. In effetti, spesso n o n si va oltre un movimento intenzionale di morso diretto alla preda. In tutti questi casi, si tratta senza dubbio dello stesso movimento istintivo, e f f e t t u a t o con maggiore o minore intensità, e anche le tassie in esso implicate d i p e n d o n o dall'intensità. Solamente il massimo livello di intensità richiede, per essere evocato per la p r i m a volta, un'eccitazione s u p p l e m e n t a r e ; tutti gli altri livelli si manifestano già nei movimenti di caccia di un
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gattino che incontri la sua p r i m a p r e d a viva all'età di 2 mesi o più e nella caccia alla p r e d a simulata per gioco. Bassa intensità e imprecisa orientazione del morso letale si possono innanzitutto i n t e r p r e t a r e come debolezza dell'impulso specifico. U n a debole intensità nel m o r d e r e o movimenti che solo manifestano l'intenzione di m o r d e r e possono essere spesso osservati in gatti adulti esperti di prede, forse perché, in quel particolare m o m e n t o , h a n n o un basso « livello contingente » di p r o p e n sione all'uccisione o p e r c h é sono inibiti dalla resistenza opposta dalla p r e d a o da altre circostanze. Q u a n d o l'uccisione è indotta m e d i a n t e elettrodi (si vedano pp. 136 sgg.), d i m i n u e n d o l'intensità della stimolazione elettrica è possibile r i d u r r e lo stesso atto di m o r d e r e a movimenti d'intenzione a p p e n a percettibili, come p u r e r e n d e r e l'orientazione del morso s e m p r e m e n o accurata. Ciò dà forte sostegno all'interpretazione sec o n d o cui l'intensità dello stato motivazionale influenza l'accuratezza direzionale delle tassie che guidano il movimento istintivo attivato. A p p a r e quindi logico che un debole stato motivazionale, conseguente a immaturità, possa p r o d u r r e gli stessi f e n o m e n i in un gattino. Il collegamento che qui è stato stabilito tra accuratezza dell'orientazione del morso e intensità dello stato motivazionale a m o r d e r e non va tuttavia inteso nel senso che morso e tassia f o r m i n o u n a unità inscindibile; essi sono tra loro « interconnessi » (Lorenz, 1939), ma l'orientazione del morso letale si è evoluta in piena indipendenza, sia ontogeneticamente sia filogeneticamente (pp. 147 sgg.; Leyhausen, 1965 b). Per il m o m e n t o è possibile quantificare moduli comportamentali che d i p e n d o n o dall'intensità solamente in termini di valori medi, e le eccezioni che a p p a r e n t e m e n t e violano la regola sopra stabilita sono connesse alla n a t u r a del soggetto. Inoltre, se si esaminano esempi di c o m p o r t a m e n t o individuale nel gatto domestico, si rilevano variazioni assai più marcate di quelle riscontrabili tra le f o r m e selvatiche. L'affermazione ricorrente, secondo cui il gatto sarebbe l'unico animale domestico che abbia m a n t e n u t o tutti i tratti caratteristici dell'animale selvatico, è un mito. Anche il più abile dei gatti domestici, in cui l'impulso a cacciare si sia accumulato al massimo g r a d o di intensità, n o n catturerà mai la p r e d a con quella bramosia selvaggia e con quella determinazione che, per esempio, si osservano nei giovani gatti maschi selvatici di L i n d e m a n n e Rieck (1953) o nelle specie selvatiche di piccole dimensioni che io stesso ho studiato (Leyhausen, 1965 b). Parimenti, i moduli comportamentali del gatto domestico, che saranno descritti nei prossimi capitoli, p r e s e n t a n o u n a maggiore variabilità individuale e spesso u n a più debole intensità di q u a n t o avviene
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nei gatti selvatici. Taluni gatti domestici, come per esempio F I , p u r essendo stati allevati normalmente dalla m a d r e , non h a n n o mai cacciato per conto loro; nel caso di MI 1, invece, il morso letale è m a t u r a t o più tardi e senza il concorso di u n o stimolo s u p p l e m e n t a r e d u r a n t e il periodo sensibile; infine, F6 (p. 115) ha ricevuto u n o stimolo supplementare a intervalli regolari, a partire da un d i f f e r e n t e sistema motivazionale; in altre parole, a partire, almeno parzialmente, dal suo stesso sistema nervoso centrale, anziché attraverso u n o stimolo esterno. Ora, ricerche ulteriori h a n n o dimostrato che, nello sviluppo ontogenetico del morso letale, oltre agli stimoli supplementari esterni, che intensificano l'eccitazione, è coinvolto anche un processo e n d o g e n o di maturazione. Dall'età di 4 settimane in poi, ciò r a f f o r z a costantemente la rapidità di risposta nell'uccidere la p r e d a ; gattini il cui primo contatto con una p r e d a viva si verifichi intorno alle 9 settimane di età spesso uccidono anche senza un accumulo preparatorio di eccitazione e senza stimoli supplementari rilevabili dall'osservatore (Leyhausen, 1965 b). Ewer (1963 e comunicazione personale) ha svolto analoghe osservazioni sulla suricata. L'autrice ha avuto l'impressione che i soggetti molto giovani richiedessero u n o stimolo s u p p l e m e n t a r e per essere spinti per la prima volta a uccidere u n a p r e d a di dimensioni relativamente grandi. Tuttavia, intorno ai 9 mesi di età, u n a suricata è stata osservata uccidere il suo p r i m o topo in m o d o fulmineo. A prima vista, sorp r e n d e che in questi animali la capacità di uccidere la p r e d a maturi così tardi: ci si aspetterebbe che un carnivoro piuttosto primitivo m a t u r i più r a p i d a m e n t e e in m o d o m e n o d i p e n d e n te da fattori ambientali, rispetto ai felini più evoluti. Tuttavia, per le suricate l'uccisione di p r e d e di dimensioni relativamente grandi riveste una minore importanza vitale che per i felini, poiché, in condizioni naturali, esse si n u t r o n o prevalentemente di insetti e di altri piccoli animali che trovano raschiando o scavando nel terreno. Questi esempi suggeriscono, pertanto, che lo stimolo supplementare acceleri e agevoli lo sviluppo della disposizione a uccidere, ma certamente non « condizioni » tale capacità né tanto m e n o la ingeneri. La massima disposizione a uccidere per la prima volta raggiunge un picco intorno alla n o n a o decima settimana di vita e viene m a n t e n u t a solo per un breve periodo, quindi diminuisce di nuovo. I piccoli ai quali la m a d r e non rechi p r e d e vive d u r a n t e il periodo critico, compreso tra la sesta e la ventesima settimana di vita, in seguito o non uccidono, o p p u r e arrivano a farlo attraverso un processo lento e laborioso, che potrebbe essere e r r o n e a m e n t e considerato, ma certamente non è, di apprendimento.
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I grandi felini non portano p r e d e vive ai loro piccoli: soltanto in un caso Schaller (1972) ha osservato u n a leonessa p o r t a r e ai figli u n a gazzella di piccole dimensioni; e n e p p u r e p e r m e t t o n o loro di seguirli d u r a n t e la caccia (si veda p. 145). L'unica eccezione, e forse solo occasionale, è quella del ghep a r d o : K r u u k e T u r n e r (1967) e Schaller (1970) h a n n o visto u n a volta u n a f e m m i n a di g h e p a r d o portare ai piccoli u n a giovane gazzella ancora viva. I giovani leoni, tigri e leopardi f a n n o i loro primi seri tentativi di cacciare solamente d o p o la crescita dei denti permanenti, cosa che si verifica in genere int o r n o ai 12-15 mesi di età. All'inizio questi tentativi sono decisamente maldestri (Guggisberg, 1960; Schaller, 1967, 1972) e la loro efficienza migliora solo gradatamente. Tuttavia, già Schneider ( 1940-41 ) aveva segnalato che tigri e leoni possono uccidere u n a p r e d a in m o d o corretto già all'età di 5 o 6 mesi. Anche Eaton (1972 b) ha osservato lo stesso c o m p o r t a m e n t o in un giovane leone, considerandolo però un'eccezione. In base alle osservazioni di Schneider e alle analoghe esperienze di persone che h a n n o allevato in privato cuccioli di grandi felini come animali domestici, sembrerebbe che intorno ai 6 mesi di età in questi animali giungano a piena maturazione il c o m p o r t a m e n t o predatorio e la capacità di uccidere la preda, in m o d o simile a quanto avviene nel gatto domestico intorno alle 9 settimane di età. Il fatto che i grandi felini siano adattati a cacciare animali di grossa taglia impedisce alle madri di portare ai piccoli, d u r a n t e questo periodo critico, p r e d e ancora vive, come f a n n o le madri nelle specie di felini di dimensioni inferiori. Tuttavia, la velocità con cui matura nei giovani animali la capacità di uccidere la preda non si è evidentemente ancora adattata a questa circostanza. In altre parole, q u a n d o gli individui giovani dei grandi felini f a n n o i loro primi seri tentativi di catturare e uccidere prede, si trovano in un'epoca di molto successiva a quella in cui la disposizione a uccidere ha toccato il suo p u n t o massimo di maturazione. Di n o r m a , quindi, questa situazione è simile a quella che noi abbiamo pianificato sperimentalmente per gli ibridi di gatto domestico e gatto del Bengala, Natalie e Freda (pp. 131 sgg.). Poiché i grandi felini r i m a n g o n o con la m a d r e fino all'età di 18 mesi, se n o n oltre, possono « permettersi » questa condizione senza che ne venga compromessa la sopravvivenza. Da q u a n t o sopra esposto, è chiaro che in tutte le specie di felini questo processo legato allo sviluppo deve essere considerato in r a p p o r t o alla sequenza in cui compaiono i denti permanenti. L'azione del mangiare non d i p e n d e dalla presenza dei canini. I carnassiali essenziali per questo scopo sono i premolari P 3 e P 4 nei denti di latte, ma il premolare P 4 e il molare
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Mi nei denti permanenti. È possibile che questi ultimi spuntino e diventino funzionali q u a n d o i primi d u e non sono ancora caduti, per cui r a r a m e n t e si creano problemi. Invece i canini, che sono essenziali per azzannare e uccidere la preda, non possono essere rinnovati senza che si verifichi u n a temporanea perdita di funzione. E vero che, a differenza di q u a n t o accade nell'uomo, i denti permanenti non crescono al di sotto dei denti di latte, ma leggermente spostati verso l'interno, p e r m e t t e n d o a questi ultimi di conservare la propria funzionalità più a lungo di quanto altrimenti sarebbe possibile; tuttavia, d u r a n t e questo processo la radice dei denti di latte viene g r a d u a l m e n t e riassorbita. Segue u n o stadio in cui il canino p e r m a n e n t e n o n è ancora cresciuto abbastanza, m e n t r e quello di latte n o n ha quasi più radice e non p u ò più sopportare la pressione imposta da un morso risoluto; gli animali non riescono a uccidere n e p p u r e p r e d e di piccole dimensioni e sono quindi ancora, o di nuovo, totalmente dipendenti dalla madre. A questa età (circa 6 mesi) i felini delle specie più piccole t o r n a n o a elemosinare più insistentemente cibo alla m a d r e (fig. 10.2). Grazie alla modalità con cui si svolge il cambio di dentizione, il periodo di inabilità a uccidere è ridotto a non più di u n a o d u e settimane. I m m e d i a t a m e n t e dopo, non appena i canini p e r m a n e n t i si sono sufficientemente ingrossati e irrobustiti, la famiglia si separa, in quanto gli animali sono p e r f e t t a m e n t e in g r a d o di provvedere a se stessi. Nei grandi felini, il cambio dei canini si verifica, a seconda della taglia della specie, a un'età compresa tra 9 e 12 mesi, e si completa tra gli 11 e i 15 mesi. L'intero processo si compie prima nelle f e m m i n e che nei maschi. L'esempio che segue mostra fino a che p u n t o il cambio dei canini impedisca a un felino di catturare da solo u n a preda. D u r a n t e la mia p e r m a n e n z a nella riserva di Dhudwa (ora parco nazionale), nello Stato di Uttar Pradesh, in India, per diverse notti consecutive una tigre penetrò in un villaggio, attaccando animali domestici e, si disse, anche una d o n n a . Tuttavia, la tigre n o n riuscì mai a uccidere le vittime e n e m m e n o a ferirle gravemente. U n o zebù, che la tigre aveva azzannato alla nuca (dimostrando di sapere come fare!) e trattenuto per diversi minuti prima che potesse esserle sottratto, n o n recava alcun segno visibile impresso dai canini. Supposi, quindi, che dovesse trattarsi di un animale giovane che stava cambiando i denti e, q u a n d o qualche giorno più tardi fu ucciso, la mia supposizione si dimostrò corretta: era, infatti, un esemplare di circa un anno, con u n a « doppia » serie di canini tanto nella mandibola che nella mascella. L'articolazione della spalla destra era slogata e completamente rigida, come quella del go-
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mito. Probabilmente, il tigrotto era stato a b b a n d o n a t o dalla m a d r e non essendo più in g r a d o di seguirla e, da solo, n o n aveva alcuna speranza di potersi procurare cibo. Gossow (1970) ha comunicato di aver fatto analoghe osservazioni nei mustelidi e ha sottolineato come i processi di maturazione possano essere studiati mediante esperimenti di deprivazione, nei quali l'animale viene allevato in assenza di esperienze specifiche (« esperimento Raspar Hauser »). Molti ricercatori h a n n o in apparenza implicitamente sposato l'ipotesi che, q u a n d o un sistema funzionale peristostabile sia giunto a maturazione, da quel m o m e n t o debba sempre essere in condizioni di esplicare p r o n t a m e n t e e in m o d o idoneo la propria funzione. Di conseguenza, d o p o avere allevato con successo animali di varie specie, essi h a n n o spesso continuato a mantenerli in condizioni di deprivazione di esperienza quanto più a lungo possibile prima di procedere all'esperimento critico, solo per essere sicuri di non effettuarlo con t r o p p o anticipo. Tuttavia, ora sta divenendo sempre più evidente che sistemi funzionali i m m u n i da influenze esterne che t e n d a n o a modificarli d u r a n t e la maturazione devono essere attivati piuttosto f r e q u e n t e m e n t e e intensamente, al più tardi a partire dal m o m e n t o in cui raggiungono la massima capacità funzionale, perché possano rimanere in grado di operare (si veda anche Leyhausen, 1965 b). Se numerosi esperimenti di tale genere n o n sono riusciti a dimostrare la peristostabilità di questo o quel m o d u l o comportamentale, ciò probabilmente d i p e n d e dal fatto che l'esperimento critico è stato eseguito t r o p p o tardi. Questo aspetto non è stato segnalato n e p p u r e da Lorenz (1961) nella sua analisi critica delle fonti di e r r o r e che vanno prese in considerazione in un esperimento di deprivazione. La stessa f o n t e di e r r o r e deve essere naturalmente tenuta presente non solo negli studi riguardanti gli schemi motori innati e gli stati motivazionali, ma anche in quelli relativi ai meccanismi scatenanti innati e alle tassie. La controversia tra Eibl-Eibesfeldt (1955, 1956, 1958 b, 1963) e Wùstehube (1960), che io stesso (Leyhausen, 1965 b) ho discusso in dettaglio, sulla natura innata o m e n o del morso letale orientato alla nuca nella puzzola, viene considerata da Gossow (1970) sotto la stessa luce. Secondo Gossow, è possibile che Eibl-Eibesfeldt abbia eseguito il suo esperimento critico t r o p p o tardi, e che ciò lo abbia portato a concludere che la giovane puzzola debba a p p r e n d e re dall'esperienza i vantaggi del morso alla nuca. Questa interpretazione potrebbe essere in parte corretta, anche se Gossow n o n ha tenuto conto delle mie più recenti ricerche sull'ontogenesi dell'orientazione alla nuca del morso letale (p. 147;
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Leyhausen, 1965 b). Questa modesta riserva non intende, com u n q u e , sminuire i risultati di Gossow, che è stato il primo a c o m p r e n d e r e e a sottolineare che il successo o il fallimento dell'esperimento Raspar Hauser d i p e n d e in gran parte dalla fase ontogenetica d u r a n t e la quale viene condotto l'esperim e n t o critico. Le conseguenze sono chiare: occorre che tutti gli esperimenti di deprivazione eseguiti finora, senza eccezione, e in particolare quelli che h a n n o condotto a risultati negativi, siano verificati per controllare se sono stati realizzati durante la fase appropriata, il che spesso ne richiederà la ripetizione, con tutti gli inconvenienti che ciò comporta. Nella prima e nella seconda edizione di questo volume ho esaminato la possibilità che lo sviluppo del morso letale nella sua f o r m a perfetta richieda u n o stimolo supplementare solam e n t e nei piccoli di gatto domestico, come conseguenza di un indebolimento dello stato motivazionale dovuto alla domesticazione. Questa ipotesi si è tuttavia rivelata infondata a f r o n t e delle osservazioni condotte su gatti piedi-neri e su ibridi di gatto domestico e gatto piedi-neri (Leyhausen, 1965 b). Il morso letale, q u a n d o sia indotto da un adeguato stimolo supplementare, si manifesta in m o d o repentino nella sua f o r m a definitiva (cfr. Suricata, Ewer, 1963) e in seguito il gattino vi ricorre p r o n t a m e n t e anche con altre prede. Così stando le cose, mi sono chiesto se in questo caso non si abbia a che fare con una f o r m a di imprinting motorio e se, u n a volta che si sia esaurito un certo «periodo sensibile», l'azione consumatoria del morso letale non possa più svilupparsi o lo possa solo con estrema difficoltà. In ogni caso, a proposito del periodo sensibile, sembrava che solamente il suo inizio potesse essere individuato con u n a certa precisione, m e n t r e il suo termine non potesse essere fissato che in m o d o molto approssimativo. Contro questa interpretazione, K n a p p e (1959-60) sostiene che la soglia per provocare il morso letale, così come p u ò essere superata attraverso un adeguato stimolo supplementare nei piccoli, lo p u ò essere anche nel caso di gatti che siano cresciuti senza alcuna esperienza predatoria, p u r e se essi sono già completamente adulti. Al fine di chiarire questo punto, sono stati eseguiti esperimenti su gatti del Bengala, ibridi di gatto del Bengala e gatto domestico, tre ocelot e un servai. U n o degli ibridi, Natalie, allevato in isolamento, ha dato effettivamente l'impressione di richiedere un laborioso a p p r e n d i m e n t o , cui si è sopra accennato, così come è accaduto alla leonessa Elsa (Adamson, I960), che costituisce un esempio classico. Eaton (1972 b) ha compiuto corrispondenti osservazioni ed esperimenti su g r u p p i di leoni in parchi-safari americani. Con Natalie, il pe-
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riodo di t e m p o più lungo è trascorso prima che essa fosse in g r a d o di uccidere topi, e in molti casi di farlo m e n t r e ci giocava; con i ratti, essa ha « imparato » più velocemente, e ancora più in fretta con le cavie. E possibile che la sua precedente esperienza con i topi abbia avuto qualcosa a che fare con questo, ma senza dubbio il ruolo principale è stato svolto dalla più intensa eccitazione indotta dalle maggiori dimensioni della p r e d a , come dimostrano i numerosi morsi ripetuti, in particolare q u a n d o uccise la prima cavia. Il fatto che le p r e d e di g r a n d i dimensioni abbiano un più elevato valore di stimolo (per lo m e n o q u a n d o non si d i f e n d a n o t r o p p o s t r e n u a m e n t e e, c o m u n q u e , non impauriscano t r o p p o il predatore) mi sembra sia dimostrato dal corso degli esperimenti relativi ai margay: B u e n o ha ucciso un pollo relativamente grosso quasi immediatamente, ma più tardi con una cavia ha esitato fino a ritirarsi; dal canto suo, Bonita ha impiegato molto più t e m p o a uccidere u n a cavia che un pollo. I fratelli di Natalie h a n n o ricevuto le loro prime p r e d e nella gabbia comune. Rani ha subito dimostrato di essere pienam e n t e capace di uccidere. Rim ha avuto bisogno di alcuni giorni prima di poterlo fare e Li ha impiegato un t e m p o ancora più lungo. Tuttavia, d o p o avere ucciso la prima preda, per ogni uccisione successiva h a n n o impiegato m e n o tempo di q u a n t o ne sia occorso a Natalie q u a n d o fu studiata in isolamento. Alcuni esperimenti nei quali vennero usati ratti, vivi e morti, h a n n o inoltre mostrato come a tutti e quattro riuscisse più facile uccidere q u a n d o « non sapevano » che la p r e d a era ancora viva. Per diverse settimane, o g n u n o dei quattro animali riceveva la sera un ratto a p p e n a ucciso; lo sperimentatore teneva i quattro ratti insieme per la coda e Natalie, Li, Rim e Rani si avvicinavano l'uno d o p o l'altro, azzannavano un ratto s e m p r e con un preciso morso alla nuca, quindi si allontanavano per mangiarlo nel luogo riservato al pasto. L'ordine con il quale si avvicinavano rispecchiava non le rispettive posizioni gerarchiche, ma la loro maggiore o minore sottomissione di f r o n t e a un essere u m a n o . Dopo alcune settimane di questa o f f e r t a serale di prede, ho sostituito i ratti morti con ratti ancora vivi. Tutti gli ibridi h a n n o a f f e r r a t o la propria p r e d a senza d a r segno di avere rilevato la differenza, l'hanno portata poco distante e l'hanno uccisa con u n o o d u e rapidi morsi. La sera successiva, anziché tenere i ratti per la coda, li ho posati a terra, u n o a uno, di f r o n t e a me, sul pavimento della gabbia; anche questa volta gli ibridi si sono avvicinati senza esitazioni nell'ordine consueto e ciascuno ha immediatamente ucciso il p r o p r i o ratto con un morso alla nuca. Dopo u n a settimana, Natalie è stata la prima a manifestare una diminuzione di en-
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tusiasmo; si avvicinava con maggiore esitazione e non uccideva con la stessa rapidità e decisione di prima. Il giorno successivo, Li si è trovata in difficoltà con un ratto che si difendeva energicamente ed è riuscita ad avere la meglio solo d o p o u n a lunga battaglia. Da allora in poi, Natalie e Li non a f f e r r a v a n o più i ratti che io tenevo in m a n o con la scioltezza e la decisione di prima, né uccidevano con altrettanta rapidità e sicurezza. Come mostra l'analisi del gioco inibito (pp. 165 sg.), u n o dei fattori che in un animale inesperto bloccano il morso letale è senza dubbio il timore della p r e d a viva. Gli esperimenti condotti su gatti del Bengala di sangue puro h a n n o dato risultati simili. Le f e m m i n e Kali, Durga e Bigger probabilmente avevano già incontrato p r e d e vive in precedenza; la f e m m i n a Small ha richiesto un periodo di t e m p o maggiore p e r arrivare a uccidere per la prima volta, ma probabilmente solo perché era di r a n g o sociale inferiore a Bigger, con la quale condivideva la gabbia. Fu p r o p r i o l'inferiorità di r a n g o sociale di Li a ritardarne lo sviluppo della capacità di uccidere, benché essa potesse farlo altrettanto bene dei suoi fratelli q u a n d o prendeva ratti vivi dalla mano. A differenza delle f e m m i n e di gatto del Bengala, il maschio Shiva quasi certamente non aveva esperienze predatorie precedenti. Poiché è stato sottoposto a sperimentazione da solo non ha potuto u s u f r u i r e di generici stimoli supplementari e, con il suo p r i m o ratto, ha avuto bisogno di raggiungere faticosamente il necessario livello di eccitazione in un lungo processo di gioco e di lotta. All'epoca degli esperimenti un altro animale che, oltre a Shiva, certamente non aveva avuto alcuna esperienza con p r e d e vive era una f e m m i n a di servai dell'età di 18 mesi, nata nello Zoo di Basilea. Su di essa è stata condotta un'estesa sperimentazione, interamente filmata (Leyhausen, 1965 b), che ha confermato pienamente l'affermazione di K n a p p e (1959-1960) secondo cui gli stimoli supplementari sono efficaci anche sugli animali adulti (si veda p. 131). I uttavia, e r a n o necessari stimoli supplementari assai più intensi che nel caso dei piccoli per ottenere lo stesso effetto: non si sono rivelati sufficienti né la vista di un competitore conspecifico nella gabbia contigua, né i tentativi diretti di un mio assistente di « c o m p e t e r e » , tentativi che venivano frequentemente ripetuti e spinti fino al limite; solamente la competizione diretta e decisamente brutale con un conspecifico di rango sociale superiore ha condotto Shiva al p u n t o di uccidere per la prima volta u n a cavia, con un morso alla nuca inferto con tutta forza. Non vi è quindi alcuna differenza fondamentale nel m o d o m cui il morso letale si manifesta per la prima volta nei piccoli
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o negli animali adulti che fino a quel m o m e n t o n o n h a n n o avuto esperienze con prede. Il valore di soglia dello stimolo necessario p e r provocarlo è tuttavia considerevolmente più alto in animali subadulti o p i e n a m e n t e adulti che nei piccoli nello stadio di sviluppo sopra indicato. E d u n q u e in questo senso che si p u ò parlare di periodo sensibile; tuttavia, u n a mancata attivazione del morso letale nel corso di esso n o n d e t e r m i n a carenze comportamentali irreversibili. E possibile che anche gli animali da me osservati, che non h a n n o mai ucciso u n a p r e d a in vita loro, lo avrebbero fatto se avessero ricevuto u n a « terapia stimolatoria » simile a quella somministrata alla femmina di servai. Le scoperte sopra riferite rivelano chiare somiglianze con il f e n o m e n o di immagazzinamento di percezione sensoriale chiamato da Lorenz (1935) « i m p r i n t i n g » . In entrambi gli esempi vi è il periodo sensibile, d u r a n t e il quale il pieno svil u p p o della f u n z i o n e o si deve verificare se essa di fatto deve evolversi o, q u a n t o m e n o , viene considerevolmente facilitato. Inoltre, in entrambi i casi l'effetto si consolida assai rapidamente, spesso d o p o u n a sola esecuzione, ed è p e r questo motivo che Lorenz suggerì il c o n f r o n t o con « u n a trappola che si chiude a scatto ». Ma è possibile a f f e r m a r e , come accennato in precedenza, che nella sfera motoria vi sia un processo paragonabile all'imprinting? Dire, per esempio, come f a n n o n o n pochi autori (in particolare di lingua inglese), che la « reazione del seguire è risultato di imprinting », come avviene nelle anatre, significa impiegare u n a terminologia specifica in m o d o impreciso: in realtà, sono alcune caratteristiche dell'oggetto che le a n a t r e seguono in m o d o esclusivo a essersi fissate per imprinting in un qualche p u n t o del loro a p p a r a t o sensoriale e n o n l'atto del seguire di per sé; le componenti motorie del c o m p o r t a m e n t o n o n subiscono alcuna alterazione. Nel caso qui in discussione è vero che le cose appaiono come se l'attività motoria fosse stata modificata da u n a sola esecuzione completa. Tuttavia, come ho già accennato, il cambiamento è di natura quantitativa e n o n qualitativa: la coordinazione del morso con cui viene a f f e r r a t a la p r e d a è già presente, solo che il morso non viene esercitato con forza sufficiente per uccidere la p r e d a . Questo potrebbe essere il risultato di un effetto diretto sulle c o m p o n e n t i motorie del sistema neurale implicato; e tuttavia d o b b i a m o chiederci se non siano invece i meccanismi propriocettivi implicati a essere influenzati dall'imprinting e se n o n sia qui che si debba cercare « il maestro innato » che dice all'animale: « Quello era il m o d o giusto! ». Per il m o m e n t o , il problema r i m a n e irrisolto. S e m b r a n o anche esistere alcuni rari casi di gatti domestici la
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cui incapacità di uccidere sia determinata geneticamente e non rappresenti il risultato di u n a mancata attivazione d u r a n te il periodo sensibile. Alla base di ciò potrebbe esservi un'insufficiente produzione di taluni mediatori colinergici. Se si iniettano per via intraperitoneale sostanze antagoniste muscariniche che p e n e t r a n o r a p i d a m e n t e nel cervello, queste hanno l'effetto di fare a u m e n t a r e in m o d o specifico la rapidità di risposta nell'uccidere la preda, proporzionalmente alla dose somministrata. Questo effetto p u ò tuttavia essere bloccato mediante trattamento preventivo con solfato di atropina o scopolamina (Berntson e Leibowitz, 1973). E del tutto ragionevole s u p p o r r e che un sistema di antagonisti chimici potrebbe risentire di perturbazioni a livello sia genetico sia ontogenetico. Tuttavia, le sostanze muscariniche sintetiche usate dagli autori sopra citati p r o d u c o n o effetti collaterali periferici che sono assenti in condizioni naturali, per cui i risultati della loro indagine v a n n o considerati solamente un'approssimazione del sistema biochimico reale. Le osservazioni di Inselman e Flynn (1972, 1973) forniscono una c o n f e r m a indiretta del fatto che il c o m p o r t a m e n t o predatorio è influenzato da fattori umorali oltre che neurali. Come descritto più avanti, il c o m p o r t a m e n to predatorio è indotto nel gatto dalla stimolazione elettrica di alcune aree ipotalamiche. Se, però, viene contemporaneamente stimolata l'area preottica periventricolare, l'effetto della stimolazione ipotalamica viene soppresso; l'azione inibitoria, tuttavia, d u r a almeno 3 minuti e probabilmente arriva a persistere, con forza decrescente, almeno per un'ora d o p o che la stimolazione preottica viene interrotta. Inoltre, l'intero sistema è sotto controllo ormonale, come dimostrano i differenti effetti che gli ormoni sessuali producono, rispettivamente, nei maschi e nelle f e m m i n e : la follicolina a u m e n t a la rapidità di risposta nel cacciare p r e d e nella femmina, ma la diminuisce nel maschio; estradiolo, luteina e testosterone p r o d u cono l'effetto contrario. Viene spontaneo chiedersi quale significato abbiano questi effetti ai fini della sopravvivenza, dal m o m e n t o che il bisogno di cibo di un animale non d i p e n d e in m o d o d e t e r m i n a n t e dal suo equilibrio ormonale in quel momento. C o m u n q u e , non vi p u ò essere dubbio che gli effetti ormonali osservati abbiano un loro valore (si vedano pp. 123 sg., 242). L'interpretazione in precedenza avanzata sulla natura del morso letale, basata su osservazioni e analisi etologiche puramente qualitative, è indirettamente confermata dai risultati ottenuti da Randall (1964). Le lesioni nella parte posteriore del mesencefalo del gatto domestico producono, a seconda dell'area coinvolta, differenti conseguenze sulla capacità di in-
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fliggere il morso letale e di eseguire il morso con cui l'animale compie un'energica pulizia della propria pelliccia (morso di pulizia), benché in entrambi i casi sia attivato lo stesso g r u p p o di muscoli. Soggetti con lesioni al tegmento e al tetto del mesencefalo non uccidevano la preda spontaneamente; tuttavia in essi si è potuto provocare il morso letale per stimolazione tattile delle labbra (cfr. p. 101); questi animali non si pulivano e n o n si sono potuti i n d u r r e i morsi di pulizia in nessuna circostanza. Invece, lesioni ventrolaterali sullo stesso piano f r o n tale non h a n n o soppresso il c o m p o r t a m e n t o predatorio, compresa la capacità di infliggere il morso letale; si sono potuti ind u r r e morsi di pulizia compiuti a vuoto in seguito a lieve stimolazione di aree cutanee che, se stimolate in un gatto integro, non provocano tale comportamento. B r ù g g e r (1943) e Hess (1954) h a n n o indotto nel gatto « l'impulso a mangiare e a m o r d e r e » mediante elettrostimolazione della sostanza grigia centrale dell'ipotalamo. I filmati degli esperimenti mostrano che, in alcuni casi l'elettrostimolazione ha indotto solamente il morso letale, talora nella f o r m a del tipico morso ripetuto più volte (fig. 10.4; cfr. fig. 29.1 a; cfr. anche fig. 35 c, p. 81, in Hess, 1954). Nella maggioranza dei casi, gli effetti prodotti non rientravano in alcuna categoria definita e, q u a n d o venivano offerti cibo o latte, l'azione del m o r d e r e si tramutava corrispondentemente nell'azione del masticare o del deglutire, o anche del leccare, e talvolta facevano la loro comparsa, simultaneamente, deboli segnali del c o m p o r t a m e n t o emotivo/difensivo descritto da Hess e Brùgger (1943). C o m u n q u e , la spiegazione di questi fatti va ricercata m e n o nella n a t u r a del gatto e più in quella degli esperimenti di elettrostimolazione; ritornerò su questo p u n t o in m o d o più esauriente più avanti (pp. 260 sgg.). Wasman e Flynn (1962), mediante elettrostimolazione della regione anterolaterale dell'ipotalamo, sono riusciti a i n d u r r e nei gatti il morso letale assieme al relativo c o m p o r t a m e n t o appetitivo. Roberts e Riess (1964) sono ricorsi alì'elettrostimolazione della stessa area per addestrare alcuni gatti, che in assenza di stimolazione non avrebbero cacciato, a cercare la preda in un labirinto a Y e ad ucciderla con un morso. In altre parole, in questo esperimento l'elettrostimolazione ha avuto il ruolo di «stimolo s u p p l e m e n t a r e » . Esso era abbastanza forte da i n d u r r e un gatto che non mangiava da 48 ore a interrompere il pasto che gli era stato a p p e n a presentato e ad a n d a r e in cerca di u n a preda. E interessante notare che in nessun caso l'effetto dell'elettrostimolazione, singola o reiterata che fosse, persisteva negli animali sperimentali una volta cessata la sti-
Fig. 10.4. Morso letale indotto da stimolazione elettrica e inflitto a un bastone tenuto davanti al gatto. W.R. Hess, caso 228, fotogramma F 4(6) 1. Per altre informazioni si veda il testo.
molazione stessa; essi, infatti, rimanevano in atteggiamento pacifico verso la preda. Queste osservazioni dimostrano inequivocabilmente che i moduli comportamentali fissi della cattura e dell'uccisione della preda sono presenti con piena funzionalità operativa nel sistema nervoso centrale anche quando gli animali normalmente non li utilizzano. In presenza di una preda, animali sottoposti a stimolazione elettrica esplicano i corrispondenti moduli comportamentali nella loro interezza già la primissima volta; nulla indica che essi abbiano avuto bisogno di a p p r e n d e r e qualcosa al riguardo, come ci si sarebbe dovuto attendere secondo Kuo (1931). Ciò che tuttavia essi apprendono, sotto la spinta dell'impulso a uccidere indotto dalla stimolazione elettrica, è cercare la preda in un labirinto q u a n d o non ve n'è alcuna immediatamente visibile. In altri termini, l'impulso a uccidere che è stato attivato « motiva » il comportamento appetitivo, e di quest'ultimo il gatto apprende una forma che si adatta alla situazione sperimentale. Un problema che a questo punto si pone è quello di comprendere perché i gatti negli esperimenti che ho descritto abbiano continuato a uccidere dopo la prima induzione del morso letale, mentre quelli stimolati elettricamente non lo hanno fatto. A quanto sembra, è necessario fare qui una distinzione tra effetti immediati ed effetti ritardati. T a n t o negli esperimenti riportati da Hess e Briigger (1943), quanto in quelli che ho potuto osservare nel laboratorio di Flynn, talvolta accade che, d o p o la sospensione della stimolazione elettrica, 1 animale sperimentale continui a « mordere ripetutamente » un bastone (Brùgger, Hess) o un ratto e, in qualche caso, accade che l'animale morda solamente in tale momento. Questo effetto ritardato non d u r a mai più di qualche secondo. Ciò
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suggerisce che negli esperimenti di elettrostimolazione sin qui compiuti venga attivato esclusivamente l'aspetto motorio del movimento istintivo « morso letale » (« schema motorio fisso innato », Lorenz, 1937 a; « stampo motorio », Kretschmer, 1953), e n o n ne venga influenzata la componente motivazionale; in altre parole, la stimolazione del sistema nervoso centrale si sostituisce alla motivazione endogena ma non ne stimola l'attività a u t o n o m a . Nei piccoli, tuttavia, la motivazione p e r m a n e in u n o stato attivato per il processo di maturazione descritto in precedenza, e lo « stimolo supplementare » ha semplicemente l'effetto di accelerare e facilitare tale processo (p. 127). Questo n o n significa, tuttavia, che l'elettrostimolazione non possa mai stimolare un meccanismo motivazionale atrofico sì da farlo f u n z i o n a r e in m o d o continuo e automatico. Delgado e A n a n d (1953) h a n n o sottoposto alcuni ratti, a brevi intervalli per un lungo periodo di tempo, a una stimolazione subliminale del « centro dell'appetito », che non ha portato ad alcuna reazione esterna visibile; da 1 a 9 giorni d o p o la sospensione della stimolazione, gli animali h a n n o sviluppato iperfagia. Almeno da un p u n t o di vista teorico, è verosimile che, sottoponendo a stimolazione altre aree cerebrali e/o scegliendo altri parametri di stimolazione, si riesca a m a n t e n e r e attivo in p e r m a n e n z a il c o m p o r t a m e n t o di uccisione anche in gatti che in precedenza non abbiano mai fino ad allora attaccato u n a preda. Esiste un altro fattore che p u ò avere effetti prolungati sulla motivazione a u t o n o m a a « uccidere »: si osserva che felini che n o n siano stati abituati a nutrirsi di animali morti prima di avere ucciso per la prima volta, uccidono altrettanto rapidam e n t e o lentamente dei soggetti di controllo il cui esclusivo cibo solido sia costituito da animali morti. Questi ultimi, tuttavia, c o n s u m a n o la prima p r e d a che uccidono generalmente senza grandi esitazioni, m e n t r e i primi non sanno che farsene, in q u a n t o non vedono in essa nulla di commestibile. Occorre quindi insegnare loro a mangiarla e, a tal fine, occorre tagliare un poco a pezzi l'animale morto, in m o d o che percepiscano direttamente l'odore e il sapore della carne cruda. U n a conferma di ciò, a proposito dei leoni, ci viene da Eaton (1972 b). Se i gatti sono già piuttosto vecchi e non abituati alla carne cruda, è spesso assolutamente impossibile convincerli a cibarsi delle p r e d e loro destinate dalla natura. Alcuni, nondimeno, rimangono accaniti cacciatori, ma non la maggior parte. In altre parole, u n a volta che i gatti abbiano colto la relazione tra l'uccid e r e e il procurarsi cibo, questo stesso fatto contribuisce a mantenerli in esercizio nell'uccidere. Senza il costante rinforzo costituito dal soddisfacimento della fame, l'attitudine a uccidere p u ò atrofizzarsi in m o d o più o m e n o completo, anche se ciò, a quanto sembra, non sempre necessariamente accade.
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Analogamente a quanto si verifica per il trofismo dei muscoli scheletrici (Heiligenberg, 1963, 1964), la facilità con la quale almeno alcuni movimenti istintivi sono eseguiti d i p e n d e dall'uso o dalla mancanza d'uso. E evidente che il morso letale del gatto è un movimento istintivo di questo tipo (Leyhausen, 1965 b). Anche nel caso di giovani gatti abituati a catturare topi, l'« uccidere » è assai m e n o soggetto ad accumulo di altre componenti del c o m p o r t a m e n t o predatorio (si vedano pp. 166 sgg., 174 sgg.). Per i loro esperimenti, Roberts e Kiess (1964) h a n n o c o m u n q u e utilizzato gatti specificamente selezionati in q u a n t o atrofici a livello di morso letale, e questi animali n e p p u r e in seguito si abituarono a mangiare le p r e d e uccise nel corso dell'esperimento di stimolazione. Lo sviluppo del morso letale non è semplicemente qualcosa che ha a che fare con la formazione di u n a risposta condizionata. Il « rinforzo attraverso il soddisfacimento della f a m e » , a cui si è accennato sopra, deve essere considerato come u n a sorta di « stimolo alla crescita » fisiologico. Perciò, la f a m e o il desiderio di mangiare, da soli, non sono sufficienti a far superare per la prima volta il valore di soglia al morso letale (si veda p. 176). I risultati degli esperimenti di Roberts e Bergquist (1968), descritti a pp. 102 sg., potrebbero essere stati quindi influenzati dalla possibilità che i soggetti di controllo, benché privi di esperienza di qualsivoglia f o r m a di cattura della preda, abbiano tuttavia eseguito i movimenti istintivi richiesti nell'attività predatoria giocando con i fratelli più spesso e con maggiore continuità di quanto abbiano potuto fare gli animali allevati in isolamento con gli oggetti presenti nella loro gabbia, che erano m e n o stimolanti e m e n o adatti come oggetti con cui giocare a cacciare. È quindi possibile che l'appropriato stato motivazionale individuale degli animali di controllo fosse stato esercitato a un più elevato livello di rapidità di risposta contingente e fosse quindi più sensibile all'elettrostimolazione rispetto agli animali allevati in isolamento. Per ora, non ne possiamo essere certi. Sappiamo, tuttavia, che il livello contingente di u n a disposizione interna è in parte responsabile dei risultati della stimolazione elettrica del cervello (Hess, 1943; von Holst e von Saint-Paul, 1960). Kuo (1931) ha studiato lo sviluppo del c o m p o r t a m e n t o predatorio in 59 gattini, che egli aveva suddiviso in sei g r u p p i sperimentali (tab. 10.1). In ogni g r u p p o , metà degli animali è stata sottoposta a sperimentazione subito d o p o aver mangiato, 1 altra metà dodici ore più tardi. I soggetti indicati nella tabella 10.1 come «allevati in isolamento» e r a n o stati sottratti alle rispettive m a d r i f r a gli 8 e i 10 giorni di età, alimentati con il biberon, completamente isolati gli uni dagli altri, e inoltre non
Tab. 10.1.
Modalità di allevamento e dieta.
Dieta
Allevati in isolamento
Allevati dalla madre
Allevati con un animale-preda
Vegetariana
10
10
9
Con abbondanza di carne
10
11
9
Totale
20(9)
21(18)
18(3)
Tra parentesi il numero di soggetti che hanno ucciso la preda.
era stato mai loro permesso di vedere una preda, tranne che d u r a n t e gli esperimenti. I soggetti nella seconda colonna erano rimasti per tutto il tempo con la madre; dall'età di otto giorni in poi, ogni quattro giorni potevano osservare la madre mentre, al di fuori della loro gabbia, uccideva una preda, ma non era loro permesso di cibarsene. Infine, i soggetti nella terza colonna (allevati con un animale-preda come compagno), dall'età di una settimana circa venivano rinchiusi per alcune ore al giorno da soli insieme con uno specifico animale-preda e, d o p o lo svezzamento, rimanevano con esso per tutto il tempoFurono impiegati tre tipi di prede: topi ballerini, topolini delle case e ratti bianchi. A ciascun gattino venivano offerti tutti e tre i tipi, in modo regolarmente alternato. Tutti gli esperimenti avevano luogo nella gabbia dove il gattino viveva (di dimensioni 9 1 x 6 1 x 6 1 cm). Nel periodo precedente lo svezzamento, la madre e il resto della cucciolata venivano allontanati dalla gabbia al momento dell'esperimento. Essendo all'oscuro dell'importanza svolta dai fratelli in rapporto all'induzione del morso letale in tutta la sua potenza, Kuo ha in questo modo eliminato un importante fattore di sviluppo. Dall'età di 6-8 giorni in poi, ogni quattro giorni una preda veniva introdotta nella gabbia e qui lasciata per 30 minuti. Se veniva uccisa, quel tipo di preda veniva escluso dai test successivi. Si proseguiva fino a che il gattino sperimentale non avesse ucciso tutti e tre i tipi di preda, o p p u r e avesse raggiunto i 4 mesi di età. Nella tabella 10.1, i numeri tra parentesi indicano i risultati ottenuti in ogni gruppo. H a n n o ucciso la preda 9 gattini allevati in isolamento, 18 allevati dalla madre e solo 3 allevati con un animale-preda (e questi ultimi, inoltre, hanno ucciso un animale di tipo diverso da quello con cui erano cresciuti). Il ti-
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po di alimentazione, completamente vegetariana o con carne, non ha avuto alcun effetto sullo sviluppo della capacità di uccidere, m e n t r e probabilmente ha avuto influenza sul fatto che la p r e d a venisse in seguito mangiata o p p u r e no: solamente 4 soggetti « vegetariani » contro 17 « carnivori » se ne sono cibati. Anche l'intensità della f a m e non ha esercitato alcuna influenza. Non tutti gli animali sperimentali denominati « killer » hanno ucciso tutti e tre i tipi di preda; tuttavia, senza alcuna eccezione, gli individui che h a n n o ucciso i ratti bianchi h a n n o ucciso anche e n t r a m b e le altre specie di topi. E interessante notare che, in questi casi, il ratto bianco è stato sempre ucciso per primo. I killer nel g r u p p o dei soggetti allevati dalla m a d r e h a n n o sempre ucciso il tipo di p r e d a che avevano visto uccidere dalla m a d r e (a cui veniva o f f e r t o sempre lo stesso tipo di preda), anche se, in tre casi, non è stato quello che essi h a n n o ucciso per primo. Da tutto ciò, Kuo trae la conclusione che i gatti non possied o n o l'« istinto di uccidere i ratti » e che l'intero sviluppo del c o m p o r t a m e n t o è determinato dalla formazione di risposte condizionate. Tuttavia, le sue argomentazioni, in q u a n t o discendono da assunti errati, sono infondate, e così Kuo trascura nel suo progetto sperimentale alcune condizioni essenziali. 1) Mentre Kuo definisce espressamente le madri nel g r u p po dei soggetti allevati dalla m a d r e abili cacciatrici di topi, non fornisce alcuna informazione in questo senso sulle madri degli individui a p p a r t e n e n t i agli altri d u e gruppi. N e g a n d o decisamente l'ereditarietà di moduli comportamentali, Kuo n o n ha tenuto conto di possibili influenze ereditarie all'atto della scelta delle madri e ha trascurato di compiere gli appropriati esperimenti di controllo. 2) Nelle gabbie impiegate negli esperimenti, di dimensioni eccessivamente ridotte, gli animali usati come preda, non essendo abituati a quell'ambiente, si saranno limitati ad annusare qua e là lentamente. Pertanto, è venuto a mancare lo stimolo scatenante che è essenziale per suscitare il c o m p o r t a m e n t o predatorio (p. 91), soprattutto per un gatto privo di esperienza. Inoltre la piccola gabbia era il naturale « rifugio privato » del gatto e il ritrovarsi u n a « preda in casa propria » porta evid e n t e m e n t e una situazione di disagio (cfr. p. 48), a m e n o che non sia stato il gatto stesso a recarvela. 3) Air epoca di questi esperimenti, i risultati analitici della ricerca etologica non e r a n o ancora disponibili. Di conseguenza, Kuo non era in g r a d o di riconoscere che un movimento istintivo è coordinato a livello di sistema nervoso centrale, che il m o d o in cui esso viene compiuto è essenzialmente indipen-
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II comportamento dei gatti
dente da stimoli esterni e che esso non f o r m a mai, d u r a n t e la filogenesi o l'ontogenesi o l'actogenesi, una singola unità genetica con i meccanismi nervosi che lo inducono e con gli stimoli che attivano tali meccanismi. Pertanto Kuo n o n riesce a liberarsi del macchinoso concetto di « istinto di uccidere i ratti» e conclude che, qualora se ne accetti l'esistenza, bisogna anche c r e d e r e che vi sia P« istinto di amare i ratti »; infatti, come dimostrano i gattini allevati in compagnia di p r e d e nei suoi esperimenti, è del tutto possibile i n d u r r e gatti ad « amare » ratti. Tuttavia, come dimostra l'esempio di Tilly, un gatto di T e m m i n c k (Leyhausen, 1965 b), anche i felini selvatici adulti, che si n u t r o n o solamente delle p r e d e che essi stessi uccidono, possono esibire c o m p o r t a m e n t i tolleranti e persino amichevoli verso singoli individui delle specie predate, senza che ciò ne inibisca in alcun m o d o il c o m p o r t a m e n t o predatorio verso altri esemplari delle stesse specie. Anche nel suo più recente libro (1967), Kuo n o n ha a b b a n d o n a t o le sue vecchie concezioni erronee, e così n o n è in g r a d o di c o m p r e n d e r e il p u n t o di vista etologico. 4) Per tale ragione Kuo n o n specifica n e p p u r e se i suoi soggetti sperimentali abbiano ucciso le p r e d e con un morso letale correttamente orientato, o p p u r e giocando con esse per un tempo prolungato, il che è del tutto possibile se il gioco si protrae per mezz'ora. In altre parole, Kuo non c o n f r o n t a gli schemi motori, ma solo i loro effetti. 5) Kuo trascura c o m p l e t a m e n t e il fattore maturazione. Gli esperimenti sono stati a r b i t r a r i a m e n t e sospesi q u a n d o i soggetti sperimentali, c h e avevano ucciso la loro p r i m a p r e d a f r a i 40 e i 121 giorni di età, avevano 4 mesi, b e n c h é poi a n c o r a per un paio di mesi egli abbia trattato gli individui « n o n killer» del g r u p p o «allevati in isolamento» e del g r u p p o «allevati con un animale-preda» allo stesso m o d o degli individui «allevati dalla m a d r e » . Al che, altri 9 soggetti degli 11 n o n killer del g r u p p o « allevati in isolamento » sono diventati killer, m e n t r e lo è diventato u n o solo dei 15 del g r u p p o «allevati con un a n i m a l e - p r e d a » . Anche in questo caso, m a n c a n o controlli (cfr. p p . 130 sg.). N o n sappiamo inoltre esattamente a quale età o g n u n o degli individui killer abbia ucciso p e r la prima volta. L'ampio spettro e n t r o cui sono distribuiti i dati relativi alla p r i m a uccisione è estremamente indicativo di q u a n t o irregolare debba essere stato lo sviluppo dei gattini nejje date condizioni sperimentali. In conclusione, l'intera metodologia sperimentale seguita a p p a r e da e n t r a m b i i punti di vista, del gatto e della p r e d a , n o n c o n f o r m e ai canoni biologici. L'errore risiede nella rigida concezione behavioristica della sperimentazione, presa a pre-
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stito in m o d o frainteso dalla fisica, nella grossolana sottostima della molteplicità dei fattori, interni ed esterni, responsabili del c o m p o r t a m e n t o in esame, infine nel disdegno di compiere o s s e r v a z i o n i imparziali su ciò che n o n è direttamente indirizzato all'esperimento. Malgrado queste critiche, r i m a n e com u n q u e il fatto che, nei quattro mesi del periodo sperimentale, a p p e n a la metà dei soggetti allevati in isolamento è diventata killer, m e n t r e sono diventati killer quasi tutti quelli allevati dalla m a d r e . E p p u r e , gli animali di quest'ultimo g r u p p o n o n e r a n o in g r a d o di ricevere la p r e d a direttamente dalla m a d r e . Sorge la d o m a n d a di q u a n t o possa influenzare un gattino la semplice vista di un adulto che caccia. A mio avviso, esistono cinque possibilità. 1) L'essere allevato dalla m a d r e o in isolamento n o n comporta influenze specifiche. Un gattino allevato in isolamento è semplicemente m e n o sicuro e più ansioso di u n o allevato insieme alla m a d r e e ai fratelli. Scott e Fuller (1965) h a n n o osservato analoghe situazioni con giovani cani allevati in isolamento. Il fatto che la p a u r a e l'insicurezza s o p p r i m a n o certi modi di c o m p o r t a m e n t o n o n significa, c o m u n q u e , che l'animale n o n li possieda. Anche in questo caso, si avverte di nuovo, in m o d o particolarmente acuto, la mancanza di u n a precisa descrizione del c o m p o r t a m e n t o degli animali da parte di Kuo. 2) In condizioni normali, cioè q u a n d o n o n si impedisce alla m a d r e di consegnare la p r e d a , essa stessa con il suo comportamento, e in particolare con il suo brontolio, a u m e n t a l'eccitazione dei piccoli e, in tal m o d o , contribuisce a fare raggiungere la piena intensità al loro c o m p o r t a m e n t o volto a uccidere. Negli esperimenti di Kuo, i soggetti sperimentali ricevevano sempre la p r e d a subito d o p o che la m a d r e aveva loro « mostrato » come la si cattura; l'eccitazione così p r o d o t t a potrebbe avere avuto un r e t r o e f f e t t o immediato. Come regola generale, nei felini l'eccitazione, u n a volta attivata, si attenua lentamente (p. 368). 3) Un imprinting verso alcune specie di p r e d e è concepibile ma non molto probabile, dal m o m e n t o che gli individui ai quali la m a d r e abbia recato al nido solamente p r e d e di u n a data specie cacciano in seguito anche altre specie. F6 n o n è stata mai in g r a d o di p o r t a r e se n o n topi ai p r o p r i piccoli F8, F9, FIO, F l l e M12. Q u a n d o questi h a n n o raggiunto i sette mesi di età, un pulcino di un giorno è stato presentato prima a F l l e M12 in test individuali, poi ai sei animali tutti insieme. F l l e M12 h a n n o dato al pulcino qualche colpetto con la zampa, e tutti gli altri gatti osservavano la scena con interesse, ma nessuno di essi, n e m m e n o F6, ha portato un attacco sul serio.
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Otto giorni più tardi, M12 ha ucciso senza esitazioni un altro pulcino e lo ha mangiato. Esistono parimenti n u m e r o s e altre osservazioni che contraddicono l'ipotesi di un imprinting verso u n a p r e d a specifica. Kuo (1967) riferisce di suoi esperimenti che p r e t e n d o n o di dimostrare che i gatti mangiano solo il cibo con il quale sono stati nutriti da piccoli. Le mie osservazioni in merito portano tuttavia a negare validità all'idea che il p r i m o cibo solido che un gattino consuma possa avere u n a tale influenza assoluta. Che cosa esattamente determini il fatto che un gatto preferisca certe specie di p r e d e ad altre e fino a che p u n t o esso abbia a che vedere con le differenti dimensioni delle p r e d e rimane un problema aperto. In base alla mia esperienza fin qui maturata, i piccoli di madri che sono esclusivam e n t e cacciatrici di topi, e che quindi non portano mai ratti al nido, da adulti non diventeranno cacciatori di ratti. In ogni caso, i dati disponibili non sono sufficienti per attribuire a questa circostanza il carattere di un principio generale o per consentire di t r a r r e conclusioni circa le cause. 4) I gatti i m p a r a n o a riconoscere quali animali possano diventare u n a preda. Come ho già accennato (pp. 92 sgg.), solo i gatti del tutto inesperti richiedono lo stimolo dato dal movim e n t o della p r e d a per essere indotti alla sua cattura; gli individui esperti catturano invece immediatamente anche p r e d e immobili. La conoscenza secondo cui certe specie sono p r e d e è p e r t a n t o acquisita. 5) I gatti possono in effetti a p p r e n d e r e attraverso l'osservazione, come è stato dimostrato da Teyrovsky (1924) e da Marvin e H a r s h (1944): questi autori h a n n o disposto a semicerchio u n a serie di piccole gabbie di rete metallica, o g n u n a con un gatto, intorno a una gabbia nella quale un altro gatto imparava a risolvere, per tentativi ed errori, un problema nuovo p e r lui. In seguito, gli animali « spettatori » h a n n o risolto lo stesso problema sostanzialmente in m o d o molto più rapido e d e t e r m i n a t o rispetto agli animali di controllo che non avevano osservato un altro conspecifico m e n t r e imparava a trovare la soluzione. Le mie critiche a Kuo sono state giudicate infondate da Rosenblatt e Schneirla (1962) e da Schneirla, Rosenblatt e Tobach (1963). Questi ultimi in particolare a f f e r m a n o : «Benché non sia stato dimostrato che l'influenza m a t e r n a si traduca in u n a f o r m a di specifico insegnamento, come spesso viene dato per scontato, essa è indubbiamente importante affinché il comp o r t a m e n t o predatorio nel giovane animale inizi a manifestarsi e si organizzi». Ciò è perfettamente valido per quanto r i g u a r d a la fase di inizio del c o m p o r t a m e n t o predatorio nel senso descritto a pp. 114 sgg. ma è del tutto inesatto in relazio-
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ne all'organizzazione del comportamento, come dimostrano non solo le mie ricerche, ma anche quelle di T h o m a s e Schaller (1954) e gli esperimenti di elettrostimolazione di Roberts e Kiess (1964), (pp. 124, 136 sg., 150 sg.). Rosenblatt e Schneirla (1962, p. 458) scrivono: « Normalmente, il processo di avvio dei gattini all'uccisione di piccoli m a m m i f e r i è graduale, in quanto si passa dalla fase iniziale, in cui essi si cibano di p r e d e morte portate al nido dalla madre, alla fase in cui essi accomp a g n a n o la m a d r e nelle sue battute di caccia. In questo modo, i piccoli la osservano m e n t r e caccia e uccide e sono indotti a comportarsi allo stesso m o d o » . Ora, è vero che i cuccioli meno giovani di certe specie di grandi felini, come leoni, tigri e ghepardi, seguono la m a d r e prima di essere in grado di cacciare da soli, ma i piccoli di specie di felini di taglia inferiore almeno quelli finora osservati - non lo f a n n o mai (si veda p. 370). Spesso essi n o n h a n n o visto la m a d r e uccidere, prima di fare altrettanto, in q u a n t o f r e q u e n t e m e n t e il primissimo topo che la m a d r e porta vivo al nido viene ucciso da u n o di loro e la m a d r e non ha bisogno di farlo in loro presenza. L'esempio estremo è fornito dal gatto piedi-neri, nel cui caso la m a d r e non a f f e r r a n e p p u r e per la nuca, per riportarla indietro, u n a p r e d a che sfugge ai piccoli, come farebbe un gatto domestico, ma semplicemente blocca il suo cammino con u n a zampa e la ricaccia indietro, nella direzione dei piccoli (Leyhausen, 1965 b; Leyhausen e T o n k i n , 1966). Pertanto, i fatti essenziali non stanno come sostengono i tre autori sopra citati. Soprattutto, essi trascurano, al pari dello stesso Kuo, il fatto che proprio i risultati ottenuti da quest'ultimo p o n g a n o difficoltà insuperabili sulla strada che porta a interpretare il c o m p o r t a m e n t o predatorio come qualcosa che debba essere appreso: se così fosse, come sarebbero giunti a uccidere la p r e d a i nove animali del g r u p p o «allevati in isolamento» (si veda la tab. 10.1)? Inoltre, anche quattro animali del g r u p p o « allevati con un animale-preda » h a n n o ucciso spontaneamente, benché in un caso ciò n o n sia avvenuto che molto più tardi. Qui le analisi statistiche non h a n n o un peso decisivo: se sono necessarie esperienze specifiche affinché emerga la capacità di uccidere, allora quest'ultima non può, n e p p u r e in un caso, verificarsi i n d i p e n d e n t e m e n t e da queste esperienze; in caso contrario, esse semplicemente non sono necessarie. Possono forse facilitare e a f f r e t t a r e la comparsa del c o m p o r t a m e n t o interessato, ma non sono indispensabili, e quindi non possono n e p p u r e avere alcun decisivo effetto sulla causazione e sull'ontogenesi della f o r m a specifica del comportamento. Questo fatto, come ha dimostrato Lorenz (1961), mina alla base le ragioni addotte da Kuo.
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In conclusione: tutte le azioni individuali coinvolte nella cattura e nell'uccisione della p r e d a finora menzionate sono «caratteristiche peristostabili», e m a t u r a n o indipendentem e n t e da stimoli esterni, con u n a velocità che varia considerevolmente da individuo a individuo. Solo l'uccidere richiede, p e r m a t u r a r e fino alla sua piena intensità, un'eccitazione supp l e m e n t a r e non specifica; ciò vale anche nel caso di alcune specie selvatiche, a quanto finora mi risulta.
11. L'orientazione del morso letale Nella prima edizione di questo volume ho sostenuto che nei felini l'orientazione del morso letale verso la nuca della preda è innata; si tratta di una affermazione non esatta, e però nemmeno del tutto errata. L'appropriata descrizione dei fatti potrebbe essere all'incirca la seguente: meccanismi scatenanti innati peristostabili, tassie e movimenti istintivi si sviluppano nei piccoli in modo tale che i primi seri tentativi di catturare una preda normalmente si concludono con un morso alla nuca. Desidero approfondire questo argomento perché esso ci fornisce tra l'altro un ottimo esempio di quanto debba essere accurato il ricercatore che studi il comportamento animale (e umano!) nel compiere osservazioni, esperimenti, analisi e nel trarre conclusioni, per evitare di confondere tra loro le successive fasi dello sviluppo ontogenetico, o p p u r e l'ordine nel quale compaiono per la prima volta determinati schemi motori e le loro conseguenze. Ciò che è « innato » non è il morso alla nuca, bensì una serie di moduli comportamentali che, di regola, hanno come esito morsi alla nuca ma che, a seconda delle circostanze, possono portare anche ad altri tipi di morso. Per contro, la molteplicità dei risultati possibili non deve ind u r r e a trascurare o addirittura a negare la natura peristostabile di alcune componenti comportamentali di base — e questo vale anche, ad esempio, per la cultura umana! Come avviene nel caso dei giovani tordi, che chiedono cibo ai genitori spalancando il becco con una certa orientazione (Tinbergen e Kuenen, 1939), lo stimolo orientante proviene
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dall'incavo tra testa e tronco che i n t e r r o m p e il profilo del corpo dell'animale predato. I felini inesperti all'inizio non disting u o n o tra il lato dorsale e quello ventrale, cioè tra la nuca, la gola e i lati del collo. Ciò nonostante, già dai primi tentativi riescono quasi s e m p r e a portare correttamente morsi alla nuca, perché lo schema motorio guidato dal meccanismo orientante procede in m o d o stereotipato, inteso a raggiungere la p r e d a diagonalmente da sopra e da dietro se quest'ultima viene colta di sorpresa o non compie movimenti nel tentativo di f u g g i r e o di difendersi. In caso contrario, il felino di solito int e r r o m p e l'attacco; inoltre, agli inizi, la m a d r e consente che i piccoli abbiano a che fare solo con p r e d e molto passive o che da lei stessa siano già state leggermente ferite. Per dirla in altri termini: da una parte abbiamo il m o d o stereotipato in cui un piccolo animale reagisce con la f u g a all'avvicinarsi di un carnivoro; dall'altra abbiamo i movimenti della zampa e della testa del predatore, coordinati a livello di sistema nervoso centrale e in grado di regolarsi solo in relazione l'uno con l'altro per mezzo di propriocettori (pp. 36 sg., 96) e u n a tassia semplicemente diretta in generale verso l'incavo del collo della p r e d a (si veda la fig. 8.2). Visti nel loro insieme, i d u e meccanismi f a n n o sì che il morso raggiunga un p u n t o più preciso del collo della preda, cioè la nuca, di quanto sarebbe consentito dalla tassia orientante e dal suo meccanismo di rilascio considerati singolarmente. Dopo i primi facili successi, il giovane felino acquista u n a s e m p r e maggiore fiducia in se stesso. Presto si precipita sulla p r e d a con m i n o r e cautela, più « alla cieca », e non si lascia più disorientare dalla p a u r a né si arresta se la p r e d a reagisce all'aggressione cercando di fuggire. Accade così che, d o p o la prima serie di morsi correttamente orientati alla nuca, colpisca più spesso il lato del collo, o p p u r e la gola (fig. 11.1 a, b). Così facendo, entra con il muso nel raggio d'azione delle zampe della p r e d a e p u ò riceverne graffi; se la presa è t r o p p o spostata verso la parte posteriore del corpo, la p r e d a p u ò anche divincolarsi, fino a riuscire a raggiungere a sua volta il predatore con un morso. Di conseguenza, il felino subisce spesso ferite al naso, alle labbra o alle palpebre, e solo a questo p u n t o a p p r e n d e che solamente un morso inferto nella parte superiore del collo — nella nuca — garantisce la sua sicurezza e uccide rapidamente. Si è potuto f r e q u e n t e m e n t e osservare questo processo nei felini, sia nel caso di piccoli sia nel caso di adulti inesperti. Era del tutto indifferente se gli animali fossero cresciuti assieme a conspecifici o in isolamento. Lo sviluppo del c o m p o r t a m e n t o predatorio di Buster, u n a femmina di gatto piedi-neri « figlia
Fig. 11.1. (a) Pudge cattura un ratto « nel modo sbagliato », addentandolo alla gola; (b) cerca inutilmente di migliorare la presa; il ratto riesce di nuovo a rovesciarsi sulla schiena; (c) questa volta la presa è corretta; (d) il ratto strabuzza gli occhi, contrae e distende convulsamente la parte posteriore del corpo e gli arti (qui mostrati mentre sono contratti) e irrigidisce la coda: tutti chiari sintomi che la spina dorsale ha subito una lesione fatale.
unica », non è apparso diverso da quello dei suoi fratelli, Griff e Jake, più giovani di un anno (Leyhausen, 1965 b). La madre, Braut, non giocava mai con i piccoli prima che già fossero in età di catturare topi; di conseguenza, Buster non poteva neppure avere acquisito da lei alcuna significativa esperienza circa l'utilità del morso alla nuca. Ciò non significa che un piccolo non impari proprio nulla interagendo con i fratelli. Acquista esperienza nel movimento e fiducia in se stesso, anche se quest'ultima dipende dall'ordine gerarchico nella cucciolata: gli animali di rango superiore diventano perfetti killer più in fretta degli animali solitari, mentre i soggetti di basso rango o con qualche ritardo di sviluppo lo diventano più lentamente (Leyhausen, 1965 b). Nei piccoli, la diminuzione di rango so-
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ciale p u ò t e m p o r a n e a m e n t e sopprimere la capacità di uccidere, anche q u a n d o questa si sia pienamente sviluppata. Altri fattori di disturbo possono p r o d u r r e lo stesso effetto, tanto in soggetti giovani quanto in soggetti adulti (pp. 118 sgg.). Dato che quasi sempre l'orientazione del morso letale verso la nuca della p r e d a si sviluppa nelle d u e fasi sopra descritte, è naturale considerare la tassia propria della prima fase, che è guidata da u n a configurazione semplice (l'incavo f r a testa e tronco), come innata; questa ipotesi è corroborata da alcune osservazioni condotte sul margay Bueno (p. 93; fig. 8.2). Se l'orientazione del morso letale verso la discontinuità del collo fosse basata sulla esperienza maturata giocando con i fratelli o con la m a d r e , lo stimolo scatenante sarebbe certo t r o p p o altam e n t e differenziato perché il collo di u n a bottiglia - che è piuttosto diverso dal collo di un animale - potesse provocare u n a tale risposta immediata simile a u n a reazione riflessa. Osservando felini in cui il c o m p o r t a m e n t o diretto ad afferr a r e e ad uccidere la p r e d a era indotto al suo livello di massima intensità da stimolazione elettrica, secondo la p r o c e d u r a più volte menzionata in precedenza, sono stato colpito da q u a n t o poco variabile fosse il m o d o in cui veniva diretto il morso (si veda p. 126). Il professor Flynn mi ha permesso di c o n d u r r e nel suo laboratorio u n a serie di esperimenti intesi ad analizzare questo aspetto. All'epoca della mia p e r m a n e n z a presso di lui, il g r u p p o di studio di Flynn seguiva la prassi di i n t e r r o m p e r e il flusso di corrente non a p p e n a il soggetto sperimentale si avvicinava alla p r e d a per morderla. Con poche eccezioni (si veda p. 137), il felino immediatamente lasciava in pace il roditore, senza né ucciderlo né ferirlo, e quest'ultimo poteva quindi essere riutilizzato in prove successive. Va aggiunto che, prima del test, i ratti venivano sottoposti ad anestesia, perché altrimenti sarebbe stato impossibile decidere quali aspetti del comportamento del felino fossero u n a conseguenza della elettrostimolazione e quali u n a reazione al comp o r t a m e n t o della preda. Nella mia serie di esperimenti, i ratti f u r o n o anestetizzati in 20 casi, m e n t r e in 5 non lo f u r o n o . La stimolazione del cervello proseguiva sempre finché il ratto n o n fosse stato ucciso, e in seguito sottoponevo quest'ultimo ad accurata autopsia. C o n s i d e r a n d o assieme i risultati degli esperimenti e delle autopsie, si è giunti alle seguenti conclusioni: in tutti i casi, il felino si è orientato verso il collo della preda, ha appoggiato u n a zampa anteriore sulla regione tra spalla e torace o subito accanto a questa, e ha portato il morso come descritto alle pp. 38 e 96; per quanto riguarda l'orientazione del morso, il felino ha pertanto mostrato un p u r o c o m p o r t a m e n t o tipo, prò-
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prio come un animale inesperto (fig. 11.2). La posizione delle ferite provocate dai morsi al collo e alla regione delle spalle dipendeva chiaramente dalla posizione relativa del felino rispetto al ratto q u a n d o la stimolazione veniva avviata: se un ratto n o n anestetizzato si metteva a correre p e r fuggire, il felino lo colpiva con un morso alla nuca, p r o p r i o come descritto sopra; lo stesso accadeva se un ratto anestetizzato giaceva sul ventre e
Fig. 11.2. C o m p o r t a m e n t o predatorio indotto da elettrostimolazione in un gatto che, altrimenti, non caccia le prede; l'orientazione del morso, in questo caso diretto verso un lato del collo, viene influenzata dalla posizione della preda anestetizzata. Per ulteriori informazioni si veda il testo. (Foto: J.P. Flynn).
la stimolazione iniziava in un m o m e n t o in cui il felino fosse costretto ad avvicinarlo da dietro o di fianco. Se un ratto giaceva sul fianco o sulla schiena, o p p u r e se u n o dei ratti non anestetizzati si muoveva in m o d o diverso da quello descritto sopra, il felino mordeva, senza tentare in nessun m o d o di aggiustare la mira, q u a l u n q u e parte del corpo del ratto raggiungibile a seguito del movimento stereotipato di avvicinamento sopra descritto. Ne risultavano così morsi alle spalle, al torace e alla gola. Questo esito è d e g n o di nota anche p e r c h é i soggetti sperimentali, a d i f f e r e n z a di quelli dei già menzionati esperimenti di Roberts e Kiess (1964), n o n e r a n o del tutto digiuni di cac-
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eia. Pertanto, l'effetto della stimolazione elettrica p u ò « sovrastare » l'influenza delle esperienze precedenti, p r o p r i o come sarà descritto r i g u a r d o ai primi tentativi di giovani gatti di catt u r a r e u n a p r e d a (p. 188); con ciò n o n si vuole tuttavia sosten e r e che le cose d e b b a n o in tutti i casi a n d a r e così. U n a volta che la seconda fase di sviluppo nell'orientazione del morso letale si sia completata, è possibile osservare il felino eseguire r i p e t u t a m e n t e numerosi e svariati movimenti, nel tentativo — che spesso rimane a lungo senza esito - di raggiungere con i denti la nuca della p r e d a prima di morderla. Sovente, nel far questo, compie con la testa le più difficili torsioni, a seconda della posizione e dei movimenti della p r e d a . N o n vi è alcun dubbio che ora il felino sia in g r a d o di distinguere la parte inferiore del collo dalla nuca, ed è p r o p r i o quest'ultima che si sforza esclusivamente di raggiungere. Questi movimenti orientati in senso specifico alla nuca della p r e d a , come p u r e il sapere dove si debba trovare la nuca in u n a p r e d a , anche se essa a p p a r t i e n e a u n a specie sconosciuta, sono di certo elementi appresi. Q u a n d o l'animale è disturbato o è preso da un'intensa eccitazione per la caccia, questi elementi sono i primi che vengono perduti, seguiti dalla « tassia orientata verso la f o r m a del collo» e così via (Leyhausen, 1965 b). Poiché, d u n q u e , il morso alla nuca n o n è innato nel senso stretto della parola, un felino p u ò a p p r e n d e r e a orientare il suo morso in un m o d o diverso. Ho già accennato (p. 47) alla difficoltà che la f o r t e muscolatura della nuca nel bestiame selvatico crea perfino ai grandi felini, quali leoni e tigri. Inoltre, la nuca di questo tipo di p r e d e è protetta da l u n g h e corna, talvolta ramificate, rivolte all'indietro e all'infuori e in questi casi risulterebbe spesso svantaggioso volersi ostinare a raggiungere la nuca nel tentativo di s o p r a f f a r e l'animale. I grandi felini risolvono il problema uccidendo simili p r e d e con morsi inferti ai lati del collo, alla gola e, certe volte, perfino al naso. Il mio maschio di gatto pescatore ha a p p u n t o ucciso un grosso coniglio domestico con un morso al naso; Goethe (1940) e Ràber (1944) h a n n o descritto il medesimo c o m p o r t a m e n t o nella puzzola. I morsi ai lati del collo o alla gola della vittima sono spesso involontari: r a r a m e n t e accade che un leone o u n a tigre, per a t t e r r a r e u n a p r e d a di grandi dimensioni, l'azzannino direttam e n t e alla nuca (come mostra la fig. 2.6); in g e n e r e la m o r d o no sulla g r o p p a , o p p u r e sulla schiena o sulle spalle (fig. 2.5 A; fig. 2.7 l, x, B, C). Q u a n d o , alla fine, la p r e d a si abbatte sul fianco (fig. 2.7 C, D), spesso rotola per metà sulla schiena: il carnivoro approfitta di questo m o m e n t o , in cui la vittima è c o m p l e t a m e n t e indifesa, per a b b a n d o n a r e la presa originaria,
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spostarla più in avanti verso l'incavo del collo e colpire il lato del collo o la gola, che ora è girata proprio in direzione delle zanne, che vi si stanno avvicinando secondo u n a traiettoria diagonale dall'alto (si vedano pp. 148 sg., 150 sg.). In teoria, morsi alla gola di questo tipo potrebbero prodursi esattamente come è spiegato nella figura 11.1 e nel relativo testo. Essi, c o m u n q u e , nel caso dei grandi felini si rivelano vantaggiosi in relazione ad alcuni tipi di p r e d e e, pertanto, così come i felini di piccole dimensioni i m p a r a n o a evitarli, i grandi felini impar a n o a usarli, ed è perciò che questi ultimi indirizzano il proprio morso alla gola, come di seguito descritto. Resoconto del 6 novembre 1969 (Santuario di Gir) Due leonesse, di cui u n a con d u e cuccioli di circa quattro mesi di età, fanno la posta a un giovane bufalo di un anno. N o n a p p e n a i guardacaccia si allontanano, la m a d r e balza immediatamente sul bufalo, gli poggia e n t r a m b e le zampe anteriori sulla schiena, ed è qui che è intenzionata a morderlo per trascinarlo a terra su un fianco. Tuttavia, l'animale, sotto il peso del corpo della leonessa, crolla al suolo. L'altra leonessa, che, vista dal nostro p u n t o di osservazione, si trova dietro il bufalo, potrebbe ora con tutta facilità m o r d e r e alla nuca dall'alto, e, invece, spostando in avanti la testa intorno al collo, punta alla gola. Questa mossa a p p a r e decisamente « deliberata » (si veda la fig. 11.5 a). Le seguenti osservazioni, relative a un leopardo, d a n n o un q u a d r o ancora più chiaro. Resoconto del 12 settembre 1968 Arriviamo a Sasan Gir all'imbrunire. Subito u n a capra nera, adulta, viene legata con u n a corda lunga circa d u e metri allo steccato intorno all'asta della bandiera. L'area è debolmente illuminata da una lampada appesa all'ingresso del bungalow più vicino; con i binocoli per la visione n o t t u r n a , possiamo distinguere ogni dettaglio da u n a distanza di circa 30 metri. Dopo mezz'ora, un leopardo guizza fuori dal buio, sulla sinistra, e con d u e balzi raggiunge la capra. N o n riesco a vedere altro perché subito un g r u p p o di turisti indiani, che attendeva insieme a noi, accende le torce e si precipita verso il felino che, d o p o aver dato u n o schioccante morso alla capra, lateralmente e dal basso, scompare nel buio. La capra è ferita in entrambi i lati inferiori del collo, e un flusso di sangue scuro sgorga dal suo orecchio destro. M u o r e dopo qualche istante. Un esame più accurato rivela che il morso ha schiacciato l'una contro l'altra, all'altezza delle estremità posteriori, le d u e arcate della mandibola, r o m p e n d o n e la sinfisi
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e spingendole f u o r i dell'articolazione; entrambe sono completamente libere. La fuoriuscita di sangue dall'orecchio indica un d a n n o alla base posteriore del cranio. Secondo Eaton (1972 a), il g h e p a r d o si comporta come la leonessa prima descritta, ma in più fa anche r u o t a r e verso l'alto la gola della p r e d a aiutandosi con le zampe anteriori (fig. 11.5 c). Poiché gli artigli del g h e p a r d o sono piuttosto smussati e non completamente retrattili, per a f f e r r a r e la p r e d a esso deve ricorrere, più degli altri felini, allo sperone, che possiede particolarmente sviluppato (ma cfr. la fig. 11.1 b e p. 202). Con esso uncina la testa della preda, tirandola e ruotandola verso di sé, finché p u ò azzannarne agevolmente la gola. Quindi, u s a n d o i denti, continua nel movimento di rotazione, tanto da arrivare a spezzare, in un animale di piccole dimensioni, la regione cervicale della colonna vertebrale. Pertanto, anche nel caso del g h e p a r d o , non si ha a che fare esclusivamente con u n a semplice presa di strangolamento. Resoconto del 15 settembre 1968 U n a capra viene legata d o p o che si è fatto buio. Viene ordinato tassativamente a tutti di n o n fare r u m o r e e, soprattutto, di non usare le torce. Dopo u n a lunga attesa, compare il leopardo, non da sinistra, come era accaduto il 12 settembre, ma da destra, dal viale d'accesso del villaggio turistico. C o r r e n d o al galoppo, con balzi tesi e rapidi, si a f f r e t t a a s u p e r a r e il lungo tratto allo scoperto, e raggiunge la capra prima che io abbia avuto il tempo di portare il binocolo agli occhi. Azzanna la p r e d a alla gola, incrocia le zampe anteriori attorno alla sua nuca e tira la gola verso il p r o p r i o torace, m e n t r e contemporaneamente, facendo pressione con le zanne, piega all'indietro il capo della vittima (fig. 11.3 a). Si immobilizza in questa posizione per un tempo in a p p a r e n z a lunghissimo (in realtà, trascorrono non più di 3040 secondi). La capra scalpita debolmente e respira affannosamente; tutto avviene come se si trattasse proprio di u n o strangolamento. La successiva dissezione rivela, tuttavia, quattro ferite, provocate dai canini. Due di esse, quelle posteriori, non sono sondabili in profondità, m e n t r e le altre due, anteriori, p e n e t r a n o nella base del cranio da entrambi i lati dietro l'articolazione mandibolare. Inserisco con cautela un bastoncino e u n a pinzetta come sonde, seziono come posso con un coltello n o n molto affilato, e fotografo il risultato.
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Resoconto del 19 settembre 1968 Poiché il leopardo sembra ora m e n o intimorito, leghiamo la capra a una recinzione immediatamente di f r o n t e alla nostra veranda, a circa 10 metri di distanza, in un p u n t o bene illuminato da un lampione. Il felino c o m p a r e poco dopo, procede con le zampe completamente distese e con passo non affrettato verso l'angolo della siepe poco sotto di noi e rimane al riparo della fitta o m b r a proiettata dalla siepe. Dopo qualche tempo, si affaccia con la testa da dietro l'angolo, con cautela. Nel frattempo, la capra si è stesa a terra, con la testa rivolta verso l'angolo. Il leopardo si ritira, striscia nuovamente da dietro l'angolo, questa volta accovacciato, si ritira nuovamente e così via per diverse volte di seguito, finché balza sulla capra e la a f f e r r a , d a p p r i m a nel m o d o mostrato nella figura 11.3 a, poi appoggiando a terra la zampa anteriore sinistra con cui sostiene il proprio corpo (fig. 11.3 b). Dopo circa 40-50 secondi, la capra scalpita un poco e cerca di sollevarsi sul davanti. Il leopardo vorrebbe trascinarla via, ma r i p r e n d e la posizione precedente, n o n a p p e n a la capra accenna a un debole movimento. A questo punto, viene disturbato da qualcosa che non riusciamo a notare e abbandona la capra, allontanandosi al trotto nella direzione dalla quale è venuto. Joslin e io esaminiamo la capra. Il canino superiore sinistro del leopardo è penetrato, non p r o f o n d a m e n t e , nel lato inferiore del collo, un po' a destra rispetto al centro, e ha lacerato un vaso sanguigno; si è verificata una emorragia interna, e anche la ferita ha sanguinato un poco. Il canino superiore destro è penetrato p r o f o n d a m e n t e nel lato destro del collo, fino alla laringe, ma senza toccare la colonna vertebrale. Il canino inferiore sinistro ha perforato dorsalmente e più lontano il lato sinistro della gola, m e n t r e il canino inferiore destro è penetrato sotto l'orecchio, nello spazio f r a il cranio e la prima vertebra; la testa si muove completamente libera. Inoltre, al tatto si avverte chiaramente che la terza vertebra cervicale è scollegata dalla seconda e dalla quarta. Questo m o d o di uccidere la p r e d a non è affatto esclusivo del leopardo, e n e m m e n o delle specie appartenenti al genere Panthera. La mia f e m m i n a di caracal uccide regolarmente i ratti con un morso alla nuca, ma l'ho più volte osservata uccidere cavie esattamente nel m o d o descritto per il leopardo: si getta su un fianco, stringe la p r e d a f r a le zampe anteriori e la azzanna al collo, in m o d o tale che la propria mascella si venga a trovare sulla gola della vittima e la mandibola sulla nuca; quindi piega all'indietro la testa e il collo della cavia, ad angolo acuto rispetto al tronco. Una volta ho potuto fare l'autopsia di una di queste cavie: i canini del caracal non e r a n o penetrati in
Fig. 11 -3- (o), (b) Un leopardo uccide una capra (Santuario di Gir). Per ulteriori informazioni, si veda il testo. (I disegni sono tratti da schizzi eseguiti subito d o p o l'uccisione e sottoposti a revisione critica da parte di un altro testimone oculare, P. Joslin, che li ha giudicati corretti), (c) Una tigre attacca un giovane bufalo domestico, p u n t a n d o chiaramente alla nuca; (d) come si poteva prevedere in (c), il bufalo cade o rotola sul fianco; la presa della tigre è identica a quella del leopardo in (b); (e) la posizione distorta della testa del bufalo suggerisce che anche in questo caso la più probabile causa di morte sia stata la rottura del collo. (Foto c-e: K.S. Sankhala/Okapia). ( / ) Un caracal uccide una cavia per soffocamento; (g) la regione cervicale della spina dorsale della preda viene piegata ad angolo acuto e (h) spezzata, come ha confermato la successiva autopsia. Per ulteriori informazioni si veda il testo.
alcun punto del collo, mentre la regione cervicale della spina dorsale era stata ripiegata sul torace; nei polmoni e nei grossi vasi del collo, il sangue era di un colore blu scuro, suggerendo che la morte fosse sopravvenuta per asfissia, se non fosse che, a quanto sembrava, il caracal aveva all'inizio afferrato la preda al torace e alle spalle e un canino aveva perforato il cuore penetrando nel torace; la regione toracica si era riempita di sangue già coagulato (fig. 11.3 f-h). Gli ermellini (Mustela erminea) osservati da Gossow (1970) per alcuni aspetti si comportavano nel modo descritto per il mio caracal; anche in questo caso, le vittime non recavano ferite (per lo meno, ferite profonde) dovute ai canini, e la spina dorsale era spezzata nella zona di transizione fra la regione cervicale e quella toracica. Secondo Gossow, si tratta di una tecnica di uccisione alternativa rispetto al morso alla nuca o alla parte posteriore del cranio, che in particolare consente a ermellini anziani, con canini particolarmente usurati o addirittura spezzati, di riuscire ancora a sopraffare prede robuste e di grandi dimensioni. I quattro canini del caracal erano in Perfette condizioni, per cui l'assenza di ferite sul collo della
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p r e d a deve essere attribuita, più che a u n a loro inefficienza, alla particolare dinamica dell'attacco. Schaller (comunicazione personale), e s a m i n a n d o alcuni g n u uccisi da leoni, ha notato che essi recavano sulla pelle della gola le tracce dei canini dei predatori, ma senza che i denti fossero mai penetrati in profondità, a suo avviso per lo spessore e la robustezza dello strato cutaneo. C o n c l u d e r e il capitolo sull'orientazione del morso letale aff e r m a n d o che solo la tassia diretta verso l'incavo del collo della p r e d a p u ò essere considerata come innata, m e n t r e l'orientazione più precisa è controllata da fattori legati all'esperienza individuale, sarebbe u n a eccessiva semplificazione. N o n si può semplicemente assumere, n e p p u r e in un caso a p p a r e n t e m e n te ben delineato, che q u a l u n q u e esperienza pertinente abbia all'inizio lo stesso valore e che l'animale a p p r e n d a ogni cosa con la stessa facilità. I m m e l m a n n (1967) ha fatto adottare uova di fringuello australiano (Taeniopygia guttata castanotis) a coppie di u n a specie strettamente affine, il fringuello bengalese (Lonchura striata f. domestica), p e r la cova e l'allevamento della prole. I pulcini maschi adottati h a n n o a p p r e s o alla perfezione, fino all'ultimo dettaglio, il canto del p a d r e adottivo che li nutriva, nonostante udissero maschi della p r o p r i a specie cantare in u n a gabbia accanto; il processo di a p p r e n d i m e n t o si è completato molto t e m p o p r i m a che nei fringuelli maturasse la capacità di cantare, ed essi h a n n o poi continuato per anni a cantare come i maschi della specie adottiva, anche quando, in seguito, sono vissuti esclusivamente in compagnia di conspecifici che cantavano « n o r m a l m e n t e » . Tuttavia, u n o dei fringuelli australiani, che aveva ricevuto cure parentali da parte di d u e maschi, un conspecifico e un fringuello bengalese, ha a p p r e s o esclusivamente il canto del conspecifico australiano e n o n ha preso a prestito nulla dal p a d r e adottivo. In qualche m o d o , quindi, il canto di un conspecifico deve essere appreso di p r e f e r e n z a , a parità di tutte le altre condizioni. U n a serie di fatti indica che anche nei felini e in altri carnivori l'orientazione alla nuca del morso letale p u ò contare su un a p p r e n d i m e n t o preferenziale di tale tipo, anche se, fino a questo m o m e n t o , il « maestro innato » che di ciò è responsabile ha eluso ogni tentativo di analisi e non è stato possibile identificarlo. Le specie che t e n d o n o a m o r d e r e alla gola sono tutte in grado di uccidere anche con un morso alla nuca. Spesso, sono le dimensioni della p r e d a a decidere il tipo di presa adottata dal carnivoro. E n t r a m b i i leopardi che ho potuto osservare (si ved a n o i resoconti alle pp. 153 sgg., 203) h a n n o ucciso capretti con un morso nella parte posteriore della testa e alla nuca.
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Q u a n t o al g h e p a r d o , benché sembri essersi specializzato nel morso alla gola in m o d o più accentuato di altri grandi felini (Eaton, 1970 b, 1972 a; Schaller, 1968; fig. 11.4), adotta il morso alla nuca per uccidere p r e d e di dimensioni modeste (p. 39). Io stesso ho visto il medesimo leone che aveva ucciso con un morso alla nuca piccoli bufali (fig. 11.5) azzannare alla gola bufali di dimensioni maggiori. Quindi, è probabile che il felino decida per l'uno o per l'altro tipo di morso in base al rapporto f r a le p r o p r i e dimensioni e quelle della preda. Un a n n o prima che osservassi la leonessa (si veda il resoconto a p. 153)
Fig. 11.4. (a) Un g h e p a r d o uccide una gazzella di Thomson per soffocamento; (b) la posizione del morso del ghepardo diventa particolarmente evidente q u a n d o il felino si solleva in piedi. (Disegni tratti da fotografie a colori fornite da G. Schaller).
azzannare il giovane bufalo alla gola in m o d o così « deliberato», l'avevo vista uccidere un altro bufalo delle stesse dimensioni con un morso alla nuca decisamente « classico » (fig. 11.5 b). Schaller (1967, pp. 289 sgg.) c o n f e r m a che la tigre si comporta allo stesso modo; occasionalmente, tuttavia, essa uccide con il morso alla nuca anche p r e d e di grandi dimensioni. In base all' esperienza di Schaller e a u n a serie di suoi resoconti (comunicazione personale), tigri e leoni sembrano avere, nei confronti dei differenti metodi di uccisione, preferenze legate a tradizioni locali nelle varie zone del loro habitat, cosicché si scopre che, nei confronti di animali-prede uguali o simili, essi prediligono l'uso di morsi alla gola in un'area e di morsi alla nuca in un'altra. È probabile che, da giovani, nei loro primi tentativi i grandi felini ricorrano di preferenza al morso alla nuca, rispetto a quello alla gola, come descritto da Schaller nel caso di u n a giovane tigre e da Eaton (1970 b) per un giovane ghepardo.
Fig. 11.5. (a) Una f e m m i n a di leone indiano uccide un giovane bufalo (si veda p. 153; disegno tratto da un filmato). (b) La stessa leonessa uccide un bufalo delle stesse dimensioni del precedente con un morso alla nuca (disegno tratto da u n a foto a colori), (c) Un leone uccide un grande bufalo domestico con un morso alla gola; u n a zampa del leone sta p r e m e n d o sulla mandibola del bufalo per r e n d e r n e la gola più accessibile; (d) posizione del bufalo d o p o che il leone si è ritirato; un secondo leone ha iniziato a divorarlo m e n t r e è ancora vivo (disegni (c) e (d) tratti da un filmato; Santuario di Gir), (e-r) Gli stessi d u e leoni uccidono un giovane bufalo, dimostrando in m o d o particolarmente chiaro fino a che p u n t o l'orientazione del morso dipenda da condizioni che si vengono a determinare m e n t r e l'attacco è in corso; il primo leone spinge il bufalo (e-i) e lo abbatte (j-l); a p p e n a il bufalo cade e rotola sul fianco, il leone lo azzanna alla gola (m, «). I leoni vengono distratti da alcuni spettatori e il bufalo si rialza (o), con il primo leone che cerca invano di tenerlo giù con u n a zampa; tuttavia, nel tentare di sollevarsi, il bufalo o f f r e decisamente la nuca al secondo leone, fino ad allora rimasto in secondo piano, che immediatamente lo azzanna e lo uccide (disegni tratti da un filmato; Santuario di Gir). (5) U n a leonessa uccide u n a zebra con un morso alla nuca (disegno tratto da una foto a colori fornita da G. Schaller). (t) Una tigre attacca con un morso alla nuca un g r a n d e bufalo (disegno tratto da una foto a colori fornita da Stan Wayman/Life). (s) e (t) mostrano che leone e tigre sono senz'altro in grado di avere ragione con un morso alla nuca anche di prede di grandi dimensioni.
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II comportamento dei gatti
Mi sembra che la più importante, s e p p u r e indiretta, indicazione che i grandi felini abbiano una disposizione innata ad a p p r e n d e r e il morso alla nuca più facilmente del morso alla gola sia fornita dalle seguenti osservazioni: se un felino ha ucciso u n a p r e d a non con un morso alla nuca, ma, per esempio, con un colpo di zampa o scuotendola con forza (Leyhausen, 1965 b), in molti casi porta anche il morso alla nuca, in un secondo tempo, talvolta d o p o che ha già iniziato a divorarla. Spesso, l'osservatore ha l'impressione che un tale comportam e n t o sia in qualche m o d o obbligato, come se l'animale si accorgesse improvvisamente di avere dimenticato qualcosa di essenziale. A quanto sembra, questo accade anche nei grandi felini. Nel distretto di Gir, il 14 settembre 1968, ho trovato un giovane zebù con d u e ferite provocate dai canini di un g r a n d e felino sul lato destro del collo e altre d u e sulla gola. Riesamin a n d o le ferite il 16 settembre, ho tuttavia riscontrato anche i segni di un tipico morso alla nuca. So di molti altri casi del genere, riportati a proposito di leoni e di una tigre. Casi di morsi alla nuca inflitti in un secondo tempo si verificano anche benché più r a r a m e n t e - q u a n d o la p r e d a sia stata uccisa da un morso alla nuca. Fino a questo momento, però, non sono a conoscenza di casi osservati in cui u n a p r e d a uccisa con un morso alla nuca abbia successivamente ricevuto un morso alla gola, e n o n riesco a spiegarmi questo fatto, se non invocando u n a « naturale » preferenza per il primo.
12. Gioco con la preda Il gioco negli animali è stato studiato da Eibl-Eibesfeldt (1950a, 1967), Ewer (1968), Inhelder (1955 a, b), Kruijt (1964) e Meyer-Holzapfel (1956 a, b), proseguendo le ricerche di Bally (1945); questi studiosi ne hanno dibattuto anche gli aspetti teorici. Io stesso ho esaminato estesamente in altra sede (Leyhausen, 1965 b) il significato teorico del gioco con la preda nei felini. Le conclusioni che ne ho tratto indicano che, sia nei giovani sia negli adulti, il gioco con la preda non è il risultato di una specifica « pulsione al gioco », bensì la naturale conseguenza di una differenza nel ritmo endogeno e nella dinamica in ciascuno dei singoli stati motivazionali relativi alle varie azioni di comportamento predatorio. Ciò verrà discusso più ampiamente nel prossimo capitolo; per il momento, lascerò da parte ogni ulteriore teorizzazione e mi limiterò a descrivere brevemente le forme di gioco con la preda che si possono osservare. Le modalità con cui viene praticato il gioco con la preda sono del tutto simili, sia che si tratti di prede vive o morte, di zimbelli delle più varie fogge o p p u r e di conspecifici. Esse si differenziano dall'attività predatoria effettuata « sul serio » in quanto si scaricano come attività in eccesso (o esuberante) o come attività di sostituzione o ridiretta nei modi che sono descritti di seguito. 1) L'avvicinarsi furtivamente in corsa, l'appostarsi, l'avvicinarsi strisciando, il balzare, l'azzannare, il trasportare, il rimuovere penne e il lanciare via la preda si susseguono senza
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alcun ordine prestabilito. O g n u n a di queste singole azioni componenti p u ò interrompersi a metà e trasformarsi più o m e n o g r a d u a l m e n t e in qualche altro movimento facente parte dello stesso o di un altro circuito funzionale. Come ho già fatto notare altrove (Leyhausen, 1952 a, 1954 b), la possibilità di disinserire singoli anelli - e persino parti di tali anelli - da u n a catena originariamente ininterrotta di movimenti istintivi e di concatenarli « a piacere » con altri anelli della stessa o di altre sequenze è particolarmente ampia nello sviluppo dei m a m m i f e r i e costituisce un requisito essenziale per il gioco « autentico ». E p r o p r i o questo il motivo per cui nei m a m m i f e ri — soprattutto nelle f o r m e più evolute - il gioco risulta particolarmente versatile e suscettibile di arricchimenti. 2) Il felino, nel gioco, esegue i vari movimenti con eccessiva esuberanza, che n o n è richiesta nel « normale » assolvimento delle funzioni quotidiane e che si traduce spesso in u n o svantaggio. L'animale, infatti, consuma energia in m o d o del tutto superfluo. Le tassie implicate non sempre riescono a controllare a d e g u a t a m e n t e questo eccesso motorio, per cui, a differenza di quanto avviene nel caso di movimenti compiuti « sul serio » per raggiungere u n o scopo col minimo sforzo (compresa l'attività in eccesso e i fenomeni correlati), i movimenti compiuti nel gioco spesso mancano il loro obiettivo, senza che ciò preoccupi m i n i m a m e n t e l'animale intento a giocare. Da un p u n t o di vista fisiologico, questa peculiarità dei movimenti nel gioco viene spiegata dal dualismo, scoperto da von Holst (1936; Leyhausen, 1954 b), di gruppi di cellule nervose motorie e automatiche nel midollo spinale. Secondo von Holst, l'ampiezza di un movimento, benché in parte sia fissata dal n u m e r o di cellule automatiche di un «automatismo nervoso centrale» attivo in quel momento, è determinata soprattutto dalla variazione di reattività (eccitabilità) dei n e u r o n i motori. E precisamente questa sovraccentuazione dell'ampiezza di un movimento rispetto alla sua frequenza che è caratteristica di ciò che abbiamo prima chiamato esuberanza; inoltre, l'aum e n t o in ampiezza n o n sempre interessa tutte le componenti di un dato movimento compiuto, o non le interessa tutte in m o d o u n i f o r m e , ed è proprio questa disparità che trasmette all'osservatore u m a n o un'impressione di «giocosità». La distorsione p u ò essere spiegata se si attribuiscono le variazioni di ampiezza agli elementi motori e non a quelli automatici del midollo spinale. Il «controllo automatico», e quindi la frequenza, del flusso dei movimenti istintivi nel gioco non sembra differire da quello che caratterizza il contesto « serio ». 3) Un morso letale di piena intensità di n o r m a non si registra d u r a n t e il gioco con un partner vivo, sia esso un conspe-
Gioco con la preda
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cifico o un'« autentica » preda, m e n t r e p u ò talvolta verificarsi d u r a n t e il gioco con oggetti inanimati. N a t u r a l m e n t e , tra il « f a r e sul serio » e il gioco esistono tutti i possibili stadi intermedi. Il gioco con la p r e d a si manifesta in tre diverse f o r m e tra loro combinate in m o d o casuale, soprattutto nei piccoli, e che, per tale motivo, n o n sono facilmente distinguibili le u n e dalle altre. Tuttavia, in d e t e r m i n a t e condizioni compaiono nella loro f o r m a p u r a , rivelando le loro differenze fondamentali. Ho definito « gioco inibito » le azioni di caccia che sono notevolmente attenuate in intensità e modificate in senso giocoso. Il felino si avvicina alla p r e d a viva (o all'oggetto di gioco) in m o d o esitante, spesso si siede o si accovaccia a breve distanza da essa e arriva, al massimo, a darle lievi colpetti con le zampe ad artigli retratti (fig. 12.1 a, b). A questo punto, spesso si sdraia sul fianco in vista della p r e d a e, appoggiandosi a u n a spalla, si lecca l'interno delle zampe (sdraiarsi e leccarsi come attività « sostitutive », fig. 12.1 c e 12.4 b). I colpetti in avanti, simili a un tastare, possono tuttavia g r a d u a l m e n t e intensificarsi, fino a diventare colpi decisamente violenti e ciò conduce alla successiva f o r m a di gioco. Dopo aver dato un colpetto, il felino spesso si ritrae impaurito, specialmente se la p r e d a si muove; o p p u r e , p u ò addirittura balzare indietro a zampe rigide e
Fig- 12.1. « Gioco inibito »: F l l con un pulcino di un giorno; (a) e (b), « d a r e colpetti con la zampa »; (c) sdraiarsi e leccarsi il pelo come attività « sostitutiva»; (d) «contatto con il naso».
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tese (« gioco ansioso »). D u r a n t e lo sviluppo giovanile è probabile che sia semplicemente la insufficiente maturazione dell'intero sistema di movimenti istintivi che, in un p r i m o momento, n o n consente se n o n movimenti intenzionali che appaiono tanto indecisi (p. 113); talvolta, con animali m e n o giovani, la causa p u ò risiedere nel basso livello contingente o nell'esaurimento dello stato motivazionale relativo al cacciare la p r e d a (p. 177). I fattori esterni che esercitano un effetto inibitorio sono: un ambiente sconosciuto, movimenti e r u m o r i vicini che distraggano o intimidiscano e, come già citato, un rango sociale inferiore. Ho anche osservato regolarmente episodi di « gioco inibito » nel mio vecchio esemplare di servai, la femmina S, q u a n d o aveva a che f a r e con p r e d e che non gradiva: essa accettava con riluttanza ratti bianchi, e li mangiava solo se era p r o p r i o a f f a m a t a e anche allora manifestamente controvoglia. Prima di ucciderli giocava sempre con essi, come descritto, per un certo tempo. Il fattore c o m u n q u e più significativo in questa f o r m a di gioco è indubbiamente il timore della p r e d a , specialmente se questa è sconosciuta o di grandi dimensioni. L ' a r r e t r a m e n t o e il balzo all'indietro d o p o aver dato un colpetto, p r i m a descritti, indicano la c o m p o n e n t e ansiosa. N a t u r a l m e n t e , i fattori citati non si escludono a vicenda ed è difficile valutarne il peso relativo in casi singoli. Menziono questo schema motorio tra le f o r m e di gioco perché esso spesso interviene nel corso delle altre due. Si ha l'impressione che l'intensità del gioco fluttui e n t r o certi intervalli e che il « gioco inibito » si stabilisca in corrispondenza con valori minimi dell'intensità. Per inciso, Seitz (1950) descrive u n a volpe che si comportava allo stesso modo, d a n d o cauti colpetti alla p r e d a con la zampa. La f o r m a di gioco più f r e q u e n t e - il « gioco esuberante » o in eccesso, nelle d u e varianti dell'« inseguire » e del « gioco della palla » - è messa in atto solamente con p r e d e di piccole dimensioni, in particolare topi. La p r e d a o l'oggetto di gioco vengono proiettati parallelamente al suolo con colpi dati later a l m e n t e ora dall'una ora dall'altra zampa, aperta o completam e n t e chiusa; quindi vi è un r a p i d o avvicinamento, l'oggetto del gioco viene a f f e r r a t o n u o v a m e n t e con e n t r a m b e le zampe, preso tra le mascelle, trasportato per breve tratto, depositato di nuovo a terra e ancora proiettato e a f f e r r a t o (« gioco dell'inseguire», fig. 12.2). Q u a n d o la p r e d a è trasportata, viene a f f e r r a t a in m o d o blando in un p u n t o q u a l u n q u e del corpo e riceve ben poco o nessun d a n n o (morso letale di debole intensità, p. 126). Nella fase che di solito segue, il felino n o n colpisce più il topo con la zampa lanciandolo lontano, ma usa la zampa per « pescarlo » e attirarlo a sé; quindi, lo solleva con
Fig. 12.2.
«Gioco dell'inseguire»: M9 con un topo.
una sola o con entrambe le zampe e se lo porta alle mascelle, lo afferra tra i denti e lo lancia via di lato o in alto, spesso lo ghermisce di nuovo con le zampe e subito lo lancia ancora via («gioco della palla», fig. 12.3). Interpreto tutto ciò come « gioco in eccesso », perché viene esibito da quasi ogni felino -
Fig. 12.3.
«Gioco della palla»: F l l con un topo bianco.
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anche molto a f f a m a t o - che per molto tempo non abbia ricevuto p r e d e vive (pp. 176 sg.) e perché è soprattutto in questo m o d o che i felini giocano con «oggetti sostitutivi». In questo tipo di gioco sono di n o r m a disseminate in misura maggiore o m i n o r e le altre d u e forme. L'intero processo è d e g n o di attenzione perché tutte le azioni di caccia sono effettuate con l'esuberanza descritta a pp. 163 sg., ma d'altro canto l'uccisione appare decisamente inibita. I movimenti connessi alla caccia sono relativamente indipendenti dal movimento innato « morso letale», e dispongono di un loro proprio meccanismo di produzione di eccitazione a livello di sistema nervoso centrale (Leyhausen, 1965 b). Dopo un prolungato periodo di accumulazione, essi si scaricano in maniera esplosiva, e sulle prime inibiscono il morso letale. La fase di « inseguimento » spesso conduce a, o p p u r e si intreccia con, il gioco effettuato per scaricare la tensione o « gioco di sollievo », una sequenza di movimenti descritta da L i n d e m a n n (1950) per la lince e da Seitz (1950) per la volpe come «danza intorno alla p r e d a » : il pred a t o r e compie alti balzi a campana, direttamente sopra o int o r n o alla p r e d a uccisa (figg. 2.4 g, h\ 2.8; 4.1 g), forse in u n a f o r m a di esagerata pantomima del balzo all'indietro descritto a proposito del « gioco inibito », talora colpendola a intervalli. Nella sua f o r m a pura, questo tipo di gioco viene sempre messo in atto d o p o l'uccisione di u n a preda di grandi dimensioni o particolarmente pericolosa e, soprattutto, se c'è stata u n a lunga lotta. In questi casi, il felino deve riuscire a s u p e r a r e il considerevole timore che la p r e d a gli suscita (si veda il resoconto alle pp. 48 sgg.) e l'impulso a cacciare deve pertanto raggiungere un rilevante grado di tensione. Con l'uccisione della preda, la tensione viene improvvisamente meno, e l'eccitazione predatoria accumulata letteralmente si sfoga, procur a n d o sollievo. In u n o dei miei lavori precedenti (Leyhausen, 1952 b), ho scritto che i gatti domestici giocano spesso con la p r e d a ancora viva come conseguenza della domesticazione, m e n t r e - sulla base delle mie osservazioni sull'oncilla e di quanto riferito da L i n d e m a n n (1950, 1953) a proposito della lince e di gatti selvatici e u r o p e i — le specie selvatiche giocano solo con p r e d e già uccise. Si tratta di un'affermazione che devo in parte completare e correggere. Prima di tutto, bisogna distinguere le varie f o r m e di gioco con la preda descritte sopra. In condizioni opp o r t u n e , il « gioco inibito » con la p r e d a viva viene praticato da tutte le specie di felini che ho potuto osservare finora (fig. 12.4). Il « gioco esuberante » con la preda viva, in base alla mia esperienza, è più r a r o in tutti gli individui adulti di specie selvatiche che nel gatto domestico; il gatto selvatico lo pratica più
a
c
b
d
Fig. 12.4. « Gioco inibito »: (a) femmina di p u m a con un'anatra; (b) la stessa femmina si sdraia e si lecca il pelo come attività « sostitutiva » (cfr. fig. 12.1 c)\ (c) e (d) il g h e p a r d o Ali con un pollo, [(a) e (b) Zoo di Wuppertal; (e) e (d) Zoo di Francoforte].
spesso con oggetti sostitutivi che non con prede vive. Tuttavia, ho avuto l'occasione di osservare questa forma di gioco nella mia femmina di servai, con prede vive, quali topi, ratti bianchi e pulcini di un giorno; in linci europee, con conigli e polli; in una femmina di pardalina (Leopardus Geoffroyi), con topi. Durante lo spettacolo in un'arena, una tigre adulta esibita al pubblico mentre le venivano offerte prede vive è stata osservata giocare con grande foga, soprattutto al «gioco della palla», con una capra di piccole dimensioni (Kesri Singh, 1961). Una leonessa del Parco di Serengeti giocava nello stesso modo con due giovani facoceri. Io stesso ho visto un vecchio leone indiano (Gir, 8 novembre 1969) che, dopo avere ucciso un giovane bufalo, si è lasciato cadere a terra accanto ad esso e ha cominciato a colpirlo e a morderlo per gioco, con movimenti tipici del «gioco del tenere abbracciato», che descriverò più avanti (si vedano p. 170 e fig. 12.5). Indubbiamente, una delle ragioni per cui nel gatto domestico è tanto frequente il « gioco in eccesso », che a noi appare così crudele, va ricercata nella persistenza di comportamenti giovanili. Come abbiamo già visto, la maturazione del morso letale raggiunge la sua pienezza re-
Fig. 12.5. Un servai gioca con una cavia. Nel gioco con p r e d e di piccole dimensioni molti felini usano la tecnica di attacco, incluso il rovesciarsi su un fianco e tenere abbracciato, prevista per p r e d e di grandi dimensioni; ma si veda la figura 12.7 /. (Da un filmato).
lativamente tardi, nei giovani felini, e nei gatti domestici adulti sembra che questo « ritardo » abbia alterato i rapporti di proporzione tra azioni di caccia e uccisione a vantaggio delle prime. D'altra parte, sembra che il « gioco di sollievo » possa essere osservato in tutte le specie di felini, e che si manifesti di preferenza con p r e d e che già sono state uccise. Le espressioni da me proposte di «gioco inibito», «gioco esuberante » e « gioco di sollievo » sono state assunte in varie circostanze per segnalare che, secondo la mia opinione, queste f o r m e di gioco si associano esclusivamente alle disposizioni interne e agli stati motivazionali che la loro definizione suggerisce. Non si intendeva, tuttavia, sottolineare questo aspetto, perché il proposito era quello di mostrare che le tre forme possono in genere apparire mescolate tra di loro, all'osservazione. Ho scelto tali espressioni unicamente in riferimento alle condizioni nelle quali le diverse modalità di gioco possono essere osservate con la massima attendibilità nella loro forma pura. Naturalmente, anche qualunque altro tipo di movimento connesso all'attività predatoria, oltre a quelli qui descritti in dettaglio, può trasformarsi in gioco. Il rotolarsi a terra con la preda oppure, tenendola stretta, il colpirla allo stomaco con gli arti posteriori è qualcosa che i felini di grandi dimensioni f a n n o al di fuori del gioco solo q u a n d o la preda è un animale molto agile e capace di o p p o r r e una vigorosa resistenza; nel gioco, tuttavia, questi comportamenti si osservano anche con prede di piccole dimensioni o con oggetti inanimati (fig. 12.5). Per una descrizione di come il servai giochi a « pescare » la preda, si veda p. 191.
Gioco con la preda
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La conoscenza delle basi fisiologiche dei movimenti eseguiti per gioco descritti a p. 164, p u n t o 2), permette di c o m p r e n d e re come questo tipo di «distorsioni», che in alcune specie si verificano unicamente nel gioco, in altre facciano parte del normale repertorio del c o m p o r t a m e n t o predatorio esibito «sul serio». Molti felini a f f r o n t a n o animali appartenenti a specie fino ad allora sconosciute con g r a n d e cautela, con una combinazione di « gioco f r e n a t o » e di gioco del « p r e n d i e getta » : essi a d d e n t a n o la p r e d a per la pelliccia, di solito in corrispondenza dell'estremità posteriore della schiena e, spesso solamente d o p o lunghe esitazioni e numerosi movimenti intenzionali, la sollevano e quindi la lanciano in alto o di lato (fig. 12.6). Alcune specie - tra quelle che ho osservato, il gatto dorato asiatico e il servai — si dedicano a questo « gioco del lanciare » con tale intensità e violenza che la p r e d a p u ò venire uccisa semplicemente in seguito all'impatto contro alberi, pietre, opp u r e contro le pareti o il pavimento della gabbia. Tuttavia, non a p p e n a il felino si sarà familiarizzato con p r e d e di quella particolare specie, le catturerà e ucciderà nel modo consueto.
Fig. 12.6.
« Gioco del lanciare». Per ulteriori informazioni si veda il testo.
Un altro esempio è il colpo con la zampa: tutti i felini tentano di colpire con la zampa u n a p r e d a che si volti e si d i f e n d a dall'attacco o cerchi rifugio in un angolo dove sarebbe difficile azzannarla (fig. 12.4 d). Spesso i felini, con una zampa per metà sollevata, r i m a n g o n o in attesa di vedere se la p r e d a o f f r e loro l'occasione o p p o r t u n a per colpirla. Essi siedono sulla sponda di un corso d'acqua con la zampa sollevata nello stesso m o d o q u a n d o vogliono catturare pesci facendoli schizzare
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f u o r i dell'acqua con un colpo. Quindi, non deve s o r p r e n d e r e che questo m o d u l o comportamentale sia più spiccato nel gatto pescatore rispetto ad altre specie: esso solleva la zampa più in alto, talvolta fin sopra le orecchie e, prima di colpire, p u ò att e n d e r e in questa postura molto più a lungo. M u n r o (comunicazione personale) mi ha riferito di avere spesso visto nell'Assam gatti pescatori sedere immobili in questa postura, per lungo tempo, su rocce parzialmente immerse in fiumi o ruscelli. Il colpo con la zampa raggiunge un g r a d o di sviluppo ancora più estremo nei servai: essi sollevano molto in alto la zampa, dopodiché la calano, rigida e totalmente distesa come fosse un randello, sulla p r e d a che si sia rizzata in posizione difensiva (fig. 12.7). Un colpo del genere p u ò arrivare a uccidere un grosso criceto d o r a t o o un ratto, anche se non è la regola (Leyhausen, 1965 b). C.K. Brain (in Ewer, 1968), ha osservato alcuni servai allo stato selvaggio abbattere serpenti con lo stesso «colpo a randello». I felini colpivano con tanta forza da procurarsi sovente u n a ferita o u n a distorsione alla zampa. Desidero infine menzionare la « capriola » dei servai. Tutti i felini, in certe occasioni f a n n o salti sollevando da terra tutte e q u a t t r o le zampe c o n t e m p o r a n e a m e n t e : per ricadere su un altro animale per gioco, o per raggiungere lateralmente un ramo e così via. A eccezione dei servai, tuttavia, non ho visto alcun felino e f f e t t u a r e questo tipo di salto in piena corsa, come f a n n o , p e r esempio, molte antilopi q u a n d o sono lanciate in f u g a . I servai, saltando in questo modo, catturano uccelli che si stiano levando in volo afferrandoli tra le zampe anteriori, quindi richiamano le zampe posteriori e atterrano solo su queste (cfr. fig. 1.10 o-u) m e n t r e continuano a trattenere con le zampe anteriori la preda, che azzannano non a p p e n a toccano terra. E così che u n o dei miei servai cattura farfalle notturne con g r a n d e precisione, fino a un'altezza di un m e t r o da terra. Sulle prime, questi movimenti specializzati colpiscono l'osservatore per la loro qualità specifica che non sembra avere riscontro in altre specie di felini. Si rimane pertanto sorpresi q u a n d o u n a analisi più a p p r o f o n d i t a ci mostra quanto sia relativamente modesto il cambiamento richiesto nei rapporti di ampiezza e di fase, d u r a n t e l'attuazione del movimento, per sviluppare tali specializzazioni a partire dai « comuni » moduli comportamentali degli altri felini.
Fig. 12.7. Servai che dà un « colpo di zampa » a un criceto: (a) il servai tiene sollevata la zampa e attende; (b) proprio sul punto di colpire, solleva la zampa ancora più in alto; (c-e) colpisce d u e volte; ( / ) torna immediatamente a sollevare la zampa, pronto a colpire di nuovo; (g-h) compie un movimento intenzionale, ma non colpisce; (i) invece, improvvisamente, a f f e r r a il criceto con l'altra zampa e le mascelle e lo morde alla nuca. (Da un filmato).
13. Fame e comportamento predatorio Secondo le osservazioni di Schneider (1940-41), nei grandi felini le disposizioni interne a cacciare la preda e a consumarla sembrano essere relativamente indipendenti l'una dall'altra. Goethe (1940) sostiene che lo stesso accade nei mustelidi. Una conferma viene dagli esperimenti dettagliati condotti da Ràber su faine (1944) e gufi (1949). A una conclusione simile sono stato indotto io stesso osservando la mia femmina di ondila: essa, subito dopo avere mangiato buona parte di un grosso pollo, ha ucciso un passero e lo ha abbandonato per terra. Dopo averla tenuta a digiuno per due giorni, le ho offerto un grosso surmolotto, che l'ondila ha subito ucciso, al termine di una lotta breve, ma violenta. Stava per iniziare a divorarlo, quando ha avvistato un secondo ratto: immediatamente, ha lasciato cadere quello morto e ha ucciso anche il secondo. Sembra quindi che la disposizione interna a catturare e uccidere la preda prevalga nettamente su quella a consumarla, anche se quest'ultima disposizione è molto intensa ed è già stata attivata. Gli esperimenti di elettrostimolazione condotti da Roberts e Riess (1964), descritti a p. 136, confermano questa osservazione. Q u a n d o ho offerto alla mia femmina di ondila sei topi in rapida successione, essa li ha uccisi immediatamente uno dopo l'altro, e ogni volta mi fissava con aria di attesa. Solo dopo avere aspettato invano per un certo tempo, dopo il sesto, ha iniziato a mangiare. Un gatto piedi-neri è arrivato a uccidere una dopo l'altra tredici cavie. Come « formalità », portava ogni
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cavia uccisa nel luogo prescelto per consumare il pasto, poi di solito la riportava indietro, la posava davanti a noi e attendeva la successiva. Solo q u a n d o non ci sono più state altre cavie in arrivo, ha preso l'ultima che aveva ucciso, la ha portata di nuovo nel luogo destinato a consumarla e ha iniziato a mangiarla (Leyhausen, 1965 b). Anche in questo caso, quindi, l'impulso a uccidere è prevalso incondizionatamente sulla fame, malgrado le cavie fossero il suo cibo preferito. Allo stesso modo, F5 ha catturato sei topi in rapida successione, ma, a differenza dell'ondila, n o n li ha uccisi ogni volta per poi abbandonarli a terra, bensì li ha presi con la bocca u n o d o p o l'altro. In tal m o d o è riuscita a uccidere solamente i primi due. Quindi l'animale, che era affamato, è rimasto seduto a lungo con sei topi in bocca, palesemente incerto sul da farsi (fig. 13.1). Per riuscire a mangiare, doveva lasciarne a n d a r e cinque. Così ha fatto, ingoiando r a p i d a m e n t e il primo e t e n e n d o d'occhio gli
Fig. 13.1. quattro).
F5 con sei topi in bocca (nella foto se ne vedono solo parti di
altri. Q u i n d i ha ripreso di nuovo in bocca i cinque rimasti ritrovandosi a fronteggiare lo stesso problema. Alla fine, com u n q u e , è riuscita a mangiarli tutti. F5 era, inoltre, u n o dei gatti domestici che uccidevano la p r e d a immediatamente e senza giocarci mai, viva o morta che fosse. L'episodio descritto è stato l'unico in cui essa non abbia ucciso all'istante. Da allora ho spesso osservato altri gatti domestici «accaparrarsi» allo stesso m o d o numerosi topi q u a n d o ne venivano loro o f f e r t e « porzioni abbondanti ».
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Per cercare di f a r luce sul meccanismo alla base di questo c o m p o r t a m e n t o , ho o f f e r t o ad alcuni gatti tanti topi, in successione, quanti riuscivano a ucciderne. A ogni gatto, 1-2 ore prima dell'esperimento avevo fatto fare un a b b o n d a n t e pasto a base di carne; passati alcuni giorni ho ripetuto la prova d o p o aver tenuto ciascun animale a digiuno per un paio di giorni. Resoconto del 30 giugno 1954 I n t o r n o alle 15.00 M12 mangia a sazietà. L'esperimento inizia alle 19.20, in u n a gabbia di 3 x 5 metri situata all'aperto; il t e r r e n o è parzialmente ricoperto d'erba e di piccoli cespugli. M12 cattura i m m e d i a t a m e n t e il p r i m o topo, e inizia con esso un vivace « gioco esuberante », senza ucciderlo. Viene introdotto il secondo topo e M I 2 , indeciso se occuparsi dell'uno o dell'altro, gioca a t u r n o con entrambi. Con il terzo topo, l'indecisione sembra a u m e n t a r e (un mio collaboratore c o m m e n t a : « O r a la nevrosi è al colmo! »). D o p o il q u i n t o topo, il gioco si fa esitante e, q u a n d o viene introdotto il sesto topo, M12 lo uccide e subito d o p o ne uccide altri due. Comincia a mangiare il primo, t e n e n d o d'occhio il più attivo f r a i topi ancora vivi e, di tanto in tanto, si precipita verso u n o di essi con il topo che sta m a n g i a n d o che gli p e n d e dalla bocca. Q u a n d o viene introdotto l'ottavo topo, tutti gli altri sono stati uccisi e tre di essi sono già stati mangiati. Il n o n o topo viene anch'esso catturato, ma n o n ucciso; infine, con il decimo topo, subentra decisamente un « gioco inibito » (ore 19.55). Di tanto in tanto, M12 p e r d e ogni interesse verso i topi e viene a strofinare la testa contro di me. Dopo u n a ventina di minuti, si avvicina n u o v a m e n t e a un topo, lo a n n u s a brevemente, poi si allontana. Cinque minuti d o p o , scova sotto u n a pietra piatta u n o dei d u e topi ancora vivi, gioca con esso, all'inizio in m o d o «inibito», ma con vivacità via via crescente. Tuttavia, u n a decina di minuti più tardi, q u a n d o F9 viene introdotta nella gabbia, M12 le permette di portargli via il topo. In u n a prova successiva, d u e ore d o p o avere consumato un a b b o n d a n t e pasto di carne M12 uccide, u n o d o p o l'altro, 17 topi; solamente al diciottesimo si rifiuta di ucciderne ancora; ne mangia solo uno. Resoconto del 9 ottobre 1954 M12 è a digiuno da mezzogiorno del 6 ottobre. L'esperimento inizia alle 15.00. I primi tre topi, introdotti in rapida successione, inducono un « gioco e s u b e r a n t e » . P u r t r o p p o , p e r d o di vista il p r i m o dei topi e, inavvertitamente, lo schiaccio nel f a r e un passo indietro. M12 comincia a mangiarlo. Il secondo topo riesce a f u g g i r e dall'area dell'esperimento; il terzo viene ignorato, m e n t r e il quarto,
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nel f r a t t e m p o introdotto, viene immediatamente ucciso, e la stessa sorte tocca ad altri topi via via presentati, fino all'undicesimo. A intervalli, M12 mangia piccoli bocconi prelevati da ciascuno dei numerosi topi uccisi. Q u a n d o viene introdotto l'undicesimo topo, d a p p r i m a M12 continua a mangiare, poi lo uccide r a p i d a m e n t e e se ne ciba. Uccide il dodicesimo topo dopo qualche esitazione; dal tredicesimo al diciassettesimo, esita s e m p r e più a lungo, prima di rivolgere loro la propria attenzione e ucciderli. Infine, p e r d e ogni interesse nei topi, morti o vivi che siano. D u r a n t e il test, che si conclude alle 16.45, ha mangiato dodici topi. In tutti gli esperimenti il risultato è stato lo stesso. Il primo topo invariabilmente induceva un vivace « gioco esuberante», poi, a partire circa dal quarto, tutti i topi, inclusi quelli introdotti prima del quarto, venivano catturati e uccisi in rapida successione e in assenza di gioco; pressappoco dal n o n o al tredicesimo il ritmo di cattura e uccisione rallentava; seguiva, in maniera più o m e n o distinta, l'inizio del « gioco di sollievo ». I topi immessi successivamente inducevano, a un g r a d o crescente di intensità, il «gioco inibito», fino a che, al termine, tra il decimo e il diciannovesimo topo, scemava ogni interesse nei loro confronti per un periodo di circa mezz'ora. In seguito, la disposizione a cacciare la p r e d a veniva gradualmente recuperata. La sequenza di gioco, cattura e uccisione è la stessa negli animali affamati e negli animali sazi, ma nel primo caso la fase di « gioco esuberante » ha una d u r a t a minore e p u ò essere del tutto assente. I soggetti affamati, inoltre, d u r a n t e la prova mangiano 8-12 topi, quelli sazi si limitano a 1-3. Anche Kuo (p. 141) ha rilevato che la maggiore o minore fame non influenza l'azione dell'uccidere. Come descritto precedentemente (p. 139), q u a n d o la « f u n z i o n e dell'uccidere» rimane inattiva per molto t e m p o tende ad atrofizzarsi, specialmente se il felino non riconosce una p r e d a uccisa come qualcosa di commestibile. In questo senso, l'azione dell'uccidere è « un m o d u l o comportamentale d i p e n d e n t e dal soddisfacimento di un bisogno» (Precht, 1958). La voglia di mangiare, tuttavia, da sola n o n è sufficiente per innalzare per la prima volta il morso letale oltre il valore di soglia: in tal caso, l'animale tenta sempre, generalmente invano, di iniziare a masticare la p r e d a q u a n d o essa è ancora viva (Leyhausen, 1965 b). Il meccanismo dell' uccisione della preda, tuttavia, ha una propria cadenza interna, per cui, una volta che sia stato avviato, si mantiene in azione in m o d o a u t o n o m o per un certo periodo di tempo, senza che si stabilisca alcun legame, e tanto m e n o u n a rigida
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sincronizzazione, con il ritmo a breve termine con cui si altern a n o f a m e e sazietà; infatti, perfino animali malati del tutto inappetenti in genere uccidono con bramosia, talvolta persino q u a n d o sono quasi sul p u n t o di morire. Nel caso di animali esperti, c o m u n q u e , la fame abbassa il livello della soglia di induzione dell'uccisione. E interessante notare che, d u r a n t e gli esperimenti, le tre f o r m e di gioco descritte in precedenza compaiono in m o d o del tutto indipendente; inoltre il fatto che, verso il termine delle prove, il c o m p o r t a m e n t o predatorio si estingua gradualmente, c e d e n d o il posto al «gioco inibito», è la conseguenza n o n di u n a inibizione, interna o esterna, della disposizione a cacciare la p r e d a , q u a n t o dell'esaurirsi della disposizione stessa. C o m e è naturale, è solo q u a n d o la disposizione interna a cacciare la p r e d a si è quasi completamente esaurita che le ultime tracce di p a u r a - che non abbandona mai completamente il felino, n e p p u r e con una p r e d a del tutto inoffensiva come un topo - possono farsi sentire e riflettersi nel c o m p o r t a m e n to come inibizione. Q u a n t o più il gioco è « inibito», tanto prima accade che il topo adotti una postura difensiva (fig. 13.2) e si verifica talvolta che esso m o r d a le zampe del gatto, il quale, anziché reagire « facendola finita » col roditore, fa un balzo all'indietro, miagolando forte per lo spavento. Di n o r m a , il livello contingente di intensità della disposizione interna a cacciare p r e d e è talmente elevato che il tenue sottofondo di paura verso topi o altre p r e d e simili non diventa esteriormente osservabile. Invece, la p a u r a della p r e d a è u n a c o m p o n e n t e chiaramente riconoscibile in un giovane gatto alla sua prima esperienza di caccia; del resto tutto ciò che è nuovo provoca, all'inizio, paura. Il giovane gatto deve a p p r e n d e r e che non v'è ragione di temere un topo benché, come abbiamo a p p e n a visto, rimanga sempre nell'animale una residua traccia di paura.
Fig. 13.2. « Gioco inibito »: un topo, adottando una postura difensiva, fronteggia M9.
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Paul e i suoi collaboratori (Paul, 1972; Paul, Miley e Baenninger, 1971, 1973; Paul e Posner, 1973) sono arrivati a stabilire nei ratti u n a relazione del massimo interesse tra f a m e e predazione, che differisce da quella riscontrata nel gatto. Poiché Paul sostiene che i risultati da lei ottenuti p e r m e t t o n o di t r a r r e conclusioni di validità generale circa il c o m p o r t a m e n t o predatorio dei m a m m i f e r i , vorrei s o f f e r m a r m i a esaminarle in dettaglio. Gli autori a f f e r m a n o che i ratti, a differenza dei gatti, possono essere indotti a cacciare p e r la prima volta u n a p r e d a (per esempio a uccidere un topo) spinti dalla fame. N o n è com u n q u e essenziale che il ratto sia a f f a m a t o nel m o m e n t o in cui si imbatte nella p r e d a ; è sufficiente che lo sia stato qualche t e m p o p r i m a e che da allora abbia avuto libero accesso al cibo. La sete n o n ha alcun effetto sul c o m p o r t a m e n t o predatorio. Un ratto che, p r i m a o d u r a n t e il periodo di astinenza dal cibo, sia stato posto a contatto con topi vivi e n o n li abbia uccisi subito, a causa di questo r a p p o r t o di conoscenza sarà inibito a ucciderli in seguito. In altre parole, la f a m e p u ò f a r s u p e r a r e alla disposizione interna a uccidere la p r e d a il valore di soglia solo se il ratto n o n si sia, in precedenza, familiarizzato con l'animale che gli viene o f f e r t o come preda. U n a volta che il ratto abbia ucciso, continua a farlo per d u e o più settimane, anche q u a n d o è del tutto sazio. Inoltre, i « killer » c o n s u m a n o quasi sempre, almeno in parte, la p r e d a che uccidono e si mostrano più disposti ad accettare come cibo topi già morti di q u a n t o n o n lo siano ratti « n o n killer ». Variando le condizioni sperimentali, è stato possibile indurre ratti a n o n uccidere né l'uno né l'altro dei d u e tipi di p r e d a offerti (topi e piccoli di ratto), o a ucciderne u n o solo. Si è potuto fare in m o d o che i ratti che avevano già ucciso p r e d e del p r i m o tipo fossero inibiti a uccidere p r e d e del secondo tipo. A tal fine, venivano abituati alla presenza di queste ultime proprio nel periodo in cui e r a n o sazi. L'inibizione a uccidere un tipo di p r e d a si è manifestata anche se i ratti avevano già acquisito familiarità con l'altro tipo; va rilevato che i piccoli di ratto esercitavano un effetto inibitorio più forte dei topi. Inoltre, i ratti nati da poco venivano uccisi con maggior facilità di quelli più adulti. Paul e i suoi collaboratori ne concludono che la fame, se contribuisce a i n d u r r e l'atto dell'uccidere per la prima volta, in seguito n o n ha più alcuna influenza; aggiungono, comunque, che l'atto dell'uccidere deve r a p p r e s e n t a r e qualcosa di più di un mezzo per procurarsi cibo, perché i ratti uccidono anche q u a n d o sono sazi e, benché e n t r a m b e le funzioni dell'uccidere e del c o n s u m a r e la p r e d a possano essere soppresse
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praticando lesioni nelle regioni laterali dell'ipotalamo, si ha un r e c u p e r o della facoltà di uccidere molto più rapido, il che dimostra che essa n o n p u ò essere inequivocabilmente collegata al consumo della p r e d a . Inoltre, gli stessi autori a f f e r m a n o che l'« aggressione a scopo predatorio » non p u ò essere definita come un attacco a un eterospecifico commestibile, p e r c h é i ratti uccidono e m a n g i a n o i piccoli della p r o p r i a specie altrettanto facilmente di q u a n t o f a n n o con i topi. Nel tentativo di applicare in generale queste osservazioni al « c o m p o r t a m e n t o predatorio dei m a m m i f e r i » , gli autori non t e n g o n o in alcuna considerazione le p r o f o n d e d i f f e r e n z e nel c o m p o r t a m e n t o p r e d a t o r i o di g r u p p i tassonomici diversi: certo, è possibile arrivare a delineare qualcosa di simile a un complesso generale di moduli comportamentali dei mammiferi, che possano essere serviti come il materiale di base a partire dal quale si siano evoluti i vari metodi, alcuni convergenti, altri divergenti, con cui i m a m m i f e r i cacciano p r e d e (Eisenberg e Leyhausen, 1972). Tuttavia, questi metodi n o n possono essere considerati omologhi, se esaminati individualmente, nel caso di carnivori marsupiali, insettivori, roditori, canidi, ursidi, mustelidi, viverridi e primati. E assai dubbio se l'atto dell'uccidere la p r e d a sia analogo nei ratti e nei felini (si veda p. 56) e certamente n o n sono omologhi gli altri moduli comportamentali implicati nella caccia alla preda. Nel valutare i risultati ottenuti sui ratti, occorrerebbe t e n e r e presente che questi roditori sono onnivori e che essi immagazzinano cibo in periodi di abbondanza. Sembra quindi logico che, in periodi in cui sono affamati, cerchino fonti di cibo alternative rispetto a quelle divenute scarse e verifichino se esse siano commestibili. U n ' i m p o r t a n t e differenza tra ratti e felini sta nel fatto che i primi, u n a volta che h a n n o ucciso la prima p r e d a , quasi sempre la consumano, m e n t r e i felini lo f a n n o solamente se già h a n n o a p p r e s o che possono nutrirsi di animali morti (si veda p. 138). Al contrario, nei felini, per q u a n t o mi consta, la f a m e non esercita alcuna influenza sul meccanismo che induce per la p r i m a volta il morso letale; di solito, infatti, essi uccidono la prima p r e d a q u a n d o la principale f o n t e di cibo è ancora costituita dal latte m a t e r n o ; inoltre lo svezzamento inizia di n o r m a p r i m a che il latte m a t e r n o cominci a esaurirsi. Il p u n t o è che i piccoli di felino, spinti dalla curiosità, tentano di mordicchiare q u a l u n q u e cosa capiti loro a tiro; quindi f a r a n n o lo stesso anche con la p r i m a p r e d a m o r t a che la m a d r e porta al nido d o p o averla uccisa. N o n s o r p r e n d e che un ratto, anche se sazio, uccida u n a preda d o p o averla riconosciuta come u n a f o n t e s u p p l e m e n t a r e di cibo. Se Paul e i suoi collaboratori avessero osservato i ratti in
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condizioni più vicine a quelle naturali, si sarebbero accorti che spesso le p r e d e uccise vengono immagazzinate. In altre parole, le ragioni per cui un ratto uccide, p u r essendo sazio, sono del tutto diverse da quelle che p o r t a n o un felino sazio a uccidere, e tale impulso si estingue di nuovo d o p o circa d u e settimane, cioè molto più r a p i d a m e n t e che nel caso del felino, se n o n si presenta un'ulteriore o p p o r t u n i t à che lo attivi (cfr. pp. 139, 330). Infine, per q u a n t o r i g u a r d a il cannibalismo, i carnivori terrestri lo praticano r a r a m e n t e e in via eccezionale e, per lo meno nel caso dei felini, solo in situazioni di stress e n o n come sistema regolare per procurarsi cibo. Per il ratto di laboratorio, invece, divorare conspecifici morti è cosa normale: q u a n d o i gatti del mio laboratorio, che vengono nutriti con ratti, lasciano resti consistenti, li diamo r e g o l a r m e n t e come cibo ai ratti di riserva, e nessun g r u p p o di ratti li ha mai rifiutati. Inoltre, i ratti che in un g r u p p o m u o i o n o di m o r t e naturale se n o n vengono i m m e d i a t a m e n t e rimossi sono divorati dai loro stessi compagni. Le conclusioni generalizzate che Paul trae sul « comp o r t a m e n t o p r e d a t o r i o dei m a m m i f e r i » sono altrettanto mal poste, qui, di quelle che seguono sull'« aggressione ». L'attacco alla p r e d a e la lotta con individui della stessa specie sono comportamenti che h a n n o in c o m u n e alcuni movimenti istintivi, il cui n u m e r o varia a seconda dell'appartenenza tassonomica; vi sono, invece, altri movimenti istintivi, utilizzati nell'attaccare la p r e d a , nell'attaccare e nel difendersi da conspecifici e nel difendersi da eterospecifici, che differiscono da specie a specie (cfr. tab. 29.1). N o n è corretto considerare i primi come f o r m a n t i il nucleo di un c o m p o r t a m e n t o unitario di « aggressione » e i secondi come elementi p u r a m e n t e accidentali. Ciò che costituisce predazione, aggressione, difesa e resistenza attiva non sono gli elementi dei c o m p o r t a m e n t i implicati, ma le loro diverse combinazioni e il m o d o variabile in cui si esplicano in ogni caso. Con un martello, io posso schiacciarmi u n ' u n ghia, s f o n d a r e u n a finestra, uccidere un u o m o ; r a g g r u p p a r e tutte queste attività in un'unica categoria definita come « impieghi del martello » ha tanto poco senso q u a n t o chiamare « aggressione » tutte le varie f o r m e di attacco. Viene detto, a proposito di molte specie di felini (per esempio, dal B r e h m , a proposito di p u m a e leopardo), come p u r e dei mustelidi, che si «inebriano del sangue». Tuttavia, stando alle descrizioni del c o m p o r t a m e n t o della faina (Martes foina) fornite da Ràber (1944), sembrerebbe più a p p r o p r i a t o parlare di «ebbrezza di uccidere». Di regola, infatti, le ferite sanguinano poco o niente, per cui il p r e d a t o r e non p u ò succhiarne o leccarne sangue. Muller (1970) c o n f e r m a questa osserva-
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zione a proposito di ermellini e donnole. I felini non bevono mai sangue, n e p p u r e se viene loro o f f e r t o ancora tiepido in u n a ciotola, a m e n o che n o n vi siano stati abituati in cattività. Leccano il sangue che esce dalle ferite provocate alla p r e d a , ma di solito non quello che si raccoglie per terra. Ràber (1944) sostiene che, nel caso della faina, l'odore e il sapore della prima p r e d a uccisa intensifichino considerevolmente la disposizione interna a uccidere, e che i movimenti e l'odore di altre possibili p r e d e - per esempio in un pollaio o in una colombaia - i n d u c a n o « automaticamente » altre uccisioni. C o m u n q u e , sembra che la tendenza a uccidere la p r e d a si esaurisca molto m e n o r a p i d a m e n t e nelle faine che nei miei felini, nei quali d u r a n t e gli esperimenti non ho mai osservato un a u m e n t o di eccitazione tale da far pensare a u n a «ebbrezza». Ciò p u ò essere messo in relazione con la relativa indipendenza di caccia e uccisione nei gatti, indipendenza che — come mi ha verbalm e n t e c o n f e r m a t o Eibl-Eibesfeldt - n o n sembra esistere nei mustelidi. Tale indipendenza fa sì che le componenti comportamentali di cattura e uccisione possano, in certa misura trovarsi in conflitto tra loro - come del resto appariva chiaramente d u r a n t e l'esperimento — e così attenuarsi reciprocamente.
14. Esperienza e apprendimento Fino a questo momento, si è discusso di esperienza e apprendimento solo con riguardo all'orientazione del morso letale. Gli schemi motori propri della cattura della preda finora menzionati sono movimenti istintivi o, come definito alle pp. 20 sg., « comportamenti tipo ». Va anche detto che, quando fu pubblicata la prima edizione del presente volume, la dotazione di comportamenti innati dei felini, che permette loro la cattura della preda nelle condizioni più disparate, appariva talmente completa da fare ritenere del tutto superfluo che l'esperienza individuale potesse ulteriormente migliorare un tale sistema comportamentale o funzionale. Inoltre, come mostrano filmati relativi a felini adulti ed esperti sia allo stato selvaggio sia in cattività, i moduli comportamentali innati da essi esibiti non differiscono da quelli che si osservano in un animale giovane, il cui sviluppo fisiologico e motorio si sia svolto in modo adeguato. Gli esperimenti sopra riportati circa l'influenza della fame sul comportamento predatorio hanno, ciò nondimeno, fornito un risultato collaterale che, sulle prime, appare sorprendente. Ciò ha sollecitato un'indagine approfondita sullo sviluppo giovanile del sistema funzionale complessivo e sul ruolo che, in tale sviluppo, esercita il gioco, indagine che ha gettato nuova luce sull'intera questione. Dagli « esperimenti sulla fame » sono emersi, in modo sorprendente, i seguenti punti. Il passaggio, di solito brusco, dalla fase del « gioco esuberante » a quella in cui numerosi topi vengono catturati e uccisi
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in rapida successione c o n f e r m a l'ipotesi che il morso letale rappresenti un movimento innato di tipo particolare, distinto dalle altre azioni relative alla cattura della preda. Lo scaricarsi in maniera esplosiva, nel « gioco esuberante », di azioni di cattura accumulate inibisce l'uccisione della preda, fino a q u a n d o un p r i m o eccesso di eccitazione predatoria non sia stato consumato. Invece, l'energia specifica d'azione relativa al morso letale sembra accumularsi con m i n o r e intensità, ma anche esaurirsi m e n o r a p i d a m e n t e . E per questa ragione che essa, con il p r o c e d e r e dell'esperimento, diventa p r e d o m i n a n t e e solo allora la cattura della preda, fino a quel m o m e n t o oggetto di u n a f o r t e appetenza, diventa l'azione appetitiva che conduce all'uccisione. La peculiarità del morso letale rispetto alle altre azioni connesse alla cattura della p r e d a spiega anche il percorso del suo sviluppo (pp. 114 sgg.; 125 sgg.), e r e n d e del tutto possibile, o almeno molto più facile, che il movimento istintivo « morso letale » venga coinvolto in altri tre circuiti funzionali e integrato nei relativi sistemi istintivi (pp. 382 sgg.). Anche gli altri movimenti istintivi che c o n d u c o n o alla uccisione (appostamento, avvicinamento furtivo, ecc.) non costituiscono u n a sequenza fissa come le azioni di lotta di Astatotilapia (Seitz, 1940), dove ogni stadio presenta per lo stimolo scatenante u n a soglia più elevata di quello che precede, e in cui si s u p p o n e che tutti gli stadi siano alimentati da un'unica energia specifica d'azione. Nel c o m p o r t a m e n t o predatorio dei felini, invece, ogni anello della catena di azioni possiede un proprio ritmo e n d o g e n o e un p r o p r i o livello contingente di energia e, pertanto, i suoi valori di soglia fluttuano, nel loro complesso, i n d i p e n d e n t e m e n t e gli uni dagli altri. Quindi, se l'azione dell'inseguire n o n è stata indotta per un certo periodo, il suo livello contingente di energia crescerà (e quindi la soglia di reazione allo stimolo si abbasserà) più in fretta rispetto a q u a n t o accadrà per l'azione dell'uccidere o per quella di stare appostati. Poiché le singole azioni relative alla cattura della p r e d a n o n d i p e n d o n o , secondo valori determinati, dalla crescente intensità di un'unica « disposizione interna a catturare la p r e d a » a cui siano tutte subordinate, a ciascuna azione corrisponde u n a specifica appetenza diretta verso di essa. « A p p e t e n z a » è, quindi, l'espressione tangibile della « disposizione interna » postulata sulla base delle proprietà funzionali del nostro modello, cioè il livello contingente di energia specifica d'azione che s u p e r a la «soglia di latenza». Prevale la disposizione interna che è più intensa in un dato m o m e n t o (totalmente o parzialmente: f e n o m e n i di sovrapposizione e conflitto!). Se man-
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cano i prerequisiti esterni per l'espressione immediata dei movimenti istintivi che si tende a conseguire, l'appetenza si manifesta in moduli comportamentali che o portano l'animale nella situazione inizialmente desiderata o p p u r e modificano opp o r t u n a m e n t e aspetti della situazione stessa. Pertanto, ciascuna delle azioni correlate alla cattura della p r e d a p u ò diventare l'atto consumatorio cui si tende, se il suo livello contingente di energia è relativamente elevato, m e n t r e gli altri sono contemp o r a n e a m e n t e bassi. Quindi entro certi limiti ciascuna di tali azioni p u ò assumere al p r o p r i o « servizio » q u a l u n q u e altra, e attivarla come « c o m p o r t a m e n t o appetitivo » qualora solo grazie a questo « dirottamento » possa cogliere l'opportunità di diventare l'azione consumatoria desiderata. Ho chiamato questo stato di cose « gerarchia relativa delle disposizioni interne » (Leyhausen, 1965 b). Non si tratta di un o r d i n a m e n t o gerarchico lineare delle disposizioni interne, come invece nel caso dei modelli gerarchici di Baerends (1941) e di T i n b e r g e n (1951), nei quali l'azione consumatoria, oltre a costituire l'anello finale della catena, occupa la posizione gerarchica più bassa. Invece, è l'appetenza verso qualsivoglia movimento istintivo che in quel m o m e n t o sia ricercato come azione consumatoria a costituire il fattore dominante nella gerarchia temporanea. E questo fattore che governa e « p r o g r a m m a » non solo il sistema motorio, ma anche i meccanismi afferenti. In tal m o d o un topo diventa quindi di volta in volta un oggetto da snidare, da inseguire, da uccidere, da mangiare, o ancora da a f f e r r a r e e poi gettare qua e là: in altre parole, il tipo di stimolo evocato dal topo d i p e n d e dall'ordine gerarchico delle appetenze, il quale non va, comunque, interpretato nel senso di Kortlandt (1955) come u n a «gerarchia di obiettivi» (Leyhausen, 1965 b). Nel corso di ricerche finalizzate allo studio comparato del c o m p o r t a m e n t o predatorio « naturale » e di quello indotto da elettrostimolazione di aree cerebrali, Berntson, H u g h e s e Beattie (1976) h a n n o osservato che gli stessi fenomeni descritti in precedenza si presentano nei gatti sottoposti a stimolazione elettrica. Le situazioni in cui i soggetti uccidono rapidamente la p r e d a sono definite dagli autori di « attacco forte »; le situazioni in cui i soggetti giocano con il topo, lo colpiscono con u n a zampa, lo a f f e r r a n o , ma non saldamente, e lo uccidono d o p o molto t e m p o o p p u r e lo risparmiano, sono definite di «attacco debole». L'induzione dell'uno o dell'altro tipo di attacco non d i p e n d e dall'intensità della stimolazione contingente, ma dalla regione stimolata. I termini « forte » e « debole » si riferiscono qui solo all'appetenza a uccidere la preda, m e n t r e un attacco « debole » comporta un'intensificazione e un prò-
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l u n g a m e n t o delle azioni connesse alla cattura. In altre parole, con la loro tecnica sperimentale i ricercatori h a n n o interferito con la funzione che organizza la gerarchia relativa delle disposizioni interne e senza esserne consapevoli ne h a n n o conf e r m a t o l'esistenza. Se il gatto è molto affamato, l'uccisione della p r e d a diventa ora, a sua volta, un'azione appetitiva. Come è stato detto già prima, negli esperimenti per stabilire a quale p u n t o si esaurisce la voglia di uccidere i soggetti affamati mangiano molti più topi di quelli sazi. Un gatto sazio, o anche solo m o d e r a t a m e n t e a f f a m a t o , a b b a n d o n a il topo che ha iniziato a mangiare n o n a p p e n a avvista un secondo topo vivo; ma se il gatto è realmente a f f a m a t o continuerà a mangiare, seguendo il secondo topo con gli occhi; potrà inseguirlo brevemente, sempre contin u a n d o a mangiare, ma lo catturerà solo d o p o avere finito di mangiare il p r i m o topo. Anche il secondo topo verrà poi consumato immediatamente, anche se altri topi si aggirano nelle vicinanze, m e n t r e nel caso di animali m e n o affamati l'uccidere ha priorità assoluta rispetto al mangiare. Esistono fasi di transizione d u r a n t e le quali, da un lato, l'azione di uccidere è già asservita all'appetenza a mangiare ma, dall'altro lato, l'appetenza a uccidere è ancora così intensa che, p u r non sopprim e n d o di fatto l'azione di mangiare, p u ò tuttavia accelerarla: come abbiamo a p p e n a descritto, il gatto finisce di mangiare il p r i m o topo prima di catturarne un secondo, ma tiene d'occhio quest'ultimo, compie piccoli movimenti intenzionali verso di esso e mangia più a f f r e t t a t a m e n t e di quanto farebbe, in altre circostanze, un gatto m o d e r a t a m e n t e affamato. In un certo senso, è a questo p u n t o che l'ordine delle azioni comincia a essere rovesciato: l'azione del mangiare r a p i d a m e n t e diventa in m o d o deciso un'azione appetitiva nella fase propria dell'uccidere in m o d o sistematico. T u t t o ciò è «conveniente», cioè costituisce un vantaggio adattativo per tutte quelle specie di felini (e sono la maggior parte) che si n u t r o n o di p r e d e di piccole dimensioni e che, per sfamarsi, devono catturarne più d ' u n a al giorno. Molto spesso n o n riescono a catturare le p r e d e che stanno cacciando e, pertanto, devono compiere azioni connesse alla cattura, quale l'appostarsi, l'avvicinarsi furtivamente e l'inseguire, con maggiore f r e q u e n z a che non le azioni c o n s u m a t o n e dell'uccidere e del mangiare. Di conseguenza, le motivazioni e n d o g e n e delle azioni connesse alla cattura devono accumularsi più rapidam e n t e e a un livello di energia maggiore rispetto a quelle dell'uccidere, n o n solo perché esse sono indotte più facilmente dagli stimoli esterni e devono scaricarsi con maggiore frequenza, ma anche perché devono sviluppare forti appetenze,
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tali da n o n esaurirsi nell'animale nonostante i ripetuti insuccessi. Per esempio, secondo Schaller (1967 e comunicazione personale), u n a tigre compie forse almeno venti tentativi infruttuosi per ogni p r e d a catturata, anche se questo dato include, ovviamente, temporanei movimenti intenzionali quali l'accovacciarsi o l'appostarsi per brevi istanti. Ci si p u ò d o m a n d a r e q u a n t o spesso la tigre sia fin dall'inizio « consapevole » che i suoi sforzi sono destinati all'insuccesso, ma tale problema rim a n e ancora aperto. Si sono potuti osservare leoni e tigri in giardini zoologici che ripetutamente stanno appostati in attesa di balzare su cavalli o altri animali che passino nelle vicinanze e che, q u a n d o e f f e t t u a n o il balzo, lo commisurano con precisione alla distanza rispetto alle sbarre delle gabbie: ciò suggerisce che l'« eccesso » di motivazione interna per i singoli movimenti innati connessi alla cattura della p r e d a debba semplicem e n t e trovare un m o d o per scaricarsi, anche in una situazione in cui non vi è alcuna possibilità di successo. Da questo p u n t o di vista, il fallimento dell'obiettivo non è un fatto del tutto negativo per l'animale. Ma anche in condizioni in cui questo c o m p o r t a m e n t o non si colloca al di fuori (almeno non in m o d o riconoscibile) dell'ampia e indeterminata zona di transizione dal gioco all'attività seria, è certo che non tutti i tentativi di catturare la p r e d a sono coronati da successo: a q u a n t o mi risulta, un gatto di campagna, prima di riuscire a catturare un topo, deve compiere almeno tre tentativi infruttuosi. Circa lo stesso r a p p o r t o f r a tentativi e successi è stato riscontrato da Schaller (1972) nel leone. Per queste ragioni, le azioni connesse al c o m p o r t a m e n t o predatorio trovano soddisfacimento nel loro stesso scaricarsi, piuttosto che nel raggiungimento del loro obiettivo finale. Pertanto, anche un oggetto sostitutivo, che sia p u r minimamente adatto a fare da surrogato, è in grado di stimolarle e di farle proseguire altrettanto facilmente di un oggetto adeguato. Ovviamente, sarebbe assurdo pensare che un gatto, che nella sua esistenza abbia già ucciso e divorato migliaia di prede, n o n si accorga della differenza f r a un topo e u n a palla di carta; certamente distingue l'uno dall'altra con la stessa prontezza e precisione con cui discerne u n a p r e d a familiare da una sconosciuta, o p p u r e u n a p r e d a innocua da una potenzialmente pericolosa. Gli « oggetti sostitutivi » possono diventare, di fatto, stimoli sovranormali: un gatto sazio può letteralmente scatenarsi con tali oggetti in giochi di caccia alla preda, mentre, nello stesso tempo, i topi « adeguati » si aggirano a un palmo dal suo naso! Per le stesse ragioni accade che, in altri casi, la disattivazione finale del c o m p o r t a m e n t o predatorio n o n in-
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tervenga sull'oggetto adeguato. Q u a n d o un gatto ha catturato un topo, « dovrebbe » ucciderlo; come tuttavia è stato dimostrato alle pp. 163 sgg. e a p. 191, non sempre lo fa, ma p u ò invece lasciarlo andare, per poi catturarlo nuovamente, e così via più volte di seguito. Se, a intervalli, a f f e r r a l'animale, lo solleva tra i denti e lo trasporta qua e là, lo fa deliberatamente, in m o d o tale da non provocargli ferite: non vuole ucciderlo (Leyhausen, 1965 b). Le singole azioni che costituiscono il c o m p o r t a m e n t o predatorio, quali l'avvicinarsi furtivo, l'appostarsi in agguato, il « pescare » con la zampa, l'inseguire o il colpire non sempre si succedono secondo u n a sequenza rigida, n e m m e n o q u a n d o l'appetenza d o m i n a n t e sia quella a uccidere o a consumare la p r e d a ; alcune azioni possono essere omesse, o p p u r e possono sostituirsi l'una all'altra reciprocamente, a seconda delle circostanze. E anche possibile che un c o m p o r t a m e n t o appetitivo a p p r e s o ne sostituisca u n o innato, o p p u r e gli sia talvolta solo di supporto, o anche che lo sospinga al giusto p u n t o di partenza da dove possa avviarsi da sé. Così, come descritto a p. 152, un felino esperto, per riuscire ad a f f o n d a r e i canini nella nuca della preda, ne segue con la testa ogni movimento, sostit u e n d o questa modalità di orientazione appresa alla combinazione innata di tassia diretta verso l'incavo del collo e di avvicin a m e n t o «in diagonale, da sopra e da dietro»; il felino, com u n q u e , a g e n d o con le zampe e i denti p u ò anche costringere la p r e d a in u n a posizione tale da poter ricorrere a tale combinazione in condizioni ideali. Sembra che per il felino, e la cosa è piuttosto s o r p r e n d e n t e , quest'ultimo c o m p o r t a m e n t o sia più difficile da a p p r e n d e r e rispetto ai precedenti. Perché le cose dovrebbero stare in questo m o d o non è ancora possibile stabilirlo con certezza sulla base delle informazioni disponibili. Benché le singole componenti del c o m p o r t a m e n t o predatorio in certi momenti e condizioni siano saldamente connesse in u n o schema di attività indirizzate a un fine preciso, esse non p e r d o n o mai la loro reciproca indipendenza, né la capacità di essere espresse in m o d o esuberante nel gioco. I piccoli, d o p o l'uccisione della prima preda, non sembrano giocare in m o d o diverso da prima con i fratelli o con piccoli oggetti, a parte il fatto che in questa attività si f a n n o ogni giorno più agili, forti e decisi. Già prima di incontrare per la prima volta u n a p r e d a viva essi, grazie al gioco, acquistano agilità e sicurezza nelle p r o p r i e capacità motorie; in particolare, giocando con oggetti a p p r e n d o n o nuove combinazioni di movimenti, i m p a r a n o a manipolare l'oggetto con le zampe, a muoverlo secondo le p r o p r i e intenzioni, a sollevarlo e a lanciarlo. U n a cosa piuttosto curiosa è che, in un primo momento, non sembra che il
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piccolo faccia alcun uso di tali esperienze e di tale abilità motoria nell'attività di cattura della preda, o almeno è come se, in apparenza, non gli « venissero in mente ». Di f r o n t e a una preda, mette in atto esclusivamente comportamenti innati strettamente « ortodossi ». In seguito, d o p o avere sperimentato alcune volte l'uccisione della preda, l'intero processo comportamentale, dall'avvistamento della p r e d a alla sua uccisione e consumazione, si svolge come « c o m p o r t a m e n t o tipo », che ho descritto nella prima edizione tedesca di questo volume come il c o m p o r t a m e n t o predatorio del felino. Lo stesso accade nel caso di individui adulti ma inesperti, t r a n n e q u a n d o le p r e d e sono di dimensioni relativamente piccole: il felino p u ò allora talvolta giocare con esse come se fossero oggetti di gioco, fino a raggiungere il necessario stato di eccitazione che induca il morso letale o fino a q u a n d o questo non venga provocato da u n o stimolo supplementare esterno. Ciò c o n f e r m a anche il fatto che il felino, a causa della paura che prova di f r o n t e a un tipo di p r e d a sconosciuto, q u a n d o l'incontra per la prima volta dimentica sia i movimenti connessi al gioco esuberante sia i movimenti volontari appresi; tuttavia, questo non accade negli individui adulti di f r o n t e a una p r e d a di piccole dimensioni, in q u a n t o non ne sono sufficientemente intimoriti. Nel caso di un felino ancora inesperto, una volta che la soglia di induzione del morso letale sia stata superata per la prima volta e sia stata compiuta un'uccisione «a regola d'arte», per un certo periodo di tempo q u a n d o la p r e d a viene avvistata l'appetenza a uccidere prevale su ogni altra. Ogni p r e d a viene attaccata subito e uccisa il più r a p i d a m e n t e possibile, e tutte le altre azioni connesse alla cattura sono relegate al ruolo di p u r o c o m p o r t a m e n t o appetitivo. Come ho in precedenza descritto in m o d o più esauriente, questa è la fase in cui il felino a p p r e n d e che esiste un nesso f r a l'uccidere la preda e il procurarsi cibo, cosa che la prima volta non gli è immediatamente chiara, anche se si è già cibato di animali morti. L'osservatore p u ò spesso avere l'impressione che l'animale, d o p o avere ucciso la sua prima preda, rimanga stupito del risultato, come se non riuscisse a capire perché essa non si muova più. Talvolta occorre un po' di t e m p o perché il felino si r e n d a conto che la p r e d a ora p u ò essere mangiata, e c o m u n q u e deve sperimentare n u m e r o s e uccisioni prima di potere a f f e r r a r e pienamente il nesso tra morso alla nuca e trasformazione di un animale vivo in cibo. Sussistono c o m u n q u e pochi dubbi sul fatto che il felino arrivi a cogliere questo collegamento fino a un certo g r a d o e che solo come risultato, in un secondo tempo, la f a m e possa attivare l'intera catena di azioni del comportamento predatorio, uccisione inclusa, come c o m p o r t a m e n t o
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appetitivo. Ciò che ora a p p a r e chiaro è che, con il p r o g r e d i r e dell'esperienza predatoria, tanto nei giovani q u a n t o negli adulti, il periodo immediatamente successivo alla prima uccisione, caratterizzato dalla rapidità e determinazione con cui vengono uccise nuove p r e d e con modalità di « c o m p o r t a m e n to tipo » (pp. 21, 115 sgg.), è presto seguito da u n a fase d u r a n te la quale il c o m p o r t a m e n t o predatorio sembra r e g r e d i r e a u n o stato « i m p e r f e t t o » p r e c e d e n t e (Leyhausen, 1965 b). In realtà ora accade che l'animale si r e n d a conto « di come stanno le cose » e allora cominci a fare esperimenti. Infatti, solamente a questo p u n t o esso tenta di usare con la p r e d a movimenti appresi in epoca p r e c e d e n t e alla prima uccisione, p e r esempio, m a n i p o l a n d o per gioco oggetti inanimati; è in questo m o m e n to che avviene il passaggio dalla « tassia verso la f o r m a del collo » al morso deliberatamente orientato verso la nuca (p. 152). Adesso è il m o m e n t o in cui gli animali a p p r e n d o n o p r o p r i e tecniche, a m p i a m e n t e variabili da individuo a individuo, basate sull'uso delle zampe e dei denti, su m a n o v r e di aggiramento e così via, p e r costringere la p r e d a nella posizione più favorevole per infliggerle il morso alla nuca. Nel farlo, essi sono costantemente guidati da movimenti e tassie innati, ma questi, nell'attività predatoria «seriamente intesa», sono sostituiti in misura crescente da movimenti appresi. Gli esperimenti volti a stabilire a quale p u n t o si esauriscono le azioni di cattura della p r e d a h a n n o messo in evidenza anche il notevole effetto scatenante esercitato dalla presenza di fessure e pertugi. Un gatto che, come prima descritto, stia div o r a n d o in fretta un topo m e n t r e ne tiene d'occhio un secondo, catturerà quest'ultimo i m m e d i a t a m e n t e se si accorge che si sta avvicinando t r o p p o a un possibile rifugio. Soprattutto verso la fine della sperimentazione, ho notato che i gatti sono molto più attirati dalla presenza di un pertugio che dalla vista di un topo che corra qua e là; infatti, possono starsene a osservare a t t e n t a m e n t e e a lungo un buco nel m u r o che abbia ospitato ( o p p u r e anche no) un topo, m e n t r e dei topi gli passano p r o p r i o sotto il naso; allo stesso m o d o , sono affascinati da fessure di cui possano scrutare l'interno senza ostacoli e che possano esplorare con la zampa fino nell'angolo più lontano. Questa «attrazione p e r le fessure» si manifesta anche al di f u o r i del circuito funzionale della predazione, p e r esempio d u r a n t e l'esplorazione di un ambiente sconosciuto e nel gioco dei piccoli. Si tratta di un c o m p o r t a m e n t o innato, come è dimostrato da questa osservazione: q u a l u n q u e gatto accorre imm e d i a t a m e n t e q u a n d o un topo minaccia di rifugiarsi in un buco o in u n a fessura, ma molti n o n i m p a r a n o mai che il topo sarà del pari irrimediabilmente p e r d u t o se riesce a scivolare,
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attraverso le maglie della rete, f u o r i della parete della gabbia; e, di fatto, in molti casi, il topo potrà avvicinarsi alla rete e attraversarla senza che il gatto glielo impedisca. C o n s i d e r a n d o tutto ciò, n o n a p p a r e fortuito il fatto che, nell'esperimento descritto a p. 176, M I 2 , d o p o un t e m p o r a n e o esaurimento della disposizione interna a p r e d a r e , nel m o m e n t o in cui la motivazione alla predazione è tornata a manifestarsi si sia concentrato sul topo che si era nascosto sotto la pietra e non su quello che correva allo scoperto. Possiamo compiere un ulteriore passo avanti e s a m i n a n d o il gioco del « pescare f u o r i » dei servai: spesso, questi felini n o n uccidono subito i topi e i piccoli ratti, ma li lasciano f u g g i r e e rifugiarsi sotto u n a cassetta, dietro un tronco d'albero caduto o in un buco; quindi, con u n a zampa cercano di tirarli f u o r i o, c o m u n q u e , di costringerli a uscire. Se la p r e d a n o n riesce a trovare da sola un rifugio in cui nascondersi, la sollevano, add e n t a n d o l a senza ferirla alla pelliccia sul dorso, la trasportano vicino a u n a fessura e la lasciano a n d a r e ; se ancora l'animale n o n si infila nel buco, i servai spesso ve lo spingono d e n t r o con la zampa per poterlo poi «pescare f u o r i » . Un tale comp o r t a m e n t o , a d i f f e r e n z a di quello a p p a r e n t e m e n t e simile del gatto domestico, non è affatto messo in atto un po' g o f f a m e n te e a casaccio, ma è invece senza dubbio deliberato. Ciò diventa particolarmente evidente q u a n d o si osservano servai, anziché alle prese con p r e d e vive, impegnati a giocare con piccoli oggetti, come p e r esempio pezzetti di corteccia. Si tratta di un tipo di gioco che richiede che per prima cosa gli animali avvicinino d u e oggetti che inizialmente n o n e r a n o presenti c o n t e m p o r a n e a m e n t e nel loro c a m p o visivo e li maneggino in m o d o a p p r o p r i a t o , un'impresa che Wolfgang Kòhler (1921) riteneva (erroneamente) fosse al di là delle capacità perfino degli scimpanzé. Nel creare queste speciali situazioni di gioco, un animale i m p a r a a compiere movimenti e a svolgere attività che, al fine di p r o c u r a r e u n o sfogo biologicamente funzionale a u n a catena di azioni appetitive, sarebbero n o n solo superflui, ma anche insensati: un esempio è, appunto, quello di cacciare n u o v a m e n t e un topo in un buco dopo averlo tirato fuori, invece di ucciderlo e mangiarlo. In altri termini, in questo caso il successo n o n riduce l'eccitazione. Pertanto, il gioco p e r m e t t e all'animale di f a r e con movimenti e con oggetti esperienze ben più ricche di q u a n t o accadrebbe se esso agisse dietro esclusiva necessità di soddisfare le esigenze di sopravvivenza. Fino a che p u n t o tutto ciò abbia già a che f a r e con il livello evolutivo dei felini, è messo in luce dal seguente esempio: a p p e n a fatti i suoi bisogni nell'apposita cassetta, S m u d g e (ibrido di gatto del Bengala e di R I , fig. 10.2 b)
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ricopre la fossetta che ha scavato nella segatura; ma, così facendo, urta con il dorso di u n a zampa anteriore il c u m u l o di segatura, sollevandone in aria u n a piccola nuvola a f o r m a di ventaglio. S m u d g e si f e r m a di colpo, allunga il capo in avanti ed esamina a t t e n t a m e n t e il b o r d o della cassetta. Ripete il movimento iniziale tre o quattro volte, posando giù la zampa ogni volta e osservando il risultato con attenzione. In altre parole, S m u d g e n o n sta semplicemente agitando u n a zampa, ma sta invece c o m p i e n d o movimenti definiti, ben distinti l'uno dall'altro. Alla fine, si ritiene soddisfatto e finisce di ricoprire i suoi escrementi. Prima di questo episodio, non avevo mai visto un felino sospingere via qualcosa d a n d o colpetti con il dorso della zampa e n o n conosco n e p p u r e alcun contesto f u n zionale dove u n a cosa di questo g e n e r e accada p e r un riflesso innato. S m u d g e aveva notato un casuale e certamente involontario effetto di un suo movimento, si era interessato a esso, era stato in g r a d o di riconoscerne le cause e lo aveva ripetuto più volte intenzionalmente. Ciò significa, né più né meno, che un mammifero al livello evolutivo dei felini sa già come compiere un vero e proprio esperimento, ed è quindi del tutto consapevolmente che ho parlato di « sperimentazione » a p. 190. N o n si tratta semplicemente di un a p p r e n d i m e n t o per « prove ed errori » nel senso del c o m p o r t a m e n t i s m o classico, dove la prima prova è compiuta alla cieca e la probabilità di e r r o r e è dettata dalla legge del caso. La prima « prova » era già preceduta da u n a comprensione, sebbene limitata, del nesso tra d u e eventi; l'animale n o n solo si attendeva un certo risultato, ma, come conseguenza della sua «consapevolezza sperimentale», vi era maggiore probabilità che si verificasse tale risultato anziché un errore. E importante che questo p u n t o sia ben chiaro. Nelle azioni appetitive apprese sono incorporati schemi facenti parte di comportamenti istintivi, ma che vi sia u n a «trasformazione dell'istinto di un animale a o p e r a dell'esperienza » (Bierens de Haan, 1940) è del tutto f u o r i discussione. I moduli fissi innati rimangono presenti nella loro forma pura e in piena funzionalità accanto a tutti i comportamenti appresi. Se ci si chiede come si possa distinguere tra « c o m p o r t a m e n t o tipo » e movimenti appresi con u n o schema motorio simile, vorrei suggerire, in via preliminare, il seguente criterio p e r q u a n t o r i g u a r d a le azioni connesse alla cattura della p r e d a nei felini. Nel descrivere il comp o r t a m e n t o tipo, ho già più di u n a volta usato espressioni quali «alla cieca». Inoltre, ho aggiunto che alcuni movimenti sono « coordinati a livello di sistema nervoso centrale » (pp. 38, 96). Per spiegare meglio questi concetti si p u ò ricorrere, con u n a certa approssimazione, al linguaggio della cibernetica
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(Hassenstein, 1960): dal m o m e n t o in cui il felino i n t e r r o m p e l'appostamento e balza sulla p r e d a fino al morso letale, il « processo tipo » p u r a m e n t e innato è guidato attraverso un sistema di esterocettori attivo già prima che venga compiuto il balzo e in seguito non subisce alcuna regolazione o subisce regolazioni modeste (senza che ciò pregiudichi la regolazione tramite propriocettori). Se la preda, nel m o m e n t o in cui il felino le balza addosso, compie movimenti o spostamenti imprevisti, il bersaglio viene solitamente mancato; in questi casi, il felino n o n tenta di correggersi, ma piuttosto si ritira per un poco e in seguito, q u a n d o è possibile, rinnova l'attacco. E in base all'osservazione di u n a tale sequenza di eventi che B r e h m parla dell'« espressione di vergogna » del leone che, avendo mancato in un'occasione la preda, a b b a n d o n a la caccia. Il movimento appreso, invece, p u ò essere corretto in ogni m o m e n to sulla base di informazioni esterocettive, ed è p r o p r i o qui che risiedono sia i suoi vantaggi sia i suoi svantaggi: u n a correzione esterocettiva richiede t e m p o (anche se si tratta di frazioni di secondo) e un'attenzione costante - p o t r e m m o quasi dire una «calma valutazione». E per questo che essa è incompatibile con un g r a d o elevato di eccitazione e con la necessità di movimenti fulminei. Questo spiega perché gli schemi motori m e r a m e n t e innati non diventano mai superflui, malgrado lo sviluppo di comportamenti appresi asserviti allo stesso obiettivo. L'animale n o n potrebbe permettersi una « trasformazione dei p r o p r i istinti», se ciò dovesse significare che essi vanno perduti nella loro f o r m a originaria (si veda p. 190). Invece, gli istinti sviluppano un sistema di moduli comportamentali variabili, che possono adattarsi a ogni tipo di esperienza, ma senza fondersi mai completamente con tale sistema. In questo modo, gli istinti si alleggeriscono di una parte dei compiti, ma senza p e r d e r e la funzione di comando: solo essi sono i fattori causali delle appetenze (« L'atto consumatorio è sempre innato », Craig, 1918). N o n si tratta di u n a pedanteria, poiché queste affermazioni trovano sostegno nella ricerca neurologica. Grazie alle ricerche di Hess (1954), oggi sappiamo che i centri che coordinano le componenti individuali di molti, se non tutti, i comportamenti innati dei felini e di altri m a m m i f e r i risied o n o nell'ipotalamo, m e n t r e il substrato neurologico delle componenti stesse a p p a r e localizzato nel t e g u m e n t o del mesencefalo (Berntson, 1972, 1973). Tuttavia, sulla base dei propri risultati, Bandler (1975) ritiene che anche il mesencefalo sia in g r a d o di svolgere tali funzioni organizzative: la stimolazione elettrica della sostanza grigia periacqueduttale ventromediale indusse « un attacco con morsi paragonabile a quello scatenato dalla stimolazione delle zone laterali dell'ipotala-
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m o » . L ' a u t o r e n o n fornisce maggiori dettagli sul c o m p o r t a m e n t o i n d o t t o dalla stimolazione, p e r cui n o n è facile esprim e r e un giudizio. N o n è questa la sede p e r discutere il suo tentativo di i n t e r p r e t a z i o n e dei suoi risultati; essa è, tuttavia, decisamente improbabile. Si sa da molto t e m p o che l'area premotoria della corteccia è quella responsabile della coordinazione dei movimenti volontari. Per lo m e n o nel sistema nervoso centrale dei m a m m i f e r i , le strutture che, s e c o n d o von Holst e Mittelstaedt (1950), in ogni caso e m e t t o n o l'impulso di u n a sequenza motoria e della sua copia e f f e r e n t e in u n o schema c o m p l e t o e quelle in cui sono localizzati gli « stampi motori » dei movimenti volontari e istintivi sono inequivocabilmente assai separate tra loro. Il fatto che le u n e e le altre condivid a n o talune funzioni di c o o r d i n a m e n t o non contraddice questa constatazione (Leyhausen, 1954 b). Per molto t e m p o si è discusso se certi moduli comportamentali di un animale siano innati o appresi, « rigidi » o « plastici », e i sostenitori di ognuno dei d u e p u n t i di vista h a n n o avanzato ottime ragioni, e perfino a d d o t t o prove irrefutabili, a sostegno delle p r o p r i e convinzioni. La sola questione che desta stupore è p e r c h é a nessuno sia venuto in m e n t e che non si tratta di d u e disposizioni funzionali alternative, ma che possono tranquillamente coesistere in u n o stesso organismo e cooperare assai strettam e n t e l'una con l'altra. C o m u n q u e , i felini che h a n n o avuto u n o sviluppo e vissuto esperienze normali d i s p o n g o n o di un bagaglio completo di movimenti istintivi puri per la predazione e, allo stesso tempo, possiedono u n a riserva più o m e n o ricca di schemi motori appresi, diversi da individuo a individuo, che sono e n t r a m b i al servizio dello stesso fine; alcuni felini, per esempio i leoni, possono i m p a r a r e persino a cooperare dividendosi i compiti tra di loro (pp. 44 sgg., 198 sgg., 204 sg.). Devo a R e m p e (comunicazione personale, 1964) la segnalazione che esistono marcate analogie fra, da un lato, il gioco reciproco tra le varie azioni istintive di u n o stesso sistema f u n zionale e le azioni appetitive apprese e, dall'altro, ciò che nel linguaggio dei calcolatori elettronici viene chiamato subroutine o s o t t o p r o g r a m m a : « Si possono costruire p r o g r a m m i complessi a partire da vari sottoprogrammi, passando dal prog r a m m a principale ai sottoprogrammi, e, quindi, q u a n d o questi sono completati, proseguire di nuovo con il p r o g r a m ma principale; inoltre gli stessi sottoprogrammi possono utilizzare diversi altri sottoprogrammi. P r o g r a m m i principali e s o t t o p r o g r a m m i si combinano in quelli che vengono chiamati " p r o g r a m m i di base". P r o g r a m m i del genere, se di uso molto f r e q u e n t e , possono essere incorporati insieme in m o d o perm a n e n t e in un unico circuito, ed essere quindi considerati
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"innati". Gli utenti di un calcolatore possono scrivere prog r a m m i abbreviati che, una volta introdotti in memoria (cioè "acquisiti"), mettano i vari sottoprogrammi in relazione f r a loro; in questo modo, a partire da p r o g r a m m i già esistenti, possono essere creati p r o g r a m m i del tutto nuovi. Mediante una suddivisione dei programmi, la sequenza degli eventi, tanto nel circuito p e r m a n e n t e , quanto nei p r o g r a m m i introdotti t e m p o r a n e a m e n t e in memoria, può essere ulteriormente variata. Questa interazione tra p r o g r a m m i permanenti e prog r a m m i t e m p o r a n e a m e n t e introdotti in memoria mi sembra un b u o n modello per descrivere la cooperazione f r a moduli comportamentali innati e appresi».
15. Variazioni individuali e specie-specifiche nelle tecniche di caccia In casi isolati, o nell'ambito di popolazioni limitate di una grande varietà di specie di felini, sono stati osservati moduli comportamentali - utilizzati per individuare, inseguire, catturare e uccidere la preda - a proposito dei quali non è per il momento possibile distinguere tra quanto in essi vi sia di innato e quanto di appreso. Vengono qui riportati alcuni passaggi tratti da resoconti e alcune brevi descrizioni per dare un'idea dell'entità del lavoro di indagine che è ancora necessario. Il metodo di caccia dei ghepardi è spesso paragonato a quello di altri mammiferi che cacciano in branco, come lupi, licaoni o iene; tuttavia, la somiglianza non è meno superficiale di quella fra le rispettive anatomie. Per i cacciatori in branco, il fattore decisivo non è dato dalla velocità, ma dalla resistenza; la preda, che spesso non è meno veloce del predatore, viene inseguita fino a che non cede alla stanchezza, e solamente allora viene catturata. Lo scatto del ghepardo, invece, è semplicemente una versione prolungata e più veloce del balzo finale sulla preda tipico degli altri felini (p. 26). La preda attaccata dal ghepardo è capace di maggiore resistenza e il felino, per sopraffarla, deve superarla in velocità con uno scatto fulmineo sulla distanza più breve possibile. Di solito, il ghepardo caccia da solo e deve seguire tutti i cambiamenti di direzione della preda in fuga; nei predatori che cacciano in gruppo, invece, gli individui che si trovano un po' arretrati possono intercettare tali deviazioni e assumere quindi essi stessi la
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guida della caccia. Se il g h e p a r d o non riesce a raggiungere la p r e d a , d o p o u n o scatto che p u ò prolungarsi al massimo per 400 metri, di solito è costretto a rinunciarvi; se si considera che i leoni possono arrivare a inseguire una zebra per 50, perfino 150 metri, la differenza tra i d u e felini non a p p a r e poi così grande. È d o p o che la p r e d a è stata raggiunta che la differenza tra il g h e p a r d o e i predatori che cacciano in branco diventa particolarmente evidente: questi ultimi, infatti, azzann a n o il c o r p o della vittima d o v u n q u e (di solito alle zampe posteriori, ai fianchi o alla gola), cercano di trattenerla saldamente o semplicemente ne strappano brani di carne. Il ghepardo, invece, non possiede u n a d e n t a t u r a e u n a muscolatura della testa e del collo adatte a questo scopo, per cui, prima di potere azzannare la p r e d a alla gola, deve farla cadere a terra in qualche modo. Per prima cosa, esso deve r i d u r r e la propria velocità, spostando il peso sui quarti posteriori, come f a n n o altri felini (cfr. fig. 1.10 c-e). Se la p r e d a è un animale relativam e n t e lento, il g h e p a r d o la a f f e r r a allora sulla g r o p p a con entrambe le zampe anteriori e la fa crollare da tergo; se la p r e d a è un po' più veloce, la spinge di fianco fino a sbilanciarla e a farla cadere con u n a delle zampe anteriori; è in questa circostanza che utilizza principalmente lo sperone, particolarmente sviluppato (cfr. p. 202) (Eaton, 1972 b, 1974). Con p r e d e molto veloci, tuttavia, queste d u e tecniche possono far perdere l'equilibrio allo stesso felino e c o m p r o m e t t e r n e la capacità di reazione. In questi casi, il g h e p a r d o porta u n o dei propri arti anteriori davanti a u n o di quelli posteriori della preda, p r o p r i o nel m o m e n t o in cui essa lo solleva da terra, cioè quando inizia a slanciarsi in avanti: come risultato, la p r e d a crolla in avanti o rotola sul fianco. Quindi non è vero che il ghepardo colpisca lateralmente le zampe anteriori della preda, come viene spesso riportato; piuttosto, fa u n o sgambetto. Questo movimento viene compiuto anche da altre specie di felini, per esempio da giovani tigri e gatti dorati africani d u r a n t e il gioco, e talvolta viene eseguito «al rallentatore», tanto che ogni dettaglio dell'azione p u ò essere osservato con precisione. Gli artigli, compreso lo sperone, sono retratti. Schaller ha fotografato u n a leonessa m e n t r e faceva cadere una zebra in questo m o d o (1972, tavola 29). Questa tecnica ha il g r a n d e vantaggio di non richiedere che il p r e d a t o r e si avvinghi al corpo della preda, la cui massa è considerevole in r a p p o r t o a quella del carnivoro, evitando così che quest'ultimo venga coinvolto pericolosamente nella caduta. Inoltre, la caduta attarda la p r e d a q u a n t o basta perché il p r e d a t o r e abbia m o d o di rallentare il p r o p r i o slancio, voltarsi e addentarla al collo, prima che essa riesca a rialzarsi e a r i p r e n d e r e la fuga.
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Secondo Ewer (comunicazione personale) un'altra specie di felini, l'eira (Herpailurus yagouaroundi) usa inaspettatamente un m e t o d o di caccia uguale, o molto simile, a quello del giaguaro. M e n t r e le tecniche di caccia e di uccisione dei leoni che cacciano da soli sono esattamente le stesse descritte p e r altre specie di felini (per i dettagli, si veda Schaller, 1972), essi sono l'unica specie che abbia sviluppato f o r m e di caccia di g r u p p o . Ciò è stato segnalato sin da epoche passate da cacciatori e altri testimoni, i quali h a n n o considerato questi episodi come situazioni in cui casualmente diversi leoni si e r a n o trovati a cacciare la stessa p r e d a o lo stesso g r u p p o di prede, o p p u r e come dimostrazioni di ricorso deliberato a tattiche astute. Diverse di queste azioni di caccia sono state descritte in dettaglio da Schaller, che ne ha anche illustrato le sequenze con u n a serie di disegni (Schaller 1972, pp. 248-52, fig. 42). Questo a u t o r e n o n esclude la possibilità che talvolta u n a tale f o r m a di cooperazione tra i leoni sia fortuita. Nella media dei casi, tuttavia, u n a simile spiegazione è inadeguata. I leoni, riuniti in g r u p p i fino a 8 individui o (raramente) anche più, si avviano insieme e si spiegano o r d i n a t a m e n t e lungo u n a linea. Gli animali che p r o c e d o n o ai lati del g r u p p o si a f f r e t t a n o a r a g g i u n g e r e le p r o p r i e posizioni, distanti anche 200 metri l'una dall'altra, m e n t r e quelli che stanno nel mezzo avanzano con lentezza, o addirittura r i m a n g o n o fermi. Anche q u a n d o lo schieramento si è f o r m a t o , gli animali piazzati ai fianchi estremi spesso cont i n u a n o ad avanzare più r a p i d a m e n t e degli altri. In tal m o d o , le p r e d e sono aggirate da entrambi i lati - o spesso da u n o solo, se i leoni sono pochi di n u m e r o - e talvolta vengono completamente accerchiate: come conseguenza, q u a n d o esse tentano di f u g g i r e finiscono immancabilmente sul c a m m i n o dell'uno o dell'altro dei predatori. Un simile m o d o di p r o c e d e r e implica che i leoni siano, in ogni m o m e n t o , consapevoli ciascuno della p r o p r i a posizione rispetto a quella dei compagni e della p r e d a , e che svolgano il p r o p r i o ruolo a seconda della posizione occupata nella linea di azione così costituita. Fondamentalmente, il tutto non r a p p r e s e n t a altro che u n a versione in scala maggiore, sia per l'estensione di spazio sia per il num e r o di partecipanti, delle sequenze di caccia descritte alle pp. 44 sgg. e 204 sg., in cui d u e leoni stringevano u n a p r e d a tra di loro. Che i leoni sappiano esattamente che cosa stanno facendo e che siano capaci di adattare il p r o p r i o comportam e n t o alle circostanze, l'ho potuto osservare con la massima chiarezza io stesso nel Parco nazionale di Virunga, nello Zaire. Su u n a terrazza lungo la sponda del fiume R u t s h u r u , piatta e ricoperta di erba bassa e di radi cespugli, si trovavano d u e maschi di antilope kob (Adenota kob), distanti 70-80 metri l'uno
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dall'altro. Io e r o su u n a seconda terrazza, sopraelevata di circa 5 metri, da cui godevo di un'ottima visuale. Le antilopi sembravano a disagio; a un certo p u n t o notai muoversi qualcosa dietro un cespuglio (che indicherò con A), lontano da me circa 250-300 metri in linea d'aria: fece capolino un leone con u n a ricca criniera; d o p o un po' l'animale si alzò, si diresse lentamente verso sinistra e scomparve dietro un altro cespuglio (B), distante dal primo 60-70 metri. Subito dopo, un secondo leone si mosse da A e seguì il primo al cespuglio B; il p r i m o leone nel f r a t t e m p o si era allontanato da B m u o v e n d o verso un cespuglio C, distante da B più o m e n o quanto B distava da A; si potrebbe immaginare un arco di un q u a r t o di circonferenza passante per A, B e C e il cui centro era il kob più vicino a me, che correva qua e là molto agitato, ma senza allontanarsi più di 10-20 metri dal centro del cerchio immaginario. L'altro kob, più distante da me e più vicino ai leoni, si era tranquillizzato e stava pascolando. Nel frattempo, era evidentemente chiaro a entrambi i kob quale dei d u e sarebbe stato attaccato. A questo punto, dietro ad A s p u n t a r o n o le teste crinite di altri d u e leoni. U n o di essi si spostò sulla destra verso il cespuglio D, m e n t r e i leoni 1 e 2 iniziarono un'ulteriore manovra di accerchiamento; il kob che era nel loro « mirino » si trovava ora già al centro di un semicerchio. P u r t r o p p o non ebbi m o d o di f e r m a r m i più a lungo per assistere all'epilogo della caccia, ma fin da queste sue prime fasi e m e r g o n o alcuni punti degni di nota: 1) poiché la vegetazione era rada, i movimenti dei leoni e r a n o necessariamente sotto gli occhi delle antilopi che, ciò nonostante, n o n tentarono in alcun m o d o di evitare con la fuga l'accerchiamento in atto; 2) a intervalli, i leoni si nascondevano dietro un cespuglio e ogni volta i kob si tranquillizzavano per un po'; forse fu proprio questa circostanza a impedire che la loro disposizione interna alla fuga superasse la soglia perché i movimenti d'intenzione chiaramente manifestati si trasformassero in u n a f u g a precipitosa; 3) fin dall'inizio, i movimenti dei leoni indicavano che l'oggetto della caccia era l'antilope da loro più distante e gli ungulati dimostravano con il loro c o m p o r t a m e n t o di esserne consapevoli, m e n t r e all'osservatore u m a n o sembrava « naturale » il contrario; è stato p r o p r i o il c o m p o r t a m e n t o dei kob a farmi capire l'errore; 4) questa circostanza, e insieme la natura sequenziale delle manovre messe in atto dai leoni, dimostrano che fin dall'inizio i felini p u n t a v a n o alla stessa preda e che le loro manovre individuali non e r a n o iniziate in m o d o indipendente le u n e dalle altre; 5) per l'intera d u r a t a della mia osservazione, i leoni h a n n o perseguito risolutamente il loro obiettivo, come ancora u n a volta testimonia il c o m p o r t a m e n t o delle antilopi.
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Arrivare, in base a tutto questo, a concludere che i leoni avessero fin dalla partenza un « piano prestabilito», e addirittura che se lo fossero comunicato, sarebbe decisamente avventato. È invece abbastanza ragionevole s u p p o r r e che, per ragioni sconosciute, i leoni sapessero di non avere possibilità di successo con il kob a loro più vicino. D'altro canto, sostenere che la strategia da essi seguita fase d o p o fase non sia stata altro che u n a concatenazione accidentale di mosse individuali degli animali richiede una g r a n d e fede nella provvidenza del caso; com u n q u e sia, ciò che a p p a r e evidente è che, d o p o le prime mosse dei leoni, le antilopi sapevano bene che in quella situazione nulla era casuale. Q u a n t o estese siano in effetti le abilità dei leoni, in che misura d i p e n d a n o dall'esperienza giovanile, e se esistano differenze qualitative e quantitative f r a g r u p p i e popolazioni diversi nella capacità di cacciare in g r u p p o , sono tutte questioni che richiedono indagini laboriose per essere chiarite. Questa potrebbe essere la sola fonte di informazioni circa le modalità di reciproca comprensione e le capacità di previsione necessarie per attuare le f o r m e di caccia in g r u p p o che si osservano. Tutti coloro che per lunghi periodi h a n n o osservato i leoni nel loro ambiente naturale concordano sul fatto che i maschi cacciano m e n o f r e q u e n t e m e n t e delle femmine e che, di solito, si limitano ad appropriarsi della p r e d a che esse h a n n o catturato. Questo è certamente vero, anche se bisogna guardarsi dall'esagerarne il significato. Lo stesso Schaller sottolinea che, probabilmente, i suoi dati sono sbilanciati a favore delle femmine, perché esse possono essere osservate più facilmente e più spesso dei maschi. I maschi « nomadi » (si vedano pp. 301 sg.) che si m u o v o n o da soli o in g r u p p i di 2-5 individui devono in ogni caso cacciare per sopravvivere e i leoni in precedenza da me descritti costituivano probabilmente u n o di questi gruppi. In una cosa, tuttavia, i maschi superano le femmine: sono quasi esclusivamente loro che attaccano e h a n n o ragione di p r e d e pericolose e di grandi dimensioni, come bufali adulti e giraffe. Benché il bufalo di figura 2.7 sia u n a femmina, sono solamente i d u e maschi a ucciderlo; le f e m m i n e si uniscono solamente al m o m e n t o del pasto. In questo caso, per u n a volta, le cose vanno diversamente dal solito. Se anche gli esempi e le illustrazioni forniti in questo volume si riferiscono prevalentemente a uccisioni di p r e d e da parte di leoni maschi, non è per mettere in dubbio la regola sopracitata, confermata del resto da numerosi osservatori. Il fatto è che gli episodi a cui mi riferisco sono stati per la maggior parte osservati nella riserva di Gir, e d i p e n d o n o da quali leoni i guardacaccia decid a n o di seguire per « presentare » loro il bufalo da sacrificare;
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forse essi preferiscono esibire agli ospiti e ai visitatori alcuni dei più begli esemplari di leoni maschi, invece delle m e n o vistose leonesse. Il gatto dalla testa piatta vive in zone paludose, e in particolare nelle paludi di mangrovie della penisola di Malacca, del B o r n e o e di Sumatra, cibandosi in particolare di granchi e pesci che trova nell'acqua bassa o nella fanghiglia, come il perioftalmo. A q u a n t o mi risulta, le abitudini di questo felino allo stato selvaggio n o n sono mai state osservate. Le sue dita sono unite da m e m b r a n e ancora più sviluppate di quelle del gatto pescatore e la sua d e n t a t u r a presenta caratteristiche e specializzazioni che lo distinguono da ogni altra specie felina. Gli esemplari in mio possesso (2 maschi e 2 femmine), in ottime condizioni, si n u t r o n o essenzialmente di topi e piccoli ratti; questi ultimi vengono uccisi con un morso alla nuca del tutto simile a quello praticato da altri piccoli felini. I topi, invece, vengono morsi frettolosamente e subito lasciati, o p p u r e lanciati in aria a breve distanza e il tutto viene ripetuto più volte; nell'intervallo tra un morso e il successivo, i felini li f a n n o spesso rotolare verso di sé con le zampe anteriori, più o m e n o come le puzzole f a n n o con le r a n e (Goethe, 1940; Eibl-Eibesfeldt, 1955). Tale c o m p o r t a m e n t o è ancora più simile a quello della mangusta di p a l u d e (Atilax) (Eisenberg e Leyhausen, 1972). Questa circostanza, insieme con le indicazioni desunte in letteratura circa il probabile c o m p o r t a m e n t o del gatto dalla testa piatta nel suo ambiente naturale, ci ha suggerito di disporre alcuni topi nelle vaschette p e r il bagno dei felini (dimensioni 6 5 x 4 5 centimetri; p r o f o n d i t à dell'acqua: 8-10 centimetri; gli animali si b a g n a n o spesso e volentieri, anche se evitano le acque relativamente profonde). I gatti apparivano assai più interessati ai topi in acqua che non a quelli sulla terr a f e r m a , e cercavano di a f f e r r a r e i roditori con le zampe o con i denti, sia r i m a n e n d o f u o r i delle vaschette sia e n t r a n d o nell'acqua. Con le zampe anteriori bene aperte, cercavano a tentoni sul f o n d o , come f a n n o i procioni e le manguste di palude (in queste ultime, in realtà, il movimento è più persistente ed energico). Pertanto, i gatti dalla testa piatta h a n n o sviluppato in m o d o convergente con i carnivori di piccola taglia (tra cui quelli a p p e n a esaminati e altri) moduli c o m p o r t a m e n tali adattati alla caccia di piccole p r e d e nell'acqua bassa e sulle rive fangose. Se finora n o n si è stati in g r a d o di osservare i corrispondenti movimenti in f o r m a particolarmente p r o n u n ciata, ciò potrebbe d i p e n d e r e dal fatto che, nel caso dei gatti dalla testa piatta, i topi n o n r a p p r e s e n t a n o il tipo di p r e d a realmente più adatto. Una tecnica particolare per s o p r a f f a r e p r e d e che si divinco-
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lino violentemente (ratti) è stata osservata nei gatti pescatori e nei gatti piedi-neri: i felini scivolano sopra la p r e d a da dietro, poggiano a terra, da entrambi i lati di essa, la parte inferiore delle zampe anteriori e, u s a n d o gli speroni, la immobilizzano al suolo per tutta la lunghezza del corpo, f r a questi ultimi e il torace; così facendo, spingono la testa indietro e a t t e n d o n o il m o m e n t o o p p o r t u n o per azzannare alla nuca il ratto che squittisce. L'intera m a n o v r a a p p a r e simile a quella messa in atto dalla nandinia (Leyhausen, 1965 b), salvo che, al posto dei morsi ripetuti e selvaggi di quest'ultima, viene inflitto, d o p o u n a tranquilla attesa, un unico morso alla nuca, portato con sicurezza (cfr. fig. 11.1 b, benché in questo caso l'orientazione del felino rispetto al ratto sia « sbagliata »). C o m e nel caso prec e d e n t e m e n t e citato del g h e p a r d o (p. 197), lo s p e r o n e ha un compito i m p o r t a n t e q u a n d o la p r e d a viene tenuta f e r m a in questo m o d o . U n a f e m m i n a di gatto d o r a t o africano adottò la seguente tecnica per catturare un pollo: la gatta si trovava nella gabbia interna e il pollo era nel recinto esterno dove, muovendosi qua e là senza u n o scopo preciso, si era avvicinato a m e n o di un m e t r o dal passaggio di comunicazione tra la gabbia e il recinto. A quel p u n t o , la gatta si precipitò f u o r i attraverso il passaggio, con un balzo scavalcò il pollo senza toccarlo, atterrò sulle zampe anteriori p r o p r i o al di là del volatile, compiendo, c o n t e m p o r a n e a m e n t e , un'agile capriola, rotolò quindi su se stessa p e r trovarsi alla fine distesa a terra, con la p r o p r i a testa vicinissima al pollo. Nell'istante successivo, essa lo aveva a f f e r rato p e r il dorso, immobilizzato tra le zampe posteriori, morso sul collo vicino alla testa e trasportato nella sua gabbia. Ho descritto un c o m p o r t a m e n t o simile a proposito della cattura di un passero da parte di un gatto domestico maschio (p. 28) e l'ho considerato un episodio accidentale, dovuto a cieca ingordigia. Nel caso della f e m m i n a del gatto dorato, invece, tutto sembrava calcolato con precisione e « autogiustificato » : a così breve distanza è difficile pensare che essa avesse mancato il pollo p e r e r r o r e . Penso, invece, che essa abbia sfoggiato u n a tecnica particolare per c o n d u r r e un attacco di sorpresa, di cui senza dubbio sono capaci molte specie di felini. In effetti, ruzzolare così è l'unico m o d o in cui un felino p u ò arrivare alle spalle di u n a p r e d a che si trovi inizialmente di fronte, girarsi f u l m i n e a m e n t e di 180° subito dietro di essa e ghermirla prima che essa abbia il t e m p o di reagire alla nuova situazione. Nel resoconto seguente, viene descritta u n a variante di questa tecnica, che dà un'idea particolarmente chiara del m o d o in cui il l e o p a r d o conduce un attacco e di q u a n t o sia capace di adattare il p r o p r i o c o m p o r t a m e n t o a quello di u n a p r e d a che reagisca in un m o d o imprevisto.
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Resoconto da Sasan Gir del 10 novembre 1969 U n a capra di grosse dimensioni viene legata a un palo situato a circa 10 metri dal nostro p u n t o di osservazione; su mia richiesta, la corda, di solito tenuta molto corta, viene allungata fino a 5 metri per d a r e alla capra più possibilità di movimento. All'inizio, la capra bela ripetutamente, ma poi si calma e comincia a brucare l'erba qua e là. T u t t o è tranquillo, eccetto i r u m o r i consueti provenienti dal villaggio e dalla casa dove sono ospitati i visitatori. Dopo poco più di u n ' o r a e mezzo, alle 21.20, la capra si dispone ad angolo retto davanti a me, con la testa rivolta a sinistra; sento un r u m o r e e vedo il leopardo avvicinarsi in piena corsa da destra, attraversando l'area illuminata. A p p a r e n t e mente, la capra lo nota soltanto ora e cerca di fuggire. Q u a n do il l e o p a r d o è ormai giunto alla sua stessa altezza, la corda la costringe a muoversi in circolo. Il leopardo, ovviamente, aveva calcolato che la capra avrebbe continuato a fuggire nella direzione iniziale e che l'avrebbe raggiunta d o p o un altro metro 0 d u e . Frena allora bruscamente con tutte e quattro le zampe, scivola su quelle posteriori descrivendo un semicerchio e ruzzola a terra, parte sulla schiena, parte sul fianco sinistro, mentre la capra comincia a f u g g i r e nella direzione opposta. Ancora a terra, il leopardo solleva un poco dal suolo con u n o scatto la parte anteriore del corpo, lancia in avanti le zampe e, circ o n d a n d o il collo della capra (cfr. fig. 11.5 5), la trascina a terra, la m o r d e alla gola, assume u n a posizione molto simile a quella della figura 11.3 a e infligge alla p r e d a d u e morsi in rapida successione. In quel m o m e n t o , p r e n d o il binocolo per vedere meglio la posizione delle ferite; senonché, malgrado le mie precauzioni, il leopardo deve avere notato il movimento dietro la sottile stuoia che mi nasconde, perché lascia cadere la capra e corre via. La capra respira ancora e le sue gambe si contraggono a intervalli irregolari per circa 90 secondi; mi avvicino e la esamino. Il morso ha raggiunto la gola ed entrambi 1 lati della mandibola, come avevo già osservato in d u e occasioni nel 1968 (pp. 154 sg.); il collo sembra disarticolato dal tronco; u n a piccola arteria sul lato inferiore del collo a p p a r e lacerata e sul t e r r e n o si è f o r m a t a u n a pozza di sangue larga circa 40 centimetri. La ferita già non sanguina più q u a n d o raggiungo l'animale. Sospendo il mio esame per d a r e m o d o al l e o p a r d o di tornare. Ovviamente, nel caso di questa osservazione, come p u r e di quella p r i m a menzionata relativa ai leoni (p. 153, fig. 11.5), si p u ò obiettare che il fatto che la p r e d a fosse legata costituisce u n a situazione t r o p p o artificiale perché sia lecito t r a r r e conclusioni di carattere generale sul m o d o in cui n o r m a l m e n t e si
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svolge la corsa d'attacco finale alla p r e d a in questi grandi felini. Fino a un certo p u n t o l'obiezione è fondata, ma va sottolineato che si tratta di u n a situazione che, certo, non facilita il compito del predatore; anzi, spesso ho avuto l'impressione che lo rendesse più arduo, per il semplice motivo che l'animale attaccato sta f e r m o , anziché girarsi, fuggire e, così facendo, o f f r i r e il fianco. Ho avuto spesso m o d o di vedere leoni che, in f r a n g e n t i simili, esitavano, interrompevano l'attacco e lo rinnovavano solo d o p o u n a lunga pausa, d u r a n t e la quale osservavano la situazione a distanza e con diffidenza. T u t t o ciò risulta particolarmente evidente nell'episodio descritto nel seg u e n t e resoconto. Resoconto dal Santuario di Gir del 13 novembre 1969 Q u a n d o arriviamo, c o n d u c e n d o con noi un bufalo enorme, sono circa le 15.30, e solamente u n o dei d u e leoni che e r a n o stati avvistati si trova sul posto. Dopo qualche esitazione, il leone segue il bufalo e noi fino a un p u n t o dove le condizioni di visibilità e di luce sono adatte a u n a ripresa cinematografica. Leghiamo il bufalo e arretriamo di una ventina di metri. Dopo pochi minuti, il bufalo subisce il primo attacco, ma, abbassando le corna e s b u f f a n d o , fronteggia il leone, il quale desiste e si ritira per breve tratto nella boscaglia alle spalle del bufalo, dove si stende a terra. Di tanto in tanto, dà un'occhiata al bufalo dall'altra parte, ma per il resto sembra sonnecchiare o dormire. Verso le 17.00, il secondo leone compare improvvisamente sulla sinistra e si avvicina lentamente fino a 6-8 metri dal bufalo, che si gira verso di lui fronteggiandolo; immediatamente, il p r i m o leone balza in piedi e, descrivendo u n a curva stretta, cerca di portarsi dietro al bufalo (i d u e leoni stanno a d o t t a n d o la tattica descritta a p. 44). Il bufalo cerca di fare dietro f r o n t , ma è impedito dalla corda, non abbastanza lunga. I leoni lo fiancheggiano da entrambi i lati, a pochi metri di distanza. Per arrivare dietro al bufalo, tuttavia, u n o di essi dovrebbe avventurarsi nello spazio che separa la p r e d a da noi e quindi passarci molto vicino; di conseguenza, indugiano con aria indecisa, r i m a n e n d o in posizione ai lati dell'animale. Q u a n d o il bufalo si gira un poco verso sinistra, compiono un nuovo tentativo, ma subito segue un'altra fase di stallo. Alla fine, i leoni si ritir a n o di 15-20 metri in direzioni diverse, si stendono a terra e osservano il bufalo e noi. Dopo parecchio t e m p o (alle 18.30, q u a n d o è quasi buio), il secondo leone balza all'improvviso verso il bufalo, che cerca di evitarlo con un salto e, così facendo, inciampa nella corda. Il leone, allora, lo scavalca con un balzo, portandosi dietro di lui, lo a f f e r r a alle spalle azzannandolo e lo trattiene a terra. Dopo parecchi secondi, lo lascia e
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gli a f f o n d a un morso sul lato della gola, subito dietro l'orecchio. A giudicare dai movimenti spasmodici delle zampe, il bufalo m u o r e quasi subito, benché il leone continui a trattenerlo saldamente per diversi minuti, senza m u t a r e in nulla la propria posizione. Un'altra osservazione ci p u ò forse fornire la chiave per stabilire che cosa c'è dkvero nelle vecchie storie che si raccontano sui leopardi, i quali, sotto gli alberi sui quali riposano le scimmie, si p r o d u r r e b b e r o in balzi poderosi, accompagnandoli con ruggiti e ringhi terribili; stando a quanto si dice, le scimmie, prese dal terrore, finirebbero spesso per precipitare a terra e verrebbero così catturate dai felini. Resoconto dal Parco nazionale di Wilpattu, Sri Lanka, 16 ottobre 1968 È dalle ore 16.30 che sto osservando un leopardo che si trova ai margini del bosco vicino al nostro campo ... D'improvviso (sono le 17.40) compie alcuni balzi, a p p a r e n t e m e n t e per gioco, nel p u n t o dove il sentiero esce dal bosco ed è fiancheggiato da alberi alti e fronzuti. Il leopardo corre avanti e indietro lungo il sentiero. Per un^bel po' non riesco a distinguere nulla, poi mi accorgo che sta cacciando qualcosa: un uccello g r a n d e più o m e n o quanto un gallo selvatico. L'uccello, che vola g o f f a m e n t e , si posa sui rami degli alberi, ma si sente minacciato dai balzi del leopardo, e svolazza alla ricerca di nuovi punti dove appollaiarsi; così facendo, spesso si abbassa pericolosamente verso il suolo e in molte occasioni arriva quasi a tiro del leopardo che, in un caso, allunga u n a zampa e quasi lo cattura. Spesso il leopardo si apposta per breve tempo, quindi si lancia verso l'uccello, che se ne sta posato e che, p u r trovandosi t r o p p o in alto per poter essere raggiunto, ogni volta vola via e, descrivendo u n a curva stretta, si abbassa verso il suolo, per poi risollevarsi di nuovo e raggiungere un altro ramo; è app u n t o q u a n d o la sua traiettoria di volo tocca il p u n t o più basso che il leopardo cerca di afferrarlo. Alla fine, il felino compie alcune m a n o v r e per iniziare ad arrampicarsi sull'albero dove l'uccello si è ora posato, al che quest'ultimo si allontana verso il folto e il leopardo, a questo punto, desiste (ore 18.15). N o n mi sembra del tutto escluso che un leopardo possa riuscire a catt u r a r e nel m o d o descritto questo tipo di uccelli (non sono riuscito a identificarne la specie perché ero t r o p p o distante e in controluce). La mattina successiva, esaminando le tracce impresse sulla sabbia u m i d a del sentiero, ho potuto ricostruire precisamente l'accaduto e misurare l'ampiezza dei balzi del felino. 18 ottobre 1968 Nell'avvicinarci a u n a r a d u r a , u d i a m o le gri-
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da eccitate di un g r u p p o di langur (Pithecus entellus) che saltano sui rami; q u a n d o arriviamo sul posto, troviamo le tracce lasciate da un grosso leopardo, che chiaramente forniscono gli stessi indizi di quelli lasciati dal leopardo osservato m e n t r e cacciava - forse animato da un'eccitazione giocosa — l'uccello. Mi sembra assai probabile che la tattica descritta possa n o n di r a d o avere successo con i langur. C a m b i a n d o posizione, o f u g g e n d o dove gli alberi non siano particolarmente folti, queste scimmie n o n s e m p r e saltano di r a m o in ramo, ma ogni tanto scendono a terra, c o r r o n o (spesso per u n a cinquantina di metri se n o n di più) verso un altro albero - che n o n s e m p r e è il più vicino - e vi si arrampicano. Mentre sono a terra, un leop a r d o riuscirebbe facilmente a raggiungerle e catturarle. Anche Eisenberg e Lockhart (1972) descrivono nel l e o p a r d o un c o m p o r t a m e n t o del genere. Tuttavia, per il m o m e n t o n o n ho alcuna prova diretta che la mia « ricostruzione » corrisponda a realtà. Già ho accennato (pp. 39 sgg.) ai vari metodi impiegati dai leoni p e r uccidere la preda. Eccone un altro esempio. Estratto dai resoconti di F.-D. von Wolff; Parco di Amboseli (Kenya), 20 settembre 1968 D u e leonesse, arrampicate su un albero morto, vengono avvistate intorno alle 12.00. Poco dopo, u n a di esse scende dall'albero, avvista un folto g r u p p o di zebre e g n u e comincia a inseguire u n o gnu ai margini del branco. A causa della vegetazione, n o n riusciamo a seguire bene l'attacco. Avvicinandoci, osserviamo in che m o d o la leonessa impedisca allo g n u di fuggire: d a p p r i m a lo azzanna alle cosce e ai fianchi (fig. 15.1 a-d), quindi lo a f f e r r a alla gola, trattenendolo, m e n t r e i movimenti della p r e d a si f a n n o s e m p r e più deboli. Dopo qualche tempo, la leonessa circonda la f r o n t e dello g n u con la p a r t e inferiore di u n a delle zampe anteriori posata sulle corna e la tiene p r e m u t a al suolo, in m o d o da fare sollevare il m u s o verso l'alto; a questo punto, stringe il m u s o f r a le mascelle, e così lo g n u n o n riesce più ad aprire la bocca. Essa r i m a n e in questa posizione, che sembra piuttosto scomoda, p e r nove minuti, senza farsi distrarre da alcun r u m o r e . Gli spasmi dello g n u e r a n o nel f r a t t e m p o cessati, d o p o circa sei minuti. La leonessa si disimpegna molto lentamente dalla preda e r i m a n e immobile p e r d u e minuti, con gli occhi chiusi, esausta e ansimante. Quindi, torna lentamente all'albero. La leonessa che era rimasta sull'albero scende a terra, va a prend e r e i suoi tre cuccioli e tutti insieme, guidati dalla prima leonessa, si dirigono verso la preda. I leoncini mordicchiano p e r un po' i testicoli dello gnu, quindi la m a d r e trascina l'animale
Fig. 15.1. Una leonessa uccide u n o gnu: (a-d) la leonessa, che ha fatto cadere a terra la preda addentandola in un primo m o m e n t o alla coscia, abbandona e rinnova la presa ripetutamente, spostandola ogni volta un poco più avanti; (e) morso alla gola, m e n t r e l'arto anteriore destro della leonessa tiene p r e m u t e a terra le corna dello gnu, immobilizzandone la testa; ( / ) morso alla mandibola; (g) morso al naso, che la leonessa mantiene fino a q u a n d o la preda non sia morta per asfissia.
ucciso all'ombra. La prima leonessa si stacca ora dal g r u p p o e, camminando molto lentamente, raggiunge i suoi piccoli, che si trovano a circa 2,5 chilometri di distanza, e conduce anch'essi sul luogo dell'uccisione: solo a questo punto, q u a n d o sono tutti riuniti, il pasto ha inizio. Eloff (1964, 1973 a, b) descrive un tipo di attacco, osservato nel leone del Kalahari, che sembra « concepito su misura » per l'orice (Oryx gazella). Le corna lunghe e appuntite di questa antilope sono un'arma estremamente pericolosa e l'orice sa bene come usarle. Per questo motivo, i leoni azzannano l'orice non al collo, ma ben all'indietro, alla regione sacrale (cfr. la puzzola, p. 39, e l'oncilla, p. 48 sg.; si veda anche fig. 2.7 n-y), e sollevano la testa con u n o strattone verso l'alto. In questo modo, spezzano la spina dorsale dell'animale, all'altezza dell'osso sacro, paralizzandone i quarti posteriori e riuscendo ad averne ragione senza difficoltà.
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Il giaguaro (Panthera onca) adotta u n a tecnica particolare p e r uccidere il capibara (Hydrochoerus capybara) (Schaller e Vasconcelos, 1978): lo azzanna da sopra, con la testa disposta ad angolo retto rispetto al cranio della preda, che viene schiacciato come u n a noce. Lo stesso risultato p u ò essere otten u t o con un morso che r a g g i u n g a la gola e le mandibole (cfr. il l e o p a r d o con la capra, p. 153). Con altre p r e d e , ricorre a sistemi differenti, ma n o n schiaccia mai il cranio. Come sottolin e a n o i d u e autori, il successo della tecnica adottata con il capibara d i p e n d e dal fatto che i canini agiscono su un'area molto ristretta della scatola cranica, dove lo spessore dell'osso è int o r n o ai 2 cm. A prima vista, questo m e t o d o di uccisione sembra del tutto f u o r i dell'ordinario, persino stravagante. D u e ordini di circostanze, tuttavia, lo r e n d o n o plausibile. 1) Il cranio del giaguaro è più largo rispetto a quello di un leopardo della stessa dimensione, e le sue cavità orbitali sono più prominenti; di conseguenza, gli zigomi sono più lunghi e più larghi. Questa c o n f o r m a z i o n e p e r m e t t e lo sviluppo di u n a muscolatura mascellare più massiccia, che assicura al giaguaro un morso molto più potente di quello del leopardo. L'area della sezione trasversale di un canino superiore, a livello della emergenza dalla tasca gengivale, è nel giaguaro del 20-100 p e r cento maggiore che in un l e o p a r d o della stessa taglia, m e n t r e il canino stesso è più corto e m e n o a p p u n t i t o , e p u ò quindi sostenere u n a pressione maggiore. Con l'incremento delle dimensioni corporee, queste d i f f e r e n z e a u m e n t a n o in m o d o non solo assoluto, ma anche relativo (allometria positiva). Che io sappia, finora nessuno ha mai esaminato la dentina del giaguaro, ma ci si p u ò aspettare che sia più d u r a di quella del leopardo. 2) La s t r u t t u r a cranica del capibara presenta alcune caratteristiche che contribuiscono decisamente a giustificare la tecnica di uccisione adottata dal giaguaro. Le ossa parietali e frontali giacciono infatti sullo stesso piano e m a n c a n o quasi completam e n t e di c u r v a t u r a laterale; da entrambi i lati, tra il parietale e la rocca petrosa, si estende all'indietro, fino all'occipitale, un'ala ristretta (squamoso) dell'osso temporale. Il b o r d o inferiore di questa sezione è piegato all'interno, in corrispondenza della zona di incontro con la rocca petrosa, e f o r m a u n a scanalatura dai bordi netti, che posteriormente diventa semp r e più p r o f o n d a . Se il canino del giaguaro a f f o n d a a sufficienza nel cranio del capibara, finisce p e r scivolare più o m e n o automaticamente, lungo la p e n d e n z a interna del piano laterale della rocca petrosa, e n o n p u ò più uscirne. Le ossa craniche del capibara sono molto spesse; tuttavia, perfino negli animali vecchi, le suture non sono rigide. Di conseguenza, q u a n d o il giaguaro a u m e n t a in m o d o a d e g u a t o la pressione
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del morso esse cedono: la rocca petrosa, la bulla timpanica e l'ala dell'osso temporale si spezzano di scatto verso l'interno, schiacciando la materia cerebrale. Quindi, non è del tutto corretto dire che i canini p e n e t r a n o nelle ossa craniche; piuttosto, quello che accade è, in pratica, identico a q u a n t o descritto a p. 55: sia che, d o p o la presa iniziale, i canini « cerchino » u n o spazio intervertebrale, sia che cerchino u n a scanalatura nelle ossa craniche, la tecnica è virtualmente la stessa. Questa tecnica ben difficilmente p u ò essere adottata con altri tipi di prede, come per esempio il pecari, il tapiro o il cervo, perché in tutti questi animali le ossa p r i m a descritte si trovano nella parte posteriore o inferiore del cranio: visto lateralmente, il loro cranio termina bruscamente subito dietro la sutura f r a le ossa temporali e giogali. Le ossa frontali e temporali sono tenacemente saldate assieme e, benché siano m e n o spesse di quelle del capibara, sono molto più robuste. Va c o m u n q u e tenuto presente che le osservazioni di Schaller e Vasconcelos sono state condotte su un campione di a p p e n a tre giaguari e non è affatto sicuro che tutti questi felini uccidano i capibara in questo modo. Resta anche un mistero come i tre giaguari osservati abbiano a p p r e s o che la tecnica descritta è la migliore per uccid e r e il capibara, e soltanto il capibara. E come se, i g n o r a n d o per il m o m e n t o le fluttuazioni delle motivazioni e n d o g e n e rispetto alla gerarchia relativa delle disposizioni interne (pp. 184 sgg.), esistessero d u e fattori che d e t e r m i n a n o le varie tecniche di caccia e uccisione adottate dai grandi felini: le dimensioni della p r e d a e la tradizione locale (p. 159). Così, Schaller (comunicazione per lettera dell'I 1 maggio 1970, 1972) ha osservato che, su 26 gazzelle di T h o m son uccise da leoni, 16 e r a n o state ammazzate con un morso alla nuca, 6 con un morso alla gola, 2 con un morso sul cranio, 1 con un morso al petto e 1 con un morso al centro della schiena; invece, su un totale di 12 gnu, 7 e r a n o stati uccisi con un morso alla gola e 3 con un morso al naso (si vedano pp. 57, 152); in un caso, u n a leonessa aveva a d d e n t a t o la gola e un'altra il naso, e solo in un'occasione d u e canini avevano raggiunto la nuca e d u e il lato inferiore del collo (un morso che includerei tra quelli inferti « alla nuca » dai felini di piccole dimensioni; anche tra i grandi felini i morsi alla nuca simmetrici sono più rari di quelli asimmetrici, nei quali solamente un paio di canini raggiunge il lato superiore del collo, m e n t r e l'altro paio a f f o n d a nel collo lateralmente o inferiormente); infine, su 11 zebre, 10 e r a n o state uccise con un morso alla gola e 1 con un morso alla nuca asimmetrico. Tuttavia, altri ricercatori (per esempio Guggisberg, 1960) riferiscono che in altre regioni dell'Africa i leoni uccidono le zebre per lo più con un mor-
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so alla nuca. Lo stesso riferisce Schaller (1967), a proposito delle tigri con i bufali. T e n e n d o presente che la preferenza p e r un certo tipo di p r e d a in una determinata area non sembra necessariamente determinata dall'abbondanza della p r e d a stessa, o dalla facilità con cui p u ò essere catturata, è lecito avanzare un'ipotesi interessante: la tecnica di uccisione tradizionalmente preferita da una popolazione locale di grandi felini potrebbe aiutare a stabilire la predilezione da parte di quella popolazione per un certo tipo di preda; una variazione del « c o m p o r t a m e n t o probabile » (p. 20) di u n a determinata popolazione di predatori potrebbe avere influenza non trascurabile sull'ecologia delle p r e d e e sulla dinamica delle popolazioni dell'area considerata. Per quanto mi risulta, nessuna comunità ecologica è stata finora studiata secondo questa prospettiva; in effetti, è solo da poco che il c o n f r o n t o tra le ricerche sistematiche condotte sui carnivori in cattività e le osservazioni svolte per lunghi anni nell'ambiente naturale h a n n o reso possibile la formulazione di u n a simile ipotesi. Se nuove ricerche d i m o s t r e r a n n o che l'ecologia di una certa regione p u ò davvero essere influenzata da consuetudini del tipo di quelle suggerite sopra, si p o t r a n n o dischiudere orizzonti significativi: per esempio, si a p r i r a n n o nuove possibilità di regolazione e controllo per le riserve di caccia e i parchi nazionali, i cui territori h a n n o sempre estensione modesta, e presentano confini stabiliti in base a criteri che tengono in ben poco conto requisiti biocenotici ed ecologici, così che il loro equilibrio biologico è p e r e n n e m e n t e minacciato e, anzi, spesso risulta alterato. Se si rivelasse possibile influenzare le tecniche di uccisione tradizionali e quindi le preferenze alimentari dei grandi carnivori, si potrebbe sfruttare questa opportunità per attuare u n a regolazione secondo canoni biologici dell'equilibrio degli ecosistemi implicati.
P A R T E TERZA
IL C O M P O R T A M E N T O SOCIALE
I felini sono considerati, per la maggior parte delle specie, animali asociali e territoriali, che si incontrano solamente per accoppiarsi e i cui piccoli si separano dalla madre e tra loro non appena diventano autosufficienti. In un « tipico » rappresentante delle specie solitarie di piccoli felini, quale è il gatto domestico, ho pertanto studiato come le relazioni sociali si sviluppino in condizioni approssimativamente «naturali», e come il repertorio dei comportamenti sociali si adatti a condizioni « innaturali », in cui numerosi animali sono confinati in uno spazio ristretto. Anni fa (1953) ho descritto in dettaglio il comportamento dei gatti riferito al loro ambiente circostante, in particolare quando esplorano un territorio fino a quel momento sconosciuto. È emerso che il tipo di relazione che intercorre tra un animale e il suo ambiente è un fattore decisivo nel determinare il modo in cui si comporta q u a n d o incontra un altro animale, sia esso conspecifico o eterospecifico. Di questa circostanza si è dovuto tenere conto nel corso delle osservazioni e degli esperimenti descritti di seguito, intesi ad analizzare alcuni dei moduli comportamentali fondamentali per avviare, agevolare e mantenere le relazioni sociali.
Introduzione Tutti gli animali liberi di muoversi nel loro ambiente e che si riproducono sessualmente devono essere in grado di comunicare, almeno in certi periodi, con altri individui della loro
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specie. Questa non è affatto una cosa scontata. Che un animale possa mostrare, più o m e n o involontariamente, attraverso la postura e il m o d o di agire, quali sono le sue intenzioni in quel m o m e n t o , e quindi che cosa è probabile che stia per fare, n o n è di alcun vantaggio, a m e n o che il suo conspecifico non sia in g r a d o di interpretare questi segnali in m o d o corretto. E tuttavia sappiamo che le facoltà di espressione attraverso posture, movimenti, vocalizzazioni e secrezioni odorose sono filogeneticamente molto più antiche delle facoltà di interpretazione della (corretta) impressione (Leyhausen, 1967 b). Per questo motivo, normalmente l'espressione è più ricca dell'impressione, che non si è evoluta oltre il livello necessario per la sopravvivenza della specie. Q u a n t o più in alto nella scala evolutiva è salita una specie, tanto più marcate si f a n n o le d i f f e r e n z e individuali tra i suoi membri e tanto più elaborato diventa il repertorio comportamentale necessario per colmare la distanza sociale tra gli individui. Si potrebbe quasi dire che, in u n a specie, maggiore è questa distanza, più a m p i e sono la varietà e la differenziazione delle facoltà di elaborazione dell'espressione e dell'impressione. Si assume spesso che i mammiferi sociali possiedano un più ampio e complesso repertorio di segnali sociali, di meccanismi scatenanti innati corrispondenti e di comunicazione sociale, rispetto alle specie i cui m e m b r i si s u p p o n e conducano un'esistenza asociale e solitaria. Semmai, è vero il contrario. I capitoli seguenti descrivono alcuni dei moduli di espressione-impressione che si sono evoluti nei felini e che regolano la condotta sociale tanto degli individui adulti quanto degli individui subadulti all'interno di un g r u p p o .
16. Incontro tra conspecifici che non si conoscono Due gatti del tutto estranei l'uno all'altro sono stati fatti incontrare nelle seguenti condizioni sperimentali: 1) in un ambiente sconosciuto a entrambi; 2) in un ambiente conosciuto da entrambi; 3) in un ambiente conosciuto solamente da uno di essi. Di regola, quando l'ambiente dove si svolge l'esperimento è sconosciuto a entrambi gli animali, questi sulle prime si ignorano completamente e si dedicano invece a esplorarlo. Se, nel far questo, per caso si incontrano, si annusano brevemente, naso contro naso, quindi riprendono a ispezionare l'ambiente. Solo dopo avere camminato, tastato e annusato ogni angolo, cominciano a interessarsi l'uno dell'altro. Iniziano sempre con l'annusarsi reciprocamente naso contro naso (fig. 16.1); testa e collo sono protesi quanto più possibile in avanti e il corpo (soprattutto il treno posteriore) è leggermente piegato verso terra. In genere, la testa è quasi allineata con il tronco (come si può vedere nella fig. 18.4 b). I nasi di solito non si toccano. Nella maggior parte dei casi le orecchie sono erette e rivolte verso la fronte, ancora in momentaneo atteggiamento di amichevole curiosità, anche se la loro posizione può già far presagire all'osservatore come si evolverà in seguito l'incontro (si veda la fig. 20.4 b). A questo punto, ognuno dei due animali cerca di fiutare e di esplorare con le vibrisse la nuca e poi i fianchi dell'altro, fino ad arrivare ad annusarne con cura la regione anale. Se entrambi riescono nell'intento, esibiscono il
Fig. 16.1.
« Ispezione nasale
M5 (a sinistra) e M2 (a destra).
Fig. 16.2. « Movimenti in circolo»; FI e M5. FI soffia in atteggiamento difensivo, ma, contemporaneamente sposta la coda di lato, facilitando a M5 l'ispezione anale.
Flehmen* (si vedano il cap. 27 e la fig. 27.11); in genere, però, ognuno vuole arrivare alla regione anale dell'altro evitando che la propria venga raggiunta, con il risultato che i due finiscono per muoversi in circolo l'uno dietro all'altro (fig. 16.2). Se l'incontro è amichevole, alla fine uno dei due permette all'altro di effettuare un'ispezione anale e gli facilita il compito sollevando la propria coda. Tuttavia, molto di rado gli incontri procedono nel modo « ideale » qui descritto. Infatti, benché questo sia il proposito di ogni gatto, come dimostrano gli esperimenti con zimbelli * [Comportamento frequente nei mammiferi: la bocca è leggermente aperta, con il labbro superiore ritratto, le narici sono chiuse e la testa leggermente sollevata. In mancanza di termini equivalenti, il termine tedesco Flehmen è adottato anche nelle altre lingue].
Incontro tra conspecifici
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che v e r r a n n o descritti più avanti, la catena di azioni si interr o m p e di solito n o n a p p e n a u n o dei d u e cerca di a n n u s a r e la nuca dell'altro. Il gatto che prima dell'altro tenta la mossa successiva verso u n a conoscenza ravvicinata manifesta maggiore sicurezza di sé; ciò induce un atteggiamento difensivo più o m e n o accentuato nell'altro che, per parte sua, n o n ha ancora osato fare u n a nuova mossa: l'animale si accovaccia e si raggomitola su se stesso, sposta il treno posteriore lateralmente, appiattisce un poco le orecchie e g u a r d a da sotto in su quello che ormai è divenuto un avversario; se poi quest'ultimo insiste nei suoi approcci, si g u a d a g n a u n a soffiata, seguita da un colpo di zampa a scopo difensivo sul naso. Alla fine, il gatto subordinato f u g g e via, prima lentamente, quasi strisciando, poi più veloce e con m e n o esitazione. Allontanatosi a breve distanza, si f e r m a di nuovo e, di solito in posizione seduta, r i m a n e a osservare il c o m p a g n o dimostratosi superiore. Nel f r a t t e m p o , quest'ultimo ha a n n u s a t o minuziosamente il luogo dove il p r i m o se ne stava accovacciato prima di f u g g i r e e ora lo segue (di solito lentamente) p e r rinnovare il tentativo di ispezione olfattiva del naso, dei fianchi e della zona anale. La sequenza p u ò ripetersi più volte. A questo p u n t o , l'epilogo dell'incontro d i p e n d e essenzialmente dalla disposizione interna e dal t e m p e r a m e n t o dell'animale d o m i n a n t e . Dopo alcuni tentativi infruttuosi, esso p u ò p e r d e r e ogni interesse e a n d a r s e n e ; o p p u r e , p u ò insistere caparbiamente fino a che l'altro si acquatta nella postura difensiva estrema e p e r m e t t e al gatto d o m i n a n t e di agire a p r o p r i o piacimento; o, ancora, alla fine p u ò sferrare un attacco deciso, specialmente se e n t r a m b i gli individui sono maschi adulti. Quello che accade q u a n d o d u e gatti si incontrano in un ambiente noto a e n t r a m b i o solo a u n o di essi sarà descritto nel capitolo 22; prima t r a t t e r e m o del riconoscimento f r a conspecifici.
17. Lo «schema » dell'incontro con un conspecifico La rivalità o la difesa territoriale possono determinare un'ampia varietà di modificazioni nel modello di « incontro ideale » appena descritto. Tali modificazioni rientrano nell'ordine « naturale » delle cose, poiché nella realtà la situazione precedentemente descritta può verificarsi soltanto in specifiche condizioni sperimentali. Prima di esaminare tali modificazioni, affrontiamo brevemente il tema del riconoscimento di un conspecifico. A questo proposito, ho condotto una serie di esperimenti con i seguenti zimbelli: 1) animali vivi (topi, ratti, cani); 2) un gatto subadulto, appositamente male impagliato; 3) un orsacchiotto montato su ruote; 4) l'immagine del gatto stesso riflessa in uno specchio; 5) la sagoma, ingrandita rispetto alle dimensioni reali, di un gatto in postura di minaccia (pp. 228 sgg.); 6) un volto u m a n o conosciuto. Gli animali di cui al punto 1) possono essere considerati « zimbelli » ai fini dell'esperimento, in quanto i felini che non abbiano mai avuto esperienze con prede li trattano come se fossero conspecifici, vale a dire che l'incontro con essi si svolge esattamente nello stesso modo di quando due gatti si incontrano per la prima volta, per lo meno fino al momento in cui il comportamento dell'animale « zimbello » non interrompe la sequenza di azioni. Il gatto impagliato, l'orsacchiotto e la sagoma venivano annusati a partire dal davanti fino alla parte posteriore, proprio come se fossero gatti (fig. 17.1; cfr. anche
« Schema » dell'incontro
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Weiss, 1952, fig. 5, p. 458). Il c o m p o r t a m e n t o nei c o n f r o n t i dell'immagine riflessa dallo specchio sembra conformarsi a questo schema, ma ciò non p u ò essere stabilito in m o d o altrettanto inequivocabile: q u a n d o l'animale sperimentale si avvicina allo specchio con il p r o p r i o naso, va a sbattere contro il naso riflesso e lo stesso si ripete ovviamente q u a n d o tenta di annusare altre parti del corpo del gatto che in a p p a r e n z a gli sta di f r o n t e . L'esperimento ha successo solo con animali che non abbiano mai avuto l'opportunità di esaminare attentamente la p r o p r i a immagine riflessa. Essi, infatti, p e r d o n o interesse per
Fig. 17.1. Un'oncilla con un gatto impagliato: lo annusa (a) sul naso; (b) sulla nuca; (c) sul fianco; (d) nella regione anale. M 9 effettua (e) un'ispezione nasale e ( / ) F5 un'ispezione anale su una sagoma.
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questo tipo di stimolo molto r a p i d a m e n t e — spesso già in un secondo esperimento - e f r e q u e n t e m e n t e non vi prestano più alcuna attenzione negli esperimenti successivi. Infine, ogni gatto p r o t e n d e il p r o p r i o naso verso un essere u m a n o conosciuto, o per lo m e n o non del tutto estraneo, che faccia lo stesso nei suoi confronti. Quasi sempre, un gatto rivolge i suoi primi approcci al naso del soggetto che gli si presenta e, di conseguenza, nel caso della sagoma, verso il p u n t o esatto nel quale il naso dovrebbe trovarsi (fig. 17.1 e\ la fotografia è stata scattata un istante dopo, q u a n d o il gatto è già passato ad annusare, come in precedenza descritto, l'orecchio e il lato del collo). La caratteristica necessaria per i n d u r r e il primo approccio p u ò quindi essere sintetizzata come « sporgenza appuntita tra d u e occhi». A proposito di minacce e aggressioni indotte da zimbelli, si vedano pp. 233 sgg. Weiss (1952), avendo osservato che i suoi d u e gatti domestici, allevati in isolamento, accoglievano allo stesso m o d o animali mai incontrati prima (conigli), donnole impagliate e gatti sconosciuti, è portato a ritenere che i gatti non possiedano alcun meccanismo scatenante innato che induca ad accogliere e ad annusare conspecifici estranei. Senza dubbio, tuttavia, è la combinazione di caratteristiche sopra menzionate che attiva tale meccanismo e il c o m p o r t a m e n t o che ne consegue è quello tipico di d u e gatti che n o n si conoscono, nelle circostanze prima descritte. Quali degli « oggetti » contraddistinti da questa combinazione di caratteristiche siano da considerarsi, agli occhi del gatto, come animali da preda, in parte viene determinato dal già descritto (pp. 91 sg.) meccanismo scatenante innato e q u a m e n t e non selettivo e, in parte, deve essere appreso. In altre parole, per un felino inesperto qualsiasi vertebrato equivale all'inizio a un « p r o p r i o simile », a m e n o che non scateni in qualche m o d o un c o m p o r t a m e n t o predatorio. Il giovane felino deve parimenti a p p r e n d e r e chi e che cosa debba essere considerato un nemico. Fino a questo momento, le mie osservazioni non inducono a ritenere che esista un meccanismo scatenante innato per il riconoscimento di determinati nemici. A questo riguardo, il c o m p o r t a m e n t o « allarmato » degli adulti svolge un ruolo imp o r t a n t e (si vedano pp. 369, 374), ma non sembra che si verifichi alcun imprinting p e r m a n e n t e , dal m o m e n t o che anche i gatti che da giovani sono stati addestrati dalla m a d r e a temere i cani o gli esseri umani, o che h a n n o avuto esperienze negative con questi ultimi, possono dimenticare tutto ciò e svil u p p a r e u n a disposizione amichevole verso entrambi. A proposito della puzzola, tuttavia, Goethe (1940) a f f e r m a che p u ò essere addomesticata solamente se ha contatti con gli esseri u m a n i prima dei 55 giorni di età e, a questo proposito, parla
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di imprinting. Lo stesso riferisce Seitz (1950) r i g u a r d o alla volpe. Anche dei gatti selvatici si dice che non possano essere addomesticati, a m e n o che non siano stati presi q u a n d o e r a n o molto giovani. Tuttavia, non sono convinto che in tutti questi esempi si possa realmente parlare di imprinting. Gli animali selvatici conservano in genere un'ottima memoria degli episodi che li h a n n o spaventati e, spesso, una sola esperienza è sufficiente a i m p r i m e r e in loro un ricordo negativo per lungo tempo. Tuttavia, n o n si p u ò parlare di imprinting in ogni singolo caso individuale, come, per fare un esempio, a proposito della p a u r a della mia f e m m i n a di orso nero nei confronti dei guanti di pelle (Leyhausen, 1948). L'argomento decisivo che, in ogni caso, d e p o n e contro fenomeni di imprinting relativi a « nemici » specifici è l'enorme n u m e r o di nemici potenziali: è difficile immaginare che un unico meccanismo scatenante di un'azione istintiva sia capace di p r o d u r r e un n u m e r o pressoché illimitato di atti di imprinting. La natura esclusiva dei processi di imprinting contraddice decisamente u n a tale congettura. La p a u r a è principalmente scatenata da oggetti di grandi dimensioni che si avvicinano rapidamente, in particolare se essi calano dall'alto. L i n d e m a n n e Rieck (1953) riferiscono che, a quattro settimane di età, alcuni gatti selvatici europei si appiattivano a terra e si riparavano d e n t r o la tana q u a n d o un'aquila o un g u f o impagliati con le ali spiegate venivano fatti passare r a p i d a m e n t e sopra il loro recinto. La stessa reazione è stata provocata su altri esemplari con un ombrello aperto. La puzzola Titi di H e r t e r e H e r t e r (1953), sottoposta all'esperimento Raspar Hauser, a 40 giorni di età strillava di p a u r a q u a n d o il suo guardiano spostava r a p i d a m e n t e una gamba p r o p r i o al di sopra di lei; non a p p e n a il piede veniva posato a terra, Titi si calmava completamente. Per tutte queste osservazioni non deve necessariamente essere addotta come unica spiegazione l'esistenza di u n o « schema di riconoscimento del nemico», specificamente inteso per i grandi uccelli da preda. In ogni caso, per quanto riguarda i felini, penso piuttosto che ci sia un legame tra le reazioni descritte sopra e le loro modalità di attacco d u r a n t e lo scontro con un conspecifico, che saranno descritte più avanti; anche felini di grandi dimensioni, come leoni e tigri, t e m o n o qualunque cosa cali su di essi dall'alto, benché non esista un'aquila capace di mangiare un leone. Per q u a n t o mi è stato possibile scoprire a tutt'oggi, il meccanismo scatenante innato che induce a farsi incontro a conspecifici sconosciuti non è condizionato dall'imprinting. Perfino gatti che siano cresciuti normalmente con la m a d r e e i fratelli cercano di avvicinare ed esplorare qualunque vertebrato sco-
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nosciuto come se fosse un altro gatto, per lo m e n o fino a q u a n d o l'« estraneo » non f u g g e via e, così facendo, attiva nel felino il meccanismo scatenante innato della caccia. Ciò è straordinario, perché invece il riconoscimento di un possibile p a r t n e r sessuale sembra d i p e n d e r e da un processo di imprinting (si vedano p p . 351 sgg.).
18. Incontro in un ambiente conosciuto A ciascuno dei due animali scelti per l'incontro si è consentito di prendere dimestichezza, separatamente, con l'ambiente dell'esperimento, lasciandovelo diverse ore al giorno, fino a quando non ha smesso di ispezionarlo, tastando e fiutando intorno appena dopo aver fatto il suo ingresso quotidiano. Per l'esperimento abbiamo introdotto nello stesso ambiente la coppia di animali quasi simultaneamente. A meno che non fossero individui particolarmente aggressivi, tutto procedeva quasi esattamente come in una situazione ambientale sconosciuta a entrambi gli animali. La sola differenza era che non veniva inizialmente sospesa la fase di contatto sociale per dedicare l'attenzione prioritaria all'ispezione dell'ambiente; inoltre, appariva chiaro prima se l'incontro avrebbe avuto una conclusione pacifica o bellicosa. Q u a n d o soltanto uno dei due animali già conosce l'ambiente dell'incontro, esso, per lo meno all'inizio, risulta dominante: il gatto « estraneo » appare insicuro, ansioso, e cerca di evitare ogni contatto diretto con l'altro per potersi dedicare all'esplorazione. In questa situazione l'iniziativa è completamente affidata al gatto che si sente « a casa propria » : esso si avvicina all'estraneo più o meno lentamente a seconda del temperamento e di quanto si senta sicuro di sé, e cerca di annusarlo (fig. 18.1). Tuttavia, poiché di regola il primo animale non corrisponde e si allontana, si ritira o continua tranquillamente a esplorare la stanza, il « cerimoniale del contatto naso-nasale » non può avere luogo e il gatto dominante cerca subito di
Fig. 18.1.
M5 (a sinistra) si avvicina all'intruso (FI).
annusare la zona anale dell'altro (fig. 18.2 a). Questa mossa raramente viene tollerata: più spesso, l'estraneo si volge a metà e soffia, o addirittura mena alcuni colpi a vuoto con la zampa, a scopo difensivo (fig. 18.2 b-d). Il gatto respinto in genere interrompe allora i suoi tentativi, si siede e segue con la massima
Fig. 18.2. Due fratelli, MI (nero) e M2 (bianco e nero) ispezionano un nuovo arrivato, M5 (grigio), (a) Ispezione della zona anale di M5, che, per il momento, si interessa esclusivamente alla stanza; (b) M5 si volta verso M2 che lo sta annusando; (e) MI si comporta in modo troppo invadente; M5 soffia e (d) lo attacca con la zampa per allontanarlo.
Incontro in ambiente conosciuto
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attenzione ogni movimento dell'altro (fig. 18.3 a). Dopo un po', t o r n a ad avvicinarsi, talvolta per gradi: fa qualche passo, si siede, poi fa ancora qualche passo, e ripete questa sequenza u n a o d u e volte, prima di tentare ancora di annusare l'altro. Q u a n t o più spesso ciò accade, tanto più rapidamente il gatto estraneo sospende la propria ricognizione e si siede o si accovaccia, possibilmente in un p u n t o che o f f r a protezione alle spalle o che sia sopraelevato. Quindi, esibisce una f o r m a di c o m p o r t a m e n t o d e g n a di nota, che io chiamo del « guardarsi intorno » (fig. 18.3 b): m u o v e n d o il capo lentamente, e con l'e-
Fig. 18.3. MI e M2 assediano M5; (a) M5 in posizione difensiva; (b) M5 « si guarda intorno ». L'incontro non si è concluso con la lotta per la giovane età di M5 (meno di un anno).
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spressione attenta e soddisfatta con cui, per esempio, un gatto ben pasciuto siede alla finestra osservando il traffico, si guarda tutt'intorno, evitando p e r ò accuratamente di incontrare con lo s g u a r d o il gatto residente, come a volere sottolineare la p r o p r i a inoffensività. Naturalmente, nel fare ciò n o n p e r d e u n a mossa dell'altro e, n o n a p p e n a quest'ultimo tenta un nuovo contatto, cambia posizione, o p p u r e soffia e accenna a voler colpire il gatto invadente. T u t t o ciò p u ò continuare per ore, o anche per giorni, senza che si registri alcun progresso apprezzabile, poiché tutte le azioni descritte finora sono compiute come «al rallentatore». In questa situazione è i m p o r t a n t e che nella stanza siano presenti superfici d'appoggio situate a u n a certa altezza dal pavimento. Se, per esempio, fin dagli inizi il gatto estraneo riesce a rifugiarsi sopra una sedia, la superiorità del gatto residente viene quasi del tutto annullata (fig. 18.4). Quest'ultimo, ora, se si risolve ad avvicinarsi, lo fa in m o d o indeciso e l'estraneo accoglie questo tentativo di contatto con molta più calma, spesso g u a r d a n d o l'altro diritto negli occhi, anche se alterna costantemente questo c o m p o r t a m e n t o con il « g u a r d a r s i i n t o r n o » .
Fig. 18.4. Primo incontro fra M3 (residente) e MIO (intruso); (a) MIO salta subito su una sedia e attende tranquillamente che sia M3 ad avvicinarsi; (è) « contatto nasale »; (c) d o p o avere tentato inutilmente di avvicinare MIO, M3 si ritira e annusa per terra come attività « sostitutiva ».
Incontro in ambiente conosciuto
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Il « guardarsi intorno » è un'azione che chiaramente si ricollega al disagio che prova ogni gatto q u a n d o viene fissato direttamente. Se un gatto si r e n d e conto all'improvviso di essere osservato di nascosto, immancabilmente i n t e r r o m p e qualunque cosa stia facendo, per poi r i p r e n d e r e l'attività interrotta, ma in m o d o palesemente inibito e impacciato. Se un gatto che si sta avvicinando furtivamente alla p r e d a - o, nel gioco, a un altro gatto - si accorge di essere stato scoperto, subito si rizza sulle zampe, « si g u a r d a intorno » e finge indifferenza. U n o sguardo diretto della « p r e d a » blocca all'istante anche un'azione già iniziata. Se ne può avere una dimostrazione allo zoo, giocando con u n a tigre nel seguente modo, che funziona quasi s e m p r e se l'animale non è ancora diventato t r o p p o apatico: mettetevi in piedi di f r o n t e alle sbarre della gabbia con u n a macchina fotografica reflex con mirino a pozzetto e, abbassando lo sguardo sul pozzetto, osservate attraverso il mirino u n a tigre che si trovi in un angolo della gabbia. Se il felino si sente nella disposizione di cacciare, cosa molto f r e q u e n t e negli animali rinchiusi negli zoo, cui è drammaticamente precluso di d a r e sfogo ai propri impulsi, ben presto adotterà u n a postura di osservazione; poi all'improvviso, d o p o essersi appiattito al suolo, scatterà in avanti per un attacco. A questo punto, sollevate r a p i d a m e n t e lo sguardo, puntandoglielo diritto negli occhi: l'animale f r e n e r à bruscamente sulle quattro zampe, si girerà di lato e « si g u a r d e r à intorno ». Non a p p e n a abbassate di nuovo lo sguardo sul mirino, il felino inizierà un nuovo attacco; questo gioco p u ò continuare quasi a volontà. In ogni caso, ogni volta che ho provato a fare questo piccolo esperimento, l'animale ha dimostrato di essere più perseverante di me. D u r a n t e incontri su base neutrale o amichevole, come quelli che p r e l u d o n o all'accoppiamento, il p a r t n e r che ha iniziato gli approcci li i n t e r r o m p e r à , fatta eccezione per il contatto nasale, se l'altro lo g u a r d a diritto negli occhi. L'individuo socialm e n t e subordinato non deve, per così dire, « osare » inibire i movimenti dell'individuo di r a n g o superiore con u n o sguardo diretto. Allo stesso modo, d u r a n t e i preliminari dell'accoppiam e n t o ciascuno dei partner, q u a n d o è inattivo, si g u a r d a intorno, perché, in caso contrario, finirebbe per bloccare l'iniziativa del c o m p a g n o e per r e n d e r e impossibile, o quanto meno molto difficile, ogni tipo di approccio. Questo r a p p o r t o polarizzato tra il fissare negli occhi e il « guardarsi intorno » è anche all'origine dell'« aria offesa » che assumono sovente i gatti, e che ben conoscono tutti coloro che ne possiedono uno. Per esempio, se un gatto è colto sul fatto m e n t r e sta r u b a n d o qualcosa in cucina e viene aggredito in m o d o adirato dalla pa-
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d r o n a - che in altre occasioni si dimostra amichevole e affettuosa - di solito n o n scappa lontano ma, senza a b b a n d o n a r e la stanza, si limita a r a g g i u n g e r n e il suo più vicino angolino di riposo abituale, p e r esempio sotto la stufa, dove si mette seduto volgendo alla p a d r o n a la schiena e « guardandosi i n t o r n o ». In altre parole, tale c o m p o r t a m e n t o n o n è espressione di orgoglio ferito, ma di u n a condizione di subordinazione sociale che la punizione ha severamente ribadito. Un fattore legato al r a n g o sociale entra in gioco anche q u a n d o un essere u m a n o riceve un'offesa: si sentirà davvero offeso o se ne avrà a male solamente chi n o n si trovi nella condizione adeguata, q u a n t o a posizione sociale, forza fisica o influenza, per costringere a giustificarsi o per punire colui che gli ha mancato di rispetto. Q u a n t o detto p u ò anche spiegare l'effetto inibitorio esercitato sui grandi felini da u n o sguardo diretto, al quale si fa spesso ricorso, p e r esempio, d u r a n t e il loro a d d e s t r a m e n t o p e r il circo, e che viene poi sfruttato con abile messinscena per f a r c r e d e r e al pubblico stupito che il d o m a t o r e sia dotato di u n o speciale talento. In realtà, tutto ciò che occorre al domatore per stare tranquillamente faccia a faccia con un leone o u n a tigre è u n a certa dose di coraggio e u n ' a d e g u a t a conoscenza dell'animale. L'espediente funziona solamente fino a che il carnivoro considera il d o m a t o r e un conspecifico di rango più elevato o p p u r e u n a p r e d a potenziale! Se il d o m a t o r e viene visto come un rivale, il trucco non funziona più: nelle lotte per il r a n g o sociale, infatti, i felini si g u a r d a n o costantem e n t e negli occhi (fig. 19.4), come era ben noto al famoso dom a t o r e T o g a r e (1940), il quale sosteneva che q u a n d o un leone parte decisamente all'attacco non vi è alcun m o d o p e r riuscire a fermarlo. C o m e ha fatto osservare Chance (1962), i segnali che decid o n o l'interruzione della presa di contatto, come il « guardarsi i n t o r n o » , h a n n o u n a duplice funzione: in p r i m o luogo, l'animale che distoglie lo sguardo fa sentire l'altro conspecifico m e n o provocato ad attaccare o a fuggire; in secondo luogo, nello stesso animale che volge altrove lo sguardo si attenua lo stimolo ad attaccare o a f u g g i r e esercitato dall'altro. L'individ u o che i n t e r r o m p e il contatto evita attivamente di essere indotto all'attacco o alla fuga, che sono inevitabili se l'altro insiste nell'avvicinarsi; in questo modo, n o n è costretto a cedere, ma n e p p u r e a combattere, a m e n o che l'altro animale sia totalm e n t e d e t e r m i n a t o ad attaccare. In effetti, gli incontri tra d u e felini, dei quali u n o si metta a « guardarsi i n t o r n o » , r a r a m e n te h a n n o epiloghi violenti. Di regola, se l'incontro tra d u e felini avviene nel territorio di u n o dei d u e , l'« intruso » viene attaccato immediatamente.
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Esso, in genere, f u g g e d o p o il primo violento attacco e viene inseguito dal « residente » per un breve tratto. In un ambiente chiuso, l'intruso finisce per ridursi in un angolo, p r o n t o a difendersi, m e n t r e il vincitore sospende l'attacco, che però in g e n e r e si rinnova a intervalli. Può accadere, per quanto di rado, che un animale giovane o molto timoroso non sia dominante nel p r o p r i o territorio e ceda l'iniziativa a un felino intruso; in questo caso, i ruoli possono invertirsi, tanto che un osservatore inesperto potrebbe p r e n d e r e l'intruso per resid e n t e e viceversa. Tutti i moduli comportamentali che finora sono stati descritti succintamente v e r r a n n o ora esaminati in dettaglio.
19. Duelli tra gatti maschi Il comportamento di attacco dei gatti maschi raramente può essere osservato nella sua forma pura, non modificata dalla parziale sovrapposizione di altri moduli comportamentali. Ciò spiega perché, almeno a quanto mi risulta, non ne esistano descrizioni, e perché spesso sia totalmente sconosciuto anche a osservatori che, per altri versi, hanno molta familiarità con i gatti. Come primo segnale di attacco, l'animale si leva ritto sulle zampe. La schiena è tesa e forma una linea diritta, leggermente inclinata con la parte posteriore più in alto, giacché gli arti posteriori, quando sono completamente distesi, sono più lunghi di quelli anteriori. Certe volte, l'inclinazione appare un po' più pronunciata di quanto sia realmente, perché il pelo lungo la parte mediana della schiena è irto e lo è in modo sempre più accentuato procedendo verso la parte posteriore. La coda si prolunga per un breve tratto sulla stessa linea della schiena, per poi piegarsi bruscamente verso il basso, quasi form a n d o un angolo retto (fig. 19.1 a). Il pelo della coda è solo leggermente sollevato e la coda stessa è tenuta rigida; solo q u a n d o l'eccitazione è massima la sua punta si agita convulsamente avanti e indietro. La testa è lievemente protesa in avanti. Contrariamente a quanto accade nel comportamento difensivo (che sarà descritto in seguito), le pupille non sono dilatate, anzi possono essere più strette del normale. Quest'ultima circostanza, unita al fatto che soltanto in alcune zone del mantello il pelo appare eretto, indica come il comportamento di attacco nella sua forma più pura non sia influenzato, o per lo
Fig. 19.1. Primo incontro tra MIO (a sinistra) e M8 (a destra): (a) MIO in « postura di iena », M8 in postura di minaccia estrema; (b) M8 volge la testa di lato (si veda il testo); (c) MIO si allontana lentamente, M8 rimane in postura di minaccia e non lo segue.
meno non lo sia in misura rilevante, dall'azione dell'adrenalina. Si tratta, per così dire, di un attacco che viene condotto deliberatamente e a sangue freddo, e con il quale si accorda il modo lento e calcolato di avvicinare il contendente. La posizione delle orecchie costituisce una caratteristica particolare: non sono appiattite, e neppure rivolte indietro, ma diritte e orientate all'esterno ad angolo acuto tra di loro, in modo tale che il rivale ne veda la parte posteriore come un triangolo appuntito che poggia sul lato minore (fig. 19.2 a). In tutte le specie di felini dotate di una striscia nera o di una macchia chiara in campo scuro sul retro dell'orecchio, la figura a triangolo è assai evidente (fig. 19.2) e crea l'effetto di una maschera minacciosa («occhi»?). Si tratta certamente di una eredità ancestrale che si ritrova anche in numerosi viverridi (Genetta, Nandinia). Nei felini, però, sembra che questa caratteristica non svolga più una funzione decisiva come segnale, dato che in un n u m e r o elevato delle specie più evolute (Felis in senso stretto, leone, puma, caracal, ecc.), e del tutto indipendentemente le une dalle altre, essa si è sensibilmente attenuata o addirittura è scomparsa. La posizione delle orecchie, se si esclude il fatto che sono tenute erette in modo più deciso, è molto simile a quella assunta nel momento in cui viene inflitto un morso con forza (cfr. fig. 7.4 a). Probabilmente rappresenta una mimica accentuata di « minaccia di morso », perché un aggressore che non sia inibito morde sempre il suo rivale alla nuca. Esso gli si avvicina minacciosamente, muovendosi come al rallentatore, ora miagolando ed emettendo grida acute, ora producendo brontolìi profondi e risonanti. Queste vocalizzazioni, erroneamente scambiate per il « canto d'amore » del gatto maschio, in realtà non h a n n o niente a che vedere con il corteggiamento e
Fig. 19.2. (a) Lince rossa in postura di attacco (adottata solo se ci si avvicinava alla sua gabbia di notte; di giorno, il felino si disponeva in postura difensiva) (Zoo di Francoforte); (b) « minaccia di m o r d e r e » da parte di una tigre (Giardino zoologico di Duisburg).
la tenerezza, ma sono un'espressione di pura minaccia. L'animale si interrompe spesso, perché la salivazione è abbondante e deve deglutire. In questa circostanza la sua lingua si muove ritmicamente avanti e indietro e le sue mascelle si aprono e si chiudono lentamente, producendo talvolta un r u m o r e secco, simile a quello del « battere i denti » benché i due rispettivi schemi motori non abbiano alcuna relazione. Q u a n d o l'aggressore si è avvicinato a un metro o meno dal rivale, solleva la testa e la volge di lato, a un angolo di circa 45 gradi rispetto all'asse longitudinale del corpo (fig. 19.3 a, b), continuando tuttavia a tenere gli occhi fissi sul rivale (fig. 19.4). Quindi, a intervalli, in genere tra un passo e il successivo, l'animale volge la testa da un lato all'altro. Q u a n t o più i due rivali si avvicinano, tanto più brevi sono i loro passi. Alla fine, essi spostano in avanti prima le zampe anteriori, poi le zampe posteriori, per esempio in questa sequenza: anteriore sinistra, anteriore destra, posteriore sinistra, posteriore destra. I loro movimenti si fanno progressivamente più lenti e gli animali gradualmente si accostano l'uno all'altro. A questo punto, piegano un po' le zampe posteriori, all'altezza dell'articolazione dell'anca (garretti), flettendo lievemente la schiena sino ad allora diritta; questa posizione non va confusa con la « schiena inarcata » (p. 252). Un rivale combattivo, o quasi uguale per forza, compie
b
Fig. 19.3. Secondo incontro tra MIO (in postura difensiva) e M8: M8 si avvicina in atteggiamento di minaccia, volgendo la testa da un lato (a) all'altro (è), quindi si gira rinunciando all'attacco e annusa il terreno come attività « sostitutiva » (c).
Fig. 19.4. M8 in postura di minaccia. Si noti la posizione delle orecchie, la testa girata, le pupille contratte e lo sguardo puntato verso l'osservatore (il rivale).
esattamente gli stessi movimenti, come se fosse l'immagine speculare dell'attaccante. Nella posizione descritta per ultima, i due rivali, rimanendo a una distanza di appena qualche centimetro, possono fronteggiarsi per diversi minuti, immobili, mentre il loro canto di guerra aumenta e diminuisce di intensità e la punta della coda si contrae sempre più violentemente. Quindi, all'improvviso, uno dei due si avventa sull'altro per morderlo alla nuca; ma di solito l'attacco viene fulmineamente eluso dall'aggredito, che si getta sulla schiena, oppone le proprie zanne a quelle dell'avversario, lo trattiene con le zampe anteriori e lo graffia violentemente con quelle posteriori. L'aggressore non ha altra scelta che fare lo stesso, e i due rotolano selvaggiamente a terra, emettendo urli acuti. Poi, d'improvviso come è cominciato, l'attacco viene interrotto; i due si separano con un balzo, e riprendono a minacciarsi a vicenda, ritti l'uno di fronte all'altro. L'intera sequenza può ripetersi più volte di seguito, fino a q u a n d o u n o dei due rivali non abbandona la lotta: dopo un ennesimo scontro, non si rimette in piedi ma rimane seduto, immobile, in atteggiamento difensivo, con le orecchie rigidamente ripiegate. Il vincitore lo minaccia ancora per un po', ma di solito non rinnova l'attacco. Invece, si volge a metà e si
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mette ad a n n u s a r e p e r terra con g r a n d e i m p e g n o (fig. 19.3 c). Questo movimento « sostitutivo » si osserva s e m p r e q u a n d o l'aggressore è inibito dall'atteggiamento difensivo o dalla posizione vantaggiosa assunta dal rivale subordinato (p. 224) (cfr. fig. 18.4 c). A parte il movimento del « battere i denti » e quello dell'«esibirsi nell'affilare gli artigli», è il solo c o m p o r t a m e n t o « sostitutivo » che sia strettamente connesso alla situazione specifica, poiché tutti gli altri possono anche manifestarsi in circostanze differenti. Il gatto sconfitto r i m a n e immobile; att e n d e che il vincitore cessi di a n n u s a r e per terra e si allontani lentamente, con le orecchie ancora nella posizione che segnala « minaccia di m o r d e r e » e il pelo irto sulla schiena. Solo quando il vincitore si trova a b u o n a distanza, il p e r d e n t e sgattaiola via. La f u g a è precipitosa solo se la sconfitta è stata particolarm e n t e pesante. Negli altri casi è il vincitore il p r i m o a ritirarsi nelle immediate vicinanze dell'area dello scontro; ma in genere non va molto lontano, e presto ritorna. Il p e r d e n t e , all'inizio, n o n si muove; in seguito va via definitivamente e il vincitore alla fine r i m a n e l'incontrastato p a d r o n e del campo di battaglia. Di solito, le conseguenze per i d u e rivali n o n sono mai particolarmente serie. Le zanne si scontrano, provocando le ferite alle labbra tanto f r e q u e n t i nei gatti maschi, m e n t r e i colpi di artiglio causano strappi alle palpebre, tagli alle orecchie e graffi sul muso. Certo, di tanto in tanto accade che un animale sia colto di sorpresa dall'altro e che il morso giunga a bersaglio in m o d o fatale; ma in generale la sorpresa n o n è mai completa, e il morso raggiunge la parte superiore della testa o un lato del collo. Ne possono derivare serie lacerazioni e spesso ferite da morso piuttosto p r o f o n d e , che possono infettarsi e che non guariscono facilmente. Se i d u e contendenti balzano l'uno addosso all'altro c o n t e m p o r a n e a m e n t e , essi in g e n e r e vengono a contatto con la parte inferiore del corpo, ma rivolti in direzioni opposte; cadono a terra così avvinghiati e, cosa curiosa, indirizzano di p r e f e r e n z a i morsi ciascuno ai gomiti dell'altro (fig. 19.5). Lo scopo dell'attacco è s e m p r e quello di p o r t a r e il morso alla nuca nel p u n t o giusto. Ciò viene illustrato particolarmente bene dal filmato di un esperimento nel quale M7, un vecchio gatto domestico maschio decisamente possente, con u n a testa molto g r a n d e e larghe zampe, era alle prese con u n o zimbello. M7 era solito attaccare in m o d o spietato e indiscriminato tutti i gatti che fossero presenti nel suo territorio, ferendoli gravemente o addirittura uccidendoli, tanto che, dietro richiesta degli abitanti interessati del vicinato, era stato catturato e poi consegnato a me. Con gli esseri u m a n i si comportava in m o d o
Fig. 19.5.
« Morsi ai gomiti». Per la spiegazione si veda il testo.
estremamente amichevole, e non faceva alcun male né a uccelli né a topi; ma la sua avversione per gli altri gatti era davvero impressionante. Nell'esperimento con lo specchio (p. 217) non aveva mostrato alcuna reazione, e quindi doveva averne fatto già conoscenza. Con la sagoma, invece, si esibì in violente minacce, ma desistette non appena venne a trovarsi a una di-
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stanza di circa un m e t r o da essa. Si avvicinò all'orsacchiotto esibendo il completo rituale di lotta, ma non lo morse; si limitò ad annusargli la nuca e quindi si ritirò. Invece contro il gatto impagliato diede sfogo all'intero repertorio c o m p o r t a m e n tale di attacco. A causa del ritmo al rallentatore con cui condusse la sua esibizione di minaccia, impiegò diversi minuti per p e r c o r r e r e i 3 metri che separavano la cassetta da dove veniva liberato all'inizio di ogni test e lo zimbello. Nella figura 19.6 a, si trova già a u n a trentina di centimetri dal gatto impagliato e sta abbassandosi sugli arti posteriori per prepararsi al salto. T r a s c o r r o n o altri 16 secondi prima che sia p r o n t o a saltare e ad azzannare (b). A questo punto, però, forse valuta che la distanza che lo separa dal « nemico » sia ancora eccessiva, o che la p r o p r i a posizione n o n sia del tutto favorevole; si solleva perciò di nuovo un poco sulle zampe e scivola lentamente accanto allo zimbello, c o n t e m p o r a n e a m e n t e girandosi verso di esso, quindi si piega ancora u n a volta sui posteriori, preparandosi al salto, che compie subito d o p o (c-i). In (m) azzanna alla nuca il gatto impagliato, come mostra l'immagine dello specchio filmato c o n t e m p o r a n e a m e n t e . In (n), con u n o scatto delle zampe posteriori si solleva da terra, e la spinta è tale che il suo corpo si gira su un fianco m e n t r e è in aria (o-p). Il balzo è calcolato con g r a n d e precisione: p u r a f f e r r a n d o il bersaglio, il gatto evita di entrarvi in collisione, per cui l'oggetto, benché leggero e instabile, n o n viene spostato dalla sua posizione durante la fase (m-p). All'incirca in (p), l'attaccante grava con tutto il peso del p r o p r i o corpo su un fianco del suo « contendente», m e n t r e con le zampe posteriori piegate spinge contro la sua schiena o i suoi fianchi. E subito evidente quanto sia più adatto questo m e t o d o per placcare un animale e gettarlo a terra rispetto a quello di balzargli semplicemente addosso, and a n d o a u r t a r e contro il suo corpo. È anche molto probabile che un animale che si r e n d a conto di essere attaccato u n a frazione di secondo prima che ciò avvenga si inclini in m o d o da o p p o r r e il p r o p r i o peso all'urto «previsto», c o n t r i b u e n d o in tal m o d o , involontariamente, a r e n d e r e di fatto la tecnica ancora più efficace. In altre parole, il felino che attacca utilizza qui u n a mossa che d i r e m m o presa da un m a n u a l e di jujitsu! Anche il leone che ho avuto m o d o di osservare (p. 43) ha trascinato a terra il conspecifico esattamente nello stesso m o d o ; pertanto, il sistema f u n z i o n a anche se entrambi gli animali sono lanciati in corsa. Questo m o d o di attaccare spiega la posizione relativa in cui si e r a n o venuti a trovare i d u e leoni d o p o essere caduti a terra (fig. 2.6); inoltre, r e n d e plausibile il fatto che un leone o u n a tigre riescano a far crollare al suolo un animale più pesante di loro che stia f u g g e n d o velocemente.
Fig. 19.6. M7 attacca un gatto impagliato. Per la spiegazione si veda il testo. T r a parentesi è indicato il tempo trascorso, in secondi, rispetto al fotogramma precedente; q u a n d o questa indicazione è assente, l'intervallo è di 1/16 di secondo.
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T o r n i a m o alla figura 19.6: d o p o la caduta (q), M7 con un salto si rimette subito in piedi, m e n t r e lo zimbello rovesciato rotola lontano nella direzione opposta (u-w). U n a replica dell'esperimento dimostra quanto il meccanismo dell'intera azione sia rigido (fig. 19.7). Si p u ò chiaramente osservare come M7, con il corpo ruotato sul fianco, si trovi sospeso a mezz'aria (iq), m e n t r e lo zimbello rimane in posizione immutata. Segue la caduta; quindi M7 si rialza di nuovo con un salto e arretra, come avvenuto in precedenza. Per un momento, il gatto solleva u n a zampa, preparandosi alla difesa (o), quindi adotta nuovamente un atteggiamento minaccioso (q). Dopo avere rovesciato lo zimbello, M7 cessò di interessarsene e rivolse la propria attenzione all'esplorazione della stanza. Tuttavia, n o n a p p e n a rimisi lo zimbello in piedi, subito lo minacciò e rinnovò l'attacco. In questo modo, lo stimolai ad attaccare il gatto impagliato per cinque volte di seguito, e certam e n t e sarebbe stato possibile indurvelo altre volte ancora. L i n d e m a n n (1950) riferisce che un suo maschio di lince addomesticato attaccò ferocemente nello stesso m o d o e rovesciò per terra u n a lince impagliata allestita in u n a postura minacciosa. I miei altri gatti domestici, invece, non si sono comportati in m o d o aggressivo verso il gatto impagliato, ma si sono limitati ad annusarlo con amichevole interesse. Agli inizi pensai che M7 interrompesse l'attacco, non appena lo zimbello cadeva, per il fatto che quest'ultimo era un oggetto inanimato. Tuttavia, non è questa la vera ragione; o per 10 m e n o n o n è l'unica. Q u a n d o Herbert, un giovane gatto maschio, cominciò a provocare M I 2 , il p a d r e ormai anziano con 11 quale condivideva la gabbia, d a p p r i m a ne fu sempre facilm e n t e sconfitto. Ma H e r b e r t cresceva in fretta, e in poco tempo diventò più g r a n d e e pesante del padre; inoltre, essendo un giovane tracotante, non si lasciava per nulla scoraggiare dalle sconfitte (p. 297). Egli continuò nelle sue provocazioni, benché queste consistessero solo in miagolii lamentosi e posture di minaccia. Dopo un « duello fatto di posture », più o meno prolungato, era sempre M12 ad attaccare. Tuttavia, più H e r b e r t cresceva, maggiori diventavano la d u r a t a e la violenza degli scontri, fino a q u a n d o il vecchio maschio, debole di cuore, n o n fu più in g r a d o di sostenere lo sforzo: spesso, al termine del conflitto, rimaneva a terra esausto, completamente disteso su un fianco (fig. 19.8), m e n t r e H e r b e r t lo minacciava da presso, ma senza attaccarlo e, in realtà, in genere non gli si avvicinava mai più di tanto. Alcune volte, però, H e r b e r t cercava di aggirare il rivale prostrato, per sorprenderlo alle spalle; M I 2 , allora, si rotolava lentamente sull'altro fianco. Pertanto, al di là delle ragioni che saranno spiegate in seguito, ciò
Fig. 19.7. Secondo attacco di M7 a un gatto impagliato. Per la spiegazione si veda il testo. T r a parentesi è indicato il tempo trascorso, in secondi, rispetto al fotogramma precedente; q u a n d o questa indicazione è assente, l'intervallo è di 1/16 di secondo.
Fig. 19.8. (a) Un vecchio gatto maschio è sdraiato a terra esausto, mentre il giovane rivale lo minaccia, ma senza attaccarlo; (b) il gatto più anziano segue con gli occhi e con la testa quello più giovane, che minaccia di aggirarlo da dietro. Per ulteriori informazioni si veda il testo.
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che tratteneva H e r b e r t era u n a sorta di « rispetto », certamente n o n basato sull'effettiva capacità di lottare dimostrata dal p a d r e : aveva sì abbastanza coraggio per provocare con minacce vocali e posturali, ma non per attaccare. Egli attendeva che M12 si riprendesse, adottasse di nuovo la postura di minaccia e lo attaccasse e, nello scontro effettivo, era inevitabilmente il vecchio a prevalere. Solamente d o p o alcuni mesi cominciò a stabilirsi un certo equilibrio di forze, che di fatto lasciava presagire la disfatta finale di M I 2 . Le sue manifestazioni di sfinim e n t o fisico n o n potevano in nessun caso essere considerate un «segnale di sottomissione», e n e p p u r e si poteva interpretare il loro effetto su H e r b e r t come u n a specifica inibizione all'attacco, ma semplicemente come la totale assenza di qualunq u e stimolo in g r a d o di i n d u r r e l'attacco. Il c o m p o r t a m e n t o di M7 è istruttivo in quanto rappresenta, in certo modo, il processo di attacco nella sua f o r m a « p u r a » , n o n disturbata dalla controazione dell'animale attaccato, e quasi totalmente coordinata e controllata dal sistema nervoso centrale. In altre parole, non si tratta di u n a sequenza di azioni e controazioni nella quale ogni stadio fornisce al p a r t n e r lo stimolo chiave per lo stadio successivo di maggiore intensità, come la conosciamo, per esempio, in base alle analisi condotte sui ciclidi (Seitz, 1943, 1949) o sugli spinarelli (ter Pelkwijk e T i n b e r g e n , 1937). C o m u n q u e , la pronta disponibilità alla lotta dimostrata da M7 era decisamente fuori della norma; se fossero stati coinvolti d u e rivali con un impulso a lottare n o n così f o r t e m e n t e accumulato, forse avrebbero potuto eccitarsi a vicenda in m o d o sempre più intenso. Peraltro, a giudicare dall'osservazione di autentiche situazioni di scontro in assenza di perturbazioni esterne, la reazione al c o m p o r t a m e n t o del rivale sembra sempre consistere in un comportamento di attacco al quale si sovrappongono elementi di difesa, ma non in un c o m p o r t a m e n t o di attacco rigidamente organizzato in una sequenza di stadi di intensità crescente. Inoltre, l'esibizione di minaccia non è costituita da una successione di diverse azioni motorie coordinate, come è il caso dei pesci a cui si è prima accennato, ma dispone di u n a sola azione coordinata di intensità variabile. L'attacco stesso, d'altra parte, consiste nel morso alla nuca (già ricordato a proposito del comportamento predatorio) e nel « gettare a terra », al quale analogamente si perviene attraverso u n a successione continua di livelli di intensità, dal piazzare u n a zampa sopra il corpo dell'avversario (figg. 1.9 m e 29.1 a), all'afferrarlo (fig. 2.5 i-l), fino ad arrivare alla tecnica a p p e n a descritta per gettarlo a terra. I d u e elementi motori sono legati in un unico atto istintivo. Di conseguenza, tra il p o r r e u n a zampa sulla p r e d a o sul rivale e il m o r d e r e a u n a
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certa distanza davanti a sé (pp. 36 sg., 150) deve esistere un collegamento a livello di sistema nervoso centrale che n o n richiede stimoli esterni per essere attivato. Al diminuire dell'intensità, il collegamento si indebolisce e, a quel punto, la stretta della zampa n o n è seguita da un morso. L'esibizione di minaccia è seguita dal morso alla nuca solamente se il rivale rimane immobile, cioè se m a n t i e n e inalterata la propria « controesibizione». Ogni variazione del movimento o della postura tradirebbe u n a tendenza alla difesa, che influenzerebbe la disposizione interna ad attaccare dell'altro animale, imponendogli un atteggiamento di cautela. L'ipotesi che nel corso dell'esper i m e n t o su M7 sia stata l'immobilità dello zimbello a stimolare la disposizione interna ad attaccare del gatto p u ò essere indir e t t a m e n t e s u f f r a g a t a da q u a n t o segue: accade molto di r a d o che gatti maschi piuttosto giovani, di un a n n o o poco più, vengano attaccati da gatti adulti; ma essi, del resto, non adottano la rigida postura intimidatoria con i suoi movimenti rallentati. Di solito, i giovani accolgono un maschio adulto in m o d o amichevole, come del resto f a n n o con q u a l u n q u e altro gatto (p. 338) e gli rivolgono, in m o d o più o m e n o esplicito, un invito al gioco; o p p u r e , r i m a n g o n o q u a n t o m e n o indifferenti. T u t t a via ciò n o n li p o n e con certezza al sicuro da un attacco da parte di un maschio adulto. Il gatto non dispone di un mezzo specifico per inibire un attacco sotto f o r m a di un « segnale di sottomissione» e del corrispondente meccanismo di induzione innato (pp. 246 sgg.). Il resoconto che segue, relativo a un'osservazione casuale, fornisce un esempio tipico di come si svolge un combattimento tra d u e avversari ali incirca della stessa forza. Resoconto del 24 maggio 1954, ore 12.50 In un piccolo giardino, dietro u n a siepe, un gatto maschio grigio e u n o n e r o si f r o n t e g g i a n o e m e t t e n d o brontolii, già rannicchiati sugli arti posteriori e con le orecchie in « posizione che p r e a n n u n c i a il m o r s o » , ma ancora un poco appiattite contro il capo (sovrapposizione; si vedano pp. 250 sgg.). Il gatto grigio, che ha le orecchie un po' m e n o appiattite, improvvisamente si lancia in avanti e quello n e r o si lascia cadere sulla schiena; entrambi e m e t t o n o urli selvaggi. Il gatto grigio colpisce, e ora entrambi giacciono sul fianco, ventre contro ventre; il gatto n e r o attira l'altro verso di sé con le zampe anteriori e c o n t e m p o r a n e a m e n t e lo colpisce con violenza, scalciando con le zampe posteriori. Il gatto grigio, a questo punto, si ritira ed entrambi torn a n o ad assumere la postura di attacco; ancora u n a volta, è il gatto grigio ad attaccare p e r primo. O r a il gatto n e r o r i m a n e accovacciato e con le orecchie appiattite. Il gatto grigio gli si
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pianta davanti per breve tempo, con le orecchie erette e rigide, quindi annusa per terra volgendosi su un lato e infine, c o n t i n u a n d o ad a n n u s a r e per terra molte altre volte, si sposta lentamente verso destra - ossia verso la propria d i m o r a , come è risultato più tardi. Solo q u a n d o esso ha raggiunto la siepe il gatto nero, piano piano, si alza e striscia dall'altra parte della barriera attraverso una apertura. Questo m o d o di minacciare e di combattere si osserva quasi esclusivamente nei gatti maschi adulti. Le f e m m i n e possiedono di certo l'appropriata coordinazione motoria e l'adatto corr e d o di vocalizzazioni, ma vi f a n n o ricorso molto di rado. In circa q u a r a n t a n n i di osservazioni sui gatti, solo u n a volta ho visto u n a f e m m i n a eseguire il « rituale » completo. E anche opinione diffusa che i maschi castrati n o n combattano. Questo è vero per quanto riguarda gli scontri f r a rivali come quelli descritti, ma non per le contese territoriali. Al contrario, i maschi castrati diventano territoriali come le femmine e, grazie alle loro dimensioni e alla loro forza, sono in g r a d o di estromettere dal proprio territorio ogni gatto estraneo. Conosco d u e allevatori di gatti di razza i quali h a n n o sfruttato vantaggiosamente questa circostanza a fini pratici. Essi lasciavano le f e m m i n e da riproduzione libere di aggirarsi nel giardino insieme con un e n o r m e gatto castrato, che badava a impedire visite indesiderate da parte di maschi o di altre f e m m i n e attratte a loro volta da questi ultimi. In altre parole, l'effetto della castrazione non consiste in un'attenuazione del c o m p o r t a m e n t o di lotta in q u a n t o tale, ma in u n o spostamento dei valori di soglia per l'induzione di tale risposta a seconda delle situazioni: la soglia p e r l'induzione alla lotta contro rivali aumenta, m e n t r e quella relativa alla lotta per la difesa del territorio si abbassa. Anche nei maschi integri la prontezza a combattere varia in parallelo con le fluttuazioni della concentrazione ematica di testosterone. A questo proposito, è doveroso citare la scoperta di Inselman e Flynn (1973), secondo cui il testosterone, allo stesso m o d o degli estrogeni e del progesterone, accentua la prontezza a cacciare p r e d e . Poiché il cacciare p r e d e e il lottare con rivali hanno in c o m u n e molti movimenti istintivi (cfr. anche pp. 235, 383 sg., 389 e tab. 29.1), il fatto che il testosterone abbia effetto su entrambi è plausibile. Tuttavia, rimane dubbio se, in circostanze normali, i gatti maschi con livelli di testosterone più alti catturino davvero più topi: in questa condizione ormonale, essi sono t r o p p o occupati a combattersi e a corteggiare le f e m m i n e p e r avere molte occasioni per cacciare.
20. Comportamento difensivo Il morso rappresenta l'azione consumatoria di un comportamento di attacco non dissimulato, che non tiene conto di esigenze di autoprotezione, poiché espone indifesa la stessa nuca del felino ai morsi dell'avversario. Se, invece, il felino attaccante ritrae la testa tra le spalle, in modo da proteggere il collo e, anziché mordere, mena colpi con le zampe, assomiglia in qualche modo a un soldato equipaggiato di spada e di scudo; un attacco condotto a colpi di zampa sta sempre a significare che l'attaccante sta in guardia, pronto a respingere ogni controffensiva dell'animale attaccato. Pertanto, il colpo di zampa è anche il principale mezzo di difesa. Un felino in una disposizione interna puramente difensiva si appiattisce a terra e ritrae la testa tra le spalle quanto più gli è possibile allo scopo di proteggersi la nuca dall'avversario, assumendo una posizione completamente opposta a quella di minaccia, con la testa tutta protesa in avanti e la nuca ben alta (fig. 19.3 a, b). Le orecchie, anziché essere orientate all'infuori e all'indietro, come nell'attacco, sono abbassate lateralmente, con il bordo posteriore riPagato; sono tenute più o meno aderenti al cranio, tanto da poter diventare invisibili a un osservatore frontale (fig- 20.1 ")• Le pupille sono assai dilatate e il pelo è sollevato in tutto il corpo: ciò indica che la fisiologia del comportamento difensivo e caratterizzata da un cospicuo incremento della secrezione ai adrenalina. Se l'attaccante, a questo punto, si avvicina ulteriormente, l'animale sulla difensiva si rotola sulla schiena e v °lge verso di esso la parte inferiore del corpo. Questo movi-
a
b
Fig. 20.1. Mimica facciale difensiva nel gatto selvatico africano: (a) intensità media; (b) intensità massima (Zoo di Francoforte).
mento inizia con la rotazione del capo e della parte anteriore del corpo; i suoi tempi e il suo grado di completezza dipendono dalla velocità e dalla decisione con cui si avvicina l'attaccante. Di solito, un atteggiamento difensivo agisce sull'aggressore come freno, interrompendone l'avanzamento o almeno rallentandolo. In un primo momento, l'animale attaccato semplicemente inclina di lato il treno anteriore e alza la zampa controlaterale, pronto a colpire. Se ora l'attaccante si avvicina troppo, gli indirizza un colpo al naso. Spesso è sufficiente una zampata a vuoto per farlo, almeno temporaneamente, desistere. Se l'attaccante colpisce, l'animale che si difende si rovescia sul dorso e para l'assalto con entrambe le zampe anteriori. Q u a n d o l'attacco è particolarmente deciso e violento, la tattica di difesa cambia totalmente: come estrema risorsa, l'animale attaccato usa le zampe, anziché per colpire, per afferrare e trattenere l'aggressore con gli artigli completamente sfoderati, nel tentativo di attirarlo verso le proprie mascelle aperte e pronte ad azzannare, mentre, nello stesso tempo, con le zampe posteriori lo scalcia e lo graffia sul ventre esposto. Ciò costringe chi prima attaccava a difendersi a sua volta. I due animali giacciono sul fianco, ventre contro ventre, aggredendosi con i denti e gli artigli, mentre gli urli di attacco dell'uno e i sibili, i soffi e i brontolii rabbiosi dell'altro gradualmente si trasformano in acute strida di difesa. Contrariamente a quanto sostenuto da Lorenz (1951 b), in questa circostanza non vengono mai emessi miagolii, che sono il segnale di una vera e propria minaccia di attacco. Con l'aiuto della figura 20.2 seguiamo ora l'andamento di un secondo incontro tra MIO e M3. MIO, un maschio piei
Fig. 20.2. Secondo incontro f r a M3 (in primo piano) e MIO. Si veda il testo per i dettagli. I n u m e r i tra parentesi indicano i secondi trascorsi rispetto al f o t o g r a m m a precedente.
m e n t e adulto, è stato da me acquistato pochi giorni prima dell'esperimento. Il primo giorno lo ho introdotto, assieme a M3, in u n a stanza di pochi metri quadrati; MIO si è immediatam e n t e rifugiato sopra una sedia, rimanendo per il resto del t e m p o completamente passivo (hg. 18.4 a-c). Nel secondo esperimento, MIO è stato collocato per primo in una gabbia all'aperto, di circa 4 x 6 metri, che gli era sconosciuta; nella stessa gabbia ho introdotto poi M9, un maschio non ancora adulto, che fa un tentativo di approccio amichevole e giocoso. MIO, senza corrispondere, accenna a una debole minaccia,
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ma p e r il resto lo ignora e inizia a esplorare la gabbia. Dopo circa 10 minuti, M9 viene sostituito da M3, che conosce bene la gabbia. I m m e d i a t a m e n t e , MIO si rannicchia in postura difensiva, vicino alla parete posteriore della gabbia, e M3 gli si avvicina in atteggiamento minaccioso (fig. 20.2 a, b)\ in (e) e in ( / ) si p u ò osservare chiaramente come, nella postura di minaccia, M3 pieghi la testa lateralmente; da (g) a (k) cambia posizione e gira la testa verso il lato opposto. Tuttavia n o n attacca, ma si allontana a n n u s a n d o a terra, come attività sostitutiva (/, m). Quindi, m u o v e qualche passo qua e là, m e n t r e MIO n o n si arrischia ad a b b a n d o n a r e la p r o p r i a posizione, ma si limita a sollevarsi a metà e a mettersi seduto. Q u a n d o M3 gli si avvicina di nuovo, MIO a r r e t r a e si rannicchia in un angolo (fig. 20.3 a). M3 si fa ancora più vicino, minacciando, e MIO si rovescia sul fianco e m e n a colpi in aria (b, c). Solo a questo punto, M3 solleva u n a zampa (c), la tiene in alto p e r un istante (d, e), poi, a sua volta ( / ) , fa un finto attacco con u n a zampa, mentre MIO, soffiando e sputando, si rovescia completamente sul dorso. M3 a r r e t r a i m m e d i a t a m e n t e e si f e r m a un m o m e n t o in attesa, con u n a zampa sollevata, p r o n t o a difendersi. Pertanto, anche u n a semplice minaccia di attacco p u ò i n d u r r e l'animale minacciato a tentare di colpire, e i colpi portati dall'aggressore iniziale sono solo di risposta. Poiché, tuttavia, entrambi gli animali sono inibiti, i loro colpi finiscono a vuoto. Persino un colpo di zampa, in a p p a r e n z a usato come mezzo di offesa, ha f o n d a m e n t a l m e n t e solo u n o scopo difensivo. A questo p u n t o , M3 desiste e decide di allontanarsi, passando accanto a MIO senza più curarsene; q u a n d o già si è allontanato di circa un metro, MIO si rovescia n u o v a m e n t e sulla schiena e m e n a rapidi colpi al suo indirizzo. Naturalmente, data la distanza, questo « attacco difensivo » è del tutto inutile e M3 lo ignora. Solo d o p o che è trascorso un po' di tempo, M3 si volge di nuovo minaccioso verso MIO, che se ne sta ancora accucciato in difesa nel suo angolo (fig. 20.4 a-e). In (e) la rotazione della testa è molto evidente. Da (e) a (h) MIO si stende g r a d u a l m e n t e sulla schiena, m e n t r e M3 solleva u n a zampa p r o n t o a colpire. In (t), entrambi, quasi c o n t e m p o r a n e a m e n t e , colpiscono a vuoto. Dopo questo scambio di colpi, MIO si rovescia completamente sulla schiena. Di nuovo, M3 salta subito indietro con u n a zampa ancora alzata, minaccia un po', mostra u n a fugace intenzione di a n n u s a r e p e r terra come attività sostitutiva, quindi si allontana, m e n t r e MIO nel suo angolo torna ad accucciarsi in posizione difensiva. Da tutto ciò risulta evidente che la postura difensiva non è un segnale di sottomissione, nel senso inteso da Lorenz (1939, 1951 a). Infatti, essa n o n ha lo scopo di presentare all'aggressore più forte l'obiettivo del suo stesso at-
Fig. 20.3. Seguito del secondo incontro f r a M3 e MIO. La velocità è di un fotogramma ogni 1/16 di secondo. Per i particolari si veda il testo.
tacco (la nuca), ma di cercare di proteggerla. Inoltre, non necessariamente inibisce l'attaccante, e l'animale in difesa non rimane passivo di f r o n t e a nuove minacce, ma si difende in modo attivo e, in alcuni casi, contrattacca. Ciò che p u ò inibire l'aggressore è solamente l'allontanarsi del suo bersaglio e il pericolo che p u ò derivargli dall'insistere nell'attacco, cioè la minaccia rappresentata dal comportamento difensivo: in altre parole, l'effetto è esattamente l'opposto di quello di una vera e propria postura di sottomissione. Quanto più un contendente
Fig. 20.4
Seguito del secondo incontro fra M3 e MIO.
Comportamento difensivo
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si mostra p r o n t o a difendersi, tanto più nel c o m p o r t a m e n t o dell'attaccante si manifestano atteggiamenti difensivi. Benché l'esibizione di minaccia sia f o r t e m e n t e ritualizzata, u n o scontro tra felini n o n è semplicemente rituale: l'obiettivo è quello di ferire l'avversario. Se poi, di n o r m a , gli animali n o n si feriscono (se n o n , talvolta, in m o d o superficiale), ciò avviene grazie alla loro « p r u d e n z a », che li trattiene dall'attaccare rivali in piena capacità di difendersi, e al fatto che non inseguono un rivale che si stia ritirando (fig. 19.1). Nella fase successiva dell'esperimento con MIO, M3 è stato sostituito da M8. Quest'ultimo ha adottato la postura di minaccia più forte che io abbia mai avuto m o d o di osservare (fig. 19.1 a). Tuttavia, nel frattempo, MIO si era probabilmente familiarizzato con l'ambiente e, inoltre, manifestava il p r o p r i o atteggiamento minaccioso a u n a distanza maggiore di q u a n t o aveva fatto M3. Ad ogni m o d o , MIO se ne sgusciò via, benché ancora intimorito, come testimonia la sua « postura di iena » (Leyhausen, 1953), visibile in (a) e in (b). M8 n o n lo inseguì, ma m a n t e n n e ancora un po' la postura di minaccia. Questa incapacità di inseguire un rivale inferiore che si sottrae alla lotta va messa in relazione con la rigidità e la enfatica lentezza dei movimenti nella esibizione di minaccia, che — come avviene nella maggior parte dei segnali di minaccia nei vertebrati - è determinata da u n a forte innervazione dei muscoli antagonisti; il felino letteralmente non riesce a c o m p i e r e movimenti di potenza e p u ò solo fare passi brevi e lenti, intervallati da l u n g h e pause, m e n t r e n o n è in g r a d o di passare r a p i d a m e n t e a u n ' a n d a t u r a distesa o di mettersi a correre, come sarebbe necessario per tallonare il rivale, il quale anch'esso si ritira lentamente. Gli inseguimenti si verificano solo in occasione di contese esclusivamente territoriali, o p p u r e (come v e d r e m o più avanti) assumono la f o r m a di finte rincorse d u r a n t e i preliminari dell'accoppiamento.
21. Sovrapposizione di comportamenti aggressivi e difensivi Il comportamento difensivo descritto nel capitolo precedente può essere osservato solamente quando i gatti combattono tra loro. Quelli che vivono a stretto contatto con gli esseri umani si comportano allo stesso modo con estranei che cerchino di toccarli (per esempio, un veterinario che li stia visitando). Tuttavia, nei confronti di un nemico che si mostri sin dall'inizio « irrevocabilmente più forte », questa tattica difensiva sarebbe insensata. In tal caso, infatti, ciò che importa non è resistere, bensì trovare il modo di fuggire rapidamente o, se necessario, lottare per poterlo fare. Quindi, dato che l'attacco p u ò essere a volte la migliore difesa, aspetti correlati sia al comportamento di attacco sia al comportamento di difesa possono sovrapporsi, consentendo così all'animale, in ogni momento, di sferrare un attacco a sorpresa, o p p u r e di fuggire. Resta fermo il fatto che il solo scopo delle manovre offensive è quello di disorientare momentaneamente il nemico, e guadagnare così tempo e spazio per una veloce ritirata. Anche molti carnivori e roditori si comportano in questo modo. Accade spesso che le cose non si spingano oltre i finti attacchi, con colpi che non intendono raggiungere l'avversario, essendoci sempre il pericolo che, in una lotta a distanza ravvicinata, un animale possa perdere un'ottima opportunità di fuga, perché non riesce a divincolarsi abbastanza in fretta. Una madre che debba proteggere il proprio nido con i piccoli in condizioni estreme attaccherà sul serio, ma anch'essa farà ricorso esclusivamente a colpi di zampa, perché si tratta, fondamentalmen-
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te, di un problema di difesa. Il suo attacco differisce dai combattimenti ritualizzati dei maschi per la straordinaria velocità. Le violente contese territoriali p r o c e d o n o in m o d o simile: senza alcun preavviso, il residente si lancia contro l'intruso da u n a qualsiasi direzione e lo tempesta di colpi. Nella maggior parte dei casi, l'intruso volge alla f u g a ; l'attaccante spesso lo insegue per un lungo tratto, cercando di solito di colpirlo ai fianchi. Un intruso « m e n o pusillanime » reagisce ai colpi del rivale sollevandosi sugli arti posteriori, in m o d o da poterlo colpire alla testa e alla nuca dal di sopra. Il residente fa lo stesso, così che i d u e animali, ritti sulle zampe posteriori, l'uno di f r o n t e all'altro, si avvicinano t e n e n d o le zampe anteriori sollevate e p r o n t e a colpire, come mostra la figura 21.1. Questa tecnica di attacco fa capire che anche il combattim e n t o territoriale rientra f r a i c o m p o r t a m e n t i difensivi: si tratta, a p p u n t o , di d i f e n d e r e un territorio. Anche nel caso di altri m a m m i f e r i , troviamo u n a distinzione tra difesa territoriale - nella quale l'attacco è, per così dire, « informale », senza esibizioni preliminari o altre componenti ritualizzate - e combattimenti p e r la supremazia tra maschi rivali, preceduti da u n a esibizione di minaccia ritualizzata e nel corso dei quali vengono spesso osservate talune altre « regole » (Antonius, 1937; Eibl-Eibesfeldt, 1953). Lorenz (1939) descrive lo scontro per la supremazia tra d u e lupi maschi rivali; invece, gli attacchi sferrati con morsi contro intrusi penetrati nel territorio di lupi, osservati da Murie (1944), e r a n o « i n f o r m a l i » , così come la difesa territoriale da parte di cani eschimesi (Tinbergen, 1942).
Fig. 21.1. Posizione di difesa con il corpo eretto: in FI (a sinistra) si nota una c o m p o n e n t e di gioco, mentre M5 fa sul serio.
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II comportamento dei gatti
Si possono sovrapporre questi elementi comportamentali: 1) elementi del comportamento aggressivo: gli arti sono ben tesi e rigidi, la coda è piegata a uncino; in quest'ultimo caso, p u ò presentarsi u n a variazione caratteristica: la base della coda si mantiene rigida e la curva a f o r m a di uncino si sposta verso la p u n t a , fino a che, da ultimo, la coda risulta tesa ed eretta; 2) elementi del comportamento difensivo: la testa è tirata in dentro tra le spalle, le orecchie sono appiattite, il corpo si rattrappisce, il pelo è eretto in tutto il corpo e nella coda; vengono emessi sibili e soffi, le pupille si dilatano, la p u n t a della coda è rigida e immobile. E dalla combinazione di questi elementi che deriva la ben conosciuta postura a schiena inarcata (Lorenz, 1951 b), che si osserva, per esempio, in un gatto che a f f r o n t a un cane che lo attacca, in un gatto randagio che venga avvicinato da un essere u m a n o , o p p u r e in un gatto allevato in isolamento o in un gattino al cospetto di un conspecifico adulto e sconosciuto. La schiena inarcata, la particolare natura del meccanismo scaten a n t e innato nei confronti di conspecifici sconosciuti (pp. 216 sgg.) e l'azione del « guardarsi intorno » (pp. 223 sgg.) spiegano ciò che ebbe m o d o di osservare Weiss (1952) q u a n d o , per la prima volta, introdusse alla presenza di conspecifici d u e gatte « Raspar H a u s e r » , Pussi e Petra. Pussi, all'inizio, esplorò l'ambiente di cucina a lei sconosciuto e ignorò completamente il gatto, un maschio adulto, che si trovava nel p r o p r i o territorio; quest'ultimo, per parte sua, appariva al t e m p o stesso intenzionato a d i f e n d e r e il territorio e in qualche m o d o inibito, e forse aveva anche riconosciuto che Pussi era una femmina. A n c h e Petra incontrò il suo primo conspecifico sconosciuto, u n a f e m m i n a , nel territorio di quest'ultima: cercò di evitarla, diede mostra di ignorarla « guardandosi intorno » e fu quindi attaccata dall'altra a colpi di zampa (difesa territoriale). Nell'incontro con un secondo conspecifico, Petra si trovava invece nel p r o p r i o territorio: d a p p r i m a inarcò la schiena, ma poi adottò u n a postura p u r a m e n t e difensiva; in altre parole n o n difese il p r o p r i o territorio, forse sotto l'influenza della sconfitta subita d u r a n t e il primo incontro o forse perché, a 14 mesi di età, Petra era ancora t r o p p o giovane per manifestare con decisione un c o m p o r t a m e n t o territoriale. In genere, un c o m p o r t a m e n t o pienamente territoriale non viene esibito fino a che il gatto non ha raggiunto almeno i due-tre anni di età. In ogni caso l'intruso nel territorio di Petra, un maschio adulto, n o n era certo a p r o p r i o agio. Si attestò sulla stufa, con Petra che non gli toglieva gli occhi di dosso. Come sottolineato dallo stesso Weiss, queste osservazioni non sono sufficienti per concludere che i gatti non possiedano alcun meccanismo scate-
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nante innato nei confronti di conspecifici e che i suoi gatti « Raspar H a u s e r » non sapessero come reagire con gli intrusi. Piuttosto, Pussi e Petra si sono comportate come avrebbe fatto, nelle stesse circostanze, qualunque giovane gatto allevato n o r m a l m e n t e , ma nervoso e non abituato a combattere. Nelle sue f o r m e estreme, la schiena inarcata viene esibita p r e s e n t a n d o all'avversario il fianco. Anche questo viene spiegato come risultato di una sovrapposizione di tendenze alla fuga, alla difesa e all'attacco. Se l'avversario si avvicina con lentezza, le diverse fasi possono essere osservate distintamente. All'inizio, p r e d o m i n a n o le tendenze alla difesa e alla fuga; tuttavia, la parte anteriore del corpo dell'animale, essendo la più esposta al pericolo, arretra prima e più r a p i d a m e n t e della parte posteriore. Di conseguenza, il corpo si ritrae in se stesso e, q u a n d o questa contrazione ha raggiunto il limite massimo, gli arti anteriori che a r r e t r a n o si muovono lateralmente rispetto agli arti posteriori (fig. 21.2 a, Avfio-AvJ}?) o in diagonale (fig. 21.2 a, AoBo-A^B^). Inoltre, l'animale cerca in tutta fretta un riparo per la parte posteriore del corpo, cosicché, a questo punto, gli arti posteriori non possono a r r e t r a r e ulteriormente. Tuttavia, anche su terreno aperto, si m a n t e r r à in u n a posizione orientata di fianco. Se l'avversario continua ad avvicinarsi lentamente, l'animale attaccato, se non ha ostacoli alle spalle, mette in azione anche gli arti posteriori e procede all'indietro in m o d o rigido, come un gambero, per tornare, allo stesso m o d o , ad avanzare se il contendente, intimorito dalla schiena inarcata e dai sonori sibili, si ritira un po'. Nel movim e n t o in avanti, gli arti posteriori sono, più che mai, « più coraggiosi » di quelli anteriori, e possono persino superarli, portando l'intera parte posteriore del corpo più vicino all'avversario rispetto alla parte anteriore (fig. 21.3). Nel fossa (Cryptoproda ferox) questa postura sembra essere diventata parte usuale dell'esibizione di minaccia (Vosseler, 1929-30). In essa tutti i movimenti, perfino i balzi, appaiono estremamente « legnosi», come conseguenza dell'essere l'animale, simultaneamente, p r o n t o alla fuga, alla difesa e all'attacco. Un felino che avanzi lentamente in questa postura a p p a r e davvero minaccioso e di solito riesce a convincere qualunque avversario, t r a n n e il più determinato, a ritirarsi. Nel campo di prigionia dove e r o detenuto, un gatto maschio nero, molto grosso, affrontava in questo m o d o tutti i cani lì presenti, compresi d u e collie molto combattivi e u n o husky enorme, i quali se ne stavano senza eccezione alla larga. C o m u n q u e , anche in questi casi si tratta f o n d a m e n t a l m e n t e di un bluff. Un felino non affronta un nemico veramente pericoloso che lo attacchi, se esiste una possibilità di fuga. D'altro canto, n e p p u r e evita a tutti i
costi di combattere. È lo stesso conflitto tra la tendenza a fuggire e quella a difendersi che, spesso, lo costringe a rimanere sul posto, anche se avvista il nemico in tempo per potere fuggire senza problemi. Solo se l'avversario si avvicina rapidamente superando la distanza critica (Hediger, 1961), si dà alla fuga. Com'è ovvio, la distanza critica può variare molto, a seconda della specie a cui appartiene il nemico, della posizione più o meno vantaggiosa del felino (dovuta, per esempio, alla presenza o all'assenza lì attorno di alberi), nonché del temperamento e dell'esperienza individuale di quest'ultimo. Se, invece, l'avversario si avvicina con atteggiamento esitante, la tendenza ad attaccare spesso prevale su quella a fuggire e il felino si lancia in un attacco simulato, o anche autentico, p u r se non è ancora stato messo alle strette e potrebbe fuggire. Ancora una volta, l'attacco si sviluppa dalla postura con la schiena inarcata attraverso la parziale dissoluzione degli elementi difensivi: testa e corpo sono ben tesi in avanti, la coda
Fig. 21.2. Schemi che illustrano la sovrapposizione di disposizioni interne offensive e difensive: (a) postura corporea; (b) mimica facciale. Per la spiegazione si veda il testo.
piegata verso il basso a uncino e le orecchie leggermente sollevate. Le pupille rimangono dilatate e il pelo si mantiene eretto, poiché gli effetti dell'adrenalina non scompaiono così rapidamente. Il processo di trasposizione non giunge mai a sfociare in un comportamento « puro » di attacco; ora il felino, quando attacca, colpisce con le zampe, senza mai ricorrere ai morsi. Poco prima dell'attacco, i soffi emessi a scopo difensivo si tramutano in brontolii, indizio che le opposte tendenze alla difesa e all'attacco sono all'incirca equivalenti. Al momento dell'attacco stesso, il felino sputa a fauci spalancate. In un finto attacco, si lancia avanti con una zampa sollevata e aperta, pronto a colpire, ma si arresta prima di raggiungere l'avversario e di fatto non lo colpisce. Tuttavia, anche in un autentico attacco a scopo difensivo, l'animale in genere si limita a inflig-
a
b
c
d
Fig. 21.3. Minaccia e attacco laterali: (a) un gattino di sesso maschile avanza verso la sorella, muovendo in avanti per primo l'arto posteriore destro; (b) si avvicina più rapidamente; in base al passo - molto più lungo — descritto dall'arto posteriore sinistro rispetto a quello anteriore, è evidente che ben presto il treno posteriore sopravanzerà il treno anteriore; l'accorciamento del collo conferma che la parte frontale del corpo si sta ritraendo; (c) minaccia laterale con testa abbassata; (d) il gattino in primo piano, già impegnato nell'attacco, arretra con gli arti anteriori, mentre l'arto posteriore destro si sta ancora muovendo in avanti; le orecchie hanno assunto u n a posizione difensiva; da un m o m e n t o all'altro la schiena, completamente distesa in posizione di minaccia, si inarcherà ben in alto, [(a) e (b): ibridi di maschio di gatto domestico x ibrido $ di gatto del Bengala cf x gatto domestico $ ; (c) e (d) ibridi di gatto piedi-neri C? x gatto domestico $]. L'esagerazione dei movimenti, tipica dei piccoli nel gioco, rivela i dettagli con particolare chiarezza.
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gere pochi colpi, per indietreggiare subito e riacquistare la postura difensiva, o p p u r e per fuggire allontanandosi per un breve tratto. In questa condizione di conflitto motivazionale, solamente le madri che debbano d i f e n d e r e il p r o p r i o nido si lanciano all'attacco con reale determinazione. Molte sono le circostanze che decidono se il felino fuggirà, o p p u r e se r i m a r r à sul posto con la schiena inarcata, in attesa degli eventi; tra queste, le più importanti sono probabilmente l'esperienza dell'animale e la presenza o meno, nelle vicinanze, di un rifugio o di una postazione difensiva che l'avversario non è in g r a d o di raggiungere. I felini inesperti di solito cercano di fuggire; quelli con u n a lunga esperienza alle spalle sanno di poter sfuggire, per esempio, a un cane, a patto di aver conquistato un sufficiente spazio di manovra nel corso di un finto attacco, che permetta loro di mettersi al sicuro prima che il cane possa sopraffarli. I gatti veramente molto esperti, in genere grossi maschi, riescono a tenere testa a q u a l u n q u e cane, perché colpiscono subito, prima che l'avversario abbia avuto il t e m p o di sviluppare il proprio attacco. Del resto, i tempi di reazione di un gatto sono inferiori a quelli di un cane, e ciò gli p e r m e t t e di attaccare con più rapidità e di impedire quindi all'avversario di afferrarlo. Nei sei episodi del genere a cui ho potuto assistere, nessuno dei gatti riportò ferite e i cani — di cui almeno tre già avevano ucciso gatti - f u r o n o sbaragliati. Tuttavia, sono pochi gli individui che pervengono a un tale g r a d o di coraggio ed esperienza. In questi casi, il cane si trova nella stessa condizione dell'ondila messa a c o n f r o n t o con un surmolotto dalle intenzioni bellicose (pp. 48 sg.): un animale-preda che attacchi non rientra nello « schema di comp o r t a m e n t o di una p r e d a » (Baege, 1933). Lo stesso cane che, di f r o n t e a un gatto che attacca, arretra e si lascia clamorosamente ridicolizzare senza o p p o r r e resistenza, se riesce a raggiungere il gatto m e n t r e f u g g e lo azzannerà scuotendolo spietatamente, anche se il gatto si rivolta difendendosi con le medesime armi che aveva sfoderato nel precedente attacco. Secondo Spurway (1953), nelle condizioni che predominano nelle grandi città cani e gatti possono sviluppare u n a sorta di «commensalismo pulsionale»: i cani sfogano sui gatti il p r o p r i o accumulo di motivazione alla caccia e i gatti sfogano sui cani il p r o p r i o accumulo di motivazione alla fuga. Senza dubbio ciò è in gran parte vero per i cani, perché, a parte i gatti, nelle giungle d'asfalto delle grandi città non c'è altro da cacciare, per loro. Per quanto riguarda i gatti, però, Spurway limita le p r o p r i e considerazioni ad animali che vivono quasi sempre in casa e ne escono saltuariamente. Il c o m p o r t a m e n t o di questi animali non è certamente determinato solo dall'accu-
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mulo di motivazione alla fuga, ma soprattutto dal fatto che, ben accuditi come sono, probabilmente non h a n n o mai appreso a t e m e r e alcuna creatura: q u a n d o sfidano un cane a rincorrerli, « n o n sanno quello che f a n n o » . E vero che ci sono anche gatti molto esperti che, nel proprio territorio, specie se esso è ben provvisto di alberi, siepi e altri rifugi, si lasciano coinvolgere in lotte con cani « per p u r o divertimento ». Tuttavia, è f u o r i dubbio che, nella maggior parte dei casi, il gatto p r e n d e la faccenda molto seriamente. In genere, anche un cane di media taglia e senza u n a particolare voglia di cacciare è c o m u n q u e un contendente t r o p p o forte e pericoloso, perché un gatto lo provochi senza necessità. In ogni caso, un c o m u n e gatto di città ben difficilmente soffrirà di un incontenibile accumulo di voglia di fuggire: affinché ciò non accada provved o n o gli esseri u m a n i e, soprattutto, i bambini e il traffico. Con questo non si vuole dire che non possa agire alcuna appetenza alla difesa o anche alla fuga. E possibile che nei gatti osservati da Spurway (1953) operassero, c o n t e m p o r a n e a m e n te, motivazioni diverse. Gli animali domestici o in cattività spesso si annoiano, e non è raro che si mettano a stuzzicare un altro animale perché li attacchi, per poi esibire u n a forte reazione difensiva. Anche l'azione di avvicinamento per stuzzicare viene effettuata in u n a postura che già è difensiva. E stato p r o p r i o l'apparente paradosso di un individuo che provoca, o addirittura attacca, un altro facendo ricorso a schemi comportamentali di solito riservati alla difesa a insegnarmi che deve effettivamente esistere un comportamento appetitivo che porti l'animale in u n a situazione nella quale è costretto a difendersi, p u r n o n essendoci la benché minima esibizione minacciosa da parte dell'animale che è stato stuzzicato. Vi possono c o m u n q u e essere occasioni in cui la supposizione di Spurway si rivela del tutto valida. E certo che talvolta in un gatto si d e t e r m i n a u n o stato motivazionale tale da indurlo a sollecitare un attacco da parte di un conspecifico al solo fine a p p a r e n t e di potere scaricare schemi motori difensivi. Si è potuto osservare e filmare un esempio nel caso di u n a coppia di gatti dorati africani. In tale occasione, la f e m m i n a ripetutam e n t e si lancia lungo il percorso del maschio rovesciandosi sul dorso, soffiando e s f o d e r a n d o gli artigli. Alle lunghe, il maschio mostra di prestarle attenzione e lancia un attacco simbolico; la f e m m i n a lo colpisce, quindi si rifugia sotto un albero caduto. Se ne esce d o p o un po' e r i p r e n d e a stuzzicare il maschio, ma n o n lo attacca mai direttamente; il gioco è ripetuto all'infinito, senza che mai vada a sfociare in u n a lotta vera e propria. Q u a n d o f u g g e , il gatto assume u n ' a n d a t u r a al galoppo, con
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il pelo ancora parzialmente eretto e la coda piegata a uncino e leggermente spostata di lato. La figura 21.2 illustra i possibili schemi di sovrapposizione delle disposizioni all'attacco e alla difesa; le posizioni del corpo e la mimica facciale sono riportate separatamente (cfr. anche Lorenz, 1952, con riferimento al cane). In (a) e in (b) il riq u a d r o contrassegnato con A0B0 si riferisce a un animale che non presenta alcuna disposizione particolare; il r i q u a d r o in alto a destra illustra lo stadio di massima minaccia di attacco; il r i q u a d r o in basso a sinistra illustra lo stadio di massima tendenza alla difesa e il r i q u a d r o in basso a destra lo stadio risultante dalla sovrapposizione delle d u e opposte tendenze; negli altri riquadri, sono rappresentati i possibili stadi intermedi. Nella figura 21.2 b si possono osservare le varie posizioni delle orecchie. Negli stadi intermedi, l'intensità della c o m p o n e n t e della disposizione all'attacco è indicata dalla porzione di superficie posteriore delle orecchie che risulta visibile a un osservatore frontale. Nella p u r a disposizione alla difesa, le orecchie sono piegate lateralmente e verso il basso, così da esporre alla vista esclusivamente il b o r d o laterale della parte posteriore; al massimo è visibile u n a striscia molto sottile (fig. 21.2 b, AoBJ. La suddivisione della figura 21.2 in d u e sequenze non ha semplicemente lo scopo di mostrare in dettaglio la mimica facciale, ma tiene conto della circostanza obiettiva che l'espressione facciale è più mobile e muta più spesso; essa quindi riflette ogni oscillazione della disposizione interna in un m o d o più preciso e rapido di quanto permetta la postura complessiva dell'animale. U n a completa sincronizzazione di modificazioni della mimica facciale e della postura si verifica sempre e solo q u a n d o l'intensità dell'una o dell'altra disposizione interna è massima. Spesso, piccole variazioni della disposizione interna sono espresse da movimenti asincroni e aritmici delle orecchie: m e n t r e l'orecchio sinistro è ancora in posizione di « minaccia», quello destro esprime un atteggiamento indifferente o difensivo; poi, anche l'orecchio sinistro inizia a piegarsi di sua iniziativa, per ritornare quindi alla sua posizione iniziale e così via, p r o p r i o come gli occhi dei camaleonti che si muovono i n d i p e n d e n t e m e n t e l'uno dall'altro. Nella prima edizione esprimevo l'opinione che questo fenom e n o fosse lo stesso descritto da Hess e Brugger (1943) come «sventolamento delle orecchie», osservato come normale effetto collaterale di reazioni aggressive e difensive, simultaneam e n t e indotte nel gatto mediante elettrostimolazione cerebrale. Tuttavia, un'analisi dettagliata dei filmati di Hess e Brugger ha c o n f u t a t o questa congettura. Ciò che essi chiamano
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« sventolamento » è un movimento di piccola ampiezza delle orecchie, molto rapido, decisamente ritmico e simmetrico, causato dal m e t o d o di stimolazione utilizzato da Hess e che n o n trova riscontro nel c o m p o r t a m e n t o di minaccia o difesa di gatti integri. Per il m o m e n t o , non è possibile decidere se i moduli comportamentali difensivi qui descritti possiedano in parte o inter a m e n t e i loro p r o p r i stati motivazionali, o p p u r e debbano essere esclusivamente interpretati come il risultato della sovrapposizione di stati motivazionali per la fuga, inibiti da fattori interni o esterni, a stati motivazionali per la lotta, portati oltre la soglia di induzione dagli stessi fattori, in accordo con la gerarchia relativa delle disposizioni interne. La schiena inarcata nella postura di minaccia del gatto sembra s u f f r a g a r e quest'ultima interpretazione; tuttavia, poiché i movimenti connessi alla lotta, che tendenzialmente si associano al comportam e n t o di difesa o a quello di attacco, sono tipicamente differenti, non si p u ò n e p p u r e escludere del tutto l'esistenza di stati motivazionali per la difesa che siano, allo stesso tempo, diversi da quelli per la f u g a e da quelli per l'attacco. L'idea di stati motivazionali autonomi per il c o m p o r t a m e n to di difesa è sostenuta dai risultati di esperimenti di elettrostimolazione cerebrale. Secondo Fernandez de Molina e H u n sperger (1959), H u n s p e r g e r (1962) e Brown e H u n s p e r g e r (1963), benché nel mesencefalo e nel diencefalo vi siano aree relativamente estese, stimolando le quali si possono i n d u r r e reazioni sia di f u g a sia di difesa, la stimolazione di zone specifiche situate più centralmente provoca solo risposte difensive, m e n t r e la stimolazione di zone specifiche più periferiche provoca esclusivamente reazioni di fuga. Soltanto se la f u g a è impedita da ostacoli esterni e la stimolazione delle corrispondenti zone viene mantenuta, si instaura, d o p o un certo periodo di latenza, u n a reazione di difesa. Un'analoga transizione dal c o m p o r t a m e n t o di minaccia e di difesa a quello di attacco si p r o d u c e anche nel caso della stimolazione di zone situate centralmente. Brown e H u n s p e r g e r (1963) ne concludono che la neurofisiologia non è in grado di c o n f e r m a r e la teoria etologica (basata esclusivamente sull'osservazione del comportamento), secondo cui il c o m p o r t a m e n t o di minaccia e di difesa deriverebbe dalla sovrapposizione di - o dal conflitto tra pulsioni alla f u g a e all'attacco. Anche sulla base della critica di H i n d e (1959) alla teoria etologica, essi ritengono che tali « pulsioni unitarie » siano inaccettabili. Certamente queste pulsioni unitarie non sono unità elementari, ma sistemi costituiti da singoli stati motivazionali che si combinano tra loro nei modi più complessi, a seconda dell'intensità relativa e del-
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la successione temporale (Leyhausen, 1965 b)\ ciò, tuttavia, n o n impedisce a tali sistemi di p r o d u r r e tipiche espressioni specifiche nell'animale, in ciascun caso. Brown e H u n s p e r g e r si sentono rafforzati nella loro convinzione dal fatto di non avere localizzato specifiche zone cerebrali la cui stimolazione possa i n d u r r e ciò che ho chiamato un c o m p o r t a m e n t o di attacco « p u r o ». Inoltre, essi sostengono che la minaccia aggressiva estrema, descritta a pp. 228 sg. e rappresentata nelle figure 19.1, 19.2 e 19.3, sia in realtà u n a minaccia difensiva di bassa intensità o, in altre parole, la postura difensiva con la schiena inarcata. Essi trascurano il fatto che io, in questo contesto, ho s e m p r e usato l'aggettivo « p u r o » tra virgolette; un attacco privo di q u a l u n q u e inibizione viene semplicemente sferrato all'improvviso, senza alcuna minaccia preliminare, nel senso del c o m m e n t o f o r m u l a t o da Ewer (1961): «Nell'aggressione p u r a , l'animale si limita a gettarsi sull'avversario e a m o r d e r lo». Ora, specifiche zone cerebrali, la cui elettrostimolazione provoca p r o p r i o questo tipo di attacco, sono state nel frattempo localizzate da Wasman e Flynn (1962) e questa è la prova che contraddice le convinzioni di Brown e H u n s p e r g e r . Anche tali zone sono situate lateralmente rispetto a quelle centrali corrispondenti a risposte di minaccia e di difesa dei d u e autori citati. A d i f f e r e n z a di questi ultimi, Wasman e Flynn stim o l a n d o substrati in posizioni mediali h a n n o ottenuto, nella maggioranza dei casi, non la sovrapposizione di risposte di minaccia difensiva e di attacchi a colpi di zampa, ma la sovrapposizione di risposte di attacco con morsi e risposte di postura minacciosa. Che io sappia, finora nessuno è stato in g r a d o di i n d u r r e sperimentalmente la vera e propria minaccia aggressiva (con i tipici miagolii; e credo che nessuno, a cui sia accad u t o di ascoltarli, parlerebbe a questo proposito di minaccia di ridotta intensità!). D'altra parte, H o f f m e i s t e r e Wuttke (1969) sono riusciti a dimostrare in altro m o d o la diversa n a t u r a del c o m p o r t a m e n to aggressivo « p u r o » e di quello difensivo: farmaci differenti p r o d u c o n o effetti diversi sui d u e sistemi comportamentali. Mentre la cloropromazina inibisce entrambi nella stessa misura, il clorodiazepossido inibisce solamente il c o m p o r t a m e n t o difensivo ed è del tutto ininfluente sul c o m p o r t a m e n t o aggressivo « p u r o » - i gatti maschi adulti a cui sia stato somministrato n o n si d i f e n d o n o da minacce e aggressioni, bensì, esib e n d o un c o m p o r t a m e n t o appetitivo, cercano attivamente un rivale da attaccare; infine, la m e t a m f e t a m m i n a accentua molto ' a t t e g g i a m e n t o difensivo, ivi compreso il c o m p o r t a m e n t o di attacco difensivo, e nello stesso t e m p o r e p r i m e del tutto il c o m p o r t a m e n t o aggressivo « p u r o ».
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A d a m s e Flynn (1966) h a n n o condizionato alcuni gatti a scegliere u n a certa direzione di f u g a d o p o u n a scossa elettrica. In seguito, h a n n o inserito elettrodi nelle aree dell'ipotalamo che, sotto stimolazione, provocano le varie f o r m e di comport a m e n t o di lotta. La stimolazione è stata effettuata nelle stesse condizioni sperimentali in cui era stato realizzato il condizion a m e n t o alla scossa elettrica. I soggetti sperimentali sceglievano la direzione di f u g a appresa per condizionamento solo q u a n d o , nel c o m p o r t a m e n t o di lotta indotto mediante elettrostimolazione, e r a n o presenti anche elementi difensivi. Se, invece, la stimolazione provocava un « attacco silenzioso con morsi», tale scelta condizionata non aveva luogo. Ancora u n a volta, questi risultati sperimentali sembrano d e p o r r e a favore dell'ipotesi della sovrapposizione, che riflette il p u n t o di vista degli etologi, e contrastare l'assunzione secondo cui le disposizioni i n t e r n e alla f u g a e all'attacco siano correlate a stati motivazionali p e r il c o m p o r t a m e n t o difensivo tra loro i n d i p e n d e n ti. Stando così le cose, le zone cerebrali in vicinanza del piano mediano, la cui stimolazione più facilmente induce u n a reazione difensiva (con un'accentuazione talvolta di u n a compon e n t e di attacco, talaltra di u n a c o m p o n e n t e di fuga) andrebbero classificate come aree in cui i sistemi centrali di coordinazione dell'attacco e della f u g a sono finemente interconnessi al massimo grado. Per riassumere: Hess e Briigger (1943), i primi a scoprire e a descrivere il « centro sottocorticale delle reazioni connesse alla difesa » servendosi dell'elettrostimolazione, sottolineano l'evidente mescolanza di tendenze alla fuga. Per H u n s p e r g e r e collaboratori, i risultati di Hess e B r ù g g e r indicherebbero che la disposizione interna alla f u g a non ha necessariamente un ruolo nel c o m p o r t a m e n t o di minaccia; tuttavia, essi sono anche convinti che non sia possibile separare c o m p o r t a m e n t o di minaccia e di attacco e, in questo modo, implicitamente sollevano dubbi sulla possibilità di distinguere tra attacco difensivo e attacco diretto (aggressione « p u r a » ) ; c o m u n q u e , nel corso dei loro esperimenti, essi h a n n o prevalentemente otten u t o attacchi con colpi di zampa e non con morsi. Infine, Wasm a n e Flynn sono riusciti a i n d u r r e l'attacco con morsi n o n inibito, quale si manifesta nell'attività predatoria e nello scontro f r a conspecifici rivali; essi, inoltre, h a n n o potuto i n d u r r e questa stessa reazione di attacco con la sovrapposizione del c o m p o r t a m e n t o di minaccia, in questo caso difensiva e n o n aggressiva, che è tipicamente manifestato da gatti inesperti q u a n d o a f f r o n t a n o u n a p r e d a che o p p o n g a resistenza. Anche se, rispetto a Hess e Brùgger, Wasman e Flynn h a n n o esplorato aree cerebrali più estese, alcuni dei loro risultati contrad-
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dittori sono relativi alle stesse aree considerate dai primi d u e autori (le tecniche e i parametri di elettrostimolazione e r a n o diversi). Date le circostanze, è azzardato dubitare dell'esistenza di questo o di quel m o d u l o comportamentale, solo perché n o n p u ò (ancora) essere indotto sperimentalmente nella forma p u r a . Il p u n t o centrale è che il felino, invece, lo mette in atto, e con più efficacia, precisione e diversificazione di quanto saprebbe f a r e il più g r a n d e esperto di elettronica. H u n s p e r g e r (1962) ha stimolato simultaneamente le zone responsabili della reazione di f u g a e della reazione di difesa e ha scoperto che, in tal modo, all'inizio l'intensità della reazione di difesa viene accentuata assai di più di q u a n t o risulta stim o l a n d o con u n a corrente di uguale intensità la sola zona correlata con la difesa; così la reazione di f u g a viene ritardata, all'inizio, ma in seguito si manifesta più intensamente di quando venga stimolata la sola zona correlata con la fuga. H u n sperger ne conclude: « Le d u e reazioni di difesa e di f u g a n o n sono, d u n q u e , in reciproca competizione; esse devono essere considerate come d u e c o m p o n e n t i alternative di un comport a m e n t o finalizzato alla sopravvivenza». La logica di u n a tale argomentazione mi sfugge. H u n s p e r g e r ha ottenuto risultati identici, o p e r lo m e n o molto simili, q u a n d o ha stimolato esclusivamente la zona correlata con la fuga, ma p r e s e n t a n d o c o n t e m p o r a n e a m e n t e al soggetto sperimentale un rivale in f o r m a di zimbello (un cane o un gatto impagliato). In m o d o molto simile, W a s m a n e Flynn (1962) h a n n o indotto u n a mescolanza di elementi p r o p r i del c o m p o r t a m e n t o difensivo (orecchie appiattite, pelo eretto, schiena inarcata, soffi), aum e n t a n d o l'intensità dello stimolo elettrico applicato in zone che, sottoposte a livelli di stimolazione inferiori, provocavano « u n attacco silenzioso con morsi». Sono queste, allora, le c o m p o n e n t i alternative, n o n in competizione, di un comportamento finalizzato alla cattura della preda? Se si tiene conto delle normali situazioni (pp. 114, 178 sg.) in cui questi fenomeni di sovrapposizione si manifestano nell'animale intatto, tale interpretazione è poco sostenibile. Le precedenti considerazioni, in certa misura critiche, non vogliono diminuire il valore della elettrostimolazione cerebrale. Questo m e t o d o oggi r a p p r e s e n t a senza dubbio la migliore p r o c e d u r a di indagine neurofisiologica per gli etologi; ma, come ogni altro metodo, verrebbe destituito di significato se si cercasse di porlo al di sopra dei f e n o m e n i che esso ha lo scopo di contribuire a esplorare e chiarire.
22. Comportamento di minaccia e di lotta in varie specie di felini All'epoca della prima stesura di questo volume, era assai scarsa la disponibilità di materiale di confronto relativo a specie di felini allo stato selvaggio o ad altri gruppi di carnivori. I moduli comportamentali di minaccia e di lotta relativi al gatto domestico che sono stati finora descritti non possono assolutamente essere considerati «originali» o davvero «primitivi». In effetti, essi sono altamente sviluppati e differenziati, a testimonianza del fatto che, nel suo complesso, il genere Felis (e Felis va qui inteso in senso stretto, come definito da Pocock, 1951 e Haltenorth, 1953) deve essere considerato, per molti aspetti, il più avanzato g r u p p o di felini, p u r essendovi incluse f o r m e non eccessivamente specializzate come il ghepardo o il servai. Tuttavia, mentre non vi sono, per quanto abbia finora scoperto, sostanziali differenze nel comportamento difensivo tra le varie specie di felini, forti differenze sussistono tra i gruppi di specie tassonomicamente vicine, in rapporto al comportamento di minaccia aggressiva e, in qualche misura, in rapporto allo stesso comportamento di attacco. 1) Generi Prionailurus (specie studiate: bengalensis, viverrinus, planiceps; specie nelle quali il comportamento di minaccia è sconosciuto: rubiginosus, iriomotensis) e Profelis (aurata, Temmincki): nel comportamento di minaccia, la schiena viene sempre leggermente inarcata (fig. 22.1); l'animale si muove tenendo la testa più o meno abbassata e, di solito, rivolta lateralmen-
Fig. 22.1.
Gatto del Bengala: postura di minaccia di bassa intensità.
te verso l'avversario (esibizione di minaccia in movimento) (fig. 22.2 a-c), o p p u r e rimane immobile in questo assetto (esibizione ad angolo retto) (fig. 22.2 d-e). La coda, leggermente incurvata verso l'alto alla sua base, a intervalli sferza l'aria bruscamente, per riacquistare immediatamente una rigida forma a uncino piegato verso il basso. Il pelo è eretto lungo la parte mediana della schiena e sulla coda. Se l'animale, mentre si produce in questa esibizione di minaccia, scatta all'attacco, lanciandosi direttamente contro l'avversario, lo fa non in modo lento e tenendo gli arti rigidi come nelle specie del genere Felis, ma con passo veloce. La testa viene tenuta sollevata e fatta continuamente oscillare da un lato all'altro, ritraendo leggermente il mento a metà dell'oscillazione e protendendolo un poco all'infuori ai due estremi dell'oscillazione (fig. 22.3): come risultato, la punta del naso descrive una curva « a otto » orizzontale. Il gatto dorato (P. aurata) differisce lievemente in quanto, spesso, la componente laterale è omessa o p p u r e è del tutto inavvertibile, per cui il movimento risultante è dato dal mento che alternativamente si solleva e si ritrae. E probabile
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che i generi Caracal, Puma e Neofelis (fig. 22.4) dovrebbero essere inclusi in questo g r u p p o , ma le mie osservazioni n o n sono sufficienti per classificarli con certezza. 2) G e n e r e Leopardus (specie osservate: pardalis, wiedi, tigrinus, Geoffroyi-, sconosciuta: guigna): vale q u a n t o detto p e r Prionailurus e p e r P. bengalensis; tuttavia, nella minaccia (rara), la schiena è diritta, come in Felis (fig. 22.5). Dei generi sudamericani Herpailurus (eira), Lynchailurus (gatto delle pampas) e Oreailurus (colocolo) n o n si possiedono informazioni dettagliate. 3) G e n e r e Lynx: a giudicare dalle poche osservazioni che ho p o t u t o c o n d u r r e finora, questo genere si c o m p o r t a in modo simile a Felis e a Leopardus. In ogni caso, la lince si avvicina a un avversario con gli arti rigidi, come le specie del g e n e r e Felis (fig. 19.2 a). 4) Generi Panthera (specie: leo, pardus e onca), Uncia e Acinonyx: n o n ho mai osservato individui a p p a r t e n e n t i a u n o di questi generi esibire u n a minaccia con la schiena inarcata e n e p p u r e u n a minaccia difensiva. La loro minaccia aggressiva è del tutto diversa da quella riscontrabile nelle specie finora menzionate. T e n e n d o la schiena diritta, gli animali incassano la gabbia toracica f r a le scapole, in m o d o tale che queste ultime s p o r g a n o verso l'alto, quasi come la gobba di u n o zebù (fig. 22.6 a). La testa è tenuta più o m e n o bassa e, in genere, leggermente spostata di lato rispetto all'asse del c o r p o (fig. 22.6 b). Nulla di simile è mai stato osservato nella tigre, che, pertanto, n o n è stata inclusa in questo g r u p p o . 5) G e n e r e Leptailurus: per q u a n t o mi risulta, il servai è l'unico felino in g r a d o di esibire tutte le f o r m e di minaccia descritte finora, con un elemento aggiuntivo r a p p r e s e n t a t o dal « p u n g o l a r e con la zampa » l'avversario (fig. 22.7). L'oscillazione della testa del servai avviene in senso verticale, piuttosto che in orizzontale come in un pendolo. La testa si muove in avanti in m o d o ancora più accentuato rispetto al gatto d o r a t o africano e quasi mai viene fatta oscillare di lato. W e m m e r (1977) descrive un analogo movimento di minaccia ( « d a r d e g giare la testa ») nella genetta. Vi è anche somiglianza tra il servai e il gatto d o r a t o in un altro m o d u l o comportamentale: q u a n d o un servai p u n t a u n a zampa anteriore come un p u n golo verso l'avversario (fig. 2 2 . 7 / , g), spesso quest'ultimo solleva a sua volta u n a zampa e cerca di appoggiarla sulla p u n t a di quella dell'avversario e di spingerla in basso; forse si tratta di un movimento intenzionale per colpire, benché io n o n l'abbia mai visto trasformarsi in un colpo vero e proprio. Capita anche, spesso, che l'animale p u n t a t o tenti di m o r d e r e la zampa dell'avversario o le dia u n a spinta con il naso, al che l'« attac-
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Fig. 22.2. (a) Esibizione di minaccia in movimento: ibrido di gatto del Bengala cf X gatto domestico $. (b-e) Gatto dorato asiatico: (b) e (c) esibizione di minaccia in movimento, (b) a bassa intensità, (c) ad alta intensità (da u n a foto a colori); (d) cf, esibizione di minaccia ad angolo retto, di media intensità; (e) 9, esibizione di minaccia ad angolo retto, rivolta al guardiano situato di f r o n t e a destra rispetto all'animale (da una foto a colori).
cante » ritira immediatamente la zampa, per tornare comunque, in genere, a puntarla subito dopo. Nel caso del gatto dorato africano, non ho mai osservato il tentativo di mordere; tuttavia, nel suo tipico modo di combattere questo felino spesso colpisce le zampe anteriori di un avversario steso a terra di fronte, in postura difensiva (hg. 22.3 / ) . Per quanto le nostre osservazioni siano state estese, non siamo stati in grado di stabilire se le varie forme di minaccia siano correlate a differenti situazioni specifiche. Mentre le forme di minaccia descritte ai punti 1), 2) e 3) si differenziano solo nella velocità di esecuzione e nell'ampiezza delle singole componenti motorie, tanto che ciascuna potrebbe derivare da una delle altre (pp. 252 sgg., fig. 21.2), ciò non si verifica nel caso del comportamento di minaccia descritto al punto 4). Tuttavia, nell'ambito di altri gruppi di carnivori e di altri mammiferi meno evoluti, si riscontra un comportamento analogo che ci permette di ricostruire, con un buon grado di attendibilità, la probabile evoluzione di questo singolare comportamento di minaccia, che si differenzia così profondamente da quello di altre specie di felini. Mentre i marsupiali, e in particolare i dasiuridi e l'opossum, non inarcano la schiena in atto di minaccia, ma minacciano e attaccano con soffi e sputi, tenendo la schiena diritta e le mascelle aperte, l'esibizione di
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Fig. 22.3. (a-d) Quattro fasi dell'oscillazione della testa nel gatto dorato asiatico. Per ulteriori informazioni si veda il testo. (e-j) Gatto dorato africano, a sinistra a destra Cf: (e) $ si ritrae leggermente di fronte a cf, che soffia; ( / ) Cf colpisce la zampa di $ (si veda il testo); (g) cf minaccia $ e inizia ad accovacciarsi sul treno posteriore, preparandosi al salto con cui sferrare l'attacco (cfr. fig. 19.6 b, c); (h) esibizione ad angolo retto, d o p o u n o scambio di colpi; si noti la coda piegata a uncino, la testa abbassata, il treno anteriore a sua volta abbassato e leggermente inclinato in fuori; (?) cf in postura di minaccia a bassa intensità ad angolo retto, m e n t r e soffia; ( j ) cf minaccia a piena intensità; si noti la coda piegata a uncino, e rivolta di lato.
Fig. 22.4. Leopardo maculato cf minaccia un altro cf nella gabbia attigua; bassa intensità (National Zoological Park di Washington).
Fig. 22.5. Un giovane margay: (a) minaccia di intensità m o d e r a t a , approssimativamente c o r r i s p o n d e n t e a quella della figura 22.1 ; (b) esibizione di minaccia in movimento, di intensità leggermente maggiore; (c) e (d) esibizione ad angolo retto all'indirizzo di un grosso gatto maschio domestico; si noti la coda rivolta verso il rivale già a partire dalla base; (e) minaccia di forte intensità, con schiena diritta e coda a uncino, come in Felis; ( / ) minaccia aggressiva: movimenti di strofinamento sul t e r r e n o delle z a m p e posteriori come minaccia aggressiva (si veda p. 295).
Fig. 22.6. Minaccia aggressiva: (a) g h e p a r d o ; (b) leonessa (da u n a foto ; •ori di C.A.W. Guggisberg). Per ulteriori informazioni si veda il testo.
Fig. 22.7. Varie posture di minaccia del servai: (a) minaccia con schiena inarcata, bassa intensità (cfr. figg. 22.1, 22.4, 22.5 a); (b) minaccia di m o r d e r e (posizione delle orecchie!), con una certa ansia che traspare contemporaneamente (treno posteriore leggermente abbassato) (foto proveniente dal National Zoological Park, di Washington); (c, d) minaccia aggressiva di bassa (c) e di alta (d) intensità (cfr. fig. 22.6); (e) minaccia aggressiva (/, g) pungolamento con la zampa (si veda il testo); (h, i) minaccia aggressiva d o p o aver pungolato con la zampa; in (i) l'animale sconfitto si accovaccia e si dispone con il treno anteriore appiattito per terra, di fianco; ( j ) situazione simile tra d u e giovani ibridi di leopardo cf X leone $ (Parco zoologico Hanshin). Si noti in (f-i) il pronunciato abbassamento del treno anteriore dietro le spalle dell'animale attaccante, (k) Al termine del confronto, il vincitore emette u n o spruzzo di urina (si veda p. 294).
Fig. 22.8. Minaccia con la testa abbassata: (a) mangusta dalla coda bianca; (b) istrice; (c) mangusta dalle zampe nere; (d) fanaloka, sovrapposizione di minaccia offensiva e difensiva di debole intensità; secondo Rasa (1977), la mangusta nana adotta una postura di minaccia simile; (e) linsang, minaccia difensiva; ( / ) mangusta del Madagascar, minaccia difensiva di debole intensità [(a) e (c-f ) National Zoological Park di Washington; (b) Zoo di Francoforte].
minaccia con la schiena inarcata è ampiamente diffusa tra i roditori, i mustelidi e i viverridi (fig. 22.8). Il comportamento di minaccia e di attacco del surmolotto (Eibl-Eibesfeldt, 1957, 1958 b), della puzzola (Poole, 1966, 1967) e della mangusta grigia indiana (Diicker, 1957, 1965) può essere considerato come tipico: questi animali inarcano la schiena in atto di minaccia, ma tengono spalle e testa abbassate e spesso volgono quest'ultima di lato rispetto all'avversario; l'attacco viene
b
c
Fig- 22.9. (a) Volpe rossa, minaccia con la schiena inarcata; (b) volpe rossa, esibizione di minaccia in movimento (da Tembrock, 1957); (c) fennec, esibizione laterale all'indirizzo di un animale steso a terra (qui alla destra); (d) fennec, esibizione di minaccia in movimento, [(c) e (d ) da fotografia a colori, Zoo di Los Angeles],
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quindi portato spesso da una direzione laterale, mediante un calcio sferrato con l'arto posteriore più vicino al rivale. Se l'attaccante prosegue nell'azione, per arrivare a m o r d e r e l'avversario si lancia su di esso di lato e dal basso per raggiungerne il collo o il fianco. Questa f o r m a di minaccia e attacco viene praticata soprattutto q u a n d o l'animale assalito non è in u n a disposizione interna aggressiva, ma adotta invece u n a palese postura di difesa e di sottomissione. Nei casi in cui quest'ultimo n o n si alza sugli arti posteriori, l'aggressore spinge indietro la testa e la tiene sollevata in alto. Secondo Poole (1966, 1967), la puzzola p u ò esibire anche un altro tipo di minaccia più accent u a t a m e n t e aggressiva: si appiattisce completamente a terra, con la schiena diritta e, da questa posizione, è più che mai costretta a p o r t a r e un attacco dal basso. Una f o r m a simile di minaccia e attacco p u ò essere osservata nel leopardo delle nevi e nel gatto d o r a t o africano (p. 282). Al di f u o r i di questo c o m p o r t a m e n t o di minaccia e di attacco, in molti viverridi, nelle iene, nei canidi (fig. 22.9) e negli ursidi si sono evolute anche altre f o r m e di minaccia e di lotta, più o m e n o ritualizzate. L'attaccante avanza t e n e n d o il capo abbassato e, accostando lateralmente, cerca di azzannare l'avversario sul lato del collo; quest'ultimo p u ò fare lo stesso, come ho spesso osservato in giovani zibetti indiani impegnati nei loro quasi inesauribili combattimenti per gioco, o p p u r e schiva l'attacco t e n e n d o il capo sollevato e di solito girato da u n a parte, ma con la metà posteriore del corpo accovacciata, e in questo m o d o p u ò anche resistere a piè f e r m o all'attacco, o p p u r e ritirarsi. Si tratta di reazioni che ho osservato più di u n a volta nel protele, nella iena striata (fig. 22.10), nel cane e nell'orso (fig. 22.11). Secondo Druwa (1976), anche lo speoto (Speothos venaticus) minaccia e lotta in questo modo. N o n ho ancora condotto corrispondenti osservazioni su mustelidi e procionidi, ma è probabile che alcuni di essi possiedano modalità simili di c o m p o r t a m e n t o . Grzimek (1958, comunicazione personale) per p r i m o ha attirato la mia attenzione sul fatto che i leoni, d u r a n t e i loro litigi, ricorrono alla stessa mossa per « mord e r e al collo »; da allora, ho osservato più volte questa modalità, oltre che nei leoni, anche in leopardi e giaguari, ma non nelle tigri. Ewer (1969, comunicazione personale) p r e s u m e che la striscia che, in molti carnivori (zibetto indiano, zibetto delle palme, genetta, tasso, moffetta e molti altri), corre longitudinalmente dall'orecchio al petto lungo i lati del collo serva a facilitare l'orientamento optomotorio d u r a n t e gli scontri, più o m e n o ritualizzati, in cui d u e contendenti gareggiano a mordersi al collo. Mi è capitato regolarmente di osservare u n a sincronizzazione optomotoria sociale, probabilmente regolata
Fig. 22.10. testo.
Combattimento fra iene striate. Per la spiegazione si veda il
Fig. 22.11. Combattimento fra baribal: l'animale sulla sinistra, costretto da altri d u e contro una parete rocciosa, sta ritto sugli arti posteriori in posizione difensiva; l'orso in primo piano a destra è in postura di minaccia, a partire dalla quale tenterà di mordere dal basso in alto la gola e il fianco dell'animale che si difende.
F'g. 22.12. Combattimento tra cani collie (da Fischel, 1953). Per la spiegazione si veda il testo.
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dalle striature sul collo, delle oscillazioni verticali della testa in d u e grossi zibetti indiani m e n t r e mangiavano e bevevano insieme. Lorenz (1943) ha descritto una «postura di sottomissione» adottata, nei duelli tra d u e cani o d u e lupi, dall'individuo subordinato. Quest'ultimo, tenendosi ben diritto, volge la testa un poco di fianco e presenta il lato del collo all'avversario, inib e n d o n e in tal m o d o l'attacco. L'aggressore « non riesce ad arrivare al p u n t o » di azzannare il lato indifeso del collo. Sfortunatamente, Lorenz non descrive con molta precisione in quale posizione l'animale tenga la testa, il corpo e la coda in questa circostanza. Ciò ha dato origine a un malinteso da parte di Fischel (1953) che, in u n a scena da lui stesso osservata e filmata, relativa a d u e cani, ha giudicato come inferiore l'animale in realtà d o m i n a n t e (quello in primo piano nella fig. 22.12). Schenkel (1960) ha rettificato tale interpretazione, ma senza rendersi conto che l'animale sconfitto aveva esibito la postura di sottomissione indicata da Lorenz. In seguito, egli descrive u n a scena, avente d u e lupi come protagonisti, che asserisce essere l'equivalente di quella riprodotta da Fischel; ma essa non p u ò in alcun m o d o riferirsi a un combattimento vero, ma solo a u n o scontro per gioco tra un individuo adulto e u n o giovane. A q u a n t o sembra, Schenkel aveva scarsa conoscenza del rituale del morso al collo; è possibile che, nelle anguste condizioni in cui i g r u p p i di lupi osservati da Schenkel vivevano in u n o zoo, gli animali non esibissero questo tipo di comportam e n t o di lotta. L'errore di interpretazione di Fischel p u ò forse trovare questa spiegazione: nell'episodio da lui analizzato, la posizione relativa assunta dai d u e cani potrebbe essere il risultato della sovrapposizione di d u e elementi del comportam e n t o di lotta. Dopo un « p u r o » morso al collo, i d u e animali si fronteggiano puntandosi minacciosamente, come le iene della figura 22.10; in questo caso, tuttavia, il cane d o m i n a n t e cerca anche, nello stesso tempo, di spingere l'altro a g e n d o di lato con il suo treno posteriore, secondo un metodo di attacco che è c o m u n e anche in alcuni roditori, mustelidi e viverridi (pp. 253, 268, 278). Secondo Zimen (comunicazione personale), nei lupi la sovrapposizione delle d u e modalità di attacco è la regola. Driiwa (1976, fig. 41) fa vedere d u e speoti in una posizione molto simile e ne dà la mia stessa identica interpretazione. Il fattore decisivo, nell'interpretare tale situazione, sta in questo: benché nella postura descritta il cane subordinato tenga la testa levata in alto e spesso, nel compiere questa azione, si sollevi sulle zampe anteriori in p u n t a di dita (poiché, contrariamente all'idea di Lorenz, lo scopo f o n d a m e n t a l e di questo c o m p o r t a m e n t o è quello di distogliere, spostandola in
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alto e di lato, l'area del corpo bersaglio dell'attacco), esso tiene la coda bassa, spesso tra le gambe, e in genere piega leggerm e n t e la parte posteriore del corpo, o per lo m e n o non la mantiene distesa ed eretta. Pertanto, in origine, n e p p u r e questa è u n a postura di sottomissione, nel senso che l'animale subordinato rinunci a ogni tentativo di ulteriore resistenza; piuttosto, è un'« interruzione di contatto » (si veda p. 225). In altre parole, è qualcosa di analogo al « guardarsi intorno » dei felini, benché a un livello differente: il « guardarsi intorno » riesce a evitare che si scateni una lotta tra d u e gatti, ma non p u ò i n t e r r o m p e r e o fare terminare u n o scontro che sia già iniziato; ciò, invece, avviene nel caso dei cani, anche se talvolta l'individuo d o m i n a n t e non viene inibito al p u n t o da rinunciare, nonostante tutto, a m o r d e r e . Come è dato di constatare, tanto i movimenti istintivi quanto gli stimoli che li inducono non funzionano, per loro natura, secondo la modalità del « tutto o niente » analoga a quella del riflesso classico, descritto nei vecchi testi di fisiologia. C o m u n q u e , stando alle mie osservazioni dei cani, la lotta a morsi sul collo (ivi c o m p r ^ a la sua interruzione decretata dal c o m p o r t a m e n t o dell'animale perdente) è a tal p u n t o ritualizzata — in ogni caso assai più che nelle iene e negli zibetti - che, di fatto, ne ha tratto origine u n a postura di sottomissione. In ogni caso, l'origine filogenetica di quest'ultima p u ò ormai ritenersi chiarita e il sospetto di Schenkel, che Lorenz abbia e r r o n e a m e n t e interpretato la postura eretta (con la coda alta e ben tesa) di un lupo d o m i n a n t e come postura di sottomissione, è respinto. Da q u a n t o esposto, non è azzardato interpretare la minaccia aggressiva di Felis come il risultato della modificazione funzionale di u n a postura che, in origine, segnava la transizione dall'attacco alla difesa e all'interruzione del contatto. Ciò si evidenzia chiaramente nelle specie del genere Prionailurus (p. 264): la camminata minacciosa e l'esibizione ad angolo retto non in direzione obliqua rispetto all'avversario sono effettuate m a n t e n e n d o la testa abbassata, m e n t r e nella camminata minacciosa in direzione rettilinea la testa è sollevata e oscilla; quanto più l'attaccante si avvicina al suo antagonista, tanto più la testa è tenuta sollevata e il mento è ritratto. In questo caso, non si p u ò ignorare la componente relativa alla « propensione a ritirarsi » che io ho considerato anche responsabile dell'espressione della minaccia con la schiena inarcata (pp. 252 sg.). Nel caso del gatto dorato asiatico, l'ambivalenza del comportam e n t o è spesso ancora più evidente e si manifesta nel m o d o più chiaro nel caso del maschio che si mette in posizione di n m i n a , ma che, nonostante la schiacciante sue gerarchica, è impossibilitato a colpire o a
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m o r d e r e («inibizione a m o r d e r e la f e m m i n a » , Eibl-Eibesfeldt). Tuttavia, n o n p u ò sussistere alcun dubbio che, in Prionailurus molto spesso e in Felis sempre, tale c o m p o r t a m e n t o abbia il significato di minaccia e di p r o n t a reazione di attacco. E probabile che questa modificazione di f u n z i o n e - o, se si preferisce, di significato — sia proceduta parallelamente al cambiamento nell'orientazione del morso inflitto d u r a n t e l'attacco, che dalla gola e dal lato del collo si è spostato alla nuca. Finora io ho osservato il ricorso al morso al collo come metodo di attacco solamente nel caso di leoni, leopardi, giaguari e leopardi delle nevi. N o n è del tutto chiaro p e r c h é questi felini, q u a n d o minacciano, abbassino la testa e la cassa toracica come descritto, invece di inarcare la schiena. Sovente essi (soprattutto il l e o p a r d o delle nevi) minacciano stando sdraiati a terra o quasi sdraiati, sollevando leggermente dal suolo la parte anteriore del corpo e di f r e q u e n t e p a r t o n o all'attacco stando raccolti in questo modo, che ricorda la corsa di avvicinam e n t o furtivo. La modalità di minaccia in posizione sdraiata fS pensare a quella della puzzola («minaccia aggressiva», Poole, 1966, 1967). In un gatto d o r a t o africano, ho osservato un tipo di attacco che potrebbe r a p p r e s e n t a r e u n a f o r m a di transizione: dalla minaccia in posizione sdraiata, il felino è passato a u n a corsa di avvicinamento, r i m a n e n d o raccolto, ma senza abbassare il torace nel m o d o tipico del g e n e r e Panthera. N o n è escluso che in altri carnivori esistano altre f o r m e di transizione non ancora scoperte. Il gatto d o r a t o africano presenta anche un'altra particolarità, quella di m u o v e r e all'attacco p a r t e n d o dalla sua posizione difensiva, consistente nello stare sdraiato su un fianco. Già ne abbiamo osservato un accenno in MIO, d u r a n t e il suo scontro con M3 (p. 246). Il gatto dorato, però, va ben oltre i limiti di un semplice bluff o anche di u n a p u r a difesa. Se un individuo viene minacciato da un consimile più forte, inizialmente si rifugia in un angolo o sotto un r i p a r o e si mette in posizione difensiva sdraiato su un fianco (fig. 22.3 e-g), ma n o n a p p e n a il rivale sospende la minaccia e si allontana, scatta in avanti: stando sdraiato, fa forza su qualcosa di stabile (un m u r o , un tronco d'albero) o anche semplicemente sul t e r r e n o stesso, p e r p r e n d e r e u n o slancio che gli p e r m e t t a di proiettarsi, mantenendosi raso terra, u n o o d u e metri in avanti verso l'avversario, p e r colpirlo. Gli animali così attaccati s e m b r a n o t e m e r e in m o d o particolare questa tattica di aggressione e n o n cercano mai di contrattaccare immediatamente; di solito, essi balzano in alto sulle q u a t t r o zampe e quindi - dato che l'attaccante p u ò continuare a muoversi e cambiare agevolmente direzione — sono in difficoltà a trovare un p u n t o di ricaduta dove non
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siano già p r o n t e ad attenderli d u e paia di artigli rivolti in su. Abbiamo anche osservato u n a leonessa mettere in atto questa modalità di attacco in u n a ripresa televisiva di J. Goodall e H. van Lawick sui leoni del Parco di Serengeti; è presumibile che n u m e r o s e altre specie possano esibire tale c o m p o r t a m e n t o , per q u a n t o forse non in m o d o altrettanto f r e q u e n t e e vistoso come nel gatto dorato.
PARTE Q U A R T A
S T R U T T U R A SOCIALE E RIPRODUZIONE
Gli schemi di interazione sociale descritti nella parte terza regolano le distanze tra gli individui e in tal modo contribuiscono a costruire l'organizzazione sociale della popolazione. Pur essendo indispensabili in rapporto a questo fine, essi non bastano a definire la struttura sociale. Lo stesso repertorio di segnali e di percezioni sociali può essere al servizio di differenti tipi di organizzazione sociale, sia in specie affini sia in popolazioni della stessa specie. I principali fattori che influenzano la diversificazione della struttura sociale sono le condizioni ecologiche, il livello di tolleranza specie-specifica rispetto alla densità demografica, nonché la sua variazione da individuo a individuo e da popolazione a popolazione, e il differente attaccamento a certe località o aree specifiche. A parte questo, recenti osservazioni condotte sul campo hanno dimostrato che, in una specie, l'organizzazione sociale da un lato e le necessità e le abitudini riproduttive dall'altro si sono influenzate a vicenda nel corso dell'evoluzione. Mi sembra pertanto non solo giustificato, ma imperativo trattare queste d u e sfere di comportamento sotto un titolo comune.
23. Comportamento territoriale e posizione gerarchica Q u a n t o segue è basato su mie osservazioni, su dati raccolti in diversi anni di lavoro da Wolff e messi a mia disposizione (Leyhausen, 1965 a) e sui risultati ottenuti attraverso un nostro progetto di ricerca congiunto (Leyhausen e Wolff, 1959). Ogni singolo gatto possiede un territorio che corrisponde approssimativamente alla comune tipologia di territorio di un mammifero quale è stata descritta da Hediger (1949): un rifugio abitativo o dimora fondamentale, in genere una stanza o anche un certo angolo in una stanza della casa in cui vive, e un'area familiare (home range) tutt'intorno che include un certo n u m e r o di luoghi visitati a intervalli più o meno regolari e collegati da una elaborata rete di percorsi. Se si pensasse di tracciare una linea passante per i punti più esterni di questa rete e di chiamarla confine dell'area familiare, si compirebbe un'operazione del tutto astratta; in effetti, come vedremo meglio in seguito, un tale concetto di confine non trae origine dal comportamento degli animali. Gli immediati dintorni del rifugio abitativo (per esempio, la casa e il suo giardino) sono del tutto familiari al gatto residente, che ne frequenta pressoché ogni zona, in quanto vi trova, di solito, angolini per riposare, per prendere il sole, per vigilare e così via. Al di là di questa limitata zona domestica, i percorsi prima citati conducono a luoghi di caccia, di corteggiamento, di disputa e lotta, o destinati allo svolgimento di altre attività. In genere, esiste più di un percorso per raggiungere ciascuno di questi luoghi e le aree comprese tra un percorso e l'altro vengono frequentate
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di rado. Certo, non bisogna pensare che i luoghi di arrivo dei percorsi siano semplicemente punti ben circoscritti. Per esempio, i terreni di caccia (quali r a d u r e in un bosco o campi di g r a n o a p p e n a mietuti dove a b b o n d a n o i topi) possono estendersi su superfici più ampie dell'area familiare e nel corso del t e m p o il gatto li esplora accuratamente. C o m e h a n n o dimostrato Rosenblatt, Turkewitz e Schneirla (1969), in un gattino il p r i m o legame con un certo luogo comincia a formarsi già pochi giorni d o p o la nascita, prima che esso sia in g r a d o di aprire gli occhi: grazie al p r o p r i o olfatto riesce, su brevi distanze, a f a r e ritorno al nido (il rifugio abitativo). In base alle nostre osservazioni, il territorio di u n a f e m m i n a di gatto domestico in u n a zona rurale misura all'incirca da 0,5 a 1 km 2 ; quello di un maschio adulto è molto più esteso, specie d u r a n t e la stagione riproduttiva. E probabile che nelle aree u r b a n e i territori siano più limitati, anche se ben poco se ne sa di preciso. Secondo L i n d e m a n n (1953), nei Carpazi i territori dei gatti selvatici (Felis silvestris) coprirebbero all'incirca 0,5 km 2 ; p e r c o n f r o n t o , quelli delle linci si estendono p e r 10 km 2 . Il dato f o r n i t o di 0,5 km 2 per Felis silvestris a p p a r e assai ridotto, a p a r a g o n e di altre specie di piccoli felini. Berrie (1978) ha valutato pari ad a l m e n o 1,8 km 2 il territorio di u n a f e m m i n a subadulta di pardalina; p e r il gatto di Iriomote (Prionailurus iriomotensis), Imaizumi e collaboratori h a n n o accertato (dati non pubblicati) estensioni territoriali di 2 km 2 e più, con sovrapposizione assai limitata dei territori. Per la lince canadese, le aree varierebbero f r a 11,5 e 120 km 2 (Berrie, 1973); per la lince rossa, Provost, Nelson e Marshall (1973) r i p o r t a n o il dato medio di a p p e n a 6 km 2 di estensione territoriale; secondo McCord (1977), nel Massachusetts i territori si estendono da 4 a 52 km 2 , con u n a media che oscilla f r a 26 e 31 km 2 . Schaller (1970) sostiene che nelle p i a n u r e del Serengeti l'estensione del territorio di un g h e p a r d o varia tra 50 e 65 km 2 . Schaller (1967) e anche Singh (1973) a f f e r m a n o che le tigri dispongono di un territorio esteso fino a 80 km 2 . Nel Parco nazionale di Wilpattu, nello Sri Lanka, i leopardi h a n n o territori di almeno 8-10 km 2 (Eisenberg e Lockhart, 1972; Muckenhirn e Eisenberg, 1973). T e r r i t o r i di estensione così limitata, tuttavia, possono esistere solo in condizioni ambientali particolarmente favorevoli e n o n devono in alcun m o d o essere scambiati per u n a misura della densità di popolazione. Secondo gli autori sopra citati, nel Parco di Wilpattu, che ha u n ' a r e a di 600 km 2 , la densità di leopardi è di un individuo ogni 30 km 2 . Nel caso del p u m a , H o r n o c k e r (1969, 1970 a, b) riporta che l'estensione territoriale nei mesi invernali varia tra 13 e 65 km 2 p e r le femmine e tra 39 e 78 km 2 per i maschi; i territori delle f e m m i n e si s o v r a p p o n g o n o parzialmente e variano in ampiezza a se-
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conda del n u m e r o e dell'età dei piccoli che le accompagnano; i territori dei maschi sono rigidamente separati tra loro, ma talvolta si s o v r a p p o n g o n o a quelli delle f e m m i n e . Nella maggior parte delle specie, la sovrapposizione dei territori è considerevole, soprattutto nel caso del g h e p a r d o , che Schaller (1970), di conseguenza, considera non territoriale, m e n t r e Eaton (1970 a), accogliendo la mia a f f e r m a z i o n e secondo cui il concetto di « territorio » deve essere inteso in termini non solo di spazio, ma di spazio e t e m p o (Leyhausen e Wolff, 1959; Leyhausen, 1965 a, 1971), considera che le osservazioni di Schaller indichino come, nel caso del g h e p a r d o , la compon e n t e temporale prevale n e t t a m e n t e su quella spaziale. La minima sovrapposizione f r a territori che finora si sia potuta app u r a r e r i g u a r d a le f e m m i n e di leopardo (Muckenhirn e Eisenberg, 1973) che, da questo p u n t o di vista, si c o m p o r t a n o come le f e m m i n e di gatto domestico. Per c o m p r e n d e r e il c o m p o r t a m e n t o territoriale del leone e l'estensione del suo territorio, occorre metterli in relazione con l'organizzazione sociale di questo felino, che si differenzia m a r c a t a m e n t e da quella di altre specie congeneri. Per tale motivo, questi aspetti s a r a n n o discussi a parte nel capitolo 24. Il nostro tentativo di utilizzare osservazioni condotte su gatti domestici liberi di vagabondare nel territorio circostante, in sostituzione di quelle e f f e t t u a t e su gatti selvatici veri e propri, ha incontrato d u e ostacoli: 1) i gatti domestici non possono controllare la p r o p r i a densità di popolazione e, di n o r m a , n e p p u r e scegliere liberamente il p r o p r i o rifugio abitativo; 2) nel corso della domesticazione, il loro c o m p o r t a m e n t o ha subito u n a serie di modificazioni. Un aspetto importante, in rifer i m e n t o al c o m p o r t a m e n t o territoriale, è il fatto che i gatti domestici sono tra loro più socievoli dei loro affini selvatici e, nella maggior parte dei casi, si lasciano i n d u r r e a condividere con u n o o più consimili u n a stessa area familiare e, spesso, anche il p r o p r i o rifugio abitativo (Leyhausen, 1962 a, 1965 a). N a t u r a l m e n t e , si potrebbe osservare che l'assumere come paradigmatico il c o m p o r t a m e n t o di un animale domestico costituisce un serio difetto metodologico. Tuttavia, è molto probabile che la sola distorsione capace di t u r b a r e il q u a d r o risultante sia da mettere in relazione con la tolleranza sociale che, nel gatto domestico, è in certa misura superiore rispetto alla maggior parte dei suoi affini selvatici di piccola taglia. Le condizioni particolari nelle quali vive il gatto domestico h a n n o portato alla luce con maggiore evidenza i fattori di coesione di g r u p p o che certamente o p e r a n o anche all'interno delle popolazioni selvatiche. C o m e accennato sopra, è del tutto normale che le reti di percorsi di gatti confinanti si sovrapp o n g a n o , nel senso che viene praticato un uso c o m u n e di sen-
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deri, di terreni di caccia e, talvolta, anche di luoghi per starsene al sole o di postazioni di osservazione. Però uso in c o m u n e di n o r m a non significa uso simultaneo. Nella loro consuetudine di vita quotidiana, gli animali evitano gli incontri diretti, e anche i gatti che vivono nella stessa dimora f o n d a m e n t a l e q u a n d o escono all'aperto si m a n t e n g o n o separati. Secondo Hediger (1949), molte specie conseguirebbero questo fine seguendo u n a tabella di marcia organizzata rigidamente, come u n a sorta di orario ferroviario, in m o d o da rend e r e improbabili le collisioni. Fino a questo momento, le mie osservazioni e quelle di Wolff non sono riuscite a dimostrare che la routine quotidiana del gatto domestico sia regolata in m o d o così p r o g r a m m a t o . Dove si osserva una forte tendenza a ritrovarsi ogni giorno in un dato posto alla stessa ora, ciò di solito è determinato dall'influenza degli esseri umani, da cui per esempio d i p e n d e l'orario del pasto. Così, le popolazioni di gatti (fino a u n a dozzina e più) nelle fattorie del Galles che ho visitato si raccoglievano, intorno all'ora della mungitura, sulla soglia del fienile o nella stalla per ricevere la razione quotidiana di latte. Ciò dimostra che i gatti sono p e r f e t t a m e n t e in grado di attenersi a un orario. Se non siamo stati in g r a d o di osservare nulla di simile in gatti liberi di vagabondare che non siano influenzati dall'uomo nell'assegnazione di orari, non significa che questo non possa verificarsi - e, in effetti, ciò si verifica in g r u p p i tenuti in cattività (si veda più avanti). Sembra che i gatti regolino i propri spostamenti lungo i percorsi principalmente attraverso il contatto visivo. Spesso, si p u ò osservare un gatto m e n t r e ne segue con lo sguardo un altro che procede lungo un certo percorso, a una distanza compresa f r a 25 e 100 metri, fino a che non è più visibile. Passato un certo tempo, il primo gatto di solito si avvia lungo lo stesso percorso. Occasionalmente, ho osservato d u e gatti avvicinarsi, da direzioni diverse, a un p u n t o di incrocio tra i loro cammini; c o n t i n u a n d o ad avanzare, si sarebbero incontrati quasi esattamente al crocevia. Invece si accovacciavano entrambi e se ne rimanevano a scrutarsi, distogliendo deliberatamente lo sguardo di tanto in tanto. Alla fine, una tale situazione si sblocca o perché u n o dei d u e gatti, m e n t r e l'altro ha lo sguardo volto altrove, muove verso l'incrocio, d a p p r i m a con passo esitante, quindi con a n d a t u r a più spedita che, superato il p u n t o di massima vicinanza con l'altro, si trasforma in u n a rapida corsa; o p p u r e perché, trascorso un certo tempo, e n t r a m bi, quasi simultaneamente, ritornano sui propri passi. Secondo un'osservazione di Berrie (1973), le linci canadesi si comportano nello stesso modo. In tutti questi casi di contatto (o controllo) visivo a distanza,
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è davvero r a r o che u n o dei d u e animali si avvicini all'altro per farlo allontanare o, se quest'ultimo non si sposta, per attaccarlo. E più probabile che si verifichi u n o scontro se, per qualche combinazione, gli animali si dovessero trovare faccia a faccia improvvisamente e inaspettatamente. E in questo m o d o che si stabilisce u n a gerarchia di dominanza tra gatti confinanti. E difficile che d u e animali adulti arrivino a lottare davvero più di u n a volta. Di solito, d o p o il primo scontro ogni incontro ravvicinato successivo si risolve immediatamente in una caccia: l'animale p r e c e d e n t e m e n t e sconfitto si dà alla f u g a inseguito da quello vittorioso che, se riesce ad avvicinarlo abbastanza, lo colpisce con la zampa. In genere, le f e m m i n e mostrano maggiore intolleranza reciproca rispetto ai maschi. Tuttavia, il tipo di gerarchia di dominanza che così si definisce n o n si traduce in una rigida gerarchia sociale all'interno della popolazione. Anche se al gatto vittorioso è talvolta consentito di visitare e ispezionare, senza incontrare resistenza, il territorio e perfino il rifugio abitativo del gatto sconfitto, non ne fa u n a consuetudine, né subentra a quest'ultimo nella sua area familiare. Inoltre, la sua supremazia non vige in ogni luogo e in ogni momento, poiché la superiorità sancita da dispute di confine rimane strettamente associata al luogo e spesso, in particolare nel caso di alterchi ripetuti, al periodo della giornata in cui essi si sono verificati. In un luogo e in un periodo diversi, u n a contesa f r a gli stessi individui p u ò concludersi in m o d o diverso poiché ovviamente la sicurezza e il coraggio di un animale a u m e n t a n o o diminuiscono in misura diretta con la distanza dal suo rifugio abitativo. Pertanto, q u a n d o d u e animali si incontrano, il loro « r a n g o » si stabilisce in ogni caso solo in relazione al luogo e al periodo della giornata in cui ciò accade: è ciò che io chiamo « gerarchia sociale relativa » o « ordine di r a n g o relativo». Nelle zone di confine, quindi, accade spesso che risulti d o m i n a n t e l'animale che, semplicemente, arriva per primo. Se il gatto subordinato ha già imboccato un passaggio d'uso c o m u n e prima che arrivi sulla scena quello d o m i n a n t e , quest'ultimo si siede in attesa che la strada sia libera; se si c o m p o r t a diversamente, p u ò veder messa alla prova con esito negativo la propria superiorità. In u n a circostanza, p e r esempio, d u e f e m m i n e avevano eletto come p r o p r i o rifugio abitativo d u e stanze attigue della casa. La f e m m i n a norm a l m e n t e d o m i n a n t e ebbe dei piccoli, e ciò ne r a f f o r z ò ancora di più la supremazia. Q u a n d o essa tentò di passare attraverso la stanza attigua, m e n t r e l'altra gatta sedeva sulla soglia, quest'ultima le bloccò il cammino, parandosi davanti e soffiando minacciosamente. La gatta dominante a r r e t r ò un poco, senza lottare, e si f e r m ò r i m a n e n d o in attesa. Dopo qualche
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tempo, la sua vicina si allontanò dal passaggio ed essa entrò nella stanza, senza che, in seguito, la gatta residente mostrasse segni di intolleranza o le impedisse in qualche m o d o di ispezionare l'ambiente. Allo stesso modo, un gatto d o m i n a n t e di n o r m a non allontana un individuo subordinato che ne abbia occupato il posto preferito per riposare o per stare in osservazione. Può talvolta accadere che gli scontri e gli inseguimenti, attraverso i quali viene stabilita una gerarchia d i p e n d e n t e dalla priorità nell'occupare un luogo, alimentino tra d u e vicini un rancore insanabile, per cui il dominante insegue e colpisce il subordinato ogni volta che lo vede; tuttavia, questa non è la regola. In genere, non solo al gatto d o m i n a n t e è concesso di e n t r a r e nel territorio del gatto subordinato, ma anche a quest'ultimo è consentito di sconfinare nel territorio del primo. Entrambi possono cacciare nella stessa area e nello stesso momento, tenendosi alla distanza di u n a cinquantina di metri, a seconda del t e r r e n o e della vegetazione. Si tratta di u n a scelta deliberata, anche se non esiste alcuna ragione particolare per r i m a n e r e così vicini. Ciò risultava particolarmente evidente nelle popolazioni feline ospitate in fattorie del Galles. Gli animali, d o p o avere ricevuto la razione quotidiana di latte, si incamminavano u n o alla volta verso i loro territori di caccia. In genere, n o n ricevevano dai coloni altro cibo oltre al latte, per cui dovevano provvedere a se stessi, soprattutto cacciando i conigli che abbondavano tra le siepi intorno ai campi. Ma anche se c'erano b u o n e possibilità di caccia in tutto il territorio, era più f r e q u e n t e vedere d u e o tre felini cacciare mantenendosi a u n a distanza reciproca variabile f r a i 30 e i 60 metri, anziché osservare qualcuno impegnato in u n a caccia solitaria. Come descritto da numerosi autori, i mammiferi territoriali m a r c a n o il p r o p r i o territorio con segnali odorosi o acustici, g r a f f i a n d o superfici e così via. Secondo l'interpretazione corrente, comportandosi così l'animale p r o d u c e un segnale di avvertimento, con l'intenzione di spaventare e fare fuggire invasori e potenziali intrusi. Non so se in qualche specie di mammiferi solitari sia stata dimostrata oltre ogni possibile dubbio l'abitudine di marcare con segnali olfattivi a scopo deterrente. Ciò che è certo è che, per quanto riguarda il gatto domestico, non ho mai osservato nulla che suggerisca tale interpretazione. I gatti (soprattutto i maschi, ma anche la maggior parte delle femmine) h a n n o l'abitudine di spruzzare di urina alberi, pali, cespugli, muri, ecc.; spesso strofinano il muso prima sul p u n t o che è stato spruzzato e poi su altri oggetti. N o n si è mai osservato alcun gatto che indietreggi spaventato d o p o avere annusato la marcatura lasciata da un conspecifico. Ciò che i
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gatti f a n n o quasi invariabilmente è a n n u s a r e con i m p e g n o la marcatura, indugiandovi a lungo, per poi allontanarsi con indifferenza, o p p u r e lasciarvi sopra u n a p r o p r i a marcatura. N o n c'è la minima indicazione che la m a r c a t u r a originaria eserciti un e f f e t t o per qualche verso intimidatorio. Naturalm e n t e questo n o n prova che ciò non possa mai accadere; tuttavia, in tutto ciò deve essere implicata un'altra funzione, se n o n più d ' u n a . U n a potrebbe essere quella di evitare incontri inattesi e conflitti improvvisi, o di segnalare chi c'è davanti sulla strada e a quale distanza e se, eventualmente, sia ancora possibile incontrarlo. Tuttavia, si tratta di semplici congetture e, fino a questo m o m e n t o , i dati a mia disposizione non mi consentono di sottoscrivere o respingere alcuna possibilità. E probabile che o g n u n a di esse a d e m p i a a un p r o p r i o ruolo, a seconda delle circostanze. U n a cosa, tuttavia, vorrei f a r notare: n o n è corretto n e g a r e che i gatti abbiano un c o m p o r t a m e n t o territoriale solo p e r il fatto che le loro m a r c a t u r e non esercitano u n a f u n z i o n e d e t e r r e n t e , o ne esercitano u n a modesta. T u t t e le specie di felini finora osservate, di e n t r a m b i i sessi, spruzzano u r i n a come descritto sopra. Anche se la f r e q u e n z a di tale azione, osservata in brevi intervalli di tempo, risulta influenzata dalla quantità di liquido assunto e dalla distensione delle pareti della vescica, indagini estese su lunghi periodi h a n n o rivelato che il f e n o m e n o è regolato da un ritmo di base e n d o g e n o , i n d i p e n d e n t e dai fattori prima citati, come p u r e da altri fattori interni ed esterni (Verberne e Leyhausen, 1976). Questo ritmo di base persiste anche q u a n d o l'assunzione di liquidi a u m e n t a o diminuisce in m o d o accentuato p e r lunghi periodi. L'animale o p e r a u n a compensazione a seconda delle circostanze, espellendo con ogni spruzzo u n a maggiore o m i n o r e quantità di urina a seconda che la vescica sia molto piena o relativamente vuota; in casi estremi, semplicem e n t e assume la postura e compie i movimenti dello spruzzare, ma senza di fatto espellere n e p p u r e u n a goccia di urina. La f r e q u e n z a con cui e f f e t t u a questi movimenti r i m a n e com u n q u e costante, se si escludono le irregolarità prima citate su brevi periodi. Pertanto, lo spruzzare urina è un vero e proprio c o m p o r t a m e n t o istintivo, caratterizzato da u n o stato motivazionale specifico nel senso espresso da Lorenz (1937 b). A d i f f e r e n z a di q u a n t o accade nel gatto domestico, le femmine di altre specie di felini t e n d o n o a spruzzare più spesso dei maschi, e del resto la quantità di urina spruzzata è di freq u e n t e assai limitata. Per ragioni anatomiche, le f e m m i n e schizzano l'urina in f o r m a di goccioline, anziché a getto contin u o come i maschi. L'affermazione di Fiedler (1957), secondo cui le f e m m i n e di p u m a e le leonesse non spruzzano, è errata,
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come lo è l'identica osservazione di Eaton (1970 a) a proposito delle f e m m i n e di g h e p a r d o . Nel gatto dalla testa piatta il comp o r t a m e n t o dello spruzzare è p r o f o n d a m e n t e modificato: sia i maschi sia le f e m m i n e sollevano la coda quasi in verticale, si acquattano leggermente sui posteriori e si m e t t o n o a cammin a r e in questa posizione, lasciando dietro di sé u n a scia di urina. Talvolta, essi iniziano l'operazione, come gli altri felini, p u n t a n d o l'estremità posteriore del corpo verso qualche oggetto ben in vista, ma n e p p u r e in questo caso r i m a n g o n o poi f e r m i sul posto. In genere, inoltre, si tratta di oggetti di f o r m a piatta e n o n estesa in altezza, come la ciotola dell'acqua o la cassetta della segatura (alta circa 8 cm), ma non la vaschetta del bagno (alta circa 18 cm). Questo c o m p o r t a m e n t o ricorda molto da vicino quello dello zibetto indiano (Viverra zibetha) q u a n d o è eccitato e un po' inquieto: q u a n d o sono spaventati, questi animali si m u o v o n o qua e là, m a n t e n e n d o la coda legg e r m e n t e sollevata - ma di r a d o fino a disporla in orizzontale - e m e n t r e si spostano u r i n a n o ininterrottamente, lasciando u n ' a m p i a scia lunga anche diversi metri. Tale c o m p o r t a m e n t o p u ò essere facilmente indotto se si pulisce con molta cura il pavimento della gabbia, ma probabilmente non si tratta ancora di un c o m p o r t a m e n t o di marcatura in senso stretto, bensì di una sua f o r m a iniziale; si p u ò c o m u n q u e ragionevolmente pensare che il c o m p o r t a m e n t o di marcatura tipico dei felini si sia sviluppato da tali f o r m e iniziali presenti nei loro antenati simili ai viverridi. Per diversi aspetti, il g e n e r e Prionailurus deve essere considerato il più vicino al progenitore di tutti i felini m o d e r n i . Q u a n d o un gatto del Bengala (P. bengalensis), soprattutto u n a f e m m i n a , spruzza urina, si p u ò f r e q u e n t e m e n t e notare che esso, di fatto, n o n r i m a n e immobile, ma fa oscillare un poco la parte posteriore del corpo intorno a un oggetto verticale; il sollevare la coda e lo spruzzare costituiscono virtualmente un solo movimento, che l'animale compie senza arrestarsi. A un'osservazione superficiale, questo c o m p o r t a m e n to p u ò a p p a r i r e del tutto simile a quello corrispondente di altri felini, e tuttavia esiste u n a somiglianza, che non p u ò sfuggire, con il m o d o di p r o c e d e r e a p p e n a descritto del gatto dalla testa piatta. Nel caso della tigre e del g h e p a r d o , Schaller (1967) e Eaton (1970 a) sostengono che lo spruzzare urina, oltre a f u n g e r e da mezzo di attrazione sessuale e di coesione di g r u p p o , serva anche a marcare il territorio. Solo Eaton, tuttavia, è in g r a d o di provare quest'ultimo aspetto, sulla base dell'osservazione diretta di alcuni g h e p a r d i che, d o p o avere annusato la marcatura odorosa di un conspecifico estraneo, cambiavano direzione per evitare un incontro diretto, p u r c h é la marcatura fosse
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vecchia n o n più di un giorno. Esaminando le tracce lasciate sulla neve da un p u m a , H o r n o c k e r (1969, 1970 b) ha rilevato un brusco cambiamento di direzione dell'animale d o p o che era giunto in un p u n t o marcato da un conspecifico (si veda più avanti). I p u m a si p r e o c c u p a n o di evitare gli incontri con conspecifici ancor più dei gatti domestici che ho osservato. H o r n o c k e r n o n è mai riuscito a osservare alcun caso di territorio che fosse attivamente difeso e ritiene che ogni individuo r i m a n g a d o m i n a n t e sul p r o p r i o territorio solo p e r c h é un eventuale intruso compie s e m p r e atti evasivi e, alla fine, si allontana del tutto. U n a situazione che, a q u a n t o finora mi risulta, n o n viene menzionata da questi e da altri autori e nella quale, quasi regolarmente, osservo l'atto di spruzzare urina, soprattutto da parte di f e m m i n e di gatto del Bengala e di servai, è la seguente: q u a n d o d u e animali si trovano di fronte, non occorre nepp u r e che arrivino a u n o scontro, perché u n o dei d u e cede il passo e si ritira; subito dopo, si dirige verso un p u n t o favorito dove e f f e t t u a r e la marcatura, di solito f u o r i della vista dell'altro, e spruzza. L'impressione dell'osservatore è che, in questo m o d o , l'animale recuperi la fiducia in se stesso che si era « incrinata»; ma si potrebbe anche i n t e n d e r e questo comportam e n t o come un « gesto di sfida ». E, per q u a n t o sembri un paradosso, quest'ultima interpretazione è in b u o n accordo con il fatto che, d o p o un violento scontro, il vincitore i n t e r r o m p e la sua « esibizione di minaccia in movimento » (pp. 264 sg.) per spruzzare ogni angolo e ogni albero circostanti (si veda fig. 22.7 k). In questo caso, ovviamente, l'atto di spruzzare viene compiuto b e n e in vista del rivale sconfitto. Altre f o r m e di marcatura del territorio che sono state descritte p e r i felini consistono nel d e p o r r e le feci in punti ben evidenti (Lindemann, 1950; Schaller, 1967); nello strofinare il t e r r e n o con le zampe posteriori, con o senza emissione di urina o feci (Eisenberg e Lockhart, 1972; Leyhausen, 1953; Schaller, 1967); nell'affilare gli artigli su determinati alberi (Eisenberg e Lockhart, 1972; Leyhausen, 1956 b; Schaller, 1967). Secondo Berrie (comunicazione personale) e H o r n ocker (1969, 1970 b), la lince canadese e il p u m a m a r c a n o territorialmente con feci e urina non solo punti preesistenti bene in vista (ceppi, pietre), come fa la lince e u r o p e a (Lindemann, 1950), ma anche punti che essi stessi creano apposta a m m u c chiando terra, resti di vegetazione e/o neve. Nel deserto di Kar a k u m mi è stato mostrato un mucchio di sabbia in cima a u n a d u n a sul quale un gatto del T u r k e s t a n (Felis thinobia) aveva rip e t u t a m e n t e deposto feci. Un gran n u m e r o di tracce che si dirigevano al c u m u l o o ne partivano indicava che questo era sta-
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to visitato più volte da u n o o più individui. A q u a n t o sembra, a ogni visita l'animale che fruiva del cumulo vi aggiungeva altra sabbia, in m o d o che esso n o n si abbassasse. Le feci più vecchie e r a n o state del tutto o in parte ricoperte, m e n t r e quelle più recenti e r a n o in evidenza in cima al mucchio. Ancora n o n è noto con precisione quale tipo di « informazioni » venga diff u s o in seno alla popolazione per mezzo di questo tipo di marcatura. Anche in queste specie, tuttavia, per q u a n t o finora si è potuto osservare, tali m a r c a t u r e n o n h a n n o un effetto decisamente d e t e r r e n t e , tale, per esempio, da i n d u r r e immediatam e n t e a cambiare direzione un animale che le abbia «lette». D'altro canto, è certo che l'atto di strofinare per terra le zampe posteriori e l'esibizione dell'affilare gli artigli h a n n o un effetto intimidatorio su un conspecifico che stia osservando. Nel margay, e probabilmente anche nelle specie a esso più strettamente affini, lo strofinamento sul t e r r e n o delle zampe posteriori come atto di esibizione è completamente separato dall'emissione di u r i n a o di feci; l'animale si comporta in questo m o d o , in particolare, prima di attaccare un avversario che si trovi a u n a certa distanza (fig. 22.5 / ) . Finora ho osservato questo c o m p o r t a m e n t o soprattutto prima di attacchi portati per gioco, anche se l'effetto intimidatorio è assai evidente: chi possiede u n o di questi animali, e lo lasci libero in casa, se vuole che si m a n t e n g a docile deve assolutamente evitare, e n t r a n d o in casa, di pulirsi t r o p p o a lungo e ostentatamente le scarpe sullo zerbino. C o m e dimostrato dal tipo di usura del rivestimento di un divano sul quale il nostro maschio di margay prediligeva esibire lo strofinamento, il movimento viene effettuato con più energia nella fase in avanti anziché in quella all'indietro; al contrario, cioè, di q u a n t o accade nel cane, che presenta un analogo movimento di strisciamento delle zampe posteriori. Ad alcuni felini (in particolare ai leoni) è stata attribuita la pratica di m a r c a r e il territorio tramite vocalizzazioni; anche in questo caso, però, n o n è chiaro come e fino a che p u n t o le cose funzionino. Sulla base di alcune mie osservazioni su tigri e leopardi, sembra che i loro ruggiti inducano altri conspecifici ad allontanarsi. U n a c o n f e r m a viene, nel caso del leopardo, da Eisenberg e Lockhart (1972), che descrivono « duetti » f r a d u e maschi che, di richiamo in richiamo, si allontanavano s e m p r e di più l'uno dall'altro. N o n è però ancora chiaro se ciò accada in qualsiasi circostanza e in qualsiasi m o m e n t o . In particolare, le seguenti osservazioni relative al gatto domestico mi inducono a ritenere che, in materia di r a p p o r t i sociali, ciò che è vero alcune volte n o n lo sia sempre. Al calar della notte avviene spesso qualcosa che potrei solo
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descrivere come u n a « riunione sociale ». Maschi e f e m m i n e si raccolgono in un luogo d'incontro situato nelle vicinanze o al margine dei loro territori e semplicemente si siedono tutt'intorno. Questo c o m p o r t a m e n t o non ha niente a che vedere con l'epoca degli accoppiamenti (argomento che qui escludo dalla mia descrizione). Gli animali siedono non molto lontani tra loro, a u n a distanza variabile f r a 2 e 5 metri e anche meno; alcuni individui stanno perfino a contatto, e talvolta si leccano e si puliscono a vicenda. Si sentono pochi r u m o r i e le espressioni mimiche sono amichevoli; solo di tanto in tanto, q u a n d o un animale si avvicina un po' t r o p p o a un altro, di indole timida, un orecchio si appiattisce, o si ode u n a breve soffiata o un brontolio in sordina. A parte queste manifestazioni, non vi è u n ' a t m o s f e r a di ostilità e non si osservano esibizioni di minaccia, se si escludono forse gli episodi in cui un maschio adulto si mette un po' in mostra, ma solo per gioco. In molte occasioni ho potuto osservare bene tutto ciò nella popolazione di gatti di Parigi. La riunione d u r a di solito ore e ore, e a volte (probabilmente come p r e a n n u n c i o della stagione degli amori) anche tutta la notte; ma in generale verso la mezzanotte o poco d o p o gli animali si ritirano a d o r m i r e nei rispettivi quartieri. Questi incontri notturni si svolgono in un'atmosfera amichevole e socievole, anche se in altre occasioni è possibile ved e r e alcuni degli individui che vi p r e n d o n o parte inseguirsi o addirittura combattersi selvaggiamente. In effetti, tale bisogno di « stare tutti insieme » esiste anche in quelle specie selvatiche nelle quali, stando a tutte le osservazioni disponibili, vige u n a avversione reciproca molto più forte di quanto accade nel gatto domestico. Schaller (1967), per esempio, ha osservato relazioni simili f r a tigri. Fino a questo m o m e n t o , mi sono occupato in prevalenza del c o m p o r t a m e n t o delle f e m m i n e di gatto domestico. I maschi residenti differiscono dalle femmine in quanto, in genere, sono ancora più tolleranti nei confronti degli intrusi. Secondo Berrie (1973) lo stesso avviene nella lince canadese (Lynx canadensis) e secondo Provost, Nelson e Marshall (1973) e McCord (1977) nella lince rossa. Berrie accenna alla possibilità che l'intolleranza delle f e m m i n e sia limitata al periodo in cui h a n n o con sé i piccoli. Un atteggiamento di strenua difesa del p r o p r i o rifugio abitativo e del circostante territorio viene manifestato, in genere, anche nel gatto domestico, ma solo da parte di femmine con la figliata. Invece, d u e maschi adulti che s'incontrino p e r la prima volta t e n d o n o a ingaggiare una lotta accanita, i n d i p e n d e n t e m e n t e dall'epoca dell'anno; tuttavia, u n a volta stabilito chi dei d u e sia il più forte o il più tenace e coraggioso, ogni disputa successiva viene risolta attraverso semplici esibi-
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zioni, evitando combattimenti seri. In questo modo, d o p o qualche scontro iniziale, quelli che superano la prova e non sono sconfitti e ridotti al ruolo di emarginati f o r m a n o u n a sorta di sodalizio, che esercita il proprio controllo, in confraternita, su u n a vasta area comune. Essi partecipano a r a d u n i amichevoli come quelli descritti sopra, e perfino nella stagione degli accoppiamenti è raro che si combattano all'ultimo sangue. I loro scontri, infatti, d a n n o l'impressione di avere soprattutto un carattere di simulazione, di ritualizzazione. Nella stagione degli amori la loro aggressività si accentua, ma ciò n o n ha alcuna relazione con il c o m p o r t a m e n t o territoriale in senso stretto. Le cose cambiano nettamente se nel g r u p p o , che ha così stabilito relazioni di vicinato, si presenta un giovane maschio che sta s u p e r a n d o la soglia tra l'adolescenza e la maturità. I maschi adulti residenti nell'area, da soli o p p u r e in g r u p p i di d u e o tre, p e n e t r a n o allora nel suo territorio e lo sfidano r u m o r o samente a farsi avanti e a e n t r a r e nella confraternita, passando p e r ò prima attraverso i riti di iniziazione. La sfida non è lanciata con i lancinanti miagolii, che salgono e scendono di tono, p r o p r i dell'esibizione di minaccia, ma con vocalizzazioni più tenui, in b u o n a misura riecheggianti le fusa, come se non volessero semplicemente sfidare il giovane felino, ma anche blandirlo. In effetti, non è facile distinguere tra questo suono e il richiamo con cui un maschio adulto tenta di i n d u r r e una f e m m i n a in estro ad accoppiarsi con lui. Se il giovane si lascia convincere a cimentarsi, ne seguono scontri violenti e prolungati. Anzi, è p r o p r i o in questa situazione che si verificano gli scontri realmente più aspri. E poiché il giovane, che sente la propria forza a u m e n t a r e di giorno in giorno, non accetta la sconfitta come invece farebbe ogni adulto sensato, sulle prime viene malamente battuto e spesso subisce gravi ferite. Tuttavia, già prima che le ferite si siano completamente rimarginate si getta di nuovo nella lotta. Dopo un a n n o circa, se sarà sopravvissuto e se le sconfitte non lo avranno costretto in un ruolo di totale sottomissione, si sarà conquistato il p r o p r i o posto nella confraternita, oltre che il rispetto dei confratelli, e potrà mettersi a sua volta a « dare una lezione ai giovani eroi ». Va ricordato che, m e n t r e lo status sociale assegnato a un individuo come risultato di scontri territoriali è relativo, le lotte f r a maschi rivali si verificano di solito su terreno neutrale e la conseguente gerarchia è perciò assoluta, come avviene negli animali che vivono in branco. Per chiarezza, riassumerò i principi basilari su cui si f o n d a u n a gerarchia assoluta: Schjelderup-Ebbe (1922) per p r i m o constatò che le galline di un pollaio non g o d o n o affatto di
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uguali diritti, ma stabiliscono un « o r d i n e di beccata», in base al quale a ogni individuo viene assegnato nella scala sociale un posto preciso, che di solito esso non è in grado di modificare. In genere, un subordinato non tenterà n e p p u r e di combattere con un animale a lui superiore, anche se viene pesantemente provocato; se lo fa, quasi invariabilmente viene subito sottomesso. Molto di rado, e solo d o p o combattimenti prolungati e violenti, avviene che un animale di rango inferiore riesca a innalzarsi nella gerarchia sociale, facendo retrocedere un animale che prima gli era superiore. L'ordine di r a n g o che ne risulta è soprattutto lineare: la gallina A p u ò beccare la gallina B, ma non viene beccata da questa; B becca C, ma non ne viene beccata; C è quindi automaticamente inferiore ad A, e così via p e r tutta la popolazione di galline. In genere, le dispute avvengono solo tra individui separati da non più di un gradino nella scala sociale; un animale di r a n g o inferiore non oserebbe mai g u a r d a r e fisso negli occhi un animale che lo sovrasta di d u e o più gradini nella scala sociale, e un animale così largamente superiore non p u ò curarsi dell'esistenza di quelli che stanno molto in basso: infatti, è t r o p p o occupato a tenere sotto controllo chi gli è immediatamente inferiore e ad evitare i continui attacchi di chi gli è immediatamente superiore, dal quale verrà immancabilmente punito se, per distrazione, gli si avvicina troppo. Può accadere che si instaurino relazioni più complesse, per esempio un triangolo dove A p u ò beccare B e B p u ò beccare C, ma C a sua volta becca A. Molto di rado si verificano anche relazioni a quattro. Queste eccezioni non modificano il principio di base: la gerarchia risultante è molto rigida, ed è assoluta; ciò sta a significare che, u n a volta stabilito, l'ordine di r a n g o relativo di ogni coppia di individui nella popolazione del pollaio si mantiene costante nel t e m p o e nello spazio e in q u a l u n q u e circostanza. Mi riferirò pertanto a u n a « gerarchia sociale assoluta ». Il principale prerequisito perché essa funzioni è, naturalmente, che tutti i m e m b r i di u n a com u n i t à si conoscano individualmente l'un l'altro. Questo tipo di gerarchia sociale predomina nettamente tra tutti i vertebrati che vivono normalmente in gruppi, branchi e società organizzate. Pertanto, l'animale più forte gode di un incontestato « p r i m a t o al vertice » di un g r u p p o e sa come sfruttarlo. C o n t r a r i a m e n t e a quanto si pensa spesso, il gatto più forte in u n ' a r e a normalmente non diventa un tiranno, d o m i n a n d o ed escludendo tutti gli altri maschi dal corteggiamento e dall'accoppiamento, se non altro perché la scelta del p a r t n e r è quasi s e m p r e decisa dalla femmina (pp. 339 sg.). Ho conosciuto femmine, sia allo stato libero sia rinchiuse in gabbia, che stagione d o p o stagione rimanevano fedeli allo stesso maschio
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di basso rango. E, almeno nel caso di animali in gabbia, so per certo che il maschio dominante non ha mai tentato seriamente di interferire. Va c o m u n q u e aggiunto che la « confraternita » n o n r a p p r e s e n t a un'associazione permanente. A intervalli, gli animali che ne f a n n o parte si separano e t o r n a n o ciascuno al p r o p r i o territorio, dove quelli più deboli possono ancora u n a volta s f r u t t a r e i vantaggi della «gerarchia relativa». Nel suo complesso, il sistema sociale prima descritto sembra congegnato in m o d o da assicurare al maggior n u m e r o possibile di maschi forti e sani uguali opportunità riproduttive, anziché favorire esclusivamente un solo maschio dominante. Ciò si potrebbe verificare solo se un maschio si trovasse in condizioni di tale schiacciante superiorità - per forza fisica e per energia — da sconsigliare a qualunque altro maschio di sfidare la sua supremazia. Anche se in certi casi ciò p u ò accadere, è un evento affatto raro, specie in aree dove gli animali possono ancora disporre di u n a considerevole libertà di movimento f u o r i casa e di un ambiente relativamente naturale. Ciò che ho prima definito, in m o d o forse un po' poetico, come « confraternita», in realtà non ha nulla di mistico, ma poggia su un concreto equilibrio di potere, rischio e capacità di dissuasione. Si p u ò costituire solo se vi concorrono numerosi maschi di forza confrontabile, in m o d o che vittorie e sconfitte siano decise di stretta misura, sicché un maschio di r a n g o superiore che provocasse un subordinato fino al p u n t o di indurlo a u n o scontro correrebbe il rischio di mettere a repentaglio la propria supremazia.
Addendum
(1985)
All'epoca in cui ho descritto l'organizzazione sociale del gatto domestico, come sopra riportata, ero del tutto convinto che non potessero sussistere significative variazioni tra popolazioni diverse, dal m o m e n t o che le osservazioni mie e quelle di Wolff e r a n o state effettuate in località tanto diverse e geograficamente separate tra loro. Avrei fatto meglio a considerare che, naturalmente (come già era noto a proposito di altri mammiferi), al variare delle condizioni ecologiche possono u g u a l m e n t e variare le strutture sociali in popolazioni della stessa specie. Negli ultimi venti anni è stato pubblicato un num e r o crescente di studi - e un n u m e r o ancora maggiore è in preparazione - aventi come oggetto l'organizzazione e il comp o r t a m e n t o sociale di popolazioni di gatti domestici che vivono in libertà, in condizione sia di randagismo sia di semirandagismo. Tali lavori mostrano un n u m e r o e una g a m m a di va-
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riazioni sorprendenti nel c o m p o r t a m e n t o e nella struttura sociali (Corbett, 1983; Dards, 1978; Izawa et al., 1982; Leyh a u s e n , 1982; Liberg, 1982; Natoli, 1983; Panaman, 1981; Schàr, 1983). La f o r m a di organizzazione sociale adottata da u n a certa popolazione è determinata da fattori ecologici, diff e r e n z e genetiche e fattori connessi all'esperienza individuale. Sembrerebbe che i gatti domestici possano adottare quasi ogni tipo di organizzazione sociale descritto in precedenza per le varie specie di felini selvatici. Tuttavia, va tenuto presente che, con l'eccezione del leone, nessuna specie di felino selvatico è stata sufficientemente studiata in r a p p o r t o al suo intero spettro di distribuzione geografica. Non è possibile stabilire se in ogni specie selvatica possano presentarsi analoghe variazioni nelle f o r m e di organizzazione sociale, poiché le descrizioni sopra fornite r a p p r e s e n t a n o solo casi particolari nell'ambito di u n ' a m p i a g a m m a di strutture possibili.
24. L'organizzazione sociale del leone Il leone rappresenta l'unica specie di felini che viva in comunità sociali. In modo molto occasionale, altre specie di felini f o r m a n o piccoli gruppi; ma anche nel caso del ghepardo, in cui ciò accade più spesso, si tratta di situazioni eccezionali, non della regola. Fino a non molto tempo fa, non si aveva alcuna idea di quanto fosse complessa la struttura di un branco di leoni e di quanto poco assomigliasse a quella delle comunità di altre specie di mammiferi. Un primo sguardo su questo aspetto ci è giunto dalle ininterrotte osservazioni di singoli branchi di leoni effettuate nell'arco di molti anni da Schaller (1972, 1973) e Bertram (1973 a, b, 1975, 1976); le indagini di Eloff (1964, 1973 a, b), Guggisberg (1960), Joslin (1973), Kùhme (1966) e Rudnai (1973) hanno permesso di arricchire di nuovi elementi il quadro e di illustrare come le differenti condizioni ecologiche modifichino lo schema di base della struttura sociale di questi felini. I componenti del branco che si mantengono più fedeli a un territorio sono le femmine, come già è stato più volte osservato per altre specie. Diverse femmine adulte formano il nucleo della comunità, assieme alla loro prole non ancora cresciuta. A questo g r u p p o si accompagnano da due a cinque maschi adulti, che assicurano la riproduzione e difendono il territorio da altri maschi; le femmine estranee, di norma, sono attaccate e allontanate dalle femmine residenti. Al cibo per il branco provvedono soprattutto le femmine adulte. Gli altri compi: i maschi sono chiamati a svolgere sono così onerosi che,
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mediamente, essi sono in grado di farvi f r o n t e per non più di d u e o tre anni di seguito; d o p o di che, o si ritirano spontaneam e n t e dal g r u p p o o ne sono estromessi da un g r u p p o di altri maschi che li combatte. Quindi la continuità del branco è assicurata dalla presenza delle f e m m i n e adulte; esse accolgono nei p r o p r i ranghi il n u m e r o di f e m m i n e subadulte all'incirca necessario per colmare i vuoti provocati dalle morti; le restanti giovani f e m m i n e , al pari dei maschi che stanno crescendo, devono lasciare il territorio del branco all'età di circa tre anni. Esse diventano « nomadi » e si aggirano ai margini e a volte anche all'interno dell'area abitata dalla popolazione dei leoni - area che è divisa in territori. Le f e m m i n e che conducono vita n o m a d e sono svantaggiate dal p u n t o di vista della aspettativa di vita e del successo riproduttivo. Nessuna osservazione è ancora in grado di confermare che qualcuna di esse sia riuscita a entrare a f a r parte di un branco estraneo. In linea teorica, è possibile che un g r u p p o di f e m m i n e n o m a d i trovi un'area adatta non ancora occupata, vi stabilisca un p r o p r i o territorio e formi un nuovo branco; in pratica, però, i terreni adatti sono probabilmente già suddivisi tra i branchi che vi si sono insediati, per cui tale possibilità potrebbe presentarsi solo in seguito a epidemie o ad analoghi eventi catastrofici. Poiché i posti resi « vacanti » dalla morte di f e m m i n e possono essere occupati solo da giovani f e m m i n e dello stesso branco, tutte le f e m m i n e appartenenti al medesimo branco sono strettamente imparentate tra loro. Nel complesso, solamente gli individui nomadi seguono i grandi greggi di ungulati nei loro spostamenti e, nel far questo, attraversano i territori dei branchi, m e n t r e i componenti di un branco non a b b a n d o n a n o il proprio territorio n e m m e n o q u a n d o le p r e d e si f a n n o molto scarse. I giovani maschi lasciano il branco in g r u p p i c o m p r e n d e n t i fino a sei individui, all'incirca della stessa età; spesso sono fratelli o fratellastri o tutt'al più cugini. Si ritiene che, in seguito, questi animali r i m a n g a n o insieme. Q u a n d o h a n n o raggiunto l'età di circa cinque anni e sono pienamente adulti, essi cominciano ad a n d a r e in cerca di un branco di f e m m i n e per prend e r n e il controllo, e assieme quello del loro territorio. Talvolta accade che i maschi precedentemente insediati in un territorio si siano già ritirati spontaneamente, non essendo più in g r a d o di reggere alla fatica, anche se, di solito, i vecchi maschi dominanti devono essere allontanati con la forza dai nuovi aspiranti. Il compito di questi ultimi è facilitato se sono superiori di n u m e r o , o q u a n d o la capacità combattiva dei legittimi occupanti è indebolita, per cause connesse, per esempio, a malattie, a ferite o alla morte di un componente. Non si p u ò
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escludere che un g r u p p o di leoni riesca a impadronirsi dello stesso branco di origine, ma nulla di simile è stato finora osservato. C o m e regola, quindi, i maschi di un branco non sono imparentati con le loro leonesse così strettamente q u a n t o lo sono queste tra loro. D u r a n t e la loro età feconda (che p u ò dur a r e dai 10 ai 13 anni), le f e m m i n e di un branco possono fare esperienza di parecchi g r u p p i di maschi « r e g n a n t i » . Sono quindi i maschi che assicurano lo scambio del patrimonio genetico (o esoincrocio) nell'ambito della popolazione nel suo complesso. Se essi rimanessero esclusivamente legati al branco, al pari delle femmine, si arriverebbe a u n a situazione di totale inincrocio. Ciò che r e n d e le società dei leoni così radicalmente diverse da quelle di altri m a m m i f e r i è lo speciale legame che si stabilisce f r a i maschi adulti riuniti in drappelli. Associazioni formate da soli maschi si trovano anche presso altri mammiferi (per esempio cervi ed elefanti), ma queste sono composte da subadulti sessualmente ancora immaturi, o p p u r e si costituiscono solo al di f u o r i delle stagioni riproduttive. Si sa che solo tra i primati esistono alleanze tra d u e o più maschi che, insieme, controllano un g r u p p o sociale. In questi casi, tuttavia, non si verifica il «cambio della guardia», come quasi regolarmente accade nei leoni, e l'alleanza vale solo in r a p p o r t o a un g r u p p o di f e m m i n e . La comunità di combattimento di leoni maschi è già costituita q u a n d o essi si impadroniscono di un branco e p e r d u r a anche d o p o che essi avranno di nuovo abbandonato il branco, f o r z a t a m e n t e o spontaneamente. Tuttavia, se ci richiamiamo a q u a n t o detto alle pp. 297 sgg. a proposito delle « confraternite » di gatti domestici, sembrerebbe che già qui si possano rintracciare le radici del comportamento dei leoni maschi. U n a volta, Schaller mi espresse l'opinione che la parola « fratello » p o t r e b b e anche essere presa alla lettera, in relazione ai gatti domestici maschi; ma in molte situazioni le cose n o n stanno così. Accade piuttosto che maschi del tutto estranei, d o p o essersi scontrati, stabiliscano in seguito f r a loro un legame più o m e n o stretto. C o m u n q u e , non bisogna dimenticare che la composizione di una popolazione di gatti domestici è in b u o n a parte d e t e r m i n a t a dall'uomo. In condizioni relativamente naturali, è assai probabile che i maschi che vivono nella stessa area siano fratelli o c o m u n q u e strettamente imparentati. D'altra parte, più di una volta ho avuto l'impressione che i leoni a p p a r t e n e n t i a u n o stesso branco ben difficilmente potessero avere la stessa età. Schaller (1973) riferisce di un caso osservato nel Parco di Manyara, in cui certamente gli animali n o n e r a n o coetanei: un maschio di un branco, che aveva p e r d u t o il p r o p r i o compagno, strinse amicizia con un suba-
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dulto di tre anni e mezzo che, in altre circostanze, avrebbe costretto ad allontanarsi, e con esso f o r m ò un nuovo g r u p p o di combattimento. In u n o zoo-safari di recente formazione, sono stati immessi, nel settore destinato ai leoni, d u e g r u p p i di questi felini. Il g r u p p o A includeva quattro maschi di età diversa, il g r u p p o B d u e maschi, anch'essi di età diversa. I d u e maschi più forti dei d u e g r u p p i h a n n o combattuto f r a loro spesso e violentemente; a questi scontri h a n n o preso parte anche i maschi più giovani del g r u p p o A, m e n t r e il secondo maschio del g r u p p o B si teneva in disparte. D u r a n t e un periodo di tre mesi e mezzo, il maschio più forte del g r u p p o B ha diretto sempre più freq u e n t e m e n t e i p r o p r i attacchi verso il maschio n u m e r o 2 del g r u p p o A. E d'improvviso un mattino, d o p o che la sera preced e n t e avevano combattuto tra loro con particolare violenza, i d u e animali e r a n o sdraiati fianco a fianco, in buona armonia; da quel m o m e n t o in poi, lentamente ma f e r m a m e n t e , h a n n o iniziato a estendere il loro c o m u n e dominio su entrambi i gruppi, riunendoli in un branco. Nelle circostanze date, i maschi sconfitti n o n avevano la possibilità di emigrare altrove; e ci si sarebbe quindi aspettato che sarebbero stati vittime di scontri interminabili con i maschi dominanti, o che questi ultimi avrebbero reso loro la vita difficile, se non del tutto impossibile. E accaduto invece che essi si siano inseriti nel branco senza essere quasi mai molestati dai maschi dominanti. Allo stato selvatico accade anche che i capi del branco tollerino, alm e n o t e m p o r a n e a m e n t e , la presenza di un g r u p p o di maschi nomadi, p u r c h é non si comportino in m o d o aggressivo e non si avvicinino mai t r o p p o ai membri del branco. In considerazione di tutto ciò, non si p u ò certo escludere la possibilità che, allo stato selvatico, anche i maschi nomadi talvolta passino da un g r u p p o all'altro, o che singoli animali che abbiano perso i p r o p r i compagni, a causa di incidenti o di malattie, si associno p e r f o r m a r e nuovi drappelli. Secondo Bertram, i maschi di un branco, d o p o essere stati detronizzati o d o p o avere abdicato spontaneamente, giungono inesorabilmente al termine della propria carriera; sono ormai t r o p p o vecchi per conquistare un nuovo branco e non più sorretti da sufficiente agilità per cacciare con ragionevole successo e, quindi, per nutrirsi adeguatamente al fine di conservare il p r o p r i o vigore. Schaller (comunicazione personale) n o n condivide completamente questa opinione, in q u a n t o ritiene del tutto possibile che i leoni che conquistino un branco all'età di cinque anni e lo abbandonino o ne siano allontanati qualche a n n o dopo, si impadroniscano di un nuovo branco d o p o un periodo di recupero come nomadi. Ciò sembra plau-
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sibile, perché un leone tra gli otto e i dieci anni di età è nel pieno delle forze. I pochi esempi forniti in questo libro dimostrano che i maschi adulti sono cacciatori certamente altrettanto abili delle femmine, e lo sono anche di più con p r e d e di grande mole e pericolose. Non è certo per incapacità che essi cacciano di r a d o d u r a n t e il loro periodo di regno su un branco (pp. 200 sg.). Per chiarire e a p p r o f o n d i r e questi aspetti, occorrerebbe fissare di più l'attenzione sulla vita dei nomadi anziché concentrarla, come è stato fatto finora, su ciò che accade nei branchi. Il sistema sociale sopra descritto si riferisce soprattutto alle popolazioni che vivono nelle ampie savane dell'Africa orientale e occidentale. C o m e riportato da Eloff (1964, 1973 a, b), in condizioni ecologiche diverse, in cui le p r e d e sono più scarse, le dimensioni dei branchi sono minori. Questo vale anche per i leoni indiani della foresta di Gir. Infine, nelle aree desertiche dell'Africa sudoccidentale, gli animali vivono in coppie con i loro piccoli, come sembra accadere anche presso i leoni dell'Africa settentrionale, stando alle poche e incerte relazioni disponibili. C o m u n q u e sia, queste differenze non alterano lo schema di base dell'organizzazione sociale del leone. In un caso, Schaller ha osservato alcuni maschi conquistare un branco e uccidere tutti i cuccioli non ancora svezzati generati dai loro predecessori. Bertram dispone di indicazioni indirette secondo cui ciò accadrebbe piuttosto di f r e q u e n t e . Va anche aggiunto che l'avvicendamento costituisce per le femmine un fattore di forte disturbo e di stress; esse trascurano i piccoli e possono arrivare a ucciderli e a divorarli. Di conseguenza, in queste condizioni, la maggior parte - se non la totalità - dei piccoli n o n svezzati perisce. Q u a n d o la situazione si è normalizzata, le f e m m i n e che h a n n o perso i piccoli diventano n u o v a m e n t e recettive prima di quanto accadrebbe se esse stessero ancora allattando. Si è tentato di interpretare questi fatti come c o n f e r m e della recente ipotesi conosciuta come selezione di parentela. N o n è questa la sede per discuterne in dettaglio; mi sembra p e r ò che i suoi sostenitori dimentichino un punto, r i g u a r d o all'esempio qui considerato: benché i maschi subentranti nel branco distruggano — direttamente o indirettamente — parte della progenie dei propri predecessori, assicurando così ai p r o p r i geni una più rapida diffusione, questo a p p a r e n t e vantaggio selettivo verrà cancellato nel mom e n t o in cui anch'essi d o v r a n n o a loro volta ritirarsi; i loro geni subiranno la stessa sorte di quelli di chi li ha preceduti, e ciò a n d r à avanti all'infinito. Si potrebbe sostenere che saranno favoriti i geni di quei maschi che avranno distrutto in m o d o più spietato e completo la progenie degli altri. In questo caso,
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però, il carattere si d i f f o n d e r e b b e r a p i d a m e n t e in seno alla popolazione. Tuttavia, poiché questo c o m p o r t a m e n t o n o n sembra universalmente diffuso tra i leoni maschi del Serenged, la selezione a suo favore non p u ò avere u n a spinta così forte come B e r t r a m suggerisce. B e r t r a m ritiene (comunicazione personale) che io abbia male interpretato il caso, perché l'infanticidio è selezione individuale, n o n selezione di parentela. Ma, d o p o avere riletto e riconsiderato con cura i suoi scritti, io non riesco a c o m p r e n d e re l'osservazione. Il vantaggio selettivo - se esiste - non va a beneficio del singolo maschio, ma dei suoi geni, rappresentati in u n a più n u m e r o s a progenie. C o m u n q u e sia, l'ipotesi della selezione di parentela mostra d u e fondamentali punti deboli. Il primo è che, in u n a data popolazione, la distribuzione degli alleli rimane in pratica costante, fino a q u a n d o non si verifichino modificazioni ambientali drastiche e d u r a t u r e . Il secondo riguarda il metodo utilizzato p e r stimare il « g r a d o di parentela ». Se lo si vuole determ i n a r e in termini di condivisione di certi alleli, ogni calcolo relativo al g r a d o di parentela tra ogni coppia di individui deve partire da d u e cifre, o insiemi di cifre. Occorre, innanzitutto, conoscere il g r a d o di omozigosi nella popolazione. E a questo g r a d o che tutti i componenti di una popolazione in oggetto sono geneticamente correlati. Nel leone, a giudicare da ciò che si sa di altri grandi predatori, si dovrebbe a m m e t t e r e che il g r a d o di omozigosi sia del 40 per cento o più. In secondo luogo, bisogna conoscere quanti alleli ciascuno dei rimanenti geni conserva nella popolazione. E evidente che fa differenza, ai fini del calcolo del probabile grado di parentela di d u e individui, se un gene possiede 2 o p p u r e 20 alleli che contribuiscono al pool genico della popolazione. Il grado in cui l'insieme dei geni di un g r u p p o di maschi si distribuisce e si conserva, in un branco o in u n a popolazione, d i p e n d e quindi n o n da q u a n t o r a p i d a m e n t e e completamente questi individui distruggano i « resti genetici » dei loro predecessori, ma da quanto a lungo essi d e t e n g a n o il controllo ininterrotto del branco. In media, questo periodo d u r a solo da d u e a tre anni, anche se in un caso dimostrato si è protratto per sei anni. Un secondo fattore importante, a questo riguardo, è dato dal n u m e r o di f e m m i n e nel branco e dalla consistenza del g r u p p o di combattimento che le conquista e ad esse provvede: quanto m i n o r e è il n u m e ro dei maschi che riescono a difendere, il più a lungo possibile, il più ampio g r u p p o di femmine, tanto maggiore è la proporzione dei loro geni che, alla fine, entrerà a far parte del pool genico complessivo della popolazione. Questo effetto è esaltato dal fatto che la probabilità di sopravvivenza dei cuc-
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doli a u m e n t a quanto più a lungo u n a « confraternita » rimane con il branco, poiché ciò ne favorisce il senso di tranquillità e sicurezza. E tuttavia inevitabile che, al termine anche del più lungo dei regni, l'ultima progenie abbia a patire perdite che cancelleranno i guadagni conseguiti all'inizio. Pertanto, la perdita di piccoli d u r a n t e la conquista di un branco da parte di un nuovo g r u p p o di combattimento a p p a r e semplicemente un effetto collaterale, conseguente all'aumento di tensione nervosa sia nei maschi sia nelle femmine, e non ha un significato selettivo. D'altra parte, in una popolazione nella quale tra il 60 e l'80 per cento dei piccoli è c o m u n q u e destinato a morire prima dei d u e anni d'età, le perdite relativamente modeste dovute a un avvicendamento non sono in ogni caso significative. Come ho già detto, la caratteristica di questo sistema, con il suo f r e q u e n t e avvicendamento dei maschi, mi sembra consistere nell'acquisizione del massimo n u m e r o possibile di combinazioni di geni, m a n t e n e n d o massima la continuità dell'unità sociale del branco f o r m a t o da f e m m i n e e piccoli. Se queste d u e condizioni si verificarono simultaneamente, ciò fu reso possibile dall'intervento di qualcosa di completamente insolito nella struttura altrimenti nota che assumevano le f o r m e di organizzazione sociale negli altri mammiferi: si è soliti f a r derivare q u a l u n q u e f o r m a di vita sociale nei mammiferi dai legami che si sono stabiliti nel g r u p p o famigliare. Invece, le associazioni di leoni maschi in confraternite o in gruppi di combattimento sono qualcosa che si f o r m a al di fuori del g r u p p o famigliare, e certo non sempre tra animali imparentati, e quindi r a p p r e s e n t a n o un secondo e indipendente elemento base dell'organizzazione sociale nel suo complesso che, se si dovesse riscontrare nell'uomo, sarebbe indubbiamente attribuito a cause «socioculturali». Nel caso delle confraternite di gatti maschi prima descritte, già ho indicato che un prerequisito per la natura unica di questo tipo di relazioni è dato dal minore attaccamento dei maschi al territorio, rispetto alle femmine. Come conseguenza, il maschio più forte non detiene in esclusiva la massima probabilità di p r o p a g a r e i propri geni, poiché anche un ampio num e r o di maschi abbastanza ben assortito ha possibilità all'incirca confrontabili. In questo modo, si realizza un rimescolamento sufficientemente ampio del pool genico della popolazione. Nel caso dei leoni maschi, il legame è ancora più chiaraniente i n d i p e n d e n t e dal territorio. Per questa ragione, gli individui nomadi nelle società dei leoni non possono essere considerati semplicemente come « popolazione di riserva » in sop r a n n u m e r o , emarginata alla periferia del territorio. Almeno per q u a n t o riguarda i maschi, essi costituiscono un elemento
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essenziale del sistema complessivo. È proprio là, in periferia, che si f o r m a n o le confraternite, i drappelli di maschi che compiono u n a f u n z i o n e tanto vitale nel garantire la coesione interna e la continuità dei branchi e nel m a n t e n e r e la difesa dei territori; senza l'elemento nomade, l'intero sistema collasserebbe. Perciò, voglio ancora una volta far notare che, se si vuole c o m p r e n d e r e più a f o n d o l'organizzazione sociale del leone, è necessario che i nomadi vengano studiati in m o d o più a p p r o f o n d i t o di quanto sia stato fatto finora. Solo il f u t u r o potrà dimostrare se siamo qui incappati, o p p u r e no, in qualcosa che, finora largamente trascurato o inadeguatamente compreso, ha un significato generale, in r a p p o r t o allo sviluppo dei sistemi sociali di alcuni mammiferi superiori, e forse anche dell'uomo.
25. Ordine gerarchico e affollamento Nei felini che vivono in condizioni naturali, solo durante l'allevamento dei piccoli accade che diversi individui si trovino riuniti nello stesso posto e per lungo tempo. Fra i cuccioli si sviluppa, in modo quasi impercettibile, un ordine gerarchico assoluto. Ciò inizia, p r i m a ancora che i piccoli aprano del tutto gli occhi, attraverso la competizione per accaparrarsi la mammella più ricca di latte, che vede l'individuo più forte avere più successo degli altri e così, di giorno in giorno, aumentare la propria supremazia in termini di peso e vigore. Secondo Ewer (1959, 1961) il risultato è che durante i primi giorni di vita ognuno (dei piccoli stabilisce un « diritto di proprietà » su una data mammella e, in seguito, succhia solamente da quella. Sulla scorta dell'abbondante materiale disponibile basato su osservazioni, Schneirla, Rosenblatt e Tobach (1963) sollevano d u b b i circa una tale rigida «fedeltà alla mammella ». Di certo, a n c h e Ewer non negherebbe che questo comportamento possa presentare un certo margine di variabilità; d'altra parte, nei cosiddetti esperimenti di laboratorio in condizioni strettamente controllate, gli animali sono spesso esposti a un ambiente «decisamente innaturale e perturbante e questa circostanza, c o m e è ben noto, fa da sfondo alla legge di Harvard sul comportaimento animale: « Nelle condizioni sperimentali controllate c